You'Ve Got to Hide Your Love Away

di MrBadGuy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Somebody To Love ***
Capitolo 2: *** Help! ***
Capitolo 3: *** In My Live (I've Loved Them All) ***
Capitolo 4: *** Calling All Boys, Calling All Girls. ***
Capitolo 5: *** I'm Leaving Today; 1968. ***
Capitolo 6: *** 1969 ***
Capitolo 7: *** A Kind of Magic ***
Capitolo 8: *** Domani smetto! ***
Capitolo 9: *** Shock ***



Capitolo 1
*** Somebody To Love ***


Cath, tutto questo è dedicato a te, che proprio non te lo aspetti.
Ti adoro, tesoro.

2/08/1967
 
 
Aprì la porta di casa e guardò il cielo: la solita cappa di malinconia abbracciava il cielo grigio di Londra, nonostante
la primavera fosse alle porte. Non era un'abitudine uscire a quell'ora di casa, ma quella volta c'era in ballo qualcosa in più della solita passeggiata per lo shopping.
Antea, era una ragazza con i capelli biondi e ricci, che le ricadevano sulle spalle disordinati, sotto agli occhi grandi e ben truccati c'era un grazioso naso a patata. Cammiava, cercando di non farsi notare, per la strada, sperando che nessuna fan troppo appassionata dei Beatles non le corresse dietro urlando "La fidanzata di Pauuuuul!".
 
Arrivò davanti alla sua porta di casa.
Guardò il campanello con diffidenza, l'oggetto sembrò ricambiare lo sguardo. Ci spinse il dito, che staccò a fatica, dopo aver suonato insistentemente.
"Salve, Signorina" esordì una domestica aprendo, Antea si sentì quasi a disagio, per tutta quella formalità
"Salve, Brian è a casa?" 
"Vuole lasciargli un messaggio?".
Quell'uomo aveva smesso di vivere secondo la biondina, si era rassegnato alla depressione, lasciando che lo mangiasse, un po' per volta.
"Lasciala passare" ordinò una voce cordiale e lontana, la donna di servizio con un gesto di scuse e di benvenuto si fece da parte.
Appena entrata, la ragazza fu costretta a stringere gli occhi in due fessure, talmente era notevole lo sbalzo fra la luce mattutina e la penombra di quel salone.
"Brian?" chiamò con voce incerta la giovane
"Antea!"
"Temevo mi avrebbero lasciato fuori, lo sai?" 
"Questi giorni non voglio vedere nessuno, ma per te posso fare un'eccezione", rispose Mr Epstein, prendendo il viso della sua amica fra le mani, stampandole sulla fronte un bacio paterno; un leggero sorriso affiorò sul viso stanco del menager dei Beatles, che si sistemò il colletto della camicia color crema.
"Allora? Lo guardi senza dire nulla?" si chiese Antea, continuando a contemplare il viso stanco di Brian in silenzio, non riuscì a spiccicare parola, a parte un "Come stai?" semi sussurrato
"Come mi vedi".
Si sforzarono di sorridere "Parto per l'India con i ragazzi" riuscì a dire poi la biondina, giocando nervosamente con una ciocca di capelli che le torturava la guancia da un po'
"Vi raggiungerò dopo un paio di settmiane"
"Sono felice di averti visto, prima di...Partire".
Si sorrisero, cercando di farsi coraggio l'un l'altro.
 
Brian era un uomo sensibile e introverso, non aveva mai parlato a nessuno della sua condizione, ma Antea lo conosceva bene.
1-0 per la ragazza. 
 
"Ti passerà la depressione?"
"Quale depressione?"
"Quella che ti ha portato via da me".
Consumarono la loro giornata cercando di dimenticare, 
cerando di non pensare all'avvenire.




Writer's Corner.
Ciaaaaao.
Brian Epstein,  i Beatles (nonostante non li inserirò troppo, me ne scuso) non sono miei -purtroppo-, quindi, mi tocca solo fantasticarci come fate voi altre, eheh.
(spero che sta frase di merda valga ome desclaimer).
Allora, perché una FF su Brian Epstein?
Per lo stesso motivo per cui me ne sono innamorata perdutamente: nessuno lo considera, nonostante abbia influito moltissimo sulla carriera dei Fab4.
Poi... è così doooolce, tenero, silenzioso... E incompreso.
Spero vi piaccia, è la seconda stesura di questa storia, possiamo dire che la prima è quasi andata perduta, per il semplice fatto che dopo anni non mi piaceva più
cosa avevo tirato fuori. Crescendo si cambia.
Spero che lascerete un segno del vostro passaggio, siccome mi fa sempre piacere leggere delle recensioni (positive o negative, non si impara mai troppo, miei cari)


 

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Capitolo 2
*** Help! ***



28/08/1967.

Dopo essere partita e aver passato una settimana da incubo in India, con un pazzo strizzacervelli che delirava riguardo alla meditazione, all'importanza dell'armonia fra persone, natura, oggetti, non c'ero riuscita, con tutto l'amore che ci avevo impiegato, non ce l'avevo fatta: avevo implorato Paul di trovare un modo per farmi tornare a casa.
L'attrazione fra me e lui andava scemando, giorno dopo giorno, non c'era quasi più nulla, ormai.
"Ti tradirà" mi suggerì l'inconscio, parlando da una parte sconosciuta della mia testa.

Mi aspettavo una pugnalata al cuore, una fitta che mi avrebbe piegato in due, eppure, con celata sorpresa, guardai fuori del finestrino dell'aereo, senza cambiare espressione.
No, non mi amava più.
Avremmo rotto definitivamente, prima o poi, non mi avrebbe sposato, non ero il tipo che cercava.
Sapevamo entrambi qual era il suo desiderio: una donna dolce, che l'aspettava a casa senza chiedergli cosa avesse fatto la sera prima, che non lavorasse dalla mattina fino alla sera adornata da uomini di tutti i tipi. Sarebbe stato molto, molto, più semplice.
Il tassista chiacchierava annoiato: sua moglie dormiva invece di soddisfarlo, il rendimento scolastico di suo figlio era più affossato dell'inferno.

Bussai alla porta di casa Epstein: "Non è sceso in salotto" esclamò perplessa la governante.
Senza aspettare un invito ufficiale ad accomodarmi, mi insinuai dentro l'ingresso, salendo frettolosamente le scale.
Poggiai una mano sulla maniglia della camera da letto, era congelata. Incredibile come su quella casa fosse calato il gelo, era un puntino grigio che risaltava nell'estate londinese, che quell'anno fu particolarmente colorata.
La girai lentamente.
Aspettai con ansia che nell'aria si liberasse un rassicurante clack, eppure nulla, era chiusa a chiave.
"Hey, Brì?!" il fiato mi si bloccò in gola, il terrore salì dai piedi, passando per le caviglie, come se fosse il pavimento a irradiarlo.
Bussai insistentemente.
Dall'altra parte giungeva solo silenzio.
Mi girai, riuscivo a distinguere le figure dei domestici dietro di me, nonostante li vedessi offuscati per le lacrime che le gonfiavano gli occhi, ma si rifiutavano di scendere.
(Si erano conservate per dopo, per il gran finale).
"APRITE QUESTA CAZZO DI PORTA!" mi lasciai scivolare contro il muro, coperto dall'elegante carta da parati giallo pastello.
Senza parlare, un maggiordomo tirò fuori un mazzo di chiavi, ne infilò una nella toppa e poi girò, poi un'altra, un'altra ancora.
Finalmente quella giusta.
Clack.
La porta si aprì, con una lentezza estenuante.
La mia paura più recondita.

Buttai giù un sorso d'acqua e respinsi le lacrime che affioravano, ricordando ciò che era accaduto poche ore prima.
Ripresi a guardare l'agente di polizia in viso, mi chiedeva cosa avessi visto, per la ventesima volta.
Per la ventesima volta non dissi nulla.
Si alzò e uscì rassegnato dalla sala, mettendosi a posto la cinta con la pistola.
Fuori riconobbi la voce di Paul, che, infuriato, sosteneva che era inutile tenermi lì, che non avevo nulla da dire.

Accese il motore della Mini, che rombò.
"A me puoi dirlo cosa è successo"
"Quando l'ho stretto tra le braccia era già morto" tagliai, rannicchiandomi contro la pelle morbida e odorosa della macchina
"Ho capito. Devi riposarti un po', così ti sentirai meglio. Saremo a casa in pochi minuti".
Socchiusi le palpebre.

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Capitolo 3
*** In My Live (I've Loved Them All) ***


Questo capitolo mi piace particolarmente, (NB: quando mai?), dopo tanti tentativi ci sono riuscita.
Ce l'ho fottutamente fatta.
Be', che dire, state pronti con i fazzoletti... Enjoy it!
Bye!
MrB.


I ricordi erano più sempre più vividi, sicuramente più concreti della mia vita, che poche ore prima si era sgretolata, come se non fosse mai esistita.
Puf.
Mi allacciai la zip dell'elegante vestito nero, chiudendo all'interno di essa tutte le mie sofferenze, non le avrei mostrate a nessuno. Erano mie e di Brian.
Avrei custodito gelosamente tutto quello che ci apparteneva.
“Hey” la voce limpida di Paul mi ricordò della sua presenza alle spalle,
“Sto bene” mentii, portandomi un ciuffo di capelli dietro all'orecchio
“Il fatto che io non te l'abbia chiesto, e che tu me l'abbia detto ugualmente, mi puzza”.
Lo squadrai come se non l'avessi mai visto prima, cercando di far sembrare i miei nervi saldi; sicuramente non avevo bisogno dei suoi giochetti psicologici.
“Andiamo o arriveremo in ritardo”, non dissi altro fino a quando non raggiungemmo John, George e Ringo, per la prima volta dopo tanto tempo erano tutti in vestiti sobri.
Ci salutammo tutti con un “Ciao” sommesso.
Le persone cominciavano ad affluire, in Chiesa; un mio sguardo fugace penetrò dentro la costruzione sacra. La bara era già stata sistemata.
Un brivido mi scosse, tutta la mia schiena tremò.
“Brì-Brì-Brigitte: ci mancherà”, alla battuta di John tutti sorrisero, anche se pieni di nostalgia e senso di colpa per quel piccolo momento di felicità, ricavato dalla morte di Brian.
Dell'uomo che li aveva aiutati, li aveva fatti diventare i Beatles, senza di lui non sarebbero mai esistiti, si prendevano gioco in questa maniera?
Era questo il loro ringraziamento?
"John meglio che chiudi quella boccaccia” cercai di non sembrare troppo tesa, o troppo arrabbiata, eppure dentro ribollivo, il mio sangue era diventato incandescente.
Guardai George, la barba leggermente lunga gli decorava il viso, la mascella si muoveva ritmicamente, ovviamente stava masticando una gomma, una Brooklyn.
Sembrava aver trovato la sua pace interiore, in India, le sue sicurezze.
Ironico.
Le mie mi si erano spezzate fra le braccia.

Una mano senza vita pendeva dal bordo del letto.
Esaminai la situazione in meno di un secondo: un flacone di sonnifero vuoto era sul comodino, era il primo di una lunga fila di stessi contenitori, tutti senza medicinali al loro interno; le tende erano socchiuse, il braccio di Brian posizionato in modo poco naturale.
La cosa più terribile che notai furono gli occhi, sembrava mi fissassero, erano spalancati.
Aspettavano me.
Salii sul letto e girai il suo viso freddo verso il mio; sembrava marmo, per il colore e la temperatura.
Tutto quello che avevo studiato alla facoltà di medicina era diventato soltanto un ammasso di regole, di pensieri messi in fila in ordine a casaccio, vagano sconsolati nella mia testa.
Il mio viso bagnato e bollente si attaccò al suo, sperando che avrei potuto passare un po' del mio calore, un po' della mia vita solo attraverso quel contatto.
Un urlo si levò nell'aria: “No! Oh ti prego, NO!”, la mia voce graffiante e acuta riempì la stanza.

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Capitolo 4
*** Calling All Boys, Calling All Girls. ***



Tornai a casa correndo a perdifiato, senza aspettare che la polizia arrivasse e che facesse qualunque tipo di rilevamento.
Sicuramente sarebbero venuti a prendermi a casa, affari loro, di sicuro io non sarei andata di mia spontanea volontà.
Parlare di quanto accaduto sarebbe stata una tortura degna dei barbari.
Come un flash nella mia mente si affacciò la figura dei Beatles.
Dovevo avvertirli, non meritavano di rimanere all'oscuro di tutto, di venire a conoscenza di quel che era successo attraverso i giornali.
Fortunatamente, prima che tornassi in Inghilterra, i ragazzi mi avevano fornito un indirizzo a cui scrivere per parlare con Paul e un numero a cui chiamare in caso di emergenza.
Sicuramente, in quel caso, avrei dovuto usufruire del telefono, ma la mia voce era decisa a non uscire dalla bocca, come se tutte le parole che mi venivano in mente in quel momento mi incollassero le labbra.
Presi un foglio, cercai di calmarmi, scrissi tutta la lettera in una posizione scomposta, con le gambe attaccate al petto, racchiuse dal braccio sinistro.
“Mi dispiace. Non sono arrivata in tempo”.
Dopo aver impresso sulla carta la lettera “o”, in modo abbastanza convulso, mi alzai e dopo aver attaccato il francobollo della posta prioritaria sulla busta, uscii subito per imbucare quei pezzi di carta, che pesavano più del mondo intero.

“Deve venire con me”, l'agente di polizia si tirò su i pantaloni e mi mise una mano sulla spalla “mi dispiace molto per il suo amico”. Quasi mi tirò via dalla soglia di casa, riuscii a prendere le chiavi dalla mensola in vetro vicino alla porta, me le infilai in tasca e seguii il poliziotto.
La macchina con cui raggiungemmo la centrale era nuova, e il suo motore rombava.
Il viaggio si svolse silenzioso, la radio accesa fu la sua unica colonna sonora.


La lettera arrivò quattro giorni dopo essere stata imbucata. I ragazzi ne rimasero devastati.

“Che cosa vuol dire?”John girava in tondo confuso, per quanto la grandezza del bungalow glielo permettesse, “No... Dev'essere uno scherzo”.
Paul si rigirava fra le dita lunghe e affusolate il pezzo stropicciato di carta che li aveva messi a conoscenza di quanto accaduto “Non ci credo. Lo voglio sentire dalle labbra di Antea”.
L'avrebbe costretta a dire tutta la verità, sapeva che lei avrebbe sofferto a ripetere tutto quello le era stato impresso nella memoria a forza, ma Paul pretendeva di saperlo, anche perché Brian era il suo manager non il suo compagno di giochi.
Per un attimo si sentì rabbioso nei confronti della sua ragazza: forse per gelosia, per dolore a causa della morte dell'uomo alla quale doveva molte, troppe cose.
Non avrebbe mai potuto sdebitarsi, in quella vita.
“Deve essere terribile morire giovani” mormorò Ringo, che non aveva staccato un secondo gli occhi azzurri dalla calligrafia tremolante e disperata incisa sul foglio
“Credo sia ora di chiamare” George guardò Paul e poi il telefono mezzo scassato nell'angolo, quest'ultimo si alzò e raggiunse l'apparecchio.


Driiin.
Driiin.
Driiin.
“Pronto?”.
La mia voce annoiata riempì l'ambiente, rimbombando nella casa vuota.
Non l'avrei mai detto, ma quel salotto, seppur pieno di mobili, rispecchiava me in quel momento: vuota.
Non c'era un solo e unico problema, vale a dire la morte di Brian, ma anche l'assenza di Paul faceva la sua parte, insomma, una seconda morte, la mia, sui giornali di Londra, avrebbe fatto effetto.
Immaginai i suoi occhi verdi inumidirsi, proprio nel momento in cui mi chiese “è successo davvero?”.
Il cuore mi si fermò.
Solo dopo pochi secondi si degnò di ricominciare a battere.

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Capitolo 5
*** I'm Leaving Today; 1968. ***



“Puoi tornare a casa, se ti senti poco bene”, Betty, la mia collega tutti capelli cotonati e unghie laccate, aveva un'anima, cosa inconcepibile per me, prima che dicesse quella frase tremendamente gentile,
“mi piacerebbe, ma...” sospirai io, volgendo lo sguardo al mio soprabito, “fanculo le frasi di cortesia- guardai per un attimo la sua espressione sorpresa, poi le sorrisi -Grazie mille, troverò il modo di sdebitarmi”, mi alzai e raggiunsi l'esterno, dopo aver preso il mio capo d'abbigliamento.
Mi guardai attorno: ero lontana da casa e l'unico mezzo che avevo per tornare era la mia Vespa scassata.
Che io possa essere maledetta!
La fidanzata di Paul McCartney che non ha un mezzo di locomozione decente.
Mi infilai i guanti di pelle marroni e il casco, misi in moto e arrivai a casa, prima di quanto mi aspettassi, effettivamente il traffico era molto meno intenso, rispetto a quando uscivo rispettando il regolare orario.
Guardai da fuori le luci della futura villa della famiglia McCartney.
Sì, Paul mi aveva chiesto di sposarlo, e io avevo accettato, nonostante avessimo avuto dei piccoli alti e bassi.
Mi sentivo felice, era come se fra noi qualcosa si fosse riacceso.
Le luci della camera erano accese, lui, evidentemente era arrivato prima di me.
Erano strani, i suoi orari di lavoro, lo trovavo a casa prima del solito, mentre altre volte lo aspettavo in piedi fino a notte fonda.
(Non avevo mai sospettato nulla, povera illusa).
Entrai e la prima cosa che feci fu notare qualcosa di diverso nell'aria: un profumo, un dettaglio; poi dei rumori.
Cominciai a sospettare che fossero entrati dei ladri, salii le scale cercando di ignorare quel pensiero più che assurdo, completamente disarmata, “Paul?” chiamavo, mentre la mia mano cercava con disperazione l'interruttore della luce.
In certe situazioni sembra quasi che si spostino, quei bastardi; ed è proprio quando cominci a credere che la creatura più terribile ti sta per strappare un braccio che la stanza si illumina.
Così successe a me in quel momento.
Notai che la porta della camera da letto era socchiusa.
Inusuale.
Intuii.
Quella; quella era una delle mie più tremende paure, tanto intense quanto improbabili. Eppure in quel momento Paul era lì, dentro al letto.
Con un'altra.
Rabbia, rabbia, rabbia.
Avevo una vasta scelta di emozioni a disposizione ma mostrare ai due amanti clandestini.
Io optai per tutte e tre, avrebbero avuto un impatto più violento, su tutti e due.
Poco prima di esplodere pensai che non sarebbe rimasto nulla di Paul in quella casa, neanche di mio: sarei andata talmente lontano che non avrebbe neanche avuto idea di dove cercarmi.
Entrai senza timore, godei per attimo dei loro sguardi, erano impagabilmente spaventati dalla mia presenza, aprii l'armadio e selezionai tutti gli abiti del mio ex ragazzo.
Uno a uno cominciai a tirarli giù dalla finestra, “Questo non mi servirà... Neanche questo... Caspita, ma che ci fanno qui tutti questi vestiti da uomo?”.
Poi uscii sbattendo la porta.
Dopo che l'adrenalina smise di scorrermi nelle vene mi sedei sul marciapiede e piansi.
Piansi da come non facevo da un po', perché non bastava la batosta che avevo preso con la morte di Brian, ora che mi ero ripresa avevo bisogno di qualcos'altro di cui preoccuparmi.
Quella fu l'ultima notte, in quell'anno, che respirai aria inglese.


Appena scesa dall'areo inspirai a pieni polmoni.
“New York!” sussurrai a me stessa, come per cercare di convincermi che ero riuscita davvero a fare quella pazzia.
Mi ero lasciata Paul alle spalle, la mia intera vita era rimasta a Londra, Regno Unito, mentre fisicamente, io, ero a New York, America.
Le voci felici dei bambini che erano partiti con i genitori creavano un gran frastuono, socchiusi un attimo gli occhi e ripensai al quindici agosto del sessantacinque.
Shea Stadium.
Stessa eccitazione, solo moltiplicata per cinquantacinquemila Beatlesmaniache in presa a una crisi isterica, o meglio, una dopo l'altra.
Io ero dietro a quel palco, con...
Scossi la testa e mi misi lo zaino sulle spalle, pronta a dimenticare.
Eh sì, portai solo uno zainetto.
Il peso del mio bagaglio a mano sarebbe stato direttamente proporzionale alle sofferenze portate dal mio paese, così optai per qualcosa di ristretto.





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Mi scuso per avervi fatto aspettare così tanto, mi rendo conto che potreste odiarmi, ora.
Penso che la storia stia per volgersi al termine, ma MrB. ha tante idee, sia per questa fic che per quella in sezione Queen.
Se avete letto fino a qui vi ringrazio.
Anche se avete aperto e poi richiuso, senza leggere nulla.
Spero che il capitolo vi piaccia! Anzi, che vi sia piaciuto.
MrB.

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Capitolo 6
*** 1969 ***



New York era così diversa da Londra.
Times Square, di sera, scintillava come oro al sole.
I grattacieli squarciavano il cielo, spesso blu e limpido.
Avevo trovato un lavoro stabile, avevo una vita leggermente frenetica, ma non era affatto male.
I primi tempi avevo bisogno di soldi tanto quanto di non pensare a quel che mi ero lasciata alle spalle nel Regno Unito; non avevo aspettato due volte a entrare nel bar sotto l'appartamento in cui vivevo con una mia vecchia cara amica, che mi avrebbe ospitato senza chiedermi l'affitto, almeno fino a quando sarei riuscita a stabilizzarmi.
Solo pensare che qualche tempo prima ero la promessa sposa di Paul McCartney mi faceva morire di rabbia, tanto quanto chiedermi cosa avesse una puttanella da una notte o due più di me, che mi ero impegnata al fine di essere amata, che mi ero concessa a lui. A lui per la prima volta.
“Ecco il suo caffè” annunciai al signore baffuto che occupava l'ultimo tavolo a destra, accanto alla parete a specchi, in cui ogni mattina mi osservavo appena arrivata a lavoro, alle sette in punto.
Tornai dietro al bancone, a prendere la colazione ordinata da una famiglia, accomodata proprio vicino all'imprenditore (almeno a me sembrava svolgesse un lavoro del genere, con quel colletto inamidato e i pantaloni ben stirati) con i baffi.
Stringevo il vassoio e osservavo attentamente i tre bicchieri di latte colmi fino all'orlo vicino ai due caffè, la paura di far cadere tutto per terra non mi era mai passata, così, fissavo i cinque contenitori di vetro.
La mia tecnica non era del tutto giusta, di fatti urtai contro qualcuno e tutto il ben di Dio cadde a terra, i bicchieri si frantumarono, il liquido si sparse a terra mischiandosi, diventando beige.
“Dovrebbe stare più attenta, lei” commentò un, ormai, ex cliente, si girò e raggiunse l'uscita, senza guardarmi neanche in faccia. Che stronzo! Neanche una goccia di latte o di caffè avevano sporcato la sua sciarpa rossa, non aveva alcun motivo di trattarmi così.
Mi resi conto che stare in piedi attonita, nel mezzo del bar, attirava troppe attenzioni, specie dopo quel che era successo.
“La vostra colazione sarà pronta di nuovo in pochi minuti” rassicurai con un sorriso più che forzato la famiglia affamata; in meno di un attimo tutto era tornato alla normalità: i baristi avevano preparato tre nuovi bicchieri di latte e i due caffè, questa volta portai il cibo al tavolo, sano e salvo.
Un cliente abituale, che generalmente sedeva vicino all'uscita, questa volta aveva gustato la propria colazione sul lato opposto del locale, vicino al bancone; mi chiamò per ritirare la tazzina in cui aveva bevuto il suo cappuccino corretto giornaliero.
“Gradita la colazione?” chiesi io, avevo l'abitudine di guardare i clienti negli occhi, mentre chiedevo se desideravano il conto o se era piaciuta loro la colazione, ma da quando quell'uomo frequentava il nostro locale, vi assicuro che non era da poco, non ero mai riuscita a farlo per via del giornale che teneva fra me e lui.
Quella volta lo abbassò.
Sorrise.
Tornai a casa con un magone unico, un nodo alla bocca dello stomaco.

Mi ero seduta sul tavolo della cucina in stile moderno e avevo mangiato svogliatamente due fette biscottate, mi ero accovacciata sul divano incapace di fare altro. Com'era possibile?
I morti non tornano in vita, i fantasmi non esistono.
Brian che ci faceva al bar vicino Central Park all'incrocio fra Broadway e la Columbus Ave?











WC, (non quello su cui poggiate le chiappe, tengo a specificare).
Sto rimettendo a posto tutto l'HTML della storia, perché mi rendo conto che trovarsi di fronte dei capitoli messi tutti in modo diverso può essere fastidioso, quindi, oltre a ricorreggerli li metterò a posto graficamente.
Ringrazio tutti quelli che hanno recensito o anche solo letto fino a ora; è per merito vostro che io scrivo . Vorrei inoltre precisare che la storia sta prendendo una piega inaspettata che modifica tutti i miei piani... Perché no, insomma... Spero vi piaccia questa svolta.
Un saluto particolare alla ragazza che mi ha messo in testa che rileggere è una delle cose fondamentali per creare una bella storia.
Grazie.
MrB.

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Capitolo 7
*** A Kind of Magic ***



Aprii gli occhi, sbattei la mano sulla sveglia di Jasmine, realizzando che gliela avrei potuta rompere solo dopo averci sbattuto il mio arto ancora addormentato.
Non avevo chiuso occhio, mi ero girata e rigirata nel letto.
Mi recai alla caffetteria prima del solito, con venti minuti di anticipo avevo alzato la serranda ed ero entrata di fretta, acceso le luci e mi ero seduta su uno sgabello ad aspettare i primi clienti, avevo appoggiato le braccia sul bancone.
Chiusi gli occhi per un attimo.

Il bar era pieno, era piuttosto ovvio che il liceo a cui eravamo accanto era uscito due ore prima e si era affrettato per prendere i tramezzini ancora caldi. Giravo per i tavoli con il blocchetto per le ordinazioni nella mano sinistra, pronta a scrivere velocemente quel che i clienti desideravano.
“Un toast con maionese, prosciutto cotto e mozzarella”
“Una pizzetta con mozzarella”
“Un tè con biscotti alla vaniglia grazie”.
Correvo da una parte all'altra per servire e ordinare, per ordinare e servire.
Momento di pausa.

Avrei pulito il bancone e rimesso a posto le sedie, poi sarei tornata a casa.
Avevo lasciato la serranda chiusa per metà, la porta di vetro opaco chiusa a chiave.
Sentivo la pioggia battente cadere sulle teste delle persone, sugli ombrelli, sui tetti e l'asfalto; pensare che il cielo la mattina era sereno, e, siccome era raro che piovesse a New York, o meglio, era meno frequente di Londra, non mi ero portata l'ombrello dietro. Sentii bussare sulla serranda.
Sicuramente era Amanda, la mia collega, che aveva dimenticato qualcosa dentro lo spogliatoio...
Aprii la porta e alzai la serranda, e, aspettandomi di vedere la testa mora della mia compagna di lavoro esclamai falsamente scocciata "Che ti sei persa ora?".
Forse ero impazzita, probabilmente stavo andando fuori di testa.
"Sono ancora in tempo per un tè?" la voce, con una sfumatura di scuse, echeggiò nel silenzio della sera inoltrata;
"Che vuol dire?"
"Il tè. Me ne puoi fare uno?"
"Un tè?", sfoggiai la faccia da ebete più riuscita dell'Universo, lui aggrottò le sopracciglia e lo invitai a entrare.
Lui annuì e si avvicinò al bancone, e, dopo essersi accomodato su uno sgabello tamburellò sulla superficie laccata, “Come ti chiami?”
“Io...?”, lui si guardò attorno chiedendomi ironicamente se ci fosse qualcun altro, al che aggiunsi: “Antea. Tu?”.
Non volevo davvero saperlo, semplicemente desideravo non sembrare cortese; avevo il cuore in gola, e, mentre mettevo l'acqua a scaldare avevo la sensazione che le ginocchia mi fossero diventate burro, burro fuso.
“Brian Samuel Epstein” annunciò lui, mettendosi bene la cravatta; che presentazione degna di imprenditore, o meglio, di manager di band musicali con un caschetto in testa e dei completi scuri addosso.
Afferrò la mia mano e ne sfiorò il dorso con le labbra, addirittura il bacia mano? Stavo per svenire, perché non solo il vecchio Brian e quello che mi ero ritrovata davanti erano uguali fisicamente, ma anche nell'eleganza e nei comportamenti.
Bevemmo la bevanda uno davanti all'altro, io stavo in silenzio ad ascoltare i suoi racconti, che, onestamente, non mi erano entrati in testa.
Ero troppo concentrata sul suo viso, le mani, il collo; non poteva essere nessun altro, se non Brian, il mio Brian.
“Torni a casa da sola?”
“Sempre”
“Ho la macchina parcheggiata qui fuori, vuoi un passaggio?”
“Io...” mi accompagnai con un gesto goffo della mano,
“Non è una proposta di matrimonio!” mi prese in giro, sorseggiando le ultime gocce di tè.
La faceva facile lui!
Non era quello che si era ritrovato un amico di cui si era chiaramente vista la bara essere sotterrata, comparire all'improvviso.
L'avevo stretto, il corpo di Brian Epstein, l'avevo stritolato fra le mie braccia, sperando che riprendesse a respirare.
Ma non era successo.
Non nel 1967.
Che fosse accaduto con qualche anno di ritardo?

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Capitolo 8
*** Domani smetto! ***



Mi spinse sul divano di pelle morbida, affondandomi la lingua tra le labbra, stringendomi per i fianchi con frenesia.
Nonostante fosse passato tutto quel tempo, sentivo ancora quel nodo in gola, come la prima volta in cui l'avevo visto, dietro al giornale.
Mi baciava sul collo, da lì scendeva verso i seni.
Ero completamente pietrificata, mentre realizzavo che ero innamorata di lui, lo ero stata da sempre: i colpi al cuore ogni volta che mi sfiorava; il profondo legame che ci univa, di natura non solo amichevole, da parte mia.
Ero innamorata anche dell' altro Brian.
Se lo avessi considerato sempre e solo un amico, non mi sarei mai trovata in una situazione del genere, non mi sarei mai trovata a casa sua, con il vestitino completamente stracciato.
Tutto ciò non era successo quando Brian mi aveva accompagnato a casa, una, due, tre volte; bensì dopo un Gala a cui mi aveva invitato, assieme a un gruppo dei suoi più grandi amici, tutti ricconi con la puzza sotto al naso.
Io li capivo, tutto sommato, non potevano comportarsi altrimenti: i soldi, la potenza e l'egoismo ti costringono a essere così.
Fino al momento in cui non ero andata a lavorare in America non l'avevo mai capito, ero sempre stata servita e riverita.
“Io... Non avrei dovuto” mormorò lui, staccandosi, visibilmente eccitato,
“No... E invece!”
“Come posso scusarmi?”
“Scopami”.

Mi contorcevo sotto di lui, stringendolo con le unghie a me, come se potesse farmi avere un orgasmo in più, un altro ancora, “Ti prego, più forte... Di più” sussurravo, sotto di lui, con il corpo bianco latte stretto sotto il suo, decisamente più sostanzioso.
Arrivò al culmine ansimando, stringendo il bracciolo in pelle rossa.

Brian Samuel Epstein, il mio vecchio Brì, non avrebbe mai fatto una cosa del genere con me: non solo perché, si sapeva, preferisse il suo stesso sesso...
Anche perché io per lui ero come una figlia e non mi avrebbe mai toccato con un dito.
Non ero convinta di tutto ciò, ma avevo bisogno di esserlo, perché sennò non ci sarebbe stato verso di spiegare lui dentro di me.
Era un tipo che gli assomigliava.
Tanto.
Che ci crediate o meno, non avevo ancora capito se fosse uno scherzo della mia mente, o un sosia, o un fottuto fantasma.
Era quanto di più vivido avessi mai visto.
Gli accarezzai le labbra, umide.
“Credo di amarti”.
Sul suo viso si dipinse un sorriso, quando pronunciai quelle parole






























Che sia il penultimo capitolo? Grazie a tutti per avermi seguito, grazie davvero. Dedico questo capitolo a Midori e Cath, dopo aver passato una meravigliosa giornata ;) MrB.

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Capitolo 9
*** Shock ***



Referto di morte, ottobre 1967.
"10 ottobre.
La notte del giorno sopra citato, la paziente numero 23 si è svegliata nel mezzo della notte urlando.
Il nome che pronunciava, come sempre, era "Brian".
A seguito di questo evento l'infermiera di turno ha sentito dei forti rumori provenienti dalla camera della paziente; l'equipe, dopo essere entrata ha tentato più volte di sedare la donna, tutti i tentativi sono stati rigettati in modo violento.
Come da protocollo la malata è stata trasportata nella sala in cui si effettua l'elettroshock ed è stata sottoposta al trattamento, per la seconda volta questa settimana.
Quando la corrente è stata irrorata, la donna ha contratto con forza il corpo e poi si è totalmente rilassata.
Dopo che la degente aveva smesso di respirare l'equipe ha svolto ogni tipo di manovra di rianimazione.
Tutti tentativi vani.
Io, da medico primario quale sono, non so spiegare come sia avvenuto il decesso, poiché la pratica elettrica usata fino a ora non aveva registrato alcuna sessione letale.
Il corpo è stato trasportato nell'obitorio, nella stanza 068.".


Paul stringeva nella mano destra un bicchiere di cristallo vuoto.
Cosa aveva fatto?
Prima Brian, poi il tradimento e la donna che nonostante tutto amava aveva perso il lume della ragione.
Il cantante non si sentiva affatto innocente.
Avevano continuato a sentirsi, lui sarebbe ritornato volentieri con Antea; lei sembrava essere della stessa idea, aveva deciso che sarebbe tornata nel Regno Unito.
Qualcosa di strano, però, era scattato in lei; diceva di riuscire a vederLo, di parlarci.
Quando raccontava al preoccupatissimo Paul gli incontri fra lei e Brian, diceva di essere una cameriera in un bar di New York.
Che un giorno, uno come un altro, lui aveva calato il giornale che solitamente lo divideva dal mondo.
Era proprio lui.
Poi più nessuna notizia.
Poi la lettera della morte di Antea

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