It was so cold in Chester street

di Fuckin wrong
(/viewuser.php?uid=169483)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Oh, the library (prologue) ***
Capitolo 2: *** We're as breakable as a wire of wool. ***
Capitolo 3: *** Just our hands clasped so tight. ***



Capitolo 1
*** Oh, the library (prologue) ***


"Macinava chilometri ma senza correre. Colmava le sue giornate camminando da sola senza una meta."



I passi sgraziati di Kathrine e la pioggia sull’asfalto nero erano gli unici rumori nel buio delle 7.20 p.m di un malinconico 15 novembre.
Le strade di Bromley erano -come di consueto a quell’ora- completamente vuote.
I pantaloni della tuta appiccicati alle gambe non troppo magre, i capelli raccolti in una coda storta nascosta nel cappuccio di una felpa eccessivamente larga; Kathrine si era imbattuta nel diluvio durante una delle sue bizzarre camminate liberatorie, e ovviamente sprovvista di un ombrello, si era ritrovata bagnata come un pulcino a tre chilometri da casa.
Un rumore di tacchi che si muovevano veloci nell’acqua attrasse l’attenzione di Kath.
Un’ombra dai lunghi capelli camminava a passo svelto nella direzione opposta: con l’ombrello appoggiato sulla spalla destra, nella mano sinistra, braccio lungo il fianco, stringeva una borsa completamente bagnata. Mentre l’ombra si avvicinava, Kathrine poteva notarne i capelli color paglia spettinati dal freddo vento, gli occhi rossi e le guance rigate dalle lacrime. Avrebbe provato compassione per lei, se non si fosse trovata in una situazione ben peggiore: non ci fece troppo caso.

Meno cinquanta metri alla biblioteca, ottimo.

 

♦ ♦ ♦


Una figura in tuta, il mascara colato, il cappuccio bagnato e due ciocche di capelli fradici che le cadevano sul viso, spinse malamente la porta di vetro sbuffando e facendo cadere il cartello “Biblioteca” appeso incertamente alla maniglia.
“Qualcuno mi regali un’insegna decente da attaccare sul fottuto muro, per piacere.” pensò Marie sistemando i libri sullo scaffale.
Kath raccolse il cartellino. -Ups- la sua voce era innaturalmente roca: era stata in silenzio per troppe ore -Le persone sanno che questa è una biblioteca. Un pezzo di cartone con una scritta sbiadita non le invoglierà ad entrare a leggere qualcosa.-
-Il comune non sborsa un centesimo per l’insegna. E il libro più recente l’hanno comprato due anni fa. Dovrei darmi all’ippica, gestire biblioteche non è il mio forte.- Marie, i grandi occhi blu nascosti dietro le lenti spesse dei grandi occhiali con la montatura nera, aveva un’aria rassegnata, mentre rimetteva a posto i libri che i pochi frequentatori della biblioteca avevano riconsegnato quel pomeriggio.
-Il sindaco non capisce niente. Gli abbiamo fatto il culo più di una volta. E tu non ti devi preoccupare, sei la miglior bibliotecaria che io abbia mai conosciuto.- Disse Kathrine avvicinandosi all’amica e, con il cartellino ancora in mano, l’abbracciò cercando di darle un minimo di conforto.
-Sono anche l’unica, ma grazie, apprezzo i tuoi sforzi.-

Kath sciolse di colpo l’abbraccio e, buttando il famigerato cartello “Biblioteca” sul tavolo, corse verso la porta in fondo alla stanza, e con un “Cristo, sono in ritardo, fra mezz’ora ho il turno!” girò la chiave nella serratura, salì le scale e raggiunse l’appartamento. Appartamento è una parola. Quello sembrava più che altro un rifugio di guerra. Un monolocale con un soppalco in legno diviso a metà da una parete di cartongesso. Sul soppalco, il letto di Kathrine era alla destra, e quello di Marie alla sinistra del muro sottile. Kath -origini italo/irlandesi- non aveva trovato di meglio quando si era trasferita dall’Irlanda due anni prima. Marie, trasferitasi da Birmingham dopo la morte della sorella, e alla ricerca di un posto dove stare, aveva appena ottenuto l’incarico da bibliotecaria. Il comune offriva in affitto un fantastico monolocale a chiunque si fosse offerto di gestire dieci ore al giorno, quattro giorni su sette (con addirittura uno stipendio di 150 euro alla settimana, wow.) quel buco di biblioteca. Marie non era in grado di stare lontana da una stanza piena di libri, ma nemmeno di pagare da sola l’intero affitto.
Kathrine spalancò la porta e si buttò nel minuscolo bagno, inciampando nel casino del salotto. Fece una doccia, asciugò i ricci color carota, si vestì, prese un ombrello e corse fuori di casa, scendendo le scale dalla parte opposta della stanza dove Marie inviava l’ennesima e-mail al sindaco.


 


Ok, se sei arrivato fino qui, ti meriti decisamente un biscottino.
Questo è il prologo e, me ne rendo conto, non ha molto senso, ma è la mia prima storia, comprendetemi (?)
Ringrazio infinitamente Flavia alias I m not perfect perchè mi ha dato una mano e perchè è un sempreverde(?), e ringrazio chiunque (sperando che ci sia qualcuno) 
leggerà anche sono un pezzetto di quello che ho scritto.
Con amore,

-K


p.s. Per qualunque cosa, io sono sempre qui: @likepastries

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** We're as breakable as a wire of wool. ***


"Così è la bellezza: nasconde delle storie, spesso dolorose. Ma solo le storie rendono le cose interessanti."




Kath raggiunse il parcheggio dietro casa, chiuse l’ombrello e salì sull’automobile azzurro cielo imperlata dalla pioggia. Infilò le chiavi e mise in moto.
Bromley –borgo londinese- dista sei chilometri dal quartiere della capitale dove Kathrine lavorava come cameriera al “Big Owl”, un buco poco accogliente adibito a ristorante.
Bourbon street.
Kath si fermò nel parcheggio riservato ai dipendenti del “Big owl” e del “Green clover” -pub adiacente gestito da un irlandese con una chiara mancanza di fantasia e un faccione rosso in contrasto con le fessure ghiacciate degli occhi-, spense il motore e guardò l’orologio. 7.45 Stranamente in anticipo.
Kathrine decise di rimanere in macchina: non aveva intenzione di restare in piedi, in silenzio senza fare nulla per un quarto d’ora.
Kath non era particolarmente brava ad instaurare rapporti umani. Viveva a Bromley da due anni e gli unici amici –o conoscenti, libera interpretazione- che era riuscita a farsi erano Marie, suo fratello Louis, e Liam con cui lavorava in una panetteria sulla Chester, prima che lei si licenziasse, due mesi prima, perché non riusciva a reggere gli orari.
Kathrine James Connor era acida. Era insicura. Da un mese soffriva d’insonnia. Si sentiva così insignificante, invisibile, inutile. La cosa peggiore era che non poteva, non sapeva, o non voleva uscire da quello stato d’animo orribile del sentirsi continuamente fuori posto: troppo grossa e troppo trasparente. Non voleva affrontare quella situazione poiché si convinceva che non ci fosse nulla da affrontare.
Si buttò a capofitto nei propri pensieri. “Bella merda.”
7.48. Accese una sigaretta. Cercò l’iPod nella borsa, ma era rimasto a casa. Imprecò. Grande Gufo. Sono tutti così snob là dentro. Sembrano tutti così snob là dentro. Harry Qualcosa era davvero il peggiore. Flirtava con le clienti donne, flirtava con gli omosessuali, con i gatti, con i cani, con Paul (l’irlandese con la faccia rossa proprietario del Big Owl e del Green Clover, sopra descritto). Era una cosa veramente allucinante. Nella lista “persone da prendere a calci in culo” lo seguiva Annabelle, troietta di campagna dai capelli cangianti: partono da un rosso-mestruo-scolorito il lunedì per raggiungere, attraverso molteplici tappe, un giallino-piscio il sabato. Odio profondo.

Kath nuotava nei suoi pensieri come un uomo frustrato con una muta affittata, in un lago largo poco più largo di una pozzanghera, poco più profondo di un oceano.

Tirò fuori la Moleskine, la stilografica di suo padre e, poggiata sulla gamba accavallata, iniziò a scrivere. Sigaretta nella mano sinistra e stilografica nella destra, Kathrine si sentiva quasi momentaneamente soddisfatta.
7.57 Abbassò lo specchietto e guardò, nascosti nelle occhiaie, due grandi occhi verdi e delusi. -E’ giunta l’ora, alza il culo dal sedile.- disse a se stessa buttando il mozzicone nell’apposito portacenere e la Moleskine da qualche parte nel bauletto. Pioveva ancora, quindi si abbassò e prese l’ombrello che aveva gettato malamente sotto il sedile del passeggero; aprì la portiera con delicatezza, uscì dalla vettura, alzò l’ombrello, si girò verso la macchina e si chinò cercando a tastoni la borsa da qualche parte sotto il sedile. Quando fece per rialzarsi e chiudere la portiera, Kath scivolò, urtando violentemente contro qualcosa che aveva dietro. Qualcuno. Kathrine perse l’equilibrio e cadde all’indietro, seduta in una pozzanghera.
-Gesù Cristo non è possibile.- sussurrò mentre (contrariamente a quanto avrebbe fatto una persona normale, che avrebbe evidentemente cercato di rialzarsi velocemente), lasciando cadere flaccidamente l’ombrello alla sua destra, stringeva i pugni appoggiandoli dietro la schiena e tirando un calcio alla portiera. Scoppiò. Si trovò semisdraiata nell’acqua, con il diluvio sopra la testa e negli occhi.
Qualcuno respirava. Kathrine si girò alzando la testa.
Due occhi gonfi, ma bellissimi la guardavano dall’alto. Non vide più nient’altro. Iridi azzurre. Azzurro cielo, azzurro ghiaccio, azzurro lago dopo la tempesta. Taglio perfetto. Due occhi inespressivi, vitrei. Azzurri e rossi, circondati da due occhiaie leggere.

 Ci sono due modi per guardare il volto di una persona.
Uno è guardare gli occhi come parte del volto.
L’altro è guardare gli occhi e basta, come fossero il volto.
-Bianca come il latte rossa come il sangue.

Lui non disse niente. Lei non lo aveva mai visto, lui non l’aveva mai vista, ma in quel momento era come se si conoscessero da una vita. 
I lineamenti di lui, i capelli color paglia e le guance rigate dalle lacrime risultavano a Kath così familiari. -Déjà vu?-
Saranno stati i suoi capelli color carota, le occhiaie, i grandi occhi verdi e tristi, quasi neri sotto il buio del temporale, ma Niall, guardando la ragazza seduta ai suoi piedi che lo fissava stupita, si sentì improvvisamente a casa. “Gli sembrò l’essere più bello e strano del pianeta.”

 

 ♦♦♦

 
Valerie Emma Horan, i lunghi capelli color paglia bagnati e spettinati, era rannicchiata sotto in portico di una casa qualsiasi, pensando a quanto potessero essere felici le persone qualsiasi che vivevano dalla parte opposta del muro contro cui premeva la schiena.
Fissava la pioggia, il cielo piangeva al suo posto.
Si tolse i tacchi troppo alti e li scaraventò contro il nulla: inutili.
Cercò qualcosa nella borsa nera e fradicia. Ne estrasse una scatolina rosa, l’aprì e prese una pastiglia. L’ultima. Si agitò: -Non mi stupirei se ora mi colpisse un fulmine.- la ingoiò senz’acqua, le si infuocò la gola.

Prese la borsa, lasciò per terra l’ombrello e, così com’era, senza scarpe e senza protezione, mollusco senza conchiglia, si incamminò. “Ci sarà una farmacia aperta da qualche parte” pensò.
Non era più nemmeno perfetta. Non era più nulla. Era solo un’ombra qualsiasi, che si aggirava per una strada qualsiasi di un borgo qualsiasi. Non era più speciale per nessuno. Da otto ore non era più figlia di nessuno. Probabilmente non era più nemmeno sorella di nessuno. O forse non lo era mai stata. Era la sorella tanto superficiale quanto inutile di un fratello troppo diverso per capirla e per essere capito.
Farmacia. Aperta. Spinse la porta e si trascinò dentro l’ambiente. Un ragazzo alto, camice bianco, occhi azzurri e capelli castani volutamente spettinati, stava sistemando distrattamente una scatola contenete un qualche antibiotico sugli scaffali dietro il bancone. Al suono del campanello si voltò. Gambe lunghissime avvolte da collant scuri, cappotto blu gocciolante, capelli biondi, mossi, lunghi, bagnati. Dietro al trucco colato c’era il viso più dolce e triste che avesse mai visto. La ragazza, piedi scalzi, si avvicinò socchiudendo gli occhi per leggere il nome scritto sulla targhetta attaccata al camice. –Salve L-Louis. Avrei bisogno del Frontal.- tremando prese dalla borsa un foglio umido e accartocciato e glielo porse. Lui prese la ricetta e cercò la confezione del farmaco. Avrebbe voluto dirle qualcosa, ma si sentiva a disagio come mai si era sentito nella sua breve carriera di farmacista –e di abitante del pianeta Terra-, e così se ne uscì con un poco professionale –e poco umano- “Brutta cosa gli attacchi di panico, eh!” detto fra i denti abbozzando un sorriso poco convinto e poggiando la confezione sul bancone. Lei si limitò a sorridere, pagò, ringraziò, prese il medicinale e se ne andò.





Se per il capitolo precedente ti meritavi un biscottino, ora ti meriti una torta. (Sì, e per l'ultimo capitolo il pranzo di Natale) *Per la serie: promesse mai mantenute*  (?)
Chiedo scusa per aver modificato qualche dettaglio del capitolo precedente (tipo l'orario, il nome del borgo) ma altrimenti non ci stavo con la storia.
Se il prologo non aveva molto senso, questo capitolo ne ha ancora meno, però a noi ci va bene così *HAHAHA no*(?)
Ringrazio INFINITAMENTE chi ha passato un po' del suo tempo a leggere o a recensire il primo capitolo, e ringrazio anche chi (sperando ancora che qualcuno ci sia, lol) leggerà/recensirà questo.
Devo ringraziare ancora Flavia, perchè non mi ha ancora tirato una sprangata virtuale sulle gengive(?) dopo tutte le volte che le ho rotto i coglioni -ti voglio bene:')-
Sayonara, 
-K

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Just our hands clasped so tight. ***


"Cercava di avanzare sul filo sottile ma rimaneva sempre allo stesso punto.
E' il pezzo forte del funambolo: la camminata ad occhi bendati.
Lei camminava e non vedeva nulla, nemmeno i propri passi. Si sentiva così sola su quel filo.
Attendeva solo che qualcuno la prendesse in braccio e le dicesse: -Adesso basta camminare, adesso ti porto io-."


Marie, seduta a gambe incrociate sulla poltrona rossa dietro la scrivania, cestinava distrattamente le mail inutili, mentre arrotolava annoiata i vermicelli di soia sulle bacchette di plastica. Porse le bacchette alla bocca. Fece una smorfia e deglutì senza masticare, prese la scatola rettangolare e bianca con ideogrammi in rosso sui quattro lati, ci infilò le bacchette gialle e la gettò energicamente nella spazzatura “Cartone”. Poi ci ripensò. L’ultima volta che aveva buttato del cibo nel cestino sotto la scrivania se ne era dimenticata. Risultato, il giorno dopo Kathrine lo aveva trovato pieno di formiche e non era più entrata in biblioteca per due settimane.
Le caddero gli occhiali sulla punta del naso. Li tolse, con l’intenzione di stringere le viti dopo, e scese dalla sedia. Marie prese il cestino con le gambe ancora indolenzite dalle ore passate seduta in quella scomoda posizione.
Si trascinò di malavoglia fuori dal tepore del locale, nel buio umido di novembre. Il temporale aveva lasciato il posto ad un’inutile pioggerella sottile, impercettibile. Girò l’angolo ed entrò nel vicolo buio alla destra del palazzo, raggiunse il cassonetto verde, lo aprì, e ci svuotò il contenuto del cestino. Uscendo dalla via, vide una sagoma indistinta camminare sull’asfalto bagnato della strada principale.
Il corpo si muoveva lentamente, mentre Marie, anche a distanza, sentiva lo scorrere veloce di pensieri sconosciuti. Trovò se stessa in mezzo alla via a chiedersi cosa stesse pensando quell’ombra in quell’istante.
Poi la fissò, riducendo gli occhi a due fessure, in mancanza degli occhiali. Sembrava bionda, alta, stanca.
-Anne?- sussurrò Marie alla nebbia, la voce tremante accompagnata da una nuvoletta di vapore. Le braccia le caddero lungo i fianchi, con il cestino della spazzatura ancora stretto nella sinistra. -Anne?- avanzò, inizialmente insicura, poi senza nessun timore. Avanzava a passi piccoli e decisi nella nebbia di novembre, chiamando il nome di sua sorella. Era morta di leucemia il diciotto agosto di due anni prima. Marie aveva ricordi confusi di quel giorno, come se non fosse stata veramente lì. Non aveva pianto quel diciotto agosto, e non lo aveva fatto per i tre mesi successivi. Era rimasta impassibile, fredda. Passava le giornate sul letto, a guardare il soffitto, dello stesso colore insignificante che sembrava avere il suo cuore. Non aveva pianto, e non aveva più sorriso davvero.
La verità è una: ci sono dolori che non si distinguono. Ci sono dolori che non portano lacrime, ma silenzio. La mancanza di reazioni esterne è la cosa peggiore: ti trascinerai quel dolore nel tempo come un macigno che porterai a vita. Cancellare il senso di colpa per non essere stata lì a morire al fianco di una persona che amavi è pressoché impossibile. Anne era stata portata via dalla leucemia, a quindici anni. Marie questo non poteva accettare: aveva tre anni in più di lei, e stava vivendo la vita che le aveva rubato.
La sagoma si avvicinava agli occhi miopi di Marie. Era scalza, stringeva nella stessa mano una borsa nera in simil-camoscio, completamente bagnata e un sacchetto bianco, quasi trasparente, con il simbolo verde della farmacia. Aveva l'aspetto di chi, dopo anni nella sala d'attesa del purgatorio, ha bussato al paradiso senza poterci entrare; ed è tornato deluso all'inferno. Anne sembrava non sentire la voce della sorella che urlava il suo nome; come ci fosse un oceano fra le due anime. Marie la raggiunse e la strattonò per la manica del cappotto bagnato. Quando quella si girò, Marie incontrò due occhi azzurri, gonfi, stanchi. –Ci conosciamo?- sussurrò incerta una voce stupita, quasi inquietante. Aveva gli stessi occhi spossati di Anne, vitrei, abbattuti. Erano solo del colore sbagliato: Marie si accorse di aver avuto un’allucinazione. Uno strato di ghiaccio l’avvolse: divenne pallida, occhi spenti. –Anne?- esalò con quel poco di voce che la realtà non aveva ancora tolto alla delusione. –S-sono Valerie.- Marie mimò uno “scusa” con le labbra, non riuscendo ad emettere alcun suono. Lasciò il braccio della sconosciuta e corse verso la biblioteca con gli occhi pieni di sale e l’amaro in bocca: l’amaro che ti che resta quando un’illusione si trasforma in un’inevitabile delusione.

Alto, pelle olivastra, aveva una vecchia tracolla verde sulla spalla sinistra, mentre con la mano destra, dita lunghe e perfette, spingeva la porta di vetro della biblioteca. Qualcosa cadde. Era un cartoncino con una scritta corsiva, perfetta, “Biblioteca”. La B, formata da due ovali perfettamente incrociati, inseguiva una i, il cui ricciolo finale si arrotolava attorno alla linea verticale della b. Tutte le lettere di seguito formavano un’armonia tanto perfetta quanto strana. Zayn fu sollevato nel notare che la stanza era vuota, e che nessuno aveva notato un ragazzo sul ciglio della porta che fissava interessato un pezzo di cartone.
Si diresse verso il tavolo di legno, dove appoggiò la borsa verde da cui estrasse un portatile. Stava cercando Freud nello scaffale denominato “psicoanalisi” dalla stessa grafia del cartellino di prima, quando qualcuno entrò in biblioteca sbattendo la porta.
 
 

♦♦♦



In una situazione normale, Kathrine si sarebbe sentita inevitabilmente a disagio. Ma quegli occhi trasparenti non la fissavano interrogativi. Non erano carichi di silenziose domande come gli occhi di chiunque, passando per strada, vede il tuo viso imperlato di amarezza liquida. Erano piuttosto gli occhi di qualcuno che calpestava tremando lo stesso filo di lana su cui stanno le cose fragili. Kath cercava nella profondità di quelle fessure risposte che non hanno domande.

Il funambulo non ha una risposta al problema dell’equilibrio,
sa solo come trasformare la forza che lo fa cadere nella spinta che lo salva.
- Cose che nessuno sa; Alessandro D’Avenia.

La guardò con gli occhi di chi si guarda dentro. Aveva la bellezza travolgente di tutto ciò che è fragile. Le porse istintivamente una mano sottintendendo un sorriso che forse non era più in grado di fare. Lei vi si attaccò, come se egli possedesse fra le dita tutta la forza che mancava al mondo.
Kath si alzò, prese l’ombrello e notò che il contenuto della borsa giaceva sparso sull’asfalto. Si chinò per raccogliere almeno chiavi e portafoglio, ma lui stava già rimettendo tutto nella borsa di finta pelle marrone, sciupata dal tempo e dalla monotonia dei viaggi di cui era stata compagna. Lei chiuse la portiera e prese la borsa che le stava porgendo. Non aveva smesso di guardarlo. Era poco più alto di lei, e gli occhi stavano sullo stesso piano dei suoi. “Grazie mille” Avrebbe voluto dire, ma dalle sue labbra secche e bagnate uscì un –Grze lle- pronunciato da una voce innaturalmente roca: era stata in silenzio troppo a lungo.
Lui non se ne accorse. –Nlla.- Era come la terza lingua del bilingue. Se due soggetti parlano dalla nascita due stesse lingue come fossero quella materna, nella fase di mescolanza non si renderanno nemmeno conto di parlare i due idiomi mescolati: semplicemente si capiranno. Kathrine e Niall avevano mescolato la lingua della gente comune a quella della malinconia, e non se ne erano nemmeno resi conto.
Non parlarono più, perché le parole sono i nodi che stringiamo quando stiamo intrecciando il filo di un legame e questo si spezza in imbarazzanti silenzi. Loro non ne avevano bisogno: non c’era nulla di imbarazzante in quel silenzio.
-Ono..-  tossì –Sono Niall.-
-Kathrine.-
Non si strinsero la mano, come è usanza fare fra gli esseri umani. Strinsero piuttosto i loro corpi: si abbracciarono come per cercare il proprio battito nel cuore dell’altro, si abbracciarono inspirando l’uno l’odore dell’altra e lasciandosi andare. Lui pianse. Piangeva disperatamente stringendo una sconosciuta che parlava la sua stessa terza lingua. Si abbracciavano perché la forza di uno era nascosta da qualche parte, nel cuore dell’altra. Erano lacrime di gioia miste a lacrime di dolore: come quando ritrovi un amico che ti ha ferito, come quando scopri la cosa più bella dell’universo e piangi gioia e piangi dolore, insieme.                                                          

Chissà se la loro composizione è la stessa.
Quello che è certo è che provengono entrambe dal cuore del cuore.
Il cuore non è altro che una fila di stanze, sempre più piccole.
Sono in tutto sette stanze. Il cuore del cuore è la settima, la più difficile da raggiungere,
ma la più luminosa perché le pareti sono di cristallo.
Gioia e dolore vengono da quella stanza e sono la chiave per entrarci:
gioia e dolore piangono le stesse lacrime, sono la madreperla della vita.
-Cose che nessuno sa; Alessandro D’Avenia.

Era una situazione surreale. Erano due corpi uniti in uno solo, tremante, insicuro. Erano due anime che si abbracciavano sotto la pioggia umida di fine temporale.
Le persone trovano la forza di rialzarsi negli amici, nei genitori, nei fratelli. In assenza di qualcosa di simile, le persone trovano la forza in se stessi. Non sono molti quelli disposti ad offrire la propria forza e a prendere quella dell’altro se questo è qualcuno che non avevano mai visto prima.
Sciolsero l’abbraccio e sorrisero del sorriso più onesto che potessero trovare. Sorrisero come entrambi non facevano da tempo.
 



Ok, dovrei fare un capitolo di sole scuse per averci messo un mese per scrivere sta roba -causa blocchi, mancanza di idee, Venere in Saturno, Giove in Plutone e il mio bradipo gialloblù che mi ha mangiato il pc.-
Dovrei rinominare la storia "Citiamo/copiamo luridamente D'Avenia perchè lui è figo e io sono una merda", ma non lo farò.(?)
Si sarà capito che non è una FF vera e propria, i personaggi hanno solo i nomi e le caratteristiche fisiche dei ragazzi, per il resto potrebbero chiamarsi Giovannino Luchino Giuseppe Astolfo Idelfonso che poco cambierebbe.(?)
Onestamente pensavo che questo capitolo fosse più lungo invece non lo è, LOL.
Sta iniziando ad uscire un po' della mia insanità mentale, quindi occhei. Ti ringrazio se sei arrivato a leggere fino a qui -leggendo anche il capitolo s'intende, sennò non vale(?)- e ti chiedo scusa se rimarrai deluso o se il cane ti ha fatto pipì sul letto.
Sayonara,
-K

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1054630