The truth beneath the shadows

di Ell Emerson
(/viewuser.php?uid=189794)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Il buongiorno si vede dal mattino ***
Capitolo 2: *** L'ombra ***
Capitolo 3: *** Una ragazza disillusa ***
Capitolo 4: *** Un buon inizio - Riley ***
Capitolo 5: *** La città buia - Incidente ***
Capitolo 6: *** Finalmente a casa ***
Capitolo 7: *** Ci siamo già visti? - Incompatibilità ***
Capitolo 8: *** Zia Josephine - Il corridoio dei ritratti ***
Capitolo 9: *** Vecchie amiche ritornano ***
Capitolo 10: *** Il fedele destriero ***
Capitolo 11: *** Grisham, pensieri e una campionessa... ***
Capitolo 12: *** Quando il gatto non c'è ***
Capitolo 13: *** Il ritorno delle ombre ***
Capitolo 14: *** Di rose e di marmo ***
Capitolo 15: *** Una goccia di verità ***
Capitolo 16: *** Dopo Ginevra e Francesca ***
Capitolo 17: *** Stallo ***
Capitolo 18: *** Il Cavaliere e la sua Dama ***
Capitolo 19: *** Carpe diem ***
Capitolo 20: *** Come sale su una ferita ***
Capitolo 21: *** Tradimento ***
Capitolo 22: *** Di matrimoni e altre storie ***
Capitolo 23: *** Ardente come fuoco ***
Capitolo 24: *** Sogni e incubi ***
Capitolo 25: *** La fitta di un ricordo ***
Capitolo 26: *** In un angolo di mondo ***
Capitolo 27: *** Sconosciuta ***
Capitolo 28: *** Cerchio d'ombra ***
Capitolo 29: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo - Il buongiorno si vede dal mattino ***




THE TRUTH BENEATH THE SHADOWS


PROLOGO

La porta batté tanto forte che la cornice appesavi accanto cadde per terra frantumandosi. Evelyn non si degnò nemmeno di raccogliere la fotografia che la ritraeva insieme alla sua famiglia, il giorno del suo diciassettesimo compleanno. L’avrebbe volentieri bruciata in quel momento. Era finita, l’indomani sarebbe partita e basta. “non si discute” aveva detto suo padre pochi minuti prima mentre lei, indignata, correva a barricarsi in camera sua.
La finestra socchiusa era incredibilmente allettante, ma dove poteva andare? Non aveva per niente voglia di vagabondare per la città.
Sarebbe partita sì, ma avrebbe fatto le cose a modo suo.

Guardò le valigie ancora vuote abbandonate in un angolo della stanza, ma non aveva voglia di fare niente e si disse che ci avrebbe pensato la mattina seguente svegliandosi presto.
Si addormentò pensando alla tremenda estate che la aspettava. Lontano dalla sua città e dai suoi amici, a prendere ripetizioni di greco e matematica da quella sua zia (alquanto isterica a detta dei suoi cugini che avevano avuto la fortuna di incontrarla) che non aveva mai conosciuto.

1. IL BUON GIORNO SI VEDE DAL MATTINO

Aprì gli occhi infastidita dalla luce. Come sempre sua madre aveva spalancato le tende ignorando che la cosa mandasse Evelyn su tutte le furie. Guardò l’orologio sul comodino, segnava le sette e cinque. Sbuffò e si seppellì sotto le coperte.
Non va bene, farò  tardi… dovrei proprio alzarmi.
Si trascinò giù dal letto di malavoglia e caracollò in bagno per lavarsi. Dopodiché si vestì e sistemò le sue cose dentro le rispettive borse senza neanche vedere che cosa stesse maneggiando. Scese di sotto, salutò tutti e si accomodò sul sedile posteriore della macchina, dove chiuse gli occhi solo per un minuto…
Non va bene, farò  tardi… dovrei proprio alzarmi.
Spalancò gli occhi tirandosi su… nel suo letto. Guardò l’orologio. Le nove.
<< Merda! >> esclamò mentre saltava giù dal letto e sfrecciava verso il bagno.
La fase in cui la mattina si sogna di prepararsi e adempiere i propri doveri, mentre in realtà si è ancora comodamente a ronfare a letto, era normalmente superata in terza o quarta elementare, ma evidentemente lei era tardiva per quanto riguardava questa fase dello sviluppo adolescenziale.
Quando alla fine fu pronta e si osservò fugacemente allo specchio si rese conto che non aveva per niente un bell’aspetto; i capelli erano arruffati e informi ed in viso era tremendamente pallida come sempre. Fu tentata di afferrare il borsello dei trucchi, ma doveva ancora fare le valigie e dovette lasciar perdere.
Dato che le avevano ripetuto circa una decina di volte che la misteriosa zia non tollerava i ritardatari, prendersela comoda le sembrava un ottimo presupposto per il suo piano, tuttavia cercò di fare ancora più in fretta. Conoscendo suo padre sapeva benissimo che alla dieci meno un minuto l’avrebbe trascinata in macchina, anche se fosse stata in pigiama.

Alle dieci non aveva ancora finito le valigie ed era forse ancora più pallida di prima. Suo padre sbucò dalla soglia della porta camminando a passo svelto e sicuro senza neanche bussare e le augurò il buongiorno, poi afferrò quante più valigie poteva e uscì come era entrato. << Chiamalo buongiorno! >> fu tutto quello che riuscì a urlargli dietro Evelyn.
Si precipitò giù nell’ampio atrio rincontrando l’amato genitore che faceva dietro front per andare a recuperare le valigie rimanenti, << Perché tutta questa fretta? Hai forse paura di pentirti e ripensarci? >> gridò rivolta alle scale. L’interessato passandole accanto le rivolse semplicemente un sorriso ebete che Evelyn ebbe voglia di cancellargli a suon di schiaffi dalla faccia << Sai che ti dico? Troppo tardi. Non vedo l’ora di essere lontana da questo maledetto posto, dalla mia isterica zia! >> continuò la ragazza.
Non si poteva dire che fosse una che si teneva tutto dentro; e proprio in quel momento stava fornendo prova della sua capacità di esternare i suoi sentimenti e i suoi disagi con ogni genere d’imprecazioni contro la sua famiglia e la sua sfortuna.
<< Chi sarebbe l’isterica? >> esordì suo zio comparendo all’ingresso, seguito da tutta la sua famiglia che si era probabilmente appropinquata per salutarla e augurarle una felice permanenza estiva a isteriavill. Evelyn li fulminò con lo sguardo, << Già. Direi che farete proprio una bella coppia tu e la zia Josephine >> continuò suo cugino.
<< Sta zitto Nick! >> lo aggredì la ragazza.
Il caso volle che proprio in quel momento anche sua madre fosse di ritorno dalla messa domenicale, accompagnata da nonne, zie e prozie. Dovevano aver organizzato una festa in onore della sua dipartita.
Fortunatamente suo padre aveva finito di caricare le sue cose sulla jeep.
<< Se eravate venuti per salutarmi… >> iniziò Evelyn rivolta ai parenti che iniziavano ad affollare l’atrio di casa sua.
<< Veramente siamo qui per festeggiare il novantasettesimo compleanno di zia Giselle >> la interruppe suo cugino con un sorrisino malefico e indicando una nonnetta decrepita che quattro dei suoi cugini stavano tentando di issare su per le scale.
Neanche si degnavano di scomodarsi per salutarla.
<< Peccato, stavo per suggerirvi un posticino dove potevate ficcarvi i vostri salut… >>
<< Evelyn! >> la richiamò sua madre. In tutta risposta la ragazza rivolse a tutti un sorriso sgargiante e finto senza proferire parola e si fiondò in macchina.
Partì così, senza salutare nessuno e con ancora quel nodo di rabbia alla gola.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** L'ombra ***


2.L'OMBRA


Viaggiare sulla jeep non le era mai dispiaciuto, soprattutto se a guidarla era Anton, l’autista di suo padre. L’avrebbe accompagnata lui fino a destinazione perché in realtà era nato da quelle parti e in quel periodo dell’anno andava sempre a trovare la sua famiglia. Era un uomo sulla quarantina ed Evelyn aveva sempre apprezzato la sua capacità di sopportare di buon grado le sue chiacchiere, ma soprattutto di stare zitto quando non aveva voglia di parlare e voleva sentire solo lo scivolare degli pneumatici sull’asfalto. Come in quel momento.
Si godeva la vista degli alberi che sfrecciavano oltre il finestrino stravaccata sul sedile anteriore dell’automobile. Adorava i boschi, le trasmettevano una sensazione di tranquillità, al punto che dopo qualche ora trascorsa a fissare quelle macchie verdi cadde in un sonno profondo.

Si svegliò dopo qualche ora, forse infastidita dal dondolio della nave. Era ancora in macchina, nel parcheggio del traghetto. Anton doveva essere sceso. Guardò l’orologio del cellulare e si rese conto che aveva dormito per quasi sette ore. Assurdo, pensò mentre costatava che il suo autista doveva aver guidato a una velocità folle per essere arrivati da Aberdeen al porto in meno di dieci ore. Meglio così, si disse alla fine infilandosi la felpa. Aveva urgente bisogno di un caffè e di fare un salto in bagno. Diede un’occhiata al sedile posteriore e nonostante la scarsissima luce si accorse che le sue cose non c’erano, quindi si chinò per sfilare le chiavi dal quadro della macchina.
Fu quando risollevò lo sguardo che si trovò davanti una sagoma scura e sfocata in piedi proprio davanti alla macchina… sussultò e si appiattì contro lo schienale del sedile. Strinse le palpebre mentre il suo cuore accelerava i battiti. Quando riaprì gli occhi davanti a lei non c’era niente, si guardò intorno e vide solo altre automobili.
Evelyn non era una fifona, eppure il terrore l’aveva paralizzata per un momento. << Sono ancora mezza addormentata >> si disse a voce alta per riempire un po’ quel silenzio angosciante mentre un brivido le percorreva la schiena.
Scese dall’auto e ne raggiunse il retro infilando le chiavi nella toppa per aprire il cofano, prelevò la sua borsa a tracolla e richiuse. Stava per avviarsi quando con la coda dell’occhio nel finestrino di un’auto accanto a lei notò il riflesso di una sagoma. La stessa di prima. Si voltò di scatto… ovviamente non c’era.
Accelerò il passo per arrivare prima alle scale e finalmente lasciare quel posto buio e lugubre. Forse aveva accelerato troppo… dopo pochi passi urtò qualcosa e se non ci fosse stata la provvidenziale ringhiera delle scale dietro di lei sarebbe finita per terra. << Tutto bene? >> disse una voce maschile, probabilmente appartenente a colui che aveva investito, mentre una mano si avvicinava alla sua spalla, la ragazza la schivò con un gemito; << Scusami. Volevo controllare che stessi bene >> disse quello ritraendosi.
<< Sto bene grazie. Mi scusi se le sono finita addosso >> rispose lei un attimo prima di allontanarsi velocemente. Non era riuscita a vederlo in faccia con quella penombra, aveva notato solo che era molto alto e aveva occhi chiari, ma non aveva importanza, era impossibile che fosse la stessa persona che le aveva quasi fatto prendere un infarto… primo perché era impossibile che si fosse spostato così velocemente da una parte all’altra del parcheggio, e secondo perché molto probabilmente si era immaginata tutto quanto.

Quando raggiunse i corridoi della nave il suo cuore riprese a battere normalmente. Dopo essere passata dal bagno si diresse verso il bar e ordinò il tanto bramato espresso nella speranza di evitare altre sgradevoli allucinazioni.
Mentre era ancora seduta su uno degli alti sgabelli del bancone si sentì afferrare per una spalla; afferrargli la mano e saltare giù dallo sgabello furono una cosa sola. << Caspita! Che riflessi. Fai kung fu o roba simile? >>.
<< Anton! >> esclamò Evelyn lasciando stare l’aggressore.
<< E chi altri? >>.
<< Già, chi altri. Scusa non ti ho fatto male vero? >>.
Quello guardò i segni rossi a forma di mezzaluna che gli erano rimasti sulla mano, poi rise << Ti sembro un pappamolle? >>.
La ragazza sorrise << E comunque sono un’autodidatta >>.
<< Allora devo porgerti i miei complimenti, m’insegni qualche mossa? >>.
<< Quando vuoi >> rispose sempre sorridendo Evelyn.

Era corsa sul pontile nella speranza di godersi la vista mozzafiato della costa dell’Inghilterra che si allontanava e invece con immensa delusione aveva costatato che diluviava e con la nebbia non si vedeva a un palmo dal proprio naso. Così aveva trascorso il resto della traversata su un divanetto a guardare le gocce che scivolavano sulle finestre. Quella fu la prima volta che le dispiacque la pioggia, solitamente la metteva di buon umore.

Tornarono nel parcheggio solo quando la nave attraccò. Evelyn percorse ogni angolo con lo sguardo mentre aspettavano che il portello si aprisse per lasciarli scendere. << Hai perso qualcosa? >> suonò dentro l’abitacolo la voce di Anton.
<< Come? >>.
<< Non lo so, ti guardi intorno come se cercassi qualcosa >>.
Evelyn fece una risatina nervosa << E che cosa dovrei cercare? >>.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Una ragazza disillusa ***


3. UNA RAGAZZA DISILLUSA


Viaggiò in macchina con Anton ancora per qualche ora, fino alla stazione ferroviaria, da lì in poi lui avrebbe raggiunto Wexford con la sua macchina e lei sarebbe salita su un treno per Landry.
Arrivarono con due ore di anticipo.
<< Sono già le nove Anton! Dovrai guidare di notte! Vattene, ho diciassette anni e so badare a me stessa, anche se non capisco a cosa dovrei badare giacché devo solo stare seduta su una panchina per un’oretta >> riattaccò Evelyn.
Era ormai da mezz’ora che cercava di convincerlo a ripartire.
<< Appunto, è solo un’oretta, non credo che apporterà sostanziali cambiamenti alla mia tabella di marcia >> rispose quello imperterrito.
<< Mangeranno la tua torta di benvenuto senza di te >>.
<< Sopravvivrò >>.
Di certo i presenti si stavano gustando la scena… dopotutto è sempre interessante un conflitto di testardaggine all’ultimo sangue.
<< Ti facevo più intelligente, beh evidentemente mi sbagliavo >> se ne uscì la ragazza all’improvviso.
<< Perché non sono abbastanza coscienzioso da salvaguardare la mia torta? >>.
<< Non sei divertente >>.
 Anton sbuffò << Non voglio trattarti come una bambina Ev, ma lasciarti sola in una stazione straniera… non lo so >>.
Ecco. Colpita e affondata.
Tutti la trattavano come una bambina.
<< Non so se hai perso un po’ l’orientamento, ma ti avviso che siamo ancora in Europa >>.
<< Ormai l’hai presa come una sfida personale al tuo orgoglio giusto? >>.
Evelyn fece un verso di stizza << Ma che dici? >>.
Quello sorrise << Quando al mondo troverò una persona più testarda e orgogliosa di te ti farò un fischio >>.
<< Credo ti basterebbe uno specchio >>.
<< Ah no! Ti lascio il primato, però promettimi… >>
<< Di non accettare le caramelle dagli sconosciuti >>.
Anton rise << …Prometti di chiamare a casa subito appena arrivi. E sì, anche di non parlare con gli sconosciuti >>.
<< Affare fatto >>. Si salutarono con un abbraccio e un “mangia una fetta di torta anche per me”, poi Evelyn si cercò un posto su una panchina mentre s’infilava anche il cappotto per il freddo.

L’attesa non fu sgradevole. Evelyn aveva sempre gradito starsene in un angolo a osservare i comportamenti della gente…Vecchietti che leggevano il giornale soffermandosi ossessivamente sulla stessa pagina per minuti e minuti, un ragazzo che salutava l’innamorata con un bacio appassionato mentre una lacrima di tristezza rigava il viso di lei, mamme che stringevano convulsamente le mani dei loro bambini per paura di perderli tra la folla, amici che si salutavano con un abbraccio e nascondevano dietro una battuta e una risata la tristezza di un addio… Sì, decisamente le piaceva guardare da fuori la gente. Rendersi invisibile e cercare di capire che cosa passava per la testa alle persone che aveva intorno. Era anche piuttosto brava… Forse quei vecchietti non leggevano realmente, ma avevano bisogno di distrarsi dalla troppa vitalità che li circondava, sentendosi ormai troppo distanti da essa. Forse quella ragazza innamorata non piangeva perché avvertiva già la mancanza del suo fidanzato, ma sapeva che la lontananza non li avrebbe separati solo fisicamente. Forse quelle madri erano terrorizzate dalle circostanti rotaie piuttosto che dalla folla… E gli amici? Probabilmente non avevano alcuna tristezza da nascondere; era da un po’ che Evelyn aveva smesso di credere alla vera amicizia… ma d’altronde non aveva mai creduto nemmeno nell’amore.

Il viaggio in treno fu lungo, ma meno stressante di quanto aveva immaginato. Non era mai andata da nessuna parte senza avere con sé un sostanzioso bottino di libri per ammazzare il tempo, e quando aveva sentito gli occhi troppo stanchi aveva scoperto la piacevolissima sensazione di guardare fuori dal finestrino con le cuffie nelle orecchie e la musica del lettore mp3 a tutto volume.
Quando però la distanza tra lei e quello sperduto paesino sulle coste irlandesi diminuì sempre più iniziò ad avvertire una sorta di vuoto allo stomaco e sentì l’aria farsi più difficile da respirare. Un misto di paura e impazienza allo stesso tempo. Che mi prende? Si chiese da sola, stupita. Non era mai stata ansiosa, né aveva mai avuto paura di deludere le aspettative altrui, eppure quei pochi kilometri verso l’incognito la stavano uccidendo.  Per che cosa dovrei essere ansiosa poi? Per una noiosa estate da sopportare? Si disse per tranquillizzarsi. Solo in futuro si sarebbe resa conto di quanto si fosse sbagliata a prospettare noiosa quell’estate.




Salve a tutti!
Innanzi tutto volevo ringraziare di cuore tutti coloro che si sono sciroppati la mia storia fin qui, davvero compimenti per il coraggio. Questi primi capitoli potrebbero risultare un po’ noiosi e monotoni, ma mi erano indispensabili per presentare bene la protagonista. Da adesso in poi la storia sarà più “frizzante”. Spero davvero che la apprezziate tanto quanto io mi sono divertita a scriverla.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Un buon inizio - Riley ***


4. UN BUON INIZIO


Quando il treno si fermò e si preparò a scendere Evelyn prospettò di trovarsi davanti un tizio allampanato che reggeva un cartello recante il suo nome o qualcosa del genere. Così quando scese si diede da fare per individuare qualcosa che somigliasse a un allampanato con un rettangolo bianco in mano nella speranza di trovarlo in fretta, visto che si stava praticamente inzuppando con quel diluvio che la sua sfortuna aveva fatto venir giù appositamente per l’occasione.
Dopo mezz’ora la fermata si era svuotata.
A mezzogiorno era rimasta solo lei e il custode che stava chiudendo la biglietteria. << Signorina mi spiace lasciarla qui fuori da sola con questo brutto tempo, vuole che lasci aperto un’altra mezz’oretta? >> le disse l’uomo.
Eccone un altro.
Evelyn si disse che da qualche parte doveva aver scritto addosso “vulnerabile” o “proteggetemi” e non se n’era mai accorta.
<< La ringrazio, ma mi hanno contattata poco fa. Dovrebbero essere qui tra dieci minuti al massimo >> rispose con un sorriso cordiale.
Passarono due ore prima che potesse prendersela con qualcuno.

In quel piccolo paesino di quella piccola contea gli abitanti si conoscevano tutti ed erano per lo più buoni amici tra loro. Il loro luogo di ritrovo favorito era la casa di Josephine. Nessuno in realtà sapeva quali fossero le motivazioni in particolare, ma di sicuro tra le tante c’era Dalia, la cuoca.
Difatti proprio quel giorno la casa era invasa da un odore delizioso che neanche la porta della cucina riusciva a contenere.
Quando finalmente gli astanti presero posto a tavola e le portate furono servite un’espressione corrucciata apparve sul viso della padrona di casa. Abituata a programmare ogni singolo istante della sua esistenza si sentì scombussolata quando si vide servito il pasto sbagliato.
<< Rose cara non avevamo stabilito pranzo a base di pesce per il sabato? >>.
<< Ma oggi è domenica, Josephine>> rispose l’altra con un sorriso di comprensione.
<< SANTO CIELO! >> gridò Josephine alzandosi di scatto e facendo cadere la sedia a terra con un terribile frastuono mentre gli altri presenti si soffocavano con i bocconi che stavano mangiando giù.
Josephine non era mai stata famosa per la sua memoria.

<< Come abbiamo fatto a perderci un giorno? >> continuava a gridare mentre correva per la casa senza in realtà seguire alcuna meta specifica e sensata e impartendo ordini a destra e a sinistra. Nessuno ritenne opportuno in quel momento farle notare che il plurale non era appropriato giacché era stata solo lei a saltare chissà come il sabato di quella settimana.
Per fortuna qualcuno ebbe la prontezza di spirito di afferrarla per le spalle e spingerla a sedere sul divano più vicino prima che la situazione degenerasse. << Calmati zia Jo. Con la jeep sarò lì in mezz’ora >>.
<< Devo venire con te! >>.
<< NO! >>. La malcapitata ragazza già non doveva essere del suo umore migliore per essere stata in sostanza dimenticata alla stazione, e per farla completa mancava solo che si vedesse arrivare incontro una nevrotica farfugliante frasi senza alcuna logica di ragione. << Va bene, va bene… però guida piano, cioè no! Cerca di arrivare prima… voglio dire vai veloce, però non troppo che la strada è bagnata! >> tartagliò la donna correndo dietro alla jeep che partiva e inciampando nella lunga veste color lavanda mentre le pietre del vialetto la accoglievano.

5. RILEY


Anche se ignorando le raccomandazioni di Josephine, che non aveva nemmeno compreso poi tanto bene, Riley aveva cercato di mantenere una velocità che potesse accorciare la distanza della stazione in meno tempo, ci impiegò comunque venti minuti buoni per arrivare. Quando si precipitò nella zona dove presumibilmente la nuova arrivata attendeva, fermamente convinto di non trovare nessuno, si accorse che l’ospite stranamente non se l’era ancora data a gambe. Evidentemente doveva essere molto paziente. O evidentemente la biglietteria era ormai chiusa, pensò più realisticamente.
La ragazza se ne stava seduta con la schiena rivolta al bracciolo della panchina e le mani intorno alle ginocchia, e raccogliere al petto le gambe poggiate sul sedile bagnato. E bagnata lo era abbondantemente anche lei.
Mentre si avvicinava Riley si rese conto che non aveva la minima idea di che cosa dire. Ciliegina sulla torta non si ricordava come si chiamasse. Salvo un vago presentimento che fosse un nome complicato e iniziasse per E.
Alla fine tentò << Elisabeth? >>.
La sua interlocutrice lo guardò impassibile, e poiché non disse niente il ragazzo suppose di averci preso.
<< Mi dispiace tanto per questo inconveniente, ma potrei spiegarti tutto in macchina? Fa un freddo cane e sei praticamente bagnata fradicia >>.
La faccia da consumata giocatrice di poker a quelle parole assunse un’espressione veramente stupita e finalmente la ragazza si pronunciò << Dici sul serio? Non ci avevo fatto caso >> disse mentre si alzava e abbassava il viso per guardarsi come a voler costatare che davvero non fosse perfettamente asciutta.
O era ritardata o lo stava prendendo in giro.
Si trattenne dal dirlo e iniziò a raccogliere le sue valigie. << La macchina è di là >> dichiarò non molto sicuro che potesse capirlo. In effetti quella non diede il minimo segnale di aver sentito, ma prese lo stesso le borse restanti e si incamminò verso il punto che le era stato indicato.
Arrivati davanti all’autovettura, dopo aver riempito il sedile posteriore e il cofano con borse e valigie, Riley le aprì galantemente lo sportello del sedile davanti mentre cercava di ricordare se avesse mai letto qualcosa a proposito dell’accertarsi se un determinato soggetto fosse nel pieno possesso delle sue facoltà mentali o meno. Da Elisabeth, che si limitò ad accomodarsi nell’abitacolo, non arrivò nessun aiuto in merito.
Poco dopo aver dato gas al guidatore venne in mente che azionare il riscaldamento sarebbe stata un’ottima idea…sempre se il riscaldamento avesse collaborato.
<< Il tempo che si riscalda un po’ il motore e si accende >> disse.
Silenzio.
Senza difficoltà si sfilò il giubbotto mentre teneva l’altra mano sul volante e glielo porse << Intanto metti questo >>.
Quella parve riscuotersi e si voltò verso di lui.
Miracolo esultò Riley nella sua testa.
L’espressione della ragazza parve addirittura ingentilirsi lievemente << Non è necessario >> rispose con un sorriso che non riuscì minimamente a far sembrare autentico.
Stavolta fu lui a non dire niente, restando rivolto verso di lei con il giubbotto in mano e assottigliando lo sguardo.
<< Dovresti guardare la strada >> disse lei tornando seria.
<< Se hai paura che ci schiantiamo contro qualche albero allora mettitelo così io posso tornare a concentrarmi sulla guida >>.
Suonò terribilmente come un ricatto.
La ragazza afferrò quella maledetta giacca, ma la poggiò sulle gambe senza indossarla, un attimo prima di voltarsi verso il finestrino. Non che questo impedì all’altro di vedere la sua espressione imbestialita nel riflesso del vetro.
<< Lo sai a che cosa serve un giubbotto? >> continuò imperterrito, tanto ormai il danno era fatto.
Ma lui cosa ne sapeva che era un tipo irascibile? Fino a pochi attimi prima era convinto che fosse una specie di minorata mentale.
<< Lo sai che non si mollano le persone alla stazione sotto la pioggia? >> esplose a quel punto Elisabeth.
Touché.
<< Ti ho già chiesto scusa e se vuoi ti ripeto che mi dispiace, ma non è stata una cosa fatta di proposito >> cercò di giustificarsi.
Quella sbuffò.
<< Rieccola che torna muta >>.
<< Piuttosto dovresti ringraziarmi che non parlo >>.
<< Non è stata colpa mia, chiaro? >>.
<< Non m’interessa, chiaro? >>.
<< Ma tu rispondi sempre con un’altra domanda? >>.

La ragazza lasciò cadere la conversazione, troppo arrabbiata e infreddolita per riuscire trovare delle risposte abbastanza disarmanti.
Per la restante mezz’ora nessuno dei due parlò più.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** La città buia - Incidente ***


6. LA CITTA’ BUIA


Evelyn si stava godendo gli sbuffi di brezza calda emessi dalla presa d’aria della stufa, proprio davanti al suo sedile, quando una sbirciata al paesaggio le suggerì che erano arrivati a destinazione.
Landry era un paesino dimenticato sulle meridionali coste irlandesi. E dimenticato lo era in significato letterale. Evelyn, sebbene avesse ostentato di fregarsene altamente del villaggio, di sua zia e di tutto il resto, aveva comunque distrattamente chiesto qualche informazione qua e là, aveva persino cercato su internet, ma niente. Neanche passando a setaccio tutti i libri di geografia e gli atlanti che aveva trovato in casa aveva rinvenuto un misero puntino su una misera cartina che recasse la scritta “Landry”.
Se dopo le sue ricerche fallimentari si era ripetuta che fosse inconcepibile l’invisibilità di quel paese, adesso, con quello che si trovava davanti, pensava che fosse assurdo che potesse esistere un posto simile.
Quando si è costretti ad aspettare per qualcosa, forse per ingannare l’attesa, forse per uno strano scherzo dell’impazienza, si costruisce quasi sempre un ritratto più o meno dettagliato di ciò che ci si aspetta di trovare.
Evelyn al termine “paesino irlandese” aveva associato l’immagine di un piccolo agglomerato di casupole di pietra con serre e giardini pieni di fiori, a circondare un’unica grande piazza alberata, affollata da paesani dal viso cordiale vestiti in modo variopinto, botteghe e locande con insegne e tavoli multicolore… Sì, decisamente si era raffigurata tutto alquanto colorato.
Per questo non era preparata a ciò che si sarebbe trovata davanti.
Aveva contato una decina di edifici di vario genere e tutti erano di pietra scura, ed erano molto slanciati, al punto che dovette reclinare di parecchio il capo per riuscire a vedere le guglie che ne ornavano le estremità. Parecchi muri erano decorati da fregi ondoleggianti o motivi floreali, come se nastri di pizzo guarnissero per intero quel luogo. I portoni di legno scuro incorniciati da archi a sesto acuto erano massicci ed Evelyn si accorse che ognuno recava inciso sulla chiave di volta uno stemma diverso.
No, non era colorato, ma almeno per quanto riguardava fiori e alberi quel posto restava un po’ fedele alla sua descrizione; difatti alle elevate costruzioni opache si alternavano roseti circondati da recinzioni di ferro battuto e da parecchi alberi che la ragazza non riconobbe, anch’essi solidi e alti.
Si aspettava un paesetto in miniatura e invece si stava sentendo infinitamente piccola tra quei muri troppo alti che gli impedivano di vedere il cielo. Non che ci fosse molto da vedere, poiché sollevando gli occhi si incontrava solo grigiore e qualche lampo bianco che a Evelyn non piacque per niente… perché Evelyn detestava i lampi.

7. INCIDENTE

Una sorpresa dopo l’altra.
Prima se la scordavano alla stazione e la piantavano sotto la pioggia e al freddo per tre ore buone.
Poi mandavano a raccattarla quel biondino indisponente e arrogante.
E per finire si ritrovava immersa in uno scenario da film dell’orrore con una bella tempesta di fulmini e fare da cornice.
<< Manca molto? >> chiese.
<< La casa di Josephine è in periferia, ma non molto distante dal paese >> rispose atono quello.
<< Ed io cosa ne so dove finisce il paese e inizia la periferia? >>.
Il ragazzo fece un sorriso di sbieco e sembrò voler trattenere una risata.
Intollerabile.

Evelyn artigliò la stoffa del sedile con le unghie.
<< Una decina di minuti e siamo arrivati >> continuò poi trasformando la sua espressione nella più dolce… e falsa che si fosse mai vista.
<< Grazie per l’informaz… >> aveva iniziato la ragazza, ma non finì la frase che venne praticamente catapultata in avanti dalla brusca frenata dell’autovettura. Se il ragazzo non avesse prontamente teso una mano per afferrarla probabilmente sarebbe finita contro il vetro anteriore o si sarebbe rotta un braccio nel tentativo di reggersi al cruscotto. << Razza di… >> imprecò a denti stretti il guidatore, rivolto a qualcosa che Evelyn non riusciva a vedere, ritraendosi e liberandola dalla stretta. Quando lui aprì lo sportello per scendere la ragazza fece lo stesso un po’ per controllare di avere tutte le ossa nella loro rispettiva collocazione e un po’ incuriosita dall’ostacolo che avevano quasi urtato.
<< Siete impazziti? >> urlò lui rivolgendosi a due ragazzi che erano spuntati dal nulla. Eppure non si era accorta di niente… che li avessero quasi investiti? In quel caso dovevano essere loro a essere stizziti, e invece il suo compagno di viaggio era a dir poco infuriato.
<< Che ti prende Riley? >> chiese uno dei due sinceramente stupito, mentre l’altro era a metà tra lo sconvolto e il divertito.
Quando però la notarono avanzare poco dietro Riley, Evelyn aveva scoperto quale fosse il suo nome adesso che l’avevano nominato, sbarrarono gli occhi e si accigliarono. << Ah lei… >> balbettarono all’unisono.
<< Mi sembrava di essere stato chiaro per quanto riguardava certi spettacoli, adesso che abbiamo ospiti, dovremmo stare più… attenti >> rispose quello senza lasciarli finire, misurando attentamente le parole. E a Evelyn sembrò che quelle pronunciate ne celassero altre, come se volesse sottintendere qualcosa.
<< Non sapevamo che fosse già arrivata. Benvenuta allora! >> se ne uscirono poi con un sorriso, alleggerendo la tensione. A dirla tutta Riley non sembrava per niente alleggerito. Evelyn invece cambiò improvvisamente umore e li trovò simpaticissimi << Grazie >> rispose ricambiando il sorriso dei due.
<< Ci si vede presto! >>. Detto questo si allontanarono. La ragazza li osservò imbambolata chiedendosi come avessero fatto a restare illesi essendosi praticamente buttati sotto la macchina.

Incoscienti. Pensò Riley ancora indignato per la spericolatezza di quegli idioti dei suoi compaesani. Poi guardò la ragazza. Le cinse le spalle giusto il tempo di spingerla a risalire in macchina << Ti stai bagnando di nuovo >>.
Una volta sull’auto non riuscì a trattenersi. Dopotutto come poteva non chiedersi a quale mente bacata fosse venuta la malsana idea di spedire quella povera ragazzina in quel posto. << Perché sei qui, Elisabeth? >> chiese alla fine. Sarebbe finita in un altro battibecco, ma davvero non era riuscito a ingoiare quella domanda; domanda che gli premeva di fare sin dal giorno in cui lo avevano informato che una ragazza sarebbe venuta a trascorrere le vacanze lì.

Per Evelyn la tentazione di rispondere “la cosa non ti riguarda”, e finalmente averla vinta per una volta, fu grande; ma poi si disse che era stato abbastanza gentile negli ultimi dieci minuti, risparmiandole una frattura e poi riscuotendola per farla tornare in macchina; perché lei non si stava accorgendo neanche di bagnarsi. Era come se la nebbia le fosse entrata nel cervello.
Non si prese però la briga di correggerlo, lasciandolo nella convinzione che il suo nome fosse Elisabeth.
<< Perché mi odiano >> rispose in un soffio. Dicendo la cosa più sincera che le era venuta in mente.
Non seppe in nessun modo decifrare l’espressione che apparve sul volto di lui, ma per un attimo le sembrò quasi un misto di tristezza e… comprensione?
<< Stai bene? Stavi per prendere una bella botta >> cambiò discorso quello.
Disturbo della personalità? Si chiese la ragazza stupita dal suo tono sincero, quasi lasciandosi scappare una risatina. Poche ore prima la trattava come se fosse di troppo e adesso si comportava come un fratello premuroso. << Ma non l’ho presa, grazie a te >> cercò di ringraziarlo dissimulando in qualche modo il tono di gratitudine con un accenno d’irritazione, ma ne venne fuori una cosa strana e anche lei stentò a identificare la sua intonazione.
In tutta risposta lui sorrise poi tornò a concentrarsi sulla guida. E lei non si era neanche accorta che la macchina era ripartita. Aveva davvero il cervello annebbiato.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Finalmente a casa ***


8. FINALMENTE A “CASA”


Quando la sagoma della villa di sua zia si profilò nella nebbia Evelyn si rese conto che era enorme. La casa e l’antistante giardino erano circondati da alte mura di pietra.
Una volta spento il motore, la ragazza si diresse da sola verso l’ingresso mentre Riley si occupava dei suoi bagagli.
Aveva messo piede sul penultimo gradino delle scale che conducevano all’anticamera esterna della casa, quando il grande portone d’ingresso si spalancò. Ne uscì un uomo. Era spropositatamente alto e aveva un fisico robusto. A Evelyn vennero in mente le rappresentazioni di fabbri nerboruti dei film medievali, ma il soggetto che si trovava davanti poteva averne somiglianza solo nella corporatura pensò poi, notando il modo in cui era abbigliato. Indossava pantaloni attillati infilati in un paio di stivali al ginocchio; una camicia chiara con sopra un panciotto viola dalla quale tasca all’altezza del petto pendeva una strana catenella dorata. Capelli biondicci gli ricadevano ondulati ai lati del viso.
Dalla mezza risata di quello la ragazza si rese conto dell’espressione sconcertata che doveva aver assunto e cercò di darsi un contegno.
<< Vi aspettavamo con ansia signorina Mcgrath. Spero che lo spiacevole inconveniente di stamane non vi abbia turbato troppo >> esordì il fabbro benvestito mentre la conduceva all’interno.
E’ uno scherzo, pensò la ragazza.
Una volta dentro si vide correre incontro un lenzuolo color lilla sbiadito. Aguzzando la vista si rese conto che doveva essere un vestito lungo e che dentro c’era una donna. Solo che se si fosse messa di profilo probabilmente sarebbe scomparsa.
<< Evelyn! >> esclamò emozionata. Non appena le fu accanto l’abbracciò affettuosamente. La ragazza, presa alla sprovvista, non seppe fare altro che posarle le mani sulla schiena ricambiando la stretta. Cercò comunque di fare il più delicatamente possibile per paura di spostarle qualche vertebra o romperle una costola. << Oh! Guardati, bagnata e pallida! E’ tutta colpa mia. Credevo che arrivassi domani! >> continuò a parlare mentre la allontanava da sé e la esaminava meglio.
Stupita da cotanto affetto di benvenuto, la rabbia sbollì e fu costretta a rinunciare al discorso sdegnato che si era accuratamente preparata.
<< Santo cielo, come sei cresciuta! Lasciati guardare >>. Le sollevò un braccio e la fece girare su se stessa.
Evelyn si stupì della forza di quelle braccine esili.
Il commento dopo la giravolta di esaminazione fu accompagnato da un sorriso commosso << Sei una donna oramai… ad ogni modo! Ti sto trattenendo, Sebastian ti condurrà nella tua camera, così puoi fare un bagno caldo e toglierti questi vestiti bagnati >>.
Parlava con tale lena che la nipote non riuscì a rispondere a una sola battuta. Sebastian (il fabbro) con un sorriso e una gentile spintarella la accompagnò su per le scale.
L’arredamento della casa s’intonava alla perfezione con l’aspetto che essa forniva già dall’esterno, e con gli altri edifici della città. Tutta la mobilia era rigorosamente di legno scuro e intarsiato. I tessuti delle tende, dei divani e dei tappeti spaziavano dal colore cremisi al nero. Era evidente: Da quelle parti era di moda l’opaco.
Arrivarono alla porta della camera che le avevano preparato dopo aver percorso un lungo corridoio.
<< In bagno è tutto pronto, fate pure con comodo. Potete scegliere ciò che volete dall’armadio giacché non avete ancora con voi i vostri bagagli >>.
Mentre quello si defilava, lei si chiese se avrebbe dovuto dirgli che poteva benissimo chiamarla per nome. Sempre però sorvolando sull’assurda ragione per la quale le desse del “voi”.
Tuttavia non disse niente e oltrepassò la porta.
La camera era spaziosa. Nel lato destro c’erano un armadio e uno scrittoio ma Evelyn notò che in realtà non era una vera e propria scrivania, alla vista dello specchio che lo sormontava.
Sulla parete opposta si apriva una porta che dava su un balconcino.
Il muro a sinistra della porta accoglieva da un enorme letto a baldacchino di legno scurissimo. Sgranò gli occhi. Avrebbe dormito in quel letto, lei che in camera di casa sua aveva un lettino minuscolo e bassissimo decorato da roselline.
Aveva iniziato a riflettere su una strategia abbastanza convincente da convincere i suoi a sostituire il suo lettino da casa delle bambole con uno come quello, quando facendo qualche passo avanti si ritrovò dritta davanti allo specchio. << Che schifo >> esclamò senza riuscire a trattenersi. I vestiti che aveva addosso erano deformati e deformavano anche la sua figura. In faccia era davvero pallidissima… e i capelli, non seppe nemmeno come definirli. Se fosse passato di lì un fabbricante di utensili per la pulizia, avrebbe avuto l’ispirazione per una scopa.
Si fiondò in bagno per darsi un tocco di decenza.

Quando aprì l’armadio, il dramma.
<< Che razza di scherzo è questo… >> farfugliò mentre rovistava convulsamente.
All’interno di quel guardaroba c’erano solo vestiti. Lunghi. Eleganti.
Non aveva intenzione di indossarne uno, ma neanche la prospettiva di scendere di sotto, alla ricerca dei suoi bagagli, avvolta nell’asciugamano, era poi tanto invitante.
Si sdraiò sul letto sospirando. Solo dopo qualche minuto di decise a tornare al guardaroba.
Se proprio uno lo doveva indossare, che le piacesse o no, per un attimo la invase la brama di prenderne uno dei più belli.
Tirò fuori quello nero che aveva attirato subito la sua attenzione. Era interamente decorato da pizzi e merletti e anche senza indossarlo notò che la scollatura e lo spacco erano abbastanza arditi. Lo rificcò velocemente nell’armadio. Che mi passa per la testa, si disse mentre estraeva un abito molto più semplice, blu scuro, di seta, con una fascia larga sotto il seno terminante in un fiocco.
Si stava dedicando ai capelli quando sentì bussare alla porta. << Avanti >>.
Spuntò una donna sorridente. Aveva un vestito lungo anche lei, i capelli raccolti e un viso dolce cosparso di efelidi. Evelyn calcolò che doveva essere sulla trentina.
<< Vi sta benissimo! >> le disse allargando ancor di più il suo sorriso.
<< Veramente io… non ho trovato altro >>.
<< Il blu vi dona. Ero venuta a comunicarvi che la cena sarà servita tra mezz’ora, siete pronta? Avete bisogno di più tempo? >>.
<< No, cioè sì, stavo solo sistemando i capelli, non riuscivo a trovare un elastico >>.
<< Perché mai dovreste legarli? >> chiese quella sinceramente stupita. Si avvicinò e la fece accomodare sullo sgabello, dopodiché si diede da fare con i suoi capelli.
Evelyn non sapeva cosa dire. La trattavano come una principessa… per espiare? Volevano farsi perdonare per aver dimenticato di andare a prenderla?
<< Io sono Rose >> le disse guardandola attraverso lo specchio.
<< Evelyn. E’ un piacere conoscerla… conoscervi.. ehm… >>. Disse la ragazza, impacciata, non avendo la minima idea di come rispondere.
<< Per favore! Sono Rose e basta >>.
<< Va bene Rose. Allora tu non darmi del “voi” >>.
<< Ma che dite signorina >> rispose quella con un sorriso di comprensione << Non preoccupatevi, è solo il tempo di farci l’abitudine >> aggiunse.
<< Dovrei abituarmi a farmi dare del “voi” da persone più grandi di me? >>.
<< Esattamente. Che ve ne pare? >>.
Evelyn si osservò. Impossibile, pensò ammirandosi nello specchio. Aveva dei capelli splendidi. I boccoli castani le incorniciavano ordinati il viso e due ciocche, che partivano dai due lati, erano intrecciate e poi legate insieme con un nastro dello stesso colore del suo vestito, che Rose aveva tirato fuori chissà da dove.
<< Non è… troppo? Voglio dire, sembro pronta per una serata di gala >>.
La donna rise << Non preoccupatevi, non è affatto troppo, qui dalle nostre parti >>.
<< Vi vestite sempre così, anche per una cena a casa vostra? >>.
<< Più o meno. La cosa v’infastidisce? >>.
La ragazza ci pensò un attimo. << Solo il tempo di abituarmi >> rispose nel modo più cortese che le riusciva.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Ci siamo già visti? - Incompatibilità ***


9. “CI SIAMO GIA’ VISTI?”


Scese di sotto accompagnando ogni passo a un sospiro nervoso. Rose poteva dire quello che voleva, per lei restava imbarazzante sedersi a tavola agghindata in quel modo.
Senza considerare che potrebbe essere rimasto Riley, pronto a sfottermi, pensò. Un attimo dopo ebbe voglia di schiaffeggiarsi da sola. Cosa me ne importa di Riley! Si corresse. Mi contraddico da sola, ho toccato il fondo, il fondo di cosa poi, non lo sapeva nemmeno lei.
Almeno aveva un portamento dignitoso. Una certa eleganza non le mancava, quindi si auspicò che almeno un po’ della sua disinvoltura potesse smorzare l’imbarazzo. A quanto aveva capito Sebastian e Rose erano come dei dipendenti, presumibilmente non avrebbero cenato con loro. Si trattava solo di sua zia…
Quando arrivò nel salone, sfumò ogni suo buon pronostico. Non aveva idea di quando fosse arrivata e del motivo per il quale quella gente fosse lì.
<< Sei splendente >> le annunciò sua zia andandole incontro e trascinandola al centro della sala.
Riley se ne stava comodamente sprofondato in una poltrona, la testa da un’altra parte.
Quando però Evelyn fece il suo ingresso, parve riscuotersi e un’espressione che la ragazza non comprese gli apparve in faccia.
Rimasero a guardarsi un istante. Poi sua zia si frappose fra i due << Ti presento Lisa- disse indicando una bellissima ragazza che in quel momento si stava alzando dal divano per rivolgerle un sorriso-, mia figlioccia. Lei è Sophie- e indicò un’altra ragazza-, sua sorella. Riley lo conosci già. E lui è Alexander- si rivolse a un uomo sui trent’anni- un caro amico>>.
Il caro amico in questione, oltre ad essere uno degli uomini più affascinanti che Evelyn avesse mai visto, aveva occhi chiarissimi, che fu sicura di aver già incrociato da qualche parte. Le venne fuori spontaneamente << Ci siamo già visti? >>.
Per un attimo sul viso di Alexander passò un sincero stupore. Poi sorrise << Credo di no, ma chi lo sa, può anche darsi >>.
Evelyn dovette impiegare una certa forza di volontà per staccargli gli occhi di dosso. Era quasi più bello di Riley. E per quanto non fosse tra le sue grazie, non poteva negare che Riley fosse un gran bel vedere. Altissimo, le spalle larghe… forse però si stava soffermando troppo sulla sua figura perché quello sorrise di sbieco. Lei distolse lo sguardo cercando di apparire disinteressata, poi si sentì in dovere di dire qualcosa << E’ un piacere conoscervi >>.
<< Il piacere è tutto nostro >>. Evelyn pensò che la voce di Alexander fosse ancora più ammaliante del suo aspetto.

Tutti ripresero il loro posto e si accomodò anche lei.
Il resto della serata passò piacevolmente. Il vestito non le diede alcun problema giacché notò che anche le altre due ragazze ne indossavano di simili. Non fu costretta a parlare della sua vita ad Aberdeen, delle motivazioni che la portavano da quelle parti o di altro che potesse farla sentire nel bel mezzo di un interrogatorio. Anche se era certa che quel momento sarebbe arrivato.
Passò gran parte del tempo a osservare Alexander. Non tanto per godersi la vista, quanto per capire dove si fossero mai incontrati. Avrebbe giurato di averlo già visto.

Non si stava divertendo granché mentre erano a tavola, ma a un certo punto sua zia notando che era distratta cercò di coinvolgerla nelle sue chiacchiere << Tu cosa ne pensi, Evelyn? >>.
Evelyn. Portò una mano a coprirsi la bocca mentre si voltava a guardare Riley, intento a ignorare Lisa, che gli stava parlando solo lei sapeva di che cosa, e a fissarla con lo sguardo affilato mentre scuoteva impercettibilmente il capo. Poi parlò senza però emettere alcun suono. Evelyn, nel movimento muto delle sue labbra, distinse chiaramente la parola “Elisabeth”.
Il tempo di un sorriso compiaciuto e tornò a ignorarlo dedicandosi ai discorsi di sua zia e di Alexander.
Trovò piacevole anche chiacchierare con Sophie. Era una ragazza solare e con uno spiccato senso dell’umorismo.
Per quanto riguardava Lisa, invece, non la stava minimamente prendendo in considerazione. Evidentemente Evelyn aveva interpretato male il suo sorriso di poco prima.

10. INCOMPATIBILITÀ

 
Dopo cena la compagnia si disperse.
Le due sorelle tornarono a casa loro. Sua zia la prese da parte. << Vorrei potermi dedicare a te, hai tante cose da raccontarmi… però al momento non è possibile, ho un impegno che non posso rimandare. Non so se ti troverò ancora sveglia al mio ritorno quindi comunque sia buonanotte- e le strinse una mano sorridendo. Ti lascio in buone mani >>. Poi si allontanò con Sebastian e, con sommo dispiacere della giovane, anche Alexander.
Se ne stava seraficamente tornando a tavola, alla ricerca di dolci superstiti, quando con amarezza scoprì a chi appartenevano le buone mani annunciate dalla sua ancora poco conosciuta zia.
<< Elisabeth >> scandì una voce melliflua.
Una cosa era certa: Sua zia era una traditrice.
<< Ebbene sì, mi sono dovuto accollare di farti da balia >>.
Riley se ne stava poggiato con le braccia sullo schienale di una sedia.
<< Mi dispiace per te >> rispose atona lei << Se congedarti da questo incarico è in mio potere, consideralo fatto >>.
<< No, non sei in potere di mandarmi via >>.
<< Peccato >>.
<< Illuminami Evelyn. Hai fatto sfoggio di grande compassione con Josephine, non hai mostrato il minimo accenno di rancore nei suoi confronti… e la colpa è sua se sei rimasta sola e indifesa alla stazione, o forse ancora non ti è chiaro? Perché se ti è chiaro vorrei tanto sapere perché invece odi me >>.
<< Odiarti? Addirittura. No, non ti odio Riley, smetti di crucciarti >>.
Quello non rispose.
A questo punto la ragazza aveva capito che quando non era soddisfatto di quello che sentiva, semplicemente non si degnava di proferire parola.
<< Va bene. Ero arrabbiata e… me la sono presa con la prima persona che ho incontrato. Guarda caso tu, ma ti assicuro, niente di personale >>.
Ancora silenzio.
<< Non ti aspetterai delle scuse?! >> esclamò a quel punto lei.
<< Direi che è il minimo che tu possa fare >> rispose piantando i suoi occhi verdi in quelli scuri di lei.
Lei spalancò la bocca e lo guardò basita. Poi girò i tacchi e uscì dalla stanza.

Era un arrogante. Un prepotente, e soprattutto viziato. Di sicuro era abituato all’adulazione di chiunque gli ronzasse attorno. Ma non tutte le ragazze erano pecorelle mansuete, asservite al bello di turno. O forse sì, tutte eccetto lei.
Una cosa era certa: Lei e Riley erano incompatibili. Per orgoglio, testardaggine, prepotenza.
Lei non era a conoscenza dell’oscuro nesso che c’era tra quel ragazzo e sua zia, ma sperava non fossero poi tanto legati. L’ultima cosa che voleva era ritrovarselo per casa.

Stava passando a rassegna i libri che occupavano per intero le pareti della biblioteca. Aveva fatto una scoperta meravigliosa. Quella stanza era enorme, di quelle che si vedono solo nelle fotografie. Con scaffali che toccavano il soffitto, scale di legno che percorrevano la camera e libri di ogni genere.
Poco dopo che lei c’era entrata, era arrivato pure lui. Si era accomodato su uno dei divani e aveva rotto l’incanto.
<< Non credere che mi faccia piacere, eseguo gli ordini e basta >>.
<< Non sono una bambina >> sibilò la ragazza.
<< No di certo, sei già abbastanza grande per avere certi… apprezzamenti >>
<< Che vuoi dire? >> chiese lei sull’orlo di un attacco di violenza.
<< Sei arrivata da poche ore e ti sei già presa una cotta. O sbaglio? >>.
<< Spiegati meglio >>, gli intimò avvicinandosi.
Lui si limitò a un sorriso sarcastico.
Per evitare di mostrargli il suo lato meno femminile con un acustico cazzotto, si dedicò alla lettura del primo tomo che le capitò a tiro.
Passarono una decina di minuti.
<< In ogni caso rassegnati. Sei troppo piccola per lui >>.
Provocatore.
Lo aveva capito che non era per niente una tipa paziente.
E stava provando in ogni modo a farla detonare.
<< La mia maturità ti stupirebbe >>.
Tornò a immergersi nella lettura con un sorriso compiaciuto.
Una cotta per Alexander. Probabilmente sarebbe anche andato a sciorinargli quella menzogna solo per il gusto di metterla in imbarazzo.
Adesso sì.
Adesso lo odiava.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Zia Josephine - Il corridoio dei ritratti ***


11. ZIA JOSEPHINE



La mattina seguente due evidenti occhiaie le marcavano gli occhi.
Non aveva trascorso delle piacevoli ore notturne.
 
Si era defilata che sua zia non era ancora tornata.
Aveva salutato Riley con un “Devi farmi la guardia anche in camera da letto?”. Ovviamente lui aveva colto tutta la malizia della frase ribattendo “Se vuoi…”. Al che lei aveva girato i tacchi e si era chiusa nella sua stanza.

Aveva diluviato tutta la notte. Non che la pioggia non le piacesse, ma quei maledetti lampi. Non era servito a niente serrare le tende, né sprofondare sotto le coperte. E così non aveva chiuso occhio.
I pensieri erano arrivati involontariamente, senza che lei potesse scacciarli.
Era da sola.
Non perché adesso fosse lontana kilometri e kilometri da casa… Era sola e basta.
Non c’era mai stato nessuno per lei.
C’erano stati i suoi veri genitori, un tempo… ma lei era troppo piccola quando poteva ancora godersi la loro compagnia, e adesso troppo grande anche solo per riuscire a ricordare le loro facce.

La colazione la rincuorò un po’.
Aveva anche fatto la conoscenza di Dalia, la cuoca di casa, che a quanto pare era famosa in tutta la città.
Il resto della giornata l’aveva passato interamente con sua zia.
Fino a quel momento, salvo l’essersi persa un giorno della settimana e aver lasciato la randagia e disperata Evelyn alla stazione, non aveva mostrato di rispecchiare il ritratto negativo che i suoi cugini avevano descritto.
Aveva voluto sapere tutto di lei. Della scuola, dei suoi amici, di quello che le piaceva, cosa faceva nella vita. Avevano anche affrontato discorsi filosofici, etici… Evelyn iniziava ad apprezzare quelle chiacchierate.
Ovviamente anche lei aveva tempestato la zia di domande. Alla fine la sua deduzione era stata pressoché positiva. Salvo per le sue manie da perfezionista. Era una di quelle persone che programmano per intero la propria vita.

Aveva anche finalmente scoperto quale fosse il loro legame di parentela, che poi proprio parentela non era. Nelle vene delle due donne sedute in veranda non scorreva lo stesso sangue.

La settantenne Josephine- che conservava ancora in parte, nel portamento, postumi di una spiccata avvenenza e sensualità, che doveva esserle indubbiamente appartenuta-, era stata una giovane bellissima. Durante un soggiorno a Londra aveva conosciuto Constantine ed era stato amore a prima vista. Ma era un amore che la famiglia di lui non approvava. Quando Evelyn chiese il perché l’anziana donna non rispose, il suo sguardo si perse in ricordi lontani e alla ragazza sembrò opportuno non chiedere più.
Ad ogni modo si erano sposati lo stesso e al ricevimento non c’erano stati invitati da parte dello sposo.
Per farla breve la suddetta famiglia alla quale Constantine aveva rinunciato per la donna amata, era la stessa di Evelyn, il defunto marito di Josephine era il fratello di sua nonna. E lei non ne aveva mai sentito parlare.
<< E’ davvero romantico >> disse la ragazza con un sorriso triste << La storia dei miei genitori biologici è molto simile… solo che fu mia madre a innamorarsi del ragazzo sbagliato: mio padre >>. Lo disse senza neanche sapere perché. Non ne parlava mai della sua vera storia.
<< Come? Io credevo che… >> balbettò sua zia, incredula << …Sei stata adottata? >>.
<< Non esattamente. Furono i miei stessi genitori a stabilire che io fossi affidata alla mia attuale famiglia, la mia vera madre e quella adottiva erano cugine, e anche molto amiche >>.
<< Ma, loro… >> Josephine brancolava nella paura di toccare qualche tasto dolente, così Evelyn decise di raccontarle tutto e basta.
<< Era la notte del terzo compleanno della mia vita quando quel camion investì la macchina sulla quale viaggiavo con mamma e papà. Non mi ricordo niente ovviamente >>. Era calma mentre parlava, ma d’altronde era sempre stata brava a nascondere i suoi sentimenti.

Il resto del pomeriggio fu una sorta di viaggio nel passato. Josephine le raccontò di quando era giovane come lei e di Constantine; anche Evelyn menzionò qualche suo ricordo ma nulla di rilevante… non le era mai piaciuto parlare del passato, considerava i ricordi solo una debolezza. Non che avesse memorie particolarmente felici, ma dopotutto meno hai e con ancor più cura devi custodirlo.
<< Come si chiamavano? >> chiese Josephine che ormai credeva che per Evelyn non fosse un problema parlare dei suoi veri genitori, anche se li aveva persi.
<< Non mi parlano molto di loro, non hanno mai reagito bene quando ho chiesto, quindi non ho preteso che mi raccontassero nulla… a quanto ho capito odiavano mio padre. So solo che mia madre si chiamava Giudith >>.
La zia della ragazza a sentire pronunciare quel nome cambiò improvvisamente espressione. Sembrava voler mascherare un certo stupore. << Conosci il suo cognome? >> chiese.
<< No, perché? >> ribatté Evelyn cercando di capire che cosa le prendesse.
<< Oh nulla… conoscevo una ragazza che aveva lo stesso nome >> e così dicendo tornò serena.
Forse era un po’ lunatica.
<< Oh! Quasi dimenticavo. Dalia vorrebbe essere messa al corrente delle tue preferenze o intolleranze alimentari >>.
Sì, era lunatica.
Un attimo prima raccontavano delle loro vite e un secondo dopo si ritrovarono a discutere di allergie.
<< Passerò dalla cucina più tardi. Anch’io comunque ho dimenticato di farti alcune domande importanti riguardo la mia permanenza qui… >> disse la ragazza.
<< Chiedi pure >> rispose sorridendo sua zia.
<< Per prima cosa… la casa è solitamente affollata? >>.
<< Abbastanza >>.
Fantastico, pensò Evelyn con afflizione. Fu tentata di chiedere il motivo per il quale già dalla prima sera che era arrivata si era ritrovata ospiti a cena, ma lasciò perdere e passò alla seconda domanda.
<< Dovrò seriamente sciropparmi ripetizioni di greco e geometria? >>.
<< Beh, l’intenzione era quella... ma se credi di poter trovare di meglio da fare va bene, purché sia comunque valido a qualcosa >>.
<< Fantastico! Terzo: Esci spesso? Ieri sera sei andata non so dove con… cioè, sei andata non so dove >> si corresse alla fine, evitando di menzionare Alexander.
<< Direi di sì, ma non preoccuparti, non ti lascerò mica sola in casa! >>.
<< Perché? Non sono una bambina >> e mentre lo diceva si chiese a quante altre persone e quante altre volte sarebbe stata costretto a ripetere quella frase.
<< Non puoi rimanere a casa da sola >>.
Sua zia pronunciò quelle parole con una tale decisione che Evelyn non tentò di controbattere. Parve cambiare del tutto umore, come se fosse diventata serissima all’improvviso.
<< Altro? >> la incitò poi assumendo di nuovo un sorriso condiscendente.
<< Chi è Riley? >>.
<< Il figlioccio di Constantine, quindi anche il mio. Qualcosa non va con lui? >>.
<< Assolutamente no. Chiedevo dato che ho notato che siete… >>.
<< …Molto uniti. Vedi Evelyn io non ho avuto bambini, e Riley, come anche Lisa, Sophie e Alexander, sono come figli per me >>.
Con stupore la ragazza notò il divario d’età che c’era tra quei “figli” di sua zia, come diceva lei. Lisa e Sophie potevano avere la sua stessa età e Alexander doveva essere invece sui trent’anni.
Non sapendo cosa dire sorrise, anche se non era per niente felice.
Erano come una grande famiglia lì, e lei si sentiva già di troppo.

12. IL CORRIDOIO DEI RITRATTI



Ormai se ne stava lì sdraiata sul letto a pensare da più di un’ora, e non aveva la minima voglia di alzarsi.
Non sapeva neanche esattamente che cosa fosse a infastidirla tanto.
Gelosia?
Ma come poteva essere gelosa di una zia che conosceva a malapena?
Disagio?
In fondo non le piaceva avere troppa confusione attorno a sé. Amava starsene in santa pace, da sola, quando era a casa. E poi quel posto non era molto normale… aveva come l’impressione di essere tornata indietro nel tempo.
Eppure non era quello che la infastidiva in quel momento.
E’ solo invidia, ammise alla fine.
Come poteva non essere invidiosa di un affetto così profondo?
Quello che leggeva negli occhi di sua zia quando parlava con i suoi protetti.
Nessuno le aveva mai dimostrato niente di simile. I suoi genitori, quella notte di quattordici anni prima, se l’erano accollata, ma glielo avevano sempre fatto pesare.
Gli amici che aveva erano più che altro compagni di uscite.
Dovrei prendermi un cane, si disse.
Anche se dubitava che il suddetto poi, tra lei e un osso, avrebbe scelto lei.

Per sfuggire alla depressione che stava iniziando ad affliggerla si decise ad abbandonare il letto e uscì dalla stanza, senza essere diretta in nessun posto in particolare.
Camminando per la casa si accorse che doveva essere già tarda sera.
Forse fu la scarsa illuminazione a farle perdere l’orientamento.
Si ritrovò a vagare per fasce che non aveva mai percorso; avevano un aspetto più antico di quelli che aveva già visitato. I tappeti erano lisi e i quadri, che popolavano le pareti, impolverati. La luce era scarsa e non s’intravedeva la fine dei corridoi.
L’atmosfera la avvolgeva in tutta la sua spettrale apparenza ma Evelyn non era poi così terrorizzata.
Finché non iniziò la tempesta.
Ebbe inizio con un’esplosione di luce lattescente che dalle finestre intervallate ai dipinti illuminò l’intero ambiente.
Evelyn perse ogni briciola di calma per un secondo; si bloccò al centro del corridoio, iniziò a indietreggiare verso il muro opposto alle finestre.
Restò immobile finché non arrivò il boato. La cornice alla quale si era accostata tremò sfiorandola, lei sussultò e ricominciò a camminare, più svelta.
Per distrarsi si concentrò sui dipinti. Ogni tre passi poteva contemplarne uno diverso, li contò, senza sapere il perché.
Un ritratto. Raffigurava un giovane bellissimo. Le punte dei capelli a sfiorargli la linea netta della mascella. Gli occhi vermigli.
<< Egocentrismo puro >> disse ad alta voce per commentare gli strani gusti del committente di quel quadro… e per sovrastare il rumore dei tuoni.
Altri ritratti.
Volti angelici di giovani donne dal sorriso infinitamente triste.
Profili marmorei di uomini seducenti.
Evelyn non aveva mai visto persone dotate di una simile avvenenza.
Dopo l’undicesimo ritratto una tela vuota, completamente scura.
Dopo il diciassettesimo una tela rovinata. Le fattezze di colui che era stato effigiato erano irriconoscibili; qualcuno si era dato da fare con forbici e coltelli.
Dopo il ventunesimo ritratto, un paesaggio.
Un bosco buio; si distinguevano a malapena le sagome degli alberi… ma solo dopo aver aguzzato la vista Evelyn si accorse che non erano solamente arbusti… la maggior parte delle figure che riempivano la tela erano ombre, sagome sfocate. Man mano che si avvicinava al quadro ne distingueva sempre di più… o forse stavano realmente aumentando.
Quando fu ormai vicina si soffermò su uno di quei profili.
All’improvviso la visuale del corridoio e dei quadri le sparì davanti agli occhi, per essere sostituita da un luogo più ampio… un parcheggio stipato di automobili.
Fu un attimo soltanto poi la vista delle macchine sparì e di fronte a lei c’era il quadro e le sue ombre.
Le girò la testa e la vista si offuscò. Tutte le macchie scure del dipinto parvero convergere verso il suo centro.
Evelyn non volle vedere. Si voltò e iniziò a correre.
Altri ritratti.
Dopo il trentunesimo ritratto, una finestra, si affacciava sul giardino, che era completamente grondante di fango. La pioggia era talmente fitta che concedeva una scarsissima visuale.
Stava per voltarsi e proseguire quando un movimento, diverso dal cadenzato precipitare delle gocce d’acqua, attirò la sua attenzione.
Osservando con più attenzione si accorse che era un contorno umano.
E’ uscito dal quadro, la sua mente formulò involontariamente quel pensiero.
<< No, una sagoma qualunque… tutte le sagome si somigliano >> sussurrò indietreggiando.
Tutte le sagome ti fissano?
Ricominciò a correre.

Ad un tratto ebbe la netta impressione che l’aria che la accarezzava non fosse più provocata dalla sua andatura rapida.
Era immobile.
Senza rendersene conto si era fermata.
Si scagliò contro la porta che aveva davanti e se la sigillò alle spalle.
Era entrata in una camera in sostanza vuota, salvo per i quattro enormi specchi appesi alle pareti, ai quali non concesse neanche uno sguardo, mentre camminava verso la finestra che aveva di fronte.
Aveva paura?... Forse… Ma di che cosa?
La risposta le pervenne nello stesso istante in cui poggiava i palmi delle mani sul vetro appannato.
L’ombra era lì. In mezzo agli alberi di quel bosco troppo buio. Ferma.
L’aria si riempiva di sussurri che non riusciva a comprendere.
<< No >> sussurrò scuotendo la testa. Poi i suoi occhi si posarono accidentalmente sullo specchio.
Si può essere in due luoghi contemporaneamente?
Guardò meccanicamente all’altro specchio. Era anche lì.
E anche negli altri due…
Si voltò di scatto.
L’intenzione era di correre, uscire da quella stanza… Ma una gabbia di ferro glielo impediva, la stringeva per tenerla ferma.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Vecchie amiche ritornano ***


13. VECCHIE AMICHE RITORNANO
I PARTE



Un brivido di paura le salì per la schiena.
Era terrorizzata in quella stanza al buio, sola come sempre.
Sentì i tendini irrigidirsi nella familiare contrazione della rabbia repressa.
Era arrabbiata perché era sola, in quella gabbia di ferro che la intrappolava.
Divincolarsi non serviva a niente. Riuscì a liberare solo il braccio destro.
Le servì una frazione di secondo per caricare il colpo e ancor meno per sferrarlo.
Come aveva immaginato non servì a niente. Quello piegò la testa per il cazzotto incassato, gemette, ma la presa non diminuì minimamente.
La afferrò per un polso e la spinse con malagrazia contro un muro, bloccandola con le braccia.
Adesso però non era più buio, la luce lattiginosa della tempesta forniva un’illuminazione più che sufficiente.
Evelyn non sapeva se scoppiare a ridere o mettersi a urlare.
<< Ma che cazzo fai? >> ruggì Riley a un soffio dal suo viso.
<< Idiota >> sibilò lei tra i denti.
<< Non saresti dovuta venire qui, che ti salta in mente? >> continuò come se non avesse sentito la risposta della ragazza.
Evelyn non sapeva che dire. Forse avrebbe preferito essere tra le braccia di qualunque altra cosa fosse in quella stanza, prima che lui arrivasse, piuttosto che trovarsi di fronte Riley.
Non disse niente.
Restarono in silenzio entrambi, con il respiro affannato… A Evelyn mancava l’aria, perché quella situazione era assurda. Era tutto assurdo.
Riley non riusciva a respirare, aveva corso a perdifiato… E da casa sua a quella maledetta stanza era stata una bella sfaticata.

Nessuno dei due aveva idea del tempo che era passato. Forse una manciata di minuti, forse un’ora.
Semplicemente erano ancora immobili, Evelyn con la schiena contro il muro, Riley con i pugni serrati poggiati ai lati del suo viso, gli occhi fissi in quelli di lei, che però li teneva bassi e non ricambiava sfacciatamente il suo sguardo come avrebbe giurato.
Vederla in quello stato, impaurita e arrabbiata, gli provocò una fitta di dolore.
Perché non sollevava lo sguardo? Perché si vergognava di mostrare anche solo un frammento di debolezza?
Non sapeva che cosa dirle. Avrebbe dovuto rassicurarla… Ma non sapeva neanche da cosa.
Ancora una volta era a corto di parole.
Come quando l’aveva vista per la prima volta alla stazione, bagnata e sola.
Scostò le mani dalla parete.
Gliele posò sui fianchi giusto il tempo di attirarla a sé, poi gliene mise una tra i capelli per stringerle la testa contro il suo petto, mentre le teneva l’altra sulla schiena.

La tenne stretta mentre i singhiozzi la scuotevano. Ed Evelyn non sapeva nemmeno perché aveva iniziato a piangere.
Forse era stato lui a farla piangere, con quell’abbraccio, e con la gentile collaborazione del suo maledetto orgoglio.
O forse era normale abbracciare qualcuno quando era sconvolto e arrabbiato.
Ma Evelyn aveva poche conoscenze in materia…

La bambina se ne stava seduta per terra, le braccia attorno alle gambe per raccoglierle al petto, il mento poggiato sulle ginocchia.
<< Alzati >> le ordinò la voce dura di suo padre.
<< C’è qualcosa sotto il divano >> ripeté la bambina senza spostare lo sguardo dal buco sotto il mobile in questione.
<< Smettila >> disse suo padre avvicinandosi << Smettila! >> ripeté afferrandola a trascinandola fuori dalla stanza.
Sua madre stava a guardare mentre lui la spingeva oltre la porta della sua camera e la chiudeva dentro.
Ma quella porta chiusa a chiave non era un ostacolo per nessuna voce.
Non la proteggeva dalle grida.
Non la proteggeva e basta.
<< E’ tutta colpa tua! E di quella maledetta di tua cugina! >>.
<< Che cosa potevo fare! Lasciare che finisse in un orfanotrofio? >>.
<< No, io non so che cosa fare! Continua a ripetere quelle frasi strane, si graffia da sola, il suo comportamento non è normale >>.
<< Sua nonna invece dice che è normale >>.
<< No, anche sua nonna dice che è strana, come lo era lui >>.
La bambina non poteva fare niente per non sentire quelle voci, le voci dei suoi incubi che popolavano la stanza.

Adesso stavano forse tornando le vecchie amiche di un tempo?
Le voci dei suoi incubi, le ombre nel buio, i mostri sotto il divano… non era stata solo l’immaginazione di una bambina infelice?

La bambina non poteva fare altro che piangere mentre le ombre e i suoi incubi popolavano la stanza. Non avrebbe mai chiesto aiuto a nessuno, perché nessuno sarebbe venuto per salvarla, nessuno l’avrebbe abbracciata mentre piangeva.

Nessuno mi aveva mai abbracciata mentre piangevo, pensò, rendendosene conto dopo anni, singhiozzando tra le braccia di quello sconosciuto.
Lo spinse via senza sollevare lo sguardo, non riuscendo a vedere la sua reazione.
<< Andiamo >> disse Riley mentre la spingeva verso la porta.
La condusse tranquillo per i corridoi mentre lei lo seguiva senza proferire parola.
La tempesta era cessata e con essa i fulmini.
Adesso la luce della luna illuminava ancora meglio i dipinti. Evelyn riprese a contarli ancora una volta senza apparente motivo.
Dopo l’undicesimo e il diciassettesimo ritratto notò due volti che prima non aveva visto… ma in particolare una tela colpì la sua attenzione, dopo il ventunesimo ritratto, una cornice scura contornava la raffigurazione di un semplicissimo bosco; un prato, alberi e qualche cespuglio.


II PARTE



<< Non c’è nessuno in casa? >> chiese la ragazza mentre si accomodava sul bordo del divano del salotto.
<< Solo noi >> le rispose Riley.
Era in piedi di fronte a lei e si limitava a osservarla con l’abituale espressione distaccata. Evelyn si chiese se fosse la stessa persona che era con lei in quella stanza dall’altra parte della casa pochi minuti prima.
Guardandolo più attentamente notò un lieve rossore sulla sua guancia sinistra.
Impossibile, pensò, convinta di non averlo colpito poi così duramente.
<< Mi… dispiace >> disse piano Evelyn.   
<< Per cosa? >>.
<< Per averti mollato un cazzotto >>.
<< E…? >>.
<< E basta. Che altro? >>.
<< Non cederai nemmeno adesso? Dopo che sono corso in tuo soccorso? >>.
Se per un attimo aveva creduto che Riley potesse essere diverso, in quell’attimo si era sbagliata.
<< Riley, sei bipolare? >>.
Quello rise, poi le si sedette accanto << C’è qualcos’altro che posso fare per te? Sicura di stare bene? >> chiese in tono sincero.
La ragazza sgranò gli occhi << Come si dice? Fatti una domanda, datti una risposta >>.
Lui rise ancora << No, sinceramente, hai bisogno di qualcosa? >>.
<< No, sinceramente, bastava un sì >>.
<< Non sono bipolare! >>.
<< Buona permanenza nella tua convinzione >>.
<< Se hai ancora bisogno di conforto, basta chiedere >>.
<< Seriamente, sei tu che hai bisogno di una visita psichiatrica >>.
Evelyn non ebbe nemmeno il tempo di vedere il suo sorriso di sbieco che lui si era già avvicinato per sussurrarle all’orecchio << Direi che poco fa non la pensavi così >>.
Lei cercò di allontanarsi per piantargli addosso il suo sguardo più truce, ma lui glielo impedì afferrandola per i polsi e trattenendola dall’allontanarsi.
<< Poco fa… Hai approfittato del fatto che fossi sconvolta per cogliermi di sorpresa >> sibilò la ragazza.
<< Mi sembra che tu ci abbia comunque messo un po’ ad allontanarti >>.
<< Come adesso? >>.
<< Oh, no. Adesso sono io a non volere che ti allontani >>.
<< Anche prima non avevo molte possibilità di scelta >>.
<< Prima non ti stavo affatto trattenendo >>.
<< E perché adesso invece lo stai facendo? >>.
Riley la guardò negli occhi.
Con i suoi occhi, verdi e disarmanti.
Evelyn li vide farsi sempre più vicini.
Cos’era che le martellava nel petto?
Dischiuse le labbra in un gesto involontario.
Era odio?
Odiava qualunque cosa potesse impedirle di nascondere la sua debolezza. Per questo odiava lui.
Avvertì il respiro di lui carezzarle la bocca.
Era rabbia?
Era arrabbiata con lui.
Si arrabbiava, se era costretta a mostrare di avere luoghi attraverso i quali era possibile far breccia nella corazza che si era costruita addosso, a proteggerla da ogni sentimento, che fosse amore o odio.
Odio, un impulso così familiare, le era sempre appartenuto.
Amore. Non aveva mai amato lei, perché nessuno le aveva mai insegnato.
Capelli biondi sfiorarono quelli scuri di lei.
Impazienza?
Un altro soffio caldo sul viso.
Non aveva mai aspettato. Si era sempre presa tutto quello che aveva voluto.
Voglia. Lo voleva?
La presa si faceva più salda sui suoi polsi.
Qualcosa di ancora più denso del suo respiro le accarezzò le labbra.
Poi uno schianto… Il rumore della porta che sbatteva.
Si voltò di scatto, fredda, mentre lui le liberava i polsi, un’espressione insoddisfatta sul volto.

Sua zia fece il suo ingresso nella stanza sorridendo. << Grazie per aver tenuto compagnia a Evelyn mentre non c’ero, Riley >>.
Quello si alzò dal divano << E’ stato un piacere >> rispose alla donna, guardando la ragazza.
Evelyn ricambiò con un sorriso indifferente.
Era davvero impossibile capire che cosa le passasse per la testa.
Evelyn. Perché sei qui?
E’ così sbagliato che tu sia qui…
Salutò le due, un attimo prima che il freddo e la notte lo abbracciassero.
Ancora in bocca il sapore di quel bacio non dato.


I polsi le bruciavano. E lei non voleva che quel dolore svanisse… le serviva per ricordare che stava per sbagliare.
Nessuno poteva vantarsi di averla avuta. Era lei a prendere quello che voleva, ma con Riley era diverso. Era capace di farla cedere, di vedere i punti deboli della sua barriera.
Quando era piccola e aveva avuto paura dei suoi incubi non c’era stato nessuno.
E lei non aspettava.
Adesso non voleva più nessuno; era tardi.
Qualsiasi cosa fossero le ombre, riguardava solo lei.
L’avevano lasciata in pace giusto il tempo di un’illusione, solo per tornare e scaraventarla di nuovo nel suo incubo… L’incubo della follia.

<< E se soffrisse di allucinazioni? >>.
<< Abbassa la voce, potrebbe sentirti >>.

Non ricordava quando avesse iniziato ad avere allucinazioni, era troppo piccola.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Il fedele destriero ***


14. IL FEDELE DESTRIERO


Nonostante gli ultimi avvenimenti, stranamente quella notte piombò in un sonno profondo.
Quando la mattina seguente si svegliò, era di buonumore. Il perché le restava precluso, dato che era alquanto raro che fosse briosa al suo risveglio.
Di sotto la attendevano sua zia e Sophie, la simpatica ragazza che aveva conosciuto la stessa sera del suo arrivo lì.
Non appena la vide le andò incontro con un sorriso smagliante e dopo averla salutata le fece i complimenti per la camicia che indossava; Evelyn non era abituata a simili esempi di eloquenza mattutina e per un momento le girò la testa.
<< Hanno telefonato i tuoi genitori >> esordì sua zia, facendo abbassare di parecchi gradi di contentezza il suo umore. Aveva completamente dimenticato di farsi viva a casa sua.
<< E che hanno detto? >> chiese fingendosi interessata.
<< Volevano solo sapere se stavi bene, hanno detto che richiameranno presto >>.
Evelyn si sentì un po’ sollevata, sperando che quel “presto” non fosse poi tanto prossimo.
<< Oggi sarò via tutto il giorno, Sophie si è offerta di tenerti compagnia >> continuò poi Josephine mentre lei si accomodava a tavola accanto alla ragazza. Non essendo nelle complete capacità di formulare frasi sufficientemente coerenti la mattina presto, si limitò a sorriderle.
Le attività di sua zia la incuriosivano sempre più, ma non riteneva di essere abbastanza in confidenza da fare domande.
<< Ti piace il blu? >> chiese Sophie riscuotendo Evelyn dall’osservazione della fetta di torta che aveva davanti, che sembrava assorbire la sua completa attenzione.
<< Abbastanza… In realtà è il mio colore preferito, perché? >>.
<< Intuizione. Indossi una camicia blu e mangi una fetta di torta con la glassa blu… o meglio osservi la fetta di torta>>.
<< Mi sto concentrando >>.
<< Su cosa? >>.
<< Cerco di capirlo >>.
Risero entrambe. Quella ragazza era un concentrato di vitalità. A Evelyn piaceva sempre di più, complice anche la sua serenità di quella mattina. Non aveva pensieri per la testa, senza sapere come fosse possibile.

Sua zia le lasciò subito dopo la colazione.
<< Allora, cosa ti va di fare? >> la chiese Sophie saltando giù dalla sedia.
<< Non lo so, che cosa fate per divertirvi da queste parti? >>.
<< Solitamente attività all’aperto, ma come vedi oggi non è possibile >> e imbronciata volse lo sguardo alle gocce che scorrevano lungo le vetrate.
<< Potremmo guardare la tv >> propose Evelyn.
<< Ehm… Non te ne sei accorta? Non l’abbiamo >>.
<< Come? >> esclamò l’altra sconvolta.
<< Non c’è la copertura di rete, né per internet né per la televisione, è colpa del brutto tempo credo >>.
Che posto è mai questo… dove sono finita? Si disse la malcapitata ragazza di città.
<< Lo so, dev’essere strano per te, ma è solo il tempo… >>.
<< …Di farci l’abitudine >> finì la frase per lei. Ormai conosceva quella battuta a memoria.

Trascorsero ore stravaccate sul divano, semplicemente a parlare.
<< Josephine lavora? >> chiese a un certo punto Evelyn.
<< In un certo senso… Ah! Guarda ha smesso di piovere >> disse quella alzandosi e lasciandola senza una risposta.
<< Sai cavalcare? >> esclamò sorridendo.
<< Sì >> mentì la ragazza di città. Dopotutto aveva sempre desiderato imparare e pensava che non dovesse essere poi troppo difficile.
Dopo averla costretta a indossare un paio di stivali, che aveva tirato fuori da un ripostiglio dove la polvere era indefessa dominatrice, la condusse alla stalla della villa.
<< Scegli >> la incitò affabilmente mentre percorrevano il corridoio.
Evelyn fu particolarmente attratta da un ronzino dal manto nero, certo non era l’élite dell’equitazione, ma le sembrò ottimo per muovere i primi passi.
<< Come si chiama? >> chiese allungando una mano per accarezzargli il muso.
<< Oh, Freccia… E’ zoppo >>.
Evelyn scoppiò a ridere, non che le disgrazie dell’equino la divertissero, ma in quel posto le stranezze non finivano mai.
Alla fine Sophie le accollò un Hunter, giusto per renderle ancora più difficile salire in sella. Ci riuscì al terzo tentativo, ringraziando la sua discreta agilità.
Tramite un cancello posteriore sbucarono nel bosco e iniziarono a procedere lentamente.

Anche in sella al cavallo Sophie continuava a chiacchierare. Evelyn partecipava abbastanza attivamente alla conversazione, fin troppo soddisfatta delle sue innate doti da cavallerizza… non riuscì nemmeno a capire che cosa fosse passato davanti al cavallo tanto velocemente, che quello partì al galoppo.
<< Fermo! >> urlò mentre tirava forte le redini. Non sortì il minimo effetto.
Il fedele destriero sfrecciava per il bosco, e sembrava non aver per nulla intenzione di desistere dalla sua corsa. Ormai aveva seminato Sophie, non riusciva nemmeno a sentirla.
A quel punto tenersi forte le sembrò la cosa più saggia da fare.
Non aveva la più pallida idea di dove fosse finita e il sentiero si faceva sempre più impervio.
<< No! >> gridò mentre il cavallo puntava verso un precipizio.
Stava valutando l’idea di buttarsi giù, anche a costo di rompersi qualche osso, quando un altro cavallo la affiancò.
<< Lascia le redini >> esclamò una voce maschile.
In una frazione di secondo Evelyn, che non seppe trovare una soluzione migliore che obbedire, mollò le briglie e lui se la issò in sella prendendola per i fianchi, come se fosse stata leggerissima.
Il cavallo sul quale si trovava adesso si fermò, mentre l’altro, imperterrito, proseguiva la sua corsa.

<< Tutto bene? >> le chiese Alexander con un sorriso.
Alla vista del suo salvatore la ragazza avvampò. << Certo!… non so cosa gli sia preso >> rispose comportandosi come se fosse stata un’esperta cavallerizza.
Alexander la fece sistemare meglio in sella, davanti a lui, poi fece dietrofront e ripartì. Evelyn lanciò un’occhiata al cavallo dissennato, augurandosi che tornasse tutto intero a casa.
<< Devo ammettere che è difficile sorvegliarti, non so se te le cerchi o se siano loro a trovare te >> se ne uscì lui all’improvviso.
<< Come? >> fece lei stupita.
<< Le disgrazie. E’ già la seconda volta che ti cacci nei guai da quando hai lasciato la tua pacifica città >>.
<< Scusami ma non ti seguo >>.
<< Sul traghetto >> disse in tono tranquillo, come se stesse chiacchierando di futilità, e quando Evelyn sollevò lo sguardo lo trovò sorridente.
Ecco dove l’aveva già visto. Nella sua corsa dentro il parcheggio gli era finita addosso, ma con quel buio non era riuscita a memorizzare bene la sua faccia.
Il problema era che quella volta lei non sapeva nemmeno da cosa stesse scappando.
<< E che pericolo avrei corso sul traghetto? >>.
<< Nulla di grave >>.
C’era almeno una persona in quel posto che concedesse risposte concrete?
<< Grazie per il salvataggio >>.
<< Non c’è di che >> rispose, sfoderando un altro dei suoi sorrisi seducenti.
<< Aspetta… ma che volevi dire con “sorvegliarti”? >> domandò ripensando a quello che le aveva detto.
Quello assunse un’espressione seria << Non sei più nella tua tranquilla città, Ev… Sta ricominciando a piovere, tieniti >> fu tutto quello che disse, prima di partire al galoppo.

Si fermarono in una stalla diversa da quella che Evelyn ricordava, e quando Alexander la aiutò a scendere dal cavallo per entrare in casa, si rese conto che non erano nella villa di Josephine.
<< Casa di tua zia è troppo lontana e sta diluviando >> le spiegò mentre la conduceva dentro, in un ambiente che le parve antichissimo.
Lo seguì su per le scale e attraverso un corridoio. Imboccarono una porta che li condusse dentro a una sala da pranzo.
Attorno al tavolo erano riuniti una decina di ragazzi. Evelyn si bloccò, ma Alexander le circondò i fianchi con un braccio incoraggiandola a procedere.
Poi iniziò a presentarle i presenti. Nomi che difficilmente avrebbe ricordato.
<< Eravamo tutti ansiosi di conoscerti >>.
<< Finalmente eccola, la famosa nipote di Josephine >>.
<< E’ davvero un piacere averti qui >>, parlò per ultimo un ragazzo dai capelli rosso scuro, ed Evelyn pensò che se lui era contento di averla lì, non si poteva dire lo stesso di colui che gli stava accanto. Riley non si era nemmeno degnato di alzarsi, se ne stava ancora piegato in avanti sulla sedia, sembrava infuriato.
<< Se vuoi concederci l’onore di restare un po’, possiamo riaccompagnarti più tardi >> le dissero cordiali. Con una voce talmente sincera che era certa che non avrebbe mai potuto rifiutare…
<< No. E’ tardi, Evelyn deve tornare a casa >> decretò Riley, impassibile << Aspettami in macchina >> continuò rivolto solo a lei.
Stava per mandarlo amabilmente a quel paese ma Alexander la anticipò << Ha ragione, è troppo tardi, sarà per un’altra volta >> le disse dolcemente. E ad Alexander non poteva dire di no.
Così le toccò dirigersi alla macchina di Riley, delusa. Nella speranza che almeno non la lasciasse lì ad aspettare.

<< Non devi dirle niente >> sibilò Riley dopo aver preso Alexander da parte.
<< Vuoi farla impazzire? >>.
<< E’ meglio così, per ora. Cosa le hai detto? >> esclamò, tutt’altro che calmo.
Alexander sbuffò << Niente di più di ciò che ha visto con i suoi stessi occhi. Ha pur sempre bisogno di spiegazioni >>.
<< Lasciamole tempo >> continuò irremovibile.
<< Prima o dopo, cosa cambia? E’ la figlia di William, ha il diritto di sapere la verità sui suoi genitori >>.

Aspettare era snervante. Per di più la pioggia era degenerata in una tempesta con tanto di lampi. E Riley ancora non arrivava, era sempre colpa sua, puntualmente la faceva imbestialire.
All’opzione di girare la chiave nel quadro e dare gas preferì più coscienziosamente quella di sprofondare nel sedile, per non vedere quella luce biancastra che illuminava il cielo.
<< Stai bene? >>.
Evelyn si voltò di scatto, non si era accorta che Riley era salito in macchina.
<< Non mi piacciono i lampi >>.
Quello sorrise.
<< La cosa ti diverte? >> lo provocò mentre l’auto partiva, lasciandosi alle spalle la villa di Alexander.
<< No, ma quando ti arrabbi sei così carina… >> disse in tono provocante.
Evelyn non era certa di aver sentito bene.
<< Se continui così, un giorno avrai la dimostrazione che quando mi arrabbio sono tutt’altro che carina >>.
Quello rise, poi cambiò discorso << Che hai combinato oggi pomeriggio? >>.
<< Niente! >>.
La guardò in silenzio.
Evelyn ricordò il promemoria che si era fatta: Se non gli piace quello che hai detto non si degna di rispondere.
<< Preferivo tornare a casa col cavallo >> sbuffò esasperata alla fine, strappandogli una risata.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Grisham, pensieri e una campionessa... ***


15. GRISHAM, PENSIERI E UNA CAMPIONESSA…


Non appena rientrò in casa sua zia le corse incontro, preoccupata, per sincerarsi delle sue condizioni di salute.
<< Sto bene! >> cercava di spiegarle la ragazza, ma ormai si era fatta un altro promemoria: Quando zia Josephine perde la calma, niente può farla tornare i sé.
<< Mi dispiace davvero tanto >> le disse Sophie amareggiata, avvicinandosi e abbracciandola.
<< Non dirai sul serio? >> esclamò ridendo Evelyn allontanandola gentilmente da sé.
<< Cortesemente, la piantante? Come potete vedere è tutta intera, viva e vegeta >> Intervenne Riley.
Sua zia parve calmarsi un po’, ma mentre la accompagnava nell’altra stanza le tenne comunque un braccio attorno ai fianchi.
Erano tutti così premurosi da quelle parti… e a Evelyn non dispiaceva. Solitamente non riceveva tutte quelle attenzioni; era abituata a sentirsi dire “alzati” quando cadeva, piuttosto che “stai bene?”. Non sapeva dire se dipendesse dal distacco che i suoi genitori adottivi avevano nei suoi confronti, o se si trattasse semplicemente del loro carattere.

Nell’altra stanza attendevano tre persone.
Un uomo sui quarant’anni, massiccio, ma con un volto che ispirava simpatia già dal primo momento. Quando la vide si limitò ad alzarsi e sorriderle.
La donna che gli stava accanto invece, una rossa dagli occhi chiarissimi, le andò incontro e le prese le mani. << Finalmente abbiamo il piacere di conoscerti! >> disse dolcemente.
<< Il piacere è tutto mio >> rispose Evelyn coinvolta dal suo entusiasmo.
<< Bradley e Susan sono due carissimi amici di famiglia >> glieli presentò sua zia.
La ragazza si chiese quanti altri amici potesse avere sua zia.
Poi il suo sguardo si posò su una sedia poco distante da lei; ad occuparla era un bambino. Dal colore dei suoi capelli intuì che dovesse essere il figlio di Susan, ma aveva occhi scurissimi, come Bradley, che forse era il padre.
<< Lui è Grisham. Non farci caso lui… >> Aveva iniziato la donna dai capelli di fuoco, ma la frase le morì in gola quando il bambino sollevò gli occhi dal pavimento, e rivolse a Evelyn uno dei sorrisi più luminosi che lei avesse mai visto. La ragazza ricambiò di cuore.
Poi notò che nessuno parlava; Susan si era portata una mano alla bocca, gli altri osservavano come se avessero visto un evento rarissimo.
<< Avvicinati, parlagli >> le sussurrò piano Riley.
Anche se non capiva bene cosa stesse succedendo, e perché fossero rimasti tutti a bocca aperta, Evelyn s’inginocchiò all’altezza del viso di Grisham.
Stupendo tutti ancora una volta, fu il bambino a parlare per primo.
<< Come sei bella, assomigli a una bambola >> le disse con un altro sorriso. Poi il suo sguardo si spostò su Riley.
<< Che gentiluomo >> rispose lei allegramente, senza voltarsi sebbene sentisse gli sguardi dei presenti bruciarle sulla schiena.
Cosa c’era di strano in quella situazione?
Il bambino rise, poi suo padre lo prese in braccio e si strinse a lui.
<< Sei davvero speciale Evelyn. Prometti che verrai a trovarci presto >> le disse Susan prendendole le mani.
<< Ma certo >> rispose con un sorriso la giovane.
L’ora era tarda, e la famiglia salutò tutti e si defilò.

<< Ci hai quasi commossi >> disse Sophie.
<< Ho notato… ma… >> balbettò l’altra, continuando a non capire.
<< Vedi, Grisham è un bambino particolare, di solito non parla con gli sconosciuti… beh diciamo che non parla e basta >> disse sua zia con una punta di tristezza.
<< E’ autistico >> affermò Riley. Pragmatico e conciso come sempre.
<< Ah… >> fu tutto quello che riuscì a dire la ragazza.
<< E’ stato bello vederlo tornare tra di noi, anche se solo per un momento. Dovresti fargli visita, gli farebbe bene parlare con qualcuno… cioè parlare… ogni tanto >>.
<< Lo farò senz’altro >>.
Non che Evelyn avesse una particolare simpatia per i marmocchi, ma anche lei era rimasta vittima del sorriso di quel bambino dai capelli color del tramonto e gli occhi di cioccolata.

Sophie dichiarò che era tardi e doveva tornare a casa, sua zia la accompagnò fuori.
Così rimasero soli, Evelyn e Riley.
Lui ricadde su una poltrona, una gamba abbandonata sul bracciolo, e l’attenzione completamente focalizzata su di lei.
A lei la situazione non piaceva per niente.
Le tornò in mente quel momento, quando i loro visi erano stati a un soffio l’uno dall’altro, e quando l’aveva stretta a sé, vedendola smarrita.
Aveva cercato di non pensarci per tutto il tempo, ma adesso, di nuovo in quella stanza, con solo lui a fissarla… Ma dopotutto non possiamo precluderci i pensieri per sempre, prima o poi, che ci piaccia  o no, arriveranno, e dovremo fare i conti anche con ciò che non ci piace.
E lei, la ragazza con la corazza, era indiscussa campionessa, quando si trattava di esiliare gli sgraditi pensieri.
Però per quanto potesse ammettere di essere stata una vigliacca, a lasciarsi intrappolare in quel modo da quel manipolatore, l’avrebbe ammesso solo con sé stessa, non avrebbe aperto bocca. Non gli avrebbe mai più concesso di vincere. Avrebbe combattuto con ogni arma pensabile, prima di lasciargli scalfire di nuovo la sua armatura.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Quando il gatto non c'è ***


16. QUANDO IL GATTO NON C'E'


Evelyn si lasciò cadere sul divano con un sospiro di piacere, che non sfuggì a Riley, il quale esibì il suo solito sorriso tentatore; ma lei era troppo impegnata a compiacersi dell’avere un appoggio morbido e confortante sotto il fondoschiena, tutt’altra cosa della dura consistenza della sella, per degnarlo anche solo di un briciolo di attenzione.
Quando sua zia fu di ritorno il ragazzo si alzò subito, pronto ad andarsene.
All’improvviso sembrava aver fretta.
<< Direi che adesso puoi andare, Riley >> gli disse Josephine.
Quello reagì con un semplice cenno, poi si avviò all’uscita.
<< Buonanotte Ev… e cerca di non cacciarti nei guai, per favore >>.
<< Buonanotte Riley >> fu tutta la disinteressata risposta che gli concesse.

Passarono i giorni, tranquilli, senza altri imprevisti.
Evelyn impiegava il suo tempo per lo più leggendo, ma si godeva anche la compagnia di sua zia, di Rose, di Sebastian… Aveva scoperto che era piacevole avere accanto quelle persone.
Andava anche a trovare Grisham di tanto in tanto. Il bambino le dimostrava una sviscerata simpatia e i suoi genitori erano felicissimi che il figlio ogni tanto uscisse dal suo personale mondo isolato.
Nessuno si faceva vivo a casa di sua zia; né Sophie, che aveva sperato venisse a trovarla spesso, né Alexander, che si era mostrato adorabile con lei… di Riley nemmeno l’ombra.
Aveva provato a chiedere il perché della loro inspiegata assenza, ma le avevano concesso risposte molto vaghe, o avevano sviato il discorso.
In quel posto, se qualcuno non aveva voglia affrontare un discorso, era bravo a non farlo.
Nonostante le sue giornate trascorressero serene, aveva comunque notato che le persone intorno a lei avevano iniziato a comportarsi in modo strano, quasi circospetto.
Non la lasciavano uscire neanche in giardino; quando erano dentro casa Sebastian, anche mentre intratteneva una conversazione con lei, passeggiava in continuazione di fianco alle finestre, andata e ritorno, per ore.

Come se stesse aspettando qualcuno.
La costringevano ad andare a letto presto.
Non aveva mai nemmeno messo piede in città.

Era una mattina come le altre quando sua zia annunciò che sarebbe andata a sbrigare delle commissioni in città.
A Evelyn sembrò strano che non ci andassero Sebastian o Rose come sempre, ma d’altra parte poté finalmente cogliere l’occasione che aspettava.
<< Posso venire? >> chiese con ingannevole noncuranza.
Aveva un disperato bisogno d’aria.
Sua zia non rispose subito, sembrava combattuta.

<< Certo >> acconsentì alla fine Josephine.
Sapeva benissimo che la nipote, dopo quella forzata reclusione che era durata già troppo, se non avesse avuto il permesso di uscire, se lo sarebbe preso da sola.
E se fosse scappata, magari di notte per rischiare ancor meno di essere scoperta, le cose sarebbero state molto, molto più tragiche. Anche così non era prudente, no, non lo era per niente; ma almeno sarebbe stata con lei.
Arrivarono alla jeep lievemente bagnate dalla pioggerellina che scendeva sullo scenario avvolto dalla foschia, lenta; lenta come la velocità che Sebastian stava mantenendo.


A dispetto del pronostico di Evelyn che sarebbero arrivati a destinazione a tarda sera, per mezzogiorno erano in città.
Era esattamente come la ricordava, antica e buia.
E deserta.
Le strade erano completamente vuote, le porte e le finestre serrate.
Quella desolazione non l’aveva notata, la prima volta che ci era stata.
<< Copriti bene, fa freddo >> le disse sua zia mentre apriva lo sportello per scendere.
Non appena Evelyn mise piede fuori dalla vettura, l’aria gelata la investì.
Com’era possibile che a Giugno facesse così freddo da quelle parti?
Aveva mosso appena pochi passi quando scivolò e finì sul selciato bagnato. Sebastian si precipitò ad aiutarla, << Fa’ attenzione, la strada è bagnata >>.
Camminò reggendosi al suo braccio finché non arrivarono alla bottega che sua zia doveva visitare.
Non appena mise piede oltre la soglia un piacevole profumo di legno e carta consumata le invase le narici. La stanza le sembrò minuscola, ma osservando con più attenzione l’ambiente, si rese conto che era enorme; era tutto ciò che lo occupava a farlo apparire più piccolo.
Le pareti erano tappezzate di scaffali contenenti libri, scatole delle forme più disparate e bottiglie e ampolle di ogni sorta e colore. Sotto gli scaffali cassettiere e credenze le cui ante di vetro lasciavano intravedere altre boccette, oggetti che Evelyn non riuscì a identificare e animali imbalsamati.
Si avvicinò a un ripiano, osservandosi riflessa nella pupilla di un uccello dal piumaggio corvino.
All’insegna del macabro, commentò nella sua mente.
<< Chi c’è? >> urlò una voce gracchiante.
Seguendone il suono Evelyn sollevò lo sguardo alla passerella che girava tutta intorno alla stanza, soprastante il primo ordine di scaffali.
<< Ah, Josephine. Scendo subito >> continuò la voce da cornacchia, che si abbinava perfettamente alla sua proprietaria, una donna minuta, con pochi capelli in testa e un occhio di vetro.
Quando se la ritrovò a pochi passi di distanza la ragazza si chiese quanti secoli potesse avere.
<< Perché non dai un’occhiata in giro, Ev? Ci sono un sacco di libri >> le suggerì sua zia, che evidentemente aveva bisogno di parlare con l’uccello del malaugurio in privato.
La vecchia nel frattempo la stava squadrando con uno sguardo indecifrabile; Evelyn si sentì trapassare da parte a parte da quell'unico occhio funzionante e si allontanò in fretta, come a volerle nascondere quello che stava cercando.

Iniziò a scorrere con gli occhi i titoli dei libri sugli scaffali.
Dopo averne sfogliato un paio e averli messi da parte per cercare qualcosa di meglio, una copertina scura attirò la sua attenzione, si avvicinò per leggere meglio il titolo: “Le ombre”.
Passò velocemente a un altro scaffale.
Sfogliò qualche volume di biologia e alcuni atlanti.
Poi prese un tomo che non recava alcun titolo e aprì una pagina a caso.

Il Nosferato, più comunemente noto ai mortali col nome di Vampiro, è un essere dall’infinita astuzia.
Malvagie e subdole, queste creature demoniache della notte sono più veloci e più agili dei demoni stessi. Vivono del sangue dei viventi e hanno la capacità di prendere pieno possesso della mente delle loro ignare vittime, influenzando i loro pensieri e il loro umore.
Umano sta’ in guardia, il Vampiro non è brutto, non è rivoltante… è cinto da un’aura di fascino, eleganza e affabilità.
Se lungo il tuo cammino t’imbatti in un immortale, sei perduto.
Non cercare riparo alcuno, che sia porta sprangata o chiesa.
Non sperare che la più sanguinaria delle spade possa scalfirlo.
Non illuderti che il giorno possa proteggerti con la sua luce.

Voltò pagina, ma trovò solo il margine irregolare di quelle che erano state strappate.
Lo ripose e senza avere il tempo di capire meglio ciò che aveva appena letto la sua attenzione fu catturata da un altro libro che era precipitato dal suo alloggio con un tonfo sordo, lo raccolse; I proverbi non sbagliano mai, recava inciso in dorato la lisa copertina viola. Aprì affidandosi al caso…

“Quando il gatto non c’è, i topi ballano!”

<< Evelyn, andiamo >> la riscosse la voce di sua zia.
Posò in fretta il libro e la seguì fuori da quel luogo asfissiante.

Camminava vicino ai muri per trovare appiglio dalle pietre bagnate che le scivolavano sotto i piedi. Improvvisamente avvertì una fitta dolorosa all’avambraccio sinistro e si voltò fulminea per liberarsi dalla morsa che la stringeva.
Incontrò lo sguardo spiritato di un vecchio vestito di cenci.

<< Bentornata, piccola Evelyn >> scandì con voce melliflua, mostrando i pochi denti che gli erano rimasti in un sorriso malevolo.
La giovane tentò di liberarsi, ma quella stretta era salda tanto quanto l’aspetto del vecchio gracile.
<< Il tuoi gatti ti hanno lasciata sola, e se non ci sono i gatti a farti da guardia... >>.
<< Lasciala! >> urlò Sebastian, raggiungendola e spingendola dietro il suo corpo massiccio, mentre con la mano libera piegava il braccio del vecchio, che si era ammutolito.
Poco dopo arrivò sua zia e prendendola per le spalle la tirò verso la jeep.
Mentre camminava sentiva il vecchio urlare.
Qualche secondo e arrivò anche Sebastian. Prima ancora di chiudere lo sportello diede gas e l’auto partì velocemente.
Evelyn si tolse la giacca e sollevò la manica del golfino; osservò le minuscole sfere vermiglie che fuoriuscivano dalle mezzelune sulla sua pelle bianca.
<< Come faceva a conoscere il mio nome? >> chiese atona, lo sguardo ancora sul sangue che risaltava sulla carnagione candida.
<< Si è parlato molto di te, in tutto il paese >> rispose sua zia senza voltarsi.
La ragazza rimase in silenzio, abbandonò il braccio in grembo e si appoggiò allo schienale voltandosi a guardare le gocce d’acqua scorrere sul finestrino, così come sottilissimi rivoli di sangue le scorrevano sulla pelle.
Nella testa le rimbombavano ancora le grida del vecchio... "Arriveranno i topi!".

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Il ritorno delle ombre ***


Ringrazio di cuore S. per le sue revisioni.
E le chiedo perdono per i troppi riferimenti al liquido rosso che odia tanto
.

17. IL RITORNO DELLE OMBRE
I PARTE
(Trentuno per uscire dall’incubo)



Una luce dorata e un pungente odore di fumo dominavano l’aria, rendendola calda e accogliente.
La bambina si sedette vicino al camino, la sua voce delicata si mischiò al crepitare delle fiamme << Voglio fare scherma >>.
<< Come? >> esclamò stupito suo padre.
<< Voglio fare scherma >> ripeté la piccola spostando lo sguardo dal fuoco ai suoi occhi.
<< Non puoi fare danza o ginnastica, come tutte le tue coetanee? >> disse freddo.
<< Voglio fare scherma >>.

L’auto sfrecciava sulla strada, e l’unico rumore che poteva udirsi era proprio quello degli pneumatici, al massimo della loro potenza, fendere l’acqua che grondava sull’asfalto. Nessuna parola, nessun respiro… o forse lo stavano semplicemente trattenendo, il respiro.
Una volta arrivati, Evelyn fu trascinata dentro da sua zia, mentre Sebastian andava chissà dove.
<< Che succede? >> chiese la ragazza, mal celando la sua preoccupazione.
Nel frattempo era arrivata Rose, con acqua ossigenata e garze.
<< Il braccio >> le ordinò sua zia avvicinandosi, come se non l’avesse sentita.
Evelyn aveva pazientato fin troppo, per il suo carattere.
<< Ti ho fatto una domanda! >> gridò, scostando bruscamente il braccio dalle mani di sua zia.
<< E’ pericoloso uscire da casa >> si decise a risponderle, se risposta quella si poteva chiamare.
<< Perché? >> continuò la ragazza, abbassando un po’ la voce.
<< Tanti motivi >>.
<< Elencali >>. Non era intenzionata a desistere.
<< Il brutto tempo innanzi tutto, la nebbia… e la città è poco affollata, come hai visto. Non è mai prudente andarsene in giro quando non c’è altra gente nei dintorni, non te l’hanno insegnato? >>.
<< Qualcuno è rimasto, e no, non me l’hanno insegnato, perché non è prudente? >>.
<< Perché quando rimane qualcosa è sempre il peggio… non ti hanno insegnato nemmeno questo? >>.
<< No, ma l’ho imparato da sola >>.
Evelyn ripensò a quel vecchio, alla sua risata mentre gridava frasi senza senso.
Le tornarono in mente le parole dei libri.
Ripensò a ciò che nella sua vita aveva visto rimanere.
Rimane sempre il peggio.
Non disse più nulla, mentre le medicavano il braccio, né mentre cenava, né mentre si alzava per ritirarsi nella sua stanza.
Beh, per cominciare, quella notte di quattordici anni prima, dopo l’incidente, era rimasta lei.

Non sapeva per quanto tempo fosse rimasta sveglia a osservare l’oscurità.
Se ne stava sdraiata sul letto, con ancora addosso i vestiti, e non riusciva a chiudere occhio.
<< Quando il gatto non c’è, i topi ballano! >>.
Si sollevò rapidissima, si guardò intorno, cercando di capire se davvero l’avesse sentito o se l’avesse solo immaginato.
Solo buio.
<< Stanno arrivando >>.
Sfrecciò fuori dal letto e cercò qualcosa per illuminare quella dannata oscurità.
Frugò sul comodino e sullo scrittoio, ma non c’era traccia dei lumi che vi erano stati posati sopra per giorni; nei cassetti, non una torcia o una candela; nella cassapanca ai piedi del letto, nemmeno un accendino o un fiammifero.
Si fermò per un momento, in ascolto, ancora inginocchiata.
<< Arriveranno i topi! >>.
Scattò in piedi e si voltò verso destra, lì dove quel sussurro le aveva sfiorato l’orecchio e ciocche di capelli.
Di fronte a lei la finestra.
E sebbene quella notte la luna si nascondesse con accuratezza, e non concedesse il privilegio della sua luce, le vide lo stesso.
Le care vecchie amiche che erano tornate, solo per lei.
<< Sono arrivati i topi… >>.
Un altro sussurro la inseguiva nella sua corsa verso la porta.
<< … e visto che il gatto non c’è, possono ballare >>.
Forzò la maniglia e spinse con tutta la forza che la paura le concedeva.
<< Sono tornate le ombre >>.
Fu l’ultimo bisbiglio che udì, prima di lanciarsi verso il buio dei corridoi.

Correva, e sentiva il freddo e la paura, con solo un corpetto leggero a coprirle il busto e nulla a proteggerle il cuore.
Quando se lo ritrovò davanti sorrise, perché sapeva già che era lì che doveva finire. Il corridoio dei ritratti.
Allora aspettò che anche la tempesta venisse, perché sapeva che sarebbe arrivata anche quella.
Riprese a correre, quando i primi lampi e tuoni squarciarono l’oscurità e il silenzio.
Si fermò di nuovo, quando un’ombra sferzò l’aria davanti a lei.
Quando un’altra le lambì le spalle, chiuse gli occhi per non vedere.
Fece appello a tutta la sua razionalità per non lasciarsi vincere dal panico; si accostò alla parete e vi poggiò una mano. Ricominciò a correre più veloce di prima, contando ogni dipinto; solo trentuno per uscire dall’incubo.
I fruscii continuavano a sfiorarle la pelle nuda delle braccia, il viso.
Undici, calcolò senza parlare a voce alta.
Aumentò la velocità.
Ventuno.
Iniziò ad ansimare per la stanchezza.
Trentuno.
Evelyn spalancò gli occhi e le vide. Le ombre la aspettavano alla fine del corridoio, ma non era lì che lei era diretta.
Raccolse le ultime briciole di forza dalla sua stessa paura.
Spalancò la finestra e saltò.

Si avvitò su se stessa per attutire la caduta e atterrò piegandosi sulle ginocchia, con una lieve fitta che partendo dalle caviglie le salì per le gambe.
Si alzò subito e ricominciò a correre verso il bosco.
Adesso procedere era più difficile, gli stivali affondavano nel fango e la pioggia le inumidiva gli occhi.
Fu costretta a rallentare e i sussurri si fecero più vicini.
Di nuovo la paura le offuscò la mente.
Ma non sempre la paura è una nemica, se muove a trovare migliori vie d’uscita.
Evelyn saltò contrò un tronco e si voltò rapida per atterrare su una roccia opposta all’albero.
Continuò a procedere sul lato roccioso del bosco, saltando da una pietra all’altra quando era necessario.
Il rischio di cadere era maggiore, ma almeno il fango non la rallentava, e riacquistò velocità.
Non aveva la più pallida idea di dove stesse andando, ma l’unica cosa che il suo istinto le suggeriva era di correre, e lei correva, anche se aveva iniziato a credere che non sarebbe andata da nessuna parte.
Si trovò davanti a un dirupo e arrestò le gambe un attimo prima di fare un passo nel baratro.
Adesso ne sono certa, non sono solo allucinazioni, pensò mentre la spingevano giù.

Riuscì ad atterrare in piedi, ma lo strapiombo era comunque troppo alto e per quanto agile potesse essere gli servì solo ad attutire la caduta e non fratturarsi posti che nemmeno voleva pensare; non appena toccò il suolo cadde lateralmente, con un dolore lancinante alle ginocchia.
Di correre non se ne parlava.
Stava per perdere le speranze, quando un suono familiare la rincuorò.
<< Stavolta ascoltami, maledetto cavallo squilibrato >> disse guardando nella direzione dalla quale le era pervenuto il nitrito.
Istintivamente fischiò e subito dopo cercò di rimettersi in piedi.
Ci riuscì reggendosi all’animale che, chissà per quale strano allineamento degli astri o volontà divina, era corso da lei.
Montò in sella al primo tentativo e calciò i fianchi dell’Hunter, che partì al galoppo.
Mentre sfrecciava per il bosco senza seguire alcun itinerario concreto, senza altro pensiero in testa se non quello di scappare, improvvisamente infastidita, afferrò entrambe le redini con la mano destra, mentre controllava il suo braccio sinistro.
Poco sopra i segni che già aveva da quella mattina, si allargava una striscia rossa.
Il sangue le bagnò la mano.
Ci aveva messo troppo a montare in sella al cavallo.
Strappò una striscia di stoffa dalla parte inferiore del corpetto e trattenne un grido di dolore quando, dopo essersela avvolta intorno al braccio a coprire la ferita e tenendone un’estremità con i denti, tirò forte con l’altra mano.
Miracolosamente nel frattempo il cavallo non l’aveva disarcionata.
Riafferrò le redini, il braccio che ancora le bruciava, e spronò ancora l’animale a procedere più velocemente.

La sua corsa verso l’ignoto terminò in una radura circondata da alberi altissimi. All’estremità dello spiazzo attendeva un uomo.
Evelyn non poteva intravedere i suoi lineamenti e anche la corporatura le veniva celata dal mantello scuro che indossava.
Tirò le redini e si fermò.
<< Ti conviene scendere dal cavallo >> disse l’uomo, muovendo un passo avanti.
Se le avessero chiesto il perché non avrebbe saputo dare una risposta ma Evelyn si disse che era vero.
Non poteva scappare.
Smontò e fece anche lei qualche passo avanti.
<< Che cosa vuoi da me? >> chiese abbastanza forte perché lui potesse udirla.
<< Vendetta >> rispose l’uomo. E un lampo gli illuminò i canini affilati scoperti in un ghigno.
Iniziò a camminare verso di lei.
La giovane si guardò intorno, facendo ancora una volta appello al suo istinto.
Trovò quello che cercava a una ventina di passi da lei.
Chi era che si stava divertendo a giocare con lei?
Mettendola prima in pericolo e poi offrendole una possibilità di salvarsi la vita?
Non sapeva se ce l’avrebbe fatta a raggiungere quel punto lontano una ventina di passi, magari correndo solo dieci, prima che lui raggiungesse lei, ma provò lo stesso.
Scattarono entrambi nello stesso istante.
Evelyn sentì la fitta straziante alle ginocchia, già doloranti per le cadute, ma sapeva che sarebbe arrivata.
Corsero insieme.
Dopo averla raggiunta, l’uomo la assalì, ma lei fu più veloce. Si lasciò cadere all’indietro, reggendosi con la mano sinistra, sopportando anche quell’altra ondata di dolore, per non finire supina, e portandosi il braccio destro dietro la schiena estrasse senza difficoltà la spada dal terreno, che distava un passo, dietro di lei.


17. IL RITORNO DELLE OMBRE
II PARTE
(La danza della morte)


<< Non so dirle se ha delle capacità, nemmeno ci prova. Quando le arriva la palla si limita a spostarsi, o a volte se la prende pure addosso >> disse la donna in pantaloncini e col fischietto appeso al collo.
L’uomo si voltò verso la bambina che seguiva la scena senza aprir bocca, impassibile.
<< Devi sempre ottenere quello che vuoi, vero? >> le disse.
Nessuna risposta.
L’uomo sbuffò, esasperato, poi tornò a rivolgersi alla donna col fischietto << Sa indicarmi una società di scherma, possibilmente sempre qui ad Aberdeen? >>.
In quell’istante una schiacciata male indirizzata spedì una palla a velocità dritta verso la bambina.
La piccola Evelyn la rimandò indietro con un bagher eseguito alla perfezione.
<< Ma… >> balbettò la donna.
<< Lasci stare. Vuole fare scherma >> la zittì il padre di Evelyn.

La lama disegnò un arco nell’aria, sopra la testa di Evelyn, per poi finire sulla spalla del suo aggressore.
Con un leggero gemito l’uomo si allontanò da lei, lasciandole giusto lo spazio per sgusciare via, senza però scomporsi più di tanto, come se il colpo gli avesse fatto il solletico.
La ragazza, sconvolta, si portò a una distanza ragionevole, mentre la risata dell’altro sovrastava lo scrosciare della pioggia.
Se lungo il tuo cammino t’imbatti in un immortale, sei perduto.
<< Che cosa credi di fare con quella? >> urlò allargando le braccia.
<< E tu cosa credi di fare senza di questa? >> gli gridò lei, ostentando una sicurezza che iniziava già a venir meno, girando il polso e facendo ruotare la spada di 360 gradi.
Da qualche parte aveva letto qualcosa come “intimidire il nemico”; fu divertente ma quello non sembrò per niente intimidito.
Dopotutto con un colpo nel quale aveva impresso tutta la sua forza, l’aveva in pratica graffiato e basta.
<< E va bene, alla pari! >> urlò, e in mano gli comparve una spada che per un momento sconcertò Evelyn.
Poi assunsero la posizione di guardia.
Non cercare riparo alcuno, che sia porta sprangata o chiesa.
Iniziarono a girare in tondo, riproducendo una versione più piccola del cerchio che era la forma della radura, senza perdersi di vista.
Con un movimento fulmineo del polso l’uomo colpì la spada di Evelyn sollevandola; lei fu rapida a spostarsi lateralmente per sfilarla dalla presa dell’altra arma e lo attaccò al fianco.
Il colpo fu parato alla perfezione.
L’uomo fece ruotare entrambe le armi, costringendola ad assecondare il suo movimento per non perdere di mano l’arma, per disorientarla, e affondò dritto al cuore.
Evelyn, prevedendo la mossa, si abbassò fulminea e con un calcio gli falciò le caviglie mandandolo al tappeto, poi colse il momento per sollevare la spada e puntare al petto del nemico, che rotolò di lato e si rialzò.
Ebbe inizio il duello vero e proprio.
Tra fendenti e parate, in una danza mortale, di eleganza e letalità, Evelyn si procurò non pochi graffi, ma allo stesso tempo stupì il suo avversario.
<< E io che credevo che non sarebbe stato divertente! >> esclamò con una risata l’uomo, puntando al ventre della ragazza con un colpo di striscio.
Evelyn parò e seguì lo slancio della spada nemica scartando di lato all’improvviso e contrattaccando con un affondo.
Quello fu colto di sorpresa, trascinato dalla forza che aveva impresso al precedente colpo, e l’attacco della ragazza gli strappò la stoffa che gli avvolgeva il petto e qualche goccia di sangue.
Non sperare che la più sanguinaria delle spade possa scalfirlo.
L’uomo si bloccò e la guardò con occhi indemoniati.
Evelyn portò la spada all’altezza del petto per ripararsi, ma la forza del suo nemico era troppa e la sua troppo poca, così per evitare di ferirsi dovette gettarsi all’indietro.
Una volta a terra perse la spada e vide la lama, illuminata dalla luce argentea dell’ennesimo fulmine, puntarle dritta al cuore.
Non illuderti che il giorno possa proteggerti con la sua luce.
<< No puoi nulla contro un immortale >> ruggì l’uomo.
Evelyn ebbe appena il tempo di rotolare di lato per evitare il colpo, ma la spada deviò la sua direzione, e lei non fu abbastanza veloce da schivarla di nuovo.
Se lungo il tuo cammino t’imbatti in un immortale, sei perduto.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Di rose e di marmo ***


18. Di rose e di marmo


Ad Alexander non era piaciuta per niente l’idea di doversi allontanare da Evelyn. Nonostante fosse solo per proteggerla, l’ansia gli opprimeva il petto.
Quella ragazza, inconsapevole vittima di un odio che non le apparteneva, all’oscuro della verità, troppo dolorosa e assurda perché lei potesse esserne messa al corrente, senza sospettare nulla, era la preda di una caccia che le era ricaduta addosso per colpa di chi, quando lei non era ancora venuta al mondo, era stato tanto incosciente da essere parte di un peccato troppo grave.
E adesso era da sola con il suo talento di cacciarsi nei guai e nessuno a farle da guardia.
Perché le sue guardie erano in missione per difenderla, ma erano partite tutte all’assalto, lasciandola nella fortezza, senza protezione.
E che cos’è una fortezza senza guardie?
Poteva davvero proteggerla?
Avevano creduto di sì, invece lei da qualche parte stava rischiando la vita.
Il rumore della roccia che si frantumava squarciò il silenzio.
Tra i blocchi di pietra che erano precipitati al suolo, l’uomo che era precipitato con loro si alzò.
Con le ferite che grondavano sangue, il volto tumefatto e il dolore che gli costò piegare le labbra, sorrise << Avete commesso un errore >> disse scoppiando a ridere; la risata dei disperati che sanno di andare a morire.
<< Dimmi dov’è, e ti donerò una fine veloce >> ruggì Alexander.
L’essere morente accasciato per terra rise ancora.
<< Forse non ho reso bene il concetto, quando parlo di una fine lenta e dolorosa… >> sibilò allora avvicinandosi.
Si abbassò per afferrarlo per i vestiti, o quel che ne era rimasto, e sollevarlo.
<< …Non puoi nemmeno immaginare cosa ti aspetta >> aggiunse, un attimo prima di scagliarlo con inaudita forza contro le rocce, ancora una volta.
Ma quello non ne voleva sapere di parlare.
Allora Alexander s’inginocchiò all’altezza del suo viso e gli mostrò qualcosa che gli brillava nel palmo della mano, poi fece per avvicinarsi.
E quello finalmente mostrò il terrore che stava provando. << Nel bosco! >>.
Arrestò la mano a un millimetro dal suo viso, il fuoco che si spegneva.
<< Non l’hanno portata da nessuna parte, è ancora lì, per ora >> confessò in tutta fretta.
Dopo avergli concesso ciò che gli aveva promesso, Alexander iniziò a correre, mentre anche gli altri lo raggiungevano.
Nell’illusione di poterla raggiungere in tempo.
Lei che era a un passo dalla morte.
Il gatto, per andare a caccia di un solo topo, aveva commesso un errore… aveva lasciato che gli altri potessero ballare.
Le sue speranze bruciavano, assieme alla strada che consumava.
Era bastato un errore, e si erano fatti ingannare.
Alexander temeva che se non l’avesse trovata morta, sarebbe arrivato in tempo solo per vederla morire.
Dopo un’eternità furono finalmente accolti dal bosco e dalla sua oscurità.
L’acqua continuava a cadere e il forte odore di terra bagnata rendeva un’ardua impresa seguire la traccia di Evelyn.
Dopo minuti e minuti, che in quella tragedia si trasformavano in ore, arrivarono a una radura.
Era tardi.
L’aroma di terra e pioggia era inesistente lì, sovrastato da qualcosa di più forte.
Il profumo metallico del sangue impregnava ogni particella d’aria.
Alexander si avvicinò al centro dello spiazzo, consapevole e disperato, a osservare la macchia di sangue che presto la pioggia avrebbe portato via.
Alzò il viso al cielo e urlò; mentre acqua continuava a bagnare ciò che era rimasto di quel che avrebbe dovuto proteggere ad ogni costo.


Una voce melodiosa e triste le carezzava il viso mentre continuava a camminare, lenta, tra quei pilastri di marmo scuro.
<< Evelyn >>.
Sollevò gli occhi senza riuscire a intravedere le volte che ricoprivano la navata che stava percorrendo.
<< Evelyn >>.
Proseguì ancora; i piedi nudi sulla roccia fredda. Nell’aria un forte profumo di rose.
<< Vieni da me >>.
Una mano si tese dall’oscurità dinanzi a lei. Sagome iniziarono a profilarsi nel buio di quel luogo sconosciuto. Volti che non conosceva le sorrisero.
<< Vieni da noi >>.
Come resistere a quell’incantevole richiamo?
Affrettò il passo; sfiorò con la punta delle dita la mano che qualcuno le aveva teso e vide il volto della proprietaria uscire dall’ombra.
Una donna bellissima… e infinitamente triste. Piangeva.
Anche Evelyn si rattristò << Sono morta, mamma? >>.
Fu una voce diversa a risponderle, più roca e agitata.
<< Torna da me >>.
Ma la ragazza non voleva tornare.
Perché avrebbe dovuto? Per soffrire ancora?
Se fosse tornata indietro, cosa l’avrebbe aspettata poi?
<< Evelyn >> continuò a chiamarla qualcuno da lontano.
Era così tranquillo e incantevole quel posto di rose e marmo.
Non si sentiva fuori posto, infelice o sola.
Tornò a guardare sua madre. Le somigliava incredibilmente, solo che se lei in quel momento era serena, l’altra piangeva, in silenzio.
Forse non era solo marmo e rose la morte.
Forse non era quello il suo posto, ancora.
La voce continuava a chiamarla.
<< Ti prego >>.
Il sorriso di sua madre fu l’ultima cosa che vide, prima che tutto diventasse buio e lei tornasse alla vita, incerta se davvero potesse essere migliore della morte, che seppur fredda e dura come il marmo, profumava di rose.

<< Dannazione, non morire Evelyn! >> gridò Riley, mentre le sue speranze stavano ormai svanendo, insieme al battito cardiaco della ragazza che teneva tra le braccia.
<< Torna da me >> sussurrò poi, nell’ultimo, disperato tentativo di riportarla indietro.
Quando era arrivato in quella radura, convinto che fosse troppo tardi, l’aveva invece trovata bella e determinata come non mai; Evelyn aveva combattuto con tutte le sue forze, ma poi il nemico l’aveva sovrastata, padrone di una forza che lei non poteva contrastare, e lui non aveva fatto in tempo a impedire che la lama le lacerasse la carne.
La ferita, seppur non troppo profonda, si era aperta troppo vicina al cuore di lei. Cuore che in un istante sembrò concedere l’ultimo battito all’udito del ragazzo, prima di tacere per istati, o forse secoli.
<< Ti prego >>.
Le palpebre di Evelyn si mossero impercettibilmente, poi le sue labbra si dischiusero, conquistando un respiro.
Riley udì di nuovo i battiti del suo muscolo cardiaco e il frusciare della stoffa della propria camicia mentre lei la stringeva con la mano graffiata.
Sorrise, incredulo e felice, mentre la sollevava prendendola in braccio.
Si allontanò in fretta, udendo i passi affrettati di qualcuno che arrivava di corsa.


Quando, disperati e colpevoli, avevano visto arrivare Riley con Evelyn, ferita, ma pur sempre viva, tra le braccia, avevano avuto voglia di picchiarlo fino a ucciderlo e abbracciarlo allo stesso tempo.
Alla fine accantonarono la prima opzione realizzando che lui non poteva sapere che ad arrivare di corsa erano loro, e portandola via aveva fatto la cosa più saggia.
Mentre cedeva con una punta di riluttanza la ragazza, che si era addormentata da un pezzo, a chi si sarebbe prodigato per curarla, Riley si vide arrivare incontro Alexander.
<< Ti avevamo perso di vista, credevamo fossi rimasto indietro. Come hai fatto ad arrivare in tempo? >>.
Quello sorrise << Sono sempre stato più veloce di te >> rispose quasi canzonandolo.
Alexander ricambiò il sorriso, arrendendosi alla poca propensione del suo interlocutore a dargli un’effettiva risposta. << Che ne hai fatto? >> chiese poi, riferendosi all’aggressore di Evelyn.
Stavolta Riley non si degnò nemmeno di rispondere.
Guardarono la ragazza sparire al piano di sopra in braccio a Sebastian.
<< Credi che ti ringrazierà? >> cambiò discorso Alexander all’improvviso.
Scoppiarono entrambi a ridere, conoscendo benissimo la risposta.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Una goccia di verità ***


19. Una goccia di verità


Quando Evelyn aprì gli occhi fu assalita da una marea di pensieri.
La prima constatazione alla quale giunse era che le faceva male dappertutto. Cercò di sollevarsi, ma una fitta straziante al petto glielo impedì e ricadde con la testa sul cuscino.
Si voltò di lato e riconobbe l’abituale stanza a casa di sua zia Josephine. L’ambiente era fiocamente illuminato dal lume sul comodino accanto a lei.
Chi l’ha riportato? Si chiese, mentre i ricordi riaffioravano uno dopo l’altro in tutta la loro assurdità.
Non sapeva quanto tempo fosse passato dalla sera in cui le ombre erano tornate a farle visita.
<< Non sono pazza >> sussurrò. Sollevò di scatto il braccio sinistro e per un momento ebbe paura di trovarlo immacolato, senza neanche un graffio. Quando vide i segni rossi sorrise. Finalmente poteva provare a se stessa che non era follia.
Rivide sagome scure sfrecciarle davanti mentre correva, tronchi di alberi scorrere veloci, la terra farsi vorticosamente vicina mentre precipitava, gli occhi adirati di chi tentava di ucciderla mentre affondava con la spada vicino al suo cuore… la lama che volava distante mentre due figure che si aggredivano a vicenda; sentì quelle parole sussurrate che parlavano di abbandono e vendetta, il rumore dell’acciaio contro l’acciaio… la voce che la pregava di tornare indietro.
Era tutto così confuso… come se le mancassero alcune tessere del puzzle che erano stati gli avvenimenti di quella notte.
Di una cosa però era certa.
Era successo davvero.
<< Come ti senti? >>.
Evelyn volse lo sguardo alla fonte di quella voce.
Alexander si era già avvicinato e si stava accomodando su una sedia vicino al letto.
<< Benissimo >> gli rispose sarcastica.
<< Mi dispiace tanto >> disse lui con voce triste, allungando una mano a carezzarle i capelli << Se ti vedesse tuo padre… gli avevo giurato che ti avrei protetto e invece guarda che cosa ho fatto >>.
La ragazza rimase interdetta per un secondo, << Conosci mio padre? >>.
<< Conoscevo >> la corresse, facendole capire che non si riferiva a quello attuale << Eravamo molto uniti >>.
<< Io non conosco nemmeno il suo nome >> disse lei, malinconica.
<< Il suo nome era William, ma non spetta a me raccontarti questa storia >>.
Evelyn avrebbe volentieri obiettato, ma proprio quando si stava presentando l’occasione per avere finalmente un chiarimento fu colta da un’improvvisa stanchezza.
<< Adesso devi riposare, Ev >> le disse Alexander sorridendo con dolcezza.
Lo osservò uscire dalla stanza mentre chiudeva gli occhi e piombava in un sonno profondo e privo di sogni.

Si destò dopo ore, contrariata. Quando spalancò gli occhi si rese conto di quanto poco le fosse mancata la luce del sole. L’aveva da sempre infastidita.
Da quando era arrivata a Landry aveva piovuto quasi ogni giorno, e il grigiore del brutto tempo non le era dispiaciuto.
Adesso la stanza era invasa da riverberi dorati che le illuminavano gli occhi e i capelli di riflessi rossastri, una caratteristica del suo aspetto che nascondeva spesso e volentieri.
<< Allora in fondo un po’ somigli anche a lui >> le giunse la voce di sua zia, la quale stava ammirando le ciocche rossicce della sua capigliatura normalmente castana.
<< E come potrei mai sapere se gli somiglio? Mio padre non è mai esistito per me… non una parola su di lui, non una descrizione, né una fotografia >>.
Sua zia si accomodò sulla sponda del letto << E come sapevi che mi riferivo a lui? >>.
Evelyn non si disturbò di aprir bocca per dare una risposta già ovvia.
Che avesse i capelli rossi era l’unica cosa che sapeva di lui. Lo aveva origliato l’unica volta che aveva beccato sua nonna parlare di lui, ma quando aveva capito che la conversazione era volta a tutt’altro che elogiarlo non aveva voluto più sentire ed era corsa via.
<< Tuo padre si chiamava William DeMordrey e da lui hai ereditato tutto il tuo talento di cacciarti nei guai >>.
<< Ancora con questa storia. Potrei sapere che ho fatto? >>.
<< Innanzitutto la scorsa notte hai avuto la geniale idea di scappare da sola nel bosco piuttosto che correre da noi >>.
A quelle parole Evelyn avvertì le lacrime pungerle gli occhi e si voltò perché sua zia non lo vedesse. Come osava rimproverarle una cosa simile, lei che non sapeva niente di quel che aveva passato e del motivo che l’aveva spinta a fuggire?
<< Vuoi ascoltare una storia, mia piccola Ev? >>.
La ragazza ricacciò indietro le lacrime ma non parlò.
Cercò lo sguardo di sua zia e lo trovò rivolto alla finestra, perso in ricordi lontani.
<< William DeMordrey era un bellissimo ventenne sconsiderato. Non si curava di nulla, aveva una vita spensierata… e solitaria; non che le donne gli mancassero, ma non aveva legami che potessero sfiorare il romanticismo. Finché non arrivò lei. Giudith White era una giovane timida e sensibile; in sostanza l’opposto di Will. Tu credi nell’amore a prima vista? >>.
<< No >> rispose istintivamente Evelyn, << Finora >> aggiunse poi, prospettando come avrebbe proseguito la storia.
<< Si videro per la prima volta a un compleanno di Constantine. Sì, mentii quando ti dissi che mio marito non aveva più avuto rapporti con la sua, nonché tua, famiglia. Giudith non mancava mai a compleanni e anniversari, mentre William li dimenticava quasi tutti; quella sera però per la prima volta erano presenti entrambi e da allora non poterono più separarsi >>.
Evelyn osservò nella sua mente la donna bellissima che aveva visto la notte in cui aveva rischiato di morire fare il suo ingresso in un salone addobbato, con un vestito magnifico e magari i capelli acconciati, e un uomo dai capelli rossi incrociare lo sguardo di lei e avvicinarsi, invitarla a ballare.
<< Perché la mia famiglia non approvava? >>.
<< A causa dello stesso motivo per il quale non aveva accettato me… Giravano… delle voci >> terminò la frase abbassando lo sguardo.
Evelyn intuì che se l’avesse guardata negli occhi vi avrebbe letto un’infinita sofferenza.
<< Giudith però non aveva attirato solo l’attenzione di William e per proteggerla lui si mise contro le persone sbagliate, dovettero lasciare questo posto. Qualche anno dopo arrivasti tu… ma i nemici di tuo padre non si erano rassegnati >>.
<< Non c’è mai stato nessun incidente >> pronunciò Evelyn mentre una lacrima la scivolava sulla guancia.
<< I tuoi genitori si sacrificarono per salvarti. Hai mai sentito dire “la vendetta è un piatto che va consumato freddo”? >>.
Evelyn non riuscì a trattenere un singhiozzo.
<< Ti abbiamo sempre protetta, sin da quando eri bambina, fino a oggi >>.
Ormai la ragazza piangeva senza ritegno.
<< So che ti ho dato più dubbi che certezze >> disse la donna mentre sfiorava una guancia della ragazza con una carezza << Ma ti prego di credermi, non puoi sapere altro. Per il tuo bene Evelyn >>.
La ragazza non disse nulla. Si voltò su un fianco reprimendo un urlo di dolore per la fitta al petto e affondò il viso nel cuscino.
Non sapeva neanche perché stesse piangendo, se per la storia dei suoi genitori o se per i dubbi che doveva patire. Non le era dato sapere nemmeno chi fossero gli assassini dei suoi genitori, che per anni avevano dato la caccia anche a lei e che la scorsa notte erano stati a un passo dal gustare il loro piatto freddo.
Che cosa dovevano vendicare?
E poi c’erano le ombre…
La vera ansia che tormentava Evelyn in realtà era quanto di quella storia appartenesse alla realtà che conosceva… e quanto invece facesse parte di un mondo al quale per il suo bene, come aveva detto sua zia, lei non doveva nemmeno osare avvicinarsi.
Ma non poteva accontentarsi di quella misera goccia di verità.
Si disse che le risposte sarebbero arrivate da sole o le avrebbe cercate lei stessa, perché per quanto inconcepibile potesse essere ciò che volevano tenerle nascosto lei aveva bisogno di saperlo lo stesso.

Il giorno seguente pioveva e faceva talmente tanto freddo che Sebastian alla fine aveva acceso il camino della stanza e Rose aveva rivestito il letto con altre coperte.
Nel pomeriggio Sophie fece irruzione nella stanza portando con sé la sua sconfinata allegria e un rifornimento di libri perché Evelyn non si annoiasse quando era sola.
<< Non sapevo quale fosse il genere di lettura che preferivi, quindi ti ho portato un po’ di tutto >> esordì cercando di collocare tutti i libri sul comodino.
<< Sei un tesoro Sophie >>.
<< Come ti senti? >> le chiese sedendosi accanto al letto.
<< Speranzosa di potermi alzare presto >>.
<< Il dottore cos’ha detto? >>.
<< Non… io non… non ci ho parlato >> balbettò la convalescente cercando di mascherare il tremore della voce.
Era a conoscenza delle sue condizioni di salute solo approssimativamente. Sapeva che si era stirata qualcosa, probabilmente un paio di tendini delle gambe, e per questo non poteva alzarsi; poi aveva una ferita al petto. Ferita che non aveva nemmeno voluto guardare.
Sophie non riuscì a trattenere una risata << Hai paura del dottore, Ev? >>.
<< No! E anche se fosse, non vedo cosa possa esserci di divertente >> rispose adombrandosi.
<< Guarda che non sei moribonda, ti servono solo un paio di giorni di riposo >>.
<< Mi hanno ricucito? >>.
<< Non posso credere che tu non abbia nemmeno dato un’occhiata… Paura degli aghi? >>.
Evelyn cercò di trattenere un conato di vomito.
<< Ah, terrore profondo. Sta tranquilla non sei stata “ricucita” >> le disse allora Sophie con apprensione, che a quel punto aveva capito che era meglio evitare il discorso riguardante le sue condizioni di salute; dopotutto era andata a trovarla per distrarla e per tutto il pomeriggio la tenne impegnata parlando del più e del meno.

Quando ormai era sceso il buio Josephine andò a chiamare Sophie, offrendosi di riaccompagnarla a casa dal momento che doveva comunque uscire per sbrigare delle commissioni.
<< Torno a trovarti presto >> disse la ragazza a Evelyn chinandosi per salutarla con un bacio sulla guancia.
<< Ti aspetto >> le rispose sorridendo.
Rimasta sola cominciò a esaminare i titoli dei libri sul comodino, alla ricerca di qualcosa per passare il tempo.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Dopo Ginevra e Francesca ***


20. Dopo Ginevra e Francesca


La Divina Commedia era una delle letture che preferiva.
Ormai da un’ora era immersa nell’Inferno Dantesco, quando sentì la porta schiudersi.
<< Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta… e ‘l mondo ancor m’offende >>.
Evelyn sollevò con calma lo sguardo.
<< Amor ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona >>.
Quella voce era suadente e dolce come la ricordava, quando l’aveva implorata di vivere.
<< Amor condusse noi ad una morte… Caina attende chi a vita ci spense >>.
Riley si chiuse la porta alle spalle. Continuò a camminare lentamente e a recitare i versi che chiaramente conosceva a memoria.
<< Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria >>.
Si accostò al letto, una spalla poggiata alla colonna del baldacchino.
<< Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancillotto come amor lo strinse. Soli eravamo e senza alcun sospetto >>.
Evelyn chiuse il libro che aveva tra le mani, continuando ad ascoltare, senza aver alcun bisogno di verificare sulle pagine.
<< Ma solo un punto fu quel che ci vinse… Quando leggemmo il disiato riso esser baciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi baciò tutto tremante >> Continuò Riley.
<< Galeotto fu il libro e chi lo scrisse. Quel giorno più non vi leggemmo avante >> Finì Evelyn al posto suo parlando per la prima volta da quando lui era entrato nella stanza.
Il ragazzo sorrise, senza smettere di guardarla << Lettura leggera? >>.
<< Direi di sì >> rispose allungando il braccio per posare il tomo sul comodino.
Riley si mosse velocemente e in un attimo fu davanti a lei per bloccarle delicatamente il polso. Si sedette sulla sedia accanto al letto << Diciottesimo canto, pagina centonovantasei >> disse senza smettere di sorridere.
<< I seduttori >> costatò lei aprendo il libro e cercando con scarsi risultati di non mostrarsi stupita << Sei un ammiratore di Giasone? Oppure è qui che ti collochi? >> lo provocò.
Riley rise << No, non solo lì >>.
<< Ivi con segni e con parole ornate Isifile ingannò, la giovinetta che prima  avea tutte l’altre ingannate >> Lesse a voce alta Evelyn.
<< Lasciolla quivi, gravida, soletta; tal colpa a tal martiro lui condanna, e anche Medea si fa vendetta. Con lui sen va chi da tal parte inganna >> Continuò il ragazzo senza guardare le pagine.
Evelyn si ritrovò a fissarlo.
I capelli dorati illuminati dal camino alle sue spalle, le ciglia lunghe e scure a sottolineargli il colore fin troppo acceso degli occhi, le labbra dischiuse in un sorriso come sempre.
<< Grazie per avermi salvato, Riley >> se ne uscì all’improvviso.
Lui non riuscì a mascherare il suo stupore. Non credeva che lo avrebbe ringraziato.
<< Anche se non sembra, anch’io ho un cuore >> aggiunse sorridendo, avendo notato la sua espressione.
<< Lo so benissimo >> rispose allora lui quasi senza lasciarle finire la frase.
Evelyn si meravigliò del tono sincero nella voce di Riley.
<< Puoi nasconderti da chi vuoi, ma non da me >> continuò lui.
<< E che cosa dovrei nascondere? >>.
<< Quello che provi, in ogni istante >> rispose avvicinandosi al viso di lei << Ora, per esempio, sei nervosa >> le disse con un sorriso provocatore.
Se solo ti allontanassi, non lo sarei, pensò la ragazza.
Ma in realtà che si allontanasse era l’ultima cosa che voleva… e lui, a dimostrazione di quel che aveva detto, sembrò capirlo.
Senza smettere di sogghignare avvicinò pericolosamente le sue labbra a quelle di lei.
Solo che Riley non era l’unico a sapere giocare.
Evelyn lasciò che la sfiorasse appena, prima di allontanarsi da lui e lasciarsi sfuggire, in apparenza involontariamente, una risata.
<< Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe ond’io non ebbi mai la lingua stucca… pagina duecento, gli Adulatori >> disse la spietata ragazza al suo interlocutore inappagato, ma divertito.
Lo stava accusando del peccato dell’adulazione? O si stava dichiarando lei stessa colpevole?
Colpevole di avergli sottratto l’oggetto dei suoi ineluttabili desideri: Lei.
La ragazza che era arrivata a sconvolgergli la vita, del tutto ignara d’esser desiderata.
Riley era bello, affascinante e forse anche intelligente, dietro quella maschera da idiota. In più le aveva salvato la vita.
Ma lei era Evelyn DeMordrey, e farsi desiderare, mettere alla prova chiunque le si avvicinasse, farlo penare prima di concedergli anche solo una briciola d’approvazione, era semplicemente insito nella sua natura e nel suo caratteraccio.

Quando quel giorno l’aveva rivista dopo anni, arrabbiata, in quella stazione ferroviaria deserta, a bagnarsi sotto la pioggia, Riley non l’aveva nemmeno riconosciuta.
Non ricordava il suo nome.
Era cresciuta e diventata una bella ragazza, o forse già donna, per quel che le leggeva negli occhi… rabbia, paura, solitudine e tanta forza per andare comunque avanti.
Erano passati quattordici anni dopotutto, da quella notte in cui suo padre gliel’aveva affidata perché la portasse via, in salvo e lontano da quegli assassini che alla fine avevano avuto la meglio su di lui e sua moglie, rimasti a morire purché la loro bambina vivesse.
Adesso lei non aveva più tre anni ma diciassette, e lui sempre diciannove.
Non sapeva se a suscitargli quel desiderio di averla fosse stato il ricordo di conoscerla già, o semplicemente ciò che era, i suoi modi da apatica che invece nascondeva mille emozioni dietro quella maledetta corazza che si ostinava a tenersi addosso. Per proteggersi da cosa non avrebbe saputo dirlo; forse aveva solo paura di amare, o di essere amata e poi delusa.
Sapeva solo che se tutto quel che c’era in mezzo a loro, assassini che le davano la caccia e realtà che lei nemmeno immaginava, non li avrebbe separati irreversibilmente, un giorno le avrebbe tolto quella maschera di indifferenza e sarebbe stata sua, magari anche felice.
L’avrebbe conquistata come Lancillotto ci era riuscito con Ginevra, e dopo, grazie a quest’ultimo, Paolo con Francesca.
In fondo l’aveva salvata due volte, ed era il minimo che potesse avere in cambio.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Stallo ***


21. Stallo


Passavano altri giorni, indolenti e piovosi.
Evelyn li trascorreva per lo più immersa nella lettura, come anche quando era stata in ottima salute. Era alle prime pagine di un romanzo medievale, dopo averne già trangugiati tre.
Con l’aiuto di Sophie, per quanto la convalescenza glielo concedesse, stava anche iniziando a prendere confidenza con un pianoforte che aveva scovato in una stanza attigua alla biblioteca. Non che stesse facendo chissà quali progressi, riusciva a eseguire solo la Ninnananna di Brahms, ma sentire quelle note limpide e avere la consapevolezza di essere stata lei a produrle le suscitava una curiosa soddisfazione.
A volte le tenevano compagnia anche Sebastian, che si era rivelata una delle poche persone al mondo in grado di batterla a scacchi, e Rose, che si era innamorata dei suoi capelli e ci sperimentava sopra acconciature inconcepibili, e nel frattempo le regalava perle di saggezza del Galateo.
Susan di tanto in tanto accompagnava Grisham, che nonostante si dimostrasse più attivo del solito non la infastidiva per niente.
Alexander le faceva visita più raramente, ma lei era comunque felicissima di vederlo. Ogni volta le portava una rosa di un colore diverso, avendo scoperto la sua passione per quei fiori.
L’unico che non si era più fatto vedere era Riley.
Quella sera in cui le aveva dedicato versi di raffinata letteratura, forse per stanchezza o semplicemente grazie all’accoppiata di rime poetiche e voce armoniosa di lui, si era addormentata, e non si erano nemmeno salutati.
Evelyn si malediceva ogni volta che, dopo che sua zia le aveva annunciato che aveva visite, rimaneva delusa nel veder apparire alla porta della sua camera qualcun altro che non fosse lui.
Senza sapere perché, voleva rivederlo.

Quella mattina non pioveva, ma non c’era nemmeno il sole.
<< Stallo >> dichiarò Sebastian, soddisfatto, con ancora il cavallo tra l’indice e il pollice.
Evelyn si decise a scollare lo sguardo dalla finestra per guardare la scacchiera sul copriletto, accanto alle sue gambe.
Il suo Re era dove l’aveva lasciato, ma Sebastian l’aveva bloccato con le sue pedine.
Stallo. Una sorta di parità, nel gioco degli scacchi, o comunque un punto del gioco in cui era difficile proseguire.
Qualunque mossa lei avesse fatto il Re sarebbe caduto tra le fauci dei pezzi del suo avversario. Eppure le erano rimasti ancora un alfiere e un pedone.
Per un momento pensò di essere quel Re, circondato da un’immensa scacchiera, eppure costretto in poche caselle, in trappola.
Circondata da un mondo sconosciuto, da esplorare… eppure bloccata in quella casa.
A un passo dalla verità che avrebbe potuto dare un significato a tutto ciò che era successo nella sua vita… eppure se avesse fatto un solo passo verso di essa sarebbe caduta sotto scacco matto, preda delle pedine nemiche.
Quando Sebastian però fece per riordinare i pezzi sulla scacchiera per iniziare un’altra partita, lei lo fermò.
Mosse l’alfiere in verticale per mangiare la torre e nel frattempo fece indietreggiare il cavallo nemico, che cadde in preda al pedone rimasto in disparte fino a quel momento.
Altre tre mosse ed Evelyn dichiarò scacco matto al Re del suo avversario con l’alfiere.
<< Caspita, non ci avevo fatto caso >> disse Sebastian, impressionato, mentre ricomponeva la scacchiera.
Evelyn sorrise, << Tre a uno per me >> esultò mentre guardava di nuovo fuori dalla finestra.
Forse non doveva perdere le speranze; poteva liberarsi dalle pedine nemiche che le impedivano di muoversi.
Se solo un alfiere fosse corso in suo aiuto.

Le mancava una carta per completare il suo tris di regine, Sebastian aveva insistito per mettere da parte la scacchiera all’ottava vittoria di lei, quando sua zia entrò nella stanza.
<< Bass ti spiacerebbe andare a prendere la jeep? Ho delle cose da sbrigare in città >> esordì mentre gli spiava le carte.
Mentre lui si alzava Evelyn pescò dal mazzo << Quaranta >> disse calando le sue carte << Ho vinto >>.
Sebastian alzò gli occhi al cielo simulando un’espressione esasperata, mentre Evelyn rideva guardandolo uscire dalla porta.
<< Ti senti meglio? >> le chiese dolcemente Josephine.
<< Le vittorie sono sempre ritempranti >> scherzò la ragazza.
<< Ti conviene guarire in fretta. Convalescente o meno, tra una settimana c’è un evento al quale devi prendere parte >> disse l’altra con un sorriso smagliante.
<< Di che parli? >> chiese Evelyn, cercando di far passare il suo fastidio per curiosità. Non aveva voglia di prender parte a nessuna cerimonia.
Proprio in quel momento il viso di Rose fece capolino dalla porta << E’ arrivato il dottor Newton >>.
<< Fallo salire >> rispose Josephine.
Evelyn dimenticò gli scacchi, le carte e qualsivoglia evento la aspettasse.
Non riuscì nemmeno a soffocare un gemito.
Sua zia evitò di ridere di quel suo irrazionale terrore e si accomodò accanto a lei per sostenerla mentre il medico la esaminava.

Durante la visita Evelyn non riuscì a evitare di guardare lo specchio di fronte a lei, come aveva invece fatto tutte le precedenti volte.
Restò sbalordita nel vedere che non c’era ombra di ferita alcuna; eppure il dolore c’era stato, all’inizio perfino insopportabile.
Certo lei non aveva esperienza nel campo. Riusciva a infortunarsi e farsi del male notevolmente spesso e nei modi più assurdi e insensati, ma non le restavano quasi mai dei segni visibili.
Salvo quando era bambina e la notte le ombre popolavano i suoi incubi… la mattina seguente si ritrovava coperta di graffi.
Era come se le sue ferite si sanassero fin troppo in fretta, o addirittura non si procurasse nemmeno un graffietto, nonostante il dolore che certe cadute le provocavano.
Non si era mai scomodata di porsi delle domande, fino a quel momento.
Quando il dottore le lasciò, cercò subito di parlare ma sua zia riuscì ad anticiparla lo stesso << Hai sentito? Già da domani potrai passare meno tempo a letto. Possiamo iniziare a cercarti qualcosa da indossare >>.
<< E se non avessi voglia di venire? >>.
Josephine rise << Smetti di fare i capricci Ev. Adesso devo proprio andare… riposa un altro po’, così quando torno vediamo quale colore ti dona di più >>. Non le diede il tempo di replicare che si avviò a passo di marcia alla porta. Quando la raggiunse però si bloccò << Oh! Quasi dimenticavo… >> fece dietrofront e si avvicinò porgendole un foglietto ripiegato << Un messaggio per te >>. Sorrise e sparì dalla stanza.
Quando Evelyn aprì il biglietto si chiese se non fosse stato il caso di picchiarlo una volta per tutte e fargliela piantare di esasperarla a intermittenza.

Sono scomparso e ti ho dato un motivo per odiarmi di nuovo, perché lo so che ti manco, ma giuro che mi farò perdonare.
Tuo adorato Riley

Seguiva la frase, disegnato in tutta la sua espressività, un omino che porgeva una rosa. Le strappò un sorriso.
Poi si disse che quel perdono glielo avrebbe fatto sudare.

<< Io direi blu >>.
<< Troppo scontato >>.
<< Magari con delle rifiniture indaco >>.
<< E’ proprio necessario? >>.
Sua zia le aveva dato prova di essere una donna di parola. Al suo ritorno, assieme a Dalia e Rose, aveva fatto irruzione nella sua camera, mentre lei era spensieratamente persa nel suo romanzo, portando con sé ritagli di stoffe ricamate di vario colore.
Nonostante avesse tentato in ogni modo di opporre resistenza, tanto alla scelta della tinta del suo abito quanto alla stessa conferma della sua partecipazione al misterioso evento, le tre tiranne glielo avevano impedito, e dopo averla derubata del libro, avevano aperto un animato dibattito su tutte le sfumature di ogni possibile colore.
<< Evelyn ti prego esprimiti! >> la supplicò sua zia, esasperata dalla sua protesta silenziosa.
<< Vuol dire che dovremo scegliere al posto vostro >> disse allora Rose.
La ragazza tacque.
<< Pesca >>.
<< E va bene! >> esclamò allora, inorridita da ciò che aveva appena sentito.
Dopo l’inutile valutazione di varie tinte molto accese e le proteste di sua zia che sosteneva fosse troppo giovane per indossarlo, Evelyn si impuntò per il nero, e ovviamente ottenne la licenza.

L’indomani la svegliarono prestissimo, il che limitò notevolmente la quantità di pazienza che era disposta a sfoderare con la sarta.
E siccome chi ben inizia è a metà dell’opera…
La suddetta maga dei merletti era una vecchina cronicamente tradizionalista e tanto minuta e rinsecchita quanto autorevole e pronta a stroncare ogni tentativo di apportare modifiche al modello canonico.
Seguirono giorni di guerra.
Evelyn e la suddetta sarta si scannavano per ogni piccolezza, dal numero di centimetri che dovevano separare ogni rifinitura di pizzo l’una dall’altra, alla distanza di ogni bottoncino che doveva chiudere l’abito sulla schiena.
Da aggiungere a tutto ciò i tentativi di Rose e Dalia di portare la pace, gli strilli di Evelyn a ogni singolo ago che le avvicinavano e le battute divertite di Alexander che aveva genialmente deciso di non perdersi nemmeno una prova del vestito.
<< E’ più in alto >>.
<< Ho rispettato le misure che ho applicato a tutti gli altri vestiti che ho realizzato in tutta la mia vita di sarta >>.
<< Avreste dovuto rispettare la misura che avevo stabilito io >>.
<< Io cucio da quando avevo dieci anni! Perché se no i miei fratelli morivano di fame… >> E ricominciava con la storia della famiglia povera e di come lei avesse fatto carriera grazie al suo talento.
<< Ma la misura è la stessa! >> interveniva Rose << Lo può testimoniare Alexander che ci vede di sicuro meglio di tutte noi messe assieme >>.
<< Testimonio >> si sbellicava quello.
<< Ma occhi di falco deve assistere per forza? Ci manca solo lui! >>.
<< Non c’è più tempo per sistemarlo, accontentati Ev >> tagliava corto Josephine.

Nonostante tutto ciò, forse perché sarà vero che le cose sofferte alla fine si rivelano migliori di quelle facili, il risultato stupì gli spettatori della faida tra la ragazzina innovatrice e la sarta antiprogressista.
<< E’ un vero peccato che tu abbia già un accompagnatore, mi sarei offerto volentieri >> disse Alexander mentre tenendola per mano la faceva girare su se stessa.
<< Se qualcuno desidera farmi da cavaliere prima dovrebbe degnarsi di propormelo >>.
Lui rise e si allontanò per far posto a sua zia che voleva vederla più da vicino.
<< Una principessa >> le disse con occhi adoranti.
<< Non solo non mi è dato sapere di che evento si tratti, non mi è concesso nemmeno di approvare o no il mio accompagnatore? >> chiese Evelyn, notando con un certo stupore quanto si stesse abituando a parlare come le persone che la circondavano.
<< E’ solo un ballo Evelyn >> rispose la donna, sorridendo.
Riguardo alla seconda parte del discorso nessun accenno, anche se Evelyn immaginava già chi sarebbe stata costretta a prendere a braccetto.

Mancava ancora qualche giorno alla tanto attesa serata ed Evelyn stava già molto meglio, quindi pensò di sfruttare il tempo libero che aveva a disposizione per le sue ricerche, giacché in mancanza di un qualsiasi aiutante aveva deciso di fare lei stessa, se non da alfiere, almeno da pedone.
Non fu difficile trovare un espediente per farsi accompagnare in città.
Era una grigia mattinata quando irruppe nel salone principale con fare preoccupato e i collant che avrebbe dovuto indossare sotto il vestito, appositamente strappati, tra le mani.
Solo che la sua fortuna era puntualmente da un’altra parte.
<< Ciao Evelyn >> la salutò Lisa, alzandosi dal divano e posando sul tavolo la tazza di thè fumante che stava sorseggiando.
Non l’aveva più vista dalla sera in cui era arrivata a Landry.
Era come se la ricordava, bella e superba.
<< Ciao Lisa >> rispose senza nascondere del tutto la sua poca felicità di trovarla lì.
<< Può farti compagnia in città >> esclamò Josephine in un improvvisa illuminazione d’intelligenza.
Evelyn sapeva che non l’avrebbe lasciata andare da sola, ma essere affidata a quella ragazza, che non si prendeva il disturbo di nasconderle l’antipatia che provava nei suoi confronti, le provocò un’ondata di rabbia e delusione.
<< Ma no, non è necessario, avrà di sicuro i suoi impegni >> azzardò con poche speranze di riuscire a togliersela dai piedi.
<< Nessun impegno >>. Infatti.

Per di più le toccò anche il sedile posteriore, mentre Lisa occupava quello davanti accanto a Sebastian.
Quando arrivarono in città, le lasciò dicendo che anche lui aveva delle commissioni da sbrigare.
La balia di turno iniziò subito a camminare, senza fare parola.
<< Dove stiamo andando? >> le chiese Evelyn seccata.
<< All’emporio, mi pare ovvio >>.
Stava cercando una scusa plausibile per deviare verso la sua reale meta, quando riconobbe due volti familiari avvicinarsi.
<< Gentili signore >> dissero in coro, salutandole con un inchino che rievocava la pura cavalleria.
Riconobbe i due che erano quasi finiti sotto la macchina di Riley, il giorno del suo arrivo.
Avrebbe ricambiato, se solo avesse saputo come rispondere al loro saluto.
<< Evelyn loro sono Matt e Colin >> glieli presentò Lisa, come se fosse stato un obbligo.
<< Ci conosciamo già >> esordì con un sorriso il moro dei due.
Solo in quell’istante lei si accorse che, non fosse stato per il colore di occhi e capelli, difficilmente li avrebbe distinti l’uno dall’altro.
Uno aveva capelli e occhi scurissimi, quasi neri, l’altro era biondo e aveva occhi turchesi, ma erano indubbiamente gemelli.
<< Come ti trovi qui? >> chiese l’altro in tono affabile.
<< Benissimo, grazie >> rispose istintivamente, come se impossibilitata a dire diversamente.
Notando gli sguardi che Evelyn e il biondo si stavano scambiando, Lisa s’intrufolò tempestivamente e monopolizzò la conversazione.
A Evelyn sembrò il momento perfetto per svignarsela.
<< Torno subito >> disse piano, più per potersi in futuro difendere da una possibile accusa di fuga, che per farsi sentire realmente.

L’ambiente era asfissiante e macabro come ricordava.
<< Che cosa stai cercando, ragazza? >> gracchiò la voce della proprietaria della bottega.
<< Dei libri >> rispose Evelyn alla vecchia con l’occhio di vetro.
<< Che libri? >> continuò quella, incamminandosi alla scala che portava alla passerella che permetteva l’accesso alla libreria soprastante.
<< Non ricordo i titoli, ma se li vedessi li riconoscerei >> mentì.
La seguì su per le scale e lungo la pedana; rimase sconcertata vedendola fermarsi proprio davanti allo scaffale che le interessava.
Allungò le mani rugose verso un ripiano e prese un libro con la copertina scura, senza titolo. Glielo porse << L’altro non posso dartelo >>.
Evelyn era imbambolata.
Poi l’anziana donna prese un altro tomo dalla tinta viola… la giovane ne riconobbe la scritta dorata. << Vuoi ritentare? >>.
Fu tentata di rifiutare, ma alla fine glielo tolse dalla mani e aprì al centro.
Meglio un’indolore bugia che una triste verità.
Evelyn non era d’accordo.
<< Quanto vi devo? >> chiese posando il libro dei proverbi e prendendo quello per il quale era lì.
<< Solo la promessa di farne buon uso >>.
<< E l’altro? Perché non posso averlo? >>.
<< Perché ci sono casi in cui il dolore della verità non è esclusivamente morale >>.
Quella frase le riportò in mente le parole di sua zia, “… per il tuo bene”.
<< Ora vattene! E’ già pericoloso che io ti abbia dato questo >> esclamò la vecchia indicando il grosso libro che la ragazza teneva in mano.

Quando uscì nel vicolo la pioggia la colse di sorpresa.
Infilò il libro nella borsa a tracolla e si diresse verso la strada principale.
Proprio quando ormai riusciva a intravedere Lisa che discuteva ancora con i gemelli, degli uomini nerboruti le sbarrarono la strada.
Erano intenti a scaricare delle casse da un carrozzone enorme, piazzato proprio davanti all’uscita della stradina, e a trasportarle dentro una porta buia che si apriva lì accanto.
<< Mi dispiace signorina, come vedete per il momento non potete passare >>.
<< Ma come vi viene in mente di chiudere la strada col vostro trabiccolo? >> replicò indignata.
<< Non c’era altro spazio per parcheggiarlo >> se ne uscì allargando le braccia e cercando di giustificarsi.
<< Quindi dovrei passarci sotto? >> continuò lei sarcastica.
<< Potete passare dalla strada qui accanto, non siete di qua? Volete che vi accompagni? >> si offrì.
<< Non vi disturbate, conosco la strada, grazie >> rispose girando i tacchi e tornando da dove era venuta.
Detestava passare per l’imbranata di turno e farsi soccorrere dalla gente. Non sarebbe stato difficile girare un angolo e prendere l’altra strada.
Certo non poteva sapere che girato l’angolo non ci sarebbe stata nessuna strada se non quella che portava da tutt’altra parte rispetto alla via principale, che invece era alla sua sinistra.
Di tornare a chiedere indicazioni più chiare non lo prese nemmeno in considerazione e, affidandosi al suo senso dell’orientamento, che aveva sempre ritenuto più che attendibile, si disse che proseguendo avrebbe sicuramente trovato l’uscita.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Il Cavaliere e la sua Dama ***


22. Il Cavaliere e la sua Dama


La pioggia continuava a scivolare tra le pareti odoranti di muffa che rinchiudevano Evelyn.
Aveva già percorso una ventina di metri e la strada continuava a mostrarsi prolungata e senza sbocchi alcuni; da entrambi i lati solo porte e finestre sbarrate.
Non riusciva nemmeno a vedere distintamente, a causa dei muri di pietra troppo alti perché la luce potesse penetrare a schiarire un po’ la nebbia che era giunta ad accompagnare il diluvio.
Rallentò e con una mano si raccolse i lunghi capelli inumiditi portandoseli tutti da un lato; era un gesto che compiva spesso e involontariamente, quando era nervosa.
Ormai non poteva più negare di essersi persa, e in vita sua non le era mai successo; come se tutto il suo senso dell’orientamento in quel posto non funzionasse.
Continuò a camminare, nonostante non vedesse neanche dove stesse mettendo i piedi, in quella strada completamente vuota.
La pioggia aveva preso a scrosciare più forte e le nuvole si erano fatte tanto scure da trasformare il grigiore in un’atmosfera quasi notturna.
La foschia non era tuttavia troppo densa da impedirle di distinguere una sagoma di fronte a lei, che consumava velocemente una trentina di passi di distanza.
Evelyn era certa che fino a pochi istanti prima non ci fosse nessuno oltre a lei.
Prima di seguire l’istinto di voltarsi e correre, cercò nel riflesso di una finestra buia la visuale della zona retrostante. Di sagome ce n’erano cinque, o almeno quelle era riuscita a contare prima di lanciarsi verso quella che le progrediva davanti.
Sempre meglio di cinque, se non di più, contro una.
Prima che ci si schiantasse contro, però, notò che alla sua destra le gocce di pioggia sospinte dal vento anziché infrangersi contro il muro, semplicemente sparivano; doveva esserci un’apertura che da lì ancora non riusciva a vedere.
Accelerò sperando di arrivarci prima che si scontrasse con chiunque stesse cercando di raggiungerla.
Sfuggendo chissà come alla mano che si era tesa per afferrarla, imboccò la via e continuò a correre.
Una serie di lampi, seguiti da boati che fecero tremare le pareti, illuminarono le pietre dei muri lucide d’acqua.
Il vento spazzava via il silenzio col suo ululato lugubre, ma lei riusciva ugualmente e sentire il proprio respiro affannato.
Il passaggio era talmente stretto che le spalle le strusciavano contro le pareti, limitandole i movimenti.
Sollevando lo sguardo per un istante vide il colore nero e argento del cielo.
Era come se tutto intorno a lei gridasse pericolo.
Quando intravide l’uscita del vicolo a pochi metri da lei, si mise di lato e con le spalle rivolte al muro per fare più in fretta e pochi passi laterali fu fuori.
Era circondata da una piazza non molto grande, e da altre sagome che si avvicinavano.
<< Ma da dove diavolo sbucano? >> esclamò prima di imboccare un’altra via a caso.
La stanchezza iniziava a farsi sentire e aveva anche freddo, essendo completamente bagnata, ma ringraziò la sua rabbia, che tante altre volte aveva maledetto, per la forza che le dava.
Le architetture decorate e slanciate le sfrecciavano davanti agli occhi insieme alle gocce di pioggia.
Poi l’ennesima via presa di fretta e senza pensarci si rivelò un vicolo cieco.
Non appena fu davanti al muro che chiudeva il passaggio, gli diede le spalle per guardare di fronte a lei. Poteva avere a stento dieci secondi di tempo per trovare una soluzione, prima che la raggiungessero.
Si guardò attorno, in ogni angolazione, e trovò qualcosa che poteva esserle utile proprio sopra la sua testa.
Quando ormai erano a pochi passi da lei, fece appello a tutta l’energia rimastale e, dopo essersi piegata fin quasi a toccare terra con le mani, si slanciò verso l’alto.
Le sue mani trovarono l’appiglio della trave che chissà perché era collocata lì, tra i due balconi ai lati della strada.
Prima di salirci sopra non volle però rinunciare alla soddisfazione di colpire due dei suoi inseguitori con un calcio, scagliandosi a velocità verso di loro con le gambe tese e mandandoli al tappeto.
Subito dopo s’issò sul piano appoggiandosi sulle mani e tirando su le gambe.
Calcolò la distanza e atterrò con un salto sul bordo del muro che prima le aveva sbarrato la corsa. Mise un piede nel vuoto e in una frazione di secondo fu dall’altra parte.
Si fermò a guardarsi indietro per costatare che la stessero ancora seguendo, ma evidentemente non potevano vantare la sua stessa agilità.

Il dolore si fece sentire all’improvviso, o meglio c’era stato anche prima, ma era miracolosamente riuscita a ignorarlo.
Non si era ancora rimessa del tutto; gli strappi muscolari che si era provocata quella notte nel bosco non erano guariti completamente.
Cercò di respirare con più calma ed escludere il pensiero del dolore.
Intorno a lei si disegnava il profilo circolare di una piazza abbastanza grande e deserta. Era recintata da un porticato di archi tripartiti, ricoperto di fiori dal colore acceso, che da quella distanza non riusciva a identificare.
Quando si avvicinò, incuriosita, notò che erano delle magnifiche rose rampicanti, rosse; il loro profumo aleggiava nell’aria insieme a quello metallico del bagnato.
Solo in un secondo momento, voltandosi distrattamente, Evelyn vide l’enorme costruzione che si stagliava proprio di fronte a lei.
Come avesse fatto a passare inosservata ai suoi occhi una cattedrale, non seppe spiegarselo.
Un po’ per ripararsi dalla pioggia, un po’ per la curiosità di scoprire se dentro fosse bella come all’esterno, si avviò al portone della chiesa.
Una volta entrata si passò le mani sugli occhi bagnati, godendosi il sollievo dell’aria calda e priva d’acqua. Il profumo delle rose non scomparve, ma era subordinato a quello più forte dell’incenso.
Evelyn pensò che fosse ancora più bella di come se l’aspettava.
Le volte a crociera erano a una considerevole distanza dal pavimento di marmo scuro, le colonne delle navate decorate da fregi floreali, l’illuminazione era fornita esclusivamente dalla luce dei fulmini che penetrava dalle alte vetrate dipinte di colori opachi.
Aveva iniziato a percorrere la corsia centrale, tra le panche ordinate, quando le giunse una voce proveniente dalla fine della navata.
<< Dunque eccola, la ragazza giunta nel paese dei dannati >>.
Quando fu sotto le tre scale che conducevano all’altare lo vide, un prete non troppo anziano, alto e con occhi di ghiaccio.
<< Dannata lei stessa per metà >>.
Evelyn non riuscì a comprendere quelle parole, ma le fecero paura.
Seguì la voce modulata dell’uomo il rumore del portone che si apriva, e lei non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di quello che accadeva.
La afferrò fulmineamente per un braccio e la trascinò fino a una porta dietro l’altare, senza che lei potesse divincolarsi. La spinse e prima di chiuderla dentro sussurrò con voce preoccupata: << Non fiatare >>.

Evelyn era sconcertata, e per un momento le girò la testa.
Si appoggiò al ripiano che le stava davanti per non cadere, e guardandosi le mani vide il libro che era a pochi centimetri da esse.
“I Custodi” era scritto in una calligrafia contorta sulla copertina bordeaux.
Senza una precisa ragione catturò tutti suoi pensieri, strappandoli persino da quel che stava succedendo oltre la porta.
Quando fece per aprirlo però le sue dita incontrarono la superficie fredda di un piccolo catenaccio dorato. Osservando meglio il bordo si accorse delle pagine che ne fuoriuscivano e ne sfilò una. Era stata chiaramente strappata da un altro libro.
Poi gli occhi le caddero su un altro volume sul tavolo, poco distante da quello. “Ordinamento dei Custodi” era scritto nella stessa grafia dell’altro; anche il colore della copertina era identico, l’unica differenza era la mancanza di una qualsiasi chiusura. Evelyn aprì una pagina a caso.

Harvey Brandon Wetmore.
Berlino 1709 - Mosca 1729.
Christopher Amadeus Von Ziegesar.
Casato Von Ziegesar.

*****

Margareth Stephanie De Butler.
Parigi 1630 – Dublino 1651.
Cedric Jackson Lennox.
Lignaggio Lennox

Scorrendo l’intera pagina con lo sguardo lesse solo altri nominativi, accompagnati da date di morti premature e da un altro appellativo, il quale cognome nella maggior parte dei casi combaciava col casato nobiliare scritto per ultimo.
Doveva essere un censimento… Ma di cosa? E perché per ogni registrato i nomi erano due? Evelyn voltò pagina.
Riuscì a leggere solamente il nome William che dovette chiudere il libro in tutta fretta, riscossa dai rumori oltre la porta.
<< Sappiamo che è qui >> disse una voce sconosciuta.
<< Di che cosa state parlando? >>, Evelyn riconobbe il timbro sinceramente stupito del prete.
<< La mezzosangue. E non fingete mio caro sacerdote, oppure vi ritroverete a dover affidare la vostra anima a Dio ancor prima di quanto pensiate >>.
<< Se siete venuti per portare scompiglio nella casa del Signore allora devo chiedervi di andarvene immediatamente >>.
<< Consegnatecela, e voi e la vostra chiesa rimarrete integri >>.
<< Come posso consegnarvi qualcosa che non possiedo? >>.
<< Se dite il vero e non la state nascondendo, non vi dispiacerà se diamo un’occhiata in giro >>.
<< Fate pure, uomini di poca fede >>.
Evelyn non udì altro se non una risata e l’eco di svariati passi.
Si guardò attorno in cerca di una via d’uscita, ma niente.
Quando sentì la porta schiudersi temette i peggio, ma il cuore riprese a batterle normalmente quando vide il volto del prete.
Si rese conto di avere ancora in mano il foglio che aveva trafugato dal libro, e l’unica cosa che le venne in mente di fare fu di accartocciarlo e nasconderlo nella tasca posteriore dei jeans.
Non era certa di potersi fidare di quell’uomo, ma, almeno in apparenza, stava cercando di proteggerla.
Dopotutto non era nemmeno tanto sicura che quegli uomini fossero gli stessi che la inseguivano e che fosse lei la ricercata in questione… Non sapeva nemmeno cosa significasse la parola 
“Mezzosangue”.
Il sacerdote sussurrò << Vattene >>, poi scomparve dalla sua vista e la porta si richiuse.
<< Che cosa state facendo? >> sentì gridare rabbiosamente un attimo dopo.
Non era stato abbastanza veloce, lo avevano visto parlare, e adesso l’avrebbero scoperta.
<< Controllavo solo di non aver dimenticato nessuna candela accesa! Non vorrei che prendesse fuoco il tappeto >> esclamò.
A Evelyn sembrò che stesse delirando, quelle parole non avevano senso.
Qualcuno si stava avvicinando alla porta, ne sentiva i passi, e non aveva la minima idea di cosa fare.
Poi si diede della stupida per non esserci arrivata prima. S’inginocchiò rapidamente e sollevò il tappeto, che l’istante prima era stato proprio sotto i suoi piedi, quel tanto che bastava per farci passare il braccio. Cercò con la mano e trovò la maniglia. La tirò più forte che poteva e la serratura cedette.
Scivolò sotto il coperchio della botola, ancora coperto dal tappeto, attenta a non farlo cadere, in modo che una volta richiusa fosse ricaduto a coprire il passaggio. Non voleva che qualcuno che l’aveva aiutata passasse guai, e se avessero scoperto quell’apertura, non solo l’avrebbero seguita, se la sarebbero presa anche con il prete, ne era certa. Aveva da sempre avuto un grande talento nel riconoscere la natura di chi le stava di fronte, anche solo da una frase, o a volte una parola, un gesto, uno sguardo. E chi era entrato in quella chiesa, e che evidentemente la stava cercando, non era tipo da scrupoli di coscienza.
Perché improvvisamente era certa che stessero cercando lei.
Glielo aveva suggerito il terrore che aveva provato quando aveva sentito i passi sopra la sua testa, seppur lievemente attutiti dalla stoffa del tappeto.
<< Qui non c’è >> disse quella voce che per lei restava senza volto.
<< Uomini di poca fede >> ripeté il suo salvatore, mentre gli uomini lo lasciavano solo nella sagrestia chiudendosi la porta alle spalle.
Evelyn aspettò che fosse lui ad aprire la botola.
Era su una scala strettissima, che portava chissà dove.
Non fece in tempo a chiederselo che arrivò la risposta, e non le piacque per niente.
<< Non puoi uscire da questa stanza, ti stanno ancora cercando. Scendi le scale, ti ritroverai nelle cripte sotterranee. Prosegui sempre dritto e arriverai al cimitero, da lì raggiungerai l’altra parte della città >> le disse subito dopo aver aperto il portello e senza nemmeno lasciarle mettere piede fuori.
<< Ma chi mi sta cercando? Chi sono quegli uomini? >> chiese lei.
Quello non rispose, si alzò e iniziò a frugare in un armadio.
Evelyn fu certa che nemmeno per quella volta avrebbe avuto una risposta.
<< Prendi >> le disse inginocchiandosi di nuovo e porgendole una lampada a olio accesa, alquanto vecchia << Sempre dritto, hai capito? >>.
<< Perché dovrei fidarmi di voi? >> chiese mentre prendeva in mano il reperto archeologico.
<< Se solo sapessi chi, anni fa, prendeva questa lampada dalle mie mani, come te adesso… >>.
<< Allora ditemelo >>.
<< Non c’è tempo, vai! >> esclamò lanciando uno sguardo preoccupato alla porta.
La ragazza pensò che in fondo non aveva scelta. Lo guardò negli occhi, e con la capacità naturale che aveva per scovare i sentimenti altrui, e nascondere i propri, vi lesse sincerità.
<< Grazie >> si sentì in dovere di dire Evelyn. Poi il coperchio si chiuse e lei iniziò a scendere, attenta a non inciampare.

Non era mai stata superstiziosa. Non credeva ai fantasmi e alle storielle che i suoi cugini le raccontavano per spaventarla.
Nemmeno però ne escludeva l’esistenza.
Semplicemente, una qualsiasi cosa per lei diventava vera solo dopo che l’aveva vista.
Non era nemmeno una fifona, di coraggio ne aveva da vendere. Vinceva sempre lei nelle sfide contro i suoi cugini, che dopo aver fatto tanto gli spocchiosi, si rivelavano sempre dei cacasotto, e lei si divertiva un mondo a urlargli dietro “vigliacchi” mentre a loro volta i suoi sfidanti gridavano di terrore, dichiarando di aver avvistato figure evanescenti, che alla fine si rivelavano sempre fronde di alberi o gatti di passaggio.
Ne aveva fatte di tutti i colori; gite notturne nel cimitero della sua città, gare di corsa nei boschi al buio, escursioni in case diroccate, abbandonate e presunte infestate, senza mai avere veramente paura.
Certo c’erano le ombre, ma non aveva mai considerato che potesse trattarsi di spiriti o roba simile.
Non era una fifona, era una ragazza forte.
Eppure in quel momento non c’era freddo, e lei tremava.
Quella lampada a olio faceva troppa poca luce.
Chi l’ha presa in mano, come me adesso, anni fa? Si chiese per distrarsi.
Un movimento alla sua destra la costrinse a indietreggiare. Sollevò il lume, non del tutto certa di voler vedere sul serio.
Il pipistrello continuò il suo volo disordinato.
Evelyn sospirò di sollievo, poi riprese a camminare. Tenendo la lampada leggermente più in alto poteva seguire il piccolo animale con lo sguardo e si concentrò sul suo volo a zigzag per non essere costretta a guardare l’oscurità, che a tratti sembrava mostrare qualcos’altro che in realtà non c’era.
La suggestione è pericolosa, quando si è in una cripta da soli al buio.
Dopo un’ora, passata a camminare in quel posto tetro che odorava di chiuso, Evelyn iniziò a vedere sempre più chiaramente sagome biancastre e movimenti ai margini del suo campo visivo. Aveva anche perso di vista il pipistrello, e non aveva nulla su cui focalizzare lo sguardo.
Ti stai immaginando tutto, si rimproverò.
Iniziò a sentire i sussurri e le sagome biancastre iniziarono a muoversi.
Non è reale, si ripeteva.
Cercò tutto il suo coraggio, quello che sventolava in faccia a quei vigliacchi dei suoi cugini… che adesso erano al sicuro nelle loro case, con le loro famiglie.
Non ne trovò nemmeno una briciola.
Una lacrima le solleticò la guancia.
Era sempre così maledettamente sola. E come se non bastasse proprio in quell’occasione tutta la sua forza aveva deciso di dipartire, lasciandola lì con le gambe che le tremavano e le lacrime che si ostinavano a uscirle dagli occhi.
<< Sei sola >> sussurrò una voce femminile e maligna dal buio.
Non l’ho sentito davvero, non è reale, cercò di non perdersi d’animo.
<< Sola come sempre >>.
Evelyn si fermò.
No, non aveva paura dei fantasmi… ma della solitudine forse, solo un po', sì.
Non era certa che qualcuno stesse parlando davvero; forse era davvero la sua immaginazione.
<< La tua famiglia non ti vuole… la tua famiglia è morta >>.
Il bisogno di portarsi le mani a coprire gli occhi era troppo forte. Lasciò cadere la lampada e il rumore del vetro infranto per un attimo sovrastò i bisbigli.
Non era riuscita più a trattenersi, le lacrime le scorrevano sul viso senza ritegno.
Forse non era poi tanto forte quanto si ostinava a dimostrare.
Mentre piangeva, se di paura o tristezza non avrebbe saputo dirlo, udì i passi di qualcuno che si avvicinava di corsa.
<< Stanno venendo a prenderti >> rise la voce maligna, che in realtà era solo dentro di lei.
In quella cripta non c’era nessun fantasma, c’era solo quello della tristezza e della solitudine, nella sua anima.
Quello che non riusciva mai a scacciare definitivamente, quello che le impediva di essere spensierata come tutti coloro che la circondavano, la allontanava dalle persone e da qualunque possibile felicità. Perché dietro quella maschera d’indifferenza in realtà lei era più sensibile di chiunque altro, solo che nessuno se ne accorgeva mai. Nessuno sapeva perché a volte diventava triste.
Nessuno sapeva delle ombre.
I passi ormai erano vicinissimi ed Evelyn sperò solo che finisse in fretta.

Il rumore dei passi cessò e due braccia la strinsero forte.
Evelyn voleva solo rimanere in quell’abbraccio, che poi tanto doloroso non era…
Si aggrappò forte alla stoffa di una camicia e ci pianse sopra, mentre una mano la accarezzava i capelli ancora umidi.
Sentì quel profumo familiare, di comprensione e dolcezza.
Evelyn non voleva che la vedesse piangere di nuovo, ma non riusciva a smettere.
Lasciandosi sfuggire un singhiozzo cercò di divincolarsi, ma Riley non glielo permise. La strinse ancor più forte e le intrappolò, col mento sulla testa e la mano tra i capelli, il volto contro il suo petto.
<< Sono una vigliacca >> ammise Evelyn artigliandogli di nuovo la camicia con le unghie, arrabbiata per doversi mostrare debole ancora una volta.
Sentì vibrare di una risata il petto di Riley, e nella sua disperazione sentirlo ridere la rasserenò.
<< Sei solo una falsa coraggiosa >>.
<< E che vuol dire? Come si fa ad essere coraggiosi per finta? >>.
<< Nello stesso modo in cui si finge di essere sereni, disinteressati, felici… nello stesso modo in cui fingi tutto il resto, Evelyn >>.
<< Io non… >> balbettò lei.
Riley attese che si pronunciasse in propria difesa, pronto a confutare ogni frase.
Non tollerava più di vederla consumare. Non poteva più sopportare che si ostinasse ad allontanare le persone da se stessa, ad allontanare anche lui.
La sua Evelyn, alle prese con qualcosa troppo grande anche per lei che era tanto forte, che aveva salvato quattordici anni prima, e che si era promesso di salvare di nuovo.
<< …Non respiro! >> esclamò lei, tentando di liberarsi dalla presa.
Riley scoppiò a ridere nel non sentirsi ruggire contro nessuna delle sue solite frasi arrabbiate e intelligenti, e la allontanò da sé, senza però liberarla completamente << Sei così piccola >>.
<< Sei tu a essere troppo alto >> rispose scocciata.
<< Stavo cercando di fare un discorso serio >>.
<< Sì, la solita storia che non posso nascondermi da te, che capisci sempre quello che provo, che è inutile che fingo di essere indifferente… va bene Riley, ho capito! >> sbuffò << Sei ripetitivo >> aggiunse poi, strappandogli un sorriso.
<< Se hai capito allora perché non la pianti? >>.
Evelyn fu toccata dalla geniale idea di evadere il discorso con la famosa battuta del seme, ma fortunatamente non arrivò a rasentare tale squallore, e si limitò a emettere un verso d’esasperazione.
<< Ogni tanto potresti anche stupirti, ridere, cominciare un discorso… >> iniziò a elencare Riley mentre la prendeva in braccio.
<< Guarda che mi stupisco, rido e faccio anche discorsi seri ogni tanto, forse sei tu a non essere mai presente in quei momenti… Che stai facendo? >> strepitò.
<< Ti porto fuori di qui… hai ragione, perdonami se sono stato troppo assente, rimedierò >>.
<< Ma figurati se me ne importava qualcosa della tua assenza… fammi scendere! >>.
Riley la guardò con un sorriso da risata trattenuta, per farle capire che ai suoi occhi quel che aveva detto appariva chiaramente come una bugia malriuscita. Per quanto riguardava l’ordine che gli aveva impartito, non lo considerò nemmeno.
<< Razza di tiranno, mi è caduta una cosa! >> continuò lei notando che non accennava a metterla giù.
Finalmente si fermò e si guardò indietro depositandola al suolo con un sospiro scocciato e, come se stesse maneggiando un qualsiasi oggetto di sua proprietà, la seguì mentre tornava sui suoi passi.

Disgraziatamente, non si era ancora reso conto di come quella ragazzina potesse combinare danni proprio sotto i suoi occhi, senza alcuna difficoltà.
Fece in tempo solo ad allungare una mano per fermarla, senza però riuscirci, ed esclamare << No! >>, che lei si era già chinata a raccogliere la lampada tra i cocci di vetro.
Un secondo dopo il gemito di dolore che le sfuggì lui indietreggiò di due passi, strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nella carne e un’espressione sofferente gli passò sul volto.
Quando Evelyn si alzò con la lanterna nella mano sinistra, lui aveva già strappato una striscia di stoffa dalla propria camicia e si stava avvicinando, trattenendo il respiro.
<< Non è così grave >> disse lei, sinceramente stupita dal vedere le sue mani avvolgerle la benda improvvisata attorno al taglio sanguinante che si era procurata sulla mano destra.
Riley non disse niente, troppo preso a immaginarsi spazi all’aperto e aria fresca e profumata di erba appena tagliata, salsedine, gelsomino, anche vernice o benzina… qualsiasi cosa non fosse liquida e vermiglia, e così invitante.
<< Brucia? >> si decise a chiedere, dopo secondi e secondi passati a fissare il nodo che aveva legato per fermare la fasciatura.
<< Stai bene? >> ribatté Evelyn, notando i suoi occhi verdi lievemente socchiusi e le labbra che a tratti tremavano.
<< Perché l’hai raccolta? Non hai pensato che al buio ti saresti tagliata? >>.
<< Perché è un pezzo di storia >>.
Riley non capì quel che stava dicendo, probabilmente perché buona parte del suo intelletto era intenta a catalogare ogni possibile odore o profumo che la sua memoria conservasse.
Quando finalmente furono fuori dal cunicolo, che avevano percorso a passo di marcia e in assoluto silenzio, a una rilevante distanza l’uno dall’altra, Riley riprese a respirare, godendosi il profumo finalmente concreto dei fiori, che erano posizionati in gran quantità nei vasi sulle tombe che li circondavano, e dell’erba bagnata.

Evelyn continuava a chiedersi che difficoltà avesse Riley ad ammettere la sua bipolarità. Se si fosse deciso a dichiararlo magari sarebbe stata più comprensiva con lui.
Un secondo prima la imprigionava in un abbraccio senza accennare a volerla liberare e dopo, tutto a un tratto, si teneva a distanza.
La sua tesi trovò ulteriore conferma quando sentì il suo braccio cingerle le spalle e vide il sorriso che le stava rivolgendo.
<< Mi infastidisce l’odore del sangue >> disse all’improvviso.
<< Era solo un taglietto… devi avere un olfatto eccellente >> ripeté lei, con tono quasi indagatorio.
<< Appunto >> rispose l’altro con un sorriso.
Evelyn inarcò la schiena, scossa da un brivido di freddo. Riley si sfilò il giubbotto di pelle e glielo passò dietro le spalle, mentre lei esitava prima di infilare il braccio in una manica, e poi anche l’altro.
Considerando l’altezza di lui, e l’ampiezza del suo petto, il giubbotto le arrivava ai glutei e dentro potevano entrarcene tre di lei, che non spiccava in altezza, ed era minuta di corporatura.
<< Morirai assiderato >> gli disse, sentendosi in colpa, ma allo stesso tempo compiacendosi del calore che la rilassava.
Lui però sembrava troppo impegnato a osservare un punto dietro di lei per risponderle.
Quando si voltò per intercettare il punto che stava accalappiando tutta l’attenzione del suo interlocutore, Evelyn si ritrovò ad ammirare la danza contorta di una decina di minuscole fiammelle luminescenti sopra le sepolture circostanti.
Le avevano raccontato milioni di volte degli spiriti che si manifestavano nel cimitero di Aberdeen sotto forma di fuochi fatui, ma non li aveva mai visti.
Se con quella simulata espressione stupita Riley stava cercando di spaventarla, aveva sbagliato persona.
<< Fosfina >> disse la ragazza, con voce indifferente.
Riley scoppiò a ridere, poi finse delusione per non essere riuscito nel suo intento << Sei troppo colta >>.
In realtà era una delle pochissime nozioni che era miracolosamente riuscita ad afferrare durante le spiegazioni della sua imperturbabile professoressa di Chimica.
Nei tempi più antichi, e a vedersi quel cimitero rientrava a tutti gli effetti nella definizione di antichità, quando la pietra dei sepolcri non era sigillata a dovere e le salme non venivano tumulate con troppa cura, accadeva che da esse si liberasse la fosfina, una sostanza che si auto incendiava a contatto con l’aria, dando origine ai cosiddetti “fuochi fatui” e a leggende sul ritorno delle anime dei morti nelle notti di luna piena.
<< Tu invece credi alle storielle sui fantasmi? >>.
<< E se potessi testimoniarti che non tutto è semplicemente leggenda? >> la provocò.
Evelyn per un attimo perse ogni sicurezza nel vedergli passare negli occhi un lampo di sincerità.

Riley non voleva seriamente spaventarla, e quando la vide indugiare per un istante, spaventata, colpita dal tono serio col quale involontariamente aveva parlato, pensò subito a cambiare discorso << Mi è stato riferito che pretendi un invito ufficiale >> disse mentre s’inginocchiava davanti alla figura esile e aggraziata di Evelyn, incurante del fango che gli bagnava i pantaloni e pronto a fare qualunque cosa per rimediare al suo errore; l’aveva spaventata, nel momento meno opportuno, dopo che l’aveva trovata a piangere in una cripta che non era per nulla degna di ospitarla.
Lei sembrò effettivamente stupirsi, e piegò la testa di lato aggrottando le sopracciglia.
<< Mi concedereste l’onore di farvi da cavaliere, milady? >> continuò con un sorriso irresistibile.
Evelyn capì di che cosa stesse parlando solo dopo aver riflettuto qualche secondo.
Lo guardò meravigliata, poi rise.
Un ragazzo bello e seducente come non avrebbe immaginato nemmeno nei suoi sogni e a tratti insopportabile e cronicamente protettivo come non sarebbe stato in nessuno dei suoi incubi, le si inchinava davanti, in mezzo al fango di un cimitero antico e forse anche infestato - dove era finita scappando da una manipolo di folli sconosciuti che progettavano vendetta per chissà cosa - chiedendole la mano per un ballo al quale non avrebbe mai creduto di poter prendere parte in vita sua - forse opera diretta della sua lunatica e adorabile zia, che aveva di certo goduto della complicità di Sebastian and company per ordire tutto ad arte - e a causa del quale aveva affrontato giorni di lotta con una sarta esasperante e un Alexander troppo giocoso e del tutto incapace di comprendere i perpetui dilemmi femminili.
Che cosa aveva pensato su quel treno che la stava conducendo a Landry? Che sarebbe stata un’estate noiosa?
Dopo aver atteso il tempo necessario perché Riley s’infangasse a dovere, si decise a rispondere << Ne sarei lieta, milord >>.
Dimostrandole che non era riuscita nell’intento di farlo soffrire nell’attesa, ci mise qualche altro secondo per alzarsi.
Quando lo fece, ed Evelyn incontrò il sorriso dei suoi occhi, non riuscì più a trattenersi dal porgli la domanda che la assillava da quando aveva sentito le sue braccia avvolgerla mentre piangeva << Come hai fatto a trovarmi? >>.
Lui non fece altro che accentuare la dolcezza di quel sorriso e rivelarsi per quel che era, il campione degli inganni e delle risposte dolcemente negate, << Un vero cavaliere non perde mai di vista la sua dama >>.





Vorrei ringraziare di cuore tutti coloro che stanno continuando a leggere, in particolare chi mi ha comunicato di apprezzare quel che scribacchio inserendo questa storia tra le seguite, preferite o ricordate, e AnonimaKim, autrice della prima recensione che ho ricevuto, e __Alis3, che mi ha fatto dei complimenti meravigliosi.
Colgo l'attimo anche per un ringraziamento a S. che con i suoi commenti forbiti mi sprona a non mollare mai, e che sta penando insieme a Riley xD ma forse entrambi non dovranno aspettare ancora a lungo...
Alla prossima! Ell :)

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Carpe diem ***


23. Carpe diem


Microscopici frammenti di polvere svolazzavano nel raggio di luce indorata che irrompeva dalla finestra, libera dalle tende, scalzati dai movimenti della bambina che correva da una parte all’altra della stanza.
<< Perché non scendi di sotto a giocare con gli altri bambini, Ev? >> le chiese sua madre dolcemente.
<< Non mi va >> rispose la bambina dai lunghi boccoli scuri, continuando imperterrita a trasportare una gran quantità di libri dagli scaffali a un carrellino malconcio e dipinto di blu.
<< Hai intenzione di chiuderti di nuovo in camera tua a leggere? >> disse allora la donna, in tono triste.
<< Loro non mi vogliono >> continuò Evelyn, alzando le minuscole spalle foderate della stoffa azzurra dell’abitino elegante che indossava.
<< Ma cosa dici… >> sussurrò l’altra, inginocchiandosi all’altezza della piccola.
<< Possiamo chiudere le tende? >> deviò la conversazione la bambina, voltandosi verso la finestra e chiudendo un occhio, infastidita.
Sua madre abbassò lo sguardo, chiuse gli occhi per un momento, si alzò e si avviò alla porta senza dire una parola, sotto lo sguardo colpevole di sua figlia.
<< Devi accettarlo Katie. Hai voluto fare di testa tua quando tutti dicevamo di lasciar stare… adesso ne subisci le conseguenze >> esordì sua nonna rivolta alla donna, comparendo all’ingresso della stanza.
<< Non so di cosa parli >> finse Katie.
<< Lo sai benissimo… Io lo avevo detto a quella sciocca di Giudith quanto stesse sbagliando, e lei invece ci ha fatto pure una figlia con quel William >>.
<< Giudith non era una sciocca, sono solo stupide leggende! >>.
Evelyn continuava ad ascoltare, senza capire.
<< Guardala! >> gridò la vecchia afferrando Katie per le spalle e costringendola a fissare la figlia della sua sciocca amica << La luce del sole la infastidisce, a sette anni legge e scrive già, si rifiuta di frequentare i suoi coetanei… per non parlare di quel che dice di vedere >>.
In un istante la luce del sole illuminò di riflessi rossastri i boccoli della bambina, che se ne stava immobile, un libro ancora in mano e lo sguardo perso nel tentativo di capire qualcosa d’incomprensibile anche per lei che ne era parte.
<< Se non è come lui, forse è qualcosa di peggio. Ti porterà solo guai… >>.

Non era un buon posto per rievocare pensieri tristi, un cimitero.
Lo scrocco di un ramoscello che si spezzava sotto la pressione del suo stivale la trascinò via da quella stanza illuminata dal sole del tardo pomeriggio, e riempita dalla voce di sua madre, che a quei tempi ancora la difendeva dalle accuse superstiziose di sua nonna.
Evelyn stava camminando dietro a Riley attraverso un sentiero tra le lapidi, tanto minuscolo da lasciar passare una sola persona.
Iniziò a soffermarsi sui ritratti e leggere gli epitaffi delle sepolture che costeggiavano il viottolo.
Parlò prima di pensare a quel che stava dicendo << I miei genitori sono sepolti qui >>.
Riley si fermò e chinò il capo un paio di volte, senza voltarsi.
<< Voglio andarci >>.
Il ragazzo si voltò << E’ troppo lontano, fra poco ricomincerà a piovere… >>.
Evelyn fece per replicare ma lui la anticipò << Prometto di accompagnarti, non adesso però >>.
Lei fece un sorriso di scherno << Ma certo, devo aspettare anche per questo… Dopotutto hanno cercato di uccidermi e nessuno si premura di spiegarmi niente >>.
<< Non è il momento di discutere Evelyn, muoviti >> tagliò corto Riley, socchiudendo gli occhi e guardandosi intorno a trecentosessanta gradi.
<< Che ti prende? Hai paura? >> lo schernì.
La sollevò passandole le braccia sotto le ginocchia e le spalle, fin troppo rapidamente.
Con altrettanta velocità si voltò per proseguire, ma la strada era ostruita.
Non era nient’altro che un’ombra.
Una sagoma scura, senza volto, immobile a pochi passi da loro.
Evelyn si guardò intorno, e quasi senza stupirsi costatò che l’ombra non era una sola. Strinse il pugno sulla camicia di Riley e le sfuggì un gemito.
<< Chiudi gli occhi >> le disse Riley, senza mascherare il tono adirato della sua voce.
Evelyn lo guardò, stupefatta.
Le vedeva anche lui?
Affondò il viso sul suo petto, mentre partiva a una velocità inconcepibile.

Aprì gli occhi solo quando non sentì più l’aria frustarle il viso.
Riley la depositò su un tronco abbattuto e si chinò alla sua altezza.
<< Mi viene da vomitare >> disse a denti stretti mentre serrava le palpebre e i pugni.
<< E’ sempre così, la prima volta, fra poco passa >> la consolò.
Evelyn non chiese come avesse fatto a correre tanto agilmente con lei tra le braccia, altrimenti non sarebbe riuscita a trattenere la nausea.
<< Che cosa sono? >> chiese quando quella sensazione di vuoto allo stomaco iniziò a diminuire.
<< Ombre >> rispose l’altro, impassibile.
<< Fin qui c’ero arrivata anche da sola >>.
<< Non pensarci Ev, andiamo >>.
Evelyn avrebbe certamente ribattuto, forse sarebbe anche arrivata a picchiarlo - dopotutto gli aveva già mollato un cazzotto - pur di schiarire un po’ la nebbia che avviluppava tutto quel che era successo da quando era arrivata in quel posto… ma la stanchezza e uno strano senso di pacificazione interiore che non seppe spiegarsi glielo impedirono.
Si lasciò prendere di nuovo in braccio senza opporre alcuna resistenza, e si disse che la verità poteva aspettare, tra la sue priorità di quel preciso istante c’erano solo le soffici coltri del suo letto e Morfeo che da qualche parte la attendeva a braccia aperte.

Lisa fu tutt’altro che felice di vederla comparire sulla soglia della porta insieme a Riley e con il suo giubbotto addosso.
Fortunatamente il proprietario dell’indumento era fatalmente stato abbastanza saggio da metterla giù qualche minuto prima che Sebastian, tutto angosciato, spalancasse la porta.
Evelyn era già consapevole di doversi sorbire il consuetudinario club del dolore, solo che il suddetto poteva chiaramente vantare delle new entry.
Non solo le venne incontro sua zia, in preda a una delle sue crisi sconclusionate come sempre, il divano biposto conteneva a stento i muscoli di Alexander e di un ragazzo dai capelli rossi che era certa di aver già visto da qualche parte.
Nell’altro divano stavano seduti i gemelli, Sophie e infine Lisa, il quale sguardo di fuoco e fiamme pose Evelyn nelle condizioni di credere che di lì a poco si sarebbe incendiata per autocombustione.
C’erano ovviamente anche Rose e Dalia, che non appena la videro tirarono un palese sospiro di sollievo.
Lisa, che come già detto non era per niente sollevata, scattò in piedi << Dove diavolo eri finita? >> esclamò, spostando subito dopo lo sguardo su Riley.
Evelyn non volle nemmeno considerare i pensieri impuri che la mente malefica di quella bionda insuperbita aveva potuto formulare durante le ore in cui l’avevano data per dispersa.
<< All’emporio, mi pare ovvio >> rispose riciclando le stesse parole della sua interlocutrice e sfoderando un tono di esagerata ovvietà, che apparve agli occhi di tutti come la presa in giro che era.
Forse si sarebbero tirate i capelli.
Alexander si voltò e si portò una mano davanti alla bocca. Evelyn era certa che si stesse sganasciando.
<< Ha sbagliato strada e ha dovuto fare un giro più largo per tornare, quindi ci ha messo più tempo >> intervenne Riley, che forse temeva l’autocombustione come Evelyn, a vedere le braci negli occhi di Lisa.
<< Stai bene, vero? >> le chiese Sophie affiancandola e guardandola in viso.
<< Benissimo >> rispose con un sorriso Evelyn, che ormai si sentiva come la superstite di una catastrofe.
O forse la catastrofe era avvenuta davvero?
Quel libro che le pesava nella borsa per un istante le fece pensare di sì.
<< E’ stanchissima, dovrebbe andare a letto >> affermò Riley passandole un braccio intorno alla vita.
Procurate un idrante, pensò lei, vedendo le unghie di Lisa conficcarsi nel palmo delle mani e i suoi occhi uscire dalle orbite.
<< Andiamo >> si frappose Rose, prendendola per mano e conducendola alle scale.
<< Buonanotte Ev >> dissero in coro i presenti.
Oddio, come il club degli alcolisti anonimi.
Evelyn si sforzò di cacciar fuori un sorriso fasullo, che si tramutò in reale quando notò che mentre lei se la svignava Riley rimaneva tra le grinfie di Lisa l’incendiaria, che evidentemente aveva una cotta per lui.

Quando fu sola nella sua camera e dopo essersi avvolta nella camicia da notte si stese sul letto, il sonno era totalmente svanito.
Dopo qualche minuto passato a osservare i fregi lignei del soffitto del baldacchino si decise ad alzarsi e avviarsi allo scrittoio, dov’era accasciata la sua borsa.
La verità aveva sorpassato Morfeo nella scala delle preminenze.
Quando sfogliò velocemente le pagine, nel consueto gesto di pregustare la lettura, si rese conto che il libro era stato privato di buona metà del suo volume, e nel pensare ai fogli strappati, in un lampo di memoria, la assalì la preoccupazione che Rose avesse già portato i suoi jeans in una cesta del bucato da qualche parte nella casa. Fortunatamente erano rimasti in quella del bagno della sua camera e poté dunque rientrare in possesso della pagina solitaria che aveva preso in chiesa col proposito di riportarla presto indietro. Non che avesse avuto scelta, giacché trovandosela in mano mentre il presunto proprietario entrava dalla porta non aveva potuto far altro che nasconderla, e poi di rimetterla a posto, mentre si accingeva a iniziare il suo giro turistico nelle catacombe, era stato l’ultimo dei suoi pensieri.
Poggiò il foglio sul ripiano di legno e ci passò ripetutamente sopra le mani, nel tentativo di alleviare le pieghe che rendevano complicata la lettura.

A causa della loro superiorità in forza e intelletto gli immortali erano incontrollabili da mani umane.
Fu per questo motivo che gli stessi appartenenti alle linee di sangue si fecero garanti della tregua tra il loro mondo e il nostro, nella speranza di evitare la reciproca distruzione.
Quegli esseri superiori furono confinati nelle loro antiche sedi sparse per il mondo, al fine di non immischiarsi nella struttura sociale della civiltà a noi conosciuta.
Sono però avvenuti contatti tra umani e vampiri che hanno portato alla nascita di creature di mezzo, alle quali è concesso vivere tra gli umani finché non si manifesta la loro natura ereditata da uno dei due genitori. Non si possiedono tuttavia sufficienti informazioni sui Mezzosangue e il loro seppur esiguo numero non è registrato.
Tutt’oggi i Custodi vegliano sulle dimore dei vampiri, impedendo ai ribelli di dar sfogo alla loro brutalità e oltrepassare i confini.
Tra i custodi sono presenti pochissimi umani, che possono scegliere di vivere tra i soggetti della loro sorveglianza.

Frammento della testimonianza di Oswald Van Eyck , Custode, Landry 1617

Sul foglio erano vergate solo quelle poche parole e il numero della pagina.
Vampiri.
Le sue conoscenze in merito erano limitate e largamente dipinte dalle leggende di film e libri.
Mezzosangue.
Dannata per metà.
Le parole le risuonavano nella testa come le aveva sentite risuonare tra le volte di marmo di quella cattedrale.
Mise la pagina all’interno del libro e lo nascose sotto strati di vestiti, in un cassetto dell’armadio.
Evelyn si era sempre promessa che davanti a prove lampanti non avrebbe mai negato l’evidenza, ma adesso accettare la verità faceva davvero male.

La mattina seguente il vento e la pioggia imperversavano fuori dalla finestra come la confusione nella sua testa.
Si era già svegliata da un po’, senza avere una briciola di voglia di scollarsi dal letto, quando Dalia irruppe nella camera senza bussare e portando con sé un vassoio con tanto di vasetto fiorato e al centro del quale svettava un enorme budino alla vaniglia che nuotava in un mare di caramello.
<< Colazione abbondante per un giorno importante! >> esclamò con un sorriso sgargiante, posando il vassoio sulle coperte, accanto alle sue gambe.
<< Non entrerò nel vestito >> sbuffò Evelyn sbattendosi in faccia un cuscino.
<< Di prima mattina è raro vedervi allegra e sorridente ma oggi mi sembrate più adombrata del solito >> disse la donna mettendosi le mani sui fianchi.
Evelyn rispose con un verso scocciato.
Si sarebbe riaddormentata se qualcuno non avesse avuto la lestezza di strapparle il cuscino dalla faccia e forzarla a uscire dalle coperte.
<< Buongiorno! >> esclamò Sophie sbandierando la sua solita vivacità mattutina.
Un altro mugugno di Evelyn.
<< Hai perso la lingua? Piantala di bofonchiare e va a lavarti che dobbiamo sbrigarci >> continuò l’energica mattiniera.
<< Ma il ballo è stasera! >> esclamò Evelyn decidendosi a usare la comunicazione verbale.
<< Appunto >>.
<< Non vorrai iniziare adesso con i preparativi >> si lamentò la ragazza ancora in camicia da notte, lanciando un’occhiata nostalgica al letto.
<< E allora quando? >> rise Sophie. La spinse in bagno e poi sparì in direzione dell’armadio.

Quando uscì dal bagno avvolta nella vestaglia di seta era arrivata anche Rose, pronta accanto allo scrittoio con gli arnesi della più affinata arte delle messe in piega.
Sophie e Dalia stavano tirando fuori dall’armadio un’ingente quantità di scialli e cappotti, probabilmente cercandone uno adatto all’occasione, e dal nulla era apparsa anche Josephine, che insieme a Sebastian si dedicava a riesaminare l’abito e a stirare con le mani eventuali impercettibili pieghe.
Quel quadretto ricordò a Evelyn tutti i matrimoni delle sue cugine cui aveva preso parte. La costringevano sempre a correre da una parte all’altra della casa trasportando scarpe, vestiti e kit d’emergenza per le riparazioni dell’ultimo istante. In casa Mcgrath i preparativi per le occasioni speciali erano caserecci, quindi tutti a sgobbare per la festeggiata… solo che lei non era mai stata protagonista, e adesso non sapeva esattamente cosa fare. Per di più aveva anche sonno e mille pensieri per la testa.
Si ritrovò seduta davanti allo specchio, con le mani di Rose a giocherellare con le sue ciocche lunghe e scure.
<< Uno chignon intrecciato sarebbe perfetto >> affermò sua zia.
<< Li preferirei sciolti >> controbatté Evelyn, con timidezza, passandosi una mano tra i capelli bagnati.
Le donne nella stanza si guardarono tra loro, incerte.
Ai balli cui erano abituate era consuetudine che ogni dama sfoggiasse un’acconciatura diversa, ma in fondo capelli di Evelyn erano bellissimi e sarebbe stato un peccato nasconderli in uno chignon.
<< Allora sciolti siano >> disse Rose con un sorriso, iniziando a tamponarli con un asciugamano.
Evelyn fu costretta a passare più tempo di quanto avesse supposto su quella sedia, ma alla fine ci mise un bel po’ anche ad ammirarsi nello specchio; i suoi capelli erano divisi in mille perfetti boccoli e il ciuffo che abitualmente le ricopriva la parte destra del volto, e che teneva sempre dietro l’orecchio, terminava in un’onda modellata.
<< Adesso basta rimirarti, vieni qua >> la trascinò via Sophie, per passare alla fase trucco.
Nonostante l’altra avesse insistito per un make-up più complesso, Evelyn optò per solo un po’ di mascara a rendere più scure di quanto già non fossero le lunghe ciglia e rossetto rosso sulle labbra carnose.
Probabilmente era l’unica al mondo, ma detestava ricevere complimenti.
Il suo viso cambiò colore quando con un sospiro plateale diede le spalle allo specchio e incontrò i sorrisi estasiati dei presenti.
Alla fine, grazie anche all’aiuto di Sophie, riuscì a sbatterli tutti fuori. Se ne andarono che ancora commentavano con “siete bellissima”.
<< Finisco da sola, ci vediamo dopo… se mi serve una mano con la chiusura del vestito vengo a chiamarti. Ora corri, devi farti bella anche tu! >> esclamò con un sorriso mentre anche l’ultima si defilava.

Dopo un’ora era ancora seduta sul letto, in vestaglia, a osservare il lungo abito di pizzo leavers e i tacchi dodici Christian Louboutin, che sua zia evidentemente poteva tranquillamente permettersi, chiedendosi se fosse grave non indossare le calze, che tutti credevano avesse comprato all’emporio, mentre in realtà lei scorrazzava per viottoli a catacombe con presunti vampiri alle calcagna.
Aveva barattato la sua eleganza per un maledetto libro che le aveva riempito la testa di pensieri angoscianti.
Un paio di colpi alla porta la riscossero.
<< Sì? >>.
<< Hai finto? Ti serve una mano? E’ tardissimo! >> le pervenne attutita dallo spessore della porta la voce di Sophie.
<< No no! Ho quasi fatto >> gridò scattando in piedi.
<< Immagino… Datti una mossa, che è già arrivato anche il tuo accompagnatore >> Evelyn dedusse che l’ultima parte della frase fosse accompagnata da un sorriso divertito.
Chiuse gli occhi ed espirò.
Era giunto il momento di mettere per una volta da parte l’apatica Evelyn che stava sempre in seconda fila e tirar fuori quella sorridente e sensuale, certo un po’ impolverata, ma perfettamente funzionante.
Una volta indossato l’abito provò a fare qualche passo su quei tacchi da vertigini con ancora i bottoni aperti sulla schiena e le riuscì abbastanza bene.
Si osservò allo specchio e dopo aver pensato per un istante che non avrebbe messo piede fuori dalla porta, si decise ad avviarsi.
Quando la spalancò trovò Alexander proprio lì davanti, con il pugno ancora in aria.
<< Serve una mano? >> chiese col familiare sorriso divertito sulle labbra.
Evelyn rise, fece qualche passo dentro la stanza si fermò dandogli le spalle.
<< So che ti sembrerò poco originale ma… sei bellissima >> disse, mentre con una destrezza che la stupì le chiudeva l’abito sulla schiena.
<< Grazie >> rispose voltandosi, quando lui ebbe finito.
<< A dopo allora >> la salutò incamminandosi verso la porta.
<< Aspetta! Scendo con te >> cercò di fermarlo lei, che non aveva per niente voglia di deambulare per le scale da sola sotto gli occhi di tutti.
Alexander rise << Bel tentativo, ma mi spiace, non ti posso risparmiare l’entrata trionfale >>.

Evelyn deglutì e mosse il primo passo fuori dalla porta solo dopo qualche minuto.
Dopo tre passi si chiese a cosa stesse andando incontro.
Vampiri e Mezzosangue.
Quelle due parole avrebbero cambiato la sua vita?
Dopo sei passi pensò alla possibilità di ricadere o no nell’apatia dopo quel ballo.
Qualcosa sarebbe stato diverso? Avrebbe sorriso di più?
O li avrebbe consumati tutti in quell’unica serata, i suoi sorrisi, per poi tornare quella di sempre, in seconda fila?
Il nono passo le ricordò la sua vita ad Aberdeen, niente di che.
L’undicesimo le portò alla mente tutte le attenzioni che aveva ricevuto da quando era arrivata a Landry.
Al diciottesimo si disse che un po’ si sentiva a casa lì, in fondo.
Era come vivere in famiglia, avere degli amici… cose che fino ad allora aveva ammirato solo da lontano.
Diciannove passi.
Era ansia e felicità che stava provando?
Al ventesimo passo era in cima alle scale.
Sollevò lo sguardo mentre poggiava una mano sul corrimano intarsiato e incontrò quegli occhi verdi, d’impazienza e meraviglia, che aspettavano solo lei.
L’occhiata incantata che il suo cavaliere le dedicò la distrasse al punto che per poco non ruzzolò giù dalle scale.
Riley era in piedi con le mani abbandonate lungo i fianchi; camicia bianca, giacca nera e capelli modellati all’indietro in modo lievemente spettinato come sempre.
Sembrava davvero felice e impaziente, ed Evelyn si augurò solo che non fosse bravo a fingere.

Capita a volte, in un minuscolo istate, con un fugace e distratto sguardo, di vedere una cosa per la prima volta - o semplicemente rendersi conto che è sempre stata lì, sotto gli occhi, senza prestare abbastanza attenzione da rendersene conto – e desiderare solo di averla, nel modo più ardente possibile.
Lasciarsi rapire.
Come succede a un raffinato collezionista d’arte davanti al quadro di un dimenticato artista di strada, a una quarantenne alla quale non è rimasto altro se non i soldi davanti alla vetrina di un negozio d’alta moda, a un musicista con il suo spartito.
Era così che Riley si era sentito quando Evelyn era apparsa in cima alle scale, e poi quando aveva iniziato a scendere, aggraziata e bellissima, forse un po’ imbarazzata.
Era sempre stata sotto i suoi occhi sì, ma solo adesso era quella vera.
La Evelyn che dominava la prima fila, vera e senza corazza alcuna a nascondere la bellezza del suo sorriso, che era vero anch’esso, forse solo per quella sera, ma poco importava.
Era dannatamente bella.
Carpe diem, disse una volta un tale di nome Orazio del quale solo pochi conoscono il nome, ma tutti ricordano il detto.
Cogli l’attimo, pensò il cavaliere mentre s’inchinava.
<< Milady >> disse, porgendole il braccio.
Ogni complimento sarebbe stato futile e replicato; bastava solo che lo guardasse negli occhi.
<< Milord >> rispose stringendogli la stoffa della giacca e mordendosi le labbra, per mascherare un sorriso o un sospiro.
Troppo modesta per accorgersi delle attenzioni di Riley, probabilmente bugiarde ai suoi occhi.
Non credeva nell’amore, la malcapitata ragazza di città.
Carpe diem.
Goditi il presente, confida poco nel domani.
Un ballo era un’ottima occasione per cambiare opinione, si disse il cavaliere, mentre conduceva la sua dama, sua solo per una sera, alla carrozza.

Durante il tragitto Evelyn aveva valutato ogni possibile catastrofe.
In conclusione sul podio erano arrivati la catalessi per claustrofobia da confusione, rovinare per terra prendendosi un lembo del vestito con quelle scarpe da alpinismo e ultima ma non meno importante sciagura lasciarsi irretire da Riley, che con quel suo maledetto sguardo da uomo conquistato era già quasi riuscito a far avverare sia la terza che la seconda opzione.
<< Se dovessi inciampare… >> iniziò, mentre raggiungevano l’ingresso della sala, dal quale fuoriusciva già qualche nota di musica classica.
<< Dubito che lo farai >> la interruppe Riley.
<< Ponendo che accada, se mi fai arrivare per terra non ti rivolgo più la parola >>.
<< Una minaccia terrificante >>.
<< Ti sembra il momento di scherzare? >>.
<< Non è sarcasmo, sono serio >>.
Evelyn si morse le labbra per evitare di mandarlo al diavolo, sia stesse giocando sia non potesse davvero fare a meno delle sue chiacchiere, perché la seconda ipotesi era troppo dolce perché lei potesse continuare a insultarlo, e lei con Riley voleva solo litigarci.
Nel varcare la soglia strinse forte la mano che la teneva per un fianco e raddrizzò la schiena contro il braccio che aveva dietro.
La sala profumava di rose e allegria; era riempita dalle note dei violini e del pianoforte posti in un angolo con i loro musicisti, ed era così affollata che se non ci fosse stato Riley a spingerla, Evelyn se la sarebbe data a gambe verso l’uscita.
Dopo essersi consolata col pensiero che tutti fossero troppo impegnati nelle danze o a parlare tra loro per accorgersi di lei, desiderò solo che il pavimento la inghiottisse. Le sembrò addirittura che per un momento anche la musica scemasse insieme a ogni attività che la gente lì dentro stava conducendo.
Continuò a camminare sotto gli occhi di tutti, che la pungevano come aghi di siringhe avvelenate, sperando che il suo cavaliere la salvasse ancora una volta, non da assassini e inseguitori, ma dall’attenzione collettiva che le gridava di non essere all’altezza.
Per la prima volta lui non la soccorse.
Si ritrovò al centro della pista da ballo, tra le luci dorate di lampadari di cristallo e candele.
Traditore.
La mano che la reggeva sul fianco le scivolò sulla schiena mentre l’altra saliva in alto, in attesa che lei ci poggiasse sopra la propria. Nello stesso istante in cui lo fece le note di Love Story, di Francis Lai, iniziarono a riempire l’aria.
<< Non credo di saperla ballare >> gli sussurrò a denti stretti.
Lui scosse la testa e rise, mentre iniziava a muoversi.
A lei non rimase altro da fare se non assecondarlo e cercò di intercettare i passi di lui e coordinarli con i propri e con la musica.
Si sentiva tremendamente impacciata.
A vedersi da fuori era tutt’altra storia ovviamente.
Era sempre stata troppo modesta anche per definirsi l’ottima ballerina che era, o forse era solo colpa del fatto che non aveva mai avuto modo di sperimentare il suo talento. Alle pochissime feste alle quali aveva partecipato nessuno l’aveva mai invitata a ballare seriamente, o comunque quei pochi che si erano azzardati avevano mostrato di avere tutt’altro intento della danza, e lei alla fine aveva anche smesso di prendere parte a qualsivoglia evento mondano, visto che non si divertiva per niente alla vista di esemplari maschili sovraeccitati e a trascinare via le sue amiche ubriache dalle camere da letto in cui inconsciamente finivano.
La sua insicurezza decresceva insieme alle note musicali, che al contrario però adesso risalivano.
Riley la allontanò velocemente da sé, fermandola per la mano all’ultimo istante e tirandola subito indietro, la avvolse tra le braccia mentre le sfiorava il collo con le labbra e lei abbassava il volto di lato per coprire un sorriso con un ciuffo di capelli.
Ormai era troppo concentrata su di lui e sui movimenti anche per accorgersi della gente che aveva formato un cerchio intorno a loro e che commentava estasiata.
Quattro passi indietro con il suo respiro a un soffio dalle labbra.
Sicuramente anche Riley si divertiva non poco.
<< Non credevi di saperla ballare, eh? >> le soffiò in un orecchio, un secondo prima di allontanarla di nuovo e farla girare su se stessa.
Quando dopo quattro velocissimi passi in avanti gli fu di nuovo vicino, rispose solo con una risata armoniosa.
La sollevò per i fianchi facendo mezzo giro su se stesso e depositandola di spalle. Evelyn camminò incrociando sensualmente le gambe, per distanziarsi da lui, solo per godersi la sua reazione; sentì le mani di Riley stringerle i fianchi e tirarla indietro rigirandola, mentre i loro sorrisi s’incontravano.
Le loro labbra furono così vicine che lei chiuse gli occhi e sospirò, prima che il casché li separasse.
Rimase per qualche secondo con una mano sul suo collo e l’altra sulla camicia candida, con il ginocchio ancora nella stretta di Riley, proteso verso di lei che era inarcata al punto che le punte dei capelli ondulati sfioravano il pavimento lucido.
Guardarsi negli occhi richiedeva talmente tanta energia che non sentirono nemmeno i versi di stupore degli spettatori di quella danza improvvisata a meraviglia e qualche battito di mani.

<< Non sapevo fossi una ballerina provetta >> le disse Sophie, quando le danze collettive ricominciarono e Riley la condusse al margine della sala.
<< Non lo sapevo nemmeno io >> rispose mentre Alexander le porgeva un calice di cristallo con dentro probabilmente dell’aranciata. Riley glielo tolse in fretta dalle mani e si chinò per parlare in modo che potesse sentirlo solo lei.
<< Tua zia non ti ha portato qui perché ballassi con me, vuole presentarti all’alta società di Landry, e mi sembra anche giusto, ma sta arrivando proprio adesso con una schiera di signore al seguito e ti terranno occupata per un bel po’ >>.
Prima ancora che Evelyn potesse rispondere, lui dovette immaginare le sue intenzioni. Con entrambi i calici in una mano portò l’altra sul suo fianco e la trascinò via da lì sotto il riso divertito di Sophie e Alexander, cogliendo un attimo in cui Josephine e le sue comari erano distratte nel commentare le rose muschiate di uno dei tanto vasi di vetro decorato che riempivano la sala.

Nel giardino li accolsero la fioca luce lunare opacizzata dalla nebbia e l’ormai consueto odore di pioggia cessata.
Riley la condusse attraverso un’ala del porticato, poi si avvicinò al muretto che lo delimitava e dopo averlo facilmente oltrepassato aspettò che anche Evelyn facesse lo stesso.
Lei si issò sulla superficie di marmo reggendosi con una mano alla colonna di uno degli archi acuti che correvano lungo tutto il perimetro.
La aiutò a scendere sollevandola con un solo braccio; nell’altra mano ancora i due calici con tutto il loro contenuto dentro.
Evelyn, conoscendo la sua agilità, non si chiese come avesse fatto a non rovesciarne nemmeno una goccia. << Dove mi stai portando? >> domandò mentre erano ormai in mezzo alla rugiada dei fiori rossi del giardino.
Lui si fermò e la guardò negli occhi << Vuoi tornare indietro? >>.
Il tono serio della sua voce la stupì, e le procurò un’espressione stranita, << No >> esclamò accompagnando le parole con un movimento del capo, quasi a sottolineare l’ovvietà di quel che aveva appena detto.
Riley sperò che la sincerità di quella negazione non fosse legata esclusivamente al fatto che tornare indietro significasse sorbirsi le comari di Josephine, e che oltre a non aver voglia di tornare indietro ne avesse un po’ di andare avanti. Certo non si aspettava che ne avesse quanto lui, che voleva solo tenerla un po’ per sé, prima che gli altri ospiti gliela portassero via per il resto della serata.
<< Sophie mi picchierà, guarda come sto riducendo il vestito >> disse Evelyn reggendosi al suo braccio e sollevandosi con l’altra mano il vestito fino alle ginocchia, avendo completamente dimenticato di non indossare le calze. Poi scoppiò a ridere.
Per uno sciocco istante lui pensò che l’avesse fatto di proposito, ma subito dopo si disse che a sedurlo lei non ci pensava minimante... non che ce ne fosse bisogno comunque.
<< Cos’è che ti fa ridere? >> le chiese, gli occhi ancora sulle sue gambe nude.
<< Pensare a che cosa farebbe la sarta che ha confezionato il vestito se mi vedesse adesso >> rispose la finta ingenua, intercettando alla perfezione lo sguardo del suo accompagnatore << Ma non puoi capire, tu non c’eri >> aggiunse poi con un tono saccente.
Riley sorrise e attraendola a sé con la mano libera fece qualche passo all’indietro << Ti ho già chiesto scusa per la mia assenza >>.
Quella parole la fecero pentire di quel che aveva detto, ma tutt’a un tratto era troppo presa dall’ambiente circostante per trovare una frase abbastanza tagliente per il contrattacco.
Quando si era fermato, dietro di lui c’era solo un muro interamente ricoperto d’edera, o almeno in apparenza. In realtà attraverso un’apertura nascosta dalla pianta rampicante si aveva accesso a un’area completamente nascosta da quelle foglie verdi e lucide, che rivestivano tutte le pareti. All’inizio Evelyn aveva pensato che fosse una serra, ma notando il pavimento di pietra decorata da motivi floreali e le rose che lo circondavano, non seppe definire il luogo in cui si trovava. Sollevò il viso e vide la cupola di marmo, che distava una decina di metri da lei e ricoperta anch’essa d’edera.
<< E’ bellissimo qui >> sussurrò, mentre continuava ad ammirare i disegni sotto le sue scarpe ormai bagnate e le alte colonne attorcigliate che intervallavano le piante.
Riley non disse nulla, si limitò a guardarla mentre camminava seguendo le linee contorte dei ghirigori della pavimentazione. Dopotutto guardarla era il massimo cui gli fosse concesso aspirare, o forse al massimo un ballo, l’unico modo per tenerla vicina.
Da lontano, portate dal vento che aveva preso a soffiare, iniziarono a giungere le note di One Last Wish di James Horner.
<< Adoro questa canzone, l’hai mai sentita? >> disse Evelyn smettendo di percorrere quegli itinerari immaginari e voltandosi in direzione della sala, dove probabilmente qualcuno la stava cercando.
<< Solo nel film >> rispose lui, sempre immobile, una mano in tasca e l’altra ancora a reggere i bicchieri.
La vide voltarsi verso di lui, sollevare il mento e stringere gli occhi e le labbra, come a volergli comunicare qualcosa, senza parole.
Le si avvicinò << Ti inviterei volentieri a ballare, ma dobbiamo tornare indietro >>.
La delusione che le lesse negli occhi prima che si voltasse lo stupì.
Evelyn si era già incamminata verso l’uscita, prima di rendersi conto che non aveva idea di dove fosse. I muri erano tutti identici l’uno all’altro.
<< Da che parte? >> chiese senza voltarsi.
Carpe diem.
<< E se non te lo dicessi? >> le sussurrò Riley a un soffio dal collo, mentre la avvolgeva tra le braccia.
Dopo quel gesto azzardato aspettò come minimo che arrivasse uno schiaffo, o uno dei suoi cazzotti ben assestati che aveva già avuto modo di verificare… tuttavia, con sommo stupore, sentì le sue dita delicate intrecciarsi attorno al suo collo e la vide chinare il volto di lato per poterlo guardare negli occhi.
Con una mano le risalì lungo le braccia e le cinse i polsi, forse per paura che ci ripensasse e lo lasciasse andare, o come semplice gesto di possesso.
Quando vide le sue labbra rosse tendersi in un sorriso le abbracciò i fianchi con le braccia e la girò verso sé.
Evelyn gli poggiò le mani ai lati del collo, sfiorandogli la mascella con la punta delle dita, senza capire il motivo del proprio gesto.
Quando aveva sentito il corpo di Riley contro il suo, aveva solo avuto paura che si allontanasse di nuovo. Perché solo in quell’istante si era resa conto che quando lo aveva vicino tutto smetteva di girare. Lui, il suo salvatore, era diventato l’unica certezza in quella confusione.
Tra quello che era stata la sua vita e quel che stava diventando, tra mezze verità e certezze terrificanti, quando c’era lui a tenerle compagnia, che recitasse la Divina Commedia o la parte del cavaliere, dimenticava tutto il resto.
Lo odiava, e lo voleva solo per sé, voleva solo litigarci.
Lo guardò negli occhi, e li trovò impazienti come quando l’aveva aspettata mentre scendeva lenta le scale.
Quel verde acceso fu l’ultima cosa che vide prima di abbassare le palpebre, un istante prima che le labbra di Riley sfiorassero le sue.
Il suo sospiro la baciò insieme alla sua bocca.
Evelyn dischiuse le labbra mentre Riley spingeva con le sue tanto da costringerla a piegarsi all’indietro, incontrando il sostegno della sua mano sulla schiena.
Il rumore del cristallo infranto, lasciato cadere con noncuranza, accompagnò la mano di lui che le carezzava il viso, prima di finire tra i suoi capelli per farle piegare la testa.
Lei spostò le mani sulla sua nuca e tra i capelli dorati, attraendolo ancor di più a sé, ancora una volta senza sapere cose fosse quel desiderio bruciante di averlo il più vicino possibile.
Riley accompagnò col capo un ultimo movimento delle labbra su quelle di lei.
Le liberò la bocca e si allontanò dal suo viso con riluttanza.
Evelyn ansimò e ci mise qualche secondo ad aprire gli occhi.
Quando lo fece trovò il suo viso ancora vicino, e pensò che il sorriso che le offrì fosse bello e tentatore come non ne aveva mai visti.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Come sale su una ferita ***


24. Come sale su una ferita


Ogni singola catastrofe che Evelyn prevedeva puntualmente si avverava.
Ed ecco che anche l’ultimo buon proposito per la serata era sfumato in una manciata di palpiti. E parlando di palpiti ci si aggirava intorno ai centoventi per minuto; il cuore le batteva forte, ora di rabbia, ora di qualcosa che non riusciva a spiegarsi.
Rabbia perché era stata come una sconfitta, cascarci così, come una ragazzina qualunque, vittima di quegli occhi verdi e del sorriso di quelle labbra umide e fin troppo morbide.
Se lì adesso ci fossero stati tutti coloro che in diciassette anni non si erano mai persi l’occasione di farle la morale le avrebbero detto che se l’era cercata. Lei avrebbe finto e mentito, com’era brava a fare, ma avrebbe saputo d’essere nel torto.
Lo aveva provocato, e le era anche piaciuto, ma era una tentazione… e tentazione la maggior parte delle volte vuol dire pericolo. Ma cosa può esserci di più seducente del rischiare?
Riley la teneva ancora stretta, il viso vicino al suo e un sorriso sulle labbra, malizia e dolcezza, come solo lui sapeva conciliarle.
<< Anche Evelyn ha un cuore >> le sussurrò in un orecchio.
Un sussurro che le fece tremare le gambe e trattenere il respiro.
<< Non illuderti >> rispose lei in tono pretenzioso, spostando le mani pallide poco più in basso del suo collo e facendo leva per scostarsi e poterlo guardare negli occhi. Trattenne a stento un gemito quando si rese conto che non ci riusciva.
Riley la attrasse a sé affondando con la mano tra i suoi boccoli scuri e le sfiorò appena le labbra con le sue, prima di sorridere e allontanarla, mantenendo solo il contatto delle loro mani.
Una bruciante voglia di schiaffeggiarlo s’impossessò di lei.
Si stava sicuramente vendicando di tutte le volte che gli si era sottratta, o si stava semplicemente prendendo la premura di dimostrarle che non riusciva più a farlo.
Fuori dalla sua visione sospetta delle cose aveva semplicemente sentito qualcuno avvicinarsi, << Arrivano >> le disse con un verso scocciato.
<< Chi? >> domandò lei, pentendosi un po’ di aver formulato pensieri querelanti.
<< La pattuglia di ricerca >>. Riley sembrava sul punto di scoppiare a ridere.
<< E che cosa cercano? >> continuò Evelyn, staccando fulmineamente le mani da quelle di lui, intuendo già la risposta.
<< Ovviamente te >> rise il ragazzo.
Lei non ebbe il tempo di proferire l’insulto che le si era arrampicato su per la gola che un tizio sbucò dal passaggio con un’espressione scombussolata in volto.
<< Tutto bene, mio signore? >> chiese l’uomo, rivolto a Riley.
Rimase sconcertata al sentire quell’appellativo.
<< Perdonatemi se ho interrotto qualcosa >> aggiunse tutto preoccupato.
La ragazza strinse i pugni e si morse le labbra senza riuscire a mascherare un’espressione di pura esasperazione.
<< Considerati scusato >> esordì Riley nello stesso istante in cui Evelyn si affrettava a enunciare con un sorriso fasullo << Non avete interrotto proprio niente! >>.
<< Ad ogni modo siete attesa dentro, milady >> mascherò con le parole il sorriso che il tono di lei gli aveva suscitato e sparì oltre l’edera.
<< Perché non hai negato? Sei un idiota Riley >> gli ringhiò quando furono di nuovo soli.
<< Se la memoria non m’inganna, la frase non mi è nuova… non sono bravo come te a mentire comunque >>.
Evelyn rise, non per divertimento << Non dire sciocchezze, mi hai mentito sin dal primo giorno che sono arrivata, tu e tutti gli altri >>.
Riley non si scompose minimamente << Allora puoi costatare tu stessa il mio poco talento, se è stato così evidente >>.
<< Oh no, credimi, sei stato bravissimo >>.
Evelyn parlava con noncuranza e restava immobile; non un segno di debolezza o ripensamento. Non aveva premeditato quel discorso, non aveva pensato al fatto di sbattergli in faccia tutta la verità, e la sua delusione per la poca sincerità che le aveva riservato, dopo che si era fidata di lui. Semplicemente all’improvviso la sua bocca aveva pronunciato parole troppo urgenti perché lei potesse riuscire a trattenerle.
<< Non è colpa mia >>.
<< E anche questa non è nuova >>.
<< Non mi piace mentirti >>.
Per un momento pensò che stesse cercando di ingannarla, ma la sincera tristezza che gli velava gli occhi smentì ogni sospetto.
<< Allora dimmi la verità >> sussurrò muovendo un passo incerto verso di lui.
Per la prima volta da quando lo aveva conosciuto, lui abbassò lo sguardo.
Le fu difficile tenere a freno le gambe e il sentimento, e resistere all’istinto di andargli vicino e stringersi il suo volto al petto per non vedere l’ombra in quegli occhi, solitamente limpidi, qualunque cosa fosse stata a offuscarglieli.
Orgoglio.
Maledetto orgoglio.
Evelyn ricordava bene da dove quell’uomo fosse entrato e uscito, e si avviò con passo sicuro e senza voltarsi indietro.
La raggiunse in un paio di falcate << Lascia almeno che ti riaccompagni dentro >>.
<< Dopo però non osare più avvicinarti a me >>.
Il petto di Riley tremò mentre incassava quel colpo dritto al cuore.
Ma era preparato all’evenienza, sapeva benissimo che sarebbe andata così.
C’era un’indissolubile coltre di bugia a separarlo da lei.

Nella sala la gente era raccolta in piccoli gruppi e chiacchierava in allegria.
Nonostante l’orchestra continuasse a suonare, in quel momento Eine kleine Nachtmusik di Mozart, le danze erano cessate.
Dopo la lieve luce lunare alla quale i suoi occhi si erano assuefatti, la forte illuminazione dorata dei lampadari di cristallo che allagava l’ambiente la costrinse a strizzare gli occhi un paio di volte.
<< Eccoti finalmente! Dov’eri finita? >> esclamò sua zia sollevandosi il lungo abito color pervinca fino alle caviglie e avanzando di corsa verso di lei.
Alla vista di una tale mancanza di grazia da parte sua, Evelyn si disse che doveva averla fatta preoccupare parecchio.
Fortunatamente non dovette dare spiegazioni che la stava già sospingendo frettolosamente verso l’incognito.
<< Vieni >> disse semplicemente, tranquillizzandosi e sorridendo.
Lei si voltò indietro per una frazione di secondo ed ebbe giusto il tempo di vedere Riley, ancora fermo a pochi passi dall’entrata, mimare con le labbra “Buon divertimento” e di sperare di aver interpretato male il labiale.

Quando la meta di Josephine si fece più vicina Evelyn la riconobbe come il drappello di eleganti comari dalla quale se l’era squagliata poco prima.
Mio Dio no, pensò abbassando lo sguardo a costatare le condizioni del vestito che aveva portato a spasso tra l’erba bagnata.
Prodigiosamente l’averlo sollevato fino alle ginocchia non aveva sortito solo la sbirciata di Riley, e la stoffa era pressoché asciutta e in condizioni decenti.
<< Evelyn! >> esclamò una delle signore abbracciandola.
Lei cercò di ricambiare al meglio l’affettuosa stretta, seppur non avendo la più sbiadita memoria di chi fosse quella donna.
<< Ovviamente non ricordi chi sono, l’ultima volta che ci siamo incontrate eri solo una piccola fanciulla infiocchettata di rosa >>.
Venire a conoscenza del fatto di essere già stata a Landry la scombussolò non poco.
<< Che bella che sei diventata, somigli un sacco a tua madre >> esordì un’altra con un sorriso intenerito.
<< La conoscevate? >> domandò senza pensarci.
<< Oh sì, Giudith veniva spesso a trovarci >> rispose un’altra, lo sguardo perso nei ricordi.
<< E’ stata una gioia sapere che avresti trascorso qui l’estate >>.
Evelyn sorrise, imbarazzata << Ne sono felice anch’io >>.
Dopo, come se il tappo di una vasca contenente migliaia di litri d’acqua fosse stato rimosso, iniziarono a chiedere a raffica.
Si sentiva preda di un interrogatorio sulla sua intera vita.
Le ponevano domande sugli argomenti più disparati e alcune le trovò anche parecchio strane.
“Dalle tue parti le persone sono gentili con te?”
“Hai delle particolari abitudini alimentari?”
“Esci spesso di mattina anche in estate?”
Era quasi giunta al punto di non ritorno, oltrepassato il quale non avrebbe ricordato neanche il suo nome per la confusione e la stanchezza, quando Alexander sopraggiunse a soccorrerla.
<< Perdonatemi se ve la rubo >> disse con un sorriso incantevole alle donne mentre la trascinava in salvo.
<< Grazie >> mormorò lei, alzando gli occhi al cielo.
<< Non fargliene una colpa, sono solo felici di rivederti >> iniziò Alexander.
<< Rivedermi? >> rispose enfatizzando le prime due lettere della parola.
<< Venivi spesso qui, con i tuoi genitori… >>.
<< Buono a sapersi, non sono una forestiera a tutti gli effetti >>.
<< Devi concedermi un ballo >> disse Alexander, conducendola al centro del salone.

L’esecuzione ininterrotta di ben tre valzer e un tango non era riuscita e stravolgere Evelyn quanto la vista di Sophie che da lontano le faceva cenno di raggiungerla, circondata da una folla di lunghi abiti ricamati e completi maschili d’altri tempi, e si era fatta strada nella sua mente la certezza che di lì a poco si sarebbe abbattuta al suolo in uno stato di morte apparente.
<< Questi tacchi mi stanno uccidendo >> disse gemendo, mentre il suo accompagnatore scoppiava a ridere.
<< Di già? Spero tu stia scherzando, è solo mezzanotte >> esclamò Alexander.
<< Già non mi stavi granché simpatico prima, ci mancava solo che fossi un nottambulo festaiolo >> si vendicò lei.
<< Il nottambulo festaiolo reclama un altro ballo >> disse trascinandola di nuovo in mezzo alla folla danzante.
Evelyn non capì se stesse cercando solo di divertirsi, se volesse salvarla da Sophie e da altre presentazioni, o se si fosse semplicemente messo in testa di provocarle una sincope.
<< Credo che perderò i sensi >>.
<< Preferisci raggiungere Sophie o Riley? >> chiese sarcastico.
<< Decisamente no, in entrambi i casi >> rispose decisa. Tirò fuori una sostanziosa dose di energia, stupendosene lei stessa, e si concentrò di nuovo sulla musica.
Oltre l’avambraccio del suo compagno di ballo, sollevato a reggere la sua mano, poteva scorgere il viso scocciato di Sophie, probabilmente troppo ansiosa di presentarle lo stuolo dei suoi amici.
Si voltò verso il biondo.
Quando costui fece per avvicinarsi, dopo appena tre passi, una mano lo afferrò per la giacca e lo tirò indietro con poca delicatezza.
Evelyn alzò le sopracciglia, al colmo dello stupore, vedendo Sophie lasciare la giacca di Riley e ringhiargli qualcosa, ricevendo in cambio la risata di lui.
Un attimo prima era dall’altra parte dell’ampia stanza, e quando aveva guardato in direzione di Riley era anche lì con lui.
<< O Sophie ha corso per tutta la stanza a una velocità assurda, o quello che mi hai fatto bere non era succo di frutta >>.
Alexander non avrebbe saputo dire quale delle due possibilità fosse peggiore, e alla fine optò per la dissimulazione << E’ stata solo la tua impressione >>; la cara vecchia risposta più vaga e adattabile a ogni situazione possibile.
Evelyn era troppo stanca e bisognosa di un appoggio sotto il fondoschiena per replicare.

Alla fine arrivò il momento che Sophie aveva atteso, tanto quanto Evelyn l’aveva rimandato, e quest’ultima si ritrovò in un angolo appartato della sala, tra divani di velluto rosso e vasi di rose e cristallo, circondata da una folla di estranei sorridenti.
<< Finalmente ci presentano >> esordì il ragazzo dai capelli rossi che aveva già visto in più di un’occasione.
<< Evelyn, Karl. Karl, Evelyn >> disse Sophie, accompagnando le parole con dei gesti delle mani.
Sembrava dare particolare importanza a quella singola presentazione, ignorando momentaneamente tutte le altre persone che parlottavano lì intorno.
<< Riley mi ha parlato molto di te >> continuò Karl in tono immensamente cordiale.
<< Mi sembra logico, sei suo fratello >> intervenne Sophie.
Evelyn rimase spiazzata << Non sapevo avesse un fratello >>.
<< Infatti, è Sof che ci definisce così, in realtà non siamo fratelli di sangue >>.
Sentire la sua voce e i suoi passi sul marmo freddo le fece irrigidire le spalle.
Riley affiancò Alexander, e solo in quell’istante lei notò che lo superava in altezza di qualche centimetro.
<< Ci stavamo giusto chiedendo dove fossi finito >>.
Evelyn volse lo sguardo, seguendo la scia di quel suono melodioso. A parlare era stato un altro ragazzo e lei calcolò che, almeno in apparenza, doveva essere poco più giovane di Alexander e un tantino meno bello di Riley.
<< Ev ti presento Christopher, per gli amici Chris >> lo indicò Sophie con un altro movimento aggraziato delle mani.
<< Lieto di conoscerti >> proferì mentre si chinava a baciarle il dorso della mano.
<< Spero che i comportamenti un po’ antiquati di alcuni di noi non t’impauriscano più >>.
Evelyn si chiese perché mai una simile galanteria avrebbe dovuto spaventarla, << Non l’hanno mai fatto >> rispose al nuovo arrivato che aveva parlato, un ragazzo che adesso se ne stava poggiato con il gomito sulla spalla di Karl, sotto lo sguardo scocciato di quest’ultimo << Ti spiacerebbe, Harvey? >> disse il rosso scrollando la spalla.
Quello obbedì e incrociando le mani dietro la schiena gli sorrise. Poi aggiunse << Ebbene una ragazza d’altri tempi >>.
<< Non sei il primo a dirmelo >>.
<< Harvey era convinto che avendo vissuto in una città come Aberdeen, non ti trovassi bene in un posto come questo >> s’intromise Christopher, che adesso era accanto a Harvey senza che lei avesse percepito un minimo movimento attorno a sé.
Harvey e Christopher.
Improvvisamente la sua mente aveva associato i due nomi, e lei fu certa di averli già sentiti insieme.
<< Mi piace qui, mi trovo bene >> rispose con un sorriso.
<< Ne siamo felici! >> cinguettò una voce femminile alle sue spalle, nella quale Evelyn colse l’eco di un impercettibile accento francese.
Non ebbe il tempo di voltarsi che i due giovani, una ragazza e un ragazzo, l’avevano già raggiunta.
<< Eravamo così ansiosi di vederti >> continuò la ragazza, prendendole una mano tra le sue << Sono Margareth, ma puoi chiamarmi Mar >>.
<< Piacere di conoscerti >> cercò di ricambiare il suo entusiasmo Evelyn.
<< Il piacere è tutto nostro >> intervenne il ragazzo porgendole la mano << Io sono Cedric >>.
Mentre gli stringeva la mano pensò che anche quei due nomi erano in qualche modo familiari.

Sophie le presentò un’altra decina di persone, per la maggior parte coetanei.
Evelyn era troppo confusa per riuscire a prestare una sufficiente dose d’attenzione, e anche lei stessa era consapevole di apparire alquanto distratta.
Tuttavia cercava di partecipare in modo gentile a tutte le conversazioni nelle quali la coinvolgevano, e le ore passavano.
<< Devi essere molto stanca >> disse con un sorriso un tale che le era stato presentato col nome di Tristan.
<< Infatti, credo sia giunta l’ora di tornare a casa >>.
Quella proposta era troppo allettante perché la consapevolezza di chi fosse a farla potesse dissuaderla dall’accettare.
Riley le circondò la vita con un braccio e lei non si scompose minimamente.
Non si disturbò di aprire bocca e salutò tutti solo con un sorriso.
Quelle persone erano sembrate gentili e sinceramente interessate a fare la sua conoscenza, ma senza che lei stessa ne capisse il motivo, ai suoi occhi tutto appariva ricoperto da un velo di falsità.

Non era abituata a prendere parte a simili eventi e non avrebbe saputo dire se si fosse comportata in modo decoroso o meno. Ma non le importava più di tanto.
Aveva sempre più dubbi e meno certezze.
Ripensò alle poche righe che aveva letto su quel libro e insieme a quelle frasi nella sua mentre comparvero anche i nomi vergati sul foglio che aveva trovato nella cattedrale. Ci volle un secondo per rendersi conto che alcuni combaciavano con quelli che aveva sentito pronunciare quella sera.
Chi erano in realtà?
All’improvviso gli occhi le diventarono lucidi e un brivido le salì per la schiena.
La gente che aveva appena conosciuto non le era vicina, niente la legava a loro, e passò in secondo piano quando pensò a chi in realtà per lei adesso era importante. Aveva paura, di perdere i pochi e ancora incerti affetti che era riuscita a conquistare nelle sua vita.
Come se tutto a un tratto vedesse Josephine, Sophie, Sebastian e tutti gli altri lontani.
Si sentiva di nuovo sola, senza una precisa ragione.
<< Hai freddo? >> le chiese Riley.
Erano arrivati davanti alla jeep, parcheggiata in un angolo appartato del giardino, appena fuori del cancello, ed Evelyn si chiese come ci fosse finita lì, visto che non era con quella che erano arrivati.
Lui la stava fissando, nell’illusoria attesa di una risposta.
Evidentemente non aveva creduto alle sue parole.
Evelyn detestava non essere presa sul serio.
Sollevò lentamente lo sguardo e glielo piantò addosso con tutta l’indifferenza di cui era capace.
Non cambiò atteggiamento nemmeno quando le circondò le spalle con la sua giacca.
Non ho freddo. Lo so, tremo. Ma non per il freddo.
Le aprì lo sportello e si avviò al posto di guida.
Tutto il tragitto fu accompagnato dal silenzio della rabbia e tristezza di Evelyn e dal fracasso dei loro respiri.
Perché mi costringi a farti questo? Se davvero ti fa male, dimmi la verità.
Riley non la guardò nemmeno una volta, come se la guida richiedesse troppa concentrazione.
Sembrava sereno, ma il modo in cui stringeva il volante lasciava intendere tutt’altro.
Evelyn si voltò verso il finestrino, ma vide solo buio.
In un attimo quel buio si colmò di ricordi.
<< Elisabeth? >>.
Era sola anche quella volta. Dimenticata, in una delle mille e più volte della sua vita.
<< Mi dispiace tanto per questo inconveniente, ma potrei spiegarti tutto in macchina? Fa un freddo cane e sei praticamente bagnata fradicia >>.
<< Dici sul serio? Non ci avevo fatto caso >>.
Rispondeva amara. Ancora una volta l’unica cosa che riusciva a fare per difendersi era arrabbiarsi, non accettare scuse, tenere chiunque lontano da sé.
Con lui però non ci era riuscita.
Più volte le era stato vicino, le aveva insegnato cos’era il calore del sentimento, la consapevolezza che a qualcuno importava di lei, e il ricordo era come sale su una ferita.
Ricordò di come lo aveva odiato.
<< Dovresti guardare la strada >> gli diceva mentre lui si ostinava a guardare lei.
<< Se hai paura che ci schiantiamo contro qualche albero allora mettitelo, così io posso tornare a concentrarmi sulla guida >>.
Aveva avuto paura, perché come una sciocca aveva sempre creduto alla menzogna dell’incidente stradale.
Invece i suoi genitori erano stati uccisi da qualcuno che adesso voleva anche lei.
Quante bugie le avevano raccontato.
Aveva preso quel maledetto giubbotto, purché lui tornasse a guidare con attenzione, ma non aveva detto nulla, non gli aveva detto che l’aveva terrorizzata.
<< Non è stata colpa mia, chiaro? >>.
<< Non m’interessa, chiaro? >>.
Non era stata colpa sua, eppure lei se l’era presa lo stesso con Riley. Senza pietà, solo perché aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno.
<< Mi hai mentito sin dal primo giorno che sono arrivata >>.
<< Non è colpa mia. Non mi piace mentirti >>.
<< Non osare più avvicinarti a me >>.
Senza pietà.
Riley continuava a fissare la strada, gli occhi adombrati da qualcosa di troppo diverso dalla familiare, dolce malizia che li illuminava di solito.
Soffriva per lei, forse. Ma non era lui che Evelyn voleva ferire.
Fa male anche a me.
Quella pietà la negava a se stessa.
Non gli avrebbe rivolto la parola, sarebbe stata di nuovo sola, nella menzogna.
E dal ricordo avrebbe capito che era stato solo un errore credere che qualcuno avrebbe potuto volerla per sé.
Riley l’avrebbe dimenticata in fretta, come anche tutti gli altri, quando sarebbe tornata a casa, lontano dalla verità e dal quel mondo al quale nessuno voleva che appartenesse.

Evelyn scese dalla jeep nello stesso istante in cui si fermò nell’ampio viale, senza nemmeno aspettare che Riley spegnesse il motore.
Distruggere allo stesso tempo se stessa e lui necessitava di un certo talento masochistico e una dose spropositata di orgoglio, ma quest’ultima decisamente non le mancava. Per quanto riguardava il primo Riley non avrebbe saputo dire se si fosse trattato di autolesionismo o se nella peggiore nelle ipotesi lei non soffrisse affatto. Era probabile che di lui non le importasse più di tanto.
Eppure non riusciva sempre a nascondere i suoi sentimenti e ogni tanto, seppur con una certa difficoltà, poteva leggerli nelle sfumature dei suoi occhi.
Per questo la raggiunse con poche falcate e la costrinse a fermarsi afferrandola per un polso.
<< Davvero hai intenzione di non parlarmi? >>.
Adesso nei suoi occhi c’era rabbia, come di regola.
Si strappò alla sua presa e corse su per le scale, senza fare parola.
Riley sentì la porta sbattere con violenza, poi corse di sopra anche lui.
Evelyn era ancora in piedi al centro della stanza.
Se davvero non le importava, doveva saperlo con certezza. E se così non fosse stato al diavolo tutto quel che dicevano gli altri.
Non aveva importanza che fossero diversi, che lei appartenesse a un altro mondo, avrebbe trovato una soluzione anche alle menzogne che era costretto a raccontarle pur di poterla stringere di nuovo. Come una notte senza stelle di parecchi anni prima, quando una bambina piangeva tra le sue braccia, non ancora del tutto consapevole di quel che era successo e di quel che la aspettava.
Ma d’altro canto pienamente consapevole non lo era nemmeno adesso.
Quando le fu vicino Evelyn non si mosse, negli occhi orgoglio e rabbia.
Le sollevò il viso prendendole il mento tra l’indice e il pollice, costringendola a guardarlo dritto negli occhi.
<< Non mi parlerai più? >> le sussurrò.
I loro visi erano così vicini che il suo respiro le sfiorò le labbra.
Devi pur dire qualcosa, un insulto, una frase disarmante delle tue, qualunque cosa.
Devi pur parlarmi per mandarmi al diavolo.
Evelyn ardeva di rabbia, come un’amante che si trova in una stanza da letto con l’oggetto del proprio desiderio arde di passione.
Si morse le labbra tanto violentemente che a Riley parve di sentire quel dolore sulle sue. Non poteva tollerare di vederla soffrire, che fosse un dolore fisico o morale.
Evelyn tentò di sottrarsi quando Riley avvicinò ancor di più il viso al suo, si ritrasse all’indietro con la schiena, nonostante ci fosse la sua mano a sorreggergliela, ma lui non era mai stato un tipo arrendevole.
Lei deglutì e chiuse gli occhi mentre sentiva sulle labbra il tocco possessivo di quelle di lui.
Spostò la mano dal suo viso alla nuca, per attrarla ancor di più a sé.
Non mi gridi che sono un idiota stavolta, Ev? Proprio adesso che voglio più di ogni altra cosa che tu lo faccia.
Quando sentì le sue mani sul viso e il suo sorriso sulle labbra pensò che ingannarla fosse più difficile di quanto pensasse.
Ma l’urgenza di sentire la sua voce era troppa.
Le liberò la bocca e si chinò a baciarle il collo, scendendo sempre più giù e spingendola sempre più in là.
Quando arrivò all’altezza del seno e sentì i battiti furiosi del suo cuore, lei non aveva ancora accennato ad aprir bocca.
Le carezzò la schiena con la mano e la costrinse a inarcarsi, chinandosi sopra di lei, sollevandole la gamba che restava scoperta dallo spacco del vestito.
Quando risalì col viso fino al suo, pronto a trovare quegli occhi scuri colmi di odio e rabbia, rimase sconcertato alla vista di un sorriso che gli tolse il fiato.
Se il suo intento era di farlo impazzire, ci stava riuscendo benissimo.
Si chinò di nuovo sulla sua bocca, incurante delle intenzioni di lei, che fossero d’inganno o riappacificazione.

Come sale su una ferita.
Il contatto con le labbra di Riley bruciava da morire, di rabbia e orgoglio infranto, ma allo stesso tempo sanava ogni graffio di solitudine.
Non poteva più costringersi a stare lontana da lui, nonostante falsità e incertezze.
Come sempre, tra le sue braccia il mondo smetteva di girare, o per lo meno rallentava.
Risalì con le dita tra i suoi capelli dorati e gli trascinò il viso lontano dal suo, lui raddrizzò e la tiro su, sorridendo.
<< Dimmi che sono un idiota >>.
Evelyn ricambiò il sorriso, poi mosse la testa prima a destra e poi a sinistra, lentamente, gli occhi fissi nel verde di quelli suoi.
Pensò che Riley dovesse aver deciso che non era stato abbastanza quando in un attimo fu dietro di lei, a respirare l’odore della pelle del suo collo, prima di baciarlo.
<< Non posso dirti la verità >> le sussurrò all’orecchio, con una nota di tristezza nella voce, e lei non gli avrebbe parlato se prima non l’avesse fatto.
In una frazione di secondo, senza nemmeno pensare a quel che stava facendo, chinò la testa per poterlo guardare, poi si voltò verso di lui e stavolta fu lei ad avvicinarsi alla sua gola. Lui rimase immobile, le mani sui suoi fianchi, la testa china, in attesa.
Portò una mano sulla sua guancia e con l’altra gli afferrò la stoffa della camicia, poi dischiuse le labbra e dopo averlo attratto ancor più vicino serrò i denti sulla pelle candida del suo collo.
Lui sussultò, non di dolore.
Quando Evelyn sollevò il viso per guardarlo vide stupore e incertezza, e solo dopo un attimo di esitazione Riley si decise ad annuire.






Salve a tutti! (ammettendo che ci sia ancora qualche anima pia che continua a leggere)... voglio scusarmi per il ritardo; si da il caso che uno dei miei tanti nomi sia "quella dell'ultimo secondo", e sono solita dare grande prova della sua veridicità negli ultimi dieci giorni di scuola, dandomi da fare per recuperare tutto ciò che ho sciaguratamente ignorato per il resto dell'anno e mantenere dei buoni voti.
Da adesso in poi cercherò di essere più puntuale negli aggiornamenti.
A presto, Ell :)

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Tradimento ***


25. Tradimento


Come un corpo troppo pesante se lanciato nel vuoto inevitabilmente precipita, Evelyn si sentiva sprofondare verso un abisso sconosciuto.
Lei che non si meravigliava davanti a nulla, che assorbiva l’urto di ogni amara notizia come un muro di cemento armato si smembra sotto battiti d’ala di una farfalla, adesso non avrebbe saputo riconoscere quel che stava provando come eccessivo stupore o semplice paura.
Qualunque cosa appresa da dicerie e supposizioni varie non si considera nemmeno, in verità. Ma quando la conferma arriva, anche se dopo tempo, ci si ritrova lì, stupiti e con la bocca che non vuole saperne di serrarsi, impreparati, impauriti.
Chiuse gli occhi, mentre quelli di Riley la fissavano, in attesa di una reazione.
<< Suppongo sia tutto ciò che posso sapere >> parlò facendosi coraggio, e deglutendo dopo aver sentito la sua voce tremante come non mai.
<< Credo sia abbastanza, per ora >> rispose atono, forse pentito << Non sopporteresti di più >>.
<< Lo sapevo già >> cercò di ribattere, con un tono di forzata sicurezza che non fece altro che accentuare la reale esitazione.
<< Ma non ci credevi, fino ad ora >>.
<< Vattene Riley >>.
Impossibile pensare che Evelyn Guinevere Mcgrath, da poco diventata DeMordrey e Mezzosangue, avrebbe preferito un pianto consolatore tra le braccia di qualcuno, piuttosto che restarsene da sola a macerarsi nel suo dolore.
Riley si era ripetuto più e più volte nella mente quella frase, sapeva bene come sarebbe terminata quella discussione; non aveva idea tuttavia del perché a quella ragazzina non sapesse dire di no, e di come fosse riuscita a estorcergli quell’assenso.
<< Un giorno forse capirai >> disse prima di lasciarla; l’aforisma delle risposte negate, di genitori a figli troppo piccoli con domande troppo grandi, di eroi epici a personaggi secondari, di amanti in partenza senza un perché, di momenti in cui il dolore strozza le parole in gola, di chi agisce senza una ragione, di chi una vera risposta in realtà non ce l’ha, che tuttavia in bocca a lui suonava leale.
Quando uscì dalla stanza Riley si abbandonò con le spalle contro la porta chiusa, sospirando, nello stesso istante in cui Evelyn scivolava a sedere sul pavimento lì vicino e sollevava la testa, in cerca di aria, senza che nessuno dei due potesse vedere l’altro.
Di sotto attendevano Josephine e Sebastian, rientrati in quel preciso istante, che vedendo scendere Riley gli andarono incontro.
<< Qualcosa non va? >>.
<< Tutto non va, zia Jo >>.
<< Le passerà >>.

Che devo fare adesso?
Evelyn si tolse l’abito e affondò tra le coltri del letto, senza nemmeno considerare la camicia da notte.
Nessuno gliel’aveva ancora detto, ma alcune certezze ne portano altre, e se adesso la parola “vampiro” aveva assunto una consistenza reale, anche “mezzosangue” doveva pur significare qualcosa.
Quale delle due temesse di più, non lo sapeva.
Riuscì a chiudere gli occhi per dormire solo dopo che svariati minuti di supposizioni varie avevano accentuato la sua ansia.

La mattina seguente qualche non troppo sporadico boato in lontananza e le sue ossa indolenzite, promettevano pioggia.
Dopo un tentativo di ricordare cosa avesse sognato, senza successo come sempre, corse in bagno e si preparò in fretta per la giornata.
Indossò jeans scuri attillati, un golfino pesante e un paio di stivali di camoscio che le coprivano le gambe quasi fino al ginocchio.
Nella tracolla mise il libro ripescato dal cassetto dove l’aveva accuratamente celato a occhi indiscreti, un coltellino multiuso che aveva trovato in mezzo alla polvere da qualche parte nella casa e un sacchetto di caramelle colorate dei tanti che Dalia le propinava settimanalmente, sostenendo che una buona dose di zuccheri in circolo nei vasi sanguigni fosse sempre d’aiuto.
Spuntò nella sala da pranzo, dove sua zia stava facendo colazione con il giornale in mano, già coperta dal cappotto.
Josephine la scrutò socchiudendo gli occhi << Vai da qualche parte? >>.
A Evelyn il suo tono parve eccessivamente disinteressato, come se avesse qualcosa di più importante cui pensare, in quel preciso momento.
<< A dire il vero sì, posso? Avrei un appuntamento e sono in ritardo >> rispose sicura.
<< Un appuntamento? >> chiese l’altra, prima di volgere lo sguardo fuori dalla finestra, improvvisamente attratta da qualcosa nel panorama uggioso di quella mattinata.
<< E’ successo qualcosa? Sembri… distratta >> tentò di dissimulare.
<< Dicevamo, un appuntamento? >> ripeté la donna riscuotendosi, come se non avesse sentito l’ultima frase della ragazza.
<< Con Riley >>.
Gli occhi di Josephine s’illuminarono, sorrise e poi disse << Hai bisogno di un passaggio? >>.
<< Veramente avevo pensato di fare una passeggiata, attraverso il bosco la strada per la città non è poi… >>.
<< Sei impazzita? >> esclamò quella mettendo fulmineamente giù il giornale.
<< Ma no! Volevo dire… che Riley mi aspetta nel bosco appunto >> si corresse.
Josephine adorava Riley, e si fidava di lui a tal punto da non avere dubbi sul fatto che non avrebbe mai lasciato che sua nipote se ne andasse a spasso nel bosco da sola.
Questo se un appuntamento ci fosse realmente stato.
Evelyn si sentiva un po’ in colpa per quella bugia, nei confronti di Riley più che in quelli di sua zia, perché sapeva benissimo che l’avrebbe coperta, anche a costo di mentire a Josephine che lo stimava tanto; certo poi cosa le avrebbe fatto non osava nemmeno immaginarlo, ma a quello avrebbe pensato dopo.
Dopo aver salutato sua zia con affetto, accantonati i sensi di colpa e fiera di sé per la riuscita della prima parte del piano, uscì dalla porta principale e si avviò verso il fitto degli alberi.
L’aria era così fredda che trapassava anche la stoffa pesante degli abiti e per di più soffiava una brezza gelida, portando con sé una nebbiolina che si manteneva però all’altezza delle caviglie.
Nonostante la temperatura non fosse delle migliori, Evelyn si godeva il paesaggio e l’odore confortante del bosco.
Dopo venti minuti o poco più riusciva già a intravedere qualche guglia di pietra in lontananza; aveva camminato abbastanza velocemente, mandando giù qualche caramella e riuscendo a non inciampare anche nei tratti dove il terreno era scosceso.
Dopo un altro quarto d’ora di marcia era già in città.
Non le ci volle molto per rendersi conto che le vie erano ancora una volta completamente deserte.
<< Ciao Evelyn! >>.
O quasi.
Si voltò verso la fonte di quel suono cristallino e dal sapore innocente.
<< Grisham! >> esclamò al colmo dello stupore.
Il bambino le corse incontro e lei si piegò sulle ginocchia per poterlo guardare in viso.
<< Che ci fai qui? >> la anticipò, prendendole le mani e sorridendo.
<< Una passeggiata, e tu? Sei solo? >> chiese preoccupata.
<< No c’è la mamma, ma è dentro la bottega da un’ora e mi stavo annoiando >> disse con una punta di soddisfazione per la fuga ben riuscita.
<< La farai morire di spavento, torna subito dentro! >>.
<< Ma no, che vuoi che mi succeda, di sicuro si è già accorta che sono uscito >> la tranquillizzò.
Ancora una volta Evelyn si stupì di quanto fosse precoce.
<< Sicuro che non vuoi che ti riaccompagni dentro? >>.
<< Sicuro. Vai di fretta? >> chiese con tristezza.
<< A dire il vero sì, ma ci vediamo presto >>.
<< Va bene, però attenta Evelyn, non è una bella giornata >>.
La abbracciò e si allontanò sorridendo.
Non sempre capiva il senso delle parole di quel bambino dai capelli rossi.
Lo seguì con lo sguardo finché non lo vide oltrepassare una porta con un’insegna, della quale a quella distanza non riusciva a decifrare i caratteri, poi si allontanò imboccando una viuzza lunga e strettissima.
In quel posto era come se tutti vivessero in simbiosi.
Se un giorno sua zia era preoccupata e lanciava sguardi perplessi qua e là per il bosco che si stagliava oltre il vetro delle finestre, Rose e Dalia si comportavano nella stessa maniera, guarda caso Sebastian non era mai in casa, la città appariva quasi disabitata.
Il dolore ai palmi delle mani e alle ginocchia la riscosse dai suoi pensieri.
Sua madre glielo diceva sempre che doveva tenere gli occhi ben fissi sulla strada quando camminava, solo che quando pensava troppo lei semplicemente smetteva di vedere.
Si rialzò sfregandosi le mani e cercando sul selciato cosa l’avesse fatta inciampare. A pochi centimetri di distanza da lei era gettata per terra una gabbia di ferro, di quelle che di solito ospitano volatili di medie dimensioni.
Contemporaneamente alla certezza di averla già vista, giunse la vista del disordine che regnava attorno a lei.
Sul lastricato facevano compagnia alla gabbia parecchi libri, pagine sparse e qualche brandello di vetro che nella sua caduta aveva miracolosamente evitato.
Alla sua destra si apriva una porta che dava su un ambiente buio, che lei conosceva bene.
Attenta a non calpestare nulla entrò guardandosi attorno.
<< C’è nessuno? >> chiese a voce alta, procedendo nel caos generale, che dentro era anche peggio che fuori; interi scaffali erano abbattuti al suolo e un sacco di vetrine erano state mandate in frantumi insieme a quel che contenevano.
Non le pervenne nessuna risposta. Della vecchia con l’occhio di vetro nemmeno l’ombra.
Stava per uscire quando un odore pungente le pizzicò le narici; l’inconfondibile puzza di bruciato le provocò qualche colpo di tosse.
Seguì la poco gradevole scia e si ritrovò davanti a un ripiano di legno sul quale era poggiato un rozzo braciere circolare, all’interno del quale bruciavano i resti di qualcosa d’inconfondibile. A Evelyn si strinse il cuore. Una decina di quelli che un tempo erano stati libri venivano inesorabilmente divorati dalle fiamme ormai morenti.
<< Chi può aver fatto una cosa simile? >> domandò a nessuno, uscendo da quel luogo ormai devastato con un’ultima occhiata sconcertata.
Una volta fuori si allontanò in fretta, pensando a cosa potesse essere successo e quel posto e alla sua proprietaria.
La risposta non le piacque per niente.
<< L’hanno portata via che ancora strillava come un’ossessa, chiedeva “pietà per i suoi poveri libri” o qualcosa del genere >>.
Era sul punto di svoltare un angolo quando quella voce l’aveva costretta a fermarsi.
<< Tanto per lei non potranno fare nulla, ha tradito. E’ inutile anche cercarla >> rispose acida e rassegnata un’altra voce.
<< Questo perché nessuno mi da mai retta, l’avevo detto che avrebbe portato solo guai, mi viene da piangere quando penso che il mio… >>.
<< Ciao Lisa! >> esclamò Evelyn scostandosi dal muro e mostrandosi alle tre ragazze che stavano conducendo quella conversazione.
…Che il mio Riley le rivolge anche solo la parola. Completò poi al posto suo senza aprir bocca.
<< Evelyn >> rispose la bionda con un sorriso falso.
Oh, il tuo Riley fa molto più che rivolgermi la parola, pensò mordendosi le labbra per non sputarle in faccia quel veleno.
<< Qual buon vento? >> continuò quella, mentre le due giovani che erano con lei si riempivano gli occhi di luce maligna.
<< Nulla, ero solo in cerca di qualche bambino da bollire vivo, o in extremis anche qualche cucciolo di cane o gatto, se proprio di bambini non se ne trovano >>.
<< Ma piantala, io e te siamo amiche, lo sai benissimo che non ti vedo come una nemica >>.
<< Ma certo. Adesso vogliate scusarmi, prima che tutti i pargoli del vicinato rincasino, mi appropinquo. Au revoir! >> le salutò cordialmente incamminandosi.
<< Ci si vede presto Evelyn! >> le giunse la voce di Lisa quando era già lontana.

Cercò di fare più in fretta possibile, e quando giunse alla cattedrale corse fino all’ingresso.
Il suo piano iniziale prevedeva sì di arrivare lì, ma con meno domande.
Il prete che pochi giorni prima l’aveva aiutata a scappare si era mostrato così propenso a sciorinarle qualche verità, che aveva subito pensato a lui anche dopo gli ultimi avvenimenti.
Aveva bisogno di sapere cosa c’entrasse lei con quel che era successo in quella bottega che gridava distruzione.
La navata centrale era come se la ricordava, forse solo più luminosa dell’ultima volta.
<< Posso aiutarvi? >> chiese una voce femminile dall’altare.
<< Cerco il parroco >> rispose consumando la distanza che la separava dalla sua interlocutrice.
<< Non c’è. Volete lasciare… Santo Cielo! >> la donna, una parrocchiana robusta sui cinquanta, si portò le mani giunte all’altezza del viso << Che ci fate voi qui? >>.
<< Mi pare di averlo appena detto >> balbettò Evelyn.
<< Non dovreste andarvene in giro da sola! >>.
<< Sì, lo so. Potrei sapere dove posso trovarlo? Me ne vado subito >>.
<< Invece non vi muovete da qui, non potete uscire >>.
<< Non sono sola, c’è… >> a tali parole il viso della donna parve distendersi, in attesa che completasse la frase << Riley, con me, è qui fuori >> mentì, pensando che, per quanto quel nome potesse incredibilmente servire da lasciapassare con chiunque, non avrebbe dovuto usarlo così.
<< Davvero? Allora potreste portargli questo? >> la parrocchiana cambiò del tutto atteggiamento. Si rasserenò e porse con la mano destra un biglietto ripiegato che aveva tirato fuori da una tasca del grembiule che indossava sull’abito.
<< Ma certo >> rispose con un sorriso la ragazza.
<< Ditegli di portarvi a casa piuttosto >>.
<< Senz’altro >> la assecondò << E il parroco? >>.
<< E’ fuori città, ora andate >>.
La salutò con un cenno del capo, riponendo le sue speranze nel biglietto che aveva in mano. Lo aprì non appena fu fuori.

Abbiamo trasferito i registri al monastero sulla scogliera, per sicurezza.
Sono arrivati all’improvviso e non abbiamo potuto fare niente per fermarli. Hanno preso Maryan e con gli altri sto partendo sulle loro tracce.
Occupati di Evelyn, cercheranno anche lei.
Non fare l’eroe.
Padre Tim

<< E adesso? >> si lamentò con se stessa.
Per un momento pensò di tornare indietro, a casa ad aspettare Riley, e smetterla di giocare al detective, ma quando si sta per fare una scelta coscienziosa arriva sempre qualcosa a dissuadere dalla retta via.
Un paio di ombre si riflettevano sui muri che costeggiavano la strada che aveva percorso per arrivare alla piazza dove si trovava.
Prima di iniziare a correre verso un passaggio che aveva in precedenza intravisto oltre il porticato, aguzzando la vista, si rese conto che no, non si riflettevano, e allora corse più veloce.
Attraverso una serie di vicoli che sembrarono non finire mai, arrivò al limitare del cimitero, in una zona che da subito notò essere diversa da quella in cui era già stata.
Scavalcò il recinto di ferro battuto e si guardò indietro, tirando un sospiro di sollievo vedendo che, almeno in apparenza, non la seguivano più.
Percorrendo i vari sentieri ricordò di quando c’era stato Riley con lei, e le gambe quasi le cedettero al confronto di come aveva paura adesso che era sola, ma detestava tirarsi indietro e dalla determinazione che le era rimasta trasse la forza per procedere.
Nonostante l’idea lugubre che si aveva di luoghi come quello fosse certamente più che fondata, dopo qualche minuto la paura sparì del tutto per lasciar posto a un senso di tranquillità, quasi rilassamento.
Camminò finché non riuscì a scorgere il confine con il bosco, dopodiché scavalcò di nuovo e fu fuori.
Una vaga reminiscenza le suggerì che la costa era a Nord, e una volta fuori dalla necropoli pensò di affidarsi al buon vecchio trucco del muschio sugli alberi.
Grazie alla collaborazione del suo senso dell’orientamento fu facile individuare il percorso da seguire, il terreno era però più impervio delle altre zone che aveva già visitato, e la stanchezza si fece sentire già dopo poco tempo; inoltre la vegetazione era tanto fitta che, anche a causa delle nuvole che si mescolavano in cielo, la luce era scarsa.
Quando si voltò di scatto, spaventata da un rumore alle sue spalle, pregò che la suggestione non le giocasse di nuovo qualcuno dei suoi tiri.
Si disse con rabbia che quel posto l’aveva trasformata in una codarda.
Dopo gli ultimi avvenimenti non avrebbe più potuto attribuire tutti gli spauracchi alla fantasia popolare; probabilmente se i suoi cugini avessero di nuovo provato a spaventarla con le loro storielle, ci sarebbero riusciti. Non avrebbe dormito per notti e notti, pensando a quando Riley aveva fatto crollare, con un semplice gesto del capo, metà delle certezze che l’avevano accompagnata fino a quel momento.
La sua vita stava cambiando, e lei non riusciva a starle dietro. Ma dopotutto aveva sempre detestato i cambiamenti. Anche quando sua madre si svegliava di buona mattina con l’intenzione di rivoluzionare la disposizione dei mobili in sala da pranzo, lei si opponeva, e se proprio non riusciva a dissuaderla, le ci volevano parecchi giorni per abituarsi alla novità.
Una folata gelata le fece incrociare le braccia per stringersi le spalle con le mani, e solo allora si accorse che poco distante da lei il susseguirsi dei fusti degli alberi s’interrompeva. Affrettò il passo e una volta fuori dal fitto la luce la accecò per qualche istante. Quando riuscì a mettere a fuoco, si trovò davanti a una vista mozzafiato; parecchi metri d’erba che ondeggiava e si fletteva al ritmo del vento lieve la separavano dalla linea frastagliata della scogliera, dove il verde luccicante del prato e il blu cupo del mare illusoriamente s’incontravano.
Giunta al bordo dello strapiombo ammirò l’altezza sconcertante e le onde che s’infrangevano con violenza contro la roccia.
Non sei qui per ammirare il paesaggio, si disse, decidendosi a incamminarsi verso una costruzione di pietra che spiccava nello scenario, essendo l’unica.
Le gambe le dolevano per le precedenti camminate, ma con un certo sforzo riuscì a consumare anche quell’ultima distanza.
La struttura era molto simile a tutte le altre che costituivano la città, anch’essa circondata da una muraglia, che tuttavia era piuttosto bassa rispetto alle altre che aveva visto, costruita con estrema perizia sul bordo della costa, così da potersi affacciare direttamente sulla distesa d’acqua sottostante.
Si prese solo qualche secondo guardarsi attorno, poi si avvicinò al portone di legno; lo trovò molto piccolo, per una costruzione come quella, che aveva quasi le sembianze di un castello piuttosto che di un monastero.
Pensò che bussare fosse la cosa più stupida che potesse fare.
Tirò fuori il coltellino e cercò l’arnese che potesse fare al caso suo tra i mille che possedeva, il che appunto per questo si rivelò di una certa difficoltà. Alla fine selezionò una sorta di sottilissima stecca di ferro che terminava con un uncino altrettanto sottile piegato all’insù; non aveva idea di quale fosse la sua reale utilità, ma quando la serratura scattò, considerò che quell’arnese fosse appartenuto a qualche ladro. Non era stato difficile e non c’era voluto nemmeno troppo tempo per lei che aveva letto talmente tanti libri che da almeno una decina aveva attinto a simili conoscenze sull’arte degli scassinatori.
Con una spallata la porta si aprì, e un ambiente piuttosto buio e polveroso si rivelò agli occhi di Evelyn.
Esitò un istante prima di entrare e lo fece solo dopo essersi detta che era un buon modo per dimostrare che non era ancora del tutto diventata una vigliacca.
Una volta dentro l’odore di chiuso la fece tossire.
Ma che monastero, qui non dev’esserci anima viva, pensò mentre procedeva, attenta a non inciampare.
Sollevò lo sguardo dal pavimento appena un istante, e bastò per vedere scomparire fulmineamente una sagoma evanescente che stava percorrendo il corridoio andandole incontro.
<< Ecco appunto, viva >> disse ad alta voce per riempire il silenzio, fermandosi un istante, mentre il suo cuore galoppava.
<< Ci vuole molto più di questo per spaventarmi >> sibilò con stizza, ricominciando a camminare, stanca di lasciare che gli abitanti di quel posto maledetto si prendessero gioco di lei.
Il corridoio che aveva percorso terminava con una porta di legno che oppose resistenza quando ne abbassò la maniglia e spinse. Riprese il fedele coltellino multiuso che aveva tenuto in tasca e prese ad armeggiare con la serratura.
Fu un refolo d’aria fredda a costringerla a guardarsi le spalle.
Non può essere.
Il grimaldello improvvisato le cadde di mano.
I fantasmi non esistono.
Si alzò, appoggiandosi alla porta chiusa con le spalle.
La figura continuava ad avanzare verso di lei, lentamente. Evelyn distinse dei capelli lunghi, che dovevano probabilmente celare un volto femminile e una lunga veste candida che strusciava sulla pietra fredda del pavimento.
Non bastavano i vampiri e le ombre, adesso anche gli spiriti.
<< Al diavolo >> esclamò esasperata. Si allontanò di qualche passo dalla porta, senza voltarsi verso qualunque cosa fosse quel che stava cercando di raggiungerla, e dopo aver preso una breve rincorsa colpì con la spalla il legno, che cedette.
Entrò nell’ambiente e si chiuse dentro, non del tutto certa di non trovarci di peggio.
Nelle leggende i fantasmi potevano oltrepassare i muri, ma ormai lei aveva smesso di affidarsi a quel che già conosceva. Era tutto fuori dalla norma e da ogni regola lì.
Si allontanò dalla parete, lasciando spaziare la vista.
Si trovava in una stanza molto piccola, che per qualche oscuro motivo le ricordò la sagrestia della cattedrale; probabilmente perché sul tavolo che distava poco da lei erano poggiati due libri che già aveva visto, e a uno dei quali aveva anche sottratto una pagina.
Ricapitolando, i custodi si occupano di badare ai vampiri ribelli, e sono vampiri anche loro, eccetto che per qualche umano, si disse, cercando di riordinate le idee.
Si avvicinò al tavolo e notò con malcontento che uno dei due libri, come la volta precedente, era inaccessibile per via del catenaccio che ne giungeva le estremità.
Nella stanza non c’era nulla che potesse celare una chiave, e non avrebbe avuto la pazienza di mettere a soqquadro tutto il monastero, senza considerare spiriti vari che se ne andavano a spasso da quelle parti e che data la sua fortuna poteva benissimo trovarsi nell’altro angolo del mondo.
Decise di accontentarsi del registro con i nomi, che dopotutto era ciò per cui si era spinta fin lì.
Iniziò a sfogliare dalla prima pagina, leggendo solo il primo nome di ogni registrato e ignorando date e tutto il resto.

Non sapeva quanto tempo fosse passato, ma la tonalità della luce che penetrava dalla finestra era cambiata.
Non sapeva nemmeno dove avesse trovato la forza per leggere l’intero registro, né come reagire a quel che aveva letto.
Sapeva solo un’altra parte di verità.
Il suo intento iniziale era di scoprire chi di coloro che conosceva fosse un custode, poi aveva scoperto che lo erano tutti. Allora era andata ancora più a fondo, cercando di non badare alla luce che cambiava e ai sussurri oltre la porta.
Per distinguere chi fosse umano e chi no era bastato leggere le date e accertarsi che sotto il nome non ce ne fosse un altro.
Il bilancio finale non seppe come definirlo.
Umani: quattro.
Vampiri: tutti i rimanenti.
La parte peggiore era stata però la scoperta, nel registro, di nomi che le avevano quasi provocato una crisi isterica; nomi che ruotavano attorno a lei nella sua vita ad Aberdeen.
Un colpo alla porta la riscosse, e dopo essersi morsa la lingua per aver quasi risposto “chi è?”, sì, era notevolmente sconvolta, si fiondò verso la finestra e uscì da quel posto.

Corse fino alla bassa muraglia e solo lì si concesse il tanto agognato riposo.
Poggiò i palmi delle mani sulla pietra e guardò in basso, dove non si aspettava certo di trovare un manipolo di persone, che non sembravano essere lì per una gita a mare.
Da quella distanza non era facile scorgere i visi, ma qualcuno lo riconobbe comunque.
C’erano Sophie e Karl per esempio, vicino alla riva, che si tenevano in disparte. Più lontani da loro Alexander, Harvey e Christopher sembravano indecisi se intervenire o meno nello scambio di battute tra Tristan e Cedric; su cosa discutessero Evelyn però, per quanto ne avesse voglia, non poteva saperlo.
Ancora più lontano dall’acqua Riley stava in testa a un altro gruppo d’individui, troppo vicini tra loro per distinguerne le facce.
Dalla parte opposta avanzava ancora un altro mucchio di gente, nel quale stavolta non riconobbe nessuno.
Improvvisamente calò il silenzio, persino Tristan e Cedric ammutolirono, ed Evelyn temette che di lì a poco avrebbero sollevato tutti lo sguardo verso di lei; invece si guardarono tra loro, le due parti che si erano venute a formare a una decina di metri di distanza l’una dall’altra.
Fu un’inaspettata fortuna rendersi conto che per sentirsi tra loro erano costretti a gridare.
A infrangere il silenzio fu un tizio che stava in testa al gruppo di persone che Evelyn non conosceva.
<< Riley Nathaniel Hylton, siete accusato di tradimento per aver infranto i termini della tregua, rivelando a un’umana quel che era vostro compito custodire, e pertanto costretto a seguirci. Potete scegliere di consegnarvi o combattere, ma nel secondo caso dovreste rinunciare al vostro regolare processo in caso di sconfitta >> disse, come se stesse parlando seguendo un protocollo.
Evelyn serrò i pugni e trattenne il respiro, mentre a una fitta di dolore al petto seguiva il disfacimento di ogni parte del suo corpo.
<< Mi consegno >> rispose Riley, e gridò solamente per farsi sentire, giacché in quel momento pareva la persona più tranquilla del mondo. Tuttavia subito dopo che ebbe parlato si sollevò il coro di protesta della sua parte. Si voltò e cominciò una discussione animata.
Quel che si dissero dopo non riuscì a sentirlo. Vide solo che lo portavano via, mentre tutti, lei compresa, guardavano impotenti e afflitti.
Lo guardò camminare con la solita andatura sicura e senza un’ombra di paura in viso, affiancato da due tizi che non promettevano nulla di buono.

Istintivamente mosse qualche passo indietro, malferma sulle gambe, convinta che tutto in lei si stesse ancora sgretolando. Le mancò l’aria e si prese il viso tra le mani. << No >> sussurrò, mentre sentiva qualcosa di umido solleticarle le guance.
<< Che fai, piangi? Era quello che volevi >>.
Quando si voltò, vide che a parlare era stata una donna; la stessa che aveva visto poco prima in quei corridoi bui, lunghi capelli scuri e occhi rossi, a coprirle il corpo solo una leggerissima veste bianca.
Evelyn non era nelle condizioni di starsene in silenzio a sopportare, stavolta.
<< E tu chi saresti? Stai parlando con la persona sbagliata, al momento sbagliato, dell’argomento sbagliato >> sputò con rabbia, strizzando le palpebre per far sì che le lacrime sparissero, portando via anche ogni singola traccia d’insicurezza.
<< E se ti dicessi la tua coscienza? >> rise quella.
<< E se ti dicessi di andare al diavolo? >>.
<< Suvvia, non tocchiamo certi tasti, per adesso limitati ai vampiri >>.
<< Che cosa vuoi da me? >>.
La donna prese ad avanzare lentamente, poi a girarle attorno << Ev, Ev, piccola Ev… Il tuo comportamento è discutibile, lo sai, vero? >>.
<< Perché? Oh, giusto! Mi hanno tormentato sussurri malefici ogni notte della mia vita, tutti coloro che ho conosciuto hanno sostenuto che fossi pazza o peggio, hanno cercato di farmi fuori circa una decina di volte e mi hanno chiamato Mezzosangue, e io? Ho cercato di capirci qualcosa in tutto questo. Ma che stupida! Mi pento e mi dolgo >> rispose, con un tale sarcasmo e veleno che per un attimo l’altra rimase interdetta.
<< Dovevi startene al tuo posto >> disse semplicemente, dopo essersi ripresa da parole che non si aspettava di sentire da un’indifesa ragazza in preda ai sensi di colpa.
<< E qual è il mio posto? Illuminami! Te ne prego! >>.
Stavolta la donna non si riprese. Non seppe cosa replicare, tacque. Poi sparì.
<< E’ quello che stiamo cercando di capire >> soggiunse una voce maschile.
Evelyn, fuori di sé per la rabbia e il dolore, gemette alla vista di Alexander che avanzava, spuntato chissà da dove.
<< Ed è anche l’unica possibilità di Riley di salvarsi la pelle >> s’intromise Christopher, parlando quasi con nonchalance.
<< Non avete ancora finito di giocare agli indovinelli? >> gridò la ragazza all’improvviso, provocando lo sconvolgimento generale.
A quel punto sopraggiunse tutta la truppa, e Sophie e Karl si fecero avanti. A parlare per primo fu il rosso << E’ complicato… >> iniziò, ma subito Evelyn lo interruppe << E io non sono una stupida >> sibilò.
Nessuno l’aveva mai vista così, e c’era da ammettere che era a dir poco terrificante. Se il suo sguardo avesse avuto il potere di incenerire, adesso ogni cosa nel raggio di cento metri sarebbe stata poltiglia.
<< Basta! Tanto ormai il danno è fatto >> Sophie la raggiunse a grandi falcate << Tuo padre era un vampiro e tua madre no, per questo tu sei una Mezzosangue. Non è concesso rivelare tutto questo agli umani, cosa che tu sei per adesso. Un Mezzosangue può però manifestare anche una diversa natura, entro i diciotto anni. Adesso le possibilità sono due: O ti sbrighi a combinare qualunque cosa un semplice umano non sarebbe in grado di fare, dimostrando così di non essere umana, e in questo caso Riley viene rilasciato e tutto finisce per il meglio, o rimani così come sei, e allora prima ammazzano Riley e poi probabilmente vengono a cercare anche te e tutti noi >>.
La Mezzosangue consumò tre secondi per metabolizzare quel che aveva appena sentito.
Erano tutti in attesa che scoppiasse a piangere disperatamente o svenisse.
<< E io tutto questo come potevo mai immaginarlo? >> strillò allargando le braccia.
Nonostante la situazione tragica, Alexander non poteva fare a meno di divertirsi un mondo nell’ammirare il temperamento di Evelyn, e non riuscì a ingoiare un sorrisetto.
Si ritrovò puntati addosso una ventina di sguardi assassini e si affrettò a sdrammatizzare << Non è la fine del mondo! Ormai quel che è fatto è fatto, e poi Riley non è un cretino, di sicuro sa già che Evelyn lo tirerà fuori dai guai, e ci credi anch’io >>.
Anche se probabilmente per lei era a un passo dalla morte, anzi proprio per questo, Evelyn sull’affermazione “Riley non è un cretino” avrebbe avuto da obiettare.

Fu non essersi ancora del tutto calmata a salvarla dal predicozzo di sua zia, una volta tornati a casa.
Ci avevano messo poco più di venti minuti, correndo. Adesso che la maschera era caduta le cose per un certo verso si semplificavano.
L’aveva portata Alexander sulle spalle, e non fosse stato per la catastrofe imminente, si sarebbe divertita come pazzi.
<< Dovresti riposar… >> aveva iniziato Tristan, che evidentemente era un tipo eccessivamente premuroso, ma l’occhiata omicida che Evelyn gli aveva lanciato aveva fatto sì che all’ultimo secondo si correggesse << No, magari non è necessario >>.
<< Oddio Ev, siete riuscita a terrorizzare anche un plotone di vampiri vissuti >> esordì Sebastian, con un espressione che sembrava esclamare “Sono così contento di vederti tutta intera”. Anche lui non scherzava in fatto di apprensione.
Sguardo di fuoco si accasciò sul divano e sembrò ammorbidirsi un po’ << E adesso che si fa? >> domandò, e il suono le venne fuori più come un lamento che come una vera a propria frase.
<< Nulla. Aspettiamo >> rispose Margareth, che fino a quel momento era rimasta in silenzio.
A quel punto Evelyn fece la faccia che ci si aspetta faccia chi ha messo una persona cara in grossi guai. Della serie: Meglio tardi che mai. << Ma perché siete così gentili con me? Non me lo merito >>.
<< Ma cosa dici! >> esclamò Sophie scattando in piedi dal divano << Non potevi sapere, e poi chiunque nella tua situazione si sarebbe comportato nello stesso modo >>.
<< Sophie va bene per voi condividere la camera con Mar? >> echeggiò la voce di Rose da dietro una torre di coperte, che probabilmente stava trasportando nelle stanze per gli ospiti.
Prima che l’interpellata potesse rispondere fu Evelyn a parlare, che ormai aveva capito l’antifona << Non capisco che senso abbia. I vampiri non dormono e non hanno freddo >>.
Harvey si finse offeso << Siamo più sensibili di quanto credi! >>.
<< In realtà stavamo solo cercando di calarci nella parte, per renderti la cosa più graduale >> intervenne Alexander.
Evelyn aveva gli occhi e la bocca socchiusi, sbalordita e indecisa. Non voleva apparire scortese esplicando che al momento tra le sue priorità le abitudini comportamentali dei vampiri erano un po’ più in basso rispetto al fatto che un idiota al quale tuttavia teneva più di quanto si potesse immaginare sarebbe morto, se lei non avesse fatto cosa non sapeva dovesse fare.
Prima che riuscisse a trovare un modo carino per dirlo Sebastian scoppiò in una sonora risata << Rose, per favore >>.
<< Davvero non è un problema se ce ne andiamo in giro per casa anche di notte? Dovremo restare qui a sorvegliarti, l’hai capito? >> proseguì Tristan.
<< Cos’è esattamente in me a farvi credere che sia interdetta? >>.
<< Cerchiamo di fare del nostro meglio! Sei pur sempre una ragazza di città >>.
Evelyn si impose di non replicare, e cercò di sviare la conversazione su qualcosa di più serio << Cos’è esattamente che dovrei fare per manifestare… >>. Si bloccò. In realtà non aveva ben capito la storia del manifestare.
<< Qualcosa che un umano non potrebbe fare, e che quindi proverebbe che hai preso più da tuo padre che da tua madre >> aggiunse Alexander.
<< E fin qui ci sono, un esempio? >>.
Tutti i presenti, sparpagliati sui divani, si guardarono tra loro.
<< In realtà non ne abbiamo la minima idea >>.
Se fosse stata in piedi probabilmente sarebbe capitolata sul pavimento.
<< Si vedrà >> tagliò corto sua zia, la sua sbadata e umana zia, l’unica della casa in quel momento, insieme a Rose e Dalia, e forse lei. Certo tra le persone che conosceva poi c’era anche Susan, la madre di Grisham.
Scoprire che anche Sebastian faceva parte dell’altro gruppo l’aveva un po’ scombussolata; non se lo raffigurava proprio a succhiare sangue dal collo di un’innocente donzella.
<< Chi erano quegli uomini? >> chiese tutt’a un tratto. Non aggiunse “Quelli che hanno portato via Riley”, perché aveva paura che gli occhi le diventassero lucidi.
<< Se ti sei sciroppata i libri che hai recuperato qua e là, dovresti sapere chi sono i Ribelli >> rispose l’impassibile Cedric.
<< In realtà no, ho letto pochissimo >>.
<< Beh, sono gli stessi che ti vogliono morta >>.
<< Mi prendete in giro? Loro possono fare una cosa simile e poi reclamano perché Riley mi ha detto… >>.
<< Nessun regolamento è perfetto >> borbottò Christopher, con una strana espressione del viso.
<< Cerchi di giustificare solo perché quando è stato stilato tu c’eri >> ribatté Harvey, piccato.
<< Erano altri tempi! La giustizia ognuno se la faceva da sé, non c’erano tribunali o roba simile, e lasciami dire che era anche un sistema migliore! Non come oggi, insomma i criminali la fanno franca e noi… >>.
Evelyn smise di ascoltare l’oramai aperto dibattito sull’attuale sistema giudiziario.
Quelle leggi facevano davvero schifo.
Potevano accusare Riley di tradimento, una parola che le suonava assurdamente cacofonica, chissà perché, e loro erano liberi di inseguirla per i cimiteri e i corridoi di casa sua.
Le venne in mente all’improvviso.
<< Le ombre >> disse a voce alta senza rendersene conto.
<< Come dici? >> fece Karl, che probabilmente era stato l’unico a estraniarsi dalla controversia “occhio per occhio, dente per dente”.
<< Non potrebbe essere qualcosa di indicativo? Il fatto che… >>.
<< Il fatto che le ombre ti perseguitino? >> completò per lei con una frase nella quale lesse già la negazione che sarebbe seguita.
<< Quelle sono, come dire, parte della squadra dei ribelli. Non possono farti nulla però, forse solo qualche graffio >>.
<< Sì ho notato, a quest’ora sarei morta da un pezzo >>.
<< Noi vampiri non possiamo sconfinare. Non ci è permesso stare via da questo posto per troppo tempo, per questo quando vivevi ad Aberdeen… >>.
<< Mandavano le ombre >> finì per lui.
<< Comunque non ti abbiamo mai perso d’occhio >>.
<< Ah, lo so! >> esclamò, con eccessivo trasporto. Tanto eccessivo che cessò anche il comizio e si ritrovò sotto gli occhi indagatori di tutti.
<< Tu… Hai letto il registro vero? Ecco cosa facevi alla scogliera >> esclamò Sophie.
<< Se qualcuno ha intenzione di indignarsi… >> iniziò, perdendo la calma un’altra volta.
<< No, no! >> fece qualcuno, o forse più voci.
<< Ecco. Perché qui quella indignata dovrei essere io >>.
<< Dovevamo proteggerti! >> disse sua zia.
<< Ed era necessario seminarmi attorno le vostre spie? Anche il mio professore di matematica! Che tra l’altro era un grandissimo stron… >>.
<< Abbiamo capito! >> non la lasciò terminare Rose, l’indefessa fautrice delle buone maniere.
<< La proprietaria della mia videoteca di fiducia, il bidello del pianterreno del mio liceo, l’autista di mio padre! >> continuò, ormai troppo infervorata per potersi contenere.
In effetti si era sempre chiesta cosa ci facesse uno come Jon, una catasta di muscoli col portamento militare, a pulire il sudiciume degli studenti da quella scuola pennellata di azzurro smorto e staccare le gomme da masticare dai banchi disastrati, certo quando si trattava di distribuire scappellotti a destra e a manca perfino i professori non gli negavano una certa ammirazione.
Per quanto riguardava Anton, era stato un duro colpo. Un Custode, lì a portare suo padre a spasso da una parte all’altra della città, con il traffico, le multe, le strade malmesse... Doveva essere un pezzo grosso quel tale William DeMordrey, se la sua figlia biologica meritava una tale considerazione.
<< Eppure non è bastato. Quest’estate abbiamo dovuto fare in modo che ti spedissero qui, ci voleva più che un umano, sia pure Custode e tutto il resto, per evitare che quegli idioti ti accoppassero, ti ci voleva la super squadra! >> esclamò Christopher, evidentemente l’imbranato del gruppo, tutto contento, come se stesse recitando uno spot pubblicitario. Ignaro del fatto che la suddetta “super squadra” di vampiri stava per accoppare lui. Certo poi la catena si sarebbe chiusa con la strage di Evelyn, che nel frattempo aveva preso a respirare come un toro in una gabbia per canarini.

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Di matrimoni e altre storie ***


26. Di matrimoni e altre storie


<< Ma il mio mistero è chiuso in me… Il nome mio nessun saprà… >>.
La cucina era pervasa da un odore dolciastro, fin troppo, ma non sgradevole, mentre Dalia si aggirava tra i fornelli con fare spensierato e allegro, canticchiando a labbra socchiuse qualche verso di lirica, ed Evelyn si chiedeva come facesse a non stancarsi mai di spadellare a tutte le ore del giorno, a volte anche della notte.
<< Solo quando la luce splenderà, sulla tua bocca lo dirò fremente… Ed il mio bacio scioglierà il silenzio… Che ti fa mia >>.
Le piaceva rifugiarsi lì, osservare Dalia che armeggiava con sicurezza con gli arnesi dell’arte gastronomica e i fattorini che rifornivano le dispense. Un paio di volte si era anche cimentata lei stessa, ma era stato già un miracolo che la casa ne fosse uscita illesa, e saggiamente non aveva più ritentato.
<< Dilegua, o notte… Tramontate stelle… All’alba vincerò >>.
Come tenore non si poteva negare che Dalia fosse in pratica un disastro, ma a Evelyn piaceva fare da pubblico a quella sua passione per le romanze.
La convivenza non si rivelava per nulla fastidiosa, anzi. Persino con quel clima che non era dei migliori - Riley in pericolo di morte era un sostanzioso incentivo d’ansia - riusciva a essere di buona compagnia la “super squadra”, come amava definirla Christopher, suscitando l’irritazione di tutti gli altri. Alla fine gli avevano anche risparmiato la lingua, perché in quel momento Evelyn era stata convinta che volessero tagliargliela. Anche lei forse si sarebbe aggregata, ma in fondo non era mica solo sua la colpa se avevano deciso di fare in modo che quell’estate si trasferisse a Landry, quando non era stata più sufficiente la sorveglianza degli umani, seppur anch’essi Custodi. Il modo in cui ci erano riusciti non aveva voluto saperlo.
In realtà non voleva sapere più niente.
Ovviamente non lo dimostrava mai il senso di colpa che la straziava, ma c’era; il che la rendeva particolarmente distratta, come con la testa sempre da un’altra parte. In realtà era molto attenta a quel che le accadeva intorno, nella disperata ricerca di un qualcosa di anormale; nessuno le aveva detto cosa potesse fare perché Riley fosse discolpato, e tutti avevano pareri piuttosto divergenti. Secondo Tristan – il ragazzo saggio e pacato per eccellenza - per esempio, l’ansia non era per niente d’aiuto, mentre Cedric, un folle spericolato praticante ogni sorta di sport omicida, sosteneva che una certa dose di adrenalina l’avrebbe portata a far esplodere qualche vaso o roba simile. Karl e Sophie, che erano quasi sempre d’accordo, non demordevano dal dire che se qualcosa doveva accadere sarebbe accaduta da sé. Margareth, una di quelle tipe “so tutto io” che tuttavia suscitava una certa simpatia, continuava a ripetere che serviva solo concentrazione, ma come si fa a concentrarsi, se non si sa su cosa?
Evelyn non poteva fare a meno di sentirsi il gorilla nella gabbia dello zoo, preda dei turisti curiosi e dei bambini urlanti.
Aveva chiesto se fosse possibile andare a trovare Riley, ma era venuta a conoscenza del fatto che si trovava praticamente rinchiuso in cella. E comunque trovandoselo davanti non avrebbe saputo proprio cosa dire.
“Riley sono mortificata, perdonami”, magari condito ad arte con qualche lacrimuccia e un abbraccio, sarebbe stato tenero e perfetto. Ma era certa che le sarebbe venuto fuori piuttosto “Perché mi hai assecondato razza d’imbecille?”, con qualche sbuffo e uno spintone.
Non riusciva a non essere allo stesso tempo tremendamente triste e arrabbiata con lui.
<< Avete fame? >> le chiese Dalia dolcemente, risvegliandola dal torpore in cui era piombata. Non si era ancora del tutto abituata a sentirsi chiamare per “voi”.
<< Per ora no, ma più tardi metà di quella crostata è tutta mia >> rispose con un sorriso, saltando giù dallo sgabello e avviandosi alla porta. Certo nessuno si sarebbe opposto, i vampiri potevano mangiare, ma non ne avevano bisogno.
Giunta alla porta una frase sentita per caso oltre il legno la fece barcollare, e si aggrappò alla maniglia.
Parlavano di lei, e del fatto che potesse essere una comunissima umana… E che quindi in poche parole, addio Riley.
Aprì e li raggiunse, giacché sapevano benissimo che era lì e li aveva sentiti.
Karl aggiunse << Insomma, non è un idiota, se le ha detto quel che le ha detto di sicuro qualcosa gli aveva fatto pensare che poteva farlo senza correre rischi >>.
Eppure ora corre il rischio di morire, pensò Evelyn, continuando a camminare.
<< Sì, la sua irritabilità >> suggerì Alexander, perfettamente consapevole di avere la suscettibile in questione dietro le spalle.
Si voltò e le sorrise, lei ricambiò sarcastica << Qualche novità? >> domandò poi, anche se aveva ben poco senso chiedere una cosa simile, dal momento che un qualsiasi cambiamento poteva sopraggiungere solo da parte sua.
<< Matt e Colin sono andati da Riley >> rispose il moro.
<< Come sarebbe a dire? Avevate detto che non si poteva >> esclamò delusa.
<< Dimmi Ev, tu a un assetato spediresti una bottiglia d’acqua fresca, oppure due sacchetti di sabbia? >> intervenne Harvey entrando nella stanza; l’aveva preso molto in simpatia, ma non aveva potuto fare a meno di catalogarlo come il classico dongiovanni dal cuore tenero.
<< Ehi, bella metafora! >> si complimentò Karl, che non perdeva mai occasione per elogiare qualcuno.
<< A me invece non piace per niente essere la bottiglia >> borbottò Evelyn, incrociando le braccia e alzando gli occhi al cielo.
<< Neanche a noi piace che un pugno di vampiri assetati di sangue ti dia la caccia >>.
Non stavano parlando d’acqua? Era decisamente più piacevole.
Fu quasi sul punto di domandare qualcosa su suo padre e sulla storia che aveva condotto a quell’attuale situazione, ma si era ripromessa di non chiedere più nulla e si limitò a mordersi le labbra.
<< Se può interessarvi, i sacchetti di sabbia sono tornati >> esordì Alexander, lo sguardo ancora a seguire qualcosa oltre la finestra.

Il salone era come sempre affollato da individui che svolgevano diverse attività in tutta indipendenza e tranquillità; tuttavia quando il portone principale si spalancò, si voltarono tutti all’unisono.
Sulla soglia apparvero i visi sereni dei due gemelli che Evelyn conosceva già, e che erano appena rientrati dopo aver fatto un salto alla confortevole prigione di Riley.
<< Allora? >> chiese una concitata voce femminile, ancor prima che i due mettessero piede in casa.
Evelyn strabuzzò gli occhi, un secondo prima di ricomporsi. Non si sarebbe mai aspettata di trovare lì Lisa.
<< Sta bene e vi manda i suoi saluti >> disse Colin con un sorriso gentile, come se avesse appena detto qualcosa di estremamente ovvio.
Sul volto di Lisa apparve un’espressione delusa e adirata al tempo stesso.
Anche Evelyn non era per nulla soddisfatta della risposta; Riley era accusato di tradimento e detenuto in cella, a causa sua, e lei non sapeva né che cosa fare, né riusciva a prevedere come sarebbe andata a finire, e tutto quel che sapeva delle sue condizioni era che “stava bene e mandava i suoi saluti”. Sospirò. Voltò casualmente il capo e incontrò lo sguardo di Alexander; il vampiro sembrava non accorgersi di lei, concentrato com’era a fissare gli occhi di Matt, che come lui adesso appariva tutt’altro che sereno.
Sanno mentire. Altroché se sanno farlo.
Come quando all’inizio sua zia aveva finto di stupirsi al sentirla nominare la sua vera madre e sapendo della sua reale condizione di figlia adottiva. O come quando Riley si era finto sinceramente ignaro del motivo che l’aveva portata lì.
Evelyn fu assalita da un’ondata di terrore, chiedendosi cosa significasse quello sguardo; Era già morto? O qualcosa di peggio…
Si ritirò nella sua stanza annunciando che era stanca e nessuno domandò come fosse possibile alle nove del mattino, evidentemente conoscendo già fin troppo bene la sua scarsa propensione a qualsivoglia attività precedente il mezzodì.
Quando si chiuse la porta alle spalle fu ancora peggio.
<< Perché sto così? >> si chiese da sola, un’espressione angosciata in volto. Gliel’avevano spiegato che comunque sarebbe andata a finire lei non aveva colpa. Non poteva sapere. Eppure…
Inconsciamente le venne fuori una risata scettica, scosse la testa << Senso di colpa. E’ solo senso di colpa >> parlò ancora a se stessa.
Con la mano destra si afferrò i capelli e li portò tutti da un lato del viso. Sbuffò e si mise a frugare nervosamente nei cassetti, nervosa e in cerca di qualcosa per legarsi i capelli, che improvvisamente la infastidivano da morire.
Sussultò quando le sue dita incontrarono l’inconfondibile consistenza della carta, e tirò fuori il piccolo biglietto ripiegato.
Dispiegarlo la portò indietro di secoli, a un nostalgico tempo in cui a rischiare la vita era stata lei e a evitarlo era stato Riley.
Riley che più di una volta era corso da lei; che orgoglioso sosteneva di poter oltrepassare la corazza di apatia che si era costruita addosso, senza sapere che in realtà l’aveva distrutta quella corazza. Le aveva insegnato cosa fossero i sentimenti, e soprattutto cosa fosse manifestarli, senza reprimerli.
Aveva riacceso in lei quella fiammella di vitalità che era sempre stata spenta.
L’omino con la rosa era rimasto lo stesso, in quella posa adorabile, e lei lo invidiò come con pochi altri nella sua vita aveva fatto. Confinato in quel ritaglio di carta eppure lontano da ogni pensiero, prigioniero di un momento che sarebbe stato l’unico che avrebbe vissuto, per sempre.
Lesse e rilesse quelle parole arroganti e dolci un centinaio di volte, prima di crollare sul letto e bagnarne le coltri con una lacrima.
<< E’ solo senso di colpa >> ripeté ostinata, senza credersi.

Quando verso mezzogiorno comunicò a Dalia tramite Rose, che l’aveva raggiunta per stanarla da quella stanza con le tende serrate, di non avere fame e che avrebbe saltato il pranzo, non poteva certo immaginare che avrebbe dato il via a una sorta di pellegrinaggio di convinzione. Salirono quasi tutti, a turno, per cercare di consolarla, mentre lei ripeteva di stare bene, e di non avere semplicemente appetito. Quando capì che l’allegro gruppetto dei suoi conviventi si era praticamente convinto che il senso di colpa l’avesse scagliata nella depressione, un accenno della suddetta malattia iniziò ad avvertirlo davvero. Aveva ormai appurato che i suoi adorati vampiri da guardia non erano abituati ad avere a che fare con fragili ragazzine, e la consideravano in sostanza una bambola di cristallo esposta a ogni tipo di rischio, che fosse fisico o morale, dalla depressione all’anoressia, alla più reale frattura di qualche osso.
A porre fine alle missioni di consolazione ci pensò Alexander, che a volte riusciva a sbalordire tutti mostrando una briciola di serietà e raziocinio.
<< Ma cos’è? Una catacomba? >> disse mentre si chiudeva la porta alle spalle con il piede, attento a non rovesciare il contenuto del vassoio che aveva tra le mani, anche se Evelyn era certa che non gli costasse alcuna difficoltà.
<< Mi sto calando nel clima probabilmente >> scherzò quella, ancora stravaccata sul letto.
<< In verità superiamo la fase oscura e solitaria già dopo qualche mese. Io adoro il mare e la luce del sole, sono anche un asso del surf >> rispose poggiandole il vassoio accanto e strizzando l’occhio.
<< Eppure non sembri abbronzato >>.
Alexander chiuse la mano a pugno e ci si colpì il petto all’altezza del cuore, mimando una ferita mortale, contrasse i lineamenti perfetti del volto in una smorfia di dolore e poi crollò sulla sedia, strappandole una risata.
<< Oh, quindi proprio nulla? Neanche a mezzogiorno in punto e con lo spray superabbronzante? >> colpì ancora.
<< Sì, rigira il coltello nella piaga! >>.
<< Suvvia, non è poi la fine del mondo… A me per esempio la tintarella non piace, la trovo troppo cliché >>.
<< Se è per questo non ti piace neanche la luce, e poi ci credo che preferisci gli sbiancati >>.
<< E con questo che vorresti dire? >> balbettò.
Alexander ridacchiò << Niente, niente… >>.
Evelyn, per restare in tema, impallidì. Che Riley si confidasse con lui? Come le ragazze alle prese con i problemi di cuore?
Senza sapere perché se li raffigurò seduti su un tappeto rosa a pettinare le bambole.
Alexander dovette intuire i suoi pensieri dall’espressione sconvolta che aveva, perché scoppiò in una fragorosa risata.
<< Non abbiamo segreti tra noi, Ev >> aggiunse poi, con serietà.
<< Che bella cosa… Quindi del tipo che siete telepaticamente connessi o di sera vi raccontate a vicenda la vostra giornata? >>.
<< Del tipo che ci basta uno sguardo per capire tutto di chi ci sta davanti. Adesso per esempio sei offesa, perché con te abbiamo un sacco di segreti e ti senti esclusa >>.
Evelyn fece un verso di diniego << Devi essere il peggiore nel campo >>.
L’altro rise << Somigli un sacco a tuo padre >>.
La ragazza abbassò lo sguardo e accennò un sorriso.
<< Stavano bene insieme, Will e Giudith. Ma le cose belle, si sa, sono destinate a essere deturpate >>.
Evelyn si riscosse << Continua >> lo pregò.
<< Uno dei ribelli aveva messo gli occhi addosso a tua madre e averla era diventata una sfida personale di massima priorità. Ovviamente tuo padre non era intenzionato a cederla… >>.
Evelyn sollevò lo sguardo e strinse tra le mani le coperte. Chissà perché quando qualcuno si decideva a raccontarle finalmente qualcosa si trovava sempre a letto.
<< Bastava anche che si allontanasse da lei, il suo rivale l’avrebbe considerata comunque una vittoria, ma loro non vollero separarsi e preferirono addirittura una vita in continua fuga… Che fosse fuori dalla città o per le catacombe >>.
Da questo punto di vista gli somiglio, si disse Evelyn, pensando agli ultimi avvenimenti della sua vita.
Gliene venne in mente uno in particolare.
<< Prendi. Sempre dritto, hai capito? >> diceva il prete, porgendole una lampada a olio alquanto malandata.
<< Perché dovrei fidarmi di voi? >>.
<< Se solo sapessi chi, anni fa, prendeva questa lampada dalle mie mani, come te adesso… >>.
La consapevolezza di aver frantumato un ricordo dei suoi genitori non bastò a farla desistere dall’ascoltare.
<< Non fu una vita facile, la loro. Tre anni dopo la tua nascita Hector non si era ancora arreso, e successe quel che non doveva succedere. William lo uccise per proteggere te e tua madre, ed essendo l’allora attuale capo dei ribelli, la loro vendetta fu terribile >>.
<< Che cosa accadde? >> lo incalzò.
<< Non serve che tu lo sappia, loro non ci sono più, e questo è quanto >>.
Evelyn si rese conto che davvero non voleva saperlo, era già abbastanza doloroso così. I suoi genitori, che l’avevano amata tanto da dare la vita per lei, neanche li ricordava più.
<< E io? Perché io non sono morta? >>.
Alexander fece una faccia strana, e anche in quell’atmosfera di nostalgia a Evelyn scappò una risatina << Non è una domanda filosofica sulla mia vita! Parlavo proprio in termini pratici… >>.
Quello rise e scosse la testa << Scusami, ricordare mi fa un brutto effetto. Ad ogni modo qualcuno ebbe la prontezza di portarti via da lì mentre noi altri coprivamo la vostra fuga >>.
La ragazza deglutì.
<< Sì, c’ero anch’io. E anche qualcun altro di tua conoscenza >>.
<< E chi mi portò via? >>.
Alexander sorrise tristemente e parlò solo quando fu certo che lei aveva capito << E’ anche per questo che tiene tanto a te >>.
La ragazza continuava a tacere.
<< Come anche tutti noi >>.
Serrò i pugni, mentre il suo battito cardiaco accelerava.
<< Sei tutto quel che ci resta di loro, Evelyn >>.

La notte aveva da poco preso il sopravvento, ed Evelyn se ne stava con i gomiti sul davanzale della finestra spalancata ormai da ore, un tempo sufficiente per avere la mente certo dolorante, ma finalmente meno affollata di pensieri.
L’aria gelata sul viso era stranamente piacevole, e la vista del bosco e delle guglie della città in lontananza la rilassava a tal punto che in quel preciso istante aveva smesso di sognare il balcone con i fiori fuxia della sua residenza estiva che profumava di salsedine, dove di norma avrebbe dovuto trascorrere le vacanze.
<< Un’estate torrida qui, eh? >>.
Karl era appena entrato nella stanza, la solita espressione gioviale in volto.
<< Mai vista un’afa così in vita mia >> rise Evelyn, attendendo che la raggiungesse.
<< Landry non è il massimo per la villeggiatura, ma vivendolo s’impara ad apprezzarlo. Sai, noi vampiri siamo eccessivamente abitudinari >>.
<< So cosa vuol dire >>.
Karl sorrise, ed Evelyn si stupì ancora una volta della serenità che lui e tutti gli altri riuscivano a simulare. Evidentemente i vampiri dovevano avere un naturale talento per nascondere quel che realmente provavano.
<< Karl, sii sincero, ho visto le vostre facce stamattina. Come sta? >>.
Prima che quello potesse parlare, a rispondere fu un’altra voce proveniente dall’ingresso della stanza << Diglielo Karl >>.
L’espressione cupa di Cedric la diceva lunga su quanto poco piacevole fosse la notizia in questione.
<< Che cosa? >> chiese il rosso, sinceramente dubbioso.
<< E’ ingiusto nasconderle la verità, prima o dopo cosa vuoi che cambi… Lo scoprirà da sola >> continuò l’adrenalinico sportivo, e a Evelyn sembrò di cogliere in quelle parole una nota di malizia.
<< Allora parla! Che gli è successo? E’ ancora vivo e tutto intero? >> lo assalì.
<< Beh… vivo sì >>.
<< E allora cosa? Per punizione gli hanno amputato un braccio? Una gamba? >> esclamò esasperata.
Cedric si portò una mano dietro la testa, storse le labbra e chiuse un occhio, un attimo prima di mordersi le labbra, indeciso, in una perfetta posa melodrammatica, poi distolse lo sguardo e si decise a dire << Sì, gamba… >> ponendo l’accento sull’ultima parola.
A Evelyn servì un attimo per capire, poi guardò in direzione di Karl. Le scappò un verso furibondo quando vide che teneva anch’egli gli occhi bassi e si mordeva le labbra… Per trattenere una risata.
<< Cedric perché non vai a lanciarti dal dirupo più vicino senza paracadute? >>.
Quello scoppiò a ridere, seguito da Karl.
<< Che teneri, vi confidate i segreti quindi >> continuò la ragazza.
<< Veramente lui non ci diceva niente… Ma noi veniamo a sapere sempre tutto >> rispose fiero.
<< Grandioso >> borbottò Evelyn, decisamente poco contenta che tutti conoscessero i risvolti della sua relazione con Riley, e per un secondo tentata di uscirsene con un “Siamo solo amici!”. Che poi non lo sapesse nemmeno lei cosa fossero, al momento non le sembrava il caso di tirarlo in ballo.
<< Insieme siete perfetti >> esordì Margareth tutta contenta, comparendo dal nulla.
<< I vampiri origliano! >> enfatizzò Evelyn alzando gli occhi e i palmi delle mani al cielo.
<< Macché, stavo solo passando in corridoio >> disse la giovane con un sorriso.
Evelyn sospirò << La vostra spensieratezza… Ma come fate? Riley è in bilico tra la vita e la morte >> iniziò, poi mentre parlava le venne il colpo di genio << Un momento, ma non si può organizzare un’evasione o qualcosa del genere? >>.
<< Per scatenare una guerra? Quel che dici sarebbe infrangere la legge, e significherebbe concedere loro la licenza di fare lo stesso… La prima cosa che farebbero sarebbe sconfinare e darsi agli omicidi più efferati >>.
<< Quindi per amore della pace lasciamo Riley al suo destino >>.
<< Ma no! Perché sei così sfiduciata, Ev? Ci sono migliaia di tuoi aspetti che ci fanno ben sperare, basta solo un’azione più concreta e il gioco è fatto >>.
<< Del tipo? >>.
Cedric fece per parlare, ma Karl lo sovrastò << Non riattaccare con la storia del vaso che esplode! >>.
<< Ecco, deve solo concentrarsi >> intervenne Mar.
<< Io una cosa simile l’ho vista con questi miei occhi >> perseverò Cedric.
<< Lo conosco a memoria questo discorso, evitiamolo >> bofonchiò la Mezzosangue.
<< Pensa alla tua intelligenza Ev >> fece un esempio Mar.
<< Sì, abbastanza da bermi i giochetti di questo decerebrato >>.
Il difettoso di cervello scoppiò a ridere di nuovo, probabilmente pensando alla castrazione di Riley che aveva ideato poco prima << E’ stato divertente >>.
<< Per niente >>.
Fortunatamente il rumore della porta che si schiudeva smorzò quel battibecco ancor prima che iniziasse, e dalla soglia fece capolino il sempre allegro Christopher per annunciare che la loro presenza era gradita dabbasso per la cena.
Evelyn lasciò che gli altri la precedessero e dopo qualche minuto scese da sola.
Prima di arrivare alla sala da pranzo notò l’inconfondibile chioma ondoleggiante di Sophie e deviò nella sua direzione; le faceva sempre piacere la sua compagnia. Quando però ebbe oltrepassato del tutto l’angolo che la separava da una visuale decente di quel cantuccio defilato dal resto dell’ambiente, dovette resistere all’impulso di darsela a gambe nella direzione opposta.
<< Potresti almeno tentare di consolarmi! >>. Lisa non aveva ancora fatto caso a lei, infervorata com’era nella discussione, ed Evelyn pensò che Sophie fosse la personificazione della pazienza a non aver ancora disconosciuto una tale insostenibile sorella.
<< Ho tentato! Ma tu continui a piangerti addosso, che vuoi che faccia >>.
<< Mi abbandoni nel mio dolore? >>.
Ti abbandonerei nel deserto senza bussola piuttosto, non riuscì a impedirsi di pensare Evelyn.
Lisa era la ragazza perfetta. Bella, intelligente e aspra come un limone acerbo. Chissà perché erano in voga quelle acide… Le ricordava la rappresentante d’istituto del suo liceo, o meglio, gran parte della componente femminile del suo liceo… Paese.
<< Ehi Evelyn! >>.
A riscuoterla dalle reminiscenze negative sulla società della città in cui viveva arrivò il benvenuto entusiasta di Sophie.
Le sorrise e si decise ad avvicinarsi, poi per obbligo di cortesia si rivolse a Lisa e salutò anche lei. Si aspettava che la sommergesse di parole come “Assassina” o “Strega”, invece quella si limitò a guardarla con le consuete braci nelle pupille per una frazione di secondo e sparì.
<< Perdonala, è solo in ansia >> cercò di giustificarla la sorella.
<< Sì ho notato >>.
<< Lei tiene molto a Riley >>.
<< Ho notato anche questo >>.
<< Nel senso che… >>.
<< Nel senso che ne è innamorata. Sì, Sof, ho capito! >>.
<< Comunque lui non la ricambia >>.
All’insegna dell’ovvietà, si disse Evelyn, poiché come tutti gli altri anche Sophie doveva aver notato le attenzioni di Riley nei suoi confronti, piuttosto che in quelli di Lisa.
<< Sai, nessuno ne può più di questa storia, sapessi quanto tempo fa è cominciata >> continuò la sorella della penante d’amore.
<< Rischieresti troppo a raccontarmela? >>.
<< Una scenata in più cosa vuoi che cambi. Saprai che qualche tempo fa le cose funzionavano diversamente e i matrimoni si basavano più sulla strategia politica che sul sentimento. A Landry c’erano due casati rivali e la reggenza cittadina iniziava a sentirsi seriamente minacciata dai loro conflitti, così impose loro una riappacificazione, quantomeno simbolica, che spettò agli eredi delle due famiglie. Riley e Lisa furono promessi, ma lui non si presentò mai all’altare >>.
Evelyn non riuscì a trattenersi, l’idea di Lisa in abito bianco mollata in chiesa col bouquet era esilarante, e anche Sophie sembrava divertita.
<< Che gesto vigliacco >> disse tra le risate.
<< In verità aveva già lasciato intendere dall’inizio di non avere la minima intenzione di portare a compimento lo sposalizio, si scusò anche con lei e con la mia famiglia >>.
<< E che disse? Di non essere innamorato? >>.
L’altra rise ancora << Macché, disse che il dovere di principe lo chiamava e partì per la guerra >>.
Evelyn aveva letteralmente le lacrime agli occhi a pensare che Riley avesse abbracciato la carriera militare pur di non ritrovarsi Lisa come moglie, con tutto che, se aveva inquadrato bene il periodo storico, a quei tempi le relazioni extraconiugali erano legali e alla splendente luce del sole.
<< E poi? >> la incalzò, oramai troppo presa dalla storia.
<< E poi sopravvisse alla guerra e rischiò l’infarto non appena rimise piede a Landry. Lui tornò che era già… cambiato, e quando vide che anche lei lo era capì che avrebbe dovuto sopportarla ancora a lungo, così tentò il suicidio >>.
<< Come? >> esclamò Evelyn, smettendo di ridere.
Sophie invece si strozzò quasi e parlò solo dopo essersi strofinata gli occhi per scacciare le lacrime << Scherzavo! I vampiri non possono tentare il suicidio… >>.
Passarono un’altra mezz’ora buona a sbellicarsi, grazie agli episodi che la consanguinea della sposa mancata raccontava, come di quando le famiglie dei due promessi sposi, la reggenza cittadina e la sposa stessa avevano complottato così arditamente da riuscire a incastrare il povero fuggitivo in chiesa, il quale, protraendosi un funesto periodo di pace e non potendo riscappare in guerra, aveva trovato come unica via di scampo la vita monacale, annunciando seduta stante di voler prendere i voti. Alla fine a salvarlo, dalla sposa e dal monachesimo, era stata una combriccola di banditi incappucciati che aveva fatto irruzione in chiesa sfasciando anche qualche povera finestra, e rapendolo, e che solo tempo dopo si era scoperto essere capitanata da un tale di nome Alexander.

Evelyn trangugiò la cena e trascinò Sophie con sé via dalla tavola, intenzionata a cogliere l’occasione e farsi raccontare quante più cose possibili.
Scoprì che quella vipera di sua nonna, che in quel momento era probabilmente intenta a ordire qualche faida familiare, ne sapeva più di lei in fatto di vampiri e Custodi, e che pertanto aveva tentato di ostacolare il matrimonio di suo fratello Constantine e di sua figlia Giudith.
Nel primo caso aveva pensato che insidiare la sfiducia nella coppia sarebbe bastato a sfasciare la loro unione, spedendo dalla bella Josephine un tale assoldato per sostenere d’essere stato l’amante della giovane per tutti gli anni del fidanzamento. Constantine, alla faccia di ogni romanzetto e film comico, non ci aveva minimamente creduto, e dopo averlo minacciato con un coltello da cucina rubato direttamente dalle mani dell’apprendista cuoca di casa, una certa Dalia, aveva sposato la sua innamorata e insieme con lei l’ordinamento dei Custodi. Avevano vissuto felici per anni, finché non arrivò la tragedia. I Ribelli insorsero e durante gli scontri Constantine venne ferito a morte. Le sue volontà di non essere trasformato furono rispettate e da allora Josephine non si risposò mai. Continuò ad adoperarsi nell’ordine, forse con ancora più ardore, non lasciò mai la casa coniugale e i suoi dipendenti, e si lasciò consolare dalla vicinanza dei suoi concittadini e dei suoi figliocci.
Dorothy Becker era famosa per il saper imparare dai propri errori, e pochi giorni prima del matrimonio di sua figlia Giudith, entrata la ragazza in camera sua per recuperare i bagagli per la partenza, girò la chiave nella toppa e si adoperò per rendere quella stanza una prigione inespugnabile, utilizzando ogni mezzo a sua disposizione, traendo spunto direttamente dall’efficientissima superstizione popolare. Abbondante aglio sulla soglia della porta e della finestra, acqua santa su ogni gradino delle scale, sacchetti di riso sparsi qui e lì (Era credenza che un vampiro trovandoseli davanti si mettesse a contare tutti i chicchi), paletti di frassino sotto il cuscino e alcuni rametti di citronella sparsi qua e là dei quali nessuno ancora oggi riesce a spiegarsi l’utilità, fruttarono a William DeMordrey le più grasse risate della sua vita quando andò a riprendersi la bella direttamente nella torre sorvegliata dalla suocera.
Parte del seguito della storia Evelyn la conosceva già, ma il dettaglio che suo padre fosse stato anche il capo dei Custodi per un certo lasso di tempo le era stato oscuro fino a quel momento, e a sbalordirla ancor di più fu il sentir raccontare di quella piovosa notte di Febbraio in cui oltre alle tre candeline della sua torta di compleanno si erano spente anche le vite dei suoi genitori.
Quando i vendicatori di Hector, il capo dei Ribelli ucciso da William, li trovarono fu da subito chiaro che una vittoria senza perdite era una misera utopia, e prima che Riley potesse portarla in salvo, William dovette rispettare la tradizione che voleva che lo stesso capo in carica nominasse il suo erede nell’eventualità della sua morte prematura, indipendentemente da legami di parentele e discendenze. In molti ebbero da ridire sulla troppo giovane età di Riley, lui compreso, ma la decisione era ormai presa e tutti riponevano comunque una grande fiducia in William, e di conseguenza anche nel suo discendente.
Evelyn ripensò a tutte le circostanze in cui Riley aveva rivelato un aspetto ben diverso da quello di un semplice vampiro in apparenza fermo ai diciannove anni; la volta in cui la sera del ballo quell’uomo della sorveglianza gli si era rivolto con eccessiva riverenza, o quando la sola pronuncia del suo nome aveva avuto il potere di ammorbidire chi le stava davanti. Riley non solo era il capo, ma doveva essere anche bravo in qualunque cosa fosse quel che era suo compito fare.
Durante i vari racconti Sophie chiariva anche qualche suo dubbio sulle reali caratteristiche di un vampiro. In sostanza da sapere sui vampiri c’era che erano tutti diversi tra loro ovviamente, come le persone, ma accomunati tuttavia dall’appartenenza a una delle linee di sangue, come le aveva chiamate Sophie; ogni casato conferiva ai suoi appartenenti dei caratteri difficili da reprimere. Come la passione per ogni forma di cultura dei Lennox, o la poca costanza di lucidità di un Van Cleef.
Non le piacque molto sapere che le poche volte di lasciare Landry concesse ai suoi abitanti erano funzionali al loro sostentamento e che quindi in poche parole, come aveva già immaginato, si nutrivano di sangue umano; ad alleviare la colpa c’era però che le vittime dopo non ricordavano niente, se non una notte di passione o una botta alla testa con conseguente perdita dei sensi; il morso era infatti l’unico mezzo di cui un vampiro disponeva per annullare i ricordi più recenti di un umano.
Tanti altri aspetti non arrivarono a sfiorarli, dato che Sophie riuscì a distrarla raccontandole della sua vita.
Sophie Strathmore aveva avuto la fortuna di nascere in una nobile famiglia, in un tempo in cui il contrario era sinonimo di povertà e vita breve, e la sfortuna di venire al mondo nella notte sbagliata. La stessa della sua nascita era stata rapita durante un assedio di mercenari al soldo di una famiglia rivale, e da quel giorno il suo florido futuro di nobildonna si era tramutato in quello ben diverso di cortigiana. Honesta, ci tenne però a precisare la narratrice protagonista; sottolineando di non essere stata la donnaccia buttata per la strada che solo gli ignoranti potevano associare a quel termine. Aveva ricevuto un’ottima educazione e si era anche dedicata alla composizione di qualche verso, quando non era stata troppo occupata a intrattenere i pochi uomini che l’avevano avuta, tutti nobili “Di sangue e di cuore”, fu la definizione che ne diede.
In tutto ciò la sua famiglia era troppo occupata nel tentativo di incastrare quel buon partito che era Riley per la sua sorellina più fortunata. Lisa l’aveva ritrovata appena in tempo solo quando si era ammalata di tubercolosi, conservando un briciolo della sua vita, trasformandola.
Dal momento della rinascita in poi la loro vita, come quella di tutti gli altri dei quali però non ci fu il tempo di stare a sentire la storia a causa delle palpebre di Evelyn, che non volevano saperne di stare ben aperte, si era consumata per lo più a Landry e con vari alti e bassi, tra guerre civili tra vampiri e giorni spesi interamente a sedare gli animi irrequieti dei Ribelli.
Evelyn si lasciò accompagnare a letto con la promessa di altri racconti al più presto, poi fu libera di crollare in un sonno profondo.

Una luna perfettamente tondeggiante e luminosa rischiarava il bosco.
La bambina non aveva mai avuto paura del buio, ed era serena mentre calpestava il tappeto di foglie, producendo con i piccoli stivaletti di camoscio un rumore che riempiva il silenzio e le teneva compagnia.
Di sicuro qualcuno la stava cercando, così camminava lentamente, solo perché stare ferma era troppo noioso, altrimenti non l’avrebbero trovata.
Non l’aveva fatto di proposito, non si era resa conto di essersi allontanata tanto. Pensò alla lavata di capo che la aspettava e si disse che forse sarebbe stato meglio rimanere a vivere nel bosco.
Lo scrocchiare ritmico delle foglie secche non era cessato, ma solo in quel momento si accorse di essere immobile.
Si voltò piano.
Era un uomo alto e con i capelli scarmigliati, una strana luce negli occhi e un sorriso sbagliato.
Non parlava, continuava a sorridere, e ad avvicinarsi.
La piccola era troppo intelligente per non capire, ma anche quando la afferrò con entrambe le mani, la sua bocca si spalancò senza che ne fuoriuscisse alcun suono. Anche gli impulsi che il suo cervello inviava ai suoi muscoli sembravano perdersi strada facendo.
Era come negli incubi, dove l’uomo nero si avvicina e i bambini non riescono né a muovere le gambe, né a chiamare mamma e papà.
Solo che dall’incubo ci si sveglia un attimo prima che il mostro arrivi, e invece nella realtà il mostro l’aveva già presa.
Ormai aveva addosso le mani sporche dell’uomo nero, e il suo alito di liquori economici tra i capelli.
Pensò che non l’avrebbero trovata mai, o che forse non la stavano nemmeno cercando e solo allora riuscì a gridare, desiderando che l’uomo la lasciasse andare.
<< Fermo! >> si sgolò, senza paura, con i pugni serrati per la rabbia.
L’uomo s’immobilizzò.
<< Lasciami >> sibilò, con un tono che suonava incredibilmente assurdo sulla bocca di una bambina.
L’uomo alzò le mani in segno di resa, come nei film polizieschi.
La piccola Evelyn pensò che quell’uomo fosse davvero una brutta persona.
Il mostro si accasciò a terra, ormai vittima e non più carnefice.

Si svegliò che la luna piena di quella notte splendeva ancora in cielo.
Si passò le mani sul viso e pensò che se si fosse interessata un po’ di più a qualche libro di psicologia avrebbe saputo che la nostra mente in rarissime circostanze tende a rimuovere eventi considerati troppo sgradevoli per essere lasciati lì indisturbati, a infestare la nostra memoria. E per lei era ormai una consuetudine essere un caso raro.
Andare a chiamare qualcuno nel cuore della notte dicendo “Alcune volte facevo fare alla gente quel che volevo, come fossero marionette”, non le sembrò un’idea granché geniale. E poi avevano chiarito che le parole non servivano a un bel niente. Doveva riuscire a ricordare come funzionasse.
Era successo pochissime volte tra l’altro, e tutte quante le aveva rimosse senza un perché. Anche in quel momento non riusciva a spiegarsi come avessero fatto a riaffiorare simili ricordi, così all’improvviso e senza una precisa ragione.
Per una delle pochissime volte della sua vita però volle essere fiduciosa. Se c’era riuscita da bambina, adesso doveva essere ancora più facile.
L’ultima volta era accaduto durante una festa di compleanno di un suo cugino di quarto grado, quando l’avevano spedita a giocare con bambini che nemmeno conosceva, e i quali avevano tentato di rinchiuderla in una catapecchia che avevano scoperto per caso nelle vicinanze e che essendo vecchia e abbandonata, nella fantasia dei bambini, doveva essere obbligatoriamente anche infestata.
Alla fine dentro la casa diroccata gli adulti ci avevano trovato tutti i bambini, e tirarli fuori aveva richiesto che due dei suoi cugini più robusti scardinassero la porta, giacché era stata chiusa dall’interno. A chiamarli era stata la stessa Evelyn, che aveva detto di aver sentito delle voci dentro quella casa mentre stava tornando indietro.
Gli altri avevano spiegato che non volevano chiudersi dentro, che non l’avevano fatto di proposito, ma la fantasia delle giovani menti è tanto un dono quanto il motivo per cui nessuno gli crede mai.
Ancora poggiata con la schiena alla testiera del letto Evelyn pensava di essere stata davvero crudele, e sperò di riuscire a esserlo di nuovo almeno una volta, per Riley che forse non suscitava in lei solo ed esclusivamente senso di colpa.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Ardente come fuoco ***


27. Ardente come fuoco


Riley Nathaniel Hylton
-
Ignoto
Dinastia Hylton

Evelyn fissava il soffitto del baldacchino senza vederlo, mentre nella sua mente incombeva e a tratti spariva l’immagine sfocata del ricordo di quelle parole lette in tutta fretta.
Ricordava pressoché chiaramente tutti i registrati, ma quello in particolare l’aveva assorbito più degli altri.
Nessuna data, né traccia di chi l’aveva trasformato. Solo il suo nome e quello della sua linea di sangue.
Era ancora notte fonda e diluviava, ma la luna faceva capolino tra le nuvole concedendo una scarsa illuminazione; la sua vista si era ormai assuefatta al buio e raggiungere lo scrittoio senza ammaccarsi qualche osso contro un pezzo di mobilia seminascosto non fu poi un’operazione troppo complessa.
Aprì il cassetto e ne tirò fuori il libro, e prima di cominciare a leggere dall’inizio diede una rapita sfogliata complessiva, rendendosi conto per la prima volta che non era composto in modo omogeneo. Sembrava essere nato dall’unione di vari frammenti appartenenti a libri diversi. In alcune pagine figurava una grafia elegante, altre erano scritte a mano, altre ancore in una calligrafia tanto ricca di orpelli da rivelarsi quasi illeggibile.
Non volle accendere nessuna luce e si accontentò di accoccolarsi accanto alla finestra e aprirne per bene le tende.
Non si stupì di trovare in testa alla prima pagina il titolo Le Origini, scritto in modo raffinato e con inchiostro rosso. Le pagine che sembravano fare parte di quella prima sezione erano tra l’altro quelle dell’intero libro con l’aspetto più antico.

C’era un tempo un artista, che era in grado di creare cose meravigliose, e ancora nello stesso luogo in cui egli dimorava un cantore dalla splendida voce, e con loro altri esseri graziati dalla natura con un talento superiore a quello di tutti gli altri sulla terra che possedevano lo stesso.
Ma l’artista non riusciva a creare quando la rabbia s’impadroniva del suo cuore, e così il cantore non poteva alcuna melodia se era triste, e così il talento di ogni altro essere era nullo se cattive emozioni gli incupivano l’animo.
Serenità e giustizia cedettero il passo alla venuta di tempi bui, e nessuno riuscì più a esprimere ciò che di più bello gli era stato donato.
Uno di loro, afflitto, disperato, giurò d’esser pronto a tutto pur di riuscire a vivere di nuovo come una volta.
Arrivò allora un tale, di cui nessuno conobbe e ancora oggi conosce il nome, che propose di liberare l’uomo desideroso di creare di nuovo. Ma disse che non era consentito scacciare i tempi tristi, e che l’unico dono che egli era in potere di elargire era l’insensibilità, cosicché nessun sentimento influenzasse più i talenti degli uomini prediletti.
L’uomo, reso incosciente dalla disperazione e dalla nostalgia, accettò, e il senza nome prese la sua anima e gli asportò i sentimenti, e dopo di lui lo seguirono altri.
Solo dopo si resero conto del loro errore, ma riavere tra le mani il potere annebbiava loro la mente, e non vi badarono.
Giunse allora un altro tale che fu conosciuto e ancora oggi si conosce come il saggio. Egli era adirato con gli uomini prediletti per quel che avevano fatto e decise di punirli.
Fece allora sì che ogni sentimento che quegli esseri avessero conosciuto fosse amplificato, e così buono o cattivo che fosse lo sentissero per mille volte di un comune mortale. Insieme con la sensibilità furono accresciuti i loro talenti, ma sempre destinati a essere sottoposti alle emozioni.
Furono condannati all’immortalità, perché pagassero in eterno per la loro colpa, per aver ceduto la loro anima in cambio del potere.
Per secoli gli uomini prediletti hanno tentato di placare i loro sentimenti senza riuscirci; solo chi nacque per disgrazia prediletto a metà fu in potere di sottomettere il suo animo e le sue passioni, e così di influenzare chi lo attorniava.

Evelyn sollevò gli occhi dalla pagina senza voltarla, e senza sapere quanto di vero ci fosse in quella leggenda.
Dalle pagine seguenti intuì che quel che aveva in mano doveva essere una sorta di guida, giacché vi erano illustrate le principali caratteristiche dei vampiri, alcune delle quali rispecchianti quelle di comune conoscenza, come la necessità di nutrirsi di sangue e la spiccata prestanza fisica, altre se ne distaccavano completamente, non vi era ad esempio alcun accenno al fatto che il sole potesse nuocergli.
Seguiva la parte descrittiva un’altra sezione, inaugurata con un titolo che riempiva un intero foglio: caccia ai vampiri e rimedi vari. Quando però girò pagina incontrò l’inizio di un’altra sezione intitolata Le linee di sangue, e notò che diversa carta era stata strappata via nell’intervallo tra le due. Evidentemente quei rimedi dovevano essere abbastanza efficienti se qualcuno si era premurato di evitare che se ne venisse a conoscenza.
Non la infastidì più di tanto essere privata di quella lettura, poiché non aveva intenzione di andare a caccia di nessun vampiro, per il momento.
La prima menzionata era la stirpe dei Lennox e come le aveva anticipato Sophie durante i suoi racconti i vampiri di lignaggio Lennox vantavano una sfrenata passione per la cultura, che coltivavano facilmente, grazie alla loro mente macchinosa e sempre ben oleata, e insieme al perfezionismo più cronico; finivano tutti per trasformarsi in una sorta di enciclopedia universale deambulante e in continuo aggiornamento. A dispetto della credenza, più o meno diffusa, che vuole una qualsiasi persona maggiormente sviluppata o in intelletto o in fisicità, loro eccellevano anche in quest’ultima.
Alla loro saggezza si contrapponeva la poca dei Van Cleef, considerati pericolosi per la loro scarsa affidabilità e diligenza. Non si facevano alcuno scrupolo a dire, e a volte anche fare, tutto quel che gli passava per la testa, senza essere in grado di discernere il bene dal male e confinati in un perenne stato di malsana esaltazione.
Nel libro si narrava che la loro specie non era nata con le altre, e che inizialmente si trattava di vampiri appartenenti alle diverse altre stirpi, ma dotati di una sensibilità superiore persino a quella dei loro stessi simili, la quale con lo scorrere del tempo, tra guerre e catastrofi varie, li aveva condotti alla pazzia. Quando poi avevano trasformato un umano questi aveva ereditato, e così tramandato per secoli e secoli, in modo a volte cronico, altre volte più lieve, quel gene di follia nato sciaguratamente.
Per alcuni la convivenza non risultava poi tanto difficile, erano addirittura ben inseriti nella società delle varie sedi e la loro pazzia restava velata da un’apparente incapacità di annoiarsi. Per altri invece era stata necessaria l’istituzione di vere e proprie “Strutture che potessero ospitarli”.
Evelyn si chiese quanti Van Cleef ci fossero a Landry, mentre voltava pagina.
Il casato degli Hylton era sia una linea di sangue che una casa nobiliare. I vampiri di questa stirpe erano passionali, ancora legati alle gioie della vita umana e contraddistinti da un’aura di affabilità. Non avevano nessun talento in particolare, dato che era semplicemente impossibile trovare qualcosa che non fossero in grado di fare.
Altra specie era quella dei Sievers, differente dalle altre, alquanto impetuose e con qualche gene imperfetto che le portava spesso al compimento di gesti sconsiderati, per la sua natura piuttosto mite. Erano da sempre stati un pilastro portante della società con la loro prontezza di spirito, che gli rendeva facile calmare i bollenti spiriti e mantenere la pace.
Al di fuori della vita di città per loro scelta e natura erano i Kochel, amanti della solitudine, trascorrevano la loro esistenza con la sola compagnia di qualche strumento musicale e di una quantità incalcolabile di carta da riempire con spartiti, poesie e splendide rappresentazioni grafiche.
Dei Lustabader si diceva che non conoscessero vie di mezzo e vivessero per estremi. Alcuni piombavano nella depressione più nera e non se ne risollevavano più, altri prendevano la vita con una spensieratezza invidiabile ed erano una compagnia ricercata, per la loro giovialità e il loro altruismo. Erano alla continua ricerca di avventure più o meno serie, e non conoscevano la pigrizia. Non erano certo quel genere di persone che affronta la vita in modo organizzato e meticoloso e ricercavano i loro hobby nel mucchio dell’assurdo.
Per quanto riguardava i Von Schauenstein e i Van Lier, era raro trovarli al di fuori delle sette dei Ribelli, che seppur formate da vampiri appartenenti a tutte le linee di sangue, vantavano tra le file dell’alta reggenza per la maggior parte discendenti delle due specie summenzionate. I primi, di sangue blu e pertanto volti al dominio, erano considerati pericolosi per la loro capacità di destreggiarsi, con la spada e con le parole, nelle faide che era loro unico scopo inaugurare. La loro forza risiedeva nella capacità di plasmare dall’ombra tutto ciò che poteva essere utile alla loro causa, esseri animati compresi. I secondi invece potevano plasmare a loro piacimento se stessi.
I Von Ziegesar venivano descritti come preziosità della più raffinata furfanteria. Scommesse, affari e ricatti erano il loro pane quotidiano, sempre che non fossero troppo impegnati a dare prova della loro chiassosa turbolenza.
A seguire lesse il cognome che suo padre William le avrebbe dato se non fosse morto. I DeMordrey erano forse gli esseri più carismatici in circolazione; avevano un talento per far credere e fare a chiunque quel che volevano.
Tra i loro hobby figuravano la politica, intesa senza alcun problema in termini sia democratici sia tirannici, e le spedizioni di conquista funzionali alla stessa; il loro obiettivo principale era comunque principalmente uno: riuscire. In tutto quel che si mettevano in testa di fare.
Evelyn con un sorriso di ammirazione si augurò di aver ereditato parecchio da suo padre e affascinata da tutto quel che aveva letto rimase delusa vedendo che girando pagina l’inizio di una nuova sezione dichiarava conclusa la descrizione delle linee di sangue, non seppe se ne esistessero di altre.
Nonostante volesse proseguire la sua lettura al chiaro di luna, quest’ultimo era troppo lieve per illuminare in modo considerevole e gli occhi le bruciavano per lo sforzo, così si costrinse a chiudere il libro. Solo quando lo ripose si accorse di essere infastidita, e più precisamente da una sete bruciante.
Valutò per un momento l’idea di vestirsi prima di mettersi in marcia verso la cucina, ma la sua pigrizia la fece desistere e, dopo essersi avvolta nella vestaglia, aprì la porta sperando di non imbattersi in nessuno, o quantomeno non in tutta la combriccola al completo.
Fuori la tempesta imperversava, e tuoni e fulmini la accompagnavano lungo il corridoio, con l’unico vantaggio di fornire almeno un po’ di luce che la aiutò a individuare le scale. Scendere fu più complicato, poiché di sotto le tende delle finestre erano state serrate.
Nel salone regnava l’oscurità più fitta. Evelyn non aveva paura del buio, ma di fratturarsi un ginocchio sì, quindi tese le mani mentre camminava.
Un rumore alle sue spalle la spinse ad affrettare il passo, e nel frattempo cercò di richiamare a mente le coordinate della porta e di azzeccarla… Ovviamente l’unica cosa che centrò in pieno fu lo stipite in piena faccia.
Si portò le mani al viso con un verso isterico e si piegò su se stessa.
Al contempo una voce familiare le fornì la consapevolezza che non si trattava della porta.
<< Ti sembra educato andartene in giro a tamponare la gente nel cuore della notte? >>.
<< E a te sembra il caso di startene impalato in mezzo ai piedi, Al? >>.
<< Posso anche tollerare Alex, ma Al non voglio neanche sentirlo >>.
<< Neanch’io volevo sentire la porta in faccia >>.
<< Oh Ev… >> si arrese alla fine Alexander scoppiando a ridere e scompigliandole i capelli in un gesto che doveva ritenere d’affetto << Dovresti rallegrarti che non andavi di corsa, sarebbe stato molto peggio >> tentò di consolarla.
<< Mi rallegro da morire >> rispose acida.
L’altro sbuffò e la accompagnò in cucina, percependo la secchezza della sua gola e il suo pessimo umore da carenza di riposo.
Quando si accomodò sullo sgabello rialzato, stupendosi di trovare all’altro lato del tavolo Karl e Harvey piuttosto che Dalia, Alexander le pose davanti un calice e le versò l’acqua con le movenze di un impiegato in un ristorante di lusso.
Il profumo dolce dello zucchero caramellato risollevò di un bel po’ il suo umore.
<< Spuntino di mezzanotte? >> chiese con un mezzo sorriso di stupore rivolta a Harvey, che si baloccava con mestoli e padelle varie nell’intento di servire probabilmente un dolce dalla preparazione complicata.
<< In realtà non abbiamo fame, è una scommessa >> rispose una voce allegra alle sue spalle.
Quando si voltò, incontrò il sorriso semipermanente di Christopher, che si affrettò ad aggiungere << Faresti da giudice? >>.
Dopo un’ora buona, trascorsa tra chiacchiere e a osservare il novello cuoco che faceva saltare l’impasto in cottura dalla padella, fu decretata la vittoria di Harvey e la sazietà di Evelyn, che non poté fare a meno di complimentarsi e fargli promettere che avrebbe di nuovo cucinato per lei.
<< Noi hai ancora sonno, Ev? >> disse Karl mentre abbandonava il suo posto a sedere.
<< In verità no >>.
<< Perché non ci accompagni allora? >> le propose con un sorriso.
<< Volentieri. Dove? >> accettò senza pensarci.
<< Vedrai… Ti piacciono i cani? >>.

Le diedero cinque minuti per vestirsi, poi uscirono nel freddo della notte. Pioveva ancora e fu costretta a sollevarsi il cappuccio del cappotto, ma mettere piede fuori fu come risalire a galla dopo un’apnea troppo lunga.
<< Milady >> esordì Alexander con un sorriso e dandole le spalle.
<< Andiamo a piedi? >> chiese, esitando.
<< Beh, tu no >> rispose con un sorriso divertito che Evelyn intuì, anche se non riusciva a vederlo.
Partì non appena si fu accomodata con le braccia attorno al suo collo e per un momento lei credette di cadere nel vuoto, quando era stato Riley a portarla aveva tenuto gli occhi chiusi ed era stata troppo spaventata e confusa per apprezzare la traversata, adesso osservava il bosco sfrecciarle attorno e si godeva l’aria congelata che le sferzava il viso, mentre le gocce di pioggia quasi non li sfioravano.
Non ci volle molto per dare inizio alla competizione, e i quattro vampiri, con un sorriso stampato in faccia, si esibirono in acrobazie assolutamente al di fuori dei limiti umani.
Di fronte all’ostacolo di un dirupo nessuno ci pensò due volte a spiccare un balzo per raggiungere direttamente l’altra parte del bosco senza perdere tempo a scendere a risalire di corsa, ma mentre gli altri saltavano Evelyn si avvicinò al viso di Alexander, << Sull’albero >> gli sussurrò velocemente, sorridendo. Quello la tenne più stretta mentre accogliendo il suggerimento saltava lateralmente contro un tronco altissimo e facendo leva atterrava davanti a tutti gli altri, passando in vantaggio.
Evelyn non si era mai sentita tanto viva in tutta la sua esistenza. Dopotutto che cosa poteva fare una Mezzosangue in una banalissima città come Aberdeen?
Alla fine a vincere la gara fu Karl, annientando il vantaggio degli altri spiccando un balzo, dopo essere salito senza alcuna difficoltà sulla guglia più alta di uno dei primi edifici che davano inizio alla città.
Evelyn si stiracchiò non appena mise piede a terra, poi seguì gli altri attraverso i vicoli, con gli stivali che s’inzuppavano nelle pozzanghere, retaggio della pioggia ormai cessata.
Bastò oltrepassare le prime vie deserte perché lo stupore la cogliesse tanto da schiudere la bocca con un sospiro e fermarsi.
Landry, quella desertica e apparentemente abbandonata, o al massimo riempita da una decina di anime per le strade, che aveva conosciuto nelle sue poche visite fino a quel momento, adesso era semplicemente tanto affollata che camminare senza sfiorare le spalle della gente era impossibile.
In una vasta piazza circondata dalla pietra delle sue costruzioni antiche, uomini di mezza età e giovani piacenti, donne dai sorrisi maliziosi o gioviali, capannelli di gente dai quali si levavano grida e risate, ragazze a braccetto, mucchi di persone osservanti qualcosa che con tutta quella folla Evelyn non riusciva a distinguere, altri che se ne stavano seduti ai tavoli delle osterie o si spostavano da una parte all’altra in un’apparente gesto di fretta, si confondevano in un miscuglio di voci e abiti d’altri tempi.
C’era vita in quel luogo, e le sue trame s’intrecciavano fitte, creando storie e avvenimenti che avrebbero lasciato qualcosa nel tempo e nelle troppo lunghe esistenze degli abitanti di quel posto, se ne accorgeva solo in quell’istante.
<< Benvenuta a Landry >> le disse Harvey avvicinandosi quanto bastava perché lei potesse sentirlo.
<< La vera Landry >> proseguì Christopher apparendole di fianco.
<< Quella che da secoli non ha alcun bisogno di trovare un rimedio alla monotonia… >> aggiunse Karl.
<< Perché la monotonia qui… Non esiste >> concluse Alexander, mentre tutti si voltavano a osservare estasiati quello spettacolo centenario.
<< Ragazzi! >> gridò una voce accogliente dietro di loro.
<< Vincent! >> lo chiamò Karl stringendogli con vigore il braccio all’altezza del gomito mentre quello faceva lo stesso, in un saluto tutto maschile.
Quando ebbe salutato anche gli altri, quell’uomo alto e bruno si accorse di lei e la omaggiò con un aggraziatissimo baciamano.
<< E’ un onore conoscervi, finalmente. Avete qualcosa di vostro padre, ma non saprei dire cosa >>.
Evelyn si limitò a sfoderare uno dei suoi sorrisi migliori, e giudicando dall’espressione del destinatario dovette riuscirle piuttosto bene.
<< Che abbiamo qui? >> intervenne Harvey, avanzando verso il mucchio di gente dal quale Vincent si era distaccato.
Gli altri fecero lo stesso e Alexander le cinse la vita per invitarla a seguirli. Una volta giunta in prossimità del muro Evelyn lesse nella sua parte finale la denominazione Piazza dell’Accademia. Poi, lanciato un ultimo sguardo al posto del quale adesso conosceva il nome, abbassò gli occhi su un pezzo di carta abbastanza grande steso su un tavolo di pietra, attorno al quale si accalcavano tutti.
<< Niente di che, la solita ciurmaglia di turisti accampati nei boschi. Non li hanno ancora attaccati ma lo faranno presto ovviamente, stiamo valutando il percorso che potrebbero seguire, per fermarli in tempo… >> spiegava Vincent.
<< Serve una mano? >> chiesero i suoi accompagnatori, più per cortesia che come proposta, giacché lì attorno si appropinquavano già una ventina di uomini; difatti quello come unica risposta rise.
<< Buon divertimento allora, rendete Riley fiero di noi >> li salutò con un sorriso Alexander.
Quell’ultima uscita le cancellò momentaneamente il sorriso dalle labbra. Solitamente doveva essere lui a coordinare ogni operazione, ed era ciò che facevano da anni, impedire a due realtà troppo distanti di incontrarsi, o meglio, di scontrarsi, anche se non era difficile prevedere quale delle due avrebbe avuto la meglio.
<< Quindi la meta era questa? >> chiese Evelyn mentre tentavano di avanzare tra la folla.
<< No, purtroppo. Qualcosa di notevolmente meno divertente piuttosto >> rispose Harvey, che doveva essere un amante della vita mondana.
Gli altri ridacchiarono, ma tentarono di nasconderlo.
La ragazza si disse che creare la suspense era prerogativa dei vampiri, e si rassegnò a non chiedere altro.
Durante il tragitto incontrarono altre conoscenze, si fermarono e le presentarono volti nuovi e alcuni che aveva già intravisto di passaggio a casa di sua zia.
Dopo aver percorso un paio di stradine più defilate e meno affollate, giunsero a uno slargo che s’intuiva appena dalla loro posizione sottostante, al quale si accedeva tramite una scalinata che aveva tutto l’aspetto di essere sfiancante. Una volta in cima però si rivelò essere meno stancante di quanto si potesse pensare.
Lo spiazzo era in sostanza vuoto, eccezion fatta per l’enorme edificio che si stagliava contro il blu del cielo notturno, già a tratti colorato dall’alba incombente.
Proprio mentre sollevava il viso ad ammirare il cielo, un ululato non troppo lontano la fece sobbalzare.
<< Andiamo >> la riscosse Christopher ancora vicino, mentre gli altri si erano già avviati verso la casa.
<< Che posto è? >> sussurrò, avvicinandosi alla scalinata senza una precisa ragione.
Una volta giunta in prossimità del baratro lo spettacolo le tolse il fiato. In realtà quel punto era ancor più sopraelevato di come appariva, e da lì era possibile abbracciare con lo sguardo l’intera città, il bosco e persino la costa in lontananza. La prima appariva come un guazzabuglio di colori, tra il nero degli edifici e i colori delle torce infuocate e degli abiti della folla. Lasciando vagare lo sguardo poi, esattamente tra la costa e il fitto del bosco, attorniata da pochi alberi, non poteva non notarsi un’enorme costruzione di pietra scurissima e alta fin quasi ad affiancare illusoriamente la luna.
<< Questa è casa di Riley, e quello – Christopher indicò la torre che lei stava già osservando – è il luogo in cui lui si trova adesso. La chiamano la Reggia, ma non credo sia poi molto appropriato… Adesso entriamo >>.
Evelyn si soffermò sul profilo della Reggia, la percorse con lo sguardo dalla cima alla sua porzione più bassa, poi si scollò di malavoglia e seguì Christopher dentro casa.
L’interno era arredato come tutte le case di Landry, secondo la moda di un tempo dimenticato, e sapeva di solitudine. Riley doveva vivere da solo, in quella casa innalzata, adatta al suo ruolo.
Si rese conto che attraversando qualche corridoio erano giunti in un salone appartato, e adesso Karl armeggiava con una porta che probabilmente dava su un giardino. Persa nei suoi pensieri, non si era ancora accorta del rumore persistente che le riempiva le orecchie e quando si riscosse si stupì di risentire l’ululato che prima aveva creduto di immaginare.
<< Perché deve sempre fare tutto questo bordello? >> esclamò Harvey poco raffinatamente.
Alexander scoppiò a ridere << Perché sei arrivato tu >>.
<< Mi odia >> sibilò quello, sbuffando.
<< Pronti? >> li richiamò Karl.
<< Allontanati un po’ Ev >>.
Evelyn obbedì e quando Karl spalancò la porta ne sfrecciarono fuori tre esserini pelosi, che per essere degli esserini se si fossero sollevati sulle zampe posteriori l’avrebbero superata in altezza di qualche centimetro; fortunatamente furono prontamente afferrati prima che potessero assalirla o distruggere la casa, dato il modo in cui si dimenavano tra le braccia dei vampiri.
<< Dannazione Brak! Sta buono! >> urlò Harvey al meticcio che continuava ad abbaiare e tentare di afferrargli la giacca con i denti.
Gli altri due parevano essersi calmati, smorzato l’entusiasmo della ritrovata libertà, e adesso scodinzolavano attorno a Karl, che li lasciò dentro per recarsi in giardino.
<< Hai ragione Harvey, ti odia >> se la rideva Christopher, mentre Alexander correva a liberarlo.
Evelyn s’inginocchiò e tese il polso scoperto dalla manica per farsi annusare. Ad avvicinarsi di corsa fu proprio l’assalitore di Harvey, che dopo averla odorata a dovere si gettò per terra pancia all’aria, e lei non si fece pregare per accarezzarlo.
<< Mentre Riley non c’è dobbiamo prenderci cura di loro, ma è sfiancante, sono troppo attivi >>.
<< Sono un amore >> controbatté lei, accarezzando anche gli altri due meticci che si erano avvicinati.
Harvey alzò gli occhi al cielo e sorrise.
Quando Alexander e Christopher, che si erano allontanati senza che lei se ne accorgesse, fecero ritorno con le loro ciotole colme di carne i tre li seguirono in giardino, e così Evelyn.
Una volta fuori si avviò verso Karl, e solo quando gli fu vicina scoprì che in realtà in cani non erano solo tre. Il quarto se ne stava abbandonato a terra, con la grossa testa tra le zampe anteriori divaricate, le orecchie basse e gli occhi socchiusi, e non sembrava aver voglia di alzarsi.
<< E’ triste. Non si alza quasi mai se non per esigenze fisiologiche, si rifiuta di mangiare… >> spiegò il ragazzo.
Prima che lei potesse dire qualcosa, giunse da non troppo lontano il grido di Alexander << Ti ho detto che devi tenerlo! Idiota! >>.
<< Facile a dirsi, prova tu! >> rispose Harvey.
Karl alzò gli occhi al cielo << Scusami >> disse prima di andare a dare manforte con Brak l’iperattivo.
Evelyn si sedette a gambe incrociate di fronte alla bestiola che le stava davanti senza degnarla della minima considerazione e fece affondare la mano nelle pelliccia morbida della sua testa.
<< Anch’io sono triste >> gli sussurrò.
Quello non diede segno di aver sentito.
<< E mi dispiace, è stata colpa mia >>.
Allora quello sollevò la testa come a voler dire Allora perché non fai qualcosa per rimediare? Rivoglio il mio padrone.
A Evelyn si strinse il cuore << Io non so cosa… >> iniziò a dire, ma poi scosse la testa e tacque.
Improvvisamente il cane si alzò e dopo aver mosso qualche passo iniziò a ululare, sempre più furiosamente.
<< Che gli prende? >> chiese Karl avvicinandosi.
<< Non ne ho idea, un attimo fa era tranquillo >> balbettò la ragazza.
Nonostante non avesse mai avuto paura dei cani, le sfuggì un gemito quando una mandibola forzuta le afferrò la stoffa dei pantaloni e prese a tirarla verso il limitare del giardino recintato e confinante col bosco.
Karl fu rapido a liberarla e Alexander decretò che era meglio andare.
Evelyn salutò le bestiole con un’ultima carezza, eccezion fatta per quello che Karl stava ancora trattenendo. A lui rivolse solo un ultimo sguardo, e in quello che le restituì le sembrò di cogliere un messaggio silenzioso che non riuscì a decifrare.
Vide solo che si voltava di nuovo verso il bosco e continuava ad abbaiare mentre la porta si chiudeva.
Quando furono fuori i quattro si incamminarono subito verso le scale, ma Evelyn tentò di fermarli << Non possiamo passare per il bosco? >>.
<< Perché? >>.
Si limitò ad alzare le spalle e quasi non ci credette quando Alexander acconsentì e fece dietrofront.

Una lieve pioggerella aveva ripreso a cadere, e la boscaglia profumava di terra bagnata.
Proseguirono per un bel po’ in tutta tranquillità, poi accadde all’improvviso. Qualcosa di troppo veloce perché lei potesse distinguerlo piombò addosso a Christopher e lo scaraventò per terra. Harvey lo raggiunse fulmineo e tentò di liberarlo, ma anche lui fu scagliato contro un tronco distante con una tale violenza da produrre un fracasso tremendo.
Con una velocità inaudita una decina di uomini sbucò praticamente dal nulla, e altrettanto velocemente si scagliarono verso di loro.
<< Portala via! >> urlò Karl, mentre Alexander già la sollevava e iniziava a correre.
<< Non lasciarli! Io vado da sola! >> cercò di opporsi Evelyn.
<< Sei impazzita? >>.
Si erano già allontanati di parecchi metri e il suo unico pensiero era quello di tornare indietro. Certo sarebbe stata sicuramente una tragedia, ma sicuramente meno peggiore di un rimpianto.
In quello stesso istante un urlo disumano proveniente dal luogo che avevano appena lasciato sovrastò ogni altro rumore.
Evelyn sentiva il suo cuore sul punto di sfondarle la gabbia toracica, e il sangue pompato in eccesso riscaldarle le membra.
<< Alexander, ascoltami! >> gridò con quanto fiato aveva in gola.
Quello s’immobilizzò e la fece scendere con malagrazia, poi la guardò in modo indecifrabile, quasi adirato.
<< Non posso accettare che qualcun altro passi guai a causa mia, torniamo indietro! >>.
L’altro sembrava a quel punto ormai arreso e insieme iniziarono a correre dalla parte opposta a quella in cui si erano lanciati poco prima.
Ci volle poco per raggiungere gli altri, e quando arrivarono quel che vide non le piacque per niente.
Riusciva a distinguere Karl solo ed esclusivamente per il colore della sua capigliatura che risaltava nel buio, ma si muoveva tanto velocemente da essere quasi invisibile, alle prese con tre tizi che potevano competere con lui in quanto a forza fisica.
Christopher doveva aver sottratto a uno degli avversari una spada, che adesso brandiva con maestria e, anche se Evelyn per la situazione in cui si trovavano stentò a crederci, anche un po’ di esibizionismo.
Harvey era a terra, sovrastato da un tizio che gli puntava un pugnale dritto al cuore, e cercava di difendersi bloccandogli il polso.
Altri dieci uomini vestiti di nero avanzavano velocemente verso di loro, mentre circa sette, abbandonati sulla terra umida, non sembravano dare segni di vita.
<< Va ad aiutarli >> sussurrò Evelyn ad Alexander, che un minuto prima era fermo accanto a lei e quello dopo già aveva atterrato uno dei nemici.
Osservando la scena si sentiva tremendamente impotente, e a pensare che l’idea di passare per il bosco era stata sua sentiva montare una rabbia ardente come fuoco.
Una volta sua nonna aveva detto che era stata una disgrazia per la loro famiglia, e lei non aveva mai compreso se si fosse riferita alla morte dei suoi genitori o alla sua stessa nascita.
Adesso avrebbe optato per la seconda opzione.
Andava bene quando era lei a cacciarsi nei guai, ma non se a finirci a causa sua erano le persone a cui teneva.
Era ancora immobile, ancora una volta senza sapere cosa fare, quando seguendo il suono di una spaccatura, incontrò la smorfia di dolore si Alexander.
No, fu tutto quello che pensò.
In lontananza un ululato familiare si levava nella notte, mentre un’altra decina di uomini irrompeva nella radura.
No, continuava a ripetersi, scuotendo la testa.
Non aveva voce per gridare e le gambe non rispondevano ai comandi, come in un incubo.
Un uomo sovrastava Alexander, e aveva sollevato la lama, pronto ad affondargliela nel petto.
Evelyn, Evelyn… Non sei una vigliacca. Non te ne stai a guardare qualcuno che muore, senza far nulla. Non sei tu.
Davvero non era lei.
Non era da lei lasciarsi impressionare.
Se si metteva in testa di fare qualcosa non c’era niente che potesse spaventarla. Se qualcuno rischiava la vita non aveva paura di salvarlo. Era una DeMordrey, una Mezzosangue, e qualunque altra cosa, ma non era quello che aveva importanza… Umana o no, non poteva essersi trasformata in una codarda. Non avrebbe lasciato qualcosa di bello sgretolarsi tra le sue mani ancora una volta.
<< No >> sibilò, serrando i pugni.
La paura era improvvisamente sparita del tutto, fuggita chissà dove.
Era tornata lei, quella vera, finalmente.
<< Fermi >> proseguì muovendo qualche passo.
La debole Evelyn che ha aveva bisogno di essere protetta adesso aveva ceduto il passo a quella che per anni aveva arrancato da sola in una vita difficile, che tuttavia aveva fatto di lei quel che era, non di certo una ragazza qualunque.
Quel che non uccide fortifica, disse qualcuno una volta; e doveva avere ragione.
Evelyn desiderò semplicemente che le cose almeno per una volta andassero per il verso giusto, arrabbiata come lo era stata tante di quelle volte in vita sua che ormai considerava quel sentimento un caro vecchio amico.
Il tempo parve davvero fermarsi, come in sogno. Ogni singola arma cadde di mano a chi la brandiva, ogni combattimento cessò all’istante.
Si sentì come svuotata, come se stesse osservando la scena da lontano, mentre in un bosco una ragazza comandava e gli uomini attorno a lei eseguivano.
Non ricordava che fosse così facile. Se avesse saputo che bastava solo arrabbiarsi e usare qualche imperativo…
Solo uno si azzardò a parlare << Aveva ragione Cedric >>.

Il chiasso era intollerabile al punto che gli astanti al tavolo erano costretti a gridare per sentirsi a vicenda, o almeno perché potesse sentirli anche lei.
Il profumo delle spezie sulla carne permeava l’aria e il calore sprigionato dalle fiamme crepitanti nel gigantesco camino la rendeva pesante.
Alla fine gli assalitori si erano rivelati gli stessi che si erano messi sulle tracce dei turisti, e che una volta nel bosco avevano preferito una mensa più frugale ma forse più gustosa, anche se Evelyn non era certa che il suo sangue potesse essere migliore di qualche allegro vacanziere.
Vincent e i suoi ci avevano messo poco a trovarli.
Adesso avevano portato via gli aggressori, e le cinque vittime erano finalmente libere di tirare un sospiro di sollievo e di rilassarsi al tavolo di un’osteria gremita di gente.
In realtà quando erano arrivati nessun tavolo era disponibile, ma l’oste aveva fatto sloggiare cinque poveri ragazzi da un tavolo, dicendo che per Evelyn DeMordrey un tavolo c’era sempre.
Fantastico. Da disgrazia ambulante a eroina del momento.
Le voci giravano troppo in fretta de quelle parti.
<< Ahia! >> esclamò Alexander quando Evelyn strinse con forza la benda attorno al suo bicipite.
<< Smettila di frignare >> lo rimproverò l’infermiera tirannica.
<< Disse l’ipocondriaca… >>.
Evelyn strinse più forte e quello gemette di nuovo, accompagnato dalle risate degli altri.
<< Ev, posso chiederti un favore? >>.
<< Di stringere meno? >>.
<< No. Di non tentare più di assoggettarmi, è orribile >>.
<< Oh, Alex! Non l’ho fatto di proposito >> si scusò, sinceramente rammaricata.
<< Ma certo, lo so… >> le sorrise.
<< Beh in fondo tutto questo è stata una fortuna… E’ tutto risolto, sei dei nostri, a tutti gli effetti >> intervenne Christopher, esaltato all’idea che la sua super squadra potesse allargarsi.
Evelyn non sapeva quanto di diverso da una semplice umana ci fosse in lei, ma non le interessava più di tanto. Era sempre lei, imbranata e agile al tempo stesso. Il caso raro.
I suoi quattro accompagnatori decretarono che non si sarebbero mossi di lì finché lei non avesse mangiato qualcosa, perennemente convinti della sua fame inesistente.
Uscirono dall’osteria che era quasi l’alba.
Nella sua testa ronzava il pensiero di quel che avrebbe detto sua zia della sua ennesima disavventura. Probabilmente non le avrebbe più lasciato mettere piede in un bosco. Era comunque troppo stanca e assonnata per pensare seriamente a qualcosa, e si addormentò poco dopo aver lasciato al città, quando Karl la sollevò tra le braccia.

Uno stralcio di cielo era appena visibile dalla finestra stretta e alta che continuava a gocciolare acqua, il che rendeva l’ambiente più umido del solito.
Per un istante appena aveva avuto la sensazione che lei fosse lì a guardarlo. Forse stava impazzendo, dopotutto capita ai carcerati.
Durante tutto quel tempo aveva pensato a lei più di quanto avesse dovuto, per lo stesso motivo che l’aveva spinto a dirle la verità troppo presto, e che non voleva ammettere nemmeno con se stesso.
Non sapeva quale fosse stata la causa scatenante; se i suoi sorrisi troppo rari, le sue risposte taglienti, o semplicemente il suo adorabile caratteraccio, ma non aveva importanza.
Adesso era tormentato dall’idea che lei potesse essere arrabbiata con se stessa, credendo di essere colpevole. O che gli altri non fossero in gradi di proteggerla come lui.
Sì, forse era inevitabile che impazzisse.
Sorrise pensando che se fosse stata lì avrebbe tirato fuori una frase della serie “Non può rompersi qualcosa che è già rotto”.
Non si preoccupava per se stesso; si fidava di lei e la conosceva a tal punto che se si fosse messa in testa di tirarlo fuori di lì, Mezzosangue o no, qualcosa si sarebbe inventata. E dopo il modo in cui lo aveva stretto un attimo prima di spingerlo via qualcosa doveva pur importarle.
E anche se così non fosse stato, poco male.
Certo avrebbe passato l’eternità in quel buco o sarebbe morto, ma almeno, anche se lei non lo sapeva ancora, avrebbe portato con sé il cuore di lei.
Che idea stupida, pensò sorridendo amaramente.
Nell’evenienza che Evelyn riuscisse davvero a tirarlo fuori di lì, essendo impossibilitati a ucciderlo, dovevano comunque trovare il modo di dargli una lezione, e non si sarebbero certo lasciati sfuggire l’occasione di maltrattare il capo dei Custodi.
Gli squarci della frusta sulla sua schiena risalivano al giorno in cui aveva messo piede lì dentro, ma erano stati accuratamente ravvivati quella mattina.
Quando la porta di ferro si aprì con un rumore assordante, la luce gli ferì gli occhi, e fu certo che lo stanzino delle torture lì accanto lo attendesse di nuovo.
A comparire sulla soglia non fu tuttavia la solita guardia, bensì uno dell’alta dirigenza, scortato da sei uomini armati fino ai denti, che esitò un attimo prima di parlare, temendo le conseguenze di quel che inevitabilmente doveva dire. Doveva essere uno che aveva combinato qualche casino, e di cui volevano liberarsi, se lo mandavano lì in quel momento.
<< Riley Nathaniel Hylton, l’accusa di tradimento… E’ ritirata >>.
Il protocollo stabiliva una formula molto più complessa, ma quello non continuò. Probabilmente valutando l’idea di darsela a gambe o di provare a fronteggiare la furia di chi aveva dovuto sopportare per giorni un trattamento decisamente poco consono alla sua persona.
Avrebbe fatto meglio a selezionare la prima scelta.

A svegliarla furono le note di musica classica provenienti dal piano terra, dove qualcuno doveva aver trasportato il pianoforte della stanza in fondo al corridoio per esibirsi.
Si mise a sedere sul letto e aprì gli occhi per bene, stranamente poco infastidita dal risveglio mattutino e desiderosa di alzarsi.
Le servì solo mezz’ora per lavarsi e vestirsi, dopodiché corse a spalancare le tende… Pioveva. Sorrise e aprì anche la finestra. L’ondata di freddo che la investì la fece pentire all’istante, eppure non si era accorta che ci fosse tanto vento da poterle smuovere i capelli attorno al viso. Pensò che fosse meglio richiudere, ma quando fece per riavvicinarsi alla finestra si sentì afferrare delicatamente per i fianchi da dietro, e avvertì labbra che altrettanto dolcemente si posavano sulle sue.
Con la testa lievemente rovesciata all’indietro risalì con la mano a sfiorare quella guancia che non le sembrava vera, ma quel profumo era troppo nitido e quelle labbra troppo tangibili per essere solo un’illusione.







Salve a tutti! :)
Mi scuso innanzitutto se i miei tempi di aggiornamento stanno diventando più lunghi, ma adesso che la storia entra nel vivo voglio fare le cose per bene (o almeno ci provo).
Come sempre ringrazio tutti voi che leggete, chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate e soprattutto chi mi ha dato un parere, Aly BlackAngel e gio_lesa, grazie di cuore per i vostri complimenti.
Che altro dire? S. il tuo Riley è tornato! Grazie anche a te che mi sopporti.
Vi lascio con la speranza di aggiornare prima possibile e di non deludervi.
A presto, Ell :)

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Sogni e incubi ***


28. Sogni e incubi


Il sole doveva essere appena sorto, perché lei poteva avvertirne, seppur sovrastata dalla lattescenza della nebbia, la pallidissima luce sulle palpebre abbassate a voler catturare un istante per far sì che durasse per sempre; o forse era ancora buio, e il calore che avvertiva era di tutt’altra provenienza.
Le mani di Riley s’insinuavano tra i suoi capelli e le carezzavano lentamente la schiena, mentre lei si convinceva, senza alcuna ombra di dispiacere, che fosse fermamente deciso a non lasciarla più andare. La sua bocca era sulla sua, e tra un sorriso di malizia e un sospiro di desiderio Riley si muoveva con l’unica intenzione di prendersi tutto ciò di cui era stato privato in quei giorni di lontananza.
Nell’attesa che il momento in cui avrebbe riavuto Riley arrivasse Evelyn lo aveva immaginato mille volte, ma di queste nemmeno una era anche lontanamente simile al presente che stava vivendo, tale da renderla incredula e felice allo stesso tempo, non riusciva a fare altro se non stringerlo a sé, finalmente conscia che il solo averlo accanto ridestasse in lei tutte le emozioni che per anni aveva creduto di sopire, mentre in realtà era tutto quel che la circondava a sopprimerle ancor prima che potessero nascere in lei.
Riley scostò le labbra dalle sue per impiegarle sul suo collo, soffocandovi sopra una risata di stupore, effettivamente estasiato dalla sua inaspettata collaborazione. Aveva progettato un bacio a tradimento, l’aveva necessariamente presa alle spalle, ma poi lei si era voltata e gli aveva dimostrato con passione tutto ciò che non riusciva a dirgli con la voce. Perché se anche si era convinta che la sua ostinazione e il suo orgoglio sarebbero stati niente in quel momento, e se anche così era stato, non aveva la benché minima voglia di porre fine con delle belle parole a quel gioco di mentiti litigi che era iniziato dal primo momento che i loro sguardi si erano scontrati, e che era quel che la obbligava a desiderarlo in un modo che non si sarebbe mai nemmeno sognata, prima che la trasformasse dalla persona che s’imponeva di essere a quella che veramente era.
Riley cominciò a discendere con le carezze delle sue mani lungo il profilo dei suoi fianchi e poi delle gambe, sul tessuto dei pantaloni che adesso appariva fin troppo leggero sotto il suo tocco, abbandonando anche il suo collo con le labbra per posarle più giù, strappandole un sospiro.
Quando, dopo una deliziosa agonia che parve durare un secolo, le sue carezze raggiunsero l’incavo del suo ginocchio la sollevò alzando un angolo delle labbra in uno dei suoi sorrisi che tanto le erano mancati, e spingendola a sedere su una qualche superficie che in quel momento lei non era in grado di identificare si fece più vicino, imprigionandola con le braccia e tornando a dedicarsi con veemenza alle sue labbra.
Quando quel contatto divenne tanto appassionato da spingerla ad aggrapparsi alle sue spalle con forza, il gemito che gli sfuggì li riscosse entrambi.
Riuscita a distanziarsi abbastanza, la vista della lieve contrazione dei lineamenti perfetti del suo viso la indusse alla costatazione di avergli inflitto l’ennesimo dolore, fisico o morale che fosse, e il sussurro le sfuggì irreversibilmente colmo della preoccupazione che non voleva dimostrargli, accompagnato dalle sue mani pallide e delicate che si posavano, altrettanto inconsapevolmente, tra i suoi capelli dorati e sulla sua guancia.
<< Riley >>.
Certo non si aspettava che tornasse intatto e in ferrea salute, ma l’espressione era tornata quella di sempre, e anche il suo viso non mostrava il minimo cambiamento, notò Evelyn con sollievo.
Lui puntò in quelli di lei i suoi occhi, luminosi anche se socchiusi, palesando la sfida.
Evelyn calcolò nel consueto tempo necessario a lasciar intendere di non aver calcolato nulla, poi anziché limitarsi a sorprenderlo, si decise arditamente a sconvolgerlo.
<< Mi sei mancato >>.
Gli sorrise a un soffio dalle labbra, poi le baciò con una tale audacia da comunicargli ogni goccia della sua felicità di riaverlo e della sua paura durante la sua assenza.
Quando lui riuscì miracolosamente a recuperare una sufficiente quantità di forza di volontà da arrivare a liberarla dal suo tocco dolce e prepotente, si decise a parlare, lasciandole sfuggire un sorriso che lei prontamente mascherò mordendosi le labbra, in un gesto che gli avrebbe fatto desiderare solo di riprenderne pieno possesso.
<< Vedo >> disse, lasciando trapelare tutto il suo stupore, << anche tu >> aggiunse poi con accortezza, un attimo prima di sollevarla di nuovo e sfiorarle un’ultima volta le labbra prima di allontanarsi.
Evelyn non comprese quel gesto improvviso, assurdo per lui che sembrava desiderare soltanto di averla il più vicino possibile in ogni istante, finché la porta non si schiuse.
Benedisse l’impareggiabile udito di Riley quando sbucò nella stanza l’intera ciurmaglia dei suoi compari.
Tra abbracci e saluti, cercò di scansarsi come meglio poteva, all’inizio senza ben comprendere l’improvviso e accelerato battito del suo cuore. Le ci volle qualche secondo per accorgersi che in quella casa enorme e inondata dai suoi amici centenari, Riley aveva pensato a lei per prima, riservandole un saluto che chiunque altro al mondo probabilmente poteva semplicemente bramare senza mai sognarsi di avere.
Quando accanto a quel gesto nella sua mente presero forma epiteti come tenero o adorabile, fece una smorfia talmente evidente che quando vide ridere solo Sophie ringraziò il cielo per la momentanea distrazione di tutti gli altri.
Quella si avvicinò sorridendo. << E’ sempre così >> disse con noncuranza.
<< Vuoi dire che era già successo? >> esclamò Evelyn, abbassando inutilmente il tono ancora non del tutto saldo della voce subito dopo aver aperto bocca.
<< Vuoi scherzare! Che cosa credevi? Riley è una testa calda, in un modo o nell’altro finisce sempre in qualche situazione sconveniente… Se la cava sempre però, e ancora c’è qualcuno che non riesce a stabilire se sia un bene o un male >>.
<< Che si cacci sempre in qualche situazione sconveniente? >>.
<< No, che se la cavi sempre >>.

Con tutta la confusione che regnava in quella casa notevolmente troppo affollata di menti malfunzionanti, Evelyn non era ancora riuscita a scoprire quale fosse la geniale fonte di quella disonesta idea. Fatto sta che si ritrovava tra le ante spalancate del suo armadio, fermamente convinta di non riuscire a scegliere cosa indossare, con Sophie, già vestita e acconciata di tutto punto, che deambulava per la stanza trasportando abiti elegantissimi e gioielli di vario tipo, Rose già pronta per mettere le mani sui suoi capelli, e Dalia a imbarcare dalla porta un’aggiuntiva quantità di scatoli contenenti calzature e sottovesti, il tutto mentre sua zia Josephine, anche lei già pronta, si lamentava del tempo troppo piovoso di quella mattinata e dal piano sottostante giungevano le intonazioni corali di “It’s Raining Men”, giusto per sottolineare qualcosa di estremamente ovvio e il cattivo umore di sua zia, improvvisamente desiderosa di un caldo sole splendente, come se non avesse trascorso gran parte della sua esistenza nella letteralmente e figurativamente burrascosa Landry.
Esattamente quando la sua crisi isterica stava per deflagrare, si ritrovò avvolta in uno strettissimo e meraviglioso corsetto ricamato, e quasi inciampò nella lunga parte sottostante dell’abito, che consisteva in un’ampia gonna, anch’essa impreziosita da pizzi e merletti.

In casa Mcgrath le feste di bentornato erano frequenti sì, ma non avevano nulla a che vedere con quella che si prospettava nel grande salone addobbato lussuosamente la quale soglia Evelyn aveva appena oltrepassato.
Ad Aberdeen aveva sempre trascorso parte delle feste tra gli scarti dei ritagli degli striscioni d’auguri, che i suoi familiari sostenevano essere più sinceri se realizzati a mano, chissà perché quasi sempre con le sue di mani. Doveva possedere una creatività non manifesta di cui non si era mai resa conto, o più realisticamente era l’unica in famiglia a tollerare con pazienza ore trascorse maneggiando forbici e carta velina.
Per questo motivo le ci volle un po’ prima di abituarsi al rumore dei suoi tacchi e della stoffa del lungo vestito che frusciava sul marmo del pavimento, alle occhiate incantate che si posavano su di lei, a non affondare troppo le unghie nella manica che avvolgeva il braccio di Riley, che la accompagnava con una tale disinvoltura che lasciava credere che avessero visitato insieme altri mille saloni in festa prima di allora.
Parecchie mani correvano a coprire volti che non conosceva mentre si chinavano a bisbigliare, ma smise di badarvi quasi subito, dedicandosi alla piacevole compagnia della squadra, mentre Riley veniva richiamato altrove dalla sconfinata folla che si era radunata lì per lui.
E per lei.
Evelyn lo comprese con orrore da tutti quelli che si precipitavano a ringraziarla e complimentarsi con lei per aver fatto sì che il loro Capo fosse liberato.
Quelle attenzioni la mettevano a disagio, e fu quasi tentata di far notare ai suoi ammiratori, che nel frattempo le davano anche il benvenuto ufficiale nella comunità di Landry, che era stata allo stesso tempo la causa oltre che la soluzione di quello sgradevole avvenimento, ma si trattenne notando la felicità sui volti di tutti.
Fortunatamente aveva preso parte a tante di quelle cene di lavoro della sua famiglia che avere a che fare con tutte quelle persone non le fu per nulla difficile, con l’unica differenza che dopo un po’ le parole iniziarono a venirle fuori più sincere che mai.
Nonostante avesse cominciato a prenderci gusto, dopo qualche ora sentì la necessità di aria fresca e poco affollata e si defilò in giardino con Sophie e Karl, e anche se la attanagliava un irrefrenabile desiderio di squagliarsela e smettere i panni del terzo incomodo lasciandoli soli, dovette trattenersi, poiché Riley aveva ordinato che non rimanesse da sola nemmeno per un momento.
Oltre la tettoia del porticato, l’acqua veniva giù come una fiumana, ed Evelyn parlò senza staccare gli occhi da quello spettacolo ormai familiare.
<< Per quale motivo mi trattano così? >>.
Chiese a Karl, che aveva sempre una risposta per tutto, nella speranza di svelare cosa si celasse dietro il sentimento dei suoi concittadini.
<< I motivi sono tanti. Oltre all’apprezzamento delle tue qualità, anche il fatto che tu sia la figlia di William, che è stato sempre una figura di riferimento, e la fidanzata di Riley per esempio: lui è sempre stato solo, e sapere che adesso ha te rende tutti felici >> rispose con tono pragmatico, e proseguendo il discorso anche di fronte alla sua espressione a metà tra lo sconcerto e la confusione, << chi è amico del Capo è amico di tutti, in poche parole, ma se un giorno avessero tutti l’occasione di conoscerti davvero si affezionerebbero ugualmente, indipendentemente dal tuo legame con i due ultimi leader >> terminò con un sorriso.
<< Ev >> intervenne Sophie, che poteva comprendere i suoi pensieri meglio di un ragazzo << non avrai pensato che la cosa fosse passata inosservata spero, e comunque credo che Karl abbia adoperato il termine sbagliato, niente qui è ufficiale prima che Riley lo confermi >>.
<< Ipoteticamente, tu saresti disposta a ufficializzare la cosa? In tal caso sarebbe necessario il tempo per organizzare tutto… >> intervenne Karl con il solito tono neutro di chi sta già pensando alla lista delle cose da fare. Evidentemente, essendo il braccio destro del suo “Fidanzato”, spettavano a lui gran parte delle incombenze che quest’ultimo gli delegava.
<< Io… non… forse… >> balbettò lei, annaspando tra l’apprezzamento dell’idea e il terrore.
<< Karl >> lo richiamò Sophie con una strana intonazione, ostentatamente impassibile, ma che a Evelyn parve nascere semplicemente dal fatto che stesse cercando di trattenere una risata.
<< Sì? >> la assecondò con l’intonazione dolce che riservava sempre e solo a lei.
<< Tuo fratello ti sta incenerendo con lo sguardo >>.
Evelyn si voltò in simultanea allo sguardo di lui, e incontrò quello distante di Riley, oltre la vetrata. Da un angolo del salone dove si stava intrattenendo con un nugolo di persone, i suoi occhi verdi puntati in quelli azzurri di Karl sembravano promettere una fine tutt’altro che rapida e indolore.
<< Oh, forse dovrei raggiungerlo >>.
<< O forse no >> disse Sophie scoppiando a ridere, << di sicuro starà pensando che gli farai scappare l’innamorata >>.
Evelyn registrò quella parola e si stupì di non trovarla per nulla estranea; si aspettava che affiorasse il terrore, eppure non sopraggiunse neanche un lieve stupore. Forse funzionava così scoprire i propri sentimenti.
Karl le sorrise e poi scomparve, mentre Sophie lanciava un’occhiata lievemente preoccupata al salone.
<< Ti conviene non scappare sul serio, oppure Riley farà davvero pentire Karl delle sue parole affrettate >>.
<< Sof, anche volendo, non vedo come potrei mai riuscirci >> rispose Evelyn sospirando.

Tra chiacchiere, balli e banchetti, il ricevimento si prolungò fino a tarda sera, e solo quando il sole era ormai tramontato e il profumo della pioggia in giardino si era fatto più intenso, Riley poté ritagliarsi del tempo da dedicare solo a lei.
Quando la salutò con un lieve bacio sulle labbra, Evelyn gli intimò di tornare immediatamente dagli altri invitati, ma dovette arrendersi dopo che l’ebbe guardata come se stesse delirando.
Si accomodarono su un muretto, intervallato da colonnine che si chiudevano nella parte superiore formando archetti tripartiti, che correva intorno alla distesa di rose ed erba bagnata, distante dalla sala e a pochi metri di distanza dal punto in cui principiava il bosco.
<< Riguardo a quello che ti ha detto Karl stamattina >> cominciò Riley voltandosi per fissarla dritto negli occhi, << credo che le cose non siano ancora ben chiare, quindi… >>.
Evelyn non fece nulla per impedirgli di alzarsi e inginocchiarsi ai suoi piedi un attimo dopo, << Niente anello spero >> disse semplicemente.
<< Va bene, ma tu accetteresti comunque di tollerarmi anche in via formale e di sopportare l’appellativo di mia fidanzata, così da rendermi certo che non scapperai via da me alla prima occasione? >>.
Era certo che per quanto avesse voglia di tollerarlo le cose ufficiali la terrorizzassero, con il loro sembiante troppo definitivo.
Evelyn strinse gli occhi e gli rivolse un’occhiata indecifrabile.
<< Riley, come puoi pensare che scapperei via da te? >>.
<< Ho le mie buone ragioni >>.
<< Non credo proprio >>.
<< E’ un sì? >>.
<< Non scapperò >>.
<< Quindi? >>.
<< Resto >>.
<< E…? >>.
Evelyn sospirò, << Sì >>.

Nei giorni seguenti, la vita che aveva condotto fino a quel momento si trasformò solo in un lontano ricordo, da ripescare nei momenti di solitudine giusto il tempo di dedicargli un sorriso di nostalgia.
Niente più fughe nei boschi, se non quelle sulle spalle della scorta di turno che la scorrazzava per tenerla buona e al sicuro, quando tutti gli altri erano troppo impegnati a fronteggiare l’ennesimo delirio dei Ribelli.
Niente più segreti, se non quelli suoi e di Riley, da nascondere con cura al resto del mondo perché troppo intimi e dolci per volerli condividere.
Niente più corazza. Manifestare, con una smorfia, un sorriso, un sospiro, e in qualsiasi altra maniera, quel che le passava per la testa era diventato talmente naturale da non riuscire quasi più a nasconderlo quando la situazione lo richiedeva.
Proprio in quel momento non riusciva a nascondere il suo ghigno vittorioso, mentre si rigirava ancora tra le dita il re che poco prima occupava una casella poco distante dalla mano pallida di Sebastian.
Sebastian alzò gli occhi al cielo e scosse la testa, mentre Alexander gli appariva dietro per consolarlo con una pacca sulla spalla e una risata. << Ti vendico io >>, esclamò sorridendo, accomodandosi al posto che quello gli cedeva.
Sua zia passando lì accanto arricciò il naso, come se la parola vendetta emanasse davvero un odore fastidioso.
I Ribelli non si erano arresi, e lei era costantemente sotto l’occhio vigile di qualcuno.
Ogni tanto intravedeva anche le Ombre, nel riflesso di uno specchio o illuminate dal bagliore di un fulmine accanto al suo letto, ma accadeva solamente quando Riley era vincolato dai suoi doveri e non era con lei, il che capitava raramente, perché il tempo per lei riusciva sempre a trovarlo.

<< Il passato è passato, Sof >> disse Evelyn con una decisione tale da far oscillare l’espressione irremovibile dell’amica.
Si avvicinò e le sorrise, anche se aveva una voglia matta di schiaffeggiarla per i suoi vaniloqui che si protraevano dalla sera precedente.
<< Mi permetto di dissentire >> rispose l’altra, riassumendo un’aria indignata e sofferente.
<< Gli stai spezzando il cuore! >> esplose a quel punto Margareth, che fino a quel momento si era tenuta in disparte.
Sophie scosse con foga la testa e poi la tuffò nel cuscino, abbracciandolo.
Quel povero disgraziato di Karl Sievers, perdutamente innamorato da secoli della dolcezza di Sophie Strathmore, l’aveva gettata la sera precedente nella disperazione più nera con un bacio rubato. Adesso lei si rifiutava di vederlo, in una circostanza che si ripeteva da anni, con sommo dolore dei due innamorati, uno che si macerava nel suo dispiacere per i rifiuti dell’amata, l’altra che sosteneva che quello, detentore della fama di aver avuto la condotta di vita più esemplare di tutta Landry, meritasse una donna ben più nobile di un’ex cortigiana.
<< Lo amo troppo per fargli questo >> singhiozzò la farneticante.
<< Sof? >>.
Quella sollevò la testa dal cuscino, dopo avercela tenuta tanto a lungo che se avesse avuto bisogno di ossigeno sarebbe morta soffocata già da un bel pezzo, << Sì? >>.
<< Tu ti sei bevuta il cervello >>.
Sophie sprofondò di nuovo nella fodera, quasi veramente intenzionata a soffocarsi.
<< Quante storie! Fallo e basta >> urlò Lisa, manifestando tutto il suo nervosismo, dovuto più al doversi trovare all’interno di una stanza con Evelyn, piuttosto che agli assurdi drammi interiori della sorella, la quale riemerse proprio in quel secondo, << Fare cosa? >> chiese, allarmata dal sospetto che si faceva strada nella sua testa.
<< Perdonami Sof >> cominciò Evelyn abbozzando un sorriso, poi sospirò e quando posò di nuovo lo sguardo su di lei lo diresse dritto ai suoi occhi arrossati, << alzati da questo dannato letto e vai a farti bella. Scendi di sotto e lascia che Karl ti porti al ballo >>.
Sophie la guardò disperata, mentre si alzava.
<< Ah, dimenticavo: sorridi >> concluse Evelyn, ammirando l’amica che si strofinava gli occhi e finalmente sollevava gli angoli della bocca, del tutto ignara di compiere quel gesto di sua spontanea volontà.
Quando Sophie sparì in bagno, Cedric sbucò nella stanza, << Allora? >>.
<< Fra poco scende >> decretò Margareth, prendendolo per mano e ridacchiando, << ritieniti fortunato che con me non hai dovuto subire tutto questo >>.
<< Credo sia dipeso dal fatto che eri talmente occupata ad ammirarlo con sguardo sognante che non ti rimaneva tempo per fare altro >> esordì Harvey con un ghigno.
<< Grazie Casanova, vedi piuttosto di trovare il modo di impiegare più proficuamente il tuo di tempo >> rispose Mar, dissimulando con un sorriso tenero.
<< Lo fa già >> intercedette Christopher per lui.
<< Visitare i letti di mezza Europa non mi sembra un impiego utile >> disse Tristan laconico.
I presenti scoppiarono a ridere, eccezion fatta per Cedric, che da fidanzato felice qual era, desiderava per l’amico la stessa condizione e non approvava il modo in cui usufruiva delle sue licenze di lasciare la città.
<< Perdonate l’interruzione, ma di sotto c’è Karl che reclama una spalla per lagnarsi ed io non ne posso più di starlo a sentire >> Riley comparve sulla soglia della porta con una faccia esasperata.
<< Un fratello esemplare, non c’è che dire >> lo rimproverò Evelyn.
<< Vado a portargli la buona notizia! >> esclamò Sebastian, che era capitato lì giusto in tempo per sentire che in un modo o nell’altro Sophie si era convinta.
<< Dopo un paio di secoli ci si stanca Ev >> rise Harvey.
<< Allora speriamo che la questione si risolva >> disse lei, seguendo gli altri che lasciavano la stanza.
<< La vedo ardua >>.

<< Sei diventata abilissima a quanto pare >> si complimentò Margareth, mentre scendevano le scale.
<< Non che me ne rallegri >> rispose Evelyn.
Margareth alzò gli occhi al cielo.
Erano tutti contrariati dal suo rifiuto per quella capacità, ma lei era convinta che utilizzarla fosse solo una tentazione da sopprimere, eccetto quando si rendeva necessario per aiutare qualcuno.
Quando le due fecero per continuare la conversazione furono prontamente interrotte da Riley e Cedric, incapaci di saper attendere con pazienza che due dame terminassero di fare quel che dovevano.
<< Siamo in ritardo >> si giustificarono.
<< Non aspettiamo Karl e Sophie? >>.
<< No, ci raggiungeranno dopo. Karl ha preparato un bel discorso >>.
Evelyn si fermò a guardare i due, poi socchiuse gli occhi e scosse la testa lasciandosi sfuggire una risata, << Forse volevi dire che avete preparato un bel discorso. Ieri ogni essere maschile si è praticamente dileguato da questa casa >>.
<< Ci vogliono cotante virili menti per assemblare una dichiarazione d’amore? >> esclamò Margareth.
<< Per una efficace, sì >> rispose Cedric.
Le due si scambiarono uno di quegli sguardi che possono comprendere solo le ragazze, e che è seguito sempre dalla stessa conclusione.
<< Maschi >> dissero in coro, scuotendo la testa in sintonia.

Una notte temporalesca li accolse non appena lasciarono la veranda della casa di Josephine.
Il cielo, illuminato qua e là dal fulgore argenteo dei lampi che preannunciavano l’arrivo della pioggia, era dello stesso blu cupo dell’abito da sera ricamato di pizzi che indossava Evelyn. I nastri del corsetto a cuore glielo serravano addosso rivelando il profilo del seno e dei fianchi, la gonna era dotata di uno spacco laterale contornato da trine impreziosite, che a un passo appena più lungo le avrebbe scoperto la gamba. Quando Riley glielo aveva visto addosso era passato dal puro apprezzamento all’angoscia, e aveva suggerito di evitare il ballo e trovare una meta alternativa. Evelyn non vedeva il motivo della sua gelosia, essendo semplicemente circondata da uno stuolo di candidi e ingenui vampiri.
Tra l’altro si accorgeva di non potersi interessare a nessun altro nel modo in cui lo faceva con Riley, ma nonostante tentasse di spiegarglielo secoli di tradimenti e complotti avevano indubbiamente lasciato il loro segno su di lui.
Quando entrarono nella sala, che quella sera avrebbe ospitato il settecentesimo compleanno di Vincent Rosenberg (i vampiri festeggiavano solo alla cadenza dei cento anni), la loro attenzione venne subito attratta dalle note provenienti dal pianoforte collocato in un angolo appartato, al quale stava seduto un uomo dall’aspetto elegante e impassibile. Evelyn aveva già avuto modo di conoscere Eric Kochel, che esprimeva tutto quel che non si scomodava di dire con le parole attraverso la musica. Riley gli fece un cenno al quale quello rispose con una nota più acuta delle altre nella melodia, poi condusse Evelyn ai margini della sala, dove li attendevano delle vecchie conoscenze.
Grisham salutò Evelyn come sempre gridando il suo nome e tendendole le braccia, mentre lei si chinava ad abbracciarlo con un sorriso.
Da quando aveva scoperto la verità su ciò che era lei, si sentiva ancora più vicina a quel bambino che le riservava un’attenzione speciale. Anche lui era un Mezzosangue, ma fino a quel momento aveva dimostrato di non aver ereditato nulla da suo padre Bradley, così lui lo avrebbe visto crescere e invecchiare insieme a sua moglie Susan, ma l’amore che provava per loro gli faceva ignorare del tutto questo inutile particolare.
Carpe diem, era uno dei motti di cui un vampiro si avvaleva di buon grado.
Evelyn si chiedeva se anche per lei e Riley sarebbe stato così. A lui non importava che sarebbe cambiata nel tempo, e lo assicurava con una tale sincerità da indurre anche Evelyn a non pensarci.
Mentre Bradley e Riley conversavano, Susan informò Evelyn di tutte le ultime marachelle di Grisham, il quale assisteva con un sogghigno consapevole alla scena, strappandole non poche risate. Le raccontò anche che durante una malefatta e l’altra aveva iniziato a parlare per qualche minuto di fila almeno tre o quattro volte al giorno ed Evelyn rivolse al bambino un sorriso di celebrazione. Poi percorse casualmente con lo sguardo l’intera sala, e si soffermò esattamente nel punto centrale dal quale s’irradiavano le decorazioni circolari del pavimento. Sophie serrava le braccia attorno al collo di Karl, che trionfante, mentre la sua dama abbassava lo sguardo sul suo petto, faceva l’occhiolino a Riley.
A loro ballo si unirono presto altre coppie e ad accaparrarsi per primo l’onore della sua compagnia per un ballo fu Alexander, che Evelyn si disse sarebbe stato l’unico al quale Riley l’avrebbe concesso; con l’indole ribelle e testarda che si ritrovava, per eredità, malasorte o qualche altro oscuro motivo, si era costantemente ripromessa che non avrebbe mai lasciato che qualcuno potesse decidere per lei o imporle qualcosa di diverso dalla sua volontà ma, sebbene se ne stupisse ancora di tanto in tanto, con Riley era diverso: il suo semplice sguardo poteva far sì che nessuno nella sala si spingesse a invitarla a ballare e questo suo comportamento possessivo e autoritario tuttavia non la innervosiva più di tanto. Da quando le aveva salvato la vita questa si era legata a quella di lui indissolubilmente, anche se lei ancora stentava a credere al modo in cui lui ricambiava quel sentimento, quasi avesse davvero aspettato il suo arrivo fino a quel momento.
Con l’arrivo della successiva melodia i presenti contemplarono la danza spensierata della coppia che era il fulcro dei pettegolezzi di Landry.
Il giovane ma consumato Comandante dei Custodi e la Mezzosangue manovratrice, figlia di un DeMordrey.
<< Ci guardano tutti >> sussurrò Evelyn, non necessariamente vicina al suo viso perché lui potesse sentirla.
<< E allora? >> rispose lui, al contrario per nulla infastidito dalla cosa.
Lei non aveva voluto ancora ufficializzare il fidanzamento, e lui l’aveva assecondata, pur non premurandosi di nascondere la sua insoddisfazione e impazienza.
<< Non mi piace essere al centro dell’attenzione >> disse Evelyn, dopo un momento in cui ci aveva riflettuto.
A quelle parole una copiosa risata costrinse entrambi a voltarsi verso un punto al margine della pista da ballo.
Evelyn lanciò ad Alexander un’occhiata sarcastica e simulò un’espressione indignata, poi si rivolse a Riley, << Non osare assecondarlo >>. Quello smise di ridere e scosse la testa in modo esagerato.
L’ultima trovata di Alexander per farla spazientire era di darle dell’egocentrica, scoppiando in teatrali risate quando lei lo negava.
<< Se anche non ti piacesse sul serio ricevere queste attenzioni, dovresti abituarti >> se ne uscì il suo accompagnatore facendola girare su se stessa e poi tirandola di nuovo a sé.
<< E se anche mi abituassi, non significherebbe che sono un’egocentrica >>.
Una nota acuta e un casquè dichiararono la conclusione del ballo.
<< Perché cerchi scusanti? Dalle mie parti lo chiamiamo avere il carbone bagnato >> s’intromise Alexander quando abbandonarono il centro della sala per raggiungerlo.
<< Se avessi del carbone lo utilizzerei in maniera ben più utile >>.
<< Non ti basterebbe un banalissimo rogo per liberarti di me, anche a costo di tornare a perseguitarti come fantasma >>.
<< Non avevo dubbi, è nella tua natura >>.
<< La vita dopo la morte? >>.
<< No, la persecuzione >>.
Il battibecco proseguì come sempre tra risate e occhiatacce, sotto lo sguardo divertito di Riley che non s’intrometteva mai per paura di rovinarsi il divertimento.
<< Siete una fonte inesauribile d’imbecillità >> li interruppe Margareth, che era troppo colta e intelligente per ammettere le idiozie che i due finivano per dirsi, più per non darla vinta l’uno all’altra che per formulare delle frasi concrete.
<< Sono uno spasso >> ribatté Cedric.
Alexander scoccò a Mar un’occhiata beffarda che gliene valse in cambio una stizzita.

Riley la trascinò via quando adocchiò Vincent, in modo che potessero augurargli altri settecento anni di felicità, poi, intuendo che la sua soglia di sopportazione si stava notevolmente abbassando e che quella quantità spropositata di gente e la sua claustrofobia le avrebbero presto provocato uno svenimento, colse uno dei pochi momenti in cui nessuno li guardava per spingerla oltre una porta seminascosta da tende vermiglie che conduceva a una spopolata saletta appartata.
<< Grazie >> sospirò Evelyn avvicinandosi alla finestra spalancata, << dammi solo un momento e possiamo tornare di là >>.
<< Stavi davvero per avere un attacco di claustrofobia? Credevo fosse una scusa per restare da sola con me >> disse Riley con una nota di delusione nella voce che lei non seppe se definire autentica o scherzosa, o entrambe le cose.
Evelyn sorrise e fece per parlare, ma poi lasciò che il suo bacio smorzasse quelle parole che non servivano.
<< Mi sento osservata >> gli soffiò a un millimetro dalle labbra.
Lui si allontanò e trattenne a stento una risata, << Credimi, se ci stessero osservando lo saprei >>.
Evelyn si guardò attorno. Era difficile mantenere un comportamento disimpacciato in un luogo gremito di vampiri in grado di intercettare ogni singolo respiro e irrilevante movimento, ed era in quei momenti che le sarebbe piaciuto possedere la stessa disinvoltura di lui, che si comportava come se non esistesse altro oltre a lei.
Riley notò il suo disagio e la intrappolò contro la parete senza però avvicinarsi troppo, poi accostò la bocca al suo orecchio, << Vuoi che smetta? >> mormorò con la voce resa ancor più roca dall’inflessione provocante che solo lui riusciva a dare alle parole che pronunciava.
Evelyn prese un respiro cercando di ordinare le parole, ma nel frattempo lui si fece più vicino, rasentando le sue gambe con le proprie e inspirando il profumo dei suoi capelli, rendendo così più complessa la sua intenzione.
<< Vuoi che mi allontani? >> pronunciò sulle sue labbra toccandole appena. Ormai il suo corpo aderiva a quello di lei e per poterle parlare l’aveva costretta con la mano a reclinare il capo.
Evelyn avrebbe voluto rispondere, ma le sue labbra non reagivano ad altro impulso se non a quello di cercare le sue, che si schiusero perché lui potesse sfiorare la sua bocca con la lingua, in una carezza lenta che fece crollare ogni sua goccia di volontà. Si aggrappò forte alla sua spalla e ai suoi capelli e fece per avvicinarlo, ma lui si scostò, << Non hai risposto >> disse mentre con una mano discendeva lungo il profilo della sua gamba e la sollevava attorno alla sua per potersi fare ancora più vicino.
Le passò una mano dietro la nuca per reggersi alla parete e distanziarsi giusto quanto bastava per permetterle di parlare.
Lei avrebbe voluto spingerlo via e dare libero sfogo al suo orgoglio, se il bisogno di sentirlo ancor più vicino non fosse stato tanto bruciante.
Riley non le metteva premura, aspettava paziente, distraendosi a giocare con le labbra sul suo collo e una mano tra i suoi capelli, mentre l’altra reggeva ancora la sua gamba lasciata nuda dallo spacco del vestito. Da quel primo ballo, senza neanche una ben precisa ragione e con grande piacere di lui, non aveva più indossato le calze sotto la gonna, e adesso l’aria gelata che il vento di quella notte sospingeva fin lì l’avrebbe fatta rabbrividire, se non avesse avuto ogni fibra del suo corpo in fiamme.
Tuttavia improvvisamente neanche lei aveva più fretta, né di correre via né di rispondergli che non voleva per niente che smettesse.
Ancora una volta si ritrovava in balia del potere di lui, che continuava a far cedere una dopo l’altra le sue difese.
<< Vuoi che ti lasci andare? >> sussurrò un’ultima volta, con le labbra piegate in un sorriso, vicinissime alle sue.
<< No >>, fu tutto quello che lei riuscì a rispondere, un istante prima di aggrapparsi con forza alle sue spalle e avere la bocca invasa dal suo sapore.

Non aveva idea di quanto fosse durata loro assenza dalla sala, ma forse non le importava. Stringeva nella sua la mano di Riley e sosteneva gli sguardi che la scrutavano, scorgendovi curiosità e approvazione, e meravigliandosi ancora una volta della perfezione di quel che stava vivendo.
La vita che era stata sua fino a pochi giorni prima le sembrava appartenere a un tempo troppo lontano.
Adesso era tutto talmente perfetto che aveva paura.
In cuor suo sapeva che qualcosa sarebbe arrivato presto a strapparle di nuovo via la felicità, dopo avergliela concessa giusto il tempo di assaporarla per poter poi soffrire di più della sua perdita.
Le avevano spiegato che quella parte di natura non umana che c’era in lei avrebbe potuto far sì che lei avvertisse alcune delle cose che sfuggivano ai sensi degli altri mortali.
Improvvisamente quel pensiero aveva preso contorni nitidi nella sua testa, insieme a una strana e sgradevole sensazione.
Stai diventando paranoica, pensò cercando di scacciare quei pensieri.
<< Qualcosa non va? >> le chiese Riley, fermandosi vicino a un divanetto distante dalla folla che riempiva la grande sala addobbata di rose e cristalli.
Evelyn si chiese se dopo che lui le aveva tolto di dosso quella corazza di apatia sarebbe stato sempre tanto difficile nascondergli quel che provava.
Scosse la testa, del tutto certa che non avrebbe funzionato.
Difatti Riley la guardò contraendo i lineamenti del volto per la sofferenza di lei che ogni volta non poteva fare a meno di prendere anche su di sé, poi la strinse in un delicato abbraccio.
Evelyn sentì l’ansia scivolare via velocemente com’era arrivata, e gli lanciò uno di quegli sguardi che potevano in parte spiegare il suo interessamento nei suoi confronti.
<< Credo che a questo punto sarò costretto a preoccuparmi sul serio, da quant’è che non litigate voi due? >> esordì Tristan, alzandosi dal divano.
<< Da ieri, quindi puoi tranquillizzarti >> rispose Karl, che il giorno prima aveva assistito al suddetto diverbio tentando come sempre di quietare gli animi.
<< Me lo sono perso >>.
<< Non è stato un litigio vero e proprio, era uno di quelli di cui questi due hanno un bisogno illogico ma disperato sin da quando si sono conosciuti >> spiegò Mar con la solita intonazione scientifica.
<< Stai studiando le nostre norme comportamentali, Mar? >> intervenne a quel punto Riley, mentre Evelyn si liberava dalla sua presa e ridacchiava, non trovando in effetti nulla da obiettare a quell’osservazione.
<< Ha sempre avuto una recondita personalità da sociologa >> spiegò Cedric, a metà tra l’ammirazione per la fidanzata e la costatazione delle sue sfaccettature da studiosa enciclopedica.
Mentre la conversazione proseguiva, nessuno fece caso a lei che si allontanava di qualche passo, per osservare meglio un punto sfocato dalla parte opposta della sala. Poi l’ombra che aveva intravisto sparì tanto fulmineamente che lei fu quasi certa di averla solo immaginata.
Quando mosse un altro passo, sentì una mano afferrare il suo polso e si voltò con un movimento troppo veloce perché potesse non rivelare la sua preoccupazione.
Riley le rivolse un sorriso che fino a poco tempo prima lei avrebbe giurato di poter contemplare solo in un sogno.
I sogni però non durano mai in eterno, e alla fine ci si deve sempre svegliare.
Uno sfolgorio argenteo e un boato annunciarono la venuta del temporale, e in quello stesso istante Evelyn avvertì qualcosa di simile avvenire dentro se stessa.
Sempre che non diventino incubi.
Afferrò la mano che le aveva serrato il polso e attrasse Riley a sé con forza, e con altrettanta forza spinse la sua bocca contro quella di lui mentre una lacrima le solleticava la guancia.
Quasi contemporaneamente nella grande sala si scatenò l’inferno.
Evelyn non aveva bisogno di vedere per capire quel che stava accadendo e le ci volle un po’ per costringersi a lasciare andare Riley.
Tra il rumore delle finestre che si frantumavano e le grida di parole indistinte, gli invitati abbandonarono quella parvenza di normalità per cedere il passo alla loro vera natura.
Uomini in nero si trovavano oramai in ogni angolo della sala e la battaglia aveva avuto inizio.
<< Vai >> gli disse semplicemente, con un tono talmente flebile che quando lui annuì si stupì che avesse davvero sentito.
Riley si lanciò immediatamente verso tre uomini che avevano atterrato Karl e lei rimase a guardare, senza avere la minima voglia di muoversi da lì.
Voleva semplicemente guardare, immobile.
Sophie tuttavia non glielo permise, << Vieni! >> gridò, mentre la afferrava e la trascinava verso la porta della sala adiacente.
Riuscirono a farsi largo in quel caos senza difficoltà; con i Custodi da sterminare e la libertà da conquistarsi nessuno dei Ribelli si curava più di un’insignificante Mezzosangue.
Evelyn si fermò e si voltò verso il centro della sala, dove Riley si muoveva letale, affiancato dai suoi uomini. Aveva preso possesso di due spade e le maneggiava con consumata abilità, atterrando uno dopo l’altro tutti coloro i quali gli capitavano sotto tiro, gli occhi socchiusi per la concentrazione e forse più luminosi del solito, i lineamenti del volto in un’espressione impassibile che solo a tratti rivelava la reale concentrazione. Rimase ad ammirare la forza e la precisione che conferiva a ogni movimento, senza riuscire a trovarvi nulla che avrebbe dovuto in realtà intimorirla.
Riley non era il bravo ragazzo dei romanzetti strappalacrime che l’avrebbe portata all’altare e che avrebbe vissuto con lei per sempre in felicità, né il principe azzurro con il bianco destriero che l’avrebbe salvata dalla torre.
Era un Capo, tra l’altro di una legione di vampiri in guerra perenne, e aveva tutte le qualità richieste, tra queste il suo comportamento autoritario e azzardato, e la mancanza di scrupoli.
Evelyn osservò la lama della sua spada riflettere il bagliore di un lampo mentre affondava nel petto di un uomo in nero.
Lei aveva un disperato bisogno di lui, ma qualcuno ne aveva di più.
Lei non avrebbe potuto strapparlo a una guerra combattuta da secoli.
Era il Capo. Innamorato di lei, ma pur sempre il Capo, e non avrebbe avuto nulla da discutere sulle sue azioni, se solo non avesse dovuto presto lasciarlo andare per qualcosa che era obbligato ad anteporre a lei. Non avrebbe pensato a quanto lui stesso ne avrebbe sofferto, solo di una cosa era certa: non avrebbe potuto fermarlo, né tentare di farlo.

Quando Sophie si fu accertata che anche Karl se la stava cavando, la prese di nuovo per mano e la condusse verso la porta per lasciare quell’apocalisse.
La piccola sala era deserta e l’unico rumore che vi regnava era solo l’eco di quel che stava accadendo poco distante.
Con uno sguardo le indicò di raggiungere un punto in un angolo distante dalla finestra spalancata, alla quale lei si stava avvicinando per accertarsi che potessero passare, e ancora una volta Evelyn si sentì impotente come non mai, desiderando di non essere tanto fragile da non poter reggere il confronto con la forza che si trovava a fronteggiare, o per lo meno che qualcun altro doveva fronteggiare per lei, perché lei non ne sarebbe stata in grado. Era questo che odiava di più, il doversi nascondere sempre dietro il protettore di turno.
Evelyn considerò l’aspetto delicato di Sophie e non riuscì a immaginarla come un’avversaria temibile, per questo si stupì non poco quando la vide scattare dalla parte opposta alla finestra e digrignare i denti.
Sophie strinse i pugni fino a farli sbiancare ancor più del chiarore che la sua natura conferiva al suo incarnato, mentre una sottilissima striatura vermiglia si disegnava sul suo zigomo.
<< Fatti da parte Strathmore, e avrai salva la vita >> annunciò una voce fredda come il ghiaccio prima ancora della comparsa del suo possessore.
Quando l’uomo scavalcò la finestra Evelyn non considerò nemmeno il suo aspetto, quasi lusingata dal fatto che qualche folle preferisse darle ancora la caccia piuttosto che unirsi all’empia battaglia dei suoi consimili.
<< Io non ho intenzione di muovere un dito >> rispose Sophie, con un’intonazione che fece pensare a Evelyn che la ragazza che aveva conosciuto e che era stata fino a quel momento fosse sparita per sempre.
Anche l’uomo si paralizzò, sbalordito. Poi parve convincersi di quelle parole e rivolse il suo sguardo all’umana. Un sorriso malefico gli accese i lineamenti mentre muoveva il primo passo verso di lei e Sophie osservava la scena come una spettatrice non partecipe, ma improvvisamente parve riscuotersi, << Ci tengo solo a porre l’accento sul modo lento e doloroso in cui Riley ti farà a pezzi. Ora fai pure come ti pare >>.
Quello si fermò e la guardò con occhi indagatori.
<< Lei è sua >> concluse Sophie.
L’uomo iniziò a mostrare evidenti segni di nervosismo. Doveva essere uno di quei reietti che non può fare a meno di accorgersi di essere persino dopo l’ultima ruota del carro, e che cerca di cogliere l’occasione per guadagnarsi un briciolo si considerazione. Evelyn provò quasi compassione.
<< Tutto qui Strathmore? Una misera minaccia? >>, disse una voce nuova prima di esplodere in una risata sincera.
Evelyn si accorse subito che il nuovo arrivato stava ben più in alto del suo predecessore, che adesso se ne stava impalato vicino alla finestra dopo aver chinato il capo al passaggio dell’uomo che era appena arrivato dal nulla.
<< Nient’altro per difendere la tua amichetta? >>.
Sophie non si mosse, e se Evelyn non avesse saputo dell’udito formidabile di cui un vampiro disponeva, avrebbe giurato che non aveva sentito.
<< Troppo facile, niente divertimento >>, l’uomo fece un verso di scontento.
<< Troveremo un altro modo per renderlo divertente >>, soggiunse un terzo con un ghigno.
Al trovarsi in quella scena tragicomica Evelyn non poté trattenersi dall’alzare gli occhi al cielo: lei si sentiva un’emerita inetta, Sophie sembrava essersi rimbecillita, e per finire aveva appena rinvenuto l’unico vampiro vigliacco in circolazione, che continuava a fare la statua, forse anche lui sconvolto dai piani inconcepibili dei suoi due colleghi.
Le sfuggì un verso esasperato, << Davvero la mia morte è più importante della vostra eterna guerra per la libertà? Rinuncereste alla possibilità di scorrazzare per il mondo soddisfacendo i vostri reconditi istinti omicidi? O forse nessuno vi ha mandato un invito formale per gettarvi nella mischia? >>, urlò con un impeto incontrollato.
I due si fermarono e si guardarono negli occhi e allora lei fu del tutto certa di avere a che fare con due idioti indecenti.
Poi forse fu colpa dei loro sensi da vampiro o della tensione.
Uno schianto della parte opposta della parete fece sobbalzare tutti, e i due come rispondendo a un comando si slanciarono verso di lei con una tale velocità che lei si accorse di cosa stava succedendo solo avendoli visti sparire.
<< Fermi! >> gridò senza muoversi di un millimetro.
I due riapparvero immobili a un soffio di distanza da lei, ma Evelyn non indietreggiò. Puntò i suoi occhi scuri addosso a uno dei due e cercò di calmare il respiro accelerato dalla rabbia, mentre Sophie si avvicinava osservando la scena con un’espressione soddisfatta.
Nello stesso istante in cui Evelyn si rese conto di non poter né calmare il battito del suo cuore, né la sua collera, l’uomo che stava fissando si piegò in avanti e poi le gambe gli cedettero.
Crollò in ginocchio digrignando i denti con un frastuono agghiacciante.
Il suo compagno contrasse in una smorfia in lineamenti del volto, << Smettila
! >> le intimò poi.
Allora Evelyn indietreggiò e lanciò un’occhiata a Sophie, ritrovandosela accanto con uno sguardo perplesso in volto.
<< Io non sto facendo niente >> le sussurrò.
Una volta le era capitato, in un momento di pericolo e paura, di infliggere dolore a un uomo che voleva assalirla, ma si era subito resa conto di essere artefice di quella tortura; adesso era assolutamente certa non solo di non essere responsabile di quella sofferenza, ma di non poterne mai infliggere una simile.
<< Smettila! >> continuava a ripetere il vampiro nel disperato tentativo di salvare il suo simile, mutando in una supplica quella che prima era stata un’imposizione.
Evelyn vide l’altro agonizzare piombando a terra supino, senza voce per gridare il suo dolore.
Se avesse potuto, avrebbe preferito morire piuttosto che fare una cosa simile.
Quello che fino a quel momento aveva assistito con occhi sbarrati senza lasciare la sua posizione vicino alla finestra, all’improvviso scosse la testa e prese ad arretrare, << Lascialo lì, andiamo via! Lei è di Riley, lo conosci, questo è niente, immagina cosa ci toccherà… >> disse con una smorfia. Lanciò un ultimo sguardo a tutti i presenti, poi si voltò per lanciarsi oltre la finestra, ma una mano stretta sul suo collo lo scaraventò dall’altra parte della stanza.
Riley non aveva più la giacca e indossava solo la camicia, ridotta piuttosto male e chiazzata da un inconfondibile liquido scarlatto del quale era ricoperta anche la spada che stringeva con la mano destra. Gli occhi erano dello stesso verde luminoso che lei adorava, ma più freddi e carichi di una luce che non vi aveva mai scorto prima.
Evelyn non avrebbe tentato di fermarlo, non lo avrebbe mai biasimato, né per quel che aveva e avrebbe fatto quella notte, né per quel che era ed era costretto a essere.
Lo amava, per ciò che era, lo capiva solo in quell’istante, ma non voleva vedere.
E lui lo sapeva, << Portala via >> disse senza guardare né la destinataria dell’ordine, né lei, infliggendole una stilettata di dolore acuto.
Quando lei riuscì a liberarsi dalla presa di Sophie e gli si gettò addosso, afferrandogli con entrambe le mani la camicia malandata, le piantò addosso due occhi stupiti e sofferenti, quasi si aspettasse che non lo avrebbe mai più toccato.
Evelyn si morse il labbro prima di cercare il suo sguardo, << Torna da me >> gli sussurrò, sorridendo per quanto il contesto lo concedeva.
Un fragore assordante falciò la calma apparente di quella scena assurda e quando Sophie la sollevò lanciandosi oltre il davanzale, nella brezza gelata di quella notte, Evelyn non ebbe il tempo di comprendere se quel rumore fosse stato un tuono o il muro che franava, né di guardare Riley un’ultima volta prima di andare e scorgere l’ombra di una risposta.

La porta si aprì rivelando la totale mancanza della necessità di essere chiusa. Nessuno dopotutto avrebbe osato oltrepassare quella soglia senza una specifica e legittima ragione.
L’ambiente era esattamente come lo ricordava, tanto calmo da apparire quasi irreale, abbandonato in un perfetto stato di pulizia e ordine. Evelyn era quasi certa che Riley non avesse tempo da trascorrere a casa sua.
Sophie le mise le mani sulle spalle e la spinse a sedere sul divano, poi si abbassò per osservarla bene in viso e a Evelyn quasi scappò una risata.
<< Sto bene Sof, non sono in stato confusionale >>.
La ragazza sospirò e si accomodò accanto a lei, << Hai capito perché non sono intervenuta prima, o hai creduto che volessi abbandonarti alla tua sorte? >>.
<< Allenamento >>, rispose l’altra, laconica.
<< Se mai dovessi trovarti nella stessa situazione da sola, sai cosa fare. Hai un talento, usalo >>.
<< Possiamo almeno chiamarla arma di difesa? Talento non mi piace >>.
Sophie ridacchiò e annuì, << E’ una delle peggiori che abbia mai visto >>, mormorò, << battaglia intendo, uno dei peggiori attacchi degli ultimi tempi >>, si affrettò ad aggiungere notando l’espressione colpevole dell’altra, prima che le passasse del tutto la voglia di utilizzare la sua arma di difesa.
<< Ci saranno delle perdite, vero? >>.
<< Come in ogni guerra >>.
<< Perché proprio adesso? >>.
Sophie si strinse nelle spalle, << Non c’è un perché, può accadere in ogni momento, per questo stiamo sempre all’erta. Probabilmente qualcosa ha ravvivato la loro tendenza assassina, o forse hanno solo voluto cogliere l’occasione di questo temporale infernale, sono molto teatrali, da non crederci >>.
<< E adesso? >>.
<< Adesso verrà presto a crearsi un fronte, il più lontano possibile dalla città, e si trasferiranno tutti lì. Eccetto te e chi dovrà custodirti >>.
<< Ma davvero? Ed io che credevo che sarei venuta >>, rispose sarcastica e demoralizzata.
<< Non fare quella faccia, va avanti così da secoli e ti conviene accettarlo >>.
<< Per voi è sempre facile accettare la morte dei vostri compagni? >>.
Sophie prese un respiro e le riempì gli occhi una tale tristezza che Evelyn sentì anche i suoi inumidirsi, << L’abbiamo scelto noi di dedicare la nostra vita a questa causa Ev, e quando si prende una decisione simile si è consapevoli di ciò cui si va incontro >>.
<< Sentenziò l’oracolo >> disse Evelyn, passandosi una mano sulla guancia per catturare una lacrima.
Poi sbuffò e distolse lo sguardo mentre Sophie rideva della sua reazione imprevedibile, << Voglio sperare che Riley faccia la spesa di tanto in tanto >> disse poi sparendo in cucina e lasciando Evelyn da sola con la sua angoscia, a immaginare come sarebbe stato adesso che il suo sogno era diventato un incubo.
Erano ancora sedute a tavola, di fronte a quella che ricordava un’esposizione di dolci, allestita da Sophie dopo che aveva sentenziato che lo zucchero risollevava l’umore, quando sentirono lo scatto della serratura della porta principale.
Ancor prima che potessero concretare un qualsiasi pensiero, la voce di Riley le richiamò nel salone.
<< Fuori c’è qualcuno che vorrebbe vederti >>, disse rivolto a Sophie.
Evelyn provò una fitta di sofferenza per lei, che doveva lasciare andare Karl poco dopo averlo ritrovato. Sparì dopo averle rivolto appena un sorriso e nel salone rimase solo lo scrosciare della pioggia.
Evelyn si avvicinò in silenzio, con espressione concentrata, per esaminare l’aspetto di Riley, << Da qualche parte tieni bende e disinfettante oppure sei troppo valoroso per medicarti le ferite e non sopportare stoicamente il dolore? >>.
Riley si stupì che anche in quel frangente fosse in grado di formulare una delle sue locuzioni affilate, << Credo che sopravvivrò >>.
Evelyn sbuffò e lo guardò indignata, << Fai come ti pare >>, disse voltandogli le spalle e incamminandosi verso un punto il più lontano possibile da lui.

Mentre saliva le scale sollevando l’orlo dell’abito bagnato e percorreva il corridoio senza una meta ben precisa si chiedeva se la stesse seguendo, imponendosi al contempo di non interessarsi minimamente a quel quesito, senza darsi ascolto.
<< Non è così che devi scappare da me >>.
La sua voce era a un soffio dai suoi capelli mentre la intrappolava contro una porta chiusa.
<< Sai benissimo che non te lo permetterei, piuttosto ordinami di andarmene >>.
La sua altezza spropositata gli imponeva di abbassarsi per raggiungere il suo viso e per farlo si reggeva alla parete con i pugni serrati all’altezza delle sue spalle.
Aveva gli occhi fissi sulle sue labbra, con lo sguardo di chi osserva qualcosa che ha perduto per sempre.
La voce di Evelyn rimase ferma mentre il suo petto tremava, << Vattene >> mormorò, assecondando ciò che lui aveva detto e il suo orgoglio.
Era tanto vicino che sentì la risata che gli aveva provocato vibrare nel suo petto, oltre che intuirla nel suo sorriso, << Non così >>, scosse la testa, << ho detto ordinamelo… Come puoi pensare che me ne andrei di mia volontà? >>.
Evelyn non parlò, non pensò neppure. Rimase lì ad aspettare di sentire ancora la sua voce o guardarlo andare via.
<< Non ti dirò che sono un mostro e che meriti di meglio, Ev >> disse, stavolta puntando gli occhi nei suoi e vedendola sussultare, << me ne andrò se lo vorrai, ma non tenterò di convincerti che sono sbagliato e che non puoi starmi accanto per come sono. Sarà una scelta tua, perché io ti voglio per me >>.
Riley trasalì e sorrise quando vide una lacrima scivolarle lungo la guancia.
Eccolo.
Il confine del suo orgoglio.
E l’avevano appena oltrepassato.
Non gli avrebbe detto che senza di lui si sarebbe spenta di nuovo, né di come custodisse gelosamente ogni attimo che le aveva regalato e che era valso tutta la sua vita fino a che non si erano scontrati, perché era certa che potesse leggerlo negli occhi umidi che si ostinava a fissare.
<< Piangi >> le sussurrò, come a farle notare qualcosa di cui non si era accorta.
<< Non guardarmi allora >> rispose lei con un sorriso di sfida, allontanando le lacrime e una mano dal muro che aveva graffiato fino a quel momento, per abbassare la maniglia della porta e scivolare dentro, sfuggendogli.
Indietreggiò senza staccargli gli occhi di dosso, scorgendo con un’occhiata fugace solo il letto e un camino di tutto quel che si trovava nella camera.
Riley avanzò verso di lei e per un momento il suo sorriso così familiare e la consueta luminosità dei suoi occhi cancellarono dalla sua mente il pensiero che l’indomani avrebbe potuto perderlo per sempre.
Solo quando le strinse le braccia intorno ai fianchi attraendola a sé gli parlò a un soffio dalle labbra, prima che lui prendesse possesso delle sue.
<< Anch’io ti voglio per me >>.
Il tocco delle sue labbra era di chi ha tutto il tempo del mondo e fretta di godersi ogni istante. Evelyn dischiuse le labbra e intrecciò le dita ai suoi capelli per avvicinarlo ancor di più e sentire in bocca il suo sapore. Con l’altra mano si aggrappò alla stoffa della sua camicia, quasi avesse paura che potesse lasciarla andare, e sentì di nuovo il suo petto vibrare di una risata e le sue labbra prima piegarsi in un sorriso e poi scendere a solleticarle il collo.
Le sue mani le risalirono lungo la schiena e s’impigliarono nei nastri del corsetto un attimo prima di disfarli. Evelyn sentì la carezza dell’abito che le scivolava addosso per finire ai loro piedi, che tuttavia nulla aveva a che vedere con quelle delle sue mani, intente a sfiorare lente la curva del suo seno e della sua schiena.
Nel frattempo lei raggiunse anche l’ultimo bottone della sua camicia e Riley si lasciò cadere seduto sulla sponda del letto, con gli occhi assorti e le labbra in un sorriso di dolcezza e provocazione. La tirò a sedere su di sé e lei rise sul suo collo, prima di schiudere le labbra e affondarvi i denti. Rise ancora quando lo sentì trasalire e aumentare la pressione delle mani sui suoi fianchi, poi lo svincolò dalla camicia, rivelando striature vermiglie sulle spalle e sul torace. Sfiorò con la punta delle dita una ferita all’addome, mentre il respiro di lui sul suo collo restava agitato solo dalla sua vicinanza, tuttavia non ancora abbastanza soddisfacente. Evelyn raggiunse le sue labbra con le proprie, mentre con le mani abbandonava le sue ferite e scendeva a liberarlo dai pantaloni sfiorandolo lì dove lui avvertiva improvvisamente forte il desiderio di sentirla sospirare tra le sue braccia.
Riley prese un respiro tra i suoi capelli, avvertendone il profumo, e accarezzandole le gambe un attimo prima di sollevare la sottoveste e sfilargliela.
Si ritrovò sdraiata sotto di lui senza rendersi conto del movimento e le sfuggì un sorriso.
Riley la guardò come se avesse improvvisamente ritrovato tutto quel che aveva creduto di perdere e le accarezzò le labbra con le proprie, si resse al gomito poggiato tra le lenzuola e con l’altra mano le raggiunse la piega del ginocchio sollevandole la gamba, mentre Evelyn si aggrappava con forza alle sue spalle stringendolo a sé gemette e sospirò, per la prima volta in vita sua sentendo di appartenere a qualcuno.

La svegliarono una luce appena accennata dall’alba e dal bagliore dei fulmini e una mano tra i capelli.
Riley era sereno e già pronto per andarsene.
Inizialmente non voleva svegliarla, vedendola dormire tanto serenamente e pensando che difficilmente ci sarebbe più riuscita durante la sua assenza, ma poi si disse che se fosse andato via senza salutarla e non avesse più fatto ritorno sarebbe andata a cercarlo anche all’inferno per ucciderlo di nuovo con le sue mani, e molto probabilmente avrebbe rischiato la vita nell’intento.
Evelyn detestava svegliarsi ed era più che raro un suo sorriso di prima mattina, per questo quello che gli rivolse gli avrebbe fatto mancare il fiato se avesse avuto la necessità di respirare.
<< Non osare morire, se no ti ucciderò io stessa >>.
Riley non comprese se si trattasse delle sue capacità cognitive appena dopo il risveglio o se parlasse sul serio, ma scoppiò a ridere.
<< Non ho la minima intenzione di perdere tutto questo. Non ho intenzione di perdere te >>, le sussurrò sulle labbra prima di accostarvi le sue.
Sparì dalla stanza senza nemmeno far cigolare la porta, per non infliggerle la sofferenza di doverlo guardare mentre se ne andava.
Evelyn affondò il viso nel cuscino e lo bagnò appena con una lacrima, prima di addormentarsi di nuovo.

Il secondo risveglio di quella mattina fu meno romantico e struggente.
Forse stava già per aprire gli occhi quando un gelo doloroso attanagliò ogni fibra del suo corpo.
Scattò a sedere con un verso sbalordito, mentre si passava le mani sul viso per far scivolare via l’acqua e aprire gli occhi.
Poi rimase con le mani a mezz’aria e il desiderio incontenibile di stringerle attorno al collo di chi le stava davanti.
<< Buongiorno! Prima di tutto mettiamo subito in chiaro che non m’interessa quello che tu e Riley avete fatto su questo letto, né tanto meno che stiate insieme eccetera, piuttosto i miei più sentiti auguri. Detto ciò ti avverto che non tollero i ritardatari quindi aspettati questo >>, Lisa sollevò il secchio ormai vuoto che teneva in una mano continuando a sparare parole a raffica, << ogni qual volta non riesci a rispettare l’orario della colazione, per tutto il tempo in cui ricoprirò il ruolo di tua sorvegliante. Adesso alzati e corri in bagno, io ti cerco qualcosa da mettere >>.
<< Che cos’hai fatto? Ti avevo detto che la svegliavo io! >>, urlò Sophie, irrompendo nella camera con tempismo impeccabile.
Evelyn si limitò a chiudere la bocca, che fino a quel momento era irreversibilmente rimasta spalancata, e ricadde disperata sul cuscino, pensando che fosse vero che dopo un sogno si doveva sempre pagare un incubo.

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** La fitta di un ricordo ***


29. La fitta di un ricordo



L’improvvisa calma che permeava l’aria fredda annunciava che la sera stava per dare il cambio al pomeriggio, ed Evelyn immaginava il tramonto che non poteva vedere, oltre la foschia smossa dal loro passaggio.
Le mancava quell’incomparabile colore rossastro da potersi ammirare solo al calar del sole, ed era forse una delle pochissime cose della sua vita ad Aberdeen delle quali avvertiva l’assenza.
Si chiese come sarebbe stato tornare indietro, lasciare Landry, e non riuscì a immaginarlo.
Non se lo chiedeva spesso.
Non le piaceva pensare al futuro, e anche quando ci provava s’imbatteva solo in una coltre indistinta che non sapeva definire.
Non le piaceva pianificare.
Semplicemente si lasciava trascinare dal corso degli eventi, di attimo in attimo.
Quella mattina aveva ricevuto una lettera dei suoi genitori. Poche parole che descrivevano come loro stessero trascorrendo le vacanze nella residenza estiva e la richiesta di notizie sulla sua salute e le sue attività. Evelyn aveva scritto un telegramma in tutta fretta e senza neanche rileggerlo, annunciando che stava bene e trascorreva gran parte del tempo a studiare con la zia e leggere i libri che le assegnava.
Riley la cinse per i fianchi con un braccio e la attirò sotto un ballatoio proprio nell’istante in cui lo scrosciare della pioggia aumentava, poi la guardò e scoppiò a ridere, << Dove hai la testa Ev? >> disse senza lasciarla.
Evelyn si rese conto dell’aria stralunata che doveva avere e alzò le spalle.
Lui assunse un’espressione assorta, di quelle che le facevano venir voglia di distogliere lo sguardo e nascondere il volto contro il suo petto per l’imbarazzo. << Ti spaventa l’idea di tornare indietro >> disse, senza conferire alla frase la benché minima inflessione interrogativa.
<< Ti ricordo che non ci penso al futuro, io >> ribatté, senza convincere nemmeno se stessa.
<< Ma un giorno tornerai ad Aberdeen >> continuò lui, come parlando di un momento ancora troppo lontano.
<< Allora non ti vedrò più? >>.
Lui rise, << Ti ci vorrà ben altro per liberarti di me >>.
<< La vecchiaia, per esempio >> rispose, senza tuttavia dare l’impressione di preoccuparsi della cosa.
<< Sarai solo più matura >>.
<< E decrepita >>.
<< Non avrà importanza >> dichiarò, con la consueta e ineluttabile sincerità negli occhi che non le permetteva di diffidare di quelle parole.
Era questo che l’amore faceva a un vampiro?
Oppure solo a lui?
Il corso degli eventi la trascinava verso Riley, e lei sperò che fosse così per sempre.
Evelyn scacciò il pensiero di come sarebbe stato averlo accanto durante l’inevitabile percorso della sua vita ancor prima che potesse arrivare, lo prese per mano e lo trascinò sotto la pioggia, lasciando che l’acqua e il freddo lavassero via l’immagine di qualcosa che non si doveva guardare prima che arrivasse.

Era un’agonia.
Nell’effettivo significato del termine: lenta e dolorosa.
Lenta, era l’andatura con la quale scendeva le scale, appiattendosi contro la ringhiera per lasciar passare gli addetti alla pulizia e al mantenimento della casa.
Dolorosa, era la fitta che provava alla vista di quel posto, reso insignificante dall’assenza di lui.
Evelyn lanciò uno sguardo al salone e scorse un uomo dal portamento composto accedere al giardino trasportando dei contenitori stracolmi di cibo. Il pensiero di passare  a salutare i cani di Riley la tentò per un momento, ma poi lo sguardò le cadde sulle lancette dell’orologio a parete e si diresse verso l’atrio senza voltarsi indietro.
<< Possiamo andare? >> le chiese Sophie, sistemandosi i guanti di velluto.
<< Spero vivamente di sì, è già mezzogiorno >> sbuffò Lisa, infilandosi il cappotto e porgendone uno a Evelyn.
<< Sei di nuovo in ritardo, Bianconiglio? >> se ne uscì Evelyn, prendendo il cappotto.
Lisa sorrise sarcastica e poi le voltò le spalle avviandosi alla porta.
Per Evelyn era difficile tenere il passo, il suo vestito del ballo era ridotto piuttosto male e quello che indossava apparteneva a Sophie, che era più alta di lei quanto bastava a far sì che in quel momento incespicasse continuamente nell’orlo. La foschia avvolgeva ogni brandello di pietra e rendeva difficile individuare l’appoggio del terreno, una pioggerella lieve aveva preso a cadere e il freddo pungeva come aghi acuminati; in un altro contesto Evelyn avrebbe considerato meraviglioso un simile paesaggio, ma in quel momento era troppo nervosa anche per potersi trattenere dallo sbuffare in continuazione.
<< Questo tempo è assurdo >>.
<< Credevo ti fossi abituata ormai >>, Sophie la guardò interrogativa.
<< Sì, ma non è possibile che piova sempre >>.
<< Non proprio sempre… Quando esce il sole vuol dire che è in arrivo un cambiamento importante, e la leggenda narra che fu proprio un vampiro a far sì che per il resto del tempo piovesse, talmente tanto tempo fa che nessuno ricorda chi fu e come fece… Beh comunque sono tutte vecchie leggende >>.
<< Ma il sole non vi dispiacerebbe >>, Evelyn non riuscì a trattenere un sorriso per il ricordo che le riaffiorava in mente a quelle parole.
Sophie rise, << Scommetto che Alexander ti ha confidato il suo desiderio di fare surf sotto un caldo e splendente sole estivo >>.
Evelyn avrebbe voluto unirsi alla sua risata, ma il sorriso le scomparve dal viso, << Non l’ho neanche salutato >>.
L’altra alzò gli occhi al cielo, << Non ce n’era bisogno, lo rivedrai presto, insieme a tutti gli altri >> disse con sicurezza, poi sospirò << Quanto vorrei che ci fosse una cura al pessimismo cronico >>.
<< Io vorrei che ce ne fosse una per la sfortuna >> sentenziò Evelyn, prima di avvicinarsi a un recinto di ferro che ospitava un tripudio di rose rosse e bianche. Il loro profumo permeava l’aria smossa solo dal movimento delle fronde delle querce. La città era desolata, salvo per la porta aperta di qualche bottega, che lasciava supporre che dentro ci fosse qualcuno.
Percorrendo qualche via defilata arrivarono alla piazza principale e a Evelyn sembrò infinitamente grande in confronto a quando l’aveva vista stracolma di gente. Nonostante il biancore della nebbia riuscì a individuare la sagoma familiare della jeep e due figure indistinte che bighellonavano nei paraggi.
<< Gentili dame, i nostri ossequi >> le salutarono Matt e Colin Stevenson, i due gemelli che non avevano mai avvertito l’esigenza di allontanarsi dall’epoca in cui erano nati e vissuti da umani.
Evelyn, che come sempre conosceva risposte a simili formule di saluto, rivolse loro solamente un sorriso.
<< Vogliamo appropinquarci? E’ già tardi >>.
<< Per te è sempre tardi, Lis >> disse il moro dei due.
<< E per te invece non lo è mai >> sbuffò quella afferrandolo per un braccio e trascinandolo al posto di guida.
Evelyn si accomodò sul sedile posteriore accanto alle altre due, e acuì la vista quando l’auto partì, fissando tutto ciò che scorreva oltre il vetro del finestrino, così da potersi imprimere nella memoria ogni angolo di un luogo che non sapeva per quanto tempo non avrebbe più visto.

Il colpo più doloroso arrivò una volta oltrepassata la soglia di casa.
Ad accoglierla c’erano solo Rose e Dalia, Sebastian e sua zia avevano raggiunto gli altri.
Evelyn desiderò solo di svenire e risvegliarsi quando sarebbe stato tutto finito. Non riuscì a dire nulla, si morse le labbra provocandosi un dolore acuto e tentò di placare l’accelerazione del respiro.
Improvvisamente la parvenza di vita che aveva assaporato in quelle settimane si era sgretolata tra le sue mani, e lei non riusciva a prevedere cosa sarebbe accaduto.
<< Non è giusto >>.
Evelyn si voltò fulminea verso Colin, che si era lasciato cadere sul divano, pensando che le avesse letto nel pensiero. Quello non si accorse di lei e si limitò a sbuffare e volgere lo sguardo oltre la finestra.
<< Colin e Matt solitamente non partecipano attivamente alle battaglie, e questo non gli piace >> spiegò Sophie, giacché i due parevano essere sprofondati in una cupa depressione.
<< Mi pare logico, tutte le volte che hanno preso parte a un qualsiasi conflitto hanno rischiato di restarci secchi >> s’intromise Lisa con la consueta delicatezza.
<< E’ stata colpa della malasorte >> ribatté Matt con tono sincero.
<< Ancora con questa storia? >>.
<< E’ tutto vero, l’ha confermato Maryan >>.
Evelyn fu certa di aver già sentito quel nome, << Chi è Maryan? >>.
I quattro ridacchiarono e si guardarono tra loro.
<< La dovresti conoscere, visto che era finita in cella per averti dato alcuni… libri? Sì, mi pare si trattasse di libri >>.
L’immagine di un ambiente disastrato e di brandelli di devastazione le apparve davanti agli occhi come se la stesse vedendo in quel preciso momento.
<< Io non ho mai obbligato nessuno a darmi libri e quant’altro >>.
<< E nessuno ha detto che la colpa è stata tua >>.
In quel momento Dalia apparve con un sorriso sulla soglia, dichiarando che il pranzo era servito.
<< Adesso è stata liberata e tutto è tornato come prima >> le disse Sophie avvicinandosi.
Evelyn si chiese come potesse avvertire perennemente il bisogno di confortare il suo prossimo e pensò che lei e Karl fossero nati per stare insieme.

<< Maryan non ha una mentalità costantemente stabile, suppongo tu sappia chi era suo padre >>, Lisa parlava con il suo tipico tono distaccato e tagliente allo stesso tempo, mentre con gesti enfatizzati si sistemava il tovagliolo sulle gambe.
<< Conosco la fama di Klaus Van Cleef, ma so anche che sua figlia è l’unica che può trovare una soluzione tra quei suoi libri vecchi >> rispose Matt con una luce di sfida negli occhi.
<< Antichi, Matt! I libri sono antichi, non vecchi! >> intervenne Sophie, sdegnata.
Colin ridacchiò, poi rivolse un’occhiata a Evelyn, che stava serenamente sminuzzando una fetta di pane tostato, e le rivolse un sorriso solennemente triste, << Tu credi nella sfortuna? >>.
<< Per esperienza >> rispose lei senza nemmeno riflettere.
<< Beh io e mio fratello la subiamo in modo cronico. Tempo fa commettemmo una sciocchezza e adesso ogni occasione è buona per arrivare a un passo dalla morte >> spiegò con noncuranza, tuttavia mal celando una nota di afflizione.
<< E non c’è una soluzione? >>, Evelyn assunse a sua volta un tono di rammarico.
<< Maryan la sta cercando, ma ci sono poche speranze >>.
Evelyn non intese se avessero accidentalmente profanato qualche tomba o subito la maledizione di un vampiro che avevano infastidito, i due tornarono a concentrarsi sui loro piatti vuoti con un sospiro e Lisa iniziò a cicalare senza che lei afferrasse, né avesse l’intento di farlo, una sola parola del suo brusio. Sophie invece si mostrava partecipe, probabilmente solo per non scatenare una delle peculiari scenate della sorella, e di tanto in tanto le rivolgeva un sorriso.
Evelyn immerse tutta la sua attenzione nel pranzo, cercando di estraniare i pensieri com’era brava a fare una volta, e convincendosi di aver perduto per sempre quella capacità.

I giorni presero a trascorrere lenti e tediosi.
La finestra e il paesaggio che essa precludeva diventarono le sue più assidue frequentazioni, i messaggi che arrivavano l’unica cosa a ricordarle che tutto ciò che aveva vissuto nei giorni precedenti era stato reale, nonostante non fosse certa di riuscire a non perdere di vista il confine tra realtà e immaginazione.
Erano rimasti solo i ricordi, un nuovo punto debole nella sua fragilità. Tutto ormai viveva solo in una scatola, isolata in un angolo della memoria, e lei sperava solo di non perderne il coperchio e con esso tutto il contenuto.
Quanto la sua nostalgia fosse lancinante Evelyn lo capiva solo in quel momento, confinata tra mura che erano tornate estranee ed esiliata dall’eternità di coloro che aveva perso.
Sarebbero tornati indietro un giorno, ma lei non poteva rimanere ad aspettarli. Il tempo non scorre per tutti allo stesso modo, e percorsi diversi non dovrebbero incontrarsi. Ma lei era l’eccezione. Il caso raro. Solo per provare sulla sua pelle quanto fosse doloroso non rientrare nella normalità.
Nei momenti in cui la tristezza mutava in rabbia desiderava solo non aver mai lasciato Aberdeen, non aver mai messo piede a Landry. Quando poi le capitava tra le mani una nuova lettera di Riley invece comprendeva che se anche avesse avuto l’assurda possibilità di tornate indietro, non avrebbe cambiato nulla.
Ormai il suo tocco e il suo profumo erano solamente quelli indistinti e fievoli che possono vivere in un ricordo, il verde luminoso dei suoi occhi andava sbiadendo, e così la certezza di averlo accanto di nuovo.
Quel che davvero faceva male dopo il cambiamento non era la diversità in sé, ma il ricordo di com’era prima.

Il locale era ampio, ma la quantità di gente che ospitava lo faceva apparire angusto e dal soffitto troppo basso. I pesanti tendaggi, il fumo delle fiammelle delle candele, spente da bruschi movimenti di mani che si muovevano nell’aria per sottolineare frasi convinte, e quello delle pipe, aspirate più per nervosismo che per voglia, conferivano al buio che vi regnava un aspetto fosco.
<< Non possiamo più permetterci di indietreggiare, stanno acquistando sempre più terreno. Dobbiamo passare a una tattica meno difensiva, puntiamo sull’attacco >>. Ignorando il significato delle parole di Alexander e considerando solo l’intonazione della voce si sarebbe detto che l’argomento trattava di chiacchiere giornaliere, piuttosto che di strategie belliche.
<< Ti ricordo che sono in maggioranza numerica, sarebbe un fallimento. L’ennesima ritirata >> rispose Karl, scuotendo la testa e calando gli occhi sul legno dell’enorme tavolo rotondo che li ospitava.
A quel punto era di norma l’intervento di un terzo uomo a stabilire quale di due possibilità fosse la migliore, ma nessuno nella stanza fiatò più. Risuonò un nome, ma il suo proprietario non lo sentì nemmeno, lo sguardo impassibile perso oltre la finestra dove stava poggiato con una spalla.
<< Cavaliere Comandante dell’Ordinamento dei Custodi di Landry >>.
I presenti non avrebbero saputo dire se a stupirli di più fu il sentir chiamare Riley con il suo appellativo formale, che nessuno usava mai perché nel caso egli era costretto a prestare attenzione senza possibilità di scelta, o la voce di Alexander che nel pronunciarlo aveva per una rara volta perso ogni traccia di condiscendenza e leggerezza.
Senza fornire la risposta altrettanto formale che doveva, Riley si voltò, lasciando intendere esclusivamente da quel gesto che si era deciso ad ascoltare.
Alexander sbuffò e chiuse gli occhi per un istante, poggiato al tavolo con i pugni serrati, poi li staccò dal legno e con uno slancio troppo veloce da potersi vedere anche per gli altri vampiri lo raggiunse e lo afferrò con una mano per la collottola, prima di trascinarlo fuori dalla porta sotto lo sguardo comprensivo degli altri.
Il Cavaliere Comandante a quel punto avrebbe potuto anche farlo fuori senza poi subire alcuna contestazione, ma si limitò a sorridere amaramente e scuotere la testa avvicinandosi a un'altra finestra, << Perché proprio adesso? >>.
Alexander non diede alcun segno della malinconia che lo attanagliava, << Ti dirò le stesse parole che tempo fa dissi a lei: le cose belle sono destinate a essere deturpate >>.
<< E tanti saluti ad Alex l’ottimista >>.
<< Non fare lo spiritoso, è già abbastanza fastidioso così >>.
<< Così come? >>.
<< Così senza una soluzione >>, Alexander gli si avvicinò e sospirò, << vorrei poterti dire che andrà tutto per il meglio, ma sarebbe una sciocchezza. Non so quando finirà tutto questo, ma… >>.
<< Lo so >>.
Riley non lo lasciò terminare, non voleva sentire da una voce altrui qualcosa che già sapeva di dover fare.
<< E’ già agosto comunque, non avrebbe fatto molta differenza >>.
<< Sì invece. Avrei trovato un modo, ma adesso la penso diversamente. Anche se non fosse stato adesso, sarebbe accaduto tra un mese o due, forse tra un anno, ma prima o poi ci avrebbe separati ugualmente >>.
<< In altre parole stai dicendo che è meglio per lei dimenticare e farsi una vita lontano da te? >>.
Riley socchiuse gli occhi come a volerlo scrutare meglio, << Al… >> lo chiamò lentamente, suscitandogli una smorfia di disapprovazione per quell’appellativo, prima di assumere l’espressione che si riserva a un perfetto svitato, << …a che genere di letture ti sei dato recentemente? >>.
Alexander afflosciò le spalle e i lineamenti del volto, come chi si aspetta una frase intelligente e si ritrova invece una scemenza, << Se dici così vuol dire che li hai letti anche tu, e comunque ero solo curioso, con tutto il clamore che hanno suscitato >>.
Riley si stupì di riuscire a scoppiare a ridere in quel frangente, poi pensò che fosse meglio evitare il discorso che lo avrebbe comparato al vampiro più amato della letteratura contemporanea, << Troverò il modo di restarle accanto, anche se dovessi rivederla tra anni >> disse poi tornando serio.
Alexander sorrise mestamente, come a voler comunicare con quell’unica posa tutta la tristezza che provava. Si avvicinò al davanzale anche lui, e per un po’ nessuno dei due parlò più. Rimasero in silenzio a guardare fuori niente in particolare, mentre di tanto in tanto nella stanza attigua qualcuno alzava la voce e tratti di discussione pervenivano fin lì, restando inascoltata.
Fu forse un impercettibile cambiamento della posizione della luna, che solo un immortale avrebbe potuto notare, a evidenziare che il tempo stava continuando a scorrere.
<< Va’ da lei >>.

Quando Riley si era mosso dall’apertura, allontanando gli occhi dalla luna non poteva sapere che mentre poco prima la osservava anche lei stava facendo lo stesso. Lo scoprì solo quando giunse in prossimità della villa di Josephine, e sollevando lo sguardo incontrò l’inconfondibile sagoma della sua chioma scura.
Protesa dalla soglia della finestra quanto più poteva, Evelyn poggiava gli avambracci incrociati sul davanzale e guardava insù.
Prima che lei potesse notare la sua presenza, si permise uno sguardo al paesaggio circostante.
Si soffermò sul vialetto.
Vide fermarsi una jeep familiare, poi quasi contemporaneamente ne sbucò fuori una ragazzina minuta e arrabbiata che si diresse verso l’ingresso a passo spedito, senza rivolgere nemmeno uno sguardo al ragazzo che, con un’espressione alquanto divertita in volto, apriva il cofano per armeggiare con alcuni borsoni senza distogliere lo sguardo da lei.
La porta si aprì e ne uscì un uomo alto e robusto, la accolse con dolcezza e un sorriso raggiante, poi una voce squillante e preoccupata dall’interno…
<< Riley? >>.
L’immagine scomparve nello stesso istante in cui lei finì di pronunciare il suo nome.
Riley sollevò lo sguardo e le sorrise, pensando che per quanto potesse essere cambiata da quando era arrivata lì, era sperduta e fragile come quel primo giorno.

Mentre lo seguiva con lo sguardo durante la sua agile scalata della distanza che li separava, Evelyn cercava di convincersi di essere sveglia.
Non che l’avesse sognato in quei giorni di lontananza. Lo aveva immaginato migliaia di volte accanto a sé, ma sempre e solo quando era sveglia.
Nelle poche volte in cui riusciva a chiudere gli occhi e dormire il sogno era sempre lo stesso, breve e insignificante. Una sfera di luce a volte dorata, altre biancastra, si avvicinava ingrandendosi, con una velocità tale che non aveva tempo di vedere o sentire altro prima di svegliarsi.
Forse per una volta stava sognando qualcosa di diverso, si disse prima che la stretta di lui cancellasse nettamente quell’eventualità.
Evelyn sospirò e gli serrò le braccia intorno al collo, affondando il viso nel suo petto senza dire nulla e sentendo le labbra di lui posarsi sulla sua spalla, sopra la stoffa sottile della camicia da notte.
Le posò una mano tra i capelli prima di baciarla e lei lo strinse ancora di più a sé, mentre si riprendevano tutte le volte sottrattegli in quei giorni trascorsi senza potersi sfiorare se non col pensiero o attraverso la carta di una lettera.
Evelyn aveva vissuto diciassette anni della sua vita senza un cuore, o per lo meno senza uno che funzionasse correttamente, poi era arrivato lui, e lo aveva attivato; le aveva mostrato come usarlo senza che lei se ne rendesse conto.
Le aveva insegnato cosa significasse sentirsi felice e sorridere, o forse le aveva semplicemente fornito il movente. Ma solo quando era stata costretta a fare a meno di lui per quei pochi giorni aveva compreso appieno cosa significasse essere privata di qualcosa.
Quando riuscì a scostarsi la osservò in silenzio, con lo sguardo che assumeva quando pensava a qualcosa che lei non riusciva a scorgergli nemmeno negli occhi solitamente trasparenti. Poi fu talmente veloce che quando si ritrovò sul letto, seduta sulle sue gambe, per un attimo rimase disorientata e si morse le labbra. Riley odiava quel suo gesto di nervosismo, ma il modo in cui le passò il dito sul labbro inferiore nulla aveva a che vedere con la velocità del movimento precedente. Era come se a ogni sofferenza di lei lui ne avvertisse una simile, o forse peggiore.
Improvvisamente allontanò la mano e distolse lo sguardo, e fu come se per un attimo si concentrasse, Evelyn sentì il suo petto fremere sotto il palmo della mano che gli teneva sulla stoffa della camicia; quando tornò a guardarla non c’era più traccia di dolcezza sul suo volto. Era terribilmente serio e lei capì che aveva assunto l’atteggiamento autoritario e impassibile che non le piaceva.
<< Per adesso è impossibile che tu stia qui, è troppo rischioso >>.
Evelyn sentì l’entusiasmo svanire istantaneamente, ma in fondo sapeva già che cosa le avrebbe detto, anche se per quanto avesse tentato non era riuscita a prepararsi a ricevere l’impatto.
<< Inoltre è una distrazione che non posso permettermi >>.
Lei abbassò lo sguardo, senza riuscire a decidere se odiarlo o iniziare a provare le fitte per la fine di qualcosa.
<< Domani partirai con Susan e Grisham, anche loro devono allontanarsi dalla città. Tra l’altro, indipendentemente da come stanno le cose, è già agosto e la tua famiglia ti sta già aspettando >>.
<< Perfetto >> costatò Evelyn, meravigliandosi della sua intonazione impassibile. Cercò di divincolarsi compostamente, ma lui la trattenne per i fianchi, << Verrò da te il prima possibile >>.
Quella frase affievolì, seppur di poco, la sua rabbia e la forza con la quale stava tentando di scostargli le mani, poi parlò con una nota di ovvietà, come se si stesse rivolgendo a uno sconosciuto.
<< E sei sicuro che ti vorrò ancora? >>.
Riley sfoderò uno dei suoi sorrisi provocanti che Evelyn non riusciva mai a contrastare in adeguata misura, quasi sempre la sua difesa cedeva e le dava la certezza che lui stava per mettere a segno uno dei suoi trucchi, che lei, con orgoglio infranto e piacere, era certa di non poter ostacolare in alcun modo.
<< Avevi rifiutato il dolore >> sussurrò senza perdere la malizia di quel sorriso. Evelyn sentì la carezza della sua mano sulla schiena.
<< I pianti >>.
Ci mise un’eternità a risalire fino alla sua nuca per trarla più vicina.
<< Credevi che i sentimenti ti avrebbero abbattuto, senza renderti conto che distrutta lo eri già >>.
Per un attimo sembrò volerle sfiorare le labbra con le proprie, ma poi deviò la traiettoria sul suo collo, mentre le sue mani discendevano lungo le sue spalle trascinando i lembi della camiciola.
<< Ogni sentimento ti terrorizzava e consideravi solo l’esistenza della sofferenza, senza nemmeno sfiorare col pensiero l’idea della felicità >>.
Con un movimento fin troppo lento la spinse sdraiata sul letto e reggendosi all’avambraccio iniziò a sollevarle l’orlo già troppo alto, senza smettere di fissarla negli occhi.
<< Adesso conosci entrambe >>.
Si abbassò per sfiorarle le labbra.
<< Torneresti indietro? >>, le sussurrò sulla bocca.
Evelyn non rispose.
<< Mi vorrai ancora? >>.
<< Quanto dovrò aspettare? >> chiese, disorientandolo per un secondo.
<< Non lo so >>.
<< Non sono in grado di essere paziente >>.
<< Non sei neanche in grado di fare a meno di me >>.
Touché.
Evelyn sospirò.
Riley fu certo che non avrebbe più parlato, o non sarebbe più riuscita a contenere i singhiozzi. La sollevò, lasciando che si alzasse e muovesse qualche passo verso la finestra.
<< Stavo bene nella mia apatia, e tu mi hai ridotto così >>.
<< Non stavi bene >> rispose Riley arrabbiato, socchiudendo gli occhi scuotendo la testa.
<< Avevi detto di volermi per te, perché ora mi fai questo? >> continuò lei, senza immaginare la stilettata che gli stava infliggendo.
<< Se ci fosse un modo per tenerti qui con me… >> sussurrò lui alzandosi e sorridendo amaramente.
Le leggi impedivano la trasformazione di un umano se non in particolari circostanze di necessità, e nonostante la guerra fosse già scoppiata se la notizia di una simile violazione fosse giunta nelle altre Sedi le cose sarebbero notevolmente peggiorate.
Evelyn smise di chiedersi perché ancora una volta era riuscita ad avere qualcosa solo per perderla, comprendendo che se anche un motivo ci fosse stato, in realtà non le interessava.
All'improvviso era semplicemente talmente arrabbiata che le sue lacrime non erano più di tristezza. Non sapeva quale fosse esattamente la causa della sua disperazione, se l’imminente partenza o addirittura già la distanza che iniziava ad avvertire. Avrebbe voluto sorridere di nuovo, seppur tristemente, e lasciarsi consolare, stringerlo un’ultima volta prima di lasciarlo senza sapere quando lo avrebbe rivisto, ma non riusciva a fare altro se non serrare i pugni e le palpebre per impedire ad altre lacrime di scorrere.
Era così dannatamente fragile.
Le tornarono in mente i cambiamenti della sua vita, e tutte le sue reazioni sconsiderate. Quando l’assestamento dei mobili del salone di casa sua era stato rivoluzionato, non ci aveva messo piede per mesi. Al passaggio dalle medie al liceo era caduta in depressione. La volta che la sua professoressa di filosofia si era ammalata ed era arrivata una supplente, i suoi ottimi voti erano calati drasticamente. Ma adesso ai suoi occhi ognuno di quei ricordi appariva una sciocchezza, considerando che stava per lasciare l’unico posto in cui si era sentita veramente a casa e le persone che le erano entrate nel cuore come nessuno mai prima di allora.
Era arrabbiata, ma non sapeva con chi esattamente. Non avrebbe fatto molta differenza comunque, si sarebbe sfogata come sempre sulla medesima vittima.
Se stessa.
Se stava per perdere tutto doveva essere quel che meritava. Non sapeva quale colpa le avesse procurato una simile punizione, ma se doveva essere tremendo doveva esserlo fino in fondo.
Magari se avesse iniziato da subito a riabituarsi alla sua vecchia vita sarebbe stato più facile.
E nella sua vecchia vita tanto per cominciate non c’era Riley.
Lo avrebbe voluto ancora quando un giorno forse troppo lontano avrebbe davvero mantenuto la promessa di tornare?
Sempre.
Evelyn deglutì e le palpebre le fremettero un istante appena, prima di ritrovare la voce per parlare.
<< Domani ho un lungo viaggio da affrontare, ti prego di scusarmi Riley >>.
I passi che mosse verso di lui furono stabili e decisi, come la sua rabbia.
<< Ci vediamo presto >>.
Si chinò sul suo viso stravolto dall’incredulità come la lama di un pugnale si china dritta al cuore della sua vittima ignara e impotente.
<< Buonanotte >>.
Socchiuse le labbra sulla sua guancia, poi sorrise e fece per incamminarsi verso l’uscita della sua stanza, senza badare al fatto che deambulare fuori dalla propria stanza da letto dopo aver dichiarato di avere sonno non avesse poi molto senso.
La stretta che le serrò il polso non appena si voltò sapeva d’ira e turbamento. Evelyn non sapeva esattamente che reazione prevedere, ma una simile era tra quelle messe in conto.
Erano il sorriso che gli illuminava il volto e il modo in cui la strinse che non aveva messo in conto.
Gli affondò le unghie nelle spalle e le sentì fremere di una risata, prima che la sollevasse tra le braccia e si lanciasse fuori dalla finestra.
<< Forse avevi dimenticato che non ti permetto di farti del male >>.
Fu l’ultima cosa che udì, prima del fragore dell’aria gelida che li inghiottiva.

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** In un angolo di mondo ***


30. In un angolo di mondo



La brezza che le scombinava i capelli scuri era gelida, esemplare di quel luogo perduto e introvabile dove ogni regola naturale era rovesciata, ma la sola presenza di lui le impediva di rabbrividire e la litania delle onde portava via insieme alla schiuma della risacca ogni sua preoccupazione.
Evelyn indossava soltanto una camicia da notte di seta turchese, che le copriva le gambe fino al ginocchio, ma anche quando le bagnò nell’acqua salata non le sentì tremare.
Guardare l’oceano era un po’ come guardare le stelle: al confronto quasi sparivano l’importanza e la bellezza di ogni altra cosa, per il solo istante in cui lo sguardo errava per quelle distese lontane, senza soffermarsi su nulla in particolare, nessun’onda o increspatura dell’acqua, nessuna stella più luminosa delle altre, avvertendo solo una sensazione indefinibile e piacevole.
Evelyn non riusciva a distinguere il resto dei sentimenti che provava, insieme alla serenità di chi si è rassegnato e ha trovato la forza di affrontare qualcosa di sgradito, aspettando lo stesso concetto dell’attesa, di un cambiamento, o di un ritorno al passato. In fondo non aveva mai accettato i saggi aforismi che esortavano a vivere solo in vista del futuro, e mai del trascorso. Se quel trascorso aveva lasciato indelebili tracce di felicità, comunemente note come ricordi, benché sempre dolorosi a rivedersi, allora non era poi tanto sbagliato sperare in qualcosa di già vissuto, se vissuto nel senso proprio del termine, che non sempre si interpreta correttamente. Lei, per esempio, aveva capito di non averlo interpretato affatto soltanto quando aveva messo piede a Landry, dove poi aveva capito cosa significasse realmente.
Una lacrima bagnò il sorriso che rivolse a Riley, senza tuttavia offuscarne l’autenticità.
Lo strinse forte a sua volta mentre la abbracciava, senza dire nulla, quasi trattenendo anche il respiro, per paura di infrangere la perfezione di quell’istante come lasciando scivolare cristallo al suolo.
Aveva già sperato che tornasse presto da lei.
Era difficile descrivere cosa fosse Riley nella sua vita, probabilmente perché aveva avuto più di un ruolo.
Nemico e litigante, quando era avvenuto che si scontrassero due rari esemplari di caparbietà. O semplicemente perché proprio due rivali finiscono per legarsi in un inspiegabile processo che conduce alla dipendenza l’uno dall’altro.
Che cosa sarebbe un eroe senza il suo antagonista?
Una mera leggenda senza sostanza.
Protettore e salvatore, un incarico che si era addossato apparentemente per impossibilità di scelta, in realtà per ferma volontà.
Amante, strappandola a quell’apatia che le sembrava indolore, e che invece era lancinante.
Che cosa sarebbe stata senza Riley non se l’era mai veramente chiesto, e non aveva intenzione di pensarci.
Aveva già versato lacrime di nostalgia.
Aveva già lasciato qualcosa di se stessa in ogni angolo vissuto in quei mesi.
Aveva già salutato tutti in cuor suo, consapevole che non avrebbe potuto farlo concretamente.
Aveva già imprigionato perfettamente, con infinita cura, ogni singolo ricordo nei borsoni della sua mente, nello stesso istante in cui sigillava anche i suoi bagagli materiali, contenenti oggetti che recavano incisa a loro volta una memoria.
La voce leggera di sua zia, che sapeva di casa e irrequieta spensieratezza, e quella velata di Alexander, con quella perenne e inviolabile nota di allegria.
Le mani di Sebastian che stringevano i pezzi bianchi della scacchiera, e quelle di Margareth sempre intente ad accompagnare con i gesti le sue parole intelligenti, lo sguardo di Cedric sempre fisso su di lei, sin dal giorno in cui aveva deciso di tenerla sempre con sé.
Gli occhi azzurri di Karl che assumevano la sfumatura dei sogni quando si posavano su Sophie, mentre lei era troppo impegnata a rammaricarsi del passato o a consolare qualcuno per accorgersene.
Le frasi pacate e opportune di Tristan, e quelle sconclusionate di Christopher che Harvey non mancava mai di criticare semplicemente per diletto, o forse solo per dimostrare un affetto che non si è sempre in grado di esternare nel modo più tradizionale.
Aveva già detto Addio e Arrivederci.
Quindi pensò solo a sorridere.

_


La stazione era semideserta e invasa dalla foschia. Il confuso vocio della poca gente che attendeva lì era lieve, parzialmente sovrastato dal calpestio dei piedi di Grisham, che quella mattina pareva non aver intenzione di avvicinarsi a un qualsiasi appoggio per il suo posteriore.
Evelyn aveva assicurato a Susan di poterlo sorvegliare, mentre lei si affaccendava per qualche minuto nell’unica bottega presente in quel piccolo luogo testimone di saluti.
Non aveva creduto però che le avrebbe richiesto tutta quella fatica. Era come se avesse trangugiato una decina di tazze contenenti un concentrato di caffeina.
Per assicurarselo il più vicino possibile senza doverlo legare al bracciolo della panchina dove sedeva, aveva ideato un gioco composto da saltelli e giravolte, giusto per non sopprimere eccessivamente la lena del piccolo, il quale accompagnava i movimenti fin troppo veloci con uno scioglilingua altrettanto frenetico che lei non era riuscita a riprodurre.
Un uomo robusto dal viso rubicondo sorrise passando accanto a loro ed Evelyn ricambiò, pensando che alla sua prima visita a quella stazione non avrebbe nemmeno considerato un simile gesto per uno sconosciuto qualunque.
<< Non vedo l’ora di salire sul treno! E tu? Anche tu non vedi l’ora di salire sul treno? Sarà veloce o velocissimo? Ma quando arriva? >>.
Grisham riattaccò subito con la sua canzoncina dopo aver sparato cotante parole a raffica.
Evelyn si limitò a ridere, consapevole che lui non aveva vero interesse a ricevere una risposta.
Il treno era già in ritardo di mezz’ora per un guasto, quindi non era più possibile prevedere quando sarebbe arrivato.
Tuttavia per lei l’attesa non era più snervante di quanto poteva esserlo per chiunque altri.
Capacità intrinseche in un individuo non possono andare perdute definitivamente, e, anche dopo tanto tempo, l’estrema necessità aveva fatto sì che lei rispolverasse quella patina nebulosa che le permetteva di estraniare i pensieri. Era molto più sottile di com’era stata in passato e l’effetto non sarebbe durato abbastanza a lungo, ma le bastava che tenesse almeno sino a quando avrebbe occupato un posto sul tessuto stinto di un sedile, mentre il vagone oscillava appena, allontanandosi dalla fermata.
Era pienamente sveglia, benché quella notte avesse dormito solamente pochi minuti, forzatamente, per negarsi una sofferenza che era certa non avrebbe tollerato.
Si erano separati all’alba, quando l’aveva riaccompagnata a casa di sua zia Josephine, un luogo ormai troppo vuoto perché potesse passarvi la sua ultima notte da sola.
Sophie era già andata via con gli altri, lasciando solo una lettera.
Aveva scritto che non sarebbe riuscita a sopportare un ultimo abbraccio e che preferiva lasciarla senza un vero e proprio saluto, con l’apparenza che si sarebbero riviste di lì a poco; in fondo era un’inguaribile sognatrice, ed Evelyn non poteva che aspettarsi un simile gesto da parte sua. Aveva lasciato il suo ultimo sorriso per lei con l’inchiostro sulla carta, lì dove anche lei poi aveva fatto lo stesso.
I saluti di tutti gli altri li aveva letti negli occhi di Riley.
Forse gli avevano mandato tramite lui anche qualche parola, ma quando aveva accennato a parlare aveva capito che non era la cosa giusta da fare.
Lei non avrebbe più parlato.
Parole e singhiozzi passano per la stessa strada, ed è difficile prevedere quale dei due giungerà per primo.
Non era stato necessario che esprimesse con voce la sua richiesta, Riley l’aveva letta nell’ultimo sguardo che si erano scambiati, prima che lei chiudesse gli occhi e si mordesse le labbra, affondando il viso nella stoffa che avvolgeva il petto di lui.
Si era addormentata così, e allora lui aveva potuto soddisfare la sua ultima folle pretesa.
Non aveva tuttavia rispettato tutte le clausole dell’accordo.
Prima di lasciarla l’aveva osservata a lungo, a tratti maledicendosi di aver acconsentito a quella separazione assurda e irreale.
Poi si era ricordato della sua recondita fragilità, e si era reso conto che lasciarla con un sorriso dolorante che lei non avrebbe visto era l’unico modo.
Così si erano separati, senza separarsi, in un’illusione, creata dalla mancanza di un vero e proprio gesto di distacco.
Una folata mosse le sue ciocche a solleticarle il viso e lei si volse come seguendo una direzione indicatale dal vento, che nonostante la temperatura, che la obbligava a indossare sciarpa e cappotto, era tiepido.
Solo allora si accorse di quel colore incredibile che il mondo aveva assunto.
Un colore che il tempo e gli eventi avevano quasi portato via dalla sua conoscenza.
Il grigiore pareva essersi riscaldato, e quel calore aveva dissolto la nebbia, ferendola con una lamina indorata.
Evelyn si accorse di aver camminato solo quando ciò che stava insistentemente guardando si fece più vicino.
C’era un angolo di mondo in un angolo di quella stazione, che era rimasto freddo. Pioveva sulla panchina di quell’angolo dimenticato, ma la ragazza che la occupava pareva non curarsene. Si stringeva le ginocchia al petto e aspettava qualcuno che si sarebbe stupito di trovarla ancora lì.
<< Elisabeth? >>.
<< Riley >>.
Bastò quel sussurrò, e le lacrime che le scivolarono lungo le guance arrossate erano calde come la colorazione che il mondo aveva acquisito.
“Quando esce il sole vuol dire che è in arrivo un cambiamento importante”.
<< Non piangere Ev! Guarda com’è veloce il treno! >>.
Evelyn si riscosse.
Le ci volle solo una frazione di secondo per individuare la fonte di quella voce, poi portò entrambe le mani a coprire la bocca, nel vano tentativo di trattenersi, e gridò nello stesso istante in cui iniziava una corsa frenetica e persa in partenza.
<< Grisham no! >>.
Le parve che quell’urlo prosciugasse tutto l’ossigeno dei suoi polmoni, o forse era semplicemente il folle movimento delle sue gambe a esigere un’energia che non possedeva.
<< Guarda com’è veloce! >>.
Grisham sembrava ancora più felice adesso che il suo treno era arrivato, solo che non poteva più aspettare un altro secondo, doveva raggiungerlo subito dopo averlo tanto atteso.
<< Grisham fermati! >>.
Evelyn sentì l’aria mancarle e quando atterrò sulle rotaie e prese a correre ancora più in fretta anche le lacrime iniziarono a bagnarle il viso con più frenesia.
Quando lo raggiunse quasi non ci credette, ma non aveva tempo per esultare. Lo sollevò supplicando che le forze non la abbandonassero proprio in quel momento, e solo quando lo vide sovrastarla dall’alto della banchina gli sorrise, mentre in quell’angolo di mondo con la panchina, due giovani si allontanavano in direzione di una jeep malandata senza sapere cosa sarebbe accaduto poi.
Una sfera di luce, a tratti dorata a tratti biancastra, si avvicinò ingrandendosi, con una velocità tale che non ebbe il tempo di vedere o sentire nulla prima di addormentarsi.

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Sconosciuta ***


31. Sconosciuta


Una voce soave che non conosceva stava intonando un motivo triste, che sapeva di nostalgia, e quel suono era talmente meraviglioso da far sì che ne cercasse la fonte.
La trovò alla fine della navata, defilata in un angolo buio e circondata da individui che non aveva mai visto prima. Era una ragazza bellissima, vestita di nero, come tutti coloro che la attorniavano, seduti sulle prime panche vicine all’altare. Quel colore cupo li faceva apparire tremendamente pallidi, e il dolore che gli stravolgeva il viso li rendeva inavvicinabili.
La giovane continuava a cantare, mentre un ragazzo dai capelli rossi le stringeva la mano, quasi a volerla sorreggere, per impedire che cadesse. Poco distante un uomo alto e moro aveva appena lasciato cadere la mano dalla spalla di un tale di poco più basso, il quale sembrava non gradire il contatto.
A differenza degli altri non sembrava soffrire.
Pareva piuttosto che i suoi occhi verdi, fissi sulla bara di legno scuro posta poco distante dall’altare, fossero offuscati dall’ira.
Se ne stava in piedi, immobile, senza distogliere lo sguardo.
Solo quando lo raggiunse una donna esile, segnata dal tempo e dalla sofferenza di quel momento, il ragazzo sembrò riscuotersi.
Poi anche lui la riconobbe come Josephine, la zia che aveva ospitato Evelyn durante l’estate.
Quella mattina si aspettava di trovare solo lei al funerale, e si era stupito non poco quando aveva invece costatato che parte della chiesa era gremita da estranei.
Non credeva sua figlia adottiva capace di stringere tanti in rapporti in soli tre mesi.
E a impressionarlo ancor di più era la vista del dolore reale che aleggiava attorno agli affetti di Evelyn, che la giovane aveva perso troppo presto, o meglio, erano stati loro a perdere lei prematuramente.
Lui al contrario non era mai stato in grado di legarsi veramente a sua figlia, così come il resto della famiglia. Non che l’avesse respinta volontariamente: era come se qualcosa l’avesse sempre allontanata, rendendola una perpetua estranea in quella casa, e lei di conseguenza, inconsciamente, si era a sua volta rinchiusa in un mondo appartato e solitario, senza mai tuttavia dimostrare un minimo gesto di sofferenza.
Evelyn non aveva mai fatto parte di quella famiglia, come non era mai appartenuta concretamente al mondo che l’aveva circondata per tutti quegli anni. Ne era rimasta al di fuori, e lui, come anche sua moglie, non avrebbe saputo dire perché.
In quel momento, in quella chiesa, con l’odore d’incenso e fiori e la melodia che si diffondeva lentamente, non riusciva a provare dolore, né a rammaricarsi di quell’inadeguatezza. Si sentiva spregevole, ma non ferito, perché era consapevole di non avere colpa.
Dovunque fosse stata in quel momento, Evelyn non sarebbe stata maggiormente distante da lui, e da tutto il resto che aveva appena sfiorato in quegli anni d’esistenza, di quanto lo era stata in vita. Non sarebbe cambiato nulla.
Si riscosse dallo stato di abbandono in cui era piombato solo quando avvertì qualcosa bruciargli addosso. Si guardò attorno e quasi subito individuò lo sguardo infuriato che qualcuno gli rivolgeva. Gli occhi verdi del ragazzo biondo, assottigliati come a volerlo focalizzare meglio, in quel secondo avrebbe potuto paragonarli a uno strumento di tortura.
Si sentì un colpevole all’oscuro della propria colpa.
<< Qualcosa non va? >>.
Sua moglie Katie vestiva di nero, aveva le guance ancora umide e soffriva poco più di lui, perché in vita aveva fatto uno sforzo maggiore per affezionarsi a sua figlia, senza riuscirci poi tanto meglio.
<< Non è nulla. Torniamo a sedere, la messa sta per iniziare >>.
Si volse in direzione della prima panca del lato opposto e iniziò a camminare, mentre man mano che si allontanava il bruciore che ancora avvertiva sulla schiena diminuiva.
Quando guardò di nuovo in direzione degli sconosciuti nessuno stava più badando a lui, nemmeno il ragazzo dagli occhi verdi.
Quest’ultimo fissava la bara, vuota giacché dopo l’incidente su quella maledetta rotaia non era rimasto molto da osservare durante l’ultimo saluto, e stringeva la mano di una donna che gli sedeva accanto, i cui lineamenti restavano celati oltre il velo che le copriva il volto, scuro come il resto del suo abbigliamento.
Anche lei rimase immobile per tutta la durata della funzione, dopo aver sollevato il polso a guardare l’orologio dall’aria preziosa che indossava, quasi a voler verificare di quanti minuti il prete avesse ritardato.

Il momento delle condoglianze era quello che più detestava.
Soprattutto perché non conosceva buona parte delle persone che gli si mostravano, e che tra le altre cose sembravano avere improvvisamente una gran fretta.
<< Oh Katie >> sussurrò Josephine mentre abbracciava la lontana parente, avendo notato che aveva ripreso a piangere.
La donna ricambiò la stretta, invidiando l’anziana per aver trascorso con sua figlia i suoi ultimi mesi di vita e credendo che in quel breve lasso di tempo Evelyn fosse stata diversa al punto di intessere dei rapporti all’incirca significativi, a giudicare dalla tristezza che aveva precedentemente scorto sui visi di quegli stranieri, ma che tuttavia in quel momento pareva essersi alleviata.
Katie parlò dopo essersi ricomposta, con un tono dolce e supplichevole << Josephine so che abbiamo avuto un rapporto decisamente debole in tutti questi anni, ma la prego di lasciarsi ospitare da noi per qualche giorno, io… ho bisogno di sapere di lei >>.
A sentirle tanto sincere Josephine assunse un’espressione immensamente sconsolata a quelle parole, << Capisco che ti piacerebbe che ti raccontassi dei suoi ultimi giorni, e lo vorrei tanto, ma davvero non posso trattenermi oltre, abbiamo un altro evento cui presenziare a breve, e credimi quando dico che non posso assolutamente mancare >>.
<< Un altro lutto? >> intervenne istintivamente il marito della donna.
<< Più o meno >>.
Chiedendosi come un lutto potesse essere tale solo in parte, i due coniugi si voltarono simultaneamente verso quella voce femminile, e nonostante non potessero scorgere il viso della proprietaria oltre il velo nero che lo copriva, dedussero che doveva essere piuttosto giovane. Accanto a lei era rimasto per tutto il tempo il ragazzo biondo, che dopo averla sentita parlare sembrava aver perso parte della rabbia per assumere un atteggiamento quasi esasperato.
<< Allora… condoglianze anche a voi >>, dissero marito e moglie con un’intonazione quasi interrogativa.
La giovane con il velo si avvicinò e prima di rispondere li osservò per un lungo istante, poi prese un respiro << Mi dispiace >>.
Il silenzio che piombò allora sul gruppo d’individui sembrò volersi prolungare per sempre, finché la stessa non voce aggiunse << …per vostra figlia >>, come volendo chiarire la sua frase precedente.
Tuttavia nella memoria dei due destinatari di quelle parole la seconda parte di quel discorso non rimase, solo quel “mi dispiace” s’incise profondamente, in un modo che l’avrebbe protratto sino alla fine della loro esistenza, durante la quale avrebbero potuto magari rimuginare sul suo vero significato.

Fu il ragazzo biondo, con Josephine e un tizio alto e moro dagli occhi chiari, a congedare tutta la comitiva. Katie pensò che se fosse stata al posto di sua figlia probabilmente si sarebbe presa una cotta per uno dei due, ma non conosceva bene i criteri di giudizio di Evelyn in campo maschile e si disse che probabilmente era troppo orgogliosa e sprezzante per innamorarsi, o anche solo degnare lontanamente un ragazzo della sua considerazione. Tra l’altro si era sempre mostrata terrorizzata dall’idea del matrimonio; sosteneva che due persone a lungo andare si sarebbero stancate l’una dell’altra e che quegli anelli sarebbero stati solo un mezzo per impedire una separazione che invece era funzionale alla libertà delle due povere anime scellerate.
Le salirono di nuovo le lacrime agli occhi a pensare alle poche idee che conosceva di sua figlia.
<< Non piangere Katie, guardami >>.
Katie puntò gli occhi bagnati in quelli di Josephine come le aveva chiesto di fare.
<< Evelyn, dovunque si trovi adesso, è felice >>.
La donna rimase sconcertata dalla sicurezza di quello sguardo, nel quale poteva quasi leggere la saggezza che anni di vita vi avevano lasciato, e si stupì ancor di più della serenità che la invase immotivatamente.
<< Lo spero tanto >> rispose riuscendo a sorridere.
Poi abbracciò la parente sconosciuta un’ultima volta, prima di osservarla mentre si allontanava con gli altri verso alcune jeep parcheggiate nel piazzale, nel punto più distante dalla chiesa.

<< Te lo avevo detto che non era una buona idea >>.
<< Non mi aspettavo nulla di diverso dalla tua bocca >>.
<< Ovviamente, io ho sempre ragione. Quando lo capirai? >>.
<< All’incirca quando tu smetterai di fare l’impertinente >>.
<< Tanto lo so bene >>.
<< Cosa? >>.
<< Che non impari mai. Tu non ascolti mai >>.
<< Allora se sai già di aver perso che fatichi a fare? >>.
<< Villano >>.
Riley scoppiò a ridere.
<< Villano collerico >>.
<< Che gestire la rabbia non era il mio forte lo sapevi, non ti lamentare >> rispose il giovane senza perdere il sorriso sfacciato.
<< Sembravi sul punto di azzannare il collo di quel poveretto, di una cosa simile non ti facevo capace, che ti avrà mai fatto di tanto spregevole? >>.
<< A me niente >>.
<< Allora a chi? >>.
<< Quando smetterai? >>.
<< Ma tu rispondi sempre con un’altra domanda? >>.
<< Io non ho quella voce >> esclamò Riley, scontento del tono col quale era stata imitata una frase sua, << e poi come fai a ricordare tutto quello che ho detto? Te lo appunti? >>.
<< Ma figurati, non ritenerti tanto speciale da meritare un simile gesto, e comunque non mi hai risposto >>.
<< A quale domanda? >>.
<< Che cosa dovrei smettere di fare? >>.
Prima di rispondere Riley chinò il capo di lato, poi scandì con estrema lentezza << Esasperarmi >>.
<< No che non smetto >>.
<< Tanto ti sposo lo stesso >>.
A quel punto la sua interlocutrice emise un verso di rabbia, levandosi poco elegantemente il grazioso copricapo che le teneva il velo scuro sul viso; ne sgorgò fuori una folta chioma di boccoli scuri che lei non aspettò ad afferrare e gettare oltre le proprie spalle, come improvvisamente infastidita dalla propria capigliatura, o semplicemente da tutto ciò che la circondava.
Strinse gli occhi per incenerirlo meglio, poi gli si scagliò contro e solo dopo avergli piantato con forza tra le mani borsetta e cappello, quasi a volersi liberare di ogni femminile qualità, e avergli gridato << Villano ingannatore >>, girò i tacchi e marciò fino a una jeep malandata.
Era già da un po’ di giorni che Evelyn aveva preso a insultarlo e farlo andare in escandescenza in ogni modo possibile e immaginabile, più precisamente dal momento in cui lui l’aveva indotta con l’inganno ad acconsentire alla loro unione ufficiale.

L’odore del sangue sull’acciaio delle spade permeava l’aria, amplificato dall’umidità della pioggia, la quale rendeva la terra cedevole e di conseguenza ogni movimento più faticoso.
Riley tuttavia non pareva far caso a nient’altro se non ai nemici che uno dopo l’altro gli si paravano davanti nel vano tentativo di ostacolarlo.
L’incidente di pochi giorni prima aveva lasciato in lui tanta rabbia da sovvertire radicalmente le sorti di quella guerra, cominciata col presupposto di protrarsi per anni, e quasi conclusa in un’unica, lunga e lenta esplosione d’ira.
Il grido di ritirata sovrastò ogni altro rumore per qualche secondo.
A quel suono fu tutto un turbinare di mantelli neri e cozzare di spade sulla roccia. Abbandonavano anche le proprie armi, per correre più veloci, salvarsi la pelle. Non erano più i vampiri orgogliosi e austeri che avevano assistito all’inizio di quella battaglia, tramutatisi improvvisamente in fuggitivi codardi e senza onore.
Uno degli emissari dei Ribelli che avanzava in fretta e con ostentata sicurezza, la quale tuttavia non era sufficiente a mascherare la sua reale paura come lui invece credeva, si fermò e, dopo aver esitato appena, si voltò e corse a raggiungere i suoi compari che già si erano allontanati, senza curarsi minimamente di lui e del suo terrore che si spargeva nell’aria come incenso.
Riley dal canto suo non era intenzionato a fermarsi.
Non riusciva nemmeno a provare pena, e forse nemmeno non lo voleva.
Se quei reietti non avessero dato inizio a quella follia lui sarebbe rimasto accanto a lei come doveva essere.
Lei non sarebbe stata da sola in quella stazione.
Un sorriso beffardo si disegnò sul suo volto un attimo prima che compiesse uno scatto in avanti. Qualcosa tuttavia arrestò la sua corsa ancor prima che potesse avere inizio.
<< E’ uno dei momenti migliori per contrattaccare, piuttosto di trattenermi vedi di starmi dietro >>.
Alexander sospirò, << Siamo più forti Comandante, ma anche stanchi >>.
Riley sentì diminuire l’adrenalina e rilassò i muscoli.
<< Tu sei instancabile >> costatò Alexander, scuotendo la testa con una mezza risata, mentre con un movimento fulmineo faceva scattare la sua lama da un punto all’altro per pulirla dal sangue.
<< E’ solo la tua impressione, sono esausto >>.
Alexander sollevò le sopracciglia in un gesto di stupore, << A vederti così energico e adirato mi chiedo quale sarebbe stata la tua reazione se l’avessi addirittura persa… in fondo hai dovuto solo renderla uguale e noi, presto o tardi sarebbe successo comunque >>.
<< Ciò non toglie che sia comunque finita sotto un treno >>.
<< Tecnicamente sotto il treno ci sei finito più tu >>.
<< Ma non è bastato lo stesso >>.
<< E’ bastato a impedire che si sfracellasse riducendosi in tanti minuscoli pezzettini >>. Alexander parlava col consueto tono disinvolto, quasi stesse raccontando l’ennesimo aneddoto esilarante, e non una tragedia evitata per un soffio.
<< Grazie Al, è sempre bello avere qualcuno a descriverti accuratamente l’incidente che stava per ammazzarti la fidanzata >>.
<< Non c’è di che >>.
<< Vigliacchi >>.
<< Che abbiamo fatto stavolta? >>.
<< Non voi! I fuggitivi, ce li avevamo in pugno stavolta! Ma perché ti senti sempre toccato dai miei insulti? >>.
<< Forse perché sono piuttosto frequenti >> rispose Alexander con un atteggiamento da vittima innocente.
<< Figurati, e poi eravate voi a parlare di me in mia assenza mi sembra >>.
<< Tu senti sempre tutto, Ev? >>.
<< Io so sempre tutto >>.
<< Ora che non è più umana è diventata anche onnisciente? >> intervenne qualcuno alle loro spalle.
<< Spero che quello non sia tuo Chris, non vorrei ritrovarmi con un uomo in meno nella battaglia di domani >> esclamò Riley, gli occhi fissi sul tessuto che ricopriva il petto di Christopher, interamente tinto di rosso.
<< Ah questo… >>, Christopher chinò il capo a costatare i danni, << solo un graffio >> disse con un sorriso, un attimo prima di piombare a terra svenuto.
<< Chris! >> urlò Harvey sopraggiungendo di corsa.
Evelyn si precipitò accanto a lui e crollò in ginocchio, poi fece per controllargli la ferita ma qualcuno le strinse gentilmente i polsi, fermandola.
<< Ci penseranno Josephine e Sebastian, lo portiamo subito da loro >> le sussurrò Karl, prima di sparire e riapparire accanto a Harvey, che nel frattempo si era già issato in spalla il ferito e si stava incamminando verso l’accampamento.
Evelyn non sembrava intenzionata ad alzarsi. Si limitava a seguire con gli occhi il gruppo che si allontanava e udì appena la voce di Alexander che annunciava che li avrebbe raggiunti.
Era talmente confusa da credere d’essere rimasta sola. Solo quando sentì due braccia forti sollevarla da terra ricordò che qualcuno invece era rimasto con lei in quella radura, e che quel qualcuno non l’avrebbe mai lasciata sola.
<< Proprio da te tuffarti in una guerra subito dopo esserti svegliata >> bisbigliò Riley a un soffio dal suo viso, << non eri ancora pronta per una cosa simile, avrei dovuto fermarti >>.
<< Ti ricordo che ci hai provato, per tre giorni >>.
<< Allora forse dovrei ricorrere alle maniere forti >>.
<< Questa è anche la mia guerra >>.
Riley sorrise tristemente e sospirò.
La sua fragile Evelyn in mezzo a quella guerra infernale.
Non era bastato che la morte per poco non la prendesse con sé.

Quella mattina era corso alla stazione per salutarla davvero, infrangendo la promessa che la aveva fatto, e non avrebbe mai pensato che mancare alla parola data potesse essere tanto utile.
Già per strada aveva avvertito una sensazione sgradevole e aveva creduto fosse troppo tardi, allora aveva accostato ed era corso fin lì, nella speranza di arrivare in tempo almeno per vederla partire, consapevole di infliggersi solo un’ulteriore sofferenza.
Poi era giunto a destinazione e subito l’aveva vista.
Ritraeva le mani da Grisham, che invece le tendeva verso di lei da sopra la banchina, e si concedeva un ultimo sorriso, per il bambino e per il mondo.
Si era lanciato sulla rotaia, ma aveva fatto in tempo solo a stringerla a sé, prima che il treno arrivasse addosso a entrambi, e lei, che era solo una fragile umana, non aveva potuto resistere a quell’impatto.
Poi non era stato necessario riflettere sul da farsi.
Evelyn comunque non era cambiata di una virgola. Era solo meno delicata, e più agguerrita. La testardaggine era rimasta invariata, anche perché chiunque scommetteva che sarebbe stato impossibile accrescere qualcosa che già straboccava dal limite, e ovviamente aveva insistito per raggiungere subito gli altri sul campo di battaglia.
Con lei, che aveva scoperto un’insolita inclinazione per l’arte bellica e aggraziata e letale dominava sul campo, e Riley, che si dannava nel tentativo di spiegarsi perché per avere finalmente la sua amata per sempre accanto era stato necessario che quest’ultima per poco non finisse distesa sotto un treno, provocandosi una sostanziosa dose di irritazione, le sorti di quella guerra erano irreversibilmente finite nel pugno dei Custodi di Landry.
<< Chris se la caverà? >> chiese Evelyn parlando con un mormorio appena udibile anche all’udito di Riley.
<< Non sarai seriamente preoccupata, Chris se la cava sempre, e aggiungerei purtroppo >>.
Evelyn accennò un sorriso, ma era evidente che non aveva voglia di ridere. Riley fece per parlare ma lei lo anticipò, << Sono solo stanca, domani andrà meglio >>.
<< Non andrà affatto meglio, stanotte avranno tempo per riorganizzarsi e tireranno fuori l’ennesimo stratagemma. Non combattere, almeno domani >>.
Evelyn non disse nulla, sbuffò e se ne andò arrabbiata.

La mattina seguente un pallido ma sufficientemente visibile bagliore s’intuiva appena oltre la coltre di nubi scure.
Quando Riley la vide, col mento poggiato su un palmo nell’apparente atteggiamento di chi ascolta, si accorse subito che era nervosa.
La avvicinò con uno dei suoi sorrisi maliziosi, << Bella giornata, non trovi? >>.
Evelyn gli rivolse un sorriso sereno, << Vincent ha detto che non pioverà nemmeno >>.
<< Beh non mi sembra granché come garanzia, come meteorologo ha sempre fatto più o meno schifo >>.
<< Sul mio onore! >> intervenne a quel punto il diretto interessato.
Riley ridacchiò.
<< Scommetto il fodero della mia spada che uscirà il sole >>.
<< Andata >>.
<< Harvey abbi pietà di lui, almeno finché è convalescente. Se perde il fodero mi sa che si aggancia direttamente la spada alla cintola e come minimo si trapassa la gamba >> spiegò Cedric col tono di chi ha già assistito a quel che ha descritto, o quantomeno a qualcosa di simile.
Christopher si rabbuiò, ma la sua espressione mutò in una più terrorizzata quando vide sopraggiungere Josephine e Margareth, seguite da Tristan e Sebastian.
<< Stavolta non voglio assistere >> annunciò Lisa lasciando la stanza.
<< Anch’io me la risparmio volentieri >>, Sophie saltò giù dalla sedia e si diresse alla porta, poi si voltò giusto il tempo di notare lo sguardo dubbioso che Evelyn le rivolgeva e con le mani mimò la forma di una siringa.
Difatti Christopher si era già slanciato verso la finestra, davanti alla quale si pararono Tristan e Sebastian, mentre Alexander e Margareth gli chiudevano la via di fuga alle spalle e Josephine si avvicinava con l’arma del delitto.
Evelyn rivolse alla povera vittima un sorriso compassionevole, lieta di non trovarsi nei suoi panni, e poi sentì solo un farfuglio confuso di Christopher riguardo a degli aguzzini mentre usciva anche lei.
Riley se ne stava poggiato con le spalle a un muro, o meglio, a quel che rimaneva di un muro, e guardava in cielo.
<< Hai finito con i messaggi subliminali? >> gli chiese atona. Nonostante la sua risata fosse uno dei suoni più limpidi e caldi che lei avesse mai udito, la irritò.
Stava cercando di spaventarla, e il fatto che ci stesse riuscendo la mandava su tutte le furie.
Lui non si preoccupava nemmeno di preoccuparsi, era allegro come un gatto in una tonnara, probabilmente perché era certo che sarebbe riuscito a farla desistere.
Evelyn lanciò uno sguardo alle nuvole sopra di loro, ma se ne pentì subito dopo aver scorto il sorriso trionfante di Riley.
<< Maledizione è solo un po’ di sole! >> esclamò.
<< Anche quel giorno alla stazione era solo un po’ di sole >>.
<< Sono solo storielle, il sole esiste anche a Landry, e che ti piaccia o no io oggi scenderò in campo come tutti gli altri giorni! >>.
Si voltò e si allontanò indignata, senza neanche attendere una risposta.

Evelyn detestava il fracasso.
Quel suono indefinibile di tanti rumori sgradevoli malamente accostati.
Lo aveva odiato in casa Mcgrath.
Ai pranzi domenicali, alle cene delle festività, ai compleanni delle prozie, quando l’ego di ogni suo parente doveva necessariamente lottare a suon di grida per imporsi sugli altri.
Evelyn odiava anche la violenza. Quella fisica s’intendeva. La sua ammirazione era tutta per quella psicologica piuttosto.
Per questo, chi la conosceva come Riley, e forse soltanto lui, avrebbe giurato che quell’aria appagata e quel mezzo sorriso che sfoderava quando si aggirava per il campo erano falsi.
Eppure in quel momento, mentre accarezzava con la mano inguantata le else delle spade riunite ordinatamente nell’armeria, ancora indecisa su quale fosse quella perfetta per l’occasione, quasi stesse scegliendo un abito da quel tripudio di pizzi e merletti che era il suo armadio, apparentemente ignara della presenza di lui e dei suoi occhi fissi su di lei come accadeva tanto spesso da cancellare ogni possibile accenno di stupore, sembrava serena, forse impaziente, ma se della fine o semplicemente dell’atto non avrebbe saputo dirlo.
Riley avrebbe voluto intrappolarla contro un muro e lasciarla andare solamente dopo averla sentita giurare che sarebbe rimasta al sicuro ad aspettarlo, ma lei era Evelyn DeMordrey, e aveva ereditato la testardaggine di tutte le generazioni del casato.
Riley non si curava molto del suo di casato, né delle cose che da esso aveva ereditato, ma probabilmente l’arte dell’inganno era una di quelle.
Mosse qualche passo indietro, verso la porta, e la oltrepassò solo dopo aver osservato la mano esile della giovane serrarsi sull’impugnatura di una spada piuttosto semplice e consumata; la lama non luccicava come quella delle altre perché era ricoperta di graffi e scheggiature, il colore era opaco e il filo non sembrava nemmeno abbastanza tagliente. Forse Evelyn era stata attratta dagli ornamenti dell’elsa, anche se anch’essi dovevano aver brillato molto di più un tempo.
Lui non si accorse se rimase delusa o meno dopo aver intuito che in fondo non era granché la sua scelta, sapeva benissimo che, una volta presa, poteva rimanere quella soltanto.

Alexander era seduto cavalcioni su una panca di legno, immerso nell’opera di manutenzione della sua spada.
La lucidava con la stessa frequenza con la quale Harvey e Christopher scommettevano e Margareth scopriva un nuovo libro, anche quando non doveva rimanere appesa a mostrare tutta la sua lucentezza sul camino del salone. La lama scura, tanto che nessuno conosceva veramente il materiale che la componeva, doveva essersi consumata più sulla pezza che sulla carne dei nemici, sulla quale tuttavia quando era necessario si abbatteva impietosa come chi la maneggiava.
<< Dovrò aspettare che il panno o la spada si consumino prima di avere la tua attenzione? >>.
<< Sono in grado di concentrarmi contemporaneamente su molte più cose di quante ne immagini >>.
Riley fece per replicare ma qualcuno intervenne prima che potesse aprir bocca.
<< Allora mentre accogli la sua richiesta d’aiuto e lustri il tuo spadino, perché non pulisci anche la mia di spada? >>.
Alexander rivolse a Tristan lo sguardo più truce che poteva riuscirgli in quel momento, mentre Riley per lo stupore non riuscì a fare lo stesso.
<< Questo è favoritismo, a lui dirai di sì, è ingiusto >>.
<< E chi lo dice? Se prova di nuovo a convincermi a dissuadere Ev… >>.
<< Non ci penso nemmeno >> lo interruppe Riley.
Tristan parve stupito da quell’uscita, poi si allontanò malinconico afferrando una pezza lì vicina. Sicuramente alla fine avrebbe abbandonato quella spada per cercarsene un’altra piuttosto che pulirla davvero.
Anche Alexander sembrava privo di previsioni.
<< Se non mi ha accontentato per l’ultima richiesta, come non l’ha fatto tante altre volte, stavolta non dovrà rifiutare >>.
A dimostrazione del coinvolgimento che lo colse Alexander sorrise e mise da parte la spada, gesto alquanto insolito per le sue abitudini, giacché la lama non era ancora abbastanza scintillante da riflettere perfettamente la sfumatura chiara dei suoi occhi improvvisamente allegri.

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Cerchio d'ombra ***


In primis: le mie scuse per il tragico ritardo. Sarebbe inutile infastidirvi ancora spiegandovene le motivazioni perché spero con tutto il cuore che abbiate tanta fretta di leggere.
Posso solo chiedere Scusa, Scusa e ancora Scusa…
Mi auguro che possiate perdonarmi e che apprezziate la storia con il fantastico entusiasmo dimostratomi specialmente da alcune lettrici che mi hanno dato il loro parere, che per me è stato importante davvero.
Grazie di cuore.



32. Cerchio d’ombra


Evelyn sedeva su un esile e basso muro di pietra piuttosto scomodo, le mani poggiate sulle ginocchia, in un gesto rilassato, in uno strano contrasto con la posa perfettamente raddrizzata della sua schiena, che conferiva al suo atteggiamento una caratteristica quasi marziale. Stava immobile lì a oziare, lo sguardo dritto innanzi a sé, come seguendo un’immaginaria linea diretta in un luogo lontano.
Come i soldati senza paura o impauriti, che aspettano sereni o agitati che la guerra li chiami, per combattere con in pugno i loro ideali insieme alle armi, o che attendono il celere arrivo della fine, per tornare a casa, senza ideali e senza gloria.
Lei non era certa dei suoi ideali e non sapeva più dove fosse casa sua. Non bramava la gloria e la sua arma non meritava i migliori complimenti. Era una spada malandata, per questo l’aveva scelta. Anche lei si sentiva malandata e opaca come quella lama che non riluceva più, consumata dal corso del tempo e da chi crudelmente l’aveva obbligata a combattere per i propri fini.
L’abbraccio di Riley era stato un luogo sicuro, come le coperte del suo letto a casa di sua zia, sotto le quali spesso alcune notti, in segreto, si era nascosta per non vedere il bagliore dei lampi, per non sentire il fragore dei tuoni, e per escludere tutti i suoi dubbi e le sue paure, che non potevano oltrepassare l’immaginaria barriera di quella stoffa pesante. Non aveva più età e preoccupazioni sotto quelle coperte, si perdeva in pensieri che la portavano dove nella realtà non poteva arrivare.
In quel momento, mentre osservava la notte abbracciare il bosco e la luna riflettersi su un piccolo specchio d’acqua poco distante, desiderò per un istante di correre sotto le coperte o tra le braccia di Riley, per scacciare la paura che quella guerra potesse di nuovo portarle via quello che di più prezioso possedeva da troppo poco tempo.
Nello stesso momento in cui involontariamente sospirò, abbandonò la sua posa ordinata e si accorse di essersi tradita.
<< Si sospira di tormento o piacere… >>.
E lui era sempre presente quando la sua fragilità si mostrava senza che lei riuscisse a impedirlo.
<< …momentaneamente mi permetterei di escludere il secondo motivo >>.
I suoi occhi verdi furono improvvisamente vicini e lei si ritrasse.
<< Hai paura >>.
Evelyn abbandonò il suo posto e mosse qualche passo, allontanandosi quanto bastava a voltargli le spalle.
<< Vi sbagliate comandante >> rispose con eccessiva calma, parlando lentamente e strascicando le parole quanto le bastava per assumere un’espressione impassibile, adeguata a mascherare la sua imminente menzogna.
<< Sono forte abbastanza >> continuò, voltandosi.
A quelle parole nella calma di Riley parve schiudersi un’impercettibile fessura, attraverso la quale lei era intenzionata a farsi strada, fino a giungere in quel luogo troppo distante che era la debolezza di lui, per proteggere se stessa da parole che non sarebbe stata in grado di contestare, semplicemente impedendogli di pronunciarle.
Avanzò verso di lui e scosse lievemente il capo, << Continui a vedermi come la fragile ragazzina che è arrivata a Landry qualche tempo fa, un tempo che forse ti sembra vicino, ma che io vedo lontano come i giorni della mia infanzia >>.
Riley non disse nulla e i limiti della fessura parvero allargarsi.
<< Questa guerra mi appartiene, e non sono meno innocente di te >>.
Ormai i loro visi erano vicinissimi, e guardarlo negli occhi era per lei un vantaggio come sarebbe stato per un uomo con la corazza combattere contro un avversario vestito di stracci.
<< Tu mi hai coinvolto nelle tue colpe, sono un’assassina anch’io e non me ne pento, perché nemmeno per coloro che uccido esiste il pentimento >>.
Lo fece trasalire quella voce sicura che parlava di omicidio e peccato.
<< Sono cresciuta senza un padre e una madre, senza quel che avrei dovuto avere >>.
Riley stavolta dovette quasi trattenere una smorfia di sofferenza.
<< Non cerco la vendetta, voglio solo tutto ciò che mi appartiene >>.
Evelyn lo vide sollevare il capo e deglutire, mentre si lasciava alle spalle la fessura che le aveva consentito di raggiungere la sua meta. Poi i suoi occhi verdi sfuggirono alla sua vista per fissarsi su un punto oltre la sua figura minuta.
<< Chi non teme la morte è perché non ha nulla che lo spinge a vivere >>. Riley parlò riportando su di lei gli occhi, la cui sfumatura ben s’intonava con il suo tono di rimprovero e pregno di delusione.
<< I tuoi aforismi non mi servono Riley >>.
Lui accennò un sorriso, di quelli che non le facevano mai capire se il colpo era andato a segno.
<< Ma certo, perdonami >>.
Evelyn inspirò, come se l’aria gelida che le invadeva i polmoni e le pungeva la superficie pallida del viso potesse esserle d’aiuto nell’ardua impresa di mantenere la calma.
Quando Riley Hylton abbassava la guardia, era solamente per sferrare un altro attacco, che solitamente si rivelava quello finale, più vigoroso e letale di tutti gli altri.
<< Non ero venuto per spargere perle di saggezza >> iniziò con una lieve risata, poi un’espressione seria e vagamente sofferente tornò a coprirgli il volto, << piuttosto avevo qualcosa da comunicarti >>.
Evelyn serrò i pugni, conficcandosi le unghie nella carne, lì dove ormai avevano lasciato un solco perenne. Se Riley aveva sferrato il colpo finale, lo aveva fatto da tempo, così da non lasciarle scampo, né opportunità di contrattacco. E lei, come una sciocca, ignara di tutto, adesso non aveva a disposizione nessuna via d’uscita se non quella di perdonare o dire addio con rabbia. Ma se anche era forte abbastanza da affrontare una guerra, con le sue battaglie, il sangue di altri sulla spada e sulle mani, non lo era tanto da ripromettersi la seconda circostanza.
<< Allora parla >> sibilò senza muoversi.
<< Già vai in collera? Ancor prima che io possa salutarti come avrei voluto? Probabilmente non me lo permetterai nemmeno >>.
Quello doveva essere solo il preludio della sferzata fatale, ma il dolore si era già risvegliato e iniziava a farsi strada lungo i suoi nervi, fino a raggiungere la testa ed esplodere. << Anche tu già prevedi che non vorrò più saperne di te… sempre che non ti riferisca a un saluto più… definitivo >>.
<< E’ una minaccia di morte? >>.
<< Forse >>.
Evelyn ammirò i canini di Riley risplendere del bagliore argenteo della luna, insieme a tutta la sua arroganza che tanto la faceva infuriare, poi la risata di lui si smorzò bruscamente, seguita da parole avvelenate come il suo sorriso.
<< E’ probabile che non dobbiate nemmeno scomodarvi milady, presto qualcuno potrebbe inconsapevolmente esaudire il vostro desiderio >>.
<< Non sono così fortunata >> rispose all’istante, con parole involontarie.
<< E’ evidente che la sorte si è finalmente accorta della vostra presenza, e per una volta vuole favorirvi >>.
<< La sorte gioca con me dalla notte in cui sono venuta al mondo, e forse voi siete solo l’ennesimo strumento nelle sue grinfie, e forse, adesso, sta per colpire ancora, ma di certo non per favorirmi >>.
<< Siete sicura che la mia assenza non sarebbe a vostro favore? Ad ogni modo non le concederei mai un tale prestigio, se qualcuno adesso sta per colpirvi, quello sono io >>.
<< Se state per morire, come avete detto voi stesso, allora la vostra perdita probabilmente non sarà per me uno svantaggio, quindi state per sferrare un colpo vano, milord >>.
<< Che non soffrireste della mia perdita è la più grande sciocchezza che io abbia mai detto, e il vostro assenso la più grande menzogna che io abbia mai sentito >>.
Ne morirei, si ritrovò a pensare Evelyn, prima di cercare di contenersi, senza riuscirci. Scattò in avanti, con la sua velocità eccellente che superava anche quella del suo interlocutore, il quale, infatti, non si accorse di nulla finché non si ritrovò disteso a qualche metro di distanza dalla sua precedente postazione, con qualcosa a bagnargli la divisa e i palmi delle mani poggiati a terra per sollevarsi. Riley rimase con un ginocchio immerso nell’acqua, ai limiti del minuscolo lago che catturava l’immagine perfetta della luna splendente di quella notte. Sorrise alla vista dell’espressione ancora adirata di Evelyn, poi si alzò e mosse qualche passo verso di lei, assestandosi con indifferenza la camicia.
<< Con queste tue reazioni mi dai solo conferma di ciò che dico >>.
Evelyn a sua volta non si era resa conto del movimento con il quale Riley aveva catturato il suo mento in una mano, costringendo i loro visi a stare talmente vicini da confondere i reciproci respiri, scossi da quella rabbia familiare che li accomunava.
<< Ad ogni modo… non chiederò il tuo consenso per prendermi il saluto che mi devi >>.
Le impedì di proferire parola, smorzando la frase tagliente che stava per pronunciare con un bacio appassionato. Quando Evelyn sentì in bocca il sapore di un addio ebbe paura. Riley la stava salutando davvero, oppure le sue doti d’ingannatore erano giunte al loro massimo epilogo.
Non credeva nell’amore lei, quando era arrivata a Landry. Affetto sciagurato, perdono immeritato, sacrificio inappagato: così si era tradotto per lei quel termine, prima di conoscere colui che la stringeva in quel momento, senza suscitarle la minima voglia di spingerlo via. Era addirittura rimasta delusa da se stessa quando si era accorta di essersi legata a Riley in un modo che neanche lei riusciva a spiegarsi.
Per la prima volta nella sua vita desiderò con tutta se stessa che lui stesse mentendo.

La voce di Riley fu l’ultima a echeggiare nell’aria. Evelyn non disse nulla. Lo guardò solamente per pochi secondi, quando lei non aveva voglia di parlare erano i suoi occhi a farlo per lei. Riley vi lesse tutto quel che doveva, poi si allontanò.
Lei osservò i primi passi che fece, prima di sparire alla sua vista con una velocità che tradiva l’angoscia che anche lui provava.
Evelyn iniziò a correre dalla parte opposta.
Sfrecciò per il bosco, tra gli alberi, sulla terra umida, saltando da una roccia all’altra, spingendo al limite della possibilità anche i muscoli di una vampira giovane e forte, quando questo era utile ad accorciare le distanze e risparmiare tempo.
Si fermò poco prima di avvicinarsi alla porta della massiccia costruzione in pietra cui era giunta, poi tentò di assumere un atteggiamento disinvolto e s’incamminò.
All’interno delle mura, nel piazzale esterno all’edificio, regnava un ordinato trambusto. Il loggiato era affollato di tavoli attorniati da sedie e dai rispettivi occupanti, assorti nelle loro discussioni. Alcuni si trovavano d’accordo sui reciproci modi di agire, altri dibattevano animatamente. Tristan era intento a frapporsi tra due tali che si avvicinavano pericolosamente. Vincent si faceva bello agli occhi di un gruppo d’individui che parevano notevolmente più giovani e scanzonati di lui e che ascoltavano assorti.
Lisa sfruttava i due gemelli esonerati da ogni battaglia, che eseguivano gli ordini con quell’aria perennemente insoddisfatta e offesa; li spediva a destra e a manca a consegnare messaggi che lei non poteva recapitare di persona. Di sicuro doveva essere in ritardo, pensò Evelyn senza trattenere una risatina. Da un’altra parte Margareth stava penosamente abbattendo Cedric al suolo a suon di fendenti, mentre Christopher, che sembrava ancora un po’ malandato, e Harvey si godevano lo spettacolo. C’era anche Sophie, seduta in disparte, intenta a osservare qualcosa a poca distanza da lei e quando ne seguì lo sguardo non si stupì di vedere la chioma rossiccia di Karl spiccare tra una folla di gente.
Prima di oltrepassare la porta, accorgendosi con soddisfazione di essere riuscita a passare inosservata, si volse un momento indietro e pensò che da nessuna parte giungeva un minuscolo segnale di allarme e nessuno mostrava un’espressione anche solo di vaga preoccupazione. La certezza della vittoria era già attecchita nel pensiero comune, e il dubbio di una possibile sconfitta era oramai solo una lontana reminiscenza.
Guardava dinanzi a sé l’ordinato guazzabuglio di visi e sorrisi, che le apparivano familiari come non mai. Vivevano di tragedie e utopie quegli individui fuori dal comune, ed erano tali perché avevano da tempo perso qualità come l’invecchiare e il ragionare concretamente; in quel momento nella sua testa si formava la certezza che neanche il più anziano dell’enciclopedica stirpe dei Lennox avrebbe resistito alla tentazione di lasciarsi trasportare da un’idea positiva, se intorno a sé aleggiava un pesante strato di ottimismo, e forse il più incorreggibile truffatore dei Von Ziegesar ci avrebbe messo poco ad abbandonare una buona mano di carte per unirsi anch’egli agli altri… come anche, se la disperazione avesse preso il sopravvento in una situazione alquanto tesa, persino la tanto decantata calma dei Sievers sarebbe svanita nel generale sentimento di sconforto. Un raggruppamento concorde di gente che pensava all’unisono era quello che vedeva un attimo prima, e una serie d’individui diversi e scomposti un attimo dopo.
Trattenne una risata pensando a quanto affascinante trovasse tutto ciò, e quanto spassoso, giacché era compito proprio del suo povero Riley tenere a bada una massa di simili spiriti eccentrici.

Trovò Alexander in un salone, vicino al fuoco crepitante di un camino. Era intento a leggere un pezzo di carta malandato che doveva essere una lettera o qualche messaggio dalla prima linea. Sembrava sereno ed Evelyn quasi si dispiacque di disturbarlo, vedendo che abbandonava la sua posa che qualunque pittore avrebbe considerato perfetta per il suo quadro migliore.
Quando la vide sussultò, come se lo avesse colto di sorpresa, impreparato.
<< Evelyn, qual buon vento? >> esclamò con un sorriso.
<< Di bufera, se non mi dici all’istante che cosa tramate tu e il tuo compare biondo >>.
Quello esordì con un’espressione al colmo dello stupore.
<< Non ti nascondo che mi terrorizza alquanto che due menti come le vostre si uniscano per pensare insieme >> continuò lei.
<< Illuminami, te ne prego, perché non capisco davvero di cosa parli >>.
<< T’illuminerei d’immenso, con una fiaccola possibilmente >>.
<< Per quanto le tue intimidazioni possano essere infinitamente artistiche non sono comunque gradite >>.
<< Non lo sono neanche i vostri disonesti complotti >>.
<< Sono artistici almeno? >>.
<< Vagamente. Allora dov’è andato? >>.
<< Il mio compare biondo, nonché tuo compagno per la vita… si sta recando in questo momento alla Reggia >>.
Evelyn non poté fare a meno di sgranare gli occhi.
<< Nulla di preoccupante, deve solo contrattare il rilascio di alcuni ostaggi >>.
<< Ostaggi? >> esclamò lei ancora più stupita << non sapevo che avessimo fatto prigionieri >>.
<< Infatti, sono loro che hanno preso alcuni dei nostri >>.
Alexander parlava in tono talmente sereno che lei iniziava a credere che durante uno degli scontri avesse contratto una qualche lesione cerebrale.
<< Ev sei così apprensiva, smetti di preoccuparti, anche se non ho ben capito se per i prigionieri di guerra o per Riley >>.
Evelyn ignorò deliberatamente la sua ultima frase e iniziò a passeggiare avanti e indietro per la stanza.
<< Gli ha dato di volta il cervello? Partire così! Si è defilato tranquillamente e in silenzio!… che cosa crede di fare? No, non ho abbastanza tempo per insultarlo a dovere… dimmi che strada ha preso, adesso, per il tuo stesso bene Alexander Lustabader! >> ringhiò la ragazza.
Alexander si voltò, sconvolto. Per un momento fissò gli occhi su un qualche pezzo di mobilio della stanza poi la guardò e sorrise calorosamente. << Devi prendere il sentiero verso la costa, nel fitto del bosco >>.
Evelyn aprì la bocca ma la serrò subito dopo, spiazzata. Le altre minacciose frasi di convinzione che aveva preparato non le servivano più, e ciò la stupiva non poco. << E poi? >> chiese, sulla difensiva.
<< E poi aspetti che la vendetta dei Ribelli si compia una volta per tutte. Credo che non dovrai nemmeno aspettare troppo perché ti trovino, perché so che non ti piace aspettare… >>, concluse quell’uscita con un sorriso luminoso che ben si accordava con il tono gaio col quale aveva parlato.
<< Alexander! >> esclamò Evelyn, indignata e offesa. Doveva ritenerla piuttosto debole per dire una cosa simile. << Gli sono sfuggita da umana… >>.
Il suo interlocutore fece un verso che smorzò la sua frase.
<< Tu sei sfuggita alle ombre Evelyn, perché nessun Ribelle era scellerato al punto di addentrarsi nella città e rischiare tanto solo per te. E’ vero che desideravano la tua morte ardentemente, ma altrettanto non volevano rendere atroce la loro >>.
<< Ma cosa vuoi che gliene importi ormai? Stanno giocando alla guerra e per il momento hanno accantonato l’intento di darmi la caccia >>.
<< E’ sempre meglio non rischiare >>.
<< Mi ritieni tanto fragile da non sapermi difendere? >>.
<< Perdonami se mi preoccupo così per te, ma la risposta è sì >>.
Evelyn era allo stesso tempo offesa da una così scarsa considerazione del suo potere e intenerita da un simile eccesso di premura nei suoi confronti, quindi decise che era meglio sviare la conversazione. << Ti potrei ordinare di dirmi tutto quello che voglio sapere >> pronunciò con l’intonazione che si conferisce a un’informazione casuale.
<< Non ce n’è bisogno. Riley tornerà sano e salvo. Altrimenti sarei stato inquieto anch’io >>.
<< E’ sicuro che tornerà illeso? >>.
<< Abbastanza sicuro >>.
<< Abbastanza sicuro non è completamente sicuro >> esclamò lei muovendo le dita per mimare le virgolette.
Alexander sbuffò. Doveva ritenere davvero inutili le sue preoccupazioni, ma lei non riusciva a porvi rimedio. Era un istinto che non spiegava nemmeno a se stessa quello di essere in pena per Riley ogni qual volta si allontanava. Forse qualcuno l’avrebbe chiamato “innamoramento”, ma soprattutto negli ultimi tempi quel termine le piaceva sempre meno. Non era mai stata brava a dirsi la verità dopotutto.
<< Io ho bisogno di essere certa che tornerà >>.
<< Scommetto che avete litigato non più di qualche minuto fa >> rincarò Alexander.
<< E sono stata spietata… >> borbottò quella.
Lui fece per parlare ma lei lo anticipò.
<< …non mi riesce altrimenti >>. Detto ciò ricominciò a passeggiare per la stanza, ora affacciandosi alla finestra, ora mettendo le mani sui fianchi e sbuffando.
<< Ci sarebbe un modo… >>.
La voce di Alexander richiamò la sua completa attenzione.
<< … per rendere a Riley l’impresa meno rischiosa, anche se ci tengo a ribadire che in realtà rischiosa non lo è affatto >>.
Evelyn non riusciva più a pensare all’eventualità di un complotto dei due, poiché anche se le parole di Riley gliel’avevano fatto temere prima, adesso quelle di Alexander, che si ostinava a negare che ci fosse alcun pericolo per il summenzionato, la rasserenavano totalmente al riguardo, e sicché quando c’era da complottare e mettere in scena il migliore dei due era proprio il biondo, poteva dirsi quasi del tutto certa che non avesse nulla da temere in quanto al rischio suo di cadere in una loro trappola, almeno per il momento.
<< Prima però c’è una storia piuttosto divertente che devi ascoltare >>.
Evelyn strabuzzò gli occhi, << Non si può rimandare? >>.
Alexander stava per scuotere la testa con risolutezza ma qualcosa fuori della porta catalizzò l’attenzione di entrambi.
<< Corri Sebastian per l’amor del cielo! >> gridò una voce familiare.
<< Sono il meno indicato per questo genere di cose… >> rispose una voce altrettanto conosciuta e piuttosto irritata.
Si accavallavano parecchie voci e provenivano tutte dal corridoio, ma solo due figure irruppero nella stanza.
<< Avete visto passare qualcuno? >> esordì Josephine tutta trafelata, sistemandosi sulla testa una cuffietta color pervinca.
Che ci faceva mai con una cuffietta in un accampamento militare? Evelyn rinunciò alla domanda poco dopo essersela posta, e pensò che chiedere delucidazioni spettanti argomenti più seri fosse più appropriato.
<< No, nessuno. Chi vi sta scappando? E soprattutto che ci fate qui? >>.
<< Siamo arrivati poco fa >> rispose una voce gentile che non poteva appartenere a nessun altro se non a Rose o Dalia: entrambe difatti se ne stavano ferme e composte sull’uscio, con un sorriso gentile sul volto che Evelyn non poté fare a meno di ricambiare.
<< Non è niente, solo Gaston Van Cleef e un altro dei suoi labili scatti d’isterismo, è più grave piuttosto che pretendano che sia io a inseguirlo >> si lamentò Sebastian, riassestandosi il panciotto viola.
Alexander scoppiò a ridere, poi gli assestò una pacca sulla spalla e si offrì di farsi carico dell’impresa al posto suo. Evelyn fece per protestare ma quello glielo impedì.
<< Sono certo che tua zia potrà offrirti un aiuto anche migliore del mio >>, poi passandole accanto le sorrise, << farai la cosa giusta >> disse prima di sparire dalla stanza.
Josephine aveva un’aria beata, certamente finalizzata a proteggersi dalle scombinate circostanze, che altrimenti sarebbero state intollerabili per lei, data la sua attitudine alla pianificazione e alla minuziosa cura di ogni minimo particolare.
Evelyn fu costretta ad accomodarsi su una poltrona, davanti a una tazza colma di the ai frutti rossi di cui si limitava a ispirare l’aroma dolciastro, gli occhi fissi sulla figura smagrita della zia, la quale quando decideva di farla lunga era del tutto irremovibile. Tutti i suoi tentativi per spiegarle che Riley era a suo parere in pericolo di vita erano stati vani.
<< Prima che io inizi a raccontare rispondi a una domanda >> esordì Josephine.
Evelyn s’irrigidì e la sua mente iniziò a elaborare ogni possibile via di fuga da una domanda importuna.
La zia prese un sorso dalla sua tazza e a lei parve che stesse volontariamente prolungando ogni minuscolo gesto. La sua crescente irritazione non sfuggì a Sebastian che si schiarì la gola per interrompere quella lunga sorsata di the. A quel punto la donna posò la tazza sul tavolino intarsiato che aveva davanti.
<< Credi nell’amore, Evelyn? >>.
Quella sospirò, poi deglutì. Vagò per la stanza con lo sguardo, si aggiustò una ciocca di capelli, poi si decise a parlare, sentendosi in dovere di esprimere chiaramente il proprio parere.
<< Non lo so. Non c’è mai stato nulla che mi abbia aiutato nell’edificazione di una buona opinione dell’amore che tanto decantante tutti quanti e che per me invece implica un attaccamento eccessivamente incondizionato >>.
<< Non c’è stato Riley? >>.
<< Il mio attaccamento per lui non è per nulla incondizionato >>.
<< Allora puoi anche rimanere qui a sorseggiare il tuo the e aspettare che torni >>.
Evelyn si arrese e qualcosa nei suoi occhi dovette comunicarlo alla parente.
<< Se prometterai di sposare Riley i Ribelli non potranno fargli nulla. Saranno obbligati a rimandarlo indietro senza un graffio >>.
Josephine non lasciò alla nipote abbastanza tempo per assemblare una frase logica, anche perché credeva che le sarebbe servito troppo. Prese un ultimo sorso e dopo aver posato la tazza iniziò a raccontare.
<< Qualche tempo fa la comunità dei Ribelli assisteva a uno dei più cronici innamoramenti dell’epoca. Lei era una bella Van Cleef, lui apparteneva alla stirpe dei Von Schauenstein e occupava un ruolo piuttosto eminente. Tragicamente la giovane morì in battaglia. Fu uno spettacolo agghiacciante, se qualcuno cerca di raccontartelo non glielo permettere. Ad ogni modo la reazione di lui fu peggiore della tragedia stessa. Ti risparmio i particolari >>.
Evelyn fu grata che la censura della zia, sebbene non appagasse pienamente la sua curiosità, le facesse guadagnare tempo. Mostrò un’espressione afflitta, incitandola a proseguire.
<< I due dovevano sposarsi undici giorni dopo. Ogni cosa era pronta per il lieto evento: la sala, gli abiti, i fiori… ed è rimasto tutto tale e quale al triste giorno. C’è una sala dove nessuno si addentra mai, dove su un altare e attorno a panche di legno stanno ad appassire rose un tempo bianche e un largo abito ornato torreggia nel suo candore di polvere su un manichino, al centro della camera che una volta apparteneva alla sposa che in realtà mai fu tale. Alcuni giurano di vederla ancora, malinconica o adirata, aggirarsi per quelle stanze che conservano il ricordo di un giorno felice che non le è mai appartenuto. Si racconta addirittura che lì qualche addetto alle pulizie è sparito senza lasciare traccia… Ma nonostante che da queste parti siamo piuttosto bravi a far circolare le leggende, credo che lo siamo altrettanto anche nell’arricchirle di particolari. Lo sposo disgraziato ha quasi del tutto perso la ragione, ma non ha abbandonato il suo ruolo. Potrebbe intercedere per voi… se vi sposerete allo scadere di undici giorni >>.
Evelyn rimase in silenzio per ben dieci minuti, fissando il fumo aleggiare sulla sua tazza piena. Improvvisamente l’idea di scatenare il putiferio alla Reggia e trascinare via Riley solo per poterlo punire con una consona violenza psicologica la allettava molto più dell’eventualità di sposarsi.
Quando sollevò lo sguardo, incontrando quello della zia fisso su di lei, si sentì in dovere di dire qualcosa.
<< Impazzire per amore, che sciocchezza. E dovrei affidarmi a un simile individuo, che probabilmente non stava bene neanche prima del fattaccio, e a una storia di dubbia veridicità? >>.
<< Non sei obbligata infatti; io non vedo per Riley questo rischio che vedi tu >>.
Evelyn smise di ascoltare e scattò verso la finestra, scostò le tende vermiglie e un lieve raggio indorato le illuminò flebilmente il viso.
Si volse verso Sebastian con il sole ancora sugli occhi.
<< Trova Rose e Dalia. Avete undici giorni per organizzare un matrimonio >>.

Si rese conto solo molto tempo dopo che Riley non aveva coinvolto nella sua malefica visione soltanto Alexander e che tutti erano stati eccellentemente bravi nell’attuare l’unico stratagemma che poteva spingerla a fare ciò che lui voleva: dirle di fare il contrario.
Non le servì adoperare tutto il suo senso dell’orientamento per trovare la strada che l’avrebbe condotta alla Reggia, giusto perché il modo di cacciarsi nei guai era sempre effettivamente l’unica cosa sempre a portata di mano.
Quando si ritrovò di fronte a uno svettante cancello di ferro battuto, con due lance puntate ai fianchi, le sue mani scattarono verso l’alto in un segno di resa per il quale dovette reprimere tutto il suo orgoglio, che non era poco, e impiegare tutto il suo buonsenso, che non era mai abbastanza.
<< Chiedo udienza presso Theodore Von Schauenstein >>.
I due non risposero. Quasi di volata s’incamminarono simultaneamente per il larghissimo viale che portava all’ingresso di quella che sembrava una torre dalle proporzioni sbagliate. Era incredibilmente alta ma non per questo esile, al contrario si allargava sulla superficie come una dilatata macchia scura.
La condussero per corridoi bui, senza averle chiesto di identificarsi e di questo Evelyn si compiacque non poco, giacché altrimenti la maschera di pizzo nero che indossava non sarebbe più servita a proteggere la sua identità.
Mentre osservava scorrere i fregi delle porte e le decorazioni divorate dal tempo, pensava solo a come avrebbe reagito Riley quando l’avrebbe vista.
Avevano imboccato l’ennesimo corridoio buio, identico a tutti i precedenti, salvo per qualche variazione nelle immagini raffigurate, bassorilievi e affreschi accostati in una strana maniera alquanto confusionaria, quando una delle porte che si aprivano ai lati si spalancò e ne uscì un tale alto e snello. Anche con quella scarsa luce i suoi scuri capelli lunghi e ondulati erano luminosi e i suoi occhi le spedivano lampi non del tutto amichevoli. Sbarrò loro la strada e si avvicinò per guardarla da vicino. Evelyn passò interminabili istanti a pentirsi del suo gesto sconsiderato e smise solo quando quello senza dire una parola proseguì oltre e anche la sua scorta riprese il cammino: proprio a proposito della sua scorta si chiese se bussando alle loro tempie qualcuno avrebbe risposto, ma optò per una risposta negativa. Laddove si trovava in quel momento doveva essere uno di quei posti in cui il rango e la posizione sociale avevano il potere di serrare la bocca o permettere di parlare a sproposito.
Alla fine dell’ennesimo corridoio stava una massiccia porta lignea, sorvegliata. Evelyn raddrizzò lievemente la schiena e involontariamente sollevò un sopracciglio; l’uomo che stava di guardia non le piacque sin dal primo istante. Aveva un aspetto brutale e un’espressione inumana.
<< Restate qui >> intimò dopo averle fatto scivolare addosso uno sguardo poco decifrabile ma di certo non gradevole. I due che l’avevano accompagnata si disposero lateralmente rispetto alla soglia, con la lancia perpendicolare al corpo: evidentemente il loro tragitto si arrestava lì.
Non riuscì a vedere nulla oltre l’uscio ma udì chiaramente lo scambio di battute.
<< Mio signore, una giovane donna chiede udienza presso di voi >>.
<< Sono già in udienza >> rispose qualcuno, a dir poco spazientito.
<< Non mi offenderò se la fate accomodare >> aggiunse un’altra voce, che pareva priva di una vera e propria intonazione; aveva piuttosto la cadenza di quelle frasi istintive, pronunciate troppo velocemente e troppo poco consapevolmente.
Evelyn si morse le labbra.
Aveva riconosciuto chiaramente la voce di Riley. L’avrebbe riconosciuta dappertutto, anche nel frastuono più infernale.
Non era però riuscita a cogliervi nessuna emozione.
Non sapeva cosa avrebbe letto sul viso di Riley quando avrebbe oltrepassato quella porta. Con uno stupore indescrivibile, pensò che avrebbe preferito patire quell’attesa nell’anticamera di uno studio medico. Ma nessuno si decideva a uscire, a darle un segnale. Nessuno parlava all’interno di quella sala che si era già disegnata nella sua testa, enorme e opprimente. Forse erano passati soltanto pochi istanti, ma lei aveva perso la capacità di misurare il tempo che scorreva.
Non riusciva più a distinguere l’impazienza dal timore.
Fu così che un istante prima aveva le dita sui lembi della maschera e l’istante dopo l’aveva stritolata con la mano, che aveva portato dietro la schiena fino a nasconderla del tutto a chi le stava davanti. Solo le guardie dietro di lei avrebbero potuto vederla, ma la porta si era già richiusa alle sue spalle, come se qualcuno ancora una volta volesse enfatizzare una qualche circostanza della sua vita. In quel caso la circostanza che non poteva più lasciare la sala dove aveva scriteriatamente fatto irruzione, e che non le rimaneva altro da fare che continuare ad avanzare, preda di sguardi stupiti da tanta irriverenza.
L’ambiente era esteso, oltre che in maniera smisurata in larghezza, anche in altezza e la fonte di luce principale erano le finestre a sesto acuto situate nella parte più alta della cupola aguzza che sovrastava la sala. Quest’ultima sembrava ancora più smisurata per il fatto che il mobilio era costituito semplicemente da un tappeto sciupato che ospitava parecchie poltrone disposte a casaccio. A quel punto Evelyn spontaneamente si chiese se il mobilio della Reggia invecchiasse inesorabilmente con i suoi dimoranti, con il vantaggio di questi ultimi almeno di non sprofondare sotto una coltre di polvere.
Evelyn si disse che per qualche motivo non sarebbe più riuscita a dimenticare la visione di quella sala.
Le mura apparivano ancor più distanti tra loro anche poiché la luce era scarsissima e sembrava sparire nel nulla prima di raggiungere le pareti, che erano invisibili o troppo distanti.
Era come se il bagliore che penetrava dalle altissime finestre sprofondasse con violenza verso il centro della sala e vi rimanesse schiacciato da una forza misteriosa, senza riuscire a oltrepassare un ostacolo immaginario che girava in tondo, di là da del quale, grazie a un riverbero di luce che assurdamente riappariva oltre l’oscurità, erano tuttavia visibili file di archi a sesto acuto e colonne affilate che rendevano incalcolabile la vera estensione dello spazio.
Non ebbe abbastanza tempo per indagare su quei giochi di luce. Si sentì in dovere di spostare lo sguardo sui presenti: una decina di persone rimaste dopo che il suo annunciatore sparì serrando la porta.
Una di queste ovviamente era Riley, seduto compostamente su una delle poltrone.
Il suo viso le parve più pallido e bello del solito, ma quando incrociò il suo sguardo notò che i suoi occhi, solitamente di un verde cristallo, avevano mille sfumature più scure che lei non aveva mai visto prima.
Mentre percorreva i corridoi che l’avevano condotta lì, nonostante qualche lampo di perplessità, era stata sicura e decisa come poche altre volte nella sua vita. Anche quando aveva oltrepassato d’istinto la soglia di quella sala, finendo vittima di occhiate micidiali che forse avrebbero potuto addirittura ferirle la pelle, si era irrigidita, ma non aveva titubato.
Soltanto lui era stato capace di far crollare buona parte della sua certezza e insolenza. Avrebbe preferito vedere nella sua espressione qualunque altra cosa: disapprovazione, preoccupazione, anche biasimo… ma quell’apatia l’aveva colpita spietatamente. Cercando di ignorare quella stilettata continuò a fissarlo imperterrita ancora per un momento.
Sei stato tu a volerlo, pensò senza distogliere lo sguardo.
Finché non lo vide sorridere.
Evelyn assottigliò lo sguardo, pronta a piantare i suoi occhi più truci su quello che presto avrebbe esplicitamente definito suo futuro consorte, ma un colpo secco alle sue spalle la costrinse a interrompere il contatto visivo.
Theodore Von Schauenstein doveva essere stato un uomo avvenente come pochi altri, pensò Evelyn quando per la prima volta lo guardò. Tra tutti lo riconobbe senza alcuna difficoltà come lo sposo infelice di cui aveva sentito narrare: c’era l’ombra dell’infelicità e del dolore sul suo volto, che seppur rimanendo invariato aveva perso la sua bellezza da quel giorno sventurato.
L’uomo fece un altro passo e batté ancora una volta le mani.
<< Finalmente >> esclamò abbassando le mani e chinando impercettibilmente il capo, << ho l’onore di conoscervi, Evelyn DeMordrey >>.
Lei incrociò le gambe con un movimento aggraziato, chinò di poco la schiena e ruotò i polsi, poi sorrise.
<< Un inchino tanto elegante quanto sfrontato. Un bel temperamento, senza dubbio, i miei complimenti Riley, te n’è servito di tempo per trovare pane per i tuoi denti, ma meglio tardi che mai >> disse un altro, senza scomodarsi dal suo posto a sedere.
<< Queste frasi fatte, Heinrich, sono inopportune per un erudito come te >> rispose Riley.
L’altro tacque, ma Evelyn non si accertò se si fosse offeso o no.
<< Anche piuttosto bella devo ammettere, ora mi stupisco un po’ meno del tafferuglio di cui è stata causa >> aggiunse un’altra voce.
Il verso sprezzante di Theodore troncò ogni suono.
<< Le donne… >> sibilò, prendendo ad avanzare verso l’unica siffatta presente nella sala.
<< … l’origine delle disgrazie degli uomini >>.
<< E l’unica fonte dei vostri piaceri >> aggiunse lei, agitando l’indice della mano e pensando che per il momento non era il caso di chiedersi da dove venisse tutta quella sua impudenza.
Theodore serrò il pugno in aria, come a stringere qualcosa che soltanto lui poteva vedere.
<< Perché siete qui? >> si azzardò a chiedere qualcuno che si era alzato dalla poltrona che occupava.

A quelle parole Riley fissò gli occhi su Evelyn, ricordando di essersi posto la stessa identica domanda tempo prima, quando era stato necessario porla sotto una sorveglianza e una protezione più strette, trasferendola a Landry. Quel giorno in cui si erano conosciuti, mentre gli sedeva accanto nell’abitacolo della jeep, completamente zuppa e adirata, si era detto che la sua presenza in quel luogo era la cosa più sbagliata che ci fosse. Aveva temuto sin dal primo istante, ma non solo per l’incolumità di lei, più egoisticamente aveva avuto paura di come sicuramente avrebbe stravolto un equilibrio già troppo fragile.
L’immagine di come gli era apparsa allora era ancora chiarissima nella sua mente e gli era difficile confrontarla con ciò che vedeva, guardandola in quel momento. Era sempre lei, ma senza quella armatura di falsità che una volta aveva addosso, ma che aveva ormai abbandonato da tempo.
A volte si era detto che Evelyn doveva ritenersi troppo preziosa per mostrare la vera lei a qualcuno che non riteneva meritevole delle sue attenzioni, se costui non aveva mai compiuto un gesto senza riserve nei suoi confronti, e solo chi le stava accanto nei momenti meno consueti aveva la possibilità di cogliere quell’imbroglio di ordinarietà che lei costruiva.
Bella e altezzosa, non abbandonava la sua postazione e continuava a ricambiare gli sguardi di Theodore. Vestiva interamente di nero, dagli stivali alti al corpetto strettissimo, e aveva i lunghissimi capelli sciolti sulle spalle.
Riley non riuscì a reprimere un sentimento di esultanza: la situazione in cui si trovavano era piuttosto infelice, ma se quello era l’unico modo per legarla indissolubilmente a sé, non se ne pentiva.
Evelyn era un’irresponsabile e lui, nonostante si fosse accorto che l’attaccamento di lei nei suoi confronti fosse molto più profondo di quel che dimostrava, aveva paura che un giorno si sarebbe allontanata. Anche se a vederla lì, a rischiare per lui, pensava che non si era soltanto illuso di aver visto negli occhi di lei la stessa luce che brillava nei suoi quando la guardava.
Sollevò un angolo della bocca e le lanciò uno di quei sorrisi che, anche se non l’avrebbe ammesso neanche con una scure pronta a calare sul suo collo, le provocavano un lieve fremito alle labbra e al petto, quando perdeva il completo controllo del respiro per qualche istante.
<< Ho ragione di credere che con mie nobilissime intenzioni ho partecipato a creare questa attuale circostanza, e che dunque lei sia qui per me. E’ a me che dovete rivolgervi >>.
Uno degli uomini che era rimasto in silenzio si alzò dalla poltrona, mentre Evelyn guardava Riley con un’espressione che conciliava assurdamente un sorriso malizioso e uno sguardo assassino.
<< L’amore, il più grande male di tuti i tempi >> esclamò l’uomo dopo aver sospirato pesantemente.
Era altissimo e aveva dei lineamenti marcati che anziché rovinargli la bellezza, la accentuavano.
<< Ma come faremmo senza… >> sussurrò Theodore pianissimo, come se non stesse rivolgendo a nessuno quella frase dal tono infinitamente triste.
<< E’ per questo che sono qui, io lo amo e devo portarlo via con me >> gli disse Evelyn, senza alzare troppo la voce, prendendo il suo bisbiglio come segnale del momento migliore per tentare. Si rese conto che era la prima volta che lo confessava a qualcuno.
Theodore smise di fissare il vuoto e la guardò, ridestandosi dai pensieri che lo avevano colto all’improvviso.
Evelyn pensò che quell’uomo così devastato non si intonava per nulla con il luogo a cui apparteneva. Un dolore simile esulava dalla vera a propria malvagità, che invece sembrava essere un tratto comune di tutte le schiere dei Ribelli.
<< Come faccio a credervi? Sono mortali le bugie delle donne >>.
<< Ci sposeremo >>.
Evelyn istintivamente cercò Riley e incrociò il suo sguardo, ma non lo guardò abbastanza a lungo per decifrare la sua espressione.
<< Tra undici giorni >> continuò, riportando gli occhi su Theodore.
Ormai il resto dei presenti nella sala aveva intuito fin troppo chiaramente le sue intenzioni e lei avvertì una vibrazione tutt’attorno.
Fulmineamente qualcuno le giunse alle spalle e la immobilizzò afferrandole i polsi e il collo.
Riley scattò verso di lei, ma anch’egli fu bloccato.
<< Come osate agire senza i miei ordini! >> gridò Theodore, serrando i pugni e spostandosi minacciosamente in avanti.
<< Non ho intenzione di farmi ingannare >> rispose qualcuno.
<< Vuoi metterti contro di me, Maximin? >>.
<< Riley Hylton e la figlia di William DeMordrey sono nelle nostre mani e non m’interessa che tu abbia intenzione di lasciarti raggirare, sei diventato un debole e non ritengo che tu possieda ancora l’autorità per dare ordini >>.
Theodore iniziò a ignorarlo ancor prima che potesse terminare la frase e si volse verso Evelyn.
<< Mostrami le prove >> le intimò.
<< Quali… >> sussurrò lei, ancora sotto la presa del suo sequestratore.
<< Lasciatela >> sibilò improvvisamente Riley. Si liberò senza alcuna difficoltà e in un attimo Evelyn si sentì afferrare e sottrarre dalle braccia di chi la stava trattenendo. Subito dopo Riley venne scaraventato a parecchia distanza da lei e in tutto ciò lei perse l’equilibrio e cadde.
Fu nello rialzarsi che avvertì un rumore inconfondibile, che conosceva benissimo, perché l’aveva accompagnata nel periodo sereno della sua vita, quando non trascorreva il suo tempo all’interno di una sala in penombra con dei folli violenti che volevano uccidere lei e il suo amato dalla mente delinquenziale, che aveva avuto l’illuminazione di escogitare piani fin troppo geniali per poterle mettere una anello al dito. Per un istante pensò alla piccola libreria della sua stanza ad Aberdeen e si accorse che niente in vita sua le era mai sembrato tanto lontano. Avvertì ancora il frusciare della carta quando estrasse il foglietto ripiegato dalla sua tasca.
Seppur stropicciato il biglietto conservava ancora la sua eleganza; la carta era di un bianco chiarissimo, quasi luminoso, e in una grafia elaborata erano scritte le classiche parole.
Evelyn non ebbe il tempo di chiedersi quale dei complici di Riley gliel’avesse messo in tasca. Fece leva su una mano e si rialzò velocemente. Si avvicinò a Theodore, che sembrava aver aspettato un suo gesto fino a quel momento, e gli porse l’invito.
<< Le prove >> gli disse, guardando prima lui e poi Riley che colpiva con un calcio poderoso il petto del suo avversario, mentre un altro sopraggiungeva alle sue spalle.
<< Maximin! >> gridò Theodore.
Maximin, che era finito per terra, lo guardò adirato.
<< Io sto con loro >> continuò Theodore in tono glaciale, lanciandogli un ultimo appello. La sua compostezza era invidiabile.
<< Allora morirai con loro >> rispose quello a un soffio dal suo viso.
Evelyn non aveva percepito il movimento fulmineo con cui si era spostato, ma fu altrettanto veloce a scagliarsi contro di lui. Gli afferrò il collo con una mano e con l’altra bloccò quella di lui che si dirigeva verso il suo viso. L’avversario avanzò con una gamba e lei dovette piegarsi per sostenere la sua forza, che era troppa in confronto alla sua. Si lasciò cadere all’indietro per non lasciarsi ferire e lo trascinò con sé. Finirono entrambi sul pavimento di marmo. Maximin la sovrastava e lei era certa di non poter competere con una tale potenza.
<< Lasciamo >> ringhiò.
La mano che le stringeva il collo scattò all’indietro e lei riuscì a spingerlo abbastanza lontano da potersi rialzare.
Subito avvertì una presa salda attorno ai fianchi e girando il volto si ritrovò a un soffio dalle labbra di Riley. I suoi occhi verdi erano tornati limpidi e riflettevano tutto il suo divertimento.
Theodore era accanto a loro e gli latri li avevano accerchiati, ma rimanevano immobili.
Evelyn pensò che stessero ponderando prima di attaccare, ma poi intravide un movimento al di là di coloro che li circondavano - dove tuttavia non c’era nessuno - poi un altro e un altro ancora.
Si accorse che i loro nemici si erano disposti circolarmente ai margini del cerchio di luce al centro della stanza, oltre il quale calava il buio.
Solo allora, improvvisamente, capì di che cosa si trattasse in realtà.
La luce riappariva oltre il cerchio, come se questo la coprisse completamente… o fosse incapace di rifletterla.
Come poteva rispecchiare la luce qualcosa che ne era l’esatto opposto?
Evelyn si allontanò poco da Riley e si ritrovò a sorridere.
<< Chi non muore si rivede >>.
<< Non possono morire >> rispose Theodore, lentamente.
Volute di fumo nero si muovevano attorno a loro, disegnando nell’aria linee contorte e ricami oscuri e ben presto la compattezza del cerchio scuro si dissolse e sparì. Si delinearono sagome umane, senza volto e senza altra sfumatura che non fosse il colore della notte più profonda.
<< Corri >>.
Sentì la voce di Riley quando già le sue gambe si stavano muovendo.
Theodore li precedette e spalancò la porta. La oltrepassarono e iniziarono a correre per i corridoi con alle calcagna un’orda di ombre.

Dopo poco Theodore deviò la direzione verso una botola laterale piuttosto stretta e buia che li fece precipitare in un ambiente buio e umido. Evelyn piegò le ginocchia ma cadde in avanti e avvertì una fitta di dolore percorrerle le gambe e una sensazione di déjà-vu esploderle in testa.
<< Fin troppo familiare >> mormorò quasi ridendo.
Riley le prese una mano ma lei la ritrasse bruscamente.
<< Non ho intenzione di trattarti in nessun altro modo che non sia intensamente ostile >> gli disse mentre riprendevano a correre alle spalle di Theodore, certi che li avrebbe condotti fuori, o che almeno ci avrebbe provato.
La risata di Riley era a regola d'arte come sempre, anche se stavano letteralmente sfrecciando.
 << Non parlare così in sua presenza, potrebbe cambiare istantaneamente idea >> disse più seriamente, spostando gli occhi sulla loro guida.
<< Allora toccherà a te salvare la vita a entrambi, giacché sei anche responsabile di averla messa a rischio >>.
<< Non l’avrei mai fatto. Era ovvio che non saremmo usciti dalla porta principale >>.
<< Quindi la fuga per le catacombe era prevista? >>.
<< Credevo che le catacombe ti piacessero >>.
<< L’ultima volta mi hai invitato al ballo in un cimitero, adesso mi chiederai di sposarti nelle cripte? >>.
<< Ti chiederò di sposarmi ovunque vorrai >>.
<< Molto onesto da parte tua, soprattutto perché sono già vincolata a tale promessa >>.
Riley la afferrò, un attimo prima che si schiantasse contro un’inferriata.
<< Quando polemizzi devi ricordarti comunque di guardare dove metti i piedi >>.
In quel momento Theodore spalancò un cancello arrugginito producendo un rumore agghiacciante, poi si fece da parte incitandoli a passare.
Quando Evelyn si allontanò dalla soglia vide che Riley si era fermato appena fuori da essa.
<< Io mi fermo qui >> annunciò Theodore.
<< Ci rivedremo tra undici giorni >>.
<< Lo spero per voi >>.
<< Sono sempre fedele alle mie promesse >>.
<< E lei? >>.
<< Anch’io non manco mai alle mie promesse >> intervenne Evelyn.
<< Vuol dire che siete una persona molto leale? >>.
<< No, vuol dire che non prometto mai, ma stavolta l’ho fatto e non intendo essere sleale >>.
<< Io confido anche nella vostra onestà >> aggiunse Riley.
<< Sarò presente all’evento con tutti gli ostaggi di cui abbiamo stabilito il rilascio. Arrivederci signori >>.
Theodore sparì sollevando una scia di polvere ed Evelyn indietreggiò disgustata prima che questa potesse sporcarle i pantaloni attillati.
Riley fece per dire qualcosa ma lei lo bloccò.
<< Non hai il diritto di rivolgermi la parola fino a data da destinarsi >>.

Giunsero all’uscita dei cunicoli sotterranei dopo un’ora o poco più e si ritrovarono nel fitto del bosco. Proseguirono fino a Landry in silenzio. L’ira di Evelyn aumentava a ogni sorriso che Riley le lanciava, ogni volta che lo guardava di sbieco, o a volte si azzardava anche a ridere, quando il suo sguardo si faceva troppo minaccioso, ma cercava di esaudire la sue richiesta di non parlarle, anche se di tanto in tanto emetteva dei mezzi sospiri, come se soffocasse le parole che involontariamente gli veniva voglia di dire.
Riley in realtà non sembrava troppo preoccupato, troppo convinto che quando il risentimento di Evelyn sarebbe svanito lei avrebbe ritenuto abbastanza impegnativa la sua proposta di matrimonio, implicita nello stratagemma che era altrettanto degno di riguardo, e avrebbe così decretato che si era arditamente guadagnato il suo diritto alle nozze.

Evelyn passò qualche giorno senza parlare molto con nessuno, ma la guerra continuava a imperversare e in ogni battaglia lei lasciava parte della sua collera. Nel frattempo seguiva i preparativi del matrimonio senza troppo impegno, delegando ogni compito a tutti i complici di Riley che perdonava, anche se nessuno aveva davvero preso sul serio il suo rancore, e nemmeno lei in realtà era intenzionata a rimanere arrabbiata, ma era l’unico modo che aveva per coprire la sua malinconia, la vera causa dei suoi pochi sorrisi.
L’abbattimento che l’aveva colpita iniziò a svanire proprio pochi giorni prima della cerimonia per cui tanto si era preoccupata e al cui confronto svaniva anche l’importanza del matrimonio.
Il funerale si sarebbe tenuto ad Aberdeen e lei aveva insistito per accompagnare Josephine e i pochi altri che avrebbero potuto lasciare Landry. Qualcuno aveva tentato di dissuaderla. Sophie per esempio aveva sostenuto che la sua presenza sarebbe stata indispensabile in battaglia, soprattutto per compensare la mancanza di Riley, ma Evelyn le aveva spiegato che partecipare al suo funerale non sarebbe stato traumatico come lei invece credeva. Non era riuscita a dirle che sentiva il bisogno di tornare a casa sua, dalla sua famiglia, perché presto non le sarebbero più appartenute e lei doveva dire addio.

<< Niente commenti >> sentenziò Evelyn, lasciandosi cadere sul divano del salotto di Josephine.
<< Davvero? >> chiese Sophie.
<< Perché ti stupisce che qualcuno non voglia parlare del suo funerale? >> intervenne Alexander.
<< Come volete, non c’è poi molto da commentare e ci sono incombenze ben più importanti >>.
Si alzò e porse le mani a Evelyn, la quale le guardò prima interdetta e poi esasperata.
<< Non se ne parla. L’ho già provato, è perfetto. La prossima volta che lo indosserò sarà anche l’ultima >>.
<< Soltanto un’ultima prova! >>.
<< Lasciala in pace Sof, Ev deve riposare >> intercedette Alexander.
<< Grazie >> sussurrò Evelyn con un sorriso.
Corse su per le scale e camminò spedita per il corridoio, verso la sua stanza.
Riley era appoggiato con le spalle al muro e le braccia incrociate sul petto.
Inclinò la testa e sorrise.
A lei sembrò mortalmente stanco e non se ne stupì. Erano successe troppe cose in troppo poco tempo e anche lei sentiva la testa troppo pesante.
<< Non siamo certo nella nostra forma migliore, ti sembra il caso di sposarci così? >> gli disse avvicinandosi.
<< E’ colpa tua se ci siamo ritrovati in tutto questo. Io non ti stavo cercando >>.
<< Tu non stavi cercando nessuno. E’ per questo che sono entrata nella tua vita, si può avere qualcosa solo quando non si vuole >>.
<< Ma io ti volevo. Ti ho voluto dalla prima volta che abbiamo litigato >>.
Evelyn abbassò lo sguardo e Riley le sollevò il mento, convinto che volesse nascondere un sorriso, ma i suoi occhi scuri erano lucidi.
<< Sei felice? >>.
Lei sembrò formulare la risposta e stupirsene immensamente, come se fino a quel momento non se ne fosse accorta veramente.

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Epilogo ***


33. Epilogo


Quella mattina, seppur per poco tempo, era apparso il sole.
Si era mostrato all’interno di un piccolo spiraglio tra i ricami delle nuvole, e nessuno aveva voluto perdersi quello spettacolo raro.
Lo aveva visto Josephine, da una finestra dell’enorme sala da pranzo addobbata per l’occasione. Sebastian l’aveva raggiunta poco dopo e lei aveva subito sentenziato che il nodo del suo fazzoletto era fatto male.
Lo avevano visto Rose e Dalia, quando, dopo aver portato a termine i loro incarichi, stavano percorrendo il corridoio per raggiungere la loro stanze e indossare anche loro un elegante abito per la cerimonia.
Lo avevano visto Matt e Colin, che erano stati tra i primi a essere pronti e adesso attendevano su un divano in compagnia di Vincent e Tristan, costringendoli a sciorinare tutte le ultime storie dal fronte.
Lo aveva visto Cedric, dalla finestra della camera di Margareth, mentre attendeva sfogliando un libro che lei fosse pronta.
Lo aveva visto Harvey, attraverso la porta spalancata dell’atrio, aspettando che Christopher scendesse le scale. Sembrava metterci un’eternità. In realtà era quasi del tutto guarito, grazie a quelle miracolose punture, ma continuava a comportarsi da moribondo e a pretendere attenzioni, probabilmente perché nessuno gliele negava.
Lo aveva visto Karl, seduto su una panchina del giardino, con una rosa in mano, lo sguardo rivolto a Sophie che scendeva le scale di pietra con una leggiadria straordinaria.
Lo aveva visto Anton, dal finestrino dell’auto, mentre guidava verso Landry.
Lo aveva visto Theodore, particolarmente nervoso quella mattina, ma anche allegro. Che qualcun altro avesse qualcosa che lui aveva perso lo riempiva in parte di quella gioia che non aveva potuto avere piuttosto che di invidia.
Lo aveva visto Maryan, mentre chiudeva a chiave la porta della bottega, ancora semidistrutta.
Lo aveva visto padre Tim, mentre ripassava il bel discorso che aveva preparato per gli sposi.
Lo aveva visto Lisa, oltre le tende appena scostate, seduta sulla sponda del letto a stringere con le mani la stoffa della vestaglia, mordendosi a sangue le labbra. Davanti a lei, appeso a un’anta aperta dell’armadio, c’era un bel vestito azzurro da cerimonia, ma lei non sapeva ancora se lo avrebbe indossato e sarebbe uscita dalla porta.
Lo avevano visto in casa Mcgrath, ad Aberdeen, dalle vetrate della cucina, seduti a tavola. Guardavano spesso quella sedia vuota e quel piatto che mancava e si ripetevano che non sarebbero mai riusciti a dimenticare quel pezzo che mancava.
Lo aveva visto Alexander, dalla finestra della sua camera da letto, staccando solo per un momento gli occhi dallo specchio che rifletteva la sua bella figura avvolta dall’abito elegante.
Quando aveva riportato gli occhi sullo specchio la porta si era spalancata e Riley era entrato di fretta.
<< Per caso l’hai vista? >>.

Evelyn non si era avvicinata a nessuna finestra, ma aveva notato la sfumatura più chiara del solito che colorava ogni cosa.
Quella volta on aveva bisogno di vedere il sole a Landry e nessun altro presagio per sapere che ciò che era stato non era più. Tutto quel che il passato le aveva riservato era un ricordo che era determinata a custodire, ma in quel momento non c’era spazio per pensieri troppo profondi nella sua testa.
Il riflesso di una giovane ragazza avvolta in un abito dal bianco quasi abbagliante continuava a rigirarsi all’interno dello specchio.
Evelyn aveva sempre avuto un debole per i bei vestiti, i suoi occhi si illuminavano di fronte a trine e merletti, ma quella volta la sarta, che si era presentata a casa di Josephine con un’espressione a metà tra l’afflizione e la combattività, aveva auto un lavoro tanto semplice da stupirsene non poco.
L’abito indossato dalla figura nello specchio aveva maniche lunghe e una gonna non troppo larga, leggermente scollato sulle spalle. Solo la pelle chiara del collo rimaneva completamente scoperta, mostrando qualche macchia più scura, ricordo di qualche ferita che solo il tempo un giorno avrebbe portato via.
Evelyn continuava a giocherellare con la mano con l’estremità di un nastro che, intrecciandosi con un altro, chiudeva il corpetto sulla schiena.
Il nastro era blu, come un vestito che aveva indossato da bambina a un ricevimento di famiglia. Ricordava di essersi innamorata di quell’abito e di essersi rifiutata di indossare altro per giorni e giorni, rimirandosi in ogni singola superficie riflettente che incontrava, finché non lo aveva abbandonato in un armadio dismesso della soffitta di casa sua, ad Aberdeen, dov’era ancora, ma senza un nastro, che aveva preso di nascosto il giorno del suo funerale.

Christopher scoppiò a ridere.
<< Non è possibile che le preghiere di Lisa siano state esaudite >>.
<< Io mi ritengo offeso. Se voleva scappare doveva chiedere aiuto a me >> borbottò Alexander.
<< Visto i risultati dell’ultima volta che avete sabotato un matrimonio, credo di no >> gli rispose Cedric.
<< Io non mi ero mai divertito tanto >> disse Harvey, ma la sua voce venne sovrastata da un abbaiare furioso. << Tenetelo! >> gridò, << non posso neanche aprir bocca in sua presenza >>.
<< Buono Brak >>. Riley rise e trattenne il cane continuando ad accarezzarlo.
In quel momento Karl entrò nel salone inciampando in un tavolino.
<< Che notizie? >> gli chiese Sebastian, senza ottenere una risposta per parecchi minuti.
<< Karl dovrei essere io quello in stato confusionale, non rubarmi in ruolo >>. Gli disse Riley.
<< Che stato dovrei rubare? >> rispose quello.
<< Spero che Sophie non sia in queste tue stesse condizioni >> esordì Tristan.
<< E perché mai? >> esclamò Karl.
Tristan rise e non disse nient’altro, pensando che fosse meglio non infierire ulteriormente sulla confusione dell’amico, che perseverava nella dimostrazione della suddetta.
<< Sei sicuro che in camera sua non c’era? >>.
Riley tornò a fissarlo.
<< Stai mettendo in dubbio le mie qualità visive? >>.
<< Basta così >> sentenziò improvvisamente Alexander, << noi ce ne andiamo, tu pensa a trovarla, vi aspettiamo in chiesa >>.

In realtà Riley non aveva temuto nemmeno per un istante che la sposa fosse scappata. Nemmeno quando, correndo il rischio di beccarsi in testa una scarpa di Sophie, che gli aveva intimato di stare alla larga, entrando in camera di Evelyn aveva trovato soltanto un nastro sul pavimento, di fronte allo specchio, dove invece doveva esserci lei, a guardarsi un’ultima volta prima di uscire.
Riley conosceva benissimo la provenienza di quel pezzetto di stoffa stretto e lungo. L’aveva vista sparire per poco tempo, subito dopo il funerale, ma non si era azzardato a seguirla, certo che qualunque cosa lei volesse fare era intima e delicata come un addio.
Evelyn aveva portato con sé un pezzo tangibile dei suoi ricordi, frammenti di vita da perdere e ritrovare.
Lui non aveva visto l’abito da sposa, ma era sicuro che il nastro vi apparteneva e che Evelyn lo aveva rimosso senza pensarci bene. Voleva conservare i suoi ricordi, ma era già abbastanza difficile fare i conti con il presente e non c’era sempre spazio anche per il passato.

Non soffiava neanche il più impercettibile alito di vento mentre Evelyn continuava a camminare, piano, quasi svogliatamente.
Un’altra onda sospinse acqua e schiuma vicino all’orlo del suo abito, ma lei stavolta non ebbe voglia di indietreggiare.
Avvertì prima una stretta al polso e poi calore alla schiena e alla gola.
<< Hai perso qualcosa >> le sussurrò Riley sul collo, trascinandola lontano dalla riva e trattenendola contro il suo corpo.
Evelyn gli sfilò dalla mano il nastro blu e lo guardò per un istante, poi si voltò e piantò gli occhi in quelli di lui.
<< Pensavi che fossi andata via? >>.
<< No, ma ti avrei comunque riportato indietro >>.
<< Sicuro? >>.
<< Non l’ho sempre fatto? >>.
<< Dovrai farlo per il resto dei tuoi giorni, se oggi arriviamo fino a quell’altare >>.
<< Finché morte non ci separi >>.
Riley la strinse e lei chiuse gli occhi. Non vide più nulla e perse coscienza di ogni cosa. Rimase soltanto la consapevolezza delle braccia di Riley intorno a lei, del suo respiro tra i capelli, del sorriso di lui che, al contrario del suo, non spariva quasi mai.
Evelyn non riusciva a immaginare il futuro e il suo passato non era stato una favola, ma in uno dei pochi slanci di ottimismo della sua vita, volle credere al “per sempre”.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1046847