La promessa del folletto

di Beatrix Bonnie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Le prime difficoltà ***
Capitolo 3: *** La nuova scuola ***
Capitolo 4: *** Ansie da esame ***
Capitolo 5: *** Il salvataggio ***
Capitolo 6: *** Il rifiuto ***
Capitolo 7: *** Una nuova occasione ***
Capitolo 8: *** Il coraggio per una telefonata ***
Capitolo 9: *** Your song ***
Capitolo 10: *** Fuga d'amore ***
Capitolo 11: *** Le due richieste ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo



Dublino, 2014




Un improvviso urlo isterico proveniente dal piano di sopra mi riscosse dai miei pensieri. Appoggiai la fotografia che avevo in mano di nuovo sul comodino e mi affrettai a salire le scale a chiocciola.
Dalla stanza da cui era giunto il grido, uscì di getto Jenny, migliore amica di mia figlia nonché sua testimone di nozze. «Crisi prematrimoniale, io non so più che dirle!» sbottò la ragazza, con un sonoro sbuffo. Si fece da parte e accennò alla porta, incitandomi ad entrare.
Io presi un profondo sospiro, poi entrai nella stanza.
Mia figlia Maryon era appallottolata sul suo letto, con un braccio intorno alle ginocchia e l'altro occupato a reggere una fotografia ingiallita dagli anni. La fissava e emetteva ogni tanto alcuni sospiri, intervallati da scrosci di pianto disperato. Indossava solo la sottoveste bianca, mente l'abito per il matrimonio era su una gruccia appesa alla maniglia della finestra. Quando si accorse che ero entrato in camera sua, scoppiò a piangere e gettò la fotografia lontano.
«Ehi...» mormorai, sedendomi sul letto accanto a lei.
«Oh, papà!» esplose Maryon, gettandomi le braccia al collo. «Io non mi sposo più!»
«Tesoro, non dire sciocchezze» la rimproverai dolcemente, scostandole una ciocca di capelli dal volto. «Perché non vorresti più sposarti?»
Maryon deglutì e si asciugò le lacrime con il dorso della mano, spargendosi il trucco nero su buona parte della guancia. «Io... non lo so» mugugnò, tirando su con il naso. Dopodiché mi vomitò addosso tutte le sue ansie: «È che... insomma, sono spaventata. E se poi non va bene? E se, dopo che l'ho sposato, lui diventa un idiota come suo padre? Chi mi garantisce che non si rincretinirà completamente? E se invece smettesse di amarmi? O se poi non dovessimo andare d'accordo? Insomma, vivere sotto lo stesso tetto non è semplice. Soprattutto con uno come lui! E poi perché dobbiamo andare a vivere in quella enorme casa vuota? Io sto bene qui con te, babbo!»
Ottimo, avevo a che fare con un immotivato crollo di razionalità prematrimoniale che non sapevo come risolvere. E la cerimonia era fra poco più di un'ora.
«Maryon, guardami negli occhi» le ordinai. Sebbene arrossati, erano ancora incredibilmente belli, verdi e intensi come quelli di suo nonno. «Lo so che sei spaventata, è normale» cercai di rassicurarla, ma a giudicare dal suo sguardo atterrito, le solite parole di circostanza non sarebbero servite: ci voleva qualcosa di più.
«Vuoi sapere come andò fra me e tua madre?» buttai lì di getto, senza pensarci troppo. Forse era la suggestione data da quella fotografia ingiallita appartenuta a sogni remoti, che Maryon aveva gettato lontano, o forse il suggerimento veniva dal fatto che anche io avevo appena smesso di ammirare una foto della stessa persona che era ritratta in quella di mia figlia.
Era un argomento di cui non parlavamo molto, in realtà, ma pensai che potesse essere un buon deterrente anti crisi immotivate.
Maryon mi scrutò sospettosa, cercando di indagare le mie vere intenzioni, ma poi la curiosità ebbe la meglio. «Ok, papà, ti ascolto» mi sussurrò, con un cenno del capo.
Allora io presi a narrare.


Un secondo prologo



Dublino, 1972




Pioveva, il giorno in cui la mamma venne a prendermi a scuola, dicendo che a mio padre era capitato un incidente sul lavoro. All'epoca, avevo sette anni.
Da quel momento, la mia vita cambiò radicalmente.
Ricordo a malapena il turbinio di parenti che sconvolse l'equilibrio del nostro piccolo appartamento di periferia. Erano tutti venuti a far visita alla mamma, la giovane vedova rimasta senza marito e senza soldi. Ricordo che la nonna, una donna forte con due enormi braccia da contadina e il fazzoletto sempre in testa, cercava di convincere la mamma a trasferirsi con loro nella casa di campagna, dove avrebbe potuto lavorare nei campi e trovare qualcosa per dar da mangiare ai suoi figli. Ma lei non voleva, perché sapeva benissimo che questo avrebbe condannato me e mio fratello David ad accontentarci di un misero diploma della primary school, per poi passare il resto della nostra vita a zappare la terra. Non che tutto ciò fosse disonorevole, ma lei voleva qualcosa di più per i suoi bambini.
Il giorno del funerale pioveva. Non che fosse una novità, visto che in Irlanda pioveva praticamente sempre, ma quel giorno si era scatenato un vero e proprio acquazzone. La pioggia investiva la città con una forza spaventosa e il vento era tanto potente da rendere perfettamente inutile l'ombrello.
Mamma aveva fatto indossare sia a me che a David il vestito buono della domenica, anche se le bermuda e le calzette bianche non erano molto indicate per quel tempo. Arrivammo in chiesa che ero ormai bagnato fradicio, con le ginocchia scoperte che tremavano per il freddo. Alcune vecchiette scambiarono i miei tremori per commozione e sospirarono afflitte anche loro.
In realtà, io non avevo ben capito che cosa significasse tutta quella storia. Papà non c'era più, mi dicevano che era andato in cielo, ma non sapevo come ci fosse arrivato, né quando sarebbe tornato. Inoltre, perché mi dicevano che era andato in cielo, quando io lo vedevo lì, a riposare tranquillo dentro uno strano letto?
«Nonna, quando si alza da lì?» domandai, indicando la bara. Mio papà era sempre stato un gran burlone e mi aspettavo che se ne venisse fuori con un gran sorriso e qualche dolcetto per me e David.
La realtà mi piombò addosso bruscamente, nelle vesti della mia burbera nonna. «D'athair tá marbh» mi sputò addosso, con ben poca grazia e sensibilità.
Tuo padre è morto. Marbh. Morto.
Morto significava... che non sarebbe più tornato. Era andato via, ci aveva abbandonati.
Improvvisamente le ginocchia ripresero a tremarmi, ma questa volta non c'entrava nulla il freddo. La chiesa mi sembrò immensa e cupa, con quelle enormi colonne che mi schiacciavano sul pavimento e quegli orridi mascheroni demoniaci che ornavano gli archi. Qualcuno piangeva sommessamente, ma quel pianto mi pareva un urlo disperato. Mio fratello David era seduto tra i banchi: era troppo piccolo per toccare terra, quindi dondolava i piedini avanti e indietro, in modo ipnotico e snervante. Il prete prese il turibolo e cominciò a dondolarlo avanti e indietro, spargendo fumo per tutta la chiesa; l'odore di incenso di bassa qualità mi aggredì le narici e mi fece lacrimare gli occhi.
Fu l'ultima goccia.
Scappai via in lacrime, ignorando mia madre che mi richiamava e la nonna che gridava. Corsi fuori e fui investito dalla pioggia battente, ma non me ne curai. Presi a vagare a caso per la città, scappando da qualcosa che nemmeno io sapevo cosa fosse.
Forse, volevo fuggire dal dolore. Speravo che, lontano da quella lugubre chiesa, il destino mi apparisse meno cupo. E forse allora papà sarebbe tornato.
Nemmeno mi accorsi di essere andato a sbattere contro un signore alto, vestito con un lungo cappotto nero.
«Ehi, stai attento a dove vai» mi disse l'uomo, con una voce roca e graffiante.
Alzai gli occhi su di lui e vidi che era vecchio, con i baffi, e un paio di occhiali marroni. Mi pareva alto come una montagna, con quel cappotto scuro e l'ombrello nero che lo sovrastava.
«Mi... mi scusi» borbottai, con un singhiozzo.
Il signore dall'aria distinta mi fece un cenno, ma poi si fermò a guardarmi e notò che ero bagnato fradicio e che avevo gli occhi arrossati per il pianto. «Tutto bene, figliolo?» mi domandò, in tono gentile e preoccupato assieme.
Io mugugnai qualcosa ed accennai un sì con il capo. Poi il mio sguardo fu rapito dal palazzo in cui stava entrando il signore alto: era enorme, imponente e emanava un fascino di serietà, come l'uomo che avevo di fronte. «Che posto è questo?» domandai estasiato.
«È il Trinity College, una delle più importanti università di Dublino» mi rispose il signore, con un sorriso bonario.
«E lei lavora qui?» chiesi ancora, alzando il naso per osservare meglio il palazzo, incurante della pioggia.
«Certo» mi disse l'altro. «Sono un professore».
Professore... che parola magica!
Quell'uomo mi pareva imperturbabile, come se nulla potesse intaccarlo nella sua aurea serenità. Era alto, grande, era rispettato. E aveva un bel cappotto caldo.
Volevo essere come lui.
«È difficile diventare professore?» mi informai, con una certa preoccupazione.
L'uomo sorrise divertito. «Be', devi studiare tanto e impegnarti al massimo in quello che fai» mi rivelò, i baffoni che nascondevano a stento un bonario sogghigno.
Annuii con convinzione.
Bene, studiare e impegnarsi. L'avrei fatto, ad ogni costo.
E poi un giorno, chissà, anche io avrei avuto un lungo paltò nero, un borsalino in testa e una rispettabile aria da intellettuale.




Ecco qui il doppio prologo della nuova storia dedicata al ciclo di Faerie... ci siamo catapultati in tutt'altra epoca! Siamo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, questa volta per raccontare la storia di un Alborgeth (ma non mancheranno i McGregor, com'è ovvio!).
Spero che questo primo capitolo vi abbia incuriositi... presto faremo una migliore conoscenza del protagonista!
Ah, il suo nome è stato deciso taaaaanto tempo fa (sono passati quasi sei anni): Remus Alborgeth. A quell'epoca ero completamente innamorata di Remus Lupin (perché, ora no?) e ho dato il suo nome a questo personaggio che in realtà doveva essere secondario; certo non mi aspettavo che un giorno avrei scritto una storia su di lui. Se dovessi scegliere adesso, gli darei un altro nome ma ormai era Remus. Abbiate pazienza e perdonate questa bizzarria!
Aggiornamento settimanale di martedì pomeriggio.
Grazie a tutti,
Beatrix

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Capitolo 2
*** Le prime difficoltà ***


Capitolo I
Le prime difficoltà




Dublino, 1977




I miei grandi sogni di gloria, tipici di un bambino che si immaginava chissà quale glorioso futuro, si infransero ben presto contro il muro della dura realtà. Se i miei coetanei sognavano di diventare giocatori di rugby, io dicevo sempre che avrei frequentato l'università per poi diventare docente. Una prospettiva francamente irrealizzabile, me ne resi conto. La strada era disseminata di ostacoli pressoché insormontabili.
Il primo di questi era la scelta della scuola superiore. Avevo dodici anni quando, mancando ormai pochi mesi al termine del sesto e ultimo anno della primary school, cercai di convincere mia madre ad iscrivermi al liceo.
Tornai a casa pieno di buoni propositi, con un volantino della James Joyce school, uno dei più importanti licei della città. A fare pubblicità alla scuola era venuta una coppia di ragazzi, entrambi belli e sorridenti, con indosso una divisa scolastica blu. Mi ammaliarono con i loro modi di fare accattivanti e le promesse di gloria per chiunque avesse frequentato la loro scuola.
Decisi, in modo irremovibile, che anche io mi sarei iscritto alla James Joyce school.
Quando tornammo a casa io e David, che frequentava il quarto anno della primary school, mamma non era ancora tornata dal lavoro. Mio fratello abbandonò senza ritegno i suoi libri sul divano e corse in camera a prendere i suoi giocattoli preferiti: due pistole da cowboy che erano appartenute a me.
Io, invece, rimisi in ordine il salotto, con l'obiettivo di far risaltare i volantini del liceo che avevo appositamente sistemato sul tavolino davanti al divano. Non volevo essere il primo ad intavolare il discorso, ma tramite questa astuta strategia, mamma avrebbe visto spiccare i volantini e mi avrebbe chiesto chiarimenti.
Aspettai in trepidante attesa il ritorno di mia mamma per tutto il pomeriggio, cercando di ignorare il baccano che faceva mio fratello.
«Sei una palla, Remus!» sbottò David, dopo l'ennesimo tentativo fallito di coinvolgermi nei suoi giochi.
«Sto aspettando ma', non rompere» risposi io, fingendo di concentrarmi sul tema che stavo svolgendo per inglese il quale, in realtà, non era andato avanti di una sola riga da parecchi minuti.
Mio fratello si allontanò sconsolato e andò a ritirarsi in camera nostra, facendo calare il silenzio in cucina, dove io mi ero appostato strategicamente: seduto al tavolo, fingendo di fare i compiti, potevo tenere d'occhio il tavolino del salotto.
Destino volle che quel giorno mamma tornò a casa tardi dal lavoro, distrutta dal massacrante turno in fabbrica. Lanciò il suo grembiule blu sul divano e nemmeno si accorse dei volantini che io avevo lasciato sul tavolo.
Passai tutta la cena a sbirciare di sottecchi il salotto, chiedendomi se fosse il caso di tirare in ballo la questione del liceo, ma non riuscii a decidermi, almeno finché non ci alzammo da tavola e David se ne sparì in camera. Allora, finalmente, presi il coraggio: recuperai i volantini dalla sala e mi avvicinai alla mamma, che stava lavando i piatti con l'aria piuttosto stanca.
«Ehi ma', ci hanno dato questi, oggi a scuola» buttai lì, tanto per iniziare il discorso.
Ma la mamma si voltò verso di me con un sorriso tirato. «Ne parliamo domani, eh, tesoro? Sono un po' stanca stasera» mi disse, scompigliandomi i capelli con la mano ancora bagnata e insaponata.
Io mugugnai qualcosa in risposta, ma fui costretto ad obbedire. Mi ritirai in camera, dove David mi porse entusiasta una delle due pistole da cowboy.
«Io sono lo sceriffo!» esclamò, picchiettando il dito sulla stella di carta che si era appuntato al pigiama con del nastro adesivo. «Tu puoi fare il bandito!»
«Non ho voglia di giocare, Dave» borbottai, lanciando gli inutili volantini sulla scrivania e lasciandomi cadere sul materasso inferiore del nostro letto a castello.
«Sei noioso!» mi insultò David, dandomi una botta in testa con il calcio della pistola giocattolo.
Io nemmeno risposi alla provocazione: avevo il morale decisamente a terra. Non potevo sfuggire al mio destino: il giorno successivo avrei affrontato l'argomento del liceo con la mamma e mi sarei impuntato per ottenere quello che volevo.
Ce l'avrei fatta. Ad ogni costo.
Il giorno dopo, durante la scuola, cercai di non pensare a quello che mi attendeva a casa, concentrandomi su ciò che dicevano le maestre. Sapevo, però, che il peggio sarebbe stato sopportare il pomeriggio a casa insieme a David, così finsi di aver qualcosa da fare con un mio amico e me la svignai, piantando mio fratello da solo. Presi la mia vecchia bicicletta, anche se sapevo che aveva una gomma bucata, e cominciai a vagare a caso per Dublino.
Senza nemmeno accorgermene, raggiunsi il St. Stephen's Green, il grande parco in centro, a sud del fiume Liffey. C'era sempre un sacco di gente, mamme con passeggini, bambini che giocavano, anziani seduti sulle panchine. Io adoravo osservare tutti quelli che passavano per supporre come fossero le loro vite solo guardando il modo in cui camminavano, oppure per immaginarli protagonisti di pazze avventure.
«Allora, giovanotto» esclamò un vecchietto, sedendosi sulla panchina al mio fianco. «Cos'è quell'aria preoccupata?»
Io gli rivolsi un sorrisetto tirato. «È per via della scelta della scuola» spiegai con una scrollata di spalle.
«Problemi con i genitori?» mi chiese gentile il nonno.
Mi rannicchiai sulla panchina, abbracciando le ginocchia in una posizione fetale. «No, è che vorrei andare al liceo, ma non possiamo permettercelo» risposi, con un sospiro.
«Ci sono le borse di studio» mi disse il vecchio, come se mi stesse rivelando un segreto statale.
Io scossi la testa affranto. «Non sarebbe comunque a sufficienza» spiegai, ben sapendo che i miseri contributi scolastici non potevano bastare per pagare la retta e il materiale scolastico.
«Senti, giovanotto» sbottò allora il nonno, in tono ampolloso e solenne. «Tu ci tieni ad andare al liceo?»
Io annuii debolmente con la testa.
«Allora trovati un lavoro e usa quello che guadagni per pagarti la scuola» mi rispose con enfasi.
«Ma sono troppo piccolo» mugugnai in risposta, sapendo che l'obbligo scolastico era fino ai quindici anni.
Allora il vecchietto si guardò in giro con aria circospetta, poi si chinò verso il mio orecchio. «C'è un tizio, giù al porto, che prende anche ragazzini che non hanno proprio raggiunto l'età per lavorare» mi rivelò in un sussurro.
Io mi feci attento: sapevo che si trattava di un'informazione preziosa per i miei piani. Per il momento non mi preoccupai minimamente del fatto che lavorare e frequentare la scuola insieme mi avrebbe richiesto un'enorme fatica. Lì per lì, mi sembrava la geniale soluzione che stavo aspettando per risolvere il mio problema.
«Chiedi di Bob Kelpe, ma non dire che te l'ho detto io» sussurrò infine il vecchio.
Io annuii. Bob Kelpe, tutto chiaro. Lavoro, stavo arrivando!
Raggiungere il porto dal parco di St. Stephen's fu un'impresa notevole, soprattutto considerando che la mia bicicletta aveva una ruota buca. Per fortuna, non mi ci volle molto a individuare il luogo dove avrei potuto trovare Bob Kelpe: l'insegna “KELPE CANTIERI NAVALI” troneggiava su uno stabile grigio piuttosto imponente. Mi feci avanti titubante e dissi all'operaio di guardia alla sbarra che dovevo incontrare il signor Bob Kelpe. Il tizio mi squadrò con occhio critico, ma alla fine decise che non ero una minaccia per l'azienda e mi permise di passare.
Mi immaginavo di incontrare il signor Kelpe in uno di quegli uffici da manager, vestito in giacca e cravatta, e con un raffinato accento britannico. Quello che trovai, invece, fu un uomo piuttosto basso, di una stazza considerevole, con le gambe tozze infilate in stivali da lavoro sporchi di fango. Indossava uno di quegli elmetti gialli da cantiere, una terribile camicia a scacchi rossa e bianca e un gilet di jeans con numerose tasche e taschine riempite di ogni possibile cianfrusaglia. Il suo viso rotondo completava il quadro: con un leggero strabismo all'occhio sinistro e quei due enormi baffoni rossicci, pareva più che altro lo schizzo mal riuscito di un artista ubriaco.
Era stato un operaio ad indicarmelo, altrimenti non avrei mai immaginato che quello fosse il capo del cantiere. Stava sbraitando contro un lavoratore che aveva combinato non so cosa, e mi stupii di quanta autorità potesse scaturire dalla voce di un omino così insignificante.
Io me la sarei defilata volentieri, vista l'aria che tirava, ma proprio prima che potessi svignarmela, lui mi apostrofò: «Tu che vuoi?»
«Io... ehm, buongiorno, signor Kelpe» farfugliai, cercando di essere un minimo educato.
«Salta pure i convenevoli» mi rispose con un tono burbero.
Io farfugliai come un pesce rimbambito, ma alla fine riuscii a dire: «Mi chiamo Remus Alborgeth e cercavo un posto di lavoro».
«Benedetto san Patrizio, ma quanti anni hai? Dieci?» esclamò l'uomo, osservandomi con occhio critico.
«Dodici, signor Kelpe» risposi prontamente, cercando di dimostrare la mia età, anche se sapevo di essere talmente mingherlino da sembrare più piccolo di quanto non fossi.
«Mah, chiamami Bob» sbottò lui, quasi per riflesso automatico.
«Sì, signor Bob».
«Che sai fare, ragazzo?» mi chiese Bob, accarezzandosi i baffoni con aria pensierosa.
«Imparo alla svelta, qualsiasi cosa vogliate farmi fare, signor Bob» risposi solerte, anche se ero perfettamente cosciente di non poter offrire grandi qualità professionali. D'un tratto pensai che, se io fossi stato il datore di lavoro, non mi sarei mai assunto. «La prego, signore!» esclamai allora, accorato. «Questo posto mi serve per pagarmi il liceo!»
Bob sgranò gli occhi, facendo velocemente due conti. «Vuoi dirmi che dovrei assumerti per non più di due ore al giorno, senza che tu sappia fare nulla?» chiese in tono burbero, non riuscendo a credere che qualcuno potesse davvero fargli una proposta tanto assurda.
Realizzai immediatamente che non avevo nessuna carta da giocare a mio favore, se non quella di tentare di muovere a pietà il signor Kelpe. «Io voglio studiare, signore, ma non posso permettermelo. Se lei mi dà un lavoro, ho qualche speranza di frequentare il liceo. Solo lei può aiutarmi...» mormorai, con un tono studiatamente supplice e piagnucoloso.
«Di', ti sembro un filantropo? Questa è un'azienda, per Giove!» sbottò Bob, ma il suo tono era meno burbero di quanto avrebbe dovuto, a sentire il contenuto delle sue parole. Infatti, poco dopo, non riuscì più a sopportare il mio sguardo supplichevole e sbuffò. «Cominci la settimana prossima, dalle 17.00 alle 19.00» borbottò con un grugnito. «Ti do 30 sterline a settimana, non un centesimo di più».
«Grazie, grazie, signore!» esclamai, mentre un sorriso spontaneo mi saliva alle labbra. Ce l'avevo fatta! Abbracciai Bob d'istinto, troppo entusiasta per pensare che non fosse affatto conveniente abbracciare il proprio datore di lavoro.
«Sì, sì» borbottò lui, liberandosi con imbarazzo dalla mia stretta improvvisa. «Ora smamma, Remus».
Io gli rivolsi un gran sorriso, prima di affrettarmi a recuperare la mia bicicletta per correre a casa ad avvertire la mamma del mio successo.
Tornai al nostro appartamento di periferia decisamente più sollevato, convinto che nulla potesse ormai intralciare il mio piano. I volantini della James Joyce school non mi servivano nemmeno più.
Entrai in appartamento che mamma era già tornata dal lavoro e stava preparando la cena.
«Mamma!» esclamai pieno di entusiasmo. «L'anno prossimo voglio andare al liceo!»
«Non possiamo permettercelo, tesoro» mi rispose la mamma, in tono affranto.
«Lo so, lo so, ma io ho trovato il modo» spiegai, levando il giubbotto e lanciandolo sul divano. «Parte delle spese saranno coperte dalla borsa di studio, per il resto, ho trovato un lavoro al porto».
«Un lavoro?» mi fece eco la mamma, sorpresa.
Annuii e le raccontai del mio colloquio con Bob Kelpe e di come avessi trovato un porto nel suo cantiere navale.
Lei mi ascoltò in silenzio, ma alla fine mi fece un'unica domanda che mi tormentò per molti anni a venire: «Sei sicuro che ne valga la pena, Remus?»
Accettare quel posto per pagarmi il liceo avrebbe significato passare la giornata a scuola, per poi attraversare buona parte del centro e raggiungere il porto, dove avrei passato due ore a lavorare; e avrei dovuto ridurmi a studiare e fare i compiti la sera dopo cena, con un pessimo rendimento. Tutto questo, solo per riuscire a frequentare prima il liceo e poi l'università.
Ne valeva davvero la pena?
Era il mio sogno, dopotutto.
Valeva la pena, combattere per i propri sogni?
Sorrisi.
«Sì, mamma, ne vale la pena».




Ecco il nuovo capitolo!
Povero Remus! Non è tanto caro e tanto dolce con la sua testardaggine nel voler fare il liceo a tutti i costi? Una costanza ammirevole per un marmocchio di dodici anni!
Bob è il classico orso grezzo che invece si rivela un tenerone: alla fine assume Remus contro ogni sana logica perché gli fa un po' pena. QUI un'immagine del burbero Bob.
Nel prossimo capitolo, arriveremo al liceo!
Grazie a tutti,
Beatrix

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Capitolo 3
*** La nuova scuola ***


Capitolo 2
La nuova scuola




Dublino, settembre 1977




Il primo giorno di liceo, indossai la divisa scolastica nuova fiammante, orgogliosamente comprata con i soldi del mio stipendio. Per fortuna quella mattina non pioveva, così potei prendere la mia bicicletta (a cui avevo sostituito la gomma bucata) senza rischiare di infradiciarmi come un pulcino bagnato.
Arrivai parecchio in anticipo davanti all'edificio scolastico, perciò ebbi modo di parcheggiare la mia bici con tutta calma. Al mio fianco, legò la sua bici un altro ragazzino che aveva tutta l'aria di essere al primo anno come me. Gli rivolsi un sorrisetto di circostanza e lui mi salutò allegro: «Ciao! Sei anche tu al primo?»
«Già» risposi, concedendomi uno sguardo veloce al ragazzino: basso e paciotto, aveva i capelli color carota e le lentiggini; un sorriso allegro e un paio di occhi luminosi davano al suo viso rotondo un'aria simpatica.
«Pure io!» esclamò, felice di aver scovato qualcuno nuovo come lui. «Io mi chiamo Murphy».
«Remus» risposi, stringendogli la mano. Non era un patto di amicizia eterna, ma almeno avevo trovato un compagno con cui affrontare i primi giorni di scuola. Ci avviammo insieme verso l'entrata dell'edificio scolastico, quando un ragazzo piuttosto ben piantato anche se non troppo alto, ci venne incontro salutandoci come fossimo suoi vecchi amici.
Murphy mugugnò debolmente e tentò di nascondersi dietro di me, tanto che io lo guardai con aria interrogativa per cercare di capire il suo strano comportamento.
«Jamie» fu costretto a spiegare Murphy. «Mio cugino. Sai, speravo di non incontrarlo proprio il primo giorno... non è un bel biglietto da visita. È considerato un po'... sfigato, sai, anche se lui si crede un gran simpaticone».
Non mi ci volle molto a capire il motivo per cui Jamie non fosse il ragazzo più popolare della scuola: teneva i capelli lunghi fino alle spalle, come andavano di moda all'epoca, e cercava di darsi un'aria da ganzo, ma in sostanza l'insieme era piuttosto patetico.
«Ehilà, boys!» ci salutò Jamie, fingendo di spararci con la mano destra a forma di pistola.
«Mi spiace» mi sussurrò Murphy, con un mezzo sorrisetto a mo' di scusa. «Ehi...» salutò invece il cugino, ben poco entusiasta.
«Murphy! Come butta, bello?» esclamò Jamie, ma il ragazzino si limitò ad un cenno del capo e così Jamie fu costretto a concentrarsi su di me. «E tu sei..?»
«Remus» risposi, con un breve sorriso.
«Posso chiamarti Rey?» mi chiese poi, senza nemmeno aspettare il mio assenso, si presentò: «Io sono Jamie, ma tutti mi chiamano J. Sono gli occhi e le orecchie di questa scuola: so tutto quello che succede, dove succede e quando succede; soprattutto, so chi lo fa succedere» mi rivelò, con una strizzata d'occhio.
«Uau...» risposi io, cercando di metterci un po' di entusiasmo. In realtà il mio sorrisetto stiracchiato fu piuttosto patetico, ma Jamie non parve accorgersene.
In quel preciso momento, il mio sguardo fu rapito da una berlina scura che parcheggiò proprio davanti all'ingresso della scuola. L'autista si affrettò ad aprire la portiera: ne scese una ragazzina con indosso la divisa scolastica della James Joyce. Aveva i capelli mossi acconciati come andavano di moda all'epoca, il viso sottile e grazioso, un accenno di trucco e un paio di orecchini a cerchio. Mi sembrò bella come una diva di Hollywood scesa dalla sua limousine per attraversare il red carpet.
«Sai almeno chi è?» domandò Jamie, con un ghignetto.
«Chi?» chiesi sorpreso, distogliendo per un attimo gli occhi dalla ragazzina.
«Quella a cui stai sbavando dietro» rispose Jamie ridacchiando.
«Io? Non sto sbavando dietro a nessuno!» esclamai, concedendomi un'ultima occhiata alla ragazzina.
«Be', si dà il caso che il tuo nessuno si chiami Eleanor Sangster... sai, la figlia del banchiere Jeremy Sangster, una delle ragazze più ricche di tutto il liceo» spiegò Jamie, in tono risaputo.
Eleanor mi ripetei nella mente, estasiato. Ma il mio senso pratico bussò alla porta della mia coscienza e mi fece ripiombare immediatamente sulla terra: non c'era alcuna speranza che una come lei potesse anche solo rivolgere la parola ad uno come me. Andiamo, io lavoravo al porto per pagarmi la retta del liceo, avevo una mamma che faceva l'operaia e venivo a scuola in bicicletta. Lei veniva a scuola con l'autista, aveva il papà banchiere ed era dannatamente graziosa.
«Andiamo a vedere in che gruppo siamo?» domandò Murphy, strappandomi dai miei pensieri. Annuii con aria distratta e mi lasciai condurre verso i tabelloni posti all'esterno della scuola, dove erano stati provvisoriamente affissi gli elenchi del primo anno suddivisi nei quattro gruppi. Giusto per fare onore all'intitolazione della scuola, e accrescere un po' di senso patriottico, i gruppi prendevano il nome dalle opere di Joyce: Ulysses, Dubliners, Finnegans Wake e Dedalus. Avendo il cognome che cominciava per A, individuai subito la mia posizione nel gruppo dei Dubliners.
«Dubliners» annunciò Murphy, quando si ritrovò negli elenchi. «E tu?»
«Anche io» gli risposi, con un sorriso, mentre i miei occhi indugiavano ansiosi sulle liste, per cercare il nome di Eleanor Sangster. Anche se, in realtà, ogni ulteriore fatica mi fu risparmiata dall'arrivo di Eleanor in persona, che scorse velocemente i cognomi sulla bacheca finché non trovò il suo.
«Carino, sono negli Ulysses!» esclamò la ragazzina, a nessuno in particolare. Io mugugnai rassegnato, mentre la guardavo allontanarsi con grazia. Fantastico, non eravamo nemmeno nello stesso gruppo. Probabilmente lei non avrebbe mai nemmeno saputo il mio nome.
«Ci incamminiamo verso l'aula magna?» mi chiese Murphy, riportandomi sul pianeta terra.
Lo seguii apatico all'interno dell'edificio scolastico: ormai avevo perso ogni entusiasmo iniziale per la nuova scuola, perso com'ero nella contemplazione di quella che mi era apparsa come una divina fanciulla, ma allo stesso tempo perfettamente consapevole del mio tragico destino di amante infelice. Non ascoltai nemmeno una parola del discorso introduttivo del preside, che stava blaterando qualcosa a proposito di impegno, studio e decoro. Tutta la mia attenzione era concentrata su una ragazzina seduta alcune fil più avanti: osservavo il modo in cui si arricciava i capelli intorno ad un dito, i sorrisetti che rivolgeva alla compagna al suo fianco, il tintinnare dei suoi orecchini a cerchio, avido di particolari che mi aiutassero a creare una sua immagine realistica nella mia mente e nel mio cuore. Ero completamente cotto di una perfetta sconosciuta, come solo un ragazzino di dodici anni poteva fare.
Durante i giorni successivi, la mia infatuazione non diminuì di un grado, sebbene avessi ben poco tempo per pensare alla mia bella. Prima di tutto, i professori erano più che interessati a mantenere uno standard della scuola piuttosto alto, per cui non si preoccupavano troppo di chi restava indietro: la difficoltà delle lezioni e la massa notevole di compiti erano un criterio come un altro per fare una selezione naturale degli studenti.
Io sopravvivevo, come molti lì dentro. Arrancavo per raggiungere la sufficienza in alcune materie e me la cavavo meglio in altre: storia, in particolare mi piaceva molto, perché adoravo calarmi tra i vari eventi storici e le diverse epoche, come se io stesso fossi stato un protagonista dei fatti che andavo via via studiando.
Per quel che riguardava le altre materie, forse avei potuto ottenere un rendimento migliore, se avessi avuto il pomeriggio libero per studiare. In realtà, il lavoro al porto era molto più massacrante di quanto avessi prospettato. Tornavo a casa la sera giusto in tempo per cenare e poi facevo i compiti rintanato nella stanza che condividevo con mio fratello David; per cui, il mio scarso rendimento era causato, da un lato, dalla stanchezza e, dall'altro, dalla presenza nefanda di David che non aveva un minimo di rispetto per il mio studio.
I professori, per fortuna, non si rendevano conto della mia situazione: credevano semplicemente che avessi un intelligenza mediocre, come tanti altri. Non so come avrebbero reagito, se avessero scoperto che i miei scarsi voti dipendevano dal fatto che studiavo nei ritagli di tempo tra la scuola e il lavoro.
Quanto aveva preannunciato Murphy sul presentarsi alla popolazione scolastica in compagnia di Jamie si rivelò tristemente vero: bastò che lui venisse a sedersi vicino a noi a mensa durante i primi giorni di scuola per etichettarci come “sfigati”, senza alcuna possibilità di redenzione. Io, ad essere precisi, ero stato trascinato in quel vortice e Murphy non faceva altro che scusarsi con me per questo, ma, in un certo senso, sapevo fin dall'inizio che quello sarebbe stato il mio destino: non avevo propriamente l'aria del vincitore. Non potevo puntare sull'intelligenza, considerati i miei mediocri risultati scolastici, né sullo sport, vista la mia scarsa propensione atletica, né tanto meno sulla bellezza, a causa di due impietose orecchie a sventola. In sostanza, la presenza di Jamie non fece altro che accelerare un processo inevitabile.
Ero completamente emarginato, deriso, escluso o, se mi andava bene, ignorato.
La mia stessa sorte era condivisa da Murphy. La causa principale della sua situazione, a onor del vero, era rappresentata dalla nefanda parentela con Jamie: se fosse riuscito a conquistare amicizie più influenti sin dal primo giorno, invece che ritrovarsi con me e suo cugino, forse avrebbe potuto uscire dall'anonimato. Dopotutto, i giudizi del liceo erano categorici: nascevi sfigato, morivi sfigato. Io rientravo sicuramente nella categoria, Murphy ebbe la sfortuna di caderci dentro i primi giorni. E da allora non ne uscimmo più.
In realtà, egoisticamente parlando, ero contento di poter godere della compagnia di Murphy: era un buon amico, disponibile e allegro, di quelli che capiscono al volo di cosa hai bisogno e sanno sempre se è il caso di fare una battuta per risollevarti il morale o se è meglio tacere e rispettare i tuoi tempi di ripresa. Era genericamente catastrofico e pessimista quando si trattava di far conto sulle proprie potenzialità, convinto per chissà quale infondato motivo di essere un disastro totale in qualsiasi campo. Ma quando avevo bisogno di lui, non si faceva mai chiamare due volte. C'era, con il suo sorriso un po' ingenuo e la voglia di scherzare.
Il nostro legame, da generica simpatia, divenne ben presto un'amicizia sincera.




Pardon a tutti, ma mi ero completamente persa l'aggiornamento di martedì scorso!
Comunque, ecco l'ingresso di Remus alla sua nuova scuola! Per facilitarvi la comprensione, un breve specchietto di come funziona il sistema scolastico irlandese: 6 anni di primary school, dai 6 ai 12 anni; 6 anni di liceo o seconday school, perlopiù gestita da enti privati (dai 12 ai 18); attualmente, al termine del III anno si sostiene un esame detto Junior Certificate, seguito da un anno di transizione (non obbligatorio in tutte le scuole) e da un ultimo biennio che si conclude con un ulteriore esame, il Leaving Certificate. Al tempo in cui Remus e gli altri frequentavano il liceo, il JC non esisteva, ma c'era un esame chiamato Day Vocational Group Certificate.
Ora invece, qualcosa di più piacevole: i disegni!
QUI Remus (non è adorabile?)
QUI Murphy
QUI Jamie
e QUI Eleanor alla sua prima comparsa.

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Capitolo 4
*** Ansie da esame ***


Capitolo 3
Ansie da esame




Dublino, 1980




Murphy sbatté letteralmente la testa sul tavolo della biblioteca con un tonfo tanto potente che io mi spaventai e feci cadere a terra la mia penna mordicchiata.
«Non ce la faremo mai» mugugnò il mio amico, massaggiandosi il punto in cui aveva colpito la dura superficie di legno.
«Ho capito, ma ti pare il caso di fracassarti la fronte sul tavolo?» sibilai in risposta, chinandomi a raccogliere la mia biro. Quando riemersi, fui illuminato dal passaggio di Eleanor Sangster, attorniata come al solito da quattro o cinque amiche che godevano della sua luce riflessa. Sospirai e appoggiai la guancia al palmo con aria incantata, senza ricordarmi che tenevo ancora la biro in mano: il risultato fu una lunga striscia blu di inchiostro che mi attraversava tutta la faccia.
Davvero patetico.
Alcune amiche di Eleanor se ne accorsero e ridacchiarono divertite, indicandomi con dei brevi cenni, manco fossi una belva da circo in gabbia.
Eleanor mi concesse uno dei suoi rari sguardi, ma la sua espressione disgustata era più che esplicita.
Io mi sentii le gote in fiamme e le orecchie cominciarono a pulsarmi; immaginai che dovevano essere simile a due enormi parabole rossicce e il solo pensiero mi fece arrossire ancora di più.
Eleanor storse il naso con ribrezzo e si allontanò, seguita dal codazzo delle sue starnazzanti compagne.
Io sprofondai il volto dietro il libro che tenevo sul tavolo, desiderando di scomparire risucchiato da una voragine miracolosamente apertasi sotto i miei piedi. Non era la prima volta che facevo la figura dell'idiota, ma non mi era mai capitato di fare quel pietoso teatrino davanti a Eleanor. In quel momento avrei dato qualsiasi cosa per non essere me. Per non essere il patetico ragazzino che ero.
«Non pensarci, ok?» intervenne Murphy, stuzzicandomi con la matita che aveva in mano. Alzai gli occhi su di lui e vidi che mi stava rivolgendo un sorriso incoraggiante. «Sinceramente, sono solo delle oche» mi rivelò, cercando di risollevarmi il morale.
Io mi limitai ad un sorrisetto stiracchiato, consapevole che le sue parole non potevano lenire del tutto le ferite del mio orgoglio.
«Comunque io... ehm...» continuò Murphy, sfregandosi la guancia come se volessi pulirsi.
«Oh, giusto» risposi, realizzando che dovevo avere ancora il segno di biro. Me la defilai in bagno per tentare di ripulirmi, ma in realtà ottenni solo di farmi diventare il volto ancora più rosso, a furia di sfregarlo. In quel momento pensai che sarebbe stato meglio ficcarmi un sacchetto di carta in testa e farci due buchi per gli occhi: almeno nessuno avrebbe visto quella specie di padella con i manici che mi ritrovavo al posto della faccia.
Me ne tornai sconsolato in biblioteca, strascicando i piedi a terra. Quando raggiunsi Murphy al tavolo dove stavamo studiando, il suo umore non era certo meglio del mio: teneva in mano una matita con tanta violenza che sembrava sul punto di spezzarla e fissava con sguardo ostinato il suo quaderno.
«Questa cosa delle disequazioni proprio non la capisco» sbottò, quando vide con la coda dell'occhio che ero tornato dal bagno.
Io mugugnai in risposta qualcosa di sconnesso perché, per quel che mi riguardava, le teorie di matematica erano l'ultimo dei miei problemi.
«Remus!» esclamò allora Murphy, in tono lagnoso. «Non li passerò mai questi esami!»
Ecco che tornava alla carica il Murphy apocalittico. Il Group Cert (Day Vocational Group Certificate) era una specie di orribile fantasma che perseguitava tutti gli spauriti studenti del terzo anno, i quali passavano gli ultimi mesi di scuola tra crisi nervose, attacchi di ansia e raffazzonati ripassi delle materie da studiare.
Murphy, in particolare, pareva soggetto a ripetuti assalti di panico e allora io dovevo fare ricorso a tutte le mie astuzie per tentare di calmarlo e di convincerlo che non si stava avvicinando la fine del mondo e che, con un po' di buona volontà e un lumino acceso alla cattedrale di s. Patrick, anche noi saremmo riusciti a passare quei maledetti esami, come tutti gli studenti irlandesi da mezzo secolo a questa parte.
Dopotutto, perfino suo cugino Jamie li aveva superati, anche se io non ero in grado di capacitarmene, vista la sua scarsa attitudine allo studio e la quanto mai ridotta intelligenza.
«Siamo rovinati, Remus. Siamo rovinati» piagnucolò Murphy, in tono sconsolato.
Io sbuffai. «Potresti essere meno catastrofico, per favore?»
«Non sono catastrofico, sono realista!» mi rispose lui, scuotendo la testa. «Io non capisco niente di matematica e tu... be', sei una sottospecie di genio se riesci a studiare la sera, dopo sei ore di scuola e un pomeriggio di lavoro in cantiere».
«Non sono affatto un genio, Murphy» replicai, cercando di essere ragionevole. «Solo, sono conscio di quali siano le mie priorità».
Murphy era l'unica persona, oltre alla mia famiglia, alla quale avessi rivelato il mio “segreto portuale”, come ci piaceva chiamarlo. Ovvio che non fosse una cosa di cui mi piaceva andare in giro a vantarmi, visto che frequentavo uno dei licei più rinomati della città, in cui c'era solo gente ricca. Ma non aveva senso mentire con Murphy, l'unico che mi apprezzasse per quello che ero. Anzi, lui che, facendo parte della media borghesia, non aveva problemi economici, continuava ad ammirare la mia forza di volontà e si era autoconvinto che io fossi una specie di genio incompreso, mentre lui non era altro che un povero derelitto dotato di scarsa intelligenza.
«E allora spiegami come fai a fare l'esame di latino!» replicò Murphy, ormai in preda alla crisi più nera.
Il Group Cert prevedeva che, oltre alle materie obbligatorie (Irlandese, Inglese e Matematica), ogni studente scegliesse almeno due materie a scelta in cui essere esaminato, tra le quali una lingua straniera. Io avevo scelto storia, ovviamente, e poi italiano e latino. Non ero mai stato un genio in latino, ma mi ero reso conto che si trattava di una conoscenza indispensabile per gli studi in campo umanistico, nel quale avevo deciso di buttarmi. Dopotutto, in scienze e matematica ero un disastro e l'unica materia che mi piaceva davvero tanto e nella quale andassi bene era storia.
Murphy aveva interpretato la mia scelta come un tentativo suicida di riabilitare il mio nome presso i professori, perché, a detta sua, solo i secchioni mettevano latino tra le materie a scelta.
«Ehilà, bella gente!» esclamò Jamie, sedendosi al nostro stesso tavolo. «Che sono 'sti musi lunghi?»
Fantastico. Ci mancava solo lui a rallegrare l'atmosfera.
Murphy si prese la testa tra le mani con aria disperata. «Gli esami, J, gli esami. Che vuoi che sia?» mugugnò disperato, ben conscio che la presenza del cugino non era tra le più rassicuranti nel frangente dello studio.
«Ah, piantatela di preoccuparvi!» esclamò infatti Jamie, incrociando le braccia dietro la testa. «Il Group Cert è una autentica cavolata».
Parlava lui, che si era salvato per il rotto della cuffia grazie una misera D strappata con i denti e che, l'anno scorso, era stato sull'orlo di una crisi di nervi. Adesso invece faceva lo spaccone. Comoda la vita.
«E poi, sinceramente, a che servono 'ste robe nella vita reale?» aggiunse, dandosi le arie di un uomo vissuto e consumato dall'esperienza.
«Questa è la vita reale» gli feci notare con un certo disappunto. Odiavo quando si atteggiava da grand'uomo.
Jamie appoggiò le braccia sul tavolo e si sporse in avanti verso di noi, come se dovesse rivelarci un gran segreto. «Questa non è la vita reale: il liceo è una gigantesca farsa, come un palcoscenico in cui ognuno recita la sua parte» spiegò in un sussurro.
Murphy mi lanciò un'occhiatina talmente esplicita che per poco non scoppiai a ridere in faccia a Jamie: ormai eravamo abituati alla sua mania di rifilarci pillole di presunta saggezza e non lo prendevamo neanche più sul serio. Questa volta, la frase poteva anche avere un senso, ma in bocca a lui era quanto meno ridicola, visto che erano anni che recitava un ruolo evidentemente non suo, quello di ganzo.
A salvarci da ulteriori commenti imbarazzanti fu l'arrivo provvidenziale di una ragazza che avevo già visto qualche volta in giro e doveva essere dello stesso anno di Jamie. «Ciao» fece un saluto generale, un po' impacciata.
«Ehilà, Mercedes!» rispose Jamie, con un gran sorriso.
Sospirai. Possibile che salutasse allo stesso modo qualunque persona sulla faccia della terra? Aveva ragione Murphy a dire che era patetico.
«Posso sedermi qui?» chiese la ragazza, prendendo posto al mio fianco. Mi concessi il lusso di osservarla meglio: i capelli erano vaporosi e ricci, come andavano di moda all'epoca, il volto era anonimo se non per un paio di spessi occhiali tondi e il sorriso inquietante, a causa dell'ingombrante apparecchio che era costretta a portare. Nella media, valutai, tendente al basso. Intercettando lo sguardo di Murphy, capii che il suo giudizio era stato molto più netto: meno di zero.
Sogghignai.
«Jamie mi ha detto che avete problemi con gli esami» esordì Mercedes, schiarendosi la voce. «Se vi serve, posso darvi una mano» propose, azzardando un sorriso nella mia direzione.
Il sogghigno mi si gelò sulle labbra. Io e Murphy ci voltammo in contemporanea verso Jamie, ma se il mio sguardo era interrogativo, quello del mio amico trasudava puro odio. Jamie si limitò ad un sorrisetto di circostanza.
«Be', insomma, me la cavo in matematica. Se vi serve, ok?» mormorò Mercedes, arguendo che l'aria non era delle migliori. Mi rivolse un ultimo timido sorriso e poi si affrettò a svignarsela.
«Che diavolo ti è saltato in mente, J?» lo aggredì Murphy, quando fu sicuro di non essere più udito da Mercedes.
Jamie alzò le braccia in segno di innocenza. «Ehi, bello, me l'ha chiesto lei» si giustificò, a scanso di equivoci. «È cotta di te, amico» aggiunse poi, rivolgendomi uno sguardo d'intesa.
Sentendo quelle parole, Murphy scoppiò a ridere: in quel momento lo odiai con tutte le mie forze.
«Be', non è poi così male» provò a dire Jamie, in un tono ragionevole che non era da lui.
Lo sguardo di Murphy fu decisamente impietoso. «Ti prego, J. Sputa quando parla».
«Ma quello è per via dell'apparecchio» replicò Jamie.
«Appunto!» esclamò il mio amico, tranciando un giudizio categorico. «Un altro ottimo motivo per scartarla in toto».
In quel momento, passò nuovamente sotto il mio naso Eleanor, questa volta senza il codazzo si amiche. Come sempre, mi si annodò lo stomaco e il mio cuore prese a fare allegre capriole dentro la cassa toracica, ma cercai di ignorare i miei stati d'animo, perché un altro pensiero si annidò nel mio cervello: tutto ciò a cui potevo puntare erano le attenzioni di una qualunque Mercedes. Eleanor era decisamente fuori dalla mia portata.
«Be'...» mormorai stringendomi nelle spalle, quando Eleanor sparì dietro gli scaffali. «Ci si accontenta di quello che passa il convento».
Murphy, che stava mordicchiando la matita, tutto preso dalla risoluzione della disequazione che aveva davanti, alzò gli occhi dal quaderno e prese a fissarmi come se mi fosse cresciuto un tentacolo in fronte.
«Che c'è?» cercai di schermirmi, fingendo indifferenza.
«Che fine ha fatto il Remus che conosco?» mi domandò allibito. «Quello che non si accontenta mai, quello che si smazza come un dannato pur di raggiungere i propri obiettivi, quello che se ne frega del giudizio degli altri, ma non si arrende mai davanti alle difficoltà?»
Abbassai lo sguardo sul libro di matematica. Murphy aveva ragione, ma a volte era così difficile impegnarsi sempre e comunque. Non so che cosa avrei dato per avere una vita semplice, normale come quella di tutti gli altri ragazzi.
Eppure, quello non era il mio caso: avevo davanti a me montagne da scalare, ma mi ero ripromesso fin da quell'uggioso pomeriggio del funerale che le avrei scalate, costasse quel che costasse.
Quando alzai lo sguardo sul mio amico ero di nuovo sicuro: nessuno sapeva risollevarmi il morale e spronarmi come Murphy, che pure era così catastrofico quando si trattava di parlare di sé. Sorrisi per ringraziarlo e poi capii che avrei dovuto ricambiare il favore in qualche modo.
«Facciamo il culo a strisce a questi esaminatori!» esclamai con entusiasmo, allungando il braccio per farmi dare il pugno. Il messaggio sottinteso era qualcosa come: “grazie dell'incitamento, dai che ce la caviamo agli esami. E... ovvio, lascio perdere Mercedes”.
Il volto di Murphy si illuminò per un sorriso entusiasta. Batté il pugno contro il mio e poi asserì: «Facciamogli il culo a strisce, Rey».




Eccoci al terzo capitolo! Remus e Murphy sono al terzo anno, alle prese con il GroupCert... non aiuta la nefanda presenza di Jamie che fa il grand uomo, o le improvvise apparizioni di Eleanor che provocano imbarazzanti incidenti al povero Ray!
Martedì prossimo farà la sua comparsa uno degli abitanti di Faerie! ;)
A presto,
Beatrix

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Capitolo 5
*** Il salvataggio ***


Capitolo 4
Il salvataggio




Dublino, 1983




Avevo quasi diciotto anni e, sebbene l'adolescenza fosse ormai quasi al termine, c'erano ancora quei giorni in cui mi alzavo e vedevo tutto nero. Quei giorni in cui avrei voluto mandare al diavolo ogni cosa, rinnegare il mondo intero e chiudermi in stanza ad ascoltare musica deprimente e piangere sui miei mali.
Ma tutto questo non mi era concesso; primo, perché condividevo la camera con un impazzito fratello sedicenne in balia degli ormoni che non aveva un minimo di rispetto per la mia depressione; secondo, perché non avevo una radio.
Così, durante quelle giornate, marinavo la scuola, prendevo la mia bicicletta e pedalavo per delle ore intere, finché non crollavo di stanchezza in un prato umidiccio della campagna poco fuori Dublino. Passavo tutto il tempo steso a guardare le nuvole grige che si rincorrevano nel cielo, noncurante delle ore che passavano, della pioggia battente, dei miei bisogni primari come il freddo o la fame. Semplicemente, spegnevo il cervello e lasciavo che la quiete della campagna mi ricaricasse le batterie. Quando sentivo il campanile di una pieve poco lontana battere tre colpi, inforcavo di nuovo la mia bicicletta e facevo ritorno in città, in tempo per presentarmi al lavoro da Bob.
Non lo facevo così spesso da destare sospetti a scuola, per fortuna. Ma accumulavo troppe tensioni per non aver bisogno, ogni tanto, di staccare la spina. Altrimenti sarei diventato un adulto decisamente nevrotico.
Quel giorno era uno di quei giorni.
C'erano in ballo gli esami finali del liceo, l'ansia per cosa avrei fatto dopo, il lavoro, la scuola, lo studio fino alle due di notte, e il fatto che l'unica ragazza che mi fosse mai piaciuta nemmeno sapeva della mia esistenza.
Ah, già. E poi c'era anche quello stupidissimo ballo di fine anno. Al quale era previsto che io invitassi una ragazza.
C'era da far notare che per me l'universo femminile era una nebulosa sconosciuta folla di ragazze isteriche e problematiche dalla quale spiccava un unico volto: quello di Eleanor Sangster. Lei era la sola appartenente a quella specie che destasse la mia attenzione. Perché era bella, appariscente, famosa e, tipo, la ragazza più ambita di tutto il liceo.
Inutilmente, perché lei stava con un tizio più grande, un certo Alfred McGregor che non poteva competere con nessuno di noi. McGregor era tutto ciò che io non sarei mai stato: ricco sfondato, membro di una delle più antiche famiglie della città, alunno di un prestigioso college di Dublino, uno di quelli con la divisa rossa cucita su misura da una schiera di sarti, che probabilmente valeva più di tutta casa mia.
Era vero, io lo trovavo particolarmente brutto, ma era facile che il mio giudizio fosse poco obiettivo, anche perché lui poteva comunque contare sul fascino dei suoi luminosi occhi azzurri. Mentre io... be', non avevo molte carte da giocare. Ero nella media, né bello né brutto. Come tanti.
E non avevo nessun altro asso nella manica, a differenza di McGregor.
Era ovvio che Eleanor stesse con un tipo come quello. Lui aveva l'autista che lo portava in giro per la città, non una misera bicicletta con un fanalino rotto.
Forse ero un po' patetico ma, in fondo, i miei erano i drammi tipici di ogni adolescente. Certo, non immaginavo che presto si sarebbero invischiati con qualcosa che di tipico aveva ben poco.
Me ne stavo sdraiato sul prato a pensare alle mie magagne, quando sentii una vocina flebile che chiedeva aiuto. Decisi di ignorarla: era il mio momento di contemplazione drammatica della mia triste esistenza, non volevo essere disturbato da nessuno.
Quella si fece più insistente: doveva essere qualcuno che si trovava sul serio in difficoltà. Sbuffai, ma alla fine decisi di alzarmi. Mi lasciai guidare dalla voce all'interno di un piccolo boschetto umido e pieno di muschio, ma non riuscivo ad individuare nessuno, sebbene la vegetazione fosse poco fitta. «Ehilà, c'è nessuno?» provai a chiedere, scostando un ramo che mi stava davanti alla faccia. La vocina flebile mugugnò qualcosa di incomprensibile.
«Ehi...» tentai ancora, ma cominciavo ad essere un tantino spaventato da quella situazione.
«Un umano, un umano!» pigolò la voce, allarmata.
«Umano?» gli feci eco, decisamente perplesso. «Che dovrei essere, un elfo?» ridacchiai.
«Sei un elfo?» si informò la voce.
«No» risposi scandalizzato. Feci qualche passo verso quella che sembrava una radura su cui si affacciava una roccia con una grossa apertura, ma non vidi nessuno.
«Allora sei un umano! Un umano, un umano mi ha visto!» strillò la vocetta.
«Veramente non ti ho visto. Dove sei?» chiesi, guardandomi intorno.
«Qui» pigolò la voce.
In realtà non fu il suono della voce a farmi voltare, ma il verso di un gatto randagio che mi mostrò i denti, arricciò il naso e drizzò il pelo. Dovevo averlo disturbato durante una caccia. «Smamma micio» gli ordinai mollemente, scacciandolo con un gesto della mano. Il gatto mi sibilò contro, ma alla fine se ne andò.
«Mi hai salvato» mormorò la vocina, ammirata.
«Da cosa?»
«Dal gatto».
Sinceramente, la cosa stava cominciando a stressarmi. Chi era a parlare e perché non si faceva vedere?
Poi lo vidi... un esserino minuscolo, appollaiato su un ramo, alto sì e no una decina di centimetri, con un abito verde che sembrava uscito da un libro di fiabe per bambini e un paio di enormi ali dietro la schiena. Una di queste era spezzata in modo innaturale ed era incastrata tra due rami.
Era...
Ok, certo, Irlanda terra di magia e leggende, ma... nei limiti. Lepricani e fate erano robe da turisti.
«Cosa... cosa... sei?» riuscii a chiedere, alla fine.
L'esserino scosse le spalle. «Che ti sembro, un goblin? Sono un folletto, no?»
«Un folletto?»
«Sì, un folletto, sai, il Piccolo Popolo, gli abitanti di Faerie....» provò a dire quello, come se parlasse degli ultimi risultati del rugby.
«Faerie?» gli feci eco, decisamente perplesso.
«Non sai niente su Faerie?» squittì il folletto, allarmato. «Ma rivelare la sua esistenza ad un umano comporta... l'esilio!»
Io gli rivolsi un sorriso che voleva essere incoraggiante. «Non lo dirò a nessuno» lo rassicurai, per poi sentirmi un completo idiota per essermi messo a consolare un folletto. Quelle creature non esistevano. Forse era un'allucinazione, una proiezione della mente provocata dalla stanchezza. Eppure... era incredibilmente reale.
«Non lo farai, vero?» si informò, gli occhioni verdi spalancati in un'espressione speranzosa. Quando lo tranquillizzai con un cenno del capo, lui tirò un lungo sospiro di sollievo. «Sai, Faerie è la terra dove vivono gli esseri fatati come me ed è collegata all'Irlanda attraverso dei portali. Cinque in tutto» mi raccontò, ormai rassicurato dalla mia promessa.
«Oh... ehm, interessante» mormorai, senza ben sapere cosa dire. «Ma, allora che ci fai qui?»
Il folletto fece una smorfia. «Lavoro per Seamus Billius, il maggiore commerciante di Faerie; sai, lepricano... quelli c'hanno una fissa per l'oro. Io sono uno dei tramiti per la merce che viene dall'Irlanda, ma mi si è incastrata l'ala in questo ramo e quel gattaccio mi avrebbe mangiato se non fossi arrivato tu» spiegò il folletto, come se fosse una sciocchezza di ogni giorno.
«Aspetta, ti aiuto» gli proposi senza nemmeno pensarci e, avvicinandomi al ramo sul quale era poggiato, feci attenzione a liberargli l'ala, che era piegata in modo innaturale, con estrema delicatezza. Eppure, sembrava che l'ala non fosse attaccata alla sua schiena, ma partisse da una specie di zainetto nero che aveva sulle spalle. «Ma...» cominciai a dire, quando la creatura mi interruppe con un sospiro. «Certo, sono ali meccaniche, che ti aspettavi? Le fate hanno le ali, mica i folletti» mi spiegò rassegnato, quando fu finalmente libero. Cercò di aggiustarsi una delle ali, che pareva decisamente rotta, mentre io me ne stavo lì come un rimbecillito a decidere se fosse il caso o meno di credere a ciò che vedevano i miei occhi.
Alla fine, chissà perché, decisi di crederci.
«Come ti chiami?» chiesi al folletto.
«Blinky» rispose quello. «E tu?»
«Remus» gli dissi, per una volta sollevato dal fatto che il mio nome non suonasse poi così strano, in confronto a quello dell'altro. Blinky svolazzò un po' a fatica, per via dell'ala rotta, finché non riuscì a sollevarsi alla mia altezza per potermi guardare negli occhi. «Remus, tu mi hai salvato la vita e se non fosse per te ora sarei pranzo per gatti» mi disse con assoluta serietà, anche se le sue parole per poco non mi fecero scoppiare a ridere. «Quando un folletto è riconoscente verso un umano, si prende l'impegno di portargli il proprio dono ogni volta che può, fino alla fine della sua vita».
«Dono, eh?» gli feci eco, decisamente interessato. Le leggende parlavano di pentole d'oro alla fine dell'arcobaleno, custodite dai lepricani. Chissà, magari sarei diventato ricco.
«Sì, io sono un ottimo cuoco! Hai garantita una fornitura a vita di biscotti al burro!» mi assicurò Blinky, con una mano al cuore come se fosse un giuramento ufficiale.
«Biscotti al burro?» chiesi incredulo, senza riuscire a mascherare la delusione.
Blinky alzò le spalle. «Be', che ti aspettavi? Tre desideri?»
«Se potessi scegliere, direi... passare gli esami di fine anno, uscire con Eleanor Sangster e diventare ricco» esclamai allegro. Blinky scosse la testa con aria rassegnata. «Tutti uguali voi umani» borbottò, alzando gli occhi al cielo. «Ma tu, Remus, mi stai simpatico, quindi posso tentare di benedirti».
«Benedirmi?»
«Sì, una Benedizione Magica. Ora taci» mi intimò Blinky. «Io ti benedico, perché tu possa passare gli esami, uscire con la tua tipa e diventare ricco» sussurrò e poi mi alitò addosso.
Passarono una manciata di secondi, ma non accadde assolutamente nulla. Non ero del tutto sicuro che quella cosa avesse funzionato, perché non percepivo nessuna differenza, né mi sentivo invaso da strani poteri.
Però... be', tanto valeva provare. Metti che la Benedizione fosse andata a buon fine.
In quel momento decisi che avrei invitato Eleanor Sangster al ballo di fine anno.





Buongiorno a tutti!
Ecco che fa la sua comparsa la parte fantasy di questo racconto: il simpatico folletto Blinky! In realtà, non aspettatevi grandi avventure da Remus, perché lui è un tipo tranquillo... ;)
QUI, intanto, l'immagine che rappresenta Blinky, il folletto dei biscotti! ahahah! Perdonate i folletti, ma hanno un cervellino un po' limitato: non sono tra le creature fatate più sveglie, detto tra noi!
QUI, invece, un'immagine che mi ero dimenticata di inserire: è David a 10 anni. Avanti, non è adorabile? Dovreste vedere la sua versione ventenne... fra qualche capitolo, promesso!
Grazie a tutti e a presto!
Beatrix

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Capitolo 6
*** Il rifiuto ***


Capitolo 5
Il rifiuto




Dublino, 1983




Girava voce che Eleanor avesse cercato di convincere il Preside della James Joyce a concedere al suo fidanzato Alfred McGregor di partecipare al ballo di fine anno della scuola, che di solito era permesso solo agli studenti. E, chiunque avesse messo in giro questa voce, aveva anche ricordato di specificare, non senza una certa soddisfazione, che il Preside le aveva negato l'autorizzazione. Quindi, a rigor di logica, Eleanor era senza cavaliere per il ballo.
E io avevo dalla mia una Benedizione Magica: era il momento di intervenire.
Com'era ovvio, ci impiegai tutta la giornata a convincermi di parlarle perché, sebbene fossi sostenuto dalla Benedizione di Blinky, ero comunque un inguaribile fifone. Si trattava pur sempre della ragazza per la quale avevo una cotta da ben sei anni e io avevo esperienza zero in fatto di inviti. Era più facile che mi sentissi a mio agio chiuso in una stanza con un troll affamato che con una ragazza, specie se questa era Eleanor Sangster.
Eppure, non so se fu la certezza che ci sarei riuscito grazie alla magia, non so se fu un'improvviso colpo di testa causato dal testosterone o uno strano entusiasmo dato dalla vicina fine del liceo, sta di fatto che quel giorno, al termine delle lezioni, mi catapultai fuori da scuola per intercettare la mia vittima prescelta.
Eleanor si stava dirigendo verso una berlina scura che avevo imparato a riconoscere come l'automobile di McGreogr; dovevo invitarla prima che la raggiungesse, oppure il suo fidanzato avrebbe potuto, a buon diritto, tirarmi un gran pugno in faccia, se solo fosse stato il tipo da prendere a cazzotti qualcuno.
«Ehi, Eleanor!» la chiamai, correndole incontro.
Lei si fermò in mezzo al piccolo spiazzo che separava la scuola dal marciapiede, con un'aria decisamente perplessa. Potevo capirla, visto che lei non aveva la più pallida idea di chi fossi.
«Io... ehm...» cominciai a dire, quando le fui di fronte. Dovevo sembrarle un vero idiota. «Siamo dello stesso anno, noi. Io... mi chiedevo...»
Basta, ero patetico: dovevo chiederglielo adesso. Presi un respiro e poi...
«Vuoi venire al ballo con me?»
Finalmente l'avevo detto. Mi era uscito, sgusciato fuori, scappato via, senza che nemmeno me ne rendessi conto. L'avevo detto.
L'avevo invitata al ballo.
Gli istanti che mi separarono dalla sua risposta furono i più lunghi della mia vita. Vidi, come a rallentatore, ogni singolo muscolo del suo volto contrarsi in diverse espressioni: prima perfetto stupore, poi incredulità e infine sommo disgusto.
Poi, una sola parola.
«No».
Indignata, come se l'avessi offesa con la mia proposta.
Scandalizzata, nauseata, incredula.
Io, essere indegno della sua attenzione, avevo osato invitarla al ballo scolastico. Il suo secco rifiuto non era una punizione sufficiente per la mia tracotanza. Dovevo essere umiliato.
Mi sentii morire sotto il suo sguardo di disprezzo. A coronare il tutto, Alfred McGregor, con quella sua odiosa divisa rossa del college che frequentava, uscì dalla automobile scura per capire cosa fosse successo. Mi riservò un'occhiata talmente disgustata che mi sentii un essere indegno di respirare la stessa aria che respirava lui.
«Eleanor, andiamo» disse in tono piuttosto duro. «Non abbiamo tempo da perdere con questa plebaglia» aggiunse, prendendo la sua ragazza sottobraccio e scortandola verso l'automobile.
Prima di scomparire dietro la portiera, Eleanor mi lanciò un ultimo sguardo che sembrava... curioso e stranamente ammirato. Poi la macchina partì.
E mi lasciarono lì, come un idiota, alla mercé dell'intera scuola. Alcuni studenti cominciarono a sogghignare, altri si presero la libertà di ridermi sguaiatamente in faccia. Ero lo zimbello di chiunque avesse assistito alla scena, e anche di tutti gli altri, in realtà, visto che la notizia si diffuse tra la popolazione scolastica con una rapidità impressionante, passata di bocca in bocca come un venticello subdolo.
Ero paralizzato, mi sentivo il volto in fiamme e avrei voluto scoppiare a piangere, ma per fortuna riuscii a trattenermi, perché sarebbe stato uno spettacolo decisamente umiliante. Non appena udii la voce di Murphy che mi chiamava dalla folla, capii che era arrivato il momento di darmela a gambe e corsi via verso il parcheggio delle biciclette, con le risate dei miei compagni che ancora mi rimbombavano nelle orecchie.
«Remus, che diavolo...?» cominciò a dire il mio amico, quando riuscì a raggiungermi.
«Lasciami in pace, Murphy!» lo aggredii con più cattiveria di quanta avessi voluto. Dopotutto, non era certo colpa sua, ma in quel momento non avevo voglia di vedere nessuno. Inforcai la mia bicicletta e me la svignai diretto al porto. Ringraziai il cielo di avere il turno di lavoro al cantiere navale che mi tenesse la mente occupata e mi distraesse da quello che era appena successo: avrei avuto il tempo per piangermi addosso una volta tornato a casa.
Quella sera, infatti, dissi a mamma che non avevo fame, sebbene mi brontolasse lo stomaco, e mi rintanai in camera, chiuso in un ostinato mutismo. Nemmeno David riuscì a farsi dire che cosa fosse successo; e lui, di solito, era in grado di risultare molto persuasivo. Stavo meditando sui miei mali, quando qualcuno bussò alla finestra. Trasalii, visto e considerato che abitavo al quarto piano. Senza balconi.
Ma quando spiai fuori, notai una sagoma di un minuscolo esserino con le ali, che portava con sé quello che pareva un grosso sacco di Babbo Natale. Mi avvicinai alla finestra e la aprii, per permettere a Blinky di entrare.
«Ti ho portato i biscotti!» esclamò entusiasta il folletto.
Frenai a stento il terribile impulso di spiaccicarlo sotto la copertina rigida del vocabolario di latino. Blinky intuì dal mio guardo assassino che c'era qualcosa che non andava; così depositò i biscotti sulla scrivania e svolazzò poco lontano, tenendosi a distanza di sicurezza.
«Tu!» scoppiai d'ira, puntandogli addosso un dito accusatore. «La tua stupida Benedizione non ha funzionato!»
«Io...» provò a dire Blinky, alzando le mani in segno di innocenza.
«Ho invitato Eleanor al ballo e lei mi ha detto di no, trattandomi come se fossi la gomma da masticare attaccata sotto la suola delle sue scarpe!» gli latrai addosso, contento di poter sfogare la mia ira con qualcuno.
«Senti, io non sono un mago; sono solo un folletto!» si giustificò Blinky. «Non so bene come funzionino queste cose delle Benedizioni: le ho solo viste fare e sono magie molto avanzate».
La mia rabbia sbollì. Mi buttai sul letto e mi presi la testa tra le mani, perfetta raffigurazione della disperazione umana. Non c'era una cosa che andasse nel verso giusto, nella mia squallida vita.
«Remus, mi dispiace» azzardò Blinky, ritornando alla mia altezza.
Proprio in quel momento, mamma bussò delicatamente alla porta della mia stanza. «Remus, tesoro, c'è qui Murphy per te» mi annunciò con un tono di voce flebile.
Mi riscossi immediatamente: corsi ad aprire la finestra e cacciai Blinky fuori dalla camera, ben sapendo che non era il caso di presentare il folletto al mio amico. Era già tutto abbastanza complicato per me, senza renderne partecipe anche Murphy. Poi andai ad aprire la porta e Murphy si catapultò nella stanza con un gran sorriso, come se temesse che io potessi cambiare idea e richiudergli la porta sul naso. «Ehi... come va?» mi chiese, appoggiandosi alla scrivania stracolma di libri e cartacce varie.
Io mi lasciai cadere sul letto e mi strinsi nelle spalle. «Uno schifo. Ho fatto la figura dell'idiota davanti a tutta la scuola» risposi con un mugugno.
Murphy prese a giocherellare con un biro che avevo abbandonato sulla scrivania: sembrava che volesse dirmi qualcosa ma che stesse cercando le parole migliori. «Senti...» cominciò infatti, in tono incerto. «Forse è ora che lasci perdere la Sangster» riuscì a dire alla fine. Io mugugnai qualcosa come un animale ferito. «Lo so, non è alla mia altezza» confessai infine, con un sospiro.
«Veramente...» intervenne Murphy. «Sei tu che non sei alla sua altezza».
Quella frase mi spiazzò. Alzai lo sguardo sul mio amico, decisamente perplesso: non mi sembrava proprio che si potesse ribaltare la questione a quel modo. Era lei che stava in alto, irraggiungibile, non io.
Murphy mi rivolse un'occhiata d'intesa, come se stesse per rivelarmi un importante segreto su complotti governativi o sull'esistenza degli alieni. «Andiamo, Rey! Lei è una snob con la puzzetta sotto il naso, che si crede tanto migliore in virtù del cospicuo patrimonio del padre. È un'ochetta senza sogni e senza aspirazioni, il cui problema principale è quale rossetto si abbini meglio all'abito che indossa. È una stronzetta viziata» decretò infine. Murphy aveva una capacità impressionante di tranciare giudizi.
Qualcosa dentro di me ribollì: non potevo permettere al mio migliore amico di insultare in quel modo la ragazza che mi piaceva. Però... accidenti, aveva ragione!
La mia capacità di giudizio era stata annebbiata dal fatto che avevo una cotta per lei, ma la descrizione di Murphy le calzava a pennello. Eleanor era... una stronzetta viziata! E io avevo perso il mio tempo dietro a lei!
Murphy si avvicinò a me e mi mise le mani sulle ginocchia, in modo da potermi guardare direttamente negli occhi. «Remus, tu ti meriti di meglio» sentenziò con sicurezza.
La verità mi piombò addosso improvvisa come una doccia fredda. Murphy aveva ragione: perché avevo buttato via il mio tempo per correre dietro a lei? Era bella, affascinante e intrigante, ma non avevo nulla a che fare con lei e con il suo scintillante mondo di diamanti. Io mi meritavo di meglio rispetto ad una sciocca superficiale cocca di papà.
«Hai ragione, Murphy!» esclamai alla fine, con decisione. «Niente più Eleanor Sangster! Il mondo è pieno di belle ragazze molto più intelligenti di lei!»
«Così mi piaci!» approvò Murphy, dandomi una pacca amichevole sulla schiena.
Mi alzai dal letto con ritrovato entusiasmo e afferrai il pacchetto di biscotti che Blinky aveva lasciato sulla scrivania. Forse, dopotutto, era meglio che la sua Benedizione non avesse funzionato: ora mi sentivo incredibilmente più libero, come se mi fossi disfatto del peso enorme rappresentato dalla mia cotta per Eleanor. «Vuoi un biscotto?» chiesi, offrendoli al mio amico.
Murphy non si faceva mai troppe domande quando si trattava di cibo. E questo era un bene se gli mettevo sotto il naso dei biscotti fatati. Prese il dolce che gli offrivo senza problemi: li assaggiammo entrambi, per scoprire che erano davvero deliziosi.
Dai, la mia vita non era poi così squallida.
«Ti ho noleggiato un film, così, per distrarci un po'» mi disse Murphy, ancora con la bocca piena, tirando fuori dalla borsa di scuola una videocassetta.
«Che cosa hai preso?» domandai incuriosito, ma il mio entusiasmo si smorzò all'istante quando lessi il titolo: “Il ritorno dello Jedi”. «Ma sei andato al cinema a vederlo almeno quattro volte e sai tutte le battute a memoria!» mi lamentai con un sonoro sbuffo. Il mio genere di film erano quelli che chiunque altro avrebbe definito “polpettoni storici”; Murphy invece adorava la fantascienza e mi aveva fatto sorbire tutta la serie di Star Wars con i suoi vari derivati, anche se io li trovavo vagamente ridicoli. Così poco verosimili.
Murphy mi strappò la cassetta dalle mani e si diresse verso il registratore del salotto. «Tu però non l'hai mai visto, il che è scandaloso. È una mancanza a cui dobbiamo assolutamente rimediare» decretò in un tono che non mi permise di ribattere nulla.
Sbuffai e poi lo seguii in salotto, dove il mio amico aveva già preparato tutto. Non appena partì la sigla, Murhpy mi rivolse uno sguardo eccitato, ma io mi limitai ad un sorrisetto rassegnato.
C'era comunque da apprezzare lo sforzo. In fin dei conti, stava cercando di aiutarmi. «Ehi, Murphy» lo chiamai.
«Mmmh?» rispose lui, gli occhi fissi sullo schermo della televisione, mentre cominciavano ad apparire le prime immagini del film.
«Grazie».
Murphy si voltò verso di me e mi rivolse un sorriso. «Ehi, amico» esclamò, fingendo di spararmi un colpo di pistola come faceva sempre Jamie. Ridacchiammo entrambi, decisamente più sollevati.
«Quando serve» soggiunse Murphy, poco dopo.
Già, Murphy c'era ogni volta che mi serviva ed era per questo che la sua amicizia sincera riusciva sempre a farmi tornare il sorriso.




Povero Remus!
Be', avanti, perché una come Eleanor avrebbe dovuto accettare di andare al ballo con uno come Remus? E poi Blnky è un folletto, quindi ha ben poca materia grigia dalla sua parte! Povero...
Comunque Murphy è un grande! Siamo negli anni 80, in piena gloria Star Wars! Bravo Murphy!!
Ah, QUI l'immagine di quel simpaticone di Alfred McGregor... tornerà, tornerà, non preoccupatevi! ;)
Alla prossima!
B.B.

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Capitolo 7
*** Una nuova occasione ***


Capitolo 6
Una nuova occasione




Firenze, 1987




Quando finalmente terminai il liceo, mi sentii come una fenice che rinasce dalle ceneri: mi ero scrollato di dosso la mia identità di sfigato e potevo ricominciare tutto da capo con l'università, dove nessuno mi conosceva. In fin dei conti, non si bada a quanti soldi hai in banca o con chi ti siedi a mensa all'università. In teoria.
Certo, non divenni il più popolare del campus, ma almeno non mi era stata appiccicata addosso una scomoda etichetta fin dal primo giorno di lezioni.
Avevo scelto la Scuola di Storia e Archivistica alla University College Dublin. Non nutrivo più velleità da docente universitario, ma la storia era la mia passione e trovavo che fosse veramente stupido aver passato sei anni della mia vita a massacrarmi la schiena per frequentare il liceo, senza poi cercare di coronare il mio sogno e trovare un lavoro nel campo che tanto mi appassionava. Ovviamente la retta troppo alta non mi permetteva di abbandonare il posto al cantiere di Bob Kelpe ma, dopo tutti quegli anni, non solo avevo imparato ad apprezzare il suo carattere un po' scontroso e burbero e la sua capacità di rimboccarsi sempre le maniche quando ce n'era bisogno, ma ero anche stato promosso a caporeparto di una sezione del cantiere. Operaio specializzato. L'avevo detto che imparavo in fretta.
Murphy aveva scelto invece la facoltà di Economia, ma questo non ci divise: eravamo stati grandi amici per troppi anni per perdersi a causa di due università diverse. Quanto a Jamie, si cercava di evitarlo il più possibile, per quanto, essendo cugino di Murphy, ogni tanto ce lo ritrovavamo tra i piedi.
Ma la cosa più significativa della mia carriera universitaria accadde al quarto anno di corso, quando il mio professore di Storia Medievale mi offrì l'occasione di fare un piccolo stage all'estero per due settimane. Italia, ovviamente. Per studiare la realtà comunale tra il XII e il XV secolo. Avrei avuto la possibilità di consultare manoscritti e documenti dell'età medievale conservati alla biblioteca laurenziana di Firenze. Una possibilità unica.
In realtà, però, mi fu offerta un'altra e ben più importante occasione, durante quel soggiorno a Firenze.
Ero arrivato in Italia da una settimana circa: avevo già visitato ogni monumento importante della città, mi ero perso ad osservare il corso dell'Arno, mi ero innamorato del campanile di Giotto e della cupola del Brunelleschi, avevo fatto a pugni con altri turisti per attraversare Ponte Vecchio, avevo preso pagine di appunti su ogni cosa che potesse essermi utile per la mia ricerca. Quel pomeriggio, però, avevo deciso di prendermi una pausa: adoravo passeggiare per il Lungarno, lasciandomi cullare dall'aria impregnata di arte e cultura che aleggiava in Firenze.
Ad un tratto, il mio sguardo fu rapito da una ragazza che se ne stava appoggiata al parapetto del Lungarno, osservando il fiume che scorreva piano piano sotto i suoi occhi. Sul momento nemmeno capii perché fui tanto attirato da lei, ma poi...
Non era possibile! Quel volto, quegli occhi scuri nascosti dietro un paio di occhiali da sole, quei capelli al vento... erano passati quattro anni dall'ultima volta che l'avevo vista, ma conoscevo a memoria ogni singolo tratto di quel viso, perché l'avevo amato dal primo momento in cui il mio sguardo si era posato su di lei.
«Eleanor Sangster?» mormorai, incapace di trattenermi.
Lei si voltò verso di me, stupita che qualcuno conoscesse il suo nome in una città così lontana da casa. «Ci conosciamo?» mi domandò, scrutando i miei tratti nella speranza di riconoscermi.
Oddio, era davvero lei! Non riuscivo a credere di averla incontrata proprio a Firenze. E adesso che diavolo avrei dovuto dirle? Santo cielo, possibile che, dopo tutto quel tempo, fossi ancora cotto di lei?
Eleanor era ancora lì a guardarmi con aria interrogativa, mentre io sembravo un completo idiota. Mi riscossi. «Io... ehm... eravamo insieme al liceo, a Dublino» borbottai, passandomi una mano tra i capelli con imbarazzo.
Eleanor mi scrutò per un attimo, come se cercasse di riconoscere i tratti del mio volto. Poi si illuminò. «Oh, sì, mi ricordo di te! Tu sei quello che mi invitò al ballo» esclamò, con un sorriso.
Fantastico. Se ne ricordava.
Feci una risatina isterica, appoggiandomi con finta disinvoltura al parapetto. «Già... Remus Alborgeth; uno dei tanti idioti, immagino» risposi, cercando di sdrammatizzare.
Eleanor si levò gli occhiali da sole con un unico gesto aggraziato e mi rivolse un sorriso.
Oh, cielo, stava sorridendo a me!
«Veramente, fosti l'unico» mi rivelò, arricciando una ciocca di capelli intorno al dito, un suo gesto che avevo osservato milioni di volte. «L'unico?» le feci eco, decisamente stupito. Possibile che nessun altro fosse rimasto tanto ammaliato da Eleanor da trovare il coraggio di invitarla al ballo?
Eleanor ridacchiò e mi parve che la sua risata fosse simile al suono delle campanule mosse dal vento. «Be', tutti sapevano che all'epoca stavo con Alfred McGregor e nessuno osava mettersi contro di lui invitandomi al ballo» mi rispose.
«All'epoca? Quindi ora non state più assieme?» le parole mi scapparono fuori di bocca prima di pensare che fosse non fosse proprio il caso di indagare sulla vita sentimentale di una persona con cui, praticamente, non avevo mai parlato.
Per fortuna Eleanor non la prese affatto male, anzi si concesse il lusso di una risata. «Per fortuna no. Mi ha mollato lui, quando ha capito che non ero disposta a fare la brava mogliettina che lo aspetta a casa e accudisce un marmocchietto che viene su viziato come lui» recitò storcendo il naso al solo pensiero.
La sbirciai di sottecchi: era certamente Eleanor Sangster, eppure aveva qualcosa di terribilmente diverso dalla sua versione liceale. Tanto per cominciare, stava parlando tranquillamente con me, uno sfigato di prima categoria che fino a qualche anno fa avrebbe come minimo ignorato; in secondo luogo aveva un modo di fare affabile e gentile, che non le avevo mai visto.
«Ehi, perché non andiamo a berci un caffè? Hai tempo?» mi propose d'improvviso Eleanor.
Ci mancò poco che non mi afflosciai a terra.
Eleanor, Eleanor Sangster stava chiedendo a me di andare a bere un caffè al bar? A me?
Cielo, erano anni che aspettavo questo momento! Certo che avevo tempo!
«Ehm, ok» replicai, fingendo un perfetto disinteresse.
Il metodo era molto semplice: ignorare completamente quello che stava succedendo. Avevo deciso che la parte razionale del mio cervello potesse prendersi una pausa in tutta tranquillità, perché se solo avessi tentato di pensare al fatto che Eleanor Sangster stava venendo a bere qualcosa con me, sarei crollato a terra come una pera cotta. E allora sì che sarebbe stato imbarazzante.
Scegliemmo un bar carino poco lontano dalla cattedrale, in una viuzza interna meno frequentata dai turisti. A giudicare dalla sicurezza con cui si muoveva Eleanor per le strade di Firenze, doveva conoscere bene la città.
«Allora, come mai da queste parti?» mi chiese, mentre prendevamo posto in uno dei tavolini di fuori.
Io mi strinsi nelle spalle. «Stage con l'università. Sai, studio storia» rivelai. La brevità della mia risposta non era scortesia, ma era data dal fatto che avevo la bocca secca e la salivazione azzerata.
«Anche io sono qui in stage» replicò Eleanor, con un sorriso. «In realtà, oggi è l'ultimo giorno e domani ho l'aereo per tornare a casa, ma sono stata qui due mesi. Frequento la Scuola di Restauro presso l'Accademia delle Belle Arti di Dublino».
Pendevo letteralmente dalle sue labbra. Non mi importava di sapere che il giorno dopo sarebbe ripartita ed era molto probabile che non ci saremmo mai più rivisti: la cosa più importante era di essere seduto con lei a quel maledetto tavolino del bar nel cuore di Firenze a parlare del più e del meno.
Arrivò una cameriera che sembrava conoscere bene Eleanor; le ordinammo due cappuccini e quando quella se ne andò, Eleanor si lasciò sfuggire un sospiro. «Temo di non essere stata una gran bella persona, ai tempi del liceo» mormorò in tono amaro.
Non sapevo perché stesse facendo a me quella confessione, ma avevo come l'impressione che avesse bisogno di fare ammenda dei suoi peccati. Era davvero stata una piccola carogna al liceo, eppure non mi sembrava il caso di infierire; anche perché ero cotto di lei e spesso non si vedono i difetti delle persone che si amano. «Ma no, dai...» cercai di sdrammatizzare, con un sorriso.
Eleanor sbuffò, ma i suoi occhi brillavano per un sorriso di gratitudine che aveva cercato di reprimere. «Non sei obiettivo, Remus» mi rispose. «Davvero, ero una snob con la puzza sotto il naso. Una pessima persona. In realtà, devo ringraziare proprio Alfred, perché mi ha aperto gli occhi: quando gli dissi che volevo frequentare la Scuola di Restauro, lui rispose che avrei potuto benissimo fare a meno di lavorare, se avessi sposato lui. Mi resi conto solo allora di quello che ero e di quello che sarei diventata se avessi continuato su quella strada».
«Saresti diventata la moglie di uno degli uomini più ricchi e importanti di Dublino» commentai, stringendomi nelle spalle, mentre la cameriera ci serviva i cappuccini.
Eleanor mescolò lentamente il suo, sovrappensiero. Restammo in silenzio per una manciata i secondi, poi lei tornò a guardarmi dritto negli occhi. «Non ne valeva la pena, Remus» mi rivelò e mi parve che il mio nome sulle sue labbra suonasse in modo dolcissimo. «Vendere se stessi e rinunciare ai propri sogni per guadagnare un po' di popolarità. L'ho già provato e, davvero, non ne vale la pena».
Oh cielo, quanto erano belli e intensi quegli occhi scuri puntati su di me! E quanto avevo desiderato che si puntassero su di me.
Non so se era stata la maturità, la promessa del folletto che avevo salvato, un improvviso esame di coscienza, ma Eleanor era cambiata e la nuova versione mi piaceva decisamente di più di quella vecchia. La nuova versione era disposta a sedersi al tavolino di un bar a chiacchierare con un vecchio compagno di liceo di cui aveva ignorato l'esistenza per anni. Era pronta ad inseguire i propri sogni e a fare qualunque cosa per realizzarli.
Se per la vecchia versione avevo una cotta, di quella nuova, ne ero innamorato perso.
«Ma, che egoista che sono stata: ho parlato solo di me. Raccontami qualcosa tu» esclamò d'un tratto Eleanor, richiamandomi alla realtà. «Io... be', sono un appassionato di storia» risposi, piuttosto imbarazzato. Mi resi improvvisamente conto che lei non aveva la più pallida idea di chi fossi, mentre io sapevo ogni singolo aspetto della sua vita. Che cosa avrei dovuto dire di me ad una persona che mi incontrava per la prima volta?
In realtà, la gentilezza e la schietta curiosità di Eleanor fecero sparire presto il mio imbarazzo. Chiacchierammo delle nostre vite, dei vecchi professori del liceo, dei sogni per il futuro, dell'affascinante città che ci aveva fatto rincontrare, finché non arrivò ora di cena. Non mi ero nemmeno accorto del passare del tempo, tanto ero preso dalla conversazione e dalla contemplazione di Eleanor.
Quando giunse il momento di separarci, avrei voluto avere qualche potere soprannaturale per fermare il tragitto del sole nel cielo. Eleanor sarebbe partita la mattina successiva e dubito che avrei avuto altra occasione di incontrarla una volta tornati entrambi a Dublino: qui eravamo turisti in terra straniera, uniti dalla stessa patria, ma in Irlanda ognuno sarebbe tornato al proprio mondo. E io e Eleanor non facevamo parte dello stesso.
Ero un completo idiota. Avrei dovuto dire qualcosa, fare in modo di aprire uno spiraglio per poterci rivedere una volta rientrati a casa. Una battuta stupida tipo “Be', allora ci becchiamo a Dublino” oppure “Come farò a ritrovarti in Irlanda?”, ma non uscì niente dalla mia bocca. Ero terrorizzato dall'idea che quell'incanto finisse.
Non puoi lasciarla andare via così! mi urlò una voce dentro la testa. Di' qualcosa!
«Be', allora, ciao» mormorai con un sorriso da idiota, quando fu il momento di lasciarla davanti alla porta del suo appartamento. Che cosa stupida da dire.
Ero perduto.
Ma Eleanor sorrise e frugò per qualche tempo nella sua borsa, finché non ne estrasse una penna. Mi afferrò la mano e la girò con il palmo verso l'alto, poi ci scrisse su un numero di telefono. «Quando torni in Irlanda, chiamami ché andiamo a mangiarci qualcosa insieme» mi disse, prima di sparire oltre la porta.
Io rimasi immobile davanti all'uscio chiuso per un tempo incalcolabile. Pietrificato.
Fissavo il palmo della mia mano, dove erano scritte quelle cifre che ballavano sotto i miei occhi almeno tanto quanto mi ballava il cuore nel petto.
Avevo il numero di telefono di Eleanor Sangster.
Lei me l'aveva dato.
E voleva che la chiamassi.

Ero in paradiso.




Buongiorno a tutti!
Ebbene sì, sono tornata! In realtà la storia era già pronta, ma non ho avuto qualche difficoltà ultimamente. Comunque ho intenzione di finire di pubblicare questa storia, poi preparare le prossime del ciclo di Faerie.
Comunque, Elinor è maturata e Remus ha avuto la sua seconda occasione.
QUI un'immagine di Elinor appoggiata al parapetto del Lungarno.
A presto,
Beatrix B.

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Capitolo 8
*** Il coraggio per una telefonata ***


Capitolo 7
Il coraggio per una telefonata




Dublino, 1987




Ero tornato in Irlanda da una settimana, ma non avevo ancora avuto il coraggio di chiamare Eleanor. Avevo disseminato la camera di biglietti con scritto sopra il numero di telefono che mi aveva dato, per paura di perderlo, eppure non avevo ancora trovato la forza di mettermi in gioco.
Quella domenica pomeriggio me ne stavo chiuso in camera con la scusa di studiare per un esame, ma in realtà il mio sguardo continuava ad indugiare sul foglietto che mi penzolava davanti al naso, con quelle cifre che parevano un vortice infuocato di lava che mi risucchiava al suo interno.
«Ehi, che muso lungo!» esclamò mio fratello David, entrando di getto nella stanza. Indossava un paio di pantaloni di pelle attillati e una maglietta con le maniche strappate e un teschio disegnato sopra. Ma non era questo il peggio contro cui la mamma combatteva ogni santo giorno: per rendere più hard rock il suo stile, David si era fatto il buco per l'orecchino e portava perennemente i capelli lunghi. Mamma, com'era ovvio, non lasciava passare giorno senza fargli notare che ai suoi tempi un ragazzo con i capelli lunghi era impensabile e che dava una cattiva impressione alla gente, ma David rispondeva che eravamo negli anni Ottanta e certi ridicoli tabù non avevano più senso. Per quel che mi riguardava, era decisamente orripilante, ma aveva un discreto successo con le donne.
David lavorava presso un'officina meccanica poco distante da casa, dove, oltre che lavorare, modificava le moto e truccava i motori. Era bravo e aveva acquisito una discreta fama che gli portava parecchi clienti. Il suo sogno era quello di guadagnare abbastanza per aprire un'officina tutta sua. Stranamente, le moto era una delle poche passioni che avevamo in comune, oltre al rugby (ma non esiste Irlandese che non sia appassionato di rugby). Il mio unico mezzo di locomozione era la mia irrinunciabile bicicletta, ma se avessi avuto i soldi mi sarei comprato una magnifica BMW.
David, ovviamente, sognava una Harley, la vera moto hard rock style. Occhiali da sole a goccia e capello al vento. Così dannatamente americano. Soprattutto considerato che in Irlanda pioveva più spesso che in in tutti gli altri stati attraversati dalla Route 66 messi assieme. Ma David aveva diciannove anni e tutto il diritto di sognare.
In effetti, quel giorno entrò in camera con una foto di una Harley strappata da una rivista e la appese al muro con un pezzo di nastro adesivo.
«Mamma ti ammazza se le rovini l'intonaco» commentai con un certo disinteresse.
«Fatti gli affaracci tuoi» rispose David. Dopodiché il suo sguardo si posò sul post-it che avevo davanti al naso e lo strappò di colpo dal muro. «Si può sapere di chi è questo numero?» mi domandò, cercando di capire se lo conosceva.
«Dammelo!» gli intimai, compiendo qualche inutile tentativo di sottrarlo alle sue grinfie.
«Facciamo una prova, eh?» propose David con un sorrisetto beffardo, schizzando in salotto dove c'era il telefono.
Mi alzai di scatto, facendo cadere la sedia, e lo inseguii per impedirgli di fare pazzie. Quando lo raggiunsi, stava già componendo il numero. «Fermati!» gli gridai, premendo il tasto della cornetta per interrompere la chiamata.
«Di chi è il numero?» si intromise David con un sorrisetto ambiguo.
«Di Eleanor! Va bene?» sbottai in tono risentito.
David depositò nuovamente la cornetta al suo posto. «Eleanor chi?»
«Eleanor Sangester».
«La tipa alla quale sbavavi dietro al liceo?» esclamò stupito David.
Incrociai le braccia al petto. «Sì, lei» lo sfidai.
Il sorriso di David si allargò con evidente compiacimento. «E come mai hai il suo numero?» indagò.
«Me l'ha dato lei, ok? Ci siamo incontrati per caso a Firenze» gli risposi con aria piuttosto scocciata.
«Ah-ah!» esclamò soddisfatto David, dandomi una sonora manata sulla spalla che, a suo parere, doveva essere un gesto di apprezzamento. «E tu l'hai già richiamata?»
«No!» replicai scandalizzato, come se mi avesse proposto qualche pericolosa azione illecita. Come avrei potuto farlo? E se si fosse dimenticata di me? Dopotutto erano passate due settimane e noi ci eravamo visti sì e no per mezzo pomeriggio.
Tutto l'entusiasmo di David si spense in un secondo. «Quanto sei idiota» commentò in tono piatto. Dopodiché mi diede un gran spintone che mi fece cadere a gambe per aria sul divano, poi afferrò il telefono e si allontanò per comporre il numero.
«Non farlo!» gridai in preda al panico. Non ero preparato, non avrei saputo che dire! Mi alzai, inciampai su un cuscino, allungai le mani verso mio fratello, ma lui era a debita distanza e continuava imperterrito a girare i numeri. Inghiottii un “no!” quando sentii il suono sordo del primo squillo.
Oddio, aveva chiamato davvero.
«Che combinate di là?» ci gridò la mamma dalla cucina, ma nessuno dei due rispose.
Mi ficcai in bocca l'angolo di un cuscino e sgranai gli occhi verso di lui, che se ne stava ritto in piedi con la cornetta attaccata all'orecchio.
Passarono una manciata di terribili secondi.
Poi qualcuno rispose.
«Ciao, sono David, c'è Murphy per favore?»
Murphy? Aveva chiamato il mio amico Murphy, quell'idiota! Mi aveva quasi fatto venire un infarto! Mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo e tirai il cuscino addosso a mio fratello, ma lui era decisamente più agile di me e lo evitò.
«Ehi, Murphy, vieni qui che abbiamo bisogno del tuo aiuto. Questione urgente» gli disse mio fratello, rivolgendomi un gran sorriso. Prima o poi gliela avrei spaccata quella faccia da buffone.

Murphy avvivò piuttosto trafelato una mezz'oretta più tardi. «Che succede?» chiese in tono allarmato, guardando prima David poi me. «Dobbiamo convincere Remus a chiamare Eleanor» annunciò mio fratello, indicandomi con fare teatrale.
«Quella Eleanor?» gli fece eco Murphy.
Non ci poteva credere, ovviamente. Mentre gli raccontavo per bene tutta la storia, vidi le più buffe espressioni di incredulità dipingersi sul suo volto lentigginoso. Al termine della narrazione, era entusiasta almeno quanto David. «Devi assolutamente chiamarla!» mi intimò, afferrandomi per le spalle e scuotendomi avanti e indietro, come per risvegliarmi.
«No!» risposi io con determinazione. Mio fratello e il mio migliore amico mi guardarono increduli, manco avessi appena dato fuori di matto.
«Andiamo, sono passate due settimane. Magari non si ricorda nemmeno chi sono!»
«Magari invece si ricorda!» mi rimbeccò David, dandomi un sonoro spintone.
Murphy allora alzò le mani per calmare i nostri bollenti spiriti e propose una soluzione logica: «Facciamo la Tabella del più e del meno».
La Tabella era una sua invenzione. Lui che era sempre così insicuro e catastrofico aveva sviluppato un metodo che lo aiutava a vederci chiaro per prendere le decisioni giuste: in una colonna segnata con il più scriveva i lati positivi di una scelta, nell'altra, marcata con il segno meno, appuntava quelli negativi; poi assegnava ad ogni aspetto un punteggio da 1 a 10, faceva le somme e metteva a confronto le due caselle: se c'erano più lati positivi che negativi, sceglieva quella via.
In realtà, visto il suo lato pessimistico, scriveva sempre una lunghissima lista di aspetti negativi, ai quali assegnava punteggi altissimi, ma almeno questo metodo aveva un che di scientifico che lo rassicurava e lo rendeva convinto di aver fatto la scelta giusta.
Fu così che ci sedemmo al tavolo della cucina con la stessa serietà di un gruppo di rapinatori di banche che progetta il prossimo colpo e stilammo la famigerata classifica, sotto l'occhio preoccupato di mamma.
«Vuoi fermarti a cena, Murphy caro?» domandò non appena terminammo di scrivere la tabella.
«Mamma, io stasera esco con Gween!» intervenne David, come se non fosse affatto possibile che Murphy restasse a cena se lui non c'era.
«Gween?» mi intromisi io. Il nome mi era nuovo. «Ma non stavi con Lizzy?»
«Nah, l'ho mollata. Non le piacevano le moto» spiegò David, con una scrollata di spalle. «Gween invece sì che è una tipa tosta. Lei se ne intende di hard rock».
«Comunque parlavo con Murphy» precisò la mamma, scuotendo la testa con rassegnazione.
Io e il mio amico sogghignammo per la faccia contrariata di David, poi lui declinò gentilmente l'offerta dicendo che aveva da studiare per un esame (come me, in effetti, ma io avevo bellamente deciso di ignorare la cosa).
Quando mamma lasciò la cucina e ci abbandonò alle nostre folli trame, Murphy sventolò con orgoglio la sua tabella e ci lesse i risultati: «Se la chiami rischi di fare la figura dell'idiota o che lei non si ricordi di te, per un punteggio complessivo di 9, ma ci sono buone probabilità che lei dica di sì e questo vale un bel 10. D'altro canto se non la chiami, sei sicuro di non fare nessuna brutta figura e questo vale un 7, ma è ovvio che non uscirai mai con lei e questo ti costa un 10. Quindi, alla colonna A sottraiamo la colonna D per un risultato di -1, alla colonna B sottraiamo la colonna C e otteniamo +3... in sintesi, è più vantaggioso chiamarla di ben 4 punti».
Io e mio fratello ci scambiammo un'occhiata perplessa: c'era decisamente qualcosa che non quadrava in quell'insieme astruso di calcoli. La conclusione mi sembrava parecchio forzata.
«Be', comunque, anche se la chiamassi, rischierei di impappinarmi e non saprei cosa dire» borbottai, cercando di convincere gli altri delle mie ragioni.
David mi diede un poderoso spintone che per poco non mi fece cadere dalla sedia, poi sbuffò parecchio infastidito: lui non era il tipo che temporeggiava tanto quando si trattava di accalappiare al lazzo una ragazza e non poteva soffrire la mia eterna indecisione.
«Risolviamo anche questo!» esclamò invece Murphuy, sempre pronto a farsi in quattro quando si trattava di aiutarmi. «Ti scriviamo su un foglio le cose che devi dire!»
Realizzai quanto fossi patetico solo quando mi ritrovai chiuso in camera, seduto sul letto, con il telefono sulle gambe e il foglio in mano. Avevamo scritto ogni cosa, dal modo in cui avrei dovuto rispondere a ciò che avrei dovuto dire se Eleanor non ci fosse stata o se si fosse dimenticata di me. Era a prova di idiota.
Ma, per quanto l'aiuto di David o l'entusiasmo di Murphy potessero essermi utili, la decisione finale spettava a me, a dispetto di stupide tabelle segnapunti e di istruzioni per telefonare. Ne stavo facendo un dramma, il che era assolutamente ridicolo. Era solo una telefonata, in fin dei conti! Quando l'avevo invitata al ballo mi ero mosso con sicurezza solo perché credevo alla Benedizione di un folletto, cosa ben più irreale di un intero pomeriggio passato insieme e della sua specifica richiesta di contattarla. Lo sguardo mi cadde sul piattino di biscotti che Blinky mi aveva portato qualche giorno fa: erano passati anni ma lui, imperterrito, preparava per me una manciata di biscotti al burro e me li portava di notte, senza farsi vedere; sinceramente, pensavo che non avrebbe mai smesso con questa buffa abitudine.
Spostai di nuovo lo sguardo sul numero di telefono di Eleanor e presi la mia decisione: non dipendeva dalle magie dei folletti, non dipendeva dai pomeriggi a Firenze o dalle tabelle di Murphy. Dipendeva da me. E io volevo chiamarla, maledizione!
Sotto l'influsso di questa presa di coscienza, composi rapidamente il numero, prima di pentirmene.
Suonarono un paio di squilli, poi rispose una voce femminile: «Pronto?»
«Buonasera, sono Remus, un amico di Eleanor. È in casa, per favore?» lessi la prima riga del foglio guida.
«Certo, te la passo» rispose la voce.
Attesi in linea per qualche secondo, poi Eleanor prese la cornetta. «Ciao, Remus!» esclamò allega. «È andato bene lo stage a Firenze?»
Grandioso, si ricordava di me!
«Bene, grazie» mormorai, ma guardando la traccia di Murphy non sapevo più che aggiungere.
Per fortuna lei commentò: «Mi fa piacere sentirti».
Santo cielo, le faceva piacere sentirmi!
«Anche a me. Sono riuscito a ritagliarmi un attimo di tempo per chiamarti» risposi con disinvoltura. Oddio, stavo improvvisando! E bene, anche! Appallottolai il foglio guida e me lo gettai alle spalle con entusiasmo.
«Senti, tu che fai sabato sera?» mi buttò lì, come per sondare il terreno.
«Niente, e tu?»
«Niente».
Bene, era la mia occasione: mi aveva lanciato un amo e io non dovevo far altro che abboccare. «Allora, che ne dici se usciamo a mangiare qualcosa insieme?» le proposi, con un sorriso speranzoso, che per fortuna lei non poteva vedere.
«Volentieri. Conosco un buon posticino al Temple Bar, dove non si paga neanche troppo» rispose Eleanor, con semplicità.
Aveva detto di sì! Avevo un appuntamento con lei!
«Ottimo, allora ci vediamo per le otto davanti alla Banca d'Irlanda» risposi, pensando al punto d'incontro più comodo, vicino al quartiere del Temple Bar.
«Ok, a sabato!» replicò lei.
«A sabato» le risposi e poi riattaccai.
Ero in estasi. Quando uscii dalla stanza, praticamente galleggiavo ad una spanna da terra.
«Allora?» si informò subito Murphy.
Gli risposi con un sorriso beato, e probabilmente sarebbe bastato quello, ma la mia voce sognante aggiunse: «Ho un appuntamento con lei per questo sabato».
«Ma sabato c'è la partita dei Leoni!» esclamò scandalizzato David.
«Oh, già» mormorai meditabondo, ripiombando sul pianeta terra. Era tradizione andare al bar a bere una Guinness quando c'era la partita del Leinster Rugby. «Ma io ho un appuntamento con Eleanor Sangster! Al diavolo il rugby!» esclamai allegro, battendo le mani.
«Al diavolo il rugby?» si indignò David, scandalizzato come se avessi bestemmiato.
«È proprio cotto» mormorò Murphy, scuotendo il capo rassegnato.
Sì, ero proprio cotto. E a buon diritto: per tutte le mazze da hurling, avevo un appuntamento con Eleanor Sangester!





Buongiorno!
Capitoletto divertente! David è un mascalzone, ma a noi piacciono anche così, giusto? In coppia con Remus, poi, sono fantastici!
Anche Murphy, devo dire, ci mette del suo: la Tabella è una cosa essenzialissima per prendere le giuste decisioni! ;)
Intanto, godetevi qualche immagine dei nostri giovanotti cresciuti:
QUI Remus;
QUI Eleanor;
QUI David;
infine, QUI Murphy.
Al prossimo aggiornamento, carissimi!
Beatrix

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Capitolo 9
*** Your song ***


Capitolo 8
Your song




Dublino, 1987




Eravamo al terzo appuntamento. L'appuntamento critico, a detta di David, che aveva un vero e proprio decalogo su come accalappiare le donne. Quello in cui avrei dovuto baciarla; perché, se la baci prima, sembra che tu voglia affrettare le cose, se aspetti troppo, passi per un inconcludente.
Sinceramente, non sapevo dove David avesse appreso questa verità rivelata e mi auguravo che non la conoscesse anche Eleanor, perché mi sarei sentito molto sotto pressione se ci fosse stata una qualche aspettativa da parte sua.
Quel giorno avevo chiesto a Bob Kelpe il permesso di uscire un'ora prima dal lavoro perché avevamo appuntamento al Phoenix Park che era dalla parte opposta della città e non sarei mai riuscito ad arrivare in tempo, avendo a disposizione solo la mia misera bicicletta.
Incredibile a dirsi, Bob mi concesse il permesso. Ero estasiato dalla sua inaspettata generosità... e non eravamo neanche vicini a Natale! Fu così che, arrivate le sei di sera, mi levai la mia tuta da lavoro, mi rinfrescai velocemente ai bagni della fabbrica e mi lavai i denti (sempre pensando al decalogo di mio fratello). Avevo deciso che l'unica cosa che potesse in qualche modo rompere il giacchio e far trapelare le mie vere intenzioni senza essere troppo sfacciato, fosse comprarle un regalo romantico. Avevo escluso a priori fiori e cioccolatini perché avevo sempre odiato le banalità, e così avevo passato giorni interi a mediare su quale potesse essere il regalo migliore. Alla fine, avevo avuto un'illuminazione ascoltando la radio: che cosa c'era di più romantico di una canzone d'amore?
Certo, io ero probabilmente l'essere umano più stonato di questo universo e anche di quelli paralleli, e la mia incapacità musicale arrivava ai limiti dell'indecenza, ma potevo sempre comprarle un trentatré giri. La mia conoscenza di musiche era piuttosto limitata, ma mi saltò all'occhio subito la canzone perfetta per quella occasione: Your song di Elton John.
Era lei, era la mia canzone.
Avevo comprato il disco e avevo scritto una dedica semplice ma che mi nasceva dal cuore: “A Eleanor, il sole che illumina le mie giornate. Con affetto, Remus”.
Osservai con soddisfazione il trentatré giri che avevo comprato e sorrisi. Non mi serviva il decalogo di David per sapere che l'avrei conquistata.
Infilai il regalo nella mia tracolla che traboccava di libri e carte varie e mi diressi all'uscita. Stavo per svoltare l'angolo quando sentii la voce di Eleanor e mi congelai sul posto, terrorizzato. Che ci faceva qui? Lei non sapeva che io lavoravo al porto! Chi... come...
«Cercavo Remus Alborgeth» la sentii chiedere.
Mi diedi una manata sulla fronte e appoggiai le spalle al muro, in una vera raffigurazione della più nera disperazione. Che figura da idiota!
«Dunque sei tu il motivo per cui mi ha chiesto il permesso di uscire un'ora prima» commentò un altra voce che riconobbi, con un brivido di terrore, essere quella di Bob. Che cosa diavolo ci faceva lì Bob? Perché il destino si stava rivoltando contro di me?
«Io... ehm» mormorò Eleanor, messa a disagio dalla domanda diretta del mio capo. Sapevo che sarebbe stato più corretto svoltare l'angolo e salvarla da quella situazione imbarazzante, ma al momento ero troppo occupato a crogiolarmi nel mio dolore per essere altruista.
«Remus lavora qui da quasi dieci anni» cominciò a dire Bob, con quel suo tono perentorio che terrorizzava perfino gli operai più anziani. «Non l'ho mai sentito chiedere nemmeno un giorno di ferie o un permesso per malattia. L'ho visto venire al lavoro con quaranta di febbre, pur di non perdere la paga. Remus non manca mai, non smette mai di lavorare. Eppure mi ha chiesto un permesso di un'ora. Per te».
Ok, questo era decisamente troppo. Cosa cavolo stava andando a dirle Bob? Perché doveva metterla in imbarazzo a quel modo?
Ma, soprattutto, perché io me ne stavo lì con le spalle al muro, nascosto dietro l'angolo, invece di intervenire?
«Stammi bene a sentire, giovinotta» riprese a dire Bob, manco stesse rimproverando un suo lavoratore inadempiente. «Uno come Remus non si trova tutti i giorni. Non si butta via il luppolo buono, quando c'è la possibilità di fare una buona Guinness».
Il paragone con la birra rappresentò il punto di non ritorno: era decisamente ora di intervenire. Mi feci coraggio, presi una profonda boccata d'aria e poi svoltai l'angolo.
«Ehi... Eleanor!» esclamai, fingendomi sorpreso. Avevo discrete doti recitative, dopotutto.
«Remus» rispose lei e quello suonava proprio come un sospiro di sollievo.
Rivolsi un sorriso innocente a Bob e poi mi allontanai in fretta insieme a Eleanor, con la scusa di andare a recuperare la mia bicicletta. Quando fummo sufficientemente lontani da Bob, le chiesi come avesse fatto a trovarmi.
«Ero in anticipo e ho chiamato a casa tua perché pensavo di venire a prenderti lì, ma mi ha risposto tuo fratello e mi ha detto che eri al lavoro. Così mi sono fatta spiegare dove lavori e sono venuta a farti una sorpresa» mi spiegò.
Promemoria della giornata: ricordare a David di farsi i fatti propri.
«Non mi avevi detto che lavoravi» commentò Eleanor, ma per fortuna il suo tono non velava nessuna accusa.
Scrollai le spalle con un finto disinteresse. «Mah, sai, un lavoretto così per pagare l'università» risposi, cercando di sminuire la cosa. «Ma Bob ha detto che sei lì da quasi dieci anni; vuol dire che lavoravi anche durante il liceo» dedusse Eleanor.
Secondo promemoria della giornata: ricordare anche a Bob di farsi i fatti propri. No, aspetta, era il mio capo. A lui non potevo dirlo. Che cosa avrei dovuto rispondere? Che la mia famiglia era talmente povera da non potersi permettere nemmeno di mantenermi la scuola? Quella era la verità, in fin dei conti, ma mi vergognavo ad ammetterla. Soprattutto non davanti ad una delle ragazze più ricche di Dublino.
Spingevo la bici con una sola mano, l'altra, a penzoloni sul fianco, urtava contro la mia borsa ad ogni passo. Stavo lì come un idiota, senza sapere che dire.
Ma poi Eleanor mi prese la mano e intrecciò le sue dita con le mie. «Deve essere stata dura» commentò, in un tono che profumava di dolcezza. Non mi stava giudicando, né deridendo: mi apprezzava per gli sforzi che avevo compiuto per tener fede ai miei propositi, quando ero solo un ragazzino. Strinsi la presa sulla sua mano e le rivolsi un sorriso sereno. «Un po'» risposi.
Ci incamminammo verso un piccolo parco che costeggiava la riva del fiume Liffey, chiacchierando di cose banali. Arrivati al parco, legai la bicicletta ad un albero e cominciammo a passeggiare per i vialetti alberati, tenendoci per mano come una coppia di fidanzatini. Quando giungemmo al parapetto, ci appoggiammo ad osservare il fiume. Non era romantico come l'Arno e Pontevecchio, ma potevo farmelo andare bene. Era un momento magico: lei mi teneva per mano, mi stimava per ciò che facevo, mi sorrideva. Ed eravamo al terzo appuntamento. Quello decisivo.
«Sai, ti ho preso una cosa» buttai lì, estraendo dalla borsa il disco. Glielo porsi perché lo scartasse e ammirai i suoi gesti delicati che strappavano la carta, lo stupore nei suoi grandi occhi scuri, il sorriso di commozione quando lesse la dedica.
«Oh, Remus, è bellissimo» mormorò lei, ancora rapita dalle poche parole che avevo scritto.
«Te l'avrei cantata, ma... fidati, ne va della salute delle tue orecchie» ridacchiai, per sdrammatizzare la situazione.
Ma in realtà non volevo affatto sdrammatizzare. Volevo che mi prendesse sul serio, che capisse quanto mi piaceva, che accettasse il cuore che ero pronto a donarle.
Eleanor sfiorò delicatamente con un dito la dedica che avevo scritto sulla copertina del trentatré giri. «Sono le parole più belle che mi siano mai state rivolte» sussurrò estasiata, alzando alla fine gli occhi su di me.
Pensai al decalogo di David, pensai a quante volte mi ero immaginato quel momento, pensai che era finalmente arrivato il tempo della mia rivincita.
E poi pensai che lo volevo e basta.
E la baciai.

Non passò neanche una frazione di secondo che Eleanor aveva già risposto al bacio.
Non ero certo il re degli amanti e forse quel bacio fu un po' goffo, le mie labbra premute sulle sue, che cercavano di fondersi in un unico corpo, le mani che cercavano disperate di accarezzare i fianchi, il viso, i capelli; e quei respiri un po' affannosi, impacciati, segno dell'assillante domanda: ma starò andando bene?
Eppure, quando ci separammo, Eleanor stava sorridendo e non mi era mai sembrata così bella, con le gote un po' arrossate e gli occhi che sembravano liquidi, il viso ad ad un soffio dal mio naso.
«Sono contenta di averti incontrata, Remus» sussurrò con un sorriso.
«Il destino a volte ci riserva meravigliose sorprese» risposi, ormai totalmente sicuro di me.
E poi la baciai di nuovo.





Buongiorno!
Nel malaugurato caso in cui qualcuno non conoscesse la canzone di Elton John (eresia!) vi lascio QUI il link.
Alla prossima
Beatrix B.

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Capitolo 10
*** Fuga d'amore ***


Capitolo 9
Fuga d'amore




Dublino, 1988




È una verità universalmente conosciuta che incontrare i genitori della propria fidanzata è uno dei momenti di crisi peggiore per qualsiasi giovane innamorato. A complicare le cose, non solo c'era il fatto che io ero un povero orfano figlio di un'operaia e avrei dovuto incontrare Jeremy Sangster, una delle persone più ricche e influenti in campo finanziario di tutta Dublino, ma anche le circostanze non erano delle più favorevoli: una cena di beneficenza al Saibhir, il club fondato una trentina di anni fa per riunire tutti i personaggi più insigni della città.
Non avevo mai visto così tante condizioni sfavorevoli riunite in una sola serata.
Inoltre, avevo affittato uno smoking perché non avevo uno straccio di vestito da indossare ed ero costretto a raggiungere la casa di Eleanor in bicicletta, il mio unico mezzo di trasporto, con indosso l'abito da sera. Nella speranza di arrivare integro; io, come l'abito. Perché, a coronare il tutto, avevo comprato un mazzo di fiori per la signora Sangster e quindi ero costretto a pedalare tenendo il manubrio con una mano sola: una grossa sfida per il mio scarso equilibrio.
Probabilmente il mio angelo custode mi tenne una mano sulla testa, perché riuscii ad arrivare alla meta sano e salvo. Mi presentai a casa Sangster pieno di buoni propositi, ma parecchio agitato. Non ero certo di come mi avrebbero accolto: sapevo che Eleanor era cambiata, ma chi mi garantiva che i suoi genitori avrebbero accettato il passaggio da un ricco rampollo dell'alta società come McGregor ad un povero sognatore con in tasca null'altro che i propri sogni come me?
Suonai il campanello con il cuore in gola. Mi aspettavo domestici in divisa e maggiordomi dall'aria austera, invece venne ad aprirmi la mamma di Eleanor in persona. La riconobbi perché aveva gli stessi grandi occhi scuri della mia Eleanor e il medesimo sorriso delicato.
«Buonasera. Io... ehm, le ho portato questi, signora Sangster» balbettai, offrendole i fiori.
«Oh, grazie, caro. Sono bellissimi» mormorò rivolgendomi un sorriso di gratitudine. «Vieni, entra pure» aggiunse poi, facendomi accomodare in ingresso.
L'appartamento era ampio e spazioso, arredato con un certo gusto e arricchito dalla posizione centrale e dalla gradevole vista sul fiume Liffey. Dava l'impressione di essere molto luminoso, forse grazie alle ariose finestre o ai lampadari di cristallo che riflettevano la luce. Certo, era un appartamento elegante ma non così lussuoso come mi ero aspettato. Non mi faceva sentire poi così a disagio, in fin dei conti.
In quel momento arrivò in ingresso il signor Sangster: indossava uno smoking elegante, aveva sul naso un paio di occhiali di corno e portava i capelli, ancora scuri ad eccezione di qualche striatura grigia, pettinati all'indietro. Aveva un portamento fiero e rispettoso, ma c'era nel suo volto qualcosa che infondeva sicurezza e tranquillità; forse era la fronte spaziosa, distesa e con un lieve accenno di rughe, forse il sorriso garbato che gli decorava le labbra o, più probabilmente, quegli occhi verdi così luminosi da parere due smeraldi. «Jeremy Sangster» si presentò, tendendo la sua mano verso di me con fare cordiale.
Gliela strinsi. «Remus Alborgeth; piacere di conoscerla, signore» risposi, facendo sfoggio di tutte le mie buone maniere.
Ci accomodammo in salotto, mentre Eleanor finiva di prepararsi. Mi sentivo come un imputato sotto processo e me ne stavo rigido come un baccalà, seduto sulla punta del divano come se avessi paura di rovinare la tappezzeria.
«Eleanor mi ha detto che studi storia» intavolò il discorso il signor Sangster. Il suo tono era neutro, ma avevo come l'impressione che un uomo di finanza non potesse appoggiare del tutto una laurea in una materia così inutile. «Ti piace?» mi chiese invece.
Io mi accartocciai le mani in grembo. «Be', sì, signore, anche se non è una facoltà che offra molti sbocchi lavorativi» risposi, cercando di operare sul pratico, certo che sarebbe stato apprezzato.
«Oh, ma non c'è da nessuna parte certezza di lavoro, figliolo» replicò invece il signor Sangster. «L'importante è che tu studi qualcosa che ti piace e che arricchisca la tua cultura, poi il resto si vedrà».
«Eccomi, scusate il ritardo!» esclamò Eleanor, comparendo in salotto. Per me fu una specie di epifania divina: era meravigliosa come un angelo, stretta in un delicato vestito color lillà, con i capelli raccolti e un collier scintillante che pareva valere più di tutta casa mia.
Scattai in piedi come un soldatino di fronte al suo comandante e le sussurrai: «Sei bellissima».
Eleanor mi rivolse un sorriso luminoso. «Grazie, Remus».
Dopodiché la signora Sangster ci invitò ad uscire. La sede del Saibhir non era particolarmente distante, ma il signor Sangster mi spiegò che aveva un problema al tendine del ginocchio che non gli permetteva di camminare a lungo, perciò fummo costretti a muoverci in macchina. Non ero mai stato su un automobile del genere, con dei lussuosi sedili in pelle e l'autista; avevo perfino riguardo a sedermi. Per fortuna il viaggio fu effettivamente breve, ma non potevo immaginare che alla sede del Saibhir mi aspettavano cose ben peggiori di stare rinchiuso in una macchina lussuosa con i genitori della mia fidanzata.
I partecipanti alla cena erano tutti ricconi, gente importante dell'alta società di Dublino; mi fu immediatamente chiaro che io non appartenevo a quel mondo dove i camerieri ti servivano in guanti bianchi, un quartetto di archi allietava la serata e la frutta non veniva mangiata ma, tagliata in forme strane, serviva da decorazione insieme con assurde statue di ghiaccio. Il problema era che Eleanor si sentiva completamente a suo agio e questo mi faceva temere che io non sarei mai potuto essere davvero il suo uomo. Che cosa avevo in comune con quel mondo nel quale lei era cresciuta?
«Oh, Eleanor. Sono anni che non ci vediamo» esclamò una voce alle nostre spalle, mentre ci stavamo prendendo da bere.
Ci voltammo entrambi, ma non mi servì sentire il nome pronunciato da Eleanor per riconoscere chi ci aveva parlato: si era fatto crescere i baffi e aveva sicuramente l'aria di un giovane uomo maturo, eppure non aveva sperso quell'odioso atteggiamento snob. Alfred McGregor in persona, il mio eterno rivale.
Al suo braccio stava appesa una delle donne più belle che avessi mai visto: un fisico spettacolare fasciato in un abito dello stesso colore del cielo notturno, capelli scuri e lisci e due ammalianti occhi blu.
«Questa è Angeline O'Brouny, la mia fidanzata» la presentò McGregor. La donna ci strinse gentilmente la mano e notai che aveva un modo di fare affabile e cortese che strideva con l'austerità di McGregor.
Dopodiché mi presentai a mia volta, non senza una punta di orgoglio. «Remus Alborgeth, sono il fidanzato di Eleanor» decretai, stringendo la mano ad un pomposo McGregor.
Lui mi squadrò da parte a parte con i suoi penetranti occhi azzurri, ma questa volta ressi il suo sguardo. Dubitavo che si ricordasse di me, anche se io non potevo assolutamente dimenticare il nostro primo e unico incontro. Questa volta, però, le cose erano ben diverse: io ero maturato, avevo imparato ad apprezzare quello che ero e, soprattutto, ora ero io il fidanzato di Eleanor. Non avevo nulla di cui potessi vergognarmi sotto lo sguardo di puro disprezzo che mi riservò McGregor.
Qualcuno richiamò l'attenzione di McGregor e la nostra tacita guerra di sguardi venne interrotta. Per quel che mi riguardava la questione poteva anche essere finita lì, ma il destino ci mise il suo zampino: secondo i posti che erano stati assegnati, durante la cena ci ritrovammo allo stesso tavolo dei McGregor. Forse la scelta era stata oculata, visto che i genitori di Alfred erano amici dei signori Sangster e riunire assieme quattro giovani sotto i trent'anni era un evento raro considerando l'età media dei membri del club, ma con tutti i tavoli che erano stati preparati, perché proprio a quello dei McGregor dovevamo sederci?
«Dunque, Raymund, giusto?» mi apostrofò Alfred, mentre ci venivano serviti gli antipasti.
«È Remus, in realtà» precisai con una certa stizza.
Alfred mi rivolse un sorrisetto di circostanza. «Nome, come dire... particolare, il tuo» commentò, anche se era chiaro che dietro quell'aggettivo “particolare” volesse celare tutto il suo disprezzo. «Che fai di bello nella vita?» indagò, fingendo un certo distaccato disinteresse.
«Studio storia all'università di Dublino» risposi, ben sapendo che avrebbe avuto da ridire anche su quello.
«Storia?» replicò infatti, con una certa sorpresa. «Be', è un campo sicuramente interessante, ma con una difficile applicazione pratica» commentò, come se davvero a qualcuno interessassero i suoi giudizi. «E i tuoi genitori, invece, che fanno?»
Bevvi un sorso di acqua, consapevole che il discorso stava prendendo la piega di un interrogatorio. «Mio padre è morto quando avevo sette anni».
«Oh, mi dispiace» rispose Alfred, anche se non c'era un solo segno di dispiacere nella sua voce. «E tua madre?»
«Mia madre lavora in campo tessile» risposi, restando sul vago, senza alcuna voglia di specificare che era un'operaia.
«Cosa fa esattamente?» si impuntò Alfred. Era ovvio che sapesse; non ero un membro dell'alta società come loro, me lo si leggeva in faccia. Il suo palese intento era quello di mettermi in imbarazzo di fronte a tutti.
«E tu invece che hai fatto in questi anni, Alfred?» intervenne Eleanor, sfoderando uno dei suoi migliori sorrisi per salvarmi da quel patetico interrogatorio.
Lui parve piuttosto infastidito dall'interruzione, ma nessuno poteva resistere a Eleanor, quando sorrideva così. «Mi sono laureato in Economia e adesso lavoro presso la Banca Centrale d'Irlanda» rispose, cedendo alle lusinghe della sua ex fidanzata.
Per fortuna il discorso si spostò verso l'economia, visto che anche il signor Sangster lavorava in ambito finanziario, e io potei facilmente dissociarmi dalle chiacchiere ufficiali.
«Sai che gli O'Brouny sono i proprietari di metà delle navi mercantili attraccate al porto di Dublino?» mi rivelò Eleanor sotto voce, indicando con il capo Angeline.
«Di sicuro non sta con McGregor per i soldi» commentai, concedendomi una veloce occhiata alla giovane donna. Era dannatamente bella. Certe persone avevano proprio tutto dalla vita.
«Oh, no» asserì Eleanor. «È più ricca lei di lui».
Mi chiesi allora che cosa potesse trovare una donna bella, ricca e dai modi gentili come Angeline in uno snob con la puzza sotto il naso, attaccato all'etichetta e ai valori tradizionali. Certo, Alfred sapeva essere un uomo affascinante e il suo cognome portava con sé un certo prestigio, visto che i McGregor si vantavano di essere una delle più antiche famiglie di Dublino, ma sinceramente trovavo rivoltante il suo atteggiamento. Chissà, forse Angeline ne era davvero innamorata.
«È bella, non è vero?» mi sussurrò Eleanor, quando notò che la stavo fissando.
Voleva mettermi alla prova, era più che ovvio; per fortuna, sapevo alla perfezione come cavarmela. «Non posso negarlo, in effetti» ammisi. «Ma qualcosa d'altro mi ha rubato il cuore questa sera».
«Ah, sì? E cosa?» si informò deliziata Eleanor, rigirandosi l'orecchino intorno al dito.
«Questa salsa al tartufo. È davvero eccezionale» le risposi, fingendo un tono serio.
Eleanor mi diede uno spintone, ma nei suoi occhi passò l'ombra di un sogghigno. «Deficiente» mi insultò, mettendo il broncio.
«Vuoi favorire?» le chiesi, allungando il piatto verso di lei.
Eleanor ignorò completamente la mia offerta e mi sussurrò all'orecchio: «Finita la cena ce la squagliamo».
Non so se volesse tenermi lontano dalla bella Angeline o se intendesse salvarmi dagli imbarazzanti interrogatori di Alfred, ma ero più che contento di abbandonare quel mondo che mi appariva così lontano.
Fu così che, terminata la cena, riuscimmo a sgattaiolare via dal palazzo del Saibhir, come due frivoli adolescenti che si imboscano. Per fortuna nessuno notò la nostra assenza o, se la notò, ebbe il buon gusto di tacere.
«Andiamo a prendere la mia bicicletta e pedaliamo verso l'oceano» proposi quando fummo finalmente liberi. Eleanor represse un tremito di freddo perché, sebbene fosse solo settembre, l'aria che soffiava dal mare era fresca e lei indossava solo un abitino leggero. Così mi levai la giacca dello smoking e gliela misi sulle spalle. Ora ero io ad avere freddo, in maniche di camicia, ma io ero l'uomo, no?
Eleanor mi rivolse uno dei suoi sorrisi più seducenti. «Andiamo a prendere la tua bicicletta».
Avevo parcheggiato vicino a casa Sangster, per cui il viaggio, anche a piedi, fu piuttosto breve. Caricai Eleanor sulla canna della bici e cominciai a pedalare in direzione del porto. Lavorando in quelle zone, avevo scoperto una spiaggetta davvero carina, vicina al parco che avevano recentemente dedicato al sindaco Sean Moore. Lì c'era il vecchio porto dei pescatori e il faro dimenticato; non era particolarmente romantico con lo sfondo di alcuni cantieri abbandonati, ma era un posto tranquillo e io adoravo andarci di sera, quando non c'era nessuno, per osservare il vento che increspava la superficie dell'oceano.
«È bellissimo» mormorò estasiata Eleanor quando arrivammo alla piccola spiaggia. Scese dalla bicicletta e si tolse immediatamente i sandali, anche se la sabbia non era poi così morbida. Si sciolse i capelli e lasciò che ondeggiassero al vento fresco di fine estate.
Rimasi a guardarla per un tempo incalcolabile, come se quel luogo fosse improvvisamente diventato meraviglioso con la sua apparizione. «Sai, mio papà ti apprezza molto» disse d'un tratto Eleanor, voltandosi a guardarmi.
«Davvero?» non riuscii a trattenermi dal chiedere.
«Be', lui non è sempre stato ricco, sai. Ha lavorato duramente per diventare quel che è diventato e sa apprezzare chi combatte per i propri sogni» mi spiegò Eleanor, con un sorriso, prima di tornare a guardare l'oceano. «Io non lo capivo, all'inizio. Per me era tutto scontato ed ero convinta che ogni cosa mi fosse dovuta. Mentre, invece, tu... sei un sognatore, sempre così pieno di vita» si interruppe e si voltò verso di me. Mi rivolse uno di quei sorrisi capaci di farmi cadere a terra. «Sai, credo di amarti».
Io mi sentii tremare le gambe e mi ci volle un enorme sforzo di volontà per non afflosciarmi sulla spiaggia. «Io credo di amarti da una vita» le risposi, con un mezzo sorriso.
Un qualche gabbiano lanciò il suo verso stridulo e Eleanor si voltò ad osservare il cielo scuro della notte. «Oh, guarda, Remus!» esclamò, indicandomi il vecchio faro abbandonato. «Non sarebbe meraviglioso abitare lì, su quella striscia di terra? Addormentarti la sera con il rumore della tempesta che infuria al largo e svegliarti la mattina con il suono dolce delle onde che si infrangono contro gli scogli. Crescere lì una famiglia, con i bambini che vengono a giocare sulla spiaggia... non sarebbe meraviglioso?»
Mi avvicinai a lei e le cinsi i fianchi da dietro, baciandole delicatamente i capelli. Il mio sguardo era puntato sul vecchio faro, mentre la fantasia correva lontana.
«Sì, Eleanor, sarebbe meraviglioso».





Eccomi di nuovo qui!
Ebbene sì, ho deciso di dare un colpo di coda alla storia, pubblicando gli ultimi capitoli tutti assieme. Ammetto, mi ero un po' ingolfata con l'aggiornamento di questo racconto, ma adesso sto riprendendo in mano le prime storie della serie, e quindi ho deciso di darmi una smossa!
QUI, intanto l'immagine di Eleanor in abito da sera; ho cercato di ispirarmi a foto degli anni Ottanta/Novanta. =)
QUI, invece, il carissimo e adorabile Alfred McGregor e la sua fidanzata Angeline.
A presto,
Beatrix

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Capitolo 11
*** Le due richieste ***


Capitolo 10
Le due richieste




Dublino, 1989




Suonai il campanello con una certa titubanza. Stavo cercando di portare a termine un mio proposito ma, francamente, non ero il tipo che si mettesse a progettare piani astrusi: di solito preferivo la limpidezza dell'onestà. Ma questa volta avevo bisogno di agire nell'ombra.
Venne ad aprirmi il signor Sangster e lessi un certo stupore sul suo viso. «Remus, oh ciao. Eleanor è ancora in università» mi disse, facendomi entrare in ingresso.
«Lo so, signore. Non sono venuto per lei» risposi, non senza un certo disagio. Il signor Sangster mi rivolse uno sguardo interrogativo, mentre mi faceva accomodare in salotto. Non potevo biasimarlo. «Io... sono qui per lei, signore» spiegai in un sussurro.
«Quante volte devo dirti di chiamarmi Jeremy?» intervenne lui, con un sorriso bonario.
«Ancora una volta, signore» risposi. Jeremy era gentile e cordiale, ma non mi sentivo pronto ad usare un tono confidenziale perché mi metteva una certa soggezione.
Jeremy si lasciò sfuggire un piccolo sbuffo e alzò gli occhi al cielo, ma vidi un lampo divertito balenare sul suo volto. «Dimmi, Remus. Di cosa hai bisogno?»
Ecco, era arrivato il momento critico. Avevo preparato il discorso anche questa volta, con l'aiuto di Murphy, tanto per cambiare, eppure non mi ricordavo più nemmeno una parola di quello che avevo scritto. Improvvisai.
«Ho un grosso favore da chiederle, signore. Io... ho bisogno di un prestito» spiegai, cercando di apparire serio e convincente. «Restituirò tutto fino all'ultimo centesimo, signore; e non chiederei a lei per ottenere dei favoritismi, se non fossi costretto dal fatto che tutte le altre banche mi hanno rifiutato il prestito perché non ho nessun bene che possa fungere da garanzia...»
Avrei continuato oltre, ma Jeremy alzò una mano per fermare il mio sproloquio. «Tranquillo, Remus. Non c'è nessun problema».
«No, signore» lo interruppi io, questa volta. «Un prestito vero. Non sono qui per chiedere...» mi bloccai perché non riuscivo a trovare la parola giusta senza sembrare offensivo. Era elemosina il vocabolo che volevo usare, ma mi pareva indelicato.
«Non voglio farti l'elemosina» mi rassicurò Jeremy, come leggendomi nel pensiero. Mi parve anche di scorgere una certa ammirazione nel suo sguardo per la mia caparbietà. «Dimmi quanto ti serve».
Sospirai. Nota dolente. «Ventimila sterline» annunciai infine.
«Accidenti, figliolo, che cosa ci devi comprare?» chiese Jeremy, ma il suo tono era tranquillo e quasi divertito.
Mi stropicciai le dita con un certo disagio. «Una casa» risposi alla fine, restando sul vago.
Le labbra di Jeremy si aprirono in un sorriso. «Vuoi chiedere ad Eleanor di sposarti?» mi domandò.
Non c'era modo di eludere una domanda così diretta e non aveva nemmeno senso mentire, anche se avrei preferito che la cosa restasse segreta ancora per un po'. Così mi limitai ad annuire, troppo sulle spine per parlare.
Passarono alcuni secondi che mi parvero interminabili: il signor Sangster stava soppesando l'ipotesi di concedermi il prestito o di concedermi la mano di sua figlia? Le due cose erano strettamente connesse, se ne rendeva conto anche lui. Ciò che mi stavo chiedendo era se, oltre ai modi gentili e disponibili, Jeremy Sangster fosse davvero disposto ad accettare che la sua preziosa figliola gli venisse portata via da un ingenuo sognatore squattrinato. Potevo essere l'uomo giusto per la sua Eleanor?
Alla fine Jeremy sorrise e i suoi occhi verdi si illuminarono di una luce tanto limpida che mi sembrò rendere serena tutta la stanza. «Vieni da me in ufficio, domani alle quattro. E la mia banca ti concederà il prestito».

Se chiedere i soldi a Jeremy Sangster per attuare il mio piano mi era parsa un'impresa degna di essere narrata in un poema cavalleresco, non avevo la più pallida idea di quello che mi aspettava dopo. Il peggio doveva ancora venire.
Prima di tutto dovevo ricercare il proprietario dello stabile che volevo comprare e, una volta trovato, avrei dovuto convincerlo a vendermelo. Infine, era assolutamente necessario pensare a qualcosa di brillante per fare quella proposta. Volevo essere romantico, ma insieme spiritoso e originale: volevo stupirla.
Capii subito che non poteva esserci altro luogo per la richiesta se non quello che era diventato il mio chiodo fisso in quegli ultimi mesi. Quello per cui avevo organizzato tutto.
Là le avrei chiesto di sposarmi.
Presi la mia decisione una fredda domenica di gennaio. Andai a prendere Eleanor con la mia irrinunciabile bicicletta, la caricai sulla canna e cominciai a pedalare in direzione del porto.
«Dove stiamo andando, Rey?» mi chiese Eleanor, decisamente incuriosita dalla meta piuttosto particolare: non si poteva dire che ci fossero chissà quali attrattive nella zona portuale di Dublino.
«Vedrai» risposi, restando sul vago.
Avevo il cuore che mi batteva a mille nel petto, e non solo perché portare qualcun altro sulla canna poteva risultare faticoso dal punto di vista fisico; era di tutt'altro tipo il motivo della mio battito accelerato: ero agitato come non lo ero mai stato in vita mia.
Quando arrivammo abbastanza vicini al luogo che avevo preparato, mi fermai, feci scendere Eleanor e legai la bicicletta ad un palo della luce. Eleanor si guardò in giro con aria spaesata, alla ricerca di punti di riferimento che potessero darle qualche indizio su dove fossimo. Il compito non le era facilitato dal fatto che ci trovavamo nel bel mezzo del nulla: avevamo lasciato alle spalle la città e il Sean Moore Park, per inoltrarci su un sottile istmo che si protendeva nell'oceano. Una sola stradina sterrata, circondata da terreni incolti, proprietà di chissà quale fabbrica o cantiere, attraversava la lingua di terra fin quasi alla punta.
«Dove siamo?» domandò Eleanor.
Io non le risposi, perché ero intento a cercare la sciarpa che avevo disperso nella borsa. Quando la trovai, rivolsi un sorriso speranzoso a Eleanor e le chiesi: «Hai voglia di fare un gioco?»
Lei mi guardò sospettosa, ma alla fine accennò un sì con il capo. Io allora le legai la sciarpa intorno agli occhi, non senza qualche protesta da parte sua. Quando mi fui assicurato che lei non ci vedeva, la presi sottobraccio e le sussurrai all'orecchio: «Ti fidi di me?»
«Sì» rispose Eleanor e in quel momento mi sentii completamente pieno di ogni sicurezza.
Camminammo in silenzio per alcuni minuti, Eleanor sempre saldata al mio braccio per paura di cadere, ma con una completa fiducia nella mia capacità di guidarla.
Non appena giungemmo al luogo che avevo preparato, tirai fuori dalla tasca una chiave: era una di quelle grosse, vecchie e arrugginite che possono andare bene per il portoni di un antico castello. La misi tra le mani di Eleanor e la feci avvicinare alla porta.
«Apri» le ordinai.
«Come faccio? Non ci vedo!» protestò lei, ma non acconsentii a toglierle la benda dagli occhi, così Eleanor fu costretta a tastare a casaccio alla ricerca della toppa. Solo quando riuscì ad aprire la porta e a fare un primo passo nella stanza, mi avvicinai a lei e sciolsi delicatamente la sciarpa.
Il luogo nel quale entrammo era un saletta circolare, piuttosto mal ridotta: l'intonaco in certi punti era scrostato, i vetri delle finestre sporchi e appannati, il pavimento un unico strato di polvere. C'era una scaletta a chiocciola, in un angolo, che portava al piano superiore. Ma non fu l'ambiente la prima cosa che Eleanor notò: furono le candele che io avevo acceso (ormai consumate per la metà, a dire il vero) e disposto in terra a formare un cuore.
«Questo è...» cominciò a dire Eleanor, incredula. Si guardò meglio intorno e alla fine lo disse: «Il vecchio faro vicino alla spiaggia».
Era ammirata e stupita: leggevo la gioia più profonda nei suoi occhi scuri e capii che non esisteva cosa più bella che rendere felici le persone che amavo.
«È tuo» le dissi, indicando la chiave. «Nostro, se vorrai».
«Nostro?» soffocò Eleanor in tono titubante.
Ma non ebbe tempo di chiedere ulteriori spiegazioni perché io le afferrai una mano e la introdussi dolcemente dentro il cuore di candele. Poi mi inginocchiai ai suoi piedi.
Avevo la gola riarsa e le labbra incollate per mancanza di salivazione. In compenso, mi sentivo le orecchie bollenti e immaginai che dovessero assomigliare a due parabole dipinte di rosso. Le ignorai, come ignorai ogni altra reazione fisica che mi stava consumando. Dovevo chiederglielo, ora, o sarei morto lì.
Estrassi di tasca una scatolina di velluto e la aprii sotto il suo sguardo sbigottito. Conteneva un anello con un brillantino quasi invisibile, tutto ciò che mi era concesso con la mia misera paga di operaio.
«Eleanor Sangster, vuoi sposarmi?» sussurrai in un tono che voleva essere deciso ma assomigliò più che altro ad un pigolio speranzoso.
Quella manciata di secondi che mi separarono dalla sua risposta furono i più interminabili della mia vita. Avrei potuto giurare di sentire il mio cuore battere a rallentatore, come se il tempo si fosse dilatato per farmi straziare ancora di più nell'attesa di un responso.
E poi Eleanor sorrise.
«Oh, Remus, sì! Assolutamente sì!» esclamò entusiasta.
Di colpo tutta la mia ansia si sciolse. Presi l'anello e glielo infilai al dito, dopodiché mi alzai in piedi e le presi il volto tra le mani per baciarla.
Avevo finalmente trovato il mio posto nel mondo: in quel vecchio faro abbandonato, al fianco di Eleanor.





Ecco qui l'ultimo capitolo.
Seguirà un breve epilogo. A presto,
Beatrix

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Capitolo 12
*** Epilogo ***


EPILOGO




Dublino, 2014




Quando terminai il racconto, spiai di sottecchi la reazione di Maryon: sembrava più tranquilla adesso, o almeno sufficientemente calma da non ripiombare in crisi isteriche.
«Un folletto, eh?» mi sussurrò, accennando ad un breve sorriso. Le rivolsi uno sguardo enigmatico: era inutile che si fingesse tanto sospettosa, perché sapevo benissimo che lei era a conoscenza, sul mondo di Faerie, di più segreti di quanti avrebbe mai ammesso. Maryon infatti ebbe il buon gusto di non sfidarmi più a lungo con quella faccia incredula, ben conscia che, se io la avessi costretta a parlare, avrebbe avuto anche lei un bel po' di segretucci da rivelare sui suoi traffici con il mondo fatato. Traffici che io avevo sempre saggiamente ignorato.
Lasciando cadere la questione, Maryon si alzò dal letto e andò a recuperare la vecchia fotografia che aveva lanciato lontano in un scatto d'ira. Rappresentava Eleanor, quando aveva più o meno la sua età. Quando, più o meno, stava per sposarsi anche lei. Con me. «Vorrei tanto che fosse qui» mormorò, osservando i tratti del volto della madre.
Era morta la mia Eleanor, quando non aveva nemmeno compiuto i trent'anni. Leucemia, e non c'era stato niente da fare. Una breve agonia in ospedale e poi lei era volata via, così, lasciandomi vedovo dopo che l'avevo amata a desiderata tanto, solo a crescere una figlia di quattro anni e ad abitare un vecchio faro vuoto.
Avrei mentito, se avessi detto che ormai avevo superato il trauma. Perché erano passati vent'anni.
Balle. A volte piangevo ancora, di notte, pensando a lei che non c'era più. Sì, ero andato avanti, come tutti, e, certo, si poteva sopravvivere a qualsiasi cosa, ma parte di me era volato via con lei, quel giorno in cui mi aveva lasciato, e non sarebbe mai più tornato indietro. Non riuscivo a voltare pagina perché l'avevo sempre amata, anche quando lei nemmeno sapeva della mia esistenza, e non potevo smettere di amarla ora, anche se lei non c'era più, ora che avevo capito che lei mi avrebbe amato per sempre.
E anche io l'avrei amata per sempre.
Rivolsi un sorriso triste a Maryon. «Anche io vorrei che Eleanor fosse qui. Ma... è un po' come se ci fosse, perché finché noi porteremo nel nostro cuore il ricordo di lei e del suo amore, lei vivrà in noi» le risposi e, anche se ero fermamente convinto di quello che avevo detto, perfino a me sembrarono banali frasi di circostanza.
Perché l'essere umano non può bearsi di un'immagine effimera: deve amare un altro essere umano per sentirsi completo. Deve amare un prossimo.
E l'unica persona che avrei mai potuto amare con la stessa intensità con cui avevo amato Eleanor era mia figlia Maryon. Le avevo dedicato ogni amorevole cura paterna, le avevo dedicato tutto me stesso e tutta la mia vita.
Se fossi stato egoista, avrei voluto che non si sposasse, per non lasciarmi qui solo. Ma, davvero, sarei stato troppo egoista. Perché sapevo che quel matrimonio sarebbe stata l'unica cosa che avrebbe potuto renderla davvero felice: leggevo nei suoi occhi quello stesso intenso desiderio che aveva caratterizzato il mio sguardo di innamorato.
Tra l'altro, Maryon stava per sposare Christopher McGregor, il figlio di Alfred. Il destino aveva uno strano senso dell'umorismo: i fili della trama delle nostre due famiglie continuavano ad incrociarsi in modo davvero imprevedibile.
Ma, per fortuna, Chris non assomigliava al padre, né era cresciuto come un marmocchietto viziato: era un ragazzo maturo che sapeva quello che voleva e sapeva come ottenerlo; ma era anche incredibilmente gentile, dolce e innamorato perso della mia Maryon: avevo toccato con mano il fatto che per lei fosse disposto a sacrificare qualsiasi cosa, come non aveva saputo fare suo padre per Eleanor.
Inoltre, io sapevo che anche lei lo amava, e lo sapeva benissimo pure Maryon, ma in quel momento era confusa dalle troppe legittime preoccupazioni che l'avevano assalita e aveva bisogno che qualcuno glielo ricordasse.
Mi alzai dal letto sul quale ero rimasto seduto tutto il tempo e afferrai mia figlia per le spalle, costringendola a alzare il suo viso verso di me. «Maryon, tu ami Chris?» le domandai con intensità, fissando i miei occhi nei suoi.
Lei esitò solo una frazione di secondo, durante il quale sbatté un paio di volte le ciglia imperlate di lacrime, poi rispose con perfetta e piena sincerità: «Sì».
«Allora infilati quel vestito e raggiungilo sull'altare senza un minimo di esitazione. Il resto verrà da sé» le ordinai in tono affettuoso.
Maryon mi rivolse un cenno di assenso, condito da un timido sorriso di ringraziamento, poi mi strinse in un abbraccio.
«Sei ancora in quelle condizioni!» strillò la voce di Jenny, aprendo di scatto la porta della stanza. Sembrava una benshee sull'orlo di una crisi di nervi. «Mi fratello mi ha appena chiamato, dicendo che lui e Chris sono partiti adesso da casa per arrivare in chiesa... e tu sei ancora in quelle condizioni! Arriveremo in ritardo! In spaventoso ritardo! E Chris, emotivo com'è... oddio, quello mi sviene sul sagrato se non ti vede arrivare entro dieci minuti!»
Io alzai le mani in segno di resa e lanciai un'occhiata innocente a Maryon come per dire “amica tua”. Lei si limitò ad uno sbuffo. «E tu fuori di qui!» mi intimò Jenny, spingendomi fuori dalla stanza.
Scesi le scale ridacchiando, al pensiero di Chris che sveniva per il ritardo di Maryon. Soprattutto perché realizzai che avrebbe potuto farlo davvero.
«Oh, fammi vedere la mia nipotina!» esclamò Gween, quando la incrociai per le scale.
Dovetti frenare subito il suo entusiasmo: l'avevo appena salvata da una crisi prematrimoniale, ero certo che un bagno di folla non le avrebbe fatto bene. «Meglio di no, Gween. Anzi, perché tu e gli altri non ci anticipate verso la chiesa?»
Vidi la delusione disegnarsi sul suo volto. Era ovvio che lei e Maryon fossero molto legate: Gween aveva avuto tre figli maschi, e tutti troppo simili al padre David, con quella loro capacità di essere sempre e perennemente inopportuni, indelicati, concreti e, in una parola, maschi. Mentre per Maryon, circondata da troppi uomini (me, zio David, i cugini, il nonno Jeremy) la zia aveva rappresentato per lungo tempo l'unica figura femminile a cui fare rifermento.
Per fortuna Gween era una che capiva al volo. Fece un cenno con il capo e acconsentì a seguirmi di sotto.
In cucina c'era un vero pandemonio. «Oh, il mio bambino si sposa» pigolò mamma, venendomi incontro. Alzheimer, una gran brutta malattia che le aveva fatto perdere il contatto con la realtà.
«Sì, mamma» risposi piano, ben consapevole che era inutile tentare di farla ragionare: meglio lasciarle credere quello che voleva. Era sempre stata una donna così forte e coraggiosa, alla quale dovevo molto di ciò che ero diventato, che mi faceva soffrire vederla in quelle condizioni. Feci un cenno a mio fratello. «David, per favore, porta mamma con te in chiesa» ordinai, cercando di dare un tono perentorio alla mia voce, per tentare di nascondere il mio dolore.
«Neil, smettila di ingozzarti di confetti!» gridò Gween, strappando la ciotola dalle mani del figlio più piccolo.
«Non mi stavo ingozzando» replicò imbronciato Neil. «E comunque Matt ne ha mangiati più di me».
«Non è vero! Justin me li ha dati!» si giustificò Matthew, accusando il terzo fratello.
«A me i confetti del tuo matrimonio non li dai, tesoro?» mormorò la mamma, con un sorriso sognante.
Lanciai uno sguardo disperato a Gween e anche questa volta lei mi capì al volto. «Tutti fuori!» gridò in un tono che non ammetteva repliche. Certe volte c'era proprio bisogno di un tocco femminile.
La casa si svuotò in poco tempo e, quando tutti se ne furono andati, tornò finalmente la pace. Feci per andare a sedermi sul divano quando notai che c'era ancora qualcuno in salotto: Jeremy, fermo sulla sua carrozzina, alla quale era stato costretto per il suo problema al ginocchio.
«Jeremy, sei ancora qui?» domandai, piuttosto sorpreso.
Lui mi rivolse un sorriso tranquillo. «È la mia nipotina, certo che sono qui» rispose con semplicità. «E tu hai l'aria di uno che ha bisogno di un po' di sostegno».
Mi lasciai cadere sul divano al suo fianco. «In effetti» ammisi.
«Sai, ero nel tuo stesso stato quando la mia Eleanor ti doveva sposare. Un padre è sempre follemente geloso della propria figlia e non vorrebbe mai che gliela portino via» mi confessò.
«Io... non sono affatto geloso» provai a dire, ma come unica risposta ottenni una risata divertita da parte di Jeremy. Gli rivolsi un sorrisetto tirato. «Ok, forse un po'».
Jeremy si sporse leggermente verso di me e mi mise una mano sulla spalla con fare paterno. «L'importante è che tu sia convinto che l'uomo che tua figlia sta per sposare sia il migliore per lei» mi rivelò con un sorriso. «Io lo ero».
Mi sciolsi a quella confessione. Certo, Jeremy si era sempre mostrato gentile con me e, da quando Eleanor era morta, lui era diventato come un padre adottivo per me, ma non mi aveva mai fatto una dichiarazione così esplicita.
Posai la mia mano sulla sua e ricambiai il sorriso.
Lo sguardo mi cadde sul vassoio di biscotti al burro che Blinky la sera prima aveva lasciato sul davanzale della finestra. Incredibile, non si era ancora stufato di portarmeli. Ripensai involontariamente al nostro primo incontro e alla sua Benedizione: mi aveva promesso che avrei passato l'esame, sarei uscito con Eleanor e sarei diventato ricco. L'esame l'avevo passato, con Eleanor mi ero sposata e ricco... be', mia figlia almeno non era dovuta andare a lavorare per pagarsi il liceo. Il mio destino si era compiuto.
In realtà, non sapevo esattamente dire se credessi o meno nel destino. Ero certo che ci fosse un qualche disegno, un progetto divino, per cui le cose non accadevano a caso; ma dentro questa trama, ogni uomo era libero di compiere le proprie scelte. Quello che mi chiedevo giorno e notte era se ciò che c'era stato tra me e Eleanor -il mio amore per lei, poi ricambiato, quei pochi anni di felicità e infine la sua morte- fosse parte di un disegno più grande.
La risposta non me la sapevo dare. Ma c'erano alcune certezze indubitabili in quel mare di dubbi: il tempo che mi era stato dato insieme a Eleanor era stato breve, ma meraviglioso. E ciò che ne era nato, Maryon, era una benedizione del cielo.
Non sapevo se si trattasse di un destino o se quello era il risultato dell'insieme delle mie scelte. Ma sapevo che ciò che avevo ricevuto in dono era tanto grande da non farmi rimpiangere nulla della vita che avevo vissuto.
E da darmi la forza di andare avanti.





Ebbene sì, ecco l'epilogo della storia.
Non è proprio l'epilogo allegro che ci si sarebbe aspettati da un racconto leggero come questo, ma ero condizionata dai fatti: questo, infatti, sarebbe una sorta di prequel dedicato ai genitori dei veri protagonisti della saga di Faerie.
Comunque, spero che la storia vi sia piaciuta. Ringrazio chiunque l'abbia letta o dovesse farlo in futuro.
Alla prossima,
Beatrix Bonnie

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