Quotidianità delirante

di Fusterya
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quotidianità delirante ***
Capitolo 2: *** Quotidianità delirante 2.0 - Mycroftness ***
Capitolo 3: *** Quotidianità delirante 3.0 - Gelosia ***
Capitolo 4: *** Quotidianità delirante 4.0 - The Sherlock trainer ***
Capitolo 5: *** Quotidianità delirante 5.0 - The Sherlock hunter ***



Capitolo 1
*** Quotidianità delirante ***


Sto cercando di versare il caffè nella tazza ma non mi coordino troppo bene. E il latte... dannazione, a me piace un po' di latte nel caffè, ma non freddo: però stamattina l'ho fatto bruciare.
Da quanto va avanti questa storia? Forse una decina di giorni. ...ok, di notti. E il giorno dopo sembra tutto normale. Più o meno.
Vado al frigo, oggi fortunatamente sgombro di pezzi di corpi umani, lo apro e... non mi ricordo più cosa dovevo prendere.
Lo richiudo piano, con un movimento perplesso, come ho di recente chiuso il coperchio sul bidone della spazzatura di una delle mie poche certezze.
Che erano fondamentalmente 3: il mio nome,  Sherlock, eterosessualità.
Oh, dio. Devo essere impazzito. E poi lo dovevo immaginare che sarei stato... impacciato, confusionario. E anche lui. E' un miracolo se in tutte queste notti nessuno dei due si sia fatto seriamente male. A parte quando ho battuto io la tempia sulla testiera del letto.
E' un problema di… fisiologia, immagino. Mai avuto a che farci. Con un uomo, intendo. E non ho a che fare con un esperto. Anzi.
Dio… che imbarazzo. Anche solo a pensarci.
 Riprendo la tazza e mi siedo al tavolo, è abbastanza presto, spero non si svegli per adesso.
Devo riflettere da solo, senza schiamazzi, violino, velati non-apprezzamenti delle mie capacità mentali di prima mattina.
"Buongiorno, John".
Ecco, appunto.
Mi è arrivato alle spalle, scalzo e silenzioso. Quando fa il giro del tavolo e mi passa davanti, vedo che indossa solo la vestaglia. Aperta.
"Buong... Sherlock!"
Si gira a guardarmi con espressione sorpresa mentre si versa il caffè. Ma davvero? Davvero non ci arriva?
"Cosa?"
"Potresti... ecco..." indico col dito tutta la sua figura "chiudere, almeno?"
Lui si guarda, mi riguarda.
"Cosa?"
"Sherlock! Per l'amor di dio!"
Rimane con la tazza sospesa a mezz'aria e, qualora io non avessi visto bene, si gira del tutto verso di me.
"Sei davvero in imbarazzo?"
È stupito. Sul serio.
"Esiste una cosa che si chiama buon gusto"
"Oh, e tu ne hai!"
"Sherlock!"
Sorseggia un po' dalla tazza. È divertito un mondo.
"Oh… ok. Quindi soffri di imbarazzo a fasce orarie: di un tipo particolarmente sensibile alla luce del sole, John, che cosa curiosa."
"Non è imbarazzo! È una questione di... discrezione! Esiste una cosa che si chiama.... Gesù, ma con chi sto parlando? Avrei dovuto immaginarlo... dopotutto non sono io quello capace di girare in metro sporco di sangue e con un arpione in mano..."
"Va bene". sta per ridere e io mi sento un imbecille. Si accavalla i lembi della vestaglia e si siede di fronte a me "comunque... sono lusingato".
"Oh no, lo sapevo che l'avresti voltata in qualche modo subdolo."
Prendo il giornale e lo sollevo tra noi due, ovviamente ha ragione su tutto. Tendo bene il giornale perché sto arrossendo.
È così difficile, Sherlock... Io non so come spiegare nemmeno a me stesso tutto questo.
Dopo un minuto di sospettoso silenzio, avverto che c'è qualcosa che non va.
"John...."
Abbasso il giornale, lui è lì che mi guarda serio.
"Potresti, ecco" la mano destra si muove avanti e indietro nello spazio tra noi due "ecco... Il giornale... Possiamo parlare?"
Appoggio il giornale sul tavolo e resto in attesa.
"Di cosa?"
Si irrigidisce un po' nelle spalle, assume un'espressione come dire... istituzionale.
"Come va stamattina?"
Io resto zitto, poi mi guardo attorno.
"Cosa?"
Tentenna, si raschia la gola
"Come va stamattina?"
"Sherlock, che stai facendo?"
"Voglio, ecco..." di nuovo quella mano che traccia un' ipotetica linea tra di noi "fare quelle cose che le persone fanno"
"Cose? Quali cose?"
Alza gli occhi al cielo - dio John, come fai a non capire SEMPRE E SUBITO AL VOLO quello che intendo?
"Quello che le persone fanno quando hanno una relazione. Parlare, interessarsi, esse gentili, fare colazione e chiacchierare del più e del meno"
Sono senza parole. Ci metto qualche secondo a richiudere la bocca. Quindi noi abbiamo una relazione.
"Tu?"
"Perché no?"
Lo guardo come se fosse pazzo, poi provo a dirglielo scandendo le parole, casomai non riuscisse a seguirmi
"Perché tu non riesci ad avere in nessuna occasione una conversazione normale"
"Lo so. E' quello il punto. Mi meraviglio anche di dovertelo spiegare."
Adesso sì che rido.
"Vuoi…imparare?"
"Oh, per favore, John. Ho smesso di imparare qualcosa in quarta elementare. E' un esperimento. Non mi sono mai trovato in una situazione del genere, devo capire come funziona"
"Non c'è niente da capire" sporgo un po' verso di lui, non riesco a trattenermi dal ridere "non ci sono regole prefissate, Sherlock, e no… non è un esperimento."
"Non dovremmo fare colazione insieme e conversare, allora? Come si vede nella pubblicità del caffè o del bacon?"
"Santo cielo… no. Grazie per il gentile pensiero, ma se non ti va, no" mi metto la faccia tra le mani.
"Oh, grazie a dio!" sospira sollevato da un peso enorme, e allunga le mani per prendermi il giornale, che poi spalanca tra di noi .
Mi allungo un po' sul tavolo, verso di lui " tu usi la pubblicità come parametro per…. le relazioni tra persone? "
"Certo." risponde da lì dietro "non è mia abitudine infilarmi nelle case a altrui e osservare di persona come si interagisce tra… relazionati. Inoltre non me ne potrebbe importare di meno"
Mi stanno venendo le lacrime dal ridere. Relazionati? Ma che parola è? Ma che ci faccio io qui?
Qualche tempo fa ero in Afghanistan ad ammazzare gente e a farmi sparare e ora sono qui in questa situazione …
Vedo il giornale che si sposta e un sospettoso occhio acquamarina che spunta dietro esso.
"Non va bene?"
"Non va bene? No che non…" mi asciugo gli occhi "ci sarà da lavorare, qui. Però apprezzo lo sforzo, grazie"
"Prego. Puoi darmi suggerimenti quando vuoi, non la prenderò sul personale." ha ripreso a leggere con tutta tranquillità, l'argomento non lo interessa già più.
 Io sono strabiliato, come succede ogni mio fottuto giorno in questa casa.
E anche lusingato, devo dirlo. Bel tentativo.
"Ecco, pensavo…" Mi è venuta un'idea, tanto vale dirla: "la prossima mossa gentile e…. opportuna sarebbe dividere con me un minimo di incombenze."
Sbatte giù il giornale, mi guarda con le sopracciglia inarcate, offeso nel profondo
"Non sono geneticamente predisposto per fare la spesa o andare in lavanderia, John, la mia mente potrebbe superare quel punto di non ritorno che spinge al suicidio. "
"Oh no, non un'altra volta… lascia perdere." Che mi è venuto in mente?
"Ok, bene"
"…pagare qualche bolletta on line, magari'?"
"JOHN!"
"Ok, no. Va bene."
"Siamo perfettamente felici così, mi sembra, certe cose non vanno cambiate! Non si compromette l'equilibrio del mondo impunemente."
Felici. Che bella parola. Nuova per me: mi suona nuova oggi, ma mi rendo conto che è sempre stata lì, tra quelle mura, dal primo giorno.
Da quando qualcuno mi ha dimostrato che la mia mano non tremava più perché avevo trovato qualcosa di importante. Da quando ho buttato via quel maledetto bastone.
Resto in silenzio per un attimo, a inspirare e a godermi questa pace. Questa meraviglia.
Imbarazzo? Disagio? Devo essere stato un pazzo, dieci minuti fa. La sua sola presenza ristabilisce l'ordine nel mio cervello.
Lui ha ripreso a leggere, lo guardo e sa che lo sto guardando. Un istante dopo mi guarda fisso anche lui.  
Semplicemente, tante parole sono superflue.

"E fare dell'altro caffè, magari? Stavolta senza droghe?"

"JOHN!"

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Capitolo 2
*** Quotidianità delirante 2.0 - Mycroftness ***


Secondo episodio di una specie di raccolta che mi sono divertita a scrivere su Sherlock/John - consiglio di leggerla dopo “Quotidianità delirante” già pubblicata. Piccole Slice of life (post-resurrezione-post-Reichenbach) che ho immaginato accadere nella vita quotidiana di una neo-coppia assolutamente fuori da ogni schema: c’è un modo giusto per conoscersi veramente, per convivere e trovare un equilibrio nella nuova “situazione”? Le scrivo sorridendo, spero lo facciate anche voi.    
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Comincio anche oggi dal mattino: non so se sia perché succede sempre qualcosa di mattina o se perché la mattina semplicemente mi piace. È l'inizio di tutto, come la prima pagina di un libro che ancora non sai se ti appassionerà o meno.
Comunque anche questa storia è accaduta di mattina, per cui... sono in cucina a far colazione, saranno le nove o giù di lì. Giornale aperto, caffè caldo, lungo e amaro come piace a me, un muffin sul piattino - gentilmente fatto in casa e offerto ieri da Mrs. Hudson. Il mio turno all’ambulatorio è almeno fra due ore, ho tutto il tempo.
Mi godrò questo tempo e questo silenzio con tutta la mia più profonda soddisfazione. Devo aggiornare il blog.
E poi sta accadendo qualcosa di incredibile, cioè lui DORME. Profondamente.
Quando mi sono alzato, era sprofondato in posizione supina nel materasso, la faccia schiacciata nel cuscino: sembrava fosse caduto giù da una finestra in quella posiz... oh... ok, questa non è proprio una delle mie migliori riflessioni.
Insomma, era così immobile e spiaccicato che mi sono chiesto come facesse a respirare… beh, respirava perché russava leggermente, ma ho pensato bene di controllare, non si sa mai.
Questo perché ieri sera – verso le 22 - è sparito all'improvviso, come fa spesso, solo perché, mentre era al pc e io guardavo la tele, qualcuno nel programma che stavo seguendo ha detto "forniture navali".
 È saltato su come una molla.
"Ma certo! Devo andare a controllare una cosa ai Docklands"
Quest'ultimo caso gli sta piacendo molto, anche se al momento non vedo nessi tra la morte violenta di un anzianissimo vescovo in pensione a cui hanno tagliato i piedi prima di crocifiggerlo e le forniture navali.
Ma a questo siamo tutti abituati, voi e io, no?
"Vuoi che venga con te?"
"Oh no, sarà una cosa veloce, goditi pure il tuo... ma cos'è quella roba che stai guardando?"
Ovviamente, quando apro la bocca per rispondere, si è già infilato il cappotto ed è sparito oltre la porta.
Prima o poi ce la farò, un giorno, a intuire al volo quando mi fa le domande retoriche.
Verso l’una di notte sono diventato nervoso.
Avevo appena finito di lavare l’unico piatto che avevo sporcato per la mia miserrima cena (ero convinto che avremmo ordinato qualcosa take-away, ma visto che ero solo, avevo desistito) e stavo uscendo dalla cucina asciugandomi le mani con un canovaccio.
Sono rimasto sulla soglia a fissare il soggiorno deserto.
Le lampade emanavano la solita luce calda, sembrava tutto in ordine, ma il quadro generale era distorto dalla sua assenza ingombrante. Di nuovo. Per un attimo il mio cervello ha ricordato lo strazio provato su quel marciapiede, quel giorno, e ho dovuto trattenere il respiro per respingere tutto quel buio, tutto quel dolore.
Poi mi scuoto. Idiota.
Non è certo la prima volta che sparisce per ore, una volta non ci avrei fatto nemmeno caso. Ma dopo allora non è così facile.
Prendo il cellulare… non nutro molte speranze, ma provo a scrivere un messaggio.
Tutto ok? J
Aspetto qualche minuto, spengo le luci e, miracolosamente, mentre salgo su in camera mia, il cellulare vibra nella mia mano
-Al freddo ma ok, vai a dormire SH –
Rigiro per un attimo il telefono tra le dita, mentre una sensazione di dolcezza mi scivola nel petto. Quando mi infilo nel letto, cado in un sonno profondo e immediato.

Fino a che non mi sveglia lui, ed è l’alba. Riemergo dal sonno perché mi sta abbracciando da dietro, ha le mani ghiacciate e le infila sotto la giacca del mio pigiama, appoggiandole sul mio petto.
“Sherlock…” sussulto
“Ho risolto il caso” mi mormora sul collo. Il suo fiato è caldo e assolutamente fantastico “dobbiamo festeggiare…”

Beh, è abbastanza evidente il perché a quest’ora stia ancora dormendo.
Ultimamente succede spesso, il che mi fa sorridere. Ah, e poi sta mangiando di più. Qualcosina, ma meglio di niente; infatti stamattina ho fame, ma c’è un solo altro muffin e glielo lascerò. Credo che scenderò giù allo Speedy a prendere qualcos’alt…
Il campanello comincia suonare impazzito.
Non è il singolo educato tocco “da cliente”, no: è un’unica, insopportabile nota continua. Che comincia a vibrare e singhiozzare impaziente mentre mi precipito verso il pulsante che apre la porta esterna, e solo allora riesco a farlo smettere.
Istintivamente agguanto la pistola che è sempre nel cassetto di un mobile a fianco della porta dell’appartamento, la infilo nella tasca destra del pigiama e attendo infastidito che questi passi veloci che sento salgano fino a me.
Quando guardo dallo spioncino, resto di stucco.
Quando apro la porta, ancora di più.
“Mycroft!”
Mycroft che si affretta? Che corre? Che arranca su per una rampa di scale?
Entra come una furia.
“Buongiorno, John, mi serve Sherlock, è urgente!”
“Sta dormendo.” Gli dico senza pensare mentre lo osservo girare su sé stesso e analizzare il soggiorno, poi si dirige verso la cucina.
Ci guarda dentro, solo allora crede alle mie parole.
“Devi svegliarlo, è una cosa seria!”
E a passo marziale si incammina verso la sua camera da letto.
Oh, no! Oh… no… no, no, no….
Parto come un razzo e lo inseguo, il sangue ghiacciato nelle vene.
“Mycroft… no, ci penso io, lo chiamo io” cerco di raggiungerlo ma è troppo tardi.
Ha già spalancato la porta di Sherlock e, ovviamente, il letto è vuoto e intatto.
Io mi cristallizzo dietro di lui, letteralmente. Mycroft si gira verso di me impaziente e irritatissimo.
“Dov’è?”
Uh… ecco… dov’è?
Deglutisco imbarazzato, devo avere la faccia dell’imbecille. Mi vedo come se fossi in uno specchio: spettinato, occhi sgranati, pigiama stropicciato. E anche, noto solo ora, malamente abbottonato.
“John, è IMPORTANTISSIMO: sicurezza nazionale. Dov’è?”  
Altri preziosi secondi di mio silenzio e della mia faccia da imbecille finalmente gli fanno accendere la lampadina. 
D’altro canto, si sa, il livello di intelligenza Mycroft è secondo solo a quello di suo fratello.
Mi guarda sgranando gli occhi anche lui. Poi li volge al soffitto, in direzione della mia stanza. Poi di nuovo a me.
“Oh…” dice “ma certo.”
Io guardo il pavimento. Provo a vincere l’imbarazzo cercando di dire qualcosa, ma lui è già partito verso le scale. Di corsa.
Oh, no! Oh… no… no, no, no….
“Mycroft, no! Ci vado io!”
Ma è tardi, tardi, tardi. Sale velocissimo e io mi devo ancora riavere dallo shock… in queste  cose non sono mai stato bravo: è Sherlock quello senza imbarazzi, tra noi due.
Lo inseguo ma non ce la farò. Mi fermo sulle scale e lo vedo salire di fretta.
E sono stizzito, perché Mycroft non le fa queste cose, lui riesce ad essere ruffiano da lontano, sapendo sempre tutto ma riuscendo a mantenere l’aplomb. Con Sherlock, evidentemente, non resiste.
“Mycroft, TI PREGO!” lo imploro dal basso.
Lui apre la porta e si sporge verso l’interno.
“Sveglia, fratello!” esclama a voce piena. Poi vedo che si ritrae “e… buon Dio, tira su quel lenzuolo!!!”
A questo punto io ho la faccia tra le mani.
Seguono 30/40 secondi di
“Sherlock, alzati!”
 “Mycroft! Che ci fai nella mia camera da letto?”
“A quanto pare non è la tua camera da letto.”
“Fuori di qui!”
“Vestiti e scendi, è urgente”
“Non sarà mai urgente quanto la mia voglia di strangolarti!”
E poi Mycroft si appresta a riscendere da quelle scale e già mi guarda con le sopracciglia inarcate.
Quando mi giunge davanti, si ferma e incrocia le mani dietro.
“C’è del caffè? E’ piuttosto… confuso.”
“Certo… sì” mi affretto a rispondere guardando ovunque, ma non dritto nella sua faccia.
E scappo via proprio mentre sento i passi pesanti di uno Sherlock arrabbiatissimo rimbombare sui primi scalini.
Qualche minuto dopo siamo seduti tutti e tre in cucina.
Sherlock è una furia spettinata in vestaglia, labbra serrate e braccia conserte al limite della rottura dei tendini. 
Mycroft ha appena finito di spiegare la complessa indagine di cui i servizi segreti non riescono a venire a capo. Ogni tanto mi lancia un’occhiata in tralice, ma io faccio finta di niente e osservo alternativamente le mie dita, il bordo della manica del pigiama, la tazza del caffè ormai freddo.
Addio, colazione. E benvenuto involontario coming-out.
“E perché mai questa roba di spie dilettanti dovrebbe interessarmi?” ringhia l’uno.
“Forse perché qualcuno vuole piazzare un ordigno nucleare in una sconosciuta città… nel bel mezzo dell’Europa???”
“Non sono James Bond. John, passami lo zucchero, il fatto che tu non ne usi non ti autorizza a conservarlo negli angoli più remoti di questa stanza!”
Apro la bocca dire qualcosa, ultimamente mi sto un po’ affrancando dalla sua dittatura, forte di questo nuovo “potere” che ho su di lui, ma poi decido di no e mi alzo, prendo lo zucchero dalla credenza e lo appoggio sul tavolo.
In questo momento è meglio non mettersi fra questi due, ma ci pensa Mycroft a farlo al posto mio.
“John, tu che ne pensi? Dovresti farlo ragionare”
Accenna appena quel suo sorrisetto da furetto e io penso alla pistola che ho ancora in tasca.
“Io?” chiedo confuso. Stamattina sto facendo proprio la figura del deficiente. Guardo Sherlock in cerca di aiuto, lui socchiude gli occhi in due fessure taglienti e io so che quello è il suo modo di dire - non ti intromettere, John Watson, o ti farò pentire di essere nato- .
“Io non posso dire niente, Mycroft. E’ una decisione di Sherlock.”
Sherlock mi guarda e accenna un IMPERCETTIBILE movimento di labbra in su che potrebbe essere interpretato come come approvazione, ma la mia boccaccia parla da sola “per quanto... la situazione mi sembra abbastanza delicata... e pericolosa”.
Le labbra di approvazione si curvano in giù con sdegno. Ecco, ora ce l’avrà con me per tre giorni. Mi spazientisco: sono ostaggio di questi due pazzi e il tutto contro la mia volontà.
“Sono un soldato, Sherlock!” sbotto “Certe questioni... patriottiche mi toccano ancora, se proprio ci tieni a saperlo! Nè ci tengo a morire di radiazioni, e né dovresti tu solo per fare un dispetto a tuo fratello!”
Sherlock sibila, più che parlare “Un fratello che entra nella mia stanza da letto senza invito di mattina presto”
“Non era la tua stanza da letto”
“Dio santo, Mycroft! E’ un argomento che ti eccita davvero così tanto?”
“Finitela, tutti e due! E’ una cucina popolata da adulti o una scuola materna?” credo di aver gridato.
Tacciono entrambi con lo sguardo su di me.
Sherlock si raddrizza nelle spalle, Mycroft mi guarda basito. Mi ha ascoltato!
 “I vostri servizi che fanno? Troppo occupati a proteggere il principe ereditario e consorte dai paparazzi?”
“Abbiamo tutti gli elementi, manca un collegamento... una visione d’insieme, e come sempre sono molto contrariato nel doverla chiedere a te. Fratello.”
“Lo farà, Mycroft” intervengo io “mi stupisco che tu stia ancora ai suoi giochetti. Lo fa per irritarti e ci caschi ogni volta. Ci vestiamo e veniamo con te.”
Sherlock guarda fuori dalla finestra, ha messo il muso ma resta zitto. Un miracolo!  
Mycroft mi osserva compiaciuto e si alza lentamente dalla sedia
“Ma bene.... bene... sì” mi dice con quel suo modo suadente... e irritante: non posso dare torto a Sherlock quando dice che lo vuole strangolare “il nostro dottore è una risorsa preziosa. Benvenuto in famiglia, John.”
Io avvampo, Sherlock si volta come un serpente.
“Mycroft, ti dò venti secondi per avviarti prima che la situazione ingestibile diventi IRRECUPERABILE!”
“Vado, ok. Vi aspetto al più presto” dice quello passandomi davanti, non senza rivolgermi un altro sguardo d’intesa.
Mi sento preso in mezzo da due schiacciasassi. Chi lo avrebbe mai detto che la mia vita sarebbe diventata questa assurdità? Bombe atomiche? Coinquilini nel mio letto?
Ma non ero io quello a cui non succedeva mai niente?
“Ti seguiamo col taxi” lo rassicuro mentre ci fa un cenno con la mano e scompare oltre la porta.
Restiamo soli io e la mia... situazione ingestibile, che ora mi guarda stizzito.
“Dunque tu saresti quello che mi controlla, adesso?”
Oh, Dio...  chi me la darà tutta la forza che ci vuole?
“Apparentemente sì” gli rispondo abbastanza sicuro di me.
“Hai detto bene... apparentemente.”
Mi viene da sorridere.
“Sono abbastanza sicuro di quello che dico.”
“E cosa te lo fa pensare?” borbotta mentre, finalmente, si versa due cucchiaini di zucchero nel caffè ormai imbevibile.
“Stai perdendo colpi, Sherlock Holmes” mi diverto, appoggiandomi con una spalla alla credenza “ieri hai commesso un errore”.
Simula noncuranza. E’ un bravo attore, ma non con me. Con me non lo fa più. Nè io ci cascherei.
“E quale, sentiamo?”
“Hai risposto al mio messaggio, ieri sera.”
Mi guarda sorpreso. Non ci aveva pensato. LUI... semplicemente non ci aveva pensato.
“Un messaggio inutile, una perdita di tempo. Di solito non lo fai, non durante un appostamento... o un’operazione: ieri però l’hai fatto.”
Mi osserva un po’ confuso, adesso. Questo è il mio campo, Sherlock. E’ esattamente il mio campo, e ti insegnerò tutto ciò che so.
“E’ questo che fanno le persone, Sherlock. E’ questo che si fa quando si tiene a qualcuno.”
“Bene” ammette senza battere ciglio “Ok... questo.. va bene.” e si mette a bere il caffè. O quel che ne resta.
Io lo guardo qualche altro istante, sorridendo dentro.
Bombe atomiche, servizi segreti, pericoli mortali... andrò dovunque, farò qualunque cosa per lui.
Lui per me l’ha già fatto quando ha mi ha salvato la vita “suicidandosi”... o almeno ha creduto di farlo nel modo giusto, anche se non si può dire che abbia valutato esattamente tutte le conseguenze.
Adesso, però, è tempo di lezioni un po’ meno traumatiche: ma vedo che lui sta già imparando.
E’ intelligente, per fortuna.
Eh sì, che fortuna.

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Capitolo 3
*** Quotidianità delirante 3.0 - Gelosia ***


Terza piccola storia circa la strana vita quotidiana dei nostri due ragazzi preferiti. In fondo dovrebbero essere una coppia come tutte... o no?

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La vita di coppia a volte è veramente faticosa.
Penso al periodo dell'università in cui ho semi-condiviso un piccolo flat per studenti con due fidanzate diverse, in anni diversi, naturalmente, e le problematiche erano più o meno le stesse.
Chi va a pagare le bollette? Chi fa la spesa? Chi va a litigare con l'ufficio anagrafe di quartiere perché nei loro registri l'indirizzo è errato?
Qui e ora c'è una sola risposta possibile: io.
Ma il problema non è questo.
Ormai mi sono rassegnato, questa roba tocca a me e non mi ci soffermerò troppo a lungo per non annoiarvi: il vero problema è un altro che non avrei mai messo in conto prima, e di cui ancora fatico a rendermi conto adesso.
Da qualche giorno è geloso.
E’ geloso in maniera incontrollabile, irrazionale, insopportabile.
Geloso e subdolo.
Silenzioso come un rettile.
Quando, ovviamente, non fa battute agghiaccianti che capisce solo lui.
Se sono al telefono, si mette in un angolo fingendo di fare qualcosa con disinvoltura, e invece raddrizza le orecchie come fanno i predatori a caccia.
Se sono al computer, mi osserva silente da dietro il giornale quando pensa che io non stia guardando.
Cerca di capire se io non stia solo sul blog e stia chattando con qualcuno.
Sarò uno tranquillo, ma certo non sono un misantropo disturbato come lui: un paio di profili su qualche social network ce li ho anche io. Poco utilizzati, sì… anzi, forse quasi per niente utilizzati - blog a parte- ma ce li ho.
Scommetto che, quando non ci sono, ne va a controllare la cronologia.
E poi compare come un'ombra maligna dietro le mie spalle se Sarah è passata a trovarmi.
La saluta educatamente, si mette lì e non si schioda più dalla stanza, senza spiccicare una parola in tutta la serata.
Il che, oltre che essere incredibile, spesso è anche un bene.
Ovviamente immagino che secondo lui nulla di tutto ciò sia vero, per cui ho deciso scientemente di non parlargliene.
Voi parlereste a un muro di cemento?

Non me ne sono accorto subito, è stata una cosa graduale che si è accentuata in questa settimana.
C'erano i segnali: lo sapete, ogni tanto l'avete sorpreso anche voi a seguirmi.
Quando andai al colloquio con... quella là, miss Adler (faccio ancora una certa fatica a nominarla, soprattutto dopo aver saputo che è viva anche lei. Di nuovo.), pensando fosse l’ennesimo rapimento di Mycroft.
O quando cercai di capire come il corpo di quell'impiegato fosse finito su quei binari.
O a Dartmoor, quando è venuto al cimitero a cercarmi perché ero arrabbiato con lui... come oggi.
Comportamenti strani per lui, ma comunque isolati.
Stamattina, invece, ha passato il segno. Lui dice che io non ho bisogno della mia privacy, io sostengo il contrario.
Ormai a difendere il computer ho rinunciato, troppo fatica: è capace di crackarlo a distanza, col pensiero.
Ma oggi è diverso.
Stamattina presto sono tornato da fare una commissione, ho lasciato la giacca per in attimo nel soggiorno e sono andato a lavarmi la mani.
Al ritorno l'ho trovata con le tasche rivoltate, il portafogli aperto sul tavolo e tutto il suo contenuto sparso in giro.
Ah, e ovviamente il cellulare con il menù aperto sul registro delle chiamate in entrata. E sono sicuro che prima abbia accuratamente controllato quelle in uscita.
Lui era più in là, calmo e tranquillo, e strimpellava il violino.
Non ho semplicemente urlato, ho TUONATO mentre mi avvicinavo a lui agitando un minaccioso dito per aria:
"Adesso basta, tu sei MALATO!"
Si è interrotto e mi ha guardato con aria saccente.
"E qual è la novità? La mia condizione è effettivamente annoverata tra le disfunzioni psichiatriche"
"Non ne dubito! Smetti di mettere le mani nelle mie cose!!! È orribile, fastidioso e io non faccio niente di male!"
"E come lo sai?"
"Come lo..." mi passo una mano sulla faccia, sconsolato "che vuol dire- come lo so? LO SO perché LO SO, tu psicopatico e fuori di testa!"
"Non sono uno psicopatico, sono un soc..."
"Qualunque fottuta cosa tu sia, sei MALATO! Cristo!" gli strappo l’archetto dalle mani “SMETTILA!”
Mi guarda scettico, posa il violino, tira fuori qualcosa dalla tasca dei pantaloni.
“Allora come spieghi questo? Quand’è? Stasera alle 19? E Jeannette vestirà elegante?”
Pronuncia “ Jeannette” con disprezzo assoluto.
Quando pronuncia le parole con disprezzo, gli si arriccia il naso... e io lo trovo sconvolgente!
Resto un attimo muto. Poi scatto come una molla.
“E’ SOLO il biglietto pubblicitario di un ristorante!”
Mi si avvicina minaccioso, si piega un po’ in avanti per potermi fissare vicinissimo negli occhi, con una tale rabbia soffocata che per un attimo temo  che mi dia una testata.
“Un ristorante greco, che io non sopporto perché la cucina è troppo salutare e con troppa cipolla cruda. Un biglietto pubblicitario che hai conservato tra mille che te ne capitano tra le mani durante la giornata. Un posto vicino a Hyde Park, non troppo lontano dalla stazione della metro che dista due sole fermate da casa di Jeannette, un posto appena aperto, carino, ben arredato, ma che ha ancora prezzi bassi per motivi promozionali e che quindi non sarà troppo doloroso per le tue tasche, potrai permetterti anche una bottiglia di vino, che JJJ... Jeannette non regge particolarmente, me lo ricordo da quel Natale,  per cui, perdonami, John Hamish Watson, ma tutto ciò a me pare proprio un appuntamento galante. ”
Sono senza parole.
Sono 4 anni che vivo gomito a gomito con quest’essere e ancora resto senza parole.
“Non ho preso NESSUN appuntamento!” mi difendo disperatamente.
“Ma avevi intenzione di farlo” conclude lui. Poi lancia via il cartoncino che aveva tra le dita. “e il fatto che tu non stia negando che si tratti di Jeannette, conferma tutto ciò che ho detto”
Si allontana a grandi falcate e va verso la cucina.
Mi ha colto in flagrante, non c’è che dire. Ma trovo la sua intrusione intollerabile lo stesso. Lo inseguo a pugni chiusi.
“E va bene, stavo per chiamarla!” sbraito “ma non per i motivi che credi tu! E non avevi comunque il diritto di fare quello che hai fatto.”
“Andiamo, John, mi conosci, io DEVO avere la consapevolezza di ciò che mi accade intorno e tu non fai differenza, è… logico!” apre il frigo e tira fuori una di quelle bevande energetiche che io detesto e che lui consuma a litri senza MAI andarne a compare neanche una.
“Devo accettarlo passivamente e basta, quindi?”
Voglio…. ucciderlo!
Mi passa davanti ringhiando come un cane lupo.
“Come, a quanto pare, io devo accettare che tu esca con le tue ex fidanzate!!”
Lo inseguo di nuovo nel soggiorno, lui si va a piazzare davanti alla finestra.
“NON AVEVO INTENZIONE DI ORGANIZZARE UN APPUNTAMENTO ROMANTICO! C’è un motivo, se ti degni di ascoltarmi!”
“Non importa, il punto è che non me lo avresti detto, il che mi offende due volte perché anche per un solo istante hai pensato in quel tuo… cervellino” e qui avvicina l’indice e il pollice destro per farmi capire meglio la misura di cui parla “che avresti potuto farla franca”.
Sbatte la lattina sul tavolino accanto a sé, non ne ha bevuto nemmeno un sorso.
Abbasso la testa sconsolato.
Io sento di non avere argomenti di fronte a quest'uomo.
Come lo chiamai di fronte a Irene Adler?
Mister Ultima Parola.
Non la spunterò mai.
"Ha bisogno di aiuto" confesso "e io non me la sento di non darglielo"
"Oh" resta un attimo stupefatto lui, poi incrocia le braccia con atteggiamento sarcastico "cos'è, ha perso il superpotere di ANNOIARE la gente? Tranne te, si intende!"
"Sherlock, ti prego, è una cosa seria. Dopo come l'ho trattata... Cioè, come tu l'hai trattata... cioè noi..."
Mi sta fissando con il suo tipico sguardo alla: "Parla. Ora!"
"Ok" mi arrendo "è passata in ambulatorio giorni fa..."
Mi accorgo solo ora che è esattamente il lasso di tempo in cui Sherlock Holmes ha cominciato a fare Sherlock Holmes... con me.
"Ma non mi dire. È stato quel giorno in cui sei tornato a casa con quello strano odore addosso... che avevo già sentito da qualche parte. Contatto fisico, eh?"
"Santo cielo, Sherlock: un innocente abbraccio da amici che non si vedono da tempo!"
Mi ignora e rotea la mano per aria.
"Vai avanti"
"Ecco" esordisco mordendomi le labbra "ha un fratello minore, e insomma... è sparito nel nulla e nessuno lo cerca perché è maggiorenne, ma lei sostiene che ci sia qualcosa di grave che non va, è disperata."
Sherlock si irrigidisce come se gli avessero infilato un ago nella schiena.
"Sono io il consulente investigativo, qui!"
Io sono un po' imbarazzato.
"E sei anche quello che lei detesta. E tu detesti lei."
Tace. E’ furioso. Mi fissa con una luce per me nuova negli occhi trasparenti.
Mi sembra… deluso.
Io mi sento sprofondare, ma ancora non  mi arrendo.
“Dì la verità, se te l’avessi chiesto, ti saresti interessato alla cosa? E’ una semplice scomparsa. Probabilmente, se non sicuramente, volontaria. E si tratta di Jeannette.”
Sherlock si lascia cadere le braccia lungo i fianchi.
“No.” dice “ma avresti potuto chiedere lo stesso”.
Si gira e si allontana verso la sua stanza.
Io resto lì a guardare la cornice della porta vuota e non so che cosa fare. Di solito è il contrario, è lui che manda me fuori di testa.
Cosa devo fare, adesso?
Tempo qualche secondo e ricompare con il cappotto addosso, io blocco la mia respirazione.
“Dove vai?”
Solleva il colletto, ovviamente, e mi guarda dall’altro in basso.
“Fuori. Ho bisogno d’aria.”
Dove ho già sentito quella frase?
“Aspetta, parliamo…”
Ma è già corso via e io mi sento un imbecille, come mi accade ormai quelle 5-6 volte al giorno da quando vivo qui.
Il resto della giornata trascorre in maniera detestabile.
Lui è scomparso e io lo sto inondando di messaggi come uno scolaretto: il testo è più o meno sempre lo stesso – “Mi dispiace, torna a casa” – ma niente, il suo silenzio è da manuale.
 Non ho mai davvero affrontato uno Sherlock arrabbiato, intendo DAVVERO arrabbiato, e sono preoccupato, ma mi dò alle solite faccende della giornata e penso – mi convinco a pensare - che alla fine lui non darà importanza più di tanto a questa roba, che in fondo tra qualche ora non gli interesserà più.
Roba stupida e noiosa.
In fondo mi conosce, no?
No?

Rientro a casa dopo il mio turno in clinica, verso le 18, ed è tutto buio, tutto silenzioso.
Quando accendo le luci e mi tolgo la giacca, provo una sensazione di disagio che non riesco a spiegare.
Comincio a essere preoccupato.
Quanto ci mette uno come lui, solo in apparenza abitudinario, a decidere di... fare dei cambiamenti nella propria vita solo perché non si sente abbastanza concentrato, o apprezzato?
Uno che è riuscito a essere morto per mesi ed è riuscito a rimanere tale fino a quando non è stato il momento giusto, nonostante il suo desiderio di tornare a casa?
Lui riesce a fare quello che le persone non fanno: si da' uno scopo e lo persegue anche quando questo dovesse danneggiare o rendere infelice sè stesso e gli altri.
Odio questo suo lato oscuro, mi fa paura.
Niente più messaggi, lo chiamo ma il cellulare squilla a vuoto.
Poi, stupidamente, chiamo Mycroft... giusto dargli la possibilità di aggiungere una "simpatica" presa in giro al mio stato già pessimo : come ho potuto pensare che andasse DA LUI?
Come ho potuto pensare che andasse da CHIUNQUE?

Cerco di mettermi tranquillo e aspetto.
Tornerà, prima o poi.

Invece non torna.
Vago per la casa da almeno 3 ore e niente…  ormai è sera inoltrata.
Ho ignorato due chiamate di Jeannette, le avevo promesso di vederci stasera affinché mi potesse spiegare tutti i dettagli, ma adesso ho come un senso di nausea e non ce la faccio. Ho risposto con apprensione a una chiamata da parte di un numero sconosciuto, ma era un call center che voleva vendermi non so cosa. Credo di aver bestemmiato in gaelico senza sapere di esserne capace.

Come è potuto succedere che da avere ragione piena, al 100%, ora io mi senta come se gli avessi fatto un torto irreparabile?
Come se lo avessi ferito a morte? E senza che nemmeno mi abbia rincitrullito di chiacchiere.
Basta solo il vuoto insopportabile di questa casa polverosa a farmi sentire l’ultimo degli uomini.

Dopo un po’ non ce la faccio più a stare qui seduto, sento il nervosismo che mi serpeggia sotto pelle e non mi dà tregua. Devo uscire.
Fuori dal portone mi guardo attorno speranzoso, ma ovviamente la strada è semi-deserta. E anche se fosse lì da qualche parte, chissà dove sarebbe nascosto.
Fa freddo, mi sollevo il bavero del giaccone e mi incammino verso casa di Jeannette: ormai il danno è fatto, come si dice, per cui a questo punto è meglio finire ciò che avevo iniziato.
Almeno non penserò solo a questa stupida, stupida lite da ragazzini.
Mentre cammino, la chiamo e mi scuso con lei per non aver sentito le sue precedenti telefonate, sì, ok, sto arrivando, mangiamo qualcosa dalle tue parti e mi racconti, così magari chiedo a Lestrade se ci può dare una mano...”off the record”. No, Sherlock non è con me, non so dove sia, non lo vedo da ieri e non sono ancora riuscito a parlargliene.
Credo si sia messa a piangere e mi si stringe il cuore.
‘fanculo, Sherlock Holmes. Sei un mostro di egoismo e freddezza.
E io un imbecille che non ha nemmeno chiesto.

Quando arrivo, Jeannette mi apre subito la porta ed è visibilmente sconvolta. Ha gli occhi rossi e lucidi, ha già il cappotto addosso.
Ci abbracciamo timidamente, lei mi sussurra “grazie”.
“Sei sicura di voler andare in qualche posto? Possiamo parlarne anche qui”.
Lei scuote la testa. Devo uscire da qui dentro, mi sembra di impazzire, mi dice.
Ci incamminiamo nella sera ghiacciata, non per molto.
Non ci sarà nessun ristorante greco, ci fermiamo in una tavola calda poco più in là e ordiniamo solo due cappuccini.
Prima di parlare di suo fratello, attendiamo che ce li portino.
Io guardo fuori dalle vetrina, la strada illuminata dalle insegne accese, i semafori.
Mi sento male per lei. So cosa voglia dire perdere qualcuno.
So cosa vuol dire essere all’oscuro. Essere tenuti lontani, abbandonati.
‘fanculo, Sherlock Holmes!
“Raccontami” dice una voce, e non è la mia.
Jeannette alza la testa e sgrana gli occhi guardando oltre le mie spalle.
Io resto fermo, il cuore salta un battito nel mio sterno.
Sherlock aggira il tavolo, tira indietro la sedia che è al lato del nostro tavolino quadrato e si accomoda con uno svolazzo del cappotto.
Come sempre, non mi sono minimamente accorto di essere seguito da lui. 
Lo guardo torvamente, ma in realtà sono felice.
Felice.
“Raccontami, Jeannette” la esorta incrociando le braccia sul petto. Parla a lei ma fissa me. Mi sta... rimproverando come fossi un bambino?
“Sei interessato, adesso?” ironizzo.
“John, quanto davvero credi di conoscermi?” risponde seccato.
Cosa vuol dire????
“Grazie, Sherlock” freme Jeannette finalmente sollevata: é triste, sì, ma adesso intravede un minimo di luce all’orizzonte “non ci speravo... grazie!”
Lui adesso si volta a guardarla.
“Prego, Jeannette. Ma non prima di aver chiarito una cosa, definitivamente.”
Scioglie le braccia e allunga la mano destra verso di me, appoggiandola sul tavolo col palmo aperto. La sua mano bianca e bellissima, quel palmo che ho baciato almeno mille volte.
Io muovo la mia mano sinistra e gliela prendo, incrociando le mie dita con le sue.
E’ caldo. Mi sento a casa.
Lui stringe forte e fissa Jeannette con uno sguardo non fraintendibile.
Lei sposta le sue pupille da lui a me, da me a lui.
“Non ce n’era bisogno, e tu lo sai” gli dico imbarazzato.
“Per lei no, John” mi risponde sicuro di sé.
Mi rivolge uno sguardo in tralice per un solo secondo.
Finalmente Jeannette ha capito. “Oh...!” esclama “cioè voi due... alla fine...”
Non deve essere piacevole avere la conferma che un tuo ex boyfriend si è rivelato essere gay... e che tu lo avevi in fondo sempre saputo.
 “Decisamente.” conferma Sherlock. E stringe più forte.
Jeannette è arrossita, ora si rende conto di cosa sta succedendo.
“Ma io... Sherlock, non avrai pensato che in questa situazione io abbia chiamato John.... per altri motivi....”
“No, certo, ora che ti osservo e capisco che hai un altro fidanzato da un po’ di tempo, posso ragionevolmente affermare che volevi solo arrivare a me” la tranquillizza lui “e anche il nostro amico, qui, ha trovato il modo giusto per farmelo fare, non è vero, John?”
Cosa? No... deve aver capito male.
Mi guardo un attimo attorno come se cercassi conforto da chissà chi, poi fisso di nuovo quegli occhi glaciali.
“No... Sherlock... hai pensato che io abbia architettato tutto?”
Lui fa un mezzo sorriso.
“Non consciamente, forse. Non sei così furbo.”
Ecco, non poteva mancare.
Mi lascia la mano e si assesta meglio sulla sedia, mentre io finisco di arrossire.
“Allora, questo fratello...” incalza rivolgendosi di nuovo a Jeannette, che ancora ci guarda imbarazzata.
Io giro il mio cappuccino ormai quasi freddo, barcamenandomi tra rabbia, stupore e contentezza, mentre loro hanno cominciato a parlare scordandosi di me, come sempre accade quando Sherlock ingombra la scena con la sua ipertrofica presenza.
Mi chiedo come sia possibile che dopo tutto questo tempo io riesca a stupirmi ancora delle assurdità di quest’uomo, e di come abbia messo sottosopra la mia esistenza così, per poi farmela indossare come il più comodo degli abiti.
L’unica certezza che ho è che non vorrei mai un’altra vita, so già che non ci saranno mai abbastanza giorni in essa per godere di tutto questo.
Ah, e grazie, Mike Stamford. Ovunque tu sia adesso.

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Capitolo 4
*** Quotidianità delirante 4.0 - The Sherlock trainer ***


Guardo senza troppa convinzione quello che sto facendo e un piccolo sospiro sfugge dalle mie labbra.

L'odore non sembra malaccio,  ma non mi sono mai cimentato in... questo, non veramente: conosco giusto le cose basilari per mera sopravvivenza. Uova, bacon, bistecca, insalata.
Nutro qualche dubbio circa le mie reali capacità, ma da qualche parte bisogna pur cominciare.
Giro delicatamente quello che è nella padella con un cucchiaio di legno, come si è raccomandata di fare la tizia su internet, lo scrollo sul bordo e Sherlock entra in cucina a passo svelto, facendo svolazzare il camice bianco che si infila quando ha a che fare con le sostanze chimiche ma che poi lascia sbottonato sul davanti.
Penso lo faccia per darsi un tono, sinceramente.  Con chi, non saprei.
Vedo adesso che indossa anche gli occhiali protettivi e in mano ha... una fiamma ossidrica? Accesa?
Dio solo cosa stia facendo in camera da letto, con quel camice, quegli occhiali e quella... cosa: io non voglio saperlo.
Va dritto al pensile delle schifezze.
Lo apre.
Lo richiude sbattendolo.
Io guardo nella pentola ma con la coda dell'occhio vedo che si gira verso di me con una mezza piroetta stizzita.
"Dove sono???"
"Nella spazzatura"
Con due lunghi passi è al bidone, ne solleva il coperchio con la mano libera.
"In quella di ieri" specifico io.
Lo guardo.
Sbatte giù il coperchio. Si raddrizza con uno scatto irritato e mi guarda.
"Ho fame!"
"'Bene, mangerai questo."
Resta un attimo interdetto, poi arriccia il naso con disgusto.
"Te lo scordi!"
"Invece mangerai. Da oggi è cosi."
Si avvicina sospettoso e allunga il collo da sopra la mia spalla.
"Cos'è?"
L'espressione di sdegno mi provoca una leggera risata.
"Normalissimo pollo"
"Io mangio solo il pollo del nostro ristorante cinese e tu lo sai benissimo!"
"Tu mangerai questo. E, da oggi, ogni giorno mangerai qualcosa di cucinato in maniera appropriata. Ho cambiato il turno in clinica per poter essere libero a quest'ora e fare... questo. E tu mangerai."
"Perché dovrei???"
Lo guardo un po' esasperato.
"Perché le analisi del sangue che ti ho costretto a fare la settimana scorsa sono un film di terrore, di questo passo non durerai altri 10 anni."
Storce la bocca.
"Esagerazioni da medico!"
Si allontana e con soli tre passi ritorna allo stesso mobile, senza mai posare il cannello della fiamma ossidrica.
Apre un altro sportello.
"Sherlock, se le tue patatine non sono in quel pensile, non sono nemmeno nell'altro. E hai il colesterolo a 285: degno di un cinquantenne obeso, casomai ti interessi saperlo."
Chiude lo sportello con un tonfo secco.
"Non è possibile, il mio peso è regolarissimo e sono in perfetta forma"
Mi giro verso di lui e gli punto il cucchiaio di legno contro.
"Non sei affatto in forma: il tuo peso è basso per la tua altezza, sei denutrito e con le arterie quasi otturate, non fai moto, non bevi acqua, non dormi. Gli altri valori sono borderline, hai le transaminasi alte e dobbiamo andare a fondo anche il quella direzione: se continui così, tra dieci anni sarai morto. Perciò, da oggi si cambia."
"Fammele vedere!"
"Sono sul tavolo in soggiorno, vicino al mio pc. E spegni quell'affare!"
Si guarda la mano e si accorge solo adesso della fiamma ossidrica accesa.
Le spegne e sbatte il cannello sporco e fumoso sulla MIA tavola APPARECCHIATA, e, prima che io possa borbottare, corre di là mentre il camice gli svolazza dietro come una coda.
Ridacchio tra me e me quando ritorna col foglio tra le mani e me lo sventola davanti.
"Questo è ridicolo! Le hai falsificate."
"Non vaneggiare e siediti, è pronto."
"Sono pronto a scommettere 100 sterline sul fatto che tu abbia manipolato le mie analisi, io mi sento benissimo!"
"Finche non avrai un ictus, siediti".
 
Alla fine, ci riesco.
È seduto di fronte a me e sta masticando piano, svogliatamente, gli occhi fissi su un trattato di chimica che tiene saldo nella mano sinistra.
In effetti, anche io mastico piano.
Non è un granché di pollo, diciamolo, ma come primo tentativo credo di essermela cavata piuttosto bene.
"E allora" esordisce sorprendendomi (di solito quando legge non rivolge la parola a nessuno), ma senza alzare gli occhi su di me "hai deciso di metter su una routine di pasti fatti in casa? Dovrò sottopormi a questo ogni giorno?"
"Sottoporti? Sherlock, la gente firmerebbe contratti a vita con qualcuno che cucini per loro"
"Io non sono la gente"
E questo è vero.
Sospiro e ingoio un altro boccone.
“Non lo faccio con entusiasmo, non credere" specifico "ma hai visto le tue analisi..."
"Nulla che io non possa risolvere con un mesetto di autodisciplina"
"Ma davvero?"
Abbassa il libro e finalmente mi guarda
"Odio perdere tempo, odio stare incatenato a questo tavolo!"
Se fosse un'altra persona, mi sarei offeso. Ma lui è lui e io so cosa intende davvero.
"La mattina resti seduto a fare colazione per almeno un'ora"
"C'è il giornale da leggere, e come tu stesso hai detto, mi ci dilungo almeno un'ora ed esaurisco così tutto il tempo della giornata che voglio dedicare... a questo! "
Risolleva il libro nel palmo e l'argomento è chiuso.
Però prende un altro boccone.
Io sorrido impercettibilmente.
Lo conosco abbastanza da sapere che la questione è un'altra.
"Perché detesti così tanto che qualcuno faccia qualcosa di buono per te, apertamente?"
Arriccia il naso per un secondo
"Questo lo pensi tu."
"È la verità"
Gira pagina al libro e si assesta meglio sulla sedia, senza mai guardarmi.
"Perché poi vi aspettate che ricambi. Tutti."
Questa è bella!
"Oh, non io, non temere. Ormai sono abbastanza consapevole che la tua massima espressione di gratitudine sia evitare di dare fuoco alle mie cose"
Mi guarda per un attimo in maniera obliqua, con quello sguardo che farebbe balbettare Molly per un'oretta buona, e non risponde.
"Non sei abituato e ti dà fastidio. Okay, bene, ti abituerai. Vedo che ti adatti abbastanza velocemente alle novità in generale."
"John, questa tua mania di... addestrarmi, non riuscendovi, peraltro, sta assumendo contorni imbarazzanti"
"Non riuscendovi? Sei migliorato in una infinita serie di cose, come per esempio comportarti da essere umano in pubblico... a volte."
"Solo perché tu mi prendi a gomitate nello stomaco"
"L'ultima volta sei riuscito a far urlare quella donna, piangere sua figlia e ululare il cane, e tutto nello stesso momento"
"Che importa?" scatta lui "la sua testimonianza era FALSA!"
"Ma la bambina e il cane erano innocenti." ribatto io "soprattutto il cane."
Ci guardiamo sospesi in un momento di silenzio strano, poi scoppiamo a ridere.
Fragorosamente.

Ed è questo, credo, il motivo per cui mi ama in questo modo.
Perché io lo so, lo percepisco.
Lo sento quando lo sorprendo a guardarmi fisso per minuti e minuti, senza neanche un battito di ciglia, appollaiato sulla poltrona con le ginocchia sotto il mento. Mi guarda intensamente, studiando ogni millimetro di me, e non gli importa che io lo fissi a mia volta stupito, sentendomi in soggezione.
E’ il suo modo per dirmi che mi ama per quello che sono con lui.
Non lo forzo mai in niente, lo induco piano piano a prendere coscienza quotidianamente di tante piccole cose, magari ridendo, e lui, anche quando non è in grado di interpretare emozionalmente quello che vede, fa uno sforzo e tenta di applicare le regole che gli indico io.
Ma senza esasperazione, nè da parte sua nè da parte mia.
Lui è lui, e io non voglio tentare di cambiarlo. Non è scientificamente possibile, oltre che umanamente.
Avrà sempre i suoi exploit, i suoi momenti di follia pura, di rabbia, di disprezzo verso il genere umano, e io lo accetto, come accetto tutto il resto.
Tutti i miei sforzi sono semplicemente dovuti al fatto che vorrei che qualcuno, ogni tanto, eviti di chiamarlo “mostro”.
O strambo. O scherzo della natura.
A lui non importa, ma a me fa ancora male, qualche volta.
Non voglio che sia diverso, è il mio scherzo della natura: voglio solo che passi più inosservato, come me.

Gira la pagina del libro e prende un altro boccone, e la cosa mi fa gongolare un po’.
Sul pollo non ha detto niente, non ha fatto scientifici e logici discorsi per demolirlo molecola dopo molecola, per cui deduco che non gli dispiaccia.
Non so come farò per organizzare anche la cena, ma anche io ho dei limiti umani.
Non resisto.
“Allora?”
Solleva gli occhi nei miei, io indico il piatto con il mento.
“Com’è?”
Guarda giù, riguarda su.
“Non è male” dice senza convinzione.
Ritorna a leggere.
Le mie certezze vacillano. Mi irrigidisco sulla sedia.
“Fa schifo?”
Mi riguarda con le sopracciglia inarcate.
“Schifo è una parola grossa, John. Non esagerare.”
La rivelazione mi fa sentire cretino.
“Non ti piace eppure lo stai mangiando?”
Sherlock torna a leggere e storce il muso.
“Mi sembra corretto concedere un minimo riconoscimento ad un tuo sforzo.”
Oh. Cristo. Questo è un passo importante per la sua sociopatia.
Riconoscimento. Ergo, gratitudine. Per una piccola cosa che non ha la minima rilevanza nella sua esistenza.
Sei un grande, John! Esclamo da solo dentro di me. Sei un mito. Un maestro di vita. Un sensei!!!
Senza nemmeno guardarmi, aggiunge con molta calma “Adesso non pensare che questo piccolo traguardo per il tuo ego possa minimamente modificare qualcosa riguardo a tutto il resto. Lo faccio solo perché sei tu e nessun altro.”
Io sto ridacchiando, e so che non è vero.
E’ da tempo che la sua sensibilità è cambiata, così come la mia. Da quando siamo passati attraverso la morte, l’odio, e poi il perdono.
“Sono lusingato, Sherlock.”
“E fai bene”
“Immagino di essere il primo a essere benedetto in questo modo. Non ringraziavi la cuoca di famiglia quando eri ragazzino?” (l’aura a dir poco aristocratica che hanno lui e Mycroft mi hanno sempre fatto influenzato in tal senso, pur non essendone certo).
“Ummm.... no.”
“Tua madre?”
“No, non direi” gira l’altra pagina con un piccolo scatto, la carta fruscia più di prima, ma io, imbecille, non me ne accorgo.
“Nemmeno per i pancake della domenica?”
Solleva la testa con un movimento improvviso e mi pianta dentro due occhi a fessura, furibondi.
“Nessuno ha mai cucinato per me, John, né da bambino né da adulto, men che meno i pancakes, e ora ti pregherei di smetterla.”
Resto zitto e mi accorgo che ho commesso un errore.
Altro che sensei...
Come mi è venuto in mente?
Non abbiamo mai parlato della sua vita precedente, io non so nulla di ciò che è stato prima che ci incontrassimo. Ho sempre percepito che non gli sarebbe piaciuto parlarne, nè mi è mai interessato farlo: credo che i suoi siano morti da tempo.
E ho chiara in mente la visione di una infanzia e un’adolescenza probabilmente molto difficili, per lui e per Mycroft.
O non sarebbero tutti e due quello che sono, suppongo.
Ma io non ho mai chiesto, lui non ha mai detto nulla.
Cosa mi viene in mente di nominare sua madre, oggi?
“Scusami, non volevo. Dimentica questa stupidaggine, a volte scherzo in maniera idiota” mi affretto a dire, ma ho gli occhi bassi.
Lui non mi risponde.   
Vedo, però, che riprende a mangiare.

Venti minuti dopo, sono davanti alla mia nemesi.

Il lavello pieno di stoviglie da lavare.
Anche un uomo paziente e votato al sacrificio ha dei punti deboli, e lavare i piatti è decisamente il mio.
Li guardo come osservavo il fronte nemico col binocolo, in Afghanistan, in attesa di dover intervenire per tamponare le ferite più gravi dei miei compagni sul campo.
Che poi è il motivo per cui mi hanno sparato.
Lui si è alzato da tavola tempo fa, senza dire un’altra parola, e io non ho insistito.
Mi sento ancora in colpa, ma così come so quanto sia facile irritarlo, così so anche quanto certe piccole cose restino sospese per pochissimo tempo in quella fornace che è il suo cervello, sempre impegnato ad andare avanti e bruciare altre informazioni, altre idee, altre teorie, altro carburante.
Sospiro come prima, mentre cucinavo, e mi decido ad aprire l’acqua e farla scorrere sui piatti.
Con la coda dell’occhio intravedo la sua figura nel vetro della credenza alla mia destra: è dietro di me, silenzioso come un gatto.
Sento le sue mani sui miei fianchi.
Si fermano lì, salde e perentorie.
Mi sfugge un sorriso.
Sento il suo alito caldo nel mio orecchio destro.
“Non andare in clinica, oggi.” mi sussurra.
Dio solo sa cosa mi scatena dentro quel piccolo, piccolo soffio caldo sul mio lobo.
La pelle d’oca mi invade il braccio destro come un’onda che mi mozza il respiro.
“Ho il turno fra neanche un’ora, non posso” dico, e resto immobile.
Vedo il nostro riflesso nella finestra sul lavello.
A volte faccio ancora fatica a credere che sia vero.
“Allora lascia perdere questi piatti” suggerisce.
“Li... laverai tu?” ovviamente volevo fare l’ironico, ma la mia voce è strozzata.
“Certo che no” mi sussurra sul collo “imporrò a Mycroft di comprarci una lavastoviglie”
Chiudo gli occhi mentre sento gli impercettibili baci che sta cominciando a lasciarmi sulla pelle.
“E di pagarci l’affitto...” sento che sto perdendo il controllo “se non vado in ospedale oggi, possiamo prepararci ad andare per strada dal prossimo mese”
“E allora, che strada sia”
Le mani salgono verso il mio petto.
I piatti aspetteranno, è sicuro.
E anche Sarah, che, per inciso, troverò furibonda. Sarò in ritardo di almeno mezz’ora e oggi è giovedì, il giorno di punta all’ambulatorio.
Però ci ho guadagnato una lavastoviglie: una cosa da non sottovalutare.






































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Capitolo 5
*** Quotidianità delirante 5.0 - The Sherlock hunter ***


- Questa volta la storia è un po’ meno “leggera”. Parla Sherlock.

(É la prima volta che scrivo dalla parte di Sherlock, perdonate in anticipo qualunque castroneria io possa aver fatto!)

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Il caso è stupido, ma non ne ho avuti altri in 5 giorni e rischiavo di dovermi distrarre dando delle cadenzate, precise e taumaturgiche testate al muro sulla parete est del soggiorno.
Inoltre oggi pioviggina in maniera fastidiosa, ho incrociato Anderson allo Yard e John aveva uno stupido, stupido convegno di medici in uno stupido ospedale.
Quando stamattina a colazione ho obiettato che ai convegni ci vanno solo i luminari della scienza o gli scopritori di qualche nuova cura, ha sbattuto il tovagliolo sul tavolo ed è andato in camera sua a vestirsi.
No buono.
Umpf! Sono di cattivo umore. Peggiorato dalla presenza del DI Dimmock.
Dove diavolo finisce Lestrade così spesso?
Ieri era giovedì, posso dedurre che stia anticipando le sbornie del venerdì sera.
Un divorzio sembra essere una questione talmente... vitale per la gente normale. Noioso. Più di questo pivello che qualche anno fa, appena dopo il caso del banchiere e del Black Lotus, mi ha assunto a suo dio personale.
Non male per uno che, all’inizio, aveva fatto il solito errore di valutazione che fanno tutti.
“Stronzo arrogante”, aveva detto a John durante quel caso.
Oggi è tutto un “Signor Holmes qui, Signor Holmes là”.
Scalpita come un boy scout in procinto di esplorare una foresta selvaggia ogni volta che entro allo Yard e prendo un caso, e spera che Lestrade abbia un infarto e gli lasci il posto.
Cosa che avverrà presto se non la pianta di bere 5 pinte a sera e ingozzarsi di fish & chips.
Oggi Dimmock è stato fortunato.
Io non posso dire altrettanto.
Anche se la sua faccia da furetto potrebbe ingannare, non è particolarmente sveglio.
Ma io mi godo soprattutto il suo pendere dalle mie labbra.
Devo ammettere con un certo disappunto che questa fase è stata superata da John molto tempo fa, e la cosa non mi è gradita.
Siamo accovacciati in un vicolo, appena dietro l’angolo, e aspettiamo che ci passi davanti il sospettato.
Secondo le mie valutazioni, e io non sbaglio mai le mie valutazioni, dovrebbe uscire dal quel portone sulla strada principale in.... quattro, tre, due, uno...
“Eccolo” dico sottovoce.
Dimmock è alle mie spalle e stringe l’auricolare con dita nervose.
“Come fa a sapere che è lui?”
Santa pace! Alzo gli occhi al cielo senza girarmi a guardarlo.
“La statura. E l’andatura. Non ricordi quei tre frame della telecamera a circuito chiuso?”
“Beh... tre frame... non è che siano...”
“Sta andando veloce” lo interrompo.
“Seguiamolo!” esclama lui cercando di rimettersi in posizione eretta.
“No!”
Dimmock si riabbassa, perplesso.
“Lo seguiremo stasera, sappiamo che verrà di nuovo qui.E sappiamo chi è lui ma lui non sa chi siamo noi, un vantaggio notevole.”
Mi giro finalmente verso di lui e, visto che non c’è più motivo di stare accovacciati, mi alzo e mi stiracchio. Finalmente questa tortura è finita.
Dimmock si tira su e mi guarda mentre tiro fuori le sigarette e ne accendo una.
Oh, lo so, lo so, se ci fosse John non potrei.
Ma John non c’è.
“Ma come fa?”
Lo guardo mentre l’accendino mi lampeggia davanti alla faccia e sono certo che il mio labbro destro si sia impercettibilmente teso in un invisibile accenno di compiacimento.
Ah, il dolce, dolce sapore di miele dello stupire il mondo!
Quello sguardo ammirato, quella bocca semiaperta.
Questo è quello che ci vuole, per me!
“DNA” mi sbrigo a rispondere. Non ho davvero voglia di avere una conversazione.
La pioggerella mi sta infastidendo, ma voglio prima finire questa deliziosa sigaretta.
Sono appoggiato al muro con evidente soddisfazione, espressa dalla mia postura rilassata e gli occhi chiusi, quando sento una pressione sul mio petto e sulla mia bocca.
Ora sono sicuro di averla io, l’espressione stupita.
Dimmock mi tiene contro il muro e mi sta baciando.
Mi ha preso la testa con entrambe le mani per tenerla ferma e preme tutto sé stesso e la bocca sulla mia, riuscendovi senza problemi nonostante anche lui sia più basso di me.
Io sono... cosa sono, io?
Immobile. Ho le braccia allargate, lontano dal mio corpo, in un chiaro segnale di non corrispondenza, e sto fermo. Ho gli occhi spalancati e le labbra serrate, ma lui vi ha solo appoggiato la bocca con tutto il suo peso.
Non tenta di infilarmici dentro la lingua, almeno.
Che cosa singolare!
Ovviamente per me non implica nulla di... sentimentale o sessuale, il mio universale concetto di romanticismo si riduce a due sole, semplici parole, ovvero: John.Mio.
John.Mio.
Perfezione. Sincretismo e sostanza. Non esiste altro per me se non il semplice concetto di John. E che John è mio.
Ma questo strano evento mi incuriosisce.
Comincio a immagazzinare dati che altrimenti non potrei mai raccogliere.
L’argomento è: cosa si prova a essere baciati di forza da qualcuno che non è John.
Potrei ridere... se potessi, appunto.
Quando si rende conto che non partecipo, Dimmock si distacca lievemente da me e mi guarda negli occhi con smarrimento totale.
Credo stia tremando.
Oddio. Quest’uomo è disperato!
“Io... scusa... credevo...”
“Cos’è questo?” chiedo con molta calma.
“Ero convinto che... cristo...”
“Non balbettare, Dimmock. Di cosa eri convinto?”
“Di poter... cioè... pensavo che anche tu come me... insomma....”
“Che avessi un interesse per te?” credo di aver inarcato le sopracciglia con scetticismo.
Finalmente mi toglie le mani dai lati del capo.
Ora si scioglierà in una pozza di imbarazzo senza capire che io non riesco a COMPRENDERE il suo imbarazzo.
Lo percepisco ma non lo comprendo.
Ha fatto un gesto istintivo e non ben accetto dalle regole della società, come io stesso ne faccio ogni giorno, ma nessuno si è fatto male, mi sembra, e la cosa verrà presto dimenticata. Almeno da me.
Non è poi questa grande tragedia.
“No, non speravo magari questo” ansima imbarazzato (appunto!) “ma ero abbastanza certo che... insomma... gli uomini...”
“Che io abbia interesse negli uomini?”
“Così si dice... così... penso io”
Mi piacciono gli uomini (e non è, me ne piace uno solo), ergo mi piace lui?
Che riflessione da imbecilli.
Intanto non si stacca da me. Vuole una conferma, spera ancora che io gli dia il via libera.
“Pensare è un verbo impegnativo, Dimmock.”
Non mi scompongo.
Perché dovrei?
Però sono divertito.
E mi si è aperta una prospettiva.
Un’ improvvisa, deliziosa, splendida prospettiva. E ovviamente il soggetto centrale di questa riflessione è sempre John.
Cosa farebbe John se sapesse che un altro uomo mi desidera in questo modo?
Non l’innocua Molly, non il malato di mente Moriarty, ma un altro come lui?
Uno normale, abbastanza attraente, addirittura simile a lui fisicamente, uno dalla parte dei giusti?
Quanto gli farebbe male trovarsi per un attimo nei miei panni, quando lui non faceva altro che procurarsi degli appuntamenti e cambiare ragazze di fronte a me con frequenza oscena?
E portarle a casa a Natale?
L’idea mi fa sorridere.
Peccato che io lo faccia istintivamente, senza rendermi conto che sembra che io sorrida a Dimmock, il quale, infatti, lo prende come un segnale PER LUI e cerca di baciarmi di nuovo.
La sensazione è neutra. Non è buona, non è cattiva. Ha un sapore diverso da John, ovviamente, un po’ più salato, con un retrogusto di caffè, e mi lascia assolutamente indifferente.
Poi, a un certo punto, mi stufo.
E sento anche che comincia a serpeggiarmi per le membra quel disagio che provo nell’essere toccato, quello che, se indugio troppo, mi farà andare fuori di testa.
Se non è successo finora, è solo perché la singolarità dell’evento non ha dato il tempo al mio corpo di reagire, e ha tenuto impegnato il mio cervello in divertenti riflessioni.
Lo respingo con le mani, non bruscamente ma in maniera inequivocabile, e dico guardando di nuovo nei suoi occhi sconvolti:
“Qualunque cosa io prediliga, detective, non sei il soggetto giusto, né lo sono il luogo e il momento”.
Lui si allontana cercando di balbettare delle scuse, ora si sentirà un idiota per giorni, come’è giusto che sia, e non riuscirà a guardarmi negli occhi.
Io mi raddrizzo, mi sistemo il cappotto, alzo il colletto per fargli ancora più male e faccio il mio sorriso velenoso migliore.
“Ci vediamo in centrale, prendo un taxi.”
Dopodiché esco dal vicolo e lo lascio lì, a morire di rossore e recriminazioni.
La sigaretta è quasi consumata tra le mie dita, credo proprio che ne dovrò accendere un’altra.

Quel pomeriggio sono in soggiorno, appollaiato sul divano, le braccia intorno alle mie ginocchia, e dondolo leggermente fissando John che è seduto nella sua poltrona e legge il giornale con la solita beatitudine.
Mi sembra abbia dimenticato la faccenda del convegno.
Bene.
Io fremo compiaciuto. Non so se dirglielo adesso, subito, e togliermi il gusto tutto in una volta, o giocare un altro po’.
Provo una strana eccitazione, come quella che provai alla mia prima autopsia.
Frizzante!
E’ evidente che non riesca a contenermi se perfino lui nota qualcosa.
“Sentiamo, cos’hai combinato?” chiede, voltando pagina.
“Ummmm... è un caso interessante.” mento spudoratamente.
“Si vede.” finalmente mi guarda ”sembri un avvoltoio che punta la preda. Mi sono perso qualcosa di eccitante?”
“In parte sì, ma avevi il tuo...convegno.”
“Che, peraltro, è stato molto interessante”
“Oh, non ne dubito”.
Mi alzo e vado a prendere il violino. Oggi sono in vena di ballata.
Appena attacco, John abbassa il giornale e mi guarda interdetto, i grandi occhi ancora più allargati dallo stupore.
Non suono mai ballate. Troppo allegre. Melodie scontate.
Gli volto le spalle e sorrido come una iena.
Il primo seme è stato piantato.

Non mi faccio vedere in centrale per quasi tre lunghi giorni.
Non sono certo un esperto in strategie “sentimentali”, ma in strategie sì.
E quelle non cambiano mai, qualunque sia la loro area di applicazione.
Mando telegrafici messaggi al Detective Pivello per dare indicazioni sullo sviluppo del caso, lui risponde in maniera apparentemente formale, restituendomi informazioni utili.
Il caso si chiude con l’arresto del sospettato e altri tre complici dell’ultimo minuto: prima dell’operazione finale, non resiste e mi manda l’ultimo messaggio.
“Intervento pronto in 45 minuti.Quando potrò rivederti? Perdonami ancora una volta.”
Non lo cancello e non rispondo.
Lo farò leggere a John quando gli racconterò della singolare avventura e metterò in pratica la mia piccola, gustosa vendetta.
Ma gli eventi prendono sempre una piega inaspettata, per fortuna, e offrono sempre nuove possibilità.
La mattina successiva, sono davanti allo specchio dell’ingresso e mi sto sistemando il colletto della mia nuova camicia nera: me la liscio sul petto e sono soddisfatto di quello che vedo.
Oh, è così bello essere ME!
John passa di là per andare nel soggiorno con il caffè in mano, l’ho lasciato che dormiva almeno un’ora fa, e si ferma a guardarmi.
“Wow!” dice.
Già, wow!
“Alla buonora” rispondo infilandomi la giacca “Nuovo caso. Vieni con me?”
“Sarebbe... il mio giorno libero” mi dice indeciso “e come mai tanta eleganza per un caso?”
“Nessun motivo, i vestiti sono fatti per essere indossati” la giacca calza a pennello. Sono vanitoso e me ne compiaccio.
Perché non dovrei?
“Allora?” lo incalzo “E’ tanto che non ti diverti un po’.”
“Mmmmh.... ok. Dammi venti minuti. Che ti ha detto Greg? Di che si tratta?”
“Oh, il caso non è di Lestrade, è assegnato a Dimmock.”
“Ah, Tim.” dice casualmente “sta diventando bravo”
Tim? Timothy. Bene.
“Fai presto, John, sai quanto io detesti aspettare”

Una rapina in banca avvenuta da pochissimo.
Non ci sono vittime ma qualche ferito, ed è stato portato via un bottino incredibile in diamanti rari.
Siamo tutti e tre nella hall, tutt’intorno è un via vai di poliziotti, tecnici e addetti ai lavori.
I testimoni non feriti sono ancora lì, devono aiutare la ricostruzione degli eventi sul campo prima di andare in centrale, ed è quello che stanno facendo di fronte agli investigatori.
“Chiaramente c’è una talpa” dice Dimmock. Lo so che mi osserva con la coda dell’occhio.
“Chiaramente, Timothy”.
Avverto il suo piccolo sussulto, più interiore che esteriore.
“Tim” mi corregge.
Io lo ignoro, detesto i diminutivi.
Ma è lampante che vorrebbe più confidenza.
Avverto John che volge le iridi sospettose su di me.
Sherlock Holmes non dà confidenza. Sherlock Holmes chiama ancora Lestrade... Lestrade.
“Il complice è sicuramente tra coloro che lavorano qui: andiamo a dare un’occhiata”
Mi ci vogliono 3 minuti e 24 secondi.
Mostro uno dei badge rubati a Lestrade, guardo tutti in faccia, scambio due parole con quelli che al primo colpo mi sembrano più interessanti e poi mi soffermo a fare un’accurata scansione della 45enne in lacrime che si contorce le mani in grembo.
“Lei” dico a Dimmock “Il colpevole l’ha sedotta e poi convinta che doveva aiutarlo, che dopo questo avrebbero cambiato vita. I segni rossi sul dito mostrano che si è strappata con forza un anello dall’anulare sinistro, probabilmente lo troverete qui intorno da qualche parte: credo l’abbia lanciato via con un certa rabbia dopo essere stata abbandonata dal premuroso fidanzato e dalla sua squadra di esperti aiutanti.”
“Cosa? Cosa???” urla la donna mentre due agenti le si avvicinano.
Noi ci allontaniamo.
Percepisco alle mie spalle l’adorazione dell’ispettore.
Comincio ad annoiarmene.
E poi pensavo che questo caso sarebbe stato più stuzzicante.
Oh, certo, ora viene tutta la parte della ricerca dei fuggitivi, ma niente che io non sappia già.
Anche John è annoiato.
“Pensavo che avremmo trovato un po’ di azione, stamattina.”
“Scherzate?” Interviene Dimmock “quella cosa lì... “ e indica il gruppo dei testimoni “è stata incredibile, Sherlock.”
John mi riguarda basito.
Sherlock?
E’ interessante notare quanta forza nascondano certi piccoli dettagli.
Il ragazzino insiste. Ormai è convinto che ci sia una certa confidenza, probabilmente solo perché non ha ricevuto un pugno quando credeva di doverne avere uno.
Mi prende per un braccio, vedo John trasalire.
Io che mi faccio... agguantare?
“Andiamo allo Yard” dice “Interrogheremo la donna lì. Poi, magari, quando abbiamo finito andiamo anche a bere una birra”
Mentre mi tira via, guardo John che rimane lì rigido, in mezzo alla hall, e le sue sopracciglia aggrottate non promettono niente di buono.
Gli faccio la faccia innocente alla “cosa dovrei fare?” e gli faccio cenno con la mano di seguirci.
“Non bevo birra” dico a Timothy mentre ci allontaniamo “ma grazie lo stesso”.

“Siete diventati... amici, adesso?” esordisce John mentre siamo nel taxi.
Ha le braccia incrociate e guarda avanti. E’ stizzito.
E io voglio che lo sia.
“Amici’!” gli faccio eco mentre mi tolgo i guanti “Ti rendi conto dell’idiozia che hai appena detto?”
“Ti ha invitato per una birra? E ti fai chiamare per nome?”
Bingo.
“Anche Lestrade mi chiama per nome.”
“Lestrade ti conosce da 9 anni, e fino alla storia di Baskerville tu non sapevi nemmeno che si chiamasse Greg!”
Mi giro a guardarlo con intenzionale aria scettica.
“John, c’è qualche problema? Perché io non ne vedo.”
Si mordicchia il labbro inferiore combattuto. Si sente stupido, lo vedo. E sta chiaramente pensando di essere paranoico: sta pensando che io, da quando sto con lui, e grazie ai suoi sforzi educativi quotidiani, sono lievemente cambiato in meglio, sono più socievole, meno mostruoso, e che è una cosa buona, che in fondo lui per primo desiderava, per cui, come può lamentarsene adesso?
“No, hai ragione. Nessun problema.”

Ma poi osservo attentamente come ha cominciato a guardare Dimmock in centrale.
Il processo è in atto.
John è geloso marcio. E io gongolo.
Era così che ti sentivi quando fissavi un nuovo appuntamento e me ne rendevi partecipe con aria soddisfatta, John Watson?
E’ una sensazione nuova, inebriante.
E’ un modo di stare al centro dell’attenzione che non avevo mai provato.
Sono ricercato non per le abilità intellettive, non per risolvere casi, ma perché sono l’oggetto del desiderio di qualcuno per motivi personali, sessuali, sentimentali, e questo mi sta dando la stessa carica di quando capisco che c’è di mezzo un serial killer.
Interessante campo di ricerca.
Vediamo fin dove si può arrivare.

La sera stessa, la scena del vicolo quasi si ripete.
Ma stasera non va bene, stasera il mio umore è improvvisamente cambiato, come spesso accade.
Siamo al sulla riva ovest del fiume, nascosti in una zona mercantile in disuso.
Le indagini sulla rapina in banca hanno portato qui: grazie alla tempestiva identificazione della donna e alla sua testimonianza, ho facilmente compreso i loro piani e non hanno fatto in tempo a lasciare la città, che si è serrata attorno a loro. Sono qui da qualche parte.
Ci siamo divisi: John, da sempre appassionato di caccia grossa, ha tirato fuori la pistola con aria eccitata e si è unito ad un altro gruppo di uomini in perlustrazione, in apparenza dimenticandosi della faccenda.
Io e Timothy, ormai è Timothy, siamo dietro un grosso tubo di cemento e aspettiamo che i reparti speciali facciano irruzione.
Siamo abbastanza lontani dal deposito in cui presumibilmente si è nascosta la banda, ma stasera non mi interessa partecipare attivamente alla cattura, so che ogni tanto John ne ha bisogno più di me.
Timothy è seduto accanto a me e armeggia con la trasmittente con la quale segue l’azione, ma non tanto “casualmente” da non farmi notare che mi si è avvicinato.
Io continuo a digitare sullo smartphone, cercando di visualizzare una decente mappa satellitare del luogo.
Ho l’impressione di essermi cacciato in qualche guaio.
Sto ripensando a John, alla sua faccia di stamattina, e credo che quello che ho fatto sia... non buono.
Il suo modo di guardarmi mi ha fatto percepire una specie di “anteprima del dolore”.
Perché dovrei fargli questo?
Perché io sono io?
In altri tempi questo concetto sarebbe bastato: oggi, invece, mi frena, e il mio infantile entusiasmo di fronte ai giochini di manipolazione lascia il posto ad una perplessità nuova e decisamente sgradevole.
Perché sto facendo questo a John?
Ho la netta sensazione che non sarei dovuto rimanere qui con Dimmock, ma fino a qualche minuto fa non ci stavo neanche pensando, preso dagli sviluppi del caso.
La... curiosità che mi aveva stimolato fino a poche ore fa si è all’improvviso sgonfiata.
E’ svanita e basta.
Mi sento a disagio, ed è una sensazione per me rara. Brutta.
Spero che l’azione termini presto e che io me ne possa andare di qui.
Dopo qualche minuto di silenzio, l’ispettore trova il coraggio per parlare e nell’oscurità non può vedere i miei occhi esasperati sollevarsi al cielo.
“Ho saputo” esordisce, poi tace.
Ecco una cosa che odio più della mancanza di casi: quando qualcuno crede di interessarmi dicendo una frase del genere e sperando che io dica “cosa?”.
Non lo dico.
Sento che si raschia la gola per trovare più coraggio.
“Di te e di John Watson.”
“Mmh” mugugno mentre continuo a guardare lo schermo. Qualunque cosa io voglia dire, e non lo so perché sto ponendo attenzione alle mappe, lui la interpreta come un “vai avanti”.
“... che non siete solo coinquilini” ha di nuovo quel tono vagamente imbarazzato, ma si sente che si vuol fare forza.
“Non è un segreto per nessuno” dico finalmente, altrimenti non la smetterà mai.
“Allora avevo ragione su di te” striscia col sedere sull’asfalto su cui siamo seduti, la schiena sempre appoggiata al tubo di cemento, e si avvicina di più.
La sua spalla tocca la mia.
Non mi piace essere toccato da chiunque in circostanze simili, soprattutto se non voglio.
Mi rende nervoso, mi fa chiudere la gola.
Da tutta la vita posso ragionevolmente imputare il fenomeno al mio essere un Sociopatico ad Alto Funzionamento, ma il saperlo ha mai aiutato a superarlo, in ogni modo.
Solo John può toccarmi. In una certa misura, e non di sicuro in maniera... intima, anche Mycroft.
L’altro giorno, nel vicolo, era una specie di scherzo, adesso non lo è.
Mi irrigidisco.
“Dipende in cosa credevi di aver ragione”
Si gira verso di me. Io lo seguo con la coda dell’occhio.
“Non ho speranza? Sherlock... se ti chiedo di vederci... da soli...”
“No, certo che no”
Ora sono definitivamente sicuro di aver combinato un guaio, e non so come uscirne.
Imbarazzante.
Ohibò, per lo meno immagino che questa sensazione...non confortevole sia imbarazzo.
“L’altro giorno non mi è sembrato ti dispiacesse del tutto”
“Ti sei sbagliato”
Un piccolo suono mi annuncia che ho trovato la mappa.
Timothy mi afferra per un braccio e avvicina la sua faccia alla mia. Io mi ritraggo ma ormai ce l’ho a cinque centimetri di distanza.
“Non era quella la mia sensazione. Sherlock, ti supplico... una volta sola. Non faccio che pensare a te.!”
Accidenti, se ha preso coraggio!
E’ aggressivo e non impacciato come nel vicolo: mi sento all’angolo. Completamente congelato.
Questa cosa mi sbilancia, non la so gestire.
Nel vicolo ero io ad avere il controllo grazie alla sua insicurezza, stasera il controllo non l’ho più.
Lui è CONVINTO di quello che fa.
Cosa devo fare? Spingerlo via? Urlare? Disprezzarlo?
Vorrei fare tutte e tre le cose nello stesso momento, ma la verità è che non riesco a muovere un muscolo, ho... come dire? Paura?
Sento l’aria attorno a me che si fa sottile come una lama, i sensi che si amplificano, il cuore che prende un ritmo veloce e rimbomba cavernoso nello sterno, e sono cosciente all’improvviso che La mia condizione clinica sta per scatenarsi.
I soggetti ad Alto Funzionamento come me sono spesso caratterizzati da queste manifestazioni: di fronte agli approcci intimi aggressivi da parte di gente sconosciuta o ritenuta ostile, possono reagire nelle maniere più disparate e violente.
Nel mio caso, per quanto incredibile possa essere, io non riesco a reagire affatto.
Sono cosciente che non stia accadendo nulla di fisicamente pericoloso per la mia incolumità e che il mio imminente attacco di panico sia del tutto ingiustificato, ma non posso farci niente... o non sarei annoverato fra questi soggetti.
Ovviamente, come spesso è accaduto in questi giorni, il mio silenzio viene preso per incoraggiamento.
E il mio respiro accelerato viene preso per eccitazione.
Invece è terrore.
“Una volta sola, incontriamoci a casa mia una volta sola... ti farò vedere...” mi ripete sussurrando mentre mi viene addosso e cerca di baciarmi di nuovo, ma stavolta mi scanso, frappongo le mani tra di noi, lascio cadere il telefono. Sudo freddo.  
“No, basta, non mi interessa, ti ho detto!”
Riesco a tenerlo lontano con le mani quanto basta per impedirgli di baciarmi, ma non  riesco a intraprendere un’azione chiara e decisa, e non mi capacito di come NON CAPISCA!
E poi il fascio di luce di una torcia elettrica ci investe.
E la voce di John, in apparenza calma e impostata ma in realtà carica di una vibrante, sotterranea furia che solo io riesco a percepire, dice “che sta succedendo qui?”
Dimmock si gira verso di lui spaventato, colpito in pieno viso dal fascio di luce, e si allontana bruscamente.
Ora la luce è puntata nei miei occhi spalancati.
Credo di essere molto pallido. Respiro con affanno, velocissimo, ma non riesco a far entrare abbastanza aria nei polmoni.
John si precipita verso di me e mi si inginocchia davanti.
Lui capisce sempre con uno sguardo.
“Sherlock, stai calmo, è tutto ok.... respira e calmati”. 
lo ripete come un mantra e le sue mani calde mi tengono per le spalle mentre io cerco di riprendere colore.
Ho la testa bassa ma percepisco il suo volgersi verso Dimmock. Posso immaginare l’espressione del suo viso deformata dall’ira.
“Che stavi facendo, imbecille?”
“Niente, John.... io non... davvero... parlavamo!”
“Non puoi toccarlo impunemente, nessuno può. Sparisci o ti ammazzo, idiota!”
La voce di John è un ringhio sommesso e perentorio.
In quel momento la ricetrasmittente gracchia e qualcuno comunica che hanno fatto irruzione. Sento lo spostamento d’aria che crea Dimmock alzandosi velocissimo e correndo via.
John mi abbraccia con cautela, io appoggio la fronte sul suo petto e riesco a rallentare il respiro, finalmente.
Oh, John.

Tornando verso casa non parliamo.
Io sono chiuso nel mio mutismo più ferreo, John non fa domande. Sa che arriverà il momento giusto, e che non è questo.
Nessuno mi conosce come lui.
Nessuno può nemmeno lontanamente avvicinarsi a tutto quello che è lui.
Cosa cercavo di dimostrare?
Cosa volevo... sperimentare?
Sono un assurdo strambo che fa cose anormali: devo dare ragione a Donovan, stasera.

“Tu... COSA???”
Più o meno un paio d’ore dopo ho ritrovato me stesso nel mio soggiorno, ranicchiato sulla mia poltrona, davanti a una tazza di thè.
E devo confessare, purtroppo.
John era seduto fino a un minuto fa, ma ora è balzato in piedi e stringe i pugni.
Voglio mantenere un’aura di superiorità, ma sento che la forzatura nella mia voce stona.
“Non è questa grande tragedia!”
“COSA???”
John mi si avvicina di più, io sostengo il suo sguardo con fierezza.
“Ti sei fatto... gli hai permesso di... baciarti???”
E’ furibondo. Fuori di sè.
“E perché MAI, sentiamo!”
Io mi rischiaro un po’ la gola. In realtà sono spaventato. Non è salutare avere John arrabbiato intorno.
“Nessun motivo in particolare, mi ha colto alla sprovvista.”
“E allora perché stasera ci ha riprovato???”
“Perché è evidentemente un idiota!”
“Un idiota che tu hai incoraggiato, signor.... camicia attillata! Non credere che io sia cieco! Timothy??? Da quando in qua chiami per nome la gente che ritieni inferiore? Magari dopo ci prendiamo anche una birra!” scimmiotta Dimmock per un attimo con un’imitazione nasale della sua voce, poi torna furioso “ci mancava solo che ti mettesse una mano sul culo DAVANTI A ME!”
“Ero... ero lusingato, sì!”
Ammetto guardandolo con aria di sfida. Forse volevo arrivare esattamente a questo.
Alla prima scenata di gelosia della mia vita.
Sento il formicolio dell’eccitazione che comincia a salirmi dalle gambe.
E’... divertente, in un certo senso. Però mi fa anche essere molto teso.
“Lusingato??? Ti strozzo con le mie mani, quant’è vero Iddio!”
Mi alzo anche io di scatto e lo sovrasto.
“Te lo sto raccontando o no? Dovrebbe dimostrare la mia buona fede!”
“Me lo avresti dovuto raccontare IL GIORNO STESSO! Questo si chiama TRADIRE!”
John sta urlando.
“Mi hai... mi hai praticamente... tradito!” mi guarda esterrefatto.
Io non so di cosa stia parlando.
“Cosa???”
“Ti piace?”
“Cosa, John??? Ma che dici?”
“Ti piace? Lo trovi... attraente?”
“No! Ma certo che no! Cosa ti viene in mente???”
“Possibile... possibile mai che tu NON CAPISCA???” si tocca le tempie con le dita  per sottolineare il concetto “Queste cose NON si fanno tanto per farle, Sherlock, c’è sempre un motivo!”
“Il motivo in questo caso non esiste!”
“Il motivo è che quel tizio ti PIACE!”
“No! ti ho raccontato com’è andata senza tralasciare il minimo particolare, io non ho  fatto NIENTE!”
“Tranne che ASSECONDARLO, MI SEMBRA!”
Sta urlando di nuovo.
Eh sì, ho fatto decisamente qualcosa di grave. Come la aggiusto, adesso?
“Era... curiosità! Volevo vedere come avresti reagito tu” ammetto stizzito.
John mi guarda sconvolto.
Giurerei che vuole picchiarmi.
“Un... esperimento?”
“Chiamalo così, se vuoi” mi sento arrabbiato in maniera infantile “nulla che abbia a che vedere con quell’individuo in quanto tale!”
“Viviamo insieme da non so quanto tempo e TU FAI ESPERIMENTI DI GELOSIA CON ME? Volevi vedere fino a che punto mi potessi imbestialire? Ecco, sei accontentato!”
Si allontana a grandi passi e va a prendere la giacca.
Oh, no.
No, no, no. Questo no.
Lo inseguo e lo trattengo per un braccio.
“John, non farlo, resta qui! Non è una reazione intelligente!”
Mi guarda con gli occhi a fessura.
“Intelligente??? Lasciami o giuro che ti dò un pugno.”
Ok. E’ abbastanza.
Scatto anche io.
“Io non facevo così quando mi spiattellavi tutti i tuoi appuntamenti sotto il naso! Impara da me!”
“Cosa?” si irrigidisce “che paragone stai facendo? Tu sei fuori di testa!”
“Un paragone calzante, direi.”
Si trattiene per un attimo, strofinandosi il mento con le dita.
“Oh, è da te. Questa cosa è perfettamente da te. Potrei perfino crederti. Se non fosse che NON ti credo.”
“Stavo avendo un attacco di panico, come fai a NON CREDERMI?”
“Vuoi dire davvero che ti stavi vendicando dei miei appuntamenti passati? Ma ti ascolti quando parli?”
Siamo nell’ingresso. Io incrocio le braccia e mi sento messo in castigo.
Non so se esplodere e andarmene io di casa o mettere il broncio.
Metto il broncio.
“Non avevi un minimo di riguardo per me!”
John ride.
La sua migliore risata sarcastica. Però gli brillano gli occhi. Quanto amo quegli occhi!
“Sherlock, stai parlando di una vita fa! Non c’era niente tra noi!”
Oh. Questo fa male.
Mi mordo il labbro inferiore, come mi dice faccio sempre quando sento cose come... questa.
Sospiro. Abbasso le spalle e la smetto di fare l’impettito.
“Certo che c’era.” lo fisso e mi sento sconfitto “è che, come sempre, tu guardavi ma non osservavi.”
Lo lascio lì e torno in soggiorno. Mi fermo davanti alla finestra.
Sento che mi arriva alle spalle e si ferma poco dietro di me.
“Sherlock...”
La sua voce ora è bassa. Calma.
“E’ davvero... per questo?”
Guardo il palazzo di fronte. Le finestre illuminate nella sera, le ombre delle persone dietro le tende tirate. Cosa vuol dire essere normale? Sentire le cose come una persona normale? Io non le sento per niente, o le sento... troppo. Troppo e tutte insieme. Come adesso.
Non va bene. Fa male. Come John.
Mi fa fare cose che non mi piacciono.
Stupidaggini.
Odio le stupidaggini.
“Ma certo che è per questo” continua da quasi parlando a sé stesso “su queste cose non sei molto furbo.”
“No, non lo sono. Ho combinato un pasticcio.”
Trascorre qualche istante di silenzio. Percepisco dal suo lungo sospiro la rabbia cieca forse sta lasciando il posto ad una specie di indulgenza.
Mi giro piano e lui mi guarda paziente, le mani sui fianchi.
“Ok. Hai fatto casino. Niente che non possiamo aggiustare, credo. Ma forse ci sono ancora due o tre cose che ti devono essere spiegate sull’argomento.”

Durante la notte sono sveglio.
Ho gli occhi spalancati nel buio e ripasso mentalmente le cose che mi ha spiegato John, alla cui schiena sono letteralmente avvinghiato come se temessi che si smaterializzi dalle mie braccia. Respiro nei suoi capelli.
Ricapitolando:
Non si gioca coi sentimenti altrui (qualunque cosa ciò voglia dire), in questo caso quelli di Dimmock.
Non si fanno esperimenti su roba affettiva in generale che riguardi John e, se me viene voglia, devo prima parlarne con lui.
Si dice sempre la verità. Non si nascondono le cose.
Sentirsi adulati e lusingati non autorizza a farsi mettere le mani addosso.
Si accetta un caso solo se il titolare è Lestrade.

Su questo punto è stato irremovibile. Epurazione totale di Dimmock. Ha detto che se lo rivede a meno di 5 metri da me, gli fa la pelle. Sono abbastanza propenso a crederci, se lo dice uno che ha preso a pugni un procuratore generale che mi ha chiamato “strambo” dopo avermi arrestato.
Mi sento sollevato in maniera commovente.
Stringo John di più e sento che mugola nel sonno, forse ho stretto troppo.
Ma se solo sapesse della necessità imperante, assoluta che ho di tenerlo con me, addosso a me, e che, se potessi, lo ingloberei, lo assorbirei interamente nel mio corpo, in tutte le mie cellule.
Stasera gliel’ho detto tante volte, mentre facevamo l’amore.
Che lo amo, voglio dire. Ma non so se riesca a capire cosa intendo veramente.
Io che ogni giorno guardo il mondo in maniera così chiara, violenta, affilata... che sento tutto, e quando dico tutto, intendo Tutto, e Tutto mi ritorna negli occhi e nel cervello in modo così potente, così universale, così insostenibile per un normale essere umano, come faccio a spiegargli che lo amo in questo modo?
Che non è nemmeno amore, ma è caos/ordine, buio/luce, equilibrio/squilibrio... perfezione?
Sono perso senza John. Perso come un’asteroide nello spazio. Condannato a un viaggio senza scopo.
Non so come ho fatto in quei lunghi mesi in cui ho dovuto fingere la mia morte. O meglio, lo so. Le droghe non mi sono mancate.
Adesso sono più sveglio e lucido che mai, e ho imparato un’altra piccola cosa.
Che John non è la mia parte umana, come dicono tutti.
Quello con il cuore, contrapposto allo strambo con il cervello.
No, John è più intelligente di me.
Perché è l’unico sulla Terra che abbia capito come sono fatto veramente, e solo uno più scaltro, metodico e istintivo di me ci poteva riuscire.
E io amo sentirmi più stupido di lui, perché non è vero che sia sempre bello essere me: in questo momento vorrei essere lui, per esempio, e dormire beato, sapendo che è tutto ok.
Ma non è tutto ok.
Si stancherà, prima o poi. Perché è quello io che faccio fare alla gente.
Magari, però, non ci penso stanotte.


















 




































 

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