È tutto uno sbaglio

di namedemme
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Seguendo il destino ***
Capitolo 3: *** Prigioniera di un ciclo continuo ***
Capitolo 4: *** Colpo di fulmine ***
Capitolo 5: *** Un nuovo inizio ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
«Vieni con me, ti prego...»
«Lo vorrei tanto, ma mio padre sarà adirato quano lo scoprirà».
Una lacrima gli scese lungo una guancia.
Sbattè rapidamente le ciglia, si sentiva umiliato quando piangeva in
pubblico, anche se si trattava di una persona sola.
Non una persona qualsiasi, ma Lei.
Immerse una mano nelle acque del Saar, che
l'avvolsero donandogli una piacevole sensazione.
Lei lo osservava con i suoi magnifici occhi viola, che lui tanto amava.
«Non capisci... Seferdi è lontana da qui, si trova nella Terra dei Giorni,
dovresti saperlo, tuo padre non riuscirà mai a trovarti, te lo posso garantire.
La mia gente non ama particolarmente i matrimoni misti, ma con
te sarà diverso, dopotutto sei quasi una di noi», le disse con un sorriso mesto.
Qualcosa si accese nel volto della ragazza.
«In voi scorre parte del sangue del mio popolo», sussurrò, e nel suo
tono di voce c'era qualcosa che sapeva di rancore, ed era aspro.
Lui abbassò lo sguardo.
Lei si alzò in piedi, mettendo in mostra il corpo snello e slanciato tipico della
sua razza, i fianchi minuti, la pelle chiara.
I capelli verdi, legati in una lunga e morbida treccia, cadevano flessuosi
sulla sua schiena. Sulla testa spuntavano un paio di orecchie appuntite.
"Come le mie" si sorprese a pensare il ragazzo.
«Ora devo andare, ma saprò dirti, te lo prometto amore mio».
Lo baciò, un bacio dolce ma svelto, a fior di labbra, e si allontanò in fretta.
Lui rimase sorpreso; pochi secondi dopo si rialzò e si rimise l'armatura
che aveva appoggiato su
un tronco lì vicino.
Si avvicinò a Soraya, il suo drago, un grosso esemplare verde con sfumature marroncine sul dorso.
Le accarezzò il muso, sentiva distintamente le sue squame sul palmo della mano.
Lei si girò e sbuffò, fissandolo con i suoi occhi che parevano due braci ardenti.
«Forza piccola, dobbiamo andare», le bisbigliò dolcemente.
Con agilità le saltò in groppa, e spiccò il volo.
«Verso Makrat», le disse.
Nell'aria si sentiva solo il lieve rumore prodotto dalle ali di Soraya,

mentre il suo corpo immenso sorvolava il fiume che divideva le Terre Ignote dal Mondo Emerso.
E ben presto il buio li inghiottì.

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Capitolo 2
*** Seguendo il destino ***


Seguendo il destino
«Mi stai deludendo molto».
L'uomo lo guardava con  uno sguardo severo, era visibilmente nervoso e a stenti tratteneva la furia.
«Padre, vorrei soltanto fare ciò che mi piace. Sento che combattere è la mia strada, voglio aiutare
la mia terra, ed è per questo che voglio diventare un Cavaliere di Drago».
«Tu devi diventare un astronomo, è il mestiere della tua famiglia da anni ed è anche il mio».
«Lo so, me l'hai detto più volte, però...», non fece in tempo a concludere che uno schiaffo violento
lo colpì su una guancia. Per poco non perse l'equilibrio.
«Va bene, fai pure quel caspita che ti pare, ma sappi che tu qui non ci metterai piede, mai più!».
Gli occhi viola saettavano di rabbia, e il giovane abbassò il volto.
Si alzò e si diresse lentamente verso la porta d'ingresso.
Guardò il padre un'ultima volta: si stava passando una mano tra i capelli, e si voltava in tutte
le direzioni pur di evitare il suo sguardo.
Il ragazzo si sentì ferito, eppure decise di assecondare i suoi desideri varcando quella porta.
Si ritrovò sulla via in cui abitava, a Seferdi, una strada come tante altre nella città.
Era l'inizio di una nuova vita.

--------

Handir riaprì gli occhi. Aveva avuto di nuovo un flashback. Quei ricordi che tornavano improvvisamente
alla mente lo facevano impazzire, perché difficilmente riusciva a scacciarli.
Si guardò intorno. Era sera e Soraya stava dormendo. Cercò di dormire anche lui, cullato dall'abbassarsi e
alzarsi ritmico del torace del suo drago, a cui si era appoggiato, come faceva sempre quando doveva passare
le notti all'addiaccio.
Prima di addormentarsi, però, ripensò a suo padre, che l'aveva cacciato di casa quando aveva
tredici anni e gli aveva espresso chiaramente il suo desiderio di diventare Cavaliere di Drago.
Ora aveva diciassette anni, e non vedeva quell'uomo da allora. Sua madre l'aveva vista l'ultima volta due anni
prima, mentre era di passaggio a Seferdi.
Dopo quell'episodio era riuscito a raggiungere Makrat, nella Terra del Sole, con molte difficoltà, e ad accedere
alla prestigiosa accademia dei Cavalieri di Drago.
Inizialmente Draen, il Supremo Generale, non l'aveva visto di buon occhio: non c'erano molti studenti mezzelfi
all'accademia, ma Handir era riuscito a dimostrare le sue doti di combattente, in particolare con la spada e il
pugnale. Così iniziò la sua "carriera" che lo avrebbe portato a diventare Cavaliere a soli quindici anni, dopo
un anno di addestramento in accademia e uno di apprendistato.
Durante quest'ultimo periodo, che aveva trascorso in parte nell'accampamento in cui alloggiava insieme al
suo maestro Thor, aveva imparato ad avvicinarsi ai draghi e ad entrare in contatto con loro. Ci era voluto
molto tempo, ma ce l'aveva fatta, alla fine. E si era affezionato a uno di loro in particolare: Soraya.
Era un giovane esemplare e non aveva ancora avuto un cavaliere, perciò non ebbe problemi ad ottenerla.
I due entrarono subito in perfetta sintonia, e Handir potè ritenersi un Cavaliere di Drago completo.
Essendo in tempo di pace, non aveva grossi incarichi. Si trattava per lo più di ronde
principalmente a Makrat o a Laodamea, nella Terra dell'Acqua. Un giorno, Draen lo fermò nei
corridoi dell'accademia.
«Ti devo parlare».
Il mezzelfo fece un piccolo inchino per mostrargli rispetto.
«Cosa desiderate, Sua Eminenza?»
«Ho un nuovo compito per te, ma non uno dei soliti», l'uomo lo guardò impassibile.
«Mi dica tutto».
«Dei Cavalieri hanno notato degli strani movimenti nella Terra del Vento, sulle rive del Saar.
Voglio che tu vada a controllare. Partirai domani, è tutto pronto».
Il ragazzo annuì e non aggiunse altro.
«Ti aspetto nell'arena dei combattimenti, domani all'alba».
«Come desiderate, Signore», rispose.
Il Supremo Generale lo salutò con un rapido cenno del capo, poi si allontanò rapidamente. Il giovane
si passò una mano sui capelli blu arruffati, sfiorando le orecchie a punta, cosa che faceva
sempre quando era pensieroso.
Osservò Draen finchè non scomparì, inghiottito dal dedalo di corridoi dell'edificio. Dopodichè si avviò
verso il suo alloggio, mentre fuori il buio calava rapidamente sulla Terra del Sole.
L'indomani, Handir partì senza troppi convenevoli; con sè portava una bisaccia con le scorte di cibo
per il viaggio: qualche striscia di carne secca, un po' di formaggio e del pane nero.
Me lo farò bastare fino a Salazar pensò mentre sorvolava foreste e villaggi, e sotto di lui la tutto scorreva
tranquillo, la vita e la morte che si alternavano ogni giorno in un unico ciclo.
Ci mise una decina di giorni ad arrivare a Salazar, la città-torre capitale della Terra del Vento.
A malincuore lasciò Soraya poco lontano dal posto, sussurrandole parole di conforto e chiedendole
di aspettarlo, e si avventurò al suo interno.
I piani della torre erano tutti simili, brulicanti di vita. C'erano bambini che si rincorrevano, mercanti che elogiavano
la qualità delle loro merci a gran voce, botteghe varie, locande dalle quali uscivano grida, brindisi e
odori invitanti di zuppa, salsiccie e cibi vari. Tutto quel caos lo colpì, però gli diede un senso di serenità.
A Seferdi non era così, tutti erano più composti e i più piccoli passavano più tempo a studiare o
allenarsi che a giocare; lui stesso lo ricordava molto bene, suo padre gli faceva studiare in
particolar modo l'astronomia, nonostante lui non volesse.
Scacciò dalla mente quei pensieri ed entrò in una locanda. Era affollata, c'erano molti umani, naturalmente,
ma anche gnomi che discutevano dei loro affari e qualche ninfa. Il bancone era di legno piuttosto grezzo e
dall'altra parte c'era un uomo particolarmente tarchiato che appena lo vide gli puntò addosso gli occhi
porcini.
«Desiderate?», aveva una voce dura e profonda ma si era rivolto a lui in tono abbastanza gentile.
«Vorrei una zuppa e un po' di pane».
«D'accordo, accomodati pure», disse indicandogli un tavolo libero.
Handir annuì e lo ringraziò, poi prese posto. Una decina di minuti dopo una ragazzina che non doveva avere
più di quindici anni, dal viso paffuto, i capelli neri e lisci e vivaci occhi marroni gli servì ciò che aveva ordinato.
«Ecco a te», gli sorrise. «Ti ringrazio», le rispose ricambiando il sorriso.
Nella zuppa galleggiavano pezzi di carne e patate che gli fecero venire l'aquolina in bocca. Era affamato,
e divorò tutto velocemente. Pagò, aveva cambiato precedentemente alcune delle sue carole con degli
scudi, la moneta di quella Terra.
Prese anche una stanza e passò lì la notte. L'indomani fece scorta di cibo in una bottega vicina e si
apprestò a partire.
Due giorni di viaggio sorvolando le immense praterie tipiche del posto, e arrivò. Il Saar gli si presentò
davanti in tutta la sua grandezza, l'acqua era così calma che sembrava quasi che non si muovesse.
Controllò, come gli era stato chiesto, ma non trovò nulla di strano. Stanò un gruppo di banditi,
che fuggirono terrorizzati lontano da lì. Sono questi gli strani movimenti avvistati dagli altri
Cavalieri? Pensò dubbioso, e proseguì. Fu dopo qualche ora che ebbe l'idea.
Guardo l'altra sponda del fiume, che si intravedeva appena. Decise di provare a raggiungerla, dopo
sarebbe tornato indietro e avrebbe cercato un posto in cui dormire.
Saltò in groppa a Soraya e si apprestò alla traversata. Non ci impiegò molto. Quando arrivò scese
agilmente dal drago, mentre l'animale si adattava a quel poco di spazio che c'era tra gli alberi e l'acqua.
Notò che la vegetazione era molto diversa rispetto a quella del Mondo Emerso, dopotutto era la prima
volta che visitava le Terre Ignote. Vide grossi fiori carnosi, farfalle multicolore con sei ali e più grandi
della norma, bruchi giganti, scoiattoli con una coda cortissima e gli incisivi molto allungati, un gatto con
tre code e gli occhi esageratamente sproporzionati, tanto che lo spaventarono, e via dicendo.
Si incamminò costeggiando il Saar. raccomandando a Soraya di non muoversi, e si fece strada con il
pugnale, tranciando di netto le piante che gli ostruivano il passaggio.
Fu allora che la vide.
Era una creatura bellissima, aveva lunghi capelli verdi e lisci sciolti sulla schiena, dai quali spuntavano due
orecchie a punta come le sue, un viso dai tratti dolci e due grandi occhi viola.
Era molto magra, indossava una semplice tunica con qualche ricamo, una rustica corda legata sui fianchi,
che metteva in risalto il suo fisico; i piedi nudi erano immersi nel fiume.
Era assorta, fissava il tramonto che creava bellissimi riflessi sull'acqua, ma il mezzelfo era troppo preso da quella creatura.
Non avrebbe saputo dirlo con certezza, perchè non ne aveva mai visti, ma ipotizzò
che fosse un'elfa, vista la somiglianza con i suoi tratti. Non ho mai visto nulla di simile, è un dono degli Dei
non potè fare a meno di pensare. Fece un passo falso e calpestò alcuni ramoscelli, che scricchiolarono.
La ragazza si voltò di colpo, e Handir rimase pietrificato dal suo sguardo.

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Capitolo 3
*** Prigioniera di un ciclo continuo ***


2. Prigioniera dell'abitudine «Earine!»
La ragazza si voltò e sbuffò, evidentemente contrariata. Davanti a lei un elfo trafelato e un po' robusto rispetto ai membri della sua razza, che gesticolava furiosamente e non riusciva a formulare una frase di senso compiuto.
Era seduta su una grande fontana al centro della sua città natale, Orva.
«Che c'è, Thor?»
«Tuo padre mi ha mandato a chiamarti, il tuo insegnante ti sta aspettando da un'ora!»
«Non ho voglia oggi, Thor, vai da lui e inventati qualcosa», rispose secca.
Non le piaceva essere interrotta mentre si rilassava in mezzo alla natura.
Entrare in contatto con essa era una dote del suo popolo.
«Earine, ti prego...»
«Uff...», l'elfa si alzò e andò al tempio, un edificio in legno, come tutte le costruzioni di quella città, del resto.
All'interno, era tutto molto sontuoso. Effigi in oro decoravano la navata, decorazioni e ornamenti vari spiccavano lungo le pareti. L'altare rappresentante Shevraar e Phenor balzava subito all'occhio. La distruzione e la creazione; le due facce della stessa moneta. Earine ne rimase incantata, nonostante non fosse la prima volta che vi si recasse.
Le faceva sempre questo effetto.
Entrò in una saletta adiacente a una delle pareti del tempio e vi trovò il suo insegnante, Aranel.
«Dov'eri finita?», le chiese, apparentemente burbero ma con una lieve nota d'affetto.
«Non mi andava di venire oggi», gli rispose annoiata, sperando che non se la prendesse. Era il suo insegnante fin da piccola, e ormai si era abituato alla riluttanza della giovane nei confronti dei riti sacerdotali.
Non facevano per lei, avrebbe preferito fare l'erborista: con piante e erbe ci sapeva fare, mentre per la magia era negata. Iniziarono con l'allenamento.
Prima qualche magia di base: incantesimi di guarigione, di difesa, quelli per creare globi luminosi che potevano essere utili per illuminare sentieri bui, e via discorrendo.
Poi, magie più complesse: in quel periodo Aranel le stava insegnando che tipo di magie utilizzare per scoprire sigilli e magie utilizzate su una persona, oggetto o animale.
La lezione finì dopo due pesanti ore, ed Earine potè andarsene in pace.
Voleva andare nel bosco, dove avrebbe potuto stare in tranquillità; mentre si trovava ai suoi margini qualcuno disturbò nuovamente la sua quiete.
«Che c'è?», chiese bruscamente.
«Tua madre vuole parlarti», era di nuovo Thor, non si era neppure accorta del suo arrivo, stranamente.
Lei non rispose e andò da lei di malavoglia. Si trovava ai piedi del tempio.
«Dimmi», fece lei.
«So che non sei molto portata per la magia, ma è una questione di famiglia, anche tu da grande sarai una Somma Sacerdotessa, come lo siamo state io, tua nonna, la tua bisnonna e via discorrendo», cominciò.
«Mamma lo so, però io.. vorrei essere libera. Te ne prego».
«Piccola mia, so bene come ti senti, quando avevo la tua età volevo essere una combattente e votarmi al culto di Shevraar, ma non ho potuto, e ho servito Phenor come fecero i nostri antenati. Me ne feci una ragione, alla fine >>.
«Allora, forse non hai capito qualcosa: a me non interessa NIENTE di portare avanti le tradizioni di famiglia, perchè io sono Earine, sono una persona con desideri, sentimenti ed emozioni, e credo di avere diritto a scegliere cosa fare della mia vita!», sbottò.
«Earine, lo so, ma non posso farci niente».
«BENE!», urlò furibonda e scappò nel cuore del bosco.
Lì pianse, pianse come non mai; lacrime di ira e tristezza infinita solcavano le sue guancie liscie, perfette. Come, del resto, lei era: per molti dei suoi compaesani, Earine rappresentava la perfezione.
E bisognava dire che non avevano tutti i torti.
Si buttò a peso morto sull'erba soffice dell' Mherar Thar, la Terra delle Lacrime, meglio nota come "Terre Ignote".
Ebbe l'impressione che tutto, intorno a lei, cercasse di consolarla. Il fruscio del vento pian piano si trasformava in una voce che parlava una lingua a lei sconosciuta, gli alberi flettevano i loro rami verso di lei per proteggerla e l'erba l'"abbracciava". Alzò la testa e vide tutto come prima; erano solo sensazioni, ma forse non del tutto errate.

--------

Il tempo passò, Earine non era una ragazza che si arrendeva facilmente, e non demorse. Fu così che un giorno, dopo le consuete lezioni, l'elfa si recò nella grande biblioteca di Orva, che ospitava, tra l'altro, libri antichissimi e di valore inestimabile. Buttò un'occhiata nel reparto di storia, e lì trovò un grosso libro sull'Erak Maar, di cui le avevano parlato molto. Si trattava di una terra non molto lontana dalla quale i suoi antenati si sono esiliati millenni prima, dopo che era stata invasa dagli umani e dagli gnomi. Essi, prima di andarsene, vivevano in comunione con le ninfe.
Dagli incroci tra loro e i popoli "usurpatori" (che chiamano quella terra "Mondo Emerso"), come usano chiamarli, sono nate due nuove razze: gli huyè (elfi e gnomi, si sono spostati anche loro nelle Terre Ignote) e i mezzelfi (elfi e umani). Tutto questo lo sapeva, aveva anche visto alcuni huyè, ma non aveva mai avuto alcun tipo di contatto con loro, e anche se lo avesse voluto era proibito. Lesse per tutto il pomeriggio, e alla sera, quando abbandonò l'edificio, prese una decisione che a lei parve folle, forse assurda: sarebbe fuggita da quella vita proibitiva, e si sarebbe recata nell'Erak Maar. Non disse niente a nessuno, ma aveva bisogno di tempo per programmare il tutto e c'erano molti ostacoli, a cominciare da quello principale: come attraversare il Saar? Non era una guerriera, perciò non poteva usufruire di una viverna, e con una barca sarebbe stato pericoloso.
Cominciò a recarvisi spesso per studiare la mossa vincente. Sotto sotto, però, ci andava anche perchè le aveva cominciato a piacere, quel posto. Fu proprio mentre si trovava lì, un giorno assolato e leggermente ventoso, che accadde qualcosa che le avrebbe sconvolto la vita e i suoi piani.
Si stava bagnando i piedi facendo attenzione, come sempre, quando aveva sentito un lieve fruscio.
Aveva un udito fine, perciò se ne accorse subito e voltò di scatto la testa. E lo vide.

Ciao, so che questo capitolo e quello precedente non sono lunghi, ma la storia è incentrata sull'amore tra Handir ed Earine, i primi due capitoli servivano a introdurli, per questo non sono molto lunghi.
Accetto volentieri recensioni, anche critiche, voglio migliorare e vorrei sapere cosa ne pensate in generale su questa mini-long ^^ 

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Capitolo 4
*** Colpo di fulmine ***


3.Colpo di fulmine? «FERMO!», gridò la giovane elfa, ma Handir fuggì spaventato e lei iniziò a rincorrerlo.
Corsero veloci, i loro corpi fendevano l'erba alta e superavano con agilità gli ostacoli,
finchè il ragazzo non inciampò ed Earine gli balzò addosso.
I due rotolarono dimenandosi, ma pochi istanti dopo si bloccarono, fissandosi negli occhi.
Earine non riusciva a staccare lo sguardo da lui. Era un mezzelfo, ne era certa, aveva studiato la fisionomia degli abitanti del Mondo Emerso e avrebbe saputo riconoscerli all'istante.
Aveva due splendidi occhi viola, non era il loro colore ad attrarla dal momento che tutti i
componenti della sua razza li possedevano, ma quel qualcosa che trasmettevano con lo sguardo, non avrebbe saputo dire nemmeno lei cosa.  Era un bel giovane, dai lineamenti decisi ma dolci allo stesso momento, pelle chiara come la sua, capelli blu e proporzioni più da umano che da elfo. 
Si rialzò, preda di emozioni contrastanti, lasciandolo libero.
«Chi sei? Cosa ti ha spinto nel Mherar Thar?», gli chiese
«Il... che cosa? La Terra delle Lacrime?», Handir non aveva capito subito quella lingua, ma dopo l'aveva riconosciuta: elfico. L'aveva studiato da bambino.
La ragazza lo fissò, sembrava stizzita.
«Non fare il finto tonto. Tutto questo è Mherar Thar», rispose.
Il ragazzo capì. «Scusami, davvero, ma non sapevo si chiamasse così... da dove provengo questo posto viene chiamato Terre Ignote».
Parlava a stento quella lingua e aveva un accento marcato, Earine lo intuì subito.
«Sei un mezzelfo?»
«Sì. Il mio nome è Handir», rispose, cercando di essere cortese.
«Earine», fece lei, secca.
«E' davvero un bel nome...»
«Cosa ci fai qui?»,sembrava infastidita da lui.
«Sono... niente, questo posto mi ha attratto da sempre e visto che mi trovavo da queste parti ho deciso di venire qui a dare un'occhiata. Mi piace molto».
«Credo tu l'abbia capito, io sono un'elfa».
«Lo so... siete l'unico popolo con i capelli verdi», sorrise.
«Già... sei informato, eh? Comunque, noi elfi non possiamo avere alcun tipo di contatto con i popoli del Erak Maar».
«Cosa?»
«Il Mondo Emerso. Lo chiamiamo così, noi >>.
«Capi...» venne interrotto da uno sbuffare intenso.
Entrambi alzarono lo sguardo e si trovarono l'enorme muso di Soraya puntato addosso.
«Soraya tranquilla, va tutto bene», la rassicurò il mezzelfo.
«Co-cos'è?», chiese Earine stupita.
«È un drago, non ne hai mai visto uno?»
«No, da noi i combattenti usano le viverne».
«Che cosa sono?»
«Grossi animali neri simili al tuo, però possiedono solo le zampe posteriori e sono più allungati».
Così Handir ed Earine passarono tutto il pomeriggio insieme a discutere sui loro mondi, così simili eppure così diversi. La ragazza si sciolse, si sentiva bene con lui, riusciva a sfogarsi e a parlare di tutto e di più, cosa che con i suoi simili proprio non le riusciva. Arrivò la sera, e Handir dovette andare. Ma prima le volle chiedere una cosa.
«Senti, prima stavi dicendo che voi elfi non potete avere contatti con noi... come mai?»
«Tanto tempo fa, addirittura millenni, gli elfi abitavano nel Erak Maar, ma furono costretti ad andarsene quando gli umani e gli gnomi hanno cominciato ad arrivarvi in massa. Nacquero due popoli dagli incroci tra noi e loro: voi mezzelfi e gli huyè, ibridi con gli gnomi, che ora vivono non molto distante da Orva, la mia città. Da allora il mio popolo ha deciso di isolarsi e non avere più contatti con voi, che venite chiamati "usurpatori"»,
disse, « ma io non la penso così», aggiunse sicura di sé.
«Capisco... conoscevo già la storia dei mezzelfi, ma non come me l'hai raccontata tu»
«Immagino che ogni popolo l'abbia distorta a suo favore», commentò.
«Beh, elfi o no, ho passato una magnifica giornata con te. Ti va di vederci ancora?».
Il cuore di Earine fece una capriola: nonostante lo conoscesse appena,
Handir le faceva provare tantissime emozioni contemporaneamente.
«Certo...», sussurrò.
«Allora fatti trovare qui domani pomeriggio, io ci sarò», le disse sorridendole, un sorriso che le sciolse il cuore.
«D'accordo, verrò. Scusami, davvero, ma devo scappare, a domani!»,  la giovane elfa corse via lasciando Handir un po' spiazzato.
Lui e Soraya tornarono nell'altra costa del Saar, nella Terra del Vento, e dormì appoggiato al ventre della sua cavalcatura, sotto un cielo stellato, impaziente di rivedere Earine.
E così fu per un lungo periodo di tempo, finchè un giorno, tramite la magia, gli venne pervenuto un messaggio. Procedette con il consueto rito e lesse: "Devi tornare all'accademia, ritengo che tu sia stato nella zona abbastanza per la situazione. Ti aspetto, Draen".
Fece un lungo sospiro quando finì di leggere il breve contenuto dello scritto. Come avrebbe fatto a dirlo a Earine? Scosse la testa e andò da lei, come sempre.
La trovò che stava giocherellando con qualche filo d'erba, e non si accorse di lui. Così si avvicinò e si schiarì la voce; l'elfa si girò. Appena lo riconobbe gli saltò letteralmente in braccio, baciandolo sulla guancia. Lui rise felice, ma poi si incupì al pensiero di ciò che aveva da dirle.
«Earine, ascolta...»
«che hai?», domandò preoccupata.
«È difficile da dire... vedi, stamattina mi è arrivato un messaggio tramite la magia», la giovane annuì, conosceva quel meteodo.
«Il Supremo Generale - te ne ho parlato, ricordi? - ecco, lui mi ha chiesto di tornare all'accademia... mi fa male, e molto anche, ma per un pò non potremo vederci». La ragazza lo guardò sbalordita. Piccole lacrime scesero dagli occhi sbarrati, solcandole dolcemente il viso.
Lui gliele asciugò con il dorso della mano e lei arrossì lievemente.
«Come puoi farmi questo?», chiese piano.
«Mi dispiace tantissimo, devi credermi», le rispose triste.
«Io... io... ti odio! », urlò.
Entrambi sapevano che non era così, ma lei era presa dalla rabbia, dalla tristezza. Sarebbe di nuovo stata sola, abbandonata al suo destino già scritto, se rimaneva lì. Sì girò e fece per andarsene, ma dopo qualche passo una mano le afferrò saldamente una spalla, obbligandola a girarsi. Dopo nemmeno un millesimo di secondo le sue labbra erano unite a quelle di Handir, labbra delicate che le fecero espoldere il cuore in petto.
Le assaporò, un gusto che non avrebbe mai scordato, e lui le mise una mano tra i capelli, mentre lei gli cingeva la vita con le braccia. Si baciarono a lungo, appassionatamente, e innamorati come non mai.
«Ti amo».
 Quella breve eppure grande affermazione fece scorrere brividi di piacere sulla schiena della giovane, che si strinse di più a lui. Ad un certo punto si separarono e lui la fissò serio.
«Vieni con me, ti prego...»

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Capitolo 5
*** Un nuovo inizio ***


4. Un nuovo inizio «CHE COSA STAI FACENDO?»
Earine nemmeno badò a quel grido. Continuò a gettare convulsamente indumenti vari nella sua bisaccia da viaggio, finché sua madre non la prese per un braccio.
«Dimmi subito cosa diavolo stai facendo», le intimò con un'apparente calma.
L'elfa si liberò dalla sua presa e continuò nel suo intento.
A quel punto la sacerdotessa scoppiò, «EARINE, ORA BASTA!»
l'afferrò e la girò verso di sè, obbligandola a guardarla in faccia. La prima cosa che lesse nella sua espressione indurita fu
rabbia repressa e tanta, tanta tristezza. 
«Esigo spiegazioni», sibilò, gli occhi viola fin troppo gelidi e seri.
«Me ne vado», le disse.
«TI E' ANDATO DI VOLTA IL CERVELLO?», urlò la donna.
«No. Vado nell'Erak Maar». Solo a sentire quelle due parole la madre rabbrividì, poi insorse:
«è così allora, eh? Vuoi mescolarti in mezzo a quella feccia. E dimmi, con chi ci vai? Non sono stupida, sai».
Earine sorrise appena, «con un mezzelfo. L'ho conosciuto tempo fa, e ci amiamo molto».
La sacerdotessa la guardò e, irata, se ne andò a passo veloce.
Si alzò e si guardò intorno. Ritenne di aver preso il minimo necessario, così afferrò il bagaglio con violenza e corse fuori. Nel mentre, inciampò su un ramoscello, cadendo nella terra umida di pioggia estiva, sporcandosi la leggera tunica che indossava e i calzari.
Maledizione!
Imprecò mentalmente, tentò di alzarsi ma qualcosa, o meglio qualcuno, la stava bloccando. 
«Tu non vai da nessuna parte. E se solo ci provi, non ti considererò più MIA FIGLIA!»
 Era di nuovo sua madre.
«Bene. Meglio così», le rispose con calma. La donna sbarrò gli occhi e, quasi senza accorgersene, la mollò. 
Earine si alzò e, lentamente, si allontanò in direzione del Saar.  Handir aveva preso una licenza per un mese e avevano progettato tutto quanto insieme. A passo sicuro percorse la solita tratta che faceva ormai da troppo
tempo, finché non intravide una grossa sagoma verde. Poi udì un forte sbuffare. Era Soraya, il drago di Handir.
Ma la sella era vuota. La ragazza si preoccupò; dov'era finito? Sì guardò intorno preoccupata, finchè sentì qualcosa di fresco coprirle gli occhi.
«Chi sono?», disse una voce fin troppo familiare.
 «Handir!», esclamò ridendo felice. Si scambiarono un bacio.
«Come stai?», le sorrise
«Molto bene, da quando ci sei tu!»
«Mi fa piacere sentirtelo dire», sussurrò accarezzandole una guancia.
La prese per mano e, con delicatezza, la condusse sul dorso di Soraya.
Pian piano, il drago acquistò quota con maestosità.
La loro meta era la Terra dei Giorni.

                                                                                                                                                                                --------


A Earine quel posto sembrava così strano, e nel contempo aveva qualcosa di magico... le pareva di essere quasi a casa quando osservava i loro abitanti, così simili a lei. Si sentiva in imbarazzo quando la guardavano in modo strano, effettivamente davvero pochi di loro sapevano come fosse fatto un elfo (solo chi aveva studiato, a dire il vero) ma nei vari villaggi in cui avevano pernottato la popolazione non aveva un alto tasso di cultura.
Fu poco prima del loro arrivo nella capitale che Handir prese una decisione.
«Ti porterò nella mia vecchia casa, conoscerai i miei genitori», le disse.
La ragazza era sorpresa, «ma non avevi litigato con tuo padre anni fa?».
La guardò mesto.
«Sì, ma tu sei importante per me e voglio che lui e mia madre lo sappiano». Lei annuì e non disse altro.
Non ci impiegarono molto e quando arrivarono il mezzelfo si stupì di come ancora ricordasse molto bene le strade della sua città, sebbene fosse da anni che non ci metteva piede o al massimo la sorvolava con Soraya.
Finalmente giunsero alla loro meta.
Quella porta, piena di ricordi. I muri così bianchi, candidi. Deglutì e bussò.
«Chi è?», la voce di suo padre era fin troppo riconoscibile.
«Sono Handir, papà», rispose con la voce leggermente incrinata.
Potè immaginare la sua espressione, gli parve quasi di percepire il suo rancore
nell'aria. Rumore di alcuni catenacci, poi la porta si aprì lentamente, «che vuoi?»,
domandò l'uomo con la voce piena di astio.
Ad Earine parve di rivedere sua madre e un brivido le attraversò la schiena solo a pensarci.
«Ti volevo presentare la mia fidanzata, Earine», la porta si aprì completamente e sulla sua soglia
apparve un mezzelfo poco più basso di Handir.
«un'elfa? E bravo il mio figliolo, ottima scelta», disse. Handir sorrise.
Pochi istanti dopo comparve sua madre. «Oddio...», sussurrò quando vide il ragazzo. Lo abbracciò.
«Mi sei mancato... temevo non tornassi più», sussurrò mentre le lacrime le scivolavano sulle guance rosee e inumidivano la casacca del giovane.
Si separarono, e poi guardò l'elfa, «e chi è questa bella signorina qui?», chiese, facendola arrossire.
«E' la mia fidanzata, Earine», la donna sorrise e le strinse la mano.
Passarono il pomeriggio serenamente, a Handir non sembrava vero che il padre non lo avesse mandato via.
Earine ispirava simpatia ai due coniugi e in poco tempo andarono d'amore e d'accordo.
Arrivò la sera. «Handir, ti devo parlare», gli disse suo padre. I due si allontanarono.
«Ascoltami... mi dispiace davvero tanto per come ti ho trattato, l'ho capito da tempo, ci ho riflettuto su, ma a causa del mio orgoglio non ho mai voluto dirtelo, sarebbe bastata una semplice lettera o la magia, ma non ne ho avuto il coraggio... potrai mai perdonarmi? Sono orgogolioso di te e di ciò che sei diventato».
«Papà, non ho mai desiderato altro che la tua approvazione».
«Ti voglio bene, figlio mio», gli disse e si abbracciarono.
Passarono la serata tranquillamente, chiaccherando allegramente.
Con il passare del tempo l'elfa, pian piano, cominciò ad apprendere anche la lingua parlata nel Mondo Emerso, grazie a Handir.
Earine si sentiva accettata da loro, era felice.

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«Ho l'impressione che gli abitanti di Seferdi non mi vedano di buon occhio...»
Una mattina Earine, prima di alzarsi, si era confidata improvvisamente.
Aveva bisogno di scrollarsi un peso di dosso e Handir era la persona ideale con cui farlo.
«Non so... mi guardano storto quando vado in città a fare compere, delle volte mi rispondono
sgarbatamente, guardano i miei capelli, i miei tratti, così diversi dai loro», gli raccontò.
«Immagino... qui non siamo molto abituati agli stranieri, al contrario di città come Salazar e Makrat, ma non ti devi preoccupare, ci faranno l'abitudine».
«E' da settimane che va avanti questa storia», rispose seria.
«Stai tranquilla, non hanno mai visto un elfo, è normale», cercò di rassicurarla.
Rimasero alcuni secondi in silenzio.
«Voglio diventare una mezzelfo», esordì Earine.  
«Che cosa stai dicendo? Io ti amo per ciò che sei».
«Lo so, ma voglio essere una di voi», disse con risolutezza.
«Se proprio lo vuoi...»
«Sì».
Riflettè per alcuni secondi.
«Ti porterò da un mago esperto uno di questi giorni, contenta?»
«Grazie, grazie, grazie!», rispose abbracciandolo.
Poco tempo dopo Handir contattò il mago più esperto di tutta Seferdi e gli spiegò la situazione.
Lui gli spiegò che esistevano magie molto difficili che consentivano a una qualsiasi creatura di cambiare razza, ma solo quelle con cui ha più affinità, in questo caso elfi e mezzelfi. Si diedero appuntamento nella lussuosa casa del mago, un certo Melilon, per il rito. Earine era eccitata e allo stesso tempo preoccupata.
«Non ti preoccupare, andrà tutto bene. Te l'ho detto, è il miglior mago della città».
«Hai ragione... scusa ma non riesco a non essere tesa», sussurrò.
«Tranquilla», le disse, coccolandola. Lei arrossì e sorrise timidamente.
Così, mano nella mano, bussarono alla porta di Melilon. Aprì loro un mezzelfo abbastanza slanciato,
con gli occhi vividi e la bocca diafana piegata in un mezzo sorriso.
«Prego, accomodatevi», li salutò.
«La ringrazio», rispose l'elfa.
Presero posto, iniziarono a parlare del più e del meno finchè non arrivarono al sodo.
«Quindi sei qui perchè vuoi diventare una mezzelfo, dico bene?»
«Esattamente».
«Sei consapevole che questo rito è rischioso per te, e potrebbe non avere successo?»
«Sono pronta a rischiare».
«Ottimo, mettiamoci all'opera allora».
Si sedettero su un tappeto molto semplice ma raffinato, color rosso carminio, e Melilon estrasse da uno scaffale lì vicino il necessario per il rito. Pezzi di carbone, un ramoscello, alcuni cataplasmi e miscugli di erbe variegate.
Earine guardava stupefatta tutto l'ambiente che la circondava, nonostante ci fosse abituata fin da piccola. Non riconosceva le sostanze impiegate poiché nelle Terre Ignote la vegetazione era diversa.
Melilon accese un piccolo braciere e vi fece arroventare un paio di cubetti di carbone, poi li passò a fior di pelle sul corpo della ragazza. Dopo comiciò a disegnare strani caratteri lungo le braccia, il torace e le gambe, che un istante dopo l'incisione scomparvero. Fatto ciò, accese dei bracieri con dentro le sostanze che aveva preparato precendentemente e li dispose con cura intorno alla giovane.
Earine cercava con lo sguardo Handir, nonostante anche lui fosse molto preoccupato.
Il mago cominciò a recitare la magia in elfico, lo riconobbe.
Ad un certo punto ricomparvero i segni tracciati dal mezzelfo e si illuminarono a giorno.
I bagliori che emettevano si ingrandirono circondandola tutta, mescolandosi ai fumi che provenivano dai bracieri, e venne sollevata in aria per pochi secondi. Il ragazzo dovette coprirsi gli occhi con un braccio, mentre Melilon strizzava gli occhi continuando a tendere le braccia verso Earine. Poco dopo la ragazza si accasciò a terra e Handir corse da lei. La prima cosa che notò furono i capelli, blu, con qualche lieve accenno di verde.
Melilon lo aiutò a farla rivenire e fu allora che notò le proporzioni, ora più umane, del suo corpo, gli arti meno allungati; rimaneva comunque esile e slanciata. Aprì gli occhi, si prese in mano una ciocca di capelli e successivamente guardò Handir piena di gratitudine.
«Sei una di noi, ora», le sussurrò.
«Grazie di tutto».

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Capitolo 6
*** Epilogo ***


Epilogo
Gli anni trascorsero felici.
Handir ed Earine si sposarono ed ebbero una figlia, Arwen.
Era una mezzelfo come altri, tranne per una piccola
caratteristica: una ciocca verde tra i candidi capelli blu.
Fu una bambina allegra, solare e con tanta voglia di vivere.
A vent'anni, durante la Grande Guerra, scoppiata
da qualche anno, si sposò con un mezzelfo di ceto medio.
Pochi anni dopo Arwen rimase incinta del suo primo figlio,
che perse a causa  di un aborto spontaneo.
Ne soffrì molto, ma il destino fu molto generoso con lei.
 Infatti poco tempo scoprì di essere  nuovamente  in dolce attesa.

Un giorno vi fu un'incursione dei Fammin a Seferdi,
e Arwen, in preda alla disperazione, fece un voto: avrebbe
consacrato suo figlio a Shevraar, il suo Dio, se fossero sopravvissuti.
Vennero graziati, e fuggirono in un villaggio ai confini della Terra dei Giorni,
 insieme ai pochi mezzelfi scampati allo sterminio,
ormai giunto ad uno  stadio avanzato.
Con lei c'erano i suoi genitori e il marito, i nonni erano
stati uccisi barbaramente dalle creature del Tiranno.
In quei giorni nacque una bellissima bambina.
Earine le chiese come la volesse chiamare
e Arwen non ebbe alcuna esitazione.
«Sheireen», rispose.
Le si gelò il sangue nelle vene.
Sheireen.
La consacrata.
Un ciclo che ricomincia.
Marvash è tornato.

Il terrore pervase ogni fibra del suo corpo.
 

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