Old loves they die hard; Old lies they die harder. di valli (/viewuser.php?uid=82562)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Disaster date. ***
Capitolo 2: *** Dote. ***
Capitolo 3: *** Proposal ***
Capitolo 4: *** Pensieri parole opere ed omissioni ***
Capitolo 5: *** Il gran giorno. ***
Capitolo 6: *** Non c'è mai limite al peggio. ***
Capitolo 7: *** First time. ***
Capitolo 8: *** illuminated ***
Capitolo 9: *** Egoismo e felicità. ***
Capitolo 10: *** Amore e senso di colpa. ***
Capitolo 11: *** La pazzia dell'incredulità. ***
Capitolo 12: *** Verità. ***
Capitolo 13: *** Cambiamenti. ***
Capitolo 14: *** Incubi e sogni. ***
Capitolo 15: *** Altri tre mesi. ***
Capitolo 16: *** Quelle cose che non avresti mai immaginato. ***
Capitolo 17: *** Home sweet home. ***
Capitolo 18: *** Esserci. ***
Capitolo 19: *** Affetti. ***
Capitolo 1 *** Disaster date. ***
Old loves they die
hard;
Old lies they die
harder.
Capitolo
I : disaster date.
Alexander
Can
anybody find me
somebody to love?
[Somebody to
love, The Queen
Infilai
la camicia nei pantaloni e presi la cravatta dal comò sotto
allo specchio; la
girai intorno al collo iniziando ad avvitarla per fare il nodo.
Alzai un po' il mento, stringendo bene e lisciandola sul petto; presi
il
panciotto e la giacca e li indossai guardando il risultato.
Andavo bene, mi ero abbigliato come avevano ordinato i miei genitori
per
apparire perfetto alla cena di quella sera.
Un'altra inutile cena per trovarmi una moglie, un altro stupido modo
per
cercare di intrappolarmi in un matrimonio che -per il mio buon senso-
non mi
avrebbe mai mandato in guerra.
Maledetto quel giorno in cui avevo accennato a mia madre che solo una
cosa
avrebbe potuto fermarmi dall'entrare nell'esercito,
ovvero l'avere una
moglie o dei figli a casa.
Con
l’avvicinarsi della maggiore età e con essa il
permesso di arruolarsi, i miei
genitori cercavano in tutti i modi di farmi legare a qualcuno.
Per prima c'era
stata Janine Costance, poi Catherine Brown e sua cugina Candice, Laura
Turner e
sua sorella Lise, Sabrina Dowson, Beatrice Jefferson, Sarah Vidal, e
quella
sera toccava a Regina Miller, figlia dell’avvocato Gregory
-collega di lavoro
di mio padre- e di sua moglie Danielle.
Sinceramente,
non avevo la più pallida idea di chi fosse
quella ragazza: non ne
avevo mai sentito parlare, finché mia madre non mi
aveva annunciato di
aver combinato l’appuntamento.
Passai una mano tra i capelli neri e mossi, tanto per
poter dire di
averli
toccati per sistemarli, e poi uscii dalla mia camera, chiudendo la
porta dietro
di me.
Percorsi il corridoio del piano superiore della casa,
scesi le scale ed
arrivai
nel salone dove vidi mia madre seduta al pianoforte.
Sorrisi nel sentirla suonare e la affiancai.
«Alex» sussurrò quando
posai le mani
vicine alle sue, rafforzando la melodia.
«Oh, i miei due artisti preferiti»
scherzò mio padre entrando in salone,
arrivando dalle scale.
Mia madre rise, facendoci sentire il suono cristallino
più
bello che noi, i
suoi due uomini, avessimo mai sentito.
Spostando lentamente le dita da un tasto all'altro,
mettemmo fine alla
melodia,
suscitando un applauso da mio padre e uno sguardo ammirato dalla nostra
governante, Chelsea, che entrava in quel momento per aprire la porta al
suono
del campanello che, mi accorsi solo in quel momento, stava suonando.
«Oh, i Miller!» esclamò
mia madre,
alzandosi in piedi e lisciandosi con le mani
il vestito. «Dai, Alex, alzati!» aggiunse rivolta a
me.
Sbuffai leggermente, seguendo lei e mio padre
all'ingresso del
salotto
dove Chelsea avrebbe accompagnato gli ospiti, dopo aver preso i loro
soprabiti.
Arrivarono dopo qualche secondo, anticipati dalla
governante che li
salutò con
un inchino del capo prima di andarsene in cucina.
«Gregory, Danielle, Regina...
Benvenuti!» li
salutò mio padre, stringendo la
mano dell'uomo e baciando quella della donna accanto a lui.
«Grazie mille per l'invito, George»
disse il signor
Miller a mio padre, «Amelia,
che piacere...».
«Piacere mio, Gregory. Danielle, che gioia
rivederti!» esclamò poi, baciando
sulle guance l'altra signora.
Poi mi prese per mano, facendomi avvicinare a loro
«questo
è il nostro Alexander»
mi presentò.
Li salutai come aveva fatto mio padre, aggiungendo un
bacio sul dorso
della
mano della ragazza nascosta dietro ai signori ospiti.
«E lei è la nostra
Regina» sorrise
Gregory, nel presentarla.
«Molto piacere» aggiunsi.
«Anche per me» replicò
prima di salutare
i miei genitori.
A cortesie concluse, mio padre fece strada verso il
salotto,
invitandoli ad
accomodarsi per prendere un drink.
I nostri genitori iniziarono a parlare tra di loro; io
e Regina,
invece,
restammo in silenzio intervenendo solo se interpellati.
I discorsi politici dei nostri padri si confondevano
con le chiacchiere
più
frivole delle due signore, ed io guardavo la ragazza seduta
accanto alla
madre.
Era carina, ma aveva qualcosa che la faceva sembrare
quasi sfiorita.
Forse il
portamento rigido, forse i capelli, biondi e ricci, tenuti in una
crocchia
seriosa sul capo o gli occhi castani che parevano quasi tristi.
Nella mia
mente, una croce rossa si sovrappose al nome "Regina Miller":
non sembrava proprio il mio tipo.
La serata, che già mi sembrava inutile,
perdeva sempre di
più il mio interesse.
«Alexander, perché non ci allieti
suonando
qualcosa al pianoforte?» chiese mia
madre sorridendomi, improvvisamente.
«Certo,» annuii, alzandomi in
piedi, «con
permesso...» mormorai prima di
allontanarmi.
Notai Regina seguire i miei movimenti verso lo
strumento, forse le
interessava
la musica classica.
Appoggiai le mani sui tasti ed iniziai a muoverle dando
vita a "Per
Elisa" di Beethoven, una delle prime melodie che avevo
imparato a
comporre.
Quando finii, mi alzai e sorrisi all'applauso scherzoso
delle due
signore.
«Oh, Alexander, sei molto bravo.
L’hai riprodotta
benissimo, vero, Regina?»
aggiunse Danielle Miller.
«Sì, è vero»
annuì
lei, imbarazzata e con le guance rosse, abbassando il capo.
«Quest'estate, a Parigi, abbiamo avuto
l'onore di assistere
ad uno spettacolo
di musica classica dato da un conservatorio. Non hai nulla da invidiare
loro,
anzi, potrebbe essere il contrario! Pensi mai di darti
alla musica?»
domandò la signora, interessata.
«No, suonare il pianoforte è solo
un piacere, per
me, signora, ma la ringrazio»
risposi, invidiandole il fatto di essere stata a Parigi e di aver
persino
ascoltato dal vivo un concerto classico.
«Quindi cosa pensi di fare del tuo
futuro?» si
intromise Gregory Miller.
«Io...» iniziai.
«Alexander vorrebbe arruolarsi, ma io ed
Amelia non siamo
molto d'accordo»
rispose mio padre.
«L'esercito...» mormorò
Gregory.
«Tutta colpa di questa... pubblicità! Giovani
che non sanno nemmeno cosa li aspetta...».
«Sinceramente, signore, desidero solo servire
il mio Paese.
Non è forse il
dovere di ogni uomo?» domandai piccato.
«Sì, certo» sorrise.
«Ma credi
davvero di essere pronto a tutto quello che ti
si presenterà? E non parlo del sangue, dei tuoi amici morti
o del tuo stesso
rischio di morire. No, non solo di quello. Parlo del dover prendere
decisioni
difficili in momenti critici, parlo del dover decidere di uccidere un
uomo, un
ragazzo come te, con una famiglia a casa, magari dei figli, solo
perché lui
o i suoi superiori hanno idee differenti dalle tue»
concluse con sguardo
lontano.
«Io... Io so cosa mi si
presenterà...»
mormorai.
«Oh, ma perché dobbiamo parlare di
queste cose
poco prima di cena? Spostiamoci
nella sala da pranzo, invece» intervenne mia madre parlandomi
sopra.
«Sì, è vero. Scusami,
Amelia, mi sono
fatto prendere dai discorsi» si
giustificò l’avvocato Miller.
«Non preoccuparti, Gregory» sorrise
mia madre,
alzandosi e facendo strada agli
ospiti verso l'altra stanza.
«Stai bene?» mi chiese una voce.
Alzai gli occhi dal mio bicchiere e lanciai uno sguardo
a Regina, in
piedi
davanti a me.
«Sì,» annuii,
«sto
bene» aggiunsi alzandomi, arrivando di una decina di
centimetri più in alto rispetto a lei.
«Scusa mio padre, davvero»
mormorò.
«Lui... è stato in guerra e... a volte
esagera.»
«Non importa, non preoccuparti»
risposi.
«Seguiamo gli altri.»
Ci accodammo ai nostri genitori, raggiungendo la sala
da pranzo e
sedendoci.
I miei genitori si misero a capotavola, da un lato si
accomodarono i
signori Miller
mentre dall'altra io e Regina.
Presi la bottiglia di vino rosso davanti a me e me ne
versai un po'.
«Vuoi?» chiesi alla ragazza.
«Sì, grazie»
annuì.
La cameriera entrò con le portate di arrosto
e contorni
vari, servendo le
porzioni già preparate nei piatti.
Non vedevo l'ora che quella serata finisse: era un
disastro.
~
«Grazie
mille,
è stata davvero una bella serata»
commentò mia madre mentre i Miller indossavano
i propri cappotti.
«Sì, è vero. Ma grazie a voi, per
averci invitato» annuì Danielle.
Trattenni un'espressione ironica, del tutto in disaccordo con quelle
parole e
sorrisi cortese ai saluti, ricambiandoli.
Non appena la porta si chiuse, sospirai.
«Alex!» mi rimproverò mia madre.
«Scusa, mamma. Ma per me, non è stata per niente
una bella cena. Quella ragazza
non ha spiccicato parola! Quasi preferisco la Brown...!»
esclamai, ricordando
una delle ragazze che, al contrario, non la
smetteva un attimo di parlare.
I miei genitori risero «Oh, beh, è molto
timida, Alex...» la giustificò
mia madre.
Sbuffai «Sì, ma... neanche una parola!»
ripetei facendoli sorridere.
«Comunque, Danielle mi ha detto che sta aiutando ad
organizzare la Maratona
annuale[1]
che partirà da Grant Park[2].
Mi ha proposto di
darle una mano, ed io ho
accettato» spiegò.
«Oh,» mormorò mio padre, «sei
stata molto cortese, Amy».
«Beh, sai che mi piace dare una mano. Non ho mai organizzato
feste sportive.
Sono così curiosa!» esclamò facendoci
ridere per il suo tono entusiastico.
Due parole...
[1] La Chicago
Marathon è nata nel 1905, ed
è una manifestazione
che esiste tuttora, anche se sotto il nome di Bank of America
Chicago
Marathon . Non conosco il percorso dei primi anni, ma so che
ora partono
proprio da Grant Park.
[2] Grant
Park è
realmente un
parco di Chicago, uno tra i più importanti.
Dopo
avervi spiegato le due annotazioni più
importanti, passo alle mie considerazioni in merito alla storia.
Praticamente è la prima originale che scrivo, avrei fatto un
altro tentativo
tempo fa ma è stato sospeso e mai ripreso.
Questa storia inizialmente era stata creata come una fanfiction sul
paring
Edward/Bella di Twilght. L'avevo anche iniziata (ora
provvederò a cancellarla,
però) e anch'essa sospesa a causa di problemi personali.
Adesso avevo pensato di riprenderla, ma poi con il sostegno di LyraWinter
(sì,
è grazie a te e lo sai) ho deciso di trasformarla in
un’originale.
Sono terrorizzata, sì.
Spero davvero di riuscire a portarla a
termine perché significherebbe molto per me sapere di aver
potuto creare una
storia totalmente mia, con personaggi ed intrecci solo miei.
Nello stesso
modo, spero vi piaccia e che mi seguirete fino alla fine.
Ho molte idee
in testa per questa storia!
Per chi non mi conosce, vi avverto già che io aggiorno una
volta a settimana
(credo al giovedì adesso) e che dopo due-tre giorni dal
post, nel mio blog
metto un piccolo spoiler.
Se avete
domande contattatemi tranquillamente, anche se volete dirmi che questo
capitolo
è orribile (spero di no, dai!)!
Ora scappo a
mangiare la mia torta di compleanno,
a presto!
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Capitolo 2 *** Dote. ***
- Old loves they die
hard;
- Old lies they die
harder.
Capitolo
II: Dote.
- Alexander
- Lo
vedevo da come ti muovevi
- che eri sola anche
in mezzo
alla gente.
- [Nel bene e nel
male, Mondo
Marcio
-
- Settimane
dopo, quella cena era caduta
nel dimenticatoio.
- Nel
frattempo, mia madre e Danielle
Miller avevano continuato con i preparatici per la maratona che fin dalla prima edizione
ospitava tantissimi
partecipanti e spettatori, provenienti sia da Chicago che dalle
città vicine.
- Io
e mio padre eravamo costretti a parteciparvi
dato che mia madre aveva lavorato molto perché tutto fosse
perfetto.
- Quindi
mi ero preparato e poco dopo
avevo raggiunto i miei genitori a Grant Park, addobbato con luci e
festoni
colorati, cartelloni d’incitamento e pubblicità.
- In
più, vicino all’entrata si trovavano
diverse bancarelle gestite dai negozi e dai locali di ristoro della
città che
vendevano piccoli oggetti ricordo o cibi e bevande “per
grandi e piccini” come recitativa una locandina.
- Fermai
la mia passeggiata per non
venire travolto dalla corsa di due bambini e poi proseguii,
raggiungendo il mio
amico Aaron Hughes e suo cognato Leonard Price.
- «Ragazzi»
li salutai, dando anche un
pacca sulla spalla ad Aaron.
- «Ehi,
Alex, come va?» mi chiese
Leonard.
- «Bene,
tu? Come si sta da sposati?»
domandai scherzando sul suo recente matrimonio.
- «Benissimo,
è un’esperienza che ti
consiglio» sorrise.
- Risi
anch’io, senza però replicare,
chiedendo invece dove si trovassero le loro signore.
- «Qui
in giro,» rispose Aaron, «a
spettegolare insieme ad altre ragazze, sicuramente. Ma è da
un po’ che non ci
vediamo, Alex,» aggiunse sempre il mio amico,
«dimmi un po’, tua madre ti ha
più organizzato cene per trovarti una donna?»
indagò divertito.
- Sbuffai
«no, per fortuna. La Miller
deve essere stata l’ultima.».
- «Regina?»
chiese Leonard. «È la
migliore amica di Eloise» spiegò, riferendosi a
sua moglie.
- «Davvero?»
domandai stupito, non
trovano affinità tra le due. «Mi è
sembrata l’opposto di tua moglie» aggiunsi
infatti.
- «Sono
molto simili sotto certi aspetti,
ma anche davvero differenti sotto altri, è vero. Sono amiche
fin da piccole,
almeno credo. Regina è una brava ragazza»
annuì.
- «Leonard,
ti sei alleato con la signora
Wood per trovare una moglie ad Alexander?» scherzò
Aaron.
- Price
rise «no, no, assolutamente. Per
quanto io pensi che sarebbe ora che anche tu, Alexander, metta la testa
apposto…».
- «La
mia testa sta benissimo così»
ribadii.
- «Non
mi trovi d’accordo» commentò una
voce femminili dietro di me.
- Mi
voltai, seppur riconoscendo il tono
tagliente di Breanna Price Hughes, moglie di Aaron e sorella di Leonard.
- «Breanna,
grazie, sei sempre molto
gentile» la salutai chinandomi per baciarle la mano.
«Eloise…» aggiunsi,
salutando alla stessa maniera anche la moglie di Leonard.
- «Buonasera,
Alexander» mi salutò lei,
lanciando un’occhiata alla sua sinistra. «Ah,
conosci Regina Miller?» aggiunse
allungando una mano verso la ragazza accanto a lei.
- «Sì,
Eloise, più o meno ci conosciamo
già. Buonasera» rispose la sua amica per me.
- «Regina…»
la salutai come avevo fatto
con le altre due signore.
- «Forse
Aaron non la conosce» riprese
Breanna. «Caro, è la figlia
dell’avvocato Gregory Miller. Lui, Regina, è mio
marito, Aaron Hughes» concluse.
- «Piacere»
disse lei allungando
una mano che lui baciò
cortesemente.
- «Piacere
mio. Finalmente conosco la
ragazza che completa questo magico trio» sorrise lui.
- Lei
rise, facendomi voltare verso di
lei per il suono così divertito ed educato: non era una
risata di finta
cortesia ma nemmeno una sguaiata o strillante. Infine tossì
leggermente, scusandosi.
- «Forse
non dovevi uscire, oggi. È da
qualche giorno che lamenti questa tosse» la riprese Eloise,
posandole una mano
sul braccio.
- «Non
è nulla, Eloise, tranquilla» le
sorrise. « Però forse hai ragione, è
meglio che rientri. Buona serata a tutti».
- Ricambiammo
i saluti e poi se ne andò
sola, dicendo di passare a salutare i suoi genitori prima di andarsene
a casa.
- La
osservai un attimo mentre si
allontanava tra la folla scalpitante. Lei, così piccola e
leggera col suo
abitino azzurro cielo e i capelli biondi raccolti in una lunga treccia
scomposta, che camminava cercando di schivare la gente che si muoveva
febbrile,
preoccupata di far del male o farsene.
- Sbattei
le palpebre, perdendola di
vista. Tornai a guardare i miei amici, cercando di capire di cosa
stavano
parlando per intromettermi nei loro discorsi.
- Come
se nulla fosse successo. Perché
nulla era successo.
-
- ~
-
- La
corsa ebbe inizio sotto le urla d’incitamento
di moltissime persone accorse da ogni dove per assistere
all’evento che, dopo
ormai anni dall’inizio destava ancora molta
curiosità.
- Mi
allontanai da quella folla, infastidito da
tutto quel baccano e quell’entusiasmo, raggiungendo mio padre
che se ne stava solo
in disparte, a fumare una delle se sigarette.
- «Alexander,
sei qui» mi salutò.
- «Sono
arrivato da un po’, a dir la verità, ma ho
perso tempo con Aaron e Leonard» spiegai.
- «Capisco»
annuì, restando con lo sguardo a fissare
un punto lontano ed indefinito.
- Lo
osservai, perplesso dal suo silenzio e dalla
sua espressione tormentata. «Qualche problema,
papà?» domandai, quindi.
- Finalmente
girò il viso per guardarmi, seppur di
sfuggita. «No. No, Alexander. Poco fa ho incontrato Jack
Brown, mi ha detto che
ha promesso in sposa Catherine ad un imprenditore di
Springfield» cambiò
discorso.
- «Oh»
mormorai, sorpreso, ripensando alla frivola
ragazza che mi era stata presentata durante una delle famose cene.
- «Sì.
Alexander, dovresti deciderti prima che anche
le altre ragazze vengano promesse» mi consigliò.
- «Non
mi voglio sposare, papà, quante volte devo
ripetertelo?»
mi trattenni dallo sbuffare.
- «E
invece lo farai, Alex. Non ho intenzione di
dover stare in pensiero o consolare tua madre perché tu sei
in guerra. Non ci
renderai orgogliosi di te, così» sbottò.
- «Io…
Vi renderei orgogliosi essendo io infelice?»
domandai, incredulo.
- «Non
sarai infelice. Sono tutte belle donne,
vedrai che ti troverai bene. Anche il mio matrimonio è stato
svolto con le
stesso modalità del tuo, ed io e tua madre ci amiamo. No
sarà facile, è vero,
ma vedrai che…» spiegò.
- «Papà,
ti prego…» lo interruppi.
- «No.
Decidi, Alex, o mi costringerai a scegliere
per te. Ti do una settimana» concluse, gettando la sigaretta
per terra.
- La
schiacciò col piede, allontanandosi, mentre io
guardavo la sua figura fondersi con la gente.
- La
mia dignità era stata pestata come quel
mozzicone, caduto a terra e lasciato lì a bruciare i propri
resti.
-
- ~
-
- Una
settimana, una settimana per scegliere la
donna con cui avrei formato una famiglia, la donna che sarebbe stata
mia
moglie, con cui avrei passato una vita.
- Una
donna che mi avrebbe reso –anche se non
direttamente per colpa sua- infelice, già lo sapevo.
- Una
o l’altra, a quel punto non mi importava più,
sarebbe stato lo stesso.
- Troppo
sconvolto dalle parole di mio padre, me ne
andai da Grant Park, senza salutare nessuno. Semplicemente mi inviai
verso
l’uscita e poi vagai per le strade dei quartieri vicini,
cercando di realizzare
un pensiero che non fosse rabbioso e contro mio padre.
- Dopo
diversi minuti, mi guardai intorno, per
cercare di capire dove il mio camminare senza destinazione mi aveva
portato.
- Mi
trovavo in un o dei tanti quartieri benestanti
di Chicago, poco lontano dal mio, costellato da case di simile fattura,
dalle
mura bianche e con un porticato che dava sui giardini che
d’estate erano pieni
di fiori colorati.
- Continuai
a camminare per raggiungere la mia
abitazione, indeciso tra il chiudermi in camera o mettermi al
pianoforte per
tentare di rilassarmi.
- Sospirai,
sollevando il viso per guardare davanti
a me, nonostante i marciapiedi fossero vuoti: solo qualche giovane
coppia si
concedeva una passeggiata tranquilla, lontana dal marasma del parco da
cui mi
ero io stesso allontanato.
- Sul
portico di una casa, una ragazza se ne stava
in pace a ricamare, seduta su una sedia a dondolo di legno scuro.
- Fissai
i miei occhi sui suoi capelli biondi e
ricci, sulle sue mani piccole che leste guidavano l’ago sulla
stoffa bianca.
- Regina
Miller sollevò il viso, sentendosi forse
osservata. Portò una mano sulla fronte per coprirsi la vista
del sole pallido
di gennaio, cercando con lo sguardo una figura nota.
- Appena
mi vide, sorrise alzando una mano e
muovendo le dita in segno di saluto. Subito dopo le spostò a
coprirsi la bocca,
venendo scossa immediatamente dai singhiozzi della tosse.
- Non
restai un attimo di più e proseguii per la mia
strada.
- Lei
era una delle ragazze presentatemi.
- Lei,
un’altra… ormai non aveva più
importanza.
- Salve!
- Allora,
la storia inizia a delinearsi sempre di più. Il padre di
Alexander è stato molto duro, più in
là vedremo meglio il suo carattere e soprattutto le sue
motivazioni.
- Spero
che questa storia vi stia piacendo!
- Come
sempre, per eventuali domande, critiche, etcetera, potete contattarmi
tramite recensioni, messaggi, o siti vari che troverete nella mia
pagina autore.
- A
presto!
|
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Capitolo 3 *** Proposal ***
Dedico qusto capitolo ad ogni
persona che sta soffrendo, in Emilia.
Sono certa che nessuno di voi
starà perdendo tempo qui su EFP, ma il mio pensiero va a voi.
Ho avuto paura io per la scossa
che ho sentito, non riesco -e forse nemmeno voglio provare- ad
immaginare il vostro terrore che torna ad ogni scossa di assestamente.
Tenete duro. Passerà,
i momenti difficili passano sempre.
Stay strong, Italy is with you.
Italy is you.
Old
loves they die hard;
Old
lies they die harder.
Capitolo
III: Proposal.
Alexander
«Mi
dispiace, Alex, davvero. Non avrei dovuto essere così
brusco, ieri, ma… Io… La
nostra è una situazione particolare. Sta andando tutto male,
sono spaventato
per il nostro futuro…».
Sdraiato sul
mio letto, quella notte, pensavo al discorso fattomi da
mio padre il giorno seguente alla maratona.
Mi aveva
chiamato nel suo studio, poco dopo l’uscita di mamma per
delle
commissioni, e si era a suo modo scusato per come mi aveva
“rimproverato”, il
pomeriggio della maratona.
Ma le sue
scuse furono presto dimenticate, oscurate dal peso delle
spiegazioni che lui diede più tardi.
«Cosa
intendi, papà?» lo interruppi, spaventato.
«Degli
investimenti… Degli investimenti non sono andati a buon fine
e… Le spese della
casa, quelle per i tuoi nonni materni…»
balbettò. «Le nostre economia non sono
più buone come un tempo.».
«Q-Quanto
male stiamo?» chiesi.
«Possiamo
andare avanti tranquilli ancora qualche mese, ma… se le cose
non si sistemano,
se non riesco ad avere qualche buon cliente… non molto di
più» rivelò
vergognoso.
«Maledizione,
papà!» mi infuriai, alzandomi in piedi.
«Perché diavolo non me l’hai detto
prima?! Avrei potuto cercare un lavoro, aiutarti!» gridai.
«Speravo
di riuscire a risolvere la situazione, Alexander. Non volevo
spaventarti!»
mormorò.
«Non
volevi, eh? Credi che ora stia tanto meglio? E poi, che diavolo centra
un mio
ipotetico matrimonio con questa storia?» aggiunsi.
«Quelle
ragazze… hanno tutte… una buon adote, Alex.
Ci… Ci farebbe… TI prego, cerca di
capirmi…» si lamentò, posando il capo
tra le mani, stanco.
«Te
ne vuoi approfittare?» domandai incredulo.
«Non
so cos’altro fare, Alex… Tu, tua madre…
Io… non so cosa fare…»
ripeté.
Mi
sedetti sulla poltroncina di fronte alla sua scrivania e quindi a lui.
Passai
le mani tra i capelli, cercando di riflettere.
Una
moglie.
Un
mi o”sacrificio” per il bene dei miei genitori. Per
mia madre.
Imprecai
mentalmente contro mio padre, prima di risollevare gli occhi verso di
lui.
«Va
bene. Va bene, farò come vuoi. Per me è lo
stesso, scegli tu chi ritieni
migliore.».
Detto
questo, mi alzai e uscii dalla sala a testa bassa, come un condannato a
morte.
O
un condannato all’infelicità.
~
La mattina
seguente, io e mio padre eravamo soli a
fare colazione.
Mia madre
era rimasta a letto, accusando un gran
mal di testa e la governante si era premunita di portarle qualcosa da
mangiare
a letto.
Papà
si schiarì la gola, prima di parlare con gli
occhi fissi sulla tazzina di caffè davanti a lui.
«Credo
di… Io non so scegliere per te. Non
chiedermi di scegliere. Io.. Forse non dovevo metterti in
mezzo….» concluse
velocemente.
«Papà.
Papà, fermati» lo interruppi. «Stai
calmo.
Ti ho detto io che va bene e che voglio che scelga tu» gli
ricordai.
«Sì,
ma… Come posso scegliere io la donna con cui
dovrai passare la tau vita? Non volevo arrivassimo a questo, punto,
Alex, io…»
mormorò abbattuto.
«Ma
ci siamo, quindi… È inutile piangere sul latte
versato. Scegli al famiglia che più ti aggrada, scegli
tu» replicai stanco.
Quella
situazione era così ingarbugliata: Avevo
capito che mio padre dispiaceva tantissimo dovermi chiedere una cosa
simile ma,
nonostante ciò, ancora faticavo a credermi di dovermi
sposare per assicurare le
finanze di famiglia.
«A
quale famiglia preferiresti legarti, papà?»
domandai ancora.
«Tua
madre adorerebbe essere legata a Danielle
Miller da qualcosa di più di una semplice
amicizia» sussurrò.
Presi un
profondo respiro, prima di rispondere: «che
Regina Miller sia, allora».
~
Tutto si
svolse molto in fretta.
La sera
stessa, mio padre comunicò a mia madre la
“mia” decisione di sposare l’unica figlia
dei Miller. Come previsto, lei reagì
con gioia, abbracciandomi con lo stesso entusiasmo riflesso nei suoi
occhi
azzurri così simili ai miei.
Avevo
ricambiato la sua stretta, ringraziandola
alle sue parole piene di complimenti, asciugandole un paio di lacrime
di
commozione scese sulle guance rosse.
Quello che
fece subito dopo fu il gesto che mi
sconvolse di più in quella situazione: scambiandosi
un’occhiata d’accordo col
marito, si levò l’anello di fidanzamento, prese la
mia mano destra e lo posò
sul mio palmo.
«Sarebbe
molto bello se tu… Sì, beh, se tu usassi
il mio stesso anello» spiegò.
«Era
di mia madre» commentò mio padre,
avvicinandosi a sua moglie passandole un braccio intorno alla vita.
«Mamma…
ma… È troppo. Io…» balbettai.
«A
me… A noi, ha portato fortuna. Ora è giusto che
sia tuo. Di Regina, anzi» concluse felice.
Annuii,
osservando in fine gioiello tra le mie
mani: un tipico solitario, sormontato da un diamante importante, ma di
non
esagerate dimensioni.
«Grazie»
sussurrai baciandole una guancia.
Sperai
davvero che la fortuna che aveva colpito i
miei genitori, portandoli ad innamorarsi dopo il matrimonio, potesse
arrivare
anche a me.
«Nei
prossimi giorni dovremo andare a parlare con
Gregory e Danielle, va bene?» aggiunse lei.
«Sì…
Sì, certo» accettai, stringendo nel pugno,
teso al fianco, l’anello, un oggetto così piccolo
ma tremendamente pesante.
«Sono
così felice, Alexander. Regina è una
bravissima ragazza, sono sicura che andrete
d’accordo» commentò mia madre,
senza smettere di sorridere.
Cercai di
imitarla mentre annuivo per la centesima
volta.
Il parlare
con i signori Miller equivaleva a
chiedere la mano della ragazza.
Da
lì sarebbe stato definitivo.
Avrei
sposato Regina Miller.
~
“I
prossimi giorni” equivalsero alla
sera seguente.
A quanto
pareva, papà e Gregory Si erano
incontrati a lavoro, come ogni giorno, e in quell’occasione,
mio padre gli aveva
chiesto un incontro per la sera che il secondo aveva accettato con
decisione.
La mia
agitazione, dovuta all’ansia di segnare una
linea decisiva nel disegno del mio destino, era confusa da mia madre
con
l’emozione di chiedere alla dona che presumibilmente mi
piaceva di sposarmi.
Ma prima di
quello, mi sarei dovuto incontrare col
signor Miller per un breve – e sperai corto –
colloquio per chiedergli la mano
della figlia.
«Tranquillo,
Alexander» sospirò mio padre, spostando
le mie mani dal mio collo per sistemarmi la cravatta, dato che da solo
non ce
la facevo a causa dell’eccessivo nervosismo.
«È
che… Non so…» balbettai cercando di
rilassare
le spalle.
«Andrà
tutto bene, te lo giuro. Almeno questo te
lo devo» mormorò.
«Papà,
non… non ti sentire in colpa, dai…»
cercai
di calmarlo, seppure nella mia mente pensavo che il suo senso di colpa
fosse
giusto, vero.
Rispose con
un sospiro e una pacca sulla mia
spalla «andiamo».
~
Casa Miller
era molto modesta, per lo meno
all’esterno, e faceva parte di un complesso di abitazioni di
simile fattura,
tutte con un giardino anteriore ed un portico.
L’interno
era arredato con gusto, come potei
notare appena ci fecero entrare.
Con
più precisione potei osservare lo studio del
padrone di casa, in cui Gregory Miller accompagnò me e mio
padre.
Il pavimento
era coperto da una moquette di legno
scuro, in fondo, dietro alla scrivania, si trovava una lunga biblioteca
che
ricopriva l’intera parete, mentre alla sinistra
c’era un’elegante credenza.
Alla destra,
una grande finestra che illuminava la
stanza e che dava verso l’entrata dell’abitazione,
a segnare che il padrone di
casa poteva controllare tutto anche da lì sopra.
Mia madre
era rimasta al piano inferiore con le
due donne di casa, mentre, appunto, io e mio padre eravamo seduti sulle
comode
poltroncine di pelle rossiccia, di fronte alla scrivania.
«Allora,
a cosa devo questa visita?» chiese
Gregory, porgendoci due bicchieri di cristallo colmi di brandy.
Lo
sorseggiai per farmi coraggio, scambiai
un’occhiata veloce con mio padre ed infine parlai:
«io… Signor Miller, vorrei
chiedere la vostra benedizione per… per chiedere in sposa
vostra figlia»
riuscii a spiegarmi.
Via il dente, via il
dolore.
Sollevò
le sopracciglia, sorpreso, «mi stai
chiedendo la mano di mia figlia?».
«Esattamente»
annuii.
«Oh,»
mormorò, sedendosi meglio sulla
sedia, «dimmi un po’, Alexander, sei maggiorenne,
sei adulto. Lavori?»chiese.
«Non
proprio, signore. Sono in tirocinio
all’ospedale di Chicago, per diventare medico
chirurgo» spiegai.
«Dottore.
Beh, una buona occupazione, certo»
annuì, restando un attimo in silenzio. «Dove pensi
andrete a vivere?» aggiunse
poi.
Rispose mio
padre al mio posto «mi sto mettendo in
opera per ristrutturare la casa dei miei genitori, a pochi minuti dal
centro di
Chicago e da qui. È davvero un bel posto»
spiegò, lasciandomi senza parole.
«Sì,
sì, ho presente il posto» assentì
Gregory. «Va
bene, Alexander,» aggiunse, dop avermi gaurdato intensamente,
«va bene. Vieni
qui, figliolo, fatti abbracciare.».
Espirai
profondamente, alzandomi per andargli
incontro a ricevere la sua stretta e dei baci sulle guance oltre a
qualche
pacca sulla spalla.
«L’anello?»
domandò.
Presi dalla
tasca dei pantaloni la scatolina in
velluto nero che conteneva l’anello di mia madre, fatto
pulire in gioielleria
perché splendesse e luccicasse ancora di più.
«Oh,
meraviglioso!» esclamò guardandolo.
«Era
di mia madre, poi è stato di Amelia e ora
sono contento che possa passare nelle mani di tua figlia,
Greg» disse mio
padre, alzandosi in piedi per avvicinarsi a noi e stringere
calorosamente la
mano dell’uomo.
«Allora,
scendiamo. Credo che tre bellissime donne
ci stiano aspettando al piano inferiore. Diamo anche a loro il lieto
annuncio»
esclamò Gregory aprendoci la porta dello studio.
Scendemmo al
piano inferiore, raggiungendo le
donne in salotto.
«Oh,
eccovi finalmente!» esclamò Danielle Miller
vedendoci arrivare. «Volete del caffè? O preferite
un drink?» chiese.
Rifiutai, al
contrario degli altri due che si
sedettero sul divano di fronte alle loro moglie.
Deglutii,
avvicinandomi al divano su cui era
seduta Regine «vorresti… Mi accompagneresti fuori
un attimo?».
La ragazza
sollevò il viso, sbattendo le palpebre,
frastornata dalla mai richiesta inaspettata.
Si
scambiò un’occhiata con la madre, che
annuì
concorde, prima di annuire.
«Oh,
sì, andate pure sul portico. È una
così bella
sera!» aggiunse la signora Miller.
Accettò
la mia mano, alzandosi, a mi accompagnò
fuori, sul portico a cui aveva accennato la madre.
La portai a
sedersi su una delle sedie in vimini
poste di fuori, mentre io restai in piedi.
Presi un grande respiro e chiusi per un secondo
gli occhi per prendere coraggio, mentre le mi osservava sempre
più stranita.
«Regina…» mormorai guardandola e
facendomi più
vicino a lei.
Attorcigliò le mani, agitata, aspettando che
continuassi.
«Io…» sospirai, mettendomi di fronte a
lei e
scendendo ad inginocchiarmi, come mio padre mi aveva insegnato a fare.
Presi la
scatola di velluto tra le mani e la aprii davanti ai suoi occhi
«vorresti…
vorresti diventare mia
moglie?».
Buon pomeriggio!
Settimana
a dir poco frenetica, quasi quanto questo capitolo!
Mr Woods ha spiegato le sue motivazioni, Alexander con molta fatica sta
cercando di accettarle dovendo "sacrificarsi" per mettere le cose a
posto in un modo un po' particolare.
Regina
accetterà?
Spero di trovare qualche recensione,
a presto!
|
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Capitolo 4 *** Pensieri parole opere ed omissioni ***
Old
loves they die hard;
Old
lies they die harder.
Capitolo IV:
pensieri, parole, opere ed
omissioni.
Regina
Già
il fatto che mi avesse
chiesto di uscire in veranda era sospetto. Quando, poi, si era
inchinato
davanti a me, speravo con tutta me stessa che non stesse per fare
quello che
quella posizione indicava solitamente.
Un
anello con un diamante
di medie dimensioni si mostrò ai miei occhi, mentre le mie
orecchie percepivano
la sua domanda: «vorresti… Vorresti diventare mia
moglie?».
Boccheggiai,
sorpresa,
indecisa se osservare il solitario o i suoi occhi azzurri che
nell’oscurità di
quella sera di settembre sembravano quasi brillare quasi della stessa
intensità.
Restò
in silenzio,
guardandomi con aspettativa.
«Io…»
Sì
o no, la risposta era
semplice e breve, due sole lettere ma allo stesso tempo era
così difficile…
«Io…»
Alexander
Wood l’avevo
visto solo un paio di volte, in breve occasioni in cui ci eravamo
scambiati
solo qualche parola.
«Alexander,
io…»
«Lo
so che praticamente non
ci conosciamo» mi interruppe. «Ma… mi
hai colpito dalla prima volta che ti ho
vista. Non deve capitare domani, Regina, e… se non vuoi,
dillo. Faremo finta di
niente, anche se… beh, tuo padre lo sa,
logicamente» aggiunse, abbassando o
sguardo.
Certo,
papà lo sapeva,
ovviamente.
Lo
avevo davvero colpito?
Così tanto quanto lui aveva colpito me?
Così
bello, così
intelligente…
«Io…
Sì, Alexander. Voglio
diventare tua moglie. Sì, sì!» esclamai
infine, sorridendo.
Sorrise,
sfilando l’anello
dala scatolina per prendendo la mai mia mano sinistra.
Piano
infilò il solitario
al mio anulare, nell’esatto momento in cui la porta
d’entrata si apriva,
facendo corre re fuori le nostre madri.
Mia
madre mi corse incontro
abbracciandomi e lo stesso fece la signora Woods, impegnando qualche minuto in congratulazioni
e auguri vari.
Ero
promessa, promessa ad
Alexander Woods.
Non
mi sembrava vero.
~
Alexander
Accettai
gli
abbracci e le congratulazioni della signora Miller, sorridendo, mentre
dentro
di me mi sentivo uno schifo.
Come
potevo
averle detto quelle cose?
Come
potevo
aver esagerato in quel modo, arrivando a dirle di essere stato colpito
da lei?
Per
Dio,
ricordavo esattamente quello che avevo pensato la sera di quella
maledetta
cena, ovvero tutto il contrario!
Avevo
visto il
suo sguardo imbarazzarsi a quelle parole, ma allo stesso tempo
emozionarsi come
se l’avessi resa felice.
Ed
era
capitolata, infine, accettando di sposarmi, pensando di piacermi.
Non
negavo di
trovarla bella, ma… non era abbastanza.
Sospirai
di
nascosto rientrando in casa Miller, preceduto dalla mia futura sposa e
dalla
mia futura suocera.
Futuro,
futuro
maledetto!
~
Nei
giorni
seguenti non riuscii più a guardare mio padre in faccia.
La
realtà mi si
era parata davanti agli occhi, io stesso l’avevo condotta
fino a lì, eppure...
non riuscivo ad accettarla.
La
novità che
Regina Miller, la figlia dell’avvocato Miller, aveva un
anello al dito messole
da Alexander Wood era girata in fretta, come se tutta la
città avesse assistito
alla mai scadente proposta.
Aaron
e Leonard
mi avevano fatto le congratulazioni, come anche le loro mogli, contente
perché
anche io e Regina saremmo diventati una coppia, unendo del tutto il
gruppo.
«Hai
seguito il
mio consiglio!» aveva esclamato Breanna, ricordandomi il
giorno della Maratona,
quando tutto era cominciato.
Già
in molti si
chiedevano quando si sarebbero svolte le nozze.
La
mia
curiosità, seppure fossi il primo interessato, era pari a
zero. Permisi a
Regina e le nostre madri di occuparsi di ogni cosa, diedi loro completa
carta
bianca.
L’unica
cosa
che avrei dovuto fare era presentarmi all’altare, con un bel
sorriso stampato
sul volto, il pomeriggio del 3 marzo.
~
Regina
Mia
madre
singhiozzava sul divanetto dietro di me.
Eravamo
nei
camerini del negozio di una delle migliori sarte di Chicago, colei che
mi aveva
fabbricato l’abito da sposa che indossavo per la prova in
quel momento.
Sorrisi
emozionata, lisciando le mani sul corpetto già rigido di
suo, decorato da
ricami e perline.
Mi
sentivo
bellissima e allo stesso strana. Non avevo mai indossato un abito
così
importante e… così bianco!
«Oh,
tesoro,
sei meravigliosa!» sospirò mia madre, alzandosi
per venirmi vicina e premendomi
le mani sulle braccia per non rischiare di rovinare il vestito.
Posò
la testa
sulla mia spalla destra, osservandomi sorridente, facendomi ridacchiare
per i
suoi modi da bambina.
«Dici?
Non è
che questa scollatura sia un po’…
esagerata?» domandai, passando le dita sulla
scollatura a V che lasciava intravedere, alla fine, l’incavo
tra i seni.
Non
avevo mai
indossato qualcosa di così esagerato.
«No,
tesoro! È
il tuo matrimonio! E poi,» aggiunse in tono basso ma non
esageratamente per
essere comunque sentita da me, «dovrai pure sedurre un poco
quel ragazzo, su!
Ma vi siete mai visti in questi giorni?».
Arrossii,
guardandola
con rimprovero, facendola ridere. «No,» ammisi in
un sospiro, «non ci siamo mai
visti».
«Perché
non vai
a trovarlo in ospedale per pranzo? Gli porti qualcosa da
mangiare!» esclamò,
entusiasta della sua nuova idea.
Mi
morsi il
labbro, indecisa e stuzzicata dalla sua proposta. «Ma non
vorrei disturbarlo…»
«Ma
no,
figliola! Sei la sua fidanzata, diventerai presto sua moglie, come
potresti
disturbarlo?!»
Sorrisi,
annuendo convinta.
Sua moglie.
~
Avevo
seguito
il consiglio di mia madre e, appena finite le nostre commissioni, ero
andata in
una pasticceria per prendere qualche dolcetto ad Alexander; infine mi
ero
diretta all'ospedale.
Un
po’
imbarazzata, chiesi di lui all’infermiera
all’entrata che suppose fosse in
mensa, data l’ora.
Mi
feci
spiegare il percorso e la raggiunse dopo un paio di minuti. Spiai dalla
porta
aperta l’ambiente, cercandolo con lo sguardo.
Lo
trovai
seduto ad un tavolo con alcuni colleghi. L’agitazione mi
stava uccidendo, stavo
già pensando di tornare a casa: che figura avrei fatto ad
andare a lì, da lui e
i suoi amici?
Oddio!
Presi
un
profondo respiro avvicinandomi a lui, attirando gli sguardi dei suoi
colleghi
al tavolo.
«Alexander…»
lo
chiamai, sicuramente con le guance rosse.
Si
girò e mi
guardò sorpreso prima di sorridermi.
«Regina…
Cosa
ci fai, tu, qui?» mi domandò.
Feci
per
rispondere ma lui mi interruppe, dopo aver lanciato uno sguardo ai suoi
goliardici amici che ridacchiavano.
«Aspetta,
usciamo, tanto avevo finito» disse, prendendomi per un gomito.
Mi
portò in una
stanza lì vicino, una specie di sala relax, pensai
guardandomi intorno: un
divano, un tavolino con dei libri e qualche giornale, un altro con dei
biscotti
e una pio di bottiglie e bicchieri.
«Allora?
Stai
male?» chiese.
Sorrisi
per la
sua preoccupazione «no, no. Io ti… ti ho portato
questi. Non ci vediamo da un
po’…» mormorai passandogli il pacchetto
che gli avevo portato in regalo.
Sorrise,
mentre
li scartava, ma la sua espressione cambiò velocemente,
guardandoli.
«Dolci…
Con
cosa sono?» chiese con espressione infastidita.
«A-Al
cioccolato» risposi esitante, preoccupata dal suo tono.
«Ne
sono
allergico, Regina» replicò, restituendomeli
malamente.
«Io…
Scusa, non
lo sapevo» mormorai prendendoli.
Non
commentò,
restammo in silenzio per un po’ mentre lui evitava il mio
sguardo, quasi stesse
cercando una via di fuga da quella situazione.
«Devo
andare»
disse poi, lui, spezzando l’atmosfera.
«Certo,
va
bene» annuii, guardandolo avvicinarsi alla porta per uscire.
«Aspetta!» lo
fermai poco prima che uscisse, «Ci-Ci rivediamo in questi
giorni?» chiesi
timidamente.
«Non
lo so. Ho
molto lavoro» si giustificò, spostando le mani
dentro alle tasche del camice
bianco.
«Una
sera… Alla
sera non lavori, no?» tentai nuovamente.
«La
sera sono
stanco, Regina» sibilò.
Deglutii,
con
le lacrime che volevano scendere prepotenti.
«Scusa»
sussurrai senza un motivo preciso.
«Perché
diavolo
ti stia scusando?!» esclamò.
Boccheggiai,
«io… scusami…» ripetei
stupidamente, arretrando di qualche passo.
Si
passò una
mano tra i capelli, forse per calmarsi. «Torna a casa,
Regina» mormorò, prima
di uscire definitivamente dalla stanza.
Mi
guardai un
attimo intorno, sconvolta.
Mi
aveva
trattato così male…
Si
era
arrabbiato così tanto per una cosa che ignoravo? Era una
cosa così stupida!
Me
ne andai,
amareggiata da quella situazione, per tornare a casa e organizzare un
matrimonio che non sembrava avere, poi, delle così buone
fondamenta.
Il
mio
interesse nei suoi confronti sarebbe potuto bastare per entrambi?
Non
ne ero così
sicura.
Il
titolo, qualcuna di voi forse l’avrà
capito, è ripreso dall’atto penitenziale della
messa cristiana. A rileggere il
capitolo, pur non essendo io una grande praticante, quelle parole mi
sono
salite alla mente: ci sono tanti pensieri, parole, opere e, purtroppo,
diverse
omissioni.
Questo capitolo è un po' spezzettato, ma spero che vi sia
piaciuto comunque!
All'inizio si parte con una Regina felice ed emozionata per il suo
matrimonio, ma riga dopo riga la situazione si sconvolge e la ragazza
inizia a non credere poi molto ad un futuro sereno.
Voi cosa ne dite?
Grazie per seguirmi,
a presto!!
|
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Capitolo 5 *** Il gran giorno. ***
Old loves they die hard;
Old lies they die harder.
Capitolo V: il gran giorno.
Tutto quel che è stato
sai ch enon ritornerà,
il ragazzetto e quel campetto
non ritornerà,
il tempo che ho buttato
non ritornerà,
no, che non ritornerà,
no, ch enon ritornerà.
[Non ritornerà, Danny LaHome
Alexander
Mi passai una mano tra i capelli maledicendomi per l’ennesima mentre andai negli spogliatoi per togliermi il camice e riprendere la mia giacca, alla fine del mio turno.
Regina era passata gentilmente a trovarmi ed io l’avevo trattata molto male. Come potevo pretendere un matrimonio per lo meno rispettoso se per primo non mi comportavo in modo adeguato?
Sbuffai, uscendo dall’ospedale, salutando alcune conoscenze che trovavo per la via.
Sarei dovuto andare a casa sua, per scusarmi adducendo a qualche futile scusa.
Il problema era che ogni volta che la vedevo, che la pensavo, non riuscivo a non darle la colpa di quel matrimonio, a lei che colpe non ne aveva.
No, lei non aveva colpe, eppure non riuscivo a trattarla almeno gentilmente.
Sospirando, svoltai per la strada che conduceva a casa mia, programmando di passare dai Miller, dopo cena.
Diavolo, dovevo imparare a comportarmi meglio.
~
Prima di arrivare a casa Miller ebbi la fortuna di trovare una fioreria ancora aperta. Comprai una sola rosa rossa, simbolo di amore e passione, secondo gli ideali comuni.
Sperai fosse un fiore di suo gradimento, almeno ne avrei azzeccata una.
«Alexander, non ti aspettavamo!» mi salutò la signor di Danielle, dopo essere stato accolto dalla cameriera di servizio.
«Lo so, signora, e spero davvero di non disturbare» mi scusai per non aver avvertito precedentemente.
«Oh, no, non potresti mai! Diventerai mio genero fra poco!» esclamò.
Sorrisi, senza rispondere, mentre lei mandava a chiamare Regina.
«Immagino sia per lei, quel fiore. Hai qualcosa da farti perdonare?» domandò divertita, indicandomi di sedermi sul divanetto di fronte al suo.
Feci una smorfia di assenso «questo pomeriggio sono stato un po’ brusco. Avevo passato una mattinata molto impegnativa, me ne dispaccio» inventai.
«Oh, capirà, sta tranquillo. Regina! Guarda chi è venuto a trovarti!» aggiunse, mentre la ragazza entrava in sala.
«Alexander…» mi salutò sorpresa.
«Buonasera, Regina. Questa… Questa per te» mormorai alzandomi e porgendole il fiore.
Lo accolse tra le mani, annusandone il profumo delicato, mentre le sue guance prendevano il colore della rosa.
«G-Grazie. È bellissima» mi sorrise, emozionata.
«Vorrei anche scusarmi per oggi. Mi sono comportato davvero maleducatamente» aggiunsi guardandola sinceramente dispiaciuto.
Sorrise dolcemente «va bene, non importa. Sono felice che tu sia qui, adesso».
«Regina, perché non spieghi ad Alexander qualcosa sul matrimonio? Su, dai!» intervenne la madre facendoci segno di sederci.
«Ti interessa?» mi domandò la ragazza, sottovoce.
«Certo, dimmi tutto» annuii, mostrandomi disposto ad ascoltare le chiacchiere che avevo cercato di evitare per tutta la settimana.
«Allora, il matrimonio si svolgerà alle ore 15.00 di sabato tre marzo,» iniziò, «nella qui vicina chiesa di St Peter. Poi seguirà il pranzo al ristorante “The Court” che ci metterà a disposizione al sala più grande. Poi... Vediamo, mia madre, e la tua, naturalmente, dovrebbero aver già spedito tutti gli inviti… Vero, mamma?».
«Sì, stanno già iniziando ad arrivare delle conferme» annuì Danielle.
Anche io e Regina annuimmo mentre in sala entrava Gregory.
«Alexander, che sorpresa! Buonasera» mi salutò mentre mi alzavo per stringergli la mano.
«Buonasera a lei, signore. Effettivamente, non era prevista una mia visita, spero no mene vorrete…» sorrisi, risedendomi.
«Assolutamente no, figliolo, sei di famiglia, ormai» ripeté le parole della moglie. «Ma, Danielle,» aggiunse, «non gli hai offerto nulla da bere? Santa donna, cosa devo fare con te? E di cosa stavate parlando?» disse veloce, raggiungendo la credenza per prendere dei bicchiere di cristallo e riempirli di whiskey, dopo che avevo dato il mio assenso per un goccio.
«Stiamo aggiornando Alexander sui preparativi del loro matrimonio, caro» rispose la moglie.
«Oh, Danielle!» la rimproverò, senza però aggiungere altro e passandomi il bicchiere con uno sguardo di compatimento.
Sorrisi, assaggiando il liquido scuro «non importa, signore, mi fa... piacere».
Che piacere, sapere di che morte sarei dovuto morire.
~
Il tre marzo arrivò più in fretta di quanto volessi.
Ma li trovai, al mattino, a fare i conti col pensiero di dover recarmi in Chiesa, magari con un bel sorriso in volto, per sposarmi.
Feci colazione con i miei genitori e la parlantina eccitata di ma madre, poi tornai in camera per lavarmi prima di indossare il vestito da sposa che avevo comprato qualche settimana addietro.
Mio padre entrò in camera mentre mi allacciavo la camicia bianca. Prese la cravata dalla spalliera della sedia posta accanto al comò e mi fece segno di girarmi verso di lui perché potesse mettermela.
Non ci scambiammo una parola, come succedeva ormai da giorni, troppo vergognoso l’uno, troppo arrabbiato l’altro.
Quando ebbe finito, mi porse una scatoletta, «mi piacerebbe che tu mettessi questi. Sono i gemelli che mio padre mi regalò per il mio matrimonio. Vorrei fossero tuoi, ora».
Deglutii, guardandoli «sì. Sì, grazie, papà» annuii posandoli sopra al comò.
Mi infiali il panciotto, grigio come la cravatta, e poi la giacca nera. Infine allungai le braccia verso di lui, chiedendogli di infilarmi i gemelli.
«Scendiamo» propose infine.
«Tu vai, io arrivo fra un attimo» mormorai.
Appoggiò la mano sul mio braccio, prima di andarsene. Guardai la mia figura allo specchio, senza pensieri.
Mi stampai un sorriso sulle labbra, e uscii dalla stanza, chiudendo la porta.
Da quella sera avrei dormito in un’altra cosa, con la mia donna.
~
Dopo aver passato qualche minuto con i miei parenti che si erano riuniti nel salone della casa dei miei genitori per un breve rinfresco, ci dirigemmo tutti alla chiesa di St Peter, dove si sarebbe svolto il matrimonio.
Vari invitati di entrambe le parti erano già arrivati, notai mentre mi guardavo intorno, scendendo dall’auto di papà, una delle poche che si vedevano in circolazione.
Sperai che tutto finisse in fretta, permettendomi di togliermi quel sorriso dal volto.
Mi avvicinai all’entrata della Chiesa, e con mia madre feci il mio ingresso.
Pochi secondo dopo, Regina, accompagnata da suo padre, avanzò nella navata centrale, avvicinandosi a me.
Gregory Miller le strinse forte la mano, prima di unirla con la mia.
Le alzai il velo, guardando il suo volto emozionato, dagli occhi già un po’ lucidi.
Lei, sì, che era felice di vivere quel momento.
Ci avvicinammo all’altare, poi il prete iniziò la cerimonia.
“Fratelli e sorelle, siamo qui riuniti…”
~
«Vuoi tu, Alexander, prendere la qui presente Regina Cècile Miller come tua sposa, promettendo di esserle fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarla ed onorarla tutti i giorni della tua vita?»
Trattenni il respiro, attendendo un attimo per rispondere.
Il fiato mi si era bloccato, la mia coscienza mi urlava di negare, di imporre il mio no.
«Alexander?» mi chiamò Regina, in un sussurro spaventato.
«Sì, sì, scusate. Sì, certo che lo voglio» riuscii a rispondere, sorridendo imbarazzato.
Lei sospirò, probabilmente terrorizzata da quel momento critico.
«E vuoi tu, Regina, prendere il qui presente Alexander George Woods come tua sposo, promettendo di essergli fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarlo ed onorarlo tutti i giorni della tua vita?» continuò il prete, sorridendo.
Lei non ebbe la mia stessa esitazione, anzi, replicò decisa: «sì, lo voglio».
Altre formule, lo scambio degli anelli e infine la messa finì mentre il prete aggiungeva: «ora, puoi baciare la sposa».
Deglutii, girandomi a guardare Regina.
Il nostro primo bacio.
Forse era quello che pensava anche lei mentre mi vedeva avvicinarsi al suo volto, che presi fra le mani per lasciare un lieve bacio sulle sue labbra.
Labbra morbidi e dolci che ricambiarono, prendendo al forma di un sorriso contento.
Osò una lieve carezza della mano sulla mia guancia, mentre i nostri invitati applaudivano intorno a noi.
Mi ero sposato.
Eh, si è sposato.
Mamma mia quanta felicità, ah?
Il capitolo è un po' veloce, gli sbalzi temporali si consumano, ma... Non mi pareva il caso di perdermi in chiacchiere inutili!
Spero vi sia piaciuto comuque...
Scusatemi il breve ritardo ma ho avuto delle giornate un po' impegnative!
Altra cosa di cui chiedo perdono è il format di questo capitolo come dei precedenti: purtroppo NVU ed io non andiamo d'accordo e quindi...!
Comunque, a presto! |
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Capitolo 6 *** Non c'è mai limite al peggio. ***
Old
loves they die hard;
Old
lies they die harder.
Capitolo
VII: non c’è mai limite al peggio.
Alexander
Due
mesi dopo…
Mi chiusi la
porta di casa alle spalle, dirigendomi
direttamente verso le scale per il piano superiore.
«Alexander?»
mi chiamò Regina dalla cucina.
Sbuffai,
tornando indietro per raggiungerla.
«Buonasera,»
mi salutò sorridente venendomi
incontro, «com’è andata oggi?».
«Bene,
al solito» annuii occhieggiando il tavolo
già preparato per due persone. «Ehm… Io
mangio fuori» aggiunsi.
Il suo
sorriso si smorzò «Oh. Non… Non me
l’avevi
detto. Dove-dove vai?» chiese stringendo tra le mani un
canovaccio.
«Uhm…
Da Daniel, il mio collega, ricordi? Mi ha
invitato a cena» risposi.
«Oh,
capisco» mormorò girandosi per raccogliere la
mia parte di stoviglie.
Li
appoggiò sul ripiano accanto al lavello e poi si
appoggiò ad esso con le mani.
«È
la terza sera di seguito. E va avanti da un
mese. Pensi… Pensi di poter mai restare a casa con tua
moglie a cena?»
sussurrò.
«Non
potevo rifiutare» replicai.
«Sai
che giorno è oggi?» chiese dopo un attimo di
silenzio.
«Sì,
lo so, Regina» sibilai.
«Sono
due mesi che siamo sposati» si rispose da
sola.
«E
quindi?» replicai scocciato. «Dobbiamo
festeggiare anche ogni mese, adesso?».
Sbatté
il canovaccio sul piano, facendomi
sobbalzare.
«No,
certo. Vattene, su, vai dal tuo amico.
Divertiti» aggiunse rigida, prendendo una pentola dai
fornelli e scolandone la
pasta che conteneva.
Mi
allontanai, proseguendo verso il mio studio per
lasciare la valigetta e rinfrescarmi velocemente il viso.
Poi tornai
giù e le urlai velocemente un saluto
prima di uscire.
Mi
incamminai prendendo dalla tasca della giacca il
pacchetto di sigarette ed accendendomene una.
Dopo un
isolato mi fermai davanti ad un palazzina
ed osservai le finestre che ero quasi certo corrispondessero
all’appartamento
di Daniel McGregor, il mio collega.
Sorrisi
sprezzante, sorpassando anche quel
quartiere diretto ad un altro, lì dove si trovava la casa in
cui avevo davvero
appuntamento
Come al
solito, prima di bussare mi guardai
attorno, attento ad evitare sguardi indiscreti.
Quando mi
aprì e la vidi, sorrisi felice, mentre
tutte le ansie, il litigio con Regina e le preoccupazioni del
matrimonio
scomparivano.
Mi fece
entrare velocemente, prendendomi per un
braccio ed abbracciandomi dopo aver chiuso la porta.
«Alexander,
oh, sei riuscito a venire!» mi salutò
stringendomi forte.
La avvolsi
tra le mie braccia, respirando il suo
buon profumo «Elizabeth, certo che sono qui, come avrei
potuto non venire?».
Lei sorrise,
allontanandosi leggermente per alzarsi
in punta di piedi in modo da riuscire a baciarmi le labbra.
«E… tua moglie? Non
ha detto nulla?» chiese poi preoccupata.
«Non
sa nulla, tranquilla. E se anche lo sapesse
non potrebbe fare nulla» aggiunsi. «Ma lasciamo
perdere lei. I tuoi genitori,
sei sicura non torneranno?» domandai preoccupato.
«Certo
che sì, sono andati a Springfield, te l’ho
detto, e dopo varie insistenze, sono riuscita a convincerli a farmi
restare a
casa sola con la governante» spiegò euforica.
«Di
certo non potevano pensare che tu avresti
chiesto al tuo innamorato di venire a farti visita. E che la governante
fosse
d’accordo, tesoro» mormorai con tono lievemente
malizioso, sorridendo mentre le
accarezzavo i capelli.
«Già!»
annuì, chiudendo gli occhi per godersi il
momento, stringendosi di più al mio corpo. «Sono
così pochi questi momenti
sereni, tra me e te… Ma sono così
belli…» sussurrò.
«Lo
so e mi dispiace. Se solo ti avessi conosciuta
prima, amore…» mi tormentai.
«Non
importa, va bene anche così, amore mio»
mormorò.
Piano
passò le mani sulla mia giacca e mi prese per
mano «vieni, andiamo a mangiare qualcosa, ti ho
aspettato».
«Aspetta!,»
la fermai stringendole la mano, «Ti
amo, Beth. E lo sai che per me… Per me tu sei molto di
più che una semplice
amante. Io odio mia moglie, io… Io amo solo te.»
Sorrise,
stringendosi nuovamente a me per baciarmi
le guance e poi le labbra. «Ti amo anch’io, Alex.
Così tanto da poter rimanere
solo un’amante pur di stare con te.»
~
Can't bite my
tongue forever
While
you try to play it cool
You
can hide behind your stories
But
don't take me for a fool
[Your love is a lie,
Simple Plan
Regina
Mossi la
forchetta nel piatto, senza una vera
voglia di mangiare.
Stanca, la
lasciai cadere, ascoltando il rumore
dell’acciaio contro la porcellana.
In n impeto
di rabbia scagliai tutto a terra,
scoppiando finalmente in lacrime.
Mi stavo
distruggendo, non potevo continuare in quella
maniera.
Se solo
pensavo a quei giorni passati dal nostro
matrimonio, non riuscivo a trovarne uno di sereno, bello e tranquillo,
tipico
di due neosposi.
Eravamo
sposati da due mesi e già rimpiangevo il
mio sì.
E pensare
che all’inizio ero così felice ed
incredula!
Fin dai
primi giorni avevo provato a fare il
possibile, mi ero sottomessa ad ogni suo volere, ad ogni sua scelta pur
di
vederlo felice ma lui… lui sapeva solo rispondermi male,
uscire, lasciarmi da
sola e trattarmi cose se fossi.. nulla.
Il suo
comportamento, però, stava stranendo tutti,
dai suoi amici e le loro mogli ai suoi stessi genitori.
Questi
ultimi, poi, se n’erano accorti bene dato
che la cena della settimana prima era stata un vero e proprio disastro.
Alexander mi
aveva dato della stupida davanti a
loro solo perché il filetto che avevo cucinato non era di
suo gradimento.
Tremante mi
ero alzata e dopo aver cercato di
scusarmi, me n’ero andata dalla sala chiudendomi in camera un
po’
scortesemente.
Naturalmente
non mi aveva risparmiato le lamentele
per questa mia uscita una volta che i coniugi Woods se
n’erano andati,
commentando la brutta figura che gli avevo fatto fare con i suoi
genitori.
Poi era
uscito, sbattendo la porta di casa, ed era
tornato solo alla mattina seguente giusto per lavarsi e cambiarsi i
vestiti.
Non ero una
stupida.
Non lo ero,
e sapevo che Daniel McGregor non
l’aveva invitato proprio da nessuna parte.
Feci un
respiro profondo prendendo un golfino
dall’attaccapanni in entrata e la borsa, prima di uscire e
chiudere a chiave.
Mi
incamminai verso l’indirizzo dove, secondo le
sue scuse, avrebbe dovuto trovarsi per una cena.
Arrivata
alla palazzina, aprii il portone e salii
le scale fino all’appartamento del collega di Alexander.
Una volta
davanti alla porta, strinsi la borsa tra
le mani pregando Dio che mio marito si trovasse davvero lì
dentro.
Bussai.
La porta
venne aperta dopo un minuto e quando mi
riconobbe, Daniel mi sorrise dispiaciuto.
«Regina…»
Capendo,
strinsi le labbra e deglutii lacrime
amare. «Non c’è, vero?» chiesi.
«No,
mi dispiace.»
Annuii,
stringendo ancora più forte la borsetta,
incurante di romperla, di graffiarne la pelle nera. «Ok,
grazie.»
«Aspetta!,»
mi fermò, vedendomi voltargli le spalle
per scendere, «Non… non stai bene. Entra un
attimo, bevi qualcosa, almeno»
propose preoccupato.
«No,
grazie. Grazie» ripetei, scendendo le scale ed
uscendo dal portone, raggiungendo la strada.
Mi
incamminai per tornare a casa, ma una volta
davanti alla mia porta, tentennai.
Non volevo
passare un’altra sera a casa da sola, a
pulire una casa già splendida per cercare di non pensare.
Mi morsi le
labbra, tornando in strada per
dirigermi a casa della mia migliore amica, Eloise, che come sempre mi
accolse
con un abbraccio.
«Regina!
Tesoro mio, ma sei sola?» domandò accompagnandomi
in salotto.
«Sì…
Eloise, io… Ho bisogno di parlare con
qualcuno» mormorai in un fil di voce mentre una lacrima
dispettosa scendeva
sulla mia guancia.
«Regina…
Certo, certo. Aspetta solo un attimo.
Leonard!?» chiamò il marito, mentre rapida passai
la mano sul mio viso per
togliermi la goccia salata.
«Sì?
Oh, Regina, buonasera!» mi salutò, apparendo
in sala.
«Perché
non vai da Aaron?» gli chiese la moglie in
tono angelico.
Tenni la
testa bassa, imbarazzata, sentendomi in
colpa «No, Eloise, non serve…»
sussurrai, infatti: non volevo che suo marito
fosse costretto ad andarsene dalla sua stesa casa per colpa mia.
Mi fece
cenno di tacere con una mano, mentre il
marito annuiva.
Si
salutarono con dolcezza e poi lui uscì.
Li invidiai
tantissimo, come sempre mi capitava con
loro o una qualsiasi altra coppia.
Mio marito
-il mio caro, devoto e gentile marito-
se ne sarebbe andato sbuffando e sbattendo la porta.
«Allora?
Amica mia, cosa c’è?» mi chiese,
spostandosi a sedere accanto a me.
Mi portai
una mano alla bocca, trattenendo a stento
le lacrime e i singhiozzi. «Non ce la faccio
più,» mormorai, «non ce la faccio
più. Alexander… Mente, mi tratta male. Non riesco
ad andare avanti, così».
«Cosa…
Ti ha fatto del male?» domandò preoccupata.
Violenza?
Oh, no.
Sessuale
ancora meno e non perché essendo mio
marito raramente si sarebbe potuta ritenere tale ma perché,
semplicemente, dopo
la prima notte di nozze, non mi aveva più toccata.
«Non…
Non in senso fisico. È l’ennesima serata che
non passa a casa. Dice di cenare dal suo amico Daniel McGregor ma
Daniel
nemmeno lo passa a trovare, me lo ha detto lui in persona. Oggi
festeggiamo il
nostro secondo mese di matrimonio e lui… Non so cosa gli
prenda. Perché ha
voluto spossarmi se poi… Se poi mi tratta solo male? Mi
offende di continuo,
davanti ai suoi genitori, persino! Si arrabbia per un nonnulla. Non lo
so, non
lo so. Non so più che fare…» spiegai
tra le lacrime.
Eloise mi
strinse a sé «Oh, Regina. Io… Io un
po’
lo conosco, Alexander e… Davvero, abbiamo tutti notato
quanto sia stano
ultimamente, ma non pensavo arrivasse a… a comportarsi
così male a casa. Mi
dispiace tanto, cara.».
Le strinsi
una mano in ringraziamento.
«Ma
hai provato a parlarne con lui? A… Non
so, chiedergli il motivo di tanto malumore» riprese.
«No.
No, anche perché non lo vedo mai. E poi
ogni volta che apro bocca, secondo lui, dico qualcosa di sbagliato e si
lamenta. Evito il più possibile le scenate» risposi
Annuì,
continuando ad accarezzarmi i capelli.
«Prima…
Prima parlavi di alcune sue uscite.
Di un suo amico…» mormorò esitante.
«Sì.
Anche stasera, mi ha detto che avrebbe
cenato da questo suo collega, Daniel McGregor, ma non è
vero. Come non è ero
che è andato lì la settimana scorsa e quella
prima ancora. E ne sono certa. Sì,
perché una settimana fa ho incontrato Daniel e abbiamo
scambiato qualche
parola; da lì ho scoperto al verità: lui non ha
nemmeno mai invitato Alexander
a cena e men che meno lui si è presentato per una visita.
Stasera… Stasera sono
andata io stessa a controllare. Sono andata a casa di Daniel
e… Alexander non
c’era. Mi aveva detto che sarebbe stato da lui. E non
c’era» ripetei, in crisi.
«E io ho paura. Perché c’è
solo una risposta e io non voglio pensarci. Pensare
che lui vada con… con altre donne. Io non riesco
a…» mi fermai, cercando di
respirare profondamente.
Eloise mi
abbracciò nuovamente, anche lei in
lacrime. Era una ragazza così sensibile, amorevole,
allegra… E mi voleva bene,
eravamo amiche fin da bambine, eravamo cresciute insieme, quasi sorelle.
«Vedrai
che c’è un motivo. Non è detto che
lui… C’è sicuramente un atro
motivo» provò a consolarmi.
Risi amara:
che altra soluzione poteva
esserci? Che motivazione l’avrebbe portato a mentirmi quasi
ogni sera e a
trattarmi in quel modo, come se fossi un ostacolo alla
felicità?
~
Quando, dopo
un’ora, Leonard rincasò,
abbandonai la casa della mia amica tornando alla mia.
Come
immaginavo, Alexander non era a casa.
Raccolsi
velocemente il danno che avevo
provocato in cucina con la cena, insacchettando i piatti rotti e
pulendo il
cibo da terra.
Poi, mi
preparai per la notte e mi misi sotto
le coperte.
Non riuscii
facilmente a prendere sonno,
ancora troppo agitata e nervosa, ma quando stavo per riuscirci,
Alexander
rincasò.
Riaprii gli
occhi quasi di scatto, mentre lo
sentivo barcollare verso il letto e senza nemmeno cambiarsi, stendersi
a letto.
Mi
allontanai istintivamente dalla sua
figura, affondando il viso sul cuscino.
Non ne
potevo più, ed erano passati solo due
mesi.
Come avrei
passato il resto della mia vita?
|
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Capitolo 7 *** First time. ***
Old
loves they die hard;
Old
lies they die harder.
Capitolo
VI: first time.
Regina
Mi
sentivo
totalmente persa, come se non fossi nel mio corpo, se non stessi
davvero
vivendo quell’esperienza.
Famigliari
che mi
abbracciavano, che mi baciavano, che si congratulavano.
Una fede
d’oro a
stringere il mio anulare sinistro.
Ero sposata,
sposata con Alexander Woods.
Mi sentivo
così
tremendamente felice!
Arrossi
pensando
di non vedere l’ora di restare sola con lui per poter
accarezzare nuovamente il
suo viso e… baciare le sue labbra.
Voltai il
viso a
cercarlo, trovandolo abbracciato alla madre in lacrime.
Il padre gli
lasciò una pacca sulla spalla, che lui sembrò
quasi voler evitare: era da un
po’ che lo vedevo scostante nei confronti del suo genitore,
dovevano aver
litigato.
Sperai tutto
si
risolvesse al più presto e cha magari lui me ne parlasse.
Sospirai
estasiata, stringendo mia madre tra le braccia.
«Oh,
tesoro mio,
sono così felice! Sei bellissima, sei… Oh,
tesoro!» esclamò, prendendomi il
viso tra le mani e baciandomi le guance.
«Grazie,
mamma,
grazie» sorrisi.
«Regina,
piccola
mia, vieni qui» disse mio padre, prendendomi dalle braccia
della moglie.
Mi
baciò la
fronte, guardandomi negli occhi, senza aggiungere parola,
trasmettendomi tutto
con la sola forza dello sguardo: orgoglio, felicità, ma
anche tristezza per il
distacco.
Mi
lasciò e
tenendomi per mano mi accompagnò da colui che da quel
momento potevo chiamare
marito.
«Alexander,»
lo
chiamò, «prenditi cura di mia figlia, mi
raccomando.».
«Certo,
signore,
lo farò» annuì lui, prendendomi a
braccetto. «Dobbiamo uscire, ora. Il
ristorante ci aspetta» aggiunse rivolto a me.
Gli strinsi
la
mano sul braccio, sorridendogli «hai fame?» gli
domandai.
«Non
molta, a dir
la verità»rispose, guardandomi di sfuggita mentre
ci incamminavamo verso
l’uscita.
«Neanche
io»
mormorai dispiaciuto per quel basso livello di considerazione.
Non rispose,
guardando gli invitati ammassati fuori le porte della chiesa, in attesa
della
nostra uscita, preceduta da quella dei nostri genitori.
Cavallerescamente
Alexander coprì il mio corpo con il suo al momento del
lancio del riso,
proteggendomi dalla maggior parte dei granelli bianchi.
Come un
bravo
marito.
~
La festa al
ristorante si svolse tra le
portate di cibo e le chiacchiere, tra le risate e i balli.
Io e
Alexander ci eravamo baciati lievemente
altre due volte, prima per il taglio della torta e poi durante il
nostro ballo
d’apertura.
In entrambi
i momenti – forse i più beli
della serata, per me- il mio cuore aveva battuto forte, mi ero
emozionata ed
ero di certo arrossita.
La serata
giunse al termine con la partenza
mia e di Alexander verso la nostra nuova casa.
Mio padre ci
portò lì con la sua macchina e
mi salutò con un bacio prima di andarsene.
Mio marito
aprì la porta di casa e come di
tradizione mi prese in braccio un po’ goffamente per entrare.
«Mettimi
giù!» ridacchiai dopo alcuni passi
malfermi.
Obbedì
sorridendo, chiudendo poi al porta
dietro di sé, a chiave.
Ci guardammo
un po’ intorno, la casa
leggermente illuminata da qualche candela che la governante di casa mia
–anzi,
della casa dei miei genitori- aveva provveduto di accendere poco prima
del
nostro arrivo.
«Uhm,»
si schiarì la gola, «saliamo?».
Annuii con
un cenno del capo, troppo
imbarazzata per parlare.
Prese un
candelabro tra le mani e mi
precedette sulle scale in modo da farmi luce mentre salivamo verso la
nostra
camera.
Lo
posò sullo scrittoio vicino alla porta e
poi si tolse la giacca e la appoggiò su una sedia
lì vicino.
Un
po’ rigidi andammo ai due lati opposti del
letto. Mi spogliai dell’abito bianco, guardandolo cadere a
terra, e restai con
la sottoveste. A quel punto mi infilai sotto le coperte, dove lui
già mi
aspettava, indossando solo i mutandoni.
Si
avvicinò a me per baciarmi, spostandosi
sopra al mio corpo. Mi sentii arrossire per quel bacio più
lungo e profondo dei
precedenti.
Portai le
mani sulle sue spalle, nude (nude!)
e poi sui suoi capelli, accarezzandoglieli, mentre le sue mani
toccavano piano
le mie braccia.
Eravamo
entrambi imbarazzati e inesperti. Io
sapevo cosa dovevo fare solo per gli insegnamenti di mia madre.
Forse
prendendo un po’ di coraggio, allungò
il percorso delle sue mani, facendole scendere verso i miei fianchi e
il
ventre.
Non riuscii
a trattenere un gemito,
vergognandomene, al sentire le sue forti mani sul mio corpo coperto dal
velo
leggero della sottoveste e nudo, una volta che scesero verso le mie
cosce.
Poi le
rialzò, posandole sul mio seno. Lo
accarezzò piano, facendomi provare strane sensazioni e
brividi ad ogni tocco.
Continuammo
un po’ così, poi piano mi chiese
gentilmente se potevo essere pronta.
Annuii,
seppur irrigidendomi preoccupata.
Mamma mi aveva detto che avrei sentito dolore ma che dovevo cercare di
non
darlo a vedere e che avrei potuto soffrire meno cercando di stare
rilassata.
Si
sollevò dal mio corpo, armeggiando con
l’unico capo che lo copriva e poi si riabbassò,
facendomi accorgere di qualcosa
di molto duro sulla pancia.
Arrossii al
pensiero di cosa si trattava.
«Posso?»
momrorò.
Respirai
profondamente e poi annuii di nuovo
col capo.
A quel
punto, lo sentii sollevarmi la
sottoveste e portare il suo… il suo coso
più vicino a me.
Piano
entrò in me ed io strinsi i denti, non
riuscendo a seguire il consiglio di mia madre di stare calma. Gemetti
quando il
dolore tocco il suo picco, ovvero quando fu totalmente in me.
«Stai
bene?» chiese titubante, fermandosi.
«Sì,
continua» mormorai. Altra regola di mia
madre: qualunque cosa succeda, lui deve
provare piacere. Quello dell’uomo è più
importante rispetto alla donna. È tuo
dovere servirlo, prenderti cura di lui anche di notte. Il dolore
passerà.
Il dolore passerà, continuai
a ripetermi
mentre lo sentivo muoversi dentro di me, più velocemente,
mentre ansimava.
Effettivamente
un poco si affievolì, seppur
continuai a sentire il fastidio, quasi vicino al bruciore.
Curiosa di
provare le sue stesse sensazioni
mi mossi contro di lui, stringendo le braccia intorno alle sue spalle.
Mi
guardò un attimo, abbassandosi con al
bocca sulla mai per un bacio veloce.
La
situazione stava un po’ migliorando, ma
improvvisamente lo sentii gemere ed una specie di liquido
entrò in me: era la
fine?
Pensai di
sì, sentendolo poco dopo spostarsi
per uscire da me e mettersi seduto.
«Stai
bene?» chiese
«S-Sì»
annuii.
«Vado
a rinfrescarmi» aggiunse sistemandosi i
mutandoni ed allontanandosi verso il bagno.
Curiosa, mi
morsi il labbro inferiore
guardandolo andare via.
Era la prima
volta che vedevo un uomo mezzo
nudo
Però
lui… era così bello.
Ed io? Io
non lo ero altrettanto per lui.
Sospirai e
mi alzai, prendendo dall’armadio
una camicia da notte e indossandola prima di rimettermi sotto le
coperte.
Perché
sentivo che qualcosa non andava? Che
qualcosa era sbagliato?
Mi ero, forse, illusa troppo? O era davvero così che
funzionava un matrimonio?
On the first
page of our story
the future
seemed so bright
then this
thing turned out so evil
I
don’t know why I’m still surprised
[Love the
way you lie - part 2, Eminem ft Rihanna
Vanno davvero
così le cose?
Non sono sposata, non ho
una grande opinione del matrimonio, ma non credo proprio che dovrebbe
andare così, Regina cara!
Avevo avvertito sarebbe
stato un capitolo breve, purtroppo non ho potuto agglomerarlo allo
scorso perché non lavevo ancor acompletato, ma nemmeno al
prossimo perché presenteranno due tempi diversi.
Comunque, spero vi sia
piaciuto!
Recensite, mi
raccomando, ho davvero bisogno di capire se questa storia piace!
A presto!
|
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Capitolo 8 *** illuminated ***
Old loves they die hard;
Old lies they die harder.
Capitolo VIII: illuminated.
Suddently, my eyes are open,
everything come int o focus.
[Illuminated, Hurts
Alexander
«Alexander? Alexander, svegliati!»
Una voce mi chiamava; mossi il capo socchiudendo gli occhi.
«Che c’è?» mugugnai, scocciato per essere stato svegliato.
«È tardi e devi andare a lavoro. Alzati, veloce» continuò, spalancando poi le finestre.
Sbattei gli occhi, imprecando per la luce che improvvisamente era entrata nella stanza. Mi misi seduto e fissai Regina che si muoveva per la stanza.
«Che ore sono?» domandai appoggiando i piedi per terra.
«Le 7.30» rispose prima di uscire, diretta in cucina.
Barcollai assonnato verso il bagno, lavandomi prima di vestirmi e di scendere a mia volta.
Sopra il tavolo della cucina la mia colazione era già pronta.
Mi sedetti ed afferrai la tazza, mentre Regina iniziava a commentare: «dovresti tornare prima, la notte. Anzi, la mattina. Così non dovremmo ripetere queste scene ogni giorno.».
Alzai gli occhi al cielo, trattenendomi dal ribatterle già di prima mattina.
«È mercoledì, pranzi a casa?» domandò ricordandosi dell’unico giorno in cui il mio turno pomeridiano iniziava abbastanza tardi da concedermi di non servirmi della mensa dell’ospedale.
«Credo andrò dai miei genitori» risposi posando la tazza ormai vuota sul tavolo.
Mi pulii le labbra con un tovagliolo e mi alzai «vado».
«Aspetta» mi fermò raggiungendomi e fermandosi davanti a me.
«Sono in ritardo» replicai, mentendo.
«Non è vero» mormorò infatti, posando le mani sul mio petto. La guardai confuso, mentre le spostava per sistemare i nodo della cravatta.
Alzò il viso baciandomi una guancia, spostando piano le labbra per posarle infine sulle mie labbra.
Restò qualche secondo così, muovendo la sua bocca sulla mia, stringendo il mio collo tra le mani.
Quando si allontanò, si strinse il petto con le braccia, scuotendo il capo e chiudendo gli occhi che si erano fatti lucidi.
«Non capisco. Perché fai così?» sussurrò.
«Io…» balbettai, sorpreso.
«Lascia stare, non voglio ascoltare le tue scuse, non voglio sentire i tuoi rimproveri anche questa mattina. Vai, vai a lavorare» replicò girandosi.
Raccolse la mai tazza e la posò nel lavello, rimanendo poi ferma lì.
Ricurva e stanca.
Piano mi allontanai, guardandola finché non arrivai ai corridoio. Da lì, mi girai ed uscii.
~
A pranzo, come avevo premesso quella mattina a Regina, andai dai miei genitori.
Non mi recavo lì da quasi una settimana e già sapevo cosa avrei dovuto aspettarmi in quell’ora in loro compagnia: rimproveri.
Ero infatti certo che mia madre avrebbe avuto da ridire sulla scenetta che aveva peso luogo durante la nostra ultima cena a casa mia.
Non avrei, al contrario, permesso a mio padre di pronunciarsi in merito: e non fosse stato per lui, non saremmo arrivati a quel punto.
Anzi.
Avrei conosciuto Elizabeth, l’avrei corteggiata e avrei chiesto la sua mano senza dover fingere.
Un altro problema, quel giorno, però, era l’immagine di mia moglie, stanca ed appoggiata al lavello della cucina come per sorreggersi.
Scossi al testa, mentre raggiungevo il salotto, sicuro di trovare mia madre.
«Alex» mi salutò alzandosi dalla poltrona su cui stava ricamando.
«Buongiorno, mamma» ricambiai abbracciandola e baciandole le guance.
«Vieni, andiamo in sala che dovrebbe essere pronto. Chelsea, chiama mio marito, per favore» aggiunse alla cameriera che annuì e si diresse al piano superiore.
Noi due raggiungemmo la sala da pranzo e ci sedemmo ai nostri posti, mentre aspettavamo mio padre per incominciare.
«Ma… Regina? Pranza dai suoi genitori, spero» disse mia madre.
«Non lo so,» risposi senza guardarla, «non ne ho idea».
«Quindi l’avresti lasciata a pranzare da sola? Alexander…!» mi rimproverò.
«Non lo so, mamma» ripetei scocciato. «E poi, non mangio mai a casa tranne che al mercoledì e ai fine settimana. È abituata» spiegai.
«È abituata?! Alexander George Wood! Non è questo il modo in cui ti ho educato. Adesso questo, prima quei modi, la settimana scorsa. Eh, cosa i è preso? Perché fai così?» sbottò. «È tua moglie, la donna con cui passerai la tua vita. Per Dio, hai deciso tu di sposarla!» concluse.
Sorrisi amaro: una mia decisione?
Oh, no…
Ma non potevo dirglielo, non potevo recarle questo dolore.
«Nulla, mamma., sono solo stanco e a volta, erroneamente, me la prendo con lei anche se non fa nulla di male. Lo so, sbaglio,» anticipai, «ma sono fatto così.».
Lei sospirò «Beh, Alexander, prova a cambiare o per lo meno a farti perdonare» mi consigliò infine, in contemporaneamente all’arrivo di mio padre.
~
«Beh, Alexander, prova a cambiare o per lo meno a farti perdonare.»
Le parole di mia madre, quel tardo pomeriggio, continuavano a suonarmi in testa, alternandosi a quell’immagine e che già dal mattino mi passava per la mente.
Passeggiai per Chicago mentre tornavo a casa da lavoro e pensai che ero talmente stanco da non avere nemmeno voglia di vedere Elizabeth.
Non pesava tanto la stanchezza fisica, ma quella mentale dovuta alla situazione difficile, alle bugie, alle falsità, ai litigi.
Elizabeth, la mia Elizabeth.
Avevo conosciuto quella ragazza più di mese prima, ad un buffet indetto da uno dei medici primari dell’ospedale a cui eravamo stati invitati anche io e Regina.
Elizabeth era la figlia di Mark Sawyer, l’uomo che ci ospitava a casa sua, quella sera.
Appena la vidi ne rimasi affascinato: entrò in sala accompagnata dalle due sorelle maggiori, bellissima con i suoi capelli scuri e lisci raccolti da un lato che contrastavano col color smeraldo dell’abito che indossava.
La seguii con gli occhi mentre, timida, salutava delle conoscenze e chiacchierava con le sue amiche.
Quella sera mi fu presentata dal padre e scambiammo qualche parola. Niente di più, dopotutto mia moglie era a un passo da me.
Pochi giorni più tardi, per coincidenza, la incontrai nuovamente in ospedale e non potei non fermarmi per salutarla.
Quegli incontri casuali, divennero pian piano veri e porri appuntamenti, nascosti agli occhi di tutti, naturalmente, ma che non potevamo né riuscivamo ad evitare.
Era l’amore che ci spingeva uno accanto all’altra.
C’eravamo baciati, contro ogni regola avevamo fatto l’amore ed approfittavamo delle uscite dei suoi genitori o di Regina per incontrarci nelle nostre case e poter passare del tempo assieme, senza paura di essere scoperti.
L’amavo, sì, ma quella sera l’unica cosa che volevo era andare a casa, cenare ed andarmene a dormire.
«Sono a casa» mi palesai chiudendo la porta.
Lanciai un’occhiata alla cucina, passandole davanti e trovai Regina che posava dei piatti sul tavolo.
«Ciao» mi salutò.
«’Sera» ricambiai.
Preso da uno spirito di buona volontà, presi i bicchieri dalla credenza e la aiutai a finire.
«G-Grazie» balbettò guardandomi sorpresa.
Si portò una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio avvicinandosi a i fornelli per controllare la carne che stava cuocendo.
«Com’è andata oggi?» domandò.
«Uhm, bene» annuii prendendo l’acqua e il vino e versandomene un po’. «Tu… Hai pranzato da sola, oggi?» chiesi poi.
«Sì, certo» rispose girandosi un attimo per guardarmi confusamente.
«Oh. Avresti potuto… Invitare Eloise o Breanna. Andare dai tuoi genitori…» mormorai.
«Pranzo sempre da sola. Anche a cena, spesso. Non è un problema, non più. E loro hanno i propri mariti a cui badare» replicò seccamente. «Comunque, è pronto, mettiti a tavola» aggiunse.
Annuii, allontanandomi un attimo per lavarmi le mani prima di tornare in cucina e sedermi.
«Ehm… Cos’hai fatto questo pomeriggio?» domandai tanto per fare conversazione.
«Ho… Ho fatto la spesa. Volevo pulire un po’ casa ma è arrivata la signora Banaby. Se ne sarà andata via un quarto d’ora prima del tuo arrivo, non ne voleva sapere di tornarsene a casa» commentò infastidita.
Fastidio normale, dovuto alla signora in questione, famosa per la sua indole chiacchierona e curiosa.
«Oh, mi dispiace» sorrisi. «Ti ha detto qualcosa di interessante?» aggiunsi pur non reputando che la Miss in questione potesse parlare di argomenti per me interessanti.
«Nulla di ché, il solito. Janine Costance che è stata data in sposa a Micheal Finn, sua figlia che è incinta, domande indiscrete… Ah, ci ha invitati ad una serata, però. Uhm, sabato sera, a casa sua. Sinceramente non ho ben capito il motivo e a dir la verità credo che effettivamente non ci sia una giustificazione valida» concluse.
«Va bene» accettai.
«Va bene? Intendi dire che… ci andremo?»
«Sì,» annuii, «se vuoi.».
«Io… Sì, certo che sì» rispose.
Mi fissò per un lungo attimo , sorpreso dal mio intervento.
In effetti, avevo sempre trovato scuse per non partecipare a feste inutili , dove sarei stato costretto a fingere un affetto che non provavo, anche se ad alcune avevo dovuto presentarmi.
Continuammo a mangiare in silenzio, finché non fummo interrotti dal suono del campanello.
Entrambi ci girammo verso l’entrata, come se potessimo vedere chi fosse alla porta dalla cucina.
Sospirai e mi alzai andando ad aprire la porta, incuriosito dalla visita a quell’orario decisamente inusuale.
«Sì?» chiesi alla donna alla porta, decisamente una cameriera.
Lei si guardò intorno prima di parlare «Signor Wood?» domandò, «Alexander Wood?».
«Sono io» annuii, sorridendo divertito dalla situazione.
Mi porse una busta «Sono una delle cameriere di casa Sawyer. La signorina mi ha chiesto di darla solo a lei e di dirle di leggerla assolutamente in privato» spiegò.
Aggrottai le sopracciglia ed annuii di nuovo, nascondendo la lettera nella tasca dei pantaloni.
«Buonanotte, signore» aggiunse la donna allontanadosi.
«Buonanotte» replicai, ancora confuso.
Rientrai in casa e chiusi la porta, curioso di leggere la lettera di Elizabeth.
«Chi era?» mi domandò Regina.
«Uhm, nessuno. Volevano delle informazioni…» inventai al momento.
Inarcò le sopracciglia perplessa «informazioni?».
Alzai le spalle, rimettendomi seduto senza continuare a mangiare: mi era passata la fame.
«Si è raffreddata?» domandò Regina indicando la carne sul mio piatto.
«No… Non ho molta fame. Sono molto stanco, vado a dormire» spiegai alzandomi.
«Già?» chiese sorpresa, «stai male?».
«No, sono solo stanco. Avevi ragione, questa mattina: dormo troppo poco» mormorai.
«O-ok. Beh, sì, vai, se sei stanco…» annuì, non sapendo cosa dire.
Mi chinai, posandole una mano sulla nuca e baciandole la fronte.
«A più tardi» la salutai, rialzandomi per andare in camera, lasciandola lì , sola e confusa per il mio comportamento atipico.
A dir la verità, ne ero confuso anch’io.
Una volta nella stanza matrimoniale, mi sedetti sul letto, tirando fuori dalla tasca dei pantaloni la busta portatami qualche minuto primo.
La aprii, prendendo il foglio che conteneva, vergato dalle parole di Elizabeth.
Ero pervado sa una strana agitazione, non ne capivo il motivo ma non mi piaceva quella situazione.
Caro Alex,
mi dispiace disturbarti ad un’ora così tarda. Speravo potessimo vederci, oggi per dirti di persona tutto questo, ma non abbiamo potuto.
Non importa, comunque.
A dir la verità, sì , mi importa lo sai che non sopporto il pensiero di tu e tua moglie, ma… purtroppo è andata così.
Lo so, so che io ho qualcosa che lei non ha: il tuo cuore.
E credo… Credo di avere anche qualcos’altro che voi due ancora non condividete.
Un bambino.
Alexander, non ne sono ancora sicura ma credo davvero di essere incinta.
Vediamo al più presto, ti prego.
Ho bisogno di te.
Con amore,
Elizabeth
Incinta.
Un bambino.
Oh, no.
Ciao a tutte!
Scusate il ritardo ieri è stata una giornata un po impegnativa!
Impegnativa come lo è questao capitolo, ce parte dalla disperazione di Regina, passa ai rimproveri di Amelia e sembra concludersi con un Alexander un po' più gentile ma all'improvviso ariva un alettaera misteriosa.
E che lettera!
Cosa dite potrà succedere, adesso?
A presto! |
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Capitolo 9 *** Egoismo e felicità. ***
Old loves they die hard;
Old lies they die harder.
Capitolo IX: egoismo e felicità.
Alexander
«Cosa vuoi dire? Sei… Sei davvero…» balbettai indicando il suo ventre piatto.
«Non lo so. Io… Molti sintomi coincidono, ma non ne sono sicura al cento per cento, dopotutto noi due… Sarebbe presto per… Ma dovevo dirtelo! Oh, non ne sei felice? Sarebbe così bello! Un bambino tutto nostro, il frutto del nostro amore!» esclamò entusiasta venendomi vicino.
«Smettila! Come puoi parlare così?!» sbottai passando una mano a stringere i capelli.
«Ma… Perché…?» mormorò intristendosi, guardandomi con gli occhi lucidi.
Sospirai cercando di calmarmi, iniziando a camminare avanti ed indietro per il salotto di casa sua, vuota dei suoi genitori.
«Elizabeth…» iniziai a tentare di spiegarmi nel modo più semplice possibile, «Non capisci cosa significherebbe, soprattutto per te, se tu fossi incinta? Saresti diseredata, e il bambino… Mio Dio!» ringhiai frustrato.
«Ma… Credevo ti avrebbe reso felice… È nostro. È… io e te» balbettò.
«Sì, certo, Beth! Ma… Maledizione, non pensi a te?! A cosa diranno i tuoi genitori?!»
«Non mi interessa, Alex! A me interessi solo tu!» esclamò abbracciandomi.
La strinsi a me, sospirando «Potrebbero… Potrebbero anche obbligarti a… a…».
«No, non lo farei mai. Me ne andrò! Ce… Ce ne andremo insieme! Cosa ne dici, Alex? Andiamo via, io e te, rifacciamoci una vita, lontani, insieme!» sorrise felice della sua idea.
«Andare via? Come faremo Beth? Non credo reggeremo molto…» scossi il capo.
«Oh, sì, invece, ne sono sicura! Pensaci, Alex! Chiudi gli occhi ed immagina: io, te, una nostra famiglia. Una casa nostra. Felici e liberi. Oh, Alexander, ti prego…!» sospirò estasiata con gli occhi chiusi ad immaginare un nostro futuro insieme.
E lo feci anch’io.
Chiusi gli occhi, fantasticai come un bambino. Vidi una casa, un giardino su cui giovano dei bambini. Io ed Elizabeth sorridenti. Una vita felice.
E Regina?
E i miei genitori?
Sarei stato in grado di dare loro tanto dispiacere, tanto disonore?
«Ti prego, Alex…»
Annuii.
L’avrei fatto.
Era ora di essere egoisti e pretendere la felicità.
~
Guardai nei profondi occhi scuri di Aaron, mio amico d’infanzia.
Eravamo davvero cresciuti insieme, lui nacque solo un mese prima di me e le nostre famiglie abitavano una accanto a l’altra.
Quasi un fratello.
E tra fratelli ci si aiuta, no?
«Allora? Parla, Alexander! Mi stai facendo agitare, diavolo!» sbottò.
«È una storia lunga e… complicata. Ma ho bisogno del tuo aiuto» ripetei le parole che avevo mormorato per la prima volta sulla porta di casa sua, quando mi aveva aperto.
«Ho capito, Sarà la terza volta che me lo dici!» esclamò.
Annuii «Scusa, è che… Allora, ti devo raccontare tutto, dall’inizio. Da quando ho chiesto a Regina di sposarmi. La decisione la prese mio padre. Mi disse che la famiglia era in difficoltà economiche, che aveva bisogno di entrate o almeno di una sicurezza. Per farla breve, mi elencò alcuni nomi e io scelsi lei. Credevo che in un modo o nell’altro potessimo essere felici ma… Non so. Forse non ci ho mai messo del mio, non c’ho mai provato. Poi… Poi conobbi Elizabeth. Elizabeth Sawyer. Lei…»
«Aspetta!» mi interruppe con gli occhi larghi, scioccati, «Non dirlo. Non dirmi che questa ragazza… Ti prego, Alexander…».
«Siamo diventati amanti, sì» ammisi, abbassando la testa non riuscendo a reggere il suo sguardo.
«Cristo santo, Alexander! Cosa diavolo ti è saltato in mente? Hai sposato una donna splendida, che… Dio, lo sai che ci sta male per come la tratti? Lo sai che va a casa di Eloise a piangere, le sere che tu non sei a casa? E dove andavi, uhm? A scoparti quella tipa? E a tua moglie? Ci hai mai pensato a lei? Che colpe ha? Rispondimi, cazzo!» urlò, alzandosi in piedi e diventando estremamente volgare a causa della rabbia.
«E io che colpe avevo? Lo so, lo so che non dovevo, ma…! Aaron, tu hai sposato la donna che ami da quando avevi dodici anni, io… Io…» non riuscii a continuare.
Mi presi la testa fra le mani e strinsi i capelli fra le dita, quasi a voler spremere il mio cervello dalla confusione che regnava al suo interno.
«È incinta,» mormorai, «è incinta e ho bisogno del tuo aiuto, dell’aiuto di un amico».
«Ti prego, dimmi che ad essere incinta è Regina e non…» sibilò.
«No, è Elizabeth» ammisi.
«Cristo!» esclamò risedendosi sul divano del suo salotto.
Restò in silenzio qualche secondo prima di continuare «Io cosa dovrei fare, uhm?».
«Voglio andarmene, Aaron. Vogliamo andarcene» mi corressi. «Ho solo… Ho solo bisogno che tu mi copra mentre me ne vado.»
«Che diavolo…? Cosa stai dicendo, Alex? Vuoi… andartene? Con lei? Con questa Elizabeth? E dove andrete? Come pensi di vivere? Cosa…?» disse veloce.
«Non lo so, non lo so! Ma non posso permettere che le facciano del male o… Non posso lasciarla sola. E… voglio la mia felicità, Aaron. Ti prego, amico mio. Ti giuro che, se vorrai, non mi farò mai più sentire, non mi vedrai mai più. Ma ti prego, aiutami quest’ultima volta» lo implorai.
«Come puoi chiedermi una cosa simile? Come puoi chiedermi di… di aiutarti nel recare un dolore simile a così tante persone? Perché non ci siete solo tu o lei, Alexander, lo sai, vero? Hai pensato ai tuoi genitori? A tua madre! Hai pensato a… Cristo, hai pensato a Regina?! Una donna il cui marito è scappato con la propria amante, che futuro può avere?» domandò, cercando di farmi riflettere.
«Sarà sicuramente più felice così che nello stare con me…» mormorai.
«Rischi di rovinare anche il mio matrimonio, lo sai? Se Breanna scoprisse tutto questo…» disse.
«Se non vuoi prenderti questo peso, dimmelo. Ti capirò, Aaron, e non ti vorrò mai del male. Ma dimmelo. Sì o no. O mi aiuti o… mi arrangerò» conclusi.
Ci guardammo negli occhi.
Ricordi di un’infanzia insieme, di adolescenti che scoprono il mondo, di giovani che creano il proprio futuro.
Un patto col sangue, all’età di nove anni.
«Ce lo siamo promessi, Alexander. Spero solo che questo sia davvero il meglio per te. Dimmi cosa devo fare.»
Un altro sì.
L’ennesimo che mi portava sempre più vicino ad un futuro felice.
~
Aprii la porta di casa e subito la voce di Regina mi chiamò: «Alex? Sei tu?».
«Sì, sono tornato» mi palesai entrando in cucina, dove la trovai come sempre al mio ritorno, ai fornelli.
«Buonasera. Com’è andata, oggi?» chiese, voltandosi a guardarmi sorridente.
Non riuscii a reggere molto il suo sguardo, consapevole del dolore che le avrei provocato di lì a poco.
«Bene, al solito» annuii.
Parlò nuovamente dopo pochi secondi di pausa «mi sono informata a proposito della festa di sabato! È una serata di beneficenza» spiegò.
Sabato?
Annuii, ricordandomi della chiacchierata della sera scorsa prima di…
Prima della lettera, prima di tutto.
«Oh, è pronto. Vieni, su» disse.
«Mi lavo un attimo le mani. Arrivo subito» mormorai.
«Hai pensato a Regina?! Una donna il cui marito è scappato con la propria amante, che futuro può avere?»
«Sarà sicuramente più felice così che nello stare con me…»
Sì, starà solo meglio.
Sì.
~
Tutto era organizzato.
Alla domenica mattina, all’alba, una carrozza avrebbe portato me e Elizabeth il più lontano possibile da Chicago.
Ma sempre più vicino alla nostra felicità.
Eccomi qui!
Ormai non ci speravate più, uhm?
Probabilmente neanche vi eravate accorte che è giovedì e ancora non ho postato, ma non me la prendo, cioè è normale! ;)
Comunque, capitoletto breve ma sconvolgente, no?
Molte di voi, perlomeno, speravano in una presa di coscienza di Alexander, in un suo riavvicinamento con Regina in qualche modo e invece...
Ha scelto diversamente, ha voluto essere egoista forse a torto, forse a ragione.
Cosa avreste fatto voi, nei suoi panni, nei panni di quell'epoca, soprattutto.
Nel 2012 una cosa del genere sconvolge poco, ormai! Purtroppo, aggiungerei.
Ed Aaron?
Scelta giusta o sbagliata, la sua?
Grazie per continuare a seguirmi, è sempre una gioia trovare le vostre recensioni, le vostre visite e le vostre aggiunte!
Un bacio,
a presto!
|
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Capitolo 10 *** Amore e senso di colpa. ***
Old
loves they die hard;
Old
lies they die harder.
Capitolo X: amore e
senso di colpa.
Regina
Non
credevo vero che un
giorno mi sarei trovata di nuovo eccitata nei preparativi personali per
una
festa.
Non ero
esattamente una
persona piena di spirito festaiolo, ma da quando eravamo sposati, io ed
Alexander avevamo partecipato a pochissime feste, giusto un paio a cui
eravamo
stati costretti perché invitati personalmente.
Era
sempre mio marito a
tirarsi indietro ed io non potevo di certo presentarmi da sola.
Così
quando aveva accettato
per quel sabato, mi ero riempita di gioia.
Presi
dall’armadio il mio
vestito migliore, composto da una sottoveste di un delicato colore
verde acqua
coperta da un velo trasparente decorato da ricami in pizzo, e lo
appoggiai sul
letto mentre prendevo le scarpe e alcuni accessori abbinati.
Mi
spogliai della vestaglia
restando in intimo e calze e mi coprii subito indossando la mise di
quella
sera.
Guardandomi
allo specchio,
sistemai la fascia di seta che avvolgeva la vita e decisi di sistemare
i
capelli raccogliendoli.
«A
che punto sei?» chiese
Alex entrando.
«Sono
pronta» sorrisi,
prendendo dalla poltroncina vicino all’armadio la borsetta e
uno scialle.
«Allora
possiamo andare»
replicò scendendo le scale.
Lo
seguii mentre chiudevamo
casa prima di uscire.
Ci
incamminammo verso la
non troppo lontana casa della famiglia Barnaby, notando anche altri
uomini e
donne diretti nella nostra stessa direzione.
Sorpassammo
il cancello
della villetta tenuto aperto e approfittammo della coppia davanti a noi
per
entrare senza suonare nuovamente il campanello.
~
Alexander
Aaron non mi guardava.
Sapevo bene che dentro
lui si stava
combattendo una guerra che, vinto o sconfitto, l’avrebbe
fatto stare male
comunque.
Aiutare me avrebbe
significato andare contro
sua moglie e la sua amica. Lasciarmi al mio destino significava
dimenticare un
fratello.
Mi odiavo.
Mi odiavo per il
dolore che recavo a lui
adesso, per quello che in un futuro molto vicino avrei recato alla mia
famiglia, a Regina, ai miei amici.
Scossi il capo,
attirando l’attenzione di mia
moglie.
Moglie.
«Cosa
c’è?» mi chiese lei infatti.
«Nulla,
nulla» negai cercando di sorriderle.
Annuì,
accarezzandomi una spalla.
«Oh, chi
è quella ragazza lì in fondo? Indossa
un vestito meraviglioso, non trovi?» continuò
guardando dalla parte opposta
della stanza.
«Chi,
Regina?» mi finsi interessato.
«La
signorina dai capelli neri, lì in fondo.
Col vestito blu» spiegò meglio.
Guardai in quella
direzione alla ricerca dei
dettagli che mi aveva segnalato e mi irrigidii quando capii chi
intendeva lei.
Il destino era
beffardo, spesso. Molto
spesso.
Elizabeth, dai lunghi
capelli neri, indossava
quel vestito blu che aveva colpito Regina.
«Oh…»
sussurrai.
«Sì?
Sai chi è?» mi chiese voltandosi a guardarmi bene
in viso.
Coprii in fretta la
mia agitazione, sorridendole leggermente mentre deglutivo la mia ansia.
«Io…
Uhm, sì, credo di
saperlo. Se non sbaglio, dovrebbe essere la figlia di un mio collega,
Mark
Sawyer» spiegai tentennando.
«Oh, ho
capito» annuì
continuando a guardarla.
«Dai,
smettila di
guardarla, non è educato, lo sai» mormorai.
«Hai
ragione. Uhm, ma
quella non è Breanna? Con Aaron? Perché non
andiamo a salutarli?» domandò
cambiando la direzione del suo sguardo.
«Certo»
annuii ancora
teso.
Ci avvicinammo ai
nostri amici e notai senza sorprendermi troppo le reazioni totalmente
diverse
che presero possesso dei due.
Aaron si
oscurò in
volto, Breanna mostrò con gioia la sua felicità
nel vedere la propria amica.
«Regina,
tesoro! Non
vi avevo visti!» esclamò la ragazza abbracciando
mia moglie.
Lei rise leggermente
ricambiando l’abbraccio, «non importa. Oh, non ci
vediamo da così tanto
tempo!».
«È
vero, difatti avevo
pensato di venirti a trovare nei prossimi giorni!» aggiunse
Breanna.
Smisi di ascoltare la
loro conversazione e mi voltai a guardare Aaron.
I suoi occhi erano
fissi sulla moglie e cercavano senza dubbio di evitarmi.
«Aaron»
mormorai a
mo’ di saluto.
«Alexander»
ricambiò.
Un ammirevole scambio
di saluti tra amici d’infanzia.
Sospirò e
mi fece un cenno
col capo per chiedermi di allontanarci.
Lo comunicai alle
nostre signore e infine ci spostammo verso un’area
più riparata al di fuori,
nel giardino.
«Dimmi»
dissi una
volta sistemati.
«È
tutto pronto. Ma
tu… ne sei davvero certo? Sei sicuro di volerlo
fare?» domandò per l’ennesima
volta.
«Sì,
Aaron. Sì, ne
sono certo» risposi.
Sospirò
sfregandosi la
fronte con una mano. «Va bene. Cioè, no, non va
bene, ma… Hai capito» concluse.
«Sì.
Aaron, tu…
Grazie. Non so davvero cosa fare per ringraziarti» mormorai.
«Lo so.
Spero solo tu
possa essere felice, Alexander. Almeno questo» concluse
guardandomi negli
occhi.
«Sarà
così. Anche se
non succederà mai… Vorrei davvero tu riuscissi a
perdonarmi un giorno»
sussurrai.
«Vorresti
che io ti perdonassi o che
lo faccia Regina? O anzi, speri che tu stesso riuscirai
a perdonare le tue
colpe?»
~
Rientrai in casa da
solo, mentre Aaron aveva desiderato qualche minuto in solitudine.
Mi guardai intorno,
alla
ricerca di mia moglie che trovai, infine, nel posto meno gradito.
Con Breanna, con
Elizabeth.
Con
Elizabeth.
Strinsi i denti e mi
passai una mano tra i capelli, cercando di respirare profondamente
mentre mi
avvicinavo a loro.
«Alex, dove
hai
lasciato mio marito?» mi domandò sorridendo
Breanna.
«Ha voluto
rimanere
ancora qualche minuto fuori, sai, l’occasionale vizio di una
sigaretta»
replicai.
«Oh, no,
odio la puzza
di fumo!» esclamò contrariata la ragazza.
Regina sorrise alzando
gli occhi verso di me mentre si stringeva al mio braccio.
Finsi un sorriso a mia
volta, sentendo gli occhi di Beth su di me.
«Alex, lei
è Elizabeth
Sawyer, dicevi di conoscere suo padre, giusto?» ci
presentò sua moglie.
Oh, Dio.
«S-Sì.
Molto piacere,
signorina Sawyer» mormorai prendendo la mano che mi offriva
per baciarne il
dorso.
La sua mano piccola,
liscia e morbida, che conoscevo alla perfezione.
«Anche per
me, signor
Woods» ricambiò con voce vergognosa.
La stessa vergogna che
vedevo nei suoi occhi mentre
mia moglie
le sorrideva e conversava con lei, ignara del segreto che correva tra
di noi.
Ignara di quello che
sarebbe successo quella sera, dopo poche ore.
L’arrivo di
Aaron
complicò ancora di più le cose.
«Puzzi»
scherzò sua
moglie quando lui la prese a braccetto, facendoci sorridere.
«Tesoro, non
essere
così dolce!» rise.
Ma la sua risata venne
a spegnersi gradualmente nel notare la mia rigidità e alla
presentazione della
ragazza di fronte a me.
«Oh, molto
piacere,
signorina» le disse baciandole la mano.
«Piacere
mio» replicò
lei cercando di sorridere nuovamente. «Ora…
Scusate, devo cercare mia sorella»
riprese congedandosi.
«Certo.
È stato un
piacere fare la vostra conoscenza, Elizabeth» disse mia
moglie.
«Anche-anche
per me,
Regina. Mi scusi.
Scusate…» aggiunse prima di andarsene.
Non ho mai capito se
quell’accenno di scuse fosse per congedarsi o fosse rivolto a
mia moglie per
gli avvenimenti che si sarebbero svolti di lì a poco.
~
«Che lunga
serata!»
esclamò Regina entrando in casa.
Chiusi la porta alle
sue spalle. «Davvero lunga…» commentai
stanco.
Mi strinse la mano
sorridendomi «andiamo a dormire, allora».
«Sì,
andiamo» annuii.
Salimmo al piano
superiore, arrivando alla nostra stanza.
Ci cambiammo
d’abito,
indossando la biancheria da notte e infilandoci sotto le coperte.
«Regina,
tu… sei
felice?» chiesi all’improvviso.
«Come,
scusa? Cosa intendi,
Alexander?» domandò voltandosi verso di me.
«Sei…
felice? Sei
soddisfatta di questa vita?» mi spiegai meglio.
«Alex,
io… Sì,
insomma… Ci sono dei momenti un po’
così, forse, ma… Io ti amo, Alexander,
comunque» rispose avvicinandosi al mio corpo per accarezzarmi
una guancia.
«…mi
ami?» ripetei col
senso di colpa che pesava sul cuore, il mio cuore che non aveva mai
provato
qualcosa di così forte nei suoi confronti.
«Sì,
sei mio marito e
ti amo» sussurrò avvicinando il viso al mio per
lasciarmi un dolce bacio sulle
labbra.
«Perché,»
riprese
appoggiandosi al mio corpo, «tu non mi ami, forse?».
No.
«Sì,
certo» mormorai
con un esile filo di voce.
Mi lasciò
un ultimo
bacio sulla guancia, prima di augurarmi una buonanotte.
Ricambiai, sperando
che per lei lo fosse davvero.
Non dormii nemmeno
pochi minuti.
Restai sveglio tutta
la notte, col cuore che batteva a mille in attesa dell’alba
Quando
arrivò l’ora
giusta mi alzai dal letto cercando di fare meno rumore possibile.
Mi cambiai, presi il
borsone con alcuni vestiti che mi ero preparato precedentemente e
guardai per
un’ultima volta mia moglie.
Le accarezzai leggero
una guancia, osservando il suo viso tranquillo.
«Mi
dispiace»
sussurrai al buio, scuotendo il capo.
Abito Regina : http://www.polyvore.com/cgi/set?.locale=it&id=53731996
So che molte di voi
speravano in un cambiamento improvviso: mi dispiace.
Allo stesso modo so come
vi arrabbierete per quest'ultima falsa dichiarazione di Alex, quel
«Sì, certo» che sottointendeva un "ti
amo" che come però sapete, non prova realmente.
E cos'altro poteva dirle?
Vi aspetto nelle
recensioni (spero), altrimenti sabato nello spoiler e per ultimo
giovedì prossimo con l'aggiornamento!
Grazie per seguirmi,
leggermi...
A presto, un bacio!
|
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Capitolo 11 *** La pazzia dell'incredulità. ***
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Capitolo
XI: La pazzia dell'incredulità.
Regina
Mi girai
dall’altro
lato, cercando di voltare soprattutto il viso perché non
venisse più colpito
dai raggi del sole mattutino che entravano dalla finestra.
Ormai con la mente al
lavoro, non riuscii più a riprendere il sonno e, incapace da
sempre di rimanere
a poltrire tra le coperte, aprii definitivamente gli occhi.
La prima cosa che mi
colpì fu l’assenza di Alexander accanto a me. La
sua parte
di letto era vuota, scomposta e fredda.
Mi misi seduta,
aspettandomi di trovarlo al piano inferiore a fare colazione, e mi
infilai le
ciabattine e la vestaglia.
Mi alzai e mi diressi
in cucina, «Alex?».
In risposta, solo
silenzio.
«Alexander?
Dove sei?»
riprovai.
Nulla, ancora.
Lancia
un’occhiata
all’orologio appeso al muro che segnava le otto passate.
Mi convinsi fosse
uscito per una colazione con Aaron, come era già capitato in
passato, o
qualcosa del genere.
Preparai la mia
colazione e mi accinsi a consumarla, programmando per il mattino un
giro al
mercato domenicale.
Quando ero bambina era
diventata quasi una tradizione per la mia famiglia quella di uscire tra
le
bancarelle.
Io ero sempre
così
contenta!
Aspettavo con
trepidazione l’ultimo giorno della settimana, quando mi
veniva sempre comprato
qualcosa che fosse un vestitino o solo un dolcetto.
Col tempo ero
cresciuta e seppur la tradizione fosse rimasta, i miei genitori non
badavano
più a sciocchi acquisti prediligendo invece le relazioni
pubbliche.
Pettegolezzi, più che altro.
Oh, il mercato era il
fulcro delle notizie!
Vestita semplicemente,
uscii di casa e mi incamminai verso la piazza.
Le prime bancarelle si
fecero vedere sperse qua e là ad anticipare
l’ammasso di commercianti che dalle
prime ore del giorno erano arrivati per accaparrarsi il posto migliore.
Come i commercianti,
iniziarono a farsi vedere anche i primi gruppi di persone, chi fermi a
chiacchierare, chi facendo spese.
Salutai qualche
conoscenza qua e là, fermandomi qualche secondo accanto alla
signora Grey, la
vicina di casa di mia madre, che mi aveva prontamente fermata appena mi
aveva
vista passare lì vicino.
Dopo alcuni
convenevoli a proposito della mia vita da sposata e degli acciacchi
della
donna, ero decisa ad andarmene per continuare in
tranquillità il mio giretto
sennonché un pettegolezzo partito da una delle amiche di Mrs
Grey mi fece
arrestare.
«Hai sentito
della
giovane dei Sawyer? Il dottore e sua moglie sono quasi impazziti, ho
sentito!»
«Cosa? No,
non so
niente. Cos’è successo?!» intervenne Mrs
Grey.
«Non lo
sai?!» strillò
l’altra, sorpresa. Poi, con un tono più basso e
cospiratore, ma eccitato dal
poter raccontare la notizia, aggiunse: «È
scappata! Questa mattina non l’hanno
trovata in camera! Ho sentito che forse è scappata con un
uomo, capisci?!».
Spalancai la bocca a
mia volta, scioccata. «Figlia del dottore Mark Sawyer? Quale
delle tre?»
intervenni.
«La
più giovane,
Elizabeth, se non sbaglio» mi rispose la donna.
Mi portai una mano
alla bocca. «Mio Dio, l’ho conosciuta ieri sera, da
Mrs . Non posso crederci,
sembrava una ragazza così a modo!»
«Infatti,
infatti.
L’amore, dicono! Bah! I genitori, dicevo, sono impazziti,
hanno perlustrato la
casa e una volta non trovata nemmeno lì, sono usciti in
strada urlando il nome
della figlia. Urlando! Lo so bene, io, che abito lì di
fronte…» continuò a
raccontare.
Persi il seguito delle
sue parole, distratta dai miei pensieri.
Quella ragazzina, che
sembrava così timida e dolce, era fuggita con un uomo.
Non provai nemmeno a
immedesimarmi nei suoi genitori, ovviamente increduli e pazzi di dolore
per la
figlia.
«…Era
promessa, e a
quanto pare questo ragazzo proprio non le andava giù. La sua
domestica
personale è stata licenziata in tronco, sembra sapesse cosa
voleva fare! Ho
sentito anche dire che è stata picchiata dal dottore in
persona perché non
voleva rivelare il nome dell’amante. Ma ti rendi conto,
queste donne! Le
ospitiamo nelle nostre case perché si occupino di esse e
delle nostre
figliolette e loro si sporcano le mani e pretendono
di…»
Feci una smorfia,
allontanandomi velocemente.
Una
fuga d’amore.
Una romantica pazzia
da innamorati che desideravano con tutti sé stessi passare
la vita insieme.
Come un romanzo
ottocentesco.
Sospirai, in
disaccordo con me stessa. La parte di me che credeva fermamente
nell’amore e
nel famoso “per sempre felici e contenti”
condivideva la scelta dei fuggiaschi;
l’altra parte, però, la parte di donna sposata che
conosceva la società, diceva
che un comportamento del genere era inaccettabile.
Le campane della
chiesa rintoccarono undici volte e mi decisi a tornare a casa per
prepararmi al
settimanale pranzo domenicale a casa dei miei genitori.
Una figura di spalle
sull’uscio di casa mia mi fece sorridere, pensando potesse
trattarsi di
Alexander che, come capitava spesso, poteva aver dimenticato le chiavi
a casa.
Ma, avvicinandomi,
notai che la corporatura non assomigliava nemmeno lentamente a quella
di mio
marito.
«Scusi,
posso aiutar…?
Oh, Aaron, sei tu!» sorrisi sollevata, quando questo si
girò, al mio parlare.
«Regina.
Regina, sei
arrivata…» mormorò.
«Ehm,
sì, ero al
mercato. Cosa c’è, Aaron? E Alexander? Oh, credevo
fosse uscito con te…» dissi
velocemente, aprendo la porta di casa e facendogli cenno di entrare.
«Alexander.
Alexander,
lui… Regina, io devo parlarti» disse piano.
La voce bassa,
incerta. Sembrava pazzo.
«O-ok,
Aaron, dimmi.
Vuoi qualcosa da bere, intanto?» domandai facendogli strada
verso la cucina.
«No, no.
Niente da
bere. Siediti che ti devo parlare di Alexander, io,
sì…»
«Va bene,
dimmi. Mi
stai facendo preoccupare, però.»
«Eh,
sì, lo so.
Alexander… Lui è venuto da me, ieri. Non ho
potuto dirgli di no, capisci,
Regina? È quasi un fratello per me. Non sapevo cosa
fare…» iniziò a parlare.
«Ehi, ehi,
Aaron,
fermo. Rallenta, non capisco! Cos’è successo?
Dov’è Alexander?» chiesi con voce
tremante.
Adesso ero seriamente
preoccupata.
«Lui…
Lui è andato
via, Regina. Mi dispiace. Mi dispiace… E io l’ho
aiutato a scappare.»
~
«S-scappare?
Dove…
Dov’è mio marito, Aaron? Dov’è?!»
urlai, infine.
«Non so dove
sia. Io…
È venuto da me, mi ha raccontato tutta la storia
e… mi ha implorato di
aiutarlo… Scusami, Regina…»
«La
storia…?»
«La storia.
Lei è
incinta e loro dovevano andare via, capisci? Lei è
incinta…» sussurrò.
La mia mente non
riusciva a capirla, quella parola.
Incinta.
Incinta.
Incinta.
Chi?
Le mie corde vocali
riuscirono a pronunciare quella domanda.
«Elizabeth,
Elizabeth,
la sua… la sua amante. Mi dispiace, Regina. E io
l’ho aiutato. Scusami, mi
dispiace» ripeté.
«È
scappata! Questa mattina non
l’hanno trovata in camera! Ho sentito che forse è
scappata con un uomo,
capisci?!».
La mia
mente non
riusciva a creare un pensiero di senso compiuto.
Solo parole, immagini
e spezzoni di discorsi.
In sottofondo, i
singhiozzi di scuse di Aaron.
«Vai via,
Aaron.
Vattene a casa.» mormorai.
«Scusami,
Regina,
scusami. Non sapevo cosa fare, è come un fratello. Scusami,
mi dispiace…»
sussurrò.
«Vattene, ho
detto,
esci da questa casa! Vai
via!!» urlai scattando in piedi. Afferrai una
manica
della sua giacca e la tirai verso l’alto, per farlo levare in
piedi.
Ovviamente la mia
forza non servì a nulla, ma lui si alzò comunque.
Si guardò
un po’
intorno, poi infinilò una mano nella tasca interna della
giacca e posò una
busta sul tavolo; infine, ripetendo le sue scuse a testa bassa,
uscì.
Non avevo tempo per
preoccuparmi di lui, dell’immagine che avrebbe dato per
strada: un uomo matto,
che ripeteva delle scuse al vento, gli abiti spiegazzati, forse gli
stessi
della giornata scorsa.
Corsi al piano
superiore, verso la nostra camera da letto e spalancai le ante
dell’armadio.
Trovai la maggior
parte dei suoi abiti, ma non tutti.
Aprii i cassetti del
suo comodino, con tanta furia da estrarli del tutto, talmente leggeri a
causa
del nulla che li riempiva.
Vuoto, vuoto.
Era vero.
«La storia. Lei
è incinta e loro
dovevano andare via, capisci? Lei è
incinta…»
Incinta. Incinta.
No, non poteva essere
vero, doveva essere un incubi.
Da lì a
poco mi sarei
svegliata dal sonno, con Alex al mio fianco.
Sì, doveva essere
così.
Chiusi gli occhi e mi
pizzicai un braccio convinta di svegliarmi.
Li riaprii trovandomi
ancora, come una stupida, in piedi. A terra dei cassetti rovesciati, il
letto
sfatto.
La sua parte di letto
fredda, gelida.
«Perché,
tu non mi ami, forse?».
«Sì,
certo»
Urlai, un
suono colmo
della mia disperazione e del mio dolore.
Un amore fasullo, il
suo per me.
Amava
un’altra.
Amava Elizabeth.
Incinta.
Crollai per terra,
distrutta.
Sola.
L'ovviamente comprensibile
disperazione di Regina, causata dall'incredulità, dal palco
del suo matrimonio fatto di bugie che crolla sotto ai suoi piedi,
facendole vedere i retroscena.
Aaron a sua volta spezzato sotto
il peso delle responsabilità dell'aiuto dato al suo amico.
Tante persone ferite a causa
dell'amore tra Alexander ed Elizabeth.
Alla prossima, ragazze!
|
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Capitolo 12 *** Verità. ***
Old loves they die
hard;
Old lies they die
harder.
Capitolo
XII: verità.
Alexander
Elizabeth
dormiva con la
testa appoggiata alla mia spalla.
Era
talmente stanca da non
svegliarsi a causa del rumore del treno. Viaggiavamo da giorni, ormai,
dormendo
in strette cuccette e mangiando cibo non esattamente di ottima
qualità. I miei
–pochi- viaggi in treno, li avevo sempre passati in prima
classe, ero abituato
a servizi più efficienti che non erano offerti alla classe
più economica in cui
viaggiavamo a causa della scarsità di denaro.
Fortunatamente,
eravamo
all’ultimo treno di quella fuga programmata rapidamente; il
confine dello stato
dell’Illinois con quello dell’Indiana distava solo
poche miglia e avremmo
dovuto percorrerne giusto qualcuna in più per arrivare alla
città di Whiting,
dove ci saremmo fermati stabilmente.
Un altro
stato, sperando
possa essere abbastanza per non farci trovare dalle nostre famiglie
che, ormai,
dovevano
essersi
sicuramente accorte della nostra assenza.
Aaron
doveva persino aver
già avvisato Regina.
Regina.
L’immagine
di lei,
appoggiata al lavandino in una posa stanca e frustrata,
ripassò per la mia
mente.
Lei,
come mia madre, mio
padre…
Cosa avevo fatto?
Ormai
non era più il tempo
di farsi questa domanda, però.
Un
movimento al mio fianco
mi distrasse.
«Buongiorno…»
mormorai ad
Elizabeth mentre apriva gli occhi.
«’Giorno…»
mi sorrise,
sistemando meglio il capo sulla mia spalla e legando il suo braccio al
mio.
Questa
sarebbe stata la mia
nuova vita.
La donna
che amo, nostro
figlio.
Cosa
potevo volere di più?
~
Regina
Il
foglio sopra al tavolo
ormai era stropicciato e presentava qualche macchia a causa delle
lacrime che
aveva provocato la sua lettura.
Era
passata per diverse
mani: le mie, quelle di mio padre, mia madre, i miei suoceri.
In quel
momento, era appena
stata lasciata malamente sul tavolo da un furioso dottor Sawyer.
I
genitori di Elizabeth si
erano presentati a casa mia pochi minuti prima, dopo diversi giorni
dalla fuga
di mio marito e la loro figlia.
Diversi
giorni, ma quanti
esattamente? Quattro, forse cinque? Forse una settimana, non mi
interessava.
Passavano
tutti uguali: mi
svegliavo dopo una media di tre ore di un sonno travagliato, mi vestivo
e nella
giornata accoglievo mia madre, al massimo Eloise che venivo a trovarmi
per
accertarsi che mangiassi qualcosa e che non passassi tutto il giorno a
piangere
o che non commettessi qualche pazzia.
Loro
parlavano,
raccontavano frivolezze mentre io me ne stavo seduta a guardare fuori
dalla
finestra con sguardo lontano, senza vedere davvero qualcosa.
La mia
mente era un
intruglio grigio dato che con difficoltà intercettava
qualche suono, qualche
parola, qualche immagine, ma le dimenticava in fretta.
«Ma…
Quindi? Cosa… Dove
sono? Oddio, non ce la faccio più…
Dov’è la mia bambina?»
singhiozzò Ladonna
Sawyer, guardandoci con una preghiera negli occhi.
Come se
noi avessimo potuto
risponderle!
«La
polizia di Chicago sta
lavorando, ma per ora nessuna notizia» replicò mio
padre.
Fortunatamente
i miei
genitori si trovavano qui quando sono arrivati i Sawyer.
Io non
parlavo.
Forse è sabato, pensai. O domenica…
«Come
diavolo possono
essere scappati?!» sibilò il dottore, stringendo i
pugni, appoggiati sopra al
tavolo.
«Oh,
qui posso risponderti,
Mark.» replicò mio padre, «Hanno
programmato tutto per
bene, senza dubbio. Hanno prenotato una carrozza perché
passasse all’alba e li
prelevasse. La destinazione che avevano dato all’agenzia era
Bronzeville, un
quartiere dell’area di Douglas[1]. La
polizia del posto non ha
trovato traccia dei due, adesso cercano nelle
vicinanze…» spicciolò le uniche
notizie in nostro possesso.
Inclinai
la testa, quindi è già
passata una settimana?
«Ladonna,
dobbiamo
interrogare nuovamente quella sgualdrina della domestica. Maledetta
donna, a
causa della sua inefficienza ci troviamo in questa situazione. Sotto il
nostro
tetto! Appena troverò mia figlia le farò passare
delle brutte ore, la chiuderò
in casa, te lo giuro, Ladonna. E non ti provare a metterti in mezzo.
Dobbiamo
ancora gestire la situazione con gli Harris, cosa potrò dire
a quella famiglia,
a quel ragazzo?» si sfogò il medico.
«Troverai
un modo, Mark.
Ora se hai finito ti prego di lasciare in pace mia figlia. Anche noi
abbiamo le
nostre situazioni da gestire» replicò mio padre
seccamente.
Sono io, la situazione da
gestire?
«Certo,
certo. Un ultima
cosa, però. Tu,» abbaiò verso di me,
«come hai fatto a non accorgerti mai di
niente?!».
Volsi
piano la testa verso
di lui, guardandolo ma senza vederlo veramente.
«Mark,
non ti permettere di
rivolgerti in questa maniera a mia figlia. Lei non ha sicuramente
colpe. Potrei
chiedere alla stessa maniera come avete potuto non notare che vostra
figlia
frequentava un uomo, oltretutto seducendolo sotto il vostro stesso
tetto»
ribatté papà.
«Incinta…»
mormorai.
I loro
volti si girano a
guardarmi e le loro espressioni diventarono compassionevoli.
Non ci
feci caso, mi
allungai a prendere la lettera tra le mani e la rilessi per quanto la
sapessi
già a memoria…
Cara
Regina,
voglio iniziare questa
lettera già scusandomi.
Ti prego davvero,
perdonami. Mi dispiace.
Non ho mai avuto davvero la
cattiva intenzione di farti del male, di rovinare la tua vita, mai.
Ammetto di non essermi mai
comportato bene con te, dall’inizio di tuta questa storia.
Voglio che tu capisca che
non ho mai voluto sposarmi, ma ho dovuto, mio padre mi mise alle
strette una
sera…
Ti prego, scusami.
Lo ripeterò
all’infinito
anche se so che mai arriverà il tuo perdono.
E come potresti?
Mi sono posto male fin
dall’inizio di questa vita insieme, non ho mai provato ad
accettare il
matrimonio e ho rovinato tutto.
Sei una donna meravigliosa,
non dubitarne mai un secondo.
Maledicimi ed odiami, una
parte di me prova gli stessi sentimenti verso me stesso.
Quella parte, però,
è
contrapposto al lato di me che ama Elizabeth, che vuole proteggere il
bambino
che porta in grembo ad ogni costo.
So che è difficile
comprendermi, ma prova ad immaginare… Cos’altro
avrei potuto fare?
Chiederle di abortire?
No, mai.
Scusami, Regina, scusami.
Voglio raccontarti però
com’è andata, è giusto che tu lo sappia.
Incontrai Elizabeth ad uno
dei ricevimenti di suo padre, il dottor Sawyer.
Quella sera mi aveva
affascinato ma il pensiero di farne diventare la mia amante nemmeno mi
aveva sfiorato,
te lo giuro.
Non mi sfiorò nemmeno uno
dei giorni seguenti, quando per caso la incontrai in ospedale o quando
le diedi
appuntamento per un caffè.
Te lo giuro, non era mia
intenzione tradirti.
Non so cosa iniziò a
combinare il mio cuore, per una volta in accordo con la mia mente,
portandomi a
frequentare quella ragazza.
Io me ne sono innamorato,
Regina, e mi
dispiace dirtelo e provocarti dolore.
So che tu provi dei
sentimenti per me che
però io non ho mai ricambiato.
Ho rovinato la tua vita e
non me lo perdonerò
mai.
Scusami.
Con affetto,
Alexander Woods.
~
«Vuoi tu,
Regina, prendere il qui presente
Alexander Davidian Woods come tua sposa, promettendo di essergli fedele
sempre,
nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarlo ed
onorarlo tutti i giorni della tua vita?»
No.
~
~
~
Eccomi
qui!
Spero
avrete tutte letto l'avviso che avevo messo nel mio blog, dove vi
avvisavo di questo ritardo!
Ripeto
le mie scuse, mi era stato detto che il computer sarebbe stato ad
aggiustare solo un paio di giorni, ma questi si ono rivelati "un paio
di settimane"!
Consideratele
la mia pausa estiva, dato che non andrò in vacanza e credo
non si creeranno più questi ritardi. Spero!
Comunque,
cosa ne dite di questo capitolo?
Sinceramente,
sono davvero contenta di come sia venuto.
Grazie
per seguirmi,
a
presto!
|
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Capitolo 13 *** Cambiamenti. ***
Old loves they die
hard;
Old lies they die
harder.
Capitolo XIII:
cambiamenti.
Regina
Girai con due dita la
pagina delicata ed ingiallita dell’ennesimo romanzo che stavo
leggendo per
svagarmi e per cercare di cacciare la noia.
O forse solamente per pensare
ad altre storie, ad altre avventure più emozionanti della
mia vita, in cui i
protagonisti di turno arrivavano al tipico lieto fine che da ragazzina
mi aveva
tanto fatto sognare.
Un lieto fine che il giorno
del mio matrimonio credevo di aver raggiunto in prima persona,
sposandomi con
un uomo bellissimo che amavo, un uomo che credevo ricambiasse i miei
sentimenti
e con cui immaginavo una vita serena e felice nel crearci una famiglia
tutta
nostra.
Bambini con i suoi riccioli
neri che correvano per casa.
Invece, dalla parte della
protagonista, ero passata ad essere comparsa nella mia stessa vita.
Mio marito scappato con la
donna che davvero ama, da cui aspetta un figlio; io, rimasta nella
nostra casa,
preda dei pettegolezzi e delle male lingue, delle occhiate
compassionevoli e
derisorie.
Chiusi di colpo il romanzo,
sollevando quell’odore indescrivibile, caratteristico dei
vecchi libri non
aperti per anni, rimasti chiusi in una cassapanca: quel misto di legno,
carta e
polvere.
Lo posai sul tavolino
accanto alla poltrona su cui ero seduta, e lasciai ricadere la testa
all’indietro chiudendo gli occhi.
Avrei così tanto
voluto
riaprirli e tornare alla mia vita passata.
Quando ancora mia madre mi
parlava di uomini e cene per farmeli conoscere.
Il suono leggero del
campanello mi distrasse da quei pensieri irrealizzabili e sollevai il
viso.
Convinta fosse mia madre,
ormai abitudinariamente qui a casa mia per controllare il mio stato,
tentennai
per andare ad aprire.
Al terzo suono del
campanello, però, sbuffai alzandomi.
Aprii la porta e rimasi
sorpresa nel trovare qualcuno che, con mia madre, non aveva la minima
somiglianza.
«Breanna?»
la chiamai, talmente
sorpresa di vederla lì davanti a me.
Non si era mai fatta vedere
in quelle settimane; secondo Eloise si vergognava troppo del contributo
di suo
marito alla fuga del mio.
«Regina, ti
prego… Io…
Quando Aaaron mi ha detto… non sapevo cosa fare. Ti prego,
dammi entrare, amica
mia» mormorò con gli occhi lucidi e le mani
stratte attorno alla borsetta
marrone.
Risposi solo con un cenno,
scostandomi dalla porta per farla passare. Appena chiusi la pota lei mi
arrivò
più vicina e mi abbracciò forte, ripetendo come
una litania il suo dispiacere.
Dimentica degli sbagli di
suo marito, ricambiai la sua stretta.
«Non hai fatto
niente di
male, Breanna. Calmati, su» provai, accarezzandole la schiena.
«Lo so, ma se solo
avessi
capito…» singhiozzò.
«…Saresti
stata dalla mia
parte, lo so. Ssh, dai vieni, andiamo in cucina. Preparo un the, che
dici?
Vieni, su…» tentai di sciogliere quella stretta
quasi asfissiante.
Mi lasciò solamente
per
portarsi le mani a coprire il viso, le spalle ricurve sotto il peso del
senso
di colpa. «Certo che ti avrei aiutata»
annuì, prima di seguirmi in cucina.
Le feci cenno di
accomodarsi mentre io mi dirigevo ai fornelli per mettere a scaldare
l’acqua i
nun pentolino e tirare già fuori due bustine di the,
alimento che ultimamente
non mancava mai nella mia dispensa dato che ne bevevo moltissimo per
provare a
calmarmi e sistemare lo stomaco che non riusciva più ad
accettare molti cibi.
Poca fame e conati di vomito avevano mio malgrado caratterizzato alcune
mie
giornate.
«Come
stai?» domandò
all’improvviso.
Sorrisi ironica.
«Che
domande fai?»
«Giusto,
sì, hai ragione. È
solo che Eloise mi ha raccontato dell’ultima volta in cui
è venuta a trovarti
e… non so cosa dire…»
balbettò.
«Smettila, Breanna.
Dovreste smetterla tutti. Mio marito tre settimane fa è
scappato da questa
casa, mi ha lasciata per un’altra donna da cui aspetta un
bambino, punto.
Questa è la storia e sono stufa di ripeterla. Vuoi sapere
come sto? Sono
stanca, ecco. E arrabbiata, stanca e arrabbiata. Dormo poche ore a
notte,
grazie a delle medicine, mia madre viene a trovarmi come minimo una
volta al
giorno per rassicurarsi che non commetta qualche pazzia e per ripetermi
che
dovrei lasciare questa casa per tornare a vivere da loro. Continuo a
trovare le
sue cose per casa. Non riesco nemmeno più a piangere, vedi?
Ho finito le
lacrime, sono finite persino quelle. Non ho più niente, solo
singhiozzi, stanchezza
e rabbia» conclusi, girandomi dandole le spalle, per evitare
di mostrarle la
mia espressione.
Lo sfrigolio del pentolino
mi distrasse da ulteriori terribili pensieri. Mi voltai verso di esso e
lo
portai via dal fuoco per versare l’acqua bollente in due
tazze prima di
immergere al loro interno le bustine di the.
Le portai sul tavolo,
porgendone una alla mia ospite sempre col viso basso per cercare di
evitare il
suo sguardo che sicuramente avrebbe presentato compassione,
pietà, tristezza.
E avevo abbastanza di
quelle espressioni, delle frasi gentili e delicate tipiche di chi crede
di star
parlando con una pazza da rinchiudere nel reparto psichiatrico
più vicino.
«Aaron…»
incominciò
Breanna, pronunciando il nome più sbagliato che potesse.
Non fui, però, ad
interromperla ma il campanello, che mi evitò
l’ennesima figura da pazza
isterica.
Dopo il lieve sollievo,
giuse il dibbio.
Chi poteva essere? Era
davvero mia madre, stavolta?
Mi scusai con la mia ospite
e mi alzai, andando ad aprire.
Dovetti assumere
un’espressione
impagabile, data dalla sorpresa e dallo shock nel trovarmi mia suocera
davanti.
«A-Amelia?»
balbettai
infatti, incredula.
Avevo incontrato i genitori
di Alexander una volta sola, in quelle tre settimane.
Si era trattato di un
colloquio particolare, imbarazzante e rancoroso.
Pieno di domande che la
maggior parte delle volte non riceveva vere e proprie risposte; mezze
spiegazioni che non soddisfavano nessuno o che davano solo dolore.
«Regina, posso-posso
entrare? Avrei bisogno di parlarti... urgentemente.» disse,
esitante ma decisa,
fissandomi con quei suoi occhi verdi come quelli del figlio.
Presi un respiro profondo,
cercando di trovare la forza per dire di no, ma soffermarmi un attimo
di troppo
su quegli occhi mi portò ad acconsentire:
«sì, certo… prego».
Mi scostai per farla
passare e dopo aver chiuso la porta la condussi in cucina.
«C’è
Breanna, Breanna
Hughes» aggiunsi nel frattempo.
«Oh, mi spiace
disturbarti.
Come ti ho detto prima, è una cosa della massima
importanza» replicò.
Annuii mentre Breanna, al
vedere la signora Woods, si alzò in piedi.
«Signora…»
la salutò
chinando il capo.
«Breanna, la imploro
di
scusare la mia maleducazione ma devo chiederti di lasciare me e Regina
da sole.
Le devo parlare di un affare privato» spiegò.
Boccheggiai per un attimo,
non capacitandomi delle sue parole.
Stava cacciando una mia
ospite?!
Chiusi la bocca, capendo
dall’espressione di mia suocera la sollecitudine di un mio
intervento a suo
favore.
Sospirai. «Breanna,
ti
prego…. Ci-ci vediamo presto, te lo prometto, e concluderemo
il discorso» la
congedai.
«Va bene, buona
giornata,
Regina. Arrivederci, signora Woods. Non preoccuparti, so la
strada» concluse,
fermando con un cenno della mano i mio avanzare verso la porta.
Le sorrisi leggermente,
riconoscente.
«Accomodati»
accennai ad
Amelia, indicandole le sedie davanti a noi. «Vuoi qualcosa da
bere? Un the, un
caffè,…»
«Mi basta
dell’acqua,
grazie» mi interruppe.
Dopo averle posato il
bicchiere davanti, parlò: «credo… Credo
sia meglio tu ti sieda».
Accettai il suo consiglio,
chiedendole poi di iniziare con le spiegazioni.
«Ho ricevuto una
lettera,
stamattina. Da Alexander.»
Deglutii lentamente, la mia
gola già bloccata da un nodo di lacrime e domande.
Mi trattenni e con solo un
cenno del capo le chiesi di continuare.
«Era… in
occasione del mio
compleanno, due giorni fa. Mi ha fatto gli auguri. Beh, la sua scusa
per
scrivere era questa. Normalmente non si impiegano due pagine per
augurare un
buon compleanno, nemmeno alla propria madre» cercò
di ridacchiare, in modo da
stemprare la situazione.
«Cosa…
Cos’altro ha
scritto?» riuscii a pronunciarmi, «Da dove proviene
la lettera?».
«La lettera
è francata
Springfield. La polizia del luogo è stata avvisata e appena
sapranno qualcosa,
ci informeranno. Ma Alex è furbo, a meno che non voglia
tornare, non lascerebbe
la sua vera posizione su una lettera…» scosse il
capo, pronunciando questa
parole.
«Quindi le
possibilità di
trovarlo lì sono minime» conclusi, stringendo il
pugno attorno all’porlo della
mia gonna.
«Io la penso
così» ammise
con un mezzo sorriso.
«Ne-ne sei
felice?»
domandai quasi scioccata.
«No, Regina, non
sono
felice di quello che ha combinato mio figlio. Non sono assolutamente
felice di
quello che lo ha spinto a fare mio marito; anzi sono molto delusa, da
entrambi»
si fermò, sospirando. «Ma voglio che mio figlio
sia felice, e forse così lui…
So che tu sei arrabbiata e hai tutte le ragioni per esserlo, non posso
assolutamente contraddirti. Ma Alex è mio figlio…
Sono solo una povera madre…»
cercò di giustificarsi, pregandomi con lo sguardo di capirla.
Io dovevo capire lei, suo
figlio, Breanna ed Aaron.
Qualcuno cercava di capire
me, però?
~
«Comunque…» riprese dopo un lungo
silenzio,
«ha… chiesto di te. Chiedeva come stavi e ti
rivolgeva nuovamente le sue scuse.
Lui sta bene, dice di non avere problemi e nemmeno Elizabeth ed
il… bambino.».
«Ha un lavoro, un appartamento. Chiede scusa,
credo che ogni frase contenga almeno una volta la parola
“perdono”. Regina, lui
è davvero dispiaciuto, lo so. Io lo so… So che
non potrai mai perdonarlo, ma…
un giorno, forse…» mormorò.
«Un giorno?» esplosi, «Un giorno?! Lui mi
ha
rovinato la vita, Amelia. E se posso capire che tu l’abbia
perdonato, perché è
tuo figlio, beh, mi dispiace ma non farò lo stesso! Se
n’è andato, mi ha
rovinato la vita per avere quello che io non potrò mai
avere: un compagno, dei
figli. Sono una donna finita, sbeffeggiata da tutti e tu mi chiedi di
perdonarlo, un giorno? Mai! Se solo si farà rivedere io no
so cosa potrei fare,
non deve nemmeno permettersi di tornare. Io…
Lui…» iniziai a balbettare a causa
della confusione.
Nella mia mente vedevo lui arrivare alla
porta di casa, Elizabeth dietro di sé che teneva un bambino
tra le sue braccia.
Sorridenti, desiderosi di entrare in questa
casa per un’amabile discussione.
Non l’avrei mai permesso.
Sarebbero potuti passare giorni, mesi o anni
ma non avrei cambiato idea in merito, non l’avrei mai
perdonato.
Ero cambiata in poche settimane e il perdono
non rientrava più tra le mie capacità.
«Regina,» sospirò Amelia allungando una
mano
per accarezzare la mia, «sei una brava ragazza. Mi dispiace,
credimi, per
quello che ha fatto mio figlio» ripeté, alzandosi
in piedi.
«Conosco la strada, non preoccuparti.
Riposati e… Sono certa che col tempo vedrai le cose
diversamente» concluse con
un mezzo sorriso di cortesia, prima di lasciarmi sola.
Scossi la testa.
No, il perdono non faceva più parte dei miei
pregi.
|
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Capitolo 14 *** Incubi e sogni. ***
Old loves they die
hard;
Old lies they die
harder.
Capitolo
XIV: incubi e sogni.
Regina
«Regina!
Regina!»
Voltai
il capo, cercando di
individuare tra la folla il proprietario della voce che chiamava il mio
nome.
La
piazza era gremita, a
causa del solito mercato domenicale nel quale avevo deciso di perdermi
anch’io
per una volta, dopo tanto tempo.
Solo
il ricordo dell’ultima
passeggiata di questo tipo mi provocava delle fitte allo stomaco.
I
bisbigli ancora mi
seguivano come ombre, nomi sussurrati e risatine di scherno represse a
fatica.
Vorrei
vedere voi al mio
posto, maledette pettegole!
Dopo
settimane il
pettegolezzo di cui ero protagonista non aveva ancora smesso di dare
scandalo:
e come avrebbe potuto?
Di sicuro la notizia del matrimonio
dell’ormai trentenne Miss
Carter che
portava con sé uno strano rigonfiamento al ventre non
l’avrebbe superato e
nemmeno le continue dichiarazioni di guerra alla Germania degli stati
americani
[1].
«Regina!»
Innervosita
girai su me
stessa, alla ricerca di chi continuava a chiamarmi.
O
era solo la mia
immaginazione?
Ero
impazzita del tutto?
No,
non lo sono,
pensai quando trovai il proprietario della voce.
«Aaron…»
~
«Regina…»
ripeté questa
volta a bassa voce, data la nostra vicinanza.
«Aaron»
ricambiai per cortesia.
«Come…
Come stai?» chiese
esitante e senza fiato.
«Bene,
grazie. Tu?»
«Sì,
bene. Ti prego,
possiamo parlare. Ti offro un caffè; vuoi?»
propose, con un’implicita preghiera
negli occhi.
«Va
bene» sospirai
seguendolo verso il caffè più vicino. Ci
accomodammo ad un tavolino abbastanza
riservato in modo da poter parlare senza essere disturbati.
Un
cameriere venne a
ritirare le nostre ordinazioni e molto velocemente ci portò
i nostri caffè,
lasciandoci infine soli.
«Allora,»
cominciò lui, «so
che Breanna è venuta a farti visita,
ieri…».
«Sì,
purtroppo non abbiamo
potuto parlare molto perché siamo state interrotte da una
visita di Amelia
Woods.»
«Lo
so… Tutto apposto?»
«Alexander
le ha scritto»
spiegai telegrafica.
«Oh,»
riuscì a dire, «e
cosa…?»
«Le
ha fatto gli auguri per
il compleanno e l’ha rassicurata. Sta bene, se ti
interessa» mormorai,
svogliata di parlare di quell’argomento.
«Oh,
capisco. Ehm…» aprì la
bocca come per aggiungere qualcosa ma poi sembrò cambiare
idea e si fermò.
Infine, sospirò e parlò: «so che sei
arrabbiata con me e ne hai tutte le
ragioni, ma ti prego solo di capire…».
«Avresti
potuto dirmelo
prima, Aaron. Le cose sarebbero potute andare diversamente.»
«No,
Regina! Lui era
disposto anche ad arrangiarsi se gli avessi negato il mio aiuto.
Sarebbe
successo comunque, capisci? Arrivò a casa mia, quel giorno,
tormentato,
raccontandomi una storia che… era così
inverosimile. Mi sono arrabbiato anche
io, cosa credi? Gli ho detto che avrei fatto quello che voleva,
sì, ma solo in
onore dell’amicizia che ci legava da tempo. Non
l’ho più sentito da tempo, se
solo sapessi dove si trova…»
Mi
passai le mani sul viso,
non sapendo cosa dirgli.
«Come
stai, Regina?
Seriamente, ti prego. Dimmi se posso fare qualcosa per
te…» riprese.
«Io…
ho bisogno di un
lavoro. Tu sei più informato, forse, di me. Ultimamente non
sono uscita molto
di casa, ma è tempo che mi impegni o… o
impazzisco. Purtroppo non so fare molto
ma… so cucire. Qualcosa che centra con la sartoria, magari.
O anche la
cameriera. Io…»
«Non…
Regina, posso darti
una mano se… Hai bisogno di soldi, è per questo?
Posso darti qualcosa, se…»
mormorò, preso alla sprovvista.
«No,
non è quello il
problema. Sotto quell’aspetto sono apposto e se anche non lo
fosse chiederei ai
miei genitori, non potrei mai farmi dare qualcosa da te, Aaron. Ma no
né
quello, è che… Non ne posso più di
restare chiusa in casa, ho bisogno di fare
qualcosa…» spiegai.
«Capisco.
Ora come ora non
mi viene in mente niente, ma mi informerò a proposito e ti
saprò dire al più
presto, va bene?»
«Certo,
ti ringrazio.»
«È
il minimo che possa
fare, Regina. Non farti scrupoli a chiedermi qualsiasi cosa dopo
che… Dopo i
danni che ho causato… Eravamo amici, io e mia moglie siamo
stati i vostri
testimoni di nozze e… Mi dispiace così tanto. Non
so davvero cosa fare per…»
«Mi
serve solo del tempo,
Aaron. Cerca di capirmi. Una cosa alla volta. Non posso… Non
riesco a badare a
tutto… Capiscimi…» sussurrai.
«Certo,
ovvio. Tutto il
tempo che vuoi.»
~
Io
ed Aaron ci salutammo
poco dopo ed io ritornai a casa.
Sistemai
la piccola spesa
che avevo fatto e mangiai qualcosa: niente di speciale, giusto un
piatto di
pasta che, come sempre, nemmeno riuscii a finire.
A
metà pomeriggio decisi di
uscire ancora, questa volta mi diressi verso la casa di Eloise.
Avevo
bisogno di lei, della
mia migliore amica.
Sapevo
di essermi
comportata male anche con lei, in particolare nel giorno in cui venne a
trovarmi, poco dopo la fuga di Alexander.
Ma
in quei giorni non ero
me stessa, la mia mente si era come sconnessa.
Certi
giorni non li
ricordavo nemmeno.
Presi
un respiro profondo,
prima di suonare al campanello.
Passò
qualche secondo prima
che Eloise aprisse la porta con un sorriso cortese che sparì
alla mia vista.
Ma
non si trasformò in una
smorfia rabbiosa o delusa, solo di sorpresa mentre i suoi occhi
diventavano
lucidi e le sue braccia si allungassero per abbracciarmi.
Ricambiai
felice, mentre
lei sussurrava la sua gioia nel vedermi e il suo dispiacere per non
essere
stata una buona amica.
Una
falsità, quest’ultima,
che le feci subito presente: «ma che dici, Eloise, non
è per nulla vero! Non mi
hai fatto mancare nulla, solo che io… Credo di essere io a
dovermi scusare, non
riuscivo a… Scusami, ma…» balbettai,
senza riuscire a comporre una frase di
senso compiuto.
«No,
no. Tu non… Il tuo
comportamento è stato del tutto normale, amica mia. Normale,
capisci? Sei stata
persino troppo brava. Guardati qui… Oh, mio Dio, scusami,
entra, entra, non
parliamone qui sull’uscio di casa. Ci sono sempre troppi
curiosi…» sbuffò
facendomi cenno di entrare.
«Soprattutto
se si tratta
di me, Eloise. Anzi, di tutta questa situazione. Sono così
cattiva che non vedo
l’ora che succeda qualcosa che possa far dimenticare tutto
questo…».
«Non
sei cattiva, tesoro. È
normale anche questo. Odio persino io sentire parlare di questa storia,
non
posso nemmeno immaginare come puoi sentirti tu. Però sono
contenta che tu sia
qui, adesso. Davvero, ne sono molto felice» mi sorrise,
mentre ci sedavamo sul
divano del suo salotto.
«Ho…
avuto giorni davvero
difficili e non sono mai uscita di casa ma… finalmente ce
l’ho fatta e infine
sono venuta da te, perché tu… sei la mia migliore
amica e ho bisogno di te,
Eloise. Se puoi… Se vuoi… possiamo tornare ad
essere come prima?» le domandai
esitante.
«Oh,
Regina, ma le cose non
sono mai cambiate!» esclamò abbracciandomi.
«Eravamo, siamo e saremo sempre
migliori amiche. Sei come una sorella, Regina. Ti voglio bene e questo
non
cambierà mai. Non mi sono arrabbiata quella volta a casa
tua. Anzi, ho sofferto
nel vederti così inerme. Ma sapevo che sei una donna
così forte e che saresti
riuscita a rialzarti.»
Gli
occhi mi diventarono
lucidi a sentire quello che lei pensava di me.
Io,
forte?
Illusa,
stupida, debole,
insicura. Ma non forte.
«Non
lo sono. Se lo fossi…
tutto questo non sarebbe successo. Sarei riuscita a salvare il mio
matrimonio
ed invece…»
«E
come
avresti potuto?»
«Non
so... Forse avrei potuto capire qualcosa. Dio, ha frequentato un'altra
donna
per mesi, come ho fatto a non accorgermene?!» esclamai la mia
frustrazione,
chiesi quello che mi passava per la testa da giorni.
Come
avevo potuto non accorgermene?
«Tu
avevi
un sospetto. Ne parlammo proprio qui, pochi giorni prima che tutto
accadesse.»
«
Anche stasera,
mi ha detto che avrebbe cenato da questo suo collega, Daniel McGregor,
ma non è
vero. Come non è vero che è andato lì
la settimana scorsa e quella prima ancora.
E ne sono certa. Sì, perché una settimana fa ho
incontrato Daniel e abbiamo
scambiato qualche parola; da lì ho scoperto al
verità: lui non ha nemmeno mai
invitato Alexander a cena e men che meno lui si è presentato
per una visita.
Stasera… Stasera sono andata io stessa a controllare. Sono
andata a casa di
Daniel e… Alexander non c’era. Mi aveva detto che
sarebbe stato da lui. E non
c’era. E io ho paura. Perché
c’è solo una risposta e io non voglio pensarci.
Pensare che lui vada con… con altre
donne…»
Ricordai
la nostra
discussione, quando lei cercava di convincermi che no, sicuramente
c’era
un’altra spiegazione.
Alexander
non poteva avere
un’altra donna.
Non
Alexander, il migliore
amico di suo marito.
Non
Alexander, il marito
della sua migliore amica.
Non
Alexander…
«Ed
era vero…» sussurrai
prima di mettermi a piangere come non facevo da giorni. «Era
vero. E sai cosa…
La notte… Prima che lui… A pensarci col senno di
poi, si è comportato
stranamente... Mi chiese se lo amavo e io gli dissi la
verità, che sì, lo amavo
e lui… Anche lui me lo disse… Disse di amarmi
mentre pensava a come fuggire da
me per vivere con un’altra donna…»
Eloise
mi cullava,
accarezzandomi la schiena e i capelli come farebbe una mamma con la sua
bambina
capricciosa.
Non
parlò, da brava amica e
confidente mi lasciò sfogare, passandomi un fazzolettino
mentre con la mano si
asciugava un paio di lacrime cadute anche a lei.
«Sono
una sciocca. Sono una
sciocca,» ripetei. «Io lo amavo, io…
Come ha potuto tradirmi in quel modo? Dopo
così poco tempo. Dopo solo pochi mesi di matrimonio? E il
matrimonio stesso…
Tutto un inganno. Quell’amore era un inganno, una menzogna. E
io ci credevo
davvero…»
Eloise
spezzò il mio
monologo con una semplice domanda a cui non seppi dare risposta.
La
guardai negli occhi, non
sapendo cosa dire.
«Ma
tu, nonostante tutto… Regina, ami
ancora Alexander?»
~
Mesi
di lavoro, sorrisi,
ansie verso il futuro. Paura di essere trovati, preoccupazioni per le
nostre
famiglie lontane.
Preoccupazione
per Regina.
Elizabeth
era ormai al
quinto mese di gestazione, il ventre si era ingrossato leggermente e
spesso la
trovavo ad accarezzarselo distrattamente, un sorriso luminoso sulle
labbra e
gli occhi pieni di sogni.
Elizabeth
era una sognatrice
Parlava
sempre della gioia
del futuro, di tutte le tappe che dovevamo raggiungere, per lei non
esistevano
ostacoli e problemi, tutto era semplice.
Era
tutto il contrario di
me, che ero così realista…
Quello
fu uno dei motivi
che mi fece innamorare di lei. Sapeva farmi sorridere con le sue
espressioni
fanciullesche ed ingenue, riusciva davvero a far immaginare anche a me
luoghi
meravigliosi in cui vivevamo felici.
Io,
lei e nostro figlio.
Maschio
o femmina che fosse
stato, non sarebbe stato un problema, noi l’amavamo
già senza preoccuparci del
sesso.
Anche
se una parte di me,
la parte legata alla società, quella cresciuta con gli
insegnamenti di mio
padre, desiderava un primogenito maschio, colui a cui avrei tramandato
il
cognome e i miei insegnamenti.
Quel
bambino che, se sua
madre fosse Regina, avrebbe già intestata a suo nome
l’intera eredità dei Woods
e dei Miller.
Ma
sua madre si chiamava
Elizabeth Sawyer, non era mia moglie e i miei genitori avrebbero
difficilmente
accettato che i loro piccoli possedimenti sarebbero finiti nelle mani
della sua
prole.
Come
spesso in quei mesi,
pensai alla mia famiglia, alle chiacchiere di paese che sicuramente li
avevano
travolti.
Mia
madre, così ovviamente
condizionata dai pettegolezzi ne stava sicuramente soffrendo molto.
Scossi
la testa,
impedendomi di pensarci ulteriormente.
Avevo
una nuova vita da
condurre che non potevo vivere con continui rimorsi e dolori per quello
che
avevo lasciato indietro.
«Alex?
Tesoro, vieni a
tavola, è pronto il pranzo!»
La
voce della donna che
amavo mi risvegliò dai miei pensieri.
Mi
stampai un sorriso sulle
labbra e uscii dalla nostra camera per entrare nella sala da pranzo che
comprendeva anche il salotto.
«Eccomi.
Scusami, avevo
così bisogno di rinfrescarmi che non ti ho nemmeno chiesto
come stai oggi…»
mormorai sedendomi.
«Non
ti preoccupare, con
questo caldo… Comunque sto bene, il piccolo sta davvero
iniziando a scalciare!»
esclamò entusiasta.
Sorrisi,
«e la fitta che
hai sentito ieri sera? Si è ripresentata? Forse dovresti
andare dal medico,
Elizabeth, non mi sento tranquillo…».
«Ma
no, Alex, non serve.
Oggi non l’ho avuta, sarà stato un caso di ieri,
sai ero stanca. Jeremy era
iperattivo ieri e forse mi sono sforzata troppo, tutto
qui…» si giustificò.
«Va
bene. Cerca di non
esagerare. Dovresti ridurre le ore con Jeremy, parlerò io
con Mrs…»
«No,
Alexander, non dire
sciocchezze! Lascia stare. Mangia, su, prima che si freddi.»
concluse
indicandomi il piatto di pasta che aveva preparato.
«D’accordo,
d’accordo. Ma
prometti di non esagerare. Voglio che tu e mio figlio stiate
bene» dissi
accarezzandole la mano posata sopra il tavolo.
«Oh,
Alex, certo!» sorrise.
Fissai
il suo viso e non
proseguii con le parole. Guardai i suoi occhi scuri e grandi che
esprimevano
una gioia e un amore immensi e il suo sorriso, le sue labbra rosse che
amavo
baciare che in quel momento mi sorridevano dolcemente.
Tutto
quello che volevo era
lì.
§§§
Nota di
fine capitolo.
Scusate
gli Orrori con i
tempi verbali, devo aver fatto un casino assurdo, soprattutto
nell’ultima
parte.
Purtroppo non ho avuto tempo per
controllarlo meglio, questa settimana
è un po' impegnativa!
Spero vi sia piaciuto,
un bacio!
[1]
Ricordo che la storia è
ambientata nel 1918 (data strana, lo so, ma dovuta alla prima scrittura
della
storia, nel fandom Twilight, che poi non ho voluto cambiare). In
quest’epoca
ovviamente si è in piena Prima Guerra Mondiale e tra
l’aprile e il maggio di
quell’anno Guatemala, Nicaragua e Costarica dichiararono
guerra alla Germania.
|
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Capitolo 15 *** Altri tre mesi. ***
Old loves they die hard;
Old lies they die harder.
Capitolo
XV:altri tre mesi.
Regina
Quella domenica pranzai
con i miei genitori.
Non che solitamente non
lo facessi, anzi
restavo anche per la cena e, in più, durante la settimana
mia madre spesso mi
invitava - leggisi: costringeva - a mangiare da loro, in modo da non
stare sola
anche in quel momento della giornata solitamente dedicato alla famiglia.
La prima cosa che notai
quando ci sedemmo
tutti e tre a tavola fu che mio padre aveva qualcosa da dire.
Era facile capirlo,
bastava un minimo di
spirito di osservazione: i suoi movimenti rapidi e tormentati, il suo
silenzio
pensieroso, i suoi occhi che o non si fermavano un secondo o si
fissavano su un
oggetto per molto tempo, ma senza guardarlo veramente.
Così dopo
che la governante ebbe servito il
secondo, mi decisi a chiedere spiegazioni.
«Papà,
tutto bene?».
Con uno scatto del capo
sembrò rianimarsi,
risvegliarsi da un lungo sonno. «Come?»
«Ho chiesto
se stai bene, papà. Mi sembri...
distratto.»
«Oh.
Sì, io... Sì, tesoro, sto bene, ho solo
qualche pensiero per la testa» spiegò cercando di
sorridermi ed stringendomi la
mano da sopra il tavolo.
«Cattivi
pensieri? Scusa, ma non ti ho mai
visto in queste condizioni e mi preoccupo...» giustificai la
mia intromissione.
«Non
esattamente. È solo che... Devo dirtelo,
Regina, è soprattutto affar tuo» si decise infine.
La sua preoccupazione
mi costrinse a metter
giù la forchetta e il coltello e a non badare più
al cibo.
Pensandoci, mi era
anche passata la fame.
«C-Cos'è
successo, padre?» lo spronai a
spiegarsi.
«La casa in
cui tu ora vivi è stata parte
della nostra dote per il tuo matrimonio. Il chè significa
che ora Alexander ne
è il proprietario.»
«Devo
andarmene da lì?» lo interruppi,
preoccupata.
«No, no, non
è questa la questione. Il
problema subentrerebbe nel caso lui... lui tornasse. Se tornasse
avrebbe il
cento per cento dei diritti di abitare quella casa e...» si
fermò un attimo,
guardandomi addolorato. «E tu... saresti costretta a vivere
con lui perchè...
siete sposati.» concluse.
«Ma... anche
se dovesse tornare con... con
quella ragazza io dovrei...?» mormorai senza riuscire a
concludere.
«Sì.
Sì, anche il quel caso.»
«No!»
urlai alzandomi in piedi, «No, non
permetterò mai di venire umiliata in tale maniera! Vivere
con quella sgualdrina
e il loro bastardo? No, preferisco morire» ringhiai.
Mia madre mi
fissò preoccupata, nella stessa
maniera con cui avrebbe guardato una donna pazza.
Ero
impazzita?
No, loro lo erano se
credevano davvero che
avrei accettato a prestarmi un remoto giorno ad una simile sceneggiata.
«Calmati,
Regina. E siediti» ordinò mio
padre.
Feci come richiesto,
restandomene rigida
sulla sedia di legno chiaro.
«In questi
giorni sto giusto cercando una
maniera per permetterti di opporti o di comunque farti uscire da questa
situazione nel caso lui ritorni a Chicago. Cosa di cui io,
personalmente,
dubito. Non credo che quel ragazzino avrà mai il coraggio di
tornare qui, a
Chicago, dopo quello che ha combinato» disse. «Ma
se anche lo facesse, ti
assicuro, bambina mia, che non avrà vita
facile...».
~
Un mese fa, camminando
per il centro di
Chicago, passai davanti al negozio di Madame Simon
La sarta francese aveva
appeso sulla porta un
vivace cartello verde dalle scritte nere che attraeva lo sguardo dei
passanti.
Dopotutto Madame,
come voleva essere
chiamata, era così: una donna solare ma allo stesso tempo
composta.
Il cartello, comunque,
recitava così: cercasi
aiuto sarta/commessa a tempo pieno.
Appena lo lessi
tornò il sorriso anche sul
mio volto.
Entrai nel negozio,
facendo suonare i campanellini
della porta e subito, perciò, una commessa si fece avanti
per consigliarmi.
«Cerco Madame»
spiegai subito.
«Oh, posso
chiederle di cosa ha bisogno? Madame in
questo momento è impegnata...» si
giustificò.
«È
per l'annuncio che avete appeso qui fuori,
per l'aiutante...»
«Sono
spiacente, signora, ma quel lavoro
credo sia già stato assegnato. Mi scuso, mi sono dimenticata
di togliere il
cartello questa mattina...» aggiunse vedendomi sorpresa.
«Ah, ma ne
è sicura? Mi scusi per la mia
insistenza ma sono alla disperata ricerca di un lav-»
«Reginà»
mi interruppe una voce, accentando alla francese il mio nome.
Madame,
in verità, parlava correttamente inglese, essendo nata a
Chicago solo da padre
francese.
Ma volendo
distinguersi, fin da ragazzina si
impose un accento francese che, via via con gli anni si
abituò ad usare senza
troppe forzature.
«Madame, che
piacere!» esclamai a mia volta,
avvicinandomi a lei per fingere un abbraccio e scambiarci due baci
sulle guance
ma senza un reale contatto.
«Che ci fai
qui? Hai bisogno di un abito,
ovvio, che stupida! Ho dei nuovi arrivi che su di te starebbero
benissimo!
Dopotutto sei sempre stata bellissima, chérie[1],
e lo sei
ancora, nonostante tutto! Tantissime donne si sarebbero abbattute,
degradate ma
tu, no!» continuò prendendomi sottobraccio per
portarmi verso degli abiti.
«Ti
ringrazio, madame, davvero. Ma,
sinceramente, non sono qui per comprare qualcosa. Sono entrata appena
ho visto
il cartello qui fuori ma ho saputo che il posto da aiutante
è già stato
preso...» spiegai.
«Cosa? Chi ha
detto una simile sciocchezza?
Se il cartello è ancora fuori significa che il osto
è disponibile. Anzi era!
Perchè adesso ci sei tu qui e io so quanto sei brava, ma
chérie!» esclamò
nuovamente.
«Quindi...
quindi è mio?» chiesi sorpresa.
«Mais
certainement![2]»
gridò battendo le mani, felice.
Guardai la commessa che
poco prima mi aveva
mentito e la vidi sbuffare.
Tornai con lo sguardo
su Madame che mi
portò nel suo ufficio privato per parlarmi di orari, paghe e
mansioni.
Era un buon lavoro, in
cui dovevo sistemare
gli abiti richiesti (accorciare orli, bustini e simili) e nel caso di
bisogno
dare una mano con i clienti.
Conoscevo Madame da
anni, il suo era il
negozio di moda preferito da molte donne, tra cui io e mia madre.
Il lavoro richiesto non
mi sembrava troppo
difficile perchè come sarta me la cavavo.
Il difficile sarebbe
stato, come sempre,
confrontarsi con gli sguardi e i bisbigli di chi mi avrebbe visto
lavorare.
Ma in quei mesi ero
cambiata, avevo imparato
a nascondere la mia fragilità ed il mio dolore sotto ad una
maschera di
impassibilità ed indifferenza.
Avrei continuato a
mostrarmi in quel modo,
come la nuova Regina Miller voleva e doveva farsi vedere.
~
Elizabeth
«Jeremy, non
correre dentro casa!»
Mi passai una mano
sulla fronte mentre
l'altra andò ad accarezzare meccanicamente il pancione: ero
quasi all'ottavo mese e quando mi
guardavo allo specchio quasi non mi riconoscevo.
Non vedevo l'ora di
poter tenere tra le mie
braccia il mio piccolino!
Nel frattempo,
però, dovevo occuparmi di un
altro bambino, un piccolo tornado di nome Jeremy.
Era un bellissimo
bambino, coi capelli biondi
e gli occhi azzurri poteva sembrare un angioletto, ma se si metteva
anche solo
un pochino d'impegno diventava un piccolo diavolo.
Come in quel
momento.
Sua madre mi aveva
chiesto gentilmente di
badargli anche durante l'ora di pranzo a causa di un impegno che non
poteva
spostare d'orario ed io avevo accettato.
«Fame,
fame,
fame, fame!» ripeté il piccolo
aggrappandosi
alla stoffa del mio vestito.
Era quasi mezzogiorno,
a
momenti sarebbe arrivato anche Alexander ed avremmo pranzato.
«Lo so,
tesoro. Abbi un attimo di pazienza,
su» cercai quindi di calmarlo, accarezzandogli i capelli.
Una fitta improvvisa al
ventre mi costrinse a
togliere la mano dal suo capo e portarmela alla pancia.
Gemetti e mi piegai
leggermente in avanti,
insospettendo il bambino.
«Lizabeth?
Lizabeth?» mi chiamò, storpiando come il
solito il mio nome mentre portava le manine sul mio braccio.
«Devo... devo
sedermi...» sussurrai cercando
di camminare verso la sedia più vicina.
Un'altra fitta mi fece
fermare, ma il piccolo
Jeremy si occupò di me, spostando una sedia vicino a me.
Sussurrai un
ringraziamento e mi sedetti
sentendo ancora un po' di dolore.
Cosa diavolo succedeva?
Mi massaggiai il
ventre, non sentendo il
solito calcio di risposta del mio piccolo.
Proprio in quel
momento, entrò Alexander e
contemporaneamente, Jeremy mi sussurrò: «Lizabeth,
perchè è tutto bagnato per terra?».
Abbassai lentalmente il
viso verso il pavimento notando le macchie Mi si erano rotte le acque.
[1] chérie
: tesoro
[2]
Mais certainement : ma certamente
§§§
Buona
sera!
Come
avevo scritto nel mio post dello spoiler, questo capitolo si
può dire sia diviso in tre parti: Regina a pranzo coi
genitori da cui scopre piccoli e dispettosi cavilli; Regina che trova
un lavoro che può aiutarla a distrarsi dai suoi problemi;
Elizabeth... a cui si rompono le acque.
Cosa
ne dite?
Vi
è piaciuto il capitolo?
Grazie
per aver letto,
a
presto!
|
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Capitolo 16 *** Quelle cose che non avresti mai immaginato. ***
Old loves they die hard;
Old lies they die harder.
Capitolo
XVI: quelle cose che non avresti mai immaginato.
Alexander
«Lizabeth,
perchè è tutto bagnato per terra?»
Quanto può
essere innocente un bambino?
Appena entrai in casa
mi colpì subito la
scena della cucina: Elizabeth seduta su una sedia con sguardo strano,
Jeremy
preoccupato.
Il liquido per terra
lo notai dopo anche io
quando il bambino lo disse alla mia compagna.
La rottura delle acque
significava parto.
Ed era troppo
presto.
Come me, anche
Elizabeth guardò per terra
prima di piegarsi gemendo per una fitta.
A quel gesto mi
svegliai dal mio stato di
trance e corsi verso di lei, prendendole la mano fra le mie.
«Beth...
Tranquilla, Beth. Chiamo il medico,
ok? Vieni, sdraiati a letto e poi scendo a chiamare il
dottore...» le sussurrai
aiutandola ad alzarsi. La portai in camera e la misi sul letto, tornai
in
cucina e presi una spugna bagnandola di acqua fredda e la posai sulla
sua
fronte.
«Jeremy, io
scendo un attimo, tieni d'occhio
Elizabeth, ok?» dissi al bambino, che annuì deciso
sedendosi ad un lato del
letto.
Corsi giù
dalle scale fino ad uscire dalla
palazzina e mi catapultai al bar di fronte.
Dovevo avere davvero
una brutta espressione
perchè appena entrai tutti si girarono di me e
calò il silenzio.
«Telefono,»
mormorai, «ho bisogno del
telefono, devo chiamare un medico».
«Lì
dietro» rispose il gestore, indicandomi
una porta in legno.
Entrai nella piccola
cabina e composi i
numero, pregando perchè il dottor Rogers rispondesse al
più presto.
Appena
mormorò quel «pronto?»
sospirai e gli spiegai tutta la situazione. Nel giro di
cinque minuti, disse, sarebbe stato da noi.
Sospirai un'altra
volta, ringraziandolo, e
riattaccai uscendo di fretta dalla cabina. Gettai qualche spicciolo sul
bancone
e uscii fuori rientrando nuovamente di corsa nel mio appartamento.
Elizabeth era sudata
fradicia e sembrava
stare davvero male.
Le cambiai la pezza
portando poi con me una
bacinella d'acqua in modo da rinfrescarle anche il collo e le braccia.
«Ho male,
Alex. Non è normale, io...»
sussurrò.
«Ssh...
Andrà tutto bene...» mormorai
baciandole una guancia.
«Jeremy,»
aggiunsi poi, «perchè non vai a
fare un bel disegno, in cucina? E quando arriva il dottore lo fai
entrare e lo
porti qua, ok?».
«Va
bene!» esclamò fiero di tutte quelle
responsabilità.
«Alex...»
sussurrò Elizabeth, «Alex se non
dovessi... sto male, ho paura che...» .
Capendo ciò
che intendeva dire, la fermai:
«ho detto che andrà tutto bene, non
succederà niente.».
«Torna a
casa. Se non ce la faccio... torna a
casa.»
~
Quelle sue parole
furono smorzate da un
gemito, ma le compresi benissimo.
Non potei ribattere,
perchè il campanello
suonò e poco dopo Jeremy portò il dottore in
camera.
Spiegatagli tutta la
situazione mi pregò di
portargli dell'altra acqua e più asciugamani possibili.
Feci come richiesto,
aiutato da sua moglie,
che l'aveva accompagnato, e poi mi chiese di uscire e lasciarli soli.
Da lì,
seduto per terra, col capo appoggiato
al muro accanto alla porta, ascoltai ogni gemito, ogni urlo di dolore
da parte
di Elizabeth.
Ascoltai le
imprecazioni della coppia che era
soccorsa in nostro aiuto e capii che, forse, Elizabeth aveva
già capito
qualcosa.
Un pianto infantile,
mi fece voltare
inizialmente il capo verso la cucina, preoccupato che Jeremy, lasciato
da solo,
si fosse fatto male.
Ma poi lui
arrivò, con un disegno in una mano
e qualche pastello nell'altra, sorridente.
Così mi
alzai di fretta e aprii la porta,
incurante dei rimproveri.
Era mio figlio.
Il dottore
praticò qualche visita veloce
prima di lasciarlo alla moglie che lo avvolse in un asciugamano.
«È
un maschio» ci disse sorridente.
Allungò le
braccia verso di me, che sorrisi
emozionato, e mi spiegò come tenerlo prima di lasciarlo
completamente a me e
occuparsi di Elizabeth.
Guardai quel visetto
arrossato, gli occhi
chiusi e lo bocca fina e non riuscii a provare nemmeno un piccolo
rimpianto per
quello che avevamo passato per lui.
Alzai lo sguardo verso
Elizabeth e la vidi
sofferente, pallida in viso.
Non era normale.
Mi avvicinai a lei,
notando gli sguardi
dispiaciuti del medico e le mostrai nostro figlio.
«È
il nostro bambino, Beth. Guardalo che
bello...» sussurrai.
Con fatica
portò una mano sulla sua guancia e
gliela accarezzò.
«È...
bellissimo» sussurrò con voce roca
prima di tossire.
La signora Rogers mi
si avvicinò mormorando
che il marito voleva parlarmi.
Le chiesi di tenere il
bambino e di continuare
a farlo vedere alla madre, poi seguii il medico nel corridoio,
chiudendo la
porta della camera alle mie spalle.
«Il bambino
sembra in perfette condizioni,
anche se farò qualche visita più accurata in
seguito» iniziò. «Il problema
è...
Il parto è stato molto travagliato, difficoltoso. Elizabeth
era debole e... Non
credo riuscirà a passare la notte, Alexander. Mi
dispiace.»
Mi portai una mano
alla fronte e mi appoggiai
al muro mentre la mia vista si faceva sfuocata a causa delle lacrime.
La mia Beth...
«Come
faccio?» sussurrai.
Io non sapevo come
crescere un bambino, non
sapevo cosa fare.
«Puoi
portarlo in ospedale, e per i primi
mesi se ne occuperanno le infermiere, soprattutto per il nutrimento. O
puoi
prendere una levatrice...» mi spiegò.
«Non ho...
economicamente, io...» mormorai
disperato.
Sospirò e
guardò la porta chiusa, prima di
aggiungere: «altrimenti... mia figlia ha appena avuto un
bambino. Le chiederò
se è disposta a darti una mano, va bene?».
Annuii, quasi senza
sapere cosa stavo
facendo.
Volevo solo entrare e
passare le mie ultime
ore con Elizabeth.
Capendo il mio
bisogno, il dottore aprì la
porta della camera e mi indicò di entrare.
«Portiamo il
bambino in bagno per lavarlo e
fargli qualche esame, se non vi spiace» disse il dottore
facendo segno alla
moglie.
Elizabeth si
allungò per lasciare un bacio
sulla fronte del piccolo e io li guardai sperando che al loro ritorno
Elizabeth
avesse ancora gli occhi aperti.
Mi avvicinai fino a
sedermi accanto a lei.
Presi le sue mani fredde tra le mie e le baciai ripetutamente,
bagnandole con
qualche lacrima.
Riuscì a
scostarne una e la pose tra i miei
capelli, accarezzandomi il capo.
«Finirà
presto, vero?» sussurrò.
Annuii, incapace di
parlare.
«Ritorna a
casa. Fagli conoscere le nostre
famiglie. Crescilo con Reg... con Regina» continuò
interrompendosi per prendere
un profondo respiro.
«No, non
posso, non posso... Ti prego, Beth,
amore mio...» singhiozzai sempre a capo basso appoggiato
sulle sue mani.
«Io ti
prego, Alexander. Fallo per me. Voglio
abbia una madre, voglio... Vorrei restare qui, anche io non voglio...
Ma sto
così male... Alex...»
«Ssh... Va
bene. Farò come vuoi, amore, come
vuoi» mi ripresi alzando il viso per baciarle le labbra
fredde e screpolate.
«Come vuoi
chiamarlo?» le chiesi, poi.
«Come
avevamo deciso... Andrew... Andrew...
voglio vederlo, fammelo vedere un’ultima volta... sento
che...» sospirò piano,
senza forza.
Annuii e la lasciai
per correre in bagno. I
coniugi Rogers me lo lasciarono subito, consapevoli di quel momento.
Una volta in camera
posai il viso del piccolo
Andrew vicino a quello della madre perchè potesse vederlo
bene.
«È
bellissimo... bellissimo...» sussurrò.
«Sì»
annuii.
«Alex... ti
amo... tanto.»
«Lo so.
Anche io ti amo» sussurrai baciandole
il capo.
Fissò il
nostro bambino e mosse le labbra
leggermente forse per sorridere, forse per parlare.
Non lo potei mai
sapere.
I suoi occhi si
chiusero, la mano appoggiata
sulla guancia del nostro bambino scivolò sul letto ed Andrew
scoppiò in
lacrime.
Come me.
Il dottore si
avvicinò al letto e prese il polso
di Elizabeth.
Scosse il capo e
guardò il suo orologio da
taschino.
«Ora del
decesso, 15:17.»
§§§
Ehm,
è
permesso?
Mettete giù le forche, le torce, le pistole, le spade e
qualsiasi arma.
Ehi, tu! Metti giù quel mattarello!
Questo capitolo è tutto dedicato ad Alexander ed Elizabeth,
in un momento così particolare
la concentrazione doveva essere puntata solo su di loro.
So che odiate Elizabeth, ma su, dai, non siate ocntente della sua morte!
Vi aspetto alle recensioni (insultatemi pure, dai, ve lo concedo...)!
Un bacio,
a presto!
|
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Capitolo 17 *** Home sweet home. ***
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lies they die harder.
Capitolo
XVII: home sweet home.
Regina
Il mio sguardo era
fisso sul calendario attaccato al muro.
Era da settimane che
temevo questo giorno, temevo il dolore e i ricordi che
mi avrebbe provocato.
Era il tre marzo del
1919, un anno fa a quest'ora mi svegliavo emozionata
attendendo di sposare Alexander Woods, il ragazzo che amavo, il mio
principe.
Un principe delle
tenebre, pensai.
«Tanti
auguri, Regina, ma niente fiori e cioccolatini per te, oggi»
mi dissi.
Scoppiai in una risata
isterica pensando a quanto potessi sembrare pazza in
quel momento.
Bevetti qualche sorso
di the come colazione, non riuscendo a mangiare altro,
e poi vestii, non molto pronta ad una nuova giornata di lavoro.
Lavoro che era
diventato la mia vita, che aveva riempito le mie giornate
concedendomi momenti spensierati.
Mi trovavo bene, i
primi momenti di tensione si erano via, via sciolti ed
avevo iniziato ad adorare l’aggiustare vestiti, modificarli,
consigliare donne
e ragazze.
Quel giorno,
però, non avevo molta voglia di chiacchierare e sorridere.
Dovevo andare, però, mi costrinsi ad uscire
perchè non potevo e non dovevo
chiudermi in casa e seppellirmi sotto le coperte con un libro ad
intristirmi e
pensare.
A testa alta mi
diressi verso il negozio e salutai tutte le dipendenti che,
come me, stavano arrivando in quel momento.
Ed un'altra giornata ebbe
inizio.
~
Essendo il negozio e
casa mia abbastanza vicini, nella pausa pranzo
mangiavo lì e un paio di volte avevo anche invitato due o
tre ragazze con cui
avevo un po' legato.
Niente di che, un
rapporto cordiale e amichevole: per lo meno loro non mi
guardavano dall'alto in basso e nemmeno volevano parlarmi solo per
sapere come
erano davvero andate le cose con Alexander.
Quel giorno, comunque,
l'avrei passato da sola.
Avvicinandomi a casa
cercai nella borsa le chiavi, non accorgendomi delle
occhiate che mi lanciavano i miei vicini.
Le notai solo quando,
trovato ciò che cercavo, mi fermai davanti al mio piccolo
cancello e vidi la mia vicina osservarmi incuriosita dalla finestra.
Appena si accorse del
mio sguardo, chiuse la tenda e scappò via.
Sbuffai,
chiedendomi perchè, dopo
quasi un anno, la gente ancora parlava delle mie faccende.
Aprii il cancelletto e
camminai sul vialetto per raggiungere la porta; infilai
la chiave e... non entrò.
Riprovai
più volte, ma niente.
Sembrava ci fosse
qualcosa che la bloccava dall'altra parte.
Mi irrigidii
preoccupata ma poi capii: i miei genitori, non avevano voluto
lasciarmi sola nonostante avessi detto loro di non venire.
Difatti abbassai la
maniglia e la porta si aprì.
«Mamma?
Papà? Vi avevo detto di non venire...» dissi
chiudendo la porta
dietro di me ed appoggiando chiavi, borsa e giacca sul mobiletto in
entrata.
Mi insospettii nel non
ricevere risposta.
«Mamma?!»
ripetei entrando in cucina.
«Non ci sono i
tuoi...»
disse una voce maschile dietro di me.
Mi irrigidii nel
riconoscerla, ma non mi girai, credendomi pazza.
Non poteva essere...
L'uomo mi
camminò di fianco, arrivando di fronte a me.
No, non poteva
essere...
«Alexander...?»
«Ciao,
Regina.»
~
Credetti seriamente di
svenire.
Mi girò la
testa, sicuramente, e vidi nero per qualche minuto però
riuscii
a combattere le ombre e mi ripresi.
Lui si era avvicinato,
forse preoccupato che mi potessi sentire male e
quindi per sorreggermi.
Lo allontanai con una
mano, sentendo la sua consistenza sotto il palmo: era
vero. Non era un incubo.
Ma quale scherzo del
destino l'aveva fatto presentare qui il giorno del
nostro anniversario?
O aveva fatto apposta,
il maledetto?
«Cosa...
Perchè sei...?» balbettai avvicinandomi ad una
delle sedie intorno
al tavolo per sedermi.
«Dovevo» sussurrò.
«Oh,
no...» mormorai, «Sono state molte le cose che
avresti dovuto fare, ma
questa... proprio no.».
Uno strano rumore dal
salotto mi fece voltare il capo verso quella sala.
«Cosa...?»
«Scusami un
attimo.»
Parlammo insieme, ma
lui si alzò e se ne andò verso l'altra camera.
Piano mi alzai
anch'io, sentendo i suoi sussurri e volendo farmi male.
Volendo vedere la causa del mio dolore.
Alexander mi dava le
spalle, ma sentendo i miei passi si era voltato
d'istinto, mostrandomi con espressione sorpresa e colpevole quello che
teneva
fra le braccia.
«Regina...
Lui è Andrew, mio figlio.»
~
Era un bambino.
Un piccolo primogenito
maschio.
Lo teneva con
tenerezza e cura tra le braccia cullandolo per farlo
addormentare.
Appena chiuse gli
occhi, lo posò sul divano sistemando i cuscini attorno a
lui per precauzione.
Un papà
premuroso e amorevole.
«Non volevo
lo vedessi così... Mi spiace» sussurrò
venendomi vicino.
«Perchè
sei qua? Perchè sei tornato? Non potevi restartene dov'eri,
con
Elizabeth e il vostro...»
«L'avrei
fatto,» mi interruppe. «L'avrei fatto ma...
Elizabeth... Elizabeth
è morta mettendo al mondo Andrew»
sussurrò portandosi le mani al viso.
Era morta.
Non mi sentii crudele
a non sentire dispiacere o dolore.
Non provai nemmeno
felicità, s'intende, ma restai apatica a guardare
Alexander che cercava di riprendere il controllo di sé.
«Dovresti
andare dalla sua famiglia a dire queste cose, non a me.»
«Ho inviato
loro una lettera, ma non ho mai ricevuto risposta»
replicò.
«Credevi
davvero che qualcuno avrebbe preso bene la notizia della vostra
fuga? Credevi che tutto sarebbe rimasto uguale, senza rancore, rabbia
e...
Diavolo, solo tua madre...» presi dei profondi respiri per
cercare di calmarmi.
«Vai dai tuoi genitori, Alexander, non voglio vederti
qui.» conclusi girandogli
le spalle.
«Questa
è casa mia, Regina» mormorò.
Strinsi le labbra,
colpita dall'ennesima umiliazione, ricordando le parole
di mio padre in proposito.
«Allora me ne
andrò io.»
~
Avevo preso un borsone
e avevo gettato qualche indumento a caso, senza
badarci troppo, mentr Alexander dietro di me mi chiedeva di non farlo e
di
aspettare.
Aspettare cosa?!
Uscii dalla nostra
camera e lui mi fermò afferrando il mio polso.
«Ti prego,
Regina, aspetta. Non voglio che tu lasci una casa che è
anche
tua. Per favore, fammi spiegare...» mi pregò.
«Mi spiace,
Alexander, ma o tu o io. Non c'è un noi, per te non
c'è nemmeno
mai stato! È questo quello che volevi, no?»
esclamai.
«Noi...
saremmo sposati...» disse.
Risi amara,
«adesso te ne ricordi? Dopo un anno?».
«Regina,
io... Non puoi capire quanto vivevo male questa situazione, ed
Elizabeth...» iniziò a spiegarsi.
«Potevi
parlarmene!» esclamai furente, «Potevi spiegarmi
tutto, avremmo
cercato di... di sistemare le cose! Ma tu, no, sei scappato, ti sei
rifugiato tra
le gambe di un'altra donna e poi sei fuggito del tutto. Io non
potrò mai
perdonarti, tu mi hai rovinato la vita» conclusi piano come a
volergli
imprimere bene quelle parole nella mente.
«Non parlare
così di lei. Insulta me, ma non... Lei non c'è
più» concluse
prendendosi il capo fra le mani. «Sono rimasto solo con
Andrew e non so cosa
fare...» aggiunse.
«Non
è un mio problema. Fatti dare una mano da tua madre, o
chissà magari
trovati un'altra donna...» sibilai maligna, voltandogli le
spalle per scendere
le scale.
«No, ti
prego. Dammi una mano tu.» asserì.
Questa volta mi
bloccai io, sconvolta dalla sua richiesta.
«Ma stai
scherzando?!»
strillai. «Non crescerò mai quel bambino, frutto
del tuo adulterio!»
«Non mi
costringere a passare per vie legali, Regina, sai cosa ne
risulterebbe. Sono un bastardo, lo so, mi pento di come sono andate le
cose
ma... non posso pentirmi di avere un figlio. Non posso pentirmi di
avere amato
Elizabeth. Tu sei mia moglie e lo sarai sempre. Non ti chiedo di... di
assolvere a tutti i tuoi doveri, ti chiedo solo di restare qui ed
aiutarmi
con... con Andrew.» concluse affannato.
«Davvero una
piccola richiesta…» sospirai sarcastica.
Lasciai cadere a terra
il borsone e scesi le scale diretta alla porta.
«Dove
vai?» mi chiese.
«Dai miei
genitori, mi è concesso?» chiesi ironica.
«Ovvio. Gli
dirai...?» chiese indicandosi.
«Sì.
E ti conviene andare dai tuoi genitori prima che uno dei nostri vicini
glielo riferisca» risposi raccogliendo le mie cose
all'entrata.
Infine uscii senza
aggiungere altro, e mi diressi a capo chino e passo svelto
verso la mia vecchia casa.
Corsi sul vialetto e
quando suonai la porta già trattenevo a stento le
lacrime.
«Signora...?
P-Prego, entri sua madre è nel salottino.» disse
la governante
con fare preoccupato.
Annuii in
ringraziamento ed entrai nell'altra stanza.
«Regina?
Tesoro, cos'è successo?» chiese preoccupata.
«È
tornato, mamma. Alexander
è
tornato.»
§§§
Buongiorno.
Ta-dan! Alexander è
tornato.
Ne siete felici? Cosa ne
pensate?
Ditemi, dai, tiratemi su il
morale, per favore.
Quante di voi hanno iniziato
scuola come me, mercoledì? Come sempre in Italia a seconda
della regione c'è un giorno diverso ma so che in generale si
è iniziato mercoledì o venerdì,
cioè domani.
In entrambi i casi, buona
fortuna!
Vi abbandono, la mia
professoressa di inglese ha già dato compiti e mi sono
ripromessa di impegnarmi quest'anno causa esami di maturità.
Argh.
Spero di riuscire a continuare
ad aggiornare con regolarità, altrimenti vi prego di
scusarmi già da adesso.
Buona giornata,
a presto!
|
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Capitolo 18 *** Esserci. ***
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Capitolo
XVIII: esserci.
Alexander
Restai
fermo a fissare la porta da cui se n'era
andata.
L'avevo
praticamente costretta a restare qui, in
questa casa, con me e mio figlio.
Come
diavolo mi era
saltato in mente?
Ma
cos'altro potevo
fare?
Era da
quando avevo deciso di partire, di tornare a
casa, che mi facevo queste due domande in contemporanea.
Ero
così combattuto!
Però
la promessa fatta ad Elizabeth continuava a
rendersi vivida nella mia mente: “Ritorna
a casa. Fagli conoscere le nostre famiglie. Crescilo con Reg... con
Regina.”
L'avevo
promesso alla donna che amavo e che era in
punto di morte: due validi motivi perchè io rispettassi la
parola data.
Un vagito da
parte del piccolo Andrew mi riscosse
dai pensieri che troppe volte si ripetevano nella mia mente nel corso
di una
giornata.
Però
quel pomeriggio avevo altro a cui pensare, ad
esempio dovevo trovare un modo per uscire da questa casa e attraversare
il
quartiere fino a giungere all'abitazione dei miei genitori.
Niente di
difficile se non fosse stato che io avrei
voluto essere invisibile, per camminare tra la folla senza farmi
vedere.
Non mi
vergognavo delle mie azioni passate - azioni
che mi avevano portato il bambino tra le mie braccia - ma sapevo delle
conseguenze che esse avevano colpito la mia famiglia.
Presi un
grande respiro e guardai Andrew. «Dobbiamo
uscire. Siamo uomini, vero, piccolo? Non abbiamo paura.»
Mio figlio
mi rispose tendendomi un pugnetto e
aprendo la bocca.
«Lo
prendo come un sì» conclusi sorridendo.
Mi capitava
spesso di parlare con lui. Da quando
era nato ed Elizabeth non c'era più, non avevo nessuno con
cui parlare.
Certo,
discutevo con il dottor Roger e con sua
figlia, che gentilmente si era offerta di aiutarlo per quanto
riguardava
l'allattamento almeno per i primi mesi.
Ma quando mi
trovavo a casa, seduto a tavola con
lui tra le braccia, a chi potevo confidare le mie ansie, le mie paure?
Era anche
quello uno dei motivi che mi aveva spinto
a tornare a casa: avevo bisogno della mia famiglia.
Così
pensando uscii di casa. Presi con me le chiavi
che avevo usato per aprire - il mio paio, che avevo sempre con me - e
mi
incamminai per il marciapiede tra la gente che mi fissava e bisbigliava.
Marciai a
testa alta, stringendo Andrew a me,
orgoglioso del mio piccolo trofeo, unico ricordo di un amore e di una
passione
travolgente.
~
Davanti al
cancello della casa dei miei genitori,
sospirai.
I pochi
chilometri che avevo percorso erano stati
faticosi, non per la stanchezza ma per le occhiate e i bisbigli che non
si
fermavano mai.
Entrai nel
giardino di casa mia, percorsi il
vialetto guardando l'erba verde e curata e le amate aiuole di mia madre
che
davano un tocco di vivacità all'area.
Presi un
grande respiro mentre suonavo il
campanello e diedi un'occhiata ad Andrew, stretto nella sua copertina
grigia,
che dormiva beato.
Fortunato
lui.
Appena
sentii dei rumori alla porta, risollevai gli
occhi, giusto in tempo per vedere mia madre.
La sua
espressione stupita e sconvolta fu quasi un
colpo al cuore. «Ale-Alexander?»
«Buon
pomeriggio, mamma.» mormorai.
«Cosa...
Oddio, vieni dentro, intanto!» esclamo
scostandosi e gesticolando agitata.
Varcai
l'uscio, stranamente imbarazzato.
Era mia
madre, ero nella casa in cui ero nato e
cresciuto, avevo ricordi legati ad ogni oggetto presente ma mi sentivo
quasi un
estraneo.
Mamma dietro
di me chiuse la porta, sbattendola in
faccia a tanti visi curiosi. Con quel rumore improvviso, Andrew
aprì gli occhi
e la bocca dando vita ad un piccolo pianto.
Lo cullai
sussurrandogli parole di calma, mentre
con la coda dell'occhio notai mia madre avvicinarsi e fissarci
stupefatta e
commossa.
Era suo
nipote, il suo unico nipote. Era
diventata nonna.
«Oh
mio Dio...» sussurrò portandosi una mano al
petto.
«Mamma,
lui è Andrew... È tuo nipote» mormorai
notizie di cui era già venuta a conoscenza tramite lettera,
scoprendo la
piccola testolina che non aveva mai visto.
«Posso?»
chiese allungando le braccia.
«Certo.
Magari riesci a calmarlo...» aggiunsi
continuando a sentirlo strillare.
Ci
avvicinammo ancora di più perchè potesse
prendere il piccolo e ne approfittai per guardare con più
attenzione il suo
viso. Era sempre uguale, sempre bellissima... e mi era mancata.
«Ciao,
Andrew, sono la nonna» gli mormorò intanto
cullandolo e vezzeggiandolo per farlo calmare.
«Forse
ha fame. Come posso dargli del latte?» mi
chiese alzando il viso.
«I
medici mi hanno insegnato un modo per non
ricorrere alla balia sempre. Basta immergere una pezza nel latte
perchè assorba
il liquido e poi il bambino riuscirà a succhiare. Non
è come avere una mamma,
ma...» spiegai.
«Oh,
ingegnoso. Non ne avevo mai sentito parlare.
Tienilo, e seguimi in cucina che prepariamo tutto» aggiunse
riporgendomi mio
figlio.
La casa non
era cambiata. Anzi, a pensarci, non
aveva mai subito grossi cambiamenti fin da quando ricordavo!
Ogni tanto
mia madre provava a cambiare la
disposizione di un mobile o soprammobile i quali, però, dopo
poco tornavano al
loro posto.
Guardai mia
madre affaccendarsi per prendere l'occorrente,
chiedendomi ogni tanto informazioni a proposito.
Una volta
finito mi avvicinai di più a lei che
iniziò a portare la pezza imbevuta di latte alle labbra del
piccolino.
«Aveva
proprio fame...» mormorai sentendolo
rilassarsi tra le mie braccia.
Mia madre
restò in silenzio. Immaginai la sua mente
piena di domande senza risposta, rimproveri, auguri, lamentele e
sospiri: ero
sicuro si sentisse così.
«Come
stai, mamma?» chiesi allora.
«Sto
bene, Alex. Sono contenta di vederti... Non ti
nascondo quanto sono stata in pensiero per te in questo anno... quanto
lo siamo
stati tutti...» si corresse.
«E
papà?»
«Lui
non si da' pace, si ritiene colpevole. Ha
tutti i motivi per farlo! Se solo mi aveste resa partecipe dei vostri
piani...»
commentò infastidita.
«Mamma,
io... mi dispiace. 'On volevo, anzi non
volevamo soffrissi per nostre azioni...» spiegai.
Sospirò,
passando oltre quel discorso,
probabilmente trito e ritrito in quei mesi.
«Sei
già stato a casa tua?» domandò.
«Sì.
Ho anche parlato con Regina. Beh, diciamo
discusso o litigato... Non che mi aspettassi di meglio. Almeno non mi
ha
lanciato addosso il servizio di piatti...» cercai di
scherzare, non causando
però neanche un sorriso.
«Quello
che hai fatto, figliolo... Le conseguenze
sono tutte ricadute solo su di lei. Non ha passato dei bei mesi, e non
parlo
solo della vergogna pubblica. Parlo del dolore causato da un
tradimento,
dell'autostima spezzata, della solitudine voluta e del sentimento di
sfiducia
verso chiunque.» concluse.
Mi zittii,
pensando alla veridicità delle sue
parole. «E cosa posso fare, allora?»
«Cosa
intendi?» domandò fissandomi interdetta.
«Come
devo comportarmi con lei? Siamo sposati,
divideremo la casa...»
«Sul
serio, Alex? Hai intenzione di abitare di
nuovo con lei?» chiese stupefatta.
«Sì.
Andrew ha bisogno... Ed Elizabeth me lo chiese
in punto di morte. Di tornare qui, di fargli conoscere la sua
famiglia... e di
crescerlo con Regina.» spiegai convinto.
Non potevo,
non mi passava nemmeno per la testa, di
infrangere la promessa fattele.
«Capisco,
ma... hai provato a metterti nei panni di
Regina? Le promettesti amore e felicità di tua spontanea
volontà - o almeno
questo credeva quando la chiedesti in sposa. Una volta sposata sei
cambiato
totalmente, l'hai trattata peggio di un animale e poi un mattino non ti
ha più
trovato a casa. Scopre dal tuo migliore amico che sei scappato con
un'altra
donna con cui avevi una relazione extraconiugale, una donna che
è incinta di
tuo figlio. È costretta ad affrontare noi, l'ira della
famiglia Sawyer, le
occhiate della gente e pure il proprio dolore. Non so se lei ti amava,
non so cosa
provava per te... ma non aspettarti che ti accolga in casa, non pensare
nemmeno
che possa allevare Andrew... non lo farà.»
La ascoltai
fino alla fine capendo quello che
voleva trasmettermi e, allo stesso tempo, sentendomi disperato.
«Cosa
posso fare, allora? Madre... Andrew ha
bisogno di una figura materna e io sono sposato con
Regina...» espressi la
mia confusione.
«Per
prima cosa non dirle mai una cosa simile! La
faresti solo sentire obbligata ed oppressa,»
iniziò. «Sei davvero convinto, sei
sicuro di quello che vuoi fare? Pensaci, Alexander, pensaci. Elizabeth
non ti
vorrebbe male se sapesse che non l'hai accontentata... Per favore,
riflettici
bene» concluse.
«Ci
ho già pensato per settimane e la mia decisione
non è mai stata diversa. Non cambierà neppure
ora, mamma, mi dispiace»
replicai.
Mia madre mi
osservò a lungo prima di mutare la sua
espressione in una maschera di compassione: «va
bene,» disse, «questa è la tua
scelta. Spero solo vada tutto bene. Non combinare altri guai, Alex, ed
ascolta
Regina. Non lasciarla da parte come un cane un'altra volta. E se hai
bisogno...
io sono qui ed anche tuo padre. Noi
ci siamo.».
§§§
Non
mi
intrattengo troppo perché sono talmente stanca da non
riuscire quasi a pensare! D:
Non
vedo l'ora di andare a dormire!
Comunque,
qui abbiamo esplorato abbastanza le idee di Alexander, il motivo del
suo ritorno.
Cosa
ne dite?
Lo
so, vi sta abbastanza... antipatico, però... a me da l'idea
di uno sperduto. Non sa cosa fare, dove andare.
Già
prima della fuga non sapeva cosa fare, pensarsi dopo quando si
è trovato con un neonato a cui, ovviamente, non poteva
badare sotto tutti gli aspetti, e la fidanzata morta, senza una
famiglia, senza amici.
Mica
dev'essere facile.
Naturalmente,
non per questo gli deve essere dimenticato tutto.
Mi fa
pensare ad uno dei significati dello yin e dello yang: anche nel bene
c'è sempre una piccola parte di male ed ugualmente viceversa.
Piccola
noticina, l'idea di "allattare" il bambino utilizzando un panno l'ho
letta nel libro "I
pilastri della terra" di Ken
Follett.
Dopo
questo pensiero, vi lascio augurandovi una buona notte.
A
presto e
grazie per seguirmi!
|
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Capitolo 19 *** Affetti. ***
Old loves they die hard;
Old lies they die harder.
Capitolo XIX:
affetti.
A mio
padre.
Come sempre, un capitolo
è dedicato solo a te.
Il modo più semplice per
ringraziarti nonostante tu
non sia più qui.
Giuro
che cercherò di farcela.
Regina
«Alexander
è tornato...»
Ci volle un secondo
prima che
mia madre riprendesse controllo di sè e si prodigasse per
farmi entrare e
sedere.
«Tornato? In
che senso
tornato?!»
«Nel senso
letterale del
termine, mamma!» la rimproverai, istericamente. «Me
lo sono trovato a casa,
perfettamente a suo agio, perfettamente tranquillo con...» mi
fermai per
prendere un respiro profondo per calmarmi e cercare di non scoppiare in
lacrime.
Mia madre
posò una mano sul
mio braccio, per ricordarmi la sua vicinanza.
Non ero sola.
«Regie...
tesoro, adesso
faccio chiamare tuo padre, va bene? Risolveremo la
situazione...»
«Aveva
ragione...» mormorai,
«Aveva ragione papà. È tornato e vuole
rinsediarsi nella mia vita come se nulla
fosse successo. Vuole vivere in casa mia, vuole che faccia da balia al
suo bambino,
vuole che faccia la moglie sottomessa, un'altra volta!»
gridai sbattendo un
pugno sul cuscino del divano per sfogare la mia frustrazione.
«Che cosa?!
Ti ha davvero
chiesto quelle cose?» domandò mamma esterrefatta.
«Sì,
come se fossero le più
naturali del mondo. Mamma, oltre a dover abitare sotto lo stesso tetto,
come
potrò mai fingermi la madre di quel bambino?! Non ha colpe,
lo so, è innocente,
ma il solo pensiero mi ripugna. È il ricordo costante del
suo tradimento, di
tutto il dolore che non ho mai smesso di provare. Perchè
è tornato? Perchè,
proprio oggi che è il giorno del nostro anniversario?
Perchè, proprio adesso,
che iniziavo a... a stare un po' meglio?» domandai, forse a
mia madre, forse a
me stessa, mentre dai miei occhi iniziarono a scendere lacrime.
Mamma
sospirò abbracciandomi,
«non lo so, figlia mia, non lo so.».
~
Restai tutto il
pomeriggio con
mia madre, fino all'ora di cena, quando mio padre fece ritorno.
Mamma gli
spiegò la
situazione, mentre io me ne stavo seduta zitta al tavolo della sala da
pranzo.
«Diavolo!
Che sia maledetto,
quello sciagurato!» imprecò con voce dura, facendo
sobbalzare mia madre che non
amava quel linguaggio.
«Cosa
possiamo fare, Gregory?
Non ho intenzione di far tornare Regina in quella casa!»
esclamò mamma.
«Purtroppo
credo non ci siano
soluzioni. Ho cercato molto in queste settimane, ma non ho trovato casi
simili!» sospirò.
«Quindi
devo...» iniziai a
parlare, venendo interrotta dal campanello.
I miei si scambiarono
un'occhiata, poi mio padre si alzò e andò alla
porta.
Io e mamma ci
scambiammo
un'occhiata, non riuscendo a capire chi fosse l'ospite.
Solo quando mio padre
iniziò
ad alzare la voce potemmo farci un'idea.
«Non so con
che coraggio voi
vi permettiate di mettere piede nella mia proprietà! Sono
stato fin troppo
caritatevole con voi, ma le condizioni erano chiare: non vi vogliamo
più
vedere! Quindi tornatevene a casa vostra e portatevi con voi vostro
figlio e
vostro nipote: non permetterò mai che la mia Regina soffri
ancora a causa
vostra!» disse infervorato.
«Per favore,
Gregory, per
favore, dacci due minuti!» replicò quello che mi
sembrò essere il padre di
Alexander.
«Due
minuti?! Per fare che
cosa, pregare mia figlia di dimenticare il passato e tornare a casa?
Non lo
permetterò mai!» esclamò.
Mentre mio padre
rispondeva,
io e mamma andammo all'ingresso: ormai era inutile origliare da lontano.
«Gregory,
capisco le tue
intenzioni, ma lo sai bene che noi donne nella società
abbiamo ben poco conto.
Se solo parlassimo ad un giudice di questa situazione, Regina non
avrebbe la
possibilità di fare niente se non tornare a casa.
Perchè non farlo evitando
simili procedimenti?» intervenne Mrs Woods.
«Fuori!»
urlò mio padre
seriamente arrabbiato. Indicò loro il cancello e
ripeté: «fuori, andatevene da
qui! Come osate minacciarmi dopo quello che avete fatto alla mia
famiglia?!
Come osate, dopo che vi ho salvati dalla fame?! Mi fate schifo,
famiglia Woods,
e dovrete passare sul mio corpo prima di riportare la mia Regina tra le
braccia
di quel disperato di vostro figlio!» concluse, prima di
chiedere loro la porta
in faccia.
Mio padre si prese
qualche
secondo per sé, per respirare profondamente e riprendere il
controllo, prima di
voltarsi a guardarci.
Poi si
avvicinò a me, posò le
mani sulle mie spalle e disse: «te lo giuro, Regina,
farò di tutto perchè tu
non sia obbligata a tornare da loro. Non lo permetterò
mai!».
Annuii ripetutamente
con il
capo, abbracciandolo e finendo per piangere sulla sua spalla.
«Grazie,
papà. Grazie.»
§§§
Vi prego di scusare l'esagerata brevità del capitolo, ma in
queste settimane sono presa male.
Tra
raffreddore e mal di gola, tra scuola e tradizioni paesane per i
diciottenni da rispettare ho avuto poco tempo.
Anzi,
spero davvero di riuscire ad aggiornare come sempre la prossima
settimana, ma metto già le mani avanti e vi
avviso che potrebbe esserci un ritardo se non una settimana buca.
Mi dispiace davvero tanto,
spero di riuscire a fare tutto come sempre!
Spero non mi lascerete ma cercherete di capirmi e di aspettarmi.
Un bacio a tutte ed un grande grazie.
A presto!
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