Dandelion

di Iwuvyoubearymuch
(/viewuser.php?uid=71753)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nono ***
Capitolo 10: *** Capitolo Decimo - Parte Prima ***
Capitolo 11: *** Capitolo Decimo - Parte Seconda ***
Capitolo 12: *** Capitolo Undicesimo ***
Capitolo 13: *** Capitolo Dodicesimo ***
Capitolo 14: *** Capitolo Tredicesimo ***
Capitolo 15: *** Capitolo Quattoridicesimo ***
Capitolo 16: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo ***


Capitolo Primo
A occhi chiusi, riesco quasi a sentire lo scalpiccio che spezzava il silenzio del Giacimento. Quello provocato dai lavoratori che, di mattina presto, si incamminavano verso le miniere di carbone; quello che annunciava l'inizio di una nuova, estenuante giornata di fatiche che avrebbe visto la conclusione soltanto dodici ore più tarsi; quello che mi ricordava ogni singolo giorno di mio padre e la sua morte, dopo avergli urlato di correre nel sonno. Sembra passato molto tempo dall'ultima volta che l'ho sentito realmente. E, in effetti, è così. Questione di mesi, ma dal mio punto di vista sono passati anni e anni. Era prima che uccidessi il presidente Coin al posto di Snow, prima di aver capito il ruolo notevole che ricoprivo in tutta la faccenda della rivolta, prima della distruzione del Distretto 12, prima di partecipare alla terza Edizione della Memoria. Prima della morte di Prim.
Prim. Anche solo pensare il suo nome fa male. Non fisicamente; il che è peggio. Sono abituata al dolore. Con tutte le ferite riportate durante entrambe le edizioni degli Hunger Games - e, a volte, anche prima - ho sviluppato una soglia della sopportabilità piuttosto alta. In fondo, nel caso di bruciature, costole rotte o tagli, basta usare pomate o medicine, e il gioco è fatto. La guarigione per la perdita di una persona che si ama, va ben oltre un impacco di erbe curative, delle flebo attaccate al braccio e un paio di pillole. No, quando si perde una persona essenziale per la propria vita, nient'altro che il tempo può essere d'aiuto. Eppure, io sono convinta che il tempo non avrà alcun effetto su di me. Mi è difficile, se non impossibile, immaginare di poter vivere senza Prim. 
Katniss sceglierà chiunque lei pensi non potrà sopravvivere senza.
Così aveva detto Gale, in riferimento a lui e Peeta. Sopravvivere. Allora, mi sentii offesa che avesse scelto proprio quel termine, perché mi faceva sembrare una persona fredda e insensibile, a cui importava soltanto del proprio tornaconto. Pensai che si sbagliasse e che avrei potuto continuare a vivere anche senza di loro. Adesso, ne sono assolutamente certa. Il fatto che Prim è morta, ed io sono ancora qui, seduta tra ciò che resta del Giacimento, non ne è la prova? L'unica persona di cui non posso fare a meno è morta, quindi non ho bisogno di loro due, tantomeno di Haymitch o mia madre. Tutto ciò di cui ho bisogno davvero per sopravvivere è il cibo, un tetto sotto cui abitare e delle mura per ripararmi dal freddo, arco e frecce. Tuttavia, farei a meno anche di arco e frecce, se non fosse strettamente necessario. Fanno ritornare alla mente troppi ricordi, di cui molti spiacevoli. A partire dall'arena, per finire al bosco al di là del filo spinato. Da quando sono tornata al Distretto 12, non sono ancora andata a caccia. E come potrei? Mi basta guardare il filo spinato, che il volto di Gale compare proprio davanti al mio. E il ricordo di Gale, grida la morte di Prim.
Riapro gli occhi e non vedo niente. Niente è ciò che è rimasto del Distretto 12. Soltanto una massa indistinta di macerie, ricoperta da un inquietante velo di carbone. I resti bruciati del Forno, le case distrutte, le miniere andate perdute. Lo strato di polvere che ricopre ogni cosa forma una specie di patina argentea. I granelli alzati dal vento, anch'essi illuminati dai raggi della luna, contribuiscono a rendere il tutto un po' meno inquietante di quello che è in realtà.
Faccio lentamente ritorno al Villaggio dei Vincitori, l'unica zona del Distretto che è rimasta in piedi. Nessuna delle dodici case è illuminata, non la mia o quella di Haymitch. Non quella di Peeta. Anche se dalla finestra non riesco a scorgere alcun bagliore, so per certo che Haymitch non sta dormendo. E' attaccato, come al solito, al collo di una bottiglia di vino rosso o, magari, di liquore bianco. Inizialmente, disprezzavo il fatto che fosse sempre ubriaco, al punto di rendersi ridicolo come nel giorno della mia prima Mietitura. Poi, ho capito che era un bisogno: essere il mentore di due ragazzini che avevano altissime probabilità di morire nel giro pochi giorni - se non ore o minuti - dall'entrata nell'arena, non doveva essere una cosa semplice, che ti lascia dormire tranquillamente la notte. Adesso, mi rendo conto che era necessario. Dopo due settimane dalla sua incoronazione come vincitore della seconda Edizione della Memoria, Snow uccise sua madre, suo fratello e la sua fidanzata. Se bere gli fece di dimenticare anche solo per un istante quello che gli era successo, allora niente impedisce anche a me di farlo. Anzi, mi occorre dimenticare. Anche per un minuto soltanto. Così, dopo essere rientrata in casa, mi metto alla ricerca di una bottiglia. Da qualche parte, deve esserci ciò che è rimasto della scorta per Haymitch prima del Tour della Vittoria. E, infatti, ecco che la trovo. Una bottiglia di liquore bianco mai toccata. Me ne verso un bicchiere e lo vuoto in un solo sorso. Brucia lungo tutta la gola, ma ne prendo un altro. E un altro ancora, che porto nella mia camera. Mi siedo sul letto e sorseggio senza fretta. E' sorprendente come la testa già mi sembri più leggera, meno carica di brutti ricordi. Quelli ci sono sempre - so che non posso fare nulla per eliminarli del tutto - ma è piacevole sentirne meno il peso. Bevo ancora un po' di liquore. Quando sul fondo del bicchiere non c'è più nulla, avverto le palpebre appesantirsi poco alla volta. Forse, sono pronta per dormire.
Ecco la piccola Rue. Ha ancora la lancia di Marvel conficcata nell'addome. Ma è in piedi, per una strana ragione, come se non avvertisse il dolore. Canta le quattro note che nel suo distretto segnano la fine della giornata nei campi. Accanto a lei c'è Finnick, coperto soltanto dalla stessa rete che indossava la prima volta che lo incontrai. Velocemente le loro figure dissolvono sullo sfondo nero. In lontananza si sentono dei rumori. No, più che rumori, sono versi di animali. Quack. Quack. Quack. Papere. Strizzo gli occhi, allungo il collo. Ma non c'è niente. Non riesco a distinguere nulla attorno a me, per via dell'oscurità che mi circonda. Poi, spunta una sagoma. E' troppo familiare per non riconoscerla. Indossa una camicia che non le va bene, troppo grande sulle spalle. Un lembo è fuori dalla gonna, anch'essa non della sua taglia. I capelli biondi ricadono lungo la schiena e gli occhi azzurri sono l'unica fonte di luce. Poi la sento. E' lei che sta imitando il verso di una papera. E' Prim. Appena il tempo di formulare il suo nome mentalmente che scompare, proprio come Rue e Finnick prima di lei. Immediatamente, attorno a me non c'è più il buio. O meglio, c'è ma riesco a intravedere altre persone. Molte non le riconosco. Alcune le ho viste semplicemente durante la mia vita al Distretto 12. Altre, come Prim, sono indimenticabili. Jackson. Boogs. Tresh. Cinna. Anche Faccia di Volpe è lì. Wiress. E poi, la cosa più sorprendente di tutte. Me. Ci sono anche io tra quella schiera numerosa. L'unica cosa che tutte quelle persone hanno in comune è che sono morte. Sono morta anche io, quindi? No, impossibile. Ricordo con precisione di essere rientrata in casa e di aver bevuto il liquore destinato a Haymitch, prima di andare a letto. Magari, fossi morta. Qualcuno sussurra il mio nome. Katniss. Mi volto. Nessuno sta parlando. Katniss. Mi avvicino a Cinna. La voce proviene dalla sua direzione. Sono proprio davanti a lui, faccia a faccia. Eppure sembra che non mi veda, come se fossi trasparente. Sono un fantasma? Katniss. La testa mi fa male. Un dolore quasi insopportabile mi attraversa la fronte da tempia a tempia. Non è Cinna che sta chiamando il mio nome. E allora chi? Mi ritrovo a sperare di veder comparire anche Gale. Poi ci ripenso. Se Gale è lì, vuol dire che è morto. Katniss. Un'onda alta parecchi metri compare alle spalle della folla che mi circonda. E' come quella nell'arena, la seconda volta che ho partecipato agli Hunger Games. Dico a tutti di scappare, di correre via e mettersi in salvo. E' con l'immagine di mio padre dietro le palpebre chiuse, che l'onda mi travolge.
Sono già seduta, quando apro gli occhi. Mi guardo attorno, disorientata e stordita. Mi accorgo di essere bagnata soltanto quando scorgo Haymitch con un secchio tra le mani. Non ci metto molto a capire che pochi istanti fa quel secchio era colmo dell'acqua che adesso è sopra la mia testa. "Perché l'hai fatto?" chiedo, senza preoccuparmi di limitare lo sdegno nella voce.
Haymitch mi fissa per un momento. "Senti, se volevi farti coccolare, avresti dovuto chiedere a Sae" dice, imitando maldestramente una voce femminile.
Per via dell'alcol non afferro subito cosa voglia dire. Ho solo la sensazione che voglia prendermi in giro. E, poi, quando quel mezzo sorriso conferma la mia ipotesi, ricordo perfettamente a cosa sta facendo riferimento. Il giorno della partenza per il Tour tra i Distretti, svegliai Haymitch proprio in quel modo e gli riferii esattamente queste parole. Non proprio queste, a dire il vero. Il finale era diverso. Avresti dovuto chiedere a Peeta, fu la mia versione. Allora immaginai che fosse troppo ubriaco anche solo per starmi a sentire. Chiaramente mi sbagliavo.
"Non ti ho chiesto niente" sbotto, spostando con un gesto nervoso i capelli dalla fronte. "Che vuoi?" abbaio, prima che lui possa parlare.
"Avresti dovuto lasciare a me quella bottiglia" dice Haymitch, ignorando del tutto la mai domanda.
Mi alzo dal letto, con gli occhi al cielo. La maglia è zuppa e appiccicata addosso. La biancheria intima è ben evidente. Non mi interessa molto e la presenza di Haymitch non mi imbarazza. Durante la mia prima volta agli Hunger Games, l'intera Panem mi ha vista mezza nuda quando lavai i vestiti. "Che vuoi?" ripeto, aggiungendo una maggiore risolutezza, mentre prendo un asciugamano per i capelli.
Con la coda dell'occhio vedo Haymitch darsi un'occhiata in giro. "Rimettiti in sesto" ordina, semplicemente. "Dobbiamo andare in un posto"
Non rispondo subito. Poi sento me stessa chiedere: "Dove?". Non che muoia dalla voglia di andare ovunque Haymitch voglia portarmi. Anzi, non ci tengo affatto a seguirlo. Però, la curiosità di saperlo c'è.
"Alla stazione" risponde. "Peeta sta tornando"
Mi accorgo subito di come Haymitch osservi la mia reazione, nonostante finga di non farlo. Comunque, non c'è molto da osservare. Solo un lieve, impercettibile sussulto interno. Peeta sta tornando. Suppongo che dovrei essere contenta, sollevata dal suo ritorno. Ma non lo sono. Non ho bisogno di lui, per ben due motivi. Primo: il suo ritorno va contro la nuova iniziativa di sopravvivenza che ho iniziato questa notte. Dimenticare. Come potrei dimenticare gli ultimi due anni, se ogni giorno sarò costretta a vederlo? Per quanto la gente abbia insistito con la storia che sono la Ghiandaia Imitatrice, il simbolo della rivoluzione, Peeta è sempre stato al mio fianco. Ha vissuto le stesse cose che hanno afflitto me, anche peggiori in alcuni casi. E' presente in ogni ricordo degli Hunger Games e della guerra. Semplicemente, non posso dimenticarmene se me lo ritrovo davanti a ogni ora del giorno. Secondo: a ritornare non sarebbe lui, ma la sua copia sbiadita. Il vecchio Peeta, ne sono sicura, non esiste più. Per avergli accordato il permesso di ritornare, deve stare decisamente meglio. Ma meglio non è bene. Magari, tenterà ancora di uccidermi in preda a uno dei flashback. Questo potrebbe essere l'unico aspetto positivo. Finalmente, sarei morta anche io.
"Ho da fare" dico a Haymitch, consapevole che non crederà a una sola parola. Poco mi interessa, comunque. Voglio che capisca che non ho alcuna intenzione di andare alla stazione con lui.
Le sopracciglia arcuate di Haymitch mi bastano per capire che ho ragione. Non mi ha creduto. "Cosa avresti da fare? Ubriacarti?" domanda, con un misto di scetticismo e rimprovero.
"Tu sei l'ultima persona che può farmi la morale" gli faccio notare, lo sguardo ben fisso nei suoi occhi grigi. Proprio lui, tra tutti, viene a dirmi che non approva il mio stile di vita. Lui, che per primo l'ha messo in atto per ventisette anni e oltre.
Haymitch non sembra nemmeno scalfito dalle mie parole. Le ha sentite? "E invece sono una di quelle persone che può meglio capirti" esplode lui. Fa una piccola pausa. Dal modo in cui ricambia il mio sguardo, però, sembra che stia continuando a parlare. In quel silenzio riesco facilmente a scorgere la sofferenza per la morte di sua madre, quella di suo fratello minore e della sua fidanzata. La stessa sofferenza che paralizza me. "L'altra è Peeta. Tutta la sua famiglia è morta, le uniche persone che ha adesso siamo noi" conclude, indicando prima se stesso e poi me.
Queste parole mi costringono ad abbassare lo sguardo. Se il mio dolore è insopportabile, quello di Peeta deve essere moltiplicato per quattro. In una volta sola, ha perso entrambi i suoi genitori e i due fratelli. Non so che genere di rapporto avesse con loro, ma questo non cambia nulla.
Poco dopo Haymitch va via, non prima di avermi detto che il treno è previsto per le undici. Faccio finta che non abbia parlato. Sono più che decisa: non voglio andare alla stazione. E non ci andrò. Metto una maglia asciutta e cambio i pantaloni. Al piano di sotto, trovo qualcosa che mi lascia immobile sull'ultimo scalino.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo Secondo ***



Capitolo Secondo
Fisso l'arco con riluttanza per qualche istante. E' l'arco di mio padre. Cosa ci fa lì? Dovrebbe essere nel bosco, ben nascosto. A parte Gale e me, non c'è nessuno che sappia dove sia. Che Gale sia tornato? No, lui è nel Distretto 2 secondo quello che dice Sae la Zozza. Quindi, l'arco come ci è arrivato in casa mia? L'idea che sia stato Haymitch mi sfiora. Forse, è soltanto un pallido tentativo di riportarmi alle vecchie abitudini, di farmi andare a caccia. Se è così, sono stati tempo e fatica sprecati. Non ritornerò a cacciare. Non nell'immediato futuro. Semplicemente, non mi sento pronta. Forse, non lo sarò mai.
Mentre cammino per il Giacimento, continuo a volgere gli occhi verso il filo spinato. Cerco di trattenere l'immagine di Gale che mi passa davanti. Lo sguardo si perde tra gli alberi, che attirano la mia attenzione e non solo. Mi accorgo di essermi avvicinata, soltanto quando mancano un paio di centimetri al filo spinato. Inconsciamente, tendo l'orecchio. Non c'è elettricità, ma lo sapevo anche prima. Lo attraverso. Da quel punto in poi, ogni timore scompare. Cammino velocemente, al limite della corsa. Sorpasso alla svelta il punto in cui il mio arco era nascosto. Il trotto aumenta di intensità e finisco col correre sul serio. Intravedo il lago qualche minuto dopo. A quel punto, rallento fino a fermarmi di colpo. Entro in casa. E' così piena di ricordi che ci rimango lo stretto indispensabile, ovvero due minuti. Soltanto la necessità di controllare che, almeno lì, tutto sia com'era una volta. E lo è. Quella a essere cambiata sono io.
Mi chiamo Katniss Everdeen. Ho diciotto anni. Ne avevo sedici quando mi sono offerta volontaria per la settantaquattresima edizione degli Hunger Games. L'ho fatto per risparmiare mia sorella Prim. E, nonostante tutto, lei non c'è più. La colpa è esclusivamente mia.
Da quando lei è morta, il senso di colpa mi ha paralizzato. Più di una volta mi sono detta che se non avessi inavvertitamente sfidato le regole di Capitol City, lei sarebbe qui con me. Avrei ancora la possibilità di abbracciarla, di pettinarle i capelli biondi e dirle che prima o poi affogherò Ranuncolo. Avrei ancora la mia famiglia al mio fianco. Però, poi, mi rendo conto che così facendo, gli Hunger Games si sarebbero conclusi con un solo vincitore. Molto probabilmente sarei stata io a essere incoronata dal Presidente Snow. Non soltanto perché Peeta era messo male con la gamba. Soprattutto per la bandiera bianca che lui stesso aveva deciso di sventolare pur di farmi rimanere in vita. Pur di proteggere me, era disposto a sacrificare la sua. Lo stesso ho fatto io e una serie di scelte seguenti mi hanno condotto dove sono adesso. Una scelta tra Prim e Peeta. Allora, non lo sapevo, ovviamente. Se l'avessi saputo? Non voglio chiedermelo, perché non ho una risposta. E soprattutto non ha senso.
Solo una volta mi sono concessa il permesso di pensare come sarebbe potuta andare se non mi fossi offerta volontaria. Superato il senso di vergogna per aver condannato mia sorella senza fare nulla, ho immaginato Prim nella foresta. Conoscendola, se fossi stata uno sponsor non avrei scommesso una misera parte dei miei soldi. "Prim" e "boschi" non possono nemmeno stare nella stessa frase. Figurarsi lo stesso contesto. Avrebbe dovuto cacciare, dormire sugli alberi, patire il freddo, uccidere. Non era brava in nessuna di queste cose. Lei era una guaritrice, irrimediabilmente nata per salvare e non il contrario. Forse, si sarebbe soltanto aggiunta ai morti durante lo scontro iniziale alla Cornucopia. E io l'avrei persa comunque. Il rimorso di non aver fatto abbastanza per lei, mi avrebbe divorato alla stessa maniera. Doveva finire in questo modo, mi sono detta parecchie volte. Ma anche questo pensiero non ha nulla di consolatorio.
Esco velocemente di casa, prima che riaffiorino i ricordi dell'ultima volta che sono stata lì con Gale. Faccio per andarmene, ma l'acqua sembra invitante. Sembra che chiami il mio nome. Come nel sogno di questa notte. Mi spoglio della maglia e dei pantaloni, fino a rimanere soltanto in biancheria intima. Poi, entro in acqua e ci rimango per delle ore. O almeno, io ho l'impressione che siano passate delle ore. Nuoto, fisso il cielo primaverile. Le mani sono ricoperte da tante pieghe superficiali. Sembrano le mani di Sae.
Quando finalmente decido che è ora di ritornare a casa, è pieno pomeriggio. Ripercorro a ritroso la strada della mattina, con molta più calma. Intravedo qualche scoiattolo. L'avrei preso senz'altro se avessi portato con me l'arco e le frecce. Ora che al Distretto 12 abitiamo in pochissimi, regna il silenzio ovunque. Per questo motivo, sono sorpresa di sentire qualcuno ridere. Viene dalla casa di Haymitch. Immediatamente penso a Peeta, ma non posso esserne certa. Non l'ho mai sentito ridere. Qualche sorriso di tanto in tanto, ma mai una risata divertita e spensierata come quella che sento adesso. Eppure, può essere soltanto lui. Accelerò il passo, ben attenta a non fare rumore. Non voglio che mi sentano, non voglio incontrare Peeta.
Mi chiudo in casa. Scivolo sul pavimento e rimango lì seduta fino a quando dei colpi alla porta mi costringono ad alzarmi. In un certo senso sapevo che sarebbero giunti. Spero non sia Peeta. Tiro un sospiro di sollievo quando vedo Haymitch.
"Non dirmi che ti aspettavi qualcun altro" dice lui, entrando in casa senza fare complimenti. Ignoro del tutto la malizia con cui l'ha detto e chiudo la porta. "Sae vuole che ceniamo tutti insieme questa sera" va dritto al sodo, accomodandosi in una sedia.
"Lo vuole lei o tu?" chiedo. Qualcosa mi dice che c'è dell'altro sotto.
Haymitch scocca un mezzo sorriso nella mia direzione. "Lei, dolcezza. E Peeta" aggiunge. Fa una piccola pausa, ancora una volta per osservare la mia reazione. Anche questa volta, non assiste a nulla di interessante. Non mi sforzo nemmeno di alzare un sopracciglio. "Mi ha detto di dirti che ci è rimasto male per la tua assenza alla stazione questa mattina, ma non vede l'ora di vederti"
Il sopracciglio adesso si solleva di sua spontanea volontà. "Bugiardo". Non credo nemmeno a una parola di ciò che ha detto.
"E va bene, non l'ha detto" ammette, immediatamente. "Ma che importa? Lui vuole vedere te e tu vuoi vedere lui"
Scuoto la testa. Sembra molto convinto delle sue parole.  Non so se valgono per Peeta. Ma per me non sono neanche lontanamente vicine alla verità. "L'unica cosa che voglio è restare sola" confesso, addio ai preamboli. "Sai dov'è la porta" concludo, con un gesto distratto della mano. Gli do le spalle e faccio per allontanarmi. La discussione è andata avanti anche troppo.
Haymitch mi richiama. "Katniss!" Sembra più un rimprovero. "Cosa direbbe Effie se ti sentisse?"
Sbuffo. "Dico sul serio, Haymitch. Sono stanca"
"Non cacciavi da molto" dice, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Indica l'arco e le frecce.
Quindi, avevo ragione. E' stato lui a riprendere il mio arco. Come e perché sono un mistero. Ma, al momento, non mi interessano nessuno dei due. "Non sono andata a caccia" lo informo. "E di certo non ricomincerò perché sei tu a chiedermelo" ci tengo a precisare. Semmai dovessi andare di nuovo a caccia, lo farei perché me lo sento. Non intendo sottostare ancora ad altre regole. Non dopo tutto quello che è successo. Farò esclusivamente ciò che mi va di fare.
Haymitch sembra confuso. "Sai come lusingare le persone, non c'è che dire". Alzo gli occhi al cielo. "Ma non so di cosa stai parlando"
Questa volta sono io a osservare bene lui. Sembra abbastanza sincero. E, comunque, Haymitch mi avrebbe detto chiaramente di darmi una mossa. Non sono più nell'arena e lui non è il mio mentore. Può parlare tranquillamente qui. "Non sei stato tu a lasciarli?" chiedo ugualmente, puntando il dito indice contro le armi di mio padre.
Haymitch mi guarda come se fossi impazzita. "Quante bottiglie di liquore hai conservato?" O ubriaca.
Quindi se non è stato lui, chi? Sae la Zozza è da escludere senza nemmeno pensarci. E' troppo vecchia per andarsene in giro nei boschi alla ricerca di armi. La nipote, pur essendo giovane, non sembra in grado di farlo lo stesso. Peeta è arrivato soltanto oggi e comunque lui non sa nemmeno che l'attrezzatura per la caccia la tengo nascosta tra gli alberi. L'unico che sarebbe in grado di farlo è a dieci distretti di distanza. Perché Gale è ancora nel Distretto 2, no? A questo punto, non mi stupirebbe se anche lui avesse deciso di ritornare. Tuttavia, lasciare regalini non è esattamente lo stile di Gale. Se fosse tornato realmente, mi avrebbe cercato e detto chiaramente di andare a caccia.
La voce di Haymitch mi fa ritornare alla realtà. "Ci vediamo dopo" dice, quando è già alla porta d'ingresso.
"Non verrò" urlo, ma lui è già fuori.
Probabilmente, Haymitch spera che all'ultimo minuto cambi idea. Perché verso l'ora di cena, non vedo arrivare Sae la Zozza e la nipote a farmi da mangiare. E' lei che si occupa della maggior parte dei miei pasti adesso. Non che avessi bisogno di qualcuno per farlo. Anzi, appena ritornata al Distretto non sentivo nemmeno l'esigenza di mangiare. Haymitch se ne è accorto immediatamente, e ha insistito perché Sae mi facesse da balia. Lei ne è stata contenta. Credo. Non ha mai mostrato segni di noia o pentimento. Non è difficile da credere, comunque. Quando gli abitanti di un posto si possono contare sulle dita di una sola mano, penso che ci si accontenti di qualsiasi cosa pur di passare il tempo. Eppure, questa sera Sae non si vede da nessuna parte. Sarà sicuramente perché pensa che andrò a casa di Haymitch per la cena collettiva. Che bisogno c'è di venire a casa mia, quando dobbiamo cenare tutti lì?
Non dispero. Mi accontenterò del poco che ho in casa. Poco, tuttavia, è la parola esatta per descrivere la quantità esatta che mi è rimasta. Rasenta il niente, a essere sincera. Una misera porzione di bacon, che avevo messo da parte questa mattina per Ranuncolo. Quando porto il piatto in tavola, lui mi guarda famelico. "Possibile che hai sempre fame?" gli chiedo, con una lieve nota di nervosismo. Non riesco a mettere in bocca nemmeno un pezzo. Non con quel gatto malefico che scruta ogni mio movimento, quasi come se stesse aspettando il momento adatto per balzare e strapparmelo di mano. Alla fine, gli cedo il piatto. Lo metto su una credenza bella alta, però.
Faccio per andare in camera, quando bussano alla porta. Non può essere Sae. Le ho detto entrare direttamente, senza bussare, e lei ha messo in atto le mie parole fin da subito. Anche Haymitch spesso non annuncia la sua presenza, sebbene a lui non gli abbia concesso niente del genere. Prima, nel pomeriggio, ha bussato però. Vado ad aprire. Non mi sorprende affatto ritrovarmi davanti a una bottiglia di vino rosso e al proprietario della mano che la stringe possessivamente. Ciò che invece mi lascia di sasso è la persona alle sue spalle. Peeta. Le cure del Dr. Aurelius gli hanno fatto davvero bene. Almeno fisicamente, sembra lo stesso ragazzo che ho conosciuto due anni fa. Un po' magro, forse. Ovviamente, porta addosso i segni incancellabili di ciò che ha dovuto subire durante entrambi gli Hunger Games e il periodo di prigionia. L'ennesima ondata di senso di colpevolezza mi assale. E' a causa delle mie azioni se si ritrova senza famiglia. E' a causa mia se è stato torturato per ordine di Snow. Se non avessero portato via me dall'arena, lui sarebbe stato al sicuro nel Distretto 13. Ma io ero la Ghiandaia Imitatrice. Quella da salvare per continuare la rivoluzione. Un'assassina. Quella che non si è fatta scrupoli ad uccidere all'interno dell'arena. Mi ritornano in mente le parole di Haymitch. Potresti vivere cento vite e ancora non lo meriteresti, lo sai? Inutile dire che aveva ragione.
Evito con cura di alzare lo sguardo in direzione di Peeta. Mi concentro su Haymitch.
"Penso di essere stata chiara prima" dico, il tono duro. Per una strana ragione, non ripeto le parole che usato nel pomeriggio.
"Sono abbastanza sicuro tu abbia detto che non saresti venuta". Lo fa gentilmente Haymitch al posto mio. "Ecco perché siamo venuti noi" dice lui, compiaciuto.
Mi viene voglia di prenderlo a schiaffi pur di levargli quel sorrisetto soddisfatto dalle labbra. "Ho anche precisato che volevo restare da sola" gli ricordo, tenendo il braccio ben teso contro lo stipite della porta, mentre con una mano tengo aperta quella.
Haymitch scrolla le spalle. "Ormai siamo qui" conclude semplicemente. Con la mano libera dalla bottiglia di vino, solleva il mio braccio di quel tanto che basta per permettergli di passare.
Non oppongo resistenza. Tanto sarebbe inutile. Mi allontano dalla porta quando viene il turno di Peeta di entrare e lascio che sia lui a chiuderla. Pochi istanti dopo arrivano anche Sae la Zozza e la nipote. Con piacere scopro che hanno portato cibo già pronto. Quindi, ci sediamo tutti intorno al tavolo. Abilmente riesco a sedermi nel posto più lontano da Peeta. Alla mia sinistra ho la nipote di Sae, Emil, e a destra, al lato adiacente del tavolo, c'è Sae. Davanti ho Haymitch. Da dove sono, potrei incontrare lo sguardo di Peeta solo volendolo. E non lo voglio.
Mangiamo in silenzio per un po'. Se avessi cenato con Ranuncolo, ci sarebbe stato più dialogo. La cosa mi infastidisce. Visto che Haymitch si è preso il disturbo di abbandonare casa sua e ricoprire la distanza pari a una ventina di passi tra le nostre abitazioni solo per passare la serata insieme, un pizzico di spirito di iniziativa è richiesto. Cenare con noi o da solo, non sarebbe stato poi differente. Forse, è stata davvero un'idea di Sae. Ma anche lei non ha aperto bocca. Finora.
"Allora, Peeta" comincia, come se stesse riprendendo una discussione iniziata in precedenza. "Cosa hai fatto oggi?"
Il tintinnio del cucchiaio contro la scodella, mi lascia intendere che Peeta ha smesso di mangiare. "Ho messo le mie cose a posto e... - fa una breve pausa, in cui mi viene voglia di guardarlo in viso - ho dipinto" spiega. Sembra in difficoltà.
"Cosa?" domanda questa volta Emil. 
A quel punto, non ho bisogno di alzare lo sguardo per capire che Peeta sta guardando me. "Non è ancora finito"
Non è la risposta alla domanda. Forse, ritiene che non sia appropriato dire il soggetto del suo disegno. Ciò mi fa pensare che potrei essere io. Mi ritrovo ad arrossire, così affondo la testa nella scodella. Eppure non sarebbe la prima volta che dipinge me. Sul treno che ci avrebbe scarrozzato in giro per i vari distretti, me ne aveva mostrati alcuni. Allora, però, le cose erano differenti. Paradossalmente, più semplici.
" E tu, Katniss?" mi chiede Sae, destandomi dai miei pensieri.
Avrei preferito aspettare ancora un po' prima di alzare la testa. Non sono del tutto sicura che il rossore sia scomparso. "Sono andata nel bosco" dico con un filo di voce. Ho sentito a stento la mia stessa voce.
Sae, però, non ha avuto alcun problema di udito. "Quindi, ho fatto bene a portarti l'arco questa mattina" dice, con un sorriso compiaciuto quanto quello di Haymitch appena arrivato. Nel suo riconosco anche dolcezza e contentezza.
Il senso delle parole mi arrivano in ritardo. "Sei stata tu? Quando? Come?" Per quanto mi sforzi e cerchi di superare i limiti della mia fantasia, non riesco a proprio immaginare la vecchia Sae in giro per il bosco.
"Non penserai mica che li ho recuperati io" chiede, retorica. "Ho chiesto a Thom di prenderli per me"
"Thom non poteva sapere dove erano nascosti" le faccio notare. Mentre aspetto una risposta, avverto qualcosa allo stomaco. Non capisco subito di cosa si tratti, poi mi diventa chiaro. Speranza. Spero che Gale sia tornato. Non dovrebbe essere così perché non ho bisogno di lui. Ma è una sensazione che non riesco a placare. Temo all'idea di pensare anche a un eventuale ritorno, per non illudermi inutilmente. Mi rendo conto solo adesso che, per quanto la morte di Prim è collegata a Gale, mi manca il mio migliore amico. Terribilmente.
Dopo aver mandato giù una bella cucchiaiata di stufato, Sae si affretta a spiegare. "E' riuscito a mettersi in contatto con Gale e lui gli ha detto dove cercare". Sebbene abbia bloccato qualsiasi pensiero, sono ugualmente delusa. "Dice che ha trovato un buon lavoro al Distretto 2"

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo Terzo ***


Capitolo Terzo
Nell'ultima settimana gli incubi sono diventati più frequenti. Al punto che mi è impossibile dormire tutta la notte, senza continui risvegli madida di sudore e col fiato corto. I protagonisti di base sono sempre gli stessi e solo qualche volta c'è un cambiamento. Agli ultimi, per esempio, hanno partecipato anche gli ibridi dell'arena. Una volta i lupi, subito dopo gli aghi inseguitori, le scimmie e poi di nuovo tutto da capo. Ho rivisto così tante volte Cato, il tributo del Distretto 2 che era con me nella prima arena, cadere dalla Cornucopia e finire alla mercé dei lupi in una stessa notte, che a un certo punto ho rinunciato a riaddormentarmi e sperare che non l'avrei più sognato. Sembra egoistico da parte mia, ma quello in confronto alle altre notti, era il più piacevole degli incubi. Spesso, anche troppo, lentamente i capelli biondi di Cato si allungavano e iniziavano a ricadergli lungo le spalle. Per quanto cercassi di aguzzare la vista per riconoscere chi fosse, il sangue che ricopriva il viso lo rendeva dannatamente difficile. I lupi lanciati sul malcapitato non lasciavano intravederne le fattezze. Non riuscivo a dire con sicurezza nemmeno se fosse una donna o una bambina. Tutto ciò che sapevo, a giudicare dai capelli lunghi, era che doveva essere un tributo femmina. Forse, era Glimmer del Distretto 1. Allo sparo del cannone, quando i lupi si allontanavano, era difficile dire anche se fosse un essere umano. Somigliava più alla carcassa di un animale morto. Un animale però non indossa gonne e tantomeno camicie. Era difficile individuare il colore degli abiti. Il rosso cremisi del sangue non lo permetteva. Comunque, non davano l'impressione di essere neri come la tuta che dovevamo indossare noi tributi. E allora mi rendevo conto che non era un tributo. Non era Glimmer. A quel punto, accadeva sempre che in quel lago di sangue, qualcosa attirava la mia attenzione. Soltanto in un sogno poteva accadere, perché con la paura, il disgusto per la scena a cui avevo appena assistito, e il moto di compassione per la persona che giaceva inerme ai miei piedi dall'alto della Cornucopia, nessuno potrebbe scorgere un oggetto piccolo come una spilla da balia. Assicurandomi che nessun lupo fosse nei dintorni, scivolavo giù. Afferravo la spilla e sembrava quasi che la punta mi trafiggesse il cuore, lo attraversasse da parte a parte. Era fin troppo familiare per non riconoscerla. Allungavo una mano sul viso della ragazza, che doveva essere minuta prima di essere maciullata dai denti dei lupi. Non poteva avere più di dodici o tredici anni. Cercavo di togliere quanto più sangue possibile da quel viso torturato, che era pallido e freddo al di sotto. Non ho mai avuto la possibilità di scoprire chi fosse la ragazzina. Ma mi svegliavo con il terribile presentimento che fosse Prim.
Sogni del genere si ripetevano anche due o tre volte nel corso di una notte. A volte, invece dei lupi, c'erano le scimmie. Oppure era il veleno delle vespe a uccidere mia sorella. Perché ero certa, al risveglio, che fosse lei. Lo potevo dire da come il suo nome mi arrivava alle labbra. Magari, urlavo anche in preda alla disperazione. L'assenza d'aria mi rendeva difficile respirare. Boccheggiavo e la puntura della spilla sembrava reale. Dopo aver sciacquato la fronte, ritornavo a letto, seduta a gambe incrociate. Cercavo di mettere da parte ogni traccia del sogno, ogni fotogramma che cercava di ritornare a galla. Dal momento che lo trovavo terribilmente difficile, concentravo la mente quanto più ero capace per cercare un modo di non avere più incubi. Era tempo perso. Lo sapevo perfettamente perché in più di due anni avrei già dovuto trovarlo. L'unico momento in cui gli incubi erano meno spaventosi o mancavano del tutto era soltanto uno. In più di una occasione, infatti, avevo pensato di sgattaiolare via da casa e chiedere a Peeta di ospitarmi nel suo letto. Tra le sue braccia. Una notte, contrassegnata dalla particolare ferocia degli ibridi, mi sono ritrovata davanti alla porta di casa sua, la mano a pugno bloccata a mezz'aria. Poi, consapevole di non poter fare una cosa del genere, ho girato i tacchi e ho fatto ritorno nella solitudine della mia casa. Da quel momento in poi, l'attesa della notte è diventata uno strazio. Durante il giorno, vado a caccia. Non tanto per pura voglia di andarci, piuttosto per tenermi impegnata. Mettersi in ascolto della preda, mirare e centrare il bersaglio sono cose che richiedono una certa concentrazione. Arrampicarsi sugli alberi, nuotare nel lago, correre a destra e a manca ti finiscono dopo un paio d'ore. E' così che mi preparo all'arrivo della sera, al momento in cui dovrò andare a dormire, con la speranza che la fatica e la stanchezza mi impediscano di sognare. Mi sbaglio di grosso. Hanno come unico effetto il fatto che mi appisoli ovunque capiti.
"Katniss. Katniss!" Sento qualcuno scuotermi per le spalle. Non voglio aprire gli occhi. Non ora che sto dormendo e non c'è niente a disturbarmi. "Svegliati". La voce - maschile - sembra spaventata. Forse, ho qualcosa che non va così sollevo po' le palpebre. Mi colpisce una luce arancione, che rende impossibile capire a chi appartenga il viso di chiunque sia davanti a me. Però, ne riconosco i lineamenti. E man mano che gli occhi si abituano alla nuova luce, riesco a cogliere anche altri aspetti. I capelli biondi. Gli occhi azzurri, che ricordano tanto quelli di Prim. In realtà, gli occhi di Peeta e Prim non hanno nulla in comune se non il colore. Ma suppongo che ogni volta che incontrerò qualcuno con gli occhi azzurri, mi verrà in mente lei.
"Mettiti a sedere lentamente" dice la voce di Peeta. Adesso sembra più calmo. Lascio che mi aiuti. Una fitta di dolore percorre tutto il braccio destro. "Sei svenuta".
Sono svenuta? Possibile che non me ne sia accorta?Mi guardo attorno. Strizzando gli occhi per via degli ultimi raggi di sole della giornata, riconosco immediatamente la vista. Alcune belle case mi fanno capire che sono al Villaggio dei Vincitori. Sotto la finestra di casa mia. Per terra. "Non sono svenuta" dico, per tranquillizzare Peeta. Mi fissa come se potessi avere un mancamento davanti ai suoi occhi, tra le sue braccia, da un momento all’altro. Solo adesso mi accorgo della presa salda ma gentile sulle mie braccia. "Mi sono addormentata e sono caduta". Ero seduta sul davanzale della finestra a impedire che Ranuncolo agguantasse il cerchio di luce gialla che emanavo con la torcia, lottando contemporaneamente contro il sonno. Quello però deve aver avuto la meglio e sono finita per terra. Ecco, la spiegazione per il dolore al braccio. Non mi sorprende nemmeno che non mi sia svegliata al contatto col suolo. Sono soltanto pochi centimetri e la stanchezza deve aver giocato un ruolo fondamentale.
Sento qualcuno ridere. E' la stessa risata che ho sentito dalla casa di Haymitch il giorno in cui Peeta è tornato. Lo guardo, confusa. Era lui, quindi, che rideva. Ha una bella risata, penso. Poi, l'idea che stia ridendo di me mi fa arrossire. E mi infastidisce, anche. Cerco di allentare la presa sulle braccia. Lui se ne accorge e, smettendo di ridere all'istante, toglie le mani immediatamente. "Non sarebbe più comodo dormire in un letto?" domanda, per nulla retorico.
Oltre l'evidente sarcasmo nella voce, non faccio fatica a cogliere la vera domanda che le parole di Peeta celano. Forse, sto solo diventando pazza o la caduta ha intaccato la mia capacità di giudizio, ma ho la sensazione che mi stia chiedendo come me la passo da quando sono tornata al Distretto 12. Da quando, almeno sulla carta, tutto è finito. Sospiro. "Dormirei sui carboni ardenti pur dormire realmente"
Peeta abbassa lo sguardo. "Ancora incubi?" domanda, e dal modo in cui lo dice avverto che qualcosa non va. E' accovacciato davanti a me a guardarsi la punta delle scarpe e i capelli sulla fronte nascondono qualsiasi sua espressione, ma nonostante questo so per certo che qualcosa lo tormenta. Il problema è che non riesco a capire cosa. Forse, anche lui sta avendo gli stessi problemi. Oppure, ci sono ancora volte in cui non sa la verità riguardo una determinata situazione. I flashback saranno diminuiti certamente se il Dr. Aurelius ha ritenuto giusto e sicuro permettergli di tornare. Adesso che ci penso, non so perché abbia voluto ritornare. Avrebbe potuto vivere in qualsiasi posto volesse e invece è tornato qui.
"Non ricordo nemmeno l'ultima volta che ne non ne ho avuti" ammetto con facilità. Forse, con fin troppa facilità. Nell'ultima settimana, ci siamo comportati come due estranei. Uno dei motivi per cui ho ricominciato a cacciare è proprio Peeta. Volevo evitarlo. Sapevo che nei boschi non avrei mai corso il pericolo di incontrarlo. Sebbene nell'arena se la sia cavata egregiamente, non è difficile intuire che i boschi o le foreste non rappresentano il suo habitat naturale. E se per caso fosse venuto a cercarmi, le prede in fuga mi avrebbero avvertito. Non sarebbe stato in grado di essere tanto silenzioso da ritrovarmelo davanti improvvisamente. Comunque, lui non è mai venuto a cercarmi. Sembrava che nutrisse il mio stesso desiderio di non incontrarmi. Peccato che trovarmi stesa per terra gli abbia rovinato i piani. 
Dopo qualche istante di silenzio, si raddrizza. Mi porge una mano, che accetto volentieri per rimettermi in piedi. "Devo andare prima che il sole cali del tutto" mi dice con uno strano sorriso. Più che un sorriso, in effetti, somiglia a un smorfia di dolore. 
"Dove?" gli chiedo, prima di rendermi conto quanto possa sembrare inopportuna la mia domanda. Ma ormai è fatta. 
Peeta si guarda attorno. E' in difficoltà. Oppure non vuole dirmelo. "Alla panetteria" ammette a fatica. Ecco il perché dell'espressione addolorata. Da quando è arrivato, sono stata così presa dai sogni e dai tentativi di evitarlo, che ho completamente dimenticato che della sua famiglia non è rimasto più nulla. Haymitch me l'ha ricordato il giorno del suo arrivo e mi sono sentita in colpa lì per lì, ma non ci ho dato molto peso. Non mi ha neanche sfiorato l'idea di dirgli che mi dispiace. "Non ci sono ancora stato" dice, la voce rotta.
"Vuoi che venga con te?" domando in fretta, per impedire che i ripensamenti mi facciano cambiare idea.
Peeta ci pensa per qualche istante. Poi scuote la testa. "Meglio di no" dice. "Ma ti ringrazio"
Sospiro. Posso capirlo. Nella stessa situazione, probabilmente avrei fatto lo stesso. Eppure, ci sono rimasta male. Almeno questa verità me la concedo subito. Tanto mi sarei ritrovata ad ammetterlo più tardi, appena mi sarei messa a letto.
Peeta gira sui tacchi e va via, mentre io fisso la sua schiena allontanarsi a passi veloci. Qualcuno chiama suo nome. Quando lui si volta nella mia direzione, mi accorgo di essere stata io. Perché l'ho chiamato? Istintivamente, mi viene in mente di dirgli di fare attenzione. Ma a cosa? Non può trovare nulla di pericoloso tra ciò che rimane del negozio della sua famiglia. Mi preoccupa, però, l'idea che sia lì tutto solo. Anche se lo sa, vederlo coi propri occhi sarà terribile. Sei sicuro che non vuoi che ti faccia compagnia?, è questo che voglio domandargli ancora. La paura di un nuovo rifiuto mi fa dire soltanto: "Mi dispiace".
Lui accenna un mezzo sorriso con un solo lato della bocca e poi riprende a camminare. Lo osservo mentre fa una breve pausa in cui saluta Sae la Zozza, senza intrattenersi parecchio. Qualche secondo dopo, non riesco più a vederlo.
"L'ho invitato a cena, è un problema?" domanda Sae. Scuoto la testa.
Rientro in casa con Sae per darle una mano a cucinare ciò che preso questa mattina. Sebbene cerchi di impegnarmi a ripulire le fragole, l'unica cosa che mi viene in mente è Peeta. Meglio di no. Queste parole continuano a risuonarmi nelle orecchie come un mantra. Non ha voluto che andassi con lui, quando tutto ciò che volevo offrigli era supporto morale. Non è la prova evidente che ha cercato di evitarmi tutta la settimana? Comunque, non me la sento di biasimarlo. Direttamente o indirettamente, è colpa mia se adesso si trova davanti ai resti di casa sua, sotto ai quali potrebbe esserci uno dei suoi fratelli o sua madre e suo padre. Deve prendersela esclusivamente con me se si ritrova improvvisamente senza famiglia. E' più che normale che mi odi. Anche io odierei me stessa. Magari prima poteva anche essere innamorato di me e capace di morire pur di far rimanere in vita me, ma adesso non c'è più nulla di quei sentimenti. Il periodo di tempo a Capitol City, la prigionia e le torture gli hanno permesso di vedere la vera me. Di capire che la sua era soltanto una cotta da ragazzino che andava soppressa del tutto. Non si rende conto dell'effetto che fa, aveva detto una volta rivolto a Haymitch. Adesso ha finalmente capito che dopotutto non ho un effetto positivo sulle persone. Ognuno dovrebbe tenersi alla larga da una persona come me.
Il fatto che Peeta non si presenti a casa mia a ora di cena conferma i miei dubbi. Il cibo è già tutto pronto in tavola, posizionato con una meticolosità sorprendente. Dopo mezz'ora di attesa, lo stomaco di Emil prende a brontolare. A questo punto, conveniamo che Peeta non verrà e iniziamo a mangiare.
"Gli serve solo un po' di tempo" dice, improvvisamente, Sae. "E tutto l'aiuto possibile"
Non c'è bisogno di chiederle a chi si sta riferendo. "Ci ho provato prima, ma non ha voluto" le spiego. Dirlo ad alta voce, per una strana ragione, mi fa stare anche più male. Allo stesso tempo, però, mi infastidisce. Volevo solo essergli d'aiuto.
Sae poggia il cucchiaio nel piatto. "Quando Peeta aveva bisogno della medicina per la febbre, cosa ti ha detto?" chiede, con fare comprensivo. Sembra quasi di essere ritornata a parlare con il Dr. Aurelius.
Ricordo con estrema chiarezza il momento a cui sta alludendo Sae. Peeta ed io eravamo ai nostri primi Hunger Games, all'interno della grotta che avevamo scelto come rifugio dai Favoriti. Peeta era messo malissimo e la febbre non accennava a scendere. Dal momento che tutti noi tributi avevano bisogno di qualcosa disperatamente, fummo invitati a un banchetto. Banchetto era, però, sinonimo di morte. C'erano elevate possibilità che qualcuno morisse, perché gli Strateghi puntavano a questo. "Mi disse che ci saremmo andati insieme o non ci saremmo andati affatto".
Sae annuisce. "Tu gli hai dato lo sciroppo per dormire e ci sei andata lo stesso" afferma, senza alcuna nota di rimprovero o di elogio. Emil segue il nostro scambio di battute, volgendo la testa da me alla nonna.
"Dovevo aiutarlo" dico, asciutta. Sono poche le cose di cui non mi pentirò mai nella vita, guardandomi indietro, e andare al banchetto degli Strateghi per salvare la vita di Peeta rientra tra queste.
Sae annuisce ancora, ma non aggiunge più nulla. Probabilmente alla conclusione devo arrivarci da sola. Non afferro subito, poi capisco cosa vuole dirmi. Devo aiutarlo anche se non vuole. Ma come?

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo Quarto ***



Capitolo Quarto
Dall'ultima volta che ho visto Peeta sono passati tre giorni. Sono abbastanza certa che non sia uscito di casa nemmeno per una manciata di minuti. Haymitch dice non averlo visto anche da prima di me. Inizialmente ho pensato che si fosse ammalato. Poi, parlandone con Sae, lei mi ha detto che non dava l'impressione di stare male, quando gli portato del cibo caldo. Se qualcosa lo tormentava, ha aggiunto prima di andare via, l'ha tenuto nascosto per bene in mia presenza. L'unica spiegazione plausibile per un tale comportamento può essere dovuta soltanto alla visita alla panetteria. La cosa non mi sorprende. Deve essere stato uno shock per lui vedere il negozio dei suoi in quello stato. La sua casa. Nessun video alla tv può prepararti a una cosa de genere. 

Il sole è sorto da un bel po', quando decido finalmente di andare a casa di Peeta. Non ho ancora deciso come indurlo ad accettare il mio aiuto, ma Sae aveva ragione. Devo farlo anche se non vuole. Soprattutto, se non vuole. E' così che lei e Haymitch sono riusciti a non tentare più il suicidio. 

Quando arrivo davanti a casa di Peeta, la porta è socchiusa. La apro lentamente, gettando una rapida occhiata nella stretta fessura che la separa dallo stipite. Riesco a vedere poco e nulla. Chiamo il suo nome prima di entrare, ma non risponde nessuno. Mi viene in mente che possa essere uscito. Ha solo dimenticato di chiudere la porta uscendo, mi dico. Eppure, non sono per niente convinta. Trattengo il respiro varcando la soglia. Mi accorgo anche che i battiti cardiaci sono aumentati di frequenza. Lo trovo seduto su una sedia attorno al tavolo, con le braccia che racchiudono la testa in una morsa ferrea. Che sta facendo?, penso. Sembra quasi che voglia nascondersi da qualcosa. Come quando Rory, il fratello di Gale, si era rintanato in un angolo perché aveva paura del coniglio che suo fratello ed io non eravamo riusciti a vendere al Forno. Ecco, mi ricorda tanto Rory. Raggomitolato su una sedia, lievemente appoggiato a un'altra, che cerca di proteggersi. Da cosa?, mi chiedo con la preoccupazione che sale ogni momento di più. Mi guardo attorno alla ricerca di qualsiasi cosa abbia potuto ridurlo così. Non c'è niente. La casa sembra a posto, anche troppo per uno che non la abbandona da tre giorni. Non ho ancora deciso se è o meno un buon segno. Adesso riesco perfino a sentire i battiti impazziti del mio cuore. Quasi mi sorprendo che lui non ci riesca. Comunque, non posso rimanere lì sulla porta in eterno. E poi è Peeta quello che ho davanti. Di cosa dovrei avere paura? Improvvisamente, scorrono davanti ai miei occhi immagini di lui che serra le mani attorno alla mia gola, con la stessa forza con cui adesso si sta reggendo la testa. No, non succederà di nuovo, dico a me stessa. Nonostante ciò, i miei occhi sono già alla ricerca di eventuale via di scampo. 

Provo a chiamare ancora il suo nome. Esce soltanto un sussurro strozzato. Ci riprovo. "Peeta?" Ancora niente. Mi chiedo se non stia dormendo. Impossibile. Sarebbe già caduto in quella posizione e le nocche bianche delle mani indicano che le sta stringendo con forza, il che richiede di essere svegli. "Peeta". La mia voce è ancora titubante e lievemente spaventata. Fargli credere che ho paura di lui è il più sbagliato dei modi per aiutarlo. Così, per dimostrargli che non temo nessuna reazione - sempre che abbia sentito la mia voce - gli metto una mano sulla spalla. Un tocco leggero. E' più una carezza, in effetti. Ma la reazione è immediata. 

Al di sotto della mano, i muscoli si contraggono istantaneamente. Sobbalza e poi diventa rigido come un grosso pezzo di ghiaccio. "Peeta!" dico, questa volta con decisione. Lo scuoto anche per risvegliarlo dalla trance. Cerco di sciogliere il nodo di braccia che gli copre la testa. Appena sfioro il braccio, lui scatta in avanti lontano da me.

"Va' via, Katniss" dice debolmente, le mani che stringono le tempie. "Con te qui è più difficile" aggiunge, serrando anche gli occhi. 

Sembra che non voglia vedere qualcosa, che voglia allontanarla. Ma non sono io. Si, certo, mi ha detto di andarmene, però sono sicura che non è me sta cercando di mandare via. E' qualcosa nella sua testa. Posso dirlo da come è concentrato, da come stia provando disperatamente. Sta avendo uno dei suoi flashback, ne sono sicura. Quindi, non se li è lasciati alle spalle del tutto. 

"Peeta, va tutto bene" cerco di tranquillizzarlo. "Sei al sicuro qui" Sono io a non esserlo? Scuoto la testa impercettibilmente per cacciare le immagini di Peeta che prova a strozzarmi nel Distretto 13. 

A ogni passo che faccio nella sua direzione, lui si allontana. "Fai come ti dico" dice Peeta. Riconosco un velo di esasperazione nella voce. Sembra esausto. 

Dovrei fare come vuole? Dovrei davvero andarmene e lasciarlo qui ad affrontare tutto questo da solo? Non posso fargli una cosa del genere. Non quando lui è sempre stato al mio fianco nei momenti difficili. E ce ne sono stati parecchi negli ultimi anni. Colgo al volo l'occasione di avvicinarmi, quando è con le spalle al muro. "Puoi farcela, lo so". Non lo tocco di nuovo, per paura di peggiorare le cose. Dal momento che non ho nemmeno un indizio su cosa stia vedendo, cerco di ricoprire un ampio raggio. Almeno per fargli capire dove si trova e che non ha nulla di cui preoccuparsi. "La guerra è finita. E anche i giochi. Siamo tornati a casa"

Mi mordo la lingua appena mi rendo conto di ciò che ho detto. Casa. Magari per Peeta non è come essere ritornati a casa. Il Distretto 12 è il posto in cui è nato, dove è cresciuto. Ma ha davvero l'aria di casa senza nessuno della propria famiglia? O degli amici? Io una risposta ce l'ho ed è no. Senza Prim, mia madre e Gale sembra tutto diverso. Tutto più complicato, quasi invivibile. Quel "quasi" è dovuto soltanto alla presenza di Haymitch e Sae. 

Peeta, comunque, non sembra fare molto caso a quello che dico per fortuna. E' di nuovo rigido quando lo tocco, in allerta. Stavolta però non si allontana. Capisco che è un buon segno. La pressione sulla testa ha iniziato ad allentarsi e le nocche stanno ritornando ad essere rosee. Quando ritengo che sia arrivato il momento giusto, ci cingo le spalle con un braccio e lo porto sul divano. Mi lascia fare, probabilmente a corto di ogni forza per ribattere. Il debole "Grazie" che mi sussusrra all'orecchio prima di stendersi ne è la conferma. 

Sposto lentamente i capelli dalla fronte. "E' il minimo che possa fare" gli dico, inginocchiandomi accanto a lui. Ancora una volta, i sensi di colpa di travolgono. Non passa giorno ormai che non ripeta a me stessa di aver fatto soffrire moltissime persone, che molti hanno pagato conseguenze peggiori delle mie a causa delle mie azioni. Peeta è uno di quelli. E' stato catturato a causa mia. Stargli vicino e aiutarlo a stare meglio è davvero solo una misera parte per ripagarlo per ciò che ha subito. "Riposati" dico, alzandomi. 

La mano di Peeta si chiude attorno al mio polso. "Non andartene". Per la prima volta da quando entrata, riesco a vedere i suoi occhi. L'azzurro delle iridi sembra spento, circondato da tutto quel rosso. Ci vedo lo stesso sguardo torturato che aveva nel Distretto 13. Non potrei andarmene, nemmeno se lo volessi. 

Accenno un sorriso. "Non l'ho neanche pensato" ammetto. "Volevo prepararti qualcosa da mangiare". Sebbene appena arrivato non fosse tanto più magro di così, si vede che per giorni non toccato cibo. In cucina, accantonati in un angolo, scorgo quelli che una volta dovevano essere i piatti caldi che Sae gli ha portato in questi giorni. 

A quel punto, Peeta lascia andare il polso e si rilassa. Scuote la testa. "Non ho fame". Cerca di mettersi seduto facendosi forza sulle braccia, ma glielo impedisco. 

"Resta giù" ordino, la mano posata sulla sua spalla. Per un istante, lui la guarda e mi sembra che si incupisca, così la ritiro rapidamente. L'attimo dopo sembra essersi calmato, tanto da chiedermi se non abbia preso una svista.  "Almeno del tè?" domando, speranzosa. 

Fa segno di non con la testa. "Sto bene così, grazie" dice dolcemente. Fa di nuovo per alzarsi e questa volta lo lascio fare senza intervenire. Da un paio di colpetti all'imbottitura accanto a sé. "Siediti". 

Faccio come dice. Sembra strano essere qui con lui. Così normale da apparire quasi inverosimile. E' desolante il pensiero che per me la normalità consista nello stare seduti su un divano a fare niente, senza neanche parlare. Ma d'altronde, anche prima per "normale" intendevo andare a caccia di scoiattoli con Gale, raccogliere fregole in gran quantità, per poi andare a vendere tutto al mercato nero oppure al sindaco Undersee. 

"E' per questo che non ti sei fatto vedere in questi giorni?" domando, spezzando il silenzio tombale della stanza. "Per colpa dei flashback?" 

Accanto a me, Peeta sembra teso mentre annuisce. "Il Dr. Aurelius dice che non dovrei isolarmi" spiega, con lo sguardo perso davanti a sé. Poi si volta nella mia direzione con un'espressione indecifrabile. "Ma non voglio fare del male a nessuno". Non ho bisogno che aggiunga altro per capire che è un riferimento velato a ciò che mi ha fatto nel Distretto13. Oppure alla faccenda di Mitchell. 

"Ha ragione" dico immediatamente. "Come facciamo ad aiutarti se non ce ne dai la possibilità?" 

Peeta inclina la testa di lato. Ha un'aria illeggibile che non mi piace. "Quindi, vuoi aiutarmi?" domanda, perplesso. 

Inizio a preoccuparmi. Come può dubitare che voglia dargli una mano? Da quando ha avuto la sfortuna di conoscermi non gli è capitata una cosa buona, ma ciò non toglie che ho sempre preso una decisione anteponendo la sua vita alla mia. Ho sempre cercato di proteggerlo e ora non può venire a dirmi che ha dei dubbi a riguardo. "Sembri sorpreso" dico, cercando di limitare la rabbia che rischia di esplodere da un momento all'altro. 

"Lo sono" dice lui semplicemente. Non è la risposta che ho immaginato. "Come puoi aiutarmi se sei la prima a rifiutare ogni aiuto?" chiede. Questa me l'aspettavo anche meno. Non ho nemmeno capito cosa voglia dire. Se ne accorge. "Haymitch mi ha detto che volevi ucciderti all'inizio. Ci stai ancora provando?" 

Sospiro. Ecco a cosa si riferisce. Distolgo lo sguardo da Peeta. Fisso lo stesso punto su cui lui era tanto concentrato qualche attimo fa, appuntando mentalmente di chiedere a Haymitch di tenersi fuori dalla mia vita. O almeno, di non raccontarla a chiunque. Ma Peeta non è uno qualunque, mi correggo subito. Se c'è uno che può capirmi meglio di chiunque altro è proprio lui. Lui, che per primo mi ha chiesto se voglio suicidarmi senza alcun giro di parole. Tanto diretto da cogliermi alla sprovvista. Ci sto ancora pensando? "Ci sono delle mattine in cui vorrei" ammetto, dopo averci pensato un po' su. " E' come se fossi ancora nell'arena, a un passo dalla morte. Ma poi c'è sempre il pensiero di qualcosa che mi impedisce di farlo. Mia madre o... - mi fermo prima di pronunciare il nome di Gale - ... o Prim. Lei non vorrebbe che lo facessi". Sospiro. "Quindi, no. Penso che se davvero avessi voluto, l'avrei già fatto"

E' una cosa a cui non avevo mai pensato. Ora mi rendo conto di quanto sia vera. Da quando sono tornata al Distretto 12, avrei potuto morire in moltissimi modi. Haymitch e Sae sono sempre a controllare che mangi, ma non si muore solo di fame. Nel mio caso, sarebbe bastato andare nel bosco e non uscirne più. Nessuno mi avrebbe trovato con la conoscenza che ho di quel mucchio di alberi. Prima però avrebbero dovuto arrivarci che ero lì, visto che avevo espressamente chiarito a tutti che non ci avrei messo più piede. 

La tensione sul volto di Peeta si allenta. Posso dire con assoluta certezza che è sollevato dalla mia risposta. Ma non del tutto tranquillo. "Dovresti parlarne con il Dr. Aurelius" dice, confermando i miei dubbi. Il fatto che non voglia davvero morire, dopotutto, non gli basta come prova che sto relativamente bene. 

Annuisco, ma non gli prometto nulla. Anzi, mi viene in mente che ha deviato il discorso sui miei problemi senza che me ne accorgessi. E io gliene ho parlato, quando è lui che dovrebbe dirmi cosa gli sta passando per la testa. "Cosa vedi quando ti capitano questi episodi?" domando, cercando di usare il massimo della sensibilità di cui sono dotata. 

Gli angoli della bocca di Peeta si curvano in un sorriso. Amaro. "Berrei volentieri quel tè adesso" si limita a dire. 

Alle mie orecchie giunge soltanto la chiara intenzione che non vuole parlarne. Mi dirigo un cucina, con un bruciante senso di sconfitta che serve solo a ricordarmi quanto io sia inutile. Anzi, no. Non sono inutile. Quando si tratta di far morire persone che amo sono perfettamente brava. In quello, ho fallito pochissime volte. Aiutare e consolare non rientrano nella lista di ciò che so fare. Prim era brava in quello. Tra le due, io ero soltanto quella che era in grado di andare a caccia e uccidere quante più prede era possibile. Per necessità, ma pur sempre di morte si parlava. E adesso, mi rendo conto che non sono nemmeno una buona ascoltatrice. Peeta non ha detto granché della sua situazione perché mi ha offerto una via per parlare dei miei problemi. Ed io non ho fatto nulla per impedirglielo. Gli ho detto che, nonostante ci abbia provato, non ho mai davvero voluto morire. Una cosa che non ho mai detto a nessuno. E non perché nessuno me l'abbia mai chiesto così direttamente, nel tentativo di non turbare il mio fragile equilibrio. In effetti, l'ho raccontato a Peeta senza nemmeno chiedermi se volevo che lui sapesse. Ci ho pensato e l'ho detto. E' perché mi fido ciecamente. So di poter fare affidamento su di lui, molto più di quanto possa farlo su me stessa. 

Nonostante sia immersa nei miei pensieri mentre l'acqua bolle, non ho problemi a sentire i passi di Peeta che diventano man mano più nitidi. Non è mai stato abile nell'essere silenzioso. Per questo, quando entra in cucina non sono sorpresa nel vederlo appoggiato con la spalla contro il muro. Non ha più l'espressione amareggiata, ma non è del tutto sereno. "Non ho voluto che cucinassi perché pensavo avresti provato ad avvelenarmi" La voce è tutt'altro che ferma mentre parla. Gli occhi sono rivolti verso il pavimento e le braccia incrociate al petto. 

Adesso sono io quella tesa. Pensava che volessi ucciderlo. Non è una prova in più del fatto che sono brava solo in quello? "Perché hai cambiato idea?" domando con un filo di voce. 

Peeta sembra di nuovo sorpreso. "Perché so che non hai mai provato ad uccidermi, ma... - rimane in silenzio per qualche istante. Pare che faccia fatica a continuare. - ... certi ricordi sono così ambigui che ancora mi confondono" confessa. 

Distolgo lo sguardo con la scusa di versare l'acqua in due tazze. Non riesco a vederlo in quello stato. Vorrei andare lì e baciarlo per cancellare anche solo per un momento quell'espressione di immeritata colpevolezza. Non deve sentirsi in colpa per una cosa su cui non ha alcun potere. Ma rimango dove sono. Se lo baciassi, non sarebbe per i motivi giusti. Non quelli che lui potrebbe intendere. 

"Prima quando mi hai toccato la spalla, mi è venuta in mente la volta al fiume. Quando ero ferito nell'arena. Mi hanno fatto credere che avessi cercato di far peggiorare la ferita alla gamba". E' arrabbiato adesso. Le mani mostrano nuovamente delle parti bianche in prossimità delle nocche. 

Anche io inizio ad innervosirmi. Non perché abbia pensato quelle cose, ma perché odio chi gli fatto tutto questo. "Volevo soltanto curare la ferita" gli faccio presente. 

"Te l'ho detto, lo so" è tutto ciò che dice Peeta. 

Il resto della giornata lo passiamo a parlare delle cose che Peeta crede reali e invece non lo sono e viceversa. Un'occasione perfetta per rivivere i momenti peggiori della nostra vita. Alcuni dei quali visti attraverso gli occhi di Peeta e quello che gli hanno fatto credere. Mi sento male la metà del tempo, ma a lui non dico nulla. Sembra che parlarne, lo faccia stare meglio. Ed è quello per cui sono andata a casa sua in primo luogo. Quindi, nonostante ogni ricordo sia come la puntura della spilla che ho sognato per una settimana intera, lo faccio volentieri nascondendo per bene ogni sensazione. Anche Peeta sembra più tranquillo di quando sono arrivata, ma qualcosa mi dice che è solo apparenza. Sono sicura anche del fatto che molte cose non me le dica. Non perché non voglia, ma per evitare di calcare troppo la mano. Forse è solo una mia stupida idea, ma gliene sono grata comunque. Anche di più quando trovo il coraggio di chiedergli se posso rimanere per la notte e lui non mi respinge.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo Quinto ***


Capitolo Quinto
Katniss si è già addormentata; doveva essere davvero stanca. Non ha un'aria totalmente serena, ma di tanto in tanto spunta un mezzo sorriso. Mi chiedo cosa stia sognando con la speranza che non siano incubi. Se sorride, quanto possono essere brutti? Sfilo il braccio da sotto la sua testa e mi metto su un fianco per guardarla. E' bella. Non che non lo sapessi. E' lei quella che non si rende conto di quanto lo sia. Sposto i capelli che le ricadono disordinati sul viso, con estrema delicatezza per non rischiare di svegliarla. Adesso indossa un'espressione neutra, le labbra rosee tese in una linea dritta. Le accarezzo la guancia lentamente col dorso della mano. La pelle olivastra è illuminata dalla luce della luna che filtra dalla finestra aperta. Come ho potuto pensare che Katniss avesse voluto uccidermi? Che nell'arena avesse tentato di fami stare peggio con lo sciroppo per dormire? Oppure che avesse premeditato di lasciarmi nell'arena all'Edizione della Memoria?
Non ha mai pensato nulla di tutto ciò. Me l'hanno soltanto fatto credere. Mai ha tentato di farmi morire. Anzi, in entrambe le edizioni degli Hunger Games non ha fatto altro che mettere la mia vita avanti alla sua. Le devi molto, dice una vocina nella mia testa. E' grazie a lei se ora sei ancora qui.
Ha rischiato di morire per recuperare lo zaino con le mie medicine. L'ho visto nei video come Clove sia stata a un passo dall'ucciderla e come Tresh l'abbia risparmiata solo per quello che aveva fatto a Rue. Esclusivamente perché la mia temperatura non accennava a scendere. Se mi avesse dato ascolto e non fosse andata a prenderle, sarei morto. E non solo in quell'occasione. Anche a Capitol City, quando ancora dovevano iniziare a iniettarmi il veleno, il solo pensiero di Katniss mi ha permesso di andare avanti. In cella, mi bastava pensare a lei per non lasciarmi sopraffare dal dolore, per non urlare. Per non piangere alla vista di Darius e Lavinia torturati perché non rispondevano a domande cui non potevano dare una risposta essendo Senza-Voce. Bastava il pensiero di Katniss al sicuro, ovunque lei si trovasse. Con Gale, continua la voce nella mia mente. Ero assolutamente certo che Gale fosse con lei. Ma ne ero contento. Gale l'avrebbe protetta allo stesso modo che avrei fatto io. Sarebbe morto per lei, anche solo al pensiero che potesse essere in pericolo. Era tutto ciò che avevo bisogno di sapere. Per il bene di Katniss, ho messo a tacere la gelosia che provavo nei confronti di Gale. E poi, poco importava se fossi geloso o meno. Supponevo che in breve tempo sarei morto e non avrei comunque potuto avere un futuro con lei. Avresti potuto averlo, però, se solo non ti avessero preso. Scuoto la testa per mettere da parte quest'ultimo pensiero. Non sembra nemmeno mio. Non potrei nemmeno pensarla questa cosa. Anche se non ne ho mai avuto l'occasione, ho ringraziato mentalmente chiunque sia stato tanto sveglio da aver salvato lei al posto mio. Eppure, avrebbero potuto salvarvi entrambi. Si, forse avrebbero potuto.
Sto ancora accarezzando la guancia di Katniss. Le sfioro la bocca, adesso piegata in un tenue sorriso. Scendo più giù, sul collo. Quello stesso collo che una volta ho stretto al punto da farle cambiare colore del viso. Scosto i capelli anche da lì. Con una sola mano riesco a circondarne una buona metà. Prima che possa accorgermene l'altra è adagiata sulla metà restante. Le punte delle dita si sfiorano. Basterebbe una lieve pressione e Katniss inizierebbe ad annaspare, in cerca di aria. Incrocio le dita sulla sua nuca e stringo aiutandomi con le due davanti. Katniss non si muove, come se non se ne accorgesse che sta soffocando. L'unico cambiamento che denota l'assenza di aria nei polmoni è il colorito dapprima pallido, poi bluastro del suo viso. Tuttavia, non si muove. Non apre gli occhi. Il sorriso è ancora lì. Mollo la presa quando avverto che sotto le mani non c'è più battito. E' morta. La stringo in un abbraccio. La sua testa senza vita è sotto il mio mento.
Ed è ancora lì, quando sgrano gli occhi, inorridito. Era solo un sogno. Vorrei portare una mano nell'incavo del collo di Katniss e controllare che ho ragione, ma ho paura di farlo. Non per il responso. Sono sicuro che è viva. Avverto il suo respiro caldo contro il petto. No, ho paura di poterle fare del male sul serio. Sfilo con cautela il braccio da sotto la sua testa. Come nel sogno, cerco di non svegliarla e provo a toccarla quanto meno è possibile. Mi alzo. Corro in bagno. Lo specchio mostra il riflesso di un ragazzo pallido, gli occhi colmi di terrore. Faccio scorrere l'acqua per un po', poi la prendo tra le mani e la porto alla faccia. Schizza un po' dappertutto, per via del tremolio che anima le mani. La sensazione dell'acqua gelida contro il viso mi schiarisce la mente. Sento di poter essere in grado di ragionare, adesso. E il primo pensiero sensato che mi attraversa la mente è quello di andarmene velocemente. Infilo distrattamente i vestiti di ieri e mi precipito fuori.
L'aria della notte è abbastanza fresca. Cammino per un po' senza sapere dove esattamente sto andando. Sono stato uno stupido ad accettare la proposta di Katniss. Non avrei mai dovuto permetterle di dormire con me. Ho ancora problemi a gestire i flashback e forse ne avrò per sempre. Cosa mi è saltato in mente? Avrei potuto ucciderla. Il sogno sarebbe potuto essere reale e adesso Katniss sarebbe morta davvero. Non è difficile da immaginare, non è poi così impossibile. Mi capita ancora molto spesso che sia confuso riguardo i ricordi su di lei. E' vero che so che non ha mai cercato di farmi star male, ma alcune cose non le ricordo con precisione. E altre non le ricordo e basta. So solo che, nonostante mi abbiano mostrato video in gran quantità e modificato la maggior parte dei ricordi, non posso odiarla. Non ci riesco. Eppure, ci sono volte in cui mi chiedo se quella che mi hanno mostrato a Capitol City corrisponda alla verità dei fatti. Nonostante diminuiscano di numero, parecchie volte ancora dei dubbi si insinuano nella mia mente e senza accorgermene mi ritrovo aggrappato allo schienale di una sedia, o a stringermi la testa tanto da farmi male, per cercare di fermare le immagini che mi scorrono dietro le palpebre serrate. Immagini di Katniss che uccide la mia famiglia. Katniss che ferma Finnick in modo che non mi rianimi. Katniss che propone di lasciar indietro me e non Mags. Ecco perché non è difficile da immaginare che possa ferire Katniss. O peggio.
Se io sono stato stupido, lei è stata troppo incauta. Come ha potuto chiedermi di rimanere? Non avrebbe mai dovuto chiedermi di poter dormire con me, nello stesso letto. Sapeva che non avrei mai potuto rifiutare. Che non sarei stato capace. Mi è mancato tanto stringerla tra le braccia che ho accettato pur sapendo a quali rischi l'avrei messa di fronte. Sono stato egoista. Uno stupido egoista che non si sarebbe mai perdonato di aver ucciso l'unica persona al mondo che gli è rimasta. L'unica che abbia mai amato. All'inizio era soltanto una cotta adolescenziale. Una di quelle che ti fanno semplicemente trattenere il respiro quando lei ti passa davanti e finisci col deprimenti se non ti saluta. Katniss non mi ha mai salutato quando andavamo a scuola. Anzi, prima di darle quel pane, giurerei che non mi abbia mai nemmeno notato. Da quel giorno in poi, di tanto in tanto i nostri sguardi si sono incrociati, ma niente di più. Prima di volgere gli occhi altrove, riuscivo a scorgere nei suoi grigi qualcosa che mi ha dato fastidio sin dalla prima volta, che mi faceva venir voglia di non guardarla più. Uno stano senso di gratitudine misto a... non sapevo cosa di preciso. Tutto ciò di cui ero sicuro era che non mi piaceva. Mi dava l'impressione che si sentisse in debito con me. Ma non io non la pensavo affatto così. Anzi, dovevo esserle io grato perché almeno in quel modo non ero più invisibile ai suoi occhi. Comunque, per quanto cercassi di costringermi a non guardare quello fastidioso mix, ogni giorno a scuola Katniss attirava il mio sguardo.
Le cose sono cambiate con gli Hunger Games. Sembra ridicolo pensarlo, ma è grazie a loro che Katniss ed io abbiamo costruito un rapporto. Ambiguo e indeciso, ma pur sempre un rapporto. La cotta si è trasformata improvvisamente in amore. In un momento imprecisato nei due anni passati, Katniss ha smesso di essere semplicemente la ragazza che mi piace, per diventare quella con cui avrei voluto costruire un futuro semmai ne avessi avuto uno. Poi, ancora una volta, le cose sono cambiate. Ricordo che per un po' di tempo per lei non ho provato altro che odio. I tempi in cui il veleno aveva il completo controllo delle mie azioni. Delly mi ha raccontato che una volta le ho pure detto che non era poi così carina. Ero completamente e indiscutibilmente pazzo allora.
A guerra finita, il Dr. Aurelius ha fatto prodezze. E riuscito a guarirmi se non del tutto, ma per la maggior parte. E così ha deciso che era giunto il momento di tornare a casa. Di Katniss non avevo notizie, visto che il dottore si rifiutava di parlarmi degli altri pazienti. Ma conoscendola, sapevo che si stava dando tutta la colpa per la morte di Prim. E ho avuto ragione.
La panetteria è proprio davanti a me. Mi siedo sui resti di quella che una volta doveva essere una sedia di casa mia. Quando l'altro giorno ci sono venuto, non riuscivo nemmeno a distinguere la porta d'ingresso. Me ne sono andato quasi subito. Non riuscivo a rimanere in quel posto e non ci riesco nemmeno ora, ma non ho altro posto dove andare. Sia perché è tutto distrutto sia perché l'unico posto dove mi sento a casa è diventato off-limits.
Il sole sorge e raggiunge una buona altezza in cielo per quando sento dei passi alle mie spalle. Mi giro a guardare chi sia, sperando che non sia Katniss. Per fortuna, non è lei. E' Haymitch. Ha l'aria soddisfatta. "Katniss ti sta cercando". Al suono di quel nome, ritorno a guardare i resti del negozio davanti a me. "Era preoccupata, cosa è successo?"
Vorrei parlare di quello che è successo con il Dr. Aurelius, ma per farlo dovrei tornare a casa. Dove c'è Katniss. Potrei rimandare a quando lei se ne sarà andata, ma ho bisogno di qualcuno adesso. Haymitch non sarà la persona più adatta, ma è qui e sembra disposto ad ascoltarmi. "Secondo te, è giusto lasciare andare una persona che ami per il suo bene?" domando, con lo sguardo perso in un forno.
Non riesco a vedere la faccia di Haymitch, ma a giudicare dall'assenza immediata di risposte, suppongo che sia confuso. "So che mi pentirò di ciò che sto per dire, ma... - fa una pausa, sottintendendo che si sente in dovere - dovrai essere più specifico"
Sospiro e mi volto verso di lui. "Katniss ed io abbiamo dormito insieme..." Mi fermo quando vedo il sorrisetto malizioso disegnato sulle labbra di Haymitch. "Non in quel senso" mi affretto a precisare.
Haymitch scrolla le spalle. "Non ho detto niente" commenta, facendo del suo meglio che sembrare abbastanza innocente.
"Non ce n'è stato bisogno" gli faccio notare, iniziando a pentirmi di aver iniziato a confidarmi con lui. Sono ancora in tempo per tirarmi indietro, ma in un certo senso non voglio. "Questa notte ho sognato che la uccidevo" taglio corto, abbassando lo sguardo per la vergogna.
Sento gli occhi di Haymitch addosso. Quando rialzo gli occhi per vedere la sua reazione, mi scopro sorpreso nel vedere le sopracciglia arcuate. "E allora?" chiede.
Non capisco se abbia compreso la situazione e cerchi di sminuirla. Oppure se davvero non abbia capito qual è il problema. Decido comunque di dargli una spiegazione. "Se le avessi fatto del male davvero, non me lo sarei mai perdonato"
"Pensavo sapessi che non si uccide con un sogno" dice Haymitch, la voce carica di un'ironia che non apprezzo. Sembra quasi che voglia prendermi in giro.
Scuoto la testa, rassegnato. Ho sbagliato io a pensare che avrebbe potuto darmi una mano in qualche modo. Mi alzo dalla sedia malandata. "Grazie per avermi avvisato" mugugno, prima di rimettermi sulla strada per il Villaggio dei Vincitori. Dovrò chiamare il Dr. Aurelius appena avrò chiarito con Katniss. Chiarire cosa, poi? Lei non sa niente del sogno. Potrei anche non dirle niente. Non mi piace neanche un po' l'idea di mentirle, ma non mi va nemmeno che sappia dei miei sogni. Potrebbe spaventarsi e... Cosa? Decidere che non vuole più dormire con me? E' quello che voglio, dopotutto. Non perché mi faccia piacere. Per necessità. Non era una semplice frase fatta quella che ho detto a Haymitch. Non potrei mai perdonarmi per averle fatto del male.
Sento una mano sulla spalla, prima di udire le parole. "Fermati" dice la voce di Haymitch. Volto indietro la testa, in attesa. "Sono l'ultima persona che potrebbe darti consigli sull'amore". Mi viene quasi da chiedergli perché mi ha richiamato, ma mi trattengo. "Se vuoi la mia opinione, non c'è una risposta giusta alla tua domanda" dice, togliendo la mano dalla mia spalla. Spero davvero che questo non sia il massimo che riesce a tirare fuori, perché non mi è affatto d'aiuto. "Vinta la mia edizione degli Hunger Games, Snow uccise la mia fidanzata perché mi ero rifiutato di fare ciò che diceva. Qualche anno dopo mi sono innamorato di un'altra donna e l'ho lasciata andare perché avevo paura che facesse la stessa fine. Ma l'ho persa comunque"
"Almeno è viva" lo interrompo, immaginando la conclusione.
Il sorriso sulle labbra di Haymitch emana amarezza. "Chi mi dice che non lo sarebbe ugualmente?"
Lo vedo. L'alone di rimpianto annidato negli occhi grigi di Haymitch. "E' diverso" affermo, dopo un po'. "Avresti potuto fare ciò che Snow diceva e proteggerla. Non dico che la tua decisione sia sbagliata - dico, anticipando Haymitch - ma almeno avevi una scelta. L'unico modo che ho io di proteggerla è starle lontano".
Non rimango ad ascoltare quello che Haymitch ha da aggiungere. Sono fortemente convinto di avere ragione, per cui nulla potrebbe farmi cambiare idea. Rappresento un rischio per Katniss da sveglio quanto da addormentato, quindi, in realtà, non c'è nulla di cui discutere.
La strada che porta al Villaggio sembra molto più breve adesso che non voglio ritornarci. Lungo il sentiero, vedo Katniss dalla finestra di casa sua. Se era preoccupata, adesso non lo è. O forse, non lo da a vedere.
"Dove sei stato?" mi chiede inquieta, quando viene ad aprirmi.
Dopo essere entrato, distolgo lo sguardo e mi metto a una distanza di sicurezza da lei. Averla vicino rende tutto più complicato.


Mi sorprende di essere arrivata già al quinto capitolo. Raramente sono andata così avanti in una ff. Comunque, è grazie a voi che avete recensito se sono arrivata a questo punto. Non scherzo quando dico che mi incitate ad andare avanti. Mi dispiace di non essere riuscita a ringraziare personalmente ognuno, perché questa settimana ho avuto davvero da fare. Lo faccio adesso! Quindi, grazie a tutti i nuovi recensori, che lasciano commenti davvero carini e simpatici. Un grazie particolare va ai fedelissimi. Sempre lì a recensire a ogni captolo. E il bello è che lo fate anche in fretta! Sono contenta anche dei preferiti e seguiti che continuano ad umentare di numero.
Passando al capitolo, spero che sia piaciuto. Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa sulla notte che hanno passato Peeta e Katniss e l'ho trovata una buona idea. Ho pensato che farlo dal POV di Peeta sarebbe stato più interessante. Anche perché quello che pensa Katniss ormai lo sappiamo. Mi piacerebbe sapere se ho fatto una cavolata e se non devo mai più azzardarmi a cambiare punto di vista.
Al prossimo capitolo...

-M

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo Sesto ***


Sono in un ritardo assurdo, lo so.
Dovevo prima trovare una bella trama per il nono capitolo.
Posso affermare di averla trovata! E mi sembra anche carina. Oggi mi metto all'opera.
Per tornare a questo capitolo... beh, non mi piace neanche un po'. Non è così che avrei
voluto far andare delle cose, ma scriverlo in maniera diversa sarebbe stato complicato.
L'avrò detto anche per gli altri capitoli, ma questo è brutto davvero. Spero che non vi porti a
non leggere più la ff.
Buona lettura.
-M


Capitolo Sesto
Il giorno dopo, quando mi sveglio, noto subito la differenza. Sono ben riposata e rilassata, la fronte non è imperlata neanche da una goccia di sudore e la mente non è affaticata ancor prima di iniziare la giornata. Tutte cose che non capitavano da moltissimo tempo. Avevo dimenticato il potere di un'intera nottata di sonno. Gli incubi non sono spariti. Ormai, sono dell'idea che quelli continueranno a seguirmi fino alla fine della mia vita. Il dolore alla vista di Prim, gelida e pallida, mi ritornerà alla mente ogni volta che chiuderò gli occhi. Ma questa notte è stato diverso. Ho avuto la sensazione che ci fosse qualcuno a guardarmi le spalle, che non avrei dovuto fare tutto da sola per mettere in fuga le persone in pericolo. Un sollievo indescrivibile. Anche se non ho mai visto quel qualcuno, nella mia mente c'era solo un nome. Peeta. E' lui il responsabile di questa enorme differenza. Ieri sera, inizialmente, è stato strano. Entrambi stesi a letto, con uno spazio tra di noi che avrebbe permesso il passaggio di un treno. Era ridicolo quanto fossimo improvvisamente impacciati. L'ultima volta non ci sono stati problemi di alcun genere e nella grotta ai primi Hunger Games tutto è venuto con una naturalezza difficile da trovare tra due persone che si conoscono a malapena. Ieri sera, invece, era come se ci fossimo incontrati per la prima volta. Poi, mi sono detta - E' Peeta! - Così, ho annullato la distanza tra i nostri corpi. Ho poggiato la testa sulla sua spalla e una mano sul petto. Peeta era riluttante, ma poi ha passato un braccio attorno alle mie spalle e mi sono lasciata cullare dalla sensazione di sentirmi a casa dopo moltissimo tempo. L’ultima cosa che ho sentito prima di addormentarmi è stato il cuore di  Peeta battere.
Ci metto un po' a capire che Peeta non è al mio fianco. Mi chiedo dove possa essere. La risposta giunge appena l'odore di bacon si sofferma sotto il mio naso. Vado in bagno e mi rinfresco il viso. Non ho l'occorrente per pulire le ferite, ma non me ne interesso poi molto. Evitando con cura di prestare attenzione alla ragazza nello specchio, esco e mi dirigo al piano di sotto. Le case del Villaggio dei Vincitori sono tutte uguali, al punto che potrei credere di essere a casa mia se non avessi ben chiaro in mente di aver dormito con Peeta nel suo letto. Anche la presenza di Sae in cucina è familiare, tanto da confondermi in principio. Però mi viene in mente che anche Peeta deve pur mangiare.
"Buongiorno" bofonchio, la voce impastata dal sonno. Sae risponde cortesemente al saluto, mentre mette dell'altro bacon a cucinare. "Dov'è Peeta?" chiedo, dopo aver dato un'occhiata intorno. Non è da nessuna parte.
Sae mi rivolge uno sguardo indecifrabile. "Se non lo sai tu" dice e quelle semplici cinque parole hanno il potere di farmi arrossire violentemente. Più che le parole in sé, è il tono che mi mette a disagio. Lascia intendere che tra me e Peeta sia successo dell'altro oltre a degli innocenti abbracci.
Nascondo il viso dalla vista di Sae. Quella donna è capace di capirmi anche solo con uno sguardo. Non me la sento di ripetere la domanda. E comunque, stando alla risposta appena data, penso che anche lei ne sappia quanto me. Mangio in silenzio il piatto che mi porge, con gli occhi ben fissi sul fondo. Quando Sae va via, le chiedo di dire a Peeta che ho bisogno di lui, semmai dovesse incontrarlo.
Adesso che sono sola, mi sembra quasi di essere fuori posto. In fondo, è strano che sia a casa di Peeta quando lui non c'è. Dovrei andarmene e aspettare che ritorni a casa mia. Perché poi dovrei aspettarlo? Non ho niente da dirgli. E visto che è andato via quando ancora stavo dormendo, anche lui non ha niente da dire a me. E' inutile, quindi, che io stia qui. Illuminata da questo pensiero, ritorno in camera da letto per prendere le scarpe. Le infilo distrattamente ai piedi, quando qualcosa attira la mia attenzione. Sembra una tela, una di quelle che usava Peeta per dipingere. E' poggiata contro l'armadio con la parte posteriore in bella mostra. Mi chiedo come non me ne sia accorta prima. O ieri sera. Mi avvicino con cautela, prendendo in considerazione l'idea che probabilmente non dovrei vederlo. Anche se Peeta mi ha mostrato i suoi lavori in passato, forse non ho il diritto di fare tutto da sola. La curiosità però è troppo forte. Soprattutto se penso che potrebbe essere lo stesso dipinto di cui aveva parlato la sera che è venuto a cena da me insieme agli altri. Quindi, potrei essere io quella disegnata lì dietro.
Senza più alcun indugio, afferro la tela e la giro. Mi cade di mano. Gli occhi si riempiono immediatamente di lacrime. Esclusa la parte incompleta, una buona metà della tela è ricoperta da piccoli fiorellini gialli, circondati da ciuffi verdi. Li riconosco all'istante. Come non potrei? Sono primule. Ecco perché mi guardava quella sera.
Lascio il dipinto dov'è e vado via. Adesso le lacrime scivolano lungo le guance; non faccio nulla per arrestarle. Non so perché piango. Immagino che sia perché per un attimo è stato come rivedere mia sorella. Prim. Delicata e gentile come il fiore da cui ha preso il nome. Aveva preso, mi correggo. Probabilmente, Peeta aveva intenzione di darlo a me, una volta completato.
Col passare del tempo, inizio a preoccuparmi. Vado da Haymitch per chiedergli notizie di Peeta. Ne sa anche meno di me e Sae messe insieme. Prima di andare via, dico anche a lui di dirgli di venire da me, se per caso dovesse vederlo. Quando l'ho detto a Sae, in realtà non avevo nessun motivo. Solo la sensazione che dovessimo parlare di qualcosa che nemmeno io sapevo. Adesso, mi serve soltanto sapere che sta bene. Mi passano per la testa mille scenari, molti dei quali finiscono sempre con Peeta ferito e in cerca di aiuto. Qui al Distretto 12 non c'è nulla che potrebbe rappresentare anche il minimo pericolo se si sta lontani dal bosco. Però, Peeta ha il suo bagaglio di problemi che potrebbe essere fonte di minacce. Se avesse avuto un altro dei suoi flashback? Non so come abbia potuto farsi del male in tal caso, ma il dubbio mi tormenta lo stesso.
Mi apposto accanto alla finestra per un po', dicendomi che da un momento all'altro lo vedrò spuntare sul sentiero che porta qui al Villaggio dei Vincitori. Cerco di tenermi impegnata con Ranuncolo, ma finisco col buttare gli occhi alla finestra a intervalli regolari di pochi secondi. Quando mi decido ad andare a cercarlo, lo vedo. Tiro un sospiro di sollievo. E finalmente posso lasciarmi andare alla rabbia.
"Dove sei stato?" gli chiedo sulla soglia della porta. La voce mi è sembrata più agitata di quanto abbia voluto far trasparire.
Prima di rispondere, Peeta entra in casa. Mette tra di noi una distanza ridicola. Sembra che abbia paura di me. Non faccio in tempo a ripetergli la domanda, che lui parla. "Ho sognato di ucciderti". Adesso è il suo turno di sembrare agitato.
Io, invece, rimango impassibile. Come si dovrebbe reagire a una confessione del genere? Fosse stato qualcun altro a dirmelo non ci sarebbe nulla di analizzare. Può capitare di fare sogni del genere. Quindi, dovrei essere preoccupata dalle parole di Peeta. Ma non lo sono. Con tutte le volte che ho rischiato di morire davvero negli ultimi anni, e non in un sogno, non riesco ad allarmarmi. "Per questo sei andato via stamattina?" domando. Peeta sembra confuso, mentre annuisce. Forse, si aspettava che mi arrabbiassi. O che mi spaventassi. Dovrei esserlo? Lui deve essersi spaventato sicuramente. "Non l'hai fatto" dico, per tranquillizzarlo e sdrammatizzare la situazione. Buffo che sia io a fare entrambe le cose. Di solito lo faceva lui.
"Non è questo il punto" dice, secco.
"E allora, qual è?" domando, con un brutto presentimento che tento di allontanare con tutte le mie forze.
Peeta sospira rumorosamente. Ho la sensazione che le parole che sta per dire gli costino una grande fatica. Il che probabilmente feriranno me. "Penso che per un po' non dovremmo vederci" afferma, con un filo di voce.
E' così basso che stento a udirlo. Infatti, mi chiedo se abbia sentito bene. I suoi occhi rivolti verso il basso non lasciano fraintendimenti. Ho avuto ragione. Mi sento ferita. E delusa. "Okay" dico solamente, in assenza di altre risposte. E' già tanto che sia riuscita a dire quelle quattro lettere. Come è possibile svegliarsi così piena di forze e poi ritrovarsi improvvisamente a corto? Soltanto per una frase!
Vedo le spalle di Peeta che si dirigono verso la porta. Ecco, l'ennesima persona che va via da me. Prima mio padre. Poi mia madre e Gale che vanno vivere in altri distretti. Prim. E adesso Peeta. La sensazione di vuoto mi divora dall'interno, pezzo per pezzo. Con una lentezza che mi uccide. Rimarrò da sola. Finirò con l'essere brilla a ogni ora della giornata come Haymitch. "No" dice qualcuno, proprio quando Peeta sta per aprire la porta. "No!" ripeto ancora con maggiore enfasi. Ho la sensazione che se uscirà da questa casa, lo perderò per sempre. "Non posso perdere anche te" dico, accorciando con pochi passi la distanza che è tra di noi. Gli metto una mano sul braccio, continuando a scuotere la testa. Provo a fargli capire che non può lasciarmi anche lui. Che ho bisogno di lui, contrariamente a quello che avevo pensato. Una sola notte con lui mi ha fatto molto più bene di tutte le cure di Haymitch e Sae insieme. E ho bisogno di aiutare lui.
Anche Peeta scuote la testa. "E' necessario" dice, con un'espressione più addolorata di prima.
Riesco a capire chiaramente che non ci crede neanche lui. Lo dice soltanto perché pensa che deve. "Non è vero" dico subito. "Non hai fatto nulla per ferirmi. Sono viva, vedi?" cerco di fargli capire, dandomi qualche colpetto sulle braccia e sulle gambe. Sembro disperata. Ma non mi interessa. Sono disposta a fargli credere qualsiasi cosa di me pur di convincerlo a rimanere con me.
"Avrei potuto" dice, debolmente. Anche lui sembra a corto di forze adesso.
E' il momento giusto per attaccare. "Ma non l'hai fatto" ripeto. "Sei andato via. Hai cercato di proteggermi"
"E' quello che sto facendo anche adesso" dice afferrandomi per le spalle.
"Non serve" sbotto, con un misto di rabbia e fastidio. "So badare a me stessa e mi fido di te. So che non farai mai nulla per farmi del male"
Prima che Peeta possa aggiungere qualcosa, pianto le mie labbra sulle sue. All'inizio Peeta rimane fermo, poi risponde al bacio. La presa sulle mie spalle inizia a rilassarsi con la stessa velocità con cui il bacio diventa più intenso. Inizio a sentirmi travolta da una sorta di confusione intossicante. La stessa sensazione della grotta e della spiaggia. Quella voglia avida di continuare a baciarlo e il desiderio di andare oltre. E' così che dovrebbe essere quando ci si innamora?, mi chiedo improvvisamente. Probabilmente si. Sono innamorata di Peeta, allora? Non lo so. E questo, comunque, non è il momento adatto per trovare una risposta alla domanda. Il bacio non ha in sé nulla di romantico. E' solo per dimostrargli che mi fido ciecamente di lui.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo Settimo ***


Capitolo Settimo
"Peeta sta pensando di aprire una nuova panetteria"

"Si, me ne ha parlato" dice il Dr. Aurelius.  "Tu cosa ne pensi?" 

"Trovo che sia una buona idea" rispondo. Annuisco, sebbene sappia che non può vedermi. "Potrà ritornare a fare ciò che gli piace". L'idea che Peeta inizi a fare le cose che faceva prima è rassicurante. Ho la sensazione che in questo modo possa recuperare almeno una parte della sua vita. Quella di cui Capitol City l'ha privato. Mi rendo conto, purtroppo, che non potrà mai tornare tutto come una volta. Ma è un passo avanti. Un passo che gli farà sicuramente bene. 

Il Dr. Aurelius aspetta qualche istante prima di parlare di nuovo. "Mi ha parlato anche di qualcos'altro" inizia, con un tono che lascia intendere che Peeta non gli ha parlato esclusivamente di lui. In fondo, però, l'avevo immaginato. Con il dottore deve parlare della sua vita e, per quanto abbia cercato di tagliarmi fuori, ne faccio parte. Forse, ne costutuisco una fetta bella grande e non certo per eventi piacevoli. E poi, non sto parlando di lui anche io?

"Cosa le ha detto?" domando.  

Non mi aspetto una vera e propria risposta. E infatti, il dottore mi rifila la storia del segreto professionale. E' vietato raccontare le conversazioni avute con gli altri pazienti. L'ho imparato al Distretto 13. Quando venivano delle persone da mia madre, lei non sbandierava i fatti dei suoi pazienti ai quattro venti, ma non era così riservata. Non penso che fosse perché non era un vero e proprio medico. Che necessità c'era di essere così segreti quando tutto il distretto ne era già al corrente, a volte anche prima della famiglia dello sventurato? Non capisco, quindi, questa segretezza. Ma il medico è lui. 

Mi chiede di raccontargli qualcosa del rapporto che ho con Peeta. Anche se il Dr. Aurelius non può dirmi cosa gli è stato detto, sono sicura che Peeta gli ha parlato del sogno. "Si sforza di non sembrare preoccupato per i sogni o i flashback quando è con me" dico tutto d'un fiato. Non me l'ha mai detto chiaramente. E' solo una mia sensazione, alimentata dai suoi comportamenti. Se gli sfioro il braccio, si irrigidisce. E' più cauto quando parla di certi argomenti. Trova qualsiasi scusa per non restare troppo tempo da solo con me. A poco è servito, quindi, il bacio di incoraggiamento. E anche avergli detto che mi fido di lui. Mi domando come non faccia a capire che non lo ritengo capace di fare del male a qualsiasi persona. In entrambe le arene è quello che ha ucciso meno persone e quando l'ha fatto, è stato per sbaglio o per vera necessità. Ha tentato di uccidere me e ci è riuscito con Mitchell, ma in quelle occasioni non rispondeva delle sue azioni. Adesso, è guarito. Non del tutto, ma penso che come i miei incubi, i suoi episodi non andranno mai via. Quasi un ricordo dell'esperienza vissuta, da aggiungere alle tante cicatrici sparse per i nostri corpi. Il tutto sta lì a dirti - Hey, guarda cosa ti ho tolto -. 

"Ti da fastidio?" 

Mi da fastidio? Non ho mai avuto l'occasione di pensarci. Anche perché è la prima volta che esprimo a parole i miei dubbi. Fin quando vivevano rinchiusi nella mia testa, mi dicevo che forse mi sbagliavo. Che vedevo cose che non c'erano. La paranoia è una delle conseguenze che mi sono portata dietro dagli Hunger Games. Quindi, mi sono semplicemente ripetuta che ero paranoica. Adesso, a parlarne con il Dr. Aurelius, sembra che sia stata sciocca a non accorgermene prima. E, quindi, mi da fastidio? "Non vorrei che passare del tempo insieme possa diventare un peso per lui" confesso. Ecco, questa è una cosa che mi darebbe fastidio. Anzi, no. Mi ferirebbe. E mi fa star male il pensiero che non lo farebbe per le ragioni giuste. Certo, non potrei mai volere che Peeta si sentisse in un certo senso intrappolato in una situazione da cui vorrebbe solo tirarsi fuori. E se ne avessi anche la più misera delle conferme, non esiterei a lasciarlo andare. La verità, però, è che ne soffrirei troppo. Ho scoperto di avere bisogno di lui più di quanto sia disposta ad ammettere. E' come se fossi ritornata all'età di undici anni, quando Peeta mi diede il pane, senza il quale, con molte probabilità, sarei morta. Adesso, Peeta rappresenta quel pane per me. "So che lo fa per me, ma vorrei che non si preoccupasse" aggiungo, quando mi rendo conto di essere rimasta troppo tempo in silenzio. E, in più, non voglio che il dottore pensi che sono egoista. Perché è di questo che si tratta, no? Egoismo puro. 

"Hai mai provato a parlargliene?" chiede, interessato. 

Scuoto la testa, ma poi mi ricordo che non può vedermi. "No" dico. 

"E vorresti?" chiede ancora. 

Non mi è mai piaciuto il modo in cui cerca di analizzarmi. E' il suo lavoro, ma a volte è snervante. Sembra che sappia ciò che mi passa per la testa prima ancora che lo pensi io stessa. Come adesso. Non sono mai stata sicura nemmeno di quello che vedevo, quindi come faccio a sapere se voglio parlargliene? "Non vorrei peggiorare le cose" affermo, titubante, dopo averci pensato un po' su. 

"Perché dici peggiorare? Mi sembra che le cose vadano bene tra di voi a parte questo" Lo dice come se fosse una cosa da poco, ma non lo interrompo. "Siete amici"

Ecco, l'allusione che stavo aspettando. Fin da quel "Mi ha parlato di qualcos'altro" ho avuto l'impressione che non volesse chiedermi altro. Che non aspettasse altro che questo momento. Ormai sembra che anche Haymitch e Sae tengano particolarmente a cuore il tipo di rapporto che ho con Peeta. Prima l'allusione di Sae sul fatto che sia successo molto più di quanto è accaduto la notte che abbiamo dormito insieme. Poi, Haymitch che mi chiede di proposito di Peeta riferendosi a lui come il mio ragazzo. E adesso, il Dr. Aurelius. A quanto pare, il significato della parola "amici" è scomparso dalla mente di chiunque ci circondi. Scommetto che a Capitol City c'è ancora qualcuno che si chiede degli sventurati amanti del Distretto 12, che ormai possono stare insieme senza ulteriori ostacoli. 

Cerco di sembrare quanto più calma possibile quando dico che siamo amici, scandendo per bene l'ultima parola in modo da evitare futuri fraintendimenti. "Amici" ripeto. E in cuor mio so che non è del tutto vero. Gale era il mio migliore amico. Ma non ho mai dormito con lui, tra le sue braccia. Non abbiamo mai trascorso ogni momento dei pasti insieme, anche in silenzio. E non ho mai piantato primule con lui davanti a casa mia. In effetti, con Gale ho sempre solo cacciato. E spesso ascoltavo le sue invettive contro Capitol City. Ci capitava anche di parlare di altro, ma raramente. Cosa questo voglia dire, non lo so. 

Il Dr. Aurelius, comunque, deve aver capito che il suo riferimento all'amicizia che mi lega a Peeta non è stato parecchio gradito, visto che cambia argomento di discussione. "Come passi il tempo?" 

"Ho ripreso ad andare nel bosco e a cacciare" rispondo semplicemente. 

"Ti rende felice?" chiede il dottore. 

Riesco quasi a immaginarmelo, seduto nel suo ufficio, a sorridere per i progressi di una sua paziente. Se il mio può essere davvero considerato un progresso. Si, è vero, sono andata di nuovo a caccia. Ma perché tutti sono convinti che sia ciò che mi serve? Cacciare, e quindi uccidere, è l'unica cosa che so fare bene. Non è mai stata una scelta. Sempre una necessità, dettata dallo scarseggiare del cibo. Se non volevo far morire di fame la  mia famiglia, dovevo farlo. Semplice. Ma non l'ho mai visto come un passatempo che rende felici. "Mi aiuta" mi limito a rispondere. Non è la risposta esatta alla domanda del dottore. 

E infatti lui non capisce subito cosa voglia dire. O forse vuole sentirselo dire. "In che senso?" mi chiede. Non fatico a cogliere la nota di curiosità nel tono. 

"Mi impedisce di pensare e... ricordare"  aggiungo a fatica. 

"Cosa non vuoi ricordare?" chiede il Dr. Aurelius. 

E c'è anche bisogno di chiedermelo, mi verrebbe da dire. Mi mordo la lingua. "Che non mi è rimasto più nessun membro della mia famiglia, il mio migliore amico è nel Distretto 2, mi sento responsabile della morte di troppe persone, più di quante riesca a sopportare" elenco velocemente. Mi fermo solo quando sono a corto d'aria. Il dottore non aggiunge nulla. "A volte penso che sarei dovuta morire io" confesso alla fine. Tengo per me il fatto che ci abbia davvero provato, con la speranza che Peeta non gli abbia parlato anche di questo. 

"Perché?" 

"E' colpa mia se è successo tutto questo" spiego, in modo brusco. Come può farmi una domanda del genere? Non ha seguito i dettagli della rivolta in tv? "Non è giusto che io sia viva e molti che non c'entrano siano morti" E' uno dei fantasmi della guerra che ancora mi tormenta. Suppongo che gli incubi derivino da questo. 

"Ci sono cose peggiori della morte, non credi?" mi domanda, il tono calmo e pacato come quello all'inizio della telefonata. Sembra che non si sia nemmeno accorto della mia sfuriata. Lo apprezzo. In fondo, sta solo cercando di aiutarmi, mentre io mi limito a giudicare il suo metodo di lavoro. 

Ci sono cose peggiori della morte. Solo adesso mi rendo conto di quanto è vero. L'intera Star Squad si era munita di mezzi per morire pur di non finire tra le mani del Presidente Snow. Avevamo concordato tutti che sarebbe stato meglio addormentarsi in pace, piuttosto che subire le torture che Capitol City aveva in serbo per i ribelli. E di certo, loro sarebbero stati entusiasti all'idea di infliggercele. Ci era bastato vedere le condizioni in cui avevano ridotto Peeta, Johanna ed Enobaria - e Darius e Lavinia - per renderci conto che una morte veloce era preferibile. "Ne è valsa davvero la pena?" domando, improvvisamente. "Combattere questa guerra, intendo"

"Secondo te?" 

Scuoto la testa. "Ho perso troppo e lo stesso molte altre famiglie" dico, ribadendo il concetto. 

"Cosa sarebbe successo se non avessi sfidato le regole di Capitol City?" mi domanda il Dr. Aurelius dopo un momento di silenzio. 

Sbuffo. "Me lo sono chiesto troppe volte" ammetto, cercando di mettere un freno al senso di vergogna. "Non ho una risposta" 

"Proviamo ad arrivarci insieme, ok?" E' una domanda, ma ho la sensazione che sia più un'esortazione. "Avresti ancora la tua famiglia, ma avresti perso altre persone - colgo al volo l'allusione a Peeta, ma prosegue prima che possa intervenire - I giochi non sarebbero stati eliminati. Moltissimi ragazzi sarebbero morti nelle arene future e..." 

"Ne parla come se fossi un eroina" esplodo dalla rabbia. "Non ho mai voluto niente di tutto questo. Ho fatto solo ciò che ritenevo giusto e mi sono ritrovata in una cosa più grande di me. Più di una volta ho provato a tirarmi indietro". La mia voce si è alzata man mano che continuo a cacciare fuori ogni cosa che ho tenuto dentro da quando Snow ha fatto visita a casa mia, prima del Tour dei Vincitori. Probabilmente, molti si erano accorti che l'idea di essere la Ghiandaia Imitatrice, la Ragazza in Fiamme o qualsiasi altro stupido nome che mi avevano affibbiato, non mi rendeva esattamente entusiasta. Eppure, non hanno fatto altro che incitarmi a continuare, facendomi girare promo su promo. 

"Ma non l'hai fatto" dice tranquillo il Dr. Aurelius. 

Già, non l'ho fatto. E forse avrei dovuto. "Non dovrei sentirmi meglio?" chiedo, al limite delle forze. 

"Le decisioni giuste non sempre portano a conseguenze piacevoli" è tutto ciò che mi dice lui. 

"E' solo che non mi sembra giusto andare avanti" dico, dopo averci pensato un po' su. Abbasso lo sguardo, sebbene non ci sia nulla che mi costringe a farlo. "Non riesco a pensare di poter continuare a vivere con tutto il dolore che ho provocato" ammetto. Suppongo che questo sia il problema principale. Non sono sicura che sia giusto per me essere viva. Magari, la morte non è la cosa peggiore che esista, come dice il Dr. Aurelius. Ma rimane il fatto che in molti - troppi - si trovano al di sotto metri di terra, mentre io posso ancora respirare, mangiare, dormire e magari anche la possibilità di voltare pagina. Per non parlare, di quelli che a causa mia stanno soffrendo per la perdita di un figlio, un marito, un fratello o tutti insieme. 

"Per questo provi a dimenticare?" mi chiede il Dr. Aurelius, con cautela. 

Annuisco, ma poi mi ricordo ancora che non può vedermi. "E' l'unico modo che ho per non impazzire" ammetto, senza giri di parole. 

"E se invece di dimenticare provassi a convivere col dolore?" 



Ho postato il nuovo capitolo in anticipo rispetto a quello che avevo programmato, per due motivi. Primo, ho un lieve calo di ispirazione. Anzi, l'ispirazione c'è ma non riesco a metterla per iscritto. Secondo, non ho un attimo di tempo per scrivere. Fra poco ho un esame difficile e in fatto di preparazione sono quasi a zero. Terzo, devo essere completamente sola quando scrivo e in questo periodo casa mia è un porto di mare. Quindi, è molto probabile che la settimana prossima non riesca a postare nulla. 
Passando ad altro... il capitolo è abbastanza corto, me ne rendo conto. E fosse stato per me non l'avrei neanche messo. Ma qualcosa mi diceva che un confronto con il Dr Aurelius era d'obbligo. Poi, Peeta non esce proprio. Mi dispiace, ma sarà poco presente anche nel prossimo, anche se i pensieri di Katniss saranno incentrati quasi su di lui. Poi, vedrete perché...
Come al solito, concludo col dirvi che mi piacerebbe sapere cosa ne pensate. Ne ho più bisogno delle altre volte, visto il flop del capitolo precedente. 
Al prossimo capitolo. Vedrò di sbrigarmi.
-M

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo Ottavo ***


Per la gioia di alcuni (spero!) e il dispiacere di altri, sono tornata!
Ebbene sì, il nuovo capitolo è pronto per essere letto. Visto che mi sono presatutto questo tempo per scriverlo,
qualcuno potrebbe pensare che è un capolavoro. E invece no! Scusate se lo dico ogni volta, ma la penso davvero così. Forse,
sono troppo autorcritica, chi lo sa. Comunque, ho stabilito la trama anche degli altri capitoli e posso dire con assoluta certezza
che ce ne saranno altri dieci. In tutto, quindi, saranno 18 capitoli, compreso l'epilogo.
Alcuni sanno già che ho iniziato una nuova ff e hanno già recensito (Grazie mille carin), quindi sarò costretta a rallentare l'aggiornamento
di questa.
Buona lettura!
-M


Capitolo Ottavo
Negli ultimi mesi il Distretto 12 ha visto il ritorno di una buona parte dei suoi abitanti. Centinaia di persone si sono trasferite dal Tredici in singoli casi, oppure in gruppi numerosi. Le strade sono un po' più affollate, sebbene siano quasi deserte in certe ore del giorno. Ad esempio la mattina poco dopo l'alba. Se prima, tendendo l'orecchio, si potevano sentire i passi strascicati dei lavoratori ancora assonnati, adesso l'unica cosa che si sente è il nulla. Le giornate iniziano decisamente più tardi, dal momento che le miniere di carbone che caratterizzavano il nostro distretto sono andate perdute. Chi non ha il sonno tormentato dalle immagini di amici e persone morte, può permettersi per la prima volta nella vita di alzarsi con tutta calma, senza la preoccupazione di dover andare a lavoro. Una bella abitudine se potesse durare. La verità è che la gente al Distretto 12, per via della vita stentata che ha sempre dovuto condurre, non riesce semplicemente a prendersela comoda. La ricerca forsennata di una qualsiasi fonte di sostentamento ci ha reso completamente immuni alla stanchezza, all'affaticamento e al duro lavoro. Al punto che ormai non riusciamo a stare con le mani in mano. Per un paio di giorni, forse, ma prima o poi ci stufiamo. Alcuni, come me, cercano semplicemente un metodo per continuare la loro vita. Cercare di farla somigliare nella maniera più fedele possibile a quella precedente, in modo da illudersi che nulla è cambiato. Ma, contrariamente a quello che in molti vogliono pensare, tutto è cambiato. O quasi.
Haymitch continua a dare fondo a tutte le bottiglie di liquore bianco e vino rosso che riesce a trovare. Di notte, ancora non dorme. Eppure, anche lui ha dovuto adeguarsi allo stile di vita nuovo del Distretto 12. Ha deciso che prendersi cura di un paio di ochette può rappresentare un inizio dignitoso. Inizialmente ho avuto dei dubbi. Chi non ne avrebbe avuti? Haymitch era ancora l'ubriacone solitario e diffidente che se ne viveva comodamente nella sua casa al Villaggio dei Vincitori. Quello che si è accasciato al suolo il giorno della mia prima Mietitura. Era più che legittimo pensare che avremmo visto oche ubriache - o peggio, morte - in giro per le strade. Però, il vecchio Haymitch si è dimostrato più responsabile di quanto tutti immaginassimo. Non che presti parecchia attenzione alle sue oche. Anzi, per giorni e giorni le ignora. Quelle riescono a vivere anche senza le cure del loro padrone, poiché per loro fortuna si cibano di erba e bacche.
Senza più le miniere, ci siamo dati all'agricoltura. Sae la Zozza ha istruito tutti noi su come piantare delle verdure e della frutta. Non so da dove abbia appreso tutte quelle notizie, visto che qui non potevamo coltivare chissà cosa. Si dice contenta di questa sua nuova mansione. Sebbene non me l'abbia detto, suppongo che si fosse annoiata di venire ogni mattina a prepararmi la colazione, e poi ancora per il pranzo e la cena. Non che non venga più. Lo fa ancora, ma la vedo più serena. Quasi come se l'arrivo di altre persone le abbia ridato una sorta di speranza.
Con l'ultimo treno è arrivato anche il mio barlume di speranza. La prima volta che chiamai il Dr. Aurelius, lui mi consigliò di non tentare di dimenticare gli ultimi due anni, perché se avessi imparato a convivere col dolore, avrei potuto trarre dei vantaggi. Lì per lì, pensai che avesse soltanto messo insieme una decina parole pur di non rimanere in silenzio. Non riuscivo a capire cosa volesse dirmi e lui si rifiutò di spiegarmelo. Sostenne che ci sarei arrivata al momento giusto da sola e che avrei trovato anche il modo per farlo. Non vedevo come avessi potuto riuscirci, se non sapevo nemmeno cosa aveva tentato di dirmi. Comunque, una o due settimane dopo, mi ritrovai a pensare per la prima volta che forse quelle parole potevano avere un senso.
Era una calda mattina estiva. I tre conigli che portavo nella borsa avrebbero potuto cuocersi al sole per quanto era cocente quel giorno. Le fragole le avevo messe in un posto ombrato, nelle vicinanze del lago. Avevo portato con me il libro delle piante di mio padre. Lo stavo sfogliando senza davvero prestare attenzione ai disegni o a quello che c'era scritto. A dire il vero, non sapevo nemmeno perché l'avessi portato. Comunque, fu guardando quelle pagine un po' ingiallite che mi colse il pensiero che dimenticare fosse sbagliato. Se avessi dimenticato una di quelle cose scritte nel libro, quando ero nell'arena o anche quando andavo a caccia, sarei morta per avvelenamento. In quei casi, ricordare è stato utile. Ha fatto la differenza tra la vita e la morte. Quindi, mi sono detta, perché dovrebbe essere diverso con quello che ho passato dalla prima Mietitura finora? Le persone morte, la rivoluzione e poi la guerra hanno avuto un significato ben preciso. Il mio atto di offrirmi volontaria al posto di Prim, i tributi che si sono sacrificati per salvare Peeta nell'arena, risvegliare l'animo dei ribelli per farli riflettere sulla crudeltà dimostrata da Capitol City in tutti quegli anni, la cancellazione degli Hunger Games. Hanno tutti avuto un ruolo preciso, che hanno fatto la differenza tra la vita e la morte. Dimenticarmi di loro, sarebbe un'offesa. Un gesto irrispettoso verso chiunque ha avuto anche una minima parte in tutta questa faccenda.
"Cosa c'è di tanto importante su quel treno?" Sebbene voglia sembrarlo, la voce di Peeta non è neanche lontanamente annoiata. Anzi, non ho problemi a riconoscervi una nota di curiosità, mista a qualcosa di molto simile a sollievo. Il secondo non so da dove derivi. Non penso che abbia a che fare con me. Il primo - la curiosità - è perché non gli ho raccontato ancora dell'illuminazione avuta al lago. Questa mattina, gli ho semplicemente chiesto di accompagnarmi alla stazione e lui gentilmente ha risposto che l'avrebbe fatto, senza troppe domande.
Accenno un minimo sorriso. "Vedrai" dico non per tenerlo sulle spine. Una volta visti i fogli che il Dr. Aurelius mi ha mandato, sarà tutto più semplice da capire. Ho intenzione di chiedergli di darmi una mano. Non penso che me la negherà, dal momento che potrebbe essere d'aiuto anche a lui.
Dobbiamo aspettare pochi minuti prima che il treno arrivi, annunciato dal solito fischio sordo e dal rumore dello sferragliare sui binari. Dai finestrini intravedo le teste di persone che prima vivevano al Distretto 12. Probabilmente il flusso di abitanti in arrivo non si è ancora arrestato. A quanto pare, il richiamo delle origini è stato più forte di qualsiasi fonte di lusso che Capitol City oppure i benefici che altri distretti potevano offrire. Certo, in molti sono rimasti al Tredici o si sono trasferiti in altri distretti. Con una stretta allo stomaco, ricordo che Gale fa parte della seconda categoria. Lui ha preferito andarsene al Distretto 2, dove è riuscito a trovare un buon lavoro, che stando a quanto dice Sae la Zozza, lo fa andare in tv. Hazelle, i fratelli e la sorella sono andati con lui. Mi intristisce il pensiero che potrei non rivederli mai più. Che potrei non rivedere più il mio migliore amico, con cui ho condiviso molto di più di prede e guadagni. Ci siamo dati forza a vicenda dopo la morte dei nostri padri, abbiamo guardato le spalle l'uno dell'altra. Non un normale rapporto d'amicizia tra due persone. E infatti, per qualche mese ho creduto di esserne innamorata. Tanto da scegliere lui al posto di Peeta. In realtà, non ho mai preso una decisione.
"Qualcosa non va?" mi chiede Peeta.
Mi volto nella sua direzione. Il suo sguardo è posato su di me, con un'espressione preoccupata. Scuoto la testa in segno di diniego. "Va tutto bene" gli dico per rassicurarlo. Si tranquillizza, ma potrei giurare di avere ancora i suoi occhi su di me. Li sento e so per certo che sono alla ricerca di una qualsiasi movenza che possa fargli intendere che qualcosa mi turba. Per questo motivo mi fingo calma e serena. Non mi piace mentire a Peeta, ma mi piace anche meno l'idea che lui sia costantemente preoccupato per me. Con tutto quello che ha per la testa - i suoi problemi di memoria e i flashback - non ha bisogno di altre fonti di stress. E' complicato capire dove trovi la forza di alzarsi dal letto al mattino. A volte, penso che davvero non ce l'abbia. Ci sono mattine, infatti, che fingo di dormire, mentre lui fissa il soffitto sopra le nostre teste e si lascia andare a un sospiro di tanto in tanto. 
"Peeta" inizio a dire, nello stesso momento in cui qualcun altro chiama il suo nome. Pochi istanti e sento anche il mio. Mi volto nella direzione da cui proviene la voce allegra. L'unica persona che trabocca ottimismo puro anche solo chiamando un nome è...
"Delly?" dice Peeta, sorpreso.
Non fatico a riconoscere lo stupore e la felicità nel tono di lui. Comunque, se mi fosse sfuggito, non avrei avuto problemi a intuire che è contento di rivederla. Prima che abbia anche la possibilità di accorgermene, Peeta e Delly sono l'uno nelle braccia dell'altra. Rimango immobile nella mia postazione, come pietrificata. L'unico movimento che riesco ad avvertire proviene dall'interno del mio corpo, nelle vicinanze dello stomaco. Come se degli uccellini in gabbia stessero sbatacchiando le ali follemente, senza sosta, in cerca di una via d'uscita. In effetti, la sensazione non si placa nemmeno quando le braccia di Delly si sciolgono da Peeta e circondano le mie spalle. Ricambio l'abbraccio di Delly, confusa. Lei mi mormora qualcosa all'orecchio, ma non riesco a capire cosa stia dicendo. Intercetto distrattamente parole come "rivederti" e "ossa", che potrebbero avere un senso se avessi prestato attenzione. Ciò che davvero mi interessa adesso, però, è capire cos'era quella cosa di prima. Gli uccellini intrappolati nello stomaco. Si è scatenata appena mi sono resa conto che le braccia di Delly erano attorno al collo di Peeta. Eppure non può essere per questa ragione. Dovrebbe essermi passato tutto adesso che sono separati. E invece è ancora lì che mi annoda le viscere. Un nodo perfetto come quelli che ho imparato a fare prima con Gale e poi al Centro di Addestramento. Un nodo che non lascerebbe via di scampo all'uccellino se dovesse catturarlo.
Una mano che sventola davanti agli occhi mi riporta alla realtà. E' quella di Peeta. "Sei sicura di stare bene?" mi chiede ancora, apprensivo.
Annuisco. "Non preoccuparti" dico, scoccando un mezzo sorriso per risultare convincente. Per fortuna, Peeta ci crede o almeno finge di crederci perché ritorna a fissare Delly con una nuova aria interessata. Le chiede come mai è qui al Distretto 12.
"E' questa la mia casa" dice lei, sollevando entrambi gli angoli della bocca. "Ho delle cose per voi" continua, volgendo lo sguardo alle sue spalle. Lo faccio anche io e noto per la prima volta due grandi borse e un pacco. A passi svelti, Delly si affretta a prendere il pacco e lo posa tra le mie braccia. "Da parte del Dr. Aurelius". Dalle sopracciglia alzate intuisco che non ha aperto il pacco, sebbene il fiocco sopra sia allentato.
Peeta mi rivolge uno sguardo disorientato. Sembra quasi divertito. "Ti spiego dopo" dico. "Come mai l'ha dato a te?" chiedo a Delly, che intanto è ritornata alle sue cose.
"Ha saputo che stavo tornando e me l'ha affidato" dice, facendosi nella nostra direzione con una borsa che non avevo visto prima. Da l'impressione di essere pesante. E molto fragile, a giudicare dalla cautela con cui la trasporta. Peeta si affretta a prenderla dalle sue mani. "E' roba di Haymitch" sussurra. Con roba vuole dire certamente liquore e vino.
"E per me?" chiede Peeta, speranzoso.
Delly sembra in difficoltà. "Ci sono io" dice, scrollando le spalle con un sorriso raggiante.
Lungo tutto il tragitto, le ali degli uccellini continuano ad agitarsi. Provo a non farci molto caso, cercando di ascoltare le risposte di Delly alle domande di Peeta. Io rimango in silenzio quasi tutto il tempo. Ciò che riesco ad ascoltare, prima che il mio grado di attenzioni crolli del tutto, è che il fratellino di Delly ha preferito rimanere ancora un po' al Dsitretto 13. La strana sensazione mi accompagna per tutto il giorno, fino a ora di cena. Per festeggiare il ritorno di Delly, decidiamo di cenare tutti insieme a casa di Peeta. Sae supera se stessa con una zuppa di verdure che fa leccare i baffi a chiunque. Io non la trovo particolarmente gustosa. Ma non penso che sia dovuto al piatto. Il motivo reale mi giunge alla mente non appena mi accorgo che è legato alla sensazione che mi ha torturato tutta la giornata. Non si è mai fermata, a dirla tutta, eccetto che in rare occasioni. Sono più che certa che abbia a che fare con Delly. Tutto è iniziato con lei, dopotutto. Mi accorgo che una sensazione soltanto mia. Gli altri sembrano perfettamente al loro agio. Sopratutto Peeta.
"Sei migliorato" dice a un certo punto Delly rivolta a quest'ultimo. Si riferisce al pane che sta mangiando. "E' quello alle noci?" domanda poi, con un gran sorriso, che sembra celare qualcosa.
Ne ho la conferma quando vedo Peeta sorridere in risposta. "Sono sempre stato bravo" ribatte, allegro.
Delly sorride. "Non tanto da quello che ricordo" scherza, senza mai abbandonare l'espressione divertita che ha sul viso. Nessuno riuscirebbe a prendersela per le parole di Delly. E' fin troppo brava e gentile anche solo per serbare rancore contro di lei. Ciò implica, comunque, che lei debba aver fatto qualcosa di sbagliato. Cosa che non è proprio nella sua natura. E poi, con Peeta si conoscono da piccoli. Se c'è qualcuno che la conosce meglio di chiunque altro è lui. Non a caso, lei diceva che erano fratelli.
Lo scambio di battute confonde tutti, tranne i due protagonisti. "Ci siamo persi qualcosa, ragazzo?" chiede Haymitch, dopo aver rivolto un'occhiata fugace nella mia direzione. Aggrotto la fronte. Perché guarda me?
Peeta fa per iniziare, ma è Delly che prende la parola. "Quando eravamo al Distretto 13, Peeta ha cercato di insegnarmi come si fa il pane alle noci - riesce a stento a trattenere le risate - ed è finita con un disastro"
Il mio cervello registra soltanto la prima parte della frase. Immediatamente, immagini di Peeta e Delly mi passano davanti agli occhi. Loro due insieme, le mani ricoperte di farina, a ridere e scherzare. Il campanello d'allarme chi mi risuona nelle orecchie ha il suono della risata di Peeta. Quella felice e spensierata che ho udito soltanto due volte. La prima, il giorno in cui arrivò qui al Distretto 12; la seconda, quando rise di me per essere caduta dal davanzale della finestra. Mai per una cosa che abbiamo fatto insieme. Neanche quando ci fu offerta la possibilità di passare la giornata in libertà, prima di entrare per la seconda volta nell'arena. L'ansia per quello che sarebbe successo il giorno dopo e quelli successivi smorzò ogni forma di entusiasmo. Invece, con Delly è tutta un'altra storia. Con lei sembra ritornare il vecchio Peeta, molto più simile al ragazzo divertente e dolce che ho conosciuto nella grotta. Anche lui deve essersi accorto che con me non sta bene. Ecco perché voleva che non ci vedessimo per un po'. Era un modo gentile per dirmi che non mi voleva più fra i piedi. E io invece l'ho baciato. Sono stata una stupida!
Mi alzo in piedi di scatto. Gli occhi di tutti sono rivolti a me. "Sono stanca. Vorrei andare a dormire" dico, cercando di suonare il più provata possibile. Non dovrebbe essere tanto difficile per come mi sento. E' chiaro però che Haymitch non mi ha creduto. "Delly, mi fa piacere che tu sia tornata". Non è una bugia. Potrebbe rivelarsi una buona cosa il suo ritorno. Al momento mi da solo un lieve fastidio. 
Non ascolto la sua risposta. Mi preme uscire da quella casa più velocemente che posso. Prima che riesca a dare il nome esatto alla sensazione che mi ha assillato l'intero giorno. Peeta si offre di accompagnarmi, ma gli chiedo di rimanere dov'è. Appena varco la porta di casa, mi muovo a passi svelti verso la mia abitazione. Fingo di non accorgermi dei passi pesanti alle mie spalle. 
"Dolcezza, rallenta" dice la voce di Haymitch. Per un attimo ho pensato che fosse Peeta. "Non sono più in forma come una volta" scherza, quando mi raggiunge.
"Non ho bisogno che qualcuno mi accompagni" gli faccio notare, forse, con troppa veemenza. Sicuramente molta più di quella che volevo far trasparire.
Haymitch accenna un sorriso. "Oh, lo so" commenta ironico, alludendo a qualcosa che comunque non capisco. Gli rivolgo uno sguardo spazientito. "Volevo sapere cosa è successo lì dentro". Haymitch in modalità preoccupato non mi è completamente nuovo.
Aggrotto la fronte. Ho due opzioni. Fingere di non aver capito a cosa si sta riferendo, oppure ripetere la scusa che ho usato per abbandonare la tavola senza destare troppi sospetti. Peccato che non ci sia riuscita. "Sono stanca" ribadisco, costringendomi a sostenere lo sguardo di Haymitch.
Lui si lascia sfuggire un mezzo sbuffo col naso. "Allora, io ho bevuto un solo bicchiere di vino questa sera" dice, senza nemmeno sforzarsi di sembrare convincente. In effetti, lo scopo della sua frase è proprio quello. Non replico nulla. Mi limito a fissare l'uomo davanti a me, fingendo una pessima aria stanca, con la speranza che quello mi lasci andare. Non sono mai stata brava a dire le bugie. E la fortuna non è esattamente dalla mia parte. Non lo è mai stata. "Non c'è niente di male ad ammettere che sei gelosa"
"Non lo sono" dico, asciutta. Probabilmente, troppo in fretta perché Haymitch mi creda.
Infatti, lui inarca un sopracciglio. "A chi vuoi darla a bere?" chiede, retorico.
Scrollo le spalle, annoiata. "Se hai finito con queste idiozie, io andrei a dormire" gli dico, rimettendomi in marcia verso casa mia. Sto bene attenta a non incrociare lo sguardo di Haymitch stavolta. Per una strana ragione, ho il presentimento che sarei costretta ad abbassarlo immediatamente. Così fisso le primule, che diventano più grandi man mano che mi avvicino. Non c'è niente di male ad ammettere che sei gelosa. Quelle parole continuano a ritornarmi in mente, sebbene cerchi di respingerle con forza. Io, gelosa. Gelosia. E' questo il nome della sensazione? Il significato degli uccellini intrappolati nel mio stomaco e le viscere annodate? No, non è così. Solo una volta lo sono stata davvero ed era partito tutto dall'idea di Gale e Madge insieme come coppia. Ricordo perfettamente la sensazione di fastidio che spingeva contro il petto. E adesso non è la stessa cosa. O meglio, è ancora fastidio ma senza un reale motivo. Quella volta, credevo di essere innamorata di Gale. Secondo questo ragionamento, dovrei esserlo di Peeta. Lo sono?
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo Nono ***


Capitolo Nono
Anche al Distretto 13 le cose stanno tornando lentamente alla normalità. Come lo erano prima che la loro vita venisse sconvolta dall'arrivo della Ghiandaia Imitatrice. Almeno questo è quello che mi dice mia madre. Secondo lei, sono molti quelli che ormai si sono ripresi completamente dalla guerra, che hanno riafferrato in mano le redini della loro vita. Inutile dire che alcuni faticano ad abituarsi alle novità, ma tutti si dicono contenti della fine degli Hunger Games e del dominio di Capitol City sui distretti. Mi riferisce queste cose con una nota d'orgoglio che non mi sfugge. E' convinta che sia merito mio. Non sono d'accordo. Io ho semplicemente acceso la miccia e alimentato la fiamma di tanto in tanto. L'incendio vero e proprio l'hanno appiccato i ribelli ed è grazie a loro che i ragazzi dai dodici ai diciotto anni possono dirsi salvi.
"Le tue ferite come vanno?" chiede, dopo un attimo di silenzio.
"Sono rimaste solo le cicatrici" la informo, asciutta. Le odio. Nel vero senso della parola. E' come se mi guardassero, ogni volta a ricordarmi quello che mi è capitato negli ultimi anni. Con l'arrivo delle giornate calde, è da folli indossare maglie a maniche lunghe. Per questo, quando passo davanti allo specchio, evito apposta di osservare il mio riflesso. Già ci sono gli incubi a torturarmi costantemente, non c'è bisogno di ulteriori motivazioni.
Comunque, la ragione per cui ho chiamato mia madre non ha nulla a che vedere con le mie ferite. E tantomeno con le notizie riguardanti il Distetto 13. La verità è che avevo bisogno di qualcuno con cui parlare. Il Dr. Aurelius non è esattamente il tipo di persona con cui vorrei affrontare qualsiasi altro argomento diverso dalle mie condizioni mentali dopo la guerra. Sae si è comportata come una vera madre nell'ultimo periodo. Forse anche meglio, a giudicare dal comportamento che ostentato la mia dopo la morte di mio padre. Haymitch... E' semplicemente Haymitch. Non mi sentirei a mio agio a parlare con lui. E Peeta è il soggetto dei miei dubbi, quindi è da escludere a priori. L'unica che mi è rimasta è, quindi, lei. Non avrei mai e poi immaginato di poter sentire il bisogno di chiedere consiglio a mia madre su un ragazzo. Per due motivi. Primo: non mi sono mai posta il problema di capire i sentimenti che provavo per un ragazzo. Anche perché non ce n'è mai stato uno, a parte Gale. E allora, Gale era semplicemente il mio migliore amico; le cose con lui erano semplici. Comunque, ammesso che ne avessi avuto uno, non sarei mai andata a parlarne con mia madre. Ecco il secondo motivo: di mia madre era rimasta soltanto una pallida copia. Il fantasma della donna che era stata una volta aleggiava per casa in quelle rarissime volte che sembrava dare segni di vita. Non era la persona più adatta, quindi. E, invece, ora eccomi qui, al telefono con lei. Suppongo che ci sia una prima volta per tutto. 
Alzando la cornetta, mi sono detta chiesta cosa stavo facendo. Mi sono sentita estremamente stupida, perché con tutte le cose di cui dovrei preoccuparmi, mi preme sapere cosa provo per Peeta. Non ho avuto il coraggio di porle subito la domanda per cui l'avevo chiamata. Così le ho chiesto del Distretto 13. Ora che mi ha risposto, non so davvero come continuare. Vado al sodo. "Come hai capito che papà era quello giusto?" domando, con un solo filo di voce stentatamente udibile. 

Mia madre non dice nulla per un bel po'. Forse, avrei dovuto starmene zitta anche io. E' la prima volta che ne parliamo da quando è morto. Lasciato il Palazzo di Giustizia dopo aver ricevuto quella medaglia, mia madre non ne ha mai discusso. Non che abbia parlato di altre cose. La sua voce era diventata una chimera. Riuscivo a sentirla solo quando trapelava, un po' smorzata, tra gli gemiti che lei cercava di reprimere quando Prim ed io eravamo a portata d'orecchio. Evidentemente non era molto brava a nascondere il dolore. Non come lo ero io. Come ho dovuto fare io. Già, perché non mi sembrava giusto che Prim la sentisse e soffrisse più di quanto già faceva. Così, le passavo un braccio attorno alle spalle e la portavo fuori da Lady, oppure la stuzzicavo prendendo in giro Ranuncolo. 

Il sospiro che avverto dopo una manciata di minuti mi lascia intendere che mia madre sta per rispondermi. Mi aspetto che cambi discorso. "Te l'abbiamo raccontato già una volta" dice. La voce è debole e improvvisamente ha perso tutta l'allegria che la impregnava poco fa. 

Non ha cambiato discorso, comunque. Ha solo cercato di  liquidarlo. Ciò mi da il coraggio di insistere. "Non voglio la storia". Quella, è vero, me l'avevano raccontata un anno dopo la nascita di Prim. Precisamente il giorno in cui mia sorella imparò a camminare senza l'aiuto di nessuno di noi. Era domenica. Ricordo che domandai loro di quanto avessi impiegato io a camminare da sola e poi chiesi il racconto di come si erano conosciuti. Ascoltai rapita ogni singola parola. Al punto che, sebbene avessi solamente cinque anni, la ricordo ancora tutt'oggi. "Mi serve solo sapere quando hai capito che eri innamorata di lui" continuo, mettendo da parte la sensazione allo stomaco provocata dall'ondata di dolore che sto provocando di nuovo a mia madre. 

Lei sospira di nuovo. Più rumorosamente, ma questa volta ci mette meno a rispondermi. "Innamorarsi è facile" dice. Me la immagino seduta con lo sguardo perso nel vuoto. "Ci si può innamorare di chiunque, ma si ama solo una persona nella vita"
"E come faccio a capirlo?" chiedo, adesso lievemente infastidita.
"Stiamo parlando di Peeta, non è così?" domanda mia madre. Rimango in silenzio. La sua risposta mi ha spiazzato. In tutta onestà, avevo immaginato che la sua mente sarebbe corsa immediatamente a Gale, affrontando questo argomento. Potrei giurare di averla sentita parlare con Hazelle, qualche anno fa, di come Gale ed io fossimo una bella coppia. Non l'ho mai detto a nessuno. "Riesci a immaginare la tua vita senza di lui?" mi chiede improvvisamente.
Queste parole non hanno il risultato sperato. Né per mia madre e tantomeno per me. Invece di aiutarmi, riescono solo a farmi innervosire. "No" ammetto, senza pensarci. In effetti, il solo pensare la mia vita senza Peeta mi provoca sofferenza. "Ma pensavo la stessa cosa anche di Prim" dico, con una forza che non mi è appartenuta per parecchio tempo al ricordo di mia sorella.
"E' ora di andare avanti" dice lei, trattenendo un singulto. "Ormai non puoi farci niente"
Balzo in piedi con uno scatto. "E dovrei fare come hai fatto tu?" accuso, ritrovandomi a puntare il dito contro l'aria. "Dovrei semplicemente fare finta che non sia mai esistita?" esplodo, senza preoccuparmi del calore e del rossore che mi arriva alle guance.
"E' questo che pensi? Che me ne sia dimenticata?" chiede. Riconosco nel tono un velo di delusione, ma non rimangio nessuna delle parole che ho detto. Non dico proprio nulla. "Non è facile per me, così come non lo è per te" dice a mo' di difesa. Adesso sembra che si sia innervosita anche lei.
"Non si direbbe" mormoro non abbastanza a bassa voce da impedirle di sentirmi.
Dall'altro lato della cornetta avverto una specie di risatina amareggiata. Starà scuotendo la testa in questo momento. "Sei stata tu a dirmi di non andarmene di nuovo il giorno della tua prima Mietitura. Sto cercando di fare quello che tu mi hai detto!" conclude con veemenza.
Adesso è il mio turno di sollevare gli angoli della bocca in un sorriso amaro. "Peccato che nel processo ti sia dimenticata di avere un'altra figlia". Le parole di escono di getto. Ciò che mi stupisce è l'alone di delusione che stavolta impregna il mio tono. Ho pensato poco a mia madre da quando ci siamo separate - io al Distretto 12 e lei al 13 -. Probabilmente perché, in un certo senso, non ho mai potuto servirmene nei momenti disperati. Semplicemente non c'era quando Prim ed io ne avevamo bisogno. Per questo motivo, ho sempre immaginato di essermi abituata al suo comportamento. Che non mi toccava più di tanto, ormai. Telefonandole, oggi, mi sono resa conto che non è così. Come si spiegherebbe altrimenti la mia reazione? Devo aver dato per scontato che essendo rimaste soltanto noi due, ci saremmo fatte forza a vicenda. Che almeno adesso avrei potuto contare sull'appoggio di mia madre. Un pensiero stupido.
"Lo sai che puoi chiamarmi appena hai bisogno" dice.
Annuisco. "Lo farò" mi limito a dire, con finta indifferenza, prima di chiudere la telefonata. In realtà, ho il presentimento che non la chiamerò tanto presto. Non saprei cosa dirle dopo oggi. E poi non mi è stata particolarmente d'aiuto. Volevo sapere come capire cosa provo per Peeta e invece siamo finite per litigare. Non sono mai stata un tipo romantico. Mai avuto il tempo di interessarsi a queste cose, ammesso che ne avessi avuto la voglia. Eppure, ho sempre pensato che l'amore non dovrebbe essere una sorta di patto tra due persone al solo scopo di sopravvivere. E' questa impressione che mi hanno dato le parole di mia madre. Riesci a immaginare la tua vita senza di lui?, ha detto. La mia vita senza Peeta. No, non riesco a immaginarla. Ma, mettendola in questi termini, è soltanto grazie a quella sorta di istinto di protezione che abbiamo l'uno verso l'altra. Quello che ci ha spinto ad sacrificarci a vicenda durante gli Hunger Games, a spingere Peeta a darmi quei due pezzi di pane bruciacchiato a undici anni. Almeno da parte mia, non vedo nulla che sia legato a sentimenti profondi. Mi è impossibile capire se amo Peeta basandomi esclusivamente sulla mia capacità di sopravvivenza in sua assenza. Non può essere così. Deve esserci qualcos'altro.
Senza alcun tipo di preannuncio, la porta d'ingresso si apre. Vedo Peeta comparire sulla soglia di casa. Mi rivolge un gran sorriso appena mi vede. Lo ricambio con uno un po' smorzato, per poi abbassare il capo verso il pavimento. "Qualcosa non va?" chiede, inclinando la testa di quel tanto per riuscire a guardarmi in viso. Ormai non mi sorprende più come riesca a capire sempre che qualcosa mi turba.
Scuoto la testa in segno di diniego. Poi ci ripenso. "Ho parlato con mia madre" gli racconto, avviandomi verso il divano.
"E?" mi incita a continuare, la voce molto vicina alle mie spalle.
"Non ha nessuna intenzione di tornare" dico, scrollando le spalle. "L'ho persa di nuovo"
"Le serve tempo" afferma Peeta, comprensivo, posandomi una mano sulla spalla.
"E chi gliel'avrebbe negato qui?" domando retorica, ritrovando una parte del fuoco della telefonata. Peeta apre la bocca per dire qualcosa, ma lo fermo. Non mi interessa alcuna giustificazione a favore di mia madre. Se lo conosco anche un po', stava per dirmi che rimanere nel luogo in cui si è persi tante persone richiede molta forza. Eppure io ci sono rimasta. Lui ha fatto lo stesso. E così Haymitch; tutte le persone che sono ritornate qui. "Possiamo rimandare la sua parte a un altro giorno?" gli chiedo, alzandomi per prendere il libro al quale stiamo lavorando.
Lui annuisce. "Possiamo fare quella di Johanna" propone.
Non replico nulla. Mi limito ad osservare Peeta che brandisce una matita dalla punta molto affilata. La mantiene tra sole due dita delicatamente, senza stringere. La presa leggera lascia presupporre che la matita cada ogni pochi secondi. E invece quella non cade mai. Anzi, guidata dalla mano morbida di Peeta, traccia linee, curve e ghirigori con una perfezione sorprendente. Nonostante l'attenzione e la cura dei particolari, Peeta è abbastanza veloce. In una manciata di minuti riesco a intravedere, al di sopra della sua mano, il viso di Johanna. I grandi occhi marroni resi molto realistici grazie a delle brevi linee molto ravvicinate attorno a un cerchietto molto scuro che rappresenta la pupilla. Con la stessa tecnica ricrea fedelmente i capelli neri.
Il viso di Peeta è contratto in un'espressione attenta. I suoi capelli gli ricadono sulla fronte, lievemente spettinati. Di tanto in tanto apporta qualche cancellatura al disegno. In quelle occasioni mi lancia un'occhiata veloce e un mezzo sorriso gli anima il viso. Solo adesso mi viene in mente che, forse, per capire cosa provo per Peeta, devo parlarne con Peeta. Chi meglio di lui potrebbe darmi una mano? L'ha sempre fatto.
"Posso farti una domanda?" chiedo. Lui annuisce, senza staccare gli occhi dal foglio. "Quando hai scoperto che ti piacevo?"
La domanda secca lo sorprende. Riesco a dirlo dal fatto che il polso si irrigidisce e la mano si ferma di colpo. "Perché me lo chiedi?" domanda, confuso.
L'idea di raccontargli le mie intenzioni mi sfiora, ma l'abbandono molto velocemente. "Devo capire una cosa" dico solamente. Se la mia ricerca non dovesse concludersi con il finale che lui vorrebbe? Una vocina nella testa mi dice che non dovrei essere così sicura che Peeta mi ami ancora. Non posso fare altro che darle ragione. Non so più quali sono i suoi sentimenti nei miei confronti. Comunque, io ho bisogno di capire i miei. E se quelli di Peeta non sono cambiati, allora non voglio illuderlo se dovessi scoprire che ciò che voglio da lui è una semplice amicizia.
Peeta non aggiunge null'altro che non sia la risposta alla mia domanda, subito dopo essersi voltato per guardarmi meglio. "La prima volta che ti ho vista, mi sei stata subito simpatica" dice, con il suo tipico sorriso dolce sulle labbra al ricordo. "Soprattutto perché pensavo che fossi mia sorella e..."
Io, sua sorella? "Tua sorella?" chiedo, le sopracciglia arcuate.
Le guance di Peeta si colorano di un rosa acceso. "Avevo solo cinque anni e mio padre mi aveva appena detto che era stato innamorato di tua madre" si difende.

Quando lascio sfuggire una breve risata, il rossore peggiora. "Comunque" riprende, come se non ammettesse altre interruzioni. "Mi sono accorto che te ne stavi sempre in disparte e ho pensato di essermi sbagliato sul tuo conto. Forse, è per questo motivo che ho iniziato ad osservarti. Ti cercavo con gli occhi alla mensa, nei corridoi, fuori scuola … E, senza che me ne accorgessi, mi sei piaciuta. Non so di preciso quando è successo, se è questo che ti serve sapere” conclude, un po’ dispiaciuto.

Scuoto la testa impercettibilmente. “Non preoccuparti. Mi va più che bene questa risposta” ribatto, tranquilla. Non mi è molto di aiuto, a dire la verità, ma mi fa piacere averlo saputo. Mi fa sorridere ancora l’idea che Peeta possa aver pensato che fossimo fratello e sorella. Però, è come dice, era troppo piccolo per non confondersi.

Comunque, lo sembra anche adesso che mi guarda. “Non puoi ancora dirmi cosa devi capire?” chiede. Colgo nel suo tono la speranza che la mia risposta sia affermativa. Che abbia capito di cosa si tratta?

Prendo un breve respiro. “Sarai il primo a saperlo” dico soltanto. Gli dico anche di tornare a lavoro subito per distogliere l’attenzione dalla questione.

A ora di cena, sono io tirarla di nuovo fuori. “Se eri innamorato di me, perché non me l’hai mai fatto capire?” chiedo, curiosa. Calco bene la parola eri.

Questa volta Peeta non fa domande. “Avrei voluto, ma non sapevo come iniziare a parlarti” ammette.

La risposta mi stupisce. “Tu?”

Lui accenna un sorriso. “Non sono sempre stato bravo con le parole” scherza, facendo spuntare un sorriso anche sulle mie labbra. Poi, torna serio. “Alla morte di tuo padre, avrei voluto esserti d’aiuto in qualche modo …”

“E l’hai fatto!” lo interrompo, decisa.

“Avrei voluto fare molto di più”. Il dispiacere nella voce è come un pugno in pieno stomaco. “Ma non mi sembrava giusto approfittare di un tuo dolore per ottenere ciò che volevo. Poi è arrivato Gale” aggiunge, quasi sollevato di aver cambiato argomento. “La sua comparsa ha messo il sigillo su ogni mio tentativo di esserti anche solo amico” conclude, con una nota di rimpianto.

Fino a poco fa sarei stata d’accordo con questo pensiero. Non mi serviva un altro amico. E soprattutto, non lo volevo. Gale era la miglior cosa che mi fosse mai capitata. “Avresti potuto provarci lo stesso” dico, imitando perfettamente il rimpianto della voce di Peeta.
Lui solleva le sopracciglia. "Non diresti così se ti fossi accorta del modo in cui ti guardava". Aggrotto la fronte e Peeta si affretta a spiegarsi. "Era come se fossi solo sua, nessuno di noi poteva avvicinarsi"

Possibile che non mi sia mai accorta di nulla? Ripenso a come Gale sia sempre stato protettivo nei miei confronti. Non solo nel bosco e addirittura non solo con me. Il modo in cui ha portato via Prim il giorno della mietitura, le attenzioni che ha rivolto alla mia famiglia quando ero nell'arena. Una parte di me dice che l'avrebbe fatto anche se non fosse stato innamorato di me. L'altra cerca di farmi capire il contrario. L'ha fatto esclusivamente per me. Perché sapeva che non l'avrei mai perdonato se avesse lasciato mia madre e mia sorella a morire di fame. Però, anche lui non mi ha mai fatto capire niente. Non avrò mai l'occasione di chiederglielo. 

Dopo un po' Peeta riprende. "Alla fine mi sono rassegnato e ho cercato di accettare il fatto di non avere possibilità contro di lui, soprattutto in presenza dei miei fratelli" dice. "In qualche modo se ne accorsero e mi ripetevano sempre che ero geloso". Parlando il volto di lui si incupisce e l'espressione dolce che lo accompagna svanisce nel nulla. 

Vorrei mordermi la lingua tanto da far uscire il sangue. Avrei dovuto starmene zitta e capire tutto da sola. Anche se non potevo immaginare che la discussione sarebbe ricaduta sui fratelli. Occorre un cambiamento di argomento. "Anche io ero gelosa l'altra sera a casa tua" dico, senza nemmeno formulare il pensiero di dirgli una cosa del genere. Ma la sensazione è piacevole. Lo stomaco si alleggerito del peso enorme che mi opprimeva. Sembra che anche l'uccellino intrappolato adesso sia libero di volare via. "Il modo in cui tu e Delly eravate così a vostro agio, come parlavate ... il Distretto 13 ... e il pane alle noci ... mi ha dato fastidio" farfuglio, cercando di raccontargli la verità troppo in fretta. Molte parole le salto, altre le aggiungo dove non dovrei. Mi chiedo se abbia capito una parola di quello che ho detto. Il cipiglio interrogativo mi dice di no. 

"Di che stai parlando?" mi chiede, infatti, qualche istante dopo. "Ti ha dato fastidio che le abbia insegnato a mettere insieme acqua e farina?"

Detto in questo modo sembra molto stupido. Qualche sera fa, però, per me è stato insopportabile. "Tanto da andare via" confesso, abbassando gli occhi nella zuppa di verdure che ci ha preparato Sae la Zozza. 

"Immaginavo che non fossi realmente stanca" dice Peeta. "Ma non pensavo fosse dovuto alla gelosia" 

Colgo uno strano scintillio nello sguardo di Peeta che mi scalda il petto. Sembra che sorrida con gli occhi. E non posso fare a meno di sentirmi soddisfatta. Perché sono riuscita a distogliere i suoi pensieri dai due fratelli, perché per la prima volta ha riso per una cosa che ho fatto io. Non un sorriso vero e proprio con le labbra, ma per me vale anche di più. La cosa che mi fa stare meglio è che tiene su quest'espressione rilassata per tutta la durata della cena. Quando giunge il momento per lui di andare via, sono così desiderosa che non lo faccia, al punto di chiedergli di restare. "Sempre" promette lui. E' proprio la risposta e la dolcezza in essa intrisa che fa spuntare sulle labbra un'altra domanda. Una che, mi rendo conto, ha una rilevanza maggiore nella mia ricerca. 

"Peeta" sussurro, quando siamo entrambi a letto. Avverto il mento di lui sulla mia testa. Esito. E' strano che abbia paura? Ho affrontato cose che una ragazza di diciotto anni si sognerebbe e ora mi spaventa una risposta? Potrei dirgli qualsiasi altra cosa, ma non voglio. Ho bisogno di sapere. "Mi ami ancora?" 

Nel tempo che Peeta impiega per rispondere mi sembra di essere sollevata a mezz'aria. L'uccellino sembra essere ritornato, ma per una ragione ben diversa. Adesso non è la gelosia nei confronti di Delly che mi preoccupa, quanto la possibilità che Peeta non provi più nulla verso di me. Al solo pensiero ho la nausea. Vorrei tornare indietro e mordermi di nuovo la lingua, ma ormai è fatta. "Solo qualche mese fa ho capito perché hanno scelto di usare me a Capitol City come arma per ucciderti". Lo stomaco mi fa realmente male. Non è una mia semplice impressione. E' dolore vero adesso. "Sapevano che qualsiasi tuo gesto contro di me mi avrebbe dilaniato. Quale arma migliore se non un ragazzo pazzo d'amore che scopre, non solo di non essere ricambiato dalla persona che ama, ma addirittura che lei ha sempre cercato di ucciderlo? Ero perfetto perché sapevano che ti avrei amato per sempre e indipendente da ogni cosa tu avresti fatto". Fa un breve pausa, nella quale mi chiedo se ho capito bene. Per fortuna, me lo spiega lui. "Quindi, sì, ti amo ancora"

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo Decimo - Parte Prima ***


E' passato moltissimissimo tempo dall'ultima volta che ho aggiornato la fic e mi scuso per questo.
Sapete com'è, tra lo studio, il caldo e cose varie non riesco mai a trovare un po' di tempo per scrivere.
Senza contare il fatto che casa mia è diventata un porto di mare. Con gente che viene e gente che va,
mio angolino della scrittura è occupato e sono stata costretta a trovarmene un altro.
Comunque, ora sono qui e ringrazio tutti quelli che recensiscono e mi spronano a continuare.
Non potete immaginare quanto ve ne sono grata!
-M


Capitolo Decimo - Parte Prima
PEETA
Katniss è gelosa di me. Il cuore batte in un modo che non ha mai fatto. Non penso che sia normale contare un centinaio di battiti in circa un minuto, soprattutto considerando il fatto che sono sdraiato a letto. La testa di Katniss è sulla mia spalla; l'odore dello shampoo mi entra nelle narici e mi stordisce. Forse, è per questo che il cuore sembra impazzito. La vicinanza di Katniss mi provoca emozioni troppo forti. Mi chiedo come faccia a essere gelosa del rapporto che ho con Delly. Sono due persone completamente diverse, alle quali non potrei essere legato in maniera più differente.
Delly è il simbolo della mia infanzia. Vederla alla stazione mi ha sconvolto in senso positivo. Nel momento in cui mi sono accorto che era stata lei a chiamare il mio nome, mi sono passati davanti agli occhi i tanti giochi che abbiamo fatto insieme quando eravamo piccoli. Lei perdeva quasi sempre all'inizio, e la cosa strana era che non piangeva mai. Così, mi proposi di farla vincere di tanto in tanto. Era di una gentilezza e bontà introvabili. E lo è ancora. Come fa dopo tutto quello che è successo? E' rimasta la stessa Delly che era prima di perdere entrambi i genitori. Un dolore così non dovrebbe cambiare le persone? Con me è successo. Non mi sento più lo stesso ragazzo di una volta. Già a diciotto anni ho visto molte persone morire di fronte ai miei occhi, sono stato torturato e ho partecipato agli Hunger Games per ben due volte. Come potrei essere lo stesso Peeta che decorava torte insieme al fratello, oppure inventava le bugie più disparate per evitare le punizioni, verbali e non, della madre? Ho la sensazione che il ragazzo piacevole che ho esibito sul palco insieme a Caesar Flickerman sia sepolto da qualche parte dentro di me. Alla stazione ferroviaria una piccola parte è ritornata a galla. Ma è andata via prima che potessi accorgermene. Non che ci sperassi. Ormai quella parte appartiene al passato che non può più ritornare, perché non posso fare come se gli ultimi anni non siano mai esistiti. Non quando le cicatrici, la gamba artificiale e la panetteria nuova senza mia madre che urla e mio padre che mi conserva le torte da glassare mi ricordano che non posso.
Anche Delly appartiene al passato. Il vecchio Peeta le scoccava un sorriso allegro quando l'intramontabile ottimismo dell'amica gli permetteva di sopportare la vita dura al Distretto 12. Adesso non sarebbe la stessa cosa. Quella sorta di cieca fiducia nel futuro mi infastidisce. Nel mio - di futuro - non riesco a vedere altro che flashback di Katniss che prova a uccidermi in riva al fiume, tentativi di ucciderla a mia volta e incubi che rievocano lo scenario della morte della mia famiglia. L'unica consolazione è che proprio Katniss sarà al mio fianco. So che lo farà. Sebbene anche lei sia cambiata, è irrimediabilmente incapace di lasciare qualcuno in difficoltà. Con me non ha mai mollato, nonostante a Capitol City abbiano cercato di farmi credere il contrario. In parte ci sono riusciti. Altrimenti non avrei tentato di ucciderla più di una volta. Ho chiesto io al Dr. Aurelius di mandarmi a casa soltanto quando fosse stato sicuro che non avrei rappresentato nessun pericolo per lei. Il solo pensiero di farle del male mi fa ribollire dentro. E il problema che non posso prendermela più con nessuno. Ora che anche Snow è morto, l'unico da biasimare sono io. La mia debolezza non mi ha permesso di resistere al veleno, di evitare di soffocarla al Distretto 13. La mia debolezza mi ha trasformato nell'arma perfetta da usare contro di lei. Le prime volte il veleno non era così letale, poi man mano ho iniziato a chiedermi davvero se il vero svolgimento dei fatti fosse quello che ricordavo io, oppure quello che mi mostravano nei laboratori. Dopo molto ho ceduto, influenzato anche dalle urla dei miei vicini di cella. Era insopportabile restare lì, tra gemiti doloranti e confusione generale. La cosa peggiore era che Katniss non mi sembrava più quella che avevo pensato di conoscere. Ai miei occhi era diventata un'assassina, che dovevo fermare a tutti costi. Perché aveva cercato di farmi del male e poteva farne anche ad altri. In realtà, speravo che uccidendola lo squarcio nel petto lentamente si sarebbe ricucito. Ma non l'ha fatto quando le mie mani erano attorno alla sua gola. Anzi, riuscivo a scorgere negli occhi sofferenti la sua paura e forse delusione per quello che le stavo facendo. Una volta guarito - almeno in minima parte - lo squarcio non ha seguito la stessa via. Per tutto il tempo che sono rimasto con il Dr. Aurelius mi sono domandato se anche il ricordo di Katniss che mi diceva di aver finto le attenzioni e i baci nella prima arena fosse provocato dal veleno iniettatomi. Il dolore nello scoprire che non era così mi ha messo ko per qualche giorno. Adesso mi sembra di essere rinato a nuova vita. La sua gelosia nei miei confronti non è certo una dichiarazione d'amore, ma per me è come se lo fosse.
Il sole è già sorto e splende luminoso nel cielo. Restare a letto sembra un crimine in una giornata così bella. Sebbene abbia dormito poco, ho la sensazione di averlo fatto per un mese intero. Sono sicuro che a breve mi sentirò stanco, ma adesso voglio solo approfittarne. Provo a svegliare Katniss delicatamente, in modo che non si spaventi. Non ci riesco. Sbarra gli occhi di colpo. "Cosa è successo?" mi chiede, allarmata. "Stai bene?"
"Va tutto bene" dico per tranquillizzarla. Le carezzo la fronte, scostando le ciocche disordinate che sono uscite dalla treccia. Ci metto anche il miglior sorriso che ho per convincerla che nulla è successo nella notte. Lei non sembra crederci molto. "Devi venire con me in un posto" affermo, dopo un po', illuminato da un'idea.
Katniss aggrotta la fronte. "Dove?"
"Sarai la prima a scoprirlo" ribatto, usando la frase che ieri ha usato con me. Rimane ferma, immobile. Mi fissa come se la stessi prendendo in giro e, esclusa la battuta per farla sorridere, è l'ultima delle mie intenzioni. "Per me va bene se vieni in pigiama, ma non so cosa penseranno gli altri vedendoti così" scherzo, cercando di metterla in moto.
Circa venti minuti dopo stiamo uscendo dal Villaggio dei Vincitori, l'uno al fianco dell'altro. Il braccio di Katniss a volte sfiora il mio. Un gesto che normalmente passa inosservato. Ma dopo aver saputo che è gelosa, ho la sensazione che vedrò ogni suo gesto in maniera diversa. Mentre cerco di mettere da parte questi pensieri che rasentano il patetico, la osservo. Qualche volta mi ritrovo a pensare che aver partecipato agli Hunger Games è stata una specie di fortuna. Non l'augurerei a nessuno, ma senza quell'evento non avrei mai parlato con Katniss o dormito con lei. Non l'avrei mai baciata. Se Effie Triket non avesse tirato fuori il mio nome avrei potuto non rivederla mai più, e adesso non sarei con lei. Non starei cercando di farle capire quanto importante per me sia che capisca che non ha nulla di cui essere gelosa.
"Perché siamo qui?" chiede, mostrando sul volto tutta la confusione. Sembra ancora un po' assonnata. "Hai apportato delle modifiche alla panetteria?" domanda, nel tentativo di indovinare il motivo per cui l'ho svegliata poco dopo l'alba.
Scuoto la testa aprendo la porta del negozio per lei. Prendo due grembiuli e gliene tendo uno. "Imparerai a fare il pane" dico con una indifferenza. Ok, forse non sono tanto indifferente, ma sono certo che lei non se ne sia accorta. Devo attendere solo un secondo dopo aver detto davvero quelle parole, prima che una marea di dubbi mi infastidiscano. Improvvisamente immagino che Katniss sbuffi e vada via. Oppure che mi dica di non voler imparare. Invece, lei afferra il grembiule bianco e lo mette addosso. Faccio lo stesso anche io, subito dopo aver notato quanto stia bene con qualsiasi cosa abbia addosso.
Tiro fuori tutto l’occorrente. Ancora adesso che ha accettato, mi sento stupido. E’ una sensazione che non riesco a mettere a tacere quando sono con lei. In passato, è questo che mi ha impedito di farmi avanti e parlarle. Poi, dopo la Mietitura e tutto ciò che ha scaturito, ho cominciato a sentirmi a mio agio. Suppongo che la potenziale morte abbia contribuito a farci avvicinare.
“Devi dirmi cosa fare” dice Katniss, fissando la roba che le ho messo davanti come se non avesse mai visto nulla del genere. Sembra in difficoltà. E’ strano come sia stata capace di salvare tutti i distretti, e poi non sa come comportarsi di fronte a una ciotola piena d’acqua.
KATNISS
Sono un disastro. Anche con Peeta a suggerirmi passo dopo passo, non sono riuscita a creare una bella pagnotta neanche se da essa fosse dipesa la mia vita. Mi sono impegnata, perché volevo davvero fare un buon lavoro. Ci tenevo. Mentalmente mi sono ripetuta costantemente che non volevo semplicemente battere Delly. Mentre Peeta cercava di riparare ai tanti errori che ho commesso, ho dovuto accettare che in realtà volevo solo quello. Intendevo far colpo su Peeta, impressionarlo in modo che fosse orgoglioso di me. Da tanto non cercavo di rendere qualcuno orgoglioso delle mie azioni. Forse quando nell’arena ho fatto di tutto pur di non sembrare debole agli occhi di Prim perché le avevo promesso che sarei tornata. Ma quella volta, mi sono resa conto, volevo solo evitare di spaventarla e dare soddisfazione a chi mi guardava. Adesso è diverso.
Sono seduta sul pavimento della panetteria. Peeta è proprio davanti a me, con un’espressione serena sul viso che non gli vedevo da molto tempo. Troppo. Sta scribacchiando qualcosa su un foglio. Da qui non riesco a vedere cosa. Anche io sono serena. Questa notte nessun incubo nuovo ha invaso i miei sogni e ho dormito più del solito. Vorrei dirlo a Peeta, giusto per renderlo partecipe anche delle cose positive e non solo quelle che mi fanno star male. Ma non posso. Ho paura che parlandone potrei rovinare tutto. E poi, il silenzio è così rilassante. Faccio per spostare i capelli dalla fronte.
“Non muoverti” quasi urla Peeta.
Rimango la mano ferma a mezz’aria. “Perché?” chiedo.
Le sue labbra si sollevano in un sorriso allegro. Mi piace il modo in cui ride, penso. Trasmette tranquillità. “Sto facendo un tuo ritratto” risponde, semplicemente.
Ecco perché mi gettava occhiate di tanto in tanto. Pensavo che volesse semplicemente controllarmi. Violo l’ordine di Peeta quando mi accorgo che il sorriso è diventato un ghigno. Mi tocco la guancia e la scopro calda. Sono arrossita. “Ci sono cose più interessanti da disegnare” mi lamento, per distrarlo dalla mia faccia.
Capisco che non è d’accordo dal modo in cui solleva gli occhi al cielo. “Questo lo dici tu”
“Lo direbbe chiunque” ribatto, rifiutando di accettare il complimento.
Peeta emette uno sospiro con la bocca. “Puoi solo non muoverti? Ho quasi finito”
Non dico nulla e non mi muovo di un centimetro. Mi limito a portare il braccio nella stessa posizione in cui era prima. Probabilmente non lo ammetterei mai a voce alta, ma il fatto che stia un facendo un mio ritratto mi lusinga. Il motivo non lo conosco. Non è certo la prima volta che fa una cosa del genere. Forse, l’unica differenza è che adesso ne sono consapevole. Gli ultimi disegni erano più una sorta di immagini rubate durante gli incubi. Ora, è come se gli avessi accordato il mio permesso. Lo osservo, affascinata, mentre la mano scorre decisa. Colgo fugaci apparizioni del suo viso, quando distoglie lo sguardo dallo schizzo per scrutare me. La fronte è lievemente aggrottata, segno che è concentrato. Il silenzio ci circonda. L’unico rumore che apprezzo è quello che proviene dalla sua matita contro il foglio. A disegno completo solleva il viso, entusiasta del risultato.
“Posso vederlo?” chiedo. Prima che lui risponda, sono già in piedi. Mi metto accanto a lui. La prima impressione che ho appena mi porge il foglio è che quella non sono io. La ragazza attorniata da cespugli e fiori è fin troppo perfetta per essere me. Sebbene sia solo un disegno, riesco a leggere facilmente la determinazione sul suo viso. Non sorride, ma il taglio degli occhi lascia trasparire una certa dolcezza che, sono sicura, io non ho mai fatto sfuggire se non in rarissime occasioni. E poi, è bellissima. Non sono il tipo di ragazza che si fa problemi sul proprio aspetto (mai avuto il tempo, la voglia o l’interesse), ma quella nel disegno possiede una bellezza quasi irreale. Tratti decisi e delicati coesistono senza stonare; capelli evidentemente setosi seppur intrecciati dalla sommità del capo; labbra a dir poco perfette e occhi grigi talmente ben fatti da sembrare vivi. Non mi riconosco, ma il talento è innegabile. “E’ davvero un bel disegno” dico, incapace di trattenermi dal dirglielo.
Peeta scrolla le spalle. “Ho avuto modo di far pratica” liquida, modesto. “Tutti possono disegnare”
Mi volto nella sua direzione, le sopracciglia sollevate. “Non io”. I miei disegni, da piccola, erano sempre i più brutti dell’intera classe. Neanche gli altri erano capolavori, ma essendo fatti da bambini di cinque o sei anni il risultato finale era comunque più che soddisfacente. Gli alberi che disegnavo io erano tutti storti, le persone avevano quattro dita invece di cinque e talvolta superavano in altezza le loro case, gli uccellini avevano ali sproporzionate. Un disastro, proprio come in cucina. Crescendo, sono peggiorata.
“Potrei insegnarti” propone calmo Peeta.
Mi lascio sfuggire uno sbuffo. “Come col pane?” domando, ironica.
Anche Peeta accenna un sorriso. “Delly ha fatto meglio di te, ora che ci penso”. Non ho nessun problema a scorgere la vena ironica anche nella sua risposta.
Sollevo gli occhi, sorpresa. “Fino a quando userai questa storia?” chiedo, fingendo il mio miglior tono annoiato.
Lui fa per pensarci. “Ogni volta che ne avrò bisogno” conclude, deciso. Gli rivolgo una finta occhiata truce, che lo fa ridere. “Allora, vuoi imparare?”
Annuisco. “Ci provo” dico, voltando pagina. Matita alla mano, osservo incerta il foglio bianco davanti a me. Non la minima idea da dove iniziare. Forse, se decidessi prima cosa disegnare sarebbe meglio.
Il sorriso che ha stampato Peeta sulle labbra è rassicurante e giunge al momento esatto. Così come il suo consiglio. “Potresti iniziare con quelle mele” dice, indicando un gruppetto sparso di mele sul tavolo da cucina. “Disegna tutto ciò che vedi senza pensarci troppo”
Va bene, mi dico. Sono solo mele. Non può essere così difficile. In fondo, si tratta solo di tracciare qualche sfera e poi colorarla su qualche lato per rendere la luce del sole che la colpisce. Non deve essere nemmeno tanto accurato, stando alla dritta di Peeta. Presto mi rendo conto che pensarlo è una cosa, metterlo in pratica ne è tutta un’altra. Esito per qualche istante con la punta della matita a qualche millimetro dal foglio, poi mi decido a fare qualcosa. Peeta non dice nulla mentre traccio curve a ripetizione, spesso ritornando su quelle già fatte, senza mai staccare gli occhi dal soggetto. Avverto il suo respiro dall’alto, che mi accarezza orecchio, collo e spalla. Solo ora mi accorgo che la distanza tra noi due è davvero ridotta al minimo. Ciò rende, per qualche strana ragione, difficile concentrarmi su quello che sto facendo. Quando abbasso lo sguardo sullo schizzo, faccio un’espressione disgustata. Ammettere che è ridicolo, significa essere troppo magnanimi o ciechi. Perfino i disegni di quando avevo sei anni erano migliori di questo.
“Te l’avevo detto che sono negata” esplodo, frustrata. C’è qualcosa in cui sono brava?
“Basta solo un po’ di pratica e una buona dose di pazienza” mi incoraggia Peeta.
Lo fisso, accigliata. Sulla parte della pratica potrebbe anche avere ragione. “Avrai notato che non sono molto paziente” butto lì.
“Proviamoci insieme” propone.
Mi volto nella sua direzione ancora una volta. E’ così vicino che i nostri nasi quasi si sfiorano. Qualcosa mi dice che farei bene ad allontanarmi da lì, ma non lo faccio. Forse, non lo voglio neppure. Ma devo. “Va bene” mormoro, preferendo di dover fissare il mio brutto disegno.
Peeta ridacchia, avvolgendomi tra le sue braccia. In un primo momento sono confusa, poi mi accorgo che deve solo stringere la mia mano nella sua. Porta entrambe le nostre mani sul foglio. “Seguimi” sussurra al mio orecchio, facendomi rabbrividire lungo la schiena.
La sua mano guida la mia, mentre io osservo attonita come la fedele riproduzione di quelle mele cominci a prendere vita sul foglio. Ovviamente, io c’entro ben poco con la perfezione di quel disegno. E’ Peeta quello che sta facendo tutto il lavoro, ma il fatto che la mia mano sia tra la sua è piacevole. E’ comunque una cosa che stiamo facendo insieme. E non è provare a uccidere altri ragazzi come noi, cercarci dell’acqua per non finire disidratati o fomentare una ribellione.
Finiamo prima di quanto voglia. Peeta rimuove le braccia dal mio corpo per osservare meglio il disegno. “Visto?” chiede, mostrando anche a me ciò che è uscito fuori dalla nostra unione artistica. “E’venuto bene”
“Hai fatto tutto da solo” gli faccio notare, a pochissimi centimetri dal suo viso.
Lui scuote la testa. “C’era anche la tua mano” precisa, indicando le mie dita, che ancora sono attorno alla matita. Non replico più nulla, colta di sorpresa dalla sua improvvisa serietà. In quella che mi è parsa una misera frazione di secondo, ogni traccia di sorriso e divertimento ha abbandonato l’espressione di Peeta. Non sembra arrabbiato o preoccupato. Solo serio. Non gradisco nemmeno la sensazione che mi impedisce di distogliere lo sguardo dai suoi occhi. E’ come se fossi in trappola. Poi, quando batte ciglio sembra quasi che voglia avvertirmi di qualcosa. Solo dopo mi accorgo che si sta avvicinando, riducendo la distanza già minima tra la sua faccia e la mia. Trattengo il respiro quando il suo naso sfiora il mio. Ho dalla mia un paio di opzioni fra cui scegliere. Potrei voltarmi e assecondare la voce che mi suggerisce nuovamente di tirarmi fuori da quella situazione. Oppure posso solo sperare che voglia osservarmi molto da vicino per scopi puramente artistici. Comunque, escludo entrambe le cose. Non ho la forza necessaria per girarmi e non potrei sopportare il pensiero di averlo ferito dopo; e, soprattutto, voglio che si sia avvicinato per la ragione che penso l’abbia spinto a farlo. Quando sussurra: “Posso baciarti?” contro le mie labbra, ogni inutile difesa viene spazzata via con una rapidità impressionante. 
La sola risposta che il mio cervello riesce a metabolizzare adesso, stordito dal profumo di cannella che aleggia nell'aria, non è verbale. Avvicino il mio viso a quello di Peeta quel poco che serve per fare in modo che le nostre labbra si tocchino. E quando accade, sono sorpresa nel notare quanto mi sia mancato quel contatto. La mente sembra annebbiarsi man mano che andiamo avanti. Eppure tutto sembra estremamente chiaro, come se questo fosse il posto dove sarei sempre dovuta stare. Mi sento quasi male quando penso al tempo che ho perso, cercando di capire. Non solo gli ultimi giorni, anche prima quando era il pensiero di Gale a impedirmelo. Gale.
Per almeno dieci secondi, dimentico tutto il resto. Poi la realtà delle cose mi colpisce in pieno petto. Mi allontano improvvisamente, spezzando il bacio. "Non posso" mi scuso con Peeta, scuotendo la testa ritmicamente. Mi alzo e mi allontano, perché stargli vicino adesso vorrebbe dire ragionare senza lucidità. Ed è l'ultima cosa di cui ho bisogno.
Anche Peeta balza in piedi. Non posso non notare che sembra allarmato. "Che succede?" chiede, facendo qualche passo nella mia direzione.
Pianto le mani in avanti in modo che non si avvicini. "Non avrei dovuto farlo" moromoro in preda alla confusione.
"No" dice subito Peeta. "Sono io che non avrei dovuto chiedertelo".
Ecco cosa volevo evitare. L'espressione di dolore nei suoi occhi mi provoca la nausea. Non posso vederlo così, non voglio. "No, non è colpa tua". Infatti, è mia. "Devo andare". Tornando a casa, l'unica persona a cui riesco a pensare è Gale.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo Decimo - Parte Seconda ***


Mi scuso per il tempo che ci ho messo. Il fatto è che c'è stato un problemino che non ho ancora capito. Martedì ho postato il capitolo, ma mi hanno fatto notare che non si leggeva niente. Da garn furbacchiona quale sono, ho cancellato la copia che avevo prima di eliminare il capitolo dal sito e quindi ho sovuto riscriverlo completamente dall'inizio. La versione precedente era più lunga e anche fatta meglio. Comunque, anche prima non mi piaceva la storia dell'equivoco che leggerete più avanti. Onestamente avevo pensato di toglierla del tutto, ma poiché il capitolo precedente era impostato per questo continuo, non potuto fare cambiamenti.
Spero che continui a piacere anche dopo il capitolo.
Alla prossima!
-M


Capitolo Decimo - Parte Seconda
PEETA
Le azioni di Katniss hanno il potere di confondermi. Un attimo prima mi sta baciando e quello dopo scappa via. Per un attimo ho avuto la sensazione che tutto fosse tornato al proprio posto. Quel senso di appagamento è stata una cosa mai provata prima. Non è stata la prima volta che ci siamo baciati. Mentre quelli all'interno dell'arena mi appaiono ancora un po' confusi, quello di poche settimane fa lo ricordo perfettamente. Ha cercato di convincermi che non era necessario mettere dello spazio tra di noi, se sognavo di ucciderla. Nulla di romantico era inteso, quindi. Adesso è stato diverso. Ho avuto la sensazione che Katniss volesse qual bacio quanto me, per le ragioni che l'ultima volta non erano sottintese. Non so nemmeno io dove ho trovato il coraggio di chiederle quel bacio. Molte altre volte avrei voluto, ma il timore della sua reazione mi ha sempre bloccato quando le parole erano a un passo dall'essere pronunciate. I pochi secondi che si è concessa per pensarci sono stati terribili. La parte di me che immaginava che Katniss si allontanasse o mi dicesse di no, suggeriva all'altra più ottimista di rassegnarsi. E, pochi istanti prima che il bacio iniziasse, l'ha fatto. Stavo per dirle di lasciar perdere e dimenticare ogni mia parola, quando mi sono accorto che lentamente le sue labbra si stavano avvicinando alle mie. Ho trattenuto il respiro e gli occhi sono rimasti aperti fino all'ultimo instante, per paura che Katniss si tirasse indietro.
Le labbra erano come le ricordavo. Screpolate. Me ne sono dimenticato subito, però. Come potevo mettermi a pensare a un fatto così irrilevante quando finalmente avevo ottenuto ciò che bramavo da tanto tempo? E poi, le labbra screpolate di Katniss mi piacciono perché - mi vergogno di aver bisogno di un tale espediente - mi ricordano che è la Katniss che io, in prima persona, ho conosciuto. Non la versione spietata di Capitol City. Un po' ruvida all'esterno, ma indimenticabile una volta che la conosci.
Ormai posso dire di conoscere Katniss. Lo sapevo che qualcosa l'avrebbe costretta a indietreggiare. La scusa - so che è una scusa perché è una pessima bugiarda - questa volta è stata che doveva andare. "Dove?" le ho chiesto e ho ottenuto solo una risposta incomprensibile mentre scappa via dalla panetteria.
La seguo perché ho intuito che qualcosa la turbava. Qualcosa non andava. Non mi interessa se non vuole baciarmi o se non vorrà più vedermi per averla messa in una situazione a lei scomoda. Tutto ciò che mi serve sapere adesso è che sta bene. Così, chiudo la panetteria e mi metto alla sua ricerca. E' presto, quindi le strade della città non sono ancora affollate, il che dovrebbe rendermi facile trovare Katniss. Invece no. Non è in vista da nessuna parte quando allungo il collo per le strade ricostruite del distretto e fiancheggiate da negozi nuovi. Qualcosa mi dice che è nei boschi. Sai che è lì. Vorrei andare a dare un'occhiata, ma non avrebbe senso. Con la conoscenza che ho di quel posto potrei non uscirne più, mentre Katniss è abituata a spingersi ben oltre. La cosa saggia da fare, quindi, è andare a casa e aspettare che torni. Così faccio.
Il Villaggio dei Vincitori non dista molto dalla città, ma oggi impiego il doppio del tempo che solitamente ci metto per raggiungerlo. Forse, avrei dovuto tacere anche stavolta. Ho aspettato per anni che si accorgesse di me, e adesso non sono riuscito ad controllarmi per altre due o tre settimane. Probabilmente, non sarebbe cambiato nulla, ma almeno adesso non mi sentirei in colpa per aver approfittato della sua confessione su Delly. Ma no! Dovevo baciarla e rovinare tutto, proprio adesso che le cose sembravano aver intrapreso la giusta via.
Furente come sono con me stesso, quasi non mi accorgo che la porta della casa di Katniss è semiaperta. Quando siamo usciti, non l'abbiamo di certo lasciata così. Da quando il Distretto 12 ha visto il ritorno di una buona parte di popolazione, abbiamo ripreso l'abitudine di chiudere le porte a chiave. Eppure, qualcuno deve essersi intrufolato in casa di Katniss, anche se non vedo chi e perché. Haymitch starà approfittando della luce del sole per dormire e Sae... non so dov'è lei, ma non è mai arrivata così presto al mattino. Ciò mi fa pensare che forse Katniss è qui. Di tutti i posti che avevo pensato potesse essere, casa sua non è stato esattamente il primo dei miei pensieri. Comunque, mi avvicino cautamente. Tendo l'orecchio tra lo stipite e la porta, giusto in tempo per sentire la voce di Katniss. "Anche io" dice. Aspetto che la persona a cui è diretta la risposta dica qualcosa, ma sento sempre la stessa voce. "Nell'ultimo periodo non sapevo cosa pensare. Mi mancavi". Deve essere sua madre, mi dico. Forse vuole rimediare alla lite di ieri pomeriggio. Anche se non vedo cosa c'entri sua madre con il nostro bacio? Perché scappare via in quel modo per chiarire con sua madre? "Ma allo stesso tempo mi dicevo che dovevo odiarti perché mi avevi strappato la persona che amavo di più al mondo. Che tutt'ora amo più di qualsiasi altra!" Incolpa sua madre di aver ucciso Prim? E' impossibile. Il Dr. Aurelius mi ha raccontato che Prim è stata uccisa con un esplosione. Mi ha mentito? No, non credo. Dopo tutte le bugie che mi hanno rifilato nei laboratori di Capitol City, non avrebbe potuto continuare l'opera. Deve esserci un'altra spiegazione. Ma sarà Katniss a darmela. Non è giusto origliare una conversazione che dovrebbe essere privata. E se Katniss è scappata via senza dirmi dove stava andando, allora vuole che la telefonata con sua madre rimani tale.
Faccio per andarmene, ma le parole che seguono mi costringono a restare fermo, con l'orecchio teso. "Poi ho capito che non posso sperare di andare avanti senza di te. Altrimenti avrei buttato tutti gli anni in cui siamo stati amici..."
Scosto immediatamente l'orecchio e mi allontano. Non mi serve sentire altro. Un fulmine mi ha colpito in pieno petto e mi ha svuotato di ogni sensazione, bella o brutta. Ecco, mi sento dolorosamente vuoto. E' Gale al telefono, non sua madre. E' senza di lui che non può sperare di andare avanti.
Katniss sceglierà quello che ritiene indispensabile alla sua sopravvivenza, furono una sera le parole di Gale rivolte a me. A quanto pare, Katniss non può sopravvivere senza di lui. Ma perché sono così sorpreso? Io non ci sono mai stato nel disegno. D'altronde ha finto di provare qualcosa per me solo per salvarci. Magari, mentre baciava me si diceva che era necessario perché in quel modo poteva ritornare da Gale. E' sempre stato lui fin dall'inizio, in fondo. I miei fratelli mi dicevano in continuazione che i ragazzi degli scoiattoli sarebbero finiti insieme prima o poi, se non lo erano già. Io mettevo su un sorriso indifferente e davo loro una pacca sulla spalla, sostenendo che erano soltanto amici perché d'altronde anche io avevo amiche tra le ragazze. Tuttavia, ho sempre sospettato che fossero qualcosa di più di semplici amici, ma in qualche modo dovevo pur difendermi dalla battute dei miei fratelli. Suppongo che avrei dovuto dargli più credito quando ne avevo la possibilità, visto che donne Everdeen sanno spezzare perfettamente i cuori di noi Mellark. E' successo a mio padre con la mamma di Katniss, ed è accaduto a me adesso. Anche allora la concorrenza doveva sembrare ineguagliabile. Perché sposare un minatore, quando puoi diventare la moglie di un fornaio? Me lo chiesi tantissime volte, quando ero piccolo e mio padre mi raccontò della sua esperienza prima di mia madre. E' capitato che mio padre mi abbia detto che l'amore segue una logica tutta sua, a volte incomprensibile, che può essere condizionata da una splendida voce, oppure...
Cos'è che Katniss vede in Gale? A scuola sentivo le ragazze lodare la sua bellezza, ma non ho mai pensato a Katniss come una di quelle ragazze che si lasciano influenzare dall'aspetto fisico, per quanto rilevante possa essere. E' coraggioso. Deve c'entrare qualcosa il fatto che sa cacciare. Questa abilità comune deve avvicinarli parecchio. Anzi, è stato il motivo che li ha spinti a conoscersi e poi diventare amici.
Be', anche io ho dato prova di avere un pizzico di coraggio. Penso che non sarei ancora vivo con tutto quello che è successo, se non lo fossi neanche un po'. E di certo, cacciare non può essere tanto difficile, no? La risposta è talmente chiara nella mia testa, che le gambe si muovono senza che io le controlli. Poco dopo mi ritrovo a fissare il filo spinato che separa il Distretto 12 dai boschi. Mi metto alla ricerca di qualche passaggio nella recinzione e quando lo trovo, penso di essere arrivato al punto dove una volta c'era la macelleria di Rooba. Non ne posso essere sicuro, visto che adesso c'è il negozio di un fioraio. Con un po' di difficoltà, passo al di là del filo indenne. O almeno fisicamente sono indenne. I vestiti sono completamente andati. Quando scrollo i pantaloni per far cadere il terreno, restano comunque impresse macchie marroni sullo sfondo blu originale. Mi metto subito in marcia. Per via della gamba artificiale mi stanco quasi subito. Scommetto che Gale ha percorso una distanza milioni di volte maggiore da quando ha iniziato a venire qui. Okay, allora, cosa faccio? Senza armi non potrei prendere nemmeno una farfalla, quindi la caccia è fuori discussione. Però posso raccogliere qualcosa. Nell'arena ho raccolto un particolare tipo di bacche velenose che poi hanno finito con l'uccidere Faccia di Volpe, il tributo femmina del Distretto 5. A Capitol City mi hanno fatto credere che Katniss cercò di farmene cibare a mia volta. Però col tempo sono migliorato, perché ho potuto osservare il libro della famiglia di Katniss per molto tempo, aggiungendone disegni e dettagli. Infatti, riconosco i morsi della notte appena li vedo e mi allontano senza pensarci due volte. Trovo anche molte piante commestibili e frutti che puoi mangiare senza rischiare di morire nel giro di pochi secondi. Ciò mi porta almeno a un pareggio. Ovviamente, so che Gale è in grado quanto me e forse meglio di raccogliere cibo dai boschi, ma il mio obiettivo è dimostrare a me stesso che posso riuscirci anche io. 
Mentre osservo un albero dai rami molto sottili mi vengono in mente due cose. La prima è che potrei piazzare qualche trappola, in modo da catturare qualcosa; la seconda invece fa materializzare nella mia mente una lancia di legno che potrei fabbricarmi da solo. Se cacciare potrebbe essere un serio problema, costruire una trappola non dovrebbe essere difficile. Al Centro di Addestramento ho imparato un bel po' di cose e ho visto Katniss prepararne qualcuna nell'arena, quindi non dovrei incontrare molti problemi. Sto levigando la punta di un ramo dell'albero gironzolando, quando mi accorgo che la zampetta di un coniglio si è impigliata nella rete fatta coi lacci delle scarpe. Due a uno per me. Il pareggio viene ristabilito appena mi rendo conto che cacciare non è altrettanto facile. Anzi, è più complicato di quanto pensassi. E faticoso, anche. Dopo un paio d'ore di tentativi mi arrendo. Così, sono affamato e pervaso da un bruciante senso di sconfitta. Non mi do per vinto, però. Ci sono altre cose che posso fare nel bosco. Come pescare. 
Lungo il cammino mi imbatto in una pozza d'acqua, che in effetti somiglia più a un piccolo lago. Inizialmente le mie sole intenzioni sono quelle di darmi una pulita e rinfrescarmi. Dopo aver lavato i vestiti mi immergo nell'acqua, notando che il fondale non è poi molto in basso. L'idea di poter pescare mi viene in mente quando qualcosa - un pesce - mi sfiora la gamba sana. Faccio per prenderlo, ma quello si sposta velocemente e prima che possa accorgermene sto annaspando alla ricerca d'aria, mentre le braccia si dimenano da sole e i piedi hanno il vuoto sotto di loro. Riesco a uscirne soltanto perché ho avuto il buon senso di non allontanarmi troppo dalla parte dove toccavo. Ne deduco che la pesca non è per me.
Potrei arrampicarmi, mi dico mentre fisso un albero bello alto. I rami sono abbastanza larghi e danno l'impressione di essere resistenti, quindi non dovrebbero spezzarsi sotto il mio peso. Purtroppo, anche questo è un tentativo perso in partenza. Proprio quando riesco a salire qualche metro più in alto delle volte precedenti, ecco che precipito di sotto, perdendo la sensibilità agli arti che mi sono rimasti. I polmoni si svuotano di ogni traccia d'aria e ho la vista annebbiata per un paio di minuti. Osservando la nuvola sopra la mia testa, rimango dove sono. Stanco, dolorante e abbattuto, devo accettare il fatto che non potrei mai essere in grado di fare quello che fa Gale. E, poi, anche se fossi stato bravo come lui, di certo non avrei avuto Katniss tutta per me. Perché è Gale che vuole, che io ne capisca le qualità o meno. Se è lui che la rende felice, allora mi farò da parte. Perché, in fondo, la felicità e la sua salvezza sono sempre stati i miei obiettivi primari.
KATNISS
Katniss sceglierà quello che ritiene indispensabile alla sua sopravvivenza.
Quante volte ho ripensato alle parole di Gale. Nell'ultimo periodo è diventato un pensiero fisso. Ho cercato in quella frase la soluzione al mio problema, dimenticando di proposito che quando le udii per la prima volta mi recarono offesa. Mi ero illusa che non avevo bisogno di nessuno, perché per quello che avevo in mente non mi serviva niente. Desideravo morire per mettere fine al dolore per la morte di Prim, per non vederla più ricoperta di sangue ogni volta che chiudevo gli occhi. Se Haymitch e Sae mi avessero lasciato perdere quando li imploravo di farlo, adesso sarei morta. Una condizione auspicabile allora. Poi, ho pensato che un tetto, del cibo caldo e le mie armi bastassero. Questo fino a quando non è arrivato Peeta. Aiutando lui, ho aiutato me stessa. Insieme ci siamo fatti forza, abbiamo cercato di andare avanti, abituandoci all'idea di dover convivere con gli incubi, i flashback e l'assenza delle nostre famiglie.
L'arrivo di Delly è stato un po' come un campanello d'allarme per me. Mi ha fatto riflettere sul rapporto che mi lega a lui. Sono giunta alla conclusione che è simile a quello che ho - avevo - con Gale. Anche quest'ultimo mi è stato vicino in un momento della mia vita terribile, dopo la morte di mio padre. Entrambi mi sono stati vicini quando ne avevo bisogno e non dovevo nemmeno chiedere. Gale in una maniera meno diretta e spesso bellicosa, Peeta con la dolcezza e la sensibilità che hanno sempre contraddistinto i suoi comportamenti. Eppure, solo uno è riuscito dove l'altro ha fallito. Uno di loro è stato in grado di infondermi il coraggio di rialzarmi quando tutto ormai sembrava perduto, di sperare che c'era ancora una possibilità quando la fine incombeva. Questo insegnamento mi è servito a undici anni, così come mi è stato utile adesso. E a farmelo capire è stato Peeta. Me ne sono resa conto quando, scappando dalla panetteria, ho intravisto un dente di leone. Il fiore che simboleggia la rinascita, la mia rinascita. Lo stesso fiore che vidi quando Peeta mi diede il pane che salvò la mia vita e quella della mia famiglia, beccandosi i maltrattamenti della madre. Da quel momento, le nostre vive si sono irrimediabilmente combinate.
Penso a come tutto è iniziato. Ho cambiato opinione su di lui tantissime volte. L'ho considerato buono e generoso per avermi dato il pane, furbo quando salutava animatamente gli abitanti di Capitol City dal treno, combattivo quando ha riferito a Haymitch quanto ero brava con l'arco, stupido se pensava che gliel'avrei fatta passare liscia dopo aver dichiarato la sua cotta per me di fronte a tutto il modo, incomprensibile la sera prima dell'inizio dei Giochi sul tetto del Centro di Addestramento, e ancora un traditore per essersi alleato con i Favoriti aiutandoli a stanarmi, un abilissimo attore quando credevo che fingesse di amarmi. Tutte azioni, le sue che hanno sempre avuto come scopo la mia salvezza. Ogni suo comportamento, da me frainteso, era per salvarmi la vita. Ha sempre anteposto me a se stesso, anche dopo aver scoperto che nell'arena avevo finto ogni forma di interesse nei suoi confronti, dopo avergli quasi sbattuto in faccia che avevo scelto Gale al posto suo.
Baciarlo è servito a mettere chiarezza nella mia testa. Ed è stato proprio per fare chiarezza definitivamente che sono andata via. Perché voglio essere libera di poter baciare Peeta senza dovermi sentire in colpa per Gale, voglio dormire nel suo stesso letto senza chiedermi se è giusto o sbagliato. E per fare ciò è necessario che mi lasci Gale alle spalle. Non sono mai riuscita a far coesistere entrambi nel mio cervello: se ero con uno, desideravo che fossero le braccia dell'altro a stringermi; se baciavo l'altro, mi sentivo in colpa. In fondo, le scelte esistono per questo. E ora ormai ho scelto.
Uno, due, tre... cinque squilli prima che dall'altro lato della cornetta avverta un "Pronto?" assonnato. Mi sembra strano sentire la voce di Gale al telefono. E' la prima volta sia perché lui non ne possedeva uno (e all'inizio nemmeno io) sia perché non ce n'è mai stato bisogno data la vicinanza tra le nostre case.
"Sono io" dico solamente, sicura che Gale riconoscerà la mia voce. E infatti lo fa, perché per un po' nessuno parla. Riesco quasi immaginarmelo, con la cornetta all'orecchio e l'espressione confusa di chi cerca di capire qualcosa.
Riesco a udire a sospiro. "Come hai avuto il numero?" chiede.
Il numero l'ho trovato per caso all'interno di un cassetto in cucina qualche settimana fa. Non era quello di mia madre o l'avrei riconosciuto e lo stesso valeva per quelli di Peeta e Haymitch. Dal momento che, a parte Peeta, Sae è l'unica che ha accesso libero alla cucina, mi sono detta che è stata sicuramente lei a mettercelo. Ovviamente, glielo chiesi e con tranquillità lei mi rispose che era lì da quando aveva chiesto a Thom di recuperare l'arco e le frecce. "Thom" mi limito a rispondere.
Il silenzio che segue mi mette tremendamente a disagio. Sono stata io a chiamarlo, quindi spetta a me dire qualcosa. E, invece, me ne sto zitta in attesa che lui mi porga qualche altra domanda, in modo da rimandare ciò che ho da dirgli. Per fortuna, Gale giunge in mio aiuto come ha sempre fatto.
"Non pensavo che avrei mai più risentito la tua voce" dice, il tono nostalgico che mi paralizza la lingua anche di più.
E' perché non vuoi dirgli addio, mi suggerisce una vocina nella testa. Forse, è vero. Perché so che una volta chiusa la telefonata, non avrò più il mio migliore amico. Ma, dopotutto, non l'ho perso dal momento in cui l'ho ritenuto colpevole della morte di Prim? "Anche io" rispondo. L'idea di parlargli ancora non mi ha mai sfiorato. Vederlo, forse. Ma probabilmente parlandogli non sarei riuscita a controllare la rabbia che provavo nei suoi confronti.
"Quindi, perché mi hai chiamato?" domanda Gale. Riesco a percepire la preoccupazione del suo tono come se fosse davanti a me e non nel Distretto 2.
Prendo io un bel respiro questa volta, prima di iniziare. "Perché ho bisogno di perdonarti" comincio, la voce non ferma come volevo che fosse. "Nell'ultimo periodo non sapevo cosa pensare. Mi mancavi, ma allo stesso tempo mi dicevo che dovevo odiarti perché mi hai portato via la persona che amavo più al mondo. Che tutt'ora amo più di qualsiasi altra". Gli occhi iniziano a pungere. E' la prima volta che parlo di Prim con qualcuno che non sia mia madre. Farlo con Gale fa sembrare tutto più dolorosamente reale. "Poi, ho capito che non posso sperare di andare avanti senza di te. Altrimenti avrei buttato tutti gli anni cui siamo stati amici, in cui aiutato me, Prim e mia madre insegnandomi quello che sapevi sulla caccia". Ormai sembro un treno in corsa. Stringo i pugni. "Perdonandoti non sono più in debito con te".
La reazione di Gale è immediata. "Cosa stai cercando di dirmi?" chiede.
"Che devo liberami di te" confesso bruscamente. Via il dente, via il dolore. In questo modo forse ne soffriremo entrambi meno. In realtà, no. Non posso parlare per lui, ma io ho la sensazione che qualcosa si sia definitivamente rotto al mio interno. La mia amicizia con Gale è ufficialmente giunta al termine. E' strano perché anche quando non desideravo nessun ragazzo nel modo in cui adesso desidero Peeta, sapevo che Gale in un modo o nell'altro sarebbe sempre stato al mio fianco. Rappresenta l'ennesimo effetto collaterale delle mie azioni.
Il nuovo silenzio è insostenibile. So che dall'altro lato, Gale sta facendo i conti con quello che gli ho appena detto. E so per certo che in questo momento si starà chiedendo: Hai scelto lui? Il fatto che io non aggiunga nulla, sta solo confermando i suoi dubbi. "Avrei dovuto offrirmi volontario quel giorno" sussurra, il tono carico di rimpianto.
Non ho bisogno di chiedergli a cosa si sta riferendo, non ne ho mai sentito la necessità con lui. "Avresti condannato le nostre famiglie" gli dico, severa. Non avrei mai potuto perdonagli un atto del genere. Se la morte di Prim, mesi fa, è stata solo una conseguenza sicuramente non voluta dei suoi gesti, offrendosi volontario per entrare nell'arena con me, avrebbe voluto dire che le nostre famiglie sarebbero morte con il suo consenso. Non ci sarebbe stata altra soluzione perché né mia madre né la sua erano in grado di cacciare, raccogliere frutti o pescare. Lo stesso valeva, ovviamente, per i nostri fratelli e sorelle. Se Gale si fosse offerto al posto di Peeta, avrebbe condotto tutti loro alla morte.
"Quindi, finisce qui?"
E' una domanda. "Addio, Gale"
"Addio, Catnip"
Il saluto di Gale è una pugnalata alle spalle. E' sempre stato un tipo combattivo, che non si da mai per vinto. Quando andavamo a caccia, era dell'idea che non avrebbe lasciato quegli alberi fino a quando non fosse riuscito a catturare un coniglio con cui sfamare la famiglia. Io non potevo fare nulla per distoglierlo da quel pensiero, e nemmeno volevo visto che ero dello stesso parere. Quindi, anche adesso, dopo che gli ho chiaramente detto addio e fatto intendere che ho scelto Peeta, il fatto che abbia usato il nomignolo che mi ha affidato è un ultimo, disperato atto di combattimento. Semplicemente, non può arrendersi prima di aver giocato ogni sua carta. Ma come lui, anche io sono difficile da convincere. Nessuno, meglio di lui, dovrebbe saperlo.
Rimessa a posto la cornetta, la differenza si nota subito. Infatti, isolando il dolore per la fine dell'amicizia con Gale, posso dirmi sollevata. L'enorme macigno che gravava sullo stomaco, si è dissolto e non ha lasciato traccia. Ciò mi fa intuire che ho fatto la cosa giusta. E anche che non avrei mai potuto scegliere Gale. Siamo troppo uguali, troppo animati da quel fuoco che ha totalmente sconvolto le nostre vite. Forse, non è del tutto una brutta cosa e in futuro - sempre, forse - riuscirò a considerare la ribellione una cosa necessaria poiché ha condotto a esiti anche favorevoli. Rimane il fatto che ne ho abbastanza del fuoco. Dovrò farmi bastare quello che possiedo di mio.
La cosa giusta da fare, adesso, è cercare Peeta. Si, voglio parlargli di cosa ho scoperto, voglio che sappia che... Cosa? Che lo amo? Mi sembra così strano anche solo pensarlo. Per molto tempo mi sono detta che non era vero e adesso ho come la sensazione che l'abbia saputo fin dall'inizio. Sono sempre stata io troppo cieca o determinata a non volermene rendere conto. Ma adesso, non c'è più nessun ostacolo. Quindi, devo dirlo anche a lui. Non voglio andare in panetteria, però. Se devo riferirgli le recenti scoperte, devo essere completamente a mio agio. Non mi resta che aspettare e posso sfruttare il tempo per trovare le parole giuste. Dopo un'ora l'unica cosa che mi viene in mente è che potrei semplicemente avvinare il suo viso al mio e poi baciarlo. Non mi convince, però. Ho sempre usato le parole per dirgli che non ricambiavo i suoi sentimenti oppure che erano tutta una farsa per salvare la nostra pelle, che adesso voglio usarle per dirgli anche questo. Magari, non saranno romantiche e adatte come le sue, ma è una cosa che gli devo e voglio farla.
Stuzzico un po' Ranuncolo per impedirmi di guardare sempre in direzione della finestra. Così facendo non permetto alla preoccupazione di assalirmi quando mi accorgo che è ora di pranzo e Peeta non è ancora tornato. Mi concedo di pensare a cosa potrebbe essergli successo ogni cinque minuti, cercando di mantenere la calma. Vedrai che sta bene. Fra poco sentirai bussare alla porta e ti comparirà davanti tutto sporco di glassa. Accenno un sorriso. Quando intravedo la sua sagoma lungo il sentiero per il Villaggio dei Vincitori, è davvero sporco, ma quelle non sembrano macchie di glassa. Il brutto presentimento che mi accompagnato per tutto il tempo, mi fa notare immediatamente che sta zoppicando. Corro fuori e mi fermo a qualche passo da lui e dalla porta.
"Cos'è successo?" gli chiedo, squadrandolo da capo a piedi. Un punto in particolare sui pantaloni attira la mia attenzione. Sulla parte di stoffa dove c'è la tasca, intravedo una macchia più scura. Sul blu di sfondo sembra quasi nera, ma posso dire con estrema sicurezza che è di un rosso scuro. "E' sangue quello?" domando ancora. Prima di parlare avrei giurato di essere calma, mentre tutto quello che è uscito dalla mia bocca sono paura e preoccupazione. Sfilo la mano dalla tasca per guardarla, ma la ritira alla svelta.
"Sono caduto" dice, il tono freddo e distaccato.
Impedisco al mio cervello di pensare al peggio ancora una volta. Ora è qui e, a parte il taglio alla mano, non sembra ferito in altri punti. "Lascia che dia un'occhiata" dico, stringendo nuovamente la mano attorno al suo polso. Lentamente cerco di alzare la mano, ma Peeta oppone una resistenza tale che non mi permette di alzarla neanche di un centimetro. "Dobbiamo disinfettarla" gli faccio notare.
Peeta scuote la testa e mostra un sorriso amareggiato. "Noi - indica prima me e poi lui -  non dobbiamo fare proprio niente". Si allontana.
E' il tono distante che mi fa più male. Vedo la sua schiena allontanarsi in direzione di casa sua, fermarsi per qualche istante sul posto e poi tornare indietro. "Scusa" mormora, lo sguardo dapprima basso, poi rivolto ai miei occhi. "Non volevo essere..."
"Non preoccuparti" dico, prima che possa continuare. "Sono io che dovrei scusarmi con te per come me ne sono andata" Perché il suo problema è questo, no? Si comporta in questo modo anomale con me perché sono scappata dal nostro bacio. L'ho illuso per l'ennesima volta e non gli ho dato nemmeno una spiegazione. Non può neanche immaginare perché sono andata via. E come potrebbe?
Peeta fa spallucce. "Immagino che avevi i tuoi motivi" dice, con l'espressione più triste che gli abbia mai visto.
Va verso casa mia. Lo seguo in silenzio. In effetti, nessuno dei due parla mentre pulisco la ferita. Ancora adesso, che ho tolto gran parte del sangue e dello sporco attorno, il taglio non sembra così profondo come pensavo all'inizio. Mi chiedo come se lo sia procurato, ma non voglio che Peeta si innervosisca di nuovo. I suoi tratti hanno appena iniziato ad addolcirsi e lo sguardo triste sta lentamente dissolvendo, che non sono così ansiosa di vederlo ancora in quello stato. Di tanto in tanto, mi guarda. Riesco a sentire il suo sguardo su di me, ma appena faccio per guardarlo a mia volta, lo distoglie. Ce l'ha con me. Forse, dovrei dirgli adesso tutto. E' innamorato di me da sempre, quindi dovrebbe tirarlo su di morale una cosa così. Credo. Non mi sono mai trovata in una posizione del genere e neanche lo volevo prima. Adesso, nonostante lo stomaco si stia contorcendo dal nervosismo, sento che è la cosa giusta. Prendo un bel respiro profondo. "Peeta, devo dirti una cosa" dico velocemente.
"Non c'è bisogno. So tutto" Aggrotto la fronte. "Non dovevo, ma ho ascoltato la telefonata" spiega, con un misto di vergogna e rassegnazione.
Quindi, ha sentito cosa ho detto a Gale. Sa che l'ho lasciato andare per lui. E allora perché non è contento? Prima che possa arrestare le parole, glielo chiedo. "Pensavo che fossi innamorato di me" aggiungo in un sussurro appena udibile. Le presa sulla sua mano si allenta. Il respiro si è quasi fatto affannoso. Ho fatto tardi? Peeta non prova più niente per me? Solo ipotizzarlo, mi da la nausea. Adesso vorrei aver tenuto la bocca chiusa. E' così che si è sentito quando gli ho detto che nell'arena niente era vero? Anche lui si è sentito il mondo crollargli addosso?
Peeta annuisce. "Proprio per questo ho bisogno di qualche giorno da solo" dice. "E poi fra qualche giorno verrà qui, quindi sarai in buone mani"
"Chi verrà qui?" chiedo, confusa. Di che sta parlando? Forse, sono stordita dalla conversazione o dall'odore pungente del disinfettante, ma non ho capito niente.
"Gale" risponde Peeta come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Crede che Gale verrà qui? Che telefonata ha ascoltato? E poi, un dubbio. "Sei rimasto fino alla fine? Hai ascoltato tutto?"
Sono sollevata quando lo vedo scuotere la testa. "Sono andato via a un certo punto" risponde, evitando il mio sguardo.
Come sospettavo. Questa situazione sembra tanto inverosimile, da sembrare stupida. Scoppio a ridere. La prima vera risata dopo molto tempo. Non sono contenta. O meglio si, lo sono, ma adesso sto scaricando la preoccupazione e il nervosismo accumulato in questi pochi minuti e stamattina. Peeta mi guarda come se fossi impazzita di colpo. "E' un peccato che tu non abbia sentito quando gli ho detto addio" dico, sentendomi leggera.
Adesso è il turno di Peeta di essere confuso. "Perché?" chiede, fissandomi con circospezione.
"Non lo immagini?" domando, guardandolo.
Peeta ci pensa su per un paio di istanti. "Per me?" Annuisco. Un misto di emozioni gli passano sul viso a una velocità impressionate. Molte non le riconosco e altre durano così poco che non ho il tempo di indentificarle. Scrogo con facilità, però, lo stupore e poi il dubbio. Lo sguardo si incupisce e stringe la mia mano con forza. Temo che stia per avere un altro dei suoi episodi. Qui. Adesso. Ed io non avrei via di scampo. Ma quando parla, seppur sospettoso, il tono è dolce. "Hai detto addio a Gale. Vero o falso?"
Sono contenta di rispondergli, cautamente: "Vero".
Gli serve ancora un po' di tempo per assimilare la notizia. E anche a me. Non era in questo modo che avevo pensato di dirglielo, non ancora in relazione a Gale. Ma è successo in questo modo così inaspettato che adesso non so come comportarmi. Anche lui sembra della stessa idea, perché mi chiede: "Cosa facciamo adesso?"
Mi accorgo di avere la risposta a questa domanda da questa mattina. Infatti gli butto le braccia al collo, mi alzo sulle punte e, mentre avvicino in mio viso al suo, abbasso le palpebre. "Posso baciarti?" chiedo, col cuore che mi batte impazzito nel petto.
Le labbra di Peeta si uniscono in una linea dritta. "Non lo so" dice dopo un po'. Nonostante tutto, sento le sue braccia che scivolano sulla mia schiena. "Delly potrebbe essere più brava di te anche in questo" dice, abbastanza serio. Gli rivolgo un'occhiataccia torva che lo fa sorridere. Ancora con questa storia?, penso. Ma poi mi ricordo che non dovrei essere così sorpresa, visto che mi ha promesso di tirarla fuori ogni volta che ne avrà bisogno. "Facciamo così. Potrai convincermi del contrario ogni volta che vuoi"

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo Undicesimo ***


Un milione di grazie per le recensioni del capitolo scorso. E' sempre bello riceverne, dai vecchi e dai nuovi recensori. Probabilmente 18 non è un numero esagerato per qualcuno, ma per me è come se ne avessi avute molte di più. I complimenti sono sempre ben apprezzati, anche se alcuni li reputo esagerati. Non è per offendervi, o altro. La penso così. Comunque, non mi metto certo a lamentarmi, anche se sembra che lo stia facendo...
Il capitolo seguente porta la relazione di Katniss e Peeta a un livello superiore. Non ero sicura di voler voler affrontare già questo argomento, che è trattato brevemente verso la fine, ma tirarla troppo per le lunghe non mi convinceva e così ecco qui. Ok, so che non avete capito niente, quindi vi lascio alla lettura.
-M


Capitolo Undicesimo
Mi guardo attorno. Non capisco dove sono. Il posto è familiare. Penso di esserci stato altre volte prima, altrimenti non si spiegherebbe perché mi sembra di averlo già visto. Le pareti completamente bianche sono spoglie, le luci mi accecano gli occhi per come sono brillanti, il soffitto è molto alto. Credo di essere al centro della stanza, sdraiato su un lettino come quello degli ospedali, perché la parte superiore è rialzata, permettendomi di guardare davanti a me. C'è un tavolo argentato, con oggetti inquietanti sopra. Scorgo una siringa, delle ampolle con un liquido trasparente dentro, altri tipi di contenitori di forme diverse, fiale. Si, ci sono già stato qui. A giudicare da quella roba, forse è davvero un ospedale. Come ci sono finito? Non ricordo di essermi fatto male in qualche modo o di aver avuto bisogno di cure ospedaliere. Sono solo e non vedo alcun medico in giro. Cerco di alzarmi, ma qualcosa mi trattiene dove sono. C'è una cintura che mi tiene fermo, attaccato al letto, e sia le caviglie che i polsi sono intrappolati in dei semicerchi di metallo. Adesso ricordo perfettamente dove sono. Niente colori, niente rumori o odori, nessuno nei paraggi se non all'orario stabilito, quando verranno da me. Come ci sono finito di nuovo qui? Inizio ad agitarmi. Giro la testa alla mia sinistra, dove ci sarebbe la mia unica via d'uscita. Se non fossi legato. E lo sono perché la prima volta che mi portarono qui tentai di scappare. Riuscirono a prendermi e, prima che potessi anche solo pensare di opporre resistenza alla presa attorno alla mia gola, mi piantarono un ago nel collo e crollai addormentato. Mi risvegliai tre giorni dopo, nello stesso letto, ma con una novità. A bloccarmi c'erano delle cinghie rigide. Quelle che ho adesso. Ma perché sono qui? Quante altre volte ancora mi faranno questo? Fino a che morirò? Be', non penso che ci vorrà molto, se sarà come l'ultima volta.
La porta si apre. Entra una donna, di cui riesco a vedere soltanto gli occhi con dei tatuaggi azzurri tutt'intorno. Non mi guarda nemmeno quando mi passa accanto, quando io la chiamo. Le urlo di lasciarmi andare. Non ce la faccio più. Non ce la farò a sopportare tutto dall'inizio. Ma lei non mi da ascolto. In effetti, sembra che non mi senta nemmeno. So che non dovrei sorprendermi (sono pur sempre in un laboratorio di Capitol City) ma come si fa a rimanere impassibili di fronte a tanta disperazione? Perché sono disperato. Non voglio che la gente abbia compassione di me. La pietà non mi è mai piaciuta, ma in questo momento mi accontenterei di qualsiasi cosa pur di essere portato lontano da qui.
La donna è di spalle, quindi non posso sapere cosa sta facendo. Ma lo so. La siringa deve essere nelle sue mani e la starà riempiendo con quella roba trasparente, che so essere veleno. Mescola il contenuto a qualcosa e poi osserva il tutto con attenzione, rigirandosi la siringa tra le mani. Me l'hanno fatto tante di quelle volte ormai che potrei farlo io stesso. Al di sopra della sua testa, vedo uno zampillo di liquido. Non è un buon segnale, perché vuol dire che la fase della preparazione si è conclusa. Infatti, la donna - è nuova, non l'ho mai vista prima - lascia il tavolo da lavoro e si avvicina a me. La supplico di smetterla, quando mi afferra il braccio e vi lega la parte superiore con un laccio emostatico. Perfino quello adesso mi fa male. Lei non mi ascolta, ma mormora qualcosa e annuisce di tanto in tanto. All'inizio penso che ce l'abbia con me e mi illudo che non mi farà niente. Poi, mi accorgo che ha qualcosa di piccolo e nero infilato nell'orecchio e immagino che qualcuno le stia parlando in quell'affarino invisibile. E allora, ricomincio ad agitarmi. Cerco di sgusciare via dalle fasce che mi bloccano il torace, ma non c'è nulla che possa fare perché non sono mai riuscito a liberarmi. Muovo il braccio più energicamente che posso, perché so che se la donna non troverà una vena non potrà iniettarmi il veleno contenuto nella siringa. E' difficile, però. Il polso è bloccato da quella specie di manette e il laccio emostatico ben stretto rende doloroso ogni movimento che cerco di fare. E' per questo che la donna non si muove, per nulla turbata o infastidita. Sa che prima o poi mi stancherò e allora lei avrà la via libera. E' un copione già sperimentato in precedenza, sebbene sia nuova. Le avranno spiegato qual è la tattica da usare con me. Magari, è stato quel tizio con i capelli rossi e lo sguardo spietato. Di certo, non è stata la ragazza (doveva avere qualche anno più di me) che la prima volta si distrasse al punto da permettermi di fuggire. Da quel giorno non l'ho mai più rivista. Non che mi importasse, a dirla tutta. Avevo altre cose per la testa di cui preoccuparmi. Come l'ago che adesso mi sta bucando la pelle nell'incavo del gomito. Fa male. Tanto. Ma questo è niente in confronto a quello che deve ancora venire. So anche questo. Per tutto il braccio avverto una specie di formicolio, che lentamente punge dall'interno. Sta iniziando, mi dico preparandomi a quello che seguirà. Sono ancora abbastanza lucido, però. O almeno lo sono ancora quel poco che basta per accorgermi che la donna è uscita senza fiatare, richiudendosi la porta alle spalle.
Aspetto. Poi giunge implacabile. Mentre il formicolio si distribuisce un po' ovunque, il liquido sembra surriscaldarsi perché inizio a sentire caldo. Sudo, la mente si annebbia insieme alla vista, la stanza comincia a girare. Serro gli occhi saldamente, per evitare di vomitare. E' anche peggio. Il nero dietro le palpebre sembra vorticarmi nella testa e le luci dall'alto non aiutano ad affievolire la sensazione. Fin troppo in fretta, i pensieri diventano confusi, al punto che per pochi secondi alla volta mi dimentico dove sono. Cerco di non cedere mai a questi vuoti di memoria, perché so quello che giungerà dopo. Così, mi sforzo di resistere, dicendomi che è meglio sopportare tutto questo che quello che accadrà se mi arrendo. E allora, lascio che l'effetto del veleno mi colpisca solo fisicamente. Mi agito, lottando contro le cinture, scuotendo la testa come un forsennato, per eliminare le prime immagini che mi compaiono davanti. La temperatura della stanza precipita in prossimità dello zero in pochi secondi. Il velo di sudore che ricopriva il mio corpo quasi si gela, creando una patina freddissima che mi fa battere i denti. Urlo con quanto fiato ho in gola di finirla qui. Ma tutto ciò che ottengo è eliminare le poche tracce di calore che mi sono rimaste dentro per via del veleno.
Entra ancora la donna. Il rituale - le mie urla, lei che mi ignora completamente, la preparazione della siringa - si ripete. Stavolta, il braccio non riesco nemmeno a muoverlo di un millimetro per come è freddo e indolenzito. Quasi penso che sia diventato un blocco di ghiaccio e il laccio emostatico lo separi dal resto del corpo. Non sento nulla quando l'ago nuovamente preme ancora contro la pelle. Per fortuna, il freddo l'ha reso insensibile. Il veleno agisce anche più velocemente adesso e con un violenza inaspettata. Non avverto nemmeno il calore ora e il freddo non mi fa più nessun effetto. Mi chiedo se abbia funzionato. La risposta affermativa mi giunge immediatamente appena  mi accorgo che ormai non sono più in grado di resistere alla forza del veleno. Ho la sensazione di perdere i sensi un paio di volte, ma mai abbastanza efficacemente da svenire. Magari, svenissi adesso, penso. Mi risparmierei la parte più dolorosa. Ma non ci riesco, perché chi lavora in questo laboratorio ha fatto in modo che io non crolli. Giusto per divertirsi. Come se non mi avessero già fatto abbastanza in questi anni, come se farmi partecipare agli Hunger Games sia stato un onore e non una tragedia.
Le voci che mi risuonano nella testa sono terribili. Sento Annie Cresta urlare, disperata, il nome di Finnick. Darius e Lavinia gemono e il rumore straziante dei loro versi mi da la nausea. Johanna invoca la morte come se fosse una sua cara amica, perché sa che solo quella potrebbe risparmiarle la dose quotidiana di torture. Vorrei prendermi la testa tra le braccia e stringerla tanto da non sentire più nulla. Ma sono legato e l'unica cosa che posso fare è piangere. Le lacrime mi scendono calde lungo le guance per poi perdersi da qualche parte sul collo. Imploro che mi lascino andare. Che ci lascino andare tutti alle nostre case, dalle nostre famiglie.
E poi giunge il colpo di grazia. Vedo lei. Katniss. Non so come sia possibile visto che ho gli occhi chiusi. Sono apparizioni fugaci, che rendono quasi sopportabile tutto quello. Se si limitassero a solo a farmela vedere. Sono a Capitol City, dico a me stesso, aspettando il momento in cui qualcuno entrerà nella stanza per tenermi gli occhi aperti, puntati su un grande schermo sul muro. Di solito capita quando do l'impressione di essere con un piede nel regno dei morti, e uno in quello dei vivi. Più di una volta ho sperato di poter oltrepassare quel limite. Lo spero ancora, ma so che non accadrà. Come sospettavo, la porta si apre di nuovo. Entra qualcuno, ne sento i passi felpati, ma non ce la faccio a girarmi. Sto fissando lo schermo gigante che è davanti a me. Si illumina improvvisamente. Con uno sforzo che mi toglie una buona parte delle poche energie che mi sono rimaste, distolgo lo sguardo. E' tutto inutile. L'uomo che è entrato mi afferra la testa e la rimette a posto. Faccio per girarmi ancora, ma non ci riesco; una coppia di mani me lo impediscono. C'è Katniss in tv. E' nell'arena e indossa una giacca verde, mentre le gambe sono infilate in un sacco a pelo. E' su un albero e accanto a lei c'è un alveare. Vedo anche Rue per una frazione di secondo, ma scompare abbastanza velocemente. Katniss fa cadere il grande alveare giù sulle nostre teste, la mia e quelle dei miei alleati. Non me ne frega degli altri. Perché l'ha fatto cadere sulla mia testa? Perché non me l'ha detto?
La scena cambia. Adesso le tute diventano blu e siamo in un bosco, il cuoi suolo è in parte spugnoso e in parte ricoperto da radici. Con noi ci sono Finnick e Mags. Sta complottando contro di me con loro. Parlottano in modo fitto perché io non senta quello che si stanno dicendo. Poi, Katniss si ferma di colpo e viene verso di me. Ha uno sguardo che mi fa paura. E' freddo, duro. Non è quello della Katniss che io conosco. Che penso di conoscere. Indietreggio, man mano che lei si avvicina. Poi mi fermo. Perché dovrei avere paura di lei? So che non mi farebbe mai... Prima che possa concludere il pensiero, vedo che mi getta nella nebbia velenosa. Perché lo fa? Mi odia? Sicuramente, se mi vuole morto. Non capisce che sto cercando di proteggerla? Che l'ho sempre fatto, anche quando non mi conosceva? Cerco di urlare, ma esce soltanto un lamento smorzato. Comincio a tremare. Katniss vuole uccidermi. E io non posso fare niente. Forse, dovrei lasciarglielo fare. Metterebbe fine a tutto questo. O forse, dovrei ucciderla io. Forse, mi lasceranno andare così.
Le energie mi abbandonano del tutto. Non oppongo resistenza, non ne ho la forza. Mi irrigidisco più di quello che già sono. Nessuna parte del mio corpo potrebbe muoversi neanche se lo volessi. Mi costringono a guardare Katniss che cerca di farmi del male in ogni modo possibile. Tentando di soffocarmi quando cala la notte, che cerca di farmi mangiare i morsi della notte, facendomi credere che sono innocue bacche, che mi da tutto il flacone di sciroppo per dormire, mi spedisce nella parte di arena dove le ghiandaie chiacchierone assumono la voce dei miei amici e dei prigionieri come me. Ma forse quest'ultimi li sento per davvero, e non nella mia testa. Nella stanza accanto deve esserci Enobaria che urla dalla disperazione.
A un certo punto, svengo. Tiro un sospiro di sollievo mentre scivolo via da quel dolore. Non passa molto tempo prima che qualcuno mi scuota le spalle. Andate via. Non voglio svegliarmi solo per vedere ancora quell'ago infilato nel braccio. Ma gli scossoni aumentano e sento delle voci anche. Non ancora. Mi sembra di riconoscere preoccupazione e paura in questo tono che conosco perfettamente. Lasciami in pace. Stringo gli occhi e vorrei portarmi le mani alle orecchie, ma sono ancora bloccate. Ci risiamo, penso. Uno schiaffo in piena guancia mi costringe ad aprire gli occhi. Come sospettavo, Katniss è ancora davanti a me. I suoi occhi però non sono spietati come quelli di prima, me ne accorgo subito. Sembrano solo spaventati a morte. Chiama il mio nome, ma per una strana ragione non la sento. "Peeta" dice e lo intuisco perché leggo il labiale. Faccio per mettermi a sedere. Non ce la faccio. Il braccio è bloccato. Stavolta non dalle manette, ma dal peso di Katniss su di esso. E' sporta in avanti, verso di me, carezzandomi la guancia con gentilezza sul punto in cui mi ha colpito. Per un istante sono pervaso dal desiderio di scacciare via quella mano dalla mia faccia, prima che mi tappi la bocca e il naso. Qualcosa mi dice che non lo farà. Forse, è lo sguardo spaventato. Oppure, è per via del tocco insopportabile, ma al contempo dolce che non faccio nulla. Perché dovrei? Non mi farà del male e di certo la carezza mi sta tranquillizzando. I nervi si distendono e il respiro, prima affannato, adesso sembra aver ritrovato la frequenza adatta. Anche il cuore non batte più all'impazzata. Oltre la spalla vedo il soffitto della sua camera da letto, decisamente meno alto di quello del sogno. Perché è stato soltanto un sogno. Me lo sta dicendo anche Katniss, che adesso riesco a sentire.
"Sei al sicuro, qui" ripete più di una volta. Io annuisco perché quell'espressione terrorizzata sul suo viso non mi piace. E' quasi peggio di quella crudele del sogno. "Va tutto bene" dice, mentre mi scosta i capelli dalla fronte.
Dalla finestra entra aria fresca che mi fa rabbrividire. Sono coperto di sudore dalla testa ai piedi. "Posso alzarmi?" le chiedo, cercando di suonare tranquillo. Non lo sono. Il filo di voce sembrava un po' strozzato e sulla parte finale quasi non si è udito. Ma Katniss ha sentito, perché si sposta un po' più alla mia sinistra e mi aiuta, sebbene non ne abbia bisogno. E' vero, il sogno mi ha tolto un bel po' di energie, ma ce la faccio a mettermi in piedi.
Anche se non mi volto a guardarmi alle spalle, so che gli occhi di Katniss sono fissi sulla mia schiena. Per non farla preoccupare più del dovuto, mi sforzo di mantenere una posizione eretta fino a quando esco dalla stanza e mi precipito in bagno. Lì posso piegarmi sulle ginocchia e inspirare abbondanti quantità d'aria col naso, che poi caccio dalla bocca. Dentro. Fuori. Dentro. Inizio a sentirmi meglio. Fuori. Dentro. Basta così. Sto bene. Anzi, non lo sono per niente. Le mani tramano ancora, ma non posso restare in bagno tanto a lungo, o Katniss si insospettirà. Apro il rubinetto e lascio sgorgare l'acqua sulle mie mani. Era un sogno. Non è il primo e non sarà l'ultimo. Questo pensiero mi travolge. Andrà avanti così finché morirò e non posso farci nulla, se non sperare che niente accada a chi mi sta accanto. Ma questo non lo permetterò. Preferisco morire piuttosto che ferire Katniss in qualche modo e poco conta che non rispondo delle mie azioni quando i flashback arrivano. Chiudo l'acqua quando sono sicuro di essere rimasto qui più del tempo necessario affinché Katniss non venga a controllare. Infatti, quando entro nella camera da letto, la trovo in piedi con le mani alla bocca. Ha il vizio di mangiarsi le unghie quando è nervosa.
"Va tutto bene" le dico, prima che sia lei a chiedermelo. "Torniamo a dormire" Lei solleva le sopracciglia, come a dire: Credi davvero che farò come se nulla fosse successo? Spero proprio che lo faccia. Ma aggiungo comunque: "Sto bene", nella maniera più convincente che posso. Katniss ha sempre creduto che sia bravo con le parole, che possa far credere alle persone che il cielo è verde e le fragole crescono sugli alberi, ma non la vedo allo stesso modo. Dal mio punto di vista lei capisce sempre quando dico la verità e quando invece non lo faccio. Non me lo dice, ma credo che se ne renda conto. Ecco perché adesso non replica nulla, mentre insieme ritroviamo la posizione più comoda per dormire. Poggia la testa sulla mia spalla. Non vorrei che si mettesse così. Sarebbe meglio mettere un po' di distanza tra i nostri corpi, perché nel caso provassi a farle del male, lei riuscirebbe a scappare. Ma come faccio a dirglielo senza che lei si attacchi ancora di più? Non posso e allora faccio l'unica cosa che le permetterebbe di fuggire. Non le cingo la vita con il braccio. Un gesto che mi costa parecchio, soprattutto adesso che vorrei qualcuno pronto ad aiutarmi. Katniss lo farebbe senz'altro, ma non voglio accollarle questo peso. Mi ha già aiutato molto più di quanto abbia fatto il Dr. Aurelius in settimane e settimane di terapia. 
"Non vuoi raccontarmi cosa stavi sognando?" mi chiede, la voce molto più gentile di quanto lo sia mai stata.
Ho gli occhi chiusi, ma so che mi sta guardando. Parlarne mi aiuterebbe di sicuro, ma adesso non mi sento pronto. Raccontare tutto a Katniss vuol dire che dovrò ripensarci, mentre tutto ciò che voglio è dimenticare questo incubo e accantonarlo da qualche parte nella mia mente insieme a tutti gli altri. Tanto lo sognerò molte altre volte e ci saranno altrettante occasioni per trovare il coraggio di farlo. "Ti dispiace se ne parliamo un'altra volta?" le chiedo.
Lei annuisce contro la mia spalla e mi accarezza la guancia. Ancora il presentimento che possa soffocarmi da un momento all’altro. Un pensiero stupido, lo so, perché Katniss non potrebbe mai farmi del male. Non l'ha mai nemmeno immaginato. E questo è un altro dei motivi per cui non voglio parlare con lei di quello che sogno. La maggior parte delle notti lei non si accorge nemmeno che ho avuto un incubo e viene a saperlo solo quando al mattino mi chiede se ho dormito bene e anche in quel caso non mi dilungo mai nei dettagli. Questa notte, se si è svegliata, devo essermi mosso parecchio oppure ho urlato sul serio. Fatto sta, che non posso dirle che ho sognato di essere ancora a Capitol City. Ciò vorrebbe dire che, anche solo inconsciamente, sono convinto ancora del fatto che potrebbe uccidermi. So anche che non se la prenderebbe se glielo dicessi, perché è la conseguenza di ciò che mi hanno fatto nei laboratori. Eppure, non voglio che ne abbia la conferma. Perché penserebbe che è tutta colpa sua se hanno recuperato lei e non me dall'arena. Invece, è colpa mia se questi sogni continuano ad esserci. Se so davvero che Katniss non sarebbe in grado di uccidermi, allora perché continuo a vederlo quando sono addormentato? Il Dr. Aurelius mi ha spiegato che sono riusciti a penetrare talmente a fondo nella mia mente, che la loro opera è irreversibile. Gli credo, è ovvio. Ma resto dell'idea che dovrei essere in grado di distinguere i ricordi veri da quelli falsi. E questa mi incapacità mi da troppo fastidio. Ormai del mio passato con Katniss ho solo un vago ricordo. Quando qualcosa mi viene in mente, non posso fare a meno di chiedermi: E' andata così, oppure no?, e finisco solo col confondermi ulteriormente. Parlane con Katniss, mi dice sempre il dottore quando ci sentiamo al telefono settimanalmente. Potrebbe fare bene anche a lei. Non mi ha mai convinto al punto da porle qualche domanda. E non lo farei, se il sogno di questa notte non mi avesse sconvolto più delle altre volte.
"Non sopporto di non sapere cosa è successo realmente" sussurro, fissando il soffitto con occhi sbarrati.
Katniss non risponde subito. Aspetta di sollevarsi su un gomito in modo da guardarmi in faccia. Non lo dice, ma so che è sollevata dal fatto che le abbia detto qualcosa. "E' perché ogni ricordo è stato modificato" dice, tranquilla.
Immaginavo che avrebbe risposto in questo modo. Perché in fondo è questa la risposta giusta. Eppure non mi soddisfa, non fornisce una soluzione al mio problema. E' questo che cerco, allora? Posso anche smettere, visto che non la troverò mai. E non perché non la voglia abbastanza da trovarla. Semplicemente non esiste. Katniss deve aver intuito qualcosa perché mi prende il viso e lo gira verso di lei. "Fammi qualche domanda"
Le faccio segno di si con la testa. Ripenso all'incubo, al punto in cui faceva cadere l'alveare degli aghi inseguitori sulla mia testa. "Non avevi intenzione di uccidermi con quelle api. Vero o falso?"
Katniss esita. Vedo sul suo volto un'espressione che non riesco a decifrare. Sembra quasi che l'abbia colta di sorpresa con questa domanda. Si riprende in fretta. "Falso" afferma, abbassando lo sguardo. Giocherella con l'orlo della manica della mia maglia. "Però pensavo che tu volessi uccidere me, quindi non mi sono sentita in colpa allora" aggiunge subito, sottolineando bene l'ultima parola.
E' una reazione che posso comprendere. Prima di entrare nell'arena Haymitch ci ordinò di sembrare una squadra, di farci vedere sempre insieme, e la mia confessione consolidò la nostra finta unione. Questo tipo di comportamento deve averla confusa. Riuscì a confondere anche me, tanto da farmi credere a una cosa che non esisteva e per quanto ne sapevo allora, non sarebbe mai potuta esistere. Katniss deve essersi sentita in un certo senso tradita dopo aver scoperto della mia alleanza con i Favoriti. "Stavo solo cercando di proteggerti" le dico a mo' di scusa.
Lei annuisce. "L'ho capito troppo tardi" si colpevolizza.
"L'importante è che hai capito" ribatto, deciso a eliminarle quell'espressione dalla faccia. Prendo un respiro. "Mi hai buttato nella nebbia" dico, passando alla domanda successiva. "Vero o falso?" chiedo, sbrigativo. Di questa conosco sicuramente la risposta. E' falso, altrimenti sarei morto proprio come Mags, la vecchia mentore di Finnick che si sacrificò per non rallentare il nostro passo. La risposta di Katniss coincide con la mia, però mi fa venire in mentre un'altra domanda. Si riferisce a un altro sogno del genere, precedente a quello di poco fa. "Non hai fermato Finnick quando cercava di rianimarmi. Vero o falso?" Nel sogno dallo schermo mi fecero vedere Katniss che tirava indietro le braccia di Finnick per impedirgli di far ripartire il mio cuore, oppure che mi tappava la bocca per non lasciargli soffiare aria dentro.
"Vero. L'ho lasciato fare" risponde, incupendosi al ricordo.
"Perché non volevi che morissi o per gli sponsor?" chiedo. Se uno di noi fosse morto, la storia degli Innamorati Sventurati non sarebbe andata avanti. Forse, il pubblico avrebbe pianto un po' e avrebbe fatto un po' di scena, ma se ne sarebbe dimenticato in fretta subito dopo aver assistito a una bella lotta tra due tributi. Oppure non è così? E' un altra cosa che mi hanno fatto credere a Capitol City, questa?
Katniss ritira velocemente la sua mano dai capelli. "E' ovvio che non volevo che morissi" ribatte lei con veemenza. "Degli sponsor non mi importava nulla" esclama.
Sembra arrabbiata adesso. "Però i baci erano per gli sponsor" dico, tranquillo. E' una tranquillità calcolata e fredda e distaccata. Sembra che non sia nemmeno io a parlare. "Nella prima arena mi hai baciato solo perché il pubblico lo richiedeva"
Lo sguardo di Katniss si ammorbidisce, non so perché. "Ci sono state volte in cui l'ho fatto per le telecamere o perché sapevo che era quello che Haymitch voleva" ammette, senza problemi. "Altre volte volevo semplicemente farlo, come nella grotta" Accenna un piccolo sorriso. "E' stata la prima volta che ne ho voluti altri. E non mi sarei fermata se tu mi non mi avessi detto di stendermi perché la ferita aveva ripreso a sanguinare. E poi è successo di nuovo sulla spiaggia, e dopo mi hai dato la perla..."
"Quale perla?" domando, confuso.
Di tutta risposta, Katniss si alza dal letto e va verso la cassettiera. Mi metto a sedere per vedere meglio. Fruga in cassetto e poi ritorna accanto a me. Apre la mano. Al centro di essa vedo una piccola perla dai riflessi rosati. "L'ho portata sempre con me da quando me l'hai data. Era come se mi legasse a te in qualche modo" dice sottovoce, spostando lo sguardo da me alla piccola sfera sul suo palmo.
La prendo e la fisso. "Non ricordo niente"
Non ho il tempo di immaginare come avrebbe potuto essere realmente, che Katnissriduce a zero lo spazio tra i nostri corpi, le braccia attorno al mio collo. "Eravamo così nell'arena" dice, con un solo filo di voce. Sorrido, quando capisco cosa sta cercando di fare. "E abbiamo fatto questo" aggiunge, in un bisbiglio accattivante, prima di baciarmi. Mi lascio completamente trasportare dal movimento della sua bocca, per niente in grado di fermarla. Penso di non esserlo mai stato, soprattutto se Katniss mi baciava in questo modo. "E questo" dice ancora, intensificando il bacio. Si avvicina ancora un po' a me. Porto le braccia sulla sua schiena e la stringo come se da essa dipendesse la mia vita in questo momento.
Dopo un po' la fermo per prendere aria. "Penso di essermi fatto un'idea" è tutto ciò che riesco a dire.
Mi rigiro la perla tra le mani. Quanto vorrei ricordare il momento in cui gliel'ho data. Elimino il pensiero immediatamente. Di solito è proprio quando qualcosa mi ritorna in mente che i flashback tornano a farsi vedere e sentire. All'improvviso tutto diventa confuso, fuori e dentro la mia testa. Immagini dolorose mi passano dietro alle palpebre serrate, urla di ogni genere mi risuonano nelle orecchie. Una specie di sogno in pieno giorno. Poiché dimentico addirittura dove mi trovo, finisco con l'aggrapparmi alla prima cosa che mi capita a tiro per impedire di fare del male a qualcuno. Quel qualcuno è quasi sempre Katniss, visto che ormai si può dire che viviamo nella stessa casa, e lei riesce a calmarmi ogni volta per qualche strano motivo. Non fa nulla di particolare. Semplicemente resta al mio fianco - molto più vicino di quanto io le abbia consigliato di stare - fino alla fine, fino a quando non sciolgo la presa sulla mia testa e le cose tornano lentamente al loro posto.
"Non ti ho mai detto quanto mi dispiace che ti abbiano lasciato nell'arena" soffia Katniss al mio orecchio.
Le accarezzo una guancia. "Non è colpa tua. Se dovevano tirare fuori solo uno di noi, sono contento che sia stata tu". Non so cosa avrei fatto se avessero recuperato me e non Katniss. Probabilmente avrebbero dovuto tenermi anche loro in una cella per impedirmi di andare fino a Capitol City e portarla via. Me l'avrebbero impedito sicuramente, però. E, comunque, non c'era motivo di salvare me. Era Katniss il simbolo della rivoluzione, è grazie a lei che adesso possiamo dirci tutti vivi.
Rimango nella mia espressione seria quando la vedo scuotere la testa. "Com'era?" chiede qualche secondo dopo. Non c'è bisogno che le chieda di cosa sta parlando. "Come hai fatto a... come sei riuscito a...?"
"Sopravvivere?" le corro in aiuto. Lei annuisce e io prendo un bel respiro profondo. "Mi bastava pensarti" Era l'unica cosa che mi ha impedito di impazzire. Se non altro, di non impazzire totalmente.
Katniss sembra allo stesso tempo sorpresa e non sorpresa della mia risposta. In effetti, non riesco a capire cosa sta pensando adesso. So solo che non dovrebbe stupirsi di fronte a certe mie affermazioni. Non più almeno. "A cosa pensavi?" mi chiede sottovoce.
Mi fermo un istante a pensarci. Non alla risposta; quella è pronta. Il problema è che non so se dovrei dirla a lei. "A noi... - mi fermo, quando inizio a sentire caldo - ... non posso dirtelo" Scuoto la testa.
Katniss si accorge che qualcosa non va. Mette una breve distanza tra di noi. "Perché no?" domanda, con un misto di curiosità, preoccupazione e disappunto.
Come mai fa così caldo improvvisamente? "Non è niente di strano, non preoccuparti" la rassicuro. "Solo che non possiamo farlo. Non prima che questa cosa – indico me e poi lei – sia ufficiale" aggiungo, goffamente.
Le guance rosse di Katniss mi fanno intendere che ha capito a cosa mi sto riferendo. Stranamente non mi sento a disagio. Anzi, è stato rincuorante parlargliene. Come le ho detto, non c'è nulla di strano o equivoco con quello che mi passava per la testa in alcuni momenti, ma ho ragione quando dico che non è ancora giunto il momento. Comunque, Katniss non sembra infastidita dalla mia confessione. Infatti, da più l'aria di essere incredula. Faccio per chiederle il motivo, ma lei mi  anticipa. "Non sai quello che dici" inizia, abbassando lo sguardo sulle nostre mani intrecciate. "Non vorresti sposarmi sul serio"
"Si, invece. Più di quanto immagini"

IMPORTANTE: E' giunto il fatidico momento di cui vi avevo parlato in qualche capitolo fa, ovvero il momento in cui mi sarebbe servito il vostro aiuto. Non è un vero e proprio problema, ma penso che sentire pareri altrui sia conveniente. La domanda che vi porgo e di cui vorrei leggere i vostri pareri è: come dovrebbero chiamarsi i cari pargoletti di Peeta e Katniss? Mancano ancora un paio di capitoli fino a quel punto, ma è bene che inizi a buttare qualcosa giù. Probabilmente non li userò nemmeno - ero di quest'idea quando ho pensato per la prima volta ai nomi, visto che la Collins non li ha citati nell'epilogo - ma è buono avere qualcosa per le mani. Spero non vi dispiaccia. A dire il vero, io la trovo un'idea carina. In questo modo la fanfic potrebbe essere un po' mia e un po' vostra.
Ovviamente, le risposte potete inserirle nelle recensioni.
Grazie in anticipo.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo Dodicesimo ***


Ci ho messo una vita ad aggiornare e mi dispiace immensamente. Ma questo è stato il capitolo più difficile da scrivere da quando ho iniziato. Ho dovuto confrontarmi con una "parte di vita"a cui la Collins non fa il minimo riferimento nei libri. Quindi, non aspettatevi nulla di eccezionale. Neanche buono, a essere onesta. Su una scala da 1 a 10, a questo capitolo non darei nemmeno uno zero spaccato. Perché l'hai postato allora?, vi chiederete. Be', meglio di così non avrei saputo fare. Lo so che l'ho detto tante volte e non continuo a ripeterlo solo perché voglio che mi diciate che non è vero o mi riempiate di complimenti. Non c'è nessuna falsa modestia, semplicemente questo pezzo non brillerà per fantasia o metodo di scrittura. Mi scuso in anticipo. 
A parte questo sproloquio, volevo ringraziare tutti quelli che hanno risposto alla domanda sui bimbi Mellark. Mi avete dato dei consigli fondamentali, al punto che ho scelto i nomi tra quelli che mi sono stati proposti. Semmai deciderò di inserirli, dovreste vederli fra due o tre capitoli. Ovviamente solo allora, saprete quali ho scelto, giusto per tenervi un po' sulle spine.
Infine, vorrei dire un grazie enorme per chi continua a sostenermi e a inserire la storia tra i preferiti e seguite. Tra l'altro, mi sono accorta solo qualche giorno fa che è presente nelle scelte dal sito. A tal proposito colgo l'occasione per ringraziare (sbaglio, o ho già menzionato un grazie?!) RdP
E ora, bando alle ciance e via col capitolo!
-M


Capitolo Dodicesimo
Katniss Everdeen. Suppongo di non essere mai stata semplicemente Katniss Everdeen. Solo ora mi rendo conto che, se non da i miei genitori o da mia sorella, quasi nessuno mi aveva mai chiamato col mio nome. Da bambina venivo additata come quella che se ne stava sulle sue, che aveva pochissimi amici con cui scambiava una parola o due, e per gli insegnanti ero la piccola che faceva sempre i suoi compiti. Dopo la morte di mio padre nella miniera, sono diventata la ragazza degli scoiattoli per alcuni, delle fragole per altri, Catnip per Gale e cose del genere. Poi, mi sono stati attribuiti altri nomi, in molti dei quali ho faticato riconoscermi sia perché non capivo sia perché non volevo. La Ragazza di Fuoco di Cinna, il niente di Haymitch durante la sessione di preparazione all'intervista, una metà degli Innamorati Sventurati del Distretto 12, la Ghiandaia Imitatrice per i ribelli. Fin dal primo istante in cui mi sono offerta volontaria per gli Hunger Games al posto di Prim, tutti hanno imparato il mio nome e a riconoscermi in tv, ma ognuno ha sempre preferito riferirsi a me con un nome diverso dal mio. Allora non mi sono mai accorta di questo dettaglio, o almeno non ci ho dato troppo peso. Adesso, invece, che sto per cambiarlo ancora una volta, non riesco a togliermelo dalla mente. Diventare la signora Mellark mi mette in agitazione.
Peeta me l'ha chiesto un pomeriggio di qualche settimana fa. Io ero appena ritornata dal bosco e lui dalla panetteria. Mi sono immediatamente accorta che qualcosa era sbagliato. La maggior parte dei giorni Peeta entra in casa tutto sorridente, un po' stanco forse, ma sempre con quel sorriso sulle labbra che ne fa spuntare uno anche a me involontariamente. Quel pomeriggio, era chiaro che non era uno di quei giorni. Sembrava preoccupato ed ero certa di avere qualcosa a che fare con l'espressione tesa che cercava di non farmi scorgere. Ha evitato il mio sguardo quasi fino alla sera, distogliendolo alla svelta ogni volta che per errore incontrava il mio. Ho aspettato che fosse lui a raccontarmi cosa era successo, per non sembrare invadente. Mi ero fatta un'idea abbastanza precisa di quello che poteva essere accaduto, sebbene nelle ultime settimane fossero diminuiti gli episodi. Onestamente, non so perché sperassi che Peeta prendesse l'iniziativa da solo. Non l'ha quasi mai fatto e so che è perché non vuole che mi preoccupi. Rimane il fatto che in questo modo mi preoccupo anche di più. E' frustrante non sapere cosa gli passa per la testa, essere incapace di dargli una mano concreta per mettere fine alle sue sofferenze. L'unica cosa che posso fare è essere presente e ascoltarlo, ma come faccio se lui si rifiuta di parlarmene spontaneamente? E allora non mi resta che fare il primo passo. Come ogni altra volta che lo vedo turbato, inizio a chiedergli del lavoro alla panetteria. Dalle sue risposte mi rendo conto dell'intensità dell'episodio. Se il flashback non è stato poi così violento, allora Peeta si rilassa nel giro di pochi minuti; quando invece mi risponde a monosillabi e evita ogni contatto tra di noi capisco che è stato insopportabile. Quel pomeriggio, doveva essere stato terribile. Dopo le domande di routine – “Come è andata in panetteria?”, oppure “Qualche cliente interessante?”- Peeta era anche più nervoso. Provai a mettergli una mano sulla spalla e, anche se lui non la cacciò via, ebbi l'impressione che non gli facesse piacere. La lasciai lì, però. Aveva bisogno di sapere che tutto andava bene, che non era solo e soprattutto che io non ero la Katniss che aveva visto nella sua testa. "Vuoi del tè? Non è zuccherato" gli chiesi, aggiungendo una certa enfasi nell'ultima parte. Probabilmente fu un'idea ridicola pensare che Peeta potesse riprendersi solo facendogli capire che sapevo come prendeva il tè, ma fu utile ed era tutto ciò che mi interessava. Accennò il primo vero sorriso da quando era entrato in casa e se fossi stata più perspicace avrei dovuto intuire che dovevo iniziare a preoccuparmi. Un cambiamento d'umore così drastico è impossibile. Da taciturno e immobile, era diventato tutto l'opposto: andava avanti e indietro, mormorando parole silenziose e incomprensibili alle mie orecchie. Più volte gli chiesi se stava bene e lui mi rispose semplicemente di si. In genere, non gli credo quando mi dice che sta bene, soprattutto dopo un flashback della portata di quel giorno. Eppure, in quel momento qualcosa mi disse che stava davvero bene dal piano fisico e morale. Sembrava solo nervoso. Molto. Troppo. "Si può sapere cos'hai?" gli domandai a un certo punto, stufa di quel suo comportamento. Lui non disse niente all'inizio. Afferrò il mio polso e mi trascinò sul divano dietro di lui. Mentre io lo guardavo più confusa che mai, lui prendeva dei respiri profondi.
"Devo dirti una cosa" bofonchiò, stringendo le mie mani tra le sue. Annuii, anche se non era una domanda. "E' da un po' che ci sto pensando, ma avevo paura che..."
"Paura?" domandai, scettica.
Fu il suo turno di annuire. "Conoscendoti, potresti anche dirmi di no" spiegò con tranquillità.
Ricordo che quelle parole mi infastidirono. E' vero Peeta mi conosce, forse, meglio di chiunque altro; è inevitabile dopo quello che abbiamo passato. Eppure non penso di essere così prevedibile, al punto da formulare ipotesi sulle mie decisioni. "Vediamo" dissi in tono di sfida, senza mai togliere gli occhi da lui.
A quel punto Peeta inalò una bella dose d'aria e divenne rigido come una statua di marmo. Avvertii la stretta sulle mie mani intensificarsi. "Vuoi sposarmi?"
La mia audacia sparì in pochi secondi, lasciando il posto a una confusa incredulità. Rimasi a fissarlo per qualche minuto, incapace di spiccicare una sola parola. A dire il vero, non ero nemmeno in grado di trovare qualcosa da dire. Una risposta, ovvio, ma quale? Improvvisamente troppe cose mi passarono nella testa. Mi alzai dal divano e attraversai la stanza da un lato all'altro un paio di volte. Io, sposarmi? Proprio io che non ho mai nemmeno preso in considerazione l'idea di un matrimonio. Era impensabile che potessi dirgli qualcosa di diverso da un "no" secco. Non avevo intenzione di diventare la moglie di qualcuno, per poi correre il rischio di perderlo. No, non volevo che mi succedesse la stessa cosa di mia madre. Come potevo lasciare che mi perdessi proprio come aveva fatto lei? Ero convinta che se non mi fossi mai sposata, non avrei sofferto. Ma, anche senza un matrimonio, non soffrirei lo stesso se Peeta dovesse morire? La risposta era scontata. E allora, cosa dovevo fare? Non trovai la risposta subito. Anzi, forse quella era pronta fin dal momento in cui Peeta me l'aveva chiesto, ma mi spaventava. Sposarlo voleva dire affidare la mia vita completamente nelle sue mani, e lo stesso avrebbe fatto lui con la sua. In un certo senso, entrambi saremmo stati gli artefici della felicità dell'altro, il che comportava di conseguenza anche possibili emozioni spiacevoli. Ero certa al cento percento che Peeta non si sarebbe tirato indietro se qualcosa non fosse andato storto, così come ero certa che io non l'avrei abbandonato per nessuna ragione al mondo. Abbiamo passato gli ultimi anni a guardarci le spalle l'un l'altra, a proteggerci a turno e a pianificare tattiche per salvarci vicendevolmente. Peeta è l'unico a cui affiderei la mia vita senza rimorsi o preoccupazioni. Dopo qualche giorno di meditazione, annunciai che l'avrei sposato.
Ed è per questo motivo che adesso sono in un negozio della città per l'abito da sposa. Ne ho prenotato uno qualche giorno fa. Delly ha insistito perché lo provassi prima di prenderlo e per fortuna ho seguito il suo consiglio. Mi andava largo e la proprietaria del negozio hanno dovuto stringerlo di una taglia o due. Dal momento che da quando il Distretto 12 si è ripopolato, ci sono stati soltanto due matrimoni, di cui sono a conoscenza perché Peeta ha fornito loro il pane da bruciare, so per certo che il vestito che ho scelto io non è stato mai indossato da nessuno. E' stupido pensare una cosa del genere, ma così mi trovo più a mio agio. Lo rende più mio.
"E' pronto" mi dice una dice una signora anziana dall'aria gentile. Mi indica con una mano il retro del negozio, dove so che ad aspettarmi c'è l'abito che ho scelto, accuratamente sistemato su un manichino. E' molto semplice. In effetti, a guardarlo sembra una lunga tunica bianca, stretta un po' sui fianchi e senza maniche. L'ho scelto apposta. Non volevo niente che mi ricordasse quelli per il mio finto matrimonio, nulla che portasse a galla i ricordi di Capitol City su cui ho cercato di mettere una pietra. Erano bei vestiti, ma niente che faceva al caso mio. Se mi fosse stata concessa la libertà di scelta – non che allora mi importasse – non avrei mai indossato nessuno di quelli.
Trattengo il respiro, una volta oltrepassato l'arco che porta in una piccola stanza molto luminosa. Su un manichino c'è davvero un abito da sposa, ma non è il mio. La linea e il modello sono gli stessi, ma la cura dei particolari grida il nome di Cinna. Se non sapessi che è morto, direi che è stato lui a disegnarlo per me. Ma so che non è andata così perché l'ho visto morire proprio davanti ai miei occhi, pochi istanti prima di entrare nell'arena per la seconda volta. E allora perché mi guardo attorno? Inconsciamente allungo il collo in direzione delle tendine dietro al quale mi sono cambiata tre giorni fa. Cosa sto cercando? Mi aspetto davvero che Cinna compaia da un momento all’altro? Si. No. Eppure è una delusione lo stesso quando nessuno esce.
“Questo non è l’abito che ho scelto” sussurro alla signora, dietro le mie spalle. La voce è un po’ smorzata e ha perso quel pizzico di credibilità che avevo cercato di imprimerle. Non mi volto. Gli occhi sembrano pungere alla luce che entra dalla finestra spalancata.
“Mi hanno detto di darle questa” dice vagamente la donna, tendendo la mano verso di me.
Hanno? Di chi sta parlando? Forse si riferisce a Peeta e Haymitch. O Sae e Delly?
Abbasso lo sguardo e volto la testa all’indietro quel tanto che basta perché veda cosa c’è tra le mani della signora. Una lettera. Sulla busta bianca c’è scritto il mio nome in bella grafia. Non mi sembra familiare. Non appartiene a nessuno che io conosca.
Senza annunciare la sua uscita di scena, la sarta gira sui tacchi e va via sul davanti del negozio. Mi mordo l’interno della guancia e arriccio le labbra di tanto in tanto, cercando di capire se è il caso o meno di aprire questa lettera. Qualcosa mi dice che può appartenere a mia madre, ma non è il suo modo di scrivere. Chiunque sia, deve aver saputo del matrimonio. Come, non lo so.
Tamburello le dita sulla carta spessa e ruvida. La apro? Cosa può esserci di tanto terribile in una semplice lettera? Sarà solo qualcuno che vuole farci gli auguri. Mentre sollevo il lembo triangolare, evito di chiedermi qualsiasi cosa riguardi il vestito.
 
Katniss,
se stai leggendo questa lettera, allora molte cose che non mi aspettavo – e altre che mi aspettavo – sono accadute. Sarai uscita dall’arena nel modo che Haymitch ha pianificato insieme agli altri e avrai messo fine a tutto. Conoscendoti, ti starai chiedendo ancora se ne sia valsa la pena o meno. La maggior parte delle volte avrai pensato che sarebbe stato meglio morire durante i giochi per smettere di soffrire, ma so che nel profondo sai di aver fatto la cosa giusta. Nonostante il dolore e le perdite, sai che senza ogni tua azione, adesso non staresti leggendo queste poche righe e non avresti accettato nessuna proposta di matrimonio. E se non lo sai ancora, lo capirai col tempo. Grazie a quello che hai fatto, ne avrai a sufficienza.
Quello che hai davanti è il modello che avevo disegnato per il tuo finto matrimonio. E’ stato il primo ad essere scartato; ti piacerà senz’altro.
Se stai leggendo questa lettera, vuol dire che oggi non potrò essere con te in questo giorno. Sappi, però, che scommetto ancora su di te.
Cinna.
 
Fisso le parole come se fossero scritte in una lingua che non riesco a comprendere. Provo a rileggerla, ma è solo dopo la quarta volta che qualcosa mi entra in testa. E’ una lettera di Cinna. Quindi, in un certo senso avevo ragione a cercarlo. Deve averla scritta subito dopo l’intervista con Ceasar Flickerman, subito dopo che io mi sono trasformata da sposa addolorata e furente nella Ghiandaia Imitatrice sotto gli occhi dell’intera Panem. Era consapevole che quell’abito l’avrebbe condotto a una morte certa. Il pensiero che ne fosse consapevole non mi ha mai rincuorato più di tanto. Anzi, forse l’ho trovato anche stupido in certi momenti. Ma ovviamente quello era il suo modo di dire che non poteva giocare sottostando alle regole di Capitol City. Osservando le sue decisioni dall’esterno, potrebbe anche sembrare che Cinna abbia agito incurante di quello che avrebbero potuto farmi. La mia mente non ha mai nemmeno sfiorato un’idea del genere, ma Cinna l’aveva calcolato e so che ha agito in quel modo solo perché era certo che qualcuno avrebbe fatto di tutto per tirarmi fuori dall’arena. Era a conoscenza dell’alleanza di Plutarch Heavensbee e dell’accordo tra lui e Haymitch e i distretti ribelli. Vorrei davvero che fosse qui con me, oggi. Cinna ha fatto per me molto più di quanto siano riuscite a fare altre persone, in poco tempo e in una situazione che non era per niente facile. L'aver conosciuto lui è una delle poche cose che ha reso gli Hunger Games meno opprimenti. Era un amico.
Cinna aveva ragione nella lettera: l'abito mi piace. Non differisce molto da quello che avevo scelto, a dirla tutta, ma ai miei occhi sembra un vero capolavoro, uno di quelli a cui ero abituata quando il mio stilista doveva vestirmi. Decido di provarlo immediatamente e mentre la donna anziana mi aiuta a infilarlo, fingo che sia Cinna a darmi una mano. E' lungo fin oltre le caviglie, così mi vengono offerte un paio di scarpe con un tacco non molto più alto di quello che indossai la prima volta a Capitol City. Nonostante ciò, l'orlo sfiora ancora il pavimento, ma non me ne preoccupo. E non devo nemmeno preoccuparmi di inciamparvi dentro, visto che a partire dai fianchi si allarga giusto quel tanto che basta per farlo finire sotto le scarpe. La parte superiore racchiude semplicità e delicatezza in un dipanato motivo di perle, che se fosse stato usato da qualcun altro avrebbe sfigurato. Guardandomi allo specchio quasi non mi riconosco. 
Esco dal negozio e arrivo fino al Villaggio dei Vincitori senza che neanche me ne accorga. Se questo era già un giorno particolare, adesso lo è anche di più. Passo davanti a casa di Peeta. Vorrei fermarmi da lui per raccontargli quello che è successo, ma Delly mi ha espressamente vietato di vederlo adesso, mormorando qualcosa riguardo il fatto che gli sposi non posso vedersi prima delle nozze secondo una tradizione del Distretto 13. Ho provato più volte a dirle che qui non siamo al Distretto 13, non più almeno. Per quanto possa essere sempre di buon umore e tutto il resto, è anche una delle persone più testarde che io abbia conosciuto quando vuole esserlo.
Quando entro in casa, come se non avessi avuto abbastanza sorprese, ne trovo un'altra ancor più sconvolgente. In casa mia, avvolti in delle nuvole dai colori più disparati c'è il mio team di stilisti. Venia, Octavia e Flavius sono davanti a me, sorridenti e raggianti come li ho conosciuti due anni fa. In un attimo mi sono addosso, mi stringono in abbracci stritolanti e gridano parole concitate. Non afferro nulla di quello che dicono se non quanto siano felici che io e Peeta ci sposiamo, che loro siano stati invitati a un simile evento. Io, nel frattempo, cerco di capire cosa diavolo ci facciano qui. Non che non li voglia, ma ho paura che potrebbero esserci anche cameraman e tv.
"Siamo solo noi" mi assicura Octavia, ancora pensierosa riguardo i miei capelli. Li tocca come se fossero pericolosi. "Effie ci ha costretti a tenere la bocca chiusa"
"Effie?" domando, sconvolta. C'entra anche lei? Vedrò comparire pure lei fra un paio di minuti?
Flavius annuisce con un’espressione come a dire "so che non te l'aspettavi". Come posso dargli torto? Tutta questa faccenda è un po' surreale. "E' lei che ti ha fatto avere l'abito di Ci-Cinna" balbetta, chiaramente trattenendo le lacrime. 
"Perché siete qui?" chiedo, allora. E' uscita un po' male; sembra quasi che non ne sia contenta. E in effetti, non so se lo sono. Dovrei esserlo, certo, ma il motivo che suppongo rende tutto meno piacevole. "Volevate farci gli auguri da vicino?" continuo, sperando che sia come dico.
Venia scuote la testa con un fare che non promette nulla di buono. "Non puoi sposarti così" dice, puntando l'indice in direzione della testa, per poi farlo scorrere giù fino ai piedi. Esattamente ciò che temevo. Comunque, la sessione di bellezza non si è rivelata così terribile come ricordavo. Forse, perché adesso ho potuto ribellarmi ad alcune cose che intendevano farmi, non dovendo più obbedire all'ordine di Haymitch. Tant'è vero che alcuni peli sono rimasti al loro posto e ho insistito perché non mi ricoprissero di creme e unguenti tre o quattro volte. La sensazione di bruciore e pizzicore mi da fastidio solo a pensarci. Per i capelli ho lasciato carta bianca. In qualsiasi modo li abbiano intrecciati sulla nuca, so per certo che hanno fatto un buon lavoro. Riguardo il trucco mi sono imposta di nuovo. Assolutamente nulla di marcato, troppo carico e ovviamente nessun tipo di tatuaggio che hanno tentato di applicarmi. Voglio rimanere il più semplice possibile, in modo da sentire che sono ancora io, Katniss.
I tre stilisti mi danno una mano a vestirmi e, dopo un ultimo ritocco al trucco e ai capelli, mi scortano fino al Palazzo di Giustizia. E' totalmente diverso da quello precedente la distruzione. E' stato ampliato e l'ascensore non fa più rumore; per certi versi somiglia a quello del Centro di Addestramento. Scaccio il ricordo alla svelta. Lungo un corridoio laterale intravedo una bambina dai capelli biondi, che gioca con una bambola. Deve essere la figlia del nuovo sindaco. Dopo la morte della famiglia Undersee, il ruolo è passato a un ex commerciante della città, che si è dato parecchio da fare per la ricostruzione del Distretto. E' grazie a lui che adesso abbiamo una farmacia nuova che mi premunisco di rifornire settimanalmente e una sorta di ospedale. Nulla di artificioso come quelli di Capitol City, ma molto più di quello che avevamo prima a disposizione.
Quando entro nell'ufficio del sindaco, Peeta è già lì ad aspettarmi. E' elegante, vestito nel suo abito nero, e sembra quasi che si trovi in un altro mondo. Appena mi vede, intravedo un mezzo sorriso che, non so come, scatena qualcosa nel mio stomaco. Scorgo facilmente anche l'apprezzamento per il mio aspetto, e ciò mi lusinga. Mi avvicino a lui col capo chino, sperando che né lui né il mi vecchio team si accorga del rossore alle guance. Forse, non è stata una buona idea non esagerare col trucco.
Il rituale del matrimonio è semplice e veloce. A dirla tutta non esiste nessun rituale: bisogna solo mettere una firma su un pezzo di carta e, nel caso mio e di Peeta, decidere se andremo a vivere nella mia o nella sua casa nel Villaggio dei Vincitori. Abbiamo concordato che ci trasferiremo nella mia, visto che praticamente viviamo lì insieme già da un bel po'. Ecco cosa basta, perché io diventi la moglie di Peeta. Una semplice firma e sono la signora Mellark.
Mi accorgo di aver fatto la cosa giusta a sposarlo, quando il sorriso che porta per tutto il giorno mi rende più che felice. Sono certa del fatto che non mi abbia persa di vista neanche per un secondo, mentre chiacchiera con i pochi invitati al banchetto. Io stessa non sono riuscita a togliergli gli occhi di dosso, ansiosa per il momento in cui rimarremo soli. Il team di stilisti è rimasto giusto un'ora prima di salutarci, perché il loro treno per Capitol City era in partenza. Presto hanno seguito il loro esempio anche gli altri invitati; l'ultimo ad andarsene è stato Haymitch, che non ha abbandonato la sua postazione neanche per un minuto se non accompagnato dalla sua preziosissima bottiglia di vino rosso. Per fortuna, poi è andato via e Peeta ed io abbiamo bruciato il pane. Della vasta scelta che Peeta mi ha messo davanti, ho scelto quello che mi diede a dodici anni, quello che mi salvò dalla morte. Ne mangiamo entrambi un pezzetto, ridendo e facendo il resoconto della giornata.
"Sei stato tu a dirlo a Effie, vero?" gli chiedo improvvisamente.
Annuisce, le ombre scure attorno agli occhi causate dalla luce del camino acceso. "Una volta mi ha detto che alcuni degli abiti di Cinna erano stati scartati prima ancora di sottoporli al pubblico" mi spiega, tracciando dei cerchi sul palmo della mia mano. "Ho pensato che avrebbero potuto piacerti"
Non resisto alla tentazione di baciarlo. Devo ancora raccontargli la parte della lettera, ma penso che possa aspettare un paio di minuti. Lui risponde immediatamente, così colgo l'occasione di passargli le braccia attorno al collo. Le dita finiscono tra i suoi capelli, accuratamente pettinati da Flavius questo pomeriggio. Le sue mani si poggiano sulla mia schiena e poi sui fianchi; mi tira in modo che sia decisamente più vicina a lui. Ci stringiamo a vicenda e ciò serve a far dirottare la mia mente a pensieri più intimi. Infatti, nel giro di pochi minuti e tantissimi baci, mi accorgo che siano arrivati davanti alla porta della mia camera da letto. Anzi, nostra.
Il vestito scivola dolcemente fino alle caviglie, mentre spingo la porta con la schiena. Mi pare di incespicare, ma sono così stretta a Peeta che non posso esserne certa. Lo sento sorridere contro le mie labbra; lo faccio smettere con un nuovo bacio. Per evitare che cada ancora, Peeta scalcia via l'abito con un piede. E' strano, ma vorrei che lo trattasse meglio. O che almeno non ci mettesse i piedi sopra. Fosse stato quello che avevo scelto qualche giorno fa, non ci avrei dato molto peso, ma questo è di Cinna.
Quando mi accorgo che siamo arrivati al letto, mi prefisso che gli abiti di Peeta raggiungano il mio. Ci metto un po' più del previsto. Le mani si intoppano a ogni bottone della camicia e ho bisogno del suo aiuto. Lui, comunque, non ne sembra molto dispiaciuto. Anzi, è sempre lui che mi fa sedere sul letto, ed è lui che si stende su di me. Mi sento a disagio. E' ridicolo come abbia partecipato due volte agli Hunger Games, abbia ucciso un numero di persone impensabile per una ragazza della mia età, e poi l'intimità mi mette fuori gioco. Non l'ho mai pensata a questo modo, quelle rare volte che mi sono permessa di farlo. 
A ogni movimento ho la sensazione che le lacrime inizino a scendere da un momento all'altro. Credo che sia per colpa del nervosismo. Vorrei non esserlo così tanto, vorrei possedere la stessa calma di Peeta e non rovinare un così bel momento. Lascio quindi che sia  lui a guidarmi, mentre consento al suo odore di entrarmi nelle narici. Farina e cannella sono quelli che riconosco più facilmente. Porto il naso nell'incavo del suo collo e inspiro più forte che posso. Mi piace la cannella.
Peeta sa perfettamente come muoversi: ogni minima parte del mio corpo diventa sempre più sensibile sotto il suo tocco. Ripenso alla nostra storia. A come faceva freddo durante la notte in quella grotta in riva al torrente, a come Peeta ed io ci tenevamo stretti l'uno nelle braccia dell'altra nel sacco a pelo, per non perdere quel poco di calore che ci rassicurava. I baci non richiesti, quelli per il pubblico e per Haymitch, e quelli che volevo io. Quelli che hanno fatto crescere in me il desiderio di riceverne degli altri. Forse allora non significavano niente per me, ma adesso è quasi come se ne dipendessi. Il modo in cui Peeta mi abbracciava sul treno del Tour dei Vincitori e mi tranquillizzava ogni volta dopo un incubo. In questo preciso istante sento di nuovo quella brama che ho provato sulla spiaggia. Mi riporta al presente. Chiudo gli occhi e metto le mani sulle sue spalle. Lo spingo un po' in modo che mi guardi in faccia.
"Chiedimelo" dico, la voce ridotta a un sussurro appena udibile. Non so perché ho bisogno di dirglielo adesso. Probabilmente è la cosa più giusta da fare e voglio che lui sappia. E' giusto che venga a saperlo adesso. Avrei dovuto dirglielo molto tempo fa, ma ora posso rimediare.
Fisso quegli occhi blu pieni di desiderio e preoccupazione. Ha capito a cosa mi sto riferendo? Prende un respiro profondo prima di avvicinarsi al mio viso. Si, ha capito perfettamente la domanda da pormi. "Tu mi ami. Vero o falso?" bisbiglia al mio orecchio. E' molto più simile a un soffio leggero, che manda in fuori controllo ogni cellula. Perdo definitivamente quel pizzico di lucidità che finora ho preservato.
"Vero"

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo Tredicesimo ***


Ho aggiornato in fretta questa volta. Avrei potuto farlo anche prima perché ho finito questo capitolo venerdì sera, ma mi sono presa del tempo per scrivere anche gli altri. Posso annunciare con sicurezza che ci saranno altri due capitoli e subito dopo l'epilogo. E' quasi finita...
Le altre volte ho detto che il capitolo non mi piaceva, adesso invece sono molto contenta di quello che è uscito. E' uno dei miei capitoli preferiti, quindi non smontatemi. Scherzo, l'importante è che mi diciate sempre come la pensate, senza preoccuparvi di essere troppo dirette o "cattive".
Al prossimo capitolo...
-M


Capitolo Tredicesimo
E' strano come una giornata inizi in una maniera e si concluda in tutt'altro modo. La maggior parte dei giorni mi sveglio spaventata a morte, col cuore che mi batte forte come se volesse scoppiare in tanti piccoli pezzetti a ogni respiro in più che faccio, e le coperte sempre tirate fin sopra il naso per proteggermi da qualsiasi cosa veda negli incubi. Il più delle volte la sensazione di paura mi perseguita per le ore successive come la mia stessa ombra. Anche quando sono nel bosco immagino che mi accadono le cose peggiori e io, come nei sogni, non posso fare nulla per impedirle. Altre volte, invece, Peeta riesce a calmarmi, mormorando parole dolci all'orecchio, cullandomi come si farebbe con un bambino e con qualche bacio. Cerca di farmi sorridere, inventando le storie più buffe sui suoi trascorsi in panetteria e, nonostante io provi a fermarlo per non rievocare brutti ricordi in lui, non mi da ascolto e non si arrende fino a quando anche la più piccola traccia di un sorriso spunta sugli angoli della bocca.
Ci sono delle mattine, però, che mi sveglio bene. Come la prima volta che dormii con Peeta dopo essere ritornata al Distretto 12. Gli incubi, che in altre notti sono terribili e mi fanno svegliare di soprassalto, non mi infastidiscono più di tanto. Capita molto raramente, ma quando succede è come se fossi un'altra persona. Ovviamente, nel corso della giornata deve sempre accadere qualcosa che mi mette di malumore, come uno dei flashback di Peeta, bottino scarso o inesistente nel bosco, fotografie di bambini che giocano nell'acqua.
Questa mattina, ad esempio, fa parte alla seconda categoria. Rivedere Tresh che fracassa il cranio di Clove con una pietra subito dopo avermi risparmiata non mi ha terrorizzato molto più delle altre volte, e quando ho aperto gli occhi, Peeta era accanto a me che mi guardava. Non succede spesso che ci svegliamo insieme, perché abbiamo orari differenti per iniziare le nostre attività. In genere è lui quello che esce prima di casa, ma sostiene di non avere il coraggio di svegliarmi per dirmelo. A volte, come stamattina, si veste e aspetta che apra gli occhi, mi saluta e poi va via. E' in mattine come queste che mi sembra di essere ritornata nella grotta della nostra prima edizione. Quella piccola insenatura era diventata una specie di rifugio più mentale che strategico. Lì stavamo bene, sebbene il freddo ci facesse battere i denti e la fame oscurasse ogni buon presentimento. Eppure lì dentro, insieme, eravamo al sicuro dalla tempesta che imperversava fuori, accontentandoci di quell'illusorio senso di protezione. Mentre tutto fuori era il caos più totale, noi quasi ne eravamo indifferenti. Quasi. Arrivava sempre il momento in cui dovevamo uscire per cacciare, lavarci, raccogliere cibo. Non potevamo restare lì per sempre sia per necessità sia perché gli Strateghi non ce l'avrebbero permesso. E allora la paura iniziava di nuovo a tormentarmi. Il terrore di non poter più ritornare al nostro nascondiglio, di incontrare qualche altro tributo, di perdere di vista Peeta e ritrovarlo solo quando sarebbe stato troppo tardi come era successo per Rue. Adesso, come allora, ho la sensazione che ogni attimo di felicità - o almeno la cosa che più ci si avvicini - debba finire all'istante, che mi venga portato via quando meno me lo aspetto e mi ritroverò a dover ricominciare tutto da capo.
Il buonumore di questa mattina si è concluso in concomitanza all'arrivo di una fotografia da parte di Annie Cresta. Tra la lettera di mia madre e la lista delle nuove cure per me e Peeta del Dr. Aurelius, quasi non mi sono accorta dell'immagine che mostrava un bambino alle prese con le onde del mare. Prima ancora di leggere il nome del mittente sul retro, ho capito di chi si trattava. C'era un Finnick in miniatura davanti ai miei occhi, bello come il padre a cui aveva anche rubato il colore dei capelli e l'altezza; le forme del viso e gli occhi verdi erano tutto merito di Annie. E' stato impossibile non riconoscerlo.
"Peeta, vieni a vedere una cosa" grido, senza mai distogliere l'attenzione dalla fotografia sotto il mio naso. E' sorprendente come la stessa espressione di Finnick sia presente nel figlio. Se non avessi saputo che ne aveva avuto uno, avrei giurato che quella era una fotografia di lui da piccolo. "Guarda qui" dico a Peeta, quando arriva, mostrandogli l'immagine.
E' divertente vederlo aguzzare la vista e poi quasi indietreggiare alla consapevolezza di quello che ha davanti. "E' Finnick!" esclama, tornando ad osservare meglio. "Sa già nuotare e ha quanto?, un anno?" 
Annuisco. E' nato dopo la morte di Finnick, dalla quale è passato poco più di un anno. E il piccolo Finnick ha già imparato come si deve comportare in acqua. Ha due piccole ciambelle attorno alle braccia, che suppongo gli facciano da salvagente. Eppure dalla bocca spalancata in una gioiosa risata e le mani che si schiantano sulla superficie dell'acqua alzando un bel po' di schizzi, direi che potrebbe anche farne a meno. Annie ha davvero fatto un bel lavoro con lui.
"Non si dovrebbe chiamare un bambino col nome del padre morto" dico improvvisamente, continuando a fissare il nome che Annie ha scelto per il figlio.
"Perché?" chiede Peeta, mettendosi accanto a me sul divano.
Non è evidente? "Sarebbe come rivivere quel dolore ogni volta, credo" spiego. E' così sicuramente. Come può una persona andare avanti e superare la morte del marito, se ogni volta che chiama il figlio deve fare i conti col momento in cui l'ha perso? E vale anche per altri componenti della famiglia o degli amici. Magari, è solo un tentativo di tenere vivo il ricordo di una persona che si amava, ma è come farsi del male di proposito. Soprattutto quando il bambino in questione somiglia così spudoratamente al precedente proprietario del nome. Evidentemente Annie non l'ha pensata in questo modo e mi chiedo come faccia a guardare suo figlio, senza finire in lacrime ogni volta che dovrà chiamarlo perché la cena è pronta o quando dovrà rimproverarlo.
"Tu come lo chiameresti?" mi chiede Peeta, mentre passa un braccio attorno alle mie spalle e mi tira a sé.
Scrollo le spalle. "Non lo so" ammetto. Non ho mai pensato a una cosa del genere e mai ho desiderato pensarci. "Non avrò di questi problemi" dico, ritenendomi in un certo senso fortunata.
"Che vuoi dire?" domanda Peeta, perplesso. Non riesco a vederlo in faccia, ma so per certo che è sorpreso.
Affondo la faccia nel suo petto. "I bambini non fanno per me" rispondo, timorosa della piega che la conversazione potrebbe assumere da questo momento in poi. "Dovresti saperlo" aggiungo, nel tentativo di alleviare l'atmosfera che già si sta già facendo insostenibile.
"Sapere cosa?" continua, mettendo da parte la fotografia proveniente dal Distretto 4. So per certo che ha capito a cosa mi sto riferendo e il fatto che io rimanga in silenzio e non smentisca i suoi dubbi, gli da solo una conferma ulteriore. "Non vorresti avere un figlio? E' questo che mi stai dicendo?". Sembra quasi che non riesca a credere alle sue parole e alle mie.
"Pensavo lo sapessi" bisbiglio.
"Non me l'hai mai detto, come facevo a saperlo?"
Non ho assolutamente idea di cosa dire. Peeta non sembra arrabbiato, ma nemmeno sereno come prima. Possibile che non sapesse che non voglio avere figli? Anzi, che non ne ho la minima voglia o interesse? In effetti, l'unico a saperlo era Gale. Lui ha sempre saputo che i non avrei mai voluto dei bambini. Perché volerli dopotutto? Perché potessi vederli morire uno dopo l'altro negli Hunger Games? No, era impensabile. E adesso che i Giochi non ci sono più, vale lo stesso principio. Chi mi dice che non verranno restaurati nel giro di qualche anno? E dopotutto non si muore soltanto in questo modo. Sebbene le cose qui siano migliorate di molto, c'è ancora chi non riesce a portare del cibo in tavola, oppure a guadagnare tanto da permetterselo. Non vorrei mai vedere mio figlio soffrire la fame nel modo in cui l'ho sofferta io. Vedere ogni giorno le sue guance diventare sempre più scarne oppure le braccia esili su cui si potrebbero distinguere le ossa. Sarebbe insopportabile. Anche se ora le cosa vanno meglio, ci sarebbe sempre una buona percentuale di pericolo, uno che non sono pronta a rischiare.
E' ovvio dall'espressione di Peeta che lui non la pensa allo stesso modo. "Tu ne vorresti uno?" chiedo, sicura che una risposta affermativa potrebbe fare del male a entrambi.
"Non ci ho mai pensato prima di adesso" dice, e so che è la verità perché sembra che ci stia dando un pensiero per la prima volta in questo momento. "Certamente non ora, ma in futuro potrei volerlo" confessa, dopo qualche istante di silenzio.
Come temevo. Il terribile momento in cui devo uscire dalla grotta è arrivato, portando con se ogni tipo di sicurezza. "Io no" replico, decisa.
"Mai?" chiede sconcertato Peeta. Scuoto la testa. "Non puoi dire sul serio" dice, scattando in piedi.
Lo seguo a ruota. "Si, invece. Non voglio un bambino e non cambierò idea". La faccio suonare come una promessa allettante. Magari per me lo è, ma per Peeta sembra che sia l'esatto opposto.
"Hai cambiato idea quando hai deciso di sposarmi" mi fa notare, con una nota di sarcasmo che mi infastidisce. "Eri dell'idea che non avresti mai sposato nessuno e guardati adesso - mi indica a mano ben aperta - sei mia moglie"
Più Peeta va avanti a cercare di convincermi e più ho la sensazione che non resisterò a lungo in questa casa, che non riuscirò a mantenere la calma. "Stai dicendo che non so quello che voglio?" accuso, facendo qualche passo nella sua direzione. 
Peeta mi mette le mani sulle spalle. "Non ho detto questo" ci tiene a precisare immediatamente. "Solo che non puoi sapere cosa vorrai in futuro"
"Ti sbagli" è tutto ciò che gli dico, voltandogli le spalle. Non mi va più di stare a sentirlo. La mia è una decisione presa già da molti anni, che non subirà mutamenti per nessuna ragione. Non c'è niente che lui possa fare per farmi cambiare idea. Sono irremovibile da questo punto di vista.
Il sospiro di Peeta mi giunge perfettamente alle orecchie, sebbene abbia messo una notevole distanza tra noi due. "E quando ti chiederò di provarci?" mi urla dietro.
"Avresti dovuto sposare qualcun'altra allora" 
Mi chiudo la porta alle spalle, per non rischiare di vedere la sua espressione ferita. E' sicuro che queste ultime parole gli abbiano fatto più male di tutta la discussione perché è lo stesso effetto che hanno avuto su di me. Me le rimangerei all'istante se ciò non lo inducesse a illudersi che in futuro potrebbe esserci una speranza. Non ci sarà ed è bene che lo capisca adesso.
Ma non lo capisce.
La prima volta che me l'ha chiesto, ho liquidato la faccenda con un deciso "no" che non ha ammesso alcuna replica da parte sua. Gli occhi hanno parlato al posto suo. In un attimo si sono riempiti di un dolore talmente insostenibile, che non sono riuscita a reggere. Quella stessa notte ho pensato che ce l'avesse con me quando a letto non mi ha preso tra le sue braccia come faceva di solito. Al mattino, invece, l'ho trovato al mio fianco con la sua mano attorno alla mia. Ha capito che avevo bisogno di lui anche se entrambi eravamo addormentati, anche se non ho avuto modo di parlargli dell'incubo sul giorno della Mietitura. Non la mia, quella non la sogno mai. Al mio posto infatti c'era un bambino dai capelli biondi che somigliava tremendamente a Peeta; vederlo avvicinarsi al palco, mi distruggeva passo dopo passo e io non potevo fare nulla per impedirlo. I figli di un vincitore sono sempre una notevole risorsa di divertimento, figurarsi quando i genitori hanno vinto la stessa edizione.
Ogni anno si ripete sempre la stessa storia. Sangue ovunque, bambini stesi al suolo inermi. La seconda volta che me l'ha proposto, mi ha chiesto di pensarci. Ed il modo in cui l'ha detto e l'espressione del viso, che mi hanno costretto a darci davvero un pensiero. Non mi ha chiesto una cosa brutta, anzi è molto dolce, tenera, molto da lui. Ma fa sentire me malissimo. Così cedo e gli prometto che davvero ci penserò. "Non sto dicendo che cambierò idea" lo avverto. E infatti non cambio idea nemmeno dopo il quinto anno. Ne passano sei, sette, otto... mi sorprende che Peeta mantenga la stessa espressione speranzosa anche dopo dieci anni di continui rifiuti. "Non ne sono sicura" gli concedo e lui non dice niente. Lascia che sia io a decidere, senza mai nessuna forzatura. Mi ringrazia anche e mi abbraccia, facendo contorcere il mio stomaco dal dolore, solo perché ho ammesso di non esserne sicura.
Ma non è la sua intramontabile ottimistica fiducia che mi fa dire di si al quindicesimo anno. Piuttosto l'espressione sognante quando vede una bambina abbracciare il padre e giocare con lui davanti casa, tenderle un foglio di carta su cui ha disegnato loro due che si tengono per mano, oppure il sorriso che gli si stampa in faccia ogni volta che un ragazzino entra in panetteria e lui non può fare a meno di dargli biscotti o dolcetti. E' il ricordo costante di tutto quello che ha fatto per me che mi fa cedere. Ha fatto così tanto nel corso degli anni e ora io non posso fare una cosa per lui? In fondo, non sarei sola. Lui sarebbe sempre al mio fianco, pronto a darmi una mano e a sostenermi nei momenti difficili che sicuramente verranno. Ne sono sicura di questo. Così quando me lo chiede per l'ennesima volta, sono pronta a dirgli: "Si, va bene", abbracciandolo forte. Mi bacia e il sorriso che avverto contro le mie labbra sembra lo stesso di quel giorno sul tetto del Centro di Addestramento. In un istante la casa si riempie di una risata sollevata ed entusiasta che mi fa pentire di aver aspettato così tanto. Chiude le braccia attorno alla mia vita e mi sento sollevare di qualche centimetro da terra. Sul serio, come ho fatto a dirgli no per quindici anni?
Ci vuole qualche mese prima che si insinui nella mia mente il sospetto che l'ultimo tentativo sia andato a buon fine. Ho aspettato di esserne sicura prima di parlarne con Peeta per non illuderlo in caso di falso allarme. Il sospetto è giunto insieme alla permanente sensazione di avere la gola percorsa da centinaia di incandescenti fiammelle, un odore nauseante al momento sbagliato e i residui della cena della sera precedente sparsi un po' ovunque sul pigiama.
"Sono incinta" gli dico, pungolando le patate che domattina mi ritroverò addosso qualora non riuscissi a raggiungere il bagno in fretta. Lo dico così, con la stessa voce piatta che userei per dirgli che una delle oche di Haymitch è morta. Però, dirlo a voce alta rende tutto diverso, tutto più spaventoso. Fin quando era un pensiero mio, chiuso nella mia testa e di cui soltanto io ero a conoscenza, non sembrava così terribile. Forse, perché in quel modo avrei potuto fare finta di niente, evitare di pensare che in breve tempo sarò madre. Prima o poi, avrei dovuto farci i conti, è ovvio, ma avrei preferito che quel poi durasse un po' di più.
Peeta si accorge subito che qualcosa non va, come si accorge sempre di ogni minima cosa. L'iniziale sorriso che gli è spuntato sulle labbra, adesso non c'è e l'espressione si è incupita troppo velocemente. "E' quello che volevamo" dice, carezzandomi la mano con delicatezza. Sembra quasi una domanda, la sua.
Scuoto la testa, con le lacrime che minacciano di uscire da un momento all'altro. Stringo la mano libera in un pugno, con le unghie ben premute contro il palmo della mano. Non voglio piangere, non mi servirebbe a niente. "Lo volevi tu" gli faccio notare, la voce debole quanto la volontà di non cedere al pianto.
Per un paio di secondi, non si sente nient'altro che i tentativi di Peeta di trovare le parole adatte. Fa per dire qualcosa, ma poi richiude la bocca immediatamente forse meravigliato o sbalordito. Deluso. "Perché allora hai accettato?" domanda. "Quando hai detto si, ho pensato che fosse quello che volevamo entrambi. Non ho mai voluto forzarti..."
"Si, che l'hai fatto!" lo interrompo. "Me l'hai chiesto per quindici anni! Volevo che fossi felice, volevo davvero darti un bambino perché sapevo che ne desideravi uno. Per questo ho accettato" mi sfogo, trovando per la prima volta il coraggio di dirgli quello che pensavo. Approfitto di quello che mi rimane per lanciargli un'occhiata veloce. E' chiaramente confuso. Probabilmente non riesce a credere a quello che gli sto dicendo. Ma perché? E' un ragionamento esatto quello che mi ha condotto ad acconsentire. In questo modo avrei potuto ripagarlo per tutto quello che ha fatto per me: il pane di quando eravamo piccoli, il colpo di Cato solo per permettermi di fuggire, la prigionia a Capitol City, il rimettermi in sesto quando volevo soltanto morire.
Peeta allunga una mano nella mia direzione, sfiora la guancia e intrappola una lacrima con le proprie dita. Non mi ero accorta di aver iniziato a piangere. Maledetti ormoni!
"Non ho mai voluto che mettessi da parte quello che volevi tu per rendermi felice" sussurra dolcemente. "Avresti dovuto parlarmene prima. Adesso, cosa facciamo? Vuoi che..?"
"No!" dice qualcuno e solo dopo mi rendo conto di essere stata io. "No" ripeto, alzandomi dalla sedia. Ho bisogno di stare in piedi, devo camminare. Peeta fa lo stesso. "Il problema è che voglio questo bambino". Anche adesso, dirlo a parole rende tutto più reale e terrificante.
"Perché è un problema, allora?" chiede Peeta. Mi pare di avvertire un velo di esasperazione nella sua voce.
E' un problema perché l'unica cosa a cui riesco a pensare è che possa fare la stessa fine di Prim. O Rue, o tutti quelli che sono morti per colpa mia. "Ho paura che possano portarmelo via" ammetto in un faticoso bisbiglio. Deve aver sempre creduto che la mia fosse solo una semplice fobia di non essere un tipo materno. Strano come, in realtà, sia l'esatto contrario.
"Chi? I Giochi sono finiti. Vero o falso?"
"Vero. Ma come fai a essere sicuro che non ci sia qualche altra cosa in futuro?" Adesso è il mio turno di suonare esasperata. "Tutti quelli che conoscevamo sono morti"
"Non lo permetterei" esclama Peeta, le mani posate sulle mie spalle e il volto a qualche centimetro dal mio.
"E se non bastasse?" chiedo, deviando ciò che avevo pensato di dire, all'ultimo minuto. Hanno preso anche te, è quello che per poco non ho detto. Capitol City era riuscita a togliermi anche lui per un breve periodo di tempo. Come facevo a dirgli una cosa del genere? Avrebbe potuto pensare che non mi fido abbastanza di lui. Che ho paura che possa fare del male al bambino in preda a uno dei suoi episodi. So per certo che se dovesse avere anche il misero sospetto di non stare bene, Peeta si allontanerebbe da nostro figlio all'istante perché non si perdonerebbe mai una cosa del genere. Ma come faccio a sapere che non sia proprio lui a portamelo via? A questo pensiero, sopraffatta dalla vergogna, inizio a singhiozzare. Provo solo sdegno verso me stessa, quando lascio che mi abbracci e mi culli sul posto. Affondo la faccia nel suo collo e mi aggrappo alle sue spalle, mentre lui mi carezza gentilmente la schiena. E' in momenti come questi che le parole di Haymitch tornano a galla, solo per rendermi orgogliosa di Peeta e al tempo stesso per farmi sentire malissimo.
Quando Peeta mi raggiunge a letto sembra pensieroso, al punto che non mi sente quando gli chiedo se c'è qualcosa che non va. "Mi è venuta in mente una cosa" dice, infilandosi sotto le coperte accanto a me. "Il gioco di vero o falso con me ha funzionato. Se ne creassimo uno anche per te? No, ascoltami - dice, quando mi volto nella direzione opposta con uno sbuffo - sei convinta che questa cosa non andrà bene perché hai assistito a troppe cose terribili. E' normale che tu sia spaventata, non posso darti torto perché so come ti senti. Ma se invece di buttarti giù, provassi a pensare a tutte le cose buone che hai visto fare, forse ti sentiresti meglio, potresti recuperare un po' di fiducia" conclude, fissandomi con quella stessa espressione speranzosa di quando mi chiedeva di provare a avere un bambino.
Un gioco. Un semplice gioco dovrebbe avere il potere di non farmi temere il peggio? Sembra un'idea così stupida che... che forse potrebbe funzionare. Peeta ha ragione. Il gioco del Dr. Aurelius ha funzionato con lui. E comunque, penso che dovrei accettare qualsiasi tipo di soluzione se non voglio che la paura mi pietrifichi per il resto degli anni.
Annuisco. "Cosa devo fare?"
"Dimmi la prima azione altruistica che ti viene in mente" mi spiega Peeta. 
"Facile" ribatto. "Il pane che mi hai dato quando eravamo piccoli"
Peeta sospira. So quanto non gli piaccia il fatto che tiri fuori questa storia ogni tanto. Ma non ne posso fare a meno. E' grazie a lui che ora sono qui. "Un'altra" dice soltanto.
Adesso devo pensarci per qualche instante. "Rue che mi avverte dell'alveare sull'albero e Tresh che mi risparmia" dico con la voce che cala man mano. Forse, non è una buona idea concentrarsi sulle persone morte. "Gale, quando si è preso cura della mia famiglia mentre non c'ero"
Andiamo avanti in questo modo per molto tempo, rievocando molti ricordi e persone. Sae la Zozza, Haymitch, Cinna, Finnick e Johanna, Beetee. Probabilmente è per via degli ormoni che iniziano già a impazzire, ma mi sento davvero meglio, rincuorata. Ciò non toglie che incontreremo delle difficoltà e che dovrò ricorrere a questo trucco moltissime volte, comunque è bene non concentrarsi troppo su quello che potrebbe accadere o non potrebbe accadere. E' vero che le cose potrebbero andare male, ma è possibile anche che migliorino, no? E se non dovesse essere così, ci penserò quando il problema si presenterà.
"Adesso che stai meglio, posso essere contento?" mi chiede improvvisamente Peeta.
Lo guardo, perplessa. E' di una dolcezza infinita il fatto che abbia aspettato che io mi riprendessi, ma... "Non devi chiedermelo" dico, quasi a mo' di rimprovero sia per me che per lui. Sono stata così presa dalla mia crisi di panico, che non ho pensato a nient'altro. Che non ho permesso a Peeta di gioire subito.
Lui non si accorge del mio tono - o forse, fa finta - e indica la mia pancia con il migliore dei sorrisi. "C'è il nostro bambino lì dentro"
Annuisco, coltivando la speranza che somigli al padre in ogni suo aspetto.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo Quattoridicesimo ***


Quanto è passato dall'ultima volta che ho postato? Tre mesi? Quattro? Forse, di più anche. Me ne vergogno troppo. Non potete immaginare quanto mi dispiaccia di aver fatto passare tutto questo tempo, dico sul serio.
Non mi sorprenderei affatto di scoprire che molti di voi hanno dimenticato la storia, o abbiamo smesso di seguirla.  E' comprensibile. Tuttavia, spero che accogliate il nuovo capitolo con lo stesso calore che mi avete sempre dimostrato.
Chiedervi di recensire, a questo punto, mi sembra un reato, ma se volete... Anche gli insulti vanno bene!
Per quanto riguarda il capitolo è da un po' che ci lavorando e non mi ha mai entisiasmato molto. Come è capitato altre volte, mi sono decisa ad aggiungerlo soltanto perché altrimenti non l'avrei mai più fatto e ci tengo troppo a completare questa storia.



Capitolo Quattordicesimo
Il corpo di Katniss era cambiato. Lei faceva finta di niente quando era con me o con gli altri, ma sapevo quanto questa cosa le facesse paura. C'erano volte in cui la trovavo davanti allo specchio, la maglia alzata, a osservare il profilo della pancia che cresceva a vista d'occhio. Non la toccava; la fissava soltanto come se avesse potuto vederla scomparire da un momento all'altro. Era così concentrata, che si accorgeva di me solo quando mi schiarivo la voce oppure la abbracciavo da dietro. Era evidente che era spaventata, lo percepivo. A volte, pensavo che addirittura odiasse questa sua condizione e non potevo fare a meno di sentirmi in colpa. Era per me che aveva accettato ad avere un bambino, ancora convinta di dovermi ripagare per le cose che io avevo fatto per lei in passato. Mi chiedevo come facesse a non capire che per me non era costato nulla.
Se capiva che ero preoccupato, liquidava la questione con la scusa dell'aumento di peso. Non la bevevo, ma a lei lasciavo credere il contrario. Aveva già troppi problemi con la gravidanza, senza che le accollassi anche i miei. Le dicevo che è bellissima, non importava se grassa o magra. Alzava gli occhi al cielo con un piccolo sbuffo, lasciava un bacio veloce sulla mia guancia e poi ritornava alle sue cose. Era così che superavamo questi momenti. Il medico che la visitava diceva che erano degli attacchi d'ansia e che tutto ciò che doveva fare era tranquillizzarsi.
Le prime volte è stato più difficile, poi abbiamo fatto l'abitudine anche a questo e la vita continuava fino all'attacco successivo. Uno di questi mi impietrì dalla paura.
Era mattina ed entrambi eravamo svegli da poco. Da quando ho saputo che Katniss è incinta, ho limitato al minimo l'andirivieni fino in città per lavorare alla panetteria. Una parte del lavoro l'ho portata a casa, in modo da restare con lei in caso di problemi. Katniss stava facendo colazione con le focaccine al formaggio, che ormai divora in continuazione. Improvvisamente una le cadde perché le mani avevano iniziato a tremare in maniera incontrollabile. Feci per chiederle cosa era successo, ma non rispose. Gli occhi erano spalancati dal terrore e dava l'impressione di essere diventata una specie di statua. "Respira" le ricordai, appena mi accorsi che per una ragione aveva smesso di farlo. Lo fece, riprendendo il colorito che aveva iniziato a perdere molto in fretta. Pian piano anche la mani si fermarono, strette nelle mie; gli occhi erano ancora intrisi di paura dopo averli chiusi un paio di volte. Provai a ripeterle la domanda.
"Si è mosso" mormorò lei a fatica, tra un respiro e l'altro.
Aspettai che Katniss fosse distratta per tirare un sospiro di sollievo. In quei pochi minuti, dovevo aver trattenuto il respiro anche io, perché improvvisamente mi ero sentito debole come rare volte nella mia vita. "E' un buon segno. Vuol dire che sta bene" tentai di dirle per calmarla. Riuscì a ben poco.
"Voglio che smetta" sussurrò, asciugandosi le lacrime che avevano cominciato a rigarle il viso e spaccando il mio cuore a metà. 
Le carezzai la testa per non so quanto tempo, ripetendole che nel giro di pochi mesi tutto sarebbe finito.
Col passare del tempo, Katniss ha fatto l'abitudine anche a questo. Socchiudeva gli occhi, stringeva i pugni e aspettava che il bambino restasse fermo. Il medico ci ha consigliato di toccare la pancia e parlare col bambino quando questo succedeva, giusto per fargli presente che fuori c'erano delle persone amorevoli che lo aspettavano con ansia.
All'inizio ho pensato che fosse pazzo. Come si fa a parlare con un bambino all'interno del corpo di una persona? Katniss doveva essere della mia stessa idea, perché non l'ha mai fatto. Non ha mai nemmeno pensato di toccarsi la pancia. Così, anche io mi sono sempre tenuto alla larga. Solo quando lei era sveglia, però. Di notte, appena ero certo che stesse dormendo, sollevavo la maglia del pigiama e la sfioravo con delicatezza per non rischiare che si svegliasse. Sorridevo al buio della camera da letto quando il bambino si muoveva contro la mia mano. Mi perdevo a fantasticare che mi aveva colpito con una gamba oppure un piedino e allora immaginavo come sarà quando lo avremo con noi. Non so perché ma ero convinto che fosse una bambina. Già riuscivo a vederla, bella come la sua mamma, che se ne sarebbe andata in giro a colpire ogni cliente della panetteria per imitare la mamma nel bosco. Le rare volte che ero riuscito a trasportare Katniss in una conversazione sulla piccola creatura che si portava dentro, lei mi diceva di avere l'impressione che era un maschietto invece. "Ti porterà via molte torte da decorare" mi disse, fissandomi con quei suoi occhi grigi. Mentre le chiedevo perché mai ne fosse convinta, pensavo al fatto che di qualunque sesso fosse, avrebbe dovuto avere i suoi occhi. "Quando si muove, sembra che disegni" mi disse. Quelle poche parole bastarono a riempire me di orgoglio. Era la stessa sensazione che provavo quando, sempre di notte, la piccola prendeva a scalciare e la mia voce sembrava calmarla.
Un pomeriggio Katniss ed io eravamo sul divano a vedere distrattamente la tv. In realtà, io guardavo un programma su Capitol City senza prestare attenzione e Kanitss sonnecchiava sulla mia spalla. Si era svegliata un paio di volte in pochi minuti e allora ipotizzai che il bambino le stesse dando filo da torcere. Suppongo che Katniss dovette fare appello a tutto il suo coraggio per dirmi le parole: "Peeta, non potresti parlargli un po'?", nonostante cercasse di suonare neutrale. "Si calma sempre quando lo fai"
Rimasi a bocca aperta. Sapeva. Da quanto aveva scoperto il nostro piccolo segreto? “Si sta muovendo?” chiesi, sicuro che il mio tono innocente non l’aveva ingannata neanche per un attimo. Passai tutto il tempo a parlare contro la pancia e ad accarezzarla, anche dopo che la mano di Katniss era scivolata via dai miei capelli e si era finalmente addormentata.
La seconda volta che ero quasi letteralmente morto dalla paura è stato quando, dopo mesi e mesi che nessun scherzetto alla memoria mi aveva costretto ad aggrapparmi a qualcosa, ho avuto l'ennesimo flashback su Katniss. Quasi sempre lo stesso, con l'aggiunta del pancione a terrorizzarmi maggiormente. Non l'ho mai detto a Katniss ma penso che se ne sia accorta, perché per quasi due settimane intere non la sfiorai nemmeno per sbaglio, mi ero tenuto lontano da lei per tutto il tempo possibile e chiesto a Dayzee, la figlia del fioraio - per la quale Katniss ha sviluppato un affetto smisurato - di tenerla d'occhio per me e venire a cercarmi in caso di problemi. Per fortuna, non ha mai dovuto realmente correre in città. Poche giorni dopo, fu lei a tirare l'argomento in ballo.
Afferrò la mia mano e, quando feci per ritirarla, la strinse forte. "So quello che stai facendo" disse soltanto, squadrando il mio viso alla ricerca di conferme.
Non tentai neanche di fingere di non sapere di cosa stesse parlando, mentalmente distrutto all'idea di averla delusa. Erano passati anni e ancora non ero in grado di tenere quelle immagini fuori dalla mente, nonostante tutti gli sforzi miei e del Dr. Aurelius nel cercare di guarire, il supporto di Katniss e i nostri amici del distretto, la cura con cui ogni mattino facevo il gioco degli aspetti positivi che avevo proposto a Katniss quando aveva scoperto di essere incinta. Eppure non era cambiato nulla, se non la distanza tra un episodio e l'altro. Ma questo non era certo un conforto.
"Adesso stai bene e anch'io. Il bambino sta bene" mi tranquillizzò, facendo scorrere l'altra mano sulla mia guancia.
Distolsi lo sguardo. Il bambino stava bene, ma per quanto sarebbe stato al sicuro? Una volta nato, cosa mi impediva di avere un altro flashback, afferrarlo per quel fragile collo che si ritrovava e stringere come avevo fatto in passato con sua madre? Cosa mi avrebbe impedito di non uccidere mio figlio?
Mi accorsi che stavo piangendo soltanto quando Katniss asciugò una lacrima che era scivolata giù fino al mento. "Va tutto bene, Peeta. Ce ne occuperemo insieme, come abbiamo fatto finora" continuò, sussurrando al mio orecchio con una dolcezza a cui raramente si lasciava andare. "Baderai a lui quando starò male e ci penserò io se dovesse toccare ancora a te. Faremo tutto insieme" 
Non erano affatto parole nuove. Anzi, eravamo costretti a ripetercele a vicenda ogni volta che, nel corso degli anni, i flashback mandavamo me nel panico e gli incubi facevano urlare Katniss dal terrore nel cuore della notte. A molte cose avevamo fatto l'abitudine, e quella, purtroppo, era una delle tante.
A ogni modo, Katniss riuscì sul serio a tranquillizzarmi. In fondo, aveva ragione. "Okay" sussurrai, annuendo, la voce rotta. "Okay" Se eravamo giunti a quel punto, forse, avremmo potuto farcela anche a crescere un bambino. 
Ne ho avuto la conferma oggi, osservando gli occhioni azzurri della bambina che Katniss tiene fra le braccia, la manina così fragile eppure decisa poggiata contro la guancia della sua mamma. Le somiglia molto, sebbene il colore degli occhi non corrisponda; quello sembra averlo ereditato da me.
"Prendila" mi dice Katniss, a voce talmente bassa che stento a sentirla. E' molto affaticata, come normale che sia dopo aver partorito. Eppure, qualcosa nella sua voce, mi fa capire che non è mai stata più contenta di oggi, che dopotutto non è spaventata come che ho temuto avesse potuto essere durante tutto il periodo della gravidanza.
Il pensiero che finalmente abbia ottenuto un briciolo della felicità che ha da sempre meritato mi fa sorridere.
Esito qualche istante alle sue parole. Allungo le braccia, ma poi le faccio ricadere lungo i fianchi. Katniss si sporge in avanti col corpo, tendendomi la bambina con pacatezza. "Su, Peeta, prendila"  mi incita, dolce e con quel fare comprensivo che preannuncia le innaturali doti materne di cui è capace, di cui è sempre stata capace prendendosi cura di Prim dopo la morte del padre.
Allungo ancora le braccia e il modo in cui Katniss sussurra: "Vai da papà" all'orecchio della piccola, mi riempie il cuore di orgoglio e felicità.
E quando quella creaturina, non molto più grande di un pezzo di pane, è tra le mie braccia devo trattenere le lacrime. E' incredibile quanta purezza e innocenza e delicatezza sia racchiusa in una persona così piccola; tanta da volerla stringere forte e non lasciarla andare via per nessuna ragione al mondo. Aver aspettato tutto questo tempo per averla con noi adesso mi sembra quasi un crimine. E sono sicuro dallo sguardo incantato di Katniss che anche lei la pensa allo stesso modo. Nulla potrebbe rendermi più felice e appagato.
Poco dopo, restituisco a malincuore la bambina a Katniss e mi preparo alla parte difficile di tutta la giornata. Non so come dirglielo senza rovinarle il momento, quindi le dico soltanto: "C'è qualcuno che vuole vederti" prima di rivolgerle una lunga occhiata.
Lascio un bacio leggero sulle sue labbra, sfioro la guancia della bambina e, a fatica, mi allontano dal letto d'ospedale e mi avvio verso la porta. Mentre mi trovo faccia a faccia con la madre di Katniss e Gale, spero che Katniss non la prendi troppo a male per aver avvisato le persone a cui tiene.
E' stata una cosa dell'ultimo minuto. Precisamente, una settimana fa, dopo un falso allarme della piccola che mi ha letteralmente mandato nel panico, mi sono detto che a Katniss avrebbe fatto piacere avere accanto a sé sua madre, sebbene negli anni i riferimenti a lei siano stati meno che scarsi. Quale donna, mi sono detto, non vorrebbe avere il supporto della madre in un momento del genere?
Per Gale, vale più o meno lo stesso principio. Con la differenza che tutti questi anni mi sono sentito in colpa per essere il motivo della fine della loro amicizia. In passato ne sono stato geloso al punto di farmi stare male, ma il pensiero che Katniss avesse dovuto sacrificare un pezzo della sua vita così importante, mi ha fatto stare anche peggio. Me ne sono accorto tremendamente tardi, è vero, ma è sempre meglio che non accorgersene affatto.
Rivolgo un sorriso rassicurante alla madre di Katniss e stringo la mano di Gale, alla cui gamba è aggrappato un vispo bambino dai capelli scuri che deve essere suo figlio, prima di scivolare fuori dalla stanza.
Mi precipito a casa, ormai con le idee chiare su come dipingere la camera della nostra bambina.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Epilogo ***


Epilogo
Tutti mi guardavano in classe. All'inizio non me sono accorto; credevo che stessero ammirando il brutto disegno alle mie spalle, che proprio io ho fatto come compito sulla famiglia. Rappresentava me, i miei genitori e mia sorella, ma era troppo orrendo per attirare quegli sguardi. Dietro di me, oltre la mia opera d'arte, non c'era più niente. Quindi... 
Quando ho capito che in realtà ero io il centro dell'attenzione, ho iniziato a guardarmi attorno a mia volta. Non c'era nessuno che non fosse voltato nella mia direzione e ognuno sembrava sconvolto, come se avessi i capelli viola o quelle strane forme colorate in faccia che ho visto in tv qualche volta. "Che ho fatto?" mi sono chiesto. A parte guardare fuori dalla finestra, in attesa che l'ora di Storia finisse per andare a giocare in cortile, e ignorare ogni parola che è uscita dalla bocca dell'insegnante, non avevo fatto nulla di male. Non poteva essere per questo motivo; non era la prima volta che mi distraevo dalla lezione e di certo non per colpa mia. A sette anni perché dovrebbe interessarmi di cose che sono successe tanti anni prima della mia nascita? E poi, mia sorella maggiore mi ha detto che di anno in anno ha risentito sempre le stesse cose tante di quelle volte, che adesso potrebbe prendere il posto delle nostre insegnanti. Sarebbe divertente avere Perry come mia maestra. Potrei fare quello che voglio e lei mi non mi rimproverebbe. Perry? Non credo proprio. 
"Che ho fatto?" ho domandato, poi, anche ai miei compagni, visto che io non lo sapevo. 
Axel, il mio compagno di banco e migliore amico, mi guardava arrabbiato. "La tua mamma e il tuo papà" ha detto soltanto, facendo segno di no con la testa. 
Non capivo come ci erano finiti i miei genitori nella classe di storia. Non erano veramente lì, ma perché ne stavano parlando? Ho provato a chiedere anche questo, ma la maestra ha detto che avrei dovuto parlarne con loro prima. Ho capito subito che era inutile insistere, come ogni volta che dico alla mamma che non voglio andare a scuola e lei invece dice che devo andarci per forza. 
Per il resto della lezione mi sono impegnato a ascoltare. Se si sono girati tutti a guardarmi all'improvviso, voleva dire che prima stavano parlando di me. Anzi, dei miei genitori. Ma cosa c'entravano loro due con Capitol City? Non ci sono nemmeno mai stati. Così, quando siamo usciti dalla classe perché l'ora di Storia era finalmente finita, ho costretto Axel a raccontarmi tutto. 
"Veramente non lo sai?" mi chiede, sorpreso. A questo punto controllo di non avere nulla in faccia. Scuoto la testa. "I tuoi genitori hanno partecipato agli Hunger Games. Per ben due volte!" esclama, alzando due dita macchiate di blu davanti al mio naso. 
Gli Hunger Games. Cosa sono gli Hunger Games? Mi sembra di aver già sentito questo nome. Forse, proprio durante una lezione di Storia. La settimana scorsa, mi sembra. Ma non riesco a ricordare niente. Ero troppo preso a osservare gli altri che facevano la merenda in cortile. So solo che c'entra con Capitol City e questo spiega perché hanno inziato a parlarne prima. Non faccio in tempo a chiederlo a NOME, che mia sorella Perry mi chiama per ritornare a casa. Le chiedo di poter restare ancora cinque minuti a parlare col mio amico, ma non mi ascolta neanche. Ecco, cosa intendo per fastidiosa. Secondo me, non siamo neanche veramente fratello e sorella. Mamma e papà devono averla trovata da qualche parte e accolta nella nostra famiglia, penso mentre cammino accanto a lei. Ha anche provato a prendermi la mano, ma io non gliel'ho data. Non poteva aspettare cinque minuti, lei! 
Mentre attraversiamo la città, però, mi viene in mente una cosa. "Pensi che mamma e papà ci dicano delle bugie?" le domando. Guarda velocemente in basso, verso di me. Perché oggi tutti mi guardano così? 
"Che vuoi dire?" chiede. 
"Tu rispondi" dico io, facendo sfilare lentamente la mia mano nella sua. 
Lei la prende, ma adesso sono sicuro che sta pensando che ho qualcosa in mente. "No" risponde comunque, fissando per bene i miei occhi. Può capire cosa sto pensando solo guardandomi? Nah, come farebbe? "Perché dici così?" 
Alzo le spalle e poi le abbasso. "Posso farti una domanda?" chiedo ancora, dopo qualche passo in silenzio. 
"Questa cos'era?" dice lei, ridendo. Mi da un buffetto sulla testa e mi spettina i capelli. Cerco di scansarmi e per poco non inciampo. "Avanti, cosa mi vuoi chiedere?" 
Passiamo davanti alla panetteria dove lavora papà. E' chiusa, quindi significa che è a casa con la mamma ad aspettarci. Speriamo che ha portato i biscotti. "Cosa sono gli Hunger Games?" Perry deve saperlo. Lei sa sempre tutto e va bene a scuola. Lo so perché
quando pranziamo parla sempre con papà e mamma di quello che ha fatto in classe e se riesce a ripetere quello che la sua insegnante ha detto, allora è una che ascolta. I suoi quaderni sono sempre pieni di parole e inchiostro. Da qualche parte là in mezzo dovrebbe esserci scritto qualcosa su questi Hunger Games, ma non so leggere molto bene ancora e quindi non ci capirei niente. E poi, perché perdere tempo se ho lei?
La mano di Perry si ferma immediatamente sulla mia testa, la ritira in fretta e mi guarda in modo strano. Ancora. "Dove l'hai sentito?" 
"A scuola. Tu sai cosa sono?" insisto. All'improvviso devo quasi correre per rimanere vicino a lei. 
Annuisce. "Ne parliamo con mamma e papà a casa" dice, ripetendo le stesse cose della maestra. 
Se nessuno non vuole dirmi cosa sono allora deve essere una cosa brutta. Ma non me ne importa. Perché sono sempre l'ultimo a sapere una cosa. E' perché sono troppo piccolo? E allora? Perry ha cinque anni più di me ed è sicuro che sa già tutto. Si vede. Decido che non parlerò fino a casa. Infatti, quando mia sorella mi chiede chi me ne ha parlato, io non le dico niente. Sia perché non voglio sia perché farei la spia contro NOME. Quando arriviamo a casa, mi rifiuto di entrare perché sono troppo arrabbiato. Sento la voce della mamma chiedere a Perry dove sono, ma non sento la risposta di mia sorella. Corro dentro. Stanno parlando a bassa voce, così io non riesco a sentire niente. La mamma ha la bocca aperta, ma non sta dicendo niente. Non l'ho mai vista così. Anzi, solo una volta l'anno scorso. Era mattina, poco prima che venisse a svegliarmi per andare a scuola. Però, io ero già sveglio perché avevo sentito qualcuno gridare. Le urla erano proprio in casa. Ho pensato che fosse Perry che era caduta dal letto, così sono andato subito in camera sua, ma l'ho incontrata in piedi davanti alla sua porta. Cercò di farmi entrare in camera, ma non ci andai perché volevo dormire con la mamma. Quando sono entrato nella sua camera, l'ho trovata seduta con la bocca aperta e papà che le diceva di respirare mentre le accarezzava la faccia. Perry mi disse che aveva soltanto fatto un brutto sogno e che non dovevo preoccuparmi. Ma ogni volta che l'ho sentita gridare, mi sono sempre spaventato. 
Anche adesso arriva papà. Rimane a guardarci tutti e tre per qualche secondo, anche se guarda di più la mamma. "Katniss, cosa è successo?" le chiede. 
La mamma riesce solo a dire: "L'ha scoperto", senza nemmeno indicarmi, ma so che sta parlando di me. Infatti, papà si gira nella mia direzione e mi rivolge lo stesso sguardo dei miei compagni di classe. Viene da me, si abbassa sulle ginocchia con un po' di fatica per via della sua gamba finta. Non so di preciso perché ne abbia una, so solo che è per colpa di un incidente di quando era giovane. 
"Dimmi, cosa hai fatto oggi a scuola?" mi chiede. Sta ridendo ma ho l'impressione che non sia tanto contento. 
Metto lo zaino per terra. Adesso, pesa. "La maestra mi ha fatto leggere davanti a tutti, non sono andato molto bene" dico, abbassando gli occhi sul pavimento. Adesso, mi dirà che devo impegnarmi di più. Stranamente non lo fa; chiede cosa ho fatto dopo. "Nell'ora di Storia hanno parlato di voi - indico lui e la mamma - Dicevano che avete partecipato agli Hunger Games". Nell'ultima parte la voce si abbassa e, per un motivo che non riesco a capire, mi trovo a desiderare di non aver detto niente né a papà né a Perry. E' colpa mia se la mamma sta così? E anche papà non sembra troppo tranquillo. O forse, la gamba finta gli da fastidio, visto che la sta toccando. Anche Perry è strana. Di solito parla tantissimo; oggi sembra che abbia perso la lingua. 
Papà mette le mani sulle mie spalle. "Chi te l'ha detto?". Non rispondo; mica posso fare la spia contro NOME. Poi non mi direbbe più niente. Anche la mamma me lo chiede, ma io non dico ancora niente. 
"Deve essere stato Axel, li ho visti che parlavano prima" si intromette Perry. 
"Non è vero! - urlò immediatamente io - Non me l'ha detto lui e tu sta' zitta" 
Perry mi fa una linguaccia e io incrocio le braccia. Penso proprio che romperò la sua bambola preferita. 
Papà ci dice di non litigare. "Va bene se non vuoi dirci chi è stato - continua rivolto soltanto a me - Cosa ti hanno detto?" 
Sollevo le spalle. "Niente, solo che avete partecipato a... mi volete dire cosa sono questi Hunger Games?" Se mi arrabbio forse risponderanno alla domanda. E invece, no. 
Mamma e papà vanno nella loro stanza dicendo a me di aspettare. Mentre camminano si guardano soltanto, ma non si dicono niente. Non so se è una buona cosa o no. Di solito, quando combino qualcosa di grave, mi rimproverano e poi mi mettono in punizione, ma non sono mai rimasti zitti come adesso. Forse, è perché non ho fatto niente di grave. Che poi, la colpa è di Perry. "Non potevi dirmelo tu?" le chiedo, mentre lei toglie le scarpe dai piedi. Non mi risponde. 
Non devo aspettare molto perché mamma e papà ritornino. Ancora non sembrano arrabbiati, solo un po' strani. Hanno un libro con loro. Sembra quello dove ci sono tutti qui disegni di piante, frutti e cose così. Ma questo è diverso, non l'ho mai visto. Vedo Perry fare un passo indietro, un po' sorpresa. Spero davvero che non vogliano insegnarmi ancora a leggere. 
"Brandom, vieni, la mamma ed io vorremmo mostrarti qualcosa" dice papà, prendendo posto sul divano. La mamma si siede accanto a lui, con il libro stretto tra le braccia. 
All'improvviso non sono più sicuro di sapere cosa vogliono farmi vedere. Infatti, rimango a fissarli per un po' prima che Perry mi dia una spinta in avanti. "La smetti!" urlò per prendere tempo. Mi aggiusto la maglia, tirandola un poco più giù e vado a sedermi nello spazio vuoto sul divano. 
Papà prende un sospiro lungo, mettendomi una mano sulla spalla. "Vedi, gli Hunger Games erano un gioco" 
Parlando un po' per uno, mamma e papà mi spiegano cosa sono gli Hunger Games. Mi dicono che più che un gioco, era una specie di reality show, come quelli che vediamo in tv alla sera. Hanno partecipato entrambi come partecipanti - "Anche zio Haymitch prima di loro" ha aggiunto Perry - per ben due volte. La prima edizione, che in realtà era la settantaquattresima, l'hanno vinta. La seconda anche, ma un po' imbrogliando. "Abbiamo conosciuto molte persone" dicono alla fine. 
A quel punto mi danno il libro. Lo metto sulle ginocchia perché è pesantissimo. Parto dalla prima pagina. Il disegno che ha fatto papà sembra quasi una fotografia per come è fatto bene. Non riconosco chi è la bambina disegnata, non l'ho mai vista. Ma il nome accanto porta 'Primrose Everdeen'. Everdeen è il cognome della mamma, quindi capisco subito di chi si tratta. 
Qualche anno fa la mamma mi ha raccontato di avere avuto una sorella. Poi quella è morta. Mi ha detto di essere stata molto legata a lei e che, anche se erano passati parecchi anni, le voleva bene come quando potevano ancora giocare insieme. Quando le ho chiesto come è morta, non ha voluto rispondermi. Ricordo che pensai a me Perry non sarebbe mai mancata come evidentemente zia Prim - così la chiamavano - mancava alla mamma. Ma sapevo che non era vero. 
Zia Prim somigliava molto a Perry, tranne per i capelli; Perry li ha scuri, mentre quelli nel ritratto sono biondi come i miei. Gli occhi però sembrano quasi uguali. 
"Era stata scelta lei per partecipare agli Hunger Games la prima volta, ma la mamma ha preso il suo posto" dice papà, mentre cerco di leggere quello che c'è scritto sotto al nome. 
"Perché?
Papà sospira e aspetta un po' prima di rispondermi. "Era troppo piccola e..." La mamma inizia a piangere. Non l'ho mai vista farlo, nemmeno quando papà una volta si è ferito in panetteria da solo. 
Mi sbrigo a girare pagina. Forse, non vuole parlare della zia Prim. "Lui chi è?" 
Continuiamo a girare le pagine e parlare delle persone che ci sono disegnate per un sacco di tempo.  Ho scoperto che ci sono anche mia nonna, Gale e il papà di Finnick. L'ultimo era un loro amico che, a quanto mi dicono, ha partecipato ai Giochi ma purtroppo non ce l'ha fatta. 
"Potevi anche morire negli Hunger Games?" dico, un po' sconvolto. Come può esistere un gioco in cui ci si fa male sul serio o si muore? Non è più un gioco! 
La mamma annuisce, facendo finta che le lacrime sulle guance non le diano fastidio. "Si" rispose così piano che quasi non la sento. 
"Oh" I peli sul braccio si rizzano. "Ma non ci sono più, adesso, vero?" 
Papà mi mette un braccio attorno alle spalle e mi tira a sé. Sento che scuote la testa sopra la mia. "Non ci sono più ormai" Tiro un sospiro di sollievo e lo fa anche lui. 
Perry viene a sedersi vicino a me. Lei sembra l'unica contenta. "Grazie a loro e alle persone che sono in questo libro e molti altri" Anche lei viene trascinata nell'abbraccio, schiacciandomi sotto il suo peso. 
Rimaniamo così per un po', poi spingo via Perry. "Mi hai fatto male" le dico, tirandole uno schiaffo sul braccio che lei riesce a parare. Adesso sembra molto più triste di prima. Prende il libro sopra le mie gambe e lo gira all'ultima pagina. C'è scritta altra roba. Poi lo passa alla mamma. "Vuoi cantarla?" chiede. 
La mamma la fissa per tanto tempo. Sembra sorpresa. Alla fine, dopo aver guardato papà che le sorrideva, prende il libro e prende un respiro. 

Là in fondo al prato, a l'ombra del pino
c'è un letto d'erba, un soffice cuscino
il capo tuo posa e chiudi gli occhi stanchi
usando li riaprirai, il sole avrai davanti.
Qui sei al sicuro, qui sei al calduccio, 
qui le margherite ti proteggon da ogni cruccio,
qui sogna dolci sogni che il domani farà avverare
qui è li luogo in cui ti voglio amare. 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1060167