Chiedimi se sono felice

di chi_lamed
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Trappola ***
Capitolo 2: *** Aber ***
Capitolo 3: *** L'inventore di favole ***
Capitolo 4: *** Amicizia ***
Capitolo 5: *** Silenzi ***



Capitolo 1
*** Trappola ***


Nota introduttiva: questa storia vuole essere il seguito diretto di Conversazioni Notturne (http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1049112&i=1), quindi consiglio a chi si imbatte in questa di andare a leggere anche il principio di tutto, per poter così comprendere con più facilità gli avvenimenti.
Buona lettura.

Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì, prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. I luoghi non inventati da J.K. Rowling e la trama di questa storia sono invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa. 




 



Chiedimi se sono felice

 

 
“La bellezza della vita che mi è stata concessa
è un regalo che non ho potuto rifiutare;
Merlino solo sa se però avrò mai il coraggio di scartarlo.”
(da Conversazioni Notturne)
 

Trappola

 
Vento intriso di neve, compatti cristalli di ghiaccio che volano ovunque, s’adagiano sul candido manto e si risollevano in aria turbinando veloci.
L’inverno avvolse il castello di Hogwarts nella sua morsa più gelida.
Il sibilo delle raffiche che sferzavano le imponenti mura di pietra si insinuò nel mondo dei sogni, costringendolo ad allontanarsi sempre più ovattato e distante, mentre cinque rintocchi di pendolo - uno dopo l'altro - completarono l'opera, obbligando Severus ad uscire dal torpore.
Alzarsi? Nemmeno per idea. Meglio affondare nuovamente il viso nel cuscino.
Poco dopo, il respiro tornò a farsi regolare, sentì il corpo disteso diventare sempre più leggero ed avvolto nuovamente dal sonno ristoratore. Fu in quel dolce momento che sopraggiunse una consapevolezza che rovinò ogni cosa. E fu dolore. Non solo mentale, ma fisico, che lo svegliò del tutto e irrigidì ogni arto.
Era il suo compleanno.
In altri tempi, in altre circostanze, un minuto di attenzione sarebbe stato anche troppo. Un numero in più, null’altro, niente da festeggiare. Questo era stato il pensiero nell’altra vita, quella vecchia, finita miseramente sul pavimento di una Stamberga. Ora invece c’era quella nuova, nata dalle lacrime di Fanny e quel numero in più che si posava sulle sue spalle altro non era che un regalo, accettato sì, ma lasciato ancora intatto.
Continuava a tenersi stretto il suo dolore.
E questo era male.
Supino, spalancò gli occhi e le iridi di nera ossidiana incontrarono la penombra che avviluppava l’ambiente, il tenue bagliore delle fiamme nel caminetto ormai prossimo a languire.
In alcuni momenti desiderava spegnersi come loro.
Rassegnarsi a morire gli era risultato più facile che rassegnarsi a vivere. I giorni che erano seguiti a quella strana estate fatta di incontri, silenzi e chiacchiere presso una lapide bianca, si erano protratti in un altalenare di alti e bassi, momenti di tranquilla serenità e attimi di puro senso di colpa che non ne voleva sapere di andarsene.
Preda delle emozioni più contrastanti, si sentiva una vittima inerme tirata da due funi, incapace di decidere da sé quale fosse il sentiero da intraprendere.
Ormai era del tutto sveglio.
Perché non passare il tempo facendosi ancora del male? Provò a contare i momenti felici dei compleanni passati.
Bastarono le dita di una sola mano, per quel tuffo tra i ricordi.
La dolce consistenza di una rossa ciliegia candita gli sfiorò le labbra, mentre con gli occhi della mente rivedeva un sorriso unico nella sua rarità ed amato con tutto il cuore.
Mamma.
Aveva cinque anni. Frugò ancora tra vecchie memorie, scampoli di una vita così lontana che la si poteva raggiungere semplicemente toccandosi una piccola cicatrice alla gola.
Lily, radiosa quanto uno sfolgorante sole estivo, gli porgeva una piccola torta di zucca, due candeline al centro formavano un dodici verde-argento.
Una lacrima solitaria scivolò sulla guancia. Morì sul cuscino, inascoltata.
Albus gongolava come un bambino davanti ad un giocattolo nuovo fiammante, compiaciuto per avergli messo in mano a tradimento un bicchiere di idromele per un brindisi. Un momento felice... solo per metà. Gli aveva poi fatto gli auguri con la stessa leggerezza con cui aveva appena rinnovato la richiesta di ucciderlo.
Una seconda lacrima seguì la scia della prima, una terza, poi altre ancora…
Il pendolo si esibì in altri rintocchi. A sette, il guanciale era ormai zuppo.
Malinconia e rabbia ultimamente erano sempre più frequenti. Male, molto male. Gettò lontano coperte, lacrime e ricordi, pregò di avere così tanto lavoro da non riuscire a pensare a nient’altro per tutto il resto del giorno.
«Buongiorno, Severus!» Silente, dalla voce calda e pacata, lo salutò dalla cornice. «E buon compleanno!»
«Hmm!»
No, essere scortese con Albus non rientrava nelle sue intenzioni primarie, ma persino come ritratto quell’uomo deteneva una tempestività da record. In negativo.
L’ufficio era ancora immerso nel buio, al di là dei vetri il sole sorto da poco faticava a bucare la spessa coltre di nubi bianchissime. Accese le luci con un solo gesto e fu accolto dal pigolio piccato di Fanny: odiava essere svegliata all’improvviso. Bella la vita da Fenice, gli sembrò quasi degna di invidia, lisciarsi meticolosamente le piume, in santa pace, accompagnati dal ticchettio degli strumenti d’argento alle pareti.
Lavoro, lavoro e soltanto lavoro. Si isolò completamente, cambiando la parola d’ordine e rifiutando di scendere per la colazione; niente auguri, da parte di nessuno, solo pergamene da leggere, firmare e compilare.
Dopo una breve tregua, la neve riprese a scendere in placidi fiocchi leggeri.
 
Bianco a perdita d’occhio. Il parco, la Foresta Proibita, tutto era candido e immoto. Il rami scheletrici degli alberi si erano ornati di complicati merletti.
Lui invece era ancora nero come la notte, una volgare macchia d’inchiostro su foglio immacolato.
Ripulì la lapide marmorea dalla neve. Rileggervi il nome inciso gli procurò un nuovo nodo alla gola, intenso e insopportabile.
Il tempo non aveva lenito ancora nulla.
I minuti divennero ore; non batté ciglio per le mani intirizzite dal gelo, si limitò a nasconderle nelle tasche del mantello.
Il freddo che gli stringeva il cuore era molto più lancinante.
Rumore di passi che s’avvicinano, di stivali che affondano nel soffice manto.
Addio solitudine di pace e di dolore.
Non si voltò, non aveva bisogno di sapere chi fosse. Quello era il luogo dei loro appuntamenti, delle loro conversazioni, non più solo notturne. E mai una che fosse stata concordata, mai. Andava bene così, lo sapevano entrambi.
Si strinse un po’ di più nel mantello.
Aveva freddo, dentro e fuori. Non ne poteva più della sua roccaforte di ghiaccio, nonostante fosse l’unico baluardo che gli era rimasto.
E si rese conto, per la prima volta, che il mondo di dolore in cui si era rifugiato non era più soltanto una difesa. Impedirsi di provare emozioni per non soffrire ancora.
Era diventato una trappola da cui non era più capace di uscire.

*****

Nota dell'autrice: le recensioni sono gradite, specie se avete critiche costruttive riguardo stile e trama.






    
                                                                     
 

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Capitolo 2
*** Aber ***


Aber
 

 
Aberforth stramaledisse il gelido vento invernale che non la smetteva di fischiare e l’insegna del pub che cigolava lamentosamente senza sosta. Lo stavano tenendo sveglio da almeno due ore, causandogli un mal di testa feroce che cresceva di minuto in minuto, di pari passo con il suo malumore.
Aveva talmente tanto sonno da sbadigliare in continuazione, rischiando più d’una volta di slogarsi le mascelle. Merlino, se fosse accaduto per davvero sarebbe stato uno spettacolo penoso.
Guardò l’ora. Mancavano pochi minuti alle cinque. Fatti gli opportuni conti, calcolò che aveva dormito solo un’ora dopo aver chiuso il pub. Decisamente troppo poco.
Un altro sbadiglio ai limiti dello stordimento, che gli fece venire le lacrime agli occhi.
Sperò con tutto il cuore che gli ultimi tre avventori che lo avevano ridotto in quel modo venissero colpiti da un Bolide gigante, ovunque fossero in quel momento.
Hmf, Quidditch!
Si erano scolati quasi tutta la sua scorta di Whisky Incendiario, discutendo come degli infervorati sul campionato in corso e lamentandosi poco garbatamente della sua decisione di chiudere il locale per la notte. Dalla parlata strascicata e dal colorito dei loro nasi tendente al rubino, non aveva faticato ad intuire che erano più patetici che minacciosi, soprattutto poiché due gli stavano puntando le bacchette al contrario. Di sicuro non erano del luogo, perché nessun abitante di Hogsmeade e dintorni sano di mente avrebbe mai osato provocarlo, intimandogli di lasciarlo in pace.
Aberforth Silente, membro dell’Ordine della Fenice e valoroso combattente nella Battaglia di Hogwarts, non aveva battuto ciglio di fronte a quella ridicola minaccia. Con tutta calma aveva semplicemente scaraventato fuori i tre avventori, troppo alticci perfino per reggersi in piedi, figurarsi per lanciare un incantesimo.
Con un sonoro sbuffo, sprimacciò con forza il cuscino, mettendoci più rabbia del dovuto. Il povero ed incolpevole oggetto ricevette così qualche pugno ben assestato, afflosciandosi ancora di più. Da un piccolo strappo nella stoffa usurata uscirono un paio di piume che volteggiarono pigramente nella stanza prima di atterrare con delicatezza. Una si posò sul logoro tappetino accanto al letto, proprio vicino alle pantofole, l’altra volò più lontana e andò a ficcarsi sotto la poltrona color grigio topo a lato del caminetto.
Le seguì stizzito, scuotendo desolatamente la testa. Poco dopo, si rimise sotto le coperte, troppo stanco anche per essere arrabbiato. Stremato, scivolò in sogni con Bolidi vendicativi ed alticci avventori pronti a darsela a gambe.
 
Aprì un occhio solo, fissando il soffitto. Tese l’orecchio, aspettandosi che quello strano silenzio venisse prima o poi interrotto.
Non avvenne.
Prima buona notizia della giornata: era cessato il vento.
Aprì anche l’altro occhio e guardò fuori dalla finestra. Nevicava piano in placidi fiocchi leggeri. Seconda buona notizia.
Gli piaceva la neve, ma solo quando scendeva senza fretta e senza folate traditrici che facevano entrare il gelo fin nelle ossa. Si godette la quiete, sorridendo sornione nell’esatto modo di Albus.
Sto diventando sempre più vecchio e melenso, pensò Aberforth, tentennando parecchio prima di togliersi di dosso le coperte e rabbrividire per il freddo. Doveva decidersi una volta per tutte a tappare quegli orribili spifferi.
Era certo che, ovunque suo fratello si trovasse, in quell’istante fosse sicuramente intento a fargli qualche battuta sagace con la sua solita aria innocua da bambino che colleziona marachelle. Merlino se gli mancava, così come aveva nostalgia delle sue uscite apparentemente innocenti, ma dal retrogusto acidulo come le caramelle al limone che gli piacevano tanto. Aveva avuto l’occasione di sentirle solo quando c’erano altre persone presenti, Albus in pubblico non poteva permettersi quell’atteggiamento dimesso che invece adottava quand’erano soli.
Che attore.
Fece un sospiro, il primo della giornata.
Con un veloce colpo di bacchetta alimentò nuovamente le fiamme nel camino. Per tutta la stanza si diffuse presto un piacevole tepore, accompagnato da un vivace crepitio che gli piacque moltissimo. Anche il mal di testa era sparito.
 Erano solo le otto del mattino, poteva fare ogni cosa con calma.
Se un certo Preside di sua conoscenza si fosse comportato come aveva previsto, avrebbe avuto tutta la mattinata per mettere comodamente in atto il suo piano.
 
Mezz’ora più tardi, dopo aver valutato tutte le circostanze e pianificato ad occhi aperti ogni tipo di eventualità, si decise ad uscire dall’ammasso di coperte. Aveva urgentemente bisogno di una tazza di caffè nero per essere completamente sveglio, altrimenti tanti saluti a tutti i progetti che aveva condiviso con Minerva, sarebbe crollato prima dell’ora di pranzo.
La vestaglia giaceva abbandonata sullo schienale della poltrona. La infilò senza riuscire a non scuotere la testa. Lilla con piccoli pesci gialli, un autentico pugno nell’occhio.
L’ultimo regalo di Albus.
 
Non aveva smesso un istante di guardarlo in cagnesco, da quando il vecchio Preside aveva messo piede nel locale che stava per chiudere. Qua e là, qualche sparuta candela dava un che di tetro e strideva con le luci scintillanti delle vetrine degli altri negozi del villaggio. Si era in guerra, ma era pur sempre festa. Il pub di Aberforth, invece, in quei giorni spiccava in quanto ad oscurità: lui non aveva nulla da festeggiare, nulla.
Oh, non ci voleva molto a capire le intenzioni di Albus, era Natale e lui teneva nella mano sinistra un pacchettino azzurro scintillante decorato di stelle. I suoi melensi e colorati regali erano riconoscibili anche a chilometri di distanza ed in piena notte.
Sorrideva, Albus, ma all’occhio esperto di Aberforth, abituato ad avere a che fare con ogni tipo di clientela, non era sfuggito il velo di amarezza che si nascondeva dietro lo sguardo ammiccante.
Se quello era un altro dei suoi patetici tentativi di fare le sue scuse, beh, poteva anche tenersele.
Non sarebbe bastato un regalo di Natale ed uno al compleanno per sistemare le cose, non sarebbe servito a nulla il fiume di rimorso che ogni volta straripava dalle sue parole.
Nessuno di loro avrebbe mai più riavuto indietro la felicità, Ariana non sarebbe mai più ritornata.
 
Guardatelo, il grande mago che tutti venerano, viene a mendicare un perdono che non ci potrà mai essere!
Lo sanno, lo sanno chi sei davvero, Albus?
Sanno quel che hai fatto?
Sanno quanto sei stato accecato dal potere al punto da sacrificare la tua stessa famiglia?
 
«Buon Natale, Aberforth.»
 
Beh? E ora cos’è questo tono dimesso? Un’altra ridicola sceneggiata?
No, Albus, nessun “buon Natale”, né per te, né tantomeno per me.
Ti odio.
Anche se con il tempo ho imparato a trattenermi, giusto il necessario per condividere la stessa stanza con te senza essere tentato di prenderti ancora a pugni, ti odio.
 
A questo pensava Aberforth, mentre il fratello poggiava sul sudicio bancone il regalo e poco dopo prendeva da una delle ampie tasche del mantello una bottiglia di vino elfico.
Qualcosa non andava.
La sua mano destra era ancora ferita.
Santo Merlino, cosa diamine poteva aver combinato per essere ancora conciato in quel modo?
No no, lui non era preoccupato, ci mancava anche quello! Solo si chiedeva cosa potesse essere successo e perché ancora non fosse guarito, dopotutto disponeva del miglior pozionista del mondo magico, per quanto quell’uomo sempre in nero gli andasse poco a genio.
Lui aveva fatto il solito gesto consueto, come chi scaccia una mosca fastidiosa dal volto, per minimizzare la cosa, ma non era riuscito a nascondere del tutto la mestizia dietro le lenti a mezzaluna.
C’era dell’altro.
Ma non avrebbe chiesto, questo mai. Non avrebbe sprecato fiato per domandare al fratello cosa avesse, non avrebbe fatto nemmeno mezzo passo per cercare di avvicinarsi a lui.
E così era stato.
A braccia incrociate, se ne era rimasto fermo e zitto. Più che il bancone del pub, era l’incomprensione a dividerli. Aberforth non aveva nessuna intenzione di aggirare nessuna delle due cose.
Albus era andato via dopo pochi minuti, dopo un altro patetico tentativo di scuse ed un altro augurio di buone feste, cercando di calcare la mano sul fatto che fossero in guerra e che era necessario stare uniti – all’interno del castello, ma anche al di fuori, tra maghi che si opponevano a Voldemort – per combattere in maniera efficace.
Gli aveva risposto con un mezzo grugnito ed un cenno del capo, giusto per non sembrare di essere sordo.
Lo aveva guardato andarsene senza battere ciglio. Si era perfino avvicinato alla finestra per seguire i suoi passi, fino a quando la notte non lo aveva inghiottito.
 
Maledetto, stramaledetto, schifosissimo orgoglio, che incatena ogni altro sentimento e ti dà un cuore di pietra al posto di un cuore di carne[1], che ti impedisce di voltare pagina e aggrapparti a ciò che hai – e che ancora ami, ammettilo –  e ti fa invece continuare a volgere indietro la testa per rievocare ciò che non può più tornare.
 
Pensava a tutto questo, Aberforth, mentre attraversava l’angusto corridoio che portava alla sua piccola e misera cucina e intanto si asciugava gli occhi con una manica della vestaglia.
Aveva nostalgia. Terribile, soffocante, bruciante più delle lacrime che finirono nella tazza di caffè nero che fu pronta in pochi attimi.
Pianse, singhiozzando rumorosamente, con le braccia tese appoggiate al piccolo tavolo traballante. Fu il pianto di un vecchio che sa di non poter più ragionare al futuro, se non per il breve tempo dei giorni e dei mesi, forse degli anni se iniziava a prendersi un po’ più cura di se stesso.
La strada tortuosa del passato si era fatta lunga e cominciava a pesargli sull’animo prima che sulle spalle. La zavorra l’aveva lasciata ai piedi di una lapide, nell’agosto di un’estate afosa, ma c’erano momenti in cui tornava e sembrava chiedere vendetta per essere stata abbandonata. Lui non aveva nessuna intenzione di riprenderla.
Era solo il rovescio della medaglia: aveva aperto il suo cuore al perdono, ad Albus e a Severus ed ora, attraverso quello spiraglio, era entrata anche quella marea di sentimenti che aveva lasciato alla porta per anni, privilegiando il rancore come inquilino assoluto.
Ansimò, scosso dall’ultimo singhiozzo ormai senza più lacrime.
Tornare indietro?
No – per Merlino, Morgana e tutti i Folletti della Cornovaglia – no, nemmeno per idea! Non si sarebbe ripreso il macigno del rancore, non se lo sarebbe caricato sulle spalle un’altra volta. Sarebbe stato un fallimento su tutta la linea e, soprattutto, avrebbe reso vano anche il sacrificio di Albus.
No, no ed ancora no!
Non voleva tornare indietro: la dolcezza del perdono che aveva concesso era stata una sensazione troppo bella ed intensa, per essere gettata via alla prima difficoltà.
Tornare a vivere, sforzandosi di cercare le cose belle per cui valeva la pena andare avanti: questo doveva e voleva fare, passo dopo passo.
Ci sarebbe riuscito, pensò con fermezza.
Diede il primo rumoroso sorso ad un caffè ormai freddo.
Bah!
Arricciò naso e labbra in una smorfia di puro disgusto e pose rimedio a quell’obbrobrio con un veloce colpo di bacchetta al bordo della tazza; subito si levò una nuvoletta di fumo e l’aroma invase la piccola stanza.
Si asciugò alla bell’e meglio gli occhi rossi e gonfi, con un sincero moto d’orgoglio.
Aveva appena vinto una delle tante battaglie personali che ogni tanto gli accadevano. Prima o poi, lo sconforto avrebbe definitivamente supplicato la resa e sventolato bandiera bianca e lui voleva godersi quel momento fino in fondo, voleva che accadesse il più presto possibile.
Andò nel salottino, per finire il suo caffè sulla poltrona accanto al caminetto e godersi lo spettacolo della nevicata.
Ariana dalla cornice lo salutò con un dolce sorriso. Lo ricambiò con altrettanta dolcezza e si sedette sulla poltrona, con la stoffa rossiccia un po’ troppo consunta sui braccioli.
Fuori, nevicava sempre più piano, era abbastanza certo che avrebbe smesso nel giro di una mezz’ora, anche se il cielo continuava ad essere bianchissimo e coperto.
 
Roteò la tazza con la mano destra, cercando di capire quale strana figura avessero assunto i fondi di caffè. Se li guardava in un certo modo, gli sembrava di scorgere una mazza da Battitore. Assottigliò gli occhi, immaginandosi di spedire un vero Bolide agli avventori della sera precedente. Ridacchiò compiaciuto.
«Buongiorno, c’è qualche previsione interessante?» esclamò Albus, piombando nel suo piccolo ritratto sulla parete accanto.
Sollevò il capo verso il quadro dalla cornice dorata e decorata con piccoli ghirigori, un po’ troppo eleganti per i suoi gusti.
 
Aveva deciso di farsi dare un ritratto di Albus quando era iniziata la scuola. Contrariamente alle aspettative, non era stato recapitato da un gufo o da un altro volatile, era stato Severus in persona a portarglielo, un giorno di fine settembre dall’aria ancora mite.
Se l’era visto entrare nel locale una domenica mattina, poco prima dell’apertura, con un grosso involto tra le mani.
Quella fu la prima volta, dopo mesi, che non fu una lapide bianca il loro esclusivo luogo d’incontro.
Un primo passo avanti.
Aveva tentennato a lungo prima di decidere dove posizionarlo, mentre Severus attendeva paziente in un angolo del salottino: gli stava dando il tempo di fare definitivamente pace con il suo passato, cosa che il mago dai capelli corvini ancora non era riuscito a fare. Perfino il ritratto se ne era rimasto in silenzio, quasi fosse profondamente colpito e si sentisse onorato di essere accolto in quella stanza. Alla fine, la scelta era caduta sulla parete accanto alla porta d’entrata: in quel modo, seduto in poltrona, avrebbe avuto accanto Ariana e di fronte Albus.
Era poco, lo sapeva, ma pur sempre meglio di nulla.
 
«Nessuna previsione, Albus. Per quelle temo ti dovrai accontentare ancora della Cooman.»
Il dipinto ridacchiò, lisciandosi al contempo l’argentea barba fluente.
«Piuttosto, tu che notizie mi porti dall’altro fronte?» chiese Aberforth sornione.
Erano ormai le nove, il momento di mettersi in azione era giunto.
«Tutto come previsto.» gli rispose Albus. «E non è bene, Aber, non è bene.» aggiunse tristemente.
 
Aber.
Un nome lontano quanto due bambini che giocano in un prato, quanto una serenità ben presto spazzata via e mai più ritornata.
Un nome appartenente al passato per cominciare una nuova vita.
Aber, sì, per cento, mille volte.
Aber per tutte le volte che vuoi, Albus, se serve a farti capire, dovunque tu sia, quanto mi manchi.
 
Si alzò dalla poltrona, con la tazza di caffè vuota ancora in mano, per dirigersi altrove.
«Ah, Aber?» la voce di Albus lo bloccò proprio sulla porta. «Gran bella vestaglia, ti ho mai detto che ti dona davvero? Chi te l’ha regalata deve avere veramente stile.»
«Grazie, Albus. Me l’ha regalata una persona con un senso del buongusto piuttosto dubbio. Ma, sai che ti dico? Mi piace.»
E percorse il corridoio con le lacrime agli occhi ed un grande sorriso stampato in faccia.



[1]Citazione all’inverso di Ezechiele 36,26: Toglierò il cuore di pietra dal vostro corpo e vi metterò un cuore di carne.

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Nota dell'autrice: se siete arrivati fino in fondo senza annoiarvi e senza aver voglia di lanciarmi ortaggi, vi sarei grata se mi lasciaste una recensione. Sono ben accette anche critiche costruttive per quanto riguarda stile e trama.
Chiara


 
 

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Capitolo 3
*** L'inventore di favole ***


L’inventore di favole

 
Arrancò, sbuffando come una locomotiva in piena attività. La strada da fare non era molta, ma la troppa neve rendeva faticoso il cammino. In quel momento avrebbe pagato mille galeoni per tornare a rintanarsi comodamente al caldo di un caminetto, con una tazza di tè fumante in mano ed impegnato in un dolce far niente.
Stava decisamente invecchiando.
E invece no, niente tranquillità, gli toccava andare a pescare da qualche parte Severus Piton che nessuno riusciva a trovare.
Ma va?
Minerva a volte gli sembrava veramente ottusa. S’era aspettata che quel pover’uomo si sarebbe barricato a vita nella torre?
Aberforth si chiese quanto la strega conoscesse davvero il Preside. Di sicuro non poteva immaginare l’alto grado di autopunizione che il mago era capace di infliggersi, dato che non aveva pensato di andarlo a cercare nell’unico posto veramente sensato in quel momento.
Si fermò un istante a riprendere fiato. Con gesto rabbioso si scostò dal volto la pesante sciarpa di lana blu: ne aveva abbastanza di occhiali appannati ad ogni respiro.
Nel candido silenzio ovattato del parco pensò alla situazione del suo quasi amico e di se stesso. La crisi di qualche ora prima sembrava tranquillamente archiviata e posta nel dimenticatoio; sperare che non ne avvenissero altre era tempo sprecato, doveva soltanto persistere e non darsi per vinto: prima o poi avrebbe smesso di versare lacrime nel rimpiangere un perdono mai dato.
Sobbalzò all’improvviso.
Un inquietante crepitio sopra la sua testa lo mise in allarme ed ebbe la prontezza di riflessi di spostarsi di qualche passo con la bacchetta sguainata in mano.
Un cumulo di neve precipitò fragorosamente proprio nel punto in cui si era trovato poco prima. Fu presto seguito da un ramo spezzato, che cadde con un tonfo e sollevò schizzi di neve che gli arrivarono fin sul naso. Aberforth rabbrividì dalla punta dei capelli a quella dei piedi.
 
A portare troppo peso su di sé, prima o poi ci si spezza, se ci si rifiuta di scrollarselo di dosso.
 
Ripose la bacchetta nella tasca del mantello e contemplò quel ramo come un medico che studia un paziente affetto da una rara malattia, scuotendo d’in tanto in tanto la testa mentre una profonda ruga gli solcava la fronte da parte a parte. Considerò con crudo realismo che anche la sua vita si sarebbe potuta concludere così, spezzata dal troppo peso del rancore. La sua salvezza, inaspettata quanto una zattera di salvataggio per un naufrago in mare aperto, era sopraggiunta senza far rumore durante un’afosa notte estiva ed aveva le sembianze di un uomo dal nero mantello.
Senza volerlo, Severus Piton lo aveva spinto a lasciar andare ogni risentimento, anche quello verso se stesso. Era rimasta a fargli compagnia solamente una sottile vena di nostalgia, ogni tanto accompagnata da calde lacrime.
Scosse la testa ancora una volta: doveva smettere di pensare a se stesso. Presso una lapide bianca – ne era certo – c’era qualcuno che rischiava seriamente di spezzarsi senza possibilità di ritorno.
Merlino, adesso gli toccava sul serio fare da balia a quell’orso vestito di nero.
Sospirò.
No, non era Severus ad essere prevedibile in quel momento. Era lui, Aber, che poteva comprendere senza troppo sforzo cosa significasse ancora provare dolore nel sopravvivere.
Rabbrividì ancora, osservandosi le mani e flettendo le dita intirizzite per il freddo. Indossava guanti di pelle di drago, ma il gelo non aveva pietà nemmeno di quella protezione. E se lui, bardato di tutto punto, stava quasi battendo i denti, in che situazione poteva trovarsi quel pipistrello che se ne stava là fuori in solitudine da… quasi due ore? Altro che cuore di ghiaccio, se non si sbrigava rischiava di trovarsi di fronte un vero e proprio essere umano congelato!
Decise di rimettersi in marcia, sul volto una smorfia dettata dalla fatica e dal freddo.
Poco lontano il tonfo di altra neve che cadeva dagli alberi si udì distintamente nel silenzio.
E l’ondata di ricordi lo invase come l’alta marea sommerge la spiaggia.
 
«Mmmhhh… ‘ncora una fetta… favooore…»
La voce impastata di Albus gli aveva fatto spalancare gli occhi.
Nella camera avvolta dalla penombra, il focolare incantato per durare tutta la notte gettava sul soffitto bagliori rossastri. Nel letto accanto suo fratello stava sicuramente sognando la sua torta preferita, quella di lamponi.
Era stato costretto a soffocare una risatina tappandosi la bocca con entrambe le mani.
Non era ancora ora di alzarsi, così indicava l’orologio a pendolo appeso sopra il caminetto: gli uccelli dipinti al posto delle ore dormivano beatamente con il capo sotto l’ala. Era sveglio solo il gallo che segnava le sette, intento a lisciarsi il variopinto piumaggio e ad acconciarsi la cresta. Di lì a poco avrebbe svegliato tutta la casa.
Albus lo detestava, lo ripeteva ogni sera prima di mettersi a letto: lui stravedeva per la Fenice di mezzogiorno e per il suo canto dolce, sommesso e prolungato.
Beh, che fare adesso?
Rimettersi a dormire?
Aveva ancora poco più di dieci minuti prima del canto del gallo. Dieci preziosissimi minuti in cui poteva comodamente starsene al calduccio sotto le coperte, riaddormentarsi e sognare tanti grossi fiocchi di neve come quelli caduti la sera precedente.
La neve!
Come aveva potuto dimenticarsene?
Lui, Albus ed Ariana erano rimasti per tutta la serata con il naso incollato alla finestra, dimentichi perfino della cena, progettando di fare uno splendido pupazzo nel giardino il mattino seguente.
L’emozione gli aveva ormai tolto ogni residuo di sonno. Gli rimaneva solo di trovare il coraggio di uscire dal letto.
Uno… due… e tre, via le coperte!
Era rabbrividito per lunghi ed interminabili secondi.
Ma la curiosità aveva avuto il sopravvento su tutto.
Ed in punta di piedi aveva aperto le imposte.
 
Un enorme dolce al cioccolato decorato con deliziosa e candida glassa.
A questo assomigliava la loro casa di legno scuro, con il tetto spiovente ricoperto da uno spesso strato di neve. Naso all’insù, Aberforth la contemplava ad occhi sgranati e con la bocca semiaperta.
 
Aber dalla fervida immaginazione, che incantava il fratello e la sorella per ore con storie inventate dal nulla.
Aber e Albus, due bambini che la sera fingevano di addormentarsi non appena papà e mamma rimboccavano loro le coperte. Poi sgusciavano furtivamente dal letto alla poltrona vicina al caminetto. Era lì che Aber ideava favole con draghi cattivi, ragni giganti e l’immancabile Fenice, che interveniva sempre all’ultimo momento e salvava il coraggioso eroe di turno che aveva combattuto contro un nemico terribile e malvagio.
 
L’idea di fare un pupazzo di neve aveva ormai perso ogni attrattiva. Una nuova storia si stava già affacciando alla mente di Aber e già pregustava il momento in cui l’avrebbe raccontata al fratello maggiore.
 
Aber, il piccolo inventore di favole.
 
Aber dalle mille storie, che non s’era accorto di due vispi occhi azzurri che lo stavano fissando da dietro il ciliegio.
 
Splat!
 
Il primo istante era stato di completo sbigottimento. I brividi di freddo erano arrivati solo poi, quando la neve era scivolata giù dal cappello di lana, tramutandosi in minuscole goccioline ghiacciate che si insinuavano perfidamente sotto la sciarpa e lungo il collo.
 
Splat!
 
Un’altra palla di neve, questa volta in pieno viso.
Il freddo intenso quasi gli aveva tolto il respiro.
«Albus, non vale!» aveva provato a protestare, ma senza risultato. Il fratello maggiore stava già raccogliendo altra neve e non sembrava minimamente intenzionato a deporre le armi.
E così era stato.
Un’ora ed infinite risate dopo la battaglia era giunta al termine. Albus ne era uscito come sempre vincitore incontrastato, forte dei suoi tre anni in più.
«Fratellino, ti arrendi?»
Albus gongolava, dritto in piedi e con le guance arrossate, il respiro affannato che si condensava in tante nuvolette. La sciarpa arancione gli penzolava scompostamente di lato e terminava sulla neve per una buona metà, bagnandosi tutta. Il fratello minore non era certo messo meglio di lui: seduto a  terra, aveva il cappotto completamente fradicio così come i guanti ed il cappello verde cupo.
Si sarebbero guadagnati entrambi un raffreddore ed un sonoro rimprovero, questo era certo.
«Non ci penso nemmeno!»aveva protestato Aberforth rimettendosi in piedi.
 
Per tutta risposta Albus aveva raccolto tra le mani un’altra grossa manciata di neve.
Aber lo aveva imitato, con sguardo fiero.
 
Albus l’aveva appallottolata ben benino, pregustando la vittoria.
Aber era indietreggiato di qualche passo, pronto al contrattacco.
 
Albus s’era preparato al lancio.
Aber invece aveva chiuso gli occhi, desiderando che una enorme palla di neve piombasse per una buona volta sulla testa del fratello.
 
SPLAT!
 
 
Aberforth si avvolse nuovamente la sciarpa attorno al collo. Sotto la lunga barba grigia, le labbra cominciarono ad incurvarsi all’insù. La pioggia di ricordi proseguì, assieme al suo cammino. Non riusciva a fermarla.
Non voleva fermarla.
 
 
«Aber… ce l’hai fatta!»
Gli occhi sgranati di Albus brillavano di una gioia mai vista prima. Il piccolo Aber, invece, sembrava non aver ancora capito, mentre la neve gli si scioglieva tra i guanti.
«Sei un mago, Aber, finalmente. Sei un mago, capisci?» sussurrava Albus all’orecchio del fratello. Lo aveva preso in braccio e portato in trionfo per tutto il giardino innevato. La piccola Ariana, dalla finestra della cucina, li osservava con la punta del naso schiacciata sul vetro appannato a metà.
Niente più fatica, niente più freddo, niente più voglia di vincere nella battaglia innevata.
Aberforth aveva fatto la sua prima magia.
 
Quello era stato l’ultimo inverno. L’ultimo, condito di abbracci, sorrisi, torte di mele e cioccolata calda sorseggiata accanto al caminetto con tutta la famiglia.
 
«Aber, dormi?» la voce di Albus da sotto le coperte era giunta ovattata.
«No.» aveva risposto lui alzando di poco la testa dal cuscino.
«Sei felice?»
«Sì.» era stata la candida confessione sul finire di quella memorabile giornata.
«Anch’io, Aber, tanto.»
 
Una lacrima solitaria scese a rigargli la guancia. Aberforth diede la colpa al freddo pungente, sapendo perfettamente di mentire.
Se ne concesse una ed una sola.
Dove diamine era stato quel ricordo per tutti quegli anni? Nascosto sotto il mantello dell’invisibilità?
No, sepolto da qualche parte e sapeva anche dove.
 
Un tempo siamo stati felici, Albus.
 
È incredibile quanto la felicità sia spesso veloce a scivolare via, come una goccia di pioggia su un vetro.
Sarebbero bastati pochi mesi ed il loro idillio di bambini si sarebbe dissolto al pari di una fragile bolla di sapone. Infranto senza rimedio.
Albus avrebbe preso la sua strada e non ci sarebbe stato verso di riportarlo al buonsenso, se non troppo tardi.
Aber sarebbe rimasto l’inventore di favole. Per necessità e disperazione.
C’era una volta…” e la magia che era in Ariana sembrava acquietarsi come l’onda che, docile, torna al mare dopo essersi infranta sulla spiaggia.
C’era una volta…” e la piccola e fragile sorella sorrideva dolcemente e senza protestare mangiava ed ascoltava.
C’era una volta…” e le capre strusciavano il muso contro la piccola mano di Ariana che stringeva una manciata di sale, mentre Aber dava loro da mangiare.
 
Poco lontano, Aberforth vide l’inconfondibile sagoma di Severus, elegante ed austera anche di spalle.
Albus aveva fatto tanto per lui. Gli aveva dato fiducia incrollabile ed amore paterno. Ma gli aveva anche chiesto in cambio sacrifici non da poco.
Era giunto il momento di dare senza chiedere a quell’uomo nulla in cambio.
 
Un tempo siamo stati felici, Albus.
 
D’improvviso comprese.
Severus era come l’eroe delle favole che aveva inventato.
Era il guerriero solitario che un giorno lontano aveva smarrito la sua strada, ritrovandola in seguito, a caro prezzo. Era il guerriero che aveva sempre lottato in silenzio ed in disparte, guardato da tutti con diffidenza e talvolta con ostilità, ma che non si era mai perso d’animo. Che aveva sempre combattuto a testa alta contro un nemico crudele e malvagio. E che alla fine era stato salvato proprio da una Fenice, giunta in tempo perché l’eroe finalmente potesse ricevere il suo premio: una vita da vivere senza più rimorsi e rimpianti.
Sorrise apertamente sotto la sciarpa, facendosi prossimo alla meta.
Quella sera, seduto nella poltrona accanto al camino, avrebbe raccontato ad Albus e ad Ariana la favola di un eroe dal nero mantello.


***

Angolo autrice: lo so, sono in un ritardo mostruoso, ma ho una miriade di motivi. Il primo è stato un bel "blocco dello scrittore" (uè, che parolona nel mio caso!) che non sembrava avere termine.
Che ve ne pare? Non so voi, ma io voglio credere a tutti i costi che ci siano stati davvero momenti felici nella famiglia Silente, prima del dramma di Ariana.
Per le età dei ragazzi mi sono informata sul Lexicon, ma se per caso riscontrate errori di Canon vi sarei grata se me lo diceste, poichè desidero mantenermi sempre IC.
E come sempre, oltre alle recensioni, sono ben accette anche critiche costruttive riguardo stile e trama.
Chiara

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Capitolo 4
*** Amicizia ***


Amicizia

 
Beata ignoranza contro cruda realtà.
Minerva McGranitt fu costretta ad assistere, impotente, alla sconfitta della prima.
Le bastarono una manciata di secondi ed un paio di colpi di bacchetta, i temi di Trasfigurazione della settimana ed i compiti delle vacanze di Natale si raggrupparono tutti in un’unica pila. La torre di pergamene svettò dritta e minacciosa nell’angolo sinistro della scrivania in legno scuro.
Uno Schiantesimo in pieno petto avrebbe lasciato la strega meno di stucco.
Boccheggiò, cercando di mantenere un contegno. Da qualche parte nella sua mente le era appena sembrato di udire una vocina beffarda e perfidamente gioiosa, che se la rideva senza ritegno e ripeteva in continuazione la noiosa cantilena del “te l’avevo detto, te l’avevo detto!”.
Non si piegò allo sconforto né all’invettiva, si limitò ad emettere un sospiro rassegnato, increspando le labbra in una smorfia di autorimprovero.
Se aveva accumulato così tanto lavoro arretrato un motivo c’era. E valido, anzi, validissimo.
Quel pensiero fu come un raggio di sole che torna ad illuminare il cielo dopo un breve temporale. L’ombra di un sorriso spuntò rapida e dissolse quel piccolo broncio. Gli occhi le tornarono a brillare di gioia sincera e materno affetto.
Oh, al diavolo! Bastava mettersi al lavoro di buona lena, dove stava il problema? Erano semplici pergamene e se non avesse finito in tempo entro il fine settimana, ci avrebbe pensato il lunedì mattina di buon’ora.
La vera priorità, quel sabato nove gennaio, era ben altra.
Si accomodò sulla sedia, aggiustandosi gli occhiali sul naso.
La prima pergamena le regalò un sorriso di soddisfazione. Poco dopo andò a posarsi alla destra della scrivania con una bella “O” rossa accanto al nome della studentessa. La seconda non fu da meno, forse con qualche lieve imprecisione, ma nel complesso era più che soddisfacente.
Cautamente ottimista, Minerva si rilassò sullo schienale, proseguendo nella correzione.
Mezz’ora più tardi i temi del quarto anno erano stati diligentemente corretti e le avevano regalato un discreto senso di soddisfazione. Per premiarsi – agli studenti meritevoli avrebbe concesso degli elogi solamente lunedì – si permise qualche sorso del suo tè preferito, accingendosi a correggere le pergamene del primo anno.
Rischiò quasi subito il soffocamento.
Spalancando gli occhi, uccise sul nascere l’esclamazione di indignazione in antico scozzese salita alle labbra alla prima occhiata al compito che le era volato direttamente in mano.
Una manciata di minuti – e parecchi sospiri più tardi – quella pergamena era stata ufficialmente eletta a campo di battaglia, nel quale una marea di “orrori” era stata scovata e sconfitta da un implacabile esercito d’inchiostro rosso.
 

*

 
L’orologio da taschino segnava le nove e mezza precise, come da accordi.
Con un guizzo verde Aberforth comparve nel camino ed entrò gongolante nello studio della Vicepreside.
«Cara Minerva, non dirmi più che non sono una persona puntu… »
Non fece a tempo a finire la frase. Troncò la parola a metà, fermando anche il respiro ed ogni altro movimento.
Il silenzio cadde implacabile nella stanza, interrotto solo dal ticchettio del pendolo accanto alla libreria. L’occhiata ammonitrice della strega aveva congelato ogni cosa e costretto il mago ad imporsi un Petrificus.
Minerva si scostò gli occhiali dal naso, squadrando Aberforth dall’alto in basso con lentezza studiata.
«Non ti sembra di aver dimenticato qualcosa?» domandò lei con puntigliosa freddezza.
«Hmf!» Il vecchio mago emise un basso verso, una via di mezzo tra il borbottio di un calderone in ebollizione ed il brontolio di un Troll indispettito. Ma fece prontamente dietro front, tornando al camino. Si spazzolò la cenere dai vestiti con l’aria di un cane bastonato.
«Chiedo scusa, hai detto qualcosa?»
Aberforth si diede l’ultima manata alla manica sinistra della veste, sulla quale uno sbuffo di cenere aveva lasciato una leggera striscia grigiastra.
«Nulla, Minerva.» ribatté. Attese sull’attenti il cenno di approvazione della strega che lo avrebbe autorizzato finalmente a calpestare il prezioso tappeto.
Era scontroso, Aberforth, questo lo ammetteva lui stesso. E scorbutico anche.
Ma non era un incauto, questo no. La sonora ramanzina dell’insegnante di Trasfigurazione avvenuta il mese precedente ancora gli faceva venire il mal di testa al solo pensiero.
Niente cenere sul tappeto o sarebbe stato trasfigurato all’istante in uno scopino viola.
D’accordo, lo scopino aveva il suo perché. Ma… viola?
Un lascito di Albus, senza dubbio e dei suoi gusti più che stravaganti.
Prese posto davanti alla scrivania, accettando volentieri il tè che gli venne offerto e tirando un sonoro respiro di sollievo. Minerva cercò di mascherare il sorriso portandosi la tazza alle labbra, ma comprese di aver fallito quando vide il mago alzare gli occhi al cielo in un muto gesto di esasperazione.
Quei piccoli battibecchi avevano la capacità di divertire entrambi.
«Scommetto dieci galeoni che questa mattina qualcuno non si è fatto vedere.»
Lui non li aveva nemmeno dieci galeoni, ma tentò ugualmente l’azzardo.
Minerva ridusse gli occhi a due fessure, un comportamento felino che le si addiceva alla perfezione.
«Non scomodarti con le scommesse, tu sai sempre benissimo tutto quello che succede al castello… e non solo.» Rispose portandosi la tazza alle labbra. «Non vorrai forse dirmi che Albus non ti racconta mai nulla?»
Impossibile, pensava Minerva. In quel breve tempo in cui era stata Preside, dopo la Battaglia di Hogwarts e mentre Severus era al San Mungo, il ritratto del mago dalla barba argentata l’aveva sommersa di chiacchiere.
E pensare che l’unica volta in cui lei aveva desiderato ardentemente che lui parlasse, l’unica cosa che aveva ottenuto erano state due sole parole.
Solo due.
Due minuscoli scogli sperduti in un oceano di disperazione.
 
 
Una danza silenziosa, ipnotica, che rapiva sguardo, mente e cuore.
I ricordi di madreperla si muovevano leggiadri nel Pensatoio, in modo caotico, accompagnati dal ticchettio ritmico degli innumerevoli strumenti d’argento alle pareti.
Sarebbe potuta rimanere ore ed ore ad osservarli, rimanendo immobile accanto alla scrivania, là dove Potter aveva lasciato quel manufatto magico che aveva rappresentato per tutti un vero punto di svolta.
La tentazione di tuffarvi la testa ed entrare in quel mondo che non era suo, era forte, ma aveva deciso di non cedere in alcun modo.
Non ne era stata autorizzata.
Provava pur sempre un certo pudore nel sapere che quelli erano ricordi che non le appartenevano. Erano di una persona che meritava tutto il suo rispetto ed anche di più.
Aveva allungato una mano, sfiorando con dita tremanti il bordo di quel magico bacile intarsiato. Lì dentro c’era una vita intera. Sogni, desideri, paure. Rimpianti. Rimorsi.
Amore.
Come aveva potuto essere così cieca da non accorgersene?
Come aveva fatto a non capire, come?
La mano si era ritratta d’improvviso, come se il Pensatoio fosse diventato incandescente, mentre un singulto salito alla gola riecheggiava tra le mura circolari.
«Minerva…» aveva pronunciato Albus con dolcezza.
No, Albus no. Albus era morto.
Era stato il quadro a parlare, quella tela che aveva fissato con commozione ed insistenza ogni volta che aveva dovuto mettere piede nello studio durante quell’orribile anno scolastico, sperando in un minimo cenno, in una parola che le spiegasse l’accaduto.
Aveva atteso quel dialogo per dodici mesi.
Ora che era giunto il momento, era combattuta. Lo desiderava con tutto il suo essere, ma al tempo stesso sapeva che le avrebbe fatto ancora più male. Ogni parola le sarebbe sembrata inutile, così insignificante rispetto i ricordi silenziosi che non smettevano la loro danza aggraziata.
Si era tappata le orecchie.
Il peso del dolore le aveva d’improvviso incurvato le spalle, costringendola in uno sgraziato inchino al nulla.
 
Lo aveva lasciato solo.
 
E non quell’anno, ma per tutta la vita. Era questa la verità straziante che poco a poco le si era fatta strada nel cuore, trafiggendola senza sosta. Non gli era mai stata veramente vicino.
C’erano stati momenti in cui s’era comportata come una madre, certo, ma non erano nulla rispetto al resto. Al minimo vacillare era caduta, senza nemmeno cercare un appiglio ragionevole per comprendere gli eventi.
La verità era che non aveva mai avuto vera fiducia in Severus Piton.
Le mani nel frattempo erano passate dalle orecchie al viso. Le lacrime cadevano a terra, incuranti delle dita che si posavano sugli occhi, mentre i singhiozzi la scuotevano come un terremoto che non sembrava vedere il termine.
Gli aveva voluto bene.
Gli voleva bene.
Ma non aveva saputo dimostrarglielo. Non aveva saputo scostare il velo del pregiudizio e del sospetto per vedere come fosse la vera realtà.
Non aveva saputo cogliere il dolore oltre la maschera.
 
Chi è più colpevole: chi cade, o chi – assistendo all’accaduto – non corre per impedire la rovinosa caduta? O forse chi non si ferma a prestare soccorso?
 
La risposta la sapeva, Minerva. Aveva visto e vissuto abbastanza per conoscerla.
Ma non l’aveva saputa mettere in pratica.
Aveva fallito in quello che da sempre aveva creduto essere il suo compito più grande: proteggere.
 
Nessuno aveva protetto Severus Piton.
Lei non lo aveva protetto.
Da cosa? Da se stesso, dai suoi incubi, dal suo rimorso.
Dalla sua solitudine.
Avrebbe potuto essere una spalla su cui lasciarlo piangere, avrebbe potuto raccoglierne le lacrime, una per una, per poi asciugarle con materno affetto. Avrebbe dovuto essere tutto questo anche senza sapere la verità. La fiducia in Albus avrebbe dovuto essere un faro luminoso per i suoi passi e per le sue azioni. Invece lei lo aveva spento con il suo odio che non aveva cercato alternativa alcuna.
 
Albus…
Si era rialzata non senza fatica, asciugandosi il viso con un lembo del vestito lacero per la battaglia, gli ultimi singhiozzi che si facevano sempre più radi ma comunque intensi. La mano aveva cercato un inutile appiglio sullo schienale della sedia accanto a lei: inutile, sì, quando tutto il suo mondo di certezze le era crollato addosso da qualche ora.
L’uomo nel ritratto aveva sguardo triste ed occhi lucidi. Tra la barba, a Minerva sembrava di vedere il luccicore di qualche lacrima caduta.
Gli altri quadri assistevano in religioso silenzio, rispettosi di quel dolore così toccante ed umano.
 
«Perdonami.» aveva infine pronunciato lui con un filo di voce.
 
Quella era stata la classica goccia che fa traboccare il vaso.
 
«A me?» aveva urlato Minerva. Proprio lei, così composta. I pugni stretti, le nocche bianche, l’intero corpo scosso da un tremito di rabbia ed indignazione.
«A me chiedi perdono, Albus?» nuove lacrime erano iniziate a scendere, mentre lei non smetteva di trafiggerlo con lo sguardo. «È a lui che devi chiedere scusa, non a me! È lui quello che ha combattuto in silenzio, che ha sofferto in silenzio, che è quasi…»
Un singulto le aveva bloccato la parola.
Meglio così, il non detto era stato chiaro a tutti.
 
Era lui che era quasi morto com’era vissuto: solo.
 
Avrebbe voluto precipitarsi al San Mungo, Minerva. Entrare in una stanza d’ospedale e implorare un perdono che chissà se sarebbe mai arrivato.
Si meritava solo di essere ripagata con la stessa moneta: disprezzo e disgusto.
 
Aveva iniziato a camminare per lo studio, freneticamente, come se il suo corpo non potesse fare altro che seguire il fiume di parole colme di rabbia e commozione che aveva ripreso a riversare addosso ad un ritratto.
Per tutto quel tempo i ricordi di madreperla nel Pensatoio non avevano cessato di fluttuare danzanti.

 
Una pergamena sventolata davanti agli occhi ebbe il potere di richiamarla al presente.
Aberforth aveva già terminato il proprio tè ed ora stava leggendo con curiosità il tema che lei stava correggendo al momento del suo arrivo.
Si era accorto di tutto, non faticava ad immaginarlo. Quell’uomo era un osservatore attento e perspicace.
 
«Scrivere la formula per trasfigurare un porcospino in un puntaspilli ed il gesto da compiere con polso e bacchetta,» recitò il mago a mezza voce, come se contemporaneamente stesse pensando a come svolgere il testo. «Senza tralasciare di descrivere gli effetti che provoca l’incantesimo errato.»
L’occasione era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.
«Voglia di tornare sui banchi di scuola, Aberforth?» pronunciò ilare. Il sorso di tè che seguì ebbe il potere di spedire fuori dalla porta l’attimo di tristezza che l’aveva colta d’improvviso.
«Con te come insegnante? Non ci penso nemmeno!» Aberforth raccolse la sfida e la rispedì, pronto, al mittente. «Però avvisami quando assumerete delle belle e giovani nuove professoresse, in quel caso potrei anche farci un pensierino.»
La strizzata d’occhio con cui il discorso venne chiuso fu un ammiccamento carico di complicità.

 

***

 
Se non fosse stato di pietra, si sarebbe detto che aveva un’espressione scocciata.
Minerva osservò il gargoyle a guardia della scala che dava l’accesso allo studio del Preside e fece un quarto tentativo che andò a vuoto.
La parola d’ordine era stata cambiata e non c’era verso di indovinare quella nuova, cosa s’era inventato il Preside?
Aberforth si lasciò andare ad un grugnito di stizza: lo aveva detto a Minerva che Severus era uscito, ma lei nulla, aveva insistito per verificare di persona! Il ritratto di Albus non si era sbagliato nel riferirglielo, ma la strega non era sembrata convinta.
Fino a quel momento.
«Non è tanto il fatto che sia uscito che mi preoccupa,» disse Minerva come parlando tra sé. «Quanto piuttosto non sapere dove. E quando potrebbe tornare.»
Aberforth poté quasi vedere i pensieri di lei che si rincorrevano, in cerca di una soluzione.
Percorsero lentamente corridoi e scesero scale, dirigendosi verso la Sala Grande. In entrata un piccolo capannello di studenti si dileguò al loro arrivo, correndo fuori con un vociare allegro. Ci volle solo qualche istante perché nel parco si scatenasse una lotta a palle di neve.
La Vicepreside seguì con lo sguardo la corsa dei ragazzi, avvicinandosi al grande portone.
Il freddo pungente le arrivò in faccia, facendole mancare il respiro per un attimo.
Risate d’allegria.
Questo solo avrebbe voluto per i suoi studenti. Mai più la guerra sarebbe dovuta tornare a falciare gioie e vite umane, mai più.
Aberforth si sentì prendere per un braccio. Scambiò quel gesto per una ricerca di conforto ed aiuto.
«Vado io a cercarlo, Minerva.» L’anziana strega mollò la presa. «Credo di avere idea di dove si trovi Severus.»
Non chiese nulla, Minerva. Annuì solamente, appoggiandosi con le spalle al pesante portone di quercia.
Aberforth s’incamminò verso il parco, nella direzione opposta a quella della lotta innevata che continuava senza esclusione di colpi.
 
Non vide il mago il debole sorriso che era giunto ad increspare le labbra della strega.
Ci era cascato, Minerva stentava a crederlo: era stato perfino più facile del previsto.
Oh, lei conosceva Severus meglio di lui!
Pensava che fosse davvero così disperata da non saper dove cominciare a cercarlo, quando invece sapeva perfettamente dove fosse?
No, la sua richiesta era stata ben altra, ma lei sola doveva esserne a conoscenza.
Rimase ad osservare il faticoso cammino di quel grande uomo, la neve sul sentiero che ne rallentava i passi.
 
Quell’amicizia sbocciata davanti ad una lapide bianca era qualcosa di puro e prezioso, da difendere con ogni mezzo, anche quello della finta ignoranza.
Era come un piccolo germoglio da riparare dal vento del nord, facendo scudo con le proprie mani, con tutta se stessa se necessario.
Lei non vi rientrava, in quel nuovo cammino.
Non le dispiaceva e non perché non le importasse, ma perché quelle due felicità nate da poco la riempivano d’una gioia così commovente da non potersi dire. Erano due solitudini che si erano incontrate, forgiate entrambe dal dolore della perdita, dal rimorso di parole non dette. Erano due steli che avevano appena visto la luce del sole, germogliati dopo una lunga sosta nella buia solitudine delle profondità della terra. Si meritavano ogni raggio di sole che scendeva a dare loro forza e calore.
Era un’amicizia con la “a” maiuscola.
 
L’anziana strega sospirò, stringendosi un po’ di più nella veste. Il freddo quella mattina era veramente intenso.
Diede un’ultima occhiata al sentiero e agli studenti che, stanchi e fradici, si stavano incamminando verso l’entrata per correre a scaldarsi accanto ai caminetti delle loro Sale Comuni.
Aberforth sarebbe tornato tra non molto con Severus.
Era ora di dare il via libera ai preparativi finali.


***

Nota dell'autrice: molto probabilmente revisionerò a breve questo capitolo. Il fatto è che non ne potevo più di limarlo e lasciarlo nel pc, rischiavo l'esplosione del mio congegno teconologico per pura protesta. :D
Non cambierò chissà cosa: probabilmente qualche sinonimo qua e là, poichè sono fissata nell'evitare ripetizioni di termini.
Spero che per qualcuno sia all'altezza delle aspettative, non immaginate l'ansia.
Chiara

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Capitolo 5
*** Silenzi ***


Silenzi

 


C’è silenzio e silenzio.
C’è quello di chi non sa cosa dire ed allora il mutismo regna sovrano, assieme agli occhi che si posano dovunque tranne che sull’interlocutore, mentre le mani impacciate non sono capaci di trovare un loro posto e sembrano quasi un elemento in più, per giunta parecchio ingombrante.
C’è il silenzio dell’imbarazzo, quello che secca la gola nell’attimo in cui meno servirebbe e blocca ogni pensiero coerente sul nascere. Brutta cosa, soprattutto perché il più delle volte non compare da solo ma quasi sempre assieme alla sua compagna, la coltre di gelo che intirizzisce l’atmosfera e fa desiderare di essere dovunque, anche al centro della Terra.
E poi c’è il silenzio dell’attesa.
Colmo di speranza e di parole trattenute che non hanno bisogno alcuno di essere pronunciate. Colmo di ascolto, carico di significato, traboccante d’accoglienza.
È il silenzio dell’amicizia.
È il silenzio che non mette fretta, che incoraggia l’altro a parlare con sguardo d’affetto. Che consola senza fare rumore.
Che dice “eccomi, sono qui per te”.
 
Questo era il silenzio di Aberforth, giunto da poco accanto ad una lapide bianca e ad un eroe dal nero mantello.
Attendeva, posando gli occhi sul Lago Nero completamente immoto e coperto da una spessa lastra di ghiaccio. Il cielo bianco di nubi vi si rifletteva specchiandosi placido e senza far intravedere il minimo sprazzo di azzurro. Tutt’attorno, dovunque si posasse lo sguardo, regnava il candore della coltre nevosa.
Tutto sembrava in attesa, anche la natura che li circondava. Né vento, né cinguettio di uccelli, nulla di nulla. Solo qualche tonfo in lontananza, nella Foresta Proibita: era la neve che cadeva dai rami degli alberi.
Attese, Aberforth, senza stancarsi.
L’anima ha i suoi tempi per cicatrizzare le ferite ed i fardelli da posare sono infinitamente più faticosi di quelli da porsi sulle spalle. Lui lo sapeva fin troppo bene.
Attese e si rivestì di pazienza.
 
Severus non sembrava avere alcuna intenzione di voltarsi in direzione del nuovo arrivato.
Non voleva mostrare quanto si sentisse debole in quel momento.
Debole e solo.
Incapace di rassegnarsi alla vita.
Intrappolato nella propria roccaforte di ghiaccio.
Voleva uscirne, veramente, ma il passato con i suoi errori ed il futuro della sua seconda vita erano intenti a giocare al tiro alla fune con il suo animo. Ed era doloroso.
Merlino se faceva male.
Nessuno dei due sembrava voler mollare per lasciar vincere l’avversario e lui era lì, nel mezzo, come in bilico su un baratro.
I rimorsi gli ripetevano in continuazione “non ti meriti alcuna speranza, il tuo errore è stato troppo grande”.
La rinascita gli sussurrava teneramente “spera e coglimi per davvero. È passato, Severus, hai saldato il tuo debito”.
Solo il presente taceva. Lasciava la scelta nelle sue mani, senza imporsi, rimanendo immoto come il Lago Nero completamente ghiacciato.
Immobile ed in silenzio.
Lo era stato anche lui, un giorno lontano di alcuni mesi prima, quando avrebbe potuto parlare e non lo aveva fatto.
 
 
 
Giallo, rosa, bianco, tanto verde e qualche spruzzata di rosso.
Aveva costretto le palpebre ad aprirsi del tutto, ma con estrema fatica. Le pozioni curative gli provocavano una sonnolenza diffusa quasi impossibile da contrastare, ritrovare la lucidità forzatamente senza attendere che il loro effetto diminuisse era come combattere contro qualcosa di invincibile, come scalare il monte più alto del mondo a mani nude. Solitamente si lasciava andare, aveva rinunciato quasi subito a bloccare gli effetti della spossatezza, anche perché non sarebbe servito a nulla. Tanto valeva scivolare nell’oblio che lo accoglieva con il suo mare nero di seta e di morbido velluto senza sogni.
Ancora un batter di ciglia, ancora uno sforzo per rimanere sveglio. Non c’erano orologi nella stanza, né tantomeno la luce che filtrava dall’ampia finestra davanti al letto gli poteva suggerire quanto tempo fosse trascorso dall’ultima somministrazione del farmaco magico. C’era solo azzurro, senza aggiunta di altro. Azzurro e basta, niente nubi, nemmeno il più piccolo sbuffo candido di vapore.
L’oblio lo chiamava con voce calda e suadente. Lui aveva provato ad ignorarlo per concentrare l’attenzione sull’arcobaleno di colori che gli era passato dinanzi qualche attimo prima.
Ed aveva fallito.
L’ultimo pensiero lucido che era riuscito a formulare erano i nomi dei fiori di campo che Minerva stava solertemente mettendo in un vaso panciuto.
 
Margherite, ranuncoli, fiori di achillea e qualche papavero.
Un’anta della finestra era aperta a metà e faceva entrare una piacevole brezza leggera che non infastidiva. Severus aveva osservato, questa volta ben desto, uno dei papaveri che si dondolava ritmicamente sullo stelo, come se annuisse contento per essere stato posizionato proprio lì. La tenda bianca ai lati della finestra gli rispondeva con un altrettanto leggero svolazzo, in una perfetta sincronia di movimenti.
E fuori, ancora, solamente azzurro a perdita d’occhio.
Voltò la testa verso la sua destra senza produrre il minimo fruscio sul cuscino. Minerva leggeva un libro, completamente concentrata, gli occhi che correvano avanti ed indietro a seguire il flusso di pensieri d’inchiostro. Non si era accorta del suo risveglio.
Benedetta donna. I Guaritori gli avevano raccontato che durante i primi tempi non erano rare le volte in cui arrivava la sera quasi di soppiatto e gli stava accanto per tutta la notte. Così, senza dormire.
Vegliava.
Su di lui.
Ed al mattino, in altrettanto silenzio, se ne tornava al castello, ad assistere ad una ricostruzione lenta ma inarrestabile.
Erano stati sufficienti pochi ed attenti sguardi per far capire in seguito a Severus che la ricostruzione a cui la strega teneva di più in quei momenti non interessava antiche pietre, bensì un’amicizia che s’era strappata, lacerando anche il cuore di entrambi.
No, lui non la biasimava, non l’aveva mai fatto. Le staffilate che lei non aveva mai mancato di regalargli durante l’ultimo anno erano la riprova che stava recitando alla perfezione la propria parte di assassino. Magra, magrissima consolazione, ma pur sempre necessaria per la salvezza di molte vite.
A quel pensiero non era riuscito a trattenere un sospiro amaro.
«Oh…» esclamare la propria sorpresa, poggiare il libro sul comodino ed alzarsi premurosa: solo Minerva poteva compiere azioni del genere in modo così fulmineo, che in men che non si dica Severus s’era ritrovato un bicchiere d’acqua che gli fluttuava davanti al naso quasi senza accorgersene.
Merlino, da quando la strega aveva cominciato ad andarlo a trovare solo di giorno lo ricopriva di attenzioni di ogni genere. Il cuscino da sprimacciare, le tende da lasciare aperte o chiuse, il vassoio del cibo controllato accuratamente perché non avanzasse nulla.
Si sentiva trattato come se fosse un infante.
E lui lo aveva comunicato, senza mezze misure.
La piuma – rigorosamente verde – aveva scritto la sua lapidaria frase sul block notes sotto lo sguardo incuriosito di Minerva. Il cipiglio con cui il foglio era stato fatto leggere non lasciava adito a dubbi sul suo stato d’animo.
“Ora arriva”, aveva pensato lui, pronto a scommettere qualsiasi cosa.
Ed era arrivata, infatti: un’espressione a metà tra la rassegnazione e la finta condiscendenza.
Era stato il turno della maga sospirare, mentre il bicchiere tornava a posarsi con grazia sul comodino accanto alla brocca in vetro trasparente.
Siparietti del genere erano diventati sempre più frequenti, segno di un rinsaldamento che a lui non sarebbe dispiaciuto – ma di cui si riteneva ancora immeritevole – e che alla strega sembrava donare nuova vita.
La lacrime trattenute a stento, i singhiozzi che risuonavano tra quelle bianche pareti intervallati a richieste di perdono, la mano, con più rughe di quanto lui ricordasse, che si stringeva – quasi aggrappandosi – alla sua: era tutto alle loro spalle, trascorso da almeno un mese, memoria di un primo vero incontro dopo la grande battaglia.
Per smettere di ricordare ancora Severus aveva indirizzato la propria attenzione al vaso di fiori sul tavolino accanto alla finestra.
«Quelli sono da parte di Hagrid.» aveva risposto lei, intercettando il suo sguardo. «Li ha raccolti personalmente questa mattina.» E lui non aveva fatto alcuna fatica ad immaginare quel gigante dall'anima candida che si chinava sui prati di Hogwarts e componeva il mazzo di fiori. Magari piangendo commosso e soffiandosi il naso nel suo fazzoletto a scacchi grande quanto una tovaglia.
Quel pensiero gli aveva fatto incurvare le labbra all’insù, mentre il papavero rosso continuava ad annuire pacifico. Quel debole sorriso era stato interpretato dalla strega come un fugace ringraziamento. Lui non lo aveva smentito.
Ma era inquieta, Minerva, Severus lo aveva notato fin troppo bene.
Le mani che continuavano a tormentarsi a vicenda, la postura fin troppo rigida, gli occhi che non sapevano bene dove posarsi e trovare quiete. Un’occhiata interrogativa e lei era sembrata avvampare dal disagio per poi sbiancare a vista d’occhio.
La piuma già in mano, pronta per dare voce ad una domanda di cui quasi temeva la risposta, era stata fermata da un singhiozzo sommesso.
 
“No, Minerva, non piangere di nuovo, non ancora.”
 
Lei aveva ascoltato quella muta richiesta fatta da iridi d’ossidiana che l’avevano carezzata con sguardo commosso. Non aveva pianto. Ma s’era incurvata come sotto il peso di una montagna, le mani giunte così strette da tremare vistosamente, sulle labbra parole spezzate, le stesse dei loro primi incontri durante il ricovero.
 
Perdono.
 
Deglutire non gli aveva mai fatto così male e non era colpa delle ferite ormai quasi del tutto guarite.
 
Scusami.
 
La piuma verde giaceva abbandonata sulla candide lenzuola di cotone, accanto ai fogli di carta.
 
Ho sbagliato a non fidarmi di te.
 
Se c’era uno incapace di perdonarsi – e destinato a soffrire per questo - doveva essere soltanto lui. E nessun altro. Perché lei continuava a tormentarsi ancora? Non ne aveva alcun motivo, non era giusto, non…
 
«Ti voglio bene, Severus.»
 
I pensieri del mago s’erano improvvisamente congelati, imitando la posa rigida che aveva assunto lui stesso. Lo sguardo fisso su qualcosa di indistinto davanti a sé, le mani che avevano artigliato le lenzuola in modo così stretto da stropicciarle senza ritegno.
E sulle labbra la pronta risposta che lui aveva dovuto fermare con non poco sforzo.
Oh, poteva parlare, sì.
Era già da un paio di giorni che era riuscito ad esprimersi a voce, senza sentirsi esageratamente ridicolo per qualche suono ancora gracchiante che usciva dalla sua gola non più martoriata. Ma aveva voluto esercitarsi ancora in solitudine, nei vari momenti di veglia, perché le sue prime parole – non ai Guaritori, ma a Minerva – fossero pronunciate come si doveva.
 
Tre semplici parole in quel momento lo stavano scuotendo più di un terremoto.
Minerva non era donna dai modi sdolcinati. Era una donna pratica. Nelle sue materne attenzioni dava sempre maggior risalto a gesti ed azioni che ai discorsi e spesso una semplice mano sulla spalla anche se fatta con il suo solito sguardo severo valeva più di mille frasi melense.
Non gliel’aveva mai detto, mai, nemmeno negli anni precedenti in cui erano stati colleghi. Come lui, anche lei possedeva parecchia ritrosia a mostrare agli altri i propri sentimenti, specialmente quelli in cui si apriva il proprio cuore al sincero slancio dell’amicizia.
 
Ti voglio bene.
 
Avrebbe voluto tanto dirlo ad Albus, soprattutto negli ultimi tempi, quando quella maledetta mano annerita era diventata il segno tangibile di una condanna a morte senza appello. Avrebbe voluto fargli sapere quanto lo considerasse un padre ed un amico, nonostante tutto, nonostante le folli richieste che negli anni gli erano state fatte in nome di un bene superiore.
Invece era stato costretto ad ucciderlo. E poi era stato costretto ad incrociare la bacchetta con un’amica, quasi una madre per lui, a combattere per difendersi da incantesimi colmi di risentimento, dolore e fiducia spezzata.
 
Ti voglio bene, continuava sommessamente a ripetere una vocina nella sua testa, come un eco infinito. Minerva invece aveva taciuto dopo quell’ultima frase.
 
No, a Severus Piton non si poteva voler bene, nemmeno dopo aver saputo la verità.
Aveva accettato il perdono di tanti – troppi – che avevano chiesto a loro volta di essere scusati per aver dubitato di lui. Aveva accettato di essere compreso, più o meno, dal momento che parte della sua maschera era stata gettata al vento dal discorso del Prescelto al Signore Oscuro e tanti saluti al suo passato che non era più così privato.
Ma no, non accettava che gli si volesse bene.
Nemmeno da parte di Minerva.
Soprattutto da parte di Minerva.
 
Voleva ancora crogiolarsi nel proprio dolore e forse, quando un giorno ne sarebbe stato sazio, sarebbe stato in grado di lasciarlo andare come barca lasciata alla deriva.
 
Non aveva risposto, Severus.
S’era limitato ad abbassare lo sguardo, ad osservarsi le mani che ancora erano saldamente aggrappate alle lenzuola e che si ostinavano a non raccogliere piuma e block notes per dire qualcosa, qualsiasi cosa.
Il silenzio che era sceso nella stanza faceva riecheggiare ancora di più le parole che erano state da poco pronunciate.
Minerva era ancora accanto a lui, muta ed immobile, aspettandosi una sequela di rimproveri che l’avrebbe autorizzata a star male e meritatamente. Non poteva credersi perdonata nemmeno lei, non ancora.
Il siparietto giocoso avvenuto prima tra le medesime pareti sembrava essersi dissolto come iridescente e fragile bolla di sapone.
Un istante, poi un altro ancora.
L’immobilità regnava sovrana, fino a che Minerva non l’aveva bruscamente interrotta. S’era infilata velocemente il mantello, aveva raccolto il libro ed era scomparsa alla sua vista. La porta della camera d’ospedale non s’era ancora chiusa e già il mago aveva percepito un singhiozzo accorato provenire dal corridoio.
Quando Severus aveva finalmente alzato gli occhi un petalo rosso sangue si stava giusto staccando dal papavero dondolante per planare placidamente sul pavimento lucido.
 
 
 
Il freddo pungente lo costrinse a ritornare al presente per stringere i pugni nelle tasche del mantello. La settimana dopo quell’episodio lui era stato dimesso dall’ospedale ed Hogwarts aveva insistito per essere la sua vera casa.
No, Minerva aveva insistito, comportandosi come se quel pomeriggio non l’avesse minimamente turbata. Non le aveva più pronunciate quelle parole, ma i gesti di lei erano tornati a farsi eloquenti, sincere dichiarazioni di scuse e di materno affetto che non mancavano mai di farlo sentire disorientato e sempre immeritevole. Se la conosceva bene, lei non aveva ancora smesso di rimproverarsi per quegli attimi di umanissima debolezza che l'avevano sopraffatta.
E sì che non gli sarebbe dispiaciuto per nulla poter ricambiare quella frase con altrettanta sincerità. Risponderle, non aspettare ancora ed ancora, prima che fosse troppo tardi anche per lei. Ed avrebbe perso una madre per la seconda volta, senza averle fatto capire quanto le era legato.
Risponderle, per metterle l’animo in pace e forse per trovare pace egli stesso, far cadere definitivamente anche l’ultima maschera.
Ma i rimorsi e la rinascita intanto continuavano con il loro tiro alla fune ed i primi gridavano con voce più alta che nessuna maschera caduta avrebbe mai cancellato il suo passato di colpa.
 
Il presente gli si palesò in un sospiro rumoroso, in un corpo che sposta il proprio peso da una gamba all’altra facendo scricchiolare la neve sotto di sé e in un paio di occhi azzurri che lo squadravano senza fretta.
Aberforth attendeva senza proferire parola.
Associarlo al presente quasi gli fece venire un capogiro.
Non ci aveva mai pensato.
Aberforth che aveva abbandonato ogni rancore. Che aveva pianto il proprio dolore giusto lì, davanti a lui.
Che gli aveva chiesto di posare ogni fardello durante una luminosa notte estiva.
In due iridi così simili a quelle di un amico perduto per sempre Severus vi lesse solo tranquillità, senza alcuna ombra ad offuscarle.
Forse Aberforth sapeva come fare meglio di lui.
Forse lui poteva addirittura… farsi aiutare? Quell’idea gli suonò balzana e giusta nel medesimo tempo.
La verità era che, per quanto si sentisse ancora immeritevole di qualsiasi perdono e per quanta sopportazione potesse avere in sé, Severus Piton ne aveva sinceramente abbastanza di barricarsi dietro una coltre impenetrabile di dolore. La vita che gli era stata regalata reclamava a gran voce e scalpitava per essere vissuta, non sopportata di malavoglia.
La zattera di salvataggio era accanto a lui, così come lo era stata mesi prima.
Forse era davvero giunto il momento di issarsi per navigare verso lidi più tranquilli.
Fissò intensamente Aberforth, lasciando che fosse il suo sguardo a parlare per lui.
Il vecchio mago rispose, spezzando finalmente il silenzio e dando il primo colpo ad una catena che non aveva più motivo di esistere.
«Sai, c’è un proverbio Babbano che recita “non è mai troppo tardi”» bianche nuvolette di fiato gli uscirono dalla sciarpa e gli appannarono un po’ gli occhiali. «Se volevi testarne la validità ti avviso che hai quasi superato il limite di guardia.»
Burbero come sempre, Aberforth. In quello era una vera e propria garanzia.
Si scostò la sciarpa dal viso per non continuare ad avere gli occhiali appannati, lasciando intravedere una sorta di smorfia sotto la folta barba grigia.
«Ma credo che tu sia ancora in tempo, testardo Ippogrifo che non sei altro.»
 


*****

Angolino autrice: e secondo voi lo posso postare senza dire che forse - forse! - ci metterò mano per correggere qualche sinonimo o qualche frase? No, non lo posso fare. Ci sto lavorando da due mesi, roba da vergognarsi.
In realtà avrei voluto finire la storia già in questo capitolo, ma mi sono accorta che così rischiavo di far passare in sordina questo mutamento in Severus. Il punto di svolta qui è tutto suo, non lo posso affiancare ad altro.
Se avete crtiche negative, vi invito caldamente a non seguire il titolo del capitolo, ma ad esprimerle liberamente. :D Idem per qualche parola positiva che potreste aver voglia di spendere.

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