PERCHE' mi chiedi non lo so...

di MegamindArianna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Serata da incubo ***
Capitolo 2: *** Soccorso ***
Capitolo 3: *** Un nuovo eroe ***



Capitolo 1
*** Serata da incubo ***


“Ciao Roxy! Ci vediamo domani in ufficio!” gridò Laura avvicinandosi alla sua decappottabile. Risposi alzando la mano.
 
-Che serata!- pensai tra me e me mentre alzavo gli occhi al cielo stellato. Una brezza leggera mi passò nella giacca, costringendomi a stringerla contro il mio corpo. Feci qualche passo qua e là senza alcuna meta, passando da una via all’altra di Metro City.
 
Pensai alla giornata di sole donne passata insieme alle mie compagne di lavoro. Avevamo deciso di fare shopping fuori città, di andare in un bar per un cocktail per poi cenare in uno dei più lussuosi ristoranti di Metro City. Naturalmente non tutto era andato per il verso giusto, anche perché Megamind aveva cercato di rapirmi usando lo spray addormentante per farmi perdere i sensi. Fortunatamente era finito e si era anche scordato di prendere il Bastone-Dimenticami. Così ebbi la possibilità di contrattare con lui per uno spostamento di data del rapimento.
 
Certe volte quell’alieno mi fa ridere, ma anche un po’ pena. A parte Minion non ha nessuno al mondo e l’unica cosa che sa fare è essere cattivo in modo ridicolo.
 
Entrai in un bar per prendere un caffè da portar via. Avevo deciso di fare una passeggiata fino a casa senza usare l’auto. Camminare fa bene, ma quel fresco che aumentava sempre di più mi faceva venire i brividi. Qualcosa di caldo mi avrebbe fatto bene.
 
“Salve bellezza!” mi urlò un uomo appoggiato al banco. Si teneva in piedi per miracolo da quanto era alticcio. “Le va una serata da far paura insieme al sottoscritto?” e mi mise un braccio intorno alle spalle. Puzzava come una fogna aperta. Trattenendo il respiro lo allontanai spingendolo sul petto. Afferrai la tazza di cartoncino e, stretta la giacca intorno al corpo, uscii dal bar urlando un sonoro “NO!”.
 
Guardai di nuovo il cielo che in quel momento si faceva cupo, oscurato dalle nuvole grigiastre. Una pioggerella fine si disperdeva, ricoprendomi.
 
La serata che fino a poco prima pensavo fosse magnifica si stava trasformando in un incubo.
 
“Dove vai? Stai un po’ con me!” sentii alle mie spalle. Accellerai il passo. “Andiamo! Lo so che vuoi dire si!” e si mise a ridere da solo. Mi voltai un momento, vedendo quell’uomo del bar disteso a terra che ancora sghignazzava. Andai a sbattere contro un muro. “Ahi!” strillai. Ciò che però trovai avanti ai miei occhi non era un muro, ma una persona alta, oscurata alle spalle dalla luce di un lampione ad intermittenza.
 
“Dove va, Miss Ritchi?” chiese con la voce roca da uomo poco raccomandabile. Mi bloccò con le mani le spalle. Sorrise compiaciuto. Altri comparvero dietro di lui, tutti malconci. Ce n’erano di tutti i tipi: ubriachi, sani, mezzi addormentati e troppo eccitati.
 
“Sa… l’ammiro molto e penso che questa sia la mia ultima possibilità di vederla…” disse qualcuno da dietro quel mostro che mi teneva sospesa in aria. Uscì fuori un uomo di circa quarant’anni dal volto sfregiato da ferite e bruciature. Spalancai gli occhi. Buttai uno sguardo alle mie spalle. Non c’era nessuno. Riportai lo sguardo sull’uomo.
 
“Oh… lo so cosa sta guardando… la mia faccia, non è vero?” e sospirò mentre mi passava una mano lungo i fianchi. “Svignarsela dal carcere sta diventando sempre più difficile e a volte ci si può fare molto molto male, lo sa?” e sfiorò le sue ferite. Deglutii.
 
“Cosa vuoi da me?” domandai il più sicura possibile, ma senza alcun successo.
 
“Servizio del 31 agosto 2009. Rapina in banca. Tutto andava per il meglio ma…” e mi strinse un polso “…una reporter ficcanaso di nome Roxanne Ritchi ci scopre e insieme al suo fidato cameraman riprendono la scena approfittando anche di chiamare la polizia e il suo eroico fidanzato. Così riescono a catturarci spedendoci direttamente in carcere.”
 
Ricordavo perfettamente quella giornata. Uno dei miei primi successi. Fissando meglio negli occhi socchiusi quell’essere lo riconobbi subito. La paura invase il mio corpo.
 
“Lasciami!” urlai. Lui mi tappò la bocca.
 
“Non fare la cattiva. Se stai tranquilla, per non farti soffrire tanto, ti uccido, ok?” e alzò un sopracciglio folto. Mi irrigidii. Guardai di nuovo indietro. Non c’era ancora nessuno. Buttai il bicchiere con il caffè ancora caldo in faccia all’uomo che mi sosteneva. Urlò mentre mi lasciava e si teneva il volto scottato dalla bevanda bollente.
 
“Perché l’hai fatta scappare!?” disse mentre mi allontanavo correndo con il cuore in gola.
 
“AIUTO!” gridavo alle finestre in alto sigillate, ma soprattutto al cielo. Metro Man non sarebbe arrivato, ma speravo in un soccorso divino. Niente.
 
Continuai a correre. Le gambe irrigidite dalla paura non si muovevano scattanti come nei giorni di allenamento al parco. I tacchi alti erano solo di impiccio e, per puro miracolo, riuscii a lanciarle avanti a me. Mi voltai un momento. Cinque o sei uomini mi correvano alle calcagna con l’aria divertita. Alcuni erano lenti a causa delle bevande alcoliche, altri, come il rapinatore del mio servizio, erano agili come leoni a caccia. Io ero la povera gazzella sfortunata; la preda.
 
“Vi siete divertiti abbastanza! Lasciatemi andare a casa!” gridavo con le lacrime che mi rigavano le guance. Sapevo cosa volevano farmi, ma non era il momento adatto per fermarmi a pensarci.
 
“Tranquilla, tesoro! Vogliamo solo accompagnarti!” e sghignazzavano agitando le braccia.
 
Riportai lo sguardo avanti a me. Bussai ad una porta, poi ad un'altra e ad un’altra ancora. Nessuno rispondeva. Dopo tutto, alle tre di notte, chi poteva rispondere.
 
Ad un tratto mi ritrovai a terra. L’uomo che poco prima avevo lasciato strisciante a terra mi afferrò una caviglia, costringendomi a buttarmi in avanti. Provai a scollarmelo di dosso, ma mi teneva come una morsa. Le calze trasparenti, al contatto con l’asfalto, si erano bucate.
 
Mi afferrarono per i capelli. Un urlo mi si strinse in gola. Tutti risero. –Vi prego… vi prego se dovete torturarmi… uccidetemi subito dopo…. Vi prego…-  pensavo senza riuscire a dirlo. Un sudore freddo sulla mia fronte colava, mischiandosi con le lacrime amare. Perché doveva proprio accadere a me? Perché esiste un mondo con persone così crudeli? E soprattutto: perché Metro Man non c’era più? Odio Megamind! Lo odio per aver distrutto l’eroe della città! Al minimo lamento lui sarebbe accorso in aiuto di chiunque avesse difficoltà, dal gatto sull’albero alla donna rimasta bloccata nell’auto capovolta in un burrone vicino all’autostrada. Ora nessuno poteva più occuparsi di quelle atroci disgrazie.
 
“Vediamo…ich… che indossi di bello per questa serata…” disse un uomo ubriaco del gruppo. Cominciai a singhiozzare in modo frenetico, doloroso, tanto da farmi male la gola. Ma quel dolore non riusciva a sovrastare la paura di quel momento.
 
Mi strapparono dalle spalle la giacca, scoprendo il mio vestito da cocktail lilla con scollatura a cuore: uno dei miei preferiti. Era adatto per dei cani bastardi affamati di sesso, no? Cercai di coprirmi controllando il mio corpo per quel che potevo.
 
“Oh, come siamo belle!” disse l’ex carcerato dal volto sfregiato. “Sapeva del nostro improvviso appuntamento, Miss Ritchi?” chiese spavaldo ordinando di mettermi giù. Indietreggiai, toccando con le mani un cemento di marmo. Il cuore mi usciva dal petto, risuonando come il tamburo di una batteria a suon musica Heavy Metal. Mise le sue mani rozze appoggiate al muro, poco lontano dalle mie spalle. Avvicinò il suo volto al mio, grattando il mento con la barba poco curata.
 
“Su, su…” disse poi alzandomi la testa. “non piangere. Nessuno ti sentirà. Siamo solo io e te… e gli altri. Ma non ti preoccupare. Quando mi sarò vendicato a dovere non dovrai più pensare a ciò che ti è successo qui, chiaro?” e tentò di baciarmi, stringendo il suo petto al mio.
 
Per un attimo riuscii a concentrare un minimo di autocontrollo, ma l’unica cosa che riuscii a fare fu quella di gettare all’infuori di me ciò che provavo per quell’uomo: gli sputai dritto in un occhio. Mi pentii subito di ciò che avevo fatto.
 
“Ah… è così…” disse asciugandosi il volto. “Vedo che vuoi soffrire… ti accontento…” e tirò fuori dalla tasca un paio di forbici da cucina belle affilate. Urlai. Mi bloccò e, con l’aiuto dell’attrezzo che aveva con sé, tagliò lentamente un lembo del vestito e godendosi la mia disperazione. Lanciò a terra quell’arnese spaventoso, afferrando allo stesso tempo quella parte strappata e tirandola via con calma e desiderio.
 
“Ci siamo quasi… tra poco avrò la mia vendetta… vero ragazzi?” disse alla sua compagnia. Tutti esultarono. Con uno strappo netto riuscì a scoprire più della metà del mio corpo, coperto solamente dalla biancheria intima. Mi gettai a terra piangendo e portandomi le mani alla testa, che sembrava volesse scoppiarmi da un momento all’altro. Era la mia fine.
 
Penso che il vostro divertimento sia finito…” disse una voce computerizzata alle spalle di tutti.
 
Alzai lo sguardo ad un’ombra che ci sovrastava. Il rumore di un jet pack mi invase come un’aura di speranza. 

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Capitolo 2
*** Soccorso ***


“Chi sei? Mostrati!” urlò l’uomo ancora con gli occhi brucianti dalle immagini di me completamente svestita.
 
A te cosa importa?” disse sprezzante.
 
“Mi importa eccome…” e si voltò riafferrando le forbici.
 
Cosa vuoi fare con quello schifo?” disse estraendo una lancia nera dalle sue spalle. Una scarica elettrica blu fluorescente si accese sull’estremità, imprigionando l’arma in un fascio di luce. “Al massimo puoi venirmi a fare un taglio di capelli…” e fece un risolino come se la battuta sarcastica
fosse rivolta a se stesso.
 
La luce alle sue spalle mi impediva di vedere i suoi contorni e in più avevo al vista annebbiata dalle lacrime.
 
L’uomo, arrabbiato, andò nella sua direzione, urlando e sbraitando come un cane con la rabbia. “Scendi giù se hai un minimo di coraggio! Forza!” lo provocava cercando di afferrarlo per le caviglie.
 
Sei ridicolo…” e scese in picchiata verso di lui. Lontano dalla luce era un po’ più visibile. Non sembrava molto forte. Il corpo era abbastanza snello, forse troppo. La tuta nera attillata aveva delle strisce blu elettrico lungo i fianchi e sulle spalle. Era familiare, ma non riuscivo a ricordare.
 
Cercavo di riunire il vestito tenendolo con le mani, ma il freddo si infiltrava tra le ossa. Non avevo la forza di allungarmi per prendere la giacca a terra. Assistevo alla scena silenziosamente, mentre le lacrime si bloccavano a metà strada.
 
Il nuovo arrivato al quale sembrava dovessi affidare la mia vita si batteva come un forsennato. Usava la sua lancia in malo modo, ma riusciva a stendere tutti quelli che lo attaccavano. Rilasciando una scarica elettrica poteva uccidere qualsiasi persona, facendolo svenire. Il combattimento durò poco. Lui era in netto vantaggio.
 
Una luce lo investì, mostrando il volto nascosto da un casco nero enorme. Sembrava stesse guardando me. “Alzati…” e indicò il vicolo che portava alla strada principale. Non risposi. “Alzati…” ripetè.
 
Quando mi decisi ad annuire riprovai quel dolore allucinante alla testa. Mi stavano tirando per i capelli.
 
“Ma non vedi che vuole rimanere con me?” disse l’uomo alle mie spalle, intento a giocare con l’attacco del reggiseno. Lanciai uno sguardo al ragazzo che, in piedi tra i corpi striscianti, ci fissava con la lancia appoggiata ad una spalla.
 
“Allora? Perché non vieni a salvarla?” disse minaccioso, puntandomi la lama delle forbici sul collo.
 
L’altro rimase impassibile. Solo la sua mano libera lo tradì, che si chiudeva ed apriva nervosamente.
 
“Forza. Levati quel casco e mostrati!” urlò mentre mi rigava la giugulare. Il dolore era allucinante. Deglutii e sentii sgorgare qualcosa di caldo che poi scese lungo il corpo mezzo spoglio: sangue.
 
Io sono venuto per fermare questa marmaglia di uomini casinisti che disturbavano le persone che dormivano. Nessuno si decideva a rispondere alle loro lamentele.” Fece un passo avanti. “Io soccorro solo chi lo chiede.
 
Sembrava triste il suo tono, anche modificato. Fui sorpresa di quell’affermazione.
 
Se mi chiederai aiuto, accontenterò il criminale e ti salverò.” e appoggiò un dito al suo casco.
 
“MA SEI IMPAZZITO!?” gridai. “Tu soccorri solo chi te lo chiede! Ma certo! Magari per colpa tua è già morto qualcuno! Che so… chi era imbavagliato o aveva perso la voce! Certo!” Per la rabbia ero riuscita a parlare. “Magari devono anche mandarti una richiesta ufficiale tramite posta elettronica!? Perché no! Sarebbe una bella idea! Ufficiosa e ti dà anche il tempo di prendere appunti sulla tua agenda!” abbassai lo sguardo. Fino a quel momento non mi ero vergognata del mio stato, ma feci finta di niente. “Perché fai queste domande!?”
 
Si incamminò verso di noi. Con la punta sentii tracciare un altro squarcio. Drignai i denti.
 
A volte” cominciò “alcuni non hanno accettato il mio aiuto. Così, da quei momenti in poi, ho cominciato a chiedere. Tutti hanno avuto la tua reazione, ma perlomeno sono usciti sani e salvi.” si bloccò. “Rispondi... vuoi il mio aiuto?
 
Avendo sempre più confusione in testa, chiusi gli occhi. Cominciai a piangere. “Si… si… aiutami. Ne ho bisogno. Ho bisogno del tuo aiuto.” Posai lo sguardo su di lui “Ho bisogno di te.”
 
Sembrò sciogliersi in ciò che gli avevo detto, come se non lo avesse mai sentito dire.
 
Titubante, appoggiò la lancia a terra. “Volete proprio vedere chi sono?” disse portando le mani all’allacciatura del casco.
 
“Si! Voglio vedere i tuoi occhi mentre mi lavoro questa bellezza!” e rise di gusto. Un uomo alle spalle del nuovo eroe si alzò. Afferrò al volo un’asta e cercò si colpirlo.
 
“Attento!” gridai.
 
In un attimo si voltò e scivolò lateralmente facendo cadere il tizio di nuovo a terra. Gli lanciò una sfera di acciaio che, apertasi, lasciò una scarica elettrica verdognola. L’uomo non dava segni di vita.
 
Sentii deglutire. “Paura, eh?”
 
Lui mi fulminò con lo sguardo. “Zitta!” e riportò gli occhi in alto. “Ora che hai fatto fuori il mio compagno mostrati!”
 
Si rivolse a me “Scusa; di sicuro non sono l’uomo che ti aspetti. Se vuoi non guardare” e tolse il casco meccanicamente. Lo lanciò a terra, facendolo rotolare di fianco.
 
La luce proiettò un’ombra simile a quella precedente. La testa familiare; la pelle familiare; uno sguardo smeraldino ed eccitante, ma comunque familiare.

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Capitolo 3
*** Un nuovo eroe ***


 
“Da quando il cattivo salva la fanciulla?” disse spavaldo il rapitore al soccorritore.
 
“Megamind…” lo chiamai. Lui, un po’ deluso da se stesso, abbassò lo sguardo “Perché?”
 
“Perché mi chiedi? Non lo so…” e portò lo sguardo su di me, scrutandomi. “Ora lasciala…” ma venne colpito alle spalle. Cadde a terra, svenuto.
 
“Bravo! Ora si che ragioniamo!” e buttò via le forbici, facendomi ruotare su un piede e costringendomi a guardarlo negli occhi. “Dove eravamo rimasti…?” e diede un graffiante bacio al mio collo sanguinante. Era orribile.
 
Ad un tratto, mi sentii leggera, sospesa non più come quel precedente momento; forse troppo. Mi schiantai al suolo, battendo le gambe già ferite. Appoggiai la testa all’asfalto freddo, preferendolo ad un maniaco che cercava di assecondare i suoi desideri vendicativi. Una luce azzurrognola mi entrò negli occhi: accanto a me vi era un cubetto fumante che emanava un bagliore cristallino. Riconoscibilissimo.
“Stai bene?” mi chiese da lontano una voce. Megamind si teneva a distanza sfregandosi la testa. Aveva un grosso bozzo scuro, ma sembrava non sentisse moltissimo dolore.
 
Ero ammutolita; non riuscivo di nuovo a parlare. Il collo mi doleva e sentivo perdere forza. Mi guardai il vestito ridotto ad uno straccio, appoggiato sul mio corpo a mo’ di coperta. Lo strinsi più forte.
 
“Ok. Non rispondere; la risposta è ovvia.” e si allungò per raccogliere il casco e si avviò nella direzione da cui era venuto.
 
Mi accigliai e, ritrovata un minimo di voce, lo richiamai “Mi lasci qui?” dissi triste.
 
Mi guardò, appoggiando il casco sulla testa. “Vuoi il mio aiuto?”
 
Aveva un’aria misteriosa, come se in una sola giornata fosse cambiato. Lo avevo visto il pomeriggio con la sua solita goffaggine; eppure era diverso. Ti teneva sulle spine, facendoti soffrire e allo stesso tempo… lo bramavi.
 
“Sai… pensavo di aspettare qui l’arrivo del mattino, così qualcuno mi vedrà e si preoccuperà di portarmi all’ospedale.” Dissi sarcastica. Ero riuscita a tornare in me; solo con lui mi veniva perfettamente.
 
“Perché devi essere così dura con me? Io ti sto offrendo il mio aiuto, eppure mi tratti come se non fossi nessuno; come se non avessi un’anima.”
 
Rimasi in silenzio avanti a quelle parole. Non era mai stato così spontaneo. Allora capii: tutte le volte che lo trattavo male, sotto alla sua risata malefica e al suo menefreghismo, c’era qualcuno che si aspettava di non ricevere mai una scherno, ma perlomeno un sorriso diverso da quello provocatorio.
 
“Allora? Lo vuoi il mio aiuto?” riformulò la domanda.
 
“Perché sei così freddo?” domandai con la voce tremante. “Sei diverso dal solito… non sembri cattivo…”
 
Vidi il suo sguardo accendersi. “Davvero?” ma si corresse “Cioè… lo so…”
 
-E’ così… sexy…- pensai. –Ma che pensieri ho! Di sicuro questa disavventura mi ha fuso il cervello!-
 
Non feci in tempo a punirmi per le mie strane idee che delle braccia che mai avrei considerato così forti mi avvolsero, portandomi in alto, lontano dal suolo. Mi strinsi in quella tuta scura che infondeva calore. Alzai lo sguardo e Megamind aveva indosso il casco, coprendo ogni suo minimo movimento facciale; ogni suo sguardo. In basso riuscii a scorgere alcuni uomini che cercavano di rialzarsi.
 
Tirai su con il naso. Mi venne da piangere e, attaccata con le mani a quella tuta elastica, mi sfogai. Lui mi strinse ancora di più.
 
Non piangere. Ora ti porto al Covo per curare quelle ferite.
 
La voce computerizzata mi infastidiva. Con i goccioloni che ancora scendevano e si lasciavano cadere nel vuoto, allungai una mano verso il casco.
 
Fino a pochi minuti prima lo maledicevo per aver ucciso Metro Man, ma in quel momento volevo solo ringraziarlo. Sapevo che dopo quella serata sarebbe ritornato tutto come gli altri giorni. Dovevo approfittare di quel momento per scoprire il vero Megamind, quello dolce e gentile come il verde smeraldo che lanciava con ogni suo sguardo. Volevo sapere cosa pensava, cosa lo spingeva ad essere cattivo, cosa lo faceva soffrire.
 
Slacciai la sicura. “Cosa fai? Aspetta.” e si fermò, fluttuando proprio sopra alla Metro Tower. Riuscii a lanciare a terra quella maschera che lo richiudeva in sé. Era bello immergersi nei suoi occhi verdi, soprattutto in quel momento. Mi infondevano serenità e pace.
 
“Megamind? Lo so che suona strano ma ti ringrazio per quello che hai fatto.” E sentii la voce tremare. Abbassai lo sguardo. “Potresti farmi scendere? Il tuo jet pack sembra perdere potenza.” E, lanciandosi un’occhiata alle spalle, annuì.
 
Quando appoggiai un piede a terra mi sentii le ginocchia flaccide, come se avessi dimenticato il modo in cui si cammina. Barcollai, cadendo tra le sue braccia. Sentii una scossa partita dall’osso sacro che saliva lentamente. “Sei ancora sconvolta, non è vero?” chiese dolcemente ma alquanto insicuro.
 
Incrociai i suoi occhi. –Si preoccupa per me?- domandai a me stessa.
 
Sapevo che quello era il vero Megamind. Non mi servivano altre risposte. Dolce, gentile, meno goffo del solito, un po’ timido. Ma soprattutto non era davvero cattivo.
 
“Come mai hai gettato via il mio casco?” mi chiese guardandomi storto. “Pensavo che tu mi odiavi così tanto da non voler neanche guardarmi in faccia. Perché lo hai fatto?”
 
Lo abbracciai appoggiando la testa al suo petto. Il cuore gli batteva all’impazzata.
 
Dopo circa una manciata di minuti sentii le sue mani intono ai fianchi. Non si aspettava quella reazione. Sorrisi. “Perché mi chiedi? Non lo so…” e chiusi gli occhi.

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