Echi nella Nebbia

di Aleena
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - VECCHIE LEGGENDE ***
Capitolo 2: *** II – LA STREGA BALLERINA ***
Capitolo 3: *** III – LO SPIRITO NELLA NEBBIA ***
Capitolo 4: *** IV – LA MORTE NEL MULINO ***
Capitolo 5: *** V – DA QUALCHE PARTE, ORA. ***



Capitolo 1
*** I - VECCHIE LEGGENDE ***


VECCHIE LEGGENDE

 
 

 Gratta la puntina sul piatto di un vecchio giradischi producendo una musica bassa, melodica, carica di violini ed archi.
 

La Torre è una cittadina singolare sotto molti aspetti, a cominciare dal nome: Torre Vento, in onore del grande rudere mezzo crollato che svetta sulla piazza principale, fiero e risoluto, proprio accanto alla chiesa.
Torre sorge all’ombra di una bassa collinetta e si sviluppa attorno alla piazza, un ovale piastrellato in mattoncini di un ocra sbiadito interrotti da innesti di marmo bianco, che formano un’aureola nella quale è contenuto un mosaico di piastrelline raffigurante, in colori ogni anno sempre meno vivaci, il dio dei venti intento a soffiare sulla torre sormontata da una croce metallica.
I vecchi ricordano ancora quando venne ultimata la pizza: il parroco, in cima alla scalinata d’accesso alla chiesa, pontificava soddisfatto, sorridendo di tanto in tanto al sindaco che, compresso nel suo elegante – e troppo stretto - abito da cerimonia, sudava sotto il sole di metà luglio lanciando di quando in quando occhiate furtive alla sua destra, dove la porta del municipio si apriva sulla piazza ed oltre la quale, tutti lo sapevano, li aspettava un lauto pasto gentilmente offerto dal Comune.
Erano i tempi precedenti la rivoluzione industriale, quando ancora l’incubo della grande guerra non incombeva su nessuno ed i giorni erano d’oro.
Ad anni di distanza nulla era cambiato nella cittadina: una strada  scendeva dolcemente dal declivio della collina sulla quale sorgevano, arroccate, case che divenivano via via più modeste all’approssimarsi del centro del Borgo: contrariamente alla norma il Colle era per i benestanti e più in alto avevi la casa, più il tuo status sociale era elevato, tanto che sulla cima della collina trovavano posto due sole ville, l’una dal lato opposto dell’altra, separate da una lunga strada che correva dritta di fianco ai giardini pubblici, abbelliti dalle statue del tanto compianto quanto sconosciuto scultore locale, suicida a trent’anni.
Sulla piazza regnavano ancora il comune - sebbene la facciata color panna necessitasse di una ridipinta - e la chiesa: le due principali istituzioni, affiancate ma non sempre in accordo, sebbene il potere temporale poco contasse per i cittadini rispetto a quello ecclesiastico. Erano quelle del sindaco ed il prete le uniche due cariche che non avessero bisogno della residenza in collina per stabilire il loro status sociale: nessuna titolo nella cittadina poteva essergli più alto e di fatto condividevano la centralità della piazza solo con la vecchia torre ed il fiume, la cui sponda est scorreva placida alla destra della chiesa, esattamente dall’altro lato della piazza rispetto al comune. Fra i due edifici correva una stradina che costeggiava le fonti, in cui lavandaie e massaie si davano appuntamento per spettegolare, fra una mutanda ed un calzino, di quanto la loro vita fosse monotona e stantia, del marito indolente, del figlio chiamato alle armi e delle notizie dal fronte, sempre più cupe; il tutto a voce alta, per sovrastare la corrente di acqua gelida che scendeva ininterrottamente nelle grandi vasche di pietra.
Oltre questo spettacolo, case via via più simili a fattorie man mano che il centro s’allontanava, poi i campi e le stradine serpeggianti, viottoli in terra battuta per lo più.
Fra il fiume ed il comune sorgeva un arco, ultimo residuo delle vecchie mura cittadine ormai crollate da anni; oltre questo, nella zona chiamata da tutti “le Mura” una strada fiancheggiata da case tirava dritta verso l’abitazione del Giudice, davanti alla quale una piazzetta più modesta, lastricata a sampietrini, faceva da ingresso - o forse da punto di fuga, giacché una miriade di piccole stradine, vicoletti e rii si aprivano a ventaglio, serpeggiando tra case ammassate le une sulle altre, incuneandosi sotto archi bui e finendo bruscamente contro una parete di mattoni, a volte. Un vero e proprio labirinto, assai esteso data la densità di abitanti della cittadina, in cui i bambini giocavano a perdersi e ritrovarsi ed in cui incauti visitatori smarrivano la bussola, ritrovandosi sulla strada per il vecchio cimitero, totalmente incapaci di tornare indietro e costretti ad affidarsi alle indicazioni di questo o quel monello che, talvolta, li spingevano ancor più fuori strada per puro divertimento.
Samuele era stato uno di quei ragazzi, un tempo: correva su e giù per le scale strette, saltando da una stradina all’altra in immaginari combattimenti, scavalcando i muretti bassi e spaventando gatti addormentati al sole sui balconi.
Era un ragazzo vivace, Samuele: quando non imperversava per le strade con la sua combriccola di futuri pirati, esplorava il piccolo boschetto poco oltre il versante nord, dopo il colle e le brevi distese di campi; si arrampicava sui rami delle querce e dei pini più bassi, correva scalzo nel sottobosco ed ogni tanto, in autunno, accendeva con gli amici un fuocherello sul quale arrostivano i funghi e le castagne bottino del loro girovagare.
Poi, una mattina, l’età adulta aveva fatto capolino da sotto il foglio di carta che attestava il suo essersi diplomato: ed in un batter d’occhio Samuele si era trovato - con le scarpe ai piedi e la camicia da lavoro - nei cantieri oltre il fiume, a sudare sotto il sole. Nonostante il suo titolo lo qualificasse come geometra, aveva fatto da manovale per due anni e mezzo prima dell’incidente: ispezionava un solaio appena costruito quando un’area aveva ceduto, schiantando lui e Davide – un vecchio amico che aveva preferito correre che superare la quinta elementare - al suolo, due piani sotto. Davide era morto sul colpo, la spina dorsale distrutta; Samuele aveva resistito quel tanto che bastava perché i dottori, giù al piccolo ambulatorio nelle Mura, gli dicessero che la gamba era troppo grave per sostenerlo ma fortunatamente poco danneggiata perché dovessero amputargliela. A quel punto la mente di Samuele non aveva retto più e per una settimana furono la febbre e gli incubi a tenergli compagnia assieme ai genitori ed alla nonna, gli unici membri della sua famiglia: i primi carichi di lacrime, cibo e di promesse di salute, la seconda piena di pazienza e di storie, quello che Samuele aveva sempre apprezzato di più e di cui necessitava al momento.
Fin da bambino quelle storie l’avevano accompagnato, sussurrate nello stesso tono monotono e tremolante davanti al camino, al sole della veranda, sulla piazza: la storia dello spirito travestito da monello che spingeva i viaggiatori smarriti verso il mulino infestato, dove si diceva che il diavolo apparisse nottetempo per mietere vittime, o il preferito da Samuele, il racconto della vecchia strega che abitava nei Buchi – la parte più intricata, scura e remota della città, tutta viuzze strette e muri-, di suo marito partito per la guerra – c’era sempre una guerra, in quelle storie, anche se sua nonna non specificava mai quale- e della loro figlioletta, morta fra le fiamme per un errore.
«Una madre sa che suo figlio è un tesoro. Una madre sola, lo sa doppiamente» iniziava sua nonna, dondolando su una grande sedia, gli occhi fissi alla brace morente «eppure, quella mattina la strega – che ancora non lo era, ma lo sarebbe diventata presto- aveva un’audizione al teatro della città vicina, e non poteva saltarla. Vedi, Samuele, lei era una ballerina, e si guadagnava da vivere così. E il marito, povera anima, era in guerra da sette lunghi anni, e non prometteva di far ritorno. Era il suo compositore, sai? Scriveva le musiche che lei ballava. Lui era di buona famiglia, un bel giovanotto con le spalle piene e due occhi come la corrente del fiume, sempre ben vestito e galante» e qui le gote della nonna si arrossavano un poco, mentre con gli occhi riandava alla foto del nonno, poggiata sulla mensola del caminetto, al posto d’onore «mentre lei era una donna senza passato, arrivata in città da chissà dove con una valigia di vestiti ed il suo bel visino. Era una ragazza bionda, e tu che sei un ometto sai l’effetto che le ragazze bionde col cielo negli occhi hanno sugli uomini di una piccola città» e gli lanciava un sorriso malizioso, al quale Samuele aveva imparavo, via via che l’età avanzava, ad associare sottintesi «insomma, l’aveva prima stregato poi incastrato, facendosi mettere incita e costringendolo a sposarla. I genitori l’avevano cacciato di casa, ma il ragazzo guadagnava così bene da mantenere la famiglia, che era andata avanti coi suoi risparmi per ben sei anni e mezzo. Ora però, allo scadere del settimo, l’inverno si avvicinava e serviva da mangiare, così la strega-che-ancora-non-era-una-strega prende a nolo un calessino e saluta la bimba con un bacio, dicendole “fai la brava e stai lontana dal fuoco, la mamma torna qui questa sera”. Sai, il compositore aveva comprato questa bella casetta lontano, fuori dalle mura, con una piccola corte ed un grande focolare, più grande del nostro, ma non avevano cameriere o servi perché già allora nessuno voleva lavorare per la strega, soprattutto così distante dalla città. Non si sa mai cosa possa succedere, no?
«Insomma, la bambina non aveva paura di stare sola e anzi, appena il calessino parte si fionda in cucina, prende una sedia e si arrampica fino al vasetto di marmellata, che comincia a mangiare, tutta contenta» Samuele, a questo punto, storceva sempre il naso: odiava la marmellata come la maggior parte delle cose dolci, lo nauseava «Ometto mio, a lei piaceva: era dolce, di fragole, e soprattutto sua madre gliela vietava, dandogliene solo un cucchiaino ogni Giorno del Signore. Per cui, era un doppio piacere, per la piccola.
«Succede però che un po’ di marmellata le cola sul vestito, e la bambina si spaventa: cosa farà sua madre, se lo vede? La sgriderà, teme, quindi corre alla piccola fonte nel giardino e comincia a strusciare e insaponare fin quando la macchia non si vede più, e soddisfatta tira un sospiro di sollievo. È allora che si rende contro di non poter indossare la veste bagnata, e che se sua mamma la vedrà con un vestito diverso le chiederà perché, ed allora cosa si inventerà la piccola? Vedi piccolo Samuele, era quasi inverno e non poteva metterlo sul filo, si sarebbe solo ghiacciato di più.
«Poi, le viene un’idea: il fuoco! Se sua mamma lo vedrà acceso, rientrando dal viaggio, saprà che lei può cavarsela anche da sola, e magari la ringrazierà. Ed il suo vestitino si asciugherà in un attimo!
«Così, tutta speranzosa sistema la legna, e dopo un’ora di fumo e scintille finalmente la fiamma avvampa. E quale meraviglia! La ragazzina contempla soddisfatta il suo lavoro, povera piccina, poi prende l’abito e lo mette davanti al camino. Non sa che i vecchi tronchi di ulivo hanno l’aria dentro, e che scoppiettano, facendo volare le scintille dappertutto. E d’improvviso il suo vestito avvampa, e poi la casa e il solaio e la piccola corte, perfino un poco del giardino brucia prima che dal villaggio arrivino i soccorsi» Samuele tratteneva sempre il fiato qui, allontanandosi un poco dal camino se c’era vicino, lanciando al focolare occhiate furtive cariche di sospetto e paura.
La nonna restava in silenzio, allungando un dito ammonitore verso il nipote con fare bonario e perentorio nello stesso tempo, e sentenziava:
«È per questo che i bambini piccoli non devono maneggiare il fuoco finché non ne hanno l’età. Obbedisci sempre alla mamma, quando ti dice di non fare qualcosa» e Samuele, colto sul vivo, si faceva rosso e borbottava che la storia non era finita, facendo sorridere sua nonna «No, hai ragione tesoro mio. Fin qui è una favola, ma la vera leggenda inizia dopo» e si chinava in avanti, protendendo il vecchio, gentile viso cosparso di rughe verso il nipote, in un gesto di segretezza che permetteva a Samuele di ammirare da vicino l’occhiata complice. Aveva due bellissimi occhi marroni carichi di vita, sua nonna «quando la strega torna a casa e vede tutto bruciato e la gente le punta il dito contro, dicendole che è colpa sua se la figlia e morta, e che non doveva costringere il marito a comprare una casa così lontano. Le raccontano di quanto fossero alte le fiamme e del piccolo corpicino della bimba, e la lasciano sola a piangere.
«Poi, quando si fanno i funerali, la strega non c’è. Non si presenta in teatro, né si fa vedere più in piazza; però la casetta con la porta verde, quella nascosta giù nel più profondo dei Buchi, quella più in ombra, sembra di nuovo abitata. Si sente piangere e sospirare, e la gente evita di passarci perché, poche settimane dopo, si sentono anche le urla. Vedi, il compositore, il padre della bambina, è finalmente tornato dalla guerra, desideroso di sedersi sulla sua poltrona preferita a guardare la moglie e ascoltare la figlia, invece trova solo cenere e una tomba muta. Và nella vecchia casa della moglie –quella con la porta verde- e la trova sfatta e con gli occhi rossi, e in un primo momento si consolano l’un l’altra. Ma dopo due mesi il soldato ha delle esigenze e dalla moglie riceve solo lacrime, così una sera beve un bicchiere di troppo e le urla contro “Tu, maledetta, tu hai ucciso nostra figlia e vuoi affogare me nelle lacrime” e lei si ritrae, supplica e poi prende un coltello. Lo colpisce almeno una dozzina di volte prima di rendersi conto che è morto, quindi lo brucia nel camino e raccoglie le sue ceneri. Sul colle c’è una vecchia fonte, l’hai vista?» chiedeva sua nonna, retorica. Samuele annuiva sempre, troppo preso dalla storia «è sotto una collinetta, ora, ma un tempo era più bassa, e la porticina era a livello dei piedi, non ad altezza delle ginocchia come ora. Insomma, la strega corre e corre e corre nella notte scura, il vento che le ulula intorno e la paura nel cuore, e poi apre il barattolo e butta le ceneri nella fonte, richiudendo lo sportellino di metallo. Poi se ne torna a casa e non esce più per giorni e giorni, perché ha paura del vento.
«Infatti nel villaggio il vento ha cambiato suono: sembra una melodia, un suono lontano di archi e di violini e… quegli strumenti a corde, oh la mia memoria… di arpe, ecco, le arpe. C’è quel suono nel vento e pian piano la gente smette di andare alla fonte, perché sembra che venga da lì. Và avanti per una settimana, poi tace, ma sulla porta di metallo qualcuno ha inciso le note di una melodia sconosciuta. Vengono musicisti dai villaggi vicini per vederla, ma quando provano a suonarla si scoprono incapaci di leggere le note. E più ci provano, più non ci riescono. E per un anno è un viavai di compositori e strumentisti e virtuosisti, finché non scatta la mezzanotte dell’anniversario della morte del compositore – perché ormai tutti nel villaggio sanno la storia, in un modo o nell’altro. Insomma, le campane suonano la mezzanotte ed ecco che il vento su alza – ed era una notte limpida e ferma - e nel vento c’è quella melodia, che corre per le strade del paese per un giorno intero. La gente, spaventata, si rintana nelle case e prega il Signore per quell’anima dolente, tirando un sospiro di sollievo quando il vento cala.
«Intento, la strega è di un anno più vecchia e sola. La sua bellezza è consumata dal dolore e dal rimpianto, ed ha paura di uscire di casa, paura di incontrare lo spirito del marito nel vento. Così, se ne resta chiusa, e passano gli anni e le rughe diventano più profonde, la pelle cade ed i capelli sono bianchi e lunghi fino al terreno. Non vuole morire, però: la sua vita non l’ha vissuta e nelle ossute membra c’è ancora la voglia di ballare ed essere ammirata. Così una sera, quando alla porta le bussa un demonio, lo lascia entrare e firma il suo contratto: una lacrima di pietra in cambio della vita, per l’eterna giovinezza.
«Così, la ballerina scende di mattina al paese e và dove le bambine si radunano a parlare, e con un sorriso dà loro delle collanine con attaccata una chiave di violino in metallo – la chiave di violino, sai, quel simbolo sugli spartiti - con incastonata una pietruzza che somiglia ad una perla trasparente, e le bambine sono tutte felici, ringraziano e se lo mettono al polso, al collo e sulle caviglie.
«Passa una settimana e le bambine deperiscono e muoiono. Il villaggio le piange, ma non nota i piccoli ciondoli fino a quando, due anni dopo, altre bambine muoiono. Allora le madri capiscono, ma la chiesa ormai non brucia più le streghe da secoli, e quando aprono la casa non c’è nessuno lì dentro tranne un gatto nero. Così mettono in guardia le figlie, e nonostante si senta ancora il pianto provenire dalla casa con la porta verde, nessuno si affaccia più. Neppure adesso lo fanno, come non vanno mai dentro le vecchie sorgenti» concludeva la nonna, sfumando la voce in maniera molto teatrale e strappando un gridolino ad un giovanissimo Samuele dagli occhi spalancati e la bocca ridicolmente aperta. Sua madre disapprovava questa vecchia leggenda, temendo che lo avrebbe spaventato al punto da fargli venire gli incubi, ma Samuele era forte: solo una volta aveva sognato lo spirito della bambina, ma non ne aveva fatta parola con nessuno; per il resto del tempo, rimaneva solo la sua curiosità, che spesso lo induceva a sostare davanti all’antro buio in fondo al quale c’era l’uscio verde o davanti alla porticina di metallo.
Perfino in ospedale questa storia l’aveva tirato su di morale: gli piaceva fantasticare su come avrebbe affrontata la vecchina strega, se l’avesse incontrata, o di entrare nelle sorgenti a farsi insegnare la melodia dallo spirito del compositore. Delle volte aveva perfino pensato di bussare alla vecchia porta verde e chissà, se gli amici non l’avessero dissuaso forse si sarebbe fatto offrire il the dal gatto nero, chiedendogli di trasformarsi nella strega dalle lacrime di pietra.
«Sei troppo grande per le favole, Sammi, non trovi? Hai ventun’anni ormai, un ragazzo da ammogliare» disse sua madre anche quella volta, seduta accanto a lui sul letto d’ospedale, una ciotola di zuppa di farro fra le mani.
«Ho ventuno anni e una gamba che sembra un tronco abbattuto da un fulmine. Con chi dovrei sposarmi, mamma?» rispose Samuele, cercando di non far trasparire troppa amarezza dalle sue parole: sua madre desiderava un nipote – e perché no? Una bella nipotina da viziare - da quando lui aveva avuto la sua prima fidanzata, a diciassette anni.
«Oh, troverai una brava ragazza, ne sono sicura. Sei di buona famiglia, hai studiato e presto troverai lavoro col diploma. Ad un geometra non servono tutte e due le gambe, devi solo disegnare e far di calcolo, come tuo padre» nella gerarchia sociale del villaggio, la famiglia di Samuele era in una buona posizione: una casa sulla collina con un bel terrazzo panoramico ed una cantina, all’incirca a due terzi della salita. Era un buon partito, o meglio, lo era stato. Ora era uno storpio.
Qualche mese dopo l’incidente Samuele aveva ricevuto un’offerta di lavoro nella sua vecchia scuola, come insegnante di materie tecniche; e, seppure non avesse ancora trovata una ragazza, in compenso si era sentito sollevato quando la lettera di leva obbligatoria era arrivata, recante un “non idoneo” stampato a lettere nere e grandi sul fondo. Samuele aveva prestato servizio militare a diciassette anni per un intero, interminabile anno e mezzo fatto di addestramento, sveglia all’alba e pattugliamento: aveva usufruito di tutti i permessi speciali che aveva potuto e, quando finalmente aveva riconsegnata la divisa, s’era ripromesso di non finirci mai più. Ora che la guerra era alle porte, non si sentiva un codardo a rimanere a casa, tanto più che la gamba gli dava un’ottima scusa.
La mattina, in classe, inneggiava al patriottismo e levava con gli studenti una breve preghiera per i soldati al fronte, come da direttiva comunale, e spesso si lamentava con le colleghe del suo handicap, suscitando più di una volta occhiate di tenerezza e desiderio. Due anni dopo l’inizio della guerra era uno dei pochi ragazzi rimasti in città e di gran lunga il più affascinante: occhi castani brillanti, lunghe ciglia ed un fisico asciutto, retaggio delle sue corse e dell’anno di lavoro al cantiere, una lingua sciolta e la promessa di una casa in mattoni rossi sulla collina bastavano ed avanzavano a far sciogliere il cuore delle giovani del posto. Delle volte, cinicamente pensava che la guerra fosse la cosa migliore che gli fosse potuta capitare, e che avrebbe dovuto ammogliarsi prima che finisse, quando le ragazze sarebbero state tutte burro e coccole per i veterani, legate a loro da vincoli precedenti la guerra o dal fascino delle loro divise.
Così, a ventiquattro anni Samuele sposò Liliana Alberni, una ragazzina diciannovenne dolce come una giornata di sole in primavera, dai capelli rossicci e le guance piene di lentiggini. Sua vicina di casa - abitava poco sopra all’abitazione della sua famiglia - gli aveva fatto il filo, da bambina, ma Samuele non aveva avuto occhi per lei, più amante del giocare che dei bei visini; e nonostante il fatto che si fossero persi di vista crescendo, Liliana aveva continuato ad osservarlo dalla finestra ed a sospirare perfino quando lui aveva avuto l’incidente. Che fosse stato un sospiro troppo forte, o un’occhiata troppo carica d’amore attraverso le tendine della cucina, alla fine Samuele l’aveva notata e, dopo un breve corteggiamento, le aveva detto “si” nella chiesa,  trasferendosi con lei nella piccola dependance dall’altro lato della strada -una casetta modesta ma rispettabile- dono di nozze dei loro padri.
Per due anni furono sereni, finché una mattina Samuele sentì sua nonna raccontare a Liliana la stessa storia che l’aveva tanto affascinato: vide la sua piccola, incinta moglie rabbrividire e spaventarsi, tanto che la nonna dovette farle un infuso alla camomilla. Quella sera Samuele guardò il calendario prima e la sua sposa distesa sul letto, placidamente addormentata, poi; quindi afferrò una borsa di tela, qualche monete e un rosario di legno e scese la collina nell’immobilità della notte.

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Capitolo 2
*** II – LA STREGA BALLERINA ***


LA STREGA BALLERINA

 
 
La piazzetta davanti all’abitazione del giudice era piccola e vuota, le luci spente in quasi tutte le case delle Mura; fra i vicoli quasi bui rilucevano lanterne tremolanti ed odori di sugo, carne e minestre; ogni viuzza aveva un suo effluvio, una sua luce, un suo rumore caratteristico che Samuele aveva imparato a riconoscere nella sua infanzia; dunque fu con sicurezza che scese le scale in pietra, una rampa e poi a sinistra, due scalini e dritto, a sinistra e su per altri cinque, a destra e poi fermo.
Le case delle vecchie città crescono le une ammassate alle altre come funghi, storti edifici di tre o quattro piani collegati fra loro da ponti ad arco sui quali c’è una stanza, talvolta addirittura un paio di piani; i resti delle vecchie latrine esterne fanno capolino, rompendo la dritta monotonia con le loro piccole finestre a feritoia, i loro tetti spioventi di tegole. Terrazzini si aprono a così breve distanza che i gatti saltano agilmente dall’uno all’altro, andando ad elemosinare cibo da più padroni, talvolta rischiando di far cadere un vaso in strada; fili e fili di corda attendono il bucato, tesi da una casa all’altra.
Era sotto uno di quegli archi che occhieggiava la porta verde, niente altro che un uscio incassato fra tre pareti, rientrato di due metri o poco più, completamente immerso nel buio. Nessuna luce, nessun odore. Samuele indugiò un attimo, ripensando alle sue motivazioni, quindi fece un passo ed un altro poi, finché la porta non gli fu davanti, solida e scrostata, gonfiata in più punti dall’umidità e colpita dai tarli. Un forte odore di urina di gatto proveniva dalla soglia, talmente intenso da far arricciare il naso del ragazzo.
Samuele sollevò la mano sinistra, bussò una volta.
Fu un lungo, interminabile minuto quello che il giovane attese prima che la porta ruotasse piano sui cardini; un minuto carico di silenzio e paura e dell’insano, naturale istinto di correre via. Poi la figura di una vecchia fece capolino dall’uscio, lo scrutò da capo a piedi e lo fece entrare senza una parola.
Era una signora di almeno sessant’anni dall’aspetto nobile nonostante la pelle ambrata, così esotica e selvaggia per Samuele, e i capelli candidi come le nubi stretti in uno chignon alla base della testa, un intrico di rughe più fitte delle viuzze che componevano i Buchi di Torre. Vene di un blu opaco si arrampicavano come radici sul collo grinzoso, arrivando a lambirle la mandibola sinistra prima di affossarsi nei rilievi del suo volto anziano. Indosso, una veste lunga dai colori accessi, tinte di ocra, arancio, giallo e rosso in veli sovrapposti stretti in vita da una fascia viola, terribilmente stonata; perle alle orecchie e una brillante, intricata collana di rame facevano di lei una creatura stravagante, forestiera forse ma di certo non pericolosa. Gli occhi della vecchia, di un celeste sporco venato dall’età, avevano qualcosa di talmente materno e rassicurante da mettere a tacere quella parte infantile della sua mente che gli sussurrava “corri, corri”; come si poteva aver paura di una creatura tanto fragile? Samuele aveva il sospetto che sarebbe occorsa una mano per piegarla come un giunco, talmente minuta e gracile appariva.
La vecchia signora gli sorrise, mettendo in mostra una fila di denti bianchissimi e talmente perfetti che Samuele si chiese se la donna portasse una dentiera: un pensiero stupido, che venne dissipato quando le labbra rugose si aprirono.
«Sei venuto per conoscere il futuro, ragazzo?» disse la vecchina. E quanto dolce era la sua voce! Bassa, confortante e leggera, simile al suono della pioggia o allo scoppiettare del fuoco nella stufa: suoni comuni, suoni familiari, appena arrochiti da qualcosa che poteva essere disabitudine. Samuele ne rimase talmente affascinato che non si rese conto della mano dell’anziana donna fin quando questa non si posò sul suo polso: dita fredde ma, si disse il giovane, i vecchi hanno il gelo della fine nella pelle, nelle ossa e talvolta nell’anima, quindi cosa c’è di stano?
«Il.. futuro? Che futuro dici, nonnina?» domandò Samuele, lasciandosi guidare verso una poltrona davanti ad un caminetto di braci quasi morte; si sedette pesantemente, lasciandosi crollare con soddisfazione quando l’anziana donna lo lasciò andare per dedicarsi al fuoco, sul quale aggiunse un paio di ciocchi di legno.
«Si figlio mio, il futuro. Vengono in tanti qui, sai? Vengono per la sfera di cristallo e le carte e le ossa di galline ed uccelli. Alcuni vengono per i filtri e gli infusi, spesso per gli incensi; ed io li accolgo, come mia madre prima di me e la sua prima di lei» disse la nonnina, voltandosi e sorridendo mentre indicava pian piano dapprima un tavolo dall’altro lato della stanza, coperto di pizzo e quasi interamente occupato da una struttura metallica sorreggente una sfera lattea, poi uno scaffale con impilati volumi su volumi di testi dalla rilegatura cadente, pergamene ed almeno una mezza dozzina di mazzi di carte legati da fascette di colori vivaci, quindi una panca di mogano mezza tarlata proprio accanto all’ingresso ed infine una porta ad arco coperta da una tendina di veli nelle tinte calde. Fu così che Samuele poté guardarsi intorno: l’ambiente era angusto, il soffitto basso e le pareti bianche ricoperte da macchie di umidità e scurite dal fumo di camini e piccoli fuochi d’erbe. Le poltroncine sulle quali sedeva con la sua ospite erano a meno di cinque passi dall’uscio, ai lati di un camino che aveva visto giorni migliori; dietro alla vecchina, il tavolo della sfera ed oltre un paio di usci, l’uno di fronte all’altro: la cucina e la camera da letto, ipotizzò, giacché la porta ad arco dietro di lui aveva più l’aria di un piccolo ripostiglio, o di una cameretta abbandonata – s’intravvedevano bauli, scaffali, erbe appese alle pareti ed un cuscino sul quale un grasso, pigro gatto maculato faceva le fusa, beato. Nell’aria aleggiava l’odore delle spezie e dei fiori, rosa e rosmarino, lavanda ed aghi di pino triturati mischiato al fumo stagnante del camino. Non c’era più traccia dello sgradevole effluvio di urina di gatto.
«Ti piace la mia casa?»
«Oh io… scusatemi signora, è solo che.. mi dispiace. Immagino di essere stato scortese» la voce era simile a un pigolio, come di un pulcino che venga strappato alla chioccia per essere preso in braccio da un ragazzino troppo irruento.
«Non è ciò che guardavi ma come lo guardavi. Ma non preoccuparti, figliolo, so quello che la gente di Torre dice di me» Samuele arrossì, incapace di trovare alcunché da risponderle. La vecchina, dal canto sui, non parve scoraggiata: stirò le labbra in un sorriso che pareva dire “ che vuoi farci, è la natura delle cose” e riprese «Quando mi incontrano per strada, i più fingono che sia solo un cane randagio. I ragazzini mi sputano addosso, le vecchie come me si segnano la fronte. Eppure, una volta o l’altra tutti vengono qui a chiedere un favore, un filtro, un incantesimo. A volte è curiosità, a volte è brama, spesso è desiderio e quasi sempre è invidia, ma ciò che tutti hanno in comune è la vergogna e la sfrontatezza. Io lo so, li vedo»
«Io…» cominciò Samuele, come sentendosi in dovere di difendere i suoi concittadini dall’accusa, ma venne interrotto prima che altre parole potessero lasciare le sue labbra. La vecchina sorrideva ancora.  
«Tua nonna è stata qui, da giovane. Immagino tu non lo sappia, e dovresti vederti, figlio mio! Hai una faccia così sorpresa… è stata qui, dicevo: voleva qualcosa che la aiutasse a concepire, giacché erano anni che provava senza successo. Le diedi un infuso e nove mesi esatti dopo c’era tua madre fra le sue braccia, sana e rosea e piena di vigore. Mentre tuo padre» le ossa della vecchina scricchiolarono un po’, facendole contrarre il viso mentre si tirava dritta, poggiando la schiena alla stoffa ingiallita della poltrona «si, tuo padre venne qui per un filtro d’amore. Non per tua madre, sai, ma per sua cugina, la bella Chiara che ora è sposata col mugnaio»
«I vostri filtri non funzionano, dunque?»
«Gli lessi la mano e vidi che non era destinato a lei, ma a tua madre. Così gli detti acqua di rose e lo rispedì a casa. immagino che pianse le sue lacrime quando donna Chiara lo lasciò, ma furono proprio quelle a fargli conoscere tua madre. Ed ora lui è felice e tu sei qui, ed io sono anziana, certo, e come tutte le nonnine amo le storie. Perciò, permettimi di leggere la tua»
«La mia?» confuso, Samuele guardò la vecchia signora ammiccare in maniera gentile e complice ad un tempo, quindi fargli cenno di stendere la mano; ma il ragazzo era riluttante, e quando l’anziana lo vide continuare a reggersi il polso della destra con la mancina gli sorrise ancora, affabile.
«Se non sei qui per le mie arti, cosa sei venuto a fare figliolo? L’inverno è rigido anche per un giovanotto come te»
«Mi spiace di averla disturbata a quest’ora tarda, nonnina» disse Samuele, chinando il capo e mordicchiandosi il labbro inferiore.
«Ti fa male la gamba, ragazzo?»
«Come lo sa?»
«Tua madre è venuta a chiedermi una predizione, quando cadesti. E tua moglie verrà presto, per sapere con certezza il sesso del bambino, come la maggior parte delle spose vergini»
«E le altre?» domandò Samuele, smorzando l’inquietudine con un tono leggero.
«Le altre vengono per sapere come liberarsi dai figli. Non è bello, ma una vecchia deve pur vivere» disse la nonnina, stringendo le labbra con contrizione ed abbassando lo sguardo. Non approvava o non capiva, o così almeno parve a Samuele.
«E come fanno?»
«Con una lacrima, figlio mio. Con una lacrima sul viso ed una sul collo» disse lei con un’espressione triste e compassionevole tra le rughe. Samuele non chiese, né permise alla sua testa di approfondire quest’ultima frase; dal canto suo, la vecchina si limitò a fissare le braci per un lungo minuto, e Samuele fece lo stesso, il silenzio che si allargava fra loro, carico di tensione.
«Mi farai vedere le mani, ragazzo?» disse la vecchina, senza girare lo sguardo.
«Si, ma a patto che ci leggiate cosa voglio, e me lo diate» rispose Samuele e d’istinto si alzò, avvicinò la poltrona e tese la mano sinistra, il palmo rivolto verso l’alto.
Mentre la vecchia la studiava, passando le sue vecchie, ossute dita rugose sulle mani forti di Samuele, il ragazzo ebbe un brivido: il tocco freddo pareva diffondersi dal palmo lungo il braccio e più su, fino alla testa e al cuore, seguendo la corrente del sangue. Senza chiederlo Samuele seppe cosa l’anziana signora – la strega! - stesse sondando.
«È questo che vuoi, allora? Una storia che sia vera» disse senza esitazione, staccandosi da lui con un tremito. Samuele annuì, senza meravigliarsi più di tanto delle parole dell’anziana.
«Ed una storia avrai, per cominciare. Un racconto che inizia tanti anni fa, quando una gitana lasciò la sua compagnia per seguire un uomo grasso in un teatro. Sua madre, da ragazza, le diceva di non fidarsi degli uomini grassi che indossano parrucche per nascondere l’assenza di capelli e pancere per sembrare più snelli, ma la ragazza non l’ascoltava. Si era votata all’arte da bambina e tutto ciò che voleva era ballare fino a quando la terra non le vorticava incontro e le gambe le cedevano; e stanca e felice si sarebbe distesa supina ed avrebbe riso e riso e riso.
«Solo che la vita non è solo risate e danza, e quando vide il piccolo teatro il cuore le si strinse in una morsa. Lei, che aveva ballato nelle pianure innevate e nei prati infiniti, sotto la pioggia e baciata dal sole, ora era costretta fra quelle piccole mura, con la menzogna dipinta attorno. Eppure ballava, e quanto era felice della sua piccola casetta, degli applausi e dei bei vestiti! Piccola sciocca, barattare il vento con le sete, la terra sotto i piedi con le pietre al collo.
«Era famosa al tempo, tanto che il piccolo teatro crebbe in fama con lei: era bella, giovane e nubile e gli imprenditori facevano la fila alla sua porta regalandole fiori e lettere cariche d’amore. Lei civettava e rideva e danzava, finché non venne il compositore.
«Aveva la musica nel cuore, lui, e le rose nell’anima. Mai vi fu uomo più virtuoso, o più amabile: e quando lei lo vide quelle catene attorno al cuore si trasformarono in radici e sbocciarono, ed entrambi seppero di essere legati. Sai cosa vuol dire, ragazzo mio?
«Passavano insieme ogni momento, ai limiti dell’ammissibile: era un’altra epoca, ed un ragazzo poteva scortare una ragazza a casa, ma non muovere un passo più in là del suo cancello. La gente li guardava, Torre li ammirava e loro erano due giovani di principio. Per cui, passeggiavano nei giardini la mattina, scortati dai genitori di lui, sedevano in riva al lago conversando di danza e musica e poi, dopo le prove, col suo calessino lui la scortava davanti casa, baciandole una manina ambrata. Così continuarono per un anno, finché lui non le chiese di sposarlo e lei disse il si. Era il periodo in cui le giornate erano sole e rose, e la gitana sapeva che quel periodo è breve; lo sapeva, ma come sempre non voleva sentirlo, né ricordarlo.  
«Si fidanzarono e per qualche mese furono felici. Lui le fece costruire una villetta in campagna e la inviò li, mantenendola nel lusso per quanto poteva; ed a lei non dispiaceva perché poteva ballare accanto al fuoco e sotto la pioggia, col vento nei capelli e la terra sotto i piedi.
«Poi arrivò la lettera, ed il compositore mise gli spartiti in una scatola di cartone e baciò la promessa sposa, stringendola a se e promettendole che sarebbe tornato, che l’avrebbe sposata. Quella notte, fra il gorgogliare dell’acqua ed il buio delle sorgenti, i due promessi sposi si amarono nel modo in cui si amano una donna ed un uomo. Ed un giorno la pancia della bella gitana crebbe ed il teatro la rispedì a casa. Non c’erano ammiratori né pretendenti né amici, adesso: pioveva e mentre l’autunno volgeva all’inverno la gitana si trovò sola in una grande casa, disprezzata dalle donne della cittadina.  
«La figlia nacque prematura, eppure sopravvisse ai primi cinque anni, diventando forte e bella più della madre, con quegli occhi blu e quei capelli neri, la pelle appena ambrata e la bocca rossa rossa. Oh, quant’era bella, la più bella bambina del mondo. A Torre non c’era madre che la invidiasse la domenica, alla funzione, né padre che non desiderasse la gitana. Perfino il teatro le aveva riaperto le porte e, dal fronte, le notizie parlavano della fine imminente della guerra.
«Il compositore aveva scritto quasi ogni giorno alla moglie ed alla figlia, ma solo una decina di lettere, spalmante negli ultimi sei anni, erano giunte a Torre. La gitana e sua figlia erano fiduciose ed ogni settimana facevano lavare le camicie ed i panciotti del compositore, così che quando fosse tornato li avrebbe trovati freschi ed inamidati, profumati e pronti da indossare.
«Ma fu una lettera a tornare, assieme ad un’anonima cassa di legno. Il soldato, diceva la missiva, era defunto negli ospedali da campo a causa di una ferita infetta. Gli inservienti dello stato deposero le casse nella piazza con solennità, coperti dal tricolore, e fra inni all’eroismo e discorsi il prete diede la benedizione ed ordinò che i caduti – perfino quelli che erano solo un feretro vuoto - fossero seppelliti.
«La gitana però aveva letto la missiva, e sapeva cosa l’uomo che doveva essere suo marito aveva desiderato, così affrontò il prete. Gli disse “mio marito desiderò essere bruciato dal fuoco e disperso nell’acqua, dove concepimmo nostra figlia” ed il vecchio, grasso prelato scosse i doppi menti e le disse che bruciare un cristiano è negargli la resurrezione, che è immorale e barbaro e inumano. Le disse che una donna di malcostume come lei non aveva di che infangare il nome di un uomo retto ed onesto, men che meno la sua anima. Poi la mandò via in lacrime.
«Così, nottetempo la ballerina scavalcò il muretto basso del cimitero e scavò fino a trovare la cassa, che caricò sul carretto usato dai suoi lavoranti. La mattina successiva una pila di fascine e tronchetti bruciava allegra nel grande spiazzo sulla cima del colle, producendo un fumo denso carico d’umori, e per il pomeriggio la cenere era stata raccolta in un grande vaso. Quella notte, la ballerina si immerse nuda nelle sorgenti, e consegnò lo spirito del marito alle acque pure nelle quali avrebbe vissuto. Poi, respirando vento, sporca di cenere, coi capelli bagnati ed i piedi nudi, lasciò che lo spirito del compositore l’invadesse – come sua madre le aveva insegnato, da bambina - e l’usasse per incidere il suo requiem sulla piccola porticina metallica. Una melodia fatta d’acqua e ferro, che il vento avrebbe suonato per ricordare l’anniversario della sua morte. Un incisione che il tempo o gli elementi non avrebbero corrotto.
«Ma la magia ha un prezzo, e questo la gitana doveva saperlo. Mentre il corpo del marito bruciava, anche quello della bambina loro figlia subiva la medesima sorte a causa di una fatalità. Quando la ballerina tornò a casa trovò solo cenere ed ossa annerite, ed allora pianse come il cielo, gridando il suo dolore per un giorno intero.
«Si trasferì al villaggio, nella piccola casina dalla porta verde che era sua dai tempi in cui, giovane ed ingenua, aveva lasciato la sua gente. Gli abitanti del villaggio l’additavano come strega e le facevano segni di scongiuro, e qualche uomo, conscio che la legge non difende le streghe, si prese con lei una libertà di troppo prima che la ballerina, sfiancata dal dolore, dal disprezzo e dalle violenze, si chiudesse in casa.
«Poi arrivò la peste, che devastò il villaggio. Qualcuno diede la colpa alla piccola gitana, la maggior parte corse da lei a farsi preparare medicamenti ed amuleti. La ballerina aveva ancora magia, ma era pregna del suo odio e della sua disperazione; vennero madri con le loro belle bambine coperte di fiocchi, e la strega donò alle prime sacchetti di erbe ed alle seconde ciondoli a forma di chiave di violino. Le madri deperirono e morirono, le figlie crebbero sane e tornarono, solo per trovare la strega sempre uguale, ed ancora ed ancora negli anni. Non poteva morire, non voleva.» concluse la vecchina con un sorriso triste, abbassando lo sguardo e portandosi un fazzoletto agli occhi. Samuele non aveva avuto la forza di rispondere od interrompere, tantomeno di ritrarre la mano. Passarono lunghi secondi, scanditi dal crocchiare sordo dei ciocchi fra le fiamme.
«Era tutto vero?» domandò infine Samuele, trovando il coraggio di rompere il silenzio solo a costo di una notevole forza di volontà. La vecchina non rispose, limitandosi ad allungare la mano che reggeva il fazzoletto verso quella del ragazzo, dal palmo ancora rivolto al soffitto, e vi lasciò cadere una perla opalescente prima di lasciarla andare.
«È..» chiese il ragazzo, ma già la vecchina aveva preso un filo di rame e lo intrecciava con mani esperte.
«Un portafortuna. Non credo tu ne abbia avuta abbastanza, e ti servirà. Hai tutto ma vuoi rovinarti la vita e lo farai, temo. Rinuncia. Lui è buono, ma lei no, ha paura ed è sola da troppo» disse la vecchina, infilando un sottile nastrino rosso nell’intreccio di metallo e stringendo poi il bracciale al polso di Samuele.
«Voi.. volete vendetta?»
«Io voglio vivere per sentire mio marito suonare ancora ed ancora»
«Uccidendo donne con le vostre erbe?»
«Mi nutro di vita, si, ma sono le donne stesse a donarmela. Quella dei figli che non vogliono, o la loro, attraverso la goccia di sangue che mi offrono come sacrificio per i miei servigi. Io non sono malvagia, figlio mio, ma neanche misericordiosa. Non mi è concesso»
Samuele chinò il capo, annuendo un paio di volte. Capiva.
«Grazie» disse lui, ma la vecchina non lo ascoltava. Chiuse gli occhi e parve come assaporare il rumore delle campane della chiesa che scandivano la mezzanotte. Sospirò e si alzò di colpo, trascinando Samuele con sé.
«Non devi. Il mondo sarà diverso stanotte, e ti smarrirai. Il vento e la terra ed il fuoco e l’acqua sono eccitati, vibrano ad un ritmo diverso, vibrano sulle note di lui. Ti smarrirai. Ma io devo andare. Resta qui, figlio mio, resta e dormi e domattina sarai un uomo libero e felice, con la fortuna dalla tua, e abbraccerai tua figlia»
«Lasciami, vecchia. Conosco Torre come nessun altro, è la mia casa. Non potrai impedirmi di essere più di uno storpio» disse Samuele, sforzandosi di controllare la paura. La vecchina scosse la testa e un attimo dopo non c’era più. 

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Capitolo 3
*** III – LO SPIRITO NELLA NEBBIA ***


LO SPIRITO NELLA NEBBIA

 
 
Fuori dalla piccola porta verde il mondo non era più lo stesso; tremava e si sfocava, ritornando a fuoco a intervalli sempre più brevi finché non fu solo la nebbia a disorientarlo. Samuele non ebbe paura: quante nebbie, quante piogge l’avevano avvolto? Eppure, voltando a destra non era la piazzetta con la piccola fontanella quella che si trovò davanti ma un vicolo cieco; tornando indietro ripercorse una stradina che era sicuro dovesse trovarsi al capo opposto del paese. Non c’erano luci abbastanza potenti da permettergli di distinguere alcunché, né tantomeno suoni: ogni cosa era ovattata, lontana. Camminava in un mondo fatto di incertezza, buio e silenzio, dove l’orizzonte era una massa sfocata grigio scuro, senza riferimenti, senza familiarità; i sensi si tendevano allo spasmo per toccare cose che erano suoni afoni, o solidità molli, o visioni ingannevoli, odori un attimo vivi un attimo morti. Parole senza senso echeggiavano nell’aria, sussurri talmente vicini da fargli disperare la presenza di qualcuno o grida lontane e strazianti, echeggianti nella nebbia, perse fra gli angoli di case spettrali e vuote, trascinate dal vento.
Poi iniziò la melodia.
Una musica bassa, greve e gioiosa ad un tempo, un requiem lento così veloce da fargli sospettare che innumerevoli mani lo suonassero insieme e, nel contempo, da sole. Era un’aria ultraterrena, mistica e demoniaca insieme, qualcosa di così tremendamente meraviglioso che Samuele ebbe voglia di ridere e piangere, il cuore gonfio di paura. Per questo, quando vide la bella bambina che canticchiava sommessamente, seduta sulle scale della chiesa, le si avvicinò senza timore; era una ragazzina di sei o sette anni dai grandi occhi turchesi avvolta in un bel vestitino nero, di fattura antica ma pregiata. Quando Samuele le fu davanti lei sorrise in maniera dolce ed innocente, esibendo una chiostra di dentini bianchi come la neve, interrotta da un buchetto dove uno, caduto da poco e già in procinto di sostituirsi, mancava.
«Piccola, sai dirmi qual è la strada per la collina?» domandò Samuele. Si sentiva stordito, la mente oppressa ed incapace di pensare razionalmente; ma la bambina gli sorrideva tutta allegra, e che begli occhi aveva!
«Signore, ti ci porto, se vuoi» disse lei e si alzò, facendo scivolare la manina in quella ben più grande di Samuele. Nessun campanello d’allarme suonò nella mente del giovane, nessuna sirena. Si lasciò trasportare dalla piccola che sorrideva e cantava, e pian piano non esistette che la musica nel vento e le parole di lei. Se fosse stato in sé si sarebbe reso conto che non era una lingua umana quella cantata dalla sua giovane guida, ma non poteva farvi caso: era ammaliato.
Un passo, uno ancora, ed improvvisamente la nebbia si diradava, le stelle si facevano più brillanti; e Samuele vide che si trovavano nella campagna di là dalle fonti, vicino al vecchio mulino mezzo cadente.
«Signore, siamo arrivati» disse la bambina, sollevando il visino innocente ed orgoglioso verso il ragazzo, le piccole gote arrossate ed un’espressione che sembrava dire “non sono stata brava?”. Samuele restò attonito qualche istante, cercando di capire il dove ed il come senza riuscirci; volgendosi indietro scorgeva solo nebbia, la stessa che l’opprimeva ai fianchi.
«Dove? Che posto è?» domandò con voce calma il giovane,
«Un tempo ci abitava la mia mamma col mio papà, qui. Poi lui è partito per la guerra e lei piangeva. Sai, fu un bel funerale suo, ed io ero così orgogliosa che il mio papà fosse morto per il nostro Stato, che fosse un eroe. Poi però la mamma mi ha lasciata da sola in casa, ed io ho avuto paura. Avevo fatto un danno, ed avevo bisogno di aiuto, ma lei non c’era. Non c’era nessuno» disse, abbassando il viso alla nebbiolina strisciante che le avvolgeva i piedini; ad un tratto la sua voce si era fatta remota, triste.
«Ci sono io, adesso» le fece eco Samuele, chinandosi sulle ginocchia, cos’ da avere il viso alla stessa altezza di quello della piccola.
«Mi vuoi aiutare, signore? Se la mamma mi scopre, poi me le dà» disse la bambina, il piccolo petto che si alzava ed abbassava troppo in fretta, gli occhi che si andavano arrossando.
«Che devo fare, piccola?» chiese lui, tentato per un istante di abbracciarla, di confortarla. La tristezza della piccola gli spezzava il cuore.
«Devi entrare lì» la bimba allungò una manina pallida alla sua destra, indicando le pietre sparse che facevano da corte al rudere del mulino, una struttura fatiscente trattenuta in piedi dall’edera e dal muschio che si arrampicavano sul legno gonfio d’umidità e sui mattoni scheggiati. «Vai dentro e prendi il mio vestitino dalle fiamme, prima che bruci la casa»
«Certo piccola mia, certo» disse Samuele, convinto: avrebbe fatto di tutto per non farla piangere, tutto per sentirla si nuovo sorridere e cantare. Inaspettatamente, sperò di avere una figlia e che fosse altrettanto bella.
«Lo farai davvero?» disse la piccola, una luce speranzosa nello sguardo.
«Puoi starne sicura» annuì il ragazzo, passandole una mano sulla guancia fredda.
«E tornerai da me, dopo? Mi aiuterai a dirlo alla mamma?»
«Si piccola mia»
«Allora dammi un pegno, così che io sappia che non sei un ladro. Non voglio che tu entri in casa e non ne riesca» disse la piccola, assumendo il tono pratico e puntiglioso dei bambini che vogliano dimostrarsi più maturi di quanto non siano in realtà.
«Cosa vorresti?» domandò Samuele e, senza attendere risposta, estrasse l’orologio rotondo di suo padre dal taschino della giacca e, tendendolo verso la piccola, «Che ne dici di questo? Così potrai controllare quanto ci metterò» disse.
«Dammi il bracciale. È bello, e brilla tanto. Dammelo per favore» disse la bambina. Samuele esitò: non avrebbe avuto dubbi nel lasciarle il prezioso cimelio di suo padre, eppure qualcosa, oltre il velo di quieta calma e torpore indotto, bussava alla sua coscienza dicendogli che no, non doveva darle la piccola lacrima della strega. Dunque il ragazzo restò interdetto, infinitamente vicino a recuperare il buonsenso: fu allora che gli occhi della ragazzina furono nuovamente pieni di lacrime e l’espressione si fece così triste che, nonostante le remore iniziali, Samuele non poté altro che slacciare il filo e consegnare il gioiello della strega alla bambina, che sorrise – un sorriso cupo, di gioia violenta e malvagia, così serpentino che Samuele, pur nello stato in cui si trovava, capì di essersi perduto per sempre.
«Ora vai, signore, e liberami. So che tu ce la puoi fare. E… ah, portagli i miei saluti» disse la bambina, senza traccia di dolcezza o benignità nella voce. Allungò una mano scheletrica ed annerita verso il rudere del mulino e Samuele si mosse verso la fine, incapace di disubbidire agli ordini del piccolo spirito.
 

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Capitolo 4
*** IV – LA MORTE NEL MULINO ***


LA MORTE NEL MULINO

 
 
C’erano detriti al suolo, rocce e polvere e nebbia, meno densa ma sempre presente, serpeggiante lungo le pareti, vorticante come le spirali di muschio bianco e verde che aggredivano la vecchia struttura. Nell’aria un odore vago, di decomposizione, sudore e grano marcio. Da qualche parte in alto, fra le travi, un gufo lanciò un richiamo sordo.
Samuele avanzò senza paura, senza apprensione, quasi che, oltre al piccolo ciondolo, avesse lasciato alla bambina anche parte delle sue emozioni, parte della sua umanità. Sapeva cosa vi avrebbe trovato, sua nonna l’aveva messo in guardia con mille e più storie.
Alzò gli occhi e vide.
Lei lo stava aspettando, avvolta nel mantello nero come la notte, la falce in mano.
 
Perché sei venuto? Gli chiese.
«La bambina.. lei mi ha portato»
Sai chi è?
«Sua figlia. La figlia della ballerina»
Non solo. Sai chi è?
«Un fantasma»
Non si guarda un fantasma negli occhi, dicono le leggende, e tu le conosci, vero? Tua nonna ti parlava del monello che indica ai viaggiatori la strada per l’inferno.
«Lo so. E so che, se non avessi data via la lacrima, tu non avresti potuto toccarmi»
Conosci la prima verità.
«Quante sono?»
Tre. E se saprai dirmele tutte ti lascerò andare.
«Altrimenti?»
Dovrai restare al mio posto. Accudirla. Farle compagnia, finché non deciderà di seguirti. Finché non capirà di non essere altro che nebbia e ricordi.
«Sta bene. Chiedi allora»
Sai chi sono?
«Una Morte»
Non il diavolo?
«No, o mi avresti già preso. Il diavolo ha un solo inganno e riguarda l’anima. Le Morti sono custodi e vigilanti.»
Ancora una, la più difficile... cosa ti ha portato qui?
«La bambina»
NON MENTIRE!
«Sto per avere un figlio e voglio avere qualcosa da raccontargli. Qualcosa di vero»
MENTI!
«Voglio dimostrarmi superiore alle paure ed ai fantasmi. Voglio poter credere che, anche se sono uno storpio, non c’è nulla che temo, nulla che non posso affrontare. I miei amici sono andati alla guerra. Io volevo combattere le paure striscianti. Volevo vedere, e sapere, e vincere»
Ora sai. Ma hai sbagliato.
«Non sei un demonio. Concederai un’ultima possibilità»
No.
 
La voce dello spirito si perse, finalmente sciolta dal vincolo della servitù che lo legava alla casa ed alla bambina. Samuele gridò, ma era troppo tardi. Indossava il nero mantello e l’avrebbe portato fin quando qualcuno non avesse liberato la sua anima, prendendo in consegna quella della sua protetta. 

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Capitolo 5
*** V – DA QUALCHE PARTE, ORA. ***


DA QUALCHE PARTE, ORA.

 
 
Gratta la puntina sul piatto di un vecchio giradischi producendo una musica bassa, melodica, carica di violini ed archi.
Andrea si mette dritta, drizzando le orecchie, la bocca spalancata.
«Io non ci sarei mai andata. Cioè, dalla strega magari si, però dentro il mulino bruciato..»
«Nessuno l’avrebbe fatto, ma qualcuno ci casca sempre. Anche Samuele non ci sarebbe andato, se non avesse conosciuto la storia. È come la voce della bambina, o la canzone del compositore, o la magia della strega: spaventa al punto da affascinare e più la senti, più desideri verificarla, quando invece dovresti averne paura» dice la vecchia signora, sistemandosi la coperta meglio sulle spalle ossute.
«E Samuele è ancora lì, nonna?» chiede la ragazzina spigolosa che le siede davanti, cercando di controllare la voce e cambiare discorso. Ha sette anni ed una carriera da abile giocatrice di Xbox alle spalle: ha ucciso decine di zombi, di cavalieri e di mostri nei giochi e visti più film dell’orrore di suo fratello; perché dovrebbe aver paura di una favola?
«Finché un’altra Morte non lo sostituirà» le risponde la nonna con un’alzata di spalle, come se fosse la cosa più ovvia al mondo.
«E come? Insomma, la città l’hanno bombardata, me l’ha detto il nonno. Il mulino non può trovarsi ancora lì»
«C’è. Nella zona industriale della città, sepolto fra le rovine della fabbrica d’armi e il vecchio deposito. Le bombe non l’hanno toccato»
«E perché non lo buttano giù?» domanda la ragazzina e la nonna le sorride bonaria, conscia del fatto che sua nipote è figlia dell’era dei supermarket e dei palazzoni, quindi non può capire davvero.
«Archeologia e rovine. Non tutto quello che è antico è da buttare» tenta di spiegarle, in volto il sorriso di chi sa.
«Ok…» dice Andrea, poi il cellulare le squilla. È sua mamma che le intima di uscire. Un bacio ai nonni, intasca la mancia, infila la giacca e poi è in strada. L’aria è gelida e Andrea sfrega le mani le une sulle altre. Domattina, dopo la scuola, sorpasserà la chiesa e i ragazzini che giocano a pallone sulla piazza dalla pavimentazione mezza saltata, scenderà fra i vicoli della zona antica della città e si fermerà davanti ad una piccola porta verde alla quale  si avvicinerà, carica di una curiosità che non è mai stata veramente sua.  
Sulla porta verde c’è scritto “Maga, sensitiva”. Quando chiederà in giro, le diranno che la vecchina che ci vive è una strega e che in quella casa ci viene gente da lontano, ma quasi nessuno si fa vedere in città, dopo. 

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