The Black Order of the Soul Society. [Bleach x D.Gray-man] di M e g a m i (/viewuser.php?uid=150368)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Circolo vizioso. ***
Capitolo 3: *** “I” come inesorabile, “I” come inutile. ***
Capitolo 4: *** “Siete voi un miracolo o una fanciulla?” ***
Capitolo 5: *** Quando si resta soli. ***
Capitolo 6: *** Il lupo perde il pelo ma non il vizio. ***
Capitolo 7: *** Fantasmi del passato. ***
Capitolo 8: *** Capelli di fuoco, occhi di ghiaccio. ***
Capitolo 1 *** Prologo. ***
NDA:
Devo decisamente piantarla di iniziare long che non
finirò mai. Quante ne ho in ballo, adesso? Quattro? Cinque?
Boh. x°D
Questa
però l’ho iniziata più per divertimento
e
soddisfazione personale che altro. Vi giuro che ieri mentre le idee mi
venivano
in mente pian piano, mi sono spanciata dal ridere.
Sì,
perché in questa long AU crossover vedrete [sempre se
la continuerò] tutti i personaggi che avete imparato ad
amare nel corso del
tempo per il loro carattere e la loro psicologia completamente
STRA-VOL-TI.
Giusto per farvi capire, Linalee è una lap dancer, e pure
parecchio brava.
8°°°D
Dio,
quanto mi divertirò!
E quanto frignerò, sì. Perché dietro
ad ogni stravolgimento psicologico c’è una
storia strappalacrime. Piccini tutti quanti, quanto sono cattiva. Ma
tranquilli
che alla fine ne verrete tutti fuori, in un modo o
nell’altro, e tornerete voi
stessi. :°)
Per
farvi capire, vi lascio con un prologo che in realtà
sarà uno dei tanti epiloghi.
Beh,
buona lettura! *3*
[Crack Pairing]
[Grimmjow x Tatsuki]
[Lavi x Rukia]
[Ichigo x Linalee]
[Kanda x Orihime]
[Debit x Riruka]
[Tyki x Lust]
[Starrk x Neliel]
[Soi Fon x Hisagi]
-
PROLOGO
« Mi
dai una
mano? »
Fu
quel che le chiese appena la sentì entrare nel bagno,
senza neanche voltarsi verso di lei e lanciando nella sua direzione un
sacchetto di carta del supermarket sotto casa sua.
«
Cos’è? », replicò
lei perplessa, cominciando a scartare il pacchetto.
«
Tinta. Non ho
idea di come funzioni. »
La ragazza si
rigirò tra le mani la confezione, rimanendo a fissarla per
qualche secondo
buono. Poi alzò gli occhi verso di lui, che teneva in mano
un paio di forbici
con cui si accingeva a tagliare la lunga coda nera che gli ricadeva
sulla
schiena.
«
Ichigo… »,
mormorò sentendo un nodo salirle alla gola e stringendo tra
le sottili dita
laccate di viola la confezione di una tinta di un colore tanto assurdo
quanto
speciale. Arancione.
Dopo
un attimo di esitazione, il ragazzo diede un taglio
netto ai suoi capelli, per poi lasciar cadere le braccia lungo i
fianchi mentre
le ciocche nere si spargevano al suolo.
Rimase a fissare con occhi vacui il suo riflesso, cercando il fiato e
il
coraggio per parlare.
« ...
Aiutami,
Linalee. Da solo non ne sono capace. »
La
ragazza gli si avvicinò e prese la mano tra le sue,
sfilandogli
con delicatezza le forbici. Poi la strinse forte, portandosela alle
labbra e
baciandone il dorso.
«
Sono qui. »
|
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Capitolo 2 *** Circolo vizioso. ***
NDA:
Niente, eccoci col primo capitolo.
Ne ho già pronti altri, che caricherò subito nel
caso vedessi che questa storia sta cominciando a piacere.
Quindi fatemi sapere, eh! ♥
[Crack Pairing]
[Grimmjow x Tatsuki]
[Lavi x Rukia]
[Ichigo x Linalee]
[Kanda x Orihime]
[Debit x Riruka]
[Tyki x Lust]
[Starrk x Neliel]
[Soi Fon x Hisagi]
-
CAPITOLO 1 – Circolo vizioso
And I find it
kinda funny
I find it kinda
sad
The dreams in
which I'm dying
Are the best
I've ever had
I find it hard
to tell you
I find it hard
to take
When people run
in circles
It's a very,
very mad world
Mad world
E in un certo senso lo trovo
divertente
In un certo senso lo trovo
triste
I sogni in cui sto morendo
Sono i migliori che abbia mai
avuto
Trovo difficile dirtelo
Trovo difficile accettarlo
Quando la gente corre in
circoli viziosi
È davvero, davvero un
mondo pazzo
Un mondo pazzo
[Mad World
– Gary Jules]
Grimmjow
Jaegerjaques si piegò sulle ginocchia e scoppiò
a ridere fragorosamente nel vagone della metropolitana praticamente
deserto, a
parte un anziana signora seduta a parecchi posti di distanza da lui,
anziana
signora che non lo notò neanche. Con tutta
probabilità era sorda come una
campana.
Tenendo
l’indice della mano sinistra come segnalibro, si
passò la destra tra i capelli lisci, liberi dal gel e
piuttosto lunghi, di un
singolare colore azzurro, così come i suoi occhi. Era un
colore che incuriosiva
le donne orientali, a quanto pareva, per questo li teneva
così. In fondo le
donne rappresentavano la sua linfa vitale, i suoi soldi,
così come la sua
rovina.
Ma
in quel momento, solo in compagnia di una povera
vecchia che aveva ormai passato da un pezzo l’età
in cui poteva essere definita
una rappresentante del suo sesso, le donne erano l’ultima
cosa che gli passava
per l’anticamera del cervello, perché era
impegnato in tutt’altro.
Allentandosi
il nodo della cravatta rigorosamente bianca
su una camicia nera, riaprì il volume, grosso appena quanto
la sua mano,
tornando alla pagina in cui si era interrotto a causa di una battuta
particolarmente divertente.
Fly it.
Un
manga praticamente sconosciuto, pubblicato
direttamente in formato tankōbon
con
una tiratura minima, possibilità quasi – anzi,
togliamo pure il quasi – nulle
di sfondare su una qualche rivista alla Jump.
A prima vista poteva sembrare l’ennesimo shōnen
sportivo con qualche battuta più demenziale che comica, ma
fin dal primo momento
in cui gli era capitato in mano il
secondo volume, quel fatidico secondo volume, per lui era stato
qualcosa di
molto di più. Ed era partito alla disperata ricerca degli
altri volumi, cinque
in tutto fino a quel momento, talmente rari che si era visto costretto
a pagare
una cifra pari a una notte di servizio completo per ottenere il primo
numero ad
un asta su eBay.
Nemmeno
lui si sapeva spiegare cosa ci trovasse di
particolare in quel manga, tanto che nella sua classifica personale
aveva
scalzato classici come Dragon Ball
e Ken il guerriero, diventando
indiscutibilmente il primo, il suo preferito. Sarà forse
stato il protagonista,
così svogliato e menefreghista, col suo umorismo cinico e
disilluso, che in
ogni capitolo si vedeva costretto per cause di forza maggiore a unirsi
a questo
e a quell’altro club sportivo della sua scuola media, facendo
puntualmente
vincere la partita, la gara, la competizione, in cui si trovava
coinvolto. Quel
piccolo protagonista dotato di un enorme talento sportivo, il cui nome
era Shū, in omaggio al
“generale cieco”, che
al posto di essere cieco però era miope, e che quindi non
poteva realizzare il
suo sogno di diventare pilota.
Saranno
stati anche i disegni molto, molto buoni per i
suoi gusti, semplici e puliti, ma incisivi. Le espressioni dei
personaggi
rendevano a pieno i loro stati d’animo, e soprattutto quelle
comiche erano
davvero da spanciarsi dalle risate.
Era
un manga leggero e divertente, che a chi lo leggeva
con attenzione, però, offriva degli spunti di riflessione
più profondi. Più di
una volta si era ritrovato a chiedersi chi fosse quel Kano Miyoshi
autore del
suo manga preferito, che non si era mai mostrato in pubblico. Doveva
essere un
tipo interessante. Avrebbe voluto il suo autografo sul quel tanto
agognato
primo numero.
Nello
stesso momento in cui formulò quel pensiero, le sue
labbra si piegarono in un sorriso ironico rivolto a se stesso, sorriso
che più
di una volta aveva letteralmente steso più di una cliente
del night-club in cui
lavorava. Anche quel sorriso di cui l’aveva dotato la cara
mammina natura era
la sua linfa vitale, la sua arma di seduzione. Senza, forse, non
avrebbe
riscosso lo stesso successo come host e qualcosa di più in
una camera
d’albergo.
Il
suo sorriso si allargò.
Come
se un tipo come lui, una puttana fatta e finita che
vendeva il proprio corpo senza un briciolo di orgoglio, sarebbe potuto
andare a
dei raduni di appassionati di fumetti a chiedere autografi a destra e a manca.
Arisawa
Tatsuki posò il pennino sul basso tavolino pieno
di trucioli di gomma e di tempera, sbuffando sfinita.
Aveva
bisogno di prendersi una pausa prima di continuare
ad inchiostrare, oppure per la stanchezza avrebbe finito per combinare
un gran
casino. Barcollando tra le pile di cartacce e di volumi che usava come
riferimento, raggiunse il frigorifero e ne tirò fuori un
cartone di succo di
frutta all’ACE, su cui istintivamente aveva disegnato un
cappello con due
faccine, una sorridente, una un po’ meno. Ne bevve un lungo
sorso, facendosi
cadere accidentalmente qualche goccia sul mento, e poi sulla maglietta
di
parecchie taglie più grandi che indossava. Guardò
per qualche secondo la
macchia arancione che le si andava formando sul bavero, poi
alzò le spalle con
noncuranza e ritornò alla sua posizione di lavoro portandosi
dietro la
confezione di succo, chiudendo l’anta del frigorifero con un
colpo di gomito.
Con
delicatezza, come se si fosse si fosse trattato di
pagine di un manoscritto antico in procinto di sgretolarsi,
spostò le tavole
che aveva già finito di inchiostrare e quella ancora
incompleta, e tirò a se il
computer portatile che l’accompagnava in ogni secondo della
sua misera
esistenza da reclusa.
Arisawa
Tatsuki era ciò che la società avrebbe definito
senza tanti complimenti una hikikomori.
Otaku
incallita, per di più. E pure una mangaka
fallita.
Un
rifiuto ambulante insomma, anzi, neanche ambulante,
perché lei non girava da nessuna parte, se non nel suo
piccolo bilocale che
poteva a malapena permettersi.
Eppure
non era stato sempre così. Una volta... una
volta correva come il vento. E non
in quel circolo vizioso che si faceva sempre più stretto.
Appoggiando
la testa a una mano, allungò l’altra verso il
pacchetto di patatine che aveva aperto il giorno prima e che non si era
neanche
presa il disturbo di chiudere, per poi leccarsi le dita e asciugarsele
sulla
maglietta, prima di spostarle sul touchpad. Con un paio di click
aprì sia il
browser di Internet Explorer che quello di Mozilla Firefox. Col primo
si
collegò al suo indirizzo di posta elettronica, e
notò che il suo editore le
aveva mandato una e-mail in cui le chiedeva di chiamarlo appena avesse
potuto
per una questione di lavoro.
Chissà
cosa diavolo voleva, si chiese con un brivido.
Parlare con le persone al telefono la metteva a disagio, ma con lui era
costretta a farlo, per fissare le scadenze per le consegne e tutto il
resto. Si
erano anche visti faccia a faccia, un paio di volte. Gli incontri non
erano
durati che pochi minuti, ma questo le era costato altrettanti giorni di
sonno
rintanata sotto le coperte per riprendersi dallo shock di aver parlato
direttamente
dopo secoli con un altro essere vivente che non fossero i piccoli ragni
che
ogni tanto le venivano a fare una visitina mentre faceva la doccia.
Scrisse
una veloce risposta e poi chiuse la finestra di
Internet, appuntandosi mentalmente che appena avesse potuto, ovvero
appena ne
avesse trovato la voglia e il coraggio, avrebbe dovuto fare quella
benedetta
telefonata.
Poi
finalmente si dedicò a Mozilla, santo browser che
salvava le ultime sessioni risparmiandole l’immensa fatica di
fare ogni volta
il log in.
The Black
Order of the Soul Society, meglio conosciuta come The
BOSS.
Era
una sorta di social network in cui si era trovata
coinvolta senza neanche rendersene conto. The
BOSS ti attirava a se e ti risucchiava nel suo mondo
“oscuro”come il colore
del suo layout, e tu ti trovavi a sentire il bisogno di accedere ogni
santo
giorno, ogni santo momento libero. Era come una droga.
La
cosa migliore di tutta quella “organizzazione”, era
l’assoluto anonimato che garantiva. Perfino password e
indirizzo di posta
elettronica che servivano per la registrazione erano forniti dal social
network
stesso. Non era richiesta nessuna informazione personale, non la data
di
nascita, non un’immagine del profilo, neanche il nome, solo
un nickname
modificabile in qualsiasi momento. Non era facebook.
Era
semplicemente l’unico luogo in cui Tatsuki riusciva a
tirare fuori la vera se stessa, quella sotterrata sotto strati e strati
di
fogli A4 e retini, e sommersa dall’inchiostro per la G pen.
TheGrimReaper
era entrato in chat giusto in quel momento, lesse con un
sorriso appena accennato.
|
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Capitolo 3 *** “I” come inesorabile, “I” come inutile. ***
NDA: Ed ecco che
introduciamo il LaviRuki.
Viva i miei
conigli preferiti! >W< ♥♥♥
[Crack Pairing]
[Grimmjow x Tatsuki]
[Lavi x Rukia]
[Ichigo x Linalee]
[Kanda x Orihime]
[Debit x Riruka]
[Tyki x Lust]
[Starrk x Neliel]
[Soi Fon x Hisagi]
-
CAPITOLO
2 – “I” come
inesorabile, “I” come inutile.
Bip.
Bip.
Bip.
Quel suono
ormai era diventato lo scandire del suo tempo,
come il ticchettio di un orologio. Inesorabile.
Le
ricordava uno altro suono, ugualmente breve, più acuto
però, che ad un certo punto si era prolungato per una
interminabile manciata di
minuti, finché la macchina che lo produceva era stata spenta
da un dottore, da
un infermiere, da non si ricordava neanche più chi, quando
ormai non c’era
stato più niente da fare per rianimarla.
Inesorabile,
come la morte.
Bip.
Bip.
Kuchiki
Rukia passò svogliatamente l’ennesimo barattolo
di fagioli in scatola sulla fotocellula della cassa, facendo scoppiare
con la
lingua la bolla che aveva formato con la gomma da masticare.
Lavorava in
quel supermarket da ormai due mesi, e si era
abituata alla routine e alla noia che il suo posto da cassiera
dell’ultimo
turno di sera comportava. Turno che stava per finire,
l’orologio del suo
cellulare indicava le dieci meno venti minuti. Ancora venti minuti e
basta, poi
sarebbe stata libera di tornarsene a casa, se l’appartamento
che condivideva
con quella specie di, per essere gentili,
“ballerina” cinese poteva essere
definita casa, e dormire, dormire e non pensare più a niente.
Fortunatamente
quella sera i clienti erano stati ancora
meno delle altre volte. Era passato il solito ubriacone che si era
fatto la sua
solita scorta di super alcolici, una giovane coppia di ragazzini
visibilmente
eccitati che si era comprata un pacchetto di preservativi, una signora
sulla
quarantina che per qualche motivo aveva acquistato le cinque scatole di
fagioli
che aveva appena finito di battere, e poi un ragazzo, piuttosto alto,
con un
berretto calato sulla testa a coprire degli inusuali capelli rossi, che
spuntavano comunque da sotto, ribelli.
Tirando la
gomma da masticare con la lingua per fare
l’ennesima bolla, diede una spinta coi piedi che malapena
raggiungevano il
pavimento, spostandosi con la sedia munita di rotelle di qualche
centimetro,
quel che bastava per osservarlo mentre si rigirava tra le mani una
confezione
di qualcosa che da quella distanza non riusciva a distinguere.
Aveva
intenzione di metterci ancora molto?
Se si fosse sbrigato, forse sarebbe riuscita a staccare qualche minuto
prima e
a filarsela. Ma no, figuriamoci, quel tipo se la prendeva comoda,
fregandosene
del fatto che lei non vedesse l’ora di farsi una doccia,
togliersi dal viso il
trucco pesante che all’inizio le era costato rimostranza da
parte del
proprietario del negozio, e poi infilarsi finalmente sotto le coperte.
Lo vide
rimettere a posto sullo scaffale quello che aveva
preso, per poi incamminarsi verso l’uscita. Finalmente si era
deciso ad
andarsene. O forse no.
Teneva la
testa bassa mentre camminava, non riusciva a
vedere bene il suo viso, coperto anche in parte dalla frangia rossa che
gli
cadeva sugli occhi. L’uscita era a pochi metri di distanza da
uno dei due
banconi che fungevano da cassa, doveva passarci per forza accanto per
andarsene.
Andava tutto bene.
Rukia
abbassò lo sguardo verso le proprie mani,
rigirandosi sull’anulare sinistro la piccola fede in platino
che portava,
mentre con la coda dell’occhio, osservò la sua, di
mano, salire al giubbotto e
infilarsi in una tasca interna.
Dannazione.
Non andava bene per niente.
Aveva visto
quella scena troppe volte in troppi film.
Sera tardi, prossimità di chiusura, un tizio che arriva e
tira fuori una
pistola, ordinando di aprire la cassa e tirare fuori tutti i soldi. E
nel
peggiore dei casi la povera cassiera indifesa ci rimette una pallottola
in
testa.
Se solo il
proprietario fosse stato un po’ più furbo e
meno tirchio, e avesse accettato quella proposta di quella ditta di
sicurezza
che aveva fatto dei begli affari con almeno la metà dei
negozi di quel
quartiere, che non era esattamente uno di quelli con la migliore
reputazione, e
avesse fatto installare quel sistema di collegamento con la polizia
locale...
Le sarebbe bastato premere un bottone sotto il bancone, e la chiamata
alla
stazione di polizia sarebbe partita in meno di un secondo.
Continuando
a tenere lo sguardo basso, strinse i denti,
in attesa, col cuore in gola. Sentiva il sudore freddo imperlarle la
fronte e
la base del collo, scoperto dal suo caschetto.
Quando vide
la sua figura fermarsi davanti a lei,
separata solo dal vetro di plastica della cassa, chiuse gli occhi.
Quasi le
parve di rivivere quegli interminabili minuti di
un anno prima, minuti di silenzio, perché le sue orecchie
avevano deciso di
smettere di funzionare a dovere, e i suoni le arrivavano ovattati.
Anche in
quel momento c’era silenzio. Il rapinatore non
stava dicendo la classica frase “dammi tutti i
soldi”.
E non erano
le sue orecchie a non funzionare, perché
Rukia sentì forte e chiaro la porta chiudersi e il tintinnio
dello scaccia
spiriti all’ingresso, messo per segnalare l’entrata
e l’uscita dei clienti,
visto che il proprietario del negozio era troppo tirchio pure per far
installare una porta con chiusura e apertura automatica e una
fotocellula
collegata a una piccola sirena, come negli altri supermarket.
A quel
punto, alzò lo sguardo, giusto in tempo per vedere
quel ragazzo dai capelli rossi sparire oltre la luce del lampione sul
marciapiede.
Si
lasciò andare contro lo schienale della sedia,
sospirando di sollievo e dandosi della stolta per aver frainteso tutto.
Ma il
sollievo non durò che pochi secondi, perché
quando il suo sguardo cadde
nuovamente sul bancone, vide un biglietto, piegato in due.
Allungò la mano per
prenderlo, tornando a farsi esitante. La consistenza della carta
sembrava
quella di un libro.
Lo
aprì.
C’erano
scritte solo tre parole, in una calligrafia
sottile, ordinata, elegante. Tre parole che aveva sperato di non vedere
mai.
So chi sei.
E sotto una
data, un ora, e indirizzo.
Forse
sarebbe stata meglio una rapina con tanto di
pallottola in testa.
Lavi
Bookman, o almeno, l’individuo che in quel momento
rispondeva a quel nome, inspirò profondamente
l’aria della notte, cacciandosi
le mani nelle tasche dei pantaloni e dondolando sui piedi.
Gli era
venuto un gran mal di testa.
Il suo
corpo reclamava caffeina, era dalle tre della
notte scorsa che non si era fermato neanche un secondo. Ma alla fine
era
riuscito a preparare tutto, la trappola perfetta.
Fin da
quando aveva scoperto che la fuggiasca erede dei
Kuchiki si era rintanata a vivere e a lavorare in quel piccolo
quartiere
malfamato, improvvisamente le sue giornate da giornalista da quattro
soldi si
erano fatte più luminose.
Ma quello
che gli interessava, non era scrivere un
articolo sulla misera vita che la giovane Kuchiki conduceva in quel
momento, che
avrebbe trovato spazio solo su qualche giornaletto scandalistico e
creato molto
rumore per nulla per qualche mese, per poi finire nel dimenticatoio.
Il suo ego
voleva una storia, di cui si sarebbe parlato
per un anno intero, anche di più.
E
sì, voleva anche un pezzo che avrebbe risollevato la
sua carriera, magari togliendolo dalla sua attuale posizione precaria
di
freelance e facendogli trovare un posto fisso. Se avesse scritto una
storia
strappalacrime sulla povera Kuchiki Rukia, che per qualche motivo tre
mesi
prima era scappata dall’enorme e lussuosa villa della sua
famiglia adottiva,
magari tirando fuori qualche scheletro nell’armadio della
stessa, era sicuro
che avrebbe riscosso un grande successo. E se fosse riuscito pure ad
infilarci
in qualche modo la sua cara sorella Hisana, morta un anno prima in
circostanze
tutt’ora misteriose, lo scossone emotivo che avrebbe
provocato nei lettori
sarebbe raddoppiato. Le sue fantasie vagavano da un complotto di
famiglia a un
Kuchiki Byakuya – ovvero il vedovo della defunta e fratello
adottivo della sua
piccola gallina dalle uova d’oro – assassino.
Molti
giornalisti prima di lui ci avevano provato, a
scavare sotto le pesanti pietre che erano state messe sopra quella
storia, con
scarsi risultati però. La famiglia Kuchiki era una delle
poche casate nobili
ancora esistenti e resistenti in tutto il Giappone, e aveva le mani in
pasta un
po’ da tutte le parti. Si vociferava pure che allungasse
qualche bustarella tra
le file del governo. La sua influenza era senza limiti, insomma.
E mettersi
contro
i suoi membri, equivaleva a un suicidio lavorativo. Nonché
una possibile
condanna per diffamazione.
Ma lui, lui
che
tecnicamente non esisteva, se non come Lavi, Dick, Adam, Gabriel, e una
sfilza
di altri nomi inventati, era piuttosto difficile da rintracciare. Per
ogni cosa
della sua vita, usava un nome e una carta
d’identità diversa, dai conti in
banca ai suoi articoli malpagati. Non lo avrebbero trovato facilmente.
Certo, se
il suo progetto fosse andato in porto, però, le
cose sarebbero un po’ cambiate, ma non gli importava. In
fondo, era anche
perché era stanco di quella sua vita instabile che si era
messo in testa di
scoprire cosa si nascondesse dietro la morte di Kuchiki Hisana e la
fuga di sua
sorella. Forse però non voleva neanche un impiego fisso.
Cioè, non aveva le
idee molto chiare di quello che avrebbe fatto dopo,
se a un dopo fosse arrivato senza finire dietro le sbarre, o
peggio ancora, ad ammuffire in qualche bidone della spazzatura come
cadavere,
per essersi cacciato in qualcosa di più grande di lui.
Si
sistemò il cappello in testa, calandolo più sulla
fronte e chiudendo gli occhi.
In fondo,
non aveva nulla da perdere.
E se invece
avesse vinto, tanto di guadagnato. Forse coi
soldi intascati avrebbe fatto un giro per il mondo, chissà,
sparendo dalla
circolazione per un po’ per evitare conseguenze.
Aveva
sempre voluto vedere il mondo, oltre che sui libri
di storia e geografia che tanto amava, ma gli erano sempre mancati i
mezzi.
Aaah, i
libri, la sua fonte di conoscenza e di
ispirazione, quelli sì che gli avevano dato tante
soddisfazioni, al contrario
delle persone.
Quella
Kuchiki Rukia, però, si apprestava ad essere una
fonte immensa di soddisfazioni, se solo avesse fatto la brava bambina e
si
fosse lasciata ingannare a dovere.
Nella sua
mente contorta, aveva messo a punto diverse
strategie per farla cantare. La prima tra tutte, era stata minacciarla
di
svelare la sua attuale posizione, legandola a sé
ricattandola attraverso il
denaro o il sesso. Ma così non avrebbe funzionato, non
sarebbe mai riuscito a
farla parlare di qualcosa che evidentemente era tanto terribile da
averla
indotta a scappare di casa. La seconda, era stato fingersi un bravo
ragazzo
simpatico e affabile, diventare suo amico e spingerla sottilmente ad
aprirsi
con lui. Lo aveva fatto tante volte per ottenere confessioni e
testimonianze,
ma qualcosa gli diceva che quella volta, con lei, non avrebbe
funzionato. Quella
ragazza non era una stupida, né tantomeno
un’ingenua, se era riuscita a
nascondersi per tre interi mesi da una famiglia con agganci ovunque,
peggio
della Yakuza.
L’aveva
osservata per qualche giorno, da quando un tizio
su The BOSS, – anonimo
come tutti in
quella chat che frequentava appunto per mantenere i contatti con gli
informatori –, gli aveva fatto una soffiata su di lei. Di
primo acchito aveva ignorato
la cosa, non ritenendola attendibile. Poi però aveva deciso
di fare un salto in
quel quartiere, giusto per togliersi la pulce dall’orecchio.
Non lavorava a un
pezzo da un po’, e se quella soffiata fosse risultata
veritiera, sarebbe stata
la manna dal cielo.
Così
era stato, infatti.
Ci aveva
messo un po’ a riconoscerla, ad essere sinceri.
Prima di andare a controllare, si era informato vagamente su di lei, e
aveva
scorso parecchie fotografie che la ritraevano nelle più
svariate occasioni,
dalla sua adozione in concomitanza col matrimonio della sorella di
cinque anni
prima, al funerale della stessa un anno prima, alla sua scomparsa
esattamente
ottantasei giorni prima.
Aveva
imparato a memoria i lineamenti del suo viso quasi
infantile.
Eppure,
quando se l’era trovata davanti, con quei capelli
decisamente più corti, gli occhi contornati da un trucco
pesante e un anellino
al naso, dire che era rimasto scioccato era poco. Davvero, quasi
l’aveva
scambiata per un'altra persona. Però la forma del viso, gli
occhi di quel blu
scuro e intenso tanto da sembrare indaco, i lisci capelli neri, la
carnagione
pallida, la statura, tutto il resto oltre l’apparenza
combaciava. E guardare
oltre l’apparenza era una delle prime lezioni che
“Lavi” aveva imparato da quel
mondo infame.
Nello
stesso istante in cui l’aveva vista, passando casualmente
davanti al supermarket in
cui lavorava, e gettando uno sguardo su di lei attraverso le vetrate
trasparenti e gli occhiali scuri che indossava, aveva capito cosa
doveva fare.
La
coscienza non gli rimordeva per niente. La seconda
lezione che aveva ben presto imparato, era metterla a tacere e
dipingersi sulla
faccia un sorriso. Tanto le persone ti fregavano comunque. Meglio
essere tu a
fregarle per primo.
Per non
soffrire poi, inutilmente.
-
Se il LaviRuki come pairing vi
intriga, vi consiglio VIVAMENTE di dare un’occhiata
ai profili di N e m e e Angy_Valentine, che sono delle ottime
scrittrici e hanno fatto dei veri capolavori su di loro!
|
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Capitolo 4 *** “Siete voi un miracolo o una fanciulla?” ***
NDA: In
questo capitolo non si avverte il mio fetish per
manine e linguette, nooo...
E
SOPRATTUTTO, NON LA MIA FISSAZIONE PER SHAKESPEARE.
Comunque!
A parte l’amore indescrivibile che provo per
questo Ichigo-Mugetsu dai capelli fluenti, ci sono un paio di paroline
che mi
sa che non conoscete:
- Kabuki-chō è
uno dei quartieri a luci rosse più famosi di Tōkyō.
- Jūichiban Tai
è il nome giapponese per Undicesima Compagnia. Vi faccio
solo una domanda: chi è il capitano
dell’Undicesima Compagnia...? 8D
- Nekomimi,
letteralmente “orecchie da gatto”, è il
costume da
gattina che va tanto di moda in Giappone. Non ci vuole un genio per
capire chi
lo indossa... ewe
[Crack Pairing]
[Grimmjow x Tatsuki]
[Lavi x Rukia]
[Ichigo x Linalee]
[Kanda x Orihime]
[Debit x Riruka]
[Tyki x Lust]
[Starrk x Neliel]
[Soi Fon x Hisagi]
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CAPITOLO 3 – “Siete voi un miracolo o una fanciulla?”
« Ehi.
»
Linalee
Lee si sentì spostare dalla natica la mano che
fino a qualche secondo prima la stava palpando senza tanti complimenti.
Mano
che adesso era minacciata di venir bruciata dalla cenere di una
sigaretta, in
procinto di cadere. Sarebbe bastato un tocco anche minimo del ragazzo
dai
lunghi capelli neri che la teneva tra le dita per lasciare una bella
bruciatura
sulla pelle rugosa di quell’uomo sulla cinquantina, che aveva
allungato le mani
per toccarla mentre scendeva dal palco con un palo di metallo contro
cui si era
esibita, come ogni sera, nel suo numero.
«
Scusa, stronzo,
ti ho scambiato per un portacenere. », disse il ragazzo con
tono piatto, quasi
annoiato, alzando appena lo sguardo per trafiggere l’uomo che
era rimasto a
fissarlo interdetto, per poi schioccare la lingua ed andarsene seccato
a
dedicare le sue attenzioni a qualche altra povera sventurata.
Il
ragazzo lo stava osservando allontanarsi di sottecchi,
con una velata smorfia di gelosia, quando venne distratto dalla sua
voce
cristallina che chiamò il suo nome.
«
Ichigo. », Linalee
tirò un sospiro di sollievo, rivolgendogli un sorriso a cui
lui rispose semplicemente
con un cenno del capo, tornando a voltarsi verso di lei.
«
Sempre a farti
palpare da qualche vecchio porco, vedo. »,
constatò ancora con lo stesso tono
monocorde, tirando una boccata dalla sigaretta e appoggiando i gomiti
sulle
ginocchia, seduto su uno dei tanti divanetti in pelle che punteggiavano
quel
locale come tanti altri di Kabuki-chō.
Era
vero. Purtroppo le capitava spesso di essere oggetto
di attenzioni non desiderate, solo lei sapeva quanto. Molti
l’avrebbero
biasimata, col lavoro che faceva era normale, se l’era
cercata. Anzi,
sembrava quasi che quei “vecchi porci”,
come li chiamava Ichigo, pensassero facesse parte del pacchetto, per
così dire.
Ma lei non era una hostess, né tantomeno una prostituta.
Certo, era costretta a
sorridere ai clienti, essere gentile, e anche permissiva, ma fino ad un
certo
limite.
Limite
che non molti capivano. In fondo cosa pretendeva
una ballerina di lap dance in un night club, di essere trattata come
una donna
di classe?
Se
avesse voluto più rispetto per il suo corpo, avrebbe
dovuto scegliersi un altro lavoro. Ma il rispetto per il suo corpo,
quel suo
corpo così formoso e sudicio di cui si vergognava tanto,
Linalee lo aveva perso
da un pezzo. Dall’età di tredici anni, per essere
precisi, quando aveva
scoperto quanto il mondo e gli uomini facessero schifo.
« Non
è che io
lo voglia, cosa credi? », rispose con un filo di voce,
distogliendo lo sguardo.
Nonostante la musica che riecheggiava ad alto volume, Ichigo
poté sentirla, ma
solo perché era a pochi centimetri da lui.
« ...
Lo so. »
E
Linalee sentì le sue mani sfiorarle le cosce velate per
metà da autoreggenti a rete, e poi salire a prendere il
posto di quelle che
l’avevano appena palpata, sul sedere coperto appena da una
corta gonna rosa a
pieghe e un paio di culottes dello stesso colore. Al contrario di
prima, però,
quel tocco non le fece sentire i brividi, né la fece
irrigidire, anzi, ebbe il
potere di calmarla e di allontanarle dalla mente pensieri spiacevoli.
Non tutti gli uomini fanno schifo...,
pensò,
abbassando lo sguardo verso di lui e sentendo l’invito ad
avvicinarsi delle sue
mani, che erano salite sulla sua vita e la stavano tirando a lui.
Accennando a
un sorriso, appoggiò un ginocchio sul divano e le mani sullo
schienale, per poi
si chinarsi su di lui e premere forte le labbra contro le sue,
sentendosi
ricambiare il bacio all’istante.
La
bocca di Ichigo aveva un vago sentore di cioccolato e
sigaretta, era una delle prime cose che aveva notato. Lei non era una
fumatrice
accanita, anzi, ma quel sapore, quell’odore che aveva sui
vestiti non la
infastidiva, tutt’altro. Il suo sapore, la sua lingua che
ogni tanto si
soffermava a sfiorarle le labbra, non avrebbero mai potuto darle
fastidio.
«
Dovresti
piantarla di monopolizzare la nostra migliore ballerina, Kurosaki.
», furono
improvvisamente interrotti da una voce roca e profonda. Linalee fece
per
scostarsi da Ichigo, che al contrario rafforzò la presa sui
suoi fianchi,
tirandola ancora più contro di lui. C’era poco da
fare, quei due non andavano
proprio d’accordo, pensò con un sorriso, mentre
con la punta del naso sfiorava la
sua guancia vagamente ruvida per la barba.
« Sono
in pausa,
Grimmjow. », rispose al ragazzo coi capelli di uno insolito
azzurro nella
“divisa” da host, ovvero giacca bianca e camicia
nera, che lui portava appena
sbottonata sul petto.
«
Potresti anche
dedicarti a qualche altro cliente, allora. »
replicò Grimmjow, fregando più per
dispetto che per altro, una sigaretta e l’accendino dal
pacchetto che Ichigo
aveva appoggiato sul tavolino di vetro al suo fianco.
«
Stesso
discorso vale per te. Io non li voglio i tuoi
“servizi”, quindi perché non vai
a dedicarti a qualche altra cliente, invece di venire sempre a rompere
a me? »,
insinuò a quel punto Ichigo, trafiggendo anche lui con lo
sguardo. Gli occhi di
castani Ichigo avevano quel potere, a differenza del suo tono
indifferente, di
trasmettere tutta la forza delle sue parole.
In
tutta risposta, Grimmjow gli regalò una smorfia schifata,
a dimostrazione della sua grande maturità, poi
girò sui tacchi e si allontanò,
lasciandoli “amoreggiare” in pace.
Sinceramente,
non li capiva. Soprattutto, non capiva
Linalee, che ormai conosceva da due anni e che considerava una specie
di amica,
nonostante fosse una donna. E lui le donne proprio non le poteva
sopportare.
Forse
era proprio quella comune avversione per il sesso
opposto che li aveva avvicinati, nella disperazione di quella gabbia di
matti
che era il Jūichiban Tai. Linalee,
a
differenza di tutte le altre donne che lavoravano nel loro stesso
locale, non
ci aveva mai provato con lui. E lui con lei, stessa cosa.
Così,
nonostante i loro caratteri esattamente agli
antipodi, in qualche modo erano riusciti a legare, tanto che era
capitato pure
che Grimmjow si trovasse a scoraggiare a suon di pugni chi aveva
provato ad
allungare le mani su di una lei tremante. Gli era bastato vederla una
volta in
una situazione del genere, per capire che c’era qualcosa che
decisamente non
andava nelle sue reazioni con gli uomini.
Ma
lei non faceva domande sul suo, di passato, così lui
non si azzardava a farne a lei. Anche se poteva intuire, poteva intuire
benissimo.
Per
questo non capiva per quale razza di motivo lasciasse
quel Kurosaki dai capelli lunghi e neri come il suo cognome prendersi
tanta
confidenza. In fondo, però, non erano fatti suoi. Non venire a frignare da me, poi, aveva
già messo in chiaro. E
Linalee gli aveva assicurato che non l’avrebbe fatto, anche
perché non ce ne
sarebbe stato mai motivo.
Il
punto era che in realtà, quei due non erano mai andati
molto più in là di qualche bacio molto
“appassionato”. Linalee non
gliel’avrebbe mai permesso, e in qualche modo Ichigo sembrava
averlo capito.
Certo,
la toccava, e lei si faceva toccare. Ma mai in
modo avido, e quando lei gli spostava delicatamente una mano che per i
suoi
gusti si era spinta troppo oltre, lui si faceva guidare senza
protestare. Era
per questo che si trovava così bene con lui. Cercare il suo
contatto le veniva
spontaneo, a lei che provava tanto disgusto quanto timore per le mani
maschili.
Ma Ichigo non era prepotente, tutt’altro. I suoi baci, anche
se profondi e
coinvolgenti, erano in un certo senso gentili. E non
l’avrebbe mai costretta a
ricambiarli con la forza. Per capirlo, le bastava vedere il suo sorriso
appena
accennato ogni qual volta si staccavano da un lungo bacio, sorriso che
non
concedeva quasi mai a nessuno, ma di cui lei era stata testimone tante,
tante
volte.
Le
piaceva pensare di essere lei stessa la causa di quel
sorriso. E non il suo corpo, non le sue curve da molti definite
perfette. Per
questo ognuna di quelle tante volte, lo ricambiava quasi timidamente, e
iniziava un altro lungo bacio, solo per sentire le sue labbra
schiudersi e la
sua lingua cercare la sua, mentre le sue mani la accarezzavano.
Gentili. E
calde.
Non
si sarebbe mai dedicata a nessun’altro cliente, non
in quel modo.
Ichigo
Kurosaki ricordava ancora la prima volta che
l’aveva vista.
Era
entrato in quel locale per caso, non perché gli
piacesse particolarmente bere, e ballare men che meno. Non era neanche
in cerca
di compagnia, quella sera.
Semplicemente,
era passato davanti a quel locale. L’aveva
incuriosito, ed era entrato.
Ichigo
si comportava sempre in quel modo, vivendo neanche
alla giornata, letteralmente al momento, seguendo cosa gli diceva di
fare
l’istinto secondo per secondo. Non doveva rendere conto a
nessuno di niente.
Erano passati da un pezzo gli anni in cui si sentiva costretto a
comportarsi
bene e a sorridere per non far preoccupare gli altri. Passati,
così come i suoi
capelli di un’arancione acceso, e... sua madre.
Si
era lasciato cadere su un divanetto nero nell’ala
fumatori e si era acceso l’ennesima sigaretta. Quante ne
aveva fumate quel
giorno? Dieci? Quindici? Ormai aveva perso il conto. Doveva darci un
taglio,
dannazione. Non poteva fumarsi 400 e passa yen al giorno. Dei suoi
polmoni che
imploravano pietà gliene fregava poco, invece.
Aveva
ordinato qualcosa da bere di sfuggita a una
cameriera di colore in nekomimi
più
svestita che vestita, che gli aveva fatto l’occhiolino e
offerto un
cioccolatino dalla scatola piena con cui girava. A quel punto,
improvvisamente
le luci nella sala erano calate – facendolo imprecare tra i
denti perché per
sbaglio nel buio aveva preso un cioccolatino latte – e la
musica era cambiata, diventando
più suadente.
E
sul palco era salita Linalee, che aveva iniziato a
ballare, premendosi contro quel palo di metallo come fosse un amante.
Era
bella, dannatamente bella. Da farti andare di traverso
il fumo della sigaretta.
Eppure,
su quel palco, osservata da tutti con occhi avidi
e famelici, gli era sembrata incredibilmente distante. Era come se
fosse finta,
con quel sorriso ammiccante, che a lui era parso solo freddo. Quasi
volesse
tagliare fuori tutto e tutti. Il suo sguardo non incrociava mai quello
di
nessuno, come invece facevano le altre ballerine, in cerca di qualcuno
con cui
arrotondare nel dopo serata.
Forse
era solo una sua impressione. Forse era per colpa
di quella la sensazione che gli dava il palco, che nel corso degli anni
Ichigo
aveva imparato a considerare come una gabbia per le emozioni, quelle
vere.
Però
anche tutti gli altri la chiamavano la “bella e
irraggiungibile”, quasi con scherno, quasi con desiderio. Lei
ballava per
dimostrare qualcosa a se stessa, chissà cosa
però, e non per sedurre quei tutti
gli altri che tanto avrebbero voluto raggiungerla.
Però
era bella. Dannazione se lo era.
E
così, senza neanche rendersene conto, si era trovato a
passare lì, in quel locale che non aveva proprio nulla di
così attraente per
uno come lui, sì e no ogni sera libera.
Si
limitava a guardarla da lontano, come tutti, fumando
la sua sigaretta e cercando di non pensare troppo quando si lasciava
andare a
mosse fin troppo provocanti.
Una
volta però, gli era passata pericolosamente accanto.
E senza poterne fare a meno, aveva alzato gli occhi verso di lei,
incrociando
per un secondo il suo sguardo, che gli era sfuggito subito. Quasi come
se
avesse avuto paura.
Dopo
quel momento, aveva smesso per un po’ di frequentare
il Jūichiban Tai. Ma una sera, una
sera come la prima volta che ci aveva messo piede, si era trovato
nuovamente ad
entrarci. Solo un secondo, si era
detto.
Era
tardi, l’ora dello spettacolo di Linalee era passato
da un pezzo. Non si era trattenuto molto, aveva scambiato solo qualche
parola con
la cameriera coi cioccolatini e con un paio di hostess che avevano
cercato di
abbordarlo, e che si erano viste rifiutate senza molti riguardi. Poi
aveva
deciso di andarsene, chiedendosi per quale diavolo di motivo fosse poi
entrato.
E
a quel punto, l’aveva vista.
Era
fuori dal locale, stava parlando con due uomini,
sulla trentina probabilmente, o forse con qualche anno di
più. Non gli era
sembrata esattamente a suo agio, tanto che continuava ad
indietreggiare,
esibendo l’ennesimo falso sorriso, e tenendo le mani alzate,
come in segno di
scusa. Poi era finita contro il muro, e nei suoi occhi si era dipinto
il
terrore, mentre sul viso dei due uomini – che a guardarli
meglio sembravano
pure ubriachi
– un ghigno eccitato.
Ichigo
aveva lasciato cadere per terra la sigaretta che
teneva tra le labbra e che ormai era arrivata al filtro, spegnendola
con un piede
mentre a grandi passi si dirigeva senza esitazione verso quella scena
di cui
era stato testimone fortuito.
Quella
situazione gli era sembrata talmente assurda da
essere tratta da un film di cattivo gusto.
In
meno di un secondo, aveva fatto piegare in due per il
dolore uno, mentre l’altro lo aveva spinto contro il muro da
cui Linalee si era
prontamente scostata, tenendolo per la maglietta e intimandogli col suo
sguardo
penetrante di non provare a reagire oltre. Consiglio che
l’uomo aveva seguito
saggiamente, allontanandosi in fretta quando l’aveva lasciato
andare.
Poi
si era girato per dare un paio di avvertimenti anche
all’altro, e... a quel punto, inaspettatamente, aveva visto
Linalee tirare a quell’uomo
un calcio ai genitali, con tutta la forza che aveva, e sputargli contro
quando
era caduto in ginocchio a terra ai suoi piedi, senza più
fiato in gola per il
dolore lancinante, e tenendosi le mani strette nel il punto in cui era
stato
colpito, cercando e riuscendo in qualche modo ad allontanarsi da lei,
quasi
strisciando come un verme.
Quella
immagine gli si addiceva, aveva pensato Ichigo.
Poi
era rimasto ad osservare lei per qualche secondo,
ansimare a denti stretti per tenere sotto controllo la rabbia e lo
spavento che
le si leggevano negli occhi.
Nei
film le fanciulle indifese si facevano salvare e
basta, senza tirare calci nelle palle a destra e a manca.
«
Stai... bene?
», se ne era uscito con la classica frase di circostanza,
infilando una mano
nella tasca dei pantaloni mentre l’altra se l’era
passata sul collo, inarcando
un sopracciglio.
Linalee
aveva alzato a sua volta lo sguardo su di lui,
stringendosi nelle spalle e tirandosi i capelli dietro
l’orecchio, ancora
visibilmente nervosa.
«
Sì. Grazie. »,
aveva semplicemente detto, abbassando nuovamente gli occhi. Il suo tono
era
freddo, diffidente, come se pensasse che per averla aiutata, adesso lui
si
aspettasse chissà quale ricompensa.
Come
darle torto. Quello sì che capitava, nei film. Ma la
sua vita non era uno squallido film.
Facendo
un sorriso impercettibile tra sé e sé, Ichigo
l’aveva
superata come niente fosse, limitandosi semplicemente a farle un cenno
con la
mano come a dire “prego”.
Era
stato il turno di Linalee di essere stupita, a quel
punto. Aveva già notato quel ragazzo nel locale, e anche il
suo sguardo che più
di una volta l’aveva cercata. Nonostante fosse da un
po’ che non si faceva
vivo, l’aveva riconosciuto subito. Non era esattamente il
tipo che passava
inosservato, in effetti.
Ma
Linalee, prevenuta come sempre, l’aveva etichettato
come “uno dei tanti”, e messo al loro
stesso livello. Per questo quando lo aveva visto andarsene
così, senza neanche
dire niente, si era sentita un po’ in colpa per aver pensato
male di una
persona che oltre a non averle fatto niente in particolare,
l’aveva appena
aiutata ad uscire da una delle “situazioni
difficili” che ogni tanto le
capitavano.
«
A-... Aspetta!
», aveva perciò esclamato, quando ormai lui stava
per girare l’angolo e sparire
dalla sua vista.
Ichigo
si era voltato appena, inarcando ancora il
sopracciglio, interrompendosi dal cercare di accendere
l’ennesima sigaretta.
«
Come... come
ti chiami? »
Si
era tolto la sigaretta dalla bocca. « ... Ichigo
Kurosaki. », aveva risposto, ma non prima di aver esitato un
attimo. Perché non dovrei
dirglielo?
E
a quel punto, inaspettatamente, le labbra di Linalee si
erano schiuse, per quella che gli era sembrata la prima volta, in un
sorriso.
«
Grazie,
Kurosaki-san. Davvero. », e questa volta era stata sincera.
Ichigo
l’aveva guardata ancora per qualche secondo, poi
si era girato nuovamente, tornando sui suoi passi.
« Solo
Ichigo va
bene... », aveva mormorato infine, ma era sicuro che lei
l’avesse sentito.
Da
quel momento, era tornato a frequentare abitualmente
il Jūichiban.
E
quando capitava che i loro occhi s’incontrassero, lei
non distoglieva più lo sguardo. Gli sorrideva.
Ichigo
non si sarebbe mai immaginato che il suo vero
sorriso sarebbe stato così dolce.
Ricordava
ancora anche un'altra prima volta, quella in
cui si erano baciati.
Anzi,
in cui lei l’aveva baciato.
Era
ormai da un mese che i suoi sorrisi gli scivolavano
addosso. Ogni tanto la sorprendeva pure a guardarlo da lontano, o a
cercarlo
nella folla. Quando a quel punto i loro sguardi si incrociavano, lei
arrossiva
leggermente e accennava a una risata, tirandosi dietro
l’orecchio i capelli, in
quel tic che aveva imparato ad attribuire ai momenti in cui qualcosa la
rendeva
nervosa.
Quei
sorrisi gli scivolavano letteralmente addosso. Sì,
come una doccia fredda, o forse bollente.
Non
sapeva neanche come fossero arrivati a quel punto.
Quando
quella sera era scesa dal palco, gli aveva rivolto
l’ennesima occhiata. Le sue guance, però, erano
diventate più rosse del solito,
e sul suo viso non si era dipinto un sorriso. Si era morsa le labbra,
poi aveva
abbassato lo sguardo e si era diretta verso l’uscita. Ichigo
si era chiesto se
fosse successo qualcosa, ma la domanda era scemata nello stesso momento
in cui
l’aveva vista girarsi, sulla soglia della porta, e cercare
ancora il suo
sguardo. Toccandosi i capelli.
Non
sapeva nemmeno perché avesse spento all’istante la
sigaretta nel posacenere e l’avesse seguita.
Sapeva
solo che in quel momento la stava guardando, a
pochi centimetri dal suo volto, vicina come non l’aveva mai
vista. I suoi
capelli scuri tagliati appena sotto le spalle profumavano di qualcosa
di simile
alla nostalgia, mentre alzava una mano per sfiorarglieli.
Il
suo lato cinico trovava quasi divertente come provasse
proprio con lei, con cui non aveva a malapena parlato, quella
sensazione, che
inconsciamente aveva cercato tanto.
Il
suo corpo aveva tentato di trovare consolazione tra le
braccia e i seni di molte donne, dopo quelli di sua madre. Ma tutte,
immancabilmente, alla fine se erano ne andate. Deluse, dalla sua
indifferenza.
Lui non aveva provato neanche a fermarle. Non gli importava.
Il
loro profumo era comprato e poteva essere messo in una
boccetta di vetro, così come il loro sorriso era finto, come
se stessero
recitando una parte su un palcoscenico.
« ... Ma tu chi sei, che avanzando nel buio della
notte inciampi nei miei più segreti pensieri?
», aveva mormorato con
la bocca che quasi sfiorava il suo orecchio,
tirandole indietro i capelli, inebriandosi di quel senso nostalgia
tanto amaro
e dolce al tempo stesso.
«
Cos’è...? »
A
Linalee era sembrata come una poesia. La sua voce era
bassa, profonda, il suo tono quasi come se stesse più
parlando a sé stesso che
a lei. Eppure l’aveva trovata bellissima, capace di far
scemare in parte quel
nervosismo che quasi le aveva impedito di avvicinarsi a lui, quella
sera, come
invece da tanto tempo segretamente non aveva fatto che desiderare.
Non
sapeva spiegarsi nemmeno lei per quale motivo.
Il
modo in cui in quel momento la stava toccando, il modo
in cui anche solo l’aveva guardava per tutto quel tempo. Le
poche parole che
diceva, e soprattutto quelle che non diceva affatto, ma che
trasparivano
comunque dal suo sguardo, dai suoi occhi, tanto in contrasto con la sua
espressione.
Per
qualche ragione, sentiva che di quelle mani e di
quegli occhi poteva fidarsi, fidarsi dopo tanto, troppo tempo.
Cos’è?
Ogni volta, anche Ichigo aveva chiesto la stessa cosa, curioso come
solo un
bambino che pendeva dalle labbra della madre poteva essere. E lei, ogni
volta
non gli aveva risposto, ma si era limitata a ripetergli gli stessi
versi
lentamente, finché lui stesso non era arrivato a capire il
loro significato, o
meglio, il significato che per lui potevano avere, secondo la sua
stessa
interpretazione.
E
ogni volta, anche i versi che gli all’inizio gli erano
parsi i più tristi erano stati resi dolci dal suo sorriso.
Sorriso
che non diventava mai falso, neanche quando
recitava sul palcoscenico come Giulietta, o Elena, o Miranda, oppure
ancora
come Ofelia. Anche con nomi diversi, il suo sorriso era sempre lo
stesso. Un
punto fermo. Vero. Dolce, come solo quello di una madre può
essere.
Come
quello che vedeva in quel momento distendersi sulle
labbra appena umide che stava sfiorando col pollice.
Ciò
che più lo sconcertava però, era che in lei non
vedeva affatto il sorriso di sua madre, nonostante credesse fosse
quello, che
aveva cercato per tutti quegli anni.
Non
era quel tipo di nostalgia.
No. In quegli occhi e in quel sorriso quasi timido che non aveva fatto
altro
che seguire da lontano, vedeva il se stesso che si perdeva per ore ad
ascoltare
recitare sua madre, e che adesso, invece, era perso per sempre a
fissare la sua
lapide, immobile.
In
quel sorriso vedeva la flebile possibilità di
ritrovarsi.
«
È una domanda.
», le aveva risposto semplicemente, avvicinando ancora di
più il viso al suo. Lui
non le avrebbe ripetuto quei versi, come invece avrebbe fatto sua
madre. Non
ancora. Perché nonostante tutto quella
possibilità era qualcosa che non era
ancora in grado di accettare. Aveva passato troppo tempo a vivere con
quel suo
falso se stesso, che quasi ci aveva fatto l’abitudine.
Quello
vero, era fin troppo fragile. Aveva solo bisogno
di potersi nascondere nell’abbraccio di qualcuno disposto ad
accettarlo per
quello che era. Di sentirsi amato, dopo tanto, troppo tempo.
Ma
non lui, non il sé stesso di quel momento. Lui ormai
si era messo in testa di tirare avanti da solo per tutta la vita, senza
mai più
affidarsi a nessuno. Perché se avesse perso nuovamente il
centro del suo mondo,
quel punto fermo, si sarebbe smarrito definitivamente.
Per
questo aveva aggrottato le sopracciglia, e, lasciando
impregnare le sue parole di un tono amaro, lui che faceva di tutto per
non far
trasparire le sue emozioni, le aveva chiesto:
« Si
può sapere
chi sei e cosa vuoi da me, Linalee? »
Linalee
si era morsa nuovamente il labbro inferiore,
chinando la testa e stringendosi nelle braccia, mentre il sorriso
lentamente
era sparito dal suo volto. Quel gesto, quello stringersi nelle braccia,
Ichigo
aveva imparato ad attribuirlo a quando si sentiva ferita.
« E
tu? Cosa...
cosa vuoi da me, Ichigo? », aveva rialzato lo sguardo verso
di lui, guardandolo
con una durezza che non si era aspettato.
Non
era ovvio cosa desiderasse, come tutti?
Fidarsi
e affidarsi, era qualcosa che anche Linalee si
era imposta di non fare più.
Perché
lei, se fosse stata tradita ancora, avrebbe finito
per odiare del tutto il suo corpo sporco, e soprattutto sé
stessa e la sua
ingenuità che l’aveva spinta ad accettare
nuovamente le avide carezze e la
stretta dolorosa di un altro uomo, senza essere in grado di dire basta.
Eppure
nessuno l’aveva mai guardata con quegli occhi, in
quegli anni che aveva passato a chiedere un muto aiuto. Nessuno. Ichigo
guardava lei, e non quello che
rappresentava.
Ognuno
aveva chiesto qualcosa di cui aveva paura di
sapere la risposta.
Ed
entrambi avevano cercato di leggere la risposta negli
occhi dell’altro, gli uni restii a lasciarsi andare, gli
altri impauriti da un
passato che non si poteva ancora raccontare.
Ichigo
si era reso conto che Linalee stava tremando, stringendosi
forte tra le braccia, quasi affondandosi le unghie nella pelle, a pochi
centimetri da lui. Eppure non indietreggiava, come l’aveva
vista fare con tanti
prima di lui.
Aveva
sentito il bisogno di sfiorare ancora quei capelli
lisci e le sue labbra, che erano fin troppo invitanti, ma quando aveva
alzato
una mano per farlo, l’aveva vista chiudersi ancora di
più, insaccandosi nelle
spalle. No, non era perché si sentiva ferita.
Aveva
paura, l’aveva davvero.
Non
aveva osato chiedersi che cosa l’avesse portata a
provare quel timore verso di lui come verso tutti gli altri, il solo
dubbio
metteva paura anche a lui.
... Al diavolo.
Al
diavolo tutto e tutti. Bastava non pensare. Vivere al
momento come aveva sempre fatto, e non pensare a niente, non alle
conseguenze,
non al se e quando sarebbe morto nuovamente. Di solitudine.
Così
aveva appoggiato la fronte contro la sua,
sollevandole il viso, e per la prima volta aveva ricambiato il suo
sorriso,
anche se a modo suo, accennandolo appena. Sperava in qualche modo di
rassicurarla, anche se non aveva la minima idea di come si facesse.
« ...
Solo
quello che tu sei disposta a darmi. »
A
quelle parole, Linalee aveva sentito un nodo stringerle
la gola, e cercato per l’ennesima volta i suoi occhi,
sentendosi imbarazzata
come non le capitava da tanto tempo.
Cosa
poteva dargli, cosa aveva lei da offrire?
Ma
soprattutto, cosa voleva lei stessa?
Il
suo sguardo cadde sulle labbra di Ichigo, quelle
labbra che pronunciavano le parole rassicuranti che aveva bisogno di
sentire, e
che in quel momento le stavano regalando un sorriso, che anche se era
appena
accennato, trovava ancor più rassicurante di mille parole e
promesse.
Voleva
quel sorriso, voleva quelle labbra che la facevano
sentire... rispettata.
Gli
si era avvicinata, risoluta a vincere la timidezza,
ma soprattutto la paura che le attanagliava lo stomaco. Aveva sentito
il suo
respiro caldo sulla pelle, fermandosi a pochi centimetri dal suo viso.
La
distanza di un bacio.
Ichigo
non aveva fatto niente, non si era avvicinato, non
l’aveva neanche sfiorata. Semplicemente, aveva aspettato.
Anche
in quel momento, il modo in cui riusciva ad essere
incredibilmente sensuale nella sua insicurezza faceva quasi male. O
forse era
semplicemente che il desiderio di scoprire finalmente il sapore del suo
sorriso
cresceva e si centuplicava ogni secondo che passava, e in cui la
sentiva sempre
più vicina, ma non ancora abbastanza. Eppure non avrebbe
fatto niente per
azzerare quella distanza. Non si sarebbe preso niente che non fosse
stata lei a
concedergli.
Anche
se stava letteralmente impazzendo. Altro che
indifferenza, con lei si stravolgeva tutto.
Poi,
dopo un tempo che a lui era parso interminabile, aveva
finalmente sentito la sua bocca cercarlo.
Le labbra di
Linalee erano state a tratti esitanti, poi, pian piano, sempre
più sicure. Come
se all’inizio si fosse lasciata prendere
dall’imbarazzo, ma dopo si fosse
decisa a lasciarsi andare semplicemente a quello che le diceva di fare
il
desiderio che sentiva per lui, e che si stupiva di stare provando.
Di più...
Ichigo
aveva sentito le sue dita sfiorargli le braccia e
cercargli le mani, prendendole tra le sue e guidandole sulla sua
schiena, come
se avesse voluto trasmettergli la voglia che sentiva di essere
abbracciata.
Voleva
le sue labbra, voleva le sue mani calde su di lei.
Non avrebbe mai creduto di poter arrivare a
“volere” quel genere di contatto. E
addirittura a provarne piacere. Era qualcosa di completamente nuovo,
per lei, l’essere
ricambiata così, gentilmente, mentre era lei a poter
decidere, a scegliere se farsi
toccare o meno.
E
Ichigo l’aveva stretta lentamente, tirandola ancora
più
contro di lui, esaudendo la sua muta richiesta. Aveva avvertito il suo
corpo
caldo attraverso i vestiti premersi contro di lui, mentre le mani di
lei
avevano preso ad accarezzargli i capelli, delicate.
Altrettanti
minuti interminabili erano passati, che però
entrambi avrebbero voluto prolungare ancora di più.
Poi
era stato il turno di Linalee di appoggiare la fronte
contro la sua, sviando un po’ lo sguardo, col viso rosso di
imbarazzo.
Adesso
si faceva prendere dalla timidezza, dopo quel
lungo bacio in cui aveva dimostrato che quando voleva, il coraggio di
prendere
l’iniziativa non le mancava affatto.
Ma
c’era anche qualcos’altro. Speranza.
« Ti
basta...? »,
gli aveva chiesto con un filo di voce.
Dimmi di sì. Dimmi che
mi posso fidare. Dimmi che non mi chiederai qualcosa
di più, qualcosa che non ti posso dare.
Ti prego...
Ichigo
l’aveva osservata, in silenzio. Poi si era
lasciato andare ad un altro sorriso.
« ...
E avanza.
»
Alle
sue parole Linalee aveva accennato a una risata
quasi divertita, sentendosi improvvisamente più leggera. E
quella volta era
stato Ichigo a cercare le sue labbra.
Ancora.
Ancora.
E
ancora.
|
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Capitolo 5 *** Quando si resta soli. ***
NDA: E
siamo arrivati al YuHime.
Facciamo
tutti una statua di diamanti a N e m e
per aver creato questo cross
pairing meraviglioso, e anche per avermi dato l’input giusto
per iniziare la
loro storia! Grazie, mio gaio tesoro! ♥
E
niente... Yucchan è un po’ un bastardello. =w=
Hime...
Hime mi fa una tenerezza assurda, accidenti a me.
TCT
Vabbè,
ecco un altra parolina che forse non conoscete –
quanto mi diverto ad inventare i nomi dei locali! x°D -:
- Oinari,
nella mitologia shintoista e buddista, è la
divinità della
fertilità e del raccolto (una sorta di Cerere giapponese),
le cui messaggere
sono le kitsune, ovvero i famosi
demoni-volpe bianchi.
[Crack Pairing]
[Grimmjow x Tatsuki]
[Lavi x Rukia]
[Ichigo x Linalee]
[Kanda x Orihime]
[Debit x Riruka]
[Tyki x Lust]
[Starrk x Neliel]
[Soi Fon x Hisagi]
-
CAPITOLO 4 – Quando si
resta
soli.
Era
una sensazione inebriante, la velocità.
Yu
Kanda poteva sentire il freddo dell’aria della sera
attraverso
i vestiti, pungente, nelle ossa, nonostante il pesante giubbotto di
pelle che
indossava. I suoi lunghi capelli neri e lisci sferzavano
l’aria circostante, e
a volte anche il sottile strato di pelle che rimaneva scoperto tra il
bavero
alzato sul collo e il casco integrale.
Il
sole stava tramontando di fronte a lui, dietro la
sfilza di edifici grigi, che per lui costituivano l’abituale
panorama di tutti
i giorni. La visiera oscurata gli riparava gli occhi dalla luce.
Dopo
una curva diede gas, piegandosi sulla sua moto come
a volersi fondere con essa, come se il suo corpo ne volesse diventare
una parte
integrante.
A
volte quella moto gli sembrava viva.
Come un grosso animale, fiero, che ruggiva sotto il suo
tocco. Aveva anche un nome, dipinto con un carattere elegante sulla
fiancata.
Un nome stupido, a dir la verità.
Mugen.
Non era stato Kanda a darglielo, lui non avrebbe mai fatto qualcosa
come dare
un nomignolo a un oggetto. E non era neanche stato lui a scriverlo
sulla sua
preziosa, preziosissima moto. Non aveva neanche dato il suo consenso,
ma poco
importava. Quell’idiota... aveva sempre fatto di testa sua
fino alla fine.
Stringendo
le manopole sotto i guanti di pelle come il giubbotto,
superò un semaforo che stava per diventare rosso.
Sfrecciare
tra le macchine su Mugen gli permetteva di non
pensare.
Questo
finché non si trovava costretto a frenare
bruscamente, come in quel momento. Il mondo riprendeva a scorrere alla
sua
solita velocità, troppo lenta e allo stesso tempo troppo
veloce e
irraggiungibile per lui, che era rimasto fermo a un momento preciso del
suo
passato.
Odiava
dover frenare, e ritrovarsi catapultato tra il
rumore della città e le chiacchiere inutili della gente per
strada. Fosse stato
per lui, avrebbe continuato a guidare per tutto il resto della sua vita.
Bastava non dover pensare a niente.
Ma
no, figuriamoci, ci doveva sempre essere qualcuno o
qualcosa a fermarlo. Banalmente, un dannato semaforo. O un agente di
polizia
che non aveva niente di meglio da fare che dare multe a lui per aver
superato
il limite di velocità in una zona urbana.
O
ancora, una cameriera con dei sacchetti della
spazzatura in mano che non guardava neanche prima di attraversare la
strada.
« Si
può sapere
cosa diavolo hai che non va nel cervello?! »,
ringhiò tra i denti, furioso,
togliendosi il casco e provando quasi il desiderio di lanciarlo contro
a quella
stupida ragazza per darle una svegliata. Stupida ragazza che lo
guardava con
occhi vacui, da terra, circondata dai piatti e dalle posate di plastica
che
erano usciti dai sacchetti neri.
«
I-Io... mi
dispiace! », iniziò a dire con un filo di voce,
col cuore che ancora le batteva
all’impazzata per lo spavento. « Avevo la testa da
un'altra parte, e-... »
«
Così finirai
per rompertela, la testa! », la interruppe lui, trafiggendola
coi suoi occhi
scuri, esterrefatto dalla sua leggerezza.
E
in effetti, Orihime Inoue ci era andata veramente
vicina questa volta. Veramente, veramente vicina.
Era
uscita dalla tavola calda in cui lavorava per buttare
nei cassonetti per la raccolta differenziata dall’altra parte
della strada, la
spazzatura che ormai si era accumulata nei cestini del locale. Aveva in
mano
tre grossi sacchetti, non molto pesanti, ma parecchio ingombranti. Uno
le era
scivolato di mano nell’esatto istante in cui si accingeva ad
attraversare, così
lei aveva abbassato lo sguardo, senza rendersi conto della moto nera
che stava
arrivando a tutta velocità.
Yu
Kanda aveva inchiodato, lasciando il segno della
sgommata sull’asfalto, a pochi centimetri da un incidente
sicuro. Se non fosse
stato per i suoi riflessi pronti nel deviare la traiettoria della moto,
quella
ragazza la testa se la sarebbe rotta davvero, e con tutta
probabilità,
definitivamente.
Il
ragazzo rimase ad osservarla per qualche secondo,
respirando profondamente, mentre pian piano la rabbia e lo spavento che
si era
preso lui stesso, cominciavano a scemare.
Orihime
indossava una corta divisa bianca e rossa, che
recava lo stesso nome e simbolo dell’insegna di Oinari, ovvero il bar di fronte a lui.
Divisa che pareva
scomodamente attillata, soprattutto sul petto.
A
prima vista sembrava essere sulla ventina, la sua stessa
età, ma non ci avrebbe giurato. Quegli occhi grandi e color
nocciola che lo
fissavano spauriti le davano quasi un aria infantile. Ma la cosa che lo
aveva
colpito di più, e che probabilmente aveva contribuito a
fargliela notare prima
che fosse troppo tardi, era quella massa di corti capelli arancioni,
tagliati
appena sopra le spalle e in un modo talmente casuale da sembrare
l’esperimento mal
riuscito di una bambina.
La
vide cominciare a raccogliere e a rimettere dentro
come meglio poteva la spazzatura che era uscita dai sacchetti neri. La
voce
della sua coscienza gli diceva che forse, ma forse, sarebbe dovuto
scendere
dalla moto per aiutarla, perché
in parte
quell’incidente fortunatamente scampato era avvenuto per
colpa sua e della sua
spericolata velocità in un’area urbana, come lo
avevano più di una volta
redarguito quei famosi agenti imbellettati.
Ma
se lei si fosse presa la briga di guardare prima di
attraversare, lui non avrebbe dovuto neanche fermarsi.
Quindi
si portò una mano ai capelli, tirandoseli indietro
e sistemandoli in modo che non fossero d’intralcio, sul punto
di rimettersi il
casco e andarsene, quando un oggetto luccicante vicino al suo piede
catturò la
sua attenzione.
Era
una fermacapelli
azzurro, uguale ad un altro che aveva notato sui capelli corti e
spettinati di
quella ragazza, che ora si era alzata e si stava trascinando fino ai
bidoni
della spazzatura, tirandosi dietro quei tre sacchetti che, da come si
muoveva,
sembravano parecchio pesanti.
Alzò
gli occhi al
cielo, spazientito, valutando quanto cattivo sarebbe stato da parte sua
se se
ne fosse fregato e avesse spinto sul gas, schiacciando quella stupida
mollettina
sotto le ruote.
La
fastidiosa voce
della sua coscienza gli diede dell’insensibile.
Schioccando
la lingua infastidito, fece scattare il
cavalletto della moto e ne scese, chinandosi per raccogliere il
fermaglio. Era
rimasto leggermente scheggiato su uno dei sei... petali?, che formavano
il
fiore su di esso, notò, rigirandoselo tra le dita.
« Ah,
quello...!
», iniziò la ragazza, spalancando gli occhi,
accorgendosi di ciò che lui teneva
in mano. Kanda inarcò un sopracciglio, mostrandole il
fermacapelli come a
chiedere conferma che fosse suo.
«
Potresti...
potresti restituirmelo, per favore? »
E
il ragazzo non se lo fece ripetere due volte,
letteralmente.
Orihime
lo vide piegare il braccio e lanciare nella sua
direzione quell’oggetto così prezioso per lei. E
istintivamente lasciò andare i
sacchetti per prenderlo al volo, facendo sparpagliare nuovamente a
terra il
loro contenuto, davanti a cui non riuscì a trattenere un gemito e un sospiro sconsolato, mentre cadeva in ginocchio per
raccogliere tutto, per l’ennesima volta.
Kanda
accennò a un sorriso mentre si rinfilava il casco e
sgommava via.
Al
diavolo la coscienza.
«
Orihime, ma
che è successo?! Sei tutta sporca! »
Entrando nel
locale ormai vuoto, Orihime alzò lo sguardo verso la alta
donna dai capelli
biondo ramato che indossava la sua stessa divisa, incrociando i suoi
occhi di
un intenso celeste che la fissavano preoccupati, mentre con una la mano
le
puliva la terra dalla divisa. Le fece un sorriso.
« Non
è niente,
Rangiku-san, sono solo-... », provò a dire, ma non
riuscì a continuare perché il
suo sorriso si trasformò in una smorfia di dolore, mentre
spostava il peso solo
su un piede, nascondendo l’altro dietro il polpaccio.
« Cosa
hai fatto
alla gamba? », le chiese a quel punto Rangiku Matsumoto, a
cui non era affatto
sfuggito quel cambio di espressione.
«
Sono... sono
caduta. », le sorrise ancora, passandosi una mano tra i corti
capelli.
«
È la caviglia,
vero? Fammi vedere. »
« Ma
no,
davvero, non è nien-ahi. », gemette ancora, visto
che istintivamente aveva
fatto un passo indietro per sottrarsi alle cure di Rangiku ed evitare
di farla
preoccupare oltre. Lei però, scaltra, approfittò
della situazione per spingere
la ragazza su una sedia di legno e sfilarle la scarpa, esaminandole
delicatamente la caviglia.
« Si
è gonfiata
parecchio. È il caso che ci mettiamo su un po’ di
ghiaccio, eh? »
Orihime
sospirò e strinse la gonna della divisa nei
pugni, vedendosi costretta ad annuire.
«
Arrivo subito,
vado a prendertelo nel congelatore. Tu non fare la sciocca e resta
seduta. »,
la ammonì la donna, con un buffetto sulla testa, facendole
un sorriso. « Brava
ragazza. », canticchiò, per poi sparire dietro le
porte a ventola della cucina.
Orihime
si lasciò andare contro lo schienale della sedia,
sospirando ancora. Non gliene andava una per il verso giusto,
ultimamente.
Anzi, non ultimamente...
Da sempre.
Abbassò
lo sguardo verso la caviglia dolorante. Chissà se
sarebbe riuscita a servire ai tavoli zoppicando, pensò con
un altro sorriso,
che si spense subito. Ma chi voleva prendere in giro...?
« Gin,
ti prego...
», sentì all’improvviso la voce di
Rangiku, tesa ma fievole come un sussurro,
eppure ben udibile nel silenzio del locale. Era sicura che fosse lei,
tutti gli
altri dipendenti avevano finito il loro turno ed erano tornati a casa.
E poi
nessun altro si rivolgeva con tanta confidenza al “signor
proprietario”. Si
sporse appena dalla sedia, quel tanto che le bastò per
vedere al di là dei
battenti della cucina Gin Ichimaru posare una mano sulla spalla di una
Rangiku che
lo stava guardando implorante.
«
Credi che per
me sia facile, Ran-... », cominciò a dire, anche
lui a bassa voce, quando si
accorse che Orihime stava ascoltando la loro conversazione. Le rivolse
un
sorriso, uno di quelli che fin dal colloquio per la sua assunzione
avevano
avuto il potere di metterla in soggezione. La ragazza
ricambiò come poteva,
mentre lo osservava spingere con delicatezza Rangiku, che si era girata
per
guardarla, fuori dal suo campo visivo.
Tornò
a stringere i pugni sulle gambe, mordendosi con
forza il labbro inferiore.
Non
era quello il momento di mettersi a piangere.
Raccolse
da terra la scarpa e la calza appallottolata al
suo interno, che si rinfilò cercando come poteva di non
piegare la caviglia.
Poi provò ad alzarsi. Le faceva male, le faceva parecchio
male. Ma non aveva
intenzione di rimanere lì un minuto di più.
Zoppicando
e tentando di fare il meno rumore possibile,
prese la sua borsa e la giacca dall’armadietto nella stanza
sul retro del
locale, ed uscì senza neanche essersi cambiata. Avrebbe
lavato e stirato la
divisa a casa, e poi gliel’avrebbe restituita nei prossimi
giorni. L’importante
in quel momento, era arrivarci, a casa.
L’appartamento
in cui aveva vissuto per tutti e
diciannove i suoi anni di vita, dei quali gli ultimi sette in completa
solitudine, non distava molto dall’Oinari,
appena una ventina di minuti a piedi. Peccato che uno dei suoi piedi
non fosse
esattamente nelle condizioni di collaborare in quel momento, ad ogni
passo le
sembrava che la caviglia fosse trafitta da un migliaio di aghi. Forse
avrebbe
dovuto aspettare l’autobus, ma non aveva idea di quali
fossero gli orari a cui
passasse, non l’aveva mai preso per andare e tornare dal
lavoro. E poi... e poi
voleva solo tornare a casa, il prima possibile.
Strinse
i denti, doveva resistere. Ancora poco, Orihime, ancora
poco. Ancora-...
Sentì
una stretta al petto, e un nodo salirle alla gola,
tanto da faticare a respirare, mentre con una mano si appoggiava ad un
palo
della luce, non riuscendo a camminare oltre.
Perché
le cose non potevano semplicemente andare bene per
lei? Lei ce la metteva tutta, ce l’aveva sempre messa tutta,
ma... ogni volta, finiva
nello stesso modo. E finiva per deludere anche le persone che avevano
riposto
fiducia in lei, persone come-...
«
Orihime! »,
sentì ancora la sua voce, questa volta non in un sussurro.
Stava esclamando il
suo nome, chiamandola e sporgendosi dal finestrino della sua macchina
grigia,
gli occhi celesti densi di preoccupazione. Coprendosi la bocca con la
mano,
tentando in tutti i modi di ricacciare indietro le lacrime, la vide
accostare e
slacciarsi la cintura di sicurezza, scendendo di tutta fretta per
raggiungerla sul
marciapiede.
« Dio
santo,
Orihime, non mi fare prendere questi spaventi. Dove diavolo volevi
andare
ridotta così, me lo spieghi? », sospirò
Rangiku scuotendola per le spalle. « Non
ti avevo detto di restare dov’eri? »
Orihime
per un secondo si perse nel suo sguardo ansioso,
odiandosi per la preoccupazione che le stava facendo provare. Non
sapeva cosa
dirle, e la donna sembrò capirlo. Scosse la testa, facendo
un sospiro.
«
Forza, sali in
macchina. Ti riaccompagno io. »
« E
Ichimaru-san? »
« ...
Gin si
arrangia, tornerà a casa in treno per una volta. Gli
farà solo bene, anche se
forse non altrettanto ai poverini che gli capiteranno accanto, e che
moriranno
di paura davanti ai suoi sorrisini “cordiali”.
», provò a scherzare Rangiku per
alleggerire la tensione, passandole distrattamente una mano tra i
capelli.
Ma
ancora, era colpa sua. Orihime avrebbe voluto
rifiutare tutta quella gentilezza che le veniva offerta insieme a
quelle carezze
quasi materne, carezze di cui non aveva mai sentito il dolce tocco
prima.
Eppure, semplicemente, non ci riusciva. In quel momento non aveva la
forza per
opporsi a niente e a nessuno. Così Rangiku la
guidò e sostenne fino al sedile
del passeggero, per poi salire a sua volta e partire. Orihime le diede
qualche
indicazione sporadica a qualche incrocio, cercando di controllare la
voce
tremante, che la donna cercò in tutti i modi di ignorare per
non metterla
ancora più in difficoltà.
Quando
poi si fermò di fronte al condominio in cui si trovava
l’appartamento di Orihime, tra di loro calò il
silenzio.
«
Sono... sono
stata licenziata, vero, Rangiku-san? Dimmelo, per favore. »,
chiese infine la
ragazza, dopo parecchi minuti in cui aveva cercato il coraggio per
porre quella
domanda di cui conosceva già la risposta.
Rangiku
strinse il volante dell’auto tra le mani, abbassando
lo sguardo.
« Mi
dispiace
davvero, Orihime. Ma facciamo fatica anche noi a tirare avanti, e non
possiamo
permetterci di... », non seppe come finire la frase, per non
affondare ancora
di più il coltello nella piaga.
« ...
Di tenere
un peso morto, non è così? Anzi, una combina guai
che peggiora le cose e basta.
», completò per lei la ragazza, accennando a una
risata.
Rangiku
non sopportava vederla ridere così, quando si
vedeva lontano un miglio dai suoi occhi che voleva solo piangere.
Provò il
desiderio di abbracciarla, di consolarla come poteva. Ma sapeva per
esperienza
che in questo modo l’avrebbe solo fatta chiudere ancora di
più in se stessa.
Orihime
non chiedeva mai l’aiuto di nessuno, e a nessuno
lasciava vedere le sue lacrime.
Così
si limitò a posare una mano sulla sua, stringendola.
«
Grazie per quello
che hai fatto per me fino a questo momento, Rangiku-san. »
«
Sciocca », le
ripeté, con quell’appellativo con cui era solita
chiamarla, e che più che altro
era intriso di calore. « Io non ho fatto proprio niente.
Anzi. Avrei voluto
fare di più, ma non mi è stato possibile.
»
Orihime
stava per replicare che non era assolutamente
vero, ma la donna la zittì con uno sguardo, incantandola
ancora per qualche
secondo.
« ...
Fatti
sentire qualche volta, Orihime. Il mio numero ce l’hai.
Chiamami per qualsiasi
cosa, anche solo per una chiacchierata tra donne sul peso della vita.
»,
scherzò ancora, lanciando un occhiata complice al suo seno,
e facendola
arrossire.
« Lo
farò... lo
farò senz’altro. », rispose a quel punto
Orihime, promettendosi mentalmente che
invece quella sarebbe stata l’ultima volta che
l’avrebbe disturbata.
Poi
scese dalla macchina, non riuscendo a non rivolgerle
un ultimo sguardo prima di chiudere la portiera alle sue spalle.
Rangiku
la salutò con la mano fino a che non la vide
sparire dietro il portone d’ingresso, mentre con
l’altra si teneva la pancia
appena accennata, a cui sentiva una stretta.
« Lo
so,
piccolo... lo so. »
« Sai,
Nii-san...
oggi mi sono slogata una caviglia. E sono anche stata licenziata. Di
nuovo. »
Orihime
Inoue si lasciò andare ad un'altra risata, seduta
a terra, appoggiando al testa contro il muro e stringendo forte il
cuscino che teneva
tra le braccia. Si era fasciata la caviglia, ma la sentiva ancora
pulsare per
il dolore sotto le bende e lo strato di crema.
Le
stava solo bene. In fondo, era solo colpa sua.
Rivolse
ancora lo sguardo verso il piccolo altare
disposto nel mobile di fronte a lei, soffermandosi sulla fotografia di
quell’uomo
che aveva tanto amato.
« E
poi, mmh...
ho incontrato una persona. » continuò, sempre
rivolgendogli un sorriso. « Aveva...
dei capelli bellissimi. Però se n’è
andata via subito. »
... Come tutti.
Come te.
E
a quel punto, finalmente, lasciò scorrere libere le
lacrime.
Sola,
come era giusto che fosse.
|
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Capitolo 6 *** Il lupo perde il pelo ma non il vizio. ***
NDA: PERDONO,
PERDONO, PERDONO PER IL MOSTRUOSO RITARDO!
Detto
questo... spostiamoci in un ambiente più, come
dire, scolastico!
Mi
scuso anche per i vari ed eventuali strafalcioni
riguardo la vita universitaria, ma, uno, la mia esperienza nel campo si
limita
alla mia fantasia in quanto sono ancora una pimpante liceale, due, ho
cercato
di informarmi come meglio ho potuto sulle università
giapponesi, ma gli errori
sono sempre possibili.
Comunque!
Oggi introdurrò altri nuovi personaggi, quali
Riruka, Debit, Neliel, Starrk, Harribel e Lilynette. Dio, quanta gente.
òCo
Spero di aver reso tutti IC, anche quelli che ho trattato di meno. Ma
col tempo
avranno tutti il loro spazio, non vi preoccupate! E spero anche di
essere
riuscita ad incuriosirvi un po’. eve
Piccola
nota:
-
Il cognome che ho scelto per Debit, Kizuna, significa
“legame”, come quello che rappresentano lui e
Jusdero in D.Gray-man.
[Crack Pairing]
[Grimmjow x Tatsuki]
[Lavi x Rukia]
[Ichigo x Linalee]
[Kanda x Orihime]
[Debit x Riruka]
[Tyki x Lust]
[Starrk x Neliel]
[Soi Fon x Hisagi]
-
CAPITOLO 5 – Il lupo
perde il
pelo ma non il vizio.
«
Ragazzi,
forza. Sono stanco anch’io, siamo stanchi tutti, ma cercate
di seguire ancora
cinque minuti. »
Il
professore sulla trentina si vide rispondere con un
sospiro collettivo, mentre pian piano il brusio creato dalle voci degli
studenti si calmava. Si riavviò i capelli castani, tenuti
piuttosto lunghi, per
poi massaggiarsi col pollice e l’indice il naso affilato,
dove erano appoggiati
un paio di sottili occhiali da vista. Era snervante spiegare le teorie
esposte
da Shūichi Katō, riguardo la corrente romantica di influenza
occidentale
sviluppatasi nell’epoca Meiji, a una classe che non faceva
altro che
sbadigliare e guardare l’orologio, agognando il momento in
cui finalmente la
lezione sarebbe finita.
Non
che lui fosse più entusiasta, che sia chiaro. Anche
lui si sarebbe volentieri lasciato andare a sbadigli, anzi, a un vero e
proprio
sonnellino, se non fosse stato che il suo ruolo non glielo permetteva.
A volte
si trovava ad invidiare la faccia tosta dei suoi studenti, che quando
capitava di
tenere una lezione alle prime ore della mattina, non si facevano tanti
scrupoli
ad appoggiare la testa sul banco e a chiudere gli occhi.
Lui,
i suoi occhi azzurro ghiaccio doveva tenerli aperti
sì e no ventitré ore su ventiquattro. E
quell’unica di sonno, in qualche modo
riusciva a ritagliarsela la mattina in macchina, quando si fermava a
qualche
incrocio, o a qualche ben accetto semaforo rosso.
Alle
parole del professore, Riruka Dokugamine, seduta
nelle ultime file di banchi, chiuse con un sonoro schiocco lo
specchietto grazie
a cui aveva appena finito di infoltire lo strato di mascara sulle sue
lunghe ciglia.
Lei non ci pensava minimamente a dormire, era troppo occupata ad
ammirare la
sua immagine riflessa, e a macchinare uno dei suoi tanti
“piani diabolici”.
La
sua mente lavorava freneticamente.
Il
suo sguardo, piuttosto che sul suo riflesso, era adesso
fisso con odio su una lunga chioma di un singolare verde acqua, quasi a
voler
perforare la testa a cui apparteneva.
Con
un tic nervoso, tamburellò le unghie curate sul
banco, chiedendosi perché mai le lancette del suo orologio
di marca ci mettessero
tanto ad arrivare alla fine dell’ora, e perché
Starrk si ostinasse a continuare
a parlare con la sua voce bassa e profonda, capace di far cascare la
testa
anche allo studente più diligente di tutta
l’università. Aveva decisamente
scelto il corso opzionale sbagliato, con filosofia e letteratura giapponese
moderna. Ma
ormai era troppo tardi per cambiare idea.
A proposito di studenti diligenti,
per qualche
secondo il suo sguardo assassino si spostò verso la sua
sinistra, all’estremità
dell’ultima fila, posandosi su una figura incappucciata da
cui spuntava il filo
giallo evidenziatore di un paio di cuffie, quasi come se quel colore
fosse
stato scelto appositamente per dare nell’occhio. Sedeva
scomposto, con una
gamba piegata e il piede sulla sedia, stando chino sul banco e tenendo
la testa
appoggiata su una mano. Stava scarabocchiando qualcosa con aria
svogliata sul
quaderno che teneva storto, se non l’avesse conosciuto bene,
Riruka avrebbe
sinceramente dubitato che quelli fossero appunti. E invece.
Nonostante
la musica perennemente nelle orecchie, e
nonostante il posto fisso all’ultima fila vicino alla
finestra, quel ragazzo
incappucciato con un discutibile gusto per i piercing e per il
truccarsi gli
occhi di nero, era il migliore studente del corso di laurea in Media e
Giornalismo. E ormai i professori si erano arresi a questa evidenza.
Quando
alzò la testa e incrociò il suo sguardo, Debit
Kizuna le mostrò la lingua e il piercing su di essa con una
smorfia quasi
infantile, a cui lei rispose fulminandolo stizzita e tornando a
guardare
davanti a sé.
E
in quel momento, finalmente, suonò la campanella che
segnava la fine della lezione, così come il risveglio dal
letargo dell’esiguo
numero di studenti presenti in quell’aula. Ma Riruka non
poteva andarsene, no,
non ancora. Non era per quello che fino a quel momento aveva aspettato
tanto
impazientemente di potersi alzare.
«
Tutto questo
romanticismo mi ha fatto venire in mente che Natale si sta avvicinando.
», le
sentì, dire nel suo tono civettuolo, mentre con una mano si
scostava dal collo
i capelli verde vomito, pardon, acquamarina.
In
fretta e furia, Riruka aveva cacciato nell’astuccio e
nella sua bella borsa di marca le sue cose sparpagliate sul banco, per
poi
farsi largo tra i banchi, facendo un rumore infernale con i suoi
mocassini
laccati col tacco. Come niente fosse, si era fermata a pochi passi
dalla
cattedra, fingendo di dedicare la sua attenzione alla bacheca di
sughero alla
quale erano affisse le circolari e i foglietti coi numeri di telefono
dei
numerosi laureandi e già laureati che offrivano ripetizioni.
Come se lei ne
avesse bisogno, pensò con un leggero sorriso di
superiorità. A parer suo e dei
punteggi che prendeva nei test, poteva ritenersi una più che
discreta
studentessa. Certo, non ai livelli di quel disadattato sociale di
Kizuna, ma
se la cavava egregiamente.
« Sono
felice
che almeno una parola di quello che ho spiegato le sia entrata in
testa,
signorina Tu Oderschvank, anche se forse non l’ha
interpretata nello stesso mio
modo. »
La
voce di Starrk aveva sempre il solito tono stanco – anche
un po’ esasperato – di quando parlava con quella
strega, notò con una punta di
piacere Riruka.
Sì,
perché Neliel Tu Oderschvank era una strega, fatta e
finita.
Ogni
cosa di lei era ripugnante, fino all’ultima cellula.
Dal modo in cui si appoggiava alla cattedra stringendo le braccia per
mettere
in evidenza il seno fin troppo prosperoso, al modo in cui sbatteva le
ciglia e
guardava, sorridendo appena, quel professore che da qualche settimana a
quella
parte, era diventato il suo, come dire... obiettivo.
Chiunque
se n’era accorto, ma gli altri studenti si
limitavano a scherzarci sopra alle spalle della strega,
scommettendo su quanto ancora Starrk avrebbe resistito
all’incredibile
fascino degli airbag di cui era dotata. Nessuno dubitava che prima o
poi
sarebbe capitolato, era solo questione di quanto tempo ci avrebbe messo.
L’unica
che era più che convinta non sarebbe mai
successo, e che avrebbe usato tutti i metodi possibili e immaginabili a
sua
disposizione per impedire che succedesse, era proprio Riruka, che non
aveva
smesso un secondo di fissare con la coda dell’occhio
l’odioso scambio di
battute che si stava consumando a pochi passi da lei.
Avrebbe
fatto di tutto pur di rovinarle la vita.
« Tu
sei una
stalker. », sentì all’improvviso una
voce dietro di lei sussurrarle
all’orecchio, il suo respiro che le sfiorava il collo sottile
lasciato scoperto
dai lunghi codini in cui era solita raccogliere i suoi capelli tinti di
un luminoso
rosso amaranto. Quel respiro caldo era decisamente troppo vicino, per i
suoi
sofisticati gusti.
Ma
Debit Kizuna era fatto così, si prendeva i suoi spazi
invadendo senza la minima considerazione quelli degli altri, anzi, solo
i suoi,
perché non l’aveva mai visto andare ad importunare
qualcun altro che non fosse
lei. E lo faceva anche con una nonchalance che la irritava da morire.
Col
tempo però, si era imposta di sopportare quella
vicinanza atta proprio a farla innervosire, per non dargli la
soddisfazione di
aver in qualche modo “vinto”. Almeno aveva un
profumo sorprendentemente buono,
e non puzzava come all’inizio, prima di conoscerlo, si era
convinta facesse
solo per il suo modo di apparire piuttosto sciatto e trasandato.
« E tu
un emo
depresso. », gli rispose senza degnarlo di uno sguardo, ma
continuando a
dedicare la sua attenzione alle non troppo sottili manovre seduttrici
di
Neliel.
Si
era chinata ancora di più verso il professore e la cattedra,
lasciando che il suo sorriso si allargasse davanti a quello che
evidentemente
era stato l’ennesimo goffo tentativo di Starrk di rifiutare
le sue avances.
Starrk che adesso teneva lo sguardo ostinatamente fisso sulle carte che
stava
sistemando nella sua ventiquattrore di pelle, per non arrendersi alla
tentazione di concedere all’occhio la sua parte.
« Si
stava
dimenticando di questo. », Neliel richiamò a quel
punto la sua attenzione,
porgendogli con l’ennesimo sorriso seducente e dolce allo
stesso tempo una
cartellina di plastica. La ragazza trovava divertente come lui cercasse
in
tutti i modi di rimanere professionale, ma che, in un modo o
nell’altro,
finisse comunque per guardarla. Non soffermandosi sul suo seno o altro,
ma
Neliel si rendeva perfettamente conto che il suo sguardo, proprio
perché
esprimeva una punta di fastidio mentre accennava a un
“grazie”, non era quello
di qualcuno totalmente indifferente.
Quel
fastidio che Riruka interpretava come un punto a
favore della sua soddisfazione personale nel vederla fallire, Neliel
invece lo
considerava come una debolezza, un’insicurezza di
quell’uomo che appunto, in
quanto uomo, non poteva continuare a resisterle ancora per molto.
Era
essere sicura di questo, della sua apparenza, che la
rendeva risoluta e la spingeva a continuare, nonostante quegli sguardi
sì non
indifferenti, ma nonostante tutto sfuggenti. Si era convinta che fosse
una
sfida che doveva vincere, per dimostrare ancora una volta a
sé stessa che quella
facciata superficiale e un po’ infantile era la parte
migliore e più forte di
sé. Quella che non veniva ferita da niente.
Riruka
studiò dalla sua postazione di osservazione quello
scambio di sguardi durato più del dovuto per i suoi gusti,
che in un attimo
catalogò con una parola: pericoloso.
E
a quel punto, presa dalla stizza, afferrò Debit tirandolo
più vicino a lei per il filo delle cuffie che si era messo
attorno al collo. Coi
tacchi azzerava quei dieci centimetri di differenza tra le loro
altezze,
girandosi come fece il suo viso era esattamente all’altezza
del suo.
«
Veloce, dimmi
qualcosa di intelligente da dire a Starrk. »,
sibilò a pochi centimetri da lui,
in modo che nessun’altro li potesse sentire, ma con un tono
perentorio che non
ammetteva obiezioni.
«
Riguardo la
lezione? », replicò lui, inarcando un sopracciglio
che sfoggiava l’ennesimo
piercing, nel sentirsi tirare così.
« No,
riguardo
la sua camicia palesemente comprata a uno spaccio merci! Certo che deve
essere
riguardante la lezione. »
Debit
fece spallucce, infilandosi le mani in tasca. Sulla
sua camicia non aveva niente da dire. « Allora chiedigli
perché Katō interpreta
il naibu seimei, la
vita
interiore, come uno strumento di meditazione e
autocoscienza sulla base
del modello di verità come valore metafisico e universale
proposto da Kitamura.
»
« Ma
che... che
razza di domanda è?! Probabilmente non lo sa neanche lui!
», sbottò Riruka
sempre tenendo sotto controllo il tono di voce. A volte il cervello di
quel
ragazzo con evidenti disordini mentali riguardanti la concezione di
moda la
lasciava allibita.
« No,
lo sa. È
l’argomento della lezione prossima. Farai un figurone,
sembrerà che ti porti
avanti con lo studio. »
Riruka
fissò con sufficienza il suo sorriso canzonatorio,
lasciando andare il filo delle cuffie. « Invece
sembrerà che non ho una vita
sociale come te che ti leggi tutti i libri di testo senza neanche
aspettare la
spiegazione. »
E
fu a quel punto, troppo tardi, che si accorse che,
prima che lei avesse avuto il tempo di intromettersi nella loro
conversazione,
Neliel si era già voltata e si stava dirigendo verso
l’uscita, preoccupandosi
di ancheggiare a beneficio del professore e di chiunque altro volesse
guardarla.
Ma
il sospiro sconsolato di Starrk mentre scuoteva la
testa e tornava a sistemare i suoi fogli, era una soddisfazione
più che
sufficiente per quella giornata.
Posare
le chiavi in un posacenere di plastica mai usato
per il suo scopo. Togliersi le scarpe sfilandole direttamente coi piedi
senza
neanche chinarsi per slacciare le stringhe. Dirigersi in cucina e
aprire il
frigorifero per bere a canna dalla bottiglia di plastica contenente il
caffè
freddo di cui aveva talmente bisogno per rimanere in piedi, che non
aveva
neanche tempo da perdere per prepararselo, e che quindi conservava
così.
Era
questa la sua routine, ogni volta che rientrava a
casa. E ogni giorno, gli sembrava più stancante.
«
Ciao, Starrk.
»
Posando
la bottiglia mezza vuota sul ripiano della cucina
e asciugandosi la bocca col dorso della mano, alzò lo
sguardo verso la donna
che faceva parte della sua routine come il caffè,
caffè di cui la sua pelle
aveva praticamente lo stesso colore.
« Tia. », disse semplicemente,
facendole un
cenno col capo in saluto.
Tia
Harribel era seduta al tavolo della cucina, con le
gambe accavallate, che distrattamente seguiva un documentario sulle
specie
ittiche che popolano l’Oceano Indiano, ingannando
l’attesa mentre lo aspettava.
Quando lui le si avvicinò, scostando una sedia e lasciandosi
cadere
pesantemente al suo fianco, spense la televisione.
«
Novità? », Starrk
aveva ormai perso il conto delle volte che le aveva fatto quella
domanda, e
anche delle volte che aveva sentito quella risposta che gli faceva
più male che
altro, anche se si sforzava di non darlo a vedere. Ma non poteva fare a
meno di
chiedere. Non era speranza, quella ormai l’aveva abbandonata
da anni. Era più
che altro che aveva bisogno di
seguire quella stupida routine, quei gesti meccanici, perché
ormai andava
avanti solo per forza d’inerzia.
«
È stabile.
Come sempre. Adesso... sta dormendo. »
Appoggiando
la fronte alla mano, Starrk annuì, chiudendo
per un attimo gli occhi, desiderando di poterlo fare per sempre. Ma
semplicemente, non poteva.
Non poteva
chiudere gli occhi e lasciarsi alle spalle tutto neanche per
quell’attimo,
neanche per sbaglio. Al punto in cui erano arrivata quella
situazione...
assurda, non poteva decisamente permetterselo. Non era neanche
più in grado di
farlo.
Tia
Harribel si lasciò andare a un muto sospiro, abbassando
lo sguardo. Gli faceva male vederlo così, ma quello che
poteva fare era ben
poco, se non offrirgli tutto il sostegno e l’aiuto possibile.
Lo conosceva
ormai da quattro anni, il loro rapporto si era evoluto da uno puramente
professionale a una vera e propria amicizia, e occasionalmente anche a
qualcosa
di più. Non era la pena nel vedere quell’uomo che
stava lentamente morendo
dentro che la spingeva a stargli vicino. Semplicemente, Tia Harribel
era più
che a conoscenza di quanto potessero essere dure le ingiustizie della
vita,
perché prima di tutto la vita era stata ingiusta con lei,
privandola della cosa
che aveva desiderato e amato più al mondo.
Ed
era forse anche per questo che aveva preso l’amara
decisione di diventare infermiera pediatrica.
Dopo
una lunga pausa di parecchi minuti, interruppe il
silenzio, stringendosi le mani in grembo. Fargli quella richiesta la
faceva
quasi sentire in colpa, quando i suoi occhi azzurro ghiaccio fissavano
il legno
del tavolo in quel modo quasi perso. « Se non è un
problema oggi io andrei a
casa un po’ prima. Mio nipote compie gli anni, e non lo vedo
da-... »
« Vai.
Figurati,
lo sai che non è un problema. »
Harribel
lo sapeva, lo sapeva bene, eppure alzandosi provò
lo stesso una fitta all’altezza della gola al pensiero di
lasciarlo lì da solo.
«
Chiamami per
qualsiasi cosa. Anche se... spero vivamente non ce ne sia bisogno.
»
A
quelle parole, Starrk non poté fare a meno di guardarla,
mentre sulle labbra gli si dipingeva un sorriso, così raro
da vedersi sul suo
viso. E Harribel lo conosceva talmente bene che gli bastò
ricambiare il suo
sguardo per capire che era tutto tranne che sincero.
« ...
Lo spero
anch’io. », le rispose, mentre lei tendeva la mano
ad accarezzargli appena una
guancia. Quante volte l’aveva toccato in quel modo, guardato
con quegli occhi
di un verde così intenso e così particolare in
contrasto con la sua carnagione,
così come il biondo dei suoi capelli. Era arrivato a fidarsi
di quegli occhi e
di quelle mani come di sé stesso, forse anche di
più. Le era grato per tutto
quello che aveva fatto in quegli anni, di una gratitudine tanto grande
che è
capace di sopraffarti. Eppure non riusciva a provare niente di
più per quella
donna così bella che lo aveva stretto tante volte tra le
braccia, e che a sua
volta aveva stretto, cercando di alleviare il peso di quella solitudine
che
ogni giorno cresceva, senza lasciargli via di scampo. E senza che ci
fosse
bisogno di parole, sapeva che per lei era lo stesso.
«
Riposa un po’,
per favore. », il suo tono era a metà tra quello
di un’amica e l’effettiva
infermiera che era, ma non quello di un’amante. Starrk le
sorrise ancora,
prendendole la mano e scostandosela dal viso.
« Sai
che non posso.
»
Sì,
Harribel sapeva anche questo: ormai Starrk soffriva
d’insonnia da anni. E ancora, l’unica cosa che
aveva potuto fare per aiutarlo,
era stato consigliargli di prendere del sonnifero in pastiglie, di cui
si
vergognava ad ammettere di tenere sotto stretto controllo quanto ne
usufruisse.
E in breve, si era resa conto che il suo vano tentativo di aiutarlo
aveva
provocato una assuefazione sempre maggiore.
«
Dalle... dalle
un bacio da parte mia quando si sveglia. »
« Si
arrabbierà
perché non gliel’hai dato tu. »
Questa
volta fu lei a lasciarsi scappare un sorriso,
poteva benissimo immaginarsi quale sarebbe stata la sua reazione. E
ancora, un’altra
stretta alla gola al pensiero di quanto crudele potesse essere la vita.
Il più
delle volte, cercava di tenere lontani quei pensieri, ma non quel
giorno. Non ce
la faceva, le si insinuava nella testa, nel cuore, nel ventre.
Di
solito non era così. Cercava di essere una donna
forte, forte per tutti quei bambini che si trovava ad assistere. Di
dargli
l’amore che si meritavano. Ma non quel giorno.
« A
domani. »,
lo salutò, imponendosi di essere forte ancora per quel poco
che le sarebbe
bastato per uscire e chiudersi la porta alle spalle, mettendo in un
angolo il
viso addormentato di quella povera creatura che non aveva fatto niente
per
meritarsi quella crudeltà, e che da quattro anni a quella
parte aveva assistito
come meglio aveva potuto.
Si
sentiva quasi un’egoista, a lasciare quella casa con
una bugia. Perché tra qualche ora, non sarebbe stato affatto
il compleanno di
suo nipote.
Non
era di lui che avrebbe ricordato la nascita. O
meglio... la morte.
Appena
sentì la serratura della porta scattare alla
mandata della copia chiavi che ormai aveva dato ad Harribel da molto
tempo,
Starrk si lasciò andare a un grosso sospiro. Averla intorno
era un toccasana,
sì, lo distraeva, ma era anche parecchio difficile sostenere
quegli occhi che
lo conoscevano così bene, quando voleva nascondere quanto
quel giorno, più di
altri, per qualche motivo lo trovava ancora più stanco.
Sarà stato che non si
faceva una dormita degna di quel nome da quanto... tre, quattro giorni?
In quel
periodo l’università lo stava impegnato
più del previsto, e l’avevano persino
chiamato per una supplenza di qualche settimana in un istituto
superiore, posto
che non aveva trovato il coraggio di rifiutare. Tirare avanti da solo
con uno
stipendio esiguo come quello di un professore non era esattamente il
massimo.
Soprattutto con tutte le spese mediche che doveva sostenere e lo
stipendio che doveva
periodicamente ad Harribel per il suo aiuto. Certo, lei era
comprensiva, e
quando si era trovato davanti alla scelta di pagare lei o la bolletta
del gas,
lei si era tirata prontamente indietro, dicendo che poteva aspettare.
Altra gratitudine,
il debito nei suoi confronti si faceva ogni giorno più
grande.
Certe
volte, non sapeva come avrebbe fatto senza di lei. Soprattutto
all’inizio, quando aveva rischiato di rimanere schiacciato
dal dolore che
quella scoperta gli aveva procurato.
Dire
che adesso aveva ci aveva fatto l’abitudine, era una
parola grossa. Entrare in quella stanza e guardare il suo
viso ancora da bambina arrossato e screpolato sulle guance e
sul naso, gli faceva ancora venire gli occhi lucidi ogni volta. Ma
almeno, adesso
aveva imparato a trattenersi dal lasciar cadere quelle lacrime.
Rimase
a guardarla per qualche secondo, appoggiato allo
stipite della porta con le braccia incrociate, mentre la fievole luce
che
filtrava dalle persiane chiuse che non si aprivano mai, gli permetteva
di
distinguere il suo petto alzarsi ed abbassarsi al ritmo del suo respiro.
Respirare.
Era solo quello che doveva fare. Respirare e...
tirare avanti, anche per sua sorella che non avrebbe mai potuto farlo a
causa
di quella malattia autoimmune con decorso terminale e aspettative di
vita di al
massimo dieci, quindici anni, di cui quattro erano già
passati.
Lupus eritematoso sistemico.
«
Starrk...? »,
la sentì rigirarsi nel letto e chiamare il suo nome, con la
voce ancora
impastata dal sonno.
Aveva
smesso di chiamarlo “nii-chan”
anni fa, più o meno quando tutto era cominciato. Quando
la sua infanzia era definitivamente terminata, ed era maturata di dieci
anni
nell’arco di uno, in cui aveva fatto la spola tra casa e
ospedale, ospedale e
casa, mentre i medici le provavano tutte per capire il
perché fosse sempre
stanca, perché la sua febbre non calasse, perché
le facessero male le mani e i
polsi tanto da non riuscire ad usarli, perché poi i polsi le
si fossero
spezzati, perché diavolo fosse arrivata fino a
un’insufficienza renale.
Così
come dentro di lei era maturata la consapevolezza
che la sua non sarebbe mai stata una vita normale.
Che
per quello che sarebbe durata, non sarebbe mai stata
vita e basta.
« Sono
io,
Lilynette. Stai tranquilla, dormi. »
La
sua voce era ferma mentre le scostava appena i capelli
di un biondo tanto chiaro da sembrare verde a scoprirle
l’occhio sinistro che
non riusciva più ad aprire a causa di una recente lesione
alla palpebra
provocata da un semplice sfregamento. La sua voce non tremava, era
ferma. Doveva
esserlo.
Ma
Lilynette era tutto tranne che ingenua. E anche con un
occhio fuori uso, poteva benissimo vedere quanto la stanchezza non
fosse solo uno
dei tanti sintomi della sua
malattia.
Alzò una mano a sfiorargli una guancia, per poi tirargliela
quanto più forte le
sue mani perennemente doloranti per l’artrite le permisero.
«
Anche tu,
stupido. Hai le occhiaie che ti arrivano fino alle ginocchia.
»
Starrk
socchiuse gli occhi, lasciandosi andare a un
leggero sbuffo divertito. La cosa migliore di quella ragazzina che
ormai aveva
raggiunto i quindici anni, era che non aveva mai perso sé
stessa, il suo
carattere, la sua forza di volontà, nonostante la sua voce,
i suoi occhi, il
suo intero corpo non riuscisse più ad esprimere la
vitalità che era sempre
stata parte di lei. A differenza di lui stesso, che non si ricordava
più neanche
di che persona fosse prima di vederla arrivare a quel limbo tra la vita
e la
morte.
Lentamente,
si chinò verso di lei che protestò debolmente
a sentire le sue labbra posarsi sulla sua fronte a darle il bacio che
aveva
promesso ad Harribel, per poi lasciarla nuovamente sola. Almeno lei,
doveva
dormire.
E
lui non riusciva a starsene con le mani in mano, aveva
bisogno di occupare la testa, oppure avrebbe finito per rimanere seduto
sul
divano, sul letto, o nuovamente su una sedia della cucina a guardare
nel vuoto.
Così prese la ventiquattrore che aveva appoggiato
all’ingresso e si ritirò in
camera sua, tirando fuori libri e appunti per portarsi avanti e
preparare la
lezione successiva. Fu quando estrasse dalla cartellina di plastica le
fotocopie che gli servivano, che scivolò fuori un
bigliettino alto al massimo
cinque centimetri, di quelli che vendono da allegare ai regali. Sulla
copertina
c’era il disegno plastificato di una pecora con un cappello
di Natale in testa.
E dentro non c’erano che poche parole.
Non la smetterò
finché non mi permetterai di ringraziarti come si deve.
-N.
Senza
pensarci due volte, accartocciò con una mano quel biglietto
e lo lanciò verso il cestino, per poi rimanere a guardarlo
rotolare per terra.
Aveva sbagliato mira.
-
MUAH!
Scusatemi, non ho resistito, il lupus
sembrava fatto apposta per i nostri due Balto. ♥
Ecco
a voi un piccolo approfondimento se vi può
interessare. Cercherò di chiarire i punti solo accennati
nella storia usando
parole più semplici.
Come
ho detto, il lupus
eritematoso sistemico (LES) è una malattia
autoimmune cronica per cui il
corpo sviluppa degli anticorpi, cioè delle proteine che in
un individuo sano
hanno il compito di individuare gli agenti patogeni esterni ed
eliminarli, mentre
in un individuo malato attaccano le cellule del corpo, non riuscendo a
riconoscerle come proprie e quindi comportandosi con loro come se
fossero degli
agenti patogeni esterni.
La
cosa bella – anche no, affatto – del LES
è che gli
anticorpi prodotti attaccano praticamente tutto il corpo, il cuore, la pelle,
i polmoni, vene e arterie, fegato,
reni,
il sistema nervoso,
le articolazioni. E il
peggio è che è una malattia difficilmente
diagnosticabile, perché i primi
sintomi, stanchezza, febbre, dolore alle giunture, sono comuni a molte
altre
malattie.
Poi
si arriva a lacerazioni cutanee causate anche dal
minimo sfregamento, a eritemi, soprattutto sul viso [cercatevi su
internet
qualche immagine dell’eritema a farfalla e ditemi se non vi
ricorda qualcosa...
8D]. L’artrite continua per tutto il corso della malattia,
concentrandosi
soprattutto nelle mani e nei polsi, ed è davvero facile
arrivare a fratture.
Gli
affetti di LES sono anche anemici, e possono andare
incontro a disturbi cardiaci e polmonari quali infiammazioni.
Passando
ai reni che ho citato, sono uno degli organi che
subiscono più l’effetto del LES, in quanto le
infiammazioni che si sviluppano
lì possono portare a necrosi (morte dei tessuti) e a
un’insufficienza renale
acuta che provoca nausea,
vomito, anoressia e
disfunzioni nell’orinazione. Nella maggior parte dei casi,
l’acuto si evolve in
cronico.
Già
capite così che è un mostro di malattia,
senza parlare dei disturbi mentali e comportamentali che provoca.
Ancora peggio
è che questa malattia NON È CURABILE,
perché come molte malattie autoimmuni,
ancora non ne si conosce la causa. Certo, è trattabile, ma
ha comunque un
decorso mortale. I più fortunati riescono a vivere
mediamente quanto un
individuo sano, nei peggiori casi e se la malattia viene diagnosticata
tardi,
si dura al massimo una decina di anni.
È
una malattia che presenta episodi di riacutizzazione
seguiti da periodi relativamente asintomatici, ma le disfunzioni
provocate
durano sempre. E in ogni caso, gli affetti di LES devono evitare il
contatto
con la luce solare e gli sforzi fisici, e tenere sotto un controllo
maniacale la
colesterolemia e la glicemia, e assumere in continuazioni farmaci.
Rendetevi
conto, questa non è vita. Sia per i malati, che
chi si trova a doverli assistere.
E
con questo concludo, rinnovando la speranza che abbiate
trovato il capitolo interessante.
|
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Capitolo 7 *** Fantasmi del passato. ***
NDA:
QUESTO. CAPITOLO. È. LUNGHISSSSSSSSIMO.
E
niente, ricominciamo col girin girello, ma anche con
l’introduzione di due nuovi personaggi, Tyki e Lust! [OH MY
GAWD, (S)VENGO...!]
Purtroppo è proprio solo un’introduzione,
più avanti avrò modo di trattare
meglio la loro storia, approfondendo di più. Oh, se approfondirò...
/si perde nei suoi deliri da fangirl
zozzona/
Che
altro... Grimmino e Tatsuki a quanto pare son due
metallari. :°D
È
che mi piace il significato che si collega ai nomi di
questi gruppi, di cui son pure patita. A pensarci avrei potuto anche
usare
Pantera come nick per il nostro micio dai capelli turchini, ma
insomma... 8°D
Vediamo
invece se indovinate chi è Bluerikka.
Non è difficile, su, su...
Okay,
basta con le cavolate!
In questo capitolo ho usato molto la terminologia delle categorie
manga, di cui
penso però siate tutti al corrente, quindi non mi
dilungherò oltre.
Un’ultima
cosa: guardando dorama e leggendo manga in cui
compaiono degli host, mi sono resa conto che un loro
“vizio” è chiamare le loro
clienti koneko-chan, ovvero
“gattine”...
È stato più forte di me, chiedo scusa. 8D
Per
concludere, spero di essere riuscita ad incuriosirvi
con certe allusioni, e anche ad aver creato un bel malinteso, non solo
per il
nostro povero micio. x°D
Spero
inoltre di essere riuscita a farvi intravvedere
cosa realmente si nasconde dietro il carattere un po’
distorto e OOC di
entrambi. Ovvero, quello che sono realmente e che nonostante tutto,
rimangono
anche dopo quello che hanno passato.
P.S.:
Imploro perdono per gli eventuali spoileroni
apocalittici su Phantom: Requiem for the
Phantom – che tra l’altro è
uno dei miei anime preferiti. Se lo volete
vedere, o peggio, se lo state guardando, non vi conviene leggere questo
capitolo. x°D
Stessa
cosa per quanto riguarda Death Note!
-
CAPITOLO
6 – Fantasmi del
passato.
Tatsuki
Arisawa passò per l’ennesima volta davanti alla
porta del suo appartamento, lanciandole un’occhiata di fuoco.
Ma non era quella
povera porta, quella da biasimare. Era solo lei stessa.
Come
si era cacciata in una situazione del genere?
Si
portò una mano ai capelli ancora umidi di doccia, per
poi lasciarla cadere sulla felpa enorme della tuta che indossava,
stringendosela
all’altezza del petto. Anche così, poteva sentire
il suo cuore battere
freneticamente. Era sul punto di avere un infarto
dall’agitazione.
Ripercorse
mentalmente le giornate prima, chiedendosi
quale dio avesse mai offeso per meritarsi una punizione del genere. Ma
ancora,
non era colpa di nessun dio. Era lei che aveva fatto tutto da sola,
partendo
con l’accettare quell’assurdo incarico offertole
con una flemma incredibile dal
suo editore.
Perché
quando finalmente – o a quel punto era meglio dire
sfortunatamente – aveva trovato il coraggio di fargli quella
telefonata, aveva
sentito la terra crollarle sotto i piedi. In fondo, doveva
aspettarselo. Fin
dal primo numero era stata questione di tempo, eppure...
« Mi
dispiace,
sensei. Ho cercato di trattare con i miei superiori, ma purtroppo non
hanno
voluto sentire ragioni. I guadagni sono inferiori alle spese di
pubblicazione,
e la casa editrice non considera più il suo manga come un
investimento. »
Era
la fine di Fly
it. Non era durata neanche due anni.
Tatsuki
aveva sentito il bisogno di sedersi. Ah, no, era
già seduta. In realtà non si era neanche alzata
dal letto se non per andare in
bagno e poi prendere una confezione di biscotti con un cartone di
latte. La
sera prima si era addormentata con il portatile sulle gambe dopo aver
passato
l’intera notte fino alle quattro del mattino su The BOSS a chattare con Bluerikka,
come ogni sera, d’altronde. Quella ragazza – se di
una ragazza si trattava,
perché su The BOSS non
era necessario
neanche specificare il proprio sesso – era quanto di
più vicino a una migliore
amica avesse mai avuto. Certo, non sapeva niente di lei, neanche quanti
anni
avesse, neanche di dove fosse. Non sapeva neanche il suo vero nome.
Eppure le
bastava leggere le sue parole sullo sfondo nero di quella chat per
sentirsi in
qualche modo più... capita.
Questo
a prova di quanto misera fosse la sua vita.
Sta
di fatto che la mattina, quando si era svegliata come
sempre alle sette, si era girata dall’altra parte con un
grugnito, cercando di
riaddormentarsi senza successo. Il suo orologio biologico era impostato
sul
fuso orario di una persona attiva. Non importava quanto tardi andasse a
letto,
o quanto poco dormisse. I suoi occhi si aprivano immancabilmente alle
sette,
procurandole due occhiaie sempre più profonde ogni giorno
che passava. Coi suoi
lunghi capelli neri e spettinati, la carnagione pallida dovuta al
praticamente
insignificante contatto con il sole, e per finire con quelle occhiaie,
avrebbe
potuto benissimo passare per un personaggio di un qualche film
dell’orrore.
Fortunatamente,
non aveva nessuno da spaventare, in
quanto nessuno veniva mai a trovarla. Il suo editore evitava ogni
contatto
diretto con lei su sua specifica richiesta, ma anche se lo fosse
trovato
davanti nel suo momento più impresentabile, aveva il
sospetto che il suo
sguardo dietro agli occhiali rettangolari che aveva il vizio di
sistemarsi sul
naso, sarebbe rimasto imperturbabile come sempre.
Anche
Ichigo non ci badava a queste cose. Andava a
controllare che fosse ancora viva sì e no una, due volte al
mese, più per senso
del dovere che per vera preoccupazione, probabilmente. Ogni tanto le
portava
anche qualcosa da mangiare, e si fermava a cena. Ma le loro
conversazioni erano
limitate a un mutuo silenzio, ognuno si faceva i fatti suoi, perso nei
propri
pensieri che non avrebbe esternato neanche sotto tortura. Su questo
erano stati
molto simili, fin da bambini. Se qualcuno poi li avesse visti
così, in quei
momenti, seduti a mangiare insieme, con gli stessi capelli lunghi e
neri tagliati
involontariamente in un modo così simile e gli stessi occhi
castani, con la
stessa espressione apatica e la bocca sigillata in un silenzio
ostinato,
avrebbe sicuramente pensato che fossero gemelli, mentre in
realtà il loro grado
di parentela era molto meno stretto.
Tatsuki
Arisawa e Ichigo Kurosaki erano cugini di primo
grado, eppure nei loro diciannove e ventuno anni di vita avevano
condiviso più
cose di due fratelli di sangue, la maggior parte delle quali
incredibilmente
dolorose. Rimanendo in silenzio.
Ma
non era Ichigo che stava aspettando in quel momento,
camminando avanti e indietro davanti alla porta con le braccia
incrociate,
fissandola in cagnesco. Era qualcuno che non aveva mai visto prima, il
che le
stava facendo venire un attacco di panico non da poco.
La
voce impassibile del suo editore le risuonò nella
testa, mentre alzava per circa la ventesima volta lo sguardo verso
l’orologio
che segnava le 21:56.
Dannazione.
«
Capisco come
si senta in questo momento. Mi creda, sono davvero desolato
», chissà perché
dal suo tono sembrava non fregargliene niente, invece. «
Però ho una buona
notizia. »
Cosa
ci poteva essere di buono in tutta quella faccenda? Tatsuki
aveva perso anche quei pochi soldi sicuri che le permettevano di pagare
l’affitto.
Non aveva osato immaginare come avrebbe fatto a cercarsi un nuovo
lavoro. Il solo
pensiero di uscire dal suo appartamento le metteva i brividi.
« Ho
fatto
visionare alcuni dei disegni che mi aveva presentato nel nostro primo
colloquio,
e gli editori della sezione josei
li
hanno trovati interessanti. Pensano che il suo stile, con qualche
opportuna
modifica, potrebbe adattarsi a un progetto che hanno intenzione di
sviluppare a
partire dal mese prossimo. Mi hanno chiesto di proporle
l’incarico. »
« E in
cosa...
in cosa consisterebbe questo progetto? »
« Una
raccolta di
dōjinshi josei
di vari autori, pubblicate in un nuovo mensile. »
«
Aspetti un
secondo. Con josei intende...
»
«
Sì, a
carattere erotico ma non yaoi, e
dedicate a un pubblico femminile. In redazione abbiamo ricevuto delle
lamentele
da parte delle lettrici riguardo alla prevalenza di dōjinshi
seinen, così è nato questo progetto...
»
Tatsuki
aveva sentito il sangue salirle alle guance,
mentre pian piano la voce del suo editore si era fatta più
confusa alle sue
orecchie. Conosceva bene il genere josei.
Cioè, non perché lo seguisse, assolutamente, lei
non... Sarebbe stato troppo
imbarazzante. E poi i manga sulle storie d’amore non le
piacevano, non erano
proprio il suo genere. Soprattutto, non
i manga josei, che trattavano
l’amore
da un punto di vista più maturo, anche troppo per i suoi
gusti, in alcune
scene. Era insomma... uno shōjo un
po’
più spinto, e già lo shōjo...
no,
proprio no.
Sta
di fatto che la richiesta era ben chiara. Si trattava
di realizzare un capitolo autoconclusivo di quaranta pagine,
riguardante una
serie shōnen che in quel periodo
stava riscuotendo parecchio successo sia tra il pubblico maschile che
quello
femminile. Bastava digitarne il nome su internet accompagnato dalla
dicitura dōjinshi che apparivano
pagine su pagine
piene zeppe di link. Ma come aveva detto l’editore, erano
tutte prevalentemente
indirizzate a lettori di sesso maschile. In generale, comunque, il
mercato di dōjinshi josei non
dedicate allo yaoi non aveva lo
stesso seguito di
quello seinen, probabilmente anche
perché come genere era nato successivamente e riscontrava
ancora parecchie
rimostranze dovute al pudore di un sesso femminile giapponese
emancipato solo
idealmente. La mossa della casa editrice era stata furba, non
c’è che dire. E
avrebbe sicuramente favorito introiti significativi in quel periodo di
crisi
economica, anche se le dōjinshi
sono
pubblicate mediamente a basso prezzo e a tiratura minima.
Ma
lei, lei,
Tatsuki... come diavolo avrebbe fatto a disegnare qualcosa del genere?
« Sensei, mi sta
ascoltando? »
« Mi
scusi... può
ripetere? »
«
Dicevo, i
risultati di un sondaggio e le varie lettere delle abbonate ci hanno
permesso
di stilare una lista di quello che vorrebbero vedere. Più
del 40% si è
dimostrato propenso verso una trasposizione AU, alternative
universe, quindi... »
Tatsuki
si era lasciata cadere sul letto, tornando ad
appoggiare la testa contro il cuscino e chiudendo gli occhi mentre la
voce
maschile all’altro capo del ricevitore si era fatta
nuovamente confusa.
Inutile
dire che... non avesse la benché minima
esperienza in quel campo del disegno, e nemmeno... della vita. Come
avrebbe
potuto? I suoi contatti umani si limitavano davvero al suo editore e a
Ichigo.
Non sapeva neanche da che parte avrebbe potuto cominciare, e chiedere a
uno dei
due era fuori discussione. Soprattutto al cugino. Non osava immaginare
che
faccia avrebbe fatto, se... gli avesse chiesto qualche delucidazione a
proposito del sesso.
« ...
Sensei? »
«
S-Sì? », era
scattata nuovamente sull’attenti, come una molla.
«
Personalmente infine,
mi sento di consigliarle una storia riguardante il mondo degli host.
Tempo fa
pubblicavamo una serie di questo genere che ha avuto un discreto
successo. Quindi...
se la sentirebbe? »
Perché
il suo tono noncurante sembrava quasi
canzonatorio, con quel “se la sentirebbe”? Tatsuki
lo sapeva bene. Il suo
editore non stava mettendo in dubbio il suo talento artistico di cui
era più
che a conoscenza, ma... il fatto che avesse ben poca scelta.
Cosa
altro poteva fare se non accettare?
«
Sì... Sì, va
bene. »
«
Perfetto. Ci
sentiamo tra un mese, al termine della scadenza. A seconda del successo
o meno
di questo progetto, la ricontatterò nel caso ci fosse ancora
bisogno della sua
collaborazione. »
E
così aveva iniziato a documentarsi.
Tatsuki
si era rifiutata di comprare quella serie di cui
le aveva parlato l’editore, non poteva rischiare di lasciarsi
influenzare
dall’opera di qualcun altro. Ne andava del suo orgoglio
– anche se misero – di
mangaka, come del successo di quel lavoro. Doveva trovare qualcosa di
originale.
Il
punto era che non sapeva che pesci prendere.
Era
stato in quel momento che, come un fulmine a ciel
sereno – che poi così sereno non era affatto
–, aveva letto per la prima volta
il suo nome.
Come
al solito stava passando la serata su The BOSS.
Dopo un pomeriggio di
estenuanti ricerche per la sua povera innocenza, ricerche che in fin
dei conti
non avevano neanche fruttato granché perché
Tatsuki non sapeva minimamente dove
cercare, si era arresa all’evidenza che quel lavoro stava
diventando sempre più
impossibile per lei. Si era vergognata talmente tanto ad aprire certe immagini, che più di una
volta si
era trovata a chiudere il portatile e ad allontanarlo, frustrata. Forse
avrebbe
semplicemente dovuto chiamare il suo editore e campare per aria qualche
scusa,
del tipo che si era rotta un braccio e non avrebbe potuto portare a
termine
l’incarico che si era presa. Ma si rendeva conto da sola che
era qualcosa di
stupido, nonché infantile. Com’era possibile che
una ragazza di diciannove anni
non riuscisse a disegnare una... una scena di sesso senza rischiare un
aneurisma
per il troppo afflusso di sangue al cervello? Per non parlare del
problema
soldi. Non avrebbe saputo come arrivare a fine mese, se avesse
rifiutato
quell’incarico e quindi rotto il contratto con la casa
editrice.
Alla
fine aveva deciso di rimandare il problema al giorno
dopo. Chissà che la notte non le avrebbe portato consiglio.
Così aveva chiuso
tutte le schede contenenti foto, video, e spiegazioni di ogni sorta con
un
sospiro di sollievo, per poi riavviare il computer, come per
purificarlo. Si
era sentita davvero una stupida.
E
a quel punto, quando era entrata su The BOSS si era
sentita rinascere. Dei suoi “conoscenti”,
però, in chat non c’era nessuno. In
particolare, Bluerikka le aveva
detto
che quella sera non si sarebbe collegata, e TheGrimReaper
non era mai online mai se non dopo le tre, quattro di mattino. Un
po’ le
dispiaceva, perché i momenti in cui poteva parlare con lui
erano davvero pochi,
cioè quando lui finiva prima quello che evidentemente era un
turno di notte,
oppure quando la stanchezza era clemente e permetteva a lei di tirare
fino
all’alba.
Era stata lei
stessa ad avvicinarlo la prima volta, incuriosita dal suo nickname.
Tatsuki si
era chiesta se fosse dovuto al nome del gruppo, e infatti era stato
così. Si
era trovata a parlare di musica, di film, di manga, di sport, e di
molte altre
cose con una persona che non conosceva minimamente, in un modo del
tutto
naturale. E ogni volta che chattavano, scopriva di avere in comune con
lui
sempre più cose. Se fosse stato collegato, probabilmente
avrebbe chiesto a lui
un consiglio su quella situazione. O forse no. In fondo non era il caso
di dare
troppi dettagli sulla propria vita privata, lì. The BOSS serviva proprio a questo.
Era
quindi stata sul punto di chiudere anche quella
scheda, quando una conversazione pubblica denominata “host” aveva catturato la sua
attenzione. Possibile che fosse
proprio riguardo all’argomento che doveva illustrare lei? No,
doveva trattarsi
di qualche cosa sull’informatica. O magari del libro di
quella scrittrice
americana, o dell’album dei Paradise
Lost,
perché no.
Eppure
non le sarebbe costato niente controllare.
-DragonForce si è aggiunto alla
conversazione.
Aveva
scorso rapidamente i precedenti messaggi dei
partecipanti, e in breve si era resa conto di aver fatto bingo.
Le
altre tre souls,
membri della conversazione, da come scrivevano sembravano donne. Due
parevano
conoscersi, l’altra era un’estranea, probabilmente
aggiuntasi incuriosita da
quel titolo, come lei del resto. Leggendo le parole di quelle che
– dalla spropositata
quantità di faccine e dalla profondità
dell’argomento trattato – aveva concluso
fossero ragazze, probabilmente della sua età pure, e vedendo
la leggerezza con
cui si esprimevano riguardo certi
argomenti, aveva sentito il viso tornarle rosso come prima durante la
sua ben
poco istruttiva ricerca. Forse era lei quella troppo
“suscettibile”. Però,
insomma, quella era una conversazione pubblica, chiunque avrebbe potuto
leggere
quello che scrivevano... Chiunque, come lei, che non era riuscita a
staccare
gli occhi dallo schermo.
-Hakimitsu:
Personalmente trovo che il Jūichiban sia il migliore. È anche
economico.
-Nobushin:
Non ci sono mai stata.
-Hakimitsu:
Non sai che ti perdi. (=//ー//=)
-MadHole:
Io di solito vado al Gion Kobu.
o (・ω・)
o
-Hakimitsu:
Tu non fai testo perché
di solito sei lesbica, Maddie.
Gion è un locale solo di hostess! (≧▽≦)
-MadHole:
Ahahah! Ma sono meravigliose, tutte
vestite da geishe! ♥
(bisex, io sono BISEX!)
-Hakimitsu:
Svestite vorrai dire! (≧▽≦)
-Nobushin:
Allora... cosa mi dici di questo Jūichiban,
Hakimitsu-san? (σ・∀・)σ
-Hakimitsu:
Ti dico che ci devi andare. E
chiedi di Grimmjow
Jaegerjaques. Lo so che sembra un nome strano, ma fidati che non te ne
pentirai. (=//▽//=)
-MadHole:
Grimmjow è quello di cui
mi hai parlato, che fa anche
i... “servizi a domicilio”? (-
O -)
+
-Hakimitsu:
Proprio lui! ノ(=////▽////=)ノ♥
-Nobushin:
Intendi dire che...? (・//_//・;)
-Hakimitsu:
Su, non fare la timida! Anche noi
donne abbiamo il
diritto di divertirci senza impegno, ogni tanto! (^o-)☆
-Nobushin:
...
-MadHole:
Mi sa che l’hai
scandalizzata! ┐(´ー
`)┌
-Hakimitsu:
Nobushiiiin?
-Nobushin:
... Non è che per caso
hai un recapito, o qualcosa con
cui posso contattarlo?
(#^o^#)
-MadHole:
Wooh, altro che scandalizzata! (*
O *)9
-Hakimitsu:
Certo che ce l’ho! Brava
ragazza! (*▽*)9
Fatti un giro qui, è il
suo blog, c’è il suo numero di
cellulare e ci sono anche certe foto in costume che... AAARG!
...
Cosa diavolo stava facendo?
La
mano di Tatsuki, quasi stupidamente perché in fondo si
trovava di fronte a un computer, aveva cercato all’istante
una penna e un pezzo
di carta che non aveva trovato, così aveva preso a scrivere
velocemente sul suo
avambraccio quel breve link comparso sullo sfondo nero della chat, come
se
avesse avuto paura che sarebbe potuto sparire da un momento
all’altro. Non
aveva avuto il coraggio di cliccarlo, per quel giorno ne aveva
già viste
troppe.
Poi
era rimasta a fissare le lettere sulla sua pelle,
sconcertata da se stessa. E aveva chiuso per l’ennesima volta
il portatile,
nascondendo il viso sotto il cuscino, la mente che non ne voleva sapere
di
smetterla di lavorare freneticamente.
Era
un’idea assurda quella che le era venuta.
-DragonForce ha abbandonato la
conversazione.
-MadHole:
Lei mi sa che l’hai
scandalizzata davvero, Hakicchan.
(*^o^)乂(^ε^*)
Assurda,
Tatsuki. Davvero assurda.
Grimmjow
Jaegerjaques riagganciò per l’ennesima volta il
cellulare, trattenendosi a fatica dal tirarlo in faccia a qualcuno,
imprecando
mentalmente in tutte le lingue possibili e immaginabili.
Era
già la quarta telefonata, quella sera. La
quarta, dannazione.
E
per la quarta volta, dall’altra parte del ricevitore il nulla. Non un rumore, neanche un
respiro. Non importa quante volte avesse detto
“pronto” o chiesto “chi
è” con
un tono sempre più spazientito, non aveva ricevuto nessuna
risposta. Per di più
il bastardo chiamava con un numero privato, quindi non si poteva
neanche
rintracciarlo. Ah, ma se avesse chiamato ancora non si sarebbe certo
risparmiato, quello era poco ma-...
« Ti
vedo
nervoso stasera, ragazzo. »
Grimmjow
si girò sull’alta sedia da bar al suono di
quella voce dal velato tono canzonatorio, inarcando un sopracciglio e
sollevando
lo sguardo verso l’altrettanto l’alto barista dalla
carnagione e dai capelli
scuri che stava asciugando un bicchiere con noncuranza, mentre gli
rivolgeva un
sorriso appena accennato. Appoggiando un gomito sul bancone e
riprendendo in
mano il drink che vi aveva appoggiato sopra, Grimmjow rispose al suo
sorriso,
contenendo a stento l’irritazione.
«
Allora ti
consiglio di andare a fare un salto dall’oculista, Mikk. Io
sto benissimo. »
Ecco
un altro personaggio singolare che come molti altri
lavorava in quel girone dell’inferno, il Jūichiban
Tai. Da quello che aveva capito, si era trasferito dal
Portogallo appena due
anni prima, eppure parlava il giapponese con una fluenza che avrebbe
fatto
pensare fosse nato e cresciuto proprio lì, a Tōkyō. Sarebbe
stato meglio se
invece fosse stato muto del tutto, si era trovato a pensare
più di una volta
Grimmjow, che per un motivo o per l’altro finiva sempre
oggetto delle sue
frecciatine pungenti. A quanto pareva si divertiva, lo stronzo.
Non
aveva idea di quanti anni avesse, a occhio e croce
sembrava sulla trentina. Ancora “giovane e
prestante”, insomma. Aveva perso
molte delle sue clienti abituali in adorazione davanti al bancone in
quel bar.
Un altro motivo per cui non lo sopportava.
Ma
la cosa peggiore di Tyki Mikk, erano quegli occhi di
un singolare castano dorato, che sembravano sempre sorridere con
malizia, come
se conoscessero di te molto più di quello che volevi far
sapere. Anche in quel
momento, il suo sguardo gli trasmetteva la stessa sgradevole sensazione.
«
Qualche
signorina che non ti lascia in pace? »
Quello
che non mi lascia in pace adesso sei
tu, bastardo che non sei altro, pensò Grimmjow con
un altro sorriso tirato.
« Sono
i lati
negativi del lavoro, che vuoi farci. »
E
probabilmente Tyki Mikk avrebbe continuato a
punzecchiarlo come al solito col suo ghigno odioso, se non fosse stato
distratto dall’arrivo di una donna, un’altra delle
tante clienti abituali del Jūichiban
che evidentemente, da come si
era posta, incrociando le braccia sul bancone e tendendosi lentamente
su di
esso, lasciando il tempo sia al barista che all’host di
intravvedere
l’abbondante scollatura, voleva attirare
l’attenzione e ordinare da bere.
Grimmjow
distolse appena lo sguardo, nascondendo una
smorfia, mentre invece il ghigno divertito di Tyki, che aveva
abbandonato
all’istante la pulizia del bicchiere, si trasformò
in qualcosa di completamente
diverso. Sempre malizioso, ma non solo. Seducente. E in un certo senso,
famelico.
«
Buonasera. Cosa
le porto? »
« Un
Tyki senza
ghiaccio, grazie. », rispose lei, alzando una mano e
portandosela alla bocca
altrettanto schiusa in un sorriso, sfiorandosi le labbra con le lunghe
unghie
laccate di nero, mentre una ciocca di capelli mossi e corvini le
scivolava su
una spalla.
Ecco,
queste cose Grimmjow proprio non le poteva
sopportare. Vedere quei due flirtare gli dava sui nervi allo stesso
modo di
quando gli capitava di beccare Linalee Lee e Ichigo Kurosaki in
atteggiamenti
piuttosto “intimi”, ergo, ad esplorarsi con
insistenza le rispettive cavità
orali con la lingua. Semplicemente, non riusciva a capire il
perché le persone
fossero talmente idiote da innamorarsi, o almeno, provare
un’attrazione
duratura per qualcun altro. Soprattutto, lui, come uomo, non riusciva
assolutamente a comprendere cosa ci potesse essere di tanto attraente
in una
donna da spingerlo a cercarla spontaneamente per più di una
notte e via. Le
donne sono meschine, egoiste, capricciose, no, rompicoglioni
è un termine più
adatto. Pensano di essere migliori di te, di essere più
intelligenti, quando
invece sono solo delle esibizioniste che hanno pure il coraggio di
lamentarsi
se vengono considerate come mero oggetto sessuale. Proprio non ci
trovava nulla
di attraente, se non dal punto di vista fisico.
Allora
perché fare quel lavoro, vendere il proprio corpo
esattamente a chi odiava?
Perché è
divertente.
Grimmjow
si divertiva letteralmente da morire, a prendere
per il culo il sesso femminile. Gli bastava un nonnulla, un sorriso,
qualche
parolina dolce, il resto lo facevano la sua voce naturalmente roca e il
suo sex
appeal. E tutte, immancabilmente, cadevano ai suoi piedi. Che stupide.
Ce ne
erano state alcune, tra le sue clienti, che si erano innamorate
veramente di
lui, credendo quella farsa reale. Altre invece, le più
mature, fin dall’inizio in
lui non avevano cercato altro che un modo per sentirsi nuovamente
giovani, ma
alla fine erano arrivate a sviluppare un senso di possessione quasi
maniacale nei
suoi confronti, aggrappandosi a quella sensazione che lui gli faceva
provare e
che non avrebbero mai potuto trovare nella loro noiosa vita di tutti i
giorni.
Il che era anche peggio.
Grimmjow
ne aveva viste di tutti i tipi, a partire da
quella donna che gli faceva schifo chiamare madre. E mai una volta ne
aveva
incontrata una in grado di farlo ricredere, mentre invece ogni volta
aveva
finito per sorridere ancora, trasformando quelle paroline dolci in
frasi taglienti
e cariche di insensibilità, capaci di recidere ogni parvenza
di amore.
E
intanto si intascava i suoi 5'000 yen all’ora. Meglio
di così?
No,
ecco, c’era qualcosa che avrebbe potuto rendere il
tutto ancora migliore in quel momento, si trovò a pensare
abbassando nuovamente
lo sguardo verso il cellulare che aveva ripreso a vibrare indicando un
numero
privato per la quinta e... decisamente, l’ultima volta.
Facendo
del suo meglio per farsi strada tra la calca di
gente che affollava il locale senza tirare gomitate per la
frustrazione, si
rifugiò nel bagno degli uomini riservato allo staff, dove
poteva finalmente
prendere fiato, ed essere sé stesso per cinque secondi, il
tempo di riempire
quel chiunque fosse di insulti senza rischiare di lasciare a bocca
aperta per
lo stupore le clienti che lo credevano un aitante giovane a modo,
perennemente
affabile e sorridente.
«
Grimmjow
Jaegerjaques. », si trattenne a stento dal ringhiare.
E
ancora silenzio, mentre un sopracciglio gli cominciava
a tremare.
«
Senti un po’,
brutto-... », iniziò, digrignando i denti, ma fu
interrotto prima che se potesse
uscire con qualsiasi cosa di compromettente.
Era
una voce di donna, senza dubbio. A sentirla così, al
telefono, non seppe dire quanti anni potesse avere. L’unica
cosa di cui si rese
conto fu che, nonostante il tono piuttosto insicuro, risultava comunque
in un
certo senso risoluta, graffiante. Gli piaceva immaginare chi si sarebbe
trovato
di fronte semplicemente dalla sua voce, e di solito ci azzeccava
sempre.
Ventenne, quarantenne, single, sposata... Questa volta,
però, non riuscì a
classificare quella voce di donna
in
nessun modo. Cosa che lo incuriosì ancora di più.
«
Sei... libero
domani alle 22? », aveva chiesto semplicemente, saltando
tutti i convenevoli.
Grimmjow
scorse mentalmente i suoi appuntamenti, trovando
che a quell’ora effettivamente non era occupato. Raramente
qualcuno lo
richiedeva così presto, e lui tendeva a tenersi libero il
giovedì, perché... merda.
Si sarebbe perso la replica di Requiem for
the Phantom.
«
Sì. Ho tempo
fino all’una, poi ho un altro appuntamento. »,
celò uno sbuffo, appoggiandosi
al ripiano del lavandino. Avrebbe cercato l’episodio in
streaming, visto che
proprio gli toccava. E poi era seriamente curioso di vedere in faccia
chi lo aveva
chiamato per ben cinque volte prima di trovare il coraggio di
chiedergli un
incontro. E se fosse stata una povera racchia sfigata che non lo vedeva
neanche
in sogno da anni? Non ridere, Grimmjow, son sempre soldi...
Si
era poi schiarito la voce e aveva appena iniziato a
snocciolare il solito, la tariffa, i servizi che era disposto e non
disposto a
dare – il bondage e, più in generale, il sadomaso,
se li poteva proprio
scordare –, quando la voce dall’altro capo del
telefono lo interruppe di nuovo.
«
N-No, non
voglio fare niente del genere, hai frainteso. »
«
Perfetto,
allora. Ci capiamo fin da subito. » rispose con un falso
sorriso complice, che
trasparì dal suo tono. Era importante stabilire fin da
subito un certo feeling,
credeva. « Beh, ho bisogno del tuo indirizzo e del numero di
cellulare », quello vero, grazie,
pensò ancora con
una punta di risentimento, « nel caso avessi bisogno di
contattarti per qualche
contrattempo. »
E
finalmente, il campanello suonò, facendola sobbalzare.
Tatsuki
si girò per l’ennesima volta verso la porta,
mordendosi il labbro a sangue, nervosa come non mai. Per un secondo
accarezzò
l’idea di fare finta di niente e di non aprire, fregandosene.
Ma il post-it che
aveva attaccato sulla maniglia con scritto “sei
una fifona!”, come previsto fece affiorare quel
briciolo di orgoglio che
ancora le rimaneva, facendole decidere di prendersi la
responsabilità delle sue
azioni, delle quali però si era già pentita.
Perché diavolo le era venuta
un’idea del genere...
Strappò
con rabbia il foglietto giallo incriminato,
ficcandoselo in tasca, poi prese un grosso respiro e posò la
mano sulla
maniglia. No, a ripensarci forse era davvero il caso di fare finta di
nien-...
Il
campanello suonò ancora, facendola trasalire di nuovo.
E che diavolo, un po’ di pazienza!
Così,
lentamente, aprì la porta tenendo il catenaccio per
controllare che fosse davvero chi si aspettava.
La
prima cosa che notò, fu che era alto, parecchio alto
in confronto a lei, probabilmente era vicino al metro e novanta. E che
aveva
davvero i capelli azzurri, come aveva visto in foto.
Cioè,
i capelli azzurri.
Non aveva del tutto metabolizzato che si sarebbe trovata davanti una
copia un
po’ stinta di Kamina. E diamine, sorrideva pure allo stesso
modo, pensò scoprendosi
già indispettita dalla sua aria così sicura.
Grimmjow
sorrideva, sì, per nascondere il colpo che gli
era venuto a veder sbucare da quella porta semiaperta un occhio scuro
contornato da capelli altrettanto scuri. Cazzo, aveva perso dieci anni
di vita,
e per un attimo la sua capacità di rimanere imperturbabile
aveva vacillato. A Resident Evil
gli piaceva giocarci solo con
la play.
Prese
un grande respiro quando Tatsuki chiuse la porta
per togliere il catenaccio, preparandosi al peggio. Brufoli? Rotoli di
ciccia?
Fondi di bottiglia al posto degli occhiali almeno li poteva escludere.
L’apparecchio
però no.
Di solito Grimmjow accettava come clienti solo quelle che
già lo richiedevano
abitualmente come host, giusto per coronare il tutto con la ciliegina
sulla
torta. E poi così almeno sapeva chi si sarebbe trovato di
fronte. Certo, ogni
tanto era divertente andare così,
“all’avventura“, quando gli capitavano
quelle
telefonate praticamente anonime, di donne che avevano chissà
come scovato il
numero che usava per il “lavoro”, magari entrando
in possesso grazie a un’amica
dei bigliettini da visita bianchi che lasciava cadere con nonchalance
nelle
scollature o nelle tasche posteriori delle frequentatrici del Jūichiban, oppure magari ancora,
copiandolo dal suo blog privato – su cui per scherzo aveva
anche inserito un
sistema di feedback, che si rivelavano immancabilmente positivi.
Ma
gli era anche capitato che questo gli si ritorcesse
contro, come quella volta che lo aveva chiamato una ragazza che
proprio, con
tutta la buona volontà e l’amore per i soldi...
Insomma, si era visto costretto
a fingersi colto da un improvviso dolore lancinante allo stomaco. E
anche
questa volta era stato un po’ incauto ad accettare
così, doveva ammetterlo. La
curiosità probabilmente gli aveva giocato un brutto tiro,
stava pensando,
grattandosi il collo, mentre sentiva finalmente il catenaccio scattare
e la
porta aprirsi.
... O forse no.
La
prima impressione che ebbe, fu quella di averla già
vista da qualche parte. Come se la conoscesse da una vita, anche se era
sicuro
al mille per cento di non averla mai incontrata. Ma fu un'impressione
passeggera, che scacciò in fretta dalla testa.
Era
bassina, no, nella norma per una ragazza, è che la
trentina di centimetri di differenza tra le loro altezze la facevano
sembrare
ancora più piccola di quanto in realtà fosse. Gli
arrivava sì e no al petto.
Non
poteva dire nulla del suo fisico, se fosse magra o
“in carne”, perché indossava una tuta
grigia di svariate taglie più grandi,
però dalla larghezza delle spalle intuì, o forse
è meglio dire sperò, che fosse
la prima opzione. Di solito, anzi, sempre, tutte le donne che fino a
quel
momento l’avevano richiesto, quando si erano presentate
avevano dato il meglio
di sé. Vestiti attillati, se non addirittura praticamente
inesistenti, trucco
pesante, capelli pettinati alla
perfezione. Già, capelli.
I
capelli di quella ragazza sembravano avere vita
propria. Erano neri, piuttosto lunghi, le arrivavano alla vita,
parecchio
spettinati poi, e da lontano parevano anche un po’ unti, ma
in realtà si rese
conto che erano bagnati perché Tatsuki non si era presa
neanche il disturbo di
asciugarli, dopo la doccia. Entrando e passandole accanto, Grimmjow
poté
sentire bene il profumo del suo balsamo.
Beh...
insomma, non era poi così male. Anzi. Con un po’
di trucco a coprirle le occhiaie e a darle colore alle guance
innaturalmente
pallide, il suo sarebbe stato davvero un bel viso, anche sensuale, in
un certo
senso. Gli piaceva il contrasto che le sottili sopracciglia nere
aggrottate
davano con le labbra piene, che nervosa continuava a mordicchiarsi.
Doveva
avere la sua età, forse qualche anno in meno, anche se
quell’atteggiamento la
faceva sembrare una bambina un po’ timida e imbronciata.
Sarebbe stata una
dolce sfida vincere le sue difese e farla cadere ai suoi piedi come
tutte le
altre. Già si pregustava la sua espressione e la sua voce
nel momento in cui
l’avrebbe resa la donna più felice della pianeta.
Tatsuki
si sentiva il suo sguardo addosso, si sentiva
studiata. E la cosa, oltre ad innervosirla ancora di più, la
irritava a
dismisura. Ma non aveva nemmeno il coraggio di alzare gli occhi verso
di lui
per dirgli di darci un taglio, si sentiva troppo in soggezione dalla
presenza
di un estraneo.
I
contatti umani erano esattamente il suo punto debole.
Non
era la sua stazza ad intimorirla, sapeva che con
qualche colpo nei punti giusti, sarebbe stata in grado di farlo cadere
per
terra in ginocchio a invocare l’aiuto della propria madre. Ne
aveva messi al
tappeto anche di più piazzati, avrebbe solo dovuto provarci,
ad alzare un dito
su di lei contro il suo volere. Quindi il problema, fin
dall’inizio, quello che
l’aveva bloccata dallo spiccicare anche solo una sillaba ogni
volta che aveva
composto il suo numero, non era stata la paura di trovarsi in casa da
sola con
un uomo. Bensì il dover parlare con qualcuno che non fosse
lei stessa. Il dover
guardare qualcosa che non fosse il volto dei suoi personaggi disegnati.
Il
dover anche solo respirare la stessa aria di una persona che,
maledizione,
perché non la smetteva di fissarla?
Doveva
restare calma. Fare un respiro profondo e stare
calma, mentre si faceva da parte per permettergli di entrare.
Grimmjow
si infilò le mani nelle tasche dei jeans scuri e
diede una veloce occhiata intorno a sé, curioso. Soggiorno e
cucina erano
costituiti da una piccola stanza unica, praticamente non arredata se
non per un
largo kotatsu e un mobile a muro
che ricopriva
tutto un lato della stanza. E il divano era in realtà un
materasso ricoperto da
una fodera bordeaux e una montagna di cuscini.
L’unica
cosa che spiccava in quella stanza, era un
enorme, ma proprio enorme, televisore a schermo piatto da cinquanta o
forse
addirittura sessanta pollici. Grimmjow rimase a fissarlo incantato per
qualche
secondo, provando l’impulso di stordire con un colpo quella
ragazza e scappare,
portandosi via quella meraviglia. Ma doveva trattenersi, quella sera
non poteva
permettersi di lasciar divagare le fantasie su nient’altro a
parte i mille modi
che conosceva per far capitolare una donna. Anche se guardare la
trilogia di
Matrix su quello schermo... E chissà se aveva pure la
funzione 3D...
«
Immagino tu lo
sappia già, ma beh... Grimmjow Jaegerjaques. », si
costrinse a distogliere
l’attenzione da quei benedetti sessanta pollici e a porgerle
la mano in un
gesto molto occidentale, come metà delle sue origini del
resto, origini che gli
piaceva esasperare mentre lavorava. « Chiamami pure solo
Grimmjow, lo so che il
mio cognome è difficile. », per
gli
imbecilli, sorrise candidamente.
Respira,
Tatsuki, respira
e per l’amor di dio non prenderlo a pugni sui denti per
levargli quel ghigno
odioso dalla faccia, si impose lei a sua volta, mentre
allungava la mano a
prendere la sua.
« Il
mio invece
non lo è, quindi chiamami Arisawa e basta. »,
ricambiò la sua stretta, in un
modo che Grimmjow avrebbe definito inaspettatamente secco e deciso.
Così come
la sua voce, che l’aveva tanto incuriosito, e che dal vivo
sembrava ancora più
graffiante.
Non
vedeva l’ora di sentirla ansimare il suo nome.
E
da un lato, era quasi contento che l’altro appuntamento
di quella sera fosse saltato.
«
Allora. Come
ti ho detto al telefono, io prendo cinquemila yen all’ora.
Per questa volta,
visto che è la prima, per tutta la notte posso farti uno
sconto, diciamo... quarantamila
yen in tutto. Ma non di più. »
La
osservò tentennare, come se ci stesse pensando su.
«
Due... due ore
dovrebbero bastare. »
Pazienza.
Quella notte non sarebbe stata tra le più
fruttuose in termini di guadagno materiale.
« Come
preferisci. Sono diecimila. E puoi darmeli anche adesso, tranquilla che
con me
non vale il “soddisfatti o rimborsati”.
Perché sarai sicuramente soddisfatta. »
Il
guadagno fisico però non era minimamente da mettere in
dubbio.
I
minuti che seguirono, e in cui Tatsuki lo invitò ad
accomodarsi dove meglio credeva, Grimmjow li passò a cercare
di decifrare dal
suo modo di fare che tipo fosse, e di conseguenza, come avrebbe dovuto
condurre
il gioco.
«
Vuoi...
qualcosa da bere? Non ho molto, però. »
Oh,
allora era una di quelle che cercavano di far
sembrare la situazione più normale possibile. E da come si
comportava, evitando
così ostinatamente il suo sguardo, sembrava pure
imbarazzata. Perfetto. Quel
tipo di clienti erano proprio quelle che sopportava meno,
perché bisognava
fingere di più per metterle a loro agio.
«
Perché invece
non vieni qua e ti siedi? », accennò a un sorriso,
tamburellando le dita sul
posto accanto al suo sul “divano”.
Tatsuki
lasciò cadere la mano che aveva teso per aprire
il frigorifero – frigorifero che avrebbe preso volentieri a
testate tanto si
sentiva a isterica in quel momento – e si voltò
verso di lui, ripetendosi
mentalmente il suo mantra di restare calma.
«
Sì... sì.
Forse è il caso di iniziare subito. »
In
fondo due ore non erano poi molte, e se non voleva
buttare per niente diecimila yen, era meglio non perdere tempo.
Così con passo
deciso si diresse verso Grimmjow, che non aveva smesso di ammiccare un
secondo,
già pregustandosi la sua vicinanza, e si sedette in
ginocchio di fronte a lui.
Poi prese un profondo respiro, stringendo impercettibilmente la stoffa
dei propri
pantaloni tra le dita.
« ...
Per
favore, spogliati. »
Grimmjow
aggrottò le sopracciglia, rimanendo per un
secondo interdetto da quella richiesta così esplicita. Forse
aveva giudicato
male, ora più che imbarazzata e restia a lasciarsi andare,
sembrava determinata.
Fin troppo, il suo sguardo, che finalmente aveva deciso di rivolgergli,
quasi
metteva soggezione. A lui, Grimmjow Jaegerjaques, e questo era tutto un
dire. E
se invece fosse stata una di quelle tipe dominatrici, che godono a
sottomettere
l’uomo...? Ah, no. No, no, no. Se era quello il caso, si
erano capiti proprio
male.
«
Senti un
attimo, pensavo di essere stato chiaro. Niente richieste strane.
», decise di
sottolineare ancora una volta rilassando il viso
nell’ennesimo sorriso, mentre
si tirava appena su per avvicinarsi a lei.
Tatsuki
si ritrasse istintivamente di qualche centimetro.
« Non mi sembra una richiesta così strana.
»
Beh,
sì, in effetti non aveva tutti i torti. Non aveva
ancora tirato fuori frustini e manette, per lo meno. Forse voleva
solo... sì, guardarlo.
A Grimmjow invece piaceva spogliare e farsi spogliare, ma quello che
contava
per guadagnare soldi non era quello che preferiva lui. Almeno, nei
limiti del
possibile, come per i frustini sopraccitati. Ma era il fatto di non
riuscire a
capire cosa diavolo le passasse per la testa, che lo faceva sentire...
come
dire, insicuro. Sensazione più unica che rara per lui,
convinto, convintissimo
di sapere il fatto suo per quanto riguardava il lavoro. Per questo, non
avrebbe
fatto minimamente trapelare i suoi dubbi, e anzi, avrebbe sfruttato
quella
richiesta sì un po’ inaspettata per riprendere il
controllo della situazione.
Aveva
notato che si era tirata subito indietro non appena
lui le si era avvicinato. Davvero non riusciva a capirla. Ennesimo
forse, il
suo modo di fare risoluto era appunto un modo per mascherare
l’imbarazzo. In
questo caso...
Ghignare
in quel modo insopportabile sembrava essere
quello che sapeva fare meglio. Tatsuki avvertì nuovamente il
suo radar interno
impazzire quando lo sentì avvicinarsi ancora, troppo per i
suoi asociali gusti.
Però si costrinse a rimanere ferma dov’era
perché in qualche modo, gli occhi
chiari e dal taglio felino di quel Kamina stinto, sembravano lanciarle
una muta
sfida.
Vediamo per quanto riuscirai a
resistere,
sembravano dire.
Così
Grimmjow cominciò a sfilarsi la maglietta nera, in
modo lento, esasperante, per poi abbandonarla al suo fianco sui
cuscini, mentre
scuoteva appena la testa per scostarsi le ciocche di capelli dal viso.
Poi
si tirò su, facendo peso sulle ginocchia, mentre con
le dita sfiorava la fibbia della sua cintura di pelle, che
iniziò a slacciare
insieme al bottone e alla cerniera dei jeans. Sempre lentamente, dando
modo a
Tatsuki di assaporare ogni suo gesto.
Tatsuki
che era letteralmente sul punto di implodere. Solo
la sua espressione era in grado di farla vergognare fino alla punta dei
capelli, senza tenere conto di quello che stava facendo e di come lo stesse facendo.
E
per di più... aveva un corpo bellissimo.
Talmente
bello che per un secondo, un brevissimo secondo,
provò l’impulso di allungare una mano e
accarezzargli il petto.
Invece
si costrinse a distogliere lo sguardo quando notò
che con il pollice aveva preso ad abbassarsi l’orlo dei boxer
aderenti.
« ...
Quelli
puoi anche tenerteli su. »
Ah ah,
Grimmjow si sentì come se avesse appena vinto un
miliardo di yen alla lotteria. Il vederla girarsi così,
arrossire, perché oh,
se era arrossita, gli aveva dato una soddisfazione immane. Quella sfida
si stava
facendo a ogni minuto che passava più interessante.
Ma
ad essere sinceri, lui stesso stava cominciando ad
essere impaziente, e più di altre volte, anche se non
riusciva a capire perché.
Non che gliene importasse dei perché e dei per come, in quel
momento.
« Che
c’è? Sei
timida, gattina...? », mormorò azzerando la
distanza tra loro, portando la
bocca al suo orecchio e sfoggiando il tono suadente di quando voleva
vincere le
eventuali ultime resistenze dovute al pudore delle sue clienti.
Così vicino,
poteva sentire ancora di più il profumo dei suoi capelli
appena lavati.
E
a quel punto fece qualcosa che non avrebbe mai dovuto
fare.
Posando
le labbra sul suo collo, alzò una mano e gliela
infilò sotto l’enorme felpa. E prese ad
accarezzarle un seno. Seno che
piacevolmente si rivelò non così piccolo come
avrebbe detto a prima vista,
nascosto dai vestiti.
Tatsuki
rimase immobile, pietrificata, mentre sentiva le sue
dita e i suoi baci sulla sua pelle farsi sempre più decisi e
intraprendenti. Ma
fu solo un attimo.
Il
tempo di realizzare cosa diavolo quel tizio dai
capelli azzurri stesse facendo, che lo spalmò letteralmente
al suolo, e gli
bloccò il braccio della mano incriminata dietro la schiena,
mettendosi a cavalcioni
su di lui e premendo un ginocchio contro le sue costole, mentre lo
fissava come
se avesse voluto smembrarlo da un momento all’altro.
Grimmjow
non ebbe nemmeno il tempo di reagire, e dire che
ne sarebbe stato capace, un paio di cosette sul combattimento corpo a
corpo le
sapeva anche lui. Ma la reazione di quella ragazza che fino a un
secondo prima
aveva guardato con occhi sconcertati il suo corpo nudo, evidentemente
in
imbarazzo, lo aveva colto completamente alla sprovvista.
Non
riusciva minimamente a capirla, né a prevedere le sue
mosse. Un secondo prima sembrava una timida vergine timorata di dio,
quello
dopo una specie di... di violenta psicopatica. Non gli era mai capitato
di
trovarsi di fronte a una donna del genere. Per la prima volta nella sua
lunga e
fruttuosa carriera da simil escort, non sapeva da che parte iniziare
per
tentare un approccio.
E
anche se così piccola in confronto a lui, sembrava
parecchio forte. E il modo in cui l’aveva bloccato, la sua
presa, sembravano
quelli di una che aveva fatto delle arti marziali il proprio stile di
vita.
Peccato che i muscoli scolpiti di Grimmjow non fossero solo di
bellezza, se
avesse voluto, avrebbe potuto liberarsi piuttosto facilmente e
ribaltare le posizioni.
A quel punto non ci avrebbe messo molto a farle capire chi comandava,
con la
forza.
Ma
nonostante la parvenza di orgoglio che gli rimaneva,
orgoglio che si trovava ferito ad essere immobilizzato a terra da
una... una
ragazzina, non avrebbe mai alzato un dito su una donna. E non avrebbe
neanche
perso la pazienza, no. Non avrebbe sicuramente permesso a nessuna
ragazzina di
far cadere la facciata imperturbabile che aveva speso anni a costruire.
Così si
limitò a piegare come poteva la testa per guardarla,
facendole un altro dei
suoi sorrisi.
« Ehi,
avevamo
detto niente cose strane, ricor-...? », ma si
zittì subito, rendendosi conto
del suo sguardo assassino.
Tatsuki
dovette ripetersi almeno un centinaio di volte di
stare calma per impedirsi di ridurlo in poltiglia. Ogni punto della sua
pelle che
aveva toccato bruciava ancora, come il suo viso rosso di rabbia e
vergogna.
Chiuse gli occhi, serrando forte le dita attorno al suo polso che
teneva ancora
chiuso in una tenace stretta. Ma non era solo lui che voleva tenere
fermo,
anche sé stessa, perché sentiva che se
l’avesse mollato, avrebbe finito per
riempirlo di pugni.
«
Mettiamo
subito in chiaro tre regole, mh? Tu non mi tocchi, tu non parli a
sproposito, e
soprattutto non mi chiami “gattina”, ed io ti
ridò i tuoi... », si
fermò per allungarsi ed estrarre dalla tasca dei suoi jeans
abbandonati sul
divano, i diecimila yen che gli aveva appena dato. Diecimila a cui ne
sottrasse
due, infilandoseli nella sua, di tasca.
« ... ottomila yen. Chiaro? », e
premette ancora di più il ginocchio
contro la sua schiena.
Grimmjow
rimase a fissarla talmente allibito che per
qualche secondo non trovò la forza di parlare. In un attimo
però si scosse,
quando la vide intascarsi i suoi duemila yen. Va bene
l’essere carini e
gentili, però... eh, no, i soldi no. Adesso gli stava
veramente facendo perdere
la pazienza che non aveva mai avuto.
« Come
diavolo
facciamo a fare sesso se non ti posso neanche toccare, me lo spieghi?!
»,
sbottò ricambiando il suo sguardo di fuoco, lasciando che il
sorriso a cui
teneva tanto si trasformasse in una smorfia arrabbiata, mentre con uno
strattone cercò di liberarsi.
« Ma
cosa...?! »
Tatsuki in risposta rafforzò la presa, alzando a sua volta
la voce. « Io non
farei sesso con te neanche se fossi tu a pagarmi! »
« Si
può sapere
per quale cazzo di motivo mi hai fatto venire qua, allora?! »
« Se
stessi
fermo cinque secondi, non chiedo tanto, cinque
secondi, forse lo capiresti da solo! »
E
rimasero ancora a fissarsi, entrambi furiosi, lui
totalmente disorientato, lei offesa a morte. Poi fu ancora Tatsuki a
distogliere lo sguardo, lasciandogli lentamente andare il braccio e
scostando
il ginocchio che ancora premeva contro le sue costole. Grimmjow si
tirò a
sedere, stirandosi la schiena massaggiandosi il polso. Forse, se avesse
voluto,
non sarebbe poi stato così “piuttosto
facile” liberarsi da solo.
«
Allora? »,
sbuffò spazientito inarcando un sopracciglio.
Tatsuki
lo fulminò con gli occhi, puntandogli un dito
contro, mentre faceva come per alzarsi.
«
Stai... fermo. »
« Non
ti tocco.
», promise esasperato, alzando le mani in segno di resa.
E
in silenzio, la osservò dargli le spalle e dirigersi
verso il quadro di regolazione del riscaldamento sul muro accanto alla
porta, mentre
con un gesto goffo e ancora imbarazzato, si abbassava appena la
cerniera della
felpa per sistemarsi il reggiseno che Grimmjow le aveva spostato.
Alzò
di qualche grado la temperatura che di solito teneva
il più basso possibile per risparmiare, perché di
certo non poteva lasciarlo
morire di freddo così, solo in boxer, anche se
l’idea era parecchio allettante.
Distrattamente
gli lanciò un’altra occhiata per tenerlo
sotto controllo, e così si accorse che nel frattempo, con
l’ennesimo sbuffo, si
era sdraiato con nonchalance sul divano, appoggiando la testa a un
pugno.
« ...
Fermo. »
« Hai
ancora
intenzione di dirlo ancora quante volte? »
«
Intendevo-...
aspetta, non muoverti. Davvero. »
Quella
ragazza doveva avere qualche rotella che girava
nel verso sbagliato, pensò Grimmjow, seguendola ancora con
gli occhi mentre in
fretta e furia si avvicinava al grande mobile a muro e ne apriva
un’anta,
tirandone fuori un libro di anatomia e un quaderno. Aggrottò
le sopracciglia,
affinando lo sguardo. Erano manga quelli che aveva appena fatto in
tempo ad
intravvedere prima che lei richiudesse l’anta? ...
Un’infinità di manga.
Ma
non ebbe il tempo si soffermarsi a pensarci sopra,
perché il gesto seguente che lei fece lo
sconcertò ancora di più. La vide
frugare in un cassetto, sempre di quel grande mobile, e prendere un
astuccio
nel quale risuonarono un mucchio di... cosa, matite? Lo erano, le
distinse
chiaramente quando lei le sparpagliò sul piano di legno del kotatsu.
Tatsuki
ne prese in mano qualcuna, strizzando gli occhi
per leggere il tipo di grafite, poi aprì il blocco da
disegno sfogliando le
prime pagine già occupate da schizzi, finché non
ne trovò una bianca. E a quel
punto tornò a guardarlo, portandosi distrattamente la matita
che aveva scelto
di usare alle labbra, immersa nei suoi pensieri.
Quindi
iniziò a disegnare.
Che...
che cazzo era quella squallida scena da Titanic?
E
soprattutto, perché era lui quello nudo a fare la parte di Rose? Beh,
almeno alla fine non
sarebbe stato lui a crepare conge-... Okay, sul serio, era ora di darci
un
taglio a quella situazione assurda.
«
Senti, aspetta
un secondo. », iniziò a dire, ma lei lo
bloccò con l’ennesima occhiataccia.
« Fermo. »
In
tutta risposta Grimmjow si tirò su a sedere,
puntandole un dito contro. « No, tu ferma.
Cosa dovrebbe significare questa... cosa? Cioè...
», si portò una mano alla
testa, passandosela tra i capelli e facendo un sospiro profondo per
calmare
l’irritazione. « Si può sapere cosa
diavolo stai facendo? »
«
Secondo te? »
« Mi
stai... disegnando. »,
sottolineò quella parola
come se fosse la più strana del vocabolario.
« Ma
come siamo
perspicaci... », mormorò lei tornando con lo
sguardo al suo foglio.
« Ehi,
prendi
poco per il culo. E ti ho detto di smetterla. »
« Mi
spieghi
qual è il problema? »
« No,
qual è il tuo, di
problema! Io non mi faccio
pagare per essere disegnato. Non
sono
un modello. »
« Lo
so. Sei un
host. »
« ...
Non in
questo momento. »
Tatsuki
evitò il suo sguardo, intuendo subito a cosa si
riferiva. « Te l’avevo detto al telefono che non
volevo fare nulla... », fece
una piccola pausa, per poi indicarsi il corpo con la matita.
« ... nulla del
genere. »
«
Allora si può
sapere perché hai chiamato me?
»
«
Perché sei un
host. E perché costi meno di un modello. »
«
Ancora? Lo so
che sono un ho-... davvero i modelli si fanno pagare di più?
»
La
ragazza sospirò un po’ esasperata, per poi
appoggiare
sul kotatsu la matita e tornare a
rivolgere il suo sguardo su di lui. Grimmjow si sentì di
nuovo zittito senza
bisogno di troppe parole, cosa che non gli andava esattamente a genio.
Però non
poté fare diversamente che darle ascolto.
«
Senti, ti
spiego... tutto dopo. Ora mi lasci finire questo disegno? Per favore.
»
Era
impossibile rifiutarsi a quegli occhi.
I
primi dieci minuti passarono senza che una mosca
volasse. C’è da dire, a suo merito, che Grimmjow
si impegnò davvero per
rimanere immobile nonostante si sentisse prudere da ogni parte a stare
fermo
così. Voleva muoversi, ma al tempo stesso non voleva neanche
farsi guardare
come un moccioso che ha combinato qualche marachella e ha fatto
arrabbiare la
propria madre. Perché era così che lo sguardo di
lei lo faceva sentire.
In
breve, la considerazione che Grimmjow si era fatto di
quella ragazza, era quella di una psicopatica con dei seri problemi di
socializzazione, partendo dal contatto fisico. E poi insomma, non era
stata
neanche chiara su cosa voleva e non, al telefono. Se avesse saputo che
sarebbe
finita così, Grimmjow non si sarebbe neanche preso il
disturbo di venire. Diecimila,
anzi, ottomila yen non valevano
l’irritazione e la noia che stava provando in quel momento.
Avrebbe
potuto essere a casa sua a godersi Phantom,
in quel momento.
Ecco,
sì, così andava meglio. Bastava non pensarci.
Distrarsi, e il prurito si attenuava. Così prese a guardarsi
di nuovo in giro,
ma decisamente in quell’appartamento spoglio c’era
ben poco di interessante da osservare.
Quindi il suo sguardo cadde inevitabilmente su Tatsuki.
Era
seduta a gambe incrociate, il viso chino e
concentrato sul foglio di fronte a lei, nella mano destra una matita,
nella
sinistra quella che doveva essere una specie di gomma molle, che quando
non
usava, tormentava in continuazione con le dita, come se fosse un
antistress.
Ogni tanto alzava lo sguardo su di lui, ma non si soffermava molto.
Stava
ancora facendo lo schizzo di imbastitura per la posizione.
Grimmjow
osservò la sua mano andare avanti e indietro sul
foglio, la stessa mano che gli aveva stretto il polso con forza e che
adesso
impugnava con delicatezza una matita. Non poteva negare di essere
curioso, ma
lei aveva già messo in chiaro che non doveva neanche
provarci, a sbirciare.
Così
lasciò che il suo sguardo salisse verso il suo viso,
trovandosi a pensare che quella serata era davvero uno spreco. E quel
pensiero
si rafforzò ancora di più nella sua testa,
quando, evidentemente sentendosi
accaldata per aver alzato la temperatura, la vide togliersi la felpa e
rimanere
semplicemente in una canottiera, aderente a differenza del resto dei
suoi
vestiti, che sottolineava quello che prima aveva avuto solo il piacere
di
toccare di sfuggita.
Ma
non fu semplicemente quel pensiero superficiale, ciò
che gli passò per la testa.
Perché
potendo osservare i suoi lineamenti così,
rilassati, senza che lei sapesse che la stava fissando con tanta
attenzione, si
rese conto di una cosa importante.
Ecco
cos’era, quella strana sensazione che aveva provato
guardando il suo viso per la prima volta.
Perché
quel viso, quei capelli spettinati e neri, avevano
avuto il potere di risvegliare nella sua memoria un altro viso, altri
capelli
ugualmente spettinati e neri. La somiglianza era impressionante.
L’unica
differenza era nei suoi occhi, troppo scuri per essere scambiati per
azzurri.
Dal
canto suo, Tatsuki era ignara di essere oggetto di
uno studio così approfondito, tanto misure e proporzioni la
assorbivano. Aveva
sempre avuto problemi a disegnare l’anatomia maschile, e la
sua mancanza di un
qualsiasi genere di studio specifico nel campo del disegno, era il suo
più
grande handicap. Aveva imparato tutto quello che c’era da
imparare da sola,
seguendo manuali, osservando i lavori di altri. Molte volte, per
disegnare una
figura sentiva il bisogno di immagini di riferimento, per cui spesso e
volentieri usava sé stessa come modella. Eppure dentro di
lei sentiva ancora un
vago senso di insicurezza quando si trovava davanti a un foglio bianco,
solo
con una matita e tanta immaginazione come strumenti. In un certo senso,
quasi
inadatta, intrappolata, come le mille idee che aveva nella testa e che
non
sempre riusciva a rendere su carta. Ed era una sensazione che purtroppo
non si
sarebbe mai scrollata di dosso, che l’avrebbe bloccata per
tutta la vita,
tenendola ancorata coi piedi per terra senza alcuna speranza di poter
iniziare
a camminare da sola, correre con le sue gambe.
Per
questo per Fly
it aveva scelto uno stile che nel campo veniva definito
“parodia”, uno
stile che semplificava al massimo i tratti del corpo e che si
concentrava più
che altro sulle espressioni facciali, esasperandole fino alla
comicità. Guardando
quel suo manga, chiunque non le avrebbe dato un centesimo come
disegnatrice josei. Eppure.
Accidenti a lei che nel
primo e penultimo colloquio che aveva avuto col suo editore gli aveva
fatto
visionare anche dei lavori più... seri e impegnativi, sotto
un certo profilo.
Per cui aveva utilizzato uno stile più realistico e
orientato verso il seinen, e che
sapeva solo lei quanto
tempo e impegno le erano costati. Certo, il tipo di soddisfazione che
le
avevano dato era del tutto diversa, ma che fatica. E ora quello che
doveva fare
era un intero capitolo di quaranta pagine in quel modo, anzi,
adoperandosi pure
per rendere quello stesso stile più... femminile. Senza
parlare di tutta... l’ ”anatomia”
che avrebbe dovuto disegnare poi. Ce n’era abbastanza per
prendere a testate
non solo il frigorifero, ma anche il tavolino del kotatsu.
Per
lo meno, il problema “host” lo aveva risolto.
Beh...
a grandi linee. Distrattamente, alzò per
l’ennesima volta gli occhi verso
Grimmjow, chiedendosi se alla fine avrebbe accettato di darle una mano
e
rispondere alle domande che aveva da porgli. E inaspettatamente
incontrò il suo
sguardo, che ancora più inaspettatamente trovò
serio, quasi assorto nei suoi
pensieri mentre la fissava. Con un brivido, provò il
desiderio di disegnare quell’espressione.
E
ben presto, oltre che al suo viso, Tatsuki si trovò a
seguire e ad accarezzare con lo sguardo ogni curva di ogni suo muscolo,
riproducendo pian piano con il suo tocco delicato, la sua figura
praticamente
perfetta sul foglio bianco di fronte a lei.
Ma
i suoi occhi non erano avidi se non di arte, e presto
l’imbarazzo iniziale venne sostituito dalla freddezza della
sua mente, e si trovò
sì a seguire le sue curve, sì ad apprezzarne la
bellezza praticamente perfetta,
ma sarebbe stato lo stesso se davanti a lei ci fosse stato un cesto di
frutta
di cui doveva fare la copia dal vero. Solo quando saliva fino a
sfiorare il suo
viso, ed incontravano lo sguardo di lui, che seguiva ogni movimento
della sua
mano quasi come un gatto curioso, sentiva riaffiorare il rossore alle
guance, e per un
attimo si distraeva a pensare a in che
diavolo di situazione si fosse cacciata. Ma in men che non si dica, la
sua
forza di volontà nonché la forza di attrazione di
quel corpo nudo e bellissimo,
che non riusciva a non guardare con velata ammirazione, la spingevano a
continuare a disegnare.
Grimmjow
invece, ad essere del tutto sinceri, non si
sentiva esattamente a suo agio, ora che quella ragazza psico e
sociopatica si
era fatta più attenta a lui che al foglio di carta. Non
perché fosse nudo di
fronte a una sconosciuta, che nonostante fosse così simile a
un ricordo,
rimaneva sconosciuta. Figuriamoci, a quello ci era più che
abituato. Il punto
era che lo sguardo di quella particolare sconosciuta, non era come
quelli che era
solito sentire su di sé. Non desideroso, non pieno di
aspettative di un piacere
puramente carnale. In un certo senso, lei sembrava star guardando
oltre, o
anzi, non starlo guardando affatto. Parte del suo ego si sentiva ferito
di
fronte a quella piccola ragazza, che non solo l’aveva
bloccato a terra come
niente più di un sacco di patate, ma che oltre tutto
sembrava veramente
risoluta a non volere niente di più che poterlo guardare e
disegnare.
Grimmjow
era nudo, ma non era questo a farlo sentire a
disagio. Era il fatto che, per la prima volta da quando aveva iniziato
quella
vita meramente dedita a piaceri superficiali quali erano il sesso e i
soldi, si
sentisse... veramente messo a nudo. Come se la mano di lei, oltre al
profilo
marcato delle sue braccia e dei suoi addominali, potesse disegnare
qualcosa di
molto più profondo. E Grimmjow non era sicuro di volere che
qualcuno vedesse al
di là di quel corpo perfetto che inconsciamente o meno aveva
imparato ad
“indossare” e a sfoggiare come
un’armatura luccicante, capace di proteggerlo e
tenerlo lontano da tutto e tutti.
E
oltre alla noia, dopo un quarto d’ora il dover stare
immobile senza poter cambiare posizione, lo faceva sentire in gabbia.
Non era
decisamente quella la serata che si era immaginato entrando in quel
piccolo
appartamento. Perché quella ragazza non poteva semplicemente
essere come tutte
le altre, e lasciarsi toccare come tutte le altre?
Ancora
una volta, incrociò il suo sguardo, sorprendendola
a fissare le sue labbra. Stava disegnando quelle...?, si chiese, non
riuscendo
a fare a meno di tendere appena il collo, spinto dalla
curiosità. Ma gli occhi
di lei gli intimarono ancora una volta
di stare fermo. Come ci riusciva?
Grimmjow
si sentiva veramente in gabbia, oppure meglio
ancora, incatenato da quei suoi occhi scuri e magnetici. E quella
sensazione
non gli piaceva, non gli piaceva affatto. Perché le stava
lasciando dettare le
regole del gioco, lui che era abituato a giocare solo secondo le
proprie, di
regole?
Ma
in fondo, anche lei sotto quella tuta enorme era una
donna, lo aveva sentito più che bene.
E
le donne sono tutte uguali.
Grimmjow
vide il suo sguardo cadere nuovamente sulle sue
labbra, attento, sì, ma mai neanche per un secondo
malizioso. La vide anche
mordersi distrattamente le sue, di labbra, nella concentrazione. Quelle
labbra
che in quel momento sarebbero dovuto essere incollate alle sue,
dannazione,
così come il suo seno alle sue mani, e così come
tutto il resto del suo corpo
ostinatamente nascosto dalla tuta.
Grimmjow
avrebbe voluto strappargliela via per la
frustrazione e per il desiderio che si sorprese a provare quando la
vide
passarsi la lingua sulle labbra secche. Frustrazione e desiderio che lo
portarono a comportarsi proprio come un moccioso, a provocarla.
Così anche lui prese
a leccarsi e poi mordersi le labbra, lentamente, in un modo totalmente
differente da come l’aveva fatto lei, sovrappensiero. Lui
invece voleva
trasmetterle ogni singolo e poco casto pensiero gli stava passando per
la testa
in quel momento. Possibile che non la toccasse minimamente? Possibile
che non
provasse nessuna dannatissima pulsione sessuale nei suoi nudi e
sensualissimi
confronti?
Tatsuki
sgranò per un secondo gli occhi, fissandoli sulla
sua bocca con un’attenzione diversa rispetto a prima. Ma
subito si scosse.
Ormai la sua mente era catturata dal disegno, e nemmeno quel gesto
così
seducente ebbe il potere di distrarla.
«
Fallo... fallo
ancora. »
Grimmjow
rimase interdetto vedendo che invece che
saltargli addosso, aveva girato pagina e impugnato più
saldamente la matita,
tracciando linee con più foga e più velocemente
rispetto a prima. Quindi lo
intimò con lo sguardo a leccarsi nuovamente le labbra, cosa
che lui fece, ubbidiente.
Ma perché poi le dava retta?!
«
Rifallo ancora.
E adesso stai fermo. », lo bloccò con la lingua
sul labbro superiore. « Oppure
per ogni movimento che fai, ti tolgo altri mille yen. »
Perfetto.
Si era tirato la zappa sui piedi da solo.
E
altri minuti passarono.
Grimmjow
le provò tutte, persino a cambiare posizione e
ad abbassarsi nuovamente il bordo dei boxer, ma ogni cosa che faceva,
aveva
esattamente l’effetto contrario di ciò che
sperava, anzi, sembrava alimentare
la fantasia di una Tatsuki sempre più entusiasta e
soddisfatta del lavoro che
stava facendo. “Kamina” era davvero, davvero un
ottimo modello, quasi una musa
ispiratrice. Avrebbe sicuramente usato una di quelle pose per la
copertina
della dōjinshi, il punto adesso era
scegliere quale, perché tra tutti gli schizzi fatti aveva
l’imbarazzo della
scelta. E ancora, aveva una voglia matta di continuare. Le sue
espressioni
erano perfette. Provocanti al punto giusto, senza però
scadere nel volgare.
Soprattutto gli piaceva il suo sguardo – che purtroppo
Tatsuki era talmente
presa a tracciar linee che non si era resa conto era rivolto a lei e a
lei
sola, con l’intento di sedurla – che trovava molto
profondo. Forse era il caso
di dedicarsi ai primi piani.
Quindi
mettendosi la matita in bocca, prese il blocco da
disegno e gli altri strumenti che era convinta potessero servirle
così che non
sarebbe stata costretta ad alzarsi di nuovo, e poi si sedette a gambe
incrociate di fronte a lui, di nuovo, senza temere minimamente che
avrebbe
potuto allungare ancora le mani. I soldi erano stati un ottimo ricatto,
era
diventato incredibilmente ubbidiente da quando lo aveva minacciato di
ridurgli
lo “stipendio”.
Per
un attimo Grimmjow ebbe un fremito vedendola
avvicinarsi, ma le cose che teneva in mano non promettevano niente di
quello
che lui sperava. Così si lasciò cadere sul
materasso, affondando la faccia in
un cuscino.
« Mi
annoio. »,
sbuffò come un bambino capriccioso, voltando appena il viso
per sbirciarla. E preferì
non averlo fatto, perché Tatsuki, noncurante come al solito,
si era sfilata
l’elastico che portava al polso coi denti, e aveva preso a
legarsi i lunghi
capelli in una coda alta, inarcando la schiena. Quella ragazza riusciva
ad
essere sexy senza volerlo affatto, al contrario di lui che si era
sforzato
tanto, e invano. O forse semplicemente era che aveva davvero una voglia
assurda
di fare sesso con lei. Ma non poteva permettersi di pensarci troppo,
oppure
sarebbe stato un bel problema, visto che era rimasto solo con addosso i
boxer.
« Vuoi
che ti
accenda la televisione? »
Ecco.
Ecco sì, adesso cominciava a parlare nella sua
lingua. Lanciò un’occhiata veloce
all’orologio appeso al muro della cucina, che
indicava che da quando era arrivato doveva essere passata
un’ora. Phantom doveva
essere iniziato già da
qualche minuto, non gli piaceva guardare qualcosa non dal principio, ma
insomma... quella televisione
sembrava chiederglielo per favore.
Cercò
di darsi un contegno. Non poteva permettersi di
implorarla di farlo, ci avrebbe rimesso la faccia e la sua facciata
imperturbabile che già era un po’ andata a quel
paese. Così si limitò ad alzare
le spalle con indifferenza e a tirarsi un po’ su,
sistemandosi meglio sul
divano.
Tatsuki
lo prese come un cenno d’assenso, così si
allungò
verso il ripiano del mobile a muro per prendere il telecomando
– e non piegarti
così, dannazione! – per poi accendere la
televisione che fece un amichevole
trillo di saluto, a parere di Grimmjow. Ora restava solo da trovare un
modo per
farla arrivare fino a TV Tokyo e a
convincerla a lasciar sintonizzato su quel canale senza farci la figura
dell’otaku incallito quale
effettivamente era.
Ma inaspettatamente, quando sullo schermo apparvero i colori, la prima
cosa che
vide fu il fondoschiena di una biondissima Cal Devens, alias Drei,
accovacciata
in una posa di combattimento mentre impugnava una pistola, con lo
sfondo di
quella che sembravano le vetrate di una chiesa illuminate dalla luce
della
luna. Grimmjow rizzò all’istante le orecchie e
affinò lo sguardo, mentre la
voce di Miyuki Sawashiro risuonava nella risata sadica che gli aveva
fatto
perdere la testa per Cal. Anche l’audio era qualcosa di
spettacolare. Impianto
stereo Dolby Surround. Grimmjow avrebbe voluto incollare il sedere a
quel materasso
scomodo e passare il resto della sua vita ad amare quella televisione e
le
casse posizionate sul soffitto – come aveva fatto a non
notarle prima, come?
«
Lascia...
lascia pure qui. », cercò di dire con nonchalance,
ma il gesto sbrigativo che
fece con la mano, tradì tutta la sua impazienza.
« Come
vuoi. », replicò
Tatsuki, appoggiando il telecomando a terra e ritornando a dedicarsi al
suo
blocco per i disegni posizionato sulle gambe incrociate.
Iniziò
a tracciare le linee per il volto, decidendo che
l’avrebbe raffigurato in un mezzo profilo. Che espressione
gli avrebbe regalato
questa volta?, si chiese, mentre terminava di rifinire la croce per
decidere la
posizione degli occhi, del naso e delle labbra, e alzava lo sguardo sul
suo
viso rivolto alla televisione.
E
rimase sconcertata. I suoi occhi a tratti brillavano di
emozione come quelli di un bambino a Natale, per poi incupirsi quando
una scena
prendeva una piega che non gli piaceva. Per di più non stava
fermo un secondo,
piegava la testa, apriva la bocca come per dire qualcosa, sbuffava
spazientito,
si passava nervosamente una mano tra i capelli.
La
ragazza rimase ad osservarlo per un minuto buono, poi
inarcò un sopracciglio e con un gesto secco,
schiacciò il pulsante di
spegnimento sul telecomando.
« Oh,
ma che
cazzo fai?! », scattò lui
all’improvviso, voltandosi sbigottito. Appena
incrociò il suo sguardo però, si pentì
subito di quell’uscita infelice, ai suoi
occhi doveva aver sicuramente esagerato. Ma che diavolo, gli aveva
spento la
televisione in una scena cruciale!
« Ti
agitavi
troppo. », rispose semplicemente Tatsuki, mentre con la
matita lo spingeva a
girare nuovamente il viso di profilo e ad alzare il mento. Quando vide
che
stava per replicare, lo zittì prima che avesse il tempo di
dire qualsiasi cosa.
« ... E poi tanto tra qualche secondo Cal sarebbe stata
uccisa da Reiji. »
«
Che-...? Ma
brutta-...! Questo è un fottutissimo spoiler! »,
sbottò quindi Grimmjow che per
un attimo l’aveva lasciata fare, togliendole la matita dalle
mani e additando
quasi istericamente lo schermo ormai nero, bruciando
all’istante ogni parvenza
di classe che avrebbe potuto ancora mantenere.
Ma
Tatsuki non ne rimase sconcertata, anzi. Fin
dall’inizio si era resa conto che il suo sorriso da Kamina
era fin troppo
tirato ed esasperato per essere vero. Forse gli era sembrato
più sé stesso, più
vero in un certo senso, proprio mentre tutto emozionato seguiva
l’episodio di Phantom.
Quindi si limitò ad incrociare
le braccia.
«
Questo è per
la palpata gratis. », e fece un cenno verso il proprio seno,
rivolgendogli un
sorrisino malefico che a Grimmjow ricordò esattamente quello
di Cal. Se l’era
proprio legata al dito, eh... però era ancora più
sexy quando sorrideva così. Merda.
« E
poi scusa
tanto, ma Phantom l’hanno mandato in onda nel 2009, se tu te
lo sei perso e ti
metti a guardarlo quattro anni più tardi, non è
colpa mia. », aggiunse lei.
Già,
nel 2009. Era stato un po’ impegnato, quattro anni
prima a causa di una certa persona con gli occhi azzurri, ma questo
quella “gattina”
dagli artigli fin troppo affilati, non poteva saperlo affatto.
« Non
ci posso
credere. Cal... », Grimmjow si lasciò andare
nuovamente contro divano,
sprofondando tra i cuscini.
«
Già. È
dispiaciuto anche a me. Apri la bocca come prima. »
« Aah,
era una
figa assurda. Reiji, brutto pezzo di merda... »
« La
testa. Tanto
nell’ultima puntata muore anche lui. »
«
Ma... Ma la
pianti?! Che cazzo me lo guardo a fare io, adesso, se so già
come finisce?! »
In
tutta risposta, lei si indicò il collo con la matita
che si era ripresa, come a dire che doveva pagare anche per quei baci.
Grimmjow
sbuffò spazientito e ritornò a mostrarle il
profilo.
« ...
Davvero
muore anche Reiji? »
«
Sì.
Sinceramente, la fine mi ha un po’ delusa. Cioè,
mi è anche piaciuta in un
certo senso. Ma quando muore uno dei protagonisti, ti lascia sempre
l’amaro in
bocca. »
« Ah,
non me ne
parlare. Death Note è stato uno schifo. », se ne
uscì prima di riuscire a
trattenersi. Ma Tatsuki annuì, comprensiva.
«
Death Note è
l’esempio classico, già. »
Per
un istante regnò il silenzio, mentre lei staccava la
matita dal foglio alzando la testa, e lui la girava per guardarla.
« ...
L. »,
dissero all’unisono, per poi lasciarsi andare a un sorriso
che stupì entrambi.
«
Light era un
bastardo con delle manie di grandezza esagerate. Si è
meritato di crepare così.
»
« Beh,
dai, come
personaggio aveva anche lui il suo perché, ma... L era
davvero un genio. »
«
Facciamo un
minuto di silenzio per la sua squallida fine. »
«
Finalmente,
così magari stai zitto e fermo? »
Grimmjow
accennò ad un altro sorriso, mentre scuoteva la
testa e voltava di nuovo il viso. Ed ecco che la sua facciata da host
si era
completamente sgretolata. Oh, beh. Da quello che aveva capito, la sua
“gattina”
era messa anche peggio di lui, pensò, ricordandosi di tutti
i manga che aveva
intravvisto nell’armadio. Quindi, tanto valeva...
In
un certo senso, si sentì come sollevato. Raramente gli
capitava di parlare così liberamente con qualcuno, men che
meno con una donna,
neanche con Linalee che per lui era quanto di più vicino a
un’amica. Ma se non
ci pensava troppo, se non si soffermava sulla sua scollatura o sui
fianchi
asciutti che la canottiera le lasciava scoperti quando si muoveva
– ed era
proprio il caso di non soffermarcisi – il fatto che Tatsuki
fosse una donna
passava in secondo piano. Forse, ma forse, quella sensazione di
sollievo non
gli dispiaceva poi così tanto. Insomma, era più o
meno accettabile. Non ci
allarghiamo, adesso.
Tatsuki
continuò a disegnare, senza fermarsi un secondo.
E ora era Grimmjow a non sapere quanto attentamente stesse guardando il
suo
viso, ancora più attentamente di prima. Perché
ora non si limitava
semplicemente a seguire i suoi lineamenti come fossero delle mere curve
da
rappresentare. Stava guardando lui, lui
che aveva la testa leggermente chinata verso il basso, così
come lo sguardo,
perso nel vuoto. Le labbra invece, erano appena distese in un sorriso.
Quell’espressione
era sicuramente la più bella e la più
vera che gli avesse visto fare. E Tatsuki sentì il bisogno di disegnarla, in religioso
silenzio, dedicandosi solo a
quella finché le lancette dell’orologio non furono
che a pochi centimetri dalla
mezzanotte.
«
Posso... farti
qualche domanda sul tuo lavoro? », gli chiese quindi, posando
la matita a terra
e intrecciandosi le mani in grembo, sul blocco da disegno.
« Uh?
Mica
dovevo starmene “zitto e fermo”? »
«
Tempo scaduto.
», rispose, accennando all’ora. « Adesso
puoi muoverti, i tuoi soldi non sono
più in pericolo. »
« Ah.
»
Grimmjow
non si era minimamente accorto di quanto veloce
fossero passati gli ultimi venti minuti. Era stato talmente assorto nei
suoi
pensieri che il tempo era volato. Un po’ gli dispiaceva,
forse. Cioè, per la
storia del modello. Stava cominciando ad abituarcisi, a trovarlo
rilassante,
pensò, mentre allungava una mano ad afferrare i suoi jeans
per rivestirsi.
Quante
volte aveva fatto quello stesso gesto, seduto su
un letto nella casa di qualche sua cliente, l’una
addormentata e ignara che la
mattina dopo si sarebbe ritrovata sola, l’altra che lo
pregava di restare
ancora qualche minuto, l’altra ancora che già gli
chiedeva quando avrebbero
potuto rivedersi. La realtà era che quei pensieri che gli
erano passati per la
testa, quella sensazione che aveva provato nel parlare, solo parlare
con quella
che si era presentata come una delle tante altre sue clienti ma che
alla fine
non lo era stata, lo avevano scombussolato un po’.
«
Chiedi quel
che ti pare. »
Tatsuki
gli lanciò la maglietta nera che lui afferrò al
volo.
«
Quanto prendi
come stipendio? Quando lavori come host, dico. E... la cerniera.
», il suo
sguardo aveva involontariamente seguito i suoi movimenti, al che
Grimmjow
sorrise divertito dalla punta di imbarazzo che vide ancora sulle sue
guance.
Che diavolo, aveva appena passato due ore a disegnarlo solo in boxer.
«
Beh... tieni
conto che il locale dove lavoro io non è un host club vero e
proprio.
Altrimenti prenderei molto di più. Ho sentito di host
“d’alta classe” che
prendono anche una decina di milioni yen al mese. Io sto sui venti,
trentamila
yen. A volte anche di più. Dipende da come gira ogni singola
serata. E da come
girano al capo, anche. E al capo girano sempre male. »
Tatsuki
aggrottò le sopracciglia. « Perché fai
anche
questo... “lavoro”, allora? Trentamila yen al mese
mi sembrano più che
sufficienti. »
« Ma
quanto
siamo impiccione... »
« Hai
detto tu
che potevo chiedere quello che mi pare. »
«
Però non ho
mai detto che avrei risposto a tutto. », le sorrise ancora,
con fare furbo, al
che Tatsuki sbuffò.
« Che
età hanno
di solito le tue clienti? »
«
Tutte le età.
Mi capitano pure delle cinquantenni. E devi vedere come si mettono in
tiro, si
credono delle ragazzine... »
«
Mh... quindi
anche delle... delle ragazze come me, della mia età?
», chiese incuriosita.
Molti dei personaggi femminili dello shōnen
su cui doveva lavorare, erano adolescenti.
Grimmjow
accennò a una risata di scherno, alludendo al
suo aspetto piuttosto trasandato. « A te,
non ti farebbero mai entrare, al Jūichiban.
»
« E io
non ho
intenzione di entrarci. Per questo ho portato il “Jūichiban”, o come si chiama,
da me. », rispose lei, indispettita e
allo stesso tempo risoluta, facendo un cenno verso di lui, che scosse
la testa,
ridendo.
«
Adesso tocca a
me fare le domande. Come mai ti serve sapere tutte ‘ste cose
sugli host? »
La
ragazza sospirò. « Perché devo fare una
dōjinshi, e ho poco tempo e zero
idee. »
Grimmjow
aveva fatto in tempo a sbirciare di sfuggita
qualcuno degli schizzi che aveva fatto, e per quello che ne poteva
capire lui,
l’aveva trovata piuttosto brava. Aveva uno stile... maturo?,
realistico, un po’
spigoloso forse, ma era anche quello che conferiva
particolarità al disegno.
«
Amatoriale o
retribuita? La dōjinshi, dico.
Insomma, per andare in stampa sborsi tu o sborsa qualcun altro?
»
« No,
no, sono
sotto contratto. La mia casa editrice ha intenzione di fare un mensile
dedicato
a delle nuove serie josei, e inseriranno anche qualche dōjinshi,
quindi mi hanno incaricata di fare un capitolo autoconclusivo
di quaranta pagine. »
Grimmjow
si lasciò andare a un fischio di stupore. Quindi
doveva essere brava sul serio, se sarebbe addirittura finita su una
rivista.
«
È la prima
volta che pubblichi? »
« No,
in
realtà... lasciamo perdere. È una storia noiosa e
complicata. », distolse lo
sguardo, scuotendo appena la testa mentre si tirava su da terra
spazzolandosi i
pantaloni, per posare sul kotatsu
il
blocco. E Grimmjow preferì non insistere oltre, mentre a sua
volta, si alzava.
«
Piuttosto... sei
disposto a tornare tra una settimana? Ho ancora delle domande. E mi...
servirebbe qualche consiglio da qualcuno del settore. »
Ed
eccola ancora, quella prepotente sensazione di
sollievo. Per un attimo, rivestendosi, aveva avuto
l’impressione che sarebbe
finita lì, come tante altre volte, anche se diversamente da
tante altre volte,
lei non aveva chiesto mai il suo corpo se non per poterlo guardare.
Anche
quella, era stata una sensazione strana, che l’aveva trovato
combattuto. Prima
si era sentito come in gabbia e costretto a fare qualcosa in cui non
aveva voce
in capitolo, che lo faceva sentire sottomesso e impotente, poi
improvvisamente
più, come dire... libero, di pensare, e allo stesso tempo di
staccare la testa
dal resto. Prendersi una pausa dalla sua vita fatta di sorrisi, carezze
e
parole finte. Ma il cambiamento non lo aveva apportato Tatsuki,
semplicemente
era stato Grimmjow a mutare modo di porsi. Perché finendo
per comportarsi in un
modo più vicino al vero sé stesso, si era reso
conto che stare fermo con
un’espressione che non tirava da tutte le parti
perché troppo falsa, non era
poi così tanto difficile.
Si appoggiò
contro
lo stipite della porta che lei aveva aperto, infilandosi le mani in
tasca. Però
era decisamente meglio di non pensarci troppo. Perché
altrimenti quello
“staccare da tutto il resto”, avrebbe finito per
confonderlo e basta, come
prima. Sta di fatto che lei gli aveva chiesto di tornare, e beh... per
dare una
risposta a quello non c’era bisogno di rifletterci troppo su.
Era la
televisione che glielo chiedeva per favore.
« ...
Solo se mi
fai vedere quei disegni. », fece il prezioso, anche se il
sorriso furbo che le
rivolse era un chiaro sì.
«
Perché dovrei?
»
« E
perché io dovrei
venire qui, e perdermi ore di lavoro? »
« Io
ti pago
comunque. », replicò Tatsuki, premendogli contro
il petto tutti e dieci i mila
yen, stupendolo piacevolmente.
« Ma
io non mi
diverto. », anzi, rischiava di diventare pazzo per il divieto
di poterla anche
solo sfiorare quando lei lo provocava così spudoratamente.
No, beh...
involontariamente. Però lo provocava, e tanto anche, e
questo era un bel
problema soprattutto perché la vedeva dura, la
possibilità di poterci combinare
qualcosa con lei. Ma era una frustrazione che in qualche modo andava
sfogata, o
avrebbe finito per-...
« ...
Sei capace
di giocare a Tekken? »
Tekken.
Tekken sommato
a quella televisione. Grimmjow si
sentì
baciato alla francese dalla luce divina, e il sesso improvvisamente
divenne
l’ultimo dei suoi problemi.
« Se
sono
capace? Stai parlando con il re indiscusso, gattina.
»
« Ah
sì? Allora
ti sfido. », Tatsuki gli regalò un altro sorrisino
perfido, mentre gli sfilava
dalla mano che si era stretta attorno ai soldi, un biglietto da mille
yen. Okay,
se l’era andata a cercare, chiamandola in quel modo.
«
Perderai
miseramente. »
« Tra
una settimana.
Alla stessa ora. »
« Ci
scommetto
quei mille yen che perderai. »
Tatsuki
tirò un sospiro di sollievo mentre appoggiava la
fronte contro il legno freddo della porta che aveva appena chiuso.
Era
andato tutto sorprendentemente bene, a parte un fraintendimento
iniziale che poi avevano più o meno chiarito. Lei
stessa era andata sorprendentemente bene. Era riuscita a
comportarsi quasi come faceva quattro anni prima, quando ancora aveva
quella
che poteva essere chiamata una parvenza di vita sociale.
Quattro
anni prima, nel 2009, anno in cui anche lei non
aveva avuto affatto il tempo di guardare in prima visione Phantom.
-
NDA n.2: Lasciamelo dire, Tatsuki... ARE YOU
FUNCKING KIDDING ME?
Vi
giuro. Questa ragazza ha una forza di volontà
incredibile a non essere saltata addosso al nostro bel panterone
azzurro,
infoiato e incredibilmente seCSi. Checcazzo, IO volevo
saltare addosso al
portatile mentre scrivevo. MA TANTO CEDERAI, NON TI CREDERE.
/inserire
risata malvagia qui/
NDA n.3:
... Pace all’anima di Cal e L. ç3ç
|
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Capitolo 8 *** Capelli di fuoco, occhi di ghiaccio. ***
NDA:
Dico solo, leggete con attenzione il poem che ho messo
come incipit.
Cirucci,
grazie. Hai riassunto tutto quello che c’era da
dire, sia per Linalee che per Rukia. ♥
E
diamine, Ichigo e Linalee che battibeccano come una
coppia sposata mi fanno morire. x°D
Per
non parlare del fatidico e tanto atteso incontro tra
Lavi e Rukia in questo capitolo... io AMO le coppie che si danno del
lei. N e m e con la sua long AU
crossover Hortum Septentriones qui
su EFP ne sanno
qualcosa. *-*
E
come al solito, mi scuso per il ritardo, e ringrazio
tutti quelli che mi lasciano a ogni capitolo delle recensioni che
apprezzo
davvero!
-
CAPELLI DI FUOCO, OCCHI DI
GHIACCIO.
Ti ostini ad agghindarti
Pur sapendo che ti aspetta la falce
Ti ostini a farti bella
Pur sapendo che ti aspetta la falce
È spaventoso, è spaventoso
Il momento in cui verrai falciata
I tuoi capelli recisi
Somiglieranno a te, priva di vita
Sia i miei capelli che le mie unghie
Sono stupendi, curati come tesori
Perché basta che vengano
separati dal corpo
Per diventare qualcosa di sporco e
disgustoso?
La risposta è semplice:
Essi così non sono altro
Che l'immagine della mia morte.
[Bleach – volume
29]
Linalee
Lee guardò con occhio critico lo smalto fresco di
stesura sulle sue unghie, inclinando la testa di lato e chiedendosi se
ci
avrebbe messo ancora molto prima di asciugarsi. Le sue dita fremevano
impazienti sotto il suo sguardo concentrato, quasi come se fissandole
così
intensamente, fosse convinta che avrebbe potuto dimezzare il tempo.
Finché
aveva le mani in quello stato, non poteva muoversi.
Giusto respirare, ma anche quello era qualcosa che faceva con estrema
lentezza
e attenzione. Linalee Lee amava colorarsi le unghie, soprattutto delle
tonalità
del viola, che metteva in risalto i suoi occhi proprio di quella
sfumatura
particolare. Amava prendersi un po’ di tempo per
sé stessa, la sera, prima di
uscire per andare a lavorare. Scegliere il colore, sdraiarsi a pancia
in giù sul
divano con un foglio di giornale sotto le mani per proteggere la fodera
da
eventuali gocce ribelli, e guardare come le sue unghie mediamente
lunghe
prendessero vita sotto i luminosi riflessi violacei creati dal sole,
che
proprio in quel momento stava tramontando dietro la schiera di edifici
su cui
si affacciava il piccolo balconcino della sua camera da letto.
Curarsi
le unghie, anche solo dargli una sistemata
impercettibile con la lima, era un piccolo rituale quotidiano al quale
non
sapeva rinunciare. Così come lo spazzolarsi i capelli
esattamente cento volte
prima di andare a dormire. Si rendeva perfettamente conto da sola che
era una
cosa stupida e senza senso. Eppure, da quando
all’età di sedici anni si era
volutamente rasata i capelli a zero, il farli ricrescere forti e sani
era
diventato il suo scopo prioritario. E un detto sentito una volta per
caso,
diceva proprio che spazzolarseli cento volte ogni giorno contribuiva a
farli
crescere più velocemente, rendendoli più lucenti
e morbidi. Così Linalee aveva
fatta sua questa discutibile perla di saggezza, credendoci ciecamente,
volendo
crederci ciecamente.
Perché
proprio un altro luogo comune, l’aveva spinta a
fare quel gesto decisivo. Il luogo comune secondo cui una donna col
cuore
spezzato, si taglia i capelli, come a dare un taglio netto col passato
e
iniziare una nuova vita.
E
Linalee Lee, i cui capelli un tempo arrivavano ai
fianchi, si era rasata completamente.
Ora
le arrivavano appena di un dito sotto le spalle.
Poteva legarli, se voleva. La prima volta che ci aveva provato, dopo
anni che
non era stata in grado di farlo, non era riuscita a trattenere le
lacrime davanti
allo specchio che rifletteva la sua immagine.
Linalee
svolgeva altri “rituali” quotidiani per lei
sacrosanti, come il lavarsi i denti dopo ogni pasto, anche solo uno
spuntino, e
passarsi il filo interdentale ogni sera. Oppure le maschere di bellezza
che si
applicava una volta alla settimana, sempre lo stesso giorno, o ancora,
i
regolari bagni col sale grosso. La sua, però, non era
vanità. Non era per
apparire bella agli occhi degli altri che faceva tutto questo.
Piuttosto, era
una cura e pulizia maniacale del proprio corpo. Come se in un certo
senso,
credesse che in questo modo si potesse purificare da tutte le scorie
che era
fermamente convinta di avere dentro di sé.
Quel
giorno però, stava affrontando la sua tanto amata
manicure non con la solita calma. Normalmente, avrebbe aspettato con
pazienza i
minuti necessari affinché lo smalto si asciugasse, senza
appunto muoversi di un
solo millimetro per evitare di prendere dentro con le unghie da qualche
parte e
dover ricominciare tutto daccapo. Anche il tempo che dedicava a
sé stessa e ai
suoi rituali, per lei che per tutta la vita aveva messo sempre gli
altri al
primo posto, su un piedistallo, era qualcosa di sacro. E qualcosa di
cui
approfittava, per prendere una pausa dalla sua vita e rilassarsi un
po’. Eppure
in quel momento, avrebbe voluto veramente che il tempo accelerasse,
perché le
sue dita fremevano davvero dalla voglia che aveva di battere sulla
tastiera del
computer sulla scrivania al suo fianco, la risposta che aveva
già costruito e
cambiato tante volte nella sua testa.
-Mugetsu:
06:13
pm
È la cosa più
stupida che abbia mai sentito.
-YanWeiDie:
06:13
pm
Tecnicamente non la stai sentendo,
la stai leggendo...
-Mugetsu:
06:15
pm
Resta una cosa stupida.
Completamente idiota.
-YanWeiDie:
06:16
pm
Per te ogni cosa che dico lo
è. Non mi prendi mai sul serio.
-Mugetsu:
06:17
pm
...
“Tecnicamente” non stai dicendo niente, stai
scrivendo.
-YanWeiDie:
06:20
pm
...
-Mugetsu:
06:21
pm
Perché quando ho ragione
io ti offendi?
-YanWeiDie:
06:21
pm
Perché tu vuoi sempre
avere ragione. E non mi sono offesa.
-Mugetsu:
06:22
pm
Ah no?
-YanWeiDie:
06:24
pm
No.
-Mugetsu:
06:24
pm
Come vuoi.
-YanWeiDie:
06:32
pm
... Va bene, forse un po’
sì. Ma mi da fastidio che etichetti quello che
penso come “stupido”.
-Mugetsu:
06:37
pm
Ma lo è.
-YanWeiDie:
06:40
pm
Vedi? Lo stai facendo ancora.
-Mugetsu:
06:41
pm
...
Tecnicamente non posso vedere
niente.
-YanWeiDie:
06:42
pm
!!!!!
-Mugetsu:
06:46
pm
Va bene, scusa. La pianto.
-YanWeiDie:
06:53
pm
Tanto lo so che stai ridendo di me,
come ogni volta che chattiamo...
-YanWeiDie:
07:05
pm
Mugetsu?
-Mugetsu:
07:07
pm
Scusa, un contrattempo.
Piuttosto... Come fai ad essere convinta che io stia ridendo se non mi
vedi neanche?
Era
vero.
Linalee
Lee, alias Yān
Wěi Dié, nome cinese per il macaone,
un
tipo di farfalla dalle ali particolari,
non
poteva saperlo.
Così come non poteva sapere, anzi, neanche lontanamente
immaginare, chi fosse
il suo interlocutore, con cui da mesi si intratteneva a parlare. Anche
per ore,
senza che si accorgesse minimamente di quanto in fretta il tempo
scorresse.
Preferiva
non fare supposizioni campate per aria sulla sua
identità. Da come si esprimeva, però, doveva
essere un uomo. Cosa che
inizialmente l’aveva frenata. Ma al riparo dietro lo schermo
del computer, si
era fatta forza. E pian piano, si era trovata ad aprirsi sempre di
più con
quello sconosciuto.
Le
loro conversazioni erano sempre così. Discutevano. Non
facevano che discutere. Presto però Linalee si era resa
conto che le concise e
pungenti risposte, o meglio, frecciatine
di Mugetsu non erano che un sottile
modo per prenderla in giro, ma non con intento offensivo. Linalee Lee
conosceva
i propri difetti, si rendeva perfettamente conto di essere molto
permalosa. Ma
per qualche motivo che ancora non riusciva a spiegarsi nonostante mesi
e mesi
di messaggi – scambiati privatamente, perché
entrambi preferivano mantenere una
sorta di intimità – non riusciva proprio a mettere
il broncio per le sue
parole. Anzi. Avevano sempre il potere di strapparle un sorriso.
Esattamente
come in quel momento in cui delicatamente
aveva preso a schiacciare coi polpastrelli le lettere della tastiera.
-YanWeiDie:
07:13
pm
Perché anche io sto
ridendo. Come ogni volta che chattiamo.
Lo sai... mi piace parlare con te.
-Mugetsu:
07:15
pm
...
-YanWeiDie:
07:15
pm
?
-Mugetsu:
07:18
pm
Niente.
“Scriverti”,
vorrai dire.
-YanWeiDie:
07:20
pm
Va bene, va bene! Chi me
l’ha fatto fare di correggerti...!
-Mugetsu:
07:21
pm
Ecco, l’hai capito.
-YanWeiDie:
07:21
pm
Smettila di ridere!
-Mugetsu:
07:22 pm
Anche tu, se è per
questo.
Stava
giusto portandosi una mano alla bocca per
nascondere un sorriso, come se lui potesse vederla nonostante tutto,
quando il
tintinnio di un mazzo di chiavi la riscosse dai suoi pensieri,
facendola
tornare alla realtà. Distogliendo lo sguardo dallo schermo
del computer, si
voltò nella direzione della porta, riuscendo appena ad
intravvedere la minuta
figura di una ragazza dai capelli corvini che si chinava per
raccogliere e
indossare un paio di bassi anfibi, sparendo dietro il muro ad angolo
che
segnava l’ingresso.
Esitò
solo un secondo prima di formulare la domanda.
«
Rukia, esci? »
In
tutta risposta, Rukia Kuchiki non diede nessuna
risposta. Ovviamente. Linalee aveva
chiesto qualcosa del tutto superfluo, visto che era più che
evidente il fatto
che lei si stesse preparando per uscire.
«
Verso... verso
che ora torni? », Linalee provò nuovamente,
cercando di risultare cordiale.
«
Tornerò quando
tornerò. », si limitò a replicare la
ragazza senza neanche degnarla di uno
sguardo, mentre si sistemava sulle spalle un sobrio trench nero,
legandosi la
cintola attorno alla sottile vita.
Colta
da un improvviso moto di irritazione, Linalee
tentò, come sempre, di sorvolare sulla sua indifferenza e
mandare giù le sue
risposte secche che avevano il chiaro intento di stabilire un confine
netto tra
di loro. Ormai aveva capito da tempo che Rukia non aveva la minima
intenzione
di instaurare il benché minimo rapporto di amicizia con lei,
nonostante
condividessero lo stesso tetto. Voleva starsene per i fatti suoi, in
pace,
senza essere disturbata da nessuno. Ma Linalee non riusciva proprio a
rassegnarsi ad essere così palesemente ignorata dalla sua
coinquilina, con cui
aveva sperato fin dal primo momento di andare d’accordo. Le
sarebbe bastato
anche solo un saluto prima che uscisse di casa, cavolo.
«
Okay. Hai
preso il cellulare, vero? Così posso chiamarti nel caso-...
»
Ma
la porta si chiuse non proprio delicatamente dietro le
spalle di una Rukia a cui era bastato voltarsi per una breve frazione
di
secondo e guardarla con la stessa pena ed esasperazione con cui si
guarda la
propria madre troppo ansiosa, per zittirla all’istante.
Linalee
Lee si sentì infinitamente stupida. Eppure la sua
indole amichevole e forse davvero un po’ materna e
apprensiva, le rendevano veramente
impossibile non impicciarsi, o
comunque, non tentare di intavolare un minimo di discorso.
Con
un sospiro sconsolato, appoggiò la testa alla
scrivania, rendendosi conto troppo tardi che con la fronte aveva preso
dentro la
tastiera del computer.
-YanWeiDie:
07:33
pm
hyuj777tg645sall
-Mugetsu:
07:34
pm
... Che?
-YanWeiDie:
07:34
pm
Aaah, scusa!
Rukia
Kuchiki tamburellò con le corte unghie
mangiucchiate da anni e anni di nervosismo sul tavolo di legno, mentre
sfogliava l’ennesima pagina. Non si accorse minimamente
dell’occhiata curiosa
che una cameriera dai lunghi capelli biondo ramato e il ventre
teneramente
arrotondato sotto il grembiule, le lanciò passandole
davanti, andando a
registrare sul taccuino l’ennesima ordinazione. Quella
singolare ragazza dalla
corporatura minuta e dal trucco esasperato, era ormai seduta a quel
tavolo ai
margini del locale da più di tre quarti d’ora.
Aveva ordinato una bibita e
delle patatine fritte, che non aveva pressoché toccato, e
non aveva fatto altro
che starsene seduta compostamente – fin troppo, ogni tanto
l’aveva persino vista
guardarsi intorno con aria circospetta e rilassare la schiena impostata
rigidamente contro lo schienale della panchina di legno, per poi
tornare al suo
libro.
Dava
l’idea di non sentirsi a suo agio, fuori posto.
Anche se si stava dedicando a un passatempo tranquillo come la lettura,
per di
più di un libro che da quando lo aveva iniziato
l’aveva presa molto, era
visibilmente nervosa, e ci metteva secoli a girare una pagina. La
verità è che
Rukia Kuchiki aveva sfogliato almeno una decina di facciate rileggendo
tre
volte ogni frase senza neanche rendersene conto, perché non
riusciva proprio a
concentrarsi e ad estraniarsi da tutto il resto come era solita fare
quando le
capitava di imbattersi in un libro così bello e avvincente.
La sua mente era
assente, persa neanche in pensieri, ma piuttosto attanagliata
nell’ansia, così
come il suo stomaco.
È in ritardo, riusciva
solo a formulare, ogni volta che spostava lo sguardo dalle lettere
stampate ai numeri in rilievo dell’orologio appeso al muro
dall’altro lato
della tavola calda.
C’è
anche da dire che lei era arrivata in anticipo di
almeno trenta minuti rispetto all’ora segnata sul pezzo di
carta che ancora
conservava, al sicuro nella tasca dei jeans. Sta di fatto che il
misterioso... ragazzo?, uomo?, che gliel’aveva
consegnato quella famosa sera in cui aveva
creduto di essere vittima di una rapina, non le si era ancora
presentato.
È in ritardo di un
quarto d’ora.
Tentò
per l’ennesima volta di rilassarsi, lanciando
un’occhiata alle patatine fritte davanti a lei. Ne prese una,
constatando già
al tatto ancor prima di dare un netto morso coi denti, che ormai tutto
il
piatto doveva essere diventato freddo.
Lui
era in ritardo, ma il luogo dell’appuntamento era
quello, senza dubbio. Non poteva essersi sbagliata, aveva controllato
più e più
volte prima di recarsi lì quella sera. Si era chiesta
perché quella persona
avesse scelto un posto così affollato e
dall’atmosfera accogliente come quel
ristorante per famiglie, l’Oinari,
pure
a pochi isolati dal suo appartamento. Si era domandata parecchie volte
anche
cosa volesse da lei, quale fosse lo scopo di quell’incontro.
La sua mente era
al contempo piena di ipotesi e vuota di certezze.
Cosa sta aspettando?
La
tensione saliva dentro di lei a ogni scocco della
lancetta dell’orologio a muro che non poteva udire,
sovrastato da tutte le voci
dei clienti con figli al seguito, che all’ora di cena
riempivano la tavola
calda.
Sfogliò
un'altra pagina, senza aver realmente afferrato
una parola.
«
Buonasera. », disse
a quel punto una voce dal tono perfettamente studiato per risultare
profonda e accattivante,
con una punta di ironia, amplificata dalle labbra da cui proveniva,
tese in un
sorriso che a prima vista, per uno sguardo ingenuo, sarebbe potuto
apparire
amichevole.
Rukia
Kuchiki trasalì, ma cercò in tutti i modi di non
darlo a vedere. Così come si impose di non alzare lo gli
occhi verso la figura
che si era posta di fronte a lei, con le mani coperte da mezzi guanti
infilate
nelle tasche di un paio di pantaloni color khaki. Si
concentrò sui suoi vestiti
evitando accuratamente il suo viso, mentre chiudeva il libro,
infilandoci
l’indice dentro per tenere il segno. Indossava una sciarpa,
una giacca di pelle
slacciata di evidente scarsa qualità. Niente completi
eleganti e cravatte.
Niente abiti costosi e firmati. Sembrava incredibilmente un ragazzo
normale,
come tanti, come quelli che erano seduti a qualche tavolo di distanza
da loro,
e che stavano ridendo per chissà quale battuta, poveri
stolti senza
preoccupazioni di sorta.
Non
rispose al suo saluto, non lo degnò neanche di uno
sguardo come faceva sempre con le persone che evidentemente volevano
qualcosa da
lei, ma non arrivavano dritte al punto se non dopo una serie infinita
di falsi
convenevoli e gentilezze immotivate. E quando infine lo facevano, si
esprimevano con un tono talmente mellifluo da farle venire la nausea,
credendo
che adulandola avrebbero ottenuto un risultato migliore. Aveva passato
gli
ultimi cinque anni della sua adolescenza in mezzo a gente del genere,
gente
bugiarda, calcolatrice, egocentrica ed egoista, oppure fredda,
altezzosa,
sprezzante. Gente che era stata costretta a chiamare
“famiglia”. Si era
ripromessa davanti alla tomba di sua sorella che non si sarebbe
più lasciata
ingannare da persone del genere, mai più.
« Mi
scuso per
averla fatta attendere, non era mia intenzione. »,
continuò il ragazzo che ai
suoi occhi rimaneva ancora con un volto sfuocato, indistinto, mentre si
accomodava sulla panchina di fronte a lei.
Rukia
prese fiato e socchiuse gli occhi, prendendo il
segnalibro e chiudendo definitivamente il volume che posò
sul tavolo,
spingendolo di lato. Aveva bisogno di concentrarsi per trovare la forza
di
guardarlo in faccia senza sentire l’impulso di riversargli
contro tutta la sua
ira repressa per troppo tempo. Oppure senza provare l’istinto
di scappare via a
gambe levate per la paura.
Rukia
Kuchiki era incredibilmente brava a scappare.
Ma
era stanca di farlo, stanca di comportarsi così
debolmente, senza polso. Almeno, non con qualcuno che avrebbe saputo
come
gestire. La sua cosiddetta famiglia era qualcosa di completamente
diverso,
qualcosa contro cui era meglio non mettersi. Per questo, per il modo in
cui
quel ragazzo l’aveva avvicinata, aveva concluso che non
lavorasse per i
Kuchiki. Probabilmente era un giornalista, o un informatore che campava
di
notizie, o qualcosa del genere. Insomma, qualcuno che voleva essere
pagato per
il proprio silenzio. Quindi i tremiti che inizialmente
l’avevano scossa la
notte dopo quel loro incontro, impedendole di dormire, erano cessati
lentamente. E Rukia aveva preso ad analizzare la situazione con mentre
fredda,
lucida. Calcolatrice, come le persone che odiava e in cui si era
trasformata
vivendo insieme a loro. Sul suo cuore era calata una spessa coltre di
ghiaccio,
talmente gelida da mordere la carne della mano di chiunque avesse
provato a
sfiorarla, a scioglierla.
Questo
si rifletté nei suoi occhi blu scuro, quando
finalmente li piantò sul viso di Lavi Bookman, gelando il
suo sorriso.
« Non
si scusi
se non è veramente dispiaciuto. »
« ...
Prego? »
« Se
non fosse
stata sua attenzione farmi attendere, non avrebbe passato gli ultimi
venti minuti
a fissarmi seduto all’altro capo del locale. »
Lavi
Bookman ricambiò il suo sguardo, sconcertato. Era
vero. Lui era arrivato in perfetto orario, non un minuto in anticipo o
uno di
ritardo. Eppure aveva passato esattamente venti minuti ad osservare e
fotografare
mentalmente la figura di Rukia mentre sfogliava lentamente le pagine di
un
libro, nascondendo il viso e i capelli facilmente riconoscibili sotto
il
cappello che era solito indossare. Era stato quello a tradirlo? Ma non
era
possibile, fino a quel momento c’erano stati metri di
distanza tra di loro, lei
non avrebbe mai potuto riconoscerlo da così lontano, e per
di più la prima
volta non l’aveva nemmeno guardato in faccia. Resistette
all’impulso di girarsi
per gettare un’occhiata al lato del bancone presso cui era
stato seduto, per
controllare come fosse la visuale dal posto di lei, e se la distanza
fosse
effettivamente quanta gli era sembrata. In fondo, nella sua testa,
ricordava
perfettamente quanti passi avesse fatto per raggiungerla, quando
finalmente si
era deciso ad alzarsi, stanco di studiare da lontano i suoi gesti, il
suo modo
di porsi apparentemente ignaro del suo sguardo attento. Già,
apparentemente. Perché
Rukia Kuchiki si
era accorta di tutto, solo Dio – sulla quale esistenza
preferiva non pronunciarsi
– sapeva come.
Represse
a stento un sorriso che gli nacque spontaneo
sulle labbra di fronte a quella magistrale dimostrazione di furbizia,
nella
quale lui, a cui non sfuggiva niente, era cascato in pieno. Se non
fosse stato
che si era già tolto il cappello sedendosi di fronte a lei,
l’avrebbe fatto in
quel momento rivolgendole un cenno della testa a mo’ di
inchino. Aveva fatto
bene a studiare la sua strategia mettendo in conto che quella ragazza
non era
da sottovalutare. Ma non avrebbe mai pensato che gli avrebbe dato
così filo da
torcere.
Ora
che aveva trovato la forza di guardalo, Rukia Kuchiki
studiò il suo viso, la sua chioma rossa mediamente lunga e
vagamente
spettinata, i dorati orecchini a cerchio che portava ai lobi delle
orecchie, ma
più di tutto, le sue labbra incurvate leggermente, come se
fosse divertito, o
piacevolmente sorpreso, e l’unico occhio visibile, quello
sinistro, non coperto
da una benda nera che non la incuriosì più di
tanto. Un occhio di un verde
incredibile, brillante, ma allo stesso tempo completamente vuoto. Il
sorriso
sulla sua bocca non raggiungeva il suo sguardo.
La
ragazza prese nuovamente fiato, intrecciando le mani
sul piano di legno. Lei, al contrario di tutti i giri di parole velati
di
disprezzo degli altri Kuchiki, amava andare direttamente al punto.
« Cosa
vuole? »,
chiese quindi, pungente, gelida come ghiaccio. « Soldi? Al
momento,
probabilmente lei ne ha più di me. »
Lavi
considerò mentalmente che nonostante la sua esile
corporatura e l’aria da adolescente ribelle a dispetto dei
suoi venti anni di
età, la sua voce, il tono con cui si esprimeva, erano
improntati di una
maturità incredibile. Così come i suoi occhi. Li
trovava incredibili, come
ipnotizzanti. Le sorrise ancora, accondiscendente.
« Su
questo avrei
i miei dubbi, ma comunque... Se il suo timore è che vada a
spifferare ai
quattro venti chi è e dove abita, allora non si preoccupi,
non sono queste le
mie intenzioni. »
E quali sono, allora?, si
chiese Rukia
assottigliando lo sguardo.
« Sa
dove abito?
»
« So
cose che
lei nemmeno immagina, signorina Ku-... »
«
Rukia. Mi
chiami Rukia e basta. »
«
Possiamo anche
smettere di usare il lei e darci un taglio con questo tono formale?
», propose
Lavi sempre con un fare affabile che non intaccò minimamente
l’impassibilità di
Rukia.
« Non
ho
intenzione di offrirle tutto il braccio. Si accontenti del dito.
»
« Ma
come, non
era la mano? »
« Non
ho
intenzione di darle nemmeno quella. »
Questa
volta, Lavi dovette sopprimere una vera e propria
risata, che sicuramente agli occhi della sua glaciale interlocutrice
sarebbe
parsa sgarbata. O forse non si sarebbe scomposta minimamente,
chissà.
Tossicchiò appena, coprendosi la bocca con il dorso di una
mano, mentre con
l’altra attirava l’attenzione di Rangiku Matsumoto
che stava passando proprio
davanti a loro, diretta in cucina. Ordinò un
caffè, per poi abbandonarsi contro
lo schienale della panca in legno, prendendosi un momento per
raccogliere i
propri pensieri e riorganizzare la sua “strategia
d’attacco”. Dopo qualche
secondo di silenzio, fece un cenno verso il tavolo, indicando il piatto
di
patatine fredde.
«
Posso
rubargliene una? »
«
Anche tutte. »,
e Lavi non se lo fece ripetere due volte, anche se non aveva
esattamente fame. Ma
sentiva come il bisogno di temporeggiare per alleggerire la tensione.
Come
aveva immaginato, la sua aria amichevole non attecchiva minimamente con
quella
Kuchiki-... no, Rukia. Nome che
trovò
incredibilmente adatto ai suoi occhi di una tonalità di blu
profonda quanto la
notte, nonostante significasse “luce”.
«
Bella trilogia,
Millennium. »,
commentò quindi con
noncuranza, leccandosi il sale delle patatine dal labbro superiore.
Anche se
non sarebbe servito ad ingraziarsela, Lavi non avrebbe mai rinunciato
la sua
galanteria e la sua parlantina sciolta. Dopotutto, amava conversare,
trovava
che così si potesse capire molto di più delle
persone rispetto al semplice
osservarle. “Conosci il tuo nemico”, diceva il buon
vecchio Sun Tzu ne L’arte della
guerra.
Se
poi l’argomento su cui verteva la discussione erano i
libri, chi era lui per tirarsi indietro?
«
Ottima trama e caratterizzazione psicologica
dei personaggi », continuò, « anche se a
mio parere poteva essere scritta
meglio. In particolare tutta quella abbondanza di caffè e
tramezzini infilata
in ogni capitolo, Larsson avrebbe potuto risparmiarsela. »
Incredibilmente,
il ragazzo notò che Rukia fu colpita da
quella sua constatazione, senza però poter sapere che il
tono secco con cui
replicò fosse dovuto al fatto che le sue parole avevano
espresso un pensiero
che più di una volte era passato anche per la sua testa. E
la cosa, per qualche
motivo, l’aveva irritata. Senza volerlo, Lavi aveva messo a
segno il primo
punto contro l’imperturbabilità di Rukia Kuchiki.
«
Peccato che
non fosse lei il suo editore, almeno così
gliel’avrebbe fatto notare. »
« Oh,
se fosse
ancora vivo avrei sicuramente fatto di tutto per diventarlo e
presentargli le
mie critiche una per una. Ah, grazie. », aggiunse poi,
rivolto a Rangiku che
era tornata col caffè che lui aveva ordinato. Lavi le
rivolse un sorriso
gentile, scendendo poi ad accarezzarle la pancia con lo sguardo.
« Mi dica, di
quante settimane è? »
« Sono
alla
quindicesima. », sospirò la donna. « Il
pensiero di essere neanche a metà mi
uccide...! »
« Non
lo dico
per consolarla, mi creda. Ma per quel che posso vedere io, sta
affrontando il
tutto splendidamente. Non credo di aver mai visto una madre
più bella. »
Rangiku
posò le mani sui fianchi con fare di rimproverò.
Ma il sorriso furbo che le si dipinse sulle labbra carnose, rese la sua
aria
solo più dolce.
« Sono
sposata,
ragazzino. E quasi potrei essere la tua, di madre. »
«
Sarei un
ragazzino molto fortunato, allora. »
Rukia
approfittò di quel breve scambio di battute in cui
l’attenzione era stata distolta da lei per ritrarre le mani
sotto il tavolo,
dove le strinse forte per farsi coraggio.
La
sua espressione non cambiò di una virgola.
Eppure
non si poteva dire lo stesso di quella di Lavi. Quando
aveva guardato la pancia della cameriera, per un attimo il suo occhio
verde le
era sembrato brillare rendendo giustizia a quel bel colore
così vivo.
Ma
era stato davvero solo un attimo, e nello stesso in
cui la cameriera si era allontanata e lui era tornato a posare
quell’occhio su
di lei, ogni luce in esso si era spenta.
Lavi
appoggiò il mento sul palmo di una mano e sollevò
la
tazzina di caffè – rigorosamente senza zucchero
– fino a portarla alle proprie
labbra, lanciando un'altra occhiata al libro di Rukia, mentre un
pensiero lo folgorava,
stimolato dalla copertina e dall’aroma della bevanda.
«
È a lei che si
ispira? Lisbeth, dico. »,
le chiese
con un sorriso, affilando lo sguardo per studiare meglio il trucco nero
che contornava
gli occhi di Rukia, proseguendo lungo il profilo del suo naso fino
all’anellino
a una narice. Forse era anche per questo che si era tagliata i capelli,
anche
se in un’acconciatura molto più sobria di quella
della protagonista di quella
trilogia.
« Cosa
glielo fa
pensare? », domandò con noncuranza lei. Il sorriso
di Lavi si allargò senza che
lui riuscì ad impedirlo.
« Non
è
evidente? »
« La
diverto
così tanto? »
Per
Lavi non aveva alcun senso negare, quando ormai era
evidente.
«
Molto, sì. »
Ma
chissà perché Rukia era convinta che fosse
l’esatto
contrario.
In
tutta risposta, quindi, si portò una mano al naso e
sfilò l’anellino, che subito si rivelò
un piercing con la clip. Falso, insomma.
«
È una
specie... di travestimento? », le chiese quindi il ragazzo,
inarcando un
sopracciglio.
« Lei
è l’ultima
persona nella posizione di farmi una domanda del genere. »,
replicò Rukia con
insensibile calma, facendo un cenno con la mano rivolto alla sua benda
sull’occhio destro, che poteva benissimo essere definita
“da pirata”.
Per
la seconda volta, Lavi cercò di trattenere una
risata, ma questa volta gli fu impossibile. Poi la battuta, se
così si poteva
definire il freddo umorismo di Rukia Kuchiki, era rivolta a lui, quindi
poteva
permettersi di ridere senza sembrare offensivo nei suoi confronti, no?
Ma
si ricompose in fretta, scuotendo la testa.
« Le
è passata
la voglia di prendermi in giro? »
«
Direi di sì. È
meno divertente quando ti rendono pan per focaccia. »
« A
proposito di
pan per focaccia... Lei dice di sapere molte cose su di me, ma io non
so
nemmeno il suo nome. Non mi pare corretto. »,
puntualizzò, mentre lui faceva un
cenno d’assenso.
«
Vero, Lisbeth
odia non conoscere i propri avversari o alleati che siano. »
« E
lei a quale
delle due categorie apparterrebbe? »
«
Questo dipende
tutto dalla decisione che lei stessa prenderà, Rukia. A questo punto, lasci che mi
presenti come il Mikael
Bloomkvist della situazione. »
Il
biglietto da visita che le aveva allungato sul tavolo
recitava a caratteri eleganti:
Dick
Bookman, giornalista freelance.
Rukia
non poté fare a meno di irrigidirsi. Un
giornalista. I suoi sospetti erano
fondati, dunque.
«
Bloomkvist è
un personaggio che non rientra esattamente tra i miei preferiti.
»
«
Eppure Sally
ne è fatalmente attratta. »
« Io
non sono
Lisbeth Salander così come lei non è Kalle
Bloomkvist. »
«
Altrimenti
questo starebbe a significare che lei è fatalmente attratta
da me. », scherzò
lui.
La
ragazza lo fissò per un lungo istante, decidendo ad
occhio e croce che era un bel ragazzo. O meglio, più che
bellezza, aveva carisma.
« Cosa
che trovo
alquanto improbabile. », concluse.
«
Così mi
ferisce... »
« Non
è niente
di personale, mi creda. Non sono attratta dagli uomini. »
«
Capisco. »
«
Neanche dalle
donne. », Rukia si sentì in dovere di precisare di
fronte all’ammirevole flemma
con cui lui aveva interpretato quella che aveva creduto una pacata
affermazione
di omosessualità.
« ...
Ora non
capisco. », replicò quindi Lavi, alquanto
perplesso.
« Non
c’è niente
di difficile da capire. »
«
Così si perde
le gioie migliori della vita, me lo lasci dire. »
« Se
è del sesso
che parla, lasci dire a me che è qualcosa che sicuramente
non mi perdo quando
mi capita l’occasione. »
Lavi
corrugò la fronte. Quella ragazza era una fonte
incredibile di novità. Per un attimo pensò che
non sarebbe riuscito a tracciare
un quadro completo della sua psiche neanche avendo a disposizione
interi
secoli.
« In
pratica sta
dicendo che quando le “capita
l’occasione” è capace di fare sesso con
una donna
o uomo che sia, verso il quale non prova neanche la minima attrazione?
»
Quello
che pensò Rukia, invece, fu come fossero finiti a
parlare di un argomento del genere. Soppesò la sua domanda
per qualche secondo.
« No,
credo che abbia
frainteso le mie parole. Sono stata poco chiara. Per attrazione
intendo...
quello che probabilmente lei chiamerebbe “amore”.
», precisò sempre con la
solita freddezza.
Anche
Lavi esitò un attimo, considerando da vari punti di
vista quella risposta a suo parere... interessante. E anche utile, in
un certo
senso. Si erano spinti a parlare di qualcosa di più
personale. Ottimo,
pensò, tendendosi un po’ di più
sul tavolo.
« Non
crede
nell’amore, quindi. »
Rukia
si strinse brevemente nelle spalle, con fare
indifferente.
«
Mettiamola
così. »
« E
nell’amicizia?
», le sorrise Lavi, sempre più colpito. Ma la sua
aria divertita tornò a
congelarsi come la prima volta che Rukia gli aveva rivolto il suo
sguardo
affilato, mentre lei tornava a posare le mani intrecciate sul tavolo,
lentamente.
«
Credo
nell’egoismo dell’essere umano, signor Bookman.
»
E
quelle parole, erano cariche di una veemenza
devastante, nonostante fossero state pronunciate nel tono
più calmo e pacato
che Lavi Bookman avesse mai udito. Come se fossero state lentamente
forgiate da
anni e anni di confronto con un mondo che non aveva fatto che rivelarsi
immancabilmente crudele e sì, egoista,
agli occhi di quella piccola ragazza di cui Lavi si trovò ad
ammirare ancora
una volta la maturità nella voce, che, al contrario del suo
aspetto, sapeva
molto più di donna vissuta.
Si
concesse altri secondi per riunire i propri pensieri,
visto che il tono e gli occhi di lei avevano lo strano potere di fargli
perdere
il filo del discorso. Per un attimo, considerò di non aver
mai incontrato un
individuo che avesse avuto la capacità di risvegliare il suo
interesse così
prepotentemente come aveva fatto lei in neanche mezz’ora di
colloquio.
« Se
io la posso
chiamare Rukia, allora insisto perché lei mi chiami Lavi.
»
«
Lavi...? »
ripeté lei. Per il ragazzo dai capelli rossi era la prima
volta che si
presentava con quel nome, e trovò che pronunciato da Rukia,
gli calzasse
incredibilmente a pennello. E dire che aveva scelto a caso solo qualche
settimana prima.
«
Sì, Dick è
solo uno pseudonimo per il lavoro. »
Uno dei tanti.
Rukia
sembrò riflettere per un istante.
« ...
Lavi,
allora. Non mi ha ancora detto il motivo per cui mi ha chiesto di
incontrarla.
Se non è per i soldi, per che cos’è?
»
Lavi
le regalò l’ennesimo sorriso, improntato di
furbizia
questa volta, mentre si passava appena un dito sulle labbra.
« Io
non ho mai
detto che i soldi non c’entrino. »
« Ma
io-... »
« Non
parlo dei
suoi, Rukia. », la interruppe lui prima che potesse ribadire
le sue scarse
condizioni economiche. « E nemmeno di quelli che la sua
famiglia mi darebbe se
vendessi a loro l’informazione. »
La
ragazza esitò ancora. Improvvisamente, il sorriso di
lui le era parso più minaccioso di quanto le fosse sembrato
per l’intera durata
della serata. Senza sapere ancora perché, si
sentì già in trappola.
« Ora
sono io
che non capisco. », avanzò cautamente, mentre Lavi
si tendeva ancora di più sul
tavolo verso di lei, abbassando il tono di voce con fare confidenziale.
« Cosa
fanno i
giornalisti, Rukia? Perdoni la domanda ovvia, non sto cercando di
trattarla
come una stupida. »
«
Direi che scrivono
storie. », rispose dopo un attimo di prudente riflessione.
«
Raccontano
stralci di vita, mi piace più vederla in questo modo.
», le sorrise
affabilmente lui. Rukia sentì un moto di irritazione salirle
dentro, come prima.
Chissà come, quel ragazzo aveva il potere di colpirla in
modo di far cadere le
sue fredde e imperturbabili difese. Si impose di restare calma come
sempre.
«
Arrivi al
punto. »
Lavi
usufruì di una pausa ad effetto per rendere le sue
parole ancora più cariche di tensione, che sciolse
lentamente usando un tono
carezzevole.
«
Nessuno ha mai
scritto della vita di sua sorella Hisana. E neanche... della sua morte.
O
almeno, nessuno ha mai scritto la verità. »
Rukia
Kuchiki rimase impassibile.
Rukia
Kuchiki che non ci pensò neanche due volte prima di
afferrare il proprio libro e la borsa, estrarre dalla tasca una
banconota e
qualche spicciolo per pagare le patatine che aveva ordinato, ed alzarsi
rigidamente composta.
« Il
nostro
colloquio finisce qui. »
Lavi
spalancò gli occhi sorpreso, alzandosi a sua volta.
« Mi
dispiace se
l’ho ferita, non-... »
« Lei
non ha
idea di quello di cui sta parlando. », lo interruppe Rukia.
La voce le era
uscita più inferma di quanto avesse voluto, mentre stringeva
un pugno lungo un
fianco. Si sentiva paralizzata, un pezzo di legno.
Lavi
aprì la bocca per replicare, ma si zittì subito,
con
aria dispiaciuta. Dopo qualche secondo riprese.
« Ed
è
esattamente per questo le sto proponendo una collaborazione.
», sospirò,
passandosi una mano alla base del collo. « Rukia... mi
dispiace. Sinceramente. Mi sono
espresso senza il
minimo tatto, capisco la sua reazione, è comprensibile.
»
No, tu non capisci proprio un bel
niente,
sibilò
Rukia mentalmente, senza riuscire ad aprir bocca.
«
Però... mi
ascolti. Mi dia solo un secondo. Poi è libera di andarsene
da qui, e se vuole
io non mi farò più rivedere. Non mi
azzarderò neanche a vendere questa
informazione, si fidi. Non
è mia
intenzione rovinarla, neanche se non mi vuole aiutare. »
Rukia
rimase ancora in silenzio, fissandolo con astio.
Lavi prese fiato, interpretandolo come un muto consenso.
«
È vero, molti
punti di questa faccenda mi sono oscuri. Principalmente sono le
dinamiche
familiari dei Kuchiki che non capisco. Eppure... eppure mi creda quanto
le dico
che è anche vero che io so cose di cui è lei
a non avere idea. »
Cosa?
Cos’era
che Rukia non sapeva? Per un breve istante si
sentì divorare dal tarlo della curiosità e della
vendetta. Ma poi si rivide,
sola, con in mano un mazzo di fiori e il vento che le scompigliava i
capelli
come una carezza, e lo sguardo velato lacrime che però non
le impedivano di
leggere il nome di sua sorella scolpito nella pietra della sua tomba,
dove
avrebbe passato il resto di quella che sarebbe stata la sua vita.
Hisana Kuchiki
21 febbraio 1979 -14
settembre 2011
Sorella e moglie amata.
Non
avevano scritto neanche il suo vero cognome,
quei bastardi. Eppure non l’avevano
nemmeno seppellita nella cripta di famiglia con gli altri membri dei
Kuchiki.
Rukia
chiuse gli occhi, mentre la voce di Lavi le arrivò
ovattata alle orecchie.
«
Insieme
potremmo portare alla luce la verità, Rukia. »
Quale
verità? Le la sapeva già, la verità.
Hisana era morta.
E
questo non sarebbe mai potuto cambiare.
Quando
li riaprì, si sentiva molto più sicura di
sé,
anche se non tanto da sciogliere i pugni che aveva serrato lungo i
fianchi. Prese
fiato. Lei, al contrario di Hisana, poteva farlo.
« Non
permetterò
mai che quel poco che rimane di mia
sorella sia venduto in questo modo. »
Lavi
parve stupito.
«
Neanche se le
stessi offrendo la vendetta su un piatto d’argento?
»
Le
labbra di Rukia tremarono per un secondo, mentre si
costringeva a serrare i denti per impedirne il fremito. Eppure la
fermezza nei
suoi occhi non vacillò neanche per un istante.
« Mai. »
Lavi
Bookman, tornatosi a sedere sulla panca di legno,
osservò silenziosamente la figura di Rukia Kuchiki mentre si
dirigeva a passo
svelto verso l’uscita del ristorante. Sulla porta, quasi si
scontrò con un uomo
di mezza età che stava entrando in quel momento per
raggiungere la famiglia già
seduta a qualche tavolo di distanza da quello che avevano condiviso
loro due
fino a qualche minuto prima. La ragazza buttò lì
qualche parola di scusa e si
allontanò prima che l’uomo avesse anche solo la
possibilità di replicare.
Era
sconvolta, anche se aveva fatto di tutto per non
darlo a vedere di fronte a lui.
Ottimo,
pensò ancora una volta con l’ennesimo sorriso,
nascosto dalla tazzina che
si era riportato alle labbra, mentre faceva un cenno di saluto verso
Rangiku
Matsumoto che passava in quel momento al suo fianco per accogliere il
nuovo
cliente.
Questo
caffè è davvero ottimo.
Era
andato tutto esattamente come Lavi Bookman aveva
previsto.
-
NDA n.2:
... Lavi, fattelo dire, sei un vero bastardo. /facepalm/
Se
il LaviRuki come pairing vi intriga, vi consiglio VIVAMENTE di dare
un’occhiata ai profili di N e m e
e Angy_Valentine,
che sono delle ottime
scrittrici e hanno fatto dei veri capolavori su di loro!
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