The truth beneath the shadows di Ell Emerson (/viewuser.php?uid=189794)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Il buongiorno si vede dal mattino ***
Capitolo 2: *** L'ombra ***
Capitolo 3: *** Una ragazza disillusa ***
Capitolo 4: *** Un buon inizio - Riley ***
Capitolo 5: *** La città buia - Incidente ***
Capitolo 6: *** Finalmente a casa ***
Capitolo 7: *** Ci siamo già visti? - Incompatibilità ***
Capitolo 8: *** Zia Josephine - Il corridoio dei ritratti ***
Capitolo 9: *** Vecchie amiche ritornano ***
Capitolo 10: *** Il fedele destriero ***
Capitolo 11: *** Grisham, pensieri e una campionessa... ***
Capitolo 12: *** Quando il gatto non c'è ***
Capitolo 13: *** Il ritorno delle ombre ***
Capitolo 14: *** Di rose e di marmo ***
Capitolo 15: *** Una goccia di verità ***
Capitolo 16: *** Dopo Ginevra e Francesca ***
Capitolo 17: *** Stallo ***
Capitolo 18: *** Il Cavaliere e la sua Dama ***
Capitolo 19: *** Carpe diem ***
Capitolo 20: *** Come sale su una ferita ***
Capitolo 21: *** Tradimento ***
Capitolo 22: *** Di matrimoni e altre storie ***
Capitolo 23: *** Ardente come fuoco ***
Capitolo 24: *** Sogni e incubi ***
Capitolo 25: *** La fitta di un ricordo ***
Capitolo 26: *** In un angolo di mondo ***
Capitolo 27: *** Sconosciuta ***
Capitolo 28: *** Cerchio d'ombra ***
Capitolo 29: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo - Il buongiorno si vede dal mattino ***
THE TRUTH BENEATH THE
SHADOWS
PROLOGO
La porta
batté tanto forte che la cornice appesavi accanto cadde per
terra frantumandosi. Evelyn non si degnò nemmeno di
raccogliere la fotografia che la ritraeva insieme alla sua famiglia, il
giorno del suo diciassettesimo compleanno. L’avrebbe
volentieri bruciata in quel momento. Era finita, l’indomani
sarebbe partita e basta. “non
si discute” aveva detto suo padre pochi minuti
prima mentre lei, indignata, correva a barricarsi in camera sua.
La finestra
socchiusa era incredibilmente allettante, ma dove poteva andare? Non
aveva per niente voglia di vagabondare per la città.
Sarebbe
partita sì, ma avrebbe fatto le cose a modo suo.
Guardò
le valigie ancora vuote abbandonate in un angolo della stanza, ma non
aveva voglia di fare niente e si disse che ci avrebbe pensato la
mattina seguente svegliandosi presto.
Si
addormentò pensando alla tremenda estate che la aspettava.
Lontano dalla sua città e dai suoi amici, a prendere
ripetizioni di greco e matematica da quella sua zia (alquanto isterica
a detta dei suoi cugini che avevano avuto la fortuna di
incontrarla) che non aveva mai conosciuto.
1. IL BUON
GIORNO SI VEDE DAL MATTINO
Aprì
gli occhi infastidita dalla luce. Come sempre sua madre aveva
spalancato le tende ignorando che la cosa mandasse Evelyn su tutte le
furie. Guardò l’orologio sul comodino, segnava le
sette e cinque. Sbuffò e si seppellì sotto le
coperte.
Non
va bene, farò tardi… dovrei proprio
alzarmi.
Si
trascinò giù dal letto di malavoglia e
caracollò in bagno per lavarsi. Dopodiché si
vestì e sistemò le sue cose dentro le rispettive
borse senza neanche vedere che cosa stesse maneggiando. Scese di sotto,
salutò tutti e si accomodò sul sedile posteriore
della macchina, dove chiuse gli occhi solo per un minuto…
Non
va bene, farò tardi… dovrei proprio
alzarmi.
Spalancò
gli occhi tirandosi su… nel suo letto. Guardò
l’orologio. Le nove.
<<
Merda! >> esclamò mentre saltava
giù dal letto e sfrecciava verso il bagno.
La fase in cui
la mattina si sogna di prepararsi e adempiere i propri doveri, mentre
in realtà si è ancora comodamente a ronfare a
letto, era normalmente superata in terza o quarta elementare, ma
evidentemente lei era tardiva per quanto riguardava questa fase dello
sviluppo adolescenziale.
Quando alla
fine fu pronta e si osservò fugacemente allo specchio si
rese conto che non aveva per niente un bell’aspetto; i
capelli erano arruffati e informi ed in viso era tremendamente pallida
come sempre. Fu tentata di afferrare il borsello dei trucchi, ma doveva
ancora fare le valigie e dovette lasciar perdere.
Dato che le
avevano ripetuto circa una decina di volte che la misteriosa zia non
tollerava i ritardatari, prendersela comoda le sembrava un ottimo
presupposto per il suo piano, tuttavia cercò di fare ancora
più in fretta. Conoscendo suo padre sapeva benissimo che
alla dieci meno un minuto l’avrebbe trascinata in macchina,
anche se fosse stata in pigiama.
Alle dieci non
aveva ancora finito le valigie ed era forse ancora più
pallida di prima. Suo padre sbucò dalla soglia della porta
camminando a passo svelto e sicuro senza neanche bussare e le
augurò il buongiorno, poi afferrò quante
più valigie poteva e uscì come era entrato.
<< Chiamalo buongiorno! >> fu tutto quello
che riuscì a urlargli dietro Evelyn.
Si
precipitò giù nell’ampio atrio
rincontrando l’amato genitore che faceva dietro front per
andare a recuperare le valigie rimanenti, <<
Perché tutta questa fretta? Hai forse paura di pentirti e
ripensarci? >> gridò rivolta alle scale.
L’interessato passandole accanto le rivolse semplicemente un
sorriso ebete che Evelyn ebbe voglia di cancellargli a suon di schiaffi
dalla faccia << Sai che ti dico? Troppo tardi. Non vedo
l’ora di essere lontana da questo maledetto posto, dalla mia
isterica zia! >> continuò la ragazza.
Non si poteva
dire che fosse una che si teneva tutto dentro; e proprio in quel
momento stava fornendo prova della sua capacità di esternare
i suoi sentimenti e i suoi disagi con ogni genere
d’imprecazioni contro la sua famiglia e la sua sfortuna.
<<
Chi sarebbe l’isterica? >> esordì
suo zio comparendo all’ingresso, seguito da tutta la sua
famiglia che si era probabilmente appropinquata per salutarla e
augurarle una felice permanenza estiva a isteriavill. Evelyn li
fulminò con lo sguardo, << Già.
Direi che farete proprio una bella coppia tu e la zia Josephine
>> continuò suo cugino.
<<
Sta zitto Nick! >> lo aggredì la ragazza.
Il caso volle
che proprio in quel momento anche sua madre fosse di ritorno dalla
messa domenicale, accompagnata da nonne, zie e prozie. Dovevano aver
organizzato una festa in onore della sua dipartita.
Fortunatamente
suo padre aveva finito di caricare le sue cose sulla jeep.
<<
Se eravate venuti per salutarmi… >>
iniziò Evelyn rivolta ai parenti che iniziavano ad affollare
l’atrio di casa sua.
<<
Veramente siamo qui per festeggiare il novantasettesimo compleanno di
zia Giselle >> la interruppe suo cugino con un sorrisino
malefico e indicando una nonnetta decrepita che quattro dei suoi cugini
stavano tentando di issare su per le scale.
Neanche si
degnavano di scomodarsi per salutarla.
<<
Peccato, stavo per suggerirvi un posticino dove potevate ficcarvi i
vostri salut… >>
<<
Evelyn! >> la richiamò sua madre. In tutta
risposta la ragazza rivolse a tutti un sorriso sgargiante e finto senza
proferire parola e si fiondò in macchina.
Partì
così, senza salutare nessuno e con ancora quel nodo di
rabbia alla gola.
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Capitolo 2 *** L'ombra ***
2.L'OMBRA
Viaggiare
sulla jeep non le era mai dispiaciuto, soprattutto se a guidarla era
Anton, l’autista di suo padre. L’avrebbe
accompagnata lui fino a destinazione perché in
realtà era nato da quelle parti e in quel periodo
dell’anno andava sempre a trovare la sua famiglia. Era un
uomo sulla quarantina ed Evelyn aveva sempre apprezzato la sua
capacità di sopportare di buon grado le sue chiacchiere, ma
soprattutto di stare zitto quando non aveva voglia di parlare e voleva
sentire solo lo scivolare degli pneumatici sull’asfalto. Come
in quel momento.
Si
godeva la vista degli alberi che sfrecciavano oltre il finestrino
stravaccata sul sedile anteriore dell’automobile. Adorava i
boschi, le trasmettevano una sensazione di tranquillità, al
punto che dopo qualche ora trascorsa a fissare quelle macchie verdi
cadde in un sonno profondo.
Si
svegliò dopo qualche ora, forse infastidita dal dondolio
della nave. Era ancora in macchina, nel parcheggio del traghetto. Anton
doveva essere sceso. Guardò l’orologio del
cellulare e si rese conto che aveva dormito per quasi sette ore. Assurdo,
pensò mentre costatava che il suo autista doveva aver
guidato a una velocità folle per essere arrivati da Aberdeen
al porto in meno di dieci ore. Meglio
così, si disse alla fine infilandosi la felpa.
Aveva urgente bisogno di un caffè e di fare un salto in
bagno. Diede un’occhiata al sedile posteriore e nonostante la
scarsissima luce si accorse che le sue cose non c’erano,
quindi si chinò per sfilare le chiavi dal quadro della
macchina.
Fu
quando risollevò lo sguardo che si trovò davanti
una sagoma scura e sfocata in piedi proprio davanti alla
macchina… sussultò e si appiattì
contro lo schienale del sedile. Strinse le palpebre mentre il suo cuore
accelerava i battiti. Quando riaprì gli occhi davanti a lei
non c’era niente, si guardò intorno e vide solo
altre automobili.
Evelyn
non era una fifona, eppure il terrore l’aveva paralizzata per
un momento. << Sono ancora mezza addormentata
>> si disse a voce alta per riempire un po’
quel silenzio angosciante mentre un brivido le percorreva la schiena.
Scese
dall’auto e ne raggiunse il retro infilando le chiavi nella
toppa per aprire il cofano, prelevò la sua borsa a tracolla
e richiuse. Stava per avviarsi quando con la coda dell’occhio
nel finestrino di un’auto accanto a lei notò il
riflesso di una sagoma. La stessa di prima. Si voltò di
scatto… ovviamente non c’era.
Accelerò
il passo per arrivare prima alle scale e finalmente lasciare quel posto
buio e lugubre. Forse aveva accelerato troppo… dopo pochi
passi urtò qualcosa e se non ci fosse stata la
provvidenziale ringhiera delle scale dietro di lei sarebbe finita per
terra. << Tutto bene? >> disse una voce
maschile, probabilmente appartenente a colui che aveva investito,
mentre una mano si avvicinava alla sua spalla, la ragazza la
schivò con un gemito; << Scusami. Volevo
controllare che stessi bene >> disse quello ritraendosi.
<<
Sto bene grazie. Mi scusi se le sono finita addosso >>
rispose lei un attimo prima di allontanarsi velocemente. Non era
riuscita a vederlo in faccia con quella penombra, aveva notato solo che
era molto alto e aveva occhi chiari, ma non aveva importanza, era
impossibile che fosse la stessa persona che le aveva quasi fatto
prendere un infarto… primo perché era impossibile
che si fosse spostato così velocemente da una parte
all’altra del parcheggio, e secondo perché molto
probabilmente si era immaginata tutto quanto.
Quando
raggiunse i corridoi della nave il suo cuore riprese a battere
normalmente. Dopo essere passata dal bagno si diresse verso il bar e
ordinò il tanto bramato espresso nella speranza di evitare
altre sgradevoli allucinazioni.
Mentre
era ancora seduta su uno degli alti sgabelli del bancone si
sentì afferrare per una spalla; afferrargli la mano e
saltare giù dallo sgabello furono una cosa sola.
<< Caspita! Che riflessi. Fai kung fu o roba simile?
>>.
<<
Anton! >> esclamò Evelyn lasciando stare l’aggressore.
<<
E chi altri? >>.
<<
Già, chi altri. Scusa non ti ho fatto male vero?
>>.
Quello
guardò i segni rossi a forma di mezzaluna che gli erano
rimasti sulla mano, poi rise << Ti sembro un pappamolle?
>>.
La
ragazza sorrise << E comunque sono
un’autodidatta >>.
<<
Allora devo porgerti i miei complimenti, m’insegni qualche
mossa? >>.
<<
Quando vuoi >> rispose sempre sorridendo Evelyn.
Era
corsa sul pontile nella speranza di godersi la vista mozzafiato della
costa dell’Inghilterra che si allontanava e invece con
immensa delusione aveva costatato che diluviava e con la nebbia non si
vedeva a un palmo dal proprio naso. Così aveva trascorso il
resto della traversata su un divanetto a guardare le gocce che
scivolavano sulle finestre. Quella fu la prima volta che le dispiacque
la pioggia, solitamente la metteva di buon umore.
Tornarono
nel parcheggio solo quando la nave attraccò. Evelyn percorse
ogni angolo con lo sguardo mentre aspettavano che il portello si
aprisse per lasciarli scendere. << Hai perso qualcosa?
>> suonò dentro l’abitacolo la voce
di Anton.
<<
Come? >>.
<<
Non lo so, ti guardi intorno come se cercassi qualcosa >>.
Evelyn
fece una risatina nervosa << E che cosa dovrei cercare?
>>.
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Capitolo 3 *** Una ragazza disillusa ***
3.
UNA RAGAZZA DISILLUSA
Viaggiò
in macchina con Anton ancora per qualche ora, fino alla stazione
ferroviaria, da lì in poi lui avrebbe raggiunto Wexford con
la sua macchina e lei sarebbe salita su un treno per Landry.
Arrivarono
con due ore di anticipo.
<<
Sono già le nove Anton! Dovrai guidare di notte! Vattene, ho
diciassette anni e so badare a me stessa, anche se non capisco a cosa
dovrei badare giacché devo solo stare seduta su una panchina
per un’oretta >> riattaccò Evelyn.
Era
ormai da mezz’ora che cercava di convincerlo a ripartire.
<<
Appunto, è solo un’oretta, non credo che
apporterà sostanziali cambiamenti alla mia tabella di marcia
>> rispose quello imperterrito.
<<
Mangeranno la tua torta di benvenuto senza di te >>.
<<
Sopravvivrò >>.
Di
certo i presenti si stavano gustando la scena… dopotutto
è sempre interessante un conflitto di testardaggine
all’ultimo sangue.
<<
Ti facevo più intelligente, beh evidentemente mi sbagliavo
>> se ne uscì la ragazza
all’improvviso.
<<
Perché non sono abbastanza coscienzioso da salvaguardare la
mia torta? >>.
<<
Non sei divertente >>.
Anton
sbuffò << Non voglio trattarti come una
bambina Ev, ma lasciarti sola in una stazione straniera… non
lo so >>.
Ecco.
Colpita e affondata.
Tutti
la trattavano come una bambina.
<<
Non so se hai perso un po’ l’orientamento, ma ti
avviso che siamo ancora in Europa >>.
<<
Ormai l’hai presa come una sfida personale al tuo orgoglio
giusto? >>.
Evelyn
fece un verso di stizza << Ma che dici? >>.
Quello
sorrise << Quando al mondo troverò una persona
più testarda e orgogliosa di te ti farò un
fischio >>.
<<
Credo ti basterebbe uno specchio >>.
<<
Ah no! Ti lascio il primato, però promettimi…
>>
<<
Di non accettare le caramelle dagli sconosciuti >>.
Anton
rise << …Prometti di chiamare a casa subito
appena arrivi. E sì, anche di non parlare con gli
sconosciuti >>.
<<
Affare fatto >>. Si salutarono con un abbraccio e un
“mangia una fetta di torta anche per me”, poi
Evelyn si cercò un posto su una panchina mentre
s’infilava anche il cappotto per il freddo.
L’attesa
non fu sgradevole. Evelyn aveva sempre gradito starsene in un angolo a
osservare i comportamenti della gente…Vecchietti che
leggevano il giornale soffermandosi ossessivamente sulla stessa pagina
per minuti e minuti, un ragazzo che salutava l’innamorata con
un bacio appassionato mentre una lacrima di tristezza rigava il viso di
lei, mamme che stringevano convulsamente le mani dei loro bambini per
paura di perderli tra la folla, amici che si salutavano con un
abbraccio e nascondevano dietro una battuta e una risata la tristezza
di un addio… Sì, decisamente le piaceva guardare
da fuori la gente. Rendersi invisibile e cercare di capire che cosa
passava per la testa alle persone che aveva intorno. Era anche
piuttosto brava… Forse quei vecchietti non leggevano
realmente, ma avevano bisogno di distrarsi dalla troppa
vitalità che li circondava, sentendosi ormai troppo distanti
da essa. Forse quella ragazza innamorata non piangeva perché
avvertiva già la mancanza del suo fidanzato, ma sapeva che
la lontananza non li avrebbe separati solo fisicamente. Forse quelle
madri erano terrorizzate dalle circostanti rotaie piuttosto che dalla
folla… E gli amici? Probabilmente non avevano alcuna
tristezza da nascondere; era da un po’ che Evelyn aveva
smesso di credere alla vera amicizia… ma
d’altronde non aveva mai creduto nemmeno nell’amore.
Il
viaggio in treno fu lungo, ma meno stressante di quanto aveva
immaginato. Non era mai andata da nessuna parte senza avere con
sé un sostanzioso bottino di libri per ammazzare il tempo, e
quando aveva sentito gli occhi troppo stanchi aveva scoperto la
piacevolissima sensazione di guardare fuori dal finestrino con le
cuffie nelle orecchie e la musica del lettore mp3 a tutto volume.
Quando
però la distanza tra lei e quello sperduto paesino sulle
coste irlandesi diminuì sempre più
iniziò ad avvertire una sorta di vuoto allo stomaco e
sentì l’aria farsi più difficile da
respirare. Un misto di paura e impazienza allo stesso tempo. Che mi prende? Si
chiese da sola, stupita. Non era mai stata ansiosa, né aveva
mai avuto paura di deludere le aspettative altrui, eppure quei pochi
kilometri verso l’incognito la stavano uccidendo. Per che cosa dovrei essere
ansiosa poi? Per una noiosa estate da sopportare? Si disse
per tranquillizzarsi. Solo in futuro si sarebbe resa conto di quanto si
fosse sbagliata a prospettare noiosa quell’estate.
Salve
a tutti!
Innanzi
tutto volevo ringraziare di cuore tutti coloro che si sono sciroppati
la mia storia fin qui, davvero compimenti per il coraggio. Questi primi
capitoli potrebbero risultare un po’ noiosi e monotoni, ma mi
erano indispensabili per presentare bene la protagonista. Da adesso in
poi la storia sarà più
“frizzante”. Spero davvero che la apprezziate tanto
quanto io mi sono divertita a scriverla.
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Capitolo 4 *** Un buon inizio - Riley ***
4. UN BUON
INIZIO
Quando
il treno si fermò e si preparò a scendere Evelyn
prospettò di trovarsi davanti un tizio allampanato che
reggeva un cartello recante il suo nome o qualcosa del genere.
Così quando scese si diede da fare per individuare qualcosa
che somigliasse a un allampanato con un rettangolo bianco in mano nella
speranza di trovarlo in fretta, visto che si stava praticamente
inzuppando con quel diluvio che la sua sfortuna aveva fatto venir
giù appositamente per l’occasione.
Dopo
mezz’ora la fermata si era svuotata.
A
mezzogiorno era rimasta solo lei e il custode che stava chiudendo la
biglietteria. << Signorina mi spiace lasciarla qui fuori
da sola con questo brutto tempo, vuole che lasci aperto
un’altra mezz’oretta? >> le disse
l’uomo.
Eccone
un altro.
Evelyn
si disse che da qualche parte doveva aver scritto addosso
“vulnerabile” o “proteggetemi”
e non se n’era mai accorta.
<<
La ringrazio, ma mi hanno contattata poco fa. Dovrebbero essere qui tra
dieci minuti al massimo >> rispose con un sorriso
cordiale.
Passarono
due ore prima che potesse prendersela con qualcuno.
In
quel piccolo paesino di quella piccola contea gli abitanti si
conoscevano tutti ed erano per lo più buoni amici tra loro.
Il loro luogo di ritrovo favorito era la casa di Josephine. Nessuno in
realtà sapeva quali fossero le motivazioni in particolare,
ma di sicuro tra le tante c’era Dalia, la cuoca.
Difatti
proprio quel giorno la casa era invasa da un odore delizioso che
neanche la porta della cucina riusciva a contenere.
Quando
finalmente gli astanti presero posto a tavola e le portate furono
servite un’espressione corrucciata apparve sul viso della
padrona di casa. Abituata a programmare ogni singolo istante della sua
esistenza si sentì scombussolata quando si vide servito il
pasto sbagliato.
<<
Rose cara non avevamo stabilito pranzo a base di pesce per il sabato?
>>.
<<
Ma oggi è domenica, Josephine>> rispose
l’altra con un sorriso di comprensione.
<<
SANTO CIELO! >> gridò Josephine alzandosi di
scatto e facendo cadere la sedia a terra con un terribile frastuono
mentre gli altri presenti si soffocavano con i bocconi che stavano
mangiando giù.
Josephine
non era mai stata famosa per la sua memoria.
<<
Come abbiamo fatto a perderci un giorno? >> continuava a
gridare mentre correva per la casa senza in realtà seguire
alcuna meta specifica e sensata e impartendo ordini a destra e a
sinistra. Nessuno ritenne opportuno in quel momento farle notare che il
plurale non era appropriato giacché era stata solo lei a
saltare chissà come il sabato di quella settimana.
Per
fortuna qualcuno ebbe la prontezza di spirito di afferrarla per le
spalle e spingerla a sedere sul divano più vicino prima che
la situazione degenerasse. << Calmati zia Jo. Con la jeep
sarò lì in mezz’ora >>.
<<
Devo venire con te! >>.
<<
NO! >>. La malcapitata ragazza già non doveva
essere del suo umore migliore per essere stata in sostanza dimenticata
alla stazione, e per farla completa mancava solo che si vedesse
arrivare incontro una nevrotica farfugliante frasi senza alcuna logica
di ragione. << Va bene, va bene…
però guida piano, cioè no! Cerca di arrivare
prima… voglio dire vai veloce, però non troppo
che la strada è bagnata! >>
tartagliò la donna correndo dietro alla jeep che partiva e
inciampando nella lunga veste color lavanda mentre le pietre del
vialetto la accoglievano.
5. RILEY
Anche
se ignorando le raccomandazioni di Josephine, che non aveva nemmeno
compreso poi tanto bene, Riley aveva cercato di mantenere una
velocità che potesse accorciare la distanza della stazione
in meno tempo, ci impiegò comunque venti minuti buoni per
arrivare. Quando si precipitò nella zona dove
presumibilmente la nuova arrivata attendeva, fermamente convinto di non
trovare nessuno, si accorse che l’ospite stranamente non se
l’era ancora data a gambe. Evidentemente doveva essere molto
paziente. O
evidentemente la biglietteria era ormai chiusa,
pensò più realisticamente.
La
ragazza se ne stava seduta con la schiena rivolta al bracciolo della
panchina e le mani intorno alle ginocchia, e raccogliere al petto le
gambe poggiate sul sedile bagnato. E bagnata lo era abbondantemente
anche lei.
Mentre
si avvicinava Riley si rese conto che non aveva la minima idea di che
cosa dire. Ciliegina sulla torta non si ricordava come si chiamasse.
Salvo un vago presentimento che fosse un nome complicato e iniziasse
per E.
Alla
fine tentò << Elisabeth? >>.
La
sua interlocutrice lo guardò impassibile, e
poiché non disse niente il ragazzo suppose di averci preso.
<<
Mi dispiace tanto per questo inconveniente, ma potrei spiegarti tutto
in macchina? Fa un freddo cane e sei praticamente bagnata fradicia
>>.
La
faccia da consumata giocatrice di poker a quelle parole assunse
un’espressione veramente stupita e finalmente la ragazza si
pronunciò << Dici sul serio? Non ci avevo
fatto caso >> disse mentre si alzava e abbassava il viso
per guardarsi come a voler costatare che davvero non fosse
perfettamente asciutta.
O
era ritardata o lo stava prendendo in giro.
Si
trattenne dal dirlo e iniziò a raccogliere le sue valigie.
<< La macchina è di là
>> dichiarò non molto sicuro che potesse
capirlo. In effetti quella non diede il minimo segnale di aver sentito,
ma prese lo stesso le borse restanti e si incamminò verso il
punto che le era stato indicato.
Arrivati
davanti all’autovettura, dopo aver riempito il sedile
posteriore e il cofano con borse e valigie, Riley le aprì
galantemente lo sportello del sedile davanti mentre cercava di
ricordare se avesse mai letto qualcosa a proposito
dell’accertarsi se un determinato soggetto fosse nel pieno
possesso delle sue facoltà mentali o meno. Da Elisabeth, che
si limitò ad accomodarsi nell’abitacolo, non
arrivò nessun aiuto in merito.
Poco
dopo aver dato gas al guidatore venne in mente che azionare il
riscaldamento sarebbe stata un’ottima idea…sempre
se il riscaldamento avesse collaborato.
<<
Il tempo che si riscalda un po’ il motore e si accende
>> disse.
Silenzio.
Senza
difficoltà si sfilò il giubbotto mentre teneva
l’altra mano sul volante e glielo porse <<
Intanto metti questo >>.
Quella
parve riscuotersi e si voltò verso di lui.
Miracolo
esultò Riley nella sua testa.
L’espressione
della ragazza parve addirittura ingentilirsi lievemente
<< Non è necessario >> rispose
con un sorriso che non riuscì minimamente a far sembrare
autentico.
Stavolta
fu lui a non dire niente, restando rivolto verso di lei con il
giubbotto in mano e assottigliando lo sguardo.
<<
Dovresti guardare la strada >> disse lei tornando seria.
<<
Se hai paura che ci schiantiamo contro qualche albero allora mettitelo
così io posso tornare a concentrarmi sulla guida
>>.
Suonò
terribilmente come un ricatto.
La
ragazza afferrò quella maledetta giacca, ma la
poggiò sulle gambe senza indossarla, un attimo prima di
voltarsi verso il finestrino. Non che questo impedì
all’altro di vedere la sua espressione imbestialita nel
riflesso del vetro.
<<
Lo sai a che cosa serve un giubbotto? >>
continuò imperterrito, tanto ormai il danno era fatto.
Ma
lui cosa ne sapeva che era un tipo irascibile? Fino a pochi attimi
prima era convinto che fosse una specie di minorata mentale.
<<
Lo sai che non si mollano le persone alla stazione sotto la pioggia?
>> esplose a quel punto Elisabeth.
Touché.
<<
Ti ho già chiesto scusa e se vuoi ti ripeto che mi dispiace,
ma non è stata una cosa fatta di proposito >>
cercò di giustificarsi.
Quella
sbuffò.
<<
Rieccola che torna muta >>.
<<
Piuttosto dovresti ringraziarmi che non parlo >>.
<<
Non è stata colpa mia, chiaro? >>.
<<
Non m’interessa, chiaro? >>.
<<
Ma tu rispondi sempre con un’altra domanda? >>.
La
ragazza lasciò cadere la conversazione, troppo arrabbiata e
infreddolita per riuscire trovare delle risposte abbastanza disarmanti.
Per
la restante mezz’ora nessuno dei due parlò
più.
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Capitolo 5 *** La città buia - Incidente ***
6.
LA CITTA’ BUIA
Evelyn
si stava godendo gli sbuffi di brezza calda emessi dalla presa
d’aria della stufa, proprio davanti al suo sedile, quando una
sbirciata al paesaggio le suggerì che erano arrivati a
destinazione.
Landry
era un paesino dimenticato sulle meridionali coste irlandesi. E
dimenticato lo era in significato letterale. Evelyn, sebbene avesse
ostentato di fregarsene altamente del villaggio, di sua zia e di tutto
il resto, aveva comunque distrattamente chiesto qualche informazione
qua e là, aveva persino cercato su internet, ma niente.
Neanche passando a setaccio tutti i libri di geografia e gli atlanti
che aveva trovato in casa aveva rinvenuto un misero puntino su una
misera cartina che recasse la scritta “Landry”.
Se
dopo le sue ricerche fallimentari si era ripetuta che fosse
inconcepibile l’invisibilità di quel paese,
adesso, con quello che si trovava davanti, pensava che fosse assurdo
che potesse esistere un posto simile.
Quando
si è costretti ad aspettare per qualcosa, forse per
ingannare l’attesa, forse per uno strano scherzo
dell’impazienza, si costruisce quasi sempre un ritratto
più o meno dettagliato di ciò che ci si aspetta
di trovare.
Evelyn
al termine “paesino irlandese” aveva associato
l’immagine di un piccolo agglomerato di casupole di pietra
con serre e giardini pieni di fiori, a circondare un’unica
grande piazza alberata, affollata da paesani dal viso cordiale vestiti
in modo variopinto, botteghe e locande con insegne e tavoli
multicolore… Sì, decisamente si era raffigurata
tutto alquanto colorato.
Per
questo non era preparata a ciò che si sarebbe trovata
davanti.
Aveva
contato una decina di edifici di vario genere e tutti erano di pietra
scura, ed erano molto slanciati, al punto che dovette reclinare di
parecchio il capo per riuscire a vedere le guglie che ne ornavano le
estremità. Parecchi muri erano decorati da fregi
ondoleggianti o motivi floreali, come se nastri di pizzo guarnissero
per intero quel luogo. I portoni di legno scuro incorniciati da archi a
sesto acuto erano massicci ed Evelyn si accorse che ognuno recava
inciso sulla chiave di volta uno stemma diverso.
No,
non era colorato, ma almeno per quanto riguardava fiori e alberi quel
posto restava un po’ fedele alla sua descrizione; difatti
alle elevate costruzioni opache si alternavano roseti circondati da
recinzioni di ferro battuto e da parecchi alberi che la ragazza non
riconobbe, anch’essi solidi e alti.
Si
aspettava un paesetto in miniatura e invece si stava sentendo
infinitamente piccola tra quei muri troppo alti che gli impedivano di
vedere il cielo. Non che ci fosse molto da vedere, poiché
sollevando gli occhi si incontrava solo grigiore e qualche lampo bianco
che a Evelyn non piacque per niente… perché
Evelyn detestava i lampi.
7.
INCIDENTE
Una
sorpresa dopo l’altra.
Prima
se la scordavano alla stazione e la piantavano sotto la pioggia e al
freddo per tre ore buone.
Poi
mandavano a raccattarla quel biondino indisponente e arrogante.
E
per finire si ritrovava immersa in uno scenario da film
dell’orrore con una bella tempesta di fulmini e fare da
cornice.
<<
Manca molto? >> chiese.
<<
La casa di Josephine è in periferia, ma non molto distante
dal paese >> rispose atono quello.
<<
Ed io cosa ne so dove finisce il paese e inizia la periferia?
>>.
Il
ragazzo fece un sorriso di sbieco e sembrò voler trattenere
una risata.
Intollerabile.
Evelyn
artigliò la stoffa del sedile con le unghie.
<<
Una decina di minuti e siamo arrivati >>
continuò poi trasformando la sua espressione nella
più dolce… e falsa che si fosse mai vista.
<<
Grazie per l’informaz… >> aveva
iniziato la ragazza, ma non finì la frase che venne
praticamente catapultata in avanti dalla brusca frenata
dell’autovettura. Se il ragazzo non avesse prontamente teso
una mano per afferrarla probabilmente sarebbe finita contro il vetro
anteriore o si sarebbe rotta un braccio nel tentativo di reggersi al
cruscotto. << Razza di… >>
imprecò a denti stretti il guidatore, rivolto a qualcosa che
Evelyn non riusciva a vedere, ritraendosi e liberandola dalla stretta.
Quando lui aprì lo sportello per scendere la ragazza fece lo
stesso un po’ per controllare di avere tutte le ossa nella
loro rispettiva collocazione e un po’ incuriosita
dall’ostacolo che avevano quasi urtato.
<<
Siete impazziti? >> urlò lui rivolgendosi a
due ragazzi che erano spuntati dal nulla. Eppure non si era accorta di
niente… che li avessero quasi investiti? In quel caso
dovevano essere loro a essere stizziti, e invece il suo compagno di
viaggio era a dir poco infuriato.
<<
Che ti prende Riley? >> chiese uno dei due sinceramente
stupito, mentre l’altro era a metà tra lo
sconvolto e il divertito.
Quando
però la notarono avanzare poco dietro Riley, Evelyn aveva
scoperto quale fosse il suo nome adesso che l’avevano
nominato, sbarrarono gli occhi e si accigliarono. << Ah
lei… >> balbettarono all’unisono.
<<
Mi sembrava di essere stato chiaro per quanto riguardava certi spettacoli, adesso
che abbiamo ospiti,
dovremmo stare più… attenti
>> rispose quello senza lasciarli finire, misurando
attentamente le parole. E a Evelyn sembrò che quelle
pronunciate ne celassero altre, come se volesse sottintendere qualcosa.
<<
Non sapevamo che fosse già arrivata. Benvenuta allora!
>> se ne uscirono poi con un sorriso, alleggerendo la
tensione. A dirla tutta Riley non sembrava per niente alleggerito.
Evelyn invece cambiò improvvisamente umore e li
trovò simpaticissimi << Grazie
>> rispose ricambiando il sorriso dei due.
<<
Ci si vede presto! >>. Detto questo si allontanarono. La
ragazza li osservò imbambolata chiedendosi come avessero
fatto a restare illesi essendosi praticamente buttati sotto la macchina.
Incoscienti.
Pensò Riley ancora indignato per la spericolatezza di quegli
idioti dei suoi compaesani. Poi guardò la ragazza. Le cinse
le spalle giusto il tempo di spingerla a risalire in macchina
<< Ti stai bagnando di nuovo >>.
Una
volta sull’auto non riuscì a trattenersi.
Dopotutto come poteva non chiedersi a quale mente bacata fosse venuta
la malsana idea di spedire quella povera ragazzina in quel posto.
<< Perché sei qui, Elisabeth? >>
chiese alla fine. Sarebbe finita in un altro battibecco, ma davvero non
era riuscito a ingoiare quella domanda; domanda che gli premeva di fare
sin dal giorno in cui lo avevano informato che una ragazza sarebbe
venuta a trascorrere le vacanze lì.
Per
Evelyn la tentazione di rispondere “la cosa non ti
riguarda”, e finalmente averla vinta per una volta, fu
grande; ma poi si disse che era stato abbastanza gentile negli ultimi
dieci minuti, risparmiandole una frattura e poi riscuotendola per farla
tornare in macchina; perché lei non si stava accorgendo
neanche di bagnarsi. Era come se la nebbia le fosse entrata nel
cervello.
Non
si prese però la briga di correggerlo, lasciandolo nella
convinzione che il suo nome fosse Elisabeth.
<<
Perché mi odiano >> rispose in un soffio.
Dicendo la cosa più sincera che le era venuta in mente.
Non
seppe in nessun modo decifrare l’espressione che apparve sul
volto di lui, ma per un attimo le sembrò quasi un misto di
tristezza e… comprensione?
<<
Stai bene? Stavi per prendere una bella botta >>
cambiò discorso quello.
Disturbo
della personalità? Si chiese la ragazza stupita dal suo tono
sincero, quasi lasciandosi scappare una risatina. Poche ore prima la
trattava come se fosse di troppo e adesso si comportava come un
fratello premuroso. << Ma non l’ho presa,
grazie a te >> cercò di ringraziarlo
dissimulando in qualche modo il tono di gratitudine con un accenno
d’irritazione, ma ne venne fuori una cosa strana e anche lei
stentò a identificare la sua intonazione.
In
tutta risposta lui sorrise poi tornò a concentrarsi sulla
guida. E lei non si era neanche accorta che la macchina era ripartita.
Aveva davvero il cervello annebbiato.
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Capitolo 6 *** Finalmente a casa ***
8.
FINALMENTE A “CASA”
Quando la sagoma della villa di sua zia si profilò nella
nebbia Evelyn si rese conto che era enorme. La casa e
l’antistante giardino erano circondati da alte mura di
pietra.
Una volta spento il motore, la ragazza si diresse da sola verso
l’ingresso mentre Riley si occupava dei suoi bagagli.
Aveva messo piede sul penultimo gradino delle scale che conducevano
all’anticamera esterna della casa, quando il grande portone
d’ingresso si spalancò. Ne uscì un
uomo. Era spropositatamente alto e aveva un fisico robusto. A Evelyn
vennero in mente le rappresentazioni di fabbri nerboruti dei film
medievali, ma il soggetto che si trovava davanti poteva averne
somiglianza solo nella corporatura pensò poi, notando il
modo in cui era abbigliato. Indossava pantaloni attillati infilati in
un paio di stivali al ginocchio; una camicia chiara con sopra un
panciotto viola dalla quale tasca all’altezza del petto
pendeva una strana catenella dorata. Capelli biondicci gli ricadevano
ondulati ai lati del viso.
Dalla mezza risata di quello la ragazza si rese conto
dell’espressione sconcertata che doveva aver assunto e
cercò di darsi un contegno.
<< Vi aspettavamo con ansia signorina Mcgrath. Spero che
lo spiacevole inconveniente di stamane non vi abbia turbato troppo
>> esordì il fabbro benvestito mentre la
conduceva all’interno.
E’ uno scherzo,
pensò la ragazza.
Una volta dentro si vide correre incontro un lenzuolo color lilla
sbiadito. Aguzzando la vista si rese conto che doveva essere un vestito
lungo e che dentro c’era una donna. Solo che se si fosse
messa di profilo probabilmente sarebbe scomparsa.
<< Evelyn! >> esclamò
emozionata. Non appena le fu accanto l’abbracciò
affettuosamente. La ragazza, presa alla sprovvista, non seppe fare
altro che posarle le mani sulla schiena ricambiando la stretta.
Cercò comunque di fare il più delicatamente
possibile per paura di spostarle qualche vertebra o romperle una
costola. << Oh! Guardati, bagnata e pallida! E’
tutta colpa mia. Credevo che arrivassi domani! >>
continuò a parlare mentre la allontanava da sé e
la esaminava meglio.
Stupita da cotanto affetto di benvenuto, la rabbia sbollì e
fu costretta a rinunciare al discorso sdegnato che si era accuratamente
preparata.
<< Santo cielo, come sei cresciuta! Lasciati guardare
>>. Le sollevò un braccio e la fece girare su
se stessa.
Evelyn si stupì della forza di quelle braccine esili.
Il commento dopo la giravolta di esaminazione fu accompagnato da un
sorriso commosso << Sei una donna oramai… ad
ogni modo! Ti sto trattenendo, Sebastian ti condurrà nella
tua camera, così puoi fare un bagno caldo e toglierti questi
vestiti bagnati >>.
Parlava con tale lena che la nipote non riuscì a rispondere
a una sola battuta. Sebastian (il fabbro) con un sorriso e una gentile
spintarella la accompagnò su per le scale.
L’arredamento della casa s’intonava alla perfezione
con l’aspetto che essa forniva già
dall’esterno, e con gli altri edifici della città.
Tutta la mobilia era rigorosamente di legno scuro e intarsiato. I
tessuti delle tende, dei divani e dei tappeti spaziavano dal colore
cremisi al nero. Era evidente: Da quelle parti era di moda
l’opaco.
Arrivarono alla porta della camera che le avevano preparato dopo aver
percorso un lungo corridoio.
<< In bagno è tutto pronto, fate pure con
comodo. Potete scegliere ciò che volete
dall’armadio giacché non avete ancora con voi i
vostri bagagli >>.
Mentre quello si defilava, lei si chiese se avrebbe dovuto dirgli che
poteva benissimo chiamarla per nome. Sempre però sorvolando
sull’assurda ragione per la quale le desse del
“voi”.
Tuttavia non disse niente e oltrepassò la porta.
La camera era spaziosa. Nel lato destro c’erano un armadio e
uno scrittoio ma Evelyn notò che in realtà non
era una vera e propria scrivania, alla vista dello specchio che lo
sormontava.
Sulla parete opposta si apriva una porta che dava su un balconcino.
Il muro a sinistra della porta accoglieva da un enorme letto a
baldacchino di legno scurissimo. Sgranò gli occhi. Avrebbe
dormito in quel letto, lei che in camera di casa sua aveva un lettino
minuscolo e bassissimo decorato da roselline.
Aveva iniziato a riflettere su una strategia abbastanza convincente da
convincere i suoi a sostituire il suo lettino da casa delle bambole con
uno come quello, quando facendo qualche passo avanti si
ritrovò dritta davanti allo specchio. << Che
schifo >> esclamò senza riuscire a
trattenersi. I vestiti che aveva addosso erano deformati e deformavano
anche la sua figura. In faccia era davvero pallidissima… e i
capelli, non seppe nemmeno come definirli. Se fosse passato di
lì un fabbricante di utensili per la pulizia, avrebbe avuto
l’ispirazione per una scopa.
Si fiondò in bagno per darsi un tocco di decenza.
Quando aprì l’armadio, il dramma.
<< Che razza di scherzo è questo…
>> farfugliò mentre rovistava convulsamente.
All’interno di quel guardaroba c’erano solo
vestiti. Lunghi. Eleganti.
Non aveva intenzione di indossarne uno, ma neanche la prospettiva di
scendere di sotto, alla ricerca dei suoi bagagli, avvolta
nell’asciugamano, era poi tanto invitante.
Si sdraiò sul letto sospirando. Solo dopo qualche minuto di
decise a tornare al guardaroba.
Se proprio uno lo doveva indossare, che le piacesse o no, per un attimo
la invase la brama di prenderne uno dei più belli.
Tirò fuori quello nero che aveva attirato subito la sua
attenzione. Era interamente decorato da pizzi e merletti e anche senza
indossarlo notò che la scollatura e lo spacco erano
abbastanza arditi. Lo rificcò velocemente
nell’armadio. Che
mi passa per la testa, si disse mentre estraeva un abito
molto più semplice, blu scuro, di seta, con una fascia larga
sotto il seno terminante in un fiocco.
Si stava dedicando ai capelli quando sentì bussare alla
porta. << Avanti >>.
Spuntò una donna sorridente. Aveva un vestito lungo anche
lei, i capelli raccolti e un viso dolce cosparso di efelidi. Evelyn
calcolò che doveva essere sulla trentina.
<< Vi sta benissimo! >> le disse allargando
ancor di più il suo sorriso.
<< Veramente io… non ho trovato altro
>>.
<< Il blu vi dona. Ero venuta a comunicarvi che la cena
sarà servita tra mezz’ora, siete pronta? Avete
bisogno di più tempo? >>.
<< No, cioè sì, stavo solo
sistemando i capelli, non riuscivo a trovare un elastico
>>.
<< Perché mai dovreste legarli?
>> chiese quella sinceramente stupita. Si
avvicinò e la fece accomodare sullo sgabello,
dopodiché si diede da fare con i suoi capelli.
Evelyn non sapeva cosa dire. La trattavano come una
principessa… per espiare? Volevano farsi perdonare per aver
dimenticato di andare a prenderla?
<< Io sono Rose >> le disse guardandola
attraverso lo specchio.
<< Evelyn. E’ un piacere conoscerla…
conoscervi.. ehm… >>. Disse la ragazza,
impacciata, non avendo la minima idea di come rispondere.
<< Per favore! Sono Rose e basta >>.
<< Va bene Rose. Allora tu non darmi del
“voi” >>.
<< Ma che dite signorina >> rispose quella
con un sorriso di comprensione << Non preoccupatevi,
è solo il tempo di farci l’abitudine
>> aggiunse.
<< Dovrei abituarmi a farmi dare del
“voi” da persone più grandi di me?
>>.
<< Esattamente. Che ve ne pare? >>.
Evelyn si osservò. Impossibile,
pensò ammirandosi nello specchio. Aveva dei capelli
splendidi. I boccoli castani le incorniciavano ordinati il viso e due
ciocche, che partivano dai due lati, erano intrecciate e poi legate
insieme con un nastro dello stesso colore del suo vestito, che Rose
aveva tirato fuori chissà da dove.
<< Non è… troppo? Voglio dire,
sembro pronta per una serata di gala >>.
La donna rise << Non preoccupatevi, non è
affatto troppo, qui dalle nostre parti >>.
<< Vi vestite sempre così, anche per una cena
a casa vostra? >>.
<< Più o meno. La cosa
v’infastidisce? >>.
La ragazza ci pensò un attimo. << Solo il
tempo di abituarmi >> rispose nel modo più
cortese che le riusciva.
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Capitolo 7 *** Ci siamo già visti? - Incompatibilità ***
9.
“CI SIAMO GIA’ VISTI?”
Scese
di sotto accompagnando ogni passo a un sospiro nervoso. Rose poteva
dire quello che voleva, per lei restava imbarazzante sedersi a tavola
agghindata in quel modo.
Senza considerare che potrebbe
essere rimasto Riley, pronto a sfottermi,
pensò. Un attimo dopo ebbe voglia di schiaffeggiarsi da
sola. Cosa me ne
importa di Riley! Si corresse. Mi contraddico da sola, ho
toccato il fondo, il fondo di cosa poi, non lo sapeva
nemmeno lei.
Almeno
aveva un portamento dignitoso. Una certa eleganza non le mancava,
quindi si auspicò che almeno un po’ della sua
disinvoltura potesse smorzare l’imbarazzo. A quanto aveva
capito Sebastian e Rose erano come dei dipendenti, presumibilmente non
avrebbero cenato con loro. Si trattava solo di sua zia…
Quando
arrivò nel salone, sfumò ogni suo buon
pronostico. Non aveva idea di quando fosse arrivata e del motivo per il
quale quella gente fosse lì.
<<
Sei splendente >> le annunciò sua zia
andandole incontro e trascinandola al centro della sala.
Riley
se ne stava comodamente sprofondato in una poltrona, la testa da
un’altra parte.
Quando
però Evelyn fece il suo ingresso, parve riscuotersi e
un’espressione che la ragazza non comprese gli apparve in
faccia.
Rimasero
a guardarsi un istante. Poi sua zia si frappose fra i due
<< Ti presento Lisa- disse indicando una bellissima
ragazza che in quel momento si stava alzando dal divano per rivolgerle
un sorriso-, mia figlioccia. Lei è Sophie- e
indicò un’altra ragazza-, sua sorella. Riley lo
conosci già. E lui è Alexander- si rivolse a un
uomo sui trent’anni- un caro amico>>.
Il
caro amico in questione, oltre ad essere uno degli uomini
più affascinanti che Evelyn avesse mai visto, aveva occhi
chiarissimi, che fu sicura di aver già incrociato da qualche
parte. Le venne fuori spontaneamente << Ci siamo
già visti? >>.
Per
un attimo sul viso di Alexander passò un sincero stupore.
Poi sorrise << Credo di no, ma chi lo sa, può
anche darsi >>.
Evelyn
dovette impiegare una certa forza di volontà per staccargli
gli occhi di dosso. Era quasi più bello di Riley. E per
quanto non fosse tra le sue grazie, non poteva negare che Riley fosse
un gran bel vedere. Altissimo, le spalle larghe… forse
però si stava soffermando
troppo sulla sua figura perché quello sorrise di sbieco. Lei
distolse lo sguardo cercando di apparire disinteressata, poi si
sentì in dovere di dire qualcosa <<
E’ un piacere conoscervi >>.
<<
Il piacere è tutto nostro >>. Evelyn
pensò che la voce di Alexander fosse ancora più
ammaliante del suo aspetto.
Tutti
ripresero il loro posto e si accomodò anche lei.
Il
resto della serata passò piacevolmente. Il vestito non le
diede alcun problema giacché notò che anche le
altre due ragazze ne indossavano di simili. Non fu costretta a parlare
della sua vita ad Aberdeen, delle motivazioni che la portavano da
quelle parti o di altro che potesse farla sentire nel bel mezzo di un
interrogatorio. Anche se era certa che quel momento sarebbe arrivato.
Passò
gran parte del tempo a osservare Alexander. Non tanto per godersi la
vista, quanto per capire dove si fossero mai incontrati. Avrebbe
giurato di averlo già visto.
Non
si stava divertendo granché mentre erano a tavola, ma a un
certo punto sua zia notando che era distratta cercò di
coinvolgerla nelle sue chiacchiere << Tu cosa ne pensi,
Evelyn? >>.
Evelyn.
Portò una mano a coprirsi la bocca mentre si voltava a
guardare Riley, intento a ignorare Lisa, che gli stava parlando solo
lei sapeva di che cosa, e a fissarla con lo sguardo affilato mentre
scuoteva impercettibilmente il capo. Poi parlò senza
però emettere alcun suono. Evelyn, nel movimento muto delle
sue labbra, distinse chiaramente la parola
“Elisabeth”.
Il
tempo di un sorriso compiaciuto e tornò a ignorarlo
dedicandosi ai discorsi di sua zia e di Alexander.
Trovò
piacevole anche chiacchierare con Sophie. Era una ragazza solare e con
uno spiccato senso dell’umorismo.
Per
quanto riguardava Lisa, invece, non la stava minimamente prendendo in
considerazione. Evidentemente Evelyn aveva interpretato male il suo
sorriso di poco prima.
10.
INCOMPATIBILITÀ
Dopo
cena la compagnia si disperse.
Le
due sorelle tornarono a casa loro. Sua zia la prese da parte.
<< Vorrei potermi dedicare a te, hai tante cose da
raccontarmi… però al momento non è
possibile, ho un impegno che non posso rimandare. Non so se ti
troverò ancora sveglia al mio ritorno quindi comunque sia
buonanotte- e le strinse una mano sorridendo. Ti lascio in buone mani
>>. Poi si allontanò con Sebastian e, con
sommo dispiacere della giovane, anche Alexander.
Se
ne stava seraficamente tornando a tavola, alla ricerca di dolci
superstiti, quando con amarezza scoprì a chi appartenevano
le buone mani annunciate dalla sua ancora poco conosciuta zia.
<<
Elisabeth >> scandì una voce melliflua.
Una
cosa era certa: Sua zia era una traditrice.
<<
Ebbene sì, mi sono dovuto accollare di farti da balia
>>.
Riley
se ne stava poggiato con le braccia sullo schienale di una sedia.
<<
Mi dispiace per te >> rispose atona lei <<
Se congedarti da questo incarico è in mio potere,
consideralo fatto >>.
<<
No, non sei in potere di mandarmi via >>.
<<
Peccato >>.
<<
Illuminami Evelyn. Hai fatto sfoggio di grande compassione con
Josephine, non hai mostrato il minimo accenno di rancore nei suoi
confronti… e la colpa è sua se sei rimasta sola e
indifesa alla stazione, o forse ancora non ti è chiaro?
Perché se ti è chiaro vorrei tanto sapere
perché invece odi me
>>.
<<
Odiarti? Addirittura. No, non ti odio Riley, smetti di crucciarti
>>.
Quello
non rispose.
A
questo punto la ragazza aveva capito che quando non era soddisfatto di
quello che sentiva, semplicemente non si degnava di proferire parola.
<<
Va bene. Ero arrabbiata e… me la sono presa con la prima
persona che ho incontrato. Guarda caso tu, ma ti assicuro, niente di
personale >>.
Ancora
silenzio.
<<
Non ti aspetterai delle scuse?! >> esclamò a
quel punto lei.
<<
Direi che è il minimo che tu possa fare >>
rispose piantando i suoi occhi verdi in quelli scuri di lei.
Lei
spalancò la bocca e lo guardò basita. Poi
girò i tacchi e uscì dalla stanza.
Era
un arrogante. Un prepotente, e soprattutto viziato. Di sicuro era
abituato all’adulazione di chiunque gli ronzasse attorno. Ma
non tutte le ragazze erano pecorelle mansuete, asservite al bello di
turno. O forse sì, tutte eccetto lei.
Una
cosa era certa: Lei e Riley erano incompatibili. Per orgoglio,
testardaggine, prepotenza.
Lei
non era a conoscenza dell’oscuro nesso che c’era
tra quel ragazzo e sua zia, ma sperava non fossero poi tanto legati.
L’ultima cosa che voleva era ritrovarselo per casa.
Stava
passando a rassegna i libri che occupavano per intero le pareti della
biblioteca. Aveva fatto una scoperta meravigliosa. Quella stanza era
enorme, di quelle che si vedono solo nelle fotografie. Con scaffali che
toccavano il soffitto, scale di legno che percorrevano la camera e
libri di ogni genere.
Poco
dopo che lei c’era entrata, era arrivato pure lui. Si era
accomodato su uno dei divani e aveva rotto l’incanto.
<<
Non credere che mi faccia piacere, eseguo gli ordini e basta
>>.
<<
Non sono una bambina >> sibilò la ragazza.
<<
No di certo, sei già abbastanza grande per avere
certi… apprezzamenti >>
<<
Che vuoi dire? >> chiese lei sull’orlo di un
attacco di violenza.
<<
Sei arrivata da poche ore e ti sei già presa una cotta. O
sbaglio? >>.
<<
Spiegati meglio >>, gli intimò avvicinandosi.
Lui
si limitò a un sorriso sarcastico.
Per
evitare di mostrargli il suo lato meno femminile con un acustico
cazzotto, si dedicò alla lettura del primo tomo che le
capitò a tiro.
Passarono
una decina di minuti.
<<
In ogni caso rassegnati. Sei troppo piccola per lui >>.
Provocatore.
Lo
aveva capito che non era per niente una tipa paziente.
E
stava provando in ogni modo a farla detonare.
<<
La mia maturità ti stupirebbe >>.
Tornò
a immergersi nella lettura con un sorriso compiaciuto.
Una
cotta per Alexander. Probabilmente sarebbe anche andato a sciorinargli
quella menzogna solo per il gusto di metterla in imbarazzo.
Adesso
sì.
Adesso
lo odiava.
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Capitolo 8 *** Zia Josephine - Il corridoio dei ritratti ***
11. ZIA
JOSEPHINE
La
mattina seguente due evidenti occhiaie le marcavano gli occhi.
Non
aveva trascorso delle piacevoli ore notturne.
Si
era defilata che sua zia non era ancora tornata.
Aveva
salutato Riley con un “Devi farmi la guardia anche in camera
da letto?”. Ovviamente lui aveva colto tutta la malizia della
frase ribattendo “Se vuoi…”. Al che lei
aveva girato i tacchi e si era chiusa nella sua stanza.
Aveva
diluviato tutta la notte. Non che la pioggia non le piacesse, ma quei maledetti lampi.
Non era servito a niente serrare le tende, né sprofondare
sotto le coperte. E così non aveva chiuso occhio.
I
pensieri erano arrivati involontariamente, senza che lei potesse
scacciarli.
Era
da sola.
Non
perché adesso fosse lontana kilometri e kilometri da
casa… Era sola e basta.
Non
c’era mai stato nessuno per lei.
C’erano
stati i suoi veri genitori, un tempo… ma lei era troppo
piccola quando poteva ancora godersi la loro compagnia, e adesso troppo
grande anche solo per riuscire a ricordare le loro facce.
La
colazione la rincuorò un po’.
Aveva
anche fatto la conoscenza di Dalia, la cuoca di casa, che a quanto pare
era famosa in tutta la città.
Il
resto della giornata l’aveva passato interamente con sua zia.
Fino
a quel momento, salvo l’essersi persa un giorno della
settimana e aver lasciato la randagia e disperata Evelyn alla stazione,
non aveva mostrato di rispecchiare il ritratto negativo che i suoi
cugini avevano descritto.
Aveva
voluto sapere tutto di lei. Della scuola, dei suoi amici, di quello che
le piaceva, cosa faceva nella vita. Avevano anche affrontato discorsi
filosofici, etici… Evelyn iniziava ad apprezzare quelle
chiacchierate.
Ovviamente
anche lei aveva tempestato la zia di domande. Alla fine la sua
deduzione era stata pressoché positiva. Salvo per le sue
manie da perfezionista. Era una di quelle persone che programmano per
intero la propria vita.
Aveva
anche finalmente scoperto quale fosse il loro legame di parentela, che
poi proprio parentela non era. Nelle vene delle due donne sedute in
veranda non scorreva lo stesso sangue.
La
settantenne Josephine- che conservava ancora in parte, nel portamento,
postumi di una spiccata avvenenza e sensualità, che doveva
esserle indubbiamente appartenuta-, era stata una giovane bellissima.
Durante un soggiorno a Londra aveva conosciuto Constantine ed era stato
amore a prima vista. Ma era un amore che la famiglia di lui non
approvava. Quando Evelyn chiese il perché
l’anziana donna non rispose, il suo sguardo si perse in
ricordi lontani e alla ragazza sembrò opportuno non chiedere
più.
Ad
ogni modo si erano sposati lo stesso e al ricevimento non
c’erano stati invitati da parte dello sposo.
Per
farla breve la suddetta famiglia alla quale Constantine aveva
rinunciato per la donna amata, era la stessa di Evelyn, il defunto
marito di Josephine era il fratello di sua nonna. E lei non ne aveva
mai sentito parlare.
<<
E’ davvero romantico >> disse la ragazza con un
sorriso triste << La storia dei miei genitori biologici
è molto simile… solo che fu mia madre a
innamorarsi del ragazzo sbagliato: mio padre >>. Lo disse
senza neanche sapere perché. Non ne parlava mai della sua
vera storia.
<<
Come? Io credevo che… >> balbettò
sua zia, incredula << …Sei stata adottata?
>>.
<<
Non esattamente. Furono i miei stessi genitori a stabilire che io fossi
affidata alla mia attuale famiglia, la mia vera madre e quella adottiva
erano cugine, e anche molto amiche >>.
<<
Ma, loro… >> Josephine brancolava nella paura
di toccare qualche tasto dolente, così Evelyn decise di
raccontarle tutto e basta.
<<
Era la notte del terzo compleanno della mia vita quando quel camion
investì la macchina sulla quale viaggiavo con mamma e
papà. Non mi ricordo niente ovviamente >>. Era
calma mentre parlava, ma d’altronde era sempre stata brava a
nascondere i suoi sentimenti.
Il
resto del pomeriggio fu una sorta di viaggio nel passato. Josephine le
raccontò di quando era giovane come lei e di Constantine;
anche Evelyn menzionò qualche suo ricordo ma nulla di
rilevante… non le era mai piaciuto parlare del passato,
considerava i ricordi solo una debolezza. Non che avesse memorie
particolarmente felici, ma dopotutto meno hai e con ancor
più cura devi custodirlo.
<<
Come si chiamavano? >> chiese Josephine che ormai credeva
che per Evelyn non fosse un problema parlare dei suoi veri genitori,
anche se li aveva persi.
<<
Non mi parlano molto di loro, non hanno mai reagito bene quando ho
chiesto, quindi non ho preteso che mi raccontassero nulla… a
quanto ho capito odiavano mio padre. So solo che mia madre si chiamava
Giudith >>.
La
zia della ragazza a sentire pronunciare quel nome cambiò
improvvisamente espressione. Sembrava voler mascherare un certo
stupore. << Conosci il suo cognome? >>
chiese.
<<
No, perché? >> ribatté Evelyn
cercando di capire che cosa le prendesse.
<<
Oh nulla… conoscevo una ragazza che aveva lo stesso nome
>> e così dicendo tornò serena.
Forse
era un po’ lunatica.
<<
Oh! Quasi dimenticavo. Dalia vorrebbe essere messa al corrente delle
tue preferenze o intolleranze alimentari >>.
Sì,
era lunatica.
Un
attimo prima raccontavano delle loro vite e un secondo dopo si
ritrovarono a discutere di allergie.
<<
Passerò dalla cucina più tardi. Anch’io
comunque ho dimenticato di farti alcune domande importanti riguardo la
mia permanenza qui… >> disse la ragazza.
<<
Chiedi pure >> rispose sorridendo sua zia.
<<
Per prima cosa… la casa è solitamente affollata?
>>.
<<
Abbastanza >>.
Fantastico,
pensò Evelyn con afflizione. Fu tentata di chiedere il
motivo per il quale già dalla prima sera che era arrivata si
era ritrovata ospiti a cena, ma lasciò perdere e
passò alla seconda domanda.
<<
Dovrò seriamente sciropparmi ripetizioni di greco e
geometria? >>.
<<
Beh, l’intenzione era quella... ma se credi di poter trovare
di meglio da fare va bene, purché sia comunque valido a
qualcosa >>.
<<
Fantastico! Terzo: Esci spesso? Ieri sera sei andata non so dove
con… cioè, sei andata non so dove
>> si corresse alla fine, evitando di menzionare
Alexander.
<<
Direi di sì, ma non preoccuparti, non ti lascerò
mica sola in casa! >>.
<<
Perché? Non sono una bambina >> e mentre lo
diceva si chiese a quante altre persone e quante altre volte sarebbe
stata costretto a ripetere quella frase.
<<
Non puoi rimanere a casa da sola >>.
Sua
zia pronunciò quelle parole con una tale decisione che
Evelyn non tentò di controbattere. Parve cambiare del tutto
umore, come se fosse diventata serissima all’improvviso.
<<
Altro? >> la incitò poi assumendo di nuovo un
sorriso condiscendente.
<<
Chi è Riley? >>.
<<
Il figlioccio di Constantine, quindi anche il mio. Qualcosa non va con
lui? >>.
<<
Assolutamente no. Chiedevo dato che ho notato che siete…
>>.
<<
…Molto uniti. Vedi Evelyn io non ho avuto bambini, e Riley,
come anche Lisa, Sophie e Alexander, sono come figli per me
>>.
Con
stupore la ragazza notò il divario
d’età che c’era tra quei
“figli” di sua zia, come diceva lei. Lisa e Sophie
potevano avere la sua stessa età e Alexander doveva essere
invece sui trent’anni.
Non
sapendo cosa dire sorrise, anche se non era per niente felice.
Erano
come una grande famiglia lì, e lei si sentiva già
di troppo.
12.
IL CORRIDOIO DEI RITRATTI
Ormai
se ne stava lì sdraiata sul letto a pensare da
più di un’ora, e non aveva la minima voglia di
alzarsi.
Non
sapeva neanche esattamente che cosa fosse a infastidirla tanto.
Gelosia?
Ma
come poteva essere gelosa di una zia che conosceva a malapena?
Disagio?
In
fondo non le piaceva avere troppa confusione attorno a sé.
Amava starsene in santa pace, da sola, quando era a casa. E poi quel
posto non era molto normale… aveva come
l’impressione di essere tornata indietro nel tempo.
Eppure
non era quello che la infastidiva in quel momento.
E’ solo invidia,
ammise alla fine.
Come
poteva non essere invidiosa di un affetto così profondo?
Quello
che leggeva negli occhi di sua zia quando parlava con i suoi protetti.
Nessuno
le aveva mai dimostrato niente di simile. I suoi genitori, quella notte
di quattordici anni prima, se l’erano accollata, ma glielo
avevano sempre fatto pesare.
Gli
amici che aveva erano più che altro compagni di uscite.
Dovrei prendermi un cane,
si disse.
Anche
se dubitava che il suddetto poi, tra lei e un osso, avrebbe scelto lei.
Per
sfuggire alla depressione che stava iniziando ad affliggerla si decise
ad abbandonare il letto e uscì dalla stanza, senza essere
diretta in nessun posto in particolare.
Camminando
per la casa si accorse che doveva essere già tarda sera.
Forse
fu la scarsa illuminazione a farle perdere l’orientamento.
Si
ritrovò a vagare per fasce che non aveva mai percorso;
avevano un aspetto più antico di quelli che aveva
già visitato. I tappeti erano lisi e i quadri, che
popolavano le pareti, impolverati. La luce era scarsa e non
s’intravedeva la fine dei corridoi.
L’atmosfera
la avvolgeva in tutta la sua spettrale apparenza ma Evelyn non era poi
così terrorizzata.
Finché
non iniziò la tempesta.
Ebbe
inizio con un’esplosione di luce lattescente che dalle
finestre intervallate ai dipinti illuminò l’intero
ambiente.
Evelyn
perse ogni briciola di calma per un secondo; si bloccò al
centro del corridoio, iniziò a indietreggiare verso il muro
opposto alle finestre.
Restò
immobile finché non arrivò il boato. La cornice
alla quale si era accostata tremò sfiorandola, lei
sussultò e ricominciò a camminare, più
svelta.
Per
distrarsi si concentrò sui dipinti. Ogni tre passi poteva
contemplarne uno diverso, li contò, senza sapere il
perché.
Un
ritratto. Raffigurava un giovane bellissimo. Le punte dei capelli a
sfiorargli la linea netta della mascella. Gli occhi vermigli.
<<
Egocentrismo puro >> disse ad alta voce per commentare
gli strani gusti del committente di quel quadro… e per
sovrastare il rumore dei tuoni.
Altri
ritratti.
Volti
angelici di giovani donne dal sorriso infinitamente triste.
Profili
marmorei di uomini seducenti.
Evelyn
non aveva mai visto persone dotate di una simile avvenenza.
Dopo
l’undicesimo ritratto una tela vuota, completamente scura.
Dopo
il diciassettesimo una tela rovinata. Le fattezze di colui che era
stato effigiato erano irriconoscibili; qualcuno si era dato da fare con
forbici e coltelli.
Dopo
il ventunesimo ritratto, un paesaggio.
Un
bosco buio; si distinguevano a malapena le sagome degli
alberi… ma solo dopo aver aguzzato la vista Evelyn si
accorse che non erano solamente arbusti… la maggior parte
delle figure che riempivano la tela erano ombre, sagome sfocate. Man
mano che si avvicinava al quadro ne distingueva sempre di
più… o forse stavano realmente aumentando.
Quando
fu ormai vicina si soffermò su uno di quei profili.
All’improvviso
la visuale del corridoio e dei quadri le sparì davanti agli
occhi, per essere sostituita da un luogo più
ampio… un
parcheggio stipato di automobili.
Fu
un attimo soltanto poi la vista delle macchine sparì e di
fronte a lei c’era il quadro e le sue ombre.
Le
girò la testa e la vista si offuscò. Tutte le
macchie scure del dipinto parvero convergere verso il suo centro.
Evelyn
non volle vedere. Si voltò e iniziò a correre.
Altri
ritratti.
Dopo
il trentunesimo ritratto, una finestra, si affacciava sul giardino, che
era completamente grondante di fango. La pioggia era talmente fitta che
concedeva una scarsissima visuale.
Stava
per voltarsi e proseguire quando un movimento, diverso dal cadenzato
precipitare delle gocce d’acqua, attirò la sua
attenzione.
Osservando
con più attenzione si accorse che era un contorno umano.
E’ uscito dal quadro,
la sua mente formulò involontariamente quel pensiero.
<<
No, una sagoma qualunque… tutte le sagome si somigliano
>> sussurrò indietreggiando.
Tutte
le sagome ti fissano?
Ricominciò
a correre.
Ad
un tratto ebbe la netta impressione che l’aria che la
accarezzava non fosse più provocata dalla sua andatura
rapida.
Era
immobile.
Senza
rendersene conto si era fermata.
Si
scagliò contro la porta che aveva davanti e se la
sigillò alle spalle.
Era
entrata in una camera in sostanza vuota, salvo per i quattro enormi
specchi appesi alle pareti, ai quali non concesse neanche uno sguardo,
mentre camminava verso la finestra che aveva di fronte.
Aveva
paura?... Forse… Ma di che cosa?
La
risposta le pervenne nello stesso istante in cui poggiava i palmi delle
mani sul vetro appannato.
L’ombra
era lì. In mezzo agli alberi di quel bosco troppo buio.
Ferma.
L’aria
si riempiva di sussurri che non riusciva a comprendere.
<<
No >> sussurrò scuotendo la testa. Poi i suoi
occhi si posarono accidentalmente sullo specchio.
Si
può essere in due luoghi contemporaneamente?
Guardò
meccanicamente all’altro specchio. Era anche lì.
E
anche negli altri due…
Si
voltò di scatto.
L’intenzione
era di correre, uscire da quella stanza… Ma una gabbia di
ferro glielo impediva, la stringeva per tenerla ferma.
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Capitolo 9 *** Vecchie amiche ritornano ***
13.
VECCHIE AMICHE RITORNANO
I
PARTE
Un brivido di paura le salì per la schiena.
Era terrorizzata in
quella stanza al buio, sola come sempre.
Sentì i tendini irrigidirsi nella familiare contrazione
della rabbia repressa.
Era arrabbiata
perché era sola, in quella gabbia di ferro che la
intrappolava.
Divincolarsi non serviva a niente. Riuscì a liberare solo il
braccio destro.
Le servì una frazione di secondo per caricare il colpo e
ancor meno per sferrarlo.
Come aveva immaginato non servì a niente. Quello
piegò la testa per il cazzotto incassato, gemette, ma la
presa non diminuì minimamente.
La afferrò per un polso e la spinse con malagrazia contro un
muro, bloccandola con le braccia.
Adesso però non era più buio, la luce lattiginosa
della tempesta forniva un’illuminazione più che
sufficiente.
Evelyn non sapeva se scoppiare a ridere o mettersi a urlare.
<< Ma che cazzo fai? >> ruggì
Riley a un soffio dal suo viso.
<< Idiota >> sibilò lei tra i
denti.
<< Non saresti dovuta venire qui, che ti salta in mente?
>> continuò come se non avesse sentito la
risposta della ragazza.
Evelyn non sapeva che dire. Forse avrebbe preferito essere tra le
braccia di qualunque altra cosa fosse in quella stanza, prima che lui
arrivasse, piuttosto che trovarsi di fronte Riley.
Non disse niente.
Restarono in silenzio entrambi, con il respiro affannato… A
Evelyn mancava l’aria, perché quella situazione
era assurda. Era tutto assurdo.
Riley non riusciva a respirare, aveva corso a perdifiato… E
da casa sua a quella maledetta stanza era stata una bella sfaticata.
Nessuno dei due aveva idea del tempo che era passato. Forse una
manciata di minuti, forse un’ora.
Semplicemente erano ancora immobili, Evelyn con la schiena contro il
muro, Riley con i pugni serrati poggiati ai lati del suo viso, gli
occhi fissi in quelli di lei, che però li teneva bassi e non
ricambiava sfacciatamente il suo sguardo come avrebbe giurato.
Vederla in quello stato, impaurita e arrabbiata, gli provocò
una fitta di dolore.
Perché non
sollevava lo sguardo? Perché si vergognava di mostrare anche
solo un frammento di debolezza?
Non sapeva che cosa dirle. Avrebbe dovuto rassicurarla… Ma
non sapeva neanche da cosa.
Ancora una volta era a corto di parole.
Come quando l’aveva vista per la prima volta alla stazione,
bagnata e sola.
Scostò le mani dalla parete.
Gliele posò sui fianchi giusto il tempo di attirarla a
sé, poi gliene mise una tra i capelli per stringerle la
testa contro il suo petto, mentre le teneva l’altra sulla
schiena.
La tenne stretta mentre i singhiozzi la scuotevano. Ed Evelyn non
sapeva nemmeno perché aveva iniziato a piangere.
Forse era stato lui a farla piangere, con quell’abbraccio, e
con la gentile collaborazione del suo maledetto orgoglio.
O forse era normale abbracciare qualcuno quando era sconvolto e
arrabbiato.
Ma Evelyn aveva poche
conoscenze in materia…
La bambina se ne stava
seduta per terra, le braccia attorno alle gambe per raccoglierle al
petto, il mento poggiato sulle ginocchia.
<< Alzati
>> le ordinò la voce dura di suo padre.
<<
C’è qualcosa sotto il divano >>
ripeté la bambina senza spostare lo sguardo dal buco sotto
il mobile in questione.
<<
Smettila >> disse suo padre avvicinandosi
<< Smettila! >> ripeté
afferrandola a trascinandola fuori dalla stanza.
Sua madre stava a
guardare mentre lui la spingeva oltre la porta della sua camera e la
chiudeva dentro.
Ma quella porta chiusa a
chiave non era un ostacolo per nessuna voce.
Non la proteggeva dalle
grida.
Non la proteggeva e
basta.
<<
E’ tutta colpa tua! E di quella maledetta di tua cugina!
>>.
<< Che
cosa potevo fare! Lasciare che finisse in un orfanotrofio?
>>.
<< No, io
non so che cosa fare! Continua a ripetere quelle frasi strane, si
graffia da sola, il suo comportamento non è normale
>>.
<< Sua
nonna invece dice che è normale >>.
<< No,
anche sua nonna dice che è strana, come lo era lui
>>.
La bambina non poteva
fare niente per non sentire quelle voci, le voci dei suoi incubi che
popolavano la stanza.
Adesso stavano forse tornando le vecchie amiche di un tempo?
Le voci dei suoi incubi, le ombre nel buio, i mostri sotto il
divano… non era stata solo l’immaginazione di una
bambina infelice?
La bambina non poteva
fare altro che piangere mentre le ombre e i suoi incubi popolavano la
stanza. Non avrebbe mai chiesto aiuto a nessuno, perché
nessuno sarebbe venuto per salvarla, nessuno l’avrebbe
abbracciata mentre piangeva.
Nessuno mi aveva mai
abbracciata mentre piangevo, pensò,
rendendosene conto dopo anni, singhiozzando tra le braccia di quello
sconosciuto.
Lo spinse via senza sollevare lo sguardo, non riuscendo a vedere la sua
reazione.
<< Andiamo >> disse Riley mentre la
spingeva verso la porta.
La condusse tranquillo per i corridoi mentre lei lo seguiva senza
proferire parola.
La tempesta era cessata e con essa i fulmini.
Adesso la luce della luna illuminava ancora meglio i dipinti. Evelyn
riprese a contarli ancora una volta senza apparente motivo.
Dopo
l’undicesimo e il diciassettesimo ritratto notò
due volti che prima non aveva visto… ma in particolare una
tela colpì la sua attenzione, dopo il ventunesimo ritratto,
una cornice scura contornava la raffigurazione di un semplicissimo
bosco; un prato, alberi e qualche cespuglio.
II
PARTE
<< Non c’è nessuno in casa?
>> chiese la ragazza mentre si accomodava sul bordo del
divano del salotto.
<< Solo noi >> le rispose Riley.
Era in piedi di fronte a lei e si limitava a osservarla con
l’abituale espressione distaccata. Evelyn si chiese se fosse
la stessa persona che era con lei in quella stanza dall’altra
parte della casa pochi minuti prima.
Guardandolo più attentamente notò un lieve
rossore sulla sua guancia sinistra.
Impossibile,
pensò, convinta di non averlo colpito poi così
duramente.
<< Mi… dispiace >> disse piano
Evelyn.
<< Per cosa? >>.
<< Per averti mollato un cazzotto >>.
<< E…? >>.
<< E basta. Che altro? >>.
<< Non cederai nemmeno adesso? Dopo che sono corso in tuo
soccorso? >>.
Se per un attimo aveva creduto che Riley potesse essere diverso, in
quell’attimo si era sbagliata.
<< Riley, sei bipolare? >>.
Quello rise, poi le si sedette accanto <<
C’è qualcos’altro che posso fare per te?
Sicura di stare bene? >> chiese in tono sincero.
La ragazza sgranò gli occhi << Come si dice?
Fatti una domanda, datti una risposta >>.
Lui rise ancora << No, sinceramente, hai bisogno di
qualcosa? >>.
<< No, sinceramente, bastava un sì
>>.
<< Non sono bipolare! >>.
<< Buona permanenza nella tua convinzione
>>.
<< Se hai ancora bisogno di conforto, basta chiedere
>>.
<< Seriamente, sei tu che hai bisogno di una visita
psichiatrica >>.
Evelyn non ebbe nemmeno il tempo di vedere il suo sorriso di sbieco che
lui si era già avvicinato per sussurrarle
all’orecchio << Direi che poco fa non la
pensavi così >>.
Lei cercò di allontanarsi per piantargli addosso il suo
sguardo più truce, ma lui glielo impedì
afferrandola per i polsi e trattenendola dall’allontanarsi.
<< Poco fa… Hai approfittato del fatto che
fossi sconvolta per cogliermi di sorpresa >>
sibilò la ragazza.
<< Mi sembra che tu ci abbia comunque messo un
po’ ad allontanarti >>.
<< Come adesso? >>.
<< Oh, no. Adesso sono io a non volere che ti allontani
>>.
<< Anche prima non avevo molte possibilità di
scelta >>.
<< Prima non ti stavo affatto trattenendo
>>.
<< E perché adesso invece lo stai facendo?
>>.
Riley la guardò negli occhi.
Con i suoi occhi, verdi e disarmanti.
Evelyn li vide farsi sempre più vicini.
Cos’era che le
martellava nel petto?
Dischiuse le labbra in un gesto involontario.
Era odio?
Odiava qualunque cosa
potesse impedirle di nascondere la sua debolezza. Per questo odiava lui.
Avvertì il respiro di lui carezzarle la bocca.
Era rabbia?
Era arrabbiata con lui.
Si arrabbiava, se era
costretta a mostrare di avere luoghi attraverso i quali era possibile
far breccia nella corazza che si era costruita addosso, a proteggerla
da ogni sentimento, che fosse amore o odio.
Odio, un impulso
così familiare, le era sempre appartenuto.
Amore. Non aveva mai
amato lei, perché nessuno le aveva mai insegnato.
Capelli biondi sfiorarono quelli scuri di lei.
Impazienza?
Un altro soffio caldo sul viso.
Non aveva mai aspettato.
Si era sempre presa tutto quello che aveva voluto.
Voglia. Lo voleva?
La presa si faceva più salda sui suoi polsi.
Qualcosa di ancora più denso del suo respiro le
accarezzò le labbra.
Poi uno schianto… Il rumore della porta che sbatteva.
Si voltò di scatto, fredda, mentre lui le liberava i polsi,
un’espressione insoddisfatta sul volto.
Sua zia fece il suo ingresso nella stanza sorridendo. <<
Grazie per aver tenuto compagnia a Evelyn mentre non c’ero,
Riley >>.
Quello si alzò dal divano << E’
stato un piacere >> rispose alla donna, guardando la
ragazza.
Evelyn ricambiò con un sorriso indifferente.
Era davvero impossibile
capire che cosa le passasse per la testa.
Evelyn.
Perché sei qui?
E’
così sbagliato che tu sia qui…
Salutò le due, un attimo prima che il freddo e la notte lo
abbracciassero.
Ancora in bocca il sapore di quel bacio non dato.
I polsi le bruciavano. E lei non voleva che quel dolore
svanisse… le serviva per ricordare che stava per sbagliare.
Nessuno poteva vantarsi di averla avuta. Era lei a prendere quello che
voleva, ma con Riley era diverso. Era capace di farla cedere, di vedere
i punti deboli della sua barriera.
Quando era piccola e
aveva avuto paura dei suoi incubi non c’era stato nessuno.
E lei non aspettava.
Adesso non voleva
più nessuno; era tardi.
Qualsiasi cosa fossero le ombre, riguardava solo lei.
L’avevano lasciata in pace giusto il tempo di
un’illusione, solo per tornare e scaraventarla di nuovo nel
suo incubo… L’incubo della follia.
<< E se
soffrisse di allucinazioni? >>.
<< Abbassa
la voce, potrebbe sentirti >>.
Non ricordava quando avesse iniziato ad avere allucinazioni, era troppo
piccola.
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Capitolo 10 *** Il fedele destriero ***
14. IL
FEDELE DESTRIERO
Nonostante
gli ultimi avvenimenti, stranamente quella notte piombò in
un sonno profondo.
Quando
la mattina seguente si svegliò, era di buonumore. Il
perché le restava precluso, dato che era alquanto raro che
fosse briosa al suo risveglio.
Di
sotto la attendevano sua zia e Sophie, la simpatica ragazza che aveva
conosciuto la stessa sera del suo arrivo lì.
Non
appena la vide le andò incontro con un sorriso smagliante e
dopo averla salutata le fece i complimenti per la camicia che
indossava; Evelyn non era abituata a simili esempi di eloquenza
mattutina e per un momento le girò la testa.
<<
Hanno telefonato i tuoi genitori >> esordì sua
zia, facendo abbassare di parecchi gradi di contentezza il suo umore.
Aveva completamente dimenticato di farsi viva a casa sua.
<<
E che hanno detto? >> chiese fingendosi interessata.
<<
Volevano solo sapere se stavi bene, hanno detto che richiameranno
presto >>.
Evelyn
si sentì un po’ sollevata, sperando che quel
“presto” non fosse poi tanto prossimo.
<<
Oggi sarò via tutto il giorno, Sophie si è
offerta di tenerti compagnia >> continuò poi
Josephine mentre lei si accomodava a tavola accanto alla ragazza. Non
essendo nelle complete capacità di formulare frasi
sufficientemente coerenti la mattina presto, si limitò a
sorriderle.
Le
attività di sua zia la incuriosivano sempre più,
ma non riteneva di essere abbastanza in confidenza da fare domande.
<<
Ti piace il blu? >> chiese Sophie riscuotendo Evelyn
dall’osservazione della fetta di torta che aveva davanti, che
sembrava assorbire la sua completa attenzione.
<<
Abbastanza… In realtà è il mio colore
preferito, perché? >>.
<<
Intuizione. Indossi una camicia blu e mangi una fetta di torta con la
glassa blu… o meglio osservi la fetta di
torta>>.
<<
Mi sto concentrando >>.
<<
Su cosa? >>.
<<
Cerco di capirlo >>.
Risero
entrambe. Quella ragazza era un concentrato di vitalità. A
Evelyn piaceva sempre di più, complice anche la sua
serenità di quella mattina. Non aveva pensieri per la testa,
senza sapere come fosse possibile.
Sua
zia le lasciò subito dopo la colazione.
<<
Allora, cosa ti va di fare? >> la chiese Sophie saltando
giù dalla sedia.
<<
Non lo so, che cosa fate per divertirvi da queste parti?
>>.
<<
Solitamente attività all’aperto, ma come vedi oggi
non è possibile >> e imbronciata volse lo
sguardo alle gocce che scorrevano lungo le vetrate.
<<
Potremmo guardare la tv >> propose Evelyn.
<<
Ehm… Non te ne sei accorta? Non l’abbiamo
>>.
<<
Come? >> esclamò l’altra sconvolta.
<<
Non c’è la copertura di rete, né per
internet né per la televisione, è colpa del
brutto tempo credo >>.
Che posto è mai
questo… dove sono finita? Si disse la
malcapitata ragazza di città.
<<
Lo so, dev’essere strano per te, ma è solo il
tempo… >>.
<<
…Di farci l’abitudine >>
finì la frase per lei. Ormai conosceva quella battuta a
memoria.
Trascorsero
ore stravaccate sul divano, semplicemente a parlare.
<<
Josephine lavora? >> chiese a un certo punto Evelyn.
<<
In un certo senso… Ah! Guarda ha smesso di piovere
>> disse quella alzandosi e lasciandola senza una
risposta.
<<
Sai cavalcare? >> esclamò sorridendo.
<<
Sì >> mentì la ragazza di
città. Dopotutto aveva sempre desiderato imparare e pensava
che non dovesse essere poi troppo difficile.
Dopo
averla costretta a indossare un paio di stivali, che aveva tirato fuori
da un ripostiglio dove la polvere era indefessa dominatrice, la
condusse alla stalla della villa.
<<
Scegli >> la incitò affabilmente mentre
percorrevano il corridoio.
Evelyn
fu particolarmente attratta da un ronzino dal manto nero, certo non era
l’élite dell’equitazione, ma le
sembrò ottimo per muovere i primi passi.
<<
Come si chiama? >> chiese allungando una mano per
accarezzargli il muso.
<<
Oh, Freccia… E’ zoppo >>.
Evelyn
scoppiò a ridere, non che le disgrazie dell’equino
la divertissero, ma in quel posto le stranezze non finivano mai.
Alla
fine Sophie le accollò un Hunter, giusto per renderle ancora
più difficile salire in sella. Ci riuscì al terzo
tentativo, ringraziando la sua discreta agilità.
Tramite
un cancello posteriore sbucarono nel bosco e iniziarono a procedere
lentamente.
Anche
in sella al cavallo Sophie continuava a chiacchierare. Evelyn
partecipava abbastanza attivamente alla conversazione, fin troppo
soddisfatta delle sue innate doti da cavallerizza… non
riuscì nemmeno a capire che cosa fosse passato davanti al
cavallo tanto velocemente, che quello partì al galoppo.
<<
Fermo! >> urlò mentre tirava forte le redini.
Non sortì il minimo effetto.
Il
fedele destriero sfrecciava per il bosco, e sembrava non aver per nulla
intenzione di desistere dalla sua corsa. Ormai aveva seminato Sophie,
non riusciva nemmeno a sentirla.
A
quel punto tenersi forte le sembrò la cosa più
saggia da fare.
Non
aveva la più pallida idea di dove fosse finita e il sentiero
si faceva sempre più impervio.
<<
No! >> gridò mentre il cavallo puntava verso
un precipizio.
Stava
valutando l’idea di buttarsi giù, anche a costo di
rompersi qualche osso, quando un altro cavallo la affiancò.
<<
Lascia le redini >> esclamò una voce maschile.
In
una frazione di secondo Evelyn, che non seppe trovare una soluzione
migliore che obbedire, mollò le briglie e lui se la
issò in sella prendendola per i fianchi, come se fosse stata
leggerissima.
Il
cavallo sul quale si trovava adesso si fermò, mentre
l’altro, imperterrito, proseguiva la sua corsa.
<<
Tutto bene? >> le chiese Alexander con un sorriso.
Alla
vista del suo salvatore la ragazza avvampò. <<
Certo!… non so cosa gli sia preso >> rispose
comportandosi come se fosse stata un’esperta cavallerizza.
Alexander
la fece sistemare meglio in sella, davanti a lui, poi fece dietrofront
e ripartì. Evelyn lanciò un’occhiata al
cavallo dissennato, augurandosi che tornasse tutto intero a casa.
<<
Devo ammettere che è difficile sorvegliarti, non so se te le
cerchi o se siano loro a trovare te >> se ne
uscì lui all’improvviso.
<<
Come? >> fece lei stupita.
<<
Le disgrazie. E’ già la seconda volta che ti cacci
nei guai da quando hai lasciato la tua pacifica città
>>.
<<
Scusami ma non ti seguo >>.
<<
Sul traghetto >> disse in tono tranquillo, come se stesse
chiacchierando di futilità, e quando Evelyn
sollevò lo sguardo lo trovò sorridente.
Ecco
dove l’aveva già visto. Nella sua corsa dentro il
parcheggio gli era finita addosso, ma con quel buio non era riuscita a
memorizzare bene la sua faccia.
Il
problema era che quella volta lei non sapeva nemmeno da cosa stesse
scappando.
<<
E che pericolo avrei corso sul traghetto? >>.
<<
Nulla di grave >>.
C’era
almeno una persona in quel posto che concedesse risposte concrete?
<<
Grazie per il salvataggio >>.
<<
Non c’è di che >> rispose,
sfoderando un altro dei suoi sorrisi seducenti.
<<
Aspetta… ma che volevi dire con
“sorvegliarti”? >> domandò
ripensando a quello che le aveva detto.
Quello
assunse un’espressione seria << Non sei
più nella tua tranquilla città, Ev…
Sta ricominciando a piovere, tieniti >> fu tutto quello
che disse, prima di partire al galoppo.
Si
fermarono in una stalla diversa da quella che Evelyn ricordava, e
quando Alexander la aiutò a scendere dal cavallo per entrare
in casa, si rese conto che non erano nella villa di Josephine.
<<
Casa di tua zia è troppo lontana e sta diluviando
>> le spiegò mentre la conduceva dentro, in un
ambiente che le parve antichissimo.
Lo
seguì su per le scale e attraverso un corridoio. Imboccarono
una porta che li condusse dentro a una sala da pranzo.
Attorno
al tavolo erano riuniti una decina di ragazzi. Evelyn si
bloccò, ma Alexander le circondò i fianchi con un
braccio incoraggiandola a procedere.
Poi
iniziò a presentarle i presenti. Nomi che difficilmente
avrebbe ricordato.
<<
Eravamo tutti ansiosi di conoscerti >>.
<<
Finalmente eccola, la famosa nipote di Josephine >>.
<<
E’ davvero un piacere averti qui >>,
parlò per ultimo un ragazzo dai capelli rosso scuro, ed
Evelyn pensò che se lui era contento di averla
lì, non si poteva dire lo stesso di colui che gli stava
accanto. Riley non si era nemmeno degnato di alzarsi, se ne stava
ancora piegato in avanti sulla sedia, sembrava infuriato.
<<
Se vuoi concederci l’onore di restare un po’,
possiamo riaccompagnarti più tardi >> le
dissero cordiali. Con una voce talmente sincera che era certa che non
avrebbe mai potuto rifiutare…
<<
No. E’ tardi, Evelyn deve tornare a casa >>
decretò Riley, impassibile << Aspettami in
macchina >> continuò rivolto solo a lei.
Stava
per mandarlo amabilmente a quel paese ma Alexander la
anticipò << Ha ragione, è troppo
tardi, sarà per un’altra volta >> le
disse dolcemente. E ad Alexander non poteva dire di no.
Così
le toccò dirigersi alla macchina di Riley, delusa. Nella
speranza che almeno non la lasciasse lì ad aspettare.
<<
Non devi dirle niente >> sibilò Riley dopo
aver preso Alexander da parte.
<<
Vuoi farla impazzire? >>.
<<
E’ meglio così, per ora. Cosa le hai detto?
>> esclamò, tutt’altro che calmo.
Alexander
sbuffò << Niente di più di
ciò che ha visto con i suoi stessi occhi. Ha pur sempre
bisogno di spiegazioni >>.
<<
Lasciamole tempo >> continuò irremovibile.
<<
Prima o dopo, cosa cambia? E’ la figlia di William, ha il
diritto di sapere la verità sui suoi genitori
>>.
Aspettare
era snervante. Per di più la pioggia era degenerata in una
tempesta con tanto di lampi. E Riley ancora non arrivava, era sempre
colpa sua, puntualmente la faceva imbestialire.
All’opzione
di girare la chiave nel quadro e dare gas preferì
più coscienziosamente quella di sprofondare nel sedile, per
non vedere quella luce biancastra che illuminava il cielo.
<<
Stai bene? >>.
Evelyn
si voltò di scatto, non si era accorta che Riley era salito
in macchina.
<<
Non mi piacciono i lampi >>.
Quello
sorrise.
<<
La cosa ti diverte? >> lo provocò mentre
l’auto partiva, lasciandosi alle spalle la villa di Alexander.
<<
No, ma quando ti arrabbi sei così carina…
>> disse in tono provocante.
Evelyn
non era certa di aver sentito bene.
<<
Se continui così, un giorno avrai la dimostrazione che
quando mi arrabbio sono tutt’altro che carina
>>.
Quello
rise, poi cambiò discorso << Che hai combinato
oggi pomeriggio? >>.
<<
Niente! >>.
La
guardò in silenzio.
Evelyn
ricordò il promemoria che si era fatta: Se non gli piace quello che hai
detto non si degna di rispondere.
<<
Preferivo tornare a casa col cavallo >> sbuffò
esasperata alla fine, strappandogli una risata.
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Capitolo 11 *** Grisham, pensieri e una campionessa... ***
15.
GRISHAM, PENSIERI E UNA CAMPIONESSA…
Non appena rientrò in casa sua zia le corse incontro,
preoccupata, per sincerarsi delle sue condizioni di salute.
<< Sto bene! >> cercava di spiegarle la
ragazza, ma ormai si era fatta un altro promemoria: Quando zia Josephine perde la
calma, niente può farla tornare i sé.
<< Mi dispiace davvero tanto >> le disse
Sophie amareggiata, avvicinandosi e abbracciandola.
<< Non dirai sul serio? >>
esclamò ridendo Evelyn allontanandola gentilmente da
sé.
<< Cortesemente, la piantante? Come potete vedere
è tutta intera, viva e vegeta >> Intervenne
Riley.
Sua zia parve calmarsi un po’, ma mentre la accompagnava
nell’altra stanza le tenne comunque un braccio attorno ai
fianchi.
Erano tutti così premurosi da quelle parti… e a
Evelyn non dispiaceva. Solitamente non riceveva tutte quelle
attenzioni; era abituata a sentirsi dire “alzati”
quando cadeva, piuttosto che “stai bene?”. Non
sapeva dire se dipendesse dal distacco che i suoi genitori adottivi
avevano nei suoi confronti, o se si trattasse semplicemente del loro
carattere.
Nell’altra stanza attendevano tre persone.
Un uomo sui quarant’anni, massiccio, ma con un volto che
ispirava simpatia già dal primo momento. Quando la vide si
limitò ad alzarsi e sorriderle.
La donna che gli stava accanto invece, una rossa dagli occhi
chiarissimi, le andò incontro e le prese le mani.
<< Finalmente abbiamo il piacere di conoscerti!
>> disse dolcemente.
<< Il piacere è tutto mio >>
rispose Evelyn coinvolta dal suo entusiasmo.
<< Bradley e Susan sono due carissimi amici di famiglia
>> glieli presentò sua zia.
La ragazza si chiese quanti altri amici potesse avere sua zia.
Poi il suo sguardo si posò su una sedia poco distante da
lei; ad occuparla era un bambino. Dal colore dei suoi capelli
intuì che dovesse essere il figlio di Susan, ma aveva occhi
scurissimi, come Bradley, che forse era il padre.
<< Lui è Grisham. Non farci caso
lui… >> Aveva iniziato la donna dai capelli di
fuoco, ma la frase le morì in gola quando il bambino
sollevò gli occhi dal pavimento, e rivolse a Evelyn uno dei
sorrisi più luminosi che lei avesse mai visto. La ragazza
ricambiò di cuore.
Poi notò che nessuno parlava; Susan si era portata una mano
alla bocca, gli altri osservavano come se avessero visto un evento
rarissimo.
<< Avvicinati, parlagli >> le
sussurrò piano Riley.
Anche se non capiva bene cosa stesse succedendo, e perché
fossero rimasti tutti a bocca aperta, Evelyn
s’inginocchiò all’altezza del viso di
Grisham.
Stupendo tutti ancora una volta, fu il bambino a parlare per primo.
<< Come sei bella, assomigli a una bambola
>> le disse con un altro sorriso. Poi il suo sguardo si
spostò su Riley.
<< Che gentiluomo >> rispose lei
allegramente, senza voltarsi sebbene sentisse gli sguardi dei presenti
bruciarle sulla schiena.
Cosa c’era di strano in quella situazione?
Il bambino rise, poi suo padre lo prese in braccio e si strinse a lui.
<< Sei davvero speciale Evelyn. Prometti che verrai a
trovarci presto >> le disse Susan prendendole le mani.
<< Ma certo >> rispose con un sorriso la
giovane.
L’ora era tarda, e la famiglia salutò tutti e si
defilò.
<< Ci hai quasi commossi >> disse Sophie.
<< Ho notato… ma… >>
balbettò l’altra, continuando a non capire.
<< Vedi, Grisham è un bambino particolare, di
solito non parla con gli sconosciuti… beh diciamo che non
parla e basta >> disse sua zia con una punta di tristezza.
<< E’ autistico >>
affermò Riley. Pragmatico e conciso come sempre.
<< Ah… >> fu tutto quello che
riuscì a dire la ragazza.
<< E’ stato bello vederlo tornare tra di noi,
anche se solo per un momento. Dovresti fargli visita, gli farebbe bene
parlare con qualcuno… cioè parlare…
ogni tanto >>.
<< Lo farò senz’altro
>>.
Non che Evelyn avesse una particolare simpatia per i marmocchi, ma
anche lei era rimasta vittima del sorriso di quel bambino dai capelli
color del tramonto e gli occhi di cioccolata.
Sophie dichiarò che era tardi e doveva tornare a casa, sua
zia la accompagnò fuori.
Così rimasero soli, Evelyn e Riley.
Lui ricadde su una poltrona, una gamba abbandonata sul bracciolo, e
l’attenzione completamente focalizzata su di lei.
A lei la situazione non piaceva per niente.
Le tornò in mente quel momento, quando i loro visi erano
stati a un soffio l’uno dall’altro, e quando
l’aveva stretta a sé, vedendola smarrita.
Aveva cercato di non pensarci per tutto il tempo, ma adesso, di nuovo
in quella stanza, con solo lui a fissarla… Ma dopotutto non possiamo
precluderci i pensieri per sempre, prima o poi, che ci
piaccia o no, arriveranno, e dovremo fare i conti anche con
ciò che non ci piace.
E lei, la ragazza con la
corazza, era indiscussa campionessa, quando si trattava di esiliare gli
sgraditi pensieri.
Però per quanto potesse ammettere di essere stata una
vigliacca, a lasciarsi intrappolare in quel modo da quel manipolatore,
l’avrebbe ammesso solo con sé stessa, non avrebbe
aperto bocca. Non gli avrebbe mai più concesso di vincere.
Avrebbe combattuto con ogni arma pensabile, prima di lasciargli
scalfire di nuovo la sua armatura.
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Capitolo 12 *** Quando il gatto non c'è ***
16.
QUANDO IL GATTO NON C'E'
Evelyn
si lasciò cadere sul divano con un sospiro di piacere, che
non sfuggì a Riley, il quale esibì il suo solito
sorriso tentatore; ma lei era troppo impegnata a compiacersi
dell’avere un appoggio morbido e confortante sotto il
fondoschiena, tutt’altra cosa della dura consistenza della
sella, per degnarlo anche solo di un briciolo di attenzione.
Quando
sua zia fu di ritorno il ragazzo si alzò subito, pronto ad
andarsene.
All’improvviso
sembrava aver fretta.
<<
Direi che adesso puoi andare, Riley >> gli disse
Josephine.
Quello
reagì con un semplice cenno, poi si avviò
all’uscita.
<<
Buonanotte Ev… e cerca di non cacciarti nei guai, per favore
>>.
<<
Buonanotte Riley >> fu tutta la disinteressata risposta
che gli concesse.
Passarono
i giorni, tranquilli, senza altri imprevisti.
Evelyn
impiegava il suo tempo per lo più leggendo, ma si godeva
anche la compagnia di sua zia, di Rose, di Sebastian… Aveva
scoperto che era piacevole avere accanto quelle persone.
Andava
anche a trovare Grisham di tanto in tanto. Il bambino le dimostrava una
sviscerata simpatia e i suoi genitori erano felicissimi che il figlio
ogni tanto uscisse dal suo personale mondo isolato.
Nessuno
si faceva vivo a casa di sua zia; né Sophie, che aveva
sperato venisse a trovarla spesso, né Alexander, che si era
mostrato adorabile con lei… di Riley nemmeno
l’ombra.
Aveva
provato a chiedere il perché della loro inspiegata assenza,
ma le avevano concesso risposte molto vaghe, o avevano sviato il
discorso.
In quel posto, se qualcuno non
aveva voglia affrontare un discorso, era bravo a non farlo.
Nonostante
le sue giornate trascorressero serene, aveva comunque notato che le
persone intorno a lei avevano iniziato a comportarsi in modo strano,
quasi circospetto.
Non la lasciavano uscire neanche in giardino; quando erano dentro casa
Sebastian, anche mentre intratteneva una conversazione con lei,
passeggiava in continuazione di fianco alle finestre, andata e ritorno,
per ore.
Come
se stesse aspettando qualcuno.
La
costringevano ad andare a letto presto.
Non
aveva mai nemmeno messo piede in città.
Era
una mattina come le altre quando sua zia annunciò che
sarebbe andata a sbrigare delle commissioni in città.
A
Evelyn sembrò strano che non ci andassero Sebastian o Rose
come sempre, ma d’altra parte poté finalmente
cogliere l’occasione che aspettava.
<<
Posso venire? >> chiese con ingannevole noncuranza.
Aveva
un disperato bisogno d’aria.
Sua
zia non rispose subito, sembrava combattuta.
<<
Certo >> acconsentì alla fine Josephine.
Sapeva
benissimo che la nipote, dopo quella forzata reclusione che era durata
già troppo, se non avesse avuto il permesso di uscire, se lo
sarebbe preso da sola.
E se
fosse scappata, magari di notte per rischiare ancor meno di essere
scoperta, le cose sarebbero state molto, molto più tragiche.
Anche così non era prudente, no, non lo era per niente; ma
almeno sarebbe stata con lei.
Arrivarono
alla jeep lievemente bagnate dalla pioggerellina che scendeva sullo
scenario avvolto dalla foschia, lenta; lenta come la
velocità che Sebastian stava mantenendo.
A
dispetto del pronostico di Evelyn che sarebbero arrivati a destinazione
a tarda sera, per mezzogiorno erano in città.
Era
esattamente come la ricordava, antica e buia.
E
deserta.
Le
strade erano completamente vuote, le porte e le finestre serrate.
Quella
desolazione non l’aveva notata, la prima volta che ci era
stata.
<<
Copriti bene, fa freddo >> le disse sua zia mentre apriva
lo sportello per scendere.
Non
appena Evelyn mise piede fuori dalla vettura, l’aria gelata
la investì.
Com’era
possibile che a Giugno facesse così freddo da quelle parti?
Aveva
mosso appena pochi passi quando scivolò e finì
sul selciato bagnato. Sebastian si precipitò ad aiutarla,
<< Fa’ attenzione, la strada è
bagnata >>.
Camminò
reggendosi al suo braccio finché non arrivarono alla bottega
che sua zia doveva visitare.
Non
appena mise piede oltre la soglia un piacevole profumo di legno e carta
consumata le invase le narici. La stanza le sembrò
minuscola, ma osservando con più attenzione
l’ambiente, si rese conto che era enorme; era tutto
ciò che lo occupava a farlo apparire più piccolo.
Le
pareti erano tappezzate di scaffali contenenti libri, scatole delle
forme più disparate e bottiglie e ampolle di ogni sorta e
colore. Sotto gli scaffali cassettiere e credenze le cui ante di vetro
lasciavano intravedere altre boccette, oggetti che Evelyn non
riuscì a identificare e animali imbalsamati.
Si
avvicinò a un ripiano, osservandosi riflessa nella pupilla
di un uccello dal piumaggio corvino.
All’insegna del
macabro, commentò nella sua mente.
<<
Chi c’è? >> urlò una voce
gracchiante.
Seguendone
il suono Evelyn sollevò lo sguardo alla passerella che
girava tutta intorno alla stanza, soprastante il primo ordine di
scaffali.
<<
Ah, Josephine. Scendo subito >> continuò la
voce da cornacchia, che si abbinava perfettamente alla sua
proprietaria, una donna minuta, con pochi capelli in testa e un occhio
di vetro.
Quando
se la ritrovò a pochi passi di distanza la ragazza si chiese
quanti secoli potesse avere.
<<
Perché non dai un’occhiata in giro, Ev? Ci sono un
sacco di libri >> le suggerì sua zia, che
evidentemente aveva bisogno di parlare con l’uccello del
malaugurio in privato.
La
vecchia nel frattempo la stava squadrando con uno sguardo
indecifrabile; Evelyn si sentì trapassare da parte a parte
da quell'unico occhio funzionante e si allontanò in fretta,
come a volerle nascondere quello che stava cercando.
Iniziò
a scorrere con gli occhi i titoli dei libri sugli scaffali.
Dopo
averne sfogliato un paio e averli messi da parte per cercare qualcosa
di meglio, una copertina scura attirò la sua attenzione, si
avvicinò per leggere meglio il titolo: “Le ombre”.
Passò
velocemente a un altro scaffale.
Sfogliò
qualche volume di biologia e alcuni atlanti.
Poi
prese un tomo che non recava alcun titolo e aprì una pagina
a caso.
Il Nosferato, più
comunemente noto ai mortali col nome di Vampiro, è un essere
dall’infinita astuzia.
Malvagie e subdole, queste
creature demoniache della notte sono più veloci e
più agili dei demoni stessi. Vivono del sangue dei viventi e
hanno la capacità di prendere pieno possesso della mente
delle loro ignare vittime, influenzando i loro pensieri e il loro
umore.
Umano sta’ in guardia,
il Vampiro non è brutto, non è
rivoltante… è cinto da un’aura di
fascino, eleganza e affabilità.
Se lungo il tuo cammino
t’imbatti in un immortale, sei perduto.
Non cercare riparo alcuno, che
sia porta sprangata o chiesa.
Non sperare che la
più sanguinaria delle spade possa scalfirlo.
Non illuderti che il giorno
possa proteggerti con la sua luce.
Voltò
pagina, ma trovò solo il margine irregolare di quelle che
erano state strappate.
Lo
ripose e senza avere il tempo di capire meglio ciò che aveva
appena letto la sua attenzione fu catturata da un altro libro che era
precipitato dal suo alloggio con un tonfo sordo, lo raccolse; I proverbi non sbagliano mai,
recava inciso in dorato la lisa copertina viola. Aprì
affidandosi al caso…
“Quando il gatto non
c’è, i topi ballano!”
<<
Evelyn, andiamo >> la riscosse la voce di sua zia.
Posò
in fretta il libro e la seguì fuori da quel luogo
asfissiante.
Camminava
vicino ai muri per trovare appiglio dalle pietre bagnate che le
scivolavano sotto i piedi. Improvvisamente avvertì una fitta
dolorosa all’avambraccio sinistro e si voltò
fulminea per liberarsi dalla morsa che la stringeva.
Incontrò lo sguardo spiritato di un vecchio vestito di cenci.
<<
Bentornata, piccola Evelyn >> scandì con voce
melliflua, mostrando i pochi denti che gli erano rimasti in un sorriso
malevolo.
La
giovane tentò di liberarsi, ma quella stretta era salda
tanto quanto l’aspetto del vecchio gracile.
<< Il tuoi gatti ti hanno lasciata sola, e se non ci sono
i gatti a farti da guardia... >>.
<<
Lasciala! >> urlò Sebastian, raggiungendola e
spingendola dietro il suo corpo massiccio, mentre con la mano libera
piegava il braccio del vecchio, che si era ammutolito.
Poco
dopo arrivò sua zia e prendendola per le spalle la
tirò verso la jeep.
Mentre camminava sentiva il vecchio urlare.
Qualche
secondo e arrivò anche Sebastian. Prima ancora di chiudere
lo sportello diede gas e l’auto partì velocemente.
Evelyn
si tolse la giacca e sollevò la manica del golfino;
osservò le minuscole sfere vermiglie che fuoriuscivano dalle
mezzelune sulla sua pelle bianca.
<<
Come faceva a conoscere il mio nome? >> chiese atona, lo
sguardo ancora sul sangue che risaltava sulla carnagione candida.
<<
Si è parlato molto di te, in tutto il paese >>
rispose sua zia senza voltarsi.
La ragazza rimase in
silenzio, abbandonò il braccio in grembo e si
appoggiò allo schienale voltandosi a guardare le gocce
d’acqua scorrere sul finestrino, così come
sottilissimi rivoli di sangue le scorrevano sulla pelle.
Nella testa le
rimbombavano ancora le grida del vecchio... "Arriveranno
i topi!".
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Capitolo 13 *** Il ritorno delle ombre ***
Ringrazio
di cuore S. per le sue revisioni.
E le chiedo perdono per i troppi riferimenti al liquido rosso che odia
tanto.
17. IL RITORNO DELLE OMBRE
I
PARTE
(Trentuno
per uscire dall’incubo)
Una luce dorata e un
pungente odore di fumo dominavano l’aria, rendendola calda e
accogliente.
La bambina si sedette
vicino al camino, la sua voce delicata si mischiò al
crepitare delle fiamme << Voglio fare scherma
>>.
<< Come?
>> esclamò stupito suo padre.
<< Voglio
fare scherma >> ripeté la piccola spostando lo
sguardo dal fuoco ai suoi occhi.
<< Non
puoi fare danza o ginnastica, come tutte le tue coetanee?
>> disse freddo.
<< Voglio
fare scherma >>.
L’auto sfrecciava sulla strada, e l’unico rumore
che poteva udirsi era proprio quello degli pneumatici, al massimo della
loro potenza, fendere l’acqua che grondava
sull’asfalto. Nessuna parola, nessun respiro… o
forse lo stavano semplicemente trattenendo, il respiro.
Una volta arrivati, Evelyn fu trascinata dentro da sua zia, mentre
Sebastian andava chissà dove.
<< Che succede? >> chiese la ragazza, mal
celando la sua preoccupazione.
Nel frattempo era arrivata Rose, con acqua ossigenata e garze.
<< Il braccio >> le ordinò sua
zia avvicinandosi, come se non l’avesse sentita.
Evelyn aveva pazientato fin troppo, per il suo carattere.
<< Ti ho fatto una domanda! >>
gridò, scostando bruscamente il braccio dalle mani di sua
zia.
<< E’ pericoloso uscire da casa
>> si decise a risponderle, se risposta quella si poteva
chiamare.
<< Perché? >>
continuò la ragazza, abbassando un po’ la voce.
<< Tanti motivi >>.
<< Elencali >>. Non era intenzionata a
desistere.
<< Il brutto tempo innanzi tutto, la nebbia… e
la città è poco affollata, come hai visto. Non
è mai prudente andarsene in giro quando non
c’è altra gente nei dintorni, non te
l’hanno insegnato? >>.
<< Qualcuno è rimasto, e no, non me
l’hanno insegnato, perché non è
prudente? >>.
<< Perché quando rimane qualcosa è
sempre il peggio… non ti hanno insegnato nemmeno questo?
>>.
<< No, ma l’ho imparato da sola
>>.
Evelyn ripensò a quel vecchio, alla sua risata mentre
gridava frasi senza senso.
Le tornarono in mente le parole dei libri.
Ripensò a ciò che nella sua vita aveva visto
rimanere.
Rimane sempre il peggio.
Non disse più nulla, mentre le medicavano il braccio,
né mentre cenava, né mentre si alzava per
ritirarsi nella sua stanza.
Beh, per cominciare,
quella notte di quattordici anni prima, dopo l’incidente, era
rimasta lei.
Non sapeva per quanto tempo fosse rimasta sveglia a osservare
l’oscurità.
Se ne stava sdraiata sul letto, con ancora addosso i vestiti, e non
riusciva a chiudere occhio.
<< Quando
il gatto non c’è, i topi ballano! >>.
Si sollevò rapidissima, si guardò intorno,
cercando di capire se davvero l’avesse sentito o se
l’avesse solo immaginato.
Solo buio.
<< Stanno
arrivando >>.
Sfrecciò fuori dal letto e cercò qualcosa per
illuminare quella dannata oscurità.
Frugò sul comodino e sullo scrittoio, ma non c’era
traccia dei lumi che vi erano stati posati sopra per giorni; nei
cassetti, non una torcia o una candela; nella cassapanca ai piedi del
letto, nemmeno un accendino o un fiammifero.
Si fermò per un momento, in ascolto, ancora inginocchiata.
<<
Arriveranno i topi! >>.
Scattò in piedi e si voltò verso destra,
lì dove quel sussurro le aveva sfiorato l’orecchio
e ciocche di capelli.
Di fronte a lei la finestra.
E sebbene quella notte la luna si nascondesse con accuratezza, e non
concedesse il privilegio della sua luce, le vide lo stesso.
Le care vecchie amiche
che erano tornate, solo per lei.
<< Sono
arrivati i topi… >>.
Un altro sussurro la inseguiva nella sua corsa verso la porta.
<<
… e visto che il gatto non c’è, possono
ballare >>.
Forzò la maniglia e spinse con tutta la forza che la paura
le concedeva.
<< Sono
tornate le ombre >>.
Fu l’ultimo bisbiglio che udì, prima di lanciarsi
verso il buio dei corridoi.
Correva, e sentiva il freddo e la paura, con solo un corpetto leggero a
coprirle il busto e nulla a proteggerle il cuore.
Quando se lo ritrovò davanti sorrise, perché
sapeva già che era lì che doveva finire. Il
corridoio dei ritratti.
Allora aspettò che anche la tempesta venisse,
perché sapeva che sarebbe arrivata anche quella.
Riprese a correre, quando i primi lampi e tuoni squarciarono
l’oscurità e il silenzio.
Si fermò di nuovo, quando un’ombra
sferzò l’aria davanti a lei.
Quando un’altra le lambì le spalle, chiuse gli
occhi per non vedere.
Fece appello a tutta la sua razionalità per non lasciarsi
vincere dal panico; si accostò alla parete e vi
poggiò una mano. Ricominciò a correre
più veloce di prima, contando ogni dipinto; solo trentuno
per uscire dall’incubo.
I fruscii continuavano a sfiorarle la pelle nuda delle braccia, il viso.
Undici,
calcolò senza parlare a voce alta.
Aumentò la velocità.
Ventuno.
Iniziò ad ansimare per la stanchezza.
Trentuno.
Evelyn spalancò gli occhi e le vide. Le ombre la aspettavano
alla fine del corridoio, ma non era lì che lei era diretta.
Raccolse le ultime briciole di forza dalla sua stessa paura.
Spalancò la finestra e saltò.
Si avvitò su se stessa per attutire la caduta e
atterrò piegandosi sulle ginocchia, con una lieve fitta che
partendo dalle caviglie le salì per le gambe.
Si alzò subito e ricominciò a correre verso il
bosco.
Adesso procedere era più difficile, gli stivali affondavano
nel fango e la pioggia le inumidiva gli occhi.
Fu costretta a rallentare e i sussurri si fecero più vicini.
Di nuovo la paura le offuscò la mente.
Ma non sempre la paura è una nemica, se muove a trovare
migliori vie d’uscita.
Evelyn saltò contrò un tronco e si
voltò rapida per atterrare su una roccia opposta
all’albero.
Continuò a procedere sul lato roccioso del bosco, saltando
da una pietra all’altra quando era necessario.
Il rischio di cadere era maggiore, ma almeno il fango non la
rallentava, e riacquistò velocità.
Non aveva la più pallida idea di dove stesse andando, ma
l’unica cosa che il suo istinto le suggeriva era di correre,
e lei correva, anche se aveva iniziato a credere che non sarebbe andata
da nessuna parte.
Si trovò davanti a un dirupo e arrestò le gambe
un attimo prima di fare un passo nel baratro.
Adesso ne sono certa,
non sono solo allucinazioni, pensò mentre la
spingevano giù.
Riuscì ad atterrare in piedi, ma lo strapiombo era comunque
troppo alto e per quanto agile potesse essere gli servì solo
ad attutire la caduta e non fratturarsi posti che nemmeno voleva
pensare; non appena toccò il suolo cadde lateralmente, con
un dolore lancinante alle ginocchia.
Di correre non se ne parlava.
Stava per perdere le speranze, quando un suono familiare la
rincuorò.
<< Stavolta ascoltami, maledetto cavallo squilibrato
>> disse guardando nella direzione dalla quale le era
pervenuto il nitrito.
Istintivamente fischiò e subito dopo cercò di
rimettersi in piedi.
Ci riuscì reggendosi all’animale che,
chissà per quale strano allineamento degli astri o
volontà divina, era corso da lei.
Montò in sella al primo tentativo e calciò i
fianchi dell’Hunter, che partì al galoppo.
Mentre sfrecciava per il bosco senza seguire alcun itinerario concreto,
senza altro pensiero in testa se non quello di scappare,
improvvisamente infastidita, afferrò entrambe le redini con
la mano destra, mentre controllava il suo braccio sinistro.
Poco sopra i segni che già aveva da quella mattina, si
allargava una striscia rossa.
Il sangue le bagnò la mano.
Ci aveva messo troppo a montare in sella al cavallo.
Strappò una striscia di stoffa dalla parte inferiore del
corpetto e trattenne un grido di dolore quando, dopo essersela avvolta
intorno al braccio a coprire la ferita e tenendone
un’estremità con i denti, tirò forte
con l’altra mano.
Miracolosamente nel frattempo il cavallo non l’aveva
disarcionata.
Riafferrò le redini, il braccio che ancora le bruciava, e
spronò ancora l’animale a procedere più
velocemente.
La sua corsa verso l’ignoto terminò in una radura
circondata da alberi altissimi. All’estremità
dello spiazzo attendeva un uomo.
Evelyn non poteva intravedere i suoi lineamenti e anche la corporatura
le veniva celata dal mantello scuro che indossava.
Tirò le redini e si fermò.
<< Ti conviene scendere dal cavallo >>
disse l’uomo, muovendo un passo avanti.
Se le avessero chiesto il perché non avrebbe saputo dare una
risposta ma Evelyn si disse che era vero.
Non poteva scappare.
Smontò e fece anche lei qualche passo avanti.
<< Che cosa vuoi da me? >> chiese
abbastanza forte perché lui potesse udirla.
<< Vendetta >> rispose l’uomo. E
un lampo gli illuminò i canini affilati scoperti in un
ghigno.
Iniziò a camminare verso di lei.
La giovane si guardò intorno, facendo ancora una volta
appello al suo istinto.
Trovò quello che cercava a una ventina di passi da lei.
Chi era che si stava
divertendo a giocare con lei?
Mettendola prima in
pericolo e poi offrendole una possibilità di salvarsi la
vita?
Non sapeva se ce l’avrebbe fatta a raggiungere quel punto
lontano una ventina di passi, magari correndo solo dieci, prima che lui
raggiungesse lei, ma provò lo stesso.
Scattarono entrambi nello stesso istante.
Evelyn sentì la fitta straziante alle ginocchia,
già doloranti per le cadute, ma sapeva che sarebbe arrivata.
Corsero insieme.
Dopo averla raggiunta, l’uomo la assalì, ma lei fu
più veloce. Si lasciò cadere
all’indietro, reggendosi con la mano sinistra, sopportando
anche quell’altra ondata di dolore, per non finire supina, e
portandosi il braccio destro dietro la schiena estrasse senza
difficoltà la spada dal terreno, che distava un passo,
dietro di lei.
17. IL RITORNO DELLE OMBRE
II
PARTE
(La danza della morte)
<< Non so
dirle se ha delle capacità, nemmeno ci prova. Quando le
arriva la palla si limita a spostarsi, o a volte se la prende pure
addosso >> disse la donna in pantaloncini e col
fischietto appeso al collo.
L’uomo si
voltò verso la bambina che seguiva la scena senza aprir
bocca, impassibile.
<< Devi
sempre ottenere quello che vuoi, vero? >> le disse.
Nessuna risposta.
L’uomo
sbuffò, esasperato, poi tornò a rivolgersi alla
donna col fischietto << Sa indicarmi una
società di scherma, possibilmente sempre qui ad Aberdeen?
>>.
In
quell’istante una schiacciata male indirizzata
spedì una palla a velocità dritta verso la
bambina.
La piccola Evelyn la
rimandò indietro con un bagher eseguito alla perfezione.
<<
Ma… >> balbettò la donna.
<< Lasci
stare. Vuole fare scherma >> la zittì il padre
di Evelyn.
La lama disegnò un arco nell’aria, sopra la testa
di Evelyn, per poi finire sulla spalla del suo aggressore.
Con un leggero gemito l’uomo si allontanò da lei,
lasciandole giusto lo spazio per sgusciare via, senza però
scomporsi più di tanto, come se il colpo gli avesse fatto il
solletico.
La ragazza, sconvolta, si portò a una distanza ragionevole,
mentre la risata dell’altro sovrastava lo scrosciare della
pioggia.
Se lungo il tuo cammino
t’imbatti in un immortale, sei perduto.
<< Che cosa credi di fare con quella? >>
urlò allargando le braccia.
<< E tu cosa credi di fare senza di questa?
>> gli gridò lei, ostentando una sicurezza che
iniziava già a venir meno, girando il polso e facendo
ruotare la spada di 360 gradi.
Da qualche parte aveva letto qualcosa come “intimidire il
nemico”; fu divertente ma quello non
sembrò per niente intimidito.
Dopotutto con un colpo nel quale aveva impresso tutta la sua forza,
l’aveva in pratica graffiato e basta.
<< E va bene, alla pari! >>
urlò, e in mano gli comparve una spada che per un momento
sconcertò Evelyn.
Poi assunsero la posizione di guardia.
Non cercare riparo
alcuno, che sia porta sprangata o chiesa.
Iniziarono a girare in tondo, riproducendo una versione più
piccola del cerchio che era la forma della radura, senza perdersi di
vista.
Con un movimento fulmineo del polso l’uomo colpì
la spada di Evelyn sollevandola; lei fu rapida a spostarsi lateralmente
per sfilarla dalla presa dell’altra arma e lo
attaccò al fianco.
Il colpo fu parato alla perfezione.
L’uomo fece ruotare entrambe le armi, costringendola ad
assecondare il suo movimento per non perdere di mano l’arma,
per disorientarla, e affondò dritto al cuore.
Evelyn, prevedendo la mossa, si abbassò fulminea e con un
calcio gli falciò le caviglie mandandolo al tappeto, poi
colse il momento per sollevare la spada e puntare al petto del nemico,
che rotolò di lato e si rialzò.
Ebbe inizio il duello vero e proprio.
Tra fendenti e parate, in una danza mortale, di eleganza e
letalità, Evelyn si procurò non pochi graffi, ma
allo stesso tempo stupì il suo avversario.
<< E io che credevo che non sarebbe stato divertente!
>> esclamò con una risata l’uomo,
puntando al ventre della ragazza con un colpo di striscio.
Evelyn parò e seguì lo slancio della spada nemica
scartando di lato all’improvviso e contrattaccando con un
affondo.
Quello fu colto di sorpresa, trascinato dalla forza che aveva impresso
al precedente colpo, e l’attacco della ragazza gli
strappò la stoffa che gli avvolgeva il petto e qualche
goccia di sangue.
Non sperare che la
più sanguinaria delle spade possa scalfirlo.
L’uomo si bloccò e la guardò con occhi
indemoniati.
Evelyn portò la spada all’altezza del petto per
ripararsi, ma la forza del suo nemico era troppa e la sua troppo poca,
così per evitare di ferirsi dovette gettarsi
all’indietro.
Una volta a terra perse la spada e vide la lama, illuminata dalla luce
argentea dell’ennesimo fulmine, puntarle dritta al cuore.
Non illuderti che il
giorno possa proteggerti con la sua luce.
<< No puoi nulla contro un immortale >>
ruggì l’uomo.
Evelyn ebbe appena il tempo di rotolare di lato per evitare il colpo,
ma la spada deviò la sua direzione, e lei non fu abbastanza
veloce da schivarla di nuovo.
Se lungo il tuo cammino
t’imbatti in un immortale, sei perduto.
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Capitolo 14 *** Di rose e di marmo ***
18.
Di rose e di marmo
Ad Alexander non era piaciuta per niente
l’idea di doversi allontanare da Evelyn. Nonostante fosse
solo per proteggerla, l’ansia gli opprimeva il petto.
Quella ragazza, inconsapevole vittima di un odio
che non le apparteneva, all’oscuro della verità,
troppo dolorosa e assurda perché lei potesse esserne messa
al corrente, senza sospettare nulla, era la preda di una caccia che le
era ricaduta addosso per colpa di chi, quando lei non era ancora venuta
al mondo, era stato tanto incosciente da essere parte di un peccato
troppo grave.
E adesso era da sola con il suo talento di
cacciarsi nei guai e nessuno a farle da guardia.
Perché
le sue guardie erano in missione per difenderla, ma erano partite tutte
all’assalto, lasciandola nella fortezza, senza protezione.
E che
cos’è una fortezza senza guardie?
Poteva davvero
proteggerla?
Avevano
creduto di sì, invece lei da qualche parte stava rischiando
la vita.
Il rumore della roccia che si frantumava
squarciò il silenzio.
Tra i blocchi di pietra che erano precipitati al
suolo, l’uomo che era precipitato con loro si alzò.
Con le ferite che grondavano sangue, il volto
tumefatto e il dolore che gli costò piegare le labbra,
sorrise << Avete commesso un errore >>
disse scoppiando a ridere; la risata dei disperati che sanno di andare
a morire.
<< Dimmi
dov’è, e ti donerò una fine veloce
>> ruggì Alexander.
L’essere morente accasciato per terra
rise ancora.
<< Forse non ho reso bene il
concetto, quando parlo di una fine lenta e dolorosa…
>> sibilò allora avvicinandosi.
Si abbassò per afferrarlo per i
vestiti, o quel che ne era rimasto, e sollevarlo.
<< …Non puoi nemmeno
immaginare cosa ti aspetta >> aggiunse, un attimo prima
di scagliarlo con inaudita forza contro le rocce, ancora una volta.
Ma quello non ne voleva sapere di parlare.
Allora Alexander
s’inginocchiò all’altezza del suo viso e
gli mostrò qualcosa che gli brillava nel palmo della mano,
poi fece per avvicinarsi.
E quello finalmente mostrò il terrore
che stava provando. << Nel bosco! >>.
Arrestò la mano a un millimetro dal
suo viso, il fuoco che si spegneva.
<< Non l’hanno portata da
nessuna parte, è ancora lì, per ora
>> confessò in tutta fretta.
Dopo avergli concesso ciò che gli
aveva promesso, Alexander iniziò a correre, mentre anche gli
altri lo raggiungevano.
Nell’illusione di poterla raggiungere
in tempo.
Lei che era a un passo dalla morte.
Il gatto, per
andare a caccia di un solo topo, aveva commesso un errore…
aveva lasciato che gli altri potessero ballare.
Le sue speranze bruciavano, assieme alla strada
che consumava.
Era bastato un errore, e si erano fatti ingannare.
Alexander temeva che se non l’avesse
trovata morta, sarebbe arrivato in tempo solo per vederla morire.
Dopo un’eternità furono
finalmente accolti dal bosco e dalla sua oscurità.
L’acqua continuava a cadere e il forte
odore di terra bagnata rendeva un’ardua impresa seguire la
traccia di Evelyn.
Dopo minuti e minuti, che in quella tragedia si
trasformavano in ore, arrivarono a una radura.
Era tardi.
L’aroma di terra e pioggia era
inesistente lì, sovrastato da qualcosa di più
forte.
Il profumo metallico del sangue impregnava ogni
particella d’aria.
Alexander si avvicinò al centro dello
spiazzo, consapevole e disperato, a osservare la macchia di sangue che
presto la pioggia avrebbe portato via.
Alzò il viso al cielo e
urlò; mentre acqua continuava a bagnare ciò che
era rimasto di quel che avrebbe dovuto proteggere ad ogni costo.
Una voce
melodiosa e triste le carezzava il viso mentre continuava a camminare,
lenta, tra quei pilastri di marmo scuro.
<<
Evelyn >>.
Sollevò
gli occhi senza riuscire a intravedere le volte che ricoprivano la
navata che stava percorrendo.
<<
Evelyn >>.
Proseguì
ancora; i piedi nudi sulla roccia fredda. Nell’aria un forte
profumo di rose.
<<
Vieni da me >>.
Una mano si
tese dall’oscurità dinanzi a lei. Sagome
iniziarono a profilarsi nel buio di quel luogo sconosciuto. Volti che
non conosceva le sorrisero.
<<
Vieni da noi >>.
Come resistere
a quell’incantevole richiamo?
Affrettò
il passo; sfiorò con la punta delle dita la mano che
qualcuno le aveva teso e vide il volto della proprietaria uscire
dall’ombra.
Una donna
bellissima… e infinitamente triste. Piangeva.
Anche Evelyn
si rattristò << Sono morta, mamma?
>>.
Fu una voce
diversa a risponderle, più roca e agitata.
<<
Torna da me >>.
Ma la ragazza
non voleva tornare.
Perché
avrebbe dovuto? Per soffrire ancora?
Se fosse
tornata indietro, cosa l’avrebbe aspettata poi?
<<
Evelyn >> continuò a chiamarla qualcuno da
lontano.
Era
così tranquillo e incantevole quel posto di rose e marmo.
Non si sentiva
fuori posto, infelice o sola.
Tornò
a guardare sua madre. Le somigliava incredibilmente, solo che se lei in
quel momento era serena, l’altra piangeva, in silenzio.
Forse non era
solo marmo e rose la morte.
Forse non era
quello il suo posto, ancora.
La voce
continuava a chiamarla.
<<
Ti prego >>.
Il sorriso di
sua madre fu l’ultima cosa che vide, prima che tutto
diventasse buio e lei tornasse alla vita, incerta se davvero potesse
essere migliore della morte, che seppur fredda e dura come il marmo,
profumava di rose.
<< Dannazione, non morire Evelyn!
>> gridò Riley, mentre le sue speranze stavano
ormai svanendo, insieme al battito cardiaco della ragazza che teneva
tra le braccia.
<< Torna da me >>
sussurrò poi, nell’ultimo, disperato tentativo di
riportarla indietro.
Quando era arrivato in quella radura, convinto
che fosse troppo tardi, l’aveva invece trovata bella e
determinata come non mai; Evelyn aveva combattuto con tutte le sue
forze, ma poi il nemico l’aveva sovrastata, padrone di una
forza che lei non poteva contrastare, e lui non aveva fatto in tempo a
impedire che la lama le lacerasse la carne.
La ferita, seppur non troppo profonda, si era
aperta troppo vicina al cuore di lei. Cuore che in un istante
sembrò concedere l’ultimo battito
all’udito del ragazzo, prima di tacere per istati, o forse
secoli.
<< Ti prego >>.
Le palpebre di Evelyn si mossero
impercettibilmente, poi le sue labbra si dischiusero, conquistando un
respiro.
Riley udì di nuovo i battiti del suo
muscolo cardiaco e il frusciare della stoffa della propria camicia
mentre lei la stringeva con la mano graffiata.
Sorrise, incredulo e felice, mentre la sollevava
prendendola in braccio.
Si allontanò in fretta, udendo i passi
affrettati di qualcuno che arrivava di corsa.
Quando, disperati e colpevoli, avevano visto
arrivare Riley con Evelyn, ferita, ma pur sempre viva, tra le braccia,
avevano avuto voglia di picchiarlo fino a ucciderlo e abbracciarlo allo
stesso tempo.
Alla fine accantonarono la prima opzione
realizzando che lui non poteva sapere che ad arrivare di corsa erano
loro, e portandola via aveva fatto la cosa più saggia.
Mentre cedeva con una punta di riluttanza la
ragazza, che si era addormentata da un pezzo, a chi si sarebbe
prodigato per curarla, Riley si vide arrivare incontro Alexander.
<< Ti avevamo perso di vista,
credevamo fossi rimasto indietro. Come hai fatto ad arrivare in tempo?
>>.
Quello sorrise << Sono sempre stato
più veloce di te >> rispose quasi canzonandolo.
Alexander ricambiò il sorriso,
arrendendosi alla poca propensione del suo interlocutore a dargli
un’effettiva risposta. << Che ne hai fatto?
>> chiese poi, riferendosi all’aggressore di
Evelyn.
Stavolta Riley non si degnò nemmeno di
rispondere.
Guardarono la ragazza sparire al piano di sopra
in braccio a Sebastian.
<< Credi che ti
ringrazierà? >> cambiò discorso
Alexander all’improvviso.
Scoppiarono entrambi a ridere, conoscendo
benissimo la risposta.
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Capitolo 15 *** Una goccia di verità ***
19.
Una goccia di verità
Quando
Evelyn aprì gli occhi fu assalita da una marea di pensieri.
La
prima constatazione alla quale giunse era che le faceva male
dappertutto. Cercò di sollevarsi, ma una fitta straziante al
petto glielo impedì e ricadde con la testa sul cuscino.
Si
voltò di lato e riconobbe l’abituale stanza a casa
di sua zia Josephine. L’ambiente era fiocamente illuminato
dal lume sul comodino accanto a lei.
Chi l’ha riportato?
Si chiese, mentre i ricordi riaffioravano uno dopo l’altro in
tutta la loro assurdità.
Non
sapeva quanto tempo fosse passato dalla sera in cui le ombre erano
tornate a farle visita.
<<
Non sono pazza >> sussurrò. Sollevò
di scatto il braccio sinistro e per un momento ebbe paura di trovarlo
immacolato, senza neanche un graffio. Quando vide i segni rossi
sorrise. Finalmente poteva provare a se stessa che non era follia.
Rivide
sagome scure sfrecciarle davanti mentre correva, tronchi di alberi
scorrere veloci, la terra farsi vorticosamente vicina mentre
precipitava, gli occhi adirati di chi tentava di ucciderla mentre
affondava con la spada vicino al suo cuore… la lama che
volava distante mentre due figure che si aggredivano a vicenda;
sentì quelle parole sussurrate che parlavano di abbandono e
vendetta, il rumore dell’acciaio contro
l’acciaio… la voce che la pregava di tornare
indietro.
Era
tutto così confuso… come se le mancassero alcune
tessere del puzzle che erano stati gli avvenimenti di quella notte.
Di
una cosa però era certa.
Era
successo davvero.
<<
Come ti senti? >>.
Evelyn
volse lo sguardo alla fonte di quella voce.
Alexander
si era già avvicinato e si stava accomodando su una sedia
vicino al letto.
<<
Benissimo >> gli rispose sarcastica.
<<
Mi dispiace tanto >> disse lui con voce triste,
allungando una mano a carezzarle i capelli << Se ti
vedesse tuo padre… gli avevo giurato che ti avrei protetto e
invece guarda che cosa ho fatto >>.
La
ragazza rimase interdetta per un secondo, << Conosci mio
padre? >>.
<< Conoscevo
>> la corresse, facendole capire che non si
riferiva a quello attuale << Eravamo molto uniti
>>.
<<
Io non conosco nemmeno il suo nome >> disse lei,
malinconica.
<<
Il suo nome era William, ma non spetta a me raccontarti questa storia
>>.
Evelyn
avrebbe volentieri obiettato, ma proprio quando si stava presentando
l’occasione per avere finalmente un chiarimento fu colta da
un’improvvisa stanchezza.
<<
Adesso devi riposare, Ev >> le disse Alexander sorridendo
con dolcezza.
Lo
osservò uscire dalla stanza mentre chiudeva gli occhi e
piombava in un sonno profondo e privo di sogni.
Si
destò dopo ore, contrariata. Quando spalancò gli
occhi si rese conto di quanto poco le fosse mancata la luce del sole.
L’aveva da sempre infastidita.
Da
quando era arrivata a Landry aveva piovuto quasi ogni giorno, e il
grigiore del brutto tempo non le era dispiaciuto.
Adesso
la stanza era invasa da riverberi dorati che le illuminavano gli occhi
e i capelli di riflessi rossastri, una caratteristica del suo aspetto
che nascondeva spesso e volentieri.
<<
Allora in fondo un po’ somigli anche a lui >>
le giunse la voce di sua zia, la quale stava ammirando le ciocche
rossicce della sua capigliatura normalmente castana.
<<
E come potrei mai sapere se gli somiglio? Mio padre non è
mai esistito per me… non una parola su di lui, non una
descrizione, né una fotografia >>.
Sua
zia si accomodò sulla sponda del letto << E
come sapevi che mi riferivo a lui? >>.
Evelyn
non si disturbò di aprir bocca per dare una risposta
già ovvia.
Che
avesse i capelli rossi era l’unica cosa che sapeva di lui. Lo
aveva origliato l’unica volta che aveva beccato sua nonna
parlare di lui, ma quando aveva capito che la conversazione era volta a
tutt’altro che elogiarlo non aveva voluto più
sentire ed era corsa via.
<<
Tuo padre si chiamava William DeMordrey e da lui hai ereditato tutto il
tuo talento di cacciarti nei guai >>.
<<
Ancora con questa storia. Potrei sapere che ho fatto? >>.
<<
Innanzitutto la scorsa notte hai avuto la geniale idea di scappare da
sola nel bosco piuttosto che correre da noi >>.
A
quelle parole Evelyn avvertì le lacrime pungerle gli occhi e
si voltò perché sua zia non lo vedesse. Come
osava rimproverarle una cosa simile, lei che non sapeva niente di quel
che aveva passato e del motivo che l’aveva spinta a fuggire?
<<
Vuoi ascoltare una storia, mia piccola Ev? >>.
La
ragazza ricacciò indietro le lacrime ma non
parlò.
Cercò
lo sguardo di sua zia e lo trovò rivolto alla finestra,
perso in ricordi lontani.
<<
William DeMordrey era un bellissimo ventenne sconsiderato. Non si
curava di nulla, aveva una vita spensierata… e solitaria;
non che le donne gli mancassero, ma non aveva legami che potessero
sfiorare il romanticismo. Finché non arrivò lei.
Giudith White era una giovane timida e sensibile; in sostanza
l’opposto di Will. Tu credi nell’amore a prima
vista? >>.
<<
No >> rispose istintivamente Evelyn, <<
Finora >> aggiunse poi, prospettando come avrebbe
proseguito la storia.
<<
Si videro per la prima volta a un compleanno di Constantine.
Sì, mentii quando ti dissi che mio marito non aveva
più avuto rapporti con la sua, nonché tua,
famiglia. Giudith non mancava mai a compleanni e anniversari, mentre
William li dimenticava quasi tutti; quella sera però per la
prima volta erano presenti entrambi e da allora non poterono
più separarsi >>.
Evelyn
osservò nella sua mente la donna bellissima che aveva visto
la notte in cui aveva rischiato di morire fare il suo ingresso in un
salone addobbato, con un vestito magnifico e magari i capelli
acconciati, e un uomo dai capelli rossi incrociare lo sguardo di lei e
avvicinarsi, invitarla a ballare.
<<
Perché la mia famiglia non approvava? >>.
<<
A causa dello stesso motivo per il quale non aveva accettato
me… Giravano… delle voci >>
terminò la frase abbassando lo sguardo.
Evelyn
intuì che se l’avesse guardata negli occhi vi
avrebbe letto un’infinita sofferenza.
<<
Giudith però non aveva attirato solo l’attenzione
di William e per proteggerla lui si mise contro le persone sbagliate,
dovettero lasciare questo posto. Qualche anno dopo arrivasti
tu… ma i nemici di tuo padre non si erano rassegnati
>>.
<<
Non c’è mai stato nessun incidente
>> pronunciò Evelyn mentre una lacrima la
scivolava sulla guancia.
<<
I tuoi genitori si sacrificarono per salvarti. Hai mai sentito dire
“la vendetta è un piatto che va consumato
freddo”? >>.
Evelyn
non riuscì a trattenere un singhiozzo.
<<
Ti abbiamo sempre protetta, sin da quando eri bambina, fino a oggi
>>.
Ormai
la ragazza piangeva senza ritegno.
<<
So che ti ho dato più dubbi che certezze >>
disse la donna mentre sfiorava una guancia della ragazza con una
carezza << Ma ti prego di credermi, non puoi sapere
altro. Per il tuo bene Evelyn >>.
La
ragazza non disse nulla. Si voltò su un fianco reprimendo un
urlo di dolore per la fitta al petto e affondò il viso nel
cuscino.
Non
sapeva neanche perché stesse piangendo, se per la storia dei
suoi genitori o se per i dubbi che doveva patire. Non le era dato
sapere nemmeno chi fossero gli assassini dei suoi genitori, che per
anni avevano dato la caccia anche a lei e che la scorsa notte erano
stati a un passo dal gustare il loro piatto freddo.
Che
cosa dovevano vendicare?
E
poi c’erano le ombre…
La
vera ansia che tormentava Evelyn in realtà era quanto di
quella storia appartenesse alla realtà che
conosceva… e quanto invece facesse parte di un mondo al
quale per il suo bene, come aveva detto sua zia, lei non doveva nemmeno
osare avvicinarsi.
Ma
non poteva accontentarsi di quella misera goccia di verità.
Si
disse che le risposte sarebbero arrivate da sole o le avrebbe cercate
lei stessa, perché per quanto inconcepibile potesse essere
ciò che volevano tenerle nascosto lei aveva bisogno di
saperlo lo stesso.
Il
giorno seguente pioveva e faceva talmente tanto freddo che Sebastian
alla fine aveva acceso il camino della stanza e Rose aveva rivestito il
letto con altre coperte.
Nel
pomeriggio Sophie fece irruzione nella stanza portando con
sé la sua sconfinata allegria e un rifornimento di libri
perché Evelyn non si annoiasse quando era sola.
<<
Non sapevo quale fosse il genere di lettura che preferivi, quindi ti ho
portato un po’ di tutto >> esordì
cercando di collocare tutti i libri sul comodino.
<<
Sei un tesoro Sophie >>.
<<
Come ti senti? >> le chiese sedendosi accanto al letto.
<<
Speranzosa di potermi alzare presto >>.
<<
Il dottore cos’ha detto? >>.
<<
Non… io non… non ci ho parlato >>
balbettò la convalescente cercando di mascherare il tremore
della voce.
Era
a conoscenza delle sue condizioni di salute solo approssimativamente.
Sapeva che si era stirata qualcosa, probabilmente un paio di tendini
delle gambe, e per questo non poteva alzarsi; poi aveva una ferita al
petto. Ferita che non aveva nemmeno voluto guardare.
Sophie
non riuscì a trattenere una risata << Hai
paura del dottore, Ev? >>.
<<
No! E anche se fosse, non vedo cosa possa esserci di divertente
>> rispose adombrandosi.
<<
Guarda che non sei moribonda, ti servono solo un paio di giorni di
riposo >>.
<<
Mi hanno ricucito? >>.
<<
Non posso credere che tu non abbia nemmeno dato
un’occhiata… Paura degli aghi? >>.
Evelyn
cercò di trattenere un conato di vomito.
<<
Ah, terrore profondo. Sta tranquilla non sei stata
“ricucita” >> le disse allora Sophie
con apprensione, che a quel punto aveva capito che era meglio evitare
il discorso riguardante le sue condizioni di salute; dopotutto era
andata a trovarla per distrarla e per tutto il pomeriggio la tenne
impegnata parlando del più e del meno.
Quando
ormai era sceso il buio Josephine andò a chiamare Sophie,
offrendosi di riaccompagnarla a casa dal momento che doveva comunque
uscire per sbrigare delle commissioni.
<<
Torno a trovarti presto >> disse la ragazza a Evelyn
chinandosi per salutarla con un bacio sulla guancia.
<<
Ti aspetto >> le rispose sorridendo.
Rimasta
sola cominciò a esaminare i titoli dei libri sul comodino,
alla ricerca di qualcosa per passare il tempo.
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Capitolo 16 *** Dopo Ginevra e Francesca ***
20.
Dopo Ginevra e Francesca
La Divina Commedia era una delle letture che preferiva.
Ormai da un’ora era immersa nell’Inferno Dantesco,
quando sentì la porta schiudersi.
<< Amor,
ch’al cor gentil ratto s’apprende, prese costui de
la bella persona che mi fu tolta… e ‘l mondo ancor
m’offende >>.
Evelyn sollevò con calma lo sguardo.
<< Amor
ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer
sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona
>>.
Quella voce era suadente e dolce come la ricordava, quando
l’aveva implorata di vivere.
<< Amor
condusse noi ad una morte… Caina attende chi a vita ci
spense >>.
Riley si chiuse la porta alle spalle. Continuò a camminare
lentamente e a recitare i versi che chiaramente conosceva a memoria.
<< Nessun
maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria
>>.
Si accostò al letto, una spalla poggiata alla colonna del
baldacchino.
<< Noi
leggiavamo un giorno per diletto di Lancillotto come amor lo strinse.
Soli eravamo e senza alcun sospetto >>.
Evelyn chiuse il libro che aveva tra le mani, continuando ad ascoltare,
senza aver alcun bisogno di verificare sulle pagine.
<< Ma solo
un punto fu quel che ci vinse… Quando leggemmo il disiato
riso esser baciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia
diviso, la bocca mi baciò tutto tremante >>
Continuò Riley.
<<
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse. Quel giorno più non
vi leggemmo avante >> Finì Evelyn
al posto suo parlando per la prima volta da quando lui era entrato
nella stanza.
Il ragazzo sorrise, senza smettere di guardarla <<
Lettura leggera? >>.
<< Direi di sì >> rispose
allungando il braccio per posare il tomo sul comodino.
Riley si mosse velocemente e in un attimo fu davanti a lei per
bloccarle delicatamente il polso. Si sedette sulla sedia accanto al
letto << Diciottesimo canto, pagina centonovantasei
>> disse senza smettere di sorridere.
<< I seduttori >> costatò lei
aprendo il libro e cercando con scarsi risultati di non mostrarsi
stupita << Sei un ammiratore di Giasone? Oppure
è qui che ti collochi? >> lo
provocò.
Riley rise << No, non solo lì >>.
<< Ivi con
segni e con parole ornate Isifile ingannò, la giovinetta che
prima avea tutte l’altre ingannate >>
Lesse a voce alta Evelyn.
<<
Lasciolla quivi, gravida, soletta; tal colpa a tal martiro lui
condanna, e anche Medea si fa vendetta. Con lui sen va chi da tal parte
inganna >> Continuò il ragazzo
senza guardare le pagine.
Evelyn si ritrovò a fissarlo.
I capelli dorati illuminati dal camino alle sue spalle, le ciglia
lunghe e scure a sottolineargli il colore fin troppo acceso degli
occhi, le labbra dischiuse in un sorriso come sempre.
<< Grazie per avermi salvato, Riley >> se
ne uscì all’improvviso.
Lui non riuscì a mascherare il suo stupore. Non credeva che
lo avrebbe ringraziato.
<< Anche se non sembra, anch’io ho un cuore
>> aggiunse sorridendo, avendo notato la sua espressione.
<< Lo so benissimo >> rispose allora lui
quasi senza lasciarle finire la frase.
Evelyn si meravigliò del tono sincero nella voce di Riley.
<< Puoi nasconderti da chi vuoi, ma non da me
>> continuò lui.
<< E che cosa dovrei nascondere? >>.
<< Quello che provi, in ogni istante >>
rispose avvicinandosi al viso di lei << Ora, per esempio,
sei nervosa >> le disse con un sorriso provocatore.
Se solo ti allontanassi,
non lo sarei, pensò la ragazza.
Ma in realtà che si allontanasse era l’ultima cosa
che voleva… e lui, a dimostrazione di quel che aveva detto,
sembrò capirlo.
Senza smettere di sogghignare avvicinò pericolosamente le
sue labbra a quelle di lei.
Solo che Riley non era l’unico a sapere giocare.
Evelyn lasciò che la sfiorasse appena, prima di allontanarsi
da lui e lasciarsi sfuggire, in apparenza involontariamente, una risata.
<< Qua
giù m’hanno sommerso le lusinghe ond’io
non ebbi mai la lingua stucca… pagina duecento, gli
Adulatori >> disse la spietata ragazza al
suo interlocutore inappagato, ma divertito.
Lo stava accusando del
peccato dell’adulazione? O si stava dichiarando lei stessa
colpevole?
Colpevole di avergli
sottratto l’oggetto dei suoi ineluttabili desideri: Lei.
La ragazza che era
arrivata a sconvolgergli la vita, del tutto ignara d’esser
desiderata.
Riley era bello, affascinante e forse anche intelligente, dietro quella
maschera da idiota. In più le aveva salvato la vita.
Ma lei era Evelyn DeMordrey, e farsi desiderare, mettere alla prova
chiunque le si avvicinasse, farlo penare prima di concedergli anche
solo una briciola d’approvazione, era semplicemente insito
nella sua natura e nel suo caratteraccio.
Quando quel giorno l’aveva rivista dopo anni, arrabbiata, in
quella stazione ferroviaria deserta, a bagnarsi sotto la pioggia, Riley
non l’aveva nemmeno riconosciuta.
Non ricordava il suo nome.
Era cresciuta e diventata una bella ragazza, o forse già
donna, per quel che le leggeva negli occhi… rabbia, paura,
solitudine e tanta forza per andare comunque avanti.
Erano passati quattordici anni dopotutto, da quella notte in cui suo
padre gliel’aveva affidata perché la portasse via,
in salvo e lontano da quegli assassini che alla fine avevano avuto la
meglio su di lui e sua moglie, rimasti a morire purché la
loro bambina vivesse.
Adesso lei non aveva più tre anni ma diciassette, e lui sempre diciannove.
Non sapeva se a suscitargli quel desiderio di averla fosse stato il
ricordo di conoscerla già, o semplicemente ciò
che era, i suoi modi da apatica che invece nascondeva mille emozioni
dietro quella maledetta corazza che si ostinava a tenersi addosso. Per
proteggersi da cosa non avrebbe saputo dirlo; forse aveva solo paura di
amare, o di essere amata e poi delusa.
Sapeva solo che se tutto quel che c’era in mezzo a loro,
assassini che le davano la caccia e realtà che lei nemmeno
immaginava, non li avrebbe separati irreversibilmente, un giorno le
avrebbe tolto quella maschera di indifferenza e sarebbe stata sua,
magari anche felice.
L’avrebbe conquistata come Lancillotto ci era riuscito con
Ginevra, e dopo, grazie a quest’ultimo, Paolo con Francesca.
In fondo l’aveva salvata due volte, ed era il minimo che
potesse avere in cambio.
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Capitolo 17 *** Stallo ***
21.
Stallo
Passavano
altri giorni, indolenti e piovosi.
Evelyn
li trascorreva per lo più immersa nella lettura, come anche
quando era stata in ottima salute. Era alle prime pagine di un romanzo
medievale, dopo averne già trangugiati tre.
Con
l’aiuto di Sophie, per quanto la convalescenza glielo
concedesse, stava anche iniziando a prendere confidenza con un
pianoforte che aveva scovato in una stanza attigua alla biblioteca. Non
che stesse facendo chissà quali progressi, riusciva a
eseguire solo la Ninnananna di Brahms, ma sentire quelle note limpide e
avere la consapevolezza di essere stata lei a produrle le suscitava una
curiosa soddisfazione.
A
volte le tenevano compagnia anche Sebastian, che si era rivelata una
delle poche persone al mondo in grado di batterla a scacchi, e Rose,
che si era innamorata dei suoi capelli e ci sperimentava sopra
acconciature inconcepibili, e nel frattempo le regalava perle di
saggezza del Galateo.
Susan
di tanto in tanto accompagnava Grisham, che nonostante si dimostrasse
più attivo del solito non la infastidiva per niente.
Alexander
le faceva visita più raramente, ma lei era comunque
felicissima di vederlo. Ogni volta le portava una rosa di un colore
diverso, avendo scoperto la sua passione per quei fiori.
L’unico
che non si era più fatto vedere era Riley.
Quella
sera in cui le aveva dedicato versi di raffinata letteratura, forse per
stanchezza o semplicemente grazie all’accoppiata di rime
poetiche e voce armoniosa di lui, si era addormentata, e non si erano
nemmeno salutati.
Evelyn
si malediceva ogni volta che, dopo che sua zia le aveva annunciato che
aveva visite, rimaneva delusa nel veder apparire alla porta della sua
camera qualcun altro che non fosse lui.
Senza
sapere perché, voleva rivederlo.
Quella
mattina non pioveva, ma non c’era nemmeno il sole.
<<
Stallo >> dichiarò Sebastian, soddisfatto, con
ancora il cavallo tra l’indice e il pollice.
Evelyn
si decise a scollare lo sguardo dalla finestra per guardare la
scacchiera sul copriletto, accanto alle sue gambe.
Il
suo Re era dove l’aveva lasciato, ma Sebastian
l’aveva bloccato con le sue pedine.
Stallo.
Una sorta di parità, nel gioco degli scacchi, o comunque un
punto del gioco in cui era difficile proseguire.
Qualunque
mossa lei avesse fatto il Re sarebbe caduto tra le fauci dei pezzi del
suo avversario. Eppure le erano rimasti ancora un alfiere e un pedone.
Per
un momento pensò di essere quel Re, circondato da
un’immensa scacchiera, eppure costretto in poche caselle, in
trappola.
Circondata
da un mondo sconosciuto, da esplorare… eppure bloccata in
quella casa.
A un
passo dalla verità che avrebbe potuto dare un significato a
tutto ciò che era successo nella sua vita… eppure
se avesse fatto un solo passo verso di essa sarebbe caduta sotto scacco
matto, preda delle pedine nemiche.
Quando
Sebastian però fece per riordinare i pezzi sulla scacchiera
per iniziare un’altra partita, lei lo fermò.
Mosse
l’alfiere in verticale per mangiare la torre e nel frattempo
fece indietreggiare il cavallo nemico, che cadde in preda al pedone
rimasto in disparte fino a quel momento.
Altre
tre mosse ed Evelyn dichiarò scacco matto al Re del suo
avversario con l’alfiere.
<<
Caspita, non ci avevo fatto caso >> disse Sebastian,
impressionato, mentre ricomponeva la scacchiera.
Evelyn
sorrise, << Tre a uno per me >>
esultò mentre guardava di nuovo fuori dalla finestra.
Forse
non doveva perdere le speranze; poteva liberarsi dalle pedine nemiche
che le impedivano di muoversi.
Se
solo un alfiere fosse corso in suo aiuto.
Le
mancava una carta per completare il suo tris di regine, Sebastian aveva
insistito per mettere da parte la scacchiera all’ottava
vittoria di lei, quando sua zia entrò nella stanza.
<<
Bass ti spiacerebbe andare a prendere la jeep? Ho delle cose da
sbrigare in città >> esordì mentre
gli spiava le carte.
Mentre
lui si alzava Evelyn pescò dal mazzo <<
Quaranta >> disse calando le sue carte <<
Ho vinto >>.
Sebastian
alzò gli occhi al cielo simulando un’espressione
esasperata, mentre Evelyn rideva guardandolo uscire dalla porta.
<<
Ti senti meglio? >> le chiese dolcemente Josephine.
<<
Le vittorie sono sempre ritempranti >> scherzò
la ragazza.
<<
Ti conviene guarire in fretta. Convalescente o meno, tra una settimana
c’è un evento al quale devi prendere parte
>> disse l’altra con un sorriso smagliante.
<<
Di che parli? >> chiese Evelyn, cercando di far passare
il suo fastidio per curiosità. Non aveva voglia di prender
parte a nessuna cerimonia.
Proprio
in quel momento il viso di Rose fece capolino dalla porta
<< E’ arrivato il dottor Newton
>>.
<<
Fallo salire >> rispose Josephine.
Evelyn
dimenticò gli scacchi, le carte e qualsivoglia evento la
aspettasse.
Non
riuscì nemmeno a soffocare un gemito.
Sua
zia evitò di ridere di quel suo irrazionale terrore e si
accomodò accanto a lei per sostenerla mentre il medico la
esaminava.
Durante
la visita Evelyn non riuscì a evitare di guardare lo
specchio di fronte a lei, come aveva invece fatto tutte le precedenti
volte.
Restò
sbalordita nel vedere che non c’era ombra di ferita alcuna;
eppure il dolore c’era stato, all’inizio perfino
insopportabile.
Certo
lei non aveva esperienza nel campo. Riusciva a infortunarsi e farsi del
male notevolmente spesso e nei modi più assurdi e insensati,
ma non le restavano quasi mai dei segni visibili.
Salvo
quando era bambina e la notte le ombre popolavano i suoi
incubi… la mattina seguente si ritrovava coperta di graffi.
Era
come se le sue ferite si sanassero fin troppo in fretta, o addirittura
non si procurasse nemmeno un graffietto, nonostante il dolore che certe
cadute le provocavano.
Non
si era mai scomodata di porsi delle domande, fino a quel momento.
Quando
il dottore le lasciò, cercò subito di parlare ma
sua zia riuscì ad anticiparla lo stesso << Hai
sentito? Già da domani potrai passare meno tempo a letto.
Possiamo iniziare a cercarti qualcosa da indossare >>.
<<
E se non avessi voglia di venire? >>.
Josephine
rise << Smetti di fare i capricci Ev. Adesso devo proprio
andare… riposa un altro po’, così
quando torno vediamo quale colore ti dona di più
>>. Non le diede il tempo di replicare che si
avviò a passo di marcia alla porta. Quando la raggiunse
però si bloccò << Oh! Quasi
dimenticavo… >> fece dietrofront e si
avvicinò porgendole un foglietto ripiegato <<
Un messaggio per te >>. Sorrise e sparì dalla
stanza.
Quando
Evelyn aprì il biglietto si chiese se non fosse stato il
caso di picchiarlo una volta per tutte e fargliela piantare di
esasperarla a intermittenza.
Sono
scomparso e ti ho dato un motivo per odiarmi di nuovo,
perché lo so che ti manco, ma giuro che mi farò
perdonare.
Tuo adorato Riley
Seguiva
la frase, disegnato in tutta la sua espressività, un omino
che porgeva una rosa. Le strappò un sorriso.
Poi
si disse che quel perdono glielo avrebbe fatto sudare.
<<
Io direi blu >>.
<<
Troppo scontato >>.
<<
Magari con delle rifiniture indaco >>.
<<
E’ proprio necessario? >>.
Sua
zia le aveva dato prova di essere una donna di parola. Al suo ritorno,
assieme a Dalia e Rose, aveva fatto irruzione nella sua camera, mentre
lei era spensieratamente persa nel suo romanzo, portando con
sé ritagli di stoffe ricamate di vario colore.
Nonostante
avesse tentato in ogni modo di opporre resistenza, tanto alla scelta
della tinta del suo abito quanto alla stessa conferma della sua
partecipazione al misterioso evento, le tre tiranne glielo avevano
impedito, e dopo averla derubata del libro, avevano aperto un animato
dibattito su tutte le sfumature di ogni possibile colore.
<<
Evelyn ti prego esprimiti! >> la supplicò sua
zia, esasperata dalla sua protesta silenziosa.
<<
Vuol dire che dovremo scegliere al posto vostro >> disse
allora Rose.
La
ragazza tacque.
<<
Pesca >>.
<<
E va bene! >> esclamò allora, inorridita da
ciò che aveva appena sentito.
Dopo
l’inutile valutazione di varie tinte molto accese e le
proteste di sua zia che sosteneva fosse troppo giovane per indossarlo,
Evelyn si impuntò per il nero, e ovviamente ottenne la
licenza.
L’indomani
la svegliarono prestissimo, il che limitò notevolmente la
quantità di pazienza che era disposta a sfoderare con la
sarta.
E
siccome chi ben inizia è a metà
dell’opera…
La
suddetta maga dei merletti era una vecchina cronicamente
tradizionalista e tanto minuta e rinsecchita quanto autorevole e pronta
a stroncare ogni tentativo di apportare modifiche al modello canonico.
Seguirono
giorni di guerra.
Evelyn
e la suddetta sarta si scannavano per ogni piccolezza, dal numero di
centimetri che dovevano separare ogni rifinitura di pizzo
l’una dall’altra, alla distanza di ogni bottoncino
che doveva chiudere l’abito sulla schiena.
Da
aggiungere a tutto ciò i tentativi di Rose e Dalia di
portare la pace, gli strilli di Evelyn a ogni singolo ago che le
avvicinavano e le battute divertite di Alexander che aveva genialmente
deciso di non perdersi nemmeno una prova del vestito.
<<
E’ più in alto >>.
<<
Ho rispettato le misure che ho applicato a tutti gli altri vestiti che
ho realizzato in tutta la mia vita di sarta >>.
<<
Avreste dovuto rispettare la misura che avevo stabilito io
>>.
<<
Io cucio da quando avevo dieci anni! Perché se no i miei
fratelli morivano di fame… >> E ricominciava
con la storia della famiglia povera e di come lei avesse fatto carriera
grazie al suo talento.
<<
Ma la misura è la stessa! >> interveniva Rose
<< Lo può testimoniare Alexander che ci vede
di sicuro meglio di tutte noi messe assieme >>.
<<
Testimonio >> si sbellicava quello.
<<
Ma occhi di falco deve assistere per forza? Ci manca solo lui!
>>.
<<
Non c’è più tempo per sistemarlo,
accontentati Ev >> tagliava corto Josephine.
Nonostante
tutto ciò, forse perché sarà vero che
le cose sofferte alla fine si rivelano migliori di quelle facili, il
risultato stupì gli spettatori della faida tra la ragazzina
innovatrice e la sarta antiprogressista.
<<
E’ un vero peccato che tu abbia già un
accompagnatore, mi sarei offerto volentieri >> disse
Alexander mentre tenendola per mano la faceva girare su se stessa.
<<
Se qualcuno desidera farmi da cavaliere prima dovrebbe degnarsi di
propormelo >>.
Lui
rise e si allontanò per far posto a sua zia che voleva
vederla più da vicino.
<<
Una principessa >> le disse con occhi adoranti.
<<
Non solo non mi è dato sapere di che evento si tratti, non
mi è concesso nemmeno di approvare o no il mio
accompagnatore? >> chiese Evelyn, notando con un certo
stupore quanto si stesse abituando a parlare come le persone che la
circondavano.
<<
E’ solo un ballo Evelyn >> rispose la donna,
sorridendo.
Riguardo
alla seconda parte del discorso nessun accenno, anche se Evelyn
immaginava già chi sarebbe stata costretta a prendere a
braccetto.
Mancava
ancora qualche giorno alla tanto attesa serata ed Evelyn stava
già molto meglio, quindi pensò di sfruttare il
tempo libero che aveva a disposizione per le sue ricerche,
giacché in mancanza di un qualsiasi aiutante aveva deciso di
fare lei stessa, se non da alfiere, almeno da pedone.
Non
fu difficile trovare un espediente per farsi accompagnare in
città.
Era
una grigia mattinata quando irruppe nel salone principale con fare
preoccupato e i collant che avrebbe dovuto indossare sotto il vestito,
appositamente strappati, tra le mani.
Solo
che la sua fortuna era puntualmente da un’altra parte.
<<
Ciao Evelyn >> la salutò Lisa, alzandosi dal
divano e posando sul tavolo la tazza di thè fumante che
stava sorseggiando.
Non
l’aveva più vista dalla sera in cui era arrivata a
Landry.
Era
come se la ricordava, bella e superba.
<<
Ciao Lisa >> rispose senza nascondere del tutto la sua
poca felicità di trovarla lì.
<<
Può farti compagnia in città >>
esclamò Josephine in un improvvisa illuminazione
d’intelligenza.
Evelyn
sapeva che non l’avrebbe lasciata andare da sola, ma essere
affidata a quella ragazza, che non si prendeva il disturbo di
nasconderle l’antipatia che provava nei suoi confronti, le
provocò un’ondata di rabbia e delusione.
<<
Ma no, non è necessario, avrà di sicuro i suoi
impegni >> azzardò con poche speranze di
riuscire a togliersela dai piedi.
<<
Nessun impegno >>. Infatti.
Per
di più le toccò anche il sedile posteriore,
mentre Lisa occupava quello davanti accanto a Sebastian.
Quando
arrivarono in città, le lasciò dicendo che anche
lui aveva delle commissioni da sbrigare.
La
balia di turno iniziò subito a camminare, senza fare parola.
<<
Dove stiamo andando? >> le chiese Evelyn seccata.
<<
All’emporio, mi pare ovvio >>.
Stava
cercando una scusa plausibile per deviare verso la sua reale meta,
quando riconobbe due volti familiari avvicinarsi.
<<
Gentili signore >> dissero in coro, salutandole con un
inchino che rievocava la pura cavalleria.
Riconobbe
i due che erano quasi finiti sotto la macchina di Riley, il giorno del
suo arrivo.
Avrebbe
ricambiato, se solo avesse saputo come rispondere al loro saluto.
<<
Evelyn loro sono Matt e Colin >> glieli
presentò Lisa, come se fosse stato un obbligo.
<<
Ci conosciamo già >> esordì con un
sorriso il moro dei due.
Solo
in quell’istante lei si accorse che, non fosse stato per il
colore di occhi e capelli, difficilmente li avrebbe distinti
l’uno dall’altro.
Uno
aveva capelli e occhi scurissimi, quasi neri, l’altro era
biondo e aveva occhi turchesi, ma erano indubbiamente gemelli.
<<
Come ti trovi qui? >> chiese l’altro in tono
affabile.
<<
Benissimo, grazie >> rispose istintivamente, come se
impossibilitata a dire diversamente.
Notando
gli sguardi che Evelyn e il biondo si stavano scambiando, Lisa
s’intrufolò tempestivamente e
monopolizzò la conversazione.
A
Evelyn sembrò il momento perfetto per svignarsela.
<<
Torno subito >> disse piano, più per potersi
in futuro difendere da una possibile accusa di fuga, che per farsi
sentire realmente.
L’ambiente
era asfissiante e macabro come ricordava.
<<
Che cosa stai cercando, ragazza? >> gracchiò
la voce della proprietaria della bottega.
<<
Dei libri >> rispose Evelyn alla vecchia con
l’occhio di vetro.
<<
Che libri? >> continuò quella, incamminandosi
alla scala che portava alla passerella che permetteva
l’accesso alla libreria soprastante.
<<
Non ricordo i titoli, ma se li vedessi li riconoscerei >>
mentì.
La
seguì su per le scale e lungo la pedana; rimase sconcertata
vedendola fermarsi proprio davanti allo scaffale che le interessava.
Allungò
le mani rugose verso un ripiano e prese un libro con la copertina
scura, senza titolo. Glielo porse << L’altro
non posso dartelo >>.
Evelyn
era imbambolata.
Poi
l’anziana donna prese un altro tomo dalla tinta
viola… la giovane ne riconobbe la scritta dorata.
<< Vuoi ritentare? >>.
Fu
tentata di rifiutare, ma alla fine glielo tolse dalla mani e
aprì al centro.
Meglio
un’indolore bugia che una triste verità.
Evelyn
non era d’accordo.
<<
Quanto vi devo? >> chiese posando il libro dei proverbi e
prendendo quello per il quale era lì.
<<
Solo la promessa di farne buon uso >>.
<<
E l’altro? Perché non posso averlo?
>>.
<<
Perché ci sono casi in cui il dolore della verità
non è esclusivamente morale >>.
Quella
frase le riportò in mente le parole di sua zia, “… per il
tuo bene”.
<<
Ora vattene! E’ già pericoloso che io ti abbia
dato questo >> esclamò la vecchia indicando il
grosso libro che la ragazza teneva in mano.
Quando
uscì nel vicolo la pioggia la colse di sorpresa.
Infilò
il libro nella borsa a tracolla e si diresse verso la strada principale.
Proprio
quando ormai riusciva a intravedere Lisa che discuteva ancora con i
gemelli, degli uomini nerboruti le sbarrarono la strada.
Erano
intenti a scaricare delle casse da un carrozzone enorme, piazzato
proprio davanti all’uscita della stradina, e a trasportarle
dentro una porta buia che si apriva lì accanto.
<<
Mi dispiace signorina, come vedete per il momento non potete passare
>>.
<<
Ma come vi viene in mente di chiudere la strada col vostro trabiccolo?
>> replicò indignata.
<<
Non c’era altro spazio per parcheggiarlo >> se
ne uscì allargando le braccia e cercando di giustificarsi.
<<
Quindi dovrei passarci sotto? >> continuò lei
sarcastica.
<<
Potete passare dalla strada qui accanto, non siete di qua? Volete che
vi accompagni? >> si offrì.
<<
Non vi disturbate, conosco la strada, grazie >> rispose
girando i tacchi e tornando da dove era venuta.
Detestava
passare per l’imbranata di turno e farsi soccorrere dalla
gente. Non sarebbe stato difficile girare un angolo e prendere
l’altra strada.
Certo
non poteva sapere che girato l’angolo non ci sarebbe stata
nessuna strada se non quella che portava da tutt’altra parte
rispetto alla via principale, che invece era alla sua sinistra.
Di
tornare a chiedere indicazioni più chiare non lo prese
nemmeno in considerazione e, affidandosi al suo senso
dell’orientamento, che aveva sempre ritenuto più
che attendibile, si disse che proseguendo avrebbe sicuramente trovato
l’uscita.
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Capitolo 18 *** Il Cavaliere e la sua Dama ***
22.
Il Cavaliere e la sua Dama
La pioggia continuava a scivolare tra le pareti odoranti di muffa che
rinchiudevano Evelyn.
Aveva già percorso una ventina di metri e la strada
continuava a mostrarsi prolungata e senza sbocchi alcuni; da entrambi i
lati solo porte e finestre sbarrate.
Non riusciva nemmeno a vedere distintamente, a causa dei muri di pietra
troppo alti perché la luce potesse penetrare a schiarire un
po’ la nebbia che era giunta ad accompagnare il diluvio.
Rallentò e con una mano si raccolse i lunghi capelli
inumiditi portandoseli tutti da un lato; era un gesto che compiva
spesso e involontariamente, quando era nervosa.
Ormai non poteva più negare di essersi persa, e in vita sua
non le era mai successo; come se tutto il suo senso
dell’orientamento in quel posto non funzionasse.
Continuò a camminare, nonostante non vedesse neanche dove
stesse mettendo i piedi, in quella strada completamente vuota.
La pioggia aveva preso a scrosciare più forte e le nuvole si
erano fatte tanto scure da trasformare il grigiore in
un’atmosfera quasi notturna.
La foschia non era tuttavia troppo densa da impedirle di distinguere
una sagoma di fronte a lei, che consumava velocemente una trentina di
passi di distanza.
Evelyn era certa che fino a pochi istanti prima non ci fosse nessuno
oltre a lei.
Prima di seguire l’istinto di voltarsi e correre,
cercò nel riflesso di una finestra buia la visuale della
zona retrostante. Di sagome ce n’erano cinque, o almeno
quelle era riuscita a contare prima di lanciarsi verso quella che le
progrediva davanti.
Sempre meglio di cinque, se non di più, contro una.
Prima che ci si schiantasse contro, però, notò
che alla sua destra le gocce di pioggia sospinte dal vento
anziché infrangersi contro il muro, semplicemente sparivano;
doveva esserci un’apertura che da lì ancora non
riusciva a vedere.
Accelerò sperando di arrivarci prima che si scontrasse con
chiunque stesse cercando di raggiungerla.
Sfuggendo chissà come alla mano che si era tesa per
afferrarla, imboccò la via e continuò a correre.
Una serie di lampi, seguiti da boati che fecero tremare le pareti,
illuminarono le pietre dei muri lucide d’acqua.
Il vento spazzava via il silenzio col suo ululato lugubre, ma lei
riusciva ugualmente e sentire il proprio respiro affannato.
Il passaggio era talmente stretto che le spalle le strusciavano contro
le pareti, limitandole i movimenti.
Sollevando lo sguardo per un istante vide il colore nero e argento del
cielo.
Era come se tutto intorno a lei gridasse pericolo.
Quando intravide l’uscita del vicolo a pochi metri da lei, si
mise di lato e con le spalle rivolte al muro per fare più in
fretta e pochi passi laterali fu fuori.
Era circondata da una piazza non molto grande, e da altre sagome che si
avvicinavano.
<< Ma da dove diavolo sbucano? >>
esclamò prima di imboccare un’altra via a caso.
La stanchezza iniziava a farsi sentire e aveva anche freddo, essendo
completamente bagnata, ma ringraziò la sua rabbia, che tante
altre volte aveva maledetto, per la forza che le dava.
Le architetture decorate e slanciate le sfrecciavano davanti agli occhi
insieme alle gocce di pioggia.
Poi l’ennesima via presa di fretta e senza pensarci si
rivelò un vicolo cieco.
Non appena fu davanti al muro che chiudeva il passaggio, gli diede le
spalle per guardare di fronte a lei. Poteva avere a stento dieci
secondi di tempo per trovare una soluzione, prima che la raggiungessero.
Si guardò attorno, in ogni angolazione, e trovò
qualcosa che poteva esserle utile proprio sopra la sua testa.
Quando ormai erano a pochi passi da lei, fece appello a tutta
l’energia rimastale e, dopo essersi piegata fin quasi a
toccare terra con le mani, si slanciò verso
l’alto.
Le sue mani trovarono l’appiglio della trave che
chissà perché era collocata lì, tra i
due balconi ai lati della strada.
Prima di salirci sopra non volle però rinunciare alla
soddisfazione di colpire due dei suoi inseguitori con un calcio,
scagliandosi a velocità verso di loro con le gambe tese e
mandandoli al tappeto.
Subito dopo s’issò sul piano appoggiandosi sulle
mani e tirando su le gambe.
Calcolò la distanza e atterrò con un salto sul
bordo del muro che prima le aveva sbarrato la corsa. Mise un piede nel
vuoto e in una frazione di secondo fu dall’altra parte.
Si fermò a guardarsi indietro per costatare che la stessero
ancora seguendo, ma evidentemente non potevano vantare la sua stessa
agilità.
Il dolore si fece sentire all’improvviso, o meglio
c’era stato anche prima, ma era miracolosamente riuscita a
ignorarlo.
Non si era ancora rimessa del tutto; gli strappi muscolari che si era
provocata quella notte nel bosco non erano guariti completamente.
Cercò di respirare con più calma ed escludere il
pensiero del dolore.
Intorno a lei si disegnava il profilo circolare di una piazza
abbastanza grande e deserta. Era recintata da un porticato di archi
tripartiti, ricoperto di fiori dal colore acceso, che da quella
distanza non riusciva a identificare.
Quando si avvicinò, incuriosita, notò che erano
delle magnifiche rose rampicanti, rosse; il loro profumo aleggiava
nell’aria insieme a quello metallico del bagnato.
Solo in un secondo momento, voltandosi distrattamente, Evelyn vide
l’enorme costruzione che si stagliava proprio di fronte a lei.
Come avesse fatto a passare inosservata ai suoi occhi una cattedrale,
non seppe spiegarselo.
Un po’ per ripararsi dalla pioggia, un po’ per la
curiosità di scoprire se dentro fosse bella come
all’esterno, si avviò al portone della chiesa.
Una volta entrata si passò le mani sugli occhi bagnati,
godendosi il sollievo dell’aria calda e priva
d’acqua. Il profumo delle rose non scomparve, ma era
subordinato a quello più forte dell’incenso.
Evelyn pensò che fosse ancora più bella di come
se l’aspettava.
Le volte a crociera erano a una considerevole distanza dal pavimento di
marmo scuro, le colonne delle navate decorate da fregi floreali,
l’illuminazione era fornita esclusivamente dalla luce dei
fulmini che penetrava dalle alte vetrate dipinte di colori opachi.
Aveva iniziato a percorrere la corsia centrale, tra le panche ordinate,
quando le giunse una voce proveniente dalla fine della navata.
<< Dunque eccola, la ragazza giunta nel paese dei dannati
>>.
Quando fu sotto le tre scale che conducevano all’altare lo
vide, un prete non troppo anziano, alto e con occhi di ghiaccio.
<< Dannata lei stessa per metà
>>.
Evelyn non riuscì a comprendere quelle parole, ma le fecero
paura.
Seguì la voce modulata dell’uomo il rumore del
portone che si apriva, e lei non ebbe nemmeno il tempo di rendersi
conto di quello che accadeva.
La afferrò fulmineamente per un braccio e la
trascinò fino a una porta dietro l’altare, senza
che lei potesse divincolarsi. La spinse e prima di chiuderla dentro
sussurrò con voce preoccupata: << Non fiatare
>>.
Evelyn era sconcertata, e per un momento le girò la testa.
Si appoggiò al ripiano che le stava davanti per non cadere,
e guardandosi le mani vide il libro che era a pochi centimetri da esse.
“I
Custodi” era scritto in una calligrafia contorta
sulla copertina bordeaux.
Senza una precisa ragione catturò tutti suoi pensieri,
strappandoli persino da quel che stava succedendo oltre la porta.
Quando fece per aprirlo però le sue dita incontrarono la
superficie fredda di un piccolo catenaccio dorato. Osservando meglio il
bordo si accorse delle pagine che ne fuoriuscivano e ne
sfilò una. Era stata chiaramente strappata da un altro libro.
Poi gli occhi le caddero su un altro volume sul tavolo, poco distante
da quello. “Ordinamento
dei Custodi” era scritto nella stessa grafia
dell’altro; anche il colore della copertina era identico,
l’unica differenza era la mancanza di una qualsiasi chiusura.
Evelyn aprì una pagina a caso.
Harvey
Brandon Wetmore.
Berlino 1709 - Mosca 1729.
Christopher Amadeus Von Ziegesar.
Casato Von Ziegesar.
*****
Margareth Stephanie De Butler.
Parigi 1630 – Dublino 1651.
Cedric Jackson Lennox.
Lignaggio Lennox
Scorrendo l’intera pagina con lo sguardo lesse solo altri
nominativi, accompagnati da date di morti premature e da un altro
appellativo, il quale cognome nella maggior parte dei casi combaciava
col casato nobiliare scritto per ultimo.
Doveva essere un censimento… Ma di cosa? E perché
per ogni registrato i nomi erano due? Evelyn voltò pagina.
Riuscì a leggere solamente il nome William che dovette
chiudere il libro in tutta fretta, riscossa dai rumori oltre la porta.
<< Sappiamo che è qui >> disse
una voce sconosciuta.
<< Di che cosa state parlando? >>, Evelyn
riconobbe il timbro sinceramente stupito del prete.
<< La mezzosangue. E non fingete mio caro sacerdote,
oppure vi ritroverete a dover affidare la vostra anima a Dio ancor
prima di quanto pensiate >>.
<< Se siete venuti per portare scompiglio nella casa del
Signore allora devo chiedervi di andarvene immediatamente
>>.
<< Consegnatecela, e voi e la vostra chiesa rimarrete
integri >>.
<< Come posso consegnarvi qualcosa che non possiedo?
>>.
<< Se dite il vero e non la state nascondendo, non vi
dispiacerà se diamo un’occhiata in giro
>>.
<< Fate pure, uomini di poca fede >>.
Evelyn non udì altro se non una risata e l’eco di
svariati passi.
Si guardò attorno in cerca di una via d’uscita, ma
niente.
Quando sentì la porta schiudersi temette i peggio, ma il
cuore riprese a batterle normalmente quando vide il volto del prete.
Si rese conto di avere ancora in mano il foglio che aveva trafugato dal
libro, e l’unica cosa che le venne in mente di fare fu di
accartocciarlo e nasconderlo nella tasca posteriore dei jeans.
Non era certa di potersi fidare di quell’uomo, ma, almeno in
apparenza, stava cercando di proteggerla.
Dopotutto non era nemmeno tanto sicura che quegli uomini fossero gli
stessi che la inseguivano e che fosse lei la ricercata in
questione… Non sapeva nemmeno cosa significasse la
parola “Mezzosangue”.
Il sacerdote sussurrò <<
Vattene >>, poi scomparve dalla sua vista e la porta si
richiuse.
<< Che cosa state facendo? >>
sentì gridare rabbiosamente un attimo dopo.
Non era stato abbastanza veloce, lo avevano visto parlare, e adesso
l’avrebbero scoperta.
<< Controllavo solo di non aver dimenticato nessuna
candela accesa! Non vorrei che prendesse fuoco il tappeto
>> esclamò.
A Evelyn sembrò che stesse delirando, quelle parole non
avevano senso.
Qualcuno si stava avvicinando alla porta, ne sentiva i passi, e non
aveva la minima idea di cosa fare.
Poi si diede della stupida per non esserci arrivata prima.
S’inginocchiò rapidamente e sollevò il
tappeto, che l’istante prima era stato proprio sotto i suoi
piedi, quel tanto che bastava per farci passare il braccio.
Cercò con la mano e trovò la maniglia. La
tirò più forte che poteva e la serratura cedette.
Scivolò sotto il coperchio della botola, ancora coperto dal
tappeto, attenta a non farlo cadere, in modo che una volta richiusa
fosse ricaduto a coprire il passaggio. Non voleva che qualcuno che
l’aveva aiutata passasse guai, e se avessero scoperto
quell’apertura, non solo l’avrebbero seguita, se la
sarebbero presa anche con il prete, ne era certa. Aveva da sempre avuto
un grande talento nel riconoscere la natura di chi le stava di fronte,
anche solo da una frase, o a volte una parola, un gesto, uno sguardo. E
chi era entrato in quella chiesa, e che evidentemente la stava
cercando, non era tipo da scrupoli di coscienza.
Perché improvvisamente era certa che stessero cercando lei.
Glielo aveva suggerito il terrore che aveva provato quando aveva
sentito i passi sopra la sua testa, seppur lievemente attutiti dalla
stoffa del tappeto.
<< Qui non c’è >>
disse quella voce che per lei restava senza volto.
<< Uomini di poca fede >> ripeté
il suo salvatore, mentre gli uomini lo lasciavano solo nella sagrestia
chiudendosi la porta alle spalle.
Evelyn aspettò che fosse lui ad aprire la botola.
Era su una scala strettissima, che portava chissà dove.
Non fece in tempo a chiederselo che arrivò la risposta, e
non le piacque per niente.
<< Non puoi uscire da questa stanza, ti stanno ancora
cercando. Scendi le scale, ti ritroverai nelle cripte sotterranee.
Prosegui sempre dritto e arriverai al cimitero, da lì
raggiungerai l’altra parte della città
>> le disse subito dopo aver aperto il portello e senza
nemmeno lasciarle mettere piede fuori.
<< Ma chi mi sta cercando? Chi sono quegli uomini?
>> chiese lei.
Quello non rispose, si alzò e iniziò a frugare in
un armadio.
Evelyn fu certa che nemmeno per quella volta avrebbe avuto una risposta.
<< Prendi >> le disse inginocchiandosi di
nuovo e porgendole una lampada a olio accesa, alquanto vecchia
<< Sempre dritto, hai capito? >>.
<< Perché dovrei fidarmi di voi?
>> chiese mentre prendeva in mano il reperto archeologico.
<< Se solo sapessi chi, anni fa, prendeva questa lampada
dalle mie mani, come te adesso… >>.
<< Allora ditemelo >>.
<< Non c’è tempo, vai!
>> esclamò lanciando uno sguardo preoccupato
alla porta.
La ragazza pensò che in fondo non aveva scelta. Lo
guardò negli occhi, e con la capacità naturale
che aveva per scovare i sentimenti altrui, e nascondere i propri, vi
lesse sincerità.
<< Grazie >> si sentì in dovere
di dire Evelyn. Poi il coperchio si chiuse e lei iniziò a
scendere, attenta a non inciampare.
Non era mai stata superstiziosa. Non credeva ai fantasmi e alle
storielle che i suoi cugini le raccontavano per spaventarla.
Nemmeno però ne escludeva l’esistenza.
Semplicemente, una qualsiasi cosa per lei diventava vera solo dopo che
l’aveva vista.
Non era nemmeno una fifona, di coraggio ne aveva da vendere. Vinceva
sempre lei nelle sfide contro i suoi cugini, che dopo aver fatto tanto
gli spocchiosi, si rivelavano sempre dei cacasotto, e lei si divertiva
un mondo a urlargli dietro “vigliacchi” mentre a
loro volta i suoi sfidanti gridavano di terrore, dichiarando di aver
avvistato figure evanescenti, che alla fine si rivelavano sempre fronde
di alberi o gatti di passaggio.
Ne aveva fatte di tutti i colori; gite notturne nel cimitero della sua
città, gare di corsa nei boschi al buio, escursioni in case
diroccate, abbandonate e presunte infestate, senza mai avere veramente
paura.
Certo c’erano le ombre, ma non aveva mai considerato che
potesse trattarsi di spiriti o roba simile.
Non era una fifona, era una ragazza forte.
Eppure in quel momento non c’era freddo, e lei tremava.
Quella lampada a olio faceva troppa poca luce.
Chi l’ha presa
in mano, come me adesso, anni fa? Si chiese per distrarsi.
Un movimento alla sua destra la costrinse a indietreggiare.
Sollevò il lume, non del tutto certa di voler vedere sul
serio.
Il pipistrello continuò il suo volo disordinato.
Evelyn sospirò di sollievo, poi riprese a camminare. Tenendo
la lampada leggermente più in alto poteva seguire il piccolo
animale con lo sguardo e si concentrò sul suo volo a zigzag
per non essere costretta a guardare l’oscurità,
che a tratti sembrava mostrare qualcos’altro che in
realtà non c’era.
La suggestione è pericolosa, quando si è in una
cripta da soli al buio.
Dopo un’ora, passata a camminare in quel posto tetro che
odorava di chiuso, Evelyn iniziò a vedere sempre
più chiaramente sagome biancastre e movimenti ai margini del
suo campo visivo. Aveva anche perso di vista il pipistrello, e non
aveva nulla su cui focalizzare lo sguardo.
Ti stai immaginando
tutto, si rimproverò.
Iniziò a sentire i sussurri e le sagome biancastre
iniziarono a muoversi.
Non è reale, si
ripeteva.
Cercò tutto il suo coraggio, quello che sventolava in faccia
a quei vigliacchi dei suoi cugini… che adesso erano al
sicuro nelle loro case, con le loro famiglie.
Non ne trovò nemmeno una briciola.
Una lacrima le solleticò la guancia.
Era sempre così maledettamente sola. E come se non bastasse
proprio in quell’occasione tutta la sua forza aveva deciso di
dipartire, lasciandola lì con le gambe che le tremavano e le
lacrime che si ostinavano a uscirle dagli occhi.
<< Sei sola >> sussurrò una voce
femminile e maligna dal buio.
Non l’ho
sentito davvero, non è reale, cercò
di non perdersi d’animo.
<< Sola come sempre >>.
Evelyn si fermò.
No, non aveva paura dei
fantasmi… ma della solitudine forse, solo un po',
sì.
Non era certa che qualcuno stesse parlando davvero; forse era davvero
la sua immaginazione.
<< La tua famiglia non ti vuole… la tua
famiglia è morta >>.
Il bisogno di portarsi le mani a coprire gli occhi era troppo forte.
Lasciò cadere la lampada e il rumore del vetro infranto per
un attimo sovrastò i bisbigli.
Non era riuscita più a trattenersi, le lacrime le scorrevano
sul viso senza ritegno.
Forse non era poi tanto forte quanto si ostinava a dimostrare.
Mentre piangeva, se di paura o tristezza non avrebbe saputo dirlo,
udì i passi di qualcuno che si avvicinava di corsa.
<< Stanno venendo a prenderti >> rise la
voce maligna, che in realtà era solo dentro di lei.
In quella cripta non c’era nessun fantasma, c’era
solo quello della tristezza e della solitudine, nella sua anima.
Quello che non riusciva
mai a scacciare definitivamente, quello che le impediva di essere
spensierata come tutti coloro che la circondavano, la allontanava dalle
persone e da qualunque possibile felicità. Perché
dietro quella maschera d’indifferenza in realtà
lei era più sensibile di chiunque altro, solo che nessuno se
ne accorgeva mai. Nessuno sapeva perché a volte diventava
triste.
Nessuno sapeva delle
ombre.
I passi ormai erano vicinissimi ed Evelyn sperò solo che
finisse in fretta.
Il rumore dei passi cessò e due braccia la strinsero forte.
Evelyn voleva solo rimanere in quell’abbraccio, che poi tanto
doloroso non era…
Si aggrappò forte alla stoffa di una camicia e ci pianse
sopra, mentre una mano la accarezzava i capelli ancora umidi.
Sentì quel profumo familiare, di comprensione e dolcezza.
Evelyn non voleva che la vedesse piangere di nuovo, ma non riusciva a
smettere.
Lasciandosi sfuggire un singhiozzo cercò di divincolarsi, ma
Riley non glielo permise. La strinse ancor più forte e le
intrappolò, col mento sulla testa e la mano tra i capelli,
il volto contro il suo petto.
<< Sono una vigliacca >> ammise Evelyn
artigliandogli di nuovo la camicia con le unghie, arrabbiata per
doversi mostrare debole ancora una volta.
Sentì vibrare di una risata il petto di Riley, e nella sua
disperazione sentirlo ridere la rasserenò.
<< Sei solo una falsa coraggiosa >>.
<< E che vuol dire? Come si fa ad essere coraggiosi per
finta? >>.
<< Nello stesso modo in cui si finge di essere sereni,
disinteressati, felici… nello stesso modo in cui fingi tutto
il resto, Evelyn >>.
<< Io non… >>
balbettò lei.
Riley attese che si pronunciasse in propria difesa, pronto a confutare
ogni frase.
Non tollerava più di vederla consumare. Non poteva
più sopportare che si ostinasse ad allontanare le persone da
se stessa, ad allontanare anche lui.
La sua Evelyn, alle prese con qualcosa troppo grande anche per lei che
era tanto forte, che aveva salvato quattordici anni prima, e che si era
promesso di salvare di nuovo.
<< …Non respiro! >>
esclamò lei, tentando di liberarsi dalla presa.
Riley scoppiò a ridere nel non sentirsi ruggire contro
nessuna delle sue solite frasi arrabbiate e intelligenti, e la
allontanò da sé, senza però liberarla
completamente << Sei così piccola
>>.
<< Sei tu a essere troppo alto >> rispose
scocciata.
<< Stavo cercando di fare un discorso serio
>>.
<< Sì, la solita storia che non posso
nascondermi da te, che capisci sempre quello che provo, che
è inutile che fingo di essere indifferente… va
bene Riley, ho capito! >> sbuffò
<< Sei ripetitivo >> aggiunse poi,
strappandogli un sorriso.
<< Se hai capito allora perché non la pianti?
>>.
Evelyn fu toccata dalla geniale idea di evadere il discorso con la
famosa battuta del seme, ma fortunatamente non arrivò a
rasentare tale squallore, e si limitò a emettere un verso
d’esasperazione.
<< Ogni tanto potresti anche stupirti, ridere, cominciare
un discorso… >> iniziò a elencare
Riley mentre la prendeva in braccio.
<< Guarda che mi stupisco, rido e faccio anche discorsi
seri ogni tanto, forse sei tu a non essere mai presente in quei
momenti… Che stai facendo? >>
strepitò.
<< Ti porto fuori di qui… hai ragione,
perdonami se sono stato troppo assente, rimedierò
>>.
<< Ma figurati se me ne importava qualcosa della tua
assenza… fammi scendere! >>.
Riley la guardò con un sorriso da risata trattenuta, per
farle capire che ai suoi occhi quel che aveva detto appariva
chiaramente come una bugia malriuscita. Per quanto riguardava
l’ordine che gli aveva impartito, non lo considerò
nemmeno.
<< Razza di tiranno, mi è caduta una cosa!
>> continuò lei notando che non accennava a
metterla giù.
Finalmente si fermò e si guardò indietro
depositandola al suolo con un sospiro scocciato e, come se stesse
maneggiando un qualsiasi oggetto di sua proprietà, la
seguì mentre tornava sui suoi passi.
Disgraziatamente, non si era ancora reso conto di come quella ragazzina
potesse combinare danni proprio sotto i suoi occhi, senza alcuna
difficoltà.
Fece in tempo solo ad allungare una mano per fermarla, senza
però riuscirci, ed esclamare << No!
>>, che lei si era già chinata a raccogliere
la lampada tra i cocci di vetro.
Un secondo dopo il gemito di dolore che le sfuggì lui
indietreggiò di due passi, strinse i pugni fino a
conficcarsi le unghie nella carne e un’espressione sofferente
gli passò sul volto.
Quando Evelyn si alzò con la lanterna nella mano sinistra,
lui aveva già strappato una striscia di stoffa dalla propria
camicia e si stava avvicinando, trattenendo il respiro.
<< Non è così grave
>> disse lei, sinceramente stupita dal vedere le sue mani
avvolgerle la benda improvvisata attorno al taglio sanguinante che si
era procurata sulla mano destra.
Riley non disse niente, troppo preso a immaginarsi spazi
all’aperto e aria fresca e profumata di erba appena tagliata,
salsedine, gelsomino, anche vernice o benzina… qualsiasi
cosa non fosse liquida e vermiglia, e così invitante.
<< Brucia? >> si decise a chiedere, dopo
secondi e secondi passati a fissare il nodo che aveva legato per
fermare la fasciatura.
<< Stai bene? >> ribatté Evelyn,
notando i suoi occhi verdi lievemente socchiusi e le labbra che a
tratti tremavano.
<< Perché l’hai raccolta? Non hai
pensato che al buio ti saresti tagliata? >>.
<< Perché è un pezzo di storia
>>.
Riley non capì quel che stava dicendo, probabilmente
perché buona parte del suo intelletto era intenta a
catalogare ogni possibile odore o profumo che la sua memoria
conservasse.
Quando finalmente furono fuori dal cunicolo, che avevano percorso a
passo di marcia e in assoluto silenzio, a una rilevante distanza
l’uno dall’altra, Riley riprese a respirare,
godendosi il profumo finalmente concreto dei fiori, che erano
posizionati in gran quantità nei vasi sulle tombe che li
circondavano, e dell’erba bagnata.
Evelyn continuava a chiedersi che difficoltà avesse Riley ad
ammettere la sua bipolarità. Se si fosse deciso a
dichiararlo magari sarebbe stata più comprensiva con lui.
Un secondo prima la imprigionava in un abbraccio senza accennare a
volerla liberare e dopo, tutto a un tratto, si teneva a distanza.
La sua tesi trovò ulteriore conferma quando sentì
il suo braccio cingerle le spalle e vide il sorriso che le stava
rivolgendo.
<< Mi infastidisce l’odore del sangue
>> disse all’improvviso.
<< Era solo un taglietto… devi avere un
olfatto eccellente >> ripeté lei, con tono
quasi indagatorio.
<< Appunto >> rispose l’altro con
un sorriso.
Evelyn inarcò la schiena, scossa da un brivido di freddo.
Riley si sfilò il giubbotto di pelle e glielo
passò dietro le spalle, mentre lei esitava prima di infilare
il braccio in una manica, e poi anche l’altro.
Considerando l’altezza di lui, e l’ampiezza del suo
petto, il giubbotto le arrivava ai glutei e dentro potevano entrarcene
tre di lei, che non spiccava in altezza, ed era minuta di corporatura.
<< Morirai assiderato >> gli disse,
sentendosi in colpa, ma allo stesso tempo compiacendosi del calore che
la rilassava.
Lui però sembrava troppo impegnato a osservare un punto
dietro di lei per risponderle.
Quando si voltò per intercettare il punto che stava
accalappiando tutta l’attenzione del suo interlocutore,
Evelyn si ritrovò ad ammirare la danza contorta di una
decina di minuscole fiammelle luminescenti sopra le sepolture
circostanti.
Le avevano raccontato milioni di volte degli spiriti che si
manifestavano nel cimitero di Aberdeen sotto forma di fuochi fatui, ma
non li aveva mai visti.
Se con quella simulata espressione stupita Riley stava cercando di
spaventarla, aveva sbagliato persona.
<< Fosfina >> disse la ragazza, con voce
indifferente.
Riley scoppiò a ridere, poi finse delusione per non essere
riuscito nel suo intento << Sei troppo colta
>>.
In realtà era una delle pochissime nozioni che era
miracolosamente riuscita ad afferrare durante le spiegazioni della sua
imperturbabile professoressa di Chimica.
Nei tempi più antichi, e a vedersi quel cimitero rientrava a
tutti gli effetti nella definizione di antichità, quando la
pietra dei sepolcri non era sigillata a dovere e le salme non venivano
tumulate con troppa cura, accadeva che da esse si liberasse la fosfina,
una sostanza che si auto incendiava a contatto con l’aria,
dando origine ai cosiddetti “fuochi fatui” e a
leggende sul ritorno delle anime dei morti nelle notti di luna piena.
<< Tu invece credi alle storielle sui fantasmi?
>>.
<< E se potessi testimoniarti che non tutto è
semplicemente leggenda? >> la provocò.
Evelyn per un attimo perse ogni sicurezza nel vedergli passare negli
occhi un lampo di sincerità.
Riley non voleva seriamente spaventarla, e quando la vide indugiare per
un istante, spaventata, colpita dal tono serio col quale
involontariamente aveva parlato, pensò subito a cambiare
discorso << Mi è stato riferito che pretendi
un invito ufficiale >> disse mentre
s’inginocchiava davanti alla figura esile e aggraziata di
Evelyn, incurante del fango che gli bagnava i pantaloni e pronto a fare
qualunque cosa per rimediare al suo errore; l’aveva
spaventata, nel momento meno opportuno, dopo che l’aveva
trovata a piangere in una cripta che non era per nulla degna di
ospitarla.
Lei sembrò effettivamente stupirsi, e piegò la
testa di lato aggrottando le sopracciglia.
<< Mi concedereste l’onore di farvi da
cavaliere, milady? >> continuò con un sorriso
irresistibile.
Evelyn capì di che cosa stesse parlando solo dopo aver
riflettuto qualche secondo.
Lo guardò meravigliata, poi rise.
Un ragazzo bello e
seducente come non avrebbe immaginato nemmeno nei suoi sogni e a tratti
insopportabile e cronicamente protettivo come non sarebbe stato in
nessuno dei suoi incubi, le si inchinava davanti, in mezzo al fango di
un cimitero antico e forse anche infestato - dove era finita scappando
da una manipolo di folli sconosciuti che progettavano vendetta per
chissà cosa - chiedendole la mano per un ballo al quale non
avrebbe mai creduto di poter prendere parte in vita sua - forse opera
diretta della sua lunatica e adorabile zia, che aveva di certo goduto
della complicità di Sebastian and company per ordire tutto
ad arte - e a causa del quale aveva affrontato giorni di lotta con una
sarta esasperante e un Alexander troppo giocoso e del tutto incapace di
comprendere i perpetui dilemmi femminili.
Che cosa aveva pensato su quel treno che la stava conducendo a Landry?
Che sarebbe stata un’estate noiosa?
Dopo aver atteso il tempo necessario perché Riley
s’infangasse a dovere, si decise a rispondere
<< Ne sarei lieta, milord >>.
Dimostrandole che non era riuscita nell’intento di farlo
soffrire nell’attesa, ci mise qualche altro secondo per
alzarsi.
Quando lo
fece, ed Evelyn incontrò il sorriso dei suoi occhi, non
riuscì più a trattenersi dal porgli la domanda
che la assillava da quando aveva sentito le sue braccia avvolgerla
mentre piangeva << Come hai fatto a trovarmi?
>>.
Lui
non fece altro che accentuare la dolcezza di quel sorriso e rivelarsi
per quel che era, il campione degli inganni e delle risposte dolcemente
negate, << Un vero cavaliere non perde mai di vista la
sua dama >>.
Vorrei
ringraziare di cuore tutti coloro che stanno continuando a leggere, in
particolare chi mi ha comunicato di apprezzare quel che scribacchio
inserendo questa storia tra le seguite, preferite o ricordate, e
AnonimaKim, autrice della prima recensione che ho ricevuto, e __Alis3,
che mi ha fatto dei complimenti meravigliosi.
Colgo
l'attimo anche per un ringraziamento a S. che con i suoi commenti
forbiti mi sprona a non mollare mai, e che sta penando insieme a Riley
xD ma forse entrambi non dovranno aspettare ancora a lungo...
Alla
prossima! Ell :)
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Capitolo 19 *** Carpe diem ***
23.
Carpe diem
Microscopici frammenti
di polvere svolazzavano nel raggio di luce indorata che irrompeva dalla
finestra, libera dalle tende, scalzati dai movimenti della bambina che
correva da una parte all’altra della stanza.
<<
Perché non scendi di sotto a giocare con gli altri bambini,
Ev? >> le chiese sua madre dolcemente.
<< Non mi
va >> rispose la bambina dai lunghi boccoli scuri,
continuando imperterrita a trasportare una gran quantità di
libri dagli scaffali a un carrellino malconcio e dipinto di blu.
<< Hai
intenzione di chiuderti di nuovo in camera tua a leggere?
>> disse allora la donna, in tono triste.
<< Loro
non mi vogliono >> continuò Evelyn, alzando le
minuscole spalle foderate della stoffa azzurra dell’abitino
elegante che indossava.
<< Ma cosa
dici… >> sussurrò
l’altra, inginocchiandosi all’altezza della piccola.
<<
Possiamo chiudere le tende? >> deviò la
conversazione la bambina, voltandosi verso la finestra e chiudendo un
occhio, infastidita.
Sua madre
abbassò lo sguardo, chiuse gli occhi per un momento, si
alzò e si avviò alla porta senza dire una parola,
sotto lo sguardo colpevole di sua figlia.
<< Devi
accettarlo Katie. Hai voluto fare di testa tua quando tutti dicevamo di
lasciar stare… adesso ne subisci le conseguenze
>> esordì sua nonna rivolta alla donna,
comparendo all’ingresso della stanza.
<< Non so
di cosa parli >> finse Katie.
<< Lo sai
benissimo… Io lo avevo detto a quella sciocca di Giudith
quanto stesse sbagliando, e lei invece ci ha fatto pure una figlia con
quel William >>.
<< Giudith
non era una sciocca, sono solo stupide leggende! >>.
Evelyn continuava ad
ascoltare, senza capire.
<<
Guardala! >> gridò la vecchia afferrando Katie
per le spalle e costringendola a fissare la figlia della sua sciocca
amica << La luce del sole la infastidisce, a sette anni
legge e scrive già, si rifiuta di frequentare i suoi
coetanei… per non parlare di quel che dice di vedere
>>.
In un istante la luce
del sole illuminò di riflessi rossastri i boccoli della
bambina, che se ne stava immobile, un libro ancora in mano e lo sguardo
perso nel tentativo di capire qualcosa d’incomprensibile
anche per lei che ne era parte.
<< Se non
è come lui, forse è qualcosa di peggio. Ti
porterà solo guai… >>.
Non era un buon posto per rievocare pensieri tristi, un cimitero.
Lo scrocco di un ramoscello che si spezzava sotto la pressione del suo
stivale la trascinò via da quella stanza illuminata dal sole
del tardo pomeriggio, e riempita dalla voce di sua madre, che a quei
tempi ancora la difendeva dalle accuse superstiziose di sua nonna.
Evelyn stava camminando dietro a Riley attraverso un sentiero tra le
lapidi, tanto minuscolo da lasciar passare una sola persona.
Iniziò a soffermarsi sui ritratti e leggere gli epitaffi
delle sepolture che costeggiavano il viottolo.
Parlò prima di pensare a quel che stava dicendo
<< I miei genitori sono sepolti qui >>.
Riley si fermò e chinò il capo un paio di volte,
senza voltarsi.
<< Voglio andarci >>.
Il ragazzo si voltò << E’ troppo
lontano, fra poco ricomincerà a piovere…
>>.
Evelyn fece per replicare ma lui la anticipò
<< Prometto di accompagnarti, non adesso però
>>.
Lei fece un sorriso di scherno << Ma certo, devo
aspettare anche per questo… Dopotutto hanno cercato di
uccidermi e nessuno si premura di spiegarmi niente >>.
<< Non è il momento di discutere Evelyn,
muoviti >> tagliò corto Riley, socchiudendo
gli occhi e guardandosi intorno a trecentosessanta gradi.
<< Che ti prende? Hai paura? >> lo
schernì.
La sollevò passandole le braccia sotto le ginocchia e le
spalle, fin troppo rapidamente.
Con altrettanta velocità si voltò per proseguire,
ma la strada era ostruita.
Non era nient’altro che un’ombra.
Una sagoma scura, senza volto, immobile a pochi passi da loro.
Evelyn si guardò intorno, e quasi senza stupirsi
costatò che l’ombra non era una sola. Strinse il
pugno sulla camicia di Riley e le sfuggì un gemito.
<< Chiudi gli occhi >> le disse Riley,
senza mascherare il tono adirato della sua voce.
Evelyn lo guardò, stupefatta.
Le vedeva anche lui?
Affondò il viso sul suo petto, mentre partiva a una
velocità inconcepibile.
Aprì gli occhi solo quando non sentì
più l’aria frustarle il viso.
Riley la depositò su un tronco abbattuto e si
chinò alla sua altezza.
<< Mi viene da vomitare >> disse a denti
stretti mentre serrava le palpebre e i pugni.
<< E’ sempre così, la prima volta,
fra poco passa >> la consolò.
Evelyn non chiese come avesse fatto a correre tanto agilmente con lei
tra le braccia, altrimenti non sarebbe riuscita a trattenere la nausea.
<< Che cosa sono? >> chiese quando quella
sensazione di vuoto allo stomaco iniziò a diminuire.
<< Ombre >> rispose l’altro,
impassibile.
<< Fin qui c’ero arrivata anche da sola
>>.
<< Non pensarci Ev, andiamo >>.
Evelyn avrebbe certamente ribattuto, forse sarebbe anche arrivata a
picchiarlo - dopotutto gli aveva già mollato un cazzotto -
pur di schiarire un po’ la nebbia che avviluppava tutto quel
che era successo da quando era arrivata in quel posto… ma la
stanchezza e uno strano senso di pacificazione interiore che non seppe
spiegarsi glielo impedirono.
Si lasciò prendere di nuovo in braccio senza opporre alcuna
resistenza, e si disse che la verità poteva aspettare, tra
la sue priorità di quel preciso istante c’erano
solo le soffici coltri del suo letto e Morfeo che da qualche parte la
attendeva a braccia aperte.
Lisa fu tutt’altro che felice di vederla comparire sulla
soglia della porta insieme a Riley e con il suo giubbotto addosso.
Fortunatamente il proprietario dell’indumento era fatalmente
stato abbastanza saggio da metterla giù qualche minuto prima
che Sebastian, tutto angosciato, spalancasse la porta.
Evelyn era già consapevole di doversi sorbire il
consuetudinario club del dolore, solo che il suddetto poteva
chiaramente vantare delle new entry.
Non solo le venne incontro sua zia, in preda a una delle sue crisi
sconclusionate come sempre, il divano biposto conteneva a stento i
muscoli di Alexander e di un ragazzo dai capelli rossi che era certa di
aver già visto da qualche parte.
Nell’altro divano stavano seduti i gemelli, Sophie e infine
Lisa, il quale sguardo di fuoco e fiamme pose Evelyn nelle condizioni
di credere che di lì a poco si sarebbe incendiata per
autocombustione.
C’erano ovviamente anche Rose e Dalia, che non appena la
videro tirarono un palese sospiro di sollievo.
Lisa, che come già detto non era per niente sollevata,
scattò in piedi << Dove diavolo eri finita?
>> esclamò, spostando subito dopo lo sguardo
su Riley.
Evelyn non volle nemmeno considerare i pensieri impuri che la mente
malefica di quella bionda insuperbita aveva potuto formulare durante le
ore in cui l’avevano data per dispersa.
<< All’emporio, mi pare ovvio >>
rispose riciclando le stesse parole della sua interlocutrice e
sfoderando un tono di esagerata ovvietà, che apparve agli
occhi di tutti come la presa in giro che era.
Forse si sarebbero tirate i capelli.
Alexander si voltò e si portò una mano davanti
alla bocca. Evelyn era certa che si stesse sganasciando.
<< Ha sbagliato strada e ha dovuto fare un giro
più largo per tornare, quindi ci ha messo più
tempo >> intervenne Riley, che forse temeva
l’autocombustione come Evelyn, a vedere le braci negli occhi
di Lisa.
<< Stai bene, vero? >> le chiese Sophie
affiancandola e guardandola in viso.
<< Benissimo >> rispose con un sorriso
Evelyn, che ormai si sentiva come la superstite di una catastrofe.
O forse la catastrofe era avvenuta davvero?
Quel libro che le pesava nella borsa per un istante le fece pensare di
sì.
<< E’ stanchissima, dovrebbe andare a letto
>> affermò Riley passandole un braccio intorno
alla vita.
Procurate un idrante,
pensò lei, vedendo le unghie di Lisa conficcarsi nel palmo
delle mani e i suoi occhi uscire dalle orbite.
<< Andiamo >> si frappose Rose, prendendola
per mano e conducendola alle scale.
<< Buonanotte Ev >> dissero in coro i
presenti.
Oddio, come il club degli alcolisti anonimi.
Evelyn si sforzò di cacciar fuori un sorriso fasullo, che si
tramutò in reale quando notò che mentre lei se la
svignava Riley rimaneva tra le grinfie di Lisa l’incendiaria,
che evidentemente aveva una cotta per lui.
Quando fu sola nella sua camera e dopo essersi avvolta nella camicia da
notte si stese sul letto, il sonno era totalmente svanito.
Dopo qualche minuto passato a osservare i fregi lignei del soffitto del
baldacchino si decise ad alzarsi e avviarsi allo scrittoio,
dov’era accasciata la sua borsa.
La verità aveva sorpassato Morfeo nella scala delle
preminenze.
Quando sfogliò velocemente le pagine, nel consueto gesto di
pregustare la lettura, si rese conto che il libro era stato privato di
buona metà del suo volume, e nel pensare ai fogli strappati,
in un lampo di memoria, la assalì la preoccupazione che Rose
avesse già portato i suoi jeans in una cesta del bucato da
qualche parte nella casa. Fortunatamente erano rimasti in quella del
bagno della sua camera e poté dunque rientrare in possesso
della pagina solitaria che aveva preso in chiesa col proposito di
riportarla presto indietro. Non che avesse avuto scelta,
giacché trovandosela in mano mentre il presunto proprietario
entrava dalla porta non aveva potuto far altro che nasconderla, e poi
di rimetterla a posto, mentre si accingeva a iniziare il suo giro
turistico nelle catacombe, era stato l’ultimo dei suoi
pensieri.
Poggiò il foglio sul ripiano di legno e ci passò
ripetutamente sopra le mani, nel tentativo di alleviare le pieghe che
rendevano complicata la lettura.
A causa della loro
superiorità in forza e intelletto gli immortali erano
incontrollabili da mani umane.
Fu per questo motivo che
gli stessi appartenenti alle linee di sangue si fecero garanti della
tregua tra il loro mondo e il nostro, nella speranza di evitare la
reciproca distruzione.
Quegli esseri superiori
furono confinati nelle loro antiche sedi sparse per il mondo, al fine
di non immischiarsi nella struttura sociale della civiltà a
noi conosciuta.
Sono però
avvenuti contatti tra umani e vampiri che hanno portato alla nascita di
creature di mezzo, alle quali è concesso vivere tra gli
umani finché non si manifesta la loro natura ereditata da
uno dei due genitori. Non si possiedono tuttavia sufficienti
informazioni sui Mezzosangue e il loro seppur esiguo numero non
è registrato.
Tutt’oggi i
Custodi vegliano sulle dimore dei vampiri, impedendo ai ribelli di dar
sfogo alla loro brutalità e oltrepassare i confini.
Tra i custodi sono
presenti pochissimi umani, che possono scegliere di vivere tra i
soggetti della loro sorveglianza.
Frammento della testimonianza di
Oswald Van Eyck , Custode, Landry 1617
Sul foglio erano vergate solo quelle poche parole e il numero della
pagina.
Vampiri.
Le sue conoscenze in merito erano limitate e largamente dipinte dalle
leggende di film e libri.
Mezzosangue.
Dannata per
metà.
Le parole le risuonavano nella testa come le aveva sentite risuonare
tra le volte di marmo di quella cattedrale.
Mise la pagina all’interno del libro e lo nascose sotto
strati di vestiti, in un cassetto dell’armadio.
Evelyn si era sempre promessa che davanti a prove lampanti non avrebbe
mai negato l’evidenza, ma adesso accettare la
verità faceva davvero male.
La mattina seguente il vento e la pioggia imperversavano fuori dalla
finestra come la confusione nella sua testa.
Si era già svegliata da un po’, senza avere una
briciola di voglia di scollarsi dal letto, quando Dalia irruppe nella
camera senza bussare e portando con sé un vassoio con tanto
di vasetto fiorato e al centro del quale svettava un enorme budino alla
vaniglia che nuotava in un mare di caramello.
<< Colazione abbondante per un giorno importante!
>> esclamò con un sorriso sgargiante, posando
il vassoio sulle coperte, accanto alle sue gambe.
<< Non entrerò nel vestito >>
sbuffò Evelyn sbattendosi in faccia un cuscino.
<< Di prima mattina è raro vedervi allegra e
sorridente ma oggi mi sembrate più adombrata del solito
>> disse la donna mettendosi le mani sui fianchi.
Evelyn rispose con un verso scocciato.
Si sarebbe riaddormentata se qualcuno non avesse avuto la lestezza di
strapparle il cuscino dalla faccia e forzarla a uscire dalle coperte.
<< Buongiorno! >> esclamò Sophie
sbandierando la sua solita vivacità mattutina.
Un altro mugugno di Evelyn.
<< Hai perso la lingua? Piantala di bofonchiare e va a
lavarti che dobbiamo sbrigarci >> continuò
l’energica mattiniera.
<< Ma il ballo è stasera! >>
esclamò Evelyn decidendosi a usare la comunicazione verbale.
<< Appunto >>.
<< Non vorrai iniziare adesso con i preparativi
>> si lamentò la ragazza ancora in camicia da
notte, lanciando un’occhiata nostalgica al letto.
<< E allora quando? >> rise Sophie. La
spinse in bagno e poi sparì in direzione
dell’armadio.
Quando uscì dal bagno avvolta nella vestaglia di seta era
arrivata anche Rose, pronta accanto allo scrittoio con gli arnesi della
più affinata arte delle messe in piega.
Sophie e Dalia stavano tirando fuori dall’armadio
un’ingente quantità di scialli e cappotti,
probabilmente cercandone uno adatto all’occasione, e dal
nulla era apparsa anche Josephine, che insieme a Sebastian si dedicava
a riesaminare l’abito e a stirare con le mani eventuali
impercettibili pieghe.
Quel quadretto ricordò a Evelyn tutti i matrimoni delle sue
cugine cui aveva preso parte. La costringevano sempre a correre da una
parte all’altra della casa trasportando scarpe, vestiti e kit
d’emergenza per le riparazioni dell’ultimo istante.
In casa Mcgrath i preparativi per le occasioni speciali erano
caserecci, quindi tutti a sgobbare per la festeggiata… solo
che lei non era mai stata protagonista, e adesso non sapeva esattamente
cosa fare. Per di più aveva anche sonno e mille pensieri per
la testa.
Si ritrovò seduta davanti allo specchio, con le mani di Rose
a giocherellare con le sue ciocche lunghe e scure.
<< Uno chignon intrecciato sarebbe perfetto
>> affermò sua zia.
<< Li preferirei sciolti >>
controbatté Evelyn, con timidezza, passandosi una mano tra i
capelli bagnati.
Le donne nella stanza si guardarono tra loro, incerte.
Ai balli cui erano abituate era consuetudine che ogni dama sfoggiasse
un’acconciatura diversa, ma in fondo capelli di Evelyn erano
bellissimi e sarebbe stato un peccato nasconderli in uno chignon.
<< Allora sciolti siano >> disse Rose con
un sorriso, iniziando a tamponarli con un asciugamano.
Evelyn fu costretta a passare più tempo di quanto avesse
supposto su quella sedia, ma alla fine ci mise un bel po’
anche ad ammirarsi nello specchio; i suoi capelli erano divisi in mille
perfetti boccoli e il ciuffo che abitualmente le ricopriva la parte
destra del volto, e che teneva sempre dietro l’orecchio,
terminava in un’onda modellata.
<< Adesso basta rimirarti, vieni qua >> la
trascinò via Sophie, per passare alla fase trucco.
Nonostante l’altra avesse insistito per un make-up
più complesso, Evelyn optò per solo un
po’ di mascara a rendere più scure di quanto
già non fossero le lunghe ciglia e rossetto rosso sulle
labbra carnose.
Probabilmente era l’unica al mondo, ma detestava ricevere
complimenti.
Il suo viso cambiò colore quando con un sospiro plateale
diede le spalle allo specchio e incontrò i sorrisi estasiati
dei presenti.
Alla fine, grazie anche all’aiuto di Sophie,
riuscì a sbatterli tutti fuori. Se ne andarono che ancora
commentavano con “siete bellissima”.
<< Finisco da sola, ci vediamo dopo… se mi
serve una mano con la chiusura del vestito vengo a chiamarti. Ora
corri, devi farti bella anche tu! >> esclamò
con un sorriso mentre anche l’ultima si defilava.
Dopo un’ora era ancora seduta sul letto, in vestaglia, a
osservare il lungo abito di pizzo leavers e i tacchi dodici Christian
Louboutin, che sua zia evidentemente poteva tranquillamente
permettersi, chiedendosi se fosse grave non indossare le calze, che
tutti credevano avesse comprato all’emporio, mentre in
realtà lei scorrazzava per viottoli a catacombe con presunti
vampiri alle calcagna.
Aveva barattato la sua eleganza per un maledetto libro che le aveva
riempito la testa di pensieri angoscianti.
Un paio di colpi alla porta la riscossero.
<< Sì? >>.
<< Hai finto? Ti serve una mano? E’ tardissimo!
>> le pervenne attutita dallo spessore della porta la
voce di Sophie.
<< No no! Ho quasi fatto >>
gridò scattando in piedi.
<< Immagino… Datti una mossa, che è
già arrivato anche il tuo accompagnatore >>
Evelyn dedusse che l’ultima parte della frase fosse
accompagnata da un sorriso divertito.
Chiuse gli occhi ed espirò.
Era giunto il momento di mettere per una volta da parte
l’apatica Evelyn che stava sempre in seconda fila e tirar
fuori quella sorridente e sensuale, certo un po’ impolverata,
ma perfettamente funzionante.
Una volta indossato l’abito provò a fare qualche
passo su quei tacchi da vertigini con ancora i bottoni aperti sulla
schiena e le riuscì abbastanza bene.
Si osservò allo specchio e dopo aver pensato per un istante
che non avrebbe messo piede fuori dalla porta, si decise ad avviarsi.
Quando la spalancò trovò Alexander proprio
lì davanti, con il pugno ancora in aria.
<< Serve una mano? >> chiese col familiare
sorriso divertito sulle labbra.
Evelyn rise, fece qualche passo dentro la stanza si fermò
dandogli le spalle.
<< So che ti sembrerò poco originale
ma… sei bellissima >> disse, mentre con una
destrezza che la stupì le chiudeva l’abito sulla
schiena.
<< Grazie >> rispose voltandosi, quando lui
ebbe finito.
<< A dopo allora >> la salutò
incamminandosi verso la porta.
<< Aspetta! Scendo con te >>
cercò di fermarlo lei, che non aveva per niente voglia di
deambulare per le scale da sola sotto gli occhi di tutti.
Alexander rise << Bel tentativo, ma mi spiace, non ti
posso risparmiare l’entrata trionfale >>.
Evelyn deglutì e mosse il primo passo fuori dalla porta solo
dopo qualche minuto.
Dopo tre passi si chiese a cosa stesse andando incontro.
Vampiri e Mezzosangue.
Quelle due parole
avrebbero cambiato la sua vita?
Dopo sei passi pensò alla possibilità di ricadere
o no nell’apatia dopo quel ballo.
Qualcosa sarebbe stato
diverso? Avrebbe sorriso di più?
O li avrebbe consumati
tutti in quell’unica serata, i suoi sorrisi, per poi tornare
quella di sempre, in seconda fila?
Il nono passo le ricordò la sua vita ad Aberdeen, niente di
che.
L’undicesimo le portò alla mente tutte le
attenzioni che aveva ricevuto da quando era arrivata a Landry.
Al diciottesimo si disse che un po’ si sentiva a casa
lì, in fondo.
Era come vivere in famiglia, avere degli amici… cose che
fino ad allora aveva ammirato solo da lontano.
Diciannove passi.
Era ansia e
felicità che stava provando?
Al ventesimo passo era in cima alle scale.
Sollevò lo sguardo mentre poggiava una mano sul corrimano
intarsiato e incontrò quegli occhi verdi,
d’impazienza e meraviglia, che aspettavano solo lei.
L’occhiata incantata che il suo cavaliere le
dedicò la distrasse al punto che per poco non
ruzzolò giù dalle scale.
Riley era in piedi con le mani abbandonate lungo i fianchi; camicia
bianca, giacca nera e capelli modellati all’indietro in modo
lievemente spettinato come sempre.
Sembrava davvero felice e impaziente, ed Evelyn si augurò
solo che non fosse bravo a fingere.
Capita a volte, in un
minuscolo istate, con un fugace e distratto sguardo, di vedere una cosa
per la prima volta - o semplicemente rendersi conto che è
sempre stata lì, sotto gli occhi, senza prestare abbastanza
attenzione da rendersene conto – e desiderare solo di averla,
nel modo più ardente possibile.
Lasciarsi rapire.
Come succede a un
raffinato collezionista d’arte davanti al quadro di un
dimenticato artista di strada, a una quarantenne alla quale non
è rimasto altro se non i soldi davanti alla vetrina di un
negozio d’alta moda, a un musicista con il suo spartito.
Era così che Riley si era sentito quando Evelyn era apparsa
in cima alle scale, e poi quando aveva iniziato a scendere, aggraziata
e bellissima, forse un po’ imbarazzata.
Era sempre stata sotto i suoi occhi sì, ma solo adesso era
quella vera.
La Evelyn che dominava la prima fila, vera e senza corazza alcuna a
nascondere la bellezza del suo sorriso, che era vero
anch’esso, forse solo per quella sera, ma poco importava.
Era dannatamente bella.
Carpe diem,
disse una volta un tale di nome Orazio del quale solo pochi conoscono
il nome, ma tutti ricordano il detto.
Cogli l’attimo,
pensò il cavaliere mentre s’inchinava.
<< Milady >> disse, porgendole il braccio.
Ogni complimento sarebbe stato futile e replicato; bastava solo che lo
guardasse negli occhi.
<< Milord >> rispose stringendogli la
stoffa della giacca e mordendosi le labbra, per mascherare un sorriso o
un sospiro.
Troppo modesta per accorgersi delle attenzioni di Riley, probabilmente
bugiarde ai suoi occhi.
Non credeva nell’amore, la malcapitata ragazza di
città.
Carpe diem.
Goditi il presente,
confida poco nel domani.
Un ballo era un’ottima occasione per cambiare opinione, si
disse il cavaliere, mentre conduceva la sua dama, sua solo per una
sera, alla carrozza.
Durante il tragitto Evelyn aveva valutato ogni possibile catastrofe.
In conclusione sul podio erano arrivati la catalessi per claustrofobia
da confusione, rovinare per terra prendendosi un lembo del vestito con
quelle scarpe da alpinismo e ultima ma non meno importante sciagura
lasciarsi irretire da Riley, che con quel suo maledetto sguardo da uomo
conquistato era già quasi riuscito a far avverare sia la
terza che la seconda opzione.
<< Se dovessi inciampare… >>
iniziò, mentre raggiungevano l’ingresso della
sala, dal quale fuoriusciva già qualche nota di musica
classica.
<< Dubito che lo farai >> la interruppe
Riley.
<< Ponendo che accada, se mi fai arrivare per terra non
ti rivolgo più la parola >>.
<< Una minaccia terrificante >>.
<< Ti sembra il momento di scherzare? >>.
<< Non è sarcasmo, sono serio >>.
Evelyn si morse le labbra per evitare di mandarlo al diavolo, sia
stesse giocando sia non potesse davvero fare a meno delle sue
chiacchiere, perché la seconda ipotesi era troppo dolce
perché lei potesse continuare a insultarlo, e lei con Riley
voleva solo litigarci.
Nel varcare la soglia strinse forte la mano che la teneva per un fianco
e raddrizzò la schiena contro il braccio che aveva dietro.
La sala profumava di rose e allegria; era riempita dalle note dei
violini e del pianoforte posti in un angolo con i loro musicisti, ed
era così affollata che se non ci fosse stato Riley a
spingerla, Evelyn se la sarebbe data a gambe verso l’uscita.
Dopo essersi consolata col pensiero che tutti fossero troppo impegnati
nelle danze o a parlare tra loro per accorgersi di lei,
desiderò solo che il pavimento la inghiottisse. Le
sembrò addirittura che per un momento anche la musica
scemasse insieme a ogni attività che la gente lì
dentro stava conducendo.
Continuò a camminare sotto gli occhi di tutti, che la
pungevano come aghi di siringhe avvelenate, sperando che il suo
cavaliere la salvasse ancora una volta, non da assassini e inseguitori,
ma dall’attenzione collettiva che le gridava di non essere
all’altezza.
Per la prima volta lui non la soccorse.
Si ritrovò al centro della pista da ballo, tra le luci
dorate di lampadari di cristallo e candele.
Traditore.
La mano che la reggeva sul fianco le scivolò sulla schiena
mentre l’altra saliva in alto, in attesa che lei ci poggiasse
sopra la propria. Nello stesso istante in cui lo fece le note di Love
Story, di Francis Lai, iniziarono a riempire l’aria.
<< Non credo di saperla ballare >> gli
sussurrò a denti stretti.
Lui scosse la testa e rise, mentre iniziava a muoversi.
A lei non rimase altro da fare se non assecondarlo e cercò
di intercettare i passi di lui e coordinarli con i propri e con la
musica.
Si sentiva tremendamente impacciata.
A vedersi da fuori era tutt’altra storia ovviamente.
Era sempre stata troppo modesta anche per definirsi l’ottima
ballerina che era, o forse era solo colpa del fatto che non aveva mai
avuto modo di sperimentare il suo talento. Alle pochissime feste alle
quali aveva partecipato nessuno l’aveva mai invitata a
ballare seriamente, o comunque quei pochi che si erano azzardati
avevano mostrato di avere tutt’altro intento della danza, e
lei alla fine aveva anche smesso di prendere parte a qualsivoglia
evento mondano, visto che non si divertiva per niente alla vista di
esemplari maschili sovraeccitati e a trascinare via le sue amiche
ubriache dalle camere da letto in cui inconsciamente finivano.
La sua insicurezza decresceva insieme alle note musicali, che al
contrario però adesso risalivano.
Riley la allontanò velocemente da sé, fermandola
per la mano all’ultimo istante e tirandola subito indietro,
la avvolse tra le braccia mentre le sfiorava il collo con le labbra e
lei abbassava il volto di lato per coprire un sorriso con un ciuffo di
capelli.
Ormai era troppo concentrata su di lui e sui movimenti anche per
accorgersi della gente che aveva formato un cerchio intorno a loro e
che commentava estasiata.
Quattro passi indietro con il suo respiro a un soffio dalle labbra.
Sicuramente anche Riley si divertiva non poco.
<< Non credevi di saperla ballare, eh? >>
le soffiò in un orecchio, un secondo prima di allontanarla
di nuovo e farla girare su se stessa.
Quando dopo quattro velocissimi passi in avanti gli fu di nuovo vicino,
rispose solo con una risata armoniosa.
La sollevò per i fianchi facendo mezzo giro su se stesso e
depositandola di spalle. Evelyn camminò incrociando
sensualmente le gambe, per distanziarsi da lui, solo per godersi la sua
reazione; sentì le mani di Riley stringerle i fianchi e
tirarla indietro rigirandola, mentre i loro sorrisi
s’incontravano.
Le loro labbra furono così vicine che lei chiuse gli occhi e
sospirò, prima che il casché li separasse.
Rimase per qualche secondo con una mano sul suo collo e
l’altra sulla camicia candida, con il ginocchio ancora nella
stretta di Riley, proteso verso di lei che era inarcata al punto che le
punte dei capelli ondulati sfioravano il pavimento lucido.
Guardarsi negli occhi richiedeva talmente tanta energia che non
sentirono nemmeno i versi di stupore degli spettatori di quella danza
improvvisata a meraviglia e qualche battito di mani.
<< Non sapevo fossi una ballerina provetta
>> le disse Sophie, quando le danze collettive
ricominciarono e Riley la condusse al margine della sala.
<< Non lo sapevo nemmeno io >> rispose
mentre Alexander le porgeva un calice di cristallo con dentro
probabilmente dell’aranciata. Riley glielo tolse in fretta
dalle mani e si chinò per parlare in modo che potesse
sentirlo solo lei.
<< Tua zia non ti ha portato qui perché
ballassi con me, vuole presentarti all’alta
società di Landry, e mi sembra anche giusto, ma sta
arrivando proprio adesso con una schiera di signore al seguito e ti
terranno occupata per un bel po’ >>.
Prima ancora che Evelyn potesse rispondere, lui dovette immaginare le
sue intenzioni. Con entrambi i calici in una mano portò
l’altra sul suo fianco e la trascinò via da
lì sotto il riso divertito di Sophie e Alexander, cogliendo
un attimo in cui Josephine e le sue comari erano distratte nel
commentare le rose muschiate di uno dei tanto vasi di vetro decorato
che riempivano la sala.
Nel giardino li accolsero la fioca luce lunare opacizzata dalla nebbia
e l’ormai consueto odore di pioggia cessata.
Riley la condusse attraverso un’ala del porticato, poi si
avvicinò al muretto che lo delimitava e dopo averlo
facilmente oltrepassato aspettò che anche Evelyn facesse lo
stesso.
Lei si issò sulla superficie di marmo reggendosi con una
mano alla colonna di uno degli archi acuti che correvano lungo tutto il
perimetro.
La aiutò a scendere sollevandola con un solo braccio;
nell’altra mano ancora i due calici con tutto il loro
contenuto dentro.
Evelyn, conoscendo la sua agilità, non si chiese come avesse
fatto a non rovesciarne nemmeno una goccia. << Dove mi
stai portando? >> domandò mentre erano ormai
in mezzo alla rugiada dei fiori rossi del giardino.
Lui si fermò e la guardò negli occhi
<< Vuoi tornare indietro? >>.
Il tono serio della sua voce la stupì, e le
procurò un’espressione stranita, <<
No >> esclamò accompagnando le parole con un
movimento del capo, quasi a sottolineare l’ovvietà
di quel che aveva appena detto.
Riley sperò che la sincerità di quella negazione
non fosse legata esclusivamente al fatto che tornare indietro
significasse sorbirsi le comari di Josephine, e che oltre a non aver
voglia di tornare indietro ne avesse un po’ di andare avanti.
Certo non si aspettava che ne avesse quanto lui, che voleva solo
tenerla un po’ per sé, prima che gli altri ospiti
gliela portassero via per il resto della serata.
<< Sophie mi picchierà, guarda come sto
riducendo il vestito >> disse Evelyn reggendosi al suo
braccio e sollevandosi con l’altra mano il vestito fino alle
ginocchia, avendo completamente dimenticato di non indossare le calze.
Poi scoppiò a ridere.
Per uno sciocco istante lui pensò che l’avesse
fatto di proposito, ma subito dopo si disse che a sedurlo lei non ci
pensava minimante... non
che ce ne fosse bisogno comunque.
<< Cos’è che ti fa ridere?
>> le chiese, gli occhi ancora sulle sue gambe nude.
<< Pensare a che cosa farebbe la sarta che ha
confezionato il vestito se mi vedesse adesso >> rispose
la finta ingenua, intercettando alla perfezione lo sguardo del suo
accompagnatore << Ma non puoi capire, tu non
c’eri >> aggiunse poi con un tono saccente.
Riley sorrise e attraendola a sé con la mano libera fece
qualche passo all’indietro << Ti ho
già chiesto scusa per la mia assenza >>.
Quella parole la fecero pentire di quel che aveva detto, ma
tutt’a un tratto era troppo presa dall’ambiente
circostante per trovare una frase abbastanza tagliente per il
contrattacco.
Quando si era fermato, dietro di lui c’era solo un muro
interamente ricoperto d’edera, o almeno in apparenza. In
realtà attraverso un’apertura nascosta dalla
pianta rampicante si aveva accesso a un’area completamente
nascosta da quelle foglie verdi e lucide, che rivestivano tutte le
pareti. All’inizio Evelyn aveva pensato che fosse una serra,
ma notando il pavimento di pietra decorata da motivi floreali e le rose
che lo circondavano, non seppe definire il luogo in cui si trovava.
Sollevò il viso e vide la cupola di marmo, che distava una
decina di metri da lei e ricoperta anch’essa
d’edera.
<< E’ bellissimo qui >>
sussurrò, mentre continuava ad ammirare i disegni sotto le
sue scarpe ormai bagnate e le alte colonne attorcigliate che
intervallavano le piante.
Riley non disse nulla, si limitò a guardarla mentre
camminava seguendo le linee contorte dei ghirigori della
pavimentazione. Dopotutto guardarla era il massimo cui gli fosse
concesso aspirare, o forse al massimo un ballo, l’unico modo
per tenerla vicina.
Da lontano, portate dal vento che aveva preso a soffiare, iniziarono a
giungere le note di One Last Wish di James Horner.
<< Adoro questa canzone, l’hai mai sentita?
>> disse Evelyn smettendo di percorrere quegli itinerari
immaginari e voltandosi in direzione della sala, dove probabilmente
qualcuno la stava cercando.
<< Solo nel film >> rispose lui, sempre
immobile, una mano in tasca e l’altra ancora a reggere i
bicchieri.
La vide voltarsi verso di lui, sollevare il mento e stringere gli occhi
e le labbra, come a volergli comunicare qualcosa, senza parole.
Le si avvicinò << Ti inviterei volentieri a
ballare, ma dobbiamo tornare indietro >>.
La delusione che le lesse negli occhi prima che si voltasse lo
stupì.
Evelyn si era già incamminata verso l’uscita,
prima di rendersi conto che non aveva idea di dove fosse. I muri erano
tutti identici l’uno all’altro.
<< Da che parte? >> chiese senza voltarsi.
Carpe diem.
<< E se non te lo dicessi? >> le
sussurrò Riley a un soffio dal collo, mentre la avvolgeva
tra le braccia.
Dopo quel gesto azzardato aspettò come minimo che arrivasse
uno schiaffo, o uno dei suoi cazzotti ben assestati che aveva
già avuto modo di verificare… tuttavia, con sommo
stupore, sentì le sue dita delicate intrecciarsi attorno al
suo collo e la vide chinare il volto di lato per poterlo guardare negli
occhi.
Con una mano le risalì lungo le braccia e le cinse i polsi,
forse per paura che ci ripensasse e lo lasciasse andare, o come
semplice gesto di possesso.
Quando vide le sue labbra rosse tendersi in un sorriso le
abbracciò i fianchi con le braccia e la girò
verso sé.
Evelyn gli poggiò le mani ai lati del collo, sfiorandogli la
mascella con la punta delle dita, senza capire il motivo del proprio
gesto.
Quando aveva sentito il corpo di Riley contro il suo, aveva solo avuto
paura che si allontanasse di nuovo. Perché solo in
quell’istante si era resa conto che quando lo aveva vicino
tutto smetteva di girare. Lui, il suo salvatore, era diventato
l’unica certezza in quella confusione.
Tra quello che era stata la sua vita e quel che stava diventando, tra
mezze verità e certezze terrificanti, quando c’era
lui a tenerle compagnia, che recitasse la Divina Commedia o la parte
del cavaliere, dimenticava tutto il resto.
Lo odiava, e lo voleva solo per sé, voleva solo litigarci.
Lo guardò negli occhi, e li trovò impazienti come
quando l’aveva aspettata mentre scendeva lenta le scale.
Quel verde acceso fu l’ultima cosa che vide prima di
abbassare le palpebre, un istante prima che le labbra di Riley
sfiorassero le sue.
Il suo sospiro la baciò insieme alla sua bocca.
Evelyn dischiuse le labbra mentre Riley spingeva con le sue tanto da
costringerla a piegarsi all’indietro, incontrando il sostegno
della sua mano sulla schiena.
Il rumore del cristallo infranto, lasciato cadere con noncuranza,
accompagnò la mano di lui che le carezzava il viso, prima di
finire tra i suoi capelli per farle piegare la testa.
Lei spostò le mani sulla sua nuca e tra i capelli dorati,
attraendolo ancor di più a sé, ancora una volta
senza sapere cose fosse quel desiderio bruciante di averlo il
più vicino possibile.
Riley accompagnò col capo un ultimo movimento delle labbra
su quelle di lei.
Le liberò la bocca e si allontanò dal suo viso
con riluttanza.
Evelyn ansimò e ci mise qualche secondo ad aprire gli occhi.
Quando lo fece trovò il suo viso ancora vicino, e
pensò che il sorriso che le offrì fosse bello e
tentatore come non ne aveva mai visti.
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Capitolo 20 *** Come sale su una ferita ***
24. Come sale su una
ferita
Ogni singola
catastrofe che Evelyn prevedeva puntualmente si avverava.
Ed ecco che
anche l’ultimo buon proposito per la serata era sfumato in
una manciata di palpiti. E parlando di palpiti ci si aggirava intorno
ai centoventi per minuto; il cuore le batteva forte, ora di rabbia, ora
di qualcosa che non riusciva a spiegarsi.
Rabbia
perché era stata come una sconfitta, cascarci
così, come una ragazzina qualunque, vittima di quegli occhi
verdi e del sorriso di quelle labbra umide e fin troppo morbide.
Se
lì adesso ci fossero stati tutti coloro che in diciassette
anni non si erano mai persi l’occasione di farle la morale le
avrebbero detto che se l’era cercata. Lei avrebbe finto e
mentito, com’era brava a fare, ma avrebbe saputo
d’essere nel torto.
Lo aveva
provocato, e le era anche piaciuto, ma era una tentazione… e
tentazione la maggior parte delle volte vuol dire pericolo. Ma cosa
può esserci di più seducente del rischiare?
Riley la
teneva ancora stretta, il viso vicino al suo e un sorriso sulle labbra,
malizia e dolcezza, come solo lui sapeva conciliarle.
<<
Anche Evelyn ha un cuore >> le sussurrò in un
orecchio.
Un sussurro
che le fece tremare le gambe e trattenere il respiro.
<<
Non illuderti >> rispose lei in tono pretenzioso,
spostando le mani pallide poco più in basso del suo collo e
facendo leva per scostarsi e poterlo guardare negli occhi. Trattenne a
stento un gemito quando si rese conto che non ci riusciva.
Riley la
attrasse a sé affondando con la mano tra i suoi boccoli
scuri e le sfiorò appena le labbra con le sue, prima di
sorridere e allontanarla, mantenendo solo il contatto delle loro mani.
Una bruciante
voglia di schiaffeggiarlo s’impossessò di lei.
Si stava
sicuramente vendicando di tutte le volte che gli si era sottratta, o si
stava semplicemente prendendo la premura di dimostrarle che non
riusciva più a farlo.
Fuori dalla
sua visione sospetta delle cose aveva semplicemente sentito qualcuno
avvicinarsi, << Arrivano >> le disse con un
verso scocciato.
<<
Chi? >> domandò lei, pentendosi un
po’ di aver formulato pensieri querelanti.
<<
La pattuglia di ricerca >>. Riley sembrava sul punto di
scoppiare a ridere.
<<
E che cosa cercano? >> continuò Evelyn,
staccando fulmineamente le mani da quelle di lui, intuendo
già la risposta.
<<
Ovviamente te >> rise il ragazzo.
Lei non ebbe
il tempo di proferire l’insulto che le si era arrampicato su
per la gola che un tizio sbucò dal passaggio con
un’espressione scombussolata in volto.
<<
Tutto bene, mio signore? >> chiese l’uomo,
rivolto a Riley.
Rimase
sconcertata al sentire quell’appellativo.
<<
Perdonatemi se ho interrotto qualcosa >> aggiunse tutto
preoccupato.
La ragazza
strinse i pugni e si morse le labbra senza riuscire a mascherare
un’espressione di pura esasperazione.
<<
Considerati scusato >> esordì Riley nello
stesso istante in cui Evelyn si affrettava a enunciare con un sorriso
fasullo << Non avete interrotto proprio niente!
>>.
<<
Ad ogni modo siete attesa dentro, milady >>
mascherò con le parole il sorriso che il tono di lei gli
aveva suscitato e sparì oltre l’edera.
<<
Perché non hai negato? Sei un idiota Riley >>
gli ringhiò quando furono di nuovo soli.
<<
Se la memoria non m’inganna, la frase non mi è
nuova… non sono bravo come te a mentire comunque
>>.
Evelyn rise,
non per divertimento << Non dire sciocchezze, mi hai
mentito sin dal primo giorno che sono arrivata, tu e tutti gli altri
>>.
Riley non si
scompose minimamente << Allora puoi costatare tu stessa
il mio poco talento, se è stato così evidente
>>.
<<
Oh no, credimi, sei stato bravissimo >>.
Evelyn parlava
con noncuranza e restava immobile; non un segno di debolezza o
ripensamento. Non aveva premeditato quel discorso, non aveva pensato al
fatto di sbattergli in faccia tutta la verità, e la sua
delusione per la poca sincerità che le aveva riservato, dopo
che si era fidata di lui. Semplicemente all’improvviso la sua
bocca aveva pronunciato parole troppo urgenti perché lei
potesse riuscire a trattenerle.
<<
Non è colpa mia >>.
<<
E anche questa non è nuova >>.
<<
Non mi piace mentirti >>.
Per un momento
pensò che stesse cercando di ingannarla, ma la sincera
tristezza che gli velava gli occhi smentì ogni sospetto.
<<
Allora dimmi la verità >> sussurrò
muovendo un passo incerto verso di lui.
Per la prima
volta da quando lo aveva conosciuto, lui abbassò lo sguardo.
Le fu
difficile tenere a freno le gambe e il sentimento, e resistere
all’istinto di andargli vicino e stringersi il suo volto al
petto per non vedere l’ombra in quegli occhi, solitamente
limpidi, qualunque cosa fosse stata a offuscarglieli.
Orgoglio.
Maledetto
orgoglio.
Evelyn
ricordava bene da dove quell’uomo fosse entrato e uscito, e
si avviò con passo sicuro e senza voltarsi indietro.
La raggiunse
in un paio di falcate << Lascia almeno che ti
riaccompagni dentro >>.
<<
Dopo però non osare più avvicinarti a me
>>.
Il petto di
Riley tremò mentre incassava quel colpo dritto al cuore.
Ma era
preparato all’evenienza, sapeva benissimo che sarebbe andata
così.
C’era
un’indissolubile coltre di bugia a separarlo da lei.
Nella sala la
gente era raccolta in piccoli gruppi e chiacchierava in allegria.
Nonostante
l’orchestra continuasse a suonare, in quel momento Eine
kleine Nachtmusik di Mozart, le danze erano cessate.
Dopo la lieve
luce lunare alla quale i suoi occhi si erano assuefatti, la forte
illuminazione dorata dei lampadari di cristallo che allagava
l’ambiente la costrinse a strizzare gli occhi un paio di
volte.
<<
Eccoti finalmente! Dov’eri finita? >>
esclamò sua zia sollevandosi il lungo abito color pervinca
fino alle caviglie e avanzando di corsa verso di lei.
Alla vista di
una tale mancanza di grazia da parte sua, Evelyn si disse che doveva
averla fatta preoccupare parecchio.
Fortunatamente
non dovette dare spiegazioni che la stava già sospingendo
frettolosamente verso l’incognito.
<<
Vieni >> disse semplicemente, tranquillizzandosi e
sorridendo.
Lei si
voltò indietro per una frazione di secondo ed ebbe giusto il
tempo di vedere Riley, ancora fermo a pochi passi
dall’entrata, mimare con le labbra “Buon
divertimento” e di sperare di aver interpretato male il
labiale.
Quando la meta
di Josephine si fece più vicina Evelyn la riconobbe come il
drappello di eleganti comari dalla quale se l’era squagliata
poco prima.
Mio Dio no,
pensò abbassando lo sguardo a costatare le condizioni del
vestito che aveva portato a spasso tra l’erba bagnata.
Prodigiosamente
l’averlo sollevato fino alle ginocchia non aveva sortito solo
la sbirciata di Riley, e la stoffa era pressoché asciutta e
in condizioni decenti.
<<
Evelyn! >> esclamò una delle signore
abbracciandola.
Lei
cercò di ricambiare al meglio l’affettuosa
stretta, seppur non avendo la più sbiadita memoria di chi
fosse quella donna.
<<
Ovviamente non ricordi chi sono, l’ultima volta che ci siamo
incontrate eri solo una piccola fanciulla infiocchettata di rosa
>>.
Venire a
conoscenza del fatto di essere già stata a Landry la
scombussolò non poco.
<<
Che bella che sei diventata, somigli un sacco a tua madre
>> esordì un’altra con un sorriso
intenerito.
<<
La conoscevate? >> domandò senza pensarci.
<<
Oh sì, Giudith veniva spesso a trovarci >>
rispose un’altra, lo sguardo perso nei ricordi.
<<
E’ stata una gioia sapere che avresti trascorso qui
l’estate >>.
Evelyn
sorrise, imbarazzata << Ne sono felice anch’io
>>.
Dopo, come se
il tappo di una vasca contenente migliaia di litri d’acqua
fosse stato rimosso, iniziarono a chiedere a raffica.
Si sentiva
preda di un interrogatorio sulla sua intera vita.
Le ponevano
domande sugli argomenti più disparati e alcune le
trovò anche parecchio strane.
“Dalle
tue parti le persone sono gentili con te?”
“Hai
delle particolari abitudini alimentari?”
“Esci
spesso di mattina anche in estate?”
Era quasi
giunta al punto di non ritorno, oltrepassato il quale non avrebbe
ricordato neanche il suo nome per la confusione e la stanchezza, quando
Alexander sopraggiunse a soccorrerla.
<<
Perdonatemi se ve la rubo >> disse con un sorriso
incantevole alle donne mentre la trascinava in salvo.
<<
Grazie >> mormorò lei, alzando gli occhi al
cielo.
<<
Non fargliene una colpa, sono solo felici di rivederti >>
iniziò Alexander.
<<
Rivedermi?
>> rispose enfatizzando le prime due lettere della parola.
<<
Venivi spesso qui, con i tuoi genitori… >>.
<<
Buono a sapersi, non sono una forestiera a tutti gli effetti
>>.
<<
Devi concedermi un ballo >> disse Alexander, conducendola
al centro del salone.
L’esecuzione
ininterrotta di ben tre valzer e un tango non era riuscita e
stravolgere Evelyn quanto la vista di Sophie che da lontano le faceva
cenno di raggiungerla, circondata da una folla di lunghi abiti ricamati
e completi maschili d’altri tempi, e si era fatta strada
nella sua mente la certezza che di lì a poco si sarebbe
abbattuta al suolo in uno stato di morte apparente.
<<
Questi tacchi mi stanno uccidendo >> disse gemendo,
mentre il suo accompagnatore scoppiava a ridere.
<<
Di già? Spero tu stia scherzando, è solo
mezzanotte >> esclamò Alexander.
<<
Già non mi stavi granché simpatico prima, ci
mancava solo che fossi un nottambulo festaiolo >> si
vendicò lei.
<<
Il nottambulo festaiolo reclama un altro ballo >> disse
trascinandola di nuovo in mezzo alla folla danzante.
Evelyn non
capì se stesse cercando solo di divertirsi, se volesse
salvarla da Sophie e da altre presentazioni, o se si fosse
semplicemente messo in testa di provocarle una sincope.
<<
Credo che perderò i sensi >>.
<<
Preferisci raggiungere Sophie o Riley? >> chiese
sarcastico.
<<
Decisamente no, in entrambi i casi >> rispose decisa.
Tirò fuori una sostanziosa dose di energia, stupendosene lei
stessa, e si concentrò di nuovo sulla musica.
Oltre
l’avambraccio del suo compagno di ballo, sollevato a reggere
la sua mano, poteva scorgere il viso scocciato di Sophie, probabilmente
troppo ansiosa di presentarle lo stuolo dei suoi amici.
Si
voltò verso il biondo.
Quando costui
fece per avvicinarsi, dopo appena tre passi, una mano lo
afferrò per la giacca e lo tirò indietro con poca
delicatezza.
Evelyn
alzò le sopracciglia, al colmo dello stupore, vedendo Sophie
lasciare la giacca di Riley e ringhiargli qualcosa, ricevendo in cambio
la risata di lui.
Un attimo
prima era dall’altra parte dell’ampia stanza, e
quando aveva guardato in direzione di Riley era anche lì con
lui.
<<
O Sophie ha corso per tutta la stanza a una velocità
assurda, o quello che mi hai fatto bere non era succo di frutta
>>.
Alexander non
avrebbe saputo dire quale delle due possibilità fosse
peggiore, e alla fine optò per la dissimulazione
<< E’ stata solo la tua impressione
>>; la cara vecchia risposta più vaga e
adattabile a ogni situazione possibile.
Evelyn era
troppo stanca e bisognosa di un appoggio sotto il fondoschiena per
replicare.
Alla fine
arrivò il momento che Sophie aveva atteso, tanto quanto
Evelyn l’aveva rimandato, e quest’ultima si
ritrovò in un angolo appartato della sala, tra divani di
velluto rosso e vasi di rose e cristallo, circondata da una folla di
estranei sorridenti.
<<
Finalmente ci presentano >> esordì il ragazzo
dai capelli rossi che aveva già visto in più di
un’occasione.
<<
Evelyn, Karl. Karl, Evelyn >> disse Sophie, accompagnando
le parole con dei gesti delle mani.
Sembrava dare
particolare importanza a quella singola presentazione, ignorando
momentaneamente tutte le altre persone che parlottavano lì
intorno.
<<
Riley mi ha parlato molto di te >> continuò
Karl in tono immensamente cordiale.
<<
Mi sembra logico, sei suo fratello >> intervenne Sophie.
Evelyn rimase
spiazzata << Non sapevo avesse un fratello
>>.
<<
Infatti, è Sof che ci definisce così, in
realtà non siamo fratelli di sangue >>.
Sentire la sua
voce e i suoi passi sul marmo freddo le fece irrigidire le spalle.
Riley
affiancò Alexander, e solo in quell’istante lei
notò che lo superava in altezza di qualche centimetro.
<<
Ci stavamo giusto chiedendo dove fossi finito >>.
Evelyn volse
lo sguardo, seguendo la scia di quel suono melodioso. A parlare era
stato un altro ragazzo e lei calcolò che, almeno in
apparenza, doveva essere poco più giovane di Alexander e un
tantino meno bello di Riley.
<<
Ev ti presento Christopher, per gli amici Chris >> lo
indicò Sophie con un altro movimento aggraziato delle mani.
<<
Lieto di conoscerti >> proferì mentre si
chinava a baciarle il dorso della mano.
<<
Spero che i comportamenti un po’ antiquati di alcuni di noi
non t’impauriscano più >>.
Evelyn si
chiese perché mai una simile galanteria avrebbe dovuto
spaventarla, << Non l’hanno mai fatto
>> rispose al nuovo arrivato che aveva parlato, un
ragazzo che adesso se ne stava poggiato con il gomito sulla spalla di
Karl, sotto lo sguardo scocciato di quest’ultimo
<< Ti spiacerebbe, Harvey? >> disse il
rosso scrollando la spalla.
Quello
obbedì e incrociando le mani dietro la schiena gli sorrise.
Poi aggiunse << Ebbene una ragazza d’altri
tempi >>.
<<
Non sei il primo a dirmelo >>.
<<
Harvey era convinto che avendo vissuto in una città come
Aberdeen, non ti trovassi bene in un posto come questo >>
s’intromise Christopher, che adesso era accanto a Harvey
senza che lei avesse percepito un minimo movimento attorno a
sé.
Harvey
e Christopher.
Improvvisamente
la sua mente aveva associato i due nomi, e lei fu certa di averli
già sentiti insieme.
<<
Mi piace qui, mi trovo bene >> rispose con un sorriso.
<<
Ne siamo felici! >> cinguettò una voce
femminile alle sue spalle, nella quale Evelyn colse l’eco di
un impercettibile accento francese.
Non ebbe il
tempo di voltarsi che i due giovani, una ragazza e un ragazzo,
l’avevano già raggiunta.
<<
Eravamo così ansiosi di vederti >>
continuò la ragazza, prendendole una mano tra le sue
<< Sono Margareth, ma puoi chiamarmi Mar >>.
<<
Piacere di conoscerti >> cercò di ricambiare
il suo entusiasmo Evelyn.
<<
Il piacere è tutto nostro >> intervenne il
ragazzo porgendole la mano << Io sono Cedric
>>.
Mentre gli
stringeva la mano pensò che anche quei due nomi erano in
qualche modo familiari.
Sophie le
presentò un’altra decina di persone, per la
maggior parte coetanei.
Evelyn era
troppo confusa per riuscire a prestare una sufficiente dose
d’attenzione, e anche lei stessa era consapevole di apparire
alquanto distratta.
Tuttavia
cercava di partecipare in modo gentile a tutte le conversazioni nelle
quali la coinvolgevano, e le ore passavano.
<<
Devi essere molto stanca >> disse con un sorriso un tale
che le era stato presentato col nome di Tristan.
<<
Infatti, credo sia giunta l’ora di tornare a casa
>>.
Quella
proposta era troppo allettante perché la consapevolezza di
chi fosse a farla potesse dissuaderla dall’accettare.
Riley le
circondò la vita con un braccio e lei non si scompose
minimamente.
Non si
disturbò di aprire bocca e salutò tutti solo con
un sorriso.
Quelle persone
erano sembrate gentili e sinceramente interessate a fare la sua
conoscenza, ma senza che lei stessa ne capisse il motivo, ai suoi occhi
tutto appariva ricoperto da un velo di falsità.
Non era
abituata a prendere parte a simili eventi e non avrebbe saputo dire se
si fosse comportata in modo decoroso o meno. Ma non le importava
più di tanto.
Aveva sempre
più dubbi e meno certezze.
Ripensò
alle poche righe che aveva letto su quel libro e insieme a quelle frasi
nella sua mentre comparvero anche i nomi vergati sul foglio che aveva
trovato nella cattedrale. Ci volle un secondo per rendersi conto che
alcuni combaciavano con quelli che aveva sentito pronunciare quella
sera.
Chi erano in
realtà?
All’improvviso
gli occhi le diventarono lucidi e un brivido le salì per la
schiena.
La gente che
aveva appena conosciuto non le era vicina, niente la legava a loro, e
passò in secondo piano quando pensò a chi in
realtà per lei adesso era importante. Aveva paura, di
perdere i pochi e ancora incerti affetti che era riuscita a conquistare
nelle sua vita.
Come se tutto
a un tratto vedesse Josephine, Sophie, Sebastian e tutti gli altri
lontani.
Si sentiva di
nuovo sola, senza una precisa ragione.
<<
Hai freddo? >> le chiese Riley.
Erano arrivati
davanti alla jeep, parcheggiata in un angolo appartato del giardino,
appena fuori del cancello, ed Evelyn si chiese come ci fosse finita
lì, visto che non era con quella che erano arrivati.
Lui la stava
fissando, nell’illusoria attesa di una risposta.
Evidentemente
non aveva creduto alle sue parole.
Evelyn
detestava non essere presa sul serio.
Sollevò
lentamente lo sguardo e glielo piantò addosso con tutta
l’indifferenza di cui era capace.
Non
cambiò atteggiamento nemmeno quando le circondò
le spalle con la sua giacca.
Non
ho freddo. Lo so, tremo. Ma non per il freddo.
Le
aprì lo sportello e si avviò al posto di guida.
Tutto il
tragitto fu accompagnato dal silenzio della rabbia e tristezza di
Evelyn e dal fracasso dei loro respiri.
Perché
mi costringi a farti questo? Se davvero ti fa male, dimmi la
verità.
Riley non la
guardò nemmeno una volta, come se la guida richiedesse
troppa concentrazione.
Sembrava
sereno, ma il modo in cui stringeva il volante lasciava intendere
tutt’altro.
Evelyn si
voltò verso il finestrino, ma vide solo buio.
In un attimo
quel buio si colmò di ricordi.
<<
Elisabeth? >>.
Era
sola anche quella volta. Dimenticata, in una delle mille e
più volte della sua vita.
<<
Mi dispiace tanto per questo inconveniente, ma potrei spiegarti tutto
in macchina? Fa un freddo cane e sei praticamente bagnata fradicia
>>.
<<
Dici sul serio? Non ci avevo fatto caso >>.
Rispondeva
amara. Ancora una volta l’unica cosa che riusciva a fare per
difendersi era arrabbiarsi, non accettare scuse, tenere chiunque
lontano da sé.
Con
lui però non ci era riuscita.
Più
volte le era stato vicino, le aveva insegnato cos’era il
calore del sentimento, la consapevolezza che a qualcuno importava di
lei, e il ricordo era come sale su una ferita.
Ricordò
di come lo aveva odiato.
<<
Dovresti guardare la strada >> gli diceva mentre lui si
ostinava a guardare lei.
<<
Se hai paura che ci schiantiamo contro qualche albero allora mettitelo,
così io posso tornare a concentrarmi sulla guida
>>.
Aveva
avuto paura, perché come una sciocca aveva sempre creduto
alla menzogna dell’incidente stradale.
Invece
i suoi genitori erano stati uccisi da qualcuno che adesso voleva anche
lei.
Quante
bugie le avevano raccontato.
Aveva
preso quel maledetto giubbotto, purché lui tornasse a
guidare con attenzione, ma non aveva detto nulla, non gli aveva detto
che l’aveva terrorizzata.
<<
Non è stata colpa mia, chiaro? >>.
<<
Non m’interessa, chiaro? >>.
Non
era stata colpa sua, eppure lei se l’era presa lo stesso con
Riley. Senza pietà, solo perché aveva bisogno di
sfogarsi con qualcuno.
<<
Mi hai mentito sin dal primo giorno che sono arrivata >>.
<<
Non è colpa mia. Non mi piace mentirti >>.
<<
Non osare più avvicinarti a me >>.
Senza
pietà.
Riley
continuava a fissare la strada, gli occhi adombrati da qualcosa di
troppo diverso dalla familiare, dolce malizia che li illuminava di
solito.
Soffriva per
lei, forse. Ma non era lui che Evelyn voleva ferire.
Fa
male anche a me.
Quella
pietà la negava a se stessa.
Non gli
avrebbe rivolto la parola, sarebbe stata di nuovo sola, nella menzogna.
E dal ricordo
avrebbe capito che era stato solo un errore credere che qualcuno
avrebbe potuto volerla per sé.
Riley
l’avrebbe dimenticata in fretta, come anche tutti gli altri,
quando sarebbe tornata a casa, lontano dalla verità e dal
quel mondo al quale nessuno voleva che appartenesse.
Evelyn scese
dalla jeep nello stesso istante in cui si fermò
nell’ampio viale, senza nemmeno aspettare che Riley spegnesse
il motore.
Distruggere
allo stesso tempo se stessa e lui necessitava di un certo talento
masochistico e una dose spropositata di orgoglio, ma
quest’ultima decisamente non le mancava. Per quanto
riguardava il primo Riley non avrebbe saputo dire se si fosse trattato
di autolesionismo o se nella peggiore nelle ipotesi lei non soffrisse
affatto. Era probabile che di lui non le importasse più di
tanto.
Eppure non
riusciva sempre a nascondere i suoi sentimenti e ogni tanto, seppur con
una certa difficoltà, poteva leggerli nelle sfumature dei
suoi occhi.
Per questo la
raggiunse con poche falcate e la costrinse a fermarsi afferrandola per
un polso.
<<
Davvero hai intenzione di non parlarmi? >>.
Adesso nei
suoi occhi c’era rabbia, come di regola.
Si
strappò alla sua presa e corse su per le scale, senza fare
parola.
Riley
sentì la porta sbattere con violenza, poi corse di sopra
anche lui.
Evelyn era
ancora in piedi al centro della stanza.
Se davvero non
le importava, doveva saperlo con certezza. E se così non
fosse stato al diavolo tutto quel che dicevano gli altri.
Non aveva
importanza che fossero diversi, che lei appartenesse a un altro mondo,
avrebbe trovato una soluzione anche alle menzogne che era costretto a
raccontarle pur di poterla stringere di nuovo. Come una notte senza
stelle di parecchi anni prima, quando una bambina piangeva tra le sue
braccia, non ancora del tutto consapevole di quel che era successo e di
quel che la aspettava.
Ma
d’altro canto pienamente consapevole non lo era nemmeno
adesso.
Quando le fu
vicino Evelyn non si mosse, negli occhi orgoglio e rabbia.
Le
sollevò il viso prendendole il mento tra l’indice
e il pollice, costringendola a guardarlo dritto negli occhi.
<<
Non mi parlerai più? >> le sussurrò.
I loro visi
erano così vicini che il suo respiro le sfiorò le
labbra.
Devi
pur dire qualcosa, un insulto, una frase disarmante delle tue,
qualunque cosa.
Devi
pur parlarmi per mandarmi al diavolo.
Evelyn ardeva
di rabbia, come un’amante che si trova in una stanza da letto
con l’oggetto del proprio desiderio arde di passione.
Si morse le
labbra tanto violentemente che a Riley parve di sentire quel dolore
sulle sue. Non poteva tollerare di vederla soffrire, che fosse un
dolore fisico o morale.
Evelyn
tentò di sottrarsi quando Riley avvicinò ancor di
più il viso al suo, si ritrasse all’indietro con
la schiena, nonostante ci fosse la sua mano a sorreggergliela, ma lui
non era mai stato un tipo arrendevole.
Lei
deglutì e chiuse gli occhi mentre sentiva sulle labbra il
tocco possessivo di quelle di lui.
Spostò
la mano dal suo viso alla nuca, per attrarla ancor di più a
sé.
Non
mi gridi che sono un idiota stavolta, Ev? Proprio adesso che voglio
più di ogni altra cosa che tu lo faccia.
Quando
sentì le sue mani sul viso e il suo sorriso sulle labbra
pensò che ingannarla fosse più difficile di
quanto pensasse.
Ma
l’urgenza di sentire la sua voce era troppa.
Le
liberò la bocca e si chinò a baciarle il collo,
scendendo sempre più giù e spingendola sempre
più in là.
Quando
arrivò all’altezza del seno e sentì i
battiti furiosi del suo cuore, lei non aveva ancora accennato ad aprir
bocca.
Le
carezzò la schiena con la mano e la costrinse a inarcarsi,
chinandosi sopra di lei, sollevandole la gamba che restava scoperta
dallo spacco del vestito.
Quando
risalì col viso fino al suo, pronto a trovare quegli occhi
scuri colmi di odio e rabbia, rimase sconcertato alla vista di un
sorriso che gli tolse il fiato.
Se il suo
intento era di farlo impazzire, ci stava riuscendo benissimo.
Si
chinò di nuovo sulla sua bocca, incurante delle intenzioni
di lei, che fossero d’inganno o riappacificazione.
Come sale su
una ferita.
Il contatto
con le labbra di Riley bruciava da morire, di rabbia e orgoglio
infranto, ma allo stesso tempo sanava ogni graffio di solitudine.
Non poteva
più costringersi a stare lontana da lui, nonostante
falsità e incertezze.
Come sempre,
tra le sue braccia il mondo smetteva di girare, o per lo meno
rallentava.
Risalì
con le dita tra i suoi capelli dorati e gli trascinò il viso
lontano dal suo, lui raddrizzò e la tiro su, sorridendo.
<<
Dimmi che sono un idiota >>.
Evelyn
ricambiò il sorriso, poi mosse la testa prima a destra e poi
a sinistra, lentamente, gli occhi fissi nel verde di quelli suoi.
Pensò
che Riley dovesse aver deciso che non era stato abbastanza quando in un
attimo fu dietro di lei, a respirare l’odore della pelle del
suo collo, prima di baciarlo.
<<
Non posso dirti la verità >> le
sussurrò all’orecchio, con una nota di tristezza
nella voce, e lei non gli avrebbe parlato se prima non
l’avesse fatto.
In una
frazione di secondo, senza nemmeno pensare a quel che stava facendo,
chinò la testa per poterlo guardare, poi si voltò
verso di lui e stavolta fu lei ad avvicinarsi alla sua gola. Lui rimase
immobile, le mani sui suoi fianchi, la testa china, in attesa.
Portò
una mano sulla sua guancia e con l’altra gli
afferrò la stoffa della camicia, poi dischiuse le labbra e
dopo averlo attratto ancor più vicino serrò i
denti sulla pelle candida del suo collo.
Lui
sussultò, non di dolore.
Quando Evelyn
sollevò il viso per guardarlo vide stupore e incertezza, e
solo dopo un attimo di esitazione Riley si decise ad annuire.
Salve a tutti!
(ammettendo che ci sia ancora qualche anima pia che continua a
leggere)... voglio scusarmi per il ritardo; si da il caso che uno dei
miei tanti nomi sia "quella dell'ultimo secondo", e sono solita dare
grande prova della sua veridicità negli ultimi dieci giorni
di scuola, dandomi da fare per recuperare tutto ciò che ho
sciaguratamente ignorato per il resto dell'anno e mantenere dei buoni
voti.
Da adesso in
poi cercherò di essere più puntuale negli
aggiornamenti.
A presto, Ell
:)
|
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Capitolo 21 *** Tradimento ***
25.
Tradimento
Come
un corpo troppo pesante se lanciato nel vuoto inevitabilmente
precipita, Evelyn si sentiva sprofondare verso un abisso sconosciuto.
Lei
che non si meravigliava davanti a nulla, che assorbiva l’urto
di ogni amara notizia come un muro di cemento armato si smembra sotto
battiti d’ala di una farfalla, adesso non avrebbe saputo
riconoscere quel che stava provando come eccessivo stupore o semplice
paura.
Qualunque
cosa appresa da dicerie e supposizioni varie non si considera nemmeno,
in verità. Ma quando la conferma arriva, anche se dopo
tempo, ci si ritrova lì, stupiti e con la bocca che non
vuole saperne di serrarsi, impreparati, impauriti.
Chiuse
gli occhi, mentre quelli di Riley la fissavano, in attesa di una
reazione.
<<
Suppongo sia tutto ciò che posso sapere >>
parlò facendosi coraggio, e deglutendo dopo aver sentito la
sua voce tremante come non mai.
<<
Credo sia abbastanza, per ora >> rispose atono, forse
pentito << Non sopporteresti di più
>>.
<<
Lo sapevo già >> cercò di
ribattere, con un tono di forzata sicurezza che non fece altro che
accentuare la reale esitazione.
<<
Ma non ci credevi, fino ad ora >>.
<<
Vattene Riley >>.
Impossibile
pensare che Evelyn Guinevere Mcgrath, da poco diventata DeMordrey e
Mezzosangue, avrebbe preferito un pianto consolatore tra le braccia di
qualcuno, piuttosto che restarsene da sola a macerarsi nel suo dolore.
Riley
si era ripetuto più e più volte nella mente
quella frase, sapeva bene come sarebbe terminata quella
discussione; non aveva idea tuttavia del perché a quella
ragazzina non sapesse dire di no, e di come fosse riuscita a
estorcergli quell’assenso.
<<
Un giorno forse capirai >> disse prima di lasciarla;
l’aforisma delle risposte negate, di genitori a figli troppo
piccoli con domande troppo grandi, di eroi epici a personaggi
secondari, di amanti in partenza senza un perché, di momenti
in cui il dolore strozza le parole in gola, di chi agisce senza una
ragione, di chi una vera risposta in realtà non ce
l’ha, che tuttavia in bocca a lui suonava leale.
Quando
uscì dalla stanza Riley si abbandonò con le
spalle contro la porta chiusa, sospirando, nello stesso istante in cui
Evelyn scivolava a sedere sul pavimento lì vicino e
sollevava la testa, in cerca di aria, senza che nessuno dei due potesse
vedere l’altro.
Di
sotto attendevano Josephine e Sebastian, rientrati in quel preciso
istante, che vedendo scendere Riley gli andarono incontro.
<<
Qualcosa non va? >>.
<<
Tutto non va, zia Jo >>.
<<
Le passerà >>.
Che
devo fare adesso?
Evelyn
si tolse l’abito e affondò tra le coltri del
letto, senza nemmeno considerare la camicia da notte.
Nessuno
gliel’aveva ancora detto, ma alcune certezze ne portano
altre, e se adesso la parola “vampiro” aveva
assunto una consistenza reale, anche “mezzosangue”
doveva pur significare qualcosa.
Quale
delle due temesse di più, non lo sapeva.
Riuscì
a chiudere gli occhi per dormire solo dopo che svariati minuti di
supposizioni varie avevano accentuato la sua ansia.
La
mattina seguente qualche non troppo sporadico boato in lontananza e le
sue ossa indolenzite, promettevano pioggia.
Dopo
un tentativo di ricordare cosa avesse sognato, senza successo come
sempre, corse in bagno e si preparò in fretta per la
giornata.
Indossò
jeans scuri attillati, un golfino pesante e un paio di stivali di
camoscio che le coprivano le gambe quasi fino al ginocchio.
Nella
tracolla mise il libro ripescato dal cassetto dove l’aveva
accuratamente celato a occhi indiscreti, un coltellino multiuso che
aveva trovato in mezzo alla polvere da qualche parte nella casa e un
sacchetto di caramelle colorate dei tanti che Dalia le propinava
settimanalmente, sostenendo che una buona dose di zuccheri in circolo
nei vasi sanguigni fosse sempre d’aiuto.
Spuntò
nella sala da pranzo, dove sua zia stava facendo colazione con il
giornale in mano, già coperta dal cappotto.
Josephine
la scrutò socchiudendo gli occhi << Vai da
qualche parte? >>.
A
Evelyn il suo tono parve eccessivamente disinteressato, come se avesse
qualcosa di più importante cui pensare, in quel preciso
momento.
<<
A dire il vero sì, posso? Avrei un appuntamento e sono in
ritardo >> rispose sicura.
<<
Un appuntamento? >> chiese l’altra, prima di
volgere lo sguardo fuori dalla finestra, improvvisamente attratta da
qualcosa nel panorama uggioso di quella mattinata.
<<
E’ successo qualcosa? Sembri… distratta
>> tentò di dissimulare.
<<
Dicevamo, un appuntamento? >> ripeté la donna
riscuotendosi, come se non avesse sentito l’ultima frase
della ragazza.
<<
Con Riley >>.
Gli
occhi di Josephine s’illuminarono, sorrise e poi disse
<< Hai bisogno di un passaggio? >>.
<<
Veramente avevo pensato di fare una passeggiata, attraverso il bosco la
strada per la città non è poi…
>>.
<<
Sei impazzita? >> esclamò quella mettendo
fulmineamente giù il giornale.
<<
Ma no! Volevo dire… che Riley mi aspetta nel bosco appunto
>> si corresse.
Josephine
adorava Riley, e si fidava di lui a tal punto da non avere dubbi sul
fatto che non avrebbe mai lasciato che sua nipote se ne andasse a
spasso nel bosco da sola.
Questo
se un appuntamento ci fosse realmente stato.
Evelyn
si sentiva un po’ in colpa per quella bugia, nei confronti di
Riley più che in quelli di sua zia, perché sapeva
benissimo che l’avrebbe coperta, anche a costo di mentire a
Josephine che lo stimava tanto; certo poi cosa le avrebbe fatto non
osava nemmeno immaginarlo, ma a quello avrebbe pensato dopo.
Dopo
aver salutato sua zia con affetto, accantonati i sensi di colpa e fiera
di sé per la riuscita della prima parte del piano,
uscì dalla porta principale e si avviò verso il
fitto degli alberi.
L’aria
era così fredda che trapassava anche la stoffa pesante degli
abiti e per di più soffiava una brezza gelida, portando con
sé una nebbiolina che si manteneva però
all’altezza delle caviglie.
Nonostante
la temperatura non fosse delle migliori, Evelyn si godeva il paesaggio
e l’odore confortante del bosco.
Dopo
venti minuti o poco più riusciva già a
intravedere qualche guglia di pietra in lontananza; aveva camminato
abbastanza velocemente, mandando giù qualche caramella e
riuscendo a non inciampare anche nei tratti dove il terreno era
scosceso.
Dopo
un altro quarto d’ora di marcia era già in
città.
Non
le ci volle molto per rendersi conto che le vie erano ancora una volta
completamente deserte.
<<
Ciao Evelyn! >>.
O
quasi.
Si
voltò verso la fonte di quel suono cristallino e dal sapore
innocente.
<<
Grisham! >> esclamò al colmo dello stupore.
Il
bambino le corse incontro e lei si piegò sulle ginocchia per
poterlo guardare in viso.
<<
Che ci fai qui? >> la anticipò, prendendole le
mani e sorridendo.
<<
Una passeggiata, e tu? Sei solo? >> chiese preoccupata.
<<
No c’è la mamma, ma è dentro la bottega
da un’ora e mi stavo annoiando >> disse con una
punta di soddisfazione per la fuga ben riuscita.
<<
La farai morire di spavento, torna subito dentro! >>.
<<
Ma no, che vuoi che mi succeda, di sicuro si è
già accorta che sono uscito >> la
tranquillizzò.
Ancora
una volta Evelyn si stupì di quanto fosse precoce.
<<
Sicuro che non vuoi che ti riaccompagni dentro? >>.
<<
Sicuro. Vai di fretta? >> chiese con tristezza.
<<
A dire il vero sì, ma ci vediamo presto >>.
<<
Va bene, però attenta Evelyn, non è una bella
giornata >>.
La
abbracciò e si allontanò sorridendo.
Non
sempre capiva il senso delle parole di quel bambino dai capelli rossi.
Lo
seguì con lo sguardo finché non lo vide
oltrepassare una porta con un’insegna, della quale a quella
distanza non riusciva a decifrare i caratteri, poi si
allontanò imboccando una viuzza lunga e strettissima.
In
quel posto era come se tutti vivessero in simbiosi.
Se
un giorno sua zia era preoccupata e lanciava sguardi perplessi qua e
là per il bosco che si stagliava oltre il vetro delle
finestre, Rose e Dalia si comportavano nella stessa maniera, guarda
caso Sebastian non era mai in casa, la città appariva quasi
disabitata.
Il
dolore ai palmi delle mani e alle ginocchia la riscosse dai suoi
pensieri.
Sua
madre glielo diceva sempre che doveva tenere gli occhi ben fissi sulla
strada quando camminava, solo che quando pensava troppo lei
semplicemente smetteva di vedere.
Si
rialzò sfregandosi le mani e cercando sul selciato cosa
l’avesse fatta inciampare. A pochi centimetri di distanza da
lei era gettata per terra una gabbia di ferro, di quelle che di solito
ospitano volatili di medie dimensioni.
Contemporaneamente
alla certezza di averla già vista, giunse la vista del
disordine che regnava attorno a lei.
Sul
lastricato facevano compagnia alla gabbia parecchi libri, pagine sparse
e qualche brandello di vetro che nella sua caduta aveva miracolosamente
evitato.
Alla
sua destra si apriva una porta che dava su un ambiente buio, che lei
conosceva bene.
Attenta
a non calpestare nulla entrò guardandosi attorno.
<<
C’è nessuno? >> chiese a voce alta,
procedendo nel caos generale, che dentro era anche peggio che fuori;
interi scaffali erano abbattuti al suolo e un sacco di vetrine erano
state mandate in frantumi insieme a quel che contenevano.
Non
le pervenne nessuna risposta. Della vecchia con l’occhio di
vetro nemmeno l’ombra.
Stava
per uscire quando un odore pungente le pizzicò le narici;
l’inconfondibile puzza di bruciato le provocò
qualche colpo di tosse.
Seguì
la poco gradevole scia e si ritrovò davanti a un ripiano di
legno sul quale era poggiato un rozzo braciere circolare,
all’interno del quale bruciavano i resti di qualcosa
d’inconfondibile. A Evelyn si strinse il cuore. Una decina di
quelli che un tempo erano stati libri venivano inesorabilmente divorati
dalle fiamme ormai morenti.
<<
Chi può aver fatto una cosa simile? >>
domandò a nessuno, uscendo da quel luogo ormai devastato con
un’ultima occhiata sconcertata.
Una
volta fuori si allontanò in fretta, pensando a cosa potesse
essere successo e quel posto e alla sua proprietaria.
La
risposta non le piacque per niente.
<<
L’hanno portata via che ancora strillava come
un’ossessa, chiedeva “pietà per i suoi
poveri libri” o qualcosa del genere >>.
Era
sul punto di svoltare un angolo quando quella voce l’aveva
costretta a fermarsi.
<<
Tanto per lei non potranno fare nulla, ha tradito. E’ inutile
anche cercarla >> rispose acida e rassegnata
un’altra voce.
<<
Questo perché nessuno mi da mai retta, l’avevo
detto che avrebbe portato solo guai, mi viene da piangere quando penso
che il mio… >>.
<<
Ciao Lisa! >> esclamò Evelyn scostandosi dal
muro e mostrandosi alle tre ragazze che stavano conducendo quella
conversazione.
…Che il mio Riley le
rivolge anche solo la parola. Completò poi al
posto suo senza aprir bocca.
<<
Evelyn >> rispose la bionda con un sorriso falso.
Oh, il tuo Riley fa molto
più che rivolgermi la parola, pensò
mordendosi le labbra per non sputarle in faccia quel veleno.
<<
Qual buon vento? >> continuò quella, mentre le
due giovani che erano con lei si riempivano gli occhi di luce maligna.
<<
Nulla, ero solo in cerca di qualche bambino da bollire vivo, o in
extremis anche qualche cucciolo di cane o gatto, se proprio di bambini
non se ne trovano >>.
<<
Ma piantala, io e te siamo amiche, lo sai benissimo che non ti vedo
come una nemica >>.
<<
Ma certo. Adesso vogliate scusarmi, prima che tutti i pargoli del
vicinato rincasino, mi appropinquo. Au revoir! >> le
salutò cordialmente incamminandosi.
<<
Ci si vede presto Evelyn! >> le giunse la voce di Lisa
quando era già lontana.
Cercò
di fare più in fretta possibile, e quando giunse alla
cattedrale corse fino all’ingresso.
Il
suo piano iniziale prevedeva sì di arrivare lì,
ma con meno domande.
Il
prete che pochi giorni prima l’aveva aiutata a scappare si
era mostrato così propenso a sciorinarle qualche
verità, che aveva subito pensato a lui anche dopo gli ultimi
avvenimenti.
Aveva
bisogno di sapere cosa c’entrasse lei con quel che era
successo in quella bottega che gridava distruzione.
La
navata centrale era come se la ricordava, forse solo più
luminosa dell’ultima volta.
<<
Posso aiutarvi? >> chiese una voce femminile
dall’altare.
<<
Cerco il parroco >> rispose consumando la distanza che la
separava dalla sua interlocutrice.
<<
Non c’è. Volete lasciare… Santo Cielo!
>> la donna, una parrocchiana robusta sui cinquanta, si
portò le mani giunte all’altezza del viso
<< Che ci fate voi qui? >>.
<<
Mi pare di averlo appena detto >> balbettò
Evelyn.
<<
Non dovreste andarvene in giro da sola! >>.
<<
Sì, lo so. Potrei sapere dove posso trovarlo? Me ne vado
subito >>.
<<
Invece non vi muovete da qui, non potete uscire >>.
<<
Non sono sola, c’è… >> a
tali parole il viso della donna parve distendersi, in attesa che
completasse la frase << Riley, con me, è qui
fuori >> mentì, pensando che, per quanto quel
nome potesse incredibilmente servire da lasciapassare con chiunque, non
avrebbe dovuto usarlo così.
<<
Davvero? Allora potreste portargli questo? >> la
parrocchiana cambiò del tutto atteggiamento. Si
rasserenò e porse con la mano destra un biglietto ripiegato
che aveva tirato fuori da una tasca del grembiule che indossava
sull’abito.
<<
Ma certo >> rispose con un sorriso la ragazza.
<<
Ditegli di portarvi a casa piuttosto >>.
<<
Senz’altro >> la assecondò
<< E il parroco? >>.
<<
E’ fuori città, ora andate >>.
La
salutò con un cenno del capo, riponendo le sue speranze nel
biglietto che aveva in mano. Lo aprì non appena fu fuori.
Abbiamo
trasferito i registri al monastero sulla scogliera, per sicurezza.
Sono
arrivati all’improvviso e non abbiamo potuto fare niente per
fermarli. Hanno preso Maryan e con gli altri sto partendo sulle loro
tracce.
Occupati
di Evelyn, cercheranno anche lei.
Non
fare l’eroe.
Padre
Tim
<<
E adesso? >> si lamentò con se stessa.
Per
un momento pensò di tornare indietro, a casa ad aspettare
Riley, e smetterla di giocare al detective, ma quando si sta per fare
una scelta coscienziosa arriva sempre qualcosa a dissuadere dalla retta
via.
Un
paio di ombre si riflettevano sui muri che costeggiavano la strada che
aveva percorso per arrivare alla piazza dove si trovava.
Prima
di iniziare a correre verso un passaggio che aveva in precedenza
intravisto oltre il porticato, aguzzando la vista, si rese conto che
no, non si riflettevano, e allora corse più veloce.
Attraverso
una serie di vicoli che sembrarono non finire mai, arrivò al
limitare del cimitero, in una zona che da subito notò essere
diversa da quella in cui era già stata.
Scavalcò
il recinto di ferro battuto e si guardò indietro, tirando un
sospiro di sollievo vedendo che, almeno in apparenza, non la seguivano
più.
Percorrendo
i vari sentieri ricordò di quando c’era stato
Riley con lei, e le gambe quasi le cedettero al confronto di come aveva
paura adesso che era sola, ma detestava tirarsi indietro e dalla
determinazione che le era rimasta trasse la forza per procedere.
Nonostante
l’idea lugubre che si aveva di luoghi come quello fosse
certamente più che fondata, dopo qualche minuto la paura
sparì del tutto per lasciar posto a un senso di
tranquillità, quasi rilassamento.
Camminò
finché non riuscì a scorgere il confine con il
bosco, dopodiché scavalcò di nuovo e fu fuori.
Una
vaga reminiscenza le suggerì che la costa era a Nord, e una
volta fuori dalla necropoli pensò di affidarsi al buon
vecchio trucco del muschio sugli alberi.
Grazie
alla collaborazione del suo senso dell’orientamento fu facile
individuare il percorso da seguire, il terreno era però
più impervio delle altre zone che aveva già
visitato, e la stanchezza si fece sentire già dopo poco
tempo; inoltre la vegetazione era tanto fitta che, anche a causa delle
nuvole che si mescolavano in cielo, la luce era scarsa.
Quando
si voltò di scatto, spaventata da un rumore alle sue spalle,
pregò che la suggestione non le giocasse di nuovo qualcuno
dei suoi tiri.
Si
disse con rabbia che quel posto l’aveva trasformata in una
codarda.
Dopo
gli ultimi avvenimenti non avrebbe più potuto attribuire
tutti gli spauracchi alla fantasia popolare; probabilmente se i suoi
cugini avessero di nuovo provato a spaventarla con le loro storielle,
ci sarebbero riusciti. Non avrebbe dormito per notti e notti, pensando
a quando Riley aveva fatto crollare, con un semplice gesto del capo,
metà delle certezze che l’avevano accompagnata
fino a quel momento.
La
sua vita stava cambiando, e lei non riusciva a starle dietro. Ma
dopotutto aveva sempre detestato i cambiamenti. Anche quando sua madre
si svegliava di buona mattina con l’intenzione di
rivoluzionare la disposizione dei mobili in sala da pranzo, lei si
opponeva, e se proprio non riusciva a dissuaderla, le ci volevano
parecchi giorni per abituarsi alla novità.
Una
folata gelata le fece incrociare le braccia per stringersi le spalle
con le mani, e solo allora si accorse che poco distante da lei il
susseguirsi dei fusti degli alberi s’interrompeva.
Affrettò il passo e una volta fuori dal fitto la luce la
accecò per qualche istante. Quando riuscì a
mettere a fuoco, si trovò davanti a una vista mozzafiato;
parecchi metri d’erba che ondeggiava e si fletteva al ritmo
del vento lieve la separavano dalla linea frastagliata della scogliera,
dove il verde luccicante del prato e il blu cupo del mare
illusoriamente s’incontravano.
Giunta
al bordo dello strapiombo ammirò l’altezza
sconcertante e le onde che s’infrangevano con violenza contro
la roccia.
Non sei qui per ammirare il
paesaggio, si disse, decidendosi a incamminarsi verso una
costruzione di pietra che spiccava nello scenario, essendo
l’unica.
Le
gambe le dolevano per le precedenti camminate, ma con un certo sforzo
riuscì a consumare anche quell’ultima distanza.
La
struttura era molto simile a tutte le altre che costituivano la
città, anch’essa circondata da una muraglia, che
tuttavia era piuttosto bassa rispetto alle altre che aveva visto,
costruita con estrema perizia sul bordo della costa, così da
potersi affacciare direttamente sulla distesa d’acqua
sottostante.
Si
prese solo qualche secondo guardarsi attorno, poi si
avvicinò al portone di legno; lo trovò molto
piccolo, per una costruzione come quella, che aveva quasi le sembianze
di un castello piuttosto che di un monastero.
Pensò
che bussare fosse la cosa più stupida che potesse fare.
Tirò
fuori il coltellino e cercò l’arnese che potesse
fare al caso suo tra i mille che possedeva, il che appunto per questo
si rivelò di una certa difficoltà. Alla fine
selezionò una sorta di sottilissima stecca di ferro che
terminava con un uncino altrettanto sottile piegato
all’insù; non aveva idea di quale fosse la sua
reale utilità, ma quando la serratura scattò,
considerò che quell’arnese fosse appartenuto a
qualche ladro. Non era stato difficile e non c’era voluto
nemmeno troppo tempo per lei che aveva letto talmente tanti libri che
da almeno una decina aveva attinto a simili conoscenze
sull’arte degli scassinatori.
Con
una spallata la porta si aprì, e un ambiente piuttosto buio
e polveroso si rivelò agli occhi di Evelyn.
Esitò
un istante prima di entrare e lo fece solo dopo essersi detta che era
un buon modo per dimostrare che non era ancora del tutto diventata una
vigliacca.
Una
volta dentro l’odore di chiuso la fece tossire.
Ma che monastero, qui non
dev’esserci anima viva, pensò mentre
procedeva, attenta a non inciampare.
Sollevò
lo sguardo dal pavimento appena un istante, e bastò per
vedere scomparire fulmineamente una sagoma evanescente che stava
percorrendo il corridoio andandole incontro.
<<
Ecco appunto, viva
>> disse ad alta voce per riempire il silenzio,
fermandosi un istante, mentre il suo cuore galoppava.
<<
Ci vuole molto più di questo per spaventarmi
>> sibilò con stizza, ricominciando a
camminare, stanca di lasciare che gli abitanti di quel posto maledetto
si prendessero gioco di lei.
Il
corridoio che aveva percorso terminava con una porta di legno che
oppose resistenza quando ne abbassò la maniglia e spinse.
Riprese il fedele coltellino multiuso che aveva tenuto in tasca e prese
ad armeggiare con la serratura.
Fu
un refolo d’aria fredda a costringerla a guardarsi le spalle.
Non
può essere.
Il
grimaldello improvvisato le cadde di mano.
I
fantasmi non esistono.
Si
alzò, appoggiandosi alla porta chiusa con le spalle.
La
figura continuava ad avanzare verso di lei, lentamente. Evelyn distinse
dei capelli lunghi, che dovevano probabilmente celare un volto
femminile e una lunga veste candida che strusciava sulla pietra fredda
del pavimento.
Non
bastavano i vampiri e le ombre, adesso anche gli spiriti.
<<
Al diavolo >> esclamò esasperata. Si
allontanò di qualche passo dalla porta, senza voltarsi verso
qualunque cosa fosse quel che stava cercando di raggiungerla, e dopo
aver preso una breve rincorsa colpì con la spalla il legno,
che cedette.
Entrò
nell’ambiente e si chiuse dentro, non del tutto certa di non
trovarci di peggio.
Nelle
leggende i fantasmi potevano oltrepassare i muri, ma ormai lei aveva
smesso di affidarsi a quel che già conosceva. Era tutto
fuori dalla norma e da ogni regola lì.
Si
allontanò dalla parete, lasciando spaziare la vista.
Si
trovava in una stanza molto piccola, che per qualche oscuro motivo le
ricordò la sagrestia della cattedrale; probabilmente
perché sul tavolo che distava poco da lei erano poggiati due
libri che già aveva visto, e a uno dei quali aveva anche
sottratto una pagina.
Ricapitolando,
i custodi si occupano di badare ai vampiri ribelli, e sono vampiri
anche loro, eccetto che per qualche umano, si disse, cercando di
riordinate le idee.
Si
avvicinò al tavolo e notò con malcontento che uno
dei due libri, come la volta precedente, era inaccessibile per via del
catenaccio che ne giungeva le estremità.
Nella
stanza non c’era nulla che potesse celare una chiave, e non
avrebbe avuto la pazienza di mettere a soqquadro tutto il monastero,
senza considerare spiriti vari che se ne andavano a spasso da quelle
parti e che data la sua fortuna poteva benissimo trovarsi
nell’altro angolo del mondo.
Decise
di accontentarsi del registro con i nomi, che dopotutto era
ciò per cui si era spinta fin lì.
Iniziò
a sfogliare dalla prima pagina, leggendo solo il primo nome di ogni
registrato e ignorando date e tutto il resto.
Non
sapeva quanto tempo fosse passato, ma la tonalità della luce
che penetrava dalla finestra era cambiata.
Non
sapeva nemmeno dove avesse trovato la forza per leggere
l’intero registro, né come reagire a quel che
aveva letto.
Sapeva
solo un’altra parte di verità.
Il
suo intento iniziale era di scoprire chi di coloro che conosceva fosse
un custode, poi aveva scoperto che lo erano tutti. Allora era andata
ancora più a fondo, cercando di non badare alla luce che
cambiava e ai sussurri oltre la porta.
Per
distinguere chi fosse umano e chi no era bastato leggere le date e
accertarsi che sotto il nome non ce ne fosse un altro.
Il
bilancio finale non seppe come definirlo.
Umani:
quattro.
Vampiri:
tutti i rimanenti.
La
parte peggiore era stata però la scoperta, nel registro, di
nomi che le avevano quasi provocato una crisi isterica; nomi che
ruotavano attorno a lei nella sua vita ad Aberdeen.
Un
colpo alla porta la riscosse, e dopo essersi morsa la lingua per aver
quasi risposto “chi è?”, sì,
era notevolmente sconvolta, si fiondò verso la finestra e
uscì da quel posto.
Corse
fino alla bassa muraglia e solo lì si concesse il tanto
agognato riposo.
Poggiò
i palmi delle mani sulla pietra e guardò in basso, dove non
si aspettava certo di trovare un manipolo di persone, che non
sembravano essere lì per una gita a mare.
Da
quella distanza non era facile scorgere i visi, ma qualcuno lo
riconobbe comunque.
C’erano
Sophie e Karl per esempio, vicino alla riva, che si tenevano in
disparte. Più lontani da loro Alexander, Harvey e
Christopher sembravano indecisi se intervenire o meno nello scambio di
battute tra Tristan e Cedric; su cosa discutessero Evelyn
però, per quanto ne avesse voglia, non poteva saperlo.
Ancora
più lontano dall’acqua Riley stava in testa a un
altro gruppo d’individui, troppo vicini tra loro per
distinguerne le facce.
Dalla
parte opposta avanzava ancora un altro mucchio di gente, nel quale
stavolta non riconobbe nessuno.
Improvvisamente
calò il silenzio, persino Tristan e Cedric ammutolirono, ed
Evelyn temette che di lì a poco avrebbero sollevato tutti lo
sguardo verso di lei; invece si guardarono tra loro, le due parti che
si erano venute a formare a una decina di metri di distanza
l’una dall’altra.
Fu
un’inaspettata fortuna rendersi conto che per sentirsi tra
loro erano costretti a gridare.
A
infrangere il silenzio fu un tizio che stava in testa al gruppo di
persone che Evelyn non conosceva.
<<
Riley Nathaniel Hylton, siete accusato di tradimento per aver infranto
i termini della tregua, rivelando a un’umana quel che era
vostro compito custodire, e pertanto costretto a seguirci. Potete
scegliere di consegnarvi o combattere, ma nel secondo caso dovreste
rinunciare al vostro regolare processo in caso di sconfitta
>> disse, come se stesse parlando seguendo un protocollo.
Evelyn
serrò i pugni e trattenne il respiro, mentre a una fitta di
dolore al petto seguiva il disfacimento di ogni parte del suo corpo.
<<
Mi consegno >> rispose Riley, e gridò
solamente per farsi sentire, giacché in quel momento pareva
la persona più tranquilla del mondo. Tuttavia subito dopo
che ebbe parlato si sollevò il coro di protesta della sua
parte. Si voltò e cominciò una discussione
animata.
Quel
che si dissero dopo non riuscì a sentirlo. Vide solo che lo
portavano via, mentre tutti, lei compresa, guardavano impotenti e
afflitti.
Lo
guardò camminare con la solita andatura sicura e senza
un’ombra di paura in viso, affiancato da due tizi che non
promettevano nulla di buono.
Istintivamente
mosse qualche passo indietro, malferma sulle gambe, convinta che tutto
in lei si stesse ancora sgretolando. Le mancò
l’aria e si prese il viso tra le mani. << No
>> sussurrò, mentre sentiva qualcosa di umido
solleticarle le guance.
<<
Che fai, piangi? Era quello che volevi >>.
Quando
si voltò, vide che a parlare era stata una donna; la stessa
che aveva visto poco prima in quei corridoi bui, lunghi capelli scuri e
occhi rossi, a coprirle il corpo solo una leggerissima veste bianca.
Evelyn
non era nelle condizioni di starsene in silenzio a sopportare, stavolta.
<<
E tu chi saresti? Stai parlando con la persona sbagliata, al momento
sbagliato, dell’argomento sbagliato >>
sputò con rabbia, strizzando le palpebre per far
sì che le lacrime sparissero, portando via anche ogni
singola traccia d’insicurezza.
<<
E se ti dicessi la tua coscienza? >> rise quella.
<<
E se ti dicessi di andare al diavolo? >>.
<<
Suvvia, non tocchiamo certi tasti, per adesso limitati ai vampiri
>>.
<<
Che cosa vuoi da me? >>.
La
donna prese ad avanzare lentamente, poi a girarle attorno
<< Ev, Ev, piccola Ev… Il tuo comportamento
è discutibile, lo sai, vero? >>.
<<
Perché? Oh, giusto! Mi hanno tormentato sussurri malefici
ogni notte della mia vita, tutti coloro che ho conosciuto hanno
sostenuto che fossi pazza o peggio, hanno cercato di farmi fuori circa
una decina di volte e mi hanno chiamato Mezzosangue, e io? Ho cercato
di capirci qualcosa in tutto questo. Ma che stupida! Mi pento e mi
dolgo >> rispose, con un tale sarcasmo e veleno che per
un attimo l’altra rimase interdetta.
<<
Dovevi startene al tuo posto >> disse semplicemente, dopo
essersi ripresa da parole che non si aspettava di sentire da
un’indifesa ragazza in preda ai sensi di colpa.
<<
E qual è il mio posto? Illuminami! Te ne prego!
>>.
Stavolta
la donna non si riprese. Non seppe cosa replicare, tacque. Poi
sparì.
<<
E’ quello che stiamo cercando di capire >>
soggiunse una voce maschile.
Evelyn,
fuori di sé per la rabbia e il dolore, gemette alla vista di
Alexander che avanzava, spuntato chissà da dove.
<<
Ed è anche l’unica possibilità di Riley
di salvarsi la pelle >> s’intromise
Christopher, parlando quasi con nonchalance.
<<
Non avete ancora finito di giocare agli indovinelli? >>
gridò la ragazza all’improvviso, provocando lo
sconvolgimento generale.
A
quel punto sopraggiunse tutta la truppa, e Sophie e Karl si fecero
avanti. A parlare per primo fu il rosso << E’
complicato… >> iniziò, ma subito
Evelyn lo interruppe << E io non sono una stupida
>> sibilò.
Nessuno
l’aveva mai vista così, e c’era da
ammettere che era a dir poco terrificante. Se il suo sguardo avesse
avuto il potere di incenerire, adesso ogni cosa nel raggio di cento
metri sarebbe stata poltiglia.
<<
Basta! Tanto ormai il danno è fatto >> Sophie
la raggiunse a grandi falcate << Tuo padre era un vampiro
e tua madre no, per questo tu sei una Mezzosangue. Non è
concesso rivelare tutto questo agli umani, cosa che tu sei per adesso.
Un Mezzosangue può però manifestare anche una
diversa natura, entro i diciotto anni. Adesso le possibilità
sono due: O ti sbrighi a combinare qualunque cosa un semplice umano non
sarebbe in grado di fare, dimostrando così di non essere
umana, e in questo caso Riley viene rilasciato e tutto finisce per il
meglio, o rimani così come sei, e allora prima ammazzano
Riley e poi probabilmente vengono a cercare anche te e tutti noi
>>.
La
Mezzosangue consumò tre secondi per metabolizzare quel che
aveva appena sentito.
Erano
tutti in attesa che scoppiasse a piangere disperatamente o svenisse.
<<
E io tutto questo come potevo mai immaginarlo? >>
strillò allargando le braccia.
Nonostante
la situazione tragica, Alexander non poteva fare a meno di divertirsi
un mondo nell’ammirare il temperamento di Evelyn, e non
riuscì a ingoiare un sorrisetto.
Si
ritrovò puntati addosso una ventina di sguardi assassini e
si affrettò a sdrammatizzare << Non
è la fine del mondo! Ormai quel che è fatto
è fatto, e poi Riley non è un cretino, di sicuro
sa già che Evelyn lo tirerà fuori dai guai, e ci
credi anch’io >>.
Anche
se probabilmente per lei era a un passo dalla morte, anzi proprio per
questo, Evelyn sull’affermazione “Riley non
è un cretino” avrebbe avuto da obiettare.
Fu
non essersi ancora del tutto calmata a salvarla dal predicozzo di sua
zia, una volta tornati a casa.
Ci
avevano messo poco più di venti minuti, correndo. Adesso che
la maschera era caduta le cose per un certo verso si semplificavano.
L’aveva
portata Alexander sulle spalle, e non fosse stato per la catastrofe
imminente, si sarebbe divertita come pazzi.
<<
Dovresti riposar… >> aveva iniziato Tristan,
che evidentemente era un tipo eccessivamente premuroso, ma
l’occhiata omicida che Evelyn gli aveva lanciato aveva fatto
sì che all’ultimo secondo si correggesse
<< No, magari non è necessario
>>.
<<
Oddio Ev, siete riuscita a terrorizzare anche un plotone di vampiri
vissuti >> esordì Sebastian, con un
espressione che sembrava esclamare “Sono così
contento di vederti tutta intera”. Anche lui non scherzava in
fatto di apprensione.
Sguardo
di fuoco si accasciò sul divano e sembrò
ammorbidirsi un po’ << E adesso che si fa?
>> domandò, e il suono le venne fuori
più come un lamento che come una vera a propria frase.
<<
Nulla. Aspettiamo >> rispose Margareth, che fino a quel
momento era rimasta in silenzio.
A
quel punto Evelyn fece la faccia che ci si aspetta faccia chi ha messo
una persona cara in grossi guai. Della serie: Meglio tardi che mai.
<< Ma perché siete così gentili con
me? Non me lo merito >>.
<<
Ma cosa dici! >> esclamò Sophie scattando in
piedi dal divano << Non potevi sapere, e poi chiunque
nella tua situazione si sarebbe comportato nello stesso modo
>>.
<<
Sophie va bene per voi condividere la camera con Mar? >>
echeggiò la voce di Rose da dietro una torre di coperte, che
probabilmente stava trasportando nelle stanze per gli ospiti.
Prima
che l’interpellata potesse rispondere fu Evelyn a parlare,
che ormai aveva capito l’antifona << Non
capisco che senso abbia. I vampiri non dormono e non hanno freddo
>>.
Harvey
si finse offeso << Siamo più sensibili di
quanto credi! >>.
<<
In realtà stavamo solo cercando di calarci nella parte, per
renderti la cosa più graduale >> intervenne
Alexander.
Evelyn
aveva gli occhi e la bocca socchiusi, sbalordita e indecisa. Non voleva
apparire scortese esplicando che al momento tra le sue
priorità le abitudini comportamentali dei vampiri erano un
po’ più in basso rispetto al fatto che un idiota
al quale tuttavia teneva più di quanto si potesse immaginare
sarebbe morto, se lei non avesse fatto cosa non sapeva dovesse fare.
Prima
che riuscisse a trovare un modo carino per dirlo Sebastian
scoppiò in una sonora risata << Rose, per
favore >>.
<<
Davvero non è un problema se ce ne andiamo in giro per casa
anche di notte? Dovremo restare qui a sorvegliarti, l’hai
capito? >> proseguì Tristan.
<<
Cos’è esattamente in me a farvi credere che sia
interdetta? >>.
<<
Cerchiamo di fare del nostro meglio! Sei pur sempre una ragazza di
città >>.
Evelyn
si impose di non replicare, e cercò di sviare la
conversazione su qualcosa di più serio <<
Cos’è esattamente che dovrei fare per
manifestare… >>. Si bloccò. In
realtà non aveva ben capito la storia del manifestare.
<<
Qualcosa che un umano non potrebbe fare, e che quindi proverebbe che
hai preso più da tuo padre che da tua madre >>
aggiunse Alexander.
<<
E fin qui ci sono, un esempio? >>.
Tutti
i presenti, sparpagliati sui divani, si guardarono tra loro.
<<
In realtà non ne abbiamo la minima idea >>.
Se
fosse stata in piedi probabilmente sarebbe capitolata sul pavimento.
<<
Si vedrà >> tagliò corto sua zia,
la sua sbadata e umana zia, l’unica della casa in quel
momento, insieme a Rose e Dalia, e forse lei. Certo tra le persone che
conosceva poi c’era anche Susan, la madre di Grisham.
Scoprire
che anche Sebastian faceva parte dell’altro gruppo
l’aveva un po’ scombussolata; non se lo raffigurava
proprio a succhiare sangue dal collo di un’innocente donzella.
<<
Chi erano quegli uomini? >> chiese tutt’a un
tratto. Non aggiunse “Quelli che hanno portato via
Riley”, perché aveva paura che gli occhi le
diventassero lucidi.
<<
Se ti sei sciroppata i libri che hai recuperato qua e là,
dovresti sapere chi sono i Ribelli >> rispose
l’impassibile Cedric.
<<
In realtà no, ho letto pochissimo >>.
<<
Beh, sono gli stessi che ti vogliono morta >>.
<<
Mi prendete in giro? Loro possono fare una cosa simile e poi reclamano
perché Riley mi ha detto… >>.
<<
Nessun regolamento è perfetto >>
borbottò Christopher, con una strana espressione del viso.
<<
Cerchi di giustificare solo perché quando è stato
stilato tu c’eri >> ribatté Harvey,
piccato.
<<
Erano altri tempi! La giustizia ognuno se la faceva da sé,
non c’erano tribunali o roba simile, e lasciami dire che era
anche un sistema migliore! Non come oggi, insomma i criminali la fanno
franca e noi… >>.
Evelyn
smise di ascoltare l’oramai aperto dibattito
sull’attuale sistema giudiziario.
Quelle
leggi facevano davvero schifo.
Potevano
accusare Riley di tradimento, una parola che le suonava assurdamente
cacofonica, chissà perché, e loro erano liberi di
inseguirla per i cimiteri e i corridoi di casa sua.
Le
venne in mente all’improvviso.
<<
Le ombre >> disse a voce alta senza rendersene conto.
<<
Come dici? >> fece Karl, che probabilmente era stato
l’unico a estraniarsi dalla controversia “occhio
per occhio, dente per dente”.
<<
Non potrebbe essere qualcosa di indicativo? Il fatto che…
>>.
<<
Il fatto che le ombre ti perseguitino? >>
completò per lei con una frase nella quale lesse
già la negazione che sarebbe seguita.
<<
Quelle sono, come dire, parte della squadra dei ribelli. Non possono
farti nulla però, forse solo qualche graffio
>>.
<<
Sì ho notato, a quest’ora sarei morta da un pezzo
>>.
<<
Noi vampiri non possiamo sconfinare. Non ci è permesso stare
via da questo posto per troppo tempo, per questo quando vivevi ad
Aberdeen… >>.
<<
Mandavano le ombre >> finì per lui.
<<
Comunque non ti abbiamo mai perso d’occhio >>.
<<
Ah, lo so! >> esclamò, con eccessivo
trasporto. Tanto eccessivo che cessò anche il comizio e si
ritrovò sotto gli occhi indagatori di tutti.
<<
Tu… Hai letto il registro vero? Ecco cosa facevi alla
scogliera >> esclamò Sophie.
<<
Se qualcuno ha intenzione di indignarsi… >>
iniziò, perdendo la calma un’altra volta.
<<
No, no! >> fece qualcuno, o forse più voci.
<<
Ecco. Perché qui quella indignata dovrei essere io
>>.
<<
Dovevamo proteggerti! >> disse sua zia.
<<
Ed era necessario seminarmi attorno le vostre spie? Anche il mio
professore di matematica! Che tra l’altro era un grandissimo
stron… >>.
<<
Abbiamo capito! >> non la lasciò terminare
Rose, l’indefessa fautrice delle buone maniere.
<<
La proprietaria della mia videoteca di fiducia, il bidello del
pianterreno del mio liceo, l’autista di mio padre!
>> continuò, ormai troppo infervorata per
potersi contenere.
In
effetti si era sempre chiesta cosa ci facesse uno come Jon, una catasta
di muscoli col portamento militare, a pulire il sudiciume degli
studenti da quella scuola pennellata di azzurro smorto e staccare le
gomme da masticare dai banchi disastrati, certo quando si trattava di
distribuire scappellotti a destra e a manca perfino i professori non
gli negavano una certa ammirazione.
Per
quanto riguardava Anton, era stato un duro colpo. Un Custode,
lì a portare suo padre a spasso da una parte
all’altra della città, con il traffico, le multe,
le strade malmesse... Doveva essere un pezzo grosso quel tale William
DeMordrey, se la sua figlia biologica meritava una tale considerazione.
<<
Eppure non è bastato. Quest’estate abbiamo dovuto
fare in modo che ti spedissero qui, ci voleva più che un
umano, sia pure Custode e tutto il resto, per evitare che quegli idioti
ti accoppassero, ti ci voleva la super squadra! >>
esclamò Christopher, evidentemente l’imbranato del
gruppo, tutto contento, come se stesse recitando uno spot
pubblicitario. Ignaro del fatto che la suddetta “super
squadra” di vampiri stava per accoppare lui. Certo poi la
catena si sarebbe chiusa con la strage di Evelyn, che nel frattempo
aveva preso a respirare come un toro in una gabbia per canarini.
|
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Capitolo 22 *** Di matrimoni e altre storie ***
26.
Di matrimoni e altre storie
<<
Ma il mio mistero è chiuso in me… Il nome mio
nessun saprà… >>.
La
cucina era pervasa da un odore dolciastro, fin troppo, ma non
sgradevole, mentre Dalia si aggirava tra i fornelli con fare
spensierato e allegro, canticchiando a labbra socchiuse qualche verso
di lirica, ed Evelyn si chiedeva come facesse a non stancarsi mai di
spadellare a tutte le ore del giorno, a volte anche della notte.
<<
Solo quando la luce splenderà, sulla tua bocca lo
dirò fremente… Ed il mio bacio
scioglierà il silenzio… Che ti fa mia
>>.
Le
piaceva rifugiarsi lì, osservare Dalia che armeggiava con
sicurezza con gli arnesi dell’arte gastronomica e i fattorini
che rifornivano le dispense. Un paio di volte si era anche cimentata
lei stessa, ma era stato già un miracolo che la casa ne
fosse uscita illesa, e saggiamente non aveva più ritentato.
<<
Dilegua, o notte… Tramontate stelle…
All’alba vincerò >>.
Come
tenore non si poteva negare che Dalia fosse in pratica un disastro, ma
a Evelyn piaceva fare da pubblico a quella sua passione per le romanze.
La
convivenza non si rivelava per nulla fastidiosa, anzi. Persino con quel
clima che non era dei migliori - Riley in pericolo di morte era un
sostanzioso incentivo d’ansia - riusciva a essere di buona
compagnia la “super squadra”, come amava definirla
Christopher, suscitando l’irritazione di tutti gli altri.
Alla fine gli avevano anche risparmiato la lingua, perché in
quel momento Evelyn era stata convinta che volessero tagliargliela.
Anche lei forse si sarebbe aggregata, ma in fondo non era mica solo sua
la colpa se avevano deciso di fare in modo che quell’estate
si trasferisse a Landry, quando non era stata più
sufficiente la sorveglianza degli umani, seppur anch’essi
Custodi. Il modo in cui ci erano riusciti non aveva voluto saperlo.
In
realtà non voleva sapere più niente.
Ovviamente
non lo dimostrava mai il senso di colpa che la straziava, ma
c’era; il che la rendeva particolarmente distratta, come con
la testa sempre da un’altra parte. In realtà era
molto attenta a quel che le accadeva intorno, nella disperata ricerca
di un qualcosa di anormale; nessuno le aveva detto cosa potesse fare
perché Riley fosse discolpato, e tutti avevano pareri
piuttosto divergenti. Secondo Tristan – il ragazzo saggio e
pacato per eccellenza - per esempio, l’ansia non era per
niente d’aiuto, mentre Cedric, un folle spericolato
praticante ogni sorta di sport omicida, sosteneva che una certa dose di
adrenalina l’avrebbe portata a far esplodere qualche vaso o
roba simile. Karl e Sophie, che erano quasi sempre d’accordo,
non demordevano dal dire che se qualcosa doveva accadere sarebbe
accaduta da sé. Margareth, una di quelle tipe “so
tutto io” che tuttavia suscitava una certa simpatia,
continuava a ripetere che serviva solo concentrazione, ma come si fa a
concentrarsi, se non si sa su cosa?
Evelyn
non poteva fare a meno di sentirsi il gorilla nella gabbia dello zoo,
preda dei turisti curiosi e dei bambini urlanti.
Aveva
chiesto se fosse possibile andare a trovare Riley, ma era venuta a
conoscenza del fatto che si trovava praticamente rinchiuso in cella. E
comunque trovandoselo davanti non avrebbe saputo proprio cosa dire.
“Riley
sono mortificata, perdonami”, magari condito ad arte con
qualche lacrimuccia e un abbraccio, sarebbe stato tenero e perfetto. Ma
era certa che le sarebbe venuto fuori piuttosto
“Perché mi hai assecondato razza
d’imbecille?”, con qualche sbuffo e uno spintone.
Non
riusciva a non essere allo stesso tempo tremendamente triste e
arrabbiata con lui.
<<
Avete fame? >> le chiese Dalia dolcemente, risvegliandola
dal torpore in cui era piombata. Non si era ancora del tutto abituata a
sentirsi chiamare per “voi”.
<<
Per ora no, ma più tardi metà di quella crostata
è tutta mia >> rispose con un sorriso,
saltando giù dallo sgabello e avviandosi alla porta. Certo
nessuno si sarebbe opposto, i vampiri potevano mangiare, ma non ne
avevano bisogno.
Giunta
alla porta una frase sentita per caso oltre il legno la fece
barcollare, e si aggrappò alla maniglia.
Parlavano
di lei, e del fatto che potesse essere una comunissima
umana… E che quindi in poche parole, addio Riley.
Aprì
e li raggiunse, giacché sapevano benissimo che era
lì e li aveva sentiti.
Karl
aggiunse << Insomma, non è un idiota, se le ha
detto quel che le ha detto di sicuro qualcosa gli aveva fatto pensare
che poteva farlo senza correre rischi >>.
Eppure ora corre il rischio di
morire, pensò Evelyn, continuando a camminare.
<<
Sì, la sua irritabilità >>
suggerì Alexander, perfettamente consapevole di avere la
suscettibile in questione dietro le spalle.
Si
voltò e le sorrise, lei ricambiò sarcastica
<< Qualche novità? >>
domandò poi, anche se aveva ben poco senso chiedere una cosa
simile, dal momento che un qualsiasi cambiamento poteva sopraggiungere
solo da parte sua.
<<
Matt e Colin sono andati da Riley >> rispose il moro.
<<
Come sarebbe a dire? Avevate detto che non si poteva >>
esclamò delusa.
<<
Dimmi Ev, tu a un assetato spediresti una bottiglia d’acqua
fresca, oppure due sacchetti di sabbia? >> intervenne
Harvey entrando nella stanza; l’aveva preso molto in
simpatia, ma non aveva potuto fare a meno di catalogarlo come il
classico dongiovanni dal cuore tenero.
<<
Ehi, bella metafora! >> si complimentò Karl,
che non perdeva mai occasione per elogiare qualcuno.
<<
A me invece non piace per niente essere la bottiglia >>
borbottò Evelyn, incrociando le braccia e alzando gli occhi
al cielo.
<<
Neanche a noi piace che un pugno di vampiri assetati di sangue ti dia
la caccia >>.
Non
stavano parlando d’acqua? Era decisamente più
piacevole.
Fu
quasi sul punto di domandare qualcosa su suo padre e sulla storia che
aveva condotto a quell’attuale situazione, ma si era
ripromessa di non chiedere più nulla e si limitò
a mordersi le labbra.
<<
Se può interessarvi, i sacchetti di sabbia sono tornati
>> esordì Alexander, lo sguardo ancora a
seguire qualcosa oltre la finestra.
Il
salone era come sempre affollato da individui che svolgevano diverse
attività in tutta indipendenza e tranquillità;
tuttavia quando il portone principale si spalancò, si
voltarono tutti all’unisono.
Sulla
soglia apparvero i visi sereni dei due gemelli che Evelyn conosceva
già, e che erano appena rientrati dopo aver fatto un salto
alla confortevole prigione di Riley.
<<
Allora? >> chiese una concitata voce femminile, ancor
prima che i due mettessero piede in casa.
Evelyn
strabuzzò gli occhi, un secondo prima di ricomporsi. Non si
sarebbe mai aspettata di trovare lì Lisa.
<<
Sta bene e vi manda i suoi saluti >> disse Colin con un
sorriso gentile, come se avesse appena detto qualcosa di estremamente
ovvio.
Sul
volto di Lisa apparve un’espressione delusa e adirata al
tempo stesso.
Anche
Evelyn non era per nulla soddisfatta della risposta; Riley era accusato
di tradimento e detenuto in cella, a causa sua, e lei non sapeva
né che cosa fare, né riusciva a prevedere come
sarebbe andata a finire, e tutto quel che sapeva delle sue condizioni
era che “stava bene e mandava i suoi saluti”.
Sospirò. Voltò casualmente il capo e
incontrò lo sguardo di Alexander; il vampiro sembrava non
accorgersi di lei, concentrato com’era a fissare gli occhi di
Matt, che come lui adesso appariva tutt’altro che sereno.
Sanno
mentire. Altroché se sanno farlo.
Come
quando all’inizio sua zia aveva finto di stupirsi al sentirla
nominare la sua vera madre e sapendo della sua reale condizione di
figlia adottiva. O come quando Riley si era finto sinceramente ignaro
del motivo che l’aveva portata lì.
Evelyn
fu assalita da un’ondata di terrore, chiedendosi cosa
significasse quello sguardo; Era già morto? O qualcosa di
peggio…
Si
ritirò nella sua stanza annunciando che era stanca e nessuno
domandò come fosse possibile alle nove del mattino,
evidentemente conoscendo già fin troppo bene la sua scarsa
propensione a qualsivoglia attività precedente il
mezzodì.
Quando
si chiuse la porta alle spalle fu ancora peggio.
<<
Perché sto così? >> si chiese da
sola, un’espressione angosciata in volto.
Gliel’avevano spiegato che comunque sarebbe andata a finire
lei non aveva colpa. Non poteva sapere. Eppure…
Inconsciamente
le venne fuori una risata scettica, scosse la testa <<
Senso di colpa. E’ solo senso di colpa >>
parlò ancora a se stessa.
Con
la mano destra si afferrò i capelli e li portò
tutti da un lato del viso. Sbuffò e si mise a frugare
nervosamente nei cassetti, nervosa e in cerca di qualcosa per legarsi i
capelli, che improvvisamente la infastidivano da morire.
Sussultò
quando le sue dita incontrarono l’inconfondibile consistenza
della carta, e tirò fuori il piccolo biglietto ripiegato.
Dispiegarlo
la portò indietro di secoli, a un nostalgico tempo in cui a
rischiare la vita era stata lei e a evitarlo era stato Riley.
Riley
che più di una volta era corso da lei; che orgoglioso
sosteneva di poter oltrepassare la corazza di apatia che si era
costruita addosso, senza sapere che in realtà
l’aveva distrutta quella corazza. Le aveva insegnato cosa
fossero i sentimenti, e soprattutto cosa fosse manifestarli, senza
reprimerli.
Aveva
riacceso in lei quella fiammella di vitalità che era sempre
stata spenta.
L’omino
con la rosa era rimasto lo stesso, in quella posa adorabile, e lei lo
invidiò come con pochi altri nella sua vita aveva fatto.
Confinato in quel ritaglio di carta eppure lontano da ogni pensiero,
prigioniero di un momento che sarebbe stato l’unico che
avrebbe vissuto, per sempre.
Lesse
e rilesse quelle parole arroganti e dolci un centinaio di volte, prima
di crollare sul letto e bagnarne le coltri con una lacrima.
<<
E’ solo senso di colpa >> ripeté
ostinata, senza credersi.
Quando
verso mezzogiorno comunicò a Dalia tramite Rose, che
l’aveva raggiunta per stanarla da quella stanza con le tende
serrate, di non avere fame e che avrebbe saltato il pranzo, non poteva
certo immaginare che avrebbe dato il via a una sorta di pellegrinaggio
di convinzione. Salirono quasi tutti, a turno, per cercare di
consolarla, mentre lei ripeteva di stare bene, e di non avere
semplicemente appetito. Quando capì che l’allegro
gruppetto dei suoi conviventi si era praticamente convinto che il senso
di colpa l’avesse scagliata nella depressione, un accenno
della suddetta malattia iniziò ad avvertirlo davvero. Aveva
ormai appurato che i suoi adorati vampiri da guardia non erano abituati
ad avere a che fare con fragili ragazzine, e la consideravano in
sostanza una bambola di cristallo esposta a ogni tipo di rischio, che
fosse fisico o morale, dalla depressione all’anoressia, alla
più reale frattura di qualche osso.
A
porre fine alle missioni di consolazione ci pensò Alexander,
che a volte riusciva a sbalordire tutti mostrando una briciola di
serietà e raziocinio.
<<
Ma cos’è? Una catacomba? >> disse
mentre si chiudeva la porta alle spalle con il piede, attento a non
rovesciare il contenuto del vassoio che aveva tra le mani, anche se
Evelyn era certa che non gli costasse alcuna difficoltà.
<<
Mi sto calando nel clima probabilmente >>
scherzò quella, ancora stravaccata sul letto.
<<
In verità superiamo la fase oscura e solitaria
già dopo qualche mese. Io adoro il mare e la luce del sole,
sono anche un asso del surf >> rispose poggiandole il
vassoio accanto e strizzando l’occhio.
<<
Eppure non sembri abbronzato >>.
Alexander
chiuse la mano a pugno e ci si colpì il petto
all’altezza del cuore, mimando una ferita mortale, contrasse
i lineamenti perfetti del volto in una smorfia di dolore e poi
crollò sulla sedia, strappandole una risata.
<<
Oh, quindi proprio nulla? Neanche a mezzogiorno in punto e con lo spray
superabbronzante? >> colpì ancora.
<<
Sì, rigira il coltello nella piaga! >>.
<<
Suvvia, non è poi la fine del mondo… A me per
esempio la tintarella non piace, la trovo troppo cliché
>>.
<<
Se è per questo non ti piace neanche la luce, e poi ci credo
che preferisci gli sbiancati >>.
<<
E con questo che vorresti dire? >> balbettò.
Alexander
ridacchiò << Niente, niente…
>>.
Evelyn,
per restare in tema, impallidì. Che Riley si confidasse con
lui? Come le ragazze alle prese con i problemi di cuore?
Senza
sapere perché se li raffigurò seduti su un
tappeto rosa a pettinare le bambole.
Alexander
dovette intuire i suoi pensieri dall’espressione sconvolta
che aveva, perché scoppiò in una fragorosa risata.
<<
Non abbiamo segreti tra noi, Ev >> aggiunse poi, con
serietà.
<<
Che bella cosa… Quindi del tipo che siete telepaticamente
connessi o di sera vi raccontate a vicenda la vostra giornata?
>>.
<<
Del tipo che ci basta uno sguardo per capire tutto di chi ci sta
davanti. Adesso per esempio sei offesa, perché con te
abbiamo un sacco di segreti e ti senti esclusa >>.
Evelyn
fece un verso di diniego << Devi essere il peggiore nel
campo >>.
L’altro
rise << Somigli un sacco a tuo padre >>.
La
ragazza abbassò lo sguardo e accennò un sorriso.
<<
Stavano bene insieme, Will e Giudith. Ma le cose belle, si sa, sono
destinate a essere deturpate >>.
Evelyn
si riscosse << Continua >> lo
pregò.
<<
Uno dei ribelli aveva messo gli occhi addosso a tua madre e averla era
diventata una sfida personale di massima priorità.
Ovviamente tuo padre non era intenzionato a cederla…
>>.
Evelyn
sollevò lo sguardo e strinse tra le mani le coperte.
Chissà perché quando qualcuno si decideva a
raccontarle finalmente qualcosa si trovava sempre a letto.
<<
Bastava anche che si allontanasse da lei, il suo rivale
l’avrebbe considerata comunque una vittoria, ma loro non
vollero separarsi e preferirono addirittura una vita in continua
fuga… Che fosse fuori dalla città o per le
catacombe >>.
Da
questo punto di vista gli somiglio, si disse Evelyn, pensando agli
ultimi avvenimenti della sua vita.
Gliene
venne in mente uno in particolare.
<<
Prendi. Sempre dritto, hai capito? >> diceva il prete,
porgendole una lampada a olio alquanto malandata.
<<
Perché dovrei fidarmi di voi? >>.
<<
Se solo sapessi chi, anni fa, prendeva questa lampada dalle mie mani,
come te adesso… >>.
La
consapevolezza di aver frantumato un ricordo dei suoi genitori non
bastò a farla desistere dall’ascoltare.
<<
Non fu una vita facile, la loro. Tre anni dopo la tua nascita Hector
non si era ancora arreso, e successe quel che non doveva succedere.
William lo uccise per proteggere te e tua madre, ed essendo
l’allora attuale capo dei ribelli, la loro vendetta fu
terribile >>.
<<
Che cosa accadde? >> lo incalzò.
<<
Non serve che tu lo sappia, loro non ci sono più, e questo
è quanto >>.
Evelyn
si rese conto che davvero non voleva saperlo, era già
abbastanza doloroso così. I suoi genitori, che
l’avevano amata tanto da dare la vita per lei, neanche li
ricordava più.
<<
E io? Perché io non sono morta? >>.
Alexander
fece una faccia strana, e anche in quell’atmosfera di
nostalgia a Evelyn scappò una risatina << Non
è una domanda filosofica sulla mia vita! Parlavo proprio in
termini pratici… >>.
Quello
rise e scosse la testa << Scusami, ricordare mi fa un
brutto effetto. Ad ogni modo qualcuno ebbe la prontezza di portarti via
da lì mentre noi altri coprivamo la vostra fuga
>>.
La
ragazza deglutì.
<<
Sì, c’ero anch’io. E anche qualcun altro
di tua conoscenza >>.
<<
E chi mi portò via? >>.
Alexander
sorrise tristemente e parlò solo quando fu certo che lei
aveva capito << E’ anche per questo che tiene
tanto a te >>.
La
ragazza continuava a tacere.
<<
Come anche tutti noi >>.
Serrò
i pugni, mentre il suo battito cardiaco accelerava.
<<
Sei tutto quel che ci resta di loro, Evelyn >>.
La
notte aveva da poco preso il sopravvento, ed Evelyn se ne stava con i
gomiti sul davanzale della finestra spalancata ormai da ore, un tempo
sufficiente per avere la mente certo dolorante, ma finalmente meno
affollata di pensieri.
L’aria
gelata sul viso era stranamente piacevole, e la vista del bosco e delle
guglie della città in lontananza la rilassava a tal punto
che in quel preciso istante aveva smesso di sognare il balcone con i
fiori fuxia della sua residenza estiva che profumava di salsedine, dove
di norma avrebbe dovuto trascorrere le vacanze.
<<
Un’estate torrida qui, eh? >>.
Karl
era appena entrato nella stanza, la solita espressione gioviale in
volto.
<<
Mai vista un’afa così in vita mia >>
rise Evelyn, attendendo che la raggiungesse.
<<
Landry non è il massimo per la villeggiatura, ma vivendolo
s’impara ad apprezzarlo. Sai, noi vampiri siamo
eccessivamente abitudinari >>.
<<
So cosa vuol dire >>.
Karl
sorrise, ed Evelyn si stupì ancora una volta della
serenità che lui e tutti gli altri riuscivano a simulare.
Evidentemente i vampiri dovevano avere un naturale talento per
nascondere quel che realmente provavano.
<<
Karl, sii sincero, ho visto le vostre facce stamattina. Come sta?
>>.
Prima
che quello potesse parlare, a rispondere fu un’altra voce
proveniente dall’ingresso della stanza <<
Diglielo Karl >>.
L’espressione
cupa di Cedric la diceva lunga su quanto poco piacevole fosse la
notizia in questione.
<<
Che cosa? >> chiese il rosso, sinceramente dubbioso.
<<
E’ ingiusto nasconderle la verità, prima o dopo
cosa vuoi che cambi… Lo scoprirà da sola
>> continuò l’adrenalinico sportivo,
e a Evelyn sembrò di cogliere in quelle parole una nota di
malizia.
<<
Allora parla! Che gli è successo? E’ ancora vivo e
tutto intero? >> lo assalì.
<<
Beh… vivo
sì >>.
<<
E allora cosa? Per punizione gli hanno amputato un braccio? Una gamba?
>> esclamò esasperata.
Cedric
si portò una mano dietro la testa, storse le labbra e chiuse
un occhio, un attimo prima di mordersi le labbra, indeciso, in una
perfetta posa melodrammatica, poi distolse lo sguardo e si decise a
dire << Sì, gamba…
>> ponendo l’accento sull’ultima
parola.
A
Evelyn servì un attimo per capire, poi guardò in
direzione di Karl. Le scappò un verso furibondo quando vide
che teneva anch’egli gli occhi bassi e si mordeva le
labbra… Per trattenere una risata.
<<
Cedric perché non vai a lanciarti dal dirupo più
vicino senza paracadute? >>.
Quello
scoppiò a ridere, seguito da Karl.
<<
Che teneri, vi confidate i segreti quindi >>
continuò la ragazza.
<<
Veramente lui non ci diceva niente… Ma noi veniamo a sapere
sempre tutto >> rispose fiero.
<<
Grandioso >> borbottò Evelyn, decisamente poco
contenta che tutti conoscessero i risvolti della sua relazione con
Riley, e per un secondo tentata di uscirsene con un “Siamo
solo amici!”. Che poi non lo sapesse nemmeno lei cosa
fossero, al momento non le sembrava il caso di tirarlo in ballo.
<<
Insieme siete perfetti >> esordì Margareth
tutta contenta, comparendo dal nulla.
<<
I vampiri origliano! >> enfatizzò Evelyn
alzando gli occhi e i palmi delle mani al cielo.
<<
Macché, stavo solo passando in corridoio >>
disse la giovane con un sorriso.
Evelyn
sospirò << La vostra
spensieratezza… Ma come fate? Riley è in bilico
tra la vita e la morte >> iniziò, poi mentre
parlava le venne il colpo di genio << Un momento, ma non
si può organizzare un’evasione o qualcosa del
genere? >>.
<<
Per scatenare una guerra? Quel che dici sarebbe infrangere la legge, e
significherebbe concedere loro la licenza di fare lo stesso…
La prima cosa che farebbero sarebbe sconfinare e darsi agli omicidi
più efferati >>.
<<
Quindi per amore della pace lasciamo Riley al suo destino
>>.
<<
Ma no! Perché sei così sfiduciata, Ev? Ci sono
migliaia di tuoi aspetti che ci fanno ben sperare, basta solo
un’azione più concreta e il gioco è
fatto >>.
<<
Del tipo? >>.
Cedric
fece per parlare, ma Karl lo sovrastò << Non
riattaccare con la storia del vaso che esplode! >>.
<<
Ecco, deve solo concentrarsi >> intervenne Mar.
<<
Io una cosa simile l’ho vista con questi miei occhi
>> perseverò Cedric.
<<
Lo conosco a memoria questo discorso, evitiamolo >>
bofonchiò la Mezzosangue.
<<
Pensa alla tua intelligenza Ev >> fece un esempio Mar.
<<
Sì, abbastanza da bermi i giochetti di questo decerebrato
>>.
Il
difettoso di cervello scoppiò a ridere di nuovo,
probabilmente pensando alla castrazione di Riley che aveva ideato poco
prima << E’ stato divertente >>.
<<
Per niente >>.
Fortunatamente
il rumore della porta che si schiudeva smorzò quel
battibecco ancor prima che iniziasse, e dalla soglia fece capolino il
sempre allegro Christopher per annunciare che la loro presenza era
gradita dabbasso per la cena.
Evelyn
lasciò che gli altri la precedessero e dopo qualche minuto
scese da sola.
Prima
di arrivare alla sala da pranzo notò
l’inconfondibile chioma ondoleggiante di Sophie e
deviò nella sua direzione; le faceva sempre piacere la sua
compagnia. Quando però ebbe oltrepassato del tutto
l’angolo che la separava da una visuale decente di quel
cantuccio defilato dal resto dell’ambiente, dovette resistere
all’impulso di darsela a gambe nella direzione opposta.
<<
Potresti almeno tentare di consolarmi! >>. Lisa non aveva
ancora fatto caso a lei, infervorata com’era nella
discussione, ed Evelyn pensò che Sophie fosse la
personificazione della pazienza a non aver ancora disconosciuto una
tale insostenibile sorella.
<<
Ho tentato! Ma tu continui a piangerti addosso, che vuoi che faccia
>>.
<<
Mi abbandoni nel mio dolore? >>.
Ti abbandonerei nel deserto
senza bussola piuttosto, non riuscì a impedirsi
di pensare Evelyn.
Lisa
era la ragazza perfetta. Bella, intelligente e aspra come un limone
acerbo. Chissà perché erano in voga quelle
acide… Le ricordava la rappresentante d’istituto
del suo liceo, o meglio, gran parte della componente femminile del suo
liceo… Paese.
<<
Ehi Evelyn! >>.
A
riscuoterla dalle reminiscenze negative sulla società della
città in cui viveva arrivò il benvenuto
entusiasta di Sophie.
Le
sorrise e si decise ad avvicinarsi, poi per obbligo di cortesia si
rivolse a Lisa e salutò anche lei. Si aspettava che la
sommergesse di parole come “Assassina” o
“Strega”, invece quella si limitò a
guardarla con le consuete braci nelle pupille per una frazione di
secondo e sparì.
<<
Perdonala, è solo in ansia >> cercò
di giustificarla la sorella.
<<
Sì ho notato >>.
<<
Lei tiene molto a Riley >>.
<<
Ho notato anche questo >>.
<<
Nel senso che… >>.
<<
Nel senso che ne è innamorata. Sì, Sof, ho
capito! >>.
<<
Comunque lui non la ricambia >>.
All’insegna
dell’ovvietà, si disse Evelyn,
poiché come tutti gli altri anche Sophie doveva aver notato
le attenzioni di Riley nei suoi confronti, piuttosto che in quelli di
Lisa.
<<
Sai, nessuno ne può più di questa storia, sapessi
quanto tempo fa è cominciata >>
continuò la sorella della penante d’amore.
<<
Rischieresti troppo a raccontarmela? >>.
<<
Una scenata in più cosa vuoi che cambi. Saprai che qualche
tempo fa le cose funzionavano diversamente e i matrimoni si basavano
più sulla strategia politica che sul sentimento. A Landry
c’erano due casati rivali e la reggenza cittadina iniziava a
sentirsi seriamente minacciata dai loro conflitti, così
impose loro una riappacificazione, quantomeno simbolica, che
spettò agli eredi delle due famiglie. Riley e Lisa furono
promessi, ma lui non si presentò mai all’altare
>>.
Evelyn
non riuscì a trattenersi, l’idea di Lisa in abito
bianco mollata in chiesa col bouquet era esilarante, e anche Sophie
sembrava divertita.
<<
Che gesto vigliacco >> disse tra le risate.
<<
In verità aveva già lasciato intendere
dall’inizio di non avere la minima intenzione di portare a
compimento lo sposalizio, si scusò anche con lei e con la
mia famiglia >>.
<<
E che disse? Di non essere innamorato? >>.
L’altra
rise ancora << Macché, disse che il dovere di
principe lo chiamava e partì per la guerra >>.
Evelyn
aveva letteralmente le lacrime agli occhi a pensare che Riley avesse
abbracciato la carriera militare pur di non ritrovarsi Lisa come
moglie, con tutto che, se aveva inquadrato bene il periodo storico, a
quei tempi le relazioni extraconiugali erano legali e alla splendente
luce del sole.
<<
E poi? >> la incalzò, oramai troppo presa
dalla storia.
<<
E poi sopravvisse alla guerra e rischiò l’infarto
non appena rimise piede a Landry. Lui tornò che era
già… cambiato, e quando vide che anche lei lo era
capì che avrebbe dovuto sopportarla ancora a lungo,
così tentò il suicidio >>.
<<
Come? >> esclamò Evelyn, smettendo di ridere.
Sophie
invece si strozzò quasi e parlò solo dopo essersi
strofinata gli occhi per scacciare le lacrime <<
Scherzavo! I vampiri non possono tentare il suicidio…
>>.
Passarono
un’altra mezz’ora buona a sbellicarsi, grazie agli
episodi che la consanguinea della sposa mancata raccontava, come di
quando le famiglie dei due promessi sposi, la reggenza cittadina e la
sposa stessa avevano complottato così arditamente da
riuscire a incastrare il povero fuggitivo in chiesa, il quale,
protraendosi un funesto periodo di pace e non potendo riscappare in
guerra, aveva trovato come unica via di scampo la vita monacale,
annunciando seduta stante di voler prendere i voti. Alla fine a
salvarlo, dalla sposa e dal monachesimo, era stata una combriccola di
banditi incappucciati che aveva fatto irruzione in chiesa sfasciando
anche qualche povera finestra, e rapendolo, e che solo tempo dopo si
era scoperto essere capitanata da un tale di nome Alexander.
Evelyn
trangugiò la cena e trascinò Sophie con
sé via dalla tavola, intenzionata a cogliere
l’occasione e farsi raccontare quante più cose
possibili.
Scoprì
che quella vipera di sua nonna, che in quel momento era probabilmente
intenta a ordire qualche faida familiare, ne sapeva più di
lei in fatto di vampiri e Custodi, e che pertanto aveva tentato di
ostacolare il matrimonio di suo fratello Constantine e di sua figlia
Giudith.
Nel
primo caso aveva pensato che insidiare la sfiducia nella coppia sarebbe
bastato a sfasciare la loro unione, spedendo dalla bella Josephine un
tale assoldato per sostenere d’essere stato
l’amante della giovane per tutti gli anni del fidanzamento.
Constantine, alla faccia di ogni romanzetto e film comico, non ci aveva
minimamente creduto, e dopo averlo minacciato con un coltello da cucina
rubato direttamente dalle mani dell’apprendista cuoca di
casa, una certa Dalia, aveva sposato la sua innamorata e insieme con
lei l’ordinamento dei Custodi. Avevano vissuto felici per
anni, finché non arrivò la tragedia. I Ribelli
insorsero e durante gli scontri Constantine venne ferito a morte. Le
sue volontà di non essere trasformato furono rispettate e da
allora Josephine non si risposò mai. Continuò ad
adoperarsi nell’ordine, forse con ancora più
ardore, non lasciò mai la casa coniugale e i suoi
dipendenti, e si lasciò consolare dalla vicinanza dei suoi
concittadini e dei suoi figliocci.
Dorothy
Becker era famosa per il saper imparare dai propri errori, e pochi
giorni prima del matrimonio di sua figlia Giudith, entrata la ragazza
in camera sua per recuperare i bagagli per la partenza, girò
la chiave nella toppa e si adoperò per rendere quella stanza
una prigione inespugnabile, utilizzando ogni mezzo a sua disposizione,
traendo spunto direttamente dall’efficientissima
superstizione popolare. Abbondante aglio sulla soglia della porta e
della finestra, acqua santa su ogni gradino delle scale, sacchetti di
riso sparsi qui e lì (Era credenza che un vampiro
trovandoseli davanti si mettesse a contare tutti i chicchi), paletti di
frassino sotto il cuscino e alcuni rametti di citronella sparsi qua e
là dei quali nessuno ancora oggi riesce a spiegarsi
l’utilità, fruttarono a William DeMordrey le
più grasse risate della sua vita quando andò a
riprendersi la bella direttamente nella torre sorvegliata dalla suocera.
Parte
del seguito della storia Evelyn la conosceva già, ma il
dettaglio che suo padre fosse stato anche il capo dei Custodi per un
certo lasso di tempo le era stato oscuro fino a quel momento, e a
sbalordirla ancor di più fu il sentir raccontare di quella
piovosa notte di Febbraio in cui oltre alle tre candeline della sua
torta di compleanno si erano spente anche le vite dei suoi genitori.
Quando
i vendicatori di Hector, il capo dei Ribelli ucciso da William, li
trovarono fu da subito chiaro che una vittoria senza perdite era una
misera utopia, e prima che Riley potesse portarla in salvo, William
dovette rispettare la tradizione che voleva che lo stesso capo in
carica nominasse il suo erede nell’eventualità
della sua morte prematura, indipendentemente da legami di parentele e
discendenze. In molti ebbero da ridire sulla troppo giovane
età di Riley, lui compreso, ma la decisione era ormai presa
e tutti riponevano comunque una grande fiducia in William, e di
conseguenza anche nel suo discendente.
Evelyn
ripensò a tutte le circostanze in cui Riley aveva rivelato
un aspetto ben diverso da quello di un semplice vampiro in apparenza
fermo ai diciannove anni; la volta in cui la sera del ballo
quell’uomo della sorveglianza gli si era rivolto con
eccessiva riverenza, o quando la sola pronuncia del suo nome aveva
avuto il potere di ammorbidire chi le stava davanti. Riley non solo era
il capo, ma doveva essere anche bravo in qualunque cosa fosse quel che
era suo compito fare.
Durante
i vari racconti Sophie chiariva anche qualche suo dubbio sulle reali
caratteristiche di un vampiro. In sostanza da sapere sui vampiri
c’era che erano tutti diversi tra loro ovviamente, come le
persone, ma accomunati tuttavia dall’appartenenza a una delle
linee di sangue, come le aveva chiamate Sophie; ogni casato conferiva
ai suoi appartenenti dei caratteri difficili da reprimere. Come la
passione per ogni forma di cultura dei Lennox, o la poca costanza di
lucidità di un Van Cleef.
Non
le piacque molto sapere che le poche volte di lasciare Landry concesse
ai suoi abitanti erano funzionali al loro sostentamento e che quindi in
poche parole, come aveva già immaginato, si nutrivano di
sangue umano; ad alleviare la colpa c’era però che
le vittime dopo non ricordavano niente, se non una notte di passione o
una botta alla testa con conseguente perdita dei sensi; il morso era
infatti l’unico mezzo di cui un vampiro disponeva per
annullare i ricordi più recenti di un umano.
Tanti
altri aspetti non arrivarono a sfiorarli, dato che Sophie
riuscì a distrarla raccontandole della sua vita.
Sophie
Strathmore aveva avuto la fortuna di nascere in una nobile famiglia, in
un tempo in cui il contrario era sinonimo di povertà e vita
breve, e la sfortuna di venire al mondo nella notte sbagliata. La
stessa della sua nascita era stata rapita durante un assedio di
mercenari al soldo di una famiglia rivale, e da quel giorno il suo
florido futuro di nobildonna si era tramutato in quello ben diverso di
cortigiana. Honesta, ci tenne però a precisare la narratrice
protagonista; sottolineando di non essere stata la donnaccia buttata
per la strada che solo gli ignoranti potevano associare a quel termine.
Aveva ricevuto un’ottima educazione e si era anche dedicata
alla composizione di qualche verso, quando non era stata troppo
occupata a intrattenere i pochi uomini che l’avevano avuta,
tutti nobili “Di sangue e di cuore”, fu la
definizione che ne diede.
In
tutto ciò la sua famiglia era troppo occupata nel tentativo
di incastrare quel buon partito che era Riley per la sua sorellina
più fortunata. Lisa l’aveva ritrovata appena in
tempo solo quando si era ammalata di tubercolosi, conservando un
briciolo della sua vita, trasformandola.
Dal
momento della rinascita in poi la loro vita, come quella di tutti gli
altri dei quali però non ci fu il tempo di stare a sentire
la storia a causa delle palpebre di Evelyn, che non volevano saperne di
stare ben aperte, si era consumata per lo più a Landry e con
vari alti e bassi, tra guerre civili tra vampiri e giorni spesi
interamente a sedare gli animi irrequieti dei Ribelli.
Evelyn
si lasciò accompagnare a letto con la promessa di altri
racconti al più presto, poi fu libera di crollare in un
sonno profondo.
Una
luna perfettamente tondeggiante e luminosa rischiarava il bosco.
La
bambina non aveva mai avuto paura del buio, ed era serena mentre
calpestava il tappeto di foglie, producendo con i piccoli stivaletti di
camoscio un rumore che riempiva il silenzio e le teneva compagnia.
Di
sicuro qualcuno la stava cercando, così camminava
lentamente, solo perché stare ferma era troppo noioso,
altrimenti non l’avrebbero trovata.
Non
l’aveva fatto di proposito, non si era resa conto di essersi
allontanata tanto. Pensò alla lavata di capo che la
aspettava e si disse che forse sarebbe stato meglio rimanere a vivere
nel bosco.
Lo
scrocchiare ritmico delle foglie secche non era cessato, ma solo in
quel momento si accorse di essere immobile.
Si
voltò piano.
Era
un uomo alto e con i capelli scarmigliati, una strana luce negli occhi
e un sorriso sbagliato.
Non
parlava, continuava a sorridere, e ad avvicinarsi.
La
piccola era troppo intelligente per non capire, ma anche quando la
afferrò con entrambe le mani, la sua bocca si
spalancò senza che ne fuoriuscisse alcun suono. Anche gli
impulsi che il suo cervello inviava ai suoi muscoli sembravano perdersi
strada facendo.
Era
come negli incubi, dove l’uomo nero si avvicina e i bambini
non riescono né a muovere le gambe, né a chiamare
mamma e papà.
Solo
che dall’incubo ci si sveglia un attimo prima che il mostro
arrivi, e invece nella realtà il mostro l’aveva
già presa.
Ormai
aveva addosso le mani sporche dell’uomo nero, e il suo alito
di liquori economici tra i capelli.
Pensò
che non l’avrebbero trovata mai, o che forse non la stavano
nemmeno cercando e solo allora riuscì a gridare, desiderando
che l’uomo la lasciasse andare.
<<
Fermo! >> si sgolò, senza paura, con i pugni
serrati per la rabbia.
L’uomo
s’immobilizzò.
<<
Lasciami >> sibilò, con un tono che suonava
incredibilmente assurdo sulla bocca di una bambina.
L’uomo
alzò le mani in segno di resa, come nei film polizieschi.
La
piccola Evelyn pensò che quell’uomo fosse davvero
una brutta persona.
Il
mostro si accasciò a terra, ormai vittima e non
più carnefice.
Si
svegliò che la luna piena di quella notte splendeva ancora
in cielo.
Si
passò le mani sul viso e pensò che se si fosse
interessata un po’ di più a qualche libro di
psicologia avrebbe saputo che la nostra mente in rarissime circostanze
tende a rimuovere eventi considerati troppo sgradevoli per essere
lasciati lì indisturbati, a infestare la nostra memoria. E
per lei era ormai una consuetudine essere un caso raro.
Andare
a chiamare qualcuno nel cuore della notte dicendo “Alcune
volte facevo fare alla gente quel che volevo, come fossero
marionette”, non le sembrò un’idea
granché geniale. E poi avevano chiarito che le parole non
servivano a un bel niente. Doveva riuscire a ricordare come funzionasse.
Era
successo pochissime volte tra l’altro, e tutte quante le
aveva rimosse senza un perché. Anche in quel momento non
riusciva a spiegarsi come avessero fatto a riaffiorare simili ricordi,
così all’improvviso e senza una precisa ragione.
Per
una delle pochissime volte della sua vita però volle essere
fiduciosa. Se c’era riuscita da bambina, adesso doveva essere
ancora più facile.
L’ultima
volta era accaduto durante una festa di compleanno di un suo cugino di
quarto grado, quando l’avevano spedita a giocare con bambini
che nemmeno conosceva, e i quali avevano tentato di rinchiuderla in una
catapecchia che avevano scoperto per caso nelle vicinanze e che essendo
vecchia e abbandonata, nella fantasia dei bambini, doveva essere
obbligatoriamente anche infestata.
Alla
fine dentro la casa diroccata gli adulti ci avevano trovato tutti i
bambini, e tirarli fuori aveva richiesto che due dei suoi cugini
più robusti scardinassero la porta, giacché era
stata chiusa dall’interno. A chiamarli era stata la stessa
Evelyn, che aveva detto di aver sentito delle voci dentro quella casa
mentre stava tornando indietro.
Gli
altri avevano spiegato che non volevano chiudersi dentro, che non
l’avevano fatto di proposito, ma la fantasia delle giovani
menti è tanto un dono quanto il motivo per cui nessuno gli
crede mai.
Ancora
poggiata con la schiena alla testiera del letto Evelyn pensava di
essere stata davvero crudele, e sperò di riuscire a esserlo
di nuovo almeno una volta, per Riley che forse non suscitava in lei
solo ed esclusivamente senso di colpa.
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Capitolo 23 *** Ardente come fuoco ***
27.
Ardente come fuoco
Riley Nathaniel Hylton
-
Ignoto
Dinastia Hylton
Evelyn fissava il soffitto del baldacchino senza
vederlo, mentre nella sua mente incombeva e a tratti spariva
l’immagine sfocata del ricordo di quelle parole lette in
tutta fretta.
Ricordava pressoché chiaramente tutti
i registrati, ma quello in particolare l’aveva assorbito
più degli altri.
Nessuna data, né traccia di chi
l’aveva trasformato. Solo il suo nome e quello della sua
linea di sangue.
Era ancora notte fonda e diluviava, ma la luna
faceva capolino tra le nuvole concedendo una scarsa illuminazione; la
sua vista si era ormai assuefatta al buio e raggiungere lo scrittoio
senza ammaccarsi qualche osso contro un pezzo di mobilia seminascosto
non fu poi un’operazione troppo complessa.
Aprì il cassetto e ne tirò
fuori il libro, e prima di cominciare a leggere dall’inizio
diede una rapita sfogliata complessiva, rendendosi conto per la prima
volta che non era composto in modo omogeneo. Sembrava essere nato
dall’unione di vari frammenti appartenenti a libri diversi.
In alcune pagine figurava una grafia elegante, altre erano scritte a
mano, altre ancore in una calligrafia tanto ricca di orpelli da
rivelarsi quasi illeggibile.
Non volle accendere nessuna luce e si
accontentò di accoccolarsi accanto alla finestra e aprirne
per bene le tende.
Non si stupì di trovare in testa alla
prima pagina il titolo Le Origini, scritto in modo raffinato e con
inchiostro rosso. Le pagine che sembravano fare parte di quella prima
sezione erano tra l’altro quelle dell’intero libro
con l’aspetto più antico.
C’era
un tempo un artista, che era in grado di creare cose meravigliose, e
ancora nello stesso luogo in cui egli dimorava un cantore dalla
splendida voce, e con loro altri esseri graziati dalla natura con un
talento superiore a quello di tutti gli altri sulla terra che
possedevano lo stesso.
Ma
l’artista non riusciva a creare quando la rabbia
s’impadroniva del suo cuore, e così il cantore non
poteva alcuna melodia se era triste, e così il talento di
ogni altro essere era nullo se cattive emozioni gli incupivano
l’animo.
Serenità
e giustizia cedettero il passo alla venuta di tempi bui, e nessuno
riuscì più a esprimere ciò che di
più bello gli era stato donato.
Uno di loro,
afflitto, disperato, giurò d’esser pronto a tutto
pur di riuscire a vivere di nuovo come una volta.
Arrivò
allora un tale, di cui nessuno conobbe e ancora oggi conosce il nome,
che propose di liberare l’uomo desideroso di creare di nuovo.
Ma disse che non era consentito scacciare i tempi tristi, e che
l’unico dono che egli era in potere di elargire era
l’insensibilità, cosicché nessun
sentimento influenzasse più i talenti degli uomini
prediletti.
L’uomo,
reso incosciente dalla disperazione e dalla nostalgia,
accettò, e il senza nome prese la sua anima e gli
asportò i sentimenti, e dopo di lui lo seguirono altri.
Solo dopo si
resero conto del loro errore, ma riavere tra le mani il potere
annebbiava loro la mente, e non vi badarono.
Giunse allora
un altro tale che fu conosciuto e ancora oggi si conosce come il
saggio. Egli era adirato con gli uomini prediletti per quel che avevano
fatto e decise di punirli.
Fece allora
sì che ogni sentimento che quegli esseri avessero conosciuto
fosse amplificato, e così buono o cattivo che fosse lo
sentissero per mille volte di un comune mortale. Insieme con la
sensibilità furono accresciuti i loro talenti, ma sempre
destinati a essere sottoposti alle emozioni.
Furono
condannati all’immortalità, perché
pagassero in eterno per la loro colpa, per aver ceduto la loro anima in
cambio del potere.
Per secoli gli
uomini prediletti hanno tentato di placare i loro sentimenti senza
riuscirci; solo chi nacque per disgrazia prediletto a metà
fu in potere di sottomettere il suo animo e le sue passioni, e
così di influenzare chi lo attorniava.
Evelyn sollevò gli occhi dalla pagina
senza voltarla, e senza sapere quanto di vero ci fosse in quella
leggenda.
Dalle pagine seguenti intuì che quel
che aveva in mano doveva essere una sorta di guida, giacché
vi erano illustrate le principali caratteristiche dei vampiri, alcune
delle quali rispecchianti quelle di comune conoscenza, come la
necessità di nutrirsi di sangue e la spiccata prestanza
fisica, altre se ne distaccavano completamente, non vi era ad esempio
alcun accenno al fatto che il sole potesse nuocergli.
Seguiva la parte descrittiva un’altra
sezione, inaugurata con un titolo che riempiva un intero foglio: caccia
ai vampiri e rimedi vari. Quando però girò pagina
incontrò l’inizio di un’altra sezione
intitolata Le linee di sangue, e notò che diversa carta era
stata strappata via nell’intervallo tra le due. Evidentemente
quei rimedi dovevano essere abbastanza efficienti se qualcuno si era
premurato di evitare che se ne venisse a conoscenza.
Non la infastidì più di
tanto essere privata di quella lettura, poiché non aveva
intenzione di andare a caccia di nessun vampiro, per il momento.
La prima menzionata era la stirpe dei Lennox e
come le aveva anticipato Sophie durante i suoi racconti i vampiri di
lignaggio Lennox vantavano una sfrenata passione per la cultura, che
coltivavano facilmente, grazie alla loro mente macchinosa e sempre ben
oleata, e insieme al perfezionismo più cronico; finivano
tutti per trasformarsi in una sorta di enciclopedia universale
deambulante e in continuo aggiornamento. A dispetto della credenza,
più o meno diffusa, che vuole una qualsiasi persona
maggiormente sviluppata o in intelletto o in fisicità, loro
eccellevano anche in quest’ultima.
Alla loro saggezza si contrapponeva la poca dei
Van Cleef, considerati pericolosi per la loro scarsa
affidabilità e diligenza. Non si facevano alcuno scrupolo a
dire, e a volte anche fare, tutto quel che gli passava per la testa,
senza essere in grado di discernere il bene dal male e confinati in un
perenne stato di malsana esaltazione.
Nel libro si narrava che la loro specie non era
nata con le altre, e che inizialmente si trattava di vampiri
appartenenti alle diverse altre stirpi, ma dotati di una
sensibilità superiore persino a quella dei loro stessi
simili, la quale con lo scorrere del tempo, tra guerre e catastrofi
varie, li aveva condotti alla pazzia. Quando poi avevano trasformato un
umano questi aveva ereditato, e così tramandato per secoli e
secoli, in modo a volte cronico, altre volte più lieve, quel
gene di follia nato sciaguratamente.
Per alcuni la convivenza non risultava poi tanto
difficile, erano addirittura ben inseriti nella società
delle varie sedi e la loro pazzia restava velata da
un’apparente incapacità di annoiarsi. Per altri
invece era stata necessaria l’istituzione di vere e proprie
“Strutture che potessero ospitarli”.
Evelyn si chiese quanti Van Cleef ci fossero a
Landry, mentre voltava pagina.
Il casato degli Hylton era sia una linea di
sangue che una casa nobiliare. I vampiri di questa stirpe erano
passionali, ancora legati alle gioie della vita umana e contraddistinti
da un’aura di affabilità. Non avevano nessun
talento in particolare, dato che era semplicemente impossibile trovare
qualcosa che non fossero in grado di fare.
Altra specie era quella dei Sievers, differente
dalle altre, alquanto impetuose e con qualche gene imperfetto che le
portava spesso al compimento di gesti sconsiderati, per la sua natura
piuttosto mite. Erano da sempre stati un pilastro portante della
società con la loro prontezza di spirito, che gli rendeva
facile calmare i bollenti spiriti e mantenere la pace.
Al di fuori della vita di città per
loro scelta e natura erano i Kochel, amanti della solitudine,
trascorrevano la loro esistenza con la sola compagnia di qualche
strumento musicale e di una quantità incalcolabile di carta
da riempire con spartiti, poesie e splendide rappresentazioni grafiche.
Dei Lustabader si diceva che non conoscessero vie
di mezzo e vivessero per estremi. Alcuni piombavano nella depressione
più nera e non se ne risollevavano più, altri
prendevano la vita con una spensieratezza invidiabile ed erano una
compagnia ricercata, per la loro giovialità e il loro
altruismo. Erano alla continua ricerca di avventure più o
meno serie, e non conoscevano la pigrizia. Non erano certo quel genere
di persone che affronta la vita in modo organizzato e meticoloso e
ricercavano i loro hobby nel mucchio dell’assurdo.
Per quanto riguardava i Von Schauenstein e i Van
Lier, era raro trovarli al di fuori delle sette dei Ribelli, che seppur
formate da vampiri appartenenti a tutte le linee di sangue, vantavano
tra le file dell’alta reggenza per la maggior parte
discendenti delle due specie summenzionate. I primi, di sangue blu e
pertanto volti al dominio, erano considerati pericolosi per la loro
capacità di destreggiarsi, con la spada e con le parole,
nelle faide che era loro unico scopo inaugurare. La loro forza
risiedeva nella capacità di plasmare dall’ombra
tutto ciò che poteva essere utile alla loro causa, esseri
animati compresi. I secondi invece potevano plasmare a loro piacimento
se stessi.
I Von Ziegesar venivano descritti come
preziosità della più raffinata furfanteria.
Scommesse, affari e ricatti erano il loro pane quotidiano, sempre che
non fossero troppo impegnati a dare prova della loro chiassosa
turbolenza.
A seguire lesse il cognome che suo padre William
le avrebbe dato se non fosse morto. I DeMordrey erano forse gli esseri
più carismatici in circolazione; avevano un talento per far
credere e fare a chiunque quel che volevano.
Tra i loro hobby figuravano la politica, intesa
senza alcun problema in termini sia democratici sia tirannici, e le
spedizioni di conquista funzionali alla stessa; il loro obiettivo
principale era comunque principalmente uno: riuscire. In tutto quel che
si mettevano in testa di fare.
Evelyn con un sorriso di ammirazione si
augurò di aver ereditato parecchio da suo padre e
affascinata da tutto quel che aveva letto rimase delusa vedendo che
girando pagina l’inizio di una nuova sezione dichiarava
conclusa la descrizione delle linee di sangue, non seppe se ne
esistessero di altre.
Nonostante volesse proseguire la sua lettura al
chiaro di luna, quest’ultimo era troppo lieve per illuminare
in modo considerevole e gli occhi le bruciavano per lo sforzo,
così si costrinse a chiudere il libro. Solo quando lo ripose
si accorse di essere infastidita, e più precisamente da una
sete bruciante.
Valutò per un momento l’idea
di vestirsi prima di mettersi in marcia verso la cucina, ma la sua
pigrizia la fece desistere e, dopo essersi avvolta nella vestaglia,
aprì la porta sperando di non imbattersi in nessuno, o
quantomeno non in tutta la combriccola al completo.
Fuori la tempesta imperversava, e tuoni e fulmini
la accompagnavano lungo il corridoio, con l’unico vantaggio
di fornire almeno un po’ di luce che la aiutò a
individuare le scale. Scendere fu più complicato,
poiché di sotto le tende delle finestre erano state serrate.
Nel salone regnava
l’oscurità più fitta. Evelyn non aveva
paura del buio, ma di fratturarsi un ginocchio sì, quindi
tese le mani mentre camminava.
Un rumore alle sue spalle la spinse ad affrettare
il passo, e nel frattempo cercò di richiamare a mente le
coordinate della porta e di azzeccarla… Ovviamente
l’unica cosa che centrò in pieno fu lo stipite in
piena faccia.
Si portò le mani al viso con un verso
isterico e si piegò su se stessa.
Al contempo una voce familiare le
fornì la consapevolezza che non si trattava della porta.
<< Ti sembra educato andartene in
giro a tamponare la gente nel cuore della notte? >>.
<< E a te sembra il caso di
startene impalato in mezzo ai piedi, Al? >>.
<< Posso anche tollerare Alex, ma
Al non voglio neanche sentirlo >>.
<< Neanch’io volevo
sentire la porta in faccia >>.
<< Oh Ev…
>> si arrese alla fine Alexander scoppiando a ridere e
scompigliandole i capelli in un gesto che doveva ritenere
d’affetto << Dovresti rallegrarti che non
andavi di corsa, sarebbe stato molto peggio >>
tentò di consolarla.
<< Mi rallegro da morire
>> rispose acida.
L’altro sbuffò e la
accompagnò in cucina, percependo la secchezza della sua gola
e il suo pessimo umore da carenza di riposo.
Quando si accomodò sullo sgabello
rialzato, stupendosi di trovare all’altro lato del tavolo
Karl e Harvey piuttosto che Dalia, Alexander le pose davanti un calice
e le versò l’acqua con le movenze di un impiegato
in un ristorante di lusso.
Il profumo dolce dello zucchero caramellato
risollevò di un bel po’ il suo umore.
<< Spuntino di mezzanotte?
>> chiese con un mezzo sorriso di stupore rivolta a
Harvey, che si baloccava con mestoli e padelle varie
nell’intento di servire probabilmente un dolce dalla
preparazione complicata.
<< In realtà non abbiamo
fame, è una scommessa >> rispose una voce
allegra alle sue spalle.
Quando si voltò, incontrò
il sorriso semipermanente di Christopher, che si affrettò ad
aggiungere << Faresti da giudice? >>.
Dopo un’ora buona, trascorsa tra
chiacchiere e a osservare il novello cuoco che faceva saltare
l’impasto in cottura dalla padella, fu decretata la vittoria
di Harvey e la sazietà di Evelyn, che non poté
fare a meno di complimentarsi e fargli promettere che avrebbe di nuovo
cucinato per lei.
<< Noi hai ancora sonno, Ev?
>> disse Karl mentre abbandonava il suo posto a sedere.
<< In verità no
>>.
<< Perché non ci
accompagni allora? >> le propose con un sorriso.
<< Volentieri. Dove?
>> accettò senza pensarci.
<< Vedrai… Ti piacciono
i cani? >>.
Le diedero cinque minuti per vestirsi, poi
uscirono nel freddo della notte. Pioveva ancora e fu costretta a
sollevarsi il cappuccio del cappotto, ma mettere piede fuori fu come
risalire a galla dopo un’apnea troppo lunga.
<< Milady >>
esordì Alexander con un sorriso e dandole le spalle.
<< Andiamo a piedi?
>> chiese, esitando.
<< Beh, tu no >>
rispose con un sorriso divertito che Evelyn intuì, anche se
non riusciva a vederlo.
Partì non appena si fu accomodata con
le braccia attorno al suo collo e per un momento lei credette di cadere
nel vuoto, quando era stato Riley a portarla aveva tenuto gli occhi
chiusi ed era stata troppo spaventata e confusa per apprezzare la
traversata, adesso osservava il bosco sfrecciarle attorno e si godeva
l’aria congelata che le sferzava il viso, mentre le gocce di
pioggia quasi non li sfioravano.
Non ci volle molto per dare inizio alla
competizione, e i quattro vampiri, con un sorriso stampato in faccia,
si esibirono in acrobazie assolutamente al di fuori dei limiti umani.
Di fronte all’ostacolo di un dirupo
nessuno ci pensò due volte a spiccare un balzo per
raggiungere direttamente l’altra parte del bosco senza
perdere tempo a scendere a risalire di corsa, ma mentre gli altri
saltavano Evelyn si avvicinò al viso di Alexander,
<< Sull’albero >> gli
sussurrò velocemente, sorridendo. Quello la tenne
più stretta mentre accogliendo il suggerimento saltava
lateralmente contro un tronco altissimo e facendo leva atterrava
davanti a tutti gli altri, passando in vantaggio.
Evelyn non si era mai sentita tanto viva in tutta
la sua esistenza. Dopotutto che cosa poteva fare una Mezzosangue in una
banalissima città come Aberdeen?
Alla fine a vincere la gara fu Karl, annientando
il vantaggio degli altri spiccando un balzo, dopo essere salito senza
alcuna difficoltà sulla guglia più alta di uno
dei primi edifici che davano inizio alla città.
Evelyn si stiracchiò non appena mise
piede a terra, poi seguì gli altri attraverso i vicoli, con
gli stivali che s’inzuppavano nelle pozzanghere, retaggio
della pioggia ormai cessata.
Bastò oltrepassare le prime vie
deserte perché lo stupore la cogliesse tanto da schiudere la
bocca con un sospiro e fermarsi.
Landry, quella desertica e apparentemente
abbandonata, o al massimo riempita da una decina di anime per le
strade, che aveva conosciuto nelle sue poche visite fino a quel
momento, adesso era semplicemente tanto affollata che camminare senza
sfiorare le spalle della gente era impossibile.
In una vasta piazza circondata dalla pietra delle
sue costruzioni antiche, uomini di mezza età e giovani
piacenti, donne dai sorrisi maliziosi o gioviali, capannelli di gente
dai quali si levavano grida e risate, ragazze a braccetto, mucchi di
persone osservanti qualcosa che con tutta quella folla Evelyn non
riusciva a distinguere, altri che se ne stavano seduti ai tavoli delle
osterie o si spostavano da una parte all’altra in
un’apparente gesto di fretta, si confondevano in un miscuglio
di voci e abiti d’altri tempi.
C’era vita in quel luogo, e le sue
trame s’intrecciavano fitte, creando storie e avvenimenti che
avrebbero lasciato qualcosa nel tempo e nelle troppo lunghe esistenze
degli abitanti di quel posto, se ne accorgeva solo in
quell’istante.
<< Benvenuta a Landry
>> le disse Harvey avvicinandosi quanto bastava
perché lei potesse sentirlo.
<< La vera Landry
>> proseguì Christopher apparendole di fianco.
<< Quella che da secoli non ha
alcun bisogno di trovare un rimedio alla monotonia…
>> aggiunse Karl.
<< Perché la monotonia
qui… Non esiste >> concluse Alexander, mentre
tutti si voltavano a osservare estasiati quello spettacolo centenario.
<< Ragazzi! >>
gridò una voce accogliente dietro di loro.
<< Vincent! >> lo
chiamò Karl stringendogli con vigore il braccio
all’altezza del gomito mentre quello faceva lo stesso, in un
saluto tutto maschile.
Quando ebbe salutato anche gli altri,
quell’uomo alto e bruno si accorse di lei e la
omaggiò con un aggraziatissimo baciamano.
<< E’ un onore
conoscervi, finalmente. Avete qualcosa di vostro padre, ma non saprei
dire cosa >>.
Evelyn si limitò a sfoderare uno dei
suoi sorrisi migliori, e giudicando dall’espressione del
destinatario dovette riuscirle piuttosto bene.
<< Che abbiamo qui?
>> intervenne Harvey, avanzando verso il mucchio di gente
dal quale Vincent si era distaccato.
Gli altri fecero lo stesso e Alexander le cinse
la vita per invitarla a seguirli. Una volta giunta in
prossimità del muro Evelyn lesse nella sua parte finale la
denominazione Piazza dell’Accademia. Poi, lanciato un ultimo
sguardo al posto del quale adesso conosceva il nome, abbassò
gli occhi su un pezzo di carta abbastanza grande steso su un tavolo di
pietra, attorno al quale si accalcavano tutti.
<< Niente di che, la solita
ciurmaglia di turisti accampati nei boschi. Non li hanno ancora
attaccati ma lo faranno presto ovviamente, stiamo valutando il percorso
che potrebbero seguire, per fermarli in tempo…
>> spiegava Vincent.
<< Serve una mano? >>
chiesero i suoi accompagnatori, più per cortesia che come
proposta, giacché lì attorno si appropinquavano
già una ventina di uomini; difatti quello come unica
risposta rise.
<< Buon divertimento allora,
rendete Riley fiero di noi >> li salutò con un
sorriso Alexander.
Quell’ultima uscita le
cancellò momentaneamente il sorriso dalle labbra.
Solitamente doveva essere lui a coordinare ogni operazione, ed era
ciò che facevano da anni, impedire a due realtà
troppo distanti di incontrarsi, o meglio, di scontrarsi, anche se non
era difficile prevedere quale delle due avrebbe avuto la meglio.
<< Quindi la meta era questa?
>> chiese Evelyn mentre tentavano di avanzare tra la
folla.
<< No, purtroppo. Qualcosa di
notevolmente meno divertente piuttosto >> rispose Harvey,
che doveva essere un amante della vita mondana.
Gli altri ridacchiarono, ma tentarono di
nasconderlo.
La ragazza si disse che creare la suspense era
prerogativa dei vampiri, e si rassegnò a non chiedere altro.
Durante il tragitto incontrarono altre
conoscenze, si fermarono e le presentarono volti nuovi e alcuni che
aveva già intravisto di passaggio a casa di sua zia.
Dopo aver percorso un paio di stradine
più defilate e meno affollate, giunsero a uno slargo che
s’intuiva appena dalla loro posizione sottostante, al quale
si accedeva tramite una scalinata che aveva tutto l’aspetto
di essere sfiancante. Una volta in cima però si
rivelò essere meno stancante di quanto si potesse pensare.
Lo spiazzo era in sostanza vuoto, eccezion fatta
per l’enorme edificio che si stagliava contro il blu del
cielo notturno, già a tratti colorato dall’alba
incombente.
Proprio mentre sollevava il viso ad ammirare il
cielo, un ululato non troppo lontano la fece sobbalzare.
<< Andiamo >> la
riscosse Christopher ancora vicino, mentre gli altri si erano
già avviati verso la casa.
<< Che posto è?
>> sussurrò, avvicinandosi alla scalinata
senza una precisa ragione.
Una volta giunta in prossimità del
baratro lo spettacolo le tolse il fiato. In realtà quel
punto era ancor più sopraelevato di come appariva, e da
lì era possibile abbracciare con lo sguardo
l’intera città, il bosco e persino la costa in
lontananza. La prima appariva come un guazzabuglio di colori, tra il
nero degli edifici e i colori delle torce infuocate e degli abiti della
folla. Lasciando vagare lo sguardo poi, esattamente tra la costa e il
fitto del bosco, attorniata da pochi alberi, non poteva non notarsi
un’enorme costruzione di pietra scurissima e alta fin quasi
ad affiancare illusoriamente la luna.
<< Questa è casa di
Riley, e quello – Christopher indicò la torre che
lei stava già osservando – è il luogo
in cui lui si trova adesso. La chiamano la Reggia, ma non credo sia poi
molto appropriato… Adesso entriamo >>.
Evelyn si soffermò sul profilo della
Reggia, la percorse con lo sguardo dalla cima alla sua porzione
più bassa, poi si scollò di malavoglia e
seguì Christopher dentro casa.
L’interno era arredato come tutte le
case di Landry, secondo la moda di un tempo dimenticato, e sapeva di
solitudine. Riley doveva vivere da solo, in quella casa innalzata,
adatta al suo ruolo.
Si rese conto che attraversando qualche corridoio
erano giunti in un salone appartato, e adesso Karl armeggiava con una
porta che probabilmente dava su un giardino. Persa nei suoi pensieri,
non si era ancora accorta del rumore persistente che le riempiva le
orecchie e quando si riscosse si stupì di risentire
l’ululato che prima aveva creduto di immaginare.
<< Perché deve sempre
fare tutto questo bordello? >> esclamò Harvey
poco raffinatamente.
Alexander scoppiò a ridere
<< Perché sei arrivato tu >>.
<< Mi odia >>
sibilò quello, sbuffando.
<< Pronti? >> li
richiamò Karl.
<< Allontanati un po’ Ev
>>.
Evelyn obbedì e quando Karl
spalancò la porta ne sfrecciarono fuori tre esserini pelosi,
che per essere degli esserini se si fossero sollevati sulle zampe
posteriori l’avrebbero superata in altezza di qualche
centimetro; fortunatamente furono prontamente afferrati prima che
potessero assalirla o distruggere la casa, dato il modo in cui si
dimenavano tra le braccia dei vampiri.
<< Dannazione Brak! Sta buono!
>> urlò Harvey al meticcio che continuava ad
abbaiare e tentare di afferrargli la giacca con i denti.
Gli altri due parevano essersi calmati, smorzato
l’entusiasmo della ritrovata libertà, e adesso
scodinzolavano attorno a Karl, che li lasciò dentro per
recarsi in giardino.
<< Hai ragione Harvey, ti odia
>> se la rideva Christopher, mentre Alexander correva a
liberarlo.
Evelyn s’inginocchiò e tese
il polso scoperto dalla manica per farsi annusare. Ad avvicinarsi di
corsa fu proprio l’assalitore di Harvey, che dopo averla
odorata a dovere si gettò per terra pancia
all’aria, e lei non si fece pregare per accarezzarlo.
<< Mentre Riley non
c’è dobbiamo prenderci cura di loro, ma
è sfiancante, sono troppo attivi >>.
<< Sono un amore >>
controbatté lei, accarezzando anche gli altri due meticci
che si erano avvicinati.
Harvey alzò gli occhi al cielo e
sorrise.
Quando Alexander e Christopher, che si erano
allontanati senza che lei se ne accorgesse, fecero ritorno con le loro
ciotole colme di carne i tre li seguirono in giardino, e
così Evelyn.
Una volta fuori si avviò verso Karl, e
solo quando gli fu vicina scoprì che in realtà in
cani non erano solo tre. Il quarto se ne stava abbandonato a terra, con
la grossa testa tra le zampe anteriori divaricate, le orecchie basse e
gli occhi socchiusi, e non sembrava aver voglia di alzarsi.
<< E’ triste. Non si alza
quasi mai se non per esigenze fisiologiche, si rifiuta di
mangiare… >> spiegò il ragazzo.
Prima che lei potesse dire qualcosa, giunse da
non troppo lontano il grido di Alexander << Ti ho detto
che devi tenerlo! Idiota! >>.
<< Facile a dirsi, prova tu!
>> rispose Harvey.
Karl alzò gli occhi al cielo
<< Scusami >> disse prima di andare a dare
manforte con Brak l’iperattivo.
Evelyn si sedette a gambe incrociate di fronte
alla bestiola che le stava davanti senza degnarla della minima
considerazione e fece affondare la mano nelle pelliccia morbida della
sua testa.
<< Anch’io sono triste
>> gli sussurrò.
Quello non diede segno di aver sentito.
<< E mi dispiace, è
stata colpa mia >>.
Allora quello sollevò la testa come a
voler dire Allora
perché non fai qualcosa per rimediare? Rivoglio il mio
padrone.
A Evelyn si strinse il cuore << Io
non so cosa… >> iniziò a dire, ma
poi scosse la testa e tacque.
Improvvisamente il cane si alzò e dopo
aver mosso qualche passo iniziò a ululare, sempre
più furiosamente.
<< Che gli prende? >>
chiese Karl avvicinandosi.
<< Non ne ho idea, un attimo fa era
tranquillo >> balbettò la ragazza.
Nonostante non avesse mai avuto paura dei cani,
le sfuggì un gemito quando una mandibola forzuta le
afferrò la stoffa dei pantaloni e prese a tirarla verso il
limitare del giardino recintato e confinante col bosco.
Karl fu rapido a liberarla e Alexander
decretò che era meglio andare.
Evelyn salutò le bestiole con
un’ultima carezza, eccezion fatta per quello che Karl stava
ancora trattenendo. A lui rivolse solo un ultimo sguardo, e in quello
che le restituì le sembrò di cogliere un
messaggio silenzioso che non riuscì a decifrare.
Vide solo che si voltava di nuovo verso il bosco
e continuava ad abbaiare mentre la porta si chiudeva.
Quando furono fuori i quattro si incamminarono
subito verso le scale, ma Evelyn tentò di fermarli
<< Non possiamo passare per il bosco? >>.
<< Perché?
>>.
Si limitò ad alzare le spalle e quasi
non ci credette quando Alexander acconsentì e fece
dietrofront.
Una lieve pioggerella aveva ripreso a cadere, e
la boscaglia profumava di terra bagnata.
Proseguirono per un bel po’ in tutta
tranquillità, poi accadde all’improvviso. Qualcosa
di troppo veloce perché lei potesse distinguerlo
piombò addosso a Christopher e lo scaraventò per
terra. Harvey lo raggiunse fulmineo e tentò di liberarlo, ma
anche lui fu scagliato contro un tronco distante con una tale violenza
da produrre un fracasso tremendo.
Con una velocità inaudita una decina
di uomini sbucò praticamente dal nulla, e altrettanto
velocemente si scagliarono verso di loro.
<< Portala via! >>
urlò Karl, mentre Alexander già la sollevava e
iniziava a correre.
<< Non lasciarli! Io vado da sola!
>> cercò di opporsi Evelyn.
<< Sei impazzita? >>.
Si erano già allontanati di parecchi
metri e il suo unico pensiero era quello di tornare indietro. Certo
sarebbe stata sicuramente una tragedia, ma sicuramente meno peggiore di
un rimpianto.
In quello stesso istante un urlo disumano
proveniente dal luogo che avevano appena lasciato sovrastò
ogni altro rumore.
Evelyn sentiva il suo cuore sul punto di
sfondarle la gabbia toracica, e il sangue pompato in eccesso
riscaldarle le membra.
<< Alexander, ascoltami!
>> gridò con quanto fiato aveva in gola.
Quello s’immobilizzò e la
fece scendere con malagrazia, poi la guardò in modo
indecifrabile, quasi adirato.
<< Non posso accettare che qualcun
altro passi guai a causa mia, torniamo indietro! >>.
L’altro sembrava a quel punto ormai
arreso e insieme iniziarono a correre dalla parte opposta a quella in
cui si erano lanciati poco prima.
Ci volle poco per raggiungere gli altri, e quando
arrivarono quel che vide non le piacque per niente.
Riusciva a distinguere Karl solo ed
esclusivamente per il colore della sua capigliatura che risaltava nel
buio, ma si muoveva tanto velocemente da essere quasi invisibile, alle
prese con tre tizi che potevano competere con lui in quanto a forza
fisica.
Christopher doveva aver sottratto a uno degli
avversari una spada, che adesso brandiva con maestria e, anche se
Evelyn per la situazione in cui si trovavano stentò a
crederci, anche un po’ di esibizionismo.
Harvey era a terra, sovrastato da un tizio che
gli puntava un pugnale dritto al cuore, e cercava di difendersi
bloccandogli il polso.
Altri dieci uomini vestiti di nero avanzavano
velocemente verso di loro, mentre circa sette, abbandonati sulla terra
umida, non sembravano dare segni di vita.
<< Va ad aiutarli >>
sussurrò Evelyn ad Alexander, che un minuto prima era fermo
accanto a lei e quello dopo già aveva atterrato uno dei
nemici.
Osservando la scena si sentiva tremendamente
impotente, e a pensare che l’idea di passare per il bosco era
stata sua sentiva montare una rabbia ardente come fuoco.
Una volta sua nonna aveva detto che era stata una
disgrazia per la loro famiglia, e lei non aveva mai compreso se si
fosse riferita alla morte dei suoi genitori o alla sua stessa nascita.
Adesso avrebbe optato per la seconda opzione.
Andava bene quando era lei a cacciarsi nei guai,
ma non se a finirci a causa sua erano le persone a cui teneva.
Era ancora immobile, ancora una volta senza
sapere cosa fare, quando seguendo il suono di una spaccatura,
incontrò la smorfia di dolore si Alexander.
No,
fu tutto quello che pensò.
In lontananza un ululato familiare si levava
nella notte, mentre un’altra decina di uomini irrompeva nella
radura.
No,
continuava a ripetersi, scuotendo la testa.
Non aveva voce per gridare e le gambe non
rispondevano ai comandi, come in un incubo.
Un uomo sovrastava Alexander, e aveva sollevato
la lama, pronto ad affondargliela nel petto.
Evelyn,
Evelyn… Non sei una vigliacca. Non te ne stai a guardare
qualcuno che muore, senza far nulla. Non sei tu.
Davvero non era lei.
Non era da lei lasciarsi impressionare.
Se si metteva in testa di fare qualcosa non
c’era niente che potesse spaventarla. Se qualcuno rischiava
la vita non aveva paura di salvarlo. Era una DeMordrey, una
Mezzosangue, e qualunque altra cosa, ma non era quello che aveva
importanza… Umana o no, non poteva essersi trasformata in
una codarda. Non avrebbe lasciato qualcosa di bello sgretolarsi tra le
sue mani ancora una volta.
<< No >>
sibilò, serrando i pugni.
La paura era improvvisamente sparita del tutto,
fuggita chissà dove.
Era tornata lei, quella vera, finalmente.
<< Fermi >>
proseguì muovendo qualche passo.
La debole Evelyn che ha aveva bisogno di essere
protetta adesso aveva ceduto il passo a quella che per anni aveva
arrancato da sola in una vita difficile, che tuttavia aveva fatto di
lei quel che era, non di certo una ragazza qualunque.
Quel
che non uccide fortifica, disse qualcuno una volta; e
doveva avere ragione.
Evelyn desiderò semplicemente che le
cose almeno per una volta andassero per il verso giusto, arrabbiata
come lo era stata tante di quelle volte in vita sua che ormai
considerava quel sentimento un caro vecchio amico.
Il tempo parve davvero fermarsi, come in sogno.
Ogni singola arma cadde di mano a chi la brandiva, ogni combattimento
cessò all’istante.
Si sentì come svuotata, come se stesse
osservando la scena da lontano, mentre in un bosco una ragazza
comandava e gli uomini attorno a lei eseguivano.
Non ricordava che fosse così facile.
Se avesse saputo che bastava solo arrabbiarsi e usare qualche
imperativo…
Solo uno si azzardò a parlare
<< Aveva ragione Cedric >>.
Il chiasso era intollerabile al punto che gli
astanti al tavolo erano costretti a gridare per sentirsi a vicenda, o
almeno perché potesse sentirli anche lei.
Il profumo delle spezie sulla carne permeava
l’aria e il calore sprigionato dalle fiamme crepitanti nel
gigantesco camino la rendeva pesante.
Alla fine gli assalitori si erano rivelati gli
stessi che si erano messi sulle tracce dei turisti, e che una volta nel
bosco avevano preferito una mensa più frugale ma forse
più gustosa, anche se Evelyn non era certa che il suo sangue
potesse essere migliore di qualche allegro vacanziere.
Vincent e i suoi ci avevano messo poco a trovarli.
Adesso avevano portato via gli aggressori, e le
cinque vittime erano finalmente libere di tirare un sospiro di sollievo
e di rilassarsi al tavolo di un’osteria gremita di gente.
In realtà quando erano arrivati nessun
tavolo era disponibile, ma l’oste aveva fatto sloggiare
cinque poveri ragazzi da un tavolo, dicendo che per Evelyn DeMordrey un
tavolo c’era sempre.
Fantastico. Da disgrazia ambulante a eroina del
momento.
Le voci giravano troppo in fretta de quelle parti.
<< Ahia! >>
esclamò Alexander quando Evelyn strinse con forza la benda
attorno al suo bicipite.
<< Smettila di frignare
>> lo rimproverò l’infermiera
tirannica.
<< Disse
l’ipocondriaca… >>.
Evelyn strinse più forte e quello
gemette di nuovo, accompagnato dalle risate degli altri.
<< Ev, posso chiederti un favore?
>>.
<< Di stringere meno?
>>.
<< No. Di non tentare
più di assoggettarmi, è orribile >>.
<< Oh, Alex! Non l’ho
fatto di proposito >> si scusò, sinceramente
rammaricata.
<< Ma certo, lo so…
>> le sorrise.
<< Beh in fondo tutto questo
è stata una fortuna… E’ tutto risolto,
sei dei nostri, a tutti gli effetti >> intervenne
Christopher, esaltato all’idea che la sua super squadra
potesse allargarsi.
Evelyn non sapeva quanto di diverso da una
semplice umana ci fosse in lei, ma non le interessava più di
tanto. Era sempre lei, imbranata e agile al tempo stesso. Il caso raro.
I suoi quattro accompagnatori decretarono che non
si sarebbero mossi di lì finché lei non avesse
mangiato qualcosa, perennemente convinti della sua fame inesistente.
Uscirono dall’osteria che era quasi
l’alba.
Nella sua testa ronzava il pensiero di quel che
avrebbe detto sua zia della sua ennesima disavventura. Probabilmente
non le avrebbe più lasciato mettere piede in un bosco. Era
comunque troppo stanca e assonnata per pensare seriamente a qualcosa, e
si addormentò poco dopo aver lasciato al città,
quando Karl la sollevò tra le braccia.
Uno stralcio di cielo era appena visibile dalla
finestra stretta e alta che continuava a gocciolare acqua, il che
rendeva l’ambiente più umido del solito.
Per un istante appena aveva avuto la sensazione
che lei fosse lì a guardarlo. Forse stava impazzendo,
dopotutto capita ai carcerati.
Durante tutto quel tempo aveva pensato a lei
più di quanto avesse dovuto, per lo stesso motivo che
l’aveva spinto a dirle la verità troppo presto, e
che non voleva ammettere nemmeno con se stesso.
Non sapeva quale fosse stata la causa scatenante;
se i suoi sorrisi troppo rari, le sue risposte taglienti, o
semplicemente il suo adorabile caratteraccio, ma non aveva importanza.
Adesso era tormentato dall’idea che lei
potesse essere arrabbiata con se stessa, credendo di essere colpevole.
O che gli altri non fossero in gradi di proteggerla come lui.
Sì, forse era inevitabile che
impazzisse.
Sorrise pensando che se fosse stata lì
avrebbe tirato fuori una frase della serie “Non
può rompersi qualcosa che è già
rotto”.
Non si preoccupava per se stesso; si fidava di
lei e la conosceva a tal punto che se si fosse messa in testa di
tirarlo fuori di lì, Mezzosangue o no, qualcosa si sarebbe
inventata. E dopo il modo in cui lo aveva stretto un attimo prima di
spingerlo via qualcosa doveva pur importarle.
E anche se così non fosse stato, poco
male.
Certo avrebbe passato
l’eternità in quel buco o sarebbe morto, ma
almeno, anche se lei non lo sapeva ancora, avrebbe portato con
sé il cuore di lei.
Che
idea stupida, pensò sorridendo amaramente.
Nell’evenienza che Evelyn riuscisse
davvero a tirarlo fuori di lì, essendo impossibilitati a
ucciderlo, dovevano comunque trovare il modo di dargli una lezione, e
non si sarebbero certo lasciati sfuggire l’occasione di
maltrattare il capo dei Custodi.
Gli squarci della frusta sulla sua schiena
risalivano al giorno in cui aveva messo piede lì dentro, ma
erano stati accuratamente ravvivati quella mattina.
Quando la porta di ferro si aprì con
un rumore assordante, la luce gli ferì gli occhi, e fu certo
che lo stanzino delle torture lì accanto lo attendesse di
nuovo.
A comparire sulla soglia non fu tuttavia la
solita guardia, bensì uno dell’alta dirigenza,
scortato da sei uomini armati fino ai denti, che esitò un
attimo prima di parlare, temendo le conseguenze di quel che
inevitabilmente doveva dire. Doveva essere uno che aveva combinato
qualche casino, e di cui volevano liberarsi, se lo mandavano
lì in quel momento.
<< Riley Nathaniel Hylton,
l’accusa di tradimento… E’ ritirata
>>.
Il protocollo stabiliva una formula molto
più complessa, ma quello non continuò.
Probabilmente valutando l’idea di darsela a gambe o di
provare a fronteggiare la furia di chi aveva dovuto sopportare per
giorni un trattamento decisamente poco consono alla sua persona.
Avrebbe fatto meglio a selezionare la prima
scelta.
A svegliarla furono le note di musica classica
provenienti dal piano terra, dove qualcuno doveva aver trasportato il
pianoforte della stanza in fondo al corridoio per esibirsi.
Si mise a sedere sul letto e aprì gli
occhi per bene, stranamente poco infastidita dal risveglio mattutino e
desiderosa di alzarsi.
Le servì solo mezz’ora per
lavarsi e vestirsi, dopodiché corse a spalancare le
tende… Pioveva. Sorrise e aprì anche la finestra.
L’ondata di freddo che la investì la fece pentire
all’istante, eppure non si era accorta che ci fosse tanto
vento da poterle smuovere i capelli attorno al viso. Pensò
che fosse meglio richiudere, ma quando fece per riavvicinarsi alla
finestra si sentì afferrare delicatamente per i fianchi da
dietro, e avvertì labbra che altrettanto dolcemente si
posavano sulle sue.
Con la testa lievemente rovesciata
all’indietro risalì con la mano a sfiorare quella
guancia che non le sembrava vera, ma quel profumo era troppo nitido e
quelle labbra troppo tangibili per essere solo un’illusione.
Salve a tutti! :)
Mi scuso innanzitutto se i miei tempi di
aggiornamento stanno diventando più lunghi, ma adesso che la
storia entra nel vivo voglio fare le cose per bene (o almeno ci provo).
Come sempre ringrazio tutti voi che leggete, chi
ha inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate e
soprattutto chi mi ha dato un parere, Aly BlackAngel e gio_lesa, grazie
di cuore per i vostri complimenti.
Che altro dire? S. il tuo Riley è
tornato! Grazie anche a te che mi sopporti.
Vi lascio con la speranza di aggiornare prima
possibile e di non deludervi.
A presto, Ell :)
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Capitolo 24 *** Sogni e incubi ***
28.
Sogni e incubi
Il sole doveva essere appena sorto,
perché lei poteva avvertirne, seppur sovrastata dalla
lattescenza della nebbia, la pallidissima luce sulle palpebre abbassate
a voler catturare un istante per far sì che durasse per
sempre; o forse era ancora buio, e il calore che avvertiva era di
tutt’altra provenienza.
Le mani di Riley s’insinuavano tra i
suoi capelli e le carezzavano lentamente la schiena, mentre lei si
convinceva, senza alcuna ombra di dispiacere, che fosse fermamente
deciso a non lasciarla più andare. La sua bocca era sulla
sua, e tra un sorriso di malizia e un sospiro di desiderio Riley si
muoveva con l’unica intenzione di prendersi tutto
ciò di cui era stato privato in quei giorni di lontananza.
Nell’attesa che il momento in cui
avrebbe riavuto Riley arrivasse Evelyn lo aveva immaginato mille volte,
ma di queste nemmeno una era anche lontanamente simile al presente che
stava vivendo, tale da renderla incredula e felice allo stesso tempo,
non riusciva a fare altro se non stringerlo a sé, finalmente
conscia che il solo averlo accanto ridestasse in lei tutte le emozioni
che per anni aveva creduto di sopire, mentre in realtà era
tutto quel che la circondava a sopprimerle ancor prima che potessero
nascere in lei.
Riley scostò le labbra dalle sue per
impiegarle sul suo collo, soffocandovi sopra una risata di stupore,
effettivamente estasiato dalla sua inaspettata collaborazione. Aveva
progettato un bacio a tradimento, l’aveva necessariamente
presa alle spalle, ma poi lei si era voltata e gli aveva dimostrato con
passione tutto ciò che non riusciva a dirgli con la voce.
Perché se anche si era convinta che la sua ostinazione e il
suo orgoglio sarebbero stati niente in quel momento, e se anche
così era stato, non aveva la benché minima voglia
di porre fine con delle belle parole a quel gioco di mentiti litigi che
era iniziato dal primo momento che i loro sguardi si erano scontrati, e
che era quel che la obbligava a desiderarlo in un modo che non si
sarebbe mai nemmeno sognata, prima che la trasformasse dalla persona
che s’imponeva di essere a quella che veramente era.
Riley cominciò a discendere con le
carezze delle sue mani lungo il profilo dei suoi fianchi e poi delle
gambe, sul tessuto dei pantaloni che adesso appariva fin troppo leggero
sotto il suo tocco, abbandonando anche il suo collo con le labbra per
posarle più giù, strappandole un sospiro.
Quando, dopo una deliziosa agonia che parve
durare un secolo, le sue carezze raggiunsero l’incavo del suo
ginocchio la sollevò alzando un angolo delle labbra in uno
dei suoi sorrisi che tanto le erano mancati, e spingendola a sedere su
una qualche superficie che in quel momento lei non era in grado di
identificare si fece più vicino, imprigionandola con le
braccia e tornando a dedicarsi con veemenza alle sue labbra.
Quando quel contatto divenne tanto appassionato
da spingerla ad aggrapparsi alle sue spalle con forza, il gemito che
gli sfuggì li riscosse entrambi.
Riuscita a distanziarsi abbastanza, la vista
della lieve contrazione dei lineamenti perfetti del suo viso la indusse
alla costatazione di avergli inflitto l’ennesimo dolore,
fisico o morale che fosse, e il sussurro le sfuggì
irreversibilmente colmo della preoccupazione che non voleva
dimostrargli, accompagnato dalle sue mani pallide e delicate che si
posavano, altrettanto inconsapevolmente, tra i suoi capelli dorati e
sulla sua guancia.
<< Riley >>.
Certo non si aspettava che tornasse intatto e in
ferrea salute, ma l’espressione era tornata quella di sempre,
e anche il suo viso non mostrava il minimo cambiamento, notò
Evelyn con sollievo.
Lui puntò in quelli di lei i suoi
occhi, luminosi anche se socchiusi, palesando la sfida.
Evelyn calcolò nel consueto tempo
necessario a lasciar intendere di non aver calcolato nulla, poi
anziché limitarsi a sorprenderlo, si decise arditamente a
sconvolgerlo.
<< Mi sei mancato >>.
Gli sorrise a un soffio dalle labbra, poi le
baciò con una tale audacia da comunicargli ogni goccia della
sua felicità di riaverlo e della sua paura durante la sua
assenza.
Quando lui riuscì miracolosamente a
recuperare una sufficiente quantità di forza di
volontà da arrivare a liberarla dal suo tocco dolce e
prepotente, si decise a parlare, lasciandole sfuggire un sorriso che
lei prontamente mascherò mordendosi le labbra, in un gesto
che gli avrebbe fatto desiderare solo di riprenderne pieno possesso.
<< Vedo >> disse,
lasciando trapelare tutto il suo stupore, << anche tu
>> aggiunse poi con accortezza, un attimo prima di
sollevarla di nuovo e sfiorarle un’ultima volta le labbra
prima di allontanarsi.
Evelyn non comprese quel gesto improvviso,
assurdo per lui che sembrava desiderare soltanto di averla il
più vicino possibile in ogni istante, finché la
porta non si schiuse.
Benedisse l’impareggiabile udito di
Riley quando sbucò nella stanza l’intera
ciurmaglia dei suoi compari.
Tra abbracci e saluti, cercò di
scansarsi come meglio poteva, all’inizio senza ben
comprendere l’improvviso e accelerato battito del suo cuore.
Le ci volle qualche secondo per accorgersi che in quella casa enorme e
inondata dai suoi amici centenari, Riley aveva pensato a lei per prima,
riservandole un saluto che chiunque altro al mondo probabilmente poteva
semplicemente bramare senza mai sognarsi di avere.
Quando accanto a quel gesto nella sua mente
presero forma epiteti come tenero o adorabile, fece una smorfia
talmente evidente che quando vide ridere solo Sophie
ringraziò il cielo per la momentanea distrazione di tutti
gli altri.
Quella si avvicinò sorridendo.
<< E’ sempre così >>
disse con noncuranza.
<< Vuoi dire che era già
successo? >> esclamò Evelyn, abbassando
inutilmente il tono ancora non del tutto saldo della voce subito dopo
aver aperto bocca.
<< Vuoi scherzare! Che cosa
credevi? Riley è una testa calda, in un modo o
nell’altro finisce sempre in qualche situazione
sconveniente… Se la cava sempre però, e ancora
c’è qualcuno che non riesce a stabilire se sia un
bene o un male >>.
<< Che si cacci sempre in qualche
situazione sconveniente? >>.
<< No, che se la cavi sempre
>>.
Con tutta la confusione che regnava in quella
casa notevolmente troppo affollata di menti malfunzionanti, Evelyn non
era ancora riuscita a scoprire quale fosse la geniale fonte di quella
disonesta idea. Fatto sta che si ritrovava tra le ante spalancate del
suo armadio, fermamente convinta di non riuscire a scegliere cosa
indossare, con Sophie, già vestita e acconciata di tutto
punto, che deambulava per la stanza trasportando abiti elegantissimi e
gioielli di vario tipo, Rose già pronta per mettere le mani
sui suoi capelli, e Dalia a imbarcare dalla porta
un’aggiuntiva quantità di scatoli contenenti
calzature e sottovesti, il tutto mentre sua zia Josephine, anche lei
già pronta, si lamentava del tempo troppo piovoso di quella
mattinata e dal piano sottostante giungevano le intonazioni corali di
“It’s Raining Men”, giusto per
sottolineare qualcosa di estremamente ovvio e il cattivo umore di sua
zia, improvvisamente desiderosa di un caldo sole splendente, come se
non avesse trascorso gran parte della sua esistenza nella letteralmente
e figurativamente burrascosa Landry.
Esattamente quando la sua crisi isterica stava
per deflagrare, si ritrovò avvolta in uno strettissimo e
meraviglioso corsetto ricamato, e quasi inciampò nella lunga
parte sottostante dell’abito, che consisteva in
un’ampia gonna, anch’essa impreziosita da pizzi e
merletti.
In casa Mcgrath le feste di bentornato erano
frequenti sì, ma non avevano nulla a che vedere con quella
che si prospettava nel grande salone addobbato lussuosamente la quale
soglia Evelyn aveva appena oltrepassato.
Ad Aberdeen aveva sempre trascorso parte delle
feste tra gli scarti dei ritagli degli striscioni d’auguri,
che i suoi familiari sostenevano essere più sinceri se
realizzati a mano, chissà perché quasi sempre con
le sue di mani. Doveva possedere una creatività non
manifesta di cui non si era mai resa conto, o più
realisticamente era l’unica in famiglia a tollerare con
pazienza ore trascorse maneggiando forbici e carta velina.
Per questo motivo le ci volle un po’
prima di abituarsi al rumore dei suoi tacchi e della stoffa del lungo
vestito che frusciava sul marmo del pavimento, alle occhiate incantate
che si posavano su di lei, a non affondare troppo le unghie nella
manica che avvolgeva il braccio di Riley, che la accompagnava con una
tale disinvoltura che lasciava credere che avessero visitato insieme
altri mille saloni in festa prima di allora.
Parecchie mani correvano a coprire volti che non
conosceva mentre si chinavano a bisbigliare, ma smise di badarvi quasi
subito, dedicandosi alla piacevole compagnia della squadra, mentre
Riley veniva richiamato altrove dalla sconfinata folla che si era
radunata lì per lui.
E per lei.
Evelyn lo comprese con orrore da tutti quelli che
si precipitavano a ringraziarla e complimentarsi con lei per aver fatto
sì che il loro Capo fosse liberato.
Quelle attenzioni la mettevano a disagio, e fu
quasi tentata di far notare ai suoi ammiratori, che nel frattempo le
davano anche il benvenuto ufficiale nella comunità di
Landry, che era stata allo stesso tempo la causa oltre che la soluzione
di quello sgradevole avvenimento, ma si trattenne notando la
felicità sui volti di tutti.
Fortunatamente aveva preso parte a tante di
quelle cene di lavoro della sua famiglia che avere a che fare con tutte
quelle persone non le fu per nulla difficile, con l’unica
differenza che dopo un po’ le parole iniziarono a venirle
fuori più sincere che mai.
Nonostante avesse cominciato a prenderci gusto,
dopo qualche ora sentì la necessità di aria
fresca e poco affollata e si defilò in giardino con Sophie e
Karl, e anche se la attanagliava un irrefrenabile desiderio di
squagliarsela e smettere i panni del terzo incomodo lasciandoli soli,
dovette trattenersi, poiché Riley aveva ordinato che non
rimanesse da sola nemmeno per un momento.
Oltre la tettoia del porticato, l’acqua
veniva giù come una fiumana, ed Evelyn parlò
senza staccare gli occhi da quello spettacolo ormai familiare.
<< Per quale motivo mi trattano
così? >>.
Chiese a Karl, che aveva sempre una risposta per
tutto, nella speranza di svelare cosa si celasse dietro il sentimento
dei suoi concittadini.
<< I motivi sono tanti. Oltre
all’apprezzamento delle tue qualità, anche il
fatto che tu sia la figlia di William, che è stato sempre
una figura di riferimento, e la fidanzata di Riley per esempio: lui
è sempre stato solo, e sapere che adesso ha te rende tutti
felici >> rispose con tono pragmatico, e proseguendo il
discorso anche di fronte alla sua espressione a metà tra lo
sconcerto e la confusione, << chi è amico del
Capo è amico di tutti, in poche parole, ma se un giorno
avessero tutti l’occasione di conoscerti davvero si
affezionerebbero ugualmente, indipendentemente dal tuo legame con i due
ultimi leader >> terminò con un sorriso.
<< Ev >> intervenne
Sophie, che poteva comprendere i suoi pensieri meglio di un ragazzo
<< non avrai pensato che la cosa fosse passata
inosservata spero, e comunque credo che Karl abbia adoperato il termine
sbagliato, niente qui è ufficiale prima che Riley lo
confermi >>.
<< Ipoteticamente, tu saresti
disposta a ufficializzare la cosa? In tal caso sarebbe necessario il
tempo per organizzare tutto… >> intervenne
Karl con il solito tono neutro di chi sta già pensando alla
lista delle cose da fare. Evidentemente, essendo il braccio destro del
suo “Fidanzato”, spettavano a lui gran parte delle
incombenze che quest’ultimo gli delegava.
<< Io… non…
forse… >> balbettò lei, annaspando
tra l’apprezzamento dell’idea e il terrore.
<< Karl >> lo
richiamò Sophie con una strana intonazione, ostentatamente
impassibile, ma che a Evelyn parve nascere semplicemente dal fatto che
stesse cercando di trattenere una risata.
<< Sì? >>
la assecondò con l’intonazione dolce che riservava
sempre e solo a lei.
<< Tuo fratello ti sta incenerendo
con lo sguardo >>.
Evelyn si voltò in simultanea allo
sguardo di lui, e incontrò quello distante di Riley, oltre
la vetrata. Da un angolo del salone dove si stava intrattenendo con un
nugolo di persone, i suoi occhi verdi puntati in quelli azzurri di Karl
sembravano promettere una fine tutt’altro che rapida e
indolore.
<< Oh, forse dovrei raggiungerlo
>>.
<< O forse no >>
disse Sophie scoppiando a ridere, << di sicuro
starà pensando che gli farai scappare l’innamorata
>>.
Evelyn registrò quella parola e si
stupì di non trovarla per nulla estranea; si aspettava che
affiorasse il terrore, eppure non sopraggiunse neanche un lieve
stupore. Forse funzionava così scoprire i propri sentimenti.
Karl le sorrise e poi scomparve, mentre Sophie
lanciava un’occhiata lievemente preoccupata al salone.
<< Ti conviene non scappare sul
serio, oppure Riley farà davvero pentire Karl delle sue
parole affrettate >>.
<< Sof, anche volendo, non vedo
come potrei mai riuscirci >> rispose Evelyn sospirando.
Tra chiacchiere, balli e banchetti, il
ricevimento si prolungò fino a tarda sera, e solo quando il
sole era ormai tramontato e il profumo della pioggia in giardino si era
fatto più intenso, Riley poté ritagliarsi del
tempo da dedicare solo a lei.
Quando la salutò con un lieve bacio
sulle labbra, Evelyn gli intimò di tornare immediatamente
dagli altri invitati, ma dovette arrendersi dopo che l’ebbe
guardata come se stesse delirando.
Si accomodarono su un muretto, intervallato da
colonnine che si chiudevano nella parte superiore formando archetti
tripartiti, che correva intorno alla distesa di rose ed erba bagnata,
distante dalla sala e a pochi metri di distanza dal punto in cui
principiava il bosco.
<< Riguardo a quello che ti ha
detto Karl stamattina >> cominciò Riley
voltandosi per fissarla dritto negli occhi, << credo che
le cose non siano ancora ben chiare, quindi…
>>.
Evelyn non fece nulla per impedirgli di alzarsi e
inginocchiarsi ai suoi piedi un attimo dopo, << Niente
anello spero >> disse semplicemente.
<< Va bene, ma tu accetteresti
comunque di tollerarmi anche in via formale e di sopportare
l’appellativo di mia fidanzata, così da rendermi
certo che non scapperai via da me alla prima occasione?
>>.
Era certo che per quanto avesse voglia di
tollerarlo le cose ufficiali la terrorizzassero, con il loro sembiante
troppo definitivo.
Evelyn strinse gli occhi e gli rivolse
un’occhiata indecifrabile.
<< Riley, come puoi pensare che
scapperei via da te? >>.
<< Ho le mie buone ragioni
>>.
<< Non credo proprio
>>.
<< E’ un sì?
>>.
<< Non scapperò
>>.
<< Quindi? >>.
<< Resto >>.
<< E…? >>.
Evelyn sospirò, <<
Sì >>.
Nei giorni seguenti, la vita che aveva condotto
fino a quel momento si trasformò solo in un lontano ricordo,
da ripescare nei momenti di solitudine giusto il tempo di dedicargli un
sorriso di nostalgia.
Niente più fughe nei boschi, se non
quelle sulle spalle della scorta di turno che la scorrazzava per
tenerla buona e al sicuro, quando tutti gli altri erano troppo
impegnati a fronteggiare l’ennesimo delirio dei Ribelli.
Niente più segreti, se non quelli suoi
e di Riley, da nascondere con cura al resto del mondo perché
troppo intimi e dolci per volerli condividere.
Niente più corazza. Manifestare, con
una smorfia, un sorriso, un sospiro, e in qualsiasi altra maniera, quel
che le passava per la testa era diventato talmente naturale da non
riuscire quasi più a nasconderlo quando la situazione lo
richiedeva.
Proprio in quel momento non riusciva a nascondere
il suo ghigno vittorioso, mentre si rigirava ancora tra le dita il re
che poco prima occupava una casella poco distante dalla mano pallida di
Sebastian.
Sebastian alzò gli occhi al cielo e
scosse la testa, mentre Alexander gli appariva dietro per consolarlo
con una pacca sulla spalla e una risata. << Ti vendico io
>>, esclamò sorridendo, accomodandosi al posto
che quello gli cedeva.
Sua zia passando lì accanto
arricciò il naso, come se la parola vendetta emanasse
davvero un odore fastidioso.
I Ribelli non si erano arresi, e lei era
costantemente sotto l’occhio vigile di qualcuno.
Ogni tanto intravedeva anche le Ombre, nel
riflesso di uno specchio o illuminate dal bagliore di un fulmine
accanto al suo letto, ma accadeva solamente quando Riley era vincolato
dai suoi doveri e non era con lei, il che capitava raramente,
perché il tempo per lei riusciva sempre a trovarlo.
<< Il passato è passato,
Sof >> disse Evelyn con una decisione tale da far
oscillare l’espressione irremovibile dell’amica.
Si avvicinò e le sorrise, anche se
aveva una voglia matta di schiaffeggiarla per i suoi vaniloqui che si
protraevano dalla sera precedente.
<< Mi permetto di dissentire
>> rispose l’altra, riassumendo
un’aria indignata e sofferente.
<< Gli stai spezzando il cuore!
>> esplose a quel punto Margareth, che fino a quel
momento si era tenuta in disparte.
Sophie scosse con foga la testa e poi la
tuffò nel cuscino, abbracciandolo.
Quel povero disgraziato di Karl Sievers,
perdutamente innamorato da secoli della dolcezza di Sophie Strathmore,
l’aveva gettata la sera precedente nella disperazione
più nera con un bacio rubato. Adesso lei si rifiutava di
vederlo, in una circostanza che si ripeteva da anni, con sommo dolore
dei due innamorati, uno che si macerava nel suo dispiacere per i
rifiuti dell’amata, l’altra che sosteneva che
quello, detentore della fama di aver avuto la condotta di vita
più esemplare di tutta Landry, meritasse una donna ben
più nobile di un’ex cortigiana.
<< Lo amo troppo per fargli questo
>> singhiozzò la farneticante.
<< Sof? >>.
Quella sollevò la testa dal cuscino,
dopo avercela tenuta tanto a lungo che se avesse avuto bisogno di
ossigeno sarebbe morta soffocata già da un bel pezzo,
<< Sì? >>.
<< Tu ti sei bevuta il cervello
>>.
Sophie sprofondò di nuovo nella
fodera, quasi veramente intenzionata a soffocarsi.
<< Quante storie! Fallo e basta
>> urlò Lisa, manifestando tutto il suo
nervosismo, dovuto più al doversi trovare
all’interno di una stanza con Evelyn, piuttosto che agli
assurdi drammi interiori della sorella, la quale riemerse proprio in
quel secondo, << Fare cosa? >> chiese,
allarmata dal sospetto che si faceva strada nella sua testa.
<< Perdonami Sof >>
cominciò Evelyn abbozzando un sorriso, poi
sospirò e quando posò di nuovo lo sguardo su di
lei lo diresse dritto ai suoi occhi arrossati, << alzati
da questo dannato letto e vai a farti bella. Scendi di sotto e lascia
che Karl ti porti al ballo >>.
Sophie la guardò disperata, mentre si
alzava.
<< Ah, dimenticavo: sorridi
>> concluse Evelyn, ammirando l’amica che si
strofinava gli occhi e finalmente sollevava gli angoli della bocca, del
tutto ignara di compiere quel gesto di sua spontanea volontà.
Quando Sophie sparì in bagno, Cedric
sbucò nella stanza, << Allora?
>>.
<< Fra poco scende >>
decretò Margareth, prendendolo per mano e ridacchiando,
<< ritieniti fortunato che con me non hai dovuto subire
tutto questo >>.
<< Credo sia dipeso dal fatto che
eri talmente occupata ad ammirarlo con sguardo sognante che non ti
rimaneva tempo per fare altro >> esordì Harvey
con un ghigno.
<< Grazie Casanova, vedi piuttosto
di trovare il modo di impiegare più proficuamente il tuo di
tempo >> rispose Mar, dissimulando con un sorriso tenero.
<< Lo fa già
>> intercedette Christopher per lui.
<< Visitare i letti di mezza Europa
non mi sembra un impiego utile >> disse Tristan laconico.
I presenti scoppiarono a ridere, eccezion fatta
per Cedric, che da fidanzato felice qual era, desiderava per
l’amico la stessa condizione e non approvava il modo in cui
usufruiva delle sue licenze di lasciare la città.
<< Perdonate
l’interruzione, ma di sotto c’è Karl che
reclama una spalla per lagnarsi ed io non ne posso più di
starlo a sentire >> Riley comparve sulla soglia della
porta con una faccia esasperata.
<< Un fratello esemplare, non
c’è che dire >> lo
rimproverò Evelyn.
<< Vado a portargli la buona
notizia! >> esclamò Sebastian, che era
capitato lì giusto in tempo per sentire che in un modo o
nell’altro Sophie si era convinta.
<< Dopo un paio di secoli ci si
stanca Ev >> rise Harvey.
<< Allora speriamo che la questione
si risolva >> disse lei, seguendo gli altri che
lasciavano la stanza.
<< La vedo ardua >>.
<< Sei diventata abilissima a
quanto pare >> si complimentò Margareth,
mentre scendevano le scale.
<< Non che me ne rallegri
>> rispose Evelyn.
Margareth alzò gli occhi al cielo.
Erano tutti contrariati dal suo rifiuto per
quella capacità, ma lei era convinta che utilizzarla fosse
solo una tentazione da sopprimere, eccetto quando si rendeva necessario
per aiutare qualcuno.
Quando le due fecero per continuare la
conversazione furono prontamente interrotte da Riley e Cedric, incapaci
di saper attendere con pazienza che due dame terminassero di fare quel
che dovevano.
<< Siamo in ritardo
>> si giustificarono.
<< Non aspettiamo Karl e Sophie?
>>.
<< No, ci raggiungeranno dopo. Karl
ha preparato un bel discorso >>.
Evelyn si fermò a guardare i due, poi
socchiuse gli occhi e scosse la testa lasciandosi sfuggire una risata,
<< Forse volevi dire che avete preparato un bel discorso.
Ieri ogni essere maschile si è praticamente dileguato da
questa casa >>.
<< Ci vogliono cotante virili menti
per assemblare una dichiarazione d’amore? >>
esclamò Margareth.
<< Per una efficace, sì
>> rispose Cedric.
Le due si scambiarono uno di quegli sguardi che
possono comprendere solo le ragazze, e che è seguito sempre
dalla stessa conclusione.
<< Maschi >> dissero
in coro, scuotendo la testa in sintonia.
Una notte temporalesca li accolse non appena
lasciarono la veranda della casa di Josephine.
Il cielo, illuminato qua e là dal
fulgore argenteo dei lampi che preannunciavano l’arrivo della
pioggia, era dello stesso blu cupo dell’abito da sera
ricamato di pizzi che indossava Evelyn. I nastri del corsetto a cuore
glielo serravano addosso rivelando il profilo del seno e dei fianchi,
la gonna era dotata di uno spacco laterale contornato da trine
impreziosite, che a un passo appena più lungo le avrebbe
scoperto la gamba. Quando Riley glielo aveva visto addosso era passato
dal puro apprezzamento all’angoscia, e aveva suggerito di
evitare il ballo e trovare una meta alternativa. Evelyn non vedeva il
motivo della sua gelosia, essendo semplicemente circondata da uno
stuolo di candidi e ingenui vampiri.
Tra l’altro si accorgeva di non potersi
interessare a nessun altro nel modo in cui lo faceva con Riley, ma
nonostante tentasse di spiegarglielo secoli di tradimenti e complotti
avevano indubbiamente lasciato il loro segno su di lui.
Quando entrarono nella sala, che quella sera
avrebbe ospitato il settecentesimo compleanno di Vincent Rosenberg (i
vampiri festeggiavano solo alla cadenza dei cento anni), la loro
attenzione venne subito attratta dalle note provenienti dal pianoforte
collocato in un angolo appartato, al quale stava seduto un uomo
dall’aspetto elegante e impassibile. Evelyn aveva
già avuto modo di conoscere Eric Kochel, che esprimeva tutto
quel che non si scomodava di dire con le parole attraverso la musica.
Riley gli fece un cenno al quale quello rispose con una nota
più acuta delle altre nella melodia, poi condusse Evelyn ai
margini della sala, dove li attendevano delle vecchie conoscenze.
Grisham salutò Evelyn come sempre
gridando il suo nome e tendendole le braccia, mentre lei si chinava ad
abbracciarlo con un sorriso.
Da quando aveva scoperto la verità su
ciò che era lei, si sentiva ancora più vicina a
quel bambino che le riservava un’attenzione speciale. Anche
lui era un Mezzosangue, ma fino a quel momento aveva dimostrato di non
aver ereditato nulla da suo padre Bradley, così lui lo
avrebbe visto crescere e invecchiare insieme a sua moglie Susan, ma
l’amore che provava per loro gli faceva ignorare del tutto
questo inutile particolare.
Carpe
diem, era uno dei motti di cui un vampiro si avvaleva di
buon grado.
Evelyn si chiedeva se anche per lei e Riley
sarebbe stato così. A lui non importava che sarebbe cambiata
nel tempo, e lo assicurava con una tale sincerità da indurre
anche Evelyn a non pensarci.
Mentre Bradley e Riley conversavano, Susan
informò Evelyn di tutte le ultime marachelle di Grisham, il
quale assisteva con un sogghigno consapevole alla scena, strappandole
non poche risate. Le raccontò anche che durante una
malefatta e l’altra aveva iniziato a parlare per qualche
minuto di fila almeno tre o quattro volte al giorno ed Evelyn rivolse
al bambino un sorriso di celebrazione. Poi percorse casualmente con lo
sguardo l’intera sala, e si soffermò esattamente
nel punto centrale dal quale s’irradiavano le decorazioni
circolari del pavimento. Sophie serrava le braccia attorno al collo di
Karl, che trionfante, mentre la sua dama abbassava lo sguardo sul suo
petto, faceva l’occhiolino a Riley.
A loro ballo si unirono presto altre coppie e ad
accaparrarsi per primo l’onore della sua compagnia per un
ballo fu Alexander, che Evelyn si disse sarebbe stato l’unico
al quale Riley l’avrebbe concesso; con l’indole
ribelle e testarda che si ritrovava, per eredità, malasorte
o qualche altro oscuro motivo, si era costantemente ripromessa che non
avrebbe mai lasciato che qualcuno potesse decidere per lei o imporle
qualcosa di diverso dalla sua volontà ma, sebbene se ne
stupisse ancora di tanto in tanto, con Riley era diverso: il suo
semplice sguardo poteva far sì che nessuno nella sala si
spingesse a invitarla a ballare e questo suo comportamento possessivo e
autoritario tuttavia non la innervosiva più di tanto. Da
quando le aveva salvato la vita questa si era legata a quella di lui
indissolubilmente, anche se lei ancora stentava a credere al modo in
cui lui ricambiava quel sentimento, quasi avesse davvero aspettato il
suo arrivo fino a quel momento.
Con l’arrivo della successiva melodia i
presenti contemplarono la danza spensierata della coppia che era il
fulcro dei pettegolezzi di Landry.
Il giovane ma consumato Comandante dei Custodi e
la Mezzosangue manovratrice, figlia di un DeMordrey.
<< Ci guardano tutti
>> sussurrò Evelyn, non necessariamente vicina
al suo viso perché lui potesse sentirla.
<< E allora? >>
rispose lui, al contrario per nulla infastidito dalla cosa.
Lei non aveva voluto ancora ufficializzare il
fidanzamento, e lui l’aveva assecondata, pur non premurandosi
di nascondere la sua insoddisfazione e impazienza.
<< Non mi piace essere al centro
dell’attenzione >> disse Evelyn, dopo un
momento in cui ci aveva riflettuto.
A quelle parole una copiosa risata costrinse
entrambi a voltarsi verso un punto al margine della pista da ballo.
Evelyn lanciò ad Alexander
un’occhiata sarcastica e simulò
un’espressione indignata, poi si rivolse a Riley,
<< Non osare assecondarlo >>. Quello smise
di ridere e scosse la testa in modo esagerato.
L’ultima trovata di Alexander per farla
spazientire era di darle dell’egocentrica, scoppiando in
teatrali risate quando lei lo negava.
<< Se anche non ti piacesse sul
serio ricevere queste attenzioni, dovresti abituarti >>
se ne uscì il suo accompagnatore facendola girare su se
stessa e poi tirandola di nuovo a sé.
<< E se anche mi abituassi, non
significherebbe che sono un’egocentrica >>.
Una nota acuta e un casquè
dichiararono la conclusione del ballo.
<< Perché cerchi
scusanti? Dalle mie parti lo chiamiamo avere il carbone bagnato
>> s’intromise Alexander quando abbandonarono
il centro della sala per raggiungerlo.
<< Se avessi del carbone lo
utilizzerei in maniera ben più utile >>.
<< Non ti basterebbe un banalissimo
rogo per liberarti di me, anche a costo di tornare a perseguitarti come
fantasma >>.
<< Non avevo dubbi, è
nella tua natura >>.
<< La vita dopo la morte?
>>.
<< No, la persecuzione
>>.
Il battibecco proseguì come sempre tra
risate e occhiatacce, sotto lo sguardo divertito di Riley che non
s’intrometteva mai per paura di rovinarsi il divertimento.
<< Siete una fonte inesauribile
d’imbecillità >> li interruppe
Margareth, che era troppo colta e intelligente per ammettere le idiozie
che i due finivano per dirsi, più per non darla vinta
l’uno all’altra che per formulare delle frasi
concrete.
<< Sono uno spasso >>
ribatté Cedric.
Alexander scoccò a Mar
un’occhiata beffarda che gliene valse in cambio una stizzita.
Riley la trascinò via quando
adocchiò Vincent, in modo che potessero augurargli altri
settecento anni di felicità, poi, intuendo che la sua soglia
di sopportazione si stava notevolmente abbassando e che quella
quantità spropositata di gente e la sua claustrofobia le
avrebbero presto provocato uno svenimento, colse uno dei pochi momenti
in cui nessuno li guardava per spingerla oltre una porta seminascosta
da tende vermiglie che conduceva a una spopolata saletta appartata.
<< Grazie >>
sospirò Evelyn avvicinandosi alla finestra spalancata,
<< dammi solo un momento e possiamo tornare di
là >>.
<< Stavi davvero per avere un
attacco di claustrofobia? Credevo fosse una scusa per restare da sola
con me >> disse Riley con una nota di delusione nella
voce che lei non seppe se definire autentica o scherzosa, o entrambe le
cose.
Evelyn sorrise e fece per parlare, ma poi
lasciò che il suo bacio smorzasse quelle parole che non
servivano.
<< Mi sento osservata
>> gli soffiò a un millimetro dalle labbra.
Lui si allontanò e trattenne a stento
una risata, << Credimi, se ci stessero osservando lo
saprei >>.
Evelyn si guardò attorno. Era
difficile mantenere un comportamento disimpacciato in un luogo gremito
di vampiri in grado di intercettare ogni singolo respiro e irrilevante
movimento, ed era in quei momenti che le sarebbe piaciuto possedere la
stessa disinvoltura di lui, che si comportava come se non esistesse
altro oltre a lei.
Riley notò il suo disagio e la
intrappolò contro la parete senza però
avvicinarsi troppo, poi accostò la bocca al suo orecchio,
<< Vuoi che smetta? >> mormorò
con la voce resa ancor più roca dall’inflessione
provocante che solo lui riusciva a dare alle parole che pronunciava.
Evelyn prese un respiro cercando di ordinare le
parole, ma nel frattempo lui si fece più vicino, rasentando
le sue gambe con le proprie e inspirando il profumo dei suoi capelli,
rendendo così più complessa la sua intenzione.
<< Vuoi che mi allontani?
>> pronunciò sulle sue labbra toccandole
appena. Ormai il suo corpo aderiva a quello di lei e per poterle
parlare l’aveva costretta con la mano a reclinare il capo.
Evelyn avrebbe voluto rispondere, ma le sue
labbra non reagivano ad altro impulso se non a quello di cercare le
sue, che si schiusero perché lui potesse sfiorare la sua
bocca con la lingua, in una carezza lenta che fece crollare ogni sua
goccia di volontà. Si aggrappò forte alla sua
spalla e ai suoi capelli e fece per avvicinarlo, ma lui si
scostò, << Non hai risposto >>
disse mentre con una mano discendeva lungo il profilo della sua gamba e
la sollevava attorno alla sua per potersi fare ancora più
vicino.
Le passò una mano dietro la nuca per
reggersi alla parete e distanziarsi giusto quanto bastava per
permetterle di parlare.
Lei avrebbe voluto spingerlo via e dare libero
sfogo al suo orgoglio, se il bisogno di sentirlo ancor più
vicino non fosse stato tanto bruciante.
Riley non le metteva premura, aspettava paziente,
distraendosi a giocare con le labbra sul suo collo e una mano tra i
suoi capelli, mentre l’altra reggeva ancora la sua gamba
lasciata nuda dallo spacco del vestito. Da quel primo ballo, senza
neanche una ben precisa ragione e con grande piacere di lui, non aveva
più indossato le calze sotto la gonna, e adesso
l’aria gelata che il vento di quella notte sospingeva fin
lì l’avrebbe fatta rabbrividire, se non avesse
avuto ogni fibra del suo corpo in fiamme.
Tuttavia improvvisamente neanche lei aveva
più fretta, né di correre via né di
rispondergli che non voleva per niente che smettesse.
Ancora una volta si ritrovava in balia del potere
di lui, che continuava a far cedere una dopo l’altra le sue
difese.
<< Vuoi che ti lasci andare?
>> sussurrò un’ultima volta, con le
labbra piegate in un sorriso, vicinissime alle sue.
<< No >>, fu tutto
quello che lei riuscì a rispondere, un istante prima di
aggrapparsi con forza alle sue spalle e avere la bocca invasa dal suo
sapore.
Non aveva idea di quanto fosse durata loro
assenza dalla sala, ma forse non le importava. Stringeva nella sua la
mano di Riley e sosteneva gli sguardi che la scrutavano, scorgendovi
curiosità e approvazione, e meravigliandosi ancora una volta
della perfezione di quel che stava vivendo.
La vita che era stata sua fino a pochi giorni
prima le sembrava appartenere a un tempo troppo lontano.
Adesso era tutto talmente perfetto che aveva
paura.
In cuor suo sapeva che qualcosa sarebbe arrivato
presto a strapparle di nuovo via la felicità, dopo
avergliela concessa giusto il tempo di assaporarla per poter poi
soffrire di più della sua perdita.
Le avevano spiegato che quella parte di natura
non umana che c’era in lei avrebbe potuto far sì
che lei avvertisse alcune delle cose che sfuggivano ai sensi degli
altri mortali.
Improvvisamente quel pensiero aveva preso
contorni nitidi nella sua testa, insieme a una strana e sgradevole
sensazione.
Stai diventando paranoica, pensò
cercando di scacciare quei pensieri.
<< Qualcosa non va?
>> le chiese Riley, fermandosi vicino a un divanetto
distante dalla folla che riempiva la grande sala addobbata di rose e
cristalli.
Evelyn si chiese se dopo che lui le aveva tolto
di dosso quella corazza di apatia sarebbe stato sempre tanto difficile
nascondergli quel che provava.
Scosse la testa, del tutto certa che non avrebbe
funzionato.
Difatti Riley la guardò contraendo i
lineamenti del volto per la sofferenza di lei che ogni volta non poteva
fare a meno di prendere anche su di sé, poi la strinse in un
delicato abbraccio.
Evelyn sentì l’ansia
scivolare via velocemente com’era arrivata, e gli
lanciò uno di quegli sguardi che potevano in parte spiegare
il suo interessamento nei suoi confronti.
<< Credo che a questo punto
sarò costretto a preoccuparmi sul serio, da
quant’è che non litigate voi due? >>
esordì Tristan, alzandosi dal divano.
<< Da ieri, quindi puoi
tranquillizzarti >> rispose Karl, che il giorno prima
aveva assistito al suddetto diverbio tentando come sempre di quietare
gli animi.
<< Me lo sono perso
>>.
<< Non è stato un
litigio vero e proprio, era uno di quelli di cui questi due hanno un
bisogno illogico ma disperato sin da quando si sono conosciuti
>> spiegò Mar con la solita intonazione
scientifica.
<< Stai studiando le nostre norme
comportamentali, Mar? >> intervenne a quel punto Riley,
mentre Evelyn si liberava dalla sua presa e ridacchiava, non trovando
in effetti nulla da obiettare a quell’osservazione.
<< Ha sempre avuto una recondita
personalità da sociologa >> spiegò
Cedric, a metà tra l’ammirazione per la fidanzata
e la costatazione delle sue sfaccettature da studiosa enciclopedica.
Mentre la conversazione proseguiva, nessuno fece
caso a lei che si allontanava di qualche passo, per osservare meglio un
punto sfocato dalla parte opposta della sala. Poi l’ombra che
aveva intravisto sparì tanto fulmineamente che lei fu quasi
certa di averla solo immaginata.
Quando mosse un altro passo, sentì una
mano afferrare il suo polso e si voltò con un movimento
troppo veloce perché potesse non rivelare la sua
preoccupazione.
Riley le rivolse un sorriso che fino a poco tempo
prima lei avrebbe giurato di poter contemplare solo in un sogno.
I sogni
però non durano mai in eterno, e alla fine ci si deve sempre
svegliare.
Uno sfolgorio argenteo e un boato annunciarono la
venuta del temporale, e in quello stesso istante Evelyn
avvertì qualcosa di simile avvenire dentro se stessa.
Sempre che non
diventino incubi.
Afferrò la mano che le aveva serrato
il polso e attrasse Riley a sé con forza, e con altrettanta
forza spinse la sua bocca contro quella di lui mentre una lacrima le
solleticava la guancia.
Quasi contemporaneamente nella grande sala si
scatenò l’inferno.
Evelyn non aveva bisogno di vedere per capire
quel che stava accadendo e le ci volle un po’ per
costringersi a lasciare andare Riley.
Tra il rumore delle finestre che si frantumavano
e le grida di parole indistinte, gli invitati abbandonarono quella
parvenza di normalità per cedere il passo alla loro vera
natura.
Uomini in nero si trovavano oramai in ogni angolo
della sala e la battaglia aveva avuto inizio.
<< Vai >> gli disse
semplicemente, con un tono talmente flebile che quando lui
annuì si stupì che avesse davvero sentito.
Riley si lanciò immediatamente verso
tre uomini che avevano atterrato Karl e lei rimase a guardare, senza
avere la minima voglia di muoversi da lì.
Voleva semplicemente guardare, immobile.
Sophie tuttavia non glielo permise,
<< Vieni! >> gridò, mentre la
afferrava e la trascinava verso la porta della sala adiacente.
Riuscirono a farsi largo in quel caos senza
difficoltà; con i Custodi da sterminare e la
libertà da conquistarsi nessuno dei Ribelli si curava
più di un’insignificante Mezzosangue.
Evelyn si fermò e si voltò
verso il centro della sala, dove Riley si muoveva letale, affiancato
dai suoi uomini. Aveva preso possesso di due spade e le maneggiava con
consumata abilità, atterrando uno dopo l’altro
tutti coloro i quali gli capitavano sotto tiro, gli occhi socchiusi per
la concentrazione e forse più luminosi del solito, i
lineamenti del volto in un’espressione impassibile che solo a
tratti rivelava la reale concentrazione. Rimase ad ammirare la forza e
la precisione che conferiva a ogni movimento, senza riuscire a trovarvi
nulla che avrebbe dovuto in realtà intimorirla.
Riley non era il bravo ragazzo dei romanzetti
strappalacrime che l’avrebbe portata all’altare e
che avrebbe vissuto con lei per sempre in felicità,
né il principe azzurro con il bianco destriero che
l’avrebbe salvata dalla torre.
Era un Capo, tra l’altro di una legione
di vampiri in guerra perenne, e aveva tutte le qualità
richieste, tra queste il suo comportamento autoritario e azzardato, e
la mancanza di scrupoli.
Evelyn osservò la lama della sua spada
riflettere il bagliore di un lampo mentre affondava nel petto di un
uomo in nero.
Lei aveva un disperato bisogno di lui, ma
qualcuno ne aveva di più.
Lei non avrebbe potuto strapparlo a una guerra
combattuta da secoli.
Era il Capo. Innamorato di lei, ma pur sempre il
Capo, e non avrebbe avuto nulla da discutere sulle sue azioni, se solo
non avesse dovuto presto lasciarlo andare per qualcosa che era
obbligato ad anteporre a lei. Non avrebbe pensato a quanto lui stesso
ne avrebbe sofferto, solo di una cosa era certa: non avrebbe potuto
fermarlo, né tentare di farlo.
Quando Sophie si fu accertata che anche Karl se
la stava cavando, la prese di nuovo per mano e la condusse verso la
porta per lasciare quell’apocalisse.
La piccola sala era deserta e l’unico
rumore che vi regnava era solo l’eco di quel che stava
accadendo poco distante.
Con uno sguardo le indicò di
raggiungere un punto in un angolo distante dalla finestra spalancata,
alla quale lei si stava avvicinando per accertarsi che potessero
passare, e ancora una volta Evelyn si sentì impotente come
non mai, desiderando di non essere tanto fragile da non poter reggere
il confronto con la forza che si trovava a fronteggiare, o per lo meno
che qualcun altro doveva fronteggiare per lei, perché lei
non ne sarebbe stata in grado. Era questo che odiava di più,
il doversi nascondere sempre dietro il protettore di turno.
Evelyn considerò l’aspetto
delicato di Sophie e non riuscì a immaginarla come
un’avversaria temibile, per questo si stupì non
poco quando la vide scattare dalla parte opposta alla finestra e
digrignare i denti.
Sophie strinse i pugni fino a farli sbiancare
ancor più del chiarore che la sua natura conferiva al suo
incarnato, mentre una sottilissima striatura vermiglia si disegnava sul
suo zigomo.
<< Fatti da parte Strathmore, e
avrai salva la vita >> annunciò una voce
fredda come il ghiaccio prima ancora della comparsa del suo possessore.
Quando l’uomo scavalcò la
finestra Evelyn non considerò nemmeno il suo aspetto, quasi
lusingata dal fatto che qualche folle preferisse darle ancora la caccia
piuttosto che unirsi all’empia battaglia dei suoi consimili.
<< Io non ho intenzione di muovere
un dito >> rispose Sophie, con un’intonazione
che fece pensare a Evelyn che la ragazza che aveva conosciuto e che era
stata fino a quel momento fosse sparita per sempre.
Anche l’uomo si paralizzò,
sbalordito. Poi parve convincersi di quelle parole e rivolse il suo
sguardo all’umana. Un sorriso malefico gli accese i
lineamenti mentre muoveva il primo passo verso di lei e Sophie
osservava la scena come una spettatrice non partecipe, ma
improvvisamente parve riscuotersi, << Ci tengo solo a
porre l’accento sul modo lento e doloroso in cui Riley ti
farà a pezzi. Ora fai pure come ti pare >>.
Quello si fermò e la guardò
con occhi indagatori.
<< Lei è sua
>> concluse Sophie.
L’uomo iniziò a mostrare
evidenti segni di nervosismo. Doveva essere uno di quei reietti che non
può fare a meno di accorgersi di essere persino dopo
l’ultima ruota del carro, e che cerca di cogliere
l’occasione per guadagnarsi un briciolo si considerazione.
Evelyn provò quasi compassione.
<< Tutto qui Strathmore? Una misera
minaccia? >>, disse una voce nuova prima di esplodere in
una risata sincera.
Evelyn si accorse subito che il nuovo arrivato
stava ben più in alto del suo predecessore, che adesso se ne
stava impalato vicino alla finestra dopo aver chinato il capo al
passaggio dell’uomo che era appena arrivato dal nulla.
<< Nient’altro per
difendere la tua amichetta? >>.
Sophie non si mosse, e se Evelyn non avesse
saputo dell’udito formidabile di cui un vampiro disponeva,
avrebbe giurato che non aveva sentito.
<< Troppo facile, niente
divertimento >>, l’uomo fece un verso di
scontento.
<< Troveremo un altro modo per
renderlo divertente >>, soggiunse un terzo con un ghigno.
Al trovarsi in quella scena tragicomica Evelyn
non poté trattenersi dall’alzare gli occhi al
cielo: lei si sentiva un’emerita inetta, Sophie sembrava
essersi rimbecillita, e per finire aveva appena rinvenuto
l’unico vampiro vigliacco in circolazione, che continuava a
fare la statua, forse anche lui sconvolto dai piani inconcepibili dei
suoi due colleghi.
Le sfuggì un verso esasperato,
<< Davvero la mia morte è più
importante della vostra eterna guerra per la libertà?
Rinuncereste alla possibilità di scorrazzare per il mondo
soddisfacendo i vostri reconditi istinti omicidi? O forse nessuno vi ha
mandato un invito formale per gettarvi nella mischia? >>,
urlò con un impeto incontrollato.
I due si fermarono e si guardarono negli occhi e
allora lei fu del tutto certa di avere a che fare con due idioti
indecenti.
Poi forse fu colpa dei loro sensi da vampiro o
della tensione.
Uno schianto della parte opposta della parete
fece sobbalzare tutti, e i due come rispondendo a un comando si
slanciarono verso di lei con una tale velocità che lei si
accorse di cosa stava succedendo solo avendoli visti sparire.
<< Fermi! >>
gridò senza muoversi di un millimetro.
I due riapparvero immobili a un soffio di
distanza da lei, ma Evelyn non indietreggiò.
Puntò i suoi occhi scuri addosso a uno dei due e
cercò di calmare il respiro accelerato dalla rabbia, mentre
Sophie si avvicinava osservando la scena con un’espressione
soddisfatta.
Nello stesso istante in cui Evelyn si rese conto
di non poter né calmare il battito del suo cuore,
né la sua collera, l’uomo che stava fissando si
piegò in avanti e poi le gambe gli cedettero.
Crollò in ginocchio digrignando i
denti con un frastuono agghiacciante.
Il suo compagno contrasse in una smorfia in
lineamenti del volto, << Smettila
! >> le intimò poi.
Allora Evelyn indietreggiò e
lanciò un’occhiata a Sophie, ritrovandosela
accanto con uno sguardo perplesso in volto.
<< Io non sto facendo niente
>> le sussurrò.
Una volta le era capitato, in un momento di
pericolo e paura, di infliggere dolore a un uomo che voleva assalirla,
ma si era subito resa conto di essere artefice di quella tortura;
adesso era assolutamente certa non solo di non essere responsabile di
quella sofferenza, ma di non poterne mai infliggere una simile.
<< Smettila! >>
continuava a ripetere il vampiro nel disperato tentativo di salvare il
suo simile, mutando in una supplica quella che prima era stata
un’imposizione.
Evelyn vide l’altro agonizzare
piombando a terra supino, senza voce per gridare il suo dolore.
Se avesse potuto, avrebbe preferito morire
piuttosto che fare una cosa simile.
Quello che fino a quel momento aveva assistito
con occhi sbarrati senza lasciare la sua posizione vicino alla
finestra, all’improvviso scosse la testa e prese ad
arretrare, << Lascialo lì, andiamo via! Lei
è di Riley, lo conosci, questo è niente, immagina
cosa ci toccherà… >> disse con una
smorfia. Lanciò un ultimo sguardo a tutti i presenti, poi si
voltò per lanciarsi oltre la finestra, ma una mano stretta
sul suo collo lo scaraventò dall’altra parte della
stanza.
Riley non aveva più la giacca e
indossava solo la camicia, ridotta piuttosto male e chiazzata da un
inconfondibile liquido scarlatto del quale era ricoperta anche la spada
che stringeva con la mano destra. Gli occhi erano dello stesso verde
luminoso che lei adorava, ma più freddi e carichi di una
luce che non vi aveva mai scorto prima.
Evelyn non avrebbe tentato di fermarlo, non lo
avrebbe mai biasimato, né per quel che aveva e avrebbe fatto
quella notte, né per quel che era ed era costretto a essere.
Lo amava, per ciò che era, lo capiva
solo in quell’istante, ma non voleva vedere.
E lui lo sapeva, << Portala via
>> disse senza guardare né la destinataria
dell’ordine, né lei, infliggendole una stilettata
di dolore acuto.
Quando lei riuscì a liberarsi dalla
presa di Sophie e gli si gettò addosso, afferrandogli con
entrambe le mani la camicia malandata, le piantò addosso due
occhi stupiti e sofferenti, quasi si aspettasse che non lo avrebbe mai
più toccato.
Evelyn si morse il labbro prima di cercare il suo
sguardo, << Torna da me >> gli
sussurrò, sorridendo per quanto il contesto lo concedeva.
Un fragore assordante falciò la calma
apparente di quella scena assurda e quando Sophie la sollevò
lanciandosi oltre il davanzale, nella brezza gelata di quella notte,
Evelyn non ebbe il tempo di comprendere se quel rumore fosse stato un
tuono o il muro che franava, né di guardare Riley
un’ultima volta prima di andare e scorgere l’ombra
di una risposta.
La porta si aprì rivelando la totale
mancanza della necessità di essere chiusa. Nessuno dopotutto
avrebbe osato oltrepassare quella soglia senza una specifica e
legittima ragione.
L’ambiente era esattamente come lo
ricordava, tanto calmo da apparire quasi irreale, abbandonato in un
perfetto stato di pulizia e ordine. Evelyn era quasi certa che Riley
non avesse tempo da trascorrere a casa sua.
Sophie le mise le mani sulle spalle e la spinse a
sedere sul divano, poi si abbassò per osservarla bene in
viso e a Evelyn quasi scappò una risata.
<< Sto bene Sof, non sono in stato
confusionale >>.
La ragazza sospirò e si
accomodò accanto a lei, << Hai capito
perché non sono intervenuta prima, o hai creduto che volessi
abbandonarti alla tua sorte? >>.
<< Allenamento >>,
rispose l’altra, laconica.
<< Se mai dovessi trovarti nella
stessa situazione da sola, sai cosa fare. Hai un talento, usalo
>>.
<< Possiamo almeno chiamarla arma
di difesa? Talento non mi piace >>.
Sophie ridacchiò e annuì,
<< E’ una delle peggiori che abbia mai visto
>>, mormorò, << battaglia
intendo, uno dei peggiori attacchi degli ultimi tempi >>,
si affrettò ad aggiungere notando l’espressione
colpevole dell’altra, prima che le passasse del tutto la
voglia di utilizzare la sua arma di difesa.
<< Ci saranno delle perdite, vero?
>>.
<< Come in ogni guerra
>>.
<< Perché proprio
adesso? >>.
Sophie si strinse nelle spalle, <<
Non c’è un perché, può
accadere in ogni momento, per questo stiamo sempre all’erta.
Probabilmente qualcosa ha ravvivato la loro tendenza assassina, o forse
hanno solo voluto cogliere l’occasione di questo temporale
infernale, sono molto teatrali, da non crederci >>.
<< E adesso? >>.
<< Adesso verrà presto a
crearsi un fronte, il più lontano possibile dalla
città, e si trasferiranno tutti lì. Eccetto te e
chi dovrà custodirti >>.
<< Ma davvero? Ed io che credevo
che sarei venuta >>, rispose sarcastica e demoralizzata.
<< Non fare quella faccia, va
avanti così da secoli e ti conviene accettarlo
>>.
<< Per voi è sempre
facile accettare la morte dei vostri compagni? >>.
Sophie prese un respiro e le riempì
gli occhi una tale tristezza che Evelyn sentì anche i suoi
inumidirsi, << L’abbiamo scelto noi di dedicare
la nostra vita a questa causa Ev, e quando si prende una decisione
simile si è consapevoli di ciò cui si va incontro
>>.
<< Sentenziò
l’oracolo >> disse Evelyn, passandosi una mano
sulla guancia per catturare una lacrima.
Poi sbuffò e distolse lo sguardo
mentre Sophie rideva della sua reazione imprevedibile, <<
Voglio sperare che Riley faccia la spesa di tanto in tanto
>> disse poi sparendo in cucina e lasciando Evelyn da
sola con la sua angoscia, a immaginare come sarebbe stato adesso che il
suo sogno era diventato un incubo.
Erano ancora sedute a tavola, di fronte a quella
che ricordava un’esposizione di dolci, allestita da Sophie
dopo che aveva sentenziato che lo zucchero risollevava
l’umore, quando sentirono lo scatto della serratura della
porta principale.
Ancor prima che potessero concretare un qualsiasi
pensiero, la voce di Riley le richiamò nel salone.
<< Fuori c’è
qualcuno che vorrebbe vederti >>, disse rivolto a Sophie.
Evelyn provò una fitta di sofferenza
per lei, che doveva lasciare andare Karl poco dopo averlo ritrovato.
Sparì dopo averle rivolto appena un sorriso e nel salone
rimase solo lo scrosciare della pioggia.
Evelyn si avvicinò in silenzio, con
espressione concentrata, per esaminare l’aspetto di Riley,
<< Da qualche parte tieni bende e disinfettante oppure
sei troppo valoroso per medicarti le ferite e non sopportare
stoicamente il dolore? >>.
Riley si stupì che anche in quel
frangente fosse in grado di formulare una delle sue locuzioni affilate,
<< Credo che sopravvivrò >>.
Evelyn sbuffò e lo guardò
indignata, << Fai come ti pare >>, disse
voltandogli le spalle e incamminandosi verso un punto il più
lontano possibile da lui.
Mentre saliva le scale sollevando
l’orlo dell’abito bagnato e percorreva il corridoio
senza una meta ben precisa si chiedeva se la stesse seguendo,
imponendosi al contempo di non interessarsi minimamente a quel quesito,
senza darsi ascolto.
<< Non è così
che devi scappare da me >>.
La sua voce era a un soffio dai suoi capelli
mentre la intrappolava contro una porta chiusa.
<< Sai benissimo che non te lo
permetterei, piuttosto ordinami di andarmene >>.
La sua altezza spropositata gli imponeva di
abbassarsi per raggiungere il suo viso e per farlo si reggeva alla
parete con i pugni serrati all’altezza delle sue spalle.
Aveva gli occhi fissi sulle sue labbra, con lo
sguardo di chi osserva qualcosa che ha perduto per sempre.
La voce di Evelyn rimase ferma mentre il suo
petto tremava, << Vattene >>
mormorò, assecondando ciò che lui aveva detto e
il suo orgoglio.
Era tanto vicino che sentì la risata
che gli aveva provocato vibrare nel suo petto, oltre che intuirla nel
suo sorriso, << Non così >>,
scosse la testa, << ho detto ordinamelo…
Come puoi pensare che me ne andrei di mia volontà?
>>.
Evelyn non parlò, non pensò
neppure. Rimase lì ad aspettare di sentire ancora la sua
voce o guardarlo andare via.
<< Non ti dirò che sono
un mostro e che meriti di meglio, Ev >> disse, stavolta
puntando gli occhi nei suoi e vedendola sussultare, << me
ne andrò se lo vorrai, ma non tenterò di
convincerti che sono sbagliato e che non puoi starmi accanto per come
sono. Sarà una scelta tua, perché io ti voglio
per me >>.
Riley trasalì e sorrise quando vide
una lacrima scivolarle lungo la guancia.
Eccolo.
Il confine del suo orgoglio.
E l’avevano appena oltrepassato.
Non gli avrebbe detto che senza di lui si sarebbe
spenta di nuovo, né di come custodisse gelosamente ogni
attimo che le aveva regalato e che era valso tutta la sua vita fino a
che non si erano scontrati, perché era certa che potesse
leggerlo negli occhi umidi che si ostinava a fissare.
<< Piangi >> le
sussurrò, come a farle notare qualcosa di cui non si era
accorta.
<< Non guardarmi allora
>> rispose lei con un sorriso di sfida, allontanando le
lacrime e una mano dal muro che aveva graffiato fino a quel momento,
per abbassare la maniglia della porta e scivolare dentro, sfuggendogli.
Indietreggiò senza staccargli gli
occhi di dosso, scorgendo con un’occhiata fugace solo il
letto e un camino di tutto quel che si trovava nella camera.
Riley avanzò verso di lei e per un
momento il suo sorriso così familiare e la consueta
luminosità dei suoi occhi cancellarono dalla sua mente il
pensiero che l’indomani avrebbe potuto perderlo per sempre.
Solo quando le strinse le braccia intorno ai
fianchi attraendola a sé gli parlò a un soffio
dalle labbra, prima che lui prendesse possesso delle sue.
<< Anch’io ti voglio per
me >>.
Il tocco delle sue labbra era di chi ha tutto il
tempo del mondo e fretta di godersi ogni istante. Evelyn dischiuse le
labbra e intrecciò le dita ai suoi capelli per avvicinarlo
ancor di più e sentire in bocca il suo sapore. Con
l’altra mano si aggrappò alla stoffa della sua
camicia, quasi avesse paura che potesse lasciarla andare, e
sentì di nuovo il suo petto vibrare di una risata e le sue
labbra prima piegarsi in un sorriso e poi scendere a solleticarle il
collo.
Le sue mani le risalirono lungo la schiena e
s’impigliarono nei nastri del corsetto un attimo prima di
disfarli. Evelyn sentì la carezza dell’abito che
le scivolava addosso per finire ai loro piedi, che tuttavia nulla aveva
a che vedere con quelle delle sue mani, intente a sfiorare lente la
curva del suo seno e della sua schiena.
Nel frattempo lei raggiunse anche
l’ultimo bottone della sua camicia e Riley si
lasciò cadere seduto sulla sponda del letto, con gli occhi
assorti e le labbra in un sorriso di dolcezza e provocazione. La
tirò a sedere su di sé e lei rise sul suo collo,
prima di schiudere le labbra e affondarvi i denti. Rise ancora quando
lo sentì trasalire e aumentare la pressione delle mani sui
suoi fianchi, poi lo svincolò dalla camicia, rivelando
striature vermiglie sulle spalle e sul torace. Sfiorò con la
punta delle dita una ferita all’addome, mentre il respiro di
lui sul suo collo restava agitato solo dalla sua vicinanza, tuttavia
non ancora abbastanza soddisfacente. Evelyn raggiunse le sue labbra con
le proprie, mentre con le mani abbandonava le sue ferite e scendeva a
liberarlo dai pantaloni sfiorandolo lì dove lui avvertiva
improvvisamente forte il desiderio di sentirla sospirare tra le sue
braccia.
Riley prese un respiro tra i suoi capelli,
avvertendone il profumo, e accarezzandole le gambe un attimo prima di
sollevare la sottoveste e sfilargliela.
Si ritrovò sdraiata sotto di lui senza
rendersi conto del movimento e le sfuggì un sorriso.
Riley la guardò come se avesse
improvvisamente ritrovato tutto quel che aveva creduto di perdere e le
accarezzò le labbra con le proprie, si resse al gomito
poggiato tra le lenzuola e con l’altra mano le raggiunse la
piega del ginocchio sollevandole la gamba, mentre Evelyn si aggrappava
con forza alle sue spalle stringendolo a sé gemette e
sospirò, per la prima volta in vita sua sentendo di
appartenere a qualcuno.
La svegliarono una luce appena accennata
dall’alba e dal bagliore dei fulmini e una mano tra i capelli.
Riley era sereno e già pronto per
andarsene.
Inizialmente non voleva svegliarla, vedendola
dormire tanto serenamente e pensando che difficilmente ci sarebbe
più riuscita durante la sua assenza, ma poi si disse che se
fosse andato via senza salutarla e non avesse più fatto
ritorno sarebbe andata a cercarlo anche all’inferno per
ucciderlo di nuovo con le sue mani, e molto probabilmente avrebbe
rischiato la vita nell’intento.
Evelyn detestava svegliarsi ed era più
che raro un suo sorriso di prima mattina, per questo quello che gli
rivolse gli avrebbe fatto mancare il fiato se avesse avuto la
necessità di respirare.
<< Non osare morire, se no ti
ucciderò io stessa >>.
Riley non comprese se si trattasse delle sue
capacità cognitive appena dopo il risveglio o se parlasse
sul serio, ma scoppiò a ridere.
<< Non ho la minima intenzione di
perdere tutto questo. Non ho intenzione di perdere te >>,
le sussurrò sulle labbra prima di accostarvi le sue.
Sparì dalla stanza senza nemmeno far
cigolare la porta, per non infliggerle la sofferenza di doverlo
guardare mentre se ne andava.
Evelyn affondò il viso nel cuscino e
lo bagnò appena con una lacrima, prima di addormentarsi di
nuovo.
Il secondo risveglio di quella mattina fu meno
romantico e struggente.
Forse stava già per aprire gli occhi
quando un gelo doloroso attanagliò ogni fibra del suo corpo.
Scattò a sedere con un verso
sbalordito, mentre si passava le mani sul viso per far scivolare via
l’acqua e aprire gli occhi.
Poi rimase con le mani a mezz’aria e il
desiderio incontenibile di stringerle attorno al collo di chi le stava
davanti.
<< Buongiorno! Prima di tutto
mettiamo subito in chiaro che non m’interessa quello che tu e
Riley avete fatto su questo letto, né tanto meno che stiate
insieme eccetera, piuttosto i miei più sentiti auguri. Detto
ciò ti avverto che non tollero i ritardatari quindi
aspettati questo >>, Lisa sollevò il secchio
ormai vuoto che teneva in una mano continuando a sparare parole a
raffica, << ogni qual volta non riesci a rispettare
l’orario della colazione, per tutto il tempo in cui
ricoprirò il ruolo di tua sorvegliante. Adesso alzati e
corri in bagno, io ti cerco qualcosa da mettere >>.
<< Che cos’hai fatto? Ti
avevo detto che la svegliavo io! >>, urlò
Sophie, irrompendo nella camera con tempismo impeccabile.
Evelyn si limitò a chiudere la bocca,
che fino a quel momento era irreversibilmente rimasta spalancata, e
ricadde disperata sul cuscino, pensando che fosse vero che dopo un
sogno si doveva sempre pagare un incubo.
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Capitolo 25 *** La fitta di un ricordo ***
29.
La fitta di un ricordo
L’improvvisa
calma che permeava l’aria fredda annunciava che la sera stava
per dare il cambio al pomeriggio, ed Evelyn immaginava il tramonto che
non poteva vedere, oltre la foschia smossa dal loro passaggio.
Le
mancava quell’incomparabile colore rossastro da potersi
ammirare solo al calar del sole, ed era forse una delle pochissime cose
della sua vita ad Aberdeen delle quali avvertiva l’assenza.
Si
chiese come sarebbe stato tornare indietro, lasciare Landry, e non
riuscì a immaginarlo.
Non
se lo chiedeva spesso.
Non
le piaceva pensare al futuro, e anche quando ci provava
s’imbatteva solo in una coltre indistinta che non sapeva
definire.
Non
le piaceva pianificare.
Semplicemente
si lasciava trascinare dal corso degli eventi, di attimo in attimo.
Quella
mattina aveva ricevuto una lettera dei suoi genitori. Poche parole che
descrivevano come loro stessero trascorrendo le vacanze nella residenza
estiva e la richiesta di notizie sulla sua salute e le sue
attività. Evelyn aveva scritto un telegramma in tutta fretta
e senza neanche rileggerlo, annunciando che stava bene e trascorreva
gran parte del tempo a studiare con la zia e leggere i libri che le
assegnava.
Riley
la cinse per i fianchi con un braccio e la attirò sotto un
ballatoio proprio nell’istante in cui lo scrosciare della
pioggia aumentava, poi la guardò e scoppiò a
ridere, << Dove hai la testa Ev? >> disse
senza lasciarla.
Evelyn
si rese conto dell’aria stralunata che doveva avere e
alzò le spalle.
Lui
assunse un’espressione assorta, di quelle che le facevano
venir voglia di distogliere lo sguardo e nascondere il volto contro il
suo petto per l’imbarazzo. << Ti spaventa
l’idea di tornare indietro >> disse, senza
conferire alla frase la benché minima inflessione
interrogativa.
<<
Ti ricordo che non ci penso al futuro, io >>
ribatté, senza convincere nemmeno se stessa.
<<
Ma un giorno tornerai ad Aberdeen >> continuò
lui, come parlando di un momento ancora troppo lontano.
<<
Allora non ti vedrò più? >>.
Lui
rise, << Ti ci vorrà ben altro per liberarti
di me >>.
<<
La vecchiaia, per esempio >> rispose, senza tuttavia dare
l’impressione di preoccuparsi della cosa.
<<
Sarai solo più matura >>.
<<
E decrepita >>.
<<
Non avrà importanza >> dichiarò,
con la consueta e ineluttabile sincerità negli occhi che non
le permetteva di diffidare di quelle parole.
Era
questo che l’amore faceva a un vampiro?
Oppure
solo a lui?
Il
corso degli eventi la trascinava verso Riley, e lei sperò
che fosse così per sempre.
Evelyn
scacciò il pensiero di come sarebbe stato averlo accanto
durante l’inevitabile percorso della sua vita ancor prima che
potesse arrivare, lo prese per mano e lo trascinò sotto la
pioggia, lasciando che l’acqua e il freddo lavassero via
l’immagine di qualcosa che non si doveva guardare prima che
arrivasse.
Era
un’agonia.
Nell’effettivo
significato del termine: lenta e dolorosa.
Lenta,
era l’andatura con la quale scendeva le scale, appiattendosi
contro la ringhiera per lasciar passare gli addetti alla pulizia e al
mantenimento della casa.
Dolorosa,
era la fitta che provava alla vista di quel posto, reso insignificante
dall’assenza di lui.
Evelyn
lanciò uno sguardo al salone e scorse un uomo dal portamento
composto accedere al giardino trasportando dei contenitori stracolmi di
cibo. Il pensiero di passare a salutare i cani di Riley la
tentò per un momento, ma poi lo sguardò le cadde
sulle lancette dell’orologio a parete e si diresse verso
l’atrio senza voltarsi indietro.
<<
Possiamo andare? >> le chiese Sophie, sistemandosi i
guanti di velluto.
<<
Spero vivamente di sì, è già
mezzogiorno >> sbuffò Lisa, infilandosi il
cappotto e porgendone uno a Evelyn.
<<
Sei di nuovo in ritardo, Bianconiglio? >> se ne
uscì Evelyn, prendendo il cappotto.
Lisa
sorrise sarcastica e poi le voltò le spalle avviandosi alla
porta.
Per
Evelyn era difficile tenere il passo, il suo vestito del ballo era
ridotto piuttosto male e quello che indossava apparteneva a Sophie, che
era più alta di lei quanto bastava a far sì che
in quel momento incespicasse continuamente nell’orlo. La
foschia avvolgeva ogni brandello di pietra e rendeva difficile
individuare l’appoggio del terreno, una pioggerella lieve
aveva preso a cadere e il freddo pungeva come aghi acuminati; in un
altro contesto Evelyn avrebbe considerato meraviglioso un simile
paesaggio, ma in quel momento era troppo nervosa anche per potersi
trattenere dallo sbuffare in continuazione.
<<
Questo tempo è assurdo >>.
<<
Credevo ti fossi abituata ormai >>, Sophie la
guardò interrogativa.
<<
Sì, ma non è possibile che piova sempre
>>.
<<
Non proprio sempre… Quando esce il sole vuol dire che
è in arrivo un cambiamento importante, e la leggenda narra
che fu proprio un vampiro a far sì che per il resto del
tempo piovesse, talmente tanto tempo fa che nessuno ricorda chi fu e
come fece… Beh comunque sono tutte vecchie leggende
>>.
<<
Ma il sole non vi dispiacerebbe >>, Evelyn non
riuscì a trattenere un sorriso per il ricordo che le
riaffiorava in mente a quelle parole.
Sophie
rise, << Scommetto che Alexander ti ha confidato il suo
desiderio di fare surf sotto un caldo e splendente sole estivo
>>.
Evelyn
avrebbe voluto unirsi alla sua risata, ma il sorriso le scomparve dal
viso, << Non l’ho neanche salutato
>>.
L’altra
alzò gli occhi al cielo, << Non ce
n’era bisogno, lo rivedrai presto, insieme a tutti gli altri
>> disse con sicurezza, poi sospirò
<< Quanto vorrei che ci fosse una cura al pessimismo
cronico >>.
<<
Io vorrei che ce ne fosse una per la sfortuna >>
sentenziò Evelyn, prima di avvicinarsi a un recinto di ferro
che ospitava un tripudio di rose rosse e bianche. Il loro profumo
permeava l’aria smossa solo dal movimento delle fronde delle
querce. La città era desolata, salvo per la porta aperta di
qualche bottega, che lasciava supporre che dentro ci fosse qualcuno.
Percorrendo
qualche via defilata arrivarono alla piazza principale e a Evelyn
sembrò infinitamente grande in confronto a quando
l’aveva vista stracolma di gente. Nonostante il biancore
della nebbia riuscì a individuare la sagoma familiare della
jeep e due figure indistinte che bighellonavano nei paraggi.
<<
Gentili dame, i nostri ossequi >> le salutarono Matt e
Colin Stevenson, i due gemelli che non avevano mai avvertito
l’esigenza di allontanarsi dall’epoca in cui erano
nati e vissuti da umani.
Evelyn,
che come sempre conosceva risposte a simili formule di saluto, rivolse
loro solamente un sorriso.
<<
Vogliamo appropinquarci? E’ già tardi
>>.
<<
Per te è sempre
tardi, Lis >> disse il moro dei due.
<<
E per te invece non lo è mai >>
sbuffò quella afferrandolo per un braccio e trascinandolo al
posto di guida.
Evelyn
si accomodò sul sedile posteriore accanto alle altre due, e
acuì la vista quando l’auto partì,
fissando tutto ciò che scorreva oltre il vetro del
finestrino, così da potersi imprimere nella memoria ogni
angolo di un luogo che non sapeva per quanto tempo non avrebbe
più visto.
Il
colpo più doloroso arrivò una volta oltrepassata
la soglia di casa.
Ad
accoglierla c’erano solo Rose e Dalia, Sebastian e sua zia
avevano raggiunto gli altri.
Evelyn
desiderò solo di svenire e risvegliarsi quando sarebbe stato
tutto finito. Non riuscì a dire nulla, si morse le labbra
provocandosi un dolore acuto e tentò di placare
l’accelerazione del respiro.
Improvvisamente
la parvenza di vita che aveva assaporato in quelle settimane si era
sgretolata tra le sue mani, e lei non riusciva a prevedere cosa sarebbe
accaduto.
<<
Non è giusto >>.
Evelyn
si voltò fulminea verso Colin, che si era lasciato cadere
sul divano, pensando che le avesse letto nel pensiero. Quello non si
accorse di lei e si limitò a sbuffare e volgere lo sguardo
oltre la finestra.
<<
Colin e Matt solitamente non partecipano attivamente alle battaglie, e
questo non gli piace >> spiegò Sophie,
giacché i due parevano essere sprofondati in una cupa
depressione.
<<
Mi pare logico, tutte le volte che hanno preso parte a un qualsiasi
conflitto hanno rischiato di restarci secchi >>
s’intromise Lisa con la consueta delicatezza.
<<
E’ stata colpa della malasorte >>
ribatté Matt con tono sincero.
<<
Ancora con questa storia? >>.
<<
E’ tutto vero, l’ha confermato Maryan
>>.
Evelyn
fu certa di aver già sentito quel nome, << Chi
è Maryan? >>.
I
quattro ridacchiarono e si guardarono tra loro.
<<
La dovresti conoscere, visto che era finita in cella per averti dato
alcuni… libri? Sì, mi pare si trattasse di libri
>>.
L’immagine
di un ambiente disastrato e di brandelli di devastazione le apparve
davanti agli occhi come se la stesse vedendo in quel preciso momento.
<<
Io non ho mai obbligato nessuno a darmi libri e quant’altro
>>.
<<
E nessuno ha detto che la colpa è stata tua >>.
In
quel momento Dalia apparve con un sorriso sulla soglia, dichiarando che
il pranzo era servito.
<<
Adesso è stata liberata e tutto è tornato come
prima >> le disse Sophie avvicinandosi.
Evelyn
si chiese come potesse avvertire perennemente il bisogno di confortare
il suo prossimo e pensò che lei e Karl fossero nati per
stare insieme.
<<
Maryan non ha una mentalità costantemente stabile, suppongo
tu sappia chi era suo padre >>, Lisa parlava con il suo
tipico tono distaccato e tagliente allo stesso tempo, mentre con gesti
enfatizzati si sistemava il tovagliolo sulle gambe.
<<
Conosco la fama di Klaus Van Cleef, ma so anche che sua figlia
è l’unica che può trovare una soluzione
tra quei suoi libri vecchi >> rispose Matt con una luce
di sfida negli occhi.
<<
Antichi, Matt! I libri sono antichi, non vecchi! >>
intervenne Sophie, sdegnata.
Colin
ridacchiò, poi rivolse un’occhiata a Evelyn, che
stava serenamente sminuzzando una fetta di pane tostato, e le rivolse
un sorriso solennemente triste, << Tu credi nella
sfortuna? >>.
<<
Per esperienza >> rispose lei senza nemmeno riflettere.
<<
Beh io e mio fratello la subiamo in modo cronico. Tempo fa commettemmo
una sciocchezza e adesso ogni occasione è buona per arrivare
a un passo dalla morte >> spiegò con
noncuranza, tuttavia mal celando una nota di afflizione.
<<
E non c’è una soluzione? >>, Evelyn
assunse a sua volta un tono di rammarico.
<<
Maryan la sta cercando, ma ci sono poche speranze >>.
Evelyn
non intese se avessero accidentalmente profanato qualche tomba o subito
la maledizione di un vampiro che avevano infastidito, i due tornarono a
concentrarsi sui loro piatti vuoti con un sospiro e Lisa
iniziò a cicalare senza che lei afferrasse, né
avesse l’intento di farlo, una sola parola del suo brusio.
Sophie invece si mostrava partecipe, probabilmente solo per non
scatenare una delle peculiari scenate della sorella, e di tanto in
tanto le rivolgeva un sorriso.
Evelyn
immerse tutta la sua attenzione nel pranzo, cercando di estraniare i
pensieri com’era brava a fare una volta, e convincendosi di
aver perduto per sempre quella capacità.
I
giorni presero a trascorrere lenti e tediosi.
La
finestra e il paesaggio che essa precludeva diventarono le sue
più assidue frequentazioni, i messaggi che arrivavano
l’unica cosa a ricordarle che tutto ciò che aveva
vissuto nei giorni precedenti era stato reale, nonostante non fosse
certa di riuscire a non perdere di vista il confine tra
realtà e immaginazione.
Erano
rimasti solo i ricordi, un nuovo punto debole nella sua
fragilità. Tutto ormai viveva solo in una scatola, isolata
in un angolo della memoria, e lei sperava solo di non perderne il
coperchio e con esso tutto il contenuto.
Quanto
la sua nostalgia fosse lancinante Evelyn lo capiva solo in quel
momento, confinata tra mura che erano tornate estranee ed esiliata
dall’eternità di coloro che aveva perso.
Sarebbero
tornati indietro un giorno, ma lei non poteva rimanere ad aspettarli.
Il tempo non scorre per tutti allo stesso modo, e percorsi diversi non
dovrebbero incontrarsi. Ma lei era l’eccezione. Il caso raro.
Solo per provare sulla sua pelle quanto fosse doloroso non rientrare
nella normalità.
Nei
momenti in cui la tristezza mutava in rabbia desiderava solo non aver
mai lasciato Aberdeen, non aver mai messo piede a Landry. Quando poi le
capitava tra le mani una nuova lettera di Riley invece comprendeva che
se anche avesse avuto l’assurda possibilità di
tornate indietro, non avrebbe cambiato nulla.
Ormai
il suo tocco e il suo profumo erano solamente quelli indistinti e
fievoli che possono vivere in un ricordo, il verde luminoso dei suoi
occhi andava sbiadendo, e così la certezza di averlo accanto
di nuovo.
Quel
che davvero faceva male dopo il cambiamento non era la
diversità in sé, ma il ricordo di
com’era prima.
Il
locale era ampio, ma la quantità di gente che ospitava lo
faceva apparire angusto e dal soffitto troppo basso. I pesanti
tendaggi, il fumo delle fiammelle delle candele, spente da bruschi
movimenti di mani che si muovevano nell’aria per sottolineare
frasi convinte, e quello delle pipe, aspirate più per
nervosismo che per voglia, conferivano al buio che vi regnava un
aspetto fosco.
<<
Non possiamo più permetterci di indietreggiare, stanno
acquistando sempre più terreno. Dobbiamo passare a una
tattica meno difensiva, puntiamo sull’attacco
>>. Ignorando il significato delle parole di Alexander e
considerando solo l’intonazione della voce si sarebbe detto
che l’argomento trattava di chiacchiere giornaliere,
piuttosto che di strategie belliche.
<<
Ti ricordo che sono in maggioranza numerica, sarebbe un fallimento.
L’ennesima ritirata >> rispose Karl, scuotendo
la testa e calando gli occhi sul legno dell’enorme tavolo
rotondo che li ospitava.
A
quel punto era di norma l’intervento di un terzo uomo a
stabilire quale di due possibilità fosse la migliore, ma
nessuno nella stanza fiatò più.
Risuonò un nome, ma il suo proprietario non lo
sentì nemmeno, lo sguardo impassibile perso oltre la
finestra dove stava poggiato con una spalla.
<<
Cavaliere Comandante dell’Ordinamento dei Custodi di Landry
>>.
I
presenti non avrebbero saputo dire se a stupirli di più fu
il sentir chiamare Riley con il suo appellativo formale, che nessuno
usava mai perché nel caso egli era costretto a prestare
attenzione senza possibilità di scelta, o la voce di
Alexander che nel pronunciarlo aveva per una rara volta perso ogni
traccia di condiscendenza e leggerezza.
Senza
fornire la risposta altrettanto formale che doveva, Riley si
voltò, lasciando intendere esclusivamente da quel gesto che
si era deciso ad ascoltare.
Alexander
sbuffò e chiuse gli occhi per un istante, poggiato al tavolo
con i pugni serrati, poi li staccò dal legno e con uno
slancio troppo veloce da potersi vedere anche per gli altri vampiri lo
raggiunse e lo afferrò con una mano per la collottola, prima
di trascinarlo fuori dalla porta sotto lo sguardo comprensivo degli
altri.
Il
Cavaliere Comandante a quel punto avrebbe potuto anche farlo fuori
senza poi subire alcuna contestazione, ma si limitò a
sorridere amaramente e scuotere la testa avvicinandosi a un'altra
finestra, << Perché proprio adesso?
>>.
Alexander
non diede alcun segno della malinconia che lo attanagliava,
<< Ti dirò le stesse parole che tempo fa dissi
a lei: le cose belle sono destinate a essere deturpate >>.
<<
E tanti saluti ad Alex l’ottimista >>.
<<
Non fare lo spiritoso, è già abbastanza
fastidioso così >>.
<<
Così come? >>.
<<
Così senza una soluzione >>, Alexander gli si
avvicinò e sospirò, << vorrei
poterti dire che andrà tutto per il meglio, ma sarebbe una
sciocchezza. Non so quando finirà tutto questo,
ma… >>.
<<
Lo so >>.
Riley
non lo lasciò terminare, non voleva sentire da una voce
altrui qualcosa che già sapeva di dover fare.
<<
E’ già agosto comunque, non avrebbe fatto molta
differenza >>.
<<
Sì invece. Avrei trovato un modo, ma adesso la penso
diversamente. Anche se non fosse stato adesso, sarebbe accaduto tra un
mese o due, forse tra un anno, ma prima o poi ci avrebbe separati
ugualmente >>.
<<
In altre parole stai dicendo che è meglio per lei
dimenticare e farsi una vita lontano da te? >>.
Riley
socchiuse gli occhi come a volerlo scrutare meglio, <<
Al… >> lo chiamò lentamente,
suscitandogli una smorfia di disapprovazione per
quell’appellativo, prima di assumere l’espressione
che si riserva a un perfetto svitato, << …a
che genere di letture ti sei dato recentemente? >>.
Alexander
afflosciò le spalle e i lineamenti del volto, come chi si
aspetta una frase intelligente e si ritrova invece una scemenza,
<< Se dici così vuol dire che li hai letti
anche tu, e comunque ero solo curioso, con tutto il clamore che hanno
suscitato >>.
Riley
si stupì di riuscire a scoppiare a ridere in quel frangente,
poi pensò che fosse meglio evitare il discorso che lo
avrebbe comparato al vampiro più amato della letteratura
contemporanea, << Troverò il modo di restarle
accanto, anche se dovessi rivederla tra anni >> disse poi
tornando serio.
Alexander
sorrise mestamente, come a voler comunicare con quell’unica
posa tutta la tristezza che provava. Si avvicinò al
davanzale anche lui, e per un po’ nessuno dei due
parlò più. Rimasero in silenzio a guardare fuori
niente in particolare, mentre di tanto in tanto nella stanza attigua
qualcuno alzava la voce e tratti di discussione pervenivano fin
lì, restando inascoltata.
Fu
forse un impercettibile cambiamento della posizione della luna, che
solo un immortale avrebbe potuto notare, a evidenziare che il tempo
stava continuando a scorrere.
<<
Va’ da lei >>.
Quando
Riley si era mosso dall’apertura, allontanando gli occhi
dalla luna non poteva sapere che mentre poco prima la osservava anche
lei stava facendo lo stesso. Lo scoprì solo quando giunse in
prossimità della villa di Josephine, e sollevando lo sguardo
incontrò l’inconfondibile sagoma della sua chioma
scura.
Protesa
dalla soglia della finestra quanto più poteva, Evelyn
poggiava gli avambracci incrociati sul davanzale e guardava
insù.
Prima
che lei potesse notare la sua presenza, si permise uno sguardo al
paesaggio circostante.
Si
soffermò sul vialetto.
Vide
fermarsi una jeep familiare, poi quasi contemporaneamente ne
sbucò fuori una ragazzina minuta e arrabbiata che si diresse
verso l’ingresso a passo spedito, senza rivolgere nemmeno uno
sguardo al ragazzo che, con un’espressione alquanto divertita
in volto, apriva il cofano per armeggiare con alcuni borsoni senza
distogliere lo sguardo da lei.
La
porta si aprì e ne uscì un uomo alto e robusto,
la accolse con dolcezza e un sorriso raggiante, poi una voce squillante
e preoccupata dall’interno…
<<
Riley? >>.
L’immagine
scomparve nello stesso istante in cui lei finì di
pronunciare il suo nome.
Riley
sollevò lo sguardo e le sorrise, pensando che per quanto
potesse essere cambiata da quando era arrivata lì, era
sperduta e fragile come quel primo giorno.
Mentre
lo seguiva con lo sguardo durante la sua agile scalata della distanza
che li separava, Evelyn cercava di convincersi di essere sveglia.
Non
che l’avesse sognato in quei giorni di lontananza. Lo aveva
immaginato migliaia di volte accanto a sé, ma sempre e solo
quando era sveglia.
Nelle
poche volte in cui riusciva a chiudere gli occhi e dormire il sogno era
sempre lo stesso, breve e insignificante. Una sfera di luce a volte
dorata, altre biancastra, si avvicinava ingrandendosi, con una
velocità tale che non aveva tempo di vedere o sentire altro
prima di svegliarsi.
Forse
per una volta stava sognando qualcosa di diverso, si disse prima che la
stretta di lui cancellasse nettamente
quell’eventualità.
Evelyn
sospirò e gli serrò le braccia intorno al collo,
affondando il viso nel suo petto senza dire nulla e sentendo le labbra
di lui posarsi sulla sua spalla, sopra la stoffa sottile della camicia
da notte.
Le
posò una mano tra i capelli prima di baciarla e lei lo
strinse ancora di più a sé, mentre si
riprendevano tutte le volte sottrattegli in quei giorni trascorsi senza
potersi sfiorare se non col pensiero o attraverso la carta di una
lettera.
Evelyn
aveva vissuto diciassette anni della sua vita senza un cuore, o per lo
meno senza uno che funzionasse correttamente, poi era arrivato lui, e
lo aveva attivato; le aveva mostrato come usarlo senza che lei se ne
rendesse conto.
Le
aveva insegnato cosa significasse sentirsi felice e sorridere, o forse
le aveva semplicemente fornito il movente. Ma solo quando era stata
costretta a fare a meno di lui per quei pochi giorni aveva compreso
appieno cosa significasse essere privata di qualcosa.
Quando
riuscì a scostarsi la osservò in silenzio, con lo
sguardo che assumeva quando pensava a qualcosa che lei non riusciva a
scorgergli nemmeno negli occhi solitamente trasparenti. Poi fu talmente
veloce che quando si ritrovò sul letto, seduta sulle sue
gambe, per un attimo rimase disorientata e si morse le labbra. Riley
odiava quel suo gesto di nervosismo, ma il modo in cui le
passò il dito sul labbro inferiore nulla aveva a che vedere
con la velocità del movimento precedente. Era come se a ogni
sofferenza di lei lui ne avvertisse una simile, o forse peggiore.
Improvvisamente
allontanò la mano e distolse lo sguardo, e fu come se per un
attimo si concentrasse, Evelyn sentì il suo petto fremere
sotto il palmo della mano che gli teneva sulla stoffa della camicia;
quando tornò a guardarla non c’era più
traccia di dolcezza sul suo volto. Era terribilmente serio e lei
capì che aveva assunto l’atteggiamento autoritario
e impassibile che non le piaceva.
<<
Per adesso è impossibile che tu stia qui, è
troppo rischioso >>.
Evelyn
sentì l’entusiasmo svanire istantaneamente, ma in
fondo sapeva già che cosa le avrebbe detto, anche se per
quanto avesse tentato non era riuscita a prepararsi a ricevere
l’impatto.
<<
Inoltre è una distrazione che non posso permettermi
>>.
Lei
abbassò lo sguardo, senza riuscire a decidere se odiarlo o
iniziare a provare le fitte per la fine di qualcosa.
<<
Domani partirai con Susan e Grisham, anche loro devono allontanarsi
dalla città. Tra l’altro, indipendentemente da
come stanno le cose, è già agosto e la tua
famiglia ti sta già aspettando >>.
<<
Perfetto >> costatò Evelyn, meravigliandosi
della sua intonazione impassibile. Cercò di divincolarsi
compostamente, ma lui la trattenne per i fianchi, <<
Verrò da te il prima possibile >>.
Quella
frase affievolì, seppur di poco, la sua rabbia e la forza
con la quale stava tentando di scostargli le mani, poi parlò
con una nota di ovvietà, come se si stesse rivolgendo a uno
sconosciuto.
<<
E sei sicuro che ti vorrò ancora? >>.
Riley
sfoderò uno dei suoi sorrisi provocanti che Evelyn non
riusciva mai a contrastare in adeguata misura, quasi sempre la sua
difesa cedeva e le dava la certezza che lui stava per mettere a segno
uno dei suoi trucchi, che lei, con orgoglio infranto e piacere, era
certa di non poter ostacolare in alcun modo.
<<
Avevi rifiutato il dolore >> sussurrò senza
perdere la malizia di quel sorriso. Evelyn sentì la carezza
della sua mano sulla schiena.
<<
I pianti >>.
Ci
mise un’eternità a risalire fino alla sua nuca per
trarla più vicina.
<<
Credevi che i sentimenti ti avrebbero abbattuto, senza renderti conto
che distrutta lo eri già >>.
Per
un attimo sembrò volerle sfiorare le labbra con le proprie,
ma poi deviò la traiettoria sul suo collo, mentre le sue
mani discendevano lungo le sue spalle trascinando i lembi della
camiciola.
<<
Ogni sentimento ti terrorizzava e consideravi solo
l’esistenza della sofferenza, senza nemmeno sfiorare col
pensiero l’idea della felicità >>.
Con
un movimento fin troppo lento la spinse sdraiata sul letto e reggendosi
all’avambraccio iniziò a sollevarle
l’orlo già troppo alto, senza smettere di fissarla
negli occhi.
<<
Adesso conosci entrambe >>.
Si
abbassò per sfiorarle le labbra.
<<
Torneresti indietro? >>, le sussurrò sulla
bocca.
Evelyn
non rispose.
<<
Mi vorrai ancora? >>.
<<
Quanto dovrò aspettare? >> chiese,
disorientandolo per un secondo.
<<
Non lo so >>.
<<
Non sono in grado di essere paziente >>.
<<
Non sei neanche in grado di fare a meno di me >>.
Touché.
Evelyn
sospirò.
Riley
fu certo che non avrebbe più parlato, o non sarebbe
più riuscita a contenere i singhiozzi. La
sollevò, lasciando che si alzasse e muovesse qualche passo
verso la finestra.
<<
Stavo bene nella mia apatia, e tu mi hai ridotto così
>>.
<<
Non stavi bene >> rispose Riley arrabbiato, socchiudendo
gli occhi scuotendo la testa.
<<
Avevi detto di volermi per te, perché ora mi fai questo?
>> continuò lei, senza immaginare la
stilettata che gli stava infliggendo.
<<
Se ci fosse un modo per tenerti qui con me… >>
sussurrò lui alzandosi e sorridendo amaramente.
Le
leggi impedivano la trasformazione di un umano se non in particolari
circostanze di necessità, e nonostante la guerra fosse
già scoppiata se la notizia di una simile violazione fosse
giunta nelle altre Sedi le cose sarebbero notevolmente peggiorate.
Evelyn
smise di chiedersi perché ancora una volta era riuscita ad
avere qualcosa solo per perderla, comprendendo che se anche un motivo
ci fosse stato, in realtà non le interessava.
All'improvviso
era semplicemente talmente arrabbiata che le sue lacrime non erano
più di tristezza. Non sapeva quale fosse esattamente la
causa della sua disperazione, se l’imminente partenza o
addirittura già la distanza che iniziava ad avvertire.
Avrebbe voluto sorridere di nuovo, seppur tristemente, e lasciarsi
consolare, stringerlo un’ultima volta prima di lasciarlo
senza sapere quando lo avrebbe rivisto, ma non riusciva a fare altro se
non serrare i pugni e le palpebre per impedire ad altre lacrime di
scorrere.
Era
così dannatamente fragile.
Le
tornarono in mente i cambiamenti della sua vita, e tutte le sue
reazioni sconsiderate. Quando l’assestamento dei mobili del
salone di casa sua era stato rivoluzionato, non ci aveva messo piede
per mesi. Al passaggio dalle medie al liceo era caduta in depressione.
La volta che la sua professoressa di filosofia si era ammalata ed era
arrivata una supplente, i suoi ottimi voti erano calati drasticamente.
Ma adesso ai suoi occhi ognuno di quei ricordi appariva una
sciocchezza, considerando che stava per lasciare l’unico
posto in cui si era sentita veramente a casa e le persone che le erano
entrate nel cuore come nessuno mai prima di allora.
Era
arrabbiata, ma non sapeva con chi esattamente. Non avrebbe fatto molta
differenza comunque, si sarebbe sfogata come sempre sulla medesima
vittima.
Se
stessa.
Se
stava per perdere tutto doveva essere quel che meritava. Non sapeva
quale colpa le avesse procurato una simile punizione, ma se doveva
essere tremendo doveva esserlo fino in fondo.
Magari
se avesse iniziato da subito a riabituarsi alla sua vecchia vita
sarebbe stato più facile.
E
nella sua vecchia vita tanto per cominciate non c’era Riley.
Lo avrebbe voluto ancora quando un giorno forse troppo lontano avrebbe
davvero mantenuto la promessa di tornare?
Sempre.
Evelyn
deglutì e le palpebre le fremettero un istante appena, prima
di ritrovare la voce per parlare.
<<
Domani ho un lungo viaggio da affrontare, ti prego di scusarmi Riley
>>.
I
passi che mosse verso di lui furono stabili e decisi, come la sua
rabbia.
<<
Ci vediamo presto >>.
Si
chinò sul suo viso stravolto
dall’incredulità come la lama di un pugnale si
china dritta al cuore della sua vittima ignara e impotente.
<<
Buonanotte >>.
Socchiuse
le labbra sulla sua guancia, poi sorrise e fece per incamminarsi verso
l’uscita della sua stanza, senza badare al fatto che
deambulare fuori dalla propria stanza da letto dopo aver dichiarato di
avere sonno non avesse poi molto senso.
La
stretta che le serrò il polso non appena si voltò
sapeva d’ira e turbamento. Evelyn non sapeva esattamente che
reazione prevedere, ma una simile era tra quelle messe in conto.
Erano
il sorriso che gli illuminava il volto e il modo in cui la strinse che
non aveva messo in conto.
Gli
affondò le unghie nelle spalle e le sentì fremere
di una risata, prima che la sollevasse tra le braccia e si lanciasse
fuori dalla finestra.
<<
Forse avevi dimenticato che non ti permetto di farti del male
>>.
Fu l’ultima cosa che udì, prima del fragore
dell’aria gelida che li inghiottiva.
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Capitolo 26 *** In un angolo di mondo ***
30.
In un angolo di mondo
La brezza che le scombinava i capelli scuri era
gelida, esemplare di quel luogo perduto e introvabile dove ogni regola
naturale era rovesciata, ma la sola presenza di lui le impediva di
rabbrividire e la litania delle onde portava via insieme alla schiuma
della risacca ogni sua preoccupazione.
Evelyn indossava soltanto una camicia da notte di
seta turchese, che le copriva le gambe fino al ginocchio, ma anche
quando le bagnò nell’acqua salata non le
sentì tremare.
Guardare l’oceano era un po’
come guardare le stelle: al confronto quasi sparivano
l’importanza e la bellezza di ogni altra cosa, per il solo
istante in cui lo sguardo errava per quelle distese lontane, senza
soffermarsi su nulla in particolare, nessun’onda o
increspatura dell’acqua, nessuna stella più
luminosa delle altre, avvertendo solo una sensazione indefinibile e
piacevole.
Evelyn non riusciva a distinguere il resto dei
sentimenti che provava, insieme alla serenità di chi si
è rassegnato e ha trovato la forza di affrontare qualcosa di
sgradito, aspettando lo stesso concetto dell’attesa, di un
cambiamento, o di un ritorno al passato. In fondo non aveva mai
accettato i saggi aforismi che esortavano a vivere solo in vista del
futuro, e mai del trascorso. Se quel trascorso aveva lasciato
indelebili tracce di felicità, comunemente note come
ricordi, benché sempre dolorosi a rivedersi, allora non era
poi tanto sbagliato sperare in qualcosa di già vissuto, se
vissuto nel senso proprio del termine, che non sempre si interpreta
correttamente. Lei, per esempio, aveva capito di non averlo
interpretato affatto soltanto quando aveva messo piede a Landry, dove
poi aveva capito cosa significasse realmente.
Una lacrima bagnò il sorriso che
rivolse a Riley, senza tuttavia offuscarne
l’autenticità.
Lo strinse forte a sua volta mentre la
abbracciava, senza dire nulla, quasi trattenendo anche il respiro, per
paura di infrangere la perfezione di quell’istante come
lasciando scivolare cristallo al suolo.
Aveva già sperato che tornasse presto
da lei.
Era difficile
descrivere cosa fosse Riley nella sua vita, probabilmente
perché aveva avuto più di un ruolo.
Nemico e
litigante, quando era avvenuto che si scontrassero due rari esemplari
di caparbietà. O semplicemente perché proprio due
rivali finiscono per legarsi in un inspiegabile processo che conduce
alla dipendenza l’uno dall’altro.
Che cosa
sarebbe un eroe senza il suo antagonista?
Una mera
leggenda senza sostanza.
Protettore e
salvatore, un incarico che si era addossato apparentemente per
impossibilità di scelta, in realtà per ferma
volontà.
Amante,
strappandola a quell’apatia che le sembrava indolore, e che
invece era lancinante.
Che cosa
sarebbe stata senza Riley non se l’era mai veramente chiesto,
e non aveva intenzione di pensarci.
Aveva già versato lacrime di nostalgia.
Aveva già lasciato qualcosa di se
stessa in ogni angolo vissuto in quei mesi.
Aveva già salutato tutti in cuor suo,
consapevole che non avrebbe potuto farlo concretamente.
Aveva già imprigionato perfettamente,
con infinita cura, ogni singolo ricordo nei borsoni della sua mente,
nello stesso istante in cui sigillava anche i suoi bagagli materiali,
contenenti oggetti che recavano incisa a loro volta una memoria.
La voce
leggera di sua zia, che sapeva di casa e irrequieta spensieratezza, e
quella velata di Alexander, con quella perenne e inviolabile nota di
allegria.
Le mani di
Sebastian che stringevano i pezzi bianchi della scacchiera, e quelle di
Margareth sempre intente ad accompagnare con i gesti le sue parole
intelligenti, lo sguardo di Cedric sempre fisso su di lei, sin dal
giorno in cui aveva deciso di tenerla sempre con sé.
Gli occhi
azzurri di Karl che assumevano la sfumatura dei sogni quando si
posavano su Sophie, mentre lei era troppo impegnata a rammaricarsi del
passato o a consolare qualcuno per accorgersene.
Le frasi
pacate e opportune di Tristan, e quelle sconclusionate di Christopher
che Harvey non mancava mai di criticare semplicemente per diletto, o
forse solo per dimostrare un affetto che non si è sempre in
grado di esternare nel modo più tradizionale.
Aveva già detto Addio e Arrivederci.
Quindi pensò solo a sorridere.
_
La stazione era semideserta e invasa dalla
foschia. Il confuso vocio della poca gente che attendeva lì
era lieve, parzialmente sovrastato dal calpestio dei piedi di Grisham,
che quella mattina pareva non aver intenzione di avvicinarsi a un
qualsiasi appoggio per il suo posteriore.
Evelyn aveva assicurato a Susan di poterlo
sorvegliare, mentre lei si affaccendava per qualche minuto
nell’unica bottega presente in quel piccolo luogo testimone
di saluti.
Non aveva creduto però che le avrebbe
richiesto tutta quella fatica. Era come se avesse trangugiato una
decina di tazze contenenti un concentrato di caffeina.
Per assicurarselo il più vicino
possibile senza doverlo legare al bracciolo della panchina dove sedeva,
aveva ideato un gioco composto da saltelli e giravolte, giusto per non
sopprimere eccessivamente la lena del piccolo, il quale accompagnava i
movimenti fin troppo veloci con uno scioglilingua altrettanto frenetico
che lei non era riuscita a riprodurre.
Un uomo robusto dal viso rubicondo sorrise
passando accanto a loro ed Evelyn ricambiò, pensando che
alla sua prima visita a quella stazione non avrebbe nemmeno considerato
un simile gesto per uno sconosciuto qualunque.
<< Non vedo l’ora di
salire sul treno! E tu? Anche tu non vedi l’ora di salire sul
treno? Sarà veloce o velocissimo? Ma quando arriva?
>>.
Grisham riattaccò subito con la sua
canzoncina dopo aver sparato cotante parole a raffica.
Evelyn si limitò a ridere, consapevole
che lui non aveva vero interesse a ricevere una risposta.
Il treno era già in ritardo di
mezz’ora per un guasto, quindi non era più
possibile prevedere quando sarebbe arrivato.
Tuttavia per lei l’attesa non era
più snervante di quanto poteva esserlo per chiunque altri.
Capacità intrinseche in un individuo
non possono andare perdute definitivamente, e, anche dopo tanto tempo,
l’estrema necessità aveva fatto sì che
lei rispolverasse quella patina nebulosa che le permetteva di
estraniare i pensieri. Era molto più sottile di
com’era stata in passato e l’effetto non sarebbe
durato abbastanza a lungo, ma le bastava che tenesse almeno sino a
quando avrebbe occupato un posto sul tessuto stinto di un sedile,
mentre il vagone oscillava appena, allontanandosi dalla fermata.
Era pienamente sveglia, benché quella
notte avesse dormito solamente pochi minuti, forzatamente, per negarsi
una sofferenza che era certa non avrebbe tollerato.
Si erano
separati all’alba, quando l’aveva riaccompagnata a
casa di sua zia Josephine, un luogo ormai troppo vuoto
perché potesse passarvi la sua ultima notte da sola.
Sophie era
già andata via con gli altri, lasciando solo una lettera.
Aveva scritto
che non sarebbe riuscita a sopportare un ultimo abbraccio e che
preferiva lasciarla senza un vero e proprio saluto, con
l’apparenza che si sarebbero riviste di lì a poco;
in fondo era un’inguaribile sognatrice, ed Evelyn non poteva
che aspettarsi un simile gesto da parte sua. Aveva lasciato il suo
ultimo sorriso per lei con l’inchiostro sulla carta,
lì dove anche lei poi aveva fatto lo stesso.
I saluti di
tutti gli altri li aveva letti negli occhi di Riley.
Forse gli
avevano mandato tramite lui anche qualche parola, ma quando aveva
accennato a parlare aveva capito che non era la cosa giusta da fare.
Lei non
avrebbe più parlato.
Parole e
singhiozzi passano per la stessa strada, ed è difficile
prevedere quale dei due giungerà per primo.
Non era stato
necessario che esprimesse con voce la sua richiesta, Riley
l’aveva letta nell’ultimo sguardo che si erano
scambiati, prima che lei chiudesse gli occhi e si mordesse le labbra,
affondando il viso nella stoffa che avvolgeva il petto di lui.
Si era
addormentata così, e allora lui aveva potuto soddisfare la
sua ultima folle pretesa.
Non aveva
tuttavia rispettato tutte le clausole dell’accordo.
Prima di
lasciarla l’aveva osservata a lungo, a tratti maledicendosi
di aver acconsentito a quella separazione assurda e irreale.
Poi si era
ricordato della sua recondita fragilità, e si era reso conto
che lasciarla con un sorriso dolorante che lei non avrebbe visto era
l’unico modo.
Così
si erano separati, senza separarsi, in un’illusione, creata
dalla mancanza di un vero e proprio gesto di distacco.
Una folata mosse le sue ciocche a solleticarle il
viso e lei si volse come seguendo una direzione indicatale dal vento,
che nonostante la temperatura, che la obbligava a indossare sciarpa e
cappotto, era tiepido.
Solo allora si accorse di quel colore incredibile
che il mondo aveva assunto.
Un colore che il tempo e gli eventi avevano quasi
portato via dalla sua conoscenza.
Il grigiore pareva essersi riscaldato, e quel
calore aveva dissolto la nebbia, ferendola con una lamina indorata.
Evelyn si accorse di aver camminato solo quando
ciò che stava insistentemente guardando si fece
più vicino.
C’era
un angolo di mondo in un angolo di quella stazione, che era rimasto
freddo. Pioveva sulla panchina di quell’angolo dimenticato,
ma la ragazza che la occupava pareva non curarsene. Si stringeva le
ginocchia al petto e aspettava qualcuno che si sarebbe stupito di
trovarla ancora lì.
<<
Elisabeth? >>.
<< Riley >>.
Bastò quel sussurrò, e le
lacrime che le scivolarono lungo le guance arrossate erano calde come
la colorazione che il mondo aveva acquisito.
“Quando
esce il sole vuol dire che è in arrivo un cambiamento
importante”.
<< Non piangere Ev! Guarda
com’è veloce il treno! >>.
Evelyn si riscosse.
Le ci volle solo una frazione di secondo per
individuare la fonte di quella voce, poi portò entrambe le
mani a coprire la bocca, nel vano tentativo di trattenersi, e
gridò nello stesso istante in cui iniziava una corsa
frenetica e persa in partenza.
<< Grisham no! >>.
Le parve che quell’urlo prosciugasse
tutto l’ossigeno dei suoi polmoni, o forse era semplicemente
il folle movimento delle sue gambe a esigere un’energia che
non possedeva.
<< Guarda
com’è veloce! >>.
Grisham sembrava ancora più felice
adesso che il suo treno era arrivato, solo che non poteva
più aspettare un altro secondo, doveva raggiungerlo subito
dopo averlo tanto atteso.
<< Grisham fermati!
>>.
Evelyn sentì l’aria mancarle
e quando atterrò sulle rotaie e prese a correre ancora
più in fretta anche le lacrime iniziarono a bagnarle il viso
con più frenesia.
Quando lo raggiunse quasi non ci credette, ma non
aveva tempo per esultare. Lo sollevò supplicando che le
forze non la abbandonassero proprio in quel momento, e solo quando lo
vide sovrastarla dall’alto della banchina gli sorrise, mentre
in quell’angolo di mondo con la panchina, due giovani si
allontanavano in direzione di una jeep malandata senza sapere cosa
sarebbe accaduto poi.
Una sfera di luce, a tratti dorata a tratti
biancastra, si avvicinò ingrandendosi, con una
velocità tale che non ebbe il tempo di vedere o sentire
nulla prima di addormentarsi.
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Capitolo 27 *** Sconosciuta ***
31.
Sconosciuta
Una voce soave che non conosceva stava intonando
un motivo triste, che sapeva di nostalgia, e quel suono era talmente
meraviglioso da far sì che ne cercasse la fonte.
La trovò alla fine della navata,
defilata in un angolo buio e circondata da individui che non aveva mai
visto prima. Era una ragazza bellissima, vestita di nero, come tutti
coloro che la attorniavano, seduti sulle prime panche vicine
all’altare. Quel colore cupo li faceva apparire tremendamente
pallidi, e il dolore che gli stravolgeva il viso li rendeva
inavvicinabili.
La giovane continuava a cantare, mentre un
ragazzo dai capelli rossi le stringeva la mano, quasi a volerla
sorreggere, per impedire che cadesse. Poco distante un uomo alto e moro
aveva appena lasciato cadere la mano dalla spalla di un tale di poco
più basso, il quale sembrava non gradire il contatto.
A differenza degli altri non sembrava soffrire.
Pareva piuttosto che i suoi occhi verdi, fissi
sulla bara di legno scuro posta poco distante dall’altare,
fossero offuscati dall’ira.
Se ne stava in piedi, immobile, senza distogliere
lo sguardo.
Solo quando lo raggiunse una donna esile, segnata
dal tempo e dalla sofferenza di quel momento, il ragazzo
sembrò riscuotersi.
Poi anche lui la riconobbe come Josephine, la zia
che aveva ospitato Evelyn durante l’estate.
Quella mattina si aspettava di trovare solo lei
al funerale, e si era stupito non poco quando aveva invece costatato
che parte della chiesa era gremita da estranei.
Non credeva sua figlia adottiva capace di
stringere tanti in rapporti in soli tre mesi.
E a impressionarlo ancor di più era la
vista del dolore reale che aleggiava attorno agli affetti di Evelyn,
che la giovane aveva perso troppo presto, o meglio, erano stati loro a
perdere lei prematuramente.
Lui al contrario non era mai stato in grado di
legarsi veramente a sua figlia, così come il resto della
famiglia. Non che l’avesse respinta volontariamente: era come
se qualcosa l’avesse sempre allontanata, rendendola una
perpetua estranea in quella casa, e lei di conseguenza, inconsciamente,
si era a sua volta rinchiusa in un mondo appartato e solitario, senza
mai tuttavia dimostrare un minimo gesto di sofferenza.
Evelyn non aveva mai fatto parte di quella
famiglia, come non era mai appartenuta concretamente al mondo che
l’aveva circondata per tutti quegli anni. Ne era rimasta al
di fuori, e lui, come anche sua moglie, non avrebbe saputo dire
perché.
In quel momento, in quella chiesa, con
l’odore d’incenso e fiori e la melodia che si
diffondeva lentamente, non riusciva a provare dolore, né a
rammaricarsi di quell’inadeguatezza. Si sentiva spregevole,
ma non ferito, perché era consapevole di non avere colpa.
Dovunque fosse stata in quel momento, Evelyn non
sarebbe stata maggiormente distante da lui, e da tutto il resto che
aveva appena sfiorato in quegli anni d’esistenza, di quanto
lo era stata in vita. Non sarebbe cambiato nulla.
Si riscosse dallo stato di abbandono in cui era
piombato solo quando avvertì qualcosa bruciargli addosso. Si
guardò attorno e quasi subito individuò lo
sguardo infuriato che qualcuno gli rivolgeva. Gli occhi verdi del
ragazzo biondo, assottigliati come a volerlo focalizzare meglio, in
quel secondo avrebbe potuto paragonarli a uno strumento di tortura.
Si sentì un colpevole
all’oscuro della propria colpa.
<< Qualcosa non va?
>>.
Sua moglie Katie vestiva di nero, aveva le guance
ancora umide e soffriva poco più di lui, perché
in vita aveva fatto uno sforzo maggiore per affezionarsi a sua figlia,
senza riuscirci poi tanto meglio.
<< Non è nulla. Torniamo
a sedere, la messa sta per iniziare >>.
Si volse in direzione della prima panca del lato
opposto e iniziò a camminare, mentre man mano che si
allontanava il bruciore che ancora avvertiva sulla schiena diminuiva.
Quando guardò di nuovo in direzione
degli sconosciuti nessuno stava più badando a lui, nemmeno
il ragazzo dagli occhi verdi.
Quest’ultimo fissava la bara, vuota
giacché dopo l’incidente su quella maledetta
rotaia non era rimasto molto da osservare durante l’ultimo
saluto, e stringeva la mano di una donna che gli sedeva accanto, i cui
lineamenti restavano celati oltre il velo che le copriva il volto,
scuro come il resto del suo abbigliamento.
Anche lei rimase immobile per tutta la durata
della funzione, dopo aver sollevato il polso a guardare
l’orologio dall’aria preziosa che indossava, quasi
a voler verificare di quanti minuti il prete avesse ritardato.
Il momento delle condoglianze era quello che
più detestava.
Soprattutto perché non conosceva buona
parte delle persone che gli si mostravano, e che tra le altre cose
sembravano avere improvvisamente una gran fretta.
<< Oh Katie >>
sussurrò Josephine mentre abbracciava la lontana parente,
avendo notato che aveva ripreso a piangere.
La donna ricambiò la stretta,
invidiando l’anziana per aver trascorso con sua figlia i suoi
ultimi mesi di vita e credendo che in quel breve lasso di tempo Evelyn
fosse stata diversa al punto di intessere dei rapporti
all’incirca significativi, a giudicare dalla tristezza che
aveva precedentemente scorto sui visi di quegli stranieri, ma che
tuttavia in quel momento pareva essersi alleviata.
Katie parlò dopo essersi ricomposta,
con un tono dolce e supplichevole << Josephine so che
abbiamo avuto un rapporto decisamente debole in tutti questi anni, ma
la prego di lasciarsi ospitare da noi per qualche giorno,
io… ho bisogno di sapere di lei >>.
A sentirle tanto sincere Josephine assunse
un’espressione immensamente sconsolata a quelle parole,
<< Capisco che ti piacerebbe che ti raccontassi dei suoi
ultimi giorni, e lo vorrei tanto, ma davvero non posso trattenermi
oltre, abbiamo un altro evento cui presenziare a breve, e credimi
quando dico che non posso assolutamente mancare >>.
<< Un altro lutto? >>
intervenne istintivamente il marito della donna.
<< Più o meno
>>.
Chiedendosi come un lutto potesse essere tale
solo in parte, i due coniugi si voltarono simultaneamente verso quella
voce femminile, e nonostante non potessero scorgere il viso della
proprietaria oltre il velo nero che lo copriva, dedussero che doveva
essere piuttosto giovane. Accanto a lei era rimasto per tutto il tempo
il ragazzo biondo, che dopo averla sentita parlare sembrava aver perso
parte della rabbia per assumere un atteggiamento quasi esasperato.
<< Allora… condoglianze
anche a voi >>, dissero marito e moglie con
un’intonazione quasi interrogativa.
La giovane con il velo si avvicinò e
prima di rispondere li osservò per un lungo istante, poi
prese un respiro << Mi dispiace >>.
Il silenzio che piombò allora sul
gruppo d’individui sembrò volersi prolungare per
sempre, finché la stessa non voce aggiunse <<
…per vostra figlia >>, come volendo chiarire
la sua frase precedente.
Tuttavia nella memoria dei due destinatari di
quelle parole la seconda parte di quel discorso non rimase, solo quel
“mi dispiace” s’incise profondamente, in
un modo che l’avrebbe protratto sino alla fine della loro
esistenza, durante la quale avrebbero potuto magari rimuginare sul suo
vero significato.
Fu il ragazzo biondo, con Josephine e un tizio
alto e moro dagli occhi chiari, a congedare tutta la comitiva. Katie
pensò che se fosse stata al posto di sua figlia
probabilmente si sarebbe presa una cotta per uno dei due, ma non
conosceva bene i criteri di giudizio di Evelyn in campo maschile e si
disse che probabilmente era troppo orgogliosa e sprezzante per
innamorarsi, o anche solo degnare lontanamente un ragazzo della sua
considerazione. Tra l’altro si era sempre mostrata
terrorizzata dall’idea del matrimonio; sosteneva che due
persone a lungo andare si sarebbero stancate l’una
dell’altra e che quegli anelli sarebbero stati solo un mezzo
per impedire una separazione che invece era funzionale alla
libertà delle due povere anime scellerate.
Le salirono di nuovo le lacrime agli occhi a
pensare alle poche idee che conosceva di sua figlia.
<< Non piangere Katie, guardami
>>.
Katie puntò gli occhi bagnati in
quelli di Josephine come le aveva chiesto di fare.
<< Evelyn, dovunque si trovi
adesso, è felice >>.
La donna rimase sconcertata dalla sicurezza di
quello sguardo, nel quale poteva quasi leggere la saggezza che anni di
vita vi avevano lasciato, e si stupì ancor di più
della serenità che la invase immotivatamente.
<< Lo spero tanto >>
rispose riuscendo a sorridere.
Poi abbracciò la parente sconosciuta
un’ultima volta, prima di osservarla mentre si allontanava
con gli altri verso alcune jeep parcheggiate nel piazzale, nel punto
più distante dalla chiesa.
<< Te lo avevo detto che non era
una buona idea >>.
<< Non mi aspettavo nulla di
diverso dalla tua bocca >>.
<< Ovviamente, io ho sempre
ragione. Quando lo capirai? >>.
<< All’incirca quando tu
smetterai di fare l’impertinente >>.
<< Tanto lo so bene
>>.
<< Cosa? >>.
<< Che non impari mai. Tu non
ascolti mai >>.
<< Allora se sai già di
aver perso che fatichi a fare? >>.
<< Villano >>.
Riley scoppiò a ridere.
<< Villano collerico
>>.
<< Che gestire la rabbia non era il
mio forte lo sapevi, non ti lamentare >> rispose il
giovane senza perdere il sorriso sfacciato.
<< Sembravi sul punto di azzannare
il collo di quel poveretto, di una cosa simile non ti facevo capace,
che ti avrà mai fatto di tanto spregevole? >>.
<< A me niente >>.
<< Allora a chi? >>.
<< Quando smetterai?
>>.
<< Ma tu rispondi sempre con
un’altra domanda? >>.
<< Io non ho quella voce
>> esclamò Riley, scontento del tono col quale
era stata imitata una frase sua, << e poi come fai a
ricordare tutto quello che ho detto? Te lo appunti? >>.
<< Ma figurati, non ritenerti tanto
speciale da meritare un simile gesto, e comunque non mi hai risposto
>>.
<< A quale domanda?
>>.
<< Che cosa dovrei smettere di
fare? >>.
Prima di rispondere Riley chinò il
capo di lato, poi scandì con estrema lentezza
<< Esasperarmi >>.
<< No che non smetto
>>.
<< Tanto ti sposo lo stesso
>>.
A quel punto la sua interlocutrice emise un verso
di rabbia, levandosi poco elegantemente il grazioso copricapo che le
teneva il velo scuro sul viso; ne sgorgò fuori una folta
chioma di boccoli scuri che lei non aspettò ad afferrare e
gettare oltre le proprie spalle, come improvvisamente infastidita dalla
propria capigliatura, o semplicemente da tutto ciò che la
circondava.
Strinse gli occhi per incenerirlo meglio, poi gli
si scagliò contro e solo dopo avergli piantato con forza tra
le mani borsetta e cappello, quasi a volersi liberare di ogni femminile
qualità, e avergli gridato << Villano
ingannatore >>, girò i tacchi e
marciò fino a una jeep malandata.
Era già da un po’ di giorni
che Evelyn aveva preso a insultarlo e farlo andare in escandescenza in
ogni modo possibile e immaginabile, più precisamente dal
momento in cui lui l’aveva indotta con l’inganno ad
acconsentire alla loro unione ufficiale.
L’odore
del sangue sull’acciaio delle spade permeava
l’aria, amplificato dall’umidità della
pioggia, la quale rendeva la terra cedevole e di conseguenza ogni
movimento più faticoso.
Riley tuttavia
non pareva far caso a nient’altro se non ai nemici che uno
dopo l’altro gli si paravano davanti nel vano tentativo di
ostacolarlo.
L’incidente
di pochi giorni prima aveva lasciato in lui tanta rabbia da sovvertire
radicalmente le sorti di quella guerra, cominciata col presupposto di
protrarsi per anni, e quasi conclusa in un’unica, lunga e
lenta esplosione d’ira.
Il grido di
ritirata sovrastò ogni altro rumore per qualche secondo.
A quel suono
fu tutto un turbinare di mantelli neri e cozzare di spade sulla roccia.
Abbandonavano anche le proprie armi, per correre più veloci,
salvarsi la pelle. Non erano più i vampiri orgogliosi e
austeri che avevano assistito all’inizio di quella battaglia,
tramutatisi improvvisamente in fuggitivi codardi e senza onore.
Uno degli
emissari dei Ribelli che avanzava in fretta e con ostentata sicurezza,
la quale tuttavia non era sufficiente a mascherare la sua reale paura
come lui invece credeva, si fermò e, dopo aver esitato
appena, si voltò e corse a raggiungere i suoi compari che
già si erano allontanati, senza curarsi minimamente di lui e
del suo terrore che si spargeva nell’aria come incenso.
Riley dal
canto suo non era intenzionato a fermarsi.
Non riusciva
nemmeno a provare pena, e forse nemmeno non lo voleva.
Se quei
reietti non avessero dato inizio a quella follia lui sarebbe rimasto
accanto a lei come doveva essere.
Lei non
sarebbe stata da sola in quella stazione.
Un sorriso
beffardo si disegnò sul suo volto un attimo prima che
compiesse uno scatto in avanti. Qualcosa tuttavia arrestò la
sua corsa ancor prima che potesse avere inizio.
<<
E’ uno dei momenti migliori per contrattaccare, piuttosto di
trattenermi vedi di starmi dietro >>.
Alexander
sospirò, << Siamo più forti
Comandante, ma anche stanchi >>.
Riley
sentì diminuire l’adrenalina e rilassò
i muscoli.
<<
Tu sei instancabile >> costatò Alexander,
scuotendo la testa con una mezza risata, mentre con un movimento
fulmineo faceva scattare la sua lama da un punto all’altro
per pulirla dal sangue.
<<
E’ solo la tua impressione, sono esausto >>.
Alexander
sollevò le sopracciglia in un gesto di stupore,
<< A vederti così energico e adirato mi chiedo
quale sarebbe stata la tua reazione se l’avessi addirittura
persa… in fondo hai dovuto solo renderla uguale e noi,
presto o tardi sarebbe successo comunque >>.
<<
Ciò non toglie che sia comunque finita sotto un treno
>>.
<<
Tecnicamente sotto il treno ci sei finito più tu
>>.
<<
Ma non è bastato lo stesso >>.
<<
E’ bastato a impedire che si sfracellasse riducendosi in
tanti minuscoli pezzettini >>. Alexander parlava col
consueto tono disinvolto, quasi stesse raccontando l’ennesimo
aneddoto esilarante, e non una tragedia evitata per un soffio.
<<
Grazie Al, è sempre bello avere qualcuno a descriverti
accuratamente l’incidente che stava per ammazzarti la
fidanzata >>.
<<
Non c’è di che >>.
<<
Vigliacchi >>.
<<
Che abbiamo fatto stavolta? >>.
<<
Non voi! I fuggitivi, ce li avevamo in pugno stavolta! Ma
perché ti senti sempre toccato dai miei insulti?
>>.
<<
Forse perché sono piuttosto frequenti >>
rispose Alexander con un atteggiamento da vittima innocente.
<<
Figurati, e poi eravate voi a parlare di me in mia assenza mi sembra
>>.
<<
Tu senti sempre tutto, Ev? >>.
<<
Io so sempre tutto >>.
<<
Ora che non è più umana è diventata
anche onnisciente? >> intervenne qualcuno alle loro
spalle.
<<
Spero che quello non sia tuo Chris, non vorrei ritrovarmi con un uomo
in meno nella battaglia di domani >> esclamò
Riley, gli occhi fissi sul tessuto che ricopriva il petto di
Christopher, interamente tinto di rosso.
<<
Ah questo… >>, Christopher chinò il
capo a costatare i danni, << solo un graffio
>> disse con un sorriso, un attimo prima di piombare a
terra svenuto.
<<
Chris! >> urlò Harvey sopraggiungendo di corsa.
Evelyn si
precipitò accanto a lui e crollò in ginocchio,
poi fece per controllargli la ferita ma qualcuno le strinse gentilmente
i polsi, fermandola.
<<
Ci penseranno Josephine e Sebastian, lo portiamo subito da loro
>> le sussurrò Karl, prima di sparire e
riapparire accanto a Harvey, che nel frattempo si era già
issato in spalla il ferito e si stava incamminando verso
l’accampamento.
Evelyn non
sembrava intenzionata ad alzarsi. Si limitava a seguire con gli occhi
il gruppo che si allontanava e udì appena la voce di
Alexander che annunciava che li avrebbe raggiunti.
Era talmente
confusa da credere d’essere rimasta sola. Solo quando
sentì due braccia forti sollevarla da terra
ricordò che qualcuno invece era rimasto con lei in quella
radura, e che quel qualcuno non l’avrebbe mai lasciata sola.
<<
Proprio da te tuffarti in una guerra subito dopo esserti svegliata
>> bisbigliò Riley a un soffio dal suo viso,
<< non eri ancora pronta per una cosa simile, avrei
dovuto fermarti >>.
<<
Ti ricordo che ci hai provato, per tre giorni >>.
<<
Allora forse dovrei ricorrere alle maniere forti >>.
<<
Questa è anche la mia guerra >>.
Riley sorrise
tristemente e sospirò.
La sua fragile
Evelyn in mezzo a quella guerra infernale.
Non era
bastato che la morte per poco non la prendesse con sé.
Quella mattina
era corso alla stazione per salutarla davvero, infrangendo la promessa
che la aveva fatto, e non avrebbe mai pensato che mancare alla parola
data potesse essere tanto utile.
Già
per strada aveva avvertito una sensazione sgradevole e aveva creduto
fosse troppo tardi, allora aveva accostato ed era corso fin
lì, nella speranza di arrivare in tempo almeno per vederla
partire, consapevole di infliggersi solo un’ulteriore
sofferenza.
Poi era giunto
a destinazione e subito l’aveva vista.
Ritraeva le
mani da Grisham, che invece le tendeva verso di lei da sopra la
banchina, e si concedeva un ultimo sorriso, per il bambino e per il
mondo.
Si era
lanciato sulla rotaia, ma aveva fatto in tempo solo a stringerla a
sé, prima che il treno arrivasse addosso a entrambi, e lei,
che era solo una fragile umana, non aveva potuto resistere a
quell’impatto.
Poi non era
stato necessario riflettere sul da farsi.
Evelyn
comunque non era cambiata di una virgola. Era solo meno delicata, e
più agguerrita. La testardaggine era rimasta invariata,
anche perché chiunque scommetteva che sarebbe stato
impossibile accrescere qualcosa che già straboccava dal
limite, e ovviamente aveva insistito per raggiungere subito gli altri
sul campo di battaglia.
Con lei, che
aveva scoperto un’insolita inclinazione per l’arte
bellica e aggraziata e letale dominava sul campo, e Riley, che si
dannava nel tentativo di spiegarsi perché per avere
finalmente la sua amata per sempre accanto era stato necessario che
quest’ultima per poco non finisse distesa sotto un treno,
provocandosi una sostanziosa dose di irritazione, le sorti di quella
guerra erano irreversibilmente finite nel pugno dei Custodi di Landry.
<<
Chris se la caverà? >> chiese Evelyn parlando
con un mormorio appena udibile anche all’udito di Riley.
<<
Non sarai seriamente preoccupata, Chris se la cava sempre, e
aggiungerei purtroppo >>.
Evelyn
accennò un sorriso, ma era evidente che non aveva voglia di
ridere. Riley fece per parlare ma lei lo anticipò,
<< Sono solo stanca, domani andrà meglio
>>.
<<
Non andrà affatto meglio, stanotte avranno tempo per
riorganizzarsi e tireranno fuori l’ennesimo stratagemma. Non
combattere, almeno domani >>.
Evelyn non
disse nulla, sbuffò e se ne andò arrabbiata.
La mattina
seguente un pallido ma sufficientemente visibile bagliore
s’intuiva appena oltre la coltre di nubi scure.
Quando Riley
la vide, col mento poggiato su un palmo nell’apparente
atteggiamento di chi ascolta, si accorse subito che era nervosa.
La
avvicinò con uno dei suoi sorrisi maliziosi,
<< Bella giornata, non trovi? >>.
Evelyn gli
rivolse un sorriso sereno, << Vincent ha detto che non
pioverà nemmeno >>.
<<
Beh non mi sembra granché come garanzia, come meteorologo ha
sempre fatto più o meno schifo >>.
<<
Sul mio onore! >> intervenne a quel punto il diretto
interessato.
Riley
ridacchiò.
<<
Scommetto il fodero della mia spada che uscirà il sole
>>.
<<
Andata >>.
<<
Harvey abbi pietà di lui, almeno finché
è convalescente. Se perde il fodero mi sa che si aggancia
direttamente la spada alla cintola e come minimo si trapassa la gamba
>> spiegò Cedric col tono di chi ha
già assistito a quel che ha descritto, o quantomeno a
qualcosa di simile.
Christopher si
rabbuiò, ma la sua espressione mutò in una
più terrorizzata quando vide sopraggiungere Josephine e
Margareth, seguite da Tristan e Sebastian.
<<
Stavolta non voglio assistere >> annunciò Lisa
lasciando la stanza.
<<
Anch’io me la risparmio volentieri >>, Sophie
saltò giù dalla sedia e si diresse alla porta,
poi si voltò giusto il tempo di notare lo sguardo dubbioso
che Evelyn le rivolgeva e con le mani mimò la forma di una
siringa.
Difatti
Christopher si era già slanciato verso la finestra, davanti
alla quale si pararono Tristan e Sebastian, mentre Alexander e
Margareth gli chiudevano la via di fuga alle spalle e Josephine si
avvicinava con l’arma del delitto.
Evelyn rivolse
alla povera vittima un sorriso compassionevole, lieta di non trovarsi
nei suoi panni, e poi sentì solo un farfuglio confuso di
Christopher riguardo a degli aguzzini mentre usciva anche lei.
Riley se ne
stava poggiato con le spalle a un muro, o meglio, a quel che rimaneva
di un muro, e guardava in cielo.
<<
Hai finito con i messaggi subliminali? >> gli chiese
atona. Nonostante la sua risata fosse uno dei suoni più
limpidi e caldi che lei avesse mai udito, la irritò.
Stava cercando
di spaventarla, e il fatto che ci stesse riuscendo la mandava su tutte
le furie.
Lui non si
preoccupava nemmeno di preoccuparsi, era allegro come un gatto in una
tonnara, probabilmente perché era certo che sarebbe riuscito
a farla desistere.
Evelyn
lanciò uno sguardo alle nuvole sopra di loro, ma se ne
pentì subito dopo aver scorto il sorriso trionfante di Riley.
<<
Maledizione è solo un po’ di sole!
>> esclamò.
<<
Anche quel giorno alla stazione era solo un po’ di sole
>>.
<<
Sono solo storielle, il sole esiste anche a Landry, e che ti piaccia o
no io oggi scenderò in campo come tutti gli altri giorni!
>>.
Si
voltò e si allontanò indignata, senza neanche
attendere una risposta.
Evelyn
detestava il fracasso.
Quel suono
indefinibile di tanti rumori sgradevoli malamente accostati.
Lo aveva
odiato in casa Mcgrath.
Ai pranzi
domenicali, alle cene delle festività, ai compleanni delle
prozie, quando l’ego di ogni suo parente doveva
necessariamente lottare a suon di grida per imporsi sugli altri.
Evelyn odiava
anche la violenza. Quella fisica s’intendeva. La sua
ammirazione era tutta per quella psicologica piuttosto.
Per questo,
chi la conosceva come Riley, e forse soltanto lui, avrebbe giurato che
quell’aria appagata e quel mezzo sorriso che sfoderava quando
si aggirava per il campo erano falsi.
Eppure in quel
momento, mentre accarezzava con la mano inguantata le else delle spade
riunite ordinatamente nell’armeria, ancora indecisa su quale
fosse quella perfetta per l’occasione, quasi stesse
scegliendo un abito da quel tripudio di pizzi e merletti che era il suo
armadio, apparentemente ignara della presenza di lui e dei suoi occhi
fissi su di lei come accadeva tanto spesso da cancellare ogni possibile
accenno di stupore, sembrava serena, forse impaziente, ma se della fine
o semplicemente dell’atto non avrebbe saputo dirlo.
Riley avrebbe
voluto intrappolarla contro un muro e lasciarla andare solamente dopo
averla sentita giurare che sarebbe rimasta al sicuro ad aspettarlo, ma
lei era Evelyn DeMordrey, e aveva ereditato la testardaggine di tutte
le generazioni del casato.
Riley non si
curava molto del suo di casato, né delle cose che da esso
aveva ereditato, ma probabilmente l’arte
dell’inganno era una di quelle.
Mosse qualche
passo indietro, verso la porta, e la oltrepassò solo dopo
aver osservato la mano esile della giovane serrarsi
sull’impugnatura di una spada piuttosto semplice e consumata;
la lama non luccicava come quella delle altre perché era
ricoperta di graffi e scheggiature, il colore era opaco e il filo non
sembrava nemmeno abbastanza tagliente. Forse Evelyn era stata attratta
dagli ornamenti dell’elsa, anche se anch’essi
dovevano aver brillato molto di più un tempo.
Lui non si
accorse se rimase delusa o meno dopo aver intuito che in fondo non era
granché la sua scelta, sapeva benissimo che, una volta
presa, poteva rimanere quella soltanto.
Alexander era
seduto cavalcioni su una panca di legno, immerso nell’opera
di manutenzione della sua spada.
La lucidava
con la stessa frequenza con la quale Harvey e Christopher scommettevano
e Margareth scopriva un nuovo libro, anche quando non doveva rimanere
appesa a mostrare tutta la sua lucentezza sul camino del salone. La
lama scura, tanto che nessuno conosceva veramente il materiale che la
componeva, doveva essersi consumata più sulla pezza che
sulla carne dei nemici, sulla quale tuttavia quando era necessario si
abbatteva impietosa come chi la maneggiava.
<<
Dovrò aspettare che il panno o la spada si consumino prima
di avere la tua attenzione? >>.
<<
Sono in grado di concentrarmi contemporaneamente su molte
più cose di quante ne immagini >>.
Riley fece per
replicare ma qualcuno intervenne prima che potesse aprir bocca.
<<
Allora mentre accogli la sua richiesta d’aiuto e lustri il
tuo spadino, perché non pulisci anche la mia di spada?
>>.
Alexander
rivolse a Tristan lo sguardo più truce che poteva riuscirgli
in quel momento, mentre Riley per lo stupore non riuscì a
fare lo stesso.
<<
Questo è favoritismo, a lui dirai di sì,
è ingiusto >>.
<<
E chi lo dice? Se prova di nuovo a convincermi a dissuadere
Ev… >>.
<<
Non ci penso nemmeno >> lo interruppe Riley.
Tristan parve
stupito da quell’uscita, poi si allontanò
malinconico afferrando una pezza lì vicina. Sicuramente alla
fine avrebbe abbandonato quella spada per cercarsene un’altra
piuttosto che pulirla davvero.
Anche
Alexander sembrava privo di previsioni.
<<
Se non mi ha accontentato per l’ultima richiesta, come non
l’ha fatto tante altre volte, stavolta non dovrà
rifiutare >>.
A
dimostrazione del coinvolgimento che lo colse Alexander sorrise e mise
da parte la spada, gesto alquanto insolito per le sue abitudini,
giacché la lama non era ancora abbastanza scintillante da
riflettere perfettamente la sfumatura chiara dei suoi occhi
improvvisamente allegri.
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Capitolo 28 *** Cerchio d'ombra ***
In primis:
le mie scuse per il tragico ritardo. Sarebbe inutile infastidirvi
ancora spiegandovene le motivazioni perché spero con tutto
il cuore che abbiate tanta fretta di leggere.
Posso
solo chiedere Scusa, Scusa e ancora Scusa…
Mi
auguro che possiate perdonarmi e che apprezziate la storia con il
fantastico entusiasmo dimostratomi specialmente da alcune lettrici che
mi hanno dato il loro parere, che per me è stato importante
davvero.
Grazie
di cuore.
32.
Cerchio d’ombra
Evelyn
sedeva su un esile e basso muro di pietra piuttosto scomodo, le mani
poggiate sulle ginocchia, in un gesto rilassato, in uno strano
contrasto con la posa perfettamente raddrizzata della sua schiena, che
conferiva al suo atteggiamento una caratteristica quasi marziale. Stava
immobile lì a oziare, lo sguardo dritto innanzi a
sé, come seguendo un’immaginaria linea diretta in
un luogo lontano.
Come
i soldati senza paura o impauriti, che aspettano sereni o agitati che
la guerra li chiami, per combattere con in pugno i loro ideali insieme
alle armi, o che attendono il celere arrivo della fine, per tornare a
casa, senza ideali e senza gloria.
Lei
non era certa dei suoi ideali e non sapeva più dove fosse
casa sua. Non bramava la gloria e la sua arma non meritava i migliori
complimenti. Era una spada malandata, per questo l’aveva
scelta. Anche lei si sentiva malandata e opaca come quella lama che non
riluceva più, consumata dal corso del tempo e da chi
crudelmente l’aveva obbligata a combattere per i propri fini.
L’abbraccio
di Riley era stato un luogo sicuro, come le coperte del suo letto a
casa di sua zia, sotto le quali spesso alcune notti, in segreto, si era
nascosta per non vedere il bagliore dei lampi, per non sentire il
fragore dei tuoni, e per escludere tutti i suoi dubbi e le sue paure,
che non potevano oltrepassare l’immaginaria barriera di
quella stoffa pesante. Non aveva più età e
preoccupazioni sotto quelle coperte, si perdeva in pensieri che la
portavano dove nella realtà non poteva arrivare.
In
quel momento, mentre osservava la notte abbracciare il bosco e la luna
riflettersi su un piccolo specchio d’acqua poco distante,
desiderò per un istante di correre sotto le coperte o tra le
braccia di Riley, per scacciare la paura che quella guerra potesse di
nuovo portarle via quello che di più prezioso possedeva da
troppo poco tempo.
Nello
stesso momento in cui involontariamente sospirò,
abbandonò la sua posa ordinata e si accorse di essersi
tradita.
<<
Si sospira di tormento o piacere… >>.
E
lui era sempre presente quando la sua fragilità si mostrava
senza che lei riuscisse a impedirlo.
<<
…momentaneamente mi permetterei di escludere il secondo
motivo >>.
I
suoi occhi verdi furono improvvisamente vicini e lei si ritrasse.
<<
Hai paura >>.
Evelyn
abbandonò il suo posto e mosse qualche passo, allontanandosi
quanto bastava a voltargli le spalle.
<<
Vi sbagliate comandante >> rispose con eccessiva calma,
parlando lentamente e strascicando le parole quanto le bastava per
assumere un’espressione impassibile, adeguata a mascherare la
sua imminente menzogna.
<<
Sono forte abbastanza >> continuò, voltandosi.
A
quelle parole nella calma di Riley parve schiudersi
un’impercettibile fessura, attraverso la quale lei era
intenzionata a farsi strada, fino a giungere in quel luogo troppo
distante che era la debolezza di lui, per proteggere se stessa da
parole che non sarebbe stata in grado di contestare, semplicemente
impedendogli di pronunciarle.
Avanzò
verso di lui e scosse lievemente il capo, << Continui a
vedermi come la fragile ragazzina che è arrivata a Landry
qualche tempo fa, un tempo che forse ti sembra vicino, ma che io vedo
lontano come i giorni della mia infanzia >>.
Riley
non disse nulla e i limiti della fessura parvero allargarsi.
<<
Questa guerra mi appartiene, e non sono meno innocente di te
>>.
Ormai
i loro visi erano vicinissimi, e guardarlo negli occhi era per lei un
vantaggio come sarebbe stato per un uomo con la corazza combattere
contro un avversario vestito di stracci.
<<
Tu mi hai coinvolto nelle tue colpe, sono un’assassina
anch’io e non me ne pento, perché nemmeno per
coloro che uccido esiste il pentimento >>.
Lo
fece trasalire quella voce sicura che parlava di omicidio e peccato.
<<
Sono cresciuta senza un padre e una madre, senza quel che avrei dovuto
avere >>.
Riley
stavolta dovette quasi trattenere una smorfia di sofferenza.
<<
Non cerco la vendetta, voglio solo tutto ciò che mi
appartiene >>.
Evelyn
lo vide sollevare il capo e deglutire, mentre si lasciava alle spalle
la fessura che le aveva consentito di raggiungere la sua meta. Poi i
suoi occhi verdi sfuggirono alla sua vista per fissarsi su un punto
oltre la sua figura minuta.
<<
Chi non teme la morte è perché non ha nulla che
lo spinge a vivere >>. Riley parlò riportando
su di lei gli occhi, la cui sfumatura ben s’intonava con il
suo tono di rimprovero e pregno di delusione.
<<
I tuoi aforismi non mi servono Riley >>.
Lui
accennò un sorriso, di quelli che non le facevano mai capire
se il colpo era andato a segno.
<<
Ma certo, perdonami >>.
Evelyn
inspirò, come se l’aria gelida che le invadeva i
polmoni e le pungeva la superficie pallida del viso potesse esserle
d’aiuto nell’ardua impresa di mantenere la calma.
Quando
Riley Hylton abbassava la guardia, era solamente per sferrare un altro
attacco, che solitamente si rivelava quello finale, più
vigoroso e letale di tutti gli altri.
<<
Non ero venuto per spargere perle di saggezza >>
iniziò con una lieve risata, poi un’espressione
seria e vagamente sofferente tornò a coprirgli il volto,
<< piuttosto avevo qualcosa da comunicarti
>>.
Evelyn
serrò i pugni, conficcandosi le unghie nella carne,
lì dove ormai avevano lasciato un solco perenne. Se Riley
aveva sferrato il colpo finale, lo aveva fatto da tempo,
così da non lasciarle scampo, né
opportunità di contrattacco. E lei, come una sciocca, ignara
di tutto, adesso non aveva a disposizione nessuna via
d’uscita se non quella di perdonare o dire addio con rabbia.
Ma se anche era forte abbastanza da affrontare una guerra, con le sue
battaglie, il sangue di altri sulla spada e sulle mani, non lo era
tanto da ripromettersi la seconda circostanza.
<<
Allora parla >> sibilò senza muoversi.
<<
Già vai in collera? Ancor prima che io possa salutarti come
avrei voluto? Probabilmente non me lo permetterai nemmeno
>>.
Quello
doveva essere solo il preludio della sferzata fatale, ma il dolore si
era già risvegliato e iniziava a farsi strada lungo i suoi
nervi, fino a raggiungere la testa ed esplodere. << Anche
tu già prevedi che non vorrò più
saperne di te… sempre che non ti riferisca a un saluto
più… definitivo >>.
<<
E’ una minaccia di morte? >>.
<<
Forse >>.
Evelyn
ammirò i canini di Riley risplendere del bagliore argenteo
della luna, insieme a tutta la sua arroganza che tanto la faceva
infuriare, poi la risata di lui si smorzò bruscamente,
seguita da parole avvelenate come il suo sorriso.
<<
E’ probabile che non dobbiate nemmeno scomodarvi milady,
presto qualcuno potrebbe inconsapevolmente esaudire il vostro desiderio
>>.
<<
Non sono così fortunata >> rispose
all’istante, con parole involontarie.
<<
E’ evidente che la sorte si è finalmente accorta
della vostra presenza, e per una volta vuole favorirvi >>.
<<
La sorte gioca con me dalla notte in cui sono venuta al mondo, e forse
voi siete solo l’ennesimo strumento nelle sue grinfie, e
forse, adesso, sta per colpire ancora, ma di certo non per favorirmi
>>.
<<
Siete sicura che la mia assenza non sarebbe a vostro favore? Ad ogni
modo non le concederei mai un tale prestigio, se qualcuno adesso sta
per colpirvi, quello sono io >>.
<<
Se state per morire, come avete detto voi stesso, allora la vostra
perdita probabilmente non sarà per me uno svantaggio, quindi
state per sferrare un colpo vano, milord >>.
<<
Che non soffrireste della mia perdita è la più
grande sciocchezza che io abbia mai detto, e il vostro assenso la
più grande menzogna che io abbia mai sentito
>>.
Ne
morirei,
si ritrovò a pensare Evelyn, prima di cercare di contenersi,
senza riuscirci. Scattò in avanti, con la sua
velocità eccellente che superava anche quella del suo
interlocutore, il quale, infatti, non si accorse di nulla finché
non si ritrovò disteso a qualche metro di distanza dalla sua
precedente postazione, con qualcosa a bagnargli la divisa e i palmi
delle mani poggiati a terra per sollevarsi. Riley rimase con un
ginocchio immerso nell’acqua, ai limiti del minuscolo lago
che catturava l’immagine perfetta della luna splendente di
quella notte. Sorrise alla vista dell’espressione ancora
adirata di Evelyn, poi si alzò e mosse qualche passo verso
di lei, assestandosi con indifferenza la camicia.
<<
Con queste tue reazioni mi dai solo conferma di ciò che dico
>>.
Evelyn
a sua volta non si era resa conto del movimento con il quale Riley
aveva catturato il suo mento in una mano, costringendo i loro visi a
stare talmente vicini da confondere i reciproci respiri, scossi da
quella rabbia familiare che li accomunava.
<<
Ad ogni modo… non chiederò il tuo consenso per
prendermi il saluto che mi devi >>.
Le
impedì di proferire parola, smorzando la frase tagliente che
stava per pronunciare con un bacio appassionato. Quando Evelyn
sentì in bocca il sapore di un addio ebbe paura. Riley la
stava salutando davvero, oppure le sue doti d’ingannatore
erano giunte al loro massimo epilogo.
Non
credeva nell’amore lei, quando era arrivata a Landry. Affetto
sciagurato, perdono immeritato, sacrificio inappagato: così
si era tradotto per lei quel termine, prima di conoscere colui che la
stringeva in quel momento, senza suscitarle la minima voglia di
spingerlo via. Era addirittura rimasta delusa da se stessa quando si
era accorta di essersi legata a Riley in un modo che neanche lei
riusciva a spiegarsi.
Per
la prima volta nella sua vita desiderò con tutta se stessa
che lui stesse mentendo.
La
voce di Riley fu l’ultima a echeggiare nell’aria.
Evelyn non disse nulla. Lo guardò solamente per pochi
secondi, quando lei non aveva voglia di parlare erano i suoi occhi a
farlo per lei. Riley vi lesse tutto quel che doveva, poi si
allontanò.
Lei
osservò i primi passi che fece, prima di sparire alla sua
vista con una velocità che tradiva l’angoscia che
anche lui provava.
Evelyn
iniziò a correre dalla parte opposta.
Sfrecciò
per il bosco, tra gli alberi, sulla terra umida, saltando da una roccia
all’altra, spingendo al limite della possibilità
anche i muscoli di una vampira giovane e forte, quando questo era utile
ad accorciare le distanze e risparmiare tempo.
Si
fermò poco prima di avvicinarsi alla porta della massiccia
costruzione in pietra cui era giunta, poi tentò di assumere
un atteggiamento disinvolto e s’incamminò.
All’interno
delle mura, nel piazzale esterno all’edificio, regnava un
ordinato trambusto. Il loggiato era affollato di tavoli attorniati da
sedie e dai rispettivi occupanti, assorti nelle loro discussioni.
Alcuni si trovavano d’accordo sui reciproci modi di agire,
altri dibattevano animatamente. Tristan era intento a frapporsi tra due
tali che si avvicinavano pericolosamente. Vincent si faceva bello agli
occhi di un gruppo d’individui che parevano notevolmente
più giovani e scanzonati di lui e che ascoltavano assorti.
Lisa
sfruttava i due gemelli esonerati da ogni battaglia, che eseguivano gli
ordini con quell’aria perennemente insoddisfatta e offesa; li
spediva a destra e a manca a consegnare messaggi che lei non poteva
recapitare di persona. Di sicuro doveva essere in ritardo,
pensò Evelyn senza trattenere una risatina. Da
un’altra parte Margareth stava penosamente abbattendo Cedric
al suolo a suon di fendenti, mentre Christopher, che sembrava ancora un
po’ malandato, e Harvey si godevano lo spettacolo.
C’era anche Sophie, seduta in disparte, intenta a osservare
qualcosa a poca distanza da lei e quando ne seguì lo sguardo
non si stupì di vedere la chioma rossiccia di Karl spiccare
tra una folla di gente.
Prima
di oltrepassare la porta, accorgendosi con soddisfazione di essere
riuscita a passare inosservata, si volse un momento indietro e
pensò che da nessuna parte giungeva un minuscolo segnale di
allarme e nessuno mostrava un’espressione anche solo di vaga
preoccupazione. La certezza della vittoria era già
attecchita nel pensiero comune, e il dubbio di una possibile sconfitta
era oramai solo una lontana reminiscenza.
Guardava
dinanzi a sé l’ordinato guazzabuglio di visi e
sorrisi, che le apparivano familiari come non mai. Vivevano di tragedie
e utopie quegli individui fuori dal comune, ed erano tali
perché avevano da tempo perso qualità come
l’invecchiare e il ragionare concretamente; in quel momento
nella sua testa si formava la certezza che neanche il più
anziano dell’enciclopedica stirpe dei Lennox avrebbe
resistito alla tentazione di lasciarsi trasportare da un’idea
positiva, se intorno a sé aleggiava un pesante strato di
ottimismo, e forse il più incorreggibile truffatore dei Von
Ziegesar ci avrebbe messo poco ad abbandonare una buona mano di carte
per unirsi anch’egli agli altri… come anche, se la
disperazione avesse preso il sopravvento in una situazione alquanto
tesa, persino la tanto decantata calma dei Sievers sarebbe svanita nel
generale sentimento di sconforto. Un raggruppamento concorde di gente
che pensava all’unisono era quello che vedeva un attimo
prima, e una serie d’individui diversi e scomposti un attimo
dopo.
Trattenne
una risata pensando a quanto affascinante trovasse tutto
ciò, e quanto spassoso, giacché era compito
proprio del suo povero Riley tenere a bada una massa di simili spiriti
eccentrici.
Trovò
Alexander in un salone, vicino al fuoco crepitante di un camino. Era
intento a leggere un pezzo di carta malandato che doveva essere una
lettera o qualche messaggio dalla prima linea. Sembrava sereno ed
Evelyn quasi si dispiacque di disturbarlo, vedendo che abbandonava la
sua posa che qualunque pittore avrebbe considerato perfetta per il suo
quadro migliore.
Quando
la vide sussultò, come se lo avesse colto di sorpresa,
impreparato.
<<
Evelyn, qual buon vento? >> esclamò con un
sorriso.
<<
Di bufera, se non mi dici all’istante che cosa tramate tu e
il tuo compare biondo >>.
Quello
esordì con un’espressione al colmo dello stupore.
<<
Non ti nascondo che mi terrorizza alquanto che due menti come le vostre
si uniscano per pensare insieme >> continuò
lei.
<<
Illuminami, te ne prego, perché non capisco davvero di cosa
parli >>.
<<
T’illuminerei d’immenso, con una fiaccola
possibilmente >>.
<<
Per quanto le tue intimidazioni possano essere infinitamente artistiche
non sono comunque gradite >>.
<<
Non lo sono neanche i vostri disonesti complotti >>.
<<
Sono artistici almeno? >>.
<<
Vagamente. Allora dov’è andato? >>.
<<
Il mio compare biondo, nonché tuo compagno per la
vita… si sta recando in questo momento alla Reggia
>>.
Evelyn
non poté fare a meno di sgranare gli occhi.
<<
Nulla di preoccupante, deve solo contrattare il rilascio di alcuni
ostaggi >>.
<<
Ostaggi? >> esclamò lei ancora più
stupita << non sapevo che avessimo fatto prigionieri
>>.
<<
Infatti, sono loro che hanno preso alcuni dei nostri >>.
Alexander
parlava in tono talmente sereno che lei iniziava a credere che durante
uno degli scontri avesse contratto una qualche lesione cerebrale.
<<
Ev sei così apprensiva, smetti di preoccuparti, anche se non
ho ben capito se per i prigionieri di guerra o per Riley
>>.
Evelyn
ignorò deliberatamente la sua ultima frase e
iniziò a passeggiare avanti e indietro per la stanza.
<<
Gli ha dato di volta il cervello? Partire così! Si
è defilato tranquillamente e in silenzio!… che
cosa crede di fare? No, non ho abbastanza tempo per insultarlo a
dovere… dimmi che strada ha preso, adesso, per il tuo stesso
bene Alexander Lustabader! >> ringhiò la
ragazza.
Alexander
si voltò, sconvolto. Per un momento fissò gli
occhi su un qualche pezzo di mobilio della stanza poi la
guardò e sorrise calorosamente. << Devi
prendere il sentiero verso la costa, nel fitto del bosco
>>.
Evelyn
aprì la bocca ma la serrò subito dopo, spiazzata.
Le altre minacciose frasi di convinzione che aveva preparato non le
servivano più, e ciò la stupiva non poco.
<< E poi? >> chiese, sulla difensiva.
<<
E poi aspetti che la vendetta dei Ribelli si compia una volta per
tutte. Credo che non dovrai nemmeno aspettare troppo perché
ti trovino, perché so che non ti piace aspettare…
>>, concluse quell’uscita con un sorriso
luminoso che ben si accordava con il tono gaio col quale aveva parlato.
<<
Alexander! >> esclamò Evelyn, indignata e
offesa. Doveva ritenerla piuttosto debole per dire una cosa simile.
<< Gli sono sfuggita da umana…
>>.
Il
suo interlocutore fece un verso che smorzò la sua frase.
<<
Tu sei sfuggita alle ombre Evelyn, perché nessun Ribelle era
scellerato al punto di addentrarsi nella città e rischiare
tanto solo per te. E’ vero che desideravano la tua morte
ardentemente, ma altrettanto non volevano rendere atroce la loro
>>.
<<
Ma cosa vuoi che gliene importi ormai? Stanno giocando alla guerra e
per il momento hanno accantonato l’intento di darmi la caccia
>>.
<<
E’ sempre meglio non rischiare >>.
<<
Mi ritieni tanto fragile da non sapermi difendere? >>.
<<
Perdonami se mi preoccupo così per te, ma la risposta
è sì >>.
Evelyn
era allo stesso tempo offesa da una così scarsa
considerazione del suo potere e intenerita da un simile eccesso di
premura nei suoi confronti, quindi decise che era meglio sviare la
conversazione. << Ti potrei ordinare di dirmi tutto
quello che voglio sapere >> pronunciò con
l’intonazione che si conferisce a un’informazione
casuale.
<<
Non ce n’è bisogno. Riley tornerà sano
e salvo. Altrimenti sarei stato inquieto anch’io
>>.
<<
E’ sicuro che tornerà illeso? >>.
<<
Abbastanza sicuro >>.
<<
Abbastanza sicuro non è completamente sicuro
>> esclamò lei muovendo le dita per mimare le
virgolette.
Alexander
sbuffò. Doveva ritenere davvero inutili le sue
preoccupazioni, ma lei non riusciva a porvi rimedio. Era un istinto che
non spiegava nemmeno a se stessa quello di essere in pena per Riley
ogni qual volta si allontanava. Forse qualcuno l’avrebbe
chiamato “innamoramento”, ma soprattutto negli
ultimi tempi quel termine le piaceva sempre meno. Non era mai stata
brava a dirsi la verità dopotutto.
<<
Io ho bisogno di essere certa che tornerà >>.
<<
Scommetto che avete litigato non più di qualche minuto fa
>> rincarò Alexander.
<<
E sono stata spietata… >> borbottò
quella.
Lui
fece per parlare ma lei lo anticipò.
<<
…non mi riesce altrimenti >>. Detto
ciò ricominciò a passeggiare per la stanza, ora
affacciandosi alla finestra, ora mettendo le mani sui fianchi e
sbuffando.
<<
Ci sarebbe un modo… >>.
La
voce di Alexander richiamò la sua completa attenzione.
<<
… per rendere a Riley l’impresa meno rischiosa,
anche se ci tengo a ribadire che in realtà rischiosa non lo
è affatto >>.
Evelyn
non riusciva più a pensare
all’eventualità di un complotto dei due,
poiché anche se le parole di Riley gliel’avevano
fatto temere prima, adesso quelle di Alexander, che si ostinava a
negare che ci fosse alcun pericolo per il summenzionato, la
rasserenavano totalmente al riguardo, e sicché quando
c’era da complottare e mettere in scena il migliore dei due
era proprio il biondo, poteva dirsi quasi del tutto certa che non
avesse nulla da temere in quanto al rischio suo di cadere in una loro
trappola, almeno per il momento.
<<
Prima però c’è una storia piuttosto
divertente che devi ascoltare >>.
Evelyn
strabuzzò gli occhi, << Non si può
rimandare? >>.
Alexander
stava per scuotere la testa con risolutezza ma qualcosa fuori della
porta catalizzò l’attenzione di entrambi.
<<
Corri Sebastian per l’amor del cielo! >>
gridò una voce familiare.
<<
Sono il meno indicato per questo genere di cose…
>> rispose una voce altrettanto conosciuta e piuttosto
irritata.
Si
accavallavano parecchie voci e provenivano tutte dal corridoio, ma solo
due figure irruppero nella stanza.
<<
Avete visto passare qualcuno? >> esordì
Josephine tutta trafelata, sistemandosi sulla testa una cuffietta color
pervinca.
Che
ci faceva mai con una cuffietta in un accampamento militare? Evelyn
rinunciò alla domanda poco dopo essersela posta, e
pensò che chiedere delucidazioni spettanti argomenti
più seri fosse più appropriato.
<<
No, nessuno. Chi vi sta scappando? E soprattutto che ci fate qui?
>>.
<<
Siamo arrivati poco fa >> rispose una voce gentile che
non poteva appartenere a nessun altro se non a Rose o Dalia: entrambe
difatti se ne stavano ferme e composte sull’uscio, con un
sorriso gentile sul volto che Evelyn non poté fare a meno di
ricambiare.
<<
Non è niente, solo Gaston Van Cleef e un altro dei suoi
labili scatti d’isterismo, è più grave
piuttosto che pretendano che sia io a inseguirlo >> si
lamentò Sebastian, riassestandosi il panciotto viola.
Alexander
scoppiò a ridere, poi gli assestò una pacca sulla
spalla e si offrì di farsi carico dell’impresa al
posto suo. Evelyn fece per protestare ma quello glielo
impedì.
<<
Sono certo che tua zia potrà offrirti un aiuto anche
migliore del mio >>, poi passandole accanto le sorrise,
<< farai la cosa giusta >> disse prima di
sparire dalla stanza.
Josephine
aveva un’aria beata, certamente finalizzata a proteggersi
dalle scombinate circostanze, che altrimenti sarebbero state
intollerabili per lei, data la sua attitudine alla pianificazione e
alla minuziosa cura di ogni minimo particolare.
Evelyn
fu costretta ad accomodarsi su una poltrona, davanti a una tazza colma
di the ai frutti rossi di cui si limitava a ispirare l’aroma
dolciastro, gli occhi fissi sulla figura smagrita della zia, la quale
quando decideva di farla lunga era del tutto irremovibile. Tutti i suoi
tentativi per spiegarle che Riley era a suo parere in pericolo di vita
erano stati vani.
<<
Prima che io inizi a raccontare rispondi a una domanda >>
esordì Josephine.
Evelyn
s’irrigidì e la sua mente iniziò a
elaborare ogni possibile via di fuga da una domanda importuna.
La
zia prese un sorso dalla sua tazza e a lei parve che stesse
volontariamente prolungando ogni minuscolo gesto. La sua crescente
irritazione non sfuggì a Sebastian che si schiarì
la gola per interrompere quella lunga sorsata di the. A quel punto la
donna posò la tazza sul tavolino intarsiato che aveva
davanti.
<<
Credi nell’amore, Evelyn? >>.
Quella
sospirò, poi deglutì. Vagò per la
stanza con lo sguardo, si aggiustò una ciocca di capelli,
poi si decise a parlare, sentendosi in dovere di esprimere chiaramente
il proprio parere.
<<
Non lo so. Non c’è mai stato nulla che mi abbia
aiutato nell’edificazione di una buona opinione
dell’amore che tanto decantante tutti quanti e che per me
invece implica un attaccamento eccessivamente incondizionato
>>.
<<
Non c’è stato Riley? >>.
<<
Il mio attaccamento per lui non è per nulla incondizionato
>>.
<<
Allora puoi anche rimanere qui a sorseggiare il tuo the e aspettare che
torni >>.
Evelyn
si arrese e qualcosa nei suoi occhi dovette comunicarlo alla parente.
<<
Se prometterai di sposare Riley i Ribelli non potranno fargli nulla.
Saranno obbligati a rimandarlo indietro senza un graffio
>>.
Josephine
non lasciò alla nipote abbastanza tempo per assemblare una
frase logica, anche perché credeva che le sarebbe servito
troppo. Prese un ultimo sorso e dopo aver posato la tazza
iniziò a raccontare.
<<
Qualche tempo fa la comunità dei Ribelli assisteva a uno dei
più cronici innamoramenti dell’epoca. Lei era una
bella Van Cleef, lui apparteneva alla stirpe dei Von Schauenstein e
occupava un ruolo piuttosto eminente. Tragicamente la giovane
morì in battaglia. Fu uno spettacolo agghiacciante, se
qualcuno cerca di raccontartelo non glielo permettere. Ad ogni modo la
reazione di lui fu peggiore della tragedia stessa. Ti risparmio i
particolari >>.
Evelyn
fu grata che la censura della zia, sebbene non appagasse pienamente la
sua curiosità, le facesse guadagnare tempo.
Mostrò un’espressione afflitta, incitandola a
proseguire.
<<
I due dovevano sposarsi undici giorni dopo. Ogni cosa era pronta per il
lieto evento: la sala, gli abiti, i fiori… ed è
rimasto tutto tale e quale al triste giorno. C’è
una sala dove nessuno si addentra mai, dove su un altare e attorno a
panche di legno stanno ad appassire rose un tempo bianche e un largo
abito ornato torreggia nel suo candore di polvere su un manichino, al
centro della camera che una volta apparteneva alla sposa che in
realtà mai fu tale. Alcuni giurano di vederla ancora,
malinconica o adirata, aggirarsi per quelle stanze che conservano il
ricordo di un giorno felice che non le è mai appartenuto. Si
racconta addirittura che lì qualche addetto alle pulizie
è sparito senza lasciare traccia… Ma nonostante
che da queste parti siamo piuttosto bravi a far circolare le leggende,
credo che lo siamo altrettanto anche nell’arricchirle di
particolari. Lo sposo disgraziato ha quasi del tutto perso la ragione,
ma non ha abbandonato il suo ruolo. Potrebbe intercedere per
voi… se vi sposerete allo scadere di undici giorni
>>.
Evelyn
rimase in silenzio per ben dieci minuti, fissando il fumo aleggiare
sulla sua tazza piena. Improvvisamente l’idea di scatenare il
putiferio alla Reggia e trascinare via Riley solo per poterlo punire
con una consona violenza psicologica la allettava molto più
dell’eventualità di sposarsi.
Quando
sollevò lo sguardo, incontrando quello della zia fisso su di
lei, si sentì in dovere di dire qualcosa.
<<
Impazzire per amore, che sciocchezza. E dovrei affidarmi a un simile
individuo, che probabilmente non stava bene neanche prima del
fattaccio, e a una storia di dubbia veridicità?
>>.
<<
Non sei obbligata infatti; io non vedo per Riley questo rischio che
vedi tu >>.
Evelyn
smise di ascoltare e scattò verso la finestra,
scostò le tende vermiglie e un lieve raggio indorato le
illuminò flebilmente il viso.
Si
volse verso Sebastian con il sole ancora sugli occhi.
<<
Trova Rose e Dalia. Avete undici giorni per organizzare un matrimonio
>>.
Si
rese conto solo molto tempo dopo che Riley non aveva coinvolto nella
sua malefica visione soltanto Alexander e che tutti erano stati
eccellentemente bravi nell’attuare l’unico
stratagemma che poteva spingerla a fare ciò che lui voleva:
dirle di fare il contrario.
Non
le servì adoperare tutto il suo senso
dell’orientamento per trovare la strada che
l’avrebbe condotta alla Reggia, giusto perché il
modo di cacciarsi nei guai era sempre effettivamente l’unica
cosa sempre a portata di mano.
Quando
si ritrovò di fronte a uno svettante cancello di ferro
battuto, con due lance puntate ai fianchi, le sue mani scattarono verso
l’alto in un segno di resa per il quale dovette reprimere
tutto il suo orgoglio, che non era poco, e impiegare tutto il suo
buonsenso, che non era mai abbastanza.
<<
Chiedo udienza presso Theodore Von Schauenstein >>.
I
due non risposero. Quasi di volata s’incamminarono
simultaneamente per il larghissimo viale che portava
all’ingresso di quella che sembrava una torre dalle
proporzioni sbagliate. Era incredibilmente alta ma non per questo
esile, al contrario si allargava sulla superficie come una dilatata
macchia scura.
La
condussero per corridoi bui, senza averle chiesto di identificarsi e di
questo Evelyn si compiacque non poco, giacché altrimenti la
maschera di pizzo nero che indossava non sarebbe più servita
a proteggere la sua identità.
Mentre
osservava scorrere i fregi delle porte e le decorazioni divorate dal
tempo, pensava solo a come avrebbe reagito Riley quando
l’avrebbe vista.
Avevano
imboccato l’ennesimo corridoio buio, identico a tutti i
precedenti, salvo per qualche variazione nelle immagini raffigurate,
bassorilievi e affreschi accostati in una strana maniera alquanto
confusionaria, quando una delle porte che si aprivano ai lati si
spalancò e ne uscì un tale alto e snello. Anche
con quella scarsa luce i suoi scuri capelli lunghi e ondulati erano
luminosi e i suoi occhi le spedivano lampi non del tutto amichevoli.
Sbarrò loro la strada e si avvicinò per guardarla
da vicino. Evelyn passò interminabili istanti a pentirsi del
suo gesto sconsiderato e smise solo quando quello senza dire una parola
proseguì oltre e anche la sua scorta riprese il cammino:
proprio a proposito della sua scorta si chiese se bussando alle loro
tempie qualcuno avrebbe risposto, ma optò per una risposta
negativa. Laddove si trovava in quel momento doveva essere uno di quei
posti in cui il rango e la posizione sociale avevano il potere di
serrare la bocca o permettere di parlare a sproposito.
Alla
fine dell’ennesimo corridoio stava una massiccia porta
lignea, sorvegliata. Evelyn raddrizzò lievemente la schiena
e involontariamente sollevò un sopracciglio;
l’uomo che stava di guardia non le piacque sin dal primo
istante. Aveva un aspetto brutale e un’espressione inumana.
<<
Restate qui >> intimò dopo averle fatto
scivolare addosso uno sguardo poco decifrabile ma di certo non
gradevole. I due che l’avevano accompagnata si disposero
lateralmente rispetto alla soglia, con la lancia perpendicolare al
corpo: evidentemente il loro tragitto si arrestava lì.
Non
riuscì a vedere nulla oltre l’uscio ma
udì chiaramente lo scambio di battute.
<<
Mio signore, una giovane donna chiede udienza presso di voi
>>.
<<
Sono già in udienza >> rispose qualcuno, a dir
poco spazientito.
<<
Non mi offenderò se la fate accomodare >>
aggiunse un’altra voce, che pareva priva di una vera e
propria intonazione; aveva piuttosto la cadenza di quelle frasi
istintive, pronunciate troppo velocemente e troppo poco consapevolmente.
Evelyn
si morse le labbra.
Aveva
riconosciuto chiaramente la voce di Riley. L’avrebbe
riconosciuta dappertutto, anche nel frastuono più infernale.
Non
era però riuscita a cogliervi nessuna emozione.
Non
sapeva cosa avrebbe letto sul viso di Riley quando avrebbe oltrepassato
quella porta. Con uno stupore indescrivibile, pensò che
avrebbe preferito patire quell’attesa
nell’anticamera di uno studio medico. Ma nessuno si decideva
a uscire, a darle un segnale. Nessuno parlava all’interno di
quella sala che si era già disegnata nella sua testa, enorme
e opprimente. Forse erano passati soltanto pochi istanti, ma lei aveva
perso la capacità di misurare il tempo che scorreva.
Non
riusciva più a distinguere l’impazienza dal timore.
Fu
così che un istante prima aveva le dita sui lembi della
maschera e l’istante dopo l’aveva stritolata con la
mano, che aveva portato dietro la schiena fino a nasconderla del tutto
a chi le stava davanti. Solo le guardie dietro di lei avrebbero potuto
vederla, ma la porta si era già richiusa alle sue spalle,
come se qualcuno ancora una volta volesse enfatizzare una qualche
circostanza della sua vita. In quel caso la circostanza che non poteva
più lasciare la sala dove aveva scriteriatamente fatto
irruzione, e che non le rimaneva altro da fare che continuare ad
avanzare, preda di sguardi stupiti da tanta irriverenza.
L’ambiente
era esteso, oltre che in maniera smisurata in larghezza, anche in
altezza e la fonte di luce principale erano le finestre a sesto acuto
situate nella parte più alta della cupola aguzza che
sovrastava la sala. Quest’ultima sembrava ancora
più smisurata per il fatto che il mobilio era costituito
semplicemente da un tappeto sciupato che ospitava parecchie poltrone
disposte a casaccio. A quel punto Evelyn spontaneamente si chiese se il
mobilio della Reggia invecchiasse inesorabilmente con i suoi dimoranti,
con il vantaggio di questi ultimi almeno di non sprofondare sotto una
coltre di polvere.
Evelyn
si disse che per qualche motivo non sarebbe più riuscita a
dimenticare la visione di quella sala.
Le
mura apparivano ancor più distanti tra loro anche
poiché la luce era scarsissima e sembrava sparire nel nulla
prima di raggiungere le pareti, che erano invisibili o troppo distanti.
Era
come se il bagliore che penetrava dalle altissime finestre sprofondasse
con violenza verso il centro della sala e vi rimanesse schiacciato da
una forza misteriosa, senza riuscire a oltrepassare un ostacolo
immaginario che girava in tondo, di là da del quale, grazie
a un riverbero di luce che assurdamente riappariva oltre
l’oscurità, erano tuttavia visibili file di archi
a sesto acuto e colonne affilate che rendevano incalcolabile la vera
estensione dello spazio.
Non
ebbe abbastanza tempo per indagare su quei giochi di luce. Si
sentì in dovere di spostare lo sguardo sui presenti: una
decina di persone rimaste dopo che il suo annunciatore sparì
serrando la porta.
Una
di queste ovviamente era Riley, seduto compostamente su una delle
poltrone.
Il
suo viso le parve più pallido e bello del solito, ma quando
incrociò il suo sguardo notò che i suoi occhi,
solitamente di un verde cristallo, avevano mille sfumature
più scure che lei non aveva mai visto prima.
Mentre
percorreva i corridoi che l’avevano condotta lì,
nonostante qualche lampo di perplessità, era stata sicura e
decisa come poche altre volte nella sua vita. Anche quando aveva
oltrepassato d’istinto la soglia di quella sala, finendo
vittima di occhiate micidiali che forse avrebbero potuto addirittura
ferirle la pelle, si era irrigidita, ma non aveva titubato.
Soltanto
lui era stato capace di far crollare buona parte della sua certezza e
insolenza. Avrebbe preferito vedere nella sua espressione qualunque
altra cosa: disapprovazione, preoccupazione, anche biasimo…
ma quell’apatia l’aveva colpita spietatamente.
Cercando di ignorare quella stilettata continuò a fissarlo
imperterrita ancora per un momento.
Sei
stato tu a volerlo, pensò senza distogliere lo sguardo.
Finché
non lo vide sorridere.
Evelyn
assottigliò lo sguardo, pronta a piantare i suoi occhi
più truci su quello che presto avrebbe esplicitamente
definito suo futuro consorte, ma un colpo secco alle sue spalle la
costrinse a interrompere il contatto visivo.
Theodore
Von Schauenstein doveva essere stato un uomo avvenente come pochi
altri, pensò Evelyn quando per la prima volta lo
guardò. Tra tutti lo riconobbe senza alcuna
difficoltà come lo sposo infelice di cui aveva sentito
narrare: c’era l’ombra
dell’infelicità e del dolore sul suo volto, che
seppur rimanendo invariato aveva perso la sua bellezza da quel giorno
sventurato.
L’uomo
fece un altro passo e batté ancora una volta le mani.
<<
Finalmente >> esclamò abbassando le mani e
chinando impercettibilmente il capo, << ho
l’onore di conoscervi, Evelyn DeMordrey >>.
Lei
incrociò le gambe con un movimento aggraziato,
chinò di poco la schiena e ruotò i polsi, poi
sorrise.
<<
Un inchino tanto elegante quanto sfrontato. Un bel temperamento, senza
dubbio, i miei complimenti Riley, te n’è servito
di tempo per trovare pane per i tuoi denti, ma meglio tardi che mai
>> disse un altro, senza scomodarsi dal suo posto a
sedere.
<<
Queste frasi fatte, Heinrich, sono inopportune per un erudito come te
>> rispose Riley.
L’altro
tacque, ma Evelyn non si accertò se si fosse offeso o no.
<<
Anche piuttosto bella devo ammettere, ora mi stupisco un po’
meno del tafferuglio di cui è stata causa >>
aggiunse un’altra voce.
Il
verso sprezzante di Theodore troncò ogni suono.
<<
Le donne… >> sibilò, prendendo ad
avanzare verso l’unica siffatta presente nella sala.
<<
… l’origine delle disgrazie degli uomini
>>.
<<
E l’unica fonte dei vostri piaceri >> aggiunse
lei, agitando l’indice della mano e pensando che per il
momento non era il caso di chiedersi da dove venisse tutta quella sua
impudenza.
Theodore
serrò il pugno in aria, come a stringere qualcosa che
soltanto lui poteva vedere.
<<
Perché siete qui? >> si azzardò a
chiedere qualcuno che si era alzato dalla poltrona che occupava.
A
quelle parole Riley fissò gli occhi su Evelyn, ricordando di
essersi posto la stessa identica domanda tempo prima, quando era stato
necessario porla sotto una sorveglianza e una protezione più
strette, trasferendola a Landry. Quel giorno in cui si erano
conosciuti, mentre gli sedeva accanto nell’abitacolo della
jeep, completamente zuppa e adirata, si era detto che la sua presenza
in quel luogo era la cosa più sbagliata che ci fosse. Aveva
temuto sin dal primo istante, ma non solo per
l’incolumità di lei, più egoisticamente
aveva avuto paura di come sicuramente avrebbe stravolto un equilibrio
già troppo fragile.
L’immagine
di come gli era apparsa allora era ancora chiarissima nella sua mente e
gli era difficile confrontarla con ciò che vedeva,
guardandola in quel momento. Era sempre lei, ma senza quella armatura
di falsità che una volta aveva addosso, ma che aveva ormai
abbandonato da tempo.
A
volte si era detto che Evelyn doveva ritenersi troppo preziosa per
mostrare la vera lei a qualcuno che non riteneva meritevole delle sue
attenzioni, se costui non aveva mai compiuto un gesto senza riserve nei
suoi confronti, e solo chi le stava accanto nei momenti meno consueti
aveva la possibilità di cogliere quell’imbroglio
di ordinarietà che lei costruiva.
Bella
e altezzosa, non abbandonava la sua postazione e continuava a
ricambiare gli sguardi di Theodore. Vestiva interamente di nero, dagli
stivali alti al corpetto strettissimo, e aveva i lunghissimi capelli
sciolti sulle spalle.
Riley
non riuscì a reprimere un sentimento di esultanza: la
situazione in cui si trovavano era piuttosto infelice, ma se quello era
l’unico modo per legarla indissolubilmente a sé,
non se ne pentiva.
Evelyn
era un’irresponsabile e lui, nonostante si fosse accorto che
l’attaccamento di lei nei suoi confronti fosse molto
più profondo di quel che dimostrava, aveva paura che un
giorno si sarebbe allontanata. Anche se a vederla lì, a
rischiare per lui, pensava che non si era soltanto illuso di aver visto
negli occhi di lei la stessa luce che brillava nei suoi quando la
guardava.
Sollevò
un angolo della bocca e le lanciò uno di quei sorrisi che,
anche se non l’avrebbe ammesso neanche con una scure pronta a
calare sul suo collo, le provocavano un lieve fremito alle labbra e al
petto, quando perdeva il completo controllo del respiro per qualche
istante.
<<
Ho ragione di credere che con mie nobilissime intenzioni ho partecipato
a creare questa attuale circostanza, e che dunque lei sia qui per me.
E’ a me che dovete rivolgervi >>.
Uno
degli uomini che era rimasto in silenzio si alzò dalla
poltrona, mentre Evelyn guardava Riley con un’espressione che
conciliava assurdamente un sorriso malizioso e uno sguardo assassino.
<<
L’amore, il più grande male di tuti i tempi
>> esclamò l’uomo dopo aver
sospirato pesantemente.
Era
altissimo e aveva dei lineamenti marcati che anziché
rovinargli la bellezza, la accentuavano.
<<
Ma come faremmo senza… >> sussurrò
Theodore pianissimo, come se non stesse rivolgendo a nessuno quella
frase dal tono infinitamente triste.
<<
E’ per questo che sono qui, io lo amo e devo portarlo via con
me >> gli disse Evelyn, senza alzare troppo la voce,
prendendo il suo bisbiglio come segnale del momento migliore per
tentare. Si rese conto che era la prima volta che lo confessava a
qualcuno.
Theodore
smise di fissare il vuoto e la guardò, ridestandosi dai
pensieri che lo avevano colto all’improvviso.
Evelyn
pensò che quell’uomo così devastato non
si intonava per nulla con il luogo a cui apparteneva. Un dolore simile
esulava dalla vera a propria malvagità, che invece sembrava
essere un tratto comune di tutte le schiere dei Ribelli.
<<
Come faccio a credervi? Sono mortali le bugie delle donne
>>.
<<
Ci sposeremo >>.
Evelyn
istintivamente cercò Riley e incrociò il suo
sguardo, ma non lo guardò abbastanza a lungo per decifrare
la sua espressione.
<<
Tra undici giorni >> continuò, riportando gli
occhi su Theodore.
Ormai
il resto dei presenti nella sala aveva intuito fin troppo chiaramente
le sue intenzioni e lei avvertì una vibrazione
tutt’attorno.
Fulmineamente
qualcuno le giunse alle spalle e la immobilizzò afferrandole
i polsi e il collo.
Riley
scattò verso di lei, ma anch’egli fu bloccato.
<<
Come osate agire senza i miei ordini! >> gridò
Theodore, serrando i pugni e spostandosi minacciosamente in avanti.
<<
Non ho intenzione di farmi ingannare >> rispose qualcuno.
<<
Vuoi metterti contro di me, Maximin? >>.
<<
Riley Hylton e la figlia di William DeMordrey sono nelle nostre mani e
non m’interessa che tu abbia intenzione di lasciarti
raggirare, sei diventato un debole e non ritengo che tu possieda ancora
l’autorità per dare ordini >>.
Theodore
iniziò a ignorarlo ancor prima che potesse terminare la
frase e si volse verso Evelyn.
<<
Mostrami le prove >> le intimò.
<<
Quali… >> sussurrò lei, ancora
sotto la presa del suo sequestratore.
<<
Lasciatela >> sibilò improvvisamente Riley. Si
liberò senza alcuna difficoltà e in un attimo
Evelyn si sentì afferrare e sottrarre dalle braccia di chi
la stava trattenendo. Subito dopo Riley venne scaraventato a parecchia
distanza da lei e in tutto ciò lei perse
l’equilibrio e cadde.
Fu
nello rialzarsi che avvertì un rumore inconfondibile, che
conosceva benissimo, perché l’aveva accompagnata
nel periodo sereno della sua vita, quando non trascorreva il suo tempo
all’interno di una sala in penombra con dei folli violenti
che volevano uccidere lei e il suo amato dalla mente delinquenziale,
che aveva avuto l’illuminazione di escogitare piani fin
troppo geniali per poterle mettere una anello al dito. Per un istante
pensò alla piccola libreria della sua stanza ad Aberdeen e
si accorse che niente in vita sua le era mai sembrato tanto lontano.
Avvertì ancora il frusciare della carta quando estrasse il
foglietto ripiegato dalla sua tasca.
Seppur
stropicciato il biglietto conservava ancora la sua eleganza; la carta
era di un bianco chiarissimo, quasi luminoso, e in una grafia elaborata
erano scritte le classiche parole.
Evelyn
non ebbe il tempo di chiedersi quale dei complici di Riley
gliel’avesse messo in tasca. Fece leva su una mano e si
rialzò velocemente. Si avvicinò a Theodore, che
sembrava aver aspettato un suo gesto fino a quel momento, e gli porse
l’invito.
<<
Le prove >> gli disse, guardando prima lui e poi Riley
che colpiva con un calcio poderoso il petto del suo avversario, mentre
un altro sopraggiungeva alle sue spalle.
<<
Maximin! >> gridò Theodore.
Maximin,
che era finito per terra, lo guardò adirato.
<<
Io sto con loro >> continuò Theodore in tono
glaciale, lanciandogli un ultimo appello. La sua compostezza era
invidiabile.
<<
Allora morirai con loro >> rispose quello a un soffio dal
suo viso.
Evelyn
non aveva percepito il movimento fulmineo con cui si era spostato, ma
fu altrettanto veloce a scagliarsi contro di lui. Gli
afferrò il collo con una mano e con l’altra
bloccò quella di lui che si dirigeva verso il suo viso.
L’avversario avanzò con una gamba e lei dovette
piegarsi per sostenere la sua forza, che era troppa in confronto alla
sua. Si lasciò cadere all’indietro per non
lasciarsi ferire e lo trascinò con sé. Finirono
entrambi sul pavimento di marmo. Maximin la sovrastava e lei era certa
di non poter competere con una tale potenza.
<<
Lasciamo >> ringhiò.
La
mano che le stringeva il collo scattò all’indietro
e lei riuscì a spingerlo abbastanza lontano da potersi
rialzare.
Subito
avvertì una presa salda attorno ai fianchi e girando il
volto si ritrovò a un soffio dalle labbra di Riley. I suoi
occhi verdi erano tornati limpidi e riflettevano tutto il suo
divertimento.
Theodore
era accanto a loro e gli latri li avevano accerchiati, ma rimanevano
immobili.
Evelyn
pensò che stessero ponderando prima di attaccare, ma poi
intravide un movimento al di là di coloro che li
circondavano - dove tuttavia non c’era nessuno - poi un altro
e un altro ancora.
Si
accorse che i loro nemici si erano disposti circolarmente ai margini
del cerchio di luce al centro della stanza, oltre il quale calava il
buio.
Solo
allora, improvvisamente, capì di che cosa si trattasse in
realtà.
La
luce riappariva oltre il cerchio, come se questo la coprisse
completamente… o fosse incapace di rifletterla.
Come
poteva rispecchiare la luce qualcosa che ne era l’esatto
opposto?
Evelyn
si allontanò poco da Riley e si ritrovò a
sorridere.
<<
Chi non muore si rivede >>.
<<
Non possono morire >> rispose Theodore, lentamente.
Volute
di fumo nero si muovevano attorno a loro, disegnando
nell’aria linee contorte e ricami oscuri e ben presto la
compattezza del cerchio scuro si dissolse e sparì. Si
delinearono sagome umane, senza volto e senza altra sfumatura che non
fosse il colore della notte più profonda.
<<
Corri >>.
Sentì
la voce di Riley quando già le sue gambe si stavano muovendo.
Theodore
li precedette e spalancò la porta. La oltrepassarono e
iniziarono a correre per i corridoi con alle calcagna un’orda
di ombre.
Dopo
poco Theodore deviò la direzione verso una botola laterale
piuttosto stretta e buia che li fece precipitare in un ambiente buio e
umido. Evelyn piegò le ginocchia ma cadde in avanti e
avvertì una fitta di dolore percorrerle le gambe e una
sensazione di déjà-vu esploderle in testa.
<<
Fin troppo familiare >> mormorò quasi ridendo.
Riley
le prese una mano ma lei la ritrasse bruscamente.
<<
Non ho intenzione di trattarti in nessun altro modo che non sia
intensamente ostile >> gli disse mentre riprendevano a
correre alle spalle di Theodore, certi che li avrebbe condotti fuori, o
che almeno ci avrebbe provato.
La
risata di Riley era a regola d'arte come sempre, anche se stavano
letteralmente sfrecciando.
<<
Non parlare così in sua presenza, potrebbe cambiare
istantaneamente idea >> disse più seriamente,
spostando gli occhi sulla loro guida.
<<
Allora toccherà a te salvare la vita a entrambi,
giacché sei anche responsabile di averla messa a rischio
>>.
<<
Non l’avrei mai fatto. Era ovvio che non saremmo usciti dalla
porta principale >>.
<<
Quindi la fuga per le catacombe era prevista? >>.
<<
Credevo che le catacombe ti piacessero >>.
<<
L’ultima volta mi hai invitato al ballo in un cimitero,
adesso mi chiederai di sposarti nelle cripte? >>.
<<
Ti chiederò di sposarmi ovunque vorrai >>.
<<
Molto onesto da parte tua, soprattutto perché sono
già vincolata a tale promessa >>.
Riley
la afferrò, un attimo prima che si schiantasse contro
un’inferriata.
<<
Quando polemizzi devi ricordarti comunque di guardare dove metti i
piedi >>.
In
quel momento Theodore spalancò un cancello arrugginito
producendo un rumore agghiacciante, poi si fece da parte incitandoli a
passare.
Quando
Evelyn si allontanò dalla soglia vide che Riley si era
fermato appena fuori da essa.
<<
Io mi fermo qui >> annunciò Theodore.
<<
Ci rivedremo tra undici giorni >>.
<<
Lo spero per voi >>.
<<
Sono sempre fedele alle mie promesse >>.
<<
E lei? >>.
<<
Anch’io non manco mai alle mie promesse >>
intervenne Evelyn.
<<
Vuol dire che siete una persona molto leale? >>.
<<
No, vuol dire che non prometto mai, ma stavolta l’ho fatto e
non intendo essere sleale >>.
<<
Io confido anche nella vostra onestà >>
aggiunse Riley.
<<
Sarò presente all’evento con tutti gli ostaggi di
cui abbiamo stabilito il rilascio. Arrivederci signori >>.
Theodore
sparì sollevando una scia di polvere ed Evelyn
indietreggiò disgustata prima che questa potesse sporcarle i
pantaloni attillati.
Riley
fece per dire qualcosa ma lei lo bloccò.
<<
Non hai il diritto di rivolgermi la parola fino a data da destinarsi
>>.
Giunsero
all’uscita dei cunicoli sotterranei dopo un’ora o
poco più e si ritrovarono nel fitto del bosco. Proseguirono
fino a Landry in silenzio. L’ira di Evelyn aumentava a ogni
sorriso che Riley le lanciava, ogni volta che lo guardava di sbieco, o
a volte si azzardava anche a ridere, quando il suo sguardo si faceva
troppo minaccioso, ma cercava di esaudire la sue richiesta di non
parlarle, anche se di tanto in tanto emetteva dei mezzi sospiri, come
se soffocasse le parole che involontariamente gli veniva voglia di
dire.
Riley
in realtà non sembrava troppo preoccupato, troppo convinto
che quando il risentimento di Evelyn sarebbe svanito lei avrebbe
ritenuto abbastanza impegnativa la sua proposta di matrimonio,
implicita nello stratagemma che era altrettanto degno di riguardo, e
avrebbe così decretato che si era arditamente guadagnato il
suo diritto alle nozze.
Evelyn
passò qualche giorno senza parlare molto con nessuno, ma la
guerra continuava a imperversare e in ogni battaglia lei lasciava parte
della sua collera. Nel frattempo seguiva i preparativi del matrimonio
senza troppo impegno, delegando ogni compito a tutti i complici di
Riley che perdonava, anche se nessuno aveva davvero preso sul serio il
suo rancore, e nemmeno lei in realtà era intenzionata a
rimanere arrabbiata, ma era l’unico modo che aveva per
coprire la sua malinconia, la vera causa dei suoi pochi sorrisi.
L’abbattimento
che l’aveva colpita iniziò a svanire proprio pochi
giorni prima della cerimonia per cui tanto si era preoccupata e al cui
confronto svaniva anche l’importanza del matrimonio.
Il
funerale si sarebbe tenuto ad Aberdeen e lei aveva insistito per
accompagnare Josephine e i pochi altri che avrebbero potuto lasciare
Landry. Qualcuno aveva tentato di dissuaderla. Sophie per esempio aveva
sostenuto che la sua presenza sarebbe stata indispensabile in
battaglia, soprattutto per compensare la mancanza di Riley, ma Evelyn
le aveva spiegato che partecipare al suo funerale non sarebbe stato
traumatico come lei invece credeva. Non era riuscita a dirle che
sentiva il bisogno di tornare a casa sua, dalla sua famiglia,
perché presto non le sarebbero più appartenute e
lei doveva dire addio.
<<
Niente commenti >> sentenziò Evelyn,
lasciandosi cadere sul divano del salotto di Josephine.
<<
Davvero? >> chiese Sophie.
<<
Perché ti stupisce che qualcuno non voglia parlare del suo
funerale? >> intervenne Alexander.
<<
Come volete, non c’è poi molto da commentare e ci
sono incombenze ben più importanti >>.
Si
alzò e porse le mani a Evelyn, la quale le guardò
prima interdetta e poi esasperata.
<<
Non se ne parla. L’ho già provato, è
perfetto. La prossima volta che lo indosserò sarà
anche l’ultima >>.
<<
Soltanto un’ultima prova! >>.
<<
Lasciala in pace Sof, Ev deve riposare >> intercedette
Alexander.
<<
Grazie >> sussurrò Evelyn con un sorriso.
Corse
su per le scale e camminò spedita per il corridoio, verso la
sua stanza.
Riley
era appoggiato con le spalle al muro e le braccia incrociate sul petto.
Inclinò
la testa e sorrise.
A
lei sembrò mortalmente stanco e non se ne stupì.
Erano successe troppe cose in troppo poco tempo e anche lei sentiva la
testa troppo pesante.
<<
Non siamo certo nella nostra forma migliore, ti sembra il caso di
sposarci così? >> gli disse avvicinandosi.
<<
E’ colpa tua se ci siamo ritrovati in tutto questo. Io non ti
stavo cercando >>.
<<
Tu non stavi cercando nessuno. E’ per questo che sono entrata
nella tua vita, si può avere qualcosa solo quando non si
vuole >>.
<<
Ma io ti volevo. Ti ho voluto dalla prima volta che abbiamo litigato
>>.
Evelyn
abbassò lo sguardo e Riley le sollevò il mento,
convinto che volesse nascondere un sorriso, ma i suoi occhi scuri erano
lucidi.
<<
Sei felice? >>.
Lei
sembrò formulare la risposta e stupirsene immensamente, come
se fino a quel momento non se ne fosse accorta veramente.
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Capitolo 29 *** Epilogo ***
33. Epilogo
Quella
mattina, seppur per poco tempo, era apparso il sole.
Si
era mostrato all’interno di un piccolo spiraglio tra i ricami
delle nuvole, e nessuno aveva voluto perdersi quello spettacolo raro.
Lo
aveva visto Josephine, da una finestra dell’enorme sala da
pranzo addobbata per l’occasione. Sebastian l’aveva
raggiunta poco dopo e lei aveva subito sentenziato che il nodo del suo
fazzoletto era fatto male.
Lo
avevano visto Rose e Dalia, quando, dopo aver portato a termine i loro
incarichi, stavano percorrendo il corridoio per raggiungere la loro
stanze e indossare anche loro un elegante abito per la cerimonia.
Lo
avevano visto Matt e Colin, che erano stati tra i primi a essere pronti
e adesso attendevano su un divano in compagnia di Vincent e Tristan,
costringendoli a sciorinare tutte le ultime storie dal fronte.
Lo
aveva visto Cedric, dalla finestra della camera di Margareth, mentre
attendeva sfogliando un libro che lei fosse pronta.
Lo
aveva visto Harvey, attraverso la porta spalancata
dell’atrio, aspettando che Christopher scendesse le scale.
Sembrava metterci un’eternità. In
realtà era quasi del tutto guarito, grazie a quelle
miracolose punture, ma continuava a comportarsi da moribondo e a
pretendere attenzioni, probabilmente perché nessuno gliele
negava.
Lo
aveva visto Karl, seduto su una panchina del giardino, con una rosa in
mano, lo sguardo rivolto a Sophie che scendeva le scale di pietra con
una leggiadria straordinaria.
Lo
aveva visto Anton, dal finestrino dell’auto, mentre guidava
verso Landry.
Lo
aveva visto Theodore, particolarmente nervoso quella mattina, ma anche
allegro. Che qualcun altro avesse qualcosa che lui aveva perso lo
riempiva in parte di quella gioia che non aveva potuto avere piuttosto
che di invidia.
Lo
aveva visto Maryan, mentre chiudeva a chiave la porta della bottega,
ancora semidistrutta.
Lo
aveva visto padre Tim, mentre ripassava il bel discorso che aveva
preparato per gli sposi.
Lo
aveva visto Lisa, oltre le tende appena scostate, seduta sulla sponda
del letto a stringere con le mani la stoffa della vestaglia, mordendosi
a sangue le labbra. Davanti a lei, appeso a un’anta aperta
dell’armadio, c’era un bel vestito azzurro da
cerimonia, ma lei non sapeva ancora se lo avrebbe indossato e sarebbe
uscita dalla porta.
Lo
avevano visto in casa Mcgrath, ad Aberdeen, dalle vetrate della cucina,
seduti a tavola. Guardavano spesso quella sedia vuota e quel piatto che
mancava e si ripetevano che non sarebbero mai riusciti a dimenticare
quel pezzo che mancava.
Lo
aveva visto Alexander, dalla finestra della sua camera da letto,
staccando solo per un momento gli occhi dallo specchio che rifletteva
la sua bella figura avvolta dall’abito elegante.
Quando
aveva riportato gli occhi sullo specchio la porta si era spalancata e
Riley era entrato di fretta.
<<
Per caso l’hai vista? >>.
Evelyn
non si era avvicinata a nessuna finestra, ma aveva notato la sfumatura
più chiara del solito che colorava ogni cosa.
Quella
volta on aveva bisogno di vedere il sole a Landry e nessun altro
presagio per sapere che ciò che era stato non era
più. Tutto quel che il passato le aveva riservato era un
ricordo che era determinata a custodire, ma in quel momento non
c’era spazio per pensieri troppo profondi nella sua testa.
Il
riflesso di una giovane ragazza avvolta in un abito dal bianco quasi
abbagliante continuava a rigirarsi all’interno dello specchio.
Evelyn
aveva sempre avuto un debole per i bei vestiti, i suoi occhi si
illuminavano di fronte a trine e merletti, ma quella volta la sarta,
che si era presentata a casa di Josephine con un’espressione
a metà tra l’afflizione e la
combattività, aveva auto un lavoro tanto semplice da
stupirsene non poco.
L’abito
indossato dalla figura nello specchio aveva maniche lunghe e una gonna
non troppo larga, leggermente scollato sulle spalle. Solo la pelle
chiara del collo rimaneva completamente scoperta, mostrando qualche
macchia più scura, ricordo di qualche ferita che solo il
tempo un giorno avrebbe portato via.
Evelyn
continuava a giocherellare con la mano con
l’estremità di un nastro che, intrecciandosi con
un altro, chiudeva il corpetto sulla schiena.
Il
nastro era blu, come un vestito che aveva indossato da bambina a un
ricevimento di famiglia. Ricordava di essersi innamorata di
quell’abito e di essersi rifiutata di indossare altro per
giorni e giorni, rimirandosi in ogni singola superficie riflettente che
incontrava, finché non lo aveva abbandonato in un armadio
dismesso della soffitta di casa sua, ad Aberdeen, dov’era
ancora, ma senza un nastro, che aveva preso di nascosto il giorno del
suo funerale.
Christopher
scoppiò a ridere.
<<
Non è possibile che le preghiere di Lisa siano state
esaudite >>.
<<
Io mi ritengo offeso. Se voleva scappare doveva chiedere aiuto a me
>> borbottò Alexander.
<<
Visto i risultati dell’ultima volta che avete sabotato un
matrimonio, credo di no >> gli rispose Cedric.
<<
Io non mi ero mai divertito tanto >> disse Harvey, ma la
sua voce venne sovrastata da un abbaiare furioso. <<
Tenetelo! >> gridò, << non posso
neanche aprir bocca in sua presenza >>.
<<
Buono Brak >>. Riley rise e trattenne il cane continuando
ad accarezzarlo.
In
quel momento Karl entrò nel salone inciampando in un
tavolino.
<<
Che notizie? >> gli chiese Sebastian, senza ottenere una
risposta per parecchi minuti.
<<
Karl dovrei essere io quello in stato confusionale, non rubarmi in
ruolo >>. Gli disse Riley.
<<
Che stato dovrei rubare? >> rispose quello.
<<
Spero che Sophie non sia in queste tue stesse condizioni
>> esordì Tristan.
<<
E perché mai? >> esclamò Karl.
Tristan
rise e non disse nient’altro, pensando che fosse meglio non
infierire ulteriormente sulla confusione dell’amico, che
perseverava nella dimostrazione della suddetta.
<<
Sei sicuro che in camera sua non c’era? >>.
Riley
tornò a fissarlo.
<<
Stai mettendo in dubbio le mie qualità visive?
>>.
<<
Basta così >> sentenziò
improvvisamente Alexander, << noi ce ne andiamo, tu pensa
a trovarla, vi aspettiamo in chiesa >>.
In
realtà Riley non aveva temuto nemmeno per un istante che la
sposa fosse scappata. Nemmeno quando, correndo il rischio di beccarsi
in testa una scarpa di Sophie, che gli aveva intimato di stare alla
larga, entrando in camera di Evelyn aveva trovato soltanto un nastro
sul pavimento, di fronte allo specchio, dove invece doveva esserci lei,
a guardarsi un’ultima volta prima di uscire.
Riley
conosceva benissimo la provenienza di quel pezzetto di stoffa stretto e
lungo. L’aveva vista sparire per poco tempo, subito dopo il
funerale, ma non si era azzardato a seguirla, certo che qualunque cosa
lei volesse fare era intima e delicata come un addio.
Evelyn
aveva portato con sé un pezzo tangibile dei suoi ricordi,
frammenti di vita da perdere e ritrovare.
Lui
non aveva visto l’abito da sposa, ma era sicuro che il nastro
vi apparteneva e che Evelyn lo aveva rimosso senza pensarci bene.
Voleva conservare i suoi ricordi, ma era già abbastanza
difficile fare i conti con il presente e non c’era sempre
spazio anche per il passato.
Non
soffiava neanche il più impercettibile alito di vento mentre
Evelyn continuava a camminare, piano, quasi svogliatamente.
Un’altra
onda sospinse acqua e schiuma vicino all’orlo del suo abito,
ma lei stavolta non ebbe voglia di indietreggiare.
Avvertì
prima una stretta al polso e poi calore alla schiena e alla gola.
<<
Hai perso qualcosa >> le sussurrò Riley sul
collo, trascinandola lontano dalla riva e trattenendola contro il suo
corpo.
Evelyn
gli sfilò dalla mano il nastro blu e lo guardò
per un istante, poi si voltò e piantò gli occhi
in quelli di lui.
<<
Pensavi che fossi andata via? >>.
<<
No, ma ti avrei comunque riportato indietro >>.
<<
Sicuro? >>.
<<
Non l’ho sempre fatto? >>.
<<
Dovrai farlo per il resto dei tuoi giorni, se oggi arriviamo fino a
quell’altare >>.
<<
Finché morte non ci separi >>.
Riley
la strinse e lei chiuse gli occhi. Non vide più nulla e
perse coscienza di ogni cosa. Rimase soltanto la consapevolezza delle
braccia di Riley intorno a lei, del suo respiro tra i capelli, del
sorriso di lui che, al contrario del suo, non spariva quasi mai.
Evelyn
non riusciva a immaginare il futuro e il suo passato non era stato una
favola, ma in uno dei pochi slanci di ottimismo della sua vita, volle
credere al “per sempre”.
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