Insieme.

di Miss Kon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uniti. ***
Capitolo 2: *** Atto primo. ***
Capitolo 3: *** Atto secondo. ***



Capitolo 1
*** Uniti. ***


Primo lavoro su questo fandom, spero apprezzerete.
:)





Uniti.


“Ora, noi, cosa faremo? Dove andremo?”
“Non ha importanza. Andremo ovunque o da nessuna parte, l‘importante è che andremo insieme”
“Insieme”


Si sedette per terra ed estrasse una sigaretta dal pacchetto.
La mise sulle labbra e per alcuni minuti litigò con l’accendino, senza poi ottenere nessun risultato.
All’improvviso, davanti a lei, una piccola fiamma apparve.
“Dovresti buttarlo, quell‘accendino” la salutò una voce familiare “É finito, ormai da un anno”.
La ragazza non alzò lo sguardo ma semplicemente accese la cicca, solo poi spostò gli occhi azzurri su quelli del gemello.
“Non ne ho voglia” ammise lapidaria, mettendolo in tasca quasi fosse un cimelio “Sei tornato presto, nessuna novità?”
Il ragazzo si strinse nelle spalle, mettendo le mani in tasca.
“Nessuna novità” ammise.
Lei lo guardò per alcuni istanti, poi sbuffò fuori una boccata di fumo.
“Merda” commentò, quasi sovrappensiero, alzandosi in piedi.
Il moro le porse la mano, a reclamare la sigaretta. La gemella gli scoccò un’occhiata contrariata ma poi, senza dire nulla, gli diede quanto richiesto.
In fondo era stata lai a portare quel vizio “in casa”.
Per diversi minuti un forte silenzio calò tra i due.
“Dobbiamo tornare, prima che inizino a fare storie” esordì un po‘ bruscamente lei, stanca di quella mancanza di suoni. In tutta risposta il ragazzo scrollò le spalle.
Sapeva che la sorella stava sviluppando una sempre crescente fobia per il silenzio, per questo le aveva regalato un vecchio lettore CD, recuperato ad un mercatino dell’usato.
“Ok” commentò in fine, iniziando a camminare, seguito dalla sorella.
“C17” lo chiamò a un certo punto la bionda.
Il fratello si voltò a guardarla, buttando a terra il mozzicone.
“Umh?”
“Tra due mesi compiremo diciott’anni” cominciò, guardando il muro alla sua sinistra, colmo di graffiti dai colori più disparati “All‘orfanotrofio ci butteranno fuori” mormorò ancora, stringendo i pugni “Dove andremo?”
Il fratello la guardò per alcuni attimi poi sospirò, alzando lo sguardo al cielo che andava scurendosi. “Non lo so” ammise con un tono che tradiva una certa sconsolatezza “Ma non importa dove andremo. Ci arrangeremo, come abbiamo sempre fatto” commentò, scrollando le spalle “Basta che restiamo assieme. Uniti siamo una squadra imbattibile” concluse, sorridendole.
C18 rispose piegando le labbra in un sorriso un po’ sbilenco.
“Hai ragione”

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Capitolo 2
*** Atto primo. ***


Atto primo.
Se senti che tutto il mondo è contro di te.


"C18!" la voce di una donna, forte come quella di un baritono d'opera, risuonò nei corridoi malandati dell'edificio.
Nessuna risposta vi seguì.
"Perché ti chiami C18?" pigolò la vocina di una bambina, rivolta ad una diciassettenne distesa sopra il letto.
L'inquisita alzò lo sguardo dalla rivista che stava leggendo e scoccò un'occhiata intensa a chi le aveva parlato.
La bambina, dalla faccia paffutella ed i capelli di un incredibile colore rosa intenso, arrossì un poco.
"C18!" tuonò ancora la stessa voce possente che già aveva messo a dura prova le pareti di quell'edificio vecchio e logoro.
"Semplice" esordì in fine la ragazza più vecchia, chiudendo la rivista che le stava davanti e tirandosi su, a sedere "C come "children", "bambino", 18 come il numero di bambino che ero" spiegò con un sorriso che tradiva una nota poco rassicurante.
La bimba, comunque, parve non notare quella sfumatura.
"C18!" di nuovo, la forte voce femminile si espanse nell'aria.
"Numero diciotto?" ripeté la piccola, senza capire "Che vuol dire che eri il numero di bambino diciotto?"
Di nuovo la bionda sorrise e, con il suo consueto gesto della mano, spostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
"Vedi" esordì poggiando i gomiti sulle ginocchia "Dove vivevo io, prima di essere portata qui, eravamo tanti bambini. Io di questi ero il numero diciotto. Stavamo tutti in un vecchio edificio abbandonato e lì vivevamo con un uomo" raccontò ancora.
La bambina, stringendo la gonna del vestito tra le mani, la guardò curiosa.
"Un uomo?" chiese, ipnotizzata dall'inizio misterioso di quel racconto.
"Oh, sì. Era un uomo molto strano. Aveva gli occhi rossi, portava capelli e barba lunghi e bianchi" raccontò ancora.
C18, come il fratello, non era solita raccontare del proprio passato. L'unica eccezione che faceva era con i bambini dell'orfanotrofio, per il semplice fatto che sapeva che quel racconto spesso li spaventava.
Prima, però, che potesse finire il racconto la porta si spalancò violentemente e una donna sovrappeso vi fece capolino dietro.
"C18!" ringhiò ancora, con voce esasperata.
La ragazza spostò appena il proprio sguardo dalla bambina alla donna.
"Rispondimi quando ti chiamo" proseguì la donna, infastidita.
"Mi scusi signora Peskova" replicò freddamente C18, con un tono così falsamente educato da risultare altamente irrispettoso "Non l'ho sentita" si discolpò, con finto candore.
La signora sentì immediatamente il sangue salirle alla testa e le guance le si imporporarono per la rabbia.
"Piccola insolente" ringhiò alzando la mano destra.
La bambina dai capelli rosa, riconosciuto il gesto, chiuse gli occhi spaventata e, con un urlo acuto, si gettò istintivamente a cercare la protezione della sua compagna più vecchia.
C18, con una certa indifferenza, la guardò stringersi alle sue ginocchia ed alzò gli occhi verso la signora Peskova.
Lo sguardo che le scoccò fu più eloquente di qualsiasi parola.
C18 aveva smesso di anni di farsi picchiare da quella donna, grassa e complessata.
Quando era arrivata, sette anni prima, non avrebbe mai osato tanto quanto fronteggiare lo sguardo della direttrice dell'orfanotrofio, soprattutto se la donna fosse stata prossima rifilarle un ceffone. Ma lei non era più una bambina di neppure undici anni, si era fatta le ossa per strada in quegli anni.
Assieme al fratello si era fatta valere e i due erano riusciti, con il tempo, a farsi rispettare a suon di risse; quindi ora non era più disposta a farsi comandare da quella specie di dittatrice, capace solo di approfittare di chi era completamente assoggettato a lei.
"Mi scusi, signora" disse ancora, questa volta gettando ogni parvenza di gentilezza. Ora non le serviva recitare, neppure per provocazione.
"Non volevo mancarle di rispetto" proseguì ancora, senza spostare le sue iridi azzurre da quelle castane dell'interlocutrice.
Quel suo sguardo, abbastanza freddo e crudele, aveva suscitato un istantaneo moto di paura nella donna, che fino a pochi attimi prima era stata pervasa dalla sua solita arrogante sicurezza, paralizzandola nella sua posa.
"Spero ora mi voglia scusare" sibilò in fine, alzandosi in piedi e scostandosi di dosso la bambina.
La donna abbassò il braccio mentre il labbro le tremava per rabbia e la frustrazione. Sapeva che se avesse fatto qualcosa quella ragazza demoniaca sarebbe stata capace anche di spaccarle un braccio.
Per un ultimo lungo istante la bionda si posizionò davanti alla direttrice e sostenne ancora il suo sguardo.
Poi, semplicemente, la scansò e se ne uscì dalla stanza.
La signora Peskova, livida di rabbia ed umiliazione, si voltò per vederla chiudere la porta poi esplose in un urlo rauco ed animalesco.
"Quella piccola insolente! Se avessi avuto modo di averla per le mani quando era più piccola, le avrei insegnato io il rispetto" sputò rossa in volto, per poi voltarsi verso la bambina che tremolante se ne stava ai piedi del letto "E tu!" le abbaiò contro, usandola come valvola di sfogo, nonostante la sua innocenza "Cosa ci fai qui! Vattene subito da questa stanza, non è la tua!!" l'ammonì prendendola per i capelli e spingendola fuori dalla stanza.
La piccola strillò e, appena la signora Peskova liberò la presa, scappò via lungo il corridoio, tenendosi la testa e piagnucolando.

Fuori era freddo ma C18 sembrava non curarsene. In minigonna, per quanto con addosso delle calze pesanti, e con solo un giubbotto corto a coprirla sembrava non sentire il gelo, nonostante l'alito condensasse appena fuori dalle labbra.
La sua pelle chiara in quel contesto sembrava ancora più diafana.
Frugò velocemente nelle tasche della giacca senza alcun risultato, a salvarla fu l'arrivo del fratello.
Anche lui, come lei, sembrava non sentire minimamente il freddo, tanto da girare senza giacca.
Tra le labbra penzolava una sigaretta.
C18 lo salutò con un cenno del capo.
"Ciao" replicò secco, lui "Che ci fai fuori? Non è ora di cena?" chiese, sbuffando fuori del fumo e porgendole la sigaretta. Lei la prese con un gesto veloce della mano, che tradiva tutto il suo bisogno di fumare.
"Quella vecchia grassona della Peskova mi ha rotto" spiegò, scrollando le spalle.
Il fratello la guardò per un lungo minuto, senza dire nulla.
"Allora?" domandò, quindi, la sorella; curiosa di sapere come era andato l'incontro.
C17 spostò lo sguardo, lontano dagli occhi dell'interlocutrice.
A vedere quel gesto C18 sentì un moto di panico chiuderle lo stomaco. Ciò nonostante non diede mostra della sua ansia e semplicemente strinse un po' gli occhi.
"Cosa hanno detto al commissariato? Hanno trovato le prove?" proseguì a chiedere, cocciuta.
Il moro scosse il capo, tendendole la mano.
"Non ancora. Quel vecchio imbecille sembra aver nascosto bene le prove delle sue merdate" rispose lui, prendendo la sigaretta di nuovo tra le sue mani.
"Incompetenti imbecilli" fu l'unica risposta che si levò, tagliente ed affilata, dalle labbra della ragazza.
C17 inspirò una boccata di fumo.
"Il processo è tra una settimana" proseguì la ragazza, con gli occhi stretti a fessura.
Ancora una volta il moro non disse nulla.
"E noi non potremo testimoniare" continuò la bionda "Solo perché manca uno schifo di mese al nostro diciottesimo compleanno".
L'interlocutore semplicemente prese un'altra boccata di fumo.
"Tutto questo è una merda" ammise il ragazzo, in fine, soffiando fuori una nuvola di fumo e indicando tutto ciò che aveva attorno con un ampio gesto delle braccia.
Poi, voltandosi a guardarla, proseguì.
"Ma non temere, noi sapremo cavarcela. E risolveremo tutto, personalmente se serve" commentò, con le labbra piegate in un sorriso sbilenco.
C18 si sentì confortata da quelle parole, anche se non nutriva tutta quella spassionata fiducia che sembrava invece animare il gemello. Comunque la fioca speranza, rappresentata dalle parole del fratello, sembrava averle ridato una leggera nota di buon umore.
Sopra di loro pigre nuvole strisciavano stanche, coprendo a brandelli un cielo buio e con poche stelle.
Forse a breve avrebbe nevicato.
"Da quanto tempo va avanti, ormai?" chiese all'improvviso la ragazza.
C17 non si mosse.
"Otto anni" constatò dopo un veloce calcolo mentale "Ormai. Avevamo compiuto da poco dieci anni quando ci portarono in questa merda di paese" mormorò, sbuffando fuori un po' di fumo.
Un piccolo sorriso amaro si era fatto spazio sul suo volto.
La bionda si voltò a guardare il fratello, mettendo le mani nelle tasche del giaccone.
Lui, quasi sentendo l'attenzione della gemella addosso, si girò a ricambiare lo sguardo.
"Ormai manca poco"
"Già" sospirò lei "Manca poco" ripeté quasi a doversene convincere.
"Manca poco" disse ancora, sussurrando, mentre si stringeva a sé.

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Capitolo 3
*** Atto secondo. ***


Atto secondo.
Se ti viene in mente di fare qualche follia.


Il giorno del processo finale arrivò prima che sia C17 sia C18 se ne rendessero conto.
Era un pomeriggio freddo e d'improvviso quindici anni di vita allucinante gli erano passati davanti, riassunti nelle poche fasi del processo e nelle parti dell'ultima udienza.
C17 non aveva sopportato il vedere il suo passato scritto e documentato, quasi fosse stato un topo messo sotto osservazione, e così era uscito presto dall'aula, quel giorno.
Aveva con sé qualcosa come una mezza dozzina di pacchetti di sigarette addosso; sapeva gli sarebbero servite tutte.
L'avvocato del Dottor Gelo, un ometto basso e grasso, dalla pelle così chiara da sembrare un eunuco cinese truccato di tutto punto, pur essendo un uomo di poche parole era stato di un'abilità raggelante.
C18 aveva stretto i pugni fino quasi a farsi male pensando che uomini del genere guadagnavano miliardi a proteggere abomini del buon senso come quello scienziato pazzo che, nonostante fosse finita da secoli l'epoca delle cavie umane, tredici anni prima aveva comunque raccolto attorno a sé una ventina di bambini, orfani, per renderli le basi dei suoi esperimenti.
A metà dell'arringa di quella specie di bambola di porcellana obesa, al soldo del Dottor Gelo, la bionda era uscita dall'aula trattenendosi a stento dall'urlare e spaccare qualcosa.
Dentro di sé sentiva la nausea attanagliarle lo stomaco con violenza.
Se avesse potuto si sarebbe cercata un angolino dove andare a rimettere ma il suo orgoglio le impediva una simile dimostrazione di debolezza, tanto più con quella specie di scienziato pazzo in zona.
Facendo sfoggio di un controllo eccellente si limitò ad aprire la porta del tribunale, che si richiuse da sola dietro di lei, per uscirsene fuori sulla gradinata.
"Fa proprio schifo" l'accolse la voce del fratello.
Senza neppure voltarsi verso di lui C18 si sedette sui gradini.
"Meriterebbe di crepare" fu l'unico commento che la ragazza si lasciò sfuggire.
A quelle parole il moro sorrise mentre con la mente accarezzava il metallo della vecchia pistola che teneva nascosta addosso.
"Sì, lo merita" replicò semplicemente, porgendole il pacchetto di sigarette già aperto.
Prendendolo tra le mani la ragazza ne estrasse nervosamente una. C17 la osservò di scorcio per alcuni attimi.
Per quanto potesse essere, almeno apparentemente, molto più calma di lui sua sorella tendeva ad essere nervosa e aveva scatti di impulsività che facevano sembrare lui, a confronto, una persona controllata.
Il tempo che seguì sembrò quasi ristagnare.
Le lancette dell'orologio sembravano incapaci di proseguire e attorno a loro persone vestite in tailleur e completi eleganti andavano e venivano dal tribunale, ignorandoli e venendo ignoranti.
Qua e là qualche piccione zampettava in cerca di briciole da elemosinare.
Fu quando stavano finendo il terzo pacchetto di sigarette che quella loro quiete si spezzò bruscamente.
"Anita, Lev!" li raggiunse la voce roca del commissario che si occupava delle indagini.
C17 e C18 si voltarono all'unisono, il primo curioso e la seconda infastidita dal fatto di essere stata chiamata per nome. Lei aveva sempre insistito con tutti per essere chiamata con quel nomignolo cinico che lei e suo fratello si erano scelti, come monito a non dimenticare mai come avevano vissuto sotto le mani del Dottor Gelo.
"Ci sono novità?" chiese il moro, sbuffando fuori del fumo.
L'uomo, dalla faccia squadrata e la barba folta, li guardò con la fronte corrucciata.
"La sentenza, stanno per leggerla" dichiarò con voce ferma.
I due gettarono contemporaneamente i mozziconi e a passo veloce si diressero dentro, C18 in testa, senza neppure degnare di altra attenzione l'uomo.
Il commissario non parve offendersi per una simile mancanza di rispetto e, sospirando nervoso, alzò lo sguardo verso il grande orologio che se ne stava sopra il portone del palazzo del tribunale.
Le lancette nere e lente segnavano le quattro esatte del pomeriggio.
I gemelli arrivarono dentro all'aula, facendo rumore con la porta e guadagnandosi un'occhiataccia da parte di una signora ingioiellata, mentre ancora la giuria stava rientrando.
I minuti che seguirono sembrarono dilatarsi all'infinito per poi accelerare improvvisamente quando dalla bocca della giudice fuoriuscì il verdetto.
"L'imputato è dichiarato innocente, per mancanza di prove"
Un mormorio di disapprovazione si alzò dall'aula ma né C17 né C18 ci fecero minimamente caso.
Dentro di loro echeggiava cupo il rumore di qualcosa che si era come spezzato definitivamente.
Mentre il Dotto Gelo, con espressione soddisfatta, stringeva la mano all'avvocato i due uscirono quasi di corsa, senza prestare attenzione a chi gli stava attorno. Fuori in corridoio si fermarono all'improvviso, quasi fossero stati giocattoli che si erano rotti all'improvviso.
Dentro di loro l'odio, quasi fosse stato dell'inchiostro nero, aveva preso a fuori uscire dalla crepa che era appena andata creandosi nella loro anima e aveva iniziato subito ad infettare la loro testa e la loro lucidità. Ma sembrava che i due non se ne fossero ancora accorti o forse, più semplicemente, avevano già ben accettato la cosa.
C18 guardò per un lungo attimo il gemello che con un gesto istintivo andò a poggiare la mano sull'impugnatura della pistola.
Non le aveva detto che ne aveva recuperata una, lei probabilmente lo sapeva già anche senza bisogno che lui glielo rivelasse.
Il loro legame trascendeva la reale necessità di parlare.
C18 annuì.
Nella buona e nella cattiva sorte.
Appena dalla porta fuoriuscì la folla i due tornarono a guardare verso l'aula, dove i peccati e crimini che avevano subito per cinque lunghi anni della loro vita erano appena stati liquidati con un "non importa".
Appena identificata la figura secca e rugosa del loro carnefice C17 estrasse la pistola da sotto la maglia. Per un istante il tempo sembrò fermarsi ma nessuno parve notarlo.
Poi il ragazzo sparò.
Era una partita alla roulette quel colpo, per lui. Non aveva mai sparato e non sapeva neppure se ne era capace.
Ma in quel pomeriggio, per sua meraviglia, si scoprì capace di farlo e persino dotato di una buona mira. O almeno di abbastanza fortuna per colpire esattamente in mezzo agli occhi l'uomo che da anni incarnava l'incubo suo e di sua sorella.
Finalmente erano liberi.
Sentendosi improvvisamente leggeri, come se qualcuno gli avesse tolto di dosso il peso di tutto il mondo, i due si guardarono.
C18 cadde in ginocchio, per terra, iniziando a ridacchiare.
Il gemello si poggiò alla parete con la schiena, scoppiando in una risata assolutamente vuota di ogni traccia di felicità. Tra le dita teneva ancora la pistola, fumante.
Era finita.
Finalmente.
Senza processi, senza prove e senza l'aiuto di nessuna autorità.
Era bastato un semplice "bang" e d'improvviso tredici anni d'incubo, tra la stanza fredda di una casa abbandonata divenuta un laboratorio, una camera che puzzava di muffa di un orfanotrofio e l’ufficetto di un commissario di provincia incapace, erano scivolati via.
Quasi non ci fossero mai stati.
I due sembravano incapaci di crederci davvero.
E, intanto, dentro di loro ancora quel nero sembrava dilagare, andando ad affogarli dolcemente.
Continuarono a ridere senza rendersi conto di quello che succedeva attorno a loro.
Senza riuscire ad udire le urla, il vociare, gli strilli isterici. Senza riuscire a sentire nulla di diverso oltre le loro risa.
Avevano sempre immaginato che quando sarebbe finito tutto sarebbero scoppiati a ridere ma ora non parevano neppure capaci di rendersi conto di cosa stavano facendo.
Semplicemente ridevano.
Il commissario, che aveva assistito allibito a tutta la scena, provò a riscuoterli da quel loro stato di psicosi a più riprese, scrollandoli per le spalle e chiamandoli per nome.
Ma i due sembravano non sentirlo.
Neppure C18, che odiava tanto essere chiamata ancora "Anya".
Fu solo dopo una mezz'oretta, mentre venivano portati via di peso con le mani strette in delle manette, che i due parvero riaversi minimamente.
Per pochi attimi sembrarono riacquistare la p
ercezione della realtà e guardandosi negli occhi si sorrisero, compiaciuti e folli.
Poi C17 esalò divertito: "Se non ce la fai più e senti che tutto il mondo è contro di te, mettiti a testa in giù." esordì, mentre uno dei due agenti che lo stava scortando lo strattonava "Se ti viene in mente di fare qualche pazzia..." proseguì, ignorando ciò che gli veniva urlato "...Falla." concluse divertito, prima di scoppiare a ridere nuovamente; seguito a ruota dalla, da sempre, inseparabile sorella gemella.







Ho puntato tutto, lo ammetto, sul loro legame. Che è particolare.
Sono gemelli e sono entrambi ribelli al dottor Gelo; si può dire che uno rappresenti l'ultimo rimasuglio di umanità dell'altro (C18 mostra di preoccuparsi per il fratello e viceversa C17 si preoccupa per la sorella, almeno da quel che ho visto e percepito io). Rendere tutto questo non è stato molto difficile, o almeno provare a farlo, sopratutto perché ho giocato molto sul fattore "passato tragico/difficile". scelta un po' banale, lo ammetto ma essendo che è il primo vero lavoro su questo fandom ho preferito giocare su un terreno che sentivo più sicuro per me.
Oltretutto Questo escamotage mi ha permesso di poter portare i due alla follia. Non nego che farli impazzire mi è costata una certa fatica, più che altro perché mi ha un po' addolorato. Anche il modo in cui li ho portati ad "uscire fuori dai binari" è un classico e me ne rammarico, perché cerco sempre di puntare molto sull'originalità e cerco di scrivere di cose un po' mai viste, o almeno ci provo.
Inutile dire che la signora Peskova è decisamente un cliché.
Ammetto poi che le modifiche che ho apportato al significato della C dei due Cyborg, erano necessarie ai fini della trama. Inoltre ho reso i due (oltre che ovviamente due normali diciassettenni umani) di nazionalità Russa poiché il Dottor Gelo è appunto un ex-militante di un’organizzazione Russa e la storia resta ambientata sempre in Russia nonostante l’idea base fosse quella di poi ambientarla in Giappone. È stato un azzardo di cui non so se pentirmi o meno.
I nomi li ho scelti un po’ casualmente Anya se non ricordo male è abbreviazione di Annuska cioè Anna; a sua volta anche Lev è un abbreviazione
Detto questo mi spreco ancora in un'orda di ringraziamenti per la giudicia sia per aver indetto il contest, che mi ha dato la possibilità di iniziare a esplorare anche questo fandom come scrittrice, sia per la valutazione.
Detto questo direi di non aver altro da aggiungere..

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