Achilles' Heel

di LauFleur
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un anno ***
Capitolo 2: *** Dieci mesi ***
Capitolo 3: *** Sei mesi ***
Capitolo 4: *** Tre mesi ***
Capitolo 5: *** Due mesi ***
Capitolo 6: *** Un giorno ***
Capitolo 7: *** La fine ***



Capitolo 1
*** Un anno ***


Titolo: “AchillesHeel”.

Genere: azione, sovrannaturale.

Pairing: Wincest.

Rating: arancione.

Warning: slash, lemon.

Contesto: fine seconda stagione/terza stagione.

Note: Dopo mesi di tentennamenti, ce l’ho fatta. Amo Supernatural, amo alla follia Sam e Dean, e se vi sembra che stia bestemmiando e/o stuprando i Winchester ditemelo e cancello tutto.

Ringrazio Marghe, di cuore, che ha letto e corretto. Senza i suoi commenti e il suo appoggio molto probabilmente non mi sarei mai decisa.

____________________

 

 

Un anno.

 

Un pugno contro il muro.

Un ruggito spezzato in gola.

Un rumore sordo che cercava di coprire il silenzio della morte.

La mano ferita iniziò a tremare, il sangue arrivò subito. Ma il dolore, quello no. Ancora non arrivava. E, accasciandosi contro il muro, Dean si chiese se l’avrebbe mai fatto. Se ci fosse mai stato spazio, per un dolore che non fosse lui.

Si prese la testa tra le mani, sperò che potesse esplodere. Strinse i denti, e alla fine lo guardò.

Un’altra volta, un’altra ancora.

Sdraiato su un materasso spoglio, sporco, abbandonato. Un materasso che non era il suo.

Niente letto, niente lenzuola pulite, niente luce. Solo sporcizia, buio e solitudine.

Un istante che sembrava fotografare le loro intere vite. Un ironico segno del destino, che per l’ennesima volta si prendeva gioco di loro.

Gli aveva intrecciato le mani, gliele aveva posate sul petto. Sopra quella camicia e quel giubbotto che l’avevano accompagnato per un’infinità di giorni e notti. Giorni passati sul sedile dell’auto, notti ad occhi chiusi disteso su qualche sconosciuto letto di uno sconosciuto motel. Camicia e giubbotto sporchi e logori. Anche quelli. Anche loro.

I capelli erano spettinati, alcuni gli ricadevano sulla fronte. Si avvicinò con una mano alzata, pronto a sistemarli. Pronto a prendersi cura del suo Sammy. Perché era quello che doveva fare, quello che voleva fare. L’unica cosa che gli era sempre riuscita. Ma poi gli vide la bocca: una linea immobile stampata su un viso pallido. Non c’era un sorriso, non c’era una smorfia. Non si apriva per parlare, per prenderlo in giro, per chiamarlo. Erano labbra scure, fredde… morte. Adesso, sconosciute anche quelle. Non le sapeva riconoscere e si impaurì, proprio lui che non aveva mai paura di niente.

Tornò ad accasciarsi contro il muro.

La voglia di voltarsi, dargli le spalle, cercare la bottiglia di whisky e svenire scordando il dolore era tanta. Troppa. Ma si sforzava di restare, di calmarsi, di pensare. Trovare una soluzione. Perché una soluzione c’era. Ci doveva essere. Perché poteva sopportare tutto, tutto. Una vita senza sua madre, senza suo padre, senza amici. Una vita da nomade, schiacciato dai sensi di colpa, trascinato da una città a un’altra. Poteva sopportarlo, lo sapeva. C’era abituato, era addirittura… bravo.

Ma questo no.

Sam morto e freddo davanti a lui, perso e impotente.

Questo no.

Mai.

E fu proprio questo che gli dette la spinta per alzarsi, fu questa la molla. Ancora una volta la sua forza fu lui: suo fratello. La convinzione che senza di lui non ce l’avrebbe mai fatta. La consapevolezza che, senza Sam, lui non poteva vivere.

Sentì una lacrima – una soltanto – bagnargli la guancia. Si passò la mano sulla faccia e la cancellò.

Controllò i documenti che gli servivano, recuperò il cappotto e la pistola.

Si avvicinò alla porta stringendo i denti così forte che si sarebbero potuti spezzare da un momento all’altro. Prima di andarsene, si voltò un’altra volta. E, un’altra volta, lo guardò. Uno sguardo non corrisposto, pieno di promesse sull’orlo della disperazione.

Un pensiero, una supplica, due parole: lui no.

 

Sam sentì l’aria risucchiata dai polmoni, sbarrò gli occhi e fu subito seduto. Gli girava la testa, le gambe sembravano addormentate, una fitta di dolore gli spezzava la schiena. Cercò di respirare regolarmente, si sforzò per fare luce sulla confusione che sembrava circondarlo.

Alzò la testa e la prima cosa che vide furono i suoi occhi verdi, incassati da due occhiaie scure. Era accasciato su una sedia, lo guardava sbalordito e incredulo. Proprio come ogni tanto aveva guardato i fantasmi che erano stati costretti a combattere.

“Sam.” La voce, rauca, uscì a malapena. Sembrava che non parlasse da giorni.

“Che è successo?” fu l’unica cosa che riuscì a dire. Traballando lasciò il materasso, cominciò a guardarsi intorno, confuso. “Dean?”

Suo fratello non rispose, ma si alzò. Lo afferrò per le spalle, lo guardò negli occhi e lo strinse a sé. Si aggrapparono l’uno all’altro. Un abbraccio che agognava eternità, che sapeva di casa.

Sammy.” ripeté, grato di poterlo chiamare ancora.

Si allontanarono, Dean si schiarì la voce per nascondere l’emozione. “Eri ferito.” disse.

“Ferito?”

“Sì, ma ora stai bene. Sei in gran forma, giusto?” provò a sorridere.

Sam aggrottò le sopracciglia, continuò a guardarsi intorno. “Dove siamo?” Sentì ancora una volta la fitta lancinante tra le scapole, provò a toccarsi per capire quale fosse il problema, mentre una piccola luce iniziava a schiarire la memoria. “Che mi è successo alla schiena?”

“Te l’ho detto, eri ferito.” rispose bruto, il sorriso forzato era sparito.

“Stronzate!” urlò Sam, sempre più cosciente. “Dimmi la verità, Dean. Non mentirmi!”

Suo fratello gli voltò le spalle, era il momento giusto per recuperare quella bottiglia di whisky. Sam era vivo, il patto aveva funzionato, il resto non era un problema. Non fece in tempo ad arrivare al tavolo, Sam lo afferrò per una spalla e lo costrinse a voltarsi.

“L’ultima cosa che ricordo è Jake che mi pianta un coltello nella schiena.” disse. “E un dolore mai sentito prima.”

Dean lo guardava, con occhi vuoti. Non aveva intenzione di rispondere, voleva soltanto godersi quello che per lui era un successo.

“Sono morto?” chiese, a bassa voce, impaurito dalle sue stesse parole. “Sono morto, non è vero?”

Sei vivo! Stai bene, sei qui con me. Ora sdraiati un po’, ti devi riposare.”

“Dean!” urlò. “Che hai fatto?”

“Quello che andava fatto.” sentenziò, con un tono che non lasciava spazio a repliche.

“Dean!” Sentiva la disperazione prendere il sopravvento, si sentiva gelare man mano che la consapevolezza di ciò che aveva fatto diventava sempre più chiara. “Rispondimi!”

Scosse la testa, si passò una mano sulla faccia, sorrise amaro mentre si arrendeva alla tenacia di suo fratello. “Ho cercato un incrocio,” sbuffò. “Ho sotterrato quella maledetta scatola, ho evocato il dem-

Non ebbe il tempo di finire la frase, di precisare ciò che ormai era ovvio. Sam l’afferrò per la camicia e lo schiacciò contro il muro.

“Come hai potuto?” gli urlò in faccia. “Come hai potuto farmi questo?”

Dean gli posò le mani sulle spalle, spinse, lo costrinse ad allontanarsi. Vide il fastidio del dolore passare sul volto di suo fratello e subito si pentì della sua irruenza.

“Avresti fatto la stessa identica cosa, Sam.” disse, calmo. “Lo sai.”

Lo vide digrignare i denti, premere le dita sugli occhi per nascondere le lacrime. Poi i respiri iniziarono a calmarsi, lentamente riprese il controllo di sé. Si fece animare da quell’ardore che entrambi conoscevano fin troppo bene: la forza dei cacciatori. La forza di chi è abituato a non fermarsi mai, a trovare soluzioni che non sembrano esistere, a strappare demoni dall’Inferno pur di uscire dal baratro. Ormai calmo e cosciente, Sam disse ciò che ogni cacciatore avrebbe detto: “Abbiamo dieci anni per capire come fregarli.”

E Dean non ebbe il coraggio di ucciderlo di nuovo con la verità.

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Capitolo 2
*** Dieci mesi ***


Dieci mesi.

 

Sam era seduto nell’Impala, con le gambe accartocciate e le ginocchia che picchiavano contro il cruscotto. Una torcia stretta nella mano destra e, sulle cosce, il diario di suo padre. Ormai logoro, consumato. Testimone di tutte le pazzie che erano stati costretti a vivere. Cercava qualcosa, qualsiasi cosa, sui patti del demone dell’incrocio.

Sentì bussare, in lontananza, e alzò la testa. Dean era al di là della finestra del motel, con addosso soltanto una canottiera bianca, e un’espressione rilassata stampata in volto. Quella spensieratezza fuori luogo lo fece incazzare. Una rabbia che si moltiplicò quando Dean gli fece l’occhiolino, e poi richiuse le tende.

Vide il riflesso delle due donne, le loro forme che si proiettavano sulle tende, il modo in cui le ombre s’intrecciavano tra loro e poi si avvicinavano a suo fratello. Distinse una mano che lo afferrava per il collo, e poi scomparvero. Tutti e tre. Forse sul letto, forse sul pavimento.

Serrò la mascella, abbassò lo sguardo. E, come ormai era sua abitudine, cancellò ogni pensiero che riguardasse Dean. Ogni immagine, ogni ricordo. Da quando era tornato in vita - da quando Dean l’aveva riportato in vita - era sempre più difficile, sempre più faticoso. Era come se parte dei dubbi, delle paure e della vergogna che aveva sempre provato, fossero rimasti attaccati su quel materasso insieme al suo sangue secco. Ma, con qualche sforzo in più, anche questa volta dimenticò quel breve istante di sbandamento e tornò a vestire i panni dell’impeccabile fratello minore. Così rimase solo, con le sue pagine piene di pazzia e la voglia di salvare l’unica vita che per lui aveva importanza.

 

Il sole era sorto già da qualche ora. Dean salì in macchina, con sottobraccio un quotidiano e le mani occupate con la colazione. Guardò Sam sul sedile accanto al suo: la testa appoggiata sul vetro, gli occhi chiusi, la bocca leggermente aperta e il diario aperto sulle cosce. Sorrise, prima di suonare il clacson.

Sam sobbalzò, sbarrò gli occhi e quando vide la faccia divertita di suo fratello si rilassò di nuovo contro lo schienale. Scuotendo la testa si passò una mano sugli occhi e sulla bocca, cercando di svegliarsi.

“Buongiorno, Sammy!” Gli passò il quotidiano e uno dei due grossi bicchieri di caffè. Tenne per sé la torta. “Giornata meravigliosa, eh?”

“Di più... ” bofonchiò, con gli occhi già puntati sul giornale.

“Sai,” continuò, indicando con un cenno della testa il diario sulle sue gambe. “alternare con qualche giornalino porno non ti farebbe male!”

Sam non rispose, non lo stava più ascoltando. Tutta la sua attenzione era concentrata su quell’articolo in prima pagina. Finì di leggere e ricominciò da capo, senza saltare neanche una parola. La lampadina si accese subito.

“Senti questa,” disse, mentre suo fratello addentava la fetta di torta. “Un uomo è entrato al pronto soccorso, è caduto in ginocchio ed è morto davanti ad un’infermiera. Il suo fegato era sparito, strappato via.

“Amico, sto mangiando.” Posò la torta nel sacchetto, poi ci ripensò e continuo a mangiare.

“Il cadavere era ricoperto d’impronte, e la cosa interessante è che appartengono ad un tizio morto nel 1981.”

Quindi?” domandò. “Zombie?”

“Potrebbe.”

Dean alzò un angolo della bocca, un mezzo sorriso soddisfatto. Poi, con un boccone, finì la torta. “Nottata da sballo, colazione deliziosa e una bella battuta di caccia che ci aspetta. Cosa potrei chiedere di più?” E sembrava davvero sincero mentre lo diceva.

 Si, certo.” aggiunse Sam. “Un po’ di distrazione farà bene ad entrambi.”

“Esatto. C’è chi legge un libro, e chi invece gioca a nascondino con gli zombie…”

E mise in moto.

 

 

“Il resto del corpo era intatto, l’unico organo mancante era il fegato.” confermò il medico legale, guardando negli occhi l’uomo in giacca e cravatta davanti a lui.

Appena entrati nella camera del motel, dopo aver fatto il check-in, si erano divisi quasi subito. Dean aveva indossato il completo scuro e aveva cercato l’ospedale, mentre Sam era rimasto nella stanza con il suo portatile, il diario e alcuni dei loro libri. Il federale e il topo da biblioteca.

“Dove il fegato è stato strappato, ha notato per caso segni di morsi?” chiese Dean cauto, gesticolando con le mani. Ciò che ottenne fu un’occhiataccia da parte del medico.

“Il fegato non è stato strappato.” spiegò, tirando verso di sé il carrello di metallo e mostrandogli il cadavere. “E’ stato rimosso, chirurgicamente. Da qualcuno che sa usare molto bene il bisturi. Non ha letto il mio rapporto?”

“Certo, certo che l’ho letto. Era incantevole… avvincente, piacevolissimo. Davvero.”

“Ha finito?” chiese, alzando un sopracciglio.

“Penso proprio di sì.”

“Allora vada.” E Dean, voltandosi e sbarrando gli occhi, ubbidì.

Era confuso. Non aveva trovato quello che si aspettava, e quella storia del bisturi mandava all’aria tutta la teoria degli zombie. Chiamò Sam.

“Abbiamo sbagliato.” disse appena suo fratello rispose al telefono. “Non dobbiamo cercare cadaveri mutilati, ma sopravvissuti. Questo non è un pasto per zombie, è un fottuto furto di organi!”

“Okay, d’accordo.” pensò Sam ad alta voce. “Tu continua a indagare in ospedale, magari trovi qualcuno a cui è stato portato via un organo ed è riuscito a sopravvivere, io raggiungo la biblioteca più vicina per capirci qualcosa in più, okay?”

E così Dean fece. Rimase in ospedale, trovò un uomo visibilmente sotto shock al quale era stato appena rubato un rene, e continuò a indagare. Sam, invece, non si mosse dalla loro stanza. Non cercò la biblioteca, non cercò altri libri. Non ne aveva bisogno. La verità era che Sam aveva capito tutto fin dall’inizio, fin da quando aveva posato gli occhi su quell’articolo di giornale. Aveva passato la notte a sfogliare il diario e le parole di suo padre erano venute a galla da sole.

Passandosi una mano tra i capelli, sfogliò le pagine logore e lesse ancora una volta.

Si trattava di Doc Benton, un medico. Viveva nel New Hampshire. Era intelligente, brillante e aveva una passione: era ossessionato dall’immortalità, dal come vivere per sempre. Così, nel 1816, Benton aveva smesso di esercitare. La sua idea aveva funzionato, e lui aveva continuato a vivere: le parti del suo corpo che si rovinavano, le sostituiva. Sam e Dean ne avevano già sentito parlare, e credevano che John gli avesse dato la caccia e gli avesse strappato il cuore. Ma, a quanto pare, il dottore era riuscito a sostituirlo con uno nuovo.

Sam continuò a leggere attentamente e scoprì che Benton era molto pignolo nello scegliere e sistemare il laboratorio. Gli piacevano i boschi fitti, con accesso a un fiume o un torrente, perché era nell’acqua che si liberava dei resti degli umani che non potevano sopravvivere.

Sam, vedendo una luce – debole, ma c’era – in fondo al tunnel, iniziò a studiare le cartine del luogo. Cercò tutti i capanni da caccia, soprattutto quelli abbandonati da anni. Vide il piano prendere forma davanti ai suoi occhi. L’unica cosa che restava da fare era procurarsi un’auto.

 

 

Dean compose per l’ennesima volta il numero di suo fratello. Ancora una volta non ottenne risposta e, buttando gli occhi al cielo, lasciò un messaggio in segreteria.

“Bello, che fine hai fatto?” esordì. “Senti un po’ che geniaccio è tuo fratello, e preparati a ringraziarmi. Mi sono ricordato una cosa, un vecchio caso di papà. Un pazzo fuori di testa che rubava organi e se li incollava addosso per restare immortale, un specie di Frankestein. Uno schifo… lo so. Papà disse che era un caso chiuso, ma te l’ho detto… era un pazzo, avrà trovato il modo di sopravvivere. Fece una pausa. “Io vado a dare un’occhiata nei boschi delle vicinanze, okay? Ti tengo aggiornato. Appena puoi richiamami, okay Sammy?” E riagganciò.

 

Entrò a braccia tese, una mano sopra l’altra. Una stringeva la pistola carica e una la torcia. Il capanno era avvolto nel buio e l’odore era insopportabile, nauseante. E alla nausea si aggiungeva quel fastidio che aveva alla bocca dello stomaco, e che non riusciva ad ignorare: Sam non si faceva sentire da ore, nella stanza del motel non c’era, non rispondeva al telefono, e non lo aveva ancora richiamato. Tutto sembrava promettergli il peggio. Non era al suo fianco, non erano insieme, e questo bastava ad innervosirlo.

Si fece posto tra vecchi mobili, tavoli e sedie. Dette un’occhiata veloce ai quaderni e ai libri appoggiati sui ripiani, tutti ricoperti di appunti e formule per lui incomprensibili. Trovò una rampa di scale e, con la pistola ancora più salda tra le dita, scese al piano di sotto.

La prima cosa che vide fu lui, suo fratello. Ad occhi chiusi, legato ad un tavolo.

Represse l’istinto e la voglia di urlare e chiamarlo subito, l’unica cosa che fece fu sparare. Sparò a quell’uomo alto magro e vecchio, in piedi accanto al tavolo.

“Sam!” urlò, appena il dottore abbassò lo sguardo sulla ferita. “Mi senti? Sam! Sammy!”

Lo aveva colpito in pieno petto, Dean poteva vedere il buco del proiettile e la ferita piena di sangue. Ma l’uomo, ancora in piedi, alzò la testa e lo guardò. Aveva il volto pieno di cuciture, una pelle straziata, di diecine di carnagioni diverse. Pochi capelli in testa e gli occhi vuoti, opachi, coperti da un velo chiaro. 

“Spara quanto vuoi.” ridacchiò. Quella voce roca sembrò provenire dall’aldilà.

Dean sparò un’altra volta, e un’altra ancora.

Il dottore inizio a camminare, raggiunse Dean e lo prese per la gola.

“Quale parte del concetto d’immortalità non ti è chiara?” sussurrò.

Dean, con la mano di quell’essere stretta intorno al collo, annaspò e lasciò cadere la pistola sul pavimento. Cercò nella tasca del giubbotto e trovò le due cose di cui aveva bisogno.

Impugnò il coltello e con un gemito glielo piantò nel cuore.

 “Spero solo che il cuore fosse nuovo di zecca.” tossì, quasi senza fiato. E, guardando Sam ancora immobile su quel tavolo, trovò la forza per continuare a parlare. “Non vorrei che ci mettesse troppo a pompare questa roba.”

Alzò una mano e gli mostrò la bottiglia di cloroformio che stringeva tra le dita.

L’uomo lasciò la presa e, mentre Dean tossiva e sentiva l’aria che tornava con violenza a riempire i polmoni, portò le mani intorno al manico del coltello.

Cosa hai fatto?” sussurrò, incredulo.

“Ho trovato la bottiglia di sopra,” disse, prima di vederlo crollare ai suoi piedi. “e ci ho intinto il coltello.”

Raggiunse il tavolo di corsa. Afferrò la testa di Sam, lo chiamò, gli schiaffeggiò le guance, lo chiamò ancora una volta. “Sam! Sammy!”

Si accorse che la camicia era aperta sul davanti, i bottoni erano tutti slacciati, e gli bastò sfiorarla per ritrovarsi davanti il torace nudo di suo fratello. Si fece prendere dal panico, pensò al peggio. Pregando sottovoce, controllò ogni centimetro di quel corpo, di quella pelle, con il terrore di trovare ferite, punti, cicatrici.

Non ne trovò, finalmente poté respirare.

Gli liberò le mani, i piedi e continuò a chiamarlo. Finché ebbe fiato.

Sam galleggiava nel vuoto. Vedeva nero, soltanto una distesa infinita di nero. Sentiva la testa pesante, le gambe e le braccia staccate dal corpo. Avrebbe voluto dormire, continuare a galleggiare. Ma c’era qualcosa che lo teneva ancorato al tavolo, alla realtà. Due braccia, due mani, una voce. Quella voce che lo chiamava, che lo supplicava di svegliarsi, di tornare da lui. Quelle mani che lo accarezzavano, che cercavano il suo viso. Lo toccavano, premevano sulla pelle, gli aprivano la camicia. Lo sentì respirare sul suo torace, lo sentì vicino come non mai. E tutto quello sapeva, tutto quello che vedeva, l’unica luce in quel mare di nero, era la voglia di tornare da quelle mani, da quelle braccia, da quella voce. Da quell’uomo. E allora lasciò andare il buio, e aprì gli occhi.

 

 

Erano entrambi ai lati del tavolo, uno di fronte all’altro. Davanti a loro, legato proprio dove prima era stato legato Sam, il dottore. Stava lentamente riprendendo i sensi e quando finalmente aprì gli occhi e vide Dean, passò dallo smarrimento al terrore.

“Per favore…” iniziò a mugolare.

“Silenzio!” lo interruppe subito Dean.

“So quello di cui hai bisogno, lo so…” continuò. “Io ti posso aiutare, fatti aiutare.”

“Come procediamo, Sammy?” chiese al fratello, ignorando i deliri di quel vecchio. “Tanti piccoli pezzettini, che ne dici?”

Sam non rispose. Era in un angolo, con le mani in tasca e un’espressione da cane bastonato stampata sul volto. Guardava Dean come se potesse scomparirgli davanti agli occhi da un momento all’altro.

“Posso spiegarti la formula.” borbottò il dottore.

E mentre Dean si passava tra le mani il coltello, Sam finalmente aprì bocca. E lo fece per lasciar andare un sussurro, un sospiro, il suo nome.

“Dean…” lo chiamò.

Il fratello maggiore, preoccupato da quel tono di voce così disperato, alzò lo sguardo e cercò i suoi occhi. Capì tutto nell’istante in cui si guardarono, come se potesse leggere ogni pensiero.

“Sam.” E quelle tre lettere suonarono come un ordine, un ammonimento.

Sam scosse la testa, gli occhi lucidi che brillavano nel buio della stanza. L’altro gli fece cenno di uscire e poi, a passi lenti, lo seguì.

“Ti prego, Dean.” disse, appena furono all’aria aperta.

“Cosa?”

Lentamente, come se si vergognasse del suo gesto, infilò una mano nella tasca interna del giubbotto e tirò fuori un quaderno. Glielo mostrò, sfogliò le pagine davanti a lui, ignorando il tremore delle mani. “E’ la formula, Dean.” iniziò cauto, scandendo ogni parola. “Non c’è nessun sacrificio di sangue o stronzate simili. Non è magia nera, è solo… scienza. E’ fattibile, penso sia fattibile. Questa formula… Dean, questa formula potrebbe essere la soluzione.

“La soluzione?!

Sam, esitante, alzò gli occhi dalla carta e lo guardò.

“Ti scongiuro, Dean…” lo pregò. Rimise in tasca il quaderno e lo afferrò per le spalle. “Ci serve tempo, solo tempo. Lo sai che non sarà facile né veloce ingannare quel patto, lo sappiamo entrambi… e questo è quello che ci serve. Guadagniamo tempo e nel frattempo ci facciamo venire in mente qualcos’altro. Pensaci… almeno pensaci.” Poi aggiunse, quasi stizzito, ”Cazzo, non vuoi vivere?”

“Cristo Santo, Sam!” sbottò Dean. Posò le mani su quelle di suo fratello, che gli stringevano le spalle, e le allontanò con uno strattone. “Quello non è vivere!”

“Lo so che per te non ci sono sfumature.” insistette, deciso a non demordere. “Bianco o nero, umano o non umano. So che non è la soluzione perfetta, cazzo lo so. L’ho sempre saputo che non sarebbe stato semplice, che ti avrei dovuto convincere, che per-

“Aspetta, aspetta un attimo.” lo interruppe, con il gelo nel sangue e il vuoto negli occhi.

“Dean, ti prego. Non cominciare…”

“Tu sapevi che si trattava di questo fin dall’inizio?”

“Non te ne volevo parlare finché non ne fossi stato sicuro. Sto solo cercando di aiutare, sto solo cercando una soluzione!

“Non stai aiutando!” sbraitò. “E, porca puttana, questa non è una soluzione!”

“Dio, quanto sei testardo!” Scosse la testa, si impose di restare calmo. “E’ semplice: Benton non può morire, se scopriamo come ha fatto possiamo fare la stessa cosa con te e ti salviamo dal patto. Devi morire per andare all’inferno, giusto?

“Non possiamo farlo.”

Sam digrignò i denti, si passò le mani tra i capelli. “Perché?” chiese. Gli si piazzò davanti, incollò gli occhi ai suoi. “Mi sto facendo il culo per cercare di salvarti la vita, Dean, e ti comporti come non te ne potesse fregare di meno. Che c’è? Hai così tanta voglia di morire?”

“Non è questo.” disse, con una specie di sorriso deformato sulle labbra.

“Allora che cos’è, Dean?”

“Sam.”

“Ti prego, dimmelo.”

Fece una pausa, scosse la testa, poi parlò. “Se incastriamo il demone dell’incrocio, o cerchiamo di fregare il patto in qualche modo… tu muori. Okay?”

Sam sentì ogni muscolo diventare ghiaccio. Si sentì abbandonare da ogni forza. La forza di parlare, di muoversi, di pensare. Non riusciva nemmeno ad urlargli contro, a picchiarlo, a chiedergli ancora una volta perché lo avesse fatto. Perché gli stava facendo questo.

“E non morire, vivere per sempre, significa ingannare l’accordo.” aggiunse. “Non c’è modo di uscirne Sam, questi sono i termini: se io mi sottraggo al patto, tu muori. E se cerchi di trovare un modo, te lo impedirò con tutte le mie forze.

Vide Sam, impietrito di fronte a lui, con la morte negli occhi, e non ebbe la forza di svelargli tutta la verità. Non riuscì a dirgli che tutto era ancora peggiore di quanto riuscisse ad immaginare, che non avevano dieci anni ma soltanto uno, non riuscì a ferirlo con un’altra - l’ennesima - coltellata.

“Ora io mi occuperò di lui.” disse, indicando il capanno. “Lo addormenterò di nuovo e lo seppellirò insieme alla sua formula. Puoi aiutarmi oppure no, a te la scelta.”

Dean avvicinò le mani al petto di suo fratello. Per un istante, un fottutissimo istante, tutto quello che Sam desiderò fu vedere quelle mani, quella braccia intorno al suo corpo. Sentirsi stringere, sentirsi abbracciare da suo fratello, poter riposare sulle sue spalle e scordare tutto il peso che lo stava schiacciando.

Ma Dean non lo abbracciò, nemmeno si avvicinò. Si limitò ad aprirgli il giubbotto e a recuperare il quaderno.

Lo vide scomparire al di là della porta, e gli sembrò di vederlo sparire per sempre. 

 

 

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Capitolo 3
*** Sei mesi ***


Sei mesi.

 

Si toglie gli scarponi, la camicia, i jeans. Lascia tutto sul pavimento, vicino al lavandino. Gli occhi incontrano per qualche secondo lo specchio, ma non si sofferma ad osservare il riflesso. Vede di sfuggita una vasca, un tappeto rosso, una grande finestra da cui entra la luce calda del tardo pomeriggio. Non riconosce il bagno, è una stanza che non ha mai visto prima d’ora, ma in qualche modo è familiare, sa che è sua. Quella è casa sua.

Qualche passo sul pavimento freddo ed entra nella doccia. L’acqua è già calda, il vapore inizia a riempire le quattro pareti di vetro.

Chiude gli occhi entrando sotto il getto. Sente il calore accarezzargli i capelli, le spalle, le gambe. La stanchezza inizia a scivolare via. Prende un po’ di shampoo, sempre ad occhi chiusi, alla cieca. Sa dove trovarlo. E sa di cosa profuma, lo conosce. È suo. Si massaggia i capelli, e poi lascia che il getto potente porti via il sapone.

Poi lo sente.

Un lieve rumore alle spalle. Passi. Una spinta alla porta socchiusa, che si spalanca.

E lui non si volta, non si stupisce di non essere solo, non si chiede chi entra in bagno mentre lui è sotto la doccia. No. L’unica cosa che fa è sorridere.

Sente i passi sempre più vicini, un paio di scarpe lasciate cadere sul pavimento, il fruscio di vestiti che vengono sfilati di dosso. E un respiro. Regolare, familiare. Lo conosce, lo conosce bene.

Sente scorrere una delle quattro pareti di vetro, quasi subito si richiude.

Lo sente. Sa che è lì, dietro di lui. E, improvvisamente, si accorge di essere felice.

Una sensazione talmente nuova che non è sicuro nemmeno di saperla riconoscere. Ma, allo stesso tempo, una sensazione familiare, conosciuta, che profuma di abitudine. 

Lascia che un sorriso gli spunti sulle labbra. Ha voglia di voltarsi, incontrare i suoi occhi, cercare le sue labbra. Ma non lo fa. Resta di spalle, immobile e leggero.

Sente i palmi delle mani che si posano sulle sue spalle e adesso l’acqua calda non è più la sola ad accarezzarlo. Lentamente, parte dalle scapole, arriva ai fianchi, gli accarezza leggermente le natiche e poi risale in alto, fino ad intrappolare le dita nei suoi capelli. Lo strattona, ma con dolcezza. Dean si lascia sfuggire un gemito, che nasce piano in gola e si libera tra le labbra leggermente socchiuse. Sente il respiro cambiare, accelerare, eccitarsi. Guarda in basso e si accorge che il respiro non è l’unica cosa ad essere cambiata.

La voglia di voltarsi è diventata incontrollabile, ma quella sensazione di calore che sente nel petto lo convince a restare immobile. Non è solo eccitazione, è qualcosa di più. È conoscenza, realtà, presenza: conosce ogni respiro, ogni movimento, ogni centimetro delle sue mani.

Come la stanza, il sapone… è suo. Tutto quello è suo.

Ed è felice, come non ricorda di esserlo mai stato.

Le mani stanno continuando ad accarezzargli i capelli. Lo tira leggermente indietro, fino a fargli posare la nuca sulla sua spalla. Dean sente il getto d’acqua sul viso, l’eccitazione dell’altro premergli alla base della schiena.

“Oggi mi sei mancato.” si sente sussurrare all’orecchio.

Poi, all’improvviso, il gelo. La sensazione di soffocamento, tutta l’aria della stanza ad un tratto risucchiata nel nulla. Le mani iniziano a tremare, la nausea gli travolge lo stomaco.

È sbagliato, è tutto sbagliato.

Si volta di scatto, se lo ritrova davanti e sente il mondo crollare.

“Sam” rantola, ormai senza fiato.

 

Si svegliò all’improvviso, annaspando in cerca d’aria. La fronte e la nuca gocciolanti di sudore, la maglietta completamente attaccata alla schiena. Si mise seduto, con le mani che ancora tremavano. Ma la cosa che lo impaurì fino a fargli gelare il sangue fu il gonfiore all’altezza dell’inguine, nascosto sotto le coperte. Si alzò barcollando, le gambe che a malapena reggevano il suo peso. Si impose di non guardare. Non guardare l’altro letto, non guardare Sam, non guardare suo fratello, e si nascose in bagno.

Il primo conato lo scosse. Con la testa che girava fino a fargli perdere l’equilibrio, si aggrappò alla tazza e vomitò, pregando di potersi liberare anche della vergogna. Non successe.

Si sciacquò la faccia, moriva dalla voglia di farsi una doccia, ma quando la vide ricordò subito la sensazione delle carezze dell’acqua calda e delle carezze di… Dio, non riusciva neanche a pensarci. 

Cercando di non far rumore, terrorizzato anche solo dall’idea di svegliare Sam e doverlo guardare negli occhi, scelse qualche indumento a caso dal borsone, si vestì, afferrò le chiavi e lasciò la stanza.

 

Tornò qualche ora più tardi, con due bicchieri di caffè caldo in mano e un po’ di whisky nello stomaco. Trovò Sam seduto sul letto, impegnato ad allacciarsi le scarpe. Abbassò subito lo sguardo.

“Dov’eri finito?” chiese suo fratello sorridendo. “Cos’erano? Due gemelle anche questa volta?”

Dean non rispose, non fece battute, non rise. Non fece niente di tutto quello che Sam si sarebbe aspettato. Si limitò a recuperare il borsone dal pavimento, infilarci tutta la sua roba sparsa per la stanza e ficcarcela dentro.

“Stai bene? Qualcosa non va?” chiese Sam, improvvisamente preoccupato. E quando ricevette come risposta un grugnito che riuscì a distinguere a malapena, si alzò e lo afferrò per una spalla, costringendolo a voltarsi.

“Stai bene?” ripeté. “Dean, guardami.”

Gli costò uno sforzo sovraumano, ma alzò gli occhi e li puntò dritti nei suoi. Sul volto, un’espressione impassibile.

“Che c’è? Sto ben-”

“Hai bevuto?” lo interruppe, spalancando gli occhi.

“Ho soltanto passato una nottata di merda,”

“Hai bevuto whisky di prima mattina?!”

“Lì c’è un caffè bollente per te, ora datti una mossa. Io ti aspetto in macchina.”

E lo lasciò lì, impietrito, al centro della stanza.

 

 

 

Una settimana dopo

 

Quanto tornarono in camera avevano ancora il fiatone, le armi strette tra le mani e l’adrenalina che circolava in corpo. Avevano scovato quel covo di vampiri che cercavano da settimane, e si erano rivelati leggermente più numerosi di quanto si aspettassero.

“Come va la spalla?”

Dean, un’espressione sofferente sul volto, iniziò a camminare per la stanza reggendosi un braccio. “Maledetti succhiasangue!” tuonò.

“E’ uscita? Vieni qua, fammi vedere.” Dean non si mosse, fu Sam ad avvicinarsi. “Fermo.” sussurrò.

Erano uno di fronte all’altro. Sam gli ispezionava la spalla, Dean fissava il pavimento.

“Va messa a posto.” borbottò il fratello maggiore, continuando a tenere la testa bassa.

“Ci penso io. Voltati.”

Dean sbuffò e gli dette le spalle. “Si può sapere cos’hai?” aggiunse Sam.

“Intendi oltre ad una spalla distrutta e uno squarcio sull’avambraccio?”

Quando Sam, ignorando la risposta sarcastica di suo fratello, gli posò una mano sotto il collo e con l’altra gli strinse il braccio, Dean sentì il dolore bucargli la pelle, i muscoli, le ossa.

“Conto fino a tre.” disse Sam. “Sei pronto?”

Un dolore diverso, portato da un sogno vecchio giorni che sembravano nient’altro che attimi, gli strinse la gola. Avrebbe voluto urlare, ringhiare, spaccare qualcosa. Avrebbe voluto allontanare Sam, le sue mani, i pensieri che portavano con loro.

Lo sentiva. Sapeva che era lì, dietro di lui. Sentiva il respiro, le mani. Quelle mani che stavano per aggiustargli la spalla ma guastavano qualcos’altro.

Chiuse gli occhi, si concentrò sul dolore, quello fisico.

“Vai.” ruggì.

Sentì suo fratello che contava fino a tre e poi una fitta che era fuoco. Lo bruciava dall’interno, spezzandogli il respiro. Trattenne un grido, sentì un ringhio crescergli in gola. E, prendendo a pugni l’aria con il braccio sano, si allontanò.

“La ferita sul braccio...” Sentì la voce e una mano di Sam che provavano a fermarlo.

“Faccio da solo.” E sparì in bagno.

 

Sam aprì il portatile nello stesso istante in cui l’acqua iniziò a scrosciare al di là della porta. Aveva il tempo di una doccia per continuare la sua ricerca. Cercò nei siti che conosceva, in quelli che ancora non aveva studiato. Si annotò i libri che avevano e che potevano essergli utili, e quelli che non aveva mai sentito nominare ma che avrebbe cercato nelle biblioteche di tutto il Paese. Scorrendo velocemente da una pagina all’altra, leggendo quasi distrattamente lo schermo del computer, si imbatté nel nome del demone dell’incrocio. Si fermò, immobilizzato da quella sensazione che conosceva più che bene: la promessa nascosta in un indizio.

Il suo piano era sempre stato questo: evocare il demone, dopo aver trovato il modo per costringerlo a sciogliere il patto. Ed aveva passato le ultime settimane a capire se e come fosse possibile.

Sapeva che non avrebbe dovuto farlo, sapeva che suo fratello gli aveva chiesto di lasciar perdere. L’aveva addirittura minacciato. Ma era suo fratello. Non c’era niente che non avrebbe fatto per lui, niente. E se il prezzo per tenerlo in vita era fare a gara a chi sarebbe morto per primo, lui era pronto a pagarlo.

Ma quello che lesse, e che avrebbe poi trovato conferma in altri libri, lo trascinò nello sconforto più profondo. Scoprì che l’accordo era indissolubile. Aveva sempre pensato che tutti i patti potessero essere infranti - era la convinzione che l’aveva animato negli ultimi mesi - ma sembrava che questo non potesse essere nemmeno sfiorato. Aveva pensato di evocare il demone dell’incrocio e ucciderlo: se muore lui, muore anche l’accordo. Ma il demone, in realtà, era soltanto un tramite, un venditore. Aveva un capo, proprio come tutti. Un capo che aveva il contratto di quell’accordo.

Chi è il capo? Chi detiene il contratto?

Anche se tutto gli suggeriva che non era possibile uscire da questa situazione, non questa volta, tutto quello a cui si impose di pensare erano queste due domande.

Due domande a cui doveva trovare risposta.

Non ne avrebbe fatto parola con suo fratello, avrebbe indagato da solo e avrebbe scoperto come venirne fuori. Ecco il piano.

Sentì la porta aprirsi e, con uno scatto, chiuse il portatile. Dean uscì dal bagno, già vestito. Senza nemmeno guardarlo e senza rivolgergli parola, si buttò sul letto.

Sam mise da parte tutte le cose che aveva letto e scoperto negli ultimi minuti, e gli chiese “Come stai?”. In risposta ottenne un mugolio, ovattato dal guanciale.

Guardò distrattamente l’orologio, lo sguardo si posò sulla data. Gli sfuggì una piccola risata, a volte si scordava quanto vivevano al di fuori del mondo. “Lo sai che dopodomani è Natale?”

Un altro mugolio.

“Come lo vuoi festeggiare?” continuò. “Come l’anno scorso, che ne dici? Cerchiamo una casa abbandonata, scegliamo l’albero, lo decoriamo con tutte le stronzate che riusciamo a mettere insieme, mangiamo schifez-“

“Zitto, Sam.” lo interruppe, la voce incredibilmente chiara.

“Che significa ‘Zitto, Sam’?” rispose stizzito. “Oltre a non poterti salvare la vita, non posso nemmeno festeggiare il Natale con te?”

“Falla finita.”

“Falla finita?! Perché non vuoi? Dimmelo! Perché sai che c’è il rischio che tra dieci anni non tu sia più qui per poterlo festeggiare insieme? È questo?”

No, perché questo è l’ultimo. Sarebbe stata la cosa più naturale e istintiva, urlargli in faccia questa manciata di parole. Una manciata di verità. Ma non lo fece.

Dean si sollevò sulle braccia, gli puntò addosso uno sguardo furioso e lo zittì con la voce grossa che lo salvava sempre quando non sapeva più come venirne fuori. “Perché non me ne frega un cazzo! Perché non voglio case, alberi e stronzate varie! Non voglio fingere che vada tutto bene, che siamo una bella famigliola sfigata ma felice. Voglio soltanto un bar, una bottiglia di whisky e un fratello che non mi rompa i coglioni con le sue stronzate natalizie!”

Nella stanza calò il silenzio. Sam abbassò la testa, l’eco delle grida di Dean che ancora gli risuonava nelle orecchie. Strinse i pugni, vide le mani tremare. Si impose di non crollare, di non guardarlo, di non rispondere. Si disse che era sconvolto, lo erano entrambi.

“Ora falla finita,” aggiunse Dean, abbassando il tono della voce. “e lasciami dormire.”

Sam alzò la testa solo quando sentì il respiro dell’altro cambiare. Solo quando seppe che, alzando gli occhi, lo avrebbe trovato addormentato e rilassato. Lontano e al sicuro, in quel modo chiuso a chiave nella sua testa, in cui a lui non era permesso entrare.

 

 

Apre la porta di casa con uno strattone e trascina l’abete fino al soggiorno, seminando terra e aghi per tutta la stanza. Sente i rami pungergli le braccia, inizia a sudare, e maledice se stesso e il momento in cui ha deciso che festeggiare il Natale sarebbe stata una buona idea. Non se lo ricorda nemmeno più perché ha deciso di uscire di casa, scegliere un albero e comprare le decorazioni. Poi lo sente scendere le scale, si volta e se ne ricorda subito.

Indossa soltanto un paio di jeans. Ha il petto nudo, i piedi scalzi e un asciugamano intorno al collo. I capelli bagnati gli danzano intorno al viso e schizzano le spalle con piccole gocce d’acqua.

“Dean!” esclama appena lo vede. Gli occhi spalancati, sulle labbra un sorriso più grande di lui. “Che stai facendo?”

Sistema l’albero al centro del soggiorno, si passa le mani sui jeans e fa spallucce. “Mi sembrava una buona idea.”

“Dean Winchester che si presenta a casa con un abete due giorni prima di Natale,” dice Sam, avvicinandosi. “chi sei e cosa ne hai fatto di mio fratello?”

Ridono entrambi, si guardano.

“Quest’anno mi concedi l’onore di festeggiare il Natale come si deve?” continua Sam.

Finalmente di fronte a suo fratello, incastra l’indice in uno dei passanti dei jeans e lo tira verso di sé. Sente la sua camicia ruvida contro il torace scoperto, il suo respiro sulle labbra.

Dean gli afferra la mano e la allontana con dolcezza, facendo un piccolissimo passo indietro. “Sam, sono sporco e sudato.”

In risposta l’altro lo afferra con entrambe le mani e si avvicina ancora di più. “Perché hai cambiato idea?” sussurra.

Dean evita il suo sguardo, punta gli occhi sul pavimento. Si sente arrossire. Poi Sam gli posa due dita sotto il mento ed è costretto ad alzare la testa.

“Sam…”

“Parlami.” insiste.

“Non ho mai voluto festeggiare perché quello che ci aspettava era una tavola praticamente vuota. Noi due, io e te… e basta.” sussurra. Alle orecchie di Sam quel sussurro suona come un grido. Lo ascolta attentamente, pende dalle sue labbra. “Niente genitori, niente parenti, niente tavole imbandite e solo due regali sotto l’albero. Soli al mondo, come sempre… con la differenza che le luci di Natale ce lo avrebbero ricordato ad ogni secondo. Avevo paura che ti rendessi conto di quanto siamo soli, di quanto poco abbiamo.”

“Dean,” mormora Sam, con il cuore traboccante di tenerezza e le mani sempre più strette intorno ai suoi fianchi.

“Lo so, Sam. È per questo che ho trascinato fin qui questo dannato albero.” lo interrompe. “So che ci sei e che ci sarai sempre, so che nessuno dei due sarà mai solo. Quella tavola, questa casa… non saranno mai vuote, avrò sempre te. Quello che abbiamo non è poco,”

“è tutto.” finisce la frase al posto suo.

“Sei la mia famiglia, Sammy.” Respira e trema. “Tutto quello che ho.”

Le parole non hanno ancora lasciato le sue labbra quando vede gli occhi di suo fratello diventare lucidi. Ha voglia di abbracciarlo, baciarlo, affondare le mani nei suoi capelli umidi. Ed è sicuro che tra poco lo farà. Ma adesso si limita a sorridergli e aggiunge, “Ora finiamola con questi discorsi e dammi una mano a pulire questo casino.”

 

Niente risvegli bruschi questa volta, soltanto gli occhi che lentamente si aprivano e si abituavano alla luce. Il dolore alla spalla che tornava a farsi sentire e la ferita sul braccio che bruciava. Continuava a chiedersi il perché. Perché quei sogni, perché loro due, perché Sam. Ma questa volta la vergogna, l’imbarazzo, l’incredulità, erano soffocati da qualcos’altro. Questa volta non era difficile fare i conti con quello che aveva visto e vissuto, in quel momento – non si spiegava il perché - era difficile abbandonarlo. Forse perché l’unica cosa che riusciva a ricordare erano gli occhi lucidi di suo fratello. La felicità che ci aveva visto dentro. E, soprattutto, la serenità che aveva provato lui. Si era sentito sicuro, di se stesso e di loro due, in pace con il mondo. E quella sicurezza se l’era portata dietro. Quel Dean Winchester così lontano dalla realtà, che aveva così tanta voglia di festeggiare il Natale con suo fratello, aveva convinto anche lui.

Con la coda dell’occhio scorse Sam alla scrivania. Si mise seduto e Sam si voltò, chiudendo il portatile. Prima che i loro sguardi si incontrassero, altre immagini tornarono con forza nella mente di Dean. Sam mezzo nudo, appena uscito dalla doccia, con gli occhi felici e quel sorriso sulle labbra. E, soprattutto, l’effetto che quell’immagine aveva avuto su di lui. Non poté fare a meno di distogliere lo sguardo e voltare la testa.

“Tutto bene?” La voce arrivò dalle sue spalle, ed era intrisa di preoccupazione. Non c’era rabbia, rancore o rimprovero, solo preoccupazione. “Sei strano, troppo strano. Che c’è, Dean?”

Poi aggiunse “Parlami.”, e fu come se avesse di nuovo di fronte l’uomo che aveva conosciuto in sogno. La stessa voce, le stesse parole. Lo stesso Sam, la sua famiglia, tutto quello che aveva.

Si alzò e indossò il giubbotto. Prese anche quello di Sam e glielo lanciò.

“Forza andiamo, dobbiamo occupare una casa e scegliere un albero.”

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Capitolo 4
*** Tre mesi ***


Tre mesi.

 

Dean non riusciva a dormire. Il timore di scivolare nel sonno e farsi trascinare per l’ennesima volta in uno dei suoi sogni malati era più forte della stanchezza. Aprì gli occhi, trovò il buio. Guardò a destra e cercò Sam. Disteso sul letto poco distante dal suo, girato su un lato, gli dava le spalle. Spalle ormai larghe, irrobustite dagli anni e dalla fatica, nascoste da una leggera maglietta bianca. Non si era nemmeno infilato sotto le coperte, si era limitato a buttarsi sul letto. Una cattiva abitudine che, forse, aveva preso da lui.

Lo sentì respirare, riconobbe il ritmo e l’intensità, e capì subito che era sveglio.

Il primo istinto fu quello di alzarsi, sdraiarsi dietro di lui, sentirlo vicino.

Chiuse gli occhi, si passò una mano sulla faccia per scacciare quel pensiero.

Rimase lì dov’era, tornò a fissare il soffitto. Sincronizzò il respiro con quello di suo fratello.

“Brutti pensieri?” chiese ghignando, e la voce risuonò nella stanza.

Sam, sveglio quanto suo fratello, aprì gli occhi. E anche lui fu costretto ad affrontare una battaglia. Combatté con la voglia di raggiungerlo, abbracciarlo, prenderlo a pugni, supplicarlo di restare. Ma, proprio come Dean, non si mosse. Rimase immobile sopra le coperte, con gli occhi spalancati sul nulla.

Invece di rovesciargli addosso tutte le suppliche che covava da mesi, disse “Ti manca casa?”.

Dean si stupì, preso in contropiede da parole che non si aspettava. Il ghigno sparì.

“Non dico la nostra casa a Lawrence,” aggiunse Sam. “Intendo… una casa. Quattro pareti, un tavolo, due sedie, un letto. Mobili e mattoni che sono lì per noi, a ricordarci che abbiamo un posto caldo e sicuro che ci aspetta. Niente Impala né sedili scomodi, niente radio né benzina. Solo… una casa.”

“Un posto dove poter tornare? Dove poter restare? Un posto che ci faccia sentire al sicuro, nonostante la merda che vediamo tutti i giorni?” chiese Dean, che aveva già capito tutto, che quella casa l’aveva addirittura vista e vissuta, che quella casa l’aveva sognata e, senza rendersene conto, desiderata.

“Sì… ti manca?”

Voltò la testa, tornò a puntare lo sguardo sulle spalle di suo fratello. Gli occhi si erano abituati al buio e poteva scorgere le vene sulle braccia tese, i capelli sparpagliati sul cuscino, la linea delle gambe, così lunghe che i piedi uscivano dal letto. Ripensò a tutte le volte in cui erano stati feriti, colpiti, insanguinati. Pensò a tutte le armi che erano stati costretti ad impugnare, a tutti i proiettili sparati, a tutte le lacrime che avevano dovuto ingoiare. E pensò anche a quella sensazione che aveva sempre provato quando il mostro di turno era stato sconfitto, quando l’incubo del giorno era finito, e loro due – insieme – tornavano in macchina. Si sedevano uno accanto all’altro, pronti a ripartire. E in tutte quelle partenze c’era sempre un ritorno. Un ritorno da lui. Un ritorno in un posto caldo, sicuro, che apparteneva soltanto a loro. Capì ciò che aveva sempre saputo: tutte le volte che era accanto a Sam, lui era casa.

Siamo a casa, Sammy.” disse.

Quattro parole che fecero subito sorridere il fratello minore, perché le aveva capite, perché erano state dette con una tale sincerità che era impossibile non crederci, ma con un’intensità che svelava che quella casa a breve sarebbe stata distrutta per sempre.

Dean chiuse gli occhi, sentì il respiro di suo fratello cambiare e seppe che stava piangendo.

 

Sam si svegliò prima dell’alba. La testa era pesante, gli occhi bruciavano, e realizzò due cose: aveva pianto tanto e aveva dormito poco. Nella penombra della stanza, distinse il profilo di suo fratello che dormiva sulla pancia, un braccio intorno al cuscino. Sembrava rilassato, tranquillo, gli sembrò addirittura di scorgere sulle labbra un sorriso. Un sorriso che contagiò subito anche lui. Non se la ricordava più, l’ultima volta che aveva sentito Dean ridere. Quella risata piena e contagiosa che lui aveva sempre amato.

Si trascinò fino al bagno, fece una doccia veloce e, facendo di tutto per non svegliare suo fratello e strapparlo dai sogni che sembravano dargli pace, si vestì. Recuperò le chiavi dell’Impala e lasciò la stanza.

Qualche minuto più tardi raggiunse un vecchio magazzino, sperduto e isolato in una zona industriale. Sapeva che era sicuro e abbandonato, perfetto per lui. Aveva già fatto un sopralluogo nel pomeriggio, mentre Dean era andato a comprare la cena e a informarsi su possibili nuovi casi. Fece scorrere la pesante porta di metallo, scese una rampa di scale e si ritrovò in una stanza umida, buia e spaziosa. In un angolo aveva già disposto tutto il materiale di cui aveva bisogno. Per prima cosa accese le candele, poi si chinò sul pavimento e iniziò a disegnare il cerchio, le linee, i simboli. Mischiò gli ingredienti in una ciotola e gli dette fuoco, un istante dopo parole latine ormai familiari riempirono la stanza.

Seguì ogni passaggio con la massima calma e concentrazione, accompagnato da un silenzio carico di aspettativa e dai suoi respiri profondi e regolari.

Si sedette sul pavimento, con le gambe incrociate. Si portò le mani congiunte sotto il mento.

Il demone non tardò ad arrivare. Apparve al centro del cerchio, un’espressione scocciata sulla faccia. Si ritrovò davanti Sam e lo guardò incredula. Il cacciatore ricambiò lo stupore: non si aspettava una ragazza minuta, con un viso grazioso e una cascata di capelli biondi che le ricadevano sulle spalle. Provò subito a fare qualche passo, ad avvicinarsi a Sam, ma rimase bloccata contro un muro invisibile. Si guardò i piedi e, sbuffando, notò il disegno.

“Spero che tu abbia davvero un buon motivo per tirarmi fuori da là sotto, Winchester.” La voce della ragazza tagliò l’aria come una lama affilata.

“Ho bisogno di alcune informazioni.” disse Sam con calma, scandendo ogni parola. Si alzò dal pavimento e si piazzò proprio davanti alla sua faccia, sulla quale danzavano le luci soffuse delle candele. “Se farai la brava bambina, potrai tornare subito in quel buco di merda dal quale ti ho tirato fuori.”

Il demone scosse la testa, un mezzo sorriso arrogante sulle labbra.

“Voglio il nome del demone che detiene il contratto di mio fratello.”

La risata della ragazza risuonò nella stanza vuota e nelle orecchie di Sam.

“Sai di cosa sto parlando, vero?” insistette. “Mi conosci, sai come mi chiamo. E conosci anche lui. Sai del suo patto.”

“Oh… certo che vi conosco, cacciatore. Tutti vi conoscono.” disse aprendo le braccia. “E tutti sanno del patto che ha piegato e messo in ginocchio uno dei famosi fratelli Winchester.”

“Bene, perfetto.” continuò. “So chi ha stretto il patto, so che tutto è nato con il demone dell’incrocio. Ma non è lui che lo può sciogliere, giusto? Non funziona così.”

“Vedo che qualcuno ha fatto i compiti! Bravo il mio ragaz-“

“Dimmi chi ha quel contratto. Dimmi come si chiama e dove posso trovarlo.”

Il demone continuò a sghignazzare, guardandolo con un misto di curiosità e compassione. “Credi davvero che te lo dica, Sam?”

“Dimmi-dov’è-quel-fottuto-contratto!” urlò, perdendo la calma, arrivandole a pochi centimetri dalla faccia.

“Nervoso, Winchester? Che c’è, il ticchettio dell’orologio ti sta facendo impazzire?” sorrise. “I tre mesi che vi restano iniziano a diventare pesanti?”

L’espressione di Sam cambiò. Aggrottò le sopracciglia, gli occhi si riempirono di sorpresa e confusione. Ripensò a quando era tornato in vita, fece un calcolo veloce. Si sentì gelare il sangue, le orecchie iniziarono a fischiare. Gli sembrò che il cuore si fosse fermato, senza la forza di continuare a battere.

La ragazza se ne accorse subito, non si lasciò sfuggire nemmeno una sfumatura di quel cambiamento. Alzò un sopracciglio, spalancò la bocca, e ricominciò a ridere.

 

 

Il rumore delle chiavi nella serratura lo scuotono dal torpore. È disteso sul divano, davanti alla televisione, con il telecomando in una mano e una bottiglia di birra che si sta per rovesciare nell’altra. Spalanca gli occhi, si passa una mano sulla faccia, posa la birra sul pavimento e aspetta di vederlo.

E lui arriva, dopo essersi chiuso la porta alle spalle ed essersi tolto il cappotto.  Entra in soggiorno, lo vede e gli sorride. Un sorriso spontaneo, luminoso, improvvisamente spogliato della stanchezza.

Indossa un abito blu scuro, una camicia bianca, la cravatta a righe.

È vestito da federale, pensa Dean, chissà se ha scoperto qualcosa sul caso. E subito dopo un altro pensiero, più nascosto: non gli ho mai detto quanto gli sta bene, quel vestito scuro.

Ma poi vede la ventiquattrore lasciata cadere sulla poltrona, nota la faccia stanca ma pulita di suo fratello, un’espressione soddisfatta lontana secoli e chilometri da uno dei loro soliti casini.

E capisce.

“Tutto bene in ufficio?” si sente domandare a Sam.

Passandosi una mano sul collo e muovendo la testa per farlo scrocchiare, si avvicina al divano su cui è sdraiato Dean. “Sì,” risponde. “ma il lavoro è tanto. Bello, appassionante, ma tanto.”

Dean, vedendolo arrivare, si mette seduto e fa cenno a Sam di sedersi sul pavimento, tra le sue gambe. L’altro obbedisce con un sorriso.

“Non ti avevano avvertito alla Stanford che avresti dovuto sudartelo il tuo bello stipendio?” gli chiede scherzando, iniziando a slacciargli la cravatta da dietro.

“No, mi hanno soltanto insegnato come morire su una pila di libri più alta di me.” Raggiunge le mani di Dean e finisce di slacciarsi la cravatta. Si toglie anche la giacca. “Tu invece? Tutto bene in officina?”

“L’Impala continua a darmi problemi. Ma vincerò io… quella bellezza non mi può abbandonare.”

Sam ridacchia, ma smette quando sente le mani di Dean intrufolarsi nel colletto della camicia, fare pressione sul collo, allentare con un massaggio la tensione che aveva accumulato durante la giornata. Chiude gli occhi e si gode quell’indescrivibile sensazione.

“Dio, Dean…” sussurra, la testa che lentamente si lascia cadere all’indietro. “…le tue mani.”

“Shh” lo zittisce. E continua a premere le dita sulla sua pelle.

Dopo qualche minuto di silenzio, Sam domanda all’improvviso, “Te lo chiedi mai?”.

“Cosa?”

Sam si volta, mettendosi in ginocchio tra le gambe di suo fratello. Gli punta gli occhi addosso.

Dean non molla la presa sulle sue spalle, continua ad accarezzarlo.

“Come sarebbe stata la nostra vita, se avessimo davvero trovato papà.”

“Ogni giorno.” risponde, la voce ad un tratto più cupa.

“E…?”

“E non lo so.”

“Saremmo sempre dei cacciatori? Sarebbe ancora quella la nostra vita?”

“Non lo so, Sammy. Ma di sicuro non saremmo qui. A casa nostra, io e te.” Adesso le parole sono un sussurro. “So soltanto questo.”

Dean sente le spalle di suo fratello tornare ad un tratto tese, rigide. E ha abbandonato la testa, appesantita dai pensieri, su una delle sue ginocchia.

Gli da una pacca sul braccio. “Forza, vieni qui.”

Sam si alza, Dean si distende. Gli fa posto accanto a sé sul divano, con un braccio disteso pronto ad accogliere la sua testa. Suo fratello lo raggiunge, abbracciandolo, circondandogli la vita. Dean allunga la mano libera e gli accarezza la guancia, il collo, i capelli.

“Grazie, Dean.” sussurra.

Continua a coccolarlo per qualche minuto, poi sente il respiro appesantirsi e sa che si è addormentato. Sorride.

“Ti amo, Sammy.”

 

Nello stesso istante in cui nel sogno si lasciava cadere insieme a Sam nell’incoscienza del sonno, nella realtà si svegliò. Si mise seduto, consapevole che non sarebbe riuscito mai e poi mai ad abituarsi a tutto ciò che vedeva e sentiva quando chiudeva gli occhi. Ma, nonostante quella consapevolezza, la cosa più dolorosa fu ritrovarsi in una stanza spoglia, anonima, estranea. Fece fatica a lasciar andare l’altra vita, a lasciar andare quella nuova e improbabile versione di se stesso. In un modo per lui incomprensibile, si era quasi affezionato a quell’invenzione. Ebbe una punta di fastidio alla bocca dello stomaco e riconobbe la nostalgia. Nostalgia per qualcosa che non aveva mai avuto, e che non avrebbe mai potuto avere.

In quel torpore confuso tra sogno e realtà, si ritrovò a chiedersi dove fosse, quel Sam Winchester in giacca e cravatta, che torna a casa dal lavoro dei suoi sogni, stanco e soddisfatto, e cerca lui.

Poi alzò lo sguardo e lo vide.

Seduto sulla sedia davanti al letto, le dita premute sulle tempie e due occhi di fuoco che lo puntavano. Gli bastò un secondo dentro quegli occhi per capire tutto quello che il fratello stava provando: rabbia, dolore, delusione, disperazione. Ma non sapeva il perché.

Non aprì bocca, non chiese nulla. Non ce n’era bisogno, Sam sarebbe scoppiato a momenti.

E così fu.

“Un anno,” sibilò. “un fottutissimo anno.”

Ah, quello. Aveva scoperto la verità.

“Sam,” iniziò, con tutta la calma che riusciva a mettere insieme.

“Un-fottutissimo-anno!” esplose, alzandosi in piedi. “Che cazzo ti passava per la testa, Dean? Come hai fatto ad accettare? Come hai potuto tenermelo nascosto?”

“Come l’hai scoperto?” gli chiese, ancora seduto tra le lenzuola.

“Ha importanza?” urlò. “A chi cazzo importa come ho fatto a scoprire che mio fratello morirà tra tre maledettissimi mesi?”

Dean si passò una mano sulla faccia, chiuse gli occhi. Provò a fingere che quelle parole non lo stessero squarciando, provò a convincersi che quel dolore che sentiva nella voce di suo fratello non li avrebbe distrutti entrambi.

“Lo sai quanti sono tre mesi, Dean?” aggiunse, con le lacrime agli occhi. “Niente, non sono niente! Non abbiamo niente!”

“Sam, calmati.”

“No, porca puttana, non mi calmo!” Un altro boato, e poi si aggrappò allo schienale della sedia, piegato in due, scosso dalle lacrime. Continuò a singhiozzare a testa bassa. “Non capisci.”

Dean si staccò dalla testiera del letto, afferrò le coperte e le scaraventò lontano. Si mise seduto ad un lato del letto, in boxer e maglietta, i piedi congelati a contatto con il pavimento freddo.

“Invece sono l’unico che può capirti, lo sai.”

Sam alzò la testa e lo guardò. Quando Dean si specchiò nei suoi occhi capì che non si sarebbe mai perdonato. Non c’è perdono se riduci la persona che ami di più al mondo in un cumulo di macerie. Allo stesso tempo, sapeva di aver fatto la cosa giusta, ne era convinto, e, tornando indietro, avrebbe ripercorso esattamente gli stessi passi.

“E allora perché?” Aveva smesso di urlare, di sbraitare. Adesso era solo disperazione fatta persona, che parlava e si muoveva. “Perché mi fai questo? Perché mi lasci?”

“Sam, vieni qui.” disse, dopo un respiro lungo una vita.

Suo fratello si trascinò fino al letto, lo raggiunse e s’inginocchiò davanti a lui, tra le sue gambe aperte. Per Dean fu una coltellata al cuore rivederlo lì, così vicino, ma – adesso – così maledettamente lontano. Non sapeva perché, e in quel momento non si sforzò nemmeno di capirlo, ma aveva voglia di poggiargli le mani sulle spalle, accarezzarlo, fargli sapere che era ancora lì, con lui. Era lì per massaggiarlo quando tornava a casa, per rispondere alle sue domande sul passato, per abbracciarlo e sentirsi dire grazie. Ed ebbe voglia di chiederglielo davvero: che sarebbe successo, Sammy? Che sarebbe successo a noi due, lontani da questo schifo?

E invece disse semplicemente, “Scusami.”

Sam crollò, lasciò cadere la testa sulla spalla dell’altro.

“Scusami, Sam.” ripeté. “Perdonami.”

Gli prese la testa tra le mani, chiuse gli occhi e disse quello che non aveva mai voluto ammettere nemmeno con se stesso.

“Non voglio morire, Sammy. Non voglio andare all’inferno. Non ti voglio lasciare.”

Appoggiò la guancia sui capelli di suo fratello. Non riusciva a pensare a niente, sentiva la testa svuotata. C’erano soltanto loro due. Loro e quelle parole, finalmente libere, che ripeté ancora una volta, “Non ti voglio lasciare”.

Sam permise alle lacrime di rigargli le guance, le lasciò scivolare senza fermarle. Ad occhi  chiusi, si godeva la vicinanza di suo fratello. La sensazione della sua pelle sulla sua, delle sue mani nei suoi capelli. E, insieme alle lacrime, sentì scivolare via tutto il resto. La paura, la vergogna, tutto quello che lo aveva sempre fermato, legato, incatenato. All’improvviso, seppe che era la cosa giusta. Giusta, semplice, facile. Non c’erano ostacoli, non più.

Spostò leggermente il viso, sentì le mani prendere vita. Afferrò la testa di Dean e, con il cuore impazzito che gli scalpitava nel petto, lo baciò.

 

 

Durò poco, qualche secondo. Pochi attimi durante i quali Sam si sentì finalmente vivo, e Dean capì che tutto stava crollando. Quella vita sbagliata che lo perseguitava nei sogni, adesso lo inghiottiva anche nella realtà. Era in un vortice di sorpresa e stupore. Gli sembrava di soffocare e, allo stesso tempo, di respirare per la prima volta in vita sua. E in quella spirale di confusione, riuscì a capire che l’unica cosa che doveva fare era staccarsi.

Si allontanò da Sam come se avesse preso la scossa. Lo spostò, si alzò dal letto e, come una furia, raggiunse la parte opposta della stanza. Si mise le mani tra i capelli, si coprì gli occhi, si sforzò di respirare.

“Sam…” rantolò, proprio come aveva fatto nel suo primo sogno. Il sogno. Ripensò alla doccia, al divano, a loro due insieme. Sentì il disgusto per se stesso riempirgli la bocca di saliva amara. “Che cazzo è successo?”

“Quello che doveva succedere.” rispose l’altro, pronto e tranquillo, come se si aspettasse quella domanda da una vita. Seduto sul bordo del letto, si passò una mano sulle guance per cancellare le ultime tracce delle lacrime. “Quello che ho sempre voluto che succedesse.”

“Sam!”

“Sempre, Dean.”

“Cristo santo!” La voce fu un boato, carico di rabbia e incredulità. Ignorò le sensazioni che aveva scoperto ultimamente, tutte quelle nuove emozioni portate dai sogni come alta marea, e urlò le parole che aveva sempre voluto urlare. Nella doccia o sul divano, nel sogno o nella realtà. “Sei mio fratello, mio fratello!”

“Cazzo, quanto odio quella parola!”

“Quale? ‘Fratello’? Perché è quello che sono, Sam. È quello che siamo.”

“Lo sai che non è vero! Almeno non solo… Dio, lo sai!”

“Ma che cazzo dici?” Camminava avanti e indietro, le mani sulla faccia, le dita premute sugli occhi. “E’ sbagliato, porca troia… sbagliato! E ti sembro gay?!” tornò a sbraitare, non riuscendo a darsi pace, non capendo se stesse parlando a Sam o a se stesso. “In tutti questi anni ti ho mai dato l’impressione di essere attratto dagli uomini?”

“No,” ridacchiò. “Certo che no!”

“Che cazzo ridi, Sam? Porca puttana, sei impazzito?”

“Vuoi sapere quello che siamo? Vuoi sapere ciò che è vero?” Si alzò e a grandi falcate si avvicinò a Dean, che lentamente – ormai nel panico – iniziò a indietreggiare.

“Che cazzo fai?” riuscì a bisbigliare.

L’aveva raggiunto, e Dean si sentiva tremare, respirava a fatica. Lui che decapitava vampiri senza battere ciglio, lui che affrontava fantasmi e lupi mannari senza scomporsi, lui che bruciava cadaveri e rispediva demoni all’Inferno, lui che non aveva esitato nemmeno davanti ad Azazel in persona, ora tremava per suo fratello. Moriva di paura davanti a lui.

Lo spinse, ma Sam non si mosse di un centimetro. Anzi, era ancora più fermo. E con quella fermezza gli afferrò il collo e lo avvicinò a sé. Fronte contro fronte, respiro contro respiro, libertà contro vergogna. Verità contro bugia.

Dean digrignò i denti. Gli girava la testa, sentiva le gambe deboli. Non sapeva dove guardare, non sapeva cosa pensare. Lì, in piedi con il suo Sammy così vicino, non sapeva nemmeno più chi era. Poi, per un attimo, cedette. Per un attimo minuscolo come un respiro, che lo tradì come nessuno aveva mai fatto finora, decise di non pensare. Decise di provare, di sbirciare come sarebbe stato: cancellare tutto tranne loro, fingere che fosse la cosa giusta.

Cercò le mani di suo fratello, che ancora gli stringevano il collo, e ci posò le sue.

Gli sembrò di aver trattenuto il fiato per vent’anni. Soltanto adesso poteva respirare.

Chiuse gli occhi.

“Questo.” sussurrò Sam. “Solo questo è vero.”

 

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Capitolo 5
*** Due mesi ***


Due mesi.

 

Non ne avevano più parlato. Ogni tentativo di Sam di affrontare l’argomento era caduto nel vuoto. Suo fratello non voleva parlare, non voleva discutere, a volte non voleva neanche guardarlo negli occhi. Andava avanti fingendo che non fosse successo nulla, che le loro labbra non si fossero mai toccate, che non gli restassero solo due maledetti mesi di vita. Fingeva di non avergli mai detto che non voleva morire, che non voleva lasciarlo.

Sam lo vedeva bere, mangiare, indagare per i casi che li tenevano occupati. Lo vedeva addormentarsi e calmarsi nel sonno, per poi svegliarsi sempre più cupo, sempre più arrabbiato, sempre più restio a guardarlo negli occhi.

E tutto questo lo stava uccidendo. Dean lo stava uccidendo.

Lentamente, come un coltello che affonda piano nella carne.

In alcuni momenti, Sam sembrava soffocare sotto il peso della colpa: non solo non stava riuscendo a salvare suo fratello, ma aveva anche macchiato di vergogna tutto quel poco che era rimasto. Pregava di poter tornare indietro, di poter rivivere quel giorno, quella mattina, e fermarsi prima di afferrargli la testa e baciarlo. Ma in altri momenti, attimi in cui si lasciava andare e scordava le bugie, non desiderava altro. Non si pentiva, non rimpiangeva quei pochi secondi di verità – forse gli unici della sua vita – e pregava soltanto di poterlo rifare. Ancora una volta, una soltanto.

Lo studiava giorno dopo giorno, provava a leggere ogni sfumatura del suo volto, ogni ombra dei suoi sorrisi strafottenti e delle sue battute sarcastiche. Analizzava ogni tentativo di Dean di tenerlo lontano, di costruire muraglie tra di loro, di fargli capire che era sbagliato. Era tutto sbagliato. Quello che avevano fatto, quello che erano diventati. Quello che avevano desiderato essere.

Tutte le volte che provava a parlargli, o si chiudeva in se stesso o lo interrompeva iniziando a sbraitare. Ma questi momenti di contrasto, di battaglia, di lite, Sam riusciva a superarli. Quello che invece non riusciva nemmeno ad affrontare erano i silenzi. Quegli attimi in cui niente sembrava cambiato, dove tutto sembrava sospeso in quel bacio. Quando si passavano una birra e le loro dita si toccavano. Quando Dean si svegliava e – per un breve istante, appena aperti gli occhi - lo guardava come aveva sempre desiderato essere guardato. Quando la stanza era immersa nel silenzio, disturbato soltanto del rumore della doccia e dal pensiero di suo fratello nudo sotto il getto dell’acqua, così vicino ma sempre così lontano. Quando i loro occhi si cercavano e si trovavano, e capivano – entrambi, insieme, nello stesso momento e con la stessa intensità – che niente era sbagliato. Perché non erano fratelli, non erano uomini, non erano cacciatori. Erano la stessa anima.

 

Sam giocherellava con il bicchiere pieno d’acqua posato sul tavolo, guardava senza vederlo il menù che la cameriera gli aveva portato con un sorriso, e parlava sottovoce con il cellulare premuto sull’orecchio. Aveva contattato un cacciatore conosciuto tanti anni prima, in Louisiana, che gli aveva accennato di una sacerdotessa hoodoo fuori Shreveport che poteva essere d’aiuto. Perché non gli importava quali erano i termini dell’accordo, non gli importava tornare nel buio dal quale Dean l’aveva tirato fuori. La sola cosa che aveva importanza era provarci, trovare un modo, cercare di tenere in vita suo fratello.

 

Dean finì di fare il pieno di benzina ed entrò nel locale a passo svelto. Riconobbe Sam da lontano, aveva scelto il tavolo più appartato. Stava parlando a telefono, con le sopracciglia aggrottate e l’aria tesa. Capì subito che era in corso l’ennesimo e inutile tentativo di salvargli la vita e ingannare il patto, ma era stanco di discutere e decise di fingere di non aver visto niente.

Un’altra finzione, una delle tante.

Lasciò cadere il giornale sul tavolo, Sam alzò la testa e riattaccò, con un mezzo sorriso che fingeva innocenza. Evitò lo sguardo del fratello, decise che era più facile dedicarsi al quotidiano. Lesse a bassa voce.

Cicero, Indiana. ‘Uomo morto in un tragico incidente domestico.’

“Quindi?” sbuffò Sam.

“E’ caduto sulla sua sega elettrica.” rispose, sedendosi e guardandosi intorno.

“Non mi sembra uno dei nostri casi.”

“Invece potrebbe.” Lo guardò dritto negli occhi, sulle labbra una smorfia arrogante che voleva somigliare ad un sorriso.

“Okay, va bene.” Capì subito che c’era qualcosa che non gli stava dicendo. “Cosa c’è sotto?”

Dean non rispose. Abbassò lo sguardo, iniziò a ispezionare il menù.

“Aspetta…” Improvvisamente tutto fu chiaro. “Cicero, giusto? Come quel paese in cui ti fermasti per quanto – un week-end? – mentre io e papà eravamo in Orlando a far fuori quella Banshee? Quando, nove anni fa?”

“Otto.”

“E io dovrei mettermi in viaggio per cosa? Per farti rivedere una ragazza qualunque con cui hai passato una notte qualunque?”

“Lisa Braeden.” Alzò improvvisamente lo sguardo, puntandoglielo addosso. “E non era una ragazza qualunque, era un’insegnante di yoga. Capisci?”

“Certo, capisco.” Scosse la testa, sorrise amaramente, allontanò il bicchiere ancora pieno che si rovesciò sul tavolo. “Lo fai per me, eh? Lo fai per vedermi impazzire, per farmi capire come stanno le cose, per mettere in chiaro quello che non potrò mai avere?”

“No.” L’espressione arrogante era scomparsa, era rimasto solo Dean, il suo Dean. Quello che avrebbe voluto dirgli Sì, lo faccio per te. Lo faccio per non vederti distrutto, per non farti soffrire, per lasciare nella tua vita quel minimo di normalità che ti meriti e che io ti strapperei via. E invece disse soltanto: “Muoviti a ordinare.”

 

 

 

Lasciò al motel Sam, che lo guardava allontanarsi con la migliore delle sue facce da cucciolo smarrito, e si diresse verso la casa di Lisa. Si ricordava esattamente dove abitava e nel tragitto dette un’occhiata veloce in giro per capire se davvero ci fosse qualcuno o qualcosa che richiedeva il loro aiuto. Parcheggiò, raggiunse la porta e suonò il campanello.

Lisa apparve qualche secondo dopo, con un’espressione allegra e accogliente, che cambiò nell’istante in cui in suoi occhi incrociarono quelli dell’uomo.

“Dean!” esclamò, e la sorpresa stampata nello sguardo raggiunse anche la voce.

“Lisa.” ricambiò il saluto. “Ero di passaggio e non ho saputo resistere.” Rise.

Lei non ricambiò, continuava a guardarlo confusa, un sorriso imbarazzato stampato sulle labbra. “Wow… Dean Winchester!”

“Esatto.” Sfoderò una delle sue migliori espressioni, e questa volta anche le labbra della ragazza si aprirono in un sorriso.

“Ti va di entrare? C’è un po’ di confusione, ti avverto!”

Mentre Dean varcava la porta, si aspettava una cucina da pulire, divani in disordine, magliette dimenticati sulle sedie, ma la confusione che trovò fu di tutt’altro tipo. Il soggiorno, la cucina e il giardino sul retro era pieni - traboccanti - di bambini e genitori. Madri soprattutto, che lo squadrarono da capo a piedi appena entrò nella stanza.

“Quello è Ben,” disse Lisa, indicando un tavolo in giardino. “mio figlio. Oggi è il suo compleanno.”

Mio figlio?! Dean tossì, quasi si strozzò con la sua stessa saliva.

Ben stava scartando i regali, con un sorriso da bulletto e un gruppetto di ragazzine che lo circondavano. Si liberò della carta e trovò un cd degli AC/DC. Il viso gli si illuminò e iniziò a scatenarsi fingendo di suonare la batteria.

“Davvero un bel bambino,” disse Dean, schiarendosi la gola. “complimenti.”

In quel momento una mamma chiamò Lisa. Si voltarono entrambi e Dean si ritrovò a guardare una donna stanca e provata, con una bambina attaccata a una gamba, che fissava il pavimento a testa bassa.

“E’ la moglie dell’uomo che è morto qualche giorno fa?” chiese d’istinto, senza pensare.

Lisa lo guardò aggrottando le sopracciglia. “Come…?”

“L’ho letto sul giornale stamattina.” spiegò.

“Beh, ex moglie in realtà… ma sì, è lei. Poverine, sono ancora sotto shock. Ti dispiace se le raggiungo?”

“Figurati, se preferisci che me ne vada, non c’è probl-“

“No no,” lo interruppe. “resta.” E gli sorrise.

I minuti che seguirono Dean li trascorse guardandosi intorno, abbuffandosi di pizzette, facendo domande in giro, e studiando quel bambino. Ben. C’era qualcosa nello sguardo, nel modo in cui si muoveva e parlava con la gente. Era così… familiare. E ogni volta che lo guardava nasceva qualcosa alla bocca dello stomaco. Una sensazione, un pezzo di puzzle da mettere a posto. Fu quando vide la torta e contò le candeline che quella sensazione prese forma.

Un’ora più tardi, Dean lasciò la festa. Lisa lo pregò di tornare quella sera, dopo che aveva messo a letto Ben. E lui, quando il buio aveva ormai inghiottito il quartiere, si presentò di nuovo a casa sua. Era seduto nell’Impala, immobile. Guardava la porta di quella casa e non si decideva ad avvicinarsi e bussare. Non aveva cenato, aveva lo stomaco chiuso. Continuava a rivedere davanti agli occhi quel bambino, i suoi capelli biondo scuro, i suoi occhi verdi, le candeline sulla torta. Aveva trascorso quelle ore di solitudine vagando per il paese. Aveva fatto qualche domanda, osservato genitori e bambini, ma tutto quello che aveva scoperto era che non c’era niente di soprannaturale. Gli abitanti sembravano a posto, non succedeva niente di strano, non c’erano odori o indizi che lo riportassero a vecchi casi. A quanto pare aveva ragione Sam, quell’uomo era davvero morto per un incidente.

Sam.

Il nome arrivò con un pensiero come tanti, ma gli restò in testa. E, senza neanche accorgersene, si ritrovò con il cellulare in una mano. Cliccò sull’ultima chiamata fatta e se lo portò all’orecchio. Non sapeva nemmeno perché lo stava facendo, sapeva soltanto che ne aveva bisogno. E questo bastava.

“Dean?” Rispose dopo appena due squilli. “Stai bene?”

“Sì.” disse, un sussurro che si sentiva a malapena.

“Novità sul caso? Hai bisogno che ti raggiunga?”

“Non c’è nessun caso. “ sospirò. “C’è un bambino.”

“Cosa?” Il tono cambiò dopo qualche secondo, passò dal preoccupato al rassegnato. “Quanto hai bevuto?”

“Lisa ha un bambino. Otto anni. Sembra la mia copia in miniatura.”

Silenzio dall’altra parte. Dean avrebbe dato qualsiasi cosa per essere lì con lui, guardarlo negli occhi e leggerci dentro ogni pensiero. “Sam?”

“E’ tuo?” chiese, la voce spezzata.

“Non lo so, glielo sto per chiedere.”

Ancora silenzio. Un silenzio che sembrava schiacciare entrambi.

“Allora fallo.” E riattaccò.

 

 

La seguiva su per le scale. Seguiva il suo fondoschiena fasciato da un paio di jeans aderenti, ad essere sinceri. Sentiva la testa leggera, svuotata. Sentiva vibrare ogni parte del suo corpo.

Non era suo. Ben, quel bambino che gli somigliava così tanto, non era suo. A quel punto, si chiese addirittura se tutta quella somiglianza ci fosse davvero. Forse voleva vedercela lui, forse sperava che non fosse tutto lì, quello che lasciava. Forse desiderava lasciare un’eredità che non fosse soltanto un’auto, un diario, una giacca di pelle e un arsenale chiuso nel bagagliaio. Forse aveva sperato di essere qualcosa di più.

Lisa chiuse a chiave la porta della camera da letto, si portò l’indice sulla bocca facendogli segno di fare silenzio e gli sorrise. Dean ricambiò, alzando un angolo della bocca. Si mangiò con pochi passi i metri che li dividevano, le posò le mani sui fianchi e la attirò verso di sé. La baciò, cercando di perdersi in quel bacio. Perdere se stesso, gli ultimi mesi, la sua vita, la sua morte. Lisa gli si strusciava contro, solo un sottile strato di cotone a dividere la sua pelle dalle mani di Dean.

“Sei addirittura meglio di come ti ricordavo.” sussurrò lei, mordendogli il labbro inferiore.

Quel piccolo morso e quelle parole bisbigliate tra un bacio e l’altro raggiunsero le orecchie di Dean, gli solleticarono la pelle, arrivarono dritte nei jeans. Si rese conto che le sue mani erano sempre più agitate, i suoi baci sempre più affamati, e la sua erezione scalpitava nei pantaloni, strusciando sull’inguine di lei. E, mentre Lisa lo spingeva sul letto e iniziava a sfilargli la camicia, un pensiero gli inondò il corpo e la mente: era sollievo, puro e appagante sollievo. Era con una donna. Una bellissima donna che lo stava spogliando e che si lasciava spogliare. E tutti i dubbi che aveva avuto negli ultimi mesi stavano svanendo insieme ai suoi pantaloni.

Lasciò che una mano scivolasse tra i suoi lunghi capelli neri, l’altra le accarezzava il fianco e giocava con le mutandine. Lisa, a cavalcioni su di lui, si abbassò e gli avvicinò le labbra all’orecchio.

“Mi sei mancato.” disse, leccandogli il lobo.

Dean chiuse gli occhi con forza quando arrivò il primo flash.

 

Sente il getto d’acqua sul viso, l’eccitazione dell’altro premergli alla base della schiena.

“Oggi mi sei mancato.” si sente sussurrare all’orecchio.

 

La voce di Sam che copriva quella di Lisa, che copriva i suoi pensieri ormai impazziti, il suo sollievo appena nato, il suo respiro accelerato. Quella voce che copriva tutto. Le mani di Sam che scacciavano quelle di Lisa e prendevano il loro posto. Ed erano più grandi, più sicure, più… sue.

Si lasciò sfuggire un gemito. Era sofferenza, incredulità, confusione. Ma Lisa lo scambiò per tutt’altro. Riprese a danzare con più foga sul suo corpo, le mutandine che si strusciavano sui boxer. Dean scosse la testa, cercò con tutte le sue forze di scacciare suo fratello dalla sua mente e da quella stanza. Afferrò Lisa per i fianchi, aggrappandosi a quel meraviglioso corpo di donna e, con un ruggito, la sollevò e la lasciò cadere sul letto. Adesso era il corpo della ragazza ad essere intrappolato dal suo, e il sorriso sulle sue labbra morbide e carnose era ancora più luminoso. La sua voce leggera continuava a sussurrargli parole che gli arrivavano dritte in mezzo alle gambe. Si sollevò leggermente, facendo forza sulle braccia. Guardò in basso, si godè la visione della linea delle sue spalle morbide, le braccia le mani le labbra che cercavano lui, i seni che chiedevano di essere toccati e baciati. E lui ubbidì. Portò le labbra umide sui capezzoli, lasciò che la lingua li accarezzasse, che i denti lasciassero piccoli morsi, mentre le mani viaggiavano, stringevano, mangiavano. 

“Dio, Dean…” sussurrò Lisa, mentre lasciava cadere la testa all’indietro, stringendo il cuscino. “…le tue mani.”

E subito, come se fosse stato sempre in agguato, come se avesse voglia e fretta di ricomparire, arrivò il secondo flash.

 

Sam ridacchia, ma smette quando sente le mani di Dean intrufolarsi nel colletto della camicia.

“Dio, Dean…” sussurra, la testa che lentamente si lascia cadere all’indietro. “…le tue mani.”

“Shh” lo zittisce. E continua a premere le dita sulla sua pelle.

 

“Shh” la zittì, forse con troppa irruenza. Lei cercò i suoi occhi verdi per capire il tono brusco della sua voce, ma non li trovò: erano troppo impegnati a non scavare nei ricordi. Ma vide le labbra che si avvicinavano ai fianchi, la lingua che accarezzava lentamente ogni centimetro della sua pelle. Tornò a sorridere e a gemere. Dean incastrò tra i denti il bordo delle mutandine e, con un unico morso, strappò.

“Cazzo, Dean!” gridò Lisa, non riuscendo a trattenersi. “Dio mio-“

La voce le morì in gola quando lui, con due dita, la trovò bagnata.

“Ti prego,” lo supplicò. “Per favore.”

E ancora una volta, per una manciata di secondi, la voce di Sam arrivò da qualche ricordo nascosto e si sovrappose a quella della ragazza. Dean riusciva a sentirne una soltanto. Quella maschile, bassa e raschiata. Quella familiare, calda… sua.

Lasciando andare le dita, si piegò sulle braccia e si avvicinò al suo volto. La guardò negli occhi.

“Zitta.” sussurrò. E, con un’unica spinta, entrò.

Lisa fu costretta a mordersi la lingua per non urlare. Strinse ancora più forte le lenzuola, cercando un appiglio, qualcosa di solido, qualcosa che non stesse tremando insieme a lei.

“Oh, Dean…”

Lui spingeva, sempre più forte, a occhi chiusi. Perdendosi nei gemiti e nel suo nome sussurrato ad ogni spinta. Sentiva unghie che gli graffiavano la schiena, mani che gli stringevano le natiche, dita che gli accarezzavano la pelle. Non voleva aprire gli occhi, non voleva la realtà.

 

Sente i palmi delle mani che si posano sulle sue spalle e adesso l’acqua calda non è più la sola ad accarezzarlo. Lentamente, parte dalle scapole, arriva ai fianchi, gli accarezza leggermente le natiche e poi risale in alto, fino ad intrappolare le dita nei suoi capelli.

Lo strattona.

 

Ruggì. Un suono profondo che gli nasceva in gola. Un suono animale, carico di rabbia e piacere. Sentì il corpo di Lisa cambiare e tremare sotto di lui: strinse le gambe intorno ai suoi fianchi, si aggrappò alle sue spalle nascondendo la testa nell’incavo del suo collo.

Dean spinse ancora più forte, ancora a occhi chiusi. E la seguì in quel piacere.

Quando lei gemette e chiamò il suo nome, lui combatté con la voglia di farlo. Di chiamarlo.

L’unico nome che aveva in testa. L’unica persona che voleva. L’unica parola che voleva tra le labbra.

Sam.

 

 

 

Sam guardava scoraggiato lo schermo del portatile, si passava tra le mani la scatolina di cibo cinese senza decidersi a mangiare. Aveva lo stomaco chiuso. C’era un’altra scatola sul tavolo: piccola, marrone, un po’ sporca, con una sua piccola foto chiusa dentro. Pensò a come si fosse sentito Dean, dieci mesi prima, con quella merda tra le mani. Cosa lo avesse portato a prepararla, a sotterrarla, ad usarla. Forse erano proprio gli stessi pensieri che adesso riempivano la sua testa. Forse era proprio la stessa disperazione.

Ma non riusciva a decidersi. Non riusciva a prendere il cappotto, afferrare la Colt e affrontare il demone dell’incrocio. Facendolo, sapeva che avrebbe tradito suo fratello, che lo avrebbe deluso. Ma sapeva anche che era l’unica cosa che gli restava da fare, l’ultimo disperato tentativo.

Il cellulare squillò all’improvviso, il cibo gli cadde dalle mani. Lesse il nome sul piccolo schermo e rispose subito, senza fermarsi a pensare cosa poteva averlo spinto a chiamare.

“Dean? Stai bene?”

“Sì.” Lo sentì a malapena. E quella voce, quel sussurro, ebbe il potere di gelargli il sangue e fargli pensare al peggio.

“Novità sul caso? Hai bisogno che ti raggiunga?”

“Non c’è nessun caso. C’è un bambino.”

“Cosa?” All’inizio fu solo confusione, poi se lo immaginò seduto nell’Impala, una bottiglia di whisky mezza vuota in mano, la testa lasciata cadere all’indietro sul sedile, e diventò scettico. “Quanto hai bevuto?”

“Lisa ha un bambino. Otto anni. Sembra la mia copia in miniatura.”

Perse la voce, non si ricordava più come si fa a parlare, come escono le parole e formano le frasi. Non riusciva a pensare, a respirare. Aveva soltanto la forza di desiderare: desiderava essere lì con lui, guardarlo negli occhi. Solo questo.

“Sam?”

La voce di suo fratello, un misto tra preoccupazione e urgenza, lo svegliò dal torpore.

Chiuse gli occhi, strinse i denti, poi parlò, sperando che la voce non lo tradisse, che non rivelasse che si stava sbriciolando. “E’ tuo?”

“Non lo so, glielo sto per chiedere.”

Ancora quella sensazione, le parole non c’erano più, la voce sparita.

Un ultimo sforzo, un ultimo respiro, prima di riattaccare.

“Allora fallo.”

 

Non riusciva a trovare ordine nei suoi pensieri, non riusciva a restare calmo. L’unica convinzione lucida, sicura, a fuoco, era: l’ho perso, l’ho già perso per sempre. Trascorrerà i giorni che gli restano con lei, con loro. Con la sua famiglia, sangue del suo sangue. Proprio come finora ha fatto con me.

Pensava a quel bambino – sicuramente sveglio e adorabile, sicuramente bello come il sole, bello come Dean – e l’unica cosa che vedeva era un ostacolo in più, una muraglia in più, l’ennesima maledizione che li divideva.

All’improvviso si sentì in colpa, una colpa che riuscì a spezzargli il respiro. Suo fratello stava morendo. Stava per lasciare questa vita, questo mondo, per scendere agli inferi. E Dio solo sapeva quanto non se lo meritava. Si meritava, invece, la felicità che forse quella donna e quel bambino potevano dargli.

Fu questo il pensiero che lo fece muovere.

 

Si pulì le mani sporche di terra sui jeans e controllò che la Colt fosse al suo posto, incastrata tra la cintura e la schiena. Si guardò intorno, controllò con un’occhiata la fine della strada, camminò sul posto. Si bloccò quando sentì un rumore alle sue spalle.

“Bene, bene… il piccolo Winchester.”

Sam si voltò e si ritrovò faccia a faccia con una ragazza, con un bel corpo e una cascata di capelli scuri. Stava sorridendo.

“E’ davvero un piacere conoscerti.” Fece una piccola pausa, poi riprese a parlare. “Cosa posso fare per te, piccolo Sam? Ma prima dimmi, come sta tuo fratello?”

Lui, senza muovere un muscolo, rispose con calma, ignorando l’ultima domanda. “Ho saputo che sei molto brava a stringere patti.” Lei ridacchiò, e quel suono gli accapponò la pelle. “Ne voglio fare uno anch’io.”

“Dimmi pure, caro. Ma lo sai che non posso fare niente per lui, vero? Non lo posso liberare, lo sai?”

“Ecco il mio patto.” Con un unico movimento, fluido e veloce, Sam sfilò la Colt dai pantaloni e gliela puntò addosso, dritta in mezzo agli occhi. “Tu mi dici chi detiene il contratto di mio fratello e io non ti faccio un buco in testa.”

La risata del demone risuonò per tutta la strada. “Davvero, Sam? E’ questo il tuo piano?”

“Dimmi il nome e dove posso trovarlo.”

“Una curiosità… quanti proiettili ci sono dentro quell’affare? Perché sono speciali e molto preziosi, giusto?”

La verità è che i proiettili erano soltanto due. E Dean non l’avrebbe mai e poi mai perdonato per averne sprecato uno così, per uccidere o anche solo minacciare un inutile demone dell’incrocio.

“Dimmi il nome e dove posso trovarlo.” ripeté, ignorandola.

“Ti voglio far riflettere su una cosa…” Iniziò a camminargli intorno, lentamente, e con lo stesso ritmo Sam la seguiva, senza staccarle gli occhi e la pistola di dosso. “Hai mai pensato a cosa vi ha portati fin qui? Hai mai pensato che forse vi state uccidendo a vicenda?”

“Zitta!”

“Siete così impegnati a salvarvi la vita ogni volta che potete… così presi da tutto questo grande, assoluto, enorme amore fraterno… che non avete ancora capito che siete ognuno il punto debole dell’altro.”

“Ho detto stai zitta!”

“E’ il tuo tallone d’Achille, piccolo Sam. E tu il suo.”

“Ho detto chiudi-quella-cazzo-di-bocca!” urlò, la Colt che gli tremava tra le mani.

“Devi lasciarlo andare, Sam. Ti assicuro che sarà facile, te lo prometto. Sarai forte, sarai capace. Vivere senza tuo fratello maggiore attaccato alle chiappe che ti comanda a bacchetta sarà addirittura piacevole, fidati. Sarà un sollievo.”

“L’ultima possibilità.” Si avvicinò di un passo, il metallo della Colt si scontrò con la fronte del demone. “Dimmi chi è.”

“Lascialo andare.” sussurrò. “Dimenticalo.”

E Sam sparò.

 

 

 

Dean lasciò la macchina nel parcheggio, davanti alla porta del motel. Sentì il motore spengersi e perdersi nel silenzio della notte.

Entrò nella stanza, posò la pistola sul tavolo, si tolse subito giubbotto e scarpe. Lo vide, disteso sul letto, vide la sua schiena, e sentì qualcosa sciogliersi nel petto. Qualcosa di caldo, doloroso ma allo stesso tempo piacevole. Qualcosa come voglia di piangere.

Lo raggiunse, si sdraiò dietro di lui.

Alzò un braccio e glielo posò sul fianco, circondandogli la vita.

Affondò la testa nei suoi capelli, respirò il suo profumo.

Realizzò quanto si fosse sentito vuoto e solo fino a quel momento.

Ora era tutto dove doveva essere. Non c’era bisogno di nient’altro, non esisteva nient’altro. Non c’erano le sue fughe, i suoi silenzi. Non c’erano gli occhi supplicanti di suo fratello, la sua rabbia e la sua pena. Non c’era nessun patto, nessun motivo per non trascorrere tutta la vita insieme. Così, proprio così. Non c’era Lisa, e la sua voce che sussurrava il suo nome. Quella voce che gli chiedeva di restare, di non lasciarla di nuovo. E lui che si allontanava, si rivestiva e scappava. Lui che rispondeva: mi dispiace non posso, ti metterei in pericolo, ti rovinerei la vita, tra qualche mese sarei costretto a lasciarti di nuovo. Lui che invece pensava soltanto: il mio posto non è qui.

Sam era sveglio. L’aveva sentito parcheggiare, aprire la porta, avvicinarsi. L’aveva sentito raggiungerlo sul letto e abbracciarlo. E adesso sentiva il suo respiro pesante, il suo torace contro la schiena, le gambe appoggiate alle sue. E, sulla pancia, una mano tremante. Si mosse e ci posò la sua. Gliela strinse, più forte che poteva.

Prese un respiro profondo e gli entrò nel naso un odore nuovo. Profumo di donna.

Capì che veniva da suo fratello, dai suoi vestiti, dalla sua pelle.

Smise di pensare perché faceva troppo male.

“Era tuo?” chiese, un terremoto al posto del cuore.

“No.” rispose. “Non c’era niente di mio.”

 

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Capitolo 6
*** Un giorno ***


[Penultimo capitolo]

 

 

Un giorno.

 

Avevano occupato una casa abbandonata, nascosta tra i boschi. Avevano entrambi quella stupida convinzione – che ovviamente non avevano detto ad alta voce – che, se si fossero nascosti bene, nessuno avrebbe potuto toccarli.

Sam aprì gli occhi. Tutto quello che vide fu un soffitto pieno di crepe illuminato da deboli raggi di sole. Impiegò qualche secondo per riconoscere la stanza, per ricordarsi dove si era addormentato la sera prima. Ma tutto fu improvvisamente chiaro quando lo sguardo si posò su quella mano appoggiata sul suo stomaco. Riconobbe le dita, le unghie, il calore. Voltò leggermente la testa e si godè la visione di Dean, addormentato accanto a lui, con un’espressione beata stampata in volto, una mano nascosta sotto il cuscino e l’altra su di lui.

Allungò una mano e gli coprì la spalla con la coperta che si era abbassata. In risposta, suo fratello si mosse e si avvicinò ancora di più, mugolando parole incomprensibili.

Non poté fare a meno di sorridere.

 

Un mese prima, Dean si era svegliato con il fiato corto, la maglietta attaccata alla pelle e le mani che tremavano. Come sempre aveva sognato Sam e, come sempre, erano insieme, ma quella volta l’aveva visto più chiaro, più vivo di tutto il resto. E quando si era svegliato, catapultato in quella vita scura e fredda, era stato come se tutto quello che aveva, tutto quello che voleva, gli fosse stato strappato dalle mani. Aveva provato dolore fisico, e avrebbe voluto urlare, con tutto il fiato che aveva, ridatemelo, ridatemi Sammy. Non era più riuscito a riaddormentarsi, non era più riuscito a tornare da lui, e non aveva avuto altra scelta: si era alzato e aveva raggiunto suo fratello. Avevano dormito così, nello stesso letto. Senza toccarsi durante la notte, senza parlarsi quando si erano svegliati. Lontani, ai due lati del letto, ma mai così vicini.

Avevano passato tutte le notti dell’ultimo mese così, sotto le stesse coperte. Non ne avevano mai parlato, non si erano chiesti il perché – perché lo volevano, perché quella vicinanza fosse così bella – o se era la cosa giusta. Non avevano analizzato niente di tutto quello che stavano diventando, ma non importava perché entrambi non avevano mai dormito così bene.

Le prime notti, Sam impiegava ore a lasciarsi cadere nel sonno. Avrebbe voluto avvicinarsi, toccarlo, parlargli, ma si tratteneva. Chiudeva i pugni, si mordeva la lingua, e notte dopo notte aveva imparato a godersi ogni attimo, senza pensare ai desideri che lo logoravano.

Ogni tanto, proprio come quella mattina, Dean si muoveva e, senza neanche accorgersene, lo cercava. Gli circondava il fianco con il braccio e lo tirava verso di sé, allungava una mano e la posava sulla sua, avvicinava la testa alla sua spalla, e continuava a dormire come se quel contatto gli desse ciò che aveva bisogno per trovare un altro po’ di pace.

 

Mentre lo guardava e lo sentiva respirare, Sam sentì un nodo alla bocca dello stomaco. Un brivido gli percorse la schiena, la consapevolezza lo travolse come un treno: quella non era una mattina come tutte le altre, erano agli sgoccioli, era quasi finita.

Sono le ultime quarantotto ore insieme a lui.

La testa iniziò a girare, il corpo fu scosso dall’urgenza. Stavano perdendo tempo, stavano sprecando minuti preziosi. Doveva salvargli la vita, non ammirarlo dormire accanto a lui sperando che quel sonno potesse proteggerlo per sempre.

Spostò la mano ancora appoggiata sul suo torace, si liberò dalla presa di suo fratello e si mise seduto.

“Dean,” sussurrò, scuotendogli una spalla. “svegliati.”

“Mmmm,” mugolò. La mano vagava sul lenzuolo, cercando un corpo che non c’era più.

“E’ tardi.” Insistette Sam, e quelle due parole ebbero la forza di farlo tremare. Cazzo, era tardi davvero. Era tardi per tutto. “Dean!”

Ancora con gli occhi chiusi, Dean alzò un braccio e afferrò la mano di suo fratello che lo stava scuotendo. Gli strinse il polso e poi lo tirò verso di sé. Sam si lasciò trasportare, improvvisamente di nuovo stanco, e cadde tra le coperte. Se ne rese conto all’improvviso: Dean era l’unica cosa contro cui non riusciva a combattere.

“Voglio dormire,” mormorò Dean. “voglio dormire ancora un po’.”

E, per la prima volta, si addormentarono abbracciati.

 

 

Erano entrambi seduti sul divano, Sam aveva il portatile sulle gambe e Dean guardava lo schermo della televisione senza vederlo. Il fratello maggiore si alzò, sparì in cucina e tornò con due birre. Bevvero lentamente, gustandosi ogni sorso, senza rivolgersi parola. Non era necessario parlare, dare voce ai pensieri, era tutto nell’aria. Tutto sospeso. Ad ogni respiro, la fine era sempre più vicina. E la potevano toccare, annusare, vedere.

Dean intravide dalle tende il sole che calava. Scomparve, portandosi con sé la luce del giorno e la calma che finora era riuscito a mantenere. Si fece comandare dall’istinto, allungò una mano raggiungendo le gambe di Sam e chiuse il computer.

“Basta, Sammy.” sussurrò. Nemmeno lo guardò, non cercò i suoi occhi perché sapeva cosa ci avrebbe trovato seppellito dentro: dolore. Ancora dolore.

Basta Sammy…” borbottò l’altro. “Cosa hai intenzione di fare, Dean? Stare col culo su questo divano e aspettare che ti vengano a prendere? Come se fossi il primo degli sprovveduti, come se non avessi mai dovuto lottare in vita tua?”

“No.” La sua voce, bassa e roca, risuonò nella stanza spoglia. Si voltò e guardò Sam. Trovò i suoi occhi e ci scovò quello che si aspettava, ma oltre al dolore c’era qualcos’altro: tenacia. Quella forza che lo aveva contraddistinto fin da bambino. Quella forza che, quando erano piccoli, lo faceva andare avanti per ore, notte e giorno, a chiedergli dov’era papà, quando sarebbe tornato, quando avrebbero rivisto casa. Quell’impegno che metteva nelle recite scolastiche a cui nessuno assisteva se non Dean, nei temi e nei compiti di matematica che nessuno apprezzava se non professori che presto si sarebbero scordati di quel bambino tanto intelligente che spariva sempre dopo qualche mese. Quella forza che gli aveva fatto scegliere Stanford, che lo aveva rimesso in piedi, con le armi cariche strette tra le mani, dopo aver visto la ragazza che amava in fiamme davanti ai suoi occhi. Quella forza, così umana e così sensibile, che solo Sam aveva.

Dean sentì un misto di tenerezza e orgoglio inondargli il petto, e provò quella sensazione che troppe volte l’aveva paralizzato: non riusciva a gestire tutto il bene che gli voleva. Era più grande di lui, più grande di tutto il resto.

Nonostante la fine fosse aggrappata alle loro spalle, un tentativo glielo doveva, lo doveva ad entrambi. E allora disse, “Dimmi cosa hai scoperto.”

Sam alzò le spalle e indicò il computer chiuso. “Se almeno mi avessi fatto finire di leggere…”

“In questi mesi, intendo.” E di fronte all’espressione improvvisamente colpevole di suo fratello, gli sorrise.

Sam prese un respiro profondo, si liberò del computer appoggiandolo sul pavimento e, accomodandosi contro lo schienale del divano, iniziò a parlare. Gli raccontò di ogni ricerca, ogni libro, ogni formula, ogni simbolo. Gli raccontò tutto quello che aveva scoperto.

“Bene,” disse alla fine Dean, strusciando le mani tra di loro. “Anche se il demone dell’incrocio non può sciogliere il patto, non significa che non possa parlare, giusto? Ce lo dirà quella puttana chi detiene il mio contratto.”

Sam sentì un brivido di freddo, le mani iniziarono a sudare. Non aveva il coraggio di guardarlo e parlare, allora lo disse tutto d’un fiato. “L’ho uccisa.”

Dean si immobilizzò. Le mani ferme a mezz’aria, la bocca aperta e gli occhi spalancati. “Cosa?”

“L’ho evocata, non parlava, l’ho uccisa. Fine.”

“Fine?”

“Fine.”

“Con cosa?” chiese, e siccome suo fratello non apriva bocca continuò. “Dimmi che non hai usato la Colt, Sammy. Dimmi che hai trovato un altro modo, un altro fottutissimo modo che non sprechi uno dei due proiettili più importanti di tutta la nostra maledettissima vita.”

Sam si alzò, si allontanò dal divano, si allontanò da lui. Aveva riconosciuto la voce, era quella che usava quando stava per scoppiare, la voce che precedeva urla, rimproveri e bicchieri di whisky. E non aveva voglia di buttarsi a capofitto nell’ennesima litigata. Non quel giorno.

“Non sapevo cosa fare.” mormorò, con la voce che stava insieme per miracolo.

Dean era sull’orlo, su quel filo che divide l’agitazione dalla rabbia. Sarebbe bastata qualche parola, un tono di voce sbagliato, un rimprovero in più, e sarebbe scoppiato. Ma tutto quello che aveva non erano parole, voci o rimproveri, tutto quello che aveva – lì, in piedi davanti ai suoi occhi – era suo fratello. Perso e disperato.

“Calmati.” disse, e lui stesso fece fatica a riconoscersi. “Troveremo un altro modo.”

“Non c’è!” urlò Sam, passandosi le mani tra i capelli.

“Stai calmo, ti ho detto. Guardami. Fermati e guardami.” Sam smise di camminare avanti e indietro e ubbidì. Poi Dean aggiunse, “Chi ti ha detto che avevo solo un anno?”.

“Un demone. Ruby, la chiamano così. L’ho scelta perché tutti i demoni che ho trovato parlavano di lei, sa qualcosa per forza.” Fu come se si fosse distrutta una diga, le parole uscirono da sole, un fiume in piena. “Sapeva di te Dean, sapeva tutto. Ci conosce, ha detto che ci conoscono tutti. Non vedono l’ora di distruggerci, di separarci. Cristo, Dean, non vedono l’ora di averti laggiù.”

Dean s’impose di non guardare la lacrima che stava rigando la guancia di suo fratello. “Chiamala.”

“Non parlerà, Dean. Non ci dirà un cazzo.”

Si alzò, lentamente, e lo raggiunse. Alzò un braccio e avvicinò il palmo aperto della mano al volto di suo fratello. Sam ci lasciò cadere la testa, mentre sentiva il pollice di Dean che gli accarezzava la guancia e cancellava il segno della lacrima.

“Tutti parlano, Sammy.” E sulle sue labbra apparve, in un misto di affetto e rassegnazione, un sorriso.

 

 

“Che onore!” esclamò Ruby. “Evocata e legata da Dean Winchester in persona!”

Sam aveva recitato la formula, Dean l’aveva intrappolata nel cerchio disegnato sul soffitto e legata mani e piedi ad una sedia.

“Non ho tempo da perdere,” iniziò Dean.

“Per quanto mi riguarda, possiamo farla finita anche subito. Non vi dirò niente.”

“Inizierò con le buone, e finirò con le cattive.”

“Ci ha già provato il tuo fratellino, non te l’ha detto?”

“Mio fratello è molto più paziente di me.” Tirò fuori dalla tasca dei jeans una fiaschetta, la stappò lentamente. “E per me sarà un piacere sfregiarti quel bel faccino.”

Senza nemmeno guardarla, spruzzò un po’ di acqua santa sulla faccia della ragazza. Un grido spezzò l’aria, il demone si dimenò tra il fumo che gli circondava il viso.

Il fumo e le grida sparirono, rimpiazzate da una risata. “Credi di farmi parlare a suon di gavettoni?”

“Voglio un nome.” Altra acqua benedetta, altro fumo, altre grida.

“Ti vedo un po’ sciupato,” ghignò Ruby, scuotendo la testa per togliersi i capelli dagli occhi. “non hai una bella cera. Manca poco, eh?”

Sam si intromise, raggiunse con due falcate suo fratello, gli strappò la fiaschetta dalle mani e gliela rovesciò addosso tutta, fino all’ultima goccia. “Parla!” urlò, sovrastando il rumore della pelle che sfrigolava. “Dacci quel nome!”

Quando si riprese, Ruby continuò da dove era stata interrotta, come se Sam non si fosse mai mosso, non avesse mai parlato. “Non riesci a riposare, Dean?”

“Dormo da Dio.” rispose. E quelle parole ebbero nella sua bocca un sapore nuovo, quando si accorse che le stava dicendo la verità.

“Le tue occhiaie dicono il contrario. Dimmi un po’, quanto ti torturano quei sogni?”

Dean s’immobilizzò. Le braccia, incrociate sul petto, persero forza e cascarono lungo i fianchi. Sentì le gambe deboli, la testa che iniziava a girare e nelle orecchie un brusio così forte che gli impediva di sentire i suoi stessi pensieri.

I sogni? Che cazzo ne sa lei dei miei sogni?

Guardava il demone, ma vedeva il vuoto. Era fermo, immobile, ma dentro urlava e scalpitava.

Fa’ che questa puttana non dica nulla a Sam. Fa’ che lui non lo scopra.

Sam era confuso. Spostava gli occhi da suo fratello al demone, e poi di nuovo su suo fratello: sembrava una statua, il suo corpo era lì ma lui non c’era. E non riusciva a capire perché. L’unico indizio, l’unico spiraglio di luce, era ciò che aveva detto Ruby.

“Che sogni?” chiese con un filo di voce.

“Tuo fratello non te ne ha parlato?”

Si voltò verso Dean, che lo guardava come se aspettasse che il mondo gli crollasse addosso. Come se fosse l’ultimo sguardo che aveva a disposizione.

“È quello che succede quando i cerberi ti danno la caccia, quando il momento di raggiungere l’inferno si avvicina. Sei talmente terrorizzato che ciò che ti fa più paura ti viene a trovare appena chiudi gli occhi.” spiegò Ruby. “Allora, Dean? Raccontaci. Quali sono i tuoi incubi?”

Sam lo guardava e non capiva. Da quanto tempo aveva gli incubi? Da quanto era tormentato nel sonno? Perché lui non se n’era mai accorto? Era talmente perso nelle sue fantasie, talmente impegnato a desiderare quello che non poteva avere, che non riusciva più a leggere suo fratello. In tutti quei mesi, quando lo aveva guardato dormire, ogni volta che aveva chiuso gli occhi, gli era sembrato addirittura… in pace.

“Forza Dean, spara. Cosa vedi?” continuò il demone. “Quei bei cagnoni che ti strappano la carne? Tutte le fantasiose torture che dovrai subire all’inferno? Quanto ci metterà tuo fratello a farsi ammazzare senza di te?”

No, avrebbe voluto rispondere. Niente di tutto questo. Vedo lui, vedo noi. Felici. Insieme. A quanto pare, ciò che più mi terrorizza non sono i cerberi o l’inferno, ma siamo noi.

Ora capiva, tornava tutto. Capiva il perché: perché lui, perché loro, perché ora.

E il terrore che aveva portato i suoi sogni in quella casa, sul quel divano, in quel bagno con il tappeto rosso, ora s’impossessò del suo corpo. Dopo minuti interi in cui non aveva fatto altro che starsene zitto e immobile, finalmente si mosse. E lo fece per andarsene.

Si voltò, salì le scale e sparì.

Sam lo vide scomparire un’altra volta. Un’altra volta senza la forza di sostenerlo, senza la capacità di salvarlo, e sentì qualcosa spezzarsi dentro: suo fratello era distrutto, loro non avevano un piano, lui sarebbe rimasto solo. Era la fine.

Mentre saliva le scale per raggiungere la camera da letto, Dean sentì i passi pesanti di suo fratello che lo seguivano. Rimbombavano sui gradini, nelle orecchie, nel petto. E poi sentì la voce. Rotta, disperata, al limite. Urlava, malediva, lo rimproverava, e subito dopo rimproverava se stesso. Continuava a ripetere: è finita. È tutto finito.

Raggiunsero la camera da letto. Dean avrebbe voluto chiudersi in bagno e dimenticare tutto sotto il getto caldo della doccia, ma Sam lo fermò. Senza smettere di urlare neanche per un secondo, lo strattonò e lo costrinse a voltarsi.

Dean lo guardava, stravolto di fronte a lui. Arrabbiato, disperato, alla deriva. Guardava i capelli disordinati che gli coprivano la fronte, le labbra deformate in una smorfia, gli occhi iniettati di disperazione, il pomo d’Adamo che, impazzito, gli disegnava la gola. Lo guardava aprire e chiudere la bocca sputando grida e rabbia, ma non riusciva a sentirlo. Riusciva a sentire e a pensare soltanto una sera, la mia ultima sera.

Mancava poco, mancava così poco. Se ne rese conto all’improvviso, e quel pensiero lo schiaffeggiò. Un’alba, un tramonto, ventiquattro ore. Poi niente, il buio. La fine. E quel buio avrebbe inghiottito anche loro.

Ma se davvero questa era la fine, che senso aveva vederlo in quello stato? Che senso aveva resistere, soffrire, negarsi? Perché doveva fingere fino all’ultimo respiro?

È questo che la gente fa quando sta per morire? Si abbandona alla verità?

Forse sì. Perché la morte lo portò a questo, la morte lo portò da lui.

“Zitto, Sam.” La voce, bassa e raschiata, fu un taglio netto.

“No, non sto zitto! Non sto più zitto! Mi hai tenuto la bocca chiusa per mesi,” continuò a sbraitare. “Niente polemiche, niente proteste, niente verità! Ma ora bast-“

“Hai ragione,” lo interruppe. Un altro taglio. “Ora basta.”

Sam si fermò, si spense, come se all’improvviso gli avessero tolto le batterie. C’era qualcosa nella voce di suo fratello, non sapeva se temerla o esserne curioso. Lo guardava confuso, impietrito al centro della stanza, mentre Dean, a passi lenti e misurati, iniziò ad andargli incontro.

Sam poté vedere la sua figura che si avvicinava, si godeva ogni particolare. Gli scarponi che risuonavano sul pavimento, le gambe storte e adorabili, le braccia fasciate dalla camicia scura. E, sempre più vicini, i suoi occhi verdi che sembravano spogliarlo.

“Hai ragione, Sam.” ripeté.

Adesso poteva sentire il respiro mescolarsi al suo, poteva contare le lentiggini, poteva perdersi sulla linea delle labbra e nel movimento lento delle ciglia.

“Ora basta.” L’ultimo taglio.

Dean fece scivolare lentamente una mano tra lo scollo della maglietta e la pelle, gli avvolse il collo con il palmo. Lo spinse delicatamente verso di sé, e le loro labbra si trovarono.

Un bacio leggero, dolce, morbido.

Sam ricambiò la stretta, gli avvolse i fianchi con entrambe le mani. Rabbrividì quando la camicia si alzò leggermente e poté sfiorare la schiena, la pelle… la pelle nuda.

Si scontrarono. I fianchi, le cinture, i jeans. E il bacio si trasformò, da dolcezza a irruenza. Dean lo cercò ancora di più, spinse più forte fino a fargli aprire le labbra, che accolsero la sua lingua calda e impaziente.

Passarono secondi, minuti, secoli. Si chiesero entrambi se la fine non fosse già arrivata e li avesse trovati lì, pronti, nel loro paradiso.

Sam aprì gli occhi, terrorizzato dall’idea che tutto potesse svanire, che lui potesse svanire, che fosse di nuovo intrappolato in una delle sue tante fantasie. Ma c’era ancora. Dean era ancora lì, tra le sua braccia. E sembrava un uomo nuovo. Le labbra leggermente gonfie, curvate in quello che sembrava proprio un sorriso, le guance arrossate, gli occhi che brillavano di una luce nuova, finalmente libera.

“Dean” sussurrò. “… Dio.”

Non aveva parole, non le trovava. Tutto sembrava troppo. Troppo da guardare, da toccare, da vivere. Lasciò cadere la testa in avanti, fino a toccare la fronte dell'altro.

Chiuse gli occhi, un respiro profondo. Sorrise.

Dean aveva il respiro irregolare, affannato, si accorse che gli tremavano le mani. Lui invece era tranquillo, pronto, come se in cuor suo avesse sempre saputo che – prima o poi, se avesse avuto pazienza, se avesse saputo aspettare – quel momento sarebbe arrivato.

 “Sei sicuro, Sammy?” Quella voce tanto familiare sembrava provenire da lontano, da un’altra vita, dalla vita che aveva sempre voluto vivere e che mai aveva sperato di ottenere.

Prima che potesse rispondere, prima che potesse urlargli quanto lo voleva fino a finire il fiato che aveva in corpo, Dean gli afferrò la testa e lo costrinse a guardarlo dritto negli occhi.

“Pensa bene prima di rispondere, Sammy.” disse, in un groviglio di parole emozionate ma decise. “Non voglio ferirti, non voglio turbarti, non voglio farti del male. Lo sai, non me lo perdonerei mai. Ma se dici di sì, se mi assicuri che questo – questa cazzo di follia – è davvero quello che vuoi… non mi fermerò, Sam. Dio mi perdoni, non mi fermerò.”

Sam, un sorriso di indescrivibile felicità stampato sulle labbra, socchiuse gli occhi. Si lasciò andare sulla spalla dell’altro, respirò il suo profumo, strinse tra le dita il tessuto consumato della camicia. Avvicinò le labbra alla sua gola. Mentre la barba di qualche giorno gli pizzicava le guance, gli baciò il collo, la mascella, gli zigomi.

“Non ho mai voluto nient’altro.” sussurrò. Cercò i bottoni e, uno ad uno, li fece scivolare lentamente nelle asole. “Solo questo.”

Lo spogliò, Dean rimase a petto nudo. E adesso l’unica cosa che riempiva gli occhi di Sam era il tatuaggio. Quella macchia di inchiostro sulla pelle liscia e dorata. Alzò una mano, lo sfiorò con le dita. Poi avvicinò le labbra e ci lasciò un bacio. Dio, da quanto desidero farlo, e il bacio diventò un morso.

“E ti scongiuro, non ti fermare.” sussurrò, senza staccare le labbra dalla sua pelle.

Dean era incantato da Sam, dalla passione che sprigionava da ogni movimento, dalla devozione che dimostrava con ogni piccolo gesto. E, sentendo le sue labbra che gli baciavano il petto, lo sterno, il cuore, si portò le mani alla cintura.

“Non ti preoccupare, farò piano.” disse a voce bassa, e lo schiocco dei jeans che si aprivano accompagnò le sue parole. “Cercherò di essere… Sarò perfetto.”

E rassicurandolo fino alla fine, anche su l’unica cosa per cui non aveva bisogno di rassicurazioni, lo trascinò sul letto.

 

 

 

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Capitolo 7
*** La fine ***


Eccoci all’ultimo capitolo, l’ultima tappa di questo piccolo viaggio.

Vi voglio ringraziare tutte, dalla prima all’ultima. Perché scrivere è sempre bello, ma permettere agli altri di leggerti e ricevere sostegno ed entusiasmo è indescrivibile. Sono partita piena di dubbi, e adesso sono qui con un sorriso stampato sulla faccia. Ed è merito vostro. Mi avete resa felice con ogni commento e ogni visita che ho ricevuto. È la prima fan fiction che scrivo su Supernatural, la prima volta che mi “affaccio” su questo fandom con la scrittura, ed è stato bellissimo grazie a voi.

(Quando dico che vi ringrazio dalla prima all’ultima, con prima intendo Marghe… gliel’ho già detto, ve l’ho già detto, ma lo ridico… perché sì.)

(Un’altra parentesi: se vi interessa tenervi aggiornate su eventuali nuove storie seguitemi su Twitter!)

Spero che vi godiate questo capitolo, che vi piaccia quanto vi è piaciuto il resto.

Buona lettura e ancora grazie. 

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La fine.

 

Ancora prima di aprire gli occhi, sentì i capelli di Sam che gli pizzicavano il collo. D’istinto alzò una mano e gli accarezzò la testa, muovendo i polpastrelli lentamente e sentendo i capelli scivolargli tra le dita. Non voleva svegliarsi, non voleva aprire gli occhi, ma quando lo fece scoprì che niente era cambiato. Erano ancora lì, nudi sotto le coperte. Insieme, abbracciati. Il sole era sorto, lui era sveglio, eppure stava ancora vivendo nel sogno.

“Buongiorno.” mormorò Sam, con quella poca forza che il sonno gli concedeva.

“Buongiorno.” rispose, sentendo spuntare un sorriso sulle labbra. Era tutto vero, era tutto vivo. “Vado a farmi una doccia. Dormi ancora un po’, ok?”

Sam annuì senza aprire bocca, e quando suo fratello scivolò fuori dal letto afferrò il suo cuscino e lo strinse tra le braccia.

Raggiunse il bagno quasi correndo, spinto da una forza finora sconosciuta. Era in pace, stava bene, poteva assaporare tra le dita e sulle labbra tutto quello che fino a quel momento aveva soltanto sognato. Solo quando fu sotto il getto caldo della doccia, nudo e solo in una stanza praticamente buia, iniziò a tremare. Cominciò a sentire la notte trascorsa sempre più lontana, sempre meno sua. La cosa più bella, appena scoperta, a cui doveva rinunciare.

Il giorno più bello della mia vita è anche l’ultimo.

Annaspò in cerca d’aria, si guardò intorno e, senza fiato, provò invano a chiedere aiuto. Intrappolato tra le pareti della doccia, si lasciò cadere sul pavimento. Con la testa tra le mani, con l’acqua che gli batteva sulla schiena e gli scivolava sul corpo, per la prima volta da quando aveva venduto l’anima, pianse.

Si asciugò lentamente, indugiando con l’asciugamano in ogni parte del suo corpo, come se volesse cancellare tutto ciò che la pelle poteva sentire. Si vestì e afferrò dal borsone verde militare tutto quello che gli serviva. Uscì dalla camera da letto senza guardare Sam che dormiva ancora e scese nello scantinato.

 

Ruby era ancora seduta al centro del cerchio, legata mani e piedi alla sedia di metallo, quando sentì passi pesanti che scendevano le scale. Sperò di trovarsi davanti Sam, ma appena intravide gli scarponi lo riconobbe e si lasciò sfuggire un lamento.

Dean camminava lentamente, con la testa bassa, senza dire una parola. Afferrò un tavolo traballante nascosto nell’angolo più buio e lo trascinò per la stanza, fino a trovarsi esattamente davanti al demone. Quando la debole luce che scendeva dalle scale colpì il tavolo, Ruby vide ciò il cacciatore ci aveva rovesciato sopra.

Sale, una boccia d’acqua, una siringa, un coltello.

D’istinto, senza bisogno di ricevere nessun comando dal cervello, le mani e i piedi della ragazza iniziarono a dimenarsi. Ringhiando, cercava di liberare polsi e caviglie.

Dean si piazzò accanto al tavolo e, arrotolandosi lentamente le maniche della camicia fino a scoprire i gomiti, parlò.

“Ricordi quando ti dicevo che mio fratello è molto più paziente di me?”

Il suono pacato di quella voce – la voce di uomo che sta per sfogare le ingiustizie di una vita intera sulla pelle e sulle ossa che ha davanti – scosse Ruby. Si impose di stringere i denti, ignorare la paura che lentamente le stava rovesciando lo stomaco, e tentò l’unica cosa che la sera prima aveva funzionato: pungerlo sul vivo.

“Lo sai che i demoni hanno un buon udito, vero cacciatore?” Inclinò leggermente la testa, gli rivolse un sorriso storto. “Te la sei goduta la tua ultima notte, eh? Com’è stata?”

Il volto di Dean rimase immobile, il respiro si mantenne regolare. La guardò fissa negli occhi ancora per qualche secondo, godendosi la paura cieca che le leggeva in faccia e che tentava disperatamente di nascondere, poi abbassò lo sguardo sul tavolo. Stappò la bottiglia piena di acqua benedetta, afferrò il pugnale e, lentamente, bagnò la lama.

“La migliore.” disse.

Quando rialzò lo sguardo, la ferocia che gli illuminava gli occhi si rifletté sul coltello, e Ruby capì, soltanto guardandolo in faccia, che nessuno, nemmeno lei, avrebbe potuto combattere e sopravvivere alla furia di un Winchester che stava per perdere suo fratello.

 

Rientrò in camera con quella carica che solo una vittoria sa darti. E, spinto proprio da quella forza, era pronto a partire, prepararsi, combattere. Ma si fermò, immobilizzato al centro della stanza, quando vide Sam. In boxer e maglietta, camminava avanti e indietro ai piedi del letto, aveva le mani nei capelli, la faccia così stravolta che faticò a riconoscerlo. Quando sentì Dean aprire la porta, alzò lo sguardo e una valanga di emozioni lo travolsero: sollievo, confusione, timore, terrore.

“Dov’eri?” chiese, con la voce in frantumi.

Dean lo raggiunse con pochi passi, gli afferrò le spalle, lo costrinse a fermarsi. “Sammy…”

“Dov’eri?” ripeté.

Le mani di Dean, che ancora gli stringevano le spalle, scivolarono sulla maglietta fino a circondargli il collo. Lo abbracciò, lo strinse più forte che poteva.

“Qui.” sussurrò.

“Cristo, Dean.” Inspirò, parlò con le labbra premute sulla sua camicia. “Pensavo fossi andato via, che mi avessi lasciato qui. Pensavo avessimo rovinato tutto.” Si allontanò di qualche centimetro, afferrò la testa di suo fratello. Con i pollici gli accarezzò le guance e, per qualche secondo, si perse nel verde dei suoi occhi. “Dimmi che non ti sei pentito. Dimmi che non ti senti in colpa.”

Al suono di quelle parole, Dean socchiuse gli occhi: era proprio quella la cosa che lo aveva terrorizzato di più. Si era svegliato con Sam addosso, aveva sentito ogni momento di quella notte ancora fresco sulla pelle, ogni immagine vivida davanti agli occhi, e aveva aspettato l’ondata di schifo, vergogna, rimorso. Un’ondata che non era arrivata. Era arrivata soltanto la voglia di rifarlo. Ancora e ancora.

“Come faccio a sentirmi in colpa se lo rifarei subito, in questo preciso istante?”

Sam sorrise – un sorriso pieno di sollievo, eccitazione, autocontrollo – e Dean si allontanò. Si schiarì la voce, cercò la concentrazione che gli serviva, e parlò di nuovo. “Ero da Ruby.”

“Ha parlato?” La voce gli uscì dalle labbra più veloce del pensiero.

“Ho un nome: Lilith. E un indirizzo.”

Sam liberò un respiro che gli scosse il petto, un sorriso incerto gli spuntò sulle labbra. “Perfetto,” esclamò, e si voltò subito, in cerca di qualcosa da mettersi addosso. “Andiamo.”

“No, Sam.” Il tono di voce cambiò, con quelle due parole tornò il fratello autoritario che troppe volte l’aveva fatto incazzare. “Vado da solo.”

Sam lo guardò, cercando di capire se stava scherzando. Lo stava prendendo in giro, non era possibile che parlasse sul serio. Scosse la testa, rise. “Cosa?”

“È un suicidio, Sammy. Andrò da solo.”

“Non se ne parla, Dean. Non prenderlo nemmeno in considerazione, capito?

“Non abbiamo niente… niente! Solo un fottutissimo nome accompagnato da un indirizzo, e molto probabilmente l’ha inventati quella stronza che non sapeva più cosa inventarsi per farmi smettere!”

Per un attimo, gli passò davanti agli occhi l’immagine di suo fratello con gli strumenti in mano, l’espressione dura, la voce che sembrava provenire dall’inferno. Rabbrividì, scosso da non seppe quale emozione. “Vengo con te, Dean.”

“Non sappiamo nemmeno come ucciderla! Abbiamo soltanto la Colt, con un fottutissimo proiettile dentro. Un solo colpo quasi sicuramente inutile, non abbiamo nient’altro! Saremo morti prima di riuscire a guardarla negli occhi.

“Vengo con te!” ripeté, quasi urlandoglielo in faccia.

Dean scosse la testa, si passò una mano sulla faccia, strinse i denti. Poi, improvvisamente stanco, si lasciò cadere sul letto.

“Forse è così che deve finire.” disse, lo sguardo fisso sul pavimento.

“E ora questo che vorrebbe dire?”

Dean alzò la testa, gli puntò gli occhi addosso. Notò che si era già vestito.

“Uno dei due che se ne va, le nostre strade che vengono divise a forza. E’ l’unico modo per tenerci separati. L’unico modo per dimostrarci quanto sia sbagliato tutto quello che stiamo facendo.

“Dean…”

“Andiamo, Sammyio e te, per sempre felici e contenti nella nostra casa delle meraviglie? Davvero ti sembra possibile?”

“Mio fratello sprofondato all’inferno, io che vago in un mondo che non è più mio. Questo invece ti sembra possibile?” ruggì. Poi, calmandosi, finì di abbottonarsi la camicia, recuperò le sue cose dal comodino, e gli dette le spalle. “Ti aspetto giù.”

 

 

L’impala ruggiva sull’asfalto, il rumore delle ruote accompagnava i loro respiri. Non si guardavano, non si parlavano. Sapevano entrambi che le voci avrebbero tremato.

Sam liberò un respiro più profondo degli altri, socchiuse gli occhi, guardò fuori dal finestrino. Una cosa da dire ce l’aveva, gli ronzava in testa da ore ormai.

Cosa sogni?” chiese. Sentiva una stretta alla bocca dello stomaco, temeva che non rispondesse, che lo tagliasse fuori ancora una volta. Infatti Dean non rispose, continuava a tenere lo sguardo fermo davanti a sé, sulla strada. “Perché non me ne hai parlato? Perché non mi hai detto degli incub-

“Non sono incubi.” lo interrupe bruscamente. “Niente cerberi, niente torture, niente di niente.”

“Allora cosa sogni, Dean?”

“Noi due.” La voce bassa risuonò nell’auto, s’infiltrò in ogni centimetro che li divideva, riempì l’aria quasi fosse un profumo. “Io e te, insieme.”

Indugiò su quell’ultima parola e Sam lo guardò, aggrottando le sopracciglia. Gli scappò una mezza risata amara.

“Ti fa più paura dell’inferno?” chiese, rivolgendosi di nuovo al vetro. “Io… noi due, insieme. E’ la cosa che più ti terrorizza in assoluto?

“Sam…” sussurrò.

“Siamo peggio della morte?”

“Sam.” ripeté, la voce più ferma. Spostò una mano dal volante alla faccia e se la passò sugli occhi. “Dio… sono così abituato a… sono così rassegnato. Come faccio a non avere paura dell’unica cosa bella che abbia mai avuto? Come faccio a non essere terrorizzato dalla felicità? Perché è questo, Sammy, c’è soltanto questo in quella casa: felicità.

Sam sentì gli occhi bruciare, le mani iniziarono a tremare. Aveva voglia di piangere, aveva voglia di urlare fino a finire la voce. E, se ne accorse provando pena e vergogna per se stesso, era geloso. Geloso dei sogni che la morte mostrava a suo fratello. Lo voleva anche lui, qualsiasi cosa avesse visto, qualsiasi cosa potesse avvicinarsi anche solo lontanamente a tutto ciò che aveva sognato da sempre. Tutta quella felicità, non riusciva neanche ad immaginarsela. “Com’è?” chiese sottovoce, controllando la voce affinché non tremasse.

Dean si voltò lentamente, lo guardò come si guarda il proprio riflesso nello specchio: sapendo cosa avrebbe trovato, sicuro dell’espressione che avrebbe avuto sul volto. Gli occhi piccoli ma profondi, la bocca tesa, i capelli spettinati intorno al viso. Lo sapeva a memoria. E sapeva come far sparire, almeno per un po’, l’angoscia che gli leggeva addosso.

“Bello.” E dirlo ad alta voce fu come spogliarsi. La libertà in una parola. Era un sollievo così grande, aprire la bocca e parlare, che continuò a farlo. “È una casa semplice: sala da pranzo, cucina, camera da letto, un bagno con un tappeto rosso. Il divano… il divano è il mio posto preferito. Il nostro, credo.” Parlò al presente: pensare che non avrebbe potuto dormire o sognare mai più riusciva a portargli via il respiro. “Non ci sono demoni, né fantasmi... niente di tutto questo.” Fece un gesto con la mano, indicò l’aria che lo circondava, la vita che li tormentava da sempre. “Io lavoro in un’officina, tu sei un avvocato, e quando la sera torniamo a casa facciamo quasi sempre la doccia insieme. Di solito tu cucini, e io lavo i piatti. La tua parte di letto è la sinistra, e ti addormenti all’istante se ti accarezzo i capelli… ma questo già lo sai. Sorrise, si voltò verso Sam per vedere se stava facendo lo stesso: si specchiò in un sorriso più grande del suo. “Siamo noi due… soltanto noi due, come sempre. Ma siamo incredibilmente felici. E tutto è così naturale… sembra proprio la vita fatta per noi.

“Grazie, Dean.” disse suo fratello, il groppo in gola che lasciava andare a fatica la voce.

Non sapeva per cosa, ma non importava, non lo chiese.

Continuò a guidare, tenendo un occhio sempre fisso su Sam: si stava tormentando le mani, appoggiate sulle cosce. Si schioccava le dita, si torturava i palmi. Pensò a tutto quello che gli stava cascando addosso, tutto quello che lui stesso stava rovesciando sulle spalle di suo fratello. Pensò al suo sguardo la prima volta che l’aveva baciato, alle sue mani che cercavano i bottoni della sua camicia. Quella sicurezza nascosta in ogni movimento.

Non ho mai voluto nient’altro.

A Sam non era mai servito sognare, essere sul punto di morire per capire. Tutto quello che Dean aveva vissuto negli ultimi mesi, lui l’aveva vissuto in anni interi. Da solo. Completamente solo.

“Quando l’hai capito?” chiese.

Sam sembrò svegliarsi da un sogno. “Cosa?”

“Che eri… insomma… che c’era qualcosa di più.”

A Sam si strinse il cuore di fronte all’imbarazzo di suo fratello. Avrebbe voluto che fosse più tranquillo, avrebbe voluto tempo per renderlo più tranquillo. Fargli capire che poteva dirgli tutto, chiedergli tutto, che per lui non c’erano problemi nel sentirsi dire Da quanto sei innamorato di me?.

“L’ho sempre saputo, credo.” Si schiarì la voce. Lo guardò prima di continuare a parlare e ne fu ancora più sicuro: l’aveva sempre saputo. “Ho sempre sentito che c’era qualcosa di strano, di diverso. Le ragazze mi sono sempre piaciute, il… il sesso, anche. Ma mi sentivo, non so come spiegarlo… non ero sincero. Tutto qui: sapevo che non stavo vivendo nella verità. La mia verità.” Continuava a guardarlo, a studiare il suo volto, cercando di capire quanto poteva dire. “Lentamente ho preso coscienza di quello che provavo, di come ti guardavo, di quello che volevo. All’inizio pensavo fosse un modo tutto mio per realizzare che le ragazze, in fondo, non mi piacevano così tanto. Mi sono chiesto come sarebbe stato con altri ragazzi, con altri uomini… se fosse quello ad attrarmi… ma non è così che funziona, non per me. Non volevo nessuno. Solo te.”

Dean socchiuse gli occhi, le dita strinsero ancora più forte il volante. Sam se ne accorse perché non distoglieva lo sguardo nemmeno per un secondo. Il silenzio iniziò a farsi pesante, Sam si chiese se avesse esagerato. Era già pronto a maledirsi quando sentì la voce, debole ma allo stesso tempo mai stata più forte, di suo fratello.

“Continua.” disse.

 Sam non era mai stato più felice di ubbidire ad un suo ordine.

“All’inizio è stato difficile accettarlo, conviverci, fingere… ma è solo questione di abitudine. Mi sono promesso che non ti avrei mai detto niente, che non ti avrei fatto capire la verità, che non ti avrei messo in difficoltà. E con il tempo sono diventato bravo, anche il disgusto che inizialmente provavo per me stesso è diventato meno opprimente. Rievocava ricordi, silenzi e vergogna, momenti in cui aveva creduto di impazzire, ma allo stesso tempo parlava a suo fratello: sapeva, con assoluta certezza, che lui stava provando le stesse cose. “Ma quando sono tornato, quando mi hai riportato indietro… è successo qualcosa. Era come se mi fossi stancato di fingere, non ne avevo più la forza. Era come se avessi visto di peggio e mi aspettassero cose ancora peggiori… di gran lunga peggiori rispetto a tutto l’amore che provo per mio fratello.” Rise, scuotendo la testa. “E non mi piace quella parola perché, anche quella, non mi sembra sincera. Non possiamo essere ridotti a questo. Siamo molto di più, Dean. Siamo quel pensiero, quella costante, che mi fa andare avanti sempre. Sempre, Dean.” Fece una piccola pausa. “Due persone normali avrebbero mollato anni fa, ma noi siamo ancora qui. Ancora insieme. Non sei solo mio fratello, sei la mia famiglia. È tutto quello che so… tutto quello che ho.

Dean era rimasto immobile. Le mani sul voltante, gli occhi sulla strada. Ma dentro era un terremoto. Avrebbe voluto accostare, abbracciarlo, baciarlo, scappare, cercare per tutto il Paese quella che sapeva essere la loro casa e non lasciarla mai più.

Quel terremoto che nessuno poteva vedere si lasciò tradire solo da un respiro: debole, tremante, più veloce degli altri.

Non accostò, non scappò. Non poteva.

Si limitò a sorridere, perché sapeva che suo fratello lo stava guardando, poi allungò una mano e fece quello che non aveva fatto per mesi: accese la radio.

 

***

 

“Sei pronto?” Sam ansimò, il petto che si alzava e si abbassava sotto il cappotto e la camicia. Si stiracchiò la spalle, schioccò il collo muovendo la testa a destra e a sinistra.

Dean, di risposta, si guardò indietro.

Cinque demoni. Ecco quanti ne avevano trovati di guardia alla casa. Li avevano neutralizzati con l’acqua santa e poi esorcizzati, uno ad uno. Ora il giardino era vuoto, silenzioso, tutto sembrava in attesa. Guardò la porta e la consapevolezza di quello che stavano per fare lo travolse come un treno.

“È un suicidio, cazzo.” ripeté per l’ennesima volta. 

Sam si limitò ad alzare le sopracciglia. Non voleva parlare, non voleva riflettere su quanto erano fottuti, voleva soltanto entrare, trovarla, sparare. E gli venne quasi da sorridere perché di solito era lui quello che aveva bisogno di fermarsi, pensare, analizzare.

“Sam…” mormorò, e si fermò perché non sapeva come continuare. Sapeva che non avrebbe funzionato, se lo sentiva nelle ossa, e avrebbe voluto chiedergli di uscire da quella casa vivo e libero. Tutto intero, corpo e anima. Avrebbe voluto stringerlo, scuoterlo e implorarlo di lasciarlo andare, supplicarlo di non provare a riportarlo indietro, di pensare soltanto ad andare avanti. Avrebbe voluto farsi promettere che si sarebbe scordato di tutto quello schifo e che avrebbe vissuto quella vita che entrambi avevano sempre voluto vivere. Ma non lo disse, non chiese promesse impossibili: sapeva che la vita che Sam voleva era quella che lui vedeva ogni volta che chiudeva gli occhi. “Abbiamo fatto una stronzata, Sammy? Starai bene?”

Con quelle parole nelle orecchie, Sam ripensò a quella mattina, alla voce di Dean che gli dava il buongiorno, al suo profumo che ancora aveva addosso, che non aveva avuto il coraggio di lavare via. Poi quell’immagine venne spazzata via da ciò che più temeva: si vide solo e perso, su un letto vuoto e freddo, senza la voglia di alzarsi, aprire gli occhi, parlare. No, non sarebbe stato bene. Lo sapevano entrambi.

Ma ora non dovevano pensare al peggio, era il momento di lottare.

Fece un passo avanti, si specchiò in quegli occhi verdi pieni di tormento. Allungò una mano e gli accarezzò la guancia, sfiorando le lentiggini con i polpastrelli.

“Dio, quanto sei bello.” sussurrò.

Le labbra di Dean iniziarono a tremare, Sam lo tirò verso di sé e ci posò le sue.

Si allontanarono lentamente, costringendo gli occhi a riaprirsi. Si guardarono un’ultima volta poi bastò un gesto, un movimento della testa, e tornarono cacciatori. Dean annuì, pronto a sfondare la porta, mentre Sam impugnò la Colt e tese le braccia di fronte a sé.

La casa era buia e silenziosa. Schiena contro schiena, proteggendosi a vicenda, passarono al setaccio l’ingresso, la cucina e la sala da pranzo. Stavano quasi per avvicinarsi alle scale e raggiungere il piano di sopra, quando un rumore proveniente dallo sgabuzzino li immobilizzò. Sam non smise di impugnare la Colt mentre Dean si avvicinava lentamente alla porta chiusa. Quando la spalancò trovò un uomo rannicchiato sul pavimento, con gli occhi sbarrati dal terrore. Dean si accovacciò e gli mise subito una mano sulla bocca, impedendogli di urlare.

Shhhh,” Parlò a voce bassa. “Siamo qui per aiutarla.”

“Mia figlia…” disse appena Dean spostò la mano. La voce era quasi impercettibile, deformata dalla paura e dall’angoscia. “La mia bambina…”

“Cosa, signore? È in pericolo?” chiese. “Non si preoccupi, la aiuteremo.”

“No,” L’uomo scosse la testa, le lacrime iniziarono a rigargli le guance. “non è più lei.”

Con un cenno della testa indicò davanti a sé. Dean spostò lo sguardo sul pavimento e, nel buio che iniziava a schiarirsi, riconobbe la figura di un uomo anziano, con la testa piegata in una posizione innaturale.

“E’ di sopra con mia moglie…” singhiozzò il padre. “Fermatela.”

Dean si alzò con le gambe che tremavano, si passò le mani sulla faccia e poi si voltò verso Sam. “Cosa?” chiese il fratello minore. La sua espressione non era cambiata, gli occhi erano sempre freddi e duri, le mani ancora strette sull’impugnatura della Colt.

“È una bambina.” bisbigliò, cercando di non farsi sentire dall’uomo distrutto ai suoi piedi. “Quella puttana ha posseduto una bambina.”

“Muoviamoci,” indicò con la pistola la rampa di scale. “Dobbiamo controllare tutto il piano. Io a destra e tu a sinistra, ok?”

“Sam!”

“Non è più lei!” Dovette mettere insieme tutta la sua forza di volontà per non gridare e mantenere la voce ad un sussurro. “Va fermata, hai sentito no?” Si avvicinò, gli parlò a pochi centimetri dalla faccia. “Non è più la figlia innocente di quell’uomo. È Lilith.”

Mentre lo guardava voltarsi e salire le scale, aprendogli la strada per dare la caccia a colei che teneva in pugno la sua anima, Dean si chiese se sarebbe stato così d’ora in poi, se quello era ciò che suo fratello sarebbe diventato: uno dei tanti cacciatori senza scrupoli e rimorsi.

Si divisero dopo l’ultimo gradino. Sam disse a suo fratello di chiamarlo appena avesse visto o sentito qualcosa, e poi s’incamminò lungo la parte destra del corridoio. Aprì lentamente una porta e si ritrovò in un bagno, completamente vuoto. Raggiunse la seconda porta e notò che era socchiusa. Avvicinò l’orecchio e sentì un leggero mormorio. In un attimo, l’adrenalina gli riempì le vene. Cercò Dean con lo sguardo, ma non lo chiamò: era più al sicuro lontano da lei.

Entrò spingendo lentamente la porta con la spalla e, nonostante la sua stazza, camminò sul parquet senza fare il minimo rumore. Le vide, sul letto di fronte a lui, proprio davanti alla canna della pistola. La donna era seduta con la schiena appoggiata alla testiera del letto, sulle cosce aveva un libro di favole e, appoggiata al suo fianco, ad occhi chiusi e con un’espressione beata, c’era una bambina bionda che sembrava un angelo. Ad un tratto capì l’espressione sconvolta di suo fratello al piano di sotto. Le mani iniziarono a tremare, gli sembrava di trattenere il fiato da una vita. La madre si accorse del suo cambiamento e, piangendo senza far rumore, lo implorò con lo sguardo. Annuì e Sam le lesse il labiale: “Fallo.”

Strinse la Colt, avvicinò il dito al grilletto, si impose di non pensare.

Quella era Lilith, un demone, il più pericoloso di tutti. E possedeva l’anima di suo fratello. Era ciò che lo divideva da tutto quello che voleva, era colei che gli stava portando via la vita.

Prese un respiro profondo, distolse gli occhi dalla madre e li puntò sulla bambina.

Poi, come uno squarcio nella notte, un rintocco scosse la casa, e successero due cose nello stesso momento: la bambina si svegliò e Sam sentì un ululato.

Non si lasciò deconcentrare, rimase fisso su quei capelli biondi, ma appena fu pronto a premere il grilletto la bambina lo vide e gridò. La guardò negli occhi, terrorizzati e confusi, e capì che l’aveva persa. La bambina si lasciò cadere singhiozzando tra le braccia di sua madre, e quelle di Sam caddero senza forza lungo i fianchi. L’impotenza e la sconfitta lo schiacciarono, sentì ogni parte del suo corpo improvvisamente pesante. Poi il secondo ululato fece tremare il pavimento e un brivido di freddo gli percorse la schiena.

“Dean…” sussurrò tra le labbra.

 

Corse. Più forte che poteva, senza sapere di preciso dove andare. Sbatteva contro le pareti e i mobili, chiamava il suo nome, gli urlava che stava arrivando, che sarebbe andato tutto bene. Non sentiva Dean. Non lo sentiva parlare, gridare, imprecare. Ma sentiva un ringhio, feroce e continuo, e seguì quello. Si ritrovò in un’altra camera da letto, più piccola e più buia. Per qualche secondo rimase congelato sulla porta spalancata, incapace di muoversi o pensare.

Suo fratello era lì, scaraventato sul letto. I suoi vestiti e le coperte erano completamente zuppi di sangue. Sangue che continuava a sgorgare dalle ferite sulla pancia, sulle braccia, sulle gambe. Lottava, ormai senza forze, contro quella che per Sam era nient’altro che aria. A denti stretti, senza lasciarsi sfuggire nemmeno un gemito.

“Dean…” ripeté, e la voce si ruppe.

Quando Dean vide avvicinarsi suo fratello, la figura di Sam prese il posto dei cerberi che gli stavano squarciando la pelle. Scomparvero continuando a ringhiare, soddisfatti di aver svolto il loro lavoro. Respirando a fatica alzò gli occhi su suo fratello, che lo aveva raggiunto e, inginocchiato accanto a lui, cercava di farlo alzare.

Avrebbe voluto parlare, avrebbe voluto dirgli non guardare, chiudi gli occhi, vattene da qui ma la bocca non si apriva e non lasciava andare le parole. Con le braccia di Sam strette intorno alle sue, mentre lo sorreggeva, piangeva e lo chiamava, ripensò a suo padre. A quella notte. A quando gli mise il suo fratellino di pochi mesi tra le braccia esili e gli ordinò di uscire di corsa  dalla loro casa in fiamme. Le ultime parole che sentì prima di voltarsi e scappare furono “Tienilo, tienilo stretto”.

E in quel momento, con la vista che iniziava ad appannarsi e il freddo che gli scuoteva le ossa, con le ultime briciole di forza, gli venne naturale fare la stessa cosa: allungò le braccia, cercò suo fratello e lo strinse a sé. Lo tenne forte. Per non farlo cadere, per tenerlo in vita. Come aveva sempre fatto.

“Sam.” sussurrò. Lo chiamò e basta. Solo il suo nome, come se tutto quello che fosse rimasto da dire fossero quelle tre lettere. E con l’ultimo lampo di lucidità capì che quella sarebbe stata la sua ultima parola. L’ultimo suono che la sua voce avrebbe pronunciato.

Poi tutto il resto ebbe la meglio, chiuse gli occhi e le braccia caddero sul letto. Senza forze, senza vita.

Sam sentì le orecchie fischiare, il corpo tremare. Tra i singhiozzi e le lacrime, continuò a chiamarlo. Lo guardò negli occhi e dentro non ci vide la vita. Lo trafisse, come una spada che lo passava da parte a parte, la convinzione che era finita. Quel che restava era il niente. Un niente infinito, buio e senza senso.

Si accasciò accanto a lui. Lo abbracciò, gli accarezzò i capelli. Desiderava con tutto se stesso che aprisse gli occhi, lo guardasse, ripetesse il suo nome un’altra volta. E lo voleva così tanto che gli sembrò quasi di sentirla, la voce disperata di suo fratello che lo chiamava.

Sam.

 

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