Come in un Sogno

di _Shantel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Come in un Sogno ***
Capitolo 2: *** Incontro-Scontro ***
Capitolo 3: *** Quanto sei bella Roma ***
Capitolo 4: *** Che mondo sarebbe senza bandana? ***
Capitolo 5: *** Jealousy ***
Capitolo 6: *** Alcool e cambiamenti di personalità ***
Capitolo 7: *** Fragile ***
Capitolo 8: *** Qualcosa di inaspettato ***
Capitolo 9: *** Amici, nemici e tanti guai ***
Capitolo 10: *** Un Sogno di troppo ***
Capitolo 11: *** Sonate au claire de lune ***
Capitolo 12: *** Red Hair ***
Capitolo 13: *** Tutto in un attimo ***
Capitolo 14: *** No happy ending ***
Capitolo 15: *** Amici e orsetti gommosi ***



Capitolo 1
*** Come in un Sogno ***


Buonasera a tutti!
Il pensiero di tutti in questo momento sarà: ma questa ha due storie da portare avanti e una raccolta ed è ancora qui a rompere le scatole? Ebbene sì.
Ma questa volta non sono da sola. E no miei cari e mie care. Questa storia non è nata solo dalla mia immaginazione, ma anche da quella della mia adorata Marty, ossia IoNarrante. Infatti è una storia scritta a quattro mani. Avevamo in progetto di scrivere qualcosa insieme, abbiamo scoperto di essere complementari come gli angoli. Quindi è nata questa storia spensierata e senza pretese, se non quella di strapparvi qualche sorriso.
Eccomi! Beh, sinceramente sono io che ho traviato quella poveraccia di Manu per questa storielluccia senza pretese, però quando due menti pazzerelle come le nostre entrano in contatto, il risultato può essere solo che un’immensa, gigantesca, esplosione nucleare!
Sarà dal punto di vista dei due protagonisti. Leonardo è affidato alla cara Martina, mente io mi occuperò di Celeste.



CAPITOLO 1
Come in un sogno



Il boato della folla era inebriante e talmente potente da ovattare qualsiasi altro suono raggiungesse il mio udito. C’era un tempo in cui gli uomini morivano in questi stadi, solo per l’intrattenimento del popolo, uccidevano e squartavano per udire le grida della gente perché sentirsi acclamati in quella maniera era quasi come essere considerati dei.
Quegli uomini erano gladiatori ed io mi sentivo uno di essi.
In tutt’altro luogo e quasi duemila anni dopo, non era cambiato nulla. Le grida di adorazione e di rispetto, il sangue e l’anima che veniva data sul campo, e ogni singola partita che segnava la vita anche del più lontano spettatore.
Questo era il calcio e quello era il mio mondo.
Davanti a me c’era la porta e nient’altro. Riuscivo a vedere solamente i pali verniciati di bianco e la rete alle spalle del portiere.
Eravamo sul risultato di parità ormai da 85 minuti. Entrambe le squadre avevano tentato più volte di andare in vantaggio, ma per bravura o per semplice culo, nessuno aveva ancora segnato un goal, facendo innervosire tremendamente i tifosi.
I cori della Sud si facevano sentire, mentre il Capo Ultras incitava il popolo giallorosso a sostenere a gran voce la sua squadra, e i tamburi battevano violenti creando un rombo di suoni simile a quello di un campo di battaglia.
Ormai il mister continuava a darci istruzioni confuse, mentre l’intera squadra aveva quasi perso la speranza di riuscire a vincere quella dannata partita che avrebbe risollevato, almeno in parte, l’andazzo della classifica. All’ottantaseiesimo, Marco era scattato sulla fascia destra, riuscendo a smarcarsi quasi tutti gli avversari, per poi passarla a Francesco. Il Capitano era avanzato palla al piede, mentre io mi ero subito proposto correndo verso il centro dell’area avversaria, ma la difesa del Napoli si era subito schierata come un muro di cinta davanti a noi.
Cercai di sbracciarmi pur di ottenere l’attenzione del nostro capitano, ma ero coperto e non voleva sprecare un’occasione. Cazzo! Ero il capocannoniere del campionato e ancora non si fidava a lasciarmi fare?
Se avessimo pareggiato la partita miseramente, sapevo a chi dare la colpa. D’altronde, ogni volta che avevamo perso una partita, il mister non mi aveva fatto giocare ed io avevo preso quel segnale come un avvertimento del destino.
Leonardo Sogno stabiliva le sorti della partita.
Alla fine, Francesco Totti aveva optato per passare la palla nuovamente a Marco che era scattato sulla fascia destra come un fulmine. Intercettato il passaggio, però, subito Cannavaro gli fu addosso, e la nostra ala destra fu costretta a ripiegare verso l’interno, cercando un fallo al limite dell’area.
Intanto ero scattato al centro, quasi tra le braccia del portiere, in modo da aspettare un cross che mi avrebbe permesso di sfruttare i miei 185 centimetri per provare un colpo di testa da maestro, ma Marco non aveva spazio libero per tirare. Gli restava un’unica soluzione.
Palla al piede, cominciò a correre verso l’area, dribblando il difensore, ma ben presto fu fermato da un intervento piuttosto duro da parte di un interno destro e l’arbitro fischiò.
Il boato di disapprovazione del pubblico fece quasi tremare lo stadio Olimpico ed io scattai subito in direzione del guardalinee per dirgliene quattro.
«È il quarto fallo che fa quel coglione!» ringhiai, seguito dai miei compagni di squadra.
«Ammoniscilo, che aspetti?» si aggiunse Daniele, spuntandomi dalle spalle.
«Se non indietreggiate, il giallo lo do a voi» minacciò quello in risposta e, immediatamente, arretrammo con le braccia alzate.
L’arbitro, intanto, comunicava col quarto uomo e si consultava anche con gli altri. Avevo il cuore che batteva a mille ed era come se sapessi che da quell’intervento dipendessero le sorti della partita.
Alla fine indicò il centro dell’area e quel gesto voleva dire solo una cosa: rigore.
«Lo batto io!» gridai subito, correndo incontro al pallone. Era da secoli che volevo farlo, ma nessuno aveva mai rubato il posto che spettava di diritto al Capitano.
Totti mi guardò con aria di superiorità, pensando ‘guarda questo ragazzino che puzza ancora di latte’, ma a me non me ne fregava un cazzo, volevo battere quel dannato rigore e lo avrei fatto, anche a costo di giocarmi la panchina.
«Allora?» ci domandò l’arbitro, sperando di velocizzare i tempi.
Mancavano due minuti al novantesimo e il quarto uomo ci guardava con insistenza. A quel punto presi il pallone direttamente dalle mani dell’arbitro e lo posizionai sul dischetto. C’erano solo undici metri a dividermi dalla gloria.
Sapevo di aver esagerato comportandomi in quel modo irrispettoso nei confronti del Capitano, ma poco me ne importava. Ormai lui era finito. Aveva avuto una carriera invidiabile ma adesso era il mio momento e non avrei permesso a nessuno di mettersi in mezzo.
Ora la folla era in trepida attesa. I rumori intorno a me cominciarono a divenire man mano più soffusi, insieme alle voci dei miei compagni che si spintonavano con gli avversari per arrivare prima sulla respinta del portiere, nel caso avessi sbagliato.
Tu non sbaglierai, mi dissi auto-convincendomi. Sei Leonardo Sogno, il calciatore più forte e più bello che l’intero calcio italiano abbia mai avuto, sei un astro nascente, un fiore all’occhiello che tutti gli osservatori hanno già preso in considerazione per i club più importanti. Devi solo segnare.. va e fai goal, cazzo!
Presi un bel respiro e cercai di immaginarmi nell’antica Roma, indossando un’armatura e brandendo una spada. Ero un gladiatore: il portiere era il mio avversario, la palla era l’arma con cui avrei potuto ucciderlo, mentre il mio sinistro era direttamente la mano di Dio.
La folla gridava a gran voce il mio nome, urlando slogan e cori che soltanto il più acclamato degli imperatori avrebbe potuto udire ed io percepivo nelle mie mani un potere immenso. Ogni uomo avrebbe dato tutto pur di potermi stringere la mano, ogni ragazzo avrebbe avuto più rispetto dagli altri se fosse riuscito a farsi fare una foto in mia compagnia e le ragazze, beh, ognuna di loro sarebbe andata contro ogni principio pur di passare anche solo una notte con me.
Mi trovavo faccia a faccia con il portiere, di cui non ricordavo nemmeno il nome, ma tanto non m’importava perché di lì a pochi secondi sarebbe passato dalla Serie A al campetto di calcio di Scampia.
Il tempo ormai si era dilatato, diventando quasi un concetto astratto. Avrei potuto tirare di collo pieno, sulla destra, oppure di piatto a sinistra, spiazzando il portiere. Il cucchiaio non lo avrei mai fatto, non potevo sfidare ancor più la sorte con il Capitano, ma la tentazione di incitare maggiormente il pubblico era troppo allettante.
I rigori li sbaglia solo chi ha il coraggio di tirarli
Seguendo gli insegnamenti del ‘Pibe de Oro’, inspirai profondamente e presi la rincorsa per poi guardare negli occhi l’avversario che avevo davanti. Mi sembrò che tutto accadesse a rallentatore, quasi come se avessero legalizzato la moviola in campo.
I compagni cominciarono a spingersi nel momento esatto in cui iniziai a correre verso la palla, mentre il portiere allargò le braccia, pronto ad accogliere la mia cannonata. Puntai il piede sinistro sul terreno, affondando i tacchetti nell’erba del campo, poi alzai la gamba e la fermai a mezz’aria, caricando il colpo. I muscoli erano tesi e la tensione al massimo.
Abbassai la destra e arcuai il piede, facendo aderire perfettamente la linguetta degli scarpini alla semisfera del pallone dell’Olimpico. Collo pieno, l’avrei spiazzato.
Una volta che lasciai partire il colpo, il mio sguardo andò fisso verso il punto tra l’incrocio dei pali che avevo scelto per piazzare quella bomba. Avrei dovuto soltanto attendere, mentre il battito del mio cuore era l’unica cosa che riuscivo ad udire nelle mie orecchie ormai completamente isolate dal resto del mondo.
Il portiere, però, con uno slancio improvviso, riuscì ad intuire la direzione del colpo, smanacciando nel tentativo di deviare il mio destro. Forse per semplice fortuna o per la mia convinzione che mi diceva di essere, in qualche modo, guidato da qualche entità superiore, la palla passò proprio tra le braccia del portiere, bucando la sua presa, e s’infranse nella rete.
Il boato della folla che seguì le mie gesta fu assordante, soprattutto perché riacquistai i sensi in quel preciso istante. Trombe, tamburi, sbandieratori, tutti i tifosi si ammassarono sulle scale per scendere verso le palizzate di plastica che li separavano dal campo ed erano tutti per me.
A quel punto afferrai il pallone e cominciai a correre in direzione della mia curva, mentre i miei compagni cercavano in tutti i modi di placcarmi per un abbraccio di gruppo. Volevo condividere la mia felicità con tutti, ma le urla dei tifosi erano il mio carburante, la benzina che mi permetteva di correre.
‘Pittore! Pittore! Pittore!’ gridavano inferociti, tamburellando ferocemente contro la plastica mentre gli stewart cercavano di assicurarsi che ne uscissi incolume.
«E con il numero 23» gracchiò la voce dell’altoparlante. «Il nuovo bomber della Magica, capo classifica dei cannonieri con 15 goal, prossimo sulla lista per vincere il pallone d’oro, Leonardo...Pittore».
«SOGNO!» la folla sbraitò in risposta.
«Leonardo...».
«SOGNO!».
Ed io, preso dall’euforia del momento, presi il pallone che tenevo ancora stretto nelle mani per poi stendere il braccio e tenerlo teso davanti a me, mentre con la destra imitavo il gesto di un pittore, dando pennellate sulla palla.
Perché io ero nato per quel mondo, per far impazzire la folla e per essere adorato. Sapevo dribblare, tirare, marcare e mi reputavano un genio del calcio. Ovviamente il mio soprannome non poteva che essere attribuito ad uno dei più grandi italiani di tutti i tempi: Leonardo Da Vinci.





Esistono un numero imprecisato di dubbi senza risposta che affliggono la mente umana. Cos'è la vita? Qual è il suo senso? Dio esiste o è solo un'invenzione dell'uomo per colmare la paura dell'irrazionale? Gli uomini cosa trovano di così divertente nel seguire una partita di calcio?
Ebbene, quelle erano le domande a cui non riuscivo proprio a trovare una risposta, soprattutto l'ultima era un dubbio esistenziale che martellava nella mia testa in cerca di una spiegazione che non avrei trovato nemmeno tra un milione di anni.
Era più forte di me, non riuscivo a trovare nulla di stimolante in 22 imbecilli con i bermuda che rincorrevano come rinoceronti impazziti una palla rotolante con l'unico scopo di metterla in rete. E per giunta prendevano un sacco di soldi, qualcosa come milioni e milioni di euro per non lavorare e farsi Veline e Letterine della tv alla ricerca del gossip. Invece di correre su un prato verde e spintonarsi per una palla, avrebbero fatto meglio a tornare sui banchi di scuola, almeno per imparare i verbi ausiliari e riuscire a formulare una frase di senso compiuto. Le rare volte che vedevo le interviste dei calciatori, le mie povere orecchie da studentessa di lettere sanguinavano per i tentativi di omicidio nei confronti della povera lingua italiana.
Non sopportavo il calcio, né tanto meno i calciatori e maledicevo quando la mattina mi svegliavo e realizzavo che era domenica. Questo significava, oltre a noia totale per la mancanza di negozi aperti, una stupida partita di pallone. L'immagine del mio coinquilino Romeo, che del romantico protagonista di Shakespeare aveva solo il nome, sbracato sul divano con birra alla mano e urla da cornacchia assatanata, era ben peggiore di una scena di un terribile film horror. Da semplice ragazzo sfigato e smidollato, si trasformava in una specie di animale quando vedeva la Roma in televisione, un babbuino in cattività che saltava da una parte all'altra della stanza, sbraitando contro il televisore come se, quelli dall'altra parte, potessero sentirlo. Ogni santissima domenica maledicevo il giorno in cui avevo accettato di fare l'abbonamento con Sky per lo sport. Mi ero lasciata abbindolare dagli occhioni verdi di Romeo. Però, in fondo, se lo meritava, con tutto quello che doveva affrontare una volta messo piede fuori casa. Di certo non passava inosservato, con quei capelli posticci e rossi.
Ero intenta a scrivere sul mio Acer portatile il mio primo romanzo d'amore, fatto di sogni e principi azzurri inesistenti, senza però la minima speranza di vederlo un giorno pubblicato, se non su un sito di fan fiction, seduta al tavolo in soggiorno con l'irritante voce di Federica Panicucci in sottofondo. Odiavo la televisione, la trovavo trash e assolutamente ignorante, fatta di frivolezze distorcenti per le poveri menti adolescenziali, ma avevo bisogno di sentire qualcuno parlare, chiunque fosse, sennò mi prendeva l'angoscia della solitudine. Per cui mi accontentavo anche della stupidità di quel talk show.
Romeo mi sfrecciò accanto, indossando una maglietta rossa dai brodi gialli con un Totti scritto sulle spalle, reggendo in una mano una bottiglia di birra e nell'altra una specie di trombetta, ricordo dei mondiali. Si sbracò sul divano e senza chiedere nulla, cambiò canale, fermandosi sulla partita Roma-Napoli che stava per consumarsi sotto i suoi occhi.
Sbuffai, appoggiando il mento sulle mani. Non sapevo se essere felice perché Romeo mi aveva salvata da Domenica Cinque o dannarmi per l'ennesima partita di calcio.
«Alza in cielo la bandiera» cominciò a sbraitare come un corvo spennato Romeo, battendo ritmicamente le mani sulle cosce «e grida forte as Roma vinci insieme a noi. Per innamorarsi ancora sosterrò sempre la mia Roma, lo sai perché, tutta la mia vita è giallorossa...»
«Robbeo!» esplosi d'improvviso «Puoi smetterla di cantare?! E già abbastanza subirsi 22 deficienti che corrono, il tuo incitamento è inutile!»
Romeo, al secolo Robbeo, fusione tra il suo nome e il dolce epiteto babbeo, una specie di ibrido tra Pippicalzelunghe e un gabinetto ecologico, mi guardò di traverso, zittendosi.
Guardai il cielo, ringraziandolo per quel momento di pace, distrutto però dai cori da stadio e dai tamburi che emetteva la televisione. Strinsi i pugni, respirando a fondo e mettendo in pratica quelle poche lezioni di yoga che avevo frequentato qualche mese prima, ma che avevo abbandonato dopo poco per la noia totale di quel corso e per le contorsioni che doveva subire il mio corpo ben poco elastico.
Presi a digitare velocemente i tasti, vedendo le parole nere nascere sul foglio bianco di Word e venendo catturata da esse in un momento di pura ispirazione estatica. Vedevo i miei personaggi materializzarsi davanti ai miei occhi, con le loro emozioni che mi trascinavano in quel mondo utopico e a dir poco fantasioso. Mi sembrava di far parte io stessa della storia, potevo sentire le loro voci e i loro dialoghi sovrastare il fracasso della televisione. Le parole e la fantasia erano il mio rifugio, il mio modo di vedere l'amore, ancora stilizzato, ancora con quell'ingenuità con cui lo vedevo da adolescente, etereo e romantico. Tutto il contrario di quello che era in realtà e la colpa era degli uomini. Loro avevano rovinato l'amore, usandolo solo come pretesto per portarsi a letto qualsiasi ragazza. Avevo imparato a capire che il Ti amo detto da un uomo voleva dire O me la dai o ti mollo. Peccato che l'avevo compreso un po' troppo tardi. Certo, non tutti gli uomini erano decerebrati, alcuni si distinguevano, come Robbeo. Ma lui era un caso problematico. Privo di qualsiasi coraggio attribuibile ad un principe azzurro, ormai era diventato il mio peluche personale, da coccolare e proteggere.
E poi c'era lui, J, bello quanto inarrivabile per una come me, nei confronti del quale nutrivo solo una smisurata cotta silente.
«No!» urlò disperato Romeo, inginocchiandosi e sbattendo la testa contro il pavimento.
Il suo sbraitare mi distolse dai miei pensieri romantici e mi fece sobbalzare sulla sedia.
«Romeo, ma sei scemo?!» sbottai, con una mano sul cuore martellante «Mi fai spaventare così!»
«Avevi la porta lì davanti. Perché non l'hai tirata?! Perché?!» continuò, senza aver dato ascolto alle mie lamentele, alzando una mano al cielo e disperandosi solo come poteva fare il suo collega Amleto.
Rimasi lì per lì perplessa da quel discorso con una persona che primo non poteva sentirlo e secondo, non sapeva nemmeno che esistesse. Scossi la testa, tornando a leggere l'ultima frase partorita dalla mia fantasia, rimasta sospesa a metà senza una conclusione che era si era dissolta con l'urlo di Robbeo. L'ispirazione era scomparsa, spazzata via come una nuvola leggera, lasciandosi dietro solo una flebile scia. Mi misi le mani nei capelli biondi, osservando lo schermo e rischiando di diventare cieca, ma dovevo ritrovare il filo del discorso se non volevo dire per sempre addio alla mia sanità mentale.
Picchiettai l'indice sul tavolo, rivolgendo la sguardo verso la televisione e a quel continuo e noioso rimbalzare di una palla tra 22 omini con magliette colorate che sembravano tutti uguali. La palla va a quello, che la passa a quest'altro, che corre e corre e corre come un forsennato come se volesse farsi venire un infarto; arriva poi l'omino con la maglietta diversa, che ruba la palla e corre nella direzione opposta. Davvero emozionante, quasi più di un film giapponese in lingua originale.
Mi soffermai a guardare Romeo, che tracannava birra come se fosse all'Oktober Fest ondeggiando a destra e a sinistra sul divano, seguendo i movimenti dei giocatori.
«E De Rossi, supera tutti» commentò la partita, alzandosi dal divano e correndo sul posto, dribblando l'aria «Si trova faccia a faccia con l'avversario e la passa a Totti, che va verso l'area di rigore, tira e...No!» urlò di nuovo con le mani tra i capelli «Parata! Un'altra occasione perduta!»
«Sei sicuro di non essere caduto dal seggiolone quando eri piccolo?» domandai, perplessa e sconcertata.
«Celeste, come puoi non comprendere la bellezza del calcio? Fatti invadere da questa emozione»
«Non vedi, straripo di emozioni» ribattei, alzando un sopracciglio.
«Non senti il roboante richiamo del pallone?» continuò Romeo, mettendosi dietro di me, appoggiato alle mie spalle.
«Forte e chiaro» risposi ironica.
«Cel, sei l'unica a cui non piace il calcio!» piagnucolò, strattonandomi, dandomi la sensazione di stare su una nave guidata da un ubriaco.
«Empio demone, esci da questo corpo!» cantilenai esasperata, rivolta a me stessa «Comunque, ci sono migliaia di persone a cui il calcio non piace»
«Sei la prima che conosco che lo detesta in questo modo» ribatté, incrociando le braccia e annuendo.
«Hai sniffato ancora il pennarello indelebile?» domandai, dubbiosa «Sai che ti fa un brutto effetto!» ridacchiai, guadagnandomi un'occhiata che avrebbe dovuto intimorirmi, da parte di Robbeo.
Avevo promesso al mio peluche personale che non avrei più nominato quella storia, ma lui mi aveva offerto l'occasione su un piatto dorato, nemmeno d'argento.
L'episodio risaliva a molti, troppi anni prima, ma le immagini erano ancora nitide nella mia mente. Eravamo in prima superiore, l'anno in cui iniziò l'incubo di Romeo e in cui fu coniato il soprannome di Robbeo. Un mio stupido compagno di classe lo aveva sfidato ad annusare per più di cinque minuti il pennarello indelebile e Romeo, che era ancora più imbecille del soggetto sopracitato, accettò, spavaldo, sicuro di vincere e di mettere fine alle prese in giro. Ma non accadde, anzi la situazione peggiorò e Robbeo divenne lo zimbello di tutta la scuola. Dopo quattro minuti con il pennarello sotto il naso, era svenuto, cadendo come un sacco di patate davanti a tutta la classe. Da quel giorno, per lui, gli indelebili erano un taboo, appena ne vedeva uno lo trattava come se fosse un oggetto demoniaco.
«Non sei divertente, Fiore» mi fece una linguaccia.
«Non chiamarmi per cognome» scandii, indicandolo minacciosa «Sai che mi dà fastidio»
«E anche tu sai che non sopporto gli indelebili» sibilò.
«Mi sembravi un po' troppo sopra le righe, ecco perché l'ho detto. Non è di certo colpa mia se ti fanno uno strano effetto» mi giustificai, leggermente irritata.
«Non è colpa mia» mi fece il verso «Bè, che colpa ne ho io, invece, se ti chiami Fiore Celeste?!»
Contrassi la mascella e boccheggiai in cerca di una controbattuta, che non arrivò mai. Romeo mi sorrise sornione e tornò a guardare la partita, soddisfatto di avermi fatto tacere, cosa rara, dato che l'ultima parola doveva appartenere a me di diritto. E non sopportavo che mi venisse sottratta, così come non sopportavo il mio nome. Era una sorta di maledizione, per me. Suvvia, come si può chiamare una bambina Celeste sapendo che il suo cognome sarebbe stato Fiore? Con tutti i nomi belli presenti nella lingua italiana e in una qualsiasi altra lingua, proprio un colore doveva scegliere quella squinternata di mia madre?
Ma perché tesoro, quando sei nata avevi due splendidi occhi celesti!, era la motivazione. Poteva andarmi peggio, però. Se avessi avuto gli occhi verdi mi sarei chiamata Verdiana e se fossero stati castani, non oso immaginare che nome mi sarei potuta ritrovare. Con una motivazione del genere, Celeste era il male minore. Certo, mi fossi chiamata Giulia o Chiara non mi sarei dovuta subire le prese in giro che derivavano da quel nome singolare. Tuttavia, sempre meglio di Romeo che, purtroppo, oltre all'aspetto non proprio da adone greco, ma piuttosto da hobbit della Terra di Mezzo, doveva portare sulle spalle il peso di un cognome come Ciuccio.
Scossi la testa, sospirando e tornando a concentrarmi sulla mia opera letteraria, nonostante l'ormai dispersa ispirazione. Se mantenevo quel ritmo di scrittura, non sarei mai riuscita a concludere nulla e avrei terminato quello pseudo-romanzo ultra-ottantenne.
Mi persi a guardare le pareti attorno a me, il lampadario e le tendine di pizzo bianco alla finestra, perdendomi in congetture mentali, in cerca di un filo da seguire. Ma tutto ciò che creava la mia mente era solo un garbuglio intricato che non sapevo come sciogliere. Forse era troppo ambizioso da parte mia credere di riuscire a scrivere un romanzo, magari avrei dovuto accantonare l'idea, se non addirittura cestinarla. Ma, ogni volta che ci pensavo, mi dicevo, se ce l'ha fatta Moccia, ci puoi riuscire anche tu. Per cui il mio subconscio si ribellava al mio cervello, impedendomi di rinunciare a quel bizzarro sogno che avevo nel cassetto.
«Dai cazzo, che sono ottantacinque minuti che non toccate quella palla! Svegliatevi!» urlava Romeo come un matto, lanciando cuscini alla televisione.
Mi ridestai dai miei pensieri, sgomenta e incredula. Erano già passati più di 85 minuti da quando quella partita era cominciata?! Controllai sul monitor del PC, constatando che fossero le 16.45 e me ne rallegrai. Altri cinque minuti abbondanti e quell'obbrobrio sarebbe finito e arrivederci alla prossima domenica!
«È rigore. Quello è un rigore!» sbraitò nuovamente Romeo, sempre più arrabbiato «Arbitro venduto!»
Rimanevo sempre più sconcertata da tali atteggiamenti figli di una rabbia repressa preoccupante. Anche il più tranquillo e pacato degli uomini, di fronte ad un pallone e un arbitro, si trasformava nel più feroce degli animali, e questo non mi era affatto di conforto. Anzi, mi spaventava assai.
«E dai cazzo! Rigore» riprese Romeno quel discorso con il televisore, d'un tratto rallegrato, stringendo i pugni come a darsi la carica.
Forse avevo sbagliato facoltà, magari sarebbe stato meglio fare psicologia, almeno per riuscire a capire maggiormente questi episodi di crisi di personalità che attraversava Romeo durante una partita.
Era seduto sul bordo del divano, talmente teso che se gli avessi tolto da sotto il sedere il sofà sarebbe rimasto in quella stessa posizione. Aveva i pugni serrati, uno sulla coscia e l'altro davanti alla bocca per mordicchiarlo e, ci avrei giurato, stava sudando freddo, come se quel rigore fosse stata una questione di vita o di morte.
«Vai Sogno, vai Sogno» borbottò, lasciandomi sempre più sgomenta.
Appoggiai il mento sulla mano, in attesa di un'altra esilarante reazione da parte di Robbeo che commentava qualsiasi movimento facesse il calciatore.
«Posiziona la palla sul dischetto e si guarda intorno. Momento d'attesa, questa potrebbe essere l'ultima occasione per la Magica di segnare ed è tutto nelle mani, anzi nei piedi, di Sogno, il capocannoniere. Avanti, non mi deludere amico, so che puoi farcela, sei il migliore. Ed eccolo che prende la rincorsa» si sporse maggiormente in avanti sul divano, mentre il suo tono di voce si faceva più partecipe in quel momento «Va di collo pieno, cazzo!» soffocò l'urlo con il pugno «Il portiere intercetta la palla...» istante di silenzio prima dell'esplosione di gioia «E fa goal! Goal!» urlò, precipitandosi sul televisore e scuotendolo.
«Robbeo, così lo rompi!» mi lamentai, ma lui non mi udì, troppo intento a idolatrare quel baccalà di giocatore il cui unico merito era quello di aver segnato un rigore.
«Il pittore c'è, il pittore c'è!» sbraitò ancora, impugnando la trombetta che aveva lasciato sul divano e suonandola, facendomi perdere per qualche minuto l'uso dell'udito.
«Romeo Ciuccio, ora smettila!» ringhiai, al limite della pazienza.
Lui mi guardò e sfiatò un'ultima volta prima di correre verso di me. Mi afferrò per il braccio, costringendomi ad alzarmi e mi strinse, saltando come una cavalletta impazzita.
«Il pittore c'è, il pittore c'è!» ripeté di nuovo.
«Stavi guardando una partita di calcio o Art Attack?!» domandai sarcastica.
«Ma quale Art Attack!» esclamò «Il pittore, il genio del calcio, come Da Vinci!»
«Che cosa?!» esplodi incredula «Tu vorresti paragonare un deficiente in calzoncini che non sa nemmeno la tabellina dell'uno ad uno dei più grandi geni che l'umanità abbia mai avuto?!»
«Non io» sorrise sornione «Tutti lo considerano un genio!»
«Ok, questo è troppo» lo spinsi via.
Compresi solo in quel momento come il calcio poteva davvero rincitrullire la mente umana. Addirittura definirlo genio perché tirava una palla di una rete da pesca mi sembrava davvero assurdo, rasente al ridicolo.
Tornai alla mia postazione di scrittura, incredula, mentre la gente inquadrata in tv era esplosa in un impeto incontrollato di gioia, suonando tamburi e sventolando striscioni.
Come in un Sogno era scritto a caratteri cubitali su un lenzuolo bianco, probabilmente rubato all'ignara nonna. Prima Romeo e il suo 'Vai sogno', poi quel cartellone, scritto, per giunta con la lettera maiuscola. Ma quanti pennarelli indelebili avevano sniffato prima di quella partita?!




«Che strizza quando hai tirato».
«Quello stava quasi per pararla, ci ho visto doppio!».
«Come al solito, tutta fortuna..».
Le voci dei compagni nello spogliatoio rimbombavano attraverso le pareti, proprio sotto lo stadio, ma ero troppo su di giri per prendermela.
«Fortuna un par di palle!» ridacchiai, tirando i calzini sporchi in faccia a Leandro. «Sono o non sono la mano destra di Dio?».
«Ma falla finita, montato!» urlò qualcuno, mentre gli altri ridevano a crepapelle.
«Sì, ridete, ridete pure! Intanto vincerò io il pallone d’oro quest’anno!» annunciai a gran voce, cominciando a fare la ruota come un pavone.
A quel punto, il Capitano entrò nello spogliatoio e l’euforia di aver vinto volò via come uno stormo di passeri dopo lo sparo di un cacciatore. Sapevo che avrei osato troppo battendo il rigore al posto del mitico Francesco Totti, ma non mi sentivo affatto turbato.
Morte tua, vita mia.
«Bella partita, Capità» disse Marco.
«Quel passaggio sulla sinistra è stato perfetto» si aggiunse Leandro.
«Se a quel calcio d’angolo non mi avessero preso per la maglia..».
Era un continuo di lamentele ed ovazioni, tanto che non riuscii ad ingoiare il rospo per intero. Sarei dovuto stare al mio posto, almeno fin quando il mio contratto non fosse salito a tre milioni e mezzo l’anno.
Francesco continuò la sua avanzata verso le docce, proprio come nella scena del Gladiatore, quando Massimo si fa strada verso l’arena, acclamato e rispettato da tutti gli altri. Mi sembrava di vivere un dejà vu, ma quando arrivò al sottoscritto si fermò.
I suoi occhi erano nei miei, ma non abbassai lo sguardo. Come Davide contro Golia, io dovevo tenergli testa, ne sarebbe valso il mio orgoglio maschile!
A quel punto mi alzai in piedi e lo fronteggiai, occhi negli occhi, a viso aperto.
Gli altri compagni di squadra si erano ammutoliti, così come i massaggiatori e l’intero staff della Roma. Quella sarebbe stata una sfida epica, che non avrebbe avuto eguali.
«Bella partita, ragazzino» disse, estremamente serio.
«Grazie» dissi sorpreso.
«Era difficile che il portiere non intuisse la traiettoria, perché te lo si leggeva in viso che avresti lanciato di collo pieno, ma sei riuscito comunque a segnare, questo è l’importante. La squadra prima di tutto».
Sì, la squadra, certo! Per me esisteva solo Leonardo e nessun altro.
Gli sorrisi in risposta, poi fui ufficialmente ‘congedato’ da vostra maestà in persona. Ero sicuro che alla prima occasione, avrei fatto i bagagli e me ne sarei andato da lì perché non sopportavo di essere trattato come una volgare riserva che aveva avuto un po’ di fortuna.
Avrei dovuto telefonare a Ruben, il mio manager, e chiedergli se qualche squadra era interessata al sottoscritto, visto che il mio contratto sarebbe durato solo per altri due anni.
«Avete fatto tutti una buona partita!» ci comunicò il mister, entrando nello spogliatoio e dandoci una pacca sulle spalle.
«Marco, la prossima volta cerca di rientrare di più perché ho notato che la difesa era un po’ troppo scoperta e tu, Daniele, dà una mano a centrocampo e prova anche i tiri da lontano».
Fece il giro, complimentandosi con ognuno di noi e dando sempre nuovi consigli. Il mister Vincenzo faceva sempre così con tutti ed io mi sentivo parecchio a mio agio a parlare con lui. Se non fossi stato così competitivo con gli altri, sarei rimasto in quella società solo per lui e per quanto mi aveva aiutato a far decollare la mia carriera.
«Leo, prima o poi mi farai penare» mi disse, sedendomi accanto. «Quel tiro l’ho visto più tra le braccia del portiere che nella rete e nonostante ho solo 37 anni, sicuramente mi hai fatto venire più di tre infarti!».
«Ma mister, farla penare è la mia specialità!» sorrisi, cominciando a rivestirmi.
«Devo dire che stai ripagando pian piano tutta la fiducia che ti ho dato all’inizio. Insomma, conosco tuo padre da tanto tempo e mi aveva avvertito che eri un piccolo campione, ma addirittura capocannoniere nella seconda stagione che giochi con questa maglia... mi stai rendendo orgoglioso!» mormorò, fingendo di asciugarsi le lacrime.
«Mister, lei sta parlando con il nuovo Leonardo Da Vinci del calcio italiano.. un vero genio!» esultai pomposo.
«Eccolo che si pavoneggia, di nuovo!» fece Fabio.
«Ha un ego grosso quanto Plutone» continuò Saverio.
«Ma se non sai nemmeno in quale galassia sta!» lo rimbeccò Simone.
E di lì in poi seguirono solo continui battibecchi. Guardai il mio allenatore e lui mi restituì uno sguardo carico di emozioni. Certe volte ero un vero stronzo, dovevo ammetterlo, ma solo determinate persone riuscivano davvero a farmi abbassare le penne, almeno per qualche minuto.
Mi allacciai le Nike e afferrai il borsone, per poi uscire e seguire il resto della squadra sul pullman diretto a Trigoria. Scelsi il posto vicino al finestrino, altrimenti avrei vomitato anche la bile, e lo sguardo mi cadde su uno striscione trascinato da dei bambini.
Come in un Sogno, c’era scritto ed io non potei che sorridere fiero di portare un cognome come quello.

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Eccoci alla fine di questo primo capitolo. Complimenti a tutti quelli che sono arrivate fin quaggiù!
È un capitolo introduttivo, in cui abbiamo conosciuto i due protagonisti, totalmente diversi tra loro.
Celeste è cinica, anche troppo e molto sarcastica. Vede il mondo in modo disincantato e disilluzo, forse con un po' troppa razionalità.
Leo è un po' egocentrico.. (sostituite po' con moltissimo) ed è un tantinello sicuro di sé diciamo che nella sua vita non ha mai incontrato ostacoli e non si è mai sentito dire di no da nessuno, a cominciare da suo padre e per finire con l'allenatore chissà cosa accadrà quando per la prima volta, in tutta la sua vita, incontrerà un muro, di nome Celeste, contro cui il suo spropositato ego andrà a sbattere.
Eh già, perché, come avete notato, Celeste odia il calcio e i calciatori, quindi il nostro caro Sogno avrà un sacco di problemi. Vorrei fare i complimenti a Martina perché la parte calcistica è davvero perfetta! E anche per aver creato quella sagoma che è Leonardo.
Ed io devo fare una statua ad Emanuela perché Robbeo è da Oscar, così come Celeste e lo sniffa pennarello (ancora mi sto rotolando dal ridere).
Grazie a tutti quelli che hanno letto questo primo capitolo :)

Ora un po' di pubblicità:
IoNarrante, pagina Facebook.
Tutto per una scommessa, storia romantica di IoNarrante.
Clithia, pagina Facebook.
Il meraviglioso mondo di Alice e Red District, entrambe di genere romantico by Clithia.
Un bacio a tutti,
Manu e Marty



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Capitolo 2
*** Incontro-Scontro ***





CAPITOLO 2
Incontro-Scontro

La Ducati rossa che sfrecciava veloce come il vento tra le strade del centro di Roma, fremeva e tremava tra le mie gambe, come una donna calda e vogliosa. Al mio passaggio tutti si voltavano, non perché riconoscessero il mio bel viso sotto il casco integrale, ma piuttosto per bearsi di quella simbiosi perfetta tra uomo e macchina, tra il mio corpo statuario fasciato dalla tuta di pelle e il rosso fiammante della mia bambina.
Il semaforo scattò proprio nell’istante in cui avrei voluto sgassare, costringendo la mia mano ad abbracciare il freno e posare un piede sull’asfalto. La giornata non era delle migliori per farsi un giro in moto, ma l’allenamento di quella mattina mi aveva sfiancato e non c’era modo migliore di allentare la tensione che far ruggire la mia tigrotta in lungo e in largo per il Centro, praticando il mio sport preferito, dopo il calcio: pavoneggiarmi.
«Hai visto che figa?» gridò un ragazzino.
«È la nuova Ducati 848 Evo 2011!» sbraitò un altro, che doveva essere esperto.
Sorrisi a quei commenti e, in risposta, feci rombare il motore, provocando urli  e fischi di gioia maschile.
«Ma perché, avete visto che bel centauro?» trillò una biondina con gli occhiali da sole, ridacchiando con la sua amica.
«Facci un saluto, bellezza!» ridacchiò un’altra signorina, un po’ più stagionatella.
«Portami con te..» si aggiunse una moretta, salutandomi con la mano e sorridendomi sensuale.
Adoravo tutto quello. Il bagno della folla, per me, era come un afrodisiaco, una droga da cui non avrei mai potuto disintossicarmi, nemmeno se fossi entrato in un centro di recupero. Lo spettacolo era la mia vita, recitata non in un teatro di Broadway, ma nel Colosseo che era l’Olimpico di Roma.
Guarda, Leo, ti adorano. Vorrebbero tutti avere un pezzo di te, persino quando non sanno chi si cela sotto la visiera fumé del casco.
Eh, sì.. quello non era un sogno, ma la pura realtà.
A quel punto decisi di esagerare e mi slacciai il casco, per poi sfilarlo e posarlo sotto il braccio, come Vale dopo aver vinto il Gran Premio di Indianapolis.
I mormorii e i gridolini che si levarono vicino alla Stazione Termini, divennero talmente assordanti da far impallidire la statua di papa Giovanni Paolo II appena inaugurata.
«È lui.. è Leonardo Sogno!» gridò un ragazzino.
«Oddio! È più bello dal vivo che in televisione!» uggiolò la biondina.
«Mi fai un autografo campione?!» gridò un omone, tirando fuori un blocchetto e attraversando la strada, incurante del traffico cittadino.
Era arrivato il momento di svignarsela. Quando i miei fan cominciavano ad assillarmi con autografi e fotografie varie, la noia cominciava ad assalirmi e cercavo in tutti i modi di trovare una via di fuga.
In quel preciso istante scattò il verde, perciò indossai il casco e partii in sella alla mia Ducati, sgassando talmente tanto da creare una nuvola di smog che avrebbe fatto impallidire le ciminiere della zona industriale di Torino.
«Sogno, sei un mito!».
«Pittore, sposami!».
«Portami via con te, farò tutto quello che vuoi!».
Ridacchiai tra me e me, tronfio e borioso come se mi avessero appena incoronato Re del Mondo. Sapevo che quelle promesse gridate al vento non erano solo parole e se avessi frenato e fossi tornato indietro, caricandomi una di quelle sciacquette sulla mia bambina, mi sarei fatto una scopata risanatrice dopo un allenamento spossante. Lo dicevo perché mi era capitato, in più di un occasione, ma quel giorno mi sarei dedicato unicamente a me e alla mia tigrotta, snobbando il resto della folla.
Andavo a 150 chilometri orari su una strada cittadina, zigzagando tra le macchine e meritandomi, il più delle volte, dei vaffanculo sbraitati dal cafone di turno. Se un vigile urbano mi avesse fermato, non mi avrebbe fatto un soldo di danno, anche perché avrei potuto pagare l’infrazione ben dieci volte il suo valore.
La città era nelle mie mani e Leonardo Sogno sarebbe diventato l’ottavo re di Roma.
In lontananza si udì un tuono che squarciò il cielo, costringendomi a rallentare, mentre il traffico si era bloccato all’inizio di Viale dell’Università. Avevo provato più volte ad iscrivermi ad una qualsiasi facoltà, per far contenta mia madre, ma non riuscivo a conciliare gli allenamenti con lo studio, soprattutto quando era tremendamente palloso. Già riuscivo a mala pena a godermi un tranquillo giro in moto, figuriamoci se dopo un training stressante a Trigoria, sarei dovuto tornare a casa per aprire il libro di Diritto e addormentarmi sopra qualche citazione che non avrei ricordato nemmeno se me la fossi fatta tatuare nel cervello.
Io e Ruben avevamo provato Economia, Scienze della comunicazione, Scienze politiche ed  infine Giurisprudenza, che alla Sapienza non è nemmeno a numero chiuso. La sessione d’esame c’era stata a Febbraio, nel momento delicato della Champions League, e con tutto l’impegno che ci avevo messo nel seguire le lezioni (nel senso che Ruben prendeva appunti al mio posto) avevo raggiunto un misero 18 e soltanto perché il professore di Diritto romano era un tifoso sfegatato della Roma.
A quel punto avevo mollato e tanti saluti. Cosa m’importava d’intraprendere la carriera da avvocato se guadagnavo, in un mese, più dell’intera Corte di Giustizia?
In quel preciso istante sentii una goccia fredda cadere tra il casco e il giubbotto di pelle, esattamente dietro la nuca, per poi scendere silenziosamente lungo tutta la mia schiena, lasciando una scia di sensazioni che mi fecero rabbrividire.
Dannazione, sta per piovere!
Ci mancava soltanto il tempo a completare quella giornata cominciata con il piede sbagliato, e mi ero troppo allontanato da casa per riuscire a rientrare prima di beccarmi l’intero acquazzone. Decisi di aumentare la velocità di marcia, in modo da avvicinarmi il più possibile all’Aurelia antica e magari trovare un ponte sotto cui potermi riparare se fosse venuto giù il Diluvio Universale.
Sfrecciai a destra e a sinistra, superando le automobili ferme nel traffico, mentre una leggera pioggerellina si trasformava nella proverbiale ‘Ira di Dio’. In Inghilterra si usava dire ‘It’s raining cats and dogs’ ma a me sembrava stessero cadendo goccioloni grossi quanto una pecora, con il campanello, il pastore e il cane, tutti insieme!
Porco zio se ero fradicio! Perfino le mutande erano da strizzare..
Uno stronzo patentato mi suonò, facendomi distrarre, così mi voltai per rifilargli un gustosissimo ‘stronzo’ con tanto di medio alzato. Non riuscivo a vedere un cazzo con tutta quell’acqua e non mi veniva di pensare ad altro che non fosse un bagno caldo nella Jacuzzi di casa.
Zigzagai ancora una volta, rimediandomi altri insulti, fino a quando non vidi di fronte a me una pozza d’acqua gigantesca, sul ciglio della strada, reduce di qualche scolo otturato. Andavo troppo veloce per riuscire ad evitarla, ma avrei potuto prenderla di striscio per evitare di cadere e rompermi qualcosa.
Il piano era ottimo, bastava soltanto metterlo in pratica.
La mia mano lasciò il freno e il mio sguardo fu del tutto concentrato sull’asfalto. Sapevo che avrei rischiato di cadere e che, se fossi stato sfortunato, mi sarei giocato l’intero finale di stagione, ma se avessi frenato le ruote avrebbero slittato per l’acquaplaning e avrei fatto la stessa fine di un uovo gettato dall’ultimo piano.
Ecco, un respiro profondo e passa la paura.
Attraversai la pozza d’acqua con maestria, alzando un’ondata di schizzi che avrebbe fatto invidia a quelle di Hydromania, e mi uscì fuori un urlo quasi da stadio per la prodezza che avevo compiuto.
Sei un mito, Leo.
«Ahhhhhhhhhhh!» ma un grido improvviso mi costrinse a voltarmi e a premere lentamente il freno.
Prima di attraversare la pozza, non avevo minimamente considerato che qualcuno stesse passeggiando sul marciapiede, proprio all’uscita della città universitaria. Quando mi fermai, alzai la visiera e notai una ragazza, con l’ombrello sospeso a mezzaria, completamente zuppa dalla testa ai piedi. Aveva uno sguardo furente, rivolto nella mia direzione, e quegli occhi celesti sembravano infilzarmi con tanti piccoli pugnali affilati.
Posai un piede sull’asfalto bagnato, mentre la pioggia picchiettava ancora sul terreno, e tirai giù il cavalletto, assicurando la Ducati per poi avvicinarmi a quel pulcino fradicio.
Era evidente che aspettava delle scuse. Aveva persino chiuso l’ombrello, rassegnata all’idea che anche se fosse venuta giù tutta l’acqua del mondo, non sarebbe riuscita a bagnarla più di così. Mi fissava in cagnesco, con le braccia conserte e la Superga bianca che tamburellava su una pozza facendo un rumore simile ad un ‘ciaf, ciaf’.
A quel punto sfoderai uno dei miei sorrisi migliori, quello di sbieco che solitamente utilizzavo per ammaliare la Letterina di turno, ed ero sicuro come un pascià che le sarebbe bastato guardarmi meglio negli occhi per spalancarli a sua volta e cadere ai miei piedi, implorando il mio perdono.
Amico, ce l’hai in pugno.
Già, io e il mio ego facevamo coppia fissa da ventidue anni ormai e nessuno ci avrebbe mai separati.
«Cosa ti è saltato in mente?!» sbraitò, avvicinandomi e puntandomi l’indice al petto come se volesse accoltellarmi con l’unghia. «Ma sei cieco? Non mi hai vista? Che razza di cafone passerebbe su quella pozza stagnante a grande velocità? Quella carretta con cui vai in giro non ha nemmeno il contachilometri?».
La voce di quella ragazzina era assordante e petulante. Non la finiva di sgolarsi e di gesticolare come un’oca impazzita, mentre brandiva l’ombrello come fosse un’arma. La mia attenzione già era normalmente precaria, ma in quel momento facevo fatica a stare dietro alle sue farneticazioni.
«Insomma, vuoi dire qualcosa? Mi hai inzuppata dalla testa ai piedi e non ho ancora sentito nemmeno l’ombra di una scusa da parte tua..» puntualizzò chiudendo, finalmente, quella ciabatta.
Silenzio, che gran bella cosa.. persino il traffico assordante e l’ululato lontano di un’ambulanza erano tollerabili se non paragonati al tono assordante della voce di quella zitella acida.
«Senti, facciamo così, chiedimi quello che vuoi e la finiamo» sospirai spicciolo, sapendo che quella ragazza stesse facendo soltanto una scenata, magari per spillarmi ben più di una foto con autografo.
La biondina inzuppata alzò un sopracciglio talmente in alto che le sfiorò l’attaccatura dei capelli, mentre l’espressione del suo volto rimaneva sempre accigliata. Che mi fossi sbagliato?
«Ti sei sniffato un indelebile o cosa?» se ne uscì inviperita, continuando a punzecchiarmi con quel dito indice che volentieri le avrei staccato dalla mano. «Esigo delle semplici scuse da parte tua, cos’è? Non riesci ad articolare nemmeno una parola col cervello bacato che ti ritrovi?».
Stava andando un po’ troppo giù pesante con gli insulti e la mia pazienza era al limite. Se quella ragazzina volesse o meno un autografo, non m’importava, ma tutta quella pantomima era inutile se voleva attirare la mia attenzione. Odiavo le ragazze con troppo cervello, m’infastidivano le maestrine e le so-tutto-io, quelle frigide e con le gambe più chiuse delle chiese durante i giorni feriali, e preferivo di gran lunga qualche modella russa che sapeva pronunciare a mala pena il suo nome, ma scopava da Dio.
«Allora, facciamo così. T’invito a bere qualcosa di caldo, visto che sono fradicio anch’io, poi ti do i pass per il bordo-campo, oppure la zona vip, quale preferisci?» le dissi, cedendo al suo ricatto.
La faccia della biondina era un misto tra il basito e un toro scatenato pronto a caricarmi. Questa volta cosa avevo detto di male? Non potevo mica darle la luna, accidenti!
«Ci sei proprio!» urlò indignata. «Adesso ti aiuto io, visto che sei lento come un bradipo a capire quello che ti dico. Riesci a pronunciare la S? Seguita da una C, poi da una U, e da altre due letterine semplici, semplici: SA. Ora mettile insieme..» mi incitò, nemmeno fossi un ritardato mentale.
«Scusa» ringhiai, intuendo che quella stronza mi stesse realmente prendendo per il culo. Ero Leonardo Sogno, dannazione, non potevo farmi raggirare da una ragazzina sporca di fango e pioggia.
«Non hai idea di chi sia io, vero?» la minacciai, sfoderando un cipiglio davvero infuriato.
Lei si rilassò, ma assunse un’espressione ironica. «Uhhhh, il nuovo boss della Camorra?» ridacchiò lei, fingendo di essere spaventata.
Davvero non sapeva chi fossi? Era da secoli che viaggiavo di città in città, di paese in paese, e perfino quando affrontammo la Dinamo di Bucarest riuscii a guadagnarmi dei fan tra la popolazione romena. Ma da dove veniva questa, da Marte?
Continuava a guardarmi di traverso, con le braccia incrociate e l’ombrello penzolante dal polso. L’acqua cadeva incessante, senza alcun accenno a smettere d’intensità, e a quel punto avevo due strade davanti a me.
Mandare la ragazzina a quel paese, tornarmene in sella alla mia bambina e sfrecciare verso casa alzando un altro po’ di polverone e prendendomi la mia piccola vendetta, oppure accompagnare Miss Acidità verso il bar più vicino, offrirle un maledetto caffè e magari ottenere una rivincita poco a poco.
Magari ne uscirà fuori qualcosa di stuzzicante. Non ti sei stufato di saltellare da una Velina all’altra? Forse una tipa normale, per quanto rompicoglioni possa essere, potrebbe funzionare da distrazione..
Feci spallucce e decisi di ascoltare il mio ego, come avevo sempre fatto d’altronde. La biondina non aveva niente di speciale. Non era troppo bella, né troppo alta, aveva zero tette ma in compenso una lingua tagliente come un rasoio. Perché no? Cosa avevo da pendere, in fondo?
«Dai, fatti offrire un caffè almeno. Vuoi urlarmi contro anche perché cerco di essere gentile?» sorrisi io, ritrovando il mio sguardo sensuale.
La ragazzina rimase sorpresa da quella richiesta. Tentò di aprire bocca due volte per replicare, ma rimase ammutolita.
«Va bene, accetto. Ma non pensare che l’abbia fatto per passare del tempo con un pallone gonfiato come te, hai capito?» puntualizzò, strizzandosi i capelli e attraversando la strada con lo sguardo fiero.
«Non mi sognerei mai» ridacchiai, divertito da quella tipa che era proprio una sagoma.
Arrivammo allo Snack Bar Cardamone e ci facemmo accomodare su un tavolinetto appartato. Ovviamente lo sceneggiato era iniziato e se qualcuno dei presenti mi avesse riconosciuto per quello che ero, non mi sarei più potuto divertire a prendere in giro la biondina tutto pepe.
«Cosa ordinate?» ci chiese Damiano, il barman che conoscevo da anni per tutte le volte che fuggivo dalla facoltà in cerca di ristoro. In un momento di distrazione della rompicoglioni, Dam mi fece l’occhiolino e rifilò delle smorfie in direzione della mia ospite.
Anche lui aveva capito che Miss Acidità era peggio di un bastone ficcato su per il culo.
«Un caffè macchiato, con zucchero di canna a parte, e un cornetto integrale semplice» mormorò lei, con l’aria altezzosa. «Mi raccomando lo zucchero di canna» ripeté poi, assicurandosi che Dam scrivesse tutto. Allora si divertiva a fare la maniaca del controllo un po’ con tutti.
«Per te, campione?» mi chiese, sfoderando un sorriso divertito.
Feci spallucce e indicai pigramente un Cornetto Algida, quello al caramello.
«Il gelato con questa pioggia?» esclamò lei sorpresa.
«Non sono nemmeno libero di ordinare ciò che voglio?» la rimbeccai io, sorridendo quando sprofondò ancor di più nella sedia e arricciò le labbra offesa.
«Arrivo subito» disse Dam, poi sparì dalla saletta in cui ci aveva fatti sedere.
C’eravamo solo noi e il televisore al plasma, attaccato al muro, che trasmetteva una vecchia partita di Premier.
«Non so se per caso mi hai detto come ti chiami» iniziai, sperando di fare un po’ di conversazione civile. Era stimolante per una volta, fingere di non essere famoso.
«Non l’ho mai detto, infatti» sibilò lei, guardando da tutt’altra parte.
A quel punto calò il silenzio ed io mi ritrovai a pensare che quella tipa non avesse tutte le rotelle a posto.
«Posso sapere il tuo nome, o devo andare all’agenzia controllo nascite?» domandai, cercando di apparire simpatico.
«È l’anagrafe, ignorante!» puntualizzò lei, assumendo nuovamente quella posa con le braccia incrociate che mi ricordava vagamente Brontolo dei sette nani.
«Come vuoi» tagliai corto, «se devo fare tutta questa fatica per sapere il tuo nome, è meglio che rimanga col dubbio».
In quel preciso istante vidi un guizzo di rimorso farsi strada nei suoi occhi celesti e pensai di aver fatto centro con la storia dell’offeso.
«Se non vuoi dirmi il tuo nome, ti chiamerò Macchia» dissi convinto.
«Perché Macchia?» si sorprese lei.
«Per la gigantesca chiazza di fango che hai sul maglione» risposi con ovvietà.
Lei serrò le labbra con ira, rimpicciolendo gli occhi a fessure e fissandomi di traverso come se volesse incenerirmi.
«Dai, scherzavo, vorrei sapere davvero il tuo nome» mormorai, cercando di farmi perdonare.
La biondina mi guardò indispettita, incerta se fidarsi o meno del mio cipiglio arrogante. Alla fine si arrese.
«Celeste» sospirò. «Ma non è un piacere, conoscerti!» disse sicura, assumendo ancora una volta la Brontolo-posa.
Celeste.. che nome carino! Ti manca una Celeste, o sbaglio?
Mi mancava, eccome. Avevo avuto tre Martina, due Sara, una Margherita e un’Emanuela, perfino una Deborah, ma Celeste non era sulla lista.
«E basta?» chiesi io, indagando ancora.
Sentivo una certa curiosità nei confronti di quella ragazza un po’ stramba e mi incuriosiva la sua storia, soprattutto perché non sapeva affatto chi fossi. Cavolo, ero sui manifesti sparsi per la città, possibile che non mi avesse mai visto? Nemmeno di sfuggita?
«Per te, sì!» rispose stizzita. «Non ho alcuna intenzione di ritrovarmi un maniaco sotto casa!».
Eh, come se perdessi il mio prezioso tempo correndo dietro ad una frigida come te.
«Come vuoi!» e alzai le mani in segno di resa. «Non era mia intenzione fare lo stalker».
«Ecco qui!» disse Damiano, accorrendo con il mio Cornetto Algida e con il caffè di Celeste. «Un gelato per il nostro campione, e caffè macchiato con zucchero di canna a parte e cornetto rigorosamente integrale».
«Grazie!» disse lei, tirando fuori dalla borsa inzuppata una bottiglietta di gel Amuchina e passandoselo meticolosamente sulle mani.
Oddio, era anche una specie di maniaca dell’igiene!
Intanto scartai il mio adorato gelato al caramello e mi preparai a gustarmelo al meglio, sapendo che nemmeno il cibo più grasso avrebbe potuto intaccare il mio fisico pressoché perfetto.
«Non mi hai detto il tuo, di nome» mi fece presente lei, aprendo la bustina di zucchero e versandone la metà nel suo caffè.
Mi si presentarono nuovamente due scelte: dirle il mio vero nome, rischiando che, almeno anagraficamente avesse sentito parlare del bomber della Magica, oppure spararla grossa e mentire fino alla morte.
Ormai avevo cominciato a dire cazzate, tanto valeva continuare.
«Ruben» dissi, mancando completamente di fantasia.
Lei spalancò quei suoi enormi occhi acquamarina per poi sorridere. «Mi stai prendendo in giro?».
La presi come una sorta di offesa, anche se non era mio il nome che stavo usando, quella ragazzina stava oltrepassando il limite della mia pazienza.
Ero abituato ad essere osannato, non preso in giro.
«Parli tu, che ti chiami Celeste..» borbottai, sbocconcellando i granelli di nocciola sul Cornetto.
A quel punto si zittì e ci guardammo con aria complice. In poco tempo scoppiammo entrambi a ridere come due scemi, senza trovarci più in sintonia che in quell’istante di leggerezza.
«E Rooney segna! Uno a zero per il Manchester!» gridò Marianella, il cronista sportivo di Sky che commentava sempre la Premier.
Celeste rivolse un’occhiata assassina al televisore, tanto che pensai esplodesse di punto in bianco, poi tornò a dedicarsi al suo cornetto integrale.
«Deduco che non ami il calcio» ipotizzai, traducendo il suo sguardo linciatore.
«Non è che non lo amo, lo detesto!» rispose lei, fissandomi furente.
Beh, non a tutti piaceva il calcio. Ora mi spiegavo perché non conoscesse la mia fama come calciatore, ma avrebbe dovuto almeno vedermi su qualche rivista di moda, visto che avevo posato anche per Armani.
«È un lavoro come un altro» mi giustificai.
«Ma sei pazzo?! Guadagnano più dei chirurghi, più dei cardiologi e perfino più dei maggiori Premi Nobel! Santo Cielo, ricevono fior fior di quattrini per correre come bisonti da una parte all’altra del campo dietro ad una palla.. sono più deficienti dei cani» sbottò infervorata, poi spalancò gli occhi e mi guardò mortificata. «Non sei uno di loro, vero?».
A quel punto deglutii a vuoto, sentendomi come a nudo sotto il suo sguardo. Perfino una nocciolina mi andò di traverso e tossii per tre quarti d’ora prima di riprendere a respirare con regolarità.
Quando incrociai nuovamente i suoi occhi, era pronta ad un nuovo assalto. «Scusa, ma che lavoro fai? Perché, onestamente, non mi sembri uno studente..» disse senza peli sulla lingua.
Quella ragazza non era fatta per le relazioni sociali e se qualcuno fosse riuscito a sopportarla, lo avrei premiato con l’intera stagione allo stadio.
«I-io?» balbettai, in cerca di una scusa veloce.
«No.. mio nonno..» disse lei sarcastica, guardandomi con sospetto.
Dovevo inventarmi una cazzata, e in fretta. In tutta la mia vita non mi era mai capitato di mentire sulla mia professione, visto che il mio talento mi precedeva, ma avevo come l’impressione che se quella biondina pelle e ossa avesse scoperto chi realmente fossi, non sarei sopravvissuto per la prossima partita di campionato.
«Il fioraio» sparai, ricordando solo in quel momento che mia nonna aveva un negozio di fiori dietro l’angolo.
«Il fioraio» ripeté lei, poco convinta. «Mi stai dicendo che un belloccio come te che se ne va in giro con una moto da diecimila euro, per vivere vende dei fiori..».
«Hai dei pregiudizi anche nei confronti dei fiorai?» le chiesi, cominciando a pensare che fosse un po’ troppo prevenuta in certe situazioni.
Fece spallucce e finì il suo caffè, sbirciando distrattamente la partita.
«No, è solo che ancora non mi hai convinta» sbuffò, tornando a scrutarmi come se riuscisse a fiutare la mia menzogna come un segugio. «È come se ti avessi già visto da qualche parte.. ma non ricordo dove!».
A quel punto mi ritrovai a sudare freddo. Forse era meglio spiattellarle tutto ora che avevo cominciato, così non mi sarei dovuto subire le sue ire più avanti. Già appariva matta come un cavallo, non osavo immaginare cosa sarebbe diventata una volta arrabbiata sul serio.
«Etcì» esclamai, dopo un brivido di freddo intenso.
«Come il mago Pancione!» ridacchiò lei, facendo volare via quella tensione che si era creata per la sua diffidenza.
«E chi è?» me ne uscii io, asciugandomi il naso con il bordo della felpa.
Celeste mi fissò con un’espressione di disgusto in volto, poi afferrò un fazzoletto dalla sua borsa e me lo porse. «Ma che cartoni animati ti vedevi da piccolo?» mi domandò sorpresa.
Cartoni animati? Mio padre mi aveva messo tra le mani un pallone da calcio prima ancora che riuscissi a camminare. Non avevo mai avuto tempo per la televisione!
«I classici» sparai, ricordando vagamente Biancaneve e Robin Hood della Disney.
Nei suoi occhi ritornò il sospetto, ma quel fazzoletto che mi aveva dato non bastò a contenere la reazione alla pioggia che ormai mi aveva contagiato.
«Etcì, etciù.. ETCì!».
«Senti, io abito qui vicino.. se vuoi puoi salire per asciugarti» mi propose, senza alcuna malizia nello sguardo.
Dio, era la prima volta che una mi invitava da lei senza nessun fine sessuale.
«Non è che mi uccidi e nascondi il mio cadavere una volta saliti?» chiesi perplesso, visti i suoi strani sbalzi di umore incomprensibili.
«Spiritoso!» esclamò sarcastica.
Si alzò dal tavolino e si recò al bar, estraendo il portafoglio.
«Ferma!» gridai, giusto per impedirle di pagare. Io l’avevo bagnata e offrirle il caffè mi sembrava il minimo. Purtroppo non mi resi conto di essere uscito allo scoperto abbandonando la saletta, così fui alla mercé di un gruppo di poppanti appena entrati per una Coca.
«Ehi, ma quello non è…?» ipotizzò uno.
«Potrebbe essere.. ma che ci fa qui?» se ne aggiunse un altro.
«Chissene fotte, chiediamogli un autografo» tagliò corto il terzo, tirando fuori carta e penna.
Dio, erano come la peste!
Tirai fuori il portafogli e lasciai a Damiano circa cinquanta euro, poi afferrai Celeste sottobraccio e la trascinai letteralmente fuori dal bar.
«Scusa, ma non prendi il resto?» domandò sospettosa.
«P-perché?» chiesi nervoso.
«Il conto era di circa dieci euro, tu gliene hai lasciate cinque volte tanto!».
A quella ragazza saputella non sfuggiva mai niente, eh?
«Avevo un debito e ho saldato il conto» tagliai corto, raggiungendo la mia bambina.
«Allora avevo ragione che eri un boss della Camorra» bofonchiò, rimanendo di stucco quando afferrai un secondo casco e glielo porsi. «Io non ci salgo su quel trabiccolo» puntualizzò.
«Infatti, non ti ci avrei mai fatto mettere le chiappe» risposi sgarbato. «Nessuno cavalca la mia bambina, soltanto io posso».
«Sei un dannato pervertito, hai dato il nome di una donna alla tua moto» sibilò seccata, poi si rigirò il casco tra le mani. «E allora cosa ci dovrei fare, io, con questo?» chiese.
Le sorrisi di sbieco e inserii l’allarme alla Ducati. «Lo tieni, perché se lo lascio attaccato al sellino me lo fregano» risposi semplicemente. «È firmato dal mitico Vale, che scherzi!».
Celeste mi fissò come se mi fossi appena fumato un intero campo di Marja, tanto grande quanto l’Olimpico.
«Allora? In che direzione dobbiamo andare per dirigerci verso la tua ‘splendida’ dimora?» le chiesi.
La biondina pelle e ossa si limitò a scuotere il capo, poi mi ammollò il casco tra le mani e incominciò a camminare innervosita. Mentre la seguivo, non potei fare a meno di ammirare il suo fondoschiena piuttosto piacente, un po’ molle in certi punti, ma da palpatina, fino a quando non giurai di averla sentita parlare da sola.
Credo che abbiamo sottovalutato la cosa, Leo.. forse Celeste è una bomba inesplosa e magari tu non sai bene quale filo tagliare.
Rosso o blu?



Il buongiorno si vede dal mattino.
Sagge, anzi saggissime parole. Quella giornata era cominciata con il piede storto e stava continuando anche peggio. Prima il mio maglione rimpicciolito dall'incapacità di Robbeo di impostare una stupida lavatrice, poi l'incontro con un'ameba ambulante con il dono della parola. Purtroppo. Alcuni esseri non meritavano di saper usare le corde vocali perché usavano quella loro capacità solo far prendere aria alla bocca che, ovviamente, non aveva nessuna connessione con il cervello. Sempre se c'era.
«Spocchioso pallone gonfiato di un motociclista incapace che si diverte a fare scherzetti con l'acqua» borbottai, mentre a passo spedito mi dirigevo verso casa. Mi capitava spesso di parlare da sola e, certe volte, non mi rendevo nemmeno conto che i miei pensieri uscivano liberi sotto forma di parola.
«Dice anche che fa il fioraio!» sorrisi sconvolta, alzando gli occhi al cielo e picchiandomi le mani sui jeans fradici «Certo! E io sono un alieno. Crede davvero che io sia stupida, che sia nata ieri, che me la sia bevuta?! È chiaro perfino a un bambino che non vende fiori! Farà qualcosa come il modello o qualcosa che ha a che fare con lustrini e riflettori. Anche perché son sicura di averlo visto da qualche parte, nonostante tu, subconscio, mi impedisci di ricordare. Ma scoprirò la verità, eccome se lo farò!» esclamai, scuotendo la testa e svoltando in un piccolo viale alberato, senza rendermi conto di aver accelerato un po' troppo il passo. Mi ero quasi dimenticata che dovevo fare da guida al fioraio. Non che mi dispiacesse che fosse rimasto indietro e che non dovessi ospitarlo nella mia splendida dimora, ma se fosse morto di broncopolmonite per causa mia, avrei avuto i rimorsi di coscienza a vita, magari sarei stata tormentata anche dal suo fantasma e la cosa mi spaventava.
Mi fermai di colpo, voltandomi per accertarmi che Ruben mi stesse seguendo. Che nome, poi. Assolutamente ridicolo! E, per giunta, non aveva nemmeno la faccia da Ruben. Ci avrei visto meglio Romeo con un nome del genere, non uno che sembrava il protagonista piacente di una serie tv americana. Perché, oggettivamente, era bello, troppo. Ma si sa che Madre Natura non è così gentile da donare bellezza e intelligenza.
Ruben non si fermò in tempo e mi ritrovai il suo petto tronfio da tacchino ripieno del Thanksgiving spiaccicato sulla faccia.
«Cammini veloce per avere le gambe corte» ridacchiò.
Lo guardai inviperita, puntando le mani sui fianchi e il suo sorriso si smorzò all'istante.
«Ti sei accorto che mi sei venuto addosso?» sibilai, con gli occhi socchiusi.
«Sei tu che ti sei fermata all'improvviso!» mi accusò, corrugando la fronte.
«Stai per caso dicendo che la colpa è mia?»
Ruben mi guardò in un misto tra il contrariato e l'incredulo.
«Dovresti fare più di attenzione, bell'imbusto!» esclamai, pungolandogli il petto con l'indice.
«Mi preoccupi» ribatté lui con un sopracciglio abbassato.
Lo vidi socchiudere gli occhi mentre la bocca si spalancava piano piano. Starnutì rumorosamente, senza nemmeno mettersi una mano davanti e la cosa mi disgustò parecchio, visto che per la seconda volta si passò la manica sotto il naso.
«Tu non sai cos'è l'educazione vero?!» domandai sarcastica, ricevendo come risposta uno sguardo confuso. Anche io che facevo tali domande ad un decerebrato simile. Scossi la testa e ripresi a camminare a passo svelto con Ruben che mi affiancava con le mani nelle tasche dei jeans.
«Facciamo presto, prima che mi muori di broncopolmonite» dissi in un sospiro.
Ruben ridacchiò preoccupato e la sua mano andò a posarsi sul basso ventre in un gesto scaramantico.
«Che fai, gufi?!» ghignò, soppesandosi bellamente quello che gli pendeva in mezzo alle gambe.
Spalancai la bocca in una chiara espressione di ribrezzo nei suoi confronti. Lo guardai di traverso mentre ridacchiava come uno stupido e gli puntai un dito contro.
«Fai assolutamente schifo» scandii, allontanandomi da lui il più velocemente possibile.
«E Celeste avanza sulla fascia laterale, ma Leo con uno scatto la raggiunge e le ruba la palla!» esclamò Ruben, girandomi intorno come un avvoltoio affamato.
A parte quella analogia calcistica del tutto fuori luogo e la sua totale mancanza di udito, oltre che di comprendonio, dato che mi sembrava di avergli detto che detestavo quello sport, ma c'era qualcosa in quel vaneggiamento che aumentava in me i dubbi sul conto di quello strambo ragazzo.
«Cosa hai detto?!» gli domandai, trafiggendolo con lo sguardo.
Ruben, intercettati i miei occhi assassini, fuggì con i suoi smeraldini su tutto ciò che lo circondava. Scosse la testa, sorridendo nervoso e gesticolando, senza però rispondere alla mia domanda.
«Cosa ho detto?» ripeté, scrollando le spalle e incurvando gli angoli della bocca, di quelle labbra carnose e rosee, così...
Celeste, contieniti. Questo è uno di quelli da una nottata e via con delle sgualdrine. Non merita nemmeno i tuoi pensieri perversi. È tutto fumo e niente arrosto!
«Sì, lo so!» esclamai per mettere a tacere il mio subconscio, roteando gli occhi.
«Sei sicura di star bene?!» domandò con tono preoccupato più per la sua sorte che per i miei vaneggiamenti.
«Pensi che io sia matta?!» ringhiai.
«Io?!» si indicò «Mai detto» alzò le mani in segno di resa.
«Sai qual è la differenza tra dire e pensare?» domandai con tono di superiorità «So che è difficile per te, ma cerca di azionare il criceto che hai in testa e ragionare ogni tanto»
Ruben annuì annoiato e mi diede una pacca sulla spalla.
«Come vuoi» ribatté scrollando le spalle.
Con quella risposta mi diede la prova certa che non mi stesse ascoltando e che il criceto nella sua scatola cranica era morto da tempo ormai. Contrassi la mascella e serrai i pugni, cercando di contenere la rabbia che traboccava da qualsiasi poro.
Riprendemmo a camminare in silenzio, solo lo scroscio incessante di quella pioggia battente interrompeva quell'opprimente mutismo. Ero fradicia, oramai, e rasentavo l'isteria. I brividi di freddo percorrevano ogni centimetro del corpo, dalla punta dell'alluce fino alla sommità della testa. Le scarpe di tela erano talmente zuppe che dei simpatici pesciolini rossi stavano sicuramente facendo compagnia ai miei poveri piedi, ormai formicolanti.
La pioggia sulla mia testa improvvisamente cessò, se non per qualche goccia fredda e solitaria che s'infrangeva sui capelli. Alzai lo sguardo, incontrando una giacca nera di pelle che mi riparava la testa. Rimasi spiazzata da quel gesto inaspettato da parte di Ruben, quasi imbarazzata da quella gentilezza. Incrociai i suoi occhi smeraldini e il suo sorriso che non sprizzava presunzione, ma solo dolcezza.
Avanti Celeste, hai ventidue anni e abbastanza esperienze con l'altro sesso per capire che questo pallone gonfiato cerca solo di abbindolarti con i suoi occhioni e quel bel faccino. Non devi cascarci, tu non sei come tutte le altre.
Già, il subconscio aveva ragione. Fortuna che c'era e che mi apriva gli occhi nei momenti più critici, mostrandomi il mondo con la lucidità tale per capire con chi avevo a che fare.
«Che gesto cavalleresco!» esclamai melliflua «Peccato che sia totalmente inutile» aggiunsi esasperata «Ormai sono zuppe anche le ossa! E se sono fradicia come un calzino sudato è solo colpa tua mio caro» conclusi acida, sottraendomi al suo riparo.
«Cosa devo fare con te? Più cerco di fare il gentile, più tu mi aggredisci!» esclamò allargando le braccia che ricaddero subito dopo lungo i fianchi.
Respirai a fondo, portandomi una ciocca infradiciata dietro l'orecchio. Forse aveva ragione. Insomma, lui faceva il carino e io gli urlavo contro come se fossi un antifurto, quasi lo volessi sbranare. Era certamente un pallone gonfiato da far esplodere con uno spillo, ma non si meritava tanta maleducazione.
«Sbrigati che fa freddo» dissi con un pizzico di rammarico nella voce.
Non gli avrei mai chiesto scusa, anche se sapevo di aver sbagliato, non volevo mostrarmi una debole di fronte a sua Maestà, re della presunzione.
«Manca molto alla tua dimora?» mi domandò, una volta al mio fianco «Sto sguazzando dentro questi vestiti!» aggiunse, strappandomi un risolino che smorzai subito.
«Non molto» risposi seria.
«Che ne dici, facciamo una corsetta?» propose, con un sopracciglio abbassato.
Non ebbi nemmeno il tempo di rispondere che Ruben mi strinse la mano e iniziò a correre, trascinandomi con lui. Rischiai di cadere più volte, la velocità da lui sostenuta era troppa per le mie gambe corte.
«A destra!» esclamai, poco prima di una svolta.
Il mio taxi personale seguì le mie indicazioni e proseguì quella corsa, sballottandomi da una parte all'altra e facendomi sentire come una carriola senza una ruota. Ero scombussolata e non riuscivo a sentire nemmeno il mio subconscio, ma solo lo scroscio della pioggia e i nostri passi nelle pozzanghere, oltre al mio fiatone da ottantenne senza un polmone.
«È lì!» esclamai, indicando un palazzo bianco e rosso mattone poco più in là.
Ci fermammo sotto il portico del condominio e mi accasciai sulle ginocchia per poter riprendere fiato, mentre Ruben mi guardava ridendo, senza la minima ombra di fatica sul volto.
«Co-come fai a non avere il fiatone?» arrancai.
«Palestra» rispose vago, scrollando le spalle.
Respirai a fondo, cercando di riprendermi e cercai nelle tasche dei jeans le chiavi del portone. La inserii nella toppa e lo feci entrare nell'ampio e buio androne. Strizzai i capelli, bagnando la moquette verdastra e mi scrollai come un cane fradicio, scatenando l'ilarità di Ruben. Lo fulminai con lo sguardo, prima di dirigermi verso l'ascensore.
Vuoi davvero prendere l'ascensore insieme a lui? Sai vero che numerosi rapporti sessuali si consumano proprio nell'ascensore? Quello ha la mano lesta, Celeste!
Ritrassi subito l'indice che stava per chiamare quell'aggeggio e mi convinsi ad usare le scale, nonostante i muscoli delle gambe pieni di acido lattico.
«Non prendiamo l'ascensore?» mi domandò confuso Ruben.
«Le scale sono più salutari» mentii «E poi sono pochi piani»
«Ok» rispose lui indifferente.
Ad ogni scalino che facevo sentivo il respiro venir meno e temevo che il cuore mi scoppiasse da un momento all'altro. Già al secondo piano volevo accasciarmi ed esalare l'ultimo respiro, chi ci riusciva ad arrivare al quinto?
«Dai Celeste, un piccolo sforzo» mi dissi, deglutendo più volte.
Mi trascinai lungo gli ultimi gradini, aiutandomi con il corrimano, con la milza che voleva guizzare fuori dall'addome. Quando vidi la porta color ciliegio del mio appartamento, sorrisi felice e sollevata di non dover più scalare quella che mi sembrava ormai una montagna.
«Pochi piani, eh?!» mi provocò Ruben, con un sorriso sornione.
«Cinque» boccheggiai.
«Tra poco ti viene un infarto!» ridacchiò lui «Potevano prendere l'ascensore! Ti saresti risparmiata un sacco di fatica»
«Beh mi pare che sia arrivata qui sana e salva, no?!» ribattei acida, aprendo la porta.
Ruben sbuffò sonoramente prima di entrare nella mia splendida dimora. Si guardò intorno, scrutando ogni angolo dell'appartamento con fare critico.
«Tu sei Ciuccio o Fiore?» domandò, esaminando qualsiasi oggetto gli capitasse sotto mano e riappoggiandole nel posto sbagliato.
Seguii innervosita la scia di disordine che Ruben si lasciava indietro, sistemando a mano a mano gli oggetti.
«Ho letto il campanello» spiegò poi, infilando le mani in tasca.
«Non ti interessa» risposi secca.
«Ciuccio Celeste, non suona male» ridacchiò «Molto malizioso» aggiunse, guardandomi provocante.
Lo fulminai con lo sguardo, smorzando la sua espressione da Homme Fatale.
«Non è colpa mia se hai un nome con il doppio senso» si giustificò poi, tornando a ispezionare il salotto come se fosse un detective impacciato.
«La vuoi smettere di mettere in disordine tutto?!» tuonai, esasperata «Questa casa è già un porcile senza il tuo intervento!» continuai, strappandogli di mano un soprammobile a forma di tartaruga.
«Che tragidezza, mamma mia!» esclamò indispettito.
Strabuzzai gli occhi e accennai ad un sorriso stupito.
«Tragidezza?» ripetei mentre lui mi guardava confuso «Magari tragicità» aggiunsi  incredula.
«Quello che è» mi liquidò lui, enfatizzando il tutto con un gesto di noncuranza della mano.
Stupido me lo aspettavo, ma non fino a quel punto. Era arrivato perfino a storpiare una parola in italiano, disinteressandosi completamente alla mia correzione. Un fioraio un po' ignorante.
«Vado a prenderti un asciugamano» gli dissi, diventando improvvisamente rossa come un peperone.
Ruben si era tolto la giacca e la maglietta, che giacevano sul pavimento, dandomi una visione fin troppo dettagliata del suo fisico asciutto e muscoloso. Le sue mani scivolarono velocemente verso il bottone dei pantaloni che slacciò subito dopo. Stizzita, mi voltai per non guardarlo e rischiare di cadere in strane tentazioni sessuali. In fondo, ero pur sempre una ventiduenne con gli ormoni che ancora funzionavano a dovere.
«Che cosa stai facendo?» sibilai.
«Mi spoglio?!» rispose incerto «Mi sembra chiaro»
«L'avevo capito!» ribattei al limite della pazienza «Ma lo stai facendo davanti a me»
«Non hai mai visto un uomo in mutande?» mi provocò con al seguito uno stupido risolino.
Contrassi il viso, respirando a fondo per mantenere l'autocontrollo di fronte ad uno sporcaccione ficcanaso come Ruben. Certo che avevo visto uomini in mutande e anche senza, ma non degli estranei cafoni piombati in casa per uno stupido incidente di percorso.  E non gli avrei parlato della mia vita sentimentale e sessuale, nemmeno morta. Scossi la testa e mi avviai a passi secchi e pesanti verso il bagno per dare a quel pallone gonfiato un asciugamano e poi cacciarlo a calci nel derriere fuori da casa mia.
«Non lo hai mai visto un uomo in mutande!» esplose ilare Ruben, divertito dalla sua stessa scemenza.
«Anche se lo avessi visto non verrei di certo a dirlo ad un troglodita come te!» ribattei, sporgendomi dallo stipite e sorridendogli sarcastica.
«Trogoche?!» lo sentii ripetere confuso.
Quel ragazzo era un caso disperato di bacatezza mentale. Mi chiedevo se mai avesse visto un dizionario nella sua vita, se ne avesse mai sfogliato uno. La risposta mi sembrava ovvia: no. Così come non aveva mai aperto un libro, sicuramente.
Quando fui in bagno, lontana dagli occhi indiscreti e perversi di Ruben, mi liberai dei vestiti fradici, riponendoli ordinatamente nella cesta dei panni sporchi. Mi accoccolai nel mio accappatoio di spugna morbida color del cielo. Mi frizionai i capelli con il cappuccio, massaggiandomi con quella nuvola e ricavandone un breve e intenso tepore. Quello che ci voleva era una doccia calda, ma avrei dovuto rimandarla finché Trogoche  fosse rimasto in quella casa.
Aprii il mobiletto del bagno dentro al quale avevo sistemato gli asciugamani in ordine crescente di grandezza e per colore, ricavandone una specie di arcobaleno di stoffa. Ne acciuffai uno delle dimensioni di un telo mare da portare a quell'essere arrivato direttamente dal Paleozoico.
«Ecco, tieni!» gli dissi, una volta arrivata in salotto, tendendogli l'asciugamano con gli occhi chiusi per non guardare quello spettacolo mozzafiato che mi era capitato di vedere solo su riviste di moda. Anche la mente più razionale sarebbe crollata di fronte a cotanto ben di Dio! E visto che non era mia intenzione perdere la mia amata lucidità, era meglio cercare di non cadere in tentazione.
«Grazie» rispose lui, afferrandolo.
Nonostante il mio subconscio gridasse a gran voce di tenere sigillati gli occhi, ogni tanto una sbirciatina gliela davo. Era rimasto solo in boxer e aveva cominciato subito a passarsi l'asciugamano su tutto il corpo, su quel copro che sembrava essere stato scolpito da un esperto scultore. Era un'opera d'arte di rara bellezza, una statua greca di una splendida divinità che di umano e terrestre non aveva nulla.
Celeste! Avanti, non dirmi che ti ci vuole così poco per cedere?! Sarà anche bellissimo, ma ti ha già dimostrato di essere privo di materia grigia.
Come sempre, il subconscio aveva ragione. Senza di lui sarei stata una di quelle galline che girovagano libere in città, pronte ad aprire le gambe al primo che incontravano.
Mentre si frizionava i capelli, raccolsi gli abiti che aveva lasciato in terra da maleducato qual'era e li stesi sugli schienali delle sedie, pregando chiunque potesse ascoltarmi di far asciugare quegli abiti il prima possibile, anche con una palla di fuoco, in modo da liberarmi di lui.
«Sei nuda sotto l'accappatoio?» domandò a bruciapelo.
Mi voltai di scatto, guardandolo in un misto tra il disgusto e l'incredulità.
«Anche se fosse?» risposi.
Ruben mi sorrideva beffardo mentre si aggiustava l'asciugamano all'altezza del bacino. Ad un certo punto vidi i suoi boxer cadere sul pavimento e i miei occhi già spalancati, strabuzzarono come se volessero fuggire dalle orbite da un momento all'altro.
«Ti sei tolto le mutande» constatai con irritazione.
«Sono fradice! Mi si stava intorpidendo l'uc...» lasciò la frase in sospeso, trucidato dal mio sguardo furente «E poi io non sto facendo storie che tu sei nuda!»
«Ma questa è casa mia e faccio quello che voglio!» tuonai stizzita.
Il cuore sembrava impazzito da un secondo all'altro e il suo ritmo aumentava ad ogni passo che Ruben faceva verso di me. I suoi smeraldi s'intrecciarono ai miei occhi, incatenandoli ai suoi senza nessuna possibilità di slegarli. Cercavo di fuggire da quella rete invisibile, ma nemmeno il mio subconscio riusciva a liberarsi da quella splendida gabbia smeraldina. Ero ancora in tempo per indietreggiare e dargli un assaggio delle mie dita, ma i miei piedi erano incollati al pavimento ed ero diventata d'un tratto una statua immobile, incapace persino di pensare. Quando fu di fronte a me, mi sorrise e quel gesto annebbiò anche l'ultima parte di razionalità che era rimasta in me. Prese una ciocca dei miei capelli bagnati e me la portò dietro l'orecchio per poi accarezzarmi la guancia con il dorso della mano. Immaginavo dove volesse arrivare Trogoche, ormai era chiaro che mi aveva presa come una di quelle sgualdrine che gliela smollavano solo per un suo sorriso e questo era un boccone amaro difficilmente digeribile. Non ero affatto così, avevo una solida moralità io. Ma che stava inaspettatamente vacillando di fronte a lui. Il mio cervello cercava di distogliermi da lui, di allontanarmi ma i suoi impulsi si trasformavano in semplici scosse che si aggiungevano ai brividi che il tocco della sua mano mi aveva provocato. Mi fece un  buffetto sul naso rotondo, sorridendo e provocandomi un altro mini infarto. Si abbassò pericolosamente verso di me, solleticandomi la fronte con le sue morbide labbra. Mi prese il mento tra l'indice e il pollice costringendomi a fondere nuovamente l'azzurro del cielo con il verde dell'erba. Stavo per baciarlo, per abbassarmi al livello di una sciacquetta qualunque priva di qualsiasi virtù. Il mio muro rigido di moralismo stava per essere smontato pezzo per pezzo, mattone per mattone da un semplice estraneo che credeva che la terra girasse intorno a lui.
«Hai degli occhi magnifici» sussurrò.
Mi bastò quella semplice quanto stupida frase per tornare in me, per spazzare via la nebbia che non mi permetteva di ragionare.
Crede che tu ti scioglierai con un stupida e convenzionale frase come questa. Ma tu non sei come le ragazze che è abituato a frequentare. Dimostraglielo Celeste!
Le sue labbra erano ad un soffio dalle mie e il suo fiato mi stuzzicava il viso. Sorrisi, socchiudendo gli occhi e gustandomi la faccia da baccalà sotto sale di Ruben che era convinto ormai di avermi preso all'amo. Peccato che ero stata io a pescarlo. Prima che le nostre labbra si sfiorassero, caricai la gamba e gli piantai un calcio nello stinco sinistro. Il suo viso si contrasse in una smorfia di dolore e un mugolio sordo uscì dalle sue labbra. Lo vidi accasciarsi davanti a me e massaggiarsi la gamba, soddisfatta del mio operato.
«Per chi mi hai preso, razza di pervertito?!» ringhiai.
«Pensavo...» cominciò lui, con la voce incrinata dal dolore.
«Pensavi cosa?!» tuonai, acciuffando i suoi vestiti «Che fossi una prostituta? Che te l'avrei servita su un piatto d'argento solo perché mi hai sorriso?» gli afferrai un braccio, costringendolo ad alzarsi «Credo che per te sia uno sforzo sovrumano pensare, visto che quando lo fai sbagli» aggiunsi aprendo la porta.
Gli buttai i vestiti sul pianerottolo e lo spinsi fuori, richiudendomi l'uscio alle spalle, appoggiandoci sopra la schiena.
«Celeste!» urlava Ruben, bussando rumorosamente «Fammi entrare!» mi pregava «Sono nudo!»
Ignorai completamente le sue suppliche, anzi mi divertita sentirlo sbraitare. Avevo vacillato davanti a lui, avevo quasi dimenticato il mio rigore e quello che ero davvero per un paio di occhi verdi. Fortuna che c'era il mio subconscio.



Eccoci giunti alla fine del secondo chappy! Fiuw! E' la mia seconda storia e sono comunque un vulcanuccio di idee..
Ci siamo superate scrivendo del primo incontro tra Cel e Leo. Qui, meglio che nel primo capitolo, sono emerse nette differenze tra i due.
Leo, come avevamo intuito, è un pochettino egocentrico e sa di essere amato e venerato come una specie di divinità, così se ne va in giro a vantarsi, proprio come un narcisista. Però, in questo giorno di pioggia, non aveva fatto i conti su chi avrebbe potuto incontrare ^^'.
Non appena Cel e Leo si sono trovati faccia a faccia, sono emerse le loro diversità e il nostro protagonista ha approfittato dell' 'ignoranza' di Cel in materia di calcio per fingersi fioraio e fare una messa in scena, cercando di scoprire cosa si prova ad essere 'normale'.

Celeste è molto particolare. E' precisa, ordinata, petulante e parla anche da sola. Ha un subconscio che la rende cinica e razionale, con cui si fa un sacco di chiacchierate. Sa benissimo che Leo non è un fioraio, o meglio, lo intuisce. Uno così non si sprecherebbe mai a vendere fiori, inoltre ha il vago sentore di averlo già visto.
Chissà cosa accadrà nel prossimo capitolo e quale altre diavolerie ci inventeremo per farvi penare e per mettere alle corde i nostri due poveri protagonisti!
Baciotti,
Marty e Manu (alias M&M -> bone! :Q______)

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Capitolo 3
*** Quanto sei bella Roma ***


Piccola parentesi: scusateci per l'enorme ritardo ma la mia adorata Lover ha problemi con internet è.é e quei cattivoni dell'adsl non glielo vogliono riattaccare! Cmq siamo riuscite a sentirci e a postare il capitolo, anche se ci è voluto un po' più di tempo!



CAPITOLO 3
Quanto sei bella Roma

«Cosa vuol dire che non vuoi prestarmi quella specie di catorcio con cui vai in giro?».
Quella mattina mi ero già alzato dalla parte sbagliata del letto, ricordando amaramente come quella ragazzina sfrontata aveva osato sbattermi nudo fuori di casa, dopo che avevo solamente cercato di fare quello che tutte volevano dal sottoscritto.
Ora nemmeno il mio fedele amico Ruben, nonché fidato manager e amico fin dall’inizio della mia carriera calcistica, voleva collaborare.
«Ch-che c-ci d-devi f-fare?» balbettò, tenendosi le chiavi della Vespa strette al petto neanche valessero la sua stessa vita.
«Ruben, respira. Lo sai che quando vai nel pallone cominci a tartagliare peggio di una sparachiodi» gli ricordai, facendo riferimento al suo difetto linguistico.
Lui mi guardò al di là delle spesse lenti degli occhiali, mentre deglutì a vuoto.
«Ti ho già spiegato cos’è successo ieri. Devo riprendere il casco firmato di Vale che ho lasciato a casa di una tizia stramba, che mi ha buttato fuori di casa senza motivo, ma non mi ricordo in quale cazzo di buco abita, perciò devo tornare all’università e vedere se riesco a trovarla» ripetei, per l’ennesima volta quella mattina.
«S-sì h-h-ho cap-pito.. m-ma p-perché v-v-.. vuoi usare la v-v-.. vespa!» mi chiese, quasi  urlandomi in faccia l’ultima parola.
Lui e quella sua pidocchiosissima Vespa! Soltanto perché era un modello autentico degli anni ’60 la trattava come fosse d’oro, anche se non valeva nemmeno la metà della mia bambina.
Mi posai una mano sul viso e tentai di non andare in escandescenze. «Allora, visto che a quella squinternata ho raccontato solamente un mucchio di balle, nascondendole volontariamente la mia identità e la mia professione, non posso presentarmi da lei nuovamente con la Ducati.. le ho detto che faccio il fioraio, dannazione! Un pezzente del genere andrebbe in giro con quel cesso ambulante che ti tieni stretto al petto, nemmeno fosse tua madre!».
Stavolta pensai di essere stato abbastanza chiaro, dal momento che la faccia basita di Ruben parlava da sola.
«V-va b-be-bene! P-però p-pro-promettimi che c-ci s-starai attento..» mi disse preoccupato, allungandomi le chiavi con mani tremanti.
Lo fissai con un sopracciglio alzato, rifilandogli un falso sorriso. «Dormi pure fra due guanciali, amico!».
Finalmente aveva mollato ed io afferrai più di fretta che di corsa l’altro casco e me lo infilai per metà, posando una mano sulla maniglia pronto ad uscire.
«L-leonardo..» mi bloccò Ruben, prima che riuscissi ad evadere da quelle quattro mura.
«Che c’è!» tuonai esasperato, troppo scocciato dall’amaro che quella biondina inviperita mi aveva lasciato in bocca.
Ruben si aggiustò gli occhiali sul naso, poi deglutì a vuoto. Forse ero stato un po’ troppo brusco nei modi e ogni tanto, ma molto raramente, riuscivo anche a chiedere scusa.
«Avanti, dimmi, non volevo risponderti male» aggiunsi.
«R-ricordati c-che og-oggi pomeriggio hai il s-servizio p-per V-vogue» mi disse, ed io mi sentii un emerito stronzo ad avergli risposto male poco prima.
«Me lo ricorderò, grazie» gli dissi, poi finalmente riuscii ad uscire di casa.



«Ma quindi il casco firmato da Valentino non è per me?» chiese Romeo, mentre ci dirigevamo all'aula per seguire la lezione del professor Oscari.
«Per l'ennesima volta: no!» sbuffai, esasperata da quella domanda che si ripeteva come un disco incantato dal pomeriggio precedente.
«E allora da dove viene?»
«Era racchiuso in un meteorite che mi è piombato davanti i piedi mentre tornavo a casa» risposi sarcastica, guadagnandomi un'occhiata dubbiosa da parte di Romeo «Te l'ho già detto. Ieri ho incontrato un pallone gonfiato e dato che non volevo che morisse di broncopolmonite l'ho invitato a casa. Il casco di Valentino è suo!»
«Ah ma quindi non mi stavi prendendo in giro quando dicevi che un balordo ti ha bagnato con la sua moto»
«Romeo ma sei proprio scemo!» sbottai irritata «Te lo meriti proprio il soprannome di babbeo!»
Scossi la testa seccata dalla stupidità del mio migliore amico. Sembrava quasi che vivesse su un altro pianeta lontano decine e decine da galassie dal nostro o che dormisse perennemente, anche quando aveva gli occhi aperti. La cosa, però, che mi infastidiva maggiormente era il casco di Valentino che quel bell'imbusto aveva lasciato a casa mia. E dato che Ruben amava quell'aggeggio quasi fosse stato fatto di un minerale preziosissimo e introvabile, me lo sarei trovato nuovamente tra i piedi. Diamine, era solo firmate da un altro deficiente il cui unico merito era guidare una moto!
Uomini, valli a capire!
Poi dicevano che eravamo noi quelle complicate. Cosa c'era di così difficile da comprendere in una donna? Eravamo come un libro aperto, bastava solo prestare attenzione a quello che c'era scritto. Invece loro erano un enorme punto di domanda senza una risposta. L'unica cosa di cui era sicura era che il loro cervello era posizionato troppo in basso rispetto alla loro sede naturale.
«Ma non è successo nulla tra di voi, no?!» domandò con una certa preoccupazione e un crescente imbarazzo che gli colorò le guance di rosso, perfettamente intonato alla sua orribile zazzera.
«Sesso sfrenato» esclamai e vidi gli occhi di smeraldo di Romeo spalancarsi «Ti pare che io la smolli ad uno che nemmeno conosco?! Soprattutto poi se questo è un ignorante spocchioso belloccio alla Dawson's Creek?!»
Il volto del mio amico venne subito illuminato da un sorriso e la sua espressione si fece d'un tratto tranquilla. Alzai gli occhi al cielo, avendo ormai la convinzione che Romeo era un caso disperato, fisicamente e psicologicamente parlando.
Arrivammo nell'ampia aula in cui si sarebbe tenuta la prima lezione della giornata e, come al solito, io e Robbeo fummo tra i primi ad arrivare. Ero io che lo trascinavo fuori di casa quarantacinque minuti prima che iniziasse la giornata universitaria, nonostante abitassimo vicino alla nostra facoltà. Fortuna che in quella casa era la sottoscritta a dettare legge. Fosse stato per lui saremmo rimasti a poltrire a casa davanti alla televisione a guardare Sky e Studio Sport, mangiando schifezze caloriche che ci avrebbero fatti diventare delle mongolfiere.
Ci sedemmo in prima fila, proprio davanti alla cattedra del docente, i nostri posti oramai erano intoccabili e cominciai a ripassare la lezione del giorno precedente, godendo di quel poco di silenzio che ben presto avrebbe abbandonato l'aula. Infatti, dopo nemmeno dieci minuti, i vari posti vennero occupati e le mie orecchie vennero sommerse dal chiacchiericcio dei miei compagni di corso. Non conoscevo nessuno di loro, tra di noi solo saluti sfuggenti di circostanza, ma sapevo nomi e cognomi di quasi tutti, imparati in due anni di Università.  Ero una ficcanaso curiosa che appena sentiva l'inizio di un discorso interessante, aguzzava l'udito in cerca di particolari stimolanti da parte dei miei compagni. Avrei potuto scrivere un libro con tutti i loro segreti più nascosti se avessi voluto ed ero sicura che se lo avessi pubblicato, nessuno di loro avrebbe lasciato la propria cameretta.
I vari gruppi che si erano creati nella facoltà erano ormai quasi tutti presenti: le Prada's addicted, ragazze che avevano tutto griffato, perfino l'elastico dei capelli; dal Giappone con furore, i patiti di manga e anime che non facevano che parlare di fumetti tutto il giorno; culi di bottiglia, i secchioni, quelli che sul libretto avevano scritti solo 30 e lode, tutti gli altri voti erano schifati come se fossero sedano ammuffito. Avevo inventato un nome per chiamare ogni gruppo, tranne per quello meno numeroso, formato solo da due persone, ossia io e Robbeo. Ormai io e lui facevamo coppia fissa. Da quando andavamo al liceo eravamo sempre stati considerati l'ultima ruota del carro, nessuno ci rivolgeva mai la parola se non per prendere per i fondelli Romeo. Ma a me andava bene così, stavo bene da sola e la compagnia di Robbeo era più che sufficiente.
«Ma secondo voi è vero?» domandò una delle Prada's addicted ad una sua amica.
Tesi l'orecchio, mantenendo però gli occhi fissi sui fogli.
«Che cosa?»
«Leonardo è fidanzato?!» chiese sempre la stessa, con tono preoccupato.
Rimuginai su quel nome, dubbiosa. Ero più che certa che nel nostro corso non ci fosse nessun Leonardo, quindi potevo benissimo smettere di ascoltare quel gossip inutile, ma le mie orecchie curiose rimasero concentrate sulle loro chiacchiere.
«Intendi il pittore?» si accertò l'amica.
Oddio, parlavano di quel calciatore idolatrato da Robbeo, il genio del calcio che eguagliava il grande Leonardo da Vinci.
«Sì, il pittore!» piagnucolò.
«No, impossibile!» esclamò l'altra.
«E dove l'hai letto, scusa?» intervenne la terza.
«Su Facebook. Gira la voce che si veda con una bionda, ma non si sa chi sia in realtà. Hanno detto solo che lo hanno visto aggirarsi mano nella mano con questa»
«Sarà la Velina, sicuramente» commentarono acide.
«Che odio mamma mia! Il pittore è solo mio!» protestò sempre la stessa.
Non sapevo se mi faceva più pena questo fantomatico pittore che era solo uno stupido calciatore ignaro dell'esistenza dei tempi verbali e che si vedeva con una più stupida di lui o le Prada's addicted, gelose di una persona che nemmeno sapeva della loro esistenza e che mai l'avrebbe saputo. Anche nell'ipotesi più remota che lui le avesse incontrate, non le avrebbe minimamente calcolate. Uno di quei boriosi palloni gonfiati non si sarebbe mai abbassato a stare con una ragazzina normale.
«Dai tesoro, vedrai che non è vero» la consolò l'amica.
No, ok. Loro erano decisamente patetiche. Struggersi per un bisonte privo di neuroni che sapeva solo correre superava di gran lunga la mia idea di ridicolo. Erano ben altre le cose per cui arrabbiarsi, non certo un amore platonico per un'ameba.
«Parlano del pittore!» mi sgomitò con poca grazia Romeo.
«Oh, evviva!» esclamai fingendo entusiasmo.
«Il grande e unico Sogno!» riprese lui in estasi, quasi ne fosse innamorato.
«Ma sei gay, Robbeo? No, perché adesso mi vengono i dubbi»
«Ma che dici Cel!» si stizzì lui, guardandomi torva.
«Sembra che ne sei innamorato!» sbottai, indispettita.
«Questo non è amore Cel! È rispetto, è devozione!»
«Se vabbè» roteai gli occhi «San Leonardo ora pro nobis» dissi sarcastica.
«Cel tu non puoi capire. C'è qualcosa di speciale che ci lega» trillò con gli occhi lucenti e spalancati.
«Sarà che siete entrambi stupidi?» ipotizzai.
«Può darsi» rispose con un sorriso ebete, che si tramutò in un viso imbronciato non appena realizzò che avevo offeso lui e il suo idolo «Ehi! Non siamo stupidi!»
Scoppiai a ridere e poco dopo Romeo si unì alla mia risata. Tra me e lui c'era sempre una bella atmosfera, una strana sintonia. Nonostante il mio carattere che nemmeno il valium sapeva calmare e lo aggredissi costantemente, 24 ore su 24, non litigavamo mai veramente. Lui era troppo buono per arrabbiarsi con me. O forse aveva troppa paura della mia reazione.
Cercai invano di tornare a leggere gli appunti. Infatti, appena posai gli occhi sulla mia tonda calligrafia, uno scroscio, simile ad un piccolo applauso, mi fece voltare verso Romeo, piegato verso il tavolo per la pacca non proprio amichevole appena ricevuta.
«Ehilà Romeo, er peggio der Colosseo!» esclamò Giuliano, il rocker della facoltà, dai selvaggi capelli ricci e sguardo magnetico.
«Mamma mia quanto sei brutto!» ridacchiò Michele, belloccio, ma neanche tanto «Dovrebbero farti circolare con un secchio in testa per l'incolumità altrui!»
«Bella questa!» sorrise entusiasta il rocker, battendo il cinque al suo amico
Avevo sempre pensato che, giunti all'Università, nessuno avrebbe più preso di mira Robbeo, credevo che dei ventenni avessero raggiunto una maturità tale da capire che prendere in giro una persona non era divertente, ma solo frustrante. Invece mi sbagliavo di grosso. Sembrava quasi che i ragazzi, più passavano gli anni, più regredivano verso l'età della pietra. Mi stupivo che per parlare non usassero l'evocativo Uga Buga.
Romeo si era quasi accasciato sul banco e un istinto di protezione crebbe dentro di me. Mi voltai verso i due Uga Buga e li guardai severa.
«Buongiorno anche a voi» dissi sarcastica, sorridendo sorniona «L'hai studiata di notte questa battuta? No, perché mi stupisco che uno con la tua capacità cerebrale possa utilizzare una parola come incolumità»
Michele corrugò la fronte e abbassò un sopracciglio, poi si rivolse al suo amico dubbioso.
«Ma questa che vuole?!»
«Questa avrebbe un nome!» ribattei stizzita.
«E quale sarebbe, Miss Perfettina?» mi provocò Giuliano Miriani.
«Di certo non vengo a dirlo a te!» sbottai, vedendo sorgere sul volto del rocker un'espressione più che perplessa «Comunque, ora che voi comici di Zelig avete fatto la vostra plateale apparizione, potete tornarvene nelle vostre caverne a fare graffiti»
I due si scambiarono uno sguardo complice, prima di guardarmi come se fossi appena uscita da un'astronave giunta da chissà dove.
«Uga buga!» esclamai, adeguandomi al loro linguaggio.
Michele si portò un indice alla tempia, roteandolo e ghignando con il suo amico. Subito dopo se ne andarono, portando con sé la loro irritante stupidità.
Quando finalmente credevo di poter leggere in santa pace i miei appunti, un risolino mi sorprese da dietro, costringendomi a voltarmi a guardare chi aveva osato ridere di me con occhi truci e inceneritori.
«Grande! La tua risposta è da sganasciarsi!»
Il mio viso, contratto prima in una smorfia irata da Jack Nicholson in Shining, mutò all'istante in quella di un baccalà surgelato. Era raro che mi trasformassi in uno stoccafisso, soprattutto quando parlavo con un essere dell'altro sesso. Ma lui era l'unico in grado di farmi perdere la mia razionalità, con i suoi meravigliosi occhi verde acqua. Jean Philippe Rossi, conosciuto al grande pubblico come J, era il ragazzo dei miei sogni, bello e con un'intelligenza rara da trovare in un belloccio.  Merito dei suoi genitori. Sua madre era la rinomata ex top model francese Fleur Delacroix, di una bellezza quasi innaturale; suo padre, invece, era il celebre ingegnere Pietro Rossi, rinomato in quasi tutto il mondo.
«Acida e arguta al tempo stesso» continuò, sorridendomi, mettendo in serio pericolo quel briciolo di lucidità che mi era rimasto. Temevo di aprire bocca, ero sicura che dalla mia bocca sarebbero uscite solo sciocchezze disconnesse, magari anche in una lingua inesistente.
«Gr-Gr» arrancai, con la voce incrinata. Tossicchiai, cercando di recuperare la voce che sembrava avermi abbandonata «Grazie» riuscii a dire, nonostante il mio tono di voce sembrasse quello di un uomo.  J ridacchiò facendomi sprofondare in un insopportabile imbarazzo. Sicuramente le mie guance potevano benissimo intonarsi ai capelli di Romeo.
«J» si presentò allungandomi una mano.
Già lo so. So praticamente tutto di te, mio caro. Sono meglio di James Bond, una spia nata. Forse dovrei andare nella CIA...no, no Celeste, non divagare. Stai concentrata e fai la finta tonta.
Sorrisi impacciata, annuendo come una cretina e solo dopo che J mi indicò dubbioso la sua mano, mi ricordai le buone maniere.
«Oh sì» ridacchiai come una civetta qualunque «Celeste» mi presentai, afferrandogli la mano e sbatacchiandola con forza e ripetutamente.
Lui si liberò con forza dalla mia stretta, sghignazzando nervosamente. Probabilmente anche lui stava pensando che fossi matta. In realtà, in quel momento, qualche dubbio lo avevo anche io. Possibile che J riuscisse a intontirmi in quel modo, a rendermi una Barbie decerebrata, che civettata con qualsiasi essere vivente del sesso opposto.
«Che bel nome!» esclamò «Inusuale e molto particolare. Poi ha un suono molto dolce»
«Sei uno dei pochi a cui piace» ammisi sorridendogli.
«Ehi!» mi sgomitò Robbeo «Anche a me piace!»
«Sì, lo so Romeo. Infatti ho detto pochi, non unico. Sai c'è una differenza tra questi due termini, ma proprio lievissima!» ribattei, ritrovando il mio amato sarcasmo.
Romeo mi mostro pigramente la sua lingua, incrociando poi le braccia al petto e assumendo un'espressione imbronciata.
«La tua ironia è tagliente» commentò serio J, gettandomi per un istante nello sconforto più totale, credendo che quell'enorme particolare del mio carattere lo infastidisse «J'adore!» aggiunse sogghignando «Amo il sottile sarcasmo! Credo di non aver trovato mai nessuno che lo sapesse sfruttare con la tua dimestichezza»
Mi sentii avvampare e le mie care compagne di vita, ossia le parole, sembrasse avessero fatto i bagagli in partenza verso mete calde e soleggiate. L'unica rimaste sembrava essere il Grazie, che ormai gli ripetevo come se il mio vocabolario contenesse solo lei.
Fu in quel momento che un uomo dalla pancia bombata fece il suo ingresso in aula. Gli occhi dell'Oscari sembravano essere sempre essere atterriti, spalancati, nel ricordo, probabilmente, della sua immagine riflessa nello specchio. I capelli candidi erano sempre più radi e vani erano i suoi tentativi di coprire i buchi con un improbabile riporto. Anche quel giorno indossava un maglione, ilo suo indumento preferito dato che lo indossava praticamente tutti i giorni. Il dubbio che lo indossasse anche ad Agosto si rafforzava sempre di più. Aveva una collezione infinita di maglioni, di qualsiasi colore e ogni modello, per non parlare delle fantasie. Quelle natalizie erano le peggiori. Nemmeno quando avevo nove anni indossavo un maglione di lana con una renna e il naso a pon pon. Vedendo l'Oscari non potevo fare a meno di pensare a Romeo. Ero più che certa che quella era l'immagine di lui tra qualche anno: spelacchiato, docente universitario e con l'ossessione dei maglioni. E ovviamente, zitello o, come preferiscono gli uomini perché suona più da macho e non da sfigato, scapolo. Appena poggiò le sue cose sulla cattedra, cominciò la lezione, infischiandosene che ognuno si stava facendo i fatti propri e senza il favore del silenzio. Lo faceva sempre ed era una delle cose che mi infastidiva di più, dato che mi perdevo sempre l'inizio della spiegazione.
«Meglio che torni al mio posto se non voglio saltarmi la lezione» mormorò J «Mi ha fatto piacere conoscerti»
«Anche a me» risposi, intimidita.
«Ci si becca in giro allora» mi sorrise, sventolando una mano mentre si allontanava per raggiungere l'ultima fila.
Imbambolata, continuai a muovere la mano a destra e a sinistra come una scema, anche quando lui non poteva più vedermi. Ci volle uno spintone da parte di Romeo perché mi riprendessi. Ovviamente, non mancò la mia occhiata furente verso Robbeo che mi aveva scardinato una spalla con le sue manacce da muratore.
Tornai a guardare davanti a me, prestando attenzione a ciò che l'Oscari diceva, con finalmente il silenzio adatto per poter godere di quella lezione. La mano su mosse veloce sul foglio, appuntando ciò che diceva il docente e il tempo diventò qualcosa di nemmeno percepibile. Sembrava che le lancette si fossero fermate, che nessun ticchettio scandisse più i secondi passare, compito riservato adesso alla voce stridula dell'Oscari. Talmente ero concentrata e presa dalla spiegazione, che non mi accorsi che le ore di quella lezione erano volate via leggere, come fumo da un camino che leggiadro si levava nel cielo.
«Grazie a Dio!» esclamò Robbeo, scivolando lungo il sedile, annoiato.
«Ma è già finita la lezione?» domandai incredula, contando le sette pagine di appunti che avevo preso e che non mi ero resa conto di scrivere.
«E ti lamenti! Non passava più!» ribatté seccato lui.
«Ma se il tempo è volato!» lo canzonai.
«Sì, come un pinguino» ridacchiò Romeo «Comunque aspettami qui. Devo andare a parlare con la segreteria» disse e raccattò la sua roba, sparendo dall'aula.
E quando dico sparendo, intendo proprio S P A R I T O, dissolto, volatilizzato. Per le successive ore non ebbi sue notizie ed ero anche abbastanza preoccupata, nonostante sapevo che nessuno mai lo avrebbe rapito e nemmeno ucciso. Comunque, non era normale sparire senza lasciare traccia.
Ma certo!
Altro che segreteria, quello se l'era svignata ed era tornato a casa per non seguire le altre lezioni. Era un pigrone svogliato, altro che preoccupazioni. Ma appena sarei arrivata a casa mi avrebbe sentito, così come tutta Roma per i decibel che la mia voce avrebbe raggiunto per la collera. Agguantai astuccio e quaderni, lanciandoli alla rinfusa nella borsa.
«Stupido Robbeo! Mi lascia qui da sola, come una deficiente, mentendomi anche. Vado in segreteria. Come no! E io che ci ho creduto! Che stolta! Quello è tornato a casa perché è uno scansafatiche! Un lavativo senza aspirazioni nella vita! Ma appena arrivo a casa mi sentirà!» borbottai tra me e me.
A passo svelto e pesante uscii dall'aula, superando i miei compagni che si attardavano a spettegolare tra di loro, urtandoli anche di tanto in tanto e guadagnandomi qualche occhiata furibonda o insulti poco carini. Ma poco mi importava. In quel momento, nella mia testa, c'era solo Romeo che, con la sua pigrizia, mi aveva fatto ribollire il sangue nelle vene, offuscandomi qualsiasi senso per la rabbia che provavo nei suoi confronti in quel momento. Velocemente, scesi le scale, stando attenta a non cadere e rompermi rovinosamente l'osso del collo, e dopo poco riuscii a vedere la luce del sole.
«Ehi, Celeste, aspetta!» mi chiamarono da dietro.
Ero già pronta a ringhiare e sbranare come una tigre affamata la persona che mi aveva fermato. Ma quando mi voltai e vidi J raggiungermi trafelato, con le guance rosse per la corsa e l'affanno da praticamente di ozio intensivo su divano, il mio istinto da animale feroce mutò in quello di una pecorella indifesa. Sorrisi imbarazzata, sentendo affiorare un lieve calore sulle guance.
«Ciao J» lo salutai, cercando di mostrare tranquillità e sicurezza.
«Hai dimenticato questo» mi tese il mio cellulare e si sistemò la tracolla che gli aveva inclinato una spalla.
«Oh» ridacchiai nervosamente «Grazie» ed eccola di nuova quella parola che cominciavo ad odiare.
«Ero venuto a salutarti a fine lezione, ma c'era solo il tuo cellulare» spiegò con un sorriso.
«Sai com'è, nella fretta» arrancai, gesticolando come una pazza.
«Il tuo amico che fine ha fatto?» mi chiese poi, notando l'assenza di Romeo.
«Se lo sapessi» risposi, sentendo l'acidità tornare a scorrermi nelle vene «Puff, sparito nel nulla, come un illusionista»
J rise e io mi unii a lui. Le nostre risate s'intrecciavano perfettamente, come due strumenti di un'orchestra e non volevo che quella musica così armoniosa finisse. Ma, ahimè, le cose belle sono destinate a morire, come uno splendido fiore o una leggiadra farfalla. Due suoi compari lo richiamarono a gran voce e lui fece cenno loro di aspettare un attimo.
«Devo andare» disse, sorridendomi «Ci vediamo domani»
Cominciò a indietreggiare, senza staccare il nostro contatto visivo.
«Prima fila a ripassare gli appunti» aggiunse «Tienimi un posto, mi raccomando»
Non risposi, mi limitai solo a sventolare una mano e annuire come una decerebrata. Mi risultava difficile credere che Jean Philippe mi avesse chiesto di tenergli un posto accanto a lui. Era già il colmo che lui si era avvicinato a me, dopo due anni di totale disinteresse nei miei confronti. Lo vidi raggiungere i suoi amici, scambiarsi con loro pacche amichevoli, ridere divertito alle loro battute. Sarei rimasta volentieri lì a fissarlo all'infinito, a godere della sua bellezza. Ma dovevo tornarmene a casa e, soprattutto, non volevo sembrare una rimbambita fossilizzata sul vialone dell'Università. Non era il mio sogno diventare la statua che dava il benvenuto agli studenti. Perciò ripresi il mio cammino verso casa, con due Celeste che si battevano dentro di me. Una irremovibile nell'arrabbiatura con Robbeo, pronta ad uno scontro epico con lui e l'altra, più pacata e tranquilla, che non faceva altro che pensare agli occhi azzurri di J.
D'improvviso un braccio sbucò da una delle siepi che costeggiava il vialone dell'Università e mi trascinò con forza tra le foglie. Mi tappò la bocca, per impedirmi di urlare e fece aderire il mio corpo al suo. Non potevo nemmeno vedere la faccia del mio aggressore perché era coperta da un casco dalla visiera scura. Forse quel maniaco era lo stesso che aveva rapito Robbeo. Forse ci stava seguendo e spiando da settimane per studiare i nostri spostamenti con l'unico scopo di ucciderci. Dovevo reagire, dargli un pestone o una gomitata, ma ero pietrificata dalla paura. Già immaginavo i miei necrologi sparsi per la città, vicini a quelli di Romeo e i telegiornali impazziti che davano tutte le ultime notizie sull'omicidio dei due universitari assassinati. Non avevo nemmeno dato l'addio ai miei genitori! Respirai a fondo, pronta ad andare incontro al mio nefasto destino. Il maniaco levò lentamente la mano dalla mia bocca e mi voltò repentino verso di lui. Si tolse il casco, voleva che prima di morire, vedessi il volto del mio assassino. Quando riuscii a vedere finalmente i suoi occhi smeraldini, avrei dovuto tirare un sospiro di sollievo vedendo un viso familiare. Ma non fu così. Avrei preferito cento volte un maniaco, piuttosto che quel pallone gonfiato di Ruben che era diventato d'un tratto anche rapitore.



«Cosa diavolo ci fai tu, qui?!» mi urlò in faccia, con i capelli tutti arruffati e la borsa dei libri che le pendeva in modo scomposto da una spalla.
Il suo aspetto era talmente buffo che non riuscii a trattenere un sorriso, soprattutto per il modo in cui aveva scalciato e con cui si era battuta pensando fossi chissà quale specie di maniaco.
«Cos’hai da ridere, eh, fioraio? Mi hai quasi fatto prendere un infarto con i tuoi modi da troglodita!» continuò a starnazzare, mentre tentava di darsi una sistemata.
«Trogoche?» chiesi di nuovo, sapendo perfettamente di farla infuriare ulteriormente.
Cosa ci potevo fare se era tremendamente stuzzicante farla incavolare?
«Sei. Un. Cretino. Così ti è più chiaro?» mi rimbeccò, partendo con le offese.
Era riuscita a lisciarsi i capelli e a togliersi le foglie di dosso, ma le era rimasto un ramoscello fra i capelli che non aveva evidentemente visto. Mi avvicinai, armato solo di buone intenzioni, e mi chinai per toglierle quel pezzettino di legno.
D’improvviso s’irrigidì del tutto, forse turbata dall’eccessiva vicinanza del mio corpo al suo, ed i suoi occhi chiari erano liquidi quasi come quelli di un lago. Tutto sommato era carina, per quanto la sua semplicità potesse essere attraente per uno come me.
Da una botta e via, amico.
Se avessi potuto battere il cinque con il mio ego, l’avrei fatto in quel preciso istante, ma non appena tolsi il ramoscello di legno dai capelli di Celeste, riuscii, d’istinto, a spostare il piede prima che quella pazza inferocita mi assestasse un pestone che avrebbe fatto invidia a quelli cui era solito Chivu, il difensore romeno dell’Inter.
«’Ci tua!» le dissi, fissandola in cagnesco ma il suo cipiglio non era da meno.
Se uno sguardo avesse potuto uccidere, sarei stato già in una bara, pronto a concimare la terra.
«Così impari a tenere le tue manacce lontano da me!» ringhiò furiosa, rispolverando nuovamente la sua caratteristica Brontolo-posa.
Evidentemente era appena fuggita da un manicomio o da un centro di recupero mentale, perché una persona sana di mente non poteva avere quel genere di reazioni che rasentavano la schizofrenia.
A quel punto, pieno di rabbia quasi fin sopra le orecchie, le avvicinai il ramoscello proprio davanti agli occhi e ci vollero tutti i santi del paradiso per impedirmi di tirarglielo dritto in faccia.
«Avevi questo nei capelli, volevo soltanto togliertelo!» le urlai, stufo di quel suo comportamento da suora acida.
Gli occhi di Celeste si spalancarono, diventando deliziosamente grandi e azzurri, poi un lieve rossore le affiorò alle guance, facendomi seccare la bocca.
«T’oh!» ridacchiò nervosamente «è un bastoncino».
Se non avessi avuto le mani impegnate dal ramoscello e dal casco, l’avrei sicuramente strozzata. Avevo evitato per miracolo di rimanere senza alluce, e lei se ne usciva con una frase banale come quella.
«Adesso, chi dei due che deve chiedere scusa?» le rinfacciai, riferendomi a meno di ventiquattr’ore prima, quando si era impuntata soltanto per sentire quella parola uscire dalla mia bocca.
«Tanto so che c’era un secondo fine, che ti credi! Non sono mica nata ieri! Li conosco quelli come te, che fanno i fighetti e che pensano di avercelo solo loro.. eh, eh! Sei solo un cazzaro, come tutti gli altri!» continuò, riprendendo lo stesso tono inviperito di poco prima.
Non erano nemmeno passati cinque minuti da quando ci eravamo incontrati, e già avevo voglia di ucciderla. Per quale motivo continuavo ancora a darle retta?
«Senti, non me ne frega nulla di quello che pensi e me ne sbatto delle considerazioni che hai di me, voglio solo il casco di Valentino e poi sparirò dalla tua vista» le spiegai, raggiungendo l’esasperazione.
«Il tuo preziosissimo gingillo è a casa, dove lo hai lasciato ieri!» s’impuntò, incrociando le braccia al petto e guardandomi di sbieco.
«IO?!» sbraitai, indicandomi. «Ma se tu mi hai buttato fuori senza darmi nemmeno il tempo di rivestirmi!».
Eh, no! Un conto era prendere di mira il mio essere, come dire, un po’ cascamorto, ma accusarmi di qualcosa di cui non avevo colpa, era un altro paio di maniche.
«Non urlare, la gente ci sta guardando» mi fece notare e, voltandomi, intravidi degli studenti che parlottavano tra loro, indecisi se avvicinarsi oppure no.
Quando avevo ‘attirato’ l’attenzione di Celeste, o meglio, quando l’avevo rapita, mi ero riparato dietro una sorta di alberello a cespuglio, in modo che nessuno potesse riconoscermi. Evidentemente avevo fatto male i conti e la mia notorietà, per la prima volta, giocò a mio sfavore.
«Senti» le dissi, inspirando forte per controllarmi «andiamo a casa tua, mi dai il casco, e proseguiamo ognuno per la propria strada».
Anche se l’idea iniziale era stata quella di ‘provare’ un’avventura con una ragazza che non conoscesse affatto la mia identità, il carattere di Celeste era davvero insopportabile e non avrei voluto ritrovarmi, fra qualche anno, in cura da uno psichiatra.
Celeste mi fissò, poco convinta da quella mia proposta. «Va bene, ma tu aspetti sotto casa» puntualizzò, evitando accuratamente la possibilità che si potesse ripetere ciò che ieri mi aveva fatto guadagnare un biglietto gratis per Nudolandia.
«Giuro di non mettere più piede in quella bettola» esclamai, fregandomene altamente di apparire scortese.
Miss Acidità mi fulminò con lo sguardo, valutando attentamente l’ipotesi di continuare quel battibecco, poi scrollò le spalle e mi afferrò per il giubbotto di pelle, trascinandomi oltre il cespuglio.
«A-aspetta!» le intimai, per paura che qualcuno mi riconoscesse, ma ormai c’era ben poco da fare, eravamo ufficialmente usciti allo scoperto.
«Dove tieni quella tua specie di trabiccolo che solo un fioraio può permettersi» mi ricordò, sfoderando un sorriso fin troppo furbo.
«Ah, ah!» le risposi, cominciando ad accelerare il passo dirigendomi verso il parcheggio dei motorini. «Il sarcasmo non manca mai nei tuoi discorsi».
«Diciamo che ne faccio un’arma di difesa» mi spiegò lei, cominciando a blaterare su aneddoti della sua vita talmente pallosi che mi limitai ad annuire e a pensare a tutt’altro.
Quando passavamo vicino a qualche gruppetto di gente, i mormorii si levavano dai ragazzi più vicini ed io tentavo in tutti i modi di nascondermi, alzando magari il colletto del giubbotto, calcandomi meglio il cappello da baseball sulla testa e spingendo i Ray-Ban ancora più verso gli occhi.
Celeste, invece, procedeva spedita, a testa alta, completamente assorta nella storia di un certo suo amico, Roberto, Rodrigo, non ricordavo bene, e di un pennarello indelebile che lo riguardava. Avevo disconnesso il cervello quando dalle sue labbra erano uscite le famose parole ‘ad un mio amico è successo..’ e l’unica mia preoccupazione, in quel momento, era solo riuscire ad arrivare alla Vespa prima che qualcuno potesse gridare ‘Pittore, Pittore, posso farmi una foto con te?’.
La vernice bianca del trabiccolo spiccava come una macchia di latte nel caffè e ci misi tre secondi per raggiungere il mezzo a due ruote.
«E questo cos’è?» mi chiese Celeste, sempre più sospettosa.
«Una Vespa» risposi, facendo spallucce e cominciando ad indossare il casco.
«Questo lo vedo» sospirò «ma dov’è sparita la bambina?».
Per un attimo i nostri due sguardi s’incrociarono e dovetti accampare una scusa che precedentemente non mi ero preparato.
«Ho mentito, era di un mio amico la moto» dissi, sperando di essere convincente.
«Lo sapevo!» esultò lei trionfante, puntandomi il suo solito dito indice sotto al mento. «Sapevo che un fioraio non poteva permettersi una moto da 10.000 euro!».
«Brava, Sherlock» mormorai «cosa vuoi? Un premio?».
«Credo sia sufficiente un ‘avevi ragione’» disse, aspettando che quelle parole uscissero dalla mia bocca.
Se avesse saputo che la Ducati non solo era intestata a me, ma che nel garage di casa ne avevo anche una nera e un’altra gialla, l’avrei lasciata con la bocca asciutta. Purtroppo ero Ruben il fioraio, un ragazzo sempliciotto che poteva permettersi, al massimo, una Vespa vecchia come il cucco.
«Monta, spiritosona!» l’apostrofai, porgendole un altro casco, quello del vero Ruben.
«Mi sembrava di averti detto che non sarei mai salita su uno di quelli» mi fece notare stizzita.
«No, tu hai detto che non saresti mai salita su quel trabiccolo.. questo è un altro» le feci notare con ovvietà.
Celeste aprì la bocca, per poi richiuderla e sorridermi.
Per la prima volta riuscii a vedere un’espressione di reale divertimento sul suo viso perennemente imbronciato.
«Rigiri la frittata sempre come ti pare» disse, indossando il casco e montando dietro.
«È la mia specialità» sorrisi, ritrovando la mia solita arroganza.
Feci girare le chiavi nel cruscotto e la Vespa rombò rumorosamente. Feci scattare il cavalletto e diedi un po’ di gas, zigzagando tra gli altri motorini parcheggiati e accompagnando il moto con i piedi.
Arrivai fino all’uscita di Via Regina Elena, poi spinsi un altro po’ la Vespa e riuscii a imboccare la strada. Il semaforo era verde, perciò proseguii più avanti, attendendo le indicazioni del mio navigatore personale.
«La prossima a destra» mi disse, sporgendosi oltre la mia spalla e sussurrandomelo quasi all’orecchio.
Con la coda dell’occhio riuscii a vedere il suo viso, completamente rapito da quel mondo in movimento. Per un attimo mi sembrò perfino fin troppo carina, ma scossi prontamente la testa e ritornai in me.
«A sinistra e a destra, poi siamo arrivati» aggiunse, indicandomi una viuzza nascosta.
«Okay» risposi.
Feci sgasare la Vespa e seguii le indicazioni che mi aveva dato, fermandomi proprio sotto l’ingresso del palazzotto che avevo visto di sfuggita l’altro giorno, in mezzo alla pioggia.
«Siamo arrivati» comunicai, spegnendo il motore.
Celeste scese delicatamente, si tolse il casco e me lo porse. «Arrivo subito» disse, poi cercò le chiavi nella borsa e sparì al di là del portone.
Attesi qualche minuto, trastullandomi con le macchine che passavano e con i passanti che mi fissavano dubbiosi, senza riconoscermi. In fondo, passare qualche ora a vagare per la città senza essere fermato ogni cinque secondi aveva il suo fascino.
La notorietà era stancante, alle volte.
All’improvviso sentii una specie di tonfo provenire all’interno dell’androne, così mi alzai, tirai giù il cavalletto alla Vespa, e tentai d’intravedere qualcosa dalle vetrate. Feci un po’ d’oscurità con entrambe le mani, poi non riuscii a trattenere un sorriso.
Ai piedi delle scale c’era Celeste seduta per terra, intenta a massaggiarsi il sedere. Evidentemente era scivolata dalla fretta e il casco le era rotolato quasi fino ai miei piedi, vicino al portone appunto.
Poco dopo che la stavo osservando, i suoi occhi incrociarono i miei e come se fosse stata punta da un’ape, si alzò di scatto, rossa in volto e imbarazzata dalla scena che mi ero goduto dal primo all’ultimo minuto.
Riuscì a riacquistare quel poco di dignità che le era rimasto e raccolse il casco da terra, poi aprì il portone, fissandomi in cagnesco.
«Se dici qualcosa, ti uccido» ringhiò, poi mi spinse il casco a forza tra le mani.
«E chi ha parlato» risposi, soffocando a stento una risata.
Celeste sembrò poco convinta di quella mia falsa aria innocente, poi fece spallucce e tornò verso il portone. Io, dal mio canto, ritornai in sella alla Vespa e accesi il motore, fiero di aver ottenuto ciò che volevo.
«Allora è un addio» le urlai, al di sopra del rumore.
«Bye bye, fioraio» ridacchiò lei.
«Ancora non mi credi?».
«Non mi fiderò mai a quella faccia da mascalzone che ti ritrovi» mi rispose, posando una mano sulla porta.
A quel punto avrei dovuto tagliare il discorso e tornare a casa, magari per farmi una doccia e presentarmi al meglio per il servizio che avrei dovuto fare il pomeriggio, invece ebbi un’idea migliore.
«Scommettiamo?» le chiesi furbo.
Celeste sulle prime sembrò disorientata, poi lasciò andare il portone e mi raggiunse.
«Perché?» mi domandò, incuriosita.
Era acida, rompicoglioni, chiacchierona e frigida, ma aveva una curiosità tale che sarebbe andata in capo al mondo pur di ottenere quello che voleva.
«Secondo te io non sono un fioraio, giusto? Quindi io ti dico di scommetterci sopra» le spiegai, divertito dalle facce che stava facendo.
«E cosa dovremmo scommettere?» chiese, ormai divorata dalla curiosità. «Io non ho un becco d’un quattrino».
E il quel preciso istante si rivoltò le tasche, racimolando venti centesimi, o qualcosa di più.
«Non si tratta di soldi» le risposi.
Nemmeno se si fosse venduta quel pidocchioso appartamento in cui abitava sarebbe riuscita a pagare la cena cui ero solito recarmi il venerdì con i miei compagni di squadra. Cosa ci avrei fatto con i suoi soldi? Già ne guadagnavo a bizzeffe e non mi sarebbero serviti a nulla.
«Cosa ci scommettiamo, allora?» domandò, piegando la testa di lato, sempre più confusa.
Cos’altro avrebbe potuto chiedere un ragazzo che aveva già tutto?
«Te lo dirò alla fine di questa giornata, ci stai?» le chiesi, convinto che avrebbe fatto di tutto pur di avere ragione.
Celeste sembrò sul punto di rinunciare, troppo diffidente per fidarsi di uno con la faccia come la mia, però la sfida era troppo allettante per astenersi.
«Voglio proprio vedere cosa farai quando non saprai più che inventarti!» disse, afferrando il casco di Vale che mi aveva appena dato e riponendo quello di Ruben dentro il bauletto.
«Tieniti forte, allora. Ti faccio fare un giro della mia città» sorrisi.
«Non è tua» mi apostrofò, come al solito.
Sì, invece, perché io ero l’ottavo re di Roma.

Quanto sei bella Roma, quann’è sera
quanno la luna se specchia dentro er fontanone.

Non era notte e il sole splendeva alto nel cielo, ma noi avevamo appena imboccato Via Nazionale e la mia città già ci parlava. I semafori verdi, il traffico scorrevole, tutto stava ad indicare che quella giornata era iniziata col piede giusto e nonostante avessi fatto mille storie per ottenere il casco di Vale, vederlo fasciare la testa di Celeste mi dava una certa soddisfazione, tanto che non riuscivo a spiegarne il motivo.

E le coppiette, se ne vanno via
quanto sei bella Roma, quanno piove.

Arrivammo a Piazza Venezia quasi subito, beandoci della vista immensa del Vittoriano, così bianco da accecare i turisti che cercavano, invano, di fotografare l’immensità di quella struttura. Le coppie d’innamorati che si tenevano per mano e si scambiavano effusioni sulla scalinate, incuranti degli sguardi degli altri.
«Sapevi che la statua al centro, quella sul cavallo, è dedicata al Milite Ignoto?» mi chiese, cercando di fare sempre la parte della maestrina.
«No» mentii, ma la storia di quella piazza era l’unica cosa che mio padre mi avesse mai raccontato, al di là di ogni altra che riguardasse unicamente il calcio.

Quanto sei grande Roma, quanno è tramonto
Quanno l’arancia rosseggia ancora sui sette colli.

Imboccai la via del mercato, quella che costeggia i Fori e giunge fino ad una delle sette meraviglie del mondo: il Colosseo.
«Vedo la maestà del Colosseo» canticchiai, ricordando Roma Capoccia come uno degli inni più belli a quella meravigliosa città. «Vedo la santità del Cuppolone».
Inizialmente Celeste mi fissò sorpresa, poi si rilassò. «E so’ più vivo, e so’ più bono. No, non te lasso mai, Roma capoccia..» intonò lei, urlandolo quasi nel mio orecchio.
«Der monno ‘nfame!» continuai io, lasciando la presa sul manubrio del motorino e facendomi guidare dal vento.
«Ma che sei pazzo?!» gridò Celeste, completamente terrorizzata, avvolgendo le braccia strette attorno al mio busto e infossando il viso nella mia schiena.
«E anche se fosse?» ridacchiai, riprendendo il controllo del mezzo.
Per il resto del viaggio, Celeste non parlò più e si limitò a tenermi stretto. Non dissi niente per farle cambiare idea, soprattutto perché sentirla così vicina a me, senza che le parole taglienti che spesso uscivano dalla sua bocca riuscissero a dividerci, era quasi piacevole.
Svoltai a destra e rallentai, perché il negozio di fiori di mia nonna era vicino.
«Siamo arrivati?» mi chiese, mezza intontita.
«Sì» le risposi, poi mi fermai del tutto davanti al suddetto locale.
Celeste scese dalla Vespa e si slacciò il casco, porgendomelo e guardando Petali d’amore come se non avesse mai visto un’insegna in tutta la sua vita.
«Vorresti farmi credere che tu lavori qui» sentenziò subito, non fidandosi minimamente del mio continuo annuire con il capo.
«Non credere che ti basti farmi vedere la vetrina per poter vincere la tua stupida scommessa» puntualizzò, poi spinse la porta e si decise ad entrare.
Riluttante, la seguii, pronto a farmi una grandissima dose di risate.
«Buon giorno» disse timidamente, facendosi largo tra petunie e gigli.
«Vieni, vieni, cara!» gridò una voce proveniente dal fondo del negozio.
Avanzammo tra ficus benjamin un po’ troppo folti e interi cespugli di Ibiscus, ma finalmente, in mezzo a quel caos, riuscimmo ad individuare il bancone.
«Salve» ripeté Celeste, non vedendo comparire nessuno.
«Un attimo, sto arrivando!» gridò nuovamente quella voce, sempre più vicina.
Dietro ad una pianta di limone sbucò una vecchietta, con una nuvola di capelli bianchi sulla testa e un paio di occhi verdi vispissimi.
«Sono riuscita finalmente a ritrovare la strada» sospirò sfinita «alle volte questo negozio è come una giungla!».
Celeste non riuscì a fare a meno di sorridere vedendo quella donnina dai modi gentili e dai capelli arruffati, poi tentò di riprendere un po’ di contegno.
«Salve, signora» disse educatamente «volevo solamente sapere se questo baldo giovane al mio fianco lavora per lei. Si tratta di una scommessa e non vorrei perdere» sorrise, mantenendo un tono garbato.
La vecchietta cominciò a rovistare in giro, spostando rotoli di carta colorata e fiocchi di tutti i tipi, poi riuscì ad afferrare un paio di occhiali spessissimi e li inforcò, tornando a guardarci.
«Tu devi essere l’angelo che ha parlato» sorrise «cosa volevi sapere?».
Celeste tentò di non andare in escandescenze, come suo solito, perciò si armò di un falsissimo sorriso e ripeté la domanda.
Lo sguardo della vecchietta si spostò su di me ed io sorrisi facendole un cenno con la mano. I suoi occhi s’illuminarono, poi fece il giro del bancone e corse ad abbracciarmi mozzandomi il respiro.
«Chicco! Tesoro mio!» gridò euforica, stritolandomi tra le sue braccia.
Celeste ci fissava entrambi perplessa, poi sfoderò nuovamente la Brontolo-posa e incrociò le braccia al petto.
«È tua nonna» sbottò delusa.
«Credo sia sufficiente un ‘avevi ragione’» le rinfacciai, utilizzando le sue stesse parole e sfoderando un sorriso sfrontato.
Rimase di stucco quando le rifilai quella genialata di dialettica, ma evitò il mio sguardo pur di non darmela vinta.
«Chicco di nonna, ma cosa ci fai qui?» mi domandò lei, senza mai smettere di frantumarmi le ossa.
«Come cosa ci faccio qui? Non ricordi? Io ci lavoro!» le dissi, stando attento a non far scorgere un lieve cenno d’intesa che soltanto io e Annunziata conoscevamo, fin da quando ero bambino.
«Ah! È vero, che smemorata che sono! Certo, alla mia età, queste sviste sono normali..» ridacchiò rivolgendomi l’occhiolino.
«Quindi fa veramente il fioraio» sospirò Celeste, quasi incredula.
Sei un genio, Leo!
«Certo, cara, cos’altro pensi che facesse il mio Chicco?» le domandò la nonna, calandosi perfettamente nella parte. «È nato per coltivare fiori».
A quel punto rifilai a Celeste un sorriso a trentadue denti. Non potevo resistere al profumo della vittoria, sia che si trattasse di una partita, sia di una semplice scommessa.
«Ma questo bel bocciolo chi è, nipotino mio?» mi chiese Annunziata, facendo gli occhi dolci. «Non sarà mica la tua fidanzata!».
«No, no, signora!» precisò immediatamente Celeste, cominciando a gesticolare anche con le mani, come una pazza. «Io e Ruben siamo soltanto.. ehm.. conoscenti?» disse lei, non sapendo nemmeno come definire il nostro rapporto.
«Ruben, eh?» ripeté la nonna, guardandomi complice.
Decisi, allora, di peggiorare la situazione, tanto perché ormai ero calato nella parte e non mi pareva corretto non approfittarne. Mi avvicinai ancor di più a Celeste, liberandomi dalla stretta della nonna, e passai un braccio attorno alle spalle di Miss Acidità, avvicinandola al mio petto e facendola arrossire fino alla punta dei suoi capelli biondi.
«C-che fai?» balbettò confusa.
I suoi occhi acquamarina incontrarono i miei ed io non potei fare a meno di tirar fuori un sorrisetto furbo che la fece immediatamente accigliare.
«Beh, nonna, a questo punto possiamo anche andare» dissi, visto che l’ora del mio servizio fotografico si avvicinava e dovevo ancora riaccompagnare Celeste a casa. «Siamo passati soltanto perché la mia ragazza non credeva che uno come me potesse fare il fioraio» ridacchiai.
Annunziata mi sorrise complice. «Beh, dì a questa adorabile fanciulla che nessuno meglio di te può trasformare un semplice bocciolo in un bellissimo fiore».
Ovviamente si riferiva al soprannome che aveva dato a Celeste, non appena l’aveva vista, ma la biondina non aveva compreso il riferimento che quella volpe di mia nonna aveva tirato fuori.
«Noi andiamo, nonna» dissi abbracciandola «ci vediamo domani».
«Arrivederci, signora» mormorò Celeste educatamente, per poi soccombere alla stretta soffocante di Annunziata.
Uscimmo a fatica da quel negozio-giungla, poi raggiungemmo la Vespa parcheggiata poco più avanti e tirai fuori i due caschi, porgendole quello di Vale. Lei lo afferrò diffidente, senza dire una parola.
Era la prima volta che rimaneva in silenzio per più di cinque minuti.
«Non hai più niente da rinfacciarmi?» ridacchiai provocandola.
Celeste s’imbronciò e mi fissò col suo solito cipiglio acido. «Il fatto che tu sia un fioraio non cambia nulla, rimani sempre e comunque un pallone gonfiato».
Montai sulla Vespa e accesi il motore. Celeste si allacciò il casco e mi afferrò per un braccio, pronta a salire.
«Aspetta» la fermai, tirando fuori un ghigno quasi da folletto. «Non abbiamo lasciato in sospeso qualcosa io e te?» le ricordai.
Celeste inghiottì a vuoto e cercò di fare finta di nulla. «Non ricordo».
«Mi pare che la scommessa parlasse chiaro e visto che io sono il vincitore, ora posso dirti cosa riceverò in premio».
I suoi occhi azzurri divennero improvvisamente grandi, forse troppo, tanto che riuscii a sento a non perdermi in quell’oceano di emozioni. D’improvviso Celeste ritornò in sé e mi fissò dall’alto in basso, nella sua caratteristica Brontolo-posa.
«Avanti, spara. Cosa vuoi?» ringhiò indispettita.
Ci pensai un po’ su, non sapendo davvero cosa poterle chiedere di così imbarazzante da prendermi una piccola vendetta per avermi sbattuto nudo fuori di casa. Le avrei potuto restituire pan per focaccia, facendola girare in reggiseno e mutandine per il centro di Roma, ma poi pensai di essere lievemente maniaco a pensare una cosa del genere, poi mi venne in mente di mollarla lì e di farla tornare a casa a piedi, ma cancellai immediatamente quell’ipotesi dalla mente.
«Allora?» insistette, scocciata. «Non ho tutto il giorno da sprecare, io ho una vita da portare avanti e non sto tutto il giorno davanti allo specchio a pavoneggiarmi!».
Cosa c’era di più allettante di chiuderle finalmente quella ciabatta rumorosa?
«Baciami» le dissi e lei sgranò quei giganteschi occhi blu, come quelli delle bambole di porcellana.
«P-prego?» balbettò incredula, con la bocca che le si apriva e le si chiudeva a vuoto.
Il sorriso traverso che ero solito utilizzare nelle mie conquiste apparve al lato delle mie labbra, dandomi un aspetto malizioso. «Sei in debito con me, ricordalo» le mormorai, avvicinandomi pericolosamente e passandole un braccio attorno alla vita. «Ti chiedo soltanto un bacio e poi nient’altro».


Bene, bene, bene! Cosa dire di questo capitolo tanto sudato? Innanzitutto devo complimentarmi con la mia Lover, perché sono stata 3 ore buone a ridere di tutti i nomignoli dati ai gruppetti dell'università (anche perché io faccio uguale!) e voglio proprio farle un applauso per la bellezza della sua Celeste e del suo Robbeo *si alza in piedi e batte le mani con gli occhi  luccicanti*
Insomma avete conosciuto il bellissimo JeanPhilippe (o J che dir si voglia) e sappiamo con certezza che è l'unico ragazzo che, per ora, è riuscito a rendere quanto meno 'docile' la nostra piccola furia bionda di nome Celeste, ma chissà che il nostro Leo/Ruben, con la scusa della scommessa, riesca a far breccia in quel suo muro di sarcarso e acidità!
Uhuh, mi ero dimenticata del vero Ruben! -.-'' è pietoso, lo so, però divertente con la sua balbuzia! Diciamo che è tutto il contrario di Leo, per questo si trovano bene insieme!
Cos'altro dire? Ah! La nonnina di Leo, cioè Annunziata, che è complice tanto quanto il nipote della presa in giro nei confronti della porvera Celeste, e vi assicuro che apparirà più spesso d'ora in poi, rendendo la vita della nostra protagonista ancor più ingarbugliata!
Bene, bene.. passiamo ai ringraziamenti!
O.O'' già al secondo capitolo siamo arrivate a 10 recensioni! (ç.ç *io e Lover siamo commosse*) e mi scuso se non abbiamo risposto all'ultima della mia Khristh, ma internet con i suoi problemi permette a Manu di essere connessa sì e no 3 secondi! è.é
Ringraziamo le 9 persone che l'hanno inserita nei preferiti, le 23 nelle seguite e l'unica che l'ha messa tra le ricordate.
Inoltre ringraziamo i lettori silenziosi che hanno permesso al primo capitolo di ricevere ben 386 visite! Vi lovviamo!

Ora un po' di pubblicità (là, là, là):
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Tutto per una scommessa, storia romantica di IoNarrante.
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Il meraviglioso mondo di Alice, genere romantico by Clithia.


PERSONAGGI:

Celeste Fiore                                              Leonardo Sogno                    Romeo/Robbeo Ciuccio



JeanPhilippe                                                    Ruben Canilla





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Capitolo 4
*** Che mondo sarebbe senza bandana? ***


Scusate l'enorme ritardo per il 4° capitolo di Leo e Cel, ma purtroppo sia io che Marty siamo sotto esame e il tempo stringe, purtroppo! :S *chiediamo umilmente perdono!*



CAPITOLO 4
Che mondo sarebbe senza bandana?

«Co-come, scu-scusa?!» balbettai.
Nonostante i miei sforzi di mantenere il self-control, quella proposta inaspettata e il corpo di Ruben spiaccicato contro il mio mi avevano impedito di mantenere una lucidità tale da non balbettare e avere un tono di voce simile al belare di un caprone.
«Sei sorda, per caso?!» ridacchiò «Un bacio. B A C I O» scandii, come se fossi diventata d'un tratto scema, infastidendomi.
«Avevo capito» risposi acida «Era solo un'esclamazione di stupore!»
Vedi! Questo è più furbo di una volpe! Ti vuole irretire con la scusa della scommessa. Adesso un bacio, poi vorrà molto di più Celeste!
Puntai le mani sul suo petto e lo spinsi via, incrociando le braccia e tamburellando il piede sull'asfalto.
«Sei furbo Ruben!» esclamai «So dove vuoi arrivare!»
Lui sbuffò e allargò le braccia, facendole ricadere poco dopo lungo i fianchi.
«Perché secondo te ci dev'essere per forza un secondo fine?!» disse scocciato «Ti ho chiesto solo un bacio e basta. Poi puoi benissimo dimenticarti di me»
Ora ti guarda con gli occhi da cucciolo. Ti sta prendendo per i fondelli, non ci cascare.
«Non ci casco, bello!» lo rimbeccai, pungolandogli il petto con l'indice «Quindi te lo puoi scordare il tuo stupido bacio!»
Ruben roteò gli occhi, forse spazientito dal mio dito che, imperterrito, martellava il suo torace. Un giorno o l'altro me lo avrebbe staccato con un morso, ne ero più che sicura.
«Come vuoi» tagliò corto, afferrandomi con decisione la mano per farmi smettere di tartassargli il petto «Comunque credevo che fossi una ragazza di parola» aggiunse vago, scrollando le spalle «E invece...» sospirò, allontanando il suo sguardo dal mio e scuotendo la testa.
Non solo aveva approfittato di quella stupida scommessa, che mi aveva lasciato l'amaro in bocca per l'umiliante sconfitta, per potermi baciare, ma ora puntava anche sull'orgoglio della sottoscritta. E se c'era qualcosa che nessuno poteva fare era calpestare la mia dignità. Incrociai le braccia al petto e sorrisi sorniona.
«D'accordo, Chicco. Avrai il tuo maledetto bacio»
Un sorriso accattivante e trionfale si disegnò sulle labbra di Ruben.
«Sapevo che non mi avresti deluso, Cel!» esclamò.
«Celeste, grazie» ribattei acida «Solo i miei amici possono chiamarmi Cel»
Ruben sbuffò e si passò una mano sul viso, facendola poi ricadere pesantemente lungo un fianco.
«Ok, scusa, Celeste» brontolò, marcando il mio nome.
«Così va meglio» risposi soddisfatta.
Fece un passo verso di me e si abbassò, immergendo quegli smeraldi nei miei occhi e facendomi avvampare per la troppa vicinanza con il suo viso angelico. Deglutii l'aria e sfuggii dai suoi incantevoli occhi, indietreggiando di qualche passo prima che mi colpisse una sincope.
«Abbiamo un bacio in stand-by» mi ricordò per l'ennesima volta, con un sorriso sensuale.
Appoggiò la mano sul sedile della Vespa e si avvicinò maggiormente a me. Passò l'altro braccio dietro la mia schiena, impedendomi così di allontanarmi maggiormente da lui. Se prima avevo caldo, in quel momento la temperatura si era fatta decisamente afosa e bollente. Era un odioso pallone gonfiato, ma non potevo rimanere impassibile di fronte a cotanta bellezza, tutta condensata in un unico essere umano. Cercai di rimanere comunque indifferente, per quanto la calura e gli ormoni me lo permettessero.
Stai calma Cel, è solo uno stupido bacio. Due secondi, glielo dai e poi gli consegni un bel biglietto di sola andata per andare a quel paese.
Ruben si allungò verso di me, chiudendo gli occhi e con le labbra a sturalavandino. Respirai a fondo e mi infusi il coraggio necessario per accogliere quella sua stupida richiesta. Dalla mia riluttanza sembrava quasi che stessi per baciare un rospo bitorzoluto o Robbeo. Deglutii a vuoto, prima di avvicinarmi rapida a lui e posare per un solo istante le mie labbra contro le sue, in un veloce e quasi impercettibile bacio a stampo.
Vedi, in fondo non è stato così difficile. E tu che ti facevi tante paranoie.
Ruben riaprì gli occhi e mi guardò contrariato, con un sopracciglio alzato.
«E quello cos'era?!» domandò seccato.
«La tua ricompensa» risposi come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Quella roba doveva essere un bacio?!» esclamò incredulo.
«E cosa ti sembrava, Chicco?!»
«Una presa per il culo?» azzardò «Avanti Celeste, nemmeno a 10 anni davo baci così orribili»
«Hai avuto quello che volevi, ora scollati! Sembri una cozza appiccicata al suo scoglio» borbottai infastidita.
«No mia cara» ribatté sorridendo a trentadue denti «Io ti ho chiesto un bacio. Ma uno di quelli veri, alla francese, con lingue e controlingue»
«Non era specificato nel patto!» obiettai, cercando di spingerlo via, senza però riuscirci a causa della sua presa troppo stretta, quasi volesse soffocarmi.
«Era sottinteso!» ribatté sgranando gli occhi, sempre con quel sorrisino che avrei voluto cancellare a suon di pugni.
«Sei un'idiota» bofonchiai, spingendolo via con tutta la forza che le mie piccole braccia potevano contenere «La prossima volta esplica anche le clausole, così avrai la tua stupida controlingua»
Ruben respirò a fondo, alzando gli occhi al cielo come per cercare in esso la pazienza di sopportarmi. Ma molto probabilmente nemmeno quella distesa immensa di azzurro sapeva la formula per tollerarmi, dato che sbottò di punto in bianco.
«Diamine, prenditi un Malox per quella acidità! Non mi stupirei se a quarant'anni sarai ancora zitella»
«Sempre meglio sola che con un decerebrato come te» ribattei.
«Ti diverte proprio offendermi, 've?!» chiese seccato «Sai che ci sono molte altre attività per passare il tempo? Chessò, farsi un giro in moto, una corsetta, una bella scopata!»
«Te pareva» bofonchiai «Ma lo sai, troglodita, che il cervello si trova qui, nel cranio e non nei pantaloni?»
«BlaBlaBla» borbottò, muovendo la mano come se fosse il becco di una gallina «Io sarò fissato con il sesso, ma tu porca miseria, sei peggio di una suora! Stacca ogni tanto il cervello e goditi la vita!»
«Gran bel consiglio, lo seguirò» risposi sarcastica.
«Io dicevo sul serio» sbuffò «Non puoi tapparti in casa e uscire solo per andare all’Università. Ci si deve anche divertire!»
«Io non trovo divertente baciare degli sconosciuti!»
«Ma...cavoli» arrancò per l'incredulità «È un fottutissimo bacio. Non ti ho chiesto di venire a letto con me o di sposarmi!»
La sua voce cominciò ad essere urticante quanto uno spray al peperoncino e la mia pazienza si era esaurita da un bel pezzo. Per di più aveva anche avuto la sfrontatezza di giudicarmi senza nemmeno conoscermi e la cosa mi fece imbestialire. Decisa, feci un passo verso di lui e lo afferrai per la giacca di pelle, strattonandolo per farlo abbassare alla mia altezza. Seguendo il suo stupido consiglio, misi a tacere per un attimo il mio subconscio e la mia razionalità e appoggiai le labbra sulle sue. Ruben sgranò gli occhi, spiazzato dalla mia reazione. Cosa credeva, che Celeste Fiore si sarebbe lasciata insultare da un deficiente come lui?! Molto probabilmente non aveva ancora capito con chi aveva a che fare. Le sue braccia, dapprima penzoloni, mi cinsero la vita e mi spinsero verso il suo corpo. La mia determinazione andò scemando in modo direttamente proporzionale alla vicinanza del fisico di Ruben. Tutto d'un tratto mi sentii un imbecille, una scolaretta al suo primo bacio, impacciata perché non aveva la benché idea di come si baciasse ed era terrorizzata di usare sia la lingua che la compare controlingua. Ricambiai l'abbraccio, circondandogli il collo con le braccia. Ero nella posizione più congeniale per strozzarlo e liberarmi di loro, ma il fatto che non sentissi la voglia di farlo era preoccupante. E la cosa più allarmante era che in quel momento volevo solo ed esclusivamente che quel bacio non terminasse mai. Il ragazzo ci sapeva fare, anzi, era fin troppo bravo. Dischiusi le labbra e subito la sua lingua s'intrufolò nella mia bocca con irruenza. Già immaginavo che fosse uno di quei ragazzi che la usasse come se fosse una trivella o un'escavatrice che cercava strani tesori nella bocca altrui. E invece la delicatezza con cui si muoveva mi stupì e rese quello stupidissimo bacio qualcosa di estremamente ed inaspettatamente dolce. Intimorita e con un certo imbarazzo, lambii la sua lingua con la mia, sentendo un brivido partire dalla schiena e propagarsi in tutto il corpo come una scossa elettrica. Dovevo sembrare una dilettante per come lo stavo baciando ed ero sicura che non appena mi fossi staccata da lui, avrebbe cominciato a ridere ed insinuare che quello era il mio primo bacio e palle varie.
E no! Ha calpestato abbastanza il nostro orgoglio!
Guidata dal mio subconscio e dalla mia dignità, affondai le mani nei suoi capelli, spingendolo sempre più verso di me. Assaporai le sue labbra e divenni quasi famelica, tanto che la mia lingua si mosse sinuosa e irruenta nella sua bocca. Contagiato da quel mio attacco di lussuria improvvisa, il bacio di Ruben divenne più passionale e la sua stretta si fece pericolosamente troppo stretta. Il cuore cominciò a martellarmi nel petto con irregolarità e lo sentivo rimbombare quasi in tutto il corpo, perfino nella punta dei piedi. E il suo strusciarsi addosso a me non migliorava le cose, anzi le faceva precipitare, soprattutto nel sentire il suo bacino e ciò che c'era leggermente sotto in stretto contatto con il mio corpo.
Ok, basta Celeste. Ti sei spinta anche troppo oltre. Se vai avanti questo pensa di aver ricavato anche una scopata da questa scommessa.
Allentai la presa su di lui e ritrassi la lingua. Ruben assaggiò per un'ultima volta il mio labbro inferiore, prima staccarsi da me e intrappolarmi nella rete smeraldina dei suoi occhi. Nonostante quel bacio mi fosse piaciuto anche più del dovuto e che sarebbe riuscito a risvegliare la pornostar che abitava nei meandri della mia razionalità, cercai di apparire impassibile, magari anche leggermente schifata.
«Vedi?! Cosa ci voleva!» ridacchiò.
«Sei felice ora?!» domandai, incrociando le braccia.
«Direi soddisfatto» rispose, sfoderando il suo immancabile sorriso acchiappa oche.
«Bene. Ora che sei compiaciuto per aver vinto la tua stupida scommessa e per aver riscosso il premio, puoi anche portarmi a casa»
«Quanta fretta!» esclamò, alzando un sopracciglio.
«Voglio liberarmi di te il prima possibile»
«D'accordo» sospirò.
Diede un rapido sguardo al suo orologio e sbiancò, diventando più candido delle lenzuola di mia nonna.
«Cazzo» sibilò.
«Che ti prende adesso?» domandai confusa.
Mi ammollò il casco tra le mani, senza rispondermi e s'infilò il suo con una rapidità pari solo a quella di Flash.
«Non c'è tempo per spiegare. Muoviti e salta su!» mi incitò, montando su quella carretta e azionando subito il motore.
Non appena appoggiai il sedere sul sedile della Vespa, questa partì, spedita e con una velocità che non mi sarei mai aspettata da un catorcio del genere. Strinsi il busto di Ruben, affondando il viso nel suo giubbotto di pelle pietrificata dalla rapidità che quel trabiccolo raggiungeva secondo dopo secondo. Per di più lui era un pazzo spericolato, che passava tra le macchine con nonchalance, rischiando di farsi sbalzare via da una di quelle auto. Mi guardai intorno, per orientarmi e dargli le indicazioni stradali per tornare alla mia bettola.
«Alla prossima devi girare a destra!» urlai per sovrastare il rombo del motore.
Ma Ruben pareva sordo. O era morto tutto d'un tratto. Gli ripetei la stessa frase, alzando la voce e avvicinandomi maggiormente al suo viso che, anche sotto quel casco, emanava una rara bellezza.
«Ho capito!» esclamò infastidito.
Peccato che in realtà non avesse compreso proprio un bel niente dato che superò l'incrocio, proseguendo dritto per la sua strada. O mi stava prendendo per i fondelli, o il mio bacio gli aveva fuso l'unico neurone che gli era rimasto. Poiché io non avevo di certo un effetto tale su un uomo, quel bell'imbusto si stava prendendo gioco di me. Gli mollai un pugno sulla schiena e lo sentii mugolare per il colpo.
«Ma sei impazzita?!» sbottò, guardandomi dallo specchietto e facendomi mancare un battito per l'incontro con i suoi occhi.
«Ti avevo detto di girare a destra!» risposi con lo stesso tono.
«Sì lo so, ma mia cara Celeste, non stiamo andando a casa tua»
Sapevo che avrei dovuto fermarti! Quel bacio è stato troppo passionale, ora crede di averti irretita e che tu gliela smollerai. Ti sta portando a casa sua!
Mi pietrificai all'istante nel sentire il mio subconscio parlare così. Quello lì voleva approfittarsi di me! Avrei dovuto dare ascolto ai miei pensieri, avrei dovuto dargli una calcio nei gioielli di famiglia invece di quel bacio.
«Sei un pervertito!» sbraitai.
«Che ho fatto?!» domandò confuso.
«So cos'hai in mente!» ringhiai «Fammi scendere, ora!
Cominciai a schiaffeggiargli la schiena, agitandomi e rischiando di cadere da quel trabiccolo. Sempre meglio però giacere sull'asfalto che in casa di quel maiale.
«La smetti di prendermi a schiaffi?!» sbottò «Se fai così rischiamo di cadere!»
«Non m'importa!» ribattei «Brutto maiale!»
«Celeste, mi fai male!» si lamentò «E mi deconcentri!»
«Ti sta bene. Approfittatore che non sei altro!»
«Ma ti sei bevuta il cervello, per caso?!» mi provocò.
«Cosa credi, che sia una rimbambita?! Non credere che adesso io venga a letto con te solo perché ti ho dato quello stupido bacio?!» tuonai.
«Non è come credi!» rispose tranquillo.
Smisi piano piano di prenderlo a sberle, nonostante la voglia di ucciderlo non si era ancora allontanata da me. Avrei aspettato di scendere da quella carretta per assestargli un calcio negli stinchi, in pieno stile Celeste e poi avrei urlato per attirare l'attenzione di qualcuno che mi salvasse dalle grinfie di quel pervertito.
Ottimo piano Cel. Io non avrei saputo fare di meglio.
La vespa si fermò all'altezza di un enorme palazzo che sembrava uscito da un film ambientato a New York. Cavoli, il fioraio aveva anche un appartamento in un grattacielo USA style. Smontai da quel catorcio e attesi che scendesse anche lui per potergli assestare il colpo segreto di Celeste Fiore. Caricai la gamba, ma il calcio colpì l'aria perché Ruben fu più veloce di me e si scansò.
«No cara mia! Questa volta non hai fatto centro!» gongolò.
Sorrisi sadicamente e gli pestai fulminea un piede. Lui soffocò un urlo e si abbassò ad abbracciarsi la parte lesa.
«Così impari a portarmi a casa tua per le tue zozzerie!» sbottai.
«Ma quale casa mia?!» ribatté ancora dolorante «Questa è la sede di Vogue!»
Alzai gli occhi a guardare il cielo e vidi svettare sulla sommità di quel palazzo la scritta Vogue. Mi morsi un labbro e lo guardai con aria innocente.
«No-non è casa tua» ridacchiai nervosamente.
«La prossima volta, non partire in quarta» borbottò Ruben, rialzandosi.
Mi guardò con insistenza, incrociando le braccia, come se si aspettasse di sentirsi dire qualcosa da me.
«Che c'è?!» domandai irritata.
«Uno scusa sarebbe d'obbligo»
Sbuffai e roteai gli occhi, picchiettando il piede sull'asfalto.
«Scusa!» esclamai stizzita.
Ruben sorrise sornione e mi passò un braccio dietro la schiena, avvicinandomi a lui. Mi scompigliò i capelli e mi trascinò dentro quel palazzone.
«Per la cronaca, cosa dovremmo fare qui?» chiesi confusa, mentre Ruben dispensava sorrisini e saluti a tutti quelli che incontrava.
«Per la cronaca siamo qui per un servizio fotografico» rispose per le rime.
«Un servizio?» ripetei sempre più confusa.
«Già. Vedi» tentennò, portandosi alla nuca «Ogni tanto, per arrotondare, faccio il modello»
Mi liberai dalla sua presa e gli puntai l'immancabile dito indice sotto il mento, guardandolo soddisfatta, quasi trionfante.
«Sapevo che eri uno di quelli che posano mezzi nudi per prendere qualche quattrino!»
«Sei proprio un segugio, eh, commissario Rex» ridacchiò.
Una ragazza assunse un'aria sognante non appena lo vide sfilare davanti a lei e si avvicinò lentamente a noi, quasi in uno stato catatonico.
«Tu sei Le...» cercò di dire, ma non riuscii a sentire la fine della frase che Ruben mi afferrò un polso e mi trascinò dentro l'ascensore. Premette convulsamente il tasto del terzo piano come se quello avesse accelerato la corsa di dell'aggeggio. Quando le porte di metallo si richiusero, Ruben si appoggiò allo specchio e tirò un sospiro di sollievo.
«Tu sei le...cosa?» domandai confusa.
Lui boccheggiò, sfuggendo al mio sguardo indagatore.
«Sono le...leone» esclamò «Roar!» aggiunse, enfatizzando il tutto con il gesto di una zampa. 
Tutta quella situazione mi sembrava alquanto strana, così come Ruben mi dava l'idea di essere un personaggio bizzarro, magari con qualche rotella fuori posto. Stavo per obiettare nuovamente, perché era chiaro che quella fosse una scusa campata per aria, quando l'ascensore si aprì.
«Hey campione, finalmente! Pensavo ti fossi dimenticato!» esclamò subito un tizio con una gigantesca macchina fotografica appesa al collo, che ci stava aspettando fuori da quella trappola metallica.
«Ho avuto da fare» rispose vago Ruben.
Il tizio con la macchina fotografica mi guardò, poi gli lanciò un occhiolino, alludendo al fatto che fossi stata io e la mia Iolanda la causa del suo ritardo e la cosa mi indispettì oltremodo.
«Vai al trucco e parrucco e a cambiarti. Alla svelta!» lo incitò «Alla tua pupa ci penso io»
«Prova a ripetere pupa e ti tiro un calcio negli stichi, fotografo da strapazzo!» sibilai, puntandogli un dito contro.
«E lo farà. Eccome» s'intromise Ruben, ridacchiando «E comunque la pupa viene via con me. Non mi fido di un mascalzone come te»
Il fotografo scoppiò a ridere, annuendo fiero di essere stato definito un degenere e il fioraio si unì a lui. Lo indicò e gli fece un occhiolino, prima di braccarmi la spalla e obbligarmi a seguirlo.
«Simpatico il tuo amico» borbottai indispettita.
«Come un calcio negli zebedei» ghignò Ruben.
«Allora vuol dire che ti piace prendere calci lì dove non batte il sole visto come ridevi» ribattei nervosa.
«Nah! Ormai quello è più di là che di qua. Gli do solo corda» spiegò Ruben.
Entrammo in un enorme stanza che era stata adibita a centro di bellezza, con specchi giganti e piccoli riflettori che illuminavano il tutto.
«È arrivato il campione!» esclamò un tipo.
Ruben si staccò da me e andò a salutare tutti gli addetti al trucco e parrucco, soffermandosi maggiormente sulle ragazze che lo guardavano quasi con la bava alla bocca. Incrociai le braccia e ogni volta che Ruben dava un bacio sensuale a quelle gallinelle, sentivo una strana rabbia crescere dentro di me.
Celeste, non dirmi che sei gelosa?!
No, impossibile! Anche se mi infastidiva vederlo mentre si pavoneggiava con quelle squinternate.
«Hei Chicco! Vedi di darti una mossa!» sbottai «Io dovrei anche tornarmene a casa. Sai, ho dei libri sui quali passare i pomeriggi se voglio superare gli esami»
«D'accordo, sua maestade!» sbuffò Ruben, sedendosi sulla poltrona del parrucchiere.
Mentre lo preparavano per quell'odioso servizio fotografico, io me ne stavo appoggiata alla parete, completamente spaesata. Non mi trovava a mio agio in un posto come quello, troppi trucchi, troppi riflettori, troppa gente che serviva e riveriva la star di turno. Loro sgobbavano come formiche prima dell'inverno, mentre il modello o la modella se ne stavano lì seduti come pascià a messaggiare e farsi gli affari loro e prendevano quasi il quadruplo dei loro inservienti solo per mostrare un po' di gambe e un fondoschiena. Ormai ne ero più che sicura, il mondo stava andando piano piano a rotoli.
«Dai campione, vai a cambiarti!» esclamò un addetto ai lavori, indicandogli un separé alle sue spalle. Senza neppure fiatare, Ruben scattò dalla sedia e si nascose dietro quella cabina improvvisata.
«Ma perché continuano a chiamarti campione?» gli domandai, avvicinandomi a quel separé.
«Sei per caso il tenente Colombo in incognito, che mi fai tutte queste domande?!» ribatté.
«Mi sembrava solo strano che ti chiamassero campione!» esclamai «Ma se non vuoi rispondere, vorrà dire che hai qualcosa da nascondere»
Ruben tentennò qualche attimo e farfugliò qualcosa, prima di far spuntare il viso dal divisorio.
«Ho-ho vinto una» esitò «competizione fioristica!»
«Floreale semmai» lo corressi «Comunque, mi stai prendendo in giro per caso?! Pensi veramente che io creda ad una sciocchezza del genere?!»
Ruben apparve da dietro il separé e scrollò le spalle. Qualsiasi mia voglia di ribattere e di aggredirlo verbalmente sparì davanti alla visione del suo fisico. Indossava sono uno striminzito slip bianco che poco lasciava all'immaginazione e che costrinse i mie neuroni a fare harakiri.
«Fai come vuoi» tagliò corto lui.
La temperatura di quella stanza continuava a salire e sentivo le guance surriscaldarsi quasi mi stesse salendo un febbrone da cavallo. Boccheggiai in cerca di ossigeno da racimolare, nonostante sembrasse si fosse rarefatto. Cercai di ribattere, ma tutto ciò che usciva dalla mia bocca erano solo rantoli simili a dei grugniti.
«Sei rimasta senza parole, eh?!» disse Ruben con il suo sorrisino seducente «Faccio sempre questo effetto»
Avanti Celeste, rispondi, sennò crederà di averti in pugno. Immagina che al suo posto ci sia Robbeo.
Al solo immaginare il fisico flaccido e biancastro da petto di pollo al vapore di Romeo, rabbrividii.
«Ti ho già visto senza maglia e i tuoi stupidi muscoli non hanno effetto su di me» sorrisi soddisfatta «Ora vai a fare questo servizio e portami a casa»
Ruben mi mandò a quel paese con un rapido gesto della mano e si diresse verso l'altra stanza dove era stato allestito il set fotografico. Io lo seguii e il mio sguardo non poté non cadere sul suo sedere che prosciugò all'istante quel briciolo di lucidità che avevo ritrovato. Rossa in volto, alzai lo sguardo costringendomi a non abbassarlo per nessun motivo. Se avessi rivisto le sue natiche sarei sicuramente morta d'infarto.
«Ecco il nostro campione!» esclamò il fotografo appena ci vide entrare.
Il set era molto semplice e sobrio, solo una parete bianca ed una finestra dal quale filtrava la luce solare. Un tizio allungò una bandana rossa a Ruben e gli indicò dove sistemarsi per il servizio.
«Perfetto campione» disse il fotografo «Gioca con la bandana e dammi uno sguardo sensuale»
Ruben eseguì alle lettera tutte le indicazioni che gli venivano date ed io rimasi lì come una cretina a bocca spalancata ad osservare qualsiasi suo movimento. Potevo benissimo distogliere lo sguardo e puntarlo verso qualcosa che non fosse il suo fisico, ma era magnetico e i miei occhi rimasero incollati su di lui. La mia situazione cardiaca, però, peggiorava ad ogni istante per cui decisi di catalizzare la mia attenzione sulla bandana. Ma fu tutto inutile perché, come se lo facesse a posta, Ruben la teneva troppo vicina ai suoi adorati gioielli di famiglia e solo in quel momento mi accorsi che Madre Natura non era stata gentile solo nel donargli quel viso e quel corpo, ma lo aveva attrezzato per benino. Oddio, mi stavo trasformando in una pervertita! Per quanto cercassi di puntare lo sguardo da tutt'altra parte, la bandana catturava sempre la mia attenzione.
Solo perché è rossa.
Sì, certo. Peccato che stessi guardando tutt'altro.
Bandana, bandana, bandana.
'Na parola!
Bandana, bandana, guarda la bandana, guarda la banana...volevo dire BANDANA!
Ecco, anche il mio saggio e lucido subconscio perdeva colpi di fronte ad uno spettacolo simile. Sentivo il cuore pulsare violento nelle orecchie e sembrava quasi che qualcuno avesse respirato tutta l'aria di quella stanza. Ed il sole, in confronto a quel posto, era freddo. Cercai aiuto nel mio subconscio, nei suoi consigli che mi salvavano sempre in momenti difficili come quelli, ma era irraggiungibile, partito forse per bandana-landia.
Mayday, mayday, Celeste chiama subconscio, Celeste chiama subconscio! Cosa devo fare?!
Taci un attimo e goditi lo spettacolo. Non ti ricapiterà mai più di vedere uno così, con una “bandana” del genere.
Oddio, era impazzita anche la parte razionale di me. Ed io senza di lei ero perduta! Senza di lei era come trovarsi nel bel mezzo del deserto senza acqua e senza nessuna speranza di uscire viva da quel manto di sabbia.
«Bene, perfetto!» urlò il fotografo «Ottimo servizio, campione!»
Ruben si avvicinò al tizio e batté il cinque, tronfio e compiaciuto di se stesso e della sua bellezza. Poi si avvicinò a me sensuale, stringendomi la spalla e facendomi aderire a quel corpo che mi aveva ridotto ad una ameba decerebrata.
«Allora, ti è piaciuto?» mi domandò.
«Non stavo nemmeno guardando» mentii, rimanendo il più distaccata possibile «Pensavo ad altro»
«Davvero?!» chiese incredulo.
«Mio caro Ruben, su di me i muscoli non fanno effetto. Io preferisco quell'organo che tu non hai e che si chiama cervello al fisico» risposi, staccandomi ed allontanandomi da lui «Ti aspetto giù» aggiunsi, prenotando l'ascensore.
Ruben sospirò ed annuì, prima di sparire nella stanza del trucco e parrucco. Per fortuna se l'era bevuta. Certo, avevo una predilezione per l'intelligenza, ma come potevo resistere a quel fisico che mai avevo visto nella mia vita se non su cataloghi o programmi di moda?
Sospirai. Non era mai successo che il mio subconscio si zittisse solo perché si trovava davanti un palestrato e che la mia lucidità si allontanasse da me tutto d'un tratto. Ci riusciva a malapena J! E avevo anche la prova che ormai ero totalmente impazzita a causa di Ruben. Nonostante mi sforzassi in tutti i modi, non riuscivo a ricordare, perché offuscata dalla sua immagine quasi perfetta.
Ma di colore era quella maledetta bandana?

 


La Vespa rombava sotto i miei piedi, mentre le piccole mani di Celeste mi stringevano forte lo stomaco. Da quando avevamo lasciato l’agenzia pubblicitaria di Vougue, era stata stranamente silenziosa, non tanto per l’imbarazzo di avermi visto mezzo nudo, dato lo scopo del servizio fotografico, ma ero sicuro che la sua lingua tagliente non mi aveva ancora offeso, soltanto perché stava rimuginando sul bacio e sulla scommessa.
Ovviamente sapevo di avere un certo talento, anzi, alle volte mi domandavo se fossi stato in grado di far avere un orgasmo ad una donna soltanto con la forza di un bacio. Chissà.. con Celeste c’era tutto il tempo di sperimentare.
Fermo, fermo, bello! Non è che stai pensando a qualcosa di duraturo con lei, vero? Sei Leonardo Sogno, il ragazzo single più desiderato da tutti, non puoi buttarti sulla prima cervellona che ti capita tra le mani.
Era una cervellona che sapeva usare la lingua divinamente, però.
Passammo nuovamente vicino al Colosseo, oltrepassando il Vittoriamo e buttandoci su Via Nazionale. Con la coda dell’occhio cercai il suo sguardo, ma il suo viso era rivolto alla gente che camminava, scorrendo a grande velocità davanti ai suoi occhi color del mare.
«Ti è piaciuto il servizio fotografico?» le domandai, urlandoglielo al di sopra del frastuono del traffico.
Celeste rialzò la testa dalla mia schiena e mi guardò sbattendo le palpebre, come se l’avessi distolta da chissà quali pensieri. «Mi hai chiesto qualcosa?» domandò, quasi cadendo dalle nuvole.
Io le sorrisi, troppo divertito da quella sua espressione quasi assonnata. Da quando l’aveva incontrata il giorno prima, non avrei mai pensato che la biondina tutto pepe potesse avere dei momenti di mancata lucidità, ma anche in lei qualcosa era cambiato.
«Sei rimasta folgorata dalla mia bellezza, piccola?» gongolai io, incapace di nascondere la mia sbruffonaggine. «Da quando siamo andati via da Vogue sei.. come dire.. assente!».
A quel punto risvegliai la belva che coabitava con la bella Celeste e le vidi rispolverare la Brontolo-posa. «Piccola?» sbraitò alzando un sopracciglio. «Senti, non credere che aver ficcato la tua fottutissima lingua nella mia gola faccia di noi dei confidenti o chissà cosa! Per quanto riguarda il mio silenzio, caro il mio Mr. Egocentrico, stavo riflettendo su alcune cose e non ho minimamente rivolto la benché minima considerazione a quelle quattro foto che ti hanno scattato!».
Era ritornata la piccola furia bionda che non perdeva mai un momento per insultarmi.
«Sì, certo» bofonchiai ridacchiando. «Ammetti che ti è piaciuto».
«Cosa?» domandò sarcastica. «Quella specie di slinguazzata che persino il mio cane avrebbe dato meglio, oppure il fatto che hai rubato dei soldi a quelli?».
«Rubato?» chiesi stupito.
«Certo!» esclamò con ovvietà. «Non riesco proprio a capire come possano pagarti per stare in mutande, dico io! Io ci sto tutto il giorno e nessuno mi da il becco d’un quattrino.. ma uno come te, che fa il fioraio, in quale altro modo potrebbe arrotondare lo stipendio? Il porta-pizze è ormai out.. meglio denudarsi per gli sconosciuti!».
Altro che in modalità ‘peperina’, Celeste era saltata direttamente a ‘incazzata nera’ senza alcun preavviso e nemmeno sapevo il perché. Odiava i calciatori, questo era un dato di fatto, ma ora se la prendeva anche con i modelli? Cosa avrei dovuto fare, mentire anche su quello?
«Cosa devo fare per non farmi urlare contro da te?» sbuffai, tornando a guardare la strada. «Se ti bacio, ti incazzi, se ti riaccompagno accasa, mi urli contro, persino quando lavoro sei incavolata con me! Non so più cosa fare..».
Daje che la tattica della commiserazione funziona sempre!
Celeste rimase in silenzio per qualche minuto, dopodiché riallacciò le braccia attorno alla mia vita e affondò il viso nella mia spalla. «Scusa» biascicò contro la pelle della mia giacca.
«Che?» urlai, fingendo di non capire.
Lei sbuffò contrariata e roteò quegli occhi azzurrissimi che cominciavano davvero a farmi perdere la testa. «Ho detto che mi dispiace, Ruben, ma in questi giorni sono un po’ stressata!».
Voltai per un attimo la testa e la inclinai di lato, guardandola con aria ‘fintamente’ interessata. «Perché? Non sapevo che Miss Acidità potesse soffrire di stress!» ridacchiai.
Celeste mi fulminò con lo sguardo e mi snobbò con uno sbuffo. «Il mio capo vuole farmi fare i turni di notte, e non ne ho proprio voglia. Già soffro di narcolessia, ci manca solo che mi addormenti al negozio e venga stuprata dal primo che passa!».
Che noia.. questa quotidianità è stancante. Fossero questi i problemi della tua vita, eh, Leo?
Già, ne uscirei pazzo!
«Ma che lavoro fai? Se posso chiedertelo senza che tu mi morda» le domandai con tranquillità.
La biondina mi guardò sospettosa, poi scrollò le spalle ignorando la diffidenza. «La gelataia» mormorò, per nulla imbarazzata.
Rimasi a bocca aperta e per poco non ingoiai un moscerino. Ma quanto si guadagnava a mettere il gelato sul cono? Cinquanta euro al giorno? Io li spendevo soltanto di benzina per la mia bambina..
«V-vendi il gelato?» balbettai, ancora incredulo.
Gli occhi di Celeste si ridussero a fessure, e anche se non incrociò le braccia, assunse la Brontolo-posa meglio che poteva. «Perché? Cos’ha da ridire il tuo ego sproporzionato?».
Mi grattai la testa sotto il casco, poi tornai a guardare la strada. «N-niente!» mi difesi subito, battendo in ritirata. «Ma non fa ancora freddo perché la gente lo compri?» le chiesi ovviamente.
Lei ci pensò un po’ su, poi tornò a guardarmi sempre più convinta. «Io lo mangio pure a Gennaio, a costo di farmi cadere tutti i denti! È troppo buono.. il miglior dolce del mondo!».
Dopo quella sua affermazione, con tanto di espressione fermamente convinta e pugni stretti davanti al viso, non potei fare a meno di ridere come uno scemo. Era troppo forte quella tipa, c’era da ammetterlo. Una così si poteva incontrare una volta nella vita.
«Che ti ridi, imbecille!» tuonò offesa. «La finisci di sfottere?».
«Reggiti, Cel.. ora voliamo!» gridai, dopo aver ripreso il controllo del mezzo. Sentii le sue mani stringersi al mio petto ed io posai la mano sull’acceleratore, ruotandolo fino al massimo.
La vespa protestò per qualche minuto, poi accelerò. Zigzagai tra le macchine, proprio come facevo con la Ducati, con l’unica differenza che il trabiccolo di Ruben andava a due all’ora. Arrivammo a Piazza della Repubblica, dopodiché raggiungemmo Termini in pochi minuti.
«Tu sei pazzo!» mi urlava Cel all’orecchio, ma questa volta aveva un sorriso a trentadue denti stampato sul quel meraviglioso viso.
«È un complimento per me!» le risposi con la mia solita aria da sbruffone, e diedi ulteriormente gas.
Arrivammo a casa di Celeste in poco tempo, quasi senza accorgercene. Ormai non avevo quasi più bisogno delle sue indicazioni e, volendo, sarei potuto tornare da lei senza nemmeno usare il navigatore.
Non avevi detto che sarebbe stata l’ultima volta che l’avresti vista?
Ignorai quel pensiero del mio ego e accostai, vedendo in lontananza una specie di macchiolina esageratamente rossastra. Avvicinandoci, vidi che quella macchiolina diventava la testa di un tizio e rimasi orripilato da chiunque avesse il coraggio di andare in giro con un colore di capelli così terribile.
«È Romeo!» esclamò Celeste. «Ma cosa ci fa fuori dal portone?».
Il pensiero che potesse conoscerlo mi diede leggermente fastidio sulle prime, poi, vedendo meglio il tizio che rispondeva a quel nome così ridicolo, tirai un sospiro di sollievo e misi a cuccia la mia competitività.
«Conosci davvero quel babbeo?» ridacchiai, osservandolo meglio.
Indossava un paio di jeans logori con delle di scarpe altrettanto passatelle, per non parlare poi della Lacoste che sfoggiava, modello degli anni ’60, sicuramente ‘ereditata’ dal padre ed esibita con orgoglio soltanto perché era l’unico capo di marca che un pezzente come quello poteva permettersi.
Su una spalla teneva uno zaino rattoppato, ma alcuni libri gli ciondolavano dalle mani lentigginose e bianche.
«A Celeste, era ora!» sbottò avvicinandosi. «Non ho le chiavi e so’ rimasto fuori casa. Ma dove cavolo ti eri cac-…».
E in quel momento i suoi occhi si spalancarono, incontrando i miei. Lo vidi passare da un colorito bluastro, ad uno viola, poi ad uno rosso. Deglutì a vuoto e cominciò a boccheggiare come un pesce, per poi puntare un dito tremante contro il sottoscritto.
Fu in quel preciso istante che compresi che mi aveva riconosciuto.
«Quanto rompi, Robbé» sbuffò Celeste indignata, scendendo dalla vespa e frugando nella borsa alla ricerca delle chiavi. Nel frattempo si era avvicinata al portone senza nemmeno togliersi il casco.
Il suo amico era ancora immobile come una statua.
Avrei dovuto inventare qualcosa, altrimenti mi avrebbe fottuto per bene quel fallito del cazzo!
«T-tu.. t-tu.. tu-tu..». Ecco! Ci mancava solo un altro balbuziente. «T-tu s-sei Le-Le-Le-onardo S-Sogno…» sussurrò incredulo, più per autoconvincersi che altro.
A quel punto scesi fulmineo dalla vespa, gli passai un braccio attorno alle spalle e avvicinai la mia bocca al suo orecchio.
«Devi farmi un favore, amico» gli dissi, mentre i suoi occhi verdi si spalancarono per l’eccessiva vicinanza con il sottoscritto.
«S-sì-s-sì-s…s-ì!» balbettò ancora, raggiungendo il color porpora.
Tirai fuori un sorriso sornione e gli diedi una sonora pacca sulle spalle. «Celeste non sa chi sono e vorrei mantenere il segreto sulla mia identità» gli spiegai, senza tirarla troppo per le lunghe. «Dille che sono il tuo caro e vecchio amico Ruben, ed io ti regalerò l’abbonamento in tribuna d’onore per la prossima stagione».
Se avesse potuto, il rosso si sarebbe strappato gli occhi fuori dalle orbite dalla sorpresa.
«Dirò tutto quello che vuoi, posso anche far finta di essere il tuo fidanzato!».
Quella sua improvvisa confessione ci lasciò interdetti entrambi, ma io cercai di fare finta di niente, tanto sapevo che quel tipo era totalmente suonato.
«Cosa state confabulando voi due, eh?» ci domandò Celeste, ancora con il casco in testa e l’aria corrucciata.
Il rosso scattò immediatamente e le sorrise. «Non sapevo conoscessi Roberto!» esclamò con un sorriso finto come la banconota da 3 euro.
«Ruben» gli suggerii.
«Ruben! Non sapevo conoscessi Ruben!».
«Non dirmi che sei amico di questo troglodita!» sbottò Celeste, sospettosa.
«Trogo-che?» domandò il rosso, sinceramente confuso.
Celeste roteò gli occhi scocciata, poi spalancò il portone. «Volete rimanere lì imbambolati o entriamo?» ci spronò lei.
«Sì!» esclamò l’amico di Celeste, fiondandosi nell’androne, poi lo sguardo della biondina si spostò su di me.
«E tu? Hai bisogno di un invito scritto?».
Mi avvicinai a passi lenti, poi le sfoderai uno dei miei sorrisi più seducenti. «Mi inviti a salire dopo appena un bacio?» ridacchiai malizioso. «Ed io che pensavo fossi una ragazza per bene».
«Sei proprio un ragazzino, ma quando cresci?» sbuffò lei, voltandosi ma io le posai le mani sul casco e la bloccai, facendo aderire il suo corpo al mio. «C-che vuoi razza di pervertito!».
«Il mio casco..» le soffiai sul collo.
In meno di tre secondi netti, Celeste si slacciò il casco e si staccò da me come se stessi andando a fuoco.
«Muoviti o andrai a piedi!» tuonò, riferendosi all’ascensore che ci stava aspettando insieme ad un rosso con gli occhi a cuoricino.
Mi affrettai a posare entrambi i caschi nel bauletto della vespa e li raggiunsi all’interno di quell’arnese risalente al 15-18. Celeste chiuse le porte e pigiò sul ‘5’, poi il trabiccolo cominciò a muoversi facendo degli stridii e dei cigolii spaventosi. Più volte credei che l’ascensore si staccasse e ci lasciasse precipitare nel vuoto, ma tentai di fare tutti gli scongiuri possibili perché ciò non accadesse.
Dal canto loro, Celeste e il roscio sembravano tranquilli, anche se quel fallito continuava a fissarmi manco fossi un pezzo di carne.
«Eccoci arrivati!» tuonò lei, una volta che l’ascensore si fermò.
Nemmeno le diedi il tempo di aprire le porte, che mi fiondai sul pianerottolo, terrorizzato da quell’arnese che nemmeno mia nonna usava più per salire e scendere le scale.
Avrei preferito farle altre 10.000 volte a piedi piuttosto che risalire su quell’affare un’altra volta!
«Stai bene?» mi domandò Celeste, con finta preoccupazione.
«Mai stato meglio!» mentii io, deglutendo a fatica.
Lei mi fissò scettica, poi agitò le chiavi e andò verso il portone per aprirlo. Fece scattare la serratura due volte, dopodiché spalancò l’uscio.
Fu a quel punto che il roscio si fiondò tra me e Celeste. «Prima gli ospiti!» gridò come un ossesso.
La biondina lo fissò con un sopracciglio alzato ed io mi morsi un labbro nervoso. Possibile che quel tonto dovesse comportarsi sempre in modo così dannatamente strano?
«Non sapevo fossi così ospitale, Robbeo» mormorò lei poco convinta.
Dopodiché si scansò e mi fece passare, così feci un primo passo in quella casa che già avevo avuto il piacere di sondare.
Era proprio come l’avevo lasciata il giorno prima, quando quella stessa biondina che mi stava davanti mi aveva buttato mezzo nudo sul pianerottolo. Ancora mi bruciava quell’affronto, ma con il bacio che mi aveva dato quello stesso pomeriggio mi ero preso una piccola rivincita.
«Mi fai passare o vuoi rimanere lì imbambolato a bloccare l’ingresso?» osservò stizzita.
Mi scansai quel tanto da farla procedere come un rinoceronte impazzito verso l’ingresso, riponendo le chiavi in un’apposita ciotolina e pulendosi meticolosamente i piedi su uno zerbino.
Mossi qualche passò ma venni immediatamente fulminato dallo sguardo azzurro di lei.
«Togliti le scarpe, è per il tuo bene!» mi sussurrò il roscio, lanciando le sue vecchie e consunte Superga vicino al portone.
«Stai scherzando?» esclamai, pensando che nemmeno Ruben, che era un maniaco dell’ordine, mi aveva mai ordinato di fare una cosa del genere.
«Nuova regola, indetta stamattina da sua maestà la regina delle pulizie!».
«Guarda che ti sento, Robbeo! Non stai parlando a dieci chilometri di distanza, e comunque visto che sono IO che pulisco questa bettola, esigo che almeno ci si tolga le scarpe prima di entrare!».
Io e il roscio sbuffammo all’unisono e fummo costretti a rimanere con i calzini sul freddo pavimento di piastrelle.
«Non ci sono nemmeno le pantofole?» chiesi senza pensare, poi vidi l’amico di Celeste che sgranò i suoi enormi occhi verdi.
«Il bambinone vuole le ciabattine!» esclamò lei sarcastica, poi, come una furia, si diresse nello stanzino e ne tirò fuori un paio rosa col pelo e me le lanciò praticamente addosso. «Contento?!».
Premesso che erano ridicole perfino per una ragazza, ma appena le indossai, notai che mi usciva tutto il tallone di fuori, così optai per farne a meno, cosa che Celeste aveva ovviamente già previsto.
Andai in salotto, dove spuntava il divano di pelle rossa e numerosi cuscini sapientemente sprimacciati. Robbeo, o come diavolo si chiamava, si ‘lanciò’ sul sofà e mugolò qualcosa che mi sembrò simile al verso di uno yak in calore.
Io mi sedetti su una poltrona e schiacciai, per sbaglio, il telecomando col sedere, accendendo la televisione.
«E Totti segna il 206° goal della sua carriera!» urlò il telecronista di Sky.
Tsk! Ancora quel ‘Totti’, ma perché dovevano parlare sempre di quello? Era praticamente finito. E perché non rivolgevano l’attenzione alla stella del momento? Cioè IO?
«Ehm-ehm..» tossicchiò il roscio. «P-posso chiederti una cosa, campione?».
Io mi voltai per vedere se Celeste era in agguato, ma la vidi intenta a sbraitare contro la macchinetta del caffè.
«Spara!» gli sorrisi e quello tornò a spalancare gli occhi manco avesse visto la Madonna.
Deglutì a vuoto, poi si umettò le labbra. «P-perché non le hai detto la verità?» mi chiese sincero. «C-cioè, uno come te potrebbe far cadere le ragazze ai propri piedi.. invece tu hai mentito a Cel… perché?».
Credevo che quel tizio dall’aria buffa fosse amico di Celeste! Allora perché mi faceva delle domande così idiote?
«Lei odia il calcio e i calciatori, mica le potevo dire di essere la promessa del momento!» mi giustificai, anche se non sapevo il perché stessi parlando con quel buffo ragazzo.
Ci pensò un po’ su, poi annuì sconfitto. «Se potesse averne uno tra le mani, lo stritolerebbe!» osservò rimuginando, e poi chiedeva a me il motivo per cui le avevo raccontato delle balle!
«Ma come farai a continuare così? Prima o poi lo verrà a sapere..».
«Tié» gli feci, mostrandogli le corna e grattandomi lì dove non batte il sole. Mancava pure il roscio che mi lanciava il malocchio!
«Ecco qua!» tuonò Celeste, sbattendo con forza il vassoio con il caffè sul tavolinetto e fissandoci come se volesse strozzarci. «Qualcosa per il nostro ospite!».
Non sapevo perché ce l’avesse particolarmente con il sottoscritto, ma da quando eravamo tornati dal servizio di Vogue, era come se la sua acidità avesse raggiunto i massimi livelli!
Scostò con violenza le gambe di Robbeo e lo costrinse a sedersi, per poi accomodarsi e prendere la sua tazzina.
«Dimmi un po’, Romeo» e sorseggiò il caffè. «Come vi siete conosciuti tu e questo cafone, eh? Non mi hai mai parlato di questo tuo AMICO».
La modalità ‘investigatrice privata’ di Celeste era in piena attività ed era evidente che stava fiutando aria di bugie come un segugio.
Il roscio cominciò a boccheggiare, tentennando e puntando lo sguardo altrove. Era in evidente difficoltà e doveva capitarmi proprio il babbeo che non sapeva affatto come accampare scuse?
«Amici di amici» risposi per lui, vedendolo nuovamente respirare.
Celeste mi fulminò con lo sguardo e tornò a tormentare l’anello debole tra i due.
«E chi sarebbero questi amici?» insisté, percuotendolo come un martello pneumatico.
«N-non li conosci» arrancò Robbeo, ed io, da dietro le spalle di Celeste, tentavo in tutti i modi di mimargli le risposte.
Lei, fulminea, si voltò ed io fui costretto a fischiettare e fissare un batuffolo indecifrabile di polvere accantonata in un angolo.
«Ah, davvero?» tuonò, tornando a rivolgersi a Robbeo. «Allora cos’ha appena sotto la natica destra? Se siete tanto amici, l’avrai visto almeno una volta in mutande..».
Cazzo! E ora come diavolo facevo a mimarglielo?
Il roscio ci pensò un po’ su, poi si mordicchiò le labbra. «Una voglia a forma di cuore?» azzardò, ed io sbiancai di colpo.
Oddio, era uno stalker!
Celeste rimase interdetta, poi sbuffò e sprofondò nel divano con l’aria imbronciata e la tazzina da caffè che tintinnava.
Io e Robbeo tirammo un sospiro di sollievo all’unisono, dopodiché ci lasciammo andare a ciò che il commentatore di Sky stava dicendo.
«Aspetta, aspetta, aspetta!» se ne uscì il roscio all’improvviso, dopo un attento ragionamento. «Come diavolo facevi a sapere della voglia?!» esclamò, puntando il dito bianco e lentigginoso contro Celeste, che arrossì di colpo.
Non riuscii a trattenermi dalle risate, soprattutto immaginando se la biondina avesse avuto il fegato di raccontare al suo amico di avermi visto praticamente quasi nudo.
«H-ho posto una d-domanda a casaccio!» sbottò, cominciando a fare baracca e burattini e a levare le tazzine, nonostante io e quel Robbeo non avevamo nemmeno toccato un goccio di caffè.
«Certo» ridacchiai. «E guarda caso hai proprio azzeccato il punto esatto sotto la chiappa!».
Lei mi incenerì con i suoi occhi ridotti a fessure, poi zittì anche il tentativo di replica da parte di Robbeo e si dileguò in cucina.
«È sempre così stramba?» domandai sogghignando.
Il rosso sbuffò, fissandomi e sorridendo. «No, amico, è anche peggio!».


Beh, che dire a questo punto?!
E alla fine si son baciati! Leo ha fatto leva sull'orgoglio di Celeste e lei, che si è vista calpestare la sua dignità, gli ha dato la sua benedetta ricompensa. Senza pensare che le sarebbe piaciuto, senza credere che Leo avrebbe potuto smuovere in lei qualcosa.
Per di più non ha potuto fare a meno di rimanere incantata dalla bellezza di Leo durante il servizio di Vogue. Vani sono stati i suoi tentativi di rimanere impassibile di fronte a lui, soprattutto per via della 'bandana' ^^'. Addirittura Leo è riuscito a mettere a tacere il  subconscio di Celeste, una missione quasi impossibile!
Leonardo, dal canto suo, ormai ha tessuto una rete infinita di bugie, che s'infittisce giorno dopo giorno, coinvolgendo anche gli amici di Celeste (cioè il povero Robbeo che per ottenere qualsiasi cosa dal suo adorato Sogno, farebbe anche finta di essere il suo fidanzato xD). Anche lui è nettamente preso dalla bella biondina tutto pepe, anche se il suo EGO non lo ammetterà mai, ma Celeste non è la solita ragazza cui un belloccio come lui è abituato. Non solo è intelligente, forse anche troppo, ma ha un grande carattere e non si lascia mettere i piedi in testa da nessuno, soprattutto da un pallone gonfiato come Leonardo. E forse è proprio perché lei non è caduta immediatamente ai suoi piedi, come avrebbe fatto chiunque altra, ad interessare il nostro bel calciatore.
Chissà come andrà a finire?
Ma si sà.. le bugie hanno le gambe corte e il naso lungo, quanto ancora dovrà crescere quello di Leo?

Diamo un enorme bacione a chi recensisce, a chi ha messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate e anche a chi legge solamente! (667 visite!
♥.).
Bacioni
M&M

Una chicca finale -> TRAILER di presentazione di 'Come in un Sogno'

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e, infine, MA NON PER ULTIMA, la nostra nuovissima 'chicca' a 4 mani!


Ma poi, secondo voi, di che colore era quella maledetta bandana?



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Capitolo 5
*** Jealousy ***



CAPITOLO 5
Jealousy

Il pallone rotolava verso di me, come ipnotizzato dai miei passi calcolati e sicuri. Sembrava sapere che i miei piedi lo avrebbero accarezzato, accompagnato, lambito come si fa con il corpo di un’amante calorosa.
Ero fatto così, amavo due cose nella vita: il pallone e le donne.
«A Leonà! Passa un po’ ‘sta palla!» mi ordinò Daniele, affiancandomi al centrocampo e dirigendosi verso la porta.
Era soltanto una semplice partita d’allenamento sul campetto di Trigoria –titolari contro riserve– ma ogni partita per me era come una sfida che dovevo vincere a tutti i costi. Che si trattasse di match di campionato, di champions, di coppa, anche una stupita partita a Fifa.. persino stare con Celeste era diventata una sorta di sfida.
Leonardo Sogno era competitivo, su questo non c’erano dubbi.
Ignorai il suggerimento fattomi da ‘Capitan Futuro’ e proseguii verso l’area delle riserve, puntando dritto contro il portiere in seconda.
Dribblai Simone, poi evitai l’entrata in scivolata di un ragazzino della primavera di cui non avrei mai ricordato il nome. Alzai lo sguardo e davanti a me vidi soltanto la rete bianca e morbida della porta avversaria.
Ero pronto a caricare il tiro, a infossare i tacchetti degli scarpini nell’erba morbida del campetto e a concentrare tutta la mia attenzione all’incrocio dei pali, dove avrei piazzato il mio sinistro.
D’improvviso davanti ai miei occhi comparve una sorta di velo, come se la mia vista fosse stata improvvisamente offuscata, e al posto di Alex, apparve Celeste con la maglietta e i pantaloni bagnati, come quando l’avevo incontrata la prima volta, dopo averla inzuppata con la moto. L’unica differenza era che sul suo volto rotondo non c’era alcun cipiglio infuriato, né quel suo broncio alla Brontolo dei sette nani.
Se ne stava appoggiata al palo bianco della porta, con la maglietta bagnata che le aderiva quel seno teso, tanto che riuscivo a vederne i capezzoli turgidi che le tiravano la stoffa di cotone leggero e dannatamente trasparente.
Mi guardava con quegli occhi azzurrissimi, ma il mio sguardo era rapito dalle sue labbra rosse e piene che venivano assaggiate e morsicate, alternativamente, dai suoi denti bianchissimi.
Ehi, amico? Cosa diavolo ti prende? È possibile che la vera Celeste possa essere spalmata sul palo della porta di un campo di calcetto, manco fosse una lap-dance?!
E fu in quel momento, dopo che ascoltai il mio saggio ego, che compresi di aver avuto una maledettissima allucinazione. Nel giro di qualche secondo, Simone mi portò via la palla ed io rimasi inebetito e immobile davanti ad Alex che mi fissava allibito.
«Ma che cazzo fai?!» mi urlò Daniele infuriato.
«Te sei addormentato o cosa?!» sbraitò Aleandro.
Tentai di dare spiegazioni, ma dalla mia bocca uscì solamente aria e per la prima volta nella mia vita mi ritrovai senza parole per replicare.
«Fatti meno seghe la prossima volta» ridacchiò Simone, dandomi un colpetto sulla spalla.
Scrollai la testa nemmeno fossi una mucca, poi tornai a correre al centro del campo, meritandomi un’occhiataccia da parte del Mister.
Non appena passai vicino ai piccoli spalti che circondavano il campo d’allenamento di Trigoria, non potei fare a meno di rimanere accecato dalla capigliatura fulva e luminosa del migliore amico di Celeste.
«Pittore sei un mito!» gridò come un forsennato, con gli occhi verdi fuori dalle orbite. «Chissene fotte di quegli stronzi! Non ti curar di loro!».
Ma che s’era fumato prima di venire lì?
Innanzitutto da quando lo avevo coinvolto nella mia fitta rete di bugie, non passava un minuto che non ricevessi una sua telefonata in cui mi diceva per filo e per segno, tutto fomentato, che aveva trovato un nuovo modo per infittire meglio la trama della nostra ‘presunta’ amicizia.
Mannaggia a me e a quando gli avevo dato il mio numero di telefono privato..
«Grazie» mormorai con un sorriso stiracchiato, poi, appena dietro il roscio, vidi un Ruben particolarmente irritato all’idea della presenza di quell’intruso.
Avevo a mala pena avuto il tempo di parlargli di Romeo, che già ero dovuto scappare agli allenamenti e il mio vero migliore amico non l’aveva presa poi tanto bene.
Ruben Canilla era fatto così. Sin da quando avevamo frequentato l’istituto tecnico industriale –ma ‘frequentare’ per me, era una parola grossa– ci eravamo trovati subito sulla stessa lunghezza d’onda. Ovviamente lui non era un figo come il sottoscritto, perciò quando mi serviva una mano in algebra, lui era sempre disponibile e quando voleva uscire con qualche gnocca, io gli fornivo i numeri di telefono delle mie infinte spasimanti.
E così si era evoluta un’amicizia solida, rafforzata, poi, dalla passione per il calcio e alla sua bravura nel risultare simpatico alla gente. Nonostante fosse balbuziente, agli incontri di lavoro con i reclutatori dei club più importanti riusciva a superare la paura e gli usciva una parlantina talmente fluida che avrebbe fatto invidia ad un oratore.
Così era diventato il mio manager e da allora abbiamo continuato a vederci per diversi motivi, fino a condividere lo stesso appartamento.
«A’ Sogno, e movite!» mi esortò il Capitano in persona, stavolta.
Non avevo fatto una gran bella figura davanti alla porta, questo era certo, ma per fortuna si trattava di una partita d’allenamento. Chissà cosa sarebbe accaduto in campionato? Non volevo nemmeno immaginarlo.
Dovevo risolvere al più presto il problema-Celeste, quello era poco ma sicuro.
L’unica nota dolente stava nel fatto che non avevo la minima idea di come venire a capo di quella spinosa situazione!
Era cominciato tutto per un gioco, e su questo punto non ci pioveva, ma allora per quale motivo continuavo a sentire il bisogno smisurato di vederla di nuovo? Non era ricca, non era famosa, e nemmeno tutta ‘sta bellezza! Cosa ci guadagnavo con lei?
Vedi, Leo.. è ovvio che stare con una squinzia magra come un manico di scopa e acida come lo yogurt non ti porterebbe ad alcun giovamento, no?
Però mi fa ridere.
Capirai! Anche Ruben fa ridere, ma mica te lo immagini tutto eccitato che ti guarda da bordo-campo!
Rabbrividii al pensiero del mio migliore amico con solo il costume adamitico addosso, che mi fissava con uno sguardo sognante, poi mi stropicciai gli occhi, mi asciugai il sudore con il bordo della maglia e decisi che era venuto il momento di accantonare Celeste e concentrarmi su quello che più amavo fare al mondo: giocare a pallone.

«A-a-ami-amico s-sei sta-stato una f-forza!» esultò Ruben, abbracciandomi dopo che uscii dagli spogliatoi con la borsa a tracolla e un profumo di borotalco che emanavo.
«Grazie» gli risposi, stringendogli la mano e sbattendo ‘spalla contro spalla’, con il saluto tipico degli americani ganzi.
«A-.. a.. a.. a p-arte quel piccolo e-.. e… e-rrore!» sputò fuori, infuriato con se stesso per non riuscire a parlare correttamente. «C-che t-t-t-i è pr-pre-.. preso?» mi domandò, ma io tentai di evitare il suo sguardo per non entrare in argomento.
«In una parola: FANTASTICO!» gridò il roscio tutto eccitato.
Accorse camminando un po’ sbilenco, mentre continuava a fotografare tutto con la digitale, per immortalare quel mondo di cui avrebbe volentieri voluto far parte. Addirittura si mise a scattare istantanee dei fazzoletti utilizzati dai miei compagni di squadra, prendendone addirittura dei ‘campioni’ e imbustandoli nemmeno fossimo sulla scena di CSI.
«Capirai» risposi strafottente, abituato a ricevere complimenti ad ogni ora del giorno.
«No, no! Dico sul serio!» esultò in completa fibrillazione. «Ogni cosa qui è fantastica, cominciando dalle aiuole lì in fondo e finendo col mitico campo da calcio dove si allena la Magica!».
Roteai gli occhi verso l’alto, stufo di tutta quella esagerazione soltanto per uno stupido allenamento tra titolari e riserve. Avevo ben altri problemi per la testa, e quasi tutti iniziavano per C.. e finivano con –eleste!
«O-o-oggi h-hai l’.. l’..l’..» tentò di dirmi Ruben, controllando l’agenda che teneva tra le sue tremolanti mani.
Senza alcuna cattiveria gliel’afferrai e lessi l’appunto da solo. «Altrimenti ci facciamo notte!» gli risposi, ridacchiando e Ruben mi regalò un sorriso forzato, per poi sprofondare in quella sua timida vergogna.
«Oggi ho l’intervista con Studio Sport, dopodiché la ceretta da Renza e..».
«Momento, momento, momento!» se ne uscì Romeo, dopo aver origliato, ovviamente, tutto quello che ci eravamo detti. «T-ti fai davvero la ceretta?! Come una donna?».
Lo fulminai con lo sguardo, quasi desiderando che quella sua testa rossa prendesse fuoco come quella di un prospero. «Che hai detto, scusa?» lo minacciai.
Il rosso si sentì improvvisamente in colpa e avrebbe volentieri preferito prendersi a morsi la lingua invece di ripetere quello che il suo neurone solitario gli aveva fatto dire senza pensare.
«Niente?» tentennò, ma ormai c’era ben poco da fare.
Visto che la giornata era cominciata col piede sbagliato, c’era soltanto un modo per dimenticarmi di quell’episodio: buttarmi a capofitto negli impegni, senza avere un attimo di tempo per pensare a..
Celeste.. vogliamo smetterla?
«Hai impegni per oggi pomeriggio, Rosso?» chiesi in direzione del babbeo.
Quello deglutì a vuoto, terrorizzato. «N-no.. credo..».
Un sorriso furbo affiorò sul mio viso e pregustai una giornata all’insegna del divertimento, da soprannominare Don’t thinking to Cel-day.
«Prendi le chiavi, Ruben» ordinai al mio amico. «Credo che l’intervista possiamo rimandarla».
Quando raggiungemmo il parcheggio, il bianco scintillante della mia Audi TT spiccava tra le altre automobili sportive di proprietà dei miei compagni di squadra, tranne che per un pandino rosso tutto sgangherato, parcheggiato metà fuori e metà sopra il marciapiede, con il parafango tenuto insieme da un laccio per le scarpe e dello scotch da pacchi in quantità industriale.
«E quel cesso da dove è spuntato fuori?!» chiesi senza pensare.
«V-veramente q-quel ‘cesso’ è la mia m-macchina..» disse timidamente Robbeo, facendosi piccolo piccolo.
Non avevo intenzione di essere così sgarbato, ma per salire sul quel macinino dovevi farti prima l’antitetanica, dopodiché ci voleva un gran bel coraggio per chiamare quel rottame ‘macchina’. Mi sarei stupito se, una volta saliti, il rosso non avesse tirato fuori i piedi e avrebbe spinto il pandino come Fred Flinstone!
«Se non ti dispiace, prendiamo la mia» dissi tutto spavaldo, facendo trillare l’allarme e i fanali dell’Audi s’illuminarono tra la massa di bestioni ruggenti.
«F-figurati..» balbettò quasi con la bava alla bocca, e quando ci avvicinammo all’automobile toccò più volte la vernice bianca metallizzata per rendere concreto quello che, altrimenti, gli sarebbe sembrato un sogno.
«Vuoi sederti davanti?» gli domandai, più che altro per salvaguardare la tappezzeria nel caso quel babbeo soffrisse di mal d’auto.
Ruben mi fissò con gli occhi sgranati, aspettando con trepidazione la risposta di Romeo.
«Sarebbe un onore!» trillò come una scolaretta, e ci mancava poco che si mettesse a zompettare tutto intorno all’Audi, trotterellando sino al posto del passeggero.
Lo sguardo di Ruben era sgranato, tanto che pensai si stesse per strozzare. Gli restituii uno sguardo comprensivo, ma quando salì sui posti di dietro sembrò che stesse per andare al patibolo.
«Allora si parte!» dissi, girando le chiavi nel cruscotto e facendo rombare l’Audi.
«OSignoreSantissimissimo! Avrà un esercito di cavalli ‘sto gioiellino!».
Robbeo era eccitato come un bambino in un negozio di giocattoli, ma non appena ci saremmo mossi, ero sicuro che non sarebbe più stato in sé.
Pigiai sull’acceleratore e feci da zero a cento in meno di un minuto e mezzo, facendo spiaccicare il Rosso e Ruben sui rispettivi sedili di pelle nera. Così come sulla mia Ducati, anche viaggiando su quattro ruote adoravo sentire il motore rombare sotto il sedile e fremere come..
Celeste..
No! E a quel punto presi una curva con un po’ troppa velocità, rischiando quasi di farci cappottare, per poi riprendere il controllo del mezzo.
«C-che.. ch-che.. t-ti è sal-saltato in m-mente?!» sbottò Ruben terrorizzato.
«Amico, credo di essermela fatta addosso» confessò Romeo.
Lo fissai con gli occhi sgranati, ma lui mise le mani avanti. «Scherzo!».
Misi entrambe le mani sul volante e tornai a guardare la strada, ignorando le tentennanti proteste di Ruben. Nonostante fosse il Don’t thinking to Cel-day, avevo già sforato tirando fuori il suo nome prima del tempo.
Che diavolo ti sta succedendo, bello? Dov’è finito Leo il ‘trivellatore’? Sogno il ‘punitore’ di ragazze cattivelle e birichine? Quante ne hai massacrate da quando hai incominciato ad usare l’arnese?
Fin troppe. Della maggior parte non ricordavo nemmeno il colore degli occhi, visto che me l’ero scopate durante delle trasferte, e se dovevo essere sincero non ricordavo nemmeno l’ultima volta che mi ero innamorato. Effettivamente Leonardo Sogno non aveva tempo per l’amore, troppo impegnato dal successo e dalla fama che gli portavano via ogni minuto della sua meravigliosa vita.
Il resto del viaggio proseguì silenzioso, più che altro perché i miei due compagni avevano paura di distrarmi ancora e incorrere in un imminente incidente automobilistico. Ovviamente non sapevano la vera ragione delle mie continue distrazioni.
Arrivammo da ‘Renza’ alle 17.00 spaccate e riuscii a trovare parcheggio in poco tempo, facendo trillare ancora una volta l’allarme, mentre tutti i ‘mortali’ –come chiamavo io la gente normale– si voltavano stirandosi i muscoli del collo per vedere quale razza di figo usciva fuori da un portento di macchina del genere.
Per chiunque aveva la visuale dalla parte del guidatore, si beò del sottoscritto, con tanto di giacca di pelle semi-sbottonata e jeans a vita bassa che lasciavano intravedere una V pubica quasi al limite della decenza, mentre per chi si era voltato dalla parte del passeggero.. beh.. quello che uscì fuori era paragonabile al ‘The Rocky horror picture show’.
Romeo uscì dall’Audi con delle movenze in stile rallenty, seguito da Ruben che si tolse gli occhiali da vista scuotendosi i capelli selvaggi, manco fosse Kevin Kostner. La pelle lattea e lentigginosa del Rosso era più accecante di una luce al neon, per non parlare degli occhi da talpa che Ruben apriva e chiudeva, sbattendo le ciglia, quasi come Betty Boop.
Erano una coppia assortita meravigliosamente, e fungevano alla perfezione come paragone con la bellezza e la sensualità che emanava il sottoscritto.
«Sei in anticipo, Campione!» trillò Renza, venendomi in contro con la sua pelata lucente e quei pantaloni che nemmeno la checca più altolocata di Roma avrebbe mai indossato.
«Lo so, ma ho voluto portare un amico» sorrisi sghembo, aspettando l’entrata trionfale di Romeo.
Renza, o meglio Renzo, aveva il salone estetico più inn della Capitale, ma un posto per il suo Campione riusciva sempre a trovarlo. Stravedeva per il sottoscritto, sia perché era un fan sfegatato della Magica, sia perché era follemente innamorato dei calciatori e del loro modo perverso –parole sue– di fare la doccia tutti insieme.
I suoi occhi s’illuminarono quando pronunciai la parola ‘amico’ e la sua testolina senza nemmeno un capello sicuramente si stava figurando il peggio attaccante/strafigo-sexy.
Ovviamente quado Romeo fece la sua comparsa lo accecò, certo, ma non per la sua bellezza, bensì grazie a quella chioma di un rosso fiamma.
«Ioui» disse disgustato, tentando di non dare troppo a vedere la sua delusione.
«Qualcosa che non va, Renza?» gli chiesi soffocando una risata.
«No, no, ci mancherebbe fiorellino mio» sospirò. «Cosa posso fare per un Dio greco come te e per la tua.. ehm.. bertuccia?».
«Ehi, modera i termini!» si offese Romeo, ma io lo zittii subito.
Non eravamo venuti lì per litigare, ma soltanto per un rilassante trattamento che mi avrebbe tolto per sempre lo stress da Celeste.
«Volevamo un trattamento completo per me e per.. ehm.. lui» dissi perentorio, cercando di non scoppiare a ridere di fronte al modo in cui Robbeo stava fulminando Renza.
Il pelato sospirò, poi sbatté due volte le mani. «Ragazze! Ragazze! Forza! Abbiamo due clienti, sbrigatevi! Trattamento speciale!».
Dalla tenda di velluto rossa alle sue spalle uscirono una decina di ragazze, dei più svariati tipi. Ce n’erano di rosse, di more, di brune.. italiane, svedesi, giapponesi.. alte, basse, piatte o formose, ma tutte indossavano la divisa ufficiale del centro estetico: una misera gonnellina inguinale e un top striminzito.
«OSignoreSantissimo!» esclamò Romeo, e per poco non gli uscì il sangue dal naso.
Era la seconda volta in un giorno che gli sentivo dire quell’esclamazione, ma dopo questa visione ci stava tutta. Ruben salutò timidamente le signorine che gli rivolgevano occhiate languide e risolini al limite dell’udibile, ma da gentiluomo qual era, non si faceva mai prendere troppo la mano.
Ci accompagnarono su dei lettini, dopodiché ci lasciarono un po’ d’intimità per liberarci dei vestiti e indossare soltanto un micro-asciugamano per coprire giusto le parti intime.
«E cosa dovremmo farci con questo?» mi chiese Romeo, fissando dubbioso quel misero pezzo di stoffa.
«Metterlo in bocca per non urlare dopo quello che ti faranno le signorine dall’altra parte» ridacchiai godendomi tutte le espressioni che mostrò la faccia del Rosso.
Prima ci fu la volta dello sconcerto totale, poi cambiò in un sorriso soddisfacente, fino a che non gli apparve un’aria del tutto persa nella beatitudine.
«Stavo scherzando, Rosso, non ti scaldare!» gli confessai infine, vedendo apparire la delusione come espressione finale di quel cangiante arcobaleno che era la sua faccia lentigginosa.
Appena finii di parlare, apparvero le massaggiatrici che ci fecero stendere sul lettino e dedicarono a noi tutta la loro attenzione. Mentre le mani sapienti di una giapponese mi andarono a sciogliere la tensione accumulata sui deltoidi, un’altra ragazza preparò la cera calda da applicare sulle gambe.
Okay, non vi venga in mente che lo facessi per una questione estetica, è ovvio! Ma i fisioterapisti chiedevano espressamente che per facilitare i massaggi ci fossero meno ‘ostacoli’ possibili, così mi facevo la ceretta ogni tanto.
«Ora potrei anche essere morto» commentò Romeo, sospirando quando la massaggiatrice cominciò a rilassargli le spalle.
«D-doma.. d-domani hai l-la gio-giornata p-piena di imp-.. impegni!» s’inserì Ruben, sovrastando la voce del Rosso e piazzandosi davanti alla mia visuale, quasi come se non lo considerassi più.
«Ruben, levati» gli intimai. «Stai coprendo il culo stratosferico di quella lì» mormorai, riferendomi ad una rossa di spalle che ancheggiava con un mp3 nelle orecchie.
«I-in q-qualità.. d-di t-tuo.. m-manag-manager.. h-ho..».
«Ha ragione il Pittore, leva quelle quattro ossa secche che ti ritrovi e facci godere il panorama!» si aggiunse Romeo, e per quell’intervento guadagnò qualche altro punto ai miei occhi.
«T-tu.. t-tu..tu-tu..» tentò di intimargli, puntandogli il dito contro.
«TU-TU-TU» ridacchiò Romeo. «Che sei ‘occupato’ come il telefono?».
E a quella battuta seguì uno scroscio di risa anche da parte delle ragazze di Renza, ma tutto quel chiacchiericcio attirò l’attenzione di ‘Chiappe d’oro’ che si voltò e quando i miei occhi incontrarono il suo viso, per poco non rotolai giù dal lettino.
«Cos’è questa cosa calda sulle gambe?» domandò Romeo, ma io tentavo in tutti i modi di nascondermi dallo sguardo cristallino di lei.
«OGesùSantissimoNell’AltodeiCieli!!!!!!» gridò poco dopo, quando Katiusha strappò la prima striscia e si portò dietro un quantitativo di peli rossicci riccioluti e folti come la foresta amazzonica.
«Male?» ridacchiò, seguita dalle altre ragazze di Renza.
«Ma guarda chi abbiamo qui?» sospirò la rossa, avvicinandosi con passo deciso sulle sue Chanel tacco dodici e spostando Lin-Su con pochissima gentilezza. «Leonardo Sogno in persona!».
Annalisa Cavalli non era una ragazza qualunque, era una dannata piattola! L’unica ragazza che mi fossi sbattuto e di cui mi ricordavo stranamente ancora il nome, più che altro perché il giorno dopo me l’ero trovata sotto casa con impermeabile e occhiali da sole, manco fosse una spia assoldata dalla CIA.
Un rifiuto per lei era inaccettabile e non so chi me l’avesse tirata, ma s’era fissata col sottoscritto tanto che ci mancava poco progettasse il matrimonio del secolo. Il fatto è che non potevo nemmeno dirle ‘addio’ da un momento all’altro, perché come se non bastasse, era anche figlia di uno dei maggiori azionisti della società A.S. Roma e il presidente era stato chiaro: chiunque avesse fatto soffrire la sua bambina, sarebbe finito ad allenare la squadra dei pulcini.
«È da tanto che non ci vediamo, eh, pittore?» disse sorridendo e guardandomi maliziosa.
In quel preciso istante, Romeo resuscitò dal suo dolore mistico e si fiondò con la mano tesa in direzione di Annalisa.
«Tanto piacere, io so’ Romeo, er più figo der Colosseo!» si presentò il Rosso e pregai tutti i Santi che non usasse davvero quella squallida battuta per rimorchiare in giro.
Annalisa lo fissò con disgusto, mentre ritraeva le mani il più lontano possibile da Romeo, quasi avesse la lebbra.
«Chi è questa mozzarella?» mi domandò schifata, offendendo il poveretto senza curarsi che potesse sentire ogni sua parola.
«Annalisa è un vero piacere vederti!» esclamai, con un sorriso finto come la moneta da tre euro. «Che ci fai da queste parti?».
Lei si scostò una ciocca fulva dal viso e sospirò. In quel preciso istante mi accorsi di quanto il colore dei capelli di Annalisa fosse accecante tanto quanto quello di Robbeo. Almeno quei due avevano qualcosa in comune.
«Sabato darò un party e ho invitato un po’ di gente, ti va di venire? Ci sarà anche tutta la squadra» mi propose e l’idea di una festa piena di alcol e ragazze mi allettava, ma la presenza di Annalisa era urticante e non sapevo cosa rispondere.
«Io ci sarò!» annunciò Romeo, ma la ragazza non era poi così d’accordo con lui.
«Vorrei che tu ci fossi!» mi chiese, quasi sull’orlo di una crisi isterica.
Adesso ci voleva il lampo di genio. Non potevo declinare l’invito della figlia del presidente della squadra per cui giocavo, ma non potevo nemmeno gettarmi direttamente tra le sue braccia.
Ti servirebbe un escamotage..
Certo, qualcosa o qualcuno che mi protegga dalla sanguisuga..
Magari più ‘qualcuno’ oppure.. qualcuna..
Certo! Una tizia che faccia finta di essere la mia ragazza!
E chi meglio di una biondina di nostra conoscenza?
Chi? Celeste?
Era un’idea davvero folle, ma l’unica cui il mio cervello dalle limitate possibilità potesse arrivare. Sapevo che convincere Celeste sarebbe stata un’impresa titanica, quasi più di quella di far fidanzare un prospero come Robbeo, ma tanto valeva tentare.
«Può venire anche la mia ragazza?» chiesi e dopo quelle mie parole, sia Ruben, Robbeo e Annalisa si strozzarono all’unisono.
«R-ragazza?» ripeté incredula la rossa. «N-non l’ho letto su n-nessuna rivista!».
«È nuova!» intervenne Robbeo, a mia difesa. «Ma io sono disponibile!».
E così, dopo uno sguardo sconfitto di Ruben, cercai di prepararmi un discorso per sembrare convincente con Celeste, anche se ormai mi risultava più facile mentire che respirare.



Afferrai il mio vassoio e mi voltai per scrutare da cima a fondo la mensa dell'Università alla ricerca di un posto appartato per me e il mio subconscio. I tavoli, ovviamente, erano tutti occupati e, come se non bastasse, dei cafoni maleducati mi spingevano senza ritegno e senza premurarsi, nemmeno, di chiedermi scusa. Più di una volta rischiai di rimanere senza la mia insalatona che era in bilico sul vassoio, indecisa se schiantarsi al suolo o essere pappata dalla sottoscritta.
Presi un respiro profondo, più che altro per reprimere la voglia di prendere a calci quei maleducati e mi aggirai tra i tavoli come un'anima in pena.
«Possibile che non ci sia UN posto libero? Ah, io di certo in piedi non mangio, con tutti quei cafoni pronti ad urtarti e a farti perdere il pranzo! E non hanno nemmeno la decenza di scusarsi! Dovrebbero fare un corso accelerato di educazione quei trogloditi» borbottai tra me e me, attirando gli sguardi dubbiosi degli studenti che mi osservavano come se fossi appena uscita da un manicomio.
Non mi curai di loro, ma continuai la mia ricerca. Trovare un posto in quella mensa era più difficile di un'impresa di Indiana Jones. Mi armai di pazienza, la mia nemica con la quale ero in conflitto da quando avevo emesso il primo vagito e percorsi in lungo e in largo quel posto, nemmeno stessi cercando un indizio per incastrare un assassino.
Rimasi all'incirca dieci minuti a vagare senza meta, con la pazienza che ormai era scappata, impaurita dal mio nervosismo crescente e dando ulteriori prove della mia poca sanità mentale, fino a quando delle dolci anime pie si alzarono da un tavolo, lasciandolo libero. Mi si illuminarono gli occhi e mi fiondai verso l'oggetto del mio desiderio, lanciandovi sopra il vassoio prima che qualche furbone me lo rubasse da sotto il naso. Finalmente potevo sedermi e dare cibo al mio povero stomaco che reclamava da più di un'ora. Condii l'insalata, fulminando con lo sguardo chiunque si avvicinasse al mio amato tavolo con l'intenzione di chiedermi se i posti erano liberi. Non volevo estranei casinisti seduti accanto a me mentre mangiavo, avevo bisogno della mia tranquilla solitudine.
Mescolai quell'arcobaleno di ortaggi, prima di inforchettare un pomodoro e gustarmelo. Quando alzai lo sguardo dal mio pranzo, non potevo credere ai miei occhi. Ruben era lì, nella mensa dell'Università e si stava avvicinando a me con un vassoio in mano e il suo immancabile sorriso di sbieco. Camminava quasi a rallentatore, senza staccare il suo sguardo magnetico da me. Indossava una camicia bianca sbottonata che svolazzava leggiadra e che lasciava scoperto il suo fisico mozzafiato. Sotto, un paio di jeans talmente a vita bassa che, per poco, non mostrava la sua bandana. Spalancai la bocca e per poco la mascella non sfiorò il terreno, mentre la forchetta di plastica mi era caduta dalle mani.
Celeste, svegliati! Ti pare possibile che quel decerebrato di Ruben frequenti un posto cervellotico come questo?! Non sa nemmeno pronunciare correttamente la parola Università, ancora un po'! E per di più non verrebbe mai qui conciato da bad sexy guy, non credi?!
Scossi la testa, risvegliandomi da quello strano sogno ad occhi aperti, facendo sfumare l'immagine accattivante di Ruben. Al suo posto, però, apparve un J sorridente che raggiunse il mio tavolo, sedendosi di fronte a me.
Cavoli, sei messa male se vedi J come se fosse Ruben! Ti stai proprio rimbambendo! Dovresti smettere di studiare tutte quelle ore, il tuo cervello si sta fondendo.
«Mangi tutta sola?» mi domandò con un sorriso.
«In verità sono in compagnia dell'uomo invisibile» risposi ironica.
«Ah! E dove è seduto?» chiese sarcastico.
«Proprio sotto il tuo deretano!» ridacchiai.
J si alzò di scatto e si portò una mano sul cuore, assumendo un'espressione di rammarico.
«Mi scusi uomo invisibile, non l'avevo proprio vista!» si scusò con la sedia, prima di trafiggermi con i suoi occhi azzurri come il cielo estivo e scoppiare a ridere.
Oltre ad essere bello ed intelligente è anche simpatico!
La sua stupenda risata mi mandò completamente in visibilio e, piano piano, sentii le guance prendere fuoco. Quasi nessuno riusciva a farmi arrossire, a farmi rincitrullire completamente e farmi perdere qualsiasi mia lucidità. J era uno dei pochi ad avere quello strano effetto su di me. Ogni volta che incontravo i suoi occhi cristallini, perdevo il mio autocontrollo e la mia amata acidità, trasformandomi in un'altra ed irriconoscibile Celeste. Come avevo solo potuto immaginare che J si fosse trasformato in Ruben tutto d'un tratto? Jean Philippe era di un altro pianeta rispetto a quel cavernicolo tutto muscoli e niente cervello.
Però i muscoli di quel troglodita ti sono piaciuti, ammettilo Cel! Non gli hai staccato gli occhi di dosso un attimo durante il servizio per Vogue! E non mentire dicendo che eri schifata, in realtà, perché saresti più bugiarda di Pinocchio.
Sì, ok. Forse Ruben aveva un fisico migliore rispetto a quello di J, anche se quest'ultimo non lo avevo mai visto senza maglietta e forse il cavernicolo, fisicamente parlando, non mi era indifferente, ma cerebralmente era paragonabile ad un'alga galleggiante.
«Scusami se stamattina non sono venuto in prima fila» disse mortificato, tornando a sedersi «I miei amici mi hanno trattenuto»
«Ma no, figurati» risposi, stringendomi nelle spalle «Stai tranquillo»
J mi sorrise, facendomi avvampare nuovamente e cominciò a mangiare il piatto di pasta che era il suo pranzo. Le sue labbra erano così carnose e rosee e si muovevano sinuose, sensuali, lungo la forchetta di plastica. I suoi occhi verdi si alzarono dal piatto di pasta e mi guardarono maliziosi, mentre la punta della lingua gli solleticava l'angolo bella bocca.
No, fermi tutti! Facciamo un passo indietro.
Occhi verdi?! J li aveva azzurri! E quegli occhi color smeraldo intenso li aveva solo Ruben. Davanti a me, ancora una volta, mi era apparso il viso malizioso di quel bell'imbusto.
«Vuoi vedere il mio amico?» ammiccò, lanciando un'occhiata fugace verso il basso.
Sgranai gli occhi e per poco non mi soffocai con la mia stessa saliva.
«Co-cosa hai de-detto?!» balbettai incredula, paonazza.
«Dov'è finito il tuo amico?»
Chiusi gli occhi e scossi la testa per allontanare dalla mia mente l'immagine seducente di Ruben. Oddio, cominciavo ad avere delle orribili allucinazioni e la cosa era preoccupante, anche perché mi immaginavo Chicco che mi faceva delle proposte indecenti.
«Ehm...Ro-Romeo?» domandai.
«Il tizio buffo con i capelli rossi» spiegò J, sorridendo.
«Ro-Romeo è all'ospedale. Sua nonna è stata male e lui è andato a trovarla» risposi, ancora scossa per l'immagine di Ruben-stile-attore-porno.
«Oh mi dispiace» soffiò «Comunque, c'è qualcosa che non va, Cel?» domandò preoccupato, guardandomi con un sopracciglio abbassato.
Sì, c'è qualcosa che non va e quel qualcosa ha pure un nome orribile, ossia Ruben.
«No tranquillo. Sto bene» risposi e J annuì poco convinto, scrollando le spalle.
Non riuscivo a capire il perché quel pallone gonfiato continuava a tormentarmi, apparendo malizioso e mezzo nudo nei miei pensieri.
Secondo me è colpa della bandana. Tu è tanto che non ne vedi una e quella di Ruben ha delle GRAN belle proporzioni.
Oddio! Ancora la storia della bandana! Solo a ripensarci avvampavo come una scolaretta.
Ma la bandana non è tutto Celeste. È dotato di sotto, ma non ai piani alti. A differenza di J, che riesce almeno a pensare una frase di senso compiuto.
Già! Gli si era sviluppato di più il Walter che il cervello, per cui uno così poteva ragionare solamente con l'organo sbagliato. Fra un po' non era nemmeno in grado di articolare una frase con soggetto, verbo e complemento oggetto! Uno così era buono sotto le coperte, non per farci un discorso intelligente. Invece con J ci poteva essere uno scambio di opinioni, un dialogo che non vertesse solo sul sesso.
Chissà, però, come è messo il francesino a bandana? Non credo che batta Ruben, su questo fronte. Magari lì sotto ha solo una puntina! Vorresti mai stare con uno che non ti soddisfi sessualmente parlando?
Dio, no! Mi stavo trasformando in una pervertita! E tutto questo solo per aver visto un ragazzo come un altro in mutande.
È anche vero, però, che il sesso, in un rapporto di coppia, non è tutto. Quello che conta è il feeling intellettuale che c'è tra due persone. E con J direi che è ai massimi livelli.
«Si può sapere da che parte stai?!» sbottai, rivolta al mio confuso subconscio, che oscillava tra l'intelligenza di J e la bandana di Ruben.
«In che senso da che parte sto?» domandò Jean Philippe, guardandomi dubbioso e allo stesso tempo impaurito dal mio scatto d'ira insensato.
«Nel senso che» annaspai, senza trovare nulla di sensato da dire. Non potevo di certo rivelargli del mio subconscio che aveva una vita proprio dentro di me «Che...che squadra tifi?» sorrisi sorniona, anche se avrei voluto sotterrarmi con le mie stesse mani per aver tirato fuori l'argomento calcio. Quando si aveva un uomo di fronte, mai parlare di pallone! La discussione sarebbe stato solo un noiosissimo monologo maschile di ore ed ore.
«Non seguo il calcio» scrollò le spalle «Siamo proprio su due pianeti diversi!»
«Nemmeno a me piace!» trillai «Detesto quello sport e, soprattutto, odio i calciatori!»
«Prendono un sacco di soldi, anche più di persone che danno un vero contributo alla società, all'umanità, solo per correre dietro ad una palla!»
Spalancai gli occhi, stupita da quella rivelazione, e lo indicai goffamente con entrambe le mani, annuendo con talmente tanto vigore che mi si scompigliarono i capelli.
«Mi hai rubato le parole di bocca!» esclamai «E non capisco nemmeno quelli che vedono il calcio come una religione! Quelli che si infuriano quando la squadra del cuore perde! Cosa ci trovano di così esaltante in 22 bufali decerebrati?!»
«Adesso sei stata tu a rubarmi le parole di bocca» ridacchiò «Sei davvero divertente, sai?! E quando ti arrabbi sei anche più carina»
Sorrisi imbarazzata e le mie guance si imporporarono. Da quanto le mie orecchie non sentivano un complimento? Troppo, non mi ricordavo nemmeno l'ultima volta che era successo. Per di più quell'apprezzamento era uscito dalle labbra del ragazzo che mi aveva stregata, di Jean Philippe Rossi. Avevamo anche la stessa opinione sul calcio e sui calciatori e questo lo faceva apparire ancora più attraente ai miei occhi. Tra di noi c'era sintonia, c'era feeling ed era quasi come se lo conoscessi da anni, anche se si era accorto di me solo da due giorni. Ma stavo bene con lui, mi sentivo serena, mi sentivo diversa.
Altro che bandana!

Infilai velocemente e disordinatamente i libri nella borsa. Ero in ritardo e non avevo tempo da perdere per sistemare la mia roba. Dovevo correre in gelateria se non volevo sorbirmi la ramanzina del mio capo. Svelta, uscii dall'Università, zigzagando tra gli studenti che bighellonavano lungo tutto il viale e che ostruivano al rinoceronte impazzito che ero diventata. Non avevo tempo nemmeno di borbottare tra me e me, non mi fermai nemmeno a pensare all'acido lattico che bruciava nei polpacci, avevo in mente solo la gelateria e la voce stridula di Ugo che mi strigliava.
«Celeste!» mi chiamarono, ma non mi voltai «Celeste, fermati un attimo!» mi pregò la stessa persona.
Decelerai il passo e in un attimo mi ritrovai affiancata da un J sorridente.
«Non c'è tempo, è tardi!» esclamai, sembrando in quel momento il bianconiglio di Alice.
«Hai un appuntamento galante?!» ridacchiò.
«Sì» sbuffai «Con stracciatella e cioccolato!»
«Sono i tuoi gatti?» chiese dubbioso, con la voce incrinata dal fiatone crescente.
«No! Sono gusti di gelato» spiegai, scocciata.
J mi guardò dubbioso, con entrambe le sopracciglia abbassate e la fronte aggrottata.
«Lavoro in una gelateria!» sbuffai.
Gli occhi celesti di J si spalancarono e il suo viso si illuminò, quasi avesse d'un tratta visto Megan Fox apparirgli davanti.
«Lavori in paradiso, allora!» sogghignò «Amo il gelato. Lo mangerei perfino d'inverno!» aggiunse.
Un'altra cosa in comune Celeste.
Più passavo il tempo con J, più mi rendevo conto che noi due eravamo più simili di quanto credessi. Prima l'odio per il calcio, poi l'amore per il gelato. Dentro di me si rafforzava l'idea che J fosse il ragazzo perfetto per me, quello che avevo sognato e cercato per tanto tempo e che, finalmente, dopo anni di delusione dai possessori del Walter, si era fatto trovare.
«Vuoi che ti accompagni?» mi chiese, fermandosi d'un tratto «Sono venuto in macchina!» disse, tirando fuori dalla tasca dei jeans le chiavi della sua auto e facendole tintinnare soddisfatto.
«Se non ti è di disturbo» risposi, imbarazzata da quella sua spiazzante gentilezza.
Era raro trovare un ragazzo che fosse cordiale dopo poco tempo. Solitamente quando ti ricoprivano di zucchero, avevano sempre un doppio fine in mente. Magari mi stavo illudendo, magari anche lui, possedendo un Walter che ciondolava bellamente tra le sue gambe, aveva ben altri progetti.
No, J non è così! Ti vuole solo accompagnare in gelateria!
Lo guardai negli occhi, in quella pozza d'acqua cristallina e non ci vidi nemmeno un misero accenno di malizia, solo dolcezza. Normalmente, lo sguardo dei ragazzi era solo ed esclusivamente allupato, avendo sempre come chiodo fisso la Iolanda.
«Ma quale disturbo!» esclamò, sventolando una mano a mezz'aria.
Gli sorrisi e lo seguii verso il parcheggio. Sotto ad un albero verdeggiante, c'era una luccicante Renault Clio grigio metallizzato. Con un tintinnio, l'auto si aprì e J mi spalancò la portiera, facendo un mezzo inchino.
«Mademoiselles» soffiò e in quel momento, sentendolo parlare in francese, il mio cervello si disconnesse.
«Allora, dove la devo portare, signorina?» chiese allacciandosi la cintura.
«La Dolce Idea» risposi.
J annuii, facendo rombare il  motore e mi sorrise.
«Saremo lì prima che tu riesca a dire stracciatella!» esclamò.
Perplessa, osservai il ghigno di Jean Philippe farsi sempre più sadico. In un attimo, fece retromarcia ed uscì dal parcheggio a tutta velocità, facendomi spalmare contro lo schienale del sedile. Se c'era una cosa che accomunava tutti gli uomini, anche quello dei tuoi sogni, era l'alta velocità. Quando si sedevano in macchina o si mettevano cavalcioni sulla moto, impazzivano tutto d'un tratto e pigiavano l'acceleratore con foga, manco dovessero prendere il volo e bucare l'atmosfera terrestre.
La Clio zigzagò con velocità ed agilità tra le macchine, sballottandomi da una parte all'altra dell'abitacolo e cominciavo a sentire l'insalata del pranzo risalire dallo stomaco. Davanti a noi si parò un semaforo arancione e J non si preoccupò che quello potesse diventare d'un tratto rosso. Invece di fermarsi, accelerò, superando la macchina che aveva davanti e scattare prima che scattasse il rosso. Dopo nemmeno cinque minuti la macchina si fermò, parcheggiando in un piccolo viale che costeggiava la gelateria.
«Visto?! Abbiamo fatto presto!» esclamò entusiasta J, scendendo dalla macchina.
Io attesi qualche secondo, il tempo di realizzare di non essere morta e di essere ancora sul pianeta terra. Mai più avrei accettato un passaggio da un ragazzo, piuttosto avrei percorso anche miglia e miglia a piedi.
«Grazie» dissi scocciata «La prossima volta sarebbe gradito che tu andassi un pochino più piano!»
J si infilò le mani nelle tasche dei jeans e ridacchiò divertito.
«Comunque, ci vediamo domani» gli dissi, sistemandomi la borsa sulla spalla e dirigendomi verso la gelateria.
«Ehm, Celeste» mi fermò, esitante «Potrei, chessò, farti compagnia?» mi chiese, calciando un sassolino capitato tra le sue gambe.
«Perché?» domandai dubbiosa.
«Non ho impegni per questo pomeriggio e a casa mi annoierei» spiegò.
«Guarda che nemmeno qui ti divertirai molto. È una gelateria, non il paese dei balocchi»
«Dove ci sei tu, ci sono risate!» esclamò, scrollando le spalle ed entrando nel locale prima di me.
Appena misi piede alla Dolce Idea, Ugo Bombolo, il mio titolare, alzò gli occhi al cielo, sospirando. Mai nome e posto di lavoro fu più azzeccato per lui. Era più largo che alto, con una pancia che lo faceva sembrare un bombolone ripieno di crema. Il viso ero paffuto, risultato di anni interi di vita sprecati a mangiare dolci e aveva due piccoli occhi vispi e grigi e dei corti e radi capelli biondi. Lui mi aveva sempre detto che era stato scritto nel destino che lui avrebbe lavorato nel campo dei dolciumi, forse per il cognome che si ritrovava, oppure per la passione spasmodica che aveva per lo zucchero.
«Finalmente Celeste sei arrivata!» esclamò, togliendosi il grembiule e uscendo da dietro il bancone.
«Scusa il ritardo. È che la lezione è durata più del dovuto!» mi giustificai, andando nel retro ad appoggiare la borsa e indossare il grembiule bordeaux della Dolce Idea.
«Beh, per farti perdonare, farai il turno serale!» annunciò Ugo.
Uscii da quello stanzino, legandomi i capelli in una semplice coda di cavallo e mi fermai davanti a lui, con le mani sui fianchi e lo sguardo corrucciato.
«Prego?!» trillai stizzita.
«Ormai ti ho assegnato quel turno, Celeste. E quando Ugo decide una cosa, non cambia idea» disse, sorridendo sornione.
«E io dovrei restare chiusa in questa specie di sgabuzzino con il rischio di farmi stuprare dal primo maniaco che passa?!» urlai, al limite della pazienza «Non puoi chiedere a Cesare? Oppure non puoi starci tu?»
«Ma chi vuoi che ti tocchi Fiore!» sghignazzò Ugo, grattandosi la pancia da bombolone «Cesare non è disponibile e io non posso. E poi tu sei giovane e attiri i tuoi coetanei!»
Incrociai le braccia al petto, irritata perché aveva preso una decisione senza consultarmi e perché aveva appena insinuato che ero una scorfana. Aprii la bocca per replicare, puntando l'indice contestatore, quando lui mi zittì puntandomi una manona cicciona davanti al volto.
«No, no, no! Non dire nulla! Così è e così rimarrà!» disse perentorio «Ed ora scusa, ma ho una commissione da fare»
Guardò rapido l'orologio appeso alla parete, poi mi salutò con un gesto rapido della mano e mi indicò J, come a ricordarmi di servire il cliente.
«Incredibile» mormorai incredula, guardando la porta a vetri.
«E così dovrai fare il turno di sera» mi ricordò Jean Philippe.
«Fantastico!» commentai sarcastica «Non solo mi lascia in balia di pervertiti, ma mi ha anche dato della cozza! Ma si è visto?! Invece di camminare, rotola»
J si morse un labbro, per poi coprirsi la bocca con una mano e soffocare una risata che, aveva paura, potesse farmi uscire maggiormente fuori dai gangheri. Ma non riuscì a contenere la sua ilarità e scoppiò a ridere. Inizialmente lo fulminai con lo sguardo, ma venni immediatamente contagiata dalla sua allegria.
«Lo ammetto, a volte sono un po' esagerata!»
«Sei una forza della natura, Cel!» esclamò «Davvero, sei così naturale! Sono rare le ragazze come te»
Sprofondai nell'imbarazzo più totale e le guance s'infiammarono. Solitamente a nessuno piaceva il mio sarcasmo, anzi la maggior parte della gente mi trovava cinica e antipatica, solo Robbeo non si era allontanato da me. Invece J era rimasto impressionato dalla mia ironia, la mia compagna di vita da ventidue anni, oramai e mi apprezzava così com'ero.
«Cosa fai tu, di solito, quando attendi qualche cliente?» mi chiese, leggermente annoiato dalla monotonia di quel posto.
«Ripasso» risposi, scrollando le spalle «In questo periodo dell'anno non ci sono molti consumatori di gelato, per cui qui è abbastanza tranquillo per rileggere gli appunti»
J arricciò le labbra e si grattò la nuca, poi mi sorriso sornione.
«Di studiare non ne ho la benché minima voglia!» ridacchiò «Credi che a bombolone dispiaccia se ci mangiamo un po' di gelato?»
«Non è corretto nei confronti dei clienti che devono pagare e nemmeno nei confronti di Bombolo» risposi contrariata.
«Suvvia, non fare la moralista! È un po' di gelato, non ti ho mica chiesto di rapinare una banca» ridacchiò e mi guardò con quegli occhi azzurri e furbi ai quali non sapevo resistere. Deglutii a vuoto, poi gli puntai il mio caro amico indice, riducendo gli occhi a due fessure.
«Un cono da un gusto, prendere o lasciare» gli proposi.
«Ok!» sospirò «Sempre meglio che niente»
Afferrai due coni piccoli e fissavo incessantemente l'ingresso, timorosa di vedere entrare un cliente che ci beccasse mentre mangiavamo gelato gratis e che poi avrebbe spifferato tutto ad Ugo, così bye bye lavoro!
«Che gusto vuoi?» gli chiesi infastidita.
«Gustoso cioccolato, grazie» rispose con tono sexy, scoppiando poi a ridere.
Preparai i due coni, uno come lo aveva richiesto J, l'altro allo yogurt variegato ai frutti di bosco, il mio gusto preferito.
«Mangiamolo in fretta!  Non vorrei essere beccata!» quasi gli ordinai, tendendogli il gelato.
Lui mi sorrise e assaggiò con la punta della lingua il cioccolato, leccandosi poi le labbra e assumendo un'espressione estasiata, nemmeno stesse facendo sesso con qualche bonazza. Diamine, era così sexy mentre mangiava il suo gelato e non potei far a meno di continuare a fissarlo, immaginando di essere quel cono. Nemmeno il freezer gigante che c'era sul retro avrebbe sedato i miei bollenti spiriti, dopo una visione del genere.
Calma Celeste!
Scossi la testa e concentrai tutta la mia attenzione sul mio gelato. Se avessi continuato a fissare J, non avrei più risposto delle mie azioni. Ad un tratto, lui si avvicinò felino a me, fermandosi a pochi centimetri di distanza. I nostri occhi si fusero in un istante, il suo fiato mi solleticava la pelle e le sue labbra erano dannatamente vicine alle mie.
Ti vuole baciare! Il gelato era solo una scusa! Cavoli, Celeste, hai fatto colpo!
Deglutii a vuoto e chiusi gli occhi, pronta a ricevere quel primo bacio da parte di J. Aspettai come una deficiente di sentire le sue labbra sulle mie, ma quello che sentii fu solo un lieve tocco sul naso che mi fece aprire gli occhi.
«Avevi un po' di gelato» sorrise, mostrandomi il suo dito sporco di gelato.
Sorrisi ebetamente, sentendomi sempre più stupida per avere immaginato che mi volesse baciare.
Lui è un gentiluomo!  Avrebbe potuto approfittarsi della situazione e baciarti, invece si è frenato. Non come quel troglodita di Ruben che alla prima occasione ti ha infilato la lingua in gola.
Infatti! Quel cavernicolo aveva approfittato di quella stupida scommessa solo per baciarmi e chissà quali strani film erotici mentali si stava facendo sulla sottoscritta. J, invece, era un gentleman, un ragazzo di altri tempi, che non pretendeva tutto e subito, che aveva come unico obiettivo la Iolanda e che la pensava notte e giorno, come un certo Ruben. E allora perché, se pensavo che J fosse il ragazzo perfetto per me, ora mi ritrovavo davanti, ancora una volta, l’immagine di quel troglodita che leccava sensualmente il gelato?



Dopo il salone di bellezza, riaccompagnai Robbeo a Trigoria, per recuperare il ‘bolide’ rosso fiammante. Sapevo che avrei dovuto lasciarlo andare, magari risalendo sulla mia Audi TT bianca e facendo il punto della situazione sui miei impegni con Ruben, ma non appena vidi il Rosso montare su quel vecchio macinino, non potei fare a meno di pensare a Celeste.
Erano quasi ventiquattro ore che non la vedevo e non la sentivo, ovviamente perché non le avevo minimamente chiesto il numero di telefono.
Non che non ne avessi il coraggio, s’intende, ma se per un timido e innocente bacetto aveva fatto tutta quella storia, non volevo nemmeno immaginare cosa sarebbe successo una volta che la relazione fosse diventata seria.
Ma ti senti quando pensi?!
Scossi la testa violentemente e bloccai la portiera del pandino rosso. «Aspetta!» dissi a Romeo, e quello mi rifilò un’occhiata dubbiosa.
«L-l-leon-ardo.. ab-ab-abbiamo d-da f-fare q-q-ues-ta s-sera!» mi ricordò Ruben, fulminando il roscio con gli occhi da talpa che si ritrovava dietro le spesse lenti degli occhiali.
«Ci vorranno cinque minuti» risposi io, montando sul trabiccolo. «Tu seguici con l’Audi e quando ho finito ritorniamo a casa in un batter d’occhio» gli sorrisi, con l’aria innocente.
«M-m-ma s-si p-p.. p-uò s-sapere cosa d-devi f-fa-fare?» mi chiese il mio migliore amico, afferrando le chiavi della macchina e guardandomi ancora poco convinto.
Abbassai il finestrino girando la manovella e appoggiai il gomito facendo la faccia da ganzo, manco fossi su di una spider. «Niente di che.. devo vedere una persona» la buttai lì, rimanendo sul vago.
Ovviamente Robbeo mi fissava con quei suoi occhietti verdi e vispi, con un sorrisino complice dipinto sul volto lentigginoso. Girò la chiave nel cruscotto e gli ci vollero tre tentativi per far partire il motore ante-guerra di quel pericolo pubblico.
«Si parte!» annunciò fiero, ingranando la retromarcia che, immancabilmente, grattò con un rumore assordante e immettendosi nella strada principale. Infine pigiò il piede sull’acceleratore e impiegammo una mezz’oretta per arrivare a 90 chilometri orari, mentre dietro Ruben ci seguiva quasi a passo d’uomo con l’Audi.
«Insomma ti sei fissato con Celeste, eh?» mi domandò ridacchiando.
«Fissato? Io?» sghignazzai, battendomi un pugno sulla coscia. «Ma cosa stai dicendo?! Lo sai chi sono, vero, Rosso?».
Romeo mi lanciò uno sguardo smeraldino con la coda dell’occhio, poi tornò a guardare la strada.
Leonardo tu non ti stai rincitrullendo, hai capito?! Stai andando da quella pazza inferocita solamente perché ti serve come capro espiatorio per la festa di Sabato.. nient’altro! Non c’è niente, non c’è stato niente, e mai ci sarà un emerito nulla tra di voi!
«Lo sai che non acconsentirà mai a quello che vuoi proporle?» osservò Robbeo, diventando man mano più irritante ai miei occhi.
«Fino ad ora non mi ha mai detto di no» asserii, convinto delle mie possibilità.
«Da quant’è che la conosci? Due giorni?» mi domandò, lasciando per un attimo lo sguardo dalla strada e puntando le iridi nelle mie. Nonostante l’avessi sempre visto come un buono a nulla e una palla al piede, questo Romeo Ciuccio dimostrava più di quanto volesse far credere. «Celeste non è come le altre, spero te ne sia accorto. Anche se sapesse la verità su di te, non gliene importerebbe un fico secco di chi tu sia e di quanti soldi guadagni».
Ma è il suo migliore amico o qualcos’altro?
«Sei innamorato di lei?» gli chiesi a bruciapelo, mentre il pandino fece una curva che mi spiaccicò contro lo sportello di metallo, per nulla rivestito dalla tappezzeria.
«Siamo arrivati» comunicò il Rosso, ignorando completamente la mia domanda e accostando nelle vicinanze dell’immancabile portone.
Fu in quel preciso istante che notai, proprio davanti all’entrata del palazzo, la capigliatura bionda di Celeste, ma al suo fianco non potei fare a meno di constatare la presenza di un bell’imbusto con un sorriso ammaliante e uno sguardo di ghiaccio.
Leonardo, cerca di ragionare. Non farti prendere dall’impulsività.. anche perché Celeste non è né tua sorella, né la tua migliore amica, né, tantomeno, la tua ragazza!
«Chi è quel broccolo?» domandai, ignorando completamente i suggerimenti del mio ego.
Spalancai la portiera del pandino con un calcio, quasi alla Chuck Norris, e mi alzai in piedi con il petto in fuori, i jeans giro-bandana e un’espressione sul viso che avrebbe fatto paura anche a quel cesso di Pattinson.
«Quello è Jean Philippe Rossi, frequenta la nostra stessa facoltà» commentò Robbeo, chiudendo lo sportello del pandino che cigolò come le porte di una casa piena di fantasmi. «Si fa chiamare J. perché fa più ganzo, ma è soltanto una checca mezza francese dagli occhioni blu e la bandana poco presente».
Quel commento del rosso mi lasciò un po’ perplesso, ma decisi di ignorarlo e guardare dritto negli occhi quel mangia-lumache!
«T’oh, guarda un po’ chi ce sta!» me ne uscii, raggiungendo Celeste al portone e posando una mano sul muro vicino a lei, intrappolandola tra i miei addominali d’acciaio e il calcestruzzo.
«Che cavolo ci fai qui?» mi chiese acida, fissandomi con l’aria corrucciata e stringendo i libri con tanta forza che immaginai volesse ci fossi io al loro posto. «E tu?!» ringhiò in direzione di Robbeo. «Non dovevi andare a trovare tua nonna all’ospedale?».
Evidentemente il Rosso aveva raccontato un po’ di balle alla mia biondina, ma non fu la Brontolo-posa di Celeste a pietrificarmi, bensì lo sguardo spalancato del famigerato J.
Accecato com’ero dall’averli visti insieme, non avevo minimamente pensato alla fitta rete di bugie che avevo creato attorno alla mia identità e a quanti secondi sarebbero bastati per far crollare tutto.
E se quel mangia-lumache ti ha riconosciuto?
Vidi l’espressione sul suo viso mutare, quasi come quella di Romeo. Mi fissò dall’alto in basso con quei suoi occhi di ghiaccio, si inumidì le labbra quasi come un finocchio, poi mi porse gentilmente la mano.
«Jean Philippe Pierre Montague Rossi» sorrise malizioso, fissandomi intensamente con uno sguardo furbo.
Ora ti chiederà un autografo, babbeo!
Ehi, vacci piano con gli insulti, siamo la stessa persona!
«E tu chi saresti?» mi chiese sorridendo, mentre Celeste pendeva letteralmente dalle sue labbra.
Rimasi completamente di sasso e per poco non scivolai con la mano posata sul muro.
Possibile che questo broccolo non avesse idea di chi fossi?!
Beh, almeno ti ha parato il culo..
«Questo troglodita è Ruben» sospirò Celeste, scostandomi poco delicatamente da lei. «Non farci caso se parla a monosillabi, conosce a mala pena la coniugazione del verbo avere!».
«La che?» chiesi confuso.
Celeste roteò gli occhi e li puntò al cielo, mentre J. tese ancor più la mano, attendendo che io gliela stringessi.
Lo fissai con un sopracciglio alzato, poi ridussi gli occhi a fessure. «Ruben Canilla» risposi a mezza bocca, lanciandogli le saette dagli occhi.
«Sì, vabbé» mi scansò Celeste, spostandomi ancora più lontano. «Tizio-Caio, Caio-Tizio, vogliamo salire?» chiese, spalancando il portone e facendo cenno anche al Rosso di muoversi.
A quel punto J. mi regalò uno sguardo di sfida con quelle sue iridi glaciali, poi salì il gradino ed entrò nell’androne, seguito da Romeo.
Senza pensarci due volte lo seguii, deciso ad essere la sua ombra fino in fondo, ma mi ritrovai Celeste a sbarrarmi l’ingresso col suo corpo e con la Brontolo-posa più esplicativa che potesse utilizzare.
«Dove credi di andare, Ruben?» mi chiese, fissandomi in cagnesco.
«Secondo te?» le risposi sgarbato, troppo concentrato a fissare le spalle da rugbista di quel belloccio francese.
«Non sei invitato! Ogni giorno non puoi presentarti qui come se fosse casa tua o se ti bastasse la scusa di Romeo come tuo migliore amico! Sparisci!» mi intimò, cercando di chiudermi il portone in faccia.
«E perché il mangia-lumache può salire?!» domandai infervorato, quasi al limite della pazienza. «Cos’è, il tuo ragazzo?!» ringhiai.
A quella parola Celeste arrossì violentemente ed io sgranai gli occhi sorpreso.
Le piace.. dannazione..
«C-che dici!» mi rimproverò poco dopo, ritornando sé stessa. «Mi ha chiesto in prestito un libro per l’università, tutto qui!».
«A-anch’io ho bisogno di un libro!» m’impuntai, facendo la figura di un emerito cretino.
Era la prima volta che qualcuno mi negava qualcosa. Avevo avuto sempre tutto dalla vita, ogni mia richiesta veniva esaudita, sia dall’allenatore che dai membri della mia famiglia, ma questa volta mi ritrovai la porta sbattuta letteralmente in faccia.
«Ruben, fammi un favore» sospirò Celeste, fissandomi seria. «Tornatene a casa».
Il mondo intero mi crollò addosso in un istante, lasciandomi immobile davanti al portone guardando oltre la vetrata mentre lei si allontanava.
I rifiuti fanno male, eh, Leo?


La parola d'ordine in questo capitolo di oggi è proprio: gelosia!
Il nostro bel calciatore per la prima volta, in tutta la sua meravigliosa vita fatta di successi e conquiste, si è visto rivolgere davanti agli occhi un bel rifiuto.
Celeste, in un modo che né lui né il suo Ego si spiegano, è riuscita a colpirlo, a stregarlo con quella sua particolarità e quel suo apparente disdegno nei suoi confronti. E ovviamente, cos'è che si desidera di più di qualcosa che non si può avere?!
Ma passiamo ai veri protagonisti di questo capitolo: Ruben e Romeo. Quei due sono spisciosissimi e mi diverto troppo ad inserirli nelle gag di Leonardo, almeno smorzano un pochino i toni 'drammatici' (passatemi il termine) di questa storia.
E poi è comparsa finalmente sulla scena la cara Annalisa! Dolce come un calcio lì dove non batte il sole e per il nostro povero Leonardo, lei è una specie di stalker [ps. chi ti ricorda Wife?!].
Dal canto suo, Celeste, è sempre più presa dal dolcissimo J. che, oltre ad essere bello e intelligente, è anche gentiluomo. Tutto il contrario di Leo/Ruben, insomma. Anche se il nostro amico calciatore ha 'stregato' Celeste. Infatti, ha cominciato a vederlo ovunque, per giunta sempre in modalità sexy.
Abbiamo anche conosciuto il suo titolare, Ugo Bombolo, e abbiamo avuto un piccolo assaggio della sua vita lavorativa. Anche in gelateria, la sua acidità non si risparmia. Sembra proprio che solo J. riesca a placare la 'furia bionda'.
Dunque, dunque.. chissà cosa accadrà nel prossimo capitolo?! Leonardo ce la farà a convincere Celeste ad essere la sua ragazza per la festa, oppure dovrà andare dalla 'piattola' da solo?! E se ci andranno.. cosa accadrà al party del secolo?!


Renza                                    Annalisa Cavalli        Ugo Bombolo                  Il pandino di Robbeo


TRAILER di presentazione di 'Come in un Sogno'

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Clithia, pagina Facebook.         IoNarrante, pagina Facebook.

e, infine, MA NON PER ULTIMA, la nostra nuovissima 'chicca' a 4 mani!

Stavolta facciamo felice Leonardo...
Leo mode-on
'Ti credo che sbaglio un goal davanti alla porta!' è.é
Leo mode-off

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Capitolo 6
*** Alcool e cambiamenti di personalità ***



CAPITOLO 6
Alcool e cambiamenti di personalità

La festa di quella pazza di Annalisa si avvicinava sempre di più ed io non avevo ancora trovato il coraggio di attuare il mio splendido piano per scrollarmi di dosso quella sottospecie di sanguisuga dai capelli rossi.
L’idea di dire che Celeste era la mia ragazza mi era uscita su due piedi, ma il fatto era che non avevo minimamente calcolato l’ira funesta che si sarebbe abbattuta sul sottoscritto una volta che le avrei esposto il mio piano.
Già mi immaginavo la scena: il povero Leonardo Sogno schiacciato da un masso gigantesco con Celeste che issava vittoriosa la bandiera sul mio cadavere.
Brividi…
No, dovevo essere più furbo. Avrei dovuto trovare un escamotage che mi permettesse allo stesso tempo di portare Celeste alla festa come la mia ragazza e rimanere in vita per raccontarlo.
Forse mi sarebbe servito un aiuto, magari da degli esperti.
«E insomma ti sei fregato con le tue stesse mani» se ne uscì il Rosso, fissandomi dalla sua poltrona girevole con un gatto di peluche in grembo, in pieno stile mafioso. «Sei venuto nel posto giusto, caro Sogno» e ridacchiò spostando lo stuzzicadenti da una parte all’altra del labbro. «Ti farò un’offerta che non pottrai riffiuttare».
«M-ma.. m-a sm-smettila!» intervenne Ruben, fissando Romeo di traverso.
«La volete piantare di discutere come due donzelle innamorate?» li interruppi, stufo di quei continui battibecchi su chi fosse il mio vero migliore amico. «Ho un serio problema, se non ve ne siete accorti».
I due finirono di bisticciare e mi fissarono, poi entrambi portarono l’indice al mento in una mossa speculare e finsero di pensare.
Rimanemmo in silenzio per un quarto d’ora buono, rimuginando sulla strategia più adatta, ma ogni volta che mi immaginavo un discorso da intavolare con Celeste, la fantasia finiva sempre con il sottoscritto che veniva divorato dalle fauci di quella dragonessa bionda.
«P-potre.. potres-sti d-dirle la v-ve-verità.. che n-non s-sopporti A-A-An.. Annalisa!» se ne uscì Ruben, irritato dalla sua balbuzia.
«Ma hai visto come si infuria quando le menti? Figurati se la coinvolgo in una truffa ai danni di una ragazza.. capirai.. le donne fanno fronte unito, che non lo sai?!» sbuffai, come se a quella soluzione non ci fossi già arrivato da solo.
«Ricattala!» se ne uscì Robbeo, scaraventando il gatto di peluche sul suo letto alle mie spalle.
«Cioè?».
Il Rosso mi guardò con quei suoi occhi verdi da gatto, poi sorrise. «Le dici che se non farà finta di essere la tua ragazza, andrai dal mangia-lumache e gli dirai che lei è lesbica.. che ne so!».
«F-f-fa-fai p-pena!» lo apostrofò Ruben e, in effetti, non aveva tutti i torti.
«Ragazzi siamo in alto mare» mi lamentai, non vedendo alcuna via d’uscita dalla situazione in cui mi ero impelagato.
Ma perché non le avevo semplicemente risposto ‘vai a farti fottere’? A quest’ora non mi sarei trovato con l’acqua alla gola. Odiavo sentirmi messo alle strette, soprattutto perché Leonardo Sogno era uno spirito libero e non doveva tenere conto di nessuno.
«Non so che dirti, campione..» si arrese il Rosso.
«M-mi mi a-arrendo..» si aggiunse Ruben.
Che razza di amici che mi ritrovavo. Invece che aiutarmi mi trascinavano ancor più nel baratro.
A questo punto avrei dovuto cavarmela da sola, come avevo sempre fatto del resto. Alla festa della figlia del presidente dovevo andarci per forza e volente o nolente sarebbe dovuta venire anche quella piccola furia bionda.
«La verrò a prendere quella sera stessa» dissi a voce alta, più a me stesso che a quei due inutili consiglieri. «E le dirò di imbellettarsi che la voglio portare a cena fuori».
Come piano non è affatto male, geniaccio!
Ero molto soddisfatto di me stesso, soprattutto quando io e il mio Ego andavamo così d’amore e d’accordo. Chi aveva bisogno dei consigli degli altri quando aveva dentro di sé un simile talento?
«E c-co-come f-farai q-quando a-ar-ar-arrive-arriverai a-a-alla f-festa?» chiese subito Ruben, impiegandoci giusto un quarto d’ora per tirar fuori quella frase.
Scrollai le spalle e sprofondai ancora di più nella trapunta del materasso. «Improvviserò sul momento, mica posso pensare ad ogni minimo dettaglio!» mi lamentai, già con il cervello fuso per aver pensato ad una genialata del genere.
«Si incazzerà come una bestia, lo sai vero?» mi fece presente il Rosso, che ormai sembrava più stare dalla parte di Celeste che dalla mia.
«Ho già pensato a tutto!» ridacchiai furbo. «Giocherò la carta della folla e anche se Celeste è matta come un cavallo, non farà nessuna scenata perché non vorrà soccombere alla vergogna di fronte a tutti gli invitati».
Altro colpo di genio, tigre! Mi stai stupendo questo pomeriggio!
E non hai ancora visto niente!
Romeo e Ruben si lanciarono un’occhiata dubbiosa, ma non dissero nulla per frenare il mio entusiasmo. La verità è che erano semplicemente gelosi, tutto qui, perché alla fine ero riuscito a trovare la soluzione da solo.
«Pregherò per la tua anima» se ne uscì Robbeo, mettendosi in ginocchio e fingendo di avere un rosario tra le mani.
«N-non n-non c-credo s-sia una b-buona i-i-ide-idea..» insistette Ruben. «F-forse s-sarebbe m-me-meglio s-se le d-dicessi la v-ve-verità..».
«Oh, che palle con questa verità!» sbottai, facendo anche riferimento al fatto che Celeste non aveva idea di chi io fossi in realtà. «È molto più semplice mentire, che ve lo devo dire io? Avete visto che lei non sospetta nulla? Potrei continuare a fare il fioraio a vita!».
«S-sì, m-ma c-che r-raz-razza di r-rap-rapporto m-metti i-i-in p-piedi?».
Quella domanda di Ruben mi spiazzò e per la prima volta in quel pomeriggio di Aprile non seppi cosa rispondere. Aprii più volte la bocca per poi richiuderla, quando alla fine mi alzai di scatto e afferrai il casco per montare sulla mia bambina.
«Quale rapporto pensi che ci sia?!» ringhiai, infervorato. «Leonardo Sogno non si metterà mai con nessuno, tantomeno con una svitata come quella!».
Detto questo imboccai la porta dell’ingresso e mi precipitai fuori, proprio quando un tuono piuttosto rumoroso squarciò il cielo e preannunciò un tipico acquazzone primaverile.
Tolsi il cavalletto alla Ducati e vi montai sopra, allacciando il casco integrale e tirando la zip del giubbotto sino al limite. Girai la chiave e la moto rombò tra le mie gambe, aumentando la voglia che avevo di scaricare la tensione accumulata in quella breve conversazione avuta con Ruben e Romeo.
Non hai nessun bisogno di dar loro spiegazioni! Lo sappiamo entrambi che non sei il tipo da relazione seria, che ti piace scopare e basta.. allora perché ti scaldi tanto?
Ci mancava anche il mio Ego a rigirare il coltello nella piaga, così finsi di non ascoltarlo e mi gettai nel traffico, zigzagando tra le auto senza mai diminuire la velocità.
Mi beccai numerosi ‘vaffanculo’, seguiti da dita medie alzate in gesti non proprio cortesi, ma li ignorai. Se soltanto mi fossi tolto il casco, ero sicuro che si sarebbero rimangiati tutto e, anzi, mi avrebbero addirittura offerto un passaggio senza che quella pioggia battente mi infradiciasse addirittura le mutande.
Accelerai e il contachilometri cominciò a raggiungere i 100, quando il limite cittadino consentito era di 50. Sapevo di rischiare una scivolata, soprattutto con la pioggia sui sanpietrini del centro di Roma, ma non m’importava.
Senza che me ne accorgessi, mi ritrovai davanti alla facoltà di Celeste, con la moto parcheggiata in un angolo, nemmeno fossi uno stalker o un maniaco. Non sapevo perché il mio cervello mi avesse condotto lì, anche perché era troppo presto per parlarle dell’invito a ‘cena’, ma nascondermi tra i cespugli come un volgare spione mi faceva davvero strano.
Cosa stiamo facendo, eh, Leo? Sei per caso impazzito tutto d’un tratto?
La verità era che mi bruciava ancora il fatto che Celeste avesse preferito invitare quel francesino pezzo di merda, piuttosto che il sottoscritto. Nella mia vita non avevo mai ricevuto dei rifiuti, ero stato accontentato sin da piccolo, e non era possibile che una ragazza venuta dal nulla, che non sapeva chi fossi né quanti soldi guadagnassi, mi desse il benservito in quel modo.
«Ma tanto me la pagherà quel mangia-lumache da strapazzo» ringhiai tra me e me, borbottando come uno di quegli anziani rincoglioniti al parco.
«Quale mangia-lumache?» ridacchiò una voce alle mie spalle e mi ritrovai faccia a faccia con Jean-qualcosa, re di questo cazzo con la puzza sotto al naso.
«Sparisci, francesino» gli intimai, nel modo meno garbato possibile.
Quello, invece di controbattere oppure rimanere stizzito da quella mia offesa piuttosto colorita, rimase appoggiato alla mia Ducati e mi fissò con quei suoi occhi cristallini attraverso le folte ciglia castane da vera checca.
«Non capisci la nostra lingua, buffone?» ripetei, piuttosto spazientito da quell’individuo. «S.P.A.R.I.S.C.I!».
Jean-qualcosa mi fissò sempre allo stesso modo, sfoderando un sorrisetto ancora più da cazzotto in faccia.
«L’altro giorno Celeste mi ha prestato il libro che mi serviva, è stata molto gentile» disse, ma a me non me ne fregava nulla di quello che era successo tra quei due. «Mi ha anche fatto vedere la sua stanza da letto..».
Cosa voleva insinuare questa sottospecie di viscido mangia-lumache?
«..molto carina» concluse, mordendosi il labbro inferiore con fare sensuale.
Arrivati a quel punto mi prudevano talmente tanto le mani che avrei volentieri afferrato il casco e glielo avrei lanciato in piena faccia, riducendo quel suo bel faccino da checca ad un colabrodo!
«Senti, non so dove tu voglia andare a parare, ma a me Celeste non interessa, perciò puoi fare tutte le allusioni che ti pare» lo rassicurai.
Il francesino sorrise e si alzò dalla Ducati, sistemandosi meglio la borsa a tracolla. «Già.. allora perché sei qui davanti impalato aspettando che finisca la lezione?» mi fece presente, poi mi superò e se ne andò, lasciandomi immobile come uno stoccafisso a fissare i cespugli.

Sistemai il papillon alla bell’è meglio, abbottonando la camicia bianca sotto il gilet grigio –un vecchio ricordo di mio nonno– e i pantaloni con la piega mi davano una vera aria da sfigato.
Ed ora il tocco finale..
Un bel paio di occhiali dalla montatura spessa, con le lenti di vetro ovviamente, perché non avevo nessun difetto alla vista. Mi fissai allo specchio e sorrisi soddisfatto. Quel look da nerd avrebbe fatto allontanare chiunque alla festa di Annalisa, compresa la bella figlia del presidente della mia squadra di calcio.
La genialata di vestirmi da nerd mi era venuta guardando una di quelle solite commedie americane pezzenti, in cui gli sfigati vengono allontanati da tutti e in quel momento m’era venuto il lampo di genio. Se fossi passato completamente inosservato, quella pazza di Annalisa nemmeno mi avrebbe visto e non ci sarebbe stato nessun bisogno di dire a Celeste di fingersi la mia ragazza, rischiando l’evirazione.
«Come sto?» chiesi a Ruben, precipitandomi nella sua stanza.
Il mio migliore amico si stava sistemando la cravatta nera di raso, sopra una camicia bianca con giacca nera. Stava benissimo e quell’abito gli dava proprio un’aria da manager di professione.
Peccato che quando si voltò, quegli occhiali a fondo di bottiglia gli riducevano gli occhi a due minuscole fessure, quasi come una talpa cieca.
«M-ma c-co-cosa t-ti s-sei m-me-messo?!» mi chiese sorpreso.
«Tadan!» esultai, facendo una giravolta su me stesso. «È il look anti-Annalisa! Ti piace?».
Ruben rimase con la bocca mezza aperta, senza dire una parola.
«Lo so, lo so, non dire nulla.. sono un genio!».
«L-le-leonardo n-non c-cr-credo che s-se-serv..».
«Tanto non mi cambio, perciò risparmiati la predica» tagliai corto, avvicinandomi a lui e sistemandogli meglio la cravatta.
A quel punto gli sfilai gli occhiali e lui fece per protestare. «Ruben, e che cazzo mettiti le lenti a contatto per una buona volta! Sembra che tu non abbia le pupille!».
Il mio migliore amico si sorprese, poi si avvicinò allo specchio e tirò fuori un astuccio in cui teneva le Focus-daily.
«F-f-fo-forse h-hai r-ragione..» commentò.
«Fatti servì per una volta» gongolai, tirando fuori la mia solita aria spocchiosa.
A quel punto sentii l’i-phone che trillava dalla mia stanza da letto e mi precipitai a rispondere, credendo chissà cosa stesse succedendo. Avevo sperato fino all’ultimo che Annalisa ci avvertisse dell’annullamento della festa, ma quando vidi ‘numero sconosciuto’ cominciai a sospettare qualcosa.
Feci scorrere il dito sul touchscreen per rispondere e mi portai l’apparecchio all’orecchio.
«Si può sapere perché sono sempre l’ultima a sapere le cose?!».
La voce di Celeste aveva raggiunto già i 10.000 decibel ed io non avevo nemmeno aperto bocca. Cos’era andato storto?
«C-ce-celeste..» in quel momento mi sembravo Ruben.
«Per quale motivo non mi hai parlato della festa di stasera, visto che quel cerebroleso di Robbeo si sta tutto imbellettando?! Volevi escludermi? Oppure me lo avresti detto all’ultimo secondo così mi sarei vestita di fretta e furia assomigliando ad una delle sorellastre di Cenerentola? Mi sarei aspettata di tutto, Ruben.. ma non una vigliaccata del genere da parte tua!».
Oh, Cielo.. è indemoniata!
«V-veramente era una sorpresa..» tentai di spiegare.
«Sorpresa un corno! Questa me la paghi, Ruben.. lo so che ti sei vendicato perché l’altro giorno ti ho sbattuto il portone in faccia! E se speravi che non venissi, ti sbagli di grosso!».
Chiuse la chiamata e mi lasciò interdetto con il telefono ancora sospeso a mezz’aria.
Alla fine tutto si è risolto per il meglio, no? Celeste è verrà alla festa come volevi..
Il problema era che la biondina era già in modalità ‘belva feroce’ e non osavo affatto immaginare cosa sarebbe successo non appena le avessi parlato del mio piano di fingersi la mia ragazza per scrollarmi di dosso Annalisa la sanguisuga.
«C-c-chi e-era?» mi domandò Ruben, facendo capolino nella mia stanza.
«La mia rovina» sospirai, poi scrollai le spalle e mi infilai l’i-phone nella tasca dei pantaloni. «Stasera, vecchio mio, avrai l’onore di portare un nome importante come quello di Leonardo» dissi al mio migliore amico. «Perché con Celeste dovrai far finta di essere me, mentre io dovrò essere te. Hai capito?».
Ruben mi fissò un po’ confuso e piuttosto intimorito. «N-n-non c-crederà m-mai che i-io p-po-possa ess-essere un ca-cal-calciatore..».
«Mi fido delle tue doti nascoste, caro il mio vecchio Leonardo» ridacchiai, spiaccicandomi ancora di più sulla testa i capelli pieni di gel e sistemandomi i fondi di bottiglia sul naso.
«C-con c-con quale m-ma-macchina a-an-andiamo?» mi domandò il mio amico, facendo riferimento al box auto stracolmo delle mie altre bambine.
«Non abbiamo una coupé o qualcosa di semplice?» gli chiesi, non ricordando affatto quali e quante macchine ci fossero parcheggiate dentro.
Ruben ci pensò un po’ su, poi mi sorrise. «C’è la 500 abarth di tuo cugino» mi disse ed io scrollai le spalle.
«Meglio di niente».


Quel troglodita di Ruben aveva pensato bene di invitare Robbeo ad una festa, ignorandomi completamente. Cos'era, una specie di vendetta per avergli chiuso il portone in faccia?! Oltre ad essere stupido, era anche infantile. Ma se credeva che si sarebbe liberato di me così facilmente, si sbagliava di grosso. Lui non mi voleva a quella maledetta festa?! Benissimo, io ci sarei andata comunque.
Mi passai il rossetto rosso sulle labbra con un gesto delicato e mi allungai le ciglia con una quantità industriale di rimmel. Non uscivo spesso, non per andare alle feste, non con un troglodita, ma quando lo facevo mi piaceva truccarmi, sentirmi donna e non solo una rompicoglioni acida come un limone.
Tu ti stai imbellettando per quello lì.
Rimasi con il pennellino del rimmel sospeso a mezz'aria e mi guardai allo specchio, confusa. Mi piaceva truccarmi, ma così sembravo una pornostar, quasi volessi fare colpo davvero su qualcuno.
Su Ruben, ormai è palese. Il tuo cervello si è fritto da quando hai visto quella maledetta bandana.
Diamine, no! Quel deficiente non aveva avuto alcun effetto sulla sottoscritta. A parte le allucinazioni che mi perseguitavano e i sogni poco casti su di lui. Richiusi la boccetta di rimmel, gettandola dentro il mio beauty. Chi volevo prendere in giro?! Quello lì non faceva altro che tormentarmi, con i suoi occhi verdi e quella bandana da far invidia a Rocco Siffredi. Da quando lo avevo visto in mutande non facevo altro che sognarmelo tutte le notti, che ammiccava e pretendeva qualcosa di più di un semplice bacio. Ed io non mi tiravo indietro, era quella la cosa che mi sconvolgeva di più! Era un incubo vedermi tra le braccia di quel decerebrato, avvinghiata a lui mentre ansimavo. Sembrava di assistere ad un film a luci rosse! Vedermi  così disinibita come solo un'ochetta poteva esserlo mi faceva svegliare in piena notte urlando come una cornacchia, sudata, nemmeno avessi attraversato il Sahara in Agosto, disturbando anche il povero Robbeo che accorreva a sincerarsi delle mie condizioni. Una notte, nella foga, non si era riuscito a liberare del lenzuolo, che gli si era aggrovigliato attorno al corpo come un enorme polipo e, mentre correva da me, cercando di sottrarsi a quei tentacoli di stoffa, aveva centrato in pieno lo stipite della porta. La botta era stata talmente forte che aveva, addirittura, perso conoscenza per qualche minuto. Al suo risveglio, vedendomi piegata su di lui, aveva sorriso come un ebete, esclamando “Capità, che ci fai tu qui?”
Mi aveva scambiata per un uomo, per il capitano della Roma! Nonostante avessi voglia di lasciarlo lì agonizzante a terra dopo quello che mi aveva detto, lo sollevai da lì e lo trascinai, con uno sforzo inimmaginabile, nella sua stanza. Non ero riuscita a rimetterlo sul letto, lo avevo lasciato seduto a terra, con il viso affondato nel materasso, mentre continuava il suo delirio.
Sospirai, rumorosamente, scuotendo la testa. Dovevo darmi una regolata e cercare di non ripensare a Ruben senza abiti, ma di ricordarlo come il semplice fioraio che non sapeva nemmeno coniugare il verbo essere.
Che poi, il fatto che fosse un fioraio non mi convinceva ancora del tutto. Mi appoggiai al lavandino e mi guardai ancora una volta riflessa nello specchio. Perché avevo la sensazione di averlo già visto? Che mi stesse mentendo? Che non mi stesse mostrando il vero Ruben?
«Cel e muoviti!» sbraitò Robbeo «Ci è voluto di meno a dipingere la cappella Sistina!»
Sbuffai, roteando gli occhi e sbattendo il mio beauty nell'armadietto.
«Arrivo!» replicai con poco garbo.
Andai nella mia camera e calzai un paio di decolleté nere da abbinare al tubino rosa dalla scollatura provocante. Acchiappai un paio di orecchini dal mio portagioie, dei semplici pendagli con una pietra viola ed uscii dalla stanza mentre li indossavo.
«Robbeo, mi aiuteresti ad allacciare la zip?» domandai, raggiungendolo in salotto.
Sollevai i capelli, in modo tale da facilitarlo ed attesi immobile che lui si alzasse da quel maledetto divano che ormai aveva la forma delle sue chiappe, talmente tanto era il tempo che ci stava seduto.
«Romeo, sei deceduto?!» sbottai, voltandomi quel tanto che bastava per fulminarlo con gli occhi.
La sua espressione era più babbea del solito. Aveva gli occhi sgranati, la bocca spalancata e batteva le palpebre lentamente, come se stesse avendo una visione celestiale.
«Chiudi quel forno, prima che ti entri un'ape e rischi di soffocare ancora» ridacchiai, ricordando quel pomeriggio d'estate durante il quale rischiò di morire perché uno di quei deliziosi insetti neri e gialli gli si era conficcato in gola mentre lui era intento a sbavare dietro ad una svampita.
Scrollò con vigore la testa e scattò i piedi come una molla, avvicinandosi a me. Sentivo il suo respiro accelerato solleticarmi la schiena nuda, le sue mani fredde che, impacciate, tentavano di chiudermi la zip. Mi domandai che cosa lo rendesse così nervoso, così agitato. «Sei, sei bellissima stasera» mormorò al mio orecchio.
Lasciai ricadere i capelli lungo le spalle e mi voltai di scatto, incrociando le braccia e guardandolo con cipiglio. Sapevo bene che mi stava prendendo per i fondelli. Me lo diceva sempre, anche da appena sveglia, quando sembravo la Maga Magò, per poi scoppiare a ridere con un deficiente. Schioccai la lingua e battei il piede sul pavimento, attendendo la sua sciocca risata.
«Sul serio Cel» disse, assumendo lo stesso colore dei suoi capelli e grattandosi la nuca «Questa volta non sto scherzando»
Sentii i muscoli rilassarsi dopo quell’affermazione e sorrisi per quel complimento che mi stupì. Romeo non era un tipo da fare apprezzamenti, se non i classici Bella gnocca oppure Guarda quella che tette fantastiche!, per cui sentirmi dire da lui che ero bellissima mi fece arrossire.
«Grazie» risposi, leggermente in imbarazzo, stringendomi nelle spalle.
«Cos'è, vuoi fare colpo su Le...ehm, Ruben?»
Avvampai d'improvviso e sentii le guance incendiarsi solo a sentire il suo nome. Non sapevo spiegarmi quella mia reazione da scolaretta delle medie, ma non volevo nemmeno trovarla una spiegazione. Era meglio non badarci troppo a quegli sbalzi di temperatura che quel tipo mi provocava.
«Ma che dici!» sbottai, facendo l'indignata e assottigliando lo sguardo.
Robbeo abbassò il suo sguardo verde verso il pavimento e scrollò le spalle. In quell'esatto momento, qualcuno strombazzò il clacson e capii all'istante che si trattasse di quel troglodita di Ruben. Solo uno come lui poteva disturbare la quiete pubblica così, con nonchalance e menefreghismo.
E tu che ti imbarazzi quando si parla di lui. È un cafone senza il minimo rispetto. Tu e lui non avete nulla in comune, ficcatelo in testa.
«Ti pare che io voglia fare colpo su un maleducato del genere?!» lo provocai, con il sangue che mi ribolliva nelle vene.
«E che ne so?!» sbottò indispettito «Sei talmente stramba che non so mai che cosa ti passi in quella testolina bionda!»
«Stramba?!» ripetei accigliata «Cosa intendi con stramba?» marcai l'ultima parola.
«Beh, ecco» esordì Romeo, sfuggendo al mio sguardo inceneritore e gesticolando nervosamente «Che non sei, cioè, sei un po', come dire...» e si grattò la testa.
Ruben strombazzò ancora una volta quel maledetto clacson, distogliendo la mia attenzione sul tentativo disperato di Romeo di trovare una definizione di stramba. Grugnii infastidita, respirando a fondo e prendendo la pochette che avevo lasciato vicino alle chiavi di casa.
«Andiamo, prima che quel clacson mi faccia impazzire» sbottai.
Romeo ridacchiò e mi seguii fuori dal nostro appartamento. Chiusi la porta e raggiungemmo l'androne utilizzando l'ascensore che tanto terrorizzava Ruben. Appena fuori, la brezza della sera d'Aprile m'investì, facendomi rabbrividire per qualche istante. Fino a quando non incontrai gli occhi verdi di Ruben, che era fuori da una 500, con le braccia appoggiate al tettuccio e un sorriso che avrebbe fatto perdere la ragione a chiunque. Una vampata di calore mi sorprese, come se mi ritrovassi sopra un geyser e mi ritrovai a boccheggiare in cerca d'aria. Lui sembrava in imbarazzo quasi quanto me. Aveva le labbra dischiuse e i suoi occhi scivolarono lungo la mia figura più e più volte. Arrossii violentemente sotto il suo sguardo smeraldino che, da dietro un paio di occhiali, mi scrutava, mi esaminava, scorreva su di me.
Occhiali?!
Scossi la testa, cercando di riprendermi dall'imbarazzo e notai il modo ridicolo in cui si era vestito. Sembrava uno di quei nerd sfigati delle commedie americane. Un nerd di quelli fighi. Perché, qualunque cosa indossasse, che fosse un paio di jeans e una giacca di pelle oppure un gonnellino di pelliccia stile antenati, era sempre bellissimo.
«Come diavolo ti sei conciato?» domandai incredula «Non mi avevi detto che era una festa in maschera»
Ruben scrollò le spalle, prima di salire in macchina. Lo imitai, sedendomi accanto a Robbeo nei sedili posteriori. Davanti a me sedeva un ragazzo dall'aspetto discutibile, con gli occhi da talpa e i capelli tenuti indietro da quintali di gel. Accanto a lui, perfino Robbeo sembrava un bel ragazzo.
«Allora mi spieghi perché ti sei conciato da sfigato?!» sbottai, sporgendomi verso Ruben.
Lui sospirò sonoramente, mettendo in moto la 500 e allontanandosi dal mio palazzo ad alta velocità. Mi aggrappai ai due sedili di fronte a me per non rischiare di essere sballottata e rivolsi al guidatore un'occhiata che avrebbe sciolto anche i ghiacciai dell'Everest.
«Mi vuoi rispondere?!» quasi urlai.
«Lo sai che non si parla al conducente?» ridacchiò.
«Non fare l'idiota, Ruben» lo minacciai.
Il cesso seduto davanti a me sprofondò nel sedile, scuotendo la testa con disappunto. Lo osservai confusa mentre lanciava delle occhiatacce al conducente e non capii se si stesse sentendo male oppure ero solo uno squilibrato.
«Diciamo solo che ho dato sfogo al mio lato cervelloide» gongolò, guardando nello specchietto retrovisore per incontrare i miei occhi.
«Ti crederei, se non fosse che sei più ignorante di una capra» lo provocai «Si dice cervellotico»
Ruben alzò gli occhi al cielo e sospirò sconsolato.
«Se tu non mi offendi, non sei contenta, vero?» domandò, incrociando nuovamente il mio sguardo riflesso.
I suoi occhi verdi mi parvero privi della sua solita spocchia, ma pregni di rammarico, delusione per le mie continue offese gratuite. Nel vederlo così risentito per le mie parole, mi sentii improvvisamente in colpa verso di lui. Abbassai lo sguardo e mi appoggiai allo schienale, scivolando lungo il sedile ed evitando accuratamente di incontrare di nuovo le sue iridi.
«Comunque!» la voce di Ruben spezzò il silenzio che regnava in quella macchina «Mia cara Celeste, hai l'onore di essere seduta dietro a, niente popò di meno che...» esitò, mentre Robbeo, vicino a me, aveva iniziato a battere le mani sulle cosce per simulare un rullo di tamburi «Leonardo Sogno!»
La talpa si sporse leggermente di lato per superare l'ostacolo sedile e potermi guardare negli occhi. Sorrise imbarazzato, allungando una mano rachitica verso di me. Non credevo possibile che quel grissino rinsecchito fosse l'idolo di Romeo, che quella specie di troll fosse il calciatore più amato dalle ragazzine infoiate. Vabbè che sbavavano dietro anche a Justin Bieber, ma strapparsi i capelli per un rospo del genere mi sembrava quanto mai ridicolo. O erano tutte cieche o ero io ad avere qualche problema di vista.
«Celeste» dissi stringendogli la mano.
«Pi-pia-pia...» era anche balbuziente.
«Sì, dai, tanto piacere» intervenne Ruben infastidito «Scusalo. Ha qualche problema a parlare la nostra lingua» mi confidò, beccandosi un'occhiataccia da parte della talpa «È stato molto tempo all'estero e ora si è dimenticato l'italiano»
Corrugai la fronte e guardai ad uno ad uno gli uomini in quella macchina. Avevo la sensazione che mi stessero prendendo per i fondelli e la cosa mi fece imbestialire.
«Quindi questo ciospo sarebbe il famoso Leonardo Sogno?!» sbottai «L'idolo delle ragazzine?»
Ci fu un istante di silenzio in cui mi soffermai a guardarli. Ruben si umettava le labbra in continuazione, aprendo più volte la bocca per cercare di dire qualcosa, mentre Robbeo deglutiva a fatica ed evitava accuratamente il mio sguardo. Per quanto riguardava Leonardo, lui era sprofondato nuovamente del sedile e non riuscii a vedere il suo viso e le sue reazioni.
«Eh già, chi lo avrebbe mai detto» ridacchiò Ruben «È, come dire, affascinante. Hai visto che occhi, che portamento, che eleganza. Tutti questi elementi lo rendono l'idolo che è»
Incrocia le braccia, imbronciandomi, sicura, ormai, di essere vittima di un loro stupido scherzo.
«Certo» schioccai la lingua «E di grazia, Robbeo, come mai sei così tranquillo nonostante il tuo idolo sia nella tua stessa macchina?»
Sentendosi chiamato in causa, Romeo si voltò di scatto verso di me, guardandomi con i suoi occhi verdi spalancati, mentre una goccia di sudore gli percorse il viso, fermandosi sulla punta del mento.
«Perché» deglutì «Perché, perché, perché» continuava a ripetere, in difficoltà «In realtà, in realtà sono in fibrillazione. Sto palpitando, non vedi, palpito. Tremo, non so che dire» e si voltò verso Ruben, tornando poi guardarmi «Ma comunque, poi, lo avevo già incontrato, quindi la gioia del primo incontro è svanita. Perciò mi vedi così silenzioso e...»
«Sì, ok Robbeo» tagliai corto, sbuffando, tanto non avevo capito una sola parola di quello che aveva tentato di dirmi «Ma, mi chiedo, come un semplice fioraio e uno studente di letteratura possano conoscere un calciatore così famoso!»
La mia voce uscì sprezzante e tagliente, spiazzandoli ancora una volta. Questa volta, Ruben sbuffò sonoramente, spazientito.
«Ma quanto sei curiosa!» esclamò inviperito «Sarebbe una storia complicata da raccontare. Diciamo che per una serie di malintesi ci siamo incontrati ed ora noi siamo diventati i suoi confidenti»
Perché le sue parole risuonarono nella mia testa come una scusa bella e buona? Stentavo a credere a tutta quella faccenda. Era come se quei tre mi stessero nascondendo qualcosa, quasi custodissero un segreto incondivisibile. Li squadrai tutti con cipiglio, prima che la 500 inchiodasse, facendomi sbattere contro il sedile davanti.
«Siamo arrivati!» esultò Ruben, fiondandosi fuori dalla macchina.
Scesi come una furia da quella lattina di acciughe e lo raggiunsi, pungolandogli il petto con l'indice.
«Aridanghete co sto dito!» sbuffò, afferrandomi il polso e attirando la mia mano verso la sua bocca «Te lo mangio!» ridacchiò, divertito ed io mi unii a lui, inaspettatamente.
Mi mordicchiò delicatamente l'indice e, sentendo le sue labbra calde avvolgermi il dito, una fiammata di calore s'impossessò di me, incendiando qualsiasi fibra del mio corpo. Appoggiai una mano al suo petto e, nonostante gli strati di vestiti da nonno che indossava, sentii i suoi muscoli scorrere sotto i miei polpastrelli. La cappa di calore in cui ero stata imprigionata s'intensificò e mi sembrò quasi di essere nel centro della terra, a contatto con il magma rovente. Lo allontanai da me, abbassando lo sguardo per l'imbarazzo crescente.
«Volevi dirmi qualcosa?» mi domandò, con voce suadente, accarezzandomi una guancia.
Il suo tocco spazzò via la mia rabbia, il mio nervosismo scivolò via tra quelle dite affusolate, così come la mia voglia di urlargli contro. Tutto cancellato dalle nostre pelli in un contatto che scottava più del fuoco, dai suoi occhi verdi, quelle radure infinite di erba spruzzate di rugiada.
L'erba che ti sei fumata, altro ché! Da quando sei diventata così melensa?
Superai Ruben e mi incamminai lungo il vialetto di ghiaia che portava all'enorme villa in cui si sarebbe tenuta la festa. Stavo perdendo la testa e la causa della mia pazzia improvvisa era uno stupido troglodita, affascinante e sensuale, con quel viso degno solo di un dio greco.
Basta! Come te lo devo dire?! Non farti abbindolare dal suo aspetto da figaccione.
Strinsi i pugni e accelerai il passo, senza interessarmi se quei tre mi stessero seguendo oppure se erano rimasti alla macchina. Più macinavo metri, più sentivo gli schiamazzi e la musica provenire da quell'enorme casolare che sembrava la Casa Bianca.
«Cel, aspetta!» urlò Robbeo.
«Va-vai pia-pia...» si aggiunse Leonardo.
«Che ti prende, Cel?!» lo interruppe Ruben, con poco garbo.
Quando raggiunsi la porta di quella villa gigantesca, il troglodita mi afferrò un braccio, obbligandomi a voltarmi per guardarlo negli occhi.
«Si può sapere che ti è preso?» domandò dubbioso.
«Niente, perché?!» domandai, come se nulla fosse.
«Sei scappata così, all'improvviso, come una furia!» rispose lui, allargando le braccia.
Mi ritrovai nuovamente a fissare i suoi occhi attraverso le spesse lenti di quegli orribili occhiali e non potei fare a meno di irrigidirmi ancora, di surriscaldarmi, di perdere completamente l'uso della parola, ad annaspare in cerca di una risposta acida da dargli per farlo tacere. Ma, incredibilmente, la mia severità era scomparsa, si era assopita di fronte  a quegli occhi che mi stavano facendo diventare matta. E non riuscivo a spiegarmi perché stesse succedendo, perché, invece di urlargli contro come avevo sempre fatto, avevo voglia di baciarlo.
Baciarlo?! Ti sei ammattita per caso?! Terra chiama Celeste, Terra chiama Celeste!
Non badai al mio subconscio che cercava disperatamente di farmi rinsavire, feci solo un passo in avanti, trovandomi a pochi centimetri dal respiro di Ruben, dal suo corpo fasciato da quegli abiti osceni, che, però, riuscivano a renderlo ancora più seducente.
Non fare bandanate Cel, te ne pentirai!
E taci un attimo!
Ruben mi sorrise, un sorriso che non sembrava appartenere al ragazzo spocchioso che avevo conosciuto qualche settimana prima. Mi scostò una ciocca di capelli, facendo scivolare poi il dorso della mano lungo la mia guancia. A poco a poco, la mia bocca diventava sempre più secca e la voce del mio subconscio diventava sempre più lontana, sempre più ovattata fino a quando non lo udii più. Mi stavo rimbambendo per cola di Ruben, ma come potevo continuare a resistergli? A far finta che i suoi occhi non avevano nessun effetto su di me.
Chiusi gli occhi ed ero ad un passo dal baciarlo, ad un passo dalla follia più totale, quando sentii un mugolio da parte di Ruben e una risatina fastidiosa, simile ad un raglio d'asino. Aprii le palpebre e vidi una ragazzina dai capelli più rossi di Robbeo avvinghiata al troglodita che le dava qualche pacca sulla schiena mentre mi guardava disperato.
«Cucciolotto!» cinguettò la scema, schioccandogli numerosi baci sulla guancia «Pensavo non venissi!» aggiunse puntando i suoi occhi in quelli di Ruben e sbattendo le ciglia lunghe e sicuramente finte.
Gli sorrise, accarezzandogli il volto e mangiandoselo con gli occhi. Incrociai le braccia e sentivo le mani prudere. Forse spaccare la faccia a quella gallina avrebbe attenuato quell'improvviso fastidio.
«Ma cucciolotto, come ti sei vestito?» gli chiese, confusa.
«Casual» rispose Ruben, accennando un sorriso.
Sembrava in difficoltà di fronte a quella specie di sanguisuga dai capelli di fuoco.
«Cucciolotto, eh?!» me ne uscii, incenerendo tutti e due con lo sguardo.
Non dirmi che sei gelosa!                                   
Ruben ridacchiò nervosamente, prima di scrollarsi di dosso la piattola e stringermi a lui. Mi ritrovai spiaccicata contro il suo petto e mi mancò il fiato per qualche secondo.
«Tesoro, non essere gelosa» disse, baciandomi tra i capelli «Annalisa è solo un'amica»
Annalisa-la-piattola ci squadrò da capo a piedi con cipiglio, incrociando le braccia sotto il seno evidentemente gonfiato da un push-up o da dei calzini inseriti nel reggiseno.
«Ti avevo detto che avrei portato anche la mia ragazza, no?!» esclamò «Eccola qui!» trillò trionfale «Si chiama Celeste! Non è splendida?!»
«La tua cosa?!» sbottai incredula «Sei totalmente impazzito?!» borbottai, ma lui mi strinse ancora di più a me e le mie parole si infransero sulla sua camicia bianca.
Cercai di divincolarmi, di spingerlo via da me, con rinnovata voglia di prenderlo a male parole. Molto probabilmente, prima, ero stata vittima di un momento di debolezza. Ma in quel momento era ritornata la voglia di urlare e prenderlo a calci.
«Quella cozza bionda sarebbe la tua fidanzata?» chiese Annalisa-la-piattola, con aria quasi disgustata.
«Cozza?!» esplosi, staccandomi da Ruben.
«Già, scorfanella» mi provocò quella sanguisuga «È chiaro che uno come Leo non si metterebbe mai con una anonima come te. A meno che non sia impazzito»
Non diedi troppo peso al “leo”, a quel ridicolo soprannome senza senso che gli avevano affibbiato, troppo concentrata a lanciare saette dagli occhi contro quella sanguisuga di nome Annalisa. Come si permetteva di offendermi quella ragazzina con la voce di una gallina strozzata?!
Le sorrisi sorniona, prima di afferrare Ruben per il gilet grigio topo e spingerlo verso di me. Mi alzai sulle punte e raggiunsi le sue labbra con le mie, per mettere a tacere quella piattola che aveva osato giudicarmi. Diversamente dal nostro primo bacio, Ruben mi strinse subito a sé, non appena sentì il mio respiro infrangersi sul suo viso. Una sua mano si posò, delicata, sulla mia guancia, mentre l'altra scivolò sul mio fianco. Io invece, allacciai le braccia intorno al suo collo, sfiorandogli quei capelli che, nonostante il gel, erano morbidi come seta.
In quel bacio non c'era fretta, non c'era la voglia di spingerlo via prima che facesse pensieri sconci su di noi. Era solo un lento assaporarsi reciproco, uno scoprirsi piano piano, un delicato sfioramento di labbra. Le sue erano morbide e carnose ed era una sensazione bellissima sentire quella pienezza sotto i miei denti, tra le mie labbra che le succhiavano avidamente in cerca del loro sapore. La prima volta non mi ero soffermata su quei piccoli particolari, sulla sua bocca che sembrava irreale per quanto era perfetta, per quante emozioni riusciva a creare in me. Ad ogni suo morso sentivo una scarica elettrica percuotermi, una vampata di calore investire qualsia parte del mio corpo e, quando le sue labbra si allontanavano dalle mie per recuperare ossigeno, sentivo la loro necessità, era come se mi sentissi vuota, un'astinenza da Ruben, anche se il tutto durava alcuni secondi.
Stai completamente perdendo la testa! Cerca di recuperarla, prima che sia troppo tardi!
Era strano, molto strano. Il mio subconscio parlava, cercava di farmi rinsavire, ma io non volevo ascoltarlo. Volevo solo godermi quel lungo bacio con Ruben, sentire il suo corpo a riscaldarmi, i suoi gemiti soffocare nella mia bocca.
La punta della sua lingua bussò alle mie labbra ed io non esitai a farla entrare per cercare la mia. Subito iniziò un dolce inseguirsi, sinuoso, sensuale ed estremamente eccitante. La sua lingua solleticava il mio palato, cercava la mia, la trovava e la trasportava in una specie di danza vorticante di passione.
La stretta sul mio fianco si fece più blanda, fino a quando non sentii la sua mano scivolare lungo il mio corpo, fino a fermarsi su una mia natica per spremerla nemmeno fosse un'arancia. Riaprii gli occhi di scatto, accecata dalla rabbia. Era tutto così maledettamente perfetto, perché quel deficiente di Ruben doveva toccarmi una chiappa e rovinare tutto?
Vedi! Tu gli dai troppa corda e lui se ne approfitta.
Puntai le mani sul suo petto e lo spinsi via con un gesto secco e deciso. Lui mi guardò confuso e in risposta si beccò il mio sguardo inceneritore.
«Contenta adesso?!» domandai nervosa, rivolta ad Annalisa-la-piattola.
La rossa aveva una fascia da pesce lesso, le braccia penzoloni lungo i fianchi e la bocca spalancata, ottimo rifugio per un'ape che vi entrò repentina, cercando di ucciderla, esattamente come era successo a Romeo.
1 a 0 per Celeste.
Afferrai per un braccio Ruben, che sghignazzava nel vedere Annalisa lì lì per soffocare, con Robbeo alle sue spalle che cercava di farle sputare l'ape e lo trascinai dentro la villa, lontano dalla rossa, seguiti da quel Leonardo, che pareva l'ombra del troglodita.
«Non credere che ti ho baciato perché volevo farlo!» sbraitai per sovrastare la musica.
«Io non ho detto nulla» ridacchiò, alzando le mani.
«L'ho fatto solo per mettere a tacere quella gallina!» ripresi, paonazza, con l'aria che circolava a fatica nei polmoni.
«Immaginavo» sospirò.
«Poi, quando mi avresti detto che io ero la tua ragazza, sentiamo» ero fuori di me, sia per la rabbia, sia perché le labbra di Ruben mi avevano scombussolata.
«Mi era sfuggito di mente» rispose vago, con un gesto rapido della mano.
«Oh, gli è sfuggito di mente!» ripetei, rivolta a Leonardo che sorrise forzatamente «Tu mi hai trascinata qui solo perché mi fingessi la tua fidanzata, vero?!»
«Tecnicamente» replicò lui, sistemandosi gli occhiali e alzando gli indici con fare da superiore «Io non ti ho invitata. Sei tu che sei venuta di tua spontanea volontà!»
Aprii la bocca e gli puntai un dito contro, pronta a prenderlo a male parole e urlargli in faccia, peccato solo che quella volta non avevo la risposta pronta. Non avevo nulla da dirgli semplicemente perché aveva ragione.
«Beh...» tentai di dire, sfuggendo al suo sguardo smeraldino e perdendomi ad osservare la calca di gente «Sarà, ma non avevi nessun diritto di dire una bugia. Né, tanto meno, di dire che IO, Celeste Fiore, sono la tua ragazza!»
«Avanti, era una bugia a fin di bene!» esclamò «Quella è una sanguisuga. Mi si attacca ovunque e non riesco a togliermela dai piedi. Quello era l'unico modo per disfarmi di lei. Io non mentirei mai»
Mi sorrise ed io mi sciolsi come una cretina, mentre Leonardo, dietro di lui, si stava soffocando con la sua stessa saliva.
Vorrei ricordarti che ti ha toccato il culo.
Scrollai la testa, cercando di svegliarmi da quella specie di trance in cui mi aveva spedito il suo sorriso e serrai i pugni, assottigliando lo sguardo.
«Sta di fatto che hai allungato le mani» gli ricordai, con disappunto.
«Nella foga mi è scivolata la mano» si giustificò lui.
«Non dare la colpa alla foga. Sei un maiale, punto» lo istigai.
«Allora darò la colpa a te» rispose, ignorando completamente la mia provocazione ed avvinandosi con fare sensuale a me.
«Per-Perché?» balbettai, sentendo la sua mano sulla mia guancia.
«Sei stata tu a...» si umettò le labbra e avvicinò le sue labbra al mio orecchio «provocarmi. Con questo vestitino, poi»
Arrossii e cominciai a farfugliare qualcosa di insensato. Un attimo prima ero inviperita, il secondo dopo mi ritrovavo imbambolata di fronte a lui a sudare nemmeno fossi sotto il sole cocente di Agosto con un giubbotto alla eschimese e vestiti di lana. La mia sanità mentale era già precaria, con quegli sbalzi improvvisi sarei diventata pazza da un momento all'altro.
«Eccote Leonà!» esclamò un tipo, avanzando verso di noi, con gli occhi azzurri e la barba talmente incolta che sembrava arrivare dall'isola di Lost.
«Ma che te sei messo?» si aggiunse un altro, più piacente rispetto al primo, che pareva quasi un modello «Pari un cretino!» ridacchiò insieme al suo amico e subito dopo si unì anche Ruben, che sembrò d'un tratto teso.
«Chi è la biondina?» domandò il barbuto.
Il troglodita si voltò con discrezione e con dei leggeri cenni del capo cercò di comunicare qualcosa con Leonardo, che però sembrava non capire. Spazientito, sbuffò, passandosi una mano sul volto e tornò a sorridere ai due.
«La ragazza di Ruben» rispose, ridacchiando.
«Ruben» ripeté incredulo il modello, scambiandosi un'occhiata con il disperso di Lost e scoppiando a ridere.
Il troglodita afferrò Leonardo per un braccio e lo trascinò in avanti, verso quei due e sorrise sornione prima di prendermi per mano.
«Noi andiamo, che ci stiamo perdendo la festa!» esclamò, scappando dal belloccio e il barbuto che stavano sicuramente pensando che fosse matto.
Mi trascinò per tutto il salone, senza fermarsi o voltarsi indietro, fino a quando, non li afferrai con decisione il polso e mi liberai della sua presa, fermandomi in mezzo alla stanza con gli occhi dubbiosi di Ruben puntati addosso.
«Mi spieghi perché sei scappato così?» chiesi irritata.
«L'hai fatto anche tu prima, siamo pari» ridacchiò.
«Non fare il cretino» borbottai, incrociando le braccia.
«Quelli lì sono amici di Leonardo. E mi stanno sul cazzo perché mi prendono sempre in giro» sospirò.
«Prendono in giro te e non Leonardo che pare un sorcio e non riesce a spicciare parola» ribattei esasperata, stufa e sempre con la netta sensazione che tra di noi c'era un muro di cose non dette insormontabile.
«Strano eh» ridacchiò, grattandosi la nuca «Ma è una storia...»
«...complicata. Sì certo» sbuffai «E perché prima hai parlato di te in terza persona?»
«Ogni tanto mi capita!» rispose in imbarazzo «Sarà perché mio nonno parlava di sé in terza persona?!» ridacchiò e mi cinse i fianchi per avvicinarmi a lui ed accompagnarmi sulla canzone lenta che era appena partita.
Scossi la testa e lo allontanai da me, abbassando lo sguardo.
«Ho come la sensazione che mi stai nascondendo qualcosa» sospirai, ammettendo la mia paura.
Ruben rimase per qualche attimo senza parole e si guardò intorno spaesato continuando a ripetere Beh, cercando di articolare una frase di senso compiuto, che, però, non arrivò mai. Mi morsi un labbro e lo superai, ignorando completamente il suo Aspetta quasi urlato. Camminai per il salone, raggiungendo un tavolo imbandito con snack sofisticati e coppe enormi di champagne disposte a formare una piramide. Romeo era lì, da solo, che si stava abbuffando come se non avesse mangiato per mesi.
«Ciao Robbè!» lo salutai senza entusiasmo.
«Fel! Cofa è fuffeffo?» domando, con la bocca piena di qualche cosa.
«Dio, Romeo, fai schifo» sibilai, guardandolo disgustato «Lo sai, vero, che non si parla con la bocca piena?»
Ciuccio mi guardò con i suoi occhi verdi pieni di rammarico e deglutì un boccone forse troppo grande, dato la fatica con cui lo fece.
«Che è successo?» domandò poi.
«Nulla» sospirai, quasi affranta.
Strano ma vero, mi dispiaceva. Mi rattristava il fatto che molto probabilmente Ruben mi stesse nascondendo qualcosa, perché in fondo, nonostante il mio subconscio irremovibile, mi stavo affezionando a lui.
Forse un po' troppo.
«Ti conosco da tanto tempo e so quando una cosa ti tormenta» disse Robbeo, agitando le mani per salutare chiunque gli passasse accanto «E in questo momento c'è qualcosa che non ti dà pace. Cos'è?»
«Ruben mi nasconde qualcosa» ammisi, perdendomi a guardare il salone.
Romeo per poco non si soffocò con una nocciolina e ci vollero cinque minuti perché smettesse di tossire.
«Cosa, cosa te lo fa pensare?» domandò, con una certa preoccupazione.
«Il suo modo di comportarsi» risposi «È come se  in realtà fosse qualcun altro. Non so se hai capito cosa intendo. Come se Ruben non fosse Ruben»
«E chi dovrebbe essere?» replicò con un sorriso tirato.
«Non lo so, dimmelo tu» esclamai sprezzante, guardandolo dritto negli occhi.
La mano di Robbeo si fermò appena sopra ad un vassoio di tartine e deglutì a fatica. Era paonazzo e visibilmente in difficoltà.
«I-Io?» ripeté lentamente.
«Voi siete molto amici, non mi stupirebbe se vi foste coalizzati contro di me» ringhiai.
«Ma-Ma che dici Cel!» esclamò Robbeo, scuotendo la testa e afferrando la tartina, ingurgitandola alla velocità della luce «Io non cospirerei mai contro di te!»
Mi sorrise e rimasi a fissarlo per alcuni secondi, cercando di decifrare la sua espressione. Gli angoli della bocca gli tremavano, le guance erano colorate di rosso e gli occhi erano attraversati da una strana preoccupazione. Lui, però, era il mio migliore amico, non mi aveva mai mentito e non potevo non fidarmi di lui. Sospirai e mi passai una mano tra i capelli.
«Sarà» dissi solamente, voltandomi ed appoggiando la schiena al tavolo.
Fu in quel momento che vidi Ruben in mezzo alla pista con quella piattola di Annalisa avvinghiata al suo collo che ridacchiava come un'oca giuliva mentre lui le stava parlando di chissà cosa. Magari stavano sparlando di me e se la ridevano alle mie spalle. Sentii subito la rabbia scorrermi nelle vene al posto del sangue.
Sanguisuga un corno! Si è fiondato su di lei perché così avrà la sua scopata.
Contrassi la mascella e serrai i pugni, voltandomi di scatto verso il tavolo ed afferrando un bicchiere di champagne che stava vicino alla piramide.
«Cel, che fai?» domandò preoccupato Romeo «Quello è champagne»
«Lo so» risposi irritata.
«Che è alcolico»
«So anche questo» replicai, svuotando il bicchiere con un solo sorso.
«Sai bene che effetto ti fa l'alcool!»
Sì, lo sapevo perfettamente. Un solo bicchiere di spumante era in grado di mandarmi fuori di testa. Un volta, a Capodanno, mi ero ubriacata bevendo solo un goccio di vino. Dopo quella bevuta, non ricordavo più nulla. Tutto era in ombra, perfino il conto alla rovescia. Per colpa del vino non ero riuscita nemmeno a godermi l'inizio del nuovo anno.
Ma in quel momento non m'importava. Volevo bere per togliermi dalla testa quell'immagine orribile di Ruben ed Annalisa avvinghiati in mezzo alla pista. Afferrai un altro calice e Robbeo mi strinse un braccio per evitare che ingoiassi pure quello.
«Non farlo Cel! Ti ubriacherai così!»
«E quindi?» bofonchiai, sentendo già l'alcool fare effetto.
Mi girava la testa, sentivo caldo e vedevo due Robbeo. E mi veniva da ridere. Scoppiai in una risata fragorosa, così, senza rendermene conto.
«Dai Robbé, solo un altro gossino!» trillai, instabile sui tacchi, strusciandomi contro Romeo che divenne rosso come un pomodoro.
«Fa come vuoi» tagliò corto lui, spingendomi via, deluso per il mio comportamento.
Lo mandai a quel paese con una mano e bevvi l'altro bicchiere, destabilizzando maggiormente la mia situazione precaria. Vedevo tutto annebbiato davanti a me e mi sembrava di stare su una giostra tanto mi girava la testa e mi sentivo scombussolata.
Scrollai le spalle e tesi un braccio per prendere un altro bicchiere, crollando sul tavolo e ridacchiando come una scema.
«Non dovresti bere ancora» disse una voce alle mie spalle.
Mi alzai dal tavolo e mi voltai, socchiudendo gli occhi per mettere a fuoco la figura del ragazzo che mi stava di fronte. Era il moretto dalla pelle abbronzata di poco prima, quello che sembrava un modello.
«Cerco di dimenticare» biascicai.
«Cosa?» ridacchiò lui.
«Non lo scio» risposi, traballando.
«Vedi, hai già dimenticato» replicò lui con un sorriso che ricambiai.
Mi allungò la mano e, dopo vari tentativi andati a vuoto di stringergliela, riuscii ad impugnarla e scuoterla con veemenza.
«Sai chi sono, no?» mi chiese, con un sopracciglio abbassato.
«Gargamella» azzardai ridendo.
«Davvero non mi hai riconosciuto?»
«Scerto che no, scennò lo avrei detto»
«Marco» si arrese alla fine.
«Sceleste, piascere» mi presentai, ridendo «Andiamo un po' a ballare?» domandai, con il singhiozzo.
Marco annuì e mi trascinò al centro della pista. Non capivo più nulla, né chi ero, né dov'ero, né, tanto meno, cosa stessi facendo. Cominciai a dimenarmi, passandomi le mani tra i capelli ed esplorando il corpo di quel ragazzo da sopra i vestiti. Era bello, ma non di certo il mio tipo. Perfetto per passare una notte da ubriaca.
Marco mi accarezzò le spalle, scendendo lungo le braccia, per fermarsi ai fianchi per stringermi a lui, per far strusciare i nostri bacini a ritmo di musica. Se fossi stata in me gli sarebbe  arrivato un bel ceffone a quel belloccio. Ma l'alcool aveva zittito la parte acida di me, l'aveva messa a nanna, scatenando la Celeste ribelle e disinibita, che si lasciva a baciare dal primo che passava. Mi accorsi a mala pena che quel Marco mi aveva ficcato la lingua in bocca e che io avevo fatto lo stesso. Stavo baciando uno sconosciuto e gli stavo pure toccando le chiappe.
Delle belle chiappe, tutto sommato.
Mi voltai, facendo aderire la mia schiena contro il suo petto muscoloso, mentre le sue mani vagavano ingorde sul mio ventre, risalendo verso il mio seno. Quello sarebbe stato il momento adatto per dargli un calcio nei gioielli di famiglia, ma avevo la mia acidità aveva tirato il freno a mano, per cui mi ritrovai con quello che stringeva a lui, sfiorandomi le tette. Mi liberai della sua presa e mi accovacciai a terra, risalendo lenta, in modo che il mio sedere strofinasse contro il cavallo dei suoi pantaloni, come avrebbe fatto una qualsiasi sgualdrina. Marco sembrò apprezzare a giudicare dal gemito sommesso che uscì dalle sue labbra.
Ma ad un tratto non sentii più il suo corpo, così mi voltai, vedendo Ruben che allontanava Marco da me come una furia.
«Tieni le mani a bada!» gli sbraitò a pochi centimetri di distanza.
Poi si voltò verso di me e mi strinse un polso, avvicinandomi a lui, facendo scontrare i nostri corpi e incontrare le nostre iridi. Nonostante fossi ubriaca, riuscii a vedere la rabbia nei suoi occhi.
«Ma che cazzo fai?!»



«Ma che cazzo fai?!» le dissi infuriato, senza mai smettere di fissare in cagnesco Borriello che si allontanava con la coda tra le gambe.
Che diavolo era preso a Celeste? Un secondo prima mi rinfacciava di averle messo una mano sul culo, e nemmeno dieci istanti dopo la trovavo con il sedere spalmato sull’uccello di quel maiale lì.
«Sshssshhh.. hic.. ci sctanno guardando tutti..» disse, e a giudicare dalla vampata d’alcool che mi arrivò alle narici, compresi che si era totalmente ubriacata.
«Vieni con me» ringhiai, infuriato per come erano andate le cose.
Ero andato a quella festa con l’intenzione di spassarmela e di stuzzicare ancora di più Celeste, magari facendola in barba a quella sanguisuga di Annalisa, ma dopo la prima mezz’ora era andato tutto a puttane.
Vederla ballare in quel modo così disinibito di fronte a tutta la folla di amici e conoscenti mi aveva fatto uscire dai gangheri, soprattutto dopo il commento pungente di Annalisa.
«Sei sicuro che quella biondina sia la tua ragazza?» mi aveva chiesto mentre discutevamo.
«Saprò distinguere le chiappe che mi scopo, cosa credi?» ridacchiai sprezzante.
Sul viso della rossa si dipinse un sorriso sadico. «Allora perché le tue preziose chiappe si stanno strusciando su Marco?» notò con malizia.
Non appena mi ero voltato, per poco non m’era preso un colpo!
«L’anima de li mortacci tua, anvedi ‘sto stronzo!» me ne uscii, fingendo una gelosia plateale che risultasse vera.
Che poi tanto falsa nun me sembra..
Taci, Ego impiccione!
Alla fine mi ritrovavo a trascinare Celeste in direzione di uno stanzino poco illuminato, al fine di tenerla lontana da delle manacce indesiderate che avrebbero potuto violare quel corpo a cui pian piano mi stavo affezionando.


Parte Hottosa che troverete nei missing moments di 'Come in un Sogno... Erotico'


Riapparvi dopo una mezz’ora, ma nessuno dei presenti sembrava aver notato la mia assenza. Forse era vero che vestito da nerd davo meno nell’occhio.
«Ma ‘ndo cazzo eri finito?» mi domandò Marco, apparendomi alle spalle.
«Hai fatto le cosse zozze, eh?» ridacchiò Daniele, ammiccando.
«Tappatevi la bocca» ringhiai, poi trotterellai in direzione dell’uscita.
«Cucciolotto?! Leuccio?! Perché te ne vai così presto?» la voce di Annalisa mi perforò un timpano ed io stavo quasi per far finta di nulla ed ignorare la sua chiamata.
«Celeste si è sentita poco bene!» intervenne Robbeo, salvandomi da quella piattola dai capelli rossi.
Si voltò verso di me, ma non riconobbi nulla della sua solita espressione bonaria. Era come se fosse arrabbiato, quasi deluso dal sottoscritto.
«Grazie» gli dissi, poi mi diressi verso la 500 e ci adagiai sopra il peso morto di Celeste.
Guidai come un pazzo per raggiungere la casa alla velocità della luce, ma non riuscivo a dimenticare quello che era successo in quella stanzetta. Le mani di lei sul mio corpo, la sua voce che invocava il mio nome e la terribile voglia che avevo ancora di lei.
È la prima volta che vuoi rivedere una ragazza dopo la prima scopata..
Non abbiamo scopato.
Beh, avete fatto roba.. il ché è uguale..
Fatti gli affari tuoi per una volta.
Parcheggiai sotto il portone e rovistai nella sua pochette per cercare le chiavi di casa che saltarono quasi subito al mio occhi vigile. Me la caricai in spalla e, una volta dentro l’androne, mi trovai davanti ad una difficile scelta: l’ascensore del ’15-’18 o le scale?
Nonostante fossi stanco morto, non avevo alcuna intenzione di morire trascinando con me anche la Celeste incosciente, perciò quando giunsi in cima, per poco non ci rimisi un polmone.
Aprii con fatica la porta di casa e la richiusi con un calcio alle mie spalle, dopodiché mi trascinai fino a quella che supposi fosse la camera di Celeste. Ovviamente al primo tentativo toppai, perché non appena entrai nella stanza trovai un’infinità di poster della Magica e compresi che si trattava del tugurio del Rosso.
Al secondo tentativo fui più fortunato e il letto a baldacchino dalle coperte fruscianti fu talmente invitante che mi ci gettai di peso con tutta Celeste, sprofondando in una nuvola azzurra.

It’s time to go home now, and I’ve got an aching head,
So I give her the car keys, she helps me to bed.
And then I tell her, as I turn out the light.

Mi allungai sul comodino e spensi la luce, per poi togliere a Celeste quelle scomode scarpe col tacco e posare momentaneamente gli occhiali sul comodino. Mi stesi e sentii la schiena scricchiolare, tutta indolenzita dal viaggio. Mi sentivo stranamente stanco, anzi, completamente esausto.

I say: ‘My darling, you were wonderful tonight’
Oh, my darling, you were wonderful tonight.

Mi voltai leggermente e mi ritrovai il suo viso a pochi centimetri dal mio. Era così tranquilla e beata, quasi normale. Quel bacio che mi aveva dato per pura gelosia, si era trasformato in qualcosa di più profondo e terribilmente pericoloso.
Leonardo Sogno non era fatto per amare. Lui e l’amore erano incompatibili, come il bene e il male, l’acqua e il fuoco, il cielo e la terra..
Sì, ma sono uniti dall’orizzonte, o sbaglio?
Allungai una mano e scostai una ciocca di capelli dal viso beato e pacioso di Celeste. Il trucco non le era colato e le dava ancora quell’aria semplice e sensuale allo stesso tempo.
Era stata meravigliosa quella sera.
«Eri meravigliosa, stasera..».



Nota: la canzone citata in questo capitolo e in quello di  'Come in un Sogno.. Erotico' è 'Wonderful Tonight' dei Dire Straits ft. Eric Clapton.

Finalmente nuovo capitolo!!! Vi abbiamo fatto attendere (anche troppo, sorry ^^) ma spero che questo capitolo sia valsa la lunga attesa!
Celeste inizia a vacillare. Ormai non riesce più a controllarsi di fronte al nostro caro Leonardo. Anzi, sta totalmente perdendo la testa per lui, anche se non lo ammetterà mai, cocciuta com'è.
Ha voglia di baciarlo ed è gelosa marcia di Annalisa, tanto da ubriacarsi e lasciarsi andare con Borriello (*___* mica male il ragazzo). Per quanto tempo ancora riuscirà a fingere che Leonardo non abbia effetto su di lei? E per quanto i tre moschettieri riusciranno a prendere per i fondelli Celeste, che pare inizia a sospettare qualcosa?
Eh già, ha proprio ragione la mia Lover! Ma anche Leonardo non è da meno. Era partito con l'idea di andare alla festa unicamente per scollarsi di dosso quella piattola di Annalisa, ma non appena si è ritrovato quel pezzo di gnocca di Celeste davanti il suo cervello ha sfarfallato e sia le incomprensioni che le scene davvero tenere non si sono sprecate!
*______* quanto sono dolciottissimi insieme! Anche quando stanno lì, lì per lasciarsi andare non la smettono di punzecchiarsi a vicenda ed io li adoro anche per quello!
Leonardo Sogno, il calciatore più sexy del momento, sta cominciando a mettere a tacere il suo Ego, perché la voglia che ha di Celeste è più forte di qualsiasi altra cosa.
Non è che ne sia innamorato, perché ne deve passare di acqua sotto i ponti perché ciò avvenga, ma sicuramente quella biondina tutto pepe ha fatto breccia nel suo cuore e ha sgonfiato, almeno un poco, quel suo ego gigantesco.

Beh, un'ultima osservazione, abbiamo lasciato quello spazietto vuoto con i tre porcellini per pubblicizzare la nostra nuova raccolta di Missing Moments osé legati a Come in un Sogno, perché il rating che avevamo scelto era Arancione e non ci andava di modificarlo.
Buona lettura!
Un bacione, M&M

Ecco gli abiti della festa di Celeste e Leonardo! \0/ come sono PUCCIOSI! :3 :3 :3



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ƚυƚƚσ ρҽɾ υɳα ʂƈσɱɱҽʂsa
conclusa
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ιl мerαvιɢlιoѕo мoɴdo dι αlιce 




rεd drïς†





чσυ αяε α мıƨтακε ı'м шıʟʟıпɢ тσ тακε



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Capitolo 7
*** Fragile ***



CAPITOLO 7


Mai più!
Non avrei mai più toccato un goccio di alcool in tutta la mia vita. La sbronza non faceva assolutamente al caso mio. Dopo il primo bicchiere di champagne, avevo iniziato a vedere doppio e a barcollare, il secondo mi era stato fatale. Nulla, non ricordavo più niente di quello che era successo dopo, se avevo bevuto un altro bicchiere, se ero caduta come un sacco di patate, se avevo vomitato sulle scarpe di qualcuno.
Nada! Tabula rasa! Mi sorprendeva anche il fatto di essere su un comodo letto, probabilmente il mio letto. Non era possibile che mi fossi trascinata da casa di quella serpe ubriaca, ciondolando per le strade di Roma. Sicuramente Robbeo mi aveva riportata a casa, non so come, ma era stato lui. Quel cavernicolo di Ruben era troppo impegnato con Annalisa per accorgersi delle mie condizioni. Di sicuro, mentre io biascicavo cose senza senso, lui si appartava in qualche stanzino buio e desolato con quella Anna dai capelli rossi versione porno.
Vabbè, che cosa mi importava a me? Meno di zero! Anche se non potevo fare a meno di ripensare all'ennesimo sogno erotico che avevo fatto con lui come protagonista. Era tutto molto offuscato, ma, da quello che ricordavo, ci avevo dato dentro, eccome! E mi vergognavo pure di me stessa! Celeste Fiore non faceva determinate cose, erano contro la sua moralità. Ma, fortunatamente, sarebbe rimasto un mio segreto. Nessuno avrebbe mai saputo di quel sogno. Era già abbastanza imbarazzante avere dei flashback confusi, raccontarlo sarebbe stata la mia rovina.
Meglio non ripensarci, faceva già abbastanza caldo senza che le immagini hot di me e quel troglodita riaffiorassero alla mente. Colpa dell'alcool! Quel maledetto! Odiavo non ricordare più nulla, odiavo anche solo pensare di aver fatto la figura della cretina davanti a tutti. Avrei dovuto andare in giro con un sacchetto di carta in testa, così, per non farmi riconoscere da nessuno, nell'eventualità che qualcuno avesse partecipato a quella festa. Non avrei sopportato essere additata come l'ubriacona perché non lo ero mai stata. Figurarsi! Le poche volte che andavo in discoteca o in qualche pub ordinavo sempre e solo Sprite! Per di più, se qualcuno mi avesse insultata, non sarei riuscita a trattenermi. Una sedia o un qualsiasi altro oggetto di grandi dimensioni scagliato sulla schiena, a mò di wrestler nevrotico, sarebbe stata l'ideale. Ma, di certo, non volevo passare settimane in carcere o agli arresti domiciliari. Per cui, il sacchetto era l'unica soluzione.
Aprii gli occhi con fatica, cercando di abituarmi alla luce del giorno. La testa mi scoppiava, lo stomaco sottosopra e un peso opprimente sul petto che non mi permetteva nemmeno si respirare. Per un attimo, pensai di morire da un momento all'altro, magari l'alcool aveva strani effetti su di me.
«Dio mio, che mal di testa» biascicai, con la bocca impastata dal sonno e dai postumi dello champagne.
Mi stropicciai gli occhi e guardai la sveglia sul mio comodino che segnava le undici passate. Oddio, non era affatto da me! Solitamente, alle sette e trenta in punto, ero in piedi, scattante e isterica al punto giusto. Invece, quella mattina, l'unica cosa che avrei voluto fare era starmene a letto a poltrire, rannicchiata nelle mie lenzuola a sonnecchiare, come una specie di Robbeo, ozioso e con lo spirito di un bradipo.
Altro motivo per cui non è conveniente bere alcool: la trasformazione in un pigro, scansafatiche, odioso Romeo.
Cercai la forza di alzarmi dal mio caldo lettuccio, prima che la mutazione in quel babbeo avvenisse sul serio e la prima cosa che feci fu scostare il lenzuolo. Un passo dopo l'altro, un piccolo passo dopo l'altro prima di svegliarmi del tutto. Abbassai lo sguardo sul mio corpo, ancora fasciato dal vestito rosa confetto che avevo indossato per la festa. Almeno aveva avuto la decenza di non spgliarmi. Mi squadrai da capo a piedi per un paio di volte. Tutto normale, a parte una mano grande sulla mia tetta. Scrollai le spalle e sbadigliai sonoramente, stiracchiandomi come un gatto, sentendo la mia schiena strusciare contro qualcosa.
O qualcuno.
Sbattei più volte le palpebre, dubbiosa. C'era qualcosa che non mi quadrava e non mi riferivo alla palla da calcio autografata da chissà-chi che giaceva sul mio pavimento, quando il suo posto era nella camera di Robbeo.
Ehm, Celeste, non vorrei allarmarti, ma ti ricordo che hai una mano sulla tetta. E non è la tua, a meno che non sei diventata, in una notte, il dottor Octopus.
Abbassai di nuovo lo sguardo verso il mio seno e la vidi, grande, che mi strizzava nemmeno fosse un limone. Sentii il sangue ribollirmi nelle vene, il cuore pulsarmi nelle tempie, rendendo la mia testa una bomba ad orologeria pronta a scoppiare. Maiale! Chiunque fosse quel maniaco che si era infilato nel mio letto e magari aveva anche abusato di me, mentre io ero semi incosciente, avrebbe subito la mia furia. Che fosse stato Robbeo o il presidente degli Stati Uniti.
Se fossi stata in un cartone animato, in quel momento, sarebbe comparsa sulla mio fronte, una vena pulsante e la mia testa si sarebbe gonfiata come un pallone pieno di elio. Ma quello non era un cartone, solo la realtà. Per cui mi limitai a urlare, sbraitare come un'ossessa e, se ci fosse stato un bicchiere di cristallo, ero sicura si sarebeb frantumato per i decibel raggiunti dalla mia voce. Mi agitai nel letto quasi fossi Regan durante l'esorcismo, cercando di liberarmi dal tentacolo di quel maniaco. Lui, il pervertito, sobbalzò, sentendo le mie grida e scattò, mettendosi seduto.
«Che è?!» biascicò, guardandosi intorno spaesato «Mourinho è il nuovo allenatore della Magica?»
Mi voltai, lentamente, con il mio respiro pensate che scandiva ogni secondo, manco fossimo in un film nell'orrore. O meglio, qualcosa di spaventoso stava per accadere. Io ero l'assassino, mentre LUI la mia vittima. Avevo riconosciuto la sua voce, come non avrei potuto farlo, e mi sembrò più fastidiosa del solito. Ma, magari, mi ero sbagliata, l'alcool non era ancora stato smaltito, per cui avrei dovuto verificare con i miei stessi occhi. Mi voltavo, a rallentatore, quasi avessi paura di ritrovarmelo davvero di fronte. E, quando avvenne, occhi e bocca si spalancarono all'unisono, alla stessa velocità, in una chiara espressione indignata, incredula e rabbiosa allo stesso tempo.
Aveva i capelli scompigliati, gli occhi a mezz'asta perché ancora assonnato e si grattava la nuca, cercando di rimembrare dove fosse. Era tanto tenero in quel momento, sembrava quasi un bambino e la prima cosa che pensai di fare fu abbracciarlo, strapazzarlo di coccole come facevo da piccola con il mio pupazzo di Topo Gigio.
Ti ricordo che ti strizzava una tetta! E chissà che altro ha fatto!
Ma i miei pensieri subirono immediatamente un cambi di rotta e il gatto che era in me si risvegliò, pronto a sbranarsi quel topolino.
«CHE.COSA.CI.FAI.TU.NEL.MIO.LETTO?» scandii ogni parola con rabbia, con l'aria che, pesantemente mi usciva dal naso, come se fossi un toro a cui avevano strizzato le parti basse.
Ruben, dopo avermi messo a fuoco, annuì, ricordando, molto probabilmente, cosa fosse successo quella notte e sorrise sornione.
«Ti ho accompagnata a casa. Eri più sbronza di me dopo una vittoria in Champions League» ridacchiò, divertito «Da te, non me lo sarei mai aspettato! Non è che mi diventi un'alcolista anonima!»
«Fa poco lo spiritoso, Ruben!» mi alzai dal letto e mi sistemai il vestito coprendomi maggiormente le gambe.
«Ti sei trasformata! Dovevi vederti!» continuò, stiracchiandosi «Sembravi una gattina»
E, dopo quel commentino poco gradito, fui accecata dalla collera. Serrai i pugni e, svelta e decisa, lo raggiunsi dall'altra parte del letto, dove era seduto. Si stava sistemando i capelli scompigliati con una mano, sbadigliando senza mettersi, ovviamente, una mano davanti alla bocca. Non appena mi vide comparire davanti a lui mi regalò un sorriso che forse, se lo avesse fatto in un'altra situazione, mi avrebbe sciolto come burro al sole. Ma in quel momento, nulla poteva arginare la mia rabbia, né uno stupido sorriso e nemmeno una camomilla. Ero fuori di me, completamente. Co mancava solo che diventassi Super Sayan e che lo disintegrassi con un'onda energetica.
Allungai una mano verso di lui e gli afferrai l'orecchio, obbligandolo ad alzarsi dal mio letto, nel quale si era intrufolato senza il mio consenso.
«Ahia, Cel!» si lagnò, mentre, piegato verso di me, mi seguiva passo passo per tutta la camera.
Non dissi nulla, bastavano i mie grugniti pieni di rabbia per comprendere che non era il caso di discutere. Un'altra provocazione e sarei esplosa, con conseguenze disastrose.
«Mi stai facendo male!» borbottò, con una smorfia di dolore dipinta in volto «Si può sapere che cazzo ti prende?»
Three...
«Cosa mi prende dici?!» sibilai, trucidandolo con lo sguardo.
Mi fermai proprio in mezzo alla stanza e allentai la presa sul suo orecchio, permettendogli di massaggiarselo. Mi guardò confuso, aspettando una spiegazione per la mia collera. Come se non fosse ovvio, accidenti! Ah no, lui era abituato a infilarsi in letti che non erano i suoi, così, con facilità.
«Sei solo un pervertito, l'ho sempre saputo!» sbraitai, puntandogli un dito contro con fare minaccioso «E non appena ho abbassato la guardia TU» e la rabbia crebbe in me, ripensando alla sua mano sul mio seno. Feci un passo verso di lui e gli diedi una sberla sul braccio «TI SEI» altro schiaffo e lui, intanto, cercava di pararsi dai miei colpi «APPROFITTATO» un calcio sullo stinco, che non guastava mai «DI ME!»
Avevo urlato così forte che primo tutto il condominio mi aveva sentito, sicuro e secondo mi bruciava la gola. Sarei rimasta senza voce se continuavo in quella maniera. Ma poco mi importava. Dovevo perforagli i timpani a quel maiale.
«Calmati Cel! Te viene un infarto così!» tentò di sdrammatizzare, ma il suo tentativo mi fece innervosire ancora di più.
Two...
«Vuoi capirlo, maiale decerebrato, che io mi chiamo CELESTE! Non Cel!» gli sputai in faccia quelle parole con disprezzo.
«Vacci piano con gli insulti» aveva anche il coraggio di offendersi. Dio solo sapeva che cosa mi tratteneva dal non ucciderlo a sprangate.
«Fuori da casa mia» gli intimai, a denti stretti, indicando la porta d'uscita.
Era meglio che se ne andasse, se non voleva vedermi trasformarmi in una bestia feroce. Ero un tipo nevrotico, questo lo sapevo bene. Ma era difficile farmi imbestialire, tanto da urlare come una civetta in calore e Ruben ci era riuscito perfettamente, approfittandosi di me.
«Celeste, davvero, non è come sembra» cercò di tranquillizzarmi «Posso spiegarti tutto» e le sue mani si allungarono verso di me, a stringermi le spalle.
One...
Evacuare la zona! Ripeto, evacuare la zone. La bomba Celeste è pronta ad esplodere.
Gli strinsi i polsi e mi liberai, con uno strattone un po' troppo violento, delle sua mani troppo polipose per i miei gusti. Dopo quello che era successo, lui non poteva toccarmi. Mai e poi mai!
«Come osi toccarmi con quelle luride mani?!» sbraitai, infuriata e avrei scommesso che in quel momento avevo gli occhi fuori dalle orbite. Ruben mi guardò in un misto tra lo spaventato e l'incredulo. Sembrava sempre sul punto di dire qualcosa ma, prima di parlare, richiudeva le labbra dischiuse, forse senza avere il coraggio di proferire quelle parole misteriose.
«So bene che tu sei abituato a svegliarti in letti diversi ogni giorno, ma non avevi il diritto di intrufolarti nel mio mentre io ero ubriaca e approfittarti di me!» urlai, agitando le mani come una pazza, abbassando lo sguardo verso il pavimento. Ero nervosa, arrabbiata e avrei voluto distruggere tutto ciò che mi circondava per sfogarmi.
«Hai un'alta considerazione di me» constatò, con una certa amarezza. Lo avevo sempre visto spavaldo e spocchioso ma, in quel momento, era come avere un altro Ruben davanti, una persona diversa da quella che avevo conosciuto, un ragazzo che non si faceva scivolare addosso qualsiasi cosa, fregandosene altamente di ciò che pensavano gli altri. Anzi, sembrava proprio che le mie parole lo avessero colpito nel profondo, ma non ci badai. Ero troppo infuriata per cercare di capirlo «E comunque io non mi sono approfittato di me. Non lo avrei mai fatto contro la tua volontà!»
Rimasi interdetta per alcuni istanti, come se quella frase nascondesse nelle sue parole enigmatiche qualcosa che l'alcool aveva offuscato. Non gli diedi importanza, non mi arrovellai per capire. L'unica cosa che volevo in quel momento era farlo uscire da casa mia e di non rivederlo mai più.
«Ah no! E la tua mano sulla mia tetta cosa ci faceva, eh?!» sbraitai, portandomi a pochi millimetri da lui e guardandolo dritto negli occhi «Chissà cosa mi hai fatto, mentre io non capivo nulla!»
«Per chi mi hai preso?!» fu la sua volta di urlare. Non lo avevo mai visto così arrabbiato e teso, così offeso da quello che gli stavo dicendo «Sarò anche un cazzone, un perdi giorno, un bastardo e tutto quello che vuoi. Ma non mi permetterei mai e poi mai di toccare una donna senza il suo consenso!» scandì ogni singola parola con amarezza e voce traballante, quasi stridula.
Ok, forse avevo esagerato un po' troppo. Ci ero andata giù pensate con le accuse e il suo atteggiamento, le sue parole e il tono della sua voce mi fecero capire che era sincero, che non mi aveva nemmeno sfiorata. Ma, ormai, ero talmente infuriata da non riuscire a controllarmi.
«Oh, ma che cavaliere!» tuonai sarcastica «Fammi il piacere di andartene da qui e sparire dalla mia vita»
Ruben serrò i pugni e mi guardò sconvolto, leggermente deluso per quello che stava succedendo. Deglutì e annuì, passandosi una mano tra i capelli.
«Non ti ricordi nulla?» mi domandò, con tono calmo e triste.
«Di che?!» risposi, incrociando le braccia al petto.
Di cosa stava parlando quel troglodita? A cosa alludeva?
«Nulla» sospirò, scrollando la testa.
Rimase in piedi, vicino allo stipite della porta della mia camera e sembrava non avere intenzione di andarsene. Picchiettai il piede sul pavimento, attendendo che lui sparisse dalla mia stanza e dalla mia vita.
«Dai, adesso cerca di rilassarti» disse, con un sorriso «Non vorrai mica rimanere senza voce?!»
Stava davvero cercando di recuperare qualcosa tra di noi? Qualcosa che non c'era mai stato? Sorrisi incredula e scossi la testa, umettandomi le labbra.
«Cerca un attimo di non pensare con l'uccello e seguimi» cercai di mantenere la calma «Vai fuori di qui!» urlai. Di nuovo.
«Ma...» tentò di dire, ma non gli permisi di rispondere.
Incrociai le braccia al petto, gli occhi pieni di rabbia che, se avessero potuto, lo avrebbero incenerito.
«Vattene, Ruben» ringhiai.
Lui mi guardò con quei suoi occhi verdi spalancati, spenti, privi di quella luce che avevo sempre visto dentro di loro. Sembrava triste, amareggiato per cosa era successo, per come lo avevo trattato, perché, forse, teneva a me.
Ma cosa andavo a pensare? Ad uno come Ruben non poteva interessare una ragazza isterica il cui unico interesse erano i libri. Lui cercava le modelle, le figone vestite di marca che non spiccicavano una parola di italiano, brave solo a darla via come se fosse pane e vantarsi di questo. Io ero troppo banale, per lui, non ero interessante. Non aprivo le gambe con facilità, per cui ero off limits.
Non seppi spiegarmi il motivo, ma pensando a queste cose, una patina opaca mi coprì gli occhi, come se volessi scoppiare a piangere da un momento all'altro. Colpa del nervosismo, di sicuro.
Ma chi vuoi prendere in giro?! È solo la triste realtà che ti fa questo effetto. Tu e Ruben non siete compatibili...
«Ti prego, vai via» mi trattenni dallo scoppiare a piangere e mi morsi un labbro.
«Okay» abbassò lo sguardo, come se fosse si fosse arreso.
Prima di imboccare definitivamente la porta di camera mia, si voltò a cercare i miei occhi. Le nostre iridi si incontrarono per un solo istante ma bastò perché sentissi qualcosa, dentro di me rompersi, con un sonoro crack che mi riempì le orecchie.
Lo sentii salutare Robbeo, prima di sbattersi la porta alle spalle. E fu in quel momento, quando Ruben era davvero uscito dalla mia vita, che mi sentii vuota e sola, nonostante in casa con me ci fosse Romeo. Era una sensazione strana, mai provata in vita mia, nemmeno quando il mio ex ragazzo, l'unico di cui mi fossi innamorata per davvero – come una cretina – mi aveva mollata per un'altra. Rimasi imbambolata in camera mia chissà per quanto, forse secondi o anche minuti interi, a fissare il vuoto di fronte a me e dentro di me,  fino a quando non spuntò Robbeo che si appoggiò allo stipite con una spalla, sorseggiando il suo caffè.
«Che vuoi?» gli domandai brusca.
«Divertita alla festa?» chiese, guardandomi con sufficienza.
«Nemmeno un po'» sibilai e mi lasciai cadere di nuovo sul letto, pesantemente. Che giornataccia sarebbe stata quella! Già me lo sentivo che sarei stata tutto il tempo con i nervi a fior di pelle. Dovevo darmi una calmata, se non volevo uscirne pazza.
«Ah, beh, forse hai preferito la fine serata, vero?» era un po' troppo allusivo per i miei gusti. Socchiusi gli occhi e lo guardai torva.
«Spiegati Robbé»
«Beh, eri in camera con Ruben, più chiaro di così!» sbottò all'improvviso, paonazzo come un peperone.
Sorrisi incredula e mi portai entrambe le mani tra i capelli. Dio, quanto era ottuso quel ragazzo. Ci voleva una grande pazienza per sopportarlo e la mia non sapevo do dove la prendevo.
«Non è successo nulla» lo tranquillizzai, acida «Non so se mi hai sentita sbraitare come un'aquila! Non mi sembravano grida di felicità per essermelo trovato nel letto»
«Sarà» ribatté vago, guardandosi con meticolosità la punta delle dita «Sta di fatto che state sempre insieme, voi due!»
«Sei geloso, per caso?» incrociai le braccia ed attesi la sua risposta.
L'aria da spavaldo che aveva fino a quel momento sparì d'un tratto e divenne un tutt'uno con i suoi capelli rossi. Quella sua esitazione mi fece riflettere, anche se non molto, sulla possibilità che lui sentisse qualcosa per me. Ma, figurarsi! Molto probabilmente era geloso del fatto che lo avevo un po' ignorato in quei giorni, tutto lì.
«Macché!» esclamò «Dico solo che siete sempre appiccicati. Ci manca solo che vi sposiate!»
E l'immagine di me, vestita di bianco e Ruben, che mi attendeva all'altare, mi comparve davanti agli occhi. Avvampai all'improvviso. Avevo sempre sognato il matrimonio, ma mai con un tipo come Ruben. Anche, se, tutto sommato, vestito in smoking era davvero affascinante. Per non parlare poi del suo sguardo che si faceva sempre più liquido mentre io mi avvicinavo, accompagnata da mio padre.
Fantastichi troppo...
Mi alzai di scatto dal letto e superai Robbeo, senza dargli spiegazioni. Avevo bisogno di una doccia. Una bella doccia calda che avrebbe spazzato via tutto quello che era successo durante la mattinata, che avrebbe dissolto il sogno erotico che avevo fatto con Ruben e, magari, l'acqua, si sarebbe portata via, con sé, il suo ricordo.

Un'uscita pomeridiana era l'ideale per dimenticare il nervosismo della mattinata e non avrei mai ringraziato abbastanza J che mi aveva invitata a trascorrere qualche ora con gli animali. Ero sicura che quelle tenere bestiole sarebbero state in grado di farmi sorridere, di distrarmi e di non pensare a Ruben. Invece, dovetti ricredermi.
Eravamo fermi, appostati di fronte alle scimmie, attendendo che facessero qualcosa di spettacolare, oltre a rimanere imbambolate sui rami degli alberi. La mia immagine era riflessa sul vetro e mi guardai a lungo, poco interessata a quelle piccole scimmiette. Sentivo che c'era qualcosa di opprimente nella mie mente, qualcosa che non riusciva a farmi ragionare, ma non riuscivo a capire cosa. Cercavo la risposta in me stessa, nella mia immagine riflessa, come se potesse prendere vota tutto d'un tratto e spiegarmi il motivo della mia confusione. Ero sicura centrasse Ruben e con lui la festa di Annalisa. Era successo qualcosa in quella casa, ma non riuscivo a ricordare cosa.
«Oddio, hai visto!» esclamò estasiato J, indicando le scimmie.
Mi voltai verso di lui ed incontrai il suo sorriso, il suo sguardo estasiato perso a guardare quelle creature. Era così tenero in quel momento, ma, stranamente, non andai in brodo di giuggiole come mi succedeva sempre quando ero in sua compagnia, anzi, ero quasi indifferente alla sua bellezza, il ché mi preoccupò.
Il fatto era che non riuscivo a togliermi dalla testa Ruben. In un modo o nell'altro lui era entrato a far parte della mia vita, della mi a quotidianità e mi sarebbe mancato lui, le sue provocazioni e i suoi errori grammaticali. Lo avevo sempre preso in giro per il suo linguaggio, ma non potevo dire che non mi fossi divertita con lui. Prima che Ruben arrivasse ero solo una fredda, cinica ragazza bionda saputella che faceva da maestrina a tutti. Ero un'asociale, insomma. Se non fosse stato per Robbeo sarei rimasta sola. Non avevo nessuno al mio fianco e questo per colpa della mia freddezza, del mio sarcasmo che allontanava le persone da me. Tutte, tranne Ruben, l'unico che riusciva a sopportarmi e che mi aveva fatto vivere, anche se per pochi giorni. Con lui al mio fianco avevo realmente goduto di ciò che la vita mi offriva, avevo staccato per un attimo il mio cervello razionale e mi ero divertita. Ma, ormai, era tutto finito ancora prima di iniziare.
«Oh sì» risposi, dopo diversi minuti, anche se in realtà non avevo visto nulla, se non me stessa.
J mi rivolse un sorriso, poi controllò la mappa che ci avevano dato all'ingresso e si guardò intorno, per ambientarsi.
«Per di là!» esclamò, entusiasta, indicando alla sua destra.
Mi afferrò per un braccio e mi trascinò verso le maestose giraffe che sbocconcellavano le foglie da alti alberi.
«Hai visto che belle!»
Sembrava un bambino, tanto era felice di vedere gli animali. Ok, erano belli, teneri e dolci, ma tutto quell'entusiasmo non lo capivo.
Se smettessi di pensare a Ruben, forse, apprezzeresti le bellezze della natura.
Fosse facile! Con tutto l'impegno che ci mettevo, lui era sempre lì, nella mia testa. Un'immagine chiara, nitida, quasi spaventosa si fece largo tra i miei ricordi. Noi due, rinchiusi in una specie di sgabuzzino, uno davanti all'altra, occhi negli occhi, corpo contro corpo. Quell'immagine l'avevo sognata, ne ero più che sicura, o almeno speravo che fosse così. Eppure, mi sembrava quasi di ricordare il suo tocco, di ricordare le sue labbra e la sua voce che usciva in un sussurro che mi diceva quanto fossi bella quella sera.
«Hey, Cel, sei con me?» mi domandò J, sventolandomi una mano davanti agli occhi.
Tornai alla realtà, scuotendo la testa e gli sorrisi, annuendo.
«Sì, scusa. Pensavo agli esami» mi giustificai.
Sì, di anatomia umana. Argomento: il corpo di Ruben...
Sempre acido e sarcastico il mio subconscio, anche quando non era gradito il suo intervento.
«Sempre allo studio pensi? Cerca di goderti la vita, Cel!» esclamò e si incamminò lungo i viottoli dello zoo.
Lo seguii, svogliatamente, raggiungendo, così, qui chiassosi uccellacci anche chiamati fenicotteri. Facevano un rumore assordante con i loro versi, sembrava quasi che stessero litigando e mi parve di vedere me, dentro quello stagno. Isterica, fuori di me, arrabbiata. Per di più erano anche rosa, come il mio vestito a quella festa, per cui erano la mia perfetta rappresentazione di quella mattina. Ero stata cattiva con lui, avevo esagerato sia nei toni che nelle parole. Ma non ero riuscita a trattenere la rabbia, c'era qualcosa dentro di me che mi imponeva di urlargli contro, di allontanarlo da me, sempre quel dannato sogno che mi martellava in testa e che, via via, si stava ricomponendo nella mia mente. Hot, molto hot, talmente tanto da riscaldare l'ambiente che mi circondava.
«Vieni, andiamo a cercare i leoni!» ancora una volta, la voce di J mi riportò sulla terra ferma.
Annuii con poca convinzione e seguii il suo stesso percorso, rimanendo, però indietro di qualche passo. Ero uscita di casa con tutte le intenzioni di divertirmi, di non pensare a Ruben e i miei piani erano stati completamente stravolti. Per cui, la voglia di passeggiare tra varie bestie, innocue o feroci che erano, era completamente sparita. Volevo solo tornarmene a casa e buttarmi sui libri, affondare nello studio, il mio unico rifugio da ciò che mi circondava.
«Sei già stanca, Cel?» mi domandò, camminando come un gambero per potermi guardare in faccia.
«Un pochino» mentii, con un sorriso abbozzato.
«Se vuoi ci fermiamo a prendere qualcosa da bere» propose ed io accettai al volo.
Mi dispiaceva per J. Insomma, lui era così felice ed elettrizzato di essere allo zoo e doveva sopportare un cadavere come me che lo seguiva passo passo. Non ero di nessuna compagnia per quel povero ragazzo, che, il più delle volte, si era ritrovato a fare commenti senza che io gli rispondessi.
Ci fermammo ad un piccolo chiosco ed ordinammo qualcosa di fresco da bere. Sprite per me e limonata per lui. Rimasi a fissare la bottiglia colorata della mia bibita per alcuni secondi. Che mi stava capitando? Nessun ragazzo era mai riuscito a ridurmi in quello stato. Nessuno era mia stato in grado di entrare nei miei pensieri, sconvolgerli e diventarne il centro. I ragazzi non mi erano mai importati così tanto. Dopo la delusione del mio ex mi era chiusa verso l'altro sesso, in tutti i sensi e non avevo mai permesso a nessuno di entrare dentro di me, né nella mia mente, né nel mio cuore, né nelle mie mutande. E invece, con Ruben, era stato diverso. Lui era riuscito fin da subito a smuovere qualcosa dentro di me. Forse i suoi occhi, forse il suo sorriso accattivante o solo il fatto che ci cercavamo, inconsciamente, sempre e comunque.
«Ti vedo strana, oggi» commentò J, sorseggiando la Lemon Soda.
«Niente di ché. Ieri sono stata ad una festa e ho alzato un po' troppo il gomito. Sono ancora un po' scombussolata» gli spiegai.
«Mi stupisci, se dici così» ridacchiò divertito e lo trucidai con lo sguardo «Intendo. Non mi sembri il tipo che va ad una festa e che si sbronza. Sembri una ragazza tutta casa e università»
«E lo sono!» confermai «Ma mi hanno invitata, così ci sono andata»
Il tutto si era svolto un po' diversamente, però omisi il fatto che, per orgoglio, mi ero auto invitata a casa di Annalisa. Non l'avessi mai fatto, almeno non avrei litigato così furiosamente con Ruben.
«Romeo?» mi chiese, sospettoso «Ti ha invitata lui?»
Deglutì a fatica la Sprite, che scese lungo il mio esofago in blocco, come se si fosse ghiacciata tutto d'un tratto. Scossi la testa e lui mi guardò curioso, spronandomi, con i suoi occhi azzurri, a raccontargli tutto.
«Ruben» soffiai.
J, dapprima, corrugò la fronte, poi scoppiò in una risata incredula, affondando nello schienale della sedia.
«Con quel mentecatto?»
«Mi sembrava scortese non accettare il suo invito» spiegai, anche se ben sapevo che fosse una bugia. Ma tanto J non lo avrebbe mai scoperto, quindi...
«Dai, Cel, non mi dire che ti fidi di quello lì» mi rimbeccò, allungandosi sul tavolo e guardandomi quasi sconvolto.
«Perché non dovrei? Il fatto che non sappia coniugare il verbo essere non mi fa sospettare di lui» risposi, leggermente acida.
«Boh, non saprei» disse vago «Quel ragazzo non mi convince» e scosse la testa.
Quindi non ero l'unica ad avere dei dubbi su di lui. Il fatto che J avesse percepito la mia stessa sensazione, mi spiazzò e mi convinse sempre di più che Ruben avesse tanti, troppi segreti.
«Secondo me dice un sacco di bugie!» disse, convinto dalle sue stesse parole «Ed è attratto da te! Anche molto! Lo si vede a miglia di distanza»
«Ma figurati» trillai, diventando paonazza. Bevvi un sorso di Sprite per calmare i bollenti spiriti, sfuggendo dallo sguardo di J «Io non sono affatto il suo tipo. Siamo su due pianeti diversi!»
«Dici?» sospirò J, sollevando i suoi occhi azzurri verso il cielo «Probabilmente sono io che mi sbaglio. Magari lui, l'altro giorno non ti stava guardando le tette, ma solo la maglietta»
Per poco non gli sputai la Sprite in faccia, talmente ero sconvolto da quella rivelazione.
«Che cosa?!» sbottai e avrei voluto strangolare Ruben, in quel momento esatto.
«Sì! Ti squadrava da capo a piedi, come se volesse portarti a letto, insomma» mi spiegò J, con un certo disprezzo nella voce «E secondo me la festa è stata solo un pretesto»
Oddio, così dicendo mi riempiva di dubbi. Già non ero del tutto sicura su Ruben, non lo ero mai stata, a partire dal suo lavoro da fioraio e dal suo viso che, sapevo, di aver già visto.
«Non credo che sia così subdolo» tentai, più che altro, di convincere me stessa.
«Oh mia cara Celeste! Tu non conosci gli uomini quanto li conosco io» sospirò, con fare saccente «Ce ne sono alcuni che farebbero di tutto per poter avere tra le mani l'oggetto del proprio desiderio» lo disse una malizia che mi preoccupò.
Non credevo possibile che Ruben arrivasse a tanto, non dopo come aveva parlato in camera mia. Eppure non potevo fare a meno che prendere dalle labbra di J ed annuire ad ogni sua affermazione.
«Lui ti ha invitata ad una festa, sperando, sicuramente, che tu ti ubriacassi per poter approfittarsi di te. Non sai quanti ne ho visti fare cose del genere» mi confidò, in un sussurro.
Rimasi in silenzio, ad ascoltare quelle parole che mi trapassarono da parte a parte.  E non tanto per la sfiducia che J riponeva in lui e i miei dubbi crescenti, ma sempre per quel maledetto sogno che, in quel momento, era vivido nella mia memoria. Ogni singola scena, ogni singola parola, ogni singolo sospiro, respiro, tocco. Le nostre labbra che si avvicinavano, si schiudevano in un bacio intriso di passione. Le sue mani sul mio corpo, che lo accarezzavano e lo bramavano. Ed io, che, trascinata da uno strano piacere, mi abbandonavo a lui, avvolgendolo con la mia bocca. Ogni singolo momento, attimo di quell'episodio nello sgabuzzino trovò la sua nitidezza e mi travolse come uno tsunami. D'un tratto, non ero più sicura che quello fosse solo un sogno.



Gli occhi di Celeste erano spalancati, azzurrissimi, velati da una patina leggera di lacrime causata dall’aver finalmente realizzato quello che era successo tra di noi. Mi aveva urlato in faccia tutto il suo disprezzo, ogni singola parola di rabbia si era infranta contro il mio Ego, incrinandolo pian piano, come un muro di ghiaccio.
Ed ora era in piedi davanti a me, con le braccia incrociate, mentre mi urlava chiaramente di andarmene da casa sua.
«Vattene, Ruben» ringhiò, più sincera che mai.
Quello che era successo la sera precedente era stato soltanto un caso, un futile errore del destino, ma quello che mi ferì maggiormente era che Celeste non ricordava nulla. La festa di Annalisa, la gelosia causata dalla vicinanza della rossa, la musica alta, e poi quel maledetto champagne, da lì in poi era soltanto buio nella sua testa.
Ero stato un egoista ad aver approfittato del momento, ad aver lasciato che tra di noi succedesse questo, ma Celeste mi era apparsa più bella che mai, completamente diversa dalle modelle che ero solito frequentare.
La sera l’avevo accompagnata a casa, l’avevo messa a letto, poi, non ricordo per quale assurdo motivo, ero rimasto anche io, addormentandomi al suo fianco. Neanche fossi il suo ragazzo.
«Ti prego, vai via» disse, trattenendo un singhiozzo e mordendosi il labbro inferiore.
Anche con i capelli scompigliati e un po’ di trucco che le era colato attorno a quei meravigliosi oceani che erano i suoi occhi, rimaneva estremamente attraente.
Più di quanto avrei voluto, dannazione.
«Okay» mi limitai a dire, sapendo che non c’era verso di farla ragionare.
Quando si metteva in testa una cosa era difficile dissuaderla, ed io ero arrivato ad un punto in cui se avessi insistito mi sarei esposto troppo. Non avrei potuto dirle mai di quella sera, avrei tenuto quel segreto dentro di me, senza mai condividerlo con nessuno.
Leonardo Sogno non poteva tenere ad una persona, lui viveva per le relazioni del momento. I giornali scandalistici campavano di questi gossips e se mi fossi accasato, se avessi chiesto a Celeste di essere la mia ragazza, allora sarebbe finito tutto.
La pubblicità è tutto per uno come me.
E non c’era niente di straordinario in Celeste Fiore, almeno per gli altri.
Se il mondo l’avesse vista con i miei occhi, se avesse potuto sapere quante sfaccettature aveva il suo carattere, di quanta determinazione era capace, sicuramente sarebbe stata al centro dell’attenzione più del sottoscritto.
Mi voltai e imboccai la porta della sua stanza, fermandomi sulla soglia e guardandola di nuovo. Ancora con quel maledetto vestito rosa in dosso, quello sguardo acquamarina che nonostante tutto mi cercava.
Inconsapevolmente mi stai facendo male, ed io non posso permettermelo.
Questo è quello che avrei dovuto dirle, soprattutto perché la sera stessa avrei avuto una partita e dovevo rimanere concentrato. La mia vita privata non aveva mai influito sulle mie prestazioni in campo, ma questo era successo prima di incontrare Celeste.
Avrei odiato Annalisa e quella stramaledetta festa per tutto il resto della mia esistenza. Se avessi avuto la possibilità di tornare indietro, l’avrei fatto, anche subito.
La vita di Leonardo era stata solo in discesa prima dell’arrivo di Celeste.
«Ciao» le sussurrai, poi sparii nel corridoio.
A passi veloci percorsi tutta la distanza che mi separava dal portone dell’appartamento, sperando di raggiungerlo il più presto possibile, ma dalla cucina apparve misteriosamente Romeo, con una tazza fumante di caffè in mano.
«’Giorno» bofonchiai, aspettandomi che mi avrebbe placcato per sapere le ultime novità o per chiedermi se poteva venirmi a vedere la sera stessa all’Olimpico.
«…» nessuna risposta.
I suoi occhi verdi incontrarono i miei e vi sfuggirono subito dopo. Da quel breve contatto avevo inteso che un’ombra di rancore si stagliava sulla sua testa, ma in principio non capii immediatamente per quale motivo ce l’avesse col sottoscritto.
Visto che in quella casa non ero desiderato, tanto valeva che me ne andassi.
Imboccai il portone e successivamente le scale, chiudendomi l’uscio alle spalle con un tonfo e separandomi per sempre da quello che era successo nemmeno ventiquattro ore prima.
Arrivai nell’androne troppo velocemente, sentivo ancora gli stessi pensieri che mi vorticavano prepotenti tra le pareti della testa, rimbalzando in continuazione e tornando indietro, più forti di prima.
Perché mi sentivo così strano? Possibile che il rifiuto di Celeste mi facesse così male? Era nato tutto come un gioco, bugia dopo bugia, ed ero stato attento a non lasciarmi coinvolgere. Celeste mi aveva attratto perché rappresentava una sfida, ma ormai il bacio c’era stato –anche più di uno– e c’era stato anche qualcos’altro.
Avrei potuto finirla lì, tornare alla mia vita di prima, fatta di feste, di discoteche, di allenamenti spossanti e di tanto, tantissimo, sesso senza impegno.
E allora perché vorresti tornare nel suo letto?
Mi fece notare il mio Ego, che ovviamente riceveva i desideri diretti del mio cuore senza che essi venissero filtrati da quel bugiardo del mio cervello.
Era vero, purtroppo. Avrei anche preso quell’ascensore del ’15-’18 per fare prima, mi sarei precipitato al suo portone e l’avrei trascinata con me nella sua stanza, anche soltanto per dormire.
La volevo sentire vicina, volevo che i suoi sorrisi fossero unicamente rivolti a me, che i suoi insulti fossero soltanto miei. La desideravo tutta. Anelavo la sua rabbia, la sua felicità, quel suo sottile modo di insultarmi e quella sua semplice sensualità che mi faceva morire piano piano, volta per volta.
Dovevo smetterla di pensare a queste cose, alle volte mi sembravo davvero Ruben o uno sfigato del suo calibro. Stanotte avrei chiamato una come Annalisa, me la sarei sbattuta, e l’indomani Celeste Fiore sarebbe completamente sparita dalla mia testa, ne ero più che sicuro.
Eri soltanto un po’ in astinenza.
Sicuramente quello era il motivo di tutto questo scombussolamento ormonale che mi stava mandando ai pazzi.
Uscii dal palazzo e mi diressi verso il ciglio della strada dove era parcheggiata la 500 Abarth con cui ero andato alla festa. Feci scattare l’allarme e mi sedetti al posto del guidatore, inserendo le chiavi nel cruscotto ma rimanendo a fissare il vuoto come un deficiente.
«Chiamami Leo.. solo per questa volta».
Il mio nome che usciva dalle sue morbide labbra era forse il suono più dolce con cui l’avessi mai sentito pronunciare, addirittura migliore dell’intera Curva Sud che lo urlava al vento.
Smettila!
Girai le chiavi e il motore rombò nell'insolito silenzio delle 11.00 del mattino, dopodiché inserii la freccia e mi immisi nella strada principale. Sparai lo stereo al massimo, con canzoni che avrebbero spaccato i timpani anche ad uno che viveva dentro le casse acustiche, ma servì a ben poco.
Sentivo ancora i miei pensieri che prepotenti tentavano di infettare la mia mente, di farmi diventare uno dei tanti, uno scemo che scodinzolava appresso ad una ragazza senza più aver alcuna occasione di divertirsi.
Avevo ventidue anni, ero capocannoniere della serie A, il calciatore più conosciuto al mondo, qualunque ragazza si sarebbe stesa ai miei piedi, accettando di fare qualunque cosa per il sottoscritto.
Me la sarei scelta mora, castana, addirittura rossa, con gli occhi neri, verdi, o grigi, profondi come l’oceano. Avrei potuto avere qualsiasi cosa, qualsiasi.
Tranne lei.
Parcheggiai la 500 nel box auto che avevo sotto casa, poi cercai le chiavi del mio appartamento ma il portone scattò quasi come se sapesse del mio arrivo.
Entrai e mi ritrovai Ruben vestito di tutto punto, come suo solito, che mi aspettava con il sedere appoggiato contro lo schienale del divano che avevamo in salotto.
«B-B-Buo-Buongiorno» mi disse, ma l’espressione del suo volto rimase seria.
Troppo seria per uno come lui.
«Risparmiati la predica» bofonchiai, lanciando le chiavi sul mobile di cristallo e andando in cucina bisognoso di una dose esagerata di caffeina.
Ruben mi seguì dapprima con lo sguardo, poi si sedette sul bancone, vicino all’angolo cottura, e non la smise di fissarmi con quegli occhi da talpa indagatori.
Mentre la Moka borbottava e l’acqua bolliva per far salire quel nettare scuro che mi avrebbe permesso di affrontare la giornata nel migliore dei modi, fissai a mia volta il mio migliore amico, vedendo chi l’avrebbe spuntata per primo.
«Si può sapere che hai?» sbottai infastidito.
Ruben fece spallucce, ma il suo viso rimase serio. «S-sta-stanotte hai do-dormi-dormito f-f-fuori» osservò, come se gli fosse servita una laurea per capirlo.
«Ma dai!» ironizzai.
Il mio manager si sentì indispettito da quel mio modo di prenderlo in giro, ma non si scompose più di tanto. «N-No-Non do-dovresti g-g-gio-giocare c-con l-lei» mi rimbeccò, quasi come se fossi stato dalla parte del torto, tanto per cambiare.
Tentai di soffocare la rabbia, ma il caffè uscì e dovetti immediatamente versarmene una tazza per non esplodere. «IO?» sbottai dopo aver assaggiato il peggior Espresso della mia vita. «Io non devo giocare con lei, eh?».
Anvedi questo! Come al solito ero sempre io il cattivo della situazione, quello che giocava con i sentimenti altrui senza rimanere mai coinvolto. Tutti pensavano che avessi il cuore di ghiaccio, che fossi un menefreghista completo. Anche io avevo un cuore, anche al sottoscritto si era spezzato, più di una volta.
Ruben rimase spiazzato da quella mia sfuriata, ma non appena mi accorsi di risultare un completo idiota, indossai la maschera di sempre. «Lasciamo perdere».
Afferrai la tazza di caffè e mi diressi verso la mia stanza, deciso a farmi una lunga doccia che avrebbe lavato via tutta la sporcizia di quella brutta nottata appena trascorsa.
«A-As-Aspetta..» mi disse Ruben ed io mi voltai.
«Uhm?».
«N-Non p-puoi p-per-permetterti di i-inna-innamorarti, l-l-lo s-sai, v-vero?» mi ricordò, come se non me lo ripetessi abbastanza ogni giorno.
Sorrisi al mio migliore amico, un sorriso amaro che mi scaturì dalla parte più nera della mia anima. «Lo so» sospirai. «Prima il calcio, poi il successo» ripetei, citando le parole del mio vecchio.
«I-Il p-pa-pallone è l-la t-t-tua vita, n-n-on l-la f-fa-famiglia» concluse Ruben per me.
«Grazie, amico» gli dissi, sincero.
Mi aveva ricordato l’impegno che avevo preso quando avevo deciso di realizzare il mio sogno, quando mi si era presentata l’occasione di diventare famoso, una stella, un ragazzo prodigio, dal talento straordinario.
Non avevo mai avuto tempo per le cose che non riguardassero esclusivamente il calcio, comprese le ragazze. Non mi ero mai innamorato nella mia vita, avevo soltanto fatto sesso, soddisfatto le mie esigenze fisiche.
Di tanto in tanto mi capitava una relazione, ovviamente decisa a tavolino, tanto per movimentare i giornali scandalistici, ma niente di serio, almeno per me. Non potevo permetterlo, non adesso che ero arrivato così in alto.
Devo dimenticarla, devo dimenticare tutto.

Il coro della Curva Sud riempiva tutto lo stadio Olimpico, facendo addirittura tremare le pareti dello spogliatoio. Lanciai il borsone sulla panca e mi sedetti di peso alla mia postazione, dove c’era scritto LEONARDO SOGNO a lettere cubitali, e dov’era appesa la maglia numero 23.
Sbuffai, forse un po’ troppo sonoramente, poi cominciai a togliermi la tuta e ad infilarmi i parastinchi.
«Ehi, amico» mi disse Marco, sedendomi accanto. «Ma te la sei presa per la biondina di ieri sera?» sghignazzò, colpendomi dritto al cuore.
«Fottiti, Ma’» ringhiai, inviperito.
Borriello ridacchiò e cominciò a spogliarsi, lanciando sguardi complici con gli altri compagni di squadra.
«Era la tua ragazza, per caso?» alluse Daniele, sghignazzando con Nicholas.
I miei compagni non mi avevano mai preso molto in simpatia, forse perché il mio senso di competizione passava sopra anche alle amicizie, ma soprattutto perché erano invidiosi del mio talento. Stavano tentando di mandarmi ai nervi, ma io non l’avrei permesso.
«Ma che cazzo dici!» sbottai, allacciandomi il primo scarpino.
Marco si sorprese, ma non demorse. «Da come l’hai strappata via dal nostro ballo tête-à-tête, ho pensato che fossi piuttosto geloso..» insinuò, come se Leonardo Sogno aveva bisogno di essere geloso di uno come lui.
«Pensala come ti pare, io e la bionda non ci intendiamo» tagliai corto, sperando la finissero.
Daniele, Marco e Nicholas si scambiarono sguardi complici e risatine che non mi resero per niente la serata facile. In effetti, non mi ero dato una regolata quella sera. Ero andato da Borriello e da Celeste come una furia, come un rinoceronte incazzato, e l’avevo strappata via dalle sue grinfie perché mi dava tremendamente fastidio vederli insieme.
Ma non avrei mai ammesso di essere geloso, nemmeno a me stesso, nemmeno sotto tortura.
La gelosia si prova solamente quando c’è qualcosa tra te e la persona interessata, che sia amicizia, affetto.. o amore.
Amore? Ma stiamo scherzando?
«Quindi non ti offendi se ti chiedo il suo numero di telefono» continuò Marco, senza demordere.
Cosa diavolo voleva che facessi? Che mi mettessi a fare una scenata di gelosia in pieno spogliatoio?
A quel punto gli lanciai il mio i-phone e lui lo afferrò per miracolo. «Prenditelo pure» gli dissi tranquillo, senza muovere un muscolo.
Sei bravo a fingere che non ti dia fastidio.
Borriello mi fissò esterrefatto, ma non si diede per vinto. Digitò il codice e cercò il numero di Celeste, segnandoselo veramente sul suo cellulare. Ogni numero che pigiava sul touch-screen era una pugnalata al cuore, per non parlare degli sguardi complici che lanciava agli altri due.
Mi ero cacciato nella merda con le mie stesse mani, ma pur di non sembrare un deficiente geloso avrei fatto di tutto, anche spingere Celeste tra le braccia di Marco.
«Fatto!» esultò. «Grazie, bello» ridacchiò soddisfatto.
«Certo era proprio bona quella biondina, un po’ troppo chiacchierona» osservò Daniele.
Marco sfoderò un sorriso di sbieco. «Li trovo io i modi per farla tacere» disse malizioso. «Anzi, credo che urlerà ben altro».
Quell’ultima affermazione fu la goccia che fece traboccare il vaso. Indossai la maglia col numero 23 e mi alzai di scatto, preferendo passare il resto del tempo in corridoio a fissare le macchie di zucchero sul pavimento piuttosto che sentire ancora le loro conversazioni.
Mi rodeva, non potevo ignorare ancora quella sensazione.
Odiavo sentirmi così male, anche perché non avevo mai provato una sensazione del genere. Solitamente erano le ragazze con cui stavo che mi tampinavano di telefonate, che mi accusavano di guardare le altre e non era mai successo il contrario.
Non mi era mai importato di nessuna di loro, mai.
«Come va, Sogno?» disse una voce alle mie spalle.
Mi voltai e vidi il Mister che sorrideva, con la cartelletta degli schemi ancora sotto il braccio. Ci mancava anche la predica dell’allenatore.
«Bene, Mister» dissi a mezza bocca, sperando mi lasciasse da solo.
Lui sospirò sonoramente, poi si poggiò con la schiena contro il muro e imitò la mia posizione pensierosa.
«Quella di stasera è una partita importante, Leo» mi disse, riferendosi al match Roma-Inter che da ben quattro stagioni era stato ben più rilevante del derby della Capitale. «Dovresti lasciare i tuoi problemi a casa, e scendere in campo con la mente pulita».
Ma che era quella sera? Tutti s’improvvisavano psicologi della situazione? Cosa avevo scritto in faccia? Fallito?
«Sì, Mister, sarà fatto» gli assicurai, anche se il ghigno furbo di Borriello mentre si segnava il numero di telefono di Celeste non l’avrei dimenticata facilmente.
Vincenzo mi sorrise e mi strinse la spalla, infondendomi un po’ di sicurezza. «In questi giorni sembra tu abbia altro per la testa, vuoi parlarmene?» mi chiese gentilmente, ma mi ero rotto che tutti cercassero di compatirmi, come se avessi chissà quale malattia terminale.
«È tutto okay, davvero» lo rassicurai, sperando mi lasciassero in pace. «Sono solo pensieri».
Il Mister mi guardò poco convinto, ma alla fine mi sorrise ed entrò nello spogliatoio richiamando gli altri per gli ultimi accorgimenti.
La luce dei fari che illuminavano lo stadio Olimpico filtrava attraverso il tunnel degli spogliatoi, accecandomi con la sua intensità. C’erano giornalisti, cameramen, intervistatori, troppa gente per i miei gusti.
Non l’avrei mai detto, soprattutto perché Leonardo Sogno amava sentirsi al centro dell’attenzione.
Cosa diavolo ti sta succedendo? Prima smaniavi per un’intervista, per far sapere alla ‘plebaglia’ com’era meravigliosa la tua vita.
Ora invece mi scocciava. Volevo rimanere da solo, avevo troppi pensieri per la testa e sentivo che stavo per scoppiare.
Era passata una settimana da quando avevo incontrato Celeste, o forse qualche giorno di più, ma ne erano successe talmente tante che sembravano trascorsi anni.
«Forza ragazzi!» sentii urlare il Mister, dopodiché la porta si spalancò e i miei compagni si diressero verso il campo.
Inspirai profondamente e tentai di fare mente locale. Dovevo smetterla di pensare a Celeste, a quello che era successo alla festa di Annalisa, al fatto che lei non ricordasse nulla e al piccolo –e doloroso– particolare di quando, per la seconda volta, mi aveva cacciato via dalla sua casa.
Ora dovevo pensare solamente alla partita, a giocare come sempre, a segnare e a dimostrare agli altri quanto Leonardo Sogno valesse e fosse importante per la squadra. Celeste era solamente una tappa nella mia vita, un ostacolo che potevo facilmente aggirare.
L’intera squadra percorse il tunnel e uscì in campo, cominciando il riscaldamento.
Il bagno di folla che mi facevo ogni volta, giocando in casa, rivolgendo il mio sguardo alla Curva Sud non lo avrei mai barattato con nient’altro. Ero troppo orgoglioso di me stesso per rinunciarvi.
Quelle persone erano lì per me, urlavano il mio nome, volevano vedermi in azione e non mi avrebbero mai deluso, non mi avrebbero mai scansato.
Loro mi adoravano, vivevano per me.
Per un attimo il mio sguardo fu rapito da una bionda inquadrata nel maxischermo dello stadio e il mio cuore perse un battito.
Celeste.
Pensai subito che fosse seduta sugli spalti, magari accompagnata dal suo amico Robbeo e fosse venuta lì, mettendo da parte il suo odio per il calcio, soltanto per vedermi giocare. Ma era solo un abbaglio. Non appena si accorse di essere ripresa, salutò la telecamera ed io vidi che non le assomigliava nemmeno lontanamente.
Lei non sarebbe mai venuta per me.
«Ehi, bel bamboccio» ridacchiò Aleandro, distogliendomi dai miei pensieri. «Si può sapere cosa ti prende? Sembri sempre più di là che di qua. Quelli dell’Inter sono arrivati e Sneijder è più incazzoso che mai».
Mi voltai e vidi le maglie bianche, con il drago nero-azzurro stampato sulla manica, che si avvicinavano e venivano accolti dal loro pubblico in trasferta che li aveva accompagnati. Se la tiravano, era evidente. Avevano vinto lo scorso campionato e la Champions League, quindi si sentivano invincibili.
«Tzé, cazzoni» commentai, ritrovando per un attimo il Leonardo combattivo di sempre.
Aleandro sorrise e mi diede una pacca sulla spalla. Per ora mi ero parato il culo, ma avrei dovuto far uscire Celeste dalla mia testa se volevo giocare decentemente quella partita che segnava la metà del campionato.
«Leona’!» mi urlò Daniele, passandomi velocemente la palla.
Ero talmente sovrappensiero che tentai di fare uno stop decente, ma chiunque sarebbe stato in grado di fermare quella palla. Ovviamente la lisciai in pieno e quella colpì direttamente la zucca pelata di Sneijder.
I suoi occhi castano-verdi mi lapidarono e senza che dicesse nemmeno una parola, sentii ogni globulo rosso che cominciava a congelarsi nelle mie vene. Quel tizio faceva davvero paura.
«S-Scusa!» gli dissi, sperando non ci fossero rancori durante la partita.
Sneijder, glaciale come qualsiasi abitante del nord Europa, afferrò il pallone, caricò il tiro ma invece di restituircelo con gentilezza, lo sparò talmente forte che quello superò le transenne e andò a colpire un poveraccio del pubblico.
Rimasi con la bocca spalancata e la lingua di fuori.
Questo. È. Pazzo.
«Gli avrà rotto il naso!» esclamò Aleandro, socchiudendo gli occhi e tentando di capire cosa fosse successo al povero malcapitato che aveva ricevuto quel siluro in piena faccia.
«Come minimo» mi aggiunsi, sconcertato.
L’olandese sorrise e si voltò, raggiungendo i suoi compagni di squadra e lasciandoci di sasso con le bocche spalancate.
«Sei sicuro di poter giocare?» mi domandò il Capitano, facendomi trasalire. Il suo sguardo azzurro mi perforò da parte a parte ma non mi feci intimidire.
«Certo» sibilai a denti stretti.
Se quel vecchio decrepito pensava di potermi mettere a scaldare la panca si sbagliava di grosso. Leonardo Sogno non aveva mai trascorso una partita in panchina, e non avrebbe cominciato di certo quando la sua carriera era già alle stelle.
L’arbitro richiamò l’attenzione di tutti e i capitani delle due squadre, Zanetti e Totti, si avvicinarono per stringersi la mano e per scambiarsi il gagliardetto. Scelsero ‘testa o croce’ poi ci fu il lancio della moneta.
Culo, eravamo noi i primi a cominciare.
Ovviamente cominciai a correre verso l’area avversaria, mantenendomi al filo del fuorigioco, con Chivu e Lucio che mi braccavano manco fossero dei bodyguard.
«Levati!» ringhiai, spintonandolo, ma tra tutti e due erano degli armadi e non riuscivo a districarmi.
Nel frattempo Daniele e il Capitano diedero il calcio d’inizio, e il match Roma-Inter iniziò ufficialmente per la gioia degli spettatori.
Tentai di divincolarmi quasi subito, anche se mi risultava difficile con quei due energumeni e già dal primo minuto alzai il braccio per richiamare l’attenzione dei centrocampisti. Ovviamente nessuno mi si filò di pezza, ma preferirono di gran lunga Marco.
«Che stronzi» sibilai tra i denti, tornando verso il centrocampo dopo che Borriello s’era fatto soffiare la palla dai piedi.
Avevo il cuore che mi batteva a mille, quando iniziarono i cori della Curva che incitavano a nuove azioni e invocavano il mio intervento. Dovevo fare qualcosa, almeno per non mandare in pezzi tutto quello che avevo faticato per costruire.
La palla tornò all’Inter e capitan-Zanetti la intercettò quasi subito, correndo sulla fascia sinistra più veloce di un fulmine. Sapevo di dover rimanere in area di rigore, visto che ero una punta, ma la voglia di fare qualcosa era troppa, perciò cominciai a raddoppiare la marcatura, aiutando Marco sull’ala sinistra, ma scoprendo la mia posizione.
«Torna al tuo posto!» mi urlò Francesco, ma io non l’ascoltai.
Volevo riscattarmi, fargliela vedere a tutti quelli che osavano dire che Leonardo Sogno stava cominciando a rammollirsi, soprattutto per colpa di una biondina tutto pepe che cominciava a vedere dappertutto.
«A Leona’!» mi urlò Daniele, nella speranza che lo ascoltassi, e forse avrei fatto meglio a farlo.
Nel momento in cui, sia io che Marco, eravamo sufficientemente vicino al capitano dell’Inter, questi passò rasoterra la palla a quel testa di cavolo dell’olandese, che volò a centrocampo tentando un tiro da fuori area. Se fossi rimasto al mio posto, magari sarei potuto andargli in contro, ma come al solito avevo fatto di testa mia.
La palla fortunatamente s’infranse contro la traversa, e la porta difesa da Doni fu salva almeno per il momento. Mi beccai un’infinità di occhiatacce da parte dei miei compagni, mentre il Mister mi fissava preoccupato.
Se prima avevano soltanto dei sospetti sul mio stato d’animo contrariato, dopo questa orrenda azione avevano tutte le conferme. Leonardo Sogno aveva qualcosa di strano, era ufficiale.
«Ci stai con quella zucca che ti ritrovi?» mi rimbeccò Daniele, fissandomi di sbieco.
«C’è mancato poco che non ce facessero una pigna» insistette Marco.
Tornai alla mia posizione con la coda tra le gambe, senza saper cosa dire. La voglia di farmi valere era stata talmente forte che avevo totalmente perso di vista il gioco di squadra e l’obiettivo comune: la vittoria.
Il portiere rinviò il pallone e Daniele ne prese subito possesso, passandola poi al Capitano che si guardò intorno, tentando di impostare il gioco.
Dovevo concentrarmi e smetterla di farmi mille problemi, manco fossi un adolescente complessato. Li avevo passati quegli anni ormai, trascorrendo tutti i pomeriggi al campo di Trigoria per allenarmi con la Primavera. Basta Celeste, dovevo finirla di chiedermi perché non mi avesse ancora implorato di essere la mia ragazza, perché mi avesse buttato fuori di casa..
..perché non si ricordasse nulla di quella notte.
«A Leona’, svejete!» mi gridò Daniele, passandomi poi la palla.
Ero talmente soprappensiero che mi accorsi all’ultimo del passaggio di Capitan Futuro, ma riuscii comunque ad intercettarlo.
Subito, sia Lucio che Chivu mi furono addosso come due rinoceronti impazziti ed io tentai di scaricare il pallone su qualche mio compagno, ma erano tutti marcati. In questi momenti si vedeva il genio di Sogno, quando ormai tutto era perduto lui entrava in azione e faceva sempre sospirare il pubblico.
Ma non aveva una certa Fiore che gli ronzava nella testa.
Non mi era mai capitato di pensare ad altro mentre giocavo, il calcio era tutta la mia vita e lo sarebbe sempre stato, ma quando avrei raggiunto l’apice della mia carriera.. cosa mi sarebbe rimasto?
Io non avevo una famiglia come la maggior parte dei miei amici, dei miei compagni di squadra, non avevo nessuno oltre ai miei genitori e al mio amico Ruben. Ero solo con il mio successo, non avevo nient’altro.
«Sogno, de qua!» mi urlarono e vidi che sulla fascia destra spuntava ancora Marco Cassetti che mi chiedeva il pallone per improvvisare un cross.
Non mi ero minimamente reso conto che anche Borriello si era liberato e mi chiedeva di passargli il pallone. Non avevo idea di cosa fare, mi trovavo in un limbo e non sapevo come uscirne. Leonardo Sogno non era mai stato indeciso in vita sua, aveva sempre preso il toro per le corna.
Era questione di secondi, anzi, di attimi. Dovevo decidere cos’era meglio per la squadra, cosa fosse meglio per tutti. E allora un flash di quello che era successo alla festa di Annalisa mi attraversò la mente. Era vivido, quasi reale, potevo addirittura toccare con mano il viso arrossato di Celeste e quelle labbra rosse e piene che aspettavano solo le mie.
Mi distrassi per un millesimo di secondo, ma fu sufficiente a farmi soffiare via la palla dai piedi e per una squadra come l’Inter, questo voleva dire goal quasi assicurato.
Gli altri sbuffarono e ripartirono, tornando in difesa. Sentii commenti poco apprezzabili sulla mia prestazione, ma era ovvio che stavo facendo schifo, lo capivo anche da me.
«È meglio che cominci a scaldare la panchina, pulcino» asserì Borriello, linciandomi con lo sguardo e dandomi una spallata.
«Fottiti» ringhiai, restituendogli la spinta.
Marco sfoderò un sorriso di sbieco, troppo furbo per uno come lui. «Dopo la fine di questa partita, credo proprio che telefonerò alla biondina.. le dirò di tenersi calda e vogliosa per quando verrò nel suo letto» insinuò malizioso.
Sapevo che lo stava facendo soltanto per ingelosirmi, per indurmi a commettere una cazzata che avrebbe dato un’altra ottima ragione al Mister per sostituirmi, me quel giorno ne avevo passate troppe ed ero al limite.
«Vaffanculo, Marco!» ringhiai, mollandogli una spinta più forte, tanto che lo feci indietreggiare.
I difensori della squadra avversaria ci fissarono come se fossimo dei pazzi, ma l’arbitro ancora non si era accorto di nulla.
«Allora ammetti che è la tua ragazza» ridacchiò. «Quando mi si è strusciata addosso.. aveva un sedere».
In quel momento non ci vidi più, tant’ero accecato dalla rabbia. Feci tutto istintivamente, dal puntare i tacchetti nel terreno soffice dell’Olimpico, al stringere la mano a pugno, a sferrare un colpo dritto sulla faccia di quello stronzo.
«Ah!» gridò, coprendosi il volto e cadendo a terra.
Rimasi di sasso dopo che mi resi conto di cosa avevo fatto. Avevo ancora la mano tesa davanti a me, che vibrava dopo il colpo.
Stavolta l’hai fatta grossa.
L’arbitro si voltò subito e, senza pensarci, estrasse il cartellino rosso e fischiò, interrompendo il gioco e facendo sì che l’intera squadra si accorgesse di ciò che avevo fatto.
«Ma dai, è esagerato!» tentò di dire Daniele, affinché non ci lasciasse in dieci.
«Stiamo scherzando? Ha colpito un suo compagno di squadra!». L’arbitro era irremovibile.
Io non dissi nulla, ero ancora troppo scosso per quello che era successo. D’accordo, non mi andava a genio uno come Borriello, ma non avrei mai e poi mai colpito un mio compagno rischiando la partita e venendo espulso.
Leonardo Sogno non aveva mai lasciato il campo prima dello scadere del 90°, quella sarebbe stata la prima ed unica volta che avrei lasciato il campo quando la partita era pressoché appena iniziata.
I mormorii del pubblico erano pieni di dissenso, di sdegno per ciò che avevo fatto, per come mi ero cagato la partita.
L’arbitro, non contento, mi sventolò davanti alla faccia il cartellino rosso, invitandomi ad uscire, così, senza ulteriori indugi, mi diressi verso il bordo del campo, mentre i cori della Curva furono sostituiti da una bordata di fischi che mi ruppe un timpano.
Avevo deluso tutti, in un modo o nell’altro.
Il Mister, i compagni, gli spettatori e i fan che mi sostenevano. Mi sentivo una merda e non accettai nemmeno una pacca sulla spalla da Vincenzo per quanto ero incazzato con me stesso.
Scesi le gradinate che conducevano allo spogliatoio, ignorando i giornalisti e gli altri membri dello staff che mi chiedevano spiegazioni sul mio comportamento, ma mi recai unicamente verso le docce. Dovevo spogliarmi, lavarmi via quella parte di me stesso che mi stava rovinando la vita, che stava pian piano distruggendo tutto ciò per cui avevo lottato.
Avevo sacrificato la mia adolescenza per vivere un sogno, ed ora sarebbe bastato pochissimo per guardarlo andare in frantumi.
Gettai le scarpe alla rinfusa e accesi l’acqua della doccia, poi mi spogliai e lasciai che il getto caldo mi rischiarasse i pensieri.
Posai le mani sulle piastrelle fredde e bianche del box, poi anche la fronte s’infranse sulla fredda porcellana. Cos’avevo fatto di sbagliato per meritarmi tutto quello? Possibile che non ne facessi una giusta?
È cominciato tutto con Celeste, prima la tua vita era perfetta.
Il mio Ego aveva ragione, prima di lei tutto andava a gonfie vele ed io ero innamorato soltanto di me stesso. La verità era che non potevo tornare indietro, non ci sarei riuscito.
Dovevo dimenticarmi di Celeste, dovevo scordarmi tutto e non cercarla mai più, almeno sarebbe uscita dalla mia testa e mi avrebbe lasciato in pace, libero di potermi concentrare di nuovo sul calcio, sul mio mondo, su tutto ciò per cui i vivevo.
La mia vita sarebbe stata di nuovo perfetta, pensai sollevato, ma subito sentii un tremendo freddo farsi strada nel mio petto. Sì, perfetta, ma incredibilmente vuota.
Cominciai ad insaponarmi i capelli e il torace, fissando la schiuma che si addensava sulla mia pelle e tentando inutilmente di trovare una soluzione. In fondo non era successo nulla, a parte quell’incidente alla festa di cui lei non ricordava nulla.
Sarebbe bastato non cercarla più, scomparire per sempre dalla sua vita. Ero sicuro che Celeste non mi avrebbe mai cercato, era troppo orgogliosa, perciò il compito sarebbe stato molto più facile.
La verità era che più cercavo di non pensare a lei, più inevitabilmente finivo col ricordarmi com’era il suo sorriso, i suoi gesti, quel dito indice che mi puntava sempre sul petto, tentando di far valere le sue ragioni. Erano piccoli gesti, forse inutili e che sarebbero passati inosservati a chiunque, ma che io non riuscivo a togliermi dalla testa.
Dimenticala, dimenticala, dimenticala!
Dovevo farlo, per me stesso e per la mia famiglia. Si erano sacrificati tutti per farmi raggiungere la vetta ed ora non potevo mandare tutto a puttane, non potevo.
Uscii dalla doccia e mi legai un asciugamano in vita, poi notai il mio i-phone abbandonato sulla sedia. Sospirai sonoramente, dopodiché deglutii a vuoto.
Lo afferrai e lo sbloccai, dopodiché andai in rubrica e cercai il nome di Celeste con il suo relativo numero di telefono. Avevo due possibilità in quel momento: chiamarla o cancellare il suo numero.
Rimasi a fissare lo schermo dello smart-phone, poi decisi di fare quello che andava fatto.


Dopo 6 capitoli in cui vi abbiamo regalato un sacco di risate con questi due (anzi quattro, compresi Ruben e Robbeo) simpaticoni, i toni si smorzano dopo la festa a casa di Annalisa. A differenza degli altri, qui i due protagonisti mettono da parte per un po' la loro carica umoristica a favore di quella malinconica. Oramai è chiaro che tra i due sta nascendo qualcosa.
Celeste, inizialmente, si pone in maniera molto aggressiva nei confronti di Ruben/Leo, dopo che se lo ritrova nel letto. Urla e insulti non si risparmiano e il povero calciatore è costretto ad arrendersi alla furia bionda. Che, però, subito dopo vacilla. Si sente in colpa per come si è comportata, anche perché, non appena lui se n'è andato, si è sentita, come dice lei, vuota.
Non può nascondere, nemmeno a sé stessa, che Ruben/Leo le ha smosso qualcosa dentro, che con lui si trova bene e si diverte anche, nonostante lui non sia il suo tipo.
Il caro J, dal canto suo, cerca di mettere la pulce nell'orecchio a Celeste, la riempie di dubbi e lei inizia a sospettare che ciò che si è consumato nello sgabuzzino non sia solo un sogno, ma la realtà.
Per Leonardo non è stato facile vedersi piombare addosso il secondo rifiuto, ricevuto dalla stessa persona. Già per lui è stato difficile rapportarsi con Celeste, che inizialmente aveva visto solamente come una sfida allettante, ma ora, abituato ad avere sempre tutto dalla vita, come ricchezza, fama, successo, ragazze a valanghe, si sente rifiutato per la seconda volta dall'unica persona che ha mai osato dirgli di 'no'.
Proprio dopo la festa galeotta di Annalisa, in cui aveva sentito finalmente smuoversi qualcosa dentro di sé, era successo qualcosa che era andato oltre il semplice bacio, ma il sapere che la bella Celeste non si ricordasse nulla, lo ha ferito molto.
Ed ora vi abbiamo lasciato a questo finale angosciante, davvero da Crudelie quali siamo. :3
Che cosa succederà nel prossimo capitolo? Leonardo avrà il coraggio di dimenticare per sempre Celeste e tornare alla 'splendida' vita che aveva prima? Cancellerà il suo numero dal telefono senza mai più cercarla?
In fondo, lui non può permettersi l'amore...

Baci, baci
M&M

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Capitolo 8
*** Qualcosa di inaspettato ***



CAPITOLO 8

Betato da nes_sie

Il nome ‘Celeste’ galleggiava insistentemente davanti ai miei occhi, riflesso su quel vetro antigraffio del touchscreen. Non riuscivo a spiegarmi il perché dovessi eliminare un semplice numero di telefono, visto che non avrebbe alleviato di certo i miei problemi con la squadra, ma in quel preciso istante mi sentii come se dovessi farlo.

Avevo bisogno di un gesto, di un qualcosa che anche solo idealmente me la facesse sentire distante. Era vero che cancellando il suo numero non l’avrei dimenticata, Celeste non sarebbe sparita di certo dalla mia testa, ma sarebbe stato un passo in avanti.
Alla fine anche io ero stato usato.
Pensavo che questo non sarebbe mai successo ad uno come Leonardo Sogno, e forse sarebbe stato anche così se avessi usato la mia vera identità, ma il Ruben che c’era in me era stato solamente un futile pretesto.
Sapevo che c’entrava quella specie di fighetto francesino mangia-lumache, quel Jean-qualcosa con una carota ficcata su per il culo, e più ci pensavo più mi prudevano le mani. Avrei tanto voluto sbattergli in faccia chi ero solamente per vedere la sua faccia, se avesse reagito.
La verità è che non riesci ad accettare che lei non ricordi.
Una voce nella mia testa, diversa da quella del mio Ego, s’insinuò strisciando ed eludendo le barriere che avevo alzato come difesa per il mio orgoglio. La odiai profondamente, ma le sue parole continuavano a rimbalzare negli angoli della mia mente.
Ero sempre stato il primo a far finta di niente, ad aver voluto la maggior parte dei rapporti senza alcun impegno, eppure Celeste, con la semplice e cruda verità, era riuscita a far smuovere qualcosa dentro il mio petto, a far sentire il mio cuore come se fosse stato gettato dall’ultimo piano di un grattacielo.
Sicuramente non stava mentendo, lei odiava le menzogne e i bugiardi.
Forse era anche per quel motivo che dovevamo finirla lì, prima ancora che cominciasse, prima che potesse peggiorare di più. Se riusciva ad odiarmi come Ruben, non osavo pensare cosa avrebbe detto di me se avesse saputo la mia vera identità.
Avevo già litigato con la squadra, avevo deluso il Mister, continuavo a sparare bugie a raffica e a mettere in mezzo il mio migliore amico. Inoltre, era chiaro come il sole che il Rosso ce l’avesse a morte con me…  mi ero giocato anche un fan.
Celeste Fiore vale tutto questo?
Mi sedetti di peso sulla sedia, fissando il telefono come se potessi trovare nel suo schermo nero e lucido delle risposte, quasi come una palla di vetro premonitrice. Ovviamente non ottenni nulla, ma dovevo decidere, e in fretta.
Fai il punto della situazione, Leo. Mi comunicò il mio Ego, tornando a fare capolino di tanto in tanto. Una lista di pro e di contro, cosa avevi e cosa perderai se continui a starle dietro.
Non faceva una piega. Forse era il rimedio più semplice del mondo, ma non potevo fare l’esigente in un momento del genere.
Prima di conoscerla, la mia vita era un sogno ad occhi aperti. Avevo tutto ciò che desideravo, viaggiavo per il mondo, facevo servizi fotografici, interviste e, alle volte, anche sfilate per i marchi più famosi. Avevo il record di minuti giocati senza mai uscire fuori dal campo e avrei presto raggiunto anche quello delle presenze, nonostante avessi solo ventidue anni. Mai litigato con un compagno di squadra, nonostante sapessi che tutti erano invidiosi del sottoscritto e del mio talento, soprattutto i più anziani.
Avevo una casa tutta mia qui a Roma, e altri immobili sparsi per il mondo, cinque macchine sportive, quattordici moto – di cui una Honda originale del mitico Valentino Rossi– e, se avessi voluto, anche un jet privato.
Ero Leonardo Sogno, cazzo. L’idolo del momento.
Avevo una copertina su Vanity Fair, una su Vogue, la prima pagina di ogni giornale sportivo europeo e riempivo la maggior parte dei notiziari con false piste su un mio possibile trasferimento nel Regno Unito.
Chiunque avesse un minimo di contatti con i mass media, conosceva la mia faccia e sapeva chi fossi.
Chiunque… tranne lei.
La Voce s’insinuò nuovamente nella mia testa, schiacciando gli altri miei pensieri e obbligandomi ad ascoltarla. Non sapevo da dove provenisse o che cosa volesse, ma riusciva sempre a spazzar via tutte le mie convinzioni.
Avevo conosciuto Celeste per caso, poco più di una settimana fa, e lei mi era entrata dentro come un uragano, con la sua stessa intensità. Era riuscita a scalfire la facciata arrogante che ostentavo sempre in giro, vantandomi a destra e a manca, e mi aveva punzecchiato col suo sottile sarcasmo. A lei non importava quanti soldi avessi, chi fossi, per quale dannata squadra di calcio giocassi – anche perché aveva conosciuto Ruben e non Leo –, inconsapevolmente le avevo fatto conoscere il vero Sogno, quello che oramai mostravo di rado.
Stai vacillando, riprenditi!
Posai il telefono sulla panca di legno di fronte a me e mi misi le mani tra i capelli, stringendo forte e chiudendo gli occhi. Avrei voluto davvero sapere cosa fare, avrei dato tutto per saperlo. Perché nessuno mi obbligava a cancellare quel numero? Per quale motivo non avevo un cazzo di tirapiedi che lo facesse al mio posto!
Afferrai nuovamente l’i-phone e la rubrica si aprì non appena il mio tocco s’infranse sullo schermo. Erano soltanto numeri, dei ghirigori vuoti e privi di alcun senso. Non avevano volto, non avevano anima, se ne stavano solamente lì, immobili, a fissarmi.
Pigiai su ‘Opzioni’, poi il tasto Elimina comparve nero su bianco. Dovevo darci un taglio, smetterla di fare la mammoletta o il coglione completamente obnubilato da quegli occhi azzurri e da quei capelli biondissimi.
Sei sicuro di voler eliminare Celeste Fiore dai tuoi contatti?
Anche il telefono ci si metteva con le domande insensate. Perfino gli oggetti inanimati erano contro di me. Sbuffai sonoramente e mi diedi del codardo più volte.
Dannazione, era soltanto un fottuto numero!
Preso da una collera improvvisa, pigiai su ‘Yes’ e il numero di telefono di Celeste scomparve dalla mia rubrica. Il conseguente vuoto che avvertii alla bocca dello stomaco provò che oltre a quei numeri inanimati, era scomparso qualcos’altro.
Fortunatamente non ebbi tempo di rimuginarci sopra perché, come se fosse impazzito del tutto, il mio i-phone cominciò a squillare. Lo afferrai, mosso dalla sciocca speranza che si trattasse di una certa biondina tutto pepe, ma vi lessi papà scritto sopra e imprecai silenziosamente.
Sapevo cosa voleva. Aveva sicuramente visto la partita in televisione e si sarà chiesto per quale motivo il suo figlio dalle uova d’oro si fosse comportato in quella maniera irrispettosa, tutto il contrario di ciò che gli aveva sempre ripetuto, fino alla nausea.
Cosa gli avrei dovuto rispondere? Papà è tutta colpa della gelosia che ora mi sta divorando? E la conseguente domanda sarebbe stata: gelosia per cosa?
No, per chi…
Se avesse saputo di Celeste non avrebbe fatto storie, almeno all’inizio, ma non ci avrebbe messo troppo tempo a fare due calcoli e a capire che una relazione avrebbe messo a rischio la mia carriera e, soprattutto, mi avrebbe distratto.
In fondo a cosa ti serve una ragazza, figliolo? Hai l’affetto dei tuoi genitori, hai il tuo amico Ruben, hai i tuoi numerosissimi fan e puoi divertirti con una ragazza diversa ogni giorno! Magari avessi potuto farlo io, ai miei tempi.
Già, ero l’invidia di tutti. Anche dei miei compagni di squadra, ma loro avevano una fidanzata, o meglio, una moglie e dei figli che li aspettavano a casa, tornati da una partita difficile. Avevano il calore e l’affetto di una famiglia.
Non che io non l’abbia, era ovvio, ma non era la mia.

Era triste perché era amato da tante persone, ma non era l’amore di nessuno.
[Diario di Anna Frank]

Non risposi a mio padre, non avevo voglia di sentire nessuno.
Successivamente, il telefono squillò ancora e il faccione di Ruben, con gli immancabili occhi da talpa, comparve sullo schermo strappandomi un mezzo sorriso. Anche il mio migliore amico era preoccupato, avrebbe voluto sapere come stavo, cos’era successo, ma quello di cui avevo bisogno era un momento per me. Da solo.
Infilai il telefono in tasca, presi il borsone, e mi diressi fuori dagli spogliatoi. Volevo andarmene, ignorare tutti quanti, ma ero venuto lì con il pullman della squadra e non avevo idea di come avrei fatto per tornarmene a casa.
Forse preferivo passeggiare per il Foro Italico, magari raggiungere Ponte Milvio e sibilare dei silenziosi Vaffanculo a tutti quei lucchetti incastrati sui pali, segni di amori eterni che io mai avrei potuto provare.
Mi stai diventando patetico, amico.
Ero completamente fuori di testa e mai mi era capitato di sentirmi così, quasi se un tir mi avesse schiacciato più e più volte.
«La partita non è finita, dove va?» mi disse uno stuard che presenziava l’uscita posteriore.
«Mi sgranchisco un po’ le gambe» mentii, ma avevo una posizione di rilievi lì dentro, perciò il tizio non fece poi tante domande.
L’aria di inizio Aprile era ancora pungente, perciò mi ritrovai a tirare la zip della tuta fino a coprirmi il collo e a calzare per bene lo zuccotto che avevo in testa. Rabbrividii, ma continuai a camminare.
Le luci giallognole dei lampioni illuminavano malamente una strada pressoché deserta, mentre le urla dei tifosi rimbombavano in tutta la zona. Già mi mancava l’odore dell’erba sintetica e quelle macchie di verde che ti rimanevano sui pantaloncini una volta che entravi in scivolata sull’avversario.
Togliermi il calcio, era come un pezzo della mia anima che si separava da me stesso, perché mi sentivo nulla senza il mio nome e il mio cognome.
Leonardo Sogno era sinonimo di campione, di astro nascente, di futuro capitano della Nazionale italiana. Il Ruben-Leonardo, invece, era solo una nullità che non riusciva nemmeno a farsi apprezzare da una ragazza qualunque.
Oltrepassai i cancelli della Curva Sud e fui in strada, davanti all’obelisco del Duce reduce dall’epoca fascista. Inspirai l’aria pungente di quella sera e mi decisi a proseguire verso una meta, qualunque essa fosse.
Il telefono trillò di nuovo, ma sapevo già che si trattava di un altro tentativo da parte di mio padre. Arrivava fino al sesto squillo, dopodiché si dava per vinto.
Ignorai la suoneria e proseguii cercando le strisce pedonali per attraversare la strada, perciò mi diressi al semaforo più vicino.
Quattro squilli...
L’omino verde comparve sul display ed io attraversai la strada con lo sguardo fisso a terra e il cappello calcato ancor più sulla faccia. Per la prima volta non volevo che la gente mi fermasse per strada, che mi riconoscesse o che potesse cominciare a farmi domande inutili. Era strano da dire, soprattutto per uno con l’ego grosso come l’intero Stadio Olimpico.
Sette squilli...
Mi incamminai sul lungotevere, buttando un occhio, di tanto in tanto, al fiume che mi scorreva accanto. Come avrei voluto che tutto mi scivolasse addosso come quell’acqua, che non m’importasse di nulla se non di me stesso.
Era così, fino ad una settimana fa.
L’opprimente verità cominciava a farsi strada nella mia testa, scavando e allargando il buco che il tarlo della gelosia stava utilizzando come tana. Dovevo smetterla di struggermi per una cosa che manco esisteva. Celeste non era la mia ragazza, non ci frequentavamo, avevamo avuto soltanto un incontro di fuoco e nemmeno se lo ricordava.
Ancora ti brucia, tutta questa storia.
Eccome se mi bruciava, anzi, mi ardeva completamente la carne.
Stavo impazzendo e dovevo chiudere questa storia il più presto possibile. Avevo eliminato il suo numero, ora dovevo solamente cancellarla anche dalla mia testa.
Il cellulare smise di vibrare, ma il suono di un insistente clacson mi destò dal mio flusso di pensieri. Constatai subito che si trattasse di un cazzone maleducato, visto che continuava a strombazzare ad un centimetro dal mio orecchio.
«Ma che cazzo di problema hai?» ringhiai, voltandomi.
La Mini-Minor bianca di mia nonna, di quelle originali degli anni ’60, mi comparve davanti agli occhi come un’oasi nel deserto. La vidi accostarsi e abbassare il finestrino, poi spuntare fuori con la nuvola di capelli bianchi e vaporosi sulla sua testa.
«Non è il linguaggio adatto per rivolgersi al tuo nuovo chauffeur, Chicco» mi rimproverò, sorridendo e beccandosi qualche imprecazione dagli automobilisti dietro di lei che rimanevano imbottigliati nel traffico per la sua momentanea sosta. «Forza, monta sul bolide di Annunziata».
Non potei fare a meno di ridacchiare, poi feci il giro della Mini e mi sedetti al posto del passeggero. Mi era sempre andata stretta quella vecchia carretta, infatti dovetti piegare le ginocchia quasi fino al petto per poter ridurre al minimo il mio metro e ottantasette.
Alla fine la nonna partì e si diresse verso casa sua. Pensai che di tutte le persone che mi avevano telefonato, forse Annunziata era l’unica che volessi vedere.
«Ho visto la partita» se ne uscì di punto in bianco.
Mi congelai a quell’affermazione, soprattutto perché avevo tentato di rimuoverla dalla mia mente il più presto possibile. Prima o poi, però, avrei dovuto affrontare i miei compagni e il Mister, tanto valeva prepararsi un discorso con la nonna.
«Lo so, sono stato uno stupido» ammisi, abbassando lo sguardo e puntandolo sulle mie Stan Smith bianche.
La nonna si fermò ad un semaforo e mi guardò fisso con i suoi occhi di un azzurro brillante. «No, mio caro! Sei stato un autentico coglione» rincarò la dose, lasciandomi spiazzato.
Cominciai a ridere, seguito da quella pazza di Annunziata e finalmente realizzai che soltanto lei era in grado di capirmi, di sapere cosa passasse in quella mia cazzo di testa matta.
«Hai ragione nonna» sghignazzai. «Sono proprio un coglione».
La nonna ripartì e continuò a guidare, intuendo subito che c’era molto altro dietro quel mio comportamento sconsiderato durante la partita più importante dell’anno. Era stato sempre così con lei, il nostro legame era qualcosa di speciale, di unico, ed era come se le nostre menti fossero in continuo contatto. Quando era morto il nonno, Annunziata non aveva versato nessuna lacrima, nemmeno un piccolo accenno di tristezza. Ovviamente soltanto io mi ero accorto di come soffrisse dentro.
«Si tratta di quella ragazza, vero?» mi chiese a bruciapelo, entrando nel garage con una derapata che avrebbe fatto invidia a Niki Lauda. La nonna, al volante, era un autentico pericolo pubblico.
«Nonna!» gridai, preso dal panico.
Lei mi sorrise, parcheggiando nel box e uscendo fuori dalla sua Mini-Minor bianca degli anni ’60.
«Stai tranquillo, Chicco» mi rassicurò, con una mano sulla spalla. «Ti ricordi, vero, che io e tuo nonno facevamo rally in tutta Europa?».
Tentai di regolarizzare il battito cardiaco dopo quell’avventura, poi fissai di sbieco la nonna. «Sì, quarant’anni fa».
«Oh, su» mi rimbeccò con una scrollata di spalle. «Non fare il puntiglioso».
Uscì dal box auto e chiamò l’ascensore di una palazzina signorile, trotterellando svelta come se avesse sessant’anni invece di settantacinque. La seguii ed insieme entrammo nella stretta cabina, per poi pigiare il numero 2.
La casa della nonna conservava ancora quello strano odore che ricordavo da ragazzino, quando mamma e papà mi parcheggiavano da lei a causa di impegni lavorativi o altro. Non sapevo ancora spiegarlo, ma era una strana fragranza di vecchio, non di quel tipo che ti fa venire la nausea, ma un profumo d’antico, come se le pareti stesse e i mobili trasudassero una storia propria.
Entrai in salotto e gettai la borsa per terra, stravaccandomi sul divano di pelle che adoravo sin da ragazzino. Quello era il sofà del nonno, su cui ci sedavamo per vedere le partite in TV quando ero piccolo, dove mi raccontava le storie della guerra e dove finivo con l’addormentarmi sulle sue ginocchia.
La nonna mi sedette accanto ed io le lasciai un po’ di spazio, rannicchiandomi in posizione fetale. Mi tolsi lo zuccotto e lo gettai a terra, poi rimanemmo così, in silenzio, nella penombra della stanza.
«Chicco» iniziò lei, carezzando dolcemente la mia coscia al di sopra della tuta A.S. Roma.
Sapevo che il momento sarebbe arrivato prima o poi, che avrei dovuto affrontare la verità con qualcuno e l’idea che fosse mia nonna, stranamente mi rincuorò. «Vuoi parlarmi di quello che ti sta succedendo, tesoro?».
La voce rincuorante di Annunziata cominciò a scaldarmi e non perché fossi finalmente in una casa con il riscaldamento acceso, ma soltanto perché sapevo di potermi fidare. Purtroppo non ero bravo a parole, non mi era mai capitato di dover parlare dei miei sentimenti con qualcuno, perché, in fondo, non ne avevo mai avuti di questi problemi.
«Nonna, non è semplice come sembra» abbozzai, affondando il viso nel cuscino che profumava ancora dell’acqua di colonia usata dal nonno.
«Provare non costa nulla» insistette lei, scavandomi dentro con l’azzurro dei suoi occhi.
Inspirai a fondo e poi lasciai che l’aria mi uscisse pesante dalle narici. Che cosa avrei dovuto dirle? Che Celeste mi aveva completamente rincoglionito? Che una semplice ragazzina, manco tanto bella, aveva ridotto il famoso Leonardo Sogno a una specie di ameba irascibile e dal pugno facile?
No, ne valeva ancora il mio orgoglio maschile, eccheccazzo!
«Ero solo teso per la partita, tutto qui» tagliai corto, sperando mi lasciasse dormire.
Quando la verità cominciava a piombarmi davanti alla faccia, cozzando contro il mio cuore a più di cento chilometri orari, era meglio eluderla.
Sentii la nonna ridacchiare e sapevo che aveva capito il mio fine. Non si poteva nascondere nulla ad Annunziata e c’erano voluti ben ventidue anni per capirlo.
«Dietro la tensione si possono nascondere molte cose» cominciò, tenendosi sul vago. «Può riguardare un problema familiare, uno stress dettato dal lavoro, oppure qualcosa che ti turba in una relazione» insinuò.
«Io non ho nessuna relazione!» risposi prontamente, scattando dal divano come se fosse improvvisamente cosparso di spilloni.
Nonna mi fissò come se fossi del tutto impazzito, poi sorrise furbamente. «Era soltanto un’ipotesi, Chicco. Hai degli scheletri nell’armadio per caso, tesoro?».
Avere un parente che ti conosce così a fondo che alle volte sembra abbia poteri paranormali, era una vera seccatura.
«No» borbottai, tornando a sedermi.
Mia nonna mi guardò con furbizia, mentre un sorriso da so-tutto-io le si dipingeva sulle labbra. Rimasi a fissare il pavimento di marmo per un tempo indefinito, con il cuore che batteva forte per l’emozione.
«Sicuro che non c’è nulla che vuoi dirmi?» mi chiese di nuovo, regalandomi un abbraccio che riusciva a mala pena a circondarmi le spalle.
Il mio silenzio parlò da solo e sentii la nonna sospirare profondamente. «Sai, quando avevo la tua età, feci un provino al Teatro Sistina per lo spettacolo di Rugantino. Ero molto brava, devo ammetterlo, così mi presero subito per fare il ruolo di Rosetta, la protagonista, e fummo in scena in men che non si dica.
«Ai miei tempi il teatro era molto più seguito di adesso, forse perché il cinema non era ancora tanto in voga e non c’erano tutti gli effetti speciali di adesso, comunque subito dopo la prima ottenni altri ingaggi che mi fruttarono un bel po’ di soldi. Non ero ancora sposata all’epoca, ma a tuo nonno non piaceva che io facessi l’attrice perché si pensava ancora che fosse un mestiere da poco di buono. Era un uomo dolce, tuo nonno, mi amava veramente, ma quando fui chiamata oltreoceano per inscenare un musical niente meno che a Broadway mi si presentò davanti una scelta» fece una pausa calcolata per dare più suspense al racconto.
Questa storia non l’avevo mai sentita, era la prima volta che Annunziata me ne parlava. Forse faceva parte di un ricordo che aveva conservato gelosamente per sé stessa e non l’aveva confidato nemmeno a mio padre, nonché suo figlio.
«Broadway, nonna!» esclamai, pensando subito alla quantità di successo che sarebbe piovuta sulla nostra famiglia se fosse diventata davvero una stella. Pensai subito che ci saremmo sicuramente trasferiti negli States, anzi, che io sarei nato a New York, magari in un attico sulla 5th Avenue. «Cosa hai fatto?».
Mia nonna mi accarezzò la nuca, scompigliandomi un po’ i capelli. Dietro quelle iridi azzurre c’era nascosto ben altro, una vita intera di emozioni, di pianti repressi e di gioie che io avevo appena iniziato a provare. Chissà se anche i miei occhi, un giorno, sarebbero diventati così profondi.
«Sono qui, Chicco» soffiò, con un po’ di malinconia. «Mi fu imposta una scelta, perché tuo nonno non mi avrebbe mai seguita. Aveva un lavoro, una casa, stavamo per cominciare una vita insieme ed io dovetti scegliere».
Non sapevo se mi stesse confidando quel segreto soltanto per farmi sentire meglio o per incoraggiarmi a parlarle dei miei problemi. La ascoltai comunque, perché lei era la mia famiglia. «Non sei partita» sospirai, evidentemente.
«Sì che sono partita» mi sorprese, fissandomi divertita.
«C-Come... e nonno?» balbettai incredulo e inorridito.
Mi stava prendendo per il culo? Cioè se n’era andata a New York mollando tutto e inseguendo il successo? Che razza di storia con morale era quella?
Annunziata ridacchiò, portandosi le mani al viso e fingendo imbarazzo. Poi le sue iridi cristalline mi cercarono ancora. «È rimasto qui in Italia e ci siamo anche lasciati se è per questo» rispose con ovvietà.
«Nonna!» sbottai contrariato. Un comportamento del genere me lo sarei aspettato da un adolescente in piena crisi di identità, ma non dalla nonna che ti aveva cresciuto e fatto il bagnetto fino a otto anni.
«Che c’è?» mi chiese lei, con quella solita aria furba. «Ero giovane, volevo il successo e adoravo che la gente mi fermasse per strada chiedendomi gli autografi. Avevo persino una mia fotografia esposta a Largo Argentina, pensa un po’».
Rimasi a dir poco sbigottito e la mia bocca semiaperta, con tanto di rivolo di bava annesso, ne era la prova vivente. «E cosa hai fatto, poi?» mi arresi.
Nonna tornò seria, e intrecciò le mani in grembo. «Non ce l’ho fatta» sospirò.
Il suo sguardo adesso era triste, lievemente velato dalle lacrime, e mi si strinse il cuore a vederla così, lei che era sempre solare.
«Ho vissuto a New York per sei mesi, tesoro» continuò il suo racconto «e per quanto abbia adorato il successo, il palcoscenico, l’ebbrezza di essere finalmente qualcuno, c’era qualcosa che mancava. Qui dentro» e s’indicò il petto.
In quel preciso istante anch’io avvertii un tonfo sordo all’altezza del cuore, come se il mio stesso corpo mi stesse inviando dei messaggi precisi che la mia mente non sapeva ascoltare. La nonna voleva dirmi qualcosa, nonostante non le avessi raccontato nulla.
«Nonno» risposi, sovrappensiero.
Lei sorrise e si asciugò una lacrima galeotta che era sfuggita al suo controllo. «Ogni giorno, ogni momento, in ogni singolo istante che trascorrevo sulla scena, il mio pensiero fisso era lui. Quando non lo vedevo tra gli spettatori, magari seduto nelle prime file che mi guardava con orgoglio, mi sentivo persa.
«E fu allora che realizzai la verità. Non avevo fatto i provini per me stessa e per la voglia di migliorarmi, non avevo passato notti insonni ad imparare battute fino a che non mi si chiudevano gli occhi e non avevo solcato l’oceano soltanto per pura vanità personale. Avevo fatto tutto quello soltanto per lui, perché desideravo mi guardasse con orgoglio, sempre». 
Abbassai la testa non appena nonna tornò a guardarmi, poi strinsi i pugni conficcandomi le unghie nella carne. Tutta quella storia andava benissimo per una commedia romantica, che avrebbe scosso l’animo del burbero protagonista facendogli ammettere di amare la sua bella.
Purtroppo quello non era né un libro, né tantomeno una commedia da quattro soldi.
«Beh, s’è fatta ‘na cert’ora» bofonchiai, stendendomi sul divano. «Buonanotte».
Annunziata non fu affatto sorpresa da quel mio repentino cambio di interesse, ma si limitò a sorridere come faceva sempre. Si alzò dal divano e si chinò quel tanto da afferrare una coperta e posarmela sulle gambe.
Si sporse per accarezzarmi la fronte, poi chiusi gli occhi.
«Ricorda che puoi viaggiare per il mondo, vedere persone, luoghi, sentirti amato da chi nemmeno conosci» poi sussurrò appena. «Ma prima o poi tornerai a casa, è una cosa che fanno tutti, e se a un bambino chiedi cosa sia per lui la parola ‘casa’, ti risponderà Mamma e Papà».
Mi posò un bacio sulla fronte, poi la sentii incamminarsi e fermarsi sulla soglia. «Non lasciarti sfuggire cose che hai la fortuna di avere soltanto alla tua età. Anche se tuo padre ti ha insegnato il contrario, il successo non è tutto».
Chiusi gli occhi con quei pensieri che mi vorticavano ancora nella mente e feci degli strani sogni. Di una cosa ero certo, Leonardo Sogno non era più lo stesso da un bel po’.
Da circa una settimana.



L'orologio della cucina scandiva li secondi che lenti scivolavano via. Che ore potevano essere? Le due di notte, forse le tre ma poco mi importava. Avevo tentato più volte di mettermi nel letto e cercare di dormire, ma Morfeo non aveva la benché minima voglia di accogliermi tra le sue braccia. Avevo provato a guardarmi una replica di Porta a Porta, sperando che mi avrebbe conciliato il sonno. Avevo bevuto litri di camomilla che avrebbero fatto crollare anche un gorilla. Mi era messa nel letto di Robbeo, magari con qualcuno a fianco sarei riuscita ad addormentarmi. Ma tutti i miei sforzi erano stati vani. Con il programma di Bruno Vespa avevo iniziato ad inveire per le affermazioni assurde dei suoi ospiti, la camomilla non faceva nessun effetto sulla sottoscritta che poteva essere “abbattuta” solo con un tranquillante per elefanti e Robbeo russava come una mietitrebbia. Per cui mi ero arresa e  mi ero seduta in salotto con il mio computer a portata di mano. Il mio pseudo-romanzo era davanti ai miei occhi ma stranamente non riusciva a catturare la mia attenzione. Ero troppo sovrappensiero, non mi riusciva nemmeno di articolare una frase che fosse sensata e con contenesse al suo interno il nome Ruben.
Era lui il mio problema, era il senso di colpa che provavo nei suoi confronti che non mi permetteva di dormire. Ero sempre stata una ragazza nevrotica e questo l'avevano capito anche i pinguini, ma con Ruben mi ero comportata davvero da stronza. Sembravo una iena sul punto di sbranarlo. Per cosa, poi? Solo perché si era fermato a dormire con me? Di quello si trattava, ne ero certa. Poteva essere un ignorante, un assassino della lingua italiana, un troglodita che ragionava con l'organo sbagliato perché privo di cervello, ma era sincero. Lo avevo letto nei suoi occhi tristi che non mi stava mentendo, eppure lo avevo cacciato lo stesso in malo modo. E mi si spezzava il cuore a ripensare al modo afflitto in cui era uscito da casa mia, quasi lo avessi ferito. Già, il cuore di ghiaccio di Celeste Fiore si era sciolto di fronte ad un troglodita come Ruben. Sembrava una barzelletta, eppure era così. Ma la mia reazione era stata dettata da quello stupido sogno erotico che sembrava reale in quella specie di stanzino illuminato solo da alcuni raggi lunari.
Sbuffai e mi massaggiai le tempie. Mi sembrava reale perché lo era stato, reale! Era inutile continuare a mentire a me stessa. Inizialmente mi ero autoconvinta che fosse stato solo un sogno perché era inammissibile che io avessi fatto una cosa del genere, soprattutto ad uno come Ruben che se ne infischiava dei sentimenti delle ragazze. Ma, davanti al ricordo di lui  così affranto e di fronte al fatto che sentivo terribilmente la sua mancanza, dovevo per forza ammettere quello che era successo tra di noi. Ammettere solo a me stessa, però, perché nessuno doveva sapere nulla di questa storia. Ne sarebbe andata del mio onore.
Scrollai la testa e cercai di scacciare via quei pensieri, tornando a concentrarmi sul mio romanzo. Rilessi qualche spezzone che, però, parevano scritti da una ragazzina di seconda media. A parte il lessico assolutamente povero, la trama era pietosa. Scontata, banale, troppo romanzata. Una storia alla Moccia, insomma. Al solo pensiero rabbrividii. Per cui selezionai tutti i capitolo scritti che vennero evidenziati in blu e attesi. Guardai quelle parole e ripensai al tempo che ci avevo impiegato per scrivere più di cento pagine. Sentivo che tutte quelle frasi, tutti quei pensieri trascritti su Word non mi rispecchiassero più e questo solo perché mi sentivo diversa da prima. Sempre cinica e isterica, ma sentivo che c'era qualcosa in me che volevo esplodere, anche se non sapevo di cosa si trattasse. Decisi così di premere il tasto Canc ed eliminare tutto il mio lavoro. Appena vidi il foglio bianco mi sentii quasi più leggera e sorrisi allo schermo. Appoggiai le dita sui tasti della tastiera, anche se ero certa che non sarei riuscita a scrivere nulla. Ed invece, quasi fossero state governate da una forza sovrannaturale, cominciarono a picchiettare le lettere e le parole nacquero in un istante. Un'ispirazione improvvisa che non sapevo da dove fosse scaturita.
Scrissi tutta la notte, incurante del tempo che passava. Ero talmente presa dal mio nuovo romanzo che non mi accorsi che il sole era spuntato e che era già mattina. Per giunta inoltrata, dato che Robbeo si svegliò tutto intontito e mi raggiunse.
«Che fai?» mi domandò, stropicciandosi gli occhi e guardandomi come una triglia lessa.
«Buongiorno anche a te» risposi con tono scocciato. Nemmeno uno straccio di saluto. Prima o poi avrei dovuto insegnargli le buone maniere «Scommetto sulle corse dei cavalli»
Romeo biascicò qualcosa di incomprensibile, poi si grattò il fondoschiena con una certa nonchalance. Lo guardai inorridita ed afferrai il primo oggetto che mi capitò sotto mano, ossia il telecomando per lanciarglielo addosso, ma lui si scansò prima che venisse colpito sul naso. Molto probabilmente, nella foga, avevo schiacciato il tasto On perché la televisione si accese, ovviamente sul canale di sport.
«Brutta partita ieri sera per la Magica» diceva il commentatore «E Leonardo Sogno si è anche preso tre giornate di squalifica per un pugno a Borriello. Chissà cosa sarà successo al campione della Roma...»
Quella specie di talpa rachitica che avevo conosciuto alla festa della piattola aveva tirato un pugno a tale Borriello? Mi pareva strano che non si fosse rotto una mano nell'urto. Bastava una folata di vento per spezzarlo come se fosse un fuscello. Mi voltai lentamente verso il televisore per guardare con i miei stessi occhi la talpa che pestava uno che era il doppio di lui, ma Robbeo, con uno scatto che probabilmente gli aveva stirato qualche muscolo flaccido, si parò davanti al televisore coprendolo con il suo corpo.
«E spostati! Voglio vedere il rinsecchito che mena Borri-coso» esclamai, muovendomi a destra e a sinistra per guardare qualche spiraglio di tv, anche se Romeo, con la sua stazza non proprio da modello di AberCrombie, copriva l'intero schermo.
«Non ti conviene. È una scena cruenta, orribile, inguardabile» parlo velocemente e i suoi occhi verdi erano sgranati.
«Più orribile di quando ti vedo girare in mutande per casa?» domandai sarcastica.
«Molto peggio. Fidati» annuì con convinzione e spense la tv, sedendosi al tavolo accanto a me.
«Allora è davvero raccapricciante» ribattei e feci finta di rabbrividire per l'orrore della visione di Robbeo quasi completamente nudo. Lui assottigliò lo sguardo e mi fissò fintamente offeso. Tanto le frecciatine tra noi due erano all'ordine del giorno.
«Comunque, davvero stai scommettendo sui cavalli?» mi domandò ancora, puntando l'aggeggio.
«No, babbeo» sbuffai «Ti pare che io faccia una cosa stupida come quella? Faccio quello che sono solita fare, no?» aggiunsi con una scrollata di spalle.
«Rompere i coglioni?» ridacchiò l'idiota, ma smise subito, non appena la mia mano schioccò sonoramente sul suo collo. Romeo si massaggiò la parte colpita e mi guardò di traverso.
«Non è proprio giornata oggi» lo avvisai, puntandogli un dito contro «Non ho voglia di scherzare».
Robbeo scrollò le spalle e scivolò lungo lo schienale della sedia, pulendosi gli angoli degli occhi ed esaminando poco dopo le schifezze che vi aveva trovato dentro.
«Quindi è tutto come al solito» disse tranquillamente.
Ridussi gli occhi a due fessure e arricciai le labbra. Qualcuno, quella mattina, aveva voglia di morire e quel qualcuno si chiamava Romeo Ciuccio. Ma siccome non avevo voglia di spargere sangue per casa perché poi avrei dovuto ripulire tutto e di fare Cenerentola non se ne parlava, mi trattenni dallo spaccargli la faccia. Salvai il file del mio nuovo romanzo e chiusi con violenza il computer portatile.
«Che c'è per colazione?» mi domandò, sbadigliando.
«Un bel niente!» risposi acida.
«Ma io ho fame!» piagnucolò massaggiandosi lo stomaco.
«Preparatela da solo la colazione. Io non sono la tua serva!» sbottai e mi alzai dal tavolo.
«Come sei elettrica stamattina» sbuffò grattandosi entrambi gli occhi «E sono solo le dieci di mattina».
Le parole di Robbeo arrivarono alle mie orecchie un po' in ritardo e ci volle un po' perché capissi che aveva detto realmente dieci di mattina. Magari ero io sono un po' intontita visto che non avevo chiuso occhi. Per cui lo guardai con gli occhi sgranati e gli chiedi conferma.
«Che hai detto?»
«Che sei elettrica» rispose, senza aver capito nulla come al solito.
«No! Dopo!»
«Stamattina»
«Oddio! Ma sei proprio idiota!» sbottai «Dopo ancora»
«Che son le dieci. E non ho aggiunto altro, prima che mi aggredisci di nuovo e mi sbrani» …faceva anche lo spiritoso.
Ma non c'era tempo per star lì ad intavolare una litigata con Robbeo – che poi ero io che litigavo con un muro, visto che lui non mi cagava mentre sbraitavo. Presto sarebbe arrivata in stazione la mia migliore amica che non vedevo da qualche mese. Mi aveva mandato una mail qualche giorno prima per avvisarmi del suo arrivo ma, con tutto quello che era successo, con l'episodio nello stanzino e la litigata con Ruben, mi ero dimenticata di lei.
Mi fiondai in camera mia e mi vestii con i primi vestiti che trovai nell'armadio. Sembravo una barbona, ma poco importava. Il treno sarebbe arrivato in meno di dieci minuti e solo il teletrasporto di Goku sarebbe riuscito a farmi arrivare in orario.
«Muoviti Robbeo! Vestiti» gli ordinai.
«E perché?» domandò assonnato.
«Devi accompagnarmi in stazione con il tuo bolide»
«Che non ci puoi andare da sola?» ribatté sbuffando.
«Mi hanno bocciato quattro volte all'esame di pratica per la patente. A meno che tu non voglia che dimezzi la popolazione romana, ti conviene alzare le chiappe e portarmi in stazione»
Robbeo si alzò svogliatamente dalla sedia e si stiracchiò. Annuì e si diresse lentamente in camera sua per vestirsi. Ne uscì poco dopo vestito con una camicia spiegazzata di un terribile color ocra e un paio di calzoni multitasca di un grigio spento.
«Cos'è, tua mamma viene a rompere?» ridacchiò divertito.
«No! Viene a trovarci Ven!» esclamai prendendo la borsa e le chiavi di casa.
Aprii la porta e mi precipitai sul pianerottolo, seguito da Romeo che aveva la faccia contrita in una smorfia di disappunto.
«Ven, Ven, quella Ven?» mi domandò, mentre tentavo di chiudere la porta «Ven la saccente, Ven la maestrina, Ven la pignola...»
«Quella  Ven...» sospirai, entrando nell'ascensore.
«Ven l'antipatica, Ven la rompicoglioni, Ven la cozza?»
«Quella Ven!» tuonai esasperata «E non credere di essere tutta sta bellezza tu» sputai, uscendo dal condominio e posizionandomi davanti al macinino di Robbeo.
«Spero che tu le abbia prenotato una bella pensioncina con qualche psicopatico che uccide i suoi ospiti» sghignazzò.
«Starà da noi. Che tu lo voglia oppure no» incrociai le braccia al petto e la macchina, arrancando, partì.
Ven e Romeo non erano mai andati d'accordo, nemmeno durante il liceo. Nonostante i mie sforzi di farli convivere in pace, non erano mai riusciti a trovare un punto d'accordo. Ven diceva che Romeo era troppo stupido per i suoi gusti, un babbeo, appunto. Era stata lei a coniare quel fantastico soprannome durante uno dei loro battibecchi. Mentre Robbeo non l'aveva mai digerita non perché fosse magari un po' troppo puntigliosa o che altro. No, per un motivo idiota quasi quanto lui e tutto il resto del genera maschile. Perché era una cozza, a detta sua. E per questo non le si era mai avvicinato più di tanto. Ma cosa ci si poteva aspettare da un essere dotato di Walter?
«Però dorme in camera tua. Non la voglio vedere mentre si spoglia» puntualizzò poi.
«Tranquillo. Non voglio rischiare che le venga un infarto per averti visto in mutande» risposi per le rime e sorrisi vittoriosa quando lui si ammutolì.
Osservai Roma scorrerci accanto – ad una velocità minima – e mi ricordai del viaggio sulla Vespa-trabiccolo di Ruben. Era stato uno dei nostri primi contatti fisici e uno dei pomeriggi migliori della mia vita. Ero uscita di casa, avevo ignorato lo studio per un po' e mi ero divertita per la prima volta nella mia vita.
Dovevo ammetterlo, mi mancava Ruben. Prendere per i fondelli Robbeo non era così appagante come quando lo facevo con Ruben. Ripensandoci, i nostri battibecchi erano davvero esilaranti. Per non parlare poi di quando gli pungolavo il petto e lui sbuffava infastidito dal mio indice. Oddio, mi mancava tutto di lui ma soprattutto di noi, di tutti i nostri discorsi sconclusionati e di tutti quegli sguardi che ci eravamo scambiati.
Chiusi gli occhi e mi passai indice e pollice sulle palpebre per tornare poi a guardare davanti a me. Dovevo smetterla di pensare a lui, tanto non lo avrei mai più rivisto. Molto probabilmente Ruben era con qualcun altra in quel momento, nel letto di una ragazza di cui non sapeva il nome.
Il lupo perde il pelo ma non il vizio.
Romeo parcheggiò il pandino mezzo scassato vicino alla stazione e finalmente scendemmo da quella orribile macchina che si reggeva ancora per miracolo. Più volte avevo cercato di convincerlo a comprare un'altra auto, ma lui non voleva ferire suo nonno che gliela aveva regalato l'anno prima. Era una specie di cimelio della famiglia Ciuccio, e Robbeo non riusciva proprio a separarsene. Un giorno ci sarebbe rimasto secco, ne ero sicura.
Entrammo a Termini e seguii le indicazioni che portavano ai binario, facendomi spazio tra la folla. Afferrai Romeo per un braccio quando lo vidi guardarsi intorno sapesato. Non aveva nessun senso dell'orientamento e si sarebbe sicuramente perso lì dentro, morendoci qualche giorno dopo. Lo trascinai lungo tutta la stazione, strattonandolo quando si fermava a sbavare di fronte alla gnocca di turno. Mi infastidiva quel suo atteggiamento e non perché fossi gelosa di lui, ci mancherebbe, ma solo perché dimostrava di essere solo un superficiale, come qualsiasi altro uomo sulla faccia della terra. Era per quello, forse, che avevo un odio viscerale per la maggior parte dei “dotati di Walter”. Fatta eccezione per Robbeo, che, ormai, era diventato una specie di fratello acquisito, J, che sembrava possedere un po' di materia grigia e Leonardo, il rachitico cieco che mi aveva fatto tanta tenerezza.
E Ruben.
Sì, ma lui era un caso a parte. Strinsi di più il polso di Romeo e accelerai il passo, rischiando di far cadere rovinosamente il mio miglior amico con la faccia per terra. Ma almeno così arrivammo più in fretta ai binari. Quello di Ven era il numero 13, per cui lo raggiunsi a passo svelto. Il treno era già arrivato e la gente si era ammassata al fianco dei vagoni per salutarsi e sbaciucchiarsi. Mi alzai sulle punte in cerca di Ven, poi mi inoltrai tra i le persone. E finalmente la vidi verso la metà del treno, con  la borsa stretta al petto e il trolley al suo fianco. I suoi occhi blu vagavano per la stazione e, quando incontrarono i miei, si illuminarono e un sorriso crebbe sulle sue labbra.
«Cel!» esclamò, correndomi incontro, trasportando il trolley.
«Ven!» dissi a mia volta e l'abbracciai.
Quanto mi era mancata la mia migliore amica! E non solo perché parlare con una ragazza che non fosse una specie di Miss Italia decerebrata mi era utile, ma soprattutto perché lei era una delle poche persone a cui mi fossi legata veramente. Ven era un pezzo del mio cuore.
«Non vedevo l'ora di rivederti!» disse, senza sciogliere l'abbraccio.
«Mi sei mancata così tanto!» le confidai a mia volta.
«Avrai un sacco di cose da raccontarmi» esclamò con entusiasmo guardandomi negli occhi.
Sì, proprio tante. Ma anche se era la mia migliore amica non volevo toccare il discorso Ruben. Era off limits. Dovevo dimenticarlo e il primo passo per farlo era ignorare che quel troglodita esistesse, far finta di non averlo mai incontrato.
«Capirai» bofonchiai «Casa, università, casa, università. E gelateria»
«Un po' come me» ridacchiò «Tranne che io non lavoro in gelateria. Per fortuna, aggiungerei visto che i mangerei tutti i gelati in un solo pomeriggio. E non voglio diventare una balena»
«Tanto lo sei già» disse Robbeo che si era tenuto in disparte fino a quel momento.
Mi voltai di scatto e lo trucidai con uno sguardo. Aveva la stessa finezza di uno scaricatore di porto all'OktoberFest che si è scolato dieci birre consecutive. Che poi Ven non era affatto brutta, anzi aveva un viso dolce e paffuto, due grandi occhi blu e due splendide fossette sulle guance. Ma solo perché non era uguale a Megan Fox ed era in grado di fare un ragionamento logico, era catalogata come cessa. Come la sottoscritta, sostanzialmente.
«Oh» disse solamente Ven per nulla offesa «Ti sei portata dietro l'ameba»
«Ameba?» ripeté stizzito Robbeo.
«Credi che sia troppo offensivo per la povera ameba essere paragonato a te?» domandò sarcastica incrociando le braccia.
«Come sei simpatica» ironizzò scocciato il mio migliore amico.
«Anche tu. Quasi quanto un esame di diritto commerciale» ribatté Ven,  buttandola sul “giuridico”.
«Ah, ah, ah! Che ridere!» sbottò Romeo, offeso «Cel sei sicura di non voler mandare Venere in un ostello gestito da pazzi psicopatici?»
«Mi chiamo Vénera, per la cronaca» lo corresse la mia amica.
«Venere, Venéra, Venerdì è uguale» bofonchiò contrariato.
«Robbeo non è difficile da capire. Si chiama Vénera» lo ripresi, sapendo quanto la mia amica non sopportasse quando la gente sbagliava il suo nome. Se poi lo si faceva di proposito come faceva Romeo era anche peggio.
«Non l'ho imparato in cinque anni di liceo, figurati se mi impegno adesso a capire come si chiama»
Non attese nemmeno una nostra replica e non si premurò nemmeno di prendersi carico del bagaglio di Ven, si avviò spaesato verso l'uscita della stazione. Presi a braccetto la mia amica e le feci strada  nell'immensità di Termini.
«Perché perdi ancora tempo con Ciuccio?» mi domandò sospirando «È uno dei pochi esseri umani che prosciuga la mia pazienza»
«Ormai è come una specie di fratello. Gli voglio bene, nonostante tutto» ammisi scrollando le spalle.
«Sarà…» sospirò lei sistemandosi la borsa in spalla «Non vedo cosa tu ci abbia trovato in uno come lui»
«Mi ha fatto pena. Era tutto solo in classe e mi sono avvicinata a lui. Poi da cosa nasce cosa, me lo sono ritrovata in casa» scoppiammo a ridere entrambe ed uscimmo finalmente dalla stazione.
Non ero mai stata un tipo da farsi grasse risate. Nemmeno i comici di Zelig trovavo divertenti. Solo con Ven riuscivo a ridere di gusto e sinceramente. Ci eravamo conosciute in prima superiore e dal primo giorno eravamo diventate amiche. Condividevamo le stesse passioni per la lettura, odiavamo le stesse cose, come il calcio ad esempio ed era l'unica che sapesse consigliarmi con la sua saggezza. Arrivammo di fronte alla macchina di Robbeo e Ven assunse un'aria schifata.
«Che bolide» commentò sarcastica «L'hai rubata ad Alonso?»
«Sei proprio tanto spiritosa» ribatté Robbeo indispettito «Questa macchina è un cimelio di famiglia, tramandato di generazione in generazione» alzò un indice al cielo adottando un tono solenne «Non così tante generazioni» aggiunse perplesso.
«Si vede» borbottò Ven salendo sul sedile posteriore «La usavano i tirannosauri questa macchina»
«Non capisci il valore affettivo di questa super macchina» replicò serio Romeo «È inutile anche che cerchi di fartelo capire, Venerdì»
«Un po' come il fatto che io mi chiamo Vénera e non come un giorno della settimana. Ho perso qualsiasi speranza»
Sembrava quasi che fossimo tornati al liceo, con quei due che battibeccavano in continuazione anche per cose futili. Abbandonai i loro discorsi e mi isolai completamente. Le loro voci divennero mano a mano più ovattate e fui inghiottita nella spirale dei miei pensieri. Sarebbe stato difficile dimenticare Ruben anche perché lui era stato l'unico ragazzo, dopo anni, che mi aveva fatta sentire completamente un'altra persona. E per di più, era uno dei pochi che non mi trovava irritante, anzi era riuscito a sopportarmi e a starmi accanto nonostante il mio carattere non proprio semplice da gestire. Mi ero divertita con lui e avevo scoperto, seppur solo per qualche giorno, cosa si provasse a vivere davvero la vita. Ero uscita in moto con lui, avevo partecipato ad un party esclusivo e lui era entrato a far parte della mia vita, in un qualche modo. Con la sua ignoranza, con i suoi modi di fare da figo, con il suo sorriso di sbieco acchiappa pollastre aveva distrutto quasi tutte le mie convinzioni, una su tutte il fatto che non mi sarei mai e poi mai avvicinata ad un palestrato senza un minimo di encefalo. E invece ero lì nella macchina medievale di Robbeo che pensavo a lui per l'ennesima volta. Ma tanto era inutile, tanto non sarebbe mai più tornato, non dopo come lo avevo trattato.
Picchiettarono sul finestrino e mi ridestai dai miei pensieri. Sbattei più volte le palpebre e misi a fuoco la figura che c'era fuori dalla Panda e che richiamava la mia attenzione. Per un attimo sperai si trattasse di Ruben, ma gli occhi che vidi non erano verdi ma blu.
«Siamo arrivati Cel!» mi avvisò Ven, sorridendo.
Annuii con poca convinzione e scesi dalla macchina, sotto lo sguardo indagatore della mia migliore amica. E quando mi fissava così sapevo bene che stesse cercando di capire che cosa non andasse in me. Mi conosceva molto bene, forse anche più di mia madre e riusciva ad interpretare qualsiasi mia espressione facciale. Però non volevo parlarle di Ruben perché tanto lui era uscito dalla mia vita, per cui la superai ed aprii il portoncino, aspettando che Ven e Robbeo salissero. Rimasi in silenzio finché non entrammo in casa e, non appena mi chiusi la porta alle spalle, mi precipitai in cucina, lontana da occhi indiscreti.
«Starai morendo di fame» esclamai per farmi sentire da Ven.
«Sì, abbastanza!» rispose al suo posto Robbeo.
«Parlavo con Ven» gli spiegai «Ma preparerò qualcosa per tutti».
Cominciai a trafficare con pentole e tegami, afferrando dal frigo una grande quantità di ingredienti che non sapevo nemmeno come adoperare. Come cuoca non ero un granché. Le mie conoscenze gastronomiche si fermavano all'uovo al tegamino e agli spaghetti aglio e olio. Ma, ogni tanto, quando non avevo nulla da fare, mi mettevo dietro i fornelli con la speranza di produrre qualcosa di mangiabile.
Avevo un po' di pasta sfoglia già pronta, del formaggio e del prosciutto tagliato a dadini, per cui optai per una torta salata. Quando ero sul punto di preparare l'impasto per il ripieno, Ven bussò alla porta aperta per attirare la mia attenzione e, non appena i suoi occhi incontrarono i miei, entrò in cucina. Si appoggiò davanti al lavabo e mi squadrò, esaminando a fondo il mio sguardo.
«Sei molto strana, lo sai Cel?» domandò retorica.
«Dici?» feci la finta tonta «A me non sembra»
«Boh» scrollò le spalle «È proprio una sensazione. Sembra quasi che tu sia un'altra» mi guardò furbetta «E secondo me centra un ragazzo».
Aggrottai le sopracciglia e trattenni a stento un sorriso nervoso. Scossi la testa con vigore e rimestai nella ciotola gli ingredienti con un certa tensione.
«Mpf» farfugliai «Ma che dici?»
«Oh, oh» mormorò Ven portandosi una mano davanti alla bocca e sorridendo con gli occhi. Sgranai i miei e mi voltai di scatto per non mostrarmi paonazza alla mia migliore amica. Possibile che mi avesse letto nel pensiero? Ogni tanto avevo creduto che fosse dotata di tale potere, ma se avesse azzeccato anche che Ruben mi torturava con la sua immagine e con tutti i ricordi legati a lui, avrei avuto la conferma ai miei sospetti.
«Un certo Jean-Philippe, non è così?»
Fu un attimo e l'aria che fino a quel momento scarseggiava aveva ripreso ad inondarmi i polmoni. Fortunatamente Ven non aveva nessun potere paranormale. Mi voltai di nuovo verso di lei e le sorrisi, stendendo la pasta sfoglia nella teglia rotonda. Le avevo parlato tanto di J e lo avevo fatto, a volte, con troppa enfasi. Ma lui era uno dei pochi ragazzi che avevo conosciuto in grado di ragionare, che riusciva a fare discorsi di senso compiuto senza metterci in mezzo le parole sesso e Iolanda. E poi era oggettivamente bello, il che non guastava, soprattutto se in quel corpo da modello c'era anche un'attività encefalica invidiabile. L'unico problema era che per J non sentivo più un bel niente. Era simpatico e mi piaceva ancora parlare con lui ma non suscitava in me le stesse sensazioni che sentivo prima di conoscere Ruben.
«Te l'ho detto Ven. I ragazzi, per il momento, non mi interessano»
«Celeste» sospirò la mia amica «Sai bene che non mi puoi nascondere nulla. Quando mi parlavi di J eri così emozionata! Non c'è nulla di male nel fatto che ti piace un ragazzo»
«Lo so» sbuffai.
«Da quanto tempo è che non hai un ragazzo?»
«Non lo so, non ho tenuto il conto» borbottai infastidita. Era vero, non sapevo da quanti mesi - o addirittura anni - non avevo un fidanzato, non avevo nemmeno perso tempo a tenere il conto anche perché i miei unici interessi erano l'università e il mio romanzo. Ma, da qualche giorno a quella parte, non ne ero poi così tanto sicura. Sentivo uno strano bisogno, uno strano vuoto dentro di me che avrei voluto colmare in qualche modo.
«E tu, da quanto non hai un ragazzo?» le rigirai la domanda, sorridendo sorniona.
«All'incirca… su per giù…» cominciò vaga fingendo di contare i mesi sulle punte delle dita «Un sacco di tempo» ridacchiò.
«Siamo messe bene» commentai infornando la torta salata.
«Non dobbiamo abbatterci. Sono sicura che entro la fine di quest'anno troveremo un ragazzo» disse con sicurezza stringendomi una spalla «Tu il fantomatico J, io non saprei»
«Magari Robbeo» la provocai sghignazzando.
«Nemmeno se fosse l'ultimo uomo sulla faccia della terra» borbottò «Allora, vuoi dirmi che è successo con J? Avete litigato, discusso, hai scoperto che ha la ragazza?»
«Con J va tutto a gonfie vele» risposi spicciola.
«E quindi? A cosa devo questo musino triste?» mi domandò prendendomi il mento tra l'indice e il pollice.
«Perché non vai a farti una doccia? Tra poco è pronto» ignorai volutamente la sua domanda ed uscii dalla cucina lasciandola davanti al lavabo ancora perplessa.
«Ok, vado a farmi una doccia. Ma tanto scoprirò che cosa mi nascondi e lo sai» mi passò accanto e mi puntò un dito contro, come se quella fosse stata una specie di avvisaglia.
La guardai con sufficienza ed andai nella mia stanza a sistemare il letto, cambiando le lenzuola e mettendone di pulite dato che Ven avrebbe dormito insieme a me. Un po' come era successo con Ruben. Tirai le lenzuola con foga come se quel gesto avrebbe scacciato il pensiero del troglodita. Non cambiò nulla, ovviamente. Lui era sempre lì che bussava nei miei ricordi e reclamava attenzioni. Ma non potevo continuare a pensarlo e a star male per lui. Dovevo ritrovare la mia acidità, ributtarmi a capofitto nello studio e nel lavoro.
Sistemai il letto e, mentre appoggiavo i cuscini al loro posto, il mio cellulare cominciò a squillare. Ebbi un tuffo al cuore, pensando che fosse Ruben a chiamarmi. Lo afferrai al volo dalla colonnetta rischiando di farlo anche cadere rovinosamente e, senza guardare il numero su display, risposi.
«Pronto?»
«Hei, ciao Celeste!» e riconobbi immediatamente la voce bonaria di Bombolo.
Sospirai rumorosamente. Avevo davvero sperato che fosse lui ed invece mi ero solo illusa.
«Ciao Ugo» risposi senza entusiasmo.
«Senti, volevo chiederti se hai impegni oggi pomeriggio»
«Mmmm, direi di sì. È venuta una mia amica da Tivoli e volevo passare un po' di tempo con lei» afferrai le lenzuola sporche e le accantonai momentaneamente sulla sedia davanti alla scrivania.
«Oh, perfetto! Allora ti aspetto alle tre in gelateria»
«Sei sordo o cosa? Ho detto che non posso!» sbottai infastidita.
«Ok!» sospirò «Alle tre inizia il tuo turno».
E detto questo, chiuse la comunicazione. Quell'uomo era scemo. La troppa glicemia gli aveva mangiato tutti i neuroni e il cervello. Riappoggiai il telefonino sulla colonnetta e mi passai una mano tra i capelli. Non avevo voglia di fare il turno in gelateria anche perché avrei voluto passare il pomeriggio con Ven.
«Cel, che succede?» domandò la mia amica entrando nella mia stanza con i capelli ancora gocciolanti.
«Bombolo mi ha dato il turno a pomeriggio» sbuffai contrariata «E non possiamo nemmeno stare insieme»
«Chi lo ha detto?» sghignazzò lei «Vengo con te, non c'è nessun problema. L'importante è che mi offri un gelato»
«Un solo gusto, però» puntualizzai.
Il pranzo passò velocemente e non fu nemmeno così tanto male. Certo non era un piatto da gourmet, ma era mangiabile. Robbeo e Ven si erano totalmente ignorati per tutta la durata della mangiata. Per fortuna, aggiungerei, visto che io dovevo mangiare necessariamente in tranquillità.
Sparecchiai e feci i piatti – io, Cenerentola, visto che Romeo non alzava nemmeno un dito per tenere in ordine quella casa – e mi preparai per andare a lavorare. Una felpa sgualcita, un paio di pantaloni larghi e le scarpe da tennis. Non avevo nemmeno voglia di apparire carina davanti ai clienti.
«Robbeo, ci accompagni in gelateria?» gli domandai, distogliendolo dai cartoni animati di Italia 1.
«Che cosa sono? Il vostro autista?»
«Mi sembra il minimo che tu possa fare» ribattei acida «E non solo per farti perdonare da Ven, ma anche perché questa casa la manda avanti la sottoscritta. L'unica cosa che fai tu è stare tutto il giorno spaparanzato sul divano!».
Robbeo sbuffò e sembrava non avere la minima intenzione di alzarsi dal suo nido comodo. Gli afferrai un braccio e lo strattonai con violenza, facendolo cadere con il sedere per terra.
«Alza le chiappe e portaci in gelateria!»
«Perché non lo chiedi al tuo ragazzo?» domandò stizzito «Ruben» aggiunse con un certo disprezzo.
«Che cosa c'entra adesso Ruben?» ribattei un'ingiustificata rabbia.
Ma quando sentivo il suo nome, non potevo non fare a meno di indispettirmi. E non perché lo odiassi, ma perché ero certa di non essere in grado di dimenticarlo. All'improvviso sentii Ven schioccare la lingua e mi voltai per guardarla. Il suo sguardo blu era ancora più furbo di quanto non lo fosse in cucina mentre cercava di scucirmi informazioni su J. Sicuramente aveva capito qualcosa sia per il tono usato sia perché mi ero surriscaldata e sentivo le guance andarmi a fuoco. Per cui dedussi di essere anche arrossita. Deglutii ma cercai di rimanere tranquilla. Poi tirai su Robbeo per un braccio e lo trascinai fuori di casa. Fortunatamente era rimasto vestito, già pronto per portarmi in gelateria. Ven ci seguì a ruota e le affidai il compito di chiudere la porta di casa.
Per tutto il viaggio verso la Dolce Idea tentai di non incontrare lo sguardo della mia migliore amica e rivolsi la mia attenzione solo a Romeo, che avrei voluto strozzare perché non era riuscito a tenere la bocca cucita. Ma tanto sapevo che a Ven non si poteva nascondere nulla. Era sempre stata troppo scaltra, più di Miss Marple e il Detective Conan e non le si poteva nascondere nulla. Non potevo sfuggire al suo interrogatorio.
Robbeo fermò il bolide davanti alla Dolce Idea, con il motore ancora acceso.
«Voi andate pure. Io cerco parcheggio e mi infilo in qualche bar»
«Non vuoi rimanere con noi?» gli domandai, più che altro per non rimanere sola con Conan Edogawa versione femminile e con qualche anno in più.
«Con Venerdì?» e la indicò quasi disgustato «Preferirei vedermi Beautiful insieme ad una puzzola e ad un esercito di cimici»
«Così coprirebbero il tuo tanfo» rispose per le rime Ven, sorridendo soddisfatta.
Robbeo non rispose, la guardò solo come se volesse ucciderla. Scendemmo dall'auto ed entrammo nella gelateria, trovando Bombolo già davanti al bancone con il giubbotto in mano e una certa fretta per andare chissà dove.
«Oh, finalmente sei arrivata!» esclamò appena mi vide «Solite raccomandazioni» aggiunse velocemente.
Quali raccomandazioni? Non me le aveva mai esposte. Ma tanto era inutili farsi domande su Bombolo perché erano tutte senza risposta. Uscì di corsa dal locale salutandomi con un gesto della mano ed io andai sul retro per indossare il grembiule della gelateria e farmi una coda di cavallo. Quando tornai dietro al bancone, Ven era appoggiata con gli avambracci su uno dei tavoli e mi guardava sorniona. Cercai di non guardarla troppo a lungo e rifornii il bancone con coni e coppette.
«Beh, non hai nulla da dirmi?» mi domandò.
«Che gusto vuoi?» svicolai l'argomento Ruben. Forse la sua golosità avrebbe sovrastato la sua curiosità da detective.
«Non mi riferivo al gelato. Per quello c'è tempo» rispose sorridendo «Ma di questo fantomatico Ruben. Chi è?»
«Non, non saprei» fingere, dovevo solo fingere di non conoscerlo.
«Senti Celeste, non stai parlando con Robbeo, né con una stupida qualunque. Sputa il rospo!»
Sospirai rumorosamente e appoggiai i palmi delle mani sul bancone. Rimuginai, forse un po' troppo, ma alla fine lei era la mia migliore amica.
«È un cafone che ho conosciuto per caso» tagliai corto.
«E poi?» si informò, curiosa di sapere tutta la storia mia e di Ruben.
«E poi niente» grugnii e mi sedetti sulla sedia che Bombolo aveva posizionato di fianco all'aggeggio delle granite.
«Ma siete usciti?»
«Ogni tanto. Ma non erano appuntamenti ufficiali. Insomma, abbiamo fatto un giro in Vespa del 1556 e siamo stati ad una festa. Nulla di che» scrollai le spalle con noncuranza.
Ma ripensando a quel party e a tutto quello che era successo tra di noi, dalle cose poco caste, al nostro litigio mi incupii. Era strano che mi succedesse di ripensare così tanto ad una persona, ma era solo il senso di colpa. Già... sembrava impossibile anche a me, ma mi sentivo in colpa nei suoi confronti. In fondo lui non aveva fatto nulla, mi aveva solo riaccompagnata a casa e si era addormentato nel mio letto. Ed io lo avevo sbranato solo perché non volevo ammettere a me stessa che quello che era successo non era solo un semplice sogno.
Le mani morbide e diafane di Ven si posarono sulle mie ginocchia ed io mi ritrovai ad alzare lo sguardo per incontrare il suo. Non mi ero accorta che lei fosse venuto dietro la bancone e sicuramente lo aveva capito dai miei occhi spaesati.
«Durante uno di questi appuntamenti non ufficiali, però, deve essere successo qualcosa, vero?» domandò con tono materno.
Feci spallucce ed annuii.
«Abbiamo litigato. Lui mi aveva semplicemente riaccompagnata a casa dopo il party perché avevo bevuto un po' troppo e si addormentato accanto a me. Ed io lo cacciato di casa in malo modo»
«E ti senti in colpa, immagino»
Presi un respiro profondo ed annuii mestamente.
«Insomma, lui non aveva fatto nulla e l'ho aggredito senza un motivo»
«Quello che fai un po' con tutti» ridacchiò Ven e la guardai torva «Ti conosco da così tanto tempo che so che per te è difficile chiedere scusa perché difendi le tue posizioni con le unghie e con i denti. E perché sei una gran testarda» fece una pausa e sghignazzammo entrambe «Ma arriva un momento in cui bisogna ammettere i propri sbagli e dire quella parolina magica. Soprattutto quando si tiene ad una persona».
Venera aveva ragione, anche se per me era sempre stato difficile chiedere scusa. In tutta la mia vita avevo usato quella parola solo quando ero piccola e combinavo, raramente, qualche marachella. Ma con l'adolescenza, quando l'acido aveva cominciato a scorrere nelle mie vene al posto del sangue, l'avevo cancellata dal mio vocabolario. E forse era arrivato il momento di rispolverare quella parola e ammettere i miei sbagli e non solo. Ammettere anche quello che c'era stato tra noi due, anche perché lui era rimasto molto male dal fatto che non mi ricordassi nulla.
Celeste tu non devi chiedere scusa a nessuno. Credi che lui adesso stia pensando a te, che non sia con qualche sgualdrina?
«Non so...» bofonchiai, dopo aver dato retta al mio subconscio.
«Non voglio obbligarti, per carità. Volevo solo farti capire che non vale la pena perdere qualcuno solo perché non si riesce a chiedere scusa» spiegò accarezzandomi la mano «Ma, ovviamente, non devi farlo se non ne sei convinta. Deve uscirti da qui» e mi appoggiò il palmo della mano sul cuore.
E proprio da lì sentivo che quello “Scusa” voleva uscire. Peccato solo che non avevo la benché minima idea di dove trovarlo. Potevo provare al negozio di fiori di sua nonna in cui lavorava, ma non mi ricordavo nemmeno dove stesse. Avrei potuto chiamarlo, ma le cose era meglio dirle in faccia. Forse il destino voleva che noi non stessimo assieme, per cui scrollai le spalle arresa.
«Anche se volessi non saprei dove trovarlo» dissi in un soffio.
«Oh» si stupì Ven «Non sai dove abita, che locali frequenta...?»
«Nulla di nulla!» sbottai «Per cui al diavolo Ruben. Che se ne stia dove sta».
Mi alzai di scatto dalla sedia e andai a servire il primo cliente del pomeriggio, un bambino che sembrava Augustus Gloop e che aveva già troppa ciccia senza mangiare un cono gelato di tre gusti ipercalorici. Lo salutai con un sorriso falso e tornai a sedermi.
«Io so dove puoi trovarlo» lo voce di Robbeo ci sorprese e ce lo trovammo appoggiato all stipite con le braccia conserte in stile 007 «Ruben, intendo»
«Dove?» mi precedette Ven.
«Beh, lo potrete trovare a...» lasciò la frase in sospeso, per creare suspense.
«Parla, idiota» lo apostrofai.
«Stasera cenerà al Caminetto» rispose offeso per l'epiteto che gli avevo affibbiato.
Non mi soffermai sul fatto che cenasse in un ristorante di classe, pur essendo un fiorai. Mi alzai solamente e mi avvicinai a Robbeo, guardandolo dubbiosa.
«Tu come lo sai?» gli domandai, assottigliando lo sguardo.
«Me lo ha detto Leonardo» rispose intimidito.
«Che stiamo aspettando, allora, andiamo!» esclamò trionfale Ven, prendendomi per un braccio.
Mi trascinò fuori dalla gelateria e mi scarrozzò per qualche viuzza, fino a quando non riuscii a liberarmi della sua presa.
«Ven!» la richiamai mentre lei camminava a passo spedito senza nemmeno sapere dove stesse andando «Non credo che ceni alle quattro del pomeriggio».
La mia migliore amica si voltò e guardò il suo Swatch azzurro. Sorrise imbarazzata e si grattò la nuca, tornando sui suoi passi.
«Aspetteremo, allora. E stasera andremo da questo Ruben e chiarirete la situazione», sembrava quasi un'imposizione. «E tu ci farai da autista», si rivolse a Romeo che era rimasto pietrificato accanto allo stipite.
«Te pareva» bofonchiò il mio miglior amico.
«Intanto mangiamo il gelato. Per festeggiare!» trillò Ven che sembrava più felice di Robbeo quando la Roma vinceva una partita.
Preparai tre coppette – da un gusto solo, ovviamente – e le porsi ai miei due amici. Sbocconcellai un po' di gelato allo yogurt, anche se avevo un peso sullo stomaco che mi opprimeva. E quel peso era Ruben e la paura che lui non volesse perdonarmi.



Girai le chiavi nella toppa e rientrai a casa il mattino dopo, trovandomi davanti agli occhi un cupo e insonnolito Ruben, con tanto di tazza di the tra le mani.
Era senza occhiali, perciò impiegò un po’ di tempo – ed una notevole quantità di espressioni imbarazzanti – per decifrare chi fossi.
«S-Sei s-sei tu L-L-Le-Leonardo?» mi chiese poi, sperando di non aver fatto una gaffe.
Cercai di soffocare una risata alla vista del suo pigiama a tutina, con la patta sul didietro e i bottoncini a forma di elefante cuciti sul davanti. Mi avvicinai, gettando il borsone della squadra sul divano, e gli poggiai entrambe le mani sulle spalle. «Tranquillo tigre, la gallina dalle uova d’oro è tornata al pollaio» sghignazzai.
Ruben si concesse a mala pena un sorriso stiracchiato, quando si allontanò preventivo dalla mia stretta e inforcò gli occhiali che aveva abbandonato sul tavolo della cucina.
«D-Do-Dove s-se-sei s-stato? I-Ie-Ieri s-se-sera nes-nessuno sape-sapeva d-d-dove f-fo-fos-fossi!» mi accusò, stavolta vestendo più i panni del mio migliore amico, piuttosto che del mio manager. «H-Ho p-pro-provato a c-chia-chiamarti mi-milioni di vo-volte! P-Per-Perché n-no-non mi hai ri-rispo-risposto?!».
Non avevo scusanti in quell’occasione, l’avevo combinata davvero grossa. La stizza per il dopopartita, per l’espulsione e per quello che era successo la mattina stessa con Celeste mi avevano privato di ogni raziocinio e me l’ero presa con il mondo intero, invece che con me stesso.
Ruben si sedette sullo sgabello e posò la tazza della Magica sul bancone di marmo. Si passò una mano tra i capelli e sospirò. «S-Sono il t-t-tuo manager, Leo, ma p-pri-prima d-di t-tu-tutto s-sono il t-tuo m-mi-migliore amico».
«Hai ragione» risposi solamente, visto che non avevo scusanti. «Mi sono comportato come uno stronzo e non avrei dovuto reagire così anche con te».
Il mio migliore amico sembrò capire il mio stato d’animo, infatti fece un mezzo sorriso che mi fece capire il suo momentaneo perdono. «D-Do-Dove hai p-pas-passato la n-no-notte?».
Cominciai a spogliarmi, desiderando soltanto una lunga doccia rilassante, perciò mi incamminai verso il bagno, seguito da Ruben che non demordeva.
«Sono stato da Annunziata» tagliai corto, sperando non approfondisse.
Ruben prese un altro sorso da quel disgustoso the alle erbe maleodorante e si appoggiò allo stipite della porta del bagno. «H-Hai d-dor-dormito da t-tua n-no-nonna» constatò.
«Sì, genio, dove pensavi avrei passato la notte?» insinuai sarcastico, togliendomi la maglietta e i pantaloni della tuta, mentre l’acqua calda cominciava a scorrere nel box doccia.
Ruben fece spallucce e si sistemò meglio gli occhiali sul naso. «N-Non s-saprei» ipotizzò. «P-Pe-Per ese-esempio d-do-dove l’hai p-pa-passata l’ulti-utlima v-vo-volta...».
Ingoiai la bile in un nanosecondo, sgranando gli occhi e riabbassandoli subito dopo alla velocità della luce. Il mio migliore amico non disse nulla, rimase immobile ed immutabile, come una statua, mentre mi lasciava cuocere nel mio stesso brodo.
«Non devi preoccuparti» gli dissi infine, togliendomi i boxer ed entrando nella doccia. «Credo proprio che Celeste non voglia più rivedermi dopo quello che è successo»
Chiusi il box doccia e lasciai che l’acqua scivolasse sul mio corpo, udendo i passi di Ruben allontanarsi dal bagno. Prima me ne sarei reso conto e prima avrei smesso di comportarmi come un imbecille.
Celeste mi aveva cacciato da casa sua per ben due volte, entrambe senza apparente motivo. Era una pazza isterica, ecco cos’era quella bionda. Alla festa di Annalisa mi era parsa più che coinvolta, avevo addirittura notato una punta di gelosia nel suo comportamento, ma evidentemente mi ero sbagliato. Quello che era successo era soltanto il frutto di una schizofrenica.
«St-sta-stasera h-hai la c-ce-cena c-con l-la sq-squadra, r-ri-ricordi?» mi urlò Ruben, per sovrastare il picchiettare dell’acqua sul piatto della doccia.
Rabbrividii a quel pensiero. «Ci devo andare per forza?» borbottai.
Ruben entrò per lavarsi i denti e mentre si spazzolava mi lanciava occhiate stranite. Era preoccupato, ma non l’avevo mai visto così teso.
«D-Dopo q-que-quello c-che hai f-fa-fatto, è un m-mi-miracolo che t-ti a-ab-abbiano d-da-dato solo t-t-tre g-gio-giornate» constatò, facendomi sentire ancora più stupido.
La mia carriera era l’unica cosa che mi era rimasta e in una frazione di secondo avevo rischiato di mandare tutto a farsi benedire. Ero stato un completo imbecille e ciò non si sarebbe dovuto più ripetere.
«Hai parlato con qualcuno?» gli chiesi, insaponandomi i capelli.
Ruben sulle prime non rispose, poi si pulì la bocca e si passò una mano tra i capelli con nervosismo. «M-Ma-Marco è f-fu-furioso, i-il s-su-suo ag-agente ha mi-mina-minacciato di f-fa-fargli las-lasciare la sq-squa-squadra se co-continui a g-giocare a-anche t-tu».
Perfetto, stava ricattando la Società.
«’Sti cazzi» me ne uscii, spalancando la porta della doccia, ancora nudo e gocciolante. «Che se ne vada a fare in culo da qualche altra squadra pulisci-cessi» sbottai.
Il mio manager sgranò gli occhi e mi fissò con la bocca semiaperta. «C-Cre-Credo, invece, c-che tu gli de-deb-debba de-delle s-scu-scuse» se ne uscì, quasi sussurrando quella proposta. «È p-per i-il b-be-bene della sq-squadra».
Cominciai a ridere, stupito di quella richiesta pressoché idiota. «Io? Dovrei chiedere scusa? E per cosa?» sghignazzai, afferrando l’asciugamano e legandolo in vita. «Quel bastardo ha fatto delle stupide insinuazioni e per me può continuare a ficcarsele su per il culo!» ringhiai offeso.
Sentii Ruben sospirare, poi mi diressi nella mia stanza spalancando un cassetto e afferrando con violenza un paio di boxer. Mi sentivo frustrato, arrabbiato, nervoso ed erano tutte sensazioni che riservavo solamente per l’esito storto di una partita, non per un semplice problema di vita familiare.
«L-Leo» continuò, calmo. «N-Nulla d-di qu-quello che p-può aver d-de-detto ti g-giustificherà, l-l-lo s-sa-sai b-bene...».
Un moto di rabbia si impossessò di me e mi voltai di scatto, scagliando un pugno contro il muro. «HA DATO DELLA PUTTANA ALLA MIA...».
Sgranai gli occhi e rimasi con la bocca aperta, ricacciando indietro il pensiero che voleva liberarsi spontaneamente dalla mia mente. Indietreggiai confuso, sedendomi sul letto e passandomi l’asciugamano sui capelli gocciolanti.
Ne approfittai per mettermi la testa tra le mani, puntellando i gomiti sulle ginocchia, e rimasi a fissare il pavimento con gli occhi sgranati. Che diavolo mi stava succedendo?
Ruben mi si avvicinò con un po’ di timore, poi s’inginocchiò e mi costrinse a guardarlo negli occhi.
«H-Ha of-offeso Ce-Cele-Celeste?» mi chiese, con un semi-sorrisetto furbo.
Mi alzai di scatto, conscio che ormai pure le pietre avevano capito che la biondina non mi era affatto indifferente, e cominciai a camminare per la stanza stizzito.
«No» mentii. «Ha fatto delle insinuazioni su mia madre, ed io non c’ho visto più».
Sapevo di non poter continuare a sparare cazzate a lungo, che prima o poi mi avrebbero scoperto oppure sarei scoppiato, ma l’importante era far passare un po’ di tempo, qualche giorno o qualche mese necessario a farmi dimenticare di quella ragazza.
Ruben annuì e fece per uscire dalla stanza. «S-Se c-ci st-stai c-co-così m-male» sospirò, indossando le vesti del mio migliore amico. «D-Do-Dovresti tele-telefonarle».
Mi voltai di scatto ma Ruben era già sparito nei corridoi della casa e mi ritrovai a fissare un muro bianco.
Telefonarle... come se avessi ancora il suo numero...
La sera scese veloce, più di quanto mi sarei aspettato. Avevo finito col passare la giornata spaparanzato sul letto, ingurgitando una quantità industriale di patatine e vedendomi vecchie partite registrate. Ruben era passato due o tre volte a dirmi di darmi una regolata, di smettere di stare davanti alla televisione, ma perfino la luce che filtrava dalle tapparelle cominciava a darmi fastidio e non riuscivo davvero ad alzarmi.
L’essere rifiutati faceva male, anzi, malissimo e avrei volentieri barattato una doppia frattura alla tibia piuttosto che ricaderci ancora. Mi sentivo la testa pesante, uno strano senso di oppressione al petto, e avrei voluto strafogarmi di Puff al formaggio fino a che non avrei passato il resto della giornata a rivomitarle nel bagno.
Il succo della questione era che amare faceva schifo, davvero schifo.
«T-Tra p-po-poco d-do-dobbiamo a-a-an-andare» soffiò Ruben, facendo capolino all’interno della mia stanza e storcendo il naso quando mi vide sdraiato sul letto, stile uomo vitruviano, sommerso dalla testa ai piedi di patatine al formaggio.
«Non mi ronfere!» bofonchiai, con la bocca che straripava di cibo. «Voglio foltanfo mofife».
Il mio migliore amico stranamente sorrise, poi entrò nella mia stanza, chiuse il televisore e cominciò a tirare su la serranda, inondando la mia camera da letto della luce tenue del crepuscolo.
«Dai, Ruben!» gridai coprendomi gli occhi dalla mancata penombra in cui mi ero crogiolato per tutto il pomeriggio.
«È o-ora c-che t-tu ri-ri-ricominci a-a-ad ess-essere Leo-Leonardo S-S-Sogno» mi suggerì, tendendomi una mano. «G-Gua-Guarda i-il l-la-lato p-po-positivo, no-non d-do-dovrai p-più m-me-mentire».
Già, forse Ruben stavolta aveva fatto centro e avvertii chiaramente il mio Ego cominciare a farsi spazio, spingendo da parte l’inedia e la depressione. Una nota positiva in tutta quella faccenda c’era: Leonardo Sogno avrebbe brillato di nuovo in tutta la sua lucentezza.
Niente più menzogne, niente più scuse da inventare con il Mister e soprattutto nessuna presa in giro da parte dei compagni di squadra, perché Leonardo era tornato su piazza più libero che mai.
Sputai il resto delle patatine che avevo ancora in bocca e mi alzai con uno scatto, posando un piede sulla testiera del letto e puntellando i pugni sui fianchi – stile eroe americano. Ruben mi fissò sbalordito, e anche un po’ preoccupato, ma non disse nulla. Fu allora che puntai un dito verso il soffitto, indossando niente meno che un semplice paio di boxer bianchi, e gridai a gran voce.
«Signore di tutte le età!» e imitai la voce dell’arrotino. «Venite, avvicinatevi, perché Leonardo Sogno è tornato sulla piazza e soddisferà qualsiasi donna glielo chieda!».
«N-No-Non p-pe-pensi d-di es-essere un t-tantino e-esa-esagerato?» mi chiese Ruben, sperando la smettessi di comportarmi da idiota.
Mi voltai e gli sorrisi di sbieco, con un guizzo di malizia negli occhi che avevo ritrovato soltanto da poco.
«Tira fuori il completo di Armani, Wagon!» trillai eccitato.
«È W-Wa-Watson» miagolò lui, intimorito dalla mia ritrovata ambizione.
Lo fissai con sufficienza e alzai un sopracciglio. «È uguale» bofonchiai, rimettendomi nella stessa posizione vincente, con l’indice verso il cielo. «Stasera, dopo la cena con la squadra, la prima ragazza che mi chieda di uscire la porterò a cena fuori! Si ricomincia, bello!».
«S-Se l-lo-lo d-di-dici tu...» e si adoperò per frugare tra le mie cose e tirare fuori un bellissimo completo blu scuro.
Mi fiondai in bagno a lavarmi sommariamente, pulendomi dalle briciole di patatine che avevo fin dentro le mutande, poi passai un’ora davanti allo specchio facendo gli esercizi facciali e sperimentando quale dei miei 200 sorrisi avrebbe conquistato di più.
La parola d’ordine di quella serata, sarebbe stata “Non pensare a Celeste”. Mi sarei fatto scivolare la storia addosso, senza più pensarci, perché in fondo sapevo che non mi avrebbe chiamato, era troppo orgogliosa per farlo.
Stavolta la colpa non era mia, era stata lei ad accusarmi senza motivo e a non ricordare nulla di quello che era successo, perciò la mia coscienza – per l’unica volta in tutta la mia vita – era al sicuro.
Un po’ di dopobarba era l’ideale, così come del gel per domare i miei ricci appena accennati.
«Perfetto» mi dissi, rivolgendo lo sguardo all’immagine riflessa nello specchio. «Stasera farai faville, amico mio».
Mi fiondai di corsa nella mia stanza e cominciai a vestirmi, fissando di tanto in tanto il mio I-phone che riposava sul comodino. Passai un dito distrattamente sullo schermo e quello s’illuminò, ma non c’era ombra né di messaggi, né di qualche chiamata persa.
Immediatamente mi diedi dell’idiota e lanciai il telefono sul letto, sommergendolo di patatine al formaggio, mentre cominciai ad allacciarmi i bottoni della camicia celeste allo specchio della mia stanza.
Alzai il colletto e vi passai attorno una cravatta blu, con piccoli motivi azzurri disegnati sopra, e la annodai come mi aveva insegnato mio padre. Passai poi ai polsini, ed infine indossai i pantaloni del completo, rifinendoli con una cinta blu scuro.
La giacca fu l’ultimo tocco di classe e infine mi diedi un’ultima occhiata allo specchio, sistemando un ricciolo ribelle che era sfuggito al gel.
Eccoti qua, Leonardo Sogno, il miglior calciatore in circolazione, astro nascente della A.S. Roma e prossimo in lizza per il pallone d’oro. Come ti senti?
Una vera merda, quello avrei dovuto rispondere.
«Benissimo» ridacchiai, poi sfoderai il mio ormai brevettato sorriso sghembo e mi fiondai fuori dalla stanza afferrando le chiavi dell’Audi TT.
Ruben mi aspettava seduto sullo schienale del divano, mentre ricontrollava alcuni documenti. Appena lo vidi, per poco non ebbi un colpo al cuore, ma non volli interferire. Il completo da lui scelto era di un color prugna acida, completamente di velluto, e il papillon non era certo il miglior accessorio che un uomo potesse scegliere di indossare nel ventesimo secolo. Si era tolto gli occhiali – finalmente – ma non avrei mai immaginato che dietro quelle lenti così spesse da sembrare fondi di bottiglia, ci fossero degli occhi così piccoli che era difficile distinguere le sue iridi da semplici efelidi.
Inoltre, come se la pagliacciata non bastasse, si era pettinato i capelli all’indietro con un quantitativo di gel esorbitante, tant’è che sembrava che una vacca gli avesse leccato la testa.
«C-C-Come s-st-sto?» mi chiese, alzandosi in piedi e mettendo il petto in fuori.
Avrei voluto rispondergli che sembrava mia nonna Annunziata quando si vestiva per partecipare all’annuale Gay-pride, ma sarei stato irrimediabilmente scortese e tanto, visto che ormai avevo la licenza per mentire, potevo inventarmi qualsiasi cosa.
«Fantastico» gli dissi, alzando entrambi i pollici per confermarglielo.
Ruben sorrise imbarazzato, poi afferrò le chiavi di casa e uscì dal portone, aspettando che lo seguissi. In fondo era il mio migliore amico, e sapevo che esistevano bugie a fin di bene, quindi questa volta non mi si sarebbero ritorte contro.
«Andiamo?» mi chiese ed io mi chiusi la porta alle spalle.
«E facciamola ‘sta cosa» bofonchiai, immaginando subito la faccia delusa dei miei compagni e del Mister.
Scendemmo in garage e montammo sull’Audi, poi feci girare le chiavi nel cruscotto e accesi il motore. Il ristorante si trovava a Via dei colli Portuensi, si chiamava il Caminetto, perciò imboccai la circonvallazione Gianicolense e svoltai subito a destra.
Il traffico serale romano era snervante, ma dalla mia non avevo alcuna fretta di sentirmi sputare addosso quanto avessi sbagliato a farmi espellere. C’era costato la partita e anche le tre successive giornate di squalifica.
Mi sentivo un emerito imbecille ad aver sacrificato tutto per una ragazza e in cuor mio continuavo a ripetermi che non sarebbe mai più accaduto.
«Comincia a cercare parcheggio» mi suggerì Ruben, vedendo alcuni spiazzi.
Decisi di fare due o tre giri prima di decidere in quale posto sarebbe stato più appropriato parcheggiare il mio gioiellino, ma quando vidi la Corvette di Borriello rabbrividii. Era arrivato il giorno del giudizio, era inutile temporeggiare.
Parcheggiai il più lontano possibile, così da allungare la distanza tra me e la gogna, quando Ruben cominciò ad accelerare il passo. Cosa aveva da sbrigarsi? Se fossi entrato nel ristorante ero sicuro che gli sguardi degli altri mi avrebbero linciato, ma almeno eravamo in un luogo pubblico e magari non mi avrebbero riempito di insulti.
«F-Fo-Forza, s-sia-siamo i-in ri-rita-ritardo» borbottò Ruben, mentre camminava a passo veloce sembrando una grossa melanzana scappata fuori da un orto.
Soffocai una risatina maligna e accelerai anch’io, visto che non c’era altro modo di evitare quella tortura. Entrammo nel ristorante e fummo subito accolti dal maître che ci condusse in una saletta privata, dove era seduto il resto della squadra.
Non appena Ruben spuntò davanti agli altri, notai diverse risatine soffocate, ma il mio amico era troppo buono e ingenuo per notarle. In seguito, gli sghignazzi furono sostituiti da mormorii di dissenso, soprattutto quando i miei compagni di squadra si voltarono verso Marco, seduto in un angolo, con un occhio nero e il naso tumefatto.
Mi sentii profondamente in colpa per la cazzata che avevo fatto, ma in mia difesa potevo dire che Borriello si era comportato da vero stronzo. D’accordo, Celeste non era la mia ragazza o altro, ma si era approfittato di un mio momento di rabbia e debolezza per metterci il carico da undici e farmi incazzare di brutto.
Il Mister si alzò da capotavola e mi raggiunse, dandomi una pacca sulla spalla. «Sono contento che sei venuto» mi confessò, con un sorriso paterno.
«Non potevo mancare» risposi, sfoderando il solito sorriso da menefreghista.
Notai un posto a sedere e lo raggiunsi, scostando la seggiola e accomodandomi di fronte a Daniele. Gli altri compagni di squadra mi fissavano ancora in modo strano, ma ben presto la storia della mia espulsione passò in secondo piano, visto che la serata fu riempita da risa e scherzi da parte degli altri.
Nessuno parlò della partita, né del cazzotto che avevo ammollato a Marco, e neppure del motivo scatenante tutto questo. Ordinammo gli antipasti, le pizze, le birre e quant’altro, ma il Mister fece di tutto per lasciarci godere in pace la serata.
Lo vedevo a capotavola mentre scherzava con Ruben, il cui completo color melanzana spiccava tra gli altri vestiti di scuro.
«Ieri la mia ragazza mi ha obbligato ad andare a Parco Leonardo» sbuffò Daniele, dando un colpetto a Simone.
«Lascia perdere, quando mia moglie si mette in testa di comprare un mobile nuovo, mi tocca girare mezza Roma per accontentarla...» gli rispose, sghignazzando.
«Per non parlare di mia figlia, poi» insistette il biondo. «Più cresce e più vuole il padre, mi tartassa ogni momento».
In quell’istante la mia mano si chiuse a pugno sul tovagliolo che tenevo accanto al braccio e tentai di isolarmi da quei discorsi. Purtroppo le parole di mia nonna mi colpirono violente come uno Tsunami.
Una casa cui tornare, una famiglia.
Basta! Dovevo finirla di essere invidioso dei miei compagni di squadra! Ero Leonardo Sogno, dannazione, ero più forte e più in gamba di tutti loro messi insieme, prima o poi avrei giocato in un club inglese ed ero quasi certo che quest’anno avrei vinto il pallone d’oro. Non avevo nulla da invidiare a quei pezzenti, la mia vita era perfetta.
«Mi ha regalato questo» disse Daniele, tirando fuori un piccolo portachiavi stortignaccolo, evidentemente fatto a mano, con su scritto ‘Sei il mio eroe, papà’.
Sgranai gli occhi e quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Dovevo respirare, prendere una boccata d’ossigeno, schiarire le idee prima che il mio cervello cominciasse a farmi brutti scherzi.
«Scusatemi» dissi, poi mi alzai e raggiunsi l’uscita in fretta, fiondandomi di fuori e respirando finalmente l’aria pungente di una sera d’Aprile.
Sicuramente avevo fatto la figura dell’idiota, oppure del pazzo, magari anche del drogato, ma non me ne fregava un cazzo. Ero stufo di tutti quei racconti strappalacrime sulla famiglia e quelle finte lamentele, quando si vedeva lontano un miglio che erano felici come bambini.
Mi appoggiai ad una ringhiera e strinsi i pugni, maledicendomi più volte per essere andato alla cena. Avevo soltanto pensato a proteggermi da un eventuale attacco degli altri per l’espulsione, ma non avevo minimamente pensato a discorsi semplici come quello che continuavano a farmi pensare a cosa avessi rinunciato per tutta la vita.
«Fa freddo, stasera» disse una voce, raggiungendomi.
Era Marco Borriello, lo vidi con la coda dell’occhio e non potei fare a meno di notare l’occhio nero e il naso violaceo. Il pugno gliel’avevo dato proprio forte e non ero tanto sicuro di poter rimanere solo in sua compagnia.
Se mi ammolla un pugno, me lo merito.
«Sì, ma almeno mi potrà schiarire le idee» commentai, poi si avvicinò e si sedette sulla ringhiera, fissandomi.
Era giunto il momento della verità, l’istante in cui Leonardo Sogno avrebbe dovuto mettere da parte l’orgoglio e chiedere scusa. In fondo Marco era lì solo per quello, ne ero sicuro.
«Senti, per quel pugno...» cominciai, in evidente imbarazzo. Le scuse non erano il mio forte, anche perché ero un tipo che preferiva litigare a morte con le persone piuttosto che sgonfiare il suo orgoglio e ammettere di aver sbagliato.
«Ti interrompo subito» mi disse lui, bloccandomi proprio quando la parola ‘scusa’ stava per uscire dalle mie labbra. Lo fissai sorpreso e piuttosto incuriosito, visto che Marco era un tipo come me. «È stata colpa mia, non avrei dovuto dirti quelle cose».
Per poco non mi caddero le orecchie dopo quella confessione. Non era possibile che Marco Borriello potesse abbassare la cresta in questo modo e chiedere scusa al sottoscritto, dopo che gli avevo ridotto la faccia ad una zampogna.
«La mia ragazza, dopo che sono tornato in questo stato, mi ha fatto ragionare e mi ha detto cosa avrei fatto se la situazione si fosse invertita. Beh, ti avrei riempito di pugni, amico!» sorrise, poi mi diede una pacca sulla spalla. «Ho mandato tutto a puttane e abbiamo perso la partita, non ho pensato al bene della squadra».
Visto che eravamo in vena di confessioni, tanto valeva ammettere anche la mia parte di colpa. «Scusami anche tu per quel pugno, ti ho rovinato quel bel visetto» sghignazzai.
Lui si sfiorò il naso gonfio, poi fece un mezzo sorriso. «Alla mia donna piace, ha detto che fa più macho».
Strinsi la mano a pugno e mi conficcai le unghie nella carne. Perché avrei dovuto desiderare l’unica cosa che non avrei mai potuto avere?
Perché sei un bambino viziato.
«C-Com’è?» chiesi, all’apice dell’imbarazzo.
Borriello sgranò gli occhi e mi fissò confuso. «Com’è, cosa?».
Deglutii la bile e mi preparai alla peggior figura di merda della mia intera esistenza. Tanto ero già in ballo, tanto valeva ballare. «Avere una ragazza, è bello?».
Marco tentò di soffocare una risata, ma quando vide il mio sguardo puntare per terra, tornò incredibilmente serio. «Non mi stai prendendo in giro? Tu... tu non hai mai avuto una ragazza?».
Scossi la testa colmo di vergogna, poi mi pentii subito di quella pagliacciata. «Lascia perdere» bofonchiai, stufo che mi prendesse per il culo, ma Borriello mi afferrò per le spalle.
«Aspetta, nemmeno quando eri al liceo?» s’informò meglio.
Lo fissai di sbieco, non sapevo se fidarmi o no, ma dannazione, gli avevo quasi spaccato il naso, quella confessione gliela dovevo. «Ho amato soltanto il calcio in tutta la mia vita, non ho avuto tempo per le ragazze».
«Quindi non hai…» e lì lasciò la frase in sospeso, scuotendo pollice e indice tesi, facendo il segno del ‘niente’.
«Certo! Ma per chi mi prendi!» ringhiai, offeso che avesse pensato quella cosa.
«Scusa» ridacchiò. «Infatti, mi sembrava un po’ strano. Quindi non sei mai stato con una in modo definitivo, ma soltanto per poco tempo».
«Una notte» specificai.
Marco mi fissò stralunato, poi sospirò e mi posò una mano sulla spalla con fare paterno.
«Non dico di avere una grandissima esperienza alle mie spalle,» iniziò «Ma un paio di cosette le ho imparate con l’esperienza. Esistono diversi tipi di donne: quelle bellissime, quelle che ti fanno ridere e quelle che non sopporti».
Lo ascoltavo attento, visto che non avevo poi nulla da perdere. Stranamente mi sentivo a mio agio a confessarmi, per la prima volta. Come se mi fossi tolto un peso dal cuore.
«Dovrei scegliere le bellissime o quelle che mi fanno ridere?» gli chiesi, curioso.
Borriello scosse il dito indice davanti ai miei occhi, poi sfoderò un sorriso furbo. «No, mio caro. Se riesci a trovare una donna che incarna alla perfezione tutte e tre le caratteristiche, allora non lasciartela sfuggire. È lei quella perfetta, la sola ed unica con cui potrai mai stare».
Sgranai gli occhi confuso e profondamente perplesso. «Ma... se non la sopporto, come può essere perfetta?».
Marco fece per andarsene, ma si fermò con una mano sulla porta d’ingresso del ristorante.
«Se non litighi con la tua ragazza, che gusto c’è a far pace poi, eh?» sghignazzò, in seguito sparì all’interno del Caminetto ed io rimasi come un baccalà a fissare la porta a vetri.
Inevitabilmente il mio pensiero andò a Celeste e a tutti quegli infiniti battibecchi che facevamo ogni volta che stavamo insieme.
Sicuramente le litigate con lei sono all’ordine del giorno.
Ormai avevo messo una pietra sopra al nostro ‘rapporto’, ma questo non voleva dire che non potevo avere una ragazza. Magari non sarebbe stata bellissima, o non mi avrebbe fatto ridere, oppure l’avrei sopportata tranquillamente – quella era Celeste –, ma ciò non mi avrebbe fermato.
Con quella sicurezza feci per entrare nel ristorante, almeno per rassicurare Ruben sul fatto che gli alieni non mi avessero ancora rapito, quando udii una voce dalla strada.
«Leonarduccio?». Voce femminile e abbastanza stridula. «Leo, sei tu?».
Il brivido dietro alla schiena mi suggerì che la voce in questione doveva appartenere per forza ad una rossa di mia conoscenza.
Annalisa Cavalli.
Mi voltai, ormai con le mani nel sacco, e la salutai con un cenno della mano, raggiungendo la sua Mercedes SLK rosa shocking.
«Ciao» le dissi calmo, senza tentare in tutti i modi di darmela a gambe.
Il suo sorriso si allargò da orecchio ad orecchio, poi mi sfiorò una mano. «Ho saputo della cena da papà» ridacchiò eccitata. «Potevi invitarmi!».
Fui preso in contropiede, ma non demorsi. «Era solo per i giocatori» mi giustificai.
Lei mi guardò dubbiosa, senza mai smettere di sorridermi languida. Certo, bella era bella, non potevo negarlo.
«E allora la talpa che ci fa in mezzo a voi?» chiese, riferendosi a Ruben.
Storsi il naso a quell’affermazione, anche se perfino io lo chiamavo in quel modo. Ruben però rimaneva sempre il mio migliore amico, e soltanto il sottoscritto poteva offenderlo.
«È la mascotte della squadra» tagliai corto, sperando che quel supplizio finisse.
Sicuramente Annalisa era di quanto più insopportabile potesse esserci in un corpo femminile, quindi rispecchiava due su tre caratteristiche.
«Ti va di venire in un posto con me?» mi domandò, sfoderando un sorriso malizioso e allungandosi per aprire la portiera, favorendo la visuale delle sue tette rifatte al sottoscritto.
Il Leonardo di prima avrebbe immediatamente accettato l’offerta, non avrebbe nemmeno pensato alle conseguenze, ma quello di adesso voleva sperimentare cosa si provasse in una relazione seria.
«Non so se sia il caso» tentai di declinare, ma lei non demorse.
«Soltanto per parlare, ci prendiamo un drink e ti riaccompagno a casa» disse sicura.
Cosa poteva andare storto? Annalisa non era certo la ragazza migliore del mondo, ma era carina e abbastanza insopportabile, avrei anche potuto provare con lei.
Rimasi con la mano sulla portiera della Mercedes per qualche minuto, indeciso sul da farsi. Se fossi salito su quell’auto, avrei detto addio per sempre ad ogni possibilità di rivedere Celeste, di poter costruire qualcosa con lei.
Come puoi instaurare un rapporto basato sulla menzogna?
Il mio Ego aveva ragione, con Celeste ormai era finita e lei non mi avrebbe mai più cercato dopo quello che avevo fatto, anzi avevamo fatto.
«Allora?» chiese Annalisa, impaziente.
«Okay» borbottai, facendo per accomodarmi sul sedile del passeggero.
«RUBEN!» urlò una voce alle mie spalle.
Mi voltai di scatto e vidi Celeste, in piedi dietro la macchina di Annalisa, illuminata dai fari del pandino sgangherato di Robbeo. I suoi occhi azzurri erano sgranati, aveva il fiatone ed indossava una felpa orribile, che le stava tredici volte, e un paio di pantaloni da ginnastica consunti.
Era bellissima.
«C-Che ci fai qui?» chiesi, uscendo dalla macchina e raggiungendola.
Quando fui abbastanza vicino, vidi che il suo sguardo si posò su Annalisa, poi indietreggiò confusa. Dannazione, era arrivata proprio nel momento in cui avevo deciso di accettare il passaggio della rossa.
«Che ci fai con lei?» ringhiò, allontanandosi sempre di più.
Ero sicuro che se non avessi fatto qualcosa, l’avrei persa per sempre. Quella era la mia ultima occasione per sistemare le cose.
Mi faceva ridere.
«Voleva andare a bere qualcosa» le sussurrai, raccontandole per la prima volta la verità.
A quel punto Annalisa spense il motore ed uscì dalla macchina, più nera che mai. Già aveva squadrato Celeste in malo modo, poi quando lei ci aveva interrotti, si era imbufalita.
«Si può sapere cosa vuoi da lui?!» chiese, stizzita. «Lo vuoi capire che uno così non ti si filerà mai? È troppo speciale per stare con una nullità che si veste da stracciona!».
Non la sopportavo.
«Senti tu, roscia del cazzo!» sputò Celeste, incazzata come mai l’avevo vista in vita mia.
Doveva odiare Annalisa dal più profondo del cuore e glielo si leggeva negli occhi. Il fatto che fosse gelosa mi riempì il cuore d’orgoglio e forse era questo uno dei vantaggi di cui parlava Marco.
«È una questione tra me e Ruben, quindi levati di torno!».
La rossa sussultò nuovamente al nome che Celeste aveva usato, ma ormai l’avevano capito anche i sassi che le avevo mentito. Fortunatamente non disse nulla, si limitò a sorridere.
«Forza, Ruben, andiamocene» mi suggerì, montando nuovamente sulla Mercedes. «Lascia la pezzente a bollire nel suo stesso brodo».
Dietro le spalle di Celeste vidi un viso nuovo, quello di una ragazza e il solito Romeo che mi fissava sconfitto. Era innamorato della sua migliore amica, e come potevo dargli torto?
Celeste mi fissava ancora in cagnesco e a quel punto avevo una decisione da prendere, qualcosa da fare. Se fossi salito in macchina con Annalisa, avrei detto addio per sempre a Celeste, ma così facendo Romeo mi avrebbe perdonato – o almeno lo speravo –, invece, se fossi rimasto, avrei rischiato di perdere comunque tutto.
Sapevo che me ne sarei pentito per il resto della vita, ma come avevo cancellato il suo numero dalla memoria del telefono, mossi un passo in direzione della Mercedes e feci per montarci sopra.
«Ora, Cel! Diglielo!» sentii una voce sussurrarle quelle parole.
Sentii qualcuno che mi afferrava per la manica della giacca e mi tirava via dalla macchina rosa, e quando mi voltai, fui lieto che si trattasse di lei.
Aveva il viso abbassato, completamente rosa dall’imbarazzo, mentre si fissava le scarpe da ginnastica. Teneva la mano stretta attorno al mio completo d’Armani, stritolandolo, poi mi fissò.
Azzurro e verde, il colore del cielo e delle vallate.
«Scusami» disse poi, sorprendendomi. «Non avrei dovuto sbatterti fuori di casa e infuriarmi in quel modo, soprattutto dopo quello...» e lì s’interruppe.
«Cosa?» chiesi ingenuamente.
Celeste arrossì ancora di più e si torturò un labbro con i denti, indecisa su cosa dire.
Infine sospirò e mi guardò storto. «Sei proprio tonto» mi apostrofò. «Quella cosa... ricordo tutto, ora» confessò imbarazzata.
Non seppi dire cosa mi accadde, ma sentii chiaramente il cuore salirmi fino alla gola e per poco non uscì fuori dal petto ballando la samba. Si era ricordata, aveva riconosciuto ciò che era successo tra di noi quella sera ed io non potevo essere che felice.
«Allora hai capito perché sono rimasto, vero?» le domandai.
Gli altri ci guardavano confusi, soprattutto Romeo e Annalisa, mentre l’altra ragazza sembrava sorridere soddisfatta.
Celeste annuì e scivolò con la mano dalla stoffa del completo alla mia, stringendola e avvolgendola in una morsa. Mi sentivo leggero come una piuma, sarei stato in grado di volare ne ero più che certo. Non avevo mai provato una sensazione del genere, era stupendo e dopo tutto quello che avevo sofferto, era come una ventata d’aria fresca in un giorno d’estate.
Puro sollievo.
«Oh, ma per favore!» sbottò Annalisa, stranita e scocciata. «Ci manca solamente che adesso tu le chieda di uscire».
I suoi piani erano andati in fumo e l’essere stata ad un passo dal conquistarmi l’aveva resa più acida del solito. Però l’idea non era affatto male.
Cercai gli occhi di Celeste e le sorrisi. Per la prima volta non mi guardò male, tentando di capire se la stessi prendendo in giro, ma mi sorrise di rimando.
«Vorresti uscire con me, domani?» le chiesi, sperando di non risultare ridicolo.
Era tutto nuovo per me, di solito erano le ragazze che mi placcavano e facevano di tutto per raggiungere il mio letto. Il corteggiamento non era il mio forte.
Celeste arrossì imbarazzata, poi annuì con la testa.
Annalisa allora esplose di rabbia, stringendo i pugni e battendo i piedi a terra. Non le andava giù che il suo piano di conquista fosse andato in fumo, ma il sorrisetto furbo che le si dipinse in volto poco dopo non promise nulla di buono.
Raggiunse il pandino a passo spedito e afferrò il povero Romeo per il bavero della felpa, trascinandolo verso di noi. Lui mi fissava confuso ed io lo era altrettanto.
«Facciamo un’uscita a quattro!» sputò, non contenta di aver perso. «Io e pel di carota, tu e quella… stracciona».
«Ehi, tu!» ringhiò Celeste, ma dovevo calmare gli animi in qualche modo.
In mia difesa arrivò la ragazza che non avevo mai visto. «Ragazzi, con calma» sorrise e nei suoi occhi potei leggervi un guizzo di furbizia. «Facciamo una bella uscita a sei, allora».
Celeste si voltò nella sua direzione e sgranò gli occhi.
«E chi esce con te, nanetta?» l’apostrofò Annalisa, stringendo talmente tanto la felpa di Robbeo da far diventare il suo viso dello stesso colore dei capelli.
In quel preciso istante il vero Ruben, con il suo completo melanzana/prugna, comparve sulla scena e si sistemò i capelli, chiedendo cosa stesse succedendo.
La ragazza lo raggiunse e fissò Annalisa con aria di sfida. «Con lui»
Io e Celeste finimmo col scambiarci un’occhiata dubbiosa, ma non potemmo opporci. Quello che sarebbe stato il nostro primo appuntamento ufficiale, rischiava di trasformarsi in una vera e propria battaglia tra prime donne.
Poveri noi.


Se siete arrivate VIVE alla fine di questo infinito capitolo, vi faccio i miei più sentiti complimenti perché io e Lover c'abbiamo messo una vita a produrre ben 27 pagine di Word! Alla fine avevamo gli occhi più o meno così ---> @_______@
Spero che ne sia valsa la pena, almeno, e che per onorare il nostro sforzo, stavolta riusciamo ad arrivare al 15 recensioni! :3 :3  dai, dai, dai! Lo so che ci siete, nascosti da qualche parte! >.<
*fa lo sguardo da cane bastonato* Siamo anche arrivati ad un dolce 'lieto fine' per i nostri adorati Leonardo e Celeste, ma chissà cosa succederà con Annalisa tra i piedi!
Se non c'è lei, c'è JeanPhilippe e se non c'è il francese, ci sarà qualcun altro.. poveracci!
Sono così dolciotti in questo capitolo! Uhuhuhuh, lo so, non resisto, chiamatemi pure pazza ma li adoro. Celeste è fantastica e la mia Lover è un geniaccio ogni volta, soprattutto nell'introdurre un personaggio nuovo di zecca come Vènera (la bestfriend di Cel) nonché interamente dedicata alla nostra Wife/Lover/Beta a tempo perso/Consigliera/e chi più ne ha-più ne metta Nes_sie! Ti lovviamo!
Baci a tutte!

Ecco a voi Venere.. ehm.. Venéra.. Venerdì... oh, insomma! Vènera! :3 :3

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Capitolo 9
*** Amici, nemici e tanti guai ***



CAPITOLO 9

Betato da nes_sie

Leonardo Sogno non era mai stato nervoso in tutta la sua vita, nemmeno nel suo esordio in serie A.
Avevo sempre preso di petto le situazioni, ripetendomi quanto fossi imbattibile e tremendamente figo, e soprattutto avevo sempre puntato sul fatto che, se avessi fallito, avrei ricominciato daccapo, più determinato di prima. Sapevo di essere il più forte, me lo ripetevo tutte le mattine davanti allo specchio da quando avevo iniziato a farmi la barba – o, forse, anche prima – e crescendo con un padre che ripeteva ogni giorno quanto fosse orgoglioso del suo unico figlio, anch’io avevo cominciato a convincermene.
Quella sera, però, mi sentivo tremendamente agitato. L’avevo capito quando Ruben mi aveva fatto notare, per la decima volta, che i bottoni della camicia bianca di lino che avevo scelto di indossare erano stati allacciati storti, lasciando che un lembo di stoffa pendesse scomposto a un lato dei Levis’.
«S-S-Sta-Stai b-be-bene?» mi chiese preoccupato, ma come al solito tentai di tergiversare.
«Tutto apposto, man» ridacchiai, slacciandomi i bottoni e ricominciando tutto daccapo.
Mii ero rintanato di nuovo nella mia stanza e mi ero chiuso la porta alle spalle, sentendo una forte pressione alla bocca dello stomaco e il cuore che martellava forte nel petto. Celeste aveva accettato il mio invito, era corsa fino al ristorante dove stavo cenando con la squadra e mi aveva confessato di ricordare tutto finalmente, e mi aveva chiesto scusa. Lì per lì mi era parso logico fare un ulteriore passo avanti e le avevo chiesto di uscire.
Ci stai ripensando?
Il mio Ego tornava puntualmente a fare capolino nei momenti meno opportuni, soprattutto quando mi posizionai davanti allo specchio e, con mani tremanti, cominciai ad abbottonarmi di nuovo la camicia. Dovevo stare calmo, esaminare bene la situazione, non incappare in possibili gaffe o, ancora peggio, far scoprire il mio castello – anzi, ormai era diventato grande quanto la muraglia cinese – di bugie. Non sapevo nemmeno se io e Celeste stessimo insieme, non le avevo neanche richiesto il numero di telefono, visto che non avevo idea di come fare a confessarle di averlo cancellato, e la presenza di Annalisa, poi, non faceva altro che mandarmi ancor più fuori di testa. La Cavalli aveva insistito per potersi aggiungere a quell’appuntamento, trascinando con lei il Rosso e Ruben, insieme a quella strana ragazza mora che non avevo mai visto.
Annalisa sapeva il mio segreto, aveva capito che stavo mentendo a Celeste e che la biondina tutto pepe era un tipo che non sopportava le menzogne, allora mi domandavo per quale motivo non avesse ancora spiattellato tutto. In fondo, era chiaro come il sole che lei voleva mettersi col sottoscritto – e quale ragazza non lo desiderasse! –, ma di tutti i metodi subdoli che aveva architettato fino ad ora, quello della verità era il più ovvio.
È come una serpe in seno, aspetterà il momento più propizio e poi colpirà, agile e veloce.
Rabbrividii mentre l’ultimo bottone entrava nella sua asola, poi mi controllai allo specchio e finalmente constatai che non ero del tutto ubriaco. Infilai la camicia nei jeans, afferrai la giacca nera, e uscii dalla mia stanza dirigendomi verso il portone dell’ingresso.
Il punto di ritrovo sarebbe stato sotto casa di Celeste, vicino al viale dell’Università, poi Annalisa ci avrebbe fatto strada verso un localino che lei stessa aveva scoperto e che era, a suo avviso, delizioso. Dalla sera prima non avevo sentito per niente Cel e nemmeno lei mi aveva cercato. Era come se ci fossimo trasformati in due sconosciuti da quando avevamo –più o meno – ammesso i nostri sentimenti, ma non c’era stato tempo di mettere in chiaro le cose. Io e lei stavamo insieme? Uscivamo come coppia? Ci vedevamo come amici? Niente di tutto quello era stato deciso, ma quella sera sarebbe stata decisiva.
Hai affrontato cose peggiori che una biondina tutto pepe, caro il mio Leo.
La verità era che per quanto fossi esperto in materia di calcio, di rapporti interpersonali, di ginnastica sotto le lenzuola, non sapevo un emerito cazzo su come si faceva il fidanzato. Non ero mai stato con una donna per più di un giorno, non le avevo comprato dei fiori, non sapevo come ci si comportava agli appuntamenti. Sapevo unicamente dov’era il suo punto G e nient’altro. Mi sentivo uno sfigato e a Leonardo Sogno non poteva capitare una cosa del genere. Ancora una volta il mio orgoglio tornava a fare capolino, a insinuarsi sotto la mia pelle, ma se avessi voluto costruire qualcosa con Celeste, dovevo metterlo a tacere.
Già dovevo fare i conti con l’enorme bugia che pendeva sulla mia testa come una ghigliottina pronta a tranciarmi di netto il collo. Non avevo idea di come fare, ormai la trama si era infittita talmente tanto che non avrei più potuto dirle la verità, o mi avrebbe evirato.
«Pronto, Ruben?» domandai, avvicinandomi alla sua camera da letto.
Scostai un po’ la porta e lo vidi ancora in mutande, anzi, con un paio di quegli slip ascellari bianchi che non avrebbe nemmeno indossato quel vecchio di Playboy, Hugh Hefner. Aveva un mucchio di vestiti sul letto e continuava a guardarsi tremolante allo specchio, avvicinandosi prima una T-Shirt poi una camicia al petto. Era indeciso e da come si era vestito per la cena con i compagni di squadra, pensai che dovessi dargli una mano.
«Sei ancora in mutande e siamo già in ritardo» bofonchiai, come se io stesso non avessi fatto di tutto per ritardare quel dannato appuntamento a sei. Che poi, il motivo per cui tutti quanti avessero deciso di venire era un mistero. Sapevo già che io e Cel non avremmo avuto nemmeno cinque minuti per stare da soli.
Gli occhi di Ruben mi cercarono, da dietro le lenti spesse degli occhiali, e sembrò assomigliare ad uno di quei cuccioli randagi che piazzano sui cartelloni pubblicitari contro l’abbandono. «N-No-Non s-so c-co-cosa m-mettermi...» soffiò intimidito, abbassando il capo e arrossendo. «È d-da t-ta-tanto c-che no-non esco c-con u-una r-ra-r-rag...» e si sforzò di dire quella parola, ma la balbuzie e il nervosismo non glielo permisero.
Mi si strinse il cuore a vederlo in quello stato e, per quanto fossi stronzo con il resto del genere umano – e questo era scientificamente provato –, con la mia ristretta cerchia di amici mi trasformavo in un dannato pezzo di pane.
«Su, da’ qua!» gli ordinai, non lasciando mai trasparire quel lato tenero davanti agli altri. Nessuno doveva sapere che, in realtà, Leonardo Sogno provava dei sentimenti e, alle volte, riusciva anche ad avere un cuore.
Che adesso batte per un paio di occhi azzurri.
Gli andai in contro e cominciai a frugare tra i suoi vestiti, dal gusto discutibile, e riuscii a stento a trovare qualcosa che non fosse uscito direttamente dai costumi di Thriller. Optai per una T-shirt verde scuro di Hollister – ovviamente un mio regalo che non aveva mai indossato –, un bel paio di jeans chiari e una giacca elegante sopra, in modo da spezzare.
«Perfetto» commentai, dopo che ebbe indossato il completo e nascosto quegli orrendi mutandoni da incontinente. Ruben mi sorrise e si passò una mano tra i capelli, ponderando se riempirli di gel come l’ultima volta.
«Aspetta, tigre» gli dissi, prima che una sua mano si avvicinasse al flacone di brillantina. Lo afferrai per il viso e gli sistemai i capelli soltanto con l’aiuto delle mani, in modo che sembrasse, almeno vagamente, un essere normale. Poi cominciai a guardarmi in giro alla ricerca di qualcosa.
«C-Ch-Che t-ti s-se-serve?» balbettò curioso, cercando di facilitarmi il compito.
Infine riuscii a trovare, occultati in fondo al comodino e dietro un paio di scarpe da ginnastica dell’anteguerra, le lenti a contatto. Trionfante riemersi da quel cantuccio e gliele porsi, indicandogli il bagno.
Ruben mi fissò con la solita aria da cucciolo smarrito. «M-Ma m-mi v-vie-viene l’ir-irritaz-irritazione...» borbottò trotterellando.
«Ma quale irritazione» e lo spinsi all’interno della stanza. «Ti è venuta soltanto una volta e perché ti avevo infilato un dito nell’occhio! Sii uomo e indossa quelle cazzo di lenti, così andiamo».
Il mio migliore amico non protestò, ma rimase chiuso nel cesso per ore, neanche avesse dovuto truccarsi. Quando uscì, rimasi colpito da come potesse stare decisamente meglio senza quegli occhiali a fondo di bottiglia, anche se gli occhi da talpa non glieli levava nessuno purtroppo. Ruben Canilla non era un tipo affascinante... era soltanto un tipo, punto.
«Siamo pronti?» gli chiesi retoricamente, con aria scocciata.
Lui annuì in risposta, afferrò le chiavi dell’appartamento e quelle dell’Audi, ma io lo fermai: forse non era il caso che ci presentassimo sotto casa di Celeste con quel bolide, visto la situazione precaria in cui ci trovavamo.
«L-La c-ci-cinquecento ce l’ha t-tu-tuo cu-cugi-cugino» pigolò. «S-Se l’è v-ve-venuta a pr-pre-prendere l’altro i-ie-ieri».
Rimasi di sasso a quella scoperta, soprattutto perché il mio umore divenne immediatamente più nero del solito. Allora era in città e non era nemmeno venuto a salutarmi, che razza di stronzo.
«Bene» ringhiai. «Allora prenderemo l’Audi, ma la guiderai tu Leonardo» e sghignazzai, riferendomi alla parte del ‘calciatore in erba’ che avrebbe dovuto recitare quella sera. Ruben deglutì a stento, poi mi seguì.
Non sapevo come sarebbe andata quella serata, se tutto fosse filato liscio come l’olio, oppure se avrei dovuto prendere la vanga e scavarmi una bella tomba. Tutto quello che sentivo era un forte bruciore allo stomaco e il cuore che pian piano voleva uscirmi dalla gola, metro dopo metro, lungo l’esofago, mentre la macchina si avvicinava all’appartamento di Fiore e Ciuccio.
«S-Se-Sei sicu-sicuro c-che n-non s-sia m-meglio raccontarle l-la v-ve-verità...?» se ne uscì il mio amico, accostando al marciapiede e spegnendo il motore rombante della fuoriserie bianca.
Mi voltai verso di lui con gli occhi sgranati e con un’espressione mista tra il “Ti strangolo” e “Prova a ripeterlo e ti strangolo”. Era già un fottuto miracolo che Celeste si fosse ricordata di quello che era successo nello sgabuzzino e che non mi avesse denunciato per molestie sessuali. Ci mancava solo che sapesse che il sottoscritto era quanto di più lei odiasse al mondo. Prima o poi avrei dovuto dirglielo, questo era ovvio, ma per ora avrei adottato la filosofia del Goditi il momento.
«Se lo venisse a sapere, mi ucciderebbe e lo sai» gli feci presente, alludendo al caratterino per nulla mite di Celeste. Quella ragazza era acida come uno yogurt scaduto da sei mesi e aveva un cinismo che faceva paura. Non solo sarebbe stata in grado di demolire verbalmente Miss Italia, ma ero più che sicuro che avrebbe fatto persino impallidire il Mister Montella.
Ruben rimase in silenzio, picchiettando le dita sul volante della macchina. «I-Io p-penso c-che a-al-alla f-fi-fine ne sarebbe f-fe-felice» commentò, rimanendo sullo stesso argomento spinoso.
Sospirai infastidito, sperando che si sbrigassero a scendere. «Celeste odia il calcio e i calciatori, per lei potrebbero morire tutti affogati nel Tevere. Figurati se scopre di stare insieme ad uno di quelli più famosi… sarebbe un controsenso non ti pare?».
Finii col puntare lo sguardo in quello del mio migliore amico, che mi rispose con un sorriso abbozzato. «È g-già u-un co-contro-controsenso, s-se n-non te ne s-sei ac-accorto» osservò ed io non trovai parole per replicare.
Aveva colpito ed era riuscito ad affondare tutte le mie convinzioni con una sola frase, mettendomi davanti alla nuda e cruda verità. Se quella sera fosse andato tutto per il meglio, Celeste Fiore sarebbe diventata la nuova fidanzata di Leonardo Sogno, il calciatore italiano più forte del mondo, in lizza per il pallone d’oro 2011 e soltanto lei non ne era a conoscenza. Il mondo intero l’avrebbe vista come una relazione e lei sarebbe diventata l’invidia di tutte le mie fan.
E i giornali scandalistici… non ne parliamo.
Messo di fronte alla realtà delle cose, scacciai via quel pensiero con tutte le mie forze perché mi avrebbe fatto troppo male. Ogni cosa a suo tempo, avrei affrontato i problemi legati alle mie bugie un po’ alla volta.
«E, insomma, quella ragazza ti piace?» chiesi a Ruben, riferendomi all’amica di Celeste che sembrava uscita fuori da un telefilm tipo Law&Order.
Ruben divenne immediatamente color pomodoro, dopodiché tentò di articolare una frase ma gli riuscì molto più difficile del previsto. Già balbettava normalmente, figurarsi quando era imbarazzato. Sghignazzai a quella mia insinuazione, quando sentii la serratura del portone scattare e voltai lo sguardo verso una ragazza bionda.
Aprii lo sportello dell’Audi e uscii fuori, sorreggendomi al tettuccio per non franare a terra come un imbecille perché sentivo davvero le gambe molli come il burro. Che cazzo mi stava succedendo? Il bruciore alla bocca dello stomaco si intensificò, così come il battito cardiaco. Mi sarebbe venuto un infarto, ne ero più che certo.
Indossava un vestitino nero, molto semplice, e un giacchettino bianco, ma nell’insieme mi sembrò più bella di qualsiasi modella di intimo mi fossi portato a letto. Celeste Fiore era semplice, di una bellezza comune, ma allora perché mi sentivo come se stessi per svenire?
Dietro di lei fece la sua apparizione la ragazza mora che avevo visto la sera prima, anche lei con un vestitino semplice in dosso, e a chiudere la fila c’era Robbeo. Aveva un’aria talmente scocciata che sembrava stesse per andare al patibolo.
«Ciao» mi sorrise Cel, avvicinandosi e pungolandomi con il solito dito indice.
D’istinto glielo afferrai e lo strinsi nella mano, fissandola di rimando. «Ciao».
Non mi ero mai sentito così idiota dalla terza media, quando avevo invitato la più carina della scuola alla mia festa di compleanno. Stavo sudando come un maiale, soffrivo di tachicardia e sapevo di avere un sorriso ebete stampato in faccia.
Tuttavia Celeste non sembrava per nulla accorgersi di quel mio disagio, anzi, abbassò lo sguardo imbarazzata.
«Piacere!» mi disse l’altra ragazza, porgendomi la mano e fissandomi con quei furbissimi occhi azzurri. Non seppi spiegare il perché, ma quello sguardo mi mise subito in soggezione, quasi come se quella bassetta avesse qualche potere sovrannaturale, un certo intuito a capire le persone. «Mi chiamo Venera».
«L-LeoRuben» balbettai, in prenda alla più completa confusione.
La tizia ridacchiò, poi fissò il vero Ruben dietro di me. «Pensavo fosse lui a soffrire di balbuzie» commentò tagliente.
Dannazione se ci sapeva fare la ragazza. Pensavo che Celeste fosse una tipa sveglia e che mi desse filo da torcere, ma non avevo ancora conosciuto la piccoletta. Il Rosso mi lanciò appena uno sguardo, poi infilò le mani nelle tasche dei jeans neri e calciò un sasso con le sue AllStar. Ancora non mi aveva perdonato del tutto, era evidente.
«Insomma, quando arriva questa tua amica?» chiese furbescamente Venere… o forse era un altro nome?
«Non è mia amica» risposi pronto, sentendo Celeste che si irrigidiva al mio fianco. «E poi non ne ho idea».
Come se ci fosse stato un qualche tempismo divino, in fondo alla strada si sentì sgommare e subito dopo una sgassata che avrebbe fatto invidia ad un pilota di F1. Stavolta si presentò con una Porche Carrera S rossa metallizzata, completamente decappottabile, quasi dello stesso colore dei capelli di Robbeo, e frenò proprio vicino alla mia macchina.
«Quando parli del diavolo» commentò Veneranda o Veranda.
Aprì lo sportello con decisione e si tolse gli occhiali da sole – di notte –, dopodiché sfoggiò un vestito color fiamma con uno spacco laterale che le lasciava visibile tutta la coscia sinistra e gran parte del perizoma nero che indossava. Chiunque fosse stato dotato di Walter, in quel preciso istante avrebbe voluto indossare, con tutto il cuore, un paio di pantaloni più larghi, compreso Romeo che aveva gli occhi fuori dalle orbite.
Annalisa Cavalli era una stronza patentata, ma anche una figa spaziale.
Sentii le iridi furenti di Celeste che mi fissavano e quando le restituii lo sguardo, la vidi assottigliare gli occhi e incrociare le braccia al petto. L’appuntamento non era nemmeno iniziato e la mia ragazza era già gelosa.
La mia ragazza.
Avvertii qualcosa di caldo che cominciava a sciogliersi nel mio petto, così abbandonai una mano lungo il fianco e cercai la sua, stringendola e accarezzandone il dorso con il pollice. Era un chiaro gesto per infonderle tranquillità, per dirle che anche se Annalisa mi si fosse spogliata davanti – il che era più che possibile – io sarei rimasto impassibile (e con un Walter enorme nei pantaloni), ma quello lo avrei sicuramente omesso.
«Ehilà gente!» trillò la Cavalli riponendo gli occhiali nella pochette e scostandosi i capelli color fiamma dalla spalla con nonchalance. «Scusate il ritardo, ma il fotografo di Megan Fox mi ha contattato per un calendario senza veli e devo dargli una risposta entro lunedì» ridacchiò.
«Tsk» commentò Ven a bassa voce, rivolgendosi a Celeste. «Sì... per ‘calendario’ intende Film Porno e per ‘Mega Fox’ intende Battona».
Dio santo se aveva la lingua tagliente! Quella ragazza poteva anche essere alta poco più di due mele, ma sapeva il fatto suo. Non dico che era stronza quanto mio cugino Simone, ma ci andava vicino.
«L’invidia è una brutta bestia, Venerdì» commentò Romeo, sghignazzando.
Compresi subito che tra il Rosso e la tappetta non corresse buon sangue, ma ormai ero dell’avviso che Chi disprezza, compra, quindi non espressi giudizi affrettati.
«Robbeo, finiscila!» lo rimproverò Celeste, fissandolo truce.
La mia mano era ancora avvolta nella sua, calda e liscia. Non l’avrei mai lasciata perché da quando era apparsa al mio fianco, avevo smesso di preoccuparmi di tutto il resto. Ogni inquietudine era volata via e perfino l’intrusione da parte di quegli amici strampalati cominciava a pesarmi di meno.
Annalisa ci raggiunse camminando sul suo tacco 12, manco stesse facendo una sfilata, dopodiché venne a salutarci uno per uno. Il primo fu Ruben che le porse la mano, ma lei gli si spalmò addosso premendogli le tette proprio sotto il viso. Per poco non entrò in iperventilazione e se avesse indossato gli occhiali, ero sicuro che gli si sarebbero appannati come lo specchio dopo la doccia. Poi fu la volta della piccoletta – ormai avevo deciso di chiamarla Ven per non sbagliare – che la fissò come se volesse incenerirla. Arrivava ad altezza tette di Annalisa e la rossa non mancò di tirare pancia in dentro e petto in fuori per accentuare la sua terza abbondante.
«Tu sei?» le domandò.
Ven scrutò quel volto di porcellana a fondo, mentre i suoi occhi azzurri non finivano di studiarla da capo a piedi. «Venera, tanto piacere, sono la migliore amica di Celeste» le disse calma, tendendole la mano.
Annalisa la strinse, con la solita espressione di sufficienza dipinta in volto, poi si avviò sculettando verso il sottoscritto, rivolgendo a mala pena un cenno a Romeo. Si alzò in punta di piedi e curvò le labbra, ma fui lesto a spostarmi e a tirarmi indietro. Sapevo che Celeste mi stava osservando, calcolando ogni mio passo falso.
«Ciao, Anna» le sorrisi, porgendole la mano in modo neutro.
La Cavalli sembrò sul punto di esplodere, mentre vidi chiaramente un sorriso espandersi sul volto della mia piccola biondina. «Ciao» ringhiò lei, ignorando la mia mano tesa, poi rivolse uno sguardo a Celeste. «Allora hai anche qualche vestito nel guardaroba, non solo degli stracci» poi si defilò.
Dovetti stringere maggiormente la mano attorno a quella di Cel, almeno per trattenerla dallo strangolare Annalisa con entrambe le mani, poi cercai il suo sguardo e le sorrisi.
«Che c’è?» bofonchiò lei.
«Niente» sghignazzai, ma ero stranamente felice, come mai mi sentivo da tempo.
La vidi arrossire impercettibilmente, dopodiché la rossa attirò l’attenzione di tutti su di lei.
«Non perdiamo altro tempo e andiamo. Seguitemi» sentenziò. Schioccò le dita in direzione di Romeo e gli fece cenno di montare sulla sua Porche. Rimasi allibito quando il ragazzo non protestò e si limitò a salire al posto del passeggero.
Ero convinto che quei due non si sopportassero, almeno da quanto mi era parso fino a quel momento. Liquidai la questione con una scrollata di spalle, poi montai sull’Audi, imitato da Celeste e Ven.
La piccoletta mora, una volta nell’abitacolo, si sporse al di là dei sedili e strinse vigorosamente la mano a Ruben. «Ciao! Non mi sono presentata, ma stasera sono la tua accompagnatrice!» sogghignò, vedendo il poveraccio diventare di tutti i colori dell’arcobaleno.
«P-Pi-Pia-Piacere!» rispose imbarazzato. «S-Sono Rub-Leonardo!» si affrettò a correggersi, ma a me non sfuggì il guizzo di malizia che apparve nelle iridi della ragazza. Sapevo che era molto più sveglia di Celeste – e ovviamente di Robbeo –, perciò dovevo guardarmi le spalle.
«Davvero curioso» commentò, tornando a sedersi sul sedile posteriore.
«Cosa?» le chiese Cel.
Ven si limitò a sorridere, fissandomi negli occhi attraverso il riflesso dello specchietto retrovisore. «Tutti e due avete confuso i vostri nomi, l’uno con l’altro».
Lo sapevo! Altro che Annalisa. Dovevo guardarmi da quella tappetta tutto cervello e nessun freno alla lingua. Divenni bianco come un lenzuolo e sentii Ruben al mio fianco irrigidirsi come un pezzo di legno.
«Eh, già!» ridacchiai nervoso, dando un colpetto al mio amico affinché accendesse il motore. «Siamo talmente in simbiosi ultimamente, che confondiamo l’uno il nome dell’altro».
In Scusologia, fin da quando ero in fasce, avevo sempre ottenuto il massimo dei voti. Alle volte mi ritrovavo ad inventare scuse a pagamento, e perfino Ruben qualche volta mi aveva ingaggiato per delle balle. Ven sembrò sorpresa di quella mia spiegazione, ma non si lasciò scoraggiare, anzi, era ben decisa ad andare fino in fondo a tutta quella storia.
«Che carini» commentò, infatti.
Ruben seguì la Porche rossa di Annalisa, mentre ci faceva strada verso il quartiere di San Lorenzo e proseguiva in direzione dell’Appia. Accesi lo stereo per sopperire a quel silenzio imbarazzante che si era creato nell’abitacolo, dopo la semplice osservazione della piccoletta, ma ancora non mi sentivo a mio agio. Quella sera doveva essere perfetta e già avevo rischiato di farmi prendere in campana da una ragazza venuta dal nulla. Camminavo sul filo del rasoio, in bilico su un fiume di lava bollente. Già Celeste era poco convinta che un figo spaziale come me potesse fare il fioraio, non avrei dovuto commettere passi falsi.
«Quanto ti fermi qui a Roma?» domandai a Ven, più che altro perché dovevo farmi un calcolo di quanto sarebbe durato quel supplizio.
Stavolta fu Celeste a sporgersi tra i due sedili ed io fui inondato dal suo meraviglioso profumo. D’un tratto i ricordi di quella festa si accavallarono nella mia mente, schiacciando prepotentemente tutti i buoni propositi che avevo. Fui costretto ad immaginarmi le mutande di Ruben per riuscire a tenere a freno la bandana che abbaiava dai piani bassi.
«Si tratterrà per un po’ di tempo, vero, Ven?» le chiese, posandomi accidentalmente una mano sulla spalla. Okay, dovevo stare calmo. La semplice vicinanza della furia bionda mi provocava degli sbalzi di temperatura inaspettati e nessuna ragazza era mai riuscita a rendermi così imbecille soltanto con la sua presenza. Per fortuna in quella macchina vestivo i panni di Ruben e non di Leonardo. Cosa avrebbero detto i miei fan?
«Sì» rispose la moretta. «Quando non ci sarà più bisogno di me, lascerò la mia Cel».
Si conoscevano da anni, era evidente. Il loro rapporto era stretto e si volevano bene, un po’ come me e Ruben. Lui era il fratello che non avevo mai avuto e pur sapendo di possedere un cugino col mio stesso cognome, preferivo di gran lunga far finta di essere l’unico Sogno esistente.
«S-Sia-Siamo arri-arrivati» constatò Ruben, affiancando l’Audi TT alla Porche di Annalisa.
Il parcheggio di fronte al locale era piuttosto ampio, ma non per questo vuoto. C’erano numerose macchine quel venerdì sera di Aprile, nonostante facesse ancora piuttosto freddo. Il cielo era limpido e si intravedeva la luna piena.
«Entriamo» disse Annalisa con tono imperativo, afferrando Romeo per la giacca e tirandoselo dietro come un lacchè.
Ci fissammo tutti e quattro perplessi, soprattutto per lo strano comportamento remissivo di Robbeo. Non che lo conoscessi bene, ma non mi era sembrato il tipo da dare troppo spago ad un’oca come Annalisa. C’era qualcosa sotto.
«Ha l’encefalogramma piatto, ve lo dico io» commentò Ven sarcastica, afferrando sottobraccio Ruben e incamminandosi verso il locale.
Io e Celeste li guardammo allontanarsi, dopodiché ci fissammo imbarazzati. Era strano tutto quello che c’era tra di noi, prima nemici ora amanti. Non avevamo programmato nulla, era successo tutto per caso ed era accaduto così in fretta.
«Andiamo?» le domandai, porgendole il braccio.
«Da quando sei così galante?» ridacchiò lei, allacciando le sue dita alle mie. «Pensavo fossi un troglodita appena uscito dalle caverne».
Accolsi la frecciatina senza quella punta di fastidio che avevo provato all’inizio, quando ci eravamo appena conosciuti. Adesso, quando mi punzecchiava, non poteva fare altro che sentirmi lusingato.
«Ci sono molte cose che non sai di me» le risposi, facendo il misterioso.
Lei non fece caso al fatto che dietro quella frase di nascondeva molto di più e che parte di quello che le avevo sussurrato era la verità.
Il locale si chiamava Il giardino segreto e non avrei mai pensato ne esistesse uno del genere nella Capitale. Si entrava in una serra gigantesca da un ponticello di travi di legno, dove si apriva un immenso giardino su cui erano disposti dei divani quadrati, al cui centro spiccava un tavolo di legno. Gli altri clienti erano tutti sdraiati, oppure seduti sui cuscini, mentre degustavano i loro cocktail.
«È stupendo» commentò Celeste, rapita da quel locale.
Okay, Annalisa poteva pur essere una stronza superficiale, ma aveva buon gusto e questo era indiscutibile.
«Ruuuuuuuben!» trillò l’interpellata, alzandosi dalla poltrona e lasciando che il vestito le lasciasse scoperta una bella porzione di coscia. Celeste mi stritolò la mano, manco l’avessi messa in una morsa, e sibilò un’imprecazione tra i denti. Metà dei clienti di sesso maschile si erano stirati i muscoli del collo per fissare la rossa, mentre prendeva il sottoscritto e lo faceva accomodare tra lei e un Robbeo amareggiato.
Celeste fu costretta a sdraiarsi di fronte a me, trattenendo a stento la voglia di incenerire Annalisa. La tensione era palpabile a quel tavolo e quando la cameriera venne a chiederci le ordinazioni, sussultammo tutti all’unisono. Non mi ero accorto degli sguardi insistenti che mi si posarono addosso non appena la gente aveva riconosciuto pian piano chi fossi e l’eccessivo nervosismo di quella serata mi aveva fatto completamente dimenticare la mia notorietà. Nonostante vestissi i panni di Ruben, ero pur sempre Leonardo Sogno, un personaggio pubblico.
«Oddio!» trillò la cameriera, stringendo al petto il vassoio e arrossendo. «Ma tu non sei?» e finse di pensare. «Tipo quello sportivo, quel tizio che gioca per la Roma... Leonardo Sogno?».
Fortunatamente Ruben sedeva vicino a me, oltre Robbeo, ed era difficilmente intuibile dove lo sguardo della cameriera stesse puntando. Dovevo solo analizzare la situazione con calma. Bastò uno sguardo con il mio migliore amico e ci capimmo al volo.
«Sì» rispondemmo all’unisono.
La ragazza delle ordinazioni ci fissò confusa, poi si scostò una ciocca di capelli dalla fronte e mi sorrise. «Cosa posso portarvi?».
Celeste non sembrò far molto caso a quel teatrino, ma non si poteva dire lo stesso della sua amichetta. Romeo stava sudando come una stufa e non la finiva di sventolarsi con il menù che avevamo trovato sul tavolo.
«‘Mazza, che afa!» borbottò, togliendosi la giacca e lasciando che ammirassimo la sua T-shirt grigia dell’Hard Rock e il lago che si era formato sotto le sue ascelle. Annalisa lo fissò come se si stesse mangiando le unghie dei piedi e soffocò un conato con entrambe le mani.
«Allora, per me un Martini Dry» sospirò, scostandosi i capelli dalla spalla in un gesto ormai consueto. «Il prospero[1] prende una birra».
«Ehi!» si lamentò il Rosso ma Annalisa lo zittì con un cenno della mano.
La cameriera li fissò come fossero degli alieni, poi spostò i suoi occhi su Celeste e Ven che consultavano assorte i menù.
«Io prendo un Long Island» mormorò la piccoletta, senza mai smettere quell’aria da so-tutto-io.
«Questo Sex on the beach sembra buono» ponderò Celeste ed io sgranai gli occhi al ricordo di com’era diventata dopo aver bevuto un misero sorso di champagne.
«Ehm, ehm» tossicchiai, cercando il suo sguardo.
Lei alzò le sue iridi celesti verso di me e mi guardò confusa. «Che c’è? Ho ventidue anni e posso bere, mio caro!» ed ecco che il suo lato cinico tornò a fare capolino.
Sospettai che la colpa fosse di Annalisa e del modo con cui mi spiaccicava le tette addosso, facendosi vedere di proposito da Celeste. Il più delle volte facevo finta di nulla, ma se uno sguardo fosse stato in grado di uccidere, quello della biondina mi avrebbe mandato sotto terra già da tempo. Inoltre, non volevo che ripetesse quel bellissimo teatrino di cui era stata protagonista alla festa della Cavalli.
Dì la verità, non vuoi che si strusci addosso a tutti gli ospiti dotati di bandana…
Dannato Ego, riusciva a smontare le mie convinzioni lasciando semplicemente che le mie paure più nascoste venissero alla luce. Fortunatamente – per quanto non sopportassi la presenza di Anna-dai-capelli-rossi versione porno – in quel frangente intervenne in mio favore. Ovviamente non di proposito, ma l’effetto fu quello che speravo.
«Ma, dopo il drink, ci riproporrai lo spettacolino dell’altra volta?» colpì pungente, fissandola con sufficienza, poi si rivolse a Ven. «Alla mia festa, per un sorso di champagne, per poco non si è portata a letto tutti gli invitati».
Entrambi sussultammo a quell’affermazione, soprattutto perché pochissime persone sapevano quello che era successo nel post-party. Celeste mi fissò imbarazzata, rossa come un peperone, ma comunque ben determinata a fargliela pagare.
«Almeno io divento una troia solo sotto alcool» le ringhiò contro. «Tu lo sei ventiquattro ore su ventiquattro!».
Adoravo quando la mia gattina tirava fuori le unghie e vederla così gelosa nei confronti di Annalisa, mi faceva percorrere la schiena dai brividi.
«Ohi!» sghignazzò Robbeo, beccandosi una linciata dalla rossa. «Che c’è? Ha ragione» bofonchiò, poi tornò a sventolarsi sotto le ascelle.
Venera fissò l’amica con un’espressione piena d’orgoglio, quasi avesse visto muovere i primi passi alla sua bambina e anch’io non potei fare a meno di essere fiero. La cameriera del locale ci fissava con gli occhi sgranati, ma evidentemente le era capitata sotto mano gente più strana di noi perché non fece una piega.
«Vuoi un Sex, allora?» le domandò, cominciando ad essere spazientita.
Robbeo a quella domanda sghignazzò, mentre Ruben divenne paonazzo. Celeste non la finiva di guardare male Annalisa e la tensione che si respirava lì in mezzo era un preludio di una guerra mondiale.
«Sì!» ringhiò decisa.
«No!» la sovrastai io, d’istinto, beccandomi un’occhiataccia.
«Torno più tardi?» domandò la ragazza, vedendo che non era aria.
«No!» insistette Celeste.
«Sì!» ringhiai io.
«Oh, per l’amor del Cielo!» sbottò Venera, roteando gli occhi scocciata. «Porti una birra al giovanotto e una Coca-Cola con ghiaccio per la bionda, Leo tu cosa vuoi?» domandò in direzione di Ruben che si accorse di essere interpellato solamente quando il silenzio calò su di noi.
La cameriera sembrava sull’orlo di una crisi isterica, perché nonostante sapesse che Leonardo corrispondesse al sottoscritto, tutti a quel tavolino sembravano rivolgersi all’altro ragazzo con gli occhi da talpa. Era un miracolo se ancora non si erano scoperti gli altarini e già a inizio serata eravamo sull’orlo del tracollo.
«U-Un t-t-th-th-t-th…» tentò di articolare, sembrando ancor più imbecille.
«Tu-tu-tu-tu» sghignazzò Romeo, passandosi una mano tra i capelli sudaticci. «Ancora ‘sto telefono eh?».
Ma chi me l’aveva fatto fare di accettare un’uscita in cui la metà degli amici si odiavano a morte? Non avrei mai immaginato che la serata potesse trasformarsi in una vera e propria battaglia di frecciatine con il sottoscritto che si trovava praticamente nel mezzo.
Ruben fissò malissimo il rosso, poi tornò a rivolgersi alla cameriera. «U-Un the, grazie» disse coinciso, quasi per nulla balbuziente.
La ragazza delle ordinazioni annuì, poi scomparve senza chiederci nient’altro. L’avevamo terrorizzata, era ovvio. Infatti si era immediatamente rivolta ad una sua collega per farsi sostituire. Perfetto, se avessimo continuato di questo passo, saremmo stati banditi da tutti i pub della Capitale.
«Sei stato veramente indelicato, Babbeo» osservò Ven, fissando il rosso in tralice.
«Sta zitta, nana» ringhiò lui, in risposta.
Ci mancava solamente che si tirassero addosso i cuscini o le vivande del tavolo accanto. Mezzo locale si era voltato a fissarci e non per la notorietà del sottoscritto. Pregai solamente che tra di loro non ci fosse qualcuno cui venisse in mente di scattare qualche fotografia, altrimenti ero fottuto. Non avrei nemmeno dovuto subire una strigliata dal mio manager, in materia di pettegolezzi cercati, perché lui serrava i ranghi delle prime file in quella battaglia verbale.
«C-Ch-Chi-Chiedi s-s-scu-scus-s...» tentò di intervenire, a difesa di Ven.
«Ssssssssssssssssss... che sei Sir Bis?» grugnì Romeo, infervorato da tutto quello che stava succedendo.
Mi passai una mano sul viso e chiusi gli occhi sperando che, una volta riaperti, le persone che sedevano di fronte a me si sarebbero improvvisamente trasformate in esseri civili. Purtroppo era come chiedere ad una mucca di spiccare il volo.
«Chiudi il becco, prospero[1]» lo linciò Annalisa, tornando a fissare Celeste. «E quindi non avevi mai conosciuto il famoso Leonardo Sogno prima della mia festa, vero?» indagò, facendomi strozzare con una nocciolina.
Ma perché diavolo non avevo finto un attacco fortissimo di diarrea? Avrei anche potuto prendermi la malaria, il morbillo, la febbre gialla… tutto pur di non trovarmi nel mezzo di quella discussione.
«Sì, me l’ha presentato Ruben» rispose, rimanendo guardinga.
Annalisa sfoderò uno dei suoi sorrisi maliziosi e afferrò una fragola portandosela alle labbra e succhiandola come fosse tutto fuorché un frutto. «Interessante» rifletté. «Quindi non segui molto il calcio».
«Lo odio» sibilò Celeste immediatamente, mentre cominciavo a sentire anch’io il caldo asfissiante di cui si lamentava Robbeo. «Non sopporto quello sport e soprattutto quei rinoceronti imbufaliti che vengono pagati fior fior di soldi per correre appresso ad un pallone» poi si accorse che Ruben la fissava stranito e arrossì. «Cioè, non si sta parlando di te, Leo».
«Madò, che callo!» dissi ad alta voce, liberandomi della giacca e arrotolando le maniche della camicia fino agli avambracci.
«Quindi non hai mai visto i giocatori della Roma» chiese ancora la rossa, vestendo i panni di Sherlock Holmes.
«Uhm» pensò Celeste. «Romeo guarda tutte le partite, ma io non mi sono mai interessata. Non me ne frega un accidente di quei trogloditi».
«Certo che se schiatta qui dentro!» e alzai la voce, cercando di interrompere quella conversazione spinosa.
Celeste e Annalisa mi fissarono di sbieco, ma non mi diedero troppo peso. «Lo sai che mio padre è il presidente della A.S. Roma?» le domandò, tirando ancor più il petto in fuori. «Praticamente se io gli chiedo di comprare un giocatore che mi piace, lui mi accontenta» aggiunse maliziosa.
«AFA, AFA, AFA!» gridai, mentre una folta folla di clienti si voltava a fissarmi.
«Ao’, l’avevo detto io che se schiattava!» corse in mio soccorso Robbeo, agitando un lembo della maglietta e lasciando intravedere il suo addome flaccido e bianchiccio.
«E ‘sti cavoli?» domandò Ven retorica, riferendosi ad Annalisa che le imbruttì.
Cercavo ossessivamente una posizione comoda su quel divano di pelle bianco, ma ogni volta che mi assestavo, era come se sentissi i carboni ardenti che mi cuocevano letteralmente le chiappe. Se avessero continuato di questo passo, sarei stato scoperto in meno di cinque minuti buoni.
«Scusate?» si avvicinò una ragazza bionda, probabilmente vestita dallo stesso stilista di Annalisa – cioè modello baby-battona. «Posso chiedere l’autografo al mitico Pittore?».
Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo. Dannazione! Ero fottuto, lo sapevo.
Guardai Ruben nella vana speranza che gli venisse in mente qualcosa, ma anche lui aveva un’espressione persa. «Okay» mormorai a mezza bocca, afferrando foglio e penna dalle mani della cugina di Pamela Anderson.
Gli occhi di tutti – in particolar modo di Celeste – erano puntati su di me, ma quando alzai lo sguardo per restituire il pezzo di carta, notai che Ruben stava lanciando languidi sguardi alla ragazza, mimando dei baci e degli occhiolini ben poco sensuali. La poveretta, infatti, lo fissava inorridita, ma per fortuna, sia Venera che Celeste, sembravano aver notato quel teatrino. Forse tutto non era perduto.
«Tieni» le dissi, porgendole il foglio e quella mi rivolse appena un sorriso per poi fuggire a gambe levate da un Ruben in un sorprendente attacco di sex appeal.
«Che voleva, quella, da te?» mi tampinò, subito, Celeste.
Scrollai le spalle e feci l’indifferente. Negare, negare e, ancora una volta, negare. «Un autografo».
A quel punto intervenne Ven. «Sì, ma perché lo hai firmato tu, se Leonardo Sogno è lui» insinuò, ed io vidi attraverso quegli occhi blu il suo cervello che stava macchinando.
«P-Pe-Pe-Per...» tentò di intervenire Ruben.
«Pe’ pe’ pe’ peppeppe’» lo cantilenò Robbeo, beccandosi un ceffone sulla nuca da parte di Annalisa, che precedette – in modo quasi istintivo – lo schiaffo che gli avrebbe mollato Celeste, rimasta con la mano a mezz’aria.
«P-Perché l’inchiostro m-mi d-danneggia la p-pe-pelle» recitò con enfasi il mio migliore amico. Dopo quella genialata ero sicuro che avrei potuto passargli anche tutta la mia famosissima agenda piena di numeri delle più belle ragazze che avevano avuto il privilegio di venire a letto con Leonardo Sogno. Dovevo fargli una statua, era sicuro.
Venera non sembrava molto convinta, infatti, assottigliò lo sguardo e non la finì di scrutarmi al di là delle folte ciglia nere. Purtroppo non avevo considerato l’Effetto domino che la gemella della Anderson aveva scatenato nel locale. Bastava che il primo fan rompesse il ghiaccio ed ottenesse il tanto agognato autografo, che subito si formava la fila.
E a riprova della mia teoria, mentre gli altri continuavano a lanciarsi sguardi omicidi, vidi numerosi clienti alzarsi con foglietti di carta in mano e penne ben in vista, con lo sguardo puntato sul sottoscritto. Dovevo darmela a gambe, prima che la situazione già precaria degenerasse del tutto. Come potevo defilarmi senza che Celeste o la tappetta intuissero tutto? Ero nella proverbiale merda fino al collo e, tanto per cambiare, non avevo idea di come uscirne.
Il suggerimento mi arrivò dall’ultima persona al mondo che mi sarei aspettato, visto che non mi aveva più rivolto la parola dopo la festa di Annalisa.
«A’ Ruben, me sembri pallido» mi sorrise, fingendo di essere preoccupato. «N’è che stai male? Cel, perché non lo accompagni ar bagno?» e si rivolse alla sua amica.
Non sapevo per quale motivo lo stesse facendo, né se mi avesse perdonato, ma gli rivolsi un sorriso pieno di gratitudine prima di stringere la mano di Cel e trascinarla lontano da quel tavolo di avvoltoi.
«Ma che…?» protestò Annalisa, tentando di fermarci. Ormai eravamo lontani, con l’indignazione da parte di tutti i fan che mi avevano visto sparire nel retro del locale, e non seppi se ringraziare il Rosso oppure la provvidenza, fatto sta che la mano di Celeste era così piacevolmente calda nella mia. La luna piena, quella sera, ci avrebbe spiati e finalmente era arrivato il momento di affrontare la verità, di fare un faccia a faccia con i miei sentimenti.



Quello era il mio primo appuntamento dopo mesi e mesi passati nella solitudine più assoluta. Non avevo tenuto il conto di quanto tempo fosse trascorso dall'ultima volta che ero uscita con un ragazzo – escluso J, con il quale mi vedevo di tanto in tanto ma solo come amici. Forse ero rimasta traumatizzata dall'ultimo appuntamento serio che avevo avuto con un essere del sesso opposto. Mi aveva portato al cinema a vedere un film dell'orrore di cui non mi ricordavo nemmeno il titolo sperando che mi spaventasse e che io mi avvinghiassi a lui come un koala. Purtroppo per lui, però, non avevo mai avuto paura di fantasmi e zombie, vampiri e altre creature spaventose. Ero troppo razionale per farmi condizionare da quegli stupidi film. E il caro ragazzo aveva allungato le mani per benino credendo che gliela avessi smollata con così tanta facilità. Era vero che le ragazze di sani principi, ormai, erano più rare di una mucca viola e bianca, ma mi sembrava abbastanza chiaro che io non fossi come tutte le altre, che avessi una moralità che non calpestavo solo per tenermi il ragazzotto di turno scopando con lui la prima volta che ci uscivo. Io era una mucca viola in mezzo alla banalità del bianco e nero. E la cosa, invece che farmi sentire una sfigata, mi compiaceva.
Comunque, dopo quella brutta esperienza e dopo un ceffone a metà film a quel maiale avevo chiuso per un po' di tempo con il genere maschile e non  perché non volessi trovarmi un fidanzato o altro, ma perché i maschi erano una delusione. Tutti i ragazzi che avevo conosciuto alla fine si erano rivelati solo dei bastardi che avevano un solo chiodo fisso ossia la Iolanda. Tutte le loro smancerie, le loro paroline dolci, i regalini avevano come scopo finale solo il letto. E, dopo che avevi ceduto alle loro sviolinate, goodbye!, ti gettavano via nemmeno fossi un fazzoletto usato. Magari ero troppo categorica e prevenuta nei confronti di tutti i ragazzi che incontravo e li catalogavo come bastardi prima ancora di conoscerli, ma ero stata illusa troppe volte e tutti quelli che avevo conosciuto appartenevano a quella categoria, fatta qualche eccezione come J.
E come Ruben. Suonava strano pensarlo perché la prima volta che lo avevo visto lo avevo subito catalogato nei cosiddetti – dalla sottoscritta – ragazzi-ape che volavano di fiore in fiore e che dormivano ogni notte in letti diversi. Eppure, con il tempo, avevo compreso che mi ero sbagliata sul suo conto. Lui era uno dei pochi che riusciva a sopportarmi, che non era scappato dal mio caratteraccio e dai miei insulti e sembrava che ci tenesse davvero a me. Non sapevo che cosa fosse che mi dava quella sicurezza, forse il modo così languido con cui mi guardava, oppure perché, seppure si fosse intrufolato sotto le mie lenzuola con me ubriaca accanto non si era approfittato di me. Qualunque altro lo avrebbe fatto, ma Ruben no. Per di più, nonostante i miei ricordi fossero ancora annebbiati, ricordavo la delicatezza dei suoi gesti in quello sgabuzzino in casa di Annalisa e con quale intensità le sue iridi mi guardavano, mi scrutavano, mi desideravano. Era una sensazione strana e al contempo piacevole quella di essere desiderata da qualcuno.
Se lui sembrava così preso da me, la stessa cosa si poteva dire della sottoscritta. Con Ruben stavo bene e mi sentivo strana in sua presenza. Era una sensazione quasi inspiegabile, sapevo solo che quando lui mi era vicino mi sentivo un'altra Celeste.
Peccato solo che il nostro primo appuntamento che avrebbe dovuto essere un modo per conoscersi meglio, per stare un po' da soli si era trasformata in una specie di uscita tra amici, anche se avrei fatto a meno di quella piattola di Annalisa. Era stata lei ad autoinvitarsi portandosi appresso quel peso morto di Robbeo, e la terza coppia si era accollata subito dopo. Il risultato era un'uscita di sei ragazzi caciaroni che non facevano altro che litigare. Robbeo con Leonardo, Robbeo con Ven, Robbeo con Annalisa.
Raggiungemmo il retro del locale, un bellissimo giardino all'aperto con piante di ogni tipo, da semplici cespugli ad alberi che sembravano querce o qualcosa del genere. Era un bel posto, quasi fiabesco e mi sembrava strano che ci avesse portato lì quell'insopportabile dai capelli rossi. Beh almeno aveva buon gusto in qualcosa, dato che nel vestire faceva invidia ad una prostituta.
Ci accomodammo su una panchina uno di fianco all'altro e gli strinsi una mano tra le mie.
«Come va?» gli domandai cercando di non far trasparire la mia preoccupazione. Ok che cominciavo a tenere a Ruben ma non volevo abbassare troppo le mie difese di acido citrico.
«Meglio» rispose con un sorriso «Almeno qui fuori si respira. Lì dentro si schiattava dal caldo»
«Strano» corrugai la fronte e resi gli occhi a due fessure «Io non sentivo così tanta afa»
«Sia io che il Roscio abbiamo le vampate» scrollò le spalle «Staremo andando in menopausa».
Lo guardai con sufficienza, un sopracciglio abbassato e la bocca semi-dischiusa. Era scemo e quello, ormai, era innegabile. E forse era proprio quella sua parte di lui, quel suo essere così spigliato e il suo dire tutto ciò che gli passava per quella testa bacata, anche se erano delle cavolate enormi, che mi piaceva di più. Era un po' come me, con l'unica differenza che io sapevo il congiuntivo.
«Seh, vabbè» sospirai affranta «Comunque mi sembravi alquanto a disagio ed agitato lì dentro» constatai e Ruben sgranò gli occhi. Cominciò a sventolarsi con una mano e mi guardò con gli occhi spalancati e scuotendo la testa.
«Chi? Io?»
«Mio nonno…» risposi sarcastica «Tu, ovvio! Chi, sennò?»
«Anche qui comincia a fare abbastanza caldo, non credi?» tergiversò e il suo atteggiamento mi parve sospetto. Così come il suo comportamento durante tutta la serata. Ancora continuavo a credere che mi nascondesse qualcosa ma non riuscivo a capire che cosa fosse, se fosse una piccola omissione oppure se mi avesse nascosto di essere un assassino, un truffatore, un guaritore dagli strani poteri paranormali, Lord Vodemort. Oppure ero solo io che cercavo di trovare problemi anche dove non c'erano.
«Sarà…» bofonchiai «Ma io sento freddo»
«Per forza. Te sei messa un vestitino striminzito!» sbottò geloso e il fatto che lo fosse mi rallegrò perché significava che per lui non ero una delle tante da portarsi solo a letto «Ti si vedono tutte le gambe»
«La cellulite, vorrai dire!» proruppe una voce stridula che catturò la mia attenzione.
Annalisa era davanti a noi strizzata nel suo abito dal dubbio gusto che le lasciava in vista praticamente tutte le gambe. Lei era la tipica ragazza che faceva girare la testa a qualsiasi essere dotato di Walter e che faceva rivoltare lo stomaco ad una come me. Era per gente come lei che noi ragazze venivamo etichettate come delle poco di buono anche se in realtà avevamo dei validi principi. Non riuscivo a capire che cosa volesse da Ruben. Gli stava sempre appiccicata e non era nemmeno sua amica. Per cui non capivo cose una riccona bonazza come lei  trovasse in un umile fioraio come Ruben. Certo era pur sempre bello, ma un pezzente dato che vendeva fiori. L'avrei vista meglio accanto ad uno come Leonardo e non perché lui fosse un figo – perché, chiaramente, era una talpa dalle “sembianze” umane – ma solo perché era il calciatore più famoso e ricco del momento. Sarebbe stato un buon colpo per una come la piattola. Eppure continuava a perdere tempo con Ruben, il mio Ruben.
Non so se te ne sei resa conto ma hai appena detto “mio”. Qualcuno qui si sta prendendo una bella sbandata per il troglodita.
«Sai, preferisco impiegare i miei pomeriggi a studiare e farmi una cultura, piuttosto che perdere il mio tempo in stupidi saloni di bellezza» risposi acida e Annalisa fece spallucce, dimostrandosi ancora una volta più stupida di una lumaca.
«Si vede, mia cara, che stai sempre rinchiusa in casa» ribatté con sufficienza muovendo i capelli fulvi con una mano «Sei una sfigata» e sorrise compiaciuta.
«Sarò anche una sfigata ma almeno ho un encefalo funzionante» risposi per le rime. Avrei anche voluto aggiungere E Ruben preferisce me a te microcefala, ma me lo risparmiai per non apparire troppo idiota «E, tanto per non farti pensare troppo a quale sia il significato di encefalo te lo dico io: è il cervello, quell'organo che sta nella scatola cranica e che è assopito in gente come te».
Annalisa puntellò le mani sui fianchi e mi guardò con uno sguardo di sfida che ricambiai. Non avevo certo paura di lei e in qualsiasi caso avrei sempre trovato la risposta giusta da spiattellarle in faccia. Quell'imbecille non poteva nulla contro la mia acidità e la mia dialettica, l'avrei ammutolita se avesse di nuovo aperto bocca. E mentre tra i nostri sguardi c'erano non scintille ma proprio lingue di fuoco che saettavano dai nostri occhi, Ruben ci fissava e a sento riuscì a trattenersi dallo scoppiare a ridere.
Annalisa mi scoccò un'ultima occhiata prima di sculettare verso di noi, traballando sui trampoli che portava che dovevano essere scarpe con tacco a spillo e cercò di sedersi in mezzo a me e a Ruben spingendomi con il suo sedere enorme e dandomi delle gomitate. Riuscii nel suo intento, rischiando di farmi cadere dalla panchina e si avvinghiò stretta, troppo stretta per i miei gusti al braccio di Ruben. Gli accarezzò amorevolmente una guancia, passandogli una mano tra i capelli e lui rimaneva lì fisso come un baccalà a farsi toccare da quella sciacquetta, annaspando come un pesce fuor d'acqua.
Forse sei arrivata a conclusioni troppo affrettate, Cel... è come tutti gli altri.
Incrociai le braccia al petto e rimasi a gustarmi la scena in silenzio per vedere che cosa avesse fatto Ruben.
«Rubenuccio, amoruccio, tesoruccio!» miagolò quella con le labbra a sturalavandino «Stai bene, amorino mio?»
«Sì, grazie» rispose quasi intimorito lui.
«Volevi farmi stare in pensiero?» cinguettò Annalisa, ridacchiando «Hai avuto un giramento di testa, un calo di zuccheri, uno sbalzo di pressione, eh, cucciolotto?»
«Avevo molto caldo, tutto qui» disse con un sorriso stiracchiato, cercando di divincolarsi dalla presa della piattola.
«Oh, povero il mio amoruccio!» trillò stringendolo a sé e baciandolo sulla guancia. Lo sguardo verde e scocciato di Ruben cercò il mio come se volesse un aiuto da parte mia. In tutta risposta gli diedi le spalle. Che se la cavasse da solo con il suo amoruccio-tesoruccio-cucciolotto e tutti quegli altri stupidi nomignoli.  Ogni tanto lanciavo loro uno sguardo ma li ritrovavo sempre appiccicati come una cozza e il suo scoglio.
«Annalisa» la richiamò Ruben, spingendo lei e le sua labbra appiccicose lontano da lui «La mia ragazza poi è gelosa» disse e mi rivolse un sorriso.
Annalisa si voltò di scatto verso di me ed assottigliò lo sguardo.
«Ah, già, giusto» borbottò con sufficienza squadrandomi da capo a piedi «Mi ero scordata che hai cominciato ad uscire con le pezzenti»
«Pezzente a chi, microcefala!» sbottai indispettita e per poco non le saltai addosso per strangolarla.
«A te, perché sei una pezzente e ti vesti anche da pezzente» ribatté acidamente «Basta guardare il vestito che indossi. L'avrai trovato su una bancarella»
«E anche se fosse?» chiesi retorica senza distogliere il mio sguardo dal suo «Almeno io non sono vestita da battona».
Annalisa si indispettì e si indignò al tempo stesso, dischiudendo le labbra e guardandomi sconvolta.
«Uno a zero per Celeste. Palla al centro» commentò divertito Ruben ma venne incenerito in contemporanea dai nostri sguardi. Smise subito di sbellicarsi e si limitò a guardare due pazze insultarsi come delle ragazzine delle medie.
Il problema è che sei gelosa.
Sì, lo ero e non c'era bisogno che il mio subconscio me lo ricordasse. Non sopportavo che quella gli ronzasse attorno e sopportavo ancora meno che lui si lasciasse abbindolare dal corpo mozzafiato di quella idiota.
«Non permetterti mai più!» sibilò puntandomi un dito contro «Tu non sai chi sono io»
«Una stupida, imbecille ragazza priva di cervello» le risposi senza esitazione.
Se credeva di metter in difficoltà Celeste Fiore si sbagliava di grosso. Nessuno era in grado di zittirmi, se non Ven. Lei era l'unica che riusciva a farmi tacere per via della sua spiccata intelligenza che avrebbe fatto impallidire chiunque. Era scaltra quella ragazza e già mi immaginavo una serie televisiva con lei come protagonista.
«La figlia del presidente della Roma» replicò stizzita,  per poi sorridere sorniona «E vuoi sapere una bella cosa, pezzente?» domandò retorica.
Passarono alcuni istanti in cui cercò con il suo silenzio di far aumentare la suspense. Peccato solo che non sapesse che a me del calcio importava meno di zero, così come i calciatori della Roma.
«Leonardo Sogno è...» esordì ma una mano di Ruben le tappò la bocca prima di finire di parlare.
«È balbuziente» completò per lei la frase e rise nervosamente.
«Lo avevo intuito dal Tu-tu-tu-tu» risposi sarcastica e linciai con lo sguardo prima uno poi l'altro.
«Annalisa pensava che non te ne fossi accorta» e il suo continuo parlare mi sembrava un tentativo di arrampicamento estremo sugli specchi insaponati. Tutta quella situazione era molto più che sospetta e mi sarebbe piaciuto, in quel momento, parlare con Ven per sapere che cosa ne pensasse di tutta quella faccenda che mi stava facendo impazzire.
La piattola afferrò con decisione la mano di Ruben e si liberò la bocca. Prese un respiro profondo e si ricompose, poi tornò a sorridermi.
«Non era questo che volevo dirti, Celeste» riprese calcando il mio nome «Ti volevo parlare di Leonardo...»
E, ancora una volta, venne interrotta. Ma questa volta non da Ruben, bensì Ven che ci raggiunse tutta esaltata, correndo verso Annalisa. Le afferrò entrambe le mani e la obbligò ad alzarsi lasciandoci tutti leggermente basiti.
«Ti stanno cercando» le disse con un sorriso.
«Chi?» domandò dubbiosa Annalisa.
«Un fotografo di moda» rispose la mia amica «Non mi ricordo il nome ma dice di aver lavorato con le migliori modelle in circolazione. Kate Moss, Irina Sheyk...» e, ad ogni nome che Ven faceva gli occhi di Annalisa diventavano sempre più grandi e felici «Ti ha notata e ora vuole parlarti!»
«E cosa stiamo aspettando allora?» esclamò eccitata, sistemandosi i capelli e il vestito e cominciando a camminare a passo svelto verso il locale, senza nemmeno degnarci di uno sguardo. Ven la guardò allontanarsi, poi si voltò verso di me e mi fece un occhiolino. Capii che aveva mentito, che quel fotografo era di sua invenzione e che aveva fatto quella messa in scena solo per liberarci di Annalisa. Venera la seguì poco dopo e così rimanemmo soli io e Ruben. Lo guardai arcigna, con le braccia incrociate e l'unica cosa che fece su scrollare le spalle.
«Quando ti deciderai a liberarti di quella?» domandai imbestialita.
«Non è facile come sembra» ridacchiò nervoso Ruben, grattandosi la nuca.
«E perché?» tuonai con le saette che mi schizzavano fuori dagli occhi.
«Lei è la figlia del presidente della Roma e non vorrei che la mia scortesia creasse danni per il povero Leonardo» spiegò ed io non ero del tutto convinta delle sue parole. C'era sempre qualcosa dietro le sue frasi, nascosto dietro di esse, qualcosa di non detto e che non riuscivo a comprendere di cosa di trattasse.
«Leonardo, eh» ripetei sospettosa e lo vidi sbiancare a poco a poco «Sai per caso cosa voleva dirmi a proposito di Leonardo?».
Ruben deglutì a fatica e farfugliò qualcosa. Quando si parlava di Sogno si agitava sempre e non mi spiegavo il motivo. Cominciava a venirmi il dubbio che magari Leonardo fosse lui stesso, ma era assolutamente impossibile. Perché mentirmi sulla sua identità? Sarebbe stato da idioti.
«Ha picchiato un suo compagno. Brutta faccenda» disse annuendo a se stesso e abbozzando un sorriso.
«Ah, già. Ho sentito qualcosa del genere» commentai per nulla interessata al discorso «Sai che me ne frega di quella talpa. Che poi non capisco come abbia potuto sferrare un pugno a qualcuno senza sfracellarsi la mano. È più secco di un grissino!»
«Sembra piccolo, ma quando si arrabbia diventa una specie di Hulk» rispose ridacchiando.
Sorrisi di rimando, anche se nella mia espressione non c'era nulla di divertito. Era solo un contentino perché tutto quel mistero inspiegabile non mi faceva affatto ridere. Se c'era qualcosa che odiavo e che detestavo con tutto il mio cuore era essere presa per il sedere. Mi era successo troppe volte di venire tradita sia da amici opportunisti che vedevano in me solo la secchiona a cui chiedere le risposte del compito in classe e poi venire totalmente ignorata; sia da “fidanzati” che dicevano di essere tali ma che poi mi mollavano come una deficiente per correre dietro alla figa di turno. E avevo paura che potesse succedere anche con Ruben. Mi ero affezionata a lui e forse sarebbe potuto nascere qualcosa tra di noi. Non sapevo se sarei riuscita ad accettare l'ennesima delusione, per di più da un ragazzo a cui volevo davvero bene e a cui mi stavo aprendo a poco a poco.
Una folata di aria fredda, che non si addiceva per niente al clima di Aprile, mi fece congelare e rabbrividire. Mi strinsi in un abbraccio e strofinai le mani per ricavare un po' di tepore. Ma, d'improvviso, una calda giacca mi avvolse e il sorriso di Ruben mi infuse un calore che nemmeno un fuoco ardente avrebbe potuto donarmi. Abbozzai un sorriso imbarazzato anche io e lo ringraziai con un filo di voce. E in quel momento capii che ero davvero attratta da lui per via dell'imbarazzo. Solo pochi ragazzi erano riusciti a farmi arrossire e per tutti loro avevo provato una certa attrazione.
«Così tu ti ripari dal freddo e io mi godo un po' di aria fresca» ridacchiò e mi strinse una spalla attirandomi verso di sé «Comunque... chi diavolo è quella? Una specie di Sherlock Holmes in gonnella?»
«Chi?» domandai confusa lì per lì.
«Vermiglia, Veruska, Verdiana...» cominciò ad elencare e intuii che stesse parlando di Ven.
«Venera» lo corressi leggermente seccata.
«Venéra?» chiese conferma ed io sbuffai sonoramente. Non mi sembrava così difficile pronunciare quel nome. Ma da uno come Ruben potevo anche aspettarmelo. Era un miracolo se sapesse l'italiano.
«Lasciamo perdere, va’» bofonchiai irritata «Non sai nemmeno coniugare il verbo essere all'indicativo, figurarsi capire la pronuncia del suo nome»
«Aridanghete co' ste battutacce!» esclamò e la sua voce era divertita, così come il suo viso e i suoi occhi sorridenti. Scoppiò a ridere ed io con lui. Non eravamo mai stati così in sintonia come in quel momento ed era bello sentire la sua risata cristallina, vederlo divertito nonostante la mia ennesima battuta spiacevole sulle sue capacità intellettive. Ma oramai era una routine per noi. Io lo prendevo in giro e lui incassava le mie frecciatine senza battere ciglio. Così come era abitudine ormai il mio dito indice che gli pungolava il petto. Erano tutti gesti e parole idiote che erano entrate a far parte della nostra quotidianità. Ed io ero un tipo abbastanza abitudinario, per cui pensare di non poterlo più prendere in giro e infastidirlo con il mio dito mi creava una morsa allo stomaco. Scacciai quel pensiero e mi godetti quel momento. Era da tanto, troppo tempo che non ridevo così di gusto, che non mi divertivo in quella maniera con un ragazzo.
Peccato solo che quel momento assolutamente perfetto venne interrotto dalla voce insopportabile di quella gallina strozzata di Annalisa. Appena la sentì, Ruben scattò in piedi e mi afferrò il braccio, trascinandomi con lui dietro una fitta siepe che ci avrebbe nascosti dalla piattola. Si portò un indice davanti alle labbra e si sporse leggermente in avanti per vedere le mosse della rossa.
«Rubenuccio, amoruccio-puccio! Mi hanno ingannata! Non c'era nessun fotografo» piagnucolò «Rubenuccio, cucciolotto, dove sei?» e lo chiamò a gran voce. Sentii il rumore dei suoi tacchi riecheggiare e me la immaginai girare intorno alla ricerca di Ruben e frignare come una bambina perché  non trovava il suo adorato.
«Rubenuccio?» tentò di nuovo, ma non ricevendo una risposta batté violentemente un piede contro il terreno e se ne andò, molto probabilmente stizzita.
«Che genialata quella di nasconderci dietro la siepe» gongolò tutto soddisfatto.
«Capirai» borbottai «Non hai mica scoperto  come è avvenuta la creazione della Terra»
«Intanto l'idea è stata mia» si pavoneggiò ancora «E non della geniale Celeste Fiore»
«Vuoi un Nobel?» domandai sarcastica, incrociando le braccia al petto.
Ruben sembrò rimuginarci su e si grattò perfino il mento, guardando il manto di stelle che ci osservava dal cielo. Poi mi scoccò un'occhiata maliziosa e mi passò una mano dietro al schiena, avvicinandomi a lui. La sua intraprendenza mi stupì ma non mi scomposi più di tanto. Se fossi stata la vecchia Celeste gli avrei mollato l'ennesimo calcio negli stinchi. Ma ormai mi piaceva sentire il suo corpo a contatto con il mio e la sua presenza non mi infastidiva più.
«Preferirei un bacio» mormorò sporgendosi verso di me e avvicinando pericolosamente le sue labbra alle mie.
«E sei così sicuro che lo riceverai?» domandai retorica vedendolo già a pochi millimetri da me pronto ad assaporarmi.
«Non vorrai negarmi il mio premio per la genialata di poco fa» ribatté sarcastico, accarezzandomi una guancia con il dorso della mano «Me lo merito».
Nel suo gesto c'era un'infinita dolcezza, qualcosa che da lui non mi sarei mai aspettata e il suo sguardo verde era liquido, due smeraldi preziosi che mi guardavano con desiderio. Non avevo mai visto un ragazzo con quello sguardo e che soprattutto mi volesse così ardentemente. Vacillai di fronte a quello sguardo e così avvolsi le braccia attorno al suo collo e sorrisi, alzandomi sulle punte perché, nonostante le scarpe con il tacco, Ruben rimaneva sempre troppo alto per una tappa come me. La sua stretta sul mio corpo si fece più forte e, in pochi secondi, le nostre labbra si sfiorarono, diventando un tutt'uno. Finalmente un bacio che poteva ritenersi tale. Non c'erano stupide scommesse in ballo e non dovevo nemmeno fingere di essere la sua ragazza. Era nato così, spontaneamente perché lo volevamo, perché desideravamo entrambi sentire le labbra dell'altro e non perché costretti da qualcosa o qualcuno. E il sapore di quel bacio fu molto più dolce dei precedenti e forse bisognava ringraziare anche la tranquillità che ci circondava, quel contesto fiabesco che rendeva tutto ancora più irreale. Già, perché non mi sarei mai immaginata che tra me e lui sarebbe potuta scoccare la scintilla. Eravamo di due pianeti differenti, abitavamo ai poli opposti della terra ed eravamo completamente diversi. Lui un troglodita fissato con il calcio ed io una secchiona tutta casa ed Università. Per non parlare del fatto che Ruben fosse un troglodita e che non avesse ancora fatto nulla per smentire quel mio pensiero. Eppure a me piaceva così com'era anche se era un uomo delle caverne.
La sua lingua entrò nella mia bocca cauta e lenta, senza nessuna irruenza ma con una passione ardente. Andò a stuzzicare la mia e non attesi nemmeno un secondo per avvolgerla attorno alla sua, per rincorrerla, per danzarci insieme e per assaporare il suo sapore.
Era bello baciarlo senza sentire il mio subconscio trapanarmi il cervello, e il suo silenzio mi permetteva di godere ancora di più delle sue labbra e della sua lingua che lambiva la mia. Una volta tanto era giusto che il mio cervello si spegnesse, che non pensassi a nulla e che ragionassi ogni tanto con il cuore. Con l'andare del tempo, a furia di non usare più il muscolo cardiaco, a furia di guardare tutto con razionalità e senza sentimento ero diventata un insopportabile pezzo di ghiaccio e lo capii solo in quel momento. Aveva ragione Ruben quando diceva che avrei dovuto staccare il cervello e divertirmi senza che il mio raziocinio mi frenasse. Questo, però, non significava che avrei abbandonato il mio subconscio. Non lo avrei mai fatto perché, insieme a Robbeo e Ven, lui era il mio migliore amico, il mio miglior consigliere, il mio grillo parlante che mi guidava in ogni scelta da fare.
Le mani di Ruben guizzarono sulla mia schiena, percorsero la sua curva regalandomi brividi di piacere e si fermarono sulle mie natiche. Una di loro indugiò sul mio fondoschiena mentre l'altra non si fermò, ma scese verso la mia coscia intrufolandosi sotto il vestito per solleticare la mia pelle nuda. Fosse stata un altro contesto, un altro momento, un altro ragazzo lo avrei preso a cazzotti. Ma mi piaceva sentire le sue mani forti su di me, lambire la mia pelle. Era come se mi stesse dimostrando, per l'ennesima volta, quanto tenesse a me e quanto mi desiderasse. Ed io sentivo lo stesso nei suoi riguardi. Lo volevo, soprattutto ricordando quello che era successo a casa di Annalisa. Anche se mi imbarazzava ancora rivivere quell'immagine, dovevo ammettere che mi era piaciuto. Magari potevo sembrare una pervertita-depravata che faceva servizietti a tutti quelli che passavano. Ma con lui non riuscivo a controllarmi e non mi era mai capitato con nessuno che desiderassi così tanto ogni singola parte del suo corpo. Nemmeno con J, che avevo sempre creduto fosse il mio ragazzo ideale. Invece si era rivelato essere solo un buon amico, niente più. Era troppo simile a me ed io avevo bisogno di qualcuno che mi aprisse gli occhi e che mi mostrasse cosa fosse davvero la vita.
Le nostre labbra erano come incollate e si allontanavano solo per alcun secondi per riprendere fiato, per permetterci di respirare anche se in quel momento l'unica cosa di cui avevo bisogno era il suo calore. Spostai le mani dal suo collo alle clavicole e cominciai a sbottonargli i primi bottoni della camicia scoprendo il suo petto glabro, ampio e perfettamente scolpito. Lo accarezzai, percorsi i solchi tra i suoi pettorali e mi sentii invadere da un fuoco che dal basso ventre si diramò in tutto il resto del corpo. Non mi era mai capitato di avere sotto le dita un fisico così perfetto e non ne avevo mai sentito il bisogno, sinceramente. Avevo sempre anteposto il cervello al corpo e mi stupiva come quel suo fisico asciutto che sembrava essere stato scolpito da un raffinato artista greco potesse sconvolgermi così tanto. Avrei dovuto abituarmi, comunque, visto che con Ruben ogni secondo era una sorpresa.
Agli schiocchi dei nostri baci si unirono dagli ansimi sommessi che i nostri tocchi leggeri ed eccitati riuscivano a strapparci. Mi strinsi di più a lui sentendo che il solo contatto con i suoi pettorali non mi bastava più. Sentii tutto il suo corpo spalmato su di me e il fuoco incendiò ogni nostra fibra, ogni nostra membra. Il nostro primo incontro era stato un disastro. E non solo perché mi aveva bagnata dalla testa ai piedi ma anche per il comportamento da cafone che aveva tenuto in casa mia. Non avrei mai più voluto vederlo dopo quell'episodio, ma grazie al casco di Valentino lui era tornato da me. E, in quel momento, l'ultima cosa che avrei voluto che accadesse era perdere Ruben e non vederlo mai più.
Le sue mani serpeggiarono di nuovo lungo il mio corpo come se volesse studiarlo a fondo e conoscere ogni sua parte, imprimersela nella memoria. Dalla coscia e dalla natica risalirono entrambe disegnando il profilo dei miei fianchi, portandosi verso il ventre e continuando il loro cammino sulle costole. Si fermarono entrambe sui miei seni e li strinsero con delicatezza, strappandomi un gemito che si perse nella sua bocca calda. C'era tutto in quel bacio, tutto quello che avrei potuto desiderare. C'era dolcezza, c'era passione, c'era voglia di scoprirsi e qualcosa che non sapevo decifrare ma che mi faceva battere il cuore all'impazzata. Di certo non era amore, era troppo presto perché potessimo già definirci innamorati. Era già tanto se dopo così poco tempo eravamo nascosti dietro ad una siepe a sbaciucchiarci. Era nato tutto così velocemente forse perché eravamo l'uno l'antitesi dell'altra, eravamo due pezzi di uno stesso puzzle che si erano ritrovati dopo tanto tempo e che finalmente si riunivano e si completavano. Lui era ciò che io non ero mai stata e viceversa.
Gli morsi un labbro con dolcezza e quello mise fine al nostro bacio. Nonostante le nostre lingue non fossero più in contatto e nonostante le sue mani erano tornate sui miei fianchi la passione ancora bruciava nei suoi occhi verdi, li stava divorando rendendo quelle iridi sempre più liquide e dilatate, sempre più scure e bramose.
«Molto meglio di un Nobel» commentò ansante giocando con una mia ciocca di capelli.
«Alla fin fine questo appuntamento non è stato poi così male» dissi a mia volta sorridendogli.
«Diciamo che ha avuto una bella conclusione» replicò raggiante.
«Già» fu l'unica cosa che riuscii a dire e dopo quella mia semplice parola, tra di noi, cadde il silenzio. Nessuno dei due sapeva come riprendere in mano il discorso forse perché ad entrambi rimbalzava in mente la stessa domanda. Dopo un bacio come quello era inutile continuare a fingere che tra di noi non ci fosse nulla, che tra di noi ci fosse solo un'amicizia. C'era qualcosa ed era innegabile. L'unico problema era capire che cosa fosse e se avrebbe potuto avere un futuro. Mi sembrava troppo presto per intraprendere qualcosa di serio e non sapevo se fidarmi di lui o meno, date le mie esperienze passate. Tutte erano state una fregatura ed avevo il timore che anche quella “storia” avrebbe potuto concludersi allo stesso modo.
«Beh...» mormorò grattandosi la nuca «...si potrebbe provare, no?» disse imbarazzato.
«Cosa?» domandai un po' impaurita da quello che stava per accadere.
«A stare insieme» propose guardandosi le scarpe «Ma ti avviso, non ci sono abituato»
«Nemmeno io. Diciamo che è da talmente tanto tempo che non ho un ragazzo che mi sono dimenticata cosa si prova» ridacchiai ma mi fermai subito quando tutte le delusioni d'amore tornarono a galla «Non so, in realtà» sospirai e abbassai lo sguardo «È come se ci fosse un muro tra di noi»
«Lo so, lo percepisco anche io» ammise annuendo «Ma i muri si abbattono, no? Lo abbatteremo anche noi» e mi sorrise dolcemente.
Era la prima volta che mi trovavo in difficoltà. Di solito trovavo sempre la strada da intraprendere, così come avevo sempre la decisione pronta. Ma di fronte a quella proposta non sapevo come comportarmi. Da un lato c'erano tutte le ferite aperte che alcuni cazzoni mi avevano lasciato e dall'altro Ruben, il nostro bacio e quel muro che c'era tra di noi. Ma che avremmo potuto superare senza troppe difficoltà.
Il passato è passato. Goditi la vita senza pensare troppo alle conseguenze.
Ed ancora una volta il mio subconscio aveva trovato la strada giusta, mi aveva dato l'ennesimo consiglio ed era proprio quello che avevo sperato di sentirmi dire. Gli sorrisi di rimando e lo baciai di nuovo, arginando quella passione che ci aveva colto poco prima. Al diavolo tutto! Dopo tanto tempo avevo finalmente trovato un ragazzo che mi piaceva veramente e con il quale mi sentivo bene, e non lo avrei lasciato scappare per uno stupido luogo comune, degli stupidi pregiudizi che avevano condizionato la mia vita.


[1] dal ''romanaccio'' all'italiano (1a parte): dicesi 'prospero' persona dai capelli fulvi, in richiamo al più comune oggetto per accendere un fuoco, cioè il fiammifero. Se si nota la forma di tal strumento, risalta all'occhio la capocchia piuttosto rossa, proprio come la capigliatura del nostro Romeo, perciò l'autrice ha utilizzato tal sinonimo.



Che bel banner *W*
(se lo dice da sola)
Ed eccoci qui alla fine di questo capitolo tremendamente puccioso di Leuccio e Celestuccia! \O/ ho ancora gli occhi formato cuoricino danzante. Ma.. ma.. ma..! Cosa dire di questi due?? E' vero che erano partiti col piede sbagliato, che fino a 2 capitoli fa sembrava tutto perduto ancor prima di cominciare, ma io li vedo così bene insieme.. sono fatti l'uno per l'altra!
Leonardo è ancora aggrovigliato nella sua stessa fitta rete di bugie, tessuta una dopo l'altra con pazienza e con la 'forzata' complicità di quel pover uomo di R-R-Ru-Ruben e quell'altro svitato di Robbeo. Prima o poi dovrà dire la verità -direte voi- ma abbiamo in serbo altre sorpresuccie.. bisogna farlo faricare il nostro bel calciatore. La vita mica è così facile, eh?
In questo capitolo è stato molto dolce, ma la prima parte è stata soprattutto occupata dai personaggi secondari di questa storia. Lo so, sarò ripetitiva, ma come ho già detto sul gruppo AMO FOLLEMENTE questa trama e TUTTI i personaggi che ne fanno parte, persino Annalisa (avrà il suo perché) u_u
Ma il comportamento strando di Leo&Co. ovviamente insospettisce Celeste. Ha capito che tra di loro c'è qualcosa di non detto e questo avrebbe potuto frenare in un qualche modo la loro relazione. Ma, per una volta, ha messo a tacere la sua parte razionale e si è lasciata trasportare dai suoi sentimenti come non faceva ormai da tempo. Anche lei in fondo a tutto quell'acido e a quel cinismo ha un cuore che batte.. in questo caso per Ruben/Leo.
E poi volevo aggiungere una cosa.. cioè.. CIOE'! 18 recensioni lo scorso capitolo! Ma noi vi AMIAMO CON TUTTO IL NOSTRO HEART! *piange a dirotto* a me non era mai capitato di riceverne così tante perciò mi sono sentita così emossionata!
GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE!
Soprattutto per chi ci ha detto di voler segnalare Come in un Sogno nelle scelte.. *piange ancora come una cretina*.. sono queste le cose che ci riempiono il cuore di gioia e ci fanno andare avanti, ogni giorno, tornate dall'università e scrivere, scrivere, scrivere *sta facendo la melodrammatica*.

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Capitolo 10
*** Un Sogno di troppo ***



CAPITOLO 10

Betato da nes_sie


Celeste Fiore
3393771***
Dieci numeri. Dieci semplici cifre l’una messa dietro l’altra e all’apparenza prive di alcun senso, almeno per qualcuno che non fossi io. Quello era il numero di telefono che aveva dato inizio a tutto, al mio cambiamento, a quella parte del mio cuore che non avevo mai utilizzato, che era rimasta atrofizzata fino a quando non si era scontrata con un paio di occhi azzurri. Fissavo lo schermo dell’iPhone da una buona mezz’ora, sperando succedesse qualcosa di tremendamente sconvolgente, ma la gigantografia della Curva Sud risplendeva nello wallpaper del telefono.
Muto.
Erano passate 13 ore da quando avevamo lasciato Il giardino segreto e Celeste non si era fatta sentire. Non che fossimo rimasti d’accordo per un’altra uscita – e soprattutto io non avevo la minima idea di come funzionassero queste cose – ma dalle poche informazioni in mio possesso, credevo di doverle telefonare.
Il problema era il come. Cosa le avrei potuto dire? Come avrei iniziato la conversazione? Era vero che la sera prima era successo qualcosa, finalmente si erano smosse le acque e Celeste non mi aveva preso a sganassoni, anzi, c’era stato anche l’happy ending. Ricordavo ancora il bacio che ci eravamo dati, il nostro primo vero bacio – senza ricatti o sotterfugi.
Ti rendi conto che stai pensando come se fossi in un romanzo della Austen? Cosa vuoi, una tazza di tè? Vuoi cominciare a fare il ricamo?
Il mio Ego alle volte faceva del sarcasmo la sua arma migliore. Scacciai via quei pensieri che avrebbero divertito il ‘vecchio’ Leonardo e sospirai, fissando lo sguardo sullo schermo del telefono. Di questo passo si sarebbe scaricata la batteria senza che concludessi un emerito nulla. Era una dannata telefonata, mica le avrei chiesto di sposarmi!
L’immagine di Celeste in abito da sposa ferma davanti all’altare di una chiesa mi solleticò la mente, e di punto in bianco inorridii. Leonardo Sogno fidanzato, Leonardo Sogno marito, Leonardo Sogno padre. Il salto era breve e immediato, mentre il panico cominciava già a serpeggiare nel mio cervello.
«C-Ch-Che f-fai?» La voce di Ruben mi riscosse dai miei timori, facendomi sobbalzare, poi decisi di darmi una regolata e mi sedei sul bordo del letto, lanciando il telefono il più lontano possibile.
«Niente.» Borbottai.
Il mio migliore amico non si lasciò ingannare tanto facilmente da quelle mie parole, ormai sapeva com’ero fatto, perciò entrò nella mia stanza e mi si accomodò vicino. Non disse nulla, almeno per il momento, e quel silenzio preludeva solamente un altro dei suoi consigli spassionati da “migliore amico”.
«L-Le-Leonardo,» iniziò, recuperando l’iPhone dall’altro capo del letto. «N-No-Non vo-voglio che t-tu-tu mi fraintenda. Q-Quando ti ho d-de-detto che a-avere una r-ra-raga-ragazza era s-so-solo una d-di-distr-distrazione, n-no-non p-pe-pensavo fossi c-co-così p-pre-preso.» Borbottò imbarazzato.
«Io non sono preso!» Sbottai, saltando subito sulla difensiva.
Gli occhi di Ruben si spalancarono dalla sorpresa, ma ormai era evidente che non riuscivo a ingannare nemmeno me stesso. Lo vidi spostare lo sguardo sullo schermo dell’iPhone, poi me lo passò gentilmente. «C-Chi-Chiamala.» Sospirò.
Rimasi immobile a tenere il telefono tra le mani, quasi come se mi avesse ipnotizzato.
«S-Se i-io ave-avessi una ragazza,» mormorò, alzandosi e facendo per andarsene dalla mia stanza. «N-No-Non esi-esiterei a s-se-sentire la s-sua v-vo-voce.»
Quelle semplici parole, forse dette nella più completa sincerità, mi diedero quella forza necessaria a comporre il numero di Celeste e a pigiare sul tasto verde della chiamata. Quando sentii il primo squillo, tutte le preoccupazioni che avevo avuto volarono via e mi sentii un vero idiota ad essermela fatta sotto solo per una stupida telefonata. Ruben aveva ragione, Celeste era la mia ragazza.
«Pronto?» La sua voce all’altro capo del telefono mi spiazzò di primo acchito, ma non potevo rimanermene in silenzio oppure riattaccare come un dodicenne.
«Bella!» Sputai, innervosito ed imbarazzato allo stesso tempo.
Bella? Hai davvero salutato la tua ragazza con ‘bella’?
«Ruben, sei tu?» Mi chiese lei perplessa.
«E chi, sennò? Il lupo mangia-frutta?»
Si udì un lungo sospiro ed io credei che mi avrebbe attaccato in faccia. «Finalmente ti sei deciso a chiamare, eh?» Bofonchiò infastidita.
Rimasi totalmente allibito. «Eh?»
«Ho detto: sei.finalmente.riucito.a.chiamarmi. Cos’è? Hai perso di nuovo il mio numero?»
La piega che quella conversazione aveva preso mi stava già facendo incazzare. Come al solito Celeste era acida come lo yogurt scaduto e mi stava trattando come una pezza da piedi.
Libera! Libera! L’Orgoglio di Leonardo sta tornando in vita!
«Io? Non potevi chiamare tu?» Sottolineai, poi, stufo di farmi mettere sotto da una ragazzina.
«Solitamente sono gli uomini che devono chiamare le proprie ragazze, il giorno dopo il primo appuntamento,» puntualizzò, ed ero più che sicuro che stesse agitando quel dito indice senza alcun freno. «L’ultima volta che ho controllato funzionava così, poi se tu, Mr. Egocentrico, vuoi stravolgere le regole del corteggiamento, fai pure.»
Ora era davvero arrabbiata.
Guardai il conteggio dei minuti della chiamata e l’orologio segnava 00.18. Non eravamo nemmeno arrivati a mezz’ora di telefonata e già stavamo litigando, che record perfetto.
Sospirai e decisi di abbozzare, per una volta. «Scfufaehm..» Bofonchiai, smozzicando le parole.
«Prego? Come hai detto?» Domandò subito Celeste, con una voce pressoché assordante.
«Lascialo parlare, dagli respiro!» Si sentì una voce di sottofondo.
Venera, quella santa donna. Alla fine di tutta quella storia avrei dovuto erigerle un monumento perché anche se avevo il sospetto più che fondato che stesse ficcanasando nella mia immensa rete di bugie, sapevo che ci teneva a questo rapporto.
«Ho detto che mi dispiace, va bene?» Brontolai. «È che…» E lì mi bloccai, perché non sapevo spiegarle il motivo per cui non avevo avuto il coraggio di telefonarle.
Scese il silenzio su quella conversazione già diventata di per sé imbarazzante, mentre la mia mente ancora non riusciva a partorire una scusa decente.
Ti sei inventato una vita non tua e non riesci a spiattellarle una cazzata?
«Ad ogni modo,» tagliò corto lei. «Perché hai chiamato? Spero non unicamente per dirmi “bella” come hai fatto prima…»
«Ti va di andare al cinema?» Sputai tutto d’un fiato, sperando la finisse di blaterare.
«Oh…» Disse solamente, spiazzata da quella richiesta.
«Sì, beh,» temporeggiai. «Avevo pensato ad un filmetto, così, per passare il pomeriggio.»
«Avanti, digli di sì! Cosa aspetti?» Udii di nuovo distintamente dall’altro capo del telefono.
«O-Okay, passi qui?» Mi domandò. «Devo prepararmi.»
«Perfetto, arrivo tra poco.» Le risposi, sorridendo di me stesso.
Avevo ottenuto una piccola vittoria personale facendo quel semplice gesto di ‘carineria’ che lei non si aspettava di certo da un troglodita come me. Alla fine ero riuscito a zittirla con delle semplici parole, cosa che non mi sarei mai aspettato da me stesso.
Prima di attaccare mi fermò con un «Ah, Ruben?»
«Sì?» Le chiesi, credendo dovesse aggiungere qualche insulto sottilmente velato.
«Speravo chiamassi.» Poi chiuse la telefonata senza nemmeno darmi il tempo di rispondere.
Fissai lo schermo dell’iPhone con la faccia da ebete, mentre sentivo il cuore che palpitava veloce nel petto. Possibile che mi sentissi così scombussolato dopo aver semplicemente udito la sua voce?
Speravo chiamassi.
Quelle due parole mi avevano ridotto le gambe alla stessa consistenza del burro e decisi di cominciare a vestirmi se non volevo ancora indugiare su quei pensieri smancerosi. Andai all’armadio e tirai fuori la tuta della Magica, quella blu scuro e rossa, poi ci abbinai una maglietta afferrata dal mucchio. Le air-max ai piedi e dopo nemmeno un quarto d’ora ero pronto. Un ultimo sguardo allo specchio, per fare un salutino al figo che mi restituiva l’immagine attraverso il riflesso, poi cercai le chiavi della 500 Abarth.
Certo non potevo presentarmi all’appuntamento con Celeste a bordo dell’Audi. Per la sera prima avevo avuto la scusa di Ruben, essendo lui Leonardo, ma se volevo passare da solo qualche momento con lei, avrei dovuto fare a meno del mio migliore amico.
«Dove sono le chiavi della Abarth, Ruben?» Urlai, sperando che mi sentisse.
Dopo poco lo sentii accorrere più di furia che di prescia alla porta della sua stanza, spalancandola e facendo la sua comparsa. Aveva un’aria arruffata e sconvolta, come se lo avessi sorpreso a farsi una pippa davanti ad un video porno.
«Che hai fatto?» Chiesi incredulo.
«N-Ni-Niente!» Rispose lui, appiattendosi i capelli sulla fronte e sistemandosi meglio gli occhiali.
Quel suo comportamento mi stava insospettendo non poco, soprattutto il suo modo maniaco-ossessivo di socchiudere la porta alle sue spalle. Era evidente che stava facendo qualcosa in quella stanza, ma non avevo idea di quale fosse il motivo per cui dovesse nasconderlo al suo migliore amico.
«Sicuro di non star combinando nulla di losco?» Gli domandai di nuovo, tentando di sbirciare oltre le spalle di Ruben ma riuscii solamente a vedere il suo iMac acceso.
«I-I-Io?» Tentennò, imbarazzato.
Ancora non mi convinceva il suo comportamento, ma avevo ben altre cose a cui pensare e soprattutto un bel paio di labbra soffici da baciare.
«Senti, dove sono le chiavi della 500?» Gli chiesi, sperando si sbrigasse a porgermele.
Ruben sgranò gli occhi e si portò una mano dietro alla nuca. «M-Mi p-pa-pareva di a-avertelo d-de-detto ie-ieri. L-le chi-chiavi se l’è p-pre-prese tuo cugi-cugino S-Si-Simone.»
D’improvviso una voce nella mia testa mi ricordò che effettivamente ciò che diceva Ruben era vero e imprecai una seconda volta. Quel cazzone non poteva restarsene in Inglesilandia? Possibile dovesse tornare a tormentarmi pure qui?
Calma, Leo. Basterà evitarlo come la peste.
«Uhm... okay.» Bofonchiai, incapace di pronunciare il nome di mio cugino.
Se la 500 era sparita dal box, come avrei fatto ad andare da Celeste? Quale altra cazzata mi sarei inventato per farle capire che non guadagnavo 30.000 euro al mese?
«Dannazione!» Imprecai, sotto lo sguardo confuso di Ruben. «E adesso come cazzo faccio con Cel?!»
«P-Po-Potrei a-averti p-pre-prestato la m-ma-macchina...» suggerì il mio amico, calandosi nella parte del calciatore facoltoso.
«No, non regge,» bocciai l’ipotesi. «Già sto camminando sul filo di un rasoio, poi c’è quella gnappetta che mi tiene per le palle e al primo passo falso capirà tutto.»
Stavo per proporre l’orribile ipotesi di prendere i mezzi pubblici, quando mi tornò alla mente la vespa scassata del mio migliore amico.
«Erika! La vespa!» Me ne uscii trionfante. «Damme le chiavi!»
«Ve-Veramente s-sa-sarebbe Eureka…» Mi corresse lui, ma lo fulminai con lo sguardo.
«Chiavi. Ora. Immediatamente.» Sillabai coinciso.
Ruben rientrò nella sua stanza, senza ovviamente farmi sbirciare nulla, poi riuscì mostrandomi il mazzo tintinnante nella sua mano.
«T-Tra-Trattamela b-be-bene.» Si raccomandò, poi afferrai di corsa i caschi e mi precipitai verso il garage.
Montai in sella al vespino e mi immisi immediatamente nel traffico della capitale – che la Domenica pomeriggio era infernale – ma fortunatamente, zigzagando tra le automobili con esperienza, riuscii a raggiungere il portone di Celeste in poco tempo. Parcheggiai la vespa sul marciapiede e mi tolsi il casco. Inspirai e mi avvicinai al portone dell’appartamento. Mi sentivo nervoso e non sapevo nemmeno il perché. In fondo, fin da quando io e Celeste ci eravamo conosciuti, avevo passato praticamente tutti i giorni sotto quel portone, attaccato a quel citofono, ma ora come ora mi sembrava di essere davanti alla gogna.
Dovevo stare calmo, dannazione, non potevo comportarmi come un cretino qualunque. Che il nome ‘Ruben’ mi facesse rincitrullire del tutto? Ero sempre Leonardo Sogno, porca zozza, il calciatore più affermato del momento, mica potevo stare imbambolato di fronte a quel citofono come un babbeo qualunque!
«Ehi, bello!» Mi sentii chiamare, poi voltandomi vidi la chioma fulva di Romeo.
«Ehi.» Mormorai, allontanandomi dal portone per non dovergli spiegare il motivo per cui non avevo ancora citofonato.
«Devi salire?» Mi chiese, tirando fuori il mazzo di chiavi dal giubbetto.
Non che avessi il fiuto di un segugio, ma quando il Rosso mi si avvicinò avvertii un certo profumo acre, qualcosa che avevo già sentito da qualche parte ma non ricordavo dove. Sembrava avesse fatto il bagno nello Chanel n°5.
«Magari, io e Celeste andiamo al cinema.» Bofonchiai, mordendomi all’ultimo la lingua e ricordandomi che Romeo poteva ancora essere incazzato con me per la storia della festa di Annalisa.
Gli occhi verdi di Romeo si scontrarono con i miei, ma non vi lessi invidia nelle sue iridi. Fu solamente sorpreso. «Ah, e cosa vi andate a vedere?»
Nel frattempo l’androne della palazzina si aprì di fronte al mio sguardo, mentre piano piano si avvicinava la diabolica macchina di cui avevo un fottuto terrore. L’ascensore del ’15-’18 mi fissava ed ero più che sicuro che stavolta non avrei avuto scampo se ci fossi montato sopra.
Dannata macchina infernale.
«Che hai?» Mi chiese il Rosso, pigiando il pulsante di chiamata.
Ingoiai il timore che le porte mi potessero intrappolare lì dentro, schiacciando tutto il mio futuro e il possibile pallone d’oro. «Nulla.»
I cigolii sinistri dell’ascensore mi fecero accapponare la pelle, ma decisi di entrare per non risultare ancora più imbecille di quanto già potessi sembrare. Da quando avevo conosciuto Celeste e Robbeo, era come se la mia dignità avesse deciso di farsi un bel giretto, lasciandomi a fare figure di merda una dietro l’altra.
«Allora? Che film andate a vedere?» Domandò di nuovo il Rosso, mentre quello strano profumo ancora mi tormentava la memoria.
Dov’è che lo avevo già sentito?
Tornai da quei pensieri insensati e mi decisi a dargli una risposta. «Non abbiamo ancora deciso, l’ho proposto poco fa.» Spiegai coinciso, infilando le mani nelle tasche della tuta.
Romeo non mi sembrò troppo soddisfatto di quella risposta smozzicata, ma non avevo voglia di tirarla per le lunghe. Era il primo appuntamento con Celeste da solo, da quando avevo deciso di imbarcarmi in quella specie di relazione che non aveva né capo né coda e non volevo cominciare a pestarmi i piedi da solo prima del previsto.
L’ascensore saliva lento, troppo lento, e i pensieri continuavano a vorticarmi in testa senza freno. Lo sguardo di Robbeo mi trafiggeva da parte a parte e se prima lo consideravo una specie di piattola che mi venerava, adesso cominciavo a vederlo sotto un’altra luce. Lui era il migliore amico di Celeste, innamorato di lei da chissà quanto tempo, e anche se il nostro rapporto si era logorato dopo la festa di Annalisa, sapevo che lui aveva reagito in quel modo soltanto per proteggere Cel.
«Uhm… senti,» smozzicò tirando calci immaginari con le sue AllStar. «Hai… hai deciso quando le dirai tutto?» Mi chiese, un po’ titubante.
«Tutto cosa?»
«Sì, beh… il fatto che tu non ti chiami Ruben e non sei un fioraio.» Completò la frase, senza però guardarmi negli occhi.
Eravamo giunti a quel punto e avrei dovuto immaginarmelo che sarebbe successo prima o poi. Ero fortunato ad averne parlato prima con Romeo, almeno lui sapeva la mia vera identità e potevo sentirmi ‘libero’ di parlarne. Certo, cosa avrei potuto rispondergli? Non sapevo nemmeno io se avrei mai detto la verità a Celeste. Volevo soltanto godermi quello che c’era tra noi, quello che ci sarebbe stato se lei mi avesse ancora voluto. Era strano a dirlo, ma quella vita normale non mi dispiaceva più di tanto adesso.
«Già,» soffiai. «Quel tutto.»
L’ascensore arrivò proprio quando le parole cominciavano a mancarmi, perché non sapevo nemmeno io come affrontare quell’argomento. Robbeo mi lanciò un ultimo fuggevole sguardo e uscì dalla cabina, raggiungendo il portone. Lo seguii a ruota, allontanandomi il più presto possibile da quel marchingegno pericolante e vidi il Rosso che infilava la chiave nella toppa. Entrammo nell’appartamento ed io ritrovai quelle forme familiari e quel tepore di casa che non avevo mai associato a Celeste.
Fino ad oggi.
«Si può? Siete vestite? Se ci sono tette in giro ancora meglio!» Sghignazzò Robbeo, poi si voltò verso di me e sbiancò, ricordandosi miracolosamente che dopo tutto Celeste era pur sempre la mia ragazza. «Cioè… ehm… volevo dire…»
«Tranzollo, Rosso. Non ti uccido mica.» Sorrisi, ritrovando un po’ di spensieratezza.
«Robbeo come sei idiota, certe volte…» Sospirò Celeste, uscendo fuori dalla sua stanza con una crocchia malmessa in testa e un vestitino grigio fuliggine da cui spiccava un evidente buco su un fianco.
Non appena i suoi occhi color dell’oceano incontrarono i miei, si spalancarono dallo stupore e tutto il suo corpo si immobilizzò.
«Ciao.» Le dissi sorridente.
Mi fissava ancora con un’espressione di puro terrore in volto, così mi controllai addosso se per caso mi fossi dimenticato di indossare i pantaloni prima di uscire. A quanto pareva, dopo un’attenta revisione, c’era tutto, ma Celeste sembrava ancora imbambolata.
«Che cazzo ci fai qui?» Tuonò, poi sparì nella sua stanza sbattendo la porta e facendo tremare i muri, mentre io e Robbeo rimanemmo sconcertati.
Gli occhi verdi del rosso mi cercarono ed insieme sospirammo quasi all’unisono. «Donne,» mugugnò lui, trascinandosi verso la cucina. «Chi le capisce, è un genio.»
Tirò fuori dal frigo due birre fresche e me ne porse una. La accettai di buon grado, anche se dopo avrei dovuto guidare, visto che un po’ di quel nettare fresco avrebbe stemperato la tensione che si era annodata attorno al mio stomaco. Ci dirigemmo in salone, dove Robbeo si sbracò letteralmente sul divano e accese pigramente la televisione, mentre io preferii sedermi sull’ormai familiare poltrona.
«Chissà cosa le è preso.» Dissi pensieroso, sovrastando il rumore della voce di Fabio Caressa che commentava la partita di campionato della Magica.
Romeo mi rivolse una rapida occhiata. «Quando finisce la squalifica?» Mi chiese, facendomi tornare improvvisamente con i piedi a terra. Da quant’era che non pensavo più al calcio, alla mia squadra, ai compagni e al Mister? Dopo l’espulsione – e anche prima, a dire il vero – la mia mente era stata ottenebrata dal pensiero di Celeste, ma adesso che stavamo insieme avrei potuto continuare da dove avevo interrotto.
«Sono pronta!» Annunciò una voce alle nostre spalle.
Mi voltai di scatto e per poco non presi davvero uno stiramento ai muscoli del collo nel vedere Cel. I suoi capelli biondi le ricadevano sulle spalle, mentre il vestito bucherrellato era stato sostituito da una gonnellina di jeans e un maglioncino giallo.
Era stupenda.
Scattai in piedi come una molla, quasi come se la poltrona si fosse incendiata all’improvviso e finii col rovesciarmi un po’ di birra addosso.
«Porca troia!» Sbottai, notando con crescente imbarazzo che era finita proprio sul cavallo dei pantaloni.
«Sempre Mr. Finezza tu, eh?» sbuffò Celeste, seguita a ruota dalla tappetta.
«Voi puffi uscite anche di giorno? Non siete creature notturne?» Sghignazzò Romeo, riferito alla mora.
Quella si accigliò subito e lo fissò inviperita. «Tappati la bocca, Robbeo!» Ringhiò. «Tu sei l’ultimo della tua specie che può parlare. Il colore dei tuoi capelli è individuabile anche dal satellite della NASA; sei come la muraglia cinese!»
Celeste si recò in cucina a prendere uno strofinaccio e tornò di corsa tamponandomi i pantaloni con ferocia, quasi a voler smaterializzare la macchia.
«Sembra che me so’ pisciato sotto.» Mi lagnai.
«Sta un po’ fermo, Ruben. Non fare il bambino!» Mi apostrofò lei, continuando a frizionare.
Al principio non mi ero accorto dell’effetto che le attenzioni della mia ragazza – seppur involontarie – stessero provocando al mio povero corpo semifrustrato, ma quando avvertii un certo calore al basso ventre, tentai in tutti i modi di spostarmi.
«Ruben, la vuoi finire?» Sbottò esausta.
«Basta così!» M’imposi e tentai di sgusciare via come un’anguilla.
«Ehi, non ho finito!» Si lamentò lei, rincorrendomi. «Si vede ancora la macchia, un po’ di pazienza!»
Romeo stava intonando cori tribali in favore della riuscita della mia fuga, mentre Venera dava manforte alla sua amica. Sembravamo quattro imbecilli ubriachi, senza contare che la birra non l’avevo quasi nemmeno toccata perché era finita interamente sui miei pantaloni.
Tentai di rinchiudermi in bagno, ma Celeste fu abbastanza fulminea da sgattaiolare dentro e chiudere la porta a chiave.
«Ora bagno un po’ lo strofinaccio e leviamo via quella macchia.» Disse con un tono esasperato nella voce.
Lo sapevo io che era una maniaca dell’igiene, ma tutto quello era decisamente esagerato. Ero più che sicuro che con Celeste non ci si annoiasse mai, forse era anche questo il motivo per cui volevo che il nostro legame si rafforzasse ancora di più.
«Senti, non mi pare il caso.» La pregai.
«Perché?» I suoi occhioni blu si spalancarono e mi inghiottirono completamente per quanto erano chiari. Alle volte la sua ingenuità mi spiazzava, i suoi modi e il suo comportamento erano una continua novità per me.
Deglutii a fatica, indeciso se dirle o meno il vero motivo per cui era meglio lasciar stare i piani bassi. Feci appello a tutto il mio self-control per non arrossire, poi finalmente Celeste si arrese.
«Fai un po’ come vuoi, testone!» Poi riaprì la porta e si dileguò, lasciandomi come un fesso.
«Ehi. E il film?» Le dissi, facendo capolino dalla porta del bagno.
Cel era impegnata a prendere una giacca di pelle e un foulard, poi mi fissò. «Un attimo, stavo prendendo la borsa.»
Il sorriso che mi si dipinse in volto mi uscì spontaneo, non riuscii a fermarlo. Non fu uno di quelli sghembi, quelli che usavo per ammaliare le pollastre, fu piuttosto un sorriso sincero, di puro coinvolgimento.
«Vuoi il casco di Vale?» Le chiesi, alludendo all’oggetto che aveva scatenato il nostro secondo incontro.
Celeste sgranò gli occhi quando comprese che saremmo andati al cinema con la vespetta di Ruben, ma non avevo altro mezzo di locomozione che costasse meno di 28.000 euro.
«Io non salgo su quel trabiccolo con questa,» e si indicò la gonna. «Non voglio mica mostrare la Iolanda in giro, eh? E poi tu dovresti essere il mio ragazzo, cosa ti salta in mente?»
Okay, mi aveva colpito e affondato in meno di tre secondi.
Romeo allora fece il suo ingresso nel corridoio e si appoggiò con una spalla al muro fissandoci con uno sguardo ammaliatore.
«Stai male?» Gli chiese Cel, preoccupata di quegli occhi a mezz’asta.
«No! Era un momento di suspense, e tu l’hai rovinato.» Si lagnò, poi si frugò le tasche dei jeans e mi lanciò un mazzo di chiavi. Le afferrai al volo ed esaminai un leone panciuto con scritto una ‘R’ gigantesca.
«Prendete il bolide, ve lo lascio per questa serata.» Disse in tono plateale.
«Il macinino?» Sbottai io, incredulo che dovessi anche solo salire all’interno di quella trappola mortale datata 1850.
Romeo s’indispettì subito, staccandosi dal muro e irrigidendosi, poi Celeste arrivò in suo soccorso. «Va be’, è sempre un mezzo di locomozione sicuro.»
«Sulla sicurezza non ci giurerei…» Puntualizzò Venera, beccandosi un’occhiataccia dal Rosso.
«Ce lo faremo andare bene.» Tagliai corto io, aprendo il portone e invitando Celeste ad uscire.
Prima di andare, però, la biondina annusò l’aria e si voltò a fissare Romeo. «Da quando ti metti lo Chanel?» Gli chiese, mentre il rosso divenne paonazzo.
Venera si avvicinò e insieme lo spinsero contro il muro. «Avevo notato un odore strano.» Disse la moretta.
Gongolai del mio olfatto. Evidentemente non ero l’unico che aveva notato quello strano odore nell’ascensore. Romeo nascondeva qualcosa, lo diceva il suo colore che variava dal verde marcio all’arancio più intenso, ma di questo passo avremmo visto lo spettacolo dell’una di notte.
«Andiamo?» Ghiesi a Cel, che per un momento non sembrò dell’avviso di uscire, poi si lasciò convincere da Venera.
«Arrivo.» Disse, poi si mise la borsa a tracolla e uscì sul pianerottolo.
Rivolsi un ultimo sguardo al Rosso che sembrava sull’orlo di una crisi isterica, poi mi chiusi il portone alle spalle.
Primo intoppo: dannata macchina infernale.
«Romeo è strano.» Sospirò Celeste, chiamando l’ascensore e cominciando a mettermi ansia.
«Perché non prendiamo le scale?» Suggerii.
Cel sgranò gli occhi e mi fissò come se avessi detto chissà quale blasfemia. «Sei impazzito? Sono quattro piani a scendere!»
Decisi di starmene zitto, tanto era inutile parlare di movimento con lei. Eravamo spalla a spalla, uno vicino all’altra. Potevo sentire il suo profumo da qui, il profumo della sua pelle e mi piaceva. Mi stavo totalmente rincoglionendo, ormai era un dato di fatto.
«Non ti sembra diverso?» Continuò a chiedermi, mentre l’ascensore raggiungeva il quarto piano.
«Chi?» Domandai confuso.
Celeste sbuffò e mi fece cenno di entrare per primo. Dannata macchina infernale. «Intendevo Romeo. È come se fosse su un altro pianeta, poi esce sempre ed è strano.»
Mi gettai quasi di peso all’interno dell’abitacolo, poi Celeste chiuse le porte e pigiò il tasto ‘T’. L’ascensore cominciò a rumoreggiare, poi scese col suo solito cigolio.
«Non l’hai notato anche tu?» Mi domandò, specchiando quegli occhi chiari nei miei.
Romeo non era certo il mio primo pensiero in quel momento, soprattutto quando ero sospeso a diecimila metri da terra, comunque Celeste riuscì a distrarmi.
«Quell’odore è strano, mi ricorda qualcosa.» Le confessai, cercando di rimembrare.
Quando incontrai nuovamente i suoi occhi, lei mi sorrise e il mio cuore smise di battere per un secondo. Mi tese la mano e aprì le porte dell’ascensore, ormai fermo.
«Andiamo.» Disse ed io intrecciai le dita con le sue, uscendo in strada e venendo investito dal freddo pungente di quel pomeriggio inoltrato.
Ci guardammo intorno alla ricerca del rottame di Robbeo e il color ruggine del pandino non sfuggì ai miei occhi attenti nemmeno se fosse stato coperto da un treno merci. C’era ancora lo spago che reggeva il parafango anteriore e lo scotch che teneva in piedi quello posteriore.
In poche parole: un catorcio.
«Eccola!» Trillò Celeste, indicando la Panda rosso mattone.
«Evvai…» Bofonchiai sarcastico, sperando che nessuno vedesse il grande Leonardo Sogno a bordo di quella scatoletta di acciughe.
Aprii la portiera e ne uscì un suono stridente, simile a quello che si ode nei film dell’orrore più scadenti, poi mi sedetti al posto del conducente. Una nuvola di polvere si alzò dal sedile ricoperto di stoffa e non potei fare a meno di tossire.
«Che hai?» Mi chiese Cel, abituata a tutta quella sporcizia che ricopriva la macchina.
«Nulla.» Soffiai, per la seconda volta.
Infilai la chiave nel cruscotto e tentai di accendere quel trabiccolo. Ovviamente il primo tentativo andò a vuoto, così come il secondo e come il terzo.
«Guarda, Robbeo gli da un piccolo colpetto mentre gira.» Affermò Celeste con sicurezza, cominciando a riempire di ceffoni il parabrezza della Panda.
Per chiunque passasse da fuori, sembravamo due deficienti alle prese con una lotta greco-romana con la macchina che non voleva saperne di accendersi. Al quattordicesimo tentativo e dopo tre Vaffanculo strillati al vento, il pandino decise di accendersi e ci guardammo soddisfatti.
«Si parte.» Sospirai esausto.
«Finalmente.» Ridacchiò Celeste.
Misi in moto e la macchina cominciò a lagnarsi. Mi chiesi cosa ci fosse di non cigolante in quell’ammasso di ferraglia, ma decisi di non pormi più domande così ovvie. Nonostante avessimo imboccato la Roma-Fiumicino e la quinta marcia ormai era ingranata, il contachilometri non andava a più di 70 e le macchine dietro di noi ci avevano suonato almeno una decina di volte.
«E passate!» Si scaldò Celeste, abbassando il finestrino e urlandolo fuori a chiunque usasse il clacson in maniera inappropriata.
«Era meglio la vespa.» Commentai infastidito.
«Perché andava a più di 70 chilometri orari?» Mi fece notare lei.
La guardai sorpreso, poi mi feci una sana e liberatoria risata. «Che razza di primo appuntamento!» Sghignazzai, mettendo la freccia per imboccare l’uscita per il cinema The Space, vicino Parco De’ Medici. Anche Celeste dopo un primo momento si unì alla risata e insieme al macinino cominciammo a trovare parcheggio. Un tappeto infinito di macchine si stagliava di fronte a noi e pensai che il pomeriggio non poteva andare peggio di così.
«Eccone uno lì!» Gridò Celeste tutta eccitata.
«È troppo lontano, me lo inculeranno!» Me ne uscii, senza pensare.
Celeste mi incenerì con lo sguardo ed io le sorrisi, sperando non mi uccidesse. «Niente più parolacce, intesi?» Poi scese dalla macchina e corse in direzione del posteggio.
Si piazzò proprio nel mezzo del buco lasciato tra due macchine e chiunque arrivasse cominciò immediatamente a linciarla, lanciandole apprezzamenti molto poco carini. Celeste rispondeva loro a modo e sotto il mio sguardo incredulo teneva testa a tutti quanti.
Riuscimmo a parcheggiare poco dopo, con soddisfazione da parte della mia ragazza e invidia da tutti coloro che non era riusciti a trovare un posteggio succulento come quello. Prima di uscire, mi curai di indossare un berretto di lana ben calcato sulla testa e una sciarpa avvolta tutta attorno al collo. Inforcai anche i Ray-Ban e sperai che nessun ragazzino deficiente rovinasse il mio primo appuntamento ufficiale con Celeste.
La raggiunsi mentre il suo sguardo color dell’oceano mi trafisse, e la Celeste modalità investigatrice-sospettosa entrò in azione.
«Perché ti sei conciato così? Sembri un mio ex quando si preparava per andare allo stadio, faceva parte di quegli… come si chiamano… Ultreri? Ultrarioni? Eltras?»
«Ultras,» risposi, quasi senza pensare. «Comunque ho freddo e mi fa un po’ male la gola, quindi mi premunisco.» Aggiunsi, soddisfatto di quella mezza cazzata.
Continuò a guardarmi poco convinta, mentre ci incamminammo lungo la salita che ci avrebbe condotti al cinema. Mi fissava di sottecchi, mentre io mi guardavo intorno nella speranza di non attirare troppo l’attenzione, poi sentii la sua mano che sfiorava accidentalmente la mia. Fu un contatto che mi diede i brividi, un calore che non avevo mai provato prima e che volevo a tutti i costi. Allungai le dita e le intrecciai con le sue, di nuovo.
Fu meraviglioso.
Celeste sorrise a quel mio gesto spontaneo, poi si aggrappò letteralmente al mio braccio, schiacciandosi a me con tutto il suo corpo caldo e profumato. Sapeva di stella alpina, il suo odore era identico.
«Comunque non me la racconti giusta.» Insistette lei, fissandomi con quei suoi occhi azzurri al di là della mia spalla.
«Cioè?» Feci il finto tonto.
Si prese qualche momento per osservarmi ed io cominciai a sudare freddo. «Sembra quasi tu voglia camuffarti…» Buttò lì, mentre cominciava a fare un caldo boia sotto quella dannata sciarpa.
«M-Ma che dici?!» Esclamai subito, mettendo le mani avanti.
Celeste era troppo perspicace per i miei gusti ed io camminavo sempre sull’orlo di un precipizio, in attesa che la sua arguzia mi avrebbe dato la spinta definitiva per cadere nell’oblio.
Sembrò poco convinta della mia risposta fintamente sorpresa, ma ci passò sopra non appena i suoi occhi incontrarono la libreria del cinema The Space. Afferrò la manica della mia tuta e mi trascinò letteralmente all’interno, senza nemmeno il tempo di dire ‘A’.
«Corri!» Trillò, entrando e fiondandosi sul primo scaffale disponibile.
Premesso che in tutta la mia vita ero entrato sì e no due volte contante dentro una libreria – o biblioteca –, non lo ricordavo nemmeno, perciò mi trovai come un pesce fuor d’acqua lì dentro. Le luci erano intense e all'interno si crepava di caldo, ma io non potevo togliermi tutto quell’accrocco, altrimenti chiunque mi avrebbe riconosciuto.
«Non dovremmo prendere i biglietti?» Le chiesi con ovvietà, sperando le passasse la mania da shopping maniacale.
Celeste non mi diede per nulla ascolto, anzi, continuò imperterrita a scorrere con il dito indice – quello che usava per pungolarmi – lungo le copertine colorate dei vari volumi. Era su di giri, eccitatissima, e non l’avevo mai vista più felice di così. Avevo capito che era una secchiona, una di quelle casa e università, ma non fino a questo punto.
«Questo l’ho letto, quest’altro anche, quello la giù non mi è piaciuto per niente, invece questo è molto carino. Dovresti leggerlo, sai?» Mi disse ed io storsi il naso.
Leonardo Sogno che leggeva? Magari davanti ad un camino sprofondato in una poltrona d’altri tempi? Era un’utopia.
«Non sono un topo da biblioteca» Tagliai corto, sperando di riuscire ad uscire il più presto possibile da lì.
Celeste borbottò qualcosa d’incomprensibile, poi passò ad un altro scaffale. Il ricordo improvviso di quel francese di merda mi colpì non appena la mia ragazza fece scendere due volumi tra le sue braccia, intenzionata ad acquistarli. Quella volta con J. lei mi aveva chiuso la porta in faccia e lo aveva lasciato salire perché gli doveva prestare un libro.
Dannato mangia-lumache
.
«Ti aiuto.» Le dissi, afferrando un volume che lei aveva adocchiato ma a cui non arrivava.
«Grazie!» Rispose, mentre le guance le si imporporarono lievemente.
Era maledettamente carina quando non mi sbraitava addosso.
«Finito?» Le domandai, con la vana speranza di poter vedere un film –e magari pomiciare al buio –, ma Celeste scosse la testa.
«L’ultimo scaffale, lo giuro!» Ridacchiò, facendo parola di boyscout.
Sbuffai ma la seguii subito dopo, anche perché non riuscivo più a stare lontano dal suo buonumore. Era contagiosa e insieme a lei riuscivo perfino a dimenticarmi che Domenica prossima sarebbe scaduta la squalifica.
«Guarda qui,» commentò sarcastica, indicando le biografie dei più grandi campioni di calcio. «Sanno anche scrivere ‘sti rinoceronti
Sgranai gli occhi non appena vidi poco più in là, proprio sotto il faccione di Wesley Sneijder, il mio volto sorridente che diceva “leggimi”. Quando avevo scritto una biografia? Per quale motivo l’avevo scritta, poi?
In quel preciso istante avrei volentieri ucciso Ruben e quella sua mania di riempirmi l’agenda di appuntamenti fino all’orlo, poi tentai di portar via Celeste, prima che tutto il teatrino che avevo messo in piedi crollasse per colpa di uno stupido libro.
«Dai, che il film inizia.» La spronai.
«Ma se nemmeno sappiamo cosa dobbiamo vedere?» Osservò arguta.
Era in questi momenti che desideravo che Celeste somigliasse più ad una modella decerebrata piuttosto che ad una laureanda in Lettere.
«Se mai andiamo a vedere gli orari, mai sapremo quando inizia.» Risposi di getto e mi complimentai con me stesso per la scelta della frase ad effetto.
Celeste assottigliò le palpebre, fissandomi con quelle pagliuzze color zaffiro attraverso le ciglia chiare. Dopo poco fece spallucce e si avviò alla cassa per comprare i libri.
Ero. Salvo.
«Questi due?» Disse il commesso, un ragazzetto di quasi diciotto anni o giù di lì.
«Sì, grazie.» Mormorò Cel, tirando fuori il suo portafoglio.
In quel momento fui talmente veloce che lei nemmeno se ne accorse, poi porsi una banconota da 50 euro al ragazzo che mi fissò stralunato.
«Ma no, dai,» insistette Celeste. «I libri sono miei, non voglio che li paghi tu!»
La osservai da dietro i Ray-Ban e le sorrisi – per quanto la sciarpa potesse mostrare quel gesto. «Sei la mia ragazza, quindi pago io.»Risposi autoritario e la vidi arrossire ancora.
Il commesso afferrò la banconota rimanendo con lo sguardo fisso sul sottoscritto e scrutandolo attentamente. Il cuore pompava incontrollato sotto la tuta della Magica e sapevo che prima o poi quel marmocchio mi avrebbe riconosciuto.
«Ecco a lei,» disse, porgendo la busta a Cel «Ma tu non sei…?»
La afferrai sottobraccio e mi trascinai letteralmente fuori dal negozio prima che potesse urlare ai quattro venti che Leonardo Sogno era al cinema The Space. Inspirando l’aria fresca del crepuscolo cominciai ad ossigenare il cervello, mentre non mi accorsi dell’ennesimo sguardo di sospetto della mia ragazza.
«Devi spiegarmi qualcosa?» Domandò, incrociando le braccia al petto.
«No,» risposi semplicemente. «Ero solo ansioso di vedere quali film ci fossero in programmazione.»
Non potevo prenderla ancora in giro, era troppo sveglia. Mi ero illuso di poter gabbare Celeste Fiore, ma non avevo fatto i conti né con la sua perspicacia, né con quella tappa della sua amica che sembrava il detective Conan.
«Va bene,» sbuffò infine. «Andiamo a scegliere ‘sto film.»
Tirai un lungo sospiro di sollievo e ci avvicinammo al cinema, constatando quanto la fila fosse chilometrica. Di questo passo ci sarebbero rimasti soltanto i posti davanti, quelli che facevano venire il torcicollo dopo due ore intere passate a fissare verso l’alto.
«Che ne dici di quello?» Mi chiese, indicandomi un tabellone pubblicitario dove c’era un’attrice piuttosto bona e quell’idiota di Justin Timberlake.
«Amici di letto?» Lessi ad alta voce, un po’ perplesso.
Nel frattempo ci mettemmo in fila ed io mi beccai altre occhiate sospette da parte di tutti i ragazzi che invece di uscire o sbronzarsi, erano venuti a rompermi l’anima in quel dannato cinema.
Appunto per il futuro: affittare un film e slinguazzare la tua ragazza sul divano.
«Non ti piace? È così romantico!» Sospirò lei, fissando lo sguardo nel vuoto.
«Che stai a guardà?» Le chiesi, seguendo la sua attenzione.
«Niente!» Sbottò infastidita.
«E perché fissavi dellà
Celeste sospirò di nuovo. «Era uno sguardo sognante, come a dire “vorrei vivere anch’io una storia d’amore così bella”, capito?»
Feci cenno di sì con la testa, poi la fila avanzò e ci trovammo quasi di fronte al botteghino dei biglietti. Avrei preferito di gran lunga un film come Blood Story, terrificante fino al midollo, in modo che Celeste mi si artigliasse al petto ed io avrei goduto come un riccio. Era scientificamente provato che la paura aumentasse l’eccitazione sessuale ed io non potevo chiedere di meglio che una bella scopata clandestina nei bagni del cinema. Purtroppo salutai quella bella prospettiva quando sentii la voce di Celeste.
«Due per ‘Amici di letto’» Sorrise, mentre la commessa fissava lo sguardo sul monitor di un computer.
«Centrali davanti o laterali il tredicesima fila?» Shiese.
«Laterali.» Risposi, evitando almeno di beccarmi il torcicollo.
Stampò i biglietti e ce li porse, poi ci dirigemmo verso il banco dei popcorn e delle schifezze varie. C’erano gli hamburger, i nachos, gli hot-dog e quelle sfiziosissime praline di cioccolata con dentro le noccioline che adoravo tanto.
«Vuoi qualcosa?» Chiesi a Celeste, mentre intrecciavo di nuovo le mie mani con le sue.
Lei fissò il tabellone con i cibi e le bevande, poi storse il naso. «Se mangiassi quelle cose, diventerei una balena,» commentò. «Poi usciresti con Moby Dick.»
Le passai un braccio attorno alle spalle e l’avvicinai al mio petto, facendole posare la testa e posandole un bacio sui capelli. «Mi piacciono le donne con le curve.» Commentai, avvicinandomi al bancone degli snack.
«Posso servirvi?» Disse il commesso brufoloso.
«Cosa vuoi? Una CocaCola? Aranciata?» Chiesi alla mia ragazza che fissava il menù con gli occhi spalancati.
Era indecisa e allo stesso tempo tenerissima.
«Intanto fai tu.» Mi disse, dando un’ultima occhiata alle pietanze.
Mi rivolsi al commesso e inspirai. «Allora, vorrei un hot-dog con la senape, una porzione di nachos, un panino con bacon e formaggio fuso, una CocaCola grande e quel pacchetto di m&m’s.»
Celeste per poco non si strozzò con la sua stessa saliva, fissandomi con gli occhi praticamente fuori dalle orbite, poi tentennò. «Una bottiglietta d’acqua.»
«Nient’altro?» Le chiesi dubbioso.
«No.» sbuffò contrariata.
«Bene, sono 28 euro e 33 centesimi.» Rispose l’adolescente brufoloso, porgendoci i piatti e infilando le cannucce nei bicchieri.
Alzai lo sguardo sullo schermo dove diceva quanto mancasse all’inizio del film e vidi l’omino verde che correva vicino all’orario del nostro spettacolo. Si poteva entrare finalmente.
«Ma dove te la metti tutta questa roba?» Mi chiese Celeste mentre porgevamo i biglietti al tizio che li strappava e ci dirigevamo verso la sala 18, in fondo al corridoio.
Feci spallucce e le sorrisi. «Metabolismo invidiabile.»
Celeste ridusse gli occhi a mezz’asta, evidentemente invidiosa della mia linea, ma non replicò perché arrivammo alla sala. Entrammo e cercammo subito i posti nella penombra della stanza, e quando li trovammo – con mio immenso rammarico – scoprimmo che erano a tre a tre, e il terzo posto disponibile era occupato da…
«Nonna!» Sbottai, con gli occhi fuori dalle orbite.
«Chicco, tesorina, che bello vedervi qui!» Trillò tutta eccitata.
Di tutte le persone che abitavano a Roma, di tutti quelli che erano andati al cinema quel pomeriggio e di tutti i cinema esistenti nella capitale, proprio mia nonna dovevo incontrare lì dentro?!
«Signora Annunziata!» Sorrise Celeste, sedendole accanto e salutandola con calore. «È un piacere vederla!»
Quelle due sembravano amiche da una vita e se non avessi avuto le mani piene di roba da mangiare, avrei chiaramente intimato a mia nonna di sloggiare. Tutti i piani sulla pomiciata con conseguente scopata clandestina erano andati a farsi friggere quando la nuvola di capelli bianchi e vaporosi di mia nonna erano apparsi all’orizzonte.
«Chicco, ma quanta roba hai preso?» Mi rimproverò Annunziata, nemmeno avessi ancora cinque anni.
«Ho fame no’» Borbottai, cominciando a trangugiare il panino.
Celeste e mia nonna mi fissarono disgustate. «È un pozzo senza fondo,» commentò la mia ragazza. «Non so davvero dove possa mettersi tutta quella roba.»
«Ragazza mia, gli uomini sono fortunati, ma tu dagli tempo,» sghignazzò. «Suo nonno era uguale da giovane, tutto bello e muscoloso, ma una volta sposato… zacchete!» E fece uno strano segno con la mano. «Gli è venuta una panza tanta.»
Celeste cominciò a ridere a crepapelle, seguita da quella stramba di mia nonna, mentre io me ne stavo buono e zitto sprofondato nella poltrona del cinema. Che barba. Stavo schiattando di caldo con quel bardamento e fino a quando le luci non si fossero spente, potevo dire addio a qualche momento di intimità con Cel.
Quasi come se si fossero esaudite le mie preghiere, la sala piombò nell’oscurità e la proiezione delle pubblicità cominciò. Posai le diverse cose da mangiare e mi liberai da quella sciarpa, dagli occhiali e dal berretto, cominciando finalmente a respirare.
Mi stiracchiai le braccia – fingendo uno sbadiglio – e tentai di passare un braccio attorno alle spalle di Celeste, attirandola a me nel più vecchio dei modi per rimorchiare.
«Ehi, tu, giovanotto!» La voce di un’altra vecchia mi fece sobbalzare sul sedile.
Io, Celeste e mia nonna ci voltammo all’unisono, fissando una signora di circa settanta e passa anni che sprizzava saette dagli occhi mentre vicino aveva la nipote, una ragazzina fastidiosa come la nonna, che ridacchiava.
«C’è una minorenne, eh? Cosa avevi in mente di fare?» Tuonò. «Questi giovani d’oggi, sempre a pensare al sesso, qui ci sono anime innocenti.»
Perché? PERCHÉ? PERCHÉ capitavano tutte a me?
Rinfoderai il braccio allontanandolo dalla mia ragazza e affogai il mio dispiacere nel pacchetto di m&m’s. Eravamo usciti insieme per avere un po’ d’intimità, per goderci il nostro primo appuntamento, invece eravamo finiti a condividere il posto con mia nonna e un’altra vecchia rompicoglioni e impicciona.
«Vuoi?» Chiesi a Celeste, porgendole il pacchetto.
Lei mi fissò divertita, poi fece per prendere un confetto ma io la fermai. «Aspetta.»
Ne afferrai uno e me lo misi tra le labbra, chiudendo il resto della bustina e sporgendomi verso di lei. Cel sorrise e s’imbarazzò, poi diede uno sguardo fugace alla nonna che fissava intensamente lo schermo.
Via libera.
Si avvicinò mettendo le labbra a cuore e chiudendo gli occhi, mentre io pregustavo il sapore delle sue labbra e quel profumo di stella alpina che m’invadeva le narici. Ogni cellula del mio corpo ormai aveva tatuato il nome di Celeste Fiore sopra, ed io non potevo fare altrimenti che desiderarla con tutto me stesso.
«Ehi, voi!» Gridò l’altra vecchia, dando un calcione alla poltrona di Celeste e facendomi ingoiare dalla sorpresa l’m&m’s.
Cominciai a tossire e a strozzarmi, mentre la mia ragazza e mia nonna mi davano dei colpetti dietro la schiena per farmi sputare il confetto. Li mortacci di quella stronza! Per poco non mi aveva ucciso.
Con le lacrime agli occhi, cominciai a mettere in lista una serie di insulti che avrei voluto rivolgere a quella mummia del cazzo, quando il film incominciò e fui costretto a starmene zitto. Celeste cercò la mia mano e vi intrecciò le dita, infondendomi calma, e mi rammaricai che fino a quel momento, l’unico contatto che avevamo avuto era stato quell’innocente tocco.
Neanche vivessimo nell’800.
I titoli di testa cominciarono a scorrere davanti allo schermo, mentre una voce fuoricampo spiegava le vicende dei protagonisti e le disavventure che li avevano portati a diventare amici di letto. Cercai di scacciare dalla mente la profonda convinzione che quel film fosse una gigantesca cazzata, quando avvertii dei calcioni al mio sedile.
Dapprima pensai fosse accidentale, non fatto assolutamente di proposito, ma al quinto colpo ricevuto quasi nel fondoschiena mi agitai leggermente.
«Che hai?» Mi domandò Celeste, fissandomi preoccupata.
Sbirciai tra le due poltrone e scoprii che l’artefice di quella tortura non era altro che la nipote di quella vecchiaccia rompicoglioni. Continuava imperterrita ad ammollarmi una scarica infinita di calci, senza che la nonnetta le dicesse nulla.
«La figlia di Satana è all’opera.» Bofonchiai, progettando una serie di insulti da urlarle contro.
Cel mi strinse la mano e si voltò anche lei, ricevendo comunque la vibrazione dei calci. «È solo una ragazzina.» Commentò, tentando di fare la persona matura.
Ingoiai tutta la rabbia accumulata fino ad ora e cominciai a trangugiare qualcos’altro con nervosismo, pur di non pensare al genocidio. Il film andò avanti e la trama s’infittì, suscitando qualche risata tra il pubblico femminile che invece, al sottoscritto, non smosse un benché minimo nulla.
Dopo aver ripulito tutto, ma proprio tutto, quello che mi ero comprato, fui costretto ad ingannare il tempo in qualche modo.
Io un modo per far passare i minuti ce lo avrei in mente.
So bene qual è, ma c’è sia mia nonna sia la vecchiaccia dietro di noi. Non posso mica ficcarle la lingua in bocca senza preavviso!
Beh, basta avvicinarsi un po’. Il cinema è immerso nell’oscurità e Annunziata è presa da Justin.
Il mio Ego aveva espresso in maniera molto esplicita quale fosse il mio più recondito desiderio. Era vero che la sera prima il bacio c’era stato, ma ormai io e Celeste uscivamo insieme ed era mio diritto di fidanzato pretendere quel genere di smancerie. Cosa ce l’avevo a fare la ragazza se non potevo pomiciarci quando mi pareva?
Sprofondai nella poltroncina del cinema, pendendo leggermente verso il corpo di Cel che era assorta nella contemplazione del film. Sciolsi l’intreccio delle nostre mani e tentai di far risalire un braccio attorno alle sue spalle. Sperai che la vecchia dietro di noi non mi colpisse con un’ombrellata, ma per fortuna fui veloce come una faina e riuscii ad avvicinare Celeste al mio petto.
Lei sussultò a quella repentinità del nostro contatto, ma io le sorrisi attraverso l’oscurità. Lentamente mi avvicinai, strusciando il naso sulla sua guancia imporporata dall’imbarazzo, poi Celeste tentò di fermarmi con un debole «Non è il caso.»
Aveva posato una mano sul mio petto, nel tentativo di respingermi, ma io gliel’avevo afferrata e l’avevo stretta tra le mie. La distanza tra le nostre labbra era minima, sarebbero bastati pochi centimetri per sfiorarle.
«Ehi!» Tuonò la voce stridula della signora dietro di noi. «Che vi avevo detto?!» E cominciò a picchiare sulle teste delle poltrone col suo ombrello rosso.
«Ma lasciali in pace, vecchia megera!» Intervenne mia nonna, più agguerrita che mai.
Celeste ed io fummo costretti a separarci, imbarazzati all’ennesima potenza, mentre la ragazzina frignona continuava a darci i calci dietro al sedile e la gente inneggiava ad un ‘silenzio’ nei rispetti della programmazione del film.
«Si dovrebbero vergognare, di fronte ad una bambina!» Continuò quella pazza inferocita.
«Ma lei si dovrebbe vergognare!» Tuonò Annunziata. «Quella marmocchia sta tirando calci alle nostre poltrone da quando è iniziato il film. Questa è maleducazione!
«Devi andare in bagno?» Mi chiese Celeste, travolta da quel frastuono.
«No, perché?» Chiesi, ingenuo.
«Sicuro di non dover andare in bagno?» Continuò, marcando la parola “bagno”.
In quel momento non afferrai l’allusione sottilmente velata, ma quando mi specchiai in quelle iridi blu scuro, rese ancora più tenebrose dall’oscurità del cinema, compresi fin dove volesse arrivare.
«Ao’, me la sto a fa’ sotto!» Sghignazzai, aspettando che si alzasse e poi seguendola fuori dalla sala di proiezione.
Una volta fuori da quella gabbia di matti, ci appoggiammo contro il muro tappezzato di poster e cercammo l’uno lo sguardo dell’altra. In poco tempo scoppiammo a ridere come due scemi.
«Cioè, tua nonna è una forza!» Ridacchiò.
«Ma quella vecchia non si reggeva, dai…» La seguii a ruota.
«E perché? La ragazzina? Le avrei volentieri mollato un ceffone!»
Nel frattempo cominciammo ad incamminarci verso i bagni, visto che effettivamente un po’ di pisciarella – dopo tutto quello che avevo mangiato e bevuto – mi era venuta e ci fermammo proprio di fronte alle porte che dividevano le nostre strade.
In un attimo ci guardammo e le nostre risate si spensero, quasi avessero pigiato il tasto muto sul telecomando della televisione. Quello era il nostro primo appuntamento, la prima volta che uscivo seriamente con una ragazza senza avere l’unico intento di portarla a letto. Mi sentivo strano, non sapevo cosa fare.
«Scusami.» Dissi solamente, portando una mano dietro la nuca.
Celeste sgranò gli occhi e mi fissò sorpresa. «Di cosa?»
«Di questo appuntamento caccoso,» smozzicai, riferito all’intervento di mia nonna e a quella vecchia ciabatta che stava ancora in sala. «Il fatto è che non sono pratico di queste cose, non ho mai… beh… mai avuto una ragazza fissa. Non so come si fa.»
Lei mi sorrise, inaspettatamente, poi si alzò sulle punte degli stivali e mi baciò. Fui sorpreso da quel suo gesto, in genere mi picchiava o mi insultava. Invece fu una cosa semplice. Mi afferrò il viso con entrambe le mani e posò le sue labbra sulle mie, finendo poi per incrociare le braccia dietro la mia nuca alla ricerca di un contatto più profondo. In quel preciso istante mi risvegliai, allacciando le mani attorno alla sua vita e spingendola delicatamente contro il muro, incuneandola in una nicchia che ci avrebbe nascosto agli occhi indiscreti dei passanti.
Il contatto con il marmo fece rabbrividire Cel tra le mie braccia, ma io tentai di sovrastarla col mio corpo e di scaldarla con il mio respiro. Intrufolai la lingua nel suo palato, subito alla ricerca della sua, mentre le mie mani viaggiavano avide lungo la sua schiena flessuosa. Quel profumo di stella alpina mi inebriava le narici, mi ottenebrava i sensi, ed io non sapevo più dove prendere altro ossigeno. Non mi era mai successo con nessun’altra tutto quello, era la prima volta. Nonostante avessi la lingua nella sua bocca e le mani quasi sotto la sua gonna, il sesso era quasi l’ultimo dei miei pensieri.
Sarei rimasto così, a baciarla, per ore intere, senza fare nient’altro.
Risalii lungo il suo stomaco, spostando di poco la sua maglietta, e insinuai una mano al di sotto della stoffa, raggiungendo la coppa del reggiseno. Non attesi oltre e strinsi con forza, facendole inarcare la schiena e staccare le labbra dalle mie.
Uscì soltanto un mugolio dalla sua bocca, mentre gli occhi azzurri, grandi come due piattini, mi fissavano stralunati e pieni di desiderio. Le posai un bacio sulla punta del naso, poi andai a lambirle la porzione di pelle sensibile dietro l’orecchio.
«Oh… Ruben…» Sospirò, in preda all’estasi.
Sentirle pronunciare il nome di un altro in quelle circostanze, mi fece ribollire il sangue nelle vene, ma cosa potevo fare? Ero stato io stesso a dirle una menzogna, a presentarmi per il ragazzo che non ero. Per la prima volta in tutta la mia vita avevo mentito sulla mia identità e non avevo giocato la carta della fama.
Non potevo, non con lei.
Tutto ciò che c’era stato fino ad ora, bugie a parte, era stato qualcosa di totalmente autentico per me, qualcosa che non avevo mai provato. Con le altre simulavo, fingevo di essere felice, di essere appagato, ma non mi ero mai sentito così completo come ora.
«Cel,» soffiai, ma poco dopo mi ricordai che non voleva essere chiamata in quel modo, non da me perlomeno. «Cioè… volevo dire Celeste.» Sorrisi.
Lei mi passò una mano tra i capelli e cominciò a delineare i contorni del mio viso con i polpastrelli delle dita. Era come se stesse contemplando un’opera d’arte, come se fossi il David di Michelangelo.
«Cel va bene,» mormorò imbarazzata, posando ancora una volta le sue labbra sulle mie e specchiando le sue iridi. «Sei bellissimo.» Mi confessò e mai quell’apprezzamento era valso di più per me.
Non c’era l’Ego a parlare, non avevo l’orgoglio gonfio e nemmeno m’importava di gongolarmi. Sentivo soltanto un dolore al petto, un fastidio che s’intensificava ma che, allo stesso tempo, era piacevole.
«Cel, io…» Tentai di dirle. Quegli occhi sarebbero stati la mia maledizione e non riuscivo più a sopportare questo peso delle enormi bugie che mi portavo dentro. Anche se mi sarei scavato la fossa da solo, dovevo dirglielo.
«Devo dirti una cosa.» Mormorai.
Celeste mi guardò sorpresa, poi intrecciò le dita con le mie. «Dimmi.»
Era arrivato il momento della verità, il momento in cui avrei affrontato tutto pur di districarmi da quella fitta rete di bugie. Okay, ero stato bravo, alla fine né Celeste né tutti gli altri avevano mai scoperto i miei altarini, ma la posta in gioco ora era troppo alta ed ero ancora in tempo per salvare quello che ci sarebbe stato tra di noi.
«Riguardo al mio lavoro…» E dopo queste parole le orecchie di Celeste si drizzarono come quelle di un cane lupo.
Era davvero così difficile per me dirle la verità? Non avevo mai avuto problemi a parlare della mia professione, anzi, era un marchio di garanzia. Leonardo Sogno non era solo un nome, era il nome. Abituato a ricevere valanghe di complimenti, richieste di autografi, fotografie e numeri di telefono da qualunque ragazza mi incontrasse, con la piccola biondina di fronte a me era successo tutto il contrario. Ci eravamo odiati all’inizio, era nato tutto come una sfida, un giochetto da ragazzini, ma a mano a mano che il tempo era passato, nonostante non avessi mai voluto ammetterlo a me stesso, il nostro legame si era intensificato e adesso era come se potessi vedere un lungo filo d’argento legato doppio attorno ai nostri cuori.
«Ruben, cosa vuoi dirmi?» S’insospettì lei ed io mi bloccai.
Era come se le parole si fossero calcificate attorno al mio palato, aggrappandosi alla lingua senza riuscire a venir fuori. Sull’altro piatto della bilancia – che ormai si equivaleva a quello stracolmo di menzogne – c’erano troppe cose che avrei perso raccontandole la verità. Ma quanto ancora sarei potuto andare avanti? Avrei tanto voluto condividere le gioie del mio lavoro con Celeste, la mia ragazza. La nomina per il pallone d’oro 2011 era ufficiale e sarei dovuto andare alla cerimonia di premiazione.
Per la prima volta in tutta la mia vita, odiai me stesso e la mia stupidità. Qual era stato il motivo di crearmi una vita fittizia, quando quella vera era centomila volte meglio? Sì, magari all’inizio le avevo mentito per convincerla ad uscire con me, quale ragazzo non l’avrebbe mai fatto? Ma se soltanto avessi lasciato fare allo scorrere degli eventi, magari a quest’ora le avrei potuto chiedere di accompagnarmi alla serata per il pallone d’oro.
«Ruben?» Chiese di nuovo, vedendomi indeciso.
Il giorno in cui dalle sue labbra sarebbe uscito il nome Leonardo, era ancora lontano ma io desiderai con tutto me stesso di poter avverare questo piccolo sogno egoistico. In fondo eravamo Leo e Cel, Leonardo e Celeste.
«Eccovi qui, ragazzi!» Trillò la voce di mia nonna, che ci sorprese alle spalle.
Non poteva esserci interruzione migliore in quel momento e ringraziai tutti i santi in Paradiso per avermi fornito una nonna così impicciona.
«Signora Annunziata.» Sorrise Celeste, lasciando le mie mani e raggiungendola.
Presi un bel respiro e le seguii, curandomi di indossare nuovamente berretto, sciarpa e occhiali da sole – nonostante fosse sceso il buio. Uscimmo fuori dal cinema e una folata di vento freddo ci investì, facendomi rabbrividire, fino a quando non ci ritrovammo al centro della piazzetta di fronte alla sala di programmazione.
«Dove andate adesso, ragazzi?» Ci domandò la nonna.
«Uhm… a casa?» Risposi tranquillo, non vedendo l’ora di avere qualche altro momento appartato con la mia donna.
Annunziata mi guardò con un sorrisetto malizioso, poi strinse entrambe le mani di Celeste e inchiodò gli occhi azzurri nei suoi. «Perché non venite a cena da me? Ho preparato tante cosette sfiziose e da sola non riuscirò mai a mangiarle tutte!» Propose.
Non sapevo il motivo, ma non appena finì di parlare il sangue mi si gelò nelle vene. Quando mia nonna faceva delle proposte, queste non erano mai prive di un secondo fine.
«No.»
«Sì.»
Rispondemmo all’unisono io e Celeste, poi guardandoci di sottecchi. Avrei voluto farle capire che quella che Annunziata ci stava proponendo non era affatto una cenetta nonna-nipote-ragazza, ma un vero e proprio interrogatorio.
«Suvvia, Chicco.» Mi pregò la nonna.
«È una cena, Ruben. Non ti ha mica chiesto la luna!» Sbottò Celeste, infastidita da quella mia scortesia.
Lei non sapeva mica con chi aveva a che fare. Annunziata io la conoscevo ormai da ventidue anni e sapevo bene quando dribblare un suo interrogatorio, abilmente camuffato da invito a cena.
«Magari serve la macchina a Romeo, non pensi? Gliel’abbiamo requisita da oggi pomeriggio…» Ipotizzai, sperando mi desse man forte.
Celeste ridusse gli occhi a fessure e sbuffò. «Robbeo non esce, te lo garantisco. E poi, anche se fosse, prenderà i mezzi pubblici per una volta…»
La mia ragazza era una negriera e in certe occasioni mi spaventava la sua risolutezza. Non c’era verso di convincerla. Celeste era testarda come un mulo.
«Su Chico, ho una bella sorpresina per te…» Sorrise la nonna, facendomi l’occhiolino.
Quella serata non prometteva nulla di buono. Il nostro primo appuntamento si era trasformato in una specie di cena familiare, anche se l’unico membro del clan Sogno era Annunziata. Tutto ciò che mi ero immaginato, dalla pomiciata al sesso sfrenato nel bagno del cinema, si era sgonfiato come un palloncino bucato ed era stato, infine, calpestato dalle scarpe da ginnastica di mia nonna.
La sorpresina, poi, mi fece venire i brividi.
«Allora, andata?» Chiese Annunziata, prendendo sotto braccio la mia ragazza.
Non c’era alcun bisogno che rispondessi. Celeste aveva già deciso per conto suo e in quel preciso istante notai quanto le due donne della mia vita fossero simili. Che in un futuro prossimo, anche Celeste si sarebbe imbucata al primo appuntamento dei nostri nipoti?
Era tutto da vedere.

Nonostante l'enorme differenza di età tra me e la signora Annunziata, sentivo che tra di noi c'era un bel feeling. Quella signora con una nuvola di capelli bianchi e lo sguardo vispo mi aveva letteralmente conquistata con i suoi modi di fare e il suo caratterino tutto pepe. Magari avessi avuto io una nonna del genere! Non che non sopportassi la mia, anzi, le volevo un gran bene, ma era una signora d'altri tempi, all'antica, che voleva maritarmi quando avevo solo diciotto anni dicendomi che ero già in età da marito e che se non mi fossi trovata un uomo prima dei ventuno anni sarei rimasta zitella per sempre. Fino a quel momento avevo davvero creduto che mia nonna mi avesse tirato addosso una maledizione, che fosse una specie di fattucchiera che mi aveva fatto la fattura perché avevo rifiutato in malo modo il fidanzato-futuro-marito che mi aveva presentato. Secondo lei era un ottimo partito, nipote di alcuni suoi amici del circolo della briscola e sarebbe stato perfetto per me. Ma, tralasciando il fatto che era più largo che alto, preferiva anche il Walter alla Iolanda e mia nonna era l'unica a non averlo capito. Era chiaro perfino alle capre che fosse gay! Portava i maglioni come vestitini ed era tanto se non si mettesse anche i tacchi.
Annunziata era tutto il contrario di mia nonna. Mentalmente aperta, consapevole del fatto che vivessimo nel 2011 e non nel dopoguerra. Ci scambiammo uno sguardo d'intesa e ci sorridemmo all'unisono.
«Andata!» Esclamai.
«Io preferirei andare a casa,» intervenne Ruben, nervosamente «Sai, il mal di gola.» E arrochì la voce per convincermi che stesse davvero male.
Assottigliai lo sguardo e lo fulminai. Quando mi mettevo in testa qualcosa, cascasse il mondo, dovevo portarla a termine. E quella sera avremmo cenato da nonna Annunziata, a costo di tramortire il mio ragazzo e trascinarlo per tutta Roma. Mi sembrava ancora strano associare il nome Ruben a il mio ragazzo. Avevo sempre pensato che al mio fianco avrei avuto un uomo colto, magari in procinto di laurearsi o già laureato che si apprestava a prendere un master. Ed invece mi ritrovavo ad essere la ragazza di un troglodita che era un miracolo se sapesse dire il suo nome senza incepparsi. E non potevo essere più felice di così. Almeno con Ruben mi divertivo e non avrei passato tutti i miei giorni seduta su un divano a discutere di filosofia o politica con uno che magari era anche più secchione e saputello di me.
«Ho detto Andata,» scandii acida «Per cui io e te andremo a cena da tua nonna.»
Ruben sbuffò sonoramente, scostandosi gli occhiali da sole per potersi passare indice e pollice sugli occhi.
«Stasera c'è un film che non posso perdermi!» Se ne uscì poco dopo, sorridendo soddisfatto come se avesse trovato la scusa più geniale del mondo.
Incrociai le braccia al petto e alzai un sopracciglio, ingoiando tutto il nervoso che quelle scuse banali mi stavano creando. Il mio ragazzo si avvicinò a me e mi strinse un braccio, trascinandomi lontano da nonna Annunziata e rivolgendo un sorriso alla signora.
«Ci ha fatto piacere il tuo invito, nonna, ma dobbiamo andare.» Disse e non capivo il perché non volesse accettare l'invito di Annunziata.
«Ma dai Chicco! Non vuoi rendere felice la tua adorata nonnina?» Gli domandò puntando sul senso di colpa. Gran donna! Annunziata si stava per guadagnare un posto nella mia breve lista di miti personali. Se non contavo la dolce vecchietta, c'era solo Ven a riempire quell'elenco.
«Non cominciare con i mezzi subdoli.» Bofonchiò Ruben.
«Orsù, Chicco mio,» continuò la signora «Non farti pregare!»
«Dai, Ruben! Vedrai che ci divertiremo!» Mi unii anche io alle suppliche. «E poi non ho intenzione di mangiare quello che prepara Robbeo. Una volta mi ha servito i ravioli della Quattro salti in padella ancora congelati.»
Ruben sollevò il berretto e si grattò la testa, poi fece ricadere le braccia lungo i fianchi sospirando rumorosamente.
«Va bene, va bene! Veniamo.» Si arrese finalmente ed io, di slancio, mi aggrappai al suo collo abbassandolo verso di me per poterlo baciare, anche se non nel modo spinto in cui era successo nel bagno del cinema. La signora Annunziata sorrise soddisfatta, poi ci guardò con aria sognante mettendosi una mano sul cuore.
«Va be’, vado a casa a sistemare le ultime cose per la cena e a vedere se la sorpresina è arrivata.» Disse, e vidi il mio ragazzo deglutire a fatica come se fosse spaventato da qualcosa. Che cosa poteva esserci di così terrificante in casa di una vecchietta? Sì, Ruben era strano e me ne rendevo conto ogni giorno di più. Annunziata ci salutò rapidamente e montò sulla sua macchina d'epoca bianca, quasi coetanea di quella di Robbeo e il motore di quel rottame gracchiò prima di partire. Fece retromarcia per uscire dal parcheggio e una macchina, un Suv enorme, le sfrecciò accanto rischiando di travolgere il macinino.
«Che razza di cafone!» Esclamò Annunziata, tirando fuori la testa ed inveendo contro il guidatore che si stava allontanando. «Per poco non mi ammazzavi! Cosa credi che solo perché tu hai il macchinone sei il re della strada? Lo sai vero che chi compra auto così grosse è per compensare qualche altra mancanza?» Continuò imperterrita ed io scoppiai a ridere, mentre Ruben abbassò il viso scuotendo il capo.
Il rottame ripartì, emettendo una nuvola di fumo nero dalla scarico – forse anche tossico –   mentre la nonna continuava a borbottare tra sé e sé ed aspettai che uscisse dal parcheggio del cinema per acchiappare la manica della tuta di Ruben e trascinarlo verso il pandino scassato di Robbeo. Non era per nulla contento di andare a cena da sua nonna a differenza di me che ero quasi elettrizzata. Ogni tanto anche io potevo mangiare qualcosa di decente e non i soliti pasti precotti o ordinati da qualche fast food cinese che ingurgitavamo io e Robbeo. Nessuno dei due era in grado di cucinare qualcosa di decente e il più delle volte ciò che preparavamo diventava pasto per la spazzatura.
Salimmo sul macinino con i sedili più polverosi del cervello di un calciatore, che di solito era ancora bello incellofanato da quando il Signore l'aveva donato loro e da allora era rimasto nella scatola cranica a raccattare acari. Ero una maniaca delle pulizie e avevo tentato più di una volta di pulire quel marciume che si annidava in quel rottame ma Robbeo mi aveva sempre impedito di farlo, manco quella polvere facesse parte della carrozzeria. Per mio enorme dispiacere mi ero abituata a convivere con centinaia e migliaia di piccoli acari fastidiosi e facevo finta di non vedere i covoni di polvere che si annidavano in ogni angolo di quel macinino.
Ruben inserì la chiave nella fessura e la girò, facendo piagnucolare il motore che tossiva ma non aveva la minima intenzione di partire.
«E che palle!» Sbottò il mio ragazzo, grugnendo.
Ogni volta con quella macchina era una lotta in cui i nervi erano messi a dura prova. Sospirai e mi allungai verso il parabrezza. Gli avevo già spiegato come farla partire, ma a quanto pareva non mi aveva ascoltato per niente. Tipico degli uomini! Non appena stavo per prendere a scappellotti la macchina, Ruben mi sorrise e picchiò quella carretta al posto mio.
«Basta dare un piccolo colpo mentre si gira la chiave.» Disse guardandomi e mi dispiacque non poter vedere i suoi occhi in quel momento. Non capivo perché diavolo si fosse dovuto conciare come una spia in incognito. Era come se cercasse di nascondersi da qualcosa o qualcuno e non capivo perché del suo strambo atteggiamento. Anzi, strambi atteggiamenti visto che erano più di uno. Ma pazienza! Se c'era qualcosa che doveva dirmi, lo avrebbe fatto ne ero più che certa. Mi fidavo di lui ed io raramente mi fidavo delle persone.
«Pensavo che non mi avessi nemmeno calcolata, mentre te lo spiegavo.»
Ruben inserì la frizione e si tolse quel suo travestimento, lanciando cappello, sciarpa e occhiali da sole sul sedile posteriore.
«Ti ho ascoltata, non sono mica scemo,» ridacchiò divertito «Se non lo avessi fatto sarei andato incontro a morte certa.»
«Noto che hai capito con chi hai a che fare.» Replicai assottigliando lo sguardo e guardandolo in tralice. Se c'era una cosa che non sopportavo – anche se la lista era talmente lunga che nemmeno il rotolone Regina avrebbe potuto contenerla – era che le persone non mi ascoltassero, che mi ignorassero. Fortunatamente Ruben sembrava averlo capito. Lui sembrava aver capito un sacco di cose di me mentre io, ancora, sguazzavo in un mare di dubbi ed incertezze, come se in realtà non lo conoscessi affatto, come se avessi davanti tutt'altra persona. Si allungò verso di me e sfiorò le labbra con le sue, per poi allacciarsi la cintura e sfrecciare con il bolide di Robbeo fuori dal parcheggio.
«Che cosa volevi dirmi poco prima?» Domandai, ricordandomi quello che ci eravamo detti in bagno.
«Quando?» Chiese di rimando, rimbalzando con lo sguardo da me alla strada che scorreva lentamente davanti a noi. Se fossimo andati a piedi saremmo arrivati sicuramente prima che con quel macinino che si reggeva a stento su due ruote.
«Prima che tua nonna ci interrompesse,» gli rimembrai e puntai il mio sguardo su di lui. «Riguardava il tuo lavoro.»
Le mani del mio ragazzo tremarono sul volante e i suoi occhi si incollarono all'asfalto. In quel momento ogni congettura mi passò in testa. Poteva essere una banalità come poteva essere che lui mi aveva mentito e che in realtà non lavorasse al negozio di sua nonna. Ma perché farlo? Faceva un lavoro talmente ignobile da aver paura perfino di confidarlo alla sua ragazza? Che, se in caso mi avesse mentito, la sua professione sarebbe passata in secondo piano. Mal digerivo le bugie, le prese per il culo e soprattutto essere illusa.
«Oh sì,» esclamò senza particolare entusiasmo. «Beh...insomma...» Tentennò e quella sua insicurezza mi preoccupò.
«Sappi che se mi hai mentito puoi dimenticarti di Celeste Fiore.» Misi le mani avanti, per mettere in chiaro il mio pensiero.
Ruben stiracchiò le labbra in un sorriso forzato e prese un respiro profondo.
«Figurati se ti ho mentito,» disse seriamente ed io tirai un sospiro di sollievo. «No, è che... stavo pensando che... forse,» esitò qualche altro secondo e tutte quelle pause tra una parola e l'altra era un battito cardiaco perduto «È il caso che lasci il negozio di fiori.» 
«E perché?» Domandai subito cercando il suo sguardo che, però, continuava a sfuggirmi.
Ruben boccheggiò e cominciò a tamburellare nervosamente l'indice sul volante della Panda.
«Mi stai per caso nascondendo qualcosa?» Lo aggredì e il mio tono non era di certo dei più dolci. E la mia domanda, il mio dubbio non ebbe una risposta immediata ma solo un sospiro che nascondeva nella sua semplicità qualcosa, qualcosa che Ruben non aveva il coraggio di confidarmi.
«Mi sono rotto di lavorare in quel negozio! I fiori non mi piacciono e non mi sono mai piaciuti,» sbottò tutto d'un tratto. «Voglio trovare un lavoro che mi soddisfi, oh!»
Sbattei le palpebre più volte, stupita dall'esplosione improvvisa del mio ragazzo. Quel senso di incredulità si trasformò ben presto in un piccolo focolaio di felicità. Era la prima volta che Ruben mi parlava delle sue frustrazioni, che si confidasse con me e interpretai quel suo sfogo come un passo avanti per il nostro rapporto, per noi. Appoggiai la mano sulla sua, posizionata sul cambio della macchina e lui si girò a guardarmi.
«E come mai eri così timoroso nel dirmi questa cosa?» Domandai.
«Perché... perché,» cominciò titubante. «Perché credevo che mi avresti ostacolato, in un certo senso. Insomma ho un lavoro sicuro che mi permette di campare ed invece aspiro a fare tutt'altro. Credevo che magari mi avresti giudicato come uno che non si accontenta, che chiede troppo, che sputa sopra al lavoro che ha.»
«Oh, ma figurati!» Esclamai ridacchiando «È vero, sono peggio di un leone tenuto a dieta per mesi, certe volte...»
«Certe volte...» Ripeté scettico il mio ragazzo.
«Sempre!» Rettificai. «Ma non giudico mai le persone per le loro scelte.»
«A parte i calciatori.» Puntualizzò lui.
Sbuffai scocciata, sistemandomi la gonna di jeans e giocherellando con il foulard che avevo legato al collo.
«Ma perché sono esseri privi di materia grigia, capaci solo di sbraitare e correre come dei bufali. Non hanno un'utilità nella società, se non quella di assassinare ogni volta la lingua italiana,» sbottai infastidita. «E sono tutti uguali,» scandii inviperita «Sempre e solo a pensare alle Iolande di qualche sgallettata, oca, senza cervello.»
«Non tutti sono così,» disse, lanciandomi uno sguardo di sfuggita. «Totti, ad esempio è sposato e ha anche dei figli. Del Piero idem. E potrei farti tanti altri nomi per dimostrarti che i calciatori non sono i mostri che dipingi tu.»
Forse con quell'affermazione avrebbe potuto mettermi a tacere. Non proprio tutti erano dei Walter ambulanti imbottiti di ormoni e testosterone. Ma Ruben non mi avrebbe fatto cambiare idea. I calciatori per me erano e sarebbero sempre stati degli inutili cazzoni che sarebbero stati molto più utili in un campo di grano che in uno di calcio.
«E del tuo amico Sogno che mi dici?» Bofonchiai, guardandolo in tralice «In Università parlano sempre di lui e ogni giorno ne ha una diversa. Anche se mi risulta difficile da credere...»
In effetti, con tutte le ammiratrici che quel deficiente aveva mi immaginavo che fosse molto più attraente di quella talpa rachitica. Era più sensuale una patata lessa di quello scherzo della natura. Ma molto probabilmente erano tutte attratte dal fascino del calciatore, dal fascino del conto in banca che aveva quel bufalo. Ruben fermò la macchina tutto d'un tratto, arrestandosi ad un semaforo rosso e per poco non mi spiaccicai contro il parabrezza. Lo guardai in cagnesco, pronto a sbranarlo per avermi quasi ucciso, ma lo trovai assorto a guardare la strada davanti a sé.
«È vero. Leonardo cambiava ragazze più frequentemente delle mutande,» ammise con un sospiro «Ma ora è diverso. Faccio fatica a riconoscerlo perfino io. Diciamo che si sta rimettendo in gioco.» Si voltò verso di me e sorrise.
«Si è trovato la pischella?» Domandai, con un sopracciglio abbassato, credendolo quasi impossibile. Quello era un ossessionato di Iolande, figurarsi se rinunciava alle varie starlette che gliela presentavano per accontentarsi di una sola.
«Sì. Strano a dirsi, eh,» ridacchiò nervosamente. «Per cui credo che tu debba cominciare a ricrederti sui calciatori.»
«Mai!» Esclamai. «È una questione personale.» Tagliai corto e scivolai lungo il sedile, incrociando le braccia.
Ruben ridacchiò, ma ebbe la decenza di non chiedere ulteriori spiegazioni, così, in pochi secondi, il silenzio piombò su di noi. Avrei voluto accendere la radio e magari allontanare la mia mente da quel discorso, ma il macinino di Robbeo non era dotato nemmeno di autoradio. Era già tanto se avesse un motore funzionante, quella carretta.
Una macchina si affiancò a noi e il ragazzino che era seduto al posto del passeggero indicò la nostra auto con un dito tremante e lo sguardo illuminato quasi avesse visto la Madonna, come se avesse avuto qualche illuminazione divina. Il padre, che gli era accanto, si sporse in avanti e sbirciò anche lui nella Panda. Non sapevo se quei due ci stessero fissando perché andavamo in giro con un catorcio tenuto insieme con dello scotch oppure perché mi era spuntato, improvvisamente, un brufolo di proporzioni cosmiche sul naso. Mi sfiorai la punta con le dita, passando a rassegna tutto il viso alla ricerca di quel brufolo-vulcano che credevo di avere ma che in realtà non era spuntato. Il bamboccio tirò giù il finestrino e il padre cominciò a strombazzare con quell'odioso clacson che mi perforò i timpani e il cervello. Con la manopola – e uno sforzo disumano – abbassai il vetro e mi sporsi fuori, alterata.
«Ma che modi!» Esclamai indignata. «Cosa vuole? Ridere di questa carretta? Prenderci per i fondelli perché andiamo in giro con una scatoletta di tonno con le ruote?» Mi inalberai subito ed ignorai anche il mio ragazzo che tentava di fermare il mio monologo contro cafone senior e cafone junior.
«Ehi, tu, ragazzo!» Esclamò l'uomo occhialuto indicando Ruben, non calcolando per nulla le mie urla.
Il mio ragazzo si portò un indice sotto il mento spiazzato e il tizio annuì, insieme a suo figlio che era quasi in estasi. Molto probabilmente aveva le stesse tendenze del marito che voleva appiopparmi mia nonna, dato che sembrava così attratto da Ruben.
«Tu per caso non sei...» Tentò di dire l'uomo ma il mio ragazzo sbiancò tutto d'un tratto e mise di nuovo in moto la macchina, partendo senza attendere nemmeno che il semaforo diventasse verde. Fortunatamente le macchine all'incrocio erano già ferme sennò, in quel momento, ci saremmo ritrovati a spalare nuvole in Paradiso.
«Che diamine ti è preso?» Grugnii, fulminandolo con gli occhi resi a due fessure.
«Storia lunga. E anche drammatica, non vorresti saperla.» Tagliò corto lui, sfrecciando per le strade di Roma. Sfrecciando... insomma andava a 80 km/h, un record per quel rottame che, stranamente, non stava nemmeno tossendo per lo sforzo.
Ruben non aveva tutte le rotelle a posto, anzi forse gliene mancava anche più di una. E mi faceva arrabbiare quando faceva così il misterioso, quando si bardava nemmeno andasse a fare una spedizione in Antartide o quando rischiava di ucciderci solo perché un tizio ci aveva affiancato, perché era come se stesse cercando di nascondermi qualcosa. Non sopportavo i misteri, soprattutto quando riguardavano il mio ragazzo. Stavo per controbattere con il mio solito tono mansueto, quando, per la seconda volta in quella serata, Ruben frenò bruscamente. Solo che non c'era nessun semaforo rosso, nessuna macchina davanti a lui. Eravamo in una via tranquilla in cui c'erano solo palazzi per cui non capii che cosa gli fosse preso. Finché il suo dito indice non mi passò sotto al naso per indicare un'auto parcheggiata poco più avanti.
«La vedi anche tu quella macchina?» Domandò quasi avesse visto un fantasma.
«La Peugeot verde rancido?» Chiesi di rimando, abbassando entrambe le sopracciglia.
«No, quell'altra,» puntualizzò, indicandola con più enfasi «Quella dietro.»
«La 500 blu notte?» Risposi scettica.
«Sei sicura che sia una 500? Blu notte?»
«Ma ti si è fritto il cervello, oggi?» Sbottai infastidita senza sapere perché era così terrorizzato da quella piccola macchina. «Sì, è una 500 blu notte! Vuoi che chiamo anche un esercito che ti confermi che auto è?»
Sbatté una mano contro il volante, poi ingranò di nuovo la prima marcia infilandosi nel primo parcheggio che incontrò. Era stranamente turbato e tutto questo per aver visto una stupida macchina. Come se non avesse mai visto un modello come quello! Molto probabilmente gli si era fuso anche l'ultimo neurone attivo, non c'era altra spiegazione. Scendemmo dall'auto e Ruben si avvicinò furtivo alla 500. Sfiorò la carrozzeria, la scrutò attentamente – anche all'interno – e ci girò intorno senza perdersi nemmeno un minimo particolare.
«Ehi, senti,» lo richiamai, incrociando le braccia e tamburellando un piede sul marciapiede. «Siamo venuti qui per fare CSI scena del crimine oppure possiamo salire da tua nonna?»
«Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo,» bisbigliò passandosi entrambe le mani sul viso e in quel momento pensai davvero che il mio ragazzo fosse completamente impazzito. «Lo sapevo che non dovevo fidarmi di quella volpe di Annunziata.»
«Stai bene?» Domandai preoccupata. «O vuoi fare un salto dallo psichiatra?»
Ruben sospirò e si avvicinò a me, intrecciando le sue dita con le mie. Camminammo mano nella mano fino al portone di vetro di una palazzina signorile color grigio chiaro. Citofonò al cognome Dell'Abbiati, pigiando il pulsante ad intermittenza e poco dopo una voce scocciata ci rispose.
«Who is it?»
«Il lupo mangia frutta,» borbottò il mio ragazzo «So' Le...» S'interruppe e mi guardò di sottecchi. «So' io.»
«Holy shit!» Imprecò il ragazzo dall'altra parte e il portone scattò con un suono sordo.
Che cosa ci faceva un ragazzo a casa di nonna Annunziata? Subito cominciai a fantasticare su chi potesse essere il misterioso giovane, pensando inizialmente che fosse un malvivente che teneva in ostaggio Annunziata, ma ricredendomi subito dopo, dato che Ruben non aveva fatto la minima piega quando lo aveva sentito. Per cui o era il fratello perduto del mio ragazzo, del quale non mi aveva mai parlato oppure il nuovo fidanzato di nonna Annunziata.
«Ma chi è il tizio che ha risposto?» Domandai mentre eravamo sull'ascensore per raggiungere il secondo piano.
«Uno che non avresti mai voluto conoscere.» Rispose spicciolo ed enigmatico Ruben.
Assottigliai lo sguardo ed analizzai il mio ragazzo. Aveva le mani nelle tasche della felpa, era stretto nelle spalle e guardava con insistenza il led sul quale appariva il numero del piano. Sembrava contrariato, spaventato e deglutì a fatica quando arrivammo al secondo e le porte metalliche dell'ascensore si aprirono. Mi aspettavo di trovarmi davanti, dato il timore di Ruben, una specie di serial killer, un mostro, una specie di Frankstein, un Robbeo in mutande ad aspettarci sulla soglia di casa di nonna Annunziata. Ed invece, attaccato allo stipite con una spalla, c'era un ragazzo moro, un bellissimo ragazzo con uno sguardo vispo e un sorriso accattivante, vestito con un paio di jeans che sembravano molto costosi e una maglietta a maniche lunghe a righe dal quale si intravedeva il fisico sodo e sviluppato. Il suo viso era estremamente delicato, con lineamenti sottilmente marcati, ma di una elegante finezza. Zigomi alti, labbra piene e ben disegnate, un viso, insomma, che sembrava essere uscito dal pennello di uno dei grandi maestri dell'arte. Se quello era davvero il fidanzato di Annunziata, la nonna aveva molto più gusto della sottoscritta. Non che Ruben fosse brutto, ma tutti i miei ex fidanzati non brillavano per bellezza.
«È arrivata la sorpresina, nonna.» Bofonchiò il ragazzo con un leggero accento inglese rientrando in casa.
«Nonna?» Domandai dubbiosa rivolta al mio fidanzato e lui annuì sconsolato trascinandomi all'interno della dimora di sua nonna.
Fui subito investita da un buonissimo odore, un profumo di antico che mi ricordò vagamente quello squisito delle pagine di un libro. Quel posto era stato elegantemente arredata  con mobili antichi ma era tutto molto sobrio, molto tranquillo e mi sembrava quasi di essere a casa mia, con la mia famiglia e fu una strana, ma stupenda, sensazione. Mi tolsi la giacca, inserendo il foulard nella tasca e Ruben lo appese all'appendiabito vicino alla porta di ingresso.
«Oh Celeste!» Esclamò Annunziata spuntando dalla cucina trotterellando verso di noi mentre si puliva le mani nel grembiule bianco. «E il mio Chicco!» Aggiunse dopo accarezzando un braccio a suo nipote. Sembrava che non ci vedesse da secoli talmente tanta era a felicità di averci lì a cena da lei. Sorrisi nel vederla così contenta e nel percepire quanto affetto ci fosse tra lei e suo nipote, ma una risata interruppe quel momento.
«Oh God!» Esclamò il misterioso ragazzo, stravaccato su divano in stile Robbeo, anche se quello sconosciuto era un milione di volte meglio del mio coinquilino. «Ti fai chiamare ancora Chicco? Quanti anni hai, cinque?»
«Ho sentito come il ronzio di una mosca,» fece il finto tonto Ruben, grattandosi un orecchio. «Dovresti aprire un po' le finestre nonna, così magari se ne vanno questi fastidiosi insetti.»
«Ti dà fastidio il mio ronzare, Chicco?» Lo provocò quello, scoppiando a ridere nuovamente.
«Smettila Simone,» intervenne nonna Annunziata. «Non vorresti che dicessi alla nostra ospite il tuo di soprannome.»
Si zittì di colpo e fulminò la donna con i suoi intensi occhi color nocciola, mentre il mio ragazzo cominciò a sghignazzare.
«Pisellino.» Gli ricordò Ruben, trattenendo a stento una risata e vidi Simone arrossire di colpo e scivolare lungo lo schienale del divano per l'imbarazzo. Io non ci trovavo nulla di così divertente ma ogni ragazzo trovava spassoso qualsiasi parola legata al Walter e alle sue dimensioni.
«Comunque Celeste,» la nonna richiamò la mia attenzione e la guardai nei suoi vispi occhietti. «Lui è mio nipote, Simone, il cugino del mio Chicco.»
Il ragazzo, sentitosi chiamare in causa, si alzò ancora rosso in viso e si avvicinò a me, tendendomi una mano.
«Nice to meet you.» Disse, scandendo le parole come se io non capissi l'inglese. E cominciava anche a darmi sui nervi il fatto che parlasse così per chissà per quale motivo.
«Non sono cretina! Lo conosco l'inglese,» gli feci presente acida. «Celeste, comunque.» Dissi stringendogli la mano e per poco non gliela stritolai.
«So strange,» mormorò pensieroso e mi squadrò da capo a piedi, grattandosi il mento. «Pensavo che mi saresti saltata addosso. Sai com'è, di solito le ragazze scalpitano per incontrarmi e per avere anche un piccolo bacio da me. Invece tu non hai fatto nemmeno una piega.»
«Cosa ti sei fumato? Il basilico di tua nonna?» Domandai inacidita dalla megalomania di quel ragazzino. Solo perché era piacente, credeva che strisciassi ai suoi piedi per ricevere delle sue attenzioni? Giammai! Nemmeno se fossi stata single avrei ceduto al suo fascino. A pelle non riuscivo a digerirlo, forse per la sua arroganza e la sua vanità, forse per il benvenuto poco cordiale che ci aveva riservato.
«Vuoi dire che non sai chi sono?» Chiese quasi sorpreso. Aveva avuto la stessa reazione di Ruben la prima volta che lo avevo incontrato. Molto probabilmente era tipico della loro famiglia il fatto che tutti li conoscessero solo perché erano fighi.
«Sei un usuraio e ti devo dei soldi per caso?» Ironizzai, anche se ne avevo già fin sopra ai capelli del cugino del mio ragazzo.
Simone sghignazzò incredulo e si passò una mano tra i capelli castano chiaro. Sorrise sornione e mi parve di essere Alice nel paese delle meraviglie al cospetto dello Stregatto. Il ghigno di Simone era lo stesso di quel gattaccio a strisce violacee e mi sentivo stranamente in soggezione. C'era qualcosa dietro quel sorriso, come una risposta a un qualche mio dubbio.
«Ma io sono Simone S...» Tentò di dire ma Ruben gli si fiondò addosso, stringendolo a sé e spiaccicandogli la faccia contro il suo petto.
«Mamma mia quanto parla questo mio cuginetto!» Ridacchiò nervosamente, scompigliando i capelli del povero Simone che cercava di divincolarsi dalla stretta di Ruben senza rischiare di essere strangolato. «È un sacco egocentrico!»
Guardai quella scenetta patetica con sufficienza, incrociando le braccia e picchiettando il dito indice contro l'avambraccio. Sospirai sconsolata e decisi di raggiungere nonna Annunziata in cucina e lasciare i due ragazzi da soli a disquisire o uccidersi, a seconda di quello che avevano intenzione di fare. Non mi sembrava che si sopportassero, anzi, c'era rancore nei loro sguardo, astio e non ne capivo il motivo. Erano tante le cose che non comprendevo e che non sapevo di Ruben.
In cucina respirai immediatamente un buonissimo odore che proveniva dal forno e che stuzzicò il mio appetito, facendomi venire l'acquolina in bocca. Vidi Annunziata stendere una delicata tovaglia bianca sul tavolo posizionata al centro della cucina e la aiutai ad apparecchiare la tavola piegando i tovaglioli che aveva lasciato sul banco vicino ai fornelli.
«Oh no, Celeste! Tu sei l'ospite e non dovresti apparecchiare.» Esclamò subito la donna apprensiva.
«Tranquilla Annunziata!» La calmai con un sorriso e posizionai i quattro tovaglioli a coppie in modo da essere due per lato. «Per me è un piacere aiutarti.»
La nonna mi sorrise dolcemente e sistemò anche i bicchieri mentre io mi occupavo delle posate.
«Sono così felice che il mio Chicco abbia trovato una ragazza, finalmente,» sospirò con aria sognante. «Sinceramente ero stufa di vederlo accompagnato sempre ad una modella diversa ogni giorno. Da quando ti ha conosciuto, mi sembra tutt'altra persona e non posso che esserne felice. Magari è la volta buona che metta un po' la testa apposto.» Disse e mi guardò di sottecchi con i suoi occhi chiari e vispi.
«Puoi starne certa!» Esclamai sogghignando. «Gliela smonto io quella capoccia, anche a suon di sberle se fosse necessario.»
Magari riattivo anche qualche neurone, mi ritrovai a pensare ma mi morsi la lingua. Lei era sempre sua nonna e avrebbe potuto offendersi se parlavo così del suo adorato nipote.
«Il mio Chicco è un così bravo ragazzo, anche se molti lo giudicano senza nemmeno conoscerlo.» Soffiò Annunziata ed io le sfiorai una spalla. Io rientravo nella categoria di quelle persone che lo avevano additato, catalogato subito nella lista Trogloditi-malati-di-Iolanda, non appena lo avevo incontrato. A poco a poco, giorno dopo giorno, dopo che avevo iniziato a conoscerlo veramente, avevo cambiato idea sul suo conto, anche se lo ritenevo ancora un troglodita.
Avremmo continuato a parlare tra donne molto probabilmente, a mantenere intatta quella complicità femminile che si era creata tra di noi, se non fosse stato per i due ragazzi che entrarono insieme dalla porta, ostacolandosi a vicenda con spintoni e occhiate fulminanti. Era come vedere due bambini al parco giochi che litigavano per chi dovesse salire per primo sullo scivolo.
«Stavo entrando io per primo!» Ringhiò Simone, avvicinandosi a suo cugino per guardarlo dritto negli occhi.
«Ma se sono stato io a scattare dal salotto per primo!» Ribatté subito Ruben, pungolandogli il petto con l'indice. Probabilmente lo avevo tormentato così tanto con quel gesto che anche lui aveva iniziato, inconsciamente, a farlo.
«Sei una lumaca,» gli fece la linguaccia quell'altro e mi ritrovai a pensare che Simone avesse più o meno vent'anni d'aspetto fisico ma che il suo cervello fosse rimasto ancora all'infanzia. «Ed io sono più veloce di te! Lo sono sempre stato! Ci sarà un motivo se mi chiamano Sonic
«Perché sei fastidioso come un riccio nelle mutande, ecco perché!» Ribatté a tono Ruben.
Mi stupivo di come gli uomini non riuscissero ad allontanarsi dalla fase infantile, a preferire di rimanere degli eterni Peter Pan piuttosto che maturare. Io ed Annunziata ci scambiammo uno sguardo d'intensa, sospirando poco dopo mentre quei due continuavano a digrignare i denti come se fossero dei cani affamati che si contendevano un succulento pezzo di carne.
«Su, basta ragazzi!» Intervenne Annunziata, spegnendo il forno. «Che le lasagne al pesto sono pronte!»
Simone si voltò a guardare sua nonna e gli si illuminarono gli occhi. Trotterellò verso l'anziana donna e la strinse forte a lui, sbaciucchiandola su tutto il viso.
«Ha preparato il mio piatto preferito!» Cantilenò rivolgendo uno sguardo soddisfatto a Ruben.
«Solo perché tu abiti in Inglesilandia e vieni a Roma con la stessa frequenza con cui la Lazio gioca una partita decente. Cioè... MAI! Ti ha voluto solo accontentare.» Replicò il mio ragazzo, sedendosi a tavola.
«Si dice Inghilterra, ignorante!» Lo rimbeccò Simone, accomodandosi di fronte a suo cugino e fulminandolo con lo sguardo.
«Non mi dire!» Disse sarcastico Ruben. «Mi hai davvero illuminato con la tua saggezza!»
«Su ora basta!» Intervenne perentoria Annunziata, appoggiando la teglia fumante su uno straccio precedentemente sistemato sulla tovaglia. Mi sedetti accanto al mio ragazzo e la nonna cominciò a riempire i piatti con la lasagna dall'aspetto e dall'odore invitante «Abbiamo un ospite, non vorrete mica che scappi.» Aggiunse porgendo il piatto a Ruben.
«Ma chi saresti? Sai, non l'ho ancora capito.» Mi chiese, specchiandosi sulla superficie deformante della forchetta.
«Lo spirito del Natale passato.» Bofonchiai.
Era talmente preso da se stesso e da suo cugino che non si era nemmeno posto il problema di chi io fossi. Potevo essere una pazza isterica che voleva fare una strage! Anche se pazza isterica lo ero davvero, ma quello era tutto un altro discorso.
«È la mia ragazza.» Rispose per me Ruben e ci fu un attimo di silenzio, colmato solo dalla sedia di nonna Annunziata che strisciava sul pavimento. Simone ci guardò entrambi ad intermittenza, poi scoppiò in una fragorosa quanto fastidiosa risata. Resi gli occhi a due fessure e lo guardai in cagnesco, sentendo la strana voglia di prendere il coltello ed improvvisarmi una circense sbadata che, per puro caso, colpiva il suo insopportabile assistente.
«Cosa c'è di così spassoso?» Domandai brusca.
«Mio cugino che ha una ragazza? Che peraltro non è una modella o una tizia famosa e gnocca?» Disse sprezzante, asciugandosi una lacrima. «It's impossible!»
«A quanto pare ti devi ricredere, Sonic,» risposi con il suo stesso tono utilizzando anche quello stupido soprannome che lui stesso aveva usato per definirsi. «Non sono modella, non sono famosa e non sono nemmeno gnocca. Ma, sorprendentemente, sono la ragazza di Ruben.»
«Ruben?» Ripeté scettico Simone, guardandomi dubbioso. «Ma di che dia...» E anche questa volta venne interrotto dal mio ragazzo che gli diede un calcio da sotto il tavolo, facendolo sobbalzare e facendogli sbattere un ginocchio. «Damn shit!» Imprecò con una smorfia di dolore dipinta sul volto, massaggiandosi la gamba dolente. «Che cazzo ti è preso, deficiente!» 
«Non l'ho fatto apposta!» Disse mortificato Ruben, ingoiando un pezzo di lasagna. «Mi stavo solo sistemando.»
«Sì, certo! Volevi mettermi fuori uso, eh, Le...» E il mio ragazzo gli rifilò un altro calcio sotto il mio sguardo sempre più perplesso. Si voltò verso di me e mi sorrise nervosamente, tornando a divorare la sua lasagna mentre Simone si lagnava e continuava ad imprecare in inglese. Nonna Annunziata si alzò in piedi e afferrò per un braccio il suo nipote “ferito”, facendolo alzare.
«Andiamo un attimo in salotto, così ci mettiamo un po' di ghiaccio.» Disse e rivolse un'occhiataccia a Ruben, che si strinse nelle spalle con sguardo colpevole.
Simone zoppicò fino al salotto e la nonna lo seguì a ruota fuori dalla cucina, munita di qualche cubetto di ghiaccio avvolto in un tovagliolo di carta. Sbocconcellai un po' di lasagna – squisita, tra l'altro – guardando di sottecchi il mio ragazzo che sembrava stranamente turbato.
«Che ti è preso, Ruben?» Domandai cercando di controllare il mio tono di voce ed il mio disappunto.
«Non l'ho fatto apposta, davvero!» Si giustificò, sfuggendo al mio sguardo indagatore. «Ho solo mosso le gambe. Non è colpa mia se sono così lunghe!»
«Due volte consecutivamente.» Continuai, sempre più dubbiosa da tutto quel mistero che si celava nelle mura di quella casa.
«So' sbadato, che te devo di'?» Fece spallucce e continuò a mangiare la sua porzione di lasagna. Magari gli assistenti del circense erano due, uno di riserva nel caso il primo fosse stato messo fuori uso e Ruben poteva ben adattarsi alla parte del sostituto dell'assistente deceduto per una disgrazia. Perché doveva essere sempre così ambiguo? Sembrava sempre che mi stesse nascondendo qualcosa, eppure riusciva a mascherare i suoi segreti con maestria e cominciavo davvero a dubitare che i suoi misteri non esistessero e fossero solo creati dalla mia mente iperattiva e che cercava guai ovunque.
In quel momento il mio cellulare squillò e Shakira cominciò a cantare Waka Waka. Odiavo quella canzone, ma Robbeo mi aveva obbligata a metterla come suoneria perché era innamorato della cantante colombiana e il suo cellulare – il Nokia indistruttibile del dopoguerra – non poteva supportare il formato della canzone. Presi il telefonino dalla tasca e sul display lampeggiò il nome del mio migliore amico. Premetti il tasto verde e subito Robbeo mi  investì con la sua voce preoccupata.
«Celesteeeeeeeeee! Dove sei finita?» Piagnucolò disperato.
«Mi hanno rapito li alieni.» Borbottai sbuffando.
Dall'altro capo della cornetta udii un gridolino, poi il mio migliore amico abbassò il tono della voce.
«E come sono gli alieni? Brutti e verdi?» Mi chiese. «Oppure sono delle ragazze gnocche?» «Cavoli, Robbè! Quanto sei stupido!» Lo apostrofai stizzita. «Sono a casa della nonna di Ruben. C'è pure suo cugino.»
Un altro urlo provenne dalla bocca di Robbeo, ma questa volta fu di stupore, di gioia e subito dopo la sua voce tremò.
«Si-Si-Si-Simone?»
«Leonardo ti ha contagiato?» Ridacchiai. «E come conosci il cugino di Ruben, tu, eh?»
Ci furono alcuni secondi di silenzio in cui lo sentii sospirare e più di una volta cercò di rispondere, ma ci ripensava subito dopo.
«Me lo ha presentato lui.» disse infine.
«Ma se sta a Londra!» Sbottai infastidita. «E poi non capisco perché tu ti sia esaltato così tanto per il cugino di Ruben.»
Altra pausa, molto più lunga della precedente. Attesi che lui mi rispondesse, giocherellando con la forchetta nel piatto ma sembrava quasi che Robbeo fosse morto.
«Ciuccio ci sei o sei deceduto d'infarto?»
«Robbeo è dovuto scappare in bagno!» Rispose la voce squillante di Ven. «Abbiamo mangiato la pasta al sugo. E il ragù faceva schifo. Ha messo anche l'origano e qualche altra strana spezia dentro. Faceva schifo. Per cui adesso sta rimettendo tutta l'anima.»
Non mi stupiva il fatto che gli fosse venuto un attacco di nausea. I suoi piatti erano indecenti e più di una volta anche io ero stata male per giorni per le schifezze che cucinava il mio migliore amico.
«Vado a sincerarmi delle sue condizioni,» disse e mi sembrò strano che Ven si preoccupasse per Robbeo. «Divertiti con Ruben.»
«Grazie.» Mormorai e non fui sicura che lei lo sentì perché la chiamata fu interrotta pochi secondi dopo. Guardai il mio cellulare dubbiosa, con le labbra arricciate con la strana sensazione che tutti fossero complici in uno scherzo ai miei danni. Scrollai le spalle con noncuranza e rimisi il telefonino nella tasca della gonna.
 Simone e nonna Annunziata rientrarono in cucina subito, buttando il ghiaccio nel lavandino. Il ragazzo si sedette al suo posto sistemandosi il tovagliolo sulle gambe e sorridendo come lo Stregatto. Guardò prima Ruben, rifilandogli un'occhiata fin troppo furba, poi rivolse i suoi occhi color nocciola a me.
«Allora, Azzurra.»
«Celeste.» Lo corressi subito, stizzita.
«Azzurra, Celeste, Turchese... un colore vale l'altro,» scrollò le spalle e bevve un sorso d'acqua. «Cosa fai nella vita?»
«Studio lettere,» risposi. «E non tipo A, B, C... ma letteratura, casomai il tuo cervello british annacquato dal ponch non ci arrivasse.»
Simone mi guardò con sufficienza ed ero sicura che avrebbe voluto saltarmi al collo solo per aver ferito il suo ego, solo per aver preso in giro un'opera perfetta come lui. Dal canto mio, sorrisi soddisfatta continuando a gustarmi la prelibatezza di Annunziata.
«E dopo che farai? Chiederai l'elemosina oppure ti farai mantenere dal tuo ragazzo?» E quella, più che una domanda, mi sembrò una provocazione.
«Voglio diventare una scrittrice,» risposi risoluta, senza innervosirmi per la spocchia di quel ragazzino venuto da Inglesilandia. «Dico voglio, e non vorrei, perché sono sicura che riuscirò nel mio intento. Moccia ha pubblicato più di due libri, per cui anche la sottoscritta riuscirà a vedere le mie opere sugli scaffali delle librerie.»
Scrivere era sempre stata la mia passione, fin da quando avevo quattro anni e avevo preso in mano una penna. All'inizio scarabocchiavo solo i fogli, ma crescendo ed imparando a scrivere quelle linee senza senso si erano trasformate in parole inizialmente banali, da bambina ingenua quale ero fino a quando non si erano trasformati in versi, in sonetti, in storia in prosa che raccontavano una parte di me. E diventare una scrittrice affermata era il mio sogno nel cassetto. Ogni volta che mettevo piede in una libreria, mi immaginavo quanto sarebbe stato bello ed appagante vedere una mia opera esposta sugli scaffali.
«E tu, invece, di cosa ti occupi?» Chiesi e lo guardai insistentemente attendendo una sua risposta. Lui ci meditò su, ridendo sotto i baffi che non aveva e guardando distrattamente suo cugino.
«Lo stesso lavoro di Ruben.» Rispose, calcando inspiegabilmente il nome del mio ragazzo.
«Ah, quindi vendi fiori?» Domandai corrugando la fronte.
«Esattamente! E il nostro negozio a Londra è uno dei migliori. Ovviamente perché ci sono io.» Gongolò soddisfatto.
«Ma se non avete mai nemmeno vinto nessuna competizione... ehm... fioristica.» Rispose con arroganza il mio ragazzo.
«Floreale, Ruben, floreale.» Lo corressi con voce flebile e lui mi sbolognò con un gesto della mano.
Simone sembrò spesato da quello che aveva detto Ruben, ma poco dopo sogghignò annuendo appena.
«Intendi quelle competizioni,» disse con un mezzo sorriso. «Perché non mi sfruttano abbastanza. Hanno un talento come me e mi tengono troppo spesso nel retrobottega
«Mai stato nel retrobottega in tutta la mia carriera da fioraio.» Si pavoneggiò Ruben, provocando il cugino e con uno sguardo fin troppo furbo. Io ascoltavo, senza in realtà capire che cosa stesse succedendo, alternando sguardi dubbiosi sui due contendenti.
«Non capiscono un cazzo in quel negozio. Io sono il migliore in mezzo a quel branco di inutili fiorai incapaci perfino di calciare un pallone. Meriterei perfino di diventare il capo del personale, sarei in grado di trascinare la squadra verso la vittoria, non come quello spagnolo esaltato del cazzo. Che vada a mangiarsi la paella!»
«Non si parla così del proprio capo del personale. Bisogna portare rispetto!» Lo rimbeccò subito Ruben, fulminandolo.
«Parli proprio tu,» bofonchiò contrariato Simone. «Sta di fatto che io sono il migliore. Solo quando ci sono io in negozio riusciamo a vincere qualche competizione floreale,» si esaltò e questo non fece altro che confermare il fatto che fosse un egocentrico megalomane. «Mi meriterei anche il Tulipano d'oro
«In famiglia c'è sempre e solo un talento e in questo caso sono io,» Ribatté orgoglioso Ruben, allargando le braccia come per mostrarsi in tutta la sua bellezza e in tutto il suo talento. «E quello che quest'anno vincerà il Tulipano d'oro sono io. Perché solo i veri talenti lo meritano, non gli scalda retrobottega come te.»
Simone contrasse la mascella e stritolò tra le mani il suo tovagliolo.
«Ma avete sentito che cosa ha fatto Leonardo Sogno?» Domandò tutto d'un tratto ed io sbuffai, mentre Ruben ed Annunziata si sistemarono sulle sedie come se fossero a disagio. «Quello che ha fatto a Borriello è davvero riprovevole. Parla di rispetto, di gioco di squadra e poi tira un cazzotto ad un suo compagno,» scosse la testa con disappunto, socchiudendo gli occhi. «Che brutta persona.»
Ruben prese un respiro profondo e sbatté un pugno contro il tavolo. Potevo capire quella sua reazione, in fondo Leonardo era un suo amico ed anche io mi sarei arrabbiata se qualcuno avesse dato della Brutta persona a Robbeo oppure Ven. 
«Ha avuto i suoi buoni motivi per farlo,» ringhiò Ruben. «E lui tiene davvero alla sua squadra, non come qualche altro calciatore che sta nell'Arsenal.»
«Il suddetto bravissimo e talentuoso calciatore dell'Arsenal tiene ai suoi gunners!» Rispose Simone per le rime, stringendo la forchetta fino a farsi diventare le nocche bianche. «È solo un po' frustrato perché lo tengono in panchina dopo quel dannato infortunio. Credono che sia fatto di cristallo, ma in realtà è una roccia e vuole tornare a giocare come faceva prima.»
Ruben stava per ribattere nuovamente a quell'elogio che Simone aveva fatto al calciatore dell'Armagheddon, dell'Arenale, o qualunque fosse quel nome strano, ma Annunziata si alzò di scatto dal tavolo e raccolse i nostri piatti sporchi e completamente vuoti.
«Che ne dite di mangiare il dolce, eh?» Domandò e il suo fu un chiaro tentativo di stemperare la tensione.
La nonna ci servì una porzione di succulento tiramisù che era già invitante solo dall'odore. Mentre consumavamo il dolce, nessuno di noi aprì bocca – se non per mangiare quello squisito tiramisù –, ma tra i due cugini continuarono a volare occhiate assassine. C'era una strana tensione tra di loro, un rancore che sembrava si portassero dentro da anni.
Non appena finimmo di mangiare il tiramisù, Ruben decise che era il momento di andare ed io non mi opposi. Si trovava a disagio con Simone e potevo comprenderlo. Quel ragazzo era insopportabile, più irritante dell'ortica e sperai con tutto il cuore che se ne andasse a Londra e che non tornasse più.
«Ha cominciato a piovere.» Notò Annunziata, guardando fuori dalla finestra.
«It's raining cats and dogs!» Commentò Simone, appoggiandosi al vetro della finestra con una tazza fumante di tè retta tra le due mani.
«Vado a prendere la macchina, allora,» annunciò Ruben, schioccandomi un fugace bacio sulle labbra. «Così non ti bagni.»
Sorrisi e forse arrossii anche per la sua apprensione.
«Ah, quel bolide rosso risalente al Paleolitico,» ridacchiò Simone, lanciando un'occhiata divertita a Ruben. «A quanto arriva? 30, forse 40 km/h?»
«Fino agli 80, per la cronaca.» Ribatté infastidito il mio ragazzo.
«Addirittura! Potresti competere con Schumacher.» Sogghignò e subito dopo sorseggiò un po' di tè caldo.
Il mio ragazzo gli riservò un'ultima occhiata omicida prima di uscire di casa per andare a prendere la macchina. Intanto io indossai di nuovo il giubbotto di pelle e il foulard, per poi salutare con una stretta e un bacio Annunziata che era intenta a sciacquare i piatti.
«E così Ruben si è messo la testa a posto.» Sospirò Simone, senza staccare lo sguardo dalla finestra.
«Così pare.» Borbottai, spostando il peso dalle punte ai talloni.
«Come vi siete conosciuti?» Domandò curioso. «Più che altro perché Ruben non è il tipo da frequentare luoghi da intellettuali. Il suo habitat naturale sono le discoteche, gli eventi mondani.»
«Mi ha schizzata con una pozzanghera. Poi da lì si sono susseguite alcune coincidenze che ci hanno fatti incontrare ancora.» spiegai spicciola e senza la minima voglia di parlare con lui.
«Oh, I understand,» annuì e mi guardò con i suoi occhi furbi e magnetici. «Se fossi in te farei un giro su Sky sport. Una partita ogni tanto non ti farebbe male.» mi consigliò ma declinai l'invito con un gesto della mano.
«Odio il calcio, e di più chi lo pratica. Esseri unicellulari privi di qualsiasi attività cerebrale.» dissi con un sorriso compiaciuto.
«Mah, sarà,» Simone scrollò le spalle e sospirò. «Ma le partite riservano un sacco di sorprese, you know?» Aggiunse, avvicinandosi a me e mormorandomelo nell'orecchio.
E in quel momento un brivido mi percorse la spina dorsale. Ma non un brivido di freddo e nemmeno d'emozione. Era stato un fremito strano che non presagiva nulla di buono.


Finalmente avete avuto l'ONORE di conoscere Simone, l'adorabile cuginetto di Leonardo. Fino ad ora è stato solo accennato, ma da questo momento diventerà na figura importante per la storia. C'è un nuovo Sogno in circolazione, molto più vanitoso di Leonardo, cento volte più egocentrico, bambino, immaturo e calciatore anche lui.
Ovviamente quando i due parlano di negozio, retrobottega ecc sono solo modi per non far capire a Celeste un bel niente. Annunziata ha avuto l'accortezza di dire a Simone del casino in cui si è cacciato il cugino e sembra che per adesso stia al gioco. Si crede il migliore e non solo della sua squadra, ma anche di Leonardo e di qualsiasi altro calciatore. Un po' montato il ragazzo, no?
E insomma Leo e Cel finalmente sono usciti insieme, anche se ancora non riescono a trovare un po' di tempo da passare da soli -a fare porcherie- e Leuccio è ''lievemente'' frustrato porello. L'amara notizia che suo cugino Simone è tornato in città lo ha messo letteralmente con il morale a terra, anche perché Roma è da sempre la sua città, la sua squadra, e non permetterà mai a nessuno di portargliela via. Per quanto mi riguarda, adoro questa competizione familiare, perché c'è in ogni famiglia, per quanto si possa nasconderlo. Tra fratelli, tra cugini, ma anche tra padre e figlio, è normale. Fa sempre bene un po' di sana competizione, basta che il ragassuolo non voglia competere con Leo anche in campo affettivo! O.O''

Beh, direi che possiamo anche lasciarvi ai commenti. Ringraziamo le 11 persone che hanno recensito lo scorso capitolo (ç___ç pensavo che ormai fossimo sulla via delle 18.. vabbé) e a tutti quelli che hanno messo la storia tra i preferiti *costruisce la statua*, ringraziamo anche i lettori silenziosi che gli danno uno sguardo. Fa sempre piacere essere presi in considerazione.

Ed ecco a voi il momento tanto atteso.... *rullo di tamburi*
SIMONE SOGNO:                                                 LEONARDO SOGNO:


E i SOGNO BOYZ:


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Capitolo 11
*** Sonate au claire de lune ***



CAPITOLO 11

Betato (con sudore) da nes_sie

La stanghetta del foglio di Word lampeggiava sullo sfondo bianco da ormai venti minuti abbondanti. Forse anche mezz'ora, e le parole si rifiutavano categoricamente di riempire quel maledetto vuoto, come se avessero deciso di ammutinarsi contro la sottoscritta. L'idea che mi era balenata in testa qualche giorno prima sembrava essere solo un buco nell'acqua, dato che già trovavo difficoltà nello scrivere anche una sola, misera frase. E questo era uno dei primi sintomi del cosiddetto blocco dello scrittore, ne ero più che certa, che sarebbe potuto durare giorni, mesi, addirittura anni! Avrei potuto fare in tempo a laurearmi, diventare un'insoddisfatta professoressa di lettere isterica, l'incubo di qualsiasi studente per la sua stabilità mentale, sposata con un fioraio dal futuro incerto e con un numero imprecisato di marmocchi per casa che, con i loro pianti e le loro urla, mi avrebbero portato alla pazzia.
Stai insieme a quello lì da nemmeno una settimana, e già ti immagini come sua moglie e madre dei suoi figli? Siamo sicuri che sei ancora Celeste e che tu non sia un alieno con le sue fattezze? Ragioni come una ragazzina sognatrice e romantica...
Dovevo essere già ad un passo dalla follia, se mi vedevo condividere la mia vita futura insieme a Ruben. Anche perché non ero mai stata un'inguaribile romantica che si immaginava già in abito da sposa, davanti all'altare con il ragazzo che conoscevano da un mese scarso, anzi: non avevo mai nemmeno pensato al matrimonio come a qualcosa di concreto. Era strano che lo facessi proprio adesso, ma molto probabilmente era colpa del mio romanzo e del maledetto blocco mentale che mi aveva fatto innervosire.
Come avrebbe detto Manzoni “Questo romanzo non s'ha da fare”. Chiusi il computer portatile, senza nemmeno salvare il file, perché era rimasto immutato dal giorno precedente e lo spinsi lungo il tavolo. Avrei preferito buttarlo per terra e calpestarlo, ma il malcapitato non aveva nessuna colpa. E, oltretutto, con il mio stipendio di gelataia e con i soldi che i genitori di Robbeo gli inviavano mensilmente, non saremmo riusciti a permetterci un altro computer. Era già tanto che non andavamo in giro con le pezze sul sedere anche se, di tanto in tanto, Romeo sembrava davvero un pezzente con quei vestiti di seconda mano che gli regalava suo padre. Tutto in casa Ciuccio era tramandato: la macchina scassata, i vestiti ormai di tonalità spente per i troppi lavaggi, la stupidità... Era nel DNA della famiglia Ciuccio essere degli idioti patentati. Lo era Romeo, lo era suo fratello Marcello e suo padre Roberto. Molto probabilmente era il gene Y di quella famiglia ad essere difettoso e a trasmettere la stupidità di generazione in generazione.
Mi alzai dal tavolo della cucina, trascinandomi svogliatamente verso il salotto, dove il mio migliore amico, seduto sul tappeto, aveva monopolizzato il televisore per giocare alla Playstation – la prima, quella risalente alla Guerra d'Indipendenza Americana –, mentre Venera era intenta a sfogliare svogliatamente una rivista trovata chissà dove. Mi accomodai accanto alla mia amica, guardando sconvolta Ciuccio che, con la lingua di fuori, urlava contro il televisore.
«Passa quella maledetta palla!» Sbottò Romeo, alterato.
Ovviamente, a cosa poteva giocare se non a Wefa, Tifa... FIFA!
Che razza di nome...
Il Fifa del 1930, c'erano perfino i dinosauri in campo per quanto era vecchio quel gioco.
«Lo sai, vero, che non ti sentono nemmeno se ti sgoli?» Domandò retorica Ven, alzando lo sguardo dalla rivista.
«Per cosa mi hai preso, per uno scemo?» Borbottò Romeo, senza distogliere l'attenzione dal suo videogame, e ondeggiando a destra e a manca per seguire la corsa del suo calciatore.
«Io?» Trillò Ven, indicandosi. «Ma cosa vai a pensare! Tu risplendi per intelligenza, Robbeo, la tua saggezza straripa da ogni tuo poro!»
«Mi stai prendendo per il culo?»
«Sei davvero perspicace, Ciuccio, mi complimento con te.» Ribatté la mia amica riportando lo sguardo sulla rivista. «Ed io che pensavo che fossi davvero un idiota! Vuol dire che un neurone si è salvato dal suicidio di massa degli altri suoi compari.»
«Più il tempo passa e più tu diventi davvero spassosa,» la rimbeccò il mio migliore amico, spegnendo la Play, forse perché infastidito. «Oltre che cessa, ma questo era sottinteso.» aggiunse soddisfatto, sedendosi.... anzi, sbracandosi di fianco a me.
«Il bue che dice cornuto all'asino.» Borbottò Ven, senza degnare nemmeno di uno sguardo Robbeo.
«Cornuto a chi?» Si stizzì Romeo, guardandola truce.
Ven alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa per la disperazione.
«Lascia perdere, Robbè,» sbuffò. «È più probabile che Paris Hilton si faccia suora piuttosto che tu capisca un semplice detto italiano.»
«Mamma mia, sei insopportabile come un cactus nel culo,» sbottò irritato ed io lo guardai di traverso, incenerendolo quasi con gli occhi. Non sopportavo il linguaggio sgarbato che adottava ogni qualvolta ne avesse l'occasione. Altro difetto tramandato con il gene Y della famiglia Ciuccio, anche se questo modo di parlare era un po' comune a tutte le persone dotate di Walter.
«Secondo me scopare ti renderebbe perlomeno sopportabile, anche se non credo che troverai mai un ragazzo che abbia il coraggio di vederti nuda!»
«E magari a te ti renderebbe meno stupido,» rispose per le rime Ven, con un sorriso beffardo. «Sai, ventidue anni di astinenza sono tanti e il testosterone ti avrà divorato l'intera materia grigia.»
«Non sono ventidue, mia cara. Si dà il caso che io abbia bungato, a differenza tua!»
Ven abbassò per un attimo la rivista e guardò sconcertata Robbeo che le stava facendo una linguaccia. In realtà la mia amica aveva ragione: Romeo, più passavano gli anni, più si rincitrulliva. Oltre che rimanere il bambino di cinque anni che avevo conosciuto al parco giochi e che, da in piedi, si era dondolato sull'altalena per fare colpo su di me, riuscendo solo a cadere rovinosamente a terra e rompersi la testa. Forse era stato quel trauma a renderlo così deficiente. Se non si fosse sfracellato, molto probabilmente a quest'ora sarebbe stato una specie di Einstein.
«Ed io perdo ancora tempo a battibeccare con te.» Disse Ven, scuotendo la testa e tornando a leggere.Robbeo la guardò un'ultima volta di traverso, prima di incrociare le braccia al petto e affondare nello schienale del divano. Sospirai rumorosamente e mi impossessai del telecomando della televisione. Da quando era arrivata Ven, avevo detto addio alla tranquillità. Non che prima casa Ciuccio-Fiore fosse un'oasi di pace, con colombe che svolazzavano di qua e di là e con scenari utopici, dato che erano più le volte in cui lo sbranavo perché lasciava in giro le sue cose o perché non abbassava la tavoletta del water. Ma Robbeo trovava irritante la presenza di Ven in casa nostra, non erano mai andati d'accordo e ancora non mi capacitavo del motivo.
Accesi la televisione, approfittando di quel momento di silenzio, e decisi di seguire il consiglio di Simone e farmi un giretto su Sky Sport. La cosa non mi allettava affatto, dato che quel canale era per me come l'acqua santa e il crocifisso per Regan, ma quel damerino proveniente dalla triste e grigia Londra mi aveva messo la pulce nell'orecchio. Dovevo capire perché mi avesse detto, con quel suo maledetto sorrisino sornione, di guardare quel canale.
«Dove sta Sky Sport?» Domandai, voltandomi verso Romeo.
Lui sciolse le braccia ed impallidì, perfino le lentiggini persero colore da quanto era turbato.
«Pe-pe-pe,» balbettò.
«Leonardo mode on.» Bofonchiai contrariata.
«Devo andare a recuperare il kit per l'esorcismo?» Domandò ironica Ven, con un sopracciglio inarcato.
«No, tranquilla,» sbuffai, cominciando fare zapping sui canali di Sky. «Devo solo controllare una cosa.»
Romeo scattò in piedi come se il divano fosse diventato d'un tratto di fuoco, e ci passò davanti a passo svelto sotto il nostro sguardo confuso.
«Dove vai?» Chiesi corrucciata.
«Devo fare la cacca.»  Rispose meccanicamente, sparendo dal salotto.
Robbeo era strano nell'ultimo periodo, e il suo comportamento era diventato ancora più misterioso da qualche giorno a quella parte. Tutto era successo da quando era rientrato nella sua vita il vecchio amico di bevute Ruben, fino a degenerare nell'ultimo periodo. Mi stava nascondendo qualcosa, ma sicuramente non mi avrebbe rivelato la verità, nemmeno se lo avessi chiuso e incatenato in un bagno sudicio, e lo avessi costretto con giochi sadici. Scrollai le spalle, allontanando quel sospetto, e continuai a cambiare canali in continuazione fino a quando, per fortuna, capitai sui canali di sport. Su uno di quelli c'era la replica di una vecchia partita del Milan. Che cosa avrei dovuto vedere su quei canali, a parte degli uomini preistorici in calzoncini che si agitavano? Mancava loro solo la clava e sarebbero stati dei perfetti Fred Flistones. Sbuffai annoiata, appoggiando il mento la palmo delle mano e cambiai di nuovo canale, trovando solo ed esclusivamente noiosissime partite di qualsiasi tipo. A che gioco stava giocando Simone? Perché cavolo mi aveva insinuato il dubbio? Tutto d'un tratto, la tele si spense senza motivo.
«Ma che è successo?» Sbottai, premendo freneticamente sul tasto on, come se quello l'avesse fatta tornare tra di noi. «Spero che non sia andata al creatore, perché sennò Robbeo si accontenterà di una scatola di cartone che si finge televisore.» Borbottai, alzandomi e prendendo a sberle il televisore.
«Cel, calmati. Se fai così lo mandi davvero all'altro mondo,» mi rimproverò bonariamente Ven. «Magari è solo saltata la corrente.»
Provai allora ad accendere la luce del soggiorno, ma non successe nulla, segno che anche quella volta la mia migliore amica aveva ragione. Aggrottai le sopracciglia e con passo rinocerontico andai in corridoio per controllare il contatore. Sollevai la levetta della corrente, anche se mi sembrava strano che la luce fosse saltata così, senza motivo.
«È andata via la corrente, eh?» Domandò sornione Robbeo, uscendo dal bagno.
«A parte che non hai tirato l'acqua,» gli feci presente schifata. «Comunque, come fai a sapere che è andata via la luce?» Domandai, entrando in modalità Venera-detective-Conan.
Robbeo mi guardò stralunato, poi mi sorrise come un ebeta, rinchiudendosi di nuovo in bagno e lamentandosi per un mal di pancia che non ero sicura avesse. Scossi la testa, sconsolata perché ormai quel ragazzo era irrecuperabile, e tornai in salotto, spegnendo sia la luce che avevo acceso poco prima, che il televisore. Tanto ormai era chiaro che Simone  fosse un deficiente. Forse aveva bevuto troppo tè, da abitante dell'Inglesilandia qual era, e la troppa teina gli aveva dato alla testa. Mi sedetti a peso morto accanto alla mia amica, chiudendo gli occhi e cercando di rilassarmi, oltre che tentare di farmi passare il blocco dello scrittore. Ma Ven non sembrava del mio stesso parere e mi lanciò uno sguardo di sottecchi, allungandomi poi sotto il naso la rivista che stava leggendo fino a qualche minuto prima.
«Visto?» Domandò con un sorrisino.
«Cosa?»
Abbassai lo sguardo sul giornale e, proprio nel mezzo, era stata piazzata una foto del mio ragazzo che stringeva una spalla a quella talpa rachitica di Leonardo, stretto nelle spalle e che accennava un timido sorriso. Visti così, la star sembrava Ruben e non Sogno, il campione della Magica.
«Il mio ragazzo è andato a finire su 'Chi'... interessante,» commentai, per niente eccitata dalla grande scoperta di Ven. «Magari hanno pensato che fosse il fidanzato di Leonardo.» scrollai le spalle e mi abbandonai contro lo schienale del divano.
«Non la foto! Leggi l'articolo!» Esclamò, ammollandomi il giornale tra le mani.
Roteai gli occhi, spazientita, rantolando anche per il nervoso e cominciai a leggere il trafiletto. Nella prima parte, il giornalista elogiava Sogno, ricamando la descrizione del calciatore migliore del mondo; velocemente aveva menzionato una ragazza senza volto e senza nome che nell'ultimo periodo accompagnava Leonardo per le vie di Roma. Non mi stupiva la cosa, anche perché Ruben mi aveva già accennato al fatto che Sogno stesse cercando di mettere la testa apposto e che si stava frequentando con un ragazza.
«Wow, Leonardo ha la pischella.» Borbottai, tendendole la rivista.
«Continua a leggere!» Mi rimbeccò lei.
«Non puoi dirmelo tu che diamine c'è scritto, così tagliamo la testa al toro?» Sbottai, nervosa.
Ven sbuffò, più che altro per togliersi una ciocca di capelli scuri che le era scappata dalla coda di cavallo e che le stava solleticando il naso, poi mi trafisse con i suoi intensi occhi blu.
«Leonardo sarà al centro sportivo Gianicolo questo pomeriggio,» piegò il braccio e scrutò con attenzione il suo orologio. «Anzi, è già al centro sportivo Gianicolo,» rettificò con un sorriso. «Per allenare i pulcini. È una specie di opera di beneficenza.»
«Buon per lui. Spero non gli venga una crisi di nervi a stare a contatto ravvicinato con quei marmocchi col moccolo al naso.»
«Potremmo andare, no? Almeno passiamo un pomeriggio diverso. Non che non mi dispiaccia litigare con Robbeo ogni santo minuto, vedere te che scribacchi al computer tutto il dì, o stare seduta su questo comodissimo divano,» parlò senza sosta, con un sorriso stampato sulle labbra. «Che, peraltro, ora avrà assunto la forma delle mie chiappe. Però, sai, ogni tanto uscire non sarebbe male.»
«Perché sarà davvero divertente vedere dei bambocci, futuri bisonti ignoranti, allenati da quel caprone di Leonardo...» Commentai.
«Magari ci sarà anche Ruben. Anzi, sicuramente sarà lì! E non hai voglia di vederlo? Di passare un po' di tempo con lui?»
Guardai Ven di sottecchi, con le braccia incrociate e una specie di smorfia sul volto simile ad una specie di broncio scocciato. In effetti, quel giorno, non ci eravamo né visti e né sentiti. Non che volessi uscire tutti i giorni con lui, ma Ruben non si era fatto sentire quella mattina per chissà quale strano motivo. Scattai in piedi e mi diressi velocemente verso la mia camera per vestirmi e rendermi presentabile. Già il mio ragazzo mi aveva visto con l'orribile vestitino grigio bucherellato, che usavo come indumento da casa ed era un miracolo se non fosse fuggito davanti a quella visione sexy quanto un macaco intento a spulciarsi. Scelsi un semplice paio di jeans chiari e una camicetta grigia tendente all'azzurro a maniche lunghe, il tutto completato con le Converse che un tempo erano state bianche, ma che adesso propendevano verso il nero. Speditamente uscii dalla mia stanza e bussai alla porta del bagno dentro al quale si era barricato Romeo. Era da circa dieci minuti che era chiuso lì dentro e cominciavo seriamente a credere che fosse stato risucchiato dal gabinetto.
«Robbeo, se il water non ti ha inghiottito, batti un colpo!» Esclamai, tendendo l'orecchio per sentire un qualsiasi rumore provenire dal bagno.
«Che vuoi?» Domandò, aprendo la porta e appoggiandosi allo stipite della porta con fare da  dongiovanni ammaliatore. Peccato che il suoi sex appeal era pari a quello di un'acciuga, anche quando si sforzava di sembrare sexy.
«Vestiti,» gli ordinai. «Devi portarci al centro sportivo Gianicolo.»
«Non ci potete andare coi mezzi?» Borbottò scocciato.
«Lo sai quanto è pericoloso per due ragazze come noi salire su un autobus, eh? Potrebbero importunarci, seguirci, violentarci da qualche parte!»
«Ma è pomeriggio, Cel! E i mezzi sono sicuri a quest'ora,» sbuffò «E poi, appena vedono Ven, scappano per lo spavento!» Ridacchiò divertito.
Presi un respiro profondo e gli afferrai con decisione il padiglione auricolare, trascinandolo verso camera sua e spingendolo dentro il vano con poca grazia.
«TU CI PORTI AL CENTRO SPORTIVO GIANICOLO,» scandii, puntandogli un dito contro e facendolo indietreggiare. «E non voglio sentire repliche! Ora vestiti e prendi qualcosa per il tuo problema intestinale. Una limonata, un Imodium...»
Lasciai la frase in sospeso e mi chiusi la porta della camera di Robbeo alle spalle. Poco dopo, dalla mia stanza, uscì Ven, vestita con un paio di pantaloni neri abbinato ad un golfino verde scuro.
«Allora, andiamo?» Mi chiese, puntellando le mani sui fianchi.
«Come? Con il tappeto volante?»
La mia migliore amica rilassò le spalle e abbandonò le braccia lungo i fianchi, arricciando le labbra in un'espressione quasi schifata.
«Dobbiamo andare con il bolide?»
«È l'unico mezzo di trasporto che abbiamo.» Risposi, scrollando le spalle e andando in salotto per finire di prepararmi.
«Allora arriveremo domani mattina.» Borbottò, seguendomi.
Afferrai il giubbotto di pelle dall'appendiabiti e il foulard che annodai attorno al collo. Ven mi imitò, indossando il suo trench blu scuro e afferrando la sua borsa a tracolla. Dopo qualche secondo, Robbeo uscì dalla sua stanza, facendo una piroetta e avvicinandosi sinuoso a noi, ammiccando di tanto in tanto.
«Ecco l'uomo più desiderato del pianeta.» Disse con tono suadente, facendo seguire a quella frase un'improvvisata canzone swing in stile Michael Bublè, in un improbabile e maccheronico inglese.
«Ehi, Uomo Più Desiderato Del Pianeta,» lo richiamò con sufficienza Ven. «Hai la maglietta al contrario.»
Robbeo abbassò lo sguardo e arrossì di colpo, mimetizzandosi con la sua capigliatura vermiglia.  Soffocai una risata con il palmo della mano, mentre lui si toglieva velocemente la maglietta e la rivoltava.
«Che fisico possente, Robbeo.» Lo schernì Ven, ammiccando.
«Ah, ah, ah, spiritosa! Tanto lo so che provi attrazione per il sottoscritto!»
La mia amica aggrottò le sopracciglia, poi scoppiò in una fragorosa risata, piegandosi in due per quanto si stava divertendo. Si asciugò rapidamente una lacrima, poi si ricompose, tornando seria per qualche secondo.
«Non sono così disperata, Robbeo,» disse. «E  anche se tu fossi l'unico uomo rimasto sulla terra, piuttosto diventerei lesbica.»
Si scoccarono un'ultima occhiata di sfida, prima di uscire di casa seguiti a ruota dalla sottoscritta. Velocemente, grazie al nostro magnifico e gracchiante ascensore che sembrava essere uscito da un film horror, arrivammo al piano terra ed uscimmo dalla nostra palazzina. La macchina di Robbeo spiccò rispetto alle altre parcheggiate nei dintorni. Sarebbe stata riconoscibile anche in un parcheggio sovraffollato dell'Ikea quel rottame, e non solo per il color ruggine, ma soprattutto per lo scotch che la teneva ancora insieme. Se avesse ceduto il nastro adesivo, sarebbe collassata su se stessa come un fragile castello di carte.
«Pronti ad infrangere la barriera del suono con quella macchina super rapida?» Domandò ironica Ven, fermandosi si fronte al macinino.
«Non capisco cosa abbiate tutti contro la mia macchina,» borbottò Robbeo, salendo sul bolide. «È così bella!»
«Prenoto la visita dall'oculista?» Domandai ironica, sedendomi sui sedili posteriori insieme a Ven.
Robbeo borbottò qualcosa, scrollando le spalle e mettendo in moto il pandino mezzo scassato. Il motore brontolò per qualche secondo, prima di partire con qualche sobbalzo ed immettersi nelle vie di Roma.
«Ma come mai volete andare al Gianicolo?» Domandò Romeo, guardandoci dallo specchietto retrovisore. «Vi è venuta voglia di fare un po' di sport?»
«Ma quale sport!» Esclamai, da brava pigrona qual ero. «Leonardo allena i pulcini. E con lui ci sarà anche Ruben. Quei due sono inseparabili, ci manca poco che si sposino.»
«Non... non sono sicuro che sia una buona idea.» Disse con voce tremolante, guardandoci preoccupato. Chissà come mai, quando si parlava di quei due, si allarmava sempre. Dovevo per caso cominciare a pensare che Ruben e Leonardo fossero davvero della sponda opposta alla mia? Ven si sporse in avanti, tra i due sedili anteriori e diede qualche pacca sulla spalla a Robbeo.
«Tranquillo, Anna dai capelli rossi,» ridacchiò. «Ci divertiremo.» E si scambiò un sguardo d'intesa con il mio migliore amico.
Non sapevo se essere sospettosa o meno. I comportamenti dei miei amici e del mio ragazzo erano sempre ambigui, quasi fossero tutti custodi di un segreto che non mi era dato sapere. Ma più mi dicevo che c'era qualcosa che mi stavano nascondendo, più non riuscivo a trovare questo qualcosa. Di cosa mai avrebbero potuto tenermi all'oscuro? Di una festa a sorpresa? O del fatto che magari Ruben era un maniaco-barra-ladro-barra-qualsiasi altre cosa?
«Ragazzi siete strani,» diedi voce ai miei pensieri. «Ho come l'impressione che mi stiate nascondendo qualcosa.» Assottigliai lo sguardo e lo puntai prima su Robbeo poi su Ven. Quest'ultima sorrise placidamente, stringendo con forza la spalla del rosso.
«Macché!» Disse tranquillamente la mia amica. «Cosa mai dovremmo nasconderti?»
«Qualcosa su Ruben.»
«Sì, in effetti il ragazzo è un po' strano,» disse Ven, appoggiandosi allo schienale e alzando una nuvola di polvere. «Ma non credo ci sia da preoccuparsi o da farsi venire i dubbi. Nonostante tutto è un ragazzo a posto, no, Robbè?»
Il rosso annuì prontamente, con gesti meccanici senza nemmeno distogliere lo sguardo dalla strada che, lenta, si muoveva sotto di noi. Arricciai le labbra, guardando sospettosa Ven che mi sorrideva tranquillamente. Scrollai le spalle e sospirai. Magari era solo la mia mente contorta che cercava casini anche dove non c'erano.
Circa mezz'ora dopo, durante i quali avevamo percorso solo cinque o sei kilometri, Robbeo parcheggiò la macchina fuori dall'imponente centro sportivo Gianicolo. Era circondato dal verde, da alti alberi e cespugli vari e sorgeva su alcune terrazze. E se l'esterno mi aveva lasciata a bocca aperta, l'interno era ancora più incantevole. C'erano numerose strutture, ognuna delle quali era adibita ad un diverso sport, oltre ad alcuni bar all'aperto e panchine immerse nel verde di quel luogo. Seguimmo le indicazioni scritte su alcuni cartelli e raggiungemmo il campo di calcio dove stavano giocando i marmocchi. Contrariamente alle mie aspettative, gli spalti erano stati quasi completamente riempiti, come se stesse giocando una squadra di professionisti. Quell'affluenza di gente era sicuramente da attribuire alla presenza di Leonardo e alla speranza di ricevere un suo autografo, perché altrimenti nessuna persona avrebbe sprecato il suo prezioso tempo per guardare dei bambini propensi a buttare la loro esistenza nel gabinetto per inseguire il sogno di diventare calciatore.
Genitori a parte, ovviamente.
Fortunatamente Ven adocchiò tre posti in terza fila e, spintonando di qua e di là, riuscimmo a raggiungerli e sederci vicino ad alcune galline urlanti, per goderci la partita. E dai nostri meravigliosi posti riuscivo perfino a vedere la panchina dell'allenatore. Come aveva detto Ven, Ruben era lì insieme a Leonardo, entrambi vestiti con la tuta della Roma. Stavano tutti e due a bordo campo ed ebbi, ancora una volta, come l'impressione che la star fosse il mio ragazzo e non Sogno. Leonardo, che di fianco a Ruben pareva un puffo, se ne stava ricurvo, strette nelle spalle striminzite si guardava intorno come spaesato. Nonostante tutto quello che si diceva sul suo conto, cioè che fosse un menoso, stronzo, sciupafemmine ed anche violento, date le ultime indiscrezioni sulla sua espulsione, quel Leonardo Sogno mi faceva tanta tenerezza. Sembrava quasi che il ragazzo che era qualche metro davanti a me fosse tutt'altra persona rispetto a quello che descrivevano solitamente.
«Ti rendi conto che tutta questa gente è qui solo per quel tappo rachitico e mezzo cieco?» Domandai retorica, rivolta a Ven che sedeva alla mia sinistra. «Sembra quasi un eroe nazionale e l'unico merito che ha, se così si può chiamare, è quello di correre dietro un pallone. Roba da matti!»
«Non essere sempre così cinica!» Mi rimbeccò la mia amica, dandomi una pacca sulla spalla. «Ognuno ha i suoi idoli. Tu Emily Bronte e loro Leonardo Sogno.»
«Sei sicura di essere Venera, la mia migliore amica, quella che odiava calcio e calciatori come me?» Domandai confusa, con un'espressione accigliata.
«No, sono un fantasma che ha assunto le fattezze della tua migliore amica solo per perseguitarti. Uhuhu!» Rispose con voce roca, protendendo le mani verso di me per dare più enfasi alla sua terribile imitazione di uno spirito. «Lamentarsi continuamente non cambierà le cose, no?» Tornò seria e si tolse una ciocca di capelli che le era ricaduta sul viso a causa del vento .«Lasciali sognare, lasciali venerare il loro eroe  e fregatene di quanto siano stupidi e di quanto sia ingiusto che i calciatori prendano una barca di soldi per nulla.»
Abbassai lo sguardo e mi ravvivai i capelli con un rapido gesto della mano.
«Già, hai ragione,» Annuii, alzando gli occhi e sorridendo alla mia amica. «È inutile che io continui a lamentarmi, anche se questo non cambierà il mio pensiero su di loro.»
Ven ridacchiò ed entrambe tornammo a guardare il campo davanti a noi. O meglio, non i verso bambini che giocavano, dei quali non mi interessava proprio nulla, ma verso la panchina dell'allenatore.  Ruben seguiva attentamente la partita, alzando il braccio di tanto in tanto per richiamare l'attenzione di qualche baby-giocatore per dargli qualche dritta, mentre Leonardo seguiva ogni passo ed ogni movimento del mio ragazzo impacciatamente   e goffamente.
«Leonardo, Leonardo, Leonardo!» Cominciarono ad urlare gli spettatori, invocando il nome del loro beniamino, seguendo il ritmo scandito dal battito delle loro mani. «Leonardo, Leonardo!» Continuarono e Ruben diede una leggera gomitata al suo amico ed entrambi alzarono le mani in aria, cominciando a sventolarle per salutare il pubblico e girando su loro stessi per avere l'intera visuale della folla urlante che acclamava Sogno.
«Perché saluta anche Ruben?» Chiesi perplessa, ma la mia domanda non era rivolta a nessuno in particolare.
«Vorrà avere anche lui il suo piccolo momento di gloria. Sta solo sfruttando la popolarità di Leonardo, magari.» Ipotizzò Ven, facendo spallucce.
La imitai, convinta quanto lei delle sue parole. In fondo, per arrotondare, faceva il modello e di certo desiderava essere famoso, magari avere un quarto della popolarità del suo caro amico Leonardo.
«Sogno, sposami!» Gridò una ragazza dietro di noi, scattando in piedi e mettendosi le mani tra i capelli.
«Pittore sei un grande!» Sbraitò una voce maschile.
«Pittore scopami!» Gli fece eco sempre la stessa ragazza infoiata di poco prima. Mi voltai e la guardai schifata, sia per i suoi gusti discutibili che per la sua bassezza morale. Ma cosa potevo aspettarmi da una che portava un paio di shorts striminziti, grandi quanto le mie mutande, e una maglietta scollata quasi fino all'ombelico.
«Perché lo chiamano Pittore?» Domandò dubbiosa Ven.
«Ma perché è un genio del calcio!» Gli rispose prontamente Robbeo, scattando in piedi con gli occhi che gli luccicavano e un pugno proteso verso l'infinito. «Perché è il miglior calciatore vivente. È il più grande giocatore che questo sport abbia mai avuto! Quando pensi che la partita sia finita in un misero pareggio, ecco che Sogno tira fuori dal cappello una delle sue magie per far vincere la Roma.»
«Ma questo non spiega perché Pittore,» gli fece notare scocciata. «Capivo se si fosse chiamato Mago, Abracadabra, Harry Potter o Ron Weasley. Ma il soprannome che ha non c'entra un bel nulla con la descrizione che mi hai appena fatto.»
«Noto che quando parlo non mi ascolti!» La rimbeccò, avvicinandosi al suo viso. «La prima cosa che ho detto di lui è che è un G E N I O!»
«Per cui vive in una lampada magica ed esaudisce i desideri di un pezzente con manie di grandezza?»
«Quanto sei tonta, Venerdì,» sospirò, scuotendo la testa e incrociando le braccia. «Genio come colui che portava il suo stesso nome secoli e secoli fa!»
«Leonardo Da Vinci?» Domandò timorosa la mia amica.
Robbeo saltò sulla sua sedia e urlò un che fece tremare la terra, e per poco a causa di quella risposta, Ven non svenne.
«Vuoi dirmi che voi paragonate quel carciofo ad uno dei più grandi geni che il mondo abbia avuto?»
Il rosso annuì con vigore, cominciando poi ad inneggiare al suo idolo, ondeggiando le braccia da una parte e dell'altra.
«Farò finta di non aver sentito questa sciocchezza.» Borbottò la mia amica.Aveva avuto quasi la mia stessa reazione, nell'udire quell'immensa idiozia. Era un miracolo se quelli che avevano dato a Leonardo quel soprannome sapevano chi fosse Da Vinci. Appoggiai il gomito al ginocchio, mentre col palmo della mano mi reggevo la testa. Quella partita era una noia mortale e gli schiamazzi intorno a noi erano insopportabili.
«Quanto sei figo Leo!» Urlò una delle galline che mi era seduta accanto.
«Lo scoperei all'istante! Guarda quanto è sexy!» Si unì a quella la sua amica.
«Oddio ragazze, oddio! Ci sta salutando! E ci sorride anche!» Gracchiò la terza Barbie, scattando in piedi per sventolare le mani.
Alzai lo sguardo e notai che sia Leo che Ruben stavano guardando nella mia direzione e che il mio ragazzo mi stava anche sorridendo. Ricambia, stiracchiando le labbra e alzando una mano in segno di saluto.
«Ma che vole quel cesso che ci sorride?» Domandò Barbie numero 1, inorridita.
«Oddio, che mostro!» Le fece eco l'altra oca giuliva.
«Chissà perché Leo se lo porta sempre dietro a quello sfigato. Dovrebbero rinchiuderlo in uno zoo, talmente è brutto.»
Quelle tre galline spennate stanno parlando del tuo ragazzo, non so se te ne sei accorta...
Galline cieche, oltre che spennate, aggiungerei! Avevano di certo bisogno di una visita oculistica, magari insieme a Robbeo, dato che ritenevano Ruben un cessi ambulante e Leonardo l'uomo più bello esistente sulla terra. Ma, di certo, non era quello il problema. I gusti erano gusti, in fondo, ma quei tre animali da cortile non potevano permettersi di parlar male del ragazzo di Celeste Fiore, quando Celeste Fiore era nei paraggi. Voltai lentamente la testa verso le ragazze che avevano osato offendere Ruben, con gli occhi resi a due fessure con i quali, se solo avessi potuto, le avrei incenerite.
«Che avete detto?» Sibilai e le tre oche mi guardarono con sufficienza, parlottando sommessamente tra di loro.
«Che Ruben, quel mostriciattolo che si porta sempre dietro Leonardo, è un cesso. È rivoltante.»«Come osi, razza di gallina con le labbra siliconate?» Sbottai, alzandomi in piedi e puntandole il mio famoso dito indice contro.
Le tre Barbie civettuole si scambiarono uno sguardo d'intesa, prima di scoppiare a ridere sguaiatamente.
«Non sarai mica la sua ragazza?» Azzardò una.
«Sì, lo sono! Complimenti per averlo intuito, Sherlock.» Risposi imbestialita, incrociando le braccia.
«Oh mio Dio!» Esclamò quella con le labbra a canotto, ridendo come un'idiota. «Non credevo che ci fosse qualcuno con un tale coraggio.»
«Beh,» intervenne la sua amica. «Lei non è che avrebbe potuto aspirare a qualcosa di meglio. Ruben è quasi al suo livello.»
Strinsi i pugni, sentendomi profondamente offesa. Non avrei dovuto dar peso a quelle galline. Avrei dovuto ignorarle fin da subito perché erano esseri non in grado di pensare, ma ogni volta che si parlava di me o delle persone a me care, offendendo gratuitamente, senza nessun motivo, mi infervoravo.
Feci un passo verso di loro, con il solo intento di prenderle a sberle, anche se non ero mai stato un tipo particolarmente violento. Ma quelle tre avevano prosciugato la mia già limitata pazienza nel giro di pochi minuti. Solo che Ven fu più veloce di me e riuscì a fermarmi prima che commettessi un triplice omicidio.
«Cel, che ti prende?»
«Hanno offeso Ruben. E anche me.» Risposi e per poco non cominciò ad uscirmi il fumo dalle orecchie.
«Ma fregatene!» Mi riprese, lanciando un'occhiataccia alle tre ragazze. «Non ti curar di loro, ma guarda e passa.»Le Barbie-galline-spennate guardarono dubbiose la mia amica, pensando forse che Ven fosse impazzita tutto d'un tratto. Sorrisi beffarda, di fronte al loro sguardo vacuo e tornai a sedermi, ancora furente ma con l'unica intenzione di non badare più alle provocazioni delle ragazze sedute alla mia destra, che continuavano a ridacchiare di me e Ruben.
La partita durò ancora qualche minuto, dieci al massimo anche se mi sembrò che fossero passati dei secoli. Appena la competizione si concluse, la gente cominciò a scendere dagli spalti in massa, accerchiando Leonardo e il povero Ruben alla ricerca di qualche autografo o di una fotografia con il proprio beniamino.
«E adesso?» Domandai, guardandomi intorno. Gli spalti erano praticamente vuoti, gli unici rimasti seduti eravamo noi tre. «Ruben e il carciofo sono stati inghiottiti da un'orda barbarica.»
«Aspettiamo,» disse semplicemente Ve, scrollando le spalle. «Prima o poi se ne andranno le sanguisughe.»
Annuii con poca convinzione ed attendemmo con calma, e tanta, troppa noia, che la folla urlante di ragazze arrapate e di uomini che praticavano il Culto Sogno, scemasse e lasciasse Ruben e il carciofo un attimo per respirare.
Cominciammo a scendere dagli spalti quando anche l'ultimo bambino si allontanò da loro, circa venti lunghissimi minuti dopo che la partita si era conclusa e li raggiungemmo in campo. Nonostante mi avesse notato tra gli spalti poco prima – o magari stava sorridendo per convenzione, senza un vero destinatario –, Ruben sembrava stupito di vedermi lì, mentre Leonardo abbassava lo sguardo con insistenza, rivolgendo di tanto in tanto una rapida occhiata al suo 'marito'. Anche lui aveva un che di sospetto, come se fosse un complice involontario di uno stupido scherzo, come se fosse stato messo in mezzo a qualcosa che lui non gradiva. La voce squillante di Ven, però, mi fece perdere la linea del mio pensiero e mi ritrovai a sorridere con un ebete al mio ragazzo.
«Sorpresa!»


 
Sono. Ufficialmente. Fottuto.
Questo fu l’unico pensiero che la mia mente formulò quando mi ritrovai la figura di Celeste Fiore, alias la mia ragazza, alias l’unica persona che non aveva ancora capito chi fossi, davanti agli occhi. Come diavolo aveva fatto a sapere della partita di beneficenza?
«B-Bello!» Incespicai.
Subito un sopracciglio biondo le si inarcò, e le braccia le si incrociarono al petto. Brutto segno. Anzi, bruttissimo.
«Hai visto? Siamo venuti a trovarvi, non sei contento?» Rispose la Tappa, puntandomi quegli occhi indagatori addosso e facendomi sentire come un uovo di cioccolato il giorno prima di Pasqua. «Perché non ci avevi detto che eravate qui?» Insistette.
«Già. Perché?» Si aggiunse Celeste, assottigliando lo sguardo e cominciando a sbattere la punta delle sue All Star sull’erba sintetica del campo.
Ora ero ufficialmente fottuto.
Per quale motivo non l’avevo invitata alla centocinquantesima partita di beneficenza sponsorizzata dalla società in favore del reparto pediatria dell’ospedale Bambin Gesù di Roma? La risposta era più che ovvia. Leonardo Sogno sarebbe stato l’ospite d’onore della cerimonia. e per quanto avessi desiderato che Celeste mi accompagnasse in questa noiosissima giornata trascorsa stando dietro a dei marmocchi, non l’avevo avvertita perché altrimenti c’era il rischio che scoprisse ogni cosa. Mi ero salvato per miracolo poco prima, vedendola sugli spalti insieme ai miei fan. Fortunatamente Ruben indossava la stessa tuta della Magica e lo scambio di persona avrebbe retto il gioco all’ormai incrollabile Torre di Bugie che stavo costruendo. Se non avessi dovuto tenere per me quelle scappatoie, tutti mi avrebbero fatto i complimenti perché i colpi di genio erano sempre più frequenti e mi scocciava che l’unico testimone della mia furbizia fosse Ruben. Celeste sarebbe stata fiera di me se l’avesse saputo.
Peccato che tutti le intuizioni servono solamente a tenerla all’oscuro sulla tua professione. Manco facessi il becchino, la pornostar o, peggio, lo gigolò.
«Il gatto ti ha mangiato la lingua?» Domandò quella Ven-Non-So-Cosa, avanzando di un passo.
«Si può sapere perché non mi hai chiamata? Ti vergognavi di me? Dovevi per caso incontrarti di nascosto con qualche gallina decerebrata?» Mi attaccò subito Cel, sparando domande a raffica.
Deglutii a fatica e cercai l’aiuto del mio Ego.
Ah, guarda chi è tornato strisciando.
Smettila, mi serve una balla.
Cosa ti avevo detto riguardo alla biondina? Dovevi lasciarla perdere quando eri ancora in tempo per svignartela.
Quanto la fai lunga, mi serve unicamente l’ennesima bugia per salvarmi il culo.
Mah, non so. Non è che mi fidi molto dopo che mi hai voltato le spalle.
Guarda che posso anche rivolgermi a tuo cugino.
No, non oseresti.
Vuoi sfidarmi?
Va bene, va bene, ma lasciamo il Buon Senso fuori da tutta questa storia. Dunque, ti serve una balla. Vediamo. Beh, è ovvio! Basterà dirle che non l’hai invitata solamente perché odia il calcio e quindi la partita non le sarebbe interessata.
Grande!
Lo so, modestie a parte sono il tuo Ego.
«Beh, p-perché io sapevo che il calcio non ti interessava.» Tagliai corto.
Ora rincarerei la dose con un’altra domanda.
«Mi sorge spontaneo un dubbio,» dissi, ritrovando un po’ di spavalderia. «Perché tu sei qui se le partite ti fanno schifo?».
«È quello che le sto chiedendo da quando siamo usciti.»Commentò Robbeo, grattandosi la nuca nel modo più scimmiesco che avevo mai visto.
Celeste per un momento perse quella sicurezza che nascondeva nello sguardo quando aveva cominciato a fare domande, ma ben presto la gnappetta arrivò in suo soccorso.
«Beh? Non può aver voglia di vedere il suo ragazzo? Ha bisogno di un invito scritto?» Puntualizzò acida, e io desiderai con tutto il cuore che tornasse a Puffolandia.
Stavo per risponderle per le rime, quando una mano si posò sulla mia spalla e ritrovai gli occhi semichiusi del vero Ruben che mi cercavano.
«D-Do-Do-Dobbi-Dobbiamo an-andare a-al r-ri-rice-ricevimento.» Tentò di dire, indicando una villetta immersa nel verde, proprio nel mezzo del centro sportivo.
Sbuffai, ricordando amaramente che una volta partecipato alla partita di beneficenza, mi sarei dovuto sorbire due ore di chiacchiere da salotto con alcuni dirigenti della Roma e di altre società, tra cui gli sponsor della squadra.
«Va bene.» Brontolai, poi mi voltai verso la mia ragazza. Di certo non indossava un tailleur di Chanel e nemmeno un qualsiasi capo d’abbigliamento che potesse in qualche modo andare bene con la cerimonia cui avremmo partecipato, ma d’altronde anche io ero in tuta, non dovevo fare troppo lo schizzinoso. Celeste non era la solita ragazza, lo avevo sempre saputo. Se avessi voluto fare bella figura alla festa, avrei rimorchiato uno schianto di modella con le gambe lunghe dieci chilometri e un’arachide al posto del cervello.
«Vuoi venire con me?» Le domandai, allungando una mano e porgendogliela.
Immediatamente quegli occhi grandi come due biglie color del cielo si spalancarono e quel poco di lucido che era rimasto nella mia mente, si annebbiò del tutto. Ogni sua mossa mi spiazzava, ogni suo gesto era una continua sorpresa per me. Giorno per giorno, scoprivo un nuovo lato del suo carattere: la Celeste Fiore acida e arrogante, la Celeste Fiore cinica e maniaca della pulizia, la Celeste Fiore scrittrice, la Celeste Fiore imbarazzata, la Celeste Fiore innamorata… di me.
«Ma… non ho nulla di adatto.» Soffiò, guardandosi amaramente le scarpe da ginnastica sporche e consunte.
L’afferrai per la mano prima che potesse sfuggirmi. «Per me sei perfetta.» Ridacchiai, facendola arrossire.
«Ma a ‘sto posto se magna? Perché c’ho ‘na fame che sto pe’ svenì.» Borbottò Romeo, avvicinandosi e scrutando la villetta alle mie spalle.
«Dovrebbe esserci il buffet.» Risposi, non troppo sicuro.
«O-Of-Off-Offrono lo c-cha-champagne.» Aggiunse Ruben, sorridendo timidamente quando Venera lo afferrò sottobraccio.
«Allora cosa stiamo aspettando?» Disse poi, incamminandosi e facendoci strada.
Romeo scrollò le spalle e si infilò le mani in tasca, curvando la schiena e assomigliando quasi ad uno di quegli appendiabiti sbilenchi. «Basta che se magna.» Commentò e noi lo seguimmo.
L’interno della villetta era addobbato a festa. Le pareti erano interamente sostituite da grandi vetrate da cui si poteva ammirare tutto il centro sportivo mentre gli ospiti sorseggiavano flûte di champagne e parlottavano d’affari. Ero sicuro che sarei morto di noia se Celeste non fosse venuta lì con me, considerando che quella era più che altro una riunione per dirigenti.
«E tu vai di solito a queste feste?» Chiese Celeste sbalordita, guardandosi intorno come se non avesse mai partecipato ad un ricevimento.
Feci spallucce. «Se Leonardo mi fa imbucare, sì. Se magna a gratisse.»
«Sei il solito ignorante.» Commentò acida, fissandomi di sbieco, poi il suo sguardo tornò agli ospiti che ormai avevano notato la mia presenza.
Era ufficiale: ci stavano fissando.
«Lo sapevo!» Commentò Celeste, lisciandosi i jeans alla bell’è meglio. «Sapevo che questi vestiti non erano adatti!»
Si agitava nervosa, attirando ancora di più l’attenzione degli ospiti su di noi. La presi per mano e la condussi in un angolo della sala, mentre vidi gli altri sparpagliarsi tra la folla e Robbeo che assaliva letteralmente il buffet.
«Vuoi qualcosa da bere?» Le chiesi, almeno per impiegare un po’ il tempo.
«No.» Sbuffò lei, puntando quelle iridi cristalline sulle ragazze in abito da cocktail sparse per la sala. Era evidente che mi mangiassero con gli occhi mentre ciarlavano tra loro, ma io non avevo dato il minimo peso a quegli sguardi.
«Ehi, che hai?» Le domandai, vedendola inquieta.
«Voglio andarmene, non mi piace il modo in cui mi guardano queste persone,» sbuffò. «Sembra che aspettino solo di buttarmi fuori a pedate.»
«Se è per questo, dovrebbero cacciare anche me!» Ridacchiai, tentando di allentare la tensione.
Le strappai un sorrisetto, dopodiché non potei fare a meno di notare tra la folla lo sguardo del signor Cavalli che mi scrutava. Non avevo idea che anche il presidente della A.S. Roma in persona avesse partecipato a quel meeting, ma non potevo certo avvicinarmi col rischio che Celeste potesse scoprire tutto.
«Chi è quel vecchio che ti fissa?» Commentò subito lei.
Certo non le sfuggiva niente, era peggio di un segugio. «Diciamo che è un…»
«Fuel fizio non è alfro fe il frefidenfe fella Fagifa!» Mi anticipò Robbeo, con la bocca stracolma di pizzette. Oltre ad aver le guance piene come quelle di un criceto obeso, teneva stretto tra le mani un piatto di carta strabordante di leccornie e lo difendeva dallo sguardo sconcertato degli altri ospiti come se fosse valso la sua stessa vita.
«Quindi quella mummia tiene in piedi tutta la baracca?» Chiese Celeste sconvolta.
Stavo per risponderle, quando notai una chioma fulva spuntare alle spalle del suddetto vecchio. Gli occhi verde acqua di Annalisa mi immobilizzarono e annaspai alla ricerca di qualsiasi scappatoia le impedisse di incrociare lo sguardo con Celeste. L’ultima volta che aveva avuto a che fare con la mia ragazza, aveva tentato di tutto per raccontarle la verità e non potevo rischiare di perdere Celeste ora che finalmente le cose andavano per il verso giusto.
Era mai possibile che non potevo godermi un momento in santa pace con la mia ragazza?
«Forse sarebbe meglio andare.» Tentennai.
«Perché? Proprio adesso che avrei l’onore di conoscere uno che spreca i suoi soldi dietro a rinoceronti che corrono appresso ad una palla.»
Troppo tardi.
Annalisa avanzò imperiosa, facendosi largo tra la folla senza mai perdere l’equilibrio dai tacchi vertiginosi su cui camminava. Il suo fisico snello era fasciato da un vestito azzurro, in netto contrasto con il rosso fiamma dei suoi capelli, ma qualunque uomo in quella sala si era voltato a guardare la figlia del presidente della società.
Con il viso rivolto verso l’alto e il portamento fiero, Annalisa stava per raggiungerci con una camminata che avrebbe fatto invidia a Naomi Campbell. Cercai la mano di Celeste e la strinsi, sperando con tutto me stesso che la Cavalli non avesse davvero intenzione di spiattellare tutta la verità alla mia ragazza. Celeste meritava di sapere chi ero in realtà, ma sarei stato io a dirglielo.
«Che vuole quella?» Chiese, notando subito Annalisa che avanzava verso di noi.
«Non ne ho idea.» Mentii.
Ormai era a pochi passi da noi, decisa a vendicarsi per quel mio rifiuto. Non avrei mai pensato che quell’incontro di beneficenza pomeridiano si sarebbe trasformato nella disfatta di Leonardo Sogno, e se avessi saputo prima che anche Annalisa-La-Piattola vi avrebbe partecipato, avrei preferito fare le calzette a maglia con mia nonna piuttosto che scavarmi la fossa da solo.
«Perché non tagliamo la corda finché siamo in tempo?» Domandai speranzoso a Cel.
Ovviamente mi beccai un’occhiata tagliente da parte della mia ragazza, con tanto di stritolamento di manco annesso. «Voglio proprio vedere cos’ha da dirmi quel manico di scopa rinsecchito!»
Rimasi sorpreso dalla risposta di Celeste e una parte di me non poté che gongolare a quella sua reazione. Era gelosa di Annalisa, del modo con cui mi si avvicinava al sottoscritto e quel suo gesto mi ricordò una mamma orsa con i suoi cuccioli. Guai a chi glieli avrebbe toccati.
«Sei gelosa?» Sghignazzai, desideroso di sentirglielo dire direttamente da quelle sue labbra morbide e invitanti, in risposta, però, mi beccai una gomitata sullo stomaco.
«Così impari a gonfiare quell’ego spropositato che ti ritrovi.» Commentò.
Era fatta. Annalisa aveva superato le ultime due ragazze che la fissarono come se volessero incenerirla, dopodiché puntò dritta verso di me. Strinsi forte la mano di Celeste e chiusi gli occhi, incapace di andare concretamente in contro a quello che mi sarebbe spettato di lì a pochi minuti. Già mi immaginavo Annalisa che gongolava, Celeste che mi fissava incredula e disgustata, la sua amica tappa che le urlava contro un “Te l’avevo detto” grosso come il Canada ed io, che a fine serata, sarei rientrato a casa come se non fosse affatto passato un mese. Sarei stato solo, di nuovo.
Forse era anche questa paura che m’impediva di affrontare la verità, forse mi ero talmente abituato ad avere Celeste, Romeo e Venera intorno che mi era quasi impossibile farne a meno. Prima c’eravamo solamente io e Ruben, noi e il mio successo. Invece adesso era come se tutti noi facessimo parte di una grande famiglia, dove i problemi dei singoli diventavano quelli di tutti, e dove ci si aiutava l’un l’altro.
Tutti tranne Annalisa. Ero sicuro che lei volesse la mia morte.
Sentivo distintamente il suo tacco 12 che rumoreggiava sul pavimento di parquet della villetta mentre il cuore batteva all’impazzata nel mio petto. Il resto del mondo era scomparso in un istante. C’eravamo soltanto io, Celeste e la verità che rimbalzava tra i nostri due corpi senza mai voler essere assorbita da nessuno dei due.
È finita, pensai, ma quando avvertii distintamente il suono delle decolté di Annalisa oltrepassarci e la mano di Celeste allentare la stretta sulla mia, mi rimase unicamente un vago odore di Chanel n°5 sotto il naso, prima che riaprissi gli occhi e la vedessi puntare come una furia in direzione del buffet.
«Ma che…?» Riuscii solamente a farfugliare, mentre osservavo la scena a rallentatore.
L’unico essere umano incollato al tavolo delle vivande era Romeo e la sua attenzione era totalmente rapita dai bignè alla crema impilati a formare una piramide egizia. Non sapeva più dove metterli, ma era sicuro che doveva arraffarne il più possibile. Non la vide nemmeno arrivare, ma quando si voltò e ritrovò quegli occhi verde mare nei suoi, per poco non gli finì tutto di traverso.
La rossa caricò il colpo e ammollò uno scappellotto a Robbeo che risuonò per tutta la sala e attirò l’attenzione dei presenti.
«Come si permette?!» Ringhiò Celeste, pronta a difendere l’altro suo cucciolo, ma io la bloccai. C’era qualcosa di strano nell’aria, e non si trattava del costosissimo profumo di Annalisa. Mi aveva palesemente ignorato, per la prima volta da quando mi aveva messo gli occhi addosso e non era affatto da lei.
«Sembra che stiano litigando.» Dissi a Cel, osservandoli da lontano.
Erano l’attrazione principale del ricevimento, con il volto di Romeo che era diventato paonazzo a causa di un cannolo che gli era andato di traverso. Gli si gonfiarono gli occhi di lacrime, poi cominciò a tossire mentre Annalisa lo riempiva di pacche fin troppo energiche sulla schiena.
«Possibile che sei così impiastro?» Lo apostrofò, afferrandolo poi per la T-shirt e trascinandolo sul retro della sala.
L’attenzione si era totalmente spostata su quei due e finalmente potevo ritenermi ‘salvo’ dalla Santa Inquisizione di quel pomeriggio d’Aprile. La mia mano era ancora stretta in quella di Celeste, ma lo sguardo azzurro della mia ragazza era puntato sulla soglia dove era sparito il suo migliore amico.
«Che diavolo è preso a quei due?» Domandò esterrefatta, spostando le sue iridi su di me e chiedendomi una spiegazione.
Non avevo idea di dove cominciare, visto che ne sapevo tanto quanto lei. Il comportamento di Annalisa mi aveva totalmente spiazzato e mi sarei giocato perfino le mutande sul fatto che era partita con l’intento di raccontare ogni cosa su di me a Celeste. Eppure la sua attenzione era stata catturata dalla chioma fulva di Romeo e il cervello della Cavalli evidentemente aveva svalvolato.
«Non ne ho idea.» Le risposi, grattandomi il mento.
C’era un qualcosa che mi sfuggiva in tutta quella storia, come se avessi omesso un particolare che non riuscivo affatto a collegare. Era come nel film di Dario Argento, Profondo Rosso, quando per tutta la storia, il protagonista tenta di trovare l’assassino, ma soltanto alla fine si ricorda del suo riflesso nello specchio.
Scrollai le spalle, e mi dissi che non erano affari miei. La nota positiva di tutta quella faccenda era che finalmente Annalisa-La-Piattola si era scollata dal sottoscritto e fino a quando avesse tenuto il becco chiuso, per me poteva anche seppellire Robbeo.
«Eccoti, ragazzo mio.» Disse una voce, facendomi voltare.
Per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva, mentre davanti a me ritrovai il volto rubicondo di Giampiero Cavalli, presidente della A.S. Roma, nonché padre di Annalisa.
«S-Salve!» Tentennai, cominciando a sudare freddo.
Celeste si dimenticò per un attimo della scenata di Robbeo e tornò ad essere pericolosamente sospettosa. Camminavo su un filo di un rasoio, in bilico tra la vittoria e la sconfitta. Cominciavo davvero a non sopportare più tutta questa tensione, era quasi peggio della finale di Champions League e se avessi continuato di questo passo, ero sicuro che mi avrebbero ricoverato per un esaurimento nervoso.
«Sei sfuggente questo pomeriggio,» commentò il signor Cavalli. «Capisco che questi incontri di beneficenza possano annoiare un campione come te.»
Ecco, stava prendendo la vanga.
«Sono più che altro dei meeting fra noi dirigenti, quelli che tengono in piedi la baracca,» ridacchiò.
Ora stava cominciando a scavare una bella buca.
«Ma dimmi, chi è questa incantevole fanciulla?» Chiese infine, spostando lo sguardo su Cel, livida di rabbia.
Ero sull’orlo del precipizio sul cui fondo era adagiata una bella bara di legno, che avrebbe accolto le mie membra prive di vita, una volte che Celeste Fiore avesse scoperto tutto. Dannato vecchiaccio che non sapeva tenere la bocca cucita, possibile che tutta la famiglia Cavalli – anche inconsapevolmente – marciava contro di me?
«Mi chiamo Celeste e sono la sua ragazza,» disse senza alcun imbarazzo, stringendo la mano grassoccia del padre di Annalisa.
«Sei giovane, avrai sì e no l’età di mia figlia.» Sorrise, poi sospirò, cambiando espressione. «È un po’ di tempo che si comporta in modo strano, come se mi nascondesse qualcosa. Passa intere giornate fuori casa e Dio solo sa dove passa il tempo.»
Né a me né a Celeste interessava molto la vita privata della Piattola, ma almeno il sottoscritto doveva fare buon viso a cattivo gioco. Era pur sempre il mio capo, gli dovevo almeno un po’ di rispetto.
«Prima l’ho vista trascinare via un suo amico.» Dissi, riferendomi a Celeste.
Gli occhi del signor Cavalli si spalancarono dalla sorpresa. «Il Rosso è amico tuo?»
La mia ragazza sbuffò. «Già… anche se è difficile ammetterlo. È il mio migliore amico.»
Avrei volentieri continuato a conversare con il Presidente, ma sentivo il bisogno di districarmi da quella conversazione che avrebbe potuto prendere una brutta piega. Cercai Ruben con lo sguardo e tentai in tutti i modi di fargli capire che sarebbe dovuto intervenire.
Alla fine di quella storia avrei dovuto costruirgli una statua.
«S-Si-Si-Signore,» balbettò intervenendo nella conversazione. «Vo-Vo-Vorrei p-po-portare alla s-su-sua att-atte-attenzione un n-nuo-nuovo s-sche-schema…»
In quel momento afferrai la mano di Celeste e la condussi dov’erano spariti il Rosso e quella matta di Annalisa.
«Ehi ma cosa…?» Si lamentò lei, ma io le feci cenno di fare silenzio.
«Non sopportavo più quel tizio, dovevo liberarmene,» sghignazzai.
Celeste incrociò le braccia al petto e mi fissò in tralice. «A cosa si riferiva prima?»
«Prima quando?» Esclamai, sentendo la gola secca.
«Quando ti ha chiamato Campione. O forse te lo sei dimenticato, tronfio come sei...» Ringhiò.
Per quale motivo mi ero messo con la ragazza più perspicace di tutto il pianeta Terra? Più andavo avanti e più pensavo di essere masochista, visto che mi andavo ad impelagare in situazioni a dir poco assurde.
«I-Intendeva per la competizione fioristica,» annaspai in cerca d’aria.
«Floreale, Ruben… è floreale. Quante volte devo ripetertelo?»
«Sì, come dici tu.»
Non sembrava soddisfatta, affatto. «E tu vuoi darmi a bere che il presidente di una società così importante segua le tue assurde competizioni floreali di cui nessuno ha mai sentito parlare?»
«Sì,» risposi a monosillabi.
«Cosa?»
Sembrava stessimo facendo il gioco delle venti domande ed io non sapevo più come uscire fuori da questa situazione.
«È un appassionato di fiori,» sputai, sparando la prima cosa che mi venne in mente.
Celeste sembrò sul punto di esplodere, quando avvertimmo delle voci ed io la trascinai con me sotto un tavolo nelle vicinanze, coperto da una tovaglia lunghissima.
«Ma che diavolo ti prende?»
Era la voce di Robbeo chiara e distinta. Cercai con lo sguardo Celeste ma, come me, era completamente sbalordita.
«A me?» Sbottò un’altra voce. Annalisa. «Vuoi dire cosa prende a te? Ti sei forse dimenticato cosa dovevamo fare ieri? Sono rimasta un’ora ad aspettarti, poi sono andata al centro commerciale da sola!»
Centro commerciale… ieri… da quando quei due si frequentavano?
«Mi sono dimenticato.» Fu la scusa di quel tonto di Robbeo.
Te pareva. Non era mica il campione in carica di cazzate come il sottoscritto. Modestia a parte, stavo per battere un nuovo record.
«Ah! Ti sei dimenticato, eh?» Tuonò Annalisa, evidentemente più infervorata di tutte le volte in cui l’avevo vista. Anche se non potevo osservarla per via della tovaglia, ero sicuro che il suo viso fosse livido di rabbia e rosso tanto quanto il colore dei suoi capelli. «Posso infrangere il nostro patto quando voglio. Mi hai promesso che se avessi lasciato in pace il bellimbusto, avresti fatto ogni cosa, saresti stato disponibile sempre. Sei il mio schiavetto adesso, te ne sei dimenticato?»
Sgranai gli occhi e per poco non caddi all’indietro contro la parete, sbattendo la testa. Annalisa era una pazza, ecco cos’era e Romeo non era da meno. Cosa gli era saltato in mente? Fare un patto con quel demone dalle sembianze femminili era un’idea da pazzi e lui aveva scelto la soluzione peggiore.
“Ma io a quella l’ammazzo!”, sussurrò Celeste a bassa voce, tentando di uscire da sotto al tavolo. La fermai appena in tempo, anche perché se si fossero scoperte le carte in tavola, ci sarei andato di mezzo, ne ero più che sicuro. Romeo mi aveva salvato il culo ancora una volta, riuscendo a tenere a bada quella specie di gallina viziata.
Ancora una volta la mia famiglia si era sacrificata per me e Celeste, perché credeva in noi.
«No, non l’ho dimenticato.» Ammise il Rosso.
Da quella posizione potevo soltanto vedere le scarpe di entrambi: le Chanel laccate di nero di Annalisa e le consunte Superga rosso vermiglio di Romeo. Erano vicini eppure così diversi, sembrava provenissero da un altro pianeta. Se non fosse stato per me, una ragazza del calibro della Cavalli non si sarebbe nemmeno avvicinata ad uno come Robbeo, che andava in giro con una macchina risalente al periodo napoleonico.
«Bene, allora vedi di seguirmi che oggi ho un po’ di giri da fare e devi essere il mio chauffeur. Saluta i tuoi amichetti di là ed io ti aspetto sul retro, ho la Porche parcheggiata proprio davanti all’uscita.» E detto questo se ne andò, rumoreggiando col suo tacco 12.
Fu quello il momento esatto in cui non riuscii più a trattenere Celeste che sbucò da sotto il tavolino e si avventò sul Rosso.
«Ehi, ma...?» Riuscì solo a bofonchiare, prima che una furia bionda non gli piombasse addosso.
«Si può sapere cosa ti è preso, razza di zuccone?!» Tuonò Celeste infervorata.
«Io? Tu? Cosa?»
«Abbiamo ascoltato tutto,» sbuffai imbarazzato.
Certo, non avevamo fatto una bella figura sgusciando fuori da sotto il tavolo come degli spioni. Fortunatamente si trattava di Robbeo e non di qualsiasi altro essere umano.
«Ah…» Mugugnò. «Non è come pensate.» Si affrettò subito ad aggiungere.
«E come sarebbe, sentiamo?» Intervenne immediatamente Celeste, più battagliera che mai.
Romeo si ritrovò senza parole, come succedeva sempre quando avevi Celeste Fiore davanti agli occhi con le orecchie fumanti e un’espressione arcigna.
«È complicato,» soffiò solamente. «Scusatemi, adesso devo andare.» E sparì dall’uscita sul retro.
Rimanemmo a fissare la porta a vetri ancora aperta mentre i capelli fulvi di Robbeo spiccavano in contrasto col verde del prato su cui si affacciava la villetta.
«Ma che gli prende?» Domandò Celeste sbigottita.
«Non lo so, ma io taglierei la corda, anche perché me so’ rotto de sta qui.» Commentai stufo.
Ci sarebbe stato tempo per giocare alle spie con Romeo e Annalisa, adesso tutto quello che volevo era passare un po’ di tempo da solo con la mia ragazza.
Le posai una mano attorno alla vita e l’attirai verso di me. Celeste non fece resistenza, anche perché la sorpresi con quel mio gesto, poi la feci indietreggiare fino alla parete e la intrappolai col mio sguardo. Le scostai una ciocca di capelli dal viso e la vidi arrossire, ancora.
«Che ne dici se lasciamo questo noiosissimo party e ce la svignamo da qualche parte? Solo io e te?» Ridacchiai, avvicinandomi e dandole un bacio a fior di labbra.
Celeste si mordicchiò il labbro e cercò ancora un contatto. «Ho voglia di svignarmela con te.» Ridacchiò.
Le afferrai la mano e insieme corremmo al di fuori della villa, stando attenti a non dare nell’occhio. Fuori il sole aveva lasciato il posto a dei nuvoloni neri, perciò ci sbrigammo a raggiungere il parcheggio. L’Audi TT bianca spiccava tra le altre autovetture, ma quella più in vista era color rosso ruggine e aveva il parafango tenuto su dallo spago e dallo scotch.
Con un gesto abitudinario mi tastai le tasche della tuta, alla ricerca del mazzo di chiavi, quando realizzai che ce l’aveva Ruben. Ero talmente abituato a farlo guidare ormai, visto che vestiva i panni di Leonardo, che ora mi ritrovavo appiedato e un grande senso di sconforto mi pervase le membra.
«Che hai?» Mi chiese Celeste.
«Non ho le chiavi della macchina, dannazione!» Ringhiai, furente verso me stesso.
Celeste mi afferrò per il braccio e sorrise. «Aspetta.»
Mi trascinò fino al famoso bolide di Robbeo e si chinò, infilando la mano sotto il parafango. Che diamine stava facendo?
«Il pandino ha sempre una chiave di riserva, dal momento che quel cretino di Romeo la perde un giorno sì e l’altro pure.» E dopo due tentativi tirò fuori trionfante una chiave piena di scotch da pacchi. «Ecco qua, adesso possiamo andarcene.»
«E il Rosso?» Chiesi, domandandomi come avrebbe fatto a tornare a casa.
Celeste fece spallucce. «Per me può anche dormire nel portabagagli della spider di quella strega,» sentenziò. «Lo odio quando si comporta da decerebrato.»
Afferrai la chiave che Cel mi porgeva, dopodiché aprii la portiera che cigolò e salimmo all’interno della panda. Una nuvola di polvere si alzò come al solito, facendomi tossire, dopodiché impiegammo circa una decina di minuti per mettere in moto quella specie di catorcio.
«Devi dargli un colpo più preciso!» Specificò Celeste.
«Non imparerò mai…» Sbuffai sconsolato.
«Ma sì, sei bravissimo!» Se ne uscì, fissandomi poi con gli occhi sgranati.
«C-Cosa hai detto?» Le chiesi, non troppo sicuro di cosa avevano udito le mie orecchie. «Era per caso un complimento quello?»
Cel arrossì e abbassò lo sguardo. «Hai capito male. Ho detto che sei un troglodita.»
«No, no! Hai detto che sono bravissimo!» Esultai sorridente, sporgendomi verso di lei.
La mia ragazza si schiacciò ancora di più verso la portiera d’acciaio rosso, avendo timore di cosa potessi farle. «Ora tutto sta nel scoprire in cosa sono davvero così bravo…» Allusi malizioso.
Desideravo le sue labbra, quel suo profumo che non riuscivo più a togliere dai vestiti, quel suo modo di fare e tutti i tentativi che avrebbe fatto per respingermi. Mi sporsi al di là del sedile e posai una mano sul vetro del finestrino, costringendola a schiacciarsi contro il sedile polveroso.
«C-Che fai?» Mi chiese, deglutendo a fatica.
Era ovvio che Leonardo Sogno facesse un certo effetto alle ragazze, ma esercitare tutto il mio fascino con Celeste era qualcosa che mi allettava profondamente. Il modo in cui riuscivo a farle abbassare le difese, a renderla così vulnerabile, a zittire finalmente il cervello e quella sua lingua insolente che mi avrebbe preso a male parole.
Infossai il viso nell’incavo del suo collo, poi soffiai facendole venire i brividi. «Secondo te? Eppure una scrittrice dovrebbe essere piena di immaginazione…»
«Potrebbero v-vederci…» Mugolò lei, intrecciando una mano nei miei capelli.
Mi alzai dal suo collo per incrociare quegli occhi azzurri, liquidi come il mare d’estate e la sua pelle che profumava di sole. La volevo con tutto me stesso, con lei dimenticavo persino il mio nome, addirittura la partita con l’Arsenal che avremmo avuto tra due settimane esatte.
Simone.
Quel nome guizzò nella mia mente come una spada e vi si radicò quasi come un parassita, succhiando e nutrendosi di tutta la leggerezza che avevo accumulato in quel momento. Avevo completamente rimosso la partita di Champions che avrebbe costretto la squadra a passare quattro giorni nella Capitale inglese e non avevo minimamente pensato al modo di dirlo a Celeste. Di certo una delle mie solite scuse non avrebbe funzionato, anche perché una competizione fioristica a Londra era del tutto incredibile, e persino un Robbeo avrebbe capito che c’era qualcosa sotto. Dovevo inventarmi qualcos’altro, una bugia più credibile.
«Che hai?» Mi chiese lei, vedendomi momentaneamente assente.
«Nulla, hai ragione. Potrebbero vederci.» Soffiai, ritornando al mio posto e accendendo finalmente il motore di quella carretta.
Dopo i vari lamenti delle sospensioni e del cambio che non ne voleva sapere di ingranare la retromarcia, riuscimmo ad uscire dal parcheggio del Centro Sportivo Gianicolo, così m’immisi in Via del Casaletto per poi raggiungere la Gianicolense.
«Dove andiamo di bello?» Mi chiese lei, guardandomi con occhi speranzosi.
Era la prima vera uscita che avremmo passato da soli, salvo altre interruzioni da parte di nonne/amici/ex-fidanzati. Avrei dovuto cercare qualcosa di veramente romantico e dolce, qualcosa avremmo ricordato per sempre.
Quanto sei melenso oggi. Sembra di sentir parlare Rossella O’Hara.
Taci.
Imboccammo una via secondaria e passammo dietro al Colosseo, imboccando il Muro Torto e cercando di raggiungere Villa Borghese. Sapevo che era scontato come posto, ma avevo assoluto bisogno di passare un po’ di tempo con Cel, lontano dal mio mondo e da tutto il resto. Un attimo di respiro, una boccata d’aria che mi avrebbe momentaneamente allontanato dalle mie responsabilità.
Parcheggiai il bolide poco dopo Piazza di Spagna e ci trovammo di fronte ad un paesaggio mozzafiato che ritraeva la Capitale in un pomeriggio uggioso di Aprile. La ghiaia bianca sotto i nostri piedi scricchiolava, mentre il cielo cominciava a scurirsi non solo per i nuvoloni neri addensati sopra le nostre teste. Era quasi il crepuscolo e a Villa Borghese c’erano poche persone sedute sulle panchine, oppure intente a passeggiare.
Cercai la mano di Celeste e lei la strinse nella mia. «Certo che Roma è magica» sospirò estasiata.
«È la mia città.» Le dissi orgoglioso, mentre lei mi fissava con un sopracciglio alzato.
«Riecco il Ruben megalomane,» sghignazzò.
Come potevo spiegarle che sentivo la Capitale come se fosse parte di me? Le sue strade erano le mie ossa, il Tevere era il sangue che scorreva placido nelle mie vene, i palazzoni facevano parte della mia pelle ed ogni fibra del mio corpo urlava Roma Caput Mundi. Non solo perché Roma era una squadra, ma soprattutto perché era la mia squadra. Era una casa, una sorella, la mia unica e sola famiglia da quando mio padre aveva deciso che dovessi fare il calciatore.
«Fortuna che ho te al mio fianco che non perdi occasione di sgonfiarmi.» La rimbeccai, puntandole l’indice contro.
«E questo cosa sarebbe?» Ridacchiò lei, afferrando il dito come un gatto con un piumino.
«È il famoso indice pungolante di Celeste Fiore. Funzionante al cento per cento e testato sul sottoscritto. Mi hai fatto venire un livido qui a forza di colpirmi.» Le dissi, tirandomi giù la zip della tuta e facendole vedere una porzione di pelle.
Lei mi fissò con gli occhi a mezz’asta. «Sei proprio un frignone, andiamo!» Sospirò, prendendomi per mano e incamminandosi all’interno della Villa.
Incrociammo immediatamente un giardino fiorito, poi ci addentrammo scovando una fontana illuminata dai faretti notturni. I nostri passi rumoreggiavano nella ghiaia, attirando l’attenzione delle altre coppiette sedute sulle panchine. Fortunatamente la penombra e l’ebbro di quella magica serata contribuivano a distrarre l’attenzione dei presenti dal sottoscritto, mentre tentavo in tutti i modi di arrovellarmi per risolvere la situazione della trasferta.
Avrei dovuto chiedere al Mister di lasciarmi qui? No, non se ne parlava. I quarti di finale di Champions erano troppo importanti e la partecipazione di Leonardo Sogno a quell’evento non avrebbe fatto altro che darmi l’invito diretto a percorrere il palco per il ritiro del Pallone d’oro 2011. Cos’altro potevo inventarmi?
Se le chiedessi di accompagnarti, genio?
Quell’illuminazione mi aprì gli occhi e mi fece stringere ancor più energicamente la mano di Cel. Certo, avrei potuto chiederle di venire con me, di fare una sorta di fuga romantica. Però c’era ancora un problema, e anche grosso. Un problema dal nome Simone.
Sono più che sicuro che farà carte false per giocare contro di me, a costo di rimetterci il ginocchio.
Sei riuscito a tenere all’oscuro la biondina sulla tua identità nella città eterna, dove ti conoscono anche i sassi. Pensi di non riuscire ad evadere un paio d’ore senza che quel pallone gonfiato di tuo cugino si metta di mezzo?
Giusto. Ce la posso fare.
Arrivammo fino all’Orologio ad Acqua, al centro di Villa Borghese e Celeste si soffermò a guardare la piccola cascata che permetteva agli ingranaggi di segnare il perfetto orario utilizzando unicamente l’energia idrica. Mi chinai anche io, appoggiando i gomiti sulla ringhiera, però rivolsi lo sguardo alla mia ragazza, il cui viso era illuminato dai lampioncini.
«Che hai?» Mi chiese lei, imbarazzata.
Le sorrisi di rimando. «Volevo soltanto guardarti.»
«Smettila, mi fai sembrare cretina!» Borbottò, rialzandosi da quella scomoda posizione e nascondendo il viso tra i capelli biondi.
Quella volta però fui rapido e non le permisi di sfuggire al mio sguardo. Le posai entrambe le mani sulle guance e le sollevai il volto fino a quando i suoi occhi incontrarono i miei. Era il nostro primo, vero, appuntamento e quella notte sarebbe stata soltanto nostra.
«Voglio chiederti una cosa.» Dissi, cercando un po’ di coraggio.
Celeste ormai era in balia del mio sguardo ed io del suo. I nostri occhi erano come calamite, come due magneti che ogni qual volta s’incontravano dovevano unirsi. Sentivano il bisogno di farlo, di annegare l’uno nell’altro, non potevano vivere separati perché ormai erano abituati a cercarsi.
«Cosa?» Pigolò lei, posando le mani sui miei fianchi.
Quel momento era perfetto, quasi idilliaco. Il rumore dell’acqua in sottofondo, le luci soffuse dei lampioni e l’atmosfera della Villa più famosa di Roma a farci da testimone.
«Vorresti andare a Londra con me?» Le chiesi diretto, vendendo lo stupore dipingersi sul suo volto.
«C-Che?» Balbettò incredula.
Sorrisi a quella sua ingenuità, sapendo quasi per certo che non aveva mai lasciato l’Italia. «Simone mi ha chiesto di andarlo a trovare, perciò ho pensato di prenotare i biglietti per il 22 Aprile.»
«Ma… è tra due settimane!» Si rese conto.
«Già.» Le sorrisi, passandole un braccio attorno alle spalle e avvicinandola a me.
Sentivo il bisogno di un contatto, soprattutto in quel momento. Non sapevo se avrei retto bene un suo rifiuto, mi ero messo parecchio in gioco chiedendole di partire con me. Nessun compagno di squadra lo avrebbe fatto, soprattutto non dopo così poco tempo.
Celeste alzò il viso dal mio petto e affondò ancora una volta quei lapislazzuli nei miei. «Sei sicuro?» Chiese poi, spiazzandomi.
«Di cosa?»
«Di voler portare proprio me a Londra. Dev’essere una vacanza dispendiosa e noi ci conosciamo da così poco tempo e…» Ma io la zittii con un bacio.
Allacciò immediatamente le braccia attorno alle mie spalle ed io attorno alla sua vita, sollevandola un poco. Quel bacio richiedeva un maggior contatto, perché la voglia era tanta e c’era stato così poco tempo da passare insieme. Sentivo ogni parte del mio corpo tendere verso di lei, cercarla, starle accanto anche solo per fare presenza.
«Sei la mia ragazza, chi altro dovrei portare? Robbeo?» Le dissi poi scherzando.
La feci ridere e fu una delle rare volte in cui fummo veramente noi stessi, senza le bugie e senza la barriera che Celeste soleva costruirsi attorno.
«E com’è Londra? Bella?» Chiese, sorridendomi a trentadue denti.
Feci finta di pensarci su. «Sicuramente non quanto Roma, anche perché è la città dove è nato il sottoscritto…»
«Piantala di pavoneggiarti, pallone gonfiato!» Ridacchiò, cominciando a picchiarmi.
«Ahia!» Le risposi, poi la inseguii per vendicarmi.
Iniziammo a correre come dei deficienti, lasciando esterrefatte ogni persona che ci guardava. Agli occhi degli altri sembravamo due ragazzini un po’ cresciutelli che si rincorrevano tentando di acchiapparsi.
«Non mi sfuggirai!» La avvertii. «Sono molto più veloce di te!»
Lei si rifugiò dietro un albero. «Ed io sono più intelligente!»
Corremmo fino a quando i polmoni non ci bruciarono e le gambe non si indebolirono –almeno per quanto riguardava Celeste, visto che il sottoscritto era abituato a 90 minuti di andirivieni su e giù per il campo dell’Olimpico –, poi ci ritrovammo spiaccicati contro il bolide impolverato di Robbeo.
Avevamo il fiato corto, la gola secca, le membra tutte intorpidite, ma tutta quell’adrenalina mi aveva reso più famelico del solito. Incrociai il mio sguardo nel suo e vidi riflesso lo stesso bisogno che avevo io. In poco tempo annullammo la distanza che ci separava, dopodiché ci furono solamente i nostri baci. La schiacciai forse un po’ troppo violentemente contro la portiera della macchina cigolante e lei in un gemito soffiato mi accolse. Schiuse le labbra, cercò la mia lingua, intrecciò le dita nei miei capelli e li strattonò fin quasi a farmi male, tanto che ringhiai di disappunto.
«Dannazione, Cel…» Mi lamentai, massaggiandomi la nuca.
Lei mi sorrise come una gatta, puntando quelle sue iridi larghe e scure verso di me. «Sei il solito lagnone,» mi apostrofò ed io mi zittii. «Guarda.» Mi fece notare poi, puntando un dito al di là della mia spalla e indicando il cielo.
Mi voltai quel poco da vedere la coltre di nubi che si era diradata e lasciava intravedere una porzione di cielo limpido ed una luna tonda e gigantesca. Sembrava quasi un pallone da calcio e se ne stava lì, ferma e fiera, sospesa nel cielo di quella notte solamente per illuminarci. 

Sonate au claire de lune [L. Van Beethoven]
«È stupenda.» Riuscii solamente ad esclamare, ma non ebbi nemmeno il tempo di riorganizzare i miei pensieri che Celeste reclamò il mio viso e catturò nuovamente le mie labbra. Avevamo ognuno bisogno dell’altro ed era passato troppo tempo dall’ultima volta che c’era stato quella specie di incontro tra di noi.
Quando è crollato tutto.
Scacciai via quel pensiero perché avrei dovuto godermi ogni singolo momento di quella notte. Nulla andava sprecato e dovevo cogliere al volo ogni attimo, anche perché sarebbe potuto essere l’ultimo. Rischiavo troppo con tutte quelle bugie e avrei potuto perdere Celeste da un giorno all’altro. Il solo pensiero mi faceva male, troppo.
Afferrai la chiave del catorcio e tentai di aprire lo sportello senza staccare le labbra da quelle di Celeste, impresa un po’ impossibile visto che quella macchina era una specie di trappola.
Dopo tre tentativi e una mano da Cel, riuscimmo finalmente ad entrare nell’automobile, ma non ebbi nemmeno il tempo di sedermi che la mia ragazza mi si avventò addosso.
«Mi sorprende la sua intrepidazione, signorina Fiore» sorrisi malizioso.
«È intraprendenza, asino.» Ridacchiò.
Le scostai i capelli su una spalla e cominciai a mordicchiarle la pelle sotto l’orecchio, poi la leccai e le soffiai contro. «Adoro quando fai la maestrina.»
La sentii ridacchiare, poi quando i nostri occhi si rincontrarono non ci fu più spazio per le parole. Ancora una volta le sue mani si posarono sul mio viso, quasi a studiarne ogni piccola espressione, poi le sue labbra si avvicinarono soffici all’angolo della mia bocca.
«Mi piace quando sbagli le parole di proposito,» ammise sorridendo. «Lo so che lo fai soltanto per farti correggere, non sei stupido, anzi…» E lì si interruppe.
«Anzi, cosa?» Le chiesi, pregandola di andare avanti.
«Sapessi…» E continuò a fare la vaga.
Che ragazza bastarda che avevo, mi teneva sempre sulle spine!
«E dai!» Mi lagnai, posandole le mani sulle cosce che aveva allacciato attorno alle mie gambe.
Mi zittì con un bacio, posando le mani sulle mie spalle e facendo aderire il suo seno al mio petto. Un brivido lento mi percorse la spina dorsale e mai mi ero sentito così vivo con le altre. Quello che facevo con le modelle era più che altro un’attività sportiva, un qualcosa che scaricava la tensione accumulata con le partite, invece adesso mi sentivo coinvolto, non avrei mai voluto smettere.
Celeste si staccò da me e mi accarezzò il viso.
«Allora?» Le chiesi, sempre più cocciuto.
«Cosa?»
«Prima hai detto ‘anzi’ e hai lasciato i puntini di sospensione. Cosa vuol dire quell’anzi
Cel sbuffò e roteò gli occhi all’indietro. «Non vuoi proprio smetterla, vero?»
Negai con la testa fino alla morte. Volevo a tutti i costi sentirmi dire che ero speciale, che non ero il troglodita che pensava fossi all’inizio e non avrei ceduto a quella piccola vittoria.
A meno che…
«Ah…» Riuscii soltanto a mormorare, perché dalla mia bocca uscì solo fiato.
La mano di Celeste si era insinuata tra le sue gambe e si era stretta sul cavallo dei pantaloni della tuta, mozzandomi il respiro. L’aria mi mancò tutta insieme, mentre con gli occhi spalancati cercai il suo sguardo. Mi sorrise felina e cercò le mie labbra affamata.
Ammisi che quello era un buon metodo per farmi smettere di fare domande, così mi limitai ad allacciare le mani attorno alla sua vita e ad avvicinarla ancora di più a me. Ben presto quello spazio divenne troppo piccolo e troppo caldo. La luce della luna irradiava i nostri corpi, proiettando le ombre sui sedili posteriori mentre i vetri si erano appannati per il calore rinchiuso in quell’abitacolo.
Celeste si accomodò meglio sulle mie gambe e tirò giù la zip della felpa, scoprendo la maglietta della Roma che indossavo. I suoi occhi erano carichi di lussuria, ma stavolta non erano ottenebrati dall’alcol. Questa notte l’avrei avuta tutta per me, senza rimpianti. Feci risalire le mie mani sui suoi fianchi, slacciandole il giubbotto di pelle e lanciandolo chissà dove alle mie spalle. I nostri baci venivano interrotti unicamente dalla foga dei nostri movimenti, ai vestiti che lentamente si accatastavano sui poggiatesta, oppure sul cruscotto.
Le labbra di Celeste erano morbide come ricordavo, il suo sapore era buono, acre, quasi come l’odore della scorza di limone ma la sua pelle profumava come i fiori d’arancio. Tutto di lei aveva il sapore dell’estate e pregustai soltanto l’immagine di noi su una bella spiaggia.
Interruppe il nostro bacio per cercare ancora i miei occhi, poi mi costrinse a chiuderli lentamente e vi posò sopra le labbra.
«Hai degli occhi così belli,» mormorò tra un bacio e l’altro. «Alla luce del sole sembrano quasi dorati.» Sospirò, sfiorandomi le ciglia. «Ci sono delle pagliuzze d’oro, proprio qui, vicino all’iride.»
Non le diedi altro tempo per parlare. La desideravo con tutto me stesso, e non perché mi ripeteva quanto fossi bello... quello già l’avevo sentito fin troppe volte. Lei si soffermava sui particolari, sulle piccole cose che un corpo perfetto come il mio faceva passare come secondarie. Aveva ragione mia nonna: prima o poi sarei invecchiato e la mia bellezza sarebbe svanita. Celeste invece ammirava di me le piccole cose, quelle che non sarebbero mai cambiate.
Portai una mano sul suo seno e lo strinsi attraverso la stoffa della camicia, facendola sussultare e gemere tra le mie labbra, nel frattempo anche le sue mani si erano intrufolate sotto la stoffa della T-shirt e accarezzavano il petto delicate, come per paura di rovinarmi. Le slacciai i bottoni e affondai le labbra nell’incavo dei seni, mordendo, leccando e reclamando avidamente quel corpo che per la prima volta desideravo soltanto per me stesso. Era la prima ragazza che non mi sarei portato al letto subito, volevo assaporarla con calma, conoscere ogni sfumatura del suo viso, sapere quale fosse il suo colore preferito o se le piaceva fare colazione al letto.
«Oh, Ruben…» Soffiò, stringendo le dita attorno alla mia nuca e avvicinando le mie labbra al suo cuore.
Ebbi un sussulto a quel nome, desiderando con tutto me stesso il giorno in cui non lo avrei più udito uscire fuori dalle sue labbra.
Finii di slacciare i bottoni della camicetta e andai ad esplorare ogni centimetro di quel corpo che mi si era concesso solamente la sera della festa di Annalisa, forse il ricordo più brutto che potessi conservare. Quella notte avevo rischiato di perdere tutto e per la prima volta il mio cuore era stato calpestato con delle semplici parole dette con rabbia.
Strinsi possessivo una mano sul suo seno, forse troppo forte tanto che la feci urlare, ma volevo rimarcare il mio possesso, la brama che avevo di lei. Ormai ero fottuto, non potevo negarlo. Mi sentivo dipendente in tutto e per tutto da Celeste, qualsiasi cosa facessi.
«Mi fai male.» Ansimai, ormai senza più ossigeno nel cervello.
«Scusa.» Mormorò, allentando la presa sui miei capelli.
Io mi staccai dal suo morbido corpo per ricercare il suo sguardo. «Non dicevo per quello,» le sorrisi, dopodiché mi sfilai la maglietta e le posai una mano sul mio petto. «Lo senti?» Le dissi sincero.
«Sì,» soffiò timida. «Sembra impazzito.»
Cercai nuovamente le sue labbra, senza staccarle la mano dal petto. «Sei tu. Mi fai male, mi togli il respiro. Ogni volta, sempre.»
Non ci fu più spazio per le parole. Il resto furono solo baci, gemiti sommessi, sospiri appena accennati che riempirono l’abitacolo di quell’odore acre d’arancio che avrei ricordato per sempre.
Lentamente la sua mano si liberò dalla mia stretta, scendendo a solleticare gli addominali mentre con le mie labbra andavo a stuzzicarle un capezzolo fuoriuscito dal reggiseno.
«Ru-Ruben… ah!» Gemette, riversando la testa all’indietro.
Alzai lo sguardo, odiando quelle cinque lettere che non mi appartenevano. «Chiamami Chicco.» Le suggerii, cercando le sue labbra, le sue guance e poi la colonna abbronzata del suo collo.
Mi accarezzò la nuca, come avrebbe fatto con un bambino, dopodiché volle guardarmi negli occhi quando la sua mano s’insinuò pericolosa sotto l’elastico della tuta. Sgranai gli occhi e cercai di far uscire qualsiasi suono dalle mie labbra, invece soffiai solo aria calda, incapace di muovermi. Celeste mi guardò languida, con il viso per metà illuminato dal chiarore di quella luna che spiava i nostri movimenti, ingorda della passione che si respirava tra di noi.
«Scostati un po’.» Mi suggerì, afferrando i bordi dell’elastico.
Feci come mi aveva detto, posando le mani sul sedile e alzandomi quel tanto che bastò a permetterle di far scendere i pantaloni fino a metà coscia. Inconsciamente abbassai lo sguardo e arrossii violentemente quando vidi in che stato era ridotto il mio amico dei piani bassi. Sfuggii allo sguardo di Celeste e mi sentii un vero idiota per la prima volta.
Ero sempre andato fiero della mia bandana, come l’aveva chiamato una volta Cel, anzi, spesso e volentieri numerose mie fan si erano passate la voce di quanto fossi bravo ad usarla, ma in quel buco di macchina, con il caldo che mi impediva di respirare e il cuore che ormai faceva a gara con le tonsille a chi sarebbe uscito prima dalla mia bocca, ero imbarazzato.
«Che hai?» Mi chiese la mia ragazza, preoccupata.
Deglutii a vuoto alla ricerca di un po’ d’aria. «Niente.»
Celeste riacquistò la sua solita espressione corrucciata e mi costrinse a fissarlo. «Smettila di mentirmi,» affermò perentoria.
«Ho paura di rovinare tutto.» Ammisi sbuffando.
«Cosa?» Mi domandò stupita.
Evitai il suo sguardo portandomi una mano dietro la nuca e con l’altra le carezzai una gamba ancora fasciata dai jeans. «Come l’ultima volta.»
Adesso avevo fatto la figura ufficiale dello scemo patentato. Mi sentivo così vulnerabile quando ero con lei, come se la mia arroganza volasse via in un battito d’ali. Mi ero sempre nascosto dietro la spavalderia, la superbia, la sicurezza di essere meglio degli altri, ma Celeste era riuscita a smascherarmi, a scavare a fondo e scoprire che ero tutto fumo e niente arrosto. Che in realtà non ero chi volessi far credere di essere.
«Tu non hai fatto nulla,» mi rassicurò lei.
Allargai le braccia e cercai a fatica le parole per esprimermi. «È tutto così... nuovo per me.» Sbuffai, infastidito da quella tempesta di emozioni che mi dilaniavano il cuore.
Con una semplice carezza, Celeste mi distrasse da quei miei pensieri e mi riportò sulla terra, lì in quella macchina, tra le sue braccia.
«Stai un po’ zitto.» Mi rimproverò, cercando le mie labbra e insinuando fulminea una mano all’interno dei boxer.
Improvvisamente il mondo divenne di un altro colore, assunse forme e dimensioni diverse mentre il mio cervello scaricava endorfine quasi a volermi sovraccaricare. «Porca tro-…» tentai di esclamare, ma Celeste mi zittì con un dito sulle labbra.
«Se dici ancora una parolaccia, mi rivesto,» minacciò seria.
«...trota?» Conclusi io, sorridendo di sbieco.
Non ebbi nemmeno il tempo di organizzare i miei pensieri, che la mano di Cel cominciò a muoversi lentamente, costringendomi a posare la fronte sulla sua spalla e a dire frasi disconnesse. Era come se il tempo si fosse fermato, come se il mondo aveva smesso di girare e attingesse la sua forza soltanto dal calore dei nostri respiri. Sentivo il suo profumo sotto le mie narici e il suo sapore sulle mie labbra. Cominciai a baciarle il collo, le spalle e mi soffermai in quel piccolo avvallamento tra le sue clavicole, dove dondolava un piccolo ciondolo a forma di bocciolo.
Lei era il mio piccolo fiore d’arancio, dal profumo intenso e dal sapore acre come la scorza di quel frutto. Un fiore capace di resistere alle insidie del freddo, forte e fiero come Celeste. Mentre le nostre lingue si rincorrevano frenetiche, in una danza sfrenata e primordiale, i suoi movimenti aumentavano d’intensità costringendomi a reclinare la testa all’indietro cercando più aria. Riuscii ad abbassare il finestrino di qualche centimetro e vi posai il viso contro, socchiudendo gli occhi e cercando ossigeno. Ormai ero quasi arrivato al limite e il modo con cui Celeste mi fissava non mi avrebbe di certo aiutato. Si avventò sul mio collo, aggrappandosi alle spalle e accarezzandomi con una lentezza che avrebbe potuto uccidermi. Sentii i brividi impossessarmi del mio corpo, caldo e quasi febbricitante, quando la sensazione di pienezza raggiunse il bassoventre costringendomi ad allacciare una mano attorno al polso di Celeste.
Un ultimo sguardo, una preghiera silenziosa, il desiderio di fare piano con lei e di non affrettare le cose. La sua risposta si tramutò in un gesto, in un semplice spostamento della mia mano all’altezza del suo cuore, tra i suoi seni, quei boccioli di rosa che avrei assaggiato fino a sentirmi sazio.
«Anche tu mi togli il respiro.» Disse, e poi, senza darmi il tempo di aggiungere altro continuò a muoversi veloce su di me.
Raggiunsi il punto di non ritorno quando rovesciai gli occhi all’indietro e li puntai verso la luna che, pallida e silenziosa, ci guardava dall’alto ed era come se ci desse il suo permesso, come se ci proteggesse dagli sguardi indiscreti degli altri, in quel parcheggio semi-deserto.
«Guardami, Chicco.» Mi chiamò lei ed io non resistetti al seguire la sua voce.
Celeste mi voleva, desiderava il mio sguardo in quel momento tanto delicato, in quei minuti preziosi che sarebbero stati solo nostri. Le accarezzai il viso delicatamente e lei socchiuse gli occhi, nascondendoli dietro le folte ciglia chiare.
«No, non nasconderli.» La pregai, mentre sentivo il piacere che sopraggiungeva lento.
Lei allora esaudì quel mio egoistico pensiero e schiuse le palpebre, facendomi annegare in quell’azzurro diventato argenteo. Al chiaro di luna, gli occhi di Celeste sembravano metallo liquido, così intensi e allo stesso tempo capaci di annientarmi.
Fu un attimo, poi sentii quella scossa intensa invadermi le membra e una patina scura si dipinse davanti ai miei occhi, trascinandomi in un vortice di sensazioni che durò un attimo, ma che allo stesso tempo fu eterno. Mi sentii libero, vuoto e mi crogiolai in quel calore che Celeste mi regalava.
Forse era questo l’amore di cui tanti raccontavano, forse era soltanto il ricevere qualcosa senza aspettarsi nulla in cambio.

Era la prima volta che mi sentivo così strana. Le sensazioni che stavo provando in quel  momento erano talmente intense e a me sconosciute che non riuscivo nemmeno a trovare le parole per descrivere il tumulto che sentivo dentro di me, che scombussolava ogni mia cellula, qualsiasi fibra del mio corpo. Questo perché Ruben mi era entrato dentro, sera filtrato dentro di me con i suoi modi di fare arroganti e boriosi, con quella dolcezza nascosta che, di tanto in tanto, seppelliva il suo ego spropositato, ma soprattutto con quel sorriso luminoso quanto il sole d'estate, caldo come una tiepida giornata di Maggio.
Era stato l'unico, in quasi ventidue anni di vita, ad essere stato in grado di sciogliere con il suo calore quello strato di ghiaccio che ricopriva il mio cuore. Lo sentivo battere forte, lo sentivo scalpitare nel petto come mai aveva fatto, sembrava essere rinato a nuova vita, come se avesse cominciato a pompare sangue solo quando Ruben era entrato a far parte della mia vita. Il suo arrivo mi aveva sorpreso come un acquazzone, come quella pioggia che ci aveva fatto conoscere. Dapprima solo odio, frequentazioni quasi forzate dal destino che aveva fatto di tutto pur di farci unire, per farci incontrare ancora ed ancora. E a poco a poco era scattato qualcosa in noi, una piccola scintilla che stava dando fuoco ad entrambi, che ci stava incendiando, distruggendo con la sua intensità i dubbi, l'odio e le nostre diversità.
Ruben, anzi Chicco, non era mai stato il mio tipo ideale. Troppo bello, troppo vanitoso, troppo superficiale per una ragazza come me. Eppure era stato in grado di farmi ravvedere, di ribaltare qualsiasi mia convinzione e a farmi provare qualcosa per lui. Cosa fosse, ancora non lo sapevo e non sapevo nemmeno da dove era scaturito tutto ciò. Forse per la sua spontaneità, forse perché era stato uno dei pochi a non farsi intimidire dal mio carattere e a non odiare il mio cinismo, oppure per il modo in cui mi guardava. Mi sentivo desiderata, ogni volta che le sue iridi smeraldine incontravano le mie ed era la prima volta che qualcuno mi facesse sentire bramata.
In quell'esatto momento, stava accadendo e mi sentivo avvampare, mi sentivo scombussolata e faticavo quasi a respirare. Mi stava fissando con i suoi occhi verdi, illuminati solo dai flebili raggi della luna, che ci osservava orgogliosa ed incastonata in un manto di oscurità ed intanto mi accarezzava la guancia con il pollice.
«Sei stupenda, stasera.» Disse con un filo di voce, ancora senza fiato per quella bramosia che la piccola macchina di Robbeo non riusciva quasi a contenere.
«Anche tu sei stupendo,» risposi, allacciando le mani dietro il suo collo e allungandomi verso di lui per baciarlo a fior di labbra. «Questa serata è stupenda. È tutto praticamente perfetto.»
«Fa quasi paura, vero?» Domandò e i suoi occhi cercarono una qualche conferma nei miei.
«Più che altro non sono abituata a tutto questo.» Risposi, stringendomi nelle spalle.
«Già, nemmeno io,» ridacchiò, continuando a strusciare il pollice sulla mia guancia. «È tutto nuovo per me.»
Era impaurito, potevo leggerglielo negli occhi e intuirlo dai suoi muscoli tesi. Aveva il timore di commettere qualche sbaglio, di rovinare tutto quello che stava nascendo tra di noi. Ed io mi sentivo esattamente come lui. Tutte le relazioni che avevo avuto erano state solo un enorme buco nell'acqua, oltre al fatto che con nessuno dei miei ex fidanzati ero stata coinvolta così emotivamente, per cui non mi ero mai posta il problema di poter sbagliare e rischiare, dunque, di perdere tutto. Con Ruben era diverso, con lui era tutto diverso. Forse perché, contrariamente alle apparenze, non era come tutti gli altri. Nonostante lo avessi sempre considerato un troglodita privo di materia grigia, che aveva visto più letti dell'Ikea, in realtà si era dimostrato tutt'altra persona. Lo avevo giudicato troppo in fretta e se il fato non mi avesse dato l'occasione di passare del tempo con lui, non avrei mai avuto l'occasione di conoscerlo per ciò che era davvero.
Accennai un sorriso e mi avvicinai a lui, per sentire ancora una volta le sue labbra contro le mie. Strinsi le mani tra i suoi capelli, spingendolo verso di me e riprendendo quella danza passionale che avevamo cominciato poco prima. Eravamo ancora mezzi nudi, scombussolati da ciò che era accaduto, ma ancora vogliosi di alimentare quel fuoco che incendiava le nostre membra.
Ruben appoggiò una mano sulla mia spalla, spingendomi delicatamente contro lo portiera della macchina, facendo aderire la mia schiena contro il vetro. Mi seguii, spalmandosi completamente contro di me. E, mentre la sua mano scivolava lenta sul mio torace, tra l'incavo dei miei seni, con l'altra tentò di abbassare lo schienale della macchina per ricavare più spazio in quell'angusto abitacolo.
«Ma porca putt...» Stava per dire, guardando arcigno il sedile, ma i miei occhi lo trafissero.
«Ti escono proprio naturali le parolacce.» Borbottai, scuotendo il capo.
«Forza dell'abitudine.» Disse, grattandosi la nuca e sembrando quasi un bambino appena ripreso dalla mamma. «Comunque questa macchina fa schifo! Non si reclina nemmeno lo schienale!»
«Devi avere pazienza,» gli suggerii. «E tanta forza bruta!» Aggiunsi, alzandomi un tantino e urtando il suo petto con il mio. Tremammo entrambi per quel contatto innocente e ci scambiammo uno sguardo languido. Mi allungai verso la manopola e la strinsi, cominciando a girarla con tutta la forza che avevo. Di solito Robbeo faceva un mezzo giro in avanti per sbloccarla, poi tutto indietro. Lo schienale si reclinò con facilità e sorrisi soddisfatta al mio ragazzo, che guardava stizzito il sedile.
«Hai visto, è stato semplice.»
«Te lo avevo allentato io,» bofonchiò.
«La solita scusa che usate voi uomini quando vi dimostriamo che il sesso forte siamo noi.» Ridacchiai, stringendo le sue spalle larghe e abbandonandomi ancora contro il sedile.
Ruben fece una smorfia, una specie di broncio accennato, prima di abbassarsi su di me e baciarmi ancora. Strinsi le braccia intorno al suo torace, sentendo i suoi muscoli tesi sotto le mie dita. Non sapevo se fosse normale o meno sentire il desiderio così impellente di baciarlo e di farmi trascinare con lui in vortici di desiderio. Ma era quasi come se non potessi più fare a meno di lui e di ogni singola parte del suo corpo. Ci conoscevamo da così poco tempo, stavamo insieme da pochi giorni, eppure sembrava che ci conoscessimo da una vita, come se le nostre anime appartenessero all'altro già da molto tempo prima che ci incontrassimo per la prima volta.
Tutti e due avevamo il respiro spezzato, irregolare e le nostre bocche cercavano di recuperare un po' d'ossigeno dall'aria calda, pregna di noi e di ciò che ci stava travolgendo come un'onda. Le sue mani scivolarono lungo il mio corpo, fermandosi sul bordo dei jeans e slacciando il bottone dei jeans.
Appoggiò una mano sul sedile e si sollevò da me, reggendosi a stento sul suo braccio. Dapprima cercò il mio sguardo, poi vi sfuggì puntandolo ovunque tranne che nei miei occhi.
«Forse stiamo correndo troppo.» Soffiò, deglutendo.
«Secondo me no,» dissi semplicemente. «Non pensare troppo e goditi la serata.»
«Non voglio rovinare tutto, accelerando i tempi.» Rispose intimidito.
«Tranquillo, Chicco. Non devi avere paura.» Mormorai, accarezzando quel viso baciato dai raggi lunari.
«Il fatto è che tu non sei come tutte le altre.» Continuò, abbozzando un sorriso.
Ricambiai quel gesto e lo attirai a me con una mano. Mi sentivo speciale in quel momento, importante per una volta. Ed io pensavo lo stesso di Ruben. Ormai faceva parte della mia vita, era stato l'unico in grado di colorare il mondo grigio in cui mi ero rinchiusa, l'unico che era riuscito a farmi uscire dal mio guscio di ostilità e cinismo che aveva allontanato da me un numero imprecisato di persone.
Le sue labbra guizzarono, in pochi secondi, dalla mia bocca verso il mio collo, scendendo  pericolosamente lungo il seno, l'addome per fermarsi all'ombelico, dove indugiò lasciando alcuni baci. Afferrò il bordo dei jeans e lentamente li fece scivolare lungo le mie gambe, inseme agli slip, indietreggiando sul sedile del passeggero per potersi facilitare. Mi fissò per alcuni, interminabili secondi, durante i quali mi sembrò di sprofondare nel verde, reso ancora più intenso dal buio della notte, di quelle iridi che mi avevano stregato.
Mi accarezzò le gambe, osservano con minuziosità ogni parte del mio corpo, come se volesse imprimersi nella mente ogni mio piccolo particolare. Si avventò nuovamente sul mio corpo, con più bramosia, baciandomi dapprima la gamba, percorrendone poi l'intero profilo, risalendo verso la coscia fino ad arrivare all'inguine dove si soffermò a lungo. Cominciò a lasciare dei piccoli e caldi baci lì dove ero più sensibile, strappandomi qualche ansimo sommesso.
Un brivido mi percorse la spina dorsale, scuotendo il mio corpo con intense scosse di piacere. Strizzai gli occhi e mi aggrappai al sedile, sentendo che qualsiasi mio muscolo aveva iniziato a muoversi incontrollatamente, con gesti disconnessi dettati solo dalla bocca di Ruben, dalla sua lingua che si muoveva esperta lungo la mia intimità.
Accarezzò le mie cosce, stringendole per avvicinare il mio bacino ancora di più verso i lui. Ansimai, cercando appiglio ovunque mi capitasse: il volante, lo schienale del sedile, i suoi capelli.
Quella sera c'era la luna, piena che vegliava su di noi, il cielo buio e scuro che ci nascondeva da occhi indiscreti. C'eravamo noi stretti nella piccola e polverosa macchina rossa di Robbeo. E in quel momento solo una parola riecheggiava chiara e nitida nella mia mente, una sola parola che poteva descrivere tutto quello: Perfezione.
Salve salvino!
Siete giunti alla fine del capitolo ed è già una specie di record. Dobbiamo prostrarci umilmente ai vostri piedi per l'enorme ritardo dell'aggiornamento, ma tra corsi, esami e real life non abbiamo un minuto per betare i nostri Orrori (poor Wife). Bene, bene, bene, ma cos'abbiamo qui? Un bel viaggetto a Londra! *w* Ma sono così awsome questi due *li spupazza* e Leuccio ha invitato Celeste alla trasferta che si terrà nella capitale Inglese, contro una delle squadre più forti, ovverò l'Arsenal, nonché la squadra dell'altro Sogno! Ne vedrete delle belle, posso assicurarvelo! E inZomma anche questa volta Leo è scampato ad una potenziale smascherata da parte della sua ragazza e Celeste ha conosciuto il papà di Annalisa, cioè il presidente della A.S. Roma, Mr. Cavalli.
Ma.. ma.. avete notato l'indifferenza di Annalisa nei riguardi di Leo?? O.O' non ci credeva neppure lui quando se l'è vista sfilare di fianco, con l'unico obiettivo di tampinare quel poveretto di Robbeo. E poi la proposta della vacanza, Villa Borghese, la luna... e quel cesso di macchina di Robbeo, ma l'importante è ciò che è successo al suo interno! *_________________*
Basta, sono troppo pucciosi.

Beh, vi lasciamo ai vari commenti. Allur, ringraziamo le 16 persone che hanno recensito lo scorso capitolo -le risposte alle recensioni stanno arrivando =.= -, a quelle che hanno messo la storia tra le preferite/seguite e GRAZIE a chi ogni giorno ci ''rompe'' sul gruppo delle Crudelie ricordandoci quanto questa storia, e le altre del gruppo, piacciano ed emozionino. ç_______ç Ci rendete le Crudelie più felici sulla faccia di questa terra (che presto conquisteremo!) *sniff, sniff*
Come regalino finale di questo capitolo non ci saranno foto, bensì il video-trailer della seconda parte di Come in un Sogno che partirà con il viaggio a Londra. Spero vi piaccia! :3

Come in un Sogno U.K.
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Capitolo 12
*** Red Hair ***



CAPITOLO 12


La sensazione dell’erba sintetica del campo sotto la suola degli scarpini era paradisiaca e, Dio!, se mi era mancato giocare. Erano passate due settimane dalla squalifica e in quel lasso di tempo ero riuscito ad avvicinarmi a Celeste, ma mi era mancato il pallone.
Soltanto sul campo davo tutto me stesso, riuscivo a sentirmi realmente importante e non il semplice Ruben che agiva di nascosto e metteva su una bugia dietro l’altra. Ero nato per giocare a calcio, ogni parte del mio corpo era plasmata per inseguire gli avversari, rubare palla, marcare e soprattutto andare in rete. Mi sentivo vivo quando giocavo, come se l’unico scopo per cui ero stato creato fosse quello. Celeste non lo avrebbe mai capito. Per lei sarei stato soltanto un ignorante che correva dietro un pallone, grugnendo e sputando a terra. Forse era anche per questo motivo che non le avevo ancora detto la verità. Se fossi stato messo davanti alla scelta tra lei e il calcio, non sapevo davvero cosa sarei stato in grado di fare. Da una parte c’era Cel e tutti i ricordi delle giornate passate assieme, mentre dall’altra c’era la mia vita, fin da quando avevo mosso i primi passi.
«A’ bello, svejete! Non stai sulle nuvole.» Mi urlò Daniele, dandomi un colpetto sulla spalla e sorridendo.
Basta pensieri. Dopo l’espulsione avevo deciso di non commettere più errori e di lasciare fuori dal campo la mia vita privata. Ci saremmo stati solamente io e il pallone, i miei compagni e i tifosi. Lo dovevo a loro, perché se Celeste era arrivata soltanto l’ultimo mese nella mia vita, la Curva c’era sempre stata e mi aveva dato fiducia, aveva posto le sue speranze nel Pittore.
«Passa!» Urlai a José, mentre correva lungo la fascia sinistra del campo.
Mi guardò per un attimo, poi piantò il piede nel terreno e alzò la palla quel tanto da fare un lungo cross che attraversò l’area di rigore. L’adrenalina scorreva veloce, rallentando di molto l’azione e permettendomi di vedere chiaro il pallone che sovrastava le nostre teste. I nostri compagni d’allenamento avversari, quelli col fratino, mi stavano col fiato sul collo e sentivo chiaramente Aleandro marcarmi stretto.
Tentai di sgomitare, spingendolo indietro, ma davanti a me apparve subito Gabriel che tentò di murarmi. Dovevo fare una buona impressione o il Mister non mi avrebbe messo nella formazione titolare. Anche se ero stato fuori dai giochi per due settimane, questo non voleva dire che Leonardo Sogno si era rammollito.
«Attento!» Gli urlò Nicholas, ma fui più veloce e sgusciai dalla presa dei due difensori per poi affondare entrambi i piedi nel terreno e saltare con quanta più forza avessi nelle gambe. Anche Gabriel saltò, stringendo forte la mia maglia, ma ero partito con largo anticipo. Raggiusi il pallone proprio quado passò accanto alla mia testa e colpii con forza, tentando di indirizzarla nell’angolino in basso della porta.
Martin si allungò ma il pallone riuscì a passare e s’insaccò nella rete.
«Grande!»
«Che colpo de testa!»
«Bella, Leona’! T’ha fatto bene un po’ de vacanza…» Ridacchiò il Capitano, posando la mano sulla mia testa e spettinandomi i capelli.
Mi presi gli applausi e gli abbracci dai compagni di squadra, nonostante si trattasse di un semplice allenamento, poi puntai lo sguardo a bordocampo e vidi il Mister che sorrideva. Leonardo era tornato più in forma che mai.
Soprattutto grazie al riscaldamento di ieri sera.
Quel pensiero mi colpì improvviso, ma lo scacciai immediatamente tenendo fede al patto che avevo fatto con me stesso. Niente Celeste, durante le partite.
«Siamo felici di riaverti in squadra,» mi disse Daniele.
«Daje che je spaccamo er culo a Londra!» Esultò Simone.
Londra. Le avevo chiesto di venire con me, di seguirmi in trasferta, anche se lei aveva inteso quella mia proposta come una romantica gita tra neo-innamorati.
Non avrei mai potuto dirle che in quei cinque giorni avrei giocato la partita più importante della Champions.
Avresti dovuto tacere anche sulla presenza di Simone…
Dalle ultime notizie riportate sul Corriere dello Sport, era quasi sicuro che il giovane Sogno avrebbe giocato nella seconda parte della partita, e dopo una vita intera passata a schernirci a vicenda, ci saremmo sfidati sul campo, come avversari diretti.
«Già.» Risposi a mezza bocca, perso in quei pensieri.
Ritornammo verso il centro del campo per continuare l’allenamento.
«Proviamo lo schema del mister?» Mi chiese Marco, lanciandomi un mezzo sorriso.
Nonostante avesse fatto lo stronzo, si era rivelato un amico piuttosto prezioso. Ruben era sempre stato l’unica spalla cui appigliarmi, riversando su di lui i miei problemi. Adesso mi ritrovavo circondato da persone che, almeno apparentemente, sembravano tenere a me, e poi c’era Celeste che era entrata a far parte del mio mondo con l’irruenza tipica del suo carattere. Era stato quasi impossibile resisterle, lei che era così sfuggente. Non sapevo con quanti altri ragazzi era stata e forse non ero nemmeno tanto sicuro di volerlo conoscere quel fantomatico numero. Solo al pensiero di qualcun altro al suo fianco, sentivo le mani prudermi, e non era nemmeno passato un giorno da quando ci eravamo separati.
Figlio mio, stai proprio messo male, eh? Cos’è, hai paura di non essere stato all’altezza, ieri sera?
Fottiti.
Che c’è? Ho forse detto qualcosa che ti ha urtato, Mr Sensibilità? Oggi che farai, le cucinerai dei biscotti?
Come se lo sapessi fare… Brucio anche un uovo al tegamino.

Diedi il calcio d’inizio, passando la palla a Marco; poi cominciai a correre verso l’area. La mia mente era sgombra, pensavo unicamente alla partita, ed esultavo ancora per il gol che avevo appena segnato. Domenica ci sarebbe stata la sfida contro il Lecce e tre punti erano buoni per la posizione in classifica.
Mi fermai in prossimità dell’area di rigore, districandomi dall’abbraccio di Nicholas, quando lanciai istintivamente uno sguardo agli spalti. Per un attimo immaginai Celeste su quegli stessi spalti a fare il tifo per me, ma durò troppo poco, perché gli occhi da talpa di Ruben apparvero da sotto un folto ciuffo castano topo, e lo vidi sorridermi con la solita espressione da ebete.
Era troppo pretendere che Celeste accogliesse il mio lavoro col sorriso sulle labbra… più che altro mi avrebbe spezzato le ossa ad una ad una.
Vicino al mio manager c’erano altre due donne, una bruna e l’altra bionda che sorridevano in direzione del campo. Seguii il loro sguardo e vidi Borriello che salutava una delle due.  Fui pervaso da una sensazione inaspettata, un’invidia per quello che gli altri miei compagni potevano avere ed io invece ero vincolato ad una serie di bugie che si inseguivano l’una con l’altra, senza mai arrivare ad una fine.
«Leona’!» Mi risvegliò il Capitano, passandomi la palla e spingendo verso l’area di rigore.
C’era sempre stato soltanto un solo amore in tutta la mia vita ed era il calcio. Non avevo visto altro da quando mio padre mi aveva messo il pallone tra i piedi e a mala pena ero riuscito a prendere il diploma fra gli allenamenti supplementari e le partite della Primavera. Quelle sensazioni erano del tutto nuove per me, come il pensiero di Celeste che sempre più spesso faceva capolino nella mia mente.

Entrammo negli spogliatoi tirandoci le magliette sporche l’uno addosso all’altro e ridendo come scemi. Il Mister ci aveva fatto un discorso di fine allenamento, ricordandoci la partita contro l’Arsenal, e la tensione cominciava a salire.
C’erano troppe cose in gioco: il campionato, la Coppa Italia, la Champions. La nostra squadra era in lizza per collezionare tutti i titoli, ma c’era anche un’altra faccia della medaglia: eravamo a tre punti dalla capolista e, a meno che l’Inter non avesse fatto un passo falso, potevamo anche dire addio al campionato. La sfida contro la squadra di quel cazzone di Simone era l’andata dei quarti di finale e non potevamo permetterci di sbagliare, non quando ero così vicino dall’annuncio dei finalisti per il Pallone d’Oro 2011.
«Ehi, passami lo shampoo!»
«Piantala di fare il bambino!»
«Ohi, Sogno,» mi chiese Ale, entrando nella doccia accanto alla mia. «Ma è vero che nell’Arsenal gioca tuo cugino? Oppure è un caso di omogamia
«È omonimia,» mi ritrovai a rispondere senza pensare.
Aleandro mi fissò stupito, con due occhi che sembravano palline da golf. «Scusa, professore.»
Sconcertato mi fissai la schiuma sul petto, constatando che l’influenza di Celeste mi stava letteralmente possedendo. Che anch’io mi stessi trasformando in una specie di genietto della lingua italiana?
«Comunque, sì. Quel cretino, deficiente, misogino, cazzone, insopportabile idiota, vanitoso, lascivo, cascamorto, saccentone, egocentrico, ruba-attenzione, Pisellino, Cocco Di Nonna è mio cugino. Simone Sogno.» Sospirai, insaponandomi i capelli.
«Se aggiungessi un altro aggettivo?» Scherzò Daniele.
«Sete popo culo e camicia, eh?» S’intromise l’altro Simone.
«’Mazza!» Sghignazzai. «Fin da piccoli abbiamo sempre fatto a gara a chi riusciva meglio in qualcosa, ma l’ho sempre spuntata. Modestamente.»
«Ma è più giovane di te?» Mi chiese Gabriel.
Annuii afferrando anche il bagnoschiuma. «Sì, di quattro anni,» risposi prontamente.
Gli altri miei compagni di squadra pendevano dalle mie labbra, per quel racconto. In fondo eravamo una famiglia di piccoli talenti.
«Se vede, pare un ragazzino.» Sghignazzò Daniele.
Ripensai a mio cugino, ed effettivamente i tratti del suo viso parevano ancora quelli di un adolescente. Ovviamente anche il cervello era quello di un bamboccio. Per fortuna che i miei zii si erano trasferiti in Inghilterra quando eravamo ancora piccoli, perciò non c’era stato tempo per farci guerra tra di noi, anche se Simone non era l’unico cugino che avevo.
«Hai qualche altro parente famoso? Non si sa mai con te. Voi Sogno state dappertutto!» Ridacchiò Marco.
Sorrisi misterioso e mi lasciai invadere dal getto d’acqua, lavando via il sapone di troppo che rischiava di bruciarmi gli occhi. Era piacevole lasciarsi andare a quel calore dopo una dura giornata di allenamenti, soprattutto quando la vita mi sorrideva in quel modo. Riflettei sul mio cognome, su i pregi e i difetti di una famiglia come la mia. Mio padre e mio zio erano stati cresciuti da nonna Annunziata, dai suoi valori e dalla sua sete di successo, ma non per questo avevano rinunciato a farsi una famiglia. Anche loro erano stati calciatori, ai loro tempi. Certo, non avevano sfondato e per questo avevano riversato il loro sogno su di noi, i loro figli, riuscendo finalmente a coronare quello in cui avevano sempre sperato. Avevano tramandato il loro desiderio a noi e con quello si erano portati dietro anche la rivalità tra me e Simone.
«Non c’è anche quella cantante?» Se ne uscì Borriello, urlando dagli spogliatoi mentre si infilava i calzini.
Tutti si guardarono perplessi, cercando una qualsiasi risposta, e io cominciai a ridere di gusto. Era troppo esilarante vederli mettere insieme i neuroni per tentare di trovare una risposta. Ovviamente non volevo gettare altra benzina sul fuoco, sapendo quale altro talento si celasse nella mia famiglia.
Che ci potevo fare? I geni erano quelli.
«Quella biondina con la chitarra e quegli occhi da cerbiatta, dai!» Insistette Marco, andando lievemente sul pesante, descrivendo mia cugina.
«Ehi!» Tuonai, riemergendo da sotto l’acqua.
Tutti i miei compagni di squadra sghignazzarono, vedendomi così geloso, ma volevo vederli nei miei panni, visto che la persona di cui parlavano tanto alla leggera era la mia pulcina!
«Non ti scaldare, bello.» Sorrise Marco, facendomi l’occhiolino. Poi spostò lo sguardo al di là degli armadietti e la sua espressione cambiò radicalmente. Era come se avesse visto un fantasma, uno spettro di qualche tipo che gli aveva tolto tutta l’ilarità che fino ad adesso aveva avuto. «C’è qualcuno che ti vuole, Sogno.» Disse atono, mettendomi l’ansia.
«Chi è?» Gli chiesi in automatico, finendo di risciacquarmi.
Borriello fece spallucce e si infilò i pantaloni puliti della tuta. «Non ne ho idea, ma ha degli occhi azzurri che danno i brividi.»
Occhi azzurri? Mi sovvenne immediatamente il nome di Celeste e cominciai davvero a sudare freddo. Com’era venuta a sapere di Trigoria?
Mi diedi immediatamente del cretino perché ciò non era possibile. Soprattutto non era possibile che avessero lasciato passare tranquillamente una ragazza nello spogliatoio degli uomini. Ma allora di chi si trattava?
Legai l’asciugamano attorno alla vita e mi incamminai verso l’armadietto, asciugandomi contemporaneamente i capelli. Tirai fuori il phon e un paio di boxer puliti, ma mi sentii subito osservato.
«Ciao,» mormorò una voce familiare, con uno strano accento.
Mi voltai con l’acqua che ancora mi gocciolava dai capelli e feci scendere l’asciugamano dalla testa alle spalle, fissando lo sguardo in quello di quel fottuto mangia-lumache.
«Che cazz-…» Imprecai, vedendo Jean-Philippe Rossi immobile davanti a me, con il solito sorriso sornione arrogante e beffardo che gli avevo visto dipinto in volto quando l’avevo conosciuto.
È una mia impressione, o quel tizio sa chi sei…?
Rettificai nella mia mente. Ora ero ufficialmente fottuto.
«Sorpreso di vedermi, chèri?» Ghignò, appoggiandosi con una spalla contro l’armadietto di Marco. «Ho pensato di fare un salto, sai, per vedere dove lavoravi.»
Mi stava prendendo per un idiota? Era evidente che stava facendo quel discorso unicamente per sfottermi. Avrei dovuto aspettarmelo da quel suo sguardo la prima volta che ci eravamo visti che lui sapeva chi fossi.
«Smettila di dire cazzate,» ringhiai, fissandolo in cagnesco.
Aveva una gran faccia tosta a presentarsi lì a Trigoria, mettendomi anche in una posizione difficile con i miei compagni.
«Su, campioncino, pensavo lo avessi capito,» ridacchiò. «Di solito sono un libro aperto.»
Quel suo sguardo mi metteva soggezione, perché nascondeva molto più di quanto lasciasse trasparire. La mia pelle s’increspò al solo pensiero, e non soltanto perché ero ancora mezzo nudo e bagnato. Aveva sempre quella stessa espressione, quasi come se volesse sbranarmi. Jean era un cacciatore a dispetto del principe senza macchia e senza paura che descriveva Celeste, parlando di lui. Altro che innocenza! Quel francese mi puzzava più della robaccia che si mangiavano in quel suo cacchio di Paese.
«Che cazzo ci sei venuto a fare qui? Cosa vuoi dimostrarmi?» Lo affrontai.
«Tutto bene qui?» S’informò Daniele, squadrando da capo a piedi il francesino che gli restituì uno sguardo interessato.
Rabbrividii.
Se c’era una persona di cui non mi fidavo, quello era proprio J. Nascondeva qualcosa dietro quei suoi falsi modi gentili e quell’accento messo apposta per far apparire la sua cadenza ancora più particolare.
«Sì, me la sbrigo io.» Risposi a Capitan Futuro, aspettando che se ne andasse. Poi tornai ad occuparmi del Mangia-lumache.
«Devo parlarti, è importante.» Mi disse lui serio, senza staccare lo sguardo dal mio. Era frustrante sentirsi osservato ogni secondo, soprattutto quando percepivo ogni fibra del mio corpo che si tendeva, che mi diceva di stare attento.
Ci pensai su, ma non avevo molta scelta. Se il francese si era presentato addirittura al campo d’allenamento, voleva dire che la questione non era da prendere alla leggera.
«Posso vestirmi?» Gli chiesi irritato, visto che ero ancora rimasto con i boxer in mano e l’asciugamano legato in vita, l’unico pezzo di stoffa a coprirmi la bandana.
J. alzò pigramente un sopracciglio, poi piegò l’angolo della bocca in un sorriso divertito. «Fai pure.»
Però non si mosse.
Rimase immobile nella stessa posizione in cui si era presentato, con il dolcevita blu scuro e i jeans penosamente attillati sul cavallo dei pantaloni. Che modello era? Push-up per la bandana? Si faceva vestire direttamente da quei ricchioni di D&G, non c’era altra spiegazione.
«Intendevo da solo,» ringhiai a mezza bocca, inghiottendo un altro insulto per non dare spettacolo nello spogliatoio. Chissà i miei compagni di squadra cosa pensavano avessi in ballo, visto il modo in cui il francesino mi marcava stretto.
Gli occhi blu di J. si spalancarono soltanto per un attimo, poi tornò ad avere la stessa espressione strafottente di sempre, come se indossasse delle maschere identiche. «Ti aspetto fuori.» Mormorò solamente. Girò i tacchi e scomparve dallo spogliatoio lasciandomi completamente basito.
Fissai la porta per degli interminabili minuti, senza sapere cosa fare. Ormai l’acqua sul mio corpo si era asciugata e mi sarebbe bastato vestirmi e raggiungere J. con la borsa in spalla, però non ne avevo la forza. Sapeva di me, sapeva chi fossi, conosceva ogni cosa e quel particolare non mi piaceva per niente. Mi sforzai di darmi una mossa e di non saltare a conclusioni affrettate prima di conoscere ogni minuzia di quella faccenda.
«Bello, ma chi era quel tizio?» Mi domandò Marco, già completamente vestito.
Sbuffai slegandomi l’asciugamano dalla vita e cominciando ad infilarmi le mutande con la svogliatezza degna di un bradipo nato stanco. «Nessuno.»
«Ha a che fare con la tua ragazza?» Sghignazzò, sedendosi sulla panca e fissandomi speranzoso di pettegolezzi.
«Non ne ho idea, ma sospetto che c’entri qualcosa.» Bofonchiai, indossando maglietta e pantaloni della tuta.
«Non mi piace per niente. Sembra che voglia mangiarti…» Mormorò tornando con lo sguardo verso la porta da cui era appena sparito il francese.
«Sarà una caratteristica della sua razza,» commentai, tirando su la zip della felpa e tamponandomi meglio i capelli con l’asciugamano. Non avevo tempo di attaccare il phon, perciò calcai lo zuccotto e riposi le mie cose alla rinfusa nel borsone, sedendomi sopra di esso per riuscire a chiudere la zip.
«Stai attento,» mi mise in guardia Marco, fissandomi serio. «Quel tipo non mi piace.»
«Già,» sospirai. «Pensa a me…»
Con l’aria di chi stava percorrendo la strada per il patibolo, mi incamminai verso l’uscita degli spogliatoi, cercando di non pensare al peggio. Ruben mi aspettava fuori, in macchina, e nonostante fosse Aprile inoltrato, appena uscii dalla struttura una folata di freddo mi travolse e mi fece pentire di non essermi asciugato meglio.
«Ce ne hai messo di tempo. Hai finito di truccarti?» Mi sbeffeggiò, sorridendo.
Ogni singola parte di quel francese mi metteva i brividi, dai capelli biondo scuro, le sopracciglia folte, la mascella squadrata e quei maledetti occhi blu.
«Ah. Ah. Ah.» Risi ironico, afferrando il Mangia-lumache per la manica di quel maglioncino da checca e lo trascinai in un posto più appartato dove avremmo potuto parlare. Non sembrò molto contento delle mie maniere rudi, ma poco me ne importava.
«Vuoi parlare, oppure mi stai portando in un campo per poi disfarti del mio cadavere?» Mi chiese, pensando di essere in qualche modo simpatico.
«Qui va bene,» ringhiai, spingendolo contro il muro della struttura. «Si può sapere che cazzo vuoi?»
Jean-Philippe socchiuse gli occhi e allargò nuovamente quel sorriso che mi metteva i brividi. Sembrava un fottuto Stregatto. Altro che quello di Alice!
«Per essere uno che guadagna milioni di euro, sei piuttosto riservato.» Sghignazzò, sistemandosi meglio il dolcevita che gli avevo involontariamente spiegazzato.
«Cosa intendi?» Soffiai, affilando gli artigli. Dovevo difendermi dagli attacchi di quel Mangia-lumache e dovevo sempre guardarmi le spalle. Aveva la faccia di quelli che giocano sporco, me lo sentivo.
«Beh, non sono io che faccio finta di essere un’altra persona,» mormorò tranquillo, lisciandosi anche i jeans. «È la prima volta che sento una cosa del genere. Fa molto Vacanze Romane, non pensi?»
«Vieni al punto o chiudi il becco,» gli intimai, stufo di quei giri di parole.
J. si inumidì le labbra, poi fissò gli occhi blu nei miei riuscendo ancora una volta a mettermi in soggezione. «Sai, la prima volta che ti ho visto ho capito subito chi fossi,» sorrise. «Era impossibile non notarti. In fondo sei l’ottavo re di Roma, la nuova promessa italiana del calcio e chiunque non galleggi tra le nuvole come Celeste, avrebbe capito immediatamente la tua identità.»
«Allora perché hai fatto finta di non conoscermi?» La domanda era più che logica e io avevo bisogno di risposte da quel cazzone bianco, rosso e blu.
Il francese si prese del tempo per enfatizzare la spiegazione. «Ho creduto opportuno reggerti il gioco, in fondo sono un tuo fan sfegatato e quello era il minimo che potessi fare.»
Quella storia mi piaceva sempre meno, soprattutto per il tono di voce di J. che si era orribilmente ammorbidito, quasi volesse addolcirmi la pillola.
«E perché sei qui, allora?»
Il sorriso da Stregatto si allargò improvvisamente, facendomi salire un profondo brivido lungo la schiena. Mi si accapponò la pelle perché inconsciamente compresi di essere già in suo pugno.
Si staccò dalla parete e mosse qualche passo nella mia direzione, costringendomi ad indietreggiare. «Tra due giorni ci sarà il mio compleanno.»
«Tanti auguri,» ringhiai guardingo.
J. sbuffò ma non perse quel magnetismo con cui mi guardava. «Faccio una festa, per gli amici più stretti, e sarei felice che tu ti unissi.»
Non era solo un mangia-lumache mezza checca, no: si era anche fumato un intero campo di Marja, grosso come la Jamaica. «Cosa ti fa pensare che abbia tempo da perdere per andare alla tua stupida festa?»
Era un fottuto ragazzino, ecco cos’era, più viziato del sottoscritto.
Fu in quel momento che J. perse il controllo e cominciò a ridere di gusto. «Per quale motivo pensi abbia tenuto il segreto con Celeste tutto questo tempo? Se le avessi rivelato la tua vera identità, pensi che non sarebbe caduta tra le mie braccia? Ti ho fatto un favore tenendo il becco chiuso, come dici tu.»
«Mi stai ricattando?» Realizzai sconcertato.
J. mi posò una mano sulla spalla ed io non ebbi nemmeno la forza di evitare il suo contatto. «Pensavo fosse un invito,» ghignò. «Ti aspetto alle sette a casa mia, ti manderò l’indirizzo con un twit.»
Avevo le mani legate, mi sentivo totalmente impotente. Quel bastardo senza un briciolo di spina dorsale mi teneva per le palle e mi aveva incastrato per bene. Se non fossi andato a quella cazzo di festa avrebbe raccontato tutto a Celeste.
«Ah, Leo,» mi disse, prima di sparire dietro l’angolo. Il mio nome pronunciato da quelle labbra rosse fu l’equivalente di una stilettata al cuore. «Mi aspetto un regalo.»

Mi sentivo una deficiente, quel pomeriggio. Mi stavo guardando allo specchio, dopo essermi fatta una doccia veloce, e sorridevo come mai avevo fatto prima. Ed era da quando mi ero svegliata che mi sentivo così felice. Merito della splendida serata passata con Ruben in quel buco puzzolente di macchina. Non mi ero mai sentita così rincretinita e non mi sembrava nemmeno che l'immagine nello specchio fosse la stessa di Celeste Fiore che conoscevo da ventidue anni. Solitamente quella biondina aveva sempre il broncio, qualsiasi cosa accadesse, anche quando prendeva trenta e lode in un esame praticamente impossibile. Ruben era stato in grado anche di regalarmi il sorriso, dopo tanto tempo, quasi secoli, che lo avevo perso. Se poi lo avessi mai avuto un sorriso sincero, di quelli che scaturivano dritti dal cuore. Niente sarcasmo, niente ironia, solo pura e semplice felicità.
Ti stai rincretinendo, Celeste... un ragazzo è riuscita a mandarti KO.
Pensavo di essermi liberata del mio subconscio, ma evidentemente era solo una falsa speranza. C'era ancora il mio grillo parlante e non aveva perso il suo cipiglio. Mi sarebbe bastato non ascoltarlo, sennò sarebbe stato in grado di rovinare tutto ciò che stava nascendo tra me e Ruben.
Mi asciugai velocemente i capelli con un asciugamano che poi riposi accuratamente nella cesta dei panni sporchi, poi me li legai con una coda improvvisata e disordinata da cui uscivano scompostamente alcune ciocche. Diedi un'ultima occhiata alla mia immagine riflessa nello specchio, poi uscii dal bagno e recuperai il computer portatile dalla mia camera da letto. Mi sentivo ispirata, oltre che felice. Qualunque cosa facesse Ruben era da spunto per il continuo del mio romanzo e la serata appena trascorsa con lui era perfetta da inserire nel nuovo capitolo. Ruben era diventata la mia fonte di ispirazione, la persona che aveva cambiato la mia vita in meglio, sotto tutti i punti di vista.
Mi diressi verso il salotto, ma mi fermai vicino allo stipite non appena sentii la voce sommessa di Robbeo parlare con un tono quasi triste. Aguzzai l'orecchio per origliare. Era una cosa immorale e anche poco educata, non da me. Ma non potevo irrompere in salotto, rischiando di interrompere la conversazione che stava avendo il mio migliore amico. Robbeo aveva qualcosa che non andava e questo qualcosa aveva i capelli rossi, le tette rifatte e la bocca siliconata. Si chiamava Annalisa il suo problema ed io avrei scoperto, con  le buone o le cattive, che cosa stava succedendo tra quei due. Anche perché quella sgualdrina viziata aveva osato dare uno schiaffo a Robbeo e nessuno poteva sfiorare il mio migliore amico, nemmeno con un dito. Solo io potevo permettermi di urlargli contro o prenderlo a sberle.
«Sì, d'accordo, Anna.» Disse con tono basso.
Mi sporsi dalla porta, vedendolo in piedi in mezzo al salotto con una mano sulla nuca, mentre calciava l'aria con le sue All Star consunte.
«Ti aspetto qui, allora,» continuò. Attimo di silenzio in cui parlò il suo interlocutore, o meglio interlocutrice-battona-rifatta, poi Robbeo riprese a parlare. «Ma cerca di fare in fretta, che non ho intenzione di mettere le radici nel pavimento a furia di aspettarti per ore.»
Cominciò a camminare in circolo ed io mi addossai alla parete, per non farmi vedere. Strinsi il computer a petto, stritolandolo quasi. Che cosa voleva Annalisa da Robbeo? Ero infuriata, e non perché fossi gelosa del mio migliore amico, anzi, sarei stata anche felice se si fosse trovato finalmente una ragazza, ma la Cavalli puzzava di marcio. Oltre ad essere un insopportabile paramecio parassita, era cattiva. Gliela leggevo negli occhi la cattiveria, in quelle iridi scure e verdi che scrutavano tutti come se fossero un radar e catalogando qualsiasi persona la circondasse come inferiore. Era certa che tutto le fosse dovuto e che tutti dovessero essere pronti a gettarsi ai suoi piedi, a farsi calpestare dalle sue scarpe tacco dodici laccate e rosse come i suoi capelli. E se qualcuno si rifiutava, lei sfoderava tutta la sua cattiveria. Bastava vedere come si comportava con Robbeo.
«Sì, ok, scusa! Aspetterò,» sbuffò il mio migliore amico «Lo so che se non sei perfetta non esci e blablabla…» Continuò spazientito.
La rabbia esplose dentro di me, così mi decisi ad irrompere in salotto con il passo pesante, in modo da distogliere l'attenzione do Robbeo dal parassita. Il mio migliore amico, non appena si accorse della mia presenza, si voltò repentino e chiuse velocemente la comunicazione, salutando con rapidità Annalisa. Stiracchiai le labbra in un sorriso e mi sedetti sul divano, con il computer appoggiato sulle ginocchia.
«Chi era al telefono?» Domandai, cercando di mascherare il mio disappunto, anche se mi usciva il fumo dalle orecchie e avevo gli occhi che lanciavano saette incandescenti.
«Al telefono?» Ripeté Robbeo, spaesato, indicando il suo cellulare risalente alla Rivoluzione Francese. «Ah sì, era mia madre.» Disse con un sorriso, grattandosi la nuca. E la sua menzogna mi fece arrabbiare ancora più di prima, se possibile.
Aprii il computer portatile e il file del mio romanzo, cominciando a digitare con nervosismo le lettere sulla tastiera.
«E che voleva tua madre?» Chiesi, quasi in un grugnito.
«Mah, le solite cose.» Rispose vago Robbeo, con una scrollata di spalle.
Mi accanii contro la povera ed indifesa tastiera, rischiando di romperla e rimanere senza il mio adorato Pc. Non avevo intenzione di rispolverare la macchina da scrivere della mamma di Robbeo, anche perché trovavo irritante il tintinnio di quando finiva il foglio.
«E come sta?»
Robbeo fece spallucce e sospirò rumorosamente.
«Abbastanza bene,» rispose senza entusiasmo. Accennò un sorriso prima di allontanarsi. Si fermò a pochi centimetri dalla porta e si voltò verso di me. «Io esco tra poco. Non so se tornerò per cena.»
No. Purtroppo la mia irruenza non mi permetteva di rimanere in silenzio e fare finta che nulla stesse accadendo. Tra Romeo ed Annalisa stava succedendo qualcosa, anche se non riuscivo a raccapezzarmi su ciò che stava rendendo il mio migliore amico una specie di vegetale ambulante, schiavo di quella baldracca della Cavalli. Quella sanguisuga non solo perseguitava il mio ragazzo, ma adesso si era attaccata al collo anche di Romeo, succhiandogli tutto il sangue. Il problema era che non capivo perché si comportasse così la Rossa e nemmeno perché Robbeo si facesse sottomettere come se fosse uno zerbino logoro. E quel dubbio, lo sapevo bene, non mi avrebbe fatto né ragionare né dormire sonni tranquilli. Scaraventai il computer sul divano e scattai in piedi, correndo come una forsennata e riuscendo a frappormi tra Romeo e la porta. Allargai le braccia, attaccandomi agli stipiti, in modo da bloccare il passaggio al mio migliore amico.
«Dove credi di andare?» Chiesi con una voce che aveva qualcosa di demoniaco. Dovevo essere terrificante, in quel momento, con un ghigno sinistro e i capelli scompigliati sul viso in puro stile Psycho.
«In camera mia a prepararmi,» rispose tranquillamente, senza nemmeno un pizzico di entusiasmo. Che cosa ne aveva fatto del mio stupido e casinista Robbeo quella serpe di Annalisa?
«Cosa credi che mi sia bevuta la scusa della mammina al telefono?» Lo aggredii, con tono minaccioso. «So per certo che era Annalisa. Ho sentito chiaramente che dicevi il suo nome!»
«Da quando origli le mie conversazioni private?» Si stizzì il mio migliore amico.
«Da quando hai cominciato a nascondermi le cose!» Risposi, quasi sgolandomi, sfoderando il mio dito indice pungolatore anche con Robbeo. Cominciai a spingerlo indietro, picchiettando la punta del dito contro di lui, mentre lo incenerivo con lo sguardo. Lui sapeva bene quanto non sopportassi che la gente mi nascondesse qualcosa, soprattutto se si trattava di qualcuno a cui tenevo. Ero stata tradita troppe volte, pugnalata alle spalle senza ritegno e non volevo che questo succedesse di nuovo.
«Cosa ti nascondo? Che esco con Annalisa?» Incrociò le braccia al petto, impedendomi di continuare a torturagli le tettine flosce che si ritrovava. «Adesso lo sai.»
«Da quando uscire significa essere preso a sganassoni?» Domandai ironica, sfidandolo con lo sguardo.
Robbeo, però, non riuscendo ad affrontare i miei occhi sospettosi ed affilati come coltelli, abbassò i suoi verdi, affondando le mani nelle tasche dei jeans larghi che indossava. Diede un calcio a qualcosa di immaginario e di inesistente davanti a lui, come era solito fare quando era in difficoltà.
«Mi spieghi cosa vuole quella Arpia da te?» Domandai contrariata.
«Mi sembra chiaro! Con tutto questo ben di Dio, anche lei ha perso la testa per me.» Gongolò, indicandosi con entrambe le mani, ritrovando per un attimo la sua spensieratezza.
«Robbé, non cominciare a dire scemenze!» Lo rimbeccai, sull'orlo di una crisi isterica e di rabbia. «Uno.» Esclamai, indicandomi l'indice, «Annalisa non si avvicinerebbe mai ad uno come te. «Due.» E sollevai anche l'indice. «Non avrebbe bisogno di darti degli scappellotti per conquistarti, le basterebbe alzarsi la maglietta e mostrarti le sue tette rifatte. E nemmeno trattarti come uno schiavo è una buona tattica di seduzione. TRE!» mi fermai, con le tempie che mi pulsavano per la troppa esasperazione e lo fissai inebetita, con le guance paonazze e la mano protesa in avanti con pollice, indice e medio alzati. Per la troppa rabbia mi si erano offuscati i pensieri e non ero riuscita nemmeno ad articolare il terzo punto della mia arringa improvvisata. Molto probabilmente era stato integrato al punto due senza che me ne accorgessi.
«E tre…?» Mi incitò lui, con i suoi enormi occhi verdi spalancati.
«Non c'è, i punti sono solo due! E credo che siano più che sufficienti per pretendere da te una spiegazione!» Quasi urlai, e per il tono alto che stavo utilizzando la gola cominciò a bruciarmi, come se stesse venendo divorata dalle fiamme. «Perché cavolo ti fai trattare come uno schiavo?»
Robbeo si grattò l'avambraccio, con lo sguardo fisso sul pavimento.
«È una questione tra me ed Annalisa,» tagliò corto lui, visibilmente infastidito dalla discussione che stavamo avendo.
«Sono la tua coinquilina, nonché migliore amica. Ho il diritto di sapere che cosa sta succedendo tra te e quella serpe!»
«Davvero, Celeste, non mi sembra il caso che tu lo sappia.» Sbuffò scocciato, cercando di superarmi con velocità per chiudersi in camera sua, ma riuscii a bloccarlo con un braccio e spingerlo di nuovo davanti a me. Di nuovo ci ritrovammo occhi negli occhi ed io cercai di leggere negli occhi del mio migliore amico, senza però ottenere risultati. Vedevo in quegli specchi smeraldini che c'era qualcosa che lo turbava, un peso che lo stava opprimendo, rischiando di sotterrarlo, di distruggerlo in meno di qualche secondo. Ma se lui si ostinava a tenersi tutto dentro, senza coinvolgermi nei suoi problemi e turbamenti, non potevo aiutarlo.
«Sì, invece lo voglio sapere.» Mi imposi, puntellando le mani sui fianchi.
«Fidati di me, per una volta.» Quasi mi implorò con il suo tono di voce e i suoi occhi verdi da cucciolo bastonato.
«Io ti voglio bene Robbeo e non mi piace vedere che qualcuno ti tratta come se fossi un essere insulso, inferiore. C'è in gioco la tua dignità, accidenti!»
«E non solo quella, credimi.» Mormorò amaramente e, questa volta, riuscì a superarmi e a sparire nel corridoio.
Ero rimasta spiazzata dal tono di voce utilizzato da Robbeo, dal suo strano comportamento e dai suoi occhi malinconici. Ebbene, se lui non voleva dirmi cosa lo tormentava, lo avrei scoperto da sola, con le mie forze. Non potevo stare ferma a guardare mentre il mio migliore amico veniva usato come un pezzo di carta straccia. Mi sentivo in dovere di scoprire cosa c'era tra quei due, perché Annalisa lo stesse schiavizzando senza motivo ed aiutarlo ad uscire fuori da quella assurda situazione. Non avevo, però, la benché minima idea di come scoprire che cosa lo affliggesse. Avrei potuto rapirlo e legarlo ad una sedia nello scantinato per poi torturarlo senza ritegno. Ma non sarebbe stato proficuo, oltre al fatto che non sarei mai stata in grado di torcere un capello a Romeo, che era diventato una sorta di fratello minore per me. Avevamo la stessa età, ma lui era ancora un bambino, un eterno Peter Pan che non aveva voglia di crescere e vivere la sua vita come fosse un ventiduenne e non un quindicenne.
Magari avrei potuto torturare Annalisa per farmi dire che cosa stesse succedendo tra di loro, così mi sarei anche presa una specie di rivincita personale. Ma era un'idea troppo macabra per i miei gusti. Mi faceva impressione perfino fare un esame del sangue, figurarsi improvvisarmi una specie di Enigmista pazzoide.
Tornai a sedermi sul divano, prendendomi la testa tra le mani. Mi sentivo talmente inutile, in quel momento, nel non poter aiutare il mio migliore amico. Ma cosa avrei dovuto fare? Seguirlo come se fossi un investigatore privato per scoprire più cose possibili sul rapporto schiavistico che c'era tra quei due?
Vedo che Ruben non ti ha tolto tutta la tua perspicacia. C'è ancora un piccolo barlume della vecchia Celeste dalle idee geniali.
Era una soluzione perfetta! Niente spargimenti di sangue inutili, niente problemi giudiziari e sarei riuscita lo stesso a scoprire la verità. Sorrisi soddisfatta tra me e me, considerandomi un piccolo genio del male. Sarei stata una specie di investigatore privato,  una sorta di uno Sherlock Holmes con la Iolanda, anche se mancava un elemento fondamentale perché potessi paragonarmi al famoso detective di Doyle. Necessitavo del mio fido compagno, a cui ripetere “Elementare, Watson”. Avevo bisogno del mio Watson personale e sapevo anche dove l’avrei trovato.
Scattai in piedi come se sotto il sedere si fossero materializzate delle molle tutto d'un tratto e mi precipitai in camera mia. Ven era stesa a pancia in giù sul mio letto, con i capelli che le ricadevano scomposti sul cuscino, coprendole il viso. Stava dormendo profondamente e le urla mie e di Robbeo non l'avevano minimamente disturbata.
«Ven,» bisbigliai, scuotendola un poco per svegliarla dalla sua pennichella pomeridiana. «Ven.»
Rimasi qualche secondo ad osservarla, cercando di captare un piccolo movimento che mi facesse capire che era sveglia. Ma sembrava essere stato tutto inutile. La mia migliore amica era ancora saldamente attaccata ai pantaloni di Morfeo e non pareva avere intenzione di lasciar andare la presa.
«Ven!» Riprovai, alzando un po' il tono ed aumentando le scosse.
Ancora nulla, anzi respirò profondamente e si voltò su un fianco, dandomi le spalle e rannicchiandosi. In quel momento sentii Robbeo uscire dalla sua stanza, così socchiusi la porta della mia per poter distinguere i suoi movimenti. Lui andò in salotto, raccattò la sua giacca e controllò il cellulare, prima di uscire di casa. Stava andando a quel maledetto appuntamento alla quale non potevo mancare, anche se in incognito. Ma certo non potevo andare senza il mio Watson personale. Così mi decisi ad usare le maniere forti per sottrarre la mia amica dalle braccia di Morfeo. Appoggiai le mani sulla sua schiena e la spinsi, facendola rotolare sul letto mentre lei lanciava dei sommessi mugoli di dissenso. Finché quella “M” strascicata con sonnolenza non si trasformò in un urlo quando cadde dal letto.
«Che cosa ti è saltato in mente, Cel?» Disse stizzita, comparendo dal bordo del letto con la mascherina da notte ancora calata sugli occhi.
«Dobbiamo seguire Robbeo!» Le spiegai velocemente, togliendomi il vestitino grigio da pezzente e indossando qualcosa di più presentabile.
«E perché mai?» Borbottò, alzando leggermente la mascherina e salendo di nuovo sul letto goffamente, quasi lo stesse scalando.
«Sta uscendo con una ragazza,» tagliai corto, sciogliendo i capelli e strattonando ancora la mia amica per non farla riaddormentare ancora.
«E finalmente!» Sbottò, mettendosi a sedere, arrendendosi al fatto che ormai non le avrei più permesso di tornare nel mondo dei sogni. Si grattò la nuca, sistemandosi la mascherina sui capelli scompigliati. «Non gli capita spesso di avere una Iolanda che si interessi a lui.»
«Non è una Iolanda qualsiasi. È quella di Annalisa!» Le spiegai, con le mani sui fianchi.
Ven, con gli occhi a mezz'asta, fece spallucce e sbadigliò sonoramente.
«Buon per lui,» tagliò corto disinteressata. «E non credo che abbia bisogno che lo controlli. Sarà anche stupido, ma sarà pure in grado di gestire un appuntamento.» Disse, stropicciandosi gli occhi. «Oddio... mica tanto.» aggiunse, contraddicendo le sue parole. «Mi sa che non ha molta dimestichezza con il gentil sesso.»
«Non è un appuntamento qualsiasi, Ven!» Esclamai, esasperata. «Tra Robbeo ed Annalisa c'è qualcosa. E non una relazione sentimentale e nemmeno una frequentazione. Devo scoprire perché quella sanguisuga lo tratta come il suo schiavetto!»
«Ti preoccupa così tanto questa situazione, vero?»
«Beh, direi!» Esclamai, indispettita, incrociando le braccia.
«E va bene, andiamo.» Sospirò Ven, alzandosi velocemente dal letto, lanciando la mascherina per gli occhi sul letto per sistemarsi i capelli alla bell'e meglio. Afferrò alcun vestiti dall'armadio, i primi che le capitarono sotto mano, e si vestì rapidamente.
«Dobbiamo fare in fretta!» Mi allarmai, prendendo gli occhiali da sole dal cassetto. Che razza di investigatore sarei stata senza un paio di Ray-ban dietro la quale mascherare la mia identità? «Robbeo è uscito di casa più di cinque minuti fa!»
«Ormai saranno già andati chissà dove, come credi di trovarlo?» Somandò Ven, acchiappando il suo cappotto dall'appendiabiti e passandomi il mio. «Hai intenzione di girare tutta Roma nella loro disperata ricerca?»
«Se fosse necessario, sì!» Risposi senza esitazione, chiudendomi la porta alle spalle.
«Uh! Non vedo proprio l'ora di passare un bellissimo pomeriggio che avrei potuto passare a rilassarmi a girovagare per Roma, senza un mezzo di trasporto e senza una meta.» Disse ironica, schiacciando il pulsante di chiamata dell'ascensore.
La guardai di traverso e le afferrai un polso, trascinandola giù per le scale. Non avevamo tempo di aspettare quella trappola, che avrebbe impiegato un'ora solo per farci arrivare al piano terra. Rischiammo di cadere un paio di volte, ma per fortuna l'osso del collo era salvo, per il momento. Feci scattare il portone e mi fiondai fuori dalla palazzina, ma non appena vidi Romeo appostato sul marciapiede poco distante dal nostro palazzo, indietreggiai, sbattendo contro Ven che stava uscendo in quel momento.
«Ahio!» Esclamò.
«Shhhh.» Bisbigliai, abbassandomi i Ray-ban sulla punta del naso per poterla guardare nei suoi occhi blu dubbiosi. «È ancora lì,» continuai, indicando col dito fuori dall'androne.
Ci sporgemmo entrambe per poter tener d'occhio Romeo. Sembrava impaziente, controllava l'orologio ogni secondo, come se stesse cronometrando il ritardo di Annalisa. Si guardò intorno, sbuffando e affondando le mani nelle tasche della giacca, calciando un sassolino che gli era capitato tra i piedi. Qualche minuto dopo, la Porsche rossa e scintillante di Annalisa svoltò nella nostra via, accostandosi al marciapiede proprio davanti a Robbeo. Abbassò il finestrino, e sollevò i suoi occhiali da sole, sicuramente di marca, forse Chanel o Gucci, sui capelli.
«Finalmente,» borbottò il mio migliore amico.
«Che saranno mai venti minuti di ritardo,» rispose la rossa, controllandosi sullo specchio retrovisore. «Anzi, sono anche in anticipo per i miei standard. Guarda! Per fare in fretta non mi sono nemmeno messa il rossetto.»
«Che bisogno hai di conciarti come un pagliaccio?» Domandò retorico Romeo.
«Ah! Quindi mi trovi ridicola, eh?» Sbottò quella, trafiggendo con lo sguardo il mio migliore amico che sporse subito le mani in avanti, agitandole con nervosismo. «Vuoi un altro ceffone?»
Che ci provasse! Se solo avesse osato alzare di nuovo le mani su Romeo, non avrei risposto delle mie azioni. Le avrei spaccato i denti con uno dei suoi trampoli di Chanel!
«No, non fraintendermi Anna!» Si giustificò Romeo, grattandosi la nuca a disagio. «È solo che,» s'interruppe, con il viso paonazzo che s'intonava perfettamente al colore dei suoi capelli. «Vabbè, lascia perdere.» Tagliò corto, girando intorno alla sfavillante Porsche e sedendosi al posto del passeggero.
«Ti stai arrampicando sugli specchi, Rosso,» gli fece presente l'arpia, mettendo il moto il suo gioiellino. «Vorrà dire che farò il doppio di shopping per farti portare il doppio delle borse.»
Il motore della Porsche rombò, poi la macchina si allontanò velocemente dalla nostra palazzina. Finalmente uscimmo dall'androne ed io seguii con lo sguardo il rosso brillante della macchina di Annalisa.
«Bene, genio,» disse Ven, scocciata, facendo ricadere le braccia pesantemente lungo i fianchi. «Come hai intenzione di seguirli? Correndo? A meno che non hai in tasca il tappeto volante, non vedo altra alternativa.»
Rimuginai qualche secondo, mentre il vento d'Aprile mi scompigliava i capelli. Mi ero esaltata per un piano che credevo geniale, mi ero perfino messa gli occhiali da sole come una vera spia, ma la mia idea era stata demolita, era crollata come un castello di carte a causa del soffio di Ven. Dovevo ingegnarmi, oppure potevo dire addio a tutti i miei propositi di scoprire perché Robbeo si faceva schiavizzare così. Aguzzai la vista e scorsi subito una macchina bianca con una scritta sullo sportello e la speranza di riuscire a togliere dai guai Robbeo tornò ad ardere dentro di me.
«Seguimi!» Dissi rivolta a Ven, e cominciai a correre in direzione del taxi che avevo adocchiato poco prima.
Non ero mai stata una sportiva e quella era forse la prima volta che correvo seriamente. Anche durante le lezioni di educazione fisica facevo di tutto pur di camminare e non sforzarmi troppo. Ma per Robbeo avrei fatto quel sacrificio! Avrei anche guardato una partita di calcio dal primo minuto fino al novantesimo per lui. Era l'unica persona, insieme a Ven, che c'era sempre stato per me, che mi era sempre rimasto accanto, che mi aveva voluto davvero bene incondizionatamente. Anche se non glielo avevo mai detto, lui era una delle persone più importanti della mia vita, che rendeva la mia esistenza meno grigia e monotona, che aveva sempre cercato di strapparmi una risata quando ero triste, facendomi dimenticare per qualche attimo quanto fosse stata insulsa ed insignificante, oltre che deludente, la mia vita. Per cui dovevo necessariamente capire che cosa lo affliggeva, aiutarlo come lui aveva sempre fatto con me.
«Ehi!» Sbraitai, sventolando le mani, mettendomi a rincorrere il taxi. «Ehi!» Continuai, sperando che l'autista si accorgesse di una biondina pazza che correva a perdifiato per raggiungerlo. «Si fermi!» Urlai di nuovo.  
La macchina bianca si fermò e un sorriso spontaneo nacque sulle mie labbra. Lo raggiunsi insieme a Ven e ci intrufolammo dentro, sedendoci sui sedili posteriori sui quali era già accomodata una donna di mezza età.
«Questo taxi è occupato, non vede?» Mi fece presente il tassista, con cipiglio contrariato.
«Pensavo che si fosse fermato per farmi salire.» Mi giustificai, abbozzando un sorriso.
«Mi sono fermato perché c'è il semaforo rosso,» mi rimbeccò l'autista sgarbato, con un cappellino calato sui capelli brizzolati.
«La prego! È una questione di vita o di morte.» Enfatizzai, rimbalzando con lo sguardo spiazzato dalla signora di mezza età, con una ricrescita grigia imbarazzante, a quello curioso dell'autista.
«Accontenti la ragazza,» disse scocciata la donna, addossandosi allo sportello e stringendo la borsa, quasi io e Ven fossimo due ladre.
«Dove dovete andare?» Si arrese il tassista, guardandomi attraverso lo specchio retrovisore.
«Vede per caso una Porsche rossa?» Domandai, speranzosa che la macchina di Annalisa non si fosse allontanata troppo in quei minuti di elaborazione della tattica e che fosse imbottigliata in quell'ingorgo di macchina irritate. Strisciai con il sedere in avanti, arrivando al limite del sedile, come se quel gesto riuscisse a stemperare la tensione che stavo accumulando secondo dopo secondo senza placare la mia sete di curiosità.
L'autista abbassò il finestrino e si sporse fuori con la testa, esaminando più accuratamente le macchine davanti a lui.
«Sì, la vedo.» Disse con sufficienza.
Sorrisi sorniona, tornando a sedermi comodamente e accasciandomi sullo schienale.
«Segua quella macchina.» Dissi, imperativa, pregustandomi già quell'inseguimento da film d'azione.
Il tassista e la donna di mezza età mi guardarono all'unisono, con le sopracciglia aggrottate per il dubbio. Poi l'uomo fece spallucce e ripartì, non appena il semaforo divenne verde.
«Gran bella idea,» disse ironica Ven, bisbigliandomi queste parole in un orecchio. «Rubare il taxi ad un'altra persona.»
«Avevi una soluzione migliore?» Sibilai, togliendomi i Ray-Ban per poter sfoderare il mio sguardo inceneritore. «Volevi per caso metterti alla guida della panda di Robbeo, così facevamo fuori tutti gli abitanti di Roma?»
«Potevamo rimanercene tranquillamente a casa,» mi rimbeccò la mia migliore amica. «Non mi sembra che ci sia nulla di male tra quei due.»
«Alla festa, Annalisa lo ha preso a schiaffoni...» cominciai a dire, ma Ven mi interruppe, borbottando un Chi non lo avrebbe fatto? Socchiusi gli occhi, intensificando il mio sguardo corrucciato, poi continuai la mia spiegazione, dopo aver preso un respiro profondo. «E ti avevo già accennato al fatto che lo usa come schiavo. L'ho proprio sentita mentre lo definiva così!»
Ven sbuffò, lasciandosi andare sullo schienale del sedile, chiudendo gli occhi.
«Spero che questo pomeriggio in stile Hitchcook serva a qualcosa,» borbottò.
In realtà lo speravo anche io. Non sopportavo di vedere Romeo in quello stato e ancora meno sopportavo il fatto che Annalisa, un'estranea qualunque, piombasse nella sua vita solo per rovinargliela. Chissà che diavolo aveva combinato quel babbeo per cacciarsi in una situazione del genere. Avevo come l'impressione che ruotava tutto intorno a Ruben. In fondo tutti gli avvenimenti avevano cominciato a susseguirsi subito dopo la sua entrata in scena. Solo che non riuscivo a trovare la connessione, il nesso che c'era tra tutto quello che ci stava accadendo in quel periodo.
Il taxi svoltò, immettendosi in una strada meno trafficata e finalmente riuscii ad intravedere anche io la Porsche di Annalisa. Si stavano dirigendo verso via Condotti, il viale della moda, stranamente. Inforcai di nuovo gli occhiali da sole, intuendo che fossimo quasi giunti a destinazione e tirai su la zip del giubbotto fino alla fine, coprendomi così anche la bocca e parte del naso, per camuffarmi nel migliore dei modi. Estrassi dalla tasca del giubbotto una banconota da venti euro e una da dieci, allungandole al tassista per pagare la corsa e scesi dalla macchina insieme a Ven, ringraziando la signora di mezza età   e l'autista prima di scendere dalla macchina, senza aspettare oltre.
Rimanemmo ferme sul marciapiede, vicine alla Porsche di Annalisa dal quale quei due erano già usciti. Mi guardai intorno, adocchiando subito due chiome rosse che  camminavano fianco a fianco lungo via Condotti.
«Comincia il pedinamento.» Dissi, elettrizzata, affondando le mani nelle tasche del giubbotto, mentre Ven scuoteva la testa sconsolata.
Allungai il passo, fermandomi proprio dietro quei due, con Ven che mi seguiva rassegnata nella mia follia. Ero curiosa di sapere che cosa si stessero dicendo e carpire più indizi possibili per risolvere quel mistero.
«Capisco che tu sia piena di quattrini e che ti escano da ogni orifizio corporeo,» cominciò Robbeo scocciato, con le mani nelle tasche dei jeans. «Ma perché ogni santissimo giorno devi fare shopping? Non puoi trovarti un hobby? Che ne so: andare in palestra, l'uncinetto, pettinare bambole...»
«Tesoro, lo shopping è un hobby!» Cinguettò Annalisa. «Anzi è uno stile di vita. Amo avere sempre cose nuove. Non posso mica presentarmi sempre con gli stessi abiti, accessori, scarpe. Sembrerei una pezzente come te.» Guardò il mio migliore amico, dall'alto dei suoi trampoli fino alla punta sporca delle All Star di Romeo, con una faccia disgustata. Se non fossi stata in incognito, le sarei saltata addosso per strangolarla.
«Guarda che la gente non si sofferma sui tuoi vestiti, fidati.» Rispose Robbeo, per nulla offeso dalle affermazioni della sua accompagnatrice, quasi fosse abituato a farsi calpestare così.
«Forse nel tuo mondo plebeo non accade. Ma nell'alta società ogni minimo difetto può essere usato per sparlarti alle spalle, deriderti e prendersi gioco di te,» gli confidò Annalisa, sicura di sé. «Bisogna sempre essere perfetti. E io lo sono.»
«Anche nel mondo plebeo accadono queste cose, purtroppo,» rispose Robbeo, accennando un sorriso. «Solo che nei nostri bassifondi te lo dicono in faccia. Non so se sia meglio o peggio rispetto alle prese per il culo alle spalle.»
Di sicuro, si stava riferendo alla sua travagliata vita scolastica, durante la quale tutti lo avevano sempre deriso per la sua goffaggine, per i capelli rossi e le lentiggini sparpagliate ovunque sul suo corpo. Entrarono in un negozio e non feci nemmeno caso all'insegna. Li seguii, insieme a Ven, dentro quell'enorme locale sfarzoso stracolmo di vestiti di ogni sorta, dall'elegante al casual. Era raro che io mettessi piede in un negozio così, anzi era forse la prima volta che entravo in una bottega elegante come quella. Era talmente lussuoso che sembrava che bisognasse pagare anche solo per aver visto un vestito.
Continuammo a tenere d'occhio quei due, nascondendoci dietro agli abiti o voltandoci, fingendo di interessarci a qualche vestito ogni qualvolta Robbeo o Annalisa si voltavano.
«Stai parlando di te, vero?» Domandò retoricamente la rossa, scrutando con i suoi occhi verdi qualsiasi capo d'abbigliamento attirasse il suo sguardo. «Non mi stupisce che tutti ti abbiano sempre preso in giro. Dio, guardati! Hai i capelli rossi!»
«Non so se te ne sei resa conto, ma anche tu hai i capelli rossi.»
Annalisa lo guardò con il suo solito sguardo di superiorità, arricciando le labbra.
«Ma il mio è un rosso intenso, passionale, travolgente.» Disse passandosi una mano tra i capelli ed avvicinandosi un passo dopo l'altro a Robbeo, fermandosi a pochi centimetri dal viso del mio amico. Lui deglutì a fatica, cercando di distogliere lo sguardo dagli occhi felini di Anna. «Il tuo è spento, moscio esattamente come te.» Aggiunse, sorridendo beffarda ed inoltrandosi tra i vari scompartimenti del negozio.
Afferrai Ven per un braccio, seguendo Annalisa e Robbeo che camminavano spediti tra gli scaffali. Per ora, nulla di quello che stava succedendo era utile per la mia indagine, anzi sembravano quasi andare d'accordo,  nonostante Anna fosse simpatica quanto una torta di mele avariata portatrice di dissenteria.
«Dai, su, Cel!» Mi rimbeccò la mia amica, stufa di starmi dietro. «Basta! Hai visto anche te che è tutto tranquillo tra quei due.»
«No, Ven! Io devo sapere, a costo di seguirlo ogni giorno finché non trovo una spiegazione plausibile a tutto quello che sta accadendo.»
«Ma non pensare che io ti seguirò!» Disse con disappunto, puntandomi addosso un indice. «Questa è la prima e l'ultima volta che faccio una cosa del genere. Anche perché sono venuta a Roma per stare con te, non per seguire quel babbeo.» Bofonchiò, e io scrollai le spalle. Tanto non sarebbero serviti altri inseguimenti, perché ero più che decisa a risolvere il mistero durante quel pomeriggio.
Annalisa acciuffò un numero imprecisato di vestiti e si diresse velocemente verso i camerini, seguita da un Robbeo scocciato ed annoiato ai quali ammollò alcuni indumenti di troppo che non avrebbe mai saputo dove appoggiare nell'angusto camerino. Io e Ven ci appostammo poco prima che un piccolo corridoio si aprisse nelle sei cabine. Poco dopo Annalisa scostò la pesante tenda che la nascondeva da occhi indiscreti, presentandosi con un succinto abito nero che metteva in mostra sia il lato A che quello B.
«Come mi sta?» Domandò, volteggiando su se stessa e rimanendo a rimirarsi nell'enorme specchio del camerino.
«Boh,» Robbeo fece spallucce. «Per un festino ad Arcore sarebbe perfetto.» Commentò, sghignazzando, beccandosi un'occhiataccia da Annalisa. La rossa, indispettita, rientrò nella cabina, nascondendosi ancora una volta dietro la tenda color porpora.
«Uff,» sbuffai, spazientita. «Non accade nulla di eclatante!» Mi lamentai, sistemandomi i capelli dietro le orecchie.
«Te l'avevo detto che era inutile,» borbottò Ven, e in quel momento Robbeo si voltò verso di noi. Per un attimo i suoi occhi incontrarono i miei nascosti dietro le lenti nere degli occhiali da sole. Sbiancai di colpo e mi voltai rapidamente, facendo finta di essere interessata ad un orribile vestito che sembrava la tunica di una suora. Ven si allontanò da me, velocemente, in modo da non destare sospetti.
«Celeste sei tu?» Domandò il mio amico, avvicinandosi sospettoso a me.
Una goccia di sudore freddo mi colò dalla fronte e vidi il mio fantastico piano frantumarsi, lo vidi collassare così come l'amicizia tra me e Romeo. Se avesse scoperto che lo stavo seguendo per impicciarmi nella sua vita privata si sarebbe di certo arrabbiato con me. Come biasimarlo, dopotutto. A tutti avrebbe dato fastidio la curiosità patologica di una persona, che addirittura arrivava a seguire qualcuno. Io lo facevo per lui, per cercare di aiutarlo, ma questo non sarebbe stato sufficiente come giustificazione.
Finsi di non averlo sentito, continuando ad interessarmi ai vari vestiti esposti, stando attenta a dare sempre le spalle al mio amico. Quando solo un passo ci divideva, Annalisa uscì nuovamente dal camerino, salvando la situazione. Quella sarebbe stata l'unica volta che, invece di volerla prendere a sberle, le avrei schioccato un'infinità di baci.
«Romeo!» Lo richiamò la rossa, stizzita. «Non ti devi allontanare da qui! Devi essere presente ogni volta che esco dal camerino, per darmi una tua impressione.» Continuò, mettendo le mani sui fianchi lasciati scoperti dal costume da bagno bianco che indossava. Aveva solo due pezzi piccoli pezzi di stoffa che le coprivano il seno, tenute insieme da un anello dorato, che si univa ad una mutandina striminzita.
«Tanto non mi ascolti mai, fai sempre di testa tua,» borbottò Romeo, tornando ai camerini. Lo seguii, cautamente, nascondendomi dietro la parete. Mi sarei aspettata di vedere il mio migliore amico stramazzare al suolo esanime con un rivolo di sangue che gli usciva dal naso davanti al fisico mozzafiato di Annalisa strizzato in quel costumino bianco che non lasciava nulla all'immaginazione. Invece rimase impassibile, guardandola un paio di volte e piegando gli angoli della bocca.
«Carina,» disse semplicemente.
Annalisa contrasse la mascella, indispettita per l'indifferenza di Romeo. Anche io rimasi stupita. Solitamente, quando vedeva una bella ragazza mezza nuda, con la Iolanda al vento e le tette quasi completamente visibili, perdeva quel briciolo di raziocinio che aveva, trasformandosi in un lupo in calore, arrapato e pronto all'accoppiamento. Ed invece, nemmeno una piega, nemmeno un accenno di bava.
«Carina?» Ripeté stizzita la ragazza, guardando il mio amico come se lo volesse uccidere «Solo carina? Tu mi vedi con questo magnifico costume da bagno e l'unico commento che fai è carina?»
«Cosa ti aspettavi? Che mi eccitassi e che mi inginocchiassi davanti a te per supplicarti di concedermi una notte di passione?» Ribatté Romeo, scrollando le spalle. «Se vuoi fingo, non mi costa nulla.»
«Vedi di cambiare atteggiamento, Rosso,» sibilò Annalisa, avvicinandosi a lui minacciosamente. «O la mia bocca non rimarrà più sigillata. E allora saranno cavoli tuoi e del tuo amichetto.»
E, dette quelle parole rabbiose e minacciose al tempo stesso, afferrò i vestiti che teneva ancora in mano Robbeo ed entrò di nuovo nel camerino. Se prima ero confusa, dopo quello che aveva detto Anna lo ero ancora di più. A cosa si riferiva? O meglio a chi si riferiva con le sue parole? Quella ragazza custodiva un segreto, lo stesso forse che Romeo cercava di difendere preferendo addirittura il silenzio. Una strana morsa mi strinse la bocca dello stomaco, come se quell'affermazione riguardasse me indirettamente.
La mano di Ven si appoggiò sulla mia spalla, scacciando via quei pensieri. Mi voltai, trovandomi di fronte ad un vestititino color panna con nastro di raso nero attorno alla vita.
«Non è favoloso?» Disse, estasiata. «Sarebbe perfetto per te. Immagina la faccia di Ruben se te lo vedesse addosso.»
«A lui non importa quello che indosso. Tanto vorrebbe togliermi di dosso qualsiasi cosa, che sia uno straccio o un abito di Valentino,» bofonchiai, ridacchiando subito dopo.
«Ma questo capita con tutti gli uomini,» ribatté la mia amica. «Ma questo abito è stupendo! Dovresti comprarlo.»
«E quanto costerebbe?» Domandai sospirando, quasi convinta di poterlo comprare.
Ven cercò la targhetta con il prezzo e non appena la trovò la lesse attentamente, sbiancando poco dopo.
«Quanto?»
«Lasciamo perdere. Non potresti permettertelo nemmeno se vendessi la macchina di Robbeo.»
Socchiusi gli occhi e le sottrai il vestito dalle mani, rivoltandolo per trovare la targhetta. Mi venne un infarto appena lessi il numero a tre cifre scritto a caratteri cubitali su quel cartellino bianco. Cominciava con un 2, per finire in un dolcissimo 35. 235 euro per un vestito che mia nonna avrebbe fatto con pezzi di stoffa scartati da qualche altro abito.
«Ma sono dei ladri!» Borbottai, avendo voglia di accartocciarlo e lanciarlo a terra, per poi calpestarlo.
Ma fu più utile come nascondiglio per me e Ven. infatti ci coprimmo il volto con la stoffa leggera e chiara dell'abito quando Robbeo e Annalisa uscirono dal piccolo corridoio: il mio amico con le braccia piene di vestiti ed Annalisa sculettando, con un'espressione imbronciata. Fortunatamente non avevano fatto caso a noi, forse per l'ottimo nascondiglio o forse perché erano troppo arrabbiati per poter prestare attenzione a ciò che li circondava.
Si diressero verso le casse, per cui dedussi che un'altra carta di credito del signor Cavalli sarebbe andata a farsi benedire in nemmeno due ore. Avrebbe speso più di quanto quel tirchio di Ugo mi dava per lavorare nella sua squallida gelateria. Quella ragazza era così diversa da me, da noi, da Romeo e Ven che mi sembrava strano che fosse entrata a far parte, in un modo o nell'altro, nel piccolo e incasinato mondo di Robbeo. Annalisa era l'opposto del mio amico: frivola, spendacciona, superficiale, che viveva la sua vita solo in funzione del pensiero altrui. Romeo, invece, condivideva un piccolo appartamento con la sua amica di sempre, guidava una macchina che a stento si reggeva in piedi, sbavava dietro qualsiasi ragazza attraente, ma si innamorava di quelle profonde, e anche bruttine. Era un ragazzo che viveva la vita così come gli si proponeva, rimanendo sempre se stesso e senza lasciarsi condizionare da ciò che gli altri pensavano. Era fiero di ciò che era e non aveva bisogno di nascondersi dietro vestiti firmati e oggetti costosi solo per guadagnarsi falsi sorrisi. Quello che contava per lui erano i sentimenti veri, le emozioni forti, l'amicizia e l'amore che non si fondavano solo sul conto corrente.
Li raggiungemmo alla cassa, dopo aver lanciato il vestito chissà dove e attendemmo vicino ad una colonna ornata di accessori che costavano più di un mio libro universitario.
«Ma ciao, tesori!» Miagolò il commesso, con i capelli neri tirati indietro da quintali di gel e ciglia lunghe quanto quelle di Betty Boop.
«Ciao Andrè,» lo salutò Annalisa, con sufficienza. Poi rivolse uno sguardo imperativo a Robbeo, indicandogli con il mento la cassa dove appoggiare i vestiti.
«Così poche spese, tesoro?» Domandò il commesso.
«Poche...» Borbottò sommessamente il mio amico, facendo ciò che gli aveva ordinato quella serpe dai capelli rossi.
«Sì, Andrè,» rispose Annalisa, dopo aver trucidato con lo sguardo Robbeo. «Non ero proprio in vena. Una certa testolina rossa mi ha fatta arrabbiare.»
Il ragazzo cominciò a far passare le targhette dei vestiti sui raggi infrarossi, mettendoli poi in una busta enorme con il logo del negozio. Scoccò un'occhiata maliziosa ai due clienti davanti a lui, sogghignando sotto il pizzetto curato che gli incorniciava le labbra carnose.
«Queste schermaglie tra fidanzati!» Sospirò, scuotendo la testa e ridendo divertito.
«Veramente io...» Tentò di dire Robbeo, timidamente e rosso come un peperoncino. Ma Annalisa lo zittì, mettendogli una mano davanti alla bocca e cominciò a ridere anche lei.
«Già!» Convenne con Andrè. «L'amore non è bello se non è litigarello.» Se ne uscì, con la voce incrinata dall'imbarazzo.
Annalisa... imbarazzata? Che cosa stava succedendo? Per caso mi ero addormentata di colpo e stavo sognando oppure ero stata catapultata in un mondo parallelo, abitato da esseri completamente uguali a noi, ma con caratteristiche opposte.
Chi ha scritto L'infinito?
Leopardi, ovvio.
E se ti dicessi che Ruben, in questo momento, sta facendo il provolone con una russa stangona con il cervello grosso quanto un'arachide?
Prima spezzo le gambe alla russa, poi  un bel calcio negli zebedei di quel bastardo e, come festeggiamento, mi mangio l'arachide.
No, okay. Io ero sempre la stessa Celeste di sempre, per cui non c'era stato nessun varco spazio-tempo alla Stargate che mi avesse sbalzata in un altro mondo. Allora, molto probabilmente, anche Annalisa era un essere umano, che aveva le stesse insicurezze, che provasse imbarazzo come una qualsiasi altra ragazza della sua età. Magari sotto tutto quel silicone di quel seno rifatto batteva anche un cuore, ma di quello non ne ero ancora del tutto sicura.
Andrè strisciò la carta di credito di Annalisa e consegnò le enormi buste nere nelle mani di Robbeo, che mio parve tanto un mulo da soma con tutti quei sacchetti giganti ed ingombranti che non gli permettevano nemmeno di deambulare.
«Ciao, tesoro.» Disse il commesso, sporgendosi per poter baciare sulle guance la sua cliente preferita. «E tu cerca di non far arrabbiare la mia cucciolotta!» Si rivolse a Robbeo, con tono serio e un dito abbronzato da chissà quante lampade puntato contro il rosso. Il mio amico annuì debolmente, prima di congedarsi fuori dal negozio.
Li imitammo, per proseguire quell'inseguimento che non stava portando a nulla di buono, a parte il fatto che entrambi custodissero chissà quale segreto inconoscibile dalla gente comune come me.
«Perché non gli hai detto che non sono il tuo fidanzato?» Domandò perplesso Robbeo, incespicando nelle buste. «Pensavo che tu non avresti nemmeno fatto finta di essere fidanzata con uno sgorbio come me.»
Per un attimo si sentirono solo i tacchi di Annalisa ticchettare sull'asfalto, con in sottofondo i rumori della città. Era in difficoltà e non sapeva cosa rispondere. In effetti era lo stesso dubbio che era venuto a me. Perché mai Annalisa non aveva smentito, inorridita, l'affermazione di Andrè?
«Beh, perché…» cominciò, ma si fermò per deglutire. «Perché sennò ci avrebbe provato con me. E non sarebbe stata la prima volta!»
«Ma se quello preferisce i Walter alla Iolanda!» Ribatté Romeo, dimenandosi per non far cadere a terra una busta in equilibrio precario, riuscendo nel suo intento.
«Sembra! Ma è più etero di Rocco Siffredi!» Rispose Annalisa, accelerando il passo per allontanarsi dal mio amico senza motivo.
Nella troppa fretta ed irruenza, però, un un tacco si ruppe facendola ruzzolare a terra come un sacco di patate. Credevo che Robbeo si sarebbe gettato a terra, rotolandosi dalle risate per la caduta di Annlisa. Invece fece cadere le buste, correndo verso di lei ed accovacciandosi accanto alla ragazza.
«Stai bene?» Le domandò, allarmato, esaminandola attentamente in cerca forte di qualche ferita.
«No che non sto bene!» Piagnucolò lei, piegando le gambe di lato come una sirena e togliendosi la scarpa rotta. «Le mie meravigliose scarpe di Gucci! Erano le mie preferite!» Si lagnò, scoppiando quasi a piangere.
«Ma sì! Sono solo un paio di scarpe, ne avrai a centinaia a casa.»
«211, per l'esattezza,» puntualizzò Annalisa con tono serio, per poi scoppiare di nuovo in un finto pianto disperato.
«L'importante è che tu non ti sia fatta male,» continuò Romeo, con un sorriso.
«Avrei preferito cento volte spaccarmi una caviglia piuttosto che rinunciare ad un paio di scarpe,» si disperò.
«Come sei materialista.» Borbottò Romeo, allungandole una mano e lei la accettò per rialzarsi da terra. Si tenne in equilibrio su un piede, ripulendosi i vestiti.
«Invece di giudicarmi, riprendi le buste e portami a cavalluccio fino alla macchina,» disse allargando le braccia, attendendo che il mio amico la prendesse in spalle. Robbeo la guardò esterrefatto, con gli occhi spalancati per quella richiesta assurda.
«Stai scherzando?»
«No, ovviamente!» Rispose perentoria, con un sorriso incredulo. «Sei il mio schiavetto, quante volte te lo devo ripetere?»
«Questo è veramente troppo!» Sbottò Romeo, e non potei essere più fiera di lui come in quel momento. Allora anche lui aveva un po' di palle, nonostante le tenesse nascoste. «Ho accettato di accompagnarti durante le tue spese folli, di farmi caricare come un asino con le tue stupide borse da shopping. Ma portarti in spalla è troppo. Ho una dignità anche io!»
Annalisa scoppiò a ridere e mi ricordò tanto, in quel momento, Crudelia Demon che aveva appena rapito i cuccioli di dalmata per farsi la sua pelliccia pregiata.
«Ma quale dignità?» Disse seria, trapassando il mio amico con i suoi freddi occhi verdi «Non l'hai mai avuta. La tua amichetta bionda l'ha calpestata molto prima che arrivassi io, distruggendola, mio caro.»
Si stava riferendo a me, quella sanguisuga! Se non ci fosse stata Van a trattenermi, stringendomi da dietro le sarei saltata addosso e poco mi sarebbe importato di finire in galera per omicidio. Non mi ero mai permessa di umiliare il mio amico, di trattarlo come se fosse uno zerbino, di calpestarlo come stava facendo lei.
«Non ti permettere, Anna.» Ringhiò Romeo e per una volta lo vidi davvero arrabbiato.
«Lei ti tratta come uno stupido, se non te ne sei mai reso conto. Crede di essere superiore a te e a tutti gli altri solo perché ha la media del trenta,» ribatté a tono la rossa. «Ma a lei è permesso tutto, anche chiamarti babbeo, vero? Perché ne sei innamorato!»
Il mondo mi crollò sotto i piedi in quell'istante, proprio quando Ven si era voltata verso di me e mi guardava incredula con i suoi enormi occhi blu, quando Robbeo abbassò il viso per nascondere il rossore che affiorò sulle sue guance. In tutti quegli anni non mi ero mai accorta di nulla e forse lo avevo anche illuso con qualche mio comportamento. E chissà come era stata dura per lui condividere lo stesso appartamento con la ragazza che amava, che lo aveva considerato sempre e solo un amico e mai qualcosa di più, che si era fidanzata con un suo amico. Ogni volta che nominavo Ruben, che gli stringevo la mano o lo baciavo in presenza di Romeo, doveva essere come una stilettata al cuore, come mille aghi che gli si conficcavano in ogni parte del corpo.
«Sì, okay. Ho sempre provato qualcosa per Celeste che andava ben oltre l'amicizia,» ammise il mio amico, e mi sentii terribilmente in colpa nell'udire quello che aveva detto. «Ma, ecco, insomma...» Esitò, grattandosi la nuca in evidente imbarazzo. «Forse non è l'unica ragazza che mi piace!»
E inevitabilmente mi voltai verso Ven che, incredula, ricambiò la mia occhiata. 


Ed eccoci alla fin fine di questo dodicesimo capitolo. O.O Siamo già al dodicesimo! Porca paletta quanto vola il tempo! :3
Vabbé, bando alle ciance. I PoV questa volta sono separati, ciò vuol dire che né Leo né Celeste hanno interagito in questo chappy, ma ciò non vuol dire che non ci sono stati numerosi colpi di scena. Allora, Leuccio ha finalmente ricominciato ad allenarsi in vista della nuova partita all'orizzonte e cerca in tutti i modi di tenere il lavoro e la vita privata separati, fallendo miseramente ^^'
L'Ego non lo aiuta di certo, poveretto, e poi ci manca il bellissimo J. dagli occhi di ghiaccio a rendergli la vita ancor più complicata! E inZomma sapeva alla perfezione l'identità di Leo ma ha fatto finta di reggergli il gioco, solamente per ricattarlo. U_U Povero Leo, dalla padella (Annalisa) alla brace (JeanP.), mesà che fa prima a dire tutta la verità... xD Gli conviene!
Ve le aspettavate Cel e Ven nei panni di due scaltre investigatrici? Ma soprattutto vi aspettavate tutti questi segreti da parte di Robbeo?
Il nostro amico Roscio si è cacciato nei guai, per così dire, solo per non tradire il segreto di Leonardo. È diventato il servetto ufficiale di Annalisa, quella serpe che lo tiene sotto scacco. È lei ad avere il coltello dalla parte del manico (:3) e Robbeo non può far altro che seguirla ovunque lei vada. A Celeste questo non va giù,ma non sa che il suo migliore amico sta facendo tutto questo per lei. È da molto tempo che non la vede così felice insieme ad un ragazzo, per cui si fa calpestare dalla rossa solo per salvaguardare (momentaneamente) la felicità della sua amica. Che poi tanto amica non è per lui, visto che ne è innamorato. Scioccate? io lo sarei molto di più per quello che ha detto dopo, ossia che Celeste non è l'unica ragazza che gli interessa... e qui taccio, mi cucio la bocca e vi mando tanti cuoricini ♥♥♥ per il vostro affetto.
A questo punto è d'obbligo dare il via alle ipotesi più svariate, perciò la parola a voi, ADEPTE! Un ultimo regalino Chaceoso! Ma quanto è bono lui?! (anche se è un po' cattivello!)


Ringraziamo di cuore le 12 persone che hanno recensito lo scorso capitolo e tutti quelli che hanno inserito la storia tra le preferite/seguite, ma anche TY ai lettori silenziosi! >.<
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Ricordate il gruppo Crudelie si nasce, dove potrete trovare spoiler, foto e tanto altro!



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Capitolo 13
*** Tutto in un attimo ***



CAPITOLO 13



Bagnoschiuma ai frutti di bosco.
Preso. Senza di esso, la doccia potevo anche scordarmela. Era l'unico sapone che usavo per il suo odore delicato e per quella schiuma densa che mi lambiva il corpo. E, detto sinceramente, non volevo passare quattro giorni senza lavarmi e puzzare quanto i calzini di Robbeo.
Piastra per capelli.
C'è. Dove volevo andare senza quell'aggeggio che mi aveva salvato la faccia più di una volta? Non potevo minimamente immaginarmi senza piastra, anche perché in una sola occasione ero andata in giro con i capelli au natural e mi era bastato. Sembrava che avessi indossato una parrucca di paglia e la gente credette fosse già arrivato Halloween, nonostante le cicale di Giugno cantassero all’ombra degli alberi. Pareva mi fossi travestita da spaventapasseri.
Mi sistemai la coda scompigliata dietro le spalle e appoggiai entrambe le mani sui fianchi osservando la mia camera per un paio di volte. Stavo preparando la valigia per la partenza di Londra e non volevo scordare nulla d’importante a casa, anche perché stavo per andare all'estero ed era la prima volta che mettevo piede fuori dall'Italia. Certo, mancavano ancora tre giorni alla partenza ed era un po' presto per preparare le valigie, ma sapere di dovermi allontanare da casa mia, dal mio piccolo universo, mi preoccupava e mi spaventava.
Preparare i bagagli, allora, era diventato una sorta di esorcismo contro il terrore di lasciare il mio appartamento, le quattro mura in cui mi sentivo sicura e protetta dal resto del mondo. Inoltre, così facendo, non rischiavo di dimenticarmi qualcosa. Prepararle con maggior anticipo, era scientificamente provato dalla sottoscritta, diminuiva il rischio e il pericolo di lasciare a casa oggetti importanti, vestiti e quant'altro, senza le quali un soggiorno in un Paese straniero sarebbe stato una tortura.
A una prima, rapida, occhiata sembrava che non avessi dimenticato nulla, almeno per il momento. Abbassai lo sguardo verso la valigia blu e controllai ciò che avevo messo dentro. Jeans, scarpe da tennis, un paio di chanel eleganti con il tacco, semmai Ruben avesse avuto la geniale – quanto improbabile – intuizione di portarmi fuori a cena; un vestito da abbinarci, qualche maglietta e solo cinque maglioncini. Forse non sarebbero stati sufficienti, vista la fama di Londra come città abbastanza fredda anche ad Aprile e non volevo morire assiderata solo perché non mi ero attrezzata a dovere. Presi dall'armadio altri quattro maglioni più pesanti, nell'eventualità di trovare il gelo polare e i pinguini appostati in ogni angolo della città che mi salutavano con le loro buffe ali e che ridevano di una povera e sprovveduta ragazza italiana con le stalattiti che le pendevano dal naso.
Acchiappai il maglione rosso acceso che mia nonna aveva fatto a maglia apposta per me qualche Capodanno fa e cominciai a piegarlo minuziosamente, in modo da non sgualcirlo o rovinarlo.
Era rosso. Di un rosso acceso. Di un rosso caldo.
Rosso come i capelli di Romeo. Rosso come quelli di Annalisa.
La mia mente si assentò per qualche attimo, andando a ripercorrere la giornata di pedinamento per i vari negozi di via Condotti. Ricordavo qualsiasi attimo di quel pomeriggio, tutto quello che si erano detti il mio migliore amico e quell'arpia con le unghie fresche di manicure. C'erano state rivelazioni inaspettate, certo, come il fatto che Romeo era sempre stato innamorato di me e che ora, invece, provava quegli stessi sentimenti per qualcun’altra. Questo mi sollevava, anche se minimamente, visto come lo avevo trattato in tutti i nostri anni di conoscenza. Solo come amico e, per giunta, era sempre stata la vittima delle mie prese in giro, delle mie frustrazioni, del mio nervosismo che si abbatteva sempre su di lui, calpestando quel suo cuore senza nessun riguardo.
Questo, però, era solo il problema marginale di tutta la faccenda. Inizialmente non credevo di aver carpito abbastanza da quel pomeriggio da Sherlock Holmes, ero certa che fosse stata solo una perdita di tempo, uno spreco inutile di ore che avrei potuto passare a studiare per l'università. Ed invece non era stato così, il mio cervello aveva immagazzinato informazioni senza che io me ne rendessi conto. Lo aveva fatto per tutti quei giorni, per quelle settimane in cui Ruben si era avvicinato a noi e tutte le informazioni si erano accumulate in un angolo del mio cervello, si erano accatastate una sopra l'altra disordinatamente come fogli di carta, rendendo la mia mente una sorta di archivio sgangherato in cui nessuno aveva messo piede da giorni interi. Stava a me analizzare foglio per foglio, sarei stata io l'addetta all'archivio, colei che doveva mettere un po' d'ordine nel marasma d’idee e sospetti che infestavano la mia mente.
Fin dal primo giorno in cui avevo visto Ruben, mi era sembrato di avere l'impressione di parlare con un attore, con qualcuno che fingesse di essere ciò che non era. Ovviamente non avevo dato granché peso a tutta la questione, dal momento che lo avevo inquadrato come un troglodita intellettivamente non alla mia altezza. Poi lui, senza che me ne rendessi conto e con il tacito aiuto del destino, era entrato a far parte della mia vita e tutti i miei sospetti e i miei dubbi su quel misterioso comportamento erano stati sepolti nella mia mente, chiusi a chiave in un angolo remoto del mio cervello. Ruben parlava, diceva di essere un fioraio, diceva di essere un grande amico di Romeo, diceva di essere tra i conoscenti del famoso Leonardo Sogno ed io non avevo mai fatto una piega di fronte a queste affermazioni, quasi non avessi mai prestato veramente ascolto a ciò che mi diceva. Erano tutte idiozie cui io avevo creduto, alle quali non avevo dato l'importanza che si meritavano. E aveva trascinato con sé, dentro quel mare di menzogne, non solo il suo amico-talpa e Annalisa, ma addirittura Romeo. Lo aveva usato come tramite per arrivare a me e il mio migliore amico non aveva opposto resistenza, si era lasciato trasportare inerme da Ruben o come cavolo si chiamava lui e non ne sapevo il motivo. Ero stata talmente cieca, talmente stupida da non rendermi conto che il mio ragazzo e il mio migliore amico erano complici nel mantenere chissà quale strano segreto e me ne rendevo conto solo ora, mentre preparavo le valigie per partire con un ragazzo di cui sapevo solo il nome, o nemmeno quello. Non conoscevo il suo cognome, non sapevo dove abitasse, quali fossero le sue passioni e questo perché lui non si era mai aperto nei miei confronti. Parlava, parlava sempre, ma mai una volta mi aveva detto qualcosa di sé, quasi stesse recitando la parte di un personaggio di cui conosceva soltanto il nome.
Perché avevo aperto l'archivio solo in quel momento? Perché non mi ero mai resa veramente conto che Ruben mi nascondeva qualcosa? Qualcosa che dovevo necessariamente scoprire il prima possibile. Ormai non potevo più far finta di nulla. Avevo aperto la porta dei miei ricordi ed ero stata sommersa da una valanga di fogli che non potevo più richiudere dentro quella parte remota del mio cervello, non potevo ignorarli ancora una volta e rischiare di farmi più male del dovuto, rischiare di ferirmi non appena la verità fosse venuta a galla da sola, senza che io facessi niente per farla uscire allo scoperto. Mi ero lasciata trasportare troppo da lui, da quel sentimento che stava crescendo in me e che nutrivo per i suoi occhi e per quel suo sorriso disarmante. Non avevo dato ascolto al mio subconscio che aveva cercato di farmi rendere conto di qualcosa, più di una volta. Lo avevo messo a tacere, avevo lasciato che la parte razionale di me si assopisse, lasciando il posto all'impulsività.
Gran bell'errore. Hai provato sulla tua pelle parecchie volte cosa vuol dire mettermi a tacere.
Tutte le volte che avevo voltato le spalle al mio subconscio, ero stata distrutta dai miei stessi sentimenti, dalle persone di cui credevo potermi fidare, ma che in realtà si erano sempre dimostrate pessime, orribili bestie senza cuore che avevano giocato con i miei sentimenti. Per quel motivo ero diventata cinica, una pazza furiosa acida quanto uno yogurt tenuto in frigorifero per cinquant’anni, per non far avvicinare nessuno a me e rischiare di soffrire ancora, per essere calpestata nuovamente. E aveva funzionato per un certo periodo. I ragazzi scappavano da me, spaventati dal mio pessimo e insopportabile carattere. L'unico che era riuscito a scavalcare le barriere da me imposte, che non si era lasciato intimidire dalla mia forza d'animo era stato Ruben ed io gli avevo dato fiducia, nonostante ignorassi chi fosse e tanto meno da dove venisse.
Chi è davvero Ruben?
Era la prima volta che mi ponevo quella domanda. O meglio, era la prima volta che ero davvero intenzionata a trovare una risposta a quel mio dubbio. Provavo qualcosa per lui, un sentimento difficilmente spiegabile, che oscillava tra il volergli bene e qualcosa di molto più profondo di una semplice amicizia. Se realmente mi stava nascondendo qualcosa, non potevo correre il pericolo di innamorarmi di lui e rischiare di soffrire ancora una volta. Avrei dovuto essere più accorta nei confronti di Ruben invece di farmi incantare dalle sue parole e dai suoi sorrisi, dietro ai quali chissà quali segreti si celavano.
Lanciai il maglione rosso fatto a maglia sul letto e guardai a lungo la valigia blu aperta e quasi del tutto colma di cianfrusaglie. Come potevo partire serenamente insieme a un ragazzo quasi sconosciuto come Ruben? Come potevo fidarmi di un tipo piombato nella mia vita così di punto in bianco, sommergendomi di baggianate alle quali io avevo creduto come una stupida?
Mi ero fatta scivolare addosso ogni preoccupazione, ma non potevo più fingere che andasse tutto bene, non potevo più fare finta di nulla e nascondermi dietro l'infinita voglia che avevo di sperimentare di nuovo l'amore, di farmi trascinare in una spirale di sentimenti che avevo dimenticato da tempo.
Strizzai gli occhi e mi passai entrambe le mani sul viso, come se così potessi in un qualche modo lavare via ogni mia paura. Presi un grande respiro e uscii dalla mia camera da letto, senza quel solito sorriso ebete che mi accompagnava da qualche giorno a quella parte. Non c'era nessun motivo di essere felici, dal momento che quasi sicuramente il mio ragazzo non era chi aveva detto di essere.
Raggiunsi velocemente il salotto dove trovai Romeo spaparanzato sul divano mentre si guardava la puntata di un qualche telefilm stano che trasmettevano sulla Fox. I suoi occhi assonnati mi seguirono dalla soglia della porta fino al televisore e si spalancarono d'incredulità quando lo spensi con rabbia.
«Ehi! Che cavolo fai?!» esclamò irritato, svegliato di soprassalto dalla mia furia.
«Dobbiamo parlare,» dissi perentoria e il mio tono non ammetteva repliche.
Mi piazzai di fronte a lui con le braccia incrociate e le labbra che tremavano, nell'inutile tentativo di trattenere la delusione e la rabbia.
«Di cosa? Di come rovinare il pomeriggio a Romeo Ciuccio?» ironizzò, ma il mio sguardo lo trafisse, facendogli perdere quel ghigno di divertimento per la sua stessa battuta. Sbuffò sonoramente e si sedette dritto sul divano, invitandomi ad accomodarmi accanto a lui. Declinai l'invito scrollando appena la testa.
«Lo so che la situazione tra me e Annalisa è molto equivoca,» cominciò a parlare, pensando probabilmente che la mia rabbia fosse dovuta alla sua “frequentazione” con la piattola. «È una ragazza un po' frivola, ma non è così male passare del tempo con lei. O almeno, non quando mi carica come un mulo con tutte le sue buste di Bucci e compagnia.»
«Gucci,» lo corressi. «E comunque questa volta il problema non è Annalisa. Non proprio, insomma.»
«Oh,» disse solamente in un soffio e spostò lo sguardo su ogni oggetto presente in salotto. «E... e quale sarebbe il problema?» Domandò dubbioso, senza degnarmi nemmeno di un'occhiata. «Se è perché non ho sistemato camera mia, ti prometto che lo faccio appena possibile, prima che ti trasformi in Hulk e mi uccidi con un cazzotto,» sghignazzò.
«Fa poco lo spiritoso!» Lo rimbeccai, sempre più seccata.
«E tu fai poco l'enigmatica. Lo sai che non brillo per acume,» il suo tono di voce divenne improvvisamente serio e incalzante. «Se vuoi dirmelo, bene, sennò lasciami guardare la fine della puntata.»
Spostai il peso da un piede all'altro, mentre mi mordicchiavo l'interno della guancia con insistenza. Ero agitata e avevo paura. Era da molto tempo che non sentivo quella strana morsa al cuore che lo avevo intrappolato e che lo stava accartocciando piano piano, come se fosse un inutile pezzo di carta straccia. Molto probabilmente perché fino ad allora non avevo mai permesso a nessuno di avvicinarsi così tanto al mio cuore da poterlo addirittura sfiorare. Ruben era l'unico cui avevo dato quell’opportunità, dopo tanti anni passati nel gelido inverno delle mie emozioni, assopite sotto uno strato di ghiaccio. E forse avevo paura di scoprire la verità, di privarmi di quel calore che ora, a poco a poco, mi stava sciogliendo. Se mi fossi fermata in quel momento, mentendo a Robbeo, non sarebbe accaduto nulla e io e Ruben saremmo rimasti insieme. Fine della storia.
Non potevo, però, vivere nella menzogna e nella falsità, fingere di essere un’allocca che credeva ancora alle sue scuse strampalate e alle sue strambe amicizie. Dovevo affrontare le mie paure, a testa alta, mostrarmi forte davanti alle avversità, anche se Ruben sarebbe stato l'ennesima delusione, l'ennesima ferita che il mio corpo avrebbe dovuto subire in silenzio.
«Riguarda, riguarda…» Tentai di dire più volte il nome di Ruben, ma le lettere rimasero incastrate in gola, appigliate alla mia laringe per non uscire.
«Chi o cosa?» Incalzò Robbeo, allargando le braccia e facendo un mezzo sorriso.
Feci appello a tutto il mio coraggio e respirai a fondo, cercando di togliermi di dosso la spiacevole sensazione di soffocamento che stavo provando.
«Ruben.»
Quel nome bastò per far ammutolire il mio migliore amico. Rimase a fissarmi con gli occhi sgranati e il volto pallido come un lenzuolo, mentre la lancetta dei secondi del grande orologio appeso alla parete di fianco alla porta della cucina scandiva lo scorrere del tempo.  Il volume del ticchettio aumentava a mano a mano che il silenzio si faceva sempre più concreto tra di noi, come se fosse diventato quasi un muro invalicabile frapposto tra me e Romeo, tra me e la verità.
«Co-cosa vuoi sapere?» La sua voce arrivò in un sussurro, susseguita da un rumore gutturale di saliva che faticava a scendergli giù per l'esofago.
«Non saprei,» scrollai le spalle e schioccai la lingua. «Forse la verità?»
«Quale verità?» Sorrise, ma era chiaro che dietro quelle labbra increspate si nascondessero inquietudine e nervosismo.
«Sono stata una cretina. O forse è meglio definirmi imbecille,» cominciai rabbiosa, soprattutto verso me stessa, perché non ero stata in grado di carpire ed elaborare per tempo tutte le stranezze che ruotavano attorno alla figura di Ruben. «Mi sono lasciata abbindolare dalle sue storielle e non so nemmeno io il perché. Fatto sta che, prima, mentre preparavo le valigie, mi son decisa a togliermi le fette di salame dagli occhi e di analizzare la situazione con lucidità.» Feci una lunga pausa per riprendere fiato e per guardare le varie espressioni del volto di Robbeo. Era passato da un iniziale disinteresse per le mie parole, fino a diventare inquieto su quel divano via via che il mio discorso acquisiva consistenza. «Perché, sai, mi sono resa conto che sto per partire con un ragazzo che nemmeno conosco. E che forse nemmeno tu conosci… non è così Romeo?»
«Ma se siamo amici da tempo!» Esclamò, con un sorriso che non aveva nulla di naturale. Gli angoli della bocca tremavano e i suoi occhi cupi contraddicevano l'espressione gaia del suo viso.
«Ah già, è vero! Che sbadata che sono,» ridacchiai, ma la mia pantomima finì due secondi dopo. «Per chi mi ha presa, Romeo? Per un'idiota? Forse ti ho dato modo di pensarlo, dato che fino ad adesso mi sono comportata come tale, ma ho vissuto all'oscuro di chissà cosa per troppo tempo. Avrei dovuto cercare di far luce subito, piuttosto che aspettare che qualcosa si smuovesse in me.»
«Non è, non è niente di che,» cercò di tergiversare e si alzò dal divano, dandomi le spalle e camminando irrequieto per il salotto.
«Se non è niente di che, perché non me lo dici tranquillamente, invece di nascondere questo segreto come se fosse il tesoro più importante?»
«Celeste, davvero, io...» disse, ma si fermò a metà frase, forse perché non sapeva come continuarla. «...io non so come dirtelo.»
«Connettere il cervello alla bocca sarebbe un buon inizio,» dissi sarcastica, ma sull'orlo di una crisi isterica.
Romeo si fermò a pochi centimetri dal tavolino di vetro che c'era di fronte al divano. Rimase immobile per un po', stringendo i pugni, poi si voltò verso di me, con lo sguardo spento e triste.
«Non sta a me dirtelo,» mormorò, socchiudendo gli occhi.
«Avanti Romeo! Sei il mio migliore amico!» Lo spronai. «Se non me le dici tu queste cose, chi altri dovrebbe dirmele?»
Romeo abbozzò un sorriso e scosse lentamente il capo.
«Ruben. Dovrebbe dirtele lui, queste cose, visto che c'è in gioco la serenità di due persone,» rispose con un tono di voce basso. «Ora scusami, ma ho bisogno di stendermi.»
Non mi diede modo di rispondergli, di convincerlo a vuotare il sacco che già era sparito in corridoio. Sentii la porta della sua stanza sbattere, poi la chiave girare nella toppa. Allora era vero, Ruben mi nascondeva qualcosa e anche Romeo era coinvolto in quel giro di bugie nel quale ero stata intrappolata contro la mia volontà.
Mi massaggiai le tempie con indice e medio, sentendo che la testa mi stava per scoppiare, mentre dei passi leggeri si avvicinavano al salotto. L'unica cosa che potevo fare, in quel momento, era chiamare Ruben e farmi dire la verità direttamente da lui, anche se non sarebbe stato facile. Avrebbe accampato scuse su scuse, com’era solito fare.
Andai in camera mia e afferrai il cellulare, abbandonato sulla colonnetta dalla sera precedente. Cercai il numero di Ruben nella rubrica e lo guardai a lungo, come se quei numeri potessero darmi tutte le risposte ai miei dubbi. Respirai a fondo, prendendo grandi boccate d'aria e chiusi gli occhi, schiacciando istintivamente il tasto verde di chiamata. Mi portai il cellulare all'orecchio e cominciai a camminare per la camera da letto nervosamente, mordendomi le unghie per l'agitazione. Dapprima pensai che non rispondesse, perché il suo telefonino suonava a vuoto, ma dopo cinque squilli, finalmente Ruben alzò la cornetta e la sua voce mi arrivò gelida, distante, quasi fosse quella di uno sconosciuto.
«Bella!»
Non riuscii ad articolare nemmeno una frase, come se le parole si rifiutassero di uscire dalla mia bocca e rovinare tutto.
«Celeste?» Disse il mio nome con un pizzico di dubbio nella voce, non sentendo nessuno all’altro capo del telefono. «Celeste sei tu?»
«Ci-ciao,» balbettai, e mi sedetti a peso morto sul letto.
«Per un attimo ho creduto che volessi farmi uno scherzo,» disse divertito. «Mi aspettavo un Sette giorni rantolato da cagarsi sotto!»
«Non sono proprio dell'umore giusto per scherzare.»
Rimase in silenzio per un po', con il sottofondo di uno strano ronzio, un rumore simile al motore di una macchina. Chissà dove era diretto. Forse era una delle tante piccole cose che mi nascondeva per evitare che la verità su di lui venisse a galla.
«C'è qualcosa che non va Cel?» Domandò con la voce stranamente seria e con un pizzico di preoccupazione a incrinarla.
Ingoiai a fatica la mia stessa voce e strinsi il lenzuolo sotto di me. Stavo per affrontare la verità, per trovarmi faccia a faccia con qualcosa di spiacevole e non sapevo se ero in grado di reggere, di sopportare ancora una volta una presa per i fondelli da parte di una persona a cui mi ero affezionata.
«In realtà sì, qualcosa che non va c'è,» risposi, cercando di apparire tranquilla, nonostante sentissi l'incontrollabile voglia di urlargli contro per qualsiasi cosa mi avesse tenuto nascosto.
«Ehm... è perché non mi sono fatto sentire? Ero un po' impegnato, sai com'è, i fiori, il negozio, la nonna...»
Ennesima stupidata che mi propinava con il suo solito sorriso sghembo sulle labbra. Come avevo potuto essere così cieca da non capire che mi stesse prendendo in giro? Che si stava prendendo gioco di me senza che me ne rendessi conto?
«Quale negozio?» Chiesi, modulando la voce per farla rimanere il più basso possibile.
«Quello di fiori…?» Rispose lui, dubbioso.
Mi chiedevo il motivo per cui Ruben continuasse a mentirmi in quella maniera. Già, forse non avevo brillato per acume e astuzia negli ultimi giorni, forse gli avevo permesso di potersi prendere gioco di me con troppa facilità e quindi tutta la colpa non era da attribuire a lui, ma parte era anche mia. Non capivo, però, che cosa lo spingesse a fingere, quale terribile segreto mi nascondeva.
«Vuoi sapere qual è il problema?» Domandai.
«Direi di sì, dato che non ho ancora capito come si legge nel pensiero degli altri.»
Mi schiarii la voce e mi sistemai sul letto, mettendomi a mio agio quasi stessi per sostenere l'esame con la terribile professoressa Torretta, abbonata al quindici da intere generazioni e che aveva fatto una strage degli studenti mai vista in un'università.
«Ecco, vedi...» Esordii, ma Ruben mi bloccò subito con una mezza risata.
«Pensavo mi rispondessi “Beh, leggere il tuo di pensiero non è molto difficile, visto che non sei i grado di pensare, trogloché che non sei altro”» disse con voce stridula. «Cavoli, devi essere proprio inca... volata se non mi prendi a male parole!»
«Vorrei tanto prenderti a male parole,» risposi, scuotendo la testa. «Ne sento proprio la necessità, come sento il bisogno di prenderti a pugni!»
«'Azzo!» Si lasciò scappare. «Che ti ho fatto Cel? Non di aver fatto qualche cazzata 'sti giorni.»
«Non si tratta di questi ultimi giorni,» sospirai affranta, più che altro perché mi stavo sempre di più avvicinando alla verità e mi spaventava dover accettare nuovamente, a malincuore, il fatto di essere stata ingannata.
«Ma...» Incalzò lui curioso ed io mi ritrovai di nuovo a respirare profondamente, quasi i miei polmoni non fossero più in grado di ventilarsi.
«Si tratta di tutto il periodo in cui ci siamo frequentati,» dissi, una volta trovato il coraggio di affrontare Ruben, di affrontare la verità, di affrontare me stessa.
«Non ti seguo,» rispose solamente.
C'erano tante cose che volevo dirgli, troppe le parole che desideravo urlargli in faccia e non sapevo da dove cominciare, quale fosse l'inizio migliore per il mio discorso. Non avevo idea di che tono usare, come pormi nei suoi confronti. Se prima potevo pensare che le mie erano solo congetture senza senso, che ero andata a ricercare il famoso pelo nell'uovo solo per complicarmi la vita, ora avevo quasi la certezza che non mi ero immaginata tutto, che Ruben mi stesse mentendo ed era stato Romeo, con il suo atteggiamento, a darmene la conferma.
«Che cosa mi nascondi?» Domandai solamente, privata di qualsiasi forza dal parassita che si era stabilito nel mio cervello.
Come immaginavo, Ruben tacque per un'infinità di tempo, spiazzato da quella domanda a bruciapelo. Il suo silenzio era solo l'ennesimo tassello del puzzle che stavo costruendo e la cui conclusione era quasi ultimata.
«In... in che senso?» La sua voce mi arrivò all'orecchio quasi ovattata, come se fosse distante chilometri, come se lo avesse solo accennato per paura che io la udissi e che gli dessi una risposta.
«Il fatto che tu dica di essere un fioraio, che insinui di essere un grande amico di Romeo, quando in realtà ci hai parlato solo mezza volta, il fatto che ti porti appresso quel nano occhialuto che si spaccia per un calciatore,» risposi, parlando tutto d'un fiato. «Ci avevo creduto e ci credevo fino a qualche minuto fa, ma poi mi son detta che era impossibile, accidenti, impossibile che tutte le cose che mi hai detto fossero vere.»
«Per quale motivo avrei dovuto mentirti?»
«Non lo so. È quello che mi sto chiedendo anche io. Ed è quello che voglio scoprire.» Mi interruppi per qualche secondo, poi ripresi il discorso. «A meno che tu non mi renda le cose meno complicate del previsto e vuoti il sacco di tua spontanea volontà.»
«N-Non devo vuotare nessun sacco!» Sbottò infastidito.
«Che ne dici di iniziare da una domanda molto semplice?» Gli proposi, perdendo un po' di quella tranquillità che mi aveva accompagnata fino a quel punto della discussione «Chi sei? Ti chiami davvero Ruben o anche questo nome lo hai inventato per la tua pantomima?»
Lui ridacchiò nervosamente dall'altro capo del telefono, indugiando sulla risposta da darmi.
«Ce-certo che sono Ruben. E chi dovrei essere, scusa?»
«Per questo ti ho posto la domanda! Perché ho bisogno di sapere con chi sto parlando! Con chi ho passato tutti questi giorni! Con chi mi sono fidanzata
Il ronzio di sottofondo cessò all'improvviso e sentii distintamente lo sportello di una macchina chiudersi con un tonfo sordo, quasi Ruben o chicchessia l'avesse sbattuta con brutalità.
«Senti ora non posso parlare,» disse lapidario. «Il mangia-lumache mi sta aspettando a casa sua.»
In mezzo a tutta la confusione che albergava nella mia testa, tra tutta la rabbia che stava crescendo dentro di me per quella situazione assurda in cui io stessa mi ero cacciata, ora compariva anche il nome di J. Era da parecchio che non si faceva sentire e quasi mi ero dimenticata di aver sempre avuto una cotta colossale per lui. Che cosa c'entrava in quel momento J? Da quando Ruben frequentava anche lui? Mi era parso di intuire che non lo sopportasse e oltre tutto, ora, venivo a sapere che andava a passare i pomeriggi da lui.
«Cosa c'entra J., adesso?» Domandai confusa, scombussolata, disorientata da tutto quello che stava succedendo.
Ruben farfugliò qualcosa d’insensato e chiuse la comunicazione senza darmi nessuna spiegazione, senza alcuna risposta ai mille dubbi che mi attanagliavano. Cosa potevo aspettarmi? Se lui aveva un segreto che non voleva condividere con me, perché mai avrebbe dovuto cedere alle mie domande e alla mia voce spezzata dalla delusione? Come al solito avrei dovuto fare tutto da sola: avrei scoperto la verità con le mie forze e mi sarei ferita con le mie stesse mani.
Allontanai il telefonino dall'orecchio e lo strinsi in mano, guardando a lungo la foto di sfondo che mi ritraeva insieme a Robbeo. Stavamo sorridendo ed eravamo felici e spensierati, senza nessuno strano ragazzo che minacciasse la nostra serenità. Era stato così fino a qualche settimana prima, ma tutto sembrava essere andato perduto per colpa mia e di un mio piccolo momento di debolezza. Avevo abbassato le difese, avevo lasciato che Ruben entrasse a far parte di me, a poco a poco, per paura della solitudine che mi stava sempre di più risucchiando.
Lasciai cadere il cellulare sul letto e mi diressi verso la mia libreria e lì, da qualche parte, incastrato in un non ben identificato libro di testo universitario, c'era un foglietto sul quale J. aveva segnato il suo indirizzo qualche tempo prima, nella speranza che un giorno lo andassi a trovare. Finalmente avevo l'occasione di visitare casa Rossi, anche se non sarebbe stata affatto una visita di cortesia.
Afferrai un libro dopo l'altro, sfogliando velocemente le pagine e scrollandoli verso il pavimento, lasciando che post-it e bigliettini vari in cui scrivevo appunti, fogli interi completamente scritti dalla sottoscritta in cui avevo annotato scene per il mio romanzo, cadessero sul pavimento. Dopo averli setacciati, m’inginocchiai a terra esaminando uno ad uno tutti i pezzi di carta, scavando in mezzo a quei frammenti di fogli nel disperato tentativo di trovare quel maledetto indirizzo. Ogni qualvolta fallivo, strappavo il foglio in minuscoli pezzi oppure lo accartocciavo sfogando la mia frustrazione su quegli inermi e inutili pezzi di carta. Colta da un'improvvisa rabbia, senza più nessuna speranza di trovare ciò che cercavo, cominciai a strappare quasi tutte quelle cartacce che giacevano davanti alle mie ginocchia e mentre agivo accecata dalla furia e dalla delusione crescente che mi stava piano piano schiacciando, aiutata dall’infausto destino che sembrava non volesse aiutarmi, intravidi la calligrafia raffinata di J. Afferrai il pezzo di carta e mi alzai di scatto, fiondandomi fuori dalla mia stanza e da casa mia senza nemmeno togliermi il golfino grigio topo con un orribile fiore rosa sulla spalla e i pantaloni della tuta che avevo sempre usato per fare educazione fisica. Sembravo una barbona vestita così, ma non m’interessava se le persone mi avrebbero giudicata come tale. Stavo per dare l'ennesimo schiaffo alla mia dignità, stavo per intrappolare di nuovo i miei sentimenti in un enorme blocco di ghiaccio che nessuno sarebbe mai stato in grado di sciogliere, per cui l'abbigliamento era solo l'ultimo dei miei pensieri.
Una volta arrivata fuori dalla palazzina, rilessi il bigliettino stringendolo forte tra le mie dita per non farlo trasportare dal vento violento che si era abbattuto sulla città. Mi orientai, guardando le strade intorno a me, sistemandomi i capelli che danzavano insieme all'aria. La casa di J. non era molto distante dal mio appartamento, per cui l'avrai raggiunta a piedi, anche perché era necessaria un po' d'aria fresca, in un momento come quello. Magari quel vento sarebbe stato in grado di spazzare via tutte le mie preoccupazioni, forse sarebbe riuscito a lenire quel vuoto che, piano piano, mi si stava creando dentro, come una voragine, un buco nero che mi stava risucchiando a poco a poco. 
Il sole, a mano a mano che correvo per le strade della Capitale, si stava nascondendo oltre l'orizzonte, lasciando il posto alla luna e a un cielo macchiato di rosso scuro. I lampioni cominciarono ad accendersi uno dopo l'altro, colorando l'asfalto di un bianco tenue. A quell'ora le strade erano praticamente deserte, dal momento che la maggior parte delle persone era già a casa, quasi pronta a godersi la cena davanti al consueto quiz delle sette. Per cui, stavo correndo da sola lungo i marciapiedi con il fiatone e il cuore che scalpitava in ogni angolo del mio corpo per la fatica mal sopportata e per la ridicola situazione in cui mi ero cacciata, con il solo rumore dei miei passi pesanti ad accompagnarmi. Sembrava quasi surreale quel silenzio che mi circondava. In realtà tutto era surreale, anche ciò che mi stava succedendo. Possibile che avessi vissuto quei giorni all'oscuro di tutto, senza che me ne rendessi conto? Ero sempre stata fiera della mia arguzia e della mia intelligenza, tanto da vantarmene perfino con Ruben. E poi lui era il primo che era riuscito a ingannarmi come una cretina, a prendersi gioco di me come se fossi una bambina che ancora credeva a Babbo Natale.
Scrollai la testa sconsolata, fermandomi di fronte all'enorme palazzo in cui abitava J. Lo guardai dall'alto in basso, respirando a fondo e deglutendo più volte. Solo pochi passi e qualche piano mi separavano dalla verità. Quello che Ruben mi aveva tenuto nascosto fino a quel momento si trovava nell'appartamento di Jean.
M’incamminai verso il palazzo, ritrovandomi davanti al portone di vetro spalancato e un sentiero di palloncini blu, bianchi e rossi che conducevano verso l'ascensore. Rimasi immobile per un tempo indeterminato, forse cercando di trovare l'ennesima risposta alla medesima domanda senza senso che mi stavo ponendo. Seguii la direzione indicata dai palloncini francesi e, attaccato all'ascensore, era stato appeso un annuncio scritto a caratteri cubitali che invitava tutti a salire all'ultimo piano per festeggiare insieme il compleanno di J. insieme a un super ospite. A mano a mano che le mie indagini proseguivano, sempre più dubbi si affollavano nella mia mente, in procinto di autodistruggersi da un momento all'altro per la troppa confusione.
Decisi di seguire il consiglio che aveva lasciato J. e unirmi alla festa, per cui raggiunsi l'ultimo piano. Affacciata al pianerottolo, c'era una sola porta dietro la quale provenivano schiamazzi e musica dal volume talmente alto da far vibrare il terreno sotto i miei piedi.
Sei sicura di voler entrare lì dentro?
Se voglio scoprire la verità, devo farlo per forza.
Appoggiai la mano sulla maniglia e trattenni il fiato. I giochetti di Ruben sarebbero finalmente cessati e lui avrebbe finalmente smesso di prendersi gioco dei miei sentimenti. Spalancai la porta trovandomi di fronte ad una stanza buia, illuminata solo da alcune luci colorate e corpi ammassati di persone che si strusciavano, probabilmente già ubriache alle otto di sera.
«Permesso, scusate!» Urlai, facendomi spazio tra quegli sconosciuti e cercando nel frattempo Ruben con lo sguardo, attraverso corpi di estranei sudaticci che mi si strusciavano addosso. Purtroppo c'era talmente tanta gente che trovare il mio ragazzo in mezzo a loro era come cercare un ago nel pagliaio.
Improvvisamente, quando quasi tutta la mia speranza di trovare Ruben in mezzo a quella calca informe era evaporata, si levò un urlo dalla folla che mi circondava, un grido di emozione e gioia cui si unirono altre voci, altri commenti, altri farfugliamenti senza senso.
«Oh mio Dio! Eccolo!»
«Allora J. non diceva una cazzata!»
«Sposami!»
Mi feci ancora una volta spazio tra la gente, incuriosita da tutto quel fermento rivolto a una sola persona. Era come se fosse arrivata la star del momento e che tutti lì dentro desideravano sfiorarlo, toccarlo, saltargli addosso. Mi creai un varco tra la folla, ritrovandomi in uno spiazzo quasi al centro della stanza e davanti ai me c'era l'ultima persona che mi sarei aspettata.
Ruben.
Lo avevo trovato e tutti stavano scalpitando per lui, c'erano mani che si allungavano e che strusciavano sul suo giacchetto di pelle nera.
«Celeste,» mormorò con gli occhi sgranati e nonostante la musica alta riuscii a udire la sua voce, sorpresa e preoccupata al tempo stesso.
«Che cosa significa tutto questo?» Domandai solamente, urlando per sovrastare la voce dei Black Eyed Peas.
Ruben mi guardò a lungo, con gli occhi vacui e la bocca semi-dischiusa, come se da un momento all'altro potesse uscire dalle sue labbra la risposta che stavo attendendo. Ma la sua voce non uscì, forse perché incastrata in gola, perché si rifiutava di dirmi la verità, anche in quel momento che ero ad un passo dallo scoprirla. Voleva rendermi la cosa ancora più difficile di quanto fosse già, rimanendo in silenzio, con il volto contrito in una smorfia d'amarezza e il corpo talmente teso che quasi tremava.
«Di-di che cosa stai parlando?»
«Non ha più senso mentirmi, Ruben!» Esclamai e un chiacchiericcio di dissenso si levò dagli invitati, che avevano smesso di dimenarsi nel momento in cui io e il mio quasi ex-ragazzo avevamo cominciato a discutere. Guardai alcuni dei ragazzi che mi circondavano. Parte di loro stava ridendo, prendendosi gioco di me, altri invece scuotevano la testa con vigore come se anche chi non aveva mai fatto parte della nostra vita sapesse la verità.
Ruben abbassò lo sguardo, colpevole, stringendo i pugni e torturandosi le labbra con i denti.  Nonostante lo avessi messo alle strette, ancora faticava a parlare, ad alzare lo sguardo ed affrontarmi una volta per tutte. Le note house di qualche dj strampalato continuavano a scivolare tra di noi, come se volessero colmare il vuoto lasciato dal silenzio di Ruben.
«Non hai nemmeno le palle per dirmi la verità ora che ti ho smascherato? Cos'è, vuoi per caso che chiami CSI e mi faccia aiutare da loro per sapere che cosa mi nascondi?» Sbraitai, non tanto per la musica ma per la rabbia che stava riaffiorando.
«Stavo solo aspettando il momento giusto per dirtelo,» mormorò, forse speranzoso che non lo sentissi ma non solo lo avevo udito io, perfino tutti i presenti, dal momento che la canzone dance si arrestò all'improvviso lasciando il posto ad un silenzio quasi opprimente.
Ruben si guardò intorno spaesato, incapace di comprendere il motivo per il quale la musica si era arrestata di punto in bianco.
«Il momento adatto sarebbe stato il giorno stesso in cui ci siamo conosciuti!» Dissi ormai fuori di me, disinteressata dal momentaneo disorientamento di Ruben.
«Non credevo si sarebbe creato tutto questo casino,» si giustificò, senza incontrare il mio sguardo. I suoi occhi verdi, spenti, talmente opachi da sembrare quelli di una bambola di porcellana, vagavano in quell'enorme stanza adibita a discoteca, ma mai si posarono sui miei, nemmeno per un istante, come se avesse paura che potessi trovare la risposta che cercavo scavando nei suoi occhi. «Non pensavo potesse nascere qualcosa di serio con te. Ero sicuro che tutto si sarebbe risolto con quel caffè con zucchero di canna a parte,» esitò per sorridere, ricordando il nostro primo, piccolo appuntamento. «E invece le cose mi sono sfuggite un po' di mano.»
Era chiaro che stesse tergiversando, che fosse in difficoltà e che stesse cercando in tutti i modi di allontanare il momento in cui avrei scoperto tutto. Stavo per pregarlo nuovamente di vuotare il sacco, quando un varco si aprì tra gli ospiti per far passare il festeggiato, vestito di tutto punto con un maglioncino bianco e un paio di jeans scuri.
«Finalmente ti ho trovato, superstar!» Esclamò stringendo la spalla di Ruben e avvicinandolo a sé. «Ti ho cercato dappertutto. Volevo presentarti ai miei ospiti!»
Ruben si divincolò dalla stretta di J., scrollandoselo di dosso con un movimento secco delle spalle. J. sorrise, qualcosa simile a un ghigno e del tutto estraneo ai dolci sorrisi che era solito dispensare a tutti. Sembrava il ghigno di Simone, forse ancora più subdolo di quello dell'inglese.
«Lo vogliamo fare un bell'applauso alla nostra superstar?» Esclamò, rivolto a tutti i suoi ospiti. «Per ringraziarlo di averci onorato con la sua presenza?»
I ragazzi cominciarono a battere le mani e J. si voltò verso Ruben, socchiuse gli occhi, poi piegò gli angoli della bocca sfoderando quello che mi sembrò il sorriso più meschino che avessi mai visto.
«Grazie di essere qui, Leonardo Sogno
«Le-leonardo?» ripetei incredula.
Fu in quel momento che J. si voltò verso di me, stupendosi di vedermi tra gli invitati della sua festa.
«Oh, Celeste, che bella sorpresa!» Disse entusiasta, mentre Ruben, anzi, Leonardo si stringeva la testa tra le mani. «Non ti avevo proprio vista. Scusa, Leonardo, sono proprio sbadato! Ti ho smascherato senza nemmeno volerlo.»
«Bastardo,» sibilò Leonardo, inclinando leggermente il capo per guardarlo di traverso. «Sei un pezzo di merda! L'hai fatto di proposito per incastrarmi!» Urlò, stringendo il maglione di J. e sollevandolo sulle punte per poterlo guardare negli occhi. Il francese sogghignò divertito, quasi compiaciuto di avermi rivelato il suo segreto. Poco m’importava del fatto che J. lo avesse fatto di proposito o meno. Ero ancora scioccata in quel momento, non riuscivo nemmeno a distinguere le figure e le persone che mi circondavano, talmente mi aveva stordito quella rivelazione.
Ero stata la vittima di una montagna di bugie, di un film montato ad arte da Leonardo Sogno in cui tutti erano co-protagonisti, dal mio migliore amico a quella talpa rachitica che si era finto Leonardo fino a quel momento, persino nonna Annunziata era stata al gioco e aveva coperto il suo Chicco. Ero stata ingannata non solo dal ragazzo con cui avevo intrapreso una relazione, ma persino dai suoi amici e parenti, oltre che da Romeo.
«Perché te la prendi con J.?» Domandai, senza in realtà pretendere una risposta. «L'unico colpevole qua sei tu!»
Delusa non era la parola adatta per descrivermi in quel momento. Più che altro ero stanca, stufa di dover sempre subire, di dovermi sempre difendere e di aver sempre paura di infatuarmi di qualcuno, per poi scoprire di essere stata ingannata ancora una volta. Non avevo nemmeno la forza di piangere, anzi non ne avevo per nulla voglia. Avevo versato troppe lacrime in passato inutilmente, per persone che non lo meritavano e Leonardo non era degno di vedere il mio viso bagnato.
«Grazie per avermi rivelato la verità,» dissi velocemente a Jean, guardandolo negli occhi ed evitando accuratamente di incontrare quelli di Leonardo – ancora mi faceva strano pensare quel nome. «Buon proseguimento.»
Velocemente mi voltai e spinsi via le persone che si erano interposte tra me e l'uscita di quella casa. Oramai era tutto finito, in un soffio, all'improvviso, esattamente com’era iniziato. L'attimo prima stavo preparando la valigia per andare a Londra con il mio ragazzo, quello dopo avevo scoperto che lui stesso non era altro che il calciatore più famoso al mondo e che mi aveva sempre tenuta nascosta la sua identità. Ed io gli avevo reso le cose troppo facili non capendo tutte le stranezze che si erano susseguite. Avrei dovuto capire fin dall'inizio che lui era Leonardo Sogno e che non lo poteva essere quella specie di mostro che si portava sempre appresso. Tanti indizi avrebbero dovuto farmi capire la verità, ma l'illusione di aver trovato, dopo tanto tempo, una persona con cui condividere emozioni e alla quale aprire il mio cuore li aveva offuscati, nascosti dietro una coltre di nebbia che ora si era dissipata.
Era stato meglio così, in fondo. Almeno avevo finalmente capito che era meglio vivere senza lo strazio di sopportare un uomo pronto a colpirti alle spalle con le sue bugie. Dopo quest'ennesima delusione potevo dire di aver chiuso realmente con gli uomini. Da questo momento in poi avrei pensato solo a me stessa e avrei lasciato che la mia razionalità vincesse su qualsiasi sentimento.
«Aspetta Celeste!» Urlò Leonardo, lasciando andare J. e raggiungendomi, sotto lo sguardo sbalordito di chi assisteva a quella scena patetica.
«Perché? Non mi sembra che ci sia molto da aggiungere!» Risposi voltandomi di scatto.
«Dammi almeno il tempo di spiegarti.»
«Sono proprio curiosa di sentire,» replicai brusca, incrociando le braccia e sfidandolo con lo sguardo.
Lui deglutì un paio di volte, prima di fare un passo verso di me e puntare i suoi occhi direttamente nei miei. Era la prima volta, durante quella serata, che Leonardo sostenne il mio sguardo per più di due secondi.
«Non ho mai avuto una relazione che durasse più di una sera e di certo non avrei mai immaginato che la mia prima storia seria fosse con una ragazza come te, così lontana dal mio mondo,» riprese fiato, grattandosi la nuca. «Ti ho mentito, ho detto di essere chi non ero solo per avere un attimo di normalità. Sogno di qua, Sogno di là. Sono sempre stato solo il calciatore e non sono mai stato trattato come uno qualsiasi. Con te mi sono goduto un po' di quella normalità che sognavo da tempo, fingendomi Ruben il fioraio.»
Leonardo, in quel momento, non mi sembrò il Ruben arrogante che avevo conosciuto, ma solo un ragazzo debole, privo di difese. Quel suo comportamento, però, non bastava per impietosirmi, dopo il modo in cui si era comportato nei miei confronti.
«Questo non giustifica quello che hai fatto. Cavoli, Ruben...» Proruppi, ma mi bloccai subito, sorridendo amaramente, rendendomi conto che ancora mi risultava difficile chiamarlo con il suo vero nome. «...Leonardo. Hai messo in piedi una recita patetica, hai coinvolto nella tua stupida farsa persone che non c'entravano nulla solo per salvarti le tue preziose chiappe! Non solo sei un arrogante ragazzino viziato, ma sei anche egoista.»
Le parole mi uscivano spontanee dalla bocca, come se fossero un fiume in piena in grado perfino di abbattere la diga che le aveva sempre arginate. Leonardo scosse impercettibilmente la testa, interrompendo il contatto visivo che c'era stato tra di noi fino a quel momento. Molto probabilmente non si era nemmeno reso conto del casino che aveva combinato, non si rendeva conto che tutte le bugie che aveva detto per non farsi scoprire si stavano ritorcendo contro di lui e non solo avevano ferito me, distruggendo quello che sarebbe potuto nascere tra di noi, ma avevano colpito in pieno anche Romeo e la nostra salda amicizia.
«Hai pensato almeno una volta, UNA, alle conseguenze in tutti questi giorni? Al fatto che avresti potuto mettere a repentaglio una delle cose più importanti che ho?» Urlai con furia, stringendo i pugni per cercare di sciogliere un po' la tensione che si era impossessata dei miei muscoli.
«Che...» Cercò di dire qualcosa, ma nemmeno lui sapeva in realtà quale fosse la domanda.
«L'amicizia con Romeo,» spiegai spicciola, abbassando a mia volta lo sguardo. «Ora mi rimane solo Ven di cui fidarmi.»
«Non era mia intenzione mettere in mezzo anche Romeo,» confessò.
«Però l'hai fatto!» Lo aggredii.
«Lui non si è tirato indietro!» Replicò brusco.
In effetti, non aveva tutti i torti. Romeo era in bilico tra l'essere una vittima e l'essere un complice. Per aiutare Leonardo a mantenere il suo segreto si era fatto mettere i tacchi in testa da Annalisa, diventando anche lui una povera vittima del gioco di Sogno. Se solo avesse trovato il coraggio di dirmi la verità, almeno lui, a quest'ora nessuno dei due, anzi, dei tre avrebbe sofferto.
Respirai a fondo e sollevai di nuovo lo sguardo da terra. Le pareti di quella stanza stavano convergendo sempre di più, era come se il salotto si stesse rimpicciolendo e mi stesse opprimendo tra i suoi muri. Dovevo uscire in fretta da lì e tornarmene a casa se non volevo morire soffocata.
«Hai ragione. Romeo ha contribuito a minare la nostra amicizia,» convenni con lui, amaramente. «Però tu, da solo, sei riuscito a rovinarmi la vita.»
E con quelle parole avevo messo fine alla nostra discussione, oltre che al nostro rapporto. Mi girai velocemente, intenzionata ad andarmene e dimenticare Leonardo, cancellarlo dalla mia vita e fingere che lui non ne avesse mai fatto parte.
«Aspetta Celeste!» Esclamò afferrandomi per il braccio. «Ti avrò anche detto che mi chiamo Ruben e che faccio il fioraio, ma io sono sempre la stessa persona che hai conosciuto.»
«Non posso più fidarmi di te, accidenti! Mi hai ingannata tutto questo tempo, come hanno fatto tutti gli altri!» Replicai furibonda, liberandomi dalla sua presa. «Torna alla tua vita da star, Leonardo, ai campi di calcio e alle modelle. Dimenticati di me, di noi, di quello che c'è stato!»
Lo guardai dritto negli occhi. Le sue iridi mi stavano implorando di perdonarlo, con tutta quella tristezza condensata nel verde intenso dei suoi occhi e ci fu anche un istante in cui avrei davvero voluto perdonarlo, ma fu solo un attimo di debolezza che il secondo dopo era già stato cancellato dalla rabbia.
Per l'ennesima volta mi voltai verso la porta e nessuno tentò di fermarmi, lasciandomi finalmente libera di abbandonare quella casa. Presi l'ascensore e arrivai al piano terra. Il cielo notturno, ormai, aveva preso il sopravvento sui raggi solari e l'ara gelida della sera mi obbligò a stringermi nel golfino grigio. Ora che tutto era finito mi sentivo terribilmente vuota, avevo un buco proprio al centro del petto che, ero sicura, nessuno sarebbe mai stato in grado di colmare. Erano secoli che non provavo quella stessa sensazione. Ormai mi ero abituata a sentire il mio cuore battere, a percepire un piacevole senso di completezza. Per qualche giorno Leonardo era riuscito a colmare quel vuoto che gli altri prima di lui avevano lasciato, ma così come tutti i miei ex, aveva fallito nel suo intento, scavando ancor più dentro di me e rendendo quel buco sempre più profondo, sempre più nero.
Percorsi la stessa strada che avevo fatto per andare a casa di Jean, ma questa volta più lentamente. Non c'era più l'adrenalina a farmi correre, non c'era più la voglia di scoprire che mi spronava a correre lungo le strade della Capitale. Ora ero sola, avevo perso il mio ragazzo e il mio migliore amico nella stessa notte. Mi sentivo tradita, tradita dalle bugie di Leonardo e tradita da Romeo che aveva preferito assecondare il suo idolo piuttosto che dirmi la verità. Di chi avrei potuto fidarmi da quel momento in poi? Se anche i migliori amici erano pronti a pugnalarti alle spalle avrei dovuto dubitare di tutti, perfino delle persone che mi dicevano di volermi bene.
Svoltai nella mia via e mi fermai non appena mi ritrovai il portone della palazzina di fronte. Esitai qualche attimo davanti al citofono, con l'indice sospeso a pochi millimetri dal pulsante con sotto scritto Ciuccio-Fiore. Non appena avessi messo piede in casa mia, avrei dovuto affrontare anche Romeo e forse mettere fine alla nostra amicizia che ci legava da ormai più di dieci anni. Lui sapeva bene quanto avessi sofferto in passato per essere stata presa in giro e aveva agito comunque alle mie spalle, anche lui si era abbassato al livello di quei decerebrati che avevano fatto parte del mio passato.
Pigiai con insistenza il citofono e, poco dopo, il portone scattò, senza che nessuno s’informasse su chi potessi essere. Spinsi la porta di vetro ed entrai velocemente nel palazzo, cominciando a salire le scale. Quando raggiunsi il mio piano, trovai la porta socchiusa così entrai rapidamente, chiudendomi il battente alle spalle.
«Oh, eccoti Celeste!» Esclamò Ven, uscendo dalla cucina mentre sbocconcellava un pezzo di focaccia. «La nuova libreria che hanno aperto è fantastica. E il rinfresco che hanno fatto era ottimo! Un po' povero, ma gustoso. Saresti dovuta venire anche tu!» Disse con un sorriso, ma il suo entusiasmo si smorzò poco dopo quando vide il mio viso contrito in una smorfia indecifrabile, un misto tra la rabbia e la frustrazione.
«Dov'è Romeo?» Domandai secca, senza guardarla negli occhi.
«Sarà nel porcile,» scrollò le spalle e mangiò un altro boccone. «Ossia la sua stanza,» specificò poco dopo, sogghignando.
«Tu lo sapevi?» Le chiesi a bruciapelo, non avendo nemmeno udito le sue parole. Mi sembrava di essere in una bolla dalle pareti spesse che m’isolavano dal mondo, rinchiusa lì dentro da sola, insieme al mio dolore. Ven mugugnò qualcosa, dubbiosa.
«Che Romeo era un maiale?» Domandò sarcastica. «Lo sanno tutti, perfino chi non lo conosce. Il suo odore parla da sé.»
«Di Ruben. Che in realtà non è Ruben ma Leonardo Sogno...»
«Da-davvero?» Balbettò, battendo più volte le palpebre e abbozzando un mezzo sorriso con le labbra che le tremavano.
«Già. L'ho scoperto qualche minuto fa, a casa di J. Era tutto così strano e confuso che ho dovuto fare assolutamente chiarezza. Dal momento che Romeo non ha voluto vuotare il sacco, sono andata direttamente alla fonte del problema.» Scrollai le spalle e sollevai finalmente lo sguardo per incontrare gli occhi blu di Ven.
Era fin troppo agitata e il suo comportamento, le sue occhiate sfuggenti e la sua espressione spaesata erano ambigui. Era come se non le avessi detto nulla di nuovo, come se anche lei sapesse di Leonardo e si era fatta abbindolare da lui per mantenere il suo stupido segreto.
«Tu lo sapevi,» commentai solo, a bassa voce  e lei s'irrigidì, confermando il mio sospetto. «Tu lo sapevi!» Ribadii, questa volta con un tono più alto, scandendo ogni parola. «Oh mio Dio, quanto sono cretina!» Cominciai a straparlare, mettendomi le mani nei capelli e camminando su e giù per il salotto, disperata. Ero sicura che almeno Ven non mi avrebbe mai mentito ed invece anche lei aveva aiutato Leonardo nel suo stupido gioco, anche lei aveva partecipato alla commedia messa in scena da Sogno.
«No Celeste!» Esclamò lei, stringendomi i polsi e facendomi abbassare le mani, per poi puntare i suoi occhi nei miei. «Non sapevo niente, te lo giuro! Cioè sospettavo che ci fosse qualcosa che non andava.»
«E perché non mi hai detto nulla? Perché non mi hai confidato i tuoi sospetti, almeno mi sarei risparmiata tutto questo!»
«Non ne avevo la certezza! Se poi si sarebbe trattato di un abbaglio? Avrei solo fatto un grande casino!» Rispose con voce ferma e decisa. «Per cui ho preferito non immischiarmi...»
Sospirai, liberandomi dalla sua stretta e andai a sedermi sul divano, prosciugata, senza nemmeno un briciolo di forza che potesse permettermi di stare in piedi. L'unica cosa di cui ero sicura in quel momento era che Ven non mi aveva mentito e che era stata l'unica sincera fino a quel momento. Lei non era mai stata in grado di dire bugie e non perché le espressioni del suo viso la tradissero, ma perché era tale e quale a me: odiava le menzogne e tutto quello che le passava per la testa lo trasformava in parole, senza nessun timore. Mi dispiacque aver dubitato di lei anche se solo per pochi secondi. La conoscevo da così tanto tempo che non avrei mai dovuto diffidare della sua buona fede.
«Mio Dio... mi sento così, così stupida,» dissi prendendomi la testa tra le mani. «La verità è sempre stata sotto i miei occhi, sempre! Ed io non sono riuscita a vederla per tutto questo tempo.»
«Non sei stupida Celeste,» mi consolò Ven, accomodandosi accanto a me e accarezzandomi la spalla. «Hai solo voluto fidarti di lui, ti sei voluta mettere in gioco ancora una volta e questo ti ha offuscato la mente. Anche se la verità era sotto i tuoi occhi, parte del tuo cervello ti ha impedito di vederla perché tu vivessi serenamente con lui e perché il tuo cuore potesse ricominciare a battere per qualcun altro.»
«Sarebbe stato molto meglio saperlo fin da subito che mi stava ingannando. Io che sono così razionale, ho lasciato che il mio cervello andasse in letargo!»
«Beh, forse è così,» scrollò le spalle e fece un sospiro rumoroso. «Ma sei stata felice con lui, no? Ti piaceva stare con… Leonardo.»
«Ruben! Mi piaceva stare con Ruben!» Rettificai, scocciata.
«Ruben, Leonardo... che differenza fa un nome?»
Mi mordicchiai l'interno della guancia nervosamente, voltandomi di tanto in tanto verso la mia amica per guardarla. Avevo come l'impressione che stesse difendendo Leonardo e che provasse a tranquillizzarmi, per poi convincermi a chiamare quel bell'imbusto mentitore ed egoista per rassicurarlo e annunciargli che la nostra relazione non era finita.
«Se stai cercando di convincermi a rimettermi con quel bugiardo traditore, non ce la farai.»
«Comprendo che tu sia arrabbiata...»
«Arrabbiata? Solo arrabbiata?» La interruppi. «Sono furibonda! E non tentare di farmi cambiare idea!» La zittii, prima che dalle sue labbra dischiuse uscisse una qualsiasi replica. «Con Leonardo Sogno ho chiuso per sempre! È fuori dalla mia vita! Anzi, l'ho già dimenticato!» Mi alzai di scatto dal divano e camminai a ritroso, continuando a guardare Ven negli occhi. «Chi è Leonardo Sogno? Boh, non lo so, non l'ho mai conosciuto!»
Ven mi guardò come se volesse infilarmi dentro ad una scomoda camicia di forza e in realtà non aveva tutti i torti. Mi stavo comportando come una folle, una pazza furiosa che fingeva di non ricordarsi dell'unico ragazzo che, dopo secoli, mi aveva fatto tornare finalmente il sorriso e con il quale avevo ricominciato a vivere, scoprendo che c'era molto di più oltre ai libri di letteratura e al mio file di Word nascosto in una cartella del mio pc. Nonostante tutto, sarebbe stato difficile dimenticarlo, anzi quasi impossibile, visto che si era guadagnato un piccolo pezzo del mio cuore che ora si era incrinato, omologandosi alle restanti parti che quelli prima di lui si erano divertiti a calpestare e a infrangere, come se fosse un insulso pezzo di vetro.
Lasciai Venera seduta sul divano, ancora scossa per il mio comportamento e mi diressi verso camera mia. Mi sarei rinchiusa nel mio angolo di tranquillità e non ne sarei uscita per lungo tempo. Avevo bisogno di stare da sola, di riflettere e capire che cosa ci fosse di sbagliato in me, perché cominciavo seriamente a pensare che il problema fossi io, dal momento che tutti si divertivano a prendersi gioco di me. Forse non ero così intelligente e sveglia come volevo far credere, forse ero solo portata per lo studio, ma in quanto a relazioni sentimentali ero un completo disastro. Era inutile tornare a sperare, era inutile che m’illudessi che un giorno anche io avrei potuto trovare l'uomo della mia vita. Non ero stata dotata di un manuale di istruzioni per amare ed essere amata, ed io, da sola, non ero in grado di capire l'arcano di questo strano sentimento.
Non appena appoggiai la mano sulla maniglia della porta della mia stanza, dalla camera di fronte spuntò Romeo, vestito solo con un paio di boxer a righe e una canottiera nera. Aveva il volto basso e lo sguardo spento, conseguenze della nostra precedente discussione.
«Ciao,» mormorò solamente e tentò di superarmi, ma lo bloccai e lo feci indietreggiare.
«Perché?» Domandai delusa.
«Perché, cosa?»
«Perché hai preferito lui a me? Perché hai preferito il tuo idolo alla tua amicizia con me?»
Romeo sfuggì al mio sguardo e deglutì a fatica. Non rispose per molti secondi, forse anche minuti, nonostante cercasse di dire qualcosa. Forse stava cercando le parole adatte per giustificarsi o forse non era in grado di trovare qualcosa di valido da dire.
«Mi aveva chiesto di tenere il gioco. E ho accettato,» disse, infine, dopo una quantità esagerata di tempo passato immersi in un silenzio quasi innaturale.
«Come hai potuto, Romeo? Come hai potuto mentirmi anche tu che sei il mio miglior amico?» Tentai di controllarmi e non urlare come avevo fatto con Leonardo, ma l'amarezza mi costrinse ad alzare la voce.
«Che ne sapevo io che vi sareste messi assieme? Credevo si sarebbe tutto concluso nel giro di qualche giorno e mi si era presentata di fronte l'occasione di poter conoscere il mio idolo! Cosa dovevo fare?» Rispose, adottando il mio stesso tono di voce.
«Pensare a noi, prima di tutto, alla nostra amicizia!»
«In che lingua devo dirtelo?» Ribatté seccato, allargando le braccia. «Non credevo che tu potessi interessarti a uno come lui. È il tipico ragazzo che tu non sopporti e con il quale non vorresti avere nemmeno a che fare! Per cui credevo che lo avresti mandato a quel paese e tanti saluti!»
Tutto sommato Romeo non aveva torto. Il mio astio nei confronti dei tipi come Leonardo era chiaro perfino ai muri e il fatto che mi fossi invaghita di lui era una sorpresa per tutti, perfino per me stessa. Nonostante Romeo avesse in parte ragione, continuai a fissarlo corrucciata, con le braccia incrociate.
«Beh,» esordii, anche se in realtà non sapevo cosa replicare, spiazzata dalla precedente affermazione. «Però avresti potuto dirmelo quando ci siamo messi insieme! Sei il mio migliore amico, Romeo! Dovevi dirmi la verità!» Urlai infine.
«L'ho fatto per te, accidenti!» Replicò lui alterato. «Perché non lo vuoi capire? Mi sono fatto schiavizzare da Annalisa per farle mantenere il segreto solo per te!»
«Non era necessario.»
«E invece sì, Celeste! Tu eri felice, finalmente FELICE e non volevo rovinare tutto!» Sbraitò paonazzo in volto, con una giugulare che gli serpeggiava sul collo.
Rimasi per un attimo paralizzata, con gli occhi sgranati e le braccia a mezz'aria, indecise se rimanere ancora conserte oppure abbandonarsi lungo i fianchi. Già, con Leonardo ero felice, ero tornata finalmente a sorridere dopo molto tempo, ma un rapporto basato sulla menzogna non aveva nemmeno senso di esistere, felicità o meno. Avrei preferito di gran lunga rimanere offesa piuttosto che essere ingannata e calpestata per l'ennesima volta, sia dal mio ragazzo che dal mio migliore amico. Comportandosi così, Romeo aveva creduto di proteggermi, ma non si era reso conto che mi aveva inferto una doppia ferita all'altezza del petto..
«Non volevo che tu soffrissi,» abbassò il tono e fece un passo verso di me, spalancando le braccia a cercando di abbracciarmi. Lo respinsi con forza, impedendogli qualsiasi contratto con me.
«Ma hai fatto in modo che accadesse,» ribattei brusca, guardandolo per un ultimo attimo negli occhi e raggiungendo la mia camera.
Sbattei la porta con violenza e mi ci appoggiai sopra inclinando la testa verso l'alto e chiudendo gli occhi, come se questo potesse frenare le lacrime. Avevo cercato di resistere fino a quel momento, avevo interiorizzato tutto e stavo esplodendo a poco a poco. La tensione, il nervosismo, la ferita pulsante sul mio cuore, però, non mi permisero di trattenermi ancora, perciò lasciai che lacrime lente e silenzio mi rigassero il viso. Diedi una rapida occhiata alla mia camera constatando che tutto era come l’avevo lasciato, con la valigia adagiata sul letto e il maglione rosso lanciato sopra di essa. Qualche ora prima mi stavo preparando per andare a Londra con il mio ragazzo, poco dopo mi ritrovavo appoggiata a una porta a piangere e a dannarmi per essere stata così maledettamente stupida. Per la mia cecità, in un attimo avevo perso tutto.


*Rinfodera il fazzoletto nella manica della felpa e tenta di scrivere un commento finale decente*
Lo sapevo che doveva succedere prima o poi, lo sapevamo un po' tutte. Da quando questa storia era iniziata, eravamo a conoscenza che nulla sarebbe andato a finire per il verso giusto, una volta scoperta la bugia.
Tutto in un attimo. E' proprio il caso di dirlo. Tutto è successo in poco tempo, quasi come un'illuminazione che ha folgorato Celeste, un fulmine a ciel sereno che le ha fatto aprire finalmente gli occhi. Lei che dopo tanto tempo aveva ricominciato ad amare si è vista portare via tutto da una menzogna e dal tradimento dei suoi più cari amici.
In questo capitolo non c'è niente di divertente e scherzoso, non ci sono più i toni leggeri e frivoli dei capitoli precedenti, non c'è posto per un sorriso. E non c'è nemmeno l'amore, o meglio, c'è ma sfugge subito dalle dita di Celeste, troppo arrabbiata per poter anche solo pensare al perdono. Lei che è stata tradita dalle bugie, lei che ha sempre vissuto nel terrore di rigettarsi in una storia falsa, lei che si era chiusa in sé stessa, nascondendosi dietro un muro di cinismo, allontanando gli altri.
Credo che a una persona sia concesso un massimo numero di volte di innamorarsi.
Spero che Cel non lo abbia raggiunto.

Grazie a chi ci segue e alle new entry!

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Ricordate il gruppo Crudelie si nasce, dove potrete trovare spoiler, foto e tanto altro!

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Capitolo 14
*** No happy ending ***



CAPITOLO 14


Colonna sonora: Happy ending_Mika

«Torna alla tua vita da
star, Leonardo, ai campi di calcio e alle modelle. Dimenticati di me, di noi, di quello che c'è stato!»
Se ne andò in quel preciso istante, dopo avermi urlato in faccia le ultime parole che avrei udito dalla sua bocca. Ancora non riuscivo a credere che fosse successo, era accaduto troppo in fretta. Mi ero recato alla festa del francesino con un regalo qualsiasi, ripescato dai miliardi di doni che mi arrivavano per posta dalle fan e mi ero precipitato a quella stupida festa soltanto per salvarmi la faccia.
Chi l’avrebbe pensato che proprio in quel salotto avrei perso il mio lieto fine?
Celeste era entrata in casa come una furia, pretendendo spiegazioni dal sottoscritto, ma già dalla telefonata che mi aveva fatto, avrei dovuto intuire qualcosa.
Sei stato proprio uno stupido.
Me lo sarei dovuto aspettare da una come lei, in fondo non era certo stupida. Anzi, ero ‘sopravvissuto’ fin troppo tempo lontano dalle sue ire e mi chiedevo anche il perché non mi avesse beccato prima. Magari era stato strano per entrambi questo rapporto, sin da quando era cominciato. Quel giorno avevo detto la prima cosa che mi era venuta in mente pur di vedere la reazione di Celeste e mai avrei pensato che da quello spiacevole incontro sarebbe potuto nascere tutto quello.
Tutto, cosa?
Già, non lo sapevo nemmeno io. Prima ancora che mi potessi rendere conto di quello che provavo per Cel, lei già se n’era andata per sempre dalla mia vita. Rimasi a fissare la porta aperta sul corridoio della palazzina, completamente immobile, quando venni riscosso da una serie di mormorii.
Ero ancora alla festa del mangia-lumache, ovviamente. Quel francese aveva architettato tutto, magari aveva anche invitato Celeste per farle scoprire la verità ed io ci ero cascato in pieno, con tutte le scarpe. Mi sentivo un vero cretino, sia perché l’avevo data vinta a quel pezzo di merda, sia perché non avrei più rivisto Cel.
Quella consapevolezza mi fece sprofondare il cuore in un abisso e mi fece sentire strano. Non avevo ancora capito bene come funzionassero queste cose, di certo non ero un esperto, però dovevo ammettere che mi dispiacque perderla. Era strano pensarlo ad alta voce, strano perché il più delle volte passavo intere giornate a litigare con quella ragazza, ma tutto sommato quei momenti mi sarebbero mancati.
«Oh, scusami tanto!» Mormorò una voce alle mie spalle che avrei riconosciuto tra mille. Strinsi i pugni e trattenni la rabbia, perché quello non era né il momento né il luogo per fare una scenata. Ero pur sempre Leonardo Sogno e finalmente potevo smettere di indossare la maschera di Ruben, svelandomi per la persona che ero realmente. «Non sapevo venisse, non mi ero proprio accorto di lei,» e mi posò una mano sulla spalla.
Mi voltai quel tanto da incontrare i suoi occhi azzurri, quelle vispe iridi così diverse da quelle di Celeste. Li avevo stampati bene in mente, ormai, appena appena velati di lacrime e non sarebbe stato facile dimenticarli. Quelli di J. invece non avevano nessun rimorso, nonostante si stesse scusando con un sorriso falso come una banconota da tre euro.
«Toglimi le mani di dosso,» ringhiai, sbattendogli il regalo sul petto e imboccando la porta.
Sinceramente non me ne fregava nulla di quello che avrebbero pensato di me i suoi invitati, i miei Fan, se così si potevano chiamare. In vita mia non avevo mai rinunciato a un bagno di folla, ma quello che era appena successo mi aveva smosso l’animo e sentivo il forte bisogno di starmene da solo.
«Ehi, aspetta!» Mi urlò il francese, ma io lo ignorai uscendo nel corridoio e cominciando a chiamare l’ascensore.
Mi sentivo strano, scombussolato, quasi come se avessi appena perso una partita importante di campionato, come se non avessi dato tutto me stesso in campo. Avevo deluso Celeste, le avevo mentito e lei era pur sempre la mia ragazza, ma da una parte non potevo sentirmi in colpa.
Era nato tutto come un gioco e allo stesso modo era finito.
«Aspetta!» Ripeté ancora il mangia-lumache, fermandolo sulla porta dell’ascensore. Aveva il fiatone per aver corso dall’immenso salone sino al pianerottolo e lo guardava seriamente preoccupato.
«Che cazzo vuoi?» Gli ringhiai contro, fulminandolo con lo sguardo. Non gli bastava avermi portato via Celeste, doveva anche infierire? «Sono venuto alla tua stupida festa, ti ho fatto il regalo, non abbiamo più nulla da dirci,» tagliai corto.
Finalmente l’ascensore arrivò e le porte automatiche si aprirono con un sonoro ‘dlin-dlon’. Ero pronto finalmente a lasciarmi dietro quell’appartamento e quegli occhi azzurri che sin dal primo giorno avevo odiato con tutto me stesso.
Ci avevo visto bene, Jean-coso era davvero una persona subdola e orribile.
«Non era premeditato, lo giuro!» insistette, inframmezzandosi tra le porte dell’ascensore. «Celeste non avrebbe dovuto essere qui…»
«Sì certo, non lo sapevi,» smozzicai ironico. «E io mi chiamo Giuseppe.»
«Te lo giuro!» continuò, ignorando il mio commento di proposito e avvicinandosi.
Col suo corpo, non permetteva che le porte dell’ascensore si chiudessero e mi lasciassero libero di tornare a casa. Avrei dovuto fare chiarezza su quella storia, almeno prima di partire. Sentivo il bisogno di esporre tutta la situazione con Cel, di sperare magari in una seconda possibilità.
Avevo il suo viso a pochi centimetri dal mio. Era un affronto ed io lo sapevo bene, li riconoscevo i tipi come lui. Erano solo figli di papà senza alcuna esperienza di vita alle spalle, mentre il sottoscritto si era fatto da solo, scalando le classifiche della Serie C e B, fino ad arrivare alla tanta agognata Serie A.
«Levati di mezzo, francesino,» sibilai stringendo i pugni e facendomi forza per non spingerlo via dall’ascensore con violenza. «Non vorrei rovinare quel bel visino a suon di cazzotti. Ho da fare, sparisci,» gli intimai.
Lo vidi spalancare gli occhi per lo stupore e per la prima volta mi parve che quell’espressione fosse terribilmente sincera. C’era qualcosa nascosto dietro quelle iridi, un terribile segreto che mi pareva solo di intuire. Non sapevo spiegarlo, ma nemmeno me ne importava. Avrei dovuto raggiungere Celeste, chiarirmi con lei, spiegarle che nonostante le avessi mentito, poca parte di quello che c’era stato tra di noi corrispondeva alla menzogna.
In fondo, avevo unicamente utilizzato un altro nome e mentito sulla mia professione. Nessuno si era ferito o fatto del male, era stato un errore innocente.
«Vuoi che te lo ripeta in quella lingua da frocetto?» Ringhiai, sempre più incazzato.
J. sembrava non aver recepito il mio avvertimento, così avanzai quel tanto da soprastarlo con la mia mole, anche se la sua altezza non era certo inferiore alla mia. Quello che accadde dopo lo recepii in minima parte perché mi spiazzò del tutto.
Avevo sospettato che in quel francese ci fosse qualcosa che non andava, soprattutto dal modo con cui mi lanciava degli sguardi interessati, eppure quando le sue labbra si posarono sulle mie, rimasi totalmente pietrificato. Avevo entrambe le sue mani ai lati del mio viso, saldamente ancorate in modo da non lasciarmi spazio alcuno per sfuggire alle sue labbra.
Sgranai gli occhi confuso e gli posai le mani sul petto per scrollarmelo di dosso. Al terzo tentativo riuscii ad allontanarlo e a bloccarlo prima che mi assalisse di nuovo come un maniaco.
«Fottuta checca, che cazzo vuoi da me?» gli urlai contro.
Jean-Philippe guardò terrorizzato il suo appartamento, temendo che gli altri avrebbero potuto udire le mie parole, ma non mi sarei di certo calmato dopo quello che mi aveva fatto. Mi pulii la bocca schifato, soprattutto per quanto odiassi quel ragazzo dal più profondo del cuore.
Lo vidi allontanarsi e infossare il collo tra le spalle. «Pensavo avessi capito,» si limitò a mormorare.
Capito cosa? Che si fosse invaghito del sottoscritto?
Non avevo altro tempo da perdere e la questione che mi stava più a cuore in quel momento aveva un nome e un cognome che non potevano aspettare. «Non farti più rivedere, capito? Da oggi devi ufficialmente sparire dalla mia vita.»
Dopo quelle parole pigiai sul pulsante T più e più volte, attendendo che il corpo del mangia-lumache si spostasse dalla cella fotosensibile. Lo fissai lapidario, senza muovere un muscolo del mio viso. Non avevo nulla contro gli omosessuali, ma J. era tutto un altro paio di maniche. Mi aveva reso la vita un inferno, aveva fatto di tutto per allontanare Celeste da me, e per cosa?
Perché si era innamorato.
«Devo ripetertelo?» continuai, tenendo basso il tono della voce.
Vidi per un attimo lo stesso sguardo di Celeste riflesso in quello del francese, la stessa delusione che rischiarava i loro volti. Poi ricordai il tono con cui lei aveva espresso quelle parole contro il sottoscritto.
Non era delusione ma rabbia.
In quel momento J. comprese il mio stato d’animo e si scostò, senza mai smettere di fissarmi. In quella giornata non ci sarebbe stato spazio per un’unica delusione amorosa.
Pigiai nuovamente sul pulsante del piano terra e questa volta sentii il suono del campanello che annunciava la chiusura delle porte. Le due lastre di metallo si chiusero sullo sguardo glaciale e deluso di quel ragazzo che forse non avrei più rivisto.
Mi resi ben presto conto che avevo deluso molte persone nella mia vita e forse Celeste e J. non sarebbero state le uniche. Arrivai al pian terreno e tirai immediatamente fuori dalla tasca l’i-Phone nella speranza che Celeste avesse ancora il cellulare a portata di mano.
Scorsi la rubrica e trovai immediatamente il suo numero. Rimasi a fissarlo per un tempo indecifrabile, ricordando quello che era successo qualche settimana prima proprio a proposito di quel numero di telefono. Scacciai via quei pensieri malinconici e pigiai il tasto verde, portando l’apparecchio all’orecchio e dirigendomi verso l’Audi TT parcheggiata in fondo al viale di quel quartiere residenziale sull’Aventino.
Il primo squillo andò a vuoto, così come il secondo e il terzo. Arrivai fino alla macchina e feci scattare l’allarme con le chiavi, sedendomi al posto del guidatore e accendendo il motore. Quarto, quinto, sesto squillo e ancora niente risposta. Confermai il mio pensiero: Celeste mi stava evitando.
«Dannazione, rispondi!» Sibilai a denti stretti, attivando il vivavoce e uscendo dal parcheggio.
Cazzo, dovevo raggiungerla e spiegarmi, ne valeva il mio onore. Di sicuro ero un pezzo di merda, su questo non c’era alcun dubbio, ma non avevo organizzato tutta quella messa in scena per ferirla, anzi, era tutto il contrario. Avevo taciuto sulla mia identità per conquistarla, per darle uno smacco e farle cambiare idea sui calciatori. C’ero quasi riuscito perché in qualche modo sapevo che Celeste teneva a Ruben, nonostante non fosse il mio vero nome.
Imboccai immediatamente la via principale e mi fiondai verso il quartiere di San Lorenzo. Il telefono continuava a squillare, ma dopo un po’ un suono d’allarme precedette l’avviso della segreteria telefonica. Distrattamente spinsi il pulsante rosso sul touch-screen e riprovai a chiamarla. Doveva rispondermi, non poteva liquidarmi con una frase del genere e non lasciarmi il tempo di spiegare.
D’accordo, non ero stato un vero genio nel continuare a mentirle nonostante ci fossero tutti i chiari segni che prima o poi lo avrebbe scoperto, ma mi sentivo in dovere di dire la mia per una volta. Gli squilli si susseguivano identici, uno dopo l’altro, così non mi restò che mettermi l’anima in pace e continuare a guidare.
Arrivai sotto casa di Cel il più velocemente possibile e parcheggiai l’Audi metà sulla strada e metà sul marciapiede. Scesi senza curarmi della presenza dei vigili, ma contai sul fattore oscurità di quell’inizio di notte romana per evitare delle multe inutili. Se Cel non mi rispondeva al telefono, magari mi avrebbe parlato dal vivo.
Attaccate al citofono tutta la notte, vedi che scende.
Il mio Ego ne sapeva sempre una più del Diavolo ed ero molto fiero di averlo al mio fianco come degno alleato. Cercai di sistemarmi la camicia e il giubbotto di pelle, poi ripensai al bacio umido del mangia-lumache e per poco non vomitai.
Questa è una delle esperienze da mettere nel dimenticatoio.
Di sicuro.
Almeno potrai raccontare di aver baciato un uomo.
Una checca francese da quattro soldi, semmai.
Sempre bandana c’ha.
Ignorai l’ultimo commento del mio Ego e fissai il citofono, cercando di decifrare nella semioscurità il nome Fiore. Lo trovai quasi subito, così cominciai a pigiare velocemente per marcare l’insistenza della mia chiamata. Attesi qualche secondo ma non ottenni risposta alcuna.
Possibile mi ignorasse anche lì?
Fortunatamente avevo afferrato il telefono prima di scendere dall’auto, così la chiamai e contemporaneamente pigiai sul citofono. In qualche modo avrebbe dovuto cedere e finalmente avrei avuto l’occasione di spiegarmi.
E cosa le dirai, sentiamo?
Lasciai che qualcuno mi rispondesse, ma sull’i-Phone comparve ancora quell’odiosissima segreteria telefonica. Stufo di dover perdere tempo di fronte a un aggeggio inanimato, sferrai un lieve pugno alla colonnina di marmo su cui era attaccato il citofono e sospirai.
Cosa le avrei detto? Se mai fosse scesa da quella palazzina, in che modo avrei potuto farle capire che si sbagliava sul mio conto?
Le hai mentito, cos’altro pretendevi? Avresti dovuto troncare la storia sul nascere, come ti avevo suggerito all’inizio.
Grazie tante.
Dovevo continuare a insistere, almeno per sperare in una sua risposta, seppur minima. Persino un Vaffanculo mi avrebbe fatto sentire realizzato, qualsiasi cosa pur di non avere quel completo silenzio. Forse avrei dovuto rincorrerla quando ne avevo avuto l’occasione, insistere, provare a parlarle senza darle il tempo di allontanarsi.
La verità era che nemmeno io sapevo come affrontare quella situazione. Anche se continuavo a convincermi di non aver sbagliato, di aver solo peggiorato un tantinello le cose, dentro di me lo avevo sempre saputo che in caso avesse scoperto la verità l’avrei perduta per sempre.
In quel momento il flusso dei miei pensieri fu interrotto dal rumore del portone che fece uno scatto e venne aperto. Sgranai gli occhi e cercai la sagoma di Cel all’interno dell’androne parzialmente illuminato da una plafoniera. Il cuore aveva cominciato a battermi all’impazzata e tutte le ragioni che mi si erano sovraffollate nella mente volarono via come un battito d’ali perso nel vento. Non sapevo più cosa dire, quali argomenti affrontare per difendermi.
Indietreggiai sul marciapiede e aspettai che lei uscisse in strada, ma quando la figura che era apparsa nell’androne si mostrò per intero rimasi deluso. Non c’era una chioma bionda davanti ai miei occhi, bensì fulva e non apparteneva a una ragazza.
«R-Romeo…?» soffiai incredulo.
Lui si portò una mano dietro la nuca e si scompigliò i capelli. Aveva uno sguardo strano e la solita espressione spensierata che aveva dipinta in volto lo aveva abbandonato.
Le brutte notizie non vengono mai da sole, me lo aveva ripetuto tante volte nonna Annunziata ma io non ci aveva mai creduto, almeno fino a quel momento. C’era aria di tempesta, se ne poteva sentire l’odore.
«Dov’è Cel?» chiesi, incerto se volessi sapere o meno la verità.
Quello sguardo non lo avevo mai visto, era la prima volta che davanti ai miei occhi appariva un Romeo così teso, amareggiato, anche lui deluso. Cominciai davvero a sentirmi responsabile e non sapevo nemmeno io il motivo. Non avevo mai pensato a quanto le mie bugie avessero potuto avere influenza anche sulle altre persone, semplicemente non mi era parso rilevante. Non avevo mai avuto un vero amico, salvo Ruben ovviamente, ma Romeo adesso era quello che più ci si avvicinava.
«Torna a casa,» mi disse il Rosso, abbassando lo sguardo verde acqua.
«C-Cosa?» sbottai incredulo, senza comprenderne il motivo. «No, io devo spiegarmi. Ho bisogno che Cel sappia la verità, tutta la verità e ho bisogno che la venga a sapere da me.»
Romeo non disse nulla ma questa volta mi affrontò a viso aperto. C’era qualcosa di diverso in lui, come un’aria di malinconia e tristezza che mai gli avevo visto in faccia. Lui era sempre stato quello simpatico, col sorriso sulle labbra, non avrei mai pensato che anche lui fosse capace di soffrire.
«Avresti dovuto parlarle quando eri ancora in tempo per farlo,» smozzicò, ancora incerto sulle parole da confessarmi. «Sapevi che sarebbe andata a finire in questo modo e io mi sono anche fatto schiavizzare da Annalisa per pararti il culo, per darti più tempo, un’altra occasione. Invece non hai fatto nulla, hai continuato a mentirle e hai rovinato tutto.»
Di solito ero abituato a ricevere lusinghe dai fan, richieste di matrimonio, di autografi, di una notte di sesso senza impegno, invece era la prima volta che qualcuno di loro mi rimproverava. Era stato sempre compito di nonna Annunziata farmi mettere la testa apposto, così come faceva con mio cugino Simone. Invece Romeo mi spiazzò.
«Io… avrei dovuto, lo so,» tentai di giustificarmi, a mano a mano che il mio cervello realizzava l’enorme cazzata che avevo fatto non raccontando a Celeste tutta la verità.
«Avresti dovuto, ma non l’hai fatto!» disse Romeo, alzando la voce.
Sgranai gli occhi e mi sorpresi ancora di più da quella sua reazione. Sapevo di aver fatto un errore, ma avrei creduto di doverne rendere conto unicamente con Celeste. Invece Romeo sembrava amareggiato tanto quanto la biondina e io non riuscivo a spiegarmi il perché. Era triste, lo si poteva vedere dal verde spento dei suoi occhi così tentai di fare mente locale.
«Dov’è lei? Perché non mi risponde al telefono?» insistetti, sperando di ricavare una risposta concreta stavolta.
Romeo abbassò di nuovo lo sguardo e si torturò un lembo del giacchetto sdrucito con cui era uscito in strada. «Non posso dirtelo.»
Rimasi spiazzato da quella sua risposta perché mai mi sarei aspettato una così poca collaborazione da parte sua. In fondo mi amava, mi venerava, ero l’idolo di tutti e non poteva trattarmi come uno dei suoi amici falliti.
«Come, scusa?» cercai di chiarire, sentendomi tirato in causa.
«Non sei l’unico a cui non risponde,» mi disse solamente, incatenando di nuovo i suoi occhi coi miei. «Se l’è presa anche con me, se vuoi proprio saperlo. Ha detto che la menzogna se la sarebbe aspettata da tutti, ma non dal suo migliore amico.» E abbassò le spalle deluso.
Ecco spiegato quel suo comportamento distaccato e quella tristezza che vedevo riflessa sul suo viso, come se fosse un libro aperto. Forse Romeo era bravo a sorridere alla vita, ma non certo altrettanto in gamba da nascondere le sue emozioni.
«Tu mi hai solo coperto, non è colpa tua,» arrancai, venendogli in contro.
Forse non mi ero mai reso conto di quanto una semplice bugia potesse creare terra bruciata intorno a sé, ed ora ne stavo pagando il prezzo maggiorato. Quando tutto quello era iniziato, io avevo sempre pensato solo e soltanto a me stesso, infischiandomene di Romeo, di Ruben, di Celeste e di tutti gli altri che avrei coinvolto continuando a mentire, senza preoccuparmi del resto.
Col senno di poi era facile ragionare, mettere sul tavolo gli aspetti positivi e negativi di tutta la faccenda. Nella mia vita avevo ferito parecchie persone con le mie mani, preso a pugni compagni di squadra, offeso verbalmente paparazzi e giornalisti indiscreti, ma mai avrei pensato che con una semplice bugia detta sovrappensiero avrei potuto creare quell’infinita reazione a catena.
«Invece lo è,» insistette Romeo, sostenendo il mio sguardo. «Ho preferito sacrificare quello che avevo con Celeste per soddisfare i capricci del mio idolo ed ho sbagliato. Avrei dovuto fermarmi in tempo, ignorare i ricatti di Annalisa e andare direttamente da Celeste, perché in fondo sapevo che sarebbe andata a finire in questo modo, me lo aspettavo…» E lasciò che il vento troncasse la frase.
«Non so cosa dire,» me ne uscii, anche perché tutto quello mi era completamente nuovo.
Avevo chiesto scusa quattro o cinque volte in tutta la mia intera vita, forse troppo orgoglioso per ammettere di aver sbagliato, ma più Romeo apriva il suo cuore, più io mi sentivo una vera merda.
«Non devi dire nulla,» mi fermò lui, affondando le mani nelle tasche del giubbotto. «Celeste ha tutte le ragioni del mondo per odiarmi, perché mi sono fidato di uno come te.»
Quel commento mi arrivò tra capo e collo come una scure abbattuta con violenza sulla mia povera persona. Sentii una fitta di dolore alla bocca dello stomaco, come se quelle parole stessero veramente facendo effetto sul mio orgoglio.
«Ero innamorato di lei, cazzo,» sibilò a denti stretti, chiudendo gli occhi e maledicendosi mentalmente. Quando alzò lo sguardo verso il sottoscritto, mi sentii nudo sotto i suoi occhi smeraldini. «Te l’ho lasciata, ho rinunciato a lei pensando che tu avessi molto di più da offrirle, mentre io sono soltanto uno studente che viene ancora mantenuto dai genitori,» parlò ancora. «Tu sei Leonardo Sogno, il calciatore più forte e più in voga del momento, eppure le hai spezzato il cuore, come hanno fatto tutti gli altri. Avevo visto davvero qualcosa di diverso in te, ma evidentemente mi sono sbagliato.»
Quelle parole dette da un perfetto sconosciuto quasi, mi ferirono molto di più di qualsiasi altra critica avessi letto sui giornali. Il dolore allo stomaco si espanse, attraversò i muscoli, si radicò fin dentro le ossa e poi si attorcigliò attorno al mio cuore, come un animale che lo avesse intrappolato tra le sue spire.
«Allora ne eri innamorato,» sospirai, affondando anch’io le mani nel giubbotto di pelle.
L’avevo sospettato, che Romeo provasse qualcosa nei confronti di Celeste, si vedeva lontano un miglio che pendeva dalle sue labbra, ma non avevo voluto crederci fino a quando lui non lo aveva ammesso ad alta voce. In quel momento mi sentivo uno sciocco, un vero beota che era caduto dalle nuvole e che aveva sempre ignorato quello che era stato davanti ai suoi occhi per un eternità.
Romeo calciò un sassolino con la punta delle sue All-Star. «Ero,» specificò, senza però addolcire il tono di voce. «Adesso non mi rimane nemmeno la sua amicizia. Mi sono bruciato tutto quanto soltanto per un sogno.»
«Quindi non sai dove si trovi,» buttai lì, sperando mi dicesse quello che volevo sapere.
Romeo sbuffò e tirò fuori un mazzo di chiavi dal giubbotto. «È partita, sta da Ven. Potrei anche dirti dove si trova, in che via abita, ma non penso che tu dovresti parlarle,» concluse, aprendo il portone.
«Perché?» chiesi, rimanendo esterrefatto da quell’affermazione.
Rimase per metà con un piede sull’asfalto e l’altra metà nell’androne della palazzina. «Celeste dà raramente una seconda occasione, ormai dovresti saperlo. Tu hai già bruciato la tua.»
Dopo quelle parole entrò definitivamente nel palazzo e lasciò che il portone si chiudesse davanti ai miei occhi con un tonfo. Quello fu il segno che era finito tutto, che la mia ipotetica amicizia con lui non sarebbe più andata avanti. Avevo fatto un passo più lungo della gamba, continuando a mentire senza mai preoccuparmi delle conseguenze. Mi resi conto solo in quel momento di quello che avevo fatto, quando un tuono in lontananza annunciò l’arrivo di un temporale.
Ero solo, di nuovo.
Una goccia di pioggia s’infranse sulla pelle del mio giubbotto, facendomi alzare il viso verso il cielo nero di quella notte d’Aprile. Avrei potuto insistere, come aveva detto Romeo, avrei potuto scoprire dove abitasse la piccola amica di Cel, seguirla, e se fosse scappata ancora incollarmi a lei come un’ombra fin quando non si fosse decisa a parlarmi. Eppure in quel momento mi sembrava tutto inutile.
Stai forse mollando?
La pioggia cominciò a cadermi addosso, a scivolare sui miei vestiti eleganti indossati a festa. Forse avevo dato tutto quello per scontato, ormai ero abituato a essere circondato da loro ogni giorno, ogni momento della mia vita e soltanto dopo un po’ riuscii a metabolizzare che avrei perso anche tutto il resto. Non ci sarebbero più state le litigate con Celeste, le sue correzioni da maestrina puntigliosa, le prese in giro tra Robbeo e Ven o anche la gelosia con Anna.
Aveva ragione Romeo, era inutile continuare a provare. Avevo deluso troppe persone nella mia vita e mi sarei anche meritato quello che era successo.
Si impara dai propri errori, ragazzo mio, diceva sempre nonno Alfonso e se mai avessi avuto un’altra occasione, ci avrei pensato bene due volte prima di mandare tutto all’aria.
Decisi che era inutile starsene lì immobile ad aspettare che giungesse chissà quale miracolo, così frugai nelle tasche ed estrassi il mazzo di chiavi facendo scattare l’allarme dell’Audi. Mi sedetti al posto di guida, infischiandomene che i sedili di pelle si rovinassero con l’acqua, e rimasi a fissare il volante come se avessi trovato delle risposte nelle gocce di pioggia che scivolavano sul vetro.
Sbuffai e lasciai cadere il capo sul poggiatesta, fissando lo sguardo sul tettuccio ricoperto di moquette. Quella sensazione strana era peggiorata, mi sentivo quasi male a pensarlo.
Girai la chiave nel quadro e le luci dell’Audi si accesero all’unisono, poi udii il rombo del motore e quel tremolio sotto il sedile. Non ricordavo nemmeno com’era la mia vita prima di tutto quello, prima che l’uragano Celeste vi entrasse precipitosamente e sconvolgesse ogni mia routine.
Imboccai la via principale e svoltai a destra, facendo mente locale e tentando di non perdermi nella mia stessa città. Tutta quella situazione mi aveva sconvolto, confuso, non riuscivo più a raccapezzarmici. Era avvenuto troppo in fretta, facevo ancora fatica a capire cosa fosse successo e fino a quel momento l’unica cosa chiara in tutta la nebbia che aleggiava nel mio cervello era la chiara mancanza di qualcosa, proprio all’altezza del petto. Sentivo un forte vuoto, un freddo che mi faceva male.
Svoltai ancora e percorsi tutta la zona di San Lorenzo tornando al mio quartiere per rintanarmi nell’appartamento che dividevo con Ruben. L’unico e vero Ruben, adesso. Quel 21 Aprile era stato un giorno nero, in un attimo si era distrutto quello che avevo costruito con fatica e senza quasi rendermene conto ero di nuovo solo. Spinsi l’acceleratore al massimo, beandomi delle luci cittadine che sfrecciavano veloci attorno ai miei occhi stanchi. Avrei dovuto ammettere a me stesso le mie colpe, realizzare che avevo fallito di nuovo, ma non ci riuscivo.
Adesso devi pensare unicamente alla Champions.
In fondo cosa m’importava di Celeste? Avevo sempre il mio pubblico, la mia squadra, la mia vita da portare avanti e lei non era stata altro che una distrazione, sin dall’inizio.
Strinsi il volante con forza, fino a farmi diventare le nocche bianche per lo sforzo. Finalmente non avrei più dovuto mentire sulla mia identità, non avrei dovuto nascondermi né trovare inutili spiegazioni.
Era ora.
Eppure non ti dispiaceva così tanto fino a ieri.
Digrignai i denti infuriato, arrabbiato col mondo e con la serie di eventi che non mi avevano permesso di sistemare le cose. Avrei dovuto dimenticarla, così come avevo fatto con la scuola, con una vita normale, perché da quando avevo accettato di essere Leonardo Sogno, oltre la fama che ne sarebbe derivata, avevo detto addio a tutto ciò che mi teneva ancorato alla semplicità.
Arrivai sotto il mio palazzo e parcheggiai l’Audi nel garage, accanto alla Jaguar e alle altre macchine sportive che ormai collezionavo come se fosse un hobby. Sentivo ancora l’umidità della pioggia addosso, ma non per questo desiderai togliermela. Era come se quel freddo che percepivo attorno a me, sui vestiti, mi avvolgesse e fosse molto più caldo di quello che si stava formando attorno al mio cuore. Entrai nel portone e salii sull’ascensore, tirando fuori il mazzo di chiavi del mio appartamento.
Aprii la porta blindata e mi sfilai il giubbotto, sentendo dei rumori provenire dalla camera di Ruben. Poco dopo lo vidi fare capolino dalla sua stanza, con gli occhiali mezzi sbilenchi sulla punta del naso e mi guardava sorpreso.
«G-Già d-d-di ri-rit-ritorno?» domandò preoccupato, visto che gli avevo detto che sarei andato ad una festa. Era abituato a vedermi rientrare direttamente la mattina dopo, invece alle 22.00 ero già nel mio appartamento.
Feci spallucce e appesi il giacchetto di pelle all’aria, per farlo asciugare. Non avevo voglia di parlare con nessuno, anche perché non avrei saputo cosa dire. Celeste se n’era andata, non mi aveva permesso nemmeno di giustificarmi e tra pochi giorni sarei partito per la Capitale inglese.
Forse è la cosa migliore che potesse capitarti.
Un po’ di lontananza mi avrebbe fatto bene, avrei potuto buttarmi sul lavoro, pensare alla partita e finalmente dimenticare tutto quanto.
«L-La f-fe-fes-fe-fe- il party e-era n-no-noioso?»
Scossi la testa e tentai di non incontrare i suoi occhi, perché ero sicuro che avrebbe capito cos’era successo. «Da oggi puoi riavere la tua identità,» gli comunicai solamente, percorrendo il corridoio e giungendo sino alla mia stanza.
«C-Co-Cos’è su-suc-successo?»
Ma avevo già chiuso la porta alle mie spalle, senza dargli ulteriori spiegazioni. Mi gettai sul letto di schiena, fissando il soffitto, sentendo ancora la camicia fradicia a contatto con la mia pelle.
Rabbrividii, ma non per il freddo.
In quel momento non sentii nulla, era come se il mondo intero avesse smesso di girare ed io con lui. Forse ancora avrei dovuto metabolizzare il tutto, magari il mio cervello era tardo come sosteneva Cel.
Smetti di pensarla ogni dannato momento, vuoi farti del male?
Aveva ragione, ormai mi veniva automatico paragonare ogni pensiero a lei. Ormai avrei dovuto contare unicamente su me stesso, concentrarmi su quella che era la mia vita e che mi era sempre bastata per ventidue anni interi.
Tirai fuori falla tasca l’i-Phone e fissai lo schermo nero e lucido che rifletteva un paio di occhi tristi. Quell’immagine non mi era affatto familiare, non rifletteva il Leonardo fiero e spavaldo, il calciatore arrogante che non si sarebbe fatto mettere sotto da niente e da nessuno. Posai il telefono sul letto e chiusi gli occhi, appoggiando l’avambraccio sul viso e isolandomi ancor più dal mondo.
Poco dopo sentii qualcuno bussare, ma non risposi. Sapevo che Ruben era preoccupato, anche se non gli avevo rivelato quasi nulla. Eravamo amici da troppo tempo perché le parole servissero a qualcosa.
«P-Posso?» chiese, entrando cheto nella mia stanza.
«Ormai sei dentro,» sbuffai senza nemmeno aprire gli occhi.
Avvertii i suoi passi riecheggiare all’interno della stanza immersa nella penombra, poi un peso leggero si sedette sul materasso facendolo inclinare.
Ruben, avevo trascinato anche lui in tutta quella storia senza pensarci.
«H-Ha sco-scop-scoperto t-t-tu-tut-tutto!» sputò alla fine, non trovando le parole che gli impedissero di balbettare.
«Ottima osservazione Sherlock,» ironizzai, mantenendo un tono di voce neutro.
In fondo non me ne fregava nulla, sarei sopravvissuto anche a quello e ad ogni avversità mi si sarebbe presentata davanti. Leonardo Sogno non era un debole, non lo era mai stato.
«D-Dov-Dov’è ora?»
Aprii pigramente un occhio e lo puntai in quelli nocciola del mio amico, l’unico che mi era rimasto. «Ha lasciato la città, se è questo che vuoi sapere,» tagliai corto.
Lo vidi impallidire a quella notizia e torturarsi le mani in grembo in un chiaro gesto di nervosismo. «T-T-Tu st-stai b-be-bene?» mi chiese preoccupato.
«Certo,» risposi prontamente, stando attento a non lasciare che il freddo che avevo attorno al cuore non gelasse le mie parole. «Sopravvivrò.»
La parte del menefreghista mi riusciva alla perfezione, forse avrei dovuto pensare a fare qualche pubblicità, visto che me la cavavo piuttosto bene a sparare stronzate.
«V-Vuoi c-c-che c-chi-chia-chiami il M-Mi-Mister?» s’informò preoccupato.
A quel punto scattai a sedere, fissandolo serio. «Ho detto che sto bene,» sentenziai, forse un po’ brusco. «Partirò, se è questo che ti preoccupa. Soltanto perché lei se n’è andata non vuol dire che la mia vita sia finita.»
Ruben si sentì minacciato da quella mia nuova e ambigua personalità, così non rispose ma si limitò a farmi un sorriso stiracchiato. Mi posò una mano sulla spalla e si alzò, dirigendosi verso la porta. Si fermò poco prima di varcare la soglia, poi mi lanciò un ultimo sguardo. «M-Ma-Mancherà anche a m-me…» disse solamente e in quel preciso istante qualcosa si ruppe all’interno del mio corpo, si spaccò esattamente a metà.
 
Il volo diretto Roma-Londra delle 11.45 del mattino era silenzioso, molto più di quanto mi sarei aspettato da un aereo di linea. Eravamo partiti quella mattina stessa, quando Fiumicino era quasi completamente deserto salvo i numerosissimi fan che erano venuti a darci l’incoraggiamento per la trasferta.
Quella stessa mattina avevo ricevuto una telefonata da mio padre che mi dava l’augurio di buona fortuna e un semplice SMS da Simone, con un unico sorrisetto.
Lo odiavo.
Il resto fu stato solamente un continuo di file, al ceck-in, per le valigie, al metal detector con tutti i miei compagni che ridevano, eccitati da quell’avventura. Ruben aveva voluto accompagnarmi, nonostante se ne restasse in silenzio. In fondo anche io ero restio a relazionarmi con il resto del genere umano, era da un po’ che mi sentivo così.
Il boeing 568 dell’Alitalia accolse tutta la squadra dell’A.S. Roma, più lo staff e alcuni manager che vollero seguirci in questa avventura. Tra le file della prima classe si vociferava che ci fosse addirittura il Presidente seduto tra di loro, ma nessuno lo aveva ancora visto. Personalmente preferii isolarmi nel mio silenzio, infilare nelle orecchie le cuffie dell’i-Pod e fa suonare i Dire Straits a ripetizione. Guardai fuori dal finestrino, notando come lentamente l’aereo si alzava dal suolo e prendeva quota, mentre la mia mente era del tutto altrove.
Avrei dovuto mettermi in testa di darmi una regolata, stavamo per affrontare una delle squadre più forti della Premier League, inoltre avrei rivisto quella faccia da cazzo di mio cugino e non potevo permettermi più nessun errore. Già ne avevo fatti tanti in passato, anche a causa di Celeste e non potevo più permetterle di rovinare l’unica cosa cui tenessi. Ormai mi rimaneva solo il mio lavoro e la mia fama, null’altro.
Posai il mento sul palmo della mia mano e fissai lo sguardo sulla città che diventava sempre più piccola. Le case apparivano come dei timidi puntini tra l’immenso verde e le strade sembravano quasi arterie che si diramavano tra le fitte membra della Città Eterna. Mi chiesi se Celeste stesse guardando il cielo mentre anch’io avevo lo sguardo fisso sulla terra e mi resi conto che noi appartenevamo a due mondi completamente diversi.
Come cielo e terra.
«Ehi.» Una voce mi riscosse dai miei pensieri proprio quando Romeo and Juliet aveva suonato il suo ultimo accordo. Mi voltai sorpreso, togliendomi le cuffie e rispecchiando lo sguardo in uno del tutto familiare.
«Cosa ci fai tu qui?» domandai allarmato, trovandomi di fronte niente di meno che quella sciroccata di Annalisa Cavalli.
Si sedette nel posto accanto al mio, visto che Ruben si era assentato per andare in bagno e a giudicare dal terrore che aveva per i voli, ci sarebbe rimasto per tutto il viaggio.
Ci manca solo la Sanguisuga.
A completare il quadretto perfetto della mia vita ci sarebbe mancato solamente un approccio poco gradito da parte sua. Non ero proprio in vena in quel momento, avrei dovuto unicamente concentrarmi sulla partita, su Simone, sull’Arsenal e sulla Champions. Il resto doveva aspettare.
«Non è giornata,» mi affrettai a dirle, prima che potesse tirare fuori qualsiasi argomento che mi avrebbe obbligato a scollarmela di dosso con un’infinità di scuse.
«Ho deciso di seguire mio padre,» mi spiegò lei, ignorando il mio avvertimento.
Le lanciai uno sguardo di sbieco, quando continuai a sentire la musica da uno solo degli auricolari. «Ti serviva una nuova borsa da Harrods?» chiesi sarcastico.
Magari ero io che stavo cambiando, oppure si trattava di tutta la situazione vista nell’insieme, ma mi sembrò che Annalisa non fosse la stessa di sempre. Sperai si trattasse di un’apparenza.
«Volevo cambiare aria,» continuò, ignorando il mio commento. Notai solo in quel momento che non era vestita allo stesso modo sgargiante di sempre, ma aveva unicamente scelto un paio di semplici jeans e un maglioncino. Non appena vidi gli stivali di pelo senza tacco per poco non credetti che l’avessero drogata.
«E come mai?»
Ero curioso di sapere cosa avesse spinto Annalisa Sandra Cavalli a tirare fuori il meglio di sé stessa senza sembrare necessariamente una battona. Suo padre ne sarebbe stato contento, su questo non v’erano dubbi.
Anna mi fissò con quegli occhi verdi che mi avevano sempre messo un po’ d’ansia addosso ma che adesso sembravano unicamente… tristi.
Fece spallucce e cominciò a giocherellare con una ciocca di capelli fulvi. «Così,» smozzicò abbassando lo sguardo. «Forse avevo bisogno di lasciarmi dietro dei brutti ricordi.»
Se non fossi stato così preso a recepire tutte le parole che erano uscite dalla sua bocca, di sicuro sarei rimasto sconvolto. Possibile che la stessa Annalisa che aveva fatto di tutto per separare me e Cel pur di conquistarmi fosse la stessa seduta al mio fianco?
«Sei sicura di star bene?» domandai per sicurezza, magari aveva contratto chissà quale virus, e avevo paura di beccarmelo.
Un sorriso appena accennato comparve sul suo volto bianco come il latte, così preciso e pulito da sembrare quasi porcellana. «Non sei il solo che ha bisogno di dimenticare, di fare chiarezza nella propria vita.»
Rimasi spiazzato dalla vera personalità di Annalisa e fui altrettanto sorpreso che si mostrasse a me in quel modo. Avevo sempre conosciuto il lato arrogante, vanitoso, superbo e mai mi sarei aspettato che invece nascondesse tutt’altro. In fondo non era che una ragazza di vent’anni, proprio come me e come tutti gli altri.
«Perché mi stai dicendo questo?»
Un’altra sferzata di verde mi colse impreparato, così come la nota malinconica che potei cogliere dalla sua voce. «Ne sono successe di cose in questi giorni,» mormorò, tirando fuori il Samsung Galaxy dalla tasca dei jeans e cominciando a smanettarci. «Forse non sei l’unico che ha avuto la peggio.»
Cosa le era successo per cambiarla in questa maniera? Perché non si era gettata a capofitto sul sottoscritto? Per quale motivo mi parlava come se fosse… un’amica
«Tu non sei Annalisa, non puoi essere la stessa di qualche giorno fa!» sbraitai incredulo, sorprendendola più del dovuto.
«Infatti, quella non ero io, o meglio, era soltanto la versione di me che amo mostrare agli altri. Un po’ come tu hai fatto con Celeste,» spiegò, tornando a guardarmi. «Gli altri si sono sempre aspettati un certo comportamento da me, che fossi quel tipo di persona e io non ho fatto altro che accontentarli. E anche a me piaceva. Sono diventata quello che tutti volevano che diventassi, ma ora non ne sento più il bisogno.»
«E tutto questo quando l’hai capito?» le domandai curioso.
Vidi una lacrima scivolare silenziosa all’angolo del suo viso diafano e morirle sulle labbra, prima che si nascondesse per non sembrare troppo debole. Non riuscì a dirlo, ma mi porse il telefono che teneva in mano. Lo afferrai mentre Anna afferrò un fazzoletto e si soffiò il naso, poi spinsi il pulsante centrale in modo da illuminare lo schermo.
La foto di sfondo parlava per sé e in quell’attimo compresi tutto, o quasi.
C’era Annalisa che rideva, e non una ragazza qualsiasi, ma quella stessa persona che ora mi era seduta al fianco. Rideva con gusto, spensieratezza, con la stessa gioia pulita priva di tutta quell’ipocrisia che si respirava tra quelli come noi, come me e lei.
Al suo fianco vidi Romeo.
Aveva una delle sue solite facce sceme, di quelle che Ven avrebbe sfottuto fino alla morte, ma non sembrava importargliene perché stava facendo il buffone per far ridere Anna, magari per farle dimenticare un brutto pensiero.
Le restituii il cellulare perché non c’era bisogno d’altro. «Ne sei innamorata?» le domandai, forse un po’ troppo frettolosamente.
Lei rimise il telefono nella tasca dei jeans e tirò su col naso. Avrei dovuto darle tempo perché non era una cosa facile, io lo sapevo meglio di tutti.
«Ha pensato che fossi stata io a vuotare il sacco,» sospirò alla fine. «Mi ha chiamato infuriato, ha detto che sono una persona orribile e che non avrei dovuto tradirlo, che non avrei dovuto infrangere la promessa.»
Mi rivolse uno sguardo che mai avrei saputo reputare più sincero. «Io non le ho detto nulla, lo giuro!» insisté, cercando di trattenere le lacrime per non attirare l’attenzione degli altri giocatori. «Hanno litigato per colpa mia, ha detto,» disse di nuovo, posando meccanicamente la testa sulla mia spalla. Non ci fu nulla di malizioso. Le passai un braccio attorno alle spalle e l’attirai verso di me, accarezzandole distrattamente i capelli. «Mi odia,» concluse amareggiata.
«No, non dire così,» cercai di rassicurarla, anche se tutta quella situazione mi pareva assurda. Ero salito su quell’aereo con l’intento di dimenticarmi tutta la storia, invece mi ritrovavo a fare da consulente alla persona che fino a qualche settimana prima aveva reso la mia vita un inferno.
«Lui la ama ancora,» smozzicò, stringendo con forza una piega del maglione.
«È impossibile, lo ha detto a me che non l’ama più,» le confermai, ma Anna sembrava non voler demordere.
«Gli piace un’altra.»
Non seppi cosa replicare a quella risposta, anche perché non conoscevo abbastanza bene Romeo per metterci una mano sul fuoco. Era un personaggio ambiguo, un ragazzo molto particolare, ma sicuramente una persona fidata e giusta.
La faccenda della bugia si era espansa a macchia d’olio, coinvolgendo tutte le persone che mi erano accanto ed io non me n’ero nemmeno reso conto. In un pomeriggio ero riuscito a distruggere tre persone.
Anna tirò su il capo e cercò i miei occhi, cercando di non piangere. «Perché?» chiese malinconica.
«Perché, cosa?» chiesi dubbioso.
«Io e te avremmo potuto avere chiunque. Siamo ricchi, belli, famosi, avremmo potuto scegliere il meglio del meglio e tutti quanti ci avrebbero invidiati.»
Era un discorso che aveva molto senso e mi sentii uno stupido per aver dovuto aspettare Annalisa per arrivarci.
«Per quale motivo ci siamo innamorati di due persone così diverse dalla vita cui siamo abituati?» domandò più a sé stessa che al sottoscritto.
Non seppi risponderle, anzi, non sapevo proprio cosa dire. Avrei voluto urlarle contro che non ero innamorato, che di Celeste non me ne fregava un cazzo, che la odiavo per non avermi dato occasione di chiarirmi, di screditarmi, ma non ci riuscivo.
Dissi solamente «Se potessimo sceglierci le persone da amare, allora non sarebbe vero amore, il nostro.»
Un suo sospiro mi bastò come segno d’assenso dopodiché le passai una cuffietta dell’i-Pod e passammo il resto del viaggio così, abbracciati, a leccarci reciprocamente le ferite che noi stessi ci eravamo inferti.
Per le persone come noi non ci sarebbe stato alcun lieto fine, nonostante vivessimo in una favola.
 
This is the way you left me.
I’m not pretending.
No hope, no love, no glory,
No happy ending.
Con questo Pov si conclude il ''momento della  verità'' che ha visto i nostri due protagonisti affrontare la marea di bugie che rischiavano di inclinare il loro rapporto. Questa volta è toccato a Leo, il quale nonostante si renda conto di essere dalla parte del torto, non riesce a concepire realmente di aver sbagliato perché le sue bugie erano a fin di bene.
Il titolo 'No happy ending' l'ho scelto perché mi ha fatto pensare a quanto la vita da star sia dura e non sempre tutta 'rosa e fiori'. Alla fine Leo ha litigato anche con Romeo che lo ritiene responsabile del suo allontanamento da Celeste. Lei non c'era, è andata a Tivoli da Venera e chissà per quanto ci rimarrà. Questo è un momento di stasi, un tempo che rimarrà congelato e darà modo ai protagonisti di riordinare le loro priorità.
E poi l'ultima parte del capitolo, cui io tengo MOLTISSIMO, perché ci fa vedere un lato di un personaggio che mai ci saremmo aspettati. Personalmente CIUS mi piace perché io e lOver siamo riuscite a dare spazio anche ai personaggi secondari e così ho voluto dedicare questo capitolo 14 anche ad Anna che per la prima volta in tutta la sua vita si trova a dover fare i conti con l'amore (quello vero).
Leonardo si stupisce di ciò, ne rimane completamente stravolto, eppure mostra il lato maturo del suo carattere, dando conforto ad Annalisa che, inevitabilmente, è stata trascinata dal corso degli eventi.

Beh, vi lascio alle vostre riflessioni. Lasciate un pensiero se vi va! :3
Al prossimo capitolo, sperando che il tempo aggiusti tutto.

Ora un po' di pubblicità:

Ricordate il gruppo Crudelie si nasce, dove potrete trovare spoiler, foto e tanto altro!



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Capitolo 15
*** Amici e orsetti gommosi ***


 

CAPITOLO 15


Betato da Nes_sie

Non era da me fuggire in quella maniera, e anche ora che guardavo il mio riflesso sulla finestra mi sembrava di vedere una ragazza che non era Celeste. Avevo sempre cercato di superare gli ostacoli e di dimostrarmi forte e cinica di fronte a qualunque cosa mi accadesse. Ma quella sera nemmeno il mio subconscio era riuscito a farmi reagire, a infondermi la sua innata razionalità che, più di una volta, mi aveva tolto da numerosi impicci. Aveva taciuto, anche lui scosso da tutto quello che era accaduto in poco meno di un’ora. La mia fiducia era stata tradita prima da Leonardo, poi da Romeo. La menzogna di quel maledetto calciatore mi aveva fatto male, mi aveva ferita proprio quando avevo abbassato le mie difese e avevo ritirato gli artigli, per concedergli la possibilità di entrare a far parte della mia vita. Ma era stato Romeo ad avermi dato il colpo di grazia. Scoprire che lui, il mio migliore amico, la persona con cui avevo condiviso dieci anni della mia vita e di cui mi fidavo, mi aveva mentito solo per difendere Leonardo; era stata come una stilettata inferta con violenza all’altezza del cuore. Sapeva quanto odiassi i calciatori, quanto detestassi le bugie, quanto non sopportassi essere presa in giro. Eppure aveva contribuito a quella recita messa in piedi da Leonardo, preferendo difendere lui piuttosto che la sua migliore amica.
«Sto preparando il caffè per la colazione. Ne vuoi un po' anche tu?» mi domandò Venera, sbucando solo con il viso dalla cucina.
Mi voltai per poterla guardare negli occhi, stiracchiai le labbra in un sorriso e scossi la testa in segno di negazione.
«Preferisci un bicchiere di latte? Di tè? Un succo di frutta?»
«No, grazie, non voglio nulla.»
Ven roteò gli occhi verso il cielo e mugugnò di dissenso, sparendo nuovamente dentro la cucina. Tornai a guardare fuori dalla finestra quel paesaggio, baciato dai raggi solari mattutini, che non mi apparteneva: il giardino che circondava la cascina di casa Donati e poco più in là le strade di Tivoli.
Ero fuggita, scappata da Leonardo e da Romeo. L’aria nel mio appartamento era diventata irrespirabile, troppo pesante. Avevo sentito la necessità di allontanarmi da Roma per cercare di rimuovere il peso che si era posizionato sul mio petto. Avevo preso il mio vecchio zaino delle superiori e lo avevo riempito con qualche vestito e della biancheria intima. Lo stesso avevo fatto per Ven, riempiendo la valigia con i suoi abiti ammassati in una palla informe. L’avevo presa per un braccio, trascinata fuori dal mio appartamento, senza degnare Romeo di alcuna spiegazione. Aveva tentato di capire che cosa stesse succedendo, ma lo avevo allontanato in malo modo e spinto contro il muro, mentre tentava di fermarmi.
«Si può sapere che ti prende?» aveva urlato Ven, una volta uscite fuori dalla palazzina.
«Voglio andare via! Voglio allontanarmi da qui! Voglio dimenticare tutto quello che è successo!» le avevo risposto con un tono di voce forse troppo alto.
«E dove dovremmo andare?»
«Non lo so! Lontano da qui!»
Ven mi aveva fissata a lungo, sconvolta dal mio comportamento e forse dalle mie guance umide. Era raro, se non impossibile, vedermi piangere. L'ultima volta che avevo versato lacrime era stato quattro anni prima per il mio ex fidanzato, un traditore bastardo che aveva giocato con i miei sentimenti; da quel momento mi ero ripromessa di non piangere più per un ragazzo. Avevo sempre cercato di non far avvicinare più nessuno a me, mi dicevo che non avevo bisogno di un ragazzo al mio fianco. E soprattutto non volevo più innamorarmi. Per colpa dei ragazzi avevo accumulato una delusione dopo l'altra; avrei dovuto soltanto studiare e scrivere romanzi e lasciare l'amore ai masochisti che volevano farsi del male. Avevo chiuso con l'amore, con l'amicizia e con qualsiasi altro sentimento quella sera stessa. Avrei coltivato solo il legame che mi legava con Ven, qualcosa che andava ben oltre all'amicizia, sfiorando quasi la fratellanza. Venera era come la sorella che non avevo mai avuto, un pezzo di me che mi era stato strappato e che avevo ritrovato.
Il primo luogo che mi era venuto in mente era stata casa Donati e, seppur con qualche remora, Ven aveva accettato di ospitarmi nella sua cascina. Fortunatamente avevamo trovato un treno che ci aveva condotto a Tivoli, nonostante l'ora tarda. I genitori della mia migliore amica si erano stupiti di vedere la loro figlia già di ritorno ed ancora di più di vedermi lì con solo uno zaino e la faccia da zombie. Per fortuna, avevano avuto l'accortezza di non fare domande. Non sapevo quanto sarei rimasta lì. Fosse stato per me anche tutta la vita: più mi fossi allontanata da Roma e da chi vi abitava, meglio sarebbe stato per la mia sanità mentale. Ma lì avevo il lavoro alla gelateria e i corsi da seguire, per cui non avrei potuto trattenermi da Ven troppo a lungo. Non sapevo che cosa avrei fatto, una volta tornata a casa, come avrei fatto ad abitare ancora insieme a Romeo, dopo che la nostra amicizia era collassato come un fragile castello di carte, sotto un leggero soffio.
«Vuoi una brioche?» Ven comparì ancora una volta dalla cucina, con una tazza di latte e caffè in una mano e due Nastrine nell'altra.
«Non ho fame.»
Il sopracciglio sinistro di Ven si sollevò rapidamente, per poi tornare nella sua posizione naturale. Addentò con voracità la sua brioche; mi guardò: i suoi occhi blu sembravano scagliarmi contro lampi di rabbia.
«Per quanto ancora dovrà durare il tuo stato ameboide?» mi chiese scocciata.
Scrollai le spalle e mi andai a sedere su una poltrona, appoggiai la guancia sul palmo della mano e cominciai ad osservare con attenzione la fantasia del tappeto persiano del salotto. Non era da me stare seduta su una poltrona a non far nulla, a stare in silenzio piuttosto che urlare contro qualcuno o qualcosa, dal mio vicino di casa metallaro al digitale terrestre che faceva i capricci. Io stessa mi ero accorta del mio cambiamento e volevo reagire, smettere di pensare alla sera precedente e tornare la Celeste furiosa che ero sempre stata. Ma non ci riuscivo, il mio corpo e una parte del mio cervello si opponeva a quell'ordine.
«Comincio già a non sopportarti più,» borbottò, inzuppando la brioche nel latte e caffè. «Che cosa combini se ti piangi addosso? Un. Bel. Niente!» sillabò. «Tranne che risultare pesante e assolutamente insopportabile.»
«Permetti che possa esserci rimasta male?» chiesi retoricamente.
«Ovvio che tu ci sia rimasta male! Ma non per questo devi passare tutto il tempo a fissare fuori dalla finestra o ammirare lo schifoso tappeto persiano che ci ha regalato quella bacucca della prozia Agata!»
Ven appoggiò la tazza sul tavolino e ingurgitò l'ultimo pezzo di brioche, accovacciandosi accanto alla poltrona sulla quale ero seduta. Mi appoggiò una mano sul braccio e me lo accarezzò.
«Non hai nemmeno dormito stanotte. Ti sei coricata per un'oretta, poi ti sei alzata. E non mi stupirebbe se ti fossi messa a fissare il vuoto dalla finestra.» Abbassò un po' il tono di voce e abbozzò un mezzo sorriso. Sotto la scorza dura e cinica di Ven, c'era una piccola anima di zucchero e io ero una delle poche ad aver avuto il privilegio di intravedere quella parte di lei.
«In realtà, sono stata un po' in cucina prima di andare a guardare fuori dalla finestra,» confessai.
«Wow, interessante! Ti piace il set di coltelli che ho comprato? Non si sa mai che possano tornare utili...»
Ridacchiai appena e Ven  ne sembrò felice. Si alzò e mi strinse un braccio per costringermi a lasciare la comoda poltrona. Feci un po' di resistenza, ma riuscì a farmi alzare e sorrise trionfale.
«Si esce! Stiamo fuori tutto il giorno e voglio veder sparire quel musone sotto il quale si nasconde la mia migliore amica!»
«Non ho voglia, Ven...» mugugnai, ma lei mi puntò un dito contro e mi guardò perentoria.
«Il mio era un ordine.»
Tentai di oppormi, cercando di farle cambiare idea. Non ero dell'umore giusto per andare a fare una passeggiata e non le sarei stata affatto di compagnia. Dovetti cedere, però, all'ordine di Ven, anche perché mi aveva trascinata nella sua camera e mi aveva costretto a mettermi qualcosa di più decente di una maglietta su cui era stampata la faccia sbiadita di Mickey Mouse.
Le vie di Tivoli non mi erano affatto familiari, mi sentivo spaesata, come un pesce costretto a stare sulla terra ferma. In verità sentivo la nostalgia di Roma e della mia casa, anche se ero via solo da poco meno di dodici ore. Non ero abituata e quel cambiamento repentino e istintivo mi aveva scombussolata più di quanto mi sarei potuta aspettare.
Camminavamo in silenzio; Ven mi lanciava qualche sguardo speranzoso per spronarmi ad iniziare un discorso, ma notando la mia totale assenza di parola lasciava perdere e  cominciava a fischiettare. Cercai un argomento nella mia mente per cominciare a chiacchierare e rendere quella passeggiata meno pesante di quanto fosse, ma l'unico mio pensiero era rivolto a Robbeo e quel beota di Leonardo. Più tentavo di non farmi male, più me ne facevo involontariamente. E non ero la sola ad affondare ancora di più la lama, ma ci si metteva anche l'edicola che stavamo superando. La foto di Leonardo Sogno troneggiava sulla copertina di Vanity Fair e guardava l'obiettivo con il tipico sguardo ammiccante che aveva sfoggiato più volte anche con me. Ancora non mi capacitavo della facilità con cui Leonardo mi avesse ingannata. Ogni elemento per capire la verità era sotto i miei occhi fin dall’inizio. Leonardo era su ogni rivista, che fosse di gossip o di moda, era in ogni trasmissione televisiva e non mi avrebbe stupito scoprire perfino che Roma fosse tappezzata di cartelloni con il suo volto. Nemmeno durante la partita di beneficenza dei pulcini avevo capito, anche se era chiaro che la talpa rachitica non poteva essere il calciatore che il pubblico acclamava come proprio idolo. Forse perché erano stati tutti complici di quel film di cui ero la protagonista inconsapevole: non solo Romeo, ma anche nonna Annunziata, la prima ad appoggiare suo nipote e perfino il suo insopportabile cugino che, nonostante l’odio reciproco che li legasse, aveva comunque retto il gioco a Leonardo pur di divertirsi alle mie spalle.
Ma chi volevo prendere in giro? Nemmeno la più convincente interpretazione del miglior attore del mondo avrebbe potuto rendere veritiera quella situazione. Eppure io ci ero cascata, inghiottita dentro di essa senza che me ne rendessi conto.
«Dio mio. Sono proprio stupida,» borbottai tra me e me.
«Che succede, Cel?» mi chiese Ven, incuriosita.
«Come ho fatto a non accorgermi di nulla? Sono proprio tonta. Le sue foto erano ovunque, lui era ovunque nei programmi tv e io mi sono bevuta la scusa del fioraio!»
«Non sei stupida. Lui è stato solo più furbo di te.»
La guardai di traverso, leggermente offesa dal paragone con quel babbeo di Leonardo.
«Nel senso che ha approfittato del fatto che tu fossi invaghita per mettere in scena la sua “recita”,» spiegò con ovvietà.
«Quando l’ho conosciuto non ero invaghita. Pensavo solo che fosse un caprone con troppi muscoli e poca materia grigia.»
«Probabilmente eri attratta da lui. Quando poi hai cominciato ad uscirci le prime volte ti sei divertita, hai capito che la vita non è fatta solo di libri e di file Word. E così, anche se gli indizi erano lampanti, il tuo cervello si è quasi rifiutato di farteli vedere per proteggere la felicità ritrovata dopo tanto tempo.»
Rimasi stupita dalla saggezza delle parole di Ven. In quello che aveva detto c’era più verità di quanto volessi o avessi voluto davvero ammettere. Non avrei però mai ammesso la mia cecità di fronte alla bugia di Leonardo, era un affronto troppo duro per il mio orgoglio da poter essere tollerato.
«Può essere,» rimasi sul vago, cercando di non incontrare gli occhi di Ven. La mia migliore amica aveva la strana capacità di leggermi nel pensiero e in quel momento non volevo che intuisse la mia inquietudine. «Ma questo non cambierà le cose. Ormai ho chiuso con Leonardo, con la sua famiglia e con Romeo. Tornerò alla mia vita di prima, tornerò a studiare, a servire gelati e a scrivere i miei romanzi.»
Appena fossi tornata a casa, semmai fossi ritornata, avrei dovuto ricordarmi di cancellare per l’ennesima volta il file su cui avevo salvato il mio primo romanzo. Mi ero resa conto che era un’idea stupida quella che avevo buttato giù durante una fase di pura ispirazione. Sarei tornata sui miei passi, riscrivendo l’idea originaria che era molto meno dolorosa di quella attuale.
«Per cui vuoi tornare ad essere lo yogurt acido di sempre?» domandò sarcastica Ven. «Ottimo.»
«Senti un po’ da chi arriva la predica. Tu sei anche peggio di me.»
«La mia acidità è scritta in ogni gene del mio DNA. La tua deriva invece dal fatto di non avere un uomo. Quando c’era Leonardo eri molto meno burbera e davvero felice.»
Rotei gli occhi e guardai il cielo, sbuffando. M’infastidiva questo continuare a rimarcare il fatto che con Leonardo il mio umore aveva riacquistato un po’ di colore, oltre al grigio topo spento che lo aveva sempre caratterizzato. Era maledettamente vero: quel rinoceronte che bravo ad inseguire una palla era stato l’arcobaleno che aveva reso meno tristi ed uggiose le mie giornate. Ma questo non mi avrebbe mai fatto cambiare idea. La mia vita, per un limitato periodo di tempo, aveva cambiato rotta, ma era giunto il momento di riprendere il mio cammino senza più sbandate, anche se questo avrebbe significato un picco di acidità del mio carattere. Ma ormai tutti si erano abituati, perfino io stessa.
«Questa volta non mi farai cambiare idea, Ven.»
«Non ti voglio far cambiare idea,» disse lei, scrollando le spalle. «Ma lo vuoi sentire il mio pensiero su tutta questa faccenda?»
«Anche se ti dicessi di no, me lo diresti comunque. Per cui la tua domanda è alquanto inutile.»
«Infatti,» convenne con me, annuendo. «Secondo me te la sei presa troppo. In fondo ti ha mentito solo sul nome e sulla sua professione. Il fioraio Ruben ha lo stesso quoziente intellettivo del calciatore Leonardo, la stessa stupidità e la stessa delicatezza di un elefante. Quindi non capisco dove stia il problema.»
«Ti rendi conto che ha finto di essere una persona che non era? Se ci fossi passata sopra, quante cose avrebbe potuto nascondermi, inventarsi? Come potrei fidarmi di lui?» alzai il tono della voce, proprio quando la ferita invisibile che mi aveva squarciato il petto cominciò a pulsare di nuovo. «E poi è un calciatore. Sai come sono quelli, no? Appena vedono un paio di tette enormi e un sedere rifatto, non capiscono più nulla.»
«È inutile fare di tutta l’erba un fascio. Perfino l’uomo più rispettabile, con cinque lauree potrebbe perdere la testa per una Barbie senza neuroni,» rispose seccata. «E per quanto riguarda il primo punto, non credo che ti mentirebbe ancora una volta se tenesse veramente a te, con il rischio di perderti di nuovo.»
«Hai centrato il punto Ven. Non gli interesso, sennò mi avrebbe detto la verità.»
«Perché uno così dovrebbe perdere tempo con te?» domandò con un sorriso sornione ed io la guardai di sottecchi, curiosa di sapere dove volesse arrivare a parare con il suo discorso. «È ricco, bello e ogni sera partecipa ad un party diverso con migliaia di ragazze che fanno parte del suo mondo di lustrini e riflettori. Avrebbe potuto benissimo continuare a divertirsi, ma ha capito che non gli bastava più scaldare le lenzuola con una modella di cui non sa nemmeno pronunciare il nome. Se ha scelto te, un motivo ci sarà…» lasciò la frase in sospeso e schioccò la lingua, soddisfatta della sua arringa.
«Perché tu veramente credi che ora lui non stia in giro per Londra a cercarsi una gnocca con cui spassarsela stanotte?» domandai, con il chiaro intento di provocarla.
Ven fece spallucce, senza rispondere. Zittire un futuro avvocato con la tempra di Ven era una soddisfazione impagabile e gongolai nel mio piccolo per essere riuscita a zittirla.
«E del puzzone che mi dici?» domandò all’improvviso ed io la guardai un attimo confusa «Ciuccio,» esplicò poco dopo.
«Ah…» mugugnai, senza però rispondere alla domanda di Ven. Meno toccavo l’argomento Romeo, meglio era per me.
«Insomma, voleva solo renderti felice,» disse, con un tono quasi schifato perché stava difendendo il suo peggior nemico.
«Mentendomi?» chiesi ironica. «Capisco che magari Leonardo era giustificato dal fatto che mi conoscesse poco e che abbia un solo neurone nella scatola cranica, ma Romeo sa fin troppo bene che odio le menzogne.»
«Ciuccio non ha nemmeno quel neurone, per cui ha agito d’istinto, come fanno le scimmie,» rimase un attimo in silenzio, prima di parlare ancora. «Anche se le scimmie sono più intelligenti del tuo amico.»
«Ex amico,» la corressi e lei sbuffò.
«Per quanto gli porterai rancore? Per tutta la vita?»
«Probabilmente sì. Lui era l’ultima persona da cui mi aspettavo una pugnalata alle spalle!»
«Pugnalata,» ripeté, ridacchiando «Sei troppo esagerata, Cel. Non ha protetto un criminale che ha sterminato tutta la tua famiglia, santo cielo!»
«Che dici se cambiamo discorso? Potremmo prenderci un pezzo di pizza dal fornaio e mangiarla mentre passeggiamo,» azzardai per distogliere la nostra attenzione da Romeo e da quello che era accaduto la sera prima.
Ven mi guardò di sottecchi e sospirò, accogliendo la mia richiesta per non infierire ulteriormente. L’ultima cosa che volevo era affondare ancora di più il coltello nella piaga e scavare a fondo dentro di me, con il rischio di scovare verità che nemmeno io volevo venissero a galla.
Mentre gustavamo il nostro pezzo di pizza, la canzone dei Puffi cominciò a riecheggiare per le vie di Tivoli. Io e Ven ci scambiammo uno sguardo dubbioso, finché non capimmo che la musica proveniva dal suo cellulare.
«Ammazzerò Ciuccio, un giorno o l’altro,» borbottò, convinta che fosse stato Romeo a cambiarle suoneria solo per farle un dispetto.
Prese il cellulare dalla tasca dei jeans, cercando di non sporcarsi con il sugo e l’olio della pizza. Mugugnò di dissenso quando lesse il nome di chi la cercava e rimise il cellulare nella tasca dei pantaloni.
«Era il puzzone,» mi informò. «Credo che volesse parlare con te. Ma dato che nessuna delle due aveva voglia di conversare con il mangia-caccole, ho chiuso la comunicazione.»
«Hai fatto bene,» le sorrisi.
La nostra passeggiata durò quasi tutta la mattina e il primo pomeriggio. Ven si era offerta di comprarmi qualche vestito nuovo e, anche se avevo cercato di oppormi alla sua volontà di spendere soldi per me, dovetti cedere alle pressioni della mia migliore amica. Romeo tentò di chiamarla una decina di volte, senza arrendersi al fatto che io e lui avevamo chiuso forse per sempre.
Mentre stavamo tornando verso la cascina dei Donati, con i piedi doloranti per la lunga camminata a Tivoli, Ven ricevette un messaggio sempre da parte di Ciuccio. Sembrò quasi turbata nel leggere ciò che le aveva scritto e, nonostante le mie insistenze, non mi fece leggere l’SMS. Ero curiosa di sapere che cosa ci fosse scritto per convincere Ven ad allontanarsi da me per un po’ e chiamarlo al telefono. In tutti gli anni che si conoscevano non si erano mai scambiati nessuna telefonata, se non qualche scherzo telefonico che Romeo si divertiva ad ordire ai danni della mia migliore amica.
«Che cosa voleva?» le domandai, quando tornò verso di me.
«Parlare con te. Gli ho detto che era inutile che continuasse a chiamarmi perché tanto tu non avevi nessuna voglia di scambiare quattro chiacchiere con lui.»
Annuii, anche se con un pizzico di sospetto. C’era qualcosa di poco convincente in tutta la vicenda, ma decisi di non darci molto peso. Ven era la mia migliore amica, non mi avrebbe mai mentito.
Arrivammo a casa sua che era pomeriggio inoltrato. La luce del sole si stava già indebolendo e filtrava a fatica dalle finestre. Mi stesi sul divano, approfittando del fatto che i signori Donati non fossero ancora rincasati e non potessero vedermi in quello stato di pigrizia molto simile a quella di un bradipo. Il tintinnio del vetro sul tavolino mi fece aprire un occhio e vidi Ven appoggiare dei bicchieri colmi di succo di frutta. Poi mi scansò le gambe dal divano, rischiando di farmi cadere e si sedette accanto a me, cominciando a sorseggiare il succo.
«Stavo pensando ad una cosa…»
«A come uccidermi?» chiesi sarcastica, sistemandomi sul divano e afferrando il bicchiere.
«Al fatto che potremmo partire. Prenderci una piccola vacanza e staccare un attimo la spina. Credo che ti farebbe bene cambiare un po’ aria.»
«E dove troviamo i soldi, di grazia?»
«Mia madre ha vinto dei biglietti con i punti dell’Esselunga per due persone. Mi dispiacerebbe non usufruirne.»
«E quando si dovrebbe partire? E dove andremmo, soprattutto?»
«Non lo so. Vado a controllare.»
Ven si allontanò solo per qualche attimo, tornando poco dopo con un sorriso incerto sulle labbra, quasi come se mi stesse nascondendo qualcosa.
«La partenza sarebbe domani pomeriggio…»
«Domani? Come diavolo faccio con l’università e con il lavoro?»
«Non puoi chiedere a quel bombolone farcito del tuo capo di darti qualche giorno di vacanza? Si tratta solo di quattro giorni, comunque.»
«Non lo so, ci posso provare. Ma non ti assicuro nulla,» sospirai. L’idea della vacanza era allettante, anche se la partenza era troppo immediata; speravo che Bombolo mi concedesse qualche giorno per allontanarmi dalla città e riprendermi dalla mia delusione sentimentale. «E dove andremmo?»
Ven si schiarì la voce.
«Londra.»
Un goccio di succo di frutta per poco non diventò il mio assassino. Mi andò di traverso e per miracolo non morii soffocata.
«Stai scherzando? Non ci vado lì con il rischio di incontrare Leonardo!» sbottai, dopo aver visto la morte in faccia.
«Ma dai! Londra non è mica Paperopoli! È una metropoli enorme! Quante probabilità ci sono che lo incontri?»
«Sono sempre stata una schiappa in statistica…»
«Poche, pochissime! Quasi nulle!»
Scossi la testa, in segno di negazione. Con la sfortuna che mi perseguitava, nella grande metropoli lo avrei sicuramente incontrato e di rivedere dal vivo il suo sorriso non era la mia massima aspirazione.
«Dai, Cel! Sai quanto adoro Londra e che andrò a lavorarci dopo la laurea. Ho l’occasione di visitarla di nuovo in vista della mia partenza!»
Cercai di non cedere alla sua preghiera, ma i suoi occhi mi stavano supplicando e non riuscii a resistere. Lei avrebbe fatto di tutto per me, io potevo almeno fare lo sforzo di partire per Londra ed accontentarla. A quanto pareva, c’era un disegno ordito da qualcosa di superiore che voleva che io andassi in quella città.
E così mi ritrovavo a dover preparare lo zaino velocemente, perché l’aereo sarebbe partito fra meno di ventiquattro ore.
«E va bene. Andiamo a Londra,» sospirai sconsolata.
 
 
Ero riuscita a convincere Bombolo a concedermi quattro giorni di vacanza dopo quasi un'ora di telefonata e una ricarica da venti euro prosciugata. Avevo preparato il mio zaino con i pochi vestiti che mi ero portata dietro e alcuni capi che Ven mi aveva comprato il giorno prima. Non ero granché entusiasta di andare a Londra, soprattutto perché in quella stessa città c'era Leonardo e temevo di poterlo incontrare in qualsiasi momento. Ma Ven aveva ragione, avevo bisogno di staccare un po' e concedermi una vacanza, approfittando così di visitare la città in cui avrebbe voluto lavorare la mia migliore amica.
In vita mia, non avevo mai preso l'aereo ed ero terrorizzata al fatto di doverci salire a bordo. Poteva cadere nel bel mezzo del mare e non lasciarci via di scampo. Ven, accanto a me mentre si guardava attorno nell'immenso aeroporto, non sembrava affatto preoccupata. Sembrava più intenta a cercare qualcuno, piuttosto che alle catastrofiche conseguenze che lo schianto di un aereo avrebbe potuto portare.
«Stai aspettando qualcuno, per caso?» domandai.
«No, no. Mi guardavo solo un po' in giro,» mi tranquillizzò con un sorriso non del tutto convinto.
Annuii e scrollai le spalle, sistemandomi lo zaino da duecento chili sulle spalle. Alla fine di quel viaggio mi sarei ritrovata gobba come Leopardi.
«I biglietti li hai?» chiesi sospettosa, non del tutto convinta che quei biglietti esistessero davvero.
Avevo insistito perché Ven il giorno prima me li mostrasse, ma lei aveva sempre tergiversato, cambiando argomento.
«Ma certo! Ti sembra che possa dimenticarmeli?»
«E allora perché non andiamo a fare il check-in? Si è creata già una bella fila e con la fortuna che abbiamo, rischiamo di rimanere a Roma,»
«Non ti preoccupare, Cel. Ora andiamo, ok?» mi diede una pacca sulla spalla, sempre con lo sguardo puntato verso le porte d'ingresso dell'aeroporto. Rimasi interdetta, stupita dall'atteggiamento inusuale della mia amica. Il suo comportamento, unito al mistero dei biglietti invisibili, mi rendeva ancora più sospettosa di quanto già non fossi. Incrociai le braccia, corrucciai il viso e ridussi gli occhi a due fessure.
«Che cosa mi nascondi, Venera?»
La mia migliore amica scese dalle punte e mi sorrise.
«Sono felice che tu ti sia ripresa dal tuo stato vegetativo di ieri,» osservò, con una strana luce ad illuminargli gli occhi blu. «Com'è il tuo umore?» mi domandò poi.
«Sotto le scarpe,» risposi dubbiosa, con un sopracciglio abbassato. Il mio piede destro cominciò a picchiettare autonomamente sul pavimento lucido dell'aeroporto e Ven sembrò notare il mio tic nervoso, preludio di una sfuriata isterica.
«Hai oggetti contundenti dentro lo zaino?»
«No. Ma è abbastanza pensate per essere usta come arma del delitto.»
Ven ridacchiò nervosamente, respirando poi a fondo prima di superarmi e confondersi tra la folla. Cercai di capire dove stesse andando, alzandomi perfino sulle punte, ma ero troppo bassa per poterla adocchiare  mezzo a tutta quella gente. Uscì da quella calca qualche secondo dopo e le andai incontro, elaborando un po' in ritardo il viso del ragazzo che la affiancava. Qualche passo prima di trovarmi proprio davanti a lei mi fermai di scatto, rischiando di cadere ed essere schiacciata dal peso del mio zaino. Riconobbi gli inconfondibili capelli rossi e la carnagione fosforescente di Romeo e mi immobilizzai  fissarli, confusa e convinta che quello fosse solo un brutto sogno.
«Che cosa ci fa lui qui?» domandai, indicandolo.
«Ha i nostri biglietti,» rispose Ven, grattandosi l'avambraccio.
«Non li aveva presi tua madre con in punti dell'Esselunga?» continuai furiosa, lo sguardo che rimbalzava dalla mia migliore amica a Romeo.
«Era solo una bugia per convincerti a partire,» confessò Ven, colpevole. «È stato Romeo a chiedermi di andare a Londra.»
Osservai prima il mio ex amico, con lo sguardo basso verso le All-Stars, che avevano assunto un colore rosso spento a causa del tempo, e una spalla incurvata a causa del peso di un borsone vecchio quasi quanto i suoi jeans. Provai tenerezza per lui e una certa nostalgia per i nostri litigi insensati su ogni piccola sciocchezza. Ma fu questione di un attimo, perché distolsi il mio sguardo per puntarlo su Ven. Se avessero potuto, i miei occhi l'avrebbero incenerita all'istante.
«Sai che odio mentire. Ma ti serviva una vacanza e si è presentata l'occasione di andare a Londra gratis,» fece spallucce. «Non pensare che io sia felice di partire con questo mangia-caccole!»
Non sapevo da dove provenissero quei biglietti, se li avesse pagati Romeo per tentare un ricongiungimento con me o se gli fossero piovuti dal cielo, ma nemmeno m'interessava scoprirlo. La presenza di Romeo era solo un altro motivo per non partire per Londra e rimanere in Italia. Mi aprii un varco tra Ven e Romeo con poca delicatezza e mi allontanai velocemente da loro due. Entrambi cercarono di fermarmi, urlando il mio nome, ma li ignorai, continuando la mia corsa verso l’uscita dell’aeroporto. Mentirmi sembrava essere diventato l’hobby preferito di chiunque mi circondasse.
Mi afferrarono per un braccio e dall’intensità della stretta capii subito che fosse Romeo. Cercai di divincolarmi, ma ogni mio sforzo fu vano. Così dovetti arrendermi e trovai il coraggio di guardarlo negli occhi. Sembrava davvero dispiaciuto, ma non mi lasciai intenerire dal suo sguardo rattristato.
«Lasciami andare, Romeo,» grugnii, ma lui scosse la testa.
«Non voglio buttare all’aria dieci anni d’amicizia,» rispose con tono basso.
«L’hai già fatto, Romeo,» ribattei brusca, strattonandolo ancora e riuscii a liberarmi dalla sua presa.
«Quindi tu hai seppellito dieci anni di vita così, solo per una stupida bugia detta a fin di bene?» Romeo alzò il tono della voce e il suo viso normalmente pallido assunse un tenue colore rosso.
«Il mangia-caccole ha ragione,» intervenne anche Ven, incrociando le braccia e guardandomi con severità. «Cavoli! Avete condiviso praticamente tutta la vostra vita e tu getti via tutto per un idiota che rincorre un pallone?»
La guardai di sottecchi, sistemandomi nervosamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Dovevo ammettere che sentivo la mancanza di Romeo, della sua pigrizia e della sua rozzezza. In un certo senso, mi sentivo privata di una parte di me senza di lui. ma non mi era facile lasciarmi quello che era successo alle spalle, mi sentivo tradita e questo provocava in me una delusione tale da non poterlo perdonare.
«Non voglio partire,» dissi perentoria, come se quello fosse un ordine.
«Mi hai molto deluso, Cel,» disse Romeo, scuotendo la testa. «Pensavo che la nostra amicizia fosse importante per te. Ma se ti comporti così mi dimostri che non lo era poi così tanto.»
«Anche io pensavo che fosse importante per te. Sai quanto ho sofferto per le ripetute bugie e i continui tradimenti delle persone, e tu ti sei comportato esattamente come loro.»
Romeo annuì e si passo entrambe le mani tra i capelli.
«Sapevo che partire sarebbe stata una pessima idea,» mormorò.
Estrasse dal suo borsone consunto due biglietti e li tese a Ven. Poi, con lo sguardo basso, mi superò. Mi sentivo un tantino in colpa perché, come aveva detto Ven il giorno prima, anche io avevo contribuito a distruggere tutto. Ma non ebbi il coraggio e la forza per trattenere Romeo e chiedergli scusa, mettere una pietra sopra a due sere prima e continuare la nostra amicizia come se nulla fosse accaduto. Fu Ven però a bloccarlo, spingendolo con forza verso di me.
«Noi partiremo,» disse accigliata, guardando prima me e poi Romeo. «Andremo a Londra tutti e tre e cercheremo di far tornare tutto com’era prima.»
Romeo cercò di controbattere e di andarsene nuovamente, ma Ven lo strattonò e lo trascinò verso il check-in, ordinandomi con lo sguardo di seguirla. Non mi opposi, forse perché una parte di me voleva andare a Londra sperando di ricucire la lacerazione che si era creata tra me e Romeo.
 
Ci imbarcammo circa un’ora dopo la litigata tra me e Romeo. L’ansia e il terrore che avevo sviluppato poco prima, quando ero entrata nell’aeroporto, era completamente sparita, rimpiazzata dall’amarezza per il tranello che mi aveva teso la mia migliore amica.
Ven fu la prima a salire sull’aereo e si era precipitata con foga verso una tripletta di posti liberi, accaparrandosi il posto vicino al finestrino.
«Voglio godermi il panorama!» si era giustificata.
Intuii subito che la sua fosse solo una scusa per farmi sedere accanto a Romeo.
«Tu ti siedi accanto a me, Cel,» disse. «Ho avuto fin troppi contatti fisici con il mangia-caccole per oggi.»
Sorrisi quasi divertita, godendo un po’ di quell’atmosfera che impregnava l’aria tipica del nostro trio.  Mi sembrò quasi che fosse stato spazzato va tutto con una sola folata di vento, che fossimo tornati noi tre, con i battibecchi tra Ven e Romeo ed io, in mezzo, a sopportare il loro astio.
Robbeo, però, non rispose all’ennesima provocazione della mia migliore amica. Prenderla in giro e beffarsi di lei erano il suo passatempo preferito dai tempi del liceo. Lo guardai di sottecchi, mentre ci allacciavamo le cinture come ci aveva detto di fare l’hostess. Quello che avevo davanti non mi sembrava nemmeno il mio ex migliore amico. Lui aveva sempre il sorriso sulle labbra, anche quando non c’era nulla da sorridere e difficilmente veniva colto da momenti di tristezza. In quel momento era molto più che mesto. Era abbattuto, travolto anche lui da quella situazione ingestibile. Molto probabilmente non si era nemmeno reso contro di quello che avrebbe provocato appoggiare la folle idea di Leonardo di fingersi qualcun altro. Aveva agito d’istinto, così come aveva sempre fatto, senza pensare alle conseguenze.
Mi dispiaceva vederlo così triste e capii quanto si sentisse in colpa per quanto era successo, anche se in realtà l’unica colpa era da imputare a Leonardo. Era lui che aveva messo in piedi quel teatrino, approfittandosi dei suoi amici e del suo fan più sfegatato.
L’aereo decollò ed io mi aggrappai ai braccioli, affondando nello schienale del sedile. Sentii Romeo stringermi la mano, così aprii un occhio e incontrai il suo sorriso che mi tranquillizzò. Sembrò perfino sorpreso della mia non-reazione. Forse si aspettava che lo allontanassi e che riducessi al minimo il contatto con lui. Ma quella stretta fu stranamente piacevole e rassicurante.
Quando l’aereo si stabilizzò, Romeo si sfilò la cintura e prese dal suo zainetto un pacchetto di caramelle gommose a forma di orsetto. Ne mangiò un paio, poi mi tese il sacchetto con un sorriso appena abbozzato e un certo timore, quasi come se avesse paura di un’ennesima litigata.
«Tieni. Sono tutti orsetti verdi, i tuoi preferiti. Ieri ho mangiato tutti gli altri e li ho avanzati per quando fossi tornata per perdonarmi.»
Esitai qualche attimo, piacevolmente colpita da quel gesto semplice, che però dimostrava quanto realmente Robbeo tenesse alla nostra amicizia. Mi sentii una stupida per aver dubitato di lui e avergli riversato contro tutto il mio isterismo. Presi velocemente il sacchetto e cominciai a mangiucchiare qualche orsetto.
«Grazie,» mormorai.
Romeo si strinse nelle spalle e mi sorrise. Cercai di rimanere corrucciata, ma non riuscii a non ricambiare. Il sorriso mi sorse spontaneo ed incontrollato. Romeo si sporse verso di me e mi strinse una spalla, avvicinandomi a lui. mi scompigliò i capelli con una mano, poi lasciò un bacio sulla mia fronte. Lo spinsi via delicatamente e lo guardai imbronciata.
«Sono ancora arrabbiata con te!» lo avvisai. «Ti serve almeno un altro sacchetto di orsetti verdi per farti perdonare.»
«Sarà fatto, capitano!» esclamò, tirando fuori dallo zaino un altro sacchetto di caramelle.
Ven si allungò verso di lui e gli strappò di mano il pacchetto. Lo aprì e cominciò a mangiare gli orsetti gommosi.
«Ti do una mano,» spiegò spicciola.
Nonostante il clima tra di noi si fosse disteso, avevo bisogno ancora di un po’ di tempo per metabolizzare la menzogna di Romeo. Il suo piccolo tradimento nei miei confronti era stato inaspettato e bruciava ancora come se fosse costantemente alimentato dalla benzina. Ma avevo capito che Romeo era parte della mia vita e mi era impossibile escluderlo da essa.
 
***
 
L’erba verde dell’Emirate Stadium era pregna dell’umidità tipica della capitale londinese. Con il cielo plumbeo e la temperatura rigida di quella mattina non mi tolsi nemmeno la tuta per allenarmi, ma indossai persino lo scalda-collo e un berretto di lana ben calcato sulla testa. Eravamo andati a provare il campo prima della partita che si sarebbe giocata l’indomani sera e tutta la rosa convocata per la trasferta aveva acconsentito al sopralluogo del campo, come se ci potesse essere chissà quale trappola nascosta nel terreno  che avrebbero potuto tenderci, quelli dell'Arsenal.
Non cantare vittoria, ricordati che c’è sempre Simone, mi ricordò il mio saggio Ego, tornato a consigliarmi da quando avevo deciso di pensare di nuovo a me stesso e a nessun altro.
Appiattii una zolla di terra che si era staccata dal campo e sbuffai fuori dalle labbra una nuvola di fiato che si andò subito a condensare per il freddo. Quella notte non avevo chiuso occhio, troppi pensieri per la testa che mi tenevano sveglio e m’impedivano di concentrarmi. Avrei dovuto zittire quelle voci che mi facevano pensare a Celeste e concentrarmi unicamente sulla Champions. La squadra aveva lavorato tanto per arrivare sino a lì, avevamo sofferto, tirato avanti anche con i numerosi infortuni, eppure ce l’avevamo fatta ed io ero in debito verso di loro. Quella squadra ormai era l’unica famiglia che mi rimaneva e il lavoro sarebbe stato il solo obiettivo cui avessi dovuto puntare.
«Mi ripeti per quale assurdo motivo sono voluta partire anche io?» borbottò Annalisa al mio fianco, incappottata fino alla cute. Dalla voluminosa sciarpa di Fendi s’intravedevano unicamente dei ciuffetti rossi sparati in ogni direzione.
Feci rotolare il pallone della Nike sulla punta della scarpa e cominciai a palleggiare, magari riscaldandomi da quell’umidità londinese. «Vuoi che te lo dica davvero?» ironizzai, aggiustando la traiettoria della palla con un colpo di testa.
Anna sprofondò ancor di più nel suoi Woolrich e abbassò quegli occhi smeraldini verso i suoi stivali di lana, sempre senza tacco. «No,» smozzicò, iniziando a giocherellare con un altro pallone da calcio.
Da quando avevamo lasciato Roma, era come se Annalisa si fosse trasformata, in meglio ovviamente. Non sapevo spiegarlo, ma in lei riuscivo a vedere una complice, qualcuna che stesse nella mia identica situazione e mi comprendesse. Ruben era il mio migliore amico, d’accordo, però non sapeva come ci si potesse sentire ad essere abbandonati.
Annalisa e io eravamo quasi… amici.
Mi guardai intorno e vidi l’immensità di quell’arena, ricordando come mi ero sentito la prima volta che avevo messo piede all’Olimpico con mio padre. Sin da piccolo mi aveva portato a vedere tutte le partite della Magica, dicendomi che un giorno avrei fatto parte di quel mondo anche io. Alla fine ero riuscito a realizzare quel sogno, ma adesso era come se mi mancasse qualcosa.
«Hai provato a telefonargli?» le domandai almeno per smorzare quel silenzio che si era creato su quel campo da calcio.
Scosse la testa e infilò le mani in tasca. «Non ho nemmeno il coraggio di guardare lo schermo.»
Sembravamo due ruderi che si trascinavano da una parte all’altra sostenendosi a vicenda per non cadere e se mi fossi visto con occhi esterni, non avrei mai creduto che quei due ragazzi infagottati su quel campo da calcio fossero il grande centroavanti della Roma e la figlia del Presidente.
«A questo punto non credo possa andare peggio di così,» mormorò cheta, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Mi odierà a vita.»
Ripensai alla mia di situazione e realizzai che non ero poi messo tanto meglio di lei. Celeste si era addirittura trasferita dalla sua amica pur di non vedermi ed io, forse troppo orgoglioso, non l’avevo raggiunta.
«Già, vale anche per me.»
«Voi almeno siete stati insieme,» rispose prontamente, «anche se per poco,» aggiunse. «Io sono stata troppo codarda per provarci.»
Alzai un sopracciglio con un’espressione stupita. «Stento sempre più a riconoscerti. Pensavo che niente fosse in grado di mettersi tra te e ciò che volevi.»
Annalisa tirò fuori dalla tasca un fermaglio con tre perle nere incastonate sopra e se lo rigirò tra le mani. «Infatti,» sospirò. «Ma è la prima volta che mi capita una cosa del genere. Non so davvero cosa fare.»
Quello sarebbe stato un momento perfetto per un gesto carino, magari una pacca sulla spalla o un semplice abbraccio, invece me ne rimasi lì, con le mani nelle tasche della felpa a fissare il pallone che rotolava a pochi passi da me. Non ero il tipo da farmi in quattro per gli altri, avevo sempre pensato solo a me stesso e non sarebbe cambiato poi molto. Certo, vedere Anna con quell’espressione non era cosa di tutti i giorni, però avevo i miei problemi e non potevo sobbarcarmi anche i suoi.
«A Leona’ ‘a senti l’aria de ‘a vittoria?» mi disse Daniele, passandomi un braccio attorno alle spalle.
«Domani sera lo spaccheremo ‘sto stadio!» si aggiunse Marco, convinto.
«Puoi dirlo forte!» risposi, ma senza lo stesso loro entusiasmo.
«Ao’, te vedo moscio. ‘A pischella non te la da?» sghignazzò Capitan futuro, scambiandosi occhiate complici con Borriello.
A quel commento trasalii e li fissai di traverso. «Fottetevi.»
«Povero cuginetto sfigato,» commentò una voce dal tunnel che conduceva agli spogliatoi.
Non c’era alcun bisogno che mi voltassi, sapevo perfettamente a chi appartenesse quel tono strafottente e quell’accento da finto lord dei miei stivali.
«Che ci fai qui?» gli domandò Marco.
«Stamo a prova’ er campo, che voi?» Si aggiunse Daniele.
Mi voltai in ultimo, sperando fino al centesimo di secondo che un fulmine colpisse mio cugino in testa, riducendolo ad un mucchietto di cenere. Purtroppo mi ritrovai il suo sorriso sghembo davanti agli occhi, pronto ad essere smorzato da un bel dritto da parte mia.
«Che cazzo voi?» gli dissi, con un tono per nulla mascherato.
Simone era vestito normalmente, senza la tuta della sua squadra, e se ne stava immobile con le mani nelle tasche del suo Museum a sorridere come un imbecille. «Can I come and see my little cousin or not?»
«Parla come magni, stronzo,» lo apostrofai, senza mezzi termini.
Il sorriso sparì dal suo volto ed io gongolai nel mio piccolo. Uno per Leo e zero per quell’autentico coglione.
Inizialmente sembrò tentennare, magari era alla ricerca di qualche risposta piccata per sopperire a quella mia genialata. Simone non era da sottovalutare, per nessun motivo. Aveva sì quattro anni in meno di me, era il mio cuginetto in fondo, ma era dannatamente furbo il bastardo.
«Quanto siamo irascibili, bro',» commentò sorridendo, di nuovo.
Lo odiavo, con tutto me stesso, con ogni fibra del mio corpo. Avrei tanto voluto fargli sparire quell’aria arrogante dalla faccia, ma era pur sempre mio cugino e nonna non me l’avrebbe mai perdonato.
«Se non hai altro di meglio da fare che rompermi le palle, quella è la porta,» e gli indicai il tunnel degli spogliatoi.
«Suvvia, lil’cousin,» sghignazzò avvicinandosi. «Sono venuto solo a salutarti e a dare un’occhiata alla tua squadra, se così si può chiamare.»
«C’hai quarche problema?» gli ringhiò addosso Daniele.
«’Sto tizio c’ha la faccia da cazzo,» asserì Marco.
Almeno non ero l’unico che reputava Simone la più grande testa di cazzo mai esistita sulla faccia della Terra. Eppure il nostro rapporto non era stato sempre così, anzi, il più delle volte da piccoli giocavamo insieme e ci divertivamo anche.
Beata innocenza.
«Modera un po’ i termini. È della squadra di mio padre che stai parlando,» intervenne Anna, con le mani sui fianchi e lo sguardo minaccioso. Quei suoi capelli rosso fiammante, poi, facevano il resto.
Sembrava una piccola Ariel sull’orlo di una crisi isterica.
Simone si voltò verso di lei e un sorriso malizioso gli apparve su quel volto da ragazzino. Lo avevo già visto uno sguardo del genere. Anch’io ne facevo uso quando volevo portarmi a letto qualcuna.
«Suppongo che tu sia la bella figlia di Mr. Cavalli,» mormorò avvicinandosi a lei. Rimasi di sasso quando le prese la mano e ne baciò il dorso nemmeno fosse un frocetto francese dell’800! «Enchanted to meet you, my dear.»
Vidi la rabbia di Annalisa scemare nel più genuino stupore e un tiepido allarme cominciò a farmi rizzare i peli sulla nuca. Possibile che quel cazzone riuscisse a manipolare anche una ragazza scaltra come la Cavalli?
«C-Che fai?» gli domandò lei, confusa.
Gli occhi neri di Simone incrociarono quelli di Anna e quello fu il momento adatto per intervenire. Se la mia storia era andata a puttane, ciò non valeva anche per quella tra lei e Romeo. In fondo si era trattato solo di un malinteso.
«Hai finito?» m’intromisi, frapponendomi tra mio cugino e Anna. Simone mi fissò stupito.
Guardò prima me poi Anna dietro alle mie spalle. «Ma non era bionda la tua ragazza?» mi domandò perplesso, non mancando di sfoderare un sorrisetto da chi la sapeva lunga.
Strinsi le mani a pugno, infastidito. «Lei non è la mia ragazza, infatti.»
Finse di pensare, poi s’infilò di nuovo le mani in tasca. «Insomma il lupo perde il pelo ma non il vizio.»
Assottigliai lo sguardo, pronto a qualsiasi sua contromossa. «Che intendi?»
Simone sospirò, poi si aggiustò i capelli castani con una mano. «Quando nonna mi ha detto che stavi con quella, non ci ho creduto. Quelli come noi non riescono ad essere fedeli. Siamo indomabili, ammettilo.»
«Smettila di sparare cazzate,» lo ammonii.
«Quando sei andato a letto con la rossa?» mi chiese di nuovo, sorridendo sghembo.
Sgranai gli occhi e le mani cominciarono a prudermi. Lo odiavo.
«Non siamo stati a letto,» intervenne prontamente Annalisa ed io la ringraziai con uno sguardo. «Anche se avrei voluto,» aggiunse.
Era troppo pretendere che la Anna buona e cara venisse alla luce anche con le altre persone.
«Sai, I like you,» sorrise Simone, mandandole un bacio fugace con la mano.
A stare appresso a quei due sarei uscito di senno, ormai era un dato di fatto. Avevo già i miei problemi da risolvere e la partita più importante della Champions l’indomani, sinceramente ne avevo piene le scatole.
«H-H-Hey, t-tu-t-t-tu n-non puoi s-sta-stare q-qui!» intervenne Ruben, correndo tutto dinoccolato. Sembrava uno di quegli omini animati attraverso l’aria, con le braccia in alto e i movimenti scoordinati.
Era davvero buffo.
Mio cugino rifilò a Ruben un’occhiata mista tra il divertito e lo schifato. Non gli era mai piaciuto, pensava che era da idioti portarsi appresso un babbuino goffo come quello. Ovviamente io lo avevo sempre mandato a fare in culo.
Simone aveva l’intelligenza di un bambino di quattro anni.
«Ecco lo scimmiotto,» sentenziò ghignando.
Subito Ruben abbassò lo sguardo e arrossì vistosamente. Aveva sempre cercato di evitare Simone, ma quando se lo trovava davanti gli era impossibile tenergli testa. Il mio migliore amico era essenzialmente buono, dall’animo nobile, invece Simone non era altro che un lurido topo di fogna.
«D-De-Devi and-andartene, n-no-no… no-no-n-no…» farfugliò imbarazzato.
Mio cugino guardò distrattamente l’orologio da polso. «Di questo passo rischio di far tardi al mio appuntamento. Ma ci mette sempre due ore per dire qualcosa?» mi fece, rivolgendomi un sorriso divertito.
Era proprio un pezzo di merda.
«Chiudi il becco e vattene.»
Simone alzò le mani in segno di resa, senza lasciare che quel sorriso malizioso abbandonasse la sua faccia pulita. Fece l’occhiolino ad Anna poi si voltò di spalle e s’incamminò verso il tunnel.
Si voltò solo prima di imboccare il corridoio. «Ci si becca domani, sul campo,» disse, ma sembrò più una minaccia che un semplice avvertimento.
«Ci sarò, contaci.»
Io, Ruben e Annalisa lo guardammo sparire tra lo staff che faceva gli ultimi accorgimenti sullo stato degli spogliatoi.
«N-No-Non lo so-so-s-sopporto!» se ne uscì Ruben, abbassando poi lo sguardo quando Annalisa lo guardò.
Faceva sempre così con qualsiasi ragazza. Era una caratteristica di Ruben e anche se era controproducente, non credo che sarebbe mai riuscito ad abbandonarla.
«Ma siete parenti davvero?» mi domandò Annalisa, fissandomi sbalordita.
Abbassai le spalle e mi ficcai le mani in tasca, calciando via il pallone con un gesto di stizza. «Purtroppo.»
Gli amici te li scegli, ma i parenti ti toccano.
Non c’era verità più universale di quella.
 
Finito di testare il campo per la partita della sera dopo, mi ritrovai a vagare per le strade di Londra senza una meta apparente, con il mio fidato amico Ruben al fianco.
Annalisa era rimasta in hotel, usando la scusa del jet-lag per non venire a passeggiare con noi, o meglio, ad ubriacarsi con noi, ma era una cazzata bella e buona. Tra Roma e Londra c’era un divario di un’ora più o meno, lo sapevo persino io.
Non avevo insistito, però. D’altronde non erano affaracci miei se voleva piangersi addosso, io non sarei rimasto un minuto di più a rimuginare.
Daniele e gli altri mi avevano invitato a bere con loro, ma sinceramente era da un po’ che sentivo il bisogno di starmene per conto mio.
Già, chissà perché.
Zittii la parte razionale del mio Ego e mi strinsi meglio il cappotto addosso, visto che la temperatura si era abbassata di parecchi gradi quella sera. Ruben, al mio fianco, era avvolto il sedici metri di sciarpa di lana, made in nonna Annunziata, e dalla fitta coltre spuntavano soltanto dei ciuffi di capelli castani totalmente spettinati.
Se non gli avessi intravisto gli occhiali, avrei giurato di parlare con un appendiabiti.
«Ehi amico, ma riesci a vedere da lì sotto?» gli domandai, sorridendo.
Okay che Ruben era un tipo freddoloso, questo lo sapevo quando anche a Maggio mi faceva tenere i riscaldamenti accesi, ma non credevo fino al punto di non respirare.
«S-Sì, c-ce-ce-cece-certo che c-ci v-ve-vedo!» bofonchiò lui, un po’ per la balbuzie, un po’ perché tremava.
Eravamo finiti di fronte all’angelo di Piccadilly Circus, ammirando le luci della città e il chiasso del traffico. Non riuscivo a smettere di pensare alla partita dell’indomani. Sentivo una tensione addosso che non mi era mai capitato di provare.
Di solito me ne fregavo, anzi, spesso e volentieri progettavo già cosa fare dando per scontato la vittoria, ma era da un po’ di tempo che non ci riuscivo più. Era inutile negarlo, Celeste era riuscita a cambiarmi, nonostante tutto.
Grazie a quei suoi modi da sapientona e quell’indice pungolatore, mi aveva reso un rammollito idiota e adesso mi ritrovavo a farmela sotto per l’esito di una partita.
Camminammo sino a raggiungere il quartiere di Soho, ed io affondai sempre di più il viso nel bavero del montgomery. Ci fermammo ad una vetrina che vendeva fiori, nemmeno lo feci di proposito.
I miei piedi si bloccarono e basta.
«P-Pe-Pensi a-a-an-ancora a l-le-lei, v-ve-vero?» mi domandò innocentemente Ruben, posandomi una mano sull’ampia spalla.
Cosa avrei dovuto dirgli? Che per colpa di quella ragazza rischiavo di non dare il cento per cento in campo? Che mi ero totalmente rincitrullito?
Sarebbe stata la verità e io ormai ero un bugiardo patentato.
«No, che dici,» mentii spudoratamente, scrollandomi la sua mano di dosso.
Sapevo che Ruben non c’entrava nulla in quella storia, che mi era stato sempre vicino e mi aveva suggerito, nonostante tutto, di dirle la verità. Eppure non riuscivo a smettere di essere in collera col mondo intero.
«S-Si-Sicuro?» chiese timidamente, fissandomi di sbieco attraverso quella sciarpa di lana che avrebbe potuto coprire anche il collo di Hulk.
«Come te lo devo dire?» sbottai infastidito. «Sto. Bene.» incalzai. «Non. Me. Ne. Frega. Un. Accidente. Di. Celeste. E. Di. Quello. Che. Sta. Facendo.»
Ruben sgranò quegli occhi da cucciolo che si ritrovava, dietro le spesse lenti degli occhiali ed io sentii una fitta al petto.
Dannazione, perché riuscivo a farmi leggere così bene dalle persone che mi stavano attorno?
Odiavo, detestavo, non sopportavo essere debole.
Gli anni di Leonardo Sogno, il calciatore più forte al mondo e il più spavaldo sembravano ormai un lontano ricordo per il nuovo me. Mi stavo odiando con tutto me stesso e non riuscivo ad attribuire altra colpa se non a quella biondina che aveva invaso la mia vita.
Pensai al nostro primo incontro, a cosa sarebbe successo e a dove sarei ora se non l’avessi infradiciata con la mia Ducati. Se non mi fossi fermato a soccorrerla, se avessi lasciato che gli eventi si fossero svolti così come dovevano andare.
A quest’ora, dove sarei?
Probabilmente a crucciarmi di meno su tutta questa storia assurda.
Ruben incurvò la schiena mortificato, tanto che credetti potesse spezzarsi per quanto sembrava magro e alto con quel cappotto. Forse ero stato troppo brusco con lui, ma, ehi, ero pur sempre Leonardo Sogno e ormai non mi rimaneva altro che quello.
«Andiamo, mi sto gelando,» conclusi, rabbrividendo all’ennesima folata di vento che soffiava in quel vicolo.
Forse sarebbe stato meglio rintanarsi in un pub con gli altri compagni di squadra, almeno avrei potuto fingere di stare bene e annegare nell’alcool tutto questo strano e inconsueto dolore. Non era da me, davvero, eppure non riuscivo a scacciarlo.
«O-Okay,» balbettò Ruben, seguendomi a ruota.
Muovemmo i primi passi, lasciandoci condurre unicamente dal soffio di vento quando una voce richiamò la nostra attenzione.
«Hey, guys!» trillò squillante alle nostre spalle e anche senza vederla, riconobbi la sua proprietaria.
Magari questa città non faceva poi così schifo come pensavo.
Non appena mi voltai, fui travolto da una massa informe di capelli ricci, biondi e voluminosi, talmente profumati che mi stordirono.
«I’m so happy to see you!» disse lei, lasciandomi andare giusto il tempo necessario di riprendere fiato.
La guardai negli occhi e ritrovai quell’azzurro intenso e vispo che ricordavo sin dalla tenera età. Mia cugina Sofia era un ciclone inarrestabile, una forza della natura racchiusa in un corpo che pesava a mala pena cinquantacinque chili.
«Che ci fai qui?» le chiesi felice, almeno c’era una nota positiva in quella giornata di merda.
Lei si scostò una ciocca di ricci ribelle dal viso e mi sorrise. «Sono andata al supermarket,» sospirò, mostrandomi una busta. «Se fosse per Simone, mangeremmo la carta da parati dell’appartamento,» ironizzò.
Sofia era la sorella che non avevo mai avuto e ci trovavamo talmente in sintonia che avrei desiderato davvero che fosse figlia di mio padre e non di mio zio. Purtroppo lei un fratello lo aveva già, anzi, ne aveva due, e uno di essi era il mio peggior nemico.
«Non ho alcun dubbio che Pisellino si abbuffi di intonaco, magari anche di vernice,» sghignazzai.
Mia cugina sbuffò sorridendo, sapendo che fra me e suo fratello non correva buon sangue. Anzi: diciamo che il sangue scorreva pure, soprattutto quando finivamo col metterci le mani addosso, il che succedeva almeno tre volte al giorno.
I pranzi di Natale e le riunioni di famiglia, sia che si facessero a Roma o a Londra, poco cambiava, si trasformavano sempre e comunque in mancati incontri di boxe.
D’altro canto, zio Marco e mio padre non facevano altro che incitarci, dicendo che il miglior modo di risolvere le questioni, era venire alle mani. Mamma e zia Elizabeth la pensavano diversamente.
Sofia a quel punto spostò lo sguardo alle mie spalle, cercando la persona che fino a quel momento era rimasta in un religioso silenzio. Avvolto in cinquanta strati di lana, c’era Ruben che faceva di tutto per rendersi quasi invisibile dietro di me e io non ne comprendevo il motivo. In fondo, Ruben era mio amico da una vita e di conseguenza conosceva mia cugina da altrettanto tempo.
«Ma è Ruben quello dietro di te?» mi domandò lei, con le guance arrossate per il freddo pungente.
Mi voltai quel tanto da capire cosa il mio migliore amico stesse facendo, ma evidentemente non c’era verso di farlo avanzare di qualche passo.
«Fino a poco fa, era lui. Ora sembra un ammasso di vestiti per la Caritas,» le spiegai, sorpreso.
Sofia mi aggirò per dirigersi verso Ruben e salutarlo, come avrebbe fatto una qualsiasi persona normale. Ma di normale, la mia vita, ormai aveva ben poco.
«Ciao!» gli disse con voce squillante, allargando un sorriso genuino che la contraddistingueva.
Ruben, ormai scoperto in flagrante, decise di smetterla di assottigliarsi contro il muro come un geco e abbassare un po’ quella sciarpa che rischiava di soffocarlo.
«Ciao, Sofia,» sussurrò impacciato, senza nessun balbettio.
Eh, già, perché la cosa davvero surreale e particolare di Ruben era che di fronte all’intero universo femminile non riusciva a spiccicare parola, mentre con Sofia sembrava quasi un oratore.
Mia cugina cominciò a torturarsi una ciocca di capelli con le dita, e giurai davvero di non averla mai vista così in imbarazzo. Per un secondo, ebbi un certo sospetto su quei due, ma avevo ben altri problemi cui pensare e sinceramente né Sofia né Ruben ne facevano parte.
«How are you?» gli chiese, utilizzando la sua lingua madre.
Era vero che i miei cugini erano nati tutti in Italia, ma avendo una madre, cioè zia Elizabeth, inglese da almeno una ventina di generazioni, e vivendo a Londra dall’età di due anni circa, le capitava spesso e volentieri di confondere le sue due lingue.
«Bene, tu?»
Rimasi totalmente sconcertato di fronte all’assenza di balbettii da parte del mio migliore amico. Era strano sentirlo parlare normalmente, soprattutto quando ventiquattr’ore su ventiquattro dovevo cavargli le parole di bocca.
Sofia cominciò a dondolarsi sui talloni, come una bambina di appena dodici anni, poi, mentre stava per dire qualcosa, fece accidentalmente scivolare una mela dal sacchetto della spesa, facendola rotolare sul marciapiede.
Mi chinai a raccoglierla d’istinto, ma Ruben fu più veloce e agguantò il frutto con un movimento agile che mi lasciò di stucco. Lui che era il re della goffaggine e della timidezza, tutto ad un tratto sembrava più in gamba di Roberto Bolle.
«Tieni,» le disse sorridendo e se non fossi stato accecato dal riverbero delle luci di Piccadilly Circus, avrei giurato che quello fosse un sorriso malizioso.
Da flirt.
Non inorridire, mantieni la calma.
Era strano, troppo strano quello che si stava svolgendo davanti ai miei occhi innocenti. Certo, di innocente io avevo ben poco, ma il mio migliore amico e mia cugina…
Perché non mi ero mai accorto di nulla?
«Thanks,» soffiò Sofia, con le gote rosse come la mela che Ruben le aveva porto.
«Ehi, voi due,» commentai, lievemente offeso da questa esclusione. Era come se fossi trasparente, come se non esistessi.
C’era un universo segreto nei loro sguardi e sinceramente cominciava a innervosirmi. Sofia era pur sempre mia cugina, la mia migliore amica, la mia pulcina. Ruben… beh, Ruben era Ruben. Non c’erano parole per descriverlo.
Si girarono entrambi verso il sottoscritto e io incrociai le braccia aspettando spiegazioni.
«È successo qualcosa che mi sono perso?» domandai.
Come se si fossero messi di comune accordo, sgranarono entrambi gli occhi e si allarmarono.
«Niente!»
«Nothing!»
Si affrettarono a rispondermi all’unisono e quello mi fece diventare ancor più sospettoso. Era da un po’ che Ruben si comportava in maniera bizzarra.
Davvero? Ma non è il re della bizzarria?
Okay, in maniera più bizzarra dei suoi soliti standard.
Uhm, dici?
Quella conversazione con il mio Ego stava davvero per mandarmi fuori dai gangheri. Inoltre, prendendomi del tempo per pensare ed analizzare la situazione, agli occhi di Ruben e di mia cugina sembravo un cerebroleso che fissava di traverso il cielo notturno.
«Eppure sembra che mi nascondiate qualcosa…» conclusi pensieroso.
L’idea che le persone a me più care condividessero dei segreti di cui non ero a conoscenza, mi metteva addosso una strana sensazione. Per un attimo pensai a Celeste. Davvero, forzai tutto me stesso per riuscire a resistere a quel pensiero, ma fu tutto inutile.
Mi immedesimai inconsciamente in lei e in quello che aveva provato vedendo che tutti intorno a lei avevano mentito, compreso il suo migliore amico Romeo. Mi sentii automaticamente una merda, una Vera. Gigantesca. Merda.
In quel momento avrei voluto prendere a pugni il mondo, tornare indietro a quel fatidico momento in cui mi ero inventato tutte quelle cazzate e dirle la verità, permetterle di prendermi a parolacce e darmi del rinoceronte senza cervello.
Sarebbe stato meglio non averla mai incontrata.
«N-No, ma-ma c-co-cosa dic-dici?» farfugliò Ruben.
Ovviamente, parlando con il sottoscritto, tornava in modalità tartagliamento acuto.
«It’s a really absurd situation!» si aggiunse Sofia.
Avremmo potuto continuare all’infinito, quei due mi nascondevano qualcosa ma ancora non avevano il coraggio di parlarmene. Sbuffai guardandoli di sottecchi, poi decisi che era meglio continuare o sarei morto congelato sul marciapiede di Soho.
«Vuoi che ti accompagniamo a casa?» le proposi, vedendo che Ruben non le staccava gli occhi di dosso.
Sofia arrossì e si aggiustò una ciocca ribelle di capelli ricci dietro l’orecchio. «Grazie.»
«Ti porto queste,» si offrì Ruben e le prese le buste senza che lei potesse protestare in qualche modo.
La famiglia Sogno, ovviamente la seconda famiglia Sogno, abitava poco più in là del quartiere di Soho. A Lexington St. Simone aveva trovato un appartamento, ovviamente attico e superattico, in cui si era ritirato a ‘vita privata’, così la chiamava lui, ma zia Liz preferiva spedirgli di tanto in tanto Sofia per vedere come se la passasse.
A giudicare dal quantitativo delle buste che aveva mano mia cugina, non faceva la spesa da mesi.
Al numero 128 ci arrivammo dopo una quindicina di minuti, passati nel più completo ed imbarazzante silenzio. In testa c’era Sofia che trotterellava tranquilla e leggera sul marciapiede ancora umido della pioggia del giorno prima, poi venivo io, carico di due buste, e infine Ruben con il sacchetto di carta da cui era rotolata fuori la mela.
Tirò fuori le chiavi proprio quando arrivammo di fronte al portone, in cima ad una piccola scalinata sorretta da due ampie colonne bianche. Mia cugina aprì il cancelletto in ferro battuto, che cigolò quel tanto da spaventare un gatto di passaggio, poi entrò dirigendosi verso l’ingresso. Io e Ruben le fummo subito dietro come un’ombra, soprattutto il mio migliore amico che me la raccontava sempre meno giusta.
«Thanks, guys,» sorrise lei, afferrando i sacchetti e attendendo sulla soglia della palazzina. «Ce la faccio a salire in ascensore da sola, grazie. C’è anche Rupert nella hall.»
Supposi che tale Rupert fosse una specie di usciere.
«Okay, noi torniamo verso l’hotel. Sono piuttosto stanco,» sbadigliai, stiracchiandomi le mani indolenzite per aver portato le buste della spesa. Era strano come mia cugina, una cantante di fama modesta lì a Londra, se ne andasse in giro senza alcun aiuto. Era ovvio che se lo potesse permettere, eppure lei era sempre stato un tipo semplice.
Lei era la mia pulcina da sempre.
«Ciao, Sofi,» smozzicò anche Ruben, senza incepparsi nemmeno una volta.
Era una cosa incredibile, ancora stentavo a credere al potere illuminante che mia cugina avesse su di lui.
«Ciao,» sospirò lei, avvicinandoglisi e sfiorandogli una guancia con una fuggevole carezza.
Ruben divenne color peperoncino messicano e si fissò i mocassini da sfigato con insistenza, fin quando non sentì il portone chiudersi alle spalle di Sofia.
Gli diedi una forte pacca sulla spalla, tanto che il poverino traballò lievemente in avanti, poi gli sorrisi amichevole.
«Insomma mia cugina…» e lasciai la frase in sospeso di proposito.
Vedere la faccia di Ruben dopo quello che avevo intuito fosse successo tra di loro era impagabile e soprattutto mi stava distraendo dal problema che iniziava con la lettera C.
«C-Co-Co-Co-C-Co…» balbettò in preda al panico.
«Sì, coccodé,» sghignazzai, scendendo i gradini e incamminandomi verso l’hotel.
Ruben deglutì a fatica, poi sospirò e mi seguì.
«N-Non c’è n-nie-niente tr-tra me e S-So-Sofi…» continuò a ripetermi.
«Certo, e io sono Napoleone.»
«È v-ve-vero!» insisté, ma ero fin troppo furbo per recitare ancora la parte delle tre scimmiette: non vedo, non sento e non parlo.
«Je suis Napoléon!» cominciai ad urlare a squarciagola, annegando un po’ di quel senso di smarrimento.
Mi sentivo ancora svuotato dopo quello che era successo, dopo che mi ero giocato tutto per una stupida bugia... ma forse era meglio aver amato e avere perso, che non aver amato affatto.
Magra consolazione.

***
*si prostrano ai piedi delle fanZ strisciando la faccia sul pavimento sudicio, mangiando caccole di Robbeo*
Vi chiediamo umilmente perdono per il mega-ritardo nella pubblicazione di questo capitolo. Ci sono stati alcuni problemi, tra cui università, blocco dello scrittore e quant'altro, ma finalmente ci siamo riuscite!!!
YEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE (non ce ne frega una ceppa!)
Comunque, speriamo che il capitolo sia stato di vostro gradimento, nonostante sia arrivato con un ritardo mostruoso. 'NZomma Cel andrà a Londra e la pace con Robbeo sembra ormai fatta, anche se Ven non ce la racconta giusta. Chissà cosa hanno organizzato quei due, eh?
Vabbuò, ci prostriamo ai vostri insulti/giudizi! *baciano per terra*
Ultima domanda: ma quanto è carina Sofi?? *ww*

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Ricordate il gruppo Crudelie si nasce, dove potrete trovare spoiler, foto e tanto altro!
 
 
 
 
 
 
 

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