L'oscurità nel pozzo

di Nyss
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo capitolo ***
Capitolo 2: *** Secondo capitolo ***
Capitolo 3: *** Terzo capitolo ***



Capitolo 1
*** Primo capitolo ***


Primo capitolo

§

Era una di quelle notti nelle quali il vento ulula incessantemente fischiando tra le fronde e facendo sussultare le persiane e se non avessi avuto preoccupazioni più pressanti, sarei stata intimorita come la maggior parte della gente. Invece me ne stavo li, rannicchiata in una posizione scomoda, nel letto, con nient’altro di meglio da fare che rimuginare. E credetemi, non erano bei pensieri.

Quell’assurda storia andava avanti da veramente troppo tempo. Era cominciato come una cosa da nulla, la sparizione di un paio di ragazzi.
La polizia secolare l’aveva catalogato come un allontanamento volontario, due fidanzatini in cerca di una luna di miele prematura. La ragazza era la mia migliore amica.
"Perchè sono scappati?" mi ero chieta all'inzio, piangendo sul cuscino. Mi sentivo soprattutto tradita, pensavo che fossimo cristalline come l'acqua tra di noi ed invece mi nascondeva qualcosa. Poi ci avevo pensato bene: andiamo, viviamo nove mei l'anno assieme, avrei saputo di una sua tresca. E poi l'istinto mi scoraggiava a fidarmi delle autorità.
Avevo riferito a mio padre ciò che mi frullava per la mente, e lui mi aveva consigliato di tenere gli occhi aperti –deformazione professionale, presumo. Erano appena cominciate le vacanze natalizie. Come sempre ero rimasta a scuola.
Alla mia delusione per avere un padre troppo impegnato da occuparsi della sua unica figlia, e la tristezza per la scomparsa di Judith, mio unico appiglio, era stata messa presto da parte da una serie di nuove scomparse, sempre più ravvicinate nel tempo. Forse proprio in quel momento qualcuno stava per essere rapito.
Il tutto era complicato da un’anomala bufera di neve, che, stranamente, non si scioglieva. Avevo concluso che si trattasse di un fenomeno indotto dalla magia. Qualcuno voleva isolare l’intera scuola. Né le autorità né i cacciatori erano riusciti ad arrivare e le comunicazioni erano disturbate e rare.

Ed è stato così che mi sono trovata sola, nemmeno maggiorenne, nemmeno cacciatrice.
Qualcosa tossì, risvegliandomi dal torpore. Strinsi l’elsa del pugnale. Poi tossì di nuovo e gracchiò. La radio! Che stupida.
Era la prima radiocomunicazione da giorni!
-Passerotto!- stupido nome in codice –Qui squadra Charlie. Ci senti?-
La squadra Charlie?! La situazione doveva essere grave, allora.
-Passerotto, ci senti?
-Oh si… si squadra Charlie! Forte e chiaro-
-Novità?-
-Abbiamo un sospettato. Maschio, bianco, 1 e 90. Si è presentato come nipote della direttrice proprio quando i ragazzi hanno cominciato a sparire. Facendo due più due…-
-Bene. Pianifica un sopralluogo, al più presto, magari sta notte-
-Un momento, un momento! Cosa vuol dire pianifica? E voi?-
-Bloccati dalla neve... Pensala così: ti siamo vicine col cuore e… buona fortuna-
Zzzz…
-Squadra Charlie! Rispondete cazzo!... stronzi!- esclamai quando la radio divenne del tutto silenzia.
Mi abbandonai sul letto tenendomi la testa tra le mani. “Cosa fare?” era una domanda che non dovevo nemmeno pormi; gli ordini sono ordini. Dovevo solo alzarmi. Passai qualche minuto in stato catatonico, analizzando la situazione, pensando che non ce l’avrei mai fatta se fossi stata li per sempre. Poi mi alzai: per Judith.
Ritrovarmi nei gesti familiari della preparazione al combattimento mi rilassò. Era tranquillizzante: non dovevo pensare. Mi infilai i jeans più comodi che avevo, canottiera e felpa, mi legai i capelli in una treccia. Presi due pugnali d’argento benedetto e una croce da mettere al collo. Feci un grosso respiro ed uscii.
Appena misi fuori un piede dalla mia stanza, avvertii il calo drastico della temperatura. Mi avviai con il cuore in gola. Il vento si era finalmente acquietato e la luna aveva fatto capolino dalle nuvole, allagando il pavimento con i suoi raggi argentei.
Avrei tanto voluto accoccolarmi su un davanzale per osservare il mondo coperto di bianco, oppure approfittarne per leggere un libro sotto le coperte. Invece andavo in esplorazione, con il serio rischio di lasciarci le penne. Perché? Perché ero agitata, e non andava bene, perché non sapevo cosa avrei fatto una volta li, e nemmeno questo andava bene, e per una serie di mille altre cose. Ma non dovevo pensarci, solo agire e basta.
Dopo dieci minuti di cammino arrivai finalmente ai dormitori maschili, posti il più lontani possibile da quelli femminili, come se l’architetto avesse previsto, 200 anni prima della mia nascita, la mia sfortunata missione e avesse deciso di scoraggiarmi in tutti i modi possibili.
Il freddo ormai mi era penetrato nelle ossa e non sentivo più le dita dei piedi, ma non mi potevo permettere una giacca, che mi avrebbe impedito i movimenti. Focalizzai la mia attenzione su una porta in particolare.
Allungai una mano verso il pomello. Ancora poco e le mie dita si sarebbero strette attorno al pomolo d’ottone.
Un grido soffocato risvegliò i miei sensi, un grido di battaglia.
Mi scostai di lato appena in tempo per evitare un candelabro in testa. Chi mi aveva aggredito finì per sbattere contro al muro, sbilanciando dallo slancio del colpo fallito. Il suo disorientamento mi lasciò un istante per estrarre il pugnale, ma lui si riprese dopo pochissimo. Eccolo di nuovo all’attacco. Strinse la presa sul candelabro e cominciò ad agitarlo a destra e a sinistra, come si una fare con le bestie feroci.
Approfittando di un momento di dubbio del mio avversario, tentai un affondo. Ero convinta che avrei colpito nel segno, ma dove un attimo prima c’era un’ombra solida ora c’era solo aria e buio. Non feci in tempo ad essere stupita: mi era salito sulla schiena, agganciando le caviglie al mio ventre.
Cominciai a dimenarmi, sgroppando e lanciandomi di schiera contro i muri di pietra. La misteriosa figura tentava ancora di colpirmi. Ci riuscì e persi per qualche secondo conoscenza.

Mi risvegliai dal torpore pochi istanti dopo. Nel mio campo visivo solo una mano pallida, tesa ad aiutarmi. La scostai bruscamente, stizzita e ferita all’orgoglio.
Pessima mossa: il mondo cominciò a vorticarmi intorno come impazzito. Afferrai prontamente la mano per avere un punto fermo nel roteante universo. Qualcuno, quaranta centimetri sopra di me, stava ridacchiando.
Alzai il viso, pronta a mandare al diavolo il mio … salvatore. Mi sarei aspettata tutti, anche un goblin truccato da ballerina, ma non lui.
-Oh cielo, fa che sia una versione post-trauma cerebrale- sussurrai a me stessa.
Lo fissai incredula
-So di essere molto bello, ma la cosa si fa imbarazzante- mi mormorò.
-M-ma tu… tu non… che diavolo ci fai qui?!- dovetti mormorare per non svegliare gli altri, ma avrei preferito un altro tono.
-Che ne dici di discuterne da un’altra parte?- chiese guardandosi attorno circospetto. Effettivamente non era l’ideale litigare a suon di sussurri in mezzo al corridoio con un cadavere steso ai nostri piedi. Si, era morto, qualunque cosa fosse, umano o non umano.
Senza bisogno di parole afferrammo il corpo, dalle ascelle lui, dalle caviglie io e, silenziosi come fantasmi, lo trasportammo in camera.
-Dove lo mettiamo?- chiesi, digrignando i denti per lo sforzo.
-In vasca- come se l’occultamento di cadavere per lui fosse all’ordine del giorni. Quando avemmo sistemato il corpo si mise a frugare dentro un armadietto, estraendo una valigetta bianca con una grande croce rossa sul davanti. Io lo guardavo non capendo cosa volesse fare.
-Che fai?- domandai infine.
-Hai il viso insanguinato-
“Davvero?” andai allo specchio ad esaminarmi. Si, la parte sinistra della faccia era imbrattata di rosso, che scendeva in piccoli fiumiciattoli fino alle guance, come lacrime.
-Se è profonda va ricucita- Ah, ah, ah! Stava scherzando?
-Spero per te che non lo sia, o passerai minuti d’inferno- ribattei.
Alla fine non c’era stato bisogno dei punti. Me la cavai con una benda.
-Allora, che ci facevi li fuori? Il cavaliere mascherato?- chiesi, mentre finiva la medicazione. Avrebbe potuto farsi veramente male.
-Non credo di poterlo rivelare ad una civile- fece con voce piatta.
“Civile? Io?” –Civile? Io?-
Mi guardò accigliato –Identificati-
-Cazzo! Identificati tu!- qualcosa nel mio tono lo indusse a fare quello che gli dicevo. Non era frutto dell’addestramento, solo il tono di una donna estremamente incazzata ed estremamente stanca.
-Dipartimento per la regolamentazione delle creature magiche e della magia- che incubo pronunciarlo –più semplicemente DIRCreMM-
Colpita e affondata. Restai senza parole. Quelle persone erano delle leggende tra i cacciatori. Certo, serpeggiava un odio profondo tra i semplici Hunters e gli agenti DIRCreMM. Invidia suppongo –ma sono dettagli.
Anche io tirai fuori la mia tesserina, non senza imbarazzo, quella scattata quando ancora avevo l’apparecchio e gli occhiali spessi.
Lui evitò di commentare –Lo perquisiamo?- chiese infine.
Andò alla vasca e si chinò sopra il cadavere ancora misterioso. Io guardavo da sopra la spalla.
Il cadavere indossava una maschera bianca. Lui la tolse con un gesto estremamente teatrale.
-La segretaria! Lo sapevo che un giorno o l’altro avrebbe cercato di uccidermi!-
-Probabilmente apparteneva ad una setta o qualcosa del genere- disse, indicando la tunica nera che indossava. Poi si mise a frugare tra le tasche del vestito.
-Ma che fai?- va bene che era un cadavere, ma, insomma, un po’ di rispetto.
-Controllo nelle tasche- ok, meglio stare zitta.
Subito dopo la sua espressione concentrata si sciolse in un sorriso trionfante. Con aria tronfia estrasse un pezzo di carta piegato e ripiegato.
Ci chinammo entrambi su di esso per esaminarlo.

NdA - Note d'Autrice:
Buongioro (o buonasera) a tutti voi che siete arrivati fin qui!
Che dire di questa fic? L'idea è stata partorita durante una noiosissima lezione a scuola, nata dalla voglia di scrivere una mia storia sui cacciatori. E' molto breve, tre capitoli che ho intenzione di postare settimanalmente.
Spero che la sotia vi sia piaciuta e ricordate, un autore recensito è un autore felice!

                                                                                                                                                      Elenoire Tempesta 

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Capitolo 2
*** Secondo capitolo ***


Secondo capitolo

§
 

Quello di cui non mi capacitavo era come un piccolo appunto scritto su carta spiegazzata e lercia potesse cambiare dalle fondamenta un piano ben radicato nella mia mente.
Ma se prima brancolavo nel buio, con solo una minuscola possibilità di portare a termine la missione, ora avevo almeno un indizio. Non dovevo più cercare di attirare l’attenzione su di me, potevo essere io a trovare loro.
Ellen invece in quella situazione c’era capitata suo malgrado. Non l’aveva cercata. Non importava il suo grado d’addestramento o la sua determinazione, era inesperta e allo sbaraglio, forse la prima volta che affrontava un pericolo da sola e non era preparata.
Quando le avevo proposto di stabilire una base e di organizzarci per difenderci a vicenda mi era sembrata estremamente sollevata. Quando poi mi ero offerto di fare il primo turno di guardia era stata più che contenta, riuscendo a trattenere a stento un largo sorriso. Era crollata sul letto come una bimba dopo un pomeriggio al parco giochi. Sembrava non dormisse da giorni.
L’idea che mi ero fatta di lei, di una ragazzina capitata li per caso era stata smentita il giorno dopo, quando avevamo seppellito il cadavere della donna. Non si era fatta problemi ad infilarla in un sacco e scavarle una buca tra il ghiaccio –seppellirla nella terra sarebbe stato impossibile. D’altronde, perché avrebbe dovuto mostrare pietà quando quella donna l’aveva assalita?
Erano passati giorni dalla sera in cui le avevo medicato la ferita, tutti all’insegna dello studio e della ricerca per decifrare quello stupido codice. La sera, prima di andare a dormire, facevamo qualche esercizio per tenerci in allenamento e scaricare la tensione dei muscoli costretti all’immobilità per interminabili ore. Non ci crederete, ma i codici inventati sono migliaia, semplici, complessi, strambi… veramente difficile vagliarli tutti.
Avevamo sprecato un sacco di tempo per poi scoprire il trucco. Un trucco semplice e vecchio come il mondo, per l’appunto, un trucco. Un errore fatale è quello di sottovalutare i nemici, ma si corrono pericoli anche nel sopravvalutarli.
Non avevamo perso tempo dopo aver scoperto l’ubicazione dell’entrata. Di che cosa non ci era dato sapere. C’eravamo trovati davanti ad una grande bocca buia. Da una parte fuoco, candele e lampade, dall’altra oscurità umidiccia e pericolo mortale. Ma noi siamo cacciatori e come tali dobbiamo compiere scelte nette. Come ora, o bianco o nero, non si può sostare sul limbo ancora per molto. Il grigio non è fatto per noi.
Non ero certo di potermi fidare ciecamente di Ellen. Era brava, sveglia e agile, ma era pur sempre una novellina.  Non le avrei affidato la mia vita se ci fossimo trovati in condizioni normali. Ma eravamo io e lei, senza alcuna possibilità di scelta.
Legammo l’estremità di un filo alla gamba di un tavolo. L’altra l’avremmo tenuta con noi per non perderci. Credo che qualcuno una volta abbia detto che se non dai troppo peso alle cose la paura non ti assale. Probabilmente quello era uno topo di biblioteca mai uscito dal suo studio. Sorpassai l’entrata, risoluto nel portare a termine il mio compito il prima possibile. Sentii i passi di Ellen che mi seguiva.
Per qualche tempo dovemmo avanzare affidandoci solo al nostro tatto. Il buio era fitto, più nero dell’inchiostro, perché non c’era nemmeno una torcia a rischiararlo. Non ci azzardavamo ad usare un accendino per paura d’essere scoperti.
Poi cominciammo a scorgere delle lampade ad olio qua e la, messe come a casaccio, alcune troppo vicine, altre troppo lontane. Meglio di niente comunque.
Il corridoio che stavamo seguendo proseguiva dritto per decine di metri. Le pareti di pietra grezza erano fredde come ghiaccioli e non si potevano appoggiare le mani per più di una manciata di secondi. Il nostro alito si condensava appena fuori dalle nostre labbra.
Andammo avanti così per quelle che sembrarono ore, anche se probabilmente non furono che dieci minuti. Scendemmo molti scalini sdrucciolevoli per poi imboccare altri corridoi infiniti come i precedenti. Se qualcuno fosse passato di li avremmo dovuto ucciderlo prima che lanciasse l’allarme. Ma sembrava che non ci fosse nessuno. Non so se fosse una fortuna.
Stavo cominciando a preoccuparmi per il filo in esaurimento quando udii una voce di donna. Entrambi ci pietrificammo sul posto, ghiacciati dalla vicinanza al pericolo. L’adrenalina cominciò a scorrerci nelle vene.
 Ci accostammo alla minuscola porta dalla quale sembrava provenire il suono.
Sbirciammo all’interno, lei con il viso quasi al livello del pavimento, io poco sopra la sua testa.
La stanza alla quale eravamo affacciati altro non era che una modesta cripta scavata nella pietra viva. Lo spazio centrale era occupato da panche di legno grezzo, sulle quali sedevano un sacco di persone, una cinquantina, forse più. Accalcati in uno spazio così stretto sembravano il doppio. All’altro capo della sala una rientranza occupava tutta la parete. Questa era rifinita meglio, levigata con cura e incisa con recisione. Il pavimento in quel punto era rialzato, come l’altare di una normale chiesa..
La donna che parlava si trovava li, dietro ad un leggio che, per quanto imponente, non poteva nascondere l’autorità della signora, come se fosse fisica. Lei era l’unica che mostrava il viso. Non l’avevo mai vista aggirarsi per la scuola: il suo caschetto corvino e le labbra rosso fuoco erano impossibili da non notare.
A distinguerla da quelli che, sicuramente, erano i suoi sottoposti, c’era anche un complesso disegno scarlatto cucito sul petto della tunica.
La donna parlava ed era impossibile non starla ad ascoltare.
-L’Adepto numero 7-5-0 ci ha portato un regalo. Facciamo un applauso d’incoraggiamento. Grazie Adepto 7-5-0, hai servito bene il tuo Signore e Padrone- così dicendo si avvicinò al ragazzo –o ragazza?- e gli appuntò una spilletta rossa sul bavero. La folla esplose in un fragoroso applauso. Il ragazzo che l’Adepto teneva legato ad una corda sussultò, ma rimase fermo al suo posto, rannicchiato contro le gambe del suo padrone. Probabilmente quello era il regalo, Justin Finnigan, terzo anno. Sembrava impaurito e sperduto, assoggettato completamente alla volontà di quell’Adepto 7-5-0, nonostante fosse molto più grosso di lui.
-Nonostante ciò- fece la donna, sedando l’entusiasmo della folla -siamo in ritardo con il programma… Non abbiamo ancora raggiunto il numero ottimale di offerte e il rito è tra cinque giorni. Non vorremmo mai deludere il nostro Maestro… Diamoci da fare per renderlo orgoglioso dei suoi Figli- fece una pausa ad effetto, dove la sua dolce espressione zuccherosa trasmutò, diventando improvvisamente sibillina e, puntando gli occhi su particolari soggetti, sibilò: -Se questo non dovesse essere sufficiente, ecco un incentivo: la punizione sarà esemplare- non aveva detto niente di particolarmente minaccioso, ma la calca sembrò arretrare alla sue parole.
-E ora, preghiamo!- esclamò, di nuovo di zucchero filato.
 
A quel punto, fiondarci fuori dalla tana di quei pazzi ci era sembrato abbastanza intelligente. Avevamo corso e corso, fino ad essere vomitati fuori dall’imboccatura del covo. Cademmo a terra entrambi, stremati dallo sforzo di correre per tutto quel tempo.
Tra una settimana una dozzina di persone sarebbero state assassinate per qualche strano rito. L’unica notizia positiva era che forse, e solo forse, avremmo avuto una minuscola possibilità di riuscire a liberare i prigionieri.
Ero ancora carponi sul pavimento  riprendere fiato quando vidi con la coda dell’occhio un repentino movimento. Ellen si era alzata di scatto e stava uscendo dalla biblioteca correndo come non mai.
La seguii standole alle calcagna fino a che non entrò in camera.
Si fiondò sulle ante dell’armadio non ascoltando ciò che le dicevo. Sembrava una folle con quegli occhi sbarrati dall’euforia. Aprì l’armadio e tirò fuori un bozzolo scuro. Il vestito della donna. Quello che avevamo conservato prima di seppellirla.
Lo girò e rigirò tra le mani guardando in tutte le pieghe e tutti gli anfratti, cercando qualcosa forse.
Poi si girò con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.
-Ho un piano!- esclamò.

Nd
a - Note d'autrice:
Bhè, prima di tutto voglio scusarmi per il ritardo -devo imparare ad essere più vaga sugli aggiornamenti -.- non riesco mai a rispettarli.
In questo penultimo capitolo si scopre la minaccia che giganteggia sulla scuola. E che cosa c'è di più minaccioso di una setta di pazzi visionari?! Ma Ellen ha un piano...
Ringrazio coloro che hanno letto il capitolo precedente e quelli che hanno letto anche questo. Un bacio ragazzi
                                                                                                                                                                                                                                                           
                                                                                                                                                                                                                                                          Elenoire Tempesta

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Capitolo 3
*** Terzo capitolo ***


Terzo Capitolo

§
 


Eravamo di nuovo nei tunnel sotterranei.
Non dovevamo più fare attenzione a nasconderci dagli altri Discepoli. Ci eravamo uniformati. Mi ero uniformata.
Indossavo una lunga tunica stretta in vita da una cintura, il capo nascosto sotto una severa maschera bianca che nascondeva i lineamenti e un paio di scarpe non propriamente adatte alla situazione. Quando la segretaria le aveva indossate non pensava di certo ad un’eventuale battaglia. Comunque era stata una vera fortuna aver conservato gli abiti della donna.
Bèh, li stavo indossando proprio ora.
Thomas camminava davanti a me con i pugni stretti in un fasullo nodo di corda. io ne tenevo un capo. Sembravamo un bastardino e il suo padrone. L’occhio nero e il labbro gonfio non erano un inganno, però, glieli avevo fatti io.
Ci stavamo dirigendo alla cripta sperando di incontrare qualcuno e di poterlo seguire. Mai mi sarei immaginata quel fermento. Un sommesso brusio accompagnato dal rumore del mobilio trasportato di qua e di la si sentiva anche da lontano. Più ci avvicinavamo, più ci rendevamo conto della situazione. Quello era il Gran Giorno.
Entrammo nella cripta, schivando un paio di uomini che portavano un baule enorme. La donna che avevo visto officiare la funzione era ritta sul suo piedistallo che osservava attenta il via vai di persone in entrata e in uscita. Un suo gesto della mano bastava da solo a movimentare qualcuno perché correggesse un’imperfezione o una sbavatura nel programma. Tutti sapevano cosa fare, quando farlo e come farlo. E le portavano un gran rispetto: ogni volta che le passavano davanti si fermavano per un piccolo inchino, non importava quanto fosse pesante il carico.
Mi diressi direttamente da lei, spintonando il mio ostaggio per rendere più credibile la messinscena. Gli diedi una botta sulle ginocchia per farlo inginocchiare di fronte alla donna. Anche io flessi leggermente le ginocchia. Sperai di aver chinato il capo abbastanza.
-Oh, oh!- gongolò contenta appena posò gli occhi su di me–Sono contenta che tu abbia portato compagnia! Più siamo meglio è!- disse, osservandomi con sguardo d’intesa. Ricordavo piuttosto bene la non tanto velata minaccia a chi non portava un prigioniero. -Su, su. Porta il tuo amico in insieme agi altri. E ricorda, lode al nostro Signore e Padrone!- trillò infine. Sembrava su di giri, come quando si apre un regalo. Non so se fosse realmente felice, ma di certo lo sembrava. Sapevo perché tutti facevano quello che lei chiedeva. Aveva quell’aura, quel potere che caratterizza tutti i leader.
Uscii di nuovo dalla cripta. Chiesi a qualcuno la strada. Non mi fecero domande in merito, troppo occupati per badare a me.
Seguii le indicazioni. Il cuore palpitava a mille. Ansia, preoccupazione, gioia, apprensione, attenzione, tutto in una testa sola. Fortuna che c’era la maschera a proteggermi, o non sarei riuscita a non far trapelare le emozioni, che si sarebbero disegnate sul viso, smascherandoci. Thomas invece sembrava padrone della situazione, come se lo facesse tutti i giorni. Teneva in capo chino, ogni tanto si lamentava, ma nulla di più.
Finalmente arrivammo a destinazione. La stanza dei prigionieri si celava dietro una porticina minuscola –io per entrarci avrei dovuto chinarmi, e non ero certamente un colosso. Mi guardai intorno furtivamente, cercando di scorgere possibili minacce lungo il corridoio.
Via libera, feci un cenno al mio compagno, che, liberati i polsi, aprì la porta. Ci intrufolammo dentro lesti. Mi levai la maschera.
Era uno stanzino piccolo quello, buio e freddo, riscaldato solo dalla fiamma di quattro o cinque candele affogate nella loro stessa cera. I prigionieri c’erano, ma che visione raccapricciante! Stipati in minuscole gabbie basse e strette, pallidi, emaciati, sporchi di sangue. Corsi con lo sguardo su quei volti dagli occhi enormi, cercando di trovare chi più mi pressava.
Infine la vidi: era rannicchiata nell’angolo della sua gabbia. Mi guardava anche lei con gli occhioni azzurri fuori dalle orbite. Intuivo sorpresa in quel volto quasi irriconoscibile. Credeva che fossi una di loro. L’idea mi faceva rabbrividire, ma come darle torto? Lo sembravo.
Thomas non perse tempo, agguantando le chiavi attaccate ad un chiodo fissato in un posto che io, da sola, non sarei mai stata capace di raggiungere.
I prigionieri li tirammo fuori a forza. Erano talmente pietrificati e impauriti che nemmeno la prospettiva della libertà li animava.
Agguantai Judith per un braccio e la tirai fuori dalla gabbia. Le mollai un sonoro ceffone e poi l’attirai a me per abbracciarla. Dio, quanto mi era mancata! Lei rimase spiazzata qualche istante, ma poi, cautamente rispose all’abbraccio e seppi che, almeno in parte, era tornata la mia cara e vecchia amica Judith.
Purtroppo però non c’era tempo per le smancerie.
-Non c’è nessuno. Andiamo,andiamo. Muoviamoci- Thomas ci faceva segno con la mano. Mi misi in capo a quel cordone umano. Thomas invece stette in coda. Serviva qualcuno che indicasse la strada e qualcun altro che spingesse quei corpi senza un briciolo di volontà propria. Solo Judith sembrava leggermente presente a se stessa, ma non potevamo sprecare tempo per schiaffeggiare tutti gli ostaggi.
Avevamo percorso metà del percorso ed io già pensavo che ce l’avremmo fatta. Insomma, non ci avevano ancora scoperti! Ma poi...
-Eccoli! Sono qui!- una voce non troppo in lontananza fece suonare tutti i campanelli d’allarme. Ci avevano trovati! Ancora poco e ci sarebbero stati troppo vicini.
Senza pensarci agguantai Judith per le spalle e la fissai negli occhi: -Percorri il corridoio, non fare deviazioni, non fermarti. Sempre dritto. Nella camera di Thomas c’è una ricetrasmittente. Usala. Se ti rispondono descrivi la situazione come della massima urgenza. Va’, portali in salvo, ti copriamo noi- poche parole, poche speranze di rivederci. Le diedi un altro bacio sulla guancia. Forse non capiva come avrei potuto fermare quei pazzi. D’altronde per lei non ero che una studentessa. -Fidati di me!- esclamai e le diedi una spinta d’incoraggiamento verso il resto del gruppo.
Li osservai correre via, mentre a mia migliore amica li spingeva come un cane da pastore.
Levai quell’abito ingombrante che avevo addosso, rivelando una tenuta ben più comoda. Ci preparammo. Il piano? Nessuno, solo temporeggiare per dare tempo agli altri di scappare.
Ci furono addosso in un lampo. Erano in due. Gestibili, ma presto sarebbero arrivati anche gli altri. Non sarebbero stati così pochi.
Li stendemmo con qualche pugno ben assestato ma non facemmo in tempo a girarci per guadagnare qualche metro che già altri cinque ci si facevano incontro. Questi si che facevano spavento. Il viso era coperto, ma mi bastava guardare i muscoli guizzanti delle braccia per rabbrividire. Forse pesavano il triplo di me e di certo erano alti il doppio.
Erano ancora lontani quando vidi un baluginio metallico nelle mani di uno di loro. Mi lanciai contro Thomas. Sentii lo spostamento d’aria provocato dal pugnale proprio sopra la mia testa. Mi cadde qualche ciocca.
I nerboruti guerrieri ci si fecero dinnanzi correndo. Non aspettarono una nostra mossa, attaccarono e basta, ci divisero con la loro potenza. Uno cercò di stendermi con un pugno. Parai. L’altro cercò di farmi cadere con uno sgambetto. Saltai, evitandolo. Cadde a terra ed io gli fui sopra infilandogli un dito in un occhio, tanto per essere sicura che non si riprendesse tanto presto. Vidi appena in tempo la mano armata del primo uomo dirigersi verso il mio stomaco. Mi scostai appena in tempo per evitare danni peggiori di una ferita all’avambraccio. Il sangue cominciò a colare disegnando strisce sottili. Ma con quella mossa scoprì il torace, fui veloce e gli affondai la lama tra le costole. L’uomo crollò a terra, vomitando plasma scuro.
Non feci in tempo ad esultare che mi ritrovai a terra. Qualcosa mi aveva colpito alle orecchie. Rimasi stordita, come una mosca agitata tra le mani. Caddi anch’io.
Picchiai forte la testa contro il pavimento e restai li, intontita. Vidi Thomas, lo vidi e basta, mentre si girava verso di me, aprendo la bocca come se volesse urlarmi qualcosa.
Perché non parla?, fu il mio ultimo pensiero. Poi qualcosa mi si abbatté sulla nuca e svenni.
 
Mi svegliai con un calcio nello stomaco. Tossii e mi contorsi.
-Ben svegliata, balla addormentata!-
Nonna? Sei tu? Ci misi qualche momento a ricordare tutto… no, non era la mia defunta nonna sfortunatamente.
Aprii cautamente un occhio.
Fa che sia un sogno, fa che sia un sogno, non sapevo bene a chi mi stessi rivolgendo, ma se poteva ascoltare le mie preghiere, tanto meglio.
L’orecchio ronzava fastidiosamente. Sapevo cosa significava, me l’avevano descritto.
La penombra invadeva l’ambiente. Le poche fonti di luce erano delle torce che creavano mostruosi giochi di luce sulle maschere bianche degli adepti. Non riconoscevo la sala, anzi, non vedevo proprio nulla oltre il cerchio di persone strette attorno a noi. Il buio sembrava inghiottire tutto, anche le loro inquietanti divise, facendoli sembrare facce bianche prive di corpo.
Io e Thomas eravamo con le spalle al muro, io rannicchiata a terra con le mani bloccate dietro la schiena e lui, con i polsi legati sopra la testa, costretti in un paio di manette d’acciaio fissate al muro. Era malmesso, veramente: il labbro spaccato e l’occhio nero che gli avevo procurato io sparivano in quella selva di lividi e ferite sanguinolente.
-Allora, chi abbiamo qui?-  chiese la donna che mi aveva accolta nella cripta, entrando all’interno del cerchio con aria solenne.
-Cacciatori, sorella Costance- riferì una voce piatta alla mia sinistra.
-Cacciatori!- esclamò lei. Si illuminò come una lampadina. Era contenta, ma perché? 
-Cosa ci fate qui?- la sua espressione era cambiata repentinamente, diventando sibillina.
-Siamo venuti ad annientarvi, lurida feccia del mondo- sputai fuori il mio ribrezzo. Non mi faceva più paura. La prospettiva di morire non mi spaventava più, forse per via dell’adrenalina, forse perché il trauma alla testa mi aveva rimbambita, forse perché sapevo che eravamo spacciati…
-Ah ah ah!- squittì Sorella Costance, coprendosi la bocca con le ditina minute –Anche se riusciste ad uccidere tutti i presenti non avreste raggiunto il vostro obbiettivo. Siamo molti di più, sparsi su tutto il globo. Migliaia, centinaia di migliaia!- la fissai con odio –E poi, malridotti come siete non riuscireste nemmeno ad scalfire il più minuto di noi- così dicendo premette la punta dello stivale contro il costato di Thomas. Silenzio. Premette di più, e questa volta un urlo echeggiò per la stanza. La Sorella rise deliziata.
-Migliaia di uomini per cosa? Per rapire una decina di ragazzini? Siete proprio for…- mi si spezzarono le parole in gola, frenate da un accesso di tosse violento. Sputai sangue.
Sorella Costance capì lo stesso le mie parole. Si chinò sull’orecchio sano: -Serviamo il nostro Signore e Padrone. Intendiamo risvegliarlo con il vostro sangue mortale ed insieme a lui sottomettere voi vermi che strisciate sulle vie dell’infedeltà e dell’eresia-
-Hai fatto scappare le nostre offerte, ma non esserne felice. Useremo il sangue ibrido di uno di voi per risvegliare il nostro Signore. Sarà lui ad occuparsi di riacciuffare i tuoi amici. Li torturerà e li farà soffrire e se ne ciberà per fortificarsi- fece un gran sorriso. Aveva instillato il seme del terrore nel mio cuore e ce ne rendevamo conto entrambe. Poi si rivolse alla folla che aveva seguito con interesse il nostro scambio di battute e, indicando un tizio grande e grosso disse: -Faremo scegliere il Dono a quest’uomo, che ha appena perso un fratello dello Spirito e del Sangue. Lo sai che si può morire quando ti viene spappolato un occhio?- mi chiese con innocenza.
Sono spacciata.              
Non ci fu bisogno che scegliesse. Due uomini mi tirarono in piedi.
-No! Prendete me, sono più grande e più forte! Prendete me!- sentì urlare da dietro le mie spalle.
Sorella Constance non si girò, disse solo: -Una promessa è una promessa e io ho promesso alla mia comunità di vendicare il nostro fratello caduto. Non ti preoccupare, verrà anche il tuo turno-
La piccola folla si aprì al mio passaggio. Mormoravano eccitati, e il loro brusio copriva lo sferragliare delle catene di Thomas che si stava agitando.
La sala si illuminò di colpo. Le torce si accesero come per magia, rivelando una stanza enorme, tutto fuorché normale. Al centro del pavimento era stato ricavato un grosso imbuto. Noi ci trovavamo proprio sul suo bordo. Sul lato obliquo erano state ricavate tredici canaline di marmo che si facevano strada dal margine superiore fino all’estremità, dove si gettavano in un pozzo scuro.
Sorella Costance mi pungolò la schiena con un dito per farmi camminare, prendemmo la via di una scalinata anch’essa intagliata nel marmo. Sentivo lo sguardo di decine di persone su di me. Potevo avvertire un fremito di aspettativa serpeggiare tra di loro.
-Fratelli e Sorelle- esordì Costance quando fui in ginocchio davanti al pozzo nero -siamo qui riuniti per celebrare un giorno di gioia. A lungo abbiamo aspettato questo momento abbiamo sofferto e patito, abbiamo dovuto tenere nascosta la nostra fede da questo mondo bigotto incapace di riconoscere la Verità. Le nostre Offerte sono fuggite, ma non tutto il male viene per nuocere. La linfa di questa giovane donna è pari e superiore a quella di tutti gli altri Tributi messi insieme. Donerà forza e vigore al nostro Signore e Padrone, cosicché possa tornare a calcare questa terra e venire a consolare i suoi Discepoli, privati per troppo tempo della sua presenza. Rallegratevi!-
La folla esplose in un fragoroso boato. Grida, strepiti, ruggiti mi bombardavano l’orecchio. Mi sentivo come uno di quei leoni utilizzati nell’antica Roma per dare spettacolo nelle arene.
Poi cominciarono i canti. Orribili, fatti di parole che sapevano d’antichità, di caverne umide, graffiti di gesso, di oscurità. Via via crescevano d’intensità ed anche il suono dei tamburi cresceva sempre più.
Sorella Costance mi afferrò il braccio coperto di sangue secco. Lo alzò, lo espose al pubblico per farlo ammirare meglio, in modo che ognuno potesse vedere bene l’offerta, ilsacrificio. Non vidi il pugnale affilato riaprirmi la ferita, non sentii la stilettata che provoca l’acciaio sulla carne viva. Fu così veloce, così imprevisto che non mi accorsi proprio di nulla.
Il canto continuò a salire, salire e salire ancora. Sembravano una sola anima in corpi diversi. Tutti avevano la stessa espressione, gli occhi vitrei persi in chissà quale estasi religiosa. Anche Costance non aveva più vita negli occhi. Guardava fisso davanti a sé, brandendo il coltello sporco di cremisi davanti a me.
Il sangue prese a sgorgare, scivolando in rivoletti cremisi lungo il mio braccio bianco.
-No, no, no, no…- mi sorpresi a mormorare. Mi sentivo leggera, come se il pulsare impazzito del mio cuore mi avesse dato alla testa.
Sorella Costance, con lentezza esasperante, pose il braccio sopra il pozzo scuro. La sua presa era salda, non un tremito.
Un’altra onda d’emozione scosse la folla, incrinando le voci. La mia aguzzina fissava il rivoletto più audace, quello che si era fatto già strada, con gli occhi di una pazza.
Il rumore del mio stesso sangue mi martellava nelle orecchie. Ero spossata e stanca. Forse sarebbe stato meglio morire. Non avrei dovuto vedere il mondo piegato da…
La porta esplose in mille schegge. Frotte si cacciatori in divisa invasero la sala. Le grida di giubilo si trasformarono immediatamente in urla di terrore.
La mano della Sorella fu scossa da un tremito nervoso. Non so cosa mi fece togliere il braccio dal pozzo.
Tra le fila dell’esercito riconobbi, con un ultimo guizzo di lucidità, volti familiari: mio padre, mio fratello, amici, conoscenti, tutti venuti li apposta per salvarmi
Salvarmi… ero salva! Salva!
 
 
Con questo pensiero Ellen si abbandonò alla stanchezza, scivolando in un sonno senza sogni e, finalmente, silenzioso.
Nessuno si accorse della goccia scarlatta e solitaria che era caduta nel pozzo. Nessuno si accorse del baluginio metallico di un paio d’occhi rossi.
 
 
NdA - Note d'Autrice
:
Salve a tutti! In questo ultimo capitolo il titolo della storia "L'Oscurità nel pozzo" e il suo doppio significato, sia quello materiale (la naturale oscurità di un pozzo profondo) che quello sovrannaturale (il mostro che lo abita), vengono svelati. Io mi sono divertita a scrivere questa breve fic, spero che abbiate passato ore piacevoli anche voi. Se così fosse non esitate a lsciare una recensione, anche piccola ; )!

                                                                                                                                                                Elenoire Tempesta



 

 

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