Ancora di salvezza

di Scaramouch_e
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capito IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Ancora di Salvezza; Prologo
Disclaimer: io non scrivo a scopo di lucro. Tutti i personaggi sono rispettivamente della BBC.
Ringraziamenti: ringrazio, la mia beta Charme per i preziosi consigli riguardante questo capitolo!
Buona lettura ;)!


Ancora di salvezza



“Allora John. Come si sente oggi?”

La voce proveniva da una signora vestita in modo piuttosto consono alla sua professione: era una psichiatra. Aveva in mano un taccuino e nell’altra una penna. Fissava il suo paziente con occhi neri e profondi.
John Watson era steso sul lettino, indossava abiti comodi e fissava la parete di fronte come se fosse interessantissima.
“Come vuole che mi senta?” domandò ironicamente, “Ah, lasci perdere. Mi sento… ecco... vuoto: insomma, sono un uomo di quasi quarant’anni, senza una posizione, con un passato da buttar via… mi dica lei.”
La donna sorrise accondiscendente, rispondendo:  “Però deve fare un sacco di cose questa settimana, signor Watson: ha trovato un lavoro, è riuscito a trovare una casa e un coinquilino.”
“È questo quello che mi spaventa,  miss Smith.  Il coinquilino. So che è un tipo giovane, ma se mi trovo con un ventenne in piena crisi ormonale? E poi il lavoro. Insomma, anche quello non mi entusiasma. Insegnare. È vero, non sono stato mai un tipo di troppe pretese, però proprio l’insegnamento… No, non ci voglio pensare. Io non voglio insegnare a un branco di stupidi ventenni che non mi staranno mai ad ascoltare.” sbottò l’uomo, fissando la Smith, che sospirò.
“Signor Watson, so che ha perso la famiglia, però non si lasci scoraggiare.”
“Non faccia psicologia da quattro soldi, signorina Smith, e mi dia quelle pillole per favore.”
La donna lo guardò con dolore. “Si sta consumando Mr.Watson, voglio che lo sappia.” scrisse il nome dei farmaci sul taccuino, e strappò la pagina consegnandola a John Watson che la prese e sorrise, finalmente contento.
“Grazie miss Smith, lei è la mia ancora di salvezza.” mormorò l’uomo.

Quando John Watson entrò nella sua aula all’università di criminologia capì di essere all’inferno.
Capì che nessuno l’avrebbe ascoltato.
Capì che tutti stavano lì solo per far trascorrere il tempo in un giorno di pioggia con i propri coetanei.
Questo gettò John Watson ancor di più in depressione.
Il nuovo professore sospirò, raggiungendo la cattedra e salì sulla sedia.
Alzò gli occhi e di nuovo furono investiti dallo ciarpame post-adolescenziale.
C’era chi si era svegliato con un sbronza e quindi dormiva, chi stava chiacchierando animatamente con le compagne, chi si truccava, chi giocava con il cellulare.
Solo un ragazzo, registrò la mente di Watson, non faceva niente di tutto quello, ma nel banco davanti a sé tutto era in perfetto ordine: il libro, l’astuccio, e il cellulare posti davanti a sé in modo ordinato quasi maniacale.
Il ragazzo aveva folti capelli neri, pelle pallidissima e sedeva al primo banco. Ecco perché non fu difficile per Watson notarlo.
Aveva però gli occhi chiusi e questo mise John a perfetto disagio, forse molto più dei ragazzi che dormivano sui banchi.
Si schiarì la gola, osservando ancora i ragazzi, doveva agire, fare qualcosa.
“Solo una cosa potrà salvarla, professore Watson.” a parlare era stato il ragazzo con gli occhi chiusi, che adesso però aveva aperto e che risplendevano. Erano verdi, ma di un verde strano. Sembravano dei pozzi d’acqua gelida.
“Cosa… Come?” domandò il professore, non riuscendo a capire come l’altro potesse aver compreso quello che pensava e soprattutto come conoscesse il suo nome.
“Come ho capito quello che pensava? Semplice, si guardava intorno con aria da cucciolo smarrito, anche il più stupido avrebbe compreso che cercava un modo per essere salvato. Come ho fatto a sapere il suo nome? Anche questo è stato semplicissimo. Mi è basto vedere all’interno del suo taschino, e ho visto che aveva impresso il suo cognome. E visto che è seduto alla cattedra ho fatto due più due e ho subito compreso che lei era il nuovo professore di medicina legale. Semplice, no?” il ragazzo non aveva emesso una pausa da quando aveva iniziato a parlare e il nuovo, recalcitrante professore per poco non si era perso.
“Capisco.”
“Sono contento di incontrarla, sa professore? Potrei benissimo essere quella ancora di salvezza che cercava. Anche perché li ho fatti smettere.” disse.
E il professore, dopo un attimo di paura per come il suo alunno sapesse le parole che aveva pronunciato solo alla dottoressa Smith, si guardò intorno, e notò che effettivamente il ragazzo aveva ragione.
Evidentemente doveva avere grande peso nella società studentesca. Perché chi stava dormendo aveva smesso e i propri occhi si erano fatti attenti, chi cinguettava aveva interrotto e stava guardando l’alunno, chi si stava truccando aveva concluso, e persino chi stava giocando con il cellulare l’aveva deposto e stavano tutti guardando l’alunno seduto al primo banco.
“La ringrazio., signor…” il professor Watson parlò con cortesia, anche se avrebbe voluto essere stato lui a farli smettere.
“Holmes. Mi chiamo Sherlock.” si presentò il ragazzo.

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Come avevo detto nella precendente shot, non avrei abbandonato tanto facilmente i nostri due uomini. E così eccomi qua, spero di aver fatto incuriosire almeno qualcuno. ah la mia paura è quello di aver fatto risultare John e Sherlock un pò OOC. Mi raccomando di avvertirmi se questo dovesse mai accadere.
Un bacio, al prossimo capitolo.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


cap I
Disclaimer: io non scrivo a scopo di lucro. Tutti i personaggi sono rispettivamente della BBC.
Ringraziamenti: ringrazio, la mia beta Charme per i preziosi consigli!
Buona lettura ;)!



A Baker Street l’aria era calma. Era una tipica domenica di fine autunno in cui Londra era coperta da un cielo grigio e fumoso.

Le persone, quindi, preferivano stare a casa davanti al caminetto o a mangiare o a dormire.
Non c’era quasi nessuno in mezzo alla strada, a parte un signore.
Il signore in questione si chiamava John Watson e camminava normalmente in mezzo alle poche macchine per dirigersi al 221b, la sua nuova casa, e conoscere così il suo nuovo coinquilino.
Dopo il primo giorno di lavoro aveva ricevuto un messaggio  che recitava:
-signor Watson, mi dispiace, ma ho un impegno. Possiamo rimandare la nostra conoscenza a domenica a pranzo?
S.H.-
Eh sì, perché John Watson non conosceva ancora il nuovo coinquilino, eppure si fidava ciecamente di chi l’aveva proposto, quindi quella domenica era andato tranquillamente a presentarsi al suo nuovo coinquilino.
Arrivò, dopo aver fatto pochi passi dalla metropolitana, davanti al cancello del 221b.
Bussò. Nessuno rispose. Controllò l’ora, ma notò che era in perfetto orario. Ribussò e, finalmente, in quel momento qualcuno aprì la porta di casa.
Watson si trovò davanti il volto di una vecchia signora, truccata e un po’ affannata.
“Oh, eccola qua. Lei deve essere il nuovo coinquilino. Sherlock mi ha parlato di lei. Entri prego.”  
Ma John Watson era rimasto sulla soglia, gli occhi castani spalancati e il volto aperto in un’espressione di pura sorpresa.
Sherlock.
Aveva già sentito quel nome.
Ma, non poteva essere lo stesso ragazzo che si era trovato davanti a lezione. Eppure quanti ragazzi si chiamavano Sherlock?
In quel momento al piano di sopra si udì un colpo di pistola.
John raggelò lì sul posto, e gli sembrò di tornare al servizio militare, quando, di colpi di pistola, ne aveva sentiti abbastanza.
L’attimo di terrore passò; consegnò alla vecchina, giustamente stupita, i dolciumi che aveva portato in dono e corse di sopra.
I colpi continuarono assordanti, erano proprio spari di pistola. L’uomo aprì la porta di una stanza a caso e fortunatamente era la camera giusta.
Dentro, voltato di spalle rispetto alla porta c’era il giovane cecchino: Watson notò un completo piuttosto formale, i capelli ordinati e in mano una pistola vecchio calibro… eppure notò che non c’era nessun corpo ai piedi dell’uomo, e che quest’ultimo sparava contro un muro.

“Oh no!, Mr.Holmes, l’ha fatto di nuovo?”
John Watson si voltò verso la signora che gli aveva aperto la porta, che corse dentro la stanza e afferrò a volo la pistola posando il dolciumi sul piccolo tavolino basso.
“Mi annoiavo.” fu la semplice risposta del uomo, che ancora dava le spalle a John.
“Mi scusi… lei deve essere il proprietario… io sono…” balbettò John.
“John Watson. So chi è lei.” disse l’uomo, in tono perfettamente calmo, voltandosi verso il professore, che finalmente lo vide in faccia.
Era proprio il suo alunno; quello che aveva tenuto ferma la classe quando lui voleva scappare, e quello che non gli aveva tolto gli occhi di dosso per tutta la lezione.
“È un vero piacere rivederla qui, professore.” parlò Holmes, gli occhi verdi, di quel verde particolare, che sembravano un lago ghiacciato nel quale annegarci dentro, di nuovo su di lui.
Il professore deglutì, cercando di reggere lo sguardo del suo alunno.
“È con lei che dovrò condividere l’appartamento.” disse guardandosi intorno.
In quella stanza regnava un caos non comune, e in più i fori di proiettile che erano impressi sui muri facevano venire i brividi al professore. Non sapeva se ci sarebbe riuscito o meno a condividere una casa con un tipo simile.
“Esattamente, signor Watson. fu la risposta del ragazzo che lo stava ancora guardando.
 “E ora, se non le dispiace, preferirei che io e lei ci dessimo del tu, o questo ti dà imbarazzo?” domandò Sherlock Holmes, con un sorriso felino sul volto.
John Watson ci pensò su. No, non gli dava fastidio che lui e l’altro ragazzo si dessero del ‘tu’, gli dava fastidio che lui fosse un suo studente, che lo analizzasse così bene, e che fosse una persona un tantino… psicolabile. E soprattutto gli davano fastidio i fori delle pallottole alle pareti, ma che si dessero del ‘tu’, era l‘ultimo dei suoi problemi.
“Non mi dà fastidio.” dovette ammettere alla fine.

“Signora Hudson, allora, che ne dice di preparare un buon pranzetto a me e al signor Watson?” chiese alla fine Sherlock, fissando la signora e non più il suo professore.

“Non.Sono.La.Sua.Governante, Sherlock” sibilò la signora, puntandogli il dito contro.
“Sì, ma sa cucinare talmente bene… che dovrebbe diventare uno chef.”
La signora Hundson arrossì al complimento del ragazzo, e balbettò: “Oh… beh… non so che dire.”
“Non dica niente, signora. E, per favore, vada a preparare i suoi manicaretti a noi, poveri scapoli.”
La donna borbottò qualcosa ma poi si eclissò lasciando soli i due uomini.
“Perché ha detto che sono uno scapolo?” domandò John.
Sherlock fissò, di nuovo, i suoi strani occhi sul uomo e sorrise.
“È quello che è. Dopotutto nessuno andrebbe a vivere a quarant’anni con un ventenne in piena crisi ormonale o peggio: a casa di ventenne con disturbi comportamentali. È questo quello che pensavi. Non negarlo, John: ti leggo negli occhi.” disse Sherlock, visto che John aveva aperto la bocca per ribattere. La richiuse a quella costatazione. Sherlock aveva dannatamente ragione, ma non l’avrebbe mai detto.
Il suo studente si limitò a fargli un sorrisino, prima che una voce allegra venisse loro incontro: “Signori, il piatto è in tavola.”


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Eccomi tornata con il primo, vero capitolo della mia fanfic.
Si entra subito nel vivo, come vedete.
Spero vi piaccia.
Ringrazio le 3 persone che hanno commentato, le 10 che l'hanno messa nelle segiute e le 2 che l'hanno già messa nei preferiti. Mi commuovete così.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


cap II
Disclaimer: io non scrivo a scopo di lucro. Tutti i personaggi sono rispettivamente della BBC.
Ringraziamenti: ringrazio, la mia beta Charme per i preziosi consigli riguardante questo capitolo!
Buona lettura ;)!


Ancora di salvezza


Era passato un mese, e John Watson si era quasi abituato alla stravaganza del coinquilino: aveva capito che Sherlock Holmes era un essere irritante, insopportabile e odioso; ma anche leale, onesto e un fedele amico.

Sherlock Holmes aveva una mente ingegnosa e deduttiva, ma inapplicabile a quello che ordinava l’università: Sherlock, infatti, aveva conoscenze sconfinate in alcuni campi assurdi, ma ignorava alcune delle concezioni più elementari -del tipo non sapeva che la terra girasse attorno al sole!-, eppure era brillante e le sue deduzioni aiutavano la polizia.
Sherlock Holmes, infatti, nonostante andasse ancora all’università, veniva spesso chiamato a seguire dei casi in cui poliziotti non riuscivano a vedere oltre il proprio naso. Sherlock sguazzava letteralmente in questi casi.

Watson aveva sperimentato Sherlock Holmes per un mese, eppure aveva resistito stoicamente a tutte le avventure che il suo amico continuava a propinargli: sì, perché il caro Holmes si portava dietro anche John, volente o meno che fosse.
Quella particolare mattinata di inizio aprile incominciò come di consueto al numero 221b di Baker Street.
John si svegliò nel suo letto, si fece una doccia gelida e scese giù per fare colazione,  trovando il proprio coinquilino immerso nella lettura del giornale mattutino.
“Buongiorno Sherlock. Novità importanti?” domandò John H. Watson sedendosi al tavolo dove Mrs. Hudson aveva preparato una colazione da re.

Sherlock abbassò il giornale e rispose in modo monocorde: “No, niente di che, mio caro John: le solite cose… l’economia estera è in calo e la nostra è in rialzo. Casi irrisolti, omicidi… oh, e domani non dovrebbe piovere, bensì ci sarà uno splendido sole”.
John l’aveva guardato come si guarda un cane idrofobo, aveva scosso la testa e si era appropriato della marmellata di mele.
“Aah! Ecco qui l’efferato crimine!” disse Sherlock, facendo sussultare John. “Una coppia di giovani amanti è stata uccisa nel suo appartamento, sgozzata. Sono stati ritrovati tutte e due nudi. Era la prima volta che si vedevano.” Sherlock posò il giornale e negli occhi azzuroverdi John lesse un po’ di sana follia.
“Tu, invece, quando vuoi incominciare a vedere qualcuno, John? Sono almeno due anni, da quando tua moglie è morta, che non esci più con nessuna.” John per poco non si strozzò, non chiese come faceva a sapere che sua moglie era morta da due anni, ma sospirò.
“Non sono domande da fare a quest’ora del mattino, Sherlock. Comunque non è vero che non esco con nessuno… proprio cinque giorni fa… ho… ecco conosciuto una ragazza… grazie a te, se devo essere sincero.”
Gli occhi di Sherlock si fecero piccoli, e John capì che il suo amico stava riflettendo.
“Ah, sì! Come no! Molly Hooper. Una brava ragazza, John… Peccato che mi abbia detto di essere innamorata del sottoscritto” John si strozzò, questa volta per davvero, con una briciola di torta, quindi fissò storto il suo coinquilino. No, Sherlock Holmes non aveva tatto. Per niente.
“Ah. A me non aveva dato quest’impressione. E comunque non ho detto che siamo  fidanzati, ho solo detto che usciamo. Punto. Comunque, che discorsi che sto facendo?… Ah, mi hai fatto passare anche la fame, Sherlock.” disse John, che aveva ricominciato a mangiare, ma si era fermato guardando in modo ostile il proprio studente; si pulì la bocca e si alzò dalla tavola, ma venne fermato dalla voce di Sherlock: “Perché te la prendi tanto, se è solo un’amica? Potreste parlare di me a tavola, se mancano argomenti.”
Gli occhi di John ruotarono a quell’ennesima provocazione: si impose di calmarsi, non voleva dare un pugno a Sherlock, anche se la tentazione era tanta, ma Sherlock quella mattina aveva lezione con lui e poi non voleva rovinare il viso del suo alunno.
John si voltò verso Sherlock, per dirgli di andare a quel paese, ma lo trovò che già si era alzato, e già stava con il violino dal quale emersero note tristi.
“Non osare conquistarmi così, Sherlock. Tu ti stai solo annoiando! Per questo te la prendi con me.” sibilò frustato l’uomo, facendo immediatamente smettere la musica. 
“Se è questo che vuoi, John, la smetto.” si era arreso troppo facilmente, e John si ritrovò a fissare l’alunno con il battito cardiaco a mille, non capendo cosa avesse in mente.
“Bene. Molto bene. Ti ringrazio, Sherlock… io vado veramente. Cerca di venire puntale almeno oggi.”
Sherlock annuì e salutò con la mano John, ma quando questi uscì ricominciò a suonare.

John Watson sbatté la porta, arrabbiato e confuso, con Sherlock ma anche e soprattutto con se stesso per essere così dannatamente umano e per aver deciso di condividere l’appartamento con un pazzo furioso.
Non era la prima volta che Sherlock Holmes lo faceva arrabbiare così, ma era la prima volta che lo faceva arrabbiare su un fatto personale.
Forse era superficiale, ma Sherlock aveva troppa faccia da schiaffi per essere perdonato, anche quando in realtà non insultava nessuno. Anzi, soprattutto in quei casi.
John aprì la porta del taxi che si era fermato davanti casa e gli diede l’indirizzo.
Voleva andare direttamente all’università, dimenticarsi di Sherlock Holmes per un momento e pensare solo a seguire le lezioni, a chiacchierare con i colleghi a condurre una vita… normale.
Ma John sapeva pure che non era possibile, che Sherlock sarebbe stato con lui ogni momento della vita; ormai era così, non c’era niente da fare, anche quando sarebbe uscito con Molly, l’altro sarebbe stato fra di loro, gli avrebbe mandato sms odiosi, gli avrebbe fatto rimpiangere la sua precedente solitudine. Era così che succedeva, non c’era niente da fare.
Spense il cellulare, almeno così non avrebbe ricevuto sms da Sherlock, e arrivò finalmente all’università.
Salutò i diversi colleghi e salì direttamente nel suo officio, dove aprì la cartella con tutte le cose dentro e buttò il computer sul tavolo, ancora arrabbiato.
S’impose di calmarsi e ci riuscì poco prima che qualcuno bussasse alla sua porta.
“Avanti.” mormorò John con voce rauca, e per un attimo ebbe lo strano pensiero che magari fosse Sherlock che si voleva scusare con lui, invece dietro la porta c’era James Moriarty, suo collega che insegnava psicologia criminale e che conosceva piuttosto bene Sherlock. A quel pensiero, John sentì di nuovo l’irritazione montare dentro di lui. Possibile che ogni discorso gli facesse tornare in mente Sherlock? Era troppo, chiedere che uscisse per un attimo dalla sua mente?

“Ciao Johnny-Boy.” lo salutava sempre così James, una cosa che John non riusciva a sopportare.
“Che ci fai qui, James?”
Il sorriso sul volto del suo collega si spense, e John si trovò ad rabbrividire e pensò che il posto per quello strano individuo doveva essere un altro, non doveva certo insegnare ai ragazzi.
“Ma come, Johnny-Boy, ti sto per invitare a pranzo con me e tu mi tratti così?”
John sospirò. Secondo lui James ci provava con lui, ma lui non era omosessuale, anche se molti dei conoscenti di Sherlock pensavano il contrario e che lui stesse con Sherlock; era molto fastidioso, anche perché non gli lasciavano vivere la vita sentimentale.
“Non è giornata, James. Oggi proprio non è giornata.” rispose il professore.
James, dopo un’occhiata profonda a John, fece un altro, inquietante sorriso enorme.
 “D’accordooo. –disse con quella specie di cantilena, che fece irritare ulteriormente John.-
“Sarà per un’altra volta? D’accordo,  Johnny-Boy.” e James Moriarty scomparve così come era venuto.


Il resto della giornata passò velocemente, fra lezioni  e chiacchierate, per John fu quasi come dimenticarsi di James, Sherlock e di ricominciare a vivere appunto una vita normale concentrata solo sul suo lavoro.

La giornata finì, e John, per mettersi in contatto con Molly, con la quale aveva un appuntamento, dovette chiedere in prestito il cellulare con la scusa che se l’era dimenticato, perché appunto quella giornata doveva essere la sua giornata, e non la giornata sua e di Sherlock. Si scambiarono diversi messaggi lui e Molly prima di venire alla conclusione che si sarebbero visti quella sera in ristorante italiano, da ‘Angelo’.

***

La giornata si concluse molto bene per John, con lui e Molly che se andarono ognuno a casa propria dopo essersi scambiati un bacio romantico davanti alla casa della ragazza. John era al settimo cielo: Molly era una ragazza normale, a parte per il fatto che conosceva Sherlock Holmes, e quella serata era stata abbastanza carina, oltre che molto simpatica.
John sorrise, ricordandosi finalmente di accendere il cellulare. Immediatamente trenta sms furono sotto i suoi occhi; tutti da parte di quello sociopatico del suo coinquilino che non lesse e che cestinò.
Tranne uno.
Proveniva da un numero sconosciuto. John l’aprì e lesse:
-Il tuo migliore amico è stato rapito. Se lo ri-vuoi fatti vivo a questo numero.-

Il cuore di John si bloccò e gli sembrò che la terra avesse smesso di girare, che tutto si fosse fermato, che niente fosse più al suo posto. John corse verso il numero 221b di Baker Street e impiegò meno di un minuto a salire le scale.
Quello che trovò dentro casa fu disordine addirittura peggio del solito, proprio come fosse avvenuta una rapina, e la signora Hudson svenuta.
Il cuore di John rimase bloccato e il corpo immobile mentre ammetteva che l’ultima cosa che aveva pensato di Sherlock Holmes era che aveva una faccia da schiaffi.

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Allora, in questo capitolo non c'è molto da dire.
Apparte una cosa: il rapimento.
Nelle intenzioni originali, ma sapete come va quando uno scrive...
Spero comunque che il capitolo vi sia piaciuto e di ricevere i commenti... Ovviamente se ci dovrebbe essere qualcosa che non va con i caratteri di John e Sherlock, ditemelo.
Ringrazio: chi ha commentato, ma anche chi ha solo letto, e i nuovi lettori che hanno messo, questa cosa, nelle seguite. A voi dico: se potete, commentate, sarei contenta di un vostro parere.




 

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Capitolo 4
*** Capito IV ***


cap IV

Disclaimer: io non scrivo a scopo di lucro. Tutti i personaggi sono rispettivamente della BBC.
Ringraziamenti: ringrazio, la mia beta Charme per i preziosi consigli riguardante questo capitolo!
Buona lettura ;)!


Ancora di salvezza

John Watson, dopo il primo shock iniziale, aveva per prima cosa rianimato velocemente la signora Hudson, la quale, secondo la sua opinione di medico, era stata drogata. Poi era andato a cercare in giro per casa indizi che Sherlock fosse stato rapito, ma –niente!- non aveva trovato nulla da parte del suo coinquilino, anche se forse l‘avevano rapito troppo in fretta perché Sherlock avesse potuto lasciare delle tracce. Solo allora aveva chiamato la polizia, che era venuta quasi subito.
Nel salotto del 221b di Baker Street la situazione era dunque la seguente: John sedeva sulla sua poltrona preferita; la signora Hudson sedeva su una poltroncina vicino al tavolo, la testa fra le mani e una tazza di thè fumante davanti; e infine c’erano Lestrade, Donovan e Anderson e il resto dei poliziotti che giravano per il salotto pensosi.
“Secondo me è stato il dottore.” Anderson aprì la bocca fissando negli occhi John dopo il racconto che quest‘ultimo aveva fatto nei minimi particolari. “Possibile che non ci arriviate? Hanno litigato, Watson ha fatto finta di andare a lavoro, in realtà è ritornato indietro e ha rapito il suo migliore amico. Poi chissà per quale perversione ha chiamato noi.”
Lestrade, si prese la testa fra le mani e squadrò il collega come se volesse ucciderlo. “Anderson, possibile che Sherlock Holmes abbia ragione e tu sia un completo idiota?” sibilò.
Sally Donovan intervenne anche lei in difesa di John e di Holmes: “Anderson, il geniaccio non si fida di nessuno se non di se stesso, quindi deve aver indagato su John Watson prima di sceglierlo come coinquilino. Il dottore è pulito.”
“Vi sbagliate.” intervenne John con un sorrisino triste sul volto. “Non ho rapito Sherlock Holmes, era mio amico, nonostante tutto. E non ha indagato su di me. Lui sa, ma sa per istinto, per deduzione.”
Lestrade annuì e poi con decisione guardò i suoi uomini. “Molto bene. Anderson, controlla il numero di cellulare da cui John ha ricevuto il messaggio; io e Sally interrogheremo chi è stato vicino a Sherlock Holmes, e voi altri prendete le impronte. Fate in fretta!” ordinò ai suoi uomini.
Poi si avvicinò di più a John e lo guardò. Nonostante Sherlock Holmes l’avesse classificato spesso come cretino, idiota e altri epiteti poco gentili, lui era un bravo poliziotto e un ottimo osservatore: capiva che John e la signora Hudson erano molto più turbati di quanto non dessero a vedere.
“Allora, parliamoci chiaro: John, signora Hudson, Sherlock Holmes aveva altri nemici rispetto a quelli che noi conosciamo?”
John alzò le spalle e fissò l’ispettore negli occhi.
“Non saprei che dirvi, ispettore. Io conosco solo gli ultimi casi; può essere che chi ha rapito Sherlock avesse a che fare con casi precedenti alla mia ‘entrata’. comunque no, a parte quelli che sa anche lei, non so nulla di più di lui. Certo non era molto popolare all’università, ma da qui a rapirlo…  No, sono sicuro che non troverete nessuno in quell’ambiente che possa avercela tanto con lui.” disse John Watson, palesemente agitato per la sorte del coinquilino.
Lestrade annuì convinto dalle parole del dottore, poi il suo sguardo si posò sulla signora Hudson, la quale sospirò, dopodiché parlò: “Io so meno di niente, ispettore. Non ho riconosciuto nessuno, non ho avuto il tempo di vedere… certo so che c’era più di una persona.” la signora Hudson tremò impercettibilmente e John le fu subito vicino. “Ma a parte questo… nulla più. E poi io ero solo la governante.” si mordicchiò le labbra e abbassò gli occhi a terra.
Lestrade sospirò: era evidente che né John né la povera vecchia c’entrassero qualcosa con il rapimento.
“Bene… allora, John, se mi può dire dove Sherlock teneva i suoi appunti, numeri o altro…”
“Sherlock Holmes non prendeva appunti, teneva tutto nella testa. E voi lo dovreste sapere bene, ispettore.” fece John con il viso adombrato.
La signora Hudson annuì alle parole del dottore. “È vero, ispettore.”
Lestrade sospirò prendendo appunti e guardò nella direzione di Sally.
“Signora Hudson, lei sa se aveva qualche parente?” domandò la poliziotta alla vecchia. La quale ci pensò su, sotto gli sguardi di John e dell’ispettore, dopo un po’ annuì. “Dovete avvertire suo fratello... Si chiama Mycroft…  non l’ho mai visto, ma so che c’è, perché me ne ha parlato.”

John Watson rimase stupito: non aveva mai sentito nominare dal suo coinquilino suo fratello, in quel mese in cui avevano abitato insieme. Va bene che non parlavano quasi mai di vita famigliare - a parte quando Sherlock deduceva qualcosa della sua squallida vita - ma John non l’aveva mai interrogato sulla sua famiglia. A pensare a Sherlock e a un suo possibile fratello, John sorrise tristemente. Chissà come doveva essere la vita, per il fratello di Sherlock. Lui aveva seri problemi nel gestirlo, e abitavano insieme da appena un mese. Crescere con lui doveva essere stato impossibile. O forse anche suo fratello era un essere impossibile e psicopatico, suo pari.
“Non abbiamo più niente da dire.” disse John, quando la signora Hudson ebbe finito di parlare.
Lestrade lo guardò, poi sorrise. “Bene. John, lo troveremo”
“Se avete bisogno di una mano… Io ci sono.” precisò John con un sorriso triste sul volto.
“Sì, lo so bene. Sally, andiamo.” Lestrade richiamò i suoi agenti lasciando soli John e la signora Hudson.
“John, che facciamo?” domandò la vecchia signora.
“Non ci arrenderemo, Sherlock non vorrebbe.” mormorò John stringendo le mani a pugno.

***


Sherlock Holmes si svegliò intorpidito e si accorse immediatamente di non essere a casa; se ne accorse perché non sentiva il comodo materasso sotto di sé, e perché non sentiva il buon profumo di Thè che faceva la signora Hudson e lo scrivere di John al computer dall’altra stanza.
Era legato, si accorse in un secondo momento, a un tavolo, un vecchio tavolo di legno, dove era stato posato malamente. Si trovava in una camera, una stanza non più lunga della propria camera da letto bianca.
A un certo punto, si accese la TV, posta dalla parte opposta rispetto alla testa di Sherlock, che infatti poteva vedere il monitor solo torcendo il collo. Il ragazzo strinse gli occhi quando dentro lo schermo comparve un volto di un uomo dai radi capelli neri, il naso aquilino e occhi neri come pozzi senza fondo, aveva un colorito olivastro e una cicatrice su una guancia sinistra.
“Buonasera, Sherlock Holmes.” Pronunciò l’uomo, Sherlock lo fissava senza poter muovere un muscolo, visto che era stato legato.
“È un piacere vederti finalmente in viso, Sherlock Holmes.” L’uomo si mise a ridere, una risata profonda così com’era la voce.
“Non sai chi sono io, non è vero Sherlock Holmes?” Sherlock scosse la testa, visto che non poteva nemmeno rispondere dal momento che era imbavagliato.
“Il mio nome è Lord Harry Blackwood, Sherlock Holmes. E ti ho rapito perché voglio una cosa da te. Io voglio il tuo cervello.”  

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Buondì!
Sono di nuovo qui, per voi. ;)
Capitolo piccolo, lo so, ma è un capitolo di passaggio, che spero comunque vi piaccia.
Lord Blackwood, è sì quello del film del primo Sherlock. Non voluto, come cattivo, nè James Moriarty, nè Sebastian Moran, solo perchè mi servono per altro.
Comunque spero tanto che vi sia piaciuto, questo piccolo capitolo. Se volete scoprire come va avanti, commentate.
Nel frattempo, ringrazio l'unica persona che ha commentato e le altre che hanno comunque letto o inserito la mia fanfic fra le preferite-seguite.

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


cap 5
Disclaimer: io non scrivo a scopo di lucro. Tutti i personaggi sono rispettivamente della BBC.
Ringraziamenti: ringrazio, la mia beta Charme per i preziosi consigli riguardante questo capitolo!
Buona lettura ;)!


Ancora di salvezza


Sherlock Holmes ebbe, per la prima volta nella sua vita, paura: non fu una bella sensazione; la paura lui l’aveva sempre vista negli altri e sentirla radicarsi in sé, come una radice difficile – se non impossibile – da estirparsi fu orribile.
La paura – il terrore! – entrò in circolo: gli si mozzò il respiro, gli tremarono le vene dei polsi e gli occhi si dilatarono.
“Ah, bene, ho avuto la tua attenzione.” la subdola voce del rapitore si era rifatta risentire dopo un attimo di pausa.
“Sì, vedi: sono uno studioso di cervelli, o meglio della mente, ma si sa… cervelli e mente sono la stessa cosa , siamo noi umani a dargli nome differente. Comunque dicevo che sono uno studioso… o per meglio dire… un collezionista. Il tuo cervello avrà un posto in primo piano nella mia collezione, perché - credimi - non è da tutti i giorni avere il cervello, o la mente di Sherlock Holmes a portata di mano.”
Per una volta, un avversario aveva lasciato senza parole Sherlock Holmes.
“E mi dica… Lord Blackwood, come pensate di togliermi il cervello?” sfidò Sherlock fissando lo schermo dal quale il volto di Blackwood rispose con una risata da mettere i brividi.
“Ah, è qua che ti volevo, Sherlock Holmes. La tecnologia negli ultimi anni si è, per fortuna, evoluta. Ho creato questi oggettini tanto carini, che si chiamano Mozog [*].” 
L’uomo nello schermo prese in mano dei caschi uguali a quelli per fare gli elettroencefalogrammi.
Sherlock Holmes rimase immobile a osservare quelle mostruosità… aveva già capito cosa voleva farne il professore Blackwood, voleva inserire nel suo cervello quelle ventose e appropriarsi della sua genialità, delle sue conoscenze, della sua memoria e di tutto ciò che lui riduttivamente chiamava ‘cervello’.
“Ora lei penserà che dopo la tortura lei non riuscirà più a vivere. Si sbaglia, i suoi organi vivranno, ma sarà come essere un vegetale. E di lei, lo stimatissimo, geniale Sherlock Holmes non rimarrà nient’altro che un guscio vuoto. Diventerà un povero demente incapace perfino di alzare un dito. E io avrò la mente di Sherlock Holmes!” a fine del suo monologo, il volto di Blackwood si deformò in un raccapricciante sorriso storto che mise i brividi a Sherlock. Fu forse proprio il ghigno a fare più paura al giovane studente, piuttosto che quello che aveva detto.
“Non glielo permetterò. Lei non si prenderà la mia mente.” sibilò Sherlock osservando furioso lo schermo e cercando di liberarsi dai legacci che lo tenevano prigioniero al tavolo.
“Ah. E come pensi di fare? Come puoi liberarti di me, Sherlock Holmes?” domandò l’uomo nello schermo, per poi scoppiare in una risata stridula. “Ah. Non ci riuscirai,non ti preoccupare. Sei costantemente controllato, e nessuno sa che sei qui.” riprese a parlare Blackwood con voce sonora.
“E ora, ti lascerò per un po’ a te stesso, caro il mio Sherlock. Purtroppo questi cosini deliziosi non sono ancora terminati. Li devo ancora sperimentare. Arrivederci, Sherlock Holmes.” così dicendo Harry Blackwood scomparve dallo schermo, lasciandolo nero e silenzioso.
Sherlock poté così tornare per un attimo al suo personale palazzo mentale.
Aveva un posto nella sua testa in cui archiviare tutte le informazioni ricevute che chiamava appunto palazzo mentale.
Chiudendo gli occhi riusciva a concentrarsi più in fretta, arrivando pertanto ‘al palazzo’ più facilmente e dunque, così fece.
Dopo un attimo di Sherlock Holmes non rimase niente se non il corpo: a un occhio esterno sarebbe potuto sembrare addirittura morto, visto che aveva incanalato la quasi totalità delle proprie energie per ‘arredare’ il suo edificio personale con i mille dettagli di quella complicata situazione Era quasi paradossale che il suo eccezionale intelletto e le sue facoltà fuori dal comune fossero, allo stesso tempo, la ragione e la soluzione dei suoi guai, ma Sherlock respinse ogni accenno di autocommiserazione e si concentrò totalmente sulla propria drammatica situazione, cercando di razionalizzare il più possibile, considerandola come niente più che l’ennesima sfida, l’ennesimo caso da risolvere.

***

Sherlock Holmes è stato rapito.
L’Unico giovane Consulente Investigativo del mondo è stato rapito ieri sera da casa sua, il 221b di Baker Street.
Non si sa ancora niente, ma fonti anonime, ci fanno capire che Scotland Yard brancola nel buio. 

John Watson sbuffò, chiudendo il giornale e perdendosi nel grigio e cupo tempo di Londra che si vedeva dalla finestra. Da quando il suo migliore amico era scomparso, doveva ammetterlo, si annoiava. Certo la sua vita era diventata un po’ più normale, ma non il non aver nessun caso fra le mani e il non vedere le stramberie di Sherlock Holmes lo facevano star male.
Che poi non era vero che non aveva nessun caso -Lestrade lo teneva informato sugli ultimi sviluppi sul caso Sherlock-, ma era il fatto che non ci fosse Sherlock a infastidirlo.
Il suo migliore amico era scomparso da tre lunghi giorni, e John vagava per la città con un groppo in fondo alla gola.
John Watson sbuffò nuovamente e per la prima volta controllò il telefonino nella speranza di trovarci un indizio, o meglio ancora una chiamata di Lestrade che l’informava che il suo migliore amico era stato ritrovato, ma niente. Il telefono non emise un suono.
Sbuffò, decidendo in quel momento che avrebbe visto Molly.
Molly era l’unica a farlo distrarre un po’ e in quella giornata aveva bisogno di distrarsi. Stava per prendere il cellulare e inviarle un messaggio, quando sentì il telefono di casa squillare.
John Watson si precipitò a rispondere.
Dall’altra parte si sentì la voce di Lestrade.
“Lestrade?” domandò John.
“John. Siamo, finalmente, riusciti a trovare Mycroft Holmes. Se vuole venire a sentirlo, ci farebbe assai piacere. Lei era l’unico di noi a essere veramente amico di quello so… ehm di Sherlock. Fra l’altro il signor Holmes ha chiesto espressamente di vederla”
Il cuore di John mancò un battito. Avevano trovato il fratello del suo coinquilino, avrebbe potuto vederlo finalmente in faccia.
“Arrivo subito.” urlò, e prima del tempo di dire ‘ah’ fu subito fuori alla porta alla ricerca di un taxi libero.

Entrò di corsa nella New Scotland Yard, sbrigò le formalità e si precipitò nell’ufficio di Lestrade.
All’interno trovò l’ispettore, Anderson e Donovan e un uomo che sedeva compostamente dietro la scrivania di Lestrade.
 Inizialmente gli dava le spalle, ma quando si voltò vide che era molto diverso da Sherlock Holmes: era innanzitutto più robusto, poi il viso non era non era come quello del fratello, sottile e affilato, ma dai tratti più pieni, e, in qualche modo, più rassicuranti, aveva i capelli castani e gli occhi dello stesso colore.
Eppure era suo fratello, c’era qualcosa nello sguardo che lo faceva assomigliare al Holmes che aveva conosciuto.
“Emh… salve, io sono…”
Venne subito interrotto dall’uomo corpulento che sorrise e disse. “So chi è, ovviamente. Lei è il dottor John Watson, il coinquilino di mio fratello, colui che probabilmente ha visto nelle ultime ore prima di venir rapito. Io mi chiamo Mycroft Holmes, ma questo immagino che lei lo sappia già.” Disse con calma flemmatica il fratello.
“Emh… È molto più simile al fratello di quanto non lo dia a vedere il suo aspetto fisico.” Si riprese John Watson. davvero, solo un uomo con una corazza poteva avere a che fare con due Holmes. Lui non era sicuro di avercela, quella corazza.
–Fortunatamente sei sparito, Sherlock.- si trovò a pensare, sorridendo in modo triste subito dopo aver pensato a quella cattiveria.
Forse se non fosse scomparso, John non avrebbe mai conosciuto il fratello.
Che sembrò riprendersi anche lui in fretta, e sorridendo, anzi ghignando ammiccò verso John: “Se intende dire che ‘lui è quello bello’ e ‘io sono quello intelligente’, penso che abbia ragione.”
“Che… oh, no!... non intendevo assolutamente metterla su questo piano.” John arrossì pensando a che Sherlock si sarebbe divertito del suo imbarazzo.
Nel frattempo gli occhi del fratello erano su di lui, anche quando era arrossito.
“Bene ora che abbiamo finito di fare le presentazioni, il signor Holmes mi stava dicendo i suoi ultimi movimenti di martedì sera.”
L’imbarazzo scemò dal volto di John quando Lestrade li richiamò all’ordine e gli occhi del fratello si posarono sul poliziotto.
“Sa, credo proprio che il poliziotto creda che sia io il rapitore.” Disse con calma Mycroft Holmes, quasi come se avesse appena detto un’ovvietà come ‘il cielo è azzurro.’, anziché aver appena suggerito l’ipotesi di un coinvolgimento nel rapimento del fratello.
John alzò gli occhi al cielo, esasperato dalla sciocca intuizione di Gregory Lestrade.
Non poteva essere così stupido. Da quello che aveva capito, Mycroft Holmes era un uomo di Sua Maestà, un pezzo grosso per il governo inglese. Non avrebbe mai rapito suo fratello.
“Ma non sono stato io, signor Lestrade. Io sono stato a casa. C’era anche Anthea. Anthea è la mia assistente, se volete la potete chiamare. È pulita lei.” Mycroft prese il cellulare dalla tasca e lo porse a Lestrade.
Il poliziotto lo guardò, poi ringraziò con gli occhi il Holmes senior e chiamò la donna.
John si trovò di nuovo con gli occhi di Mycroft Holmes addosso, quasi fossero intenti a scandagliare a fondo e interamente la sua persona, sulla sua persona.
Ecco
aveva lo stesso sguardo indagatore di Sherlock. Di quel sociopatico del suo coinquilino.
La domanda che fece Mycroft, lo fece deglutire pesantemente.
“Noi siamo puliti, ma lei quanto è pulito?” domandò Mycroft guardandolo attentamente.
“Sono pulito, signor Holmes. Pulito.” Rispose fissando il volto del primogenito degli Holmes.
L’Holmes grande non rispose, probabilmente era difficile fidarsi per lui, proprio come lo era per Sherlock fidarsi di qualcuno. Chissà, magari il fatto di appartenere al governo inglese lo rendeva ancora più chiuso.
“Okay. Siete puliti tutte e due. Ha confermato l’alibi.” Lestrade consegnò il cellulare nelle mani di Mycroft.
“D’accordo, allora direi di andare via. Professore? Dopo di lei.” Disse il fratello alzandosi dalla poltrona e facendo un segno al professore di seguirlo.

La mattina dopo, John doveva andare a lavoro, ma non se la sentiva. Voleva stare a casa a fissare il muro dove Sherlock di solito sparava, il muro dove c’erano ancora i fori di proiettile.
Il cellulare vibrò. John lo prese e lesse un messaggio.

-Ti va di uscire stasera? C’è uno spettacolo al Majestic. Un musical. Ti può risollevare il morale.
J.M.-

Da quando Sherlock era stato rapito, il professore di psicologia criminale, ci provava sempre di più con lui. Era diventato assillante.
Sbuffò indeciso sul da farsi, ma poi rispose:

-se ti dico di sì, tu mi lasci in pace? Però il musical no grazie, preferisco se mi offri una cena.
J.W.-

Sapeva di essersi fregato con le sue mani, ma l’altro non poteva fargli del male, più di quanto non l’avesse fatto Sherlock sparendo dalla sua vita.

- Forse ti lascerò in pace, o forse no. Comunque sei invitato al The Wolseley. Vedi di vestirti bene.
J.M-

John Watson sbiancò: il the Wolseley era il ristorante più caro di Londra, dove erano andati diversi VIP. Si chiese quanti soldi avesse e chi fosse il suo collega per poterlo invitare a quel ristorante di lusso.
Rispose affermativamente, dopo aver esitato circa la ‘minaccia’ di Jim di non lasciarlo comunque in pace, ma una cena in quel posto non si rifiutava mai.

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Buon Salve.
Sono di nuovo io che vi rompo le scatole XD!
Sono contenta di 'presentarvi' questo quinto capitolo.
Che dire? La prima parte è stata molto difficile, immaginare Shelrock spaventato... beh... Mi sembrava un pò difficile, ma spero che vi sia piaciuto. Se sono andata OOC ditemelo, ma tenete conto che si tatta comunque di un'AU, al tempo dell'adolescenza di Sherlock. Poi la seconda parte, quella di John, invece è stata più semplice da scrivere (quanto amo il dottore <3), spero anche che la parte finale vi abbia stupito in senso buono.
Detto questo ringrazio le due persone che hanno commentato e chi ha messo la fanfic fra le seguite/preferite.

Spiegazioni:
[*] Mozog, in slovacco, secondo il traduttore di google vuol dire cervello ^_^!
<3






 

 

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