Diario di una serva

di Doe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - La bestia ***
Capitolo 2: *** Capitolo I - Benvenuta a Torino ***
Capitolo 3: *** Capitolo II - I fratelli Salvatore ***
Capitolo 4: *** Capitolo III - La raffinata arte dell'inganno ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV - Mezzanotte ***
Capitolo 6: *** Capitolo V - L'orgoglio di una (non più) serva ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI - Punti di vista ***



Capitolo 1
*** Prologo - La bestia ***



Prologo

La bestia


Torino, 17 Ottobre 1764

Mio Caro Diario,

Vorrei poterti dire che tutto quello che sto vivendo, in questi giorni qui a Palazzo Veritas, sia un semplice incubo da cui mi sveglierò presto. Che basti che mi schiaffeggi un po’ il viso, per cacciare via le orribili immagini di quegli spaventosi ricordi che credo porterò dentro di me per sempre.

Continuo a tormentarmi con i forse.

Forse, se lo avesse saputo da me prima che dalla Padrona, le cose sarebbero andate diversamente. Forse, se gli avessi detto la verità fin dall’inizio, il Conte non si sarebbe infuriato e io avrei potuto dormire sonni tranquilli. Forse, se le cose fossero state chiare fin da subito per entrambi, non avrei dovuto combattere con tutte le mie forze per proteggere la mia virtù da quell’uomo che avevo creduto di conoscere, ma che, da un paio di giorni a questa parte, non fa che terrorizzarmi con le sue minacce.

È colpa mia. È solo colpa mia.

Eppure, prima che la verità venisse a galla, nel corso di quest’ultimo mese dal mio arrivo a Torino, ho visto un’altra persona in lui. Sarei pronta a giurarlo davanti a chiunque. Lui è stato… buono, con me. Gentile. Non mi ha mai mancata di rispetto, neanche per un attimo, anzi mi ha rivolto molte più attenzioni di quelle che la buona educazione di un nobiluomo richiede. Decisamente molte di più di quelle che sono abituata a ricevere.

Ma che sciocca! Ovvio che mi abbia trattata con tutti i riguardi che si devono ad una ragazza di nobili origini. Lui credeva che lo fossi! Lo ha creduto fino a due giorni fa.

Quando ripenso alla sua scenata, quella sera, in biblioteca… Ai suoi occhi glaciali e intrisi d’ira, alla paura che ho provato quando li ha puntati dritto nei miei, alla curva disgustata che ha assunto la sua bella bocca carnosa e alle affilate e per me umilianti parole che sono fuoriuscite da quelle stesse labbra…

Mi sembra di sentire ancora male, alla guancia che mi ha schiaffeggiato. Nonostante il rossore sia ormai sparito, il dolore riaffiora sempre insieme ai ricordi.

Oh, diario, avresti dovuto vedere che furia è stato oggi! Un pazzo! Ha provato a mettermi le mani addosso questa mattina, mentre stendevo la biancheria; poi questo pomeriggio, incrociandomi per il corridoio mentre portavo il te alla padrona. Quando si è fatta sera e mi sono ritirata qui, nella mia stanza, per la notte, credevo che per oggi il peggio fosse passato, invece qualche minuto fa ha spalancato la porta, completamente ubriaco. Riuscivo a sentire il tanfo di alcool di cui era impregnato anche a distanza. Ho cercato di coprirmi al meglio col lenzuolo, per pudore, ma il terrore nel vedere il suo sguardo luccicare di malizia aveva paralizzato ogni mio muscolo.

Ho continuato a sfiorarmi le labbra arrossate e il collo per interi minuti, dopo che è andato via. Quando il mio corpo è stato completamente sovrastato dal suo, mi sono sentita perduta. Avevo perso ogni speranza, mi ero quasi arresa senza lottare, credendo che questa volta non sarei riuscita a cavarmela. Non avevo però smesso di pregarlo di lasciarmi stare e, non so se sono riuscita a impietosirlo o se semplicemente qualcuno, lassù, mi vuole bene, ma lui ha indietreggiato all’improvviso, si è rassettato i vestiti ed è uscito dalla stanza, subito dopo avermi ricordato che, volente o nolente, prima o poi sarei stata sua.

Ho paura! Sto ancora piangendo da allora. Dice che vuole farmela pagare per essermi presa gioco di lui, ma non era davvero mia intenzione. Dice che dovrei essere lusingata delle attenzioni che un nobile come lui ha nei confronti di una serva come me.

Come, diario? Come posso proteggere me stessa e la mia virtù? Come posso far ragionare una tale bestia?


 

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Angolo di un'autrice sclerotica-nevrotica


Buonsalve a voi, carissime (tanto so che per lo più, su efp, siamo ragazze. Soprattutto a leggere la sezione 'The Vampire Diaries').

 

Yep, questa è la mia fan fiction nuova di zecca.

 

Ci sono dei punti da chiarire per quanto riguarda questo nuovo lavoro. Vediamoli (:

 

Punto numero 1: essendo fan di Jane Austen, adoro il genere "storico" e non potevo non scriverci una fan fiction.

 

Punto numero 2: è interamente ispirata alla fiction italiana "Elisa di Rivombrosa", che adoro in maniera particolare.

 

Punto numero 3: è una fan fiction Delena con personaggi tutti umani.

 

Punto numero 4: è ambientata nel 1764 (ma scommetto che ci eravate arrivati da soli xD). Ho scelto quell'anno proprio perché si distacca di poco dall'ambientazione di "Elisa di Rivombrosa", ed è esattamente un secolo prima del famoso incontro dei SalvaBros con Katherine, nella serie TV.

 

Punto numero 5: A proposito di Katherine: lei non c'è nella storia, in quanto una doppelganger in una fan fiction "non paranormale" sarebbe stata difficile da spiegare. .-.

 

Punto numero 6: Alcune scene o alcuni dettagli di cui scriverò potranno essere presi da "Elisa di Rivombrosa". In tal caso, inserirò un asterisco, perché non voglio assumermi il merito di qualcosa non ideata da me, assolutamente. (:

 

Punto numero 7: Ho ambientato la fan fiction in Italia - stanca della solita Mystic Falls, forse. O più semplicemente per tenere fede alle origini dei SalvaBros, alla serie TV ispiratrice e, beh, anche al mio paese!

 

Okay. Credo sia tutto.

 

Baci-baci.

 

Lisa


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Capitolo 2
*** Capitolo I - Benvenuta a Torino ***


 

 

Capitolo I

Benvenuta a Torino



Era una bel mattino di fine estate, forse solo un po’ troppo caldo. Il cielo era limpido e del tutto privo di nuvole. I raggi solari, prepotenti, impedivano agli occhi umani di accertarsene, però.

La carrozza bianca, con intarsi e raffinate rifiniture in oro, procedeva tranquilla lungo una delle tante strade che conducevano alla città. La giovane Elena Gilbert, al suo interno, osservava, persa nei suoi pensieri, il paesaggio che si estendeva a entrambi i lati della strada, tra vasti prati luminosi, colline rigogliose e, in lontananza, qualche spuntone roccioso di montagna. Gli occhi color caffè, nonostante il bellissimo paesaggio che stavano scrutando, erano pieni d’ansia. La diciassettenne non era affatto un tipo difficile da leggere.

Torino. L’idea di vivere in città – in una così grande, poi! – la spaventava non poco. O, forse, era solo infelice di aver lasciato il suo vecchio paesino di campagna. Ma perché, in fondo? Tutto ciò che era rimasto lì erano ricordi, niente di concreto, nessuno che avrebbe potuto considerarsi abbandonato. Morti i suoi genitori e arruolatosi nell’esercito il fratello, Elena era rimasta sola al mondo.

Si era così affrettata a cercarsi un lavoro per avere di che sfamarsi, con pessimi risultati. L’unico luogo in cui era riuscita a farsi assumere era una locanda frequentata da ubriaconi di medio e basso rango, e sospettava che il merito non fosse dovuto al suo essere sveglia e lavorare sodo, quanto al suo aspetto fisico. Neanche una settimana in quel postaccio e già una decina di uomini avevano provato a metterle le mani addosso, e la ragazza aveva dovuto fare leva su tutte le sue forze e la sua pazienza, per riuscire ad allontanarli senza offenderli. La padrona del locale, una vecchia e grassa megera di nome Cassandra, l’avrebbe licenziata se le avesse fatto perdere anche un solo cliente.

A dirla tutta, Elena non le piaceva proprio per niente: interpretava male la sua timidezza, credendo solo che si desse delle arie, e non riusciva a capire perché ci tenesse tanto a proteggere la sua virtù, visto e considerato che non era diversa dalle altre ragazze che lavoravano da lei e che, a differenza di quella smorfiosetta, si impegnavano ad accogliere e intrattenere i clienti a dovere, senza fare storie.

L’aveva ugualmente assunta, consapevole del fascino che quell’orfanella possedeva, perché era convinta che le avrebbe fornito un numero maggiore di clienti. Le sue aspettative non era state tradite, ma se la ragazza avesse continuato a fare la difficile, prima o poi questi avrebbero cambiato aria.

La fortuna volle che, proprio una sera in cui Elena cercava di divincolarsi dalla stretta ferrea di un uomo grasso e tarchiato dall’odore rivoltante, che l’aveva afferrata per la vita e cercava di costringerla a sedersi sulle sue gambe e dargli un bacio, un’affascinante e austera figura maschile, vestita di tutto punto, fece il suo ingresso nel locale, zittendo tutti per qualche istante. La ragazza, in evidente difficoltà, stava giurando a se stessa che quella sarebbe stata la sua ultima sera in quel postaccio, quando lo riconobbe.

Era il Marchese Niklaus Mikaelson, proprietario dello splendido palazzo che si ergeva in cima alla collina dove sorgeva il paese. Elena si era incantata un’infinità di volte ad osservare la tenuta, quando vi passava davanti per sbrigare le sue commissioni, immaginando quanto doveva essere bello vivere tra quelle mura, poter passeggiare tranquillamente per il vasto giardino o nel labirinto e leggere all’ombra di un pesco. Infatti, se c’era qualcosa che distingueva Elena da chiunque altro appartenente al suo stesso rango, oltre alla sua intelligenza, la proprietà di linguaggio e l’educazione impartitagli dagli amorevoli genitori defunti, era la capacità di leggere. Finché era stato in vita, suo padre Grayson aveva svolto l’attività del rilegatore di libri*, per cui in casa c’era sempre di che leggere. E proprio il padre, quand’era appena una bambina, l’aveva seduta sulle sue ginocchia e le aveva insegnato.

La famiglia Mikaelson contava, in tutto, cinque componenti, tutti fratelli più una sorella, la Marchesa Rebekah. Li si vedeva raramente in giro, anzi, quando si trovavano in paese, generalmente non uscivano dalle mura della tenuta. La gente mormorava, considerando sospettoso questo comportamento, ma Elena non ci aveva mai trovato assolutamente nulla di strano: con una casa del genere e dei domestici che svolgono le commissioni per te, chi avrebbe sentito il bisogno di uscire?

Per questo motivo la presenza del Marchese in locanda aveva destato non poco stupore. Dopo i primi secondi di turbamento generale, Cassandra si era precipitata al suo cospetto per accoglierlo, ma il Marchese l’aveva zittita con un gesto della mano e le aveva detto, senza troppi giri di parole, che non si trovava nella sua squallida locanda per bere insieme a quegli altri zotici, ma bensì perché aveva sentito dire che in quel posto lavoravano molte belle fanciulle e lui era alla ricerca di una nuova cameriera per la sua tenuta. «Una che non mi faccia sfigurare», aveva detto.

Immediatamente, ogni singola cameriera nel locale si era lasciata sfuggire un urletto d’eccitazione. Tutte tranne Elena, che era stata fin troppo occupata con Signor Mano Lunga per origliare la conversazione tra il Marchese e Cassandra.

«Mi lasci andare, la scongiuro!», aveva detto, alzando involontariamente la voce di un paio di toni. Immediatamente, era calato di nuovo il silenzio nel locale.

«Piccola bisbetica», aveva mormorato Cassandra tra i denti, voltandosi a guardarla insieme al Marchese Mikaelson.

«Che succede qui?» Elena aveva alzato gli occhi a quella domanda, giusto per realizzare a chi appartenesse la voce, e un attimo dopo li aveva sgranati.

«Buon uomo, non siate scortese, lasciate andare questa povera ragazza». Completamente controvoglia, l’uomo che pareva un armadio a quattro ante aveva abbandonato la presa su Elena, che si era affrettata ad inchinarsi al cospetto del Marchese.

«Qual è il tuo nome?», aveva chiesto quest’ultimo alla ragazza, ancora sotto shock e col fiatone per le precedenti lotte.

«Elena Gilbert, signore.»

«Elena, ti piacerebbe lavorare per me?»

La giovane non era riuscita a trattenersi dal sorridere, a quella domanda. Lei? Lavorare per il Marchese? Andare a vivere a palazzo? Sembrava fin troppo bello per essere vero e, se non le fosse apparso inadatto, in quel momento, se ne sarebbe accertata dandosi un pizzicotto sul braccio.

«Oh sì, signore. Ne sarei davvero onorata», aveva mormorato in estasi, cercando di non pensare al fatto che, nonostante il suo precedente salvataggio e l’imminente offerta, quell’uomo e il modo in cui la guardava le mettevano i brividi.

«Perfetto», aveva esordito lui, aprendosi in un sorriso che gli aveva fatto scintillare di malizia lo sguardo.

La ricerca del Marchese di una serva di bell’aspetto non era, ovviamente, dovuta solo alla necessità di aumentare di fascino la tenuta. Nella locanda era stato chiaro a tutti fin dall’inizio e molte ragazze erano quasi morte d’invidia nel vedere la scelta dell’affascinante Marchese ricadere sulla più piccola e ingenua tra le cameriere, completamente ignara di ciò che la attendeva.

Quella ragazzina dai riccioli bruni e gli occhi da cerbiatta era parsa allettante, agli occhi di Klaus, da quando l’aveva vista lottare per proteggere la sua virtù. Una vergine. Sarebbe stato divertente e in più, in quel modo, era certo che non avrebbe corso il rischio di contrarre malattie veneree**. Quand’era entrato in quel locale non si era certo aspettato così tanto.

Ma Elena non scoprì mai quali fossero le reali intenzioni del Marchese, perché questi, consigliere del re, venne richiamato nella capitale pochi giorni dopo, senza lasciargli il tempo di godersi a pieno il suo nuovo giocattolino.

Così, Elena era rimasta a lavorare nella tenuta per la Marchesa Rebekah, che aveva scoperto ben presto essere tutt’altro che simpatica. Ma aveva tenuto sempre questa sua antipatia per sé, non aveva alcuna intenzione di mancare di rispetto alla sorella di colui che l’aveva praticamente tratta in salvo. Era grata a quella famiglia come non lo era mai stata a nessuno prima e non si univa mai alle altre cameriere, a tarda sera, quando prendevano a spettegolare e lamentarsi di quanto la Marchesina fosse irritante e viziata.

Rebekah aveva diciannove anni e ancora nessun pretendente alla sua mano – a causa del suo caratteraccio, a detta della cuoca – per cui tendeva a sfogare le sue frustrazioni su chiunque le capitasse tra i piedi. E, visto che i fratelli erano sempre assenti, i malcapitati erano proprio coloro che lavoravano per lei. Non aveva risparmiato neppure la nuova arrivata, anzi, le aveva reso le prime due settimane di lavoro un vero e proprio inferno, facendola sgobbare come Elena non aveva fatto mai. Ma la ragazza non aveva osato lamentarsi neanche mezza volta.

Altro passatempo preferito di Rebekah sembrava essere quello di insultare le sue serve – in modo particolare quelle carine, perché temute – non perdendo mai occasione di ricordare loro che appartenevano al gradino più basso della scala sociale, che erano delle ignoranti e che nessuno che contasse o che le amasse davvero le avrebbe mai sposate. Le serve non potevano permettersi l’amore.

Quelle parole andavano a lacerare sempre di più l’animo romantico che risiedeva in Elena, che dopo aver divorato tutti quei romanzi non ne voleva sapere di rassegnarsi a quello che Rebekah riteneva essere il suo destino. Per quanto sapesse che non ne avrebbe tratto altro che dolore e profonde delusioni, la ragazza non riusciva a fare a meno di sognare ad occhi aperti ogni volta che ne aveva l’occasione, e appuntava nei dettagli ogni sua fantasia sul suo diario, un quaderno dalle pagine ingiallite che suo padre aveva rilegato per lei con una bel tessuto rosso e sul quale lei aveva, in seguito, ricamato il suo nome.

Due mesi di lavoro a palazzo dopo, la Marchesa Rebekah aveva ricevuto la notizia della morte di un lontano zio, residente a Torino, il Conte Giuseppe Salvatore. Era stata Elena a portarle la lettera del cugino su un vassoio d’argento e la ragazza si era meravigliata nel vedere lo sguardo della Marchesa illuminarsi, anziché turbarsi, nel leggere prima il nome del mittente e poi la notizia. Subito, questa aveva ordinato che si cominciassero a fare tutti i preparativi necessari perché, aveva annunciato, sarebbe partita per Torino la settimana seguente.

All’inizio, Elena aveva pensato che quello di Rebekah fosse solo il desiderio di salutare per sempre un vecchio zio come si deve, o di consolare una zia – sempre che ci fosse. Non riusciva a immaginare un animo capace di affetto o compassione in quella ragazza, per quanto si sforzasse, ma non trovava neanche un’altra motivazione che la portasse a lasciare in fretta e furia la casa da cui non si era praticamente mai allontanata, a differenza dei fratelli, dalla nascita.

Ogni suo dubbio trovò una spiegazione un paio di notti dopo, quando non riuscì a trattenersi dall’origliare i soliti pettegolezzi notturni delle altre serve. A quanto pareva, il Conte Giuseppe era vedovo, ma la Contessa, prima di morire, era riuscita comunque a dargli due figli. A far scattare qualcosa in Rebekah non era stato altro che il suo desiderio di sposarsi, e sapeva che i fratelli Salvatore erano non solo due soldati affascinanti che avevano appena ereditato una fortuna enorme, ma persino scapoli.

«In questo momento scommetto che quell’arpia si sta ancora leccando i baffi, al pensiero. Spero solo che la rifiutino entrambi, così magari la smetterà di sentirsi superiore al mondo intero!», aveva ghignato, maligna, una domestica.

La vera sorpresa era avvenuta quando Elena si era sentita ordinare, due giorni prima della partenza, di fare i bagagli perché sarebbe partita insieme a lei.

«Mi scusi?», aveva mormorato sotto shock.

«Sei sorda, per caso? Ho detto che verrai con me a Torino. Ti ho scelta perché sei la meno incompetente e l’unica sveglia tra quella massa di zotici», aveva dovuto ammettere.

«Ma, Signorina… Il Marchese…»

«Ho già scritto a mio fratello chiedendogli il permesso di portare con me la sua sgualdrinella, se è questo che ti preoccupa. Ha detto che va bene. Adesso vai a preparare la tua robaccia, prima che mi penta della mia decisione.» Con queste parole, la Marchesa era uscita dalla stanza lasciando Elena ai suoi pensieri.

Lasciare quel paese? Lasciare la sua casa? Per quanto, poi? Elena non aveva avuto davvero il coraggio di domandarlo alla Marchesa. Non voleva farla stizzire più di quanto lo fosse già di natura.

Senza dire nulla e con lo sguardo di chi stava andando al patibolo, aveva iniziato a raccogliere le sue cose in una sacca da viaggio, nascondendo il diario sul fondo per evitare che qualcuno lo notasse. Aveva salutato le altre serve, anche se con nessuna aveva stretto un vero e proprio rapporto d’amicizia, e queste l’avevano compatita per via del fatto che avrebbe dovuto trascorrere intere giornate in compagnia di Rebekah. Mentalmente e con sarcasmo, le aveva ringraziate per averglielo ricordato.

Si era accomodata in un angolo all’interno della carrozza, preceduta dalla Marchesa, e per tutto il viaggio aveva parlato solo se questa le aveva posto delle domande. A differenza sua, Rebekah non aveva fatto altro che parlare e parlare – il viaggio aveva avuto la durata di quasi ventiquattro ore – e spesso Elena aveva solo finto di ascoltarla. La Marchesa era abbastanza egocentrica da non averci fatto caso.

Ma adesso che la carrozza si avvicinava sempre di più alla capitale, Elena sentì lo stomaco ingarbugliarsi e abbandonò la posa rilassata che aveva tenuto durante tutto il viaggio per una rigida e visibilmente nervosa. Inconsciamente, prese anche a tamburellare con le dita sul sedile, di fianco all’ampia gonna blu dell’abito che indossava.

«Ti dispiacerebbe smetterla?! Mi stai irritando», la fulminò la Marchesa.

«Scusi…», mormorò Elena, giungendo le mani.

«E togliti quell’orribile… coso. Non fa più freddo, non hai motivo di portarlo.»

Elena si affrettò a slegare il fiocco che teneva la sua umile ma calda mantellina nera legata al collo. Invece sì, avrebbe voluto ribattere. Ce l’ho, eccome! Questo “coso” apparteneva a mia madre! È praticamente tutto ciò che mi è rimasto di lei. Ma a che sarebbe servito?

«Dovresti essere grata e fiera di indossare quell’abito, non cercare di nasconderlo. Non ne indosserai mai uno migliore.»

L’abito blu, ricamato di bianco sul corpetto, non apparteneva, infatti, alla sua indossatrice. Era un vecchio ma costoso vestito di Rebekah, che la Marchesa stessa aveva ordinato a Elena di indossare prima di partire per il viaggio. La motivazione era stata la stessa del fratello - «Per non farmi sfigurare» - e Elena, che dopo le spudorate insinuazioni di Rebekah aveva cominciato ad aprire gli occhi sulle reali intenzioni del Marchese, capì da subito che c’era dell’altro, sotto. E, siccome era sveglia, non le ci era voluto molto per fare due più due.

Era universalmente riconosciuto che ormai andava di moda, tra le nobildonne dei ranghi più elevati, possedere una dama di compagnia altrettanto nobile. Ma nessuna donna avente un titolo avrebbe mai desiderato la compagnia di Rebekah Mikaelson. E nemmeno Elena, che gli unici titoli che conosceva erano quelli dei libri che aveva letto. E visto che la Marchesina stessa non era particolarmente incline all’amicizia, era giunta alla conclusione che con i soldi e il potere avrebbe potuto ottenere tutto. E avrebbe aumentato la paga di quella servetta, se necessario, se questa si fosse rifiutata di stare al suo gioco.

Elena adorava il suo nuovo vestito, ma no, non se ne sentiva onorata come la Marchesa avrebbe voluto. L’abito non fa il monaco e, allo stesso modo, questo non rendeva lei una nobildonna, per quanto gliela facesse sembrare. Inoltre, la ragazza detestava mentire. Non era neanche quel che si dice una brava attrice, ed era consapevole che invece le sarebbe toccato recitare a lungo un ruolo che credeva non le si addicesse.

Nonostante ciò, non riuscì a ribellarsi. Quella ragazza di soli due anni più grande di lei, ma dall’aspetto di una donna – forse per via del fatto che sembrava incavolata col mondo per la maggior parte del tempo – le incuteva fin troppo timore. O meglio, le incuteva timore ciò che avrebbe potuto fare, ovvero sbatterla nuovamente per la strada e costringerla a tornare in un localaccio come quello in cui aveva lavorato precedentemente.

In silenzio, Elena iniziò ad assumere una posizione più eretta, sollevando di poco il mento, rassettandosi l’abito, per poi concludere poggiando le mani sul grembo, il tutto con movimenti molto leggeri e aggraziati. Rebekah, osservandola con la coda dell’occhio, se ne compiacque.

«Dio, ma quanto ci vuole? Cocchiere!», urlò.

Al pover’uomo per poco non volarono le redini di mano, nel sentire il suo ringhio acuto. «Sì, Signorina Marchesa?»

«Dista ancora molto?»

«No, Signorina. Se vi affacciate, alla vostra destra, potete già scorgere la tenuta.»

«Meglio così», concluse Rebekah, senza nemmeno dare un’occhiata fuori dalla carrozza. Non cercava per niente di non dare a vedere che il reale motivo del suo viaggio non era quello di visitare la capitale.

La curiosità di Elena, invece, ebbe la meglio sul suo proposito di comportarsi come una ragazza raffinata e posata. Nell’esatto momento in cui udì le parole del cocchiere, la sua testa ruotò quasi per istinto a destra dove, dietro la chioma di un paio di alberi, si riusciva a scorgere, in lontananza, quella che sembrava essere una villa con un laghetto sul cortile anteriore.

Man mano che ci si avvicinava, il cuore di Elena prendeva a palpitare più velocemente, da un lato perché era tesa, dall’altro perché quel palazzo sembrava, se possibile, anche più incantevole di quello dei Mikaelson.

Quando la carrozza attraversò l’alto cancello in ferro battuto - tutto ghirigori, intrecci e una rosa al centro, che si divideva quando questo veniva aperto – la bellezza di quel luogo le tolse letteralmente il fiato.

Intorno a loro, tutto era verde ma punteggiato di mille diversi colori. Procedendo lentamente era più facile distinguere i singoli fiori, piantati con precisione quasi assurda e le cui tonalità ricordavano i colori dell’arcobaleno, ma capovolti: lì dove terminavano i ciclamini, iniziavano le viole, subito seguite dai nontiscordardimé, e così via fino ad arrivare agli sgargianti papaveri. Al centro esatto del giardino, il laghetto che Elena aveva scorto poco prima era diventato decisamente più grande e, poco più avanti vi erano un paio di piccole fontane di pietra, con su scolpite due splendide veneri dai capelli lunghissimi.

Quando la carrozza sostò proprio di fronte alla tenuta, Elena per poco non fu costretta ad asciugarsi la bava dalla bocca. Un enorme e lussuoso palazzo bianco e oro, con una larga scalinata in marmo che pareva non finire mai al centro, grandi finestre sia ai piani inferiori che ai superiori, due balconi in quelle che dovevano essere le camere da letto – la ragazza sospettò che sul retro ne avrebbe trovati degli altri – e un’ampia veranda al secondo piano. Le tende bordeaux della portafinestra aperta della veranda, svolazzarono leggermente, ma abbastanza perché Elena scorgesse quella che di sicuro era una biblioteca altrettanto maestosa e il suo cuore perdesse un battito.

«Benvenuti a Palazzo Veritas», annunciò una voce maschile sconosciuta, mentre le due donne, a turno, si preparavano a lasciare l’abitacolo della carrozza.

«Oh, Stefan, Damon! Miei cari cugini! Che gioia rivedervi!», stava cinguettando Rebekah mentre veniva aiutata, probabilmente proprio da uno dei due cugini, a scendere dalla carrozza.

Elena fece un lungo respiro prima di seguire la Marchesa. Quando i suoi riccioli castani - acconciati in modo tale che non le ricadessero sul viso, ma le scendessero tranquilli sulla schiena, fino alla sottilissima vita – fecero capolino dalla carrozza, quasi sgranò gli occhi nel vedere che una grande, affusolata e pallida mano era tesa, a palmo in su, proprio verso di lei.

Qualcuno la stava aiutando a scendere.

Tutta la preparazione di Elena, durante il viaggio, per cercare di comportarsi come una nobildonna abituata ad essere trattata con rispetto, andò a farsi benedire quando, nell’alzare lo sguardo, si scontrò con due iridi color del ghiaccio.

 

 

*In “Elisa di Rivombrosa”, il padre della protagonista era un rilegatore di libri. Non si tratta, quindi, di un’idea di mia fantasia.

**Molto diffusa, al tempo, la Sifilide, proprio perché gli uomini (nobili compresi) erano soliti frequentare i bordelli.


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Angolo di un'autrice che al momento si sta godendo il sole in veranda col pc


Buona domenica a tutte voi!

Non amo commentare i miei capitoli. Questo è un compito che spetta a voi. A me rimangono da fare tre cose.

Cosa numero 1: Scrivere piccoli chiarimenti.

Allora, tanto per cominciare (se ancora la cosa non vi fosse apparsa chiara) io detesto Rebekah. Se c'è qualcuna di voi che la adora, beh, liberissime di leggere ma vi assicuro che non la vedrete MAI diventare buona e cara nel corso della fanfiction. Nemmeno per Klaus nutro particolare affetto (anche se lo trovo veramente tenero nelle scene con Caroline :3). La storia, come già detto, è ambientata in Italia, ma avrete notato che nomi e cognomi di molti personaggi sono stranieri: ma è una fanfiction, mica posso cambiare i nomi dei personaggi, non avrebbe più molto senso, a mio parere. Ah, il personaggio di Elena potrà sembrare a molti OOC. Col tempo, vi assicuro che la Elena che conosciamo verrà fuori, ma bisogna considerare che vive in un periodo in cui la donna l'emancipazione non la vedeva neanche col binocolo e per di più è una serva. Essere la Elena-ribelle a quel tempo non le sarebbe stato facile come ai nostri giorni, ma resta sicuramente la Elena coraggiosa e altruista che conosciamo, e qualche capitolo più avanti avrete sicuramente modo di accertarvene.

Cosa (che mi resta da fare) numero 2: Ringraziare le 8 persone che hanno inserito la FF tra le seguite, quell'unica persona che l'ha inserita tra le storie da ricordare, le 6 persone che l'hanno inserita tra le preferite e le 9 persone che hanno recensito.

Cosa (che mi resta da fare) numero 3: Augurarmi che il capitolo sia stato di vostro gradimento e che riceverò altre splendide recensioni come quelle del Prologo. :)

Un bacio,

Lisa

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Capitolo 3
*** Capitolo II - I fratelli Salvatore ***


 

 

Capitolo II

I fratelli Salvatore


Elena aveva ancora gli occhi sgranati, mentre fissava il Conte, e quelli dell’uomo non erano da meno. Il dolce viso olivastro della ragazza che aveva di fronte, il piccolo naso, le labbra carnose, quel ribelle ricciolo a spirale che, sfuggito dall’acconciatura, le ricadeva sugli occhi grandi, profondi e al momento allarmati come quelli di un piccolo cervo spaventato: non c’era nulla che non trovasse affascinante in lei. D’altra parte, Elena pensava che sarebbe stato impossibile non essere attratti dall’uomo dagli occhi di ghiaccio. Era bello dai suoi capelli spettinati e neri come l’ebano, al contrasto della sua pelle diafana, dal rosa tenue che gli colorava leggermente la guance, alla mascella squadrata.

Entrambi, per un momento che sembrò durare secoli, si scoprirono incapaci di muoversi o formulare frasi di senso compiuto. Entrambi, per un istante che desideravano fosse infinito, dimenticarono chi fossero e dove si trovavano.

Fu Elena la prima che diede segni di vita. Udì la sua stessa voce urlarle cosa stai facendo?! e, supponendo si trattasse della sua coscienza, arrossì violentemente e chinò di poco il capo, mentre anche il Conte si ridestava dalla sua trance. Si ricordò di avere ancora la mano sospesa a mezz’aria, proprio di fronte a lei, e si affrettò a mormorare: «Prego, signorina. Lasciate che vi aiuti.»

Elena parve titubante. Considerata la sconvolgente e intensa sensazione che l’aveva travolta pochi istanti prima, solo incontrando i suoi occhi, aveva paura di scoprire cosa sarebbe successo se si fossero toccati. Niente di buono, sospettava.

Ma, un attimo dopo, già si dava della stupida per quelle sue reazioni e la sua coscienza, con tono ammonitrice, le ricordava di dover andare avanti con la sua recita.

Lentamente, allungò la sua mano destra poggiandola su quella di lui. Entrambi furono percorsi da un potente brivido interno, un fulmine a ciel sereno, una scossa che cercarono di nascondere meglio che poterono.

Quando entrambi i piedi di Elena ebbero raggiunto il suolo, lei alzò nuovamente il viso su quello di lui e ritirò la mano dalla sua, come si fosse appena scottata, nell’incontrare ancora quello sguardo abbacinante. Si costrinse a distogliere il suo, in tutta fretta, e raggiungere la Marchesa, cercando dentro di sé ancora uno sprazzo di lucidità. Il Conte si soffermò un attimo ad ammirare quella figura smilza e aggraziata nel suo abito blu, poi la imitò, raggiungendo il fratello di fronte alle due dame.

Il ragazzo che aveva aiutato Rebekah a scendere aveva occhi verdi e capelli castano chiaro e si vedeva che era più giovane del fratello. Elena azzardò che potesse avere la sua età o quella di Rebekah al massimo, mentre l’uomo dagli occhi di ghiaccio era intorno ai ventiquattro anni. Tuttavia, mentre Stefan Salvatore le sorrideva e le baciava la mano, presentandosi, lei si sentì molto più a suo agio nel guardare i suoi occhi che quelli del fratello. Quel giovane sembrava emanare semplicità e fiducia da tutti i pori.

«Lei è Elena, Elena Gilbert. La mia dama di compagnia», la presentò Rebekah.

Mentre quasi moriva dalla tensione e l’imbarazzo, Elena sentì qualcuno afferrarle con delicatezza nuovamente la mano destra e sgranò gli occhi nel vedere il maggiore dei fratelli Salvatore chinarsi su di essa e, senza distogliere neanche per un istante gli occhi dai suoi, posarvi sopra le labbra carnose e morbide al contatto. Solo lo sguardo completamente incatenato a quello di lui le impedì di svenire sedutastante a causa delle troppe emozioni provate contemporaneamente. 

«Incantato», mormorò con voce roca e suadente lui. «Permettetemi di presentarmi a mia volta, Signorina Elena Gilbert. Sono il Conte Damon Salvatore, fratello maggiore di Stefan.»

«O-Onorata di fare la Vostra conoscenza, Signor Conte», balbettò Elena accennando una riverenza. «E le mie più sentite condoglianze ad entrambi per la vostra grave perdita», aggiunse sperando che Rebekah, fin troppo presa a rimirare entrambi i giovani, ricordasse il motivo per cui loro credevano che la cugina si trovasse lì.

Funzionò. «Oh sì, miei cari cugini. Condoglianze anche da parte mia. Non sapete quanto mi abbia addolorata leggere una così orribile notizia e sapervi qui, soli, a consolarvi l’uno con l’altro per la perdita del mio povero zio, vostro padre… Non potevo pensare di abbandonarvi al vostro dolore.»

Elena non seppe bene cosa fu a trattenerla dallo sghignazzare, rendendosi conto fino a che punto Rebekah poteva essere falsa e meschina, ma qualunque cosa fosse stata gliene fu grata.

«Ringrazio infinitamente entrambe per la vostra bontà d’animo e sono certo che l’anima di mio padre ora si sia ricongiunta a Dio nella pace eterna», rispose Damon Salvatore senza dilungarsi molto e utilizzando dei semplici cliché. Ma, anche se si stava rivolgendo a entrambe, i suoi occhi non si spostarono mai dal viso di Elena.

«Oh, lo sono anch’io», miagolò Rebekah. Era davvero strano che non si fosse ancora accorta di quanto poco il maggiore dei Salvatore la stesse degnando della sua attenzione, considerato il suo egocentrismo. Evidentemente stava ancora valutando chi, tra i due giovani, fosse più attraente.

«Benissimo», esordì Stefan sorridendo sia alla dama bionda, vestita di verde, che alla bruna. «Adesso che le presentazioni sono state fatte, immagino mi farete l’onore di accomodarvi in casa. Ho già fatto preparare le vostre stanze e ordino immediatamente a Matt di portare le vostre cose di sopra. Immagino avrete bisogno di riposare.»

«Oh, niente affatto, caro Stefan. Ci vuole ben altro che un semplice viaggio, per stancarmi», riprese a miagolare la Marchesa. «Piuttosto, mi farebbe piacere che entrambi i miei cugini mi mostrassero questa splendida tenuta, se non sono loro troppo stanchi per farlo.»

«Ne sarei onorato», sorrise Stefan, porgendole cavallerescamente il braccio. Lei lo accettò, sorridendo compiaciuta.

«La Signorina Elena si unisce a noi?», domandò poi, notando che la ragazza se ne stava immobile e silenziosa.

Elena non sapeva bene cosa dover rispondere e guardò in viso la Marchesa, cercando aiuto. Questa scosse lievemente la testa, di nascosto dai due Conti.

«Ehm, in realtà io sarei un po’ stanca e preferirei riposare. Se la Signora Marchesa è d’accordo, ovviamente», rispose infine.

«Oh, sì cara, vai pure», rispose Rebekah fingendo magnanimità.

«Permettetemi di accompagnarvi.» La voce del Conte Damon, giunto non seppe mai quando alla sua destra, fece sussultare e ruotare di scatto Elena. Impedire ai suoi occhi di incontrare quelli di lui, inutile a dirsi, fu una partita persa in partenza.

«Oh, io… Davvero… Non preoccupatevi, non c’è alcun bisogno di… La Marchesa gradirebbe anche la vostra compagnia», balbettò imbarazzata.

«Oh, prometto che vi raggiungerò tra un attimo, cara cugina», disse sorridendo a una Rebekah un po’ contrariata. La Marchesina sorrise a sua volta, falsa.

«Insisto, Signorina Elena. Vi prego di esaudire questo mio semplice desiderio. E poi», aggiunse avvicinandosi per sussurrare al suo orecchio, «sono certo che mia cugina sopravviverà. Al momento ha mio fratello Stefan, con cui civettare

Elena, rossa in viso per l’intimità che quell’uomo si era tranquillamente permesso, si lasciò sfuggire una piccola risata, che tentò di mascherare al meglio con un colpo di tosse. Non riuscì ad ingannare comunque il Conte – neanche Rebekah, a quanto pareva, c’era riuscita – che le sorrise sghembo. La ragazza non sapeva se a colpirla di più era la perspicacia, la tagliente ironia di cui sembrava essere dotato o l’abbacinante mezzo sorriso di quell’uomo.

Mentre Stefan e la Marchesa si allontanavano per il giardino, Damon fece chiamare Matt, lo stalliere, un ragazzone alto, biondo e di bell’aspetto.

«Matt, porta dentro il bagaglio della Signorina», ordinò.

«Sì, Signore.»

Matt, che ovviamente non aveva idea che il bagaglio di Elena fosse una malridotta sacca marrone, portò dentro tutti i bagagli, salvando così la giovane da una sicura umiliazione.

Nel frattempo, il Conte aveva condotto Elena in casa, dove alcune domestiche l’avevano accolta con un inchino, mentre lei cercava in tutti i modi di non pensare che era al loro rango che apparteneva, non a quello dell’uomo al suo fianco. Si chiese se fosse il nuovo corsetto, a stringere così, o se le troppe bugie le stavano già togliendo l’aria. E pensare che era solo all’inizio della sua recita. Quanto a lungo avrebbe potuto resistere?

«Volete davvero raggiungere subito le vostre stanze o mi concedereste l’onore di mostrarvi il palazzo?», le domandò ancora il Conte. Elena provò ancora più disagio nel notare che le rivolgeva lo stesso sguardo degli uomini nella locanda di Cassandra, come fosse un coniglio e lui una volpe affamata.

«Io… Veramente… Non saprei…»

«Su, ci sarà almeno una stanza, in tutto il palazzo, che avete curiosità di vedere.»

, fece l’alterego di lei. La mia.

Invece un’immagine risalente a poco prima, con le tende sollevate dal vento, al secondo piano, si fece spazio in lei, e non si accorse di stare mormorando «La biblioteca» finché non fu tardi.

«Ottima scelta», sorrise ancora una volta lui. «Mi fareste l’onore?», aggiunse poi porgendole il braccio. Tirando un lungo sospiro mentale e imitando al meglio il gesto di poco prima della Marchesa, Elena colse l’invito del Conte.

 

 

La biblioteca di Palazzo Veritas possedeva lo spaventoso numero di ventitremila libri. Occupava praticamente quasi tutto il secondo piano e scaffali, scrivania e mobili vari erano tutti in mogano.

Quando Elena vi entrò, scortata dal Conte, l’emozione fu così tanta che dimenticò la recita ancora in corso e si ritrovò a girare su se stessa, naso all’insù, al centro della stanza, rimirando estasiata quella quantità inaudita di libri. Il Conte Damon, ancora sulla porta, la fissava, divertito e affascinato dal suo entusiasmo da bambina. Quando lei se ne accorse, arrossì e cercò di ridarsi un contegno.

«Oh no, continuate pure. A me piaceva osservarvi.» La spudorata sincerità di quell’uomo mise Elena ancora più in imbarazzo.

Vedendo che la ragazza non dava segno di voler continuare, il Conte attraversò la stanza, mormorando un distratto «Come preferite», e scostò le tende bordeaux della portafinestra. Con un inchino, invitò Elena a precederlo e la giovane si ritrovò nella veranda osservata pochi minuti prima dalla carrozza. Buffo che tutto fosse anche più grande di come l’aveva immaginato.

Fu subito attratta dalla vista che dava sul giardino e sulla campagna che circondava il palazzo. Avanzò quasi in maniera automatica verso il parapetto, poggiandovi sopra entrambi i palmi e lasciando viaggiare il suo sguardo. Avvertì la presenza del Conte al suo fianco. Pochi centimetri separavano il suo corpo da quello di lei e, nonostante il panorama che aveva di fronte, non riuscì a distrarsi da quel pensiero.

Mentre Elena fissava il paesaggio, Damon Salvatore fissava lei, e rimaneva affascinato da ogni singolo particolare che in precedenza gli era sfuggito, dalle lunghe ciglia arcuate agli occhi che luccicavano in reazione al suo entusiasmo, fino alle guance rese ancora più scure dal sangue che affiorava al di sotto dell’epidermide. Non sapeva se la ragazza si fosse accorta dello sguardo famelico che le stava rivolgendo e nemmeno gli importava: la bellezza era fatta per essere ammirata.

Quasi istintivamente, il Conte avvicinò il suo viso a quello di lei e indicò un punto in lontananza. «Vedete laggiù, dietro quelle colline, le costruzioni che si intravedono?», chiese. Paradossalmente, la ragazza fu colta da una vampata di calore, nell’avvertire l’alito fresco del Conte sul collo.

«Sì», rispose.

«Quella è Torino.»

«È…» Elena non trovava le parole «…Davvero bellissima

«Si, lo è.» Un altro sussurro, un altro soffio freddo sulla pelle. Elena si voltò, rendendosi conto che, mentre parlava, il Conte non aveva distolto lo sguardo da lei neanche per un attimo. La sua conferma non era, evidentemente, riferita alla città, e quando la ragazza se ne rese conto fu spaventata dalla miriade di emozioni contrastanti che provò nello stesso istante.

La prima cosa che fece fu distogliere lo sguardo da quello di lui e abbassarlo, mentre il sangue, traditore, le imporporava nuovamente le guance. La seconda fu voltare i tacchi e mormorare: «Sono stanca. Desidero andare a riposarmi.»

«Certo», disse lui dopo un attimo. «Vi mostro subito le Vostre stanze.»

In silenzio, rientrarono in casa e uscirono dalla biblioteca.

Il Conte la invitò a percorrere un lungo e ampio corridoio e poi a salire le scale. La stanza che avevano fatto preparare per lei era vicina a quella della Marchesa, come lui stesso le accennò mostrandogli entrambe le porte. Si trovava al quarto piano, l’ultimo, mentre le stanze di entrambi i conti e quella che era stata la stanza di Giuseppe Salvatore e della moglie si trovavano al terzo.

Mostrandogli l’elegante camera da letto dall’arredo color glicine, il Conte le chiese se fosse di suo gradimento. Elena non riusciva a concepire anche solo l’idea che potesse non esserlo, ma per non dare nell’occhio si limitò ad un semplice «Sì, vi ringrazio, è perfetta» in risposta. Poi, augurandole un buon riposo, il bel Conte si congedò con un inchino.

Quando si richiuse la porta alle spalle, Elena, sentendosi finalmente al sicuro, vi poggiò contro la schiena e chiuse gli occhi per qualche istante. Il respiro ansante stava, via via, calmandosi; il cuore, prima al galoppo, aveva riacquisito un ritmo normale; non ricordava esattamente quando la testa aveva preso a pulsarle, ma faceva così male che la ragazza si portò una mano alla fronte. L’altra, delicatamente, la poggiò sul petto lasciato scoperto dalla generosa scollatura dell’abito, in corrispondenza del cuore.

Che cosa le stava accadendo? Aveva completamente perso il controllo di se stessa. Non si era mai sentita così prima di quel momento e non poteva certo dire che quella nuova sensazione le piacesse.

Delle immagini piuttosto vivide del Conte Salvatore, del suo sguardo ipnotizzante, del sorriso ammaliatore, percorrevano senza sosta la sua mente, confondendole ancora di più le idee. Aprì gli occhi, sperando che si volatilizzassero insieme a quell’eccesso di emozioni cui si rifiutava di dar significato.

Il mondo sembrò tornare tranquillo.

Cullata da quell’idea, Elena si avvicinò al suo nuovo letto, sopra il quale stavano sia i bagagli della Marchesa che la sua sacca. Prese a tirar fuori la sua roba, con la lentezza calcolata di chi è intenzionato a distrarre la mente da precisi pensieri.


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Angolo di un'Autrice che in questo momento dovrebbe esser sotto la doccia

per prepararsi al suo sabato sera & non è per niente convinta del capitolo


Buon Sabato, lettrici!

Non commento, come al solito. Al massimo posso scusarmi perché è più breve. Ma era necessario concludere in questo modo. Cerco sempre di suddividere i capitoli in maniera adeguata, non si tratta di mancanza d'ispirazione o qualcosa di simile. :)

Ringrazio le 16 persone che hanno inserito la storia tra le preferite, le 3 che l'hanno inserita tra le ricordate e le 18 che l'hanno inserita tra le seguite. E soprattutto le 8 lettrici che hanno recensito il primo capitolo. Grazie del vostro sostegno. :)

Vi avverto anche che potrei aggiornare prima del previsto, nell'arco della settimana.

Un bacio e un buon weekend a tutte!

Lisa

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Capitolo 4
*** Capitolo III - La raffinata arte dell'inganno ***




Capitolo III

La raffinata arte dell'inganno


Torino, 20 Settembre 1764

Mio Caro Diario,

Il viaggio è stato molto più stancante del previsto. La Marchesa non ha fatto altro che parlare e parlare, e credo – ma non ne sono poi così certa - che un paio di volte si sia resa conto che stavo solo fingendo di ascoltarla. Comunque, non si è lamentata. L’entusiasmo e l’impazienza che l’hanno caratterizzata in quest’ultima settimana, all’idea di andare a Torino dai suoi cugini, hanno avuto la meglio sul suo caratteraccio, penso. Meglio per me.

Si è zittita soltanto quando ci siamo ritrovate nei pressi della città – che al momento, comunque, non abbiamo ancora visitato. E non sono neanche sicura che lo faremo.

La tenuta dei Salvatore è davvero incredibile, persino più bella del palazzo dei Mikaelson. Sembra uno di quei castelli descritti nelle fiabe - e ancora ho visto solo la facciata anteriore e un paio di stanze!

La bellezza di questo luogo, comunque, è una magra consolazione al fatto di essere lontana da casa e soprattutto costretta a recitare un ruolo che non mi si addice quasi ventiquattro ore al giorno. La Marchesa mi ha dato altri vestiti da indossare, il che significa ancora corsetti. Poche ore dentro uno di questi e già non lo sopporto più. Ho la sensazione che i seni mi esploderanno da un momento all’altro.

I due fratelli, i Conti Salvatore, sono due giovani affascinanti come la cuoca mi aveva detto. Stefan Salvatore, il più giovane, è gentile e sembra anche modesto e affabile. Una persona buona, ecco. Vorrei poter dire lo stesso del fratello maggiore, ma se lo facessi mentirei. Il Conte Damon Salvatore mi mette i brividi – e ho trascorso cui lui appena mezz’ora. È difficile da definire, complicato da comprendere e del tutto impossibile non sentirsi in soggezione in sua presenza. Ogni singola volta che ha puntato quegli occhi chiarissimi nei miei mi si è mozzato il respiro. Ed è successo tante, troppe volte.

Ha insistito prima per mostrarmi le mie stanze, poi, quando ci siamo allontanati dalla Marchesa e dal Conte Stefan, mi ha domandato se ci fosse una stanza che desiderassi vedere. In biblioteca e poi in veranda, qualcosa di lui credo di averla capita. È dotato di un’ironia molto tagliente, per alcuni probabilmente irritante. Il suo sarcasmo raggiunge i limiti della scortesia, lui sembra esserne consapevole ma non gli importa. In un certo senso, credo di rientrare tra coloro che sono infastiditi dalla sua personalità. Ha esattamente l’aria del nobile pomposo, abituato ad ottenere tutto ciò che vuole, mista alla vanità dell’affascinante soldato.

Ma c’è qualcos’altro in lui, qualcosa che mi porta a pensarlo, a studiare i suoi modi di fare, a leggere tra le righe di ciò che dice, ad immaginare che quello che io ho visto sia solamente quello che lui ha voluto farmi vedere, che nasconda qualcosa dietro una facciata. E quando mi ha sfiorato la mano, per aiutarmi a scendere dalla carrozza, ho quasi avuto le vertigini. Per non parlare di quelle due volte che ha avvicinato il suo viso al mio, mi sono sentita come… Come...

Una stupida.

Ecco cosa sono. Ma che cosa sto scrivendo? Elena, ti è dato di volta il cervello?! Forse devo smetterla una volta per tutte di fantasticare. Probabilmente, non c’è assolutamente niente di speciale in lui, niente dietro quella facciata. Non esiste nemmeno questa facciata! È solo lui. Non è diverso dagli altri nobiluomini boriosi e viziati. E quello che ho provato, beh, è stata solo una reazione alla stanchezza e al caldo. Sarà sicuramente così.

Deve essere così.

 

Elena chiuse il suo diario di scatto, quando si rese conto che l’ultima frase suonava più come una preghiera che come una certezza. Fissò le viole dipinte ai bordi della parete a lei di fronte, immersa nei suoi nervosi pensieri.

Erano trascorse due ore, dal suo arrivo a Palazzo Veritas, e ancora non poteva dire di essersi davvero riposata. Da quando il Conte l’aveva condotta nelle sue stanze non era rimasta ferma un solo attimo. Aveva trovato facilmente una sistemazione per le sue poche cose. Troppo facilmente. Se non avesse trovato qualche altro impiego si sarebbe certamente messa a pensare, e la cosa la spaventava non poco.

Si era così diretta verso il suo bagno personale – doveva ancora abituarsi all’idea di averne uno – e aveva riflettuto a lungo sull’idea di ordinare ad una delle domestiche di far portare dell’acqua tiepida per fare un bagno rilassante. Ma se si fosse rilassata, la mente avrebbe sicuramente iniziato a vagare liberamente, inoltre provava troppa vergogna al pensiero di dare ordini a qualcuno della sua stessa classe sociale. No, non era proprio da lei, così come non lo era mentire. Eppure, lo stava facendo e avrebbe dovuto continuare ancora a lungo, aveva a malincuore intuito. Ma, per sentirsi più corretta e in pace con se stessa, decise che lo avrebbe fatto solo quando fosse stato estremamente necessario, mai per piacere personale.

Dopo un’ora circa, trascorsa a camminare come un’ossessa per le stanze, la Marchesa aveva bussato alla sua porta (i Conti Salvatore, sospettava Elena, dovevano essere nei paraggi, altrimenti Rebekah si sarebbe limitata ad abbassare la maniglia ed entrare senza aspettare il consenso della sua servetta) insieme ad un paio di servi, cui aveva ordinato di portare i bagagli che stavano sul letto di Elena nelle sue stanze, tutti tranne uno di modeste dimensioni. Quando i servi avevano lasciato la stanza, la Marchesa si era affrettata a chiudere la porta e aveva detto alla ragazza che all’interno di quel bagaglio c’erano altri vestiti che avrebbe dovuto indossare.

«Mai lo stesso abito due giorni di seguito!», l’aveva ammonita. Elena era stata attenta e aveva risposto «Sì, Signorina Marchesa» e «No, Signorina Marchesa» a seconda dei casi.

Quando l’aveva nuovamente lasciata sola – dopo averle raccomandato la massima puntualità per il pranzo, che si sarebbe tenuto alle dodici in punto – Elena aveva sentito il bisogno di scrivere il suo diario. Se c’era una cosa, nella sua attuale camera da letto, che la rendeva entusiasta era proprio la presenza di una scrivania, piccola ma in legno pregiato. Non aveva mai avuto un posto tutto suo dove dilettarsi a scrivere.

Dapprima, aveva deciso di nascondere il diario sotto il materasso, un nascondiglio banale forse, ma tanto nessuno la conosceva in quel posto, almeno non abbastanza da desiderare di invadere la sua privacy di proposito. Ma il pensiero che le cameriere, rifacendo il letto, avrebbero potuto trovarlo per caso la allarmò, e così il suo sguardo prese a correre per la stanza, alla ricerca di un nascondiglio migliore.

Una sottile apertura nel legno della scrivania, catturò la sua attenzione. Elena corrugò la fronte, incuriosita, e vi passò sopra le dita per capire di che si trattasse. Si rese conto di aver già visto, in passato, qualcosa del genere. Suo padre aveva una scrivania come quella, una volta - solo che la sua non era in mogano e non aveva tarsie.

La ragazza fece per sollevare il piano della scrivania e questo venne su davvero, scoprendo al suo interno una toletta.* Lo specchio rotondo era incastrato nel legno di quella specie di coperchio, mentre sul fondo stavano spazzola, pettine, una mezza dozzina di nastri per acconciare i capelli, un piccolo portagioie e della farina di riso** con un piumino. Anche all’interno la scrivania di mio padre era diversa, si ritrovò a pensare Elena fissando il suo riflesso.

La maggior parte delle cose contenute in quella scrivania-toletta sarebbe rimasta inutilizzata – almeno finché lei avesse abitato quelle stanze. Elena era abituata a tenere i suoi riccioli ribelli e spettinati, anche se forse, date le circostanze, era il caso di iniziare a dar loro una spazzolata e acconciarli più spesso. Per quanto riguardava il trucco, non ne aveva mai fatto uso e non intendeva iniziare adesso – anche perché non aveva la più pallida idea di come ci si truccasse – e la farina di riso era troppo chiara per la sua carnagione.

Tuttavia, il portagioie faceva al suo caso.

La giovane non possedeva certo gioielli. Le cose più preziose che aveva erano la mantellina nera della madre – già riposta con cura nell’armadio – e il suo diario, che era piccolo e Elena si compiacque nello scoprire che stava perfettamente tra i cuscinetti di velluto di quella graziosa scatola rettangolare.

Quando richiuse la scrivania, uno sguardo all’orologio a muro le ricordò che mancavano pochi minuti a mezzogiorno e che avrebbe fatto meglio a sbrigarsi. Si catapultò in bagno, cercando di ricordare dove avesse visto quel piccolo catino con l’acqua e, una volta trovatolo, si lavò il viso. Fece ritorno nella camera da letto e si accomodò nuovamente sulla sedia di fronte la scrivania, aprendola ancora una volta, disfacendo la morbida pettinatura che aveva tenuto fino a quel momento e spazzolando alla bell’e meglio le lunghe spirali brune, districando la maggior parte dei nodi. I riccioli divennero boccoli morbidi e vaporosi. Questa volta li raccolse sulla nuca in una crocchia ordinata.

Nell’alzarsi dalla sedia si rese conto di avere ancora indosso l’abito del viaggio, ma non le restava più tempo per cambiarsi. Fece il respiro più profondo della storia, dopodiché aprì la porta della sua stanza, ritrovandosi in un corridoio deserto. Non sapeva bene perché, si era aspettata di trovare qualcuno ad attenderla, fuori dalla porta, invece non vi era l’ombra neanche di una serva. Dopo i primi secondi di confusione, concluse che era meglio così.

Si avvicinò con calma alla porta della stanza di Rebekah e bussò timidamente.

«Signorina Marchesa? Sono io. Elena.» Dall’altra parte non si udì alcun suono e la cosa mise Elena a disagio. Che fosse già scesa e avesse lasciato a lei l’ardua impresa di muoversi per il palazzo, alla ricerca della sala da pranzo, completamente sola? Trattandosi di Rebekah Mikaelson, non ci sarebbe stato da meravigliarsi.

Ma all’improvviso la maniglia d’oro scattò verso il basso e la porta si aprì, mostrando un’impeccabile figura femminile in un abito bianco antico, tutto pizzi e ricami. Rebekah aveva truccato le guance piuttosto vistosamente e, come Elena, anche lei aveva cambiato pettinatura, raccogliendo i capelli dorati in un intreccio dietro la testa – sicuramente opera di una delle serve – e lasciando ricadere un grosso boccolo su una spalla. Aveva stretto il suo corpetto talmente tanto che i seni le arrivavano quasi in gola e Elena si chiese come facesse a respirare.

La brunetta, nel solito abito blu, si ritrovò a provare compassione per lei, perché sapeva che erano le sue insicurezze miste alla disperazione e alla paura di non trovare marito che portavano la giovane Marchesa all’esagerazione. Ma qualcuno avrebbe dovuto spiegarle che il troppo stroppia. Lo avrebbe fatto lei se non fosse stata oltremodo certa del ceffone in pieno viso che si sarebbe beccata, se avesse osato trovare da ridire sull’aspetto della permalosa Marchesina. Aggrappandosi al suo istinto di sopravvivenza, Elena optò per stare zitta e farsi gli affari suoi.

Rebekah squadrò Elena dalla testa ai piedi con astio, nel notare che indossava lo stesso abito di prima. Quella ragazzina non aveva davvero idea di quale fosse il comportamento di una nobildonna, avrebbe dovuto insegnarle tutto, pensava scocciata.

«Porgimi il braccio e accompagnami giù per le scale fino alla sala da pranzo», le ordinò.

«Signorina, io veramente non saprei dove…»

«Porgimi il braccio, ho detto!»

Sussultando, Elena si affrettò a obbedire. La pallida mano della Marchesa si arpionò al suo avambraccio.

Scesero la lunga scalinata e fortunatamente fu Rebekah stessa, ansiosa di vedere i cugini, a guidare Elena nella più grande e lussuosa sala da pranzo che avesse mai visto. Quando fecero il loro ingresso, i fratelli Salvatore stavano placidamente accomodati e sorseggiavano del vino. Nel notare la presenza delle due donne, però, si affrettarono ad alzarsi e andar loro incontro.

Dopo il cortese inchino di rito, le invitarono ad accomodarsi. Elena e Rebekah presero posto vicine e lo stesso fu per Stefan e Damon, di fronte ad esse.

Per tutta la durata del pranzo, Rebekah non la smise un secondo di chiacchierare e ridere con i cugini, mentre Elena, nonostante i propositi di comportarsi da nobildonna sicura di sé, rimase muta come un pesce. Regnava talmente tanto caos nella sua testa, il suo cuore batteva ad una velocità così forsennata, che ogni singola volta che si era imposta di fare conversazione non aveva trovato nulla da dire. Per di più, lo stomaco in subbuglio le aveva consentito di toccare ben poco delle appetitose pietanze che stavano, fumanti e profumate, di fronte a lei.

Sperò ugualmente che nessuno avesse fatto caso a quei comportamenti, ma fu del tutto vano, anche se con l’arrivo del dolce – segno che il pranzo era quasi concluso – Elena ritrovò un po’ di speranza. Speranza destinata a morire poco dopo.

Il Conte Damon, infatti, l’aveva scrutata con la coda dell’occhio tutto il tempo e un paio di volte lei se n’era resa conto ed era arrossita. Le spudorate attenzioni che quell’uomo le aveva rivolto dal momento in cui era scesa dalla carrozza non la mettevano a disagio, però, quanto le sue reazioni alla cosa.

«Signorina Elena, avete a mala pena toccato cibo e non avete proferito parola», osservò, riuscendo a zittire persino Rebekah. «Ho tre diverse teorie: o non vi sentite bene, o non avete gradito il pranzo e la cosa vi ha messo di cattivo umore, oppure considerate me e mio fratello una compagnia piuttosto noiosa», sorrise con malizia. Di nuovo quel sorriso.

Damon era consapevole di aver appena messo la ragazza in imbarazzo. Aveva capito quanto fosse timida e che, chissà per quale motivo, stare lì le creava una sorta di disagio, ma non riusciva a frenarsi dallo stuzzicarla.

Come previsto, nello sguardo scuro di lei si dipinse l’espressione di chi casca dalle nuvole.

«Come? No. Io… Voi non… Credo di essere ancora stanca per via del viaggio.»

«Non avete riposato abbastanza?», domandò il Conte Stefan, apprensivo.

Elena scosse timidamente il capo.

«Deve avervi davvero spossato molto», insistette il fratello maggiore, nascondendo l’irritante sorriso si scherno dietro un bicchiere ricolmo di vino.

«Damon», lo rimproverò fraternamente Stefan. «Abbi un po’ più di tatto.»

«Ah, ma nessuno ha più tatto di me, fratellino», fece lui sornione.

Stefan scosse la testa, ma divertito. «Vogliate scusare mio fratello, Signorina Elena. Lui scherza sempre. Se avete bisogno di ritornare alle vostre stanze e stendervi un po’ non preoccupatevi. Sono certa che mia cugina non avrà nulla in contrario, avendo noi a tenerle compagnia.» Lo sguardo color muschio di Stefan Salvatore incontrò quello blu della Marchesina, che sorrise per la prima volta da quando l’attenzione si era spostata sulla servetta al suo fianco. Parve lieta di avere un’altra occasione per mettere in mostra il suo cuore d’oro.

«Oh, ma certo che siete libera di andare, cara. Anzi, insisto. Non voglio che vi ammaliate a causa mia», cinguettò.

«Davvero, sto bene», si affrettò però a chiarire Elena. «Non è necessario…»

«Insisto», ripeté nuovamente la Marchesa con tono gelido, dimostrando di essere una pessima attrice almeno quanto lo era Elena.

«…Vi prego, cara. Non vorrete farmi stare in pensiero per voi durante tutto il soggiorno a Torino.» Tentò di riassumere il tono di voce mieloso di poco prima, ma i risultati lasciarono a desiderare.

Si creò un silenzio carico di tensione e incomprensione nella stanza. Gli occhi blu come lapislazzuli della Marchesa gelarono l’intero corpo di Elena, quando quest’ultima lì incontro con i propri.

«Assolutamente no», mormorò Elena. «Vogliate quindi perdonarmi, signorina Marchesa. Conti Salvatore.» Si affrettò a fare il suo inchino di congedo e a lasciare la stanza.

Mentre le sue nuove scarpette di velluto ticchettavano su per le scale, si scoprì piuttosto stizzita.

Ma chi si credeva di essere quel Damon Salvatore? E come si permetteva di metterla in imbarazzo in quel modo? Lei era solo una serva, quello era vero, ma non agli occhi di lui. Se lui la credeva nobile, perché non la trattava con tutti i modi e i riguardi dovuti? O quello era semplicemente il modo in cui il Conte trattava tutti? Ed era sbagliato che lei pretendesse un trattamento alla pari, da lui?

Elena riuscì a rispondere solo a quell’ultima domanda, tra quelle che il suo inconscio aveva scatenato forsennatamente. , lo era. Aveva giurato a se stessa che non avrebbe mai approfittato dell’inganno messo in scena dalla Marchesa per soddisfazione personale. E il fastidio che provava, era indubbiamente qualcosa di personale.

Non riusciva a concepire perché la irritavano molto di più i giochetti del Conte Salvatore, che altro non erano che i dispetti di un bambino viziato e capriccioso, rispetto al ricordo dei modi utilizzati dagli uomini nella locanda. Non aveva alcun senso.

Entrò nella sua stanza, richiudendosi la porta alle spalle, e in poche falcate tolse la distanza tra lei e la finestra. Spalancò i vetri, percependo un soffio sottile di frescura insinuarsi nel suo abito, facendola quasi rabbrividire. Il caldo afoso di quel mattino stava, via via, scemando. Quel venticello fresco era esattamente ciò in cui aveva sperato quando si era precipitata ad aprire la finestra.

Si appoggiò delicatamente al cornicione di pietra, scrutando dapprima in lontananza, ancora persa nei suoi pensieri. Poi, delle voci provenienti dal basso, la ridestarono e la fecero voltare. Matt, il ragazzo biondo che aveva portato i bagagli nella sua stanza, teneva per le briglie un bellissimo cavallo dal lucido manto nero, e lo conduceva alle stalle mentre chiacchierava con un ragazzo bruno.

Elena rimase combattuta per un po’, poi si fece coraggio e uscì dalla stanza. Non sono certo stata io a dire che ero stanca, si giustificò mentalmente. Scese le scale cercando, comunque, di fare il meno rumore possibile, poi, superando un paio di domestiche, cui rivolse un timido sorrido, e arrossendo al loro inchino, uscì dal palazzo. Scese l’ampia scalinata centrale e fu vicina alle veneri di pietra, sopra le quali posò ancora una volta lo sguardo, incantata.

Svoltò a destra due volte e finalmente trovò la stalla intravista dalla sua finestra. Fece il suo ingresso titubante e lasciando di stucco ogni essere umano al suo interno. I chiacchierii cessarono all’istante, gli occhi di tutti furono su di lei.

«Ehm… Io…» Controllati, Elena, si rimproverò. Sei una nobildonna. Cerca di non dimenticarlo e comportati come tale.

Si schiarì la gola. «Io volevo presentarmi a… Tutti voi, ecco. Sono Elena Gilbert. La…»

«…Dama di compagnia della Marchesa Michaelson. Lo sappiamo», terminò una ragazza dai capelli biondo cenere per lei. Il suo tono lasciava intendere tutto tranne che gentilezza o simpatia.

Matt le lanciò un’occhiataccia, poi si rivolse a Elena, ancora una volta in evidente disagio. «Siamo onorati di fare la vostra conoscenza, Signorina Elena. Io sono Matthew Donovan, lo stalliere, al vostro servizio.»

Matt fece un inchino, poi indicò alle sue spalle il ragazzo bruno scorto dalla finestra poco prima. «Lui è Tyler Lockwood.» Tyler imitò il gesto di Matt. «Lei è Rose, la cuoca», una ragazza carina con grandi occhi chiari si inchinò e le sorrise amichevolmente, rincuorandola. «Jenna, Bonnie, Anna e la scorbutica di poco prima è mia sorella Vickie.»

«Victoria», corresse lei puntigliosa.

«Vic, nessuno ti ha mai chiamata Victoria», alzò gli occhi al cielo Matt.

«La Signorina dovrà farlo, se avrà bisogno dei miei servigi.»

«Smettila di fare la serpe», le sibilò Rose.

Elena, a disagio e senza riuscire a capacitarsi del perché quella ragazza ce l’avesse tanto con lei, visto che si erano appena conosciute, assistette all’intera scena in silenzio.

Quando le ragazze ritornarono alle loro occupazioni e alcune si diressero in cucina, Matt tentò di rompere il ghiaccio. «Allora… Volete che vi mostri i nostri cavalli?»

«Io… . Perché no. Mi farebbe davvero molto piacere, Matt.»

Il giovane sorrise. «Da questa parte.»

Elena seguì Matt infondo alla stalla, dove vide da vicino la giumenta nera di poco prima, insieme ad altri due bellissimi esemplari maschi, uno dal manto bianco e l’altro color sabbia.

«Questi due sono Amleto e Romeo. Il primo appartiene al Conte Stefan», spiegò riferendosi al cavallo bianco. «Il secondo, invece, apparteneva alla Contessa Odette***, quand’era ancora tra noi.»

E Elena non ebbe più dubbi su a chi appartenesse la giumenta.

«La giumenta nera è del Conte Damon. Si chiama Mezzanotte****.»

Tra tutti, Elena non sapeva dire quale fosse il cavallo più bello – forse la giumenta, forse Amleto col suo manto candido – ma il modo di fare giocherellone e affettuoso di Romeo la intenerì al punto da preferirlo agli altri. Non soddisfatto dalla leggera pacca sul muso che Elena gli aveva dato, infatti, Romeo l’aveva incitata, toccandole la mano col muso dorato, ad accarezzarlo ancora. Elena, divertita, non se l’era fatto ripetere due volte.

«Però!», fece Matt. «Dovete piacergli davvero molto, Signorina. Non ricordo di aver mai visto Romeo così a suo agio con qualcuno che non fosse la sua precedente padrona.»

Elena sorrise al cavallo. «Ah, sì? Sei scontroso, eh, Romeo?»

Matt ridacchiò, vedendola parlare col cavallo. Era affascinato da quella ragazza. A parte l’evidente bellezza fisica, sembrava speciale. Diversa dagli altri nobili. Non era da tutti scomodarsi per venire a presentarsi alla servitù.

«Sapete andare a cavallo?», le chiese. Lei annuì. «Se volete posso sellare Romeo per voi. Non ha ancora sgranchito le gambe, oggi. Ne avrà un gran bisogno.»

A Elena luccicarono gli occhi. Andare a cavallo le risultava persino più piacevole e divertente di leggere uno dei suoi adorati romanzi. «Magari», sorrise.

Ma le sue aspettative per il pomeriggio andarono in fumo un attimo dopo. Mentre Matt sellava il cavallo, una voce ben nota li fece trasalire entrambi. Forse, Elena di più.

«Che sta succedendo qui

 



*Giuro che non ho inventato una scrivania del genere. Vi scrivo appoggiata su una di queste! xD Solo che la mia è decisamente meno bella di quella della nuova stanza di Elena, perché ha uno stile più sobrio e troppo moderno per i miei gusti. Vi ho mai detto che ho una passione per l'antiquariato? 

**All’epoca era molto di moda, tra le nobildonne, fare un uso (spesso anche pesante) di trucco. La polvere di riso dei nostri giorni (molto simile alla cipria e utilizzata principalmente dai truccatori professionisti perché garantisce ottimi risultati) si rifà proprio alla farina di riso utilizzata allora. Nel Settecento, il trucco più raffinato per impallidire l’incarnato (e a mio parere anche il più rivoltante) era un composto di pasta di mandorle, grasso di montone e biacca.

*** Ho inventato il nome della madre di Damon e Stefan, facendo riferimento a ‘I diari di Stefan’ in cui veniamo a conoscenza delle sue origini francesi ma non del nome. Ho semplicemente utilizzato uno dei miei nomi francesi preferiti.

****Sì, lo so che ne ‘I diari di Stefan’ Mezzanotte è il cavallo di Stefan, ma qui scrivo io, Lisa e basta, non Lisa Jane, e a me quel cavallo e il suo nome piacevano troppo. Inoltre, non è un nome scelto a caso. Approfondirò nell’Angolo dell’Autrice.


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Angolo di un'Autrice un po' ritardataria


Mi reputo soddisfatta del capitolo. Nonostante il tempo che ci ho messo, è venuto su bene.

I nomi dei cavalli non sono un caso. Romeo e Amleto sono, come penso sappiate, personaggi Shakespeariani. E Mezzanotte, allora? Non è un nome scelto a caso e ha persino una sorta di inerenza con gli altri due. Il tutto sarà approfondito, comunque, nel prossimo capitolo.

Ho anche presentato la servitù di Palazzo Veritas :3 E sono fiera di aver dato un ruolo sufficientemente importante a Rose.

E Caroline? Vi chiederete. Ci sarà. Più in la, ma ci sarà. Non potevo certo inserirla tra la servitù! Ma ce la vedete?! No. Lei sarà una nobildonna. E pure più importante di Rebekah. MUAHAHAHAHAHAHAHAH.

Ringrazio infinitamente tutte coloro che mi seguono/preferiscono/ricordano e in modo particolare chi recensisce!

Lisa

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Capitolo 5
*** Capitolo IV - Mezzanotte ***




Capitolo IV

Mezzanotte

«Che sta succedendo qui?»

Elena sobbalzò e si voltò di scatto, nell’udire la voce del Conte. Damon aveva un’espressione, oltre che sospettosa, anche infastidita, dipinta sul volto.

La ragazza cercò di spiegargli, ma mettere insieme un numero sufficiente di parole in grado di formare una frase di senso compiuto le risultò molto più difficile di quello che si aspettava. Finì per rimanere con la bocca semi-aperta, lasciandone fuoriuscire solo un rantolo poco elegante.

In suo soccorso venne Matt che, da bravo stalliere, la superò inchinandosi al cospetto del suo padrone.

«Signor Conte. Mi ero preso la libertà di sellare Romeo per la Signorina. Mi ha detto di saper andare a cavallo e Romeo sembra davvero avere molto a simpatia la Signorina El…»

«Sapete andare a cavallo?», lo interruppe il Conte, fissando intensamente Elena.

Alla ragazza non piacque il modo in cui le pose la domanda, come se considerasse scioccante la sola possibilità che esistesse, sulla faccia della terra, una donna veramente capace di andare a cavallo con la stessa bravura di un uomo. Cercò comunque di contenere il fastidio e annuì.

«Cavalcata all’amazzone?»

«No.»

Elena ghignò mentalmente, vedendo lo stupore dipingersi sul suo volto. Finalmente, da quanto l’aveva conosciuto, assaporava una prima vittoria.

Si fissarono negli occhi a lungo. Per una volta, Elena non fece ciò che aveva sempre fatto, ciò che qualsiasi ragazza virtuosa e ben educata avrebbe fatto al suo posto, ciò che lui si aspettava facesse. Anziché abbassare gli occhi e lasciare che il sangue le chiazzasse le guance, sostenne quello di lui, ancora adrenalinica per la vittoria appena avuta.

Consapevole di aver perso anche quella nuova sfida di sguardi, Damon distolse il suo e riassunse la solita aria distaccata e altezzosa.

«Non credo sia una buona idea. Inoltre, Matt, ti ricordo che il fatto che tu te ne prenda cura – cosa per cui vieni profumatamente pagato – non ti da la libertà di prestare i cavalli della mia famiglia a chi preferisci. Non senza consultare prima la mia volontà.»

Matt sembrò visibilmente turbato dal rimprovero del Conte, soprattutto perché questi utilizzò un tono talmente gelido che persino i cavalli sembrarono paralizzarsi, e nell’intera stanza regnò il silenzio.

Elena si sentì in dovere di difendere il ragazzo.

«Non è stata colpa sua. Sono stata io ad insistere per…»

«Signorina Elena, gradirei che non mettesse in discussione la mia autorità di fronte ai miei servi, se non chiedo troppo

«Ma…»

«Ero venuto a cercarvi perché la Marchesa ha chiesto di voi. Vi consiglio di andare. Avrete sicuramente da fare, prima di prepararvi per la cena.»

Elena sentì quasi le lacrime pungerle gli occhi, quando i gelidi cristalli nelle orbite oculari del Conte abbandonarono Matt per posarsi su di lei. Ma non per paura, vergogna o altro… La ragazza aveva la lacrima facile e spesso le capitava di piangere persino per rabbia. Reazione che trovava oltremodo pietosa, motivo per cui, quando succedeva, la sua rabbia lievitava ancor di più.

Si sentiva in colpa per il modo ingiusto in cui Damon aveva trattato il povero Matt e odiava il fatto di non poter fare nulla per aiutarlo. Poteva solo sperare che il Conte si limitasse ad un richiamo.

Fissandolo ancora negli occhi, in un misto di rabbia e paura, Elena si congedò con un inchino arrogante.

 

 

Alle venti in punto, la cena fu servita nella stessa sala del pranzo, adesso dai colori più caldi perché illuminata dal fuoco delle candele. A Elena sembrò quasi di rivivere un flashback, quando lei e la Marchesa fecero il loro ingresso a braccetto e i Conti Salvatore andarono loro incontro, proprio come qualche ora prima.

Rebekah si era cambiata d’abito per la seconda volta, e adesso ne indossava uno giallo ocra che, misto ai capelli biondi, la faceva sembrare un pulcino di grandi dimensioni. Questa volta, però, anche Elena aveva cambiato abbigliamento – non aveva alcuna intenzione di sorbirsi un’altra occhiata di disprezzo della Marchesa. In mezzo alla pila di vestiti raffinati che quest’ultima le aveva lasciato sul letto e che lei aveva trascorso il pomeriggio a sistemare con cura nell’armadio, per tenersi occupata, ne aveva scelto uno color prugna, con un corpetto lilla con su ricamati fiorellini color glicine, reputandolo il meno appariscente.

La temperatura era scesa più di quanto Elena si aspettasse, con il calar del sole, così la ragazza si era seduta davanti alla sua nuova toletta e aveva sciolto il suo chignon. I riccioli lunghi erano molto più vaporosi del solito, il che l’aveva tenuta impegnata ancora per un po’, mentre li spazzolava e appuntava le ciocche che le ricadevano sugli occhi dietro la testa. Aveva fatto ricadere la chioma restante lungo la schiena e ai lati del collo, a mo di scialle, e poi si era affrettata a raggiungere la sua padroncina.

Durante la cena, Elena mangiò più volentieri, rispetto al pranzo. Le era tornato l’appetito, ma non il buonumore, solo che anziché avere lo stomaco in subbuglio aveva i nervi a mille. La rabbia nei confronti della prepotenza e dell’altezzosità dell’uomo che le sedeva di fronte non era sbollita, quindi la ragazza si sfogava sul cibo, evitando spudoratamente di incontrare i suoi occhi.

«Vedo che vi è tornato l’appetito, Signorina Elena», le sorrise il Conte Stefan, cordiale.

«Sembrerebbe di sì», rispose Elena, sorridendo a sua volta. Quel ragazzo era talmente semplice e solare che veniva spontaneo dubitare che Damon fosse suo fratello di sangue.

«E a cosa dobbiamo questo cambiamentoParli del diavolo… Ed ecco che proprio il diavolo in persona parlò.

Animata dalla rabbia, Elena si voltò a fissarlo con un sorrisetto falso, realmente capace di competere con quello che lui aveva stampato sul volto quasi ventiquattro ore al giorno.

«Ho avuto il piacere di vedere le vostre stalle e i vostri meravigliosi purosangue», rispose fissandolo negli occhi per la prima volta in tutta la serata.

«Oh, giusto. Matt mi ha detto che Romeo ha mostrato simpatia nei vostri confronti.»

«Oh, già, Matt… Il povero stalliere che ha avuto la sventura di ricevere un vostro richiamo. Mi auguro non sia stato severo con lui. Sappiamo entrambi che non ha alcuna colpa.» Il finto sorriso di Elena non resse più e, per un po’, i due rimasero a fissarsi in mezzo al silenzio agghiacciante improvvisamente penetrato nella stanza.

Persino agli occhi di Stefan e Rebekah – il primo molto ingenuo e la seconda fin troppo egocentrica per interessarsi a questioni che non la riguardavano direttamente – la tensione tra i due non passò inosservata. Imbarazzato, il minore dei Salvatore si stava arrovellando il cervello per trovare qualcosa in grado di rompere il ghiaccio

«Allora, beh, Signorina Elena… Sarà sicuramente rimasta incuriosita dai nomi dei nostri cavalli!»

«Oh, perché? Com’è che si chiamano?», miagolò Rebekah nella speranza che l’attenzione riprendesse a orbitare intorno alla sua persona.

«Sono due maschi e una sola femmina», iniziò a spiegare Stefan. «Il più anziano è proprio Romeo. Era il cavallo di nostra madre. Mentre Amleto, il mio purosangue bianco, è il più giovane. La femmina si chiama Mezzanotte e appartiene a Damon.»

«Romeo e Amleto», rifletté Rebekah. «Personaggi Shakespeariani.»

«Ma non trovo alcuna affinità con il nome Mezzanotte», disse Elena, lo sguardo sull’indecifrabile espressione del maggiore dei due fratelli.

«Non c’è, infatti. Ho voluto chiamare il mio cavallo Amleto in ricordo di mia madre. Era una donna molto romantica e amava i drammi Shakespeariani. Credevo che mio fratello avrebbe fatto lo stesso, perché le era legatissimo, invece…»

«Fratellino, sono certo che alle Signore non interessa più di tanto conoscere l’origine del nome di un cavallo e che puoi trovare argomenti migliori, per fare conversazione, senza il rischio di annoiarle.» Damon si era voltato a fulminare il fratello con lo sguardo, mentre parlava, sputando quasi le parole tra i denti. Il tono che usò non lasciava spazio alle repliche.

«Oh, caro cugino, nessuno di voi potrebbe mai annoiarci», fece Rebekah civettuola.

Ad ogni modo, il discorso cadde lì.

 

 

Quando la cena giunse al termine, il Conte Stefan avanzò la proposta di una passeggiata notturna intorno al palazzo, subito accolta da un «Ma che splendida idea!» della Marchesina.

Le mura della tenuta e le tre vie – due laterali e una centrale – che conducevano rispettivamente alle stalle, al labirinto e al grande cancello in ferro battuto, erano illuminate da lunghe e imponenti torce infuocate che, insieme alla luce della luna e delle stelle, che punteggiavano il cielo intorno ad essa, contribuivano a creare un’atmosfera quasi magica.

Per fortuna – o, almeno, tale la reputò Elena – Rebekah si impossessò del braccio del Conte Damon da subito, così che ad accompagnare lei durante la passeggiata fu il fratello che preferiva. Scoprì che chiacchierare con Stefan era veramente piacevole, che era un ragazzo dolce, sensibile e solare così come aveva, già a primo sguardo, intuito.

Le due dame si ritirarono attorno alle ventidue e trenta. Elena sapeva che la attendeva una lunga notte insonne: dormire in un letto che non fosse il suo non le era mai riuscito facile. E gli avvenimenti di quella giornata che era sembrata interminabile, per di più, le avrebbero dato parecchio da pensare.

Appena arrivata in camera, quindi, si spogliò, indosso la sua pallida camicia da notte in seta – altro regalo della Marchesa -  e andò a rifugiarsi sotto le coperte, implorando Morfeo di impossessarsi di lei. Speranza vana, perché non avvenne.

Elena sapeva bene cosa le ci sarebbe voluto. Era il rimedio alla sua insonnia da quando era piccola.

Leggere.

Poche pagine di un qualunque romanzo, anche uno che trovasse di cattivo gusto, perché in quel caso la noia le avrebbe appesantito le palpebre. Aveva bisogno di raccontarsi una storia che non fosse quella della sua vita, di entrare in un mondo che non le apparteneva e dove non esistevano servi maltrattati, Marchese altezzose e irritanti Conti.

La sfortuna stava nel fatto che Elena non aveva mai avuto un libro suo. Tutti quelli che aveva divorato erano appartenuti ai clienti di suo padre e alla biblioteca del palazzo dei Michaelson, per cui non ne aveva nessuno con sé, in quel momento.

Ma certo! La biblioteca. L’enorme biblioteca di Palazzo Veritas faceva sicuramente al suo caso ed era oltremodo certa che il Conte Stefan non avrebbe avuto nulla in contrario se avesse preso in prestito qualcosa, anzi, conoscendo i suoi modi, l’avrebbe invitata a comportarsi come fosse a casa sua. Elena si lasciò sfuggire un risolino isterico, mentre ci rifletteva. Casa sua era praticamente grande quanto la sua attuale camera da letto.

Non era comunque sicura di come il Conte Damon avrebbe visto la cosa ma, nuovamente animata dall’orgoglio, decise che non le importava e scese dal letto, cercando qualcosa da indossare sopra la camicia da notte. Non trovando altro che la mantellina nera della madre, se la avvolse addosso, afferrò candela e portacandela e sgattaiolò fuori dalla stanza, scendendo le scale sulle punte dei piedi scalzi.

Si trattenne a stento dal rabbrividire nel notare che le stanze del palazzo, con le pareti vermiglie e gli imponenti quadri con dipinti gli antenati della famiglia Salvatore, di notte creavano un’atmosfera parecchio macabra. Un paio di volte, nello svoltare a destra e poi a sinistra, ancora spaesata, Elena aveva incontrato i volti dei quadri e si era dovuta tappare la bocca con la mano per impedirsi di urlare, quando aveva creduto che i loro occhi freddi stavano fissando proprio lei.

Quando riconobbe la porta d’ingresso della biblioteca, una sensazione di puro sollievo si impadronì di lei. Entrò con passo più sicuro e si diresse dove ricordava di aver visto altre candele, accendendone un paio con la sua, giusto per illuminare un po’ di più quella stanza che pareva immensa.

Ancora con in mano la sua fonte di luce, si avvicinò ad una prima fila di scaffali, poi ad una seconda, leggendo ogni singolo titolo – almeno, fin dove l’altezza glielo concedeva – e stando ben attenta a tenere la fiamma a debita distanza.

Stava giusto scorrendo alcune opere di Shakespeare, quando udì un rumore alle sue spalle, subito seguito dalla sua voce che mormorava un silenzioso ma freddo «Che fate voi qui?».

Il libro che aveva in mano cadde a terra con un tonfo, mentre si voltava, con occhi sgranati, verso l’algida figura alle sue spalle. Illuminato esclusivamente dalla fiamma flebile di una candela, il Conte Damon aveva un aspetto tanto intrigante quanto spaventoso. L’incarnato pallido, anziché assumere le colorazioni calde del fuoco, era, se possibile, ancora più spettrale; i capelli corvini si amalgamavano all’oscurità della stanza e in quelle iridi, tanto chiare da sembrare trasparenti, si riflettevano le fiamme della candela che reggeva in mano. Era la cosa più affascinante che la ragazza avesse mai visto e dovette ammettere a se stessa che non era la prima volta che le faceva quell’effetto, ma che mai come in quel momento ne era stata tanto attratta quanto terrorizzata.

L’orgoglio e la rabbia, accumulata precedentemente, sparirono nel nulla. La ragazza si ritrovò con la bocca semiaperta e in difficoltà con le parole per l’ennesima volta, quel giorno, e consapevole che questa volta nessun Matt sarebbe venuto in suo soccorso.

«I-Io… Non riuscivo a prendere sonno… A-Avevo bisogno di qualcosa da leggere, così ho… Ho pensato di venire qui e…»

«Capisco.»

Elena fu sorpresa dai modi stranamente tranquilli del Conte. Sapeva che non avrebbe mai osato rimproverare lei come aveva fatto con il suo stalliere, ma sembrava un tipo facilmente irritabile. Invece, si stava limitando a fissarla. E quando il suo sguardo abbandonò il suo viso per percorrere il suo corpo, Elena si rese conto che i suoi indumenti, alla luce delle candele, trasparivano abbastanza da lasciare intravedere le sue forme.

Imbarazzata fino alle punte dei capelli, si affrettò a coprirsi più che poté con la mantellina, e quando alzò di nuovo lo sguardo su di lui, riconobbe il solito sorriso beffardo che le faceva tanto venir voglia di prenderlo a schiaffi. L’irritazione fu rapida a riaffiorare.

«Ad ogni modo, stavo andando», mormorò acida, dopo aver recuperato il libro dal pavimento. Ma proprio nel momento in cui aprì bocca lui avanzò verso di lei e, senza farsi troppi problemi, glielo tolse dalle mani per leggerne il titolo.

«Romeo e Giulietta, eh? Amore impossibile, finale tragico… Pensate davvero che vi concilierà il sonno?»

«Ed è affar vostro perché?», ribatté Elena piccata.

Lui sorrise. «Giusta osservazione.»

Elena si mosse nuovamente in direzione della porta, ma in procinto di attraversarla la sua voce la costrinse a fermarsi.

«Non è un nome come tanti.»

Voltandosi, lei notò che Damon non la guardava negli occhi, mentre parlava, ma sfiorava la copertina verde scuro del libro.

«Come, scusate?»

«Mezzanotte. Non è un nome come tanti, scelto a caso», spiegò. «Credo sia molto più legato a mia madre di quanto lo sia Amleto. Ma non ditelo a mio fratello. Lui non lo sa. Non lo sa nessuno.»

Damon fece una breve pausa, durante la quale vi fu rumore solo nella mente di Elena, in cui milioni di domande, che lei si costrinse a trattenersi dal porre, presero a rimbombare caoticamente. Quando il Conte riprese a parlare, guardava il cielo fuori dalla portafinestra.

«Quand’ero bambino, più di una notte sorpresi mia madre ad andarsene in giro per i giardini della tenuta. Allora non sapevo dove andasse di preciso o chi incontrasse, ma ricordo che succedeva sempre alla stessa ora, e quando al mattino veniva a svegliarmi con un bacio, e le chiedevo perché era uscita a quell’ora tarda, lei mi rispondeva sempre la stessa cosa: “A mezzanotte tutto è lecito e tutto può succedere”.»

Parlava completamente perso nei ricordi. Aveva gli occhi lucidi, ma difficile dire se per l’emozione o perché la luna si stava riflettendo in essi. Elena avvertì nuovamente la sensazione strana alla bocca dello stomaco, come se qualcosa, al suo interno, svolazzasse.

Una parte di lei stava urlando Lo sapevo! Lo sapevo che c’era qualcosa di più in lui. L’altra aveva solo voglia di eliminare la distanza che c’era tra di loro e stringerlo tra le braccia, come fosse un bambino. Non le era mai parso tanto vulnerabile come in quel momento. A dirla tutta, non le era mai parso vulnerabile e basta. Ad ogni modo, si costrinse ad ignorare ogni genere di impulso e ad aspettare che terminasse il racconto, confermando quelle che erano le sue intuizioni.

Lui distolse lo sguardo dal paesaggio aldilà del vetro e lo posò su Elena, un sorriso tutt’altro che allegro ad incurvargli le labbra, mentre diceva: «Mi ci volle qualche anno per capire che incontrava il suo amante, a quell’ora. Ero cresciuto, il mondo appariva ai miei occhi sempre più per ciò che è, e mia madre era già morta. Ma non ce l’ho con lei per questo. Non ce l’ho mai avuta con lei. Nessun avrebbe potuto incollerirsi mai con mia madre, a dirla tutta. Era una donna meravigliosa: dolce e affettuosa con me e mio fratello, capace di tanto amore e di una bontà infinita… E anche tanto coraggiosa. Mio padre non l’ha mai apprezzata per quello che era. Non l’amava. L’amavano praticamente tutti, ma non lui. Le imposero quel matrimonio e lei, per quanto testarda, non poté far altro che accettare. Ma era fin troppo romantica per rinunciare all’amore…»

Sorrise ancora amaramente, indicando la copia di Romeo e Giulietta sempre tra le sue mani, quando disse romantica. Dopodiché, il silenzio regnò sovrano nella grande stanza. Almeno finché una della miriade di domande che torturavano il cervello di Elena, ribellandosi al volere della stessa, fuoriuscì spontaneamente dalle sue labbra.

«Perché, se non l’avete mai detto a nessuno, lo state raccontando a me

Lui rise senza l’ombra di un pizzico d’entusiasmo. «Me lo chiedo anch’io.»

Poi, però, continuò, facendosi di nuovo serio. «Credo sia perché m’importa del vostro giudizio», disse. «E non voglio che vi facciate un’idea sbagliata di me. Non sono un’insensibile. Sono umano quanto lo siete voi.»

«Beh, dovrete impegnarvi molto di più di così, per convincermene», rispose l’orgoglio di lei, mentre l’Elena romantica e sensibile urlava, del tutto ignorata, Ci siete già riuscito.

«Vi auguro una buona notte», mormorò, ancora scossa, prima di lasciare la stanza, ormai completamente dimentica del libro.


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Angolo-di-un'Autrice-che-si-è-talmente-abituata-ad-aggiornare-di-notte-che-si-sta-lentamente-tramutando-in-un-gufo ._.


Eccomi! In ritardo ma eccomi! Pazientate, pazientate. Vado ancora a scuola, io, come ben saprete. E alcuni dei miei insegnanti hanno ben pensato di far fare i compiti in classe proprio gli ultimi giorni. Sono davvero sull'orlo di una crisi di nervi e mi rilasso solo quando scrivo. Ad ogni modo, da sabato in poi sarò libera come l'aria. *-*

Il capitolo, come al solito, non lo commento. Altrimenti a voi non resta da fare niente, oltre a leggerlo. :)

Però ringrazio infinitamente chi ha inserito la storia tra le preferite/seguite/ricordate, e in modo particolare chi recensisce e mi sprona a continuare e al tempo stesso mi fornisce ottimi consigli e spunti. 

Questa storia non esisterebbe senza di voi

(Lo so! Come sono smielata stasera! Ci manca solo che vi scrivo che VI LOVVO! XD Ecco. Adesso la mia reputazione è definitivamente andata.)

Alla prossima, queridas ^^

Lisa

 

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Capitolo 6
*** Capitolo V - L'orgoglio di una (non più) serva ***


No, non state sognando.

No, questo non è un miraggio.

Sì, ho effettivamente aggiornato la storia.

Sì, l'ho fatto con due mesi di ritardo.

Ma, EHI! L'importante è che l'ho fatto, no? :3

Siccome sono sicura che il 99,9% di voi ha istinti omicidi nei miei confronti, al momento, facciamo che ci risentiamo in basso, alla fine del capitolo.

Così che (magari) con la lettura riesco ad addolcirvi un po', ecco.

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Capitolo V

L'orgoglio di una (non più) serva



Torino, 27 Settembre 1764

Mio Caro Diario,

Una settimana. È trascorsa una settimana, dal mio arrivo a Torino, e quasi mi meraviglio di essere sopravvissuta fino ad ora. Non è tanto recitare il ruolo della nobile di per sé, ad essere complicato, quanto guardarmi allo specchio, la sera, una volta che mi sono ritirata per la notte, dopo aver trascorso un’intera giornata a mentire. Ho la bile su per la gola praticamente sempre e ormai provo quasi disgusto per me stessa, rendendomi conto che sto diventando un’attrice sempre più brava.

Nonostante tutto, devo ammettere che fingersi la dama di compagnia della Marchesa è molto meno faticoso che fare la serva. Almeno, quando siamo in pubblico, mi risparmia insulti e schiaffi.

Il Conte Stefan si rivela, ogni giorno che passa, sempre più gentile, galante e infinitamente premuroso. Ha superato persino le mie aspettative. Ma è tanto buono quanto ingenuo, visto che è l’unico in tutto Palazzo Veritas a non aver ancora intuito lo scopo della cugina e il perché essa passa la maggior parte del suo tempo a ronzare attorno a lui e al fratello. Ancora non mi è chiaro chi Rebekah abbia scelto tra i due, e chiederlo alla diretta interessata è escluso. Ma non mi meraviglierei se non avesse ancora preso una decisione. Civetta come se non avesse fatto altro nella vita.

Sarebbe tutto di gran lunga più facile, per me, senza la presenza del Conte Damon. Lui è… Incredibile. Ma non in senso buono, proprio no. È dannatamente imprevedibile e il suo essere lunatico mi fa girare la testa. Un attimo prima mi punzecchia spudoratamente, mettendomi in imbarazzo di fronte a chiunque, e sembra godere del mio disagio. Poi mi ritrovo qualche minuto da sola con lui ed eccolo smascherato, privo di difese, tanto vero e sincero, quanto irreale, irraggiungibile e terribilmente affascinante. Ho paura di me stessa, quando sono con lui, perché rende imprevedibile anche me. Perdo ogni forma di controllo, le parole mi escono dalle labbra prima ancora che abbia terminato di pensarle, ho lo stomaco sempre stretto in una morsa, il respiro ansante, la pelle d’oca… Il batticuore.

Oh, Diario! È proprio come nei miei romanzi, forse anche più intenso. Solo che è diverso, vissuto sulla propria pelle. Non è una sensazione sempre bella. La maggior parte del tempo vorrei non provare nulla. Ho fantasticato un’infinità di volte su come sarebbe stato provare queste sensazioni per qualcuno, ma nessuna fantasia si è mai avvicinata a questo. C’è una parte di me che mi urla di stare alla larga da quell’uomo, un’altra che invece mi sprona a scoprire di più di lui, a non arrendermi, a passare sopra a questa sua facciata capace di dare sui nervi a chiunque e ai suoi irritanti giochi di parole, e che mi sussurra che ne varrà la pena. Vorrei che quest’ultima parte non fosse più forte dell’altra.

 

 

Elena scostò le tende color glicine con un unico, energico scatto – gesto che ormai le era praticamente familiare, visto che si ripeteva ogni mattina da una settimana. Anche quel giorno, il sole era alto in cielo e la ragazza dovette portarsi una mano sugli occhi per evitare di venire accecata dai suoi raggi. Un’altra consolazione del trovarsi implicata in quell’ingarbugliato complotto messo in atto dalla Marchesa, erano proprio le costanti belle giornate della campagna torinese a settembre: c’era sempre il sole, ma mai afa, il che rendeva passeggiare intorno a Palazzo Veritas una delle sue attività preferite.

Ma quella mattina, l’idea di scarpinare nuovamente con Rebekah arpionata al suo braccio come un parassita e di sopportare il suono stridulo della sua risata ad ogni tentativo di battuta del Conte Stefan, non la allettava neanche un po’, quindi si lavò e vestì svogliatamente, perdendo volutamente tempo, per niente impaziente di scendere di sotto per la colazione.

Era stata silenziosamente grata alla Marchesina per averle consentito più tempo libero e per averle detto che non era più necessario che si muovessero sempre per il palazzo insieme – anche se il reale volere della nobildonna non era quello di compiere un gesto solidale nei confronti della sua ex serva, adesso promossa a tempo indeterminato a dama di compagnia, ma bensì pensava che, se si fosse trovata sola più a lungo, avrebbe avuto più occasione di stare in intima compagnia con almeno uno dei fratelli Salvatore. Tutto sommato, quindi, le strategie di conquista di Rebekah non erano, per Elena, sempre una tragedia, e la giovane aveva deciso di adottare la filosofia del bicchiere mezzo pieno, almeno finché si fosse trovata in quell’assurda situazione.

Quando si sedette di fronte la toletta e osservò il suo volto allo specchio, le sfuggì un gemito. Avrebbe di sicuro perso tempo senza doversi sforzare, per cercare di nascondere al meglio le orribili mezze lune scure che sfoggiava sotto gli occhi. Andavano peggiorando ogni giorno che passava.

Ormai si era rassegnata: sapeva che la sua insonnia non poteva più trovare una spiegazione nel fatto che si trovasse lontana da casa, ma che era dovuta a ben altro, tipo un certo Conte che, oltre a torturarla durante il giorno coi suoi dispetti da preadolescente, aveva la bizzarra capacità di riuscirci anche durante la notte, visto come popolava la sua mente e i suoi sogni.

Lo detestava. Detestava con tutta se stessa quell’uomo e i suoi modi di fare, ne era certa. E odiava il fatto di odiarlo forse più di quanto odiava lui, perché gli attribuiva un’importanza che di certo non meritava, che era impensabile che avesse.

Elena era sempre stata brava ad ignorare i comportamenti altezzosi ed arroganti dei nobili, che l’avevano guardata da sempre dall’alto in basso. La pazienza e lo spirito di sopportazione facevano, in un certo senso, parte della sua educazione. Le altre cameriere che lavoravano per i Mikaelson, in passato, le avevano sempre chiesto come facesse a sopportare di buon grado tutti gli sfoghi della Marchesina su di lei, guardandola sempre con una certa dose si rispetto nello sguardo, il che col tempo aveva portato Elena a considerare quella sua infinita remissività e condiscendenza come un pregio di cui andare orgogliosi.

Ma, con lui, questo non era più possibile e ciò torturava il suo orgoglio. Non riusciva a non perdere le staffe, quando era lui a trattarla così, anche se, fino a quel momento, era stata brava a non farlo notare, nonostante le capitasse frequentemente di gonfiare le guance come un criceto, per trattenere la rabbia.  Damon Salvatore la mandava davvero fuori dai gangheri, e lei questo non riusciva ad accettarlo.

Con un sospiro rassegnato – forse perché aveva ormai esaurito le forze per innervosirsi a dovere – afferrò il suo piumino, lo sporcò di farina di riso e si tamponò palpebre e fondo. Quando ottenne un risultato pressoché accettabile, passò ad acconciarsi i capelli, limitandosi a raccogliere solo i riccioli intorno al viso e annodarli insieme dietro la testa, visto che adesso stava facendo anche troppo tardi. Non voleva per nessuna ragione al mondo far spazientire la Marchesina. Non l’aveva mai vista tanto di buon umore quanto quella settimana.

Fortunatamente, quando fece il suo ingresso nella sala dove d’abitudine era servita la colazione, trovò Rebekah talmente immedesimata in una conversazione col maggiore dei fratelli, da non notare nemmeno il suo arrivo. Non fu lo stesso per Stefan e Damon. Il primo l’aveva accolta con il sorriso più caloroso che Elena avesse mai visto, mentre il secondo aveva distolto l’attenzione da Rebekah nello stesso istante in cui aveva varcato la soglia della stanza, aveva puntato il suo sguardo penetrante su di lei e adesso continuava a fissarla in quel modo che la faceva tanto sentire un indifeso coniglio finito nella trappola del lupo. A disagio, si sforzò di concentrare la sua attenzione sul minore dei fratelli, che ormai aveva imparato a vedere come la sua ancora di salvezza, il suo porto sicuro.

«Buongiorno, Signorina Elena! Mi auguro abbiate dormito bene, questa notte. Avete un aspetto radioso», la salutò, alzandosi per un attimo, come il bon-ton imponeva.

Non seppe mai cosa, trattenne Elena dall’emettere un risolino nervoso e sarcastico. Non era radiosa neanche un po’, e sapeva che la cosa era palese. Ma, un attimo dopo, si ritrovò a provare tanta gratitudine per quel giovane, le cui intenzioni, anche se un tantino pietose, erano solo quelle di farla sentire più a suo agio, la benvenuta.

Sorrise di rimando. «Oh, sì, ho dormito davvero bene, caro Conte Stefan, vi ringrazio.»

«Mi fa un immenso piacere.»

La coda dell’occhio di Elena, ribellandosi ad ogni proposito della stessa, andò a sbirciare alla sua destra, dove anche Damon Salvatore e Rebekah si erano alzati in piedi per salutarla - l’ultima perché la sua farsa glielo imponeva.

Elena si voltò in direzione della Marchesa, incurvando il collo esile in un timido inchino. «Buongiorno, Signora Marchesa.» Questa accennò ad un inchino di rimando.

Poi, fu il turno di Damon. La giovane si voltò nella sua direzione con le guance, suo malgrado, già imporporate. Una reazione umiliante che, sperò, passasse inosservata. Il suo sguardo si soffermò su quello di lui giusto un istante. Si costrinse a guardarsi le mani, mentre si inchinava per la terza volta quel giorno, intimorita dal potere che quei gelidi cristalli nelle orbite oculari di lui avevano sul suo raziocinio.

«Conte Damon»

«Buongiorno, Signorina Elena. Mi soffermerei a domandarvi come avete dormito e a commentare il vostro aspetto, ma sembra che ci abbia già pensato il mio fratellino

E ti pareva se poteva limitarsi semplicemente ad augurarle un buon giorno. Oramai, i suoi punzecchiamenti avevano inizio ancor prima che avesse bevuto una tazza di latte.

Elena arrossì maggiormente, già rabbiosa, oltre che imbarazzata, ma non disse nulla. Si sedette al suo posto, mantenendo lo sguardo basso e il sangue freddo. Una parte di lei – cui ordinò mentalmente di tacere – si stava chiedendo se anche lui la trovasse, per qualche assurda ragione, radiosa, quel mattino, o se invece avesse notato quanto poco in forma fosse e si stesse prendendo gioco di lei.

Riusciva quasi a percepire il veleno inviatole dagli sguardi della rigida Marchesina a lei di fianco, che non era mai entusiasta quando la sua servetta diventava oggetto delle attenzioni dei due fratelli anche per pochi istanti.

«Cara cugina, io e mio fratello avevamo pensato di approfittare di quest’altra splendida giornata per fare una passeggiata a cavallo. Fin’ora ci siamo limitati ai dintorni del palazzo, ma c’è ancora tanto che ameremmo mostrarvi, solo che a piedi ci si impiega molto più tempo. Cosa ne pensate? Ovviamente l’invito è rivolto anche a voi, Signorina Elena.»

La ragazza sorrise cordialmente al Conte Stefan, mentre Rebekah osservava: «Ma non possedete solo tre cavalli?». Dal suo tono, sembrava che l’idea di quella gita non le fosse molto gradita, e Elena rifletté sul fatto che, a casa Mikaelson, non l’aveva mai vista andare a cavallo, nonostante ne possedessero più dei Conti Salvatore. Forse non ne era capace.

«Oh, di questo non preoccupatevi. Ho chiesto a Tyler di scendere in paese a prenderne in prestito uno. Sarò lieto di cedervi Amleto».

La Marchesa non aveva più specchi ai quali aggrapparsi. «Preferirei di no, caro cugino, se non ti dispiace. Non è il genere di svago che fa per me, capisci?»

Sia Stefan che Elena se ne dispiacquero, e entrambi cercarono di non dare a vedere la loro delusione.

«Oh, ma certo, cara cugina. Certo che comprendo. Se lo avessi saputo prima non l’avrei neanche proposto, vi prego di scusarmi. Non importa, sono certo che troveremo qualcos’altro di altrettanto divertente da fare», sorrise convincente. «A meno che, mio fratello e la Signorina Elena non vogliano andare ugualmente senza di noi.»

A Elena si paralizzarono i muscoli del corpo, fatta eccezione per quelli del viso, che consentirono ai suoi occhi di spalancarsi quasi disumanamente.

«Nessun problema per me», asserì Damon, aprendosi in un mezzo sorriso compiaciuto.

Adesso, tre sguardi curiosi puntavano Elena, nervosa e imbarazzata, in attesa di una risposta.

No, che non voleva. Per nessuna ragione al mondo voleva allontanarsi dal palazzo insieme al Conte Damon. Da sola, col Conte Damon. Era escluso.

Si voltò in direzione della Marchesa in una muta richiesta di aiuto, mentre balbettava qualcosa di sconnesso. Sperò con tutta se stessa di scorgere anche una sola ruga di disapprovazione sul bel volto d’alabastro, ma persino le sopracciglia d’oro erano perfettamente rilassate. «Perché no, cara? È una splendida idea. Non voglio che restiate a casa ad annoiarvi a causa mia. E poi non avrò bisogno di Voi, avendo la compagnia di Stefan». Voltandosi, sorrise civettuola al cugino minore.

Elena doveva ancora abituarsi al fatto che in pubblico la padrona le desse del Voi. Ma non furono certo quelle tre lettere a farle improvvisamente crollare il mondo addosso. Ovvio che la Marchesina non vedesse l’ora di trascorrere un po’ di tempo sola con Stefan – anche se era ancora presto per poter affermare che fosse la sua scelta. Ma non poteva farle questo. Non poteva, non era giusto.

«I-Io…»

«Oh, avanti, Signorina Elena. Non siate timida», mormorò provocatorio il Conte Damon. La ragazza, dimentica dei suoi precedenti propositi, si voltò istintivamente a guardarlo e fu la fine, quando incontrò i suoi occhi. «Fatemi questo piacere».

Deglutì, rassegnata. Si sentiva una condannata a morte che andava al patibolo. Sorrise, veramente poco convincente, e fece il verso alla Marchesa: «Perché no?».

 

 

Calma, Elena. Sta calma, si ripeté per quella che era, forse, la trecentesima volta in neanche un’ora, senza ottenere i risultati sperati. Non c’era verso di rallentare il suo battito cardiaco. Per lo meno, era riuscita a smettere di ansimare.

Quando fece il suo ingresso nelle stalle, il Conte Damon era già lì, e aiutava Matt a sellare i cavalli. Si accorse della sua presenza, senza neanche alzare gli occhi dal suo lavoro. «Ben arrivata, Signorina Elena. Mi sono preso la libertà di far sellare Romeo, per voi. Spero di aver scelto bene. Mi sembrava che ci fosse stata dell’intesa, l’ultima volta, tra di voi.»

L’ultima volta. Come dimenticarla. Vedere Matt ancora lì, al suo posto di lavoro, la sollevò parecchio. «Avete fatto benissimo, vi ringrazio.»

Una volta che anche la bella Mezzanotte fu pronta, il Conte le si accomodò sopra e uscì. Elena lo vide aspettarla appena fuori dalla stalla.

Matt prese Romeo per le redini e lo condusse fuori, sorridendo ad Elena al suo fianco. «Finalmente Romeo avrà il piacere di passeggiare con voi. L’ho visto più spento, negli ultimi giorni, non vedendovi. Gli siete davvero piaciuta molto.»

Elena ricambiò il sorriso. «Ne sono onorata», scherzò, facendo ridere il ragazzo.

Quando li vide arrivare, ridendo con una complicità che non riusciva a spiegarsi, Damon si irrigidì e l’abituale mezzo sorriso scomparve dal suo volto.

Elena si rese improvvisamente conto di quanto fosse alto Romeo – molto di più dei cavalli che era abituata a cavalcare – e si chiese se sarebbe riuscita a montarlo da sola. Ma non dovette preoccuparsene tanto a lungo, perché il fedele Matt le fu nuovamente accanto: «Mi conceda di aiutarla a salire, Signorina. Permette?», chiese muovendo i palmi delle grandi mani da lavoratore verso la sottilissima vita di lei, ma senza osare sfiorarla, in attesa del suo permesso.

Il viso di Elena divenne paonazzo – e non riuscì a spiegarsi se fosse dovuto alla richiesta del giovane stalliere o al pensiero che il tutto stava succedendo davanti agli occhi del Conte – ma annuì comunque. Le possenti braccia del biondo la sollevarono senza il minimo sforzo, concedendole di raggiungere facilmente col piede sinistro il suo obiettivo e di slanciare la gamba destra per circondare il dorso dell’animale. Si accomodò su Romeo con maestria, senza perdere minimamente l’equilibrio e, in segreto, se ne compiacque.

«Tutto bene?»

«Sì, ti ringrazio Matt», gli sorrise. Il ragazzo ricambiò all’istante il sorriso. «A vostro completo servizio, Signorina.»

«Sì, grazie Matt», tuonò burbero un inacidito Damon Salvatore, facendo voltare entrambi nella sua direzione. Non si preoccupò di nascondere il sarcasmo che trapelava tranquillamente da quel suo “grazie”. Non che l’avesse mai fatto. Elena cominciava a pensare che quell’uomo non si preoccupasse mai di niente che non lo riguardasse direttamente. Indolente e egocentrico come tutto il resto della nobiltà.

Ma c’era dell’altro, rinchiuso in quelle sei lettere, e non era certo gratitudine. Possibile che il Conte Damon Salvatore fosse, effettivamente, infastidito? La stizza e l’astio, mentre fissava l’innocente Matt Donovan, erano molto più che palesi.

«Ci muoviamo, quindi?», mormorò ancora, mentre strigliava il cavallo e si incamminava, dandole le spalle.

L’orgoglio di Elena ricevette una bella alimentata. Che fosse lei o Matt, il motivo di tanta seccatura, vedere per una volta il Conte raccogliere ciò che seminava fu una soddisfazione impareggiabile.

 

 

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Angolo di un'autrice che ha molto da farsi perdonare

 

Ooookay, ditemi che vi è piaciuto abbastanza da farvi tornare sui vostri passi e deporre le armi, perché, anche se non potete vedermi, io sto sventolando bandiera bianca già da un po'. ._.

Tornata dalla Francia dovevo riprendere i ritmi, rimettermi in pari con le lezioni e le interrogazioni, con gli allenamenti e, beh, col resto della mia vita, che ultimamente è stata più "movimentata" del solito - e non in senso buono.

Ho voluto approfittare di questi pochi giorni di vacanza per terminare ciò che avevo "in cantiere" da un po' e pubblicarlo :) Spero  non vi siate dimenticati di me e di questa storia, nel frattempo.

Ah, piccola novità: ho aggiunto i titoli ai capitoli. Se scorrete i precedenti potrete leggere gli altri.

Passando al capitolo, due parole in croce e a voi l'ardua sentenza: lo so che può sembrare che quel famoso momento notturno in biblioteca del quarto capitolo sia stato completamente rimosso da Elena, in questo capitolo, ma non è così, davvero. E' solo la Elena testarda che conosciamo nella serie tv, che quando si tratta di Damon e dei sentimenti che prova per lui è pronta a negare anche di fronte all'evidenza -.-' Ci tenevo a essere IC. Però si può notare come non riesca a mentire al suo diario, in un certo senso il vero protagonista della storia. Al momento, troppi sentimenti contrastanti dimorano in lei, e questo non fa che creare confusione, che a sua volta la irrita e, di conseguenza, l'irritazione prende il sopravvento sul resto. Inoltre, Damon stesso, coi suoi soliti giochetti (che a noi piacciono tanto :3), non è particolarmente d'aiuto per fare chiarezza.

Fine. End. Stop. Tocca a voi.

Un bacione, lettrici adorate!

Lisa

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Capitolo 7
*** Capitolo VI - Punti di vista ***



Capitolo VI

Punti di vista

 

 

Elena e Damon, sui loro cavalli, continuarono a trotterellarsi uno di fianco all’altro per dieci minuti buoni senza fiatare, entrambi troppo assuefatti dall’orgoglio – e da un pizzico d’emozione – per rompere il silenzio per primi. Si erano già allontanati parecchio dal palazzo – il solo pensarci torturava i nervi di Elena – e intorno a loro era tutto un’immensa distesa di colline verdi e rigogliose, disseminate di girasoli, papaveri e grandi viole. Il solo suono che si udiva, ora che si avvicinavano ad una fitta boscaglia, era il coro armonioso dei fringuelli accomodati tra i rami di pini e arbusti, oltre al tonfo sordo degli zoccoli di Romeo e Mezzanotte sull’erba.

Era davvero un’atmosfera da sogno e, nonostante la tensione dovuta alla compagnia del Conte, Elena riuscì a godersela. Bicchiere mezzo pieno, pensava.

«Devo ammettere che avete una certa maestria e compostezza, e sembrate parecchio a vostro agio a cavallo. Ma sarete anche un abile fantino?»

Elena quasi sussultò quando Damon Salvatore si decise a rivolgerle la parola, col solito tono orgoglioso, derisorio e quasi sprezzante. Commise ancora una volta l’errore di cercare i suoi occhi celesti e, trovandoli, dovettero passare più secondi di quelli che comunemente le sarebbero serviti, perché riuscisse a rispondergli per le rime.

«Prima complimenti, poi sfide… State cercando di provocare il mio orgoglio, Signor Conte? In tal caso, il mio consiglio e di non sprecare ulteriormente fiato: sono stata educata da persona modesta, non mi sentirete mai tessere le mie stesse lodi.»

Ma figurarsi se quella risposta fosse sufficiente a far scomparire il sorrisetto di sfida dal viso di lui.

«Ed è compresa nella vostra educazione anche l’arroganza?»

Le guance di Elena presero a diventare scarlatte, poi a gonfiarsi, mentre realizzava l’insulto appena ricevuto. «Ma come… Come vi permettete di…?!»

Damon rideva. Nonostante l’irritazione alle stelle, la ragazza non riuscì a non rimanere abbacinata dal suono della sua risata e dalle fossette che gli si erano disegnate ad entrambi i lati della bocca.

«Elena, calmatevi! Stavo solo scherzando. Davvero, dovreste guardarvi in questo preciso momento: siete tutta rossa! Vi stavo solo prendendo in giro.» Rise ancora.

«Beh… Come vi permettete comunque?»

«Cercavo solo di farvi ridere. Non credevo avreste pensato che dicessi sul serio… Ma voi siete sempre seria, non è vero? Dovreste ridere più spesso, invece. Se non ricordo male, avete una risata incantevole

Elena arrossì al complimento, ma le comparse anche un solco interrogativo, sul volto. Quand’è che l’aveva vista o sentita ridere?

Come se avesse espresso la domanda ad alta voce, Damon spiegò. «La prima volta che vi vidi, vi sussurrai all’orecchio una battuta e voi non riusciste a soffocare le risate. Non è più successo da allora. Credo di sentirne la mancanza.»

Il rossore sulle guance di Elena si fece ancora più palpabile. Solo il potente brivido interno e frutto della sua immaginazione che le corse per tutto il corpo, le consentì di liberare il suo sguardo da quello di lui, dopo davvero troppi secondi.

«Forse non avete fatto le battute giuste», ipotizzò. «Magari avete perso il vostro senso dell’umorismo.»

«Ah, no. Quello è del tutto impossibile. Piuttosto, direi che non apprezzate il fatto che ne siete diventata voi l’oggetto. Un po’ permaloso, da parte vostra, non credete?»

Questa volta Elena non ci cascò. Si sforzò di convincersi che no, non la stava insultando.

«Se fossi permalosa mi avrebbero di certo irritata i vostri dubbi nei riguardi delle mie capacità ippiche… Non credete?», lo imitò, assottigliando lo sguardo come proprio lui era solito fare.

«E temo proprio che non riuscirete mai a togliermi tali dubbi.»

«Un vero peccato.»

«A meno che…»

«A meno che?»

«A meno che non accettiate di sfidarmi

Elena dovette pensarci su per qualche attimo. Non perché temesse una sconfitta e, quindi, una sicura umiliazione, ma bensì perché aveva la sensazione che la sua improvvisa audacia la stesse portando troppo oltre. Tuttavia, un’ulteriore occhiata a quel mezzo sorriso le fu sufficiente per cedere alla provocazione dell’uomo.

«A chi arriva primo oltre la collina?», propose spavalda.

«Mmh… In verità pensavo a qualcos’altro. So già che Romeo è un ottimo corridore. Ma è anche bravo a muoversi per i boschi senza farsi notare?» Sollevò teatralmente un sopracciglio, poi proseguì. «Vi do cinque minuti di vantaggio, dopodiché vengo a cercarvi. Se entro un’ora non vi ho ancora trovata, la vittoria è vostra.»

«E se dovessi perdermi? Come farò, tra un’ora, a ritrovare la strada?»

«Oh, fossi in voi non mi preoccuperei affatto di questo. Vi troverò sicuramente», sorrise ancora in quel suo modo arrogante.

Elena, nervosa, fissò il suo sfidante, riflettendo ancora sul da farsi.

«Non preoccupatevi. Capirò se deciderete di rinunciare. Certe sfide pericolose sono fatte solo per uomini valorosi.»

Odioso, si lagnò mentalmente la ragazza.

«Cinque minuti a partire da ora?», domandò.

Poi partì al galoppo, zigzagando tra un paio di pini e introducendosi nel fitto del bosco, dopo aver avuto appena il tempo di scorgere il sorriso del Conte distendersi di soddisfazione.

 

 

Nonostante si fosse impegnata duramente per addentrarsi più che poteva in quel macabro ammasso di alberi chilometrici, dopo neanche dieci minuti, Elena avvertì il galoppare di Mezzanotte avvicinarsi pericolosamente a lei e Romeo.

Si affrettò a strigliare quest’ultimo per velocizzare il passo. Adesso sì che si sentiva veramente come un coniglio in fuga dal predatore.

Dopo altri cinque minuti, passati cercando di far perdere al Conte le sue tracce, la ragazza non udì più alcun suono di zoccoli e concesse a Romeo di rallentare, carezzandogli teneramente il manto mielato.

Il paesaggio che li circondava le metteva la pelle d’oca, doveva ammetterlo. Era un susseguirsi di alberi giganteschi che parevano tutti uguali e con le foglie del verde più cupo che avesse mai visto. Era esattamente come trovarsi in un labirinto: più si andava avanti, più si aveva l’impressione di stare girando in tondo.

Se Damon non l’avesse trovata, temeva davvero che non sarebbe riuscita ad uscire di lì.

Ma dargli questa soddisfazione? Fargli assaporare un’altra vittoria? Dover sopportare ancora quella sua arrogante faccia da schiaffi? No. Si sarebbe accampata lì, di sua spontanea volontà, per trascorrerci la notte, piuttosto.

Così, dominata dall’orgoglio e incurante della sua sopravvivenza, quando udì ancora una volta Mezzanotte a poca distanza, strigliò Romeo perché partisse al galoppo. La velocità con cui si muovevano, serpeggiando tra gli alberi, le produsse, ben presto, una potente scarica di adrenalina, che non fece che renderla più determinata a vincere quella competizione che, probabilmente, la Elena lucida e razionale avrebbe trovato sciocca e infantile. Ma di quella Elena, adesso, aspetto fisico a parte, non vi era neanche l’ombra. Si era eclissata nel momento stesso in cui aveva ceduto alla provocazione del Conte – o, forse, ancor prima.

Abituata ormai a muoversi in mezzo a tutto quel verde scuro, a Elena non sfuggì quando il paesaggio intorno a lei prese a mutare. I colori andavano, via via, accendendosi. Doveva esserci una fonte di luce, da qualche parte, un punto in cui il sole penetrava più abbondantemente. E doveva essere vicina.

Superata ancora una decina di alberi e due rocce che sembravano fare da ingresso, trovò conferma alle sue intuizioni. Solo che fu anche meglio di come lo aveva immaginato.

Una radura, uno spiazzo erboso di modeste dimensioni, circondato da alberi e rocce. E tra due di queste, a nord rispetto a dove si trovava Elena, scorreva, limpido, un ruscello, la cui acqua andava a riempire un laghetto che sembrava esser stato creato su misura per quel posto. Sull’erba chiara attorno ad esso, forse per via della costante idratazione, sbucavano gli stessi fiori coloratissimi che crescevano per tutta la campagna Torinese, che Elena non aveva più visto da quando si era addentrata nel bosco.

Era un piccolo, pacifico e incantevole angolo di paradiso. Situato al centro esatto di un bosco da incubo – e, forse, era proprio questo dettaglio a renderlo paradisiaco. Un paradosso, pensava Elena.

Incurante del galoppare frenetico e sempre più vicino della giumenta nera e completamente dimentica della competizione ancora in corso, scese da Romeo senza distogliere neanche per un secondo lo sguardo da quella piccola meraviglia, degna di essere uscita da uno dei libri di fiabe che aveva divorato, come se temesse che, interrompendo il contatto visivo, potesse smaterializzarsi. Ne era così abbacinata.

Afferrate le redini del cavallo, lo invitò a proseguire con lei a passo lento, quasi timoroso, incerto, e avvicinarsi allo specchio d’acqua che si espandeva di fronte a loro. Una volta raggiuntolo, lasciò che Romeo lo sfiorasse per primo con labbra e che si dissetasse. Bevve a lungo, e la ragazza cominciò a sentirsi in colpa per averlo fatto stancare a tal punto.

Quando le sembrò che avesse terminato, lo ricondusse verso uno degli alberi che delimitavano la radura e glielo legò per le redini. Fece dietrofront verso il piccolo lago e vi si inginocchiò accanto, sempre a rilento, sempre titubante.

Si ritrovò a fissare il viso di una giovane donna, leggermente deformato dall’acqua, dai cui occhi, intrisi di amarezza, trapelava turbamento. Man mano che la coscienza le suggeriva l’identità della donna nel riflesso, i grandi occhi scuri divenivano sempre più tristi. Non poteva credere di essere lei, quella donna. Non poteva credere di apparire così.

Che cosa era successo? Cosa era accaduto alla spensierata ragazzina che era una volta? Quando erano cambiate, esattamente, le cose? Dopo la morte dei suoi genitori? Dopo l’abbandono del fratello? Nel momento in cui aveva fatto il suo ingresso nella bettola di Cassandra o a Palazzo Veritas? Quando aveva conosciuto Damon Salvatore?

Damon Salvatore. Sì, senza dubbio lui aveva contribuito a incupire quegli occhi e a creare quel solco, che adesso le pareva indelebile, tra le sue sopracciglia. Non le aveva dato un solo attimo di pace, di respiro, anche indirettamente. Cosa stava cercando di fare? Farla impazzire? Beh, non era poi così lontano dal riuscirci. E che assurdità il fatto che lei, la maggior parte del tempo, continuasse ad esserne attratta.

Immerse una mano nell’acqua, proprio in direzione del suo riflesso, e la mosse, come a volerlo cancellare. Odiava quello che le stava succedendo, a partire da quello che la stava costringendo a fare la Marchesa, fino ai suoi sentimenti contrastanti per il Conte. Odiava non riuscire a ribellarsi, dover soffocare ogni sua volontà, dover chinare il capo di fronte a chiunque anche se, al momento, non era più neanche una serva. Quella farsa le stava pesando molto più delle sue condizioni precedenti. Essere una cameriera non era certo il suo sogno di bambina, ma almeno riusciva ancora a provare rispetto per la sua persona, sincera e paziente. Adesso cos’era, se non una bugiarda? Aveva perduto ogni briciola di stima nei suoi stessi confronti. Non riusciva più a convivere con se stessa.

Copiose lacrime presero a sfociare dagli occhi tristi del riflesso. Elena le avvertì correre giù per le gote, fino al mento, e poi le vide tuffarsi nel lago. Dapprima, distrattamente, prese a contarle. Una, due, tre… Ventisei, ventisette, ventotto… Ottantadue, ottantatre, ottantaquattro… Superata la centesima, perse il conto. Distolse l’attenzione da quel viso che la disgustava tanto, solo per posarla sulle rocce su cui colava il ruscello, riuscendo almeno a godersi lo scrosciare cristallino e piacevole che produceva.

«Ho vinto.»

Una voce roca e suadente, due parole, soffiate troppo vicine al suo orecchio sinistro, le fecero perdere il respiro, spedendole immediatamente il cuore in gola.

Si voltò di scatto nella sua direzione, producendo il classico singhiozzo soffocato dallo spavento. Trovò il viso di lui talmente vicino al suo che, si rese conto, sarebbe bastato un movimento più brusco da parte sua per far scontrare i loro nasi. Gli occhi di lei, ingigantiti dalla sorpresa nonché tratti in inganno, erano ancora stati ancora una volta catturati dagli zaffiri incastonati al di sopra degli zigomi di lui.

Vicini. Molto vicini. Talmente vicini che i loro respiri si fondevano. Lo sguardo di lui, spavaldo, si avventurò più in basso, prendendo a rimirarle le labbra con desiderio. Quando intuì quelle che potevano essere le sue intenzioni, Elena arrossì con violenza e si gettò all’indietro sull’erba, prendendo le distanze.

La risata di Damon sembrò risuonare per tutto il bosco. «Vi ho spaventata? Chiedo scusa, non era mia intenzione.»

«Figuriamoci», fece la ragazza, mentre tentava di rimettere in moto il cuore.

«Prego?», finse di non capire lui.

«No, niente.»

Il sorriso sghembo di lui riprese a regnare, sovrano. «Vedo che avete scoperto uno dei miei posti preferiti. Incantevole, non è vero?»

Elena non rispose.

«Ma certo, neanche paragonabile a Voi.»

Questa volta, la giovane fece roteare teatralmente gli occhi, sotto lo sguardo divertito di lui. «Le mie attenzioni vi infastidiscono, Signorina Elena?»

Afferrando le pieghe della gonna dell’abito, fece per rimettersi in piedi. «Non quanto i vostri giochi di parole, Signore.»

Lui rise ancora, poi i suoi occhi si soffermarono sulla gonna dell’abito di lei. «Il vostro abito si è sporcato di fango», constatò. «È un vero peccato. Mi piaceva molto.»

Accorgendosene, Elena si lasciò sfuggire un «Oh, no».

«Oh, sono certo che avrete un montagna di altri vestiti altrettanto belli, con voi. Non preoccupatevi per me. Vi trovo piacente in ogni abito.»

Elena lo fissò ancora una volta, ma per poco. Ben presto, si voltò e snodò le redini di Romeo dall’albero, intenzionata ad andar via. Da sola.

«Vi ho vista, prima», parlò lui. E i muscoli di Elena, per reazione, si immobilizzarono.

«Stavate piangendo», continuò. La sua voce era cambiata. Diversa. Non era il tono derisorio che ostentava la maggior parte del tempo. Forse era assurdo e completamente falso, frutto della sua immaginazione, ma sembrava sinceramente preoccupato. Per lei. «Perché stavate piangendo?»

Dandogli ancora le spalle, Elena sospirò. «Perché dovrebbe interessarvi?»

«Adesso siete ingiusta. Non mi sono mai mostrato indolente nei vostri confronti.»

«Ah no?», fece lei sarcastica, voltandosi a fulminarlo.

«No», rispose lui, con tanta di quella sicurezza da costringere Elena a dubitare delle sue convinzioni.

«Quindi, perché vi interessa?», fece lei, esasperata, dopo qualche istante di silenzio.

«Beh…», improvvisamente, il Conte parve nervoso. «Perché siete mia ospite. Ed è mio dovere garantire un soggiorno felice, ad ogni mio ospite.»

Elena si lasciò sfuggire una risata amara. «Beh, lasciate che vi dica che avete un modo alquanto bizzarro, di dimostrarlo.»

«Forse. Ma almeno non sono poco socievole e taciturno.»

«Io preferisco timida e riservata.»

«Punti di vista.»

«Esattamente.»

«Infatti.»

«E dovete anche avere sempre l’ultima parola?»

«Diciamo che la concedo ad altri difficilmente.»

«E in base a cosa, se posso chiedere?»

«Solo se considero il mio interlocutore non all’altezza del discorso.»

«Spaventosamente superbo. E dovrei, quindi, sentirmi onorata da ciò?»

«Non so. Fate voi.»

«Penso che non lo sarò.»

«Bene.»

«Bene.»

«Bene», rimarcò lui. Dopodiché, l’acceso battibecco tra i due fu interrotto dal rombo, inatteso e minaccioso, di un tuono. Un attimo dopo, le grosse nuvole cariche di pioggia, che – nessuno dei due avrebbe saputo dire quando – si erano formate sopra le loro teste, strariparono. Damon e Elena si ritrovarono ben presto fradici.

«Prendete Romeo e seguitemi. Conosco un posto in cui saremo al riparo.»

Elena, bagnata come un pulcino, obbedì senza fiatare e, un paio di minuti dopo al massimo giunsero nei pressi di un capanno di caccia*, poco grazioso ma, in base alle loro attuali condizioni, decisamente accogliente. Legati i cavalli al riparo, sotto il portico, entrarono nello stanzino in legno – poco più grande dell’attuale camera da letto di lei – e subito il Conte si affrettò ad afferrare la legna da un angolo e accendere il camino. Tra un viaggio e l’altro per prendere i ceppi, Elena, che si stringeva convulsamente le braccia intorno al corpo, cercando di reprimere i brividi di freddo, sentì che le posava qualcosa sulle spalle. Una coperta, morbida e calda. Se la avvolse meglio intorno al corpo, lasciando scoperta solo la testa e arrossendo per l’inaspettata premura di lui.

Quando il fuoco prese a scoppiettare e riscaldare l’ambiente, Elena, inginocchiata proprio lì davanti, sciolse i capelli umidi perché si asciugassero anche loro. Il Conte era al suo fianco, ma si costringeva a fingere di essere sola.

«Avete ancora freddo?»

Ancora quella premura, ancora quel tono roco cui non era in grado di resistere. «Non molto.»

«Bene. Però vi scaldereste prima se vi toglieste i vestiti.»

E con poche parole, ancora una volta, Damon Salvatore era riuscito a rovinare l’atmosfera. Elena era ormai estremamente convinta che quell’uomo non fosse capace di portare avanti un’intera conversazione seria senza inserirvi battute sarcastiche o frasi a doppio senso. Sbuffò, stizzita e fece per alzarsi. Al diavolo la pioggia, non sarebbe rimasta in quel posto un minuto di più.

«No, per favore. Per una volta ero serio, non stavo scherzando. Davvero.»

Elena lo fissò, scettica, ma si riaccomodò accanto al fuoco.

«È una delle prime norme di sopravvivenza che insegnano nell’esercito», chiarì. Parlava fissando le fiamme, assorto. «Sapete, una volta ho perso un amico per via di un assideramento. Eravamo a nord, al fronte. Difendevamo il confine. Un attacco nemico ci costrinse a correre ai ripari. Uno degli inverni più freddi che ricordi. Nonostante ciò, mentre attraversavamo un lago, il ghiaccio ha ceduto e alcuni compagni sono finiti in acqua. Li abbiamo soccorsi tutti, ma qualcuno… Non ce l’ha fatta. E c’era questo mio amico, Fabrizio. Quando l’ho ripescato sembrava stesse bene. Ma tenne addosso gli abiti intrisi di acqua fredda troppo a lungo e morì in accampamento, a poche ore di distanza. Mi sento tutt’ora un idiota per non aver capito, allora, la gravità della situazione.»

Parlava con un tono che Elena non gli aveva mai sentito usare prima. Con tormento. Lo stomaco le si strinse immediatamente in una morsa, e così il cuore, mentre fissava il suo profilo perfetto, i lineamenti delicati e raffinati in certi punti, marcati da uomo in altri, il rosa pallido che gli colorava le guance in reazione al calore. Le sue dita fremettero. Volevano sfiorare quel viso. Si costrinse a non muoverle di un solo centimetro.

Lui si voltò a guardarla e, mal interpretando la sua espressione turbata, sorrise, tra l’amaro e il desolato. «Vi ho spaventata. Di nuovo. Vi chiedo scusa. Non preoccupatevi, quattro gocce come quelle la fuori non vi uccideranno di certo.»

Poi, il tono roco fece il suo ritorno. «Se avessi pensato il contrario vi avrei spogliata io stesso.»

Questa volta, le sue parole non la infastidirono e non si spostò di un centimetro. Non arrossì neanche. Le sembrava di cominciare, pian piano, a far luce su quell’uomo che sedeva al suo fianco, di capirlo un pizzico di più. Forse, la sua prima teoria, quella sulla facciata, sulla maschera dietro la quale celava il suo vero essere, non era del tutto infondata. Quell’ironia pungente, quelle battute che tanto la irritavano, cominciava a notare che venivano sempre fuori quando si accorgeva di aver rivelato troppo della sua anima, come una sorta di arma di difesa.

Più che una maschera, la sua era una corazza.

Il Conte Damon indossava un’armatura ventiquattro ore al giorno, per far sì che nessuno potesse toccarlo, che nessuno potesse ferirlo. Il perché, rimaneva un mistero che Elena era determinata a risolvere.

 

 

 

*Per creare il capanno di caccia di Damon e Elena, mi sono basata sul 'capanno fuori dal mondo' della serie Elisa di Rivombrosa

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Angolo di un'autrice / figliol prodiga che fa il suo atteso ritorno

 

Prima che possiate inveirmi contro, chi di voi ha seguito Doppelganger sa che mi sono dedicata a terminare quella fan fiction, nell'ultimo periodo, ragion per cui non ho aggiornato Diario di una serva.

Ora potete inveire. xD

Niente di particolare da dire, solo che ringrazio tutte per le recensioni sempre positive. Il vostro entusiasmo è il fattore che più mi sprona a proseguire con questa storia, come con qualunque altra.

Quasi dimenticavo, chi di voi ha guardato la 4x07? Cosa ne avete pensato? Personalmente, in un primo, lunghissimo - il più lungo della mia vita, credo - momento sono stata infuriata come una bestia e in procinto di fare i biglietti e andare a prendere la Plec a calci nel sedere. Ma i vari commenti delle altre delena, su twitter e facebook, mi fanno sempre ritornare il buon umore, e sono nuovamente convinta che, anche se questa storia dell'asservimento è confermata, non è la ragione per cui i nostri adorati hanno fatto i fuochi d'artificio. (Anche perché, a quel punto, credo di essermi persa la scena in cui Damon ordina a Elena di spalmarlo per i muri della pensione). Dicono che la Plec stessa ha detto che sarà proprio Elena a lottare per convincere tutti - Damon compreso - che il suo amore per il vampiro dagli occhi di ghiaccio è reale. "Damon vorrebbe che l'amore di Elena fosse reale. Lei sa che lo è."

Però sono curiosa di sentire la vostra. E siate spudoratamente sincere come sempre, anche nel recensire.

Un bacio,

Lisa

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