Old loves they die hard; Old lies they die harder.

di valli
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Disaster date. ***
Capitolo 2: *** Dote. ***
Capitolo 3: *** Proposal ***
Capitolo 4: *** Pensieri parole opere ed omissioni ***
Capitolo 5: *** Il gran giorno. ***
Capitolo 6: *** Non c'è mai limite al peggio. ***
Capitolo 7: *** First time. ***
Capitolo 8: *** illuminated ***
Capitolo 9: *** Egoismo e felicità. ***
Capitolo 10: *** Amore e senso di colpa. ***
Capitolo 11: *** La pazzia dell'incredulità. ***
Capitolo 12: *** Verità. ***
Capitolo 13: *** Cambiamenti. ***
Capitolo 14: *** Incubi e sogni. ***
Capitolo 15: *** Altri tre mesi. ***
Capitolo 16: *** Quelle cose che non avresti mai immaginato. ***
Capitolo 17: *** Home sweet home. ***
Capitolo 18: *** Esserci. ***
Capitolo 19: *** Affetti. ***



Capitolo 1
*** Disaster date. ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.

Capitolo I : disaster date.
Alexander

Can anybody find me somebody to love?
[Somebody to love, The Queen


Infilai la camicia nei pantaloni e presi la cravatta dal comò sotto allo specchio; la girai intorno al collo iniziando ad avvitarla per fare il nodo.
Alzai un po' il mento, stringendo bene e lisciandola sul petto; presi il panciotto e la giacca e li indossai guardando il risultato.
Andavo bene, mi ero abbigliato come avevano ordinato i miei genitori per apparire perfetto alla cena di quella sera.
Un'altra inutile cena per trovarmi una moglie, un altro stupido modo per cercare di intrappolarmi in un matrimonio che -per il mio buon senso- non mi avrebbe mai mandato in guerra.
Maledetto quel giorno in cui avevo accennato a mia madre che solo una cosa avrebbe potuto fermarmi dall'entrare nell'esercito, ovvero l'avere una moglie o dei figli a casa.
Con l’avvicinarsi della maggiore età e con essa il permesso di arruolarsi, i miei genitori cercavano in tutti i modi di farmi legare a qualcuno.
Per prima c'era stata Janine Costance, poi Catherine Brown e sua cugina Candice, Laura Turner e sua sorella Lise, Sabrina Dowson, Beatrice Jefferson, Sarah Vidal, e quella sera toccava a Regina Miller, figlia dell’avvocato Gregory -collega di lavoro di mio padre- e di sua moglie Danielle.

Sinceramente, non avevo la più pallida idea di chi fosse quella ragazza: non ne avevo mai sentito parlare, finché mia madre non mi aveva annunciato di aver combinato l’appuntamento.
Passai una mano tra i capelli neri e mossi, tanto per poter dire di averli toccati per sistemarli, e poi uscii dalla mia camera, chiudendo la porta dietro di me.
Percorsi il corridoio del piano superiore della casa, scesi le scale ed arrivai nel salone dove vidi mia madre seduta al pianoforte.
Sorrisi nel sentirla suonare e la affiancai.
«Alex» sussurrò quando posai le mani vicine alle sue, rafforzando la melodia.
«Oh, i miei due artisti preferiti» scherzò mio padre entrando in salone, arrivando dalle scale.
Mia madre rise, facendoci sentire il suono cristallino più bello che noi, i suoi due uomini, avessimo mai sentito.
Spostando lentamente le dita da un tasto all'altro, mettemmo fine alla melodia, suscitando un applauso da mio padre e uno sguardo ammirato dalla nostra governante, Chelsea, che entrava in quel momento per aprire la porta al suono del campanello che, mi accorsi solo in quel momento, stava suonando.
«Oh, i Miller!» esclamò mia madre, alzandosi in piedi e lisciandosi con le mani il vestito. «Dai, Alex, alzati!» aggiunse rivolta a me.
Sbuffai leggermente, seguendo lei e mio padre all'ingresso del salotto dove Chelsea avrebbe accompagnato gli ospiti, dopo aver preso i loro soprabiti.
Arrivarono dopo qualche secondo, anticipati dalla governante che li salutò con un inchino del capo prima di andarsene in cucina.
«Gregory, Danielle, Regina... Benvenuti!» li salutò mio padre, stringendo la mano dell'uomo e baciando quella della donna accanto a lui.
«Grazie mille per l'invito, George» disse il signor Miller a mio padre, «Amelia, che piacere...».
«Piacere mio, Gregory. Danielle, che gioia rivederti!» esclamò poi, baciando sulle guance l'altra signora.
Poi mi prese per mano, facendomi avvicinare a loro «questo è il nostro Alexander» mi presentò.
Li salutai come aveva fatto mio padre, aggiungendo un bacio sul dorso della mano della ragazza nascosta dietro ai signori ospiti.
«E lei è la nostra Regina» sorrise Gregory, nel presentarla.
«Molto piacere» aggiunsi.
«Anche per me» replicò prima di salutare i miei genitori.
A cortesie concluse, mio padre fece strada verso il salotto, invitandoli ad accomodarsi per prendere un drink.
I nostri genitori iniziarono a parlare tra di loro; io e Regina, invece, restammo in silenzio intervenendo solo se interpellati.
I discorsi politici dei nostri padri si confondevano con le chiacchiere più frivole delle due signore, ed io guardavo la ragazza seduta accanto alla madre.
Era carina, ma aveva qualcosa che la faceva sembrare quasi sfiorita. Forse il portamento rigido, forse i capelli, biondi e ricci, tenuti in una crocchia seriosa sul capo o gli occhi castani che parevano quasi tristi.
Nella mia mente, una croce rossa si sovrappose al nome "Regina Miller": non sembrava proprio il mio tipo.
La serata, che già mi sembrava inutile, perdeva sempre di più il mio interesse.
«Alexander, perché non ci allieti suonando qualcosa al pianoforte?» chiese mia madre sorridendomi, improvvisamente.
«Certo,» annuii, alzandomi in piedi, «con permesso...» mormorai prima di allontanarmi.
Notai Regina seguire i miei movimenti verso lo strumento, forse le interessava la musica classica.
Appoggiai le mani sui tasti ed iniziai a muoverle dando vita a "Per Elisa" di Beethoven, una delle prime melodie che avevo imparato a comporre.
Quando finii, mi alzai e sorrisi all'applauso scherzoso delle due signore.
«Oh, Alexander, sei molto bravo. L’hai riprodotta benissimo, vero, Regina?» aggiunse Danielle Miller.
«Sì, è vero» annuì lei, imbarazzata e con le guance rosse, abbassando il capo.
«Quest'estate, a Parigi, abbiamo avuto l'onore di assistere ad uno spettacolo di musica classica dato da un conservatorio. Non hai nulla da invidiare loro, anzi, potrebbe essere il contrario! Pensi mai di darti alla musica?» domandò la signora, interessata.
«No, suonare il pianoforte è solo un piacere, per me, signora, ma la ringrazio» risposi, invidiandole il fatto di essere stata a Parigi e di aver persino ascoltato dal vivo un concerto classico.
«Quindi cosa pensi di fare del tuo futuro?» si intromise Gregory Miller.
«Io...» iniziai.
«Alexander vorrebbe arruolarsi, ma io ed Amelia non siamo molto d'accordo» rispose mio padre.
«L'esercito...» mormorò Gregory. «Tutta colpa di questa... pubblicità! Giovani che non sanno nemmeno cosa li aspetta...».
«Sinceramente, signore, desidero solo servire il mio Paese. Non è forse il dovere di ogni uomo?» domandai piccato.
«Sì, certo» sorrise. «Ma credi davvero di essere pronto a tutto quello che ti si presenterà? E non parlo del sangue, dei tuoi amici morti o del tuo stesso rischio di morire. No, non solo di quello. Parlo del dover prendere decisioni difficili in momenti critici, parlo del dover decidere di uccidere un uomo, un ragazzo come te, con una famiglia a casa, magari dei figli, solo perché lui o i suoi superiori hanno idee differenti dalle tue» concluse con sguardo lontano.
«Io... Io so cosa mi si presenterà...» mormorai.
«Oh, ma perché dobbiamo parlare di queste cose poco prima di cena? Spostiamoci nella sala da pranzo, invece» intervenne mia madre parlandomi sopra.
«Sì, è vero. Scusami, Amelia, mi sono fatto prendere dai discorsi» si giustificò l’avvocato Miller.
«Non preoccuparti, Gregory» sorrise mia madre, alzandosi e facendo strada agli ospiti verso l'altra stanza.
«Stai bene?» mi chiese una voce.
Alzai gli occhi dal mio bicchiere e lanciai uno sguardo a Regina, in piedi davanti a me.
«Sì,» annuii, «sto bene» aggiunsi alzandomi, arrivando di una decina di centimetri più in alto rispetto a lei.
«Scusa mio padre, davvero» mormorò. «Lui... è stato in guerra e... a volte esagera.»
«Non importa, non preoccuparti» risposi. «Seguiamo gli altri.»
Ci accodammo ai nostri genitori, raggiungendo la sala da pranzo e sedendoci.
I miei genitori si misero a capotavola, da un lato si accomodarono i signori Miller mentre dall'altra io e Regina.
Presi la bottiglia di vino rosso davanti a me e me ne versai un po'.
«Vuoi?» chiesi alla ragazza.
«Sì, grazie» annuì.
La cameriera entrò con le portate di arrosto e contorni vari, servendo le porzioni già preparate nei piatti.
Non vedevo l'ora che quella serata finisse: era un disastro.

~

«Grazie mille, è stata davvero una bella serata» commentò mia madre mentre i Miller indossavano i propri cappotti.
«Sì, è vero. Ma grazie a voi, per averci invitato» annuì Danielle.
Trattenni un'espressione ironica, del tutto in disaccordo con quelle parole e sorrisi cortese ai saluti, ricambiandoli.
Non appena la porta si chiuse, sospirai.
«Alex!» mi rimproverò mia madre.
«Scusa, mamma. Ma per me, non è stata per niente una bella cena. Quella ragazza non ha spiccicato parola! Quasi preferisco la Brown...!» esclamai, ricordando una delle ragazze che, al contrario, non la smetteva un attimo di parlare.
I miei genitori risero «Oh, beh, è molto timida, Alex...» la giustificò mia madre.
Sbuffai «Sì, ma... neanche una parola!» ripetei facendoli sorridere.
«Comunque, Danielle mi ha detto che sta aiutando ad organizzare la Maratona annuale
[1] che partirà da Grant Park[2]. Mi ha proposto di darle una mano, ed io ho accettato» spiegò.
«Oh,» mormorò mio padre, «sei stata molto cortese, Amy».
«Beh, sai che mi piace dare una mano. Non ho mai organizzato feste sportive. Sono così curiosa!» esclamò facendoci ridere per il suo tono entusiastico.

Due parole...
[1] La Chicago Marathon è nata nel 1905, ed è una manifestazione che esiste tuttora, anche se sotto il nome di Bank of America Chicago Marathon . Non conosco il percorso dei primi anni, ma so che ora partono proprio da Grant Park.
[2] Grant Park
è realmente un parco di Chicago, uno tra i più importanti.

Dopo avervi spiegato le due annotazioni più importanti, passo alle mie considerazioni in merito alla storia.
Praticamente è la prima originale che scrivo, avrei fatto un altro tentativo tempo fa ma è stato sospeso e mai ripreso.
Questa storia inizialmente era stata creata come una fanfiction sul paring Edward/Bella di Twilght. L'avevo anche iniziata (ora provvederò a cancellarla, però) e anch'essa sospesa a causa di problemi personali.
Adesso avevo pensato di riprenderla, ma poi con il sostegno di LyraWinter (sì, è grazie a te e lo sai) ho deciso di trasformarla in un’originale.
Sono terrorizzata, sì.
Spero davvero di riuscire a portarla a termine perché significherebbe molto per me sapere di aver potuto creare una storia totalmente mia, con personaggi ed intrecci solo miei.

Nello stesso modo, spero vi piaccia e che mi seguirete fino alla fine.
Ho molte idee in testa per questa storia!
Per chi non mi conosce, vi avverto già che io aggiorno una volta a settimana (credo al giovedì adesso) e che dopo due-tre giorni dal post, nel mio blog metto un piccolo spoiler.
Se avete domande contattatemi tranquillamente, anche se volete dirmi che questo capitolo è orribile (spero di no, dai!)!
Ora scappo a mangiare la mia torta di compleanno,
a presto!


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Capitolo 2
*** Dote. ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.

Capitolo II: Dote.
Alexander
Lo  vedevo da come ti muovevi
che eri sola anche in mezzo alla gente.
[Nel bene e nel male, Mondo Marcio
 
Settimane dopo, quella cena era caduta nel dimenticatoio.
Nel frattempo, mia madre e Danielle Miller avevano continuato con i preparatici per la maratona che  fin dalla prima edizione ospitava tantissimi partecipanti e spettatori, provenienti sia da Chicago che dalle città vicine.
Io e mio padre eravamo costretti a parteciparvi dato che mia madre aveva lavorato molto perché tutto fosse perfetto.
Quindi mi ero preparato e poco dopo avevo raggiunto i miei genitori a Grant Park, addobbato con luci e festoni colorati, cartelloni d’incitamento e pubblicità.
In più, vicino all’entrata si trovavano diverse bancarelle gestite dai negozi e dai locali di ristoro della città che vendevano piccoli oggetti ricordo o cibi e bevande “per grandi e piccini” come recitativa una locandina.
Fermai la mia passeggiata per non venire travolto dalla corsa di due bambini e poi proseguii, raggiungendo il mio amico Aaron Hughes e suo cognato Leonard Price.
«Ragazzi» li salutai, dando anche un pacca sulla spalla ad Aaron.
«Ehi, Alex, come va?» mi chiese Leonard.
«Bene, tu? Come si sta da sposati?» domandai scherzando sul suo recente matrimonio.
«Benissimo, è un’esperienza che ti consiglio» sorrise.
Risi anch’io, senza però replicare, chiedendo invece dove si trovassero le loro signore.
«Qui in giro,» rispose Aaron, «a spettegolare insieme ad altre ragazze, sicuramente. Ma è da un po’ che non ci vediamo, Alex,» aggiunse sempre il mio amico, «dimmi un po’, tua madre ti ha più organizzato cene per trovarti una donna?» indagò divertito.
Sbuffai «no, per fortuna. La Miller deve essere stata l’ultima.».
«Regina?» chiese Leonard. «È la migliore amica di Eloise» spiegò, riferendosi a sua moglie.
«Davvero?» domandai stupito, non trovano affinità tra le due. «Mi è sembrata l’opposto di tua moglie» aggiunsi infatti.
«Sono molto simili sotto certi aspetti, ma anche davvero differenti sotto altri, è vero. Sono amiche fin da piccole, almeno credo. Regina è una brava ragazza» annuì.
«Leonard, ti sei alleato con la signora Wood per trovare una moglie ad Alexander?» scherzò Aaron.
Price rise «no, no, assolutamente. Per quanto io pensi che sarebbe ora che anche tu, Alexander, metta la testa apposto…».
«La mia testa sta benissimo così» ribadii.
«Non mi trovi d’accordo» commentò una voce femminili dietro di me.
Mi voltai, seppur riconoscendo il tono tagliente di Breanna Price Hughes, moglie di Aaron e sorella di Leonard.
«Breanna, grazie, sei sempre molto gentile» la salutai chinandomi per baciarle la mano. «Eloise…» aggiunsi, salutando alla stessa maniera anche la moglie di Leonard.
«Buonasera, Alexander» mi salutò lei, lanciando un’occhiata alla sua sinistra. «Ah, conosci Regina Miller?» aggiunse allungando una mano verso la ragazza accanto a lei.
«Sì, Eloise, più o meno ci conosciamo già. Buonasera» rispose la sua amica per me.
«Regina…» la salutai come avevo fatto con le altre due signore.
«Forse Aaron non la conosce» riprese Breanna. «Caro, è la figlia dell’avvocato Gregory Miller. Lui, Regina, è mio marito, Aaron Hughes» concluse.
«Piacere» disse lei  allungando una mano che lui baciò cortesemente.
«Piacere mio. Finalmente conosco la ragazza che completa questo magico trio» sorrise lui.
Lei rise, facendomi voltare verso di lei per il suono così divertito ed educato: non era una risata di finta cortesia ma nemmeno una sguaiata o strillante. Infine tossì leggermente, scusandosi.
«Forse non dovevi uscire, oggi. È da qualche giorno che lamenti questa tosse» la riprese Eloise, posandole una mano sul braccio.
«Non è nulla, Eloise, tranquilla» le sorrise. « Però forse hai ragione, è meglio che rientri. Buona serata a tutti».
Ricambiammo i saluti e poi se ne andò sola, dicendo di passare a salutare i suoi genitori prima di andarsene a casa.
La osservai un attimo mentre si allontanava tra la folla scalpitante. Lei, così piccola e leggera col suo abitino azzurro cielo e i capelli biondi raccolti in una lunga treccia scomposta, che camminava cercando di schivare la gente che si muoveva febbrile, preoccupata di far del male o farsene.
Sbattei le palpebre, perdendola di vista. Tornai a guardare i miei amici, cercando di capire di cosa stavano parlando per intromettermi nei loro discorsi.
Come se nulla fosse successo. Perché nulla era successo.
 
~
 
La corsa ebbe inizio sotto le urla d’incitamento di moltissime persone accorse da ogni dove per assistere all’evento che, dopo ormai anni dall’inizio destava ancora molta curiosità.
Mi allontanai da quella folla, infastidito da tutto quel baccano e quell’entusiasmo, raggiungendo mio padre che se ne stava solo in disparte, a fumare una delle se sigarette.
«Alexander, sei qui» mi salutò.
«Sono arrivato da un po’, a dir la verità, ma ho perso tempo con Aaron e Leonard» spiegai.
«Capisco» annuì, restando con lo sguardo a fissare un punto lontano ed indefinito.
Lo osservai, perplesso dal suo silenzio e dalla sua espressione tormentata. «Qualche problema, papà?» domandai, quindi.
Finalmente girò il viso per guardarmi, seppur di sfuggita. «No. No, Alexander. Poco fa ho incontrato Jack Brown, mi ha detto che ha promesso in sposa Catherine ad un imprenditore di Springfield» cambiò discorso.
«Oh» mormorai, sorpreso, ripensando alla frivola ragazza che mi era stata presentata durante una delle famose cene.
«Sì. Alexander, dovresti deciderti prima che anche le altre ragazze vengano promesse» mi consigliò.
«Non mi voglio sposare, papà, quante volte devo ripetertelo?» mi trattenni dallo sbuffare.
«E invece lo farai, Alex. Non ho intenzione di dover stare in pensiero o consolare tua madre perché tu sei in guerra. Non ci renderai orgogliosi di te, così» sbottò.
«Io… Vi renderei orgogliosi essendo io infelice?» domandai, incredulo.
«Non sarai infelice. Sono tutte belle donne, vedrai che ti troverai bene. Anche il mio matrimonio è stato svolto con le stesso modalità del tuo, ed io e tua madre ci amiamo. No sarà facile, è vero, ma vedrai che…» spiegò.
«Papà, ti prego…» lo interruppi.
«No. Decidi, Alex, o mi costringerai a scegliere per te. Ti do una settimana» concluse, gettando la sigaretta per terra.
La schiacciò col piede, allontanandosi, mentre io guardavo la sua figura fondersi con la gente.
La mia dignità era stata pestata come quel mozzicone, caduto a terra e lasciato lì a bruciare i propri resti.
 
~
 
Una settimana, una settimana per scegliere la donna con cui avrei formato una famiglia, la donna che sarebbe stata mia moglie, con cui avrei passato una vita.
Una donna che mi avrebbe reso –anche se non direttamente per colpa sua- infelice, già lo sapevo.
Una o l’altra, a quel punto non mi importava più, sarebbe stato lo stesso.
Troppo sconvolto dalle parole di mio padre, me ne andai da Grant Park, senza salutare nessuno. Semplicemente mi inviai verso l’uscita e poi vagai per le strade dei quartieri vicini, cercando di realizzare un pensiero che non fosse rabbioso e contro mio padre.
Dopo diversi minuti, mi guardai intorno, per cercare di capire dove il mio camminare senza destinazione mi aveva portato.
Mi trovavo in un o dei tanti quartieri benestanti di Chicago, poco lontano dal mio, costellato da case di simile fattura, dalle mura bianche e con un porticato che dava sui giardini che d’estate erano pieni di fiori colorati.
Continuai a camminare per raggiungere la mia abitazione, indeciso tra il chiudermi in camera o mettermi al pianoforte per tentare di rilassarmi.
Sospirai, sollevando il viso per guardare davanti a me, nonostante i marciapiedi fossero vuoti: solo qualche giovane coppia si concedeva una passeggiata tranquilla, lontana dal marasma del parco da cui mi ero io stesso allontanato.
Sul portico di una casa, una ragazza se ne stava in pace a ricamare, seduta su una sedia a dondolo di legno scuro.
Fissai i miei occhi sui suoi capelli biondi e ricci, sulle sue mani piccole che leste guidavano l’ago sulla stoffa bianca.
Regina Miller sollevò il viso, sentendosi forse osservata. Portò una mano sulla fronte per coprirsi la vista del sole pallido di gennaio, cercando con lo sguardo una figura nota.
Appena mi vide, sorrise alzando una mano e muovendo le dita in segno di saluto. Subito dopo le spostò a coprirsi la bocca, venendo scossa immediatamente dai singhiozzi della tosse.
Non restai un attimo di più e proseguii per la mia strada.
Lei era una delle ragazze presentatemi.
Lei, un’altra… ormai non aveva più importanza.

 

Salve! 
Allora, la storia inizia a delinearsi sempre di più. Il padre di Alexander è stato molto duro, più in là vedremo meglio il suo carattere e soprattutto le sue motivazioni. 
Spero che questa storia vi stia piacendo! 
Come sempre, per eventuali domande, critiche, etcetera, potete contattarmi tramite recensioni, messaggi, o siti vari che troverete nella mia pagina autore.
A presto!

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Capitolo 3
*** Proposal ***


Dedico qusto capitolo ad ogni persona che sta soffrendo, in Emilia.
Sono certa che nessuno di voi starà perdendo tempo qui su EFP, ma il mio pensiero va a voi.
Ho avuto paura io per la scossa che ho sentito, non riesco -e forse nemmeno voglio provare- ad immaginare il vostro terrore che torna ad ogni scossa di assestamente.
Tenete duro. Passerà, i momenti difficili passano sempre.
Stay strong, Italy is with you.
Italy is you.

Old loves they die hard;
Old lies they die harder.

Capitolo III: Proposal.
Alexander
 
«Mi dispiace, Alex, davvero. Non avrei dovuto essere così brusco, ieri, ma… Io… La nostra è una situazione particolare. Sta andando tutto male, sono spaventato per il nostro futuro…».
Sdraiato sul mio letto, quella notte, pensavo al discorso fattomi da mio padre il giorno seguente alla maratona.
Mi aveva chiamato nel suo studio, poco dopo l’uscita di mamma per delle commissioni, e si era a suo modo scusato per come mi aveva “rimproverato”, il pomeriggio della maratona.
Ma le sue scuse furono presto dimenticate, oscurate dal peso delle spiegazioni che lui diede più tardi.
«Cosa intendi, papà?» lo interruppi, spaventato.
«Degli investimenti… Degli investimenti non sono andati a buon fine e… Le spese della casa, quelle per i tuoi nonni materni…» balbettò. «Le nostre economia non sono più buone come un tempo.».
«Q-Quanto male stiamo?» chiesi.
«Possiamo andare avanti tranquilli ancora qualche mese, ma… se le cose non si sistemano, se non riesco ad avere qualche buon cliente… non molto di più» rivelò vergognoso.
«Maledizione, papà!» mi infuriai, alzandomi in piedi. «Perché diavolo non me l’hai detto prima?! Avrei potuto cercare un lavoro, aiutarti!» gridai.
«Speravo di riuscire a risolvere la situazione, Alexander. Non volevo spaventarti!» mormorò.
«Non volevi, eh? Credi che ora stia tanto meglio? E poi, che diavolo centra un mio ipotetico matrimonio con questa storia?» aggiunsi.
«Quelle ragazze… hanno tutte… una buon adote, Alex. Ci… Ci farebbe… TI prego, cerca di capirmi…» si lamentò, posando il capo tra le mani, stanco.
«Te ne vuoi approfittare?» domandai incredulo.
«Non so cos’altro fare, Alex… Tu, tua madre… Io… non so cosa fare…» ripeté.
Mi sedetti sulla poltroncina di fronte alla sua scrivania e quindi a lui.
Passai le mani tra i capelli, cercando di riflettere.
Una moglie.
Un mi o”sacrificio” per il bene dei miei genitori. Per mia madre.
Imprecai mentalmente contro mio padre, prima di risollevare gli occhi verso di lui.
«Va bene. Va bene, farò come vuoi. Per me è lo stesso, scegli tu chi ritieni migliore.».
Detto questo, mi alzai e uscii dalla sala a testa bassa, come un condannato a morte.
O un condannato all’infelicità.
 
~
 
La mattina seguente, io e mio padre eravamo soli a fare colazione.
Mia madre era rimasta a letto, accusando un gran mal di testa e la governante si era premunita di portarle qualcosa da mangiare a letto.
Papà si schiarì la gola, prima di parlare con gli occhi fissi sulla tazzina di caffè davanti a lui.
«Credo di… Io non so scegliere per te. Non chiedermi di scegliere. Io.. Forse non dovevo metterti in mezzo….» concluse velocemente.
«Papà. Papà, fermati» lo interruppi. «Stai calmo. Ti ho detto io che va bene e che voglio che scelga tu» gli ricordai.
«Sì, ma… Come posso scegliere io la donna con cui dovrai passare la tau vita? Non volevo arrivassimo a questo, punto, Alex, io…» mormorò abbattuto.
«Ma ci siamo, quindi… È inutile piangere sul latte versato. Scegli al famiglia che più ti aggrada, scegli tu» replicai stanco.
Quella situazione era così ingarbugliata: Avevo capito che mio padre dispiaceva tantissimo dovermi chiedere una cosa simile ma, nonostante ciò, ancora faticavo a credermi di dovermi sposare per assicurare le finanze di famiglia.
«A quale famiglia preferiresti legarti, papà?» domandai ancora.
«Tua madre adorerebbe essere legata a Danielle Miller da qualcosa di più di una semplice amicizia» sussurrò.
Presi un profondo respiro, prima di rispondere: «che Regina Miller sia, allora».
 
~
 
Tutto si svolse molto in fretta.
La sera stessa, mio padre comunicò a mia madre la “mia” decisione di sposare l’unica figlia dei Miller. Come previsto, lei reagì con gioia, abbracciandomi con lo stesso entusiasmo riflesso nei suoi occhi azzurri così simili ai miei.
Avevo ricambiato la sua stretta, ringraziandola alle sue parole piene di complimenti, asciugandole un paio di lacrime di commozione scese sulle guance rosse.
Quello che fece subito dopo fu il gesto che mi sconvolse di più in quella situazione: scambiandosi un’occhiata d’accordo col marito, si levò l’anello di fidanzamento, prese la mia mano destra e lo posò sul mio palmo.
«Sarebbe molto bello se tu… Sì, beh, se tu usassi il mio stesso anello» spiegò.
«Era di mia madre» commentò mio padre, avvicinandosi a sua moglie passandole un braccio intorno alla vita.
«Mamma… ma… È troppo. Io…» balbettai.
«A me… A noi, ha portato fortuna. Ora è giusto che sia tuo. Di Regina, anzi» concluse felice.
Annuii, osservando in fine gioiello tra le mie mani: un tipico solitario, sormontato da un diamante importante, ma di non esagerate dimensioni.
«Grazie» sussurrai baciandole una guancia.
Sperai davvero che la fortuna che aveva colpito i miei genitori, portandoli ad innamorarsi dopo il matrimonio, potesse arrivare anche a me.
«Nei prossimi giorni dovremo andare a parlare con Gregory e Danielle, va bene?» aggiunse lei.
«Sì… Sì, certo» accettai, stringendo nel pugno, teso al fianco, l’anello, un oggetto così piccolo ma tremendamente pesante.
«Sono così felice, Alexander. Regina è una bravissima ragazza, sono sicura che andrete d’accordo» commentò mia madre, senza smettere di sorridere.
Cercai di imitarla mentre annuivo per la centesima volta.
Il parlare con i signori Miller equivaleva a chiedere la mano della ragazza.
Da lì sarebbe stato definitivo.
Avrei sposato Regina Miller.
 
 
~
 
“I prossimi giorni” equivalsero alla sera seguente.
A quanto pareva, papà e Gregory Si erano incontrati a lavoro, come ogni giorno, e in quell’occasione, mio padre gli aveva chiesto un incontro per la sera che il secondo aveva accettato con decisione.
La mia agitazione, dovuta all’ansia di segnare una linea decisiva nel disegno del mio destino, era confusa da mia madre con l’emozione di chiedere alla dona che presumibilmente mi piaceva di sposarmi.
Ma prima di quello, mi sarei dovuto incontrare col signor Miller per un breve – e sperai corto – colloquio per chiedergli la mano della figlia.
«Tranquillo, Alexander» sospirò mio padre, spostando le mie mani dal mio collo per sistemarmi la cravatta, dato che da solo non ce la facevo a causa dell’eccessivo nervosismo.
«È che… Non so…» balbettai cercando di rilassare le spalle.
«Andrà tutto bene, te lo giuro. Almeno questo te lo devo» mormorò.
«Papà, non… non ti sentire in colpa, dai…» cercai di calmarlo, seppure nella mia mente pensavo che il suo senso di colpa fosse giusto, vero.
Rispose con un sospiro e una pacca sulla mia spalla «andiamo».
 
~
 
Casa Miller era molto modesta, per lo meno all’esterno, e faceva parte di un complesso di abitazioni di simile fattura, tutte con un giardino anteriore ed un portico.
L’interno era arredato con gusto, come potei notare appena ci fecero entrare.
Con più precisione potei osservare lo studio del padrone di casa, in cui Gregory Miller accompagnò me e mio padre.
Il pavimento era coperto da una moquette di legno scuro, in fondo, dietro alla scrivania, si trovava una lunga biblioteca che ricopriva l’intera parete, mentre alla sinistra c’era un’elegante credenza.
Alla destra, una grande finestra che illuminava la stanza e che dava verso l’entrata dell’abitazione, a segnare che il padrone di casa poteva controllare tutto anche da lì sopra.
Mia madre era rimasta al piano inferiore con le due donne di casa, mentre, appunto, io e mio padre eravamo seduti sulle comode poltroncine di pelle rossiccia, di fronte alla scrivania.
«Allora, a cosa devo questa visita?» chiese Gregory, porgendoci due bicchieri di cristallo colmi di brandy.
Lo sorseggiai per farmi coraggio, scambiai un’occhiata veloce con mio padre ed infine parlai: «io… Signor Miller, vorrei chiedere la vostra benedizione per… per chiedere in sposa vostra figlia» riuscii a spiegarmi.
Via il dente, via il dolore.
Sollevò le sopracciglia, sorpreso, «mi stai chiedendo la mano di mia figlia?».
«Esattamente» annuii.
«Oh,» mormorò, sedendosi meglio sulla sedia, «dimmi un po’, Alexander, sei maggiorenne, sei adulto. Lavori?»chiese.
«Non proprio, signore. Sono in tirocinio all’ospedale di Chicago, per diventare medico chirurgo» spiegai.
«Dottore. Beh, una buona occupazione, certo» annuì, restando un attimo in silenzio. «Dove pensi andrete a vivere?» aggiunse poi.
Rispose mio padre al mio posto «mi sto mettendo in opera per ristrutturare la casa dei miei genitori, a pochi minuti dal centro di Chicago e da qui. È davvero un bel posto» spiegò, lasciandomi senza parole.
«Sì, sì, ho presente il posto» assentì Gregory. «Va bene, Alexander,» aggiunse, dop avermi gaurdato intensamente, «va bene. Vieni qui, figliolo, fatti abbracciare.».
Espirai profondamente, alzandomi per andargli incontro a ricevere la sua stretta e dei baci sulle guance oltre a qualche pacca sulla spalla.
«L’anello?» domandò.
Presi dalla tasca dei pantaloni la scatolina in velluto nero che conteneva l’anello di mia madre, fatto pulire in gioielleria perché splendesse e luccicasse ancora di più.
«Oh, meraviglioso!» esclamò guardandolo.
«Era di mia madre, poi è stato di Amelia e ora sono contento che possa passare nelle mani di tua figlia, Greg» disse mio padre, alzandosi in piedi per avvicinarsi a noi e stringere calorosamente la mano dell’uomo.
«Allora, scendiamo. Credo che tre bellissime donne ci stiano aspettando al piano inferiore. Diamo anche a loro il lieto annuncio» esclamò Gregory aprendoci la porta dello studio.
Scendemmo al piano inferiore, raggiungendo le donne in salotto.
«Oh, eccovi finalmente!» esclamò Danielle Miller vedendoci arrivare. «Volete del caffè? O preferite un drink?» chiese.
Rifiutai, al contrario degli altri due che si sedettero sul divano di fronte alle loro moglie.
Deglutii, avvicinandomi al divano su cui era seduta Regine «vorresti… Mi accompagneresti fuori un attimo?».
La ragazza sollevò il viso, sbattendo le palpebre, frastornata dalla mai richiesta inaspettata.
Si scambiò un’occhiata con la madre, che annuì concorde, prima di annuire.
«Oh, sì, andate pure sul portico. È una così bella sera!» aggiunse la signora Miller.
Accettò la mia mano, alzandosi, a mi accompagnò fuori, sul portico a cui aveva accennato la madre.
La portai a sedersi su una delle sedie in vimini poste di fuori, mentre io restai in piedi.
Presi un grande respiro e chiusi per un secondo gli occhi per prendere coraggio, mentre le mi osservava sempre più stranita.
«Regina…» mormorai guardandola e facendomi più vicino a lei.
Attorcigliò le mani, agitata, aspettando che continuassi.
«Io…» sospirai, mettendomi di fronte a lei e scendendo ad inginocchiarmi, come mio padre mi aveva insegnato a fare. Presi la scatola di velluto tra le mani e la aprii davanti ai suoi occhi
«vorresti… vorresti diventare mia moglie?».

 


Buon pomeriggio!

Settimana a dir poco frenetica, quasi quanto questo capitolo!
Mr Woods ha spiegato le sue motivazioni, Alexander con molta fatica sta cercando di accettarle dovendo "sacrificarsi" per mettere le cose a posto in un modo un po' particolare.

Regina accetterà?
Spero di trovare qualche recensione,
a presto!

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Capitolo 4
*** Pensieri parole opere ed omissioni ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.

Capitolo IV: pensieri, parole, opere ed omissioni.
Regina
 
Già il fatto che mi avesse chiesto di uscire in veranda era sospetto. Quando, poi, si era inchinato davanti a me, speravo con tutta me stessa che non stesse per fare quello che quella posizione indicava solitamente.
Un anello con un diamante di medie dimensioni si mostrò ai miei occhi, mentre le mie orecchie percepivano la sua domanda: «vorresti… Vorresti diventare mia moglie?».
Boccheggiai, sorpresa, indecisa se osservare il solitario o i suoi occhi azzurri che nell’oscurità di quella sera di settembre sembravano quasi brillare quasi della stessa intensità.
Restò in silenzio, guardandomi con aspettativa.
«Io…»
Sì o no, la risposta era semplice e breve, due sole lettere ma allo stesso tempo era così difficile…
«Io…»
Alexander Wood l’avevo visto solo un paio di volte, in breve occasioni in cui ci eravamo scambiati solo qualche parola.
«Alexander, io…»
«Lo so che praticamente non ci conosciamo» mi interruppe. «Ma… mi hai colpito dalla prima volta che ti ho vista. Non deve capitare domani, Regina, e… se non vuoi, dillo. Faremo finta di niente, anche se… beh, tuo padre lo sa, logicamente» aggiunse, abbassando o sguardo.
Certo, papà lo sapeva, ovviamente.
Lo avevo davvero colpito? Così tanto quanto lui aveva colpito me?
Così bello, così intelligente…
«Io… Sì, Alexander. Voglio diventare tua moglie. Sì, sì!» esclamai infine, sorridendo.
Sorrise, sfilando l’anello dala scatolina per prendendo la mai mia mano sinistra.
Piano infilò il solitario al mio anulare, nell’esatto momento in cui la porta d’entrata si apriva, facendo corre re fuori le nostre madri.
Mia madre mi corse incontro abbracciandomi e lo stesso fece la signora Woods, impegnando qualche  minuto in congratulazioni e auguri vari.
Ero promessa, promessa ad Alexander Woods.
Non mi sembrava vero.

 
~
 
Alexander

 
Accettai gli abbracci e le congratulazioni della signora Miller, sorridendo, mentre dentro di me mi sentivo uno schifo.
Come potevo averle detto quelle cose?
Come potevo aver esagerato in quel modo, arrivando a dirle di essere stato colpito da lei?
Per Dio, ricordavo esattamente quello che avevo pensato la sera di quella maledetta cena, ovvero tutto il contrario!
Avevo visto il suo sguardo imbarazzarsi a quelle parole, ma allo stesso tempo emozionarsi come se l’avessi resa felice.
Ed era capitolata, infine, accettando di sposarmi, pensando di piacermi.
Non negavo di trovarla bella, ma… non era abbastanza.
Sospirai di nascosto rientrando in casa Miller, preceduto dalla mia futura sposa e dalla mia futura suocera.
Futuro, futuro maledetto!
 
~
 
Nei giorni seguenti non riuscii più a guardare mio padre in faccia.
La realtà mi si era parata davanti agli occhi, io stesso l’avevo condotta fino a lì, eppure... non riuscivo ad accettarla.
La novità che Regina Miller, la figlia dell’avvocato Miller, aveva un anello al dito messole da Alexander Wood era girata in fretta, come se tutta la città avesse assistito alla mai scadente proposta.
Aaron e Leonard mi avevano fatto le congratulazioni, come anche le loro mogli, contente perché anche io e Regina saremmo diventati una coppia, unendo del tutto il gruppo.
«Hai seguito il mio consiglio!» aveva esclamato Breanna, ricordandomi il giorno della Maratona, quando tutto era cominciato.
Già in molti si chiedevano quando si sarebbero svolte le nozze.
La mia curiosità, seppure fossi il primo interessato, era pari a zero. Permisi a Regina e le nostre madri di occuparsi di ogni cosa, diedi loro completa carta bianca.
L’unica cosa che avrei dovuto fare era presentarmi all’altare, con un bel sorriso stampato sul volto, il pomeriggio del 3 marzo.

 
~
 
Regina

 
Mia madre singhiozzava sul divanetto dietro di me.
Eravamo nei camerini del negozio di una delle migliori sarte di Chicago, colei che mi aveva fabbricato l’abito da sposa che indossavo per la prova in quel momento.
Sorrisi emozionata, lisciando le mani sul corpetto già rigido di suo, decorato da ricami e perline.
Mi sentivo bellissima e allo stesso strana. Non avevo mai indossato un abito così importante e… così bianco!
«Oh, tesoro, sei meravigliosa!» sospirò mia madre, alzandosi per venirmi vicina e premendomi le mani sulle braccia per non rischiare di rovinare il vestito.
Posò la testa sulla mia spalla destra, osservandomi sorridente, facendomi ridacchiare per i suoi modi da bambina.
«Dici? Non è che questa scollatura sia un po’… esagerata?» domandai, passando le dita sulla scollatura a V che lasciava intravedere, alla fine, l’incavo tra i seni.
Non avevo mai indossato qualcosa di così esagerato.
«No, tesoro! È il tuo matrimonio! E poi,» aggiunse in tono basso ma non esageratamente per essere comunque sentita da me, «dovrai pure sedurre un poco quel ragazzo, su! Ma vi siete mai visti in questi giorni?».
Arrossii, guardandola con rimprovero, facendola ridere. «No,» ammisi in un sospiro, «non ci siamo mai visti».
«Perché non vai a trovarlo in ospedale per pranzo? Gli porti qualcosa da mangiare!» esclamò, entusiasta della sua nuova idea.
Mi morsi il labbro, indecisa e stuzzicata dalla sua proposta. «Ma non vorrei disturbarlo…»
«Ma no, figliola! Sei la sua fidanzata, diventerai presto sua moglie, come potresti disturbarlo?!»
Sorrisi, annuendo convinta.
Sua moglie.
 
~
 
Avevo seguito il consiglio di mia madre e, appena finite le nostre commissioni, ero andata in una pasticceria per prendere qualche dolcetto ad Alexander; infine mi ero diretta all'ospedale.
Un po’ imbarazzata, chiesi di lui all’infermiera all’entrata che suppose fosse in mensa, data l’ora.
Mi feci spiegare il percorso e la raggiunse dopo un paio di minuti. Spiai dalla porta aperta l’ambiente, cercandolo con lo sguardo.
Lo trovai seduto ad un tavolo con alcuni colleghi. L’agitazione mi stava uccidendo, stavo già pensando di tornare a casa: che figura avrei fatto ad andare a lì, da lui e i suoi amici?
Oddio!
Presi un profondo respiro avvicinandomi a lui, attirando gli sguardi dei suoi colleghi al tavolo.
«Alexander…» lo chiamai, sicuramente con le guance rosse.
Si girò e mi guardò sorpreso prima di sorridermi.
«Regina… Cosa ci fai, tu, qui?» mi domandò.
Feci per rispondere ma lui mi interruppe, dopo aver lanciato uno sguardo ai suoi goliardici amici che ridacchiavano.
«Aspetta, usciamo, tanto avevo finito» disse, prendendomi per un gomito.
Mi portò in una stanza lì vicino, una specie di sala relax, pensai guardandomi intorno: un divano, un tavolino con dei libri e qualche giornale, un altro con dei biscotti e una pio di bottiglie e bicchieri.
«Allora? Stai male?» chiese.
Sorrisi per la sua preoccupazione «no, no. Io ti… ti ho portato questi. Non ci vediamo da un po’…» mormorai passandogli il pacchetto che gli avevo portato in regalo.
Sorrise, mentre li scartava, ma la sua espressione cambiò velocemente, guardandoli.
«Dolci… Con cosa sono?» chiese con espressione infastidita.
«A-Al cioccolato» risposi esitante, preoccupata dal suo tono.
«Ne sono allergico, Regina» replicò, restituendomeli malamente.
«Io… Scusa, non lo sapevo» mormorai prendendoli.
Non commentò, restammo in silenzio per un po’ mentre lui evitava il mio sguardo, quasi stesse cercando una via di fuga da quella situazione.
«Devo andare» disse poi, lui, spezzando l’atmosfera.
«Certo, va bene» annuii, guardandolo avvicinarsi alla porta per uscire. «Aspetta!» lo fermai poco prima che uscisse, «Ci-Ci rivediamo in questi giorni?» chiesi timidamente.
«Non lo so. Ho molto lavoro» si giustificò, spostando le mani dentro alle tasche del camice bianco.
«Una sera… Alla sera non lavori, no?» tentai nuovamente.
«La sera sono stanco, Regina» sibilò.
Deglutii, con le lacrime che volevano scendere prepotenti.
«Scusa» sussurrai senza un motivo preciso.
«Perché diavolo ti stia scusando?!» esclamò.
Boccheggiai, «io… scusami…» ripetei stupidamente, arretrando di qualche passo.
Si passò una mano tra i capelli, forse per calmarsi. «Torna a casa, Regina» mormorò, prima di uscire definitivamente dalla stanza.
Mi guardai un attimo intorno, sconvolta.
Mi aveva trattato così male…
Si era arrabbiato così tanto per una cosa che ignoravo? Era una cosa così stupida!
Me ne andai, amareggiata da quella situazione, per tornare a casa e organizzare un matrimonio che non sembrava avere, poi, delle così buone fondamenta.
Il mio interesse nei suoi confronti sarebbe potuto bastare per entrambi?
Non ne ero così sicura.
 

 
Il titolo, qualcuna di voi forse l’avrà capito, è ripreso dall’atto penitenziale della messa cristiana. A rileggere il capitolo, pur non essendo io una grande praticante, quelle parole mi sono salite alla mente: ci sono tanti pensieri, parole, opere e, purtroppo, diverse omissioni.
Questo capitolo è un po' spezzettato, ma spero che vi sia piaciuto comunque!
All'inizio si parte con una Regina felice ed emozionata per il suo matrimonio, ma riga dopo riga la situazione si sconvolge e la ragazza inizia a non credere poi molto ad un futuro sereno.
Voi cosa ne dite?

Grazie per seguirmi,
a presto!!

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Capitolo 5
*** Il gran giorno. ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.


Capitolo V: il gran giorno.
 
Tutto quel che è stato
sai ch enon ritornerà,
il ragazzetto e quel campetto
non ritornerà,
il tempo che ho buttato
non ritornerà,
no, che non ritornerà,
no, ch enon ritornerà.

[Non ritornerà, Danny LaHome

Alexander

Mi passai una mano tra i capelli maledicendomi per l’ennesima mentre andai negli spogliatoi per togliermi il camice e riprendere la mia giacca, alla fine del mio turno.

Regina era passata gentilmente a trovarmi ed io l’avevo trattata molto male. Come potevo pretendere un matrimonio per lo meno rispettoso se per primo non mi comportavo in modo adeguato?

Sbuffai, uscendo dall’ospedale, salutando alcune conoscenze che trovavo per la via.

Sarei dovuto andare a casa sua, per scusarmi adducendo a qualche futile scusa.

Il problema era che ogni volta che la vedevo, che la pensavo, non riuscivo a non darle la colpa di quel matrimonio, a lei che colpe non ne aveva.

No, lei non aveva colpe, eppure non riuscivo a trattarla almeno gentilmente.

Sospirando, svoltai per la strada che conduceva a casa mia, programmando di passare dai Miller, dopo cena.

Diavolo, dovevo imparare a comportarmi meglio.


~


Prima di arrivare a casa Miller ebbi la fortuna di trovare una fioreria ancora aperta. Comprai una sola rosa rossa, simbolo di amore e passione, secondo gli ideali comuni.

Sperai fosse un fiore di suo gradimento, almeno ne avrei azzeccata una.

«Alexander, non ti aspettavamo!» mi salutò la signor di Danielle, dopo essere stato accolto dalla cameriera di servizio.

«Lo so, signora, e spero davvero di non disturbare» mi scusai per non aver avvertito precedentemente.

«Oh, no, non potresti mai! Diventerai mio genero fra poco!» esclamò.

Sorrisi, senza rispondere, mentre lei mandava a chiamare Regina.

«Immagino sia per lei, quel fiore. Hai qualcosa da farti perdonare?» domandò divertita, indicandomi di sedermi sul divanetto di fronte al suo.

Feci una smorfia di assenso «questo pomeriggio sono stato un po’ brusco. Avevo passato una mattinata molto impegnativa, me ne dispaccio» inventai.

«Oh, capirà, sta tranquillo. Regina! Guarda chi è venuto a trovarti!» aggiunse, mentre la ragazza entrava in sala.

«Alexander…» mi salutò sorpresa.

«Buonasera, Regina. Questa… Questa per te» mormorai alzandomi e porgendole il fiore.

Lo accolse tra le mani, annusandone il profumo delicato, mentre le sue guance prendevano il colore della rosa.

«G-Grazie. È bellissima» mi sorrise, emozionata.

«Vorrei anche scusarmi per oggi. Mi sono comportato davvero maleducatamente» aggiunsi guardandola sinceramente dispiaciuto.

Sorrise dolcemente «va bene, non importa. Sono felice che tu sia qui, adesso».

«Regina, perché non spieghi ad Alexander qualcosa sul matrimonio? Su, dai!» intervenne la madre facendoci segno di sederci.

«Ti interessa?» mi domandò la ragazza, sottovoce.

«Certo, dimmi tutto» annuii, mostrandomi disposto ad ascoltare le chiacchiere che avevo cercato di evitare per tutta la settimana.

«Allora, il matrimonio si svolgerà alle ore 15.00 di sabato tre marzo,» iniziò, «nella qui vicina chiesa di St Peter. Poi seguirà il pranzo al ristorante “The Court” che ci metterà a disposizione al sala più grande. Poi... Vediamo, mia madre, e la tua, naturalmente, dovrebbero aver già spedito tutti gli inviti… Vero, mamma?».

«Sì, stanno già iniziando ad arrivare delle conferme» annuì Danielle.

Anche io e Regina annuimmo mentre in sala entrava Gregory.

«Alexander, che sorpresa! Buonasera» mi salutò mentre mi alzavo per stringergli la mano.

«Buonasera a lei, signore. Effettivamente, non era prevista una mia visita, spero no mene vorrete…» sorrisi, risedendomi.

«Assolutamente no, figliolo, sei di famiglia, ormai» ripeté le parole della moglie. «Ma, Danielle,» aggiunse, «non gli hai offerto nulla da bere? Santa donna, cosa devo fare con te? E di cosa stavate parlando?» disse veloce, raggiungendo la credenza per prendere dei bicchiere di cristallo e riempirli di whiskey, dopo che avevo dato il mio assenso per un goccio.

«Stiamo aggiornando Alexander sui preparativi del loro matrimonio, caro» rispose la moglie.

«Oh, Danielle!» la rimproverò, senza però aggiungere altro e passandomi il bicchiere con uno sguardo di compatimento.

Sorrisi, assaggiando il liquido scuro «non importa, signore, mi fa... piacere».

Che piacere, sapere di che morte sarei dovuto morire.


~


Il tre marzo arrivò più in fretta di quanto volessi.

Ma li trovai, al mattino, a fare i conti col pensiero di dover recarmi in Chiesa, magari con un bel sorriso in volto, per sposarmi.

Feci colazione con i miei genitori e la parlantina eccitata di ma madre, poi tornai in camera per lavarmi prima di indossare il vestito da sposa che avevo comprato qualche settimana addietro.

Mio padre entrò in camera mentre mi allacciavo la camicia bianca. Prese la cravata dalla spalliera della sedia posta accanto al comò e mi fece segno di girarmi verso di lui perché potesse mettermela.

Non ci scambiammo una parola, come succedeva ormai da giorni, troppo vergognoso l’uno, troppo arrabbiato l’altro.

Quando ebbe finito, mi porse una scatoletta, «mi piacerebbe che tu mettessi questi. Sono i gemelli che mio padre mi regalò per il mio matrimonio. Vorrei fossero tuoi, ora».

Deglutii, guardandoli «sì. Sì, grazie, papà» annuii posandoli sopra al comò.

Mi infiali il panciotto, grigio come la cravatta, e poi la giacca nera. Infine allungai le braccia verso di lui, chiedendogli di infilarmi i gemelli.

«Scendiamo» propose infine.

«Tu vai, io arrivo fra un attimo» mormorai.

Appoggiò la mano sul mio braccio, prima di andarsene. Guardai la mia figura allo specchio, senza pensieri.

Mi stampai un sorriso sulle labbra, e uscii dalla stanza, chiudendo la porta.

Da quella sera avrei dormito in un’altra cosa, con la mia donna.


~


Dopo aver passato qualche minuto con i miei parenti che si erano riuniti nel salone della casa dei miei genitori per un breve rinfresco, ci dirigemmo tutti alla chiesa di St Peter, dove si sarebbe svolto il matrimonio.

Vari invitati di entrambe le parti erano già arrivati, notai mentre mi guardavo intorno, scendendo dall’auto di papà, una delle poche che si vedevano in circolazione.

Sperai che tutto finisse in fretta, permettendomi di togliermi quel sorriso dal volto.

Mi avvicinai all’entrata della Chiesa, e con mia madre feci il mio ingresso.

Pochi secondo dopo, Regina, accompagnata da suo padre, avanzò nella navata centrale, avvicinandosi a me.

Gregory Miller le strinse forte la mano, prima di unirla con la mia.

Le alzai il velo, guardando il suo volto emozionato, dagli occhi già un po’ lucidi.

Lei, sì, che era felice di vivere quel momento.

Ci avvicinammo all’altare, poi il prete iniziò la cerimonia.

“Fratelli e sorelle, siamo qui riuniti…”


~

«Vuoi tu, Alexander, prendere la qui presente Regina Cècile Miller come tua sposa, promettendo di esserle fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarla ed onorarla tutti i giorni della tua vita?»

Trattenni il respiro, attendendo un attimo per rispondere.

Il fiato mi si era bloccato, la mia coscienza mi urlava di negare, di imporre il mio no.

«Alexander?» mi chiamò Regina, in un sussurro spaventato.

«Sì, sì, scusate. Sì, certo che lo voglio» riuscii a rispondere, sorridendo imbarazzato.

Lei sospirò, probabilmente terrorizzata da quel momento critico.

«E vuoi tu, Regina, prendere il qui presente Alexander George Woods come tua sposo, promettendo di essergli fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarlo ed onorarlo tutti i giorni della tua vita?» continuò il prete, sorridendo.

Lei non ebbe la mia stessa esitazione, anzi, replicò decisa: «sì, lo voglio».

Altre formule, lo scambio degli anelli e infine la messa finì mentre il prete aggiungeva: «ora, puoi baciare la sposa».

Deglutii, girandomi a guardare Regina.

Il nostro primo bacio.
Forse era quello che pensava anche lei mentre mi vedeva avvicinarsi al suo volto, che presi fra le mani per lasciare un lieve bacio sulle sue labbra.
Labbra morbidi e dolci che ricambiarono, prendendo al forma di un sorriso contento.

Osò una lieve carezza della mano sulla mia guancia, mentre i nostri invitati applaudivano intorno a noi.

Mi ero sposato.





Eh, si è sposato.
Mamma mia quanta felicità, ah?
Il capitolo è un po' veloce, gli sbalzi temporali si consumano, ma... Non mi pareva il caso di perdermi in chiacchiere inutili!
Spero vi sia piaciuto comuque...
Scusatemi il breve ritardo ma ho avuto delle giornate un po' impegnative!
Altra cosa di cui chiedo perdono è il format di questo capitolo come dei precedenti: purtroppo NVU ed io non andiamo d'accordo e quindi...!
Comunque, a presto!

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Capitolo 6
*** Non c'è mai limite al peggio. ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.

Capitolo VII: non c’è mai limite al peggio.


Alexander


Due mesi dopo…
 
Mi chiusi la porta di casa alle spalle, dirigendomi direttamente verso le scale per il piano superiore.
«Alexander?» mi chiamò Regina dalla cucina.
Sbuffai, tornando indietro per raggiungerla.
«Buonasera,» mi salutò sorridente venendomi incontro, «com’è andata oggi?».
«Bene, al solito» annuii occhieggiando il tavolo già preparato per due persone. «Ehm… Io mangio fuori» aggiunsi.
Il suo sorriso si smorzò «Oh. Non… Non me l’avevi detto. Dove-dove vai?» chiese stringendo tra le mani un canovaccio.
«Uhm… Da Daniel, il mio collega, ricordi? Mi ha invitato a cena» risposi.
«Oh, capisco» mormorò girandosi per raccogliere la mia parte di stoviglie.
Li appoggiò sul ripiano accanto al lavello e poi si appoggiò ad esso con le mani.
«È la terza sera di seguito. E va avanti da un mese. Pensi… Pensi di poter mai restare a casa con tua moglie a cena?» sussurrò.
«Non potevo rifiutare» replicai.
«Sai che giorno è oggi?» chiese dopo un attimo di silenzio.
«Sì, lo so, Regina» sibilai.
«Sono due mesi che siamo sposati» si rispose da sola.
«E quindi?» replicai scocciato. «Dobbiamo festeggiare anche ogni mese, adesso?».
Sbatté il canovaccio sul piano, facendomi sobbalzare.
«No, certo. Vattene, su, vai dal tuo amico. Divertiti» aggiunse rigida, prendendo una pentola dai fornelli e scolandone la pasta che conteneva.
Mi allontanai, proseguendo verso il mio studio per lasciare la valigetta e rinfrescarmi velocemente il viso.
Poi tornai giù e le urlai velocemente un saluto prima di uscire.
Mi incamminai prendendo dalla tasca della giacca il pacchetto di sigarette ed accendendomene una.
Dopo un isolato mi fermai davanti ad un palazzina ed osservai le finestre che ero quasi certo corrispondessero all’appartamento di Daniel McGregor, il mio collega.
Sorrisi sprezzante, sorpassando anche quel quartiere diretto ad un altro, lì dove si trovava la casa in cui avevo davvero appuntamento
Come al solito, prima di bussare mi guardai attorno, attento ad evitare sguardi indiscreti.
Quando mi aprì e la vidi, sorrisi felice, mentre tutte le ansie, il litigio con Regina e le preoccupazioni del matrimonio scomparivano.
Mi fece entrare velocemente, prendendomi per un braccio ed abbracciandomi dopo aver chiuso la porta.
«Alexander, oh, sei riuscito a venire!» mi salutò stringendomi forte.
La avvolsi tra le mie braccia, respirando il suo buon profumo «Elizabeth, certo che sono qui, come avrei potuto non venire?».
Lei sorrise, allontanandosi leggermente per alzarsi in punta di piedi in modo da riuscire a baciarmi le labbra. «E… tua moglie? Non ha detto nulla?» chiese poi preoccupata.
«Non sa nulla, tranquilla. E se anche lo sapesse non potrebbe fare nulla» aggiunsi. «Ma lasciamo perdere lei. I tuoi genitori, sei sicura non torneranno?» domandai preoccupato.
«Certo che sì, sono andati a Springfield, te l’ho detto, e dopo varie insistenze, sono riuscita a convincerli a farmi restare a casa sola con la governante» spiegò euforica.
«Di certo non potevano pensare che tu avresti chiesto al tuo innamorato di venire a farti visita. E che la governante fosse d’accordo, tesoro» mormorai con tono lievemente malizioso, sorridendo mentre le accarezzavo i capelli.
«Già!» annuì, chiudendo gli occhi per godersi il momento, stringendosi di più al mio corpo. «Sono così pochi questi momenti sereni, tra me e te… Ma sono così belli…» sussurrò.
«Lo so e mi dispiace. Se solo ti avessi conosciuta prima, amore…» mi tormentai.
«Non importa, va bene anche così, amore mio» mormorò.
Piano passò le mani sulla mia giacca e mi prese per mano «vieni, andiamo a mangiare qualcosa, ti ho aspettato».
«Aspetta!,» la fermai stringendole la mano, «Ti amo, Beth. E lo sai che per me… Per me tu sei molto di più che una semplice amante. Io odio mia moglie, io… Io amo solo te.»
Sorrise, stringendosi nuovamente a me per baciarmi le guance e poi le labbra. «Ti amo anch’io, Alex. Così tanto da poter rimanere solo un’amante pur di stare con te.»
 
~
Can't bite my tongue forever
While you try to play it cool
You can hide behind your stories
But don't take me for a fool
[Your love is a lie, Simple Plan

Regina
 
Mossi la forchetta nel piatto, senza una vera voglia di mangiare.
Stanca, la lasciai cadere, ascoltando il rumore dell’acciaio contro la porcellana.
In n impeto di rabbia scagliai tutto a terra, scoppiando finalmente in lacrime.
Mi stavo distruggendo, non potevo continuare in quella maniera.
Se solo pensavo a quei giorni passati dal nostro matrimonio, non riuscivo a trovarne uno di sereno, bello e tranquillo, tipico di due neosposi.
Eravamo sposati da due mesi e già rimpiangevo il mio .
E pensare che all’inizio ero così felice ed incredula!
Fin dai primi giorni avevo provato a fare il possibile, mi ero sottomessa ad ogni suo volere, ad ogni sua scelta pur di vederlo felice ma lui… lui sapeva solo rispondermi male, uscire, lasciarmi da sola e trattarmi cose se fossi.. nulla.
Il suo comportamento, però, stava stranendo tutti, dai suoi amici e le loro mogli ai suoi stessi genitori.
Questi ultimi, poi, se n’erano accorti bene dato che la cena della settimana prima era stata un vero e proprio disastro.
Alexander mi aveva dato della stupida davanti a loro solo perché il filetto che avevo cucinato non era di suo gradimento.
Tremante mi ero alzata e dopo aver cercato di scusarmi, me n’ero andata dalla sala chiudendomi in camera un po’ scortesemente.
Naturalmente non mi aveva risparmiato le lamentele per questa mia uscita una volta che i coniugi Woods se n’erano andati, commentando la brutta figura che gli avevo fatto fare con i suoi genitori.
Poi era uscito, sbattendo la porta di casa, ed era tornato solo alla mattina seguente giusto per lavarsi e cambiarsi i vestiti.
Non ero una stupida.
Non lo ero, e sapevo che Daniel McGregor non l’aveva invitato proprio da nessuna parte.
Feci un respiro profondo prendendo un golfino dall’attaccapanni in entrata e la borsa, prima di uscire e chiudere a chiave.
Mi incamminai verso l’indirizzo dove, secondo le sue scuse, avrebbe dovuto trovarsi per una cena.
Arrivata alla palazzina, aprii il portone e salii le scale fino all’appartamento del collega di Alexander.
Una volta davanti alla porta, strinsi la borsa tra le mani pregando Dio che mio marito si trovasse davvero lì dentro.
Bussai.
La porta venne aperta dopo un minuto e quando mi riconobbe, Daniel mi sorrise dispiaciuto. «Regina…»
Capendo, strinsi le labbra e deglutii lacrime amare. «Non c’è, vero?» chiesi.
«No, mi dispiace.»
Annuii, stringendo ancora più forte la borsetta, incurante di romperla, di graffiarne la pelle nera. «Ok, grazie.»
«Aspetta!,» mi fermò, vedendomi voltargli le spalle per scendere, «Non… non stai bene. Entra un attimo, bevi qualcosa, almeno» propose preoccupato.
«No, grazie. Grazie» ripetei, scendendo le scale ed uscendo dal portone, raggiungendo la strada.
Mi incamminai per tornare a casa, ma una volta davanti alla mia porta, tentennai.
Non volevo passare un’altra sera a casa da sola, a pulire una casa già splendida per cercare di non pensare.
Mi morsi le labbra, tornando in strada per dirigermi a casa della mia migliore amica, Eloise, che come sempre mi accolse con un abbraccio.
«Regina! Tesoro mio, ma sei sola?» domandò accompagnandomi in salotto.
«Sì… Eloise, io… Ho bisogno di parlare con qualcuno» mormorai in un fil di voce mentre una lacrima dispettosa scendeva sulla mia guancia.
«Regina… Certo, certo. Aspetta solo un attimo. Leonard!?» chiamò il marito, mentre rapida passai la mano sul mio viso per togliermi la goccia salata.
«Sì? Oh, Regina, buonasera!» mi salutò, apparendo in sala.
«Perché non vai da Aaron?» gli chiese la moglie in tono angelico.
Tenni la testa bassa, imbarazzata, sentendomi in colpa «No, Eloise, non serve…» sussurrai, infatti: non volevo che suo marito fosse costretto ad andarsene dalla sua stesa casa per colpa mia.
Mi fece cenno di tacere con una mano, mentre il marito annuiva.
Si salutarono con dolcezza e poi lui uscì.
Li invidiai tantissimo, come sempre mi capitava con loro o una qualsiasi altra coppia.
Mio marito -il mio caro, devoto e gentile marito- se ne sarebbe andato sbuffando e sbattendo la porta.
«Allora? Amica mia, cosa c’è?» mi chiese, spostandosi a sedere accanto a me.
Mi portai una mano alla bocca, trattenendo a stento le lacrime e i singhiozzi. «Non ce la faccio più,» mormorai, «non ce la faccio più. Alexander… Mente, mi tratta male. Non riesco ad andare avanti, così».
«Cosa… Ti ha fatto del male?» domandò preoccupata.
Violenza? Oh, no.
Sessuale ancora meno e non perché essendo mio marito raramente si sarebbe potuta ritenere tale ma perché, semplicemente, dopo la prima notte di nozze, non mi aveva più toccata.
«Non… Non in senso fisico. È l’ennesima serata che non passa a casa. Dice di cenare dal suo amico Daniel McGregor ma Daniel nemmeno lo passa a trovare, me lo ha detto lui in persona. Oggi festeggiamo il nostro secondo mese di matrimonio e lui… Non so cosa gli prenda. Perché ha voluto spossarmi se poi… Se poi mi tratta solo male? Mi offende di continuo, davanti ai suoi genitori, persino! Si arrabbia per un nonnulla. Non lo so, non lo so. Non so più che fare…» spiegai tra le lacrime.
Eloise mi strinse a sé «Oh, Regina. Io… Io un po’ lo conosco, Alexander e… Davvero, abbiamo tutti notato quanto sia stano ultimamente, ma non pensavo arrivasse a… a comportarsi così male a casa. Mi dispiace tanto, cara.».
Le strinsi una mano in ringraziamento.
«Ma hai provato a parlarne con lui? A… Non so, chiedergli il motivo di tanto malumore» riprese.
«No. No, anche perché non lo vedo mai. E poi ogni volta che apro bocca, secondo lui, dico qualcosa di sbagliato e si lamenta. Evito il più possibile le scenate» risposi
Annuì, continuando ad accarezzarmi i capelli.
«Prima… Prima parlavi di alcune sue uscite. Di un suo amico…» mormorò esitante.
«Sì. Anche stasera, mi ha detto che avrebbe cenato da questo suo collega, Daniel McGregor, ma non è vero. Come non è ero che è andato lì la settimana scorsa e quella prima ancora. E ne sono certa. Sì, perché una settimana fa ho incontrato Daniel e abbiamo scambiato qualche parola; da lì ho scoperto al verità: lui non ha nemmeno mai invitato Alexander a cena e men che meno lui si è presentato per una visita. Stasera… Stasera sono andata io stessa a controllare. Sono andata a casa di Daniel e… Alexander non c’era. Mi aveva detto che sarebbe stato da lui. E non c’era» ripetei, in crisi. «E io ho paura. Perché c’è solo una risposta e io non voglio pensarci. Pensare che lui vada con… con altre donne. Io non riesco a…» mi fermai, cercando di respirare profondamente.
Eloise mi abbracciò nuovamente, anche lei in lacrime. Era una ragazza così sensibile, amorevole, allegra… E mi voleva bene, eravamo amiche fin da bambine, eravamo cresciute insieme, quasi sorelle.
«Vedrai che c’è un motivo. Non è detto che lui… C’è sicuramente un atro motivo» provò a consolarmi.
Risi amara: che altra soluzione poteva esserci? Che motivazione l’avrebbe portato a mentirmi quasi ogni sera e a trattarmi in quel modo, come se fossi un ostacolo alla felicità?
 
~
 
Quando, dopo un’ora, Leonard rincasò, abbandonai la casa della mia amica tornando alla mia.
Come immaginavo, Alexander non era a casa.
Raccolsi velocemente il danno che avevo provocato in cucina con la cena, insacchettando i piatti rotti e pulendo il cibo da terra.
Poi, mi preparai per la notte e mi misi sotto le coperte.
Non riuscii facilmente a prendere sonno, ancora troppo agitata e nervosa, ma quando stavo per riuscirci, Alexander rincasò.
Riaprii gli occhi quasi di scatto, mentre lo sentivo barcollare verso il letto e senza nemmeno cambiarsi, stendersi a letto.
Mi allontanai istintivamente dalla sua figura, affondando il viso sul cuscino.
Non ne potevo più, ed erano passati solo due mesi.
Come avrei passato il resto della mia vita?

 
 

 

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Capitolo 7
*** First time. ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.

Capitolo VI: first time.

Regina

 
Mi sentivo totalmente persa, come se non fossi nel mio corpo, se non stessi davvero vivendo quell’esperienza.
Famigliari che mi abbracciavano, che mi baciavano, che si congratulavano.
Una fede d’oro a stringere il mio anulare sinistro.
Ero sposata, sposata con Alexander Woods.
Mi sentivo così tremendamente felice!
Arrossi pensando di non vedere l’ora di restare sola con lui per poter accarezzare nuovamente il suo viso e… baciare le sue labbra.
Voltai il viso a cercarlo, trovandolo abbracciato alla madre in lacrime.
Il padre gli lasciò una pacca sulla spalla, che lui sembrò quasi voler evitare: era da un po’ che lo vedevo scostante nei confronti del suo genitore, dovevano aver litigato.
Sperai tutto si risolvesse al più presto e cha magari lui me ne parlasse.
Sospirai estasiata, stringendo mia madre tra le braccia.
«Oh, tesoro mio, sono così felice! Sei bellissima, sei… Oh, tesoro!» esclamò, prendendomi il viso tra le mani e baciandomi le guance.
«Grazie, mamma, grazie» sorrisi.
«Regina, piccola mia, vieni qui» disse mio padre, prendendomi dalle braccia della moglie.
Mi baciò la fronte, guardandomi negli occhi, senza aggiungere parola, trasmettendomi tutto con la sola forza dello sguardo: orgoglio, felicità, ma anche tristezza per il distacco.
Mi lasciò e tenendomi per mano mi accompagnò da colui che da quel momento potevo chiamare marito.
«Alexander,» lo chiamò, «prenditi cura di mia figlia, mi raccomando.».
«Certo, signore, lo farò» annuì lui, prendendomi a braccetto. «Dobbiamo uscire, ora. Il ristorante ci aspetta» aggiunse rivolto a me.
Gli strinsi la mano sul braccio, sorridendogli «hai fame?» gli domandai.
«Non molta, a dir la verità»rispose, guardandomi di sfuggita mentre ci incamminavamo verso l’uscita.
«Neanche io» mormorai dispiaciuto per quel basso livello di considerazione.
Non rispose, guardando gli invitati ammassati fuori le porte della chiesa, in attesa della nostra uscita, preceduta da quella dei nostri genitori.
Cavallerescamente Alexander coprì il mio corpo con il suo al momento del lancio del riso, proteggendomi dalla maggior parte dei granelli bianchi.
Come un bravo marito.
 
~
 
La festa al ristorante si svolse tra le portate di cibo e le chiacchiere, tra le risate e i balli.
Io e Alexander ci eravamo baciati lievemente altre due volte, prima per il taglio della torta e poi durante il nostro ballo d’apertura.
In entrambi i momenti – forse i più beli della serata, per me- il mio cuore aveva battuto forte, mi ero emozionata ed ero di certo arrossita.
La serata giunse al termine con la partenza mia e di Alexander verso la nostra nuova casa.
Mio padre ci portò lì con la sua macchina e mi salutò con un bacio prima di andarsene.
Mio marito aprì la porta di casa e come di tradizione mi prese in braccio un po’ goffamente per entrare.
«Mettimi giù!» ridacchiai dopo alcuni passi malfermi.
Obbedì sorridendo, chiudendo poi al porta dietro di sé, a chiave.
Ci guardammo un po’ intorno, la casa leggermente illuminata da qualche candela che la governante di casa mia –anzi, della casa dei miei genitori- aveva provveduto di accendere poco prima del nostro arrivo.
«Uhm,» si schiarì la gola, «saliamo?».
Annuii con un cenno del capo, troppo imbarazzata per parlare.
Prese un candelabro tra le mani e mi precedette sulle scale in modo da farmi luce mentre salivamo verso la nostra camera.
Lo posò sullo scrittoio vicino alla porta e poi si tolse la giacca e la appoggiò su una sedia lì vicino.
Un po’ rigidi andammo ai due lati opposti del letto. Mi spogliai dell’abito bianco, guardandolo cadere a terra, e restai con la sottoveste. A quel punto mi infilai sotto le coperte, dove lui già mi aspettava, indossando solo i mutandoni.
Si avvicinò a me per baciarmi, spostandosi sopra al mio corpo. Mi sentii arrossire per quel bacio più lungo e profondo dei precedenti.
Portai le mani sulle sue spalle, nude (nude!) e poi sui suoi capelli, accarezzandoglieli, mentre le sue mani toccavano piano le mie braccia.
Eravamo entrambi imbarazzati e inesperti. Io sapevo cosa dovevo fare solo per gli insegnamenti di mia madre.
Forse prendendo un po’ di coraggio, allungò il percorso delle sue mani, facendole scendere verso i miei fianchi e il ventre.
Non riuscii a trattenere un gemito, vergognandomene, al sentire le sue forti mani sul mio corpo coperto dal velo leggero della sottoveste e nudo, una volta che scesero verso le mie cosce.
Poi le rialzò, posandole sul mio seno. Lo accarezzò piano, facendomi provare strane sensazioni e brividi ad ogni tocco.
Continuammo un po’ così, poi piano mi chiese gentilmente se potevo essere pronta.
Annuii, seppur irrigidendomi preoccupata. Mamma mi aveva detto che avrei sentito dolore ma che dovevo cercare di non darlo a vedere e che avrei potuto soffrire meno cercando di stare rilassata.
Si sollevò dal mio corpo, armeggiando con l’unico capo che lo copriva e poi si riabbassò, facendomi accorgere di qualcosa di molto duro sulla pancia.
Arrossii al pensiero di cosa si trattava.
«Posso?» momrorò.
Respirai profondamente e poi annuii di nuovo col capo.
A quel punto, lo sentii sollevarmi la sottoveste e portare il suo… il suo coso più vicino a me.
Piano entrò in me ed io strinsi i denti, non riuscendo a seguire il consiglio di mia madre di stare calma. Gemetti quando il dolore tocco il suo picco, ovvero quando fu totalmente in me.
«Stai bene?» chiese titubante, fermandosi.
«Sì, continua» mormorai. Altra regola di mia madre: qualunque cosa succeda, lui deve provare piacere. Quello dell’uomo è più importante rispetto alla donna. È tuo dovere servirlo, prenderti cura di lui anche di notte. Il dolore passerà.
Il dolore passerà, continuai a ripetermi mentre lo sentivo muoversi dentro di me, più velocemente, mentre ansimava.
Effettivamente un poco si affievolì, seppur continuai a sentire il fastidio, quasi vicino al bruciore.
Curiosa di provare le sue stesse sensazioni mi mossi contro di lui, stringendo le braccia intorno alle sue spalle.
Mi guardò un attimo, abbassandosi con al bocca sulla mai per un bacio veloce.
La situazione stava un po’ migliorando, ma improvvisamente lo sentii gemere ed una specie di liquido entrò in me: era la fine?
Pensai di sì, sentendolo poco dopo spostarsi per uscire da me e mettersi seduto.
«Stai bene?» chiese
«S-Sì» annuii.
«Vado a rinfrescarmi» aggiunse sistemandosi i mutandoni ed allontanandosi verso il bagno.
Curiosa, mi morsi il labbro inferiore guardandolo andare via.
Era la prima volta che vedevo un uomo mezzo nudo
Però lui… era così bello.
Ed io? Io non lo ero altrettanto per lui.
Sospirai e mi alzai, prendendo dall’armadio una camicia da notte e indossandola prima di rimettermi sotto le coperte.
Perché sentivo che qualcosa non andava? Che qualcosa era sbagliato?
Mi ero, forse, illusa troppo? O era davvero così che funzionava un matrimonio?



On the first page of our story
the future seemed so bright
then this thing turned out so evil
I don’t know why I’m still surprised
[Love the way you lie - part 2, Eminem ft Rihanna


Vanno davvero così le cose?
Non sono sposata, non ho una grande opinione del matrimonio, ma non credo proprio che dovrebbe andare così, Regina cara!
Avevo avvertito sarebbe stato un capitolo breve, purtroppo non ho potuto agglomerarlo allo scorso perché non lavevo ancor acompletato, ma nemmeno al prossimo perché presenteranno due tempi diversi.
Comunque, spero vi sia piaciuto!
Recensite, mi raccomando, ho davvero bisogno di capire se questa storia piace!
A presto!

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Capitolo 8
*** illuminated ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.

Capitolo VIII: illuminated.

Suddently, my eyes are open,
everything come int o focus.
[Illuminated, Hurts
 
Alexander
 
«Alexander? Alexander, svegliati!»
Una voce mi chiamava; mossi il capo socchiudendo gli occhi.
«Che c’è?» mugugnai, scocciato per essere stato svegliato.
«È tardi e devi andare a lavoro. Alzati, veloce» continuò, spalancando poi le finestre.
Sbattei gli occhi, imprecando per la luce che improvvisamente era entrata nella stanza. Mi misi seduto e fissai Regina che si muoveva per la stanza.
«Che ore sono?» domandai appoggiando i piedi per terra.
«Le 7.30» rispose prima di uscire, diretta in cucina.
Barcollai assonnato verso il bagno, lavandomi prima di vestirmi e di scendere a mia volta.
Sopra il tavolo della cucina la mia colazione era già pronta.
Mi sedetti ed afferrai la tazza, mentre Regina iniziava a commentare: «dovresti tornare prima, la notte. Anzi, la mattina. Così non dovremmo ripetere queste scene ogni giorno.».
Alzai gli occhi al cielo, trattenendomi dal ribatterle già di prima mattina.
«È mercoledì, pranzi a casa?» domandò ricordandosi dell’unico giorno in cui il mio turno pomeridiano iniziava abbastanza tardi da concedermi di non servirmi della mensa dell’ospedale.
«Credo andrò dai miei genitori» risposi posando la tazza ormai vuota sul tavolo.
Mi pulii le labbra con un tovagliolo e mi alzai «vado».
«Aspetta» mi fermò raggiungendomi e fermandosi davanti a me.
«Sono in ritardo» replicai, mentendo.
«Non è vero» mormorò infatti, posando le mani sul mio petto. La guardai confuso, mentre le spostava per sistemare i nodo della cravatta.
Alzò il viso baciandomi una guancia, spostando piano le labbra per posarle infine sulle mie labbra.
Restò qualche secondo così, muovendo la sua bocca sulla mia, stringendo il mio collo tra le mani.
Quando si allontanò, si strinse il petto con le braccia, scuotendo il capo e chiudendo gli occhi che si erano fatti lucidi.
«Non capisco. Perché fai così?» sussurrò.
«Io…» balbettai, sorpreso.
«Lascia stare, non voglio ascoltare le tue scuse, non voglio sentire i tuoi rimproveri anche questa mattina. Vai, vai a lavorare» replicò girandosi.
Raccolse la mai tazza e la posò nel lavello, rimanendo poi ferma lì.
Ricurva e stanca.
Piano mi allontanai, guardandola finché non arrivai ai corridoio. Da lì, mi girai ed uscii.
 

~
 

A pranzo, come avevo premesso quella mattina a Regina, andai dai miei genitori.
Non mi recavo lì da quasi una settimana e già sapevo cosa avrei dovuto aspettarmi in quell’ora in loro compagnia: rimproveri.
Ero infatti certo che mia madre avrebbe avuto da ridire sulla scenetta che aveva peso luogo durante la nostra ultima cena a casa mia.
Non avrei, al contrario, permesso a mio padre di pronunciarsi in merito: e non fosse stato per lui, non saremmo arrivati a quel punto.
Anzi.
Avrei conosciuto Elizabeth, l’avrei corteggiata e avrei chiesto la sua mano senza dover fingere.
Un altro problema, quel giorno, però, era l’immagine di mia moglie, stanca ed appoggiata al lavello della cucina come per sorreggersi.
Scossi al testa, mentre raggiungevo il salotto, sicuro di trovare mia madre.
«Alex» mi salutò alzandosi dalla poltrona su cui stava ricamando.
«Buongiorno, mamma» ricambiai abbracciandola e baciandole le guance.
«Vieni, andiamo in sala che dovrebbe essere pronto. Chelsea, chiama mio marito, per favore» aggiunse alla cameriera che annuì e si diresse al piano superiore.
Noi due raggiungemmo la sala da pranzo e ci sedemmo ai nostri posti, mentre aspettavamo mio padre per incominciare.
«Ma… Regina? Pranza dai suoi genitori, spero» disse mia madre.
«Non lo so,» risposi senza guardarla, «non ne ho idea».
«Quindi  l’avresti lasciata a pranzare da sola? Alexander…!» mi rimproverò.
«Non lo so, mamma» ripetei scocciato. «E poi, non mangio mai a casa tranne che al mercoledì e ai fine settimana. È abituata» spiegai.
«È abituata?! Alexander George Wood! Non è questo il modo in cui ti ho educato. Adesso questo, prima quei modi, la settimana scorsa. Eh, cosa i è preso? Perché fai così?» sbottò. «È tua moglie, la donna con cui passerai la tua vita. Per Dio, hai deciso tu di sposarla!» concluse.
Sorrisi amaro: una mia decisione?
Oh, no…
Ma non potevo dirglielo, non potevo recarle questo dolore.
«Nulla, mamma., sono solo stanco e a volta, erroneamente, me la prendo con lei anche se non fa nulla di male. Lo so, sbaglio,» anticipai, «ma sono fatto così.».
Lei sospirò «Beh, Alexander, prova a cambiare o per lo meno a farti perdonare» mi consigliò infine, in contemporaneamente all’arrivo di mio padre.
 

~
 

«Beh, Alexander, prova a cambiare o per lo meno a farti perdonare.»
Le parole di mia madre, quel tardo pomeriggio, continuavano a suonarmi in testa, alternandosi a quell’immagine e che già dal mattino mi passava per la mente.
Passeggiai per Chicago mentre tornavo a casa da lavoro e pensai che ero talmente stanco da non avere nemmeno voglia di vedere Elizabeth.
Non pesava tanto la stanchezza fisica, ma quella mentale dovuta alla situazione difficile, alle bugie, alle falsità, ai litigi.
Elizabeth, la mia Elizabeth.
Avevo conosciuto quella ragazza più di mese prima, ad un buffet indetto da uno dei medici primari dell’ospedale a cui eravamo stati invitati anche io e Regina.
Elizabeth era la figlia di Mark Sawyer, l’uomo che ci ospitava a casa sua, quella sera.
Appena la vidi ne rimasi affascinato: entrò in sala accompagnata dalle due sorelle maggiori, bellissima con i suoi capelli scuri e lisci raccolti da un lato che contrastavano col color smeraldo dell’abito che indossava.
La seguii con gli occhi mentre, timida, salutava delle conoscenze e chiacchierava con le sue amiche.
Quella sera mi fu presentata dal padre e scambiammo qualche parola. Niente di più, dopotutto mia moglie era a un passo da me.
Pochi giorni più tardi, per coincidenza, la incontrai nuovamente in ospedale e non potei non fermarmi per salutarla.
Quegli incontri casuali, divennero pian piano veri e porri appuntamenti, nascosti agli occhi di tutti, naturalmente, ma che non potevamo né riuscivamo ad evitare.
Era l’amore che ci spingeva uno accanto all’altra.
C’eravamo baciati, contro ogni regola avevamo fatto l’amore ed approfittavamo delle uscite dei suoi genitori o di Regina per incontrarci nelle nostre case e poter passare del tempo assieme, senza paura di essere scoperti.
L’amavo, sì, ma quella sera l’unica cosa che volevo era andare a casa, cenare ed andarmene a dormire.
«Sono a casa» mi palesai chiudendo la porta.
Lanciai un’occhiata alla cucina, passandole davanti e trovai Regina che posava dei piatti sul tavolo.
«Ciao» mi salutò.
«’Sera» ricambiai.
Preso da uno spirito di buona volontà, presi i bicchieri dalla credenza e la aiutai a finire.
«G-Grazie» balbettò guardandomi sorpresa.
Si portò una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio avvicinandosi a i fornelli per controllare la carne che stava cuocendo.
«Com’è andata oggi?» domandò.
«Uhm, bene» annuii prendendo l’acqua e il vino e versandomene un po’. «Tu… Hai pranzato da sola, oggi?» chiesi poi.
«Sì, certo» rispose girandosi un attimo per guardarmi confusamente.
«Oh. Avresti potuto… Invitare Eloise o Breanna. Andare dai tuoi genitori…» mormorai.
«Pranzo sempre da sola. Anche a cena, spesso. Non è un problema, non più. E loro hanno i propri mariti a cui badare» replicò seccamente. «Comunque, è pronto, mettiti a tavola» aggiunse.
Annuii, allontanandomi un attimo per lavarmi le mani prima di tornare in cucina e sedermi.
«Ehm… Cos’hai fatto questo pomeriggio?» domandai tanto per fare conversazione.
«Ho… Ho fatto la spesa. Volevo pulire un po’ casa ma è arrivata la signora Banaby. Se ne sarà andata via un quarto d’ora prima del tuo arrivo, non ne voleva sapere di tornarsene a casa» commentò infastidita.
Fastidio normale, dovuto alla signora in questione, famosa per la sua indole chiacchierona e curiosa.
«Oh, mi dispiace» sorrisi. «Ti ha detto qualcosa di interessante?» aggiunsi pur non reputando che la Miss in questione potesse parlare di argomenti per me interessanti.
«Nulla di ché, il solito. Janine Costance che è stata data in sposa a Micheal Finn, sua figlia che è incinta, domande indiscrete… Ah, ci ha invitati ad una serata, però. Uhm, sabato sera, a casa sua. Sinceramente non ho ben capito il motivo e a dir la verità credo che effettivamente non ci sia una giustificazione valida» concluse.
«Va bene» accettai.
«Va bene? Intendi dire che… ci andremo?»
«Sì,» annuii, «se vuoi.».
«Io… Sì, certo che sì» rispose.
Mi fissò per un lungo attimo , sorpreso dal mio intervento.
In effetti, avevo sempre trovato scuse per non partecipare a feste inutili , dove sarei stato costretto a fingere un affetto che non provavo, anche se ad alcune avevo dovuto presentarmi.
Continuammo a mangiare in silenzio, finché non fummo interrotti dal suono del campanello.
Entrambi ci girammo verso  l’entrata, come se potessimo vedere chi fosse alla porta dalla cucina.
Sospirai e mi alzai andando ad aprire la porta, incuriosito dalla visita a quell’orario decisamente inusuale.
«Sì?» chiesi alla donna alla porta, decisamente una cameriera.
Lei si guardò intorno prima di parlare «Signor Wood?» domandò, «Alexander Wood?».
«Sono io» annuii, sorridendo divertito dalla situazione.
Mi porse una busta «Sono una delle cameriere di casa Sawyer. La signorina mi ha chiesto di darla solo a lei e di dirle di leggerla assolutamente in privato» spiegò.
Aggrottai le sopracciglia ed annuii di nuovo, nascondendo la lettera nella tasca dei pantaloni.
«Buonanotte, signore» aggiunse la donna allontanadosi.
«Buonanotte» replicai, ancora confuso.
Rientrai in casa e chiusi la porta, curioso di leggere la lettera di Elizabeth.
«Chi era?» mi domandò Regina.
«Uhm, nessuno. Volevano delle informazioni…» inventai al momento.
Inarcò le sopracciglia perplessa «informazioni?».
Alzai le spalle, rimettendomi seduto senza continuare a mangiare: mi era passata la fame.
«Si è raffreddata?» domandò Regina indicando la carne sul mio piatto.
«No… Non ho molta fame. Sono molto stanco, vado a dormire» spiegai alzandomi.
«Già?» chiese sorpresa, «stai male?».
«No, sono solo stanco. Avevi ragione, questa mattina: dormo troppo poco» mormorai.
«O-ok. Beh, sì, vai, se sei stanco…» annuì, non sapendo cosa dire.
Mi chinai, posandole una mano sulla nuca e baciandole la fronte.
«A più tardi» la salutai, rialzandomi per andare in camera, lasciandola lì , sola e confusa per il mio comportamento atipico.
A dir la verità, ne ero confuso anch’io.
Una volta nella stanza matrimoniale, mi sedetti sul letto, tirando fuori dalla tasca dei pantaloni la busta portatami qualche minuto primo.
La aprii, prendendo il foglio che conteneva, vergato dalle parole di Elizabeth.
Ero pervado sa una strana agitazione, non ne capivo il motivo ma non mi piaceva quella situazione.
 
Caro Alex,
mi dispiace disturbarti ad un’ora così tarda. Speravo potessimo vederci, oggi per dirti di persona tutto questo, ma non abbiamo potuto.
Non importa, comunque.
A dir la verità, sì , mi importa lo sai che non sopporto il pensiero di tu e tua  moglie, ma… purtroppo è andata così.
Lo so, so che io ho qualcosa che lei non ha: il tuo cuore.
E credo… Credo di avere anche qualcos’altro che voi due ancora non condividete.
Un bambino.
Alexander, non ne sono ancora sicura ma credo davvero di essere incinta.
Vediamo al più presto, ti prego.
Ho bisogno di te.
Con amore,
Elizabeth

 
Incinta.
Un bambino.
Oh, no.
 

 



Ciao a tutte!
Scusate il ritardo ieri è stata una giornata un po impegnativa!
Impegnativa come lo è questao capitolo, ce parte dalla disperazione di Regina, passa ai rimproveri di Amelia e sembra concludersi con un Alexander un po' più gentile ma all'improvviso ariva un alettaera misteriosa.
E che lettera!
Cosa dite potrà succedere, adesso?
A presto!

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Capitolo 9
*** Egoismo e felicità. ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.

Capitolo IX: egoismo e felicità.

Alexander
 

«Cosa vuoi dire? Sei… Sei davvero…» balbettai indicando il suo ventre piatto.
«Non lo so. Io… Molti sintomi coincidono, ma non ne sono sicura al cento per cento, dopotutto noi due… Sarebbe presto per… Ma dovevo dirtelo! Oh, non ne sei felice? Sarebbe così bello! Un bambino tutto nostro, il frutto del nostro amore!» esclamò entusiasta venendomi vicino.
«Smettila! Come puoi parlare così?!» sbottai passando una mano a stringere i capelli.
«Ma… Perché…?»  mormorò intristendosi, guardandomi con gli occhi lucidi.
Sospirai cercando di calmarmi, iniziando a camminare avanti ed indietro per il salotto di casa sua, vuota dei suoi genitori.
«Elizabeth…» iniziai a tentare di spiegarmi nel modo più semplice possibile, «Non capisci cosa significherebbe, soprattutto per te, se tu fossi incinta? Saresti diseredata, e il bambino… Mio Dio!» ringhiai frustrato.
«Ma… Credevo ti avrebbe reso felice… È nostro. È… io e te» balbettò.
«Sì, certo, Beth! Ma… Maledizione, non pensi a te?! A cosa diranno i tuoi genitori?!»
«Non mi interessa, Alex! A me interessi solo tu!» esclamò abbracciandomi.
La strinsi a me, sospirando «Potrebbero… Potrebbero anche obbligarti a… a…».
«No, non lo farei mai. Me ne andrò! Ce… Ce ne andremo insieme! Cosa ne dici, Alex? Andiamo via, io e te, rifacciamoci una vita, lontani, insieme!» sorrise felice della sua idea.
«Andare via? Come faremo Beth? Non credo reggeremo molto…» scossi il capo.
«Oh, sì, invece, ne sono sicura! Pensaci, Alex! Chiudi gli occhi ed immagina: io, te, una nostra famiglia. Una casa nostra. Felici e liberi. Oh, Alexander, ti prego…!» sospirò estasiata con gli occhi chiusi ad immaginare un nostro futuro insieme.
E lo feci anch’io.
Chiusi gli occhi, fantasticai come un bambino. Vidi una casa, un giardino su cui giovano dei bambini. Io ed Elizabeth sorridenti. Una vita felice.
E Regina?
E i miei genitori?
Sarei stato in grado di dare loro tanto dispiacere, tanto disonore?
«Ti prego, Alex…»
Annuii.
L’avrei fatto.
Era ora di essere egoisti e pretendere la felicità. 

~

 
Guardai nei profondi occhi scuri di Aaron, mio amico d’infanzia.
Eravamo davvero cresciuti insieme, lui nacque solo un mese prima di me e le nostre famiglie abitavano una accanto a l’altra.
Quasi un fratello.
E tra fratelli ci si aiuta, no?
«Allora? Parla, Alexander! Mi stai facendo agitare, diavolo!» sbottò.
«È una storia lunga e… complicata. Ma ho bisogno del tuo aiuto» ripetei le parole che avevo mormorato per la prima volta sulla porta di casa sua, quando mi aveva aperto.
«Ho capito, Sarà la terza volta che me lo dici!» esclamò.
Annuii «Scusa, è che… Allora, ti devo raccontare tutto, dall’inizio. Da quando ho chiesto a Regina di sposarmi. La decisione la prese mio padre. Mi disse che la famiglia era in difficoltà economiche, che aveva bisogno di entrate o almeno di una sicurezza. Per farla breve, mi elencò alcuni nomi e io scelsi lei.  Credevo che in un modo o nell’altro potessimo essere felici ma… Non so. Forse non ci ho mai messo del mio, non c’ho mai provato. Poi… Poi conobbi Elizabeth. Elizabeth Sawyer. Lei…»
«Aspetta!» mi interruppe con gli occhi larghi, scioccati, «Non dirlo. Non dirmi che questa ragazza… Ti prego, Alexander…».
«Siamo diventati amanti, sì» ammisi, abbassando la testa non riuscendo a reggere il suo sguardo.
«Cristo santo, Alexander! Cosa diavolo ti è saltato in mente? Hai sposato una donna splendida, che… Dio, lo sai che ci sta male per come la tratti? Lo sai che va a casa di Eloise a piangere, le sere che tu non sei a casa? E dove andavi, uhm? A scoparti quella tipa? E a tua moglie? Ci hai mai pensato a lei? Che colpe ha? Rispondimi, cazzo!» urlò, alzandosi in piedi e diventando estremamente volgare a causa della rabbia.
«E io che colpe avevo? Lo so, lo so che non dovevo, ma…! Aaron, tu hai sposato la donna che ami da quando avevi dodici anni, io… Io…» non riuscii a continuare.
Mi presi la testa fra le mani e strinsi i capelli fra le dita, quasi a voler spremere il mio cervello dalla confusione che regnava al suo interno.
«È incinta,» mormorai, «è incinta e ho bisogno del tuo aiuto, dell’aiuto di un amico».
«Ti prego, dimmi che ad essere incinta è Regina e non…» sibilò.
«No, è Elizabeth» ammisi.
«Cristo!» esclamò risedendosi sul divano del suo salotto.
Restò in silenzio qualche secondo prima di continuare «Io cosa dovrei fare, uhm?».
«Voglio andarmene, Aaron. Vogliamo andarcene» mi corressi. «Ho solo… Ho solo bisogno che tu mi copra mentre me ne vado.»
«Che diavolo…? Cosa stai dicendo, Alex? Vuoi… andartene? Con lei? Con questa Elizabeth? E dove andrete? Come pensi di vivere? Cosa…?» disse veloce.
«Non lo so, non lo so! Ma non posso permettere che le facciano del male o… Non posso lasciarla sola. E… voglio la mia felicità, Aaron. Ti prego, amico mio. Ti giuro che, se vorrai, non mi farò mai più sentire, non mi vedrai mai più. Ma ti prego, aiutami quest’ultima volta» lo implorai.
«Come puoi chiedermi una cosa simile? Come puoi chiedermi di… di aiutarti nel recare un dolore simile a così tante persone? Perché non ci siete solo tu o lei, Alexander, lo sai, vero? Hai pensato ai tuoi genitori? A tua madre! Hai pensato a… Cristo, hai pensato a Regina?! Una donna il cui marito è scappato con la propria amante, che futuro può avere?» domandò, cercando di farmi riflettere.
«Sarà sicuramente più felice così che nello stare con me…» mormorai.
«Rischi di rovinare anche il mio matrimonio, lo sai? Se Breanna scoprisse tutto questo…» disse.
«Se non vuoi prenderti questo peso, dimmelo. Ti capirò, Aaron, e non ti vorrò mai del male. Ma dimmelo. Sì o no. O mi aiuti o… mi arrangerò» conclusi.
 Ci guardammo negli occhi.
Ricordi di un’infanzia insieme, di adolescenti che scoprono il mondo, di giovani che creano il proprio futuro.
Un patto col sangue, all’età di nove anni.
«Ce lo siamo promessi, Alexander. Spero solo che questo sia davvero il meglio per te. Dimmi cosa devo fare.»
Un altro sì.
L’ennesimo che mi portava sempre più vicino ad un futuro felice.
 

~

 
Aprii la porta di casa e subito la voce di Regina mi chiamò: «Alex? Sei tu?».
«Sì, sono tornato» mi palesai entrando in cucina, dove la trovai come sempre al mio ritorno, ai fornelli.
«Buonasera. Com’è andata, oggi?» chiese, voltandosi a guardarmi sorridente.
Non riuscii a reggere molto il suo sguardo, consapevole del dolore che le avrei provocato di lì a poco.
«Bene, al solito» annuii.
Parlò nuovamente dopo pochi secondi di pausa «mi sono informata a proposito della festa di sabato! È una serata di beneficenza» spiegò.
Sabato?
Annuii, ricordandomi della chiacchierata della sera scorsa prima di…
Prima della lettera, prima di tutto.
«Oh, è pronto. Vieni, su» disse.
«Mi lavo un attimo le mani. Arrivo subito» mormorai.

«Hai pensato a Regina?! Una donna il cui marito è scappato con la propria amante, che futuro può avere?»
«Sarà sicuramente più felice così che nello stare con me…»

Sì, starà solo meglio.
Sì.
 

~

Tutto era organizzato.
Alla domenica mattina, all’alba, una carrozza avrebbe portato me e Elizabeth il più lontano possibile da Chicago.
Ma sempre più vicino alla nostra felicità.
              
                                                                                                                                                           

Eccomi qui!
Ormai non ci speravate più, uhm?
Probabilmente neanche vi eravate accorte che è giovedì e ancora non ho postato, ma non me la prendo, cioè è normale! ;)
Comunque, capitoletto breve ma sconvolgente, no?
Molte di voi, perlomeno, speravano in una presa di coscienza di Alexander, in un suo riavvicinamento con Regina in qualche modo e invece...
Ha scelto diversamente, ha voluto essere egoista forse a torto, forse a ragione.
Cosa avreste fatto voi, nei suoi panni, nei panni di quell'epoca, soprattutto.
Nel 2012 una cosa del genere sconvolge poco, ormai! Purtroppo, aggiungerei.
Ed Aaron? 
Scelta giusta o sbagliata, la sua?
Grazie per continuare a seguirmi, è sempre una gioia trovare le vostre recensioni, le vostre visite e le vostre aggiunte!
Un bacio,
a presto!

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Capitolo 10
*** Amore e senso di colpa. ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.
Capitolo X: amore e senso di colpa.
Regina
 
Non credevo vero che un giorno mi sarei trovata di nuovo eccitata nei preparativi personali per una festa.
Non ero esattamente una persona piena di spirito festaiolo, ma da quando eravamo sposati, io ed Alexander avevamo partecipato a pochissime feste, giusto un paio a cui eravamo stati costretti perché invitati personalmente.
Era sempre mio marito a tirarsi indietro ed io non potevo di certo presentarmi da sola.
Così quando aveva accettato per quel sabato, mi ero riempita di gioia.
Presi dall’armadio il mio vestito migliore, composto da una sottoveste di un delicato colore verde acqua coperta da un velo trasparente decorato da ricami in pizzo, e lo appoggiai sul letto mentre prendevo le scarpe e alcuni accessori abbinati.
Mi spogliai della vestaglia restando in intimo e calze e mi coprii subito indossando la mise di quella sera.
Guardandomi allo specchio, sistemai la fascia di seta che avvolgeva la vita e decisi di sistemare i capelli raccogliendoli.
«A che punto sei?» chiese Alex entrando.
«Sono pronta» sorrisi, prendendo dalla poltroncina vicino all’armadio la borsetta e uno scialle.
«Allora possiamo andare» replicò scendendo le scale.
Lo seguii mentre chiudevamo casa prima di uscire.
Ci incamminammo verso la non troppo lontana casa della famiglia Barnaby, notando anche altri uomini e donne diretti nella nostra stessa direzione.
Sorpassammo il cancello della villetta tenuto aperto e approfittammo della coppia davanti a noi per entrare senza suonare nuovamente il campanello.
 
~
 
Alexander
 
Aaron non mi guardava.
Sapevo bene che dentro lui si stava combattendo una guerra che, vinto o sconfitto, l’avrebbe fatto stare male comunque.
Aiutare me avrebbe significato andare contro sua moglie e la sua amica. Lasciarmi al mio destino significava dimenticare un fratello.
Mi odiavo.
Mi odiavo per il dolore che recavo a lui adesso, per quello che in un futuro molto vicino avrei recato alla mia famiglia, a Regina, ai miei amici.
Scossi il capo, attirando l’attenzione di mia moglie.
Moglie.
«Cosa c’è?» mi chiese lei infatti.
«Nulla, nulla» negai cercando di sorriderle.
Annuì, accarezzandomi una spalla.
«Oh, chi è quella ragazza lì in fondo? Indossa un vestito meraviglioso, non trovi?» continuò guardando dalla parte opposta della stanza.
«Chi, Regina?» mi finsi interessato.
«La signorina dai capelli neri, lì in fondo. Col vestito blu» spiegò meglio.
Guardai in quella direzione alla ricerca dei dettagli che mi aveva segnalato e mi irrigidii quando capii chi intendeva lei.
Il destino era beffardo, spesso. Molto spesso.
Elizabeth, dai lunghi capelli neri, indossava quel vestito blu che aveva colpito Regina.
«Oh…» sussurrai.
«Sì? Sai chi è?» mi chiese voltandosi a guardarmi bene in viso.
Coprii in fretta la mia agitazione, sorridendole leggermente mentre deglutivo la mia ansia.
«Io… Uhm, sì, credo di saperlo. Se non sbaglio, dovrebbe essere la figlia di un mio collega, Mark Sawyer» spiegai tentennando.
«Oh, ho capito» annuì continuando a guardarla.
«Dai, smettila di guardarla, non è educato, lo sai» mormorai.
«Hai ragione. Uhm, ma quella non è Breanna? Con Aaron? Perché non andiamo a salutarli?» domandò cambiando la direzione del suo sguardo.
«Certo» annuii ancora teso.
Ci avvicinammo ai nostri amici e notai senza sorprendermi troppo le reazioni totalmente diverse che presero possesso dei due.
Aaron si oscurò in volto, Breanna mostrò con gioia la sua felicità nel vedere la propria amica.
«Regina, tesoro! Non vi avevo visti!» esclamò la ragazza abbracciando mia moglie.
Lei rise leggermente ricambiando l’abbraccio, «non importa. Oh, non ci vediamo da così tanto tempo!».
«È vero, difatti avevo pensato di venirti a trovare nei prossimi giorni!» aggiunse Breanna.
Smisi di ascoltare la loro conversazione e mi voltai a guardare Aaron.
I suoi occhi erano fissi sulla moglie e cercavano senza dubbio di evitarmi.
«Aaron» mormorai a mo’ di saluto.
«Alexander» ricambiò.
Un ammirevole scambio di saluti tra amici d’infanzia.
Sospirò e mi fece un cenno col capo per chiedermi di allontanarci.
Lo comunicai alle nostre signore e infine ci spostammo verso un’area più riparata al di fuori, nel giardino.
«Dimmi» dissi una volta sistemati.
«È tutto pronto. Ma tu… ne sei davvero certo? Sei sicuro di volerlo fare?» domandò per l’ennesima volta.
«Sì, Aaron. Sì, ne sono certo» risposi.
Sospirò sfregandosi la fronte con una mano. «Va bene. Cioè, no, non va bene, ma… Hai capito» concluse.
«Sì. Aaron, tu… Grazie. Non so davvero cosa fare per ringraziarti» mormorai.
«Lo so. Spero solo tu possa essere felice, Alexander. Almeno questo» concluse guardandomi negli occhi.
«Sarà così. Anche se non succederà mai… Vorrei davvero tu riuscissi a perdonarmi un giorno» sussurrai.
«Vorresti che io ti perdonassi o che lo faccia Regina? O anzi, speri che tu stesso riuscirai a perdonare le tue colpe?»
 
~
 
Rientrai in casa da solo, mentre Aaron aveva desiderato qualche minuto in solitudine.
Mi guardai intorno, alla ricerca di mia moglie che trovai, infine, nel posto meno gradito.
Con Breanna, con Elizabeth.
Con Elizabeth.
Strinsi i denti e mi passai una mano tra i capelli, cercando di respirare profondamente mentre mi avvicinavo a loro.
«Alex, dove hai lasciato mio marito?» mi domandò sorridendo Breanna.
«Ha voluto rimanere ancora qualche minuto fuori, sai, l’occasionale vizio di una sigaretta» replicai.
«Oh, no, odio la puzza di fumo!» esclamò contrariata la ragazza.
Regina sorrise alzando gli occhi verso di me mentre si stringeva al mio braccio.
Finsi un sorriso a mia volta, sentendo gli occhi di Beth su di me.
«Alex, lei è Elizabeth Sawyer, dicevi di conoscere suo padre, giusto?» ci presentò sua moglie.
Oh, Dio.
«S-Sì. Molto piacere, signorina Sawyer» mormorai prendendo la mano che mi offriva per baciarne il dorso.
La sua mano piccola, liscia e morbida, che conoscevo alla perfezione.
«Anche per me, signor Woods» ricambiò con voce vergognosa.
La stessa vergogna che vedevo nei suoi occhi  mentre mia moglie le sorrideva e conversava con lei, ignara del segreto che correva tra di noi.
Ignara di quello che sarebbe successo quella sera, dopo poche ore.
L’arrivo di Aaron complicò ancora di più le cose.
«Puzzi» scherzò sua moglie quando lui la prese a braccetto, facendoci sorridere.
«Tesoro, non essere così dolce!» rise.
Ma la sua risata venne a spegnersi gradualmente nel notare la mia rigidità e alla presentazione della ragazza di fronte a me.
«Oh, molto piacere, signorina» le disse baciandole la mano.
«Piacere mio» replicò lei cercando di sorridere nuovamente. «Ora… Scusate, devo cercare mia sorella» riprese congedandosi.
«Certo. È stato un piacere fare la vostra conoscenza, Elizabeth» disse mia moglie.
«Anche-anche per me, Regina. Mi scusi. Scusate…» aggiunse prima di andarsene.
Non ho mai capito se quell’accenno di scuse fosse per congedarsi o fosse rivolto a mia moglie per gli avvenimenti che si sarebbero svolti di lì a poco.
 
~
 
«Che lunga serata!» esclamò Regina entrando in casa.
Chiusi la porta alle sue spalle. «Davvero lunga…» commentai stanco.
Mi strinse la mano sorridendomi «andiamo a dormire, allora».
«Sì, andiamo» annuii.
Salimmo al piano superiore, arrivando alla nostra stanza.
Ci cambiammo d’abito, indossando la biancheria da notte e infilandoci sotto le coperte.
«Regina, tu… sei felice?» chiesi all’improvviso.
«Come, scusa? Cosa intendi, Alexander?» domandò voltandosi verso di me.
«Sei… felice? Sei soddisfatta di questa vita?» mi spiegai meglio.
«Alex, io… Sì, insomma… Ci sono dei momenti un po’ così, forse, ma… Io ti amo, Alexander, comunque» rispose avvicinandosi al mio corpo per accarezzarmi una guancia.
«…mi ami?» ripetei col senso di colpa che pesava sul cuore, il mio cuore che non aveva mai provato qualcosa di così forte nei suoi confronti.
«Sì, sei mio marito e ti amo» sussurrò avvicinando il viso al mio per lasciarmi un dolce bacio sulle labbra.
«Perché,» riprese appoggiandosi al mio corpo, «tu non mi ami, forse?».
No.
«Sì, certo» mormorai con un esile filo di voce.
Mi lasciò un ultimo bacio sulla guancia, prima di augurarmi una buonanotte.
Ricambiai, sperando che per lei lo fosse davvero.
Non dormii nemmeno pochi minuti.
Restai sveglio tutta la notte, col cuore che batteva a mille in attesa dell’alba
Quando arrivò l’ora giusta mi alzai dal letto cercando di fare meno rumore possibile.
Mi cambiai, presi il borsone con alcuni vestiti che mi ero preparato precedentemente e guardai per un’ultima volta mia moglie.
Le accarezzai leggero una guancia, osservando il suo viso tranquillo.
«Mi dispiace» sussurrai al buio, scuotendo il capo.


Abito Regina : http://www.polyvore.com/cgi/set?.locale=it&id=53731996



So che molte di voi speravano in un cambiamento improvviso: mi dispiace.
Allo stesso modo so come vi arrabbierete per quest'ultima falsa dichiarazione di Alex, quel «Sì, certo» che sottointendeva un "ti amo" che come però sapete, non prova realmente.
E cos'altro poteva dirle?
Vi aspetto nelle recensioni (spero), altrimenti sabato nello spoiler e per ultimo giovedì prossimo con l'aggiornamento!
Grazie per seguirmi, leggermi...
A presto, un bacio!

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Capitolo 11
*** La pazzia dell'incredulità. ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.
Capitolo XI: La pazzia dell'incredulità.

Regina


Mi girai dall’altro lato, cercando di voltare soprattutto il viso perché non venisse più colpito dai raggi del sole mattutino che entravano dalla finestra.
Ormai con la mente al lavoro, non riuscii più a riprendere il sonno e, incapace da sempre di rimanere a poltrire tra le coperte, aprii definitivamente gli occhi.
La prima cosa che mi colpì fu l’assenza di Alexander accanto a me. La sua parte di letto era vuota, scomposta e fredda.
Mi misi seduta, aspettandomi di trovarlo al piano inferiore a fare colazione, e mi infilai le ciabattine e la vestaglia.
Mi alzai e mi diressi in cucina, «Alex?».
In risposta, solo silenzio.
«Alexander? Dove sei?» riprovai.
Nulla, ancora.
Lancia un’occhiata all’orologio appeso al muro che segnava le otto passate.
Mi convinsi fosse uscito per una colazione con Aaron, come era già capitato in passato, o qualcosa del genere.
Preparai la mia colazione e mi accinsi a consumarla, programmando per il mattino un giro al mercato domenicale.
Quando ero bambina era diventata quasi una tradizione per la mia famiglia quella di uscire tra le bancarelle.
Io ero sempre così contenta!
Aspettavo con trepidazione l’ultimo giorno della settimana, quando mi veniva sempre comprato qualcosa che fosse un vestitino o solo un dolcetto.
Col tempo ero cresciuta e seppur la tradizione fosse rimasta, i miei genitori non badavano più a sciocchi acquisti prediligendo invece le relazioni pubbliche. Pettegolezzi, più che altro.
Oh, il mercato era il fulcro delle notizie!
 
Vestita semplicemente, uscii di casa e mi incamminai verso la piazza.
Le prime bancarelle si fecero vedere sperse qua e là ad anticipare l’ammasso di commercianti che dalle prime ore del giorno erano arrivati per accaparrarsi il posto migliore.
Come i commercianti, iniziarono a farsi vedere anche i primi gruppi di persone, chi fermi a chiacchierare, chi facendo spese.
Salutai qualche conoscenza qua e là, fermandomi qualche secondo accanto alla signora Grey, la vicina di casa di mia madre, che mi aveva prontamente fermata appena mi aveva vista passare lì vicino.
Dopo alcuni convenevoli a proposito della mia vita da sposata e degli acciacchi della donna, ero decisa ad andarmene per continuare in tranquillità il mio giretto sennonché un pettegolezzo partito da una delle amiche di Mrs Grey mi fece arrestare.
«Hai sentito della giovane dei Sawyer? Il dottore e sua moglie sono quasi impazziti, ho sentito!»
«Cosa? No, non so niente. Cos’è successo?!» intervenne Mrs Grey.
«Non lo sai?!» strillò l’altra, sorpresa. Poi, con un tono più basso e cospiratore, ma eccitato dal poter raccontare la notizia, aggiunse: «È scappata! Questa mattina non l’hanno trovata in camera! Ho sentito che forse è scappata con un uomo, capisci?!».
Spalancai la bocca a mia volta, scioccata. «Figlia del dottore Mark Sawyer? Quale delle tre?» intervenni.
«La più giovane, Elizabeth, se non sbaglio» mi rispose la donna.
Mi portai una mano alla bocca. «Mio Dio, l’ho conosciuta ieri sera, da Mrs . Non posso crederci, sembrava una ragazza così a modo!»
«Infatti, infatti. L’amore, dicono! Bah! I genitori, dicevo, sono impazziti, hanno perlustrato la casa e una volta non trovata nemmeno lì, sono usciti in strada urlando il nome della figlia. Urlando! Lo so bene, io, che abito lì di fronte…» continuò a raccontare.
Persi il seguito delle sue parole, distratta dai miei pensieri.
Quella ragazzina, che sembrava così timida e dolce, era fuggita con un uomo.
Non provai nemmeno a immedesimarmi nei suoi genitori, ovviamente increduli e pazzi di dolore per la figlia.
«…Era promessa, e a quanto pare questo ragazzo proprio non le andava giù. La sua domestica personale è stata licenziata in tronco, sembra sapesse cosa voleva fare! Ho sentito anche dire che è stata picchiata dal dottore in persona perché non voleva rivelare il nome dell’amante. Ma ti rendi conto, queste donne! Le ospitiamo nelle nostre case perché si occupino di esse e delle nostre figliolette e loro si sporcano le mani e pretendono di…»
Feci una smorfia, allontanandomi velocemente.
Una fuga d’amore.
Una romantica pazzia da innamorati che desideravano con tutti sé stessi passare la vita insieme.
Come un romanzo ottocentesco.
Sospirai, in disaccordo con me stessa. La parte di me che credeva fermamente nell’amore e nel famoso “per sempre felici e contenti” condivideva la scelta dei fuggiaschi; l’altra parte, però, la parte di donna sposata che conosceva la società, diceva che un comportamento del genere era inaccettabile.
Le campane della chiesa rintoccarono undici volte e mi decisi a tornare a casa per prepararmi al settimanale pranzo domenicale a casa dei miei genitori.
Una figura di spalle sull’uscio di casa mia mi fece sorridere, pensando potesse trattarsi di Alexander che, come capitava spesso, poteva aver dimenticato le chiavi a casa.
Ma, avvicinandomi, notai che la corporatura non assomigliava nemmeno lentamente a quella di mio marito.
«Scusi, posso aiutar…? Oh, Aaron, sei tu!» sorrisi sollevata, quando questo si girò, al mio parlare.
«Regina. Regina, sei arrivata…» mormorò.
«Ehm, sì, ero al mercato. Cosa c’è, Aaron? E Alexander? Oh, credevo fosse uscito con te…» dissi velocemente, aprendo la porta di casa e facendogli cenno di entrare.
«Alexander. Alexander, lui… Regina, io devo parlarti» disse piano.
La voce bassa, incerta. Sembrava pazzo.
«O-ok, Aaron, dimmi. Vuoi qualcosa da bere, intanto?» domandai facendogli strada verso la cucina.
«No, no. Niente da bere. Siediti che ti devo parlare di Alexander, io, sì…»
«Va bene, dimmi. Mi stai facendo preoccupare, però.»
«Eh, sì, lo so. Alexander… Lui è venuto da me, ieri. Non ho potuto dirgli di no, capisci, Regina? È quasi un fratello per me. Non sapevo cosa fare…» iniziò a parlare.
«Ehi, ehi, Aaron, fermo. Rallenta, non capisco! Cos’è successo? Dov’è Alexander?» chiesi con voce tremante.
Adesso ero seriamente preoccupata.
«Lui… Lui è andato via, Regina. Mi dispiace. Mi dispiace… E io l’ho aiutato a scappare.»
 
~
 
«S-scappare? Dove… Dov’è mio marito, Aaron? Dov’è?!» urlai, infine.
«Non so dove sia. Io… È venuto da me, mi ha raccontato tutta la storia e… mi ha implorato di aiutarlo… Scusami, Regina…»
«La storia…?»
«La storia. Lei è incinta e loro dovevano andare via, capisci? Lei è incinta…» sussurrò.
La mia mente non riusciva a capirla, quella parola.
Incinta.
Incinta.
Incinta.
Chi?
Le mie corde vocali riuscirono a pronunciare quella domanda.
«Elizabeth, Elizabeth, la sua… la sua amante. Mi dispiace, Regina. E io l’ho aiutato. Scusami, mi dispiace» ripeté.

«È scappata! Questa mattina non l’hanno trovata in camera! Ho sentito che forse è scappata con un uomo, capisci?!».

La mia mente non riusciva a creare un pensiero di senso compiuto.
Solo parole, immagini e spezzoni di discorsi.
In sottofondo, i singhiozzi di scuse di Aaron.
«Vai via, Aaron. Vattene a casa.» mormorai.
«Scusami, Regina, scusami. Non sapevo cosa fare, è come un fratello. Scusami, mi dispiace…» sussurrò.
«Vattene, ho detto, esci da questa casa! Vai via!!» urlai scattando in piedi. Afferrai una manica della sua giacca e la tirai verso l’alto, per farlo levare in piedi.
Ovviamente la mia forza non servì a nulla, ma lui si alzò comunque.
Si guardò un po’ intorno, poi infinilò una mano nella tasca interna della giacca e posò una busta sul tavolo; infine, ripetendo le sue scuse a testa bassa, uscì.
Non avevo tempo per preoccuparmi di lui, dell’immagine che avrebbe dato per strada: un uomo matto, che ripeteva delle scuse al vento, gli abiti spiegazzati, forse gli stessi della giornata scorsa.
Corsi al piano superiore, verso la nostra camera da letto e spalancai le ante dell’armadio.
Trovai la maggior parte dei suoi abiti, ma non tutti.
Aprii i cassetti del suo comodino, con tanta furia da estrarli del tutto, talmente leggeri a causa del nulla che li riempiva.
Vuoto, vuoto.
Era vero.

«La storia. Lei è incinta e loro dovevano andare via, capisci? Lei è incinta…»

Incinta. Incinta.

No, non poteva essere vero, doveva essere un incubi.
Da lì a poco mi sarei svegliata dal sonno, con Alex al mio fianco.
Sì, doveva essere così.
Chiusi gli occhi e mi pizzicai un braccio convinta di svegliarmi.
Li riaprii trovandomi ancora, come una stupida, in piedi. A terra dei cassetti rovesciati, il letto sfatto.
La sua parte di letto fredda, gelida.

«Perché, tu non mi ami, forse?».
«Sì, certo»

Urlai, un suono colmo della mia disperazione e del mio dolore.
Un amore fasullo, il suo per me.
Amava un’altra.
Amava Elizabeth. Incinta.
Crollai per terra, distrutta.
Sola.





L'ovviamente comprensibile disperazione di Regina, causata dall'incredulità, dal palco del suo matrimonio fatto di bugie che crolla sotto ai suoi piedi, facendole vedere i retroscena.
Aaron a sua volta spezzato sotto il peso delle responsabilità dell'aiuto dato al suo amico.
Tante persone ferite a causa dell'amore tra Alexander ed Elizabeth.
Alla prossima, ragazze!

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Capitolo 12
*** Verità. ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.


Capitolo XII: verità.
Alexander
 
Elizabeth dormiva con la testa appoggiata alla mia spalla.
Era talmente stanca da non svegliarsi a causa del rumore del treno. Viaggiavamo da giorni, ormai, dormendo in strette cuccette e mangiando cibo non esattamente di ottima qualità. I miei –pochi- viaggi in treno, li avevo sempre passati in prima classe, ero abituato a servizi più efficienti che non erano offerti alla classe più economica in cui viaggiavamo a causa della scarsità di denaro.
Fortunatamente, eravamo all’ultimo treno di quella fuga programmata rapidamente; il confine dello stato dell’Illinois con quello dell’Indiana distava solo poche miglia e avremmo dovuto percorrerne giusto qualcuna in più per arrivare alla città di Whiting, dove ci saremmo fermati stabilmente.
Un altro stato, sperando possa essere abbastanza per non farci trovare dalle nostre famiglie che, ormai,
dovevano essersi sicuramente accorte della nostra assenza.
Aaron doveva persino aver già avvisato Regina.
Regina.
L’immagine di lei, appoggiata al lavandino in una posa stanca e frustrata, ripassò per la mia mente.
Lei, come mia madre, mio padre…
Cosa avevo fatto?
Ormai non era più il tempo di farsi questa domanda, però.
Un movimento al mio fianco mi distrasse.
«Buongiorno…» mormorai ad Elizabeth mentre apriva gli occhi.
«’Giorno…» mi sorrise, sistemando meglio il capo sulla mia spalla e legando il suo braccio al mio.
Questa sarebbe stata la mia nuova vita.
La donna che amo, nostro figlio.
Cosa potevo volere di più?
 
~
 
Regina
 
Il foglio sopra al tavolo ormai era stropicciato e presentava qualche macchia a causa delle lacrime che aveva provocato la sua lettura.
Era passata per diverse mani: le mie, quelle di mio padre, mia madre, i miei suoceri.
In quel momento, era appena stata lasciata malamente sul tavolo da un furioso dottor Sawyer.
I genitori di Elizabeth si erano presentati a casa mia pochi minuti prima, dopo diversi giorni dalla fuga di mio marito e la loro figlia.
Diversi giorni, ma quanti esattamente? Quattro, forse cinque? Forse una settimana, non mi interessava.
Passavano tutti uguali: mi svegliavo dopo una media di tre ore di un sonno travagliato, mi vestivo e nella giornata accoglievo mia madre, al massimo Eloise che venivo a trovarmi per accertarsi che mangiassi qualcosa e che non passassi tutto il giorno a piangere o che non commettessi qualche pazzia.
Loro parlavano, raccontavano frivolezze mentre io me ne stavo seduta a guardare fuori dalla finestra con sguardo lontano, senza vedere davvero qualcosa.
La mia mente era un intruglio grigio dato che con difficoltà intercettava qualche suono, qualche parola, qualche immagine, ma le dimenticava in fretta.
«Ma… Quindi? Cosa… Dove sono? Oddio, non ce la faccio più… Dov’è la mia bambina?» singhiozzò Ladonna Sawyer, guardandoci con una preghiera negli occhi.
Come se noi avessimo potuto risponderle!
«La polizia di Chicago sta lavorando, ma per ora nessuna notizia» replicò mio padre.
Fortunatamente i miei genitori si trovavano qui quando sono arrivati i Sawyer.
Io non parlavo.
Forse è sabato, pensai. O domenica…
«Come diavolo possono essere scappati?!» sibilò il dottore, stringendo i pugni, appoggiati sopra al tavolo.
«Oh, qui posso risponderti, Mark.» replicò mio padre, «Hanno programmato tutto per bene, senza dubbio. Hanno prenotato una carrozza perché passasse all’alba e li prelevasse. La destinazione che avevano dato all’agenzia era Bronzeville, un quartiere dell’area di Douglas[1]. La polizia del posto non ha trovato traccia dei due, adesso cercano nelle vicinanze…» spicciolò le uniche notizie in nostro possesso.
Inclinai la testa, quindi è già passata una settimana?
«Ladonna, dobbiamo interrogare nuovamente quella sgualdrina della domestica. Maledetta donna, a causa della sua inefficienza ci troviamo in questa situazione. Sotto il nostro tetto! Appena troverò mia figlia le farò passare delle brutte ore, la chiuderò in casa, te lo giuro, Ladonna. E non ti provare a metterti in mezzo. Dobbiamo ancora gestire la situazione con gli Harris, cosa potrò dire a quella famiglia, a quel ragazzo?» si sfogò il medico.
«Troverai un modo, Mark. Ora se hai finito ti prego di lasciare in pace mia figlia. Anche noi abbiamo le nostre situazioni da gestire» replicò mio padre seccamente.
Sono io, la situazione da gestire?
«Certo, certo. Un ultima cosa, però. Tu,» abbaiò verso di me, «come hai fatto a non accorgerti mai di niente?!».
Volsi piano la testa verso di lui, guardandolo ma senza vederlo veramente.
«Mark, non ti permettere di rivolgerti in questa maniera a mia figlia. Lei non ha sicuramente colpe. Potrei chiedere alla stessa maniera come avete potuto non notare che vostra figlia frequentava un uomo, oltretutto seducendolo sotto il vostro stesso tetto» ribatté papà.
«Incinta…» mormorai.
I loro volti si girano a guardarmi e le loro espressioni diventarono compassionevoli.
Non ci feci caso, mi allungai a prendere la lettera tra le mani e la rilessi per quanto la sapessi già a memoria…
 
 
Cara Regina,
voglio iniziare questa lettera già scusandomi.
Ti prego davvero, perdonami. Mi dispiace.
Non ho mai avuto davvero la cattiva intenzione di farti del male, di rovinare la tua vita, mai.
Ammetto di non essermi mai comportato bene con te, dall’inizio di tuta questa storia.
Voglio che tu capisca che non ho mai voluto sposarmi, ma ho dovuto, mio padre mi mise alle strette una sera…
Ti prego, scusami.
Lo ripeterò all’infinito anche se so che mai arriverà il tuo perdono.
E come potresti?
Mi sono posto male fin dall’inizio di questa vita insieme, non ho mai provato ad accettare il matrimonio e ho rovinato tutto.
Sei una donna meravigliosa, non dubitarne mai un secondo.
Maledicimi ed odiami, una parte di me prova gli stessi sentimenti verso me stesso.
Quella parte, però, è contrapposto al lato di me che ama Elizabeth, che vuole proteggere il bambino che porta in grembo ad ogni costo.
So che è difficile comprendermi, ma prova ad immaginare… Cos’altro avrei potuto fare?
Chiederle di abortire?
No, mai.
Scusami, Regina, scusami.
Voglio raccontarti però com’è andata, è giusto che tu lo sappia.
Incontrai Elizabeth ad uno dei ricevimenti di suo padre, il dottor Sawyer.
Quella sera mi aveva affascinato ma il pensiero di farne diventare la mia amante nemmeno mi aveva sfiorato, te lo giuro.
Non mi sfiorò nemmeno uno dei giorni seguenti, quando per caso la incontrai in ospedale o quando le diedi appuntamento per un caffè.
Te lo giuro, non era mia intenzione tradirti.
Non so cosa iniziò a combinare il mio cuore, per una volta in accordo con la mia mente, portandomi a frequentare quella ragazza.
Io me ne sono innamorato, Regina, e mi dispiace dirtelo e provocarti dolore.
So che tu provi dei sentimenti per me che però io non ho mai ricambiato.
Ho rovinato la tua vita e non me lo perdonerò mai.
Scusami.
 
Con affetto,
Alexander Woods.
 
~
 
«Vuoi tu, Regina, prendere il qui presente Alexander Davidian Woods come tua sposa, promettendo di essergli fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarlo ed onorarlo tutti i giorni della tua vita?»
No.
 
 
 
~ ~ ~

Eccomi qui!
Spero avrete tutte letto l'avviso che avevo messo nel mio blog, dove vi avvisavo di questo ritardo!
Ripeto le mie scuse, mi era stato detto che il computer sarebbe stato ad aggiustare solo un paio di giorni, ma questi si ono rivelati "un paio di settimane"!
Consideratele la mia pausa estiva, dato che non andrò in vacanza e credo non si creeranno più questi ritardi. Spero!
Comunque, cosa ne dite di questo capitolo?
Sinceramente, sono davvero contenta di come sia venuto.
Grazie per seguirmi,
a presto!

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Capitolo 13
*** Cambiamenti. ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.


Capitolo XIII: cambiamenti.
Regina
 
Girai con due dita la pagina delicata ed ingiallita dell’ennesimo romanzo che stavo leggendo per svagarmi e per cercare di cacciare la noia.
O forse solamente per pensare ad altre storie, ad altre avventure più emozionanti della mia vita, in cui i protagonisti di turno arrivavano al tipico lieto fine che da ragazzina mi aveva tanto fatto sognare.
Un lieto fine che il giorno del mio matrimonio credevo di aver raggiunto in prima persona, sposandomi con un uomo bellissimo che amavo, un uomo che credevo ricambiasse i miei sentimenti e con cui immaginavo una vita serena e felice nel crearci una famiglia tutta nostra.
Bambini con i suoi riccioli neri che correvano per casa.
Invece, dalla parte della protagonista, ero passata ad essere comparsa nella mia stessa vita.
Mio marito scappato con la donna che davvero ama, da cui aspetta un figlio; io, rimasta nella nostra casa, preda dei pettegolezzi e delle male lingue, delle occhiate compassionevoli e derisorie.
Chiusi di colpo il romanzo, sollevando quell’odore indescrivibile, caratteristico dei vecchi libri non aperti per anni, rimasti chiusi in una cassapanca: quel misto di legno, carta e polvere.
Lo posai sul tavolino accanto alla poltrona su cui ero seduta, e lasciai ricadere la testa all’indietro chiudendo gli occhi.
Avrei così tanto voluto riaprirli e tornare alla mia vita passata.
Quando ancora mia madre mi parlava di uomini e cene per farmeli conoscere.
Il suono leggero del campanello mi distrasse da quei pensieri irrealizzabili e sollevai il viso.
Convinta fosse mia madre, ormai abitudinariamente qui a casa mia per controllare il mio stato, tentennai per andare ad aprire.
Al terzo suono del campanello, però, sbuffai alzandomi.
Aprii la porta e rimasi sorpresa nel trovare qualcuno che, con mia madre, non aveva la minima somiglianza.
«Breanna?» la chiamai, talmente sorpresa di vederla lì davanti a me.
Non si era mai fatta vedere in quelle settimane; secondo Eloise si vergognava troppo del contributo di suo marito alla fuga del mio.
«Regina, ti prego… Io… Quando Aaaron mi ha detto… non sapevo cosa fare. Ti prego, dammi entrare, amica mia» mormorò con gli occhi lucidi e le mani stratte attorno alla borsetta marrone.
Risposi solo con un cenno, scostandomi dalla porta per farla passare. Appena chiusi la pota lei mi arrivò più vicina e mi abbracciò forte, ripetendo come una litania il suo dispiacere.
Dimentica degli sbagli di suo marito, ricambiai la sua stretta.
«Non hai fatto niente di male, Breanna. Calmati, su» provai, accarezzandole la schiena.
«Lo so, ma se solo avessi capito…» singhiozzò.
«…Saresti stata dalla mia parte, lo so. Ssh, dai vieni, andiamo in cucina. Preparo un the, che dici? Vieni, su…» tentai di sciogliere quella stretta quasi asfissiante.
Mi lasciò solamente per portarsi le mani a coprire il viso, le spalle ricurve sotto il peso del senso di colpa. «Certo che ti avrei aiutata» annuì, prima di seguirmi in cucina.
Le feci cenno di accomodarsi mentre io mi dirigevo ai fornelli per mettere a scaldare l’acqua i nun pentolino e tirare già fuori due bustine di the, alimento che ultimamente non mancava mai nella mia dispensa dato che ne bevevo moltissimo per provare a calmarmi e sistemare lo stomaco che non riusciva più ad accettare molti cibi. Poca fame e conati di vomito avevano mio malgrado caratterizzato alcune mie giornate.
«Come stai?» domandò all’improvviso.
Sorrisi ironica. «Che domande fai?»
«Giusto, sì, hai ragione. È solo che Eloise mi ha raccontato dell’ultima volta in cui è venuta a trovarti e… non so cosa dire…» balbettò.
«Smettila, Breanna. Dovreste smetterla tutti. Mio marito tre settimane fa è scappato da questa casa, mi ha lasciata per un’altra donna da cui aspetta un bambino, punto. Questa è la storia e sono stufa di ripeterla. Vuoi sapere come sto? Sono stanca, ecco. E arrabbiata, stanca e arrabbiata. Dormo poche ore a notte, grazie a delle medicine, mia madre viene a trovarmi come minimo una volta al giorno per rassicurarsi che non commetta qualche pazzia e per ripetermi che dovrei lasciare questa casa per tornare a vivere da loro. Continuo a trovare le sue cose per casa. Non riesco nemmeno più a piangere, vedi? Ho finito le lacrime, sono finite persino quelle. Non ho più niente, solo singhiozzi, stanchezza e rabbia» conclusi, girandomi dandole le spalle, per evitare di mostrarle la mia espressione.
Lo sfrigolio del pentolino mi distrasse da ulteriori terribili pensieri. Mi voltai verso di esso e lo portai via dal fuoco per versare l’acqua bollente in due tazze prima di immergere al loro interno le bustine di the.
Le portai sul tavolo, porgendone una alla mia ospite sempre col viso basso per cercare di evitare il suo sguardo che sicuramente avrebbe presentato compassione, pietà, tristezza.
E avevo abbastanza di quelle espressioni, delle frasi gentili e delicate tipiche di chi crede di star parlando con una pazza da rinchiudere nel reparto psichiatrico più vicino.
«Aaron…» incominciò Breanna, pronunciando il nome più sbagliato che potesse.
Non fui, però, ad interromperla ma il campanello, che mi evitò l’ennesima figura da pazza isterica.
Dopo il lieve sollievo, giuse il dibbio.
Chi poteva essere? Era davvero mia madre, stavolta?
Mi scusai con la mia ospite e mi alzai, andando ad aprire.
Dovetti assumere un’espressione impagabile, data dalla sorpresa e dallo shock nel trovarmi mia suocera davanti.
«A-Amelia?» balbettai infatti, incredula.
Avevo incontrato i genitori di Alexander una volta sola, in quelle tre settimane.
Si era trattato di un colloquio particolare, imbarazzante e rancoroso.
Pieno di domande che la maggior parte delle volte non riceveva vere e proprie risposte; mezze spiegazioni che non soddisfavano nessuno o che davano solo dolore.
«Regina, posso-posso entrare? Avrei bisogno di parlarti... urgentemente.» disse, esitante ma decisa, fissandomi con quei suoi occhi verdi come quelli del figlio.
Presi un respiro profondo, cercando di trovare la forza per dire di no, ma soffermarmi un attimo di troppo su quegli occhi mi portò ad acconsentire: «sì, certo… prego».
Mi scostai per farla passare e dopo aver chiuso la porta la condussi in cucina.
«C’è Breanna, Breanna Hughes» aggiunsi nel frattempo.
«Oh, mi spiace disturbarti. Come ti ho detto prima, è una cosa della massima importanza» replicò.
Annuii mentre Breanna, al vedere la signora Woods, si alzò in piedi.
«Signora…» la salutò chinando il capo.
«Breanna, la imploro di scusare la mia maleducazione ma devo chiederti di lasciare me e Regina da sole. Le devo parlare di un affare privato» spiegò.
Boccheggiai per un attimo, non capacitandomi delle sue parole.
Stava cacciando una mia ospite?!
Chiusi la bocca, capendo dall’espressione di mia suocera la sollecitudine di un mio intervento a suo favore.
Sospirai. «Breanna, ti prego…. Ci-ci vediamo presto, te lo prometto, e concluderemo il discorso» la congedai.
«Va bene, buona giornata, Regina. Arrivederci, signora Woods. Non preoccuparti, so la strada» concluse, fermando con un cenno della mano i mio avanzare verso la porta.
Le sorrisi leggermente, riconoscente.
«Accomodati» accennai ad Amelia, indicandole le sedie davanti a noi. «Vuoi qualcosa da bere? Un the, un caffè,…»
«Mi basta dell’acqua, grazie» mi interruppe.
Dopo averle posato il bicchiere davanti, parlò: «credo… Credo sia meglio tu ti sieda».
Accettai il suo consiglio, chiedendole poi di iniziare con le spiegazioni.
«Ho ricevuto una lettera, stamattina. Da Alexander.»
Deglutii lentamente, la mia gola già bloccata da un nodo di lacrime e domande.
Mi trattenni e con solo un cenno del capo le chiesi di continuare.
«Era… in occasione del mio compleanno, due giorni fa. Mi ha fatto gli auguri. Beh, la sua scusa per scrivere era questa. Normalmente non si impiegano due pagine per augurare un buon compleanno, nemmeno alla propria madre» cercò di ridacchiare, in modo da stemprare la situazione.
«Cosa… Cos’altro ha scritto?» riuscii a pronunciarmi, «Da dove proviene la lettera?».
«La lettera è francata Springfield. La polizia del luogo è stata avvisata e appena sapranno qualcosa, ci informeranno. Ma Alex è furbo, a meno che non voglia tornare, non lascerebbe la sua vera posizione su una lettera…» scosse il capo, pronunciando questa parole.
«Quindi le possibilità di trovarlo lì sono minime» conclusi, stringendo il pugno attorno all’porlo della mia gonna.
«Io la penso così» ammise con un mezzo sorriso.
«Ne-ne sei felice?» domandai quasi scioccata.
«No, Regina, non sono felice di quello che ha combinato mio figlio. Non sono assolutamente felice di quello che lo ha spinto a fare mio marito; anzi sono molto delusa, da entrambi» si fermò, sospirando. «Ma voglio che mio figlio sia felice, e forse così lui… So che tu sei arrabbiata e hai tutte le ragioni per esserlo, non posso assolutamente contraddirti. Ma Alex è mio figlio… Sono solo una povera madre…» cercò di giustificarsi, pregandomi con lo sguardo di capirla.
Io dovevo capire lei, suo figlio, Breanna ed Aaron.
Qualcuno cercava di capire me, però?
 
~
 
«Comunque…» riprese dopo un lungo silenzio, «ha… chiesto di te. Chiedeva come stavi e ti rivolgeva nuovamente le sue scuse. Lui sta bene, dice di non avere problemi e nemmeno Elizabeth ed il… bambino.».
«Ha un lavoro, un appartamento. Chiede scusa, credo che ogni frase contenga almeno una volta la parola “perdono”. Regina, lui è davvero dispiaciuto, lo so. Io lo so… So che non potrai mai perdonarlo, ma… un giorno, forse…» mormorò.
«Un giorno?» esplosi, «Un giorno?! Lui mi ha rovinato la vita, Amelia. E se posso capire che tu l’abbia perdonato, perché è tuo figlio, beh, mi dispiace ma non farò lo stesso! Se n’è andato, mi ha rovinato la vita per avere quello che io non potrò mai avere: un compagno, dei figli. Sono una donna finita, sbeffeggiata da tutti e tu mi chiedi di perdonarlo, un giorno? Mai! Se solo si farà rivedere io no so cosa potrei fare, non deve nemmeno permettersi di tornare. Io… Lui…» iniziai a balbettare a causa della confusione.
Nella mia mente vedevo lui arrivare alla porta di casa, Elizabeth dietro di sé che teneva un bambino tra le sue braccia.
Sorridenti, desiderosi di entrare in questa casa per un’amabile discussione.
Non l’avrei mai permesso.
Sarebbero potuti passare giorni, mesi o anni ma non avrei cambiato idea in merito, non l’avrei mai perdonato.
Ero cambiata in poche settimane e il perdono non rientrava più tra le mie capacità.
«Regina,» sospirò Amelia allungando una mano per accarezzare la mia, «sei una brava ragazza. Mi dispiace, credimi, per quello che ha fatto mio figlio» ripeté, alzandosi in piedi.
«Conosco la strada, non preoccuparti. Riposati e… Sono certa che col tempo vedrai le cose diversamente» concluse con un mezzo sorriso di cortesia, prima di lasciarmi sola.
Scossi la testa.
No, il perdono non faceva più parte dei miei pregi.




 

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Capitolo 14
*** Incubi e sogni. ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.

Capitolo XIV: incubi e sogni.


Regina

«Regina! Regina!»
Voltai il capo, cercando di individuare tra la folla il proprietario della voce che chiamava il mio nome.
La piazza era gremita, a causa del solito mercato domenicale nel quale avevo deciso di perdermi anch’io per una volta, dopo tanto tempo.
Solo il ricordo dell’ultima passeggiata di questo tipo mi provocava delle fitte allo stomaco.
I bisbigli ancora mi seguivano come ombre, nomi sussurrati e risatine di scherno represse a fatica.
Vorrei vedere voi al mio posto, maledette pettegole!
Dopo settimane il pettegolezzo di cui ero protagonista non aveva ancora smesso di dare scandalo: e come avrebbe potuto?
Di sicuro la notizia del matrimonio dell’ormai trentenne Miss Carter che portava con sé uno strano rigonfiamento al ventre non l’avrebbe superato e nemmeno le continue dichiarazioni di guerra alla Germania degli stati americani [1].
«Regina!»
Innervosita girai su me stessa, alla ricerca di chi continuava a chiamarmi.
O era solo la mia immaginazione?
Ero impazzita del tutto?
No, non lo sono, pensai quando trovai il proprietario della voce.
«Aaron…»

~

«Regina…» ripeté questa volta a bassa voce, data la nostra vicinanza.
«Aaron» ricambiai per cortesia.
«Come… Come stai?» chiese esitante e senza fiato.
«Bene, grazie. Tu?»
«Sì, bene. Ti prego, possiamo parlare. Ti offro un caffè; vuoi?» propose, con un’implicita preghiera negli occhi.
«Va bene» sospirai seguendolo verso il caffè più vicino. Ci accomodammo ad un tavolino abbastanza riservato in modo da poter parlare senza essere disturbati.
Un cameriere venne a ritirare le nostre ordinazioni e molto velocemente ci portò i nostri caffè, lasciandoci infine soli.
«Allora,» cominciò lui, «so che Breanna è venuta a farti visita, ieri…».
«Sì, purtroppo non abbiamo potuto parlare molto perché siamo state interrotte da una visita di Amelia Woods.»
«Lo so… Tutto apposto?»
«Alexander le ha scritto» spiegai telegrafica.
«Oh,» riuscì a dire, «e cosa…?»
«Le ha fatto gli auguri per il compleanno e l’ha rassicurata. Sta bene, se ti interessa» mormorai, svogliata di parlare di quell’argomento.
«Oh, capisco. Ehm…» aprì la bocca come per aggiungere qualcosa ma poi sembrò cambiare idea e si fermò. Infine, sospirò e parlò: «so che sei arrabbiata con me e ne hai tutte le ragioni, ma ti prego solo di capire…».
«Avresti potuto dirmelo prima, Aaron. Le cose sarebbero potute andare diversamente.»
«No, Regina! Lui era disposto anche ad arrangiarsi se gli avessi negato il mio aiuto. Sarebbe successo comunque, capisci? Arrivò a casa mia, quel giorno, tormentato, raccontandomi una storia che… era così inverosimile. Mi sono arrabbiato anche io, cosa credi? Gli ho detto che avrei fatto quello che voleva, sì, ma solo in onore dell’amicizia che ci legava da tempo. Non l’ho più sentito da tempo, se solo sapessi dove si trova…»
Mi passai le mani sul viso, non sapendo cosa dirgli.
«Come stai, Regina? Seriamente, ti prego. Dimmi se posso fare qualcosa per te…» riprese.
«Io… ho bisogno di un lavoro. Tu sei più informato, forse, di me. Ultimamente non sono uscita molto di casa, ma è tempo che mi impegni o… o impazzisco. Purtroppo non so fare molto ma… so cucire. Qualcosa che centra con la sartoria, magari. O anche la cameriera. Io…»
«Non… Regina, posso darti una mano se… Hai bisogno di soldi, è per questo? Posso darti qualcosa, se…» mormorò, preso alla sprovvista.
«No, non è quello il problema. Sotto quell’aspetto sono apposto e se anche non lo fosse chiederei ai miei genitori, non potrei mai farmi dare qualcosa da te, Aaron. Ma no né quello, è che… Non ne posso più di restare chiusa in casa, ho bisogno di fare qualcosa…» spiegai.
«Capisco. Ora come ora non mi viene in mente niente, ma mi informerò a proposito e ti saprò dire al più presto, va bene?»
«Certo, ti ringrazio.»
«È il minimo che possa fare, Regina. Non farti scrupoli a chiedermi qualsiasi cosa dopo che… Dopo i danni che ho causato… Eravamo amici, io e mia moglie siamo stati i vostri testimoni di nozze e… Mi dispiace così tanto. Non so davvero cosa fare per…»
«Mi serve solo del tempo, Aaron. Cerca di capirmi. Una cosa alla volta. Non posso… Non riesco a badare a tutto… Capiscimi…» sussurrai.
«Certo, ovvio. Tutto il tempo che vuoi.»

~

Io ed Aaron ci salutammo poco dopo ed io ritornai a casa.
Sistemai la piccola spesa che avevo fatto e mangiai qualcosa: niente di speciale, giusto un piatto di pasta che, come sempre, nemmeno riuscii a finire.
A metà pomeriggio decisi di uscire ancora, questa volta mi diressi verso la casa di Eloise.
Avevo bisogno di lei, della mia migliore amica.
Sapevo di essermi comportata male anche con lei, in particolare nel giorno in cui venne a trovarmi, poco dopo la fuga di Alexander.
Ma in quei giorni non ero me stessa, la mia mente si era come sconnessa.
Certi giorni non li ricordavo nemmeno.
Presi un respiro profondo, prima di suonare al campanello.
Passò qualche secondo prima che Eloise aprisse la porta con un sorriso cortese che sparì alla mia vista.
Ma non si trasformò in una smorfia rabbiosa o delusa, solo di sorpresa mentre i suoi occhi diventavano lucidi e le sue braccia si allungassero per abbracciarmi.
Ricambiai felice, mentre lei sussurrava la sua gioia nel vedermi e il suo dispiacere per non essere stata una buona amica.
Una falsità, quest’ultima, che le feci subito presente: «ma che dici, Eloise, non è per nulla vero! Non mi hai fatto mancare nulla, solo che io… Credo di essere io a dovermi scusare, non riuscivo a… Scusami, ma…» balbettai, senza riuscire a comporre una frase di senso compiuto.
«No, no. Tu non… Il tuo comportamento è stato del tutto normale, amica mia. Normale, capisci? Sei stata persino troppo brava. Guardati qui… Oh, mio Dio, scusami, entra, entra, non parliamone qui sull’uscio di casa. Ci sono sempre troppi curiosi…» sbuffò facendomi cenno di entrare.
«Soprattutto se si tratta di me, Eloise. Anzi, di tutta questa situazione. Sono così cattiva che non vedo l’ora che succeda qualcosa che possa far dimenticare tutto questo…».
«Non sei cattiva, tesoro. È normale anche questo. Odio persino io sentire parlare di questa storia, non posso nemmeno immaginare come puoi sentirti tu. Però sono contenta che tu sia qui, adesso. Davvero, ne sono molto felice» mi sorrise, mentre ci sedavamo sul divano del suo salotto.
«Ho… avuto giorni davvero difficili e non sono mai uscita di casa ma… finalmente ce l’ho fatta e infine sono venuta da te, perché tu… sei la mia migliore amica e ho bisogno di te, Eloise. Se puoi… Se vuoi… possiamo tornare ad essere come prima?» le domandai esitante.
«Oh, Regina, ma le cose non sono mai cambiate!» esclamò abbracciandomi. «Eravamo, siamo e saremo sempre migliori amiche. Sei come una sorella, Regina. Ti voglio bene e questo non cambierà mai. Non mi sono arrabbiata quella volta a casa tua. Anzi, ho sofferto nel vederti così inerme. Ma sapevo che sei una donna così forte e che saresti riuscita a rialzarti.»
Gli occhi mi diventarono lucidi a sentire quello che lei pensava di me.
Io, forte?
Illusa, stupida, debole, insicura. Ma non forte.
«Non lo sono. Se lo fossi… tutto questo non sarebbe successo. Sarei riuscita a salvare il mio matrimonio ed invece…»
«E come avresti potuto?»
«Non so... Forse avrei potuto capire qualcosa. Dio, ha frequentato un'altra donna per mesi, come ho fatto a non accorgermene?!» esclamai la mia frustrazione, chiesi quello che mi passava per la testa da giorni.
Come avevo potuto non accorgermene?
«Tu avevi un sospetto. Ne parlammo proprio qui, pochi giorni prima che tutto accadesse.»

« Anche stasera, mi ha detto che avrebbe cenato da questo suo collega, Daniel McGregor, ma non è vero. Come non è vero che è andato lì la settimana scorsa e quella prima ancora. E ne sono certa. Sì, perché una settimana fa ho incontrato Daniel e abbiamo scambiato qualche parola; da lì ho scoperto al verità: lui non ha nemmeno mai invitato Alexander a cena e men che meno lui si è presentato per una visita. Stasera… Stasera sono andata io stessa a controllare. Sono andata a casa di Daniel e… Alexander non c’era. Mi aveva detto che sarebbe stato da lui. E non c’era. E io ho paura. Perché c’è solo una risposta e io non voglio pensarci. Pensare che lui vada con… con altre donne…»

Ricordai la nostra discussione, quando lei cercava di convincermi che no, sicuramente c’era un’altra spiegazione.
Alexander non poteva avere un’altra donna.
Non Alexander, il migliore amico di suo marito.
Non Alexander, il marito della sua migliore amica.
Non Alexander…
«Ed era vero…» sussurrai prima di mettermi a piangere come non facevo da giorni. «Era vero. E sai cosa… La notte… Prima che lui… A pensarci col senno di poi, si è comportato stranamente... Mi chiese se lo amavo e io gli dissi la verità, che sì, lo amavo e lui… Anche lui me lo disse… Disse di amarmi mentre pensava a come fuggire da me per vivere con un’altra donna…»
Eloise mi cullava, accarezzandomi la schiena e i capelli come farebbe una mamma con la sua bambina capricciosa.
Non parlò, da brava amica e confidente mi lasciò sfogare, passandomi un fazzolettino mentre con la mano si asciugava un paio di lacrime cadute anche a lei.
«Sono una sciocca. Sono una sciocca,» ripetei. «Io lo amavo, io… Come ha potuto tradirmi in quel modo? Dopo così poco tempo. Dopo solo pochi mesi di matrimonio? E il matrimonio stesso… Tutto un inganno. Quell’amore era un inganno, una menzogna. E io ci credevo davvero…»
Eloise spezzò il mio monologo con una semplice domanda a cui non seppi dare risposta.
La guardai negli occhi, non sapendo cosa dire.
«Ma tu, nonostante tutto… Regina, ami ancora Alexander?»

~

Mesi di lavoro, sorrisi, ansie verso il futuro. Paura di essere trovati, preoccupazioni per le nostre famiglie lontane.
Preoccupazione per Regina.
Elizabeth era ormai al quinto mese di gestazione, il ventre si era ingrossato leggermente e spesso la trovavo ad accarezzarselo distrattamente, un sorriso luminoso sulle labbra e gli occhi pieni di sogni.
Elizabeth era una sognatrice
Parlava sempre della gioia del futuro, di tutte le tappe che dovevamo raggiungere, per lei non esistevano ostacoli e problemi, tutto era semplice.
Era tutto il contrario di me, che ero così realista…
Quello fu uno dei motivi che mi fece innamorare di lei. Sapeva farmi sorridere con le sue espressioni fanciullesche ed ingenue, riusciva davvero a far immaginare anche a me luoghi meravigliosi in cui vivevamo felici.
Io, lei e nostro figlio.
Maschio o femmina che fosse stato, non sarebbe stato un problema, noi l’amavamo già senza preoccuparci del sesso.
Anche se una parte di me, la parte legata alla società, quella cresciuta con gli insegnamenti di mio padre, desiderava un primogenito maschio, colui a cui avrei tramandato il cognome e i miei insegnamenti.
Quel bambino che, se sua madre fosse Regina, avrebbe già intestata a suo nome l’intera eredità dei Woods e dei Miller.
Ma sua madre si chiamava Elizabeth Sawyer, non era mia moglie e i miei genitori avrebbero difficilmente accettato che i loro piccoli possedimenti sarebbero finiti nelle mani della sua prole.
Come spesso in quei mesi, pensai alla mia famiglia, alle chiacchiere di paese che sicuramente li avevano travolti.
Mia madre, così ovviamente condizionata dai pettegolezzi ne stava sicuramente soffrendo molto.
Scossi la testa, impedendomi di pensarci ulteriormente.
Avevo una nuova vita da condurre che non potevo vivere con continui rimorsi e dolori per quello che avevo lasciato indietro.
«Alex? Tesoro, vieni a tavola, è pronto il pranzo!»
La voce della donna che amavo mi risvegliò dai miei pensieri.
Mi stampai un sorriso sulle labbra e uscii dalla nostra camera per entrare nella sala da pranzo che comprendeva anche il salotto.
«Eccomi. Scusami, avevo così bisogno di rinfrescarmi che non ti ho nemmeno chiesto come stai oggi…» mormorai sedendomi.
«Non ti preoccupare, con questo caldo… Comunque sto bene, il piccolo sta davvero iniziando a scalciare!» esclamò entusiasta.
Sorrisi, «e la fitta che hai sentito ieri sera? Si è ripresentata? Forse dovresti andare dal medico, Elizabeth, non mi sento tranquillo…».
«Ma no, Alex, non serve. Oggi non l’ho avuta, sarà stato un caso di ieri, sai ero stanca. Jeremy era iperattivo ieri e forse mi sono sforzata troppo, tutto qui…» si giustificò.
«Va bene. Cerca di non esagerare. Dovresti ridurre le ore con Jeremy, parlerò io con Mrs…»
«No, Alexander, non dire sciocchezze! Lascia stare. Mangia, su, prima che si freddi.» concluse indicandomi il piatto di pasta che aveva preparato.
«D’accordo, d’accordo. Ma prometti di non esagerare. Voglio che tu e mio figlio stiate bene» dissi accarezzandole la mano posata sopra il tavolo.
«Oh, Alex, certo!» sorrise.
Fissai il suo viso e non proseguii con le parole. Guardai i suoi occhi scuri e grandi che esprimevano una gioia e un amore immensi e il suo sorriso, le sue labbra rosse che amavo baciare che in quel momento mi sorridevano dolcemente.
Tutto quello che volevo era lì.




§§§



Nota di fine capitolo.
Scusate gli Orrori con i tempi verbali, devo aver fatto un casino assurdo, soprattutto nell’ultima parte.
Purtroppo non ho avuto tempo per controllarlo meglio, questa settimana è un po' impegnativa!
Spero vi sia piaciuto,
un bacio!

[1] Ricordo che la storia è ambientata nel 1918 (data strana, lo so, ma dovuta alla prima scrittura della storia, nel fandom Twilight, che poi non ho voluto cambiare). In quest’epoca ovviamente si è in piena Prima Guerra Mondiale e tra l’aprile e il maggio di quell’anno Guatemala, Nicaragua e Costarica dichiararono guerra alla Germania.

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Capitolo 15
*** Altri tre mesi. ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.
Capitolo XV:altri tre mesi.
Regina
 
Quella domenica pranzai con i miei genitori.
Non che solitamente non lo facessi, anzi restavo anche per la cena e, in più, durante la settimana mia madre spesso mi invitava - leggisi: costringeva - a mangiare da loro, in modo da non stare sola anche in quel momento della giornata solitamente dedicato alla famiglia.
La prima cosa che notai quando ci sedemmo tutti e tre a tavola fu che mio padre aveva qualcosa da dire.
Era facile capirlo, bastava un minimo di spirito di osservazione: i suoi movimenti rapidi e tormentati, il suo silenzio pensieroso, i suoi occhi che o non si fermavano un secondo o si fissavano su un oggetto per molto tempo, ma senza guardarlo veramente.
Così dopo che la governante ebbe servito il secondo, mi decisi a chiedere spiegazioni.
«Papà, tutto bene?».
Con uno scatto del capo sembrò rianimarsi, risvegliarsi da un lungo sonno. «Come?»
«Ho chiesto se stai bene, papà. Mi sembri... distratto.»
«Oh. Sì, io... Sì, tesoro, sto bene, ho solo qualche pensiero per la testa» spiegò cercando di sorridermi ed stringendomi la mano da sopra il tavolo.
«Cattivi pensieri? Scusa, ma non ti ho mai visto in queste condizioni e mi preoccupo...» giustificai la mia intromissione.
«Non esattamente. È solo che... Devo dirtelo, Regina, è soprattutto affar tuo» si decise infine.
La sua preoccupazione mi costrinse a metter giù la forchetta e il coltello e a non badare più al cibo.
Pensandoci, mi era anche passata la fame.
«C-Cos'è successo, padre?» lo spronai a spiegarsi.
«La casa in cui tu ora vivi è stata parte della nostra dote per il tuo matrimonio. Il chè significa che ora Alexander ne è il proprietario.»
«Devo andarmene da lì?» lo interruppi, preoccupata.
«No, no, non è questa la questione. Il problema subentrerebbe nel caso lui... lui tornasse. Se tornasse avrebbe il cento per cento dei diritti di abitare quella casa e...» si fermò un attimo, guardandomi addolorato. «E tu... saresti costretta a vivere con lui perchè... siete sposati.» concluse.
«Ma... anche se dovesse tornare con... con quella ragazza io dovrei...?» mormorai senza riuscire a concludere.
«Sì. Sì, anche il quel caso.»
«No!» urlai alzandomi in piedi, «No, non permetterò mai di venire umiliata in tale maniera! Vivere con quella sgualdrina e il loro bastardo? No, preferisco morire» ringhiai.
Mia madre mi fissò preoccupata, nella stessa maniera con cui avrebbe guardato una donna pazza.
Ero impazzita?
No, loro lo erano se credevano davvero che avrei accettato a prestarmi un remoto giorno ad una simile sceneggiata.
«Calmati, Regina. E siediti» ordinò mio padre.
Feci come richiesto, restandomene rigida sulla sedia di legno chiaro.
«In questi giorni sto giusto cercando una maniera per permetterti di opporti o di comunque farti uscire da questa situazione nel caso lui ritorni a Chicago. Cosa di cui io, personalmente, dubito. Non credo che quel ragazzino avrà mai il coraggio di tornare qui, a Chicago, dopo quello che ha combinato» disse. «Ma se anche lo facesse, ti assicuro, bambina mia, che non avrà vita facile...».
 
~
 
Un mese fa, camminando per il centro di Chicago, passai davanti al negozio di Madame Simon
La sarta francese aveva appeso sulla porta un vivace cartello verde dalle scritte nere che attraeva lo sguardo dei passanti.
Dopotutto Madame, come voleva essere chiamata, era così: una donna solare ma allo stesso tempo composta.
Il cartello, comunque, recitava così: cercasi aiuto sarta/commessa a tempo pieno.
Appena lo lessi tornò il sorriso anche sul mio volto.
Entrai nel negozio, facendo suonare i campanellini della porta e subito, perciò, una commessa si fece avanti per consigliarmi.
«Cerco Madame» spiegai subito.
«Oh, posso chiederle di cosa ha bisogno? Madame in questo momento è impegnata...» si giustificò.
«È per l'annuncio che avete appeso qui fuori, per l'aiutante...»
«Sono spiacente, signora, ma quel lavoro credo sia già stato assegnato. Mi scuso, mi sono dimenticata di togliere il cartello questa mattina...» aggiunse vedendomi sorpresa.
«Ah, ma ne è sicura? Mi scusi per la mia insistenza ma sono alla disperata ricerca di un lav-»
«Reginà» mi interruppe una voce, accentando alla francese il mio nome.
Madame, in verità, parlava correttamente inglese, essendo nata a Chicago solo da padre francese.
Ma volendo distinguersi, fin da ragazzina si impose un accento francese che, via via con gli anni si abituò ad usare senza troppe forzature.
«Madame, che piacere!» esclamai a mia volta, avvicinandomi a lei per fingere un abbraccio e scambiarci due baci sulle guance ma senza un reale contatto.
«Che ci fai qui? Hai bisogno di un abito, ovvio, che stupida! Ho dei nuovi arrivi che su di te starebbero benissimo! Dopotutto sei sempre stata bellissima, chérie[1], e lo sei ancora, nonostante tutto! Tantissime donne si sarebbero abbattute, degradate ma tu, no!» continuò prendendomi sottobraccio per portarmi verso degli abiti.
«Ti ringrazio, madame, davvero. Ma, sinceramente, non sono qui per comprare qualcosa. Sono entrata appena ho visto il cartello qui fuori ma ho saputo che il posto da aiutante è già stato preso...» spiegai.
«Cosa? Chi ha detto una simile sciocchezza? Se il cartello è ancora fuori significa che il osto è disponibile. Anzi era! Perchè adesso ci sei tu qui e io so quanto sei brava, ma chérie!» esclamò nuovamente.
«Quindi... quindi è mio?» chiesi sorpresa.
«Mais certainement![2]» gridò battendo le mani, felice.
Guardai la commessa che poco prima mi aveva mentito e la vidi sbuffare.
Tornai con lo sguardo su Madame che mi portò nel suo ufficio privato per parlarmi di orari, paghe e mansioni.
Era un buon lavoro, in cui dovevo sistemare gli abiti richiesti (accorciare orli, bustini e simili) e nel caso di bisogno dare una mano con i clienti.
Conoscevo Madame da anni, il suo era il negozio di moda preferito da molte donne, tra cui io e mia madre.
Il lavoro richiesto non mi sembrava troppo difficile perchè come sarta me la cavavo.
Il difficile sarebbe stato, come sempre, confrontarsi con gli sguardi e i bisbigli di chi mi avrebbe visto lavorare.
Ma in quei mesi ero cambiata, avevo imparato a nascondere la mia fragilità ed il mio dolore sotto ad una maschera di impassibilità ed indifferenza.
Avrei continuato a mostrarmi in quel modo, come la nuova Regina Miller voleva e doveva farsi vedere.
 
~
 
 
Elizabeth
 
«Jeremy, non correre dentro casa!»
Mi passai una mano sulla fronte mentre l'altra andò ad accarezzare meccanicamente il pancione: ero quasi all'ottavo mese e quando mi guardavo allo specchio quasi non mi riconoscevo.
Non vedevo l'ora di poter tenere tra le mie braccia il mio piccolino!
Nel frattempo, però, dovevo occuparmi di un altro bambino, un piccolo tornado di nome Jeremy.
Era un bellissimo bambino, coi capelli biondi e gli occhi azzurri poteva sembrare un angioletto, ma se si metteva anche solo un pochino d'impegno diventava un piccolo diavolo.
Come in quel momento.
Sua madre mi aveva chiesto gentilmente di badargli anche durante l'ora di pranzo a causa di un impegno che non poteva spostare d'orario ed io avevo accettato.
«Fame, fame, fame, fame!» ripeté il piccolo aggrappandosi alla stoffa del mio vestito.
Era quasi mezzogiorno, a momenti sarebbe arrivato anche Alexander ed avremmo pranzato.
«Lo so, tesoro. Abbi un attimo di pazienza, su» cercai quindi di calmarlo, accarezzandogli i capelli.
Una fitta improvvisa al ventre mi costrinse a togliere la mano dal suo capo e portarmela alla pancia.
Gemetti e mi piegai leggermente in avanti, insospettendo il bambino.
«Lizabeth? Lizabeth?» mi chiamò, storpiando come il solito il mio nome mentre portava le manine sul mio braccio.
«Devo... devo sedermi...» sussurrai cercando di camminare verso la sedia più vicina.
Un'altra fitta mi fece fermare, ma il piccolo Jeremy si occupò di me, spostando una sedia vicino a me.
Sussurrai un ringraziamento e mi sedetti sentendo ancora un po' di dolore.
Cosa diavolo succedeva?
Mi massaggiai il ventre, non sentendo il solito calcio di risposta del mio piccolo.
Proprio in quel momento, entrò Alexander e contemporaneamente, Jeremy mi sussurrò: «Lizabeth, perchè è tutto bagnato per terra?».
Abbassai lentalmente il viso verso il pavimento notando le macchie Mi si erano rotte le acque.
 
 
 
 
 
 
[1] chérie : tesoro
[2] Mais certainement : ma certamente
§§§


Buona sera!
Come avevo scritto nel mio post dello spoiler, questo capitolo si può dire sia diviso in tre parti: Regina a pranzo coi genitori da cui scopre piccoli e dispettosi cavilli; Regina che trova un lavoro che può aiutarla a distrarsi dai suoi problemi; Elizabeth... a cui si rompono le acque.
Cosa ne dite?
Vi è piaciuto il capitolo?
Grazie per aver letto,
a presto!

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Capitolo 16
*** Quelle cose che non avresti mai immaginato. ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.

Capitolo XVI: quelle cose che non avresti mai immaginato.
 
Alexander
 
«Lizabeth, perchè è tutto bagnato per terra?»
Quanto può essere innocente un bambino?
Appena entrai in casa mi colpì subito la scena della cucina: Elizabeth seduta su una sedia con sguardo strano, Jeremy preoccupato.
Il liquido per terra lo notai dopo anche io quando il bambino lo disse alla mia compagna.
La rottura delle acque significava parto.
Ed era troppo presto.
Come me, anche Elizabeth guardò per terra prima di piegarsi gemendo per una fitta.
A quel gesto mi svegliai dal mio stato di trance e corsi verso di lei, prendendole la mano fra le mie.
«Beth... Tranquilla, Beth. Chiamo il medico, ok? Vieni, sdraiati a letto e poi scendo a chiamare il dottore...» le sussurrai aiutandola ad alzarsi. La portai in camera e la misi sul letto, tornai in cucina e presi una spugna bagnandola di acqua fredda e la posai sulla sua fronte.
«Jeremy, io scendo un attimo, tieni d'occhio Elizabeth, ok?» dissi al bambino, che annuì deciso sedendosi ad un lato del letto.
Corsi giù dalle scale fino ad uscire dalla palazzina e mi catapultai al bar di fronte.
Dovevo avere davvero una brutta espressione perchè appena entrai tutti si girarono di me e calò il silenzio.
«Telefono,» mormorai, «ho bisogno del telefono, devo chiamare un medico».
«Lì dietro» rispose il gestore, indicandomi una porta in legno.
Entrai nella piccola cabina e composi i numero, pregando perchè il dottor Rogers rispondesse al più presto.
Appena mormorò quel «pronto?» sospirai e gli spiegai tutta la situazione. Nel giro di cinque minuti, disse, sarebbe stato da noi.
Sospirai un'altra volta, ringraziandolo, e riattaccai uscendo di fretta dalla cabina. Gettai qualche spicciolo sul bancone e uscii fuori rientrando nuovamente di corsa nel mio appartamento.
Elizabeth era sudata fradicia e sembrava stare davvero male.
Le cambiai la pezza portando poi con me una bacinella d'acqua in modo da rinfrescarle anche il collo e le braccia.
«Ho male, Alex. Non è normale, io...» sussurrò.
«Ssh... Andrà tutto bene...» mormorai baciandole una guancia.
«Jeremy,» aggiunsi poi, «perchè non vai a fare un bel disegno, in cucina? E quando arriva il dottore lo fai entrare e lo porti qua, ok?».
«Va bene!» esclamò fiero di tutte quelle responsabilità.
«Alex...» sussurrò Elizabeth, «Alex se non dovessi... sto male, ho paura che...» .
Capendo ciò che intendeva dire, la fermai: «ho detto che andrà tutto bene, non succederà niente.».
«Torna a casa. Se non ce la faccio... torna a casa.»
 
~
 
Quelle sue parole furono smorzate da un gemito, ma le compresi benissimo.
Non potei ribattere, perchè il campanello suonò e poco dopo Jeremy portò il dottore in camera.
Spiegatagli tutta la situazione mi pregò di portargli dell'altra acqua e più asciugamani possibili.
Feci come richiesto, aiutato da sua moglie, che l'aveva accompagnato, e poi mi chiese di uscire e lasciarli soli.
Da lì, seduto per terra, col capo appoggiato al muro accanto alla porta, ascoltai ogni gemito, ogni urlo di dolore da parte di Elizabeth.
Ascoltai le imprecazioni della coppia che era soccorsa in nostro aiuto e capii che, forse, Elizabeth aveva già capito qualcosa.
Un pianto infantile, mi fece voltare inizialmente il capo verso la cucina, preoccupato che Jeremy, lasciato da solo, si fosse fatto male.
Ma poi lui arrivò, con un disegno in una mano e qualche pastello nell'altra, sorridente.
Così mi alzai di fretta e aprii la porta, incurante dei rimproveri.
Era mio figlio.
Il dottore praticò qualche visita veloce prima di lasciarlo alla moglie che lo avvolse in un asciugamano.
«È un maschio» ci disse sorridente.
Allungò le braccia verso di me, che sorrisi emozionato, e mi spiegò come tenerlo prima di lasciarlo completamente a me e occuparsi di Elizabeth.
Guardai quel visetto arrossato, gli occhi chiusi e lo bocca fina e non riuscii a provare nemmeno un piccolo rimpianto per quello che avevamo passato per lui.
Alzai lo sguardo verso Elizabeth e la vidi sofferente, pallida in viso.
Non era normale.
Mi avvicinai a lei, notando gli sguardi dispiaciuti del medico e le mostrai nostro figlio.
«È il nostro bambino, Beth. Guardalo che bello...» sussurrai.
Con fatica portò una mano sulla sua guancia e gliela accarezzò.
«È... bellissimo» sussurrò con voce roca prima di tossire.
La signora Rogers mi si avvicinò mormorando che il marito voleva parlarmi.
Le chiesi di tenere il bambino e di continuare a farlo vedere alla madre, poi seguii il medico nel corridoio, chiudendo la porta della camera alle mie spalle.
«Il bambino sembra in perfette condizioni, anche se farò qualche visita più accurata in seguito» iniziò. «Il problema è... Il parto è stato molto travagliato, difficoltoso. Elizabeth era debole e... Non credo riuscirà a passare la notte, Alexander. Mi dispiace.»
Mi portai una mano alla fronte e mi appoggiai al muro mentre la mia vista si faceva sfuocata a causa delle lacrime.
La mia Beth...
«Come faccio?» sussurrai.
Io non sapevo come crescere un bambino, non sapevo cosa fare.
«Puoi portarlo in ospedale, e per i primi mesi se ne occuperanno le infermiere, soprattutto per il nutrimento. O puoi prendere una levatrice...» mi spiegò.
«Non ho... economicamente, io...» mormorai disperato.
Sospirò e guardò la porta chiusa, prima di aggiungere: «altrimenti... mia figlia ha appena avuto un bambino. Le chiederò se è disposta a darti una mano, va bene?».
Annuii, quasi senza sapere cosa stavo facendo.
Volevo solo entrare e passare le mie ultime ore con Elizabeth.
Capendo il mio bisogno, il dottore aprì la porta della camera e mi indicò di entrare.
«Portiamo il bambino in bagno per lavarlo e fargli qualche esame, se non vi spiace» disse il dottore facendo segno alla moglie.
Elizabeth si allungò per lasciare un bacio sulla fronte del piccolo e io li guardai sperando che al loro ritorno Elizabeth avesse ancora gli occhi aperti.
Mi avvicinai fino a sedermi accanto a lei. Presi le sue mani fredde tra le mie e le baciai ripetutamente, bagnandole con qualche lacrima.
Riuscì a scostarne una e la pose tra i miei capelli, accarezzandomi il capo.
«Finirà presto, vero?» sussurrò.
Annuii, incapace di parlare.
«Ritorna a casa. Fagli conoscere le nostre famiglie. Crescilo con Reg... con Regina» continuò interrompendosi per prendere un profondo respiro.
«No, non posso, non posso... Ti prego, Beth, amore mio...» singhiozzai sempre a capo basso appoggiato sulle sue mani.
«Io ti prego, Alexander. Fallo per me. Voglio abbia una madre, voglio... Vorrei restare qui, anche io non voglio... Ma sto così male... Alex...»
«Ssh... Va bene. Farò come vuoi, amore, come vuoi» mi ripresi alzando il viso per baciarle le labbra fredde e screpolate.
«Come vuoi chiamarlo?» le chiesi, poi.
«Come avevamo deciso... Andrew... Andrew... voglio vederlo, fammelo vedere un’ultima volta... sento che...» sospirò piano, senza forza.
Annuii e la lasciai per correre in bagno. I coniugi Rogers me lo lasciarono subito, consapevoli di quel momento.
Una volta in camera posai il viso del piccolo Andrew vicino a quello della madre perchè potesse vederlo bene.
«È bellissimo... bellissimo...» sussurrò.
«Sì» annuii.
«Alex... ti amo... tanto.»
«Lo so. Anche io ti amo» sussurrai baciandole il capo.
Fissò il nostro bambino e mosse le labbra leggermente forse per sorridere, forse per parlare.
Non lo potei mai sapere.
I suoi occhi si chiusero, la mano appoggiata sulla guancia del nostro bambino scivolò sul letto ed Andrew scoppiò in lacrime.
Come me.
Il dottore si avvicinò al letto e prese il polso di Elizabeth.
Scosse il capo e guardò il suo orologio da taschino.
«Ora del decesso, 15:17.»
 
§§§


Ehm, è permesso?
Mettete giù le forche, le torce, le pistole, le spade e qualsiasi arma.
Ehi, tu! Metti giù quel mattarello!
Questo capitolo è tutto dedicato ad Alexander ed Elizabeth, in un momento così particolare la concentrazione doveva essere puntata solo su di loro.
So che odiate Elizabeth, ma su, dai, non siate ocntente della sua morte!
Vi aspetto alle recensioni (insultatemi pure, dai, ve lo concedo...)!
Un bacio,
a presto!

 

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Capitolo 17
*** Home sweet home. ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.


Capitolo XVII: home sweet home.
 
Regina
Il mio sguardo era fisso sul calendario attaccato al muro.
Era da settimane che temevo questo giorno, temevo il dolore e i ricordi che mi avrebbe provocato.
Era il tre marzo del 1919, un anno fa a quest'ora mi svegliavo emozionata attendendo di sposare Alexander Woods, il ragazzo che amavo, il mio principe.
Un principe delle tenebre, pensai.
«Tanti auguri, Regina, ma niente fiori e cioccolatini per te, oggi» mi dissi.
Scoppiai in una risata isterica pensando a quanto potessi sembrare pazza in quel momento.
Bevetti qualche sorso di the come colazione, non riuscendo a mangiare altro, e poi vestii, non molto pronta ad una nuova giornata di lavoro.
Lavoro che era diventato la mia vita, che aveva riempito le mie giornate concedendomi momenti spensierati.
Mi trovavo bene, i primi momenti di tensione si erano via, via sciolti ed avevo iniziato ad adorare l’aggiustare vestiti, modificarli, consigliare donne e ragazze.
Quel giorno, però, non avevo molta voglia di chiacchierare e sorridere. Dovevo andare, però, mi costrinsi ad uscire perchè non potevo e non dovevo chiudermi in casa e seppellirmi sotto le coperte con un libro ad intristirmi e pensare.
A testa alta mi diressi verso il negozio e salutai tutte le dipendenti che, come me, stavano arrivando in quel momento.
Ed un'altra giornata ebbe inizio.
 
~
 
Essendo il negozio e casa mia abbastanza vicini, nella pausa pranzo mangiavo lì e un paio di volte avevo anche invitato due o tre ragazze con cui avevo un po' legato.
Niente di che, un rapporto cordiale e amichevole: per lo meno loro non mi guardavano dall'alto in basso e nemmeno volevano parlarmi solo per sapere come erano davvero andate le cose con Alexander.
Quel giorno, comunque, l'avrei passato da sola.
Avvicinandomi a casa cercai nella borsa le chiavi, non accorgendomi delle occhiate che mi lanciavano i miei vicini.
Le notai solo quando, trovato ciò che cercavo, mi fermai davanti al mio piccolo cancello e vidi la mia vicina osservarmi incuriosita dalla finestra.
Appena si accorse del mio sguardo, chiuse la tenda e scappò via.
 Sbuffai, chiedendomi perchè, dopo quasi un anno, la gente ancora parlava delle mie faccende.
Aprii il cancelletto e camminai sul vialetto per raggiungere la porta; infilai la chiave e... non entrò.
Riprovai più volte, ma niente.
Sembrava ci fosse qualcosa che la bloccava dall'altra parte.
Mi irrigidii preoccupata ma poi capii: i miei genitori, non avevano voluto lasciarmi sola nonostante avessi detto loro di non venire.
Difatti abbassai la maniglia e la porta si aprì.
«Mamma? Papà? Vi avevo detto di non venire...» dissi chiudendo la porta dietro di me ed appoggiando chiavi, borsa e giacca sul mobiletto in entrata.
Mi insospettii nel non ricevere risposta.
«Mamma?!» ripetei entrando in cucina.
«Non ci sono i tuoi...» disse una voce maschile dietro di me.
Mi irrigidii nel riconoscerla, ma non mi girai, credendomi pazza.
Non poteva essere...
L'uomo mi camminò di fianco, arrivando di fronte a me.
No, non poteva essere...
«Alexander...?»
«Ciao, Regina.»
 
~
 
Credetti seriamente di svenire.
Mi girò la testa, sicuramente, e vidi nero per qualche minuto però riuscii a combattere le ombre e mi ripresi.
Lui si era avvicinato, forse preoccupato che mi potessi sentire male e quindi per sorreggermi.
Lo allontanai con una mano, sentendo la sua consistenza sotto il palmo: era vero. Non era un incubo.
Ma quale scherzo del destino l'aveva fatto presentare qui il giorno del nostro anniversario?
O aveva fatto apposta, il maledetto?
«Cosa... Perchè sei...?» balbettai avvicinandomi ad una delle sedie intorno al tavolo per sedermi.
«Dovevo» sussurrò.
«Oh, no...» mormorai, «Sono state molte le cose che avresti dovuto fare, ma questa... proprio no.».
Uno strano rumore dal salotto mi fece voltare il capo verso quella sala.
«Cosa...?»
«Scusami un attimo.»
Parlammo insieme, ma lui si alzò e se ne andò verso l'altra camera.
Piano mi alzai anch'io, sentendo i suoi sussurri e volendo farmi male. Volendo vedere la causa del mio dolore.
Alexander mi dava le spalle, ma sentendo i miei passi si era voltato d'istinto, mostrandomi con espressione sorpresa e colpevole quello che teneva fra le braccia.
«Regina... Lui è Andrew, mio figlio.»
 
~
 
Era un bambino.
Un piccolo primogenito maschio.
Lo teneva con tenerezza e cura tra le braccia cullandolo per farlo addormentare.
Appena chiuse gli occhi, lo posò sul divano sistemando i cuscini attorno a lui per precauzione.
Un papà premuroso e amorevole.
«Non volevo lo vedessi così... Mi spiace» sussurrò venendomi vicino.
«Perchè sei qua? Perchè sei tornato? Non potevi restartene dov'eri, con Elizabeth e il vostro...»
«L'avrei fatto,» mi interruppe. «L'avrei fatto ma... Elizabeth... Elizabeth è morta mettendo al mondo Andrew» sussurrò portandosi le mani al viso.
Era morta.
Non mi sentii crudele a non sentire dispiacere o dolore.
Non provai nemmeno felicità, s'intende, ma restai apatica a guardare Alexander che cercava di riprendere il controllo di sé.
«Dovresti andare dalla sua famiglia a dire queste cose, non a me.»
«Ho inviato loro una lettera, ma non ho mai ricevuto risposta» replicò.
«Credevi davvero che qualcuno avrebbe preso bene la notizia della vostra fuga? Credevi che tutto sarebbe rimasto uguale, senza rancore, rabbia e... Diavolo, solo tua madre...» presi dei profondi respiri per cercare di calmarmi. «Vai dai tuoi genitori, Alexander, non voglio vederti qui.» conclusi girandogli le spalle.
«Questa è casa mia, Regina» mormorò.
Strinsi le labbra, colpita dall'ennesima umiliazione, ricordando le parole di mio padre in proposito.
«Allora me ne andrò io.»
 
~
 
Avevo preso un borsone e avevo gettato qualche indumento a caso, senza badarci troppo, mentr Alexander dietro di me mi chiedeva di non farlo e di aspettare.
Aspettare cosa?!
Uscii dalla nostra camera e lui mi fermò afferrando il mio polso.
«Ti prego, Regina, aspetta. Non voglio che tu lasci una casa che è anche tua. Per favore, fammi spiegare...» mi pregò.
«Mi spiace, Alexander, ma o tu o io. Non c'è un noi, per te non c'è nemmeno mai stato! È questo quello che volevi, no?» esclamai.
«Noi... saremmo sposati...» disse.
Risi amara, «adesso te ne ricordi? Dopo un anno?».
«Regina, io... Non puoi capire quanto vivevo male questa situazione, ed Elizabeth...» iniziò a spiegarsi.
«Potevi parlarmene!» esclamai furente, «Potevi spiegarmi tutto, avremmo cercato di... di sistemare le cose! Ma tu, no, sei scappato, ti sei rifugiato tra le gambe di un'altra donna e poi sei fuggito del tutto. Io non potrò mai perdonarti, tu mi hai rovinato la vita» conclusi piano come a volergli imprimere bene quelle parole nella mente.
«Non parlare così di lei. Insulta me, ma non... Lei non c'è più» concluse prendendosi il capo fra le mani. «Sono rimasto solo con Andrew e non so cosa fare...» aggiunse.
«Non è un mio problema. Fatti dare una mano da tua madre, o chissà magari trovati un'altra donna...» sibilai maligna, voltandogli le spalle per scendere le scale.
«No, ti prego. Dammi una mano tu.» asserì.
Questa volta mi bloccai io, sconvolta dalla sua richiesta.
«Ma stai scherzando?!» strillai. «Non crescerò mai quel bambino, frutto del tuo adulterio!»
«Non mi costringere a passare per vie legali, Regina, sai cosa ne risulterebbe. Sono un bastardo, lo so, mi pento di come sono andate le cose ma... non posso pentirmi di avere un figlio. Non posso pentirmi di avere amato Elizabeth. Tu sei mia moglie e lo sarai sempre. Non ti chiedo di... di assolvere a tutti i tuoi doveri, ti chiedo solo di restare qui ed aiutarmi con... con Andrew.» concluse affannato.
«Davvero una piccola richiesta…» sospirai sarcastica.
Lasciai cadere a terra il borsone e scesi le scale diretta alla porta.
«Dove vai?» mi chiese.
«Dai miei genitori, mi è concesso?» chiesi ironica.
«Ovvio. Gli dirai...?» chiese indicandosi.
«Sì. E ti conviene andare dai tuoi genitori prima che uno dei nostri vicini glielo riferisca» risposi raccogliendo le mie cose all'entrata.
Infine uscii senza aggiungere altro, e mi diressi a capo chino e passo svelto verso la mia vecchia casa.
Corsi sul vialetto e quando suonai la porta già trattenevo a stento le lacrime.
«Signora...? P-Prego, entri sua madre è nel salottino.» disse la governante con fare preoccupato.
Annuii in ringraziamento ed entrai nell'altra stanza.
«Regina? Tesoro, cos'è successo?» chiese preoccupata.
«È tornato, mamma. Alexander è tornato.»


§§§


Buongiorno.
Ta-dan! Alexander è tornato.
Ne siete felici? Cosa ne pensate?
Ditemi, dai, tiratemi su il morale, per favore.
Quante di voi hanno iniziato scuola come me, mercoledì? Come sempre in Italia a seconda della regione c'è un giorno diverso ma so che in generale si è iniziato mercoledì o venerdì, cioè domani.
In entrambi i casi, buona fortuna!
Vi abbandono, la mia professoressa di inglese ha già dato compiti e mi sono ripromessa di impegnarmi quest'anno causa esami di maturità.
Argh.
Spero di riuscire a continuare ad aggiornare con regolarità, altrimenti vi prego di scusarmi già da adesso.
Buona giornata,
a presto!

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Capitolo 18
*** Esserci. ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.

Capitolo XVIII: esserci.


Alexander


Restai fermo a fissare la porta da cui se n'era andata.
L'avevo praticamente costretta a restare qui, in questa casa, con me e mio figlio.
Come diavolo mi era saltato in mente?
Ma cos'altro potevo fare?
Era da quando avevo deciso di partire, di tornare a casa, che mi facevo queste due domande in contemporanea.
Ero così combattuto!
Però la promessa fatta ad Elizabeth continuava a rendersi vivida nella mia mente: Ritorna a casa. Fagli conoscere le nostre famiglie. Crescilo con Reg... con Regina.”
L'avevo promesso alla donna che amavo e che era in punto di morte: due validi motivi perchè io rispettassi la parola data.
Un vagito da parte del piccolo Andrew mi riscosse dai pensieri che troppe volte si ripetevano nella mia mente nel corso di una giornata.
Però quel pomeriggio avevo altro a cui pensare, ad esempio dovevo trovare un modo per uscire da questa casa e attraversare il quartiere fino a giungere all'abitazione dei miei genitori.
Niente di difficile se non fosse stato che io avrei voluto essere invisibile, per camminare tra la folla senza farmi vedere.
Non mi vergognavo delle mie azioni passate - azioni che mi avevano portato il bambino tra le mie braccia - ma sapevo delle conseguenze che esse avevano colpito la mia famiglia.
Presi un grande respiro e guardai Andrew. «Dobbiamo uscire. Siamo uomini, vero, piccolo? Non abbiamo paura.»
Mio figlio mi rispose tendendomi un pugnetto e aprendo la bocca.
«Lo prendo come un sì» conclusi sorridendo.
Mi capitava spesso di parlare con lui. Da quando era nato ed Elizabeth non c'era più, non avevo nessuno con cui parlare.
Certo, discutevo con il dottor Roger e con sua figlia, che gentilmente si era offerta di aiutarlo per quanto riguardava l'allattamento almeno per i primi mesi.
Ma quando mi trovavo a casa, seduto a tavola con lui tra le braccia, a chi potevo confidare le mie ansie, le mie paure?
Era anche quello uno dei motivi che mi aveva spinto a tornare a casa: avevo bisogno della mia famiglia.
Così pensando uscii di casa. Presi con me le chiavi che avevo usato per aprire - il mio paio, che avevo sempre con me - e mi incamminai per il marciapiede tra la gente che mi fissava e bisbigliava.
Marciai a testa alta, stringendo Andrew a me, orgoglioso del mio piccolo trofeo, unico ricordo di un amore e di una passione travolgente.

~

Davanti al cancello della casa dei miei genitori, sospirai.
I pochi chilometri che avevo percorso erano stati faticosi, non per la stanchezza ma per le occhiate e i bisbigli che non si fermavano mai.
Entrai nel giardino di casa mia, percorsi il vialetto guardando l'erba verde e curata e le amate aiuole di mia madre che davano un tocco di vivacità all'area.
Presi un grande respiro mentre suonavo il campanello e diedi un'occhiata ad Andrew, stretto nella sua copertina grigia, che dormiva beato.
Fortunato lui.
Appena sentii dei rumori alla porta, risollevai gli occhi, giusto in tempo per vedere mia madre.
La sua espressione stupita e sconvolta fu quasi un colpo al cuore. «Ale-Alexander?»
«Buon pomeriggio, mamma.» mormorai.
«Cosa... Oddio, vieni dentro, intanto!» esclamo scostandosi e gesticolando agitata.
Varcai l'uscio, stranamente imbarazzato.
Era mia madre, ero nella casa in cui ero nato e cresciuto, avevo ricordi legati ad ogni oggetto presente ma mi sentivo quasi un estraneo.
Mamma dietro di me chiuse la porta, sbattendola in faccia a tanti visi curiosi. Con quel rumore improvviso, Andrew aprì gli occhi e la bocca dando vita ad un piccolo pianto.
Lo cullai sussurrandogli parole di calma, mentre con la coda dell'occhio notai mia madre avvicinarsi e fissarci stupefatta e commossa.
Era suo nipote, il suo unico nipote. Era diventata nonna.
«Oh mio Dio...» sussurrò portandosi una mano al petto.
«Mamma, lui è Andrew... È tuo nipote» mormorai notizie di cui era già venuta a conoscenza tramite lettera, scoprendo la piccola testolina che non aveva mai visto.
«Posso?» chiese allungando le braccia.
«Certo. Magari riesci a calmarlo...» aggiunsi continuando a sentirlo strillare.
Ci avvicinammo ancora di più perchè potesse prendere il piccolo e ne approfittai per guardare con più attenzione il suo viso. Era sempre uguale, sempre bellissima... e mi era mancata.
«Ciao, Andrew, sono la nonna» gli mormorò intanto cullandolo e vezzeggiandolo per farlo calmare.
«Forse ha fame. Come posso dargli del latte?» mi chiese alzando il viso.
«I medici mi hanno insegnato un modo per non ricorrere alla balia sempre. Basta immergere una pezza nel latte perchè assorba il liquido e poi il bambino riuscirà a succhiare. Non è come avere una mamma, ma...» spiegai.
«Oh, ingegnoso. Non ne avevo mai sentito parlare. Tienilo, e seguimi in cucina che prepariamo tutto» aggiunse riporgendomi mio figlio.
La casa non era cambiata. Anzi, a pensarci, non aveva mai subito grossi cambiamenti fin da quando ricordavo!
Ogni tanto mia madre provava a cambiare la disposizione di un mobile o soprammobile i quali, però, dopo poco tornavano al loro posto.
Guardai mia madre affaccendarsi per prendere l'occorrente, chiedendomi ogni tanto informazioni a proposito.
Una volta finito mi avvicinai di più a lei che iniziò a portare la pezza imbevuta di latte alle labbra del piccolino.
«Aveva proprio fame...» mormorai sentendolo rilassarsi tra le mie braccia.
Mia madre restò in silenzio. Immaginai la sua mente piena di domande senza risposta, rimproveri, auguri, lamentele e sospiri: ero sicuro si sentisse così.
«Come stai, mamma?» chiesi allora.
«Sto bene, Alex. Sono contenta di vederti... Non ti nascondo quanto sono stata in pensiero per te in questo anno... quanto lo siamo stati tutti...» si corresse.
«E papà?»
«Lui non si da' pace, si ritiene colpevole. Ha tutti i motivi per farlo! Se solo mi aveste resa partecipe dei vostri piani...» commentò infastidita.
«Mamma, io... mi dispiace. 'On volevo, anzi non volevamo soffrissi per nostre azioni...» spiegai.
Sospirò, passando oltre quel discorso, probabilmente trito e ritrito in quei mesi.
«Sei già stato a casa tua?» domandò.
«Sì. Ho anche parlato con Regina. Beh, diciamo discusso o litigato... Non che mi aspettassi di meglio. Almeno non mi ha lanciato addosso il servizio di piatti...» cercai di scherzare, non causando però neanche un sorriso.
«Quello che hai fatto, figliolo... Le conseguenze sono tutte ricadute solo su di lei. Non ha passato dei bei mesi, e non parlo solo della vergogna pubblica. Parlo del dolore causato da un tradimento, dell'autostima spezzata, della solitudine voluta e del sentimento di sfiducia verso chiunque.» concluse.
Mi zittii, pensando alla veridicità delle sue parole. «E cosa posso fare, allora?»
«Cosa intendi?» domandò fissandomi interdetta.
«Come devo comportarmi con lei? Siamo sposati, divideremo la casa...»
«Sul serio, Alex? Hai intenzione di abitare di nuovo con lei?» chiese stupefatta.
«Sì. Andrew ha bisogno... Ed Elizabeth me lo chiese in punto di morte. Di tornare qui, di fargli conoscere la sua famiglia... e di crescerlo con Regina.» spiegai convinto.
Non potevo, non mi passava nemmeno per la testa, di infrangere la promessa fattele.
«Capisco, ma... hai provato a metterti nei panni di Regina? Le promettesti amore e felicità di tua spontanea volontà - o almeno questo credeva quando la chiedesti in sposa. Una volta sposata sei cambiato totalmente, l'hai trattata peggio di un animale e poi un mattino non ti ha più trovato a casa. Scopre dal tuo migliore amico che sei scappato con un'altra donna con cui avevi una relazione extraconiugale, una donna che è incinta di tuo figlio. È costretta ad affrontare noi, l'ira della famiglia Sawyer, le occhiate della gente e pure il proprio dolore. Non so se lei ti amava, non so cosa provava per te... ma non aspettarti che ti accolga in casa, non pensare nemmeno che possa allevare Andrew... non lo farà.»
La ascoltai fino alla fine capendo quello che voleva trasmettermi e, allo stesso tempo, sentendomi disperato.
«Cosa posso fare, allora? Madre... Andrew ha bisogno di una figura materna e io sono sposato con Regina...» espressi la mia confusione.
«Per prima cosa non dirle mai una cosa simile! La faresti solo sentire obbligata ed oppressa,» iniziò. «Sei davvero convinto, sei sicuro di quello che vuoi fare? Pensaci, Alexander, pensaci. Elizabeth non ti vorrebbe male se sapesse che non l'hai accontentata... Per favore, riflettici bene» concluse.
«Ci ho già pensato per settimane e la mia decisione non è mai stata diversa. Non cambierà neppure ora, mamma, mi dispiace» replicai.
Mia madre mi osservò a lungo prima di mutare la sua espressione in una maschera di compassione: «va bene,» disse, «questa è la tua scelta. Spero solo vada tutto bene. Non combinare altri guai, Alex, ed ascolta Regina. Non lasciarla da parte come un cane un'altra volta. E se hai bisogno... io sono qui ed anche tuo padre. Noi ci siamo.».


§§§

Non mi intrattengo troppo perché sono talmente stanca da non riuscire quasi a pensare! D:
Non vedo l'ora di andare a dormire!
Comunque, qui abbiamo esplorato abbastanza le idee di Alexander, il motivo del suo ritorno.
Cosa ne dite?
Lo so, vi sta abbastanza... antipatico, però... a me da l'idea di uno sperduto. Non sa cosa fare, dove andare.
Già prima della fuga non sapeva cosa fare, pensarsi dopo quando si è trovato con un neonato a cui, ovviamente, non poteva badare sotto tutti gli aspetti, e la fidanzata morta, senza una famiglia, senza amici.
Mica dev'essere facile.
Naturalmente, non per questo gli deve essere dimenticato tutto.
Mi fa pensare ad uno dei significati dello yin e dello yang: anche nel bene c'è sempre una piccola parte di male ed ugualmente viceversa.
Piccola noticina, l'idea di "allattare" il bambino utilizzando un panno l'ho letta nel libro "I pilastri della terra" di Ken Follett.
Dopo questo pensiero, vi lascio augurandovi una buona notte.
A presto
e grazie per seguirmi!

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Capitolo 19
*** Affetti. ***


Old loves they die hard;
Old lies they die harder.


Capitolo XIX: affetti.
 
A mio padre.
Come sempre, un capitolo è dedicato solo a te.
Il modo più semplice per ringraziarti nonostante tu non sia più qui.

Giuro che cercherò di farcela.
 
 
Regina

 
«Alexander è tornato...»
Ci volle un secondo prima che mia madre riprendesse controllo di sè e si prodigasse per farmi entrare e sedere.
«Tornato? In che senso tornato?!»
«Nel senso letterale del termine, mamma!» la rimproverai, istericamente. «Me lo sono trovato a casa, perfettamente a suo agio, perfettamente tranquillo con...» mi fermai per prendere un respiro profondo per calmarmi e cercare di non scoppiare in lacrime.
Mia madre posò una mano sul mio braccio, per ricordarmi la sua vicinanza.
Non ero sola.
«Regie... tesoro, adesso faccio chiamare tuo padre, va bene? Risolveremo la situazione...»
«Aveva ragione...» mormorai, «Aveva ragione papà. È tornato e vuole rinsediarsi nella mia vita come se nulla fosse successo. Vuole vivere in casa mia, vuole che faccia da balia al suo bambino, vuole che faccia la moglie sottomessa, un'altra volta!» gridai sbattendo un pugno sul cuscino del divano per sfogare la mia frustrazione.
«Che cosa?! Ti ha davvero chiesto quelle cose?» domandò mamma esterrefatta.
«Sì, come se fossero le più naturali del mondo. Mamma, oltre a dover abitare sotto lo stesso tetto, come potrò mai fingermi la madre di quel bambino?! Non ha colpe, lo so, è innocente, ma il solo pensiero mi ripugna. È il ricordo costante del suo tradimento, di tutto il dolore che non ho mai smesso di provare. Perchè è tornato? Perchè, proprio oggi che è il giorno del nostro anniversario? Perchè, proprio adesso, che iniziavo a... a stare un po' meglio?» domandai, forse a mia madre, forse a me stessa, mentre dai miei occhi iniziarono a scendere lacrime.
Mamma sospirò abbracciandomi, «non lo so, figlia mia, non lo so.».
 
~
 
Restai tutto il pomeriggio con mia madre, fino all'ora di cena, quando mio padre fece ritorno.
Mamma gli spiegò la situazione, mentre io me ne stavo seduta zitta al tavolo della sala da pranzo.
«Diavolo! Che sia maledetto, quello sciagurato!» imprecò con voce dura, facendo sobbalzare mia madre che non amava quel linguaggio.
«Cosa possiamo fare, Gregory? Non ho intenzione di far tornare Regina in quella casa!» esclamò mamma.
«Purtroppo credo non ci siano soluzioni. Ho cercato molto in queste settimane, ma non ho trovato casi simili!» sospirò.
«Quindi devo...» iniziai a parlare, venendo interrotta dal campanello.
I miei si scambiarono un'occhiata, poi mio padre si alzò e andò alla porta.
Io e mamma ci scambiammo un'occhiata, non riuscendo a capire chi fosse l'ospite.
Solo quando mio padre iniziò ad alzare la voce potemmo farci un'idea.
«Non so con che coraggio voi vi permettiate di mettere piede nella mia proprietà! Sono stato fin troppo caritatevole con voi, ma le condizioni erano chiare: non vi vogliamo più vedere! Quindi tornatevene a casa vostra e portatevi con voi vostro figlio e vostro nipote: non permetterò mai che la mia Regina soffri ancora a causa vostra!» disse infervorato.
«Per favore, Gregory, per favore, dacci due minuti!» replicò quello che mi sembrò essere il padre di Alexander.
«Due minuti?! Per fare che cosa, pregare mia figlia di dimenticare il passato e tornare a casa? Non lo permetterò mai!» esclamò.
Mentre mio padre rispondeva, io e mamma andammo all'ingresso: ormai era inutile origliare da lontano.
«Gregory, capisco le tue intenzioni, ma lo sai bene che noi donne nella società abbiamo ben poco conto. Se solo parlassimo ad un giudice di questa situazione, Regina non avrebbe la possibilità di fare niente se non tornare a casa. Perchè non farlo evitando simili procedimenti?» intervenne Mrs Woods.
«Fuori!» urlò mio padre seriamente arrabbiato. Indicò loro il cancello e ripeté: «fuori, andatevene da qui! Come osate minacciarmi dopo quello che avete fatto alla mia famiglia?! Come osate, dopo che vi ho salvati dalla fame?! Mi fate schifo, famiglia Woods, e dovrete passare sul mio corpo prima di riportare la mia Regina tra le braccia di quel disperato di vostro figlio!» concluse, prima di chiedere loro la porta in faccia.
Mio padre si prese qualche secondo per sé, per respirare profondamente e riprendere il controllo, prima di voltarsi a guardarci.
Poi si avvicinò a me, posò le mani sulle mie spalle e disse: «te lo giuro, Regina, farò di tutto perchè tu non sia obbligata a tornare da loro. Non lo permetterò mai!».
Annuii ripetutamente con il capo, abbracciandolo e finendo per piangere sulla sua spalla. «Grazie, papà. Grazie.»

 
§§§
 

Vi prego di scusare l'esagerata brevità del capitolo, ma in queste settimane sono presa male.

Tra raffreddore e mal di gola, tra scuola e tradizioni paesane per i diciottenni da rispettare ho avuto poco tempo.
Anzi, spero davvero di riuscire ad aggiornare come sempre la prossima settimana, ma metto già le mani avanti e vi avviso che potrebbe esserci un ritardo se non una settimana buca.
Mi dispiace davvero tanto, spero di riuscire a fare tutto come sempre!
Spero non mi lascerete ma cercherete di capirmi e di aspettarmi.
Un bacio a tutte ed un grande grazie.
A presto!

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