Christmas Carol

di Alexandra_ph
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 22 dicembre ***
Capitolo 2: *** 23 dicembre ***
Capitolo 3: *** 24 dicembre ***
Capitolo 4: *** 25 dicembre ***



Capitolo 1
*** 22 dicembre ***


Disclaimers : Il marchio Jag e tutti i suoi personaggi appartengono alla Bellisarius Production. In questo racconto sono stati usati senza alcuno scopo di lucro.

S. Natale 2006

Travolti dal consumismo, dalla fretta e dal lavoro, diventa sempre più difficile sentire lo Spirito del Natale. Anche per me, nonostante io adori tutto quanto riporti all’atmosfera natalizia.

Pur trascorrendo il giorno di Natale più o meno allo stesso modo, con i familiari, in un pranzo che spesso si trascina fino a pomeriggio inoltrato, mi sono resa conto di sentirlo ogni anno in maniera diversa. E, contemporaneamente, nelle settimane precedenti, attenderlo anche in maniera diversa.

Ci fu l’anno in cui restaurai il vecchio presepe di quando mio padre era ragazzo: ogni sera pulivo, aggiustavo e ridipingevo una statuina… finché il presepe non fu pronto. Poi ci fu l’anno in cui dipinsi per ore ed ore, di sera o nel week-end, un lenzuolo natalizio per mio figlio.

Ora, da qualche anno a questa parte, l’attesa del Natale, tra le altre cose, la riempio scrivendo un racconto natalizio.

Spesso accompagnata da un sottofondo musicale in tema, lentamente mi calo nell’atmosfera, e mentre scrivo, dipingo o preparo un presepe, un insieme di ricordi, di idee, di emozioni si affaccia alla mente e ogni anno, da queste piccole cose, ecco che poco alla volta, ritorna anche lo Spirito del Natale.

Perché, in effetti, l’unico posto dove cercarlo e trovarlo è dentro se stessi.

Ma cos’è lo Spirito del Natale?

E’ una domanda che mi sono posta più volte, soprattutto in questo periodo, e sulla quale ho riflettuto parecchio. Tralasciando per un attimo le solite frasi fatte, o quello che significa sul piano religioso, ho provato a pensare cosa significhi davvero per me. O, meglio ancora, come ogni anno lo ritrovo.

Mi succede sempre quando penso o faccio qualcosa non per me stessa, ma per qualcun altro, benché quel qualcosa che faccio possa procurare piacere anche a me.

E allora ho capito che, forse, il vero Spirito del Natale è smettere per un attimo di pensare a noi stessi e dedicare i propri pensieri agli altri.

Non importa come: se portando in vita un ricordo, se regalandone uno, se donando dieci minuti di spensieratezza a chi, magari, troppo preso da altre cose, ne ha davvero bisogno, oppure se pensando ad un regalo speciale per qualcuno… l’importante è dedicare una piccola parte del nostro tempo per gli altri, siano essi familiari, amici o anche, eventualmente, degli sconosciuti.

Ritrovando lo Spirito del Natale, ogni anno mi accorgo anche che ho sempre qualcosa per cui “ringraziare”.

Quest’anno, in particolare, per mio padre, che è ancora con me a festeggiare quando, solo sei mesi fa, ho temuto che non ci sarebbe più stato.

Per questo motivo, questo racconto lo voglio dedicare a lui.

Buon Natale a tutti

Alexandra


CHRISTMAS CAROL

22 DICEMBRE

Saint Vincent Hospital – Blacksburg, Virginia

Gli occhi continuavano ad inquadrare le stesse pareti, la stessa finestra, gli stessi mobili. Da mesi, ormai.

In quei giorni qualcosa, tuttavia, era cambiato: le infermiere, nonostante le sue proteste, avevano appeso alcune decorazioni natalizie, segno evidente che il tempo trascorso dal suo incidente era davvero ormai troppo.

Il dottor Clive continuava a dire che non c’erano motivi fisici perché non camminasse, e lo stesso ripeteva in continuazione Barbara, la fisioterapista che ogni mattina ed ogni pomeriggio costringeva le sue gambe a continui ed estenuanti esercizi.

Inutili, a suo parere.

Indispensabili, secondo Barbara. E, ovviamente, era l’opinione di Barbara quella che contava. Non di certo la sua.

In quei giorni, inoltre, anche i suoni, solitamente gli stessi, erano un po’ cambiati: all’ovattato silenzio che generalmente accompagnava le interminabili giornate, interrotto solo dai passi di medici ed infermiere nel corridoio, dai carrelli di medicinali o cibo spinti dagli inservienti e dalle voci dei parenti in visita e poco altro, si era aggiunta la soffusa melodia di brani natalizi neppure cantati, semplicemente suonati da un’orchestra di musica classica. Probabilmente secondo la direzione dell’ospedale avrebbero dovuto portare un po’ di allegria.

Ma cosa c’era d’essere allegri?

Proprio nulla, a suo parere.

Mattie Johnson si guardò attorno per l’ennesima volta, mentre una lacrima le scivolava sulla guancia. Con un gesto stizzito, sollevò la mano e l’asciugò rapidamente. Se avesse permesso ad una sola delle sue lacrime di aprire un varco, anche piccolo, alla disperazione che sentiva in quel momento, sarebbe stata la fine…

“Harm… dove sei?”.

Neppure lui, quel Natale, sarebbe venuto a trovarla. Le aveva telefonato da Londra poche ore prima, per comunicarglielo.

Non ce la faccio proprio a venire, Mattie… mi spiace. Il lavoro… Non appena mi libero ti prometto che verrò a trovarti… Come vanno gli esercizi?”

Erano tutte scuse, lo sapeva: anche lui non sopportava di vederla in quel letto, per questo non avrebbero passato il Natale insieme.

Esattamente come suo padre, anche Harm stava fuggendo da lei, ormai un’invalida.

Chiuse gli occhi e si premette le mani alle orecchie, voltando la testa da un lato… era stufa di vedere quell’alberello di Natale che le infermiere avevano appoggiato sul tavolino davanti al suo letto, esattamente com’era stufa di sentire quelle melodie sdolcinate.

Al diavolo tutto quanto!

Cosa c’era da festeggiare, quell’anno?

Ufficio del Capitano Rabb – Londra

“Mac… per favore… cerca di capire…”.

“Che cosa, Harm? Cosa dovrei capire?”

“Ti ho detto che non riesco proprio a liberarmi per Natale… Magari per il primo giorno dell’anno…”

“Mattie ti aspetta. Come puoi deluderla così?”.

Harmon Rabb chiuse gli occhi, sospirando. Sapeva che Mac aveva ragione e questo lo faceva sentire ancora più in colpa.

“Di cosa hai paura, Harm?” aveva domandato lei.

Cosa temeva? Forse, proprio dover rispondere a quella precisa domanda… perciò rimase in silenzio, di nuovo.

“Non sei obbligato a vedere me… Ma vai da Mattie, almeno…”.

Dannazione! Aveva capito. In fondo doveva aspettarselo.

“Mac… ti prego… Non si tratta di questo…” Lei, però, aveva già interrotto la comunicazione.

Con un moto di rabbia, insolito in lui, gettò il telefono sulla scrivania, si alzò e, senza neppure infilarsi il cappotto, uscì dall’ufficio, sbattendo la porta alle sue spalle.

“Capitano Rabb…”, cercò di fermarlo il tenente Leach, suo segretario.

“Devo uscire”, bofonchiò senza neppure fermarsi.

“Il cappotto, Signore…” disse il tenente, ma lui era già sparito.

Ufficio del Colonnello Mackenzie – S. Diego


Le lacrime le avevano inumidito gli occhi, ma fece il possibile per trattenerle. Era inutile piangere. Erano mesi, ormai, che lo faceva quasi ogni sera, prima d’addormentarsi. E non era cambiato nulla.

Harm continuava a fuggire. Da Mattie e da lei.

Eppure c’era stato un momento in cui aveva creduto che tutti i suoi sogni si sarebbero finalmente realizzati. Era successo la sera prima della partenza per le loro rispettive nuove destinazioni.

In aprile di quell’anno, proprio poco dopo che Mattie aveva avuto l’incidente che tuttora la costringeva immobile in ospedale, il generale Cresswell aveva comunicato la promozione di Harm a Capitano e il suo trasferimento a Londra, a capo del Jag in Europa; mentre lei era stata assegnata a dirigere gli uffici di S.Diego.

Per entrambi un’ottima prospettiva di carriera, che tuttavia li aveva colti di sorpresa; benché da tempo si aspettassero di essere divisi, l’idea di non lavorare più assieme li aveva resi consci, finalmente, dei sentimenti che provavano l’una per l’altro e dopo anni erano riusciti a confessarselo.

La prima e unica volta in cui avevano fatto l’amore era stata stupenda. Forse, se lo fosse stata di meno, sarebbe stato tutto più facile.

Era stato proprio Harm a suggerire di lasciare che fosse il Destino a decidere chi dei due avrebbe dovuto abbandonare la propria carriera per seguire l’altro e poter finalmente vivere assieme come marito e moglie.

Non se l’era sognato: Harm, quella sera, le aveva davvero chiesto di sposarlo. E lei era stata così felice… anche quando, poche ore dopo da McMurphy, lo avevano detto ai loro amici più cari… anche allora le era sembrato tutto un sogno, troppo bello per essere vero.

Ed infatti…

Bud, come aveva chiesto Harm stesso, aveva lanciato in aria davanti a tutti la moneta che avrebbe dovuto rivelare la decisione che il Destino aveva preso per loro; ma quando era caduta nelle mani del Capitano di Corvetta Roberts, Harm lo aveva fermato.

“Aspetta Bud… “ e poi l’aveva guardata.

Lei non avrebbe mai scordato quello sguardo: paura. Aveva scorto la paura negli occhi dell’uomo che amava da anni.

“Forse è meglio che siamo noi a decidere…” aveva detto lui, con un sorriso, davanti a tutti. E gli altri, benché sorpresi da quel cambio d’idea improvviso, avevano annuito… la tensione, che era stata palpabile per alcuni attimi non appena Harm aveva interrotto Bud, si era sciolta immediatamente tra le rinnovate congratulazioni per il matrimonio, le chiacchiere e i saluti.

Solo quando tutti se n’erano andati e Harm aveva iniziato a parlare per spiegarle quello che intendeva, lei aveva capito esattamente il perché di quello sguardo che aveva scorto nei suoi occhi: stava fuggendo di nuovo.

“Ho fermato Bud perché non volevo che fossi tu a dover rinunciare alla tua carriera…”

“Cosa ti fa essere così sicuro che la moneta sarebbe stata a tuo favore?” aveva ribattuto lei.

“Non volevo farti correre il rischio”.

“Che gentile! Sicuro che non sia stato perché temevi di dover essere proprio tu quello costretto ad abbandonare la Marina?”

Non era riuscito a rispondere nulla. E lei aveva capito. Purtroppo aveva capito tutto quanto.

“Potremmo iniziare i nostri rispettivi incarichi e sposarci fra un po’… nel frattempo avremo provato con il nuovo lavoro, sapremo decidere meglio…” aveva proposto infine Harm.

Non aveva detto più nulla; si era limitata a guardarlo, con la tristezza nel cuore. Era certa che se lui fosse andato a Londra, non sarebbe più tornato indietro, neppure per lei.

Non era riuscita più a dirgli neanche quello che aveva deciso solo poche ore prima, tra le sue braccia: si era sentita così felice con lui che, nonostante la sua proposta di lasciar decidere tutto quanto al Destino, aveva pensato che lo avrebbe seguito persino in capo al mondo, abbandonando tutto quanto, pur di potersi svegliare ogni giorno accanto a lui.

Harm era sembrato così convinto di volere che fosse una moneta a decidere del loro futuro, che aveva pensato di assecondarlo; tuttavia aveva anche stabilito dentro se stessa che se la sorte avesse deciso a favore di Harm, avrebbe finto di fare buon viso a cattivo gioco e lo avrebbe seguito senza dirgli nulla, ma che se invece il destino avesse deciso che dovesse essere lui a rinunciare alla sua carriera per seguire lei, allora glielo avrebbe impedito e gli avrebbe comunicato la sua decisione.

Forse aveva sbagliato a non dirgli nulla…

Ma era stato quello sguardo di paura che l’aveva bloccata: Harm non temeva solo una decisione per le loro carriere… Era il legame definitivo tra loro due ciò che lo spaventava maggiormente.

Ne aveva avuto la conferma nei mesi successivi; dopo aver acconsentito, pur a malincuore, di fare come desiderava lui, più volte aveva tentato di portare nuovamente il discorso sul loro futuro. Lei non ce la faceva a vivere così lontano.

Voleva stare con Harm, avere una famiglia, anche se probabilmente il suo sogno di avere dei bambini sarebbe rimasto per sempre un sogno. Ma c’erano tante altre possibilità…

E poi c’era sempre Mattie, che aveva tanto bisogno di loro due.

Gli aveva proposto anche di accompagnarla lei a Londra, per poterla avere più vicino… ma lui aveva trovato un milione di inutili scuse, tra le quali il padre di Mattie.

Erano mesi che il padre di Mattie non si faceva più vivo con la figlia.

Lei era andata tre volte a trovarla, ogni volta che ne aveva avuta la possibilità, e la ragazza stava davvero soffrendo molto… Harm non si era mai fatto vivo con lei, se non al telefono.

La scusa era sempre il lavoro, ma Mac sapeva che se Harm fosse volato a Washington per Mattie, avrebbe dovuto affrontare la loro situazione irrisolta, ed era proprio questo a frenarlo.

In questo modo stava trascurando anche Mattie e lei non poteva permetterlo.

Per questo motivo gli aveva finalmente detto quello che aveva dentro da mesi: non era obbligato ad andare da lei, se andava a trovare Mattie. Come immaginava, non era riuscito a rispondere nulla. Quindi aveva ragione: il problema era lei, non la ragazza.

Ricacciando indietro con determinazione le lacrime, decise che quel Natale Mattie non sarebbe rimasta sola. E lei nemmeno. All’interfono chiese alla sua assistente di prenotarle l’aereo per Washington per l’indomani, non importava a che ora, purché le trovasse un posto.

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Capitolo 2
*** 23 dicembre ***


23 DICEMBRE

Saint Vincent Hospital – Blacksburg, Virginia

“Ciao!”.

La voce squillante di un bambino ruppe il silenzio che c’era nella stanza.

Mattie finse di non aver sentito e continuò a tenere gli occhi chiusi. Non aveva proprio voglia di parlare con nessuno. Specialmente con un bambino. Erano sempre troppo invadenti.

“Ciao”, ripeté la voce. “Sei sveglia?”.

“Se tengo gli occhi chiusi e non rispondo, perché mai dovrei essere sveglia?” pensò tra sé, continuando a fingere, anche se era evidente a lei stessa l’illogicità del suo ragionamento.

“Ciao, sei sveglia?” insistette la voce, questa volta accompagnata da una manina che tirava il lenzuolo con insistenza.

Come volevasi dimostrare: i bambini erano mocciosi invadenti.

“Adesso sì”, rispose secca, sperando di scoraggiare immediatamente il piccolo intruso. Doveva avere sì e no cinque anni, sei al massimo, si disse osservandolo. Era davvero uno scricciolo: piccolo e magro, ma con due occhioni blu che brillavano nel visino quasi esangue, incorniciato da cortissimi capelli neri. Sembrava che fossero stati appena tagliati col rasoio, tanto erano corti; oppure sembrava che fossero appena ricresciuti.

“Come ti chiami?”, chiese il bambino.

Con un sospiro rassegnato, la ragazza rispose: “Mattie”.

“Io mi chiamo Timothy, ma tutti mi chiamano Timmy e sono un aiutante di Babbo Natale!” precisò, orgoglioso, il bambino.

“Ah sì?” domandò la ragazza, in realtà più scettica e sarcastica di quanto avrebbe davvero voluto essere. Ma quell’anno lei e Babbo Natale non si erano proprio capiti.

“Non mi credi, vero?” chiese il bambino.

“Sì… sì… certo”, cercò di rassicurarlo lei. In fondo era ancora troppo piccolo per scoprire che Babbo Natale non esisteva.

Ma non dovette essere stata troppo convincente, perché il bambino aggiunse:

“Te lo posso provare, sai? Scommetto che indovino esattamente cosa vorresti per Natale!”.

“Io non voglio nulla”.

“E’ impossibile. Tutti vogliono qualcosa…”.

“Ti ho detto che non voglio nulla”.

“Non ti piacciono i regali?”

Mattie non rispose.

Certo, a chi non piacevano i regali? Ma da quando sua madre era morta, nessuno gliene aveva più fatti, meno che meno la vita… sempre che non dovesse considerare il suo incidente come un “regalo di Natale” anticipato.

“Pensaci bene…” sentì dire al bambino, quasi avesse espresso ad alta voce il suo pensiero ed egli lo avesse sentito. Eppure era certa di non aver parlato.

Ad ogni modo il piccolo aveva ragione: la vita le aveva fatto un regalo… Harm.

Peccato che avesse deciso di toglierle anche quello.

“Io ho domandato a Babbo Natale di farmi diventare un bell’angelo…” aggiunse il bambino, dopo un attimo di silenzio.

“Un angelo? Perché?”.

“Mi piace volare”, fu la risposta di Timmy.

“Anche a me piace volare. E anche ad un mio amico… lui è un vero pilota!” disse Mattie.

“Davvero? Ma allora vola tanto in alto! Io non so se ci riuscirò, perché non sarò mai un angelo bello…”.

“E perché no? Sei così carino…”.

“Gli angeli sono tutti biondi e con tanti capelli con i ricci lunghi…”.

“Beh…” non seppe che rispondergli. Timmy parlava di angeli in maniera molto seria.

“Comunque avrò anch’io due ali bianche. Babbo Natale me lo ha promesso. Devo solo riuscire a fare ancora una cosa… per bene, come vuole lui”.

“Che cosa?” domandò Mattie.

“E’ un segreto…”.

“Non me lo puoi proprio dire?”.

“Devo aiutare Babbo Natale!”.

“A fare cosa?”

“Ma quello che fa Babbo Natale, no? Ora vado, ciao ciao…”.

E prima che Mattie potesse aggiungere o domandare altro, era già scomparso.

 

 

Ufficio del Capitano Rabb – Londra

Perché sentiva così tanto la sua mancanza eppure continuava a provare quell’irrazionale senso di paura all’idea di lasciare tutto quanto e stare con lei?

Il giorno prima, dopo la sua telefonata, era dovuto uscire… si sentiva soffocare. Dall’ansia e dalla rabbia. Ansia per quello che lei gli stava chiedendo; e rabbia perché sapeva che aveva tutti i diritti di domandarglielo, ma nonostante tutto, sapeva anche che non sarebbe riuscito a darle ciò che lei voleva.

Perché, dannazione a lui, quella notte a Washington si era lasciato trasportare da ciò che da tempo provava per Mac e aveva fatto l’amore? Sapeva che sarebbe stato ancora più difficile… ma per un momento aveva sperato che ciò che sentiva per lei fosse tanto forte da fargli superare tutti i suoi timori.

Invece era proprio l’amore e il desiderio per Mac a farlo fuggire… e a fargli provare tutta quella paura all’idea di legarsi per sempre a lei.

E se l’avesse persa, come lui e sua madre avevano perduto suo padre?

Sapeva che il suo era un ragionamento assurdo e irrazionale, ma non poteva farci nulla… certe ferite non si rimarginano mai, neppure dopo anni.

Aveva colto la disperazione negli occhi di sua madre quando aveva saputo di essere rimasta vedova; per mesi l’aveva sentita piangere a letto, inconsolabile. E anche lui, bambino, aveva pianto per notti e notti, finché non si addormentava, sfinito dal dolore e da quell’ incolmabile senso di vuoto che ancora ora, a volte, lo tormentava.

L’unica differenza era che da quando era fuggito da Mac, non era più certo che la tristezza che provava nel cuore fosse ancora legata al ricordo del padre; ultimamente si era convinto che fosse lo struggente rimpianto di essere fuggito dall’amore.

Eppure era più forte di lui… non riusciva proprio a lasciarsi andare.

Si abbandonò sulla poltrona, reclinando il capo all’indietro a fissare il soffitto.

Si sentiva esausto.

Non immaginava proprio che fuggire dalle proprie emozioni e dai propri sentimenti, potesse essere quasi più estenuante che affrontarli.

La voce all’interfono gracchiò metallica:

“Capitano, c’è qui un signore che desidera vederla”.

Con un sospiro chiese: “Di chi si tratta?”

“E’ un signore anziano… dice che lei non la conosce, ma che deve dirle qualcosa”.

“Come si chiama?”

Sentì all’apparecchio che il tenente Leach si rivolgeva al signore, per sapere il suo nome.

Passò qualche minuto, senza ricevere risposta. Spazientito domandò all’apparecchio:

“Allora, tenente? Di chi si tratta?”

Nessuna risposta.

“Tenente…” ripeté con voce più autoritaria.

“Signore… se n’è andato”, rispose il tenente.

“Andato? E dove?”

“Non lo so, Signore. Non ha detto nulla, neppure il suo nome. Ha lasciato soltanto un biglietto, pregandomi di consegnarvelo…”

“E che aspetti a farlo?”

“Ecco, io… Sissignore, subito signore…” lo sentì dire, e un attimo dopo compariva sull’attenti alla sua porta.

“Grazie tenente”, lo congedò, dopo che gli ebbe consegnato il biglietto, in una busta chiusa.

Incuriosito si soffermò ad osservare la grafia che aveva scritto semplicemente “Capitano Rabb” sul davanti della busta: nessuna calligrafia nota.

Aprì la lettera, impaziente di scoprire cosa vi fosse scritto.

Su un solo foglio bianco, poche parole e una firma.

 

“Capitano, non commetta il mio stesso errore. E. Scrooge”

E chi accidenti era questo Scrooge?

“Tenente… mi descriva quell’uomo” disse al suo assistente, affacciandosi alla porta.

“Beh… sulla sessantina, forse anche qualche cosa in più, piuttosto alto e parecchio robusto; un paio di occhiali in metallo e capelli, baffi e barba molto lunga bianchi. Anche i capelli gli arrivavano quasi alle spalle…”.

“Sembra che stia descrivendo Babbo Natale, Tenente”.

“No, Signore. Non indossava abito e cappello rossi…”

“Ovvio che no, Tenente”, disse accondiscendente. Il Tenente Leach, a volte, per la sua ingenuità gli ricordava tanto il Bud dei primi tempi.

“Giusto, Signore.”.

“Era solo?”

“Sì, Signore. Ma quando se n’è andato all’improvviso,  mi sono affacciato  alla finestra e l’ho visto che parlava con un altro signore, anche questo molto anziano. Forse il biglietto non era suo, ma dell’altro vecchietto…”.

Poteva essere un’ipotesi. Ma comunque non spiegava chi fossero i due uomini, né a cosa si riferisse il  messaggio.

E, soprattutto, non gli chiariva come mai il nome Scrooge gli suonasse addirittura familiare.

 

 Saint Vincent Hospital – Blacksburg, Virginia

“Ciao, Mattie”.

Per la seconda volta in quella giornata la salutarono, nonostante avesse gli occhi chiusi. Probabilmente non riusciva molto bene a fingere di dormire.

Aprì gli occhi e si trovò di fronte il volto sorridente del Colonnello Mackenzie.

“Mac…” disse sorpresa, immediatamente guardandosi attorno, alla ricerca di qualcuno. “Harm è con te?”, chiese fiduciosa, prima che lo sguardo triste e quasi colpevole della donna infrangesse le sue deboli speranze.

“Allora non verrà davvero?”.

“Mi spiace, Mattie. Harm deve lavorare…”.

“Tutte scuse, Mac. Intanto lo so che non è quello il vero motivo…” disse sconsolata. “Lui non sopporta di vedermi immobile in questo letto.”.

“Non è vero!”, la interruppe Mac, con enfasi.  “Non è per causa tua…”.

“Che cosa intendi?”

Vide la donna abbassare lo sguardo per un attimo, quasi fosse indecisa se dirle tutto quanto. Poi, tornando a guardarla negli occhi finalmente si spiegò:

“E’ a causa mia, Mattie, che Harm non torna”.

“Ma non dovevate sposarvi? Non erano questi i vostri progetti?”.

“Così credevo anch’io… Ma temo che Harm abbia cambiato definitivamente idea a riguardo…”.

“Perché, Mac?”.

“Credo che Harm abbia così tanta paura di legarsi a qualcuno da preferire addirittura non farlo. Per questo motivo non torna: non vuole essere costretto a rivedere me. Gli ho persino detto che non è necessario che mi riveda… l’importante è che passi il Natale con te, ma… sai com’è fatto Harm, Mattie…”.

La ragazza la osservò attentamente e si rese conto di quanto la donna fosse triste.

“Tu lo ami molto, vero?”.

“Sì”, rispose Mac.

“Anch’io gli voglio tanto bene. Ma questo, a lui, sembra non importare granché…”.

 

Appartamento del Capitano Rabb – Londra

Non riusciva a prender sonno, così si era alzato e, cosa per lui insolita, si era seduto sul divano, davanti alla televisione. In quell’appartamento ammobiliato che gli aveva fornito la Marina di televisori ce n’erano ben due: uno nella zona giorno, l’altro addirittura in camera da letto.

L’aveva acceso su uno degli innumerevoli canali a caso, si era trovato una posizione comoda sul divano (cosa non facile, vista la sua stazza) e aveva cercato di addormentarsi come sentiva dire succedeva a molti (forse anche per questo c’era chi apprezzava l’apparecchio anche in camera da letto).

Dopo un notiziario, un programma d’intrattenimento (all’una e mezza di notte?) che tentava, per altro senza granché riuscirci, di offrire un blando tentativo di approfondimento di alcuni temi di attualità, e un programma culturale che trattava di libri, decise che la TV a lui non conciliava affatto il sonno e finalmente la spense.

Spinto probabilmente dal programma appena visto, si avvicinò ai tre scaffali sulla parete opposta dove, ben allineati, vi erano diversi libri.

Diede una rapida scorsa ai titoli, scoprendo che vi era qualcosa per tutti i gusti: dal romanzo d’avventura al legal-thriller, dal genere fantasy fino ad arrivare ai classici. C’era persino, a giudicare dal titolo e dall’immagine in copertina, qualche romanzo d’amore, probabilmente pensato per ufficiali di sesso femminile. Quando scoprì tra i classici persino i Racconti di Natale di Dickens, sorrise divertito: chi aveva studiato come arredare quell’appartamento aveva pensato proprio a tutto!

Un libro per ogni occasione.

Non sapendo cosa scegliere, decise di assecondare il pensiero dell’arredatore e di rimanere in tema; scelse quindi proprio la raccolta di racconti natalizi, restando pure sorpreso nell’accorgersi che si trattava davvero di un libro e non, come aveva per un attimo sospettato, di un semplice involucro in cartone atto a riempire lo scaffale per fare bella figura.

Il volume era un’edizione economica, con la copertina morbida, e sembrava non essere mai stato neppure sfogliato, la qual cosa non lo sorprese affatto.

Sulla copertina bianca spiccavano il titolo del libro in rosso, il nome dell’autore in verde e i titoli dei cinque racconti in nero; sotto a tutto questo vi era l’immagine di un vecchio signore con un paio d’occhialini in metallo, baffi, lunga barba e capelli bianchi, davanti ad un librone aperto, nell’atto di pensare prima di scrivere con una penna d’oca, anch’essa verde, su di un piccolo quaderno che teneva tra le mani… alle sue spalle, sfumati, i volti di diversi bambini. L’immagine sembrava suggerire che il vecchio fosse Babbo Natale intento a decidere sui regali da fare ai bimbi, ma senza il classico costume rosso… un po’ come la descrizione del signore che lo cercava quel pomeriggio, accuratamente fattagli dal tenente Leach.

Saltando del tutto la prefazione, si accinse a leggere il primo racconto, ‘A CHRISTMAS CAROL’.

Un Canto di Natale…

Il titolo gli sembrava familiare: un cartone animato di Walt Disney che ricordava d’aver visto qualche anno prima con il piccolo AJ, gli sembrava avesse un titolo simile… se non si sbagliava c’era un avarissimo zio Paperone  che veniva spaventato e trascinato a destra e manca da alcuni fantasmi… AJ era buffissimo perché ripeteva quasi le stesse espressioni terrorizzate di zio Paperone ogni volta che compariva un nuovo spettro.

Dopo poche pagine si rese conto che il cartone animato doveva essere la parodia in chiave disneyana del celebre racconto. Ma soprattutto capì perché il nome Scrooge, quel pomeriggio, gli era suonato così familiare.

Lesse d’un fiato tutto il racconto, deciso a quel punto di scoprire cosa diavolo voleva dire il biglietto che aveva ricevuto. Quando terminò era punto e a capo.

Il sonno non era arrivato e neppure una spiegazione.

Perché quel tipo si era firmato come Ebenezer Scrooge, il protagonista di un racconto natalizio scritto più di centocinquant’anni prima? (Rifiutava categoricamente l’ipotesi che il tizio si chiamasse davvero così).

Come faceva a sapere il suo nome e il suo grado?

E, soprattutto, perché mai gli suggeriva di non commettere gli stessi errori di zio Paperone, alias Ebenezer Scrooge?

Lui non era ricco; né come il personaggio di Dickens, né tanto meno, come il papero più famoso del mondo. E non era neppure avaro quanto loro.

Perché mai quel vecchietto si preoccupava tanto?

Diede un’occhiata all’orologio e scoprì che erano quasi le quattro del mattino e il sonno non accennava a venire; rassegnato a trascorrere la notte insonne, si mise più comodo, voltò pagina e iniziò a leggere il racconto successivo.

Non era neppure a metà del “Primo quarto” di “The Bells”, Le campane, il secondo dei cinque racconti, che il libro gli scivolò dalle mani: finalmente si era addormentato.  

 


 

“Cosa vuoi da me?”

Il bambino era piccolo ma il suo sguardo, dai profondi occhi blu, sembrava quello di un saggio. Indossava una veste candida, lunga fino ai piedini, che sbucavano nudi dall’orlo dell’abito.

“Devi venire con me”

“Chi sei? Dove vuoi portarmi?”

“Io sono il Fantasma del Natale Passato, Presente e Futuro”.

“No… non è così il racconto. Sono tre diversi i fantasmi. E poi perché tormenti così i miei sogni? Io non sono Scrooge…”

“Lo so”, disse il bimbo, “tu sei Harmon Rabb e ti piace volare. Anche a me piace volare e ora voleremo. Vieni… “ e così dicendo gli prese la mano. Quando il bambino si voltò, lui vide che aveva due piccole ali bianche.

“Aspetta… perché proprio io? Ho letto la storia di Ebenezer Scrooge… io non sono ricco, non sono avaro come zio Paperone…”

“Si può essere avari in molti modi, non solo per denaro” rispose il bambino.

“Non vengo da nessuna parte con te”.

“Certo che verrai…”  e detto questo, con la piccola mano gli afferrò la sua e insieme si sollevarono da terra.

Rapidamente attorno a lui il paesaggio cambiò: non era più a Londra, ma nella casa dove aveva abitato da bambino, assieme ai suoi genitori. Quella stessa casa dove un triste giorno erano arrivati dei militari a comunicare la notizia della scomparsa del suo papà.

In quel momento, però, poteva osservare una famigliola felice composta da tre persone; due erano i suoi genitori da giovani e il bambino che giocava e rideva sulle gambe di suo padre…

“Sì, sei tu. Non ti ricordi?” gli disse il piccolo fantasma.

“Ricordo che mio padre mi faceva sempre saltare sulle sue gambe… e ricordo le risate della mamma…”

“Non vedi quanto era felice?”

“Ma quando ha creduto morto mio padre, non era più così felice…”

“Non come prima, certo. Ma credi davvero che avrebbe preferito non amarlo tanto, pur di non soffrire? Non dimenticare che è stato solo grazie a tuo padre che ha potuto averti. Solo per questo, credo che non abbia mai rimpianto d’averlo amato”.

“Tu non sai, però, quanto l’ho sentita piangere dopo… ero piccolo, e il cuore mi si spezzava a sentirla piangere così… e io stesso soffrivo tantissimo, volevo il mio papà e lui non c’era più…”

“Per questo motivo ora fai piangere qualcun altro?”

“Non faccio piangere nessuno”.

“Ne sei davvero sicuro?”.

“Certo. Nessuno piange per me. Per quale motivo, poi?”.

“Lo scoprirai dopo. Ora è ancora presto. Proseguiamo nel tuo passato… Guarda lì…”.

Gli interni erano cambiati; quello che vedeva erano gli uffici del Jag, a Washington. Bud e Harriett, lui vestito da Babbo Natale e lei da elfo; e poi c’era Chloe assieme a Mac.

Mac…

Mac che rideva, felice.

La scena cambiò di nuovo e la rivide sotto al vischio in casa Roberts mentre la baciava… E poi davanti alla chiesa, accanto a Jennifer che gli stava dando un bacio sulla guancia… E infine vicino al muro, dove ogni vigilia Natale andava a trovare suo padre… ed era con Mattie.

“Pur di fuggire da loro, quest’anno rinunci anche ad andare a trovare tuo padre…” disse il bambino.

“Non sto fuggendo…”

“Ah, davvero?”

Gli prese nuovamente la mano  e, all’istante, la scena davanti a lui cambiò di nuovo. Una stanza d’ospedale, dove vide Mattie e Mac abbracciate…

“Cosa stanno facendo? E perché Mac si trova lì?” chiese al suo Fantasma.

“Piangono, non lo vedi? Piangono per te.”.

“Per me?”

“Sì, piangono a causa tua. Mattie desiderava tantissimo che tu fossi con lei a Natale. Mac l’ha raggiunta, per non lasciarla sola, come invece hai fatto tu. Lo sai che la tua figlioccia si è convinta che non vuoi più vederla perché non riesce più a camminare?”

“Ma non è vero!”

“Ne sei sicuro?”

“Certo. Io voglio bene a Mattie. E anche a Mac. Non può non sapere che l’amo…”

“Te ne sei andato, distruggendo i suoi sogni. Perché dovrebbe pensare che l’ami ancora?”

“Ma è così” rispose con enfasi.

“Allora perché lasci che soffrano tanto? Non sarà sempre così, sai? Prima o poi ti dimenticheranno. Allora, forse, quello che soffrirà sarai tu…”.

Un gelo improvviso gli attraversò l’animo, mentre le immagini cambiavano di nuovo. In una bella stanza, riscaldata da un camino acceso, un grande albero di Natale, con numerosi pacchi avvolti in carta rossa luccicante, faceva bella mostra di sé; dolci musiche di Natale rendevano ancora più romantica l’atmosfera. Vide Mattie che stava scattando una foto a Mac… abbracciata ad un uomo che non era lui. Sorrideva alla ragazza, felice come non l’aveva mai vista e poi si voltava verso l’uomo e lo baciava…

“Chi è quell’uomo?”

“Suo marito”

“Ma Mac non è sposata!”

“No, infatti. Ma lo sarà… e non con te, poiché tu non la vuoi”.

“Non è vero che non la voglio. Io la desidero, moltissimo. Però non posso sposarla…”

“Perché?”

“Se morisse? O se mi lasciasse? Se la perdessi, come ho perso mio padre? Non voglio più soffrire così…”

“Preferisci allora rinunciare e far soffrire lei, oltre che te stesso? Perché tu non sei felice, a vivere lontano da lei. O sbaglio?”

“No. Non come quando lei mi era vicino…”

“Perché hai rinunciato?”

“Anche Mac mi domandò la stessa cosa, tanto tempo fa…”

“E tu cosa rispondesti allora?”

“Per le complicazioni… Ma adesso non è più così.”.

“Eppure hai rinunciato lo stesso…”

“Per paura”.

“Paura di trovarti intrappolato in un matrimonio?”

“Non sei troppo curioso, per essere solo un bambino?”

“Hai paura anche a rispondere? Voli su dei tomcat, sei un eroe di guerra… eppure hai più paure tu di quante ne abbia io che sono molto più piccolo di te…”

“Tu non hai paura?”

“Tutti abbiamo paura… ma per molte cose, tra le quali l’amore per le persone speciali che ci vogliono bene, vale la pena imparare a superare i nostri timori. Essere avari con i sentimenti non ci rende felici… crediamo di non soffrire, ma soffriamo lo stesso, senza però avere in cambio la gioia d’aver amato e reso felici chi ci vuole bene…”

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** 24 dicembre ***


24 DICEMBRE

Appartamento del Capitano Rabb – Londra

Si alzò di scatto, confuso e turbato.

Dove si trovava?

Si guardò attorno e riconobbe il suo appartamento di Londra, anonimo e freddo. Niente a che vedere con la sua casa a Washington. O con l’appartamento caldo e accogliente di Mac.

Che strano sogno!

Guardò l’ora e si rese conto d’aver dormito poco più di un’ora, dall’ultima volta che aveva guardato l’orologio. Erano solo le cinque e trenta del mattino della vigilia di Natale.

Credeva d’essersi addormentato sul divano, però. Invece si trovava nel letto.

Aveva un vago ricordo di quello che aveva fatto la sera precedente: rammentava di essersi alzato perché non riusciva a dormire e di essersi messo davanti alla TV…

La televisione? Possibile che avesse davvero acceso la televisione? Non lo faceva mai.

Poi si era messo a leggere un libro… Dov’era finito?

Si alzò, guardò ai piedi del letto, ma non trovò nulla. Allora si diresse nel salottino e guardò accanto al divano. Magari nel sonno, durante uno dei vari “viaggi” intrapresi col suo piccolo amico fantasma, si era trasferito nel letto, senza rendersene nemmeno conto.

Che strano volto aveva quel bambino: magro, quasi diafano, ma con due occhi blu dallo sguardo acuto e profondo.

Accanto al divano non trovò nulla. Allora guardò sugli scaffali, poteva anche averlo rimesso al suo posto. Avrebbe potuto fare qualunque cosa senza accorgersene, durante quello strano sogno.

Infatti eccolo! Si trovava proprio sullo scaffale, dove ricordava d’averlo trovato. Quasi a sincerarsene, lo sfilò e lo prese in mano.

Improvvisamente si sentì mancare: come poteva aver letto un libro senza pagine?

Il volume, infatti, era finto. Si trattava del classico pezzo di cartone ricoperto da una finta copertina, a dare l’illusione che ci fosse un libro.

Controllò anche gli altri: erano tutti libri finti.

Cosa accidenti era successo ieri sera?

Eppure era certo d’aver letto un racconto… QUEL racconto. O forse era il sogno che lo stava confondendo?

Sì, probabilmente si trattava di un sogno: credeva d’aver sognato solo il suo piccolo amico fantasma e invece doveva aver sognato tutto quanto, compreso il libro che credeva d’aver letto.

Doveva essere stato quel nome, Scrooge, scritto sul quel biglietto che “Babbo Natale” gli aveva consegnato, ad innescare il suo subconscio. Il biglietto, quel nome e il ricordo del cartone animato che aveva visto anni prima con AJ.

La mente umana memorizza cose che, all’improvviso, nei momenti più impensati, restituisce sottoforma di ricordi o sogni.

Tutta colpa di quel dannatissimo biglietto.

Lo aveva messo nel cassetto del comodino… perché accidenti lo aveva conservato?

Tornò in camera; deciso a recuperarlo e sbarazzarsene, aprì il cassetto, ma del foglietto non c’era traccia.

Al suo posto trovò un piccolo paio di ali bianche.

 

Saint Vincent Hospital – Blacksburg, Virginia

Era davvero una giornata molto fredda e il cielo sereno contribuiva a mantenere la temperatura rigida.

Quella mattina era arrivata presto in ospedale; voleva trascorrere più tempo possibile con Mattie. Del resto era il solo motivo per il quale aveva lasciato S.Diego e aveva deciso di restare a Washington fino al primo dell’anno. Fortunatamente Varice, che aveva preso in affitto il suo appartamento, si trovava, come l’anno precedente, in tournee in Iraq, a cantare per le truppe e al suo ritorno sarebbe stata per qualche giorno da Sturgis, finché lei non fosse ripartita.

Quando era arrivata aveva trovato Mattie molto meglio: la chiacchierata del giorno prima doveva averla rasserenata almeno un po’. Credeva, tuttavia, che buona parte del merito fosse del piccolo Timmy, il bambino che le aveva raggiunte proprio poco dopo che avevano terminato di parlare.

Timmy era vivace e allegro; ma non era quello ciò che lo rendeva tanto speciale per Mattie. Era una distrazione piacevole e travolgente, che le impediva di pensare a se stessa e alla sua situazione. Il bambino faceva domande, raccontava di immaginarie avventure e a poco a poco aveva sciolto il cuore indurito di Mattie.

Lei era del parere che alla ragazza servisse proprio quello: smettere di rimuginare sulla sua invalidità e smettere di attendere Harm, che non sarebbe venuto.

Aveva parlato con il medico e con la fisioterapista ed entrambi le avevano assicurato che oramai non vi era più alcun impedimento fisico ad ostacolare una completa guarigione.

Dipendeva tutto da Mattie.

E loro credevano che i motivi per i quali la ragazza ancora non camminava fossero, più che altro, psicologici. Forse aveva paura di non farcela e preferiva evitare una grossa delusione.

Nonostante il freddo, aveva deciso di passeggiare un po’ nel giardino dell’ospedale, per concedere a Mattie la privacy che le serviva, affinché le infermiere potessero lavarla e cambiarla. Proseguendo lentamente nella sua passeggiata, si ritrovò a riflettere su quanto la paura, spesso, fosse un nemico più difficile da sconfiggere di un intero esercito.

Ricordava i mesi che aveva trascorso in terapia, proprio per affrontare le sue ansie e i suoi timori, che l’avevano nuovamente travolta dopo ciò che era accaduto con Sadik, ma soltanto perché non era mai stata del tutto in grado di superarli.

La dottoressa McCool le aveva insegnato a convivere con le ansie più radicate in lei e a sconfiggere poco alla volta quelle meno profonde. Tuttavia non era ancora riuscita a superare del tutto certe sue paure, e chissà se ne sarebbe stata mai capace.

Come si poteva pretendere che ci riuscisse una ragazzina?

O come poteva sperare che ci riuscisse Harm?

Harm…

Non mancava solo a Mattie… mancava moltissimo anche a lei. Le mancava ogni giorno e ogni notte, da quell’unica che aveva trascorso tra le sue braccia. Il ricordo struggente di quei momenti e il pensiero continuo di ciò che sarebbe potuto essere l’accompagnava da mesi, impedendole qualunque decisione per il proprio futuro.

Al suo rientro a S.Diego gli avrebbe scritto per lasciarlo libero, definitivamente.

Non poteva continuare ad andare avanti nella speranza che lui tornasse da lei.

“Non pianga… vedrà che tutto s’aggiusterà”.

Si stava asciugando una lacrima, l’ennesima, che non era riuscita più a trattenere, quando una voce maschile la colse di sorpresa. Si voltò e vide un anziano signore, probabilmente un giardiniere, anche se non immaginava cosa potesse fare un giardiniere con un freddo simile… probabilmente aveva sistemato degli attrezzi. Aveva una folta barba bianca e indossava un lungo cappotto scuro.

“Domani è Natale” proseguì il vecchietto, “non deve piangere. Non sente lo Spirito del Natale?”

Fece un debole sorriso, asciugandosi gli occhi.

“Mi spiace, ma quest’anno proprio non riesco a sentire lo spirito del Natale…”.

“Eppure non sembra. Lei ha capito alla perfezione lo Spirito del Natale…”.

“Cosa vuol dire con questo?”

L’uomo le sorrise, ma non rispose alla sua domanda. Si limitò ad aggiungere:

“Deve solo ritrovarlo e lo può trovare solo dentro se stessa”.

“Ma…”

“Ha anteposto il bene di altre persone al suo… come può dire di non riuscire a sentire lo Spirito del Natale?”

“Mi parla come se mi conoscesse… Come fa a sapere tutte queste cose?”

L’anziano signore sorrise ancora, restando tuttavia in silenzio. La salutò con una mano mentre si allontanava. Lei lo guardò camminare lentamente, finché non si fermò e, voltandosi di nuovo verso di lei, disse:

“Deve imparare ad aver più fiducia… e non perda mai la speranza, Mac”.

L’aveva chiamata per nome. Come faceva a sapere come si chiamava?

Fece per andargli dietro e domandarglielo, ma nell’attimo in cui aveva deciso di farlo, l’uomo era sparito.

 
Ufficio del Capitano Rabb – Londra

“Tenente, ha fatto tutto quello che le avevo domandato?”

“Sissignore” rispose il tenente Leach.

“E ha controllato tutto quanto?”

“Certamente, Signore”.

“Gli appuntamenti?”

“Tutto sistemato, Signore. Stia tranquillo”.

“Quelle carte che le avevo chiesto di…”

“Recapitate, Signore” lo interruppe il tenente, senza neppure lasciarlo finire.

Harmon Rabb si guardò attorno e poi sorrise al suo assistente, che stava diventando ogni giorno più efficiente.

“E sono anche andato a ritirare i pacchi, come aveva ordinato, Signore”.

“Grazie, Tenente”.

Prese la ventiquattrore che il giovane gli stava porgendo, assieme ad una grande borsa in cui vi erano due scatole natalizie.

“L’auto?”

“E’ pronta, Signore.”.

“Perfetto. Può andare, Tenente. E Buon Natale.”.

“Grazie, Signore. Buon Natale anche a lei, Signore”.

E così dicendo uscì dall’ufficio; prima che si chiudesse la porta alle spalle, sentì la voce del Capitano Rabb aggiungere:

“Si prenda pure il resto della giornata libero, Tenente”.

 

Saint Vincent Hospital – Blacksburg, Virginia

Quel giorno Timmy non si era ancora fatto vivo. Era ormai tardo pomeriggio e Mac se n’era andata da poco, dopo aver trascorso con lei quasi tutta la giornata. Sarebbe ritornata l’indomani, in tempo per vedere la recita natalizia dei bambini dell’ospedale.

A lei non interessavano quelle cose e poi odiava l’idea di farsi vedere sulla carrozzella; ma Mac aveva insistito tanto. Forse avrebbe potuto anche accontentarla. Del resto era l’unica persona ad essersi ricordata di lei.

Ricacciò indietro l’ennesima lacrima che stava per versare per Harm.

Mac aveva detto che era a causa sua che lui non tornava da Londra, neppure per Natale; ma lei non ne era del tutto convinta.

Comunque, se anche fosse davvero stato quello il motivo… Che stupidità quell’uomo!

Come si poteva aver paura d’amare una donna come Mac?

Era bellissima, buona e molto dolce; ma soprattutto era pazzamente innamorata di lui.

Harm sarà stato anche un eroe di guerra; era simpatico, buono e gentile… inoltre sapeva volare e aveva gli occhi e il sorriso più belli del mondo. Ma restava comunque un imbecille se aveva paura ad amare Mac.  

“Guarda le mie ali nuove… Non le trovi bellissime?”

“Timmy, finalmente! Credevo che non venissi più a trovarmi, oggi.”.

“Quante volte devo dirti che sono l’aiutante di Babbo Natale? Oggi è la vigilia, e ho tanto lavoro da fare. Dovrò ben guadagnarmi queste mie ali nuove…” disse il bambino, guardandola con espressione condiscendente, quasi fosse un po’ tonta e non capisse.

“Certo, certo. Scusami. Lo avevo scordato” rispose Mattie, con un sorriso.

Timmy era davvero convinto di essere l’aiutante di Babbo Natale… perché disilluderlo? In fondo era Natale.

“Andrai a vedere la recita, domani?” chiese Timmy.

“Non so. Mac vuole che vada con lei, ma a me non piace tanto fami vedere in giro con la carrozzella”.

“Perché non ci vai con le tue gambe?”

“Timmy… quante volte devo ripeterti che non posso più camminare?” gli disse lei, scimmiottando la sua espressione condiscendente di poco prima.

“Ne sei proprio sicura? Secondo me hai solo paura a farlo di nuovo”.

“Paura? Ma se io VOGLIO camminare!”.

“Vuoi, ma hai paura di non riuscire più a farlo. E allora preferisci non provarci neppure. E poi ti lamenti di Harm…”

“Ma i medici…”

“I dottori dicono che non hai più nulla che ti impedisce di farlo. Se solo tu lo vuoi davvero… Guarda me: io, le mie due ali, le volevo davvero.”.

“Timmy… le tue ali sono un’altra cosa” rispose Mattie, rassegnata a ritornare sul discorso che il bambino preferiva.

“Beh, ora ce le ho…  e mi devo esercitare ad essere un bravo Angelo, anche se non ho lunghi boccoli biondi…” e così dicendo si avvicinò alla finestra e lentamente l’aprì.

“Sei un bellissimo angelo” disse Mattie, osservando il bambino che, al posto del pigiama con gli orsetti, indossava una veste bianca lunga fino ai piedi. Si era già vestito per la recita!

Poi si rese conto che il bambino aveva aperto la finestra e stava avvicinando una delle due sedie che si trovavano nella stanza.

“Timmy… cosa stai facendo?” gli chiese preoccupata.

“Salgo qui”.

“Chiudi la finestra. Fa freddo. E poi è molto pericoloso salire lì sopra, soprattutto con la finestra aperta. Che cosa vuoi fare?”

“Devo esercitarmi a volare… sennò come faccio ad essere un bravo Angelo?”

Quella storia stava diventando davvero ridicola. E molto pericolosa.

Mattie cercò il pulsante per chiamare le infermiere: di solito lo teneva sempre accanto a sé, ma in quel momento non riuscì a trovarlo. Guardandosi rapidamente attorno vide che era stato appoggiato sulla poltrona accanto al letto, probabilmente dimenticato dalle inservienti quel mattino quando l’avevano sistemata.

Non sarebbe riuscita a prenderlo in tempo.

Tornò a guardare Timmy e lo vide in piedi sul davanzale della finestra, che a sua volta era spalancata.

“TIMMY”, urlò Mattie, per fermarlo. Il bambino era pericolosamente in bilico. Un solo movimento sbagliato e sarebbe precipitato.

“Mattie… guardami come volo bene…” disse, allegro e sorridente, mentre si accingeva, quasi, a spiccare il volo.

“Nooo… “ gridò la ragazza, precipitandosi fuori dal letto.

Afferrandolo per le gambe, con un rapido scatto se lo tirò addosso. Cadde sul letto col bambino tra le braccia; fortunatamente il letto non era troppo distante dalla finestra e la sedia non aveva intralciato i movimenti.

Col cuore in gola e scossa fino alla punta delle dita dei piedi, lentamente si spostò di lato poiché Timmy, nonostante fosse minuto, le pesava addosso e non riusciva a respirare. Ma forse era tutta colpa dello spavento.

Senza neppure rendersene conto si rimise in piedi e, come in stato di trance, chiuse la finestra e posizionò nuovamente la sedia al suo posto.

Timmy, seduto sul letto, la stava osservando con un sorriso compiaciuto. Per un attimo a Mattie venne voglia di schiaffeggiarlo: cos’aveva da sorridere così, dopo lo spavento che le aveva fatto prendere? Sperava che almeno quelle dannate ali si fossero rovinate, così forse gli sarebbe passata la voglia di giocare all’angelo.

Invece sembrava che le ali non avessero subito danni.

“Cos’hai da ridere?” chiese brusca.

Era arrabbiata, molto arrabbiata.

“Che cosa ti è saltato in mente? Non lo sai che potevi cadere e morire?” aggiunse, quasi gridando.

“Hai camminato…” sussurrò in risposta il bambino, con gli occhi che gli brillavano. “Sapevo che ce l’avresti fatta!”.

Fu solo in quel momento che Mattie realizzò di trovarsi in piedi e di aver effettivamente camminato.

Sentì le gambe cederle per l’emozione e si aggrappò a Timmy, ancora seduto sul letto. Lo strinse forte tra le braccia e pianse.

 

Appartamento del Colonnello Mackenzie – Washington

Erano quasi le 10 p.m. quando sentì suonare alla porta.

Si alzò dal divano e andò a guardare chi fosse, prima di aprire. Quando capì di chi si trattava, in preda all’agitazione si appoggiò alla porta con tutto il corpo, per riprendere fiato e il controllo di sé.

Che cosa ci faceva a Washington? E come sapeva che lei era lì?

Un secondo, rapido, squillo la costrinse ad affrontarlo.

Aprì la porta e restò sulla soglia ad osservarlo, immobile.

“Ciao, Mac” la salutò lui, come se si aspettasse di trovarla proprio lì.

Era davvero lui…

Dio, quanto le era mancato!

Col cuor in gola per l’emozione, non riuscì a dire nulla e nemmeno a muoversi. Dopo qualche attimo in cui anche lui era rimasto a guardarla, le sorrise e domandò dolcemente:

“Posso entrare?”.

Mentre si spostava per farlo passare, aspirò il suo profumo e, immediatamente, un’ondata di desiderio la travolse.

Non era cambiato nulla.

Lui entrò e posò una grande borsa e la sacca che aveva a tracolla a terra e poi si voltò nuovamente a guardarla; nel frattempo lei aveva richiuso la porta e vi si era appoggiata di nuovo contro, come a cercare un sostegno in più, oltre alle proprie gambe.

Era stordita, non sapeva più cosa fare: da un lato desiderava disperatamente gettarsi tra le sue braccia e baciarlo; al tempo stesso non voleva farlo per evitare di soffrire troppo quando se ne sarebbe andato di nuovo.

Fu lui a risolvere il suo dilemma. Dopo averla osservata intensamente ancora per qualche istante, mosse alcuni passi verso di lei, fino a prenderle la mano; si fermò così, a pochi centimetri dal suo corpo, con la sua mano tra le proprie.

Poi, mentre l’attirava a sé per stringerla, finalmente mormorò le uniche due parole che lei desiderava sentirsi dire da mesi.

“Vieni qui…”

Quando l’ebbe tra le braccia, abbassò il capo e la baciò.

Le sue labbra erano fredde, ma avevano quell’inconfondibile sapore che era solo suo e che la faceva sempre sciogliere; tuttavia rimase immobile, combattuta tra il desiderio di corrispondere al suo bacio e lasciarsi andare e la paura di soffrire nuovamente.

Lui percepì immediatamente i sentimenti contrastanti contro i quali stava lottando e che gliela rendevano così distante, troppo distante emotivamente. Allora si prese del tempo e con la lingua le sfiorò le labbra, accarezzandogliele lentamente.

Una carezza sensuale, intima, dolcissima… che le fece schiudere la bocca e la fece reagire d’istinto, posandogli le mani ai lati del volto, per attirarlo di più a sé.

Fu allora che, mormorando parole incoerenti, lui la strinse più forte, fino a far aderire completamente i loro corpi.

Sollevandole la maglia, le sue mani, fredde come lo erano all’inizio le sue labbra, cercarono immediatamente la levigatezza della sua pelle e scivolarono impazienti a sfiorarle il seno.

Le sfuggì un sospiro… Harm la voleva ancora.

E lei desiderava lui con la stessa intensità di sempre.

Tuttavia tentò di fermarlo, per capire le sue intenzioni. Non si era tolto nemmeno il cappotto, e già le sue mani avevano iniziato a spogliarla, insinuandosi dolcemente sotto i suoi indumenti.

“Harm… aspetta… perché sei qui?” insistette, quando comprese che lui non aveva recepito, o non aveva voluto recepire, l’invito a fermarsi.

“Fammi continuare… ti prego, Mac…” mormorò lui, sollevandole la gonna e accarezzandole sensualmente le gambe.

La voleva, disperatamente.

“Ho bisogno di te, Mac… Parleremo dopo. Ora voglio solo fare l’amore … tenerti tra le mie braccia…” disse, accompagnando ogni frase con un bacio, sul suo collo, sul viso, sulle labbra.

Lei si lasciò intenerire dall’urgenza, mista ad un accenno di disperato bisogno, che colse nella sua voce, mentre il suo corpo cedeva di fronte alle sensazioni meravigliose che le sue mani e le sue labbra le facevano provare.

Ma era davvero necessario trovarsi una scusa?

In fondo era ciò che lei stessa desiderava.

“Dopo… D’accordo.”

Non appena capitolò, Harm la sollevò tra le braccia e la portò a letto, senza neppure togliersi prima il cappotto.

Il “dopo” furono parecchie ore più tardi.

La teneva ancora stretta a sé, in silenzio. Erano voltati su un fianco e lui l’abbracciava da dietro, avvolgendola completamente.

Ad un tratto le mormorò all’orecchio:

“Perdonami”.

Il cuore le si strinse di nuovo: ora l’avrebbe lasciata un’altra volta.

“Perdonami per essermene andato. Non voglio più stare senza di te… Ti amo, Mac.”.

A quelle parole riprese a respirare, anche se per l’emozione non riuscì ancora a parlare.

“Sposiamoci, Mac. Sul serio, questa volta. Decideremo dopo cosa fare delle nostre carriere…”.

“Verrò a Londra con te” disse lei, decisa, riuscendo finalmente a riprendere l’uso della parola.

“No, Mac. Non voglio che sia tu a sentirti costretta a lasciare il Corpo dei Marine…”.

Si voltò verso di lui e gli posò un dito sulle labbra, per zittirlo.

“Questa è la mia decisione. Avevo intenzione di comunicartela già allora, se il Destino avesse stabilito che saresti dovuto essere tu a seguire me; ma avevo capito che la tua fuga non c’entrava col lavoro, si trattava della tua paura per i legami, per questo non ti dissi nulla. Verrò a Londra con te e porteremo Mattie con noi, se lo vorrà”.

Il suo discorso era deciso e non ammetteva repliche.

Harm comprese fino a che punto lei lo amava e quanto era stato stupido in tutti quei mesi ad ostinarsi a vivere senza di lei.

Le sorrise teneramente.

“D’accordo, Colonnello. Andremo a Londra.”.

Lei ricambiò il sorriso, accoccolandosi meglio tra le sue braccia. Aveva bisogno di sentirselo addosso.

“Cosa ti ha fatto cambiare idea, Harm?”.

“Un sogno. E la paura di perderti per sempre, senza averti mai avuta.”.

Sentì le lacrime inumidirle nuovamente gli occhi; ma questa volta, finalmente, erano lacrime di gioia.


 


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Capitolo 4
*** 25 dicembre ***


25 DICEMBRE

Saint Vincent Hospital – Blacksburg, Virginia

Continuava a guardare fuori dalla finestra, in attesa di vederla arrivare. Chissà cosa avrebbe detto Mac, vedendola camminare?

Era impaziente di osservare la sua espressione!

Ora sì che l’avrebbe accompagnata volentieri alla recita che si teneva nel salone dell’ingresso… così avrebbe visto anche Timmy fare l’angelo.

Fece due passi nella stanza e tornò per l’ennesima volta in bagno, a controllare di essere a posto. Quando Barbara, la sera prima, era passata per gli esercizi e l’aveva trovata in piedi, era stata così felice che le aveva promesso di portarle un regalo. E solo mezz’ora prima si era presentata con un pacco rosso, contenente un maglione in morbida lana, anch’esso rosso.

L’aveva indossato immediatamente, felicissima del dono.

Tornò alla sua postazione alla finestra e osservò il giardino sottostante: c’era un anziano signore che sistemava un vialetto… lo trovò un po’ strano, il giorno di Natale, ma a quanto pareva l’ospedale ci teneva davvero da avere tutto perfettamente in ordine.

Ad un tratto il giardiniere alzò la testa, proprio verso di lei, e sorrise facendole un cenno e poi un altro in direzione di una coppia che si stava avvicinando, tenendosi abbracciata.

Che buffo… quel vecchio, se avesse avuto un abito rosso e il berretto giusto, avrebbe potuto facilmente impersonare Babbo Natale e nessuno avrebbe detto che era una finzione. La lunga barba bianca era davvero naturalmente perfetta.

Seguendo lo sguardo di “Babbo Natale”, osservò la coppia che si avvicinava e rimase senza fiato, quando riconobbe l’uomo accanto a Mac.

HARM…

Harm era tornato!

Non poteva sapere che lei camminava… quindi era tornato per lei, a prescindere dalla sua invalidità. Per lei e per Mac, da come la teneva stretta mentre raggiungevano l’ingresso dell’ospedale.

Quanto erano belli assieme!

Provò l’irresistibile impulso di andar loro incontro, per vedere le loro espressioni stupite quando l’avrebbero vista in piedi.

Uscì dalla stanza  proprio mentre stavano svoltando nel corridoio che li portava verso la sua camera; Harm stava ridendo, voltato verso Mac, e il suono della sua voce le fece venire le lacrime agli occhi…

Quanto le era mancato!

Non appena sollevò il capo nella sua direzione, la vide e si fermò. Mac, leggermente strattonata dalla sua brusca fermata, lo guardò confusa. Lui le fece un cenno, in direzione della ragazza e Mattie vide la sorpresa e la gioia negli occhi di Mac.

Harm, invece, continuava a fissarla immobile.

Poi le sorrise e spalancò le braccia.

Mattie abbandonò ogni cautela nel muoversi e gli volò, letteralmente, addosso, mentre Harm la sollevava e la faceva roteare, in un abbraccio di gioia.

Per qualche attimo non riuscirono a parlare; si strinsero soltanto. Tutti e tre. Anche Mac li aveva raggiunti e si era unita all’abbraccio generale. Poi tentarono di parlare tutti assieme, ottenendo di creare solo una confusione di frasi e parole.

Ma che importava? Erano troppo felici!

Quando finalmente si ripresero dall’emozione iniziale, tornarono nella camera di Mattie e iniziarono a spiegarsi e raccontarsi tutto quanto.

“Stava davvero per lanciarsi dalla finestra?” chiese Mac, dopo che Mattie ebbe spiegato come si era ritrovata in piedi.

“Non lo so, Mac. Ma sai la fissa che ha sugli angeli… per un attimo ho temuto davvero che volesse gettarsi per provare le ali nuove”.

“Se gli piace davvero tanto volare, forse potrei fargli fare un giro su Sarah, se i medici e i suoi genitori lo permettessero. E se non potesse ora,potremmo andarci non appena uscirà dall’ospedale. Che cos’ha?” chiese Harm.

“Sai che non lo so? Non mi ha mai detto nulla del perché si trova qui. Comunque la tua è una bellissima idea… a Timmy piacerà. Anzi, sai che ti dico? Perché non andiamo a dirglielo di persona, prima che inizi la recita? Sarà contento e così lo potrai conoscere anche tu”.

Tutti e tre si diressero verso il corridoio dove sapevano esserci le stanze dei bambini più piccoli. All’infermiera che trovarono al bancone domandarono quale fosse la camera di Timmy.

“La numero 8”, rispose la donna. Poi aggiunse: “Povero bambino, ha finito di soffrire…”.

“Cosa vuol dire, signora?” chiese Harm.

“Ma… non lo sapete? Credevo foste qui perché lo avevate saputo…”

“Saputo cosa?” domandò Mattie, ansiosa.

“Timmy è morto poche ore fa…”

“Ma… non è possibile! Ieri stava così bene…” disse Mattie, alzando la voce.

“Ieri? Sei sicura? Timmy era molto ammalato, da quasi un anno, ormai. Aveva una leucemia, una forma molto grave… è entrato in coma tre giorni fa e da allora non si è più risvegliato. Ora è un bellissimo Angelo, proprio come desiderava lui…”.

La donna soffocò un singhiozzo, asciugandosi una lacrima.

“Scusate… ma Timmy era un bambino dolcissimo… mai un lamento, mai un capriccio… gli volevamo tutti molto bene. Anche il dottor Rawlings e la dottoressa Kelly, che lo curavano da un anno e sapevano che non ce l’avrebbe mai fatta, quando è morto erano sconvolti…”.

“Possiamo vederlo?” chiese Mattie, trattenendo le lacrime.

“Sì, non è ancora stato spostato in obitorio. Nessuno ha ancora avuto il coraggio di farlo… il dottor Rawlings ha detto di aspettare dopo la recita dei bambini… Timmy, fino ad una settimana fa, avrebbe dovuto fare l’angelo…”.

In silenzio entrarono nella stanza.

Non c’era nessuno: l’infermiera aveva aggiunto che la madre di Timmy era appena stata accompagnata a riposare; da quando il figlio era entrato in coma, non lo aveva mai lasciato un attimo ed erano quindi tre giorni ininterrotti che non dormiva.

Sul letto, coperto dal lenzuolo, giaceva il corpo senza vita del bambino. Solo il volto era scoperto e Mattie si avvicinò assieme a Mac per posargli un bacio sulla fronte.

Harm, invece, quando lo vide, rimase immobile ai piedi del letto.

Non era possibile…

Eppure non poteva sbagliarsi, si ricordava bene.

Si trattava dello stesso bambino che, nel suo sogno, gli si era presentato come il Fantasma del Natale Passato, Presente e Futuro.

“Harm, che c’è?” chiese Mac, vedendogli l’espressione.

“Io… io l’ho visto, questo bambino…”

“Lo hai visto? E dove?” domandò Mattie.

“In quel sogno…”

“Ne sei sicuro?”

“Più che sicuro… era un Angelo bellissimo…”.

“Era quello che continuava a dire di voler diventare” disse Mac.

“Ora lo è diventato davvero…” mormorò Mattie.

Poi, ripensando ai momenti trascorsi con lui e alle cose che le aveva detto, aggiunse:

“Credo che abbia fatto quello che doveva per Babbo Natale, proprio come mi diceva, ed ora è di certo l’Angelo più bello… anche se non avrà mai capelli lunghi e tanti boccoli dorati”.

 

 

    

Fine


 


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