Sente
un rumore, poi la porta si apre ed il respiro -lo stava veramente
trattenendo?- riparte vedendo qualcuno di familiare. Qualcuno della
famiglia, anzi. Svezia. Che gli fa un piccolo sorriso, scuotendo
la testa e prendendolo per il pigiama per farlo rimettere a letto,
sotto le coperte.
Cos'è
quel sorriso? Perché ha l'impressione che l'ultima volta in
cui ha avuto l'occasione di vederlo in quel modo sia stata un
centinaio di vite fa?
“Ti
sei fatto male alla testa, non è salutare muoversi subito”,
mormora lo svedese lanciando un'occhiata dietro di sé e
tendendo una mano verso la porta, aperta solo per uno spiraglio di
luce. “Vieni a vedere, pappa non si è fatto nulla!”
esclama, dolcemente.
Lo
fissa con occhi seri e un po' confusi, chiedendosi di cosa stia
parlando. Pappa? Non sarà di nuovo Islanda con quella vecchia
storia, vero?
Il
sollievo nel vedere Sve dura pochi secondi, perché si accorge
immediatamente che c'è qualcosa di diverso nel suo
atteggiamento e che, pur sembrando a conoscenza della situazione, non
dubiti proprio che per Norvegia sia tutto strano.
Apre
e chiude la bocca, indeciso su cosa chiedere per cominciare, poi
rimane immobile a guardare una bambina fare capolino dalla porta. Lo
osserva con occhi grandi, occhi pieni di curiosità e
preoccupazione, occhi che gli ricordano qualcuno.
“Sve...”,
comincia, cercando di non badarle troppo per poter chiedere
spiegazioni all'uomo.
Cosa
ci faccio qui. Che posto è. Chi è lei. Ho preso davvero
una botta in testa?
Sì,
ricorda un negozio e una bambina -non quella che sta pian piano
entrando e non gli stacca gli occhi di dosso, mordicchiandosi una
ciocca lunghissima di capelli chiari- ed un regalo da comprare.
Ha
perso i sensi? E per quanto tempo è rimasto incosciente? La
bambina non è quella del negozio. Ne è sicuro?
Torna
a guardarla ed in quel preciso momento lei sorride come se non stesse
aspettando altro che un segnale, lanciando dietro la spalla la ciocca
e salendo sul letto per gattonare fino a lui. Apre le braccina e lo
avvolge, premendogli il viso contro il petto e ondeggiando piano.
“Pappa!”,
piagnucola con la voce ovattata. “Ho avuto tanta paura! Stai
bene adesso, pappa?”
Pa...
pap... EH?! A-anche Svezia prima lo ha chiamato...
Allontana
le braccia, tenendole alzate ai lati del corpo e la fissa senza
parole per qualche lungo momento di silenzio, mentre lei si agita e
si struscia come un cucciolo in cerca d'affetto.
Guarda
Sve, interrogativo, sbattendo le palpebre un paio di volte, senza
sfiorarla.
“Chi...
chi è questa bambina”, sussurra, nel suo particolare
tono di domanda senza vera intonazione interrogativa, sperando che
possa aiutarlo a capire meglio.
La
bambina spalanca gli occhi e Svezia si affretta ad accoglierla tra le
braccia, perché sembra sconvolta, singhiozzante nel suo petto.
“Mi
dispiace, pappa! Mi dispiace, non dovevo dirgli di prendere la mia
palla, potevo anche stare senza!” esclama rapidamente, con le
lacrime agli occhi.
L'uomo
le accarezza la testa, cullandola, rivolgendole parole dolci e
rassicuranti, per poi guardare, preoccupato, l'uomo sul letto.
“Sei
caduto da un albero e credo che tu abbia battuto la testa. Hai perso
i sensi e ti ho riportato qui... Ma...” spiega, allungando un
braccio e sfiorando la sua fronte fredda. “Non ti ricordi di
lei?” chiede, assumendo un'espressione strana, che stona con il
suo solito modo di essere.
Sembra
triste e ferito, quello Svezia.
Tiene
ancora la bambina tra le braccia -sarebbe impossibile staccarla- e
recupera un tomo dalla libreria, porgendoglielo con sguardo
preoccupato. Ricorda di averlo visto ben poco con quell'espressione,
riservata ai momenti veramente seri.
“Non
sono caduto da un albero”, obietta, debolmente, prendendo il
libro che gli sta porgendo, salvo poi accorgersi che non è
altro che un album di foto.
Non
è caduto da un albero e non ha idea di cosa stia succedendo né
per quale motivo quella bambina li chiami entrambi pappa. Che
diavolo...
Sospira
interiormente, comandandosi di stare calmo e rilassato, isolandosi
dal pianto furioso della piccola ed aprendo il tomo.
Fotografie,
come aveva intuito. Fotografie mai viste prima e che non dovrebbero
nemmeno esistere.
Lui
e Sve, seduti accanto su una panchina. Niente di strano. A parte il
braccio dello svedese che gli circonda le spalle e la propria testa
posata, quasi casualmente, contro di lui.
Avvicina
l'album, guardando la propria espressione completamente diversa dal
normale. È imbarazzato? Sta sorridendo sotto i baffi? Cosa
significa?
Va
avanti a sfogliare e deve trattenersi per non lanciare l'album.
Matrimonio.
Si
sono sposati? C-c-c...
“Cosa...”,
sbuffa, senza fiato, mettendosi l'album sotto il naso, inclinato
verso la luce.
Svezia
e lui vestiti di bianco, le mani destre intrecciate e quegli anelli
che non possono non notarsi.
Si
guarda immediatamente l'anulare e vede che la indossa, quella fede
nuziale, proprio come nella foto. Lo stupore è talmente tanto
che non ha nemmeno la forza di sfilarsela, chiedendo spiegazioni.
Un
matrimonio tra loro completamente differente dal primo. È per
amore, a giudicare dalle espressioni: sottili particolari, non
evidenti ad un occhio esterno, forse, ma palesi ai propri.
“Non
posso crederci”, commenta, quasi tra sé, accorgendosi
vagamente della mano della bambina che gli sta sfiorando la testa,
passandogli le minuscole dita tra i capelli.
Sfoglia,
sfoglia, sfoglia, solo per vedere estratti di una vita che non
conosce, ma sembra la sua vita, sembrano eventi che dovrebbe
ricordare e, diavolo, sono decisamente importanti.
“È
tua figlia”, sussurra, indicando il pancione di Svezia in una
delle foto successive.
Si
volta a guardarla, incrociando quegli occhi immensi, pieni di
lacrime, accorgendosi della forma e del colore. Viola, con un tocco
di blu. Vede se stesso e vede Svezia, in lei.
Pappa.
Matrimonio. Pappa.
“...
È nostra figlia?”
Per
poco non soffoca. La voce si spegne sulla fine e deve distogliere gli
occhi da lei, che nel frattempo ha ritirato la manina esitante e si è
accoccolata nuovamente tra le braccia di Svezia.
Foto
al mare. Foto a Natale, scartando dei regali. Foto al parco. La
bambina in quasi ognuna di esse, prima minuscola, una cosina
infagottata in abiti microscopici e poi sempre più simile ad
ora.
Si
ferma su una foto in particolare, decidendo che ha esaurito il
coraggio di andare oltre.
C'è
lui stesso sul divano con un libro aperto abbandonato contro la
spalla. La mano col quale lo reggeva ha allentato la presa sulla
copertina con l'avanzare del sonno profondo.
C'è
la bambina, che dorme allo stesso modo, stesa accanto a lui, protetta
da un eventuale volo giù dal bordo del divano grazie al suo
braccio destro che l'avvolge dietro le spalle.
Lei
non si vede in viso, è sepolta nella sua maglia e ha solo una
manina, evidente, che si tiene all'altra sua manica. Il volto di
Norvegia, però, è sereno, le labbra dischiuse,
completamente in pace.
È
una foto semplice e bellissima, che esprime tanto di quel benessere e
di quell'amore che rimane stordito a fissarla per moltissimi minuti.
Sembra
lui, ma non è lui. Non è... lui. Non è la sua
vita.
Non
la sua normale, monotona, perfetta, impegnata, incompleta esistenza.
Chiude
l'album e lo tiene sulle gambe, rivolgendo a Svezia uno sguardo
serio, il più controllato possibile.
“Voglio
tornare a casa mia. Questo scherzo non è divertente.”
Lo
sguardo dello svedese, però, è dannatamente serio.
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