Freaky and his little Johnny

di RoryTheSherlockian
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incontro ***
Capitolo 2: *** ...amici? ***
Capitolo 3: *** Luce ***



Capitolo 1
*** Incontro ***


Anche quella sera pioveva.
Grosse nuvole si erano addensate due giorni prima, verso mezzogiorno, e da allora lo scroscio d’acqua non aveva smesso di battere sulle case.
Le strade erano tristi e vuote, nessuno aveva voglia di uscire con quel tempaccio, erano tutti rinchiusi in casa o in un pub, per rallegrarsi e scaldarsi in compagnia.
Bé, non proprio tutti.

Nelle cantine di una delle case più antiche della città un’ombra si muoveva lentamente, sola e infreddolita, facendo tintinnare lievemente le catene che la tenevano legata.
Dopo molti giri a vuoto della cantina, l’ombra finalmente si sedette in un angolo, quello più lontano dalla finestrella sbarrata che dava sulla strada.

Odiava quella finestrella.
Gli dava una visione del mondo esterno che, seppur ristretta, lo faceva stare male, perché lui, di un maschio si trattava, rinchiuso in quella cantina, non sarebbe mai potuto uscire.
E in più quando pioveva, spesso faceva entrare acqua, siccome era a solo una decina di centimetri dal suolo e la fogna vicina era spesso intasata.
Quella malinconica finestrella gli aveva fatto vedere tante cose, è vero: aveva visto nascere e morire amori, amicizie, aveva visto persona litigare e fare la pace, perone occupare con fatti straordinari e faccende di tutti i giorni. Ma soprattutto, gli aveva fatto vedere le persone.
Persone cha amavano, persone che vivevano.
Come se potesse ricevere anche lui un po’ di quell’amore stando a osservarle fino a farsi sanguinare gli occhi.

Ma adesso non poteva osservare nessuno, con quella pioggia.
E se non passava nessuno da due giorni, voleva dire che anche lui non mangiava da due giorni.
Era la gente che, un po’ per abitudine e un po’ per timore, gli lasciava del cibo davanti alla finestrella: quasi ogni giorno l’ombra trovava una pagnottina fresca fresca, dono della panettiera all’angolo in fondo alla strada, la signora Hudson; poi c’erano le mele, a volte buone e a volte un po’ marce, a seconda di cosa era rimasto nel botteghino a fine giornata; riconosceva anche quando era Natale o Pasqua, perché alcune bambine gli lasciavano canditi e cioccolato, che lui adorava.

E poi tante altre cose da mangiare, più o meno buone, che lui ogni giorno recuperava attraverso la finestrella sulla strada: si avvicinava piano ad essa, e con una mano afferrava quello che c’era e lo tirava subito dentro, come se temesse che la sua mano pallida come la neve potesse bruciarsi se esposta al sole.

Molti bambini restavano in strada fino a tardi, causando le ire delle loro madri, solo per vedere la mano bianca sbucare dalla finestrella sotto la casa antica.
Alcuni dicono anche di aver visto due occhi azzurri scintillare nel buio, ma non si può certo contare sulla parola di un bambino di sette anni.

La creatura guardava quei bambini, e si chiedeva se anche lui avrebbe avuto una famiglia, un giorno, qualcuno a cui voler bene e che ne volesse a lui.
Poi vedeva il suo riflesso in alcune schegge di uno specchio, e scoppiava a piangere silenziosamente.

Comunque, non è che stesse così male, la sotto.
Certo, un po’ buio, ma il cibo il più delle volte era ottimo, tranne che quando pioveva per più giorni, aveva un materasso comodo tutto per sé, una grossa coperta imbottita e rappezzata, che teneva un bel caldo quando fuori infuriava la neve.
La finestrella ogni tanto dava qualche problema, ma quando pioveva o nevicava troppo bastava starci alla larga e il gioco era fatto.
Adesso aveva incominciato ad appoggiare delle travi di legno contro le sbarre, in modo da bloccare quanta più acqua possibile, lasciando giusto uno spiraglio in modo che potesse andare a riempire un grosso secchio messo per terra, per cui aveva risolto in parte il problema, oltre ad avere acqua da bere.

Quello che alla creatura mancava era un po’ di compagnia. Mesto, si rannicchiò sul materasso, tirando su la coperta fino a scomparirvi dentro, e piangendo si addormentò.

 
 
Lui odiava la pioggia. Dopo i ratti e tutti gli animali era la cosa che più detestava. Le grosse gocce d’acqua lo avevano inzuppato da capo a piedi, incollandogli alla fronte i bei capelli biondi.
Il biondino arrancò a fatica per la strada, cercando un modo per salire sul marciapiede col peso che trasportava.
Certo, è parecchio difficile vivere da soli e procurarsi il cibo quando si è alti quanto due mele una sopra all’altra.
Ma oramai ci aveva fatto l’abitudine, in città lo conoscevano e spesso gli regalavano del cibo, come biscotti, frutta e a volte anche dei pezzi di carne. Tanto, piccolo com’era, non mangiava poi molto.
- E’ meglio darsi una mossa, o rischio che la mia cena si bagni – mormorò tra sé e sé, guardando di tanto in tanto il sacchetto – teoricamente -  impermeabile che si portava appresso – Devo trovare un posto dove fermarmi… -
Camminava a fatica nella pioggia, procedendo a zig zag per evitare le pozzanghere più grosse, quando un ringhio dietro di sé lo fece fermare e voltare.
Un ratto. Perfetto. Ci mancava solo questo.
Il piccolo biondino restò per una frazione di secondo ad osservare il grosso – grosso per lui – roditore di fogna, prima di voltarsi di nuovo e darsela a gambe il più velocemente possibile.

Sapeva che con quelle gambette corte che si ritrovava non sarebbe resistito fino alla fine della via, il ratto era più agile e aveva una falcata più ampia.
Imprecando silenziosamente, il piccolo uomo si guardava intorno cercando un riparo, quando trovò uno spiraglio in una trave posata contro una finestrella bassa.
Meglio che niente, pensò, e spinto dentro il suo fagotto entrò anche lui.

Appoggiato al legno, col cuore che batteva a mille, sentiva il ratto graffiare all’esterno, infuriato per aver perso la sua cena.
Era al sicuro dal ratto, e a quanto pareva anche dalla pioggia, quindi si decise ad esplorare il luogo dove si trovava. Ma non aveva fatto che due passi quando cadde.
Cadde nell’apparente vuoto, atterrando con malagrazia su alcune casse di legno, fortunatamente ricoperte in qualche modo da della stoffa, per cui non si fece troppo male, anche se produsse un gran fracasso.

Rialzandosi, tutto dolorante ma intero, controllò alla cieca se il suo pacco fosse intero pure lui, cosa che fortunatamente era.
Si era appena riseduto, quando una voce dal buio, come un sussurro incerto, lo fece scattare in piedi impaurito.
-Chi è la?-
 
 
 

 
 
Angolo dell’autrice:
Prima long che scivo, e contemporaneamente primo AU. Spero vi piaccia^^
L’idea mi è venuta su alcune fanart crossover tra Frankenstein (quello interpretato da Benedict) e Sherlock. Sono così irresistibili che non potevo non scriverci niente sopra.
Attenzione, le scene delle immagini verrano usate nel corso della storia, quindi sono un possibile spoiler. Anche se le immagino sono crossover, la mia storia NON sarà un crossover tra Sherlock e Frankenstein, perciò l'avvertimento Crossover non è presente.
http://rorynoyume.tumblr.com/post/21216357282/221cbakerst-hat-tea-abbyleaf101#notes

Comunque si, le due mele impilate sono una citazione dei puffi, che sono alti suppergiù due mele o poco più.

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Capitolo 2
*** ...amici? ***


Dire che il piccolo uomo era spaventato sarebbe un eufemismo. Il piccoletto era letteralmente terrorizzato, pietrificato dalla paura.
Aveva appena realizzato di essersi andato a infilare nella tana della creatura e forse in un pericolo ancora più grande di un ratto.
 
Per darsi sicurezza, assunse una posa da pugile - C- chi sei? – chiese, cercando di conferire un tono sicuro e baldanzoso alla sua voce spezzata, fallendo miseramente – Non provarci nemmeno a farmi del male, altrimenti io-
 
- E’ la domanda che dovrei farti io, dopotutto… – lo interruppe il sussurro dalle ombre – …tu sai benissimo chi sono io – sospirò la voce.
C’era qualcosa in quel tono di voce, qualcosa che fece perdere un po’ della paura al biondo. Quello che aveva avvertito… era forse tristezza?
 
- Comunque stai tranquillo, non voglio farti del male –
Se inizialmente era un sussurro, l’ultima frase terminò in modo così lieve che il biondino stentò a riconoscere le parole e a distinguerle dal fruscio del vento all’esterno.
 
-..ni qui -  la voce era fievole, ancora più della frase precedente.
Prendendo a due mani quel poco di coraggio che gli era rimasto, il piccolo uomo gli chiese di ripetere.
-Vieni qui – ripeté la voce, stentata e debole, come se ogni parola fosse una spina conficcata nelle carni – Non… non voglio farti del male – e si fermò, per riprendere fiato – è una promessa –
 
Il piccoletto era sempre stato incline a fidarsi degli altri, e anche in quella situazione alquanto bizzarra il suo istinto lo spinse a dare fiducia alla creatura.
 
Camminava piano nell’oscurità per non rischiare di inciampare, ancora  non si sentiva del tutto sicuro, nonostante i suoi occhi si fossero un po’ abituati alle tenebre e riuscissero a cogliere maggiori dettagli dell’ambiente, anche grazie a uno spiraglio di luna che riusciva a filtrare all’interno dai buchi delle “tapparelle” di legno anche attraverso la spessa coltre di nubi cariche di pioggia.
 
Andava a tentoni, finché la creatura non parlò di nuovo - Va bene lì – al ché si fermò.
Avvertì del movimento vicino a lui, un fruscio di stoffa, il tintinnare di qualcosa di grosso e metallico., finché un’ombra non si accucciò vicino a lui.
 
Il piccoletto trasalì, riconoscendo vicino a sé i vaghi contorni di quello che doveva essere un viso, ma nient’altro, era ancora troppo buio.
 
Il sussurro si fece risentire, sempre fievole ma bene udibile, adesso che la distanza tra loro si era accorciata – Scusami se ti ho spaventato, non era mia intenzione – mormorò con un tono realmente dispiaciuto.
 
 - No- non ti preoccupare – cercò di rassicurarlo – tu… tu sei realmente la “creatura”? – chiese con un po’ di timore.
Subito la sua domanda venne confermata con un cenno del capo – Temo di si. Che io ricordi, sono sempre stato qui, non so neanche perché – e non sapeva neanche perché adesso si stava confidando con quel piccolo uomo, pensò tra sé e sé. Forse, dopo tanto tempo passato in solitudine, anche il primo sconosciuto può diventare un’ancora di salvezza e aprire uno spiraglio verso il mondo esterno. E poi sentiva che si poteva fidare di lui, perché anche lui era diverso, avrebbe sicuramente compreso il suo stato d’animo.
O almeno lo sperava.
Il fatto che non fosse scappato urlando prometteva già bene, che potessero davvero diventare… amici?
 
Un inquietante silenzio era sceso nella vecchia cantina, mitigato solo dallo scrosciare della pioggia all’esterno. Questa volta, fu il biondo a prendere parola – Senti,non vorrei essere scortese, ma… bhé, com’è che parli così piano? A mala pena riesco a sentirti… -
 
Un sospiro mesto – Non posso aprire troppo la bocca –
Il piccoletto deglutì e, a rischio di sembrare indelicato, chiese – Come mai? – altro sospiro mesto – Dammi una mano, ti faccio sentire –
 
Lentamente, il biondo portò la mano sinistra davanti a sé, e se la sentì afferrare tra qualcosa di morbido, probabilmente, pensò, erano l’indice e il pollice della creatura.
Strano. Se l’era sempre figurato come un essere freddo, ma adesso che lo aveva davanti e poteva toccarlo… sentiva tutto il suo calore di creatura umana.
Non è giusto che stia qui da solo. Nessuno si merita una tale punizione.
 
Cercando di essere più delicato possibile, la creatura portò la minuscola mano del biondo fino alle sue labbra premendola leggermente al centro, per poi iniziare a farla scorrere verso un lato.
Il piccolo uomo, d’altro canto, non capiva dove l’altro volesse arrivare, ma sussultò quando la sua mano andò incontro a qualcosa di ruvido e spiacevole, tutto il contrario delle morbide labbra.
 
Cercando di capire cosa fosse, portò anche l’altra mano a tastare quella sostanza ignota, scoprendola filacciosa, ma rigida.
-Sono punti- spiegò la creatura – punti di sutura. Li ho da che ho memoria – e così dicendo lo incitò a seguire il percorso segnato dai piccoli fili.
 
Le manine del biondo scorrevano leggere lungo quel percorso ruvido, finché non si accorse che era un po’ troppo lungo per limitarsi alle sole labbra. Deglutendo nuovamente, continuò il suo piccolo viaggio finché due punti più grossi degli altri, messi a croce, non segnavano la fine, al di la della quale poteva sentire la pelle liscia della guancia.
 
Pur essendo al buio, col tatto si era fatto un’idea abbastanza precisa – Mi… mi dispiace – mormorò, incapace di trovare qualcos’altro da dire. E gli dispiaceva davvero, non era solo un modo di dire.
Si sentiva… quasi in colpa per la situazione dell’uomo (ciò era, non poteva negarlo) che aveva davanti, quasi fosse stato lui a rinchiuderlo ed a emarginarlo.
 
-Non devi – replicò sussurrando – Non hai colpa di niente, perché dovresti dispiacerti –
-Tu… devi sentirti solo, non è così? – la creatura non rispose, ma il piccoletto sapeva cosa voleva dire empatia, e in quel momento poteva confermarlo.
 
- Bé, sono solo anche io – comunicò – ma magari, adesso, potremo non esserlo più. Vuoi diventare mio amico? – propose, afferrando l’indice della creatura che era rimasto visino a lui.
 
Nel buio, la creatura sgranò gli occhi dalla sorpresa.
Quel piccoletto… voleva davvero essere suo amico?
Un calore sconosciuto cominciò a bruciargli nel petto, ardendo e vibrando e facendogli pensare che il petto gli sarebbe esploso da un momento all’altro se non avesse detto qualcosa.
 
-… sì – sussurrò – Sì, voglio essere tuo amico – ripeté con più decisione.
Sulla bocca del piccoletto si allargò un sorriso che venne percepito dalla creatura, la cui vista nel buio doveva essere certamente più sviluppata di quella dell’altro, che strinse con più forza il dito che teneva tra le manine.
 
- a proposito, io sono John, ma gli amici mi chiamano Johnny, per via della mia statura. Puoi chiamarmi anche tu così.
- Johnny… - ripeté lievemente la creatura –E tu? Qual è il tuo nome? – chiese, poi rifletté che forse, se era stato sempre rinchiuso li, forse neanche lo aveva, un nome. Ma la creatura lo sorprese, rispondendogli.
 
- Sherlock –






Angolo dell'autrice:

Ecco che cominciano già a conoscersi meglio! Dal prossimo capitolo inizieremo a vedere un po' di luce (nel senso letterale del termine), e sarà pieno (o quasi) di fluff.
Il prossimo capitolo ce l'ho già pronto, e spero di poter continuare così, aggiornando ogni venerdì. Ah, non vi abituate ad averli così presto, i capitoli, quello di questa settimana l'ho pubblicato di mattina solo perché avevo assemblea a scuola ed adesso sono a casa u.u Dalla prossima settimana si ricominciano gli aggiornamenti serali ;)
Laterz!

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Capitolo 3
*** Luce ***


- Sherlock -
 
- E’ un bel nome. Mi piace! -  esclamò John con allegria, mentre Sherlock si sentiva sempre più felice.
- Ti ringrazio – mormorò lievemente. John fece per avvicinarsi a lui, ma inciampò su un’irregolarità del pavimento, finendo lungo disteso a faccia in giù.
 
-Ahiahiahi, che male – fece, massaggiandosi il naso. Sherlock istantaneamente allungò una mano verso di lui – Tutto bene? – chiese, preoccupato.
- Si, è che qua non si vede un tubo – Sherlock si scostò rapidamente, finendo in un angolo della stanza – Dovrei avere qualche candela e alcuni fiammiferi, da qualche parte – disse rovistando in un mucchio di roba – Li tenevo in serbo per un’occasione speciale –
 
John arrossì lievemente, nel buio, sentendosi chiamare occasione speciale. Dopo qualche minuto, Sherlock si riaccostò a lui, posando in terra una grossa candela e porgendogli un fiammifero con tanto di scatoletta – Potresti accenderlo tu? Non credo di sapere come fare –
 
John sorrise – Ma è semplice, Sherlock. Devi solo strofinare la punta scura del fiammifero sul bordo della scatoletta, molto rapidamente, mi raccomando. Ecco guarda, così – E fece per accendere il fiammifero, quando Sherlock lo fermò.
- Cosa c’è? – chiese – Non… non sono sicuro – ammise Sherlock.
- E di cosa? – John proprio non capiva.
- Non sono sicuro di volere che tu mi veda. Non… non vorrei spaventarti – ammise Sherlock, l’imbarazzo che faceva assumere alla sua voce un tono molto dolce, a detta di John.
 
John scoppiò a ridere – Non ti preoccupare! Non scapperò via, so che non mi faresti niente, e poi ormai siamo amici –
Sherlock sentì scomparire un peso dal petto. Non aveva mai incontrato nessuno con tutto quel… buon cuore. Era stupido, non avrebbe mai dovuto dubitare del suo amico.
Tolse la mano che bloccava il fiammifero, dando via libera al biondino di accendere prima esso e poi la candela.
 
Una tenue luce si diffuse per l’ambiente, accecando momentaneamente i suoi occupanti, ormai abituati al buio più nero.
Quando gli occhi di John si furono abituati alla luce della candela, finalmente poté osservare il suo nuovo amico, chiedendosi perché dovrebbe aver avuto paura di lui.
 
John stimò che poteva avere sui vent’anni, ma trovava difficile ottenere un metro di paragone. La pelle era liscia e chiara, quasi bianca, ma non aveva l’aria di uno malato, piuttosto della neve, o della panna. Era nudo, con solo una grossa coperta che gli copriva dai fianchi in giù, la corporatura così esile che John poteva contargli le costole; stava a sedere di fronte a lui, e nonostante ciò era evidente la sua notevole altezza anche da seduto.
Come aveva avuto modo di constatare “a tatto”, due lunghe cicatrici, una a ogni lato della bocca, partivano da essa fino a percorrere tutta la guancia, ed erano chiuse da degli scuri fili da sutura, che prendevano anche parte della bocca. I fili scuri riprendevano i capelli, riccioluti e spettinati, che gli cadevano sul viso nascondendone una parte.
Ma la cosa più straordinaria erano gli occhi. Erano infossati nel cranio, come se un’ombra gli avvolgesse costantemente, ciononostante la pupilla era chiarissima, di un azzurro che John non aveva mai visto neanche nei cieli più limpidi. Sherlock riteneva che lo avrebbe spaventato, ma John si ritrovò a pensare addirittura che fosse bello, tutto il contrario di lui, pensò, che con la sua altezza e i suo aspetto banale non spiccava su nessun fronte.
 
Il suo amico era strano, sì, ma non spaventoso, e John gli regalò uno dei suoi migliori sorrisi.
Sherlock dal canto suo era praticamente esterrefatto. Non si aspettava una reazione così tranquilla al suo aspetto, che considerava nettamente inferiore a quello di John.
Sherlock tese una mano, e senza difficoltà John vi montò sopra. – Sei carino – mormorò Sherlock, avvicinandoselo per osservarlo meglio. Sarà pure stato piccolo di statura, ma era ben proporzionato, con i capelli biondi tagliati corti, spettinati come i suoi. Indossava una maglia a righe orizzontali bianche e nere che gli calzava a pennello.
John arrossì a quel complimento – Grazie, anche tu lo sei -  e fu il turno di Sherlock ad arrossire.
 
Un rumore improvviso li fece sussultare – Ah, è il tuo stomaco che brontola – ridacchiò lievemente John.
- Già, è da un po’ che non mangio – replicò mestamente Sherlock. John gli fece segno di farlo scendere, e una volta a terra recuperò il suo fagotto tanto faticosamente difeso. Scartò la stoffa verde e rivelò tre grossi biscotti scuri. John staccò un pezzo per sé e porse il resto a Sherlock – Mangiali te questi, il pezzo che ho preso è più che sufficiente – e con molta fatica tirò su i restanti due biscotti e mezzo.
 
- G- grazie – rispose Sherlock interdetto, prendendo un biscotto e portandoselo alla bocca, facendo tintinnare la catena legata al suo polso.
Diede un piccolo morso, scoprendolo al cioccolato.
Un biscotto al cioccolato, da quanto tempo non ne mangiava uno? Si chiese.
 
Nella foga di avere un secondo morso, spalancò troppo la bocca. Una fitta di dolore gli pervase la guancia facendogli emettere un grido acuto e piegare in due sul pavimento.
John accorse immediatamente – Oddio, stai bene? Ti ha fatto male il biscotto? E’ colpa mia, ti prego scusami! Scusami! –
 
Stringendo la bocca e massaggiandosi la guancia, pian piano il dolore passava, lasciando solo una fastidiosa sensazione di prurito. Alzando gli occhi azzurri, la prima cosa che Sherlock notò fu John.
Grossi lacrimoni scendevano dai suoi occhi, singhiozzi che gli percorrevano il petto, sentendosi responsabile del dolore dell’amico.
Panico. Sherlock era nel panico. Non sapeva come comportarsi in una situazione del genere, non sapeva come farlo smettere di piangere. Si chinò su di lui, lasciando cadere la coperta all’indietro.
 
-Sto bene, ti prego, non piangere – era un sussurro quello di Sherlock, il viso vicino a quello di John, tanto vicino che il suo respiro mozzato scompigliava i capelli del più piccolo.
 
John tirò su col naso – Sicuro? – chiese tra le lacrime.
- Sicuro – confermo Sherlock. John però non era ancora soddisfatto – Mi faresti vedere? –
Sherlock lo prese di nuovo sulle mani, portandoselo vicino al viso.
John osservò attentamente la bocca: sì, era arrossata dove i fili avevano tirato, ma sembrava tutto ok, e un sospiro di sollievo gli sfuggì dalle labbra.
 
Il campanile in lontananza batté la mezzanotte.
- Sherlock, non pensi che dovremo andare a dormire? –
John evidentemente doveva avere qualche potere, perché riusciva a sbigottirlo ogni volta, pensava Sherlock – Tu rimarresti… a dormire qui? –
- Se non è troppo disturbo – rispose John abbassando il capo e arrossendo come una ragazzina alla prima cotta.
- Figurati. Mi… mi fa piacere averti qui – disse Sherlock, portandolo fino a suo materasso.
John si sdraiò da una parte, seguito dopo poco da Sherlock che, dopo aver spento la candela, coprì entrambi con la coperta.
 
Nel giro di un paio di minuti, esausti, si abbandonarono entrambi alle dolci braccia di Morfeo.



Angolo dell'autrice:
Niente di che questo capitolo, secondo me. Troppo corto, come al solito. Manca ancora una buona mezz'ora alla mezzanotte, quindi mi ritengo assolutamente in orario u.u Un grazie  a quei pochi che hanno recensito, mi avete fatto un grande piacere <3 Ci becchiamo venerdì prossimo!

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