MARZO 1996: memorie di un amore bislacco e mancato

di suni
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Marzo 1996 ***
Capitolo 2: *** Lily; le mie donne ***
Capitolo 3: *** Remus; Frank e gli altri amici ***
Capitolo 4: *** Peter Minus ***
Capitolo 5: *** Remus, conversazione nel presente ***
Capitolo 6: *** Hogwarts ***
Capitolo 7: *** Secondo e Terzo Anno ***
Capitolo 8: *** Quarto e quinto anno ***
Capitolo 9: *** Sesto Anno ***
Capitolo 10: *** Settimo anno ***



Capitolo 1
*** Marzo 1996 ***


 

A-hem.

Orbene. Questa storia merita –richiede obbligatoriamente- una premessa, più premesse.

-          non ha senso (ma proprio nessuno)

-          io NON vedo ASSOLUTAMENTE le cose in questo modo: questa coppia NON HA RAGIONE di esistere ed è ridicola

-          Mi è venuta in mente (la coppia) mentre stavo in casa a pirlare, ma è stato solo uno stupido pensiero al quale non volevo dare corda. Accidentalmente però, due soli giorni dopo, il pairing mi è stato risuggerito da un’individua riprovevole cui sarebbe interessato leggere qualcosa in proposito. Prendetevela quindi tutti quanti con la cara sourcream per questo obbrobrio

-          Questa fic è solo una preparazione alla storia che scriverò appunto per la gentile signorina in questione. Non è una slash vera e propria, il pairing è solo accennato (diavolo, devo pur prepararmi allo shock..) E’ una specie di esercizio e di studio sui personaggi e sui cambiamenti che dovrò apportare al loro rapporto visto che per me di solito non sono altro che l’esempio perfetto e sublime di quel che significa il termine “Amicizia”  

Credo sia tutto.

 

PICCOLA MODIFICA:

Ho aggiunto a mo’ di presentazione alcuni versi di una canzone che mi piace molto e mi pare calzante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Marzo 1996

 

 

 

Cantare il tempo andato

sarà il mio tema

perché negli anni è uguale

sempre il problema.

E dirò sempre le stesse cose viste sotto mille angoli diversi,

cercherò i minuti le ore i giorni i mesi gli anni e i visi

che si sono persi,

canterò

soltanto il Tempo.

E ora dove sei

Tu che sapevi

ridare ai giorni e ai mesi

un qualche senso?

La giostra dei miei simboli

fluisce uguale

per trarre anche dal male

qualche compenso.

E dirò di pietre consumate di città finite e morte sensazioni,

racconterò le mie visioni spente di fantasmi  e gente lungo le stagioni,

canterò

soltanto il Tempo.

                [*]

 

Memorie di un amore bislacco e mancato

        

 

Non sono uno che ami scrivere.

Le storie, a me, è sempre piaciuto viverle, tuffarmici dentro, non guardarle o raccontarle. Sono sempre stato così, è il mio carattere. Per questo mi è tanto difficile, adesso, rimanere fermo a guardare gli altri che agiscono senza poter fare nulla, nemmeno la più piccola cosa.

E lo stesso, non avevo intenzione di prendere in mano la penna d’oca. Ma forse è lo scorrere delle ore, così lente ed estenuanti, in questa casa che è la più detestabile delle prigioni, che mi fa cercare disperatamente un appiglio a cui aggrapparmi per far sì che i minuti scorrano un po’ più rapidi, meno incisivi, più leggeri. Non sono neanche un gran pensatore –e, colpa più grave, non per stupidità, ma per pigrizia mentale, per comodità d’azione- e solitamente alla riflessione sostituisco l’impulso, l’istinto. Ma ora, nel silenzio della casa sempre vuota, la mente mi si affolla, nelle lunghe ore di inoperosità, fino  diventare un garbuglio nel quale ho bisogno di fare un po’ di ordine, mettere dei punti fermi, scoprire un minimo di chiarezza.

Remus ha sempre detto che scrivere è il modo migliore per ordinare la mente.

E allora, scriviamo.

 

A volte sono seduto, qui, in silenzio-

Spesso sono seduto qui in silenzio, non ho molto altro da fare, non posso andare da nessuna parte, fare niente di utile se non pulire questo posto odioso e immondo, con quell’Elfo psicopatico che mi ronza intorno cercando di nascondere le reliquie, brontolando insulti rivolti alla mia persona finchè non lo scaccio a calci.

Spesso, appunto, sono seduto qui, in silenzio, con una bottiglia e l’accompagnamento musicale del fuoco nel camino che crepita, e penso.

Penso a cosa sono diventato, a cos’è la mia vita adesso, e a quello che era un tempo. Una volta, ero felice, me lo ricordo. Non so più bene cosa si provasse, ma lo ero davvero. Potevo –potevamo- ridere per ore ed ore consecutive, senza fermarci mai, senza nemmeno che ci fosse una vera ragione. Anche verso la fine, quando tutto iniziava ad essere buio e minaccioso, ci riuscivamo ancora. Lily ci guardava di sottecchi, non capiva – non poteva capire- mentre le sghignazzate investivano ogni angolo, ogni vano della casa. Sprofondavo nel divano dei Potter e ridevo a piene ganasce, mentre James, spalmato nella poltrona accanto, si teneva la pancia con le mani, la testa piegata indietro e gli occhi chiusi, strizzati, sghignazzante. Mi prendeva una mano cercando di dirmi qualcosa ma non ce la faceva, ridevamo ancora di più, fino a star male.

Eravamo molto innocenti.

Se ci ripenso, adesso, mi viene ancor più tristezza.

Non abbiamo mai capito niente. Vivevamo tutto in modo pulito e trasparente, non capivamo le sfumature. Forse l’unico che ha mai vagamente intuito qualcosa è stato Remus, che ci guardava dall’esterno e vedeva quel che noi stessi rifiutavamo inconsciamente di cogliere.

La prima volta che ho parlato con James Potter l’ho odiato. E’ buffo, pensando a quanto poi è stato importante per me. Aveva ragione Piton, anche se è seccante ammetterlo: non eravamo niente l’uno senza l’altro; non avevamo stimoli, non c’interessavano obiettivi e risultati che non potessimo raggiungere insieme. Vivevamo l’uno della presenza dell’altro, e adesso voltandomi mi chiedo come sia possibile che nessuno di noi due abbia mai capito niente. Era così ovvio.

Mi ripetevo ossessivamente, quando abbracciavo James, che la sensazione di benessere e calma che mi pervadeva era dovuta al fatto che quello fosse il mio migliore amico, mio fratello. Durante quell’estate del sesto anno, a casa dei suoi, quando per quasi due mesi abbiamo diviso lo stesso letto –e dire che ce n’erano altri nella cascina, ma mai nessuno di noi due s’è sognato di farlo presente all’altro- e ci svegliavamo la mattina appoggiati l’uno all’atro, la mia testa sul braccio di James, la sua gamba sopra la mia, mi dicevo solo che avevo dormito con mio fratello. Non c’era altro da prendere in considerazione.

E in effetti tanta granitica certezza non fa che confermarmi quanto intensamente non volessimo percepire la realtà.

Vivevamo in una bolla, un mondo parallelo in cui normalmente i migliori amici passano la maggior parte del tempo appiccicati, uno addosso all’altro, senza che la cosa sia minimamente strana o ambigua. A guardarci da fuori doveva essere un po’ strano, eppure Remus e Peter hanno sempre assecondato questa recita involontaria con naturalezza, forse perché anche per loro la realtà sarebbe stata troppo assurda, troppo disturbante.

Che cosa pensasse Lily, di me e James, non lo potrò mai sapere. Ma adesso che ho capito, mi rendo conto che la sua gelosia nei miei confronti –quella stessa gelosia di cui tanto mi lamentavo con James, avvelenandogli le giornate- non era poi così assurda e immotivata come professavo anche con me stesso. La sua sensibilità, il suo amore per suo marito, dovevano aver spinto il suo sguardo molto più in là di quanto arrivasse il nostro.

Spesso mi chiedo cosa sarebbe stato delle nostre vite, se avessimo ammesso con noi stessi che cosa davvero ci univa. E’ un pensiero divertente, dolce e amarissimo al tempo stesso, una piccola incognita di rimpianto e nostalgia che mi attanaglia nelle ore vacue di Grimmauld Place. Forse sarebbe stata una storia da vivere, quella, un’avventura da romanzo intensa e toccante, come i grandi amori dei film Babbani.

Grandi amori… E’ la prima volta che uso la parola amore riferita a James, eppure è questa la realtà. Eravamo innamorati, probabilmente molto più di quanto lo siano tante coppie “normali”. Il massimo di noi stessi lo davamo insieme, e sempre e comunque l’uno per l’altro.

Azkaban non ha potuto nulla su di me –è strano, come il ricordo della prigione sia sempre presente nella mia mente, sbucando fuori anche quando non centra nulla- perché quando sono arrivato lì ero già grossomodo lo stesso di oggi. Credono tutti che siano stati i Dissennatori a spezzarmi l’anima, e mi sta bene che lo pensino. Ma non è così. Ero già spaccato in due, dal momento stesso in cui ho capito quello che era successo, e che la voce di James Potter, la sua risata, non le avrei sentite più. E lo stesso, da quel poco che rammento di quei momenti terribili, confusi, frenetici, mi ostinavo a negare a me stesso la vera ragione della mia morte interiore.

Adesso sono stanco, piegato, senza più forze. La nostalgia diventa insopportabile, fiaccante. Non ho più voglia di alzarmi dal letto quando mi sveglio, né di mangiare, di parlare, di affannarmi a cercare tattiche e strategie. Mi trascino avanti solo per Harry.

Questo figlio che per certi versi è anche mio, perché non è così semplice distinguere la persona di suo padre dalla mia, e perché James davvero mi vedeva come il secondo padre di suo figlio, il che è indubbiamente indicativo.

Mi chiedo come sia, per Remus, stare a guardarmi mentre lentamente mi spengo. A volte, quando siamo soli qui in casa, nel salone, rimane per minuti e minuti in silenzio, a fissarmi. Uno sguardo triste, impotente. Lo sguardo di chi guarda una persona cara andare via. Perché non io e James, ma io e Remus sì, siamo fratelli.

Quando leggerai queste pagine, amico mio, sappi che mi dispiace. Non stare in pena per me, non sto neanche davvero soffrendo. Ti do la mia benedizione di Black, capostipite della famiglia, sposati la mia cuginetta e vivi in pace, finalmente.

E se non ti fa male, finisci di leggere, così almeno qualcuno sarà stato testimone, in qualche strano, vago modo, di questa strana storia, un amore bislacco e mancato.

Ma vero.

 

 

 

Chiedo scusa a chi non apprezzerà e soprattutto chiedo scusa ai miei due amatissimi per lo scempio che sto facendo di loro. Ramoso, Felpato (Siiiis… Ti prego… Non fare quella faccia!)… Perdonatemi.

Ciao a tutti

suni    

 

 

 



[*] Da “Il Tema” di F. Guccini

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Capitolo 2
*** Lily; le mie donne ***


Lily; le mie donne

 

 

Nella cerchia degli amici intimi, sono stato l’ultimo  a venire a sapere del matrimonio; fatto strano. Quando ne chiesi la ragione a James, mi rispose che aveva voluto aspettare “il momento adatto”. Fu anche l’istante in cui mi chiese di fargli da testimone: accettai immediatamente.

Non ricordo che sensazioni avesse provocato in me quella notizia: ero contento, credo; James lo era molto. Se anche ne ho sofferto, devo essermi detto come sempre che era la mia solita, fraterna sindrome del Migliore Amico geloso.

 Un po’ mi seccava il fatto che da allora in avanti il tempo che avremmo condiviso sarebbe drasticamente diminuito, com’era ovvio  e naturale: era il mio unico cruccio. Il bisogno che io James avevamo l’uno dell’altro era una cosa fisica, la necessità di toccare, guardare l’altro, sentire concretamente la sua presenza.

Ma credo anche che dentro di me sapessi, in qualche modo, che le cose sarebbero cambiate molto meno di quanto apparentemente ci si potesse aspettare. Se c’è una cosa che non è mai mancata tra me e James è la manifestazione d’importanza reciproca; sapevo esattamente quando grande fosse, e  sarebbe rimasto, il mio spazio nella vita di James, fiori d’arancio o meno.

Dapprincipio, diventai strano, quasi febbrile. Mi facevo vedere pochissimo dai Potter, per lasciare loro l’intimità dovuta ai novelli sposi, anzi credo per qualche settimana di aver esagerato, sparendo. Stavo con Remus, o da solo; rimorchiavo tantissimo. Quando incontravo James diventavamo quasi melensi, incollati. Poi, con l’andare del tempo, le cose si stabilizzarono. Lily parve abbandonare l’iniziale ostilità e cominciare a non trovare più intollerabile la mia presenza –o forse semplicemente si rese conto di dovercisi rassegnare- e arrivò addirittura a prendere l’iniziativa di invitarmi a cena, di tanto in tanto. 

Ricordo che una volta, non avevamo forse ancora vent’anni, mi disse che le dispiaceva, che si era sempre sbagliata sul mio conto e che non ero l’individuo insopportabile, meschino e deplorevole che aveva pensato durante tutti gli anni della scuola; le risposi sinceramente che per me valeva grossomodo lo stesso discorso. In sintesi, ci venimmo incontro a vicenda. Ne sono tuttora molto orgoglioso: nonostante l’ambiguità –inevitabile, data la situazione- del nostro rapporto, Lily Evans è stata una persona da cui ho imparato molto, sulla dignità, il coraggio e la tolleranza.

 Lei sapeva –quanto dov’essere stato doloroso, umiliante, quanta impotenza e quanta solitudine deve aver sofferto- che il suo posto nella vita di James non sarebbe mai stato lontanamente grande quanto il mio. Credo che sia arrivata alla realtà dopo il matrimonio, perché non era il tipo di donna da accettare un simile compromesso, affatto. Era forte, determinata e fiera, aveva molto orgoglio e molta determinazione. Mi piaceva, Lily; a modo mio le volevo bene, solo che si era presa l’uomo di qualcun altro. Il mio.

Con me ostentava una gentilezza e una simpatia che non sono mai sfociate nella vera confidenza. Dal canto mio, i miei sentimenti e le mie sensazioni proiettati su di lei erano contraddittori. Da principio, ad Hogwarts, quando ci inseguiva per tutta la scuola tentando di farci stare buoni, la detestavo, la trovavo una seccatrice perbenista e conformista. Quando si sono messi insieme, al settimo anno, non so come mi sono sentito. Più che altro mi dava fastidio il fatto che lei cercasse di cambiare delle cose di James, smussare certi lati del suo carattere e certi atteggiamenti che per me erano così caratterizzanti di lui. Ai miei occhi era veramente perfetto, sotto ogni punto di vista, e mi seccava che una persona che non sembrava pensarla allo stesso modo mi portasse via il suo tempo. Ma ovviamente continuavo a trincerarmi dietro l’affetto fraterno e la grande amicizia, imputando ad essa una normale, vaga gelosia.

Con l’andare del tempo, comunque, mi sono affezionato davvero a lei: il suo amore per James era evidente, le si leggeva in faccia che non voleva altro che il suo bene. Questo mi rilassava, era la stessa cosa che volevo io: che James stesse bene e fosse felice.

Sempre perché era il mio migliore amico.

Che cosa abbia rappresentato Lily, per lui, non credo di poterlo capire. L’ha inseguita per tanti anni, ma a volte penso fosse solo un sistema inconscio per negare a se stesso ciò che ero io: trovarsi un altro obbiettivo, una differente ossessione, per non dover vedere quella che aveva a fianco. Del resto, non credo pensasse davvero di poterla ottenere: si era scelto, e a questo punto direi non a caso, la ragazza che meno di ogni altra sembrava potersi interessare a lui, e se da un lato questo era nel suo carattere –una sfida difficile, il gusto della difficoltà e cose del genere- dall’altro gli garantiva anche un certo margine di rilassatezza. Io, comunque, non l’ho mai visto realmente ossessionato: non era uno di quegli amori che ti tengono sveglio la notte o ti tolgono il sorriso finchè non sono realizzati: quando la vedeva attaccava un bottone, faceva il magnifico, e quando non c’erano passatempi più pressanti si dilungava nel parlare animatamente di lei, o nel guardarla passare con un sorriso sornione. In sei anni, l’avremo pedinata sì e no quattro o cinque volte.

Penso fosse la mia controparte socialmente accettabile, per James. Alla sua maniera l’ha amata molto, rappresentava tutto quel che avrebbe voluto avere se non ci fossi stato, tutto quel che avrebbe reso perfetta e apprezzabile la sua vita. Bella, intelligente, forte, onesta, leale: una compagna invidiabile, che l’avrebbe illuminato di riflesso.

 Era molto egoista, Ramoso. Una volta, al sesto anno, mi confessò che si era messo a parlare con me, il giorno dello Smistamento, perché tra tutti i ragazzini del primo anno gli ero sembrato quello più impressionante alla vista, il più invidiabile. “Uno che averlo per amico ti fa sembrare fico”, disse.

Lo stesso dev’essere stato per Lily. E risvegliava anche, immagino, quell’istinto di protezione che io non potevo certo muovere in lui. Era incollato al modello tradizionale di riuscita nella vita, bella-famiglia-bel-lavoro e tutto il resto. Per me era diverso.

Io avevo rinunciato alla mia normalità rinunciando ai Black; mi ero strappato di dosso ogni forma di appartenenza alla norma con la dedizione di un adolescente, e se dovevo essere diverso lo sarei stato a tutto tondo, avrei dato modo di parlare di me. Di farmi ammirare.

Passavo da una ragazza all’altra con la frequenza con cui Peter cambiava i calzini, con leggerezza, e con altrettanta leggerezza vivevo il mio rapporto con loro. Se ci ripenso, mi sento in colpa. Molte di quelle ragazze perdevano davvero la testa, stavano male da cani, mi cercavano e ricercavano e tentavano di attaccarmi a loro, si disperavano quando smettevo loro di rispondere, quando sparivo. Alcune si appostavano persino sotto casa.

Io allora andavo dai Potter, raccontavo l’ultima avventura  a James, e attaccavamo a ridere. Adorava soprattutto i resoconti di quando le scaricavo, e ora credo proprio di sapere il perché. Ogni volta che ne conoscevo una nuova, commentava scrollando le spalle e ridendo che era “uguale alle altre” e comunque “tanto non dura”.

Melissa andò avanti quasi sei mesi. Un record, per i miei canoni che oscillavano tra una notte e due settimane. Era una ragazza veramente bella, lei, di una bellezza piena, interiore ed esteriore. Mi riempiva il tempo molto più delle altre, anche se comunque non ero mai costante né minimamente serio. Ritengo avesse capito quale fosse il modo migliore per gestire il rapporto con me, mantenendo un certo distacco per non farmi capire quanto fossi padrone della situazione. Credo sia stata la donna che mi ha amato di più, nella mia vita, ma anche quella che me lo ha dimostrato di meno. E le piaceva molto, moltissimo andare in moto.

James non la sopportava.

Diceva che non avevano feeling, semplicemente. Gli chiedevo come fosse possibile, visto che avendo feeling con me avrebbe dovuto averne un minimo anche con lui, eravamo uguali. Faceva spallucce, diceva che non aveva importanza, che l’importante era che io stessi bene con lei.

Oggi, quasi mi riempie di orgoglio e mi lusinga il sapere la vera motivazione: era geloso marcio.

A proposito della moto, poi, la sua gelosia raggiunse toni quasi grotteschi.

James detestava la mia moto volante: diceva che il solo modo sensato e sicuro per volare era in sella ad una buona scopa, e non avrebbe accettare di fidarsi di nessun altro trabiccolo. Io ne ridevo, anche se in fondo mi dispiaceva non poter condividere con lui questa mia passione.

Un pomeriggio, ricordo, stavo raccontando  a Remus la gita che io e Mel avevamo fatto sul Loch Ness il giorno prima, ovviamente in moto, e mi trovai a dissertare su quanto fosse straordinario poter spartire quella sensazione di libertà e gioia che mi coglieva in volo con una persona cara. C’era anche James lì con noi. Forse lo dissi anche per questo, perché non avrei mai osato parlargliene direttamente o fare riferimento a lui. Mentre Remus, pacifico come sempre, annuiva ascoltando le mie parole, James stiracchiò un sorriso e osservò che conoscevo Melissa da poche settimane e non poteva certo esserci già quella grande complicità. Onestamente, lo guardai e gli risposi che “nella vita bisogna sapersi accontentare”. Fu credo la cosa più audace che gli abbia mai detto, e come tutte l’ho detta senza capirla davvero.

Quella stessa sera mi pare, come se niente fosse, James mi chiese un passaggio in moto per andare a casa. Da allora prese l’abitudine di fare un violetto con me, di tanto in tanto.

 

Oggi, ci ripenso e mi sembra che fossimo un ben strano triangolo, Lily, James e io. E Lily era l’anello debole della catena. E’ entrata in scena quando ormai tra me e lui c’era qualcosa di inattaccabile, profondo, consolidato e stabile da troppo tempo. Non la mettevamo mai a parte dei nostri segreti, dei nostri piccoli personali progetti: probabilmente ne soffriva, ma a parte all’inizio, quando la sua ostilità nei miei confronti rasentava l’isteria –avevo una pessima influenza sul suo ragazzo, a sentire lei- l’ha sempre nascosto bene. Credo avesse capito che non ci poteva proprio fare niente, che io venivo prima e sarebbe sempre stato così, non c’era modo di evitarlo.

E non c’era davvero.      

 

 

 

 

 

 

 

X eilantha: Oh, grazie, molto composto e tranquillo il tuo commento, non mi sembri sconvolta. Meno male. Mi fa piacere che tu voglia continuare a leggerla, spero la tua impressione iniziale rimanga comunque positiva. Mi ha fatto piacere di aver reso quasi credibile persino questo pairing… A presto

X Mary Cry: Sì, non credo loro apprezzerebbero molto. Comunque Sirius non è morto davvero, è stata una finta per potersene andare e rifugiarsi da una donna a lui moooolto cara che so io… Un giorno vi racconterò la storia. In realtà è molto fastidioso, sta sempre appollaiato dietro le mie spalle a ficcanasare su cosa scrivo. E lo stile ti piace? Bene, mi fa molto piacere. Ho cercato di fare in modo che sembrassero davvero pensieri buttati a ruota libera sulla carta, non so se rende.

X sourcream: brutta bestiaccia presuntuosa… Quante storie vuoi che ti dedichi? La tua è quella che devo ancora iniziare… Ma puoi accaparrarti anche questa, non credo che qualcun altro la reclamerà.

Ke-rumph

 

 

Dedicata a Sourcreamandonions

Inevitabilmente  Serpeverde, ottima autrice e futura mia coautrice –spero- di una qualche storia,

nonché unica appassionata di una coppia impensabile.

 

Se vuoi metterti a litigare con gli altri commentatori fai pure, basta che non mi coinvolgi.

X loyren: “se non ti conoscessi come fanwriter”… Wow… Perché, inizio ad avere delle credenziali? Wow, sarebbe una cosa strafica! Mi fa piacere che l’hai trovata comunque ben scritta, e quanto a Remus e Lily, se ti può far piacere entrambi hanno un altro loro specifico spazio nei capitoli dopo (come puoi vedere in questo…)

A presto

X Mixky:… E la cosa mi riempie di orgoglio e emozione. Ne deduco che nonostante il pairing non ti è dispiaciuta. Mi aspettavo che mi mandassero tutti quanti a quel paese ma non è cosi… Che bello!

suni

 

 

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Capitolo 3
*** Remus; Frank e gli altri amici ***


Remus; Frank e gli amici

 

Adesso, che col filtro degli anni ho capito cos’era veramente James Potter per me,  e presumibilmente cos’ero a mia volta per lui, credo di poter capire molte piccole cose degli atteggiamenti di Remus nei nostri confronti. Certe occhiate, profonde, scavanti, che mi sono ricordato solo di recente, quando finalmente ho capito. O quel suo tenersi sempre appena al di là del margine, un filo soltanto, quasi impercettibilmente ma mai davvero tra noi, come avesse intuito un legame particolare, solo nostro.

Remus è –ti prego di crederci, credo di conoscerti a sufficienza da poterti descrivere correttamente- una persona di un’acutezza, una sensibilità e una capacità d’osservazione notevoli; ed è anche di una discrezione encomiabile: schivo per natura, tende allo stesso a modo a non farsi i fatti altrui.

Non so cosa sapesse esattamente, lui. Se avesse qualche legittimo sospetto, se ritenesse che fossero semplicemente fraintendimenti dovuti alla sua troppo fervida fantasia, o se semplicemente avesse capito. Ma ripensando a lui e al nostro rapporto, alla luce delle nuove consapevolezze, mi rendo conto che Remus era estremamente ambivalente nei nostri confronti.

Aveva una tendenza naturale all’isolarsi di tanto in tanto, a prendersi il suo tempo in solitudine: riflessivo di carattere, era diverso da noi sotto questo aspetto. Ho l’impressione però che tendesse talvolta ad esasperare questa sua caratteristica, per lasciarci i nostri momenti, la nostra intimità. Spesso chiudeva i ponti con noi, spariva per qualche ora, e se restava presente fisicamente era comunque altrove con la testa.

Altre volte invece, mi sono accorto che sfoderava un’inaspettata malizia verso di noi. “Sis, non abbracci anche me? Non ti vado più  a genio?” sorrideva sornione, al momento dei saluti di fine o inizio estate, quando mi attardavo a spupazzarmi James, immerso nel ripetermi mille istruzioni su come comportarmi in caso di bisogno e nel farmi promettere che avrei trovato un modo per scrivergli e anche magari per vederlo, fermi sulla pensilina dell’Espresso. In quelle occasioni, Remus sembrava quasi divertirsi alle nostre spalle. Ma forse sono io che traviso i ricordi, che li vedo come li voglio vedere e non com’erano nei fatti.

In altri momenti ancora, Remus dava mostra di un’improvvisa insofferenza nei confronti delle nostre effusioni affettive, o sembrava a disagio: erano le occasioni in cui sbuffava ogni volta che ci avvicinavamo tra noi anche solo per bisbigliare sottovoce, in cui si isolava in un angolo della stanza per tutto il giorno con un gran librone dei suoi. All’epoca, imputavamo quei repentini cambi d’umore alla sua doppia natura e al ciclo lunare, ma forse non era così. Mi pare del resto di ricordare che quei momenti coincidessero per lo più con situazioni di particolare complicità tra me e James.

Non credo che fosse geloso del nostro rapporto –non era proprio una cosa da lui, ed inoltre non ne avrebbe avuto alcuna ragione, dal momento che la nostra apertura verso di lui è sempre stata massima- quanto piuttosto che si rendesse conto che le cose tra me e James erano un po’ diverse, un po’ anormali. A volte lo diceva anche apertamente.

Ricordo un paio di occasioni in particolare: James aveva quest’abitudine di pacioccarmi sempre i capelli, diceva che gli piacevano perché erano luminosi, setosi –sicuramente migliori dei suoi, ma non è che fosse un gran primato- e a volte, soprappensiero, faceva lo stesso con Remus. Lui si scostava, immediatamente: “Piantala, Jim, non sono Sirius” ridacchiava. Ma ora mi pare che quella risata non si allargasse anche agli occhi.

Forse eravamo proprio io e James la causa della sua leggera, discreta omofobia.

Della mia, sicuramente.

Credo che, in fin dei conti, Remus non volesse avere davvero un’idea precisa di cosa ci fosse tra me e James: e del resto, il sapere la cosa con certezza l’avrebbe messo in una posizione più che scomoda: difficile accettare una simile liaison tra i propri migliori amici –soprattutto per un maschio sedicenne, per quanto maturo quanto Remus- difficile disapprovarli o tagliare i ponti con loro per una simile ragione, a meno di non essere veri idioti; difficile e pesante sopportare il pensiero di loro due “insieme” e di quel che “staranno facendo”, difficile tenersi per sé una simile consapevolezza, schifoso rivelarla ad altri sputtanando i diretti interessanti. Dopotutto la politica del “non vedo, non sento, non parlo”, adottata del resto anche da me e James nei confronti di noi stessi, era la più semplice e comoda.

E dopo, quando col passare degli anni forse avrebbe potuto capire meglio, credo che davvero non lo volesse più: l’immagine che avevamo gli uni degli altri, i nostri rapporti, era tutto ormai troppo consueto, consolidato, familiare per rimetterlo in discussione in modo simile anche solo nei propri pensieri; credo che avrebbe turbato troppo il suo sistema di vita, e del resto Remus era già abbastanza turbato dalla Licantropia, dalla guerra civile e tutto il resto.

Si avvicinò anche molto a Lily, con l’andare del tempo: erano già amici sin dagli anni della scuola, ma dopo si attaccarono ancora di più. Lui era estremamente fraterno con La signora Potter; può darsi che in qualche modo si sentisse persino colpevole, per non averla messa in guardia da quell’amore che la vedeva spodestata dal primo posto nel gradino d’importanza.

Un altro che forse potrebbe aver intuito qualcosa –ma non lo potrò mai sapere con certezza, perché sono andate perdute e distrutte tutte le nozioni presenti nella sua mente, per colpa di una banda di balordi assassini coi quali sono ovviamente imparentato- è Frank.

Frank Paciock era veramente nato per essere un Auror: aveva una capacità d’intuizione e una prontezza mentale che non ho mai riscontrato in nessun altro. Sapeva leggere attraverso i gesti, le parole, gli occhi di tutti quelli che gli stavano intorno, tanto che a volte mi veniva da chiedermi se fosse un Legimens senza saperlo.

Ed era anche leale, onesto e colmo di rispetto per ogni essere vivente. Aveva inoltre il dono naturale di saper portare conforto e far sembrare meno fosca qualunque situazione, anche la più cupa: spesso e volentieri, era da Frank che andavo a sfogarmi quando qualcosa non funzionava nel verso giusto. Pertanto mi conosceva molto bene, come conosceva bene James. E che considerasse in qualche modo speciale il nostro rapporto lo si intuiva dal modo in cui si relazionava con noi, sempre tenendosi ad una certa affettuosa distanza, sempre lontano da tutto quel che erano gli aspetti più  intimi della nostra amicizia, disinteressandosi in tronco  ai nostri litigi, le incomprensioni e similari, a meno che non si trattasse di episodi particolarmente gravi. Per lui, comunque, sembrava ovvio che io e James fossimo sempre insieme, avessimo tutto in comune. E quando ci vedeva ognuno per conto proprio per più di qualche ora, pareva sinceramente perplesso.

Non mi pare che abbia mai fatto allusioni o battute, almeno non in mia presenza, però mi sembra che ogni tanto, per esempio quando parlavo di James quando lui non c’era –mi vengono in mente un paio di occasioni in particolare, due riunioni dell’Ordine- mi guardava con l’aria di chi la sa lunga.

Fabian e Kingsley, invece, ci trovavano un po’ fastidiosi qualche volta. Lo so per certo, il vecchio King pensava che avremmo dovuto essere un po’ più “virili”: gli uomini non si toccano fra loro, non si abbracciano –salvo per saluti spacconi- e per Merlino non si coccolano! E sicuramente non con tanta poca discrezione quanta me e Jim. E un’altra cosa che lo seccava era che fossimo sempre insieme, che non agissimo quasi mai ciascuno per conto proprio e sempre un po’ controvoglia. Non era esattamente così, ovviamente –facevo anche delle cose per conto mio- ma l’esasperazione doveva averlo portato a cancellare le sfumature. Era comunque un buon amico, ed è il principale responsabile del fatto che io mi trovi qui e non di nuovo ad Azkaban senza più un’anima. Fabian invece era più morbido, ma anche lui trovava un po’ eccessivo il nostro stare insieme. Era però talmente elettrizzato dalla nostra compagnia –in mia presenza l’ho visto sempre e soltanto ridere- ed aveva un umorismo tanto simile al nostro, che l’amicizia con noi era in qualche modo inevitabile.

In generale, comunque, a parte appunto Remus e Frank, che forse intuivano, i nostri amici ci consideravano semplicemente un duo particolarmente affiatato; e se vedevano qualcosa di morboso o eccessivo tra di noi, era sempre e soltanto a livello di amicizia.

Perlopiù erano certi che ci fossimo davvero trovati. Una volta sentii Dung parlare con Dorcas, ricordo ancora le parole perché mi rimasero impresse con un enorme senso di piacere: “Per Merlino, quei due… Da qualche parte, il Dio dei Babbani sta stringendo in mano due pezzi di puzzle perfettamente combacianti ed esclama: Ah! Lo sapevo che erano qui da qualche parte!”[1]

Questa era l’idea comunemente diffusasi di noi: che fossimo due individui fatti per essere amici che si sono semplicemente trovati, in mezzo ai sei miliardi di umani che popolano oggi la terra. La nostra, perciò, era una complicità se vogliamo del tutto normale.

Paradossalmente, quello che è andato più vicino alla realtà è stato, ancora una volta, quella malalingua di Piton. Lui, che andava in giro per la scuola a sibilare che il vero partner di Potter ero io, non Lily, e che ripeteva quanto fossimo disgustosi, sempre “avvinghiati”. E se anche aveva delle buone ragioni per avercela con noi, non faceva che ripetere simili cattiverie, ottenendo come unico risultato il fatto che gli altri studenti, sapendo quanto tra noi e lui scorresse cattivo sangue, non credevano a un accidenti, mentre invece in effetti aveva quasi ragione.

Comunque, se qualcun altro ha mai avuto sospetti o intuizioni maliziose, le ha sempre nascoste più che bene, almeno a me. E l’idea che circolassero voci su noi due, alle nostre spalle, mi pare fondamentalmente ridicola, e probabilmente a quindici anni di distanza lo sarei venuto a sapere.

Adesso, tutti cercano di evitare di pronunciare il suo nome in mia presenza: come se non sentendolo potessi scordare che è morto, e che l’ho ammazzato io. Come se non udendolo potessi dimenticarmelo, il suo nome.

Oh, Jim, Jim, quanto poco hanno capito…

Mai poco quanto noi, non è vero?

… Merda… Sto conversando con un morto.

Vado a dormire, sono stanco.

 

 

 

X Mixky: Uuuh… L’altra sera ti ho infilata nella risposta al volo mentre pubblicavo, e non ho fatto caso bene a cosa scrivevi… Mi hai citata! Era Because quella… Oh, che emozione! “Sis”… Dovrei metterci su un copyright su quel nomignolo, farei un sacco di soldi. Comunque, è fantastico che ti piaccia tanto quello che scrivo. Davvero, per me è importantissimo. Non mi piace fare l’ipocrita e dire che scrivo solo per me e menate simili. Scrivo anche per me, così come scrivo per la gloria eccetera…

X giulia: Mh. Esaustiva e molto lusinghiera. Ti ringrazio. Sapere di dare un’impressione di realismo e coerenza è veramente una soddisfazione enorme. E’ anche per questo che ero molto titubante prima di pubblicare la storia, non sapevo se sarebbe sembrata solo una cazzata senza senso con pretese di serietà… Grazie anche per l’autirevolezza che mi fornisci nel considerare la mia “firma” su uno scritto come una garanzia, perché è fantastico anche questo. Riguardo al pairing, come ho già scritto non lo condivido minimamente neanche io. E’ tutta colpa di quel serpente di sourcream che mi fa fare queste Cose Molto Cattive (alle quali, lo ammetto, mi piego senza opporre una gran resistenza. E’ andata più o meno così: Mail sourcream: “pensavo che potresti scrivere una James/Sirius (…)” Io, mentalmente:”Brrr, che orrore –cervellino malato che si accende con un clic sinistro- Ma posso riuscire a fare anche questo! Allora vediamo un po’, potrei fare che a Grimmauld Place eccetera eccetera” il che dimostra che sono un pessimo soggetto)

Peraltro, sicuramente il fatto che sia tutto filtrato dai ricordi e dalla memoria porta, sì, sottolineare determinate cose magari con più calore, a deformare eccetera.

X Lizzyluna: Personalmente, mi trovo –purtroppo- d’accordo con la simpaticona che ha commentato dopo di te. Cioè, in realtà non del tutto d’accordo. La descrizione da te effettuata non coincide con la mia idea di Sirius. Ha un carattere molto più forte, o meglio più definito ed autonomo rispetto a quello che sembri indicare, almeno per quanto riguarda la mia idea di lui, quella che cerco di dare nelle mie storie.

Quanto alla credibilità, mi riempie d’orgoglio, grazie.

X sourcream: Vedi sopra, mia cara, e comunque sì, è con me che avevi parlato di Harry –o almeno, anche con me- e sì, lui non è autonomo. Ma essere Grifondoro non è affatto un disturbo visto che gente come Sirius o Remus o James è assolutamente ME-RA-VI-GLIO-SA. Se poi voi siete talmente fetenti da non avere amici, la cosa non mi tange. Fatti vostri, insomma.

Dehehe.

 



[1] Parafrasando e scopiazzando “Oceanomare” di A. Baricco

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Capitolo 4
*** Peter Minus ***


Peter Minus

 

Più, con il passare dei giorni, vado avanti con le pagine, scendendo nei particolari, più la scrittura si fa difficile, spinosa e sofferta. Ci sono aspetti della mia storia che ancora oggi risvegliano in me sensazioni di una violenza che spezza il fiato, intense come se tutto quanto fosse avvenuto pochi giorni fa. L’odio è sicuramente la più forte, ed è canalizzato quasi tutto verso un singolo, miserabile individuo, l’unico uomo in terra che vorrei uccidere con le mie mani.

Voldemort, insomma era il cattivo della storia: e quello era il suo ruolo, era quel che faceva. Era normale che tentasse di ucciderci e distruggerci, era ciò che ci aspettavamo da lui. Non era una sorpresa che utilizzasse qualunque mezzo, che fosse pronto ad ogni meschinità. Era il suo posto nella storia e tutti quanti lo sapevamo, regolandoci di conseguenza.

Il tradimento è la più schifosa delle colpe.

Ma non voglio stare qui a scrivere un’arringa di accusa contro Peter Minus, perché non saprei trovare le parole, perché il solo pensiero mi fa tremare d’ira, e perché suppongo che una simile arringa si scriva da sé nella mente di chiunque venga a conoscenza dei fatti, perché in nessun modo è giustificabile un simile orrore. Non è questione di Grifondoro o Serpeverde: anche Voldemort punisce i suoi traditori –sono spesso tentato di avvisarlo riguardo a Snivellus (oh, lo so, Remus, la devo piantare)- ed è anzi quella per il tradimento la pena più dura prevista nel suo codice.

Peter ad Hogwarts era di un’ingenuità che poteva a tratti risultare imbarazzante per chi gli stava intorno. Che potesse anche solo immaginare che i suoi due grandi amici si amassero in modo anche vagamente distante dal fraterno, è assolutamente impossibile.

E’ altrettanto certo però, che in qualche modo Peter fosse geloso della nostra intimità, proprio perché non arrivava a capirne l’origine: affinità elettive e cose del genere erano concetti troppo al di là della sua portata. James e io avevamo, nei suoi confronti, un atteggiamento di paziente, condiscendente affetto. Come si fosse trattato di un fratellino un po’ tonto. So che da parte nostra non era troppo gentile, ma così era Peter: un fratellino un po’ tonto.

Non ho mai capito –né mi sono mai realmente voluto interrogare- su quale meccanismo l’abbia spinto a fare quel che ha fatto. Ma quando mi guardo indietro e ripenso a tutte le cose e abbiamo condiviso e tutto quel che abbiamo fatto per lui… Perché sì, forse eravamo due stronzi e forse l’abbiamo tenuto un po’ in disparte, ma del resto non era il genere di persona con cui sentirci a nostro agio e alla pari come tra noi tre. Non è che lo facessimo con cattiveria e con intenzione –quelle le riservavamo ai Serpeverde- ma era così che stavano le cose, semplicemente: Peter non era come noi.

 Arrivava alle cose sempre un attimo dopo, e aveva sempre almeno il doppio di paura di quanta ne avessero James e Remus, e quando abbiamo scoperto della Licantropia è stato l’unico di noi tre a sembrare terrorizzato o contrariato o chissà cosa.

Eppure ne abbiamo fatte delle cose per lui. Perché quando qualche Serpe gli dava noia c’era James a tirare fuori la bacchetta –in gola avrebbe dovuto ficcartela, la bacchetta, vigliacco maledetto- e se Trasfigurazione andava storta quel povero cretino, quell’ingenuo abissale e demente di Sirius si affannava a passare le notti in bianco per dargli ripetizioni. Come un fratello, l’ho trattato, e lui ridacchiava mentre dodici persone saltavano in aria e la mia condanna all’inferno veniva firmata con il loro sangue.

Stupido, debole, vile, disgustoso Peter.

James era certo della sua fondamentale bontà d’animo. Quando era certo di qualcosa, del resto, nemmeno a sbattergli in faccia prove lampanti dell’esatto contrario di quel che erano le sue convinzioni bastava a fargli cambiare idea. Sono testardo io, lo so. Ma a confronto di James Potter resto pur sempre un dilettante.

Penso che James sarebbe anche morto, per Peter. Era fatto così, lui. Quando voleva bene, lo faceva senza misura, senza limiti o punti di rottura; una volta arrivato a conquistarti la sua stima, potevi star certo che solo macchiandoti dei crimini più gravi l’avresti potuta perdere, e forse nemmeno. Per James, Peter era un amico un po’ imbranato da tenere d’occhio con una premura che, lo ammetto, alle volte era un po’ svogliata. Ma pur sempre sincera.

Non lo so, non lo so cos’abbiamo sbagliato, ma qualcosa dev’essere stato. Perché non si ammazza un amico così, non si condanna un amico all’ergastolo dentro Azkaban senza una buona ragione. Non si può.

 

 

Ci ho dormito su.

Non arriverò a capo di nulla se non analizzo le questioni oggettivamente, con calma. Non è a questo che serve scrivere?

Ma perché, del resto, devo essere oggettivo? E’ Peter Minus, Merlino, ha preso la mia vita, l’ha fatta in briciole e le ha gettate nel fango per poi calpestarle a dovere.

Quel gran bastardo non ha avuto nemmeno le palle di farsi ammazzare come si deve, si è messo a strisciare intenerendo Harry, uno spettacolo raccapricciante.

Anche James s’impietosiva facilmente.

Gli somiglia, molto. Ma, cosa realmente assurda, che farà ridere chi legge –uno  a caso, Lupin-  somiglia molto anche a ME.

Noi ci fidavamo di Peter.

Ma è stata mia l’idea, non me lo potrei perdonare nemmeno vivendo millenni interi.

James voleva me, come Custode, me, me, me, me. Ho dovuto faticare per convincerlo che Peter era l’uomo giusto. Lui voleva me, lui si fidava solo di me…

Non servono a niente neanche le lacrime. Quante ne ho già piante, non lo so.

Me lo ricorderò tutta la vita quel maledetto momento, l’attimo in cui James ha annuito  e ha detto sì. E per tutta la vita mi ricorderò il sorriso falso e ipocrita di quel ratto mentre la porta si chiudeva alle mie spalle pochi minuti prima che effettuassero l’Incantesimo.

Ma si può essere più stupidi di me? Spesso me lo chiedo, è quasi imbarazzante. Penso a tutta la mia buona fede, dieci anni di amicizia, insomma, come ho potuto essere così cieco così a lungo? E lo stesso vale per James.

Ma eravamo solo due ragazzi che amavano la vita e volevano credere in essa. Volevamo pensare che nel mondo ci fossero cose buone più forti delle cose cattive. Peter Minus è stata la nostra dimostrazione di errore.

Si possono passare cento anni a costruire un Castello enorme e bellissimo come Hogwarts. Può bastare un terremoto assestato nella giusta maniera a distruggerlo in pochi attimi.

Noi volevamo vedere solo il Catello, e non la scossa.

Forse, alla fin fine, non abbiamo capito chi davvero fosse Peter Minus perché non abbiamo voluto, così come non volevamo capire che non eravamo due migliori amici come gli altri.

Che teste di cazzo.

 

 

 

 

X Mixky: Grazie per tutti quei complimenti su Beacuse. A me veramente non fa impazzire, anche se a tuttoggi la confermo e sottoscrivo pienamente dal punto di vista di Remus. Riguardo a marzo, invece, sto cominciando a notare anche io una certa raccapricciante analogia con i fatti “reali” dei Marauders.

Tu trovi Remus noioso?... Ohibò… Non me l’aspettavo. Ma il mio Remus o Remus come personaggio? Ma il mio Remus è noioso? Veramente? …

Strano. Temo di aver sbagliato qualcosa allora perché non avevo intenzione di renderlo tale. Ci lavorerò.

X sourcream: … Da’ un’altra volta del limitato al mio can- ehm… Uomo, e ti farò pentire di essere nata, serpe. Sei avvisata. Ma tu davvero trovi che stiano bene insieme? Ma sai che più ci penso più mi spaventi?

X Elly: Guarda, ti capisco… E’ lo stesso per me, questo pairing è allucinante. Tuttavia è appunto un buon esercizio di stile, e chissà, se riesco ad abituarmi un po’ all’idea va a finire che mi diverto pure… (“diverto”, ho detto, NON “appassiono”)

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Capitolo 5
*** Remus, conversazione nel presente ***


 

 

Remus, conversazione nel presente

 

L’ho fatto.

Questa mattina, dunque circa quattro ore fa, io e Remus stavamo facendo colazione, da soli: Molly doveva fare delle spese e passare alla Tana.

Stavo osservando il mio the, nella tazza, fumare lentamente e sinuosamente spingendo il calore verso l’alto.

Non mi piace il the, non mi è mai piaciuto, ma lo bevevo lo stesso, perché James ne preparava ogni dieci minuti.

Ho sollevato lo sguardo, lui leggeva la Gazzetta.

Remus –ho chiesto direttamente- Che cosa pensavi davvero di me e Jim?”

Ha sollevato gli occhi dorati verso di me –oro e argento, fratello mio, te ne ricorderai quando non ci sarò più, dei nostri occhi?- con stupore, guardandomi senza guardarmi, poi ha posato lo sguardo da un’altra parte.

Ha detto qualcosa come “cosa intendi?” o “in che senso?”, non so più.

Ho fatto spallucce, mi tremavano un po’ le mani.

“Non lo so, dimmelo tu”

Lui ha cominciato  stropicciarsi il mento, e questo per chi conosce Remus bene come me significa che è a disagio e non sa cosa dire. Ho aspettato in silenzio.

“E’ passato tanto tempo…” ha borbottato, e credo che volesse sottintendere che fosse meglio lasciar perdere.

Appunto, ho detto io, proprio per questo.

Non so, mi fa lui.

Fissando bellamente il lato opposto della stanza.

Remus…” ho iniziato io, cercando di dare una nota di bonario rimprovero alla mia voce, scrollando la testa appena appena, come ho visto fare qualche volta ad Albus.

Mi ha stupito, allora.

S’è alzato di scatto facendo cadere il giornale, si è passato le mani tra i capelli. Era arrabbiato.

Che cosa vuoi che ti dica, Sirius? –ha iniziato- A che cosa serve?”

E mi sono arrivate addosso all’improvviso talmente tante parole che non ce la facevo a sentirle tutte. Non serve a niente, diceva, e non serve a niente stare qui con i fantasmi, Sirius. E’ inutile stare a rimestare un  passato che tanto non ritorna –l’ha ripetuto sette o otto volte, guardandomi negli occhi con un’enfasi disperata, non ritorna, non ritorna, non ritorna, non ritorna- e che quello che bisogna fare è accettare che quel che è stato è stato.

E mentre mi ripeteva queste cose con tanta minuzia, mi sono chiesto da quanto tempo non aspettasse altro che dirmele. Mesi?

Quant’è che Remus si è stufato di guardarmi agonizzare, voltato indietro verso storie che non esistono più? Quant’è che voleva darmi un bello scrollane e cercare di farmi scivolare avanti?

Quando si è fermato, ed è rimasto lì fermo a guardarmi, non sapevo cosa dire. Mi guardavo le mani e mi mordevo un labbro, se non ricordo male. Pensavo.

Hai ragione, Remus, davvero, lo so anche io.

Non volermene, però, ma io non ne ho voglia. Mi viene da dire che non ho la forza di andare avanti; non so se sia così, ma di sicuro se anche c’è l’ho non ho voglia di fare la fatica di sfoderarla e utilizzarla.

Non hai risposto, ho mormorato.

Remus si è riseduto, palesemente rassegnato dalla mia cocciutaggine.

Mi ha detto, sottovoce, che una volta James gli aveva confidato una cosa.

Quando già sapevamo della caccia che Voldemort avrebbe dato ad Harry, quando già Jim aveva deciso di essere pronto “ad affrontare qualunque cosa” per salvare suo figlio.

Qualunque cosa, aveva aggiunto piano rivolto a Remus, eccetto una.

E il mio amico Licantropo, dopo aver raccolto il giornale che gli era caduto al momento della sua filippica, mi ha di nuovo guardato in faccia.

“Vuoi davvero sapere qual’era quella cosa, Sirius?” mi ha chiesto sommessamente.

Ho chiuso gli occhi, scuotendo piano la testa, non volevo più sentirlo, mi veniva da vomitare.

Remus mi è venuto vicino.

“Potrei sopportare qualunque tortura fisica, potrei sopportare ogni violenza, potrei arrivare a sopportare persino la morte di Lily, anche se mi distruggerebbe: così mi ha detto” ha continuato Remus mentre i miei occhi restavano serrati.

“Ma –ho sentito il suo fiato caldo contro il mio orecchio, e il suo sussurro che mi si incideva in ogni nervo- non potrei mai sopportare che succeda qualcosa a Sirius 

Ho stretto talmente tanto la mascella che il muscolo mi fa ancora male, a distanza di ore, e mi sono accartocciato. Non riuscivo a respirare, è stato orribile.

Quante volte ho pensato la stessa cosa di James, da ragazzo.

James non ti vorrebbe vedere così mai, Sirius, ha continuato Remus. Non James. Non te. Aveva la voce stanca, il mio amico Mannaro, ma io volevo solo che stesse zitto. Non lo volevo più ascoltare, mi sentivo l’esofago attorcigliato nella gola e le tempie che rimbombavano.

“Era innamorato di te, Sirius. Ma ormai è andata così”

Un tono calmo, riflessivo.

Mi è sembrato irreale. Invece no, è vero.

Ho chiesto quando gli avesse detto quella cosa su ciò che non avrebbe sopportato.

Una volta, mi ha spiegato Remus, in una di quelle serate in cui il vino bevuto è troppo per mantenersi sobri ma troppo poco per essere abbastanza ubriachi, e allora ci si mette a svelare cose che altrimenti ciascuno si terrebbe per sé.

Cos’hai pensato, gli ho chiesto ancora.

Che James era innamorato di te, e tu di lui, e che in fondo dentro di me lo sapevo già, mi ha risposto cheto Remus, o qualcosa di simile.

E?

E cosa, Sirius? James è morto.”

Eh già. E’ proprio morto, non è vero? Com’è allora che da quattordici anni aspetto che una porta si apra su di lui, che entri nella stanza in cui mi trovo e mi dica una cazzata della sue?

E allora mi sono alzato e sono salito in camera.

 

         Quante ne ho passate di quelle serate, con James; lo sguardo lucido e intontito e le guance chiazzate, una risata metallica e un po’ scema che partiva a macchinetta. A parlare, parlare, parlare.

Parlavamo moltissimo, sempre. Vivevamo giorno e notte insieme, non c’era niente che succedesse a uno dei due a cui non assistesse anche l’altro, eppure avevamo sempre qualche fottuta cosa da raccontarci. Non è perfezione, questa?

Come si può imparare a farne a meno, quando l’hai avuta, quella perfezione, come si può vivere sapendo di averla distrutta con le proprie mani? Merlino, che qualcuno me lo insegni, non ne posso più.

Basta.

Non dovevo neanche iniziare a scrivere questa cosa. Mi fa solo del male, e non ce n’è bisogno di ulteriore. Interrompo. Comunque, non è una storia interessante, è una storia che non c’è stata.

Le memorie finiscono qui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

X Mixky: D’accordo,m d’accordol, accantoniamo l’argomento Remus, ho capito cosa intendevi e sono parzialmente d’accordo (soprattutto per quanto riguarda l’adorazione a Sirius, geee). Quanto al capitolo su Peter, beh… Grazie. E se non è colmo di rabbia qui, allora dove? ^__^ A presto

X sourcream: punto primo, non t’inquietare. Secondo, NON hai affatto ragione. Su Remus sono d’accordo quanto al fatto che sia un bel personaggio –sì, l’hai affermato tra le righe- e tralascerò la patetica sofferenza di cui parli (a vanvera come tuo solito). No, non seguo mai scadenze fisse, per chi mi hai presa? Lo sai, faccio le cose come e quando mi gira, non sono mica come voialtri. Dulcis in fundo, non lo so perché non mi leggono… In questo caso, forse perché il pairing è disturbante? Ma non darti pena, carissima.

Ciao

suni

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Capitolo 6
*** Hogwarts ***


Non ve l’aspettavate più, vero? Invece vi siete un sacco sbagliati, perchè la fine è ancora ben lungi...

Peggio per voi

suni

 

Hogwarts: Primo anno

 

La primavera si fa largo a grandi falcate, investendo Londra come un tornado di luce e vaghi profumi. Dalle finestre socchiuse penetra un’aria diversa, più fresca e leggera.

In queste due settimane ho riflettuto su quale fosse la cosa migliore che dovessi fare di queste pagine. Più volte sono stato tentato di usarle per attizzare le ultime volte il camino, prima del grande caldo durante il quale rimarrà inutilizzato, ma non ce l’ho fatta.

Non lo voglio, ma avverto la necessità insopprimibile di andare fino in fondo, contro la mia stessa volontà: ne ho bisogno.

Ieri ho capitolato, ho cominciato a pensare a quale fosse il prossimo punto da toccare. E mi sono reso conto che curiosamente ho saltato di palo in frasca, finora, creando solo una gran confusione.

Sarebbe d’uopo, allora, ritornare all’inizio di tutto.

I miei primi undici anni di vita sono stati un trionfo di esaltazione e capriccio. Tutto quello che i Black erano e credevano è stato riversato in me come in un otre da riempire al più presto, prezioso e magnifico. Quando sono partito per Hogwarts –accompagnato alla Stazione da una specie di pomposa e fiera delegazione di famiglia, con tutti gli onori del caso- non c’era Malfoy o Rosiel che tenesse, ero io il più snob, il più superbo e il più malevolo.

Nei medesimi undici anni, James Potter cresceva e frequentava la scuola elementare Babbana –per precisa scelta dei genitori- a Llandudno, nel Galles, un piccolo paese poco lontano del confine con l’Inghilterra e sede della più profonda miniera del Regno, seppur ormai in disuso. Viveva in una cascina con le galline e tre cani, nonché due genitori che più diversi dai miei non avrebbero potuto essere: Arnold Potter, professore di Storia della Magia Asiatica all’Accademia della Magia, umanista e strenuo difensore dei diritti babbani, e Mirtle Annabel Potter, ex-inviata all’estero della Gazzetta che aveva deciso di ritirarsi per dedicare le restanti energie al terreno di famiglia, da lei coltivato con ortaggi e frutteti, da cui le marmellate che avrebbero fatto la nostra gioia nei Natali a venire.

Comprensibilmente, quindi, quando quello ragazzetto alla buona si presentò sulla soglia del mio scompartimento sull’Espresso, chiedendo se poteva sedere lì, la mia reazione fu grossomodo la stessa che avrei avuto se qualcuno mi avesse lanciato in faccia una manciata di sterco di vacca.

James comunque aveva già deciso di sedersi lì. Quindi lo fece e basta, come ogni volta che stabiliva di fare qualcosa. Non ci parlammo per tutti il viaggio, ma ricordo ancora che non fece altro che osservarmi.

Lo Smistamento fu uno dei momenti peggiori della mia vita. Non potevo credere che fosse successo veramente, che io, Sirius Black, erede della più nobile e pura Casata d’Inghilterra, da secoli smistata a Serpeverde, fossi finito a Grifondoro. E naturalmente avevo paura, un sacrosanto terrore di quale sarebbe stata la reazione dei miei.

James scoppiava di gioia, suppongo, anche se non ci feci caso, preso com’ero dai miei cupi ed indignati pensieri. Immagino che dovessi essere piuttosto buffo, rigido e isolato in un angolo, col mio mantello splendente e lo stemma argentato dei Black in bella mostra, la faccia minacciosa di chi potrebbe uccidere se solo ci si azzarda ad avvicinarsi.

E fu in quella situazione, appunto, che James mi notò veramente.

Per tre, infernali mesi rimasi rigido sulle mie posizioni di boicottaggio alla mia nuova Casa. Credo che Walburga potrebbe sentirsi molto orgogliosa di me, per quel periodo, perché la stronzaggine innata che riuscii a dimostrare in ogni singolo istante verso i miei compagni di Casa raggiunse picchi di maestria che, falsa modestia a parte, ho scorto in poche altre persone –eccetto Lei, ovviamente, la Maestra, Sua Perfidia Bellatrix Black- e comunque quasi mai con tanta costanza, facendo davvero onore al mio cognome. Feci a pugni con James almeno un paio di volte tra settembre e novembre. Insultavo Remus in ogni occasione –e quando l’occasione non c’era me la inventavo, o ne facevo a meno dandomi alla gratuità.

Tirando le somme, un vero bastardello.

James, me l’ha detto più volte, mi detestava, eppure non riusciva a darsi pace, perché lui aveva deciso durante quel maledetto Smistamento che io ero l’amico giusto per lui, e siccome l’aveva deciso, solito discorso, così doveva essere.

Capitolai poco prima delle vacanze di Natale.

Del resto i miei nervi di ragazzino cominciavano a dare segni di scompensi, la cattiveria iniziava a diventare isteria, stavo crollando. A Serpeverde, la Casa di tutti quelli che conoscevo, nessuno avrebbe voluto rivolgermi la parola neanche con una bacchetta puntata, visto che avevo “tradito” –come se l’avessi costretto, il Cappello, a mandarmi in un’altra casa- e che in ogni caso non ero più degno della loro attenzione, c’era evidentemente in me qualcosa di marcio.

Ero solo come un cane.

Come adesso.

No. Scusami, Remus, non è vero che adesso sono solo.

Comunque, James e io durante un litigio molto acceso mandammo in pezzi un’armatura che accidentalmente rotolò su una ragazzina del secondo anno di Tessorosso, facendola cadere dalle scale.

Galeotta fu la punizione, interminabile: lucidare a mano tutta l’argenteria dei Saloni. Immagino che Albus avesse capito che brutta aria tirava con noi due e volesse metterci in riga da subito, chè la punizione fu davvero dura. E forse sperava anche che trascorrendo del tempo insieme ci saremmo ammorbiditi nei confronti l’uno dell’ altro: riguardo al primo obiettivo, mi sento francamente di dire che per una volta il nostro Preside fallì miseramente; per il secondo, i risultati ottenuti andarono ben al di là di ogni più rosea aspettativa.

Quella giornata di punizione fu la prima bella giornata che trascorsi ad Hogwarts, la prima di una lunghissima serie. Oh, vorrei saper descrivere quegli anni, ma non credo di poterlo fare: come spiegare la gioia, la sicurezza, la fiducia in me stesso, in noi, la sensazione che di lì a poco, finiti i corsi, avremmo avuto in mano le redini della nostra vita, avremmo conquistato il mondo con le nostre sole forze, noi quattro insieme? Come raccontare il senso di appoggio inattaccabile che i mie amici sapevano darmi, la consapevolezza di averli accanto sempre e comunque, di poter contare su qualcuno come me, che mi capiva al volo, che condivideva le mie idee e quantomeno le capiva e accettava? Hogwarts era un nido caldo e confortevole in cui il massimo problema che poteva presentarsi era un test a sorpresa di Pozioni o una baruffa con i Serpeverde in corridoio, che puntualmente si concludeva con qualche malcapitato colto da accessi irrefrenabili di risate isteriche o labbra spaccate –pochi anni dopo, poveri cadaveri sarebbero rimasti sul campo in seguito agli scontri tra quelle stesse persone- mentre tutto il resto del tempo era divertimento, era sicurezza, era spensieratezza soprattutto, perché non avevamo niente di cui davvero preoccuparci, e quelle poche cose per cui riuscivamo comunque a sentirci in ansia –i brufoli enormi di James due ore prima di un appuntamento, un Eccezionale di Remus al posto dell’Oltre da lui previsto, Snivellus che mi spiava in corridoio per capire che cosa nascondessimo, tutte queste erano cose che comunque non lasciavano vere conseguenze. Non si finisce ad Azkaban, durante Hogwarts.

Divago troppo, e divento noioso. Ma ho così tanti ricordi, su Hogwarts, tanti pensieri mi si affollano in mente…

Nelle vacanze di Natale, James mi spedì un biglietto di auguri. La cosa provocò una specie di trucida guerra civile a Grimmauld Place e credo di poter affermare che dopo le mie guance non tornarono più le stesse, tanti furono i ceffoni che mi presi.

MA il mio nuovo amico mi aveva spedito un biglietto di Natale; non mi era mai successo prima.

Durante la seconda parte dell’anno, si formò quel sodalizio che determinò lo scorrere delle nostre vite per intero. James, Remus, Peter ed io cominciammo a trascorrere sempre più tempo insieme. Dapprincipio non fu semplice: Jim mi piaceva, con lui ridevo molto e facevo un mondo di cose ganze, ma Remus era uno sporco Mezzosangue e Peter un idiota –e su questo secondo punto James avrebbe dovuto darmi retta- e non volevo stare con loro. Sparivo per ore ed ore finchè James non restava solo, così da non doverli avere intorno. Ma erano i suoi amici, e a lui dispiaceva.

Discutevamo molto. Era piuttosto strano per due bambini così piccoli, dialogavamo veramente tantissimo, e fu su quella base che nacque un rapporto che per tutta la sua durata, in effetti, si basò proprio su un dialogo aperto e cristallino, una totale condivisione di idee e pensieri senza schermature.

Forse, se dapprincipio non ci fossimo trovati così distanti, con idee tanto antitetiche da opporre l’una all’altra metodicamente, durante conversazioni lunghe ore, tra noi non sarebbe stato così.

James a volte mi spiazzava. C’erano parti dei suoi ragionamenti, sui Purosangue, che mi spingevano senza che me ne rendessi conto ad analizzare spietatamente e oggettivamente tutte quelle che erano le mie più radicate convinzioni. E’ così che sono andate le cose. Senza James Potter, Sirius Black non sarebbe stato quello che è stato. Così come senza di me, James non sarebbe stato il James che tutti abbiamo conosciuto. Sono stato io a risvegliare e rendere ciclopico in James quel gusto del proibito che diventò in così grande quantità parte naturale di lui. E immagino sia dovuta a me la naturalezza con cui viveva le sue idee e le sue convinzioni apertamente, a mia immagine: io ero quello che sbatteva in faccia al mondo la sua unicità, sempre a causa dei Black.

James arrivò a dimostrarmi con una semplicità quasi innaturale, dovuta alla gradualità della cosa, che anche uno straccione Mezzosangue può essere una persona straordinaria: un giorno, d’un tratto, mi resi conto di essere amico di Remus J. Lupin senza capire bene come fosse successo. Semplicemente, era così e basta. Tra tutti noi le cose funzionarono sempre in questo modo: accadevano, tutto qui, senza essere ponderate o programmate; il nostro rapporto seguiva un andamento lineare del tutto spontaneo e sincero dal quale ogni traccia di calcolo o strategia era completamente esclusa.

Come ho detto fu graduale, in un certo senso. La violenta metodicità con cui quotidianamente ricercavamo lo scontro fintanto che restammo nemici, nei primi mesi, svanì per lasciare il posto ad un placido conoscersi in cui ci svelavamo poco a poco, annusandoci quasi con timore. Mi sembra quasi che già sapessi quanto James sarebbe stato importante per me –come sono strani i ricordi, non è vero, Remus? Ti fanno sembrare tutto così consequenziale,,,- e lo stesso per lui. Era come se sapessimo che non c’era più nessuna fretta, eravamo arrivati esattamente dove dovevamo arrivare: uno di fianco all’altro.

Arrivato a giugno, Sirius Black era un altro ragazzino rispetto al giovane Lord che aveva preso l’Espresso qualche mese prima: durante la seconda metà dell’anno la conoscenza approfondita con James, l’inizio del “Protettorato” che per sette anni avremmo esercitato su Peter per difenderlo da quel Pianeta Terra che tanto lo intimoriva e l’immensa sorpresa costituita da persone come Remus, nonché la constatazione della meschinità e della pochezza di quelli che avevo ritenuto i miei simili –gentaglia come Rosiel, Avery, quel clan di bestie- tutto questo insomma, il mondo esterno alle mura del 12 di Grimmauld Place, aveva esercitato su di me un’influenza che niente avrebbe più potuto cancellare. Furono mesi di un’intensità fuori dalla norma, in cui ogni giorno era una scoperta che non effettuavo mai da solo: i miei amici erano con me, James era con me. Più passava il tempo, più sorprendenti punti in comune scoprivamo tra noi. Certi erano talmente bizzarri e rari da non poter costituire banali casualità –il fatto che entrambi non sopportassimo di infilarci il calzino sinistro prima del destro quando ci vestivamo, o che il ritratto di Sir Hampshington nel corridoio del secondo piano ricordasse a entrambi i nostri zii paterni, peraltro diversissimi tra loro- arrivando a rappresentare ai nostri occhi un qualche genere di segno karmico a dimostrare la nostra affinità innata.

Credo di aver già detto quanto ridevamo, io e James insieme: ma è qualcosa che se non lo si è visto è difficile da capire. So per certo che a volte mettevamo in imbarazzo la gente che ci stava insieme, perché ridevamo talmente a lungo da farli sentire decisamente di troppo.

Comunque, quando arrivammo a giugno, tra la nascita dei Malandrini –il cui nome fu decretato ufficlmente soltanto durante la prima settimana dell’anno successivo, Lily Evans e Snivellus, l’anno mi sembrò essere volato via in pochi istanti.

Ero felice.

 

 

 

 

 

X sourcream: mio lume... Ti ho mai detto quanto mi sei cara? No? Te lo dico ora. Sei straordinaria e insospettabilmente gentile, pensa tu. E io sono troppo ruffiana per la mia Casa. Come già sapevi Marzo non è affatto finita ed eccola qua che torna con dolore e depressione come tu sognavi. Sei felice? Sì vero? Il cagnaccio un po’ meno...

X Angel Natalie: In effetti il pairing non è proprio usuale, perciò sono doppiamente contenta quando qualcuno apprezza. Spero continuerai.

X Mixky: Grazie. E’ un po’ l’immagine che mi dà Grimmauld Place nel 5, un uomo morto in gabbia e un altro che puo solo stare a guardare. Penso sempre che a un certo punto al suo posto scoppierei. E qui é scoppiato. Non è facile stare a guardare una persona a cui vuoi bene che affonda volontariamente, lo so perchè l’ho provato. Non riesci a stare solo fermo. Grazie

X Giulia: carissima, grazie. Condivido assolutamente le tue parole percio’ non aggiungo nulla se non “si, hai ragione, che bello che ti abbia trasmesso queste cose!” Azzeccato il Rocky Horror. Quanto all’ultima domanda, la risposta é il capitolo...

X elrohir: Orbene, sono lusingata che la tua recensione sia stata per me. Anche io amo molto Sirius –morbosamente- e James, li amo insieme in tutti i modi, è vero, ma questo qui è il modo assurdo, che mi fa un po’ ribrezzo. Oddio, la parola è un po’ forte, diciamo che mi stona. Quanto all’immagine di cui parli, credo di aver specificato che non è mia, percio’ complimentiamoci tutti con Baricco, anche se non è tanto simpatico. E grazie ancora

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Capitolo 7
*** Secondo e Terzo Anno ***


Secondo e terzo anno

 

L’estate del primo anno mi sembrò un incubo. Anche se fu nulla rispetto a quelle che sarebbero venute, perché almeno, all’epoca, credevano ancora di potermi recuperare. Ma ricordo bene che durante quell’estate dimenticai il tepore dell’abbraccio di mia madre, che non ricevevo dal settembre precedente e non avrei più ricevuto, mai. Il primo mese fu agghiacciante, ero solo, non potevo comunicare nemmeno con i miei amici, né loro con me, ovviamente. Ai primi di agosto mio zio Alphard tornò a Londra da uno dei suoi interminabili viaggi; la discriminazione con cui venivo trattato lo disturbò, e si offrì di farmi da tramite per la posta via gufo, cosicché i miei non venissero a sapere: potei scambiare un paio di lettere con James, che si mostrò molto solidale. Per il resto, un incubo.

Però Regulus era ancora il mio fratellino, e fece il possibile, considerati i suoi undici anni, per fare da mediatore. Furono gli ultimi mesi di vita del nostro rapporto, sino ad allora estremamente forte.

A settembre, Regulus fu Smistato a Serpeverde, e in capo a qualche mese mi disprezzava come i suoi compagni di Casa, e la cosa era reciproca.

Incontrare Jim e Remus alla Stazione fu straordinario: ci corremmo incontro saltandoci addosso, ridendo, pazzi di gioia.

Era sempre così: ritrovarci dopo un periodo di lontananza, anche breve, era una festa senza pari. Ci dava calore ed energia, era come un balsamo. Ogni settembre scoppiavamo di felicità vedendoci da lontano, sul binario. Mi ricordo che avevo come sviluppato una specie di facoltà di individuare le loro teste –d’accordo, con James era molto facile- in mezzo a qualunque folla.

Attaccammo a parlare fitto ancora prima di esserci seduti nel nostro scompartimento, e non smettemmo per dieci mesi. Non tornai nemmeno a casa a Natale, e comunque nessuno mi ci voleva, a casa.

Durante quell’anno il nostro legame si regolarizzò, fisso ad un’intensità iperbolica. Soprattutto per quanto riguardava me e James, non c’era nulla che facessimo in cui non fosse coinvolto in qualche modo anche l’altro. Del resto, tutto quel che lui faceva mi interessava, e così per lui. E comunque era vero che… Non lo so, che, insomma, stavamo bene quando eravamo insieme, tutto qui. Non si può descrivere, credo che tutti quanti la conoscano almeno in parte, quella sensazione. E’ l’appagamento dato dalla presenza di una persona, quel sentirsi al proprio posto, come quando ci si sistema la sciarpa mentre tira vento, e su per la schiena corre un brivido di soddisfazione.

Ottobre fu il mese di nascita ufficiale dei Malandrini. Il nome lo scegliemmo una sera della prima settimana, mentre mangiavamo una torta in Sala Comune, a notte fonda. Brindando –con succo di zucca- al nostro ritrovamento a Scuola, pensammo di sceglierci un nome. Quello uscì per caso, lo disse Remus. Suonava bene,ci sembrò forte. Ma ottobre fu l’inizio ufficiale, creammo anche il nostro diario, un quaderno incantato dallo spessore dissimulato. Negli anni sarebbe diventato enorme.

Halloween sancì l’inizio della nostra carriera di Combinaguai della Scuola: facemmo quasi esplodere l’angolo di Serpeverde nella Sala Grande, con uno scherzo che restò negli annali di Hogwarts. Iniziammo ad essere conosciuti, a far parlare di noi.

Ci piaceva. Sia io che Jim eravamo alquanto pieni di noi, vanitosi ed egocentrici: eravamo ragazzini. L’ammirazione di Peter cresceva proporzionalmente alla nostra fama e ad aprile era il nostro volontario paggetto. Remus, il cervello della banda, oscillava tra il tentare di frenarci e l’ideare piani via via più diabolici e complessi: era un dodicenne anche lui del resto, saggezza o meno.

Jim entrò nella squadra di Quidditch, cosa che venne festeggiata con una notte in bianco nel Dormitorio, con tanto di dolci rubati in cucina.

A Natale, Peter e Remus rientrarono a casa per le vacanze, per l’ultima volta: James e io restammo soli per due settimane.

Quattordici giorni di simbiosi totale. Ci svegliavamo persino nello stesso momento, senza farlo apposta; scendevamo in Sala insieme, ci spostavamo insieme, studiavamo –per modo di dire- insieme, e ci addormentavamo nello stesso momento, dopo le ultime due ore di chiacchiere notturne. E, ancora non me lo spiego, non tacevamo un attimo. Che cosa avevamo da dirci? Io ero testimone di tutto quel che gli capitava, e viceversa, non avevamo cose da raccontarci. Non aveva senso dire a James “oggi ho trovato una stanza strana al terzo piano”, perché tanto lui c’era al momento della scoperta.

A gennaio Remus fu un po’ destabilizzato. In due settimane eravamo diventati Felpato e Ramoso, anche se i nomi non c’erano ancora: ma eravamo già quelli, inseparabili. C’è da dire che il suo inserimento non fu affatto forzato, né quello di Peter. Avevamo un rapporto così morbido, naturale.

Così, tra una scappatella notturna e una passeggiata sul Lago, arrivò il bel tempo, si avvicinarono gli esami. James e io scegliemmo gli stessi corsi per il terzo anno, e poi giunse l’estate. E con l’estate, il tanto temuto ritorno a Grimmauld Place.

Questa volta i miei furono tremendi, e così pure Regulus. Per fortuna zio Alphard continuò ad aiutarmi, per quanto poteva; riuscii a scrivere a Remus, oltre naturalmente a James. E aspettai spasmodicamente il mese di settembre.

Il mio migliore amico mi mancava enormemente. Le nostre lettere erano costellate di “se tu fossi qui”, “mi è sembrato di vedere la tua faccia se avessi assistito alla scena”, “avrei giurato di sentire la tua risata, Fido” e cose del genere.

Il terzo anno segnò due svolte fondamentali: la prima fu che, appena arrivati a Hogwarts, James rivide la Evans dopo l’estate e rimase folgorato. Cominciò a tampinarla immediatamente, con grande scorno della poverina e mio.

Mi dava noia questa perdita di tempo appresso a Lily, mi sembrava che avessimo cose molto più importanti da fare, e lei non era affatto divertente e in gamba come me o Remus. Alle ragazze,io, ancora non ci badavo. Erano sciocche e lagnose, ecco tutto.

Il secondo, immenso cambiamento fu che, un bel giorno, mi misi a cercare la data di Natale sul calendario di Remus. Volevo sapere se fosse una domenica. Sul calendario erano segnati i suoi impegni, i giorni scolastici persi, cose simili.

James buttò l’occhio sulla pagina, per caso.

“Toh, guarda, la signora Lupin è stata male durante la luna piena” osservò casualmente, tornando a immergersi nella sua rivista di Quidditch.

Io voltai indietro le pagine, guardando gli altri mesi. Non so perché, avevo come un campanello che suonava in testa.

E così scoprimmo che Remus era un Licantropo.

Ce la prendemmo per il suo silenzio, per la mancanza di fiducia dimostrata e per le menzogne che ci aveva raccontato durante quegli anni. Ci fu qualche giorno di estrema tensione, poi Remus capitolò e, durante un lunghissimo pianto –l’unico dei due cui ho assistito e peggiore dell’altro, quello della notte dello Scherzo del Sesto anno- buttò fuori tutta l’amarezza e la fatica che la sua situazione comportava, tutto il disagio e la vergogna.

Non aspettammo nemmeno che finisse di scusarsi per abbracciarlo.

La questione finì per cementare ancora di più la nostra amicizia. Condividere quel segreto ci unì, se possibile, ancora di più.

James, cuore di panna, era triste del fatto che il nostro amico dovesse trascorrere da solo quei momenti terribili della trasformazione; il suo senso della solidarietà era estremamente forte. Cominciò ad architettare un sistema per cui potessimo stare con lui –ovviamente a sua insaputa, chè non sarebbe mai stato d’accordo.

Io trovai la cosa estremamente interessante, comunque. Remus era un Licantropo, ai miei occhi la cosa lo rendeva ancor più ganzo –ostinati pure a non crederci, pulcioso, fa’ come ti pare- e decisamente d’effetto. Mi iniziai ad interessare all’argomento Licantropia, nel tempo libero dalle lezioni e dai disastri.

Perché ne combinammo di tutti i colori, quell’anno, Pringle ci odiava a morte. Eravamo i suoi nemici giurati e non sognava altro, credo, che beccarci con le mani in un sacco abbastanza grosso da farci spedire a calci fuori dalla Scuola.

E tremendi lo eravamo davvero. Io e James avevamo due caratteri vulcanici in perenne eruzione; non ci fermavamo mai, non era mai abbastanza, tutto. Strafare era il nostro stile di vita, adatto a noi come un guanto. E poi, certo, sguazzavamo nella fama che andava creandosi intorno a noi, persino tra i ragazzi più grandi. La frequenza delle nostre visite in Presidenza e da Minerva non faceva che crescere.

Quanto mi divertivo. Eravamo Dio, o come lo si vuol chiamare, potevamo tutto. La vita era lì, tutta per noi, piena di qualunque cosa.

Lo capisco, il vecchio Pringle. Non deve essere stato facile per un uomo di quell’età avere a che fare con due simili pesti, spesso e volentieri accodate da due altri giovani scapestrati –molliamola con la storia delle saggezza, Remus era un bambino, non il Buddha- il cui scopo era divertirsi, possibilmente infrangendo qualche divieto per dare succo alla cosa.

Iniziammo a familiarizzare con un bel po’ di stanze, mentre quella, già nota, delle Necessità diventava praticamente un prolungamento del nostro Dormitorio. Lì tenevamo tutto quel che non doveva essere trovato per nessuna ragione, se non volevamo farci espellere: gli scherzi proibiti di Zonko, le Burrobirre e più tardi gli alcolici pesanti, le trame dei nostri piani e tante altre cose con l’andare degli anni. I miei libri, ad esempio.

Ma non mescoliamo le cose.

Le asprezze con i Serpeverde aumentavano. Il clima, nel mondo di fuori, andava incupendosi, ma nel nostro nido d’oro e pietra non lo percepivamo se non indirettamente, a livello subcosciente. La guerra era aperta, e a poco valevano i tentativi di Albus di calmare una situazione che poteva solo precipitare: ma in qualche modo riusciva a mantenere un equilibrio stabile.

Le cose diventarono decisamente dure con Severus. Credo che la molla che ci portò a degenerare fu che gli addossammo la colpa per aver fatto esplodere praticamente in faccia a Lumacorno un calderone. Non lo facemmo davvero apposta. James e io avevamo scommesso che lui non sarebbe mai riuscito a centrare il composto di Piton con la radice di colso –altamente esplosiva se mischiata con il succo di sarbolo contenuto nella pozione- che aveva in mano. Eravamo lontanissimi, dall’altra parte dell’aula, nemmeno James stesso pensava di poter fare centro.

Invece lo fece, proprio mentre Snivellus aggiungeva un pizzico di qualche cosa e Lumacorno si avvicinava per guardare.

Il risultato fu devastante.

E per di più, Lumacorno si convinse che, siccome Severus con le sue conoscenze in materia doveva senz’altro sapere di quell’effetto collaterale, lo avesse fatto apposta. Si arrabbiò come mai prima di allora, dichiarandosi profondamente deluso, e per ben due settimane bistrattò il suo pupillo.

Purtroppo James e io non potemmo proprio evitare di ridere a crepapelle e soprattutto di darci un cinque. Il professore non se ne accorse, ma Severus sì.

E naturalmente non poteva sopportare Remus. Perché era un mezzosangue come lui che non si vergognava di esserlo e per quella faccenda dell’intelligenza, una specie di rivalità malsana. Una cosa totalmente a senso unico, perché il mio mite amico ha lo spirito di competizione di un bradipo.

In realtà, con l’andare del tempo si sarebbe poi esasperato, sfoderando verso Severus il suo lato che conoscevamo solo noi, quello aggressivo e implacabile del lupo.

Continuo a saltare in avanti, ma è che tutto mi si affolla in mente insieme.

Nel frattempo, proporzionalmente alla nostra nomea cresceva l’avversione dell’oggetto delle attenzioni di James: per Lily eravamo il fumo negli occhi, non ci poteva reggere. E le risate che mi sono fatto nel vederla diventare viola di rabbia per i miei brutti tiri, e la truce, inconscia soddisfazione quando lo mandava al diavolo, dandomi sicurezza.

Comunque, ne rideva anche lui. Gli piaceva provocarla, era piccolo allora.

Lily non ha mai dato a James quel che gli davo io. E non lo ha mai conosciuto quanto me. Anche dopo sposati, era da me che veniva quando aveva bisogno di consigli o di conferme, in qualunque ambito.

Grifondoro vinse la coppa.

Feste a non finire, baccanali. Bevemmo per la prima volta, anche se non tanto da ubriacarci seriamente. Ci girava la testa, ridevamo peggio del solito.

E poi, l’anno era finito un’altra volta.

 

 

 

 

X sourcream : amatissima, ti sono comunque tanto riconoscente… Un giorno lo sistemero’ anche auel capitolo. So che godi della sofferenza del moi amato, percio’ sarai lieta di sapere che i capitoli a venire sono molto peggio. Hogwarts è il momento felice, tu pensa il resto… Grazie per le correzini e per gli sforzi di renermi idiota. Che farei senza di te ? (ah... Tutte le cose procedono. Le cose che sai. Ma non ti trovo mai su msn qundo ci sono io …)

X_ Nefer _ : ... Niente di strano: E’ Sirius a parlare. Io non faccio nulla, batto solo al computer. ^__^ Grazie da parte di entrambi

X Mixky : Prego… In realtà la storia mi sta prendendo. E’ “divertente” ripercorrere i Malandrini e la loro vita, anche se con quest’ottica un po’ malsana. Mi fa piacere che sembri autentica, è l moi maggior sforzo quello in questo senso. E Sirius, beh , lui è SEMPRE bello.

X Sirya Black: Hahaha! Quel che dici è musica per le mie orecchie! Che soddisfazione mi stai dando, ti ringrazio molto ! Piacere a qualcuno che inizia la lettura odiandomi mi dà la massima gioia. Non esagerare pero’, questa è una versione distorta : loro erano SOLO amici. Non voglio certo fare proseliti con le follie della sour.

Bye

 

 

 

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Capitolo 8
*** Quarto e quinto anno ***


 

Quarto e Quinto anno

 

Lo zio non c’era quell’estate. Era in Sudafrica con una spedizione  della Gringott.

Questo significava che non potevo in nessun modo avere contatti con i miei amici per più di due mesi,

Per giunta, stavo crescendo, e i Black cominciavano a preoccuparsi del fatto che non dessi segno di voler rimettere la testa a posto ma anzi, andavo peggiorando, nella loro visuale. Non essendo del resto un maestro della dissimulazione, non facevo mistero del mio crescente disinteresse per le loro posizioni e la totale contrarietà alle loro idee.

Furono feroci. E la cosa era doppiamente difficile perché non potevo avere in nessun modo l’appoggio di Jim. Questo mi faceva mancare la stabilità. Eravamo abituati a contare l’uno sull’altro e ad unire le forze davanti a ogni problema, a darci appoggio e solidarietà quando per uno dei due le cose non giravano. Da quasi due anni non passavo così tanto tempo senza avere comunicazione con lui, mi sentivo incompleto. A Grimmauld Place per me era come essere muto, perché non avevo nulla da dire e comunque nessuno mi avrebbe ascoltato. Io, che ad Hogwarts non stavo zitto per tre minuti di fila neanche con la bacchetta puntata, passavo giornate intere in silenzio assoluto, con le urla di mia madre nelle orecchie a ripetermi quanto fossi penoso e infimo. Non potevo parlare, ed ero abituato a parlare con James in continuazione. Non stavo completamente solo da mesi e mesi, ed ero un ragazzino. La mia famiglia non era già più tale per me, perciò essere senza James e Remus era come trovarmi abbandonato a quattordici anni.

Comunque qualcosa di positivo saltò fuori. Visto che non avevo niente, ma proprio niente da fare, svolsi tutti compiti delle vacanze. E visto che, dopo averli finiti, continuavo a non avere nulla da fare, iniziai a spulciare i libri della biblioteca di famiglia, in cerca di informazioni sul mio argomento preferito.

Alcuni libri erano veramente pregiati ed antichi, molto dotti, ma altri assolutamente malsani, come tutto nella mia famiglia. Ce n’era uno in cui erano raccolte testimonianze ben poco affidabili, secondo me, di gente che aveva avuto a che fare coi Licantropi. C’era un tizia, una donnetta insulsa del Devonshire, che lamentava di aver incontrato uno di quei mostri, una vera bestia, “tant’è che pareva intendersela alla perfezione con un randagio mentre aggrediva gli umani”. Sì, perché, ricordava il compilatore del volume, i Mannari non sono generalmente aggressivi con altri animali quanto con gli umani.

Forse, sogghignai, bisognava chiedere alla McGrannit di trascorrere un po’ di tempo con lui: essendo un Animagus, lei poteva…

E così ebbi l’illuminazione.

A settembre mi presentai sull’Espresso con un’idea sfolgorante e una pila di libri in più, trafugati da casa: obiettivo, diventare Animagus illegale.

Ricordo quell’incontro con particolare tenerezza.

James mi venne incontro mentre ero ancora con i Black. Non l’aveva mai fatto: i miei, giustamente, gli ispiravano una certa fifa. Aspettò che mi fossi allontanato da loro solo di qualche metro, poi mi venne vicino. Non osando abbracciarmi sotto lo sguardo indignato e colmo d’odio di mia madre, mi prese soltanto una mano e me la strinse.

“Stai bene?” mi chiese serio.

Risposi di sì. Avevo una gran voglia di ridere e vedere la sua faccia, sentire la sua voce mi ridava linfa vitale. Ma lui era serio, riprese a camminare verso l’Espresso e solo quando fummo lontani, d’improvvisò, mi abbracciò. Fu un gesto quasi spasmodico, che non aveva veramente a che fare con l’abbraccio fraterno e maschile con cui cercò di dissimularlo aggiungendo alcune amicali pacche ed un sorriso.

Prese a dire, velocissimo e affannato, che aveva cercato si scrivermi molte volte da mio zio a Londra, ma i gufi tornavano sempre al mittente: temeva mi avessero scoperto, e solo quando suo padre gli aveva assicurato di non aver sentito di grandi baruffe nella mia famiglia si era un po’ calmato.

“Ma mi sei così mancato” aggiunse.

E solo allora smise la serietà per tornare il solito scanzonato Potter.

Dovetti aspettare un paio di giorni per avere l’occasione di parlargli della mia idea dell’Animagia. Ne fu conquistato e pretese di eseguire anche lui l’incantesimo.

Cos’ prese l’andazzo il nostro quarto anno: assedi ad una sempre più esasperata Evans, sessioni segrete di studio dell’Animagia, tiri mancini tra le Case nemiche e continue esplorazioni del castello. A novembre scoprimmo la Strega Gobba e il passaggio per Hogsmeade: un nuovo universo ci si aprì davanti. Iniziammo a buttare giù degli schizzi e degli appunti, nel quaderno, per ricordare bene tutti i passaggi e  le stanze che trovavamo e le loro posizioni.

Oh, che stupido, dimenticavo un’altra conseguenza molto importante di quell’estate: per il quattordicesimo compleanno di suo figlio, Arnold gli fece il regalo migliore che avremmo mai potuto desiderare: un Mantello dell’Invisibilità.

Hogwarts non aveva più confini, né limiti.

Credo davvero che il quarto anno sia stato il migliore di tutti. Eravamo non più bambini ma non ancora ragazzi, non eravamo niente e potevamo essere tutto, nulla era inadeguato.

A metà novembre Mille Egham mi braccò in corridoio, inaspettatamente, e mi rese noto il suo interesse per la mia persona. Io la guardai a bocca aperta.

Lei prese la cosa come un rifiuto.

“Scusami, lo so che siamo tante” mormorò.

Passai le successive tre ore nei dintorni del mio specchio. Quando James entrò in camera e mi trovò imbambolato davanti alla mia immagine, si rotolò sul letto dalle risate per un paio di minuti prima di disturbarsi a chiedermi quel che stavo facendo.

“Le ragazze mi trovano carino” lo informai, pensando di stupirlo.

Fece spallucce. E allora?, chiese.

Fui io, quello sorpreso. Lui lo sapeva?

Certo, mi disse, quasi tutte le ragazze di Grifondoro del nostro anno e del terzo avevano una cotta per me. Davvero non lo sapevo? Questo spiegava quindi perché non ne avessi approfittato.

E in questo modo cominciò il mio sfruttamento dell’universo femminile di Hogwarts: dolciumi, piccoli regali, favori, tutto andava bene, ogni dono veniva ricambiato con un gesto di avvicinamento per lo più fittizio. Non mi importava niente di quelle ragazze, chiaramente, anche se non mi facevo certo l’autonalisi allora, mi divertivo soltanto. Passavo dolcetti a Peter e accessori sportivi a James, mi facevo desiderare. Era spassoso.

Lui non ne trovava simpatica nessuna. Non ci facevo caso, però era così. E anche le più carine, secondo lui avevano sempre qualcosa che non andava, dal sedere basso all’alito sgradevole. Rideva delle mie spacconate nei loro confronti con fin troppo entusiasmo.

Insomma, esperimenti, ragazze, esplorazioni, scherzi, le prime bevute e il nostro primo vero litigio, poco prima di Natale. Una baruffa ridicola che io e James scatenammo perché qualcuno gli aveva detto di avermi visto abbordare Lily –vero è che in quel mese di scoperte mi ero dato da fare, ma certo non fino a quel punto- e la prese male.

Ricordo, disse “non è per la Evans in sé –proprio così, non è per la Evans in sé- ma da te, Sis, non me l’aspettavo”.

Me la presi anche io. Ci insultammo un po’, ci rinfacciammo le presunte mancanze reciproche.

Ci tenemmo il muso per tutto il giorno successivo –un record- per ritrovarci la sera a zampettarci come gattini, commossi e perdonati.

Le vacanze di Natale furono esaltanti, mi sbronzai da vomitare per la prima volta. Terribile, lo ricordo.

A febbraio coinvolgemmo un titubante ed impensierito Peter nel progetto Animagia, che proseguiva di lena. Ad aprile Remus ebbe l’idea di disegnare una mappa incantata di Hogwarts. Ne prendemmo una da un libro e iniziammo a copiarla, cercando un buon modo per incantarla. Volevamo che fosse accessibile solo a noi e che avesse segnalati tutti i passaggi e i modi per farli funzionare. La nostra esplorazione del Castello si fece sistematica, stanza per stanza, corridoio per corridoio. Un lavoro lunghissimo che ci avrebbe portato via un’enorme quantità di tempo.

Mi chiedo in effetti dove trovassimo tutta l’energia e la costanza per i nostri progetti strampalati e generalmente fini a se stessi, ma forse la risposta è che eravamo semplicemente ragazzini.

Tra un impegno e l’altro, ovviamente, la scuola continuava. Peter era l’unico davvero scarso, Remus un ottimo studente e noi due cadevamo sempre in piedi. Sì, a quell’epoca ci succedeva davvero, ci andava sempre tutto bene, le scampavamo tutte. Forse abbiamo avuto troppa fortuna fino ai diciannove anni e dopo l’abbiamo pagata, non lo so.

E inoltre, Severus si mise in testa che nascondessimo qualcosa. Non so da che lo intuì, certo lui è molto acuto e sottile –non fa che ripeterlo- fatto sta che iniziò a tenerci d’occhio, per non dire spiarci. Lanciava mezze frasi di avvertimento, o di minaccia.

Ne uscii di testa. Oggi mi vergogno molto della perfidia di quegli anni –evita di farglielo sapere, comunque, Remus- ma fu così. Non tolleravo che pensasse di poterci minacciare e sfruttare eventuali debolezze. James, dal canto suo, non sopportava di vedere in pericolo il segreto di Remus, così ci coalizzammo ulteriormente.

Questo è il quadro delle nostre vite. Due sentieri sempre affiancati che proseguono dritti verso qualunque cosa, senza distanziarsi mai se non per brevi istanti non voluti. Comincia a risultare più chiaro, forse, il motivo del mio attuale stato psichico.

Nuovi esami, nuova estate.

Zio Alphard, per mia fortuna, era tornato a Londra.

Così potei scrivere ai ragazzi; raccontavo loro solo piccole cose, tacendo la realtà di quel che si stava dimostrando essere un incubo. Sapevo che James si sarebbe angosciato inutilmente nel sentire delle mie condizioni, perché tanto non poteva fare nulla: era inutile affibbiargli quel peso.

Come previsto, quell’estate Remus fu nominato Prefetto. Siccome non ne avevamo minimamente dubitato, la notizia non ci sorprese nemmeno un po’. A settembre ci presentammo sull’Espresso con una valanga di caustiche battutine sulla sua presunta e diligente ottima condotta –avrei qualcosa da ridire in proposito, e penso che Albus avesse tralasciato di considerare un paio di piccoli pessimi tiri combinati dal nostro amico negli anni- e una caterva di gag stupide.

A volte riuscivamo ad essere davvero due deficienti. Come se il nostro cervello si fosse fermato a dieci anni, e non ne avesse voluto più sapere di maturare. C’erano giornate in cui non facevamo altro che dire idiozie da quando aprivamo gli occhi al mattino fino a che non li richiudevamo la sera; ovviamente, sghignazzando come scimpanzé per tutto il tempo. Dovevamo avere l’aspetto di due primati non ancora completamente evoluti, ma il divertimento era impareggiabile.

La nomina di Remus, comunque, cascava a fagiolo: adesso avevamo anche la copertura di un Prefetto, non ci poteva fermare più nessuno. Che poi, in subordine, Remus ogni tanto cercava di darci un freno: ma io e James non potevamo frenare. Eravamo fatti così, semplicemente. Un’altra delle mille cose che ci rendevano tanto simili. Credo che ci abbiamo anche provato, qualche volta, ma la voglia di esagerare era insopprimibile.

La cosa più importante di quell’anno, ad ogni modo, fu che poco prima di Natale riuscimmo nella realizzazione del nostro grande progetto: con una trasformazione che ricordo come il dolore fisico più violento mai provato in vita mia, diventai un Animagus. E così pure James, e poco tempo dopo anche Peter, seguendo scrupolosamente le nostre istruzioni.

Ecco, l’Animagia penso sia un buon modo di spiegare noi due: era una cosa MOLTO illegale, MOLTO pericolosa e MOLTO segreta, che doveva restare tra noi. Il genere di cosa che sembrava creata apposta per un simile duo. Adoravamo il fatto di avere un segreto tanto importante da tenere tra noi, di cui parlare sottovoce per non farci scoprire da altri; era un’altra cosa che ci rendeva uniti, e ne eravamo entusiasti.

“Siamo veramente simbionti, Sis!” rise lui la sera stessa dell’avvenuta trasformazione. Ed era vero, tutto sommato.

Adesso potevamo cominciare a tenere compagnia a Remus durante il plenilunio. In realtà quando gli dicemmo che cosa avevamo appena realizzato, credo abbia ipotizzato seriamente di ucciderci. Non di denunciarci al Preside, certo, perché –maledizione a me, razza di stupido- fare la spia NON era proprio una cosa da Remus.

Comunque alla fin fine ne fu contentissimo. E noi ci sentimmo doppiamente fieri di noi, come se non fosse bastata la boria che già ci caratterizzava. Che coppia di piccoli bastardi pieni di sé formavamo! Non so nemmeno io perché; tra noi quattro, l’ho detto, eravamo assolutamente semplici e genuini, ma nei confronti del mondo esterno dovevamo sempre darci un tono, mostrarci al di sopra. Di tutti.

Adesso tutto questo mi fa una gran tenerezza; pensavamo di essere padroni delle nostre vite e perfettamente in grado di controllare la direzione che avrebbero preso, quando in realtà eravamo sballottati alla cieca da eventi molto più grandi di noi. Ma rispecchiandoci l’uno nell’altro riuscivamo a fingere molto bene che tutto fosse nelle nostre mani.

Sempre grazie al Mantello di James proseguiva anche la nostra sistematica esplorazione del Castello. Il Quaderno era ormai zeppo di schizzi, piantine e stratagemmi per localizzare stanze e passaggi segreti. Man mano accumulavamo conoscenze. Trovammo un vecchio volumetto, durante un’illegale gita nel Reparto Proibito, su cui erano segnati alcuni di quei tranelli. Molti non li conoscevamo.

Iniziavamo a capire i meccanismi su cui si basava il funzionamento del castello.

Hogwarts è stata la parte ascendente della nostra parabola: ogni giorno avevamo l’impressione di arrivare più in alto del precedente; anche tra noi, via via, l’intesa era sempre più perfetta. Inoltre cominciavamo quasi ad essere adulti e il nostro rapporto maturava di conseguenza. Gli argomenti di conversazione cambiavano, cominciavamo a parlare di donne, del mondo esterno, a interrogarci su quel che sarebbe stato il nostro futuro.

In quelle ottimistiche immagini del nostro luminoso avvenire c’eravamo sempre tutti e due: dividevamo un appartamento come coinquilini –quando James non si sposava con Lily, naturalmente, una delle varianti più comuni- oppure eravamo vicini di casa o intraprendevamo un qualche tipo di attività lavorativa o commerciale insieme; uno studio da detectives, o un negozio di scherzi. Avevamo progettato anche di aprire una specie di parco giochi magico, in cui i visitatori avrebbero potuto provare sulla propria pelle le buffonate e i brutti tiri di cui eravamo capaci. Comunque, in un modo o nell’altro, immaginavamo sempre le nostre vite come strettamente allacciate.

Ed era così che avrebbero dovuto essere. Se ci fosse solo un po’ di giustizia a questo mondo io e Jim non saremmo stati separati, non così presto. Avremmo dovuto invecchiare fianco a fianco, come previsto, e ritrovarci da vecchi a fumare la pipa in veranda, raccontandoci vecchi aneddoti sui bei tempi andati.

Questa immagine è incollata nella mia mente da tanti anni, così come la voce che mi ripete costantemente che non esisterà mai. E’ un’immagine luminosa ma estremamente dolorosa, perché impossibile. E’ il mio più grande sogno, in realtà: trovarmi vecchio, seduto di fianco a James. Potermi dire di aver passato tutta la vita con lui, averlo fatto davvero, questa è la cosa più straordinaria che io possa immaginare e non l’avrò mai. Mai.

Quell’anno ci aspettavano i GUFO. Verso febbraio Remus inizio a dar vita a piccoli episodi di isteria e noi dovemmo darci una calmata per evitargli il tracollo nervoso. Naturalmente riuscimmo comunque ad evitare di studiare di più, nonostante la sua insistenza. Preferivamo chiuderci nel mantello e andare in giro a spalancare porte chiuse e ficcanasare, oppure chiuderci nella Stamberga, ormai diventata nostro territorio, a sbevazzare e dire volgarità, passatempo prettamente adolescenziale e molto soddisfacente.

James s’inferocì con Piton. Lo buscò una volta a dire qualcosa di estremamente dispregiativo a Lily; la poverina ci rimase malissimo, sul genere lacrime agli occhi e naso che cola: la scena perfetta per il nostro cavaliere senza macchia. Da allora diventò implacabile. Io invece continuavo a pedinarlo per vedere se ci pedinava e lui continuava a pedinare me.

Buffa situazione, in effetti. Che strano, Severus, ci siamo guardati storto per tutta la vita, ma con costanza. Certe volte si ha bisogno di avere qualcuno da odiare, su cui riversare ire e frustrazione; è più comodo se quel qualcuno è già prestabilito, così non hai bisogno di andartelo a cercare: Severus e io ricopriamo magnificamente quel ruolo, l’uno per l’altro.

Comunque sia, James cercò di sfruttare il risentimento di Lily nei confronti di Piton maltrattandolo il più possibile. Non che lei abbia mai dato segno di gradire la cosa, anzi, appena lo veniva a sapere si infuriava come un Avvincino, ma lui non demordeva. Aveva i suoi metodi, diceva, e soprattutto era testardo come un mulo.

Infine, tra i mille ripassi di Remus e le crisi di panico di Peter, che lanciava foschi presagi sul fatto che sarebbe stato bocciato in tutte le materie –e magari, dico io- venne il momento dei GUFO. Ci fu anche quel famoso episodio delle mutande di Severus, un momento a parer mio esilarante. Eravamo così: se non facevamo nulla di strano o emozionante ci annoiavamo e allora decuplicavamo gli scherzi. Era anche un modo per scaricare la tensione, immagino.

Poi l’anno era finito.

Tornai a casa per le vacanze. Era l’ultima estate che trascorrevo a Grimmauld Place e naturalmente all’epoca non lo sapevo.

 

 

 

 

 

 

X sourcream: Ehllallà che permalosa… Ti sono tanto tanto grata anche se sei pasticciona (hahahahahaha che meraviglia) e prima o poi lo mettero’ anche a posto. A presto , biscetta cara.

X Syria Black : Grazie. E’ vero, Peter è un ppersonaggio che ho sempre voluto approfondire, ma mi manca sempre un qualcosa, non riesco veramente a capirlo. C’è una qualche sfumatura che mi sfugge e non mi permette di arrivare alla comprensione. Non so. Spero comunque che qnche il nuovo cqpitolo sia gradito.

X Mixky : E’ vero, c’é qualcosa di Pills in questi capitoli, ma anche qualcosa di Jab e persino di altre storie –sempre mie, ovviamente- tutto mischiato. Non garantisco sul risultato e per l’amor del cielo, per quanto avete di più sacro SMETTETELA TUTTI DI APPASSIONARVI A QUESTO PAIRING ! Accidenti a me e a quando ho dato retta a quell’altra squilibrata mia pari.

Certo, Sirius è bello. E’ perfetto.

bye

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Capitolo 9
*** Sesto Anno ***


Sesto anno

Sesto anno

 

Quella fu l’ultima estate che trascorsi a Grimmauld Place, già. E per molto tempo, dopo, ho pensato che in questa casa non ci avrei vissuto più. Era l’unica cosa certa che sapevo di volere nella vita, io che crescendo persi ogni interesse per i progetti a lungo termine, non vivere più qui. Perché questa casa è la mia Azkaban personale; ho ricordi in questo posto che sono letali quasi quanto i Dissennatori.

La Vita ha uno strano senso dell’umorismo.

L’estate prima del sesto anno la trascorsi trincerato nella mia camera da letto. Se ne uscivo era la guerra mondiale. Ero sotto processo, anzi, ero già condannato, e ancora una volta senza aver fatto nulla. Walburga ormai mi odiava con un accanimento che rasentava la follia: il solo guardarmi la riempiva di disgusto ed ira, qualcosa di fisico. Finì con l’isolarmi, non mi voleva nemmeno più a tavola con loro: trovarsi davanti la mia faccia la riempiva di una furia incontenibile.

Ne fui sollevato, perché ogni pasto con la famiglia Black si rivelava un incubo.

La cosa peggiore era quando qualcun altro dei nostri parenti ci veniva a trovare: zia Elladora provava il massimo piacere nel guardarmi arricciando le labbra con somma ripugnanza fino a costringermi ad abbassare lo sguardo –era l’unica persona che ci riuscisse, in effetti- e Rodolphus, il marito di mia cugina, sembrava adorare l’elencare tutte le cosiddette prodezze da lui compiute ai tempi della scuola, qualche anno prima, in rapporto alla pochezza di tutto ciò che mi riguardava.

Dal canto mio ero l’incarnazione stessa dell’insofferenza. Quella gente aveva un modo completamente perverso e malsano e di guardare alla vita. La tanto agognata e preservata Purezza dominava le loro menti, tutto ciò che contava veniva ridotto al potere, alla posizione. Si intossicavano di conoscenze “convenienti” e ostentazioni di superiorità. In realtà credo vivessero ancora nell’800, quando i Black si avvolgevano di sete e perle per partecipare a sontuosi banchetti a Buckingham Palace in corsetto e mantello di velluto, le bacchette bordate in oro massiccio.

Questa comunque era l’immagine che io e James avevamo ricostruito nelle nostre lettere. Quelle furono l’unica cosa bella di quell’estate. Le sue lettere erano fogli e fogli zeppi di confidenze, storielle per farmi ridere, aneddoti su momenti della sua estate divertenti nonostante la nostalgia –questo lo specificava sempre- e questo tipo di cose. Credo ci mettesse ore, ogni volta che mi scriveva, a mettere su carta tutte le cose che aveva voglia di dirmi. Perché, più che mai, ultimamente il nostro rapporto si era ancor più accresciuto. Adesso parlavamo davvero di tutto, dubbi, paure, incertezze, quel genere di cose sgradevoli che cominci a provare quando l’infanzia davvero si avvicina alla fine.

Il mondo esterno diventava lentamente qualcosa di concreto, che iniziava ad avvicinarsi: una realtà in cui le cose sarebbero state meno semplici; e per contrasto ci stringevamo ancora più tra noi, a mo’ di difesa.

Perciò, la gioia di settembre fu qualcosa di portentoso. Altri nove fantastici mesi in cui niente e nessuno si sarebbe messo tra di noi.

Il secondo giorno fissammo gli obbiettivi fondamentali che dovevamo ad ogni costo raggiungere quell’anno, prima di ogni altro.

Qualcosa come:

I Signori Lunastorta, Codaliscia, Felpato e Ramoso

Prendono l’impegno solenne e irrefutabile

Di portare a termine entro codesto

Giugno 1976

I seguenti impegni d’utilità pubblica:

- Terminare l’esplorazione del Castello

- (perciò anche) la stesura della Mappa secondo i criteri prestabiliti

(o almeno di arrivare a buon punto)

- Salutare degnamente il vecchio Puzzone Pringle

che lascerà a giugno questa valle di lacrime

- Liberarsi di Snivellus nei modi e tempi che verranno

secondariamente stabiliti

(- conquistare la Evans)

(Sognatelo)

 

Naturalmente il “sognatelo” in fondo era mio.

Ad ogni modo fu esattamente quello che facemmo… Voglio dire, a Giugno avevamo finito la Mappa, conoscevamo Hogwarts come nessun altro studente prima di noi, Apollonius era stato salutato da un’esplosione di Caccabombe in ogni angolo del Castello –e se dico ogni, intendo proprio ogni- James si era sognato per tutto l’anno di conquistare Lily e Severus aveva quasi perso la vita.

E non ho altro da dire su questa storia. Non c’entra niente con l’argomento originario, me e James. Però è vero che quella notte cambiò molte cose tra noi tutti, anche tra me e Jim. E probabilmente ha influito sul futuro più di quanto credessimo.

Di sicuro, da allora Severus Piton odiò me e James non più con l’antipatia di un ragazzino ma con l’intensità e la concretezza di un adulto. Si era convinto che anche Jim avesse preso parte al mio piano per farlo sbranare da Remus –non era assolutamente quel che avevo pensato di ottenere, sia chiaro- e che se la fosse fatta sotto all’ultimo momento: quindi era anche un vigliacco, per giunta.

Ma James non c’entrava niente, e non lo dico per non rovinare la sua immagine o cazzate del genere ma perché è così.

Quello conseguente allo Scherzo a Severus fu in assoluto il peggior litigio tra me e James in tutte le nostre vite. Non l’avevo mai visto così furioso prima, e nemmeno lo vidi in seguito. Alcune delle cose che mi disse in quell’occasione mi hanno realmente segnato; penso di aver capito più cose di me durante la sfuriata che mi fece quando ci vedemmo al mattino che in tre interi anni di vita.

La situazione era: Remus non mi rivolgeva la parola nemmeno se costretto, James diventata viola di rabbia solo vedendomi e Peter non sapeva bene come raccapezzarsi; penso sia stato allora che ha cominciato ad avere paura di me.

Remus non ne voleva davvero sapere di perdonarmela: questa volta avevo esagerato davvero, e sono d’accordo con lui. Se James non fosse intervenuto così tempestivamente come ha fatto Severus sarebbe sicuramente morto, e Remus trasformato in un assassino; e nessuno meglio di me sa quanto sia tremendo e schiacciante il peso dell’essere artefice della morte di qualcuno senza volerlo. Non ho solo rischiato di far fuori Snivellus –la perdita a parer mio sarebbe stata accettabile- ma di rovinare la vita di Remus per sempre, di farlo sbattere ad Azkaban o chissà cosa.

James dava letteralmente i numeri, era fuori di sé. Come avevo potuto fare una cosa del genere, essere così egoista e menefreghista nei confronti di uno dei miei migliori amici e usarlo come un oggetto, un mezzo per raggiungere i miei stupidi obiettivi? Come avevo potuto essere tanto maligno da quasi provocare la morte di un’altra persona? Che cos’ero, una specie di mostro?

Non ti riconosco, mi urlava, non so chi sei, non so più chi sei. Non era solo arrabbiato, era nel panico. Credo di aver impiegato anni a capirlo, ma il fatto era che io e James eravamo l’uno per l’altro la più grande certezza della vita; e quella certezza gli era crollata addosso all’improvviso svelando cose che James non avrebbe mai voluto vedere: che anch’io potevo essere, seriamente, cattivo e subdolo. Era atterrito.

Rifiutò anche solo di ascoltarmi per giorni e giorni, come Remus.

Io ero seriamente pentito. Avevo agito senza pensare, come capitava spesso. Non avevo intenzione né di uccidere Severus né tantomeno di usare Remus –dimentichiamo la faccenda, vuoi?- e mi rendevo conto solo allora di quanto ero andato vicino alla catastrofe.

Capivo anche quanto i miei amici dovessero sentirsi delusi. Non mi ero mai sentito così enormemente cretino prima di allora: cercavo con tutte le mie energie un modo per rimediare.

Braccai Remus all’uscita da una lezione e lo costrinsi letteralmente a starmi a sentire: gli spiegai quanto mi sentissi disgustoso e miserabile e quanto desiderassi rimediare al mio errore e dimostrargli di aver capito, in qualunque modo volesse, ero disposto a qualunque cosa. Mi sentivo talmente male che dopo l’ennesimo “mi dispiace, mi dispiace da morire” scoppiai in singhiozzi. Non te lo meritavi, ripetevo, non tu, che vali così tanto. Non sapevo più cosa dire, non avevo più tattiche o uscite ad effetto, perciò finii col dire semplicemente la verità: che lo consideravo il fratello che il destino non mi aveva consentito di avere e che mi detestavo, volevo poter tornare indietro e non fare quella sciocchezza enorme e crudele in cui mi ero gettato senza criterio.

Remus tentò di replicare che ormai erano inutili tante parole e che quel che era successo non si poteva… Cancellare, presumo volesse dire, ma non gliene lasciai il tempo: gli afferrai la mano con enfasi da invasato e strillai se davvero ritenesse che non tenessi a lui. Nell’enfasi appunto, aggiunsi che era vero, Severus aveva rischiato la vita, quella notte, faccia a faccia con un Licantropo; ma io lo facevo ogni mese, e con somma gioia.

Davvero, con somma gioia.

Remus dovette capire che ero sincero, perché quasi si commosse.

Mi chiese come poteva fidarsi di nuovo di me.

Risposi che doveva semplicemente farlo. Che mi concedesse una seconda occasione, e non l’avrei sprecata per nessuna ragione.

E l’ha fatto.

Se ci penso, ora, mi rendo conto che ci sono al mondo persone di una grandezza d’animo straordinaria, di una generosità innata e luminosa, capaci di cose grandissime celate in piccoli atti; e –lo urlerò finchè non te ne convincerai- Remus J. Lupin è una di queste.

Con James fu un altro paio di maniche.

La delusione lo stava divorando, e nemmeno il vedere che Remus dal canto suo sembrava propenso al perdono sembrò placare il suo animo ferito. Non serviva a niente aspettarlo dopo gli allenamenti o all’uscita da lezione, perché era bravo a scappare più di me a inseguirlo.

Una mattina, eravamo ai primi di dicembre, informò casualmente la camerata che aveva intenzione di tornare a casa per Natale. Compresi precisamente cosa questo sottintendesse, e agii d’impulso: mi viene da ridere adesso, ma la verità è che aspettai che fosse entrato nella doccia e mi chiusi in bagno con lui. Per poco non gli venne un colpo.

Si mise ad urlare e mi chiese cosa credevo di fare. Risposi, mentre lui si copriva con l’asciugamano, che nudo come un verme non poteva scappare molto lontano e che per uscire da quella porta mi doveva Schiantare.

Non c’era nulla di minimamente ambiguo o malizioso in quella scena; non feci nemmeno caso al fatto che James fosse nudo e che la situazione, ad occhi esterni, potesse sembrava per lo meno inconsueta. Volevo solo che non mi odiasse, perché mi risultava insopportabile.

Voglio che non mi odi; prego da tanti anni che il suo ultimo pensiero verso di me non sia stato di rabbia o di risentimento, che non mi abbia odiato per quello che è successo anche se ho tutte le colpe. Che sapesse che agivo nel suo interesse, che non avrei mai voluto che gli accadesse nulla di male e che sarei volentieri morto io al suo posto, quella notte. Una volta qualcuno ha detto che non esistono uomini perfetti, ma solo intenzioni perfette: e le mie lo erano. Erano pulite e generose, perché stavo davvero mettendo la sua vita, e quella della sua famiglia, molto prima della mia.

 Ma non voglio come al solito divagare.

James mi rispose che mi avrebbe volentieri Schiantato senza esitare, checchè ne pensassi, se avesse avuto la bacchetta a portata di mano.

Gli porsi la mia. Allora fallo, suggerii col cuore in gola. Se ti fa sentire meglio.

James, con cipiglio minaccioso, la afferrò e me la puntò contro: rimase fermo per qualche istante, determinato, ma dalla bacchetta non provenne nulla; la abbassò lentamente, chinando la testa, prima di restituirmela. Non ti voglio Schiantare, mormorò, e non mi farebbe sentire meglio.

Allora gli chiesi cosa lo avrebbe fatto sentire meglio. Che, qualunque cosa fosse, l’avrei fatta.

“Niente. Non c’è niente che tu possa fare” mi rispose, e ricordo che sembrava veramente sconsolato. Gli feci notare in un mormorio che mi sembrava assurdo che potesse voler davvero chiudere la nostra amicizia senza nemmeno fare un tentativo. Che avevo commesso un errore enorme e ne ero consapevole, e che avrei evitato che succedesse di nuovo. So che avevo veramente paura, perché la sua faccia restava rigida e piena di rammarico mentre continuavo a parlare, non riuscivo a vedere uno spiraglio e per la prima volta razionalmente mi trovavo faccia a faccia con l’ipotesi che fosse la fine.

Non è che la VOGLIA chiudere, obiettò James, stranamente pacato, Ma non vedo come potrei evitarlo. Secondo lui, aggiunse, quello che avevo fatto era indelebile.

Era serio, calmo; ricordo che mi sono sentito crollare il mondo addosso, la stessa sensazione di quando perdi l’equilibrio e cadi nel vuoto: poi ti svegli di soprassalto e ti accorgi che stavi dormendo, e io mi volevo svegliare.

Non ho veramente pianto: hanno cominciato a lacrimarmi gli occhi senza che facessi niente, stavo solo lì fermo e le lacrime correvano giù. Non era teatrale o drammatico dall’esterno, credo, ma dentro ero in tanti piccoli pezzi, e mi sembrava che fossero quelli a scapparmi fuori dagli occhi.

James si era seduto sulla tazza del water e stava lì a testa bassa. Mi chiese ancora una volta come avevo potuto, e io ho risposto non lo so, Merlino, e ho ripetuto ancora una volta la solita frase, il leitmotiv della mia vita: se solo potessi tornare indietro.

Tornare indietro e cambiare le cose, compiere scelte differenti, non chiedo altro. Anche qui, seduto davanti a questi fogli, voglio solo poter tornare indietro. Voglio un’altra seconda occasione, come quella che mi diede Remus tanti anni fa.

Ce la meriteremmo, James e io.

 Ma non puoi, Sirius. Non si può tornare indietro e cambiare le proprie azioni, anche se non si chiede altro, si può solo subirne le conseguenze, e a volte sono conseguenze immutabili. A volte quel che è rotto non si può aggiustare.

E’ ironico, in qualche maniera, che sia stato proprio James Potter a dirmi queste parole profetiche. Non poteva sapere quel che stava realmente dicendo, né potevo saperlo io, perché sarebbe successo anni dopo. Però sono queste parole, e la sua voce, che risento, quando di notte il materasso è scomodo e la stanza troppo vuota, quando non posso dormire.

Ma a volte sì, risposi in un sussurro, a volte si aggiusta, e funziona di nuovo.

Mi sono avvicinato e gli ho preso una mano. James l’ha guardata, stretta nella mia, e ha sorriso con tristezza.

E poi ha detto un’altra cosa che ricordo molto bene.

Non posso pensare che queste due mani non si stringeranno più.

Certe volte diceva cose, Jim, che ti lasciavano lì come un sasso.

E allora non farlo, ho risposto. E ora mi verrebbe da aggiungere, certe volte –quando sono sbronzo, in realtà- sei un bello stronzo, perché come faccio a stringerti la mano, adesso? Come vuoi che faccia, se te ne sei andato via dove non so raggiungerti? E’ facile dire una cosa del genere, ma se poi te ne vai via, e mi lasci qui come un pirla con un senso di colpa troppo immenso per poterlo gestire, come faccio io? Come cazzo faccio?

Che poi è la stessa cosa che mi ha chiesto lui in quel momento: come faccio?

E io ho detto non so, magari puoi ricordarti che sei la persona più importante della mia vita. Non ti tradirò mai più, James, te lo prometto.

E a dispetto di quel che dice e pensa l’Inghilterra intera, io quella promessa l’ho mantenuta: non ho mai tradito James. Possono anche darmi dell’assassino e del mostro, ma io so che l’ho mantenuta, e lo sapeva James, e lo sa Harry e lo sai tu, Remus. Ed è questo l’importante.

Ok, mi ha detto lui con gli occhi rossi.

E un’altra volta cadevamo in piedi.

Il resto del nostro sesto anno di scuola è stato una corsa folle nell’allegria più sfrenata. Dicembre fu consacrato interamente alla Mappa del Malandrino, come l’avevamo battezzata; Remus, l’unico in grado di farlo, si dedicò all’incantarla, secondo i criteri che stabilimmo: tutta la storia del giuramento solenne per farla comparire, e le rispostacce che arrivavano se cercavi di costringerla a rivelarsi in qualche altro modo. Non ho mai capito bene su quale principio funzioni quell’incantesimo, ma è fenomenale; a volte ci mettevamo noi stessi a cercare di imbrogliarla, solo per ridere delle cattiverie che “noi stessi” ci rispondevamo: ed erano assolutamente in linea con le nostre personalità.

James ebbe l’idea di fare in modo che anche le presenze umane venissero segnalate dalla mappa: così avremmo saputo sempre dove non ci conveniva andare, o dove trovarci tra noi. E, miracolo, Remus riuscì a fare anche questo; mentre lui lavorava duro tra formule e carteggi, io, James e Peter terminavamo gli ultimi giri di esplorazione, per verificare di non aver trascurato nulla. Con questo non voglio dire che siamo arrivati a conoscere TUTTI i segreti del Castello, perché sarebbe impossibile: già solo la Camera dei Segreti era chiaramente al di là della nostra portata, come Tom Riddle e Harry ci hanno dimostrato. Per quanto riguardava la Foresta, poi, ci basammo sulle conoscenze acquisite durante le nostre trasformazioni in Animagi. Ma non erano molto vaste, anche perché nemmeno per un cane o un cervo era prudente avventurarsi nei suoi meandri. E quando ci andavamo con Remus il Lupo, avevamo già il nostro daffare a tenerlo d’occhio, non ci restava il tempo di andare a vedere cosa ci fosse più in là e trovare la posizione esatta sulla carta.

Nelle vacanze di Natale ci dedicammo a questo esclusivamente. Per tutto il mese di gennaio continuammo a darci sotto, dovevamo anche aiutare Remus a riordinare tutti gli appunti nel Quaderno per trasferirli sulla mappa senza dimenticare qualche pezzo. E finalmente, dopo anni di lavoro, il 18 febbraio la Mappa del Malandrino venne inaugurata ufficialmente con una bevuta storica e una corsa folle per tutto il Castello, un’intera notte di pazzie. Avevamo fatto anche più in fretta del previsto, perché in quei mesi eravamo andati avanti senza soste.

La cosa tra l’altro ci fece bene: quando ci rilassammo e tornammo alla realtà, erano passati già più di due mesi dalla notte di Severus alla Stamberga, senza quasi che ce ne fossimo accorti. Le settimane si erano accumulate e avevano mitigato un po’ il ricordo, pur sempre vivido, di quel momento vergognoso della mia esistenza. E poi eravamo così fieri di noi, voglio dire di noi quattro insieme, di quel che costituivamo, che non aveva senso rimuginarci su.

Adesso avevamo una padronanza pressoché assoluta del microcosmo in cui vivevamo, Hogwarts. Quasi non ci ricordavamo più che c’era un mondo immenso, fuori, su cui non avremmo mai potuto avere quella supremazia; e in quel mondo tirava un vento di guerra del quale ci arrivava solo qualche alito leggero. Albus dispiegava il suo mantello per proteggere il suo piccolo stato con la sola possanza della sua sovrumana autorevolezza.

James si fece più pressante con Lily, e lei sempre più ritrosa; ma ora che ci penso qualcosa cominciava a cambiare già allora. Di sicuro io ero sempre più infastidito e sia io che Remus notammo che ogni tanto lei lo guardava.

Io continuavo a farmi corteggiare da qualunque ragazza mi capitasse a tiro e a fare lo splendido, bello, ribelle e impossibile: adoravo quella parte e ci giocavo su ogni volta che ne avevo l’occasione, anche perché James rideva fino ad avere mal di pancia di quei miei siparietti da divo.

Una notte Remus ci sfuggì, durante la trasformazione, proprio nei pressi di Hogsmeade: lo fermai appena in tempo prima che aggredisse un paesano ignaro che rientrava a casa a tarda notte. In qualche modo mi sembrò di aver ripagato la faccenda di Severus. Ma ne ridemmo su tutti, anche lui: non ci rendevamo conto dei potenziali pericoli, era tutto un gioco per noi, gli onnipotenti Malandini. Il guaio fu che conservammo questa stessa prospettiva sul mondo anche dopo, nella vita “vera” fuori dalla scuola. Forse abbiamo preso sottogamba Voldemort e il pericolo che rappresentava, proprio per questo.

Così, sempre più uniti, sempre più adulti e sempre più sicuri di noi, ci avvicinavamo alla fine del gioco senza saperlo. Io e James prendemmo a dedicare un po’ più tempo al nostro esclusivo rapporto, che ormai non era più solo quello di compagni di scuola, ma di amici veri, totali, a centottanta gradi, e che avrebbe avuto un ulteriore balzo avanti quell’estate, quando ci trovammo a vivere insieme fuori da Hogwarts: l’estate del mio sesto anno, quella in cui, inaspettatamente anche per me, visto che non l’avevo certo progettato, presi la decisione che avrebbe cambiato la mia vita e mi schierai definitivamente dal lato opposto a quello cui avrei dovuto appartenere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

X sourcream: Mi manchi molto. Spero che questo ti faccia piacere e he presto o tardi ci ritroveremo da qualche parte. Nel frattezmpo sono svenuta e i fasci hanno vinto qui in Francia. Che palle. Lo so, bbiamo la stessa visione e siccome non simo due qulunque ma io e te abbimo ragione di sicuro. Hai visto che pochi errori c’erano nel cpitolo scorso? Questo non l’ho controllato benissimo, cioè l’ho riletto più volte ma tu sai i miei problemi di distrazione –oltre a tutti gli altri che ho nella testa. A presto, gioia strisciante.

X Mixky: Graazieeee... Arriva fin li’ il suono delle mie fusa soddisfatte? Sono contenta che ti piaccia nonostnte la temtica, ed è vero che ci sono molti richiami, è inevitabile: ho una visione prechio precisa dei marauders ormai e per qunto si approfondisa sempre, certi tratti sono quelli.

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Capitolo 10
*** Settimo anno ***


Settimo anno

Sì, lo so, sono quasi sorpresa anche io, che sapevo benissimo di stare pubblicando.

Dopo soli nove mesi dall’ultimo aggiornamento, ecco a voi un nuovo capitolo di questa storia… Credevate fosse stata abbandonata? Invece no. Mai lo sarà, per vostra sfortuna.

E’ che le cose vanno fatte con calma.

- meritatissima pioggia di pomodori marci –

Ahm. Immagino che non ricordiate nemmeno più di che parla.

Di scemenze, ovviamente.

Lascio al signor Black l’onore di esplicare il concetto.

A presto

suni

 

 

Settimo anno

 

 

 

So che stavo cenando. Per una volta mi avevano concesso di sedere a tavola con loro – e costretto, perché non è che ci tenessi particolarmente - perché era il compleanno di mio padre. A pranzo era venuta tutta la famiglia allargata, gente come Lucius Malfoy, per capirci, e l’unica che mancava era la reietta di famiglia, mia cugina Andromeda, quella che ufficialmente non era mai esistita. Provai un moto d’invidia per lei: quei pranzi agghiaccianti non erano più un problema che la riguardasse, dal momento che non era più un membro della nostra famiglia; mi dissi, vago, che dovevo fare anche io qualcosa del genere.

La cosa strana è che non avevo ancora disfatto i bagagli. Non è che fosse poi così strano, in effetti, perché già da un paio d’anni tiravo fuori dal baule sempre e solo il minimo indispensabile; insomma, quella non la sentivo più come casa mia, ero una specie di ospite scomodo di cui meno si notava la presenza meglio era, per me e per loro. E d’altra parte ero arrivato solo da dieci giorni.

Comunque stavamo mangiando, tutti in silenzio fuorché Regulus, immerso nel narrare un resoconto dettagliato dei suoi GUFO. Orion lo ascoltava attentamente, con cipiglio serio e fiero. Nei ricordi di mio padre che conservo, lui ha sempre la stessa espressione facciale, un blocco di marmo regale e austero.

E’ un po’ triste che non mi dispiaccia e non mi sia mai dispiaciuto nemmeno un po’ che sia morto, visto che era comunque mio padre; quando venne a mancare Arnold Potter ne facemmo tutti quanti una malattia, e per Jim ovviamente fu un colpo mostruoso.

Comunque, fu in quel momento che Walburga si disse molto felice perché “almeno tu, Regulus, ci dai delle soddisfazioni”.

Ero abituato a quel genere di commenti e di solito mi entravano da un orecchio per volare subito fuori dall’altro, non ci badavo. Quella volta, forse perché la giornata coi parenti era stata uno stress, osservai che anche i miei GUFO erano stati buoni. Orion mi ordinò di non rispondere a sua moglie con quel tono – a sua moglie, non a mia madre - anche se avevo parlato con molta calma, a quel che ricordo. Lei era già partita, comunque, e iniziò una lunga invettiva contro di me, le mie idee da debosciato disgustoso, i miei amici schifosi, perdenti e inferiori, le mie maniere da bifolco, la mia comunanza con creature infime e tutto il resto. Mi sforzai disperatamente di non reagire finchè lei, in uno sbotto d’ira di quelli che la contraddistinguevano quando non era in pubblico, mi mollò un sonoro ceffone. Ero decisamente più alto di lei, non subivo già da tempo la minima autorità da parte su, e quel gesto era decisamente al di là di quanto potesse ancora permettersi nei miei confronti.

A volte apri un rubinetto e dimentichi di chiuderlo: l’acqua continua a scendere, e dapprima scorre normalmente giù per il tubo; poi, lentamente, comincia a fermarsi nel lavandino, e il livello sale lentamente, si avvicina sempre di più all’orlo, cresce, cresce, finchè ad un certo momento, all’improvviso, senza che succeda nulla di diverso o di imprevisto, supera il limite e straborda semplicemente fuori: accade, tutto qui, è solo perchè se n’è accumulata troppa. E in quello stesso modo, senza ragioni particolari, in quel momento mi sentii troppo pieno, seppi che il limite era oltrepassato e che non potevo contenere di più: ero saturo.

Un’ora dopo io, il mio mantello e il mio baule preparato approssimativamente eravamo fermi lungo Carver Street, a circa un chilometro e mezzo da Grimmauld Place: mi ero accasciato un attimo su una panchina, stanco della corsa, e tutt’a un tratto mi resi conto di quanto la luce fosse particolarmente vivida quella sera, il grigio dei palazzi più brillante e i quattro cespugli striminziti che mi affiancavano molto profumati. Stavo assaporando la sensazione più esaltante della mia vita, la libertà.

Era qualcosa di straordinario, che durò giusto il tempo che decidessi di voler condividere quel meraviglioso momento con James: realizzai che ero solo, in una città che di fatto non conoscevo, con dieci galeoni e sei falci e che non sarei mai stato in grado di usare la magia senza farmi vedere, così sarei stato subito localizzato. E non avevo neanche un posto in cui dormire.

Da questo episodio, tra parentesi, è nata l’idea di trovare un modo di poter sempre comunicare tra noi, da cui poi ebbero origine gli Specchi Magici.

La situazione mi sembrò improvvisamente molto meno rosea di quel che avevo pensato all’inizio: non potevo pagarmi una stanza né tanto meno arrivare in Galles, dove peraltro non volevo certo affibbiarmi come un peso a James. E comunque come avrei fatto a sopravvivere fino a settembre? E perché accidenti ero scappato di casa in quel modo teatrale invece che passando per il camino e dirigendomi magari almeno in un posto magico, dove trovare gente che facesse parte del mio mondo? Perché di quello Babbano allora non sapevo assolutamente nulla: gli unici posti in cui mi ero mosso erano stati Hogwarts – un castello magico, molto poco babbano - e casa Black - e lì di babbano non c’era neanche l’odore.

E fu allora che ebbi quella sfortunata idea.

Sanno tutti cosa penso dei mezzi di trasporto trattati con la magia, insomma, adoravo la mia moto volante e trovo fosse di una comodità immensa, belle cose e tutto il resto: ma quella di viaggiare sul Nottetempo è un’esperienza che non ho mai voluto ripetere. Sarà stata l’eccitazione della serata o – più probabilmente, secondo me - la guida folle di quell’autista pazzo, ma nemmeno nelle mie peggiori ubriacature ho mai vomitato così. Perciò arrivai da James reduce dalla baruffa coi Black, preoccupato e per di più pallido come un cadavere, pieno di sudori freddi.

Non capivo nemmeno più perché avevo voluto fare tutta quella strada per venire a farmi felicitare da James di qualcosa che cominciava a sembrarmi più che altro una difficoltà.

E lui naturalmente fu magnifico. Mi accolse a braccia aperte e m’impose di fermarmi qualche giorno, mi presentò i suoi genitori, due creature deliziose e di una discrezione straordinaria che capirono la situazione senza bisogno di spiegarla, e per finire si fece raccontare tutto dal principio: ci accovacciammo sul suo letto davanti alle due tazze di cioccolata che sua madre, cara Mirtle, ci aveva preparato, e andammo avanti a parlare finchè, alle sette e mezza del mattino, crollammo come sacchi uno addosso all’altro.

Ho dormito in quel letto per tutta l’estate, credo d’averlo già detto. C’erano altre stanze e persino una poltrona allungabile lì di fianco al letto di Jim, ma né l’une né l’altra hanno mai avuto il piacere di ospitarmi. Lui non me l’ha mai proposto e io non l’ho mai chiesto. Non che fosse voluto, ovviamente, certo che no. Semplicemente non ne sentivamo l’esigenza, non mi venne neanche in mente. Un po’ strano, per due mesi consecutivi.

Quell’estate non la saprei raccontare. La terza sera Arnold mi prese da parte e mi spiegò con decisione che lui e la moglie ne avevano parlato e avevano deciso che la cosa migliore era che restassi da loro fino al momento di tornare ad Hogwarts. E che se proprio volevo sdebitarmi, precisò impedendomi di protestare, avrei potuto dare una mano con la cascina e rendermi utile. E queste persone splendide facevano questo per me, un ragazzetto che conoscevano da pochi giorni, senza quasi darci peso.

Del resto mi presero subito in simpatia, e senza che facessi nulla di particolare – ero solo un po’ più civile del solito - e la cosa mi sembrava incredibile: i soli adulti con cui avevo avuto a che fare erano, impersonalmente, i professori, o altrimenti i miei parenti che mi odiavano. Era strano che non mi trovassero spiacevole, persino. Comunque mi appariva grandioso, e sembravo davvero piacergli; del resto James era così visibilmente contento della mia presenza lì e così genuinamente certo che loro non potessero che trovarmi fantastico, così orgoglioso in qualche modo di me, e anche di loro, insomma, era tutto un sorriso, tutto un raccontare loro le migliori cose su di me e a me su di loro, ecco, era quasi commovente.

Sì, me lo ricordo. Mi fa ridere, e in qualche modo lo trovo immodesto e sbagliato, ma quel che penso ogni volta è: che tenerezza, doveva essere così innamorato… Perché non si spiega altrimenti quella perenne ansia di spingerci l’uno verso gli altri, quel continuo cercare di mostrare loro i miei aspetti migliori.

Aiutavo Arnold con l’orto e col campo, e Mirtle con le sue marmellate. Tutto il resto del tempo io e James lo trascorrevamo facendo qualunque cosa ci passasse per la testa con una certa emozione. Era strano trovarci insieme nel mondo di fuori, ci faceva sentire in qualche modo ancor più vicini perché più reali. Niente divise, compiti e libri, ma quotidianità autentica; uscivamo e andavamo fino in paese a fare la spesa – le prime volte mi limitai a guardare, non sapendo che cosa bisognasse fare - o a prenderci dei dolci solo per il gusto di fare qualcosa di normale, da adulti che non vanno più a scuola. Scoprimmo che non ci conoscevamo ancora perfettamente come avevamo creduto: c’erano ambiti nei quali non c’eravamo mai confrontati, cose di cui ricordavamo l’esistenza soltanto allora – come ci piaceva tenere la camera a casa, cosa sapevamo fare a parte le cose scolastiche, simili questioni - che affrontavamo per la prima volta.

E così gli ultimi pezzi del mosaico andarono al loro posto. Adesso il quadro era completo, e con un’armonia assoluta: a settembre non c’era più niente di oscuro, nessun aspetto mancante, avevamo trascorso l’estate a raccontarci tutte le piccole cose che non conoscevamo l’uno dell’altro, ogni pensiero, tutto. E niente era stato oggetto di screzi o delusioni. Ci piacevano anche i modi in cui eravamo diversi, e questa forse era la cosa più importante; il nostro appoggio era incondizionato.

La grande sorpresa dell’estate, comunque, fu che Jim salì sull’Espresso con il rango di Caposcuola.

Una delle tante stronzate che Albus ha fatto nella sua lunga esistenza.

Sono onesto e non mi piace mentire, e James è stato in assoluto il peggior Caposcuola in cui mi sia mai imbattuto: approssimativo, menefreghista, distratto. Non teneva dietro alle cose nemmeno sforzandosi e comunque non gli interessava, l’unica cosa positiva era, a sentir lui, che con ogni probabilità l’altra Caposcuola sarebbe stata Lily.

Per me questo particolare costituiva un’ulteriore difetto della cosa: non ci vedevo nulla di buono in quella nomina, delle stupide riunioni e incombenze mi avrebbero sottratto il tempo di Jim consacrandolo a quella smorfiosa, per non parlare della catastrofica ipotesi in cui le di lei pressioni e le responsabilità dell’incarico non gli facessero venire in mente di dare il buon esempio e rigare dritto. Sarebbe stata la fine del divertimento, ci saremmo allontanati e sarei rimasto solo.

Mi giustificavo dicendomi che era solo per le occasioni di spasso mancate che ero un po’ geloso di James, non certo perché desiderassi che quel tempo venisse dedicato a “noi due”: nelle nostre teste non esisteva nulla del genere, allora.

Comunque Jim a rigare dritto non ci pensava nemmeno. Ancora una volta mi ero sbagliato, ancora una volta la mia inconscia insicurezza non riconosciuta veniva smentita senza neanche essere espressa: quel che tendevo a dimenticare era che non solo James era importante per me, ma anche viceversa. Ci siamo rincorsi per tutta la vita che abbiamo diviso, senza capirlo.

Però il peggio, all’inizio di dicembre, si verificò. Lily capitolò in un momento di debolezza che non mi spiegherò mai. Probabilmente è stato semplicemente perché, trovandosi a stretto contatto con lei per più tempo, James si dovrà essere un po’ rilassato e avrà smesso di fare continuamente lo spaccone, rivelando tutte le meravigliose qualità che io e Remus conoscevamo tanto bene: e Lily avrà avuto modo di apprezzarle. In realtà non ho mai voluto sapere bene com’è andata, perché non era esattamente il mio argomento di conversazione preferito. Sta di fatto che un pomeriggio due ragazzi del Quinto anno, un Grifondoro che si chiamava Thomas qualcosa, mi pare, e un Serpeverde di cui non ho mai saputo il nome, scatenarono una specie di rissa in cui alla fine risultarono coinvolte sette o otto persone: è stata anche l’unica volta in cui James ha adempito onorevolmente al suo incarico di Caposcuola. Sfoderò un’inaspettata autoritarietà e in capo a qualche minuto la situazione era sotto controllo, e lui era intento a confortare il ragazzetto Mezzosangue insultato che stava all’origine del litigio.

Lily dovette sciogliersi, perché due giorni dopo gli concesse il loro primo appuntamento, fissato ad Hogsmeade nel weekend.

Io me la ridevo. Non avevo il minimo dubbio che l’uscita sarebbe stata un disastro e che la Evans avrebbe strangolato James, scaricandolo in malo modo. Sì, non avrei mai ammesso che quella sola uscita di per sé fosse sufficiente ad innervosirmi – e lo era, garantito - e che in realtà la leggera ansia che sentivo non fosse dovuta al fatto che mi preparavo a consolare il ferito al momento delle picche, come mi ripetevo, ma al fatto che non riuscivo a digerire che James fosse finalmente riuscito ad uscire con la ragazza cui faceva il filo da secoli.

Comunque, passai la giornata in giro per negozi con Remus e Peter, facendo incetta di scherzi e sostando ai Tre Manici. In realtà però non c’ero con la testa, la mia mente era persa nell’immaginare l’incontro che stava avvenendo in quelle ore. E che non si concluse affatto con lo strangolamento di James, come venni a sapere al rientro al Castello, ma anzi era andato molto bene. Jim era euforico e sognante, con gli occhi brillanti e il sorriso assente, io invece ero una specie di Marciotto incarognito e stizzito, piombato nel semi-mutismo.

E poi si misero insieme, così.

Dapprincipio fui molto sgradevole. Se prima ogni rimprovero, ogni commento e anche ogni semplice sguardo riprovatorio di Lily m’irritava al punto da costringermi a reagire in modo inconsulto, con repliche perfide e commenti maligni, adesso ero io a provocarla apertamente, ad attaccare rogna. Questa cosa, in teoria, avrebbe potuto costarmi cara: mi mettevo completamente dalla parte del torto e James avrebbe avuto tutti i buoni motivi del mondo per arrabbiarsi con me, per offendersi del mio atteggiamento insultante verso la ragazza che amava, o che riteneva di amare.

Ma non lo fece.

Non ho mai capito questa cosa, forse non ci ho mai nemmeno pensato davvero.

Quel che James fece, al principio, fu sopportare in silenzio le mie uscite aggressive e il mio malumore epico. Protestava blandamente quando mi rivolgevo a Lily in malo modo, con un sospiro esasperato e uno sguardo vagamente risentito, ma non fu secco né si arrabbiò davvero.

Lily invece era furiosa.

Io anche.

Per qualche settimana Jim fu assolutamente assorbito dalla presenza di lei. Era un piacere per gli occhi vedere quella coppietta di adolescenti ammaliati l’uno dall’altra, che tubavano come colombe e passavano venti ore al giorno mano nella mano; un piacere per gli occhi, ma non per i miei.

In quel primo periodo, James sembrò quasi dimenticarsi di noi. Ci regalava qualche frase distratta quando ci alzavamo, prima di scendere in sala comune e ricongiungersi all’amata, o alla sera dopo averla salutata. Presero a sedersi vicini durante le lezioni, decisione che scatenò definitivamente la mia collera. Ti ricordi, Remus, la sfuriata che ti ho fatto nella discrezione del dormitorio vuoto?

Mi rifacevo con i miei commenti velenosi, che accendevano un diffuso rossore sulle guance di Lily, ma era una ben magra consolazione. Lei ovviamente protestava vivamente con James, lamentando la mia cattiveria, ma lui si aggrappava a deboli giustificazioni o minimizzava episodi che oggi mi fanno quasi arrossire di vergogna. Una sera arrivai ad insultarla sibilando che era una vacca Mezzosangue, e fu una fortuna che James non fosse presente, perché forse se la sarebbe presa davvero. Quando lei glielo raccontò, poco dopo, James mi venne a cercare e probabilmente ne sarebbe nato un litigio coi controfiocchi, ma per mia fortuna non mi trovò in dormitorio: si era dimenticato della luna piena, e io, Peter e Remus eravamo già alla Stamberga da un pezzo.

Quella dimenticanza, mai verificatasi prima, lo portò a realizzare che forse stava trascurando troppo altre cose importanti che non fossero Lily.

Lo trovai seduto sul mio letto, al mattino, quando rientrammo. Peter crollò sul proprio materasso immediatamente, mentre io mi accoccolavo cautamente accanto al mio migliore amico, certo che volesse Cruciarmi per le cose che avevo detto la sera prima alla “vipera”. Ero anche infuriato, comunque, perché si era dimenticato della nottata alla Stamberga: era un insulto all’onore dei Malandrini, cosa che all’epoca, per noi, equivaleva più o meno all’omicidio.

Lily mi ha riferito quello che le hai detto, mormorò, non appena il respiro del nostro amico si fu fatto pesante. Io borbottai una risposta noncurante, qualcosa come “e allora?”

Non mi sentivo più così tranquillo. Ero convinto che James fosse infuriato a morte e avevo paura che avremmo finito per litigare davvero, come quando avevo fatto lo Scherzo a Snivellus.

Invece James saltò fuori con un discorso assurdo sul fatto che avevo tutte le ragioni per essere incattivito, che ci aveva trascurati troppo e se ne rendeva conto solo ora e che aveva sbagliato a farlo. Non era giusto, disse, che una ragazza bastasse ad allontanarci. Potevo, per favore, dimenticare quel suo imbarazzante atteggiamento nei miei confronti?

Ero incredulo.

Ci rimasi così basito che non riuscii nemmeno a formulare una qualche risposta intellettualmente astuta, atta ad aumentare il suo senso di colpa nel tentativo di allontanarlo da lei. Farfugliai soltanto che no, aveva tutto il diritto di vedere tutte le ragazze che voleva. Lo pensavo davvero, razionalmente, anche se la cosa che mi divorava lo stomaco diceva il contrario, ma a quell’epoca non avevo le minima intenzione di darle retta.

James scrollò la testa. Non se questo si mette tra noi due, rispose, serio.

Così.

Ti diceva questo genere di cose e tu potevi solo rimanere lì a guardarlo a bocca aperta, e a chiederti se fosse proprio vero o se te lo stavi solo immaginando.

Ma non mi piace come ti stai comportando, aggiunse. Lily non ti ha fatto niente.

A parte scocciare tutti noi per sei anni ogni volta che facevamo qualcosa che non le andava, avrei potuto rispondergli, ma non mi venne in mente. Mi vergognavo, in quel momento. Ero di nuovo stato eccessivo e scorretto quando invece lui, come sempre, conservava per me un affetto sacro e intoccabile. Finii per scusarmi sentitamente e rassicurarlo che non sarebbe più successo.

Smisi di tormentare Lily, in effetti. Almeno apertamente, perché la sua presenza mi indispettiva comunque così tanto che non potevo fare a meno di cercare di metterle i bastoni tra le ruote; ero sempre pronto ad inventare passatempi cui lei non potesse partecipare e a far notare indirettamente che comunque la sua presenza mi era sgradita. E James faceva finta di non vederlo.

Credo che inconsciamente sapesse che prendere atto di quella cosa avrebbe significato doversi mettere di fronte a prese di posizione dure. Ma James, questo ormai lo sapevo, non poteva fare a meno di me. E non voleva fare a meno di Lily.

Ed è proprio qui che sta la differenza: James VOLEVA amare Lily, ma ero io, non lei, la persona da cui non era capace di separarsi. Tutto qui. Lei poteva essere ostile verso di me quanto voleva, poteva screditarmi e lamentarsi di quanto lo facessi apposta a cercare di tenerli separati, protestare per la mia possessività nei confronti di James, per il fatto che ci fossero così tante cose che gli proibivo di raccontarle – e lui, nonostante la sua insistenza, non gliele raccontava davvero – o perché ero scorretto nei suoi confronti: James, irremovibile, aveva sempre una scusa da fornire per giustificarmi.

Al principio, Lily doveva essere convinta che sarebbe riuscita ad allontanarmi un po’ da lui e diminuire la mia influenza sul suo ragazzo, ma dovette arrendersi presto all’evidenza: non ci sarebbe riuscita. Dopo un paio di feroci discussioni in cui gli rinfacciò la debolezza nei miei confronti e alcune sfuriate clamorose, dovette rendersi conto che James comunque non si sarebbe staccato da me ed era quindi inutile litigare per questo. Cercò di essere più sottile, di portare allo scoperto le mie bassezze, ma quanto a sotterfugi e tranelli ero decisamente un osso troppo duro per lei. Quando sbatté definitivamente il naso contro l’evidenza del mio predominio, doveva essere già troppo innamorata di James per poter anche solo pensare di separarsene.

Il tempo che trascorrevamo insieme, comunque, era diminuito molto: stavo con Remus e Peter, ma loro avevano quella fastidiosa abitudine di studiare che a me non aggradava affatto: Remus studiava molto per inclinazione, Peter per cercare di rimediare alla scarsa capacità di apprendimento. James e io, invece, eravamo quel tipo di persone che imparano rapidamente e senza sforzi, e siccome studiare non ci piaceva, lo facevamo il meno possibile. C’era un’altra persona, al nostro anno, dotata di un’intelligenza altrettanto pronta, ed era Frank. Trascorsi molto più tempo con lui rispetto a prima, nella parte finale di quel settimo anno.

Non che i Malandrini agonizzassero o cose simili, stavamo semplicemente crescendo ed ognuno iniziava ad avere le proprie esigenze. Quand’eravamo insieme eravamo gli stessi di sempre, e tra noi si conservava quell’intesa magica e profonda che ci faceva scoppiare a ridere in coro senza la necessità che qualcuno esprimesse ad alta voce cosa fosse all’origine di tale ilarità. Non c’erano ancora spie, traditori o vittime.

Verso la fine dell’anno, James mi prese da parte un’altra volta. Era nervoso, impacciato; sapevo capirlo al volo e la sua faccia non aveva segreti per me.

Stiamo per finire la scuola, allora, mi disse.

Eh già, commentai, perplesso.

Non ce la faceva proprio a prendere le cose alla larga. Iniziò ad investirmi di parole spiegandomi che aveva intenzione di andare a vivere con Lily e sposarla prima possibile. E la cosa assurda di cui mi rendo conto ora, la cosa che mi fa quasi ridere e piangere insieme, è che ricordo perfettamente l’espressione colpevole che aveva in faccia e il lungo elenco di giustificazioni che mi fornì. Quasi come se dovesse scusarsi, spiegarmi un gesto scorretto e sbagliato che compiva con la consapevolezza della sua basilare erroneità.

La notizia non poteva proprio rallegrarmi, e non lo mascherai più di tanto, ma la cosa sembrò solo sprofondarlo nel panico.

Merlino, che tenerezza, James. Ero troppo, troppo giovane per capire quanto mi volevi bene, e lo eri anche tu. Ero consapevole di piacere alle ragazze perché ero bello, accattivante e facevo parlare di me, e non sapevo riconoscere la profondità dell’amore autentico, quello che non ha bisogno di esteriorità e vanti. Allo stesso modo, scambiavo – e scambiavi - la tua infatuazione adolescenziale per la bella Caposcuola dai capelli rossi, contesa tra tanti, per un sentimento profondo, e non vedevo che quello, invece, senza saperlo lo riservavi a me.

Forse quel giorno avrei dovuto dire che era troppo giovane per pensare a sposarsi, cosa che tra l’altro pensai, oggettivamente e al di là della gelosia. Forse così avremmo avuto tempo per capire, tutti e due.

Mi inteneriva quasi il modo in cui cercava sempre la mia approvazione. E ho sempre, sempre avuto bisogno di fornirgliela, come l’appoggio che mi chiedeva inconsciamente o il sostegno di fronte a qualunque problema. Quando si scopriva fragile, James si volgeva a me, e viceversa. E io, puntualmente accorrevo.

Così, balbettante com’era, aggiunse che, ecco, aveva bisogno di sapere che comunque ci sarei stato. Lì per lì la presi per un’offesa, mi sentii quasi insultato: ne avevamo parlato poco tempo prima, gli ricordai, nessuna ragazza sarebbe bastata a dividerci. La presi per una infamante messa in discussione della mia lealtà al nostro legame, ma adesso so che, senza saperlo nemmeno lui, James stava mettendo a nudo la realtà dei fatti: tra me e lei, a dover scegliere, contavo di più io.

Non se ne accorse nessuno dei due e, giunti alla conferma del fatto che ancora una volta niente e nessuno poteva spezzare l’intesa tra noi, ci separammo allegri e leggeri come i due ingenui deficienti che siamo sempre stati.

Ho tralasciato un evento, occorso nel mese di marzo: il mio buon vecchio zio Alphard, che era stato l’unico della famiglia a non fingere di aver rimosso la mia esistenza dai propri ricordi, morì in quel mese. Mi lasciò in eredità una somma sufficiente a garantirmi la serenità economica per un numero di anni tale da non dover pensare a mantenermi forse fino alla morte. Il gesto mi lasciò di stucco e ricordo che piansi calde lacrime per quell’ometto stravagante a cui non avevo mai dimostrato a fondo la mia riconoscenza, svagato e involontariamente ingrato come sono i ragazzi. Mi dispiacevo di non aver avuto più gesti affettuosi verso di lui, di non aver mai lasciato trasparire quanta gratitudine gli portavo ogni volta che mi aiutava, ai tempi in cui vivevo ancora con i Black. Ora purtroppo non potevo più farlo, e questa consapevolezza mi scatenava sentiti singhiozzi.

James sembrò capire al volto il mio stato d’animo, e ovviamente mi ripeté fino allo sfinimento, senza che avessi bisogno di spiegargli cosa mi scombussolasse tanto, che di certo lo zio sapeva quanto gli avevo voluto bene, e che da lì dov’era sentiva tutta la mia gratitudine. Aveva capito cosa provavo senza che glielo spiegassi, come sempre.

L’anno finì, troppo in fretta. Le ultime due settimane furono assurde: ci rendemmo conto tutt’a un tratto che di lì a pochi giorni avremmo lasciato Hogwarts per non fare ritorno; la nostra vita meravigliosa, l’esistenza perfetta che ci eravamo costruiti e che ci riempiva di una gioia inesplicabile, stava per finire. Le cose sarebbero cambiate, non avremmo più trascorso giorno e notte insieme, non avremmo più percorso quei corridoi, quelle scale, quei saloni. Non avremmo più visto il soffitto meraviglioso della Sala Grande, le armature nel corridoio, le scale magiche.

L’ultimo giorno di lezione della McGranitt, cui mi legava un rapporto estremamente conflittuale – adoravo la sua materia, la consideravo un’insegnante eccelsa, ma detestavo la sua severità, e lei allo stesso modo aveva un debole per il mio talento e la mia prontezza, ma non sopportava il mio atteggiamento da bastian contrario – mi trattenni in aula per un paio di minuti dopo il termine dell’ora, fingendo di avere problemi col mio calamaio. In quell’aula mi ero annoiato moltissimo, a volte – in altre occasioni, invece, avevo adorato le sue lezioni – ma ora andarmene e pensare di non sentire mai più le spiegazioni della professoressa mi sembrava assurdo e ingiusto, perché non lo sceglievo io.

Minerva sollevò lo sguardo dal registro e lo spostò su di me, con un’occhiata stranamente benevola.

“Tutto a posto, Black?” mi chiese.

E’ imbarazzante – non te l’ho mai detto, Remus, se no mi avresti schernito a vita – ma quello che feci, in quel momento, fu sollevare gli occhi su di lei e scoppiare in lacrime come un bambino. Rimase esterrefatta, a bocca aperta, senza riuscire a muoversi per qualche secondo. Poi mi venne vicino, preoccupata, chiedendomi se fosse successo qualcosa. Potei solo scrollare la testa, continuando a piangere disperatamente. Lei allora intuì cosa mi turbasse, perché il suo sorriso si fece commosso e gli occhi le si arrossarono.

“Insegnare ad uno studente così portato non capita spesso, Black. Sei una testa calda e un irresponsabile, ma di certo ad averti in classe non mi sono annoiata,” affermò, con voce un po’ tremante. Dovetti scappare dall’aula per evitare di mettermi a urlare.

James fece di peggio. Una delle ultime sere, ad una commento malinconico di Nick quasi-senza-testa sulla nostra imminente partenza, e complice qualche sorso di mirtograppa di troppo, scoppiò a piangere nel corridoio tentando ripetutamente, ma ovviamente invano, di abbracciare il fantasma. La cosa ci fece ridere fin quasi a vomitare, ma era anche orribilmente triste.

Insomma, a pochi giorni dagli esami persino Remus smise di studiare. James spiegò a Lily che era doveroso, da parte sua, dedicarci quegli ultimi momenti, e per una settimana non facemmo che scorrazzare da un angolo all’altro di quel luogo meraviglioso con gli occhi umidi, commuovendoci per ogni ricordo che ci legava a tutti i suoi anfratti, le serre, l’orto di Hagrid, la torre di Astronomia, le cucine, la Stanza delle Necessità. Ripercorrevamo quei sette anni di vita splendenti e osservavamo e toccavamo ogni cosa con una dolcezza e un affetto struggenti.

Amavo Hogwarts, la amavamo tutti e quattro.

L’ultima notte alla Stamberga fu esilarante e straziante, e al mattino ci guardammo in faccia e ci concedemmo una frignata comunitaria.

E poi era finita.

Salire sul treno faceva male, davvero.

Remus sarebbe tornato da sua madre, e anche Peter. James avrebbe trascorso qualche settimana dai suoi, così come Lily, mentre avrebbero cercato casa insieme. E anche io dovevo trovarmi un alloggio, così, nel frattempo, sarei tornato a casa Potter con lui.

Ma c’era un’altra cosa che ci preoccupò appena messo piede sul treno: sapevamo cosa stava succedendo nel mondo di fuori, perché il vento freddo e crudele che tirava nella realtà aveva portato qualche alito leggero fino al Castello, dove durante l’anno si erano moltiplicati gli episodi di razzismo e gli scontri ideologici, e noi stessi avevamo avuto un numero sorprendente di baruffe con i Serpeverde.

Sapevamo, ma non potevamo capire. Avremmo capito in seguito, e sarebbe stato un colpo duro, da cui non uscimmo indenni. Allora, però, non potevamo immaginarlo.

Ed è stato meglio così, perché in quel momento avevamo già abbastanza paura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A coloro che commentarono – e che forse ora sono spostai, emigrati in altri continenti, partiti in missione nello spazio o chissà che altro:

   Gaia Loire: grazie, grazie grazie… felice di non essere scontata e che apprezzi il mio stile. Tutto ciò mi rallegra oltremodo.

   Mixky: Capisco che vedere Sirius che barrica James nel cesso possa essere esilarante, in effetti. Io mi sono molto divertita a scriverlo. Poi Jk ha deciso che lo scherzo va messo nel quinto anno e il tutto mi scombussola alquanto, ma pazienza. Grazie e scusami, perdonami per il tuo “a presto” non rispettato…

   Solitamica: Don’t go where I can’t follow non sarà l’unico samismo presente. Non ricordo se già lo leggesti ma lo leggerai presto. Hahaha. Nel frattempo il mondo ci ha divise ulteriormente – il mondo o Efp, ma comunque… Che triste, drammatica esistenza.

   Snaso: ehm… dunque… non so quale dei tuoi perché sia quello giusto, ma comunque sia andata la faccenda tutto ciò mi onora e mi lusinga molto. Insomma, la coppia non ha senso – quant’è vero -  e ciononostante la storia ti piace. Wow. Grazie. Sì, Sirius è perfetto. E’ proprio perfetto. (alla sesta volta che lo ripeto fermami, eh).

 

 

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