Come eravamo.

di ClaryMorgenstern
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I - Cookies and friends ***
Capitolo 2: *** Parte II; Memories of all the time ***
Capitolo 3: *** Parte III; Le fleurs de mal ***
Capitolo 4: *** Parte IV; Beautiful. ***
Capitolo 5: *** Parte V; Enough ***
Capitolo 6: *** Parte VI; Roses ***
Capitolo 7: *** Parte VII; Poker face. ***



Capitolo 1
*** Parte I - Cookies and friends ***


Parte I - Cookies and friends.

«Ma non puoi lasciarmi!» calde lacrime sgorgarono dagli occhioni verdi della bambina, guardava la mamma con un sguardo implorante e supplichevole come se stesse per abbandonarla davvero lì.
«Tra poco torneremo, lo sai.» Jocelyn le accarezzò piano la testa cercando di non rovinare i capelli di Clary raccolti in lunghe trecce rosse.
Zio Luke si chinò un ultima volta ad abbracciarla. «Ci vediamo dopo, principessa.»
E sparirono dietro la porta. Anche se Clary non poteva vederla, sapeva che la sua mamma soffriva a lasciarla da sola. Ma non era una buona scusa per lasciarla .
Torneranno. Si ripeteva la bambina per farsi coraggio. E asciugandosi le ultime lacrime orgogliosa come una leonessa entrò nella porta dietro di lei con lo zainetto verde in spalla.
Ed il suo coraggio venne meno. Clary non si era mai sentita così spaesata in vita sua. Non aveva mai visto bambini della sua età e in quel momento desiderò non averlo mai fatto.
Urlavano, scalpitavano, erano sporchi di briciole di biscotti e latte e soprattutto, quando la porta si chiuse dietro di lei come le porte di una prigione, Cominciarono a guardarla come se lei fosse un'aliena.
Clary non sapeva cosa fare, pensando alla mamma e allo zio Luke trovò la forza di andarsi a sedere in una delle panchine libere del cortile tenendo stretta fra le esili braccia lo zainetto verde cercando di trarne conforto.
Si sentiva spaesata li in mezzo, non sapeva cosa fare o con chi parlare. Mai in vita sua desiderò così tanto la sua mamma.
«Ehy tu!» Clary pregò in tutte le maniere che non si stessero rivolgendo a lei, quando un bambino troppo cresciuto si avvicinò a lei insieme ad un gruppetto poco rassicurante. «Cos'hai lì dentro?»
«Niente.» disse lei con voce flebile stringendo ancora di più lo zaino. Fu inutile, il bambino le prese lo zaino dalle mani con un unico strattone. Clary strillò e tentò di riprenderselo ma il bambino era troppo alto e aveva troppi amici a cui lanciarlo.
Clary tentava di riacchiappare lo zaino quando sentì una vocina urlare da dietro di lei: «Lasciatela in pace!»
La bambina si voltò e vide un ragazzino correre tutto affannato verso di loro, aveva i capelli castani e dolci e rassicuranti occhi scuri incorniciati da degli occhiali che dalla corsa stavano di traverso sul viso. «Ridatele lo zaino!» disse raddrizzandoli.
Il gruppetto di bambini si mise a ridere ed il più alto gli diede uno spintone facendolo cadere a terra.
Clary guardò quel bambino cadere con gli occhi spalancati, e fu quello a farle prendere coraggio. Si voltò e corse tutta trafelata verso il ragazzino che aveva spintonato l'altro. Batte con i piccoli pugni sul suo petto per bloccare la sua risata odiosa gridando agguerrita. «Lasciatelo stare, stupidi!» 
Quando uno dei pugni che Clary stava tirando andò a segno il ragazzetto fece un verso soffocato gettandosi all'indietro.  La guardò con gli occhi spalancati arrossendo. «Andiamo.» disse alla sua combriccola. Lasciarono lo zainetto e veloci come erano arrivati sparirono.
Clary si chinò accanto al ragazzino che stava ancora cercando i suoi occhiali. Clary glieli porse. «Mi dispiace.» disse rossa in viso.
«Non è niente.» disse il ragazzino con un sorriso. «Sei stata una forza!»
«io.. Io..» balbettò Clary.
«Io sono Simon.» disse mettendosi a sedere. «tu come ti chiami?»
«Clary» disse smettendo di balbettare.
«Fico!» disse Simon facendola sorridere.  Gli tornò in mente lo zainetto. «aspetta.» corse tutta trafelata verso lo zainetto e recuperò il contenitore trasparente ancora intatto. Lo aprì e lo porse al ragazzino. «vuoi?»
Simon annuì entusiasta e mentre insieme divorarono i biscotti di Jocelyn con gocce di cioccolato, Clary capì di aver trovato il suo primo amico.
Il suo migliore amico.

«Simon? Mi stai ascoltando?»

Un grugnito dall'altra parte del divano le disse di si.
Forse non erano cambiate così tante cose, Solo che Simon era un vampiro e che Clary una Nephilim, e non due liceali sfigati che il sabato sera guardavano anime in TV.
Ma certe cose non cambiano mai.

«Simon?» Un altro grugnito. Ah, gli uomini. «Ti ho mai detto che ti voglio bene?»

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Capitolo 2
*** Parte II; Memories of all the time ***


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Capitolo 3
*** Parte III; Le fleurs de mal ***


Okey, non picchiatemi per questo obrobrio.
E' uscito fuori da solo, non so neanche io da dove.

 

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Capitolo 4
*** Parte IV; Beautiful. ***


Come eravamo; Parte IV - Beautiful



New York.  13 Novembre 1999.

 

In compenso erano un bel gioco gli scacchi. Erano pura logica ed astuzia, con qualche mossa astuta l'intera partita poteva essere ribaltata. Inoltre, vinceva sempre.

La mano affusolata di un bambino - una mano ancora piccola e illesa. Senza cicatrici, senza marchi scuri -  si strinse intorno alla torre bianca e la porto in parallelo al Re nero per lasciarlo intrappolato.

Come le torri antidemoni ad Alicante intrappolano i demoni.

Il bambino fece un sorriso. «Scacco matto.»

La sua sfidante non era soddisfatta come lui. Era più piccola di lui di un anno e mezzo, ma era quasi alta quanto il ragazzo. Non aveva i limpidi occhi azzurri di lui - quelli di lei erano scuri e profondi, come il cielo di notte - ma aveva la sua stessa chioma nera liscia e composta, stretta da un fiocco azzurro, e i suoi stessi tratti delicati, quasi angelici. Alec pensò che sua sorella fosse bellissima.

E pensò anche che, se glielo avesse detto in quel momento, forse avrebbe evitato che gli occhi della bambina si tingessero di rabbia e che con un solo movimento veloce - che lo stesso Alec faticò a vedere -  gettasse a terra la scacchiera con tutti i pezzi. Il pavimento della sala da pranzo era un campo di battaglia di pezzi di scacchi.

Izzy strinse le mani al petto e assunse un espressione fiera. «Gli scacchi sono un gioco per vecchi.» disse seria.

Alec si mise a ridere ed insieme alla sua  testardissima sorella cominciò a raccogliere i pezzi dispersi sul pavimento.

La porta della sala si aprì e la sua mamma comparve sulla porta. Era bella la sua mamma, con i lucidi capelli scuri e i limpidi occhi azzurri sempre brillanti da sei mesi a questa parte, ovvero da quando la sua pancia aveva cominciato a diventare enorme.

«Alec? Izzy? » Si avvicinò piano ad Alec passando una mano tra i suoi capelli. Adorava quando la mamma lo toccava. così.

Non era una cosa che faceva troppo spesso. «Venite in biblioteca. C'è qualcuno che vi voglio far conoscere.»

Izzy applaudì eccitata saltando sulla sedia. «E' arrivato mamma? Davvero? » e si gettò a capofitto nelle braccia della mamma stringendo con le mani piccine il pancione. «Hai sentito fratellino senza nome? E' arrivato il nostro nuovo fratello!»

Sua mamma si concesse un sorriso smagliante mentre prendeva per mano Izzy e conduceva i due fratelli verso la biblioteca.

Probabilmente Alec non avrebbe mai dimenticato quel momento, per un motivo o per un altro. Quando sua madre schiuse la pesante porta di quercia e un Alec di dodici anni vide per la prima volta il suo parabatai, quando vide per la prima volta Jace Wayland. Se ne stava seduto sul divano, infagottato in abiti troppo pesanti e ingombranti, guardandosi gli stivali incrostati di fango e stringendosi le gambe come alla ricerca di altro calore. Ricordava di aver pensato che i suoi capelli avevano il colore dei raggi del sole che filtravano dalla finestra le domeniche mattina d'estate, e che i suoi occhi avevano l'esatta sfumatura del caramello che sua mamma versava sui Pancake.

E pensò che fosse bello anche lui.

 

 

New York.14 Marzo 2008

 

«E' il meglio che sai fare?  Ti stai rammollendo Jace.»

Ovviamente, Jace ghignò.

«Non ti conviene farmi irritare Alec. Sarai anche il mio parabatai, ma niente mi impedisce di prenderti a calci nel culo.»

Continuavano da anni quelle scaramucce durante gli allenamenti.  Erano gli unici momenti in cui Jace gli parlasse con assoluta libertà. Certe persone avrebbero anche potuto non sopportare tutta quella reticenza, ma Alec aveva imparato ad apprezzare Jace, ad amare Jace in tutto e per tutto.

Alec provò a rompere le sue difese con la Guisarma con cui adesso si allenava. Jace era un cacciatore esemplare però, e mantenne la difesa. Niente poteva distrarlo.

Beh, quasi niente.

«Jace, Alec? Siete qui?» Clary entrò in palestra con passo incerto, i capelli rossi raccolti in un maniera disordinata sul capo le lasciavano cadere ciocche cremisi sul viso. Sulle mani aveva macchie di colore secco e aveva l'odore di colori a tempera ed acqua ragia.  Alec gettò un occhiata a Jace. E successe qualcosa.

Un secondo prima Jace era davanti a lui ad allenarsi insieme, affiatati e precisi. Un secondo dopo la spada era abbandonata a terra e con le mani accarezzava dolcemente il viso di lei, mentre con passione catturava le sua labbra.

Alec sorrise. E pensò che fossero belli insieme.


Note dell' autrice.

Come alcuni di voi avranno notato, questa storia non è nuova. L'avevo già pubblicata in Idris's Heartbeat e sarebbe dovuta essere la seconda, ma.. emmm me l'ero dimenticata. Scusate. L'ho ritrovata oggi nella cartella delle storie. 
Volevo poi farvi sapere che non sono morta, davvero. Faccio solo il terzo liceo e per quelli di voi che sanno che significa possono comprendermi xD Ma non mi sono dimenticata della promessa fatta: Scriverò "Città di cenere" dal punto di vista di Jace.  Promesso. Adesso mi sto dedicando ad un altro progetto, però. Sempre su Shadowhunters, che sta prendendo tutto il mio tempo. Appena me lo sarò cacciato dalla testa scriverò la città di Cenere. Chiedo scusa se sono così lenta, ma sappiate che non è fatto apposta.
Spero, a presto.
ClaryMorgenstern

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Capitolo 5
*** Parte V; Enough ***


Come eravamo; Parte V  - Enough
 
«Alexander!»
Alec si girò ed uscì dalla palestra senza voltarsi indietro. Corse per un tempo che gli parve infinito, cercando un posto nell'immenso edificio, quale era l'istituto, dove potersi nascondere.
Stremato, alla fine di quella corsa, trovò una delle stanze libere per gli Shadowhunters in viaggio. Senza pensarci due volte aprì le ante di legno lucido di un armadio e si chiuse al suo interno.
E solo allora cominciò a piangere. Si sentiva in imbarazzo, troppo grande per versare tutte quelle lacrime, nascosto e da solo, troppo grande per avere così paura. Ma non poteva impedirlo. Non poteva impedire quello che doveva affrontare, proprio perché era grande abbastanza.
Dopo dieci minuti, le lacrime si fermarono da sole. Alec poggiò la testa sul legno dell'armadio. Pensando con più lucidità, forse era meglio uscire ed affrontare la cosa da vero Shadowhunters. Ma le gambe non volevano collaborare, e neanche lui.
Aveva visto troppe volte il dolore causato dalle rune, per non avere paura. Aveva sentito sua madre gemere di dolore, mentre suo padre le passava lo stilo incandescente sulla pelle.  Aveva letto tanti libri, sulle rune. Su quello che possono causare, se non si è forte abbastanza da sopportarle: Incubi, febbre alta, rigetti violenti, emicranie e, in rari casi eccezionali, la morte.
E Alec non era abbastanza forte. Aveva dodici anni. Era giovane, era inesperto. Si, aveva un'ottima mira con l'arco, ma ciò non faceva di lui un buon cacciatore.
Jace era un buon cacciatore. Lui era veloce, era forte, era agile. Talvolta, mentre venivano preparati da Hodge, Jace scattava così velocemente che Alec non lo vedeva neppure: Un secondo era lì, l'attimo dopo era dietro di lui brandendo una spada, con la coincidenza di pensiero e azione.
Ma Jace era ancora troppo giovane, per ricevere il primo marchio. A parere di Hodge anche troppo inesperto, e impaziente.
Alec avrebbe volentieri fatto a cambio.
In quel momento, un fascio di luce da sotto le ante gli fece sapere che qualcuno era entrato nella stanza. Allora le porte dell'armadio si aprirono e Jace gli gettò un'occhiata interessata, di traverso. «Lo sai che ti stanno cercando tutti, vero?»
Alec tirò su col naso. Jace adorava fare domande dall'ovvia risposta.  «Già»rispose Alec.
«E hai intenzione di uscire da lì?»
«No.»
Jace allora si issò sull'armadio e si sedette accanto a lui, facendolo rimanere un po' stretto e chiuse le ante dell'armadio. «Okey, allora» Jace era nato e cresciuto ad Idris, e solo di recente aveva cominciato ad usare espressioni tipicamente americane come Okey. Lo fece sentire leggermente rincuorato.
Stettero in silenzio per alcuni minuti. Beh, quantomeno Alec. Jace canticchiava una canzone che Alec conosceva bene: Era la ninna nanna che sua mamma gli cantava quando aveva gli incubi, la notte. A la claire fontaine m'en allant promener []. E Jace gliela stava cantando adesso che aveva paura. 
Alec gli diede uno spintone. «Ahi!» si lamentò lui. «Perché l'hai fatto?»
«Perché sei un idiota»
Jace lo guardò truce.«Senti chi parla: Il fifone chiuso nell'armadio»
Alec resse il suo sguardo. «Non sono un fifone»
Jace gli fece un gran sorriso canzonatorio. «Dimostralo, allora»
«Bene!» Alec aprì le porte dell'armadio e scattò in piedi. Percorse il tragitto che l'aveva portato lì a ritroso, con Jace al seguito. Non ne era certo, ma gli sembrava che sorridesse.
Arrivato alle porte della palestra si fermò. Ripensando al sorriso canzonatorio dell'amico, e per sbattergli in faccia che era molto più coraggioso di lui, prese un bel respiro e aprì la porta.
Sua madre era lì, insieme al tizio del Conclave pronto a fargli il marchio. Lo sgridarono parecchio, ma Alec non li ascoltò nemmeno. Si mise al centro della sala, in attesa. Vide che Jace si era seduto su una cassa contenente armi, a guardare la scena divertito. Alec gli fece la linguaccia.
Appena il tizio del conclave gli si avvicinò con lo stilo, perse buona parte del coraggio che l'aveva portato fin lì. Alzò lo sguardo su Jace. Non lo guardava con sfida, né con la sua solita aria da idiota arrogante. Lo guardava con incoraggiamento, come a dirgli che lui sarebbe stato lì, con lui, in ogni caso.
Quindi Alec non ebbe più paura, quando lo stilo gli toccò la pelle tenera della mano. Faceva un male del diavolo, ma non scappò, né pianse.
Ebbe degli incubi, quella notte. E Jace rimase con lui. Tutto il tempo.
 
 
«Non fare il fifone, Wayland.» Alec alzò la maglia di Jace, steso a terra vicino alle rotaie. Aveva parecchi lividi e contusioni. Anche la spina dorsale sembrava lesa, oltre al braccio rotto e alle diverse costole spezzate. Alec pensava che fosse il minimo, per un idiota che si gettava dalla metropolitana in corsa per catturare un Eidolon intrufolatosi sul treno.  «Sta fermo» gli disse. «Non riesco a fare l' Iratze se ti muovi così»
Jace rise, assumendo una smorfia di dolore per le costole rotte. «Che ne dici di farmi questo benedetto Iratze prima che faccia giorno, Alec?»
Alec posò lo stilo sulla pelle tesa del ragazzo. l'iratze apparve sulla sua pelle in una vorticosa serie di linee scure. Appena sollevò lo stilo, Jace emise un sospiro di sollievo. «Molto meglio» sentenziò.
«Quando vuoi» disse Alec, alzandosi e infilando lo stilo nella cintura. «ma la prossima volta che ti butti dal treno in corsa, ti lascio lì»
Jace rise, sotto il sangue e la cenere. «Non lo faresti mai»
Alec alzò gli occhi al cielo. «vero» sospirò.

***

Visto che non ci ho messo un mese? *si autoconvince di non essere stata lenta*

 
 

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Capitolo 6
*** Parte VI; Roses ***


Come eravamo; Parte VI - Roses.

Il bambino strascicò i piedi lentamente lungo il corridoio silenzioso. Gli Shadowhunters, gli avevano detto, avevano un udito molto fine e il sonno leggero. Sarebbe bastato anche un piccolo capitombolo e tutti si sarebbero svegliati di colpo. Quindi camminava con una mano appoggiata alla parete in caso di cadute improvvise. Arrivò alla porta desiderata in un po' più di tempo del normale e bussò timidamente un paio di volte contro la porta di legno lucido.
Normalmente gli avrebbero aperto subito persino alle tre del mattino. Ma Max sapeva che Isabelle non avrebbe interrotto il suo sonno di bellezza per pochi rintocchi. Così riprovò più volte fino a quando non vide la porta aprirsi e sua sorella comparire sulla porta in un pigiama minuscolo, con i capelli neri intrecciati sulla nuca con qualche ciocca sfuggita alla presa. «Max» biascicò mezza addormentata. «Farò finta che tu non mi abbia svegliato nel bel mezzo della notte» un mezzo russare accompagnò le sue parole. «Sogni d'oro» e fece per richiudere la porta ma il bambino si era già infilato svelto nel vano, non ancora all'interno della stanza, per evitare che Izzy chiudesse la porta. «Scusa se ti ho svegliato.» disse piano, sembrava quasi un lamento di un pulcino spaventato. «Ho fatto un brutto sogno. Posso dormire con te?»
«Alec...» provò a dire Izzy, ma Max la bloccò subito. «Alec non c'è. Sarà ancora in missione.» la sua voce aveva un che di supplichevole.
Isabelle sospirò e Max seppe così di averla avuta vinta. Si fece da parte per far entrare nella stanza il fratello minore che, ovviamente, sgattaiolò dentro velocissimo per non darle il tempo di ripensarci e si accoccolò sul grande letto della sorella, poco più grande di quelli delle altre stanze dell'istituto.
«Allora Buonanotte» disse Izzy e, sospirando di sollievo, si gettò sul grande letto senza troppi complimenti.
Max stette in silenzio per qualche secondo, poi ticchettò sulla spalla della sorella. «Izzy?»
La ragazza aprì un occhio solo, guardandolo dal basso della sua posizione. «Che c'è?»
«Mi racconti una favola?»
Isabelle lo guardò truce, puntellandosi sui gomiti per guardarlo negli occhi. «Stai scherzando, vero?»
Max non rispose, ma strinse un cuscino fra le braccia e la guardò coi suoi enormi occhi azzurri dietro le lenti spesse degli occhiali che aveva ancora addosso. Isabelle si gettò con la faccia sul cuscino, disperata.
Con un sospiro esasperato, si rigirò sulla schiena, guardando le pareti nere e dorate della sua camera. «C'era una volta un topo.»
Il bambino sorrise soddisfatto, sdraiandosi al suo fianco. «Un topolino?»
«Si, un topolino.» confermò Izzy. «Questo topolino era uno scrittore, caporedattore dell'Eco del Roditore, il giornale più famoso dell'isola di Topazia...»
«Ma Topazia non esiste...»
«Tu zitto e ascolta. Un giorno questo topolino, che si chiamava Geronimo, incontrò una topolina femmina. Una topolina bellissima, elegante e sofisticata. Insomma, una versione topesca di me.» rise. «Geronimo ne fu follemente innamorato, pensa che idiota: Le inviò persino tredici dozzine di rose rosse. Ma lei non era innamorata di lui e lo ignorava. Così, per conquistarla, Geronimo decide di partire per una missione pericolosissima nell'isola Farfalla..»
«E neanche questa esiste.» la voce di Max era sempre più flebile e assonnata.
«Hai finito di interrompere? La missione riesce e Geronimo torna a casa da eroe. E chi trova alla redazione del giornale ad aspettarlo? La sua amata che, una volta che Geronimo era diventato famoso, ha capito di amarlo alla follia. Hai capito che sciacquetta?»
Max non rispose, così Izzy continuò. «Ma Geronimo non era mica scemo. Tornato a casa si era reso conto di non essere innamorato di lei, ma di aver solo fatto l'idiota. E così lascia la sua Provolinda, si chiamava così la topolina, col cuore spezzato. Così si impara a essere così deficiente, vero Max?»
A giungerle in risposta fu il russare sommesso di Max, addormentato di colpo. Isabelle fu inondata di tenerezza e gli tolse gli occhiali che aveva ancora addosso, prima di accoccolarsi sul guanciale al suo fianco e sprofondare anche lei nel mondo dei sogni.

 
Isabelle camminò veloce per le strade di Alicante. Da quando Clary, Jace e i suoi erano così impegnati con il Conclave e quegli stupidi accordi riusciva a tornare più spesso nella città natale degli Shadowhunters. Non che le facesse piacere. L'aria odorava ancora di bruciato. Le vie acciottolate sapevano ancora del sangue versato. Sentiva ancora il sapore del dolore sulla lingua. Alicante era ancora a pezzi per la guerra, anche se ad occhi esterni poteva sembrare tutta intera.
Arrivare alle colline la fece tornare a respirare come si deve. Conosceva a memoria la strada per arrivare alla sua destinazione. Anche ad occhi chiusi sarebbe riuscita a camminare tra le lapidi che sorgevano come pallidi fiori dalla collina.
La tomba di Max sorgeva nel mausoleo di famiglia: Piccola. Pallida. Libera, a differenza delle altre lastre presenti nel mausoleo, dai rampicanti che si intrecciavano sulla pietra.
Si inginocchiò lì davanti, incurante della terra che le macchiava le calze. Una sola, piccola, lacrima le sfuggì dagli occhi scuri, bagnando l'erba appena cresciuta. Gettò via i fiori che non avevano avuto il tempo di seccarsi e posò una sola rosa rossa. Si sporse un poco e baciò la lapide una volta, prima di alzarsi in piedi e fare per andarsene.
Ma sulla porta si fermò all'improvviso. «Tredici dozzine. Che esagerazione» disse, un po' seccata.  «A me non piacciono nemmeno le rose.»

Note dell'autore:
Per la serie: Alle volte ritornano.
Per chi non lo conoscesse, o non lo avesse riconosciuto, il topolino è proprio Geronimo Stilton ** Più precisamente è "Tutta colpa di un caffè con panna", una delle mie storie preferite di quando ero piccola, insieme a "Il sorriso di Monna Topisa". Si vede che non ho mai sopportato quella sciacquetta di Provolinda, vero? D:

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Capitolo 7
*** Parte VII; Poker face. ***


A tutti coloro che erano lì per me, quando tutto
ciò di cui avevo bisogno era una spalla su cui piangere.
Love you so much.


Come eravamo; Parte VII - Poker face.

Lady Belcourt sorrise. «Mi sembra di aver vinto, messere
Il mondano guardò sconsolato prima le sue carte, aperte a ventaglio nelle mani annerite probabilmente dal carbone, e poi sulle carte di Camille, poggiate con eleganza di fronte la vampira in una scala reale ordinata.
Magnus Bane era in piedi dietro la sua dama, poggiando con eleganza un gomito sul camino. Non era molto pratico con le carte, se si escludevano le volte in cui il mazzo volgeva magicamente a suo vantaggio. Preferiva stare a guardare Camille che con un sorriso dolce riusciva a rendere mesta anche la sconfitta e gli anni di risparmi che sottraeva ai suoi sfidanti.
Magnus adorava Camille. Lei era una tigre intrappolata nel corpo di una farfalla, che con una carezza riusciva a farti spuntare le ali, senza bisogno alcuno di magia. Era sua amante da qualche decennio, ormai, e ancora desiderava starle accanto, così come lei.
C'erano state volte, in quel tempo, in cui Magnus aveva pensato che sarebbe potuto rimanere per sempre con Camille Belcourt. Viaggiare per il mondo, scoprirne  le meraviglie insieme all'umanità, cambiare in ogni secolo per rimanere sempre gli stessi, giorno dopo giorno.
E poi c'erano le volte in cui sentiva di non sopportare l'idea di stare per sempre con lei. In cui una vita legata solo a lei come unica cosa reale non sarebbe stato abbastanza, per nessuno dei due.
Camille era dolce, forte e passionale. e, anche solo per il momento, non se ne sarebbe voluto separare.
La vampira alzò lo sguardo su di lui, portandosi il bicchiere alle labbra piene e delicate. «Sembra che stasera la fortuna sia con me, Magnus»
«Oh, io non ci scommetterei l'eternità, Madame»
Era stato un ragazzo a parlare, appena sedutosi nel posto lasciato vuoto dall'uomo dalle mani annerite.
Magnus si morse la lingua per non spalancare la bocca.  Di cose ne aveva viste, al mondo. Di luoghi meravigliosi e donne e uomini splendidi, e ne aveva avuti altrettanti, ma il ragazzo che sedeva lì di fronte andava oltre ogni sua conoscenza.
Di statura alta anche da seduto, aveva la pelle del bel colore della crema chantilly, i capelli neri come l'ebano e altrettanto lucenti, mediamente lunghi e sbizzarriti come un mare in tempesta, e proprio al mare si potevano paragonare i suoi occhi.
Pozze blu oceano. Altrettanto profonde, altrettanto facile scomparirvi.
Lady Belcourt poggiò il mento sopra le mani intrecciate elegantemente chinando la testa per osservare meglio il ragazzo. «Un nuovo arrivato» disse piano. «Qual è il vostro nome?»
Quello prese le carte e le mischiò. Anche se la sua voce sembrava così sicura, sembrava inesperto nel rimescolare le carte come uno scolaro che rubava il mazzo dagli effetti del padre. «Se riuscirete a vincere il mio denaro, avrete vinto anche il mio nome»
Gli occhi di Camille scintillarono alla luce soffusa delle candele. Magnus si avvicinò al tavolo da gioco, incuriosito.
Bellezza e sfida. Quel ragazzo stava offrendo a Camille le due cose che lei amava di più.
Oltre, s'intende, al potere puro e semplice.
Giocarono in silenzio, un giro alla volta in un set da una sola mano. Il ragazzo non alzò mai lo sguardo dalle sue carte mentre Lady Belcourt si prendeva tutto il tempo di osservarlo bene.  Al fold, il mondano alzò lo sguardo sul suo. Magnus vide brillare un divertimento che aveva visto poche volte nel corso della sua esistenza.
«Prima le signore» disse con leggerezza.
Camille fece il sorriso alla Monna Lisa che Magnus adorava e detestava allo stesso tempo. Mosse il polso con delicatezza, scoprendo le cinque carte rosse. «Colore» asserì delicatamente.
Il ragazzo sgranò gli occhi sulle sue carte e gli si tinsero le guance di rosso. Magnus pensò che fosse un'espressione canonica in certi casi che diceva Ho perso tutto quanto.  E vide dallo sguardo di Camille che anche lei la pensava allo stesso modo.
Ma quando il ragazzo posò le carte sul tavolo, mostrando la sua scala di colore, sarebbero state le guancie di Camille a tingersi di rosso, se avessero potuto. Un mondano non l'aveva mai battuta. Mai.
Il ragazzo prese le venti sterline dal tavolo, stringendo la mano che Camille gli porgeva con un perfetto bacia mano che gli fece sentire la bocca secca. «E' stato un piacere, Lady Belcourt» disse. Prima di incamminarsi verso la porta, le fece un piccolo inchino. «I migliori omaggi da William Herondale.»


Camille scosse i capelli, infastidita. Non le era mai piaciuto aspettare nessuno, tantomeno una qualunque strega americana che aveva attirato l'attenzione del Magister con le sue doti particolari. Magnus non c'era, quella volta. l'aveva lasciata sola per un impegno improvviso. Tanto meglio. Si stava cominciando a stancare di lui, sfortunatamente. Magnus le piaceva, ovvio, ma da qualche tempo aveva perso quel Je ne sais quoi che all'inizio l'aveva così attratta verso di lui.

Camille non credeva nell'amore. Aveva vissuto troppo a lungo e troppo a fondo per credere a certe sciocchezze da giovani sciocchi. Credeva nella passione e nel profondo legame, ma l'amore era qualcosa da lasciare ai romanzi.

Doveva trovare una qualche scusa per far finire la relazione con Magnus. Durava da troppo tempo per lasciarla così, in sospeso. E sorrise, sapendo di averla trovata, quando vide la porta del rifugio aprirsi.

«William Herondale.» un sorriso languido, scoprendo i denti bianchi. «Siete venuto a salutarmi.»

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