One Blue Sky

di Lilmon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Apocalisse ***
Capitolo 2: *** يعيش! ***
Capitolo 3: *** Wanted ***
Capitolo 4: *** Arbeit Macht Frei ***



Capitolo 1
*** Apocalisse ***


Capitolo I
Apocalisse

“C’è chi pensa che ogni tragedia sia in realtà solo il grado più infimo del bene”


Era un giorno come gli altri, nuvoloso e fresco. L'estate stava giungendo ormai al termine cedendo il proprio posto al variopinto autunno, in tutte le strade si potevano già notare alcune foglie che, abbandonando i propri rami, erano cadute in terra fluttuando dolcemente. I riccioli dorati di Samuel si agitavano vorticosamente in tutte le direzioni a causa della brezza che in cima al One Liberty Plaza quel giorno sembrava soffiare più potente che mai. Le sue dolci gote rosse erano rigate da alcune lacrime che, scaturite dai suoi occhi tutti arrossati, percorrevano il suo intero viso sino al mento per infine distaccarsi e precipitare in strada. Samuel poteva scorgere dal cornicione di quell'edificio tutte le auto, ammassarsi in file interminabili lungo la Liberty. Non badava minimamente a tutto quel trambusto, a tutti quei rumori disordinati, era in un mondo tutto suo, in un mondo in cui alla dura realtà non era concesso di entrare; un mondo fantastico dove le sofferenze della sua esistenza sembravano occupare un posto minimo, irrisorio, quasi nullo. Stava là, a braccia aperte, cercava di respirare con calma, cercava di placare l'inarrestabile battito del suo cuore, che pareva quasi voler uscire dal suo petto; ma non ci riusciva, singhiozzava e singhiozzava, ripensando a tutte le sue esperienze più brutte, a tutti i soprusi, rivalutando ogni minimo fatto accaduto durante la sua vita. Forti e violenti colpi provenivano dalla porta che, dalle scale, dava l'accesso al tetto dell'edificio. Come un ariete infuriato qualcosa, o piuttosto qualcuno, stava percuotendo il metallo verde del portoncino, bloccato da un tubo di ferro. Una voce stava urlando a squarcia gola -Samuel non farlo! Non farlo ti prego! Fermati!-.

Come ogni domenica sera era tornato dall'abitazione di suo padre; sceso dall'auto si era ritrovato di fronte a casa sua, una palazzina di tre piani nel Bronx. Il suo alloggio, dove viveva con la madre, era al piano terra, rialzato rispetto al suolo di tre o quattro metri. Samuel aveva sulle spalle uno zainetto dell'Eastpak rosso con delle macchie nere, contenenva i libri di scuola, sui quali il giorno precedente aveva sottolineato i concetti da memorizzare; un piccolo pupazzetto penzolava da una delle due cerniere che richiudevano la tasca principale. Nella mano destra portava un sacchettino di plastica bianca, in cui v'erano caramelle che quella stessa mattina la sua anziana nonna gli aveva regalato. Saliva così i quindici gradini di finto marmo bianco, fermandosi a metà per poter suonare il citofono. Premuto il pulsante, un suono sgradevole risuonò in tutto il condominio. Pochi secondi dopo dal citofono provenne una voce metallica che domandava -Chi è?-. Il ragazzo rispose -Sono io...-. Il cancelletto in cima alle scale si aprì improvvisamente e dalla porta, subito dietro ad esso, giunse un rumore meccanico. Sbloccata la serratura, una piccola donna sbucò dalla porta numero 1 che in quel momento si era aperta, mostrando una fessura sottile da cui proveniva una lama di luce giallastra. La donna disse -Ciao Sam-, ed il ragazzo, richiuso il cancelletto metallico alle proprie spalle, entrò in casa.
L'alloggio non era ampio, ma piuttosto piccolo, contava infatti solo sei stanze. La porta d'ingresso, in legno dipinto di un azzurrino spento, s'affacciava su un corridoio lungo una decina di metri. Esso concedeva d'accedere a cinque stanze. Le due stanze sul lato sinistro erano due camere da letto, mentre le due stanze sul lato destro erano un piccolissimo sgabuzzino ed un altrettanto ristretto bagno. Dall'ultima porta, al fondo del corridoio, si poteva sbucare in un piccolo salottino, che era tutt'uno con una microscopica cucinetta. Il ragazzo attraversò il corridoio, e svoltò a sinistra verso la sua camera da letto. Era ristretta, sulla sinistra un enorme armadio in legno scuro occupava poco meno di metà della stanza, sul fondo invece v'era una scrivania in castagno, con sopra una piccola televisione grigia. Il letto, ad una piazza, era a sinistra contro il muro bianco, su cui erano state attaccate centinaia di piccole stelle od altri strani adesivi fosforescenti. Infine dietro al letto una libreria in finto legno conteneva dozzine di libri e quaderni di scuola buttati alla rinfusa sugli scaffali.
Samuel lanciò lo zaino sul letto, si tolse le scarpe da ginnastica bianche e corse in salotto buttandosi sul divano blu. Alla sinistra d'esso, nel salotto v'erano una poltrona (anch'essa blu) ed un tavolino nero, su cui erano appoggiati vari attrezzi elettronici quali telecomandi e cellulari. Dietro a tutto ciò stavano tre librerie nere che, oltre ad offrire ricovero a vari volumi più o meno impolverati, conservavano vari CD o DVD. Di fronte al divano v'era un tavolo con quattro sedie, due credenze piene di bicchieri, piatti e posate ed un secondo mobiletto nero su cui stavano un grande televisore nero a schermo piatto, un modem per la linea internet e varie console munite ognuna dei propri joystick.
Il cuscino del divano era già quasi tutto completamente bagnato, quando sua madre si sedette al suo fianco, appoggiando la sua mano sinistra sulla schiena del figlio. -Ti ha detto ancora qualcosa?- chiese la donna tutta mesta e preoccupata. -Mamma, non ne voglio parlare!-. Lei rispose -Samuel..-, ma fu interrotta bruscamente dal ragazzino che, alzatosi di scatto, corse nella sua stanza richiudendo violentemente la porta; un tonfo echeggiò in tutta la casa, e solo due orecchie molto attente avrebbero potuto sentire il lieve sospiro che scaturì dalla bocca della donna.

Quel lunedì passò veloce. La mattina Samuel si alzò come ogni giorno, andò a scuola come ogni giorno, tornò a casa per mangiare come ogni giorno e passò il resto della giornata come ogni giorno. Ma qualcosa differiva da tutti gli altri giorni della sua vita, quel lunedì, quel preciso giorno, Samuel sentiva il suo cuore cedere, per la prima volta dopo 17 anni sentiva il suo cuore soffocato, intrappolato in una pressa mortale. Quella notte, coperto da uno spesso strato di coperte, il cuscino del ragazzo assorbì tutte le sue lacrime, come una spugna.

Così l'indomani, martedì, Samuel prese una decisione; Samuel saltò scuola, salì sul bus numero 113 ed in mezz'oretta fu dinanzi al grande grattacielo dove suo padre si recava a lavorare come capufficio di un'importante azienda di trasporti. Entrato attraverso le grandi porte di vetro limpido e rilucente, si ritrovò nel trafficato atrio della struttura. Il portiere lo riconobbe subito, sorpreso gli urlò un saluto e lo fece passare; Samuel camminava a testa bassa, non badando a niente, a nessuno. Premendo un bottoncino rosso, chiamò l'ascensore ed, apertesi le porte metalliche, entrò nella cabina. Salì sino al 26° piano, poi entrò in una porta e si ritrovò in un ufficio disordinato e pieno di impiegati. Una bella ed appariscente signora gli si avvicinò e gli disse -Ehi cosa ci fai qua Sam? Vuoi vedere tuo padre?-. Annuì. La segretaria lo accompagnò davanti ad una porta e l'aprì. Un uomo stava seduto su una poltrona di pelle nera, dietro ad una scrivania in noce. Era sulla cinquantina, alcuni capelli già bianchi al di sopra delle orecchie, aveva dei baffoni neri ed era vestito con un completo nero molto elegante. Nel taschino della giacca un fazzoletto rosso. Era indaffarato a spostare con la mano sinistra delle carte, nella destra un sigaro e la testa, premuta contro la spalla, gli permetteva di reggere la cornetta del telefono grazie alla quale stava parlando di affari con qualche suo socio. Rivolta un'occhiata veloce al figlio, riprese a guardare i documenti. Samuel si avvicinò lentamente alla scrivania del padre, quando fu in sua prossimità, sbattette violentemente entrambe le mani sui fogli che suo padre stava maneggiando. Il padre alzò gli occhi sbalordito, chiuse bruscamente la chiamata, scattò fulmineo in piedi ed urlò -Cosa credi di fare tu? Venire qua senza avvisare e piantare casino così? Ma come ti permetti? Io sto lavorando Samuel!-. -Stai zitto verme!-. L'ufficio intero s'era ammutolito, tutti guardavano quella singolare scena, la segretaria aveva persino la bocca spalancata.

-Samuel io questa volta giuro che...-, la voce del padre si spezzò contro le urla del figlio, come un fragile spillo contro un'incudine di metallo; -Devi stare zitto! Non ci sarà nessun'altra volta papà! Tu sei uno schifoso mostro, sì, sei tu il mostro, non io! Tratti male tutti, la mamma ti ha lasciato perché sei una persona deplorevole, insulti tua madre, insulti chiunque provi un qualunque minimo affetto per te! Papà tu ti vuoi isolare! Tu ti sei sempre isolato! Mi hai sempre trattato con freddezza; avere un figlio sembrava quasi più un peso per te, che non un piacere; tu non mi hai cresciuto, tu non mi hai amato, tu non hai mai fatto nulla che mi desse anche solo una qualche minima gioia. Tu mi odiavi già da bambino papà, io ero, e sono, il simbolo del tuo fallimento, del fallimento della tua vita. Quando hai scoperto che mi piacciono i ragazzi, le persone del mio stesso sesso, ti sono sembrato un mostro. Ma io sono fatto così, non potrai cambiarmi, mai; io sono fatto così, io sono nato così! Non me ne frega nulla della tua fottuta azienda, non me ne frega più nulla nemmeno di te! Odiami pure quanto vuoi! Tanto ormai hai rovinato la mia vita; tu sei un assassino papà. Sì, un assassino, ed ora commetterai il tuo primo omicidio-.
Detto questo il padre rispose infuriato -Ma cosa c'è di così sbagliato in te? Perché non sei normale? Perché devi fare queste stronzate?-. Ma Samuel era già corso via, scoppiando a piangere. Sentiva un fuoco dentro di sé, che bruciava ogni cosa, si sentiva immortale, capace di qualunque cosa. Prese le scale il più in fretta possibile, salì sin sul tetto, richiusa la porta la bloccò con un tubo di ferro, e corse verso il cornicione.

Stava là ormai da qualche minuto, immobile. Ripensava a tutta la sua vita, ripensava a tutte le brutte parole sentite da suo padre, suo padre. -Sei un mostro!-, -Sei sbagliato!-, -Mi fai schifo!-, -Tu non sei mio figlio!-. Si passò una mano sul volto umido. Prese un lungo respiro, i suoi polmoni si gonfiarono come non mai, sembravano due otri colmi di tutti i venti del mondo. Poi mosse un piede verso il vuoto. Tremava tutto, ma non aveva più paura, nessuna preoccupazione dilagava più nella sua stanca testa. Si sentiva alleggerito, si sentiva finalmente libero, avrebbe volato, si sarebbe librato in cielo, nel suo ultimo viaggio, verso l'infinito.

Tutto accadde in un attimo, erano circa le 9 meno qualche minuto. Qualcosa attraversò il cielo, rapido come un fulmine, quasi come un meteorite inarrestabile. L'aria vibrò violentemente ed il ragazzo perse l'equilibrio. Sentì un vuoto dentro di sé, si sentì perso, si sentì precipitare. Occhi spalancati, bocca aperta, ma nessun suono, nemmeno il più debole sussulto. Intanto un botto assordante risuonò in tutta la città, quasi un'esplosione gigantesca. Polvere, fuoco e fiamme dappertutto, sino al cielo, grigiastro, infinito. Quella mattina, martedì 11 settembre 2001, morirono nella città di New York 2995 persone per alcuni attentati terroristici. Una sola persona ebbe da questa catastrofe una salvezza: Samuel Berkeley si ritrovò sbalzato dall'esplosione al di qua del cornicione, sopra il tetto di cemento del One Liberty Plaza. Davanti ai suoi occhi, fiammeggiante, l'Inferno.

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Capitolo 2
*** يعيش! ***


Capitolo II
يعيش!

“Lei sognava un mondo fasullo”


-Munira devi andartene in fretta! Lui arriverà a breve! Sai che non vuole vederti qua, a casa nostra; ti prego vai in fretta! Altrimenti questa volta non avrà il minimo riguardo- disse Maram disperata all'amica. Dopo averle tirato la borsa, la spinse fuori dall'uscio dell'enorme villa in architettura sunnita eretta tra la Qabla e la Shuada, ai piedi del titanico santuario di Imam Hussein. Prima che Maram potesse chiuderla, Munira fermò la spessa porta lignea col piede e, fattasi strada col gomito disse all’amica –Che antipatica che sei, e poi dovresti sfidare un po’ Ubayd, non hai più due anni- e ridacchiò molto vivacemente. La donna sospinse la porta con più forza, scostò col proprio piede quello dell’amica e disse –Vai Munira! Vai!-. Il portone si richiuse con un gran botto e la donna rimasta al di fuori dell’abitazione gridò ancora –Ciao!-; l’altra, appoggiatasi con la schiena al legno intarsiato rispose –Vai via!-.

La casa, edificata nella città di Kerbala, era immensa. Venti stanze offrivano alloggio ad una delle tre famiglie di uno dei più temuti vertici dell’esercito del Mahdi, l’esercito di combattenti fondato da Muqtada al-Sadr per volere del leader assoluto iracheno Saddam Hussein. La donna mosse i suoi primi passi ed attraversò l’atrio bianco, procedendo tra i vari divani e poltrone in raffinato tessuto purpureo. Sui tavolini di vetro raffinatamente lavorato erano appoggiate innumerevoli pipe ad acqua con a fianco diverse varietà di tabacco, v’era il tabacco alla cannella, il tabacco alla liquirizia, ma anche il tabacco al tabasco. Maram si ritrovò dunque presto in cucina: una grande stanza tutta piastrellata in terracotta rossa, un forno enorme a legna emanava un calore immenso. –Afaf, prepara il latte di capra-, la serva rispose –Subito signora-. Quando il latte fu scaldato a dovere e la serva lo ebbe messo in una piccola tazza verde e blu, la donna si diresse verso le stanze da letto. Attraversò un lungo corridoio alle cui pareti erano appesi innumerevoli tappeti tutti ricamati di fili d’oro e d’argento. Alcuni ritraevano scene religiose del Corano, altri importanti battaglie storiche, dalle più antiche, alle più recenti. Il corridoio dava a sua volta su otto stanze, due bagni enormi e sei camere da letto. La donna entrò nell’ultima stanza, era abbastanza piccola ma piena di fini tendaggi bianchi che riparavano dal caldo e dagli insetti. Al centro di questi una piccola culla rosa, dentro v’era una bellissima bambina di pochi mesi. Qualche capello rado le ricopriva la testa, gli occhioni, in quel momento chiusi in un sonno profondo, erano marroni scuri, caldi, avvolgenti come il deserto arabico; il loro taglio era sottile, il classico taglio arabo, quello che rimane impresso nella mente, quello che esalta lo sguardo, quello che fa sognare. –Aisha, Aisha svegliati-. La bambina aprì gli occhi e guardò la madre sognante, deformò la bocca in una sorta di sorriso; poi spasmodicamente, poiché non era ancora abituata ai movimenti, mosse un braccio verso il viso della donna. –Tesoro mio è ora di mangiare, c’è il tuo latte qua-; detto ciò Maram prese in braccio sua figlia e le imboccò pian piano il latte caldo. Nel mentre cantava una canzoncina molto allegra, tipica della tradizione sunnita: parlava di una bambina che, innamoratasi del sole, che vedeva risplendere ogni giorno nel mezzo del cielo per poi scomparire di notte, iniziò a seguirlo nel suo tragitto attorno a tutto il mondo, ma, non potendo mai raggiungerlo, invecchiata e divenuta tutta rugosa, si trasformò nella luna, bella solo per riflesso della luce solare. Quando poi Aisha ebbe finito di mangiare, le batté qualche lieve colpetto sulla schiena per assicurarsi che tutto il latte fosse stato correttamente ingerito dalla bambina e successivamente la depose nuovamente nella culla. –Dormi mia stella, sì, tu diventerai bellissima, bella e luminosa come una stella-. La donna quindi uscì dalla camera della bambina e si avviò verso il boudoir per cambiarsi d’abito e mettersi la veste da notte.

Sedutasi su una piccola poltroncina Maram iniziò a slegarsi i capelli davanti all’enorme specchio che rifletteva il suo bellissimo volto. Occhi castani scuri, capelli neri come l’ebano, le gote soffici e morbide, il naso piccolo e delicato, il mento perfettamente proporzionato al resto del volto. Era bellissima. Toltasi il velo, dopo aver detto mille preghiere al proprio Dio per non farlo adirare della sua mancanza di rispetto, si slegò finalmente i capelli. Erano lunghissimi, le ciocche più lunghe le arrivavano sino alla parte finale della schiena; ella prese un pettine e cantando iniziò a spazzolarsi i capelli. Un colpo, due, tre; se ne diede quasi un centinaio, poi li raccolse nuovamente avvolgendoli più volte su sé stessi e fermandoli con uno spillone marroncino. Dopo, iniziò a slegare i cordoncini bianchi che le richiudevano il lungo vestito di cotone purissimo che le ricopriva il suo magrissimo corpo. La donna sospirava, quando i lacci furono sciolti la veste ricadde sul suolo. La donna si guardava intensamente allo specchio, con amarezza; guardava incredula e allo stesso tempo rassegnata quel corpo bellissimo, quel corpo divino, quel corpo che una volta era perfetto. Guardava le chiazze scure che le ricoprivano il corpo, osservava quegli enormi ematomi che macchiavano quell’opera d’arte di Allah. Provò a sfiorarne uno che aveva sotto il seno sinistro, quasi nemmeno lo toccò con le sue dita, ma un fremito scosse tutti i suoi nervi, Maram sussultò ed emise una piccola interiezione di dolore. Poi, messasi una mano sul voltò iniziò a singhiozzare molto sommessamente, cercando di fare il minimo rumore possibile.

-Signora, stasera niente bagno?-. La donna interruppe bruscamente il proprio pianto. La serva Afaf stava sulla porta del boudoir, asciugamano di lino tra le braccia, era proprio lei che aveva proferito quella domanda. Maram coprì subito le proprie nudità con la veste, s’alzò in piedi, si diresse furiosa verso la serva e le urlò –Come ti permetti sporca donna volgare? Va via! Va via e non interrompermi più sgualdrina!-. Chiuse violentemente la porta in faccia alla serva, che imprecò qualcosa sotto voce. La donna sconvolta si mise in fretta e furia la veste da notte, si rimise il velo, s’asciugò il viso e si preparò per andare a dormire, quando alla porta risuonarono i colpi di qualcuno che bussava. A quel punto la donna s’alzò nuovamente in piedi ed urlò agitando le braccia –Va via Afaf! T’ho detto che stasera non voglio nessun bagno!-. La porta si spalancò e sulla soglia comparve una figura imponente, enorme, muscolosa. La donna ammutolì subito e cadde all’indietro emettendo gemiti di puro terrore. Le sue mani, che pararono la caduta, si misero in pochi istanti a protezione del volto, la donna sussurrava –Per Allah no, per Allah no-.

Ubayd Makhlouf, quarantasei anni, tre mogli e sette figli. Militare d’alto rango al servizio di Saddam, stava, irato e tutto sporco di fango e polvere, all’ingresso del boudoir, a spalle ancora il kalashnikov tutto consumato. –La schiava m’ha detto che oggi hai visto quella puttana di Munira. Non è vero Maram?-, il marito, accovacciatosi prese il mento della moglie, che con una smorfia di dolore cercava di resistere alla sua morsa. -Maram, rispondimi quando ti parlo-. La donna sussurrò –E’ passata solo a salutare, Ubayd, solo per due minuti-; un colpo risuonò in tutta la casa e la donna si ritrovò immobile a terra. –Brutta stronza! Cosa ti ho ripetuto migliaia di volte? Quella devi smettere di vederla! Hai capito brutta sgualdrina? Qua comando io! Io ti ho concesso di divenire mia moglie! Io ti mantengo! Io decido sulla tua vita!-. La donna iniziò a piangere ed ad urlare –No ti prego! No ti prego!-. Ubayd si slacciò la cintura e molto frettolosamente la tolse dai pantaloni, gridava –Vieni qua puttana! Quando imparerai che qua muori se non fai quello che ti dico io? Vieni qua!-, afferrò la donna che cercava di trascinarsi per terra per sfuggire alla furia del marito. –Credi che io sia contento di fare tutto questo? Torno dalla guerra stanco morto e tu ancora fai la stronzetta con la tua amica, pensando all’occidente, pensando a quel mondo di infedeli schifosi; rispetto è la prima cosa che devi avere, lo stesso rispetto che porti per Allah, Maram, rispetto per il tuo popolo, per le tue tradizioni, per la tua religione, ma più di ogni cosa rispetto per me. E fin quando non capirai questo concetto, ti giuro che continuerò ad insegnartelo, ogni sera-. La cinghia colpiva violentemente il corpo della donna, che si dimenava a terra, urlando e scalpitando. Più e più volte quel suono, quell’aria compressa in pochi secondi, fischiò in tutta la villa. Dopo circa dieci minuti un rumore ostacolò gli insegnamenti di Ubayd: Aisha piangeva. Senza più alcuna voglia di vivere Maram capì quello che sarebbe accaduto di lì a poco, tutti i pensieri più orridi del mondo gli passarono veloci, fulminei in mente, in un unico istante. Con l’ultimo filo di voce sussurrò al marito –Ubayd ti prego no. Continua a colpire me-. Ubayd infuriato disse –La vuoi smettere schifosa puttana? Devi stare zitta hai capito? Sei sempre stata inutile, hai dato alla luce un’inutile femmina. Devi stare zitta, sei stata uno sbaglio orribile-. L’uomo uscì dalla stanza, dopo qualche istante il pianto della bambina crebbe esponenzialmente, poi un breve strillo, l’apice; invadevano la casa così solo più le grida disperate della donna che si dimenava in terra strappandosi tutti i capelli. Nessun pianto più, nessun altro rumore.

Proprio in quell’istante d’inferno, in quell’istante in cui la donna avrebbe preferito non esistere più, non essere mai nata; la villa crollò sotto i bombardamenti della Coalizione. Un polverone s’alzò in tutta la casa e Maram si risvegliò tra le macerie. La gola gli bruciava come se fosse scoppiato un fuoco dentro di lei, non vedeva nulla per la polvere e continuava a tossire e a tossire. Quando si è persa ogni speranza, non rimane più nulla, nulla per cui continuare ad andare avanti, a combattere. Ma quella donna una speranza l’aveva ancora; quella donna credeva in un mondo diverso; quella donna, prima senza forze e senza più alcuna voglia di abitare questo mondo, ora si era ricordata di tutti i suoi sogni, di tutte quelle giornate passate con l’amica Munira all’insaputa del marito a parlare dell’occidente, a fantasticare sull’Europa, sull’America, a guardare quegli esempi di libertà che lei aveva avute negate fin da quando Allah aveva scelto di farla nascere donna. Si era così alzata, nessuno potrà mai dire con quali forze, forse qualche poeta spicciolo potrebbe dire “la forza dell’amore”, aveva mosso qualche passo verso la luce che proveniva da una breccia nel muro, aveva scavalcato il rudere che la separava dall’esterno e, una volta giunta in strada, era crollata senza più dare alcun segno di vita.

Russia. Un’oscura stradina di San Pietroburgo in un inverno molto rigido. Sotto un piccolo lampione stavano due donne, molto poco vestite. Quella a sinistra, robusta, pelle paonazza, capelli biondi tinti, ricci, corti, stava fumando una sigaretta; quella a destra era molto gracile, pelle scura, capelli neri corvini, corti e sciupati, due occhi vitrei, tremava per il freddo. Una macchina blu scuro si fermò, l’uomo alla guida abbassò il finestrino e disse –Quella a destra-. La ragazza s’avvicinò e si chinò entrando con metà busto nella macchina, i suoi occhi castani avrebbero stregato chiunque. L’uomo chiese –Ehi dolcezza, come ti chiami?-. Sì, quella donna, quella prostituta, rispose –Mara-.
 
Nota:

Munira, dall’arabo “colei che sparge la luce”
Maram, dall’arabo “aspirazione”
Afaf, dall’arabo “castità”
Aisha, dall’arabo “vita”
Ubayd, dall’arabo “fedele”

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Capitolo 3
*** Wanted ***


Capitolo III
Wanted

“Quando tutto ciò che t’interessa svanisce, è l’ora di scomparire anche per te”

La città di Calais con il suo immenso porto era già visibile all’orizzonte. Un grande insieme di punti luminosi di vari colori schiariva il cielo scuro di quella fresca notte primaverile, impedendo a poco a poco la vista delle stelle, la quale luce era ostacolata da quell’inquinamento luminoso. La stella polare però, nel centro del cielo, brillava come non mai, e il grande carro sembrava salutare Gerard che, ricoperto da un impermeabile grigiastro, stava ritto a poppa del traghetto con cui qualche ora prima era salpato da Denver. Il vento cercava tenace di strappare dalla sua testa, quasi calva ormai per l’età, il cappello nero stile fedora che aveva in testa. Così, mentre la mano sinistra era intenta a imprigionare il copricapo, la mano destra, sollevata rigidamente, tratteneva un piccolo vaso violaceo. Il vecchio stava piangendo, ma non sembrava triste, quanto più felice, alleggerito, finalmente libero. Una grande nube grigio-nera segnava il tragitto dell’imbarcazione, levandosi in aria quasi come la scia di un aeroplano.

Un trillo acuto risuonò in tutta la casa. Come ogni giorno anche quella mattina la sveglia squillò alle otto in punto. Il vecchio Gerard Palmer si destò con un fremito di panico poi, realizzato di trovarsi in casa sua, si portò le mani al volto e tirò un lungo sospiro. Allungò subito la gamba destra verso la parte destra del letto, ma la ritrasse subito poiché incontrò il gelido nulla. Contrasse tutti i suoi muscoli e poi scattò (per quanto può scattare un sessantenne) seduto. Ancora non convinto della sua solitudine in casa, si voltò indietro, ma trovò solo un letto vuoto e sfatto; un altro sospiro e fu pronto a spegnere la vecchia sveglia nera che continuava a suonare la propria infernale melodia. Ritraendo la mano dal comodino s’accorse di un portafoto d’argento caduto, fece per tirarlo su, ma quando le sue dita sfiorarono il freddo metallo le trasse subito indietro, chiudendo gli occhi. Infine, datosi una spinta e messosi le ciabatte, s’alzò e avanzò zoppicando verso il piccolo bagno azzurro, poiché i suoi muscoli erano freddi. Un microscopico lavandino, un gabinetto e una stretta doccia: queste le comodità presenti in casa Palmer. Lavatosi dunque i denti, decise che quello era il giorno giusto per farsi la barba. Aprì il mobiletto posto al di sopra del lavabo, dentro v’erano, oltre all’attrezzatura per radersi, anche svariate medicine e trucchi. Di tutto ciò solo un piccolo rossetto rosso colpì l’attenzione dell’uomo che non esitò ad afferrarlo con tre dita. Guardava quell’oggetto usato fino a poche settimane prima dalla moglie, e i suoi occhi sembravano voler riversare in esso tutto il suo odio, tutto il suo rancore, tutto il dolore che in quei giorni aveva provato. Preso dall’ira lanciò quel rossetto chissà dove, verso la camera da letto, infine, liberatosene, portò entrambe le mani al volto e scoppiò a piangere. –Che diavolo sto facendo?- sussurrava.

Stava per uscire di casa, era disceso prima dalle scale e poi aveva percorso tutta la cucina sino a giungere all’ingresso dell’abitazione, quando s’accorse che pioveva. Estrasse un ombrello dal portaombrelli ed aprì la porta. Scese i tre gradini che davano sul giardino, attraversò il sentiero lastricato di pietre grigiastre e salì in macchina. Una vecchia Bentley nera importata dagli Stati Uniti negli anni ’80. Il sedile di pelle ormai consumata sembrava sussurrare ogni volta che si sedeva al posto di guida, e a Gerard ormai quella vecchia scatola di metallo sembrava l’unica arcana confidente rimastagli in vita. Mentre l’accendeva spesso la salutava con dolci parole; così fece anche quel giorno. Mentre la guidava era solito raccontarle storie di vita passata, di giovinezza, esperienze di vita felice, alle quali forse essa non badava poi molto; comunque così fece anche quel giorno. Giunto nel centro di Liverpool, infine, si diresse alla stazione di polizia principale e, una volta parcheggiata Louise (questo il soprannome dell’autovettura), scese e s’avviò verso la gradinata di quell’edificio.

-Guarda John, c’è di nuovo il vecchio!-, disse un poliziotto non appena vide entrare Gerard nella stazione; -Non si da proprio per vinto...- rispose il poliziotto John al suo compare. –Zitti. Portate un po’ di rispetto sciagurati! Sarà pure in pensione ma è pur sempre un ex-ufficiale!-. Una figura aveva parlato da dietro le scrivanie dei due simpatici uomini. Era un personaggio enorme: taglia XL, baffi neri unti, occhi piccoli, faccione enorme e sopracciglia incolte. Stava fumando una sigaretta, i piedi appoggiati alla sua scrivania, la mano destra infilata per metà nei pantaloni, sotto la cintura. –Lucas-, disse Gerard facendo un cenno di saluto, poi riprese –Vedo che stai bene…-. Il comandante con un sospiro rassegnato s’alzò in piedi, s’avvicinò al vecchio e stringendogli forte la mano disse –Gerard…-. Il vecchio non appena lasciata la presa si pulì sul suo impermeabile: la mano di Lucas era tutta unta. –Seguimi-. I due entrarono in un piccolo gabinetto isolato, doveva essere lo studio dell’ufficiale, e si sedettero rispettivamente Gerard su una delle due sedie rosse davanti alla scrivania, Lucas sulla poltrona nera dietro. –Perché continui a tornare qua ogni lunedì Gerard? Te l’ho già spiegato parecchie volte…-; il discorso del poliziotto fu interrotto dalle parole del vecchio che chiese dirompente come un botto -L’avete trovato? -. Lucas incrociò tra loro le dita delle mani, appoggiò le gambe sulla scrivania in noce e distese la schiena –No, ma…-. Il vecchio s’alzò in piedi e sbatté violentemente un pugno sul tavolo, poi, con tono duro e severo, interruppe nuovamente l’ufficiale, dicendo –Almeno lo state cercando?-. Lucas iniziò a ridacchiare, poi ruotò la poltrona verso sinistra e con essa lui stesso. Rispose –Gerard… Sei stato anche tu un poliziotto, lo sai più di tutti come vanno queste cose… Noi non…-. Gerard s’era alzato in piedi, s’era avvicinato a Lucas e prendendolo per il colletto lo aveva alzato e sbattuto contro il muro. I loro volti erano vicinissimi, ma mentre quello di Gerard sembrava quello di un demonio, quello tremante di Lucas pareva più essere quello d’un agnellino. –Brutto pezzente di merda, tu devi muovere il tuo flaccido culo da questa cazzo di poltrona ed andare a cercare lo stronzo che ha ucciso mia moglie chiaro?-. Dalla sala contigua intanto i due poliziotti dovevano aver sentito tutto il forte rumore che era provenuto dal gabinetto, s’erano alzati e s’erano precipitati nella stanzetta. –Stai fermo stupido vecchio o sparo!-, diceva uno; -Immobile, immobile ho detto! Non far cazzate!- diceva l’altro. Lucas alzò le mani, Gerard lo aveva liberato, e stizzito disse –John, Arthur, giù le armi cazzo! Non vorrete sporcarmi la divisa di sangue per un piccolo litigio tra amici?-. Poi giratosi irato verso l’ex-ufficiale gli disse, trattenendo ogni singola goccia di furia, -Gerard, sei fortunato che siamo amici e tu sei il mio vecchio superiore; ma cazzo, smettila di venire ad intralciare il nostro lavoro! Non hai più l’età ormai! Sei in pensione, hai tanti di quei diavolo di soldi, fatti una vacanza, davvero ascoltami Gerard, fatti una vacanza…-, la mano unta dell’ufficiale s’era posta sulla spalla di Gerard, il quale scrollò tutto il corpo, e se ne andò, rispondendo ai suggerimenti di Lucas, –Fottiti stronzo-.

Quella notte come tutte le altre sere da qualche settimana a quella parte, Gerard si recò nel quartiere malfamato di Liverpool, aveva preso con sé la pistola che gli era stato concesso di tenere dopo la sua brillante carriera nella polizia inglese: ufficiale del distretto di Liverpool. Un titolo invidiato da molti poliziotti novellini. Faceva più e più volte il giro di quel quartiere, tra quelle strade buie, sporche e sudicie, dove oltre ai germi, pullulano anche i criminali, gli spacciatori, i drogati. Cercava indizi, tracce di quel lurido criminale che la sera del 3 Aprile 2007, in un vicolo tra la London e la Wilde all’uscita dal teatro Empire aveva tentato di rapinare lui e sua moglie. Gerard portava sempre con sé quell’arma, quella Colt Gold Cup Trophy di cui andava molto fiero. Gliel’aveva regalata il suo ex-ufficiale per la promozione, e la trattava come un gioiellino, sempre lì a pulirla e lucidarla per prevenire qualsiasi tipo di danno, anche il più insignificante. Nella sua testa scorreva quella sera: il rapinatore che tentava di strappare borsetta e collana a sua moglie, lui che tentava di difendere la moglie estraendo la pistola, il rapinatore che poi impauritosi e una volta sparati due proiettili dritti in ventre alla moglie, scappava per la paura, Stephanie che crollava ansimante tra le sue braccia, lui che cercava di fermare quel sangue rosso, caldo, infernale che continuava ad uscire a fiotti dall’enorme ferita, i suoi rantoli, i suoi occhi tremanti. Nulla avrebbe potuto fargli scordare quella tragedia, nulla, nemmeno la vendetta. Però Gerard, egli pensava che almeno quell’ultima sebbene non avesse potuto cancellare il suo dolore, avrebbe almeno potuto alleviarlo. Così da settimane si recava ogni lunedì mattina in stazione per sapere se vi fossero stati sviluppi nell’indagine, ed ogni singola sera, in cerca di qualche indizio, nel quartiere malfamato. Ma quella sera qualcosa catturò la sua attenzione di vendicatore errante, di aiutante della giustizia segreto, quasi di supereroe. Mentre guardava sul marciapiede della strada notò addosso ad un ragazzo (che doveva essere quasi sicuramente un drogato) la collana di sua moglie. Senza pensarci due volte, incredulo per ciò che aveva notato si catapultò fuori dall’auto, estrasse l’arma e la puntò alla testa del malcapitato il quale levò le mani e, non facendo nemmeno in tempo a dire –Ma che cosa?-, si sentì gridare nell’orecchio –Dove cazzo l’hai trovata questa collana? Rispondimi se non vuoi che il tuo fottutissimo cervello si spalmi su questo marciapiede! Dove l’hai presa questa collana?-. Il ragazzo impaurito sino alla morte rispose farfugliando –L’ho presa da un drogato morto, amico! Era morto stecchito per terra tra la spazzatura, amico! Se sapevo che la volevi te l’avrei data subito, amico, tieni cazzo ma lasciami in pace poi! Ti prego non ho fatto nulla; io ho solo fame capisci?-. Gerard prese la collana e, mentre il ragazzo crollava a terra in preda agli spasmi terrorizzato, salì di nuovo in auto. Portò quel pezzo di metallo alla guancia, quasi fosse la mano della sua amata, poi, resosene conto iniziò a piangere convulsamente.

Tornò a casa prima del solito quella notte, erano solo le tre. Pensava e ripensava al cadavere putrefatto dell’uomo che aveva rovinato la sua vita, la faccia mangiata dai vermi, il ventre rigonfio di putridume, tra la spazzatura e magari anche le feci degli animali. Quest’immagine regnava nella sua mente, e quello che provava non era sollievo, neppure il più minimo alleviamento delle sue sofferenze; quello che provava Gerard quella notte era angoscia. Dalla morte di sua moglie il suo scopo nella vita era divenuto trovare quell’uomo, ed ora che lo sapeva morto, cosa gli rimaneva? Il nulla, proprio lo stesso nulla che lo accompagnava a letto la notte, il nulla che trovava al suo risveglio ed il nulla che avrebbe aleggiato nella sua vita da quel momento fino alla morte. Girava per la casa senza meta, le mani premevano sulle tempie che sembravano voler esplodere da un momento all’altro. Ma ad un certo punto sbatté contro un mobiletto di vetro al centro del soggiorno. -Cazzo!- risuonò in tutta la casa. Quando però Gerard abbassò lo sguardo verso l’odiato mobile vi trovò sopra una rivista dell’agenzia di viaggi. La prese subito, l’aveva riconosciuta, era la rivista su cui Stephanie aveva trovato quell’inserto. E appunto il suo sguardo si fermò tra due pagine, dove era posto un segnalibro giallo, il titolo dell’articolo recitava “Parigi, mon amour”. –Mi piacerebbe tanto visitare Parigi tesoro, attraversare questo braccio di mare blu che ci separa dal resto dell’Europa, uscire per una volta nella vita almeno da questa triste isola-. Si ricordò delle parole di sua moglie e in quello stesso istante prese una decisione –Io ho perso tutto amore mio, ho perso tutto. Nulla mi tiene legato più a questo diavolo di posto. Ti prometto amore mio che ti porterò via da qua-. Parlava così davanti a quella pagina di giornale. Poi, preso da un’energia insormontabile, corse al piano di sopra, buttò in un borsone dei vestiti, prese documenti e soldi e si lanciò fuori di casa, la chiuse per bene e poi prima di voltarsi ed entrare in Louise disse –Che cosa sto facendo? Devo essere proprio pazzo… Alla mia età-. Una risata illuminò quella scura via.

Accadde che si recò innanzitutto al cimitero; là con delle tenaglie, che aveva prese dal garage, riuscì a rompere le catene che serravano il cancello. S’avviò dunque silenziosamente  verso il loculo dove riposavano le ceneri della moglie e le trafugò. Poi con una chiamata destò un suo vecchio amico della guardia costiera, pregandolo di fargli un enorme favore; egli avrebbe infatti dovuto preparare la sua vecchia imbarcazione “Juliet”. Così verso le otto del mattino finalmente salpò dal porto di Denver sul motoscafo del suo amico Tom e verso le dieci fu in vista di Calais.

-Hai visto Stephanie? Ti ho portato al mare, ora vai dove ti porta il vento amore mio. Vola!-. Capitò per caso, messa la mano nella tasca destra dell’impermeabile sentì qualcosa di piccolo e cilindrico. Lo estrasse: quel rossetto.

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Capitolo 4
*** Arbeit Macht Frei ***


Capitolo IV
Arbeit Macht Frei

«Chi non è di buona razza in questa terra, è loglio. » [CIT. Adolf Hitler – “Mein Kampf”]

Erano le sei del mattino, il sole batteva ancora debole sulle lastre di pietra che ricoprivano corso Oranienburger e un forte vento scatenava i rami e le foglie dei bassi ciliegi che accompagnavano il viale dall’inizio sin alla conclusione. Una piccola porticina lignea della nuova sinagoga di Berlino si richiuse scricchiolando, ne uscì un piccolo omino incappottato, sembrava avere molta fretta. Nella mano destra portava una piccola valigetta nera, mentre la sinistra era impegnata a tenere salda alla testa una kippah nera finemente decorata con ricami purpurei. L’uomo prese a camminare velocemente, le sue scarpe di cuoio marrone producevano un ticchettio ritmato ad ogni singolo passo. Ma presto quella melodia si fece più confusa, più disordinata; sembravano infatti esserci due suoni sovrapposti, più passi, più persone. L’ebreo si voltò per scorgere se dietro di sé ci fosse qualcuno, ma non vedendo nulla proseguì per la sua strada ed arrivato all’incrocio con corso Tucholsky svoltò a sinistra. L’immensa cupola smaltata dell’edificio di culto stava nascondendosi dietro i tetti degli altri palazzi, quando l’uomo fu nuovamente costretto a voltarsi, udito lo stesso suono di qualche minuto primo. Là, a poche decine di metri, davanti alla serranda grigiastra chiusa di una caffetteria, stava un uomo tutto vestito di nero ed incappucciato. Una spessa felpa e sopra di essa una giacca di pelle lo riparavano dal freddo, i pantaloni di tessuto e due grossi anfibi. L’ebreo stette qualche secondo a guardare quella persona, e subito sentì un tuffo al cuore, poi si convinse di non dover provare timore per uno sconosciuto, rese assioma della sua morale quel proverbio “l’apparenza inganna”, si volse sui suoi passi e proseguì sulla sua strada. Non si può nemmeno immaginare quale terrore potesse provare quel piccolo uomo non appena s’accorse che anche quello strano personaggio aveva ripreso a camminare, e sembrava seguire il suo stesso percorso. Così nei suoi pensieri da strano quale era, quell’uomo incappucciato divenne inquietante, poi da inquietante divenne pauroso, e così aumentò la velocità con cui procedeva per quella Berlino deserta. Si ripeteva “La macchina è là, a pochi passi, devo fare in fretta”. Continuava a voltarsi e rivoltarsi e l’uomo era sempre alle sue spalle: mani in tasca e cappuccio in testa. Aveva già svoltato a destra in via Johannis e poteva scorgere il parcheggio in cui aveva abbandonato la sua vettura, si ritenne salvo. Povero stolto; l’incappucciato si tolse il cappuccio ed accelerò il passo. L’uomo si voltò un’ultima volta per controllare il suo inseguitore, ma ormai era troppo tardi, l’aveva raggiunto. Un giovane, appena maggiorenne, occhi azzurri, naso fine e mascella pronunciata; i capelli, dove non erano stati rasati, formavano una strana figura, che dopo qualche attimo l’uomo capì essere una croce uncinata. –Dove scappi schifoso d’un ebreo?-. Con una spinta l’ebreo si ritrovò a terra, confuso; la sua preoccupazione in quel frangente era che la kippah rimanesse sul suo capo, così non si parò dalla caduta. Le centinaia di fogli contenuti nella valigetta erano ora riversi al suolo, trasportati via dal vento, in dolci turbinii. –Ti prego…- implorava il pover uomo; il ragazzo gli rispose –Oh scusa non t’avevo visto… Vuoi una mano?-, afferrò l’uomo per il cappotto e lo scaraventò contro un’auto grigiastra. Il mal capitato si ritrovò una seconda volta sul freddo asfalto che gli aveva sporcato tutti gli abiti e graffiato il volto. Dopo avergli detto –Sporco pezzente! Non sei nemmeno degno di vivere-, il naziskin iniziò a prenderlo a calci, fin quando del sangue non gli uscì dalla bocca. Poi gli ordinò di alzarsi, urlava –Alzati pezzente!-, -Ho detto alzati, o t’ammazzo!-. Ma proprio in quel momento, quasi un miracolo, passò di lì un’auto e la conducente, accortasi del fatto,iniziò a suonare il clacson ed a dirigersi verso il parcheggio. Il ragazzo si ricoprì il volto, non prima d’aver sputato sull’uomo, e poi iniziò a correre via, veloce come un lupo.

Aveva corso per circa mezzo chilometro, poi, assicuratosi che nessuno lo stesse seguendo, aveva rallentato, avviandosi con calma verso casa. Era una piccola casetta fatiscente tra via Koch e via Wilhelm; l’intonaco bianco stava cedendo scrostato ed eroso da pioggia ed altre intemperie, la muffa ricopriva a grosse chiazze gran parte delle pareti;  il tetto, mal sistemato, lasciava entrare spesso l'acqua. Il piccolo giardino davanti all’abitazione vantava erba incolta, alberi non potati e un vialetto di ciottoli, di cui un  numero irrisorio giaceva ancora nella sua posizione originaria. Quando entrò in casa, tutti i suoi nervi fremevano ancora dall’eccitazione per ciò che aveva compiuto poco più di un’ora prima; si sentiva potente, inarrestabile, in cima al mondo; si sentiva vivo. Urlò –Vecchia?-, nessuna risposta, quindi salì di corsa su per le scale di legno consumato ed entrò in camera sua. Era una stanza spaziosa, la cui pareti erano tutte interamente tappezzate di poster recanti personaggi, immagini, simboli e motti nazisti. Svettava in cima al letto una gigantografia del busto di Adolf Hitler, piena di firme e dolci frasi che gli amici avevano su scritto con un pennarello nero. Sulla scrivania in castagno una TV e null’altro, poi una sedia ricolma di vestiti (forse sporchi) buttati su di essa alla rinfusa. In un angolo v’era un armadio, davanti ad esso stavano una panca per esercizi muscolari ed una grande quantità di pesi. Il ragazzo si tolse la maglietta, la gettò sul letto, si sedette su questa panca, accese una vecchia radio che stava lì vicino per terra ed iniziò a fare esercizi. “Un! Due!” si ripeteva in mente, cullato, se così si può dire, da vecchie tradizionali canzoni tedesche, “Eisgekühlter Bommerlunder” per citarne una delle più famose. Dopo circa mezz’ora squillò il campanello e il ragazzo, asciugatosi e rivestitosi, scese le scale per vedere chi vi fosse all’ingresso. Riconosciutolo, fece entrare l’amico Ulfart. –Ciao bello!- Disse a gran voce Ulfart non appena lo vide. –Ciao Ulfart!- Rispose il ragazzo, stringendo la mano dell’amico. –Allora Theodor… Com’è andata stamattina?- Domandò l’amico, -Non qua!- rispose Theodor, -La vecchia non c’è, ti faccio salire, vieni!-. La porta si richiuse così  alle loro spalle. Giunti in camera, Ulfart si sedette sul letto, che si piegò sotto la sua enorme mole: 92 Kg per 178 cm. –Ne ho beccato uno! Piccolo, viscido, col sangue negli occhi, come tutti loro. E’ stato fantastico, amico! Mi sono sentito da Dio- iniziò a raccontare il ragazzo; -Ti ha visto qualcuno?- ribatté l’amico; -Non penso… Forse una ragazza…- rispose Theodor. –Cazzo amico! Speriamo non faccia casino quella troia!- disse Ulfart prorompendo in un’inquietante risata. –Ulfart te fai scassare, amico!-, detto questo i due si diedero il classico saluto da adolescenti, sebbene entrambi fossero formalmente adulti. Continuarono a ridere e scherzare per alcune ore, a mezzodì mangiarono qualcosa: un panino fatto con formaggio fresco spalmabile e del prosciutto; poi verso le tre e mezza partirono per il campo.

In circa un’oretta e mezza furono fuori Berlino, vicino al paese di Oranienburg. Presero dunque una stradina di campagna che li portò presso un gruppo isolato di capanni, circondati da un bosco di discrete dimensioni. Ulfart, che guidava, e Theodor saltarono giù dal fuoristrada blu, ognuno col proprio pesantissimo borsone verde militare, aprirono il cancello verde che richiudeva il complesso di edifici e vi entrarono. Un uomo di mezz’età che era seduto su una sedia a pochi passi da loro li salutò vivacemente, e come ogni mercoledì e venerdì gli diede il benvenuto. –Ciao Gustav!- risposero i due all’unisono. Era il guardiano del campo, vigile ed attento che nessuno di sospetto s’avvicinasse mai. I ragazzi quindi entrarono in una specie di casermone di legno, era lo spogliatoio. Ad aspettarli all’interno vi erano i loro due amici. –Sta volta avete fatto tardi, brutti bastardi!-, disse uno dei due alzandosi ed andando a dare loro il benvenuto; tutti ridacchiarono. Theodor disse –Ciao Olaf! E ciao pure a te Helmut!-; Helmut che era rimasto seduto ad allacciarsi uno scarpone rispose con un cenno della testa. Quando poi tutti e quattro furono pronti, uscirono tronfi dal capanno, ognuno con a spalle il proprio fucile. –Il Kapo c’è oggi?- chiese Ulfart agli altri, Helmut rispose di no; -Ha detto però che possiamo usare sia le sagome che i cani, basta che poi puliamo- aggiunse Olaf; -Ottimo!- concluse Theodor. I ragazzi si stavano preparando, ognuno lustrava e puliva la propria arma, la caricava coi proiettili e si disponeva ad una postazione di tiro delle cinque disponibili. –Abbiamo diciannove sagome e quattro cani, uno a testa insomma- disse Helmut, -Sono incazzati almeno?- chiese Ulfart, -Certo! Non mangiano un cazzo da ore e prima ho chiesto a Gustav che li stuzzicasse un po’…- rispose Olaf, che era il capogruppo dei quattro. Theodor ridacchiò e chiese al suo amico –Bastone o laccio?-, -Ha usato il bastone…- rispose Olaf, -Quelle bestie allora saranno completamente su di giri… Figo!- concluse Ulfart. Dopo che ognuno si mise le cuffie, il capogruppo gridò –Ora fracassiamoli tutti quegli stronzi!-; al suo grido tutti iniziarono a sparare alle sagome che avevano davanti agli occhi. C’erano figure d’ebrei, avvolti nei loro classici vestiti neri, con le loro famose barbe squadrate ed i loro caratteristici cappelli multiformi; c’erano donne e bambini, c’erano omosessuali in atti osceni, c’erano neri, c’erano zingari, ma anche vari handicappati, da down a paraplegici. Di tutte queste figure non se ne salvò nemmeno una; con un colpo facevano partire un braccio, un piede; un altro dritto in testa, o nel ventre; un terzo dritto al cuore, od ad un arto. Schegge di legno volavano ogni dove ad ogni colpo sparato dai quattro ragazzi. Quello che rimase di queste sagome alla fine dell’esercitazione erano pezzi di legno deformi quei pochi che ancora rimanevano stabili, gli altri, ridotti in frammenti fumanti, giacevano sparsi in terra come le tessere di un puzzle ancora da iniziare. Toltisi le cuffie, i ragazzi risero e festeggiarono l’eccellente sortita del loro allenamento bevendo delle lattine di birra contenute in un piccolo frigo in un angolo della sala di tiro. Dopo pochi minuti entrò dalla porta Gustav che disse –Allora ragazzi avete finito con le sagome? Com’è andata?-, alla sua domanda rispose Olaf, che disse –Io sette, Ulf tre, come Mut, e quel piccolo bastardo di Theo ne ha prese sei!-, dopo aver riso, continuò –Per poco non mi pigliavi, sarà per la prossima stronzetto!-, Theodor rispose –Certo contaci stronzo!-, Olaf concluse –Povero piccolo Theo, in un anno e mezzo non è riuscito nemmeno una sola volta ad eguagliarmi-. Tutti risero. Poi Gustav batté una volta le mani e disse –Allora, che dite, libero i cani?-. Olaf sogghignò e disse –Va’! E prima di liberarli Gustav-, l’uomo era già sulla porta ma si voltò verso il suo oratore, -Assicurati che siano incazzati neri-. –Certo!- fu la sua risposta. Quando la porta si chiuse i ragazzi si prepararono, poi, uno stridio di trombetta da stadio li avvisò che i cani stavano per essere liberati. Così quei quattro sventurati animali entrarono confusi in quel recinto e iniziarono a correre avanti ed indietro, spauriti e frastornati. Il primo a cadere fu quello macchiato di verde, che spettava a Ulfart, che si alzò subito e si mise a gridare –Cazzo ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!-; in risposta Theodor gli gridò –Sta zitto coglione! Non vedi che ci distrai?-; l’amico gli rispose –Scusa stronzo-. Il secondo a cadere in mille guaiti fu quello di Olaf, che subito dopo disse ad Ulfart –Be’ t’è andata di culo Ulf… Non accadrà mai più, goditela!-, Ulfart rise e poi gli disse –Scemo non vedi che la tua bestia è ancora viva?-. Il cane effettivamente si stava ancora leggermente muovendo, emetteva gracili guaiti ed il suo pelo, come tutta la terra attorno a lui, era zuppo di sangue. –Nessun problema! Lo secco subito!-, un secondo colpo ed il cane crepò definitivamente. Il cane giallo s’avvicinò al cane morto, e per un attimo rallentò. Bastò quell’istante che Helmut lo colpì e disse gridando –Colpito ed affondato…-; gli amici gli fecero i complimenti. Rimaneva unicamente il cane segnato con la vernice rossa, s’era inerpicato su per il colle ricoperto da alberi, e dunque era risultato piuttosto difficile da rintracciare a Theodor. Si ripeteva in mente –Avanti piccolo, avvicinati… Avanti…-. Volle il destino che un corvo s’appoggiasse su uno dei  cadaveri dei cani, il cane rosso incuriosito s’avvicinò. Uscito così dalla boscaglia ed ora resosi ben visibile, quella povera bestia fu un bersaglio facile per Theodor, che con un colpo lo prese in piena testa e l’abbatté. –Cazzo ce ne hai messo di tempo Theo!-, a questa battuta di Olaf tutti i ragazzi risero, compreso Theodor. Dopo che in seguito Gustav fu giunto a complimentarsi, i quattro ripulirono il campo e, una volta portato a termine anche questo loro ultimo compito, andarono a cambiarsi. Nello spogliatoio si accordarono infine su cosa avrebbero fatto quella stessa sera. –Allora è deciso! A mezzanotte davanti al Watergate, tiriamo un po’, magari ci scappa pure una scopata con qualche puttanella e poi ognuno a casa sua!- riassumeva Olaf prima che ognuno prendesse la via di casa. Ulfart infine accompagnò Theodor a casa e poi anche costoro si salutarono. –A dopo!-.

Mangiato qualcosa molto velocemente e poi fattasi una doccia, fu pronto per le undici e mezza, prese la moto e si recò in centro. Berlino, la sera, era una meraviglia in quel periodo: mille luci colorate risplendevano in ogni via, grandi alberi di Natale erano posti in ogni piazza della città, ognuno diversamente decorato, ma tutti parimenti splendidi. Quando Theodor arrivò davanti alla discoteca era dieci minuti in ritardo ed i suoi amici gli urlarono di sbrigarsi. Non appena entrarono nel locale si diressero subito verso il tavolo del loro amico (e spacciatore fidato) Christoph. Egli sedeva su un divanetto rosso in velluto, era vestito di un completo bianco che sul petto lasciava intravedere qualche pelo molto virile, sul volto teneva gli occhiali da sole ed i suoi capelli, completamente impregnati di gel e tirati all’indietro, erano lunghi e neri. Alla sua sinistra stava una ragazza bionda, bellissima e semi nuda; alla sua destra invece era seduta una ragazza mora, anch’essa molto affascinante e quasi completamente svestita. Alof lo salutò e gli disse – Christoph che hai di buono stasera? E che costi poco possibilmente…-; lo spacciatore rispose –Economico e buono, dici… L’incubo di ogni gentiluomo- (egli intendeva con quella categoria qualsiasi persona svolgesse il suo onesto “lavoro”) –Comunque ragazzi, solo per voi, stasera le paste ve le vendo a dieci-. I ragazzi si esaltarono subito e risposero all’uomo –Daccene due pacchetti!-; -Va bene-. Quando i ragazzi ebbero in mano la merce per cui avevano speso tanto, ne presero subito alcune pillole. Le luci divennero tutte fasci magici di seta, in cui il mondo s’avvolgeva e si scioglieva. Le persone divennero un ammasso unico, abnorme di carne calda ed indistinta. La musica sembrava sfondare il cranio, liberare il cervello e farlo volare via, sempre più alto nel cielo, perduto. Lo spirito, libero da ogni gabbia corporea, poteva innalzarsi e divenire puro etere insieme al resto dell’universo. Ma un contatto interruppe tutte queste sensazioni provate da Theodor. Ulfart gli gridò nell’orecchio sinistro  –Theo… Theo! Andiamo a fumarne una!-. Quando i due furono fuori, s’accesero ognuno una sigaretta e commentarono tutte le ragazze che, come loro, stavano là fumando. –Guarda quella quant’è figa!!- diceva l’amico; -Pensa che bocce fantastiche che deve avere! Due meloni!- rispondeva Theodor euforico. Entrambi si piegarono letteralmente dal ridere. Poi Theodor riprese serio –Adesso vado là e ci provo. Quella troia me la deve dare-; l’amico, istigandolo, rispose in tono di scherno –Vai “Latin Lover”!-.

-Ciao bella come va?-. –Chi sei?-gli rispose la ragazza. Era alta, aveva dei tacchi di dieci centimetri, vestiva una corta minigonna nera ed una canotta tutta scollata che lasciava intravedere le forme tonde dei suoi seni. Il viso non erabellissimo, ma a Theodor non importava quasi nulla se non un’unica cosa. –Sono il tuo principe azzurro, tesoro- rispose. –Vattene coglione!- ribatté la ragazza che, voltatasi per andarsene, si trovò bloccata da una mano che esercitava una forza brutale sul suo avambraccio. –Ehi che fai?- Gli chiese la ragazza. Theodor mollò la presa, non disse nulla e se ne ritornò dentro il locale, intanto Ulfart rideva inarrestabile per il fallimento dell’amico. “Cazzo quella troia o me la da, o crepa… Cazzo, non può farlo a me!” rimeditava Theodor, mentre il suo fegato rodeva tra le fiamme dell’inferno. A fine serata dunque Theodor, dopo che aveva puntato per tutto il tempo quella stessa ragazza, la pedinò anche fuori dal locale. Giunto in vista di un vicolo, si decise ad agire. Urlò –Ehi tu senti…-; la ragazza si voltò e non appena lo vide, disse –No senti ancora tu… Che cazzo vuoi da me? Vattene!-. A queste parole Theodor divenne una belva. Le diede uno schiaffo, la prese da dietro, mentre la sua mano sinistra stringeva saldamente e tirava i suoi capelli corvini, e la portò nel vicolo oscuro.

Chiunque fosse passato per via Wrangel quella sera, avrebbe sentito un piccolo rumore molto sommesso. E se costui, fermatosi per ascoltar meglio, avesse teso l’orecchio, avrebbe sentito lievi mugolii. Incuriositosi, avrebbe poi potuto inoltrarsi in quell’antro oscuro, assistendo così ad uno spettacolo raccapricciante. Ma nessuno passò da via Wrangel quella notte della vigilia di Natale, nessuno sentì quei lievi rumori, quei piccoli mugolii, prodotti da una bocca serrata a forza. Nessuno.

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