Tutti
i buoni propositi che mi sono fatta di frenarmi, di aspettare a
mettermi a scrivere – e pubblicare – questa storia, perché è
bene prima pianificare a fondo la trama e gli avvenimenti che ho
intenzione di raccontare e l'evoluzione dei personaggi e, insomma,
tutte quelle cose che vanno fatte per rendere una storia degna di
questo nome... tutti questi buoni propositi, dicevo, si sono infranti
nel momento in cui ho letto la poesia qui citata, mentre ascoltavo
contemporaneamente il brevissimo brano qui linkato.
Questa
storia è nata per caso, contro ogni mia reale intenzione... il che è
a dir poco emblematico, visto il tema trattato (capirete più avanti
cosa intendo). E sarei ipocrita e poco riconoscente se non
dichiarassi che tutto questo ha potuto diventare reale sopratutto
grazie ad Elendil Snape. Non esagero se dico che questa storia è
scritta a quattro mani, perché gran parte dell'ispirazione e delle
idee e delle immagini che escono dalle mie dita, non sarebbero mai
esistite senza il costante contributo di Elendil. Dunque diamo a
Cesare quel che è di Cesare, e ricordatevi di scrivere al plurale
nelle recensioni, perché qualsiasi commento varrà per me tanto
quanto per lei.
The
Buttlerfly Effect
Piccola,
azzurra aleggia
una
farfalla, il vento la agita,
un
brivido di madreperla
scintilla,
tremola, trapassa.
Così
nello sfavillio d'un momento,
così
nel fugace alitare,
vidi
la felicità farmi un cenno
scintillare,
tremolare, trapassare.
–
Herman Hesse –
Prologo
Dodici
anni è un'età difficile. A dodici anni ti poni un sacco domande.
Sul mondo, su te stessa, sul mondo dentro te stessa.
Pensate,
poi, se di domande ne hai una sola. Perché tutte le altre te le sei
già fatte e hai anche trovato le risposte per ognuna di loro.
Ma
per quella domanda no.
Nessun'altra,
solo quella, solo lei. Così apparentemente banale e di semplice
risoluzione, eppure inafferrabile. Di tutte, l'unica che ancora ti fa
tribolare, alla ricerca di qualcosa che cancelli il punto
interrogativo e ci metta al suo posto un bel punto. E basta.
Le
gambe raccolte al petto, Azuré affondava le sottili dita nella
sabbia del bagnasciuga e scavava, riempiendo le unghie di granelli,
il palmo di grumi umidi misti a frammenti di conchiglie. L'acqua le
lambiva le dita dei piedi facendole il solletico con il risucchio.
L'ennesimo
schiamazzo di suo fratello le fece ruotare gli occhi nella sua
direzione. Aingeal s'era inerpicato addosso a loro padre, che al
momento sembrava molto divertito mentre tentava di scrollarselo di
dosso tuffandosi all'indietro in mezzo alle onde turchesi.
–
Ops! –
Nonostante
avesse già notato l'ombra alle sue spalle e sapesse perfettamente
cos'era intenzionato a fare, Azuré parò a stento la palla di sabbia
lanciata da John. E gli scoccò un'occhiataccia.
Sherlock
era “papà”, John era “babbo”. Anche se lei preferiva
chiamarli per nome, con sommo disappunto di John.
–
Se mi guardi
un'altra volta in quel modo, ti lancio in acqua. – l'avvertì
affiancandosi e guardandola dall'alto.
Azuré
si ripulì alla bell'e meglio: – Almeno mi laverei. –
–
Perfetto! –
esclamò lui con un perfido sogghigno.
Due
mani ferme la sollevarono per le ascelle e un attimo dopo tutto il
mondo s'era fatto molto bagnato e salato.
Riemersero
dall'acqua sputacchiando e ridendo e ingaggiando immediatamente una
tremenda lotta di schizzi, alla quale s'unirono subito anche il papà
e Geal. Fu una battaglia epica e le forze erano pari, per cui alla
fine non vi fu alcun vincitore. Stremati e bisognosi di ossigeno, si
decisero infine ad uscire dall'acqua. Azuré si asciugò la faccia
con una manata e si lasciò cadere sul bagnasciuga, strizzando gli
occhi contro la luce vivida di quel luglio.
Accanto
a lei, John non fece commenti, ma Azuré conosceva bene quella sua
espressione trionfante. Erano in vacanza da una settimana e lei non
aveva fatto altro che sabotare qualsiasi tentativo di divertimento.
Non che questo avesse impedito loro di spassarsela, ovviamente. Azuré
avrebbe solo voluto che la lasciassero in pace, a crogiolarsi nei
suoi pensieri. Non lo sapevano che le ragazze della sua età hanno
bisogno dei loro spazi, dei loro tempi?
Ecco
cosa voleva dire crescere con due uomini. Tre, da quando era nato
Geal. Era una brutta storia essere in minoranza.
Azuré
sospirò, arrendendosi davanti alla palese capziosità dei suoi
collegamenti mentali. Sempre lì dovevano andare a parare, eh?
–
Un penny per i tuoi
pensieri. –
E
Azuré sorrise tra sé.
John
era quello delle frasi fatte, dei proverbi, del “dalle mie parti si
fa così”, del “sai cosa avrebbe detto la nonna?”. Quello che
prima di accompagnarti a scuola si preoccupava sempre che sotto ti
fossi messa la maglia di lana e che al mare ti spalmava un triplo
strato di crema solare perché “non si sa mai”. Era rassicurante,
John, era la colonna portante, senza di lui non si sarebbe potuto
nemmeno parlare di “famiglia”. Non ci voleva una laurea per
capirlo: lei era cresciuta con loro, l'aveva sempre sentito.
Azuré
mosse appena la spalla e rispose atona: – Nessun pensiero. –
Sapeva
bene che non sarebbe stata una vaga risposta negativa a scalfire il
suo granitico intento di farsi i fatti di sua figlia. John era il
confidente di tutti. Già, persino il suo, nonostante Azuré fosse
così simile al papà.
Sherlock
era quello delle frasi ad effetto, dei discorsi da lasciarti a bocca
aperta, delle battute sferzanti, dell'intelligenza sovrumana che
sconfinava in un ego spropositato. Era quello avventato, lui, quello
degli esperimenti ai limiti del legale e delle vacanze sulle Ande, in
groppa a dei lama, al seguito di indios che masticavano foglie di
coca. Era il succo vitale di quella famiglia folle e rappezzata, la
fulgida stella attorno alla quale si muoveva tutto il loro piccolo
sistema planetario.
Gli
assomigliava in tutto e per tutto, Azuré, nel fisico come nel
carattere sociopatico e nell'intelligenza fuori dal comune. Lo
ammirava di quell'ammirazione mista al vago – imbarazzante –
timore reverenziale che si riserva agli eroi. L'avrebbe seguito in
capo al mondo.
Ma
solo perché sapeva che prima o poi sarebbe tornata a casa, sotto
l'ala protettiva di John.
–
D'accordo. – le
stava dicendo – E questo “nessun pensiero” ha magari a che fare
con le due B in pagella? –
Azuré
sbuffò una mezza risata e si mise a sedere, scrollando con le mani
la sabbia che s'era infilata tra i capelli scuri.
Il
babbo era adorabile nel suo costante modo di preoccuparsi per tutto e
tutti. Ma come al solito aveva cannato in pieno. Certo, non le aveva
fatto per niente piacere chiudere l'anno scolastico con una media
sotto la A. Ma cosa poteva farci se il sistema d'istruzione
britannico era sbagliato? Lei non era portata per lo sport e
dell'arte non gliene fregava niente, eppure ogni settimana la
costringevano a lanciare una stupida palla dall'altra parte di un'altrettanto stupida
rete, per non parlare dell'illogica nonché inutile imposizione di
“rielaborare un'opera d'arte a scelta e realizzarla con una tecnica
a piacere”.
Sciocchezze.
Azuré non vedeva l'ora di chiudere con la scuola media e andare,
finalmente, al liceo. Voleva studiare scienze per iscriversi poi a
medicina: con due genitori come loro e la sua innata predisposizione,
non aveva dubbi che sarebbe andata alla grande. Allora e solo allora
si sarebbe preoccupata seriamente della propria media.
Erano ben altre le sue preoccupazioni attuali. Solo, non era sicura
che quello fosse il momento più adatto per parlarne con i suoi
genitori.
–
Non è questo. –
Il
babbo si mise a sedere, le gambe incrociate e le mani intrecciate in
grembo. Anche se non la guardava, Azurè sapeva che le stava
prestano la massima attenzione: era nella sua posizione da ascolto.
Lo faceva sempre. Empatia. Una cosa che lui aveva e il papà invece
no, non l'avrebbe mai posseduta. Chissà se anche lei sarebbe stata
così?
–
John. – alzò
appena la testa verso di lui, nascondendo il disagio e l'agitazione
nella smorfia a cui il sole la costringeva.
–
Mhm? –
Era
buffo il suo sforzarsi di non dare a vedere quanto fosse attento. Il
fatto è che, anche se a lui non piaceva, sapeva bene che quando lei
lo chiamava “John” voleva parlare di cose serie.
–
Io non sono stata
adottata, vero? –
Una
conchiglia le capitò opportunamente sottomano, cosicché poté
sfogare la tensione rigirandosela tra le dita.
–
Papà l'aveva detto
che non avrebbe retto a lungo. –
Azuré
aveva nelle orecchie quel suono lievemente malinconico dei tardi
pomeriggi d'estate, fatto dello sciabordio delle onde e delle grida
lontane dei gabbiani e delle chiacchiere dei pochi che si attardano
in spiaggia fino a quell'ora. Era strano. Non aveva mai immaginato
che la verità – quella verità che sapeva sarebbe arrivata, prima
o poi, ma che fa sempre un certo effetto – gliel'avrebbero detta
con un'atmosfera simile. Chissà cosa avrebbe provato, d'ora in
avanti, a passeggiare su una spiaggia?
Portò
un ginocchio al petto e chinò la testa di lato, posando la tempia
sulla mano. Guardò di traverso il profilo di uno dei suoi due padri.
Aveva il suo naso, Azuré, e anche la forma del viso era la stessa.
Gli zigomi e le labbra invece, erano di Sherlock, come anche il
colore degli occhi. Come avevano potuto pensare che prima o poi non
avrebbe notato la somiglianza?
Ma
tutte le ricerche che aveva fatto erano chiare e lampanti: il primo
neonato ufficialmente concepito da due persone dello stesso sesso,
era venuto al mondo nell'aprile del duemilatredici. Sedici mesi
dopo la sua nascita. C'era decisamente qualcosa che non quadrava.
John
si schiarì la voce, come faceva sempre quand'era nervoso.
–
Avrai tante domande.
– le disse timido.
Azuré
mosse le labbra, indecisa.
–
In realtà ne ho
solo una. – alzò la testa e strofinò il mento contro il dorso
della mano – Come avete fatto a tenerlo nascosto? C'è di mezzo
anche zio Mycroft? –
Il
babbo si voltò a guardarla e aveva quel suo solito sguardo. Quello
di quando lei faceva o diceva qualcosa che lo sorprendeva. Era uno
sguardo strano, che la metteva a disagio. Perché era come pieno di
orgoglio, ma aveva anche qualcosa di malinconico. Era uno sguardo
talmente tipico di John, che sembrava fatto appositamente per stare
sul suo viso. S'era chiesta spesso se quello non fosse lo sguardo che
un tempo riservava al papà.
–
C'è di mezzo anche
zio Mycroft. – confermò.
Si
pulì poi le mani dalla sabbia e si alzò. Azuré sollevò il capo e
lo guardò dal basso, in attesa della frase che avrebbe stroncato
quel discorso.
– È
meglio se... ne devo parlare col papà prima di... –
Ecco,
appunto. Azuré distolse lo sguardo, accigliata.
–
Senti, lasciamo perdere, ok?
– borbottò alzandosi a sua volta, evitando ostentatamente di
guardarlo.
–
Non me ne volete
parlare, sono troppo piccola, magari fra qualche anno... –
cantilenò – Certo, va bene. –
S'incamminò
lungo il bagnasciuga, diretta chissà dove, comunque lontano da lui.
–
Ti ho mai mentito? –
Questa,
poi! Azuré si voltò verso di lui, irata.
–
Da quel che mi è
appena stato riferito, sì. – ribatté freddamente – Per dodici
anni. –
John
era in pieno assetto militaresco, adesso. Lo notava dalla posa
rigida, le spalle diritte, la mascella contratta. E quell'espressione
di determinazione così caratteristica di lui, quasi quanto lo era
quella da “lampadina accesa” che vedeva ogni tanto sul volto di
Sherlock.
–
Questa sera, dopo
cena. – dichiarò fermamente.
–
Mi direte tutto? –
lo incalzò, trattenendo a stento l'incredulità.
John
annuì. E Azuré si sentì come sgonfiare di tutto l'astio. Lo
occhieggiò, cercando di mantenere l'aria sostenuta, di non apparire
colpevole come si sentiva.
– E
adesso vieni qua e fatti dare un bacio. – le ordinò.
Lei
sbuffò, raspò la sabbia con i piedi, scrollò le spalle. E infine,
le braccia incrociate sul petto, gli andò incontro a grandi passi e
si fermò giusto davanti a lui, in attesa del bacio.
–
Vai. – le disse
dopo averle premuto bruscamente le labbra sui capelli.
Azuré
ricambiò con un timido, velocissimo bacetto sulla guancia, e scappò
via.
I
sussurri cessarono nonappena varcò la soglia della portafinestra che
dal soggiorno dava alla veranda. Non origliava mai, Azuré: non ne
aveva bisogno. Ma adesso che sapeva che stavano parlando di lei –
perché di che altro avrebbero potuto parlare? – le sarebbe tanto
piaciuto sentire cose si dicevano.
Il
babbo evitava di guardarla in modo diretto. Il papà la guardava in
modo strano. Non sapeva quale dei due atteggiamenti la mettesse più
a disagio. Si sedette su una delle poltroncine di vimini libere, e
attese, le mani ficcate sotto le cosce, nei suoi pinocchietti color
menta, con i capelli umidi della doccia raccolti in una pinza.
I
suoi genitori si scambiarono un'occhiata inequivocabile.
Sherlock
si accomodò meglio nella sua poltroncina: – Da dove vuoi che
iniziamo? –
Azuré
strinse le labbra e deglutì a vuoto.
–
Dal momento in cui
ti sei accorto che eri incinto. – disse tutto d'un fiato.
Lui
alzò le sopracciglia arricciò le labbra con aria ammirata. Come le
succedeva ogni volta che lui faceva così, Azuré arrossì, ma si
obbligò a non distogliere lo sguardo.
–
Aspetta, come hai
fatto a capire...? –
Il
papà ridacchiò e Azuré scosse la testa.
–
Ovviamente non
poteva che essere lui. – disse con sicurezza – Tu mentre
aspettavi Geal ti lamentavi continuamente e papà non faceva
che rassicurarti come se sapesse cosa stavi passando. –
John
arrossì un po' e si mosse impacciato sulla sedia. Azuré intercettò
lo sguardo divertito di Sherlock e si morse il labbro nel tentativo
di non ridere.
–
Bene, – fece lui
battendo le mani – direi che possiamo iniziare. Era il marzo
del... –
–
Aprile. – lo
corresse John.
–
Marzo. Era
marzo. –
– A
Baskerville siamo stati in marzo, ma tu non ti sei resto conto di
niente fino ad aprile. –
– A
dire il vero, i primi sintomi... –
Azuré
alzò le mani: – Ehi, stop! Time out! –
I
due si zittirono.
–
Cominciamo dal
momento in cui avete lasciato Baskerville. – suggerì – Tanto
quel caso lo conosco a memoria. –
Loro
si scambiarono un'occhiata e annuirono.
Sherlock
tornò a guardarla: – E sia. Ma non ti lamentare se dovremo epurare
il racconto di qualche... dettaglio. –
Azuré
era abbastanza grande da intuire quali dettagli dovessero essere
epurati, ma preferì diplomaticamente non immaginare niente. Per cui
si limitò ad annuire e poi fece un bel respiro, cercando di
prepararsi almeno un po' a ciò che le avrebbero raccontato.
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