Dancing Split Clockwork

di Vitriolic Sheol
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La cassa oblunga ***
Capitolo 2: *** Berenice ***
Capitolo 3: *** Il cuore rivelatore ***



Capitolo 1
*** La cassa oblunga ***


La cassa oblunga
 
Un po’ di tempo fa, cedetti allo sfizio di un viaggio per mare riservandomi un posto sulla lussuosa nave “Black Pearl”, in partenza da Port Royal e diretta all’Isola che Non C’è; venni a sapere che saremmo stati in molti passeggeri, tra cui un discreto numero di donne. Sull’elenco dei viaggiatori, figuravano i nomi di parecchie persone di mia conoscenza, compreso quello di Zexion, un giovane artista per cui nutrivo sentimenti di calda amicizia. Lo conoscevo sin da studente, in quanto frequentanti la stessa scuola a Radiant Garden; egli corrispondeva perfettamente al mio ideale di genio, una miscellanea di misantropia, sensibilità ed entusiasmo uniti ad un animo caldo e sincero. Osservai che il suo nome era scritto nella colonna delle prenotazioni triple; e ricontrollando la lista dei passeggeri, notai che aveva prenotato i biglietti per sé stesso, per la moglie e per le sue due sorelle. 
 
Ammetto che rimasi un poco interdetto da questa cosa: le cuccette della “Black Pearl” erano predisposte per poter accogliere due persone ciascuna, perciò mi sfuggiva l’utilità della terza… finché l’illuminazione arrivò: “Ci sarà sicuramente un domestico!”. Tuttavia, riesaminando l’elenco mi accorsi che nessun domestico era segnato, benché l’intento iniziale in realtà fosse quello, dato che la dicitura “e domestico” era stata scritta e poi cancellata. 
 
“Forse un bagaglio estremamente ingombrante, o da dover sorvegliare..” continuai a pensare.
 
Conoscevo molto bene le due sorelle di Zexion, Aqua ed Aerith, ragazze molto amabili ed intelligenti, ma non avevo ancora visto la moglie, che egli aveva sposato da poco; Zexion l’aveva descritta come una donna di straordinaria bellezza, spirito e qualità. 
Inutile dire che non vedevo l’ora di conoscerla.
 
Il giorno prima della partenza mi recai a visitare la nave,in concomitanza con la stessa famiglia di Zexion (come mi informò il capitano Luxord), ed io attesi a bordo un’ora più del previsto, nella speranza di essere presentato alla sposa. Ma con mio profondo rammarico, lo ammetto, vidi arrivare Zexion da solo, il volto dai lineamenti gentili un poco rabbuiato.
 
“Demyx, mio caro amico, comprendo la tua delusione. Mia moglie è un po’ indisposta; ma salirà a bordo domani, un’ora prima della partenza.”
 
Questo fu tutto quello che mi disse riguardo all’argomento; era come se cercasse di svincolarsene, volendone parlare il meno possibile. Essendo poi giunto il mattino, stavo tornando al mio albergo presso il molo, quando mi imbattei nel capitano Luxord, il quale mi disse che la “Black Pearl”  avrebbe rimandato la partenza di due o tre giorni, e che egli si sarebbe fatto premura d’inviarmi qualcuno ad avvertirmi quanto tutto sarebbe stato sistemato.
 
Trascorse una settimana, prima che il messo del capitano si presentasse e pochi attimi dopo, io ero già a bordo, pronto per la partenza; la nave era affollata di passeggeri, caotica per il trambusto del principio. Zexion e la sua famiglia arrivarono all’incirca venti minuti dopo di me: v’erano le due sorelle, la sposa e l’artista, in preda ad un acuto attacco di misantropia che si rivelava palesemente sul suo volto tirato ed ancora più pallido del solito. Non mi preoccupai eccessivamente di tale cosa, in quanto avvezzo a queste situazioni; ma non mi presentò nemmeno la moglie, lasciando l’incombenza alla sorella Aerith, dolce e gentilissima ragazza, che con poche e frettolose parole ci fece fare conoscenza.
La signora Larxene (questo era il suo nome), quando sollevò di un poco il velo che occludeva il suo viso al mio sguardo, ebbe l’inaspettata capacità di stupirmi profondamente: bionda, con due ciuffetti ai lati della testa simili a delle antenne, occhi piuttosto grandi ma di azzurro spento, quasi slavato ed una pelle bianca che non aveva un aspetto molto sano.
 
Nonostante quindi il mio voler essere cortese ad ogni costo, non riuscivo a far a meno di considerare Larxene come una donna assolutamente insignificante, impressione resa ancora più incisiva dalle entusiastiche parole che, precedentemente, Zexion aveva pronunciato a suo riguardo. Non poteva essere considerata una brutta donna, ma non si avvicinava nemmeno lontanamente al ritratto ideale che mi ero fatto dello “splendido angelo” che il mio giovane amico tanto aveva decantato.
 
Era vestita però di un gusto estremamente raffinato che mi portò, frivolamente, a pensare che avesse fatto breccia nel cuore di Zexion grazie alle più durature doti dell’intelletto e dell’animo, piuttosto che con l’avvenenza. Avrei avuto ardente desiderio di trovare conferma a questa mia ipotesi, ma lei pronunciò pochissime parole per poi ritirarsi celermente nella cabina con Zexion. A quel fatto la mia prima curiosità si riaccese, alimentata dal fatto che non essendoci domestici, la terza cabina doveva essere per forza occupata da un bagaglio estremamente voluminoso; cominciai a cercare quindi tale oggetto, che non tardò ad arrivare. Giunse sul molo un carro che portava una cassa oblunga in legno di pino, e sembrò come se l’intero equipaggio della nave non attendesse altro; appena caricata infatti salpammo in tutta tranquillità, dirigendoci placidamente verso il mare aperto.
 
La cassa in questione era, come già specificato, oblunga: misurava circa 182 centimetri in lunghezza e 75 in larghezza, ed osservandola attentamente non potei far a meno di notare che aveva una forma particolare; a quel punto fui sicuro che doveva contenere qualcosa di alto valore artistico, un dipinto pregiato o preziosi strumenti di pittura. Ma lo stupore (pervaso anche da un vago senso di irritazione, nel vedere che ancora una volta le mie teorie andavano in fumo) quando notai che la cassa non venne messa nella cabina supplementare, ma in quella dello stesso Zexion: e lì rimase , occupando quasi interamente il pavimento, creando sicuramente disagio sia all’artista che alla sposa; tanto più che il catrame e la vernice con cui era stata imbrattata la parte superiore, emanava un odore acre, pungente e quanto mai sgradevole. Sul coperchio erano state dipinte le seguente parole: “ Signora Tifa, Radiant Garden, spese a carico di Zexion, Esq. Alto , maneggiare con cura.”
 
Benché sapessi che Tifa fosse la madre di Zexion, quell’indirizzo non riuscì a convincermi del tutto; ero quasi certo che la cassa ed il suo contenuto non si sarebbero mai spostati più a nord di quanto non fosse lo studio del mio amico.
 
Per i primi giorni del viaggio, il tempo si mantenne sereno benché frustato da un incessante vento da nord; tuttavia, nonostante i passeggeri fossero di ottimo umore, Zexion e le sue sorelle perpetravano in un atteggiamento distaccato che, sebbene mai manchevole di una fredda cortesia, risultava comunque scortese verso gli altri viaggiatori. Non prestavo particolare attenzione alla condotta di Zexion: egli era ottenebrato da una tetra mestizia anche più elevata del solito, ed io ero preparato a tali mutamenti d’animo. Ma in qualche modo, non riuscivo a giustificare Aqua ed Aerith: rimasero infatti chiuse nella loro cabina per quasi tutto il viaggio, evitando in modo assoluto ogni contatto con qualsiasi persona si trovasse a bordo.
 
La signora Larxene era, al contrario loro, molto più piacevole con il suo ciarlare, qualità non da poco a bordo di una nave; divenendo estremamente intima di quasi tutte le donne, dimostrò inoltre di possedere un innato talento per civettare con gli uomini… ben presto, ci si ritrovò a ridere più di lei che con lei. Benché i signori si rivelarono piuttosto defilati dall’esprimere giudizi su di lei, le donne non tardarono a dare la loro sentenza, etichettandola come “una donna fondamentalmente buona ma piuttosto insignificante, rozza, sgraziata ed assolutamente volgare.”
Non fui l’unico quindi a chiedermi, alla luce di tutto ciò, come Zexion avesse potuto sposarla, lui, che a volte assumeva la fragilità di una vergine per sensibilità e bontà d’animo! Lui, così raffinato, così colto, esteta fino al più recondito e minuscolo osso, come aveva potuto sposare una donna del genere?! Non si poteva addurre nemmeno la questione di un’ingente dote, in quanto lui stesso mi aveva raccontato che la moglie non gli aveva portato in dote un solo denaro.
 
Che la ragione lo stesse quindi abbandonando? Che altro potevo pensare?
 
Certo, era indubbio che Larxene fosse innamorata di lui, almeno questo era quello che dava a vedere in sua assenza, ricorrendo a frasi sdolcinate come “il suo adorato marito, il signor Zexion”.
 
Un giorno egli giunse sottocoperta e, presolo sotto braccio, come ero avvezzo, passeggiai con lui avanti ed indietro, lungo il pontile. La sua malinconia (che ritenevo giustificata, date le circostanze) non sembrava affatto diminuita; smozzicò qualche frase, di controvoglia e con evidente sforzo, in nome non tanto della nostra amicizia quanto per l’educazione che lo aveva sempre caratterizzato. Arrischiai qualche battuta ed egli fece uno stanco, triste tentativo di sorriso. “Povero Zexion” mi ritrovai a pensare “con una moglie come Larxene, anch’io riuscirei a stento a dimostrare anche una vaga parvenza di gioia!”
 
Iniziai quindi a lanciargli frecciatine ed allusioni velate riguardo alla cassa oblunga, non tanto per irritarlo, quanto per fargli intendere che non poteva raggirarmi così facilmente; e per tal motivo, sempre mascherandolo con la morbidezza delle parole, lanciai il mio primo attacco dicendo qualcosa sulla particolare forma di quella cassa, calcando con il tono di voce e ammiccando con sorrisetti consapevoli.
 
Il modo in cui Zexion reagì a questo mio innocente gioco, fece balenare in me l’idea che avesse davvero completamente perso il senno: dapprima mi fissò come se non riuscisse a cogliere il messaggio subliminale della mia affermazione; ma come se le prima fila di tal pensiero si fossero allacciate alla sua mente, i suoi, in una celere successione, si sgranarono a tal punto che credetti gli stessero per uscire dalle orbite. Lo pervase un intenso rossore seguito da un pallore mortale, a cui affiancò una fragorosa quanto macabra risata, che si prolungò per alcuni minuti; a conclusione di questa, egli cadde pesantemente disteso  sul ponte… quando mi piegai su di lui per soccorrerlo, Zexion somigliava, in tutto e per tutto, ad un morto.
 
Spaventato, chiamai quindi soccorso per farlo faticosamente tornare in sé; appena rinvenne lo sentimmo farfugliare qualche parola incoerente, che ci indusse a coricarlo a letto. La mattina dopo si era completamente rimesso, almeno per quanto si intenda la salute fisica; sul suo stato mentale non voglio pronunciarmi. A tal proposito lo evitai per tutto il resto del viaggio, pur mantenendo l’assoluto riserbo dell’accaduto.
 
Una notte però, accadde qualcosa di singolare: tormentato dall’insonnia, mi ritrovai a passeggiare per il corridoio deserto e silenzioso della zona notte, quando di colpo la mia attenzione fu incuriosita da certi rumori singolari, cauti e quasi soffocati che provenivano dalla cabina di Zexion. Dopo averli ascoltati per qualche secondo con attenzione, riuscii a distinguerne la natura: erano rumori che lo stesso Zexion produceva mentre apriva la cassa oblunga per mezzo di uno scalpello e di una mazzuola, quest’ultima smorzata ed attutita da qualche materia soffice come lana o cotone. Pur non vedendolo, riuscii ad immaginare con fotografica precisione l’esatto momento in cui egli svelleva il coperchio, quando lo toglieva del tutto e quando lo deponeva delicatamente sul pavimento della cuccetta.
 
Dopo un momento di silenzio che mi parve eterno, sentii dei singhiozzi e dei sospiri, celati ma perfettamente udibili al mio allertato orecchio; quasi mi sentissi colpevole dell’origliare la disperazione altrui, mi allontanai dalla porta per tornare nella mia cabina, da dove avvertii, verso l’alba,  il rumore del coperchio e dei chiodi che tornavano al loro originario alveo.
 
 
******* 
 
Trascorsero sette giorni, durante i quali, ogni notte ed ogni alba, sentivo provenire dall’alloggio di Zexion sempre gli stessi rumori e gli stessi singhiozzi; ma benché la curiosità di sapere cosa fosse contenuto in quella cassa mi stesse divorando, mantenni il mio distacco verso il giovane artista, né vidi più le sue sorelle, sempre rinchiuse nella loro cuccetta.
 
L’ottavo giorno però un tremendo, gelido vento ci colse, preannunciante una disastrosa tempesta che non tardò ad arrivare. In una successione talmente rapida da lasciarmi senza respiro ed incapace di reagire, vidi le vele della nave lacerarsi, uomini e donne sparire in mezzo ai flutti che ingoiavano estese porzioni del ponte, della cambusa e delle paratie di babordo, le tavole di legno incrinarsi gonfie d’acqua per poi spezzarsi con un inquietante suono di ossa spostate.
 
Fummo in pochi fortunati a salvarci da morte certa salendo sulle scialuppe, ed in questo gruppo d’anime sconvolte ritrovai con sollievo il capitano Luxord e Zexion, con la sua intera famiglia; non avevamo naturalmente spazio per nulla se non per alcuni strumenti assolutamente necessari, delle provviste e per gli abiti che avevamo indosso. Nessuno di noi aveva mantenuto una razionalità tale da voler cercare di trarre in salvo qualcos’altro che non fosse la propria vita; facile, quindi, è immaginare lo stupore di noi tutti quando Zexion si alzò in piedi a poppa, chiedendo freddamente al capitano di far tornare indietro la scialuppa, allo scopo di prendere, ancora a bordo della nave che stava affondando, la sua cassa oblunga.
 
“Sedete, signor Zexion” rispose in tono deciso il capitano “farete capovolgere l’imbarcazione se non restate tranquillo. Il parapetto è quasi al livello dell’acqua.”
 
“La cassa! La cassa, dico! Capitano Luxord, non potete oppormi un diniego. Il suo peso sarà ininfluente per la portata della scialuppa! In nome del Cielo, mi affido alla vostra anima, io vi imploro di ritornare a prendere quella cassa!” gridò il giovane, quasi sconfinando nell’isteria.
 
Per un istante, un fugace istante, il capitano parve mosso a compassione da quell’accorata preghiera, ma non impiegò molto a riacquistare il suo piglio austero e rispose:
 
“Signor Zexion, voi siete folle. Non posso ascoltarvi. Sedete, vi dico, o ci farete affondare. Fermo! Tenetelo! Sta per saltare in mare! Zexion, no!”
 
Mentre Luxord pronunciava queste parole, Zexion era saltato fuori dalla barca e, grazie alla momentanea posizione sottovento, era riuscito con sforzo sovrumano a raggiungere lo scafo, per metà già sommerso dall’acqua, ed a salirci sparendo poi al suo interno. Benché tentammo più e più volte ad accostarci allo scafo, non impiegammo molto a comprendere che l’infelice sorte dell’artista era segnata.
 
Sempre più lontani, lo vedemmo riemergere dal relitto, trascinando con sé la cassa, alla quale si legò saldamente avvolgendo attorno alla struttura, ed alla sua esile vita, tre giri di una spessa corda da circa 5-6 cm.
 
Un istante dopo, il corpo e la cassa erano in mare, scomparendovi insieme e per sempre.
 
Un silenzio sepolcrale cadde su di noi ancora con gli occhi sconvolti, pieni di quell’immagine di morte che ora sembrava averci seguito sull’imbarcazione, sedendo accanto a noi come un ospite taciturno.
 
Ruppe l’immobilità di quell’istante Luxord, il capitano, con la voce salda ma comunque incrinata dal dolore.
 
“Sono affondati… ma ritorneranno su presto, non appena il sale si sarà sciolto.”
 
“Il sale?!” osservai sconcertato.
 
“Zitto!” mi rispose lui, indicando con gli occhi la moglie e le sorelle del defunto “parleremo di questo quando sarà il momento opportuno.”
 
Penammo molto nella nostra condizione di naufraghi e ci salvammo a stento, approdando, con grande fatica, proprio nel porto in cui saremmo dovuti sbarcare  con la “Black Pearl”.
 
Arrivammo all’Isola che Non C’è, deperiti, sfiniti dal viaggio e dalle veglie, tormentati dalla fame e dalla sete che le poche provviste di cibo non erano riuscite a colmare, ma vivi. 
E questo era ciò che importava.
 
 
*******
 
Trascorse circa un mese dal naufragio della “Black Pearl” prima che potessi avere di nuovo l’occasione di parlare con il capitano Luxord, che incontrai a Twilight Town; la nostra conversazione si incentrò ovviamente sul triste destino di Zexion. 
 
Appresi da lui i particolari che dipanarono, davanti ai miei occhi attoniti, le intere fila della vicenda.
Il giovane artista aveva prenotato i posti per sé e per la moglie, comprese le due sorelle ed una domestica; sua moglie, che scoprii chiamarsi Naminè, era realmente come era stata descritta, una donna di rara bellezza e di enorme cultura. La mattina prima della partenza, la signora si era gravemente ammalata ed era morta; Zexion, innamoratissimo, era fuori di sé dal dolore, ma irrevocabili circostanze gli proibivano di posticipare il viaggio. Era necessario quindi, che egli portasse la salma dell’adorata moglie alla suocera e, d’altro canto, attuare tutto questo nella più completa segretezza; era più che certo del fatto che nove decimi dei passeggeri avrebbero abbandonato la nave piuttosto che viaggiare con un cadavere.
 
A tale motivo, il capitano si adoperò in modo che il corpo della bella Naminè, dapprima imbalsamato e poi racchiuso in una cassa di dimensioni adatte con grandi quantità di sale, venisse caricato sulla nave come merce. Nulla doveva trapelare della morte della signora e poiché era noto a tutti che Zexion ne sarebbe stato accompagnato, divenne necessario trovare qualcuno disposto ad impersonarla durante la traversata; fu facile persuadere la cameriera della defunta e la cabina supplementare, in origine destinata a questa ragazza finché Naminè era in vita, fu semplicemente confermata. 
 
Qui, la notte, la ragazza dormiva, mentre il giorno sosteneva come meglio poteva la parte della sua padrona, la cui identità era sconosciuta ad ogni passeggero.
 
Il mio errore di valutazione era sorto, naturalmente, da un’eccessiva superficialità di giudizio e tale sbaglio continua tuttora a tormentarmi.
 
Ogni notte, prima che il sonno mi colga, un volto affiora davanti ai miei occhi ed una risata isterica mi risuona nelle orecchie.
 
In bocca, uno strano sapore opprime le mie papille.... 
 
Sale.
 
 
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* angolino dell’autrice *
 
Ed eccoci al primo racconto della raccolta, avente come base la short story di Poe dall’omonimo titolo!
 
Perché Demyx e Zexion? Non so dirvelo sinceramente ( “chi se ne frega” mi potreste dire voi u.u ) , so soltanto che mentre lo leggevo le loro immagini mi sembravano adatte a questa storia.
 
E poi, scusate, chi altri se non il Burattinaio (depresso) Mascherato poteva rivestire il ruolo dell’artista giovane e tormentato?!
 
Ah, prima che me lo dimentichi! Nella versione originale, le unità di misura della cassa e della corda sono riportate in pollici; io le ho convertite con il nostro sistema metrico-decimale, ma non sono sicurissima che siano le traslazioni giuste! O.o
Oh, insomma, alla fine anche se la cassa è più grande di un decimo di millimetro o la corda più corta di un centimetro non sarà mica la fine del mondo, no?
 
* Non importa, tanto ci sono crepato intorno lo stesso! \ _ / NdZexion *
 
A rivederci (e spero in breve) con la seconda one shot!
 
Un saluto ed un inchino 
 
Dark Rag Dancer

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Capitolo 2
*** Berenice ***


BERENICE



      “La miseria è molteplice.
L’infelicità sulla terra è multiforme.”
Edgar Allan Poe.      


Fin da ragazzo sono sempre stato attratto da ciò che la gente definiva “misticismo”. Le apparizioni spettrali, i fenomeni paranormali, gli avvenimenti inspiegabili hanno sempre stuzzicato la mia coscienza come un ghiottone può essere invogliato da un lauto banchetto, tanto da indurmi a trascorrere ore ed ore nella libreria di casa, immerso in trattati di alchimia, mesmerismo, stregoneria e molti altri.

Il mio nome è Axel. Quello della mia famiglia non lo voglio rivelare. Il nostro “clan” è conosciuto, e definito, come un insieme di visionari; e per alcuni dettagli, apparentemente insignificanti ad un occhio razionale, come gli affreschi della grande sala, i ninnoli sparsi per la casa ed i quadri presenti, tale convinzione sembra essere ben giustificata e con salde fondamenta. Vi è una stanza di questa immensa casa, a cui il mio animo è strettamente legato: nella camera verde sono forse racchiusi i miei ricordi più rilevanti. Qui ventidue anni fa, contemporaneamente io giunsi alla vita e mia madre alla morte; ed ogni volta che il mio sguardo osserva la mia stessa figura di fronte ad uno specchio, tale ricordo si impone imperiosamente nella mia mente tramite il colore delle mie iridi, di un sorprendente verde intenso e brillante. Immancabilmente, risuona nella mia testa la voce della balia, alle cui cure mio padre mi aveva affidato dopo la morte della moglie. Era convinta che i miei occhi avessero tale cromatura a causa della mia troppo elevata permanenza in quella stanza, permeata di tristezza, di lutto e di dolore.

Osservandomi attentamente, forse non erano solo parole insensate, pronunciate da una “popolana superstiziosa e bigotta” come la definiva mio padre; la mia persona non è completata da colori di gioia. I capelli ribelli, di una forma inconcepibile quanto bizzarra, sono color del sangue, un rosso così intenso da sembrare orrendamente vivo; simile per candore a quella dei cadaveri, è la mia pelle, scrigno di quegli occhi che molte fanciulle avevano definito “dalla superbia smeraldina”.

Ma ora sto divagando, e tale riflessione su me stesso potrebbe indurmi a non onorare lo scopo che mi sono prefisso di raccontare, in queste lugubri righe.

Roxas ed io eravamo cugini e crescemmo assieme in quella che fu la mia casa paterna. Nessuno avrebbe dato affidabilità all’informazione della nostra parentela, osservandoci di primo acchito: io ristagnavo nella mia malinconia ed in una salute cagionevole mentre lui, con il suo bel viso dalle gote rosee simile a quello di un angelo, incorniciato da capelli color del grano e meravigliosi occhi simili al cielo per limpidezza, era agile, vivace, traboccante di un’energia che pareva inesauribile, presente in qualsiasi ora lo si incontrasse. Miei erano gli studi e le letture protette dalla fresca ombra del chiostro, sue le interminabili passeggiate per le colline ed il bosco circostanti. Io vivevo incatenato alla mia mestizia, logorandomi l’anima e la mente in una lugubre meditazione, lui percorreva la vita spensierato, senza curarsi delle ombre sul suo sentiero o del fugace trascorrere del tempo

Oh, Roxas! Oh, mio adorato, giovane cugino! Anche il solo ricordare il tuo nome per riportarlo in queste righe mi provoca dolore! E’ ora dinanzi a me la tua immagine, nei tempi della allegrezza e della vivacità, magnifica e dolce creatura! Eri luce, eri ossigeno per il mio buio e soffocato cuore, acqua per la mia coscienza assetata, cibo per la mia anima affamata!

Ma poi … poi tutto è mistero e terrore, ed una storia che non dovrebbe essere narrata.

Il corvo spiegò le grandi e fosche ali, facendo ombra sul suo dolce cammino e, dal nulla, un male sconosciuto quanto fatale si abbatté su di lui, alterandone non solo la salute, ma anche la sua mente, le sue abitudini. Il suo carattere, in modo infido e subdolo, venne mutato fino alle più recondite identità della sua persona. Da quell’infausto giorno Roxas iniziò a subire un lento degrado fisico e psichico, sfociante in tremendi attacchi di epilessia che si concludevano in una catalessi che somigliava moltissimo all’effettiva morte.
Ma non solo Roxas fu colpito da tale disgrazia; io con lui intrapresi il medesimo percorso di decadenza: le mie facoltà speculative si indebolirono, passavo ore ed ore ad osservare e collezionare oggetti insulsi e frivoli, dalla più svariata natura, perdendo prezioso, irrecuperabile tempo. Tempo che avrei potuto trascorrere con Roxas.

E poi, una notte, l’orrore si manifestò ai miei occhi.

Ero seduto in biblioteca, da dove avevo sentito poco prima il pendolo del corridoio battere distintamente i dodici rintocchi della mezzanotte; pur essendo fermamente convinto di essere solo nella stanza, alzai lo sguardo dal libro in cui ero immerso e vidi Roxas ritto di fronte a me.

Al principio attribuii tale visione alla mia precaria psiche o al riverbero del fuoco nel caminetto, che poteva creare incredibili giochi di luce nella penombra della stanza, dal momento che la figura di Roxas si presentava a me con vaghi ed indistinti contorni, tremolanti come il fumo di una candela. Egli non pronunciava alcuna parola né mi guardava, dal momento che i suoi occhi erano chiusi; ed allo stesso modo nessun suono uscì dalla mia bocca, mentre un brivido gelido risaliva le mie membra pervadendomi con un senso di angoscia. Tutto ciò che potevo fare, era osservare la sua persona con occhi curiosi ed al contempo impauriti.

La fronte era alta, pallidissima ma stranamente immota come l’espressione del volto; ed i capelli, una volta più luminosi dell’oro, avevano assunto il colore spento della stoppa, con vaghe sfumature di rossiccio. Gli occhi erano ancora celati dalle candide palpebre ma d’un tratto, quasi come un automa con nuova carica, decise di schiuderle. Avesse voluto il cielo che io non li avessi mai visti o che, avendoli veduti, io fossi morto all’istante!

Il chiudersi di una porta interruppe quel lugubre silenzio, e nell’esiguo lasso di tempo che impiegai per voltare il viso verso la fonte di quel rumore, notai che mio cugino non era più presente all’interno della stanza. Ma non era uscito dalla prigione del mio cervello, nemmeno se avessi voluto scacciarlo volontariamente, l’azzurro intenso, orrendo spettro dei suoi occhi. Non vi fu ombra sul loro colore, intaccatura nella loro forma, deturpazione nel loro fascino, che quel breve momento del suo sguardo non fosse bastato ad imprimerli nella mia memoria. Io li vedevo ora anche più chiaramente di quanti li avessi visti allora. Gli occhi! Gli occhi! Essi erano ovunque, prima qui e dopo là, perfettamente visibili e tangibili attorno a me. Grandi, luminosi, esageratamente azzurri con le languide ciglia a contornarli.

Bramavo quegli occhi. Li desideravo con tutto l’ardore possibile. Tra i molteplici oggetti che mi contornavano io non avevo altri pensieri se non per gli occhi, ed essi divennero la sola ed unica essenza della mia vita mentale.
Li bramavo follemente! Sapevo che soltanto il possederli avrebbe potuto ricondurmi alla ragione, facendomi riacquistare la lucidità che avevo perduto.

Dopo un arco di tempo che non riuscii a quantificare, mi addormentai cadendo in un sogno burrascoso, dove l’inquietante fantasma degli occhi aleggiava in ogni cosa; quasi al concludersi del mio sogno sentii un alto grido di orrore a cui seguirono passi affrettati e voci concitate, accompagnati da lamenti di disperazione. Di colpo mi svegliai, alzandomi di scatto dalla poltrona e, spalancando la porta, vidi nel corridoio una domestica sciolta in lacrime che mi diede l’orrenda notizia.

Roxas era morto. Il mio amato cugino non era più.

Era stato colto dall’epilessia nel primo mattino ed ora, a metà della notte, la catalessi che poi l’aveva colpito si era trasformata nel sonno eterno della morte, che l’aveva avvolto mentre riposava nella camera verde.

La tomba era già pronta per accoglierlo. I preparativi per la sepoltura erano completati.


*****************************************

Mi ritrovai seduto nella biblioteca, nuovamente solo; avevo l’impressione d’essermi svegliato da poco, emerso da un sogno confuso e singolare.
Ero consapevole che fosse mezzanotte, come lo ero del fatto che Roxas era stato sotterrato al tramonto… ma di quel frangente non  avevo che confuse, vaghe impressioni, unite ad un irrefrenabile istinto d’orrore ed al suono di un lacerante ed acuto urlo di ragazzo, ancora rimbombante nelle mie orecchie.

Cominciai a  camminare per la stanza, in cerca di trovare un nesso logico a tutto questo finché il mio sguardo cadde sull’unico tavolo della stanza, dove ardeva una lampada, con accanto una piccola scatola. Dapprima mi sembrava non possedere nulla di particolare ed avevo la certezza di averla già vista prima di quell’occasione, poiché apparteneva a Vexen, il medico di famiglia.

Ma allora perché era nella stanza dov’ero io? Cosa l’aveva condotta alla mia presenza? E soprattutto… perché provavo orrore nel guardarla?

Avvicinandomi cautamente, mi accorsi che vicino alla scatola vi era un foglio dove erano stati vergati i versi del poeta Ebn Zaiat: “Mi dicevano i compagni che se avessi visitato il sepolcro dell’amica, le mie pene sarebbero state alleviate.”
Perché mai, mentre i miei occhi scorrevano quelle parole, i capelli mi si rizzarono sulla nuca ed il sangue mi si gelò nelle vene?

Un sommesso colpo fu bussato alla porta della biblioteca, lasciando entrare un domestico, silenzioso e felpato come un gatto; il suo sguardo era colmo di folle terrore, la sua voce flebile e tremolante.

“Signor Axel…”

Che cosa mi disse?  Non riuscii a comprendere appieno ciò che mi disse, in un discorso smozzicato, fatto da frasi singhiozzate. Egli raccontò di un grido selvaggio, esploso nel cuore della notte, a cui i famigliari si erano raccolti, volendo trovare la fonte di quel suono. Raccontò poi, con voce simile ad un sussurro, di una tomba violata, di un corpo sfigurato avvolto nel sudario, ma ancora palpitante, ancora vivo!

Egli successivamente, fissò lo sguardo sui miei abiti; erano pieni di fango e macchiati di grumi di sangue. Io non osai proferire parola, ed egli mi prese delicatamente la mano, facendomi notare che era segnata dalla profonda impronta di unghie umane. Convogliò poi la mia attenzione verso un oggetto, poggiato contro il muro: un badile.

Con un grido ferino mi gettai sulla scatola, ma a causa del tremito violento che mi pervadeva le mani non riuscii ad aprirla; essa cadde sul pavimento, andando in mille pezzi.

E dal suo interno, con un demoniaco tintinnio, rotolarono fuori alcuni strumenti di chirurgia oculistica, tra i quali spiccarono due globi oculari perfettamente tondi che rotolarono fino i miei piedi.

Quando si arrestarono, due sfavillanti angoli di cielo si fissarono sul mio viso.


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* angolo dell’autrice *

Axel eternamente depresso. Roxas “mister felicità”. Roxas che si ammala. Roxas che muore. Axel che profana la tomba di Roxas. Roxas sepolto vivo nella bara. Axel che strappa gli occhi a Roxas ancora vivo nella bara.

Ooooooh beh! Che dire? O.o

Non so se sono da internare più io che l’ho scritta o i miei personaggi!

Comunque, il vero motivo di questa cosa è il seguente: ho appena concluso di leggere per la trecentomilionesima volta i racconti di Edgar Allan Poe ed ho pensato: “beh, qualche racconto si potrebbe adattare ai nostri cari amici Nobody dell’Organizzazione XIII!" E così è nata quest’idea che ha come sfondo l’omonimo racconto di Poe. Non saranno complete riedizioni dei racconti dello scrittore (esempio: nell’opera originale il protagonista strappava i denti di Berenice, Axel ha optato per gli occhi del povero Roxas! u.u ) ma verranno rimaneggiate, tagliate, arricchite a seconda dell’esigenza.

L’idea che ho è di fare una raccolta di tutte queste one shot, ispirate proprio ai racconti di uno tra i miei scrittori preferiti!

Una curiosità (che non frega a nessuno, piuttosto ridammi i miei occhi! N.d Roxas) : inizialmente al posto di Roxas avevo contemplato l’idea di mettere Naminè o Larxene… ma poi, alla fine, non ho saputo resistere all’invitantissima idea di un AkuRoku (un po’ perverso, ma pur sempre AkuRoku) !!!!


Detto questo, attendo di sapere che ne pensate!

Ah, Roxas! *Roxas si gira: EH?!* I tuoi occhi! Tieni! * lancia gli occhi di Roxas chissà dove e il ragazzo si fionda a cercare di recuperarli*

Un saluto ed un inchino

Dark Rag Dancer

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Capitolo 3
*** Il cuore rivelatore ***


Il cuore rivelatore


Io lo odiavo.

L’ho sempre odiato, sin dal primo momento che mi ha sorriso, con quei suoi occhioni da cucciolo sempre ingenui, sempre sognanti, persi chissà dove in un mondo onirico tutto loro e precluso ad ogni pragmatica creatura.

Odiavo il suo modo di parlare, di ridere, di muoversi e respirare. Detestavo come pronunciava il mio nome, dandogli quella sfumatura di gioia (onnipresente in ogni cosa lo riguardasse) che associata a me strideva in maniera quasi fastidiosa.

E se ancora non vi basta ciò che vi ho appena espletato come motivazioni, aggiungerò che lo odiavo perché possedeva qualcosa che a me mancava da molto, troppo tempo; qualcosa di latente ma vivo, nascosto ma perfettamente riconoscibile. Qualcosa a cui avevo rinunciato (seppur per “mia volontà”) tempo addietro e per cui avrei venduto l’anima anche all’essere più infimo dell’inferno, pur di riaverla.

Perché? Perché volete insistere sul fatto che io sia folle? Io non sono pazzo, ho soltanto sensi più acuti, non distrutti da una genetica sbagliata o dalla vecchiaia, non ottenebrati dall’idiozia o dall’ottusità. Più acuto di tutti, era il senso dell’udito. Udivo tutte le cose in cielo ed in terra. Udivo molte cose dell’inferno. E solo per questo osate dire che io sia pazzo? Ascoltate! E constatate con le vostre stesse orecchie con quanta calma, con quanta lucidità io possa narrarvi l’intera storia.

Mi è impossibile dire come l’idea si profilò per la prima volta nella mia mente, ma una volta radicatavi non mi diede più tregua né giorno né notte. In realtà all’inizio non vi era nessun odio nei suoi confronti. Potrei osare quasi dire che gli volevo bene. Non mi aveva mai ingiuriato. Mai una parola sgarbata od un’offesa mi era stata rivolta da lui.

Penso che fosse per “quello”. Si! Avevamo appena concluso l’ennesima corsa sulla spiaggia e l’avevo sconfitto, per l’ennesima volta; si avvicinò  a me ansante, tenendosi la milza con la mano e leggermente ricurvo in avanti, come se il braccio piegato gli servisse da puntello.

Fu un lampo, una percezione infinitesimale.

Cominciai a sentirlo. Rimbombava come un tamburo da grancassa, riecheggiava nella mia mente, indolenzendo le mie tempie, sfiancando i miei circuiti cerebrali. Sapevo che un chiunque non l’avrebbe percepito o, al massimo, avrebbe inteso solo una minima alterazione del suono circostante, come un’impercettibile variazione del marcatempo.

Si. Fu allora che cominciai ad odiarlo.

Principiai a detestarlo in un climax ascendente d’ira e di insofferenza, che mi portò al punto di non tollerare nemmeno che il suo sguardo si posasse su di me. Ogni volta che i suoi grandi occhi zaffiro osservavano la mia figura, faceva salire in me la voglia di percuoterlo a sangue. In più, quel suono non aveva ancora abbandonato la mia testa: e così, per gradi, molto lentamente, mi misi in testa di ucciderlo per potermi sbarazzare, finalmente, di quel terribile tormento.

E così, per l’intera settimana che precedette la sua uccisione, ogni notte al dodicesimo rintocco dell’orologio, io giravo dolcemente la serratura della sua porta e l’aprivo, introducendo poi la testa. Oh, avreste dovuto vedere con quanta delicatezza e con quanta astuzia mi muovevo! Ero parte integrante dell’oscurità che permeava nella stanza!

Mi muovevo lentamente, per non turbare il suo sonno e mi occorreva poco meno di un’ora per poter insinuare tutto il mio corpo nella stanza e potermi avvicinare al letto, in modo da riuscire a vedere la sua intera, mingherlina figura coricata. Ero vicino a lui, la distanza era talmente risiva che potevo essere riscaldato dal suo fiato tranquillo e rilassato dal sonno; ormai la mia mano era quasi completamente calata sul suo collo, avvertivo il tepore della sua pelle ed il pulsare delle vene sotto le dita, tese come gli artigli di un rapace….
Poco… mancava pochissimo al compimento della mia missione, se non l’avessi visto muoversi convulsamente per poi balzare a sedere sul letto gridando:

“Chi è?! Chi è là?!”

Restai assolutamente immobile, appiattendomi contro la parete, trattenendo addirittura il respiro per fare il meno rumore possibile. Per un’ora intera non mossi un solo muscolo, ed in quei momenti non l’udii mettersi giù; era sempre seduto sul letto, in ascolto come avevo fatto io, una notte dopo l’altra, ascoltando attorno a me il ticchettio degli orologi della morte.
Poco dopo udii un lieve gemito, che compresi essere di mortale terrore; non era un gemito di pena o di dolore, ma il suono sommesso e soffocato che emerge dall’angolo più recondito di un’anima oppressa dalla paura.
Poi, per mia fortuna, si coricò nuovamente consentendomi di uscire dalla stanza.

L’ottava notte ebbi il coronamento dei miei sforzi. La sua ora era giunta! Non avevo più intenzione di aspettare, più voglia di indugiare! Con un urlo altissimo, simile a quello di una bestia, balzai all’interno della sua stanza, gettandomi come una furia sul suo collo, che cominciai a stringere convulsamente con entrambe le mani.

Egli, preso alla sprovvista, poté solo spalancare i grandi occhi cobalto dalla sorpresa terrorizzata, per poi artigliare le mie mani con le sue, graffiandomi e scorticandomi nel tentativo inutile di liberarsi.

“Ri… Riku… che stai… facen… nggh…”

Quale sinfonia di angeli era la sua voce strozzata, per me! Le sue gambe si dimenavano nel ritmo di una danza di morte, la più bella che avessi mai visto! Musica celestiale era quella, per me!

E rimasi lì finché non giunse a conclusione, finché le mani smisero di muoversi spasmodiche e le gambe di contorcersi violentemente, ricadendo molli ed inerti sul materasso. Mi staccai da lui, arretrando qualche passo per osservarlo.

Immobile. Posai la mano sul suo petto e ve la tenni per alcuni minuti. Nessuna pulsazione. Privo di vita.

Era morto.

Se ancora non mi giudicate pazzo, lasciate che vi descriva le precauzioni che presi per l’occultamento del corpo.

Prima di tutto smembrai il cadavere: staccai il capo, le braccia e le gambe; dopodichè divelsi tre tavole del pavimento e posai ogni moncherino nelle intercapedini, per poi ricollocare le assi con abilità tale che nessun occhio, per quanto attento ed acuto osservatore potesse essere, avrebbe potuto scorgervi qualcosa di sospetto.  

Nessuna traccia. Nessuna macchia di sangue. Ero stato attento perfino al più piccolo schizzo di sangue o alla più infinitesimale goccia vermiglia, un capiente secchio aveva raccolto ogni umore.

Il raccapricciante suono nella mia testa, finalmente, si era chetato.

Quando finii l’opera erano le quattro del mattino, come intesi dal rintocco delle campane e dalla flebile, tenue luce che l’albeggiare portava con sé; intesi all’improvviso bussare alla porta di strada, ed una volta aperto mi ritrovai davanti tre figure incappucciate, ammantate in cappotti corvini.

Sapevo perfettamente chi fossero, anche prima che mi mostrassero i loro volti; da un po’ di tempo a quella parte, l’Organizzazione XIII aveva assunto il ruolo di “supervisore della legge”… e per le faccende più serie, inviava sempre Saix, Axel e Marluxia, come potei confermare una volta che i loro visi furono rischiarati dalla tenue luce del giorno nascente.

Fu Axel il primo a parlare, scuotendo lievemente i capelli rosso sangue e fissando gli occhi felini nei miei.
“Riku, un urlo è stato sentito da un tuo vicino, intorno a mezzanotte … è successo qualcosa?”

Risposi con un sorriso rassicurante e la voce salda. Del resto, cosa avevo da temere?

“State tranquilli, non è successo nulla. L’urlo l’ho lanciato io risvegliandomi da un orribile incubo.”

“Dov’è Sora?” si intromise Saix, scrutandomi con occhi attenti ed espressione seria.

“Sora? Oh, è assente, si è recato a Radiant Garden per andare a far visita a Yuffie, Leon ed Aerith!”

Per aggiungere credibilità alla mia versione, li feci entrare per esaminare la casa, controllare che nulla fosse sospetto. Ero tranquillo. A mio agio, sereno. Sapevo che non avrebbero mai potuto scoprire nulla di compromettente.

Quando arrivammo alla sua stanza, lasciai che ispezionassero ogni cosa, ogni ninnolo sulla mobilia, ogni documento mentre io, nella folle audacia del mio delitto perfetto, mi collocai sul punto esatto dove avevo nascosto il cadavere di Sora.

I funzionari erano soddisfatti, i miei modi li avevano convinti. D’un tratto però, mi sentii impallidire e desiderai che se ne andassero: la testa mi doleva terribilmente e nelle orecchie ricominciò a riecheggiare quel suono. Cominciai a parlare con maggior enfasi, alzando leggermente il tono della voce per cercare di coprire quel suono… finché non mi accorsi che non era solo nella mia mente.

Risuonava in ogni parete, serpeggiava attorno a noi ed aumentava gradualmente di intensità, finché divenne impossibile non sentirlo.

Feci di tutto per occultarlo: arrivai quasi a gridare nel mio parlare, spostai le sedie strusciandole sul pavimento, aprii le imposte dai cardini cigolanti, ma il suono era ancora orribilmente presente.

Oh Dio! Che potevo fare? Schiumavo, deliravo, imprecavo! Misuravo il pavimento a grandi passi, mentre i tre uomini continuavo a discorrere tranquillamente. Era mai possibile che non lo udissero? No! Essi udivano! Essi sospettavano! Essi sapevano! Si prendevano gioco del mio orrore!

Questo pensavo e, tuttora, ne sono convinto. Ma qualunque cosa era più tollerabile che quella derisione! Non potevo più sopportare la loro tranquilla ipocrisia! Sentivo che dovevo urlare o morire!

Ed ora ascoltate! Di nuovo! Più forte! Più forte! Più forte!

“SCELLERATI!” gridai “CESSATE DI SIMULARE! CONFESSO DI AVERLO FATTO! STRAPPATE QUESTE TAVOLE! QUI, QUI! QUI E’ IL BATTITO DEL SUO CUORE ORRENDO!”


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* angolino dell’autrice *


Sfornato il terzo racconto! Beh, si, forse sono caduta un po’ nel banale nella scelta dei personaggi, ma secondo me in una storia intitolata “Il cuore rivelatore” nessuno poteva essere più adatto di Sora e Riku!

E poi… lo ammetto… non vedevo l’ora di scrivere qualcosa in cui Sora viene fatto a fettine come un prosciutto San Daniele! Non me ne vogliano le sue fan, ma io quel bimbetto dallo spessore di un broccolo proprio non lo reggo. Niente da fa’, mi sta qua e non va né su né giù. Ho provato a farmelo stare simpatico, ma più tentavo più lo trovavo irritante.

Intenti omicidi a parte, spero che la storia vi piaccia come a me è piaciuto scriverla.

Prima di abbandonare la tastiera, vorrei ringraziare Kalea95, Sick e Reno_From_Turks per le splendide recensioni che hanno regalato a questa storia (oltre che ad averla messa la seconda nelle seguite e la terza nelle ricordate) e Serena016 per averla messa nelle preferite!
Grazie di cuore :D


A rivederci quindi con il quarto racconto!


Un saluto ed un inchino

Dark Rag Dancer 

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