The Black Order of the Soul Society. [Bleach x D.Gray-man]

di M e g a m i
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Circolo vizioso. ***
Capitolo 3: *** “I” come inesorabile, “I” come inutile. ***
Capitolo 4: *** “Siete voi un miracolo o una fanciulla?” ***
Capitolo 5: *** Quando si resta soli. ***
Capitolo 6: *** Il lupo perde il pelo ma non il vizio. ***
Capitolo 7: *** Fantasmi del passato. ***
Capitolo 8: *** Capelli di fuoco, occhi di ghiaccio. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


NDA: Devo decisamente piantarla di iniziare long che non finirò mai. Quante ne ho in ballo, adesso? Quattro? Cinque? Boh. x°D
Questa però l’ho iniziata più per divertimento e soddisfazione personale che altro. Vi giuro che ieri mentre le idee mi venivano in mente pian piano, mi sono spanciata dal ridere.
Sì, perché in questa long AU crossover vedrete [sempre se la continuerò] tutti i personaggi che avete imparato ad amare nel corso del tempo per il loro carattere e la loro psicologia completamente STRA-VOL-TI.
Giusto per farvi capire, Linalee è una lap dancer, e pure parecchio brava. 8°°°D

Dio, quanto mi divertirò!
E quanto frignerò, sì. Perché dietro ad ogni stravolgimento psicologico c’è una storia strappalacrime. Piccini tutti quanti, quanto sono cattiva. Ma tranquilli che alla fine ne verrete tutti fuori, in un modo o nell’altro, e tornerete voi stessi. :°)

Per farvi capire, vi lascio con un prologo che in realtà sarà uno dei tanti epiloghi.
Beh, buona lettura! *3*
 
[Crack Pairing] [Grimmjow x Tatsuki] [Lavi x Rukia] [Ichigo x Linalee] [Kanda x Orihime] [Debit x Riruka] [Tyki x Lust] [Starrk x Neliel] [Soi Fon x Hisagi]
 
 
 
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PROLOGO
 
 
 
   « Mi dai una mano? »
Fu quel che le chiese appena la sentì entrare nel bagno, senza neanche voltarsi verso di lei e lanciando nella sua direzione un sacchetto di carta del supermarket sotto casa sua.
   « Cos’è? », replicò lei perplessa, cominciando a scartare il pacchetto.
   « Tinta. Non ho idea di come funzioni. »
 La ragazza si rigirò tra le mani la confezione, rimanendo a fissarla per qualche secondo buono. Poi alzò gli occhi verso di lui, che teneva in mano un paio di forbici con cui si accingeva a tagliare la lunga coda nera che gli ricadeva sulla schiena.
   « Ichigo… », mormorò sentendo un nodo salirle alla gola e stringendo tra le sottili dita laccate di viola la confezione di una tinta di un colore tanto assurdo quanto speciale. Arancione.
Dopo un attimo di esitazione, il ragazzo diede un taglio netto ai suoi capelli, per poi lasciar cadere le braccia lungo i fianchi mentre le ciocche nere si spargevano al suolo.
Rimase a fissare con occhi vacui il suo riflesso, cercando il fiato e il coraggio per parlare.

   « ... Aiutami, Linalee. Da solo non ne sono capace. »
La ragazza gli si avvicinò e prese la mano tra le sue, sfilandogli con delicatezza le forbici. Poi la strinse forte, portandosela alle labbra e baciandone il dorso.
   « Sono qui. »

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Capitolo 2
*** Circolo vizioso. ***


NDA: Niente, eccoci col primo capitolo.
Ne ho già pronti altri, che caricherò subito nel caso vedessi che questa storia sta cominciando a piacere.
Quindi fatemi sapere, eh!  


[Crack Pairing] [Grimmjow x Tatsuki] [Lavi x Rukia] [Ichigo x Linalee] [Kanda x Orihime] [Debit x Riruka] [Tyki x Lust] [Starrk x Neliel] [Soi Fon x Hisagi]



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CAPITOLO 1 – Circolo vizioso

 
 
 
And I find it kinda funny
I find it kinda sad
The dreams in which I'm dying
Are the best I've ever had
I find it hard to tell you
I find it hard to take
When people run in circles
It's a very, very mad world
Mad world
 
E in un certo senso lo trovo divertente
In un certo senso lo trovo triste
I sogni in cui sto morendo
Sono i migliori che abbia mai avuto
Trovo difficile dirtelo
Trovo difficile accettarlo
Quando la gente corre in circoli viziosi
È davvero, davvero un mondo pazzo
Un mondo pazzo
 
[Mad WorldGary Jules]
 
 
 
Grimmjow Jaegerjaques si piegò sulle ginocchia e scoppiò a ridere fragorosamente nel vagone della metropolitana praticamente deserto, a parte un anziana signora seduta a parecchi posti di distanza da lui, anziana signora che non lo notò neanche. Con tutta probabilità era sorda come una campana.
Tenendo l’indice della mano sinistra come segnalibro, si passò la destra tra i capelli lisci, liberi dal gel e piuttosto lunghi, di un singolare colore azzurro, così come i suoi occhi. Era un colore che incuriosiva le donne orientali, a quanto pareva, per questo li teneva così. In fondo le donne rappresentavano la sua linfa vitale, i suoi soldi, così come la sua rovina.
Ma in quel momento, solo in compagnia di una povera vecchia che aveva ormai passato da un pezzo l’età in cui poteva essere definita una rappresentante del suo sesso, le donne erano l’ultima cosa che gli passava per l’anticamera del cervello, perché era impegnato in tutt’altro.
Allentandosi il nodo della cravatta rigorosamente bianca su una camicia nera, riaprì il volume, grosso appena quanto la sua mano, tornando alla pagina in cui si era interrotto a causa di una battuta particolarmente divertente.
Fly it.
Un manga praticamente sconosciuto, pubblicato direttamente in formato tankōbon con una tiratura minima, possibilità quasi – anzi, togliamo pure il quasi – nulle di sfondare su una qualche rivista alla Jump. A prima vista poteva sembrare l’ennesimo shōnen sportivo con qualche battuta più demenziale che comica, ma fin dal primo  momento in cui gli era capitato in mano il secondo volume, quel fatidico secondo volume, per lui era stato qualcosa di molto di più. Ed era partito alla disperata ricerca degli altri volumi, cinque in tutto fino a quel momento, talmente rari che si era visto costretto a pagare una cifra pari a una notte di servizio completo per ottenere il primo numero ad un asta su eBay.
Nemmeno lui si sapeva spiegare cosa ci trovasse di particolare in quel manga, tanto che nella sua classifica personale aveva scalzato classici come Dragon Ball e Ken il guerriero, diventando indiscutibilmente il primo, il suo preferito. Sarà forse stato il protagonista, così svogliato e menefreghista, col suo umorismo cinico e disilluso, che in ogni capitolo si vedeva costretto per cause di forza maggiore a unirsi a questo e a quell’altro club sportivo della sua scuola media, facendo puntualmente vincere la partita, la gara, la competizione, in cui si trovava coinvolto. Quel piccolo protagonista dotato di un enorme talento sportivo, il cui nome era Shū, in omaggio al “generale cieco”, che al posto di essere cieco però era miope, e che quindi non poteva realizzare il suo sogno di diventare pilota.
Saranno stati anche i disegni molto, molto buoni per i suoi gusti, semplici e puliti, ma incisivi. Le espressioni dei personaggi rendevano a pieno i loro stati d’animo, e soprattutto quelle comiche erano davvero da spanciarsi dalle risate.
Era un manga leggero e divertente, che a chi lo leggeva con attenzione, però, offriva degli spunti di riflessione più profondi. Più di una volta si era ritrovato a chiedersi chi fosse quel Kano Miyoshi autore del suo manga preferito, che non si era mai mostrato in pubblico. Doveva essere un tipo interessante. Avrebbe voluto il suo autografo sul quel tanto agognato primo numero.
Nello stesso momento in cui formulò quel pensiero, le sue labbra si piegarono in un sorriso ironico rivolto a se stesso, sorriso che più di una volta aveva letteralmente steso più di una cliente del night-club in cui lavorava. Anche quel sorriso di cui l’aveva dotato la cara mammina natura era la sua linfa vitale, la sua arma di seduzione. Senza, forse, non avrebbe riscosso lo stesso successo come host e qualcosa di più in una camera d’albergo.
Il suo sorriso si allargò.
Come se un tipo come lui, una puttana fatta e finita che vendeva il proprio corpo senza un briciolo di orgoglio, sarebbe potuto andare a dei raduni di appassionati di fumetti a chiedere autografi a destra e a manca.
 
 
 
Arisawa Tatsuki posò il pennino sul basso tavolino pieno di trucioli di gomma e di tempera, sbuffando sfinita.
Aveva bisogno di prendersi una pausa prima di continuare ad inchiostrare, oppure per la stanchezza avrebbe finito per combinare un gran casino. Barcollando tra le pile di cartacce e di volumi che usava come riferimento, raggiunse il frigorifero e ne tirò fuori un cartone di succo di frutta all’ACE, su cui istintivamente aveva disegnato un cappello con due faccine, una sorridente, una un po’ meno. Ne bevve un lungo sorso, facendosi cadere accidentalmente qualche goccia sul mento, e poi sulla maglietta di parecchie taglie più grandi che indossava. Guardò per qualche secondo la macchia arancione che le si andava formando sul bavero, poi alzò le spalle con noncuranza e ritornò alla sua posizione di lavoro portandosi dietro la confezione di succo, chiudendo l’anta del frigorifero con un colpo di gomito.
Con delicatezza, come se si fosse si fosse trattato di pagine di un manoscritto antico in procinto di sgretolarsi, spostò le tavole che aveva già finito di inchiostrare e quella ancora incompleta, e tirò a se il computer portatile che l’accompagnava in ogni secondo della sua misera esistenza da reclusa.
Arisawa Tatsuki era ciò che la società avrebbe definito senza tanti complimenti una hikikomori.
Otaku incallita, per di più. E pure una mangaka fallita.
Un rifiuto ambulante insomma, anzi, neanche ambulante, perché lei non girava da nessuna parte, se non nel suo piccolo bilocale che poteva a malapena permettersi.
Eppure non era stato sempre così. Una volta... una volta correva come il vento. E non in quel circolo vizioso che si faceva sempre più stretto.
Appoggiando la testa a una mano, allungò l’altra verso il pacchetto di patatine che aveva aperto il giorno prima e che non si era neanche presa il disturbo di chiudere, per poi leccarsi le dita e asciugarsele sulla maglietta, prima di spostarle sul touchpad. Con un paio di click aprì sia il browser di Internet Explorer che quello di Mozilla Firefox. Col primo si collegò al suo indirizzo di posta elettronica, e notò che il suo editore le aveva mandato una e-mail in cui le chiedeva di chiamarlo appena avesse potuto per una questione di lavoro.
Chissà cosa diavolo voleva, si chiese con un brivido. Parlare con le persone al telefono la metteva a disagio, ma con lui era costretta a farlo, per fissare le scadenze per le consegne e tutto il resto. Si erano anche visti faccia a faccia, un paio di volte. Gli incontri non erano durati che pochi minuti, ma questo le era costato altrettanti giorni di sonno rintanata sotto le coperte per riprendersi dallo shock di aver parlato direttamente dopo secoli con un altro essere vivente che non fossero i piccoli ragni che ogni tanto le venivano a fare una visitina mentre faceva la doccia.
Scrisse una veloce risposta e poi chiuse la finestra di Internet, appuntandosi mentalmente che appena avesse potuto, ovvero appena ne avesse trovato la voglia e il coraggio, avrebbe dovuto fare quella benedetta telefonata.
Poi finalmente si dedicò a Mozilla, santo browser che salvava le ultime sessioni risparmiandole l’immensa fatica di fare ogni volta il log in.
The Black Order of the Soul Society, meglio conosciuta come The BOSS.
Era una sorta di social network in cui si era trovata coinvolta senza neanche rendersene conto. The BOSS ti attirava a se e ti risucchiava nel suo mondo “oscuro”come il colore del suo layout, e tu ti trovavi a sentire il bisogno di accedere ogni santo giorno, ogni santo momento libero. Era come una droga.
La cosa migliore di tutta quella “organizzazione”, era l’assoluto anonimato che garantiva. Perfino password e indirizzo di posta elettronica che servivano per la registrazione erano forniti dal social network stesso. Non era richiesta nessuna informazione personale, non la data di nascita, non un’immagine del profilo, neanche il nome, solo un nickname modificabile in qualsiasi momento. Non era facebook.
Era semplicemente l’unico luogo in cui Tatsuki riusciva a tirare fuori la vera se stessa, quella sotterrata sotto strati e strati di fogli A4 e retini, e sommersa dall’inchiostro per la G pen.
TheGrimReaper era entrato in chat giusto in quel momento, lesse con un sorriso appena accennato.

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Capitolo 3
*** “I” come inesorabile, “I” come inutile. ***


NDA: Ed ecco che introduciamo il LaviRuki.
Viva i miei conigli preferiti! >W< ♥♥♥
 
[Crack Pairing] [Grimmjow x Tatsuki] [Lavi x Rukia] [Ichigo x Linalee] [Kanda x Orihime] [Debit x Riruka] [Tyki x Lust] [Starrk x Neliel] [Soi Fon x Hisagi]
 
 
 
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CAPITOLO 2 – “I” come inesorabile, “I” come inutile.
 
 
 
Bip.
Bip.

Bip.
Quel suono ormai era diventato lo scandire del suo tempo, come il ticchettio di un orologio. Inesorabile.
Le ricordava uno altro suono, ugualmente breve, più acuto però, che ad un certo punto si era prolungato per una interminabile manciata di minuti, finché la macchina che lo produceva era stata spenta da un dottore, da un infermiere, da non si ricordava neanche più chi, quando ormai non c’era stato più niente da fare per rianimarla.
Inesorabile, come la morte.
Bip.
Bip.
Kuchiki Rukia passò svogliatamente l’ennesimo barattolo di fagioli in scatola sulla fotocellula della cassa, facendo scoppiare con la lingua la bolla che aveva formato con la gomma da masticare.
Lavorava in quel supermarket da ormai due mesi, e si era abituata alla routine e alla noia che il suo posto da cassiera dell’ultimo turno di sera comportava. Turno che stava per finire, l’orologio del suo cellulare indicava le dieci meno venti minuti. Ancora venti minuti e basta, poi sarebbe stata libera di tornarsene a casa, se l’appartamento che condivideva con quella specie di, per essere gentili, “ballerina” cinese poteva essere definita casa, e dormire, dormire e non pensare più a niente.
Fortunatamente quella sera i clienti erano stati ancora meno delle altre volte. Era passato il solito ubriacone che si era fatto la sua solita scorta di super alcolici, una giovane coppia di ragazzini visibilmente eccitati che si era comprata un pacchetto di preservativi, una signora sulla quarantina che per qualche motivo aveva acquistato le cinque scatole di fagioli che aveva appena finito di battere, e poi un ragazzo, piuttosto alto, con un berretto calato sulla testa a coprire degli inusuali capelli rossi, che spuntavano comunque da sotto, ribelli.
Tirando la gomma da masticare con la lingua per fare l’ennesima bolla, diede una spinta coi piedi che malapena raggiungevano il pavimento, spostandosi con la sedia munita di rotelle di qualche centimetro, quel che bastava per osservarlo mentre si rigirava tra le mani una confezione di qualcosa che da quella distanza non riusciva a distinguere.
Aveva intenzione di metterci ancora molto?
Se si fosse sbrigato, forse sarebbe riuscita a staccare qualche minuto prima e a filarsela. Ma no, figuriamoci, quel tipo se la prendeva comoda, fregandosene del fatto che lei non vedesse l’ora di farsi una doccia, togliersi dal viso il trucco pesante che all’inizio le era costato rimostranza da parte del proprietario del negozio, e poi infilarsi finalmente sotto le coperte.

Lo vide rimettere a posto sullo scaffale quello che aveva preso, per poi incamminarsi verso l’uscita. Finalmente si era deciso ad andarsene. O forse no.
Teneva la testa bassa mentre camminava, non riusciva a vedere bene il suo viso, coperto anche in parte dalla frangia rossa che gli cadeva sugli occhi. L’uscita era a pochi metri di distanza da uno dei due banconi che fungevano da cassa, doveva passarci per forza accanto per andarsene. Andava tutto bene.
Rukia abbassò lo sguardo verso le proprie mani, rigirandosi sull’anulare sinistro la piccola fede in platino che portava, mentre con la coda dell’occhio, osservò la sua, di mano, salire al giubbotto e infilarsi in una tasca interna.
Dannazione. Non andava bene per niente.
Aveva visto quella scena troppe volte in troppi film. Sera tardi, prossimità di chiusura, un tizio che arriva e tira fuori una pistola, ordinando di aprire la cassa e tirare fuori tutti i soldi. E nel peggiore dei casi la povera cassiera indifesa ci rimette una pallottola in testa.
Se solo il proprietario fosse stato un po’ più furbo e meno tirchio, e avesse accettato quella proposta di quella ditta di sicurezza che aveva fatto dei begli affari con almeno la metà dei negozi di quel quartiere, che non era esattamente uno di quelli con la migliore reputazione, e avesse fatto installare quel sistema di collegamento con la polizia locale... Le sarebbe bastato premere un bottone sotto il bancone, e la chiamata alla stazione di polizia sarebbe partita in meno di un secondo.
Continuando a tenere lo sguardo basso, strinse i denti, in attesa, col cuore in gola. Sentiva il sudore freddo imperlarle la fronte e la base del collo, scoperto dal suo caschetto.
Quando vide la sua figura fermarsi davanti a lei, separata solo dal vetro di plastica della cassa, chiuse gli occhi.
Quasi le parve di rivivere quegli interminabili minuti di un anno prima, minuti di silenzio, perché le sue orecchie avevano deciso di smettere di funzionare a dovere, e i suoni le arrivavano ovattati.
Anche in quel momento c’era silenzio. Il rapinatore non stava dicendo la classica frase “dammi tutti i soldi”.
E non erano le sue orecchie a non funzionare, perché Rukia sentì forte e chiaro la porta chiudersi e il tintinnio dello scaccia spiriti all’ingresso, messo per segnalare l’entrata e l’uscita dei clienti, visto che il proprietario del negozio era troppo tirchio pure per far installare una porta con chiusura e apertura automatica e una fotocellula collegata a una piccola sirena, come negli altri supermarket.
A quel punto, alzò lo sguardo, giusto in tempo per vedere quel ragazzo dai capelli rossi sparire oltre la luce del lampione sul marciapiede.
Si lasciò andare contro lo schienale della sedia, sospirando di sollievo e dandosi della stolta per aver frainteso tutto. Ma il sollievo non durò che pochi secondi, perché quando il suo sguardo cadde nuovamente sul bancone, vide un biglietto, piegato in due. Allungò la mano per prenderlo, tornando a farsi esitante. La consistenza della carta sembrava quella di un libro.
Lo aprì.
C’erano scritte solo tre parole, in una calligrafia sottile, ordinata, elegante. Tre parole che aveva sperato di non vedere mai.
 
So chi sei.
 
E sotto una data, un ora, e indirizzo.
Forse sarebbe stata meglio una rapina con tanto di pallottola in testa.
 
 
 
Lavi Bookman, o almeno, l’individuo che in quel momento rispondeva a quel nome, inspirò profondamente l’aria della notte, cacciandosi le mani nelle tasche dei pantaloni e dondolando sui piedi.
Gli era venuto un gran mal di testa.
Il suo corpo reclamava caffeina, era dalle tre della notte scorsa che non si era fermato neanche un secondo. Ma alla fine era riuscito a preparare tutto, la trappola perfetta.
Fin da quando aveva scoperto che la fuggiasca erede dei Kuchiki si era rintanata a vivere e a lavorare in quel piccolo quartiere malfamato, improvvisamente le sue giornate da giornalista da quattro soldi si erano fatte più luminose.
Ma quello che gli interessava, non era scrivere un articolo sulla misera vita che la giovane Kuchiki conduceva in quel momento, che avrebbe trovato spazio solo su qualche giornaletto scandalistico e creato molto rumore per nulla per qualche mese, per poi finire nel dimenticatoio.
Il suo ego voleva una storia, di cui si sarebbe parlato per un anno intero, anche di più.
E sì, voleva anche un pezzo che avrebbe risollevato la sua carriera, magari togliendolo dalla sua attuale posizione precaria di freelance e facendogli trovare un posto fisso. Se avesse scritto una storia strappalacrime sulla povera Kuchiki Rukia, che per qualche motivo tre mesi prima era scappata dall’enorme e lussuosa villa della sua famiglia adottiva, magari tirando fuori qualche scheletro nell’armadio della stessa, era sicuro che avrebbe riscosso un grande successo. E se fosse riuscito pure ad infilarci in qualche modo la sua cara sorella Hisana, morta un anno prima in circostanze tutt’ora misteriose, lo scossone emotivo che avrebbe provocato nei lettori sarebbe raddoppiato. Le sue fantasie vagavano da un complotto di famiglia a un Kuchiki Byakuya – ovvero il vedovo della defunta e fratello adottivo della sua piccola gallina dalle uova d’oro – assassino.
Molti giornalisti prima di lui ci avevano provato, a scavare sotto le pesanti pietre che erano state messe sopra quella storia, con scarsi risultati però. La famiglia Kuchiki era una delle poche casate nobili ancora esistenti e resistenti in tutto il Giappone, e aveva le mani in pasta un po’ da tutte le parti. Si vociferava pure che allungasse qualche bustarella tra le file del governo. La sua influenza era senza limiti, insomma.
E mettersi contro i suoi membri, equivaleva a un suicidio lavorativo. Nonché una possibile condanna per diffamazione.
Ma lui, lui che tecnicamente non esisteva, se non come Lavi, Dick, Adam, Gabriel, e una sfilza di altri nomi inventati, era piuttosto difficile da rintracciare. Per ogni cosa della sua vita, usava un nome e una carta d’identità diversa, dai conti in banca ai suoi articoli malpagati. Non lo avrebbero trovato facilmente.
Certo, se il suo progetto fosse andato in porto, però, le cose sarebbero un po’ cambiate, ma non gli importava. In fondo, era anche perché era stanco di quella sua vita instabile che si era messo in testa di scoprire cosa si nascondesse dietro la morte di Kuchiki Hisana e la fuga di sua sorella. Forse però non voleva neanche un impiego fisso. Cioè, non aveva le idee molto chiare di quello che avrebbe fatto dopo, se a un dopo fosse arrivato senza finire dietro le sbarre, o peggio ancora, ad ammuffire in qualche bidone della spazzatura come cadavere, per essersi cacciato in qualcosa di più grande di lui.
Si sistemò il cappello in testa, calandolo più sulla fronte e chiudendo gli occhi.
In fondo, non aveva nulla da perdere.
E se invece avesse vinto, tanto di guadagnato. Forse coi soldi intascati avrebbe fatto un giro per il mondo, chissà, sparendo dalla circolazione per un po’ per evitare conseguenze.
Aveva sempre voluto vedere il mondo, oltre che sui libri di storia e geografia che tanto amava, ma gli erano sempre mancati i mezzi.
Aaah, i libri, la sua fonte di conoscenza e di ispirazione, quelli sì che gli avevano dato tante soddisfazioni, al contrario delle persone.
Quella Kuchiki Rukia, però, si apprestava ad essere una fonte immensa di soddisfazioni, se solo avesse fatto la brava bambina e si fosse lasciata ingannare a dovere.
Nella sua mente contorta, aveva messo a punto diverse strategie per farla cantare. La prima tra tutte, era stata minacciarla di svelare la sua attuale posizione, legandola a sé ricattandola attraverso il denaro o il sesso. Ma così non avrebbe funzionato, non sarebbe mai riuscito a farla parlare di qualcosa che evidentemente era tanto terribile da averla indotta a scappare di casa. La seconda, era stato fingersi un bravo ragazzo simpatico e affabile, diventare suo amico e spingerla sottilmente ad aprirsi con lui. Lo aveva fatto tante volte per ottenere confessioni e testimonianze, ma qualcosa gli diceva che quella volta, con lei, non avrebbe funzionato. Quella ragazza non era una stupida, né tantomeno un’ingenua, se era riuscita a nascondersi per tre interi mesi da una famiglia con agganci ovunque, peggio della Yakuza.
L’aveva osservata per qualche giorno, da quando un tizio su The BOSS, – anonimo come tutti in quella chat che frequentava appunto per mantenere i contatti con gli informatori –, gli aveva fatto una soffiata su di lei. Di primo acchito aveva ignorato la cosa, non ritenendola attendibile. Poi però aveva deciso di fare un salto in quel quartiere, giusto per togliersi la pulce dall’orecchio. Non lavorava a un pezzo da un po’, e se quella soffiata fosse risultata veritiera, sarebbe stata la manna dal cielo.
Così era stato, infatti.
Ci aveva messo un po’ a riconoscerla, ad essere sinceri. Prima di andare a controllare, si era informato vagamente su di lei, e aveva scorso parecchie fotografie che la ritraevano nelle più svariate occasioni, dalla sua adozione in concomitanza col matrimonio della sorella di cinque anni prima, al funerale della stessa un anno prima, alla sua scomparsa esattamente ottantasei giorni prima.
Aveva imparato a memoria i lineamenti del suo viso quasi infantile.
Eppure, quando se l’era trovata davanti, con quei capelli decisamente più corti, gli occhi contornati da un trucco pesante e un anellino al naso, dire che era rimasto scioccato era poco. Davvero, quasi l’aveva scambiata per un'altra persona. Però la forma del viso, gli occhi di quel blu scuro e intenso tanto da sembrare indaco, i lisci capelli neri, la carnagione pallida, la statura, tutto il resto oltre l’apparenza combaciava. E guardare oltre l’apparenza era una delle prime lezioni che “Lavi” aveva imparato da quel mondo infame.
Nello stesso istante in cui l’aveva vista, passando casualmente davanti al supermarket in cui lavorava, e gettando uno sguardo su di lei attraverso le vetrate trasparenti e gli occhiali scuri che indossava, aveva capito cosa doveva fare.
La coscienza non gli rimordeva per niente. La seconda lezione che aveva ben presto imparato, era metterla a tacere e dipingersi sulla faccia un sorriso. Tanto le persone ti fregavano comunque. Meglio essere tu a fregarle per primo.
Per non soffrire poi, inutilmente.
 
 
 
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Se il LaviRuki come pairing vi intriga, vi consiglio VIVAMENTE di dare un’occhiata ai profili di N e m e e Angy_Valentine, che sono delle ottime scrittrici e hanno fatto dei veri capolavori su di loro!

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Capitolo 4
*** “Siete voi un miracolo o una fanciulla?” ***


NDA: In questo capitolo non si avverte il mio fetish per manine e linguette, nooo...
E SOPRATTUTTO, NON LA MIA FISSAZIONE PER SHAKESPEARE.
Comunque! A parte l’amore indescrivibile che provo per questo Ichigo-Mugetsu dai capelli fluenti, ci sono un paio di paroline che mi sa che non conoscete:
  • Kabuki-chō è uno dei quartieri a luci rosse più famosi di Tōkyō.
  • Jūichiban Tai è il nome giapponese per Undicesima Compagnia. Vi faccio solo una domanda: chi è il capitano dell’Undicesima Compagnia...? 8D
  • Nekomimi, letteralmente “orecchie da gatto”, è il costume da gattina che va tanto di moda in Giappone. Non ci vuole un genio per capire chi lo indossa... ewe
 
[Crack Pairing] [Grimmjow x Tatsuki] [Lavi x Rukia] [Ichigo x Linalee] [Kanda x Orihime] [Debit x Riruka] [Tyki x Lust] [Starrk x Neliel] [Soi Fon x Hisagi]
 
 
 
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CAPITOLO 3 – “Siete voi un miracolo o una fanciulla?
 
 
 
   « Ehi. »
Linalee Lee si sentì spostare dalla natica la mano che fino a qualche secondo prima la stava palpando senza tanti complimenti. Mano che adesso era minacciata di venir bruciata dalla cenere di una sigaretta, in procinto di cadere. Sarebbe bastato un tocco anche minimo del ragazzo dai lunghi capelli neri che la teneva tra le dita per lasciare una bella bruciatura sulla pelle rugosa di quell’uomo sulla cinquantina, che aveva allungato le mani per toccarla mentre scendeva dal palco con un palo di metallo contro cui si era esibita, come ogni sera, nel suo numero.
   « Scusa, stronzo, ti ho scambiato per un portacenere. », disse il ragazzo con tono piatto, quasi annoiato, alzando appena lo sguardo per trafiggere l’uomo che era rimasto a fissarlo interdetto, per poi schioccare la lingua ed andarsene seccato a dedicare le sue attenzioni a qualche altra povera sventurata.
Il ragazzo lo stava osservando allontanarsi di sottecchi, con una velata smorfia di gelosia, quando venne distratto dalla sua voce cristallina che chiamò il suo nome.
   « Ichigo. », Linalee tirò un sospiro di sollievo, rivolgendogli un sorriso a cui lui rispose semplicemente con un cenno del capo, tornando a voltarsi verso di lei.
   « Sempre a farti palpare da qualche vecchio porco, vedo. », constatò ancora con lo stesso tono monocorde, tirando una boccata dalla sigaretta e appoggiando i gomiti sulle ginocchia, seduto su uno dei tanti divanetti in pelle che punteggiavano quel locale come tanti altri di Kabuki-chō.
Era vero. Purtroppo le capitava spesso di essere oggetto di attenzioni non desiderate, solo lei sapeva quanto. Molti l’avrebbero biasimata, col lavoro che faceva era normale, se l’era cercata.  Anzi, sembrava quasi che quei “vecchi porci”, come li chiamava Ichigo, pensassero facesse parte del pacchetto, per così dire. Ma lei non era una hostess, né tantomeno una prostituta. Certo, era costretta a sorridere ai clienti, essere gentile, e anche permissiva, ma fino ad un certo limite.
Limite che non molti capivano. In fondo cosa pretendeva una ballerina di lap dance in un night club, di essere trattata come una donna di classe?
Se avesse voluto più rispetto per il suo corpo, avrebbe dovuto scegliersi un altro lavoro. Ma il rispetto per il suo corpo, quel suo corpo così formoso e sudicio di cui si vergognava tanto, Linalee lo aveva perso da un pezzo. Dall’età di tredici anni, per essere precisi, quando aveva scoperto quanto il mondo e gli uomini facessero schifo.
   « Non è che io lo voglia, cosa credi? », rispose con un filo di voce, distogliendo lo sguardo. Nonostante la musica che riecheggiava ad alto volume, Ichigo poté sentirla, ma solo perché era a pochi centimetri da lui.
   « ... Lo so. »
E Linalee sentì le sue mani sfiorarle le cosce velate per metà da autoreggenti a rete, e poi salire a prendere il posto di quelle che l’avevano appena palpata, sul sedere coperto appena da una corta gonna rosa a pieghe e un paio di culottes dello stesso colore. Al contrario di prima, però, quel tocco non le fece sentire i brividi, né la fece irrigidire, anzi, ebbe il potere di calmarla e di allontanarle dalla mente pensieri spiacevoli.
Non tutti gli uomini fanno schifo..., pensò, abbassando lo sguardo verso di lui e sentendo l’invito ad avvicinarsi delle sue mani, che erano salite sulla sua vita e la stavano tirando a lui. Accennando a un sorriso, appoggiò un ginocchio sul divano e le mani sullo schienale, per poi si chinarsi su di lui e premere forte le labbra contro le sue, sentendosi ricambiare il bacio all’istante.
La bocca di Ichigo aveva un vago sentore di cioccolato e sigaretta, era una delle prime cose che aveva notato. Lei non era una fumatrice accanita, anzi, ma quel sapore, quell’odore che aveva sui vestiti non la infastidiva, tutt’altro. Il suo sapore, la sua lingua che ogni tanto si soffermava a sfiorarle le labbra, non avrebbero mai potuto darle fastidio.
   « Dovresti piantarla di monopolizzare la nostra migliore ballerina, Kurosaki. », furono improvvisamente interrotti da una voce roca e profonda. Linalee fece per scostarsi da Ichigo, che al contrario rafforzò la presa sui suoi fianchi, tirandola ancora più contro di lui. C’era poco da fare, quei due non andavano proprio d’accordo, pensò con un sorriso, mentre con la punta del naso sfiorava la sua guancia vagamente ruvida per la barba.
   « Sono in pausa, Grimmjow. », rispose al ragazzo coi capelli di uno insolito azzurro nella “divisa” da host, ovvero giacca bianca e camicia nera, che lui portava appena sbottonata sul petto.
   « Potresti anche dedicarti a qualche altro cliente, allora. » replicò Grimmjow, fregando più per dispetto che per altro, una sigaretta e l’accendino dal pacchetto che Ichigo aveva appoggiato sul tavolino di vetro al suo fianco.
   « Stesso discorso vale per te. Io non li voglio i tuoi “servizi”, quindi perché non vai a dedicarti a qualche altra cliente, invece di venire sempre a rompere a me? », insinuò a quel punto Ichigo, trafiggendo anche lui con lo sguardo. Gli occhi di castani Ichigo avevano quel potere, a differenza del suo tono indifferente, di trasmettere tutta la forza delle sue parole.
In tutta risposta, Grimmjow gli regalò una smorfia schifata, a dimostrazione della sua grande maturità, poi girò sui tacchi e si allontanò, lasciandoli “amoreggiare” in pace.
Sinceramente, non li capiva. Soprattutto, non capiva Linalee, che ormai conosceva da due anni e che considerava una specie di amica, nonostante fosse una donna. E lui le donne proprio non le poteva sopportare.
Forse era proprio quella comune avversione per il sesso opposto che li aveva avvicinati, nella disperazione di quella gabbia di matti che era il Jūichiban Tai. Linalee, a differenza di tutte le altre donne che lavoravano nel loro stesso locale, non ci aveva mai provato con lui. E lui con lei, stessa cosa.
Così, nonostante i loro caratteri esattamente agli antipodi, in qualche modo erano riusciti a legare, tanto che era capitato pure che Grimmjow si trovasse a scoraggiare a suon di pugni chi aveva provato ad allungare le mani su di una lei tremante. Gli era bastato vederla una volta in una situazione del genere, per capire che c’era qualcosa che decisamente non andava nelle sue reazioni con gli uomini.
Ma lei non faceva domande sul suo, di passato, così lui non si azzardava a farne a lei. Anche se poteva intuire, poteva intuire benissimo.
Per questo non capiva per quale razza di motivo lasciasse quel Kurosaki dai capelli lunghi e neri come il suo cognome prendersi tanta confidenza. In fondo, però, non erano fatti suoi. Non venire a frignare da me, poi, aveva già messo in chiaro. E Linalee gli aveva assicurato che non l’avrebbe fatto, anche perché non ce ne sarebbe stato mai motivo.
Il punto era che in realtà, quei due non erano mai andati molto più in là di qualche bacio molto “appassionato”. Linalee non gliel’avrebbe mai permesso, e in qualche modo Ichigo sembrava averlo capito.
Certo, la toccava, e lei si faceva toccare. Ma mai in modo avido, e quando lei gli spostava delicatamente una mano che per i suoi gusti si era spinta troppo oltre, lui si faceva guidare senza protestare. Era per questo che si trovava così bene con lui. Cercare il suo contatto le veniva spontaneo, a lei che provava tanto disgusto quanto timore per le mani maschili. Ma Ichigo non era prepotente, tutt’altro. I suoi baci, anche se profondi e coinvolgenti, erano in un certo senso gentili. E non l’avrebbe mai costretta a ricambiarli con la forza. Per capirlo, le bastava vedere il suo sorriso appena accennato ogni qual volta si staccavano da un lungo bacio, sorriso che non concedeva quasi mai a nessuno, ma di cui lei era stata testimone tante, tante volte.
Le piaceva pensare di essere lei stessa la causa di quel sorriso. E non il suo corpo, non le sue curve da molti definite perfette. Per questo ognuna di quelle tante volte, lo ricambiava quasi timidamente, e iniziava un altro lungo bacio, solo per sentire le sue labbra schiudersi e la sua lingua cercare la sua, mentre le sue mani la accarezzavano. Gentili. E calde.
Non si sarebbe mai dedicata a nessun’altro cliente, non in quel modo.
 
 
Ichigo Kurosaki ricordava ancora la prima volta che l’aveva vista.
Era entrato in quel locale per caso, non perché gli piacesse particolarmente bere, e ballare men che meno. Non era neanche in cerca di compagnia, quella sera.
Semplicemente, era passato davanti a quel locale. L’aveva incuriosito, ed era entrato.
Ichigo si comportava sempre in quel modo, vivendo neanche alla giornata, letteralmente al momento, seguendo cosa gli diceva di fare l’istinto secondo per secondo. Non doveva rendere conto a nessuno di niente. Erano passati da un pezzo gli anni in cui si sentiva costretto a comportarsi bene e a sorridere per non far preoccupare gli altri. Passati, così come i suoi capelli di un’arancione acceso, e... sua madre.
Si era lasciato cadere su un divanetto nero nell’ala fumatori e si era acceso l’ennesima sigaretta. Quante ne aveva fumate quel giorno? Dieci? Quindici? Ormai aveva perso il conto. Doveva darci un taglio, dannazione. Non poteva fumarsi 400 e passa yen al giorno. Dei suoi polmoni che imploravano pietà gliene fregava poco, invece.
Aveva ordinato qualcosa da bere di sfuggita a una cameriera di colore in nekomimi più svestita che vestita, che gli aveva fatto l’occhiolino e offerto un cioccolatino dalla scatola piena con cui girava. A quel punto, improvvisamente le luci nella sala erano calate – facendolo imprecare tra i denti perché per sbaglio nel buio aveva preso un cioccolatino latte – e la musica era cambiata, diventando più suadente.
E sul palco era salita Linalee, che aveva iniziato a ballare, premendosi contro quel palo di metallo come fosse un amante.
Era bella, dannatamente bella. Da farti andare di traverso il fumo della sigaretta.
Eppure, su quel palco, osservata da tutti con occhi avidi e famelici, gli era sembrata incredibilmente distante. Era come se fosse finta, con quel sorriso ammiccante, che a lui era parso solo freddo. Quasi volesse tagliare fuori tutto e tutti. Il suo sguardo non incrociava mai quello di nessuno, come invece facevano le altre ballerine, in cerca di qualcuno con cui arrotondare nel dopo serata.
Forse era solo una sua impressione. Forse era per colpa di quella la sensazione che gli dava il palco, che nel corso degli anni Ichigo aveva imparato a considerare come una gabbia per le emozioni, quelle vere.
Però anche tutti gli altri la chiamavano la “bella e irraggiungibile”, quasi con scherno, quasi con desiderio. Lei ballava per dimostrare qualcosa a se stessa, chissà cosa però, e non per sedurre quei tutti gli altri che tanto avrebbero voluto raggiungerla.
Però era bella. Dannazione se lo era.
E così, senza neanche rendersene conto, si era trovato a passare lì, in quel locale che non aveva proprio nulla di così attraente per uno come lui, sì e no ogni sera libera.
Si limitava a guardarla da lontano, come tutti, fumando la sua sigaretta e cercando di non pensare troppo quando si lasciava andare a mosse fin troppo provocanti.
Una volta però, gli era passata pericolosamente accanto. E senza poterne fare a meno, aveva alzato gli occhi verso di lei, incrociando per un secondo il suo sguardo, che gli era sfuggito subito. Quasi come se avesse avuto paura.
Dopo quel momento, aveva smesso per un po’ di frequentare il Jūichiban Tai. Ma una sera, una sera come la prima volta che ci aveva messo piede, si era trovato nuovamente ad entrarci. Solo un secondo, si era detto.
Era tardi, l’ora dello spettacolo di Linalee era passato da un pezzo. Non si era trattenuto molto, aveva scambiato solo qualche parola con la cameriera coi cioccolatini e con un paio di hostess che avevano cercato di abbordarlo, e che si erano viste rifiutate senza molti riguardi. Poi aveva deciso di andarsene, chiedendosi per quale diavolo di motivo fosse poi entrato.
E a quel punto, l’aveva vista.
Era fuori dal locale, stava parlando con due uomini, sulla trentina probabilmente, o forse con qualche anno di più. Non gli era sembrata esattamente a suo agio, tanto che continuava ad indietreggiare, esibendo l’ennesimo falso sorriso, e tenendo le mani alzate, come in segno di scusa. Poi era finita contro il muro, e nei suoi occhi si era dipinto il terrore, mentre sul viso dei due uomini – che a guardarli meglio sembravano pure  ubriachi – un ghigno eccitato.
Ichigo aveva lasciato cadere per terra la sigaretta che teneva tra le labbra e che ormai era arrivata al filtro, spegnendola con un piede mentre a grandi passi si dirigeva senza esitazione verso quella scena di cui era stato testimone fortuito.
Quella situazione gli era sembrata talmente assurda da essere tratta da un film di cattivo gusto.
In meno di un secondo, aveva fatto piegare in due per il dolore uno, mentre l’altro lo aveva spinto contro il muro da cui Linalee si era prontamente scostata, tenendolo per la maglietta e intimandogli col suo sguardo penetrante di non provare a reagire oltre. Consiglio che l’uomo aveva seguito saggiamente, allontanandosi in fretta quando l’aveva lasciato andare.
Poi si era girato per dare un paio di avvertimenti anche all’altro, e... a quel punto, inaspettatamente, aveva visto Linalee tirare a quell’uomo un calcio ai genitali, con tutta la forza che aveva, e sputargli contro quando era caduto in ginocchio a terra ai suoi piedi, senza più fiato in gola per il dolore lancinante, e tenendosi le mani strette nel il punto in cui era stato colpito, cercando e riuscendo in qualche modo ad allontanarsi da lei, quasi strisciando come un verme.
Quella immagine gli si addiceva, aveva pensato Ichigo.
Poi era rimasto ad osservare lei per qualche secondo, ansimare a denti stretti per tenere sotto controllo la rabbia e lo spavento che le si leggevano negli occhi.
Nei film le fanciulle indifese si facevano salvare e basta, senza tirare calci nelle palle a destra e a manca.
   « Stai... bene? », se ne era uscito con la classica frase di circostanza, infilando una mano nella tasca dei pantaloni mentre l’altra se l’era passata sul collo, inarcando un sopracciglio.
Linalee aveva alzato a sua volta lo sguardo su di lui, stringendosi nelle spalle e tirandosi i capelli dietro l’orecchio, ancora visibilmente nervosa.
   « Sì. Grazie. », aveva semplicemente detto, abbassando nuovamente gli occhi. Il suo tono era freddo, diffidente, come se pensasse che per averla aiutata, adesso lui si aspettasse chissà quale ricompensa.
Come darle torto. Quello sì che capitava, nei film. Ma la sua vita non era uno squallido film.
Facendo un sorriso impercettibile tra sé e sé, Ichigo l’aveva superata come niente fosse, limitandosi semplicemente a farle un cenno con la mano come a dire “prego”.
Era stato il turno di Linalee di essere stupita, a quel punto. Aveva già notato quel ragazzo nel locale, e anche il suo sguardo che più di una volta l’aveva cercata. Nonostante fosse da un po’ che non si faceva vivo, l’aveva riconosciuto subito. Non era esattamente il tipo che passava inosservato, in effetti.
Ma Linalee, prevenuta come sempre, l’aveva etichettato come “uno dei tanti”, e messo al loro stesso livello. Per questo quando lo aveva visto andarsene così, senza neanche dire niente, si era sentita un po’ in colpa per aver pensato male di una persona che oltre a non averle fatto niente in particolare, l’aveva appena aiutata ad uscire da una delle “situazioni difficili” che ogni tanto le capitavano.
   « A-... Aspetta! », aveva perciò esclamato, quando ormai lui stava per girare l’angolo e sparire dalla sua vista.
Ichigo si era voltato appena, inarcando ancora il sopracciglio, interrompendosi dal cercare di accendere l’ennesima sigaretta.
   « Come... come ti chiami? »
Si era tolto la sigaretta dalla bocca. « ... Ichigo Kurosaki. », aveva risposto, ma non prima di aver esitato un attimo. Perché non dovrei dirglielo?
E a quel punto, inaspettatamente, le labbra di Linalee si erano schiuse, per quella che gli era sembrata la prima volta, in un sorriso.
   « Grazie, Kurosaki-san. Davvero. », e questa volta era stata sincera.
Ichigo l’aveva guardata ancora per qualche secondo, poi si era girato nuovamente, tornando sui suoi passi.
   « Solo Ichigo va bene... », aveva mormorato infine, ma era sicuro che lei l’avesse sentito.
Da quel momento, era tornato a frequentare abitualmente il Jūichiban.
E quando capitava che i loro occhi s’incontrassero, lei non distoglieva più lo sguardo. Gli sorrideva.
Ichigo non si sarebbe mai immaginato che il suo vero sorriso sarebbe stato così dolce.
 
 
 
Ricordava ancora anche un'altra prima volta, quella in cui si erano baciati.
Anzi, in cui lei l’aveva baciato.
Era ormai da un mese che i suoi sorrisi gli scivolavano addosso. Ogni tanto la sorprendeva pure a guardarlo da lontano, o a cercarlo nella folla. Quando a quel punto i loro sguardi si incrociavano, lei arrossiva leggermente e accennava a una risata, tirandosi dietro l’orecchio i capelli, in quel tic che aveva imparato ad attribuire ai momenti in cui qualcosa la rendeva nervosa.
Quei sorrisi gli scivolavano letteralmente addosso. Sì, come una doccia fredda, o forse bollente.
Non sapeva neanche come fossero arrivati a quel punto.
Quando quella sera era scesa dal palco, gli aveva rivolto l’ennesima occhiata. Le sue guance, però, erano diventate più rosse del solito, e sul suo viso non si era dipinto un sorriso. Si era morsa le labbra, poi aveva abbassato lo sguardo e si era diretta verso l’uscita. Ichigo si era chiesto se fosse successo qualcosa, ma la domanda era scemata nello stesso momento in cui l’aveva vista girarsi, sulla soglia della porta, e cercare ancora il suo sguardo. Toccandosi i capelli.
Non sapeva nemmeno perché avesse spento all’istante la sigaretta nel posacenere e l’avesse seguita.
Sapeva solo che in quel momento la stava guardando, a pochi centimetri dal suo volto, vicina come non l’aveva mai vista. I suoi capelli scuri tagliati appena sotto le spalle profumavano di qualcosa di simile alla nostalgia, mentre alzava una mano per sfiorarglieli.
Il suo lato cinico trovava quasi divertente come provasse proprio con lei, con cui non aveva a malapena parlato, quella sensazione, che inconsciamente aveva cercato tanto.
Il suo corpo aveva tentato di trovare consolazione tra le braccia e i seni di molte donne, dopo quelli di sua madre. Ma tutte, immancabilmente, alla fine se erano ne andate. Deluse, dalla sua indifferenza. Lui non aveva provato neanche a fermarle. Non gli importava.
Il loro profumo era comprato e poteva essere messo in una boccetta di vetro, così come il loro sorriso era finto, come se stessero recitando una parte su un palcoscenico.
   « ... Ma tu chi sei, che avanzando nel buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri? », aveva mormorato  con la bocca che quasi sfiorava il suo orecchio, tirandole indietro i capelli, inebriandosi di quel senso nostalgia tanto amaro e dolce al tempo stesso.
   « Cos’è...? »
 
A Linalee era sembrata come una poesia. La sua voce era bassa, profonda, il suo tono quasi come se stesse più parlando a sé stesso che a lei. Eppure l’aveva trovata bellissima, capace di far scemare in parte quel nervosismo che quasi le aveva impedito di avvicinarsi a lui, quella sera, come invece da tanto tempo segretamente non aveva fatto che desiderare.
Non sapeva spiegarsi nemmeno lei per quale motivo.
Il modo in cui in quel momento la stava toccando, il modo in cui anche solo l’aveva guardava per tutto quel tempo. Le poche parole che diceva, e soprattutto quelle che non diceva affatto, ma che trasparivano comunque dal suo sguardo, dai suoi occhi, tanto in contrasto con la sua espressione.
Per qualche ragione, sentiva che di quelle mani e di quegli occhi poteva fidarsi, fidarsi dopo tanto, troppo tempo.
 
Cos’è?                                                                                              
Ogni volta, anche Ichigo aveva chiesto la stessa cosa, curioso come solo un bambino che pendeva dalle labbra della madre poteva essere. E lei, ogni volta non gli aveva risposto, ma si era limitata a ripetergli gli stessi versi lentamente, finché lui stesso non era arrivato a capire il loro significato, o meglio, il significato che per lui potevano avere, secondo la sua stessa interpretazione.

E ogni volta, anche i versi che gli all’inizio gli erano parsi i più tristi erano stati resi dolci dal suo sorriso.
Sorriso che non diventava mai falso, neanche quando recitava sul palcoscenico come Giulietta, o Elena, o Miranda, oppure ancora come Ofelia. Anche con nomi diversi, il suo sorriso era sempre lo stesso. Un punto fermo. Vero. Dolce, come solo quello di una madre può essere.
Come quello che vedeva in quel momento distendersi sulle labbra appena umide che stava sfiorando col pollice.
Ciò che più lo sconcertava però, era che in lei non vedeva affatto il sorriso di sua madre, nonostante credesse fosse quello, che aveva cercato per tutti quegli anni.
Non era quel tipo di nostalgia.
No. In quegli occhi e in quel sorriso quasi timido che non aveva fatto altro che seguire da lontano, vedeva il se stesso che si perdeva per ore ad ascoltare recitare sua madre, e che adesso, invece, era perso per sempre a fissare la sua lapide, immobile.

In quel sorriso vedeva la flebile possibilità di ritrovarsi.
   « È una domanda. », le aveva risposto semplicemente, avvicinando ancora di più il viso al suo. Lui non le avrebbe ripetuto quei versi, come invece avrebbe fatto sua madre. Non ancora. Perché nonostante tutto quella possibilità era qualcosa che non era ancora in grado di accettare. Aveva passato troppo tempo a vivere con quel suo falso se stesso, che quasi ci aveva fatto l’abitudine.
Quello vero, era fin troppo fragile. Aveva solo bisogno di potersi nascondere nell’abbraccio di qualcuno disposto ad accettarlo per quello che era. Di sentirsi amato, dopo tanto, troppo tempo.
Ma non lui, non il sé stesso di quel momento. Lui ormai si era messo in testa di tirare avanti da solo per tutta la vita, senza mai più affidarsi a nessuno. Perché se avesse perso nuovamente il centro del suo mondo, quel punto fermo, si sarebbe smarrito definitivamente.
Per questo aveva aggrottato le sopracciglia, e, lasciando impregnare le sue parole di un tono amaro, lui che faceva di tutto per non far trasparire le sue emozioni, le aveva chiesto:
   « Si può sapere chi sei e cosa vuoi da me, Linalee? »
 
Linalee si era morsa nuovamente il labbro inferiore, chinando la testa e stringendosi nelle braccia, mentre il sorriso lentamente era sparito dal suo volto. Quel gesto, quello stringersi nelle braccia, Ichigo aveva imparato ad attribuirlo a quando si sentiva ferita.
   « E tu? Cosa... cosa vuoi da me, Ichigo? », aveva rialzato lo sguardo verso di lui, guardandolo con una durezza che non si era aspettato.
Non era ovvio cosa desiderasse, come tutti?
Fidarsi e affidarsi, era qualcosa che anche Linalee si era imposta di non fare più.
Perché lei, se fosse stata tradita ancora, avrebbe finito per odiare del tutto il suo corpo sporco, e soprattutto sé stessa e la sua ingenuità che l’aveva spinta ad accettare nuovamente le avide carezze e la stretta dolorosa di un altro uomo, senza essere in grado di dire basta.
Eppure nessuno l’aveva mai guardata con quegli occhi, in quegli anni che aveva passato a chiedere un muto aiuto. Nessuno. Ichigo guardava lei, e non quello che rappresentava.
 
Ognuno aveva chiesto qualcosa di cui aveva paura di sapere la risposta.
Ed entrambi avevano cercato di leggere la risposta negli occhi dell’altro, gli uni restii a lasciarsi andare, gli altri impauriti da un passato che non si poteva ancora raccontare.
Ichigo si era reso conto che Linalee stava tremando, stringendosi forte tra le braccia, quasi affondandosi le unghie nella pelle, a pochi centimetri da lui. Eppure non indietreggiava, come l’aveva vista fare con tanti prima di lui.
Aveva sentito il bisogno di sfiorare ancora quei capelli lisci e le sue labbra, che erano fin troppo invitanti, ma quando aveva alzato una mano per farlo, l’aveva vista chiudersi ancora di più, insaccandosi nelle spalle. No, non era perché si sentiva ferita.
Aveva paura, l’aveva davvero.
Non aveva osato chiedersi che cosa l’avesse portata a provare quel timore verso di lui come verso tutti gli altri, il solo dubbio metteva paura anche a lui.
... Al diavolo.
Al diavolo tutto e tutti. Bastava non pensare. Vivere al momento come aveva sempre fatto, e non pensare a niente, non alle conseguenze, non al se e quando sarebbe morto nuovamente. Di solitudine.
Così aveva appoggiato la fronte contro la sua, sollevandole il viso, e per la prima volta aveva ricambiato il suo sorriso, anche se a modo suo, accennandolo appena. Sperava in qualche modo di rassicurarla, anche se non aveva la minima idea di come si facesse.
   « ... Solo quello che tu sei disposta a darmi. »
 
A quelle parole, Linalee aveva sentito un nodo stringerle la gola, e cercato per l’ennesima volta i suoi occhi, sentendosi imbarazzata come non le capitava da tanto tempo.
Cosa poteva dargli, cosa aveva lei da offrire?
Ma soprattutto, cosa voleva lei stessa?
Il suo sguardo cadde sulle labbra di Ichigo, quelle labbra che pronunciavano le parole rassicuranti che aveva bisogno di sentire, e che in quel momento le stavano regalando un sorriso, che anche se era appena accennato, trovava ancor più rassicurante di mille parole e promesse.
Voleva quel sorriso, voleva quelle labbra che la facevano sentire... rispettata.
Gli si era avvicinata, risoluta a vincere la timidezza, ma soprattutto la paura che le attanagliava lo stomaco. Aveva sentito il suo respiro caldo sulla pelle, fermandosi a pochi centimetri dal suo viso.
La distanza di un bacio.
Ichigo non aveva fatto niente, non si era avvicinato, non l’aveva neanche sfiorata. Semplicemente, aveva aspettato.
Anche in quel momento, il modo in cui riusciva ad essere incredibilmente sensuale nella sua insicurezza faceva quasi male. O forse era semplicemente che il desiderio di scoprire finalmente il sapore del suo sorriso cresceva e si centuplicava ogni secondo che passava, e in cui la sentiva sempre più vicina, ma non ancora abbastanza. Eppure non avrebbe fatto niente per azzerare quella distanza. Non si sarebbe preso niente che non fosse stata lei a concedergli.
Anche se stava letteralmente impazzendo. Altro che indifferenza, con lei si stravolgeva tutto.
Poi, dopo un tempo che a lui era parso interminabile, aveva finalmente sentito la sua bocca cercarlo.
 Le labbra di Linalee erano state a tratti esitanti, poi, pian piano, sempre più sicure. Come se all’inizio si fosse lasciata prendere dall’imbarazzo, ma dopo si fosse decisa a lasciarsi andare semplicemente a quello che le diceva di fare il desiderio che sentiva per lui, e che si stupiva di stare provando.
Di più...
Ichigo aveva sentito le sue dita sfiorargli le braccia e cercargli le mani, prendendole tra le sue e guidandole sulla sua schiena, come se avesse voluto trasmettergli la voglia che sentiva di essere abbracciata.
Voleva le sue labbra, voleva le sue mani calde su di lei. Non avrebbe mai creduto di poter arrivare a “volere” quel genere di contatto. E addirittura a provarne piacere. Era qualcosa di completamente nuovo, per lei, l’essere ricambiata così, gentilmente, mentre era lei a poter decidere, a scegliere se farsi toccare o meno.
E Ichigo l’aveva stretta lentamente, tirandola ancora più contro di lui, esaudendo la sua muta richiesta. Aveva avvertito il suo corpo caldo attraverso i vestiti premersi contro di lui, mentre le mani di lei avevano preso ad accarezzargli i capelli, delicate.
Altrettanti minuti interminabili erano passati, che però entrambi avrebbero voluto prolungare ancora di più.
Poi era stato il turno di Linalee di appoggiare la fronte contro la sua, sviando un po’ lo sguardo, col viso rosso di imbarazzo.
Adesso si faceva prendere dalla timidezza, dopo quel lungo bacio in cui aveva dimostrato che quando voleva, il coraggio di prendere l’iniziativa non le mancava affatto.
Ma c’era anche qualcos’altro. Speranza.
   « Ti basta...? », gli aveva chiesto con un filo di voce.
Dimmi di sì. Dimmi che mi posso fidare. Dimmi che non mi chiederai qualcosa di più, qualcosa che non ti posso dare.
Ti prego...
Ichigo l’aveva osservata, in silenzio. Poi si era lasciato andare ad un altro sorriso.
   « ... E avanza. »
Alle sue parole Linalee aveva accennato a una risata quasi divertita, sentendosi improvvisamente più leggera. E quella volta era stato Ichigo a cercare le sue labbra.
Ancora.
Ancora.
E ancora.

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Capitolo 5
*** Quando si resta soli. ***


NDA: E siamo arrivati al YuHime.
Facciamo tutti una statua di diamanti a N e m e per aver creato questo cross pairing meraviglioso, e anche per avermi dato l’input giusto per iniziare la loro storia! Grazie, mio gaio tesoro!

E niente... Yucchan è un po’ un bastardello. =w=
Hime... Hime mi fa una tenerezza assurda, accidenti a me. TCT
Vabbè, ecco un altra parolina che forse non conoscete – quanto mi diverto ad inventare i nomi dei locali! x°D -:
  • Oinari, nella mitologia shintoista e buddista, è la divinità della fertilità e del raccolto (una sorta di Cerere giapponese), le cui messaggere sono le kitsune, ovvero i famosi demoni-volpe bianchi.
 
[Crack Pairing] [Grimmjow x Tatsuki] [Lavi x Rukia] [Ichigo x Linalee] [Kanda x Orihime] [Debit x Riruka] [Tyki x Lust] [Starrk x Neliel] [Soi Fon x Hisagi]
 
 
 
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CAPITOLO 4 – Quando si resta soli.
 
 
 
Era una sensazione inebriante, la velocità.
Yu Kanda poteva sentire il freddo dell’aria della sera attraverso i vestiti, pungente, nelle ossa, nonostante il pesante giubbotto di pelle che indossava. I suoi lunghi capelli neri e lisci sferzavano l’aria circostante, e a volte anche il sottile strato di pelle che rimaneva scoperto tra il bavero alzato sul collo e il casco integrale.
Il sole stava tramontando di fronte a lui, dietro la sfilza di edifici grigi, che per lui costituivano l’abituale panorama di tutti i giorni. La visiera oscurata gli riparava gli occhi dalla luce.
Dopo una curva diede gas, piegandosi sulla sua moto come a volersi fondere con essa, come se il suo corpo ne volesse diventare una parte integrante.
A volte quella moto gli sembrava viva. Come un grosso animale, fiero, che ruggiva sotto il suo tocco. Aveva anche un nome, dipinto con un carattere elegante sulla fiancata. Un nome stupido, a dir la verità.
Mugen.
Non era stato Kanda a darglielo, lui non avrebbe mai fatto qualcosa come dare un nomignolo a un oggetto. E non era neanche stato lui a scriverlo sulla sua preziosa, preziosissima moto. Non aveva neanche dato il suo consenso, ma poco importava. Quell’idiota... aveva sempre fatto di testa sua fino alla fine.

Stringendo le manopole sotto i guanti di pelle come il giubbotto, superò un semaforo che stava per diventare rosso.
Sfrecciare tra le macchine su Mugen gli permetteva di non pensare.
Questo finché non si trovava costretto a frenare bruscamente, come in quel momento. Il mondo riprendeva a scorrere alla sua solita velocità, troppo lenta e allo stesso tempo troppo veloce e irraggiungibile per lui, che era rimasto fermo a un momento preciso del suo passato.
Odiava dover frenare, e ritrovarsi catapultato tra il rumore della città e le chiacchiere inutili della gente per strada. Fosse stato per lui, avrebbe continuato a guidare per tutto il resto della sua vita.
Bastava non dover pensare a niente.
Ma no, figuriamoci, ci doveva sempre essere qualcuno o qualcosa a fermarlo. Banalmente, un dannato semaforo. O un agente di polizia che non aveva niente di meglio da fare che dare multe a lui per aver superato il limite di velocità in una zona urbana.
O ancora, una cameriera con dei sacchetti della spazzatura in mano che non guardava neanche prima di attraversare la strada.
   « Si può sapere cosa diavolo hai che non va nel cervello?! », ringhiò tra i denti, furioso, togliendosi il casco e provando quasi il desiderio di lanciarlo contro a quella stupida ragazza per darle una svegliata. Stupida ragazza che lo guardava con occhi vacui, da terra, circondata dai piatti e dalle posate di plastica che erano usciti dai sacchetti neri.
   « I-Io... mi dispiace! », iniziò a dire con un filo di voce, col cuore che ancora le batteva all’impazzata per lo spavento. « Avevo la testa da un'altra parte, e-... »
   « Così finirai per rompertela, la testa! », la interruppe lui, trafiggendola coi suoi occhi scuri, esterrefatto dalla sua leggerezza.
E in effetti, Orihime Inoue ci era andata veramente vicina questa volta. Veramente, veramente vicina.
Era uscita dalla tavola calda in cui lavorava per buttare nei cassonetti per la raccolta differenziata dall’altra parte della strada, la spazzatura che ormai si era accumulata nei cestini del locale. Aveva in mano tre grossi sacchetti, non molto pesanti, ma parecchio ingombranti. Uno le era scivolato di mano nell’esatto istante in cui si accingeva ad attraversare, così lei aveva abbassato lo sguardo, senza rendersi conto della moto nera che stava arrivando a tutta velocità.
Yu Kanda aveva inchiodato, lasciando il segno della sgommata sull’asfalto, a pochi centimetri da un incidente sicuro. Se non fosse stato per i suoi riflessi pronti nel deviare la traiettoria della moto, quella ragazza la testa se la sarebbe rotta davvero, e con tutta probabilità, definitivamente.
Il ragazzo rimase ad osservarla per qualche secondo, respirando profondamente, mentre pian piano la rabbia e lo spavento che si era preso lui stesso, cominciavano a scemare.
Orihime indossava una corta divisa bianca e rossa, che recava lo stesso nome e simbolo dell’insegna di Oinari, ovvero il bar di fronte a lui. Divisa che pareva scomodamente attillata, soprattutto sul petto.
A prima vista sembrava essere sulla ventina, la sua stessa età, ma non ci avrebbe giurato. Quegli occhi grandi e color nocciola che lo fissavano spauriti le davano quasi un aria infantile. Ma la cosa che lo aveva colpito di più, e che probabilmente aveva contribuito a fargliela notare prima che fosse troppo tardi, era quella massa di corti capelli arancioni, tagliati appena sopra le spalle e in un modo talmente casuale da sembrare l’esperimento mal riuscito di una bambina.
La vide cominciare a raccogliere e a rimettere dentro come meglio poteva la spazzatura che era uscita dai sacchetti neri. La voce della sua coscienza gli diceva che forse, ma forse, sarebbe dovuto scendere dalla moto per aiutarla,  perché in parte quell’incidente fortunatamente scampato era avvenuto per colpa sua e della sua spericolata velocità in un’area urbana, come lo avevano più di una volta redarguito quei famosi agenti imbellettati.
Ma se lei si fosse presa la briga di guardare prima di attraversare, lui non avrebbe dovuto neanche fermarsi.
Quindi si portò una mano ai capelli, tirandoseli indietro e sistemandoli in modo che non fossero d’intralcio, sul punto di rimettersi il casco e andarsene, quando un oggetto luccicante vicino al suo piede catturò la sua attenzione.
Era una fermacapelli azzurro, uguale ad un altro che aveva notato sui capelli corti e spettinati di quella ragazza, che ora si era alzata e si stava trascinando fino ai bidoni della spazzatura, tirandosi dietro quei tre sacchetti che, da come si muoveva, sembravano parecchio pesanti.
Alzò gli occhi al cielo, spazientito, valutando quanto cattivo sarebbe stato da parte sua se se ne fosse fregato e avesse spinto sul gas, schiacciando quella stupida mollettina sotto le ruote.
La fastidiosa voce della sua coscienza gli diede dell’insensibile.
Schioccando la lingua infastidito, fece scattare il cavalletto della moto e ne scese, chinandosi per raccogliere il fermaglio. Era rimasto leggermente scheggiato su uno dei sei... petali?, che formavano il fiore su di esso, notò, rigirandoselo tra le dita.
   « Ah, quello...! », iniziò la ragazza, spalancando gli occhi, accorgendosi di ciò che lui teneva in mano. Kanda inarcò un sopracciglio, mostrandole il fermacapelli come a chiedere conferma che fosse suo.
   « Potresti... potresti restituirmelo, per favore? »
E il ragazzo non se lo fece ripetere due volte, letteralmente.
Orihime lo vide piegare il braccio e lanciare nella sua direzione quell’oggetto così prezioso per lei. E istintivamente lasciò andare i sacchetti per prenderlo al volo, facendo sparpagliare nuovamente a terra il loro contenuto, davanti a cui non riuscì a trattenere un gemito e un sospiro sconsolato, mentre cadeva in ginocchio per raccogliere tutto, per l’ennesima volta.
Kanda accennò a un sorriso mentre si rinfilava il casco e sgommava via.
Al diavolo la coscienza.
 
 
 
   « Orihime, ma che è successo?! Sei tutta sporca! »
Entrando  nel locale ormai vuoto, Orihime alzò lo sguardo verso la alta donna dai capelli biondo ramato che indossava la sua stessa divisa, incrociando i suoi occhi di un intenso celeste che la fissavano preoccupati, mentre con una la mano le puliva la terra dalla divisa. Le fece un sorriso.
   « Non è niente, Rangiku-san, sono solo-... », provò a dire, ma non riuscì a continuare perché il suo sorriso si trasformò in una smorfia di dolore, mentre spostava il peso solo su un piede, nascondendo l’altro dietro il polpaccio.
   « Cosa hai fatto alla gamba? », le chiese a quel punto Rangiku Matsumoto, a cui non era affatto sfuggito quel cambio di espressione.
   « Sono... sono caduta. », le sorrise ancora, passandosi una mano tra i corti capelli.
   « È la caviglia, vero? Fammi vedere. »
   « Ma no, davvero, non è nien-ahi. », gemette ancora, visto che istintivamente aveva fatto un passo indietro per sottrarsi alle cure di Rangiku ed evitare di farla preoccupare oltre. Lei però, scaltra, approfittò della situazione per spingere la ragazza su una sedia di legno e sfilarle la scarpa, esaminandole delicatamente la caviglia.
   « Si è gonfiata parecchio. È il caso che ci mettiamo su un po’ di ghiaccio, eh? »
Orihime sospirò e strinse la gonna della divisa nei pugni, vedendosi costretta ad annuire.
   « Arrivo subito, vado a prendertelo nel congelatore. Tu non fare la sciocca e resta seduta. », la ammonì la donna, con un buffetto sulla testa, facendole un sorriso. « Brava ragazza. », canticchiò, per poi sparire dietro le porte a ventola della cucina.
Orihime si lasciò andare contro lo schienale della sedia, sospirando ancora. Non gliene andava una per il verso giusto, ultimamente. Anzi, non ultimamente...
Da sempre.
Abbassò lo sguardo verso la caviglia dolorante. Chissà se sarebbe riuscita a servire ai tavoli zoppicando, pensò con un altro sorriso, che si spense subito. Ma chi voleva prendere in giro...?
   « Gin, ti prego... », sentì all’improvviso la voce di Rangiku, tesa ma fievole come un sussurro, eppure ben udibile nel silenzio del locale. Era sicura che fosse lei, tutti gli altri dipendenti avevano finito il loro turno ed erano tornati a casa. E poi nessun altro si rivolgeva con tanta confidenza al “signor proprietario”. Si sporse appena dalla sedia, quel tanto che le bastò per vedere al di là dei battenti della cucina Gin Ichimaru posare una mano sulla spalla di una Rangiku che lo stava guardando implorante.
   « Credi che per me sia facile, Ran-... », cominciò a dire, anche lui a bassa voce, quando si accorse che Orihime stava ascoltando la loro conversazione. Le rivolse un sorriso, uno di quelli che fin dal colloquio per la sua assunzione avevano avuto il potere di metterla in soggezione. La ragazza ricambiò come poteva, mentre lo osservava spingere con delicatezza Rangiku, che si era girata per guardarla, fuori dal suo campo visivo.
Tornò a stringere i pugni sulle gambe, mordendosi con forza il labbro inferiore.
Non era quello il momento di mettersi a piangere.
Raccolse da terra la scarpa e la calza appallottolata al suo interno, che si rinfilò cercando come poteva di non piegare la caviglia. Poi provò ad alzarsi. Le faceva male, le faceva parecchio male. Ma non aveva intenzione di rimanere lì un minuto di più.
Zoppicando e tentando di fare il meno rumore possibile, prese la sua borsa e la giacca dall’armadietto nella stanza sul retro del locale, ed uscì senza neanche essersi cambiata. Avrebbe lavato e stirato la divisa a casa, e poi gliel’avrebbe restituita nei prossimi giorni. L’importante in quel momento, era arrivarci, a casa.
L’appartamento in cui aveva vissuto per tutti e diciannove i suoi anni di vita, dei quali gli ultimi sette in completa solitudine, non distava molto dall’Oinari, appena una ventina di minuti a piedi. Peccato che uno dei suoi piedi non fosse esattamente nelle condizioni di collaborare in quel momento, ad ogni passo le sembrava che la caviglia fosse trafitta da un migliaio di aghi. Forse avrebbe dovuto aspettare l’autobus, ma non aveva idea di quali fossero gli orari a cui passasse, non l’aveva mai preso per andare e tornare dal lavoro. E poi... e poi voleva solo tornare a casa, il prima possibile.
Strinse i denti, doveva resistere. Ancora poco, Orihime, ancora poco. Ancora-...
Sentì una stretta al petto, e un nodo salirle alla gola, tanto da faticare a respirare, mentre con una mano si appoggiava ad un palo della luce, non riuscendo a camminare oltre.
Perché le cose non potevano semplicemente andare bene per lei? Lei ce la metteva tutta, ce l’aveva sempre messa tutta, ma... ogni volta, finiva nello stesso modo. E finiva per deludere anche le persone che avevano riposto fiducia in lei, persone come-...
   « Orihime! », sentì ancora la sua voce, questa volta non in un sussurro. Stava esclamando il suo nome, chiamandola e sporgendosi dal finestrino della sua macchina grigia, gli occhi celesti densi di preoccupazione. Coprendosi la bocca con la mano, tentando in tutti i modi di ricacciare indietro le lacrime, la vide accostare e slacciarsi la cintura di sicurezza, scendendo di tutta fretta per raggiungerla sul marciapiede.
   « Dio santo, Orihime, non mi fare prendere questi spaventi. Dove diavolo volevi andare ridotta così, me lo spieghi? », sospirò Rangiku scuotendola per le spalle. « Non ti avevo detto di restare dov’eri? »
Orihime per un secondo si perse nel suo sguardo ansioso, odiandosi per la preoccupazione che le stava facendo provare. Non sapeva cosa dirle, e la donna sembrò capirlo. Scosse la testa, facendo un sospiro.
   « Forza, sali in macchina. Ti riaccompagno io. »
   « E Ichimaru-san? »
   « ... Gin si arrangia, tornerà a casa in treno per una volta. Gli farà solo bene, anche se forse non altrettanto ai poverini che gli capiteranno accanto, e che moriranno di paura davanti ai suoi sorrisini “cordiali”. », provò a scherzare Rangiku per alleggerire la tensione, passandole distrattamente una mano tra i capelli.
Ma ancora, era colpa sua. Orihime avrebbe voluto rifiutare tutta quella gentilezza che le veniva offerta insieme a quelle carezze quasi materne, carezze di cui non aveva mai sentito il dolce tocco prima. Eppure, semplicemente, non ci riusciva. In quel momento non aveva la forza per opporsi a niente e a nessuno. Così Rangiku la guidò e sostenne fino al sedile del passeggero, per poi salire a sua volta e partire. Orihime le diede qualche indicazione sporadica a qualche incrocio, cercando di controllare la voce tremante, che la donna cercò in tutti i modi di ignorare per non metterla ancora più in difficoltà.
Quando poi si fermò di fronte al condominio in cui si trovava l’appartamento di Orihime, tra di loro calò il silenzio.
   « Sono... sono stata licenziata, vero, Rangiku-san? Dimmelo, per favore. », chiese infine la ragazza, dopo parecchi minuti in cui aveva cercato il coraggio per porre quella domanda di cui conosceva già la risposta.
Rangiku strinse il volante dell’auto tra le mani, abbassando lo sguardo.
   « Mi dispiace davvero, Orihime. Ma facciamo fatica anche noi a tirare avanti, e non possiamo permetterci di... », non seppe come finire la frase, per non affondare ancora di più il coltello nella piaga.
   « ... Di tenere un peso morto, non è così? Anzi, una combina guai che peggiora le cose e basta. », completò per lei la ragazza, accennando a una risata.
Rangiku non sopportava vederla ridere così, quando si vedeva lontano un miglio dai suoi occhi che voleva solo piangere. Provò il desiderio di abbracciarla, di consolarla come poteva. Ma sapeva per esperienza che in questo modo l’avrebbe solo fatta chiudere ancora di più in se stessa.
Orihime non chiedeva mai l’aiuto di nessuno, e a nessuno lasciava vedere le sue lacrime.
Così si limitò a posare una mano sulla sua, stringendola.
   « Grazie per quello che hai fatto per me fino a questo momento, Rangiku-san. »
   « Sciocca », le ripeté, con quell’appellativo con cui era solita chiamarla, e che più che altro era intriso di calore. « Io non ho fatto proprio niente. Anzi. Avrei voluto fare di più, ma non mi è stato possibile. »
Orihime stava per replicare che non era assolutamente vero, ma la donna la zittì con uno sguardo, incantandola ancora per qualche secondo.
   « ... Fatti sentire qualche volta, Orihime. Il mio numero ce l’hai. Chiamami per qualsiasi cosa, anche solo per una chiacchierata tra donne sul peso della vita. », scherzò ancora, lanciando un occhiata complice al suo seno, e facendola arrossire.
   « Lo farò... lo farò senz’altro. », rispose a quel punto Orihime, promettendosi mentalmente che invece quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbe disturbata.
Poi scese dalla macchina, non riuscendo a non rivolgerle un ultimo sguardo prima di chiudere la portiera alle sue spalle.
Rangiku la salutò con la mano fino a che non la vide sparire dietro il portone d’ingresso, mentre con l’altra si teneva la pancia appena accennata, a cui sentiva una stretta.
   « Lo so, piccolo... lo so. »
 
 
 
   « Sai, Nii-san... oggi mi sono slogata una caviglia. E sono anche stata licenziata. Di nuovo. »
Orihime Inoue si lasciò andare ad un'altra risata, seduta a terra, appoggiando al testa contro il muro e stringendo forte il cuscino che teneva tra le braccia. Si era fasciata la caviglia, ma la sentiva ancora pulsare per il dolore sotto le bende e lo strato di crema.
Le stava solo bene. In fondo, era solo colpa sua.
Rivolse ancora lo sguardo verso il piccolo altare disposto nel mobile di fronte a lei, soffermandosi sulla fotografia di quell’uomo che aveva tanto amato.
   « E poi, mmh... ho incontrato una persona. » continuò, sempre rivolgendogli un sorriso. « Aveva... dei capelli bellissimi. Però se n’è andata via subito. »
... Come tutti.
Come te.
E a quel punto, finalmente, lasciò scorrere libere le lacrime.
Sola, come era giusto che fosse.

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Capitolo 6
*** Il lupo perde il pelo ma non il vizio. ***


NDA: PERDONO, PERDONO, PERDONO PER IL MOSTRUOSO RITARDO!
Detto questo... spostiamoci in un ambiente più, come dire, scolastico!
Mi scuso anche per i vari ed eventuali strafalcioni riguardo la vita universitaria, ma, uno, la mia esperienza nel campo si limita alla mia fantasia in quanto sono ancora una pimpante liceale, due, ho cercato di informarmi come meglio ho potuto sulle università giapponesi, ma gli errori sono sempre possibili.
Comunque! Oggi introdurrò altri nuovi personaggi, quali Riruka, Debit, Neliel, Starrk, Harribel e Lilynette. Dio, quanta gente. òCo
Spero di aver reso tutti IC, anche quelli che ho trattato di meno. Ma col tempo avranno tutti il loro spazio, non vi preoccupate! E spero anche di essere riuscita ad incuriosirvi un po’. eve

Piccola nota:
  •   Il cognome che ho scelto per Debit, Kizuna, significa “legame”, come quello che rappresentano lui e Jusdero in D.Gray-man.


[Crack Pairing] [Grimmjow x Tatsuki] [Lavi x Rukia] [Ichigo x Linalee] [Kanda x Orihime] [Debit x Riruka] [Tyki x Lust] [Starrk x Neliel] [Soi Fon x Hisagi]
 
 
 
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CAPITOLO 5 – Il lupo perde il pelo ma non il vizio.
 
 
 
   « Ragazzi, forza. Sono stanco anch’io, siamo stanchi tutti, ma cercate di seguire ancora cinque minuti. »
Il professore sulla trentina si vide rispondere con un sospiro collettivo, mentre pian piano il brusio creato dalle voci degli studenti si calmava. Si riavviò i capelli castani, tenuti piuttosto lunghi, per poi massaggiarsi col pollice e l’indice il naso affilato, dove erano appoggiati un paio di sottili occhiali da vista. Era snervante spiegare le teorie esposte da Shūichi Katō, riguardo la corrente romantica di influenza occidentale sviluppatasi nell’epoca Meiji, a una classe che non faceva altro che sbadigliare e guardare l’orologio, agognando il momento in cui finalmente la lezione sarebbe finita.
Non che lui fosse più entusiasta, che sia chiaro. Anche lui si sarebbe volentieri lasciato andare a sbadigli, anzi, a un vero e proprio sonnellino, se non fosse stato che il suo ruolo non glielo permetteva. A volte si trovava ad invidiare la faccia tosta dei suoi studenti, che quando capitava di tenere una lezione alle prime ore della mattina, non si facevano tanti scrupoli ad appoggiare la testa sul banco e a chiudere gli occhi.
Lui, i suoi occhi azzurro ghiaccio doveva tenerli aperti sì e no ventitré ore su ventiquattro. E quell’unica di sonno, in qualche modo riusciva a ritagliarsela la mattina in macchina, quando si fermava a qualche incrocio, o a qualche ben accetto semaforo rosso.
Alle parole del professore, Riruka Dokugamine, seduta nelle ultime file di banchi, chiuse con un sonoro schiocco lo specchietto grazie a cui aveva appena finito di infoltire lo strato di mascara sulle sue lunghe ciglia. Lei non ci pensava minimamente a dormire, era troppo occupata ad ammirare la sua immagine riflessa, e a macchinare uno dei suoi tanti “piani diabolici”.
La sua mente lavorava freneticamente.
Il suo sguardo, piuttosto che sul suo riflesso, era adesso fisso con odio su una lunga chioma di un singolare verde acqua, quasi a voler perforare la testa a cui apparteneva.
Con un tic nervoso, tamburellò le unghie curate sul banco, chiedendosi perché mai le lancette del suo orologio di marca ci mettessero tanto ad arrivare alla fine dell’ora, e perché Starrk si ostinasse a continuare a parlare con la sua voce bassa e profonda, capace di far cascare la testa anche allo studente più diligente di tutta l’università. Aveva decisamente scelto il corso opzionale sbagliato, con filosofia e letteratura giapponese moderna. Ma ormai era troppo tardi per cambiare idea.
A proposito di studenti diligenti, per qualche secondo il suo sguardo assassino si spostò verso la sua sinistra, all’estremità dell’ultima fila, posandosi su una figura incappucciata da cui spuntava il filo giallo evidenziatore di un paio di cuffie, quasi come se quel colore fosse stato scelto appositamente per dare nell’occhio. Sedeva scomposto, con una gamba piegata e il piede sulla sedia, stando chino sul banco e tenendo la testa appoggiata su una mano. Stava scarabocchiando qualcosa con aria svogliata sul quaderno che teneva storto, se non l’avesse conosciuto bene, Riruka avrebbe sinceramente dubitato che quelli fossero appunti. E invece.
Nonostante la musica perennemente nelle orecchie, e nonostante il posto fisso all’ultima fila vicino alla finestra, quel ragazzo incappucciato con un discutibile gusto per i piercing e per il truccarsi gli occhi di nero, era il migliore studente del corso di laurea in Media e Giornalismo. E ormai i professori si erano arresi a questa evidenza.
Quando alzò la testa e incrociò il suo sguardo, Debit Kizuna le mostrò la lingua e il piercing su di essa con una smorfia quasi infantile, a cui lei rispose fulminandolo stizzita e tornando a guardare davanti a sé.
E in quel momento, finalmente, suonò la campanella che segnava la fine della lezione, così come il risveglio dal letargo dell’esiguo numero di studenti presenti in quell’aula. Ma Riruka non poteva andarsene, no, non ancora. Non era per quello che fino a quel momento aveva aspettato tanto impazientemente di potersi alzare.
   « Tutto questo romanticismo mi ha fatto venire in mente che Natale si sta avvicinando. », le sentì, dire nel suo tono civettuolo, mentre con una mano si scostava dal collo i capelli verde vomito, pardon, acquamarina.
In fretta e furia, Riruka aveva cacciato nell’astuccio e nella sua bella borsa di marca le sue cose sparpagliate sul banco, per poi farsi largo tra i banchi, facendo un rumore infernale con i suoi mocassini laccati col tacco. Come niente fosse, si era fermata a pochi passi dalla cattedra, fingendo di dedicare la sua attenzione alla bacheca di sughero alla quale erano affisse le circolari e i foglietti coi numeri di telefono dei numerosi laureandi e già laureati che offrivano ripetizioni. Come se lei ne avesse bisogno, pensò con un leggero sorriso di superiorità. A parer suo e dei punteggi che prendeva nei test, poteva ritenersi una più che discreta studentessa. Certo, non ai livelli di quel disadattato sociale di Kizuna, ma se la cavava egregiamente.
   « Sono felice che almeno una parola di quello che ho spiegato le sia entrata in testa, signorina Tu Oderschvank, anche se forse non l’ha interpretata nello stesso mio modo. »
La voce di Starrk aveva sempre il solito tono stanco – anche un po’ esasperato – di quando parlava con quella strega, notò con una punta di piacere Riruka.
Sì, perché Neliel Tu Oderschvank era una strega, fatta e finita.
Ogni cosa di lei era ripugnante, fino all’ultima cellula. Dal modo in cui si appoggiava alla cattedra stringendo le braccia per mettere in evidenza il seno fin troppo prosperoso, al modo in cui sbatteva le ciglia e guardava, sorridendo appena, quel professore che da qualche settimana a quella parte, era diventato il suo, come dire... obiettivo.
Chiunque se n’era accorto, ma gli altri studenti si limitavano a scherzarci sopra alle spalle della strega, scommettendo su quanto ancora Starrk avrebbe resistito all’incredibile fascino degli airbag di cui era dotata. Nessuno dubitava che prima o poi sarebbe capitolato, era solo questione di quanto tempo ci avrebbe messo.
L’unica che era più che convinta non sarebbe mai successo, e che avrebbe usato tutti i metodi possibili e immaginabili a sua disposizione per impedire che succedesse, era proprio Riruka, che non aveva smesso un secondo di fissare con la coda dell’occhio l’odioso scambio di battute che si stava consumando a pochi passi da lei.
Avrebbe fatto di tutto pur di rovinarle la vita.
   « Tu sei una stalker. », sentì all’improvviso una voce dietro di lei sussurrarle all’orecchio, il suo respiro che le sfiorava il collo sottile lasciato scoperto dai lunghi codini in cui era solita raccogliere i suoi capelli tinti di un luminoso rosso amaranto. Quel respiro caldo era decisamente troppo vicino, per i suoi sofisticati gusti.
Ma Debit Kizuna era fatto così, si prendeva i suoi spazi invadendo senza la minima considerazione quelli degli altri, anzi, solo i suoi, perché non l’aveva mai visto andare ad importunare qualcun altro che non fosse lei. E lo faceva anche con una nonchalance che la irritava da morire.
Col tempo però, si era imposta di sopportare quella vicinanza atta proprio a farla innervosire, per non dargli la soddisfazione di aver in qualche modo “vinto”. Almeno aveva un profumo sorprendentemente buono, e non puzzava come all’inizio, prima di conoscerlo, si era convinta facesse solo per il suo modo di apparire piuttosto sciatto e trasandato.
   « E tu un emo depresso. », gli rispose senza degnarlo di uno sguardo, ma continuando a dedicare la sua attenzione alle non troppo sottili manovre seduttrici di Neliel.
Si era chinata ancora di più verso il professore e la cattedra, lasciando che il suo sorriso si allargasse davanti a quello che evidentemente era stato l’ennesimo goffo tentativo di Starrk di rifiutare le sue avances. Starrk che adesso teneva lo sguardo ostinatamente fisso sulle carte che stava sistemando nella sua ventiquattrore di pelle, per non arrendersi alla tentazione di concedere all’occhio la sua parte.
   « Si stava dimenticando di questo. », Neliel richiamò a quel punto la sua attenzione, porgendogli con l’ennesimo sorriso seducente e dolce allo stesso tempo una cartellina di plastica. La ragazza trovava divertente come lui cercasse in tutti i modi di rimanere professionale, ma che, in un modo o nell’altro, finisse comunque per guardarla. Non soffermandosi sul suo seno o altro, ma Neliel si rendeva perfettamente conto che il suo sguardo, proprio perché esprimeva una punta di fastidio mentre accennava a un “grazie”, non era quello di qualcuno totalmente indifferente.
Quel fastidio che Riruka interpretava come un punto a favore della sua soddisfazione personale nel vederla fallire, Neliel invece lo considerava come una debolezza, un’insicurezza di quell’uomo che appunto, in quanto uomo, non poteva continuare a resisterle ancora per molto.
Era essere sicura di questo, della sua apparenza, che la rendeva risoluta e la spingeva a continuare, nonostante quegli sguardi sì non indifferenti, ma nonostante tutto sfuggenti. Si era convinta che fosse una sfida che doveva vincere, per dimostrare ancora una volta a sé stessa che quella facciata superficiale e un po’ infantile era la parte migliore e più forte di sé. Quella che non veniva ferita da niente.
Riruka studiò dalla sua postazione di osservazione quello scambio di sguardi durato più del dovuto per i suoi gusti, che in un attimo catalogò con una parola: pericoloso.
E a quel punto, presa dalla stizza, afferrò Debit tirandolo più vicino a lei per il filo delle cuffie che si era messo attorno al collo. Coi tacchi azzerava quei dieci centimetri di differenza tra le loro altezze, girandosi come fece il suo viso era esattamente all’altezza del suo.
   « Veloce, dimmi qualcosa di intelligente da dire a Starrk. », sibilò a pochi centimetri da lui, in modo che nessun’altro li potesse sentire, ma con un tono perentorio che non ammetteva obiezioni.
   « Riguardo la lezione? », replicò lui, inarcando un sopracciglio che sfoggiava l’ennesimo piercing, nel sentirsi tirare così.
   « No, riguardo la sua camicia palesemente comprata a uno spaccio merci! Certo che deve essere riguardante la lezione. »
Debit fece spallucce, infilandosi le mani in tasca. Sulla sua camicia non aveva niente da dire. « Allora chiedigli perché Katō interpreta il naibu seimei, la vita interiore, come uno strumento di meditazione e autocoscienza sulla base del modello di verità come valore metafisico e universale proposto da Kitamura. »
   « Ma che... che razza di domanda è?! Probabilmente non lo sa neanche lui! », sbottò Riruka sempre tenendo sotto controllo il tono di voce. A volte il cervello di quel ragazzo con evidenti disordini mentali riguardanti la concezione di moda la lasciava allibita.
   « No, lo sa. È l’argomento della lezione prossima. Farai un figurone, sembrerà che ti porti avanti con lo studio. »
Riruka fissò con sufficienza il suo sorriso canzonatorio, lasciando andare il filo delle cuffie. « Invece sembrerà che non ho una vita sociale come te che ti leggi tutti i libri di testo senza neanche aspettare la spiegazione. »
E fu a quel punto, troppo tardi, che si accorse che, prima che lei avesse avuto il tempo di intromettersi nella loro conversazione, Neliel si era già voltata e si stava dirigendo verso l’uscita, preoccupandosi di ancheggiare a beneficio del professore e di chiunque altro volesse guardarla.
Ma il sospiro sconsolato di Starrk mentre scuoteva la testa e tornava a sistemare i suoi fogli, era una soddisfazione più che sufficiente per quella giornata.
 
 
 
Posare le chiavi in un posacenere di plastica mai usato per il suo scopo. Togliersi le scarpe sfilandole direttamente coi piedi senza neanche chinarsi per slacciare le stringhe. Dirigersi in cucina e aprire il frigorifero per bere a canna dalla bottiglia di plastica contenente il caffè freddo di cui aveva talmente bisogno per rimanere in piedi, che non aveva neanche tempo da perdere per prepararselo, e che quindi conservava così.
Era questa la sua routine, ogni volta che rientrava a casa. E ogni giorno, gli sembrava più stancante.
   « Ciao, Starrk. »
Posando la bottiglia mezza vuota sul ripiano della cucina e asciugandosi la bocca col dorso della mano, alzò lo sguardo verso la donna che faceva parte della sua routine come il caffè, caffè di cui la sua pelle aveva praticamente lo stesso colore.
   « Tia. », disse semplicemente, facendole un cenno col capo in saluto.
Tia Harribel era seduta al tavolo della cucina, con le gambe accavallate, che distrattamente seguiva un documentario sulle specie ittiche che popolano l’Oceano Indiano, ingannando l’attesa mentre lo aspettava. Quando lui le si avvicinò, scostando una sedia e lasciandosi cadere pesantemente al suo fianco, spense la televisione.
   « Novità? », Starrk aveva ormai perso il conto delle volte che le aveva fatto quella domanda, e anche delle volte che aveva sentito quella risposta che gli faceva più male che altro, anche se si sforzava di non darlo a vedere. Ma non poteva fare a meno di chiedere. Non era speranza, quella ormai l’aveva abbandonata da anni. Era più che altro che aveva bisogno di seguire quella stupida routine, quei gesti meccanici, perché ormai andava avanti solo per forza d’inerzia.
   « È stabile. Come sempre. Adesso... sta dormendo. »
Appoggiando la fronte alla mano, Starrk annuì, chiudendo per un attimo gli occhi, desiderando di poterlo fare per sempre. Ma semplicemente, non poteva.
Non  poteva chiudere gli occhi e lasciarsi alle spalle tutto neanche per quell’attimo, neanche per sbaglio. Al punto in cui erano arrivata quella situazione... assurda, non poteva decisamente permetterselo. Non era neanche più in grado di farlo.
Tia Harribel si lasciò andare a un muto sospiro, abbassando lo sguardo. Gli faceva male vederlo così, ma quello che poteva fare era ben poco, se non offrirgli tutto il sostegno e l’aiuto possibile. Lo conosceva ormai da quattro anni, il loro rapporto si era evoluto da uno puramente professionale a una vera e propria amicizia, e occasionalmente anche a qualcosa di più. Non era la pena nel vedere quell’uomo che stava lentamente morendo dentro che la spingeva a stargli vicino. Semplicemente, Tia Harribel era più che a conoscenza di quanto potessero essere dure le ingiustizie della vita, perché prima di tutto la vita era stata ingiusta con lei, privandola della cosa che aveva desiderato e amato più al mondo.
Ed era forse anche per questo che aveva preso l’amara decisione di diventare infermiera pediatrica.
Dopo una lunga pausa di parecchi minuti, interruppe il silenzio, stringendosi le mani in grembo. Fargli quella richiesta la faceva quasi sentire in colpa, quando i suoi occhi azzurro ghiaccio fissavano il legno del tavolo in quel modo quasi perso. « Se non è un problema oggi io andrei a casa un po’ prima. Mio nipote compie gli anni, e non lo vedo da-... »
   « Vai. Figurati, lo sai che non è un problema. »
Harribel lo sapeva, lo sapeva bene, eppure alzandosi provò lo stesso una fitta all’altezza della gola al pensiero di lasciarlo lì da solo.
   « Chiamami per qualsiasi cosa. Anche se... spero vivamente non ce ne sia bisogno. »
A quelle parole, Starrk non poté fare a meno di guardarla, mentre sulle labbra gli si dipingeva un sorriso, così raro da vedersi sul suo viso. E Harribel lo conosceva talmente bene che gli bastò ricambiare il suo sguardo per capire che era tutto tranne che sincero.
   « ... Lo spero anch’io. », le rispose, mentre lei tendeva la mano ad accarezzargli appena una guancia. Quante volte l’aveva toccato in quel modo, guardato con quegli occhi di un verde così intenso e così particolare in contrasto con la sua carnagione, così come il biondo dei suoi capelli. Era arrivato a fidarsi di quegli occhi e di quelle mani come di sé stesso, forse anche di più. Le era grato per tutto quello che aveva fatto in quegli anni, di una gratitudine tanto grande che è capace di sopraffarti. Eppure non riusciva a provare niente di più per quella donna così bella che lo aveva stretto tante volte tra le braccia, e che a sua volta aveva stretto, cercando di alleviare il peso di quella solitudine che ogni giorno cresceva, senza lasciargli via di scampo. E senza che ci fosse bisogno di parole, sapeva che per lei era lo stesso.
   « Riposa un po’, per favore. », il suo tono era a metà tra quello di un’amica e l’effettiva infermiera che era, ma non quello di un’amante. Starrk le sorrise ancora, prendendole la mano e scostandosela dal viso.
   « Sai che non posso. »
Sì, Harribel sapeva anche questo: ormai Starrk soffriva d’insonnia da anni. E ancora, l’unica cosa che aveva potuto fare per aiutarlo, era stato consigliargli di prendere del sonnifero in pastiglie, di cui si vergognava ad ammettere di tenere sotto stretto controllo quanto ne usufruisse. E in breve, si era resa conto che il suo vano tentativo di aiutarlo aveva provocato una assuefazione sempre maggiore.
   « Dalle... dalle un bacio da parte mia quando si sveglia. »
   « Si arrabbierà perché non gliel’hai dato tu. »
Questa volta fu lei a lasciarsi scappare un sorriso, poteva benissimo immaginarsi quale sarebbe stata la sua reazione. E ancora, un’altra stretta alla gola al pensiero di quanto crudele potesse essere la vita. Il più delle volte, cercava di tenere lontani quei pensieri, ma non quel giorno. Non ce la faceva, le si insinuava nella testa, nel cuore, nel ventre.
Di solito non era così. Cercava di essere una donna forte, forte per tutti quei bambini che si trovava ad assistere. Di dargli l’amore che si meritavano. Ma non quel giorno.
   « A domani. », lo salutò, imponendosi di essere forte ancora per quel poco che le sarebbe bastato per uscire e chiudersi la porta alle spalle, mettendo in un angolo il viso addormentato di quella povera creatura che non aveva fatto niente per meritarsi quella crudeltà, e che da quattro anni a quella parte aveva assistito come meglio aveva potuto.
Si sentiva quasi un’egoista, a lasciare quella casa con una bugia. Perché tra qualche ora, non sarebbe stato affatto il compleanno di suo nipote.
Non era di lui che avrebbe ricordato la nascita. O meglio... la morte.
 
 
 
Appena sentì la serratura della porta scattare alla mandata della copia chiavi che ormai aveva dato ad Harribel da molto tempo, Starrk si lasciò andare a un grosso sospiro. Averla intorno era un toccasana, sì, lo distraeva, ma era anche parecchio difficile sostenere quegli occhi che lo conoscevano così bene, quando voleva nascondere quanto quel giorno, più di altri, per qualche motivo lo trovava ancora più stanco. Sarà stato che non si faceva una dormita degna di quel nome da quanto... tre, quattro giorni? In quel periodo l’università lo stava impegnato più del previsto, e l’avevano persino chiamato per una supplenza di qualche settimana in un istituto superiore, posto che non aveva trovato il coraggio di rifiutare. Tirare avanti da solo con uno stipendio esiguo come quello di un professore non era esattamente il massimo. Soprattutto con tutte le spese mediche che doveva sostenere e lo stipendio che doveva periodicamente ad Harribel per il suo aiuto. Certo, lei era comprensiva, e quando si era trovato davanti alla scelta di pagare lei o la bolletta del gas, lei si era tirata prontamente indietro, dicendo che poteva aspettare. Altra gratitudine, il debito nei suoi confronti si faceva ogni giorno più grande.
Certe volte, non sapeva come avrebbe fatto senza di lei. Soprattutto all’inizio, quando aveva rischiato di rimanere schiacciato dal dolore che quella scoperta gli aveva procurato.
Dire che adesso aveva ci aveva fatto l’abitudine, era una parola grossa. Entrare in quella stanza e guardare il suo viso ancora da bambina arrossato e screpolato sulle guance e sul naso, gli faceva ancora venire gli occhi lucidi ogni volta. Ma almeno, adesso aveva imparato a trattenersi dal lasciar cadere quelle lacrime.
Rimase a guardarla per qualche secondo, appoggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate, mentre la fievole luce che filtrava dalle persiane chiuse che non si aprivano mai, gli permetteva di distinguere il suo petto alzarsi ed abbassarsi al ritmo del suo respiro.
Respirare. Era solo quello che doveva fare. Respirare e... tirare avanti, anche per sua sorella che non avrebbe mai potuto farlo a causa di quella malattia autoimmune con decorso terminale e aspettative di vita di al massimo dieci, quindici anni, di cui quattro erano già passati.
Lupus eritematoso sistemico.
   « Starrk...? », la sentì rigirarsi nel letto e chiamare il suo nome, con la voce ancora impastata dal sonno.
Aveva smesso di chiamarlo “nii-chan” anni fa, più o meno quando tutto era cominciato. Quando la sua infanzia era definitivamente terminata, ed era maturata di dieci anni nell’arco di uno, in cui aveva fatto la spola tra casa e ospedale, ospedale e casa, mentre i medici le provavano tutte per capire il perché fosse sempre stanca, perché la sua febbre non calasse, perché le facessero male le mani e i polsi tanto da non riuscire ad usarli, perché poi i polsi le si fossero spezzati, perché diavolo fosse arrivata fino a un’insufficienza renale.
Così come dentro di lei era maturata la consapevolezza che la sua non sarebbe mai stata una vita normale.
Che per quello che sarebbe durata, non sarebbe mai stata vita e basta.
   « Sono io, Lilynette. Stai tranquilla, dormi. »
La sua voce era ferma mentre le scostava appena i capelli di un biondo tanto chiaro da sembrare verde a scoprirle l’occhio sinistro che non riusciva più ad aprire a causa di una recente lesione alla palpebra provocata da un semplice sfregamento. La sua voce non tremava, era ferma. Doveva esserlo.
Ma Lilynette era tutto tranne che ingenua. E anche con un occhio fuori uso, poteva benissimo vedere quanto la stanchezza non fosse solo uno dei tanti sintomi della sua malattia. Alzò una mano a sfiorargli una guancia, per poi tirargliela quanto più forte le sue mani perennemente doloranti per l’artrite le permisero.
   « Anche tu, stupido. Hai le occhiaie che ti arrivano fino alle ginocchia. »
Starrk socchiuse gli occhi, lasciandosi andare a un leggero sbuffo divertito. La cosa migliore di quella ragazzina che ormai aveva raggiunto i quindici anni, era che non aveva mai perso sé stessa, il suo carattere, la sua forza di volontà, nonostante la sua voce, i suoi occhi, il suo intero corpo non riuscisse più ad esprimere la vitalità che era sempre stata parte di lei. A differenza di lui stesso, che non si ricordava più neanche di che persona fosse prima di vederla arrivare a quel limbo tra la vita e la morte.
Lentamente, si chinò verso di lei che protestò debolmente a sentire le sue labbra posarsi sulla sua fronte a darle il bacio che aveva promesso ad Harribel, per poi lasciarla nuovamente sola. Almeno lei, doveva dormire.
E lui non riusciva a starsene con le mani in mano, aveva bisogno di occupare la testa, oppure avrebbe finito per rimanere seduto sul divano, sul letto, o nuovamente su una sedia della cucina a guardare nel vuoto. Così prese la ventiquattrore che aveva appoggiato all’ingresso e si ritirò in camera sua, tirando fuori libri e appunti per portarsi avanti e preparare la lezione successiva. Fu quando estrasse dalla cartellina di plastica le fotocopie che gli servivano, che scivolò fuori un bigliettino alto al massimo cinque centimetri, di quelli che vendono da allegare ai regali. Sulla copertina c’era il disegno plastificato di una pecora con un cappello di Natale in testa. E dentro non c’erano che poche parole.
 
Non la smetterò finché non mi permetterai di ringraziarti come si deve.
-N.
 
Senza pensarci due volte, accartocciò con una mano quel biglietto e lo lanciò verso il cestino, per poi rimanere a guardarlo rotolare per terra.
Aveva sbagliato mira.

 
 
 
-
 
 
 
MUAH!
Scusatemi, non ho resistito, il lupus sembrava fatto apposta per i nostri due Balto. ♥

Ecco a voi un piccolo approfondimento se vi può interessare. Cercherò di chiarire i punti solo accennati nella storia usando parole più semplici.
Come ho detto, il lupus eritematoso sistemico (LES) è una malattia autoimmune cronica per cui il corpo sviluppa degli anticorpi, cioè delle proteine che in un individuo sano hanno il compito di individuare gli agenti patogeni esterni ed eliminarli, mentre in un individuo malato attaccano le cellule del corpo, non riuscendo a riconoscerle come proprie e quindi comportandosi con loro come se fossero degli agenti patogeni esterni.
La cosa bella – anche no, affatto – del LES è che gli anticorpi prodotti attaccano praticamente tutto il corpo, il cuore, la pelle, i polmoni, vene e arterie, fegato, reni, il sistema nervoso, le articolazioni. E il peggio è che è una malattia difficilmente diagnosticabile, perché i primi sintomi, stanchezza, febbre, dolore alle giunture, sono comuni a molte altre malattie.
Poi si arriva a lacerazioni cutanee causate anche dal minimo sfregamento, a eritemi, soprattutto sul viso [cercatevi su internet qualche immagine dell’eritema a farfalla e ditemi se non vi ricorda qualcosa... 8D]. L’artrite continua per tutto il corso della malattia, concentrandosi soprattutto nelle mani e nei polsi, ed è davvero facile arrivare a fratture.
Gli affetti di LES sono anche anemici, e possono andare incontro a disturbi cardiaci e polmonari quali infiammazioni.
Passando ai reni che ho citato, sono uno degli organi che subiscono più l’effetto del LES, in quanto le infiammazioni che si sviluppano lì possono portare a necrosi (morte dei tessuti) e a un’insufficienza renale acuta che provoca nausea, vomito, anoressia e disfunzioni nell’orinazione. Nella maggior parte dei casi, l’acuto si evolve in cronico.
Già capite così che è un mostro di malattia, senza parlare dei disturbi mentali e comportamentali che provoca. Ancora peggio è che questa malattia NON È CURABILE, perché come molte malattie autoimmuni, ancora non ne si conosce la causa. Certo, è trattabile, ma ha comunque un decorso mortale. I più fortunati riescono a vivere mediamente quanto un individuo sano, nei peggiori casi e se la malattia viene diagnosticata tardi, si dura al massimo una decina di anni.
È una malattia che presenta episodi di riacutizzazione seguiti da periodi relativamente asintomatici, ma le disfunzioni provocate durano sempre. E in ogni caso, gli affetti di LES devono evitare il contatto con la luce solare e gli sforzi fisici, e tenere sotto un controllo maniacale la colesterolemia e la glicemia, e assumere in continuazioni farmaci.
Rendetevi conto, questa non è vita. Sia per i malati, che chi si trova a doverli assistere.
E con questo concludo, rinnovando la speranza che abbiate trovato il capitolo interessante.

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Capitolo 7
*** Fantasmi del passato. ***


NDA: QUESTO. CAPITOLO. È. LUNGHISSSSSSSSIMO.
E niente, ricominciamo col girin girello, ma anche con l’introduzione di due nuovi personaggi, Tyki e Lust! [OH MY GAWD, (S)VENGO...!] Purtroppo è proprio solo un’introduzione, più avanti avrò modo di trattare meglio la loro storia, approfondendo di più. Oh, se approfondirò... /si perde nei suoi deliri da fangirl zozzona/
Che altro... Grimmino e Tatsuki a quanto pare son due metallari. :°D
È che mi piace il significato che si collega ai nomi di questi gruppi, di cui son pure patita. A pensarci avrei potuto anche usare Pantera come nick per il nostro micio dai capelli turchini, ma insomma... 8°D
Vediamo invece se indovinate chi è Bluerikka. Non è difficile, su, su...
Okay, basta con le cavolate!
In questo capitolo ho usato molto la terminologia delle categorie manga, di cui penso però siate tutti al corrente, quindi non mi dilungherò oltre.

Un’ultima cosa: guardando dorama e leggendo manga in cui compaiono degli host, mi sono resa conto che un loro “vizio” è chiamare le loro clienti koneko-chan, ovvero “gattine”... È stato più forte di me, chiedo scusa. 8D
Per concludere, spero di essere riuscita ad incuriosirvi con certe allusioni, e anche ad aver creato un bel malinteso, non solo per il nostro povero micio. x°D
Spero inoltre di essere riuscita a farvi intravvedere cosa realmente si nasconde dietro il carattere un po’ distorto e OOC di entrambi. Ovvero, quello che sono realmente e che nonostante tutto, rimangono anche dopo quello che hanno passato.
 
P.S.: Imploro perdono per gli eventuali spoileroni apocalittici su Phantom: Requiem for the Phantom – che tra l’altro è uno dei miei anime preferiti. Se lo volete vedere, o peggio, se lo state guardando, non vi conviene leggere questo capitolo. x°D
Stessa cosa per quanto riguarda Death Note!
 
 
 
-
 
 
 
CAPITOLO 6 – Fantasmi del passato.
 



 
 
Tatsuki Arisawa passò per l’ennesima volta davanti alla porta del suo appartamento, lanciandole un’occhiata di fuoco. Ma non era quella povera porta, quella da biasimare. Era solo lei stessa.
Come si era cacciata in una situazione del genere?
Si portò una mano ai capelli ancora umidi di doccia, per poi lasciarla cadere sulla felpa enorme della tuta che indossava, stringendosela all’altezza del petto. Anche così, poteva sentire il suo cuore battere freneticamente. Era sul punto di avere un infarto dall’agitazione.
Ripercorse mentalmente le giornate prima, chiedendosi quale dio avesse mai offeso per meritarsi una punizione del genere. Ma ancora, non era colpa di nessun dio. Era lei che aveva fatto tutto da sola, partendo con l’accettare quell’assurdo incarico offertole con una flemma incredibile dal suo editore.
Perché quando finalmente – o a quel punto era meglio dire sfortunatamente – aveva trovato il coraggio di fargli quella telefonata, aveva sentito la terra crollarle sotto i piedi. In fondo, doveva aspettarselo. Fin dal primo numero era stata questione di tempo, eppure...
   « Mi dispiace, sensei. Ho cercato di trattare con i miei superiori, ma purtroppo non hanno voluto sentire ragioni. I guadagni sono inferiori alle spese di pubblicazione, e la casa editrice non considera più il suo manga come un investimento. »
Era la fine di Fly it. Non era durata neanche due anni.
Tatsuki aveva sentito il bisogno di sedersi. Ah, no, era già seduta. In realtà non si era neanche alzata dal letto se non per andare in bagno e poi prendere una confezione di biscotti con un cartone di latte. La sera prima si era addormentata con il portatile sulle gambe dopo aver passato l’intera notte fino alle quattro del mattino su The BOSS a chattare con Bluerikka, come ogni sera, d’altronde. Quella ragazza – se di una ragazza si trattava, perché su The BOSS non era necessario neanche specificare il proprio sesso – era quanto di più vicino a una migliore amica avesse mai avuto. Certo, non sapeva niente di lei, neanche quanti anni avesse, neanche di dove fosse. Non sapeva neanche il suo vero nome. Eppure le bastava leggere le sue parole sullo sfondo nero di quella chat per sentirsi in qualche modo più... capita.
Questo a prova di quanto misera fosse la sua vita.
Sta di fatto che la mattina, quando si era svegliata come sempre alle sette, si era girata dall’altra parte con un grugnito, cercando di riaddormentarsi senza successo. Il suo orologio biologico era impostato sul fuso orario di una persona attiva. Non importava quanto tardi andasse a letto, o quanto poco dormisse. I suoi occhi si aprivano immancabilmente alle sette, procurandole due occhiaie sempre più profonde ogni giorno che passava. Coi suoi lunghi capelli neri e spettinati, la carnagione pallida dovuta al praticamente insignificante contatto con il sole, e per finire con quelle occhiaie, avrebbe potuto benissimo passare per un personaggio di un qualche film dell’orrore.
Fortunatamente, non aveva nessuno da spaventare, in quanto nessuno veniva mai a trovarla. Il suo editore evitava ogni contatto diretto con lei su sua specifica richiesta, ma anche se lo fosse trovato davanti nel suo momento più impresentabile, aveva il sospetto che il suo sguardo dietro agli occhiali rettangolari che aveva il vizio di sistemarsi sul naso, sarebbe rimasto imperturbabile come sempre.
Anche Ichigo non ci badava a queste cose. Andava a controllare che fosse ancora viva sì e no una, due volte al mese, più per senso del dovere che per vera preoccupazione, probabilmente. Ogni tanto le portava anche qualcosa da mangiare, e si fermava a cena. Ma le loro conversazioni erano limitate a un mutuo silenzio, ognuno si faceva i fatti suoi, perso nei propri pensieri che non avrebbe esternato neanche sotto tortura. Su questo erano stati molto simili, fin da bambini. Se qualcuno poi li avesse visti così, in quei momenti, seduti a mangiare insieme, con gli stessi capelli lunghi e neri tagliati involontariamente in un modo così simile e gli stessi occhi castani, con la stessa espressione apatica e la bocca sigillata in un silenzio ostinato, avrebbe sicuramente pensato che fossero gemelli, mentre in realtà il loro grado di parentela era molto meno stretto.
Tatsuki Arisawa e Ichigo Kurosaki erano cugini di primo grado, eppure nei loro diciannove e ventuno anni di vita avevano condiviso più cose di due fratelli di sangue, la maggior parte delle quali incredibilmente dolorose. Rimanendo in silenzio.
Ma non era Ichigo che stava aspettando in quel momento, camminando avanti e indietro davanti alla porta con le braccia incrociate, fissandola in cagnesco. Era qualcuno che non aveva mai visto prima, il che le stava facendo venire un attacco di panico non da poco.
La voce impassibile del suo editore le risuonò nella testa, mentre alzava per circa la ventesima volta lo sguardo verso l’orologio che segnava le 21:56.
Dannazione.
 
   « Capisco come si senta in questo momento. Mi creda, sono davvero desolato », chissà perché dal suo tono sembrava non fregargliene niente, invece. « Però ho una buona notizia. »
Cosa ci poteva essere di buono in tutta quella faccenda? Tatsuki aveva perso anche quei pochi soldi sicuri che le permettevano di pagare l’affitto. Non aveva osato immaginare come avrebbe fatto a cercarsi un nuovo lavoro. Il solo pensiero di uscire dal suo appartamento le metteva i brividi.
   « Ho fatto visionare alcuni dei disegni che mi aveva presentato nel nostro primo colloquio, e gli editori della sezione josei li hanno trovati interessanti. Pensano che il suo stile, con qualche opportuna modifica, potrebbe adattarsi a un progetto che hanno intenzione di sviluppare a partire dal mese prossimo. Mi hanno chiesto di proporle l’incarico. »
   « E in cosa... in cosa consisterebbe questo progetto? »
   « Una raccolta di dōjinshi josei di vari autori, pubblicate in un nuovo mensile. »
   « Aspetti un secondo. Con josei intende... »
   « Sì, a carattere erotico ma non yaoi, e dedicate a un pubblico femminile. In redazione abbiamo ricevuto delle lamentele da parte delle lettrici riguardo alla prevalenza di dōjinshi seinen, così è nato questo progetto... »
Tatsuki aveva sentito il sangue salirle alle guance, mentre pian piano la voce del suo editore si era fatta più confusa alle sue orecchie. Conosceva bene il genere josei. Cioè, non perché lo seguisse, assolutamente, lei non... Sarebbe stato troppo imbarazzante. E poi i manga sulle storie d’amore non le piacevano, non erano proprio il suo genere. Soprattutto, non i manga josei, che trattavano l’amore da un punto di vista più maturo, anche troppo per i suoi gusti, in alcune scene. Era insomma... uno shōjo un po’ più spinto, e già lo shōjo... no, proprio no.
Sta di fatto che la richiesta era ben chiara. Si trattava di realizzare un capitolo autoconclusivo di quaranta pagine, riguardante una serie shōnen che in quel periodo stava riscuotendo parecchio successo sia tra il pubblico maschile che quello femminile. Bastava digitarne il nome su internet accompagnato dalla dicitura dōjinshi che apparivano pagine su pagine piene zeppe di link. Ma come aveva detto l’editore, erano tutte prevalentemente indirizzate a lettori di sesso maschile. In generale, comunque, il mercato di dōjinshi josei non dedicate allo yaoi non aveva lo stesso seguito di quello seinen, probabilmente anche perché come genere era nato successivamente e riscontrava ancora parecchie rimostranze dovute al pudore di un sesso femminile giapponese emancipato solo idealmente. La mossa della casa editrice era stata furba, non c’è che dire. E avrebbe sicuramente favorito introiti significativi in quel periodo di crisi economica, anche se le dōjinshi sono pubblicate mediamente a basso prezzo e a tiratura minima.
Ma lei, lei, Tatsuki... come diavolo avrebbe fatto a disegnare qualcosa del genere?
  « Sensei, mi sta ascoltando? »
   « Mi scusi... può ripetere? »
   « Dicevo, i risultati di un sondaggio e le varie lettere delle abbonate ci hanno permesso di stilare una lista di quello che vorrebbero vedere. Più del 40% si è dimostrato propenso verso una trasposizione AU, alternative universe, quindi... »
Tatsuki si era lasciata cadere sul letto, tornando ad appoggiare la testa contro il cuscino e chiudendo gli occhi mentre la voce maschile all’altro capo del ricevitore si era fatta nuovamente confusa.
Inutile dire che... non avesse la benché minima esperienza in quel campo del disegno, e nemmeno... della vita. Come avrebbe potuto? I suoi contatti umani si limitavano davvero al suo editore e a Ichigo. Non sapeva neanche da che parte avrebbe potuto cominciare, e chiedere a uno dei due era fuori discussione. Soprattutto al cugino. Non osava immaginare che faccia avrebbe fatto, se... gli avesse chiesto qualche delucidazione a proposito del sesso.
   « ... Sensei? »
   « S-Sì? », era scattata nuovamente sull’attenti, come una molla.
   « Personalmente infine, mi sento di consigliarle una storia riguardante il mondo degli host. Tempo fa pubblicavamo una serie di questo genere che ha avuto un discreto successo. Quindi... se la sentirebbe? »
Perché il suo tono noncurante sembrava quasi canzonatorio, con quel “se la sentirebbe”? Tatsuki lo sapeva bene. Il suo editore non stava mettendo in dubbio il suo talento artistico di cui era più che a conoscenza, ma... il fatto che avesse ben poca scelta.
Cosa altro poteva fare se non accettare?
   « Sì... Sì, va bene. »
   « Perfetto. Ci sentiamo tra un mese, al termine della scadenza. A seconda del successo o meno di questo progetto, la ricontatterò nel caso ci fosse ancora bisogno della sua collaborazione. »
 
E così aveva iniziato a documentarsi.
Tatsuki si era rifiutata di comprare quella serie di cui le aveva parlato l’editore, non poteva rischiare di lasciarsi influenzare dall’opera di qualcun altro. Ne andava del suo orgoglio – anche se misero – di mangaka, come del successo di quel lavoro. Doveva trovare qualcosa di originale.
Il punto era che non sapeva che pesci prendere.
Era stato in quel momento che, come un fulmine a ciel sereno – che poi così sereno non era affatto –, aveva letto per la prima volta il suo nome.
Come al solito stava passando la serata su The BOSS. Dopo un pomeriggio di estenuanti ricerche per la sua povera innocenza, ricerche che in fin dei conti non avevano neanche fruttato granché perché Tatsuki non sapeva minimamente dove cercare, si era arresa all’evidenza che quel lavoro stava diventando sempre più impossibile per lei. Si era vergognata talmente tanto ad aprire certe immagini, che più di una volta si era trovata a chiudere il portatile e ad allontanarlo, frustrata. Forse avrebbe semplicemente dovuto chiamare il suo editore e campare per aria qualche scusa, del tipo che si era rotta un braccio e non avrebbe potuto portare a termine l’incarico che si era presa. Ma si rendeva conto da sola che era qualcosa di stupido, nonché infantile. Com’era possibile che una ragazza di diciannove anni non riuscisse a disegnare una... una scena di sesso senza rischiare un aneurisma per il troppo afflusso di sangue al cervello? Per non parlare del problema soldi. Non avrebbe saputo come arrivare a fine mese, se avesse rifiutato quell’incarico e quindi rotto il contratto con la casa editrice.
Alla fine aveva deciso di rimandare il problema al giorno dopo. Chissà che la notte non le avrebbe portato consiglio. Così aveva chiuso tutte le schede contenenti foto, video, e spiegazioni di ogni sorta con un sospiro di sollievo, per poi riavviare il computer, come per purificarlo. Si era sentita davvero una stupida.
E a quel punto, quando era entrata su The BOSS si era sentita rinascere. Dei suoi “conoscenti”, però, in chat non c’era nessuno. In particolare, Bluerikka le aveva detto che quella sera non si sarebbe collegata, e TheGrimReaper non era mai online mai se non dopo le tre, quattro di mattino. Un po’ le dispiaceva, perché i momenti in cui poteva parlare con lui erano davvero pochi, cioè quando lui finiva prima quello che evidentemente era un turno di notte, oppure quando la stanchezza era clemente e permetteva a lei di tirare fino all’alba.
 Era stata lei stessa ad avvicinarlo la prima volta, incuriosita dal suo nickname. Tatsuki si era chiesta se fosse dovuto al nome del gruppo, e infatti era stato così. Si era trovata a parlare di musica, di film, di manga, di sport, e di molte altre cose con una persona che non conosceva minimamente, in un modo del tutto naturale. E ogni volta che chattavano, scopriva di avere in comune con lui sempre più cose. Se fosse stato collegato, probabilmente avrebbe chiesto a lui un consiglio su quella situazione. O forse no. In fondo non era il caso di dare troppi dettagli sulla propria vita privata, lì. The BOSS serviva proprio a questo.
Era quindi stata sul punto di chiudere anche quella scheda, quando una conversazione pubblica denominata “host” aveva catturato la sua attenzione. Possibile che fosse proprio riguardo all’argomento che doveva illustrare lei? No, doveva trattarsi di qualche cosa sull’informatica. O magari del libro di quella scrittrice americana, o dell’album dei Paradise Lost, perché no.
Eppure non le sarebbe costato niente controllare.

   -DragonForce si è aggiunto alla conversazione. 

Aveva scorso rapidamente i precedenti messaggi dei partecipanti, e in breve si era resa conto di aver fatto bingo.
Le altre tre souls, membri della conversazione, da come scrivevano sembravano donne. Due parevano conoscersi, l’altra era un’estranea, probabilmente aggiuntasi incuriosita da quel titolo, come lei del resto. Leggendo le parole di quelle che – dalla spropositata quantità di faccine e dalla profondità dell’argomento trattato – aveva concluso fossero ragazze, probabilmente della sua età pure, e vedendo la leggerezza con cui si esprimevano riguardo certi argomenti, aveva sentito il viso tornarle rosso come prima durante la sua ben poco istruttiva ricerca. Forse era lei quella troppo “suscettibile”. Però, insomma, quella era una conversazione pubblica, chiunque avrebbe potuto leggere quello che scrivevano... Chiunque, come lei, che non era riuscita a staccare gli occhi dallo schermo.
 
   -
Hakimitsu:
Personalmente trovo che il Jūichiban sia il migliore. È anche economico.
   -Nobushin:
Non ci sono mai stata.
   -Hakimitsu:
Non sai che ti perdi. (=//ー//=)
   -MadHole:
Io di solito vado al Gion Kobu. o (・ω・) o
   -Hakimitsu:
Tu non fai testo perché di solito sei lesbica, Maddie. Gion è un locale solo di hostess! (≧▽≦)
   -MadHole:
Ahahah! Ma sono meravigliose, tutte vestite da geishe!
(bisex, io sono BISEX!)
   -Hakimitsu:
Svestite vorrai dire!
(≧▽≦)
   -Nobushin:
Allora... cosa mi dici di questo Jūichiban, Hakimitsu-san?
(σ・∀・)σ
   -Hakimitsu:
Ti dico che ci devi andare. E chiedi di Grimmjow Jaegerjaques. Lo so che sembra un nome strano, ma fidati che non te ne pentirai. (=//▽//=)
   -MadHole:
Grimmjow è quello di cui mi hai parlato, che fa anche i... “servizi a domicilio”? (- O -) +
   -Hakimitsu:
Proprio lui! ノ(=////▽////=)ノ♥
   -Nobushin:
Intendi dire che...? (・//_//・;)
   -Hakimitsu:
Su, non fare la timida! Anche noi donne abbiamo il diritto di divertirci senza impegno, ogni tanto! (^o-)☆
   -Nobushin:
...
   -
MadHole:
Mi sa che l’hai scandalizzata!  ┐(´ー `)┌
   -Hakimitsu:
Nobushiiiin?
   -Nobushin:
... Non è che per caso hai un recapito, o qualcosa con cui posso contattarlo? (#^o^#)
   -MadHole:
Wooh, altro che scandalizzata! (* O *)9
   -Hakimitsu:
Certo che ce l’ho! Brava ragazza! (*▽*)9
Fatti un giro qui, è il suo blog, c’è il suo numero di cellulare e ci sono anche certe foto in costume che... AAARG!
 
... Cosa diavolo stava facendo?
La mano di Tatsuki, quasi stupidamente perché in fondo si trovava di fronte a un computer, aveva cercato all’istante una penna e un pezzo di carta che non aveva trovato, così aveva preso a scrivere velocemente sul suo avambraccio quel breve link comparso sullo sfondo nero della chat, come se avesse avuto paura che sarebbe potuto sparire da un momento all’altro. Non aveva avuto il coraggio di cliccarlo, per quel giorno ne aveva già viste troppe.
Poi era rimasta a fissare le lettere sulla sua pelle, sconcertata da se stessa. E aveva chiuso per l’ennesima volta il portatile, nascondendo il viso sotto il cuscino, la mente che non ne voleva sapere di smetterla di lavorare freneticamente.
Era un’idea assurda quella che le era venuta.
 
   -DragonForce ha abbandonato la conversazione.
   -MadHole:
Lei mi sa che l’hai scandalizzata davvero, Hakicchan. (*^o^)乂(^ε^*)
 
Assurda, Tatsuki. Davvero assurda.
 
 
 
Grimmjow Jaegerjaques riagganciò per l’ennesima volta il cellulare, trattenendosi a fatica dal tirarlo in faccia a qualcuno, imprecando mentalmente in tutte le lingue possibili e immaginabili.
Era già la quarta telefonata, quella sera. La quarta, dannazione.
E per la quarta volta, dall’altra parte del ricevitore il nulla. Non un rumore, neanche un respiro. Non importa quante volte avesse detto “pronto” o chiesto “chi è” con un tono sempre più spazientito, non aveva ricevuto nessuna risposta. Per di più il bastardo chiamava con un numero privato, quindi non si poteva neanche rintracciarlo. Ah, ma se avesse chiamato ancora non si sarebbe certo risparmiato, quello era poco ma-...
   « Ti vedo nervoso stasera, ragazzo. »
Grimmjow si girò sull’alta sedia da bar al suono di quella voce dal velato tono canzonatorio, inarcando un sopracciglio e sollevando lo sguardo verso l’altrettanto l’alto barista dalla carnagione e dai capelli scuri che stava asciugando un bicchiere con noncuranza, mentre gli rivolgeva un sorriso appena accennato. Appoggiando un gomito sul bancone e riprendendo in mano il drink che vi aveva appoggiato sopra, Grimmjow rispose al suo sorriso, contenendo a stento l’irritazione.
   « Allora ti consiglio di andare a fare un salto dall’oculista, Mikk. Io sto benissimo. »
Ecco un altro personaggio singolare che come molti altri lavorava in quel girone dell’inferno, il Jūichiban Tai. Da quello che aveva capito, si era trasferito dal Portogallo appena due anni prima, eppure parlava il giapponese con una fluenza che avrebbe fatto pensare fosse nato e cresciuto proprio lì, a Tōkyō. Sarebbe stato meglio se invece fosse stato muto del tutto, si era trovato a pensare più di una volta Grimmjow, che per un motivo o per l’altro finiva sempre oggetto delle sue frecciatine pungenti. A quanto pareva si divertiva, lo stronzo.
Non aveva idea di quanti anni avesse, a occhio e croce sembrava sulla trentina. Ancora “giovane e prestante”, insomma. Aveva perso molte delle sue clienti abituali in adorazione davanti al bancone in quel bar. Un altro motivo per cui non lo sopportava.
Ma la cosa peggiore di Tyki Mikk, erano quegli occhi di un singolare castano dorato, che sembravano sempre sorridere con malizia, come se conoscessero di te molto più di quello che volevi far sapere. Anche in quel momento, il suo sguardo gli trasmetteva la stessa sgradevole sensazione.
   « Qualche signorina che non ti lascia in pace? »
   Quello che non mi lascia in pace adesso sei tu, bastardo che non sei altro, pensò Grimmjow con un altro sorriso tirato.
   « Sono i lati negativi del lavoro, che vuoi farci. »
E probabilmente Tyki Mikk avrebbe continuato a punzecchiarlo come al solito col suo ghigno odioso, se non fosse stato distratto dall’arrivo di una donna, un’altra delle tante clienti abituali del Jūichiban che evidentemente, da come si era posta, incrociando le braccia sul bancone e tendendosi lentamente su di esso, lasciando il tempo sia al barista che all’host di intravvedere l’abbondante scollatura, voleva attirare l’attenzione e ordinare da bere.
Grimmjow distolse appena lo sguardo, nascondendo una smorfia, mentre invece il ghigno divertito di Tyki, che aveva abbandonato all’istante la pulizia del bicchiere, si trasformò in qualcosa di completamente diverso. Sempre malizioso, ma non solo. Seducente. E in un certo senso, famelico.
   « Buonasera. Cosa le porto? »
   « Un Tyki senza ghiaccio, grazie. », rispose lei, alzando una mano e portandosela alla bocca altrettanto schiusa in un sorriso, sfiorandosi le labbra con le lunghe unghie laccate di nero, mentre una ciocca di capelli mossi e corvini le scivolava su una spalla.
Ecco, queste cose Grimmjow proprio non le poteva sopportare. Vedere quei due flirtare gli dava sui nervi allo stesso modo di quando gli capitava di beccare Linalee Lee e Ichigo Kurosaki in atteggiamenti piuttosto “intimi”, ergo, ad esplorarsi con insistenza le rispettive cavità orali con la lingua. Semplicemente, non riusciva a capire il perché le persone fossero talmente idiote da innamorarsi, o almeno, provare un’attrazione duratura per qualcun altro. Soprattutto, lui, come uomo, non riusciva assolutamente a comprendere cosa ci potesse essere di tanto attraente in una donna da spingerlo a cercarla spontaneamente per più di una notte e via. Le donne sono meschine, egoiste, capricciose, no, rompicoglioni è un termine più adatto. Pensano di essere migliori di te, di essere più intelligenti, quando invece sono solo delle esibizioniste che hanno pure il coraggio di lamentarsi se vengono considerate come mero oggetto sessuale. Proprio non ci trovava nulla di attraente, se non dal punto di vista fisico.
Allora perché fare quel lavoro, vendere il proprio corpo esattamente a chi odiava?
Perché è divertente.
Grimmjow si divertiva letteralmente da morire, a prendere per il culo il sesso femminile. Gli bastava un nonnulla, un sorriso, qualche parolina dolce, il resto lo facevano la sua voce naturalmente roca e il suo sex appeal. E tutte, immancabilmente, cadevano ai suoi piedi. Che stupide. Ce ne erano state alcune, tra le sue clienti, che si erano innamorate veramente di lui, credendo quella farsa reale. Altre invece, le più mature, fin dall’inizio in lui non avevano cercato altro che un modo per sentirsi nuovamente giovani, ma alla fine erano arrivate a sviluppare un senso di possessione quasi maniacale nei suoi confronti, aggrappandosi a quella sensazione che lui gli faceva provare e che non avrebbero mai potuto trovare nella loro noiosa vita di tutti i giorni. Il che era anche peggio.
Grimmjow ne aveva viste di tutti i tipi, a partire da quella donna che gli faceva schifo chiamare madre. E mai una volta ne aveva incontrata una in grado di farlo ricredere, mentre invece ogni volta aveva finito per sorridere ancora, trasformando quelle paroline dolci in frasi taglienti e cariche di insensibilità, capaci di recidere ogni parvenza di amore.
E intanto si intascava i suoi 5'000 yen all’ora. Meglio di così?
No, ecco, c’era qualcosa che avrebbe potuto rendere il tutto ancora migliore in quel momento, si trovò a pensare abbassando nuovamente lo sguardo verso il cellulare che aveva ripreso a vibrare indicando un numero privato per la quinta e... decisamente, l’ultima volta.
Facendo del suo meglio per farsi strada tra la calca di gente che affollava il locale senza tirare gomitate per la frustrazione, si rifugiò nel bagno degli uomini riservato allo staff, dove poteva finalmente prendere fiato, ed essere sé stesso per cinque secondi, il tempo di riempire quel chiunque fosse di insulti senza rischiare di lasciare a bocca aperta per lo stupore le clienti che lo credevano un aitante giovane a modo, perennemente affabile e sorridente.
   « Grimmjow Jaegerjaques. », si trattenne a stento dal ringhiare.
E ancora silenzio, mentre un sopracciglio gli cominciava a tremare.
   « Senti un po’, brutto-... », iniziò, digrignando i denti, ma fu interrotto prima che se potesse uscire con qualsiasi cosa di compromettente.
Era una voce di donna, senza dubbio. A sentirla così, al telefono, non seppe dire quanti anni potesse avere. L’unica cosa di cui si rese conto fu che, nonostante il tono piuttosto insicuro, risultava comunque in un certo senso risoluta, graffiante. Gli piaceva immaginare chi si sarebbe trovato di fronte semplicemente dalla sua voce, e di solito ci azzeccava sempre. Ventenne, quarantenne, single, sposata... Questa volta, però, non riuscì a classificare quella voce di donna in nessun modo. Cosa che lo incuriosì ancora di più.
   « Sei... libero domani alle 22? », aveva chiesto semplicemente, saltando tutti i convenevoli.
Grimmjow scorse mentalmente i suoi appuntamenti, trovando che a quell’ora effettivamente non era occupato. Raramente qualcuno lo richiedeva così presto, e lui tendeva a tenersi libero il giovedì, perché... merda. Si sarebbe perso la replica di Requiem for the Phantom.
   « Sì. Ho tempo fino all’una, poi ho un altro appuntamento. », celò uno sbuffo, appoggiandosi al ripiano del lavandino. Avrebbe cercato l’episodio in streaming, visto che proprio gli toccava. E poi era seriamente curioso di vedere in faccia chi lo aveva chiamato per ben cinque volte prima di trovare il coraggio di chiedergli un incontro. E se fosse stata una povera racchia sfigata che non lo vedeva neanche in sogno da anni? Non ridere, Grimmjow, son sempre soldi...
Si era poi schiarito la voce e aveva appena iniziato a snocciolare il solito, la tariffa, i servizi che era disposto e non disposto a dare – il bondage e, più in generale, il sadomaso, se li poteva proprio scordare –, quando la voce dall’altro capo del telefono lo interruppe di nuovo.
   « N-No, non voglio fare niente del genere, hai frainteso. »
   « Perfetto, allora. Ci capiamo fin da subito. » rispose con un falso sorriso complice, che trasparì dal suo tono. Era importante stabilire fin da subito un certo feeling, credeva. « Beh, ho bisogno del tuo indirizzo e del numero di cellulare », quello vero, grazie, pensò ancora con una punta di risentimento, « nel caso avessi bisogno di contattarti per qualche contrattempo. »
 
 
 
E finalmente, il campanello suonò, facendola sobbalzare.
Tatsuki si girò per l’ennesima volta verso la porta, mordendosi il labbro a sangue, nervosa come non mai. Per un secondo accarezzò l’idea di fare finta di niente e di non aprire, fregandosene. Ma il post-it che aveva attaccato sulla maniglia con scritto “sei una fifona!”, come previsto fece affiorare quel briciolo di orgoglio che ancora le rimaneva, facendole decidere di prendersi la responsabilità delle sue azioni, delle quali però si era già pentita. Perché diavolo le era venuta un’idea del genere...
Strappò con rabbia il foglietto giallo incriminato, ficcandoselo in tasca, poi prese un grosso respiro e posò la mano sulla maniglia. No, a ripensarci forse era davvero il caso di fare finta di nien-...
Il campanello suonò ancora, facendola trasalire di nuovo. E che diavolo, un po’ di pazienza!
Così, lentamente, aprì la porta tenendo il catenaccio per controllare che fosse davvero chi si aspettava.
La prima cosa che notò, fu che era alto, parecchio alto in confronto a lei, probabilmente era vicino al metro e novanta. E che aveva davvero i capelli azzurri, come aveva visto in foto.
Cioè, i capelli azzurri. Non aveva del tutto metabolizzato che si sarebbe trovata davanti una copia un po’ stinta di Kamina. E diamine, sorrideva pure allo stesso modo, pensò scoprendosi già indispettita dalla sua aria così sicura.
Grimmjow sorrideva, sì, per nascondere il colpo che gli era venuto a veder sbucare da quella porta semiaperta un occhio scuro contornato da capelli altrettanto scuri. Cazzo, aveva perso dieci anni di vita, e per un attimo la sua capacità di rimanere imperturbabile aveva vacillato. A Resident Evil gli piaceva giocarci solo con la play.
Prese un grande respiro quando Tatsuki chiuse la porta per togliere il catenaccio, preparandosi al peggio. Brufoli? Rotoli di ciccia? Fondi di bottiglia al posto degli occhiali almeno li poteva escludere. L’apparecchio però no.
Di solito Grimmjow accettava come clienti solo quelle che già lo richiedevano abitualmente come host, giusto per coronare il tutto con la ciliegina sulla torta. E poi così almeno sapeva chi si sarebbe trovato di fronte. Certo, ogni tanto era divertente andare così, “all’avventura“, quando gli capitavano quelle telefonate praticamente anonime, di donne che avevano chissà come scovato il numero che usava per il “lavoro”, magari entrando in possesso grazie a un’amica dei bigliettini da visita bianchi che lasciava cadere con nonchalance nelle scollature o nelle tasche posteriori delle frequentatrici del Jūichiban, oppure magari ancora, copiandolo dal suo blog privato – su cui per scherzo aveva anche inserito un sistema di feedback, che si rivelavano immancabilmente positivi.

Ma gli era anche capitato che questo gli si ritorcesse contro, come quella volta che lo aveva chiamato una ragazza che proprio, con tutta la buona volontà e l’amore per i soldi... Insomma, si era visto costretto a fingersi colto da un improvviso dolore lancinante allo stomaco. E anche questa volta era stato un po’ incauto ad accettare così, doveva ammetterlo. La curiosità probabilmente gli aveva giocato un brutto tiro, stava pensando, grattandosi il collo, mentre sentiva finalmente il catenaccio scattare e la porta aprirsi.
... O forse no.
La prima impressione che ebbe, fu quella di averla già vista da qualche parte. Come se la conoscesse da una vita, anche se era sicuro al mille per cento di non averla mai incontrata. Ma fu un'impressione passeggera, che scacciò in fretta dalla testa.
Era bassina, no, nella norma per una ragazza, è che la trentina di centimetri di differenza tra le loro altezze la facevano sembrare ancora più piccola di quanto in realtà fosse. Gli arrivava sì e no al petto.
Non poteva dire nulla del suo fisico, se fosse magra o “in carne”, perché indossava una tuta grigia di svariate taglie più grandi, però dalla larghezza delle spalle intuì, o forse è meglio dire sperò, che fosse la prima opzione. Di solito, anzi, sempre, tutte le donne che fino a quel momento l’avevano richiesto, quando si erano presentate avevano dato il meglio di sé. Vestiti attillati, se non addirittura praticamente inesistenti, trucco pesante, capelli pettinati alla  perfezione. Già, capelli.
I capelli di quella ragazza sembravano avere vita propria. Erano neri, piuttosto lunghi, le arrivavano alla vita, parecchio spettinati poi, e da lontano parevano anche un po’ unti, ma in realtà si rese conto che erano bagnati perché Tatsuki non si era presa neanche il disturbo di asciugarli, dopo la doccia. Entrando e passandole accanto, Grimmjow poté sentire bene il profumo del suo balsamo.
Beh... insomma, non era poi così male. Anzi. Con un po’ di trucco a coprirle le occhiaie e a darle colore alle guance innaturalmente pallide, il suo sarebbe stato davvero un bel viso, anche sensuale, in un certo senso. Gli piaceva il contrasto che le sottili sopracciglia nere aggrottate davano con le labbra piene, che nervosa continuava a mordicchiarsi. Doveva avere la sua età, forse qualche anno in meno, anche se quell’atteggiamento la faceva sembrare una bambina un po’ timida e imbronciata. Sarebbe stata una dolce sfida vincere le sue difese e farla cadere ai suoi piedi come tutte le altre. Già si pregustava la sua espressione e la sua voce nel momento in cui l’avrebbe resa la donna più felice della pianeta.
Tatsuki si sentiva il suo sguardo addosso, si sentiva studiata. E la cosa, oltre ad innervosirla ancora di più, la irritava a dismisura. Ma non aveva nemmeno il coraggio di alzare gli occhi verso di lui per dirgli di darci un taglio, si sentiva troppo in soggezione dalla presenza di un estraneo.
I contatti umani erano esattamente il suo punto debole.
Non era la sua stazza ad intimorirla, sapeva che con qualche colpo nei punti giusti, sarebbe stata in grado di farlo cadere per terra in ginocchio a invocare l’aiuto della propria madre. Ne aveva messi al tappeto anche di più piazzati, avrebbe solo dovuto provarci, ad alzare un dito su di lei contro il suo volere. Quindi il problema, fin dall’inizio, quello che l’aveva bloccata dallo spiccicare anche solo una sillaba ogni volta che aveva composto il suo numero, non era stata la paura di trovarsi in casa da sola con un uomo. Bensì il dover parlare con qualcuno che non fosse lei stessa. Il dover guardare qualcosa che non fosse il volto dei suoi personaggi disegnati. Il dover anche solo respirare la stessa aria di una persona che, maledizione, perché non la smetteva di fissarla?
Doveva restare calma. Fare un respiro profondo e stare calma, mentre si faceva da parte per permettergli di entrare.
Grimmjow si infilò le mani nelle tasche dei jeans scuri e diede una veloce occhiata intorno a sé, curioso. Soggiorno e cucina erano costituiti da una piccola stanza unica, praticamente non arredata se non per un largo kotatsu e un mobile a muro che ricopriva tutto un lato della stanza. E il divano era in realtà un materasso ricoperto da una fodera bordeaux e una montagna di cuscini.
L’unica cosa che spiccava in quella stanza, era un enorme, ma proprio enorme, televisore a schermo piatto da cinquanta o forse addirittura sessanta pollici. Grimmjow rimase a fissarlo incantato per qualche secondo, provando l’impulso di stordire con un colpo quella ragazza e scappare, portandosi via quella meraviglia. Ma doveva trattenersi, quella sera non poteva permettersi di lasciar divagare le fantasie su nient’altro a parte i mille modi che conosceva per far capitolare una donna. Anche se guardare la trilogia di Matrix su quello schermo... E chissà se aveva pure la funzione 3D...
   « Immagino tu lo sappia già, ma beh... Grimmjow Jaegerjaques. », si costrinse a distogliere l’attenzione da quei benedetti sessanta pollici e a porgerle la mano in un gesto molto occidentale, come metà delle sue origini del resto, origini che gli piaceva esasperare mentre lavorava. « Chiamami pure solo Grimmjow, lo so che il mio cognome è difficile. », per gli imbecilli, sorrise candidamente.
Respira, Tatsuki, respira e per l’amor di dio non prenderlo a pugni sui denti per levargli quel ghigno odioso dalla faccia, si impose lei a sua volta, mentre allungava la mano a prendere la sua.
   « Il mio invece non lo è, quindi chiamami Arisawa e basta. », ricambiò la sua stretta, in un modo che Grimmjow avrebbe definito inaspettatamente secco e deciso. Così come la sua voce, che l’aveva tanto incuriosito, e che dal vivo sembrava ancora più graffiante.
Non vedeva l’ora di sentirla ansimare il suo nome.
E da un lato, era quasi contento che l’altro appuntamento di quella sera fosse saltato.
   « Allora. Come ti ho detto al telefono, io prendo cinquemila yen all’ora. Per questa volta, visto che è la prima, per tutta la notte posso farti uno sconto, diciamo... quarantamila yen in tutto. Ma non di più. »
La osservò tentennare, come se ci stesse pensando su.
   « Due... due ore dovrebbero bastare. »
Pazienza. Quella notte non sarebbe stata tra le più fruttuose in termini di guadagno materiale.
   « Come preferisci. Sono diecimila. E puoi darmeli anche adesso, tranquilla che con me non vale il “soddisfatti o rimborsati”. Perché sarai sicuramente soddisfatta. »
Il guadagno fisico però non era minimamente da mettere in dubbio.
 
I minuti che seguirono, e in cui Tatsuki lo invitò ad accomodarsi dove meglio credeva, Grimmjow li passò a cercare di decifrare dal suo modo di fare che tipo fosse, e di conseguenza, come avrebbe dovuto condurre il gioco.
   « Vuoi... qualcosa da bere? Non ho molto, però. »
Oh, allora era una di quelle che cercavano di far sembrare la situazione più normale possibile. E da come si comportava, evitando così ostinatamente il suo sguardo, sembrava pure imbarazzata. Perfetto. Quel tipo di clienti erano proprio quelle che sopportava meno, perché bisognava fingere di più per metterle a loro agio.
   « Perché invece non vieni qua e ti siedi? », accennò a un sorriso, tamburellando le dita sul posto accanto al suo sul “divano”.
Tatsuki lasciò cadere la mano che aveva teso per aprire il frigorifero – frigorifero che avrebbe preso volentieri a testate tanto si sentiva a isterica in quel momento – e si voltò verso di lui, ripetendosi mentalmente il suo mantra di restare calma.
   « Sì... sì. Forse è il caso di iniziare subito. »
In fondo due ore non erano poi molte, e se non voleva buttare per niente diecimila yen, era meglio non perdere tempo. Così con passo deciso si diresse verso Grimmjow, che non aveva smesso di ammiccare un secondo, già pregustandosi la sua vicinanza, e si sedette in ginocchio di fronte a lui. Poi prese un profondo respiro, stringendo impercettibilmente la stoffa dei propri pantaloni tra le dita.
   « ... Per favore, spogliati. »
Grimmjow aggrottò le sopracciglia, rimanendo per un secondo interdetto da quella richiesta così esplicita. Forse aveva giudicato male, ora più che imbarazzata e restia a lasciarsi andare, sembrava determinata. Fin troppo, il suo sguardo, che finalmente aveva deciso di rivolgergli, quasi metteva soggezione. A lui, Grimmjow Jaegerjaques, e questo era tutto un dire. E se invece fosse stata una di quelle tipe dominatrici, che godono a sottomettere l’uomo...? Ah, no. No, no, no. Se era quello il caso, si erano capiti proprio male.
   « Senti un attimo, pensavo di essere stato chiaro. Niente richieste strane. », decise di sottolineare ancora una volta rilassando il viso nell’ennesimo sorriso, mentre si tirava appena su per avvicinarsi a lei.
Tatsuki si ritrasse istintivamente di qualche centimetro. « Non mi sembra una richiesta così strana. »
Beh, sì, in effetti non aveva tutti i torti. Non aveva ancora tirato fuori frustini e manette, per lo meno. Forse voleva solo... sì, guardarlo. A Grimmjow invece piaceva spogliare e farsi spogliare, ma quello che contava per guadagnare soldi non era quello che preferiva lui. Almeno, nei limiti del possibile, come per i frustini sopraccitati. Ma era il fatto di non riuscire a capire cosa diavolo le passasse per la testa, che lo faceva sentire... come dire, insicuro. Sensazione più unica che rara per lui, convinto, convintissimo di sapere il fatto suo per quanto riguardava il lavoro. Per questo, non avrebbe fatto minimamente trapelare i suoi dubbi, e anzi, avrebbe sfruttato quella richiesta sì un po’ inaspettata per riprendere il controllo della situazione.
Aveva notato che si era tirata subito indietro non appena lui le si era avvicinato. Davvero non riusciva a capirla. Ennesimo forse, il suo modo di fare risoluto era appunto un modo per mascherare l’imbarazzo. In questo caso...
Ghignare in quel modo insopportabile sembrava essere quello che sapeva fare meglio. Tatsuki avvertì nuovamente il suo radar interno impazzire quando lo sentì avvicinarsi ancora, troppo per i suoi asociali gusti. Però si costrinse a rimanere ferma dov’era perché in qualche modo, gli occhi chiari e dal taglio felino di quel Kamina stinto, sembravano lanciarle una muta sfida.
Vediamo per quanto riuscirai a resistere, sembravano dire.
Così Grimmjow cominciò a sfilarsi la maglietta nera, in modo lento, esasperante, per poi abbandonarla al suo fianco sui cuscini, mentre scuoteva appena la testa per scostarsi le ciocche di capelli dal viso.
Poi si tirò su, facendo peso sulle ginocchia, mentre con le dita sfiorava la fibbia della sua cintura di pelle, che iniziò a slacciare insieme al bottone e alla cerniera dei jeans. Sempre lentamente, dando modo a Tatsuki di assaporare ogni suo gesto.
Tatsuki che era letteralmente sul punto di implodere. Solo la sua espressione era in grado di farla vergognare fino alla punta dei capelli, senza tenere conto di quello che stava facendo e di come lo stesse facendo.
E per di più... aveva un corpo bellissimo.
Talmente bello che per un secondo, un brevissimo secondo, provò l’impulso di allungare una mano e accarezzargli il petto.
Invece si costrinse a distogliere lo sguardo quando notò che con il pollice aveva preso ad abbassarsi l’orlo dei boxer aderenti.
   « ... Quelli puoi anche tenerteli su. »
Ah ah, Grimmjow si sentì come se avesse appena vinto un miliardo di yen alla lotteria. Il vederla girarsi così, arrossire, perché oh, se era arrossita, gli aveva dato una soddisfazione immane. Quella sfida si stava facendo a ogni minuto che passava più interessante.
Ma ad essere sinceri, lui stesso stava cominciando ad essere impaziente, e più di altre volte, anche se non riusciva a capire perché. Non che gliene importasse dei perché e dei per come, in quel momento.
   « Che c’è? Sei timida, gattina...? », mormorò azzerando la distanza tra loro, portando la bocca al suo orecchio e sfoggiando il tono suadente di quando voleva vincere le eventuali ultime resistenze dovute al pudore delle sue clienti. Così vicino, poteva sentire ancora di più il profumo dei suoi capelli appena lavati.
E a quel punto fece qualcosa che non avrebbe mai dovuto fare.
Posando le labbra sul suo collo, alzò una mano e gliela infilò sotto l’enorme felpa. E prese ad accarezzarle un seno. Seno che piacevolmente si rivelò non così piccolo come avrebbe detto a prima vista, nascosto dai vestiti.
Tatsuki rimase immobile, pietrificata, mentre sentiva le sue dita e i suoi baci sulla sua pelle farsi sempre più decisi e intraprendenti. Ma fu solo un attimo.
Il tempo di realizzare cosa diavolo quel tizio dai capelli azzurri stesse facendo, che lo spalmò letteralmente al suolo, e gli bloccò il braccio della mano incriminata dietro la schiena, mettendosi a cavalcioni su di lui e premendo un ginocchio contro le sue costole, mentre lo fissava come se avesse voluto smembrarlo da un momento all’altro.
Grimmjow non ebbe nemmeno il tempo di reagire, e dire che ne sarebbe stato capace, un paio di cosette sul combattimento corpo a corpo le sapeva anche lui. Ma la reazione di quella ragazza che fino a un secondo prima aveva guardato con occhi sconcertati il suo corpo nudo, evidentemente in imbarazzo, lo aveva colto completamente alla sprovvista.
Non riusciva minimamente a capirla, né a prevedere le sue mosse. Un secondo prima sembrava una timida vergine timorata di dio, quello dopo una specie di... di violenta psicopatica. Non gli era mai capitato di trovarsi di fronte a una donna del genere. Per la prima volta nella sua lunga e fruttuosa carriera da simil escort, non sapeva da che parte iniziare per tentare un approccio.
E anche se così piccola in confronto a lui, sembrava parecchio forte. E il modo in cui l’aveva bloccato, la sua presa, sembravano quelli di una che aveva fatto delle arti marziali il proprio stile di vita. Peccato che i muscoli scolpiti di Grimmjow non fossero solo di bellezza, se avesse voluto, avrebbe potuto liberarsi piuttosto facilmente e ribaltare le posizioni. A quel punto non ci avrebbe messo molto a farle capire chi comandava, con la forza.
Ma nonostante la parvenza di orgoglio che gli rimaneva, orgoglio che si trovava ferito ad essere immobilizzato a terra da una... una ragazzina, non avrebbe mai alzato un dito su una donna. E non avrebbe neanche perso la pazienza, no. Non avrebbe sicuramente permesso a nessuna ragazzina di far cadere la facciata imperturbabile che aveva speso anni a costruire. Così si limitò a piegare come poteva la testa per guardarla, facendole un altro dei suoi sorrisi.
   « Ehi, avevamo detto niente cose strane, ricor-...? », ma si zittì subito, rendendosi conto del suo sguardo assassino.
Tatsuki dovette ripetersi almeno un centinaio di volte di stare calma per impedirsi di ridurlo in poltiglia. Ogni punto della sua pelle che aveva toccato bruciava ancora, come il suo viso rosso di rabbia e vergogna. Chiuse gli occhi, serrando forte le dita attorno al suo polso che teneva ancora chiuso in una tenace stretta. Ma non era solo lui che voleva tenere fermo, anche sé stessa, perché sentiva che se l’avesse mollato, avrebbe finito per riempirlo di pugni.
   « Mettiamo subito in chiaro tre regole, mh? Tu non mi tocchi, tu non parli a sproposito, e soprattutto non mi chiami “gattina”, ed io ti ridò i tuoi... », si fermò per allungarsi ed estrarre dalla tasca dei suoi jeans abbandonati sul divano, i diecimila yen che gli aveva appena dato. Diecimila a cui ne sottrasse due, infilandoseli nella sua, di tasca.  « ... ottomila yen. Chiaro? », e premette ancora di più il ginocchio contro la sua schiena.
Grimmjow rimase a fissarla talmente allibito che per qualche secondo non trovò la forza di parlare. In un attimo però si scosse, quando la vide intascarsi i suoi duemila yen. Va bene l’essere carini e gentili, però... eh, no, i soldi no. Adesso gli stava veramente facendo perdere la pazienza che non aveva mai avuto.
   « Come diavolo facciamo a fare sesso se non ti posso neanche toccare, me lo spieghi?! », sbottò ricambiando il suo sguardo di fuoco, lasciando che il sorriso a cui teneva tanto si trasformasse in una smorfia arrabbiata, mentre con uno strattone cercò di liberarsi.
   « Ma cosa...?! » Tatsuki in risposta rafforzò la presa, alzando a sua volta la voce. « Io non farei sesso con te neanche se fossi tu a pagarmi! »
   « Si può sapere per quale cazzo di motivo mi hai fatto venire qua, allora?! »
   « Se stessi fermo cinque secondi, non chiedo tanto, cinque secondi, forse lo capiresti da solo! »
E rimasero ancora a fissarsi, entrambi furiosi, lui totalmente disorientato, lei offesa a morte. Poi fu ancora Tatsuki a distogliere lo sguardo, lasciandogli lentamente andare il braccio e scostando il ginocchio che ancora premeva contro le sue costole. Grimmjow si tirò a sedere, stirandosi la schiena massaggiandosi il polso. Forse, se avesse voluto, non sarebbe poi stato così “piuttosto facile” liberarsi da solo.
   « Allora? », sbuffò spazientito inarcando un sopracciglio.
Tatsuki lo fulminò con gli occhi, puntandogli un dito contro, mentre faceva come per alzarsi.
   « Stai... fermo. »
   « Non ti tocco. », promise esasperato, alzando le mani in segno di resa.
E in silenzio, la osservò dargli le spalle e dirigersi verso il quadro di regolazione del riscaldamento sul muro accanto alla porta, mentre con un gesto goffo e ancora imbarazzato, si abbassava appena la cerniera della felpa per sistemarsi il reggiseno che Grimmjow le aveva spostato.
Alzò di qualche grado la temperatura che di solito teneva il più basso possibile per risparmiare, perché di certo non poteva lasciarlo morire di freddo così, solo in boxer, anche se l’idea era parecchio allettante.
Distrattamente gli lanciò un’altra occhiata per tenerlo sotto controllo, e così si accorse che nel frattempo, con l’ennesimo sbuffo, si era sdraiato con nonchalance sul divano, appoggiando la testa a un pugno.
   « ... Fermo. »
   « Hai ancora intenzione di dirlo ancora quante volte? »
   « Intendevo-... aspetta, non muoverti. Davvero. »
Quella ragazza doveva avere qualche rotella che girava nel verso sbagliato, pensò Grimmjow, seguendola ancora con gli occhi mentre in fretta e furia si avvicinava al grande mobile a muro e ne apriva un’anta, tirandone fuori un libro di anatomia e un quaderno. Aggrottò le sopracciglia, affinando lo sguardo. Erano manga quelli che aveva appena fatto in tempo ad intravvedere prima che lei richiudesse l’anta? ... Un’infinità di manga.
Ma non ebbe il tempo si soffermarsi a pensarci sopra, perché il gesto seguente che lei fece lo sconcertò ancora di più. La vide frugare in un cassetto, sempre di quel grande mobile, e prendere un astuccio nel quale risuonarono un mucchio di... cosa, matite? Lo erano, le distinse chiaramente quando lei le sparpagliò sul piano di legno del kotatsu.
Tatsuki ne prese in mano qualcuna, strizzando gli occhi per leggere il tipo di grafite, poi aprì il blocco da disegno sfogliando le prime pagine già occupate da schizzi, finché non ne trovò una bianca. E a quel punto tornò a guardarlo, portandosi distrattamente la matita che aveva scelto di usare alle labbra, immersa nei suoi pensieri.
Quindi iniziò a disegnare.
 
Che... che cazzo era quella squallida scena da Titanic?
E soprattutto, perché era lui quello nudo a fare  la parte di Rose? Beh, almeno alla fine non sarebbe stato lui a crepare conge-... Okay, sul serio, era ora di darci un taglio a quella situazione assurda.
   « Senti, aspetta un secondo. », iniziò a dire, ma lei lo bloccò con l’ennesima occhiataccia.
   « Fermo. »
In tutta risposta Grimmjow si tirò su a sedere, puntandole un dito contro. « No, tu ferma. Cosa dovrebbe significare questa... cosa? Cioè... », si portò una mano alla testa, passandosela tra i capelli e facendo un sospiro profondo per calmare l’irritazione. « Si può sapere cosa diavolo stai facendo? »
   « Secondo te? »
   « Mi stai... disegnando. », sottolineò quella parola come se fosse la più strana del vocabolario.
   « Ma come siamo perspicaci... », mormorò lei tornando con lo sguardo al suo foglio.
   « Ehi, prendi poco per il culo. E ti ho detto di smetterla. »
   « Mi spieghi qual è il problema? »
   « No, qual è il tuo, di problema! Io non mi faccio pagare per essere disegnato. Non sono un modello. »
   « Lo so. Sei un host. »
   « ... Non in questo momento. »
Tatsuki evitò il suo sguardo, intuendo subito a cosa si riferiva. « Te l’avevo detto al telefono che non volevo fare nulla... », fece una piccola pausa, per poi indicarsi il corpo con la matita. « ... nulla del genere. »
   « Allora si può sapere perché hai chiamato me? »
   « Perché sei un host. E perché costi meno di un modello. »
   « Ancora? Lo so che sono un ho-... davvero i modelli si fanno pagare di più? »
La ragazza sospirò un po’ esasperata, per poi appoggiare sul kotatsu la matita e tornare a rivolgere il suo sguardo su di lui. Grimmjow si sentì di nuovo zittito senza bisogno di troppe parole, cosa che non gli andava esattamente a genio. Però non poté fare diversamente che darle ascolto.
   « Senti, ti spiego... tutto dopo. Ora mi lasci finire questo disegno? Per favore. »
Era impossibile rifiutarsi a quegli occhi.
 
I primi dieci minuti passarono senza che una mosca volasse. C’è da dire, a suo merito, che Grimmjow si impegnò davvero per rimanere immobile nonostante si sentisse prudere da ogni parte a stare fermo così. Voleva muoversi, ma al tempo stesso non voleva neanche farsi guardare come un moccioso che ha combinato qualche marachella e ha fatto arrabbiare la propria madre. Perché era così che lo sguardo di lei lo faceva sentire.
In breve, la considerazione che Grimmjow si era fatto di quella ragazza, era quella di una psicopatica con dei seri problemi di socializzazione, partendo dal contatto fisico. E poi insomma, non era stata neanche chiara su cosa voleva e non, al telefono. Se avesse saputo che sarebbe finita così, Grimmjow non si sarebbe neanche preso il disturbo di venire. Diecimila, anzi, ottomila yen non valevano l’irritazione e la noia che stava provando in quel momento.
Avrebbe potuto essere a casa sua a godersi Phantom, in quel momento.
Ecco, sì, così andava meglio. Bastava non pensarci. Distrarsi, e il prurito si attenuava. Così prese a guardarsi di nuovo in giro, ma decisamente in quell’appartamento spoglio c’era ben poco di interessante da osservare. Quindi il suo sguardo cadde inevitabilmente su Tatsuki.
Era seduta a gambe incrociate, il viso chino e concentrato sul foglio di fronte a lei, nella mano destra una matita, nella sinistra quella che doveva essere una specie di gomma molle, che quando non usava, tormentava in continuazione con le dita, come se fosse un antistress. Ogni tanto alzava lo sguardo su di lui, ma non si soffermava molto. Stava ancora facendo lo schizzo di imbastitura per la posizione.
Grimmjow osservò la sua mano andare avanti e indietro sul foglio, la stessa mano che gli aveva stretto il polso con forza e che adesso impugnava con delicatezza una matita. Non poteva negare di essere curioso, ma lei aveva già messo in chiaro che non doveva neanche provarci, a sbirciare.
Così lasciò che il suo sguardo salisse verso il suo viso, trovandosi a pensare che quella serata era davvero uno spreco. E quel pensiero si rafforzò ancora di più nella sua testa, quando, evidentemente sentendosi accaldata per aver alzato la temperatura, la vide togliersi la felpa e rimanere semplicemente in una canottiera, aderente a differenza del resto dei suoi vestiti, che sottolineava quello che prima aveva avuto solo il piacere di toccare di sfuggita.
Ma non fu semplicemente quel pensiero superficiale, ciò che gli passò per la testa.
Perché potendo osservare i suoi lineamenti così, rilassati, senza che lei sapesse che la stava fissando con tanta attenzione, si rese conto di una cosa importante.
Ecco cos’era, quella strana sensazione che aveva provato guardando il suo viso per la prima volta.
Perché quel viso, quei capelli spettinati e neri, avevano avuto il potere di risvegliare nella sua memoria un altro viso, altri capelli ugualmente spettinati e neri. La somiglianza era impressionante. L’unica differenza era nei suoi occhi, troppo scuri per essere scambiati per azzurri.
 
Dal canto suo, Tatsuki era ignara di essere oggetto di uno studio così approfondito, tanto misure e proporzioni la assorbivano. Aveva sempre avuto problemi a disegnare l’anatomia maschile, e la sua mancanza di un qualsiasi genere di studio specifico nel campo del disegno, era il suo più grande handicap. Aveva imparato tutto quello che c’era da imparare da sola, seguendo manuali, osservando i lavori di altri. Molte volte, per disegnare una figura sentiva il bisogno di immagini di riferimento, per cui spesso e volentieri usava sé stessa come modella. Eppure dentro di lei sentiva ancora un vago senso di insicurezza quando si trovava davanti a un foglio bianco, solo con una matita e tanta immaginazione come strumenti. In un certo senso, quasi inadatta, intrappolata, come le mille idee che aveva nella testa e che non sempre riusciva a rendere su carta. Ed era una sensazione che purtroppo non si sarebbe mai scrollata di dosso, che l’avrebbe bloccata per tutta la vita, tenendola ancorata coi piedi per terra senza alcuna speranza di poter iniziare a camminare da sola, correre con le sue gambe.
Per questo per Fly it aveva scelto uno stile che nel campo veniva definito “parodia”, uno stile che semplificava al massimo i tratti del corpo e che si concentrava più che altro sulle espressioni facciali, esasperandole fino alla comicità. Guardando quel suo manga, chiunque non le avrebbe dato un centesimo come disegnatrice josei. Eppure. Accidenti a lei che nel primo e penultimo colloquio che aveva avuto col suo editore gli aveva fatto visionare anche dei lavori più... seri e impegnativi, sotto un certo profilo. Per cui aveva utilizzato uno stile più realistico e orientato verso il seinen, e che sapeva solo lei quanto tempo e impegno le erano costati. Certo, il tipo di soddisfazione che le avevano dato era del tutto diversa, ma che fatica. E ora quello che doveva fare era un intero capitolo di quaranta pagine in quel modo, anzi, adoperandosi pure per rendere quello stesso stile più... femminile. Senza parlare di tutta... l’ ”anatomia” che avrebbe dovuto disegnare poi. Ce n’era abbastanza per prendere a testate non solo il frigorifero, ma anche il tavolino del kotatsu.
Per lo meno, il problema “host” lo aveva risolto. Beh... a grandi linee. Distrattamente, alzò per l’ennesima volta gli occhi verso Grimmjow, chiedendosi se alla fine avrebbe accettato di darle una mano e rispondere alle domande che aveva da porgli. E inaspettatamente incontrò il suo sguardo, che ancora più inaspettatamente trovò serio, quasi assorto nei suoi pensieri mentre la fissava. Con un brivido, provò il desiderio di disegnare quell’espressione.
E ben presto, oltre che al suo viso, Tatsuki si trovò a seguire e ad accarezzare con lo sguardo ogni curva di ogni suo muscolo, riproducendo pian piano con il suo tocco delicato, la sua figura praticamente perfetta sul foglio bianco di fronte a lei.
Ma i suoi occhi non erano avidi se non di arte, e presto l’imbarazzo iniziale venne sostituito dalla freddezza della sua mente, e si trovò sì a seguire le sue curve, sì ad apprezzarne la bellezza praticamente perfetta, ma sarebbe stato lo stesso se davanti a lei ci fosse stato un cesto di frutta di cui doveva fare la copia dal vero. Solo quando saliva fino a sfiorare il suo viso, ed incontravano lo sguardo di lui, che seguiva ogni movimento della sua mano quasi come un gatto curioso, sentiva riaffiorare il rossore alle guance, e  per un attimo si distraeva a pensare a in che diavolo di situazione si fosse cacciata. Ma in men che non si dica, la sua forza di volontà nonché la forza di attrazione di quel corpo nudo e bellissimo, che non riusciva a non guardare con velata ammirazione, la spingevano a continuare a disegnare.
Grimmjow invece, ad essere del tutto sinceri, non si sentiva esattamente a suo agio, ora che quella ragazza psico e sociopatica si era fatta più attenta a lui che al foglio di carta. Non perché fosse nudo di fronte a una sconosciuta, che nonostante fosse così simile a un ricordo, rimaneva sconosciuta. Figuriamoci, a quello ci era più che abituato. Il punto era che lo sguardo di quella particolare sconosciuta, non era come quelli che era solito sentire su di sé. Non desideroso, non pieno di aspettative di un piacere puramente carnale. In un certo senso, lei sembrava star guardando oltre, o anzi, non starlo guardando affatto. Parte del suo ego si sentiva ferito di fronte a quella piccola ragazza, che non solo l’aveva bloccato a terra come niente più di un sacco di patate, ma che oltre tutto sembrava veramente risoluta a non volere niente di più che poterlo guardare e disegnare.
Grimmjow era nudo, ma non era questo a farlo sentire a disagio. Era il fatto che, per la prima volta da quando aveva iniziato quella vita meramente dedita a piaceri superficiali quali erano il sesso e i soldi, si sentisse... veramente messo a nudo. Come se la mano di lei, oltre al profilo marcato delle sue braccia e dei suoi addominali, potesse disegnare qualcosa di molto più profondo. E Grimmjow non era sicuro di volere che qualcuno vedesse al di là di quel corpo perfetto che inconsciamente o meno aveva imparato ad “indossare” e a sfoggiare come un’armatura luccicante, capace di proteggerlo e tenerlo lontano da tutto e tutti.
E oltre alla noia, dopo un quarto d’ora il dover stare immobile senza poter cambiare posizione, lo faceva sentire in gabbia. Non era decisamente quella la serata che si era immaginato entrando in quel piccolo appartamento. Perché quella ragazza non poteva semplicemente essere come tutte le altre, e lasciarsi toccare come tutte le altre?
Ancora una volta, incrociò il suo sguardo, sorprendendola a fissare le sue labbra. Stava disegnando quelle...?, si chiese, non riuscendo a fare a meno di tendere appena il collo, spinto dalla curiosità. Ma gli occhi di lei gli intimarono ancora una volta di stare fermo. Come ci riusciva?
Grimmjow si sentiva veramente in gabbia, oppure meglio ancora, incatenato da quei suoi occhi scuri e magnetici. E quella sensazione non gli piaceva, non gli piaceva affatto. Perché le stava lasciando dettare le regole del gioco, lui che era abituato a giocare solo secondo le proprie, di regole?
Ma in fondo, anche lei sotto quella tuta enorme era una donna, lo aveva sentito più che bene.
E le donne sono tutte uguali.
Grimmjow vide il suo sguardo cadere nuovamente sulle sue labbra, attento, sì, ma mai neanche per un secondo malizioso. La vide anche mordersi distrattamente le sue, di labbra, nella concentrazione. Quelle labbra che in quel momento sarebbero dovuto essere incollate alle sue, dannazione, così come il suo seno alle sue mani, e così come tutto il resto del suo corpo ostinatamente nascosto dalla tuta.
Grimmjow avrebbe voluto strappargliela via per la frustrazione e per il desiderio che si sorprese a provare quando la vide passarsi la lingua sulle labbra secche. Frustrazione e desiderio che lo portarono a comportarsi proprio come un moccioso, a provocarla. Così anche lui prese a leccarsi e poi mordersi le labbra, lentamente, in un modo totalmente differente da come l’aveva fatto lei, sovrappensiero. Lui invece voleva trasmetterle ogni singolo e poco casto pensiero gli stava passando per la testa in quel momento. Possibile che non la toccasse minimamente? Possibile che non provasse nessuna dannatissima pulsione sessuale nei suoi nudi e sensualissimi confronti?
Tatsuki sgranò per un secondo gli occhi, fissandoli sulla sua bocca con un’attenzione diversa rispetto a prima. Ma subito si scosse. Ormai la sua mente era catturata dal disegno, e nemmeno quel gesto così seducente ebbe il potere di distrarla.
   « Fallo... fallo ancora. »
Grimmjow rimase interdetto vedendo che invece che saltargli addosso, aveva girato pagina e impugnato più saldamente la matita, tracciando linee con più foga e più velocemente rispetto a prima. Quindi lo intimò con lo sguardo a leccarsi nuovamente le labbra, cosa che lui fece, ubbidiente. Ma perché poi le dava retta?!
   « Rifallo ancora. E adesso stai fermo. », lo bloccò con la lingua sul labbro superiore. « Oppure per ogni movimento che fai, ti tolgo altri mille yen. »
Perfetto. Si era tirato la zappa sui piedi da solo.
 
E altri minuti passarono.
Grimmjow le provò tutte, persino a cambiare posizione e ad abbassarsi nuovamente il bordo dei boxer, ma ogni cosa che faceva, aveva esattamente l’effetto contrario di ciò che sperava, anzi, sembrava alimentare la fantasia di una Tatsuki sempre più entusiasta e soddisfatta del lavoro che stava facendo. “Kamina” era davvero, davvero un ottimo modello, quasi una musa ispiratrice. Avrebbe sicuramente usato una di quelle pose per la copertina della dōjinshi, il punto adesso era scegliere quale, perché tra tutti gli schizzi fatti aveva l’imbarazzo della scelta. E ancora, aveva una voglia matta di continuare. Le sue espressioni erano perfette. Provocanti al punto giusto, senza però scadere nel volgare. Soprattutto gli piaceva il suo sguardo – che purtroppo Tatsuki era talmente presa a tracciar linee che non si era resa conto era rivolto a lei e a lei sola, con l’intento di sedurla – che trovava molto profondo. Forse era il caso di dedicarsi ai primi piani.
Quindi mettendosi la matita in bocca, prese il blocco da disegno e gli altri strumenti che era convinta potessero servirle così che non sarebbe stata costretta ad alzarsi di nuovo, e poi si sedette a gambe incrociate di fronte a lui, di nuovo, senza temere minimamente che avrebbe potuto allungare ancora le mani. I soldi erano stati un ottimo ricatto, era diventato incredibilmente ubbidiente da quando lo aveva minacciato di ridurgli lo “stipendio”.
Per un attimo Grimmjow ebbe un fremito vedendola avvicinarsi, ma le cose che teneva in mano non promettevano niente di quello che lui sperava. Così si lasciò cadere sul materasso, affondando la faccia in un cuscino.
   « Mi annoio. », sbuffò come un bambino capriccioso, voltando appena il viso per sbirciarla. E preferì non averlo fatto, perché Tatsuki, noncurante come al solito, si era sfilata l’elastico che portava al polso coi denti, e aveva preso a legarsi i lunghi capelli in una coda alta, inarcando la schiena. Quella ragazza riusciva ad essere sexy senza volerlo affatto, al contrario di lui che si era sforzato tanto, e invano. O forse semplicemente era che aveva davvero una voglia assurda di fare sesso con lei. Ma non poteva permettersi di pensarci troppo, oppure sarebbe stato un bel problema, visto che era rimasto solo con addosso i boxer.
   « Vuoi che ti accenda la televisione? »
Ecco. Ecco sì, adesso cominciava a parlare nella sua lingua. Lanciò un’occhiata veloce all’orologio appeso al muro della cucina, che indicava che da quando era arrivato doveva essere passata un’ora. Phantom doveva essere iniziato già da qualche minuto, non gli piaceva guardare qualcosa non dal principio, ma insomma... quella televisione sembrava chiederglielo per favore.
Cercò di darsi un contegno. Non poteva permettersi di implorarla di farlo, ci avrebbe rimesso la faccia e la sua facciata imperturbabile che già era un po’ andata a quel paese. Così si limitò ad alzare le spalle con indifferenza e a tirarsi un po’ su, sistemandosi meglio sul divano.
Tatsuki lo prese come un cenno d’assenso, così si allungò verso il ripiano del mobile a muro per prendere il telecomando – e non piegarti così, dannazione! – per poi accendere la televisione che fece un amichevole trillo di saluto, a parere di Grimmjow. Ora restava solo da trovare un modo per farla arrivare fino a TV Tokyo e a convincerla a lasciar sintonizzato su quel canale senza farci la figura dell’otaku incallito quale effettivamente era. Ma inaspettatamente, quando sullo schermo apparvero i colori, la prima cosa che vide fu il fondoschiena di una biondissima Cal Devens, alias Drei, accovacciata in una posa di combattimento mentre impugnava una pistola, con lo sfondo di quella che sembravano le vetrate di una chiesa illuminate dalla luce della luna. Grimmjow rizzò all’istante le orecchie e affinò lo sguardo, mentre la voce di Miyuki Sawashiro risuonava nella risata sadica che gli aveva fatto perdere la testa per Cal. Anche l’audio era qualcosa di spettacolare. Impianto stereo Dolby Surround. Grimmjow avrebbe voluto incollare il sedere a quel materasso scomodo e passare il resto della sua vita ad amare quella televisione e le casse posizionate sul soffitto – come aveva fatto a non notarle prima, come?
   « Lascia... lascia pure qui. », cercò di dire con nonchalance, ma il gesto sbrigativo che fece con la mano, tradì tutta la sua impazienza.
   « Come vuoi. », replicò Tatsuki, appoggiando il telecomando a terra e ritornando a dedicarsi al suo blocco per i disegni posizionato sulle gambe incrociate.
Iniziò a tracciare le linee per il volto, decidendo che l’avrebbe raffigurato in un mezzo profilo. Che espressione gli avrebbe regalato questa volta?, si chiese, mentre terminava di rifinire la croce per decidere la posizione degli occhi, del naso e delle labbra, e alzava lo sguardo sul suo viso rivolto alla televisione.
E rimase sconcertata. I suoi occhi a tratti brillavano di emozione come quelli di un bambino a Natale, per poi incupirsi quando una scena prendeva una piega che non gli piaceva. Per di più non stava fermo un secondo, piegava la testa, apriva la bocca come per dire qualcosa, sbuffava spazientito, si passava nervosamente una mano tra i capelli.
La ragazza rimase ad osservarlo per un minuto buono, poi inarcò un sopracciglio e con un gesto secco, schiacciò il pulsante di spegnimento sul telecomando.
   « Oh, ma che cazzo fai?! », scattò lui all’improvviso, voltandosi sbigottito. Appena incrociò il suo sguardo però, si pentì subito di quell’uscita infelice, ai suoi occhi doveva aver sicuramente esagerato. Ma che diavolo, gli aveva spento la televisione in una scena cruciale!
   « Ti agitavi troppo. », rispose semplicemente Tatsuki, mentre con la matita lo spingeva a girare nuovamente il viso di profilo e ad alzare il mento. Quando vide che stava per replicare, lo zittì prima che avesse il tempo di dire qualsiasi cosa. « ... E poi tanto tra qualche secondo Cal sarebbe stata uccisa da Reiji. »
   « Che-...? Ma brutta-...! Questo è un fottutissimo spoiler! », sbottò quindi Grimmjow che per un attimo l’aveva lasciata fare, togliendole la matita dalle mani e additando quasi istericamente lo schermo ormai nero, bruciando all’istante ogni parvenza di classe che avrebbe potuto ancora mantenere.
Ma Tatsuki non ne rimase sconcertata, anzi. Fin dall’inizio si era resa conto che il suo sorriso da Kamina era fin troppo tirato ed esasperato per essere vero. Forse gli era sembrato più sé stesso, più vero in un certo senso, proprio mentre tutto emozionato seguiva l’episodio di Phantom. Quindi si limitò ad incrociare le braccia.
   « Questo è per la palpata gratis. », e fece un cenno verso il proprio seno, rivolgendogli un sorrisino malefico che a Grimmjow ricordò esattamente quello di Cal. Se l’era proprio legata al dito, eh... però era ancora più sexy quando sorrideva così. Merda.
   « E poi scusa tanto, ma Phantom l’hanno mandato in onda nel 2009, se tu te lo sei perso e ti metti a guardarlo quattro anni più tardi, non è colpa mia. », aggiunse lei.
Già, nel 2009. Era stato un po’ impegnato, quattro anni prima a causa di una certa persona con gli occhi azzurri, ma questo quella “gattina” dagli artigli fin troppo affilati, non poteva saperlo affatto.
   « Non ci posso credere. Cal... », Grimmjow si lasciò andare nuovamente contro divano, sprofondando tra i cuscini.
   « Già. È dispiaciuto anche a me. Apri la bocca come prima. »
   « Aah, era una figa assurda. Reiji, brutto pezzo di merda... »
   « La testa. Tanto nell’ultima puntata muore anche lui. »
   « Ma... Ma la pianti?! Che cazzo me lo guardo a fare io, adesso, se so già come finisce?! »
In tutta risposta, lei si indicò il collo con la matita che si era ripresa, come a dire che doveva pagare anche per quei baci. Grimmjow sbuffò spazientito e ritornò a mostrarle il profilo.
   « ... Davvero muore anche Reiji? »
   « Sì. Sinceramente, la fine mi ha un po’ delusa. Cioè, mi è anche piaciuta in un certo senso. Ma quando muore uno dei protagonisti, ti lascia sempre l’amaro in bocca. »
   « Ah, non me ne parlare. Death Note è stato uno schifo. », se ne uscì prima di riuscire a trattenersi. Ma Tatsuki annuì, comprensiva.
   « Death Note è l’esempio classico, già. »
Per un istante regnò il silenzio, mentre lei staccava la matita dal foglio alzando la testa, e lui la girava per guardarla.
   « ... L. », dissero all’unisono, per poi lasciarsi andare a un sorriso che stupì entrambi.
   « Light era un bastardo con delle manie di grandezza esagerate. Si è meritato di crepare così. »
   « Beh, dai, come personaggio aveva anche lui il suo perché, ma... L era davvero un genio. »
   « Facciamo un minuto di silenzio per la sua squallida fine. »
   « Finalmente, così magari stai zitto e fermo? »
Grimmjow accennò ad un altro sorriso, mentre scuoteva la testa e voltava di nuovo il viso. Ed ecco che la sua facciata da host si era completamente sgretolata. Oh, beh. Da quello che aveva capito, la sua “gattina” era messa anche peggio di lui, pensò, ricordandosi di tutti i manga che aveva intravvisto nell’armadio. Quindi, tanto valeva...
In un certo senso, si sentì come sollevato. Raramente gli capitava di parlare così liberamente con qualcuno, men che meno con una donna, neanche con Linalee che per lui era quanto di più vicino a un’amica. Ma se non ci pensava troppo, se non si soffermava sulla sua scollatura o sui fianchi asciutti che la canottiera le lasciava scoperti quando si muoveva – ed era proprio il caso di non soffermarcisi – il fatto che Tatsuki fosse una donna passava in secondo piano. Forse, ma forse, quella sensazione di sollievo non gli dispiaceva poi così tanto. Insomma, era più o meno accettabile. Non ci allarghiamo, adesso.
Tatsuki continuò a disegnare, senza fermarsi un secondo. E ora era Grimmjow a non sapere quanto attentamente stesse guardando il suo viso, ancora più attentamente di prima. Perché ora non si limitava semplicemente a seguire i suoi lineamenti come fossero delle mere curve da rappresentare. Stava guardando lui, lui che aveva la testa leggermente chinata verso il basso, così come lo sguardo, perso nel vuoto. Le labbra invece, erano appena distese in un sorriso.
Quell’espressione era sicuramente la più bella e la più vera che gli avesse visto fare. E Tatsuki sentì il bisogno di disegnarla, in religioso silenzio, dedicandosi solo a quella finché le lancette dell’orologio non furono che a pochi centimetri dalla mezzanotte.
   « Posso... farti qualche domanda sul tuo lavoro? », gli chiese quindi, posando la matita a terra e intrecciandosi le mani in grembo, sul blocco da disegno.
   « Uh? Mica dovevo starmene “zitto e fermo”? »
   « Tempo scaduto. », rispose, accennando all’ora. « Adesso puoi muoverti, i tuoi soldi non sono più in pericolo. »
   « Ah. »
Grimmjow non si era minimamente accorto di quanto veloce fossero passati gli ultimi venti minuti. Era stato talmente assorto nei suoi pensieri che il tempo era volato. Un po’ gli dispiaceva, forse. Cioè, per la storia del modello. Stava cominciando ad abituarcisi, a trovarlo rilassante, pensò, mentre allungava una mano ad afferrare i suoi jeans per rivestirsi.
Quante volte aveva fatto quello stesso gesto, seduto su un letto nella casa di qualche sua cliente, l’una addormentata e ignara che la mattina dopo si sarebbe ritrovata sola, l’altra che lo pregava di restare ancora qualche minuto, l’altra ancora che già gli chiedeva quando avrebbero potuto rivedersi. La realtà era che quei pensieri che gli erano passati per la testa, quella sensazione che aveva provato nel parlare, solo parlare con quella che si era presentata come una delle tante altre sue clienti ma che alla fine non lo era stata, lo avevano scombussolato un po’.
   « Chiedi quel che ti pare. »
Tatsuki gli lanciò la maglietta nera che lui afferrò al volo.
   « Quanto prendi come stipendio? Quando lavori come host, dico. E... la cerniera. », il suo sguardo aveva involontariamente seguito i suoi movimenti, al che Grimmjow sorrise divertito dalla punta di imbarazzo che vide ancora sulle sue guance. Che diavolo, aveva appena passato due ore a disegnarlo solo in boxer.
   « Beh... tieni conto che il locale dove lavoro io non è un host club vero e proprio. Altrimenti prenderei molto di più. Ho sentito di host “d’alta classe” che prendono anche una decina di milioni yen al mese. Io sto sui venti, trentamila yen. A volte anche di più. Dipende da come gira ogni singola serata. E da come girano al capo, anche. E al capo girano sempre male. »
Tatsuki aggrottò le sopracciglia. « Perché fai anche questo... “lavoro”, allora? Trentamila yen al mese mi sembrano più che sufficienti. »
   « Ma quanto siamo impiccione... »
   « Hai detto tu che potevo chiedere quello che mi pare. »
   « Però non ho mai detto che avrei risposto a tutto. », le sorrise ancora, con fare furbo, al che Tatsuki sbuffò.
   « Che età hanno di solito le tue clienti? »
   « Tutte le età. Mi capitano pure delle cinquantenni. E devi vedere come si mettono in tiro, si credono delle ragazzine... »
   « Mh... quindi anche delle... delle ragazze come me, della mia età? », chiese incuriosita. Molti dei personaggi femminili dello shōnen su cui doveva lavorare, erano adolescenti.
Grimmjow accennò a una risata di scherno, alludendo al suo aspetto piuttosto trasandato. « A te, non ti farebbero mai entrare, al Jūichiban. »
   « E io non ho intenzione di entrarci. Per questo ho portato il “Jūichiban”, o come si chiama, da me. », rispose lei, indispettita e allo stesso tempo risoluta, facendo un cenno verso di lui, che scosse la testa, ridendo.
   « Adesso tocca a me fare le domande. Come mai ti serve sapere tutte ‘ste cose sugli host? »
La ragazza sospirò. « Perché devo fare una dōjinshi, e ho poco tempo e zero idee. »
Grimmjow aveva fatto in tempo a sbirciare di sfuggita qualcuno degli schizzi che aveva fatto, e per quello che ne poteva capire lui, l’aveva trovata piuttosto brava. Aveva uno stile... maturo?, realistico, un po’ spigoloso forse, ma era anche quello che conferiva particolarità al disegno.
   « Amatoriale o retribuita? La dōjinshi, dico. Insomma, per andare in stampa sborsi tu o sborsa qualcun altro? »
   « No, no, sono sotto contratto. La mia casa editrice ha intenzione di fare un mensile dedicato a delle nuove serie josei, e inseriranno anche qualche dōjinshi, quindi mi hanno incaricata di fare un capitolo autoconclusivo di quaranta pagine. »
Grimmjow si lasciò andare a un fischio di stupore. Quindi doveva essere brava sul serio, se sarebbe addirittura finita su una rivista.
   « È la prima volta che pubblichi? »
   « No, in realtà... lasciamo perdere. È una storia noiosa e complicata. », distolse lo sguardo, scuotendo appena la testa mentre si tirava su da terra spazzolandosi i pantaloni, per posare sul kotatsu il blocco. E Grimmjow preferì non insistere oltre, mentre a sua volta, si alzava.
   « Piuttosto... sei disposto a tornare tra una settimana? Ho ancora delle domande. E mi... servirebbe qualche consiglio da qualcuno del settore. »
Ed eccola ancora, quella prepotente sensazione di sollievo. Per un attimo, rivestendosi, aveva avuto l’impressione che sarebbe finita lì, come tante altre volte, anche se diversamente da tante altre volte, lei non aveva chiesto mai il suo corpo se non per poterlo guardare. Anche quella, era stata una sensazione strana, che l’aveva trovato combattuto. Prima si era sentito come in gabbia e costretto a fare qualcosa in cui non aveva voce in capitolo, che lo faceva sentire sottomesso e impotente, poi improvvisamente più, come dire... libero, di pensare, e allo stesso tempo di staccare la testa dal resto. Prendersi una pausa dalla sua vita fatta di sorrisi, carezze e parole finte. Ma il cambiamento non lo aveva apportato Tatsuki, semplicemente era stato Grimmjow a mutare modo di porsi. Perché finendo per comportarsi in un modo più vicino al vero sé stesso, si era reso conto che stare fermo con un’espressione che non tirava da tutte le parti perché troppo falsa, non era poi così tanto difficile.
 Si appoggiò contro lo stipite della porta che lei aveva aperto, infilandosi le mani in tasca. Però era decisamente meglio di non pensarci troppo. Perché altrimenti quello “staccare da tutto il resto”, avrebbe finito per confonderlo e basta, come prima. Sta di fatto che lei gli aveva chiesto di tornare, e beh... per dare una risposta a quello non c’era bisogno di rifletterci troppo su. Era la televisione che glielo chiedeva per favore.
   « ... Solo se mi fai vedere quei disegni. », fece il prezioso, anche se il sorriso furbo che le rivolse era un chiaro sì.
   « Perché dovrei? »
   « E perché io dovrei venire qui, e perdermi ore di lavoro? »
   « Io ti pago comunque. », replicò Tatsuki, premendogli contro il petto tutti e dieci i mila yen, stupendolo piacevolmente.
   « Ma io non mi diverto. », anzi, rischiava di diventare pazzo per il divieto di poterla anche solo sfiorare quando lei lo provocava così spudoratamente. No, beh... involontariamente. Però lo provocava, e tanto anche, e questo era un bel problema soprattutto perché la vedeva dura, la possibilità di poterci combinare qualcosa con lei. Ma era una frustrazione che in qualche modo andava sfogata, o avrebbe finito per-...
   « ... Sei capace di giocare a Tekken? »
Tekken. Tekken sommato a quella televisione. Grimmjow si sentì baciato alla francese dalla luce divina, e il sesso improvvisamente divenne l’ultimo dei suoi problemi.
   « Se sono capace? Stai parlando con il re indiscusso, gattina. »
  « Ah sì? Allora ti sfido. », Tatsuki gli regalò un altro sorrisino perfido, mentre gli sfilava dalla mano che si era stretta attorno ai soldi, un biglietto da mille yen. Okay, se l’era andata a cercare, chiamandola in quel modo.
   « Perderai miseramente. »
   « Tra una settimana. Alla stessa ora. »
   « Ci scommetto quei mille yen che perderai. »
 
 
 
Tatsuki tirò un sospiro di sollievo mentre appoggiava la fronte contro il legno freddo della porta che aveva appena chiuso.
Era andato tutto sorprendentemente bene, a parte un fraintendimento iniziale che poi avevano più o meno chiarito. Lei stessa era andata sorprendentemente bene. Era riuscita a comportarsi quasi come faceva quattro anni prima, quando ancora aveva quella che poteva essere chiamata una parvenza di vita sociale.
Quattro anni prima, nel 2009, anno in cui anche lei non aveva avuto affatto il tempo di guardare in prima visione Phantom.
 



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NDA n.2: Lasciamelo dire, Tatsuki... ARE YOU FUNCKING KIDDING ME?
Vi giuro. Questa ragazza ha una forza di volontà incredibile a non essere saltata addosso al nostro bel panterone azzurro, infoiato e incredibilmente seCSi. Checcazzo, IO volevo saltare addosso al portatile mentre scrivevo. MA TANTO CEDERAI, NON TI CREDERE. /inserire risata malvagia qui/
 
NDA n.3: ... Pace all’anima di Cal e L. ç3ç

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Capitolo 8
*** Capelli di fuoco, occhi di ghiaccio. ***


NDA: Dico solo, leggete con attenzione il poem che ho messo come incipit.
Cirucci, grazie. Hai riassunto tutto quello che c’era da dire, sia per Linalee che per Rukia.
E diamine, Ichigo e Linalee che battibeccano come una coppia sposata mi fanno morire. x°D
Per non parlare del fatidico e tanto atteso incontro tra Lavi e Rukia in questo capitolo... io AMO le coppie che si danno del lei. N e m e con la sua long AU crossover Hortum Septentriones qui su EFP ne sanno qualcosa. *-*
E come al solito, mi scuso per il ritardo, e ringrazio tutti quelli che mi lasciano a ogni capitolo delle recensioni che apprezzo davvero!
 
 
 
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CAPELLI DI FUOCO, OCCHI DI GHIACCIO.
 
 
 
Ti ostini ad agghindarti
Pur sapendo che ti aspetta la falce

Ti ostini a farti bella
Pur sapendo che ti aspetta la falce

È spaventoso, è spaventoso
Il momento in cui verrai falciata

I tuoi capelli recisi
Somiglieranno a te, priva di vita

Sia i miei capelli che le mie unghie
Sono stupendi, curati come tesori
Perché basta che vengano separati dal corpo
Per diventare qualcosa di sporco e disgustoso?

La risposta è semplice:
Essi così non sono altro
Che l'immagine della mia morte.
[Bleachvolume 29]
 
 
 
Linalee Lee guardò con occhio critico lo smalto fresco di stesura sulle sue unghie, inclinando la testa di lato e chiedendosi se ci avrebbe messo ancora molto prima di asciugarsi. Le sue dita fremevano impazienti sotto il suo sguardo concentrato, quasi come se fissandole così intensamente, fosse convinta che avrebbe potuto dimezzare il tempo.
Finché aveva le mani in quello stato, non poteva muoversi. Giusto respirare, ma anche quello era qualcosa che faceva con estrema lentezza e attenzione. Linalee Lee amava colorarsi le unghie, soprattutto delle tonalità del viola, che metteva in risalto i suoi occhi proprio di quella sfumatura particolare. Amava prendersi un po’ di tempo per sé stessa, la sera, prima di uscire per andare a lavorare. Scegliere il colore, sdraiarsi a pancia in giù sul divano con un foglio di giornale sotto le mani per proteggere la fodera da eventuali gocce ribelli, e guardare come le sue unghie mediamente lunghe prendessero vita sotto i luminosi riflessi violacei creati dal sole, che proprio in quel momento stava tramontando dietro la schiera di edifici su cui si affacciava il piccolo balconcino della sua camera da letto.
Curarsi le unghie, anche solo dargli una sistemata impercettibile con la lima, era un piccolo rituale quotidiano al quale non sapeva rinunciare. Così come lo spazzolarsi i capelli esattamente cento volte prima di andare a dormire. Si rendeva perfettamente conto da sola che era una cosa stupida e senza senso. Eppure, da quando all’età di sedici anni si era volutamente rasata i capelli a zero, il farli ricrescere forti e sani era diventato il suo scopo prioritario. E un detto sentito una volta per caso, diceva proprio che spazzolarseli cento volte ogni giorno contribuiva a farli crescere più velocemente, rendendoli più lucenti e morbidi. Così Linalee aveva fatta sua questa discutibile perla di saggezza, credendoci ciecamente, volendo crederci ciecamente.
Perché proprio un altro luogo comune, l’aveva spinta a fare quel gesto decisivo. Il luogo comune secondo cui una donna col cuore spezzato, si taglia i capelli, come a dare un taglio netto col passato e iniziare una nuova vita.
E Linalee Lee, i cui capelli un tempo arrivavano ai fianchi, si era rasata completamente.
Ora le arrivavano appena di un dito sotto le spalle. Poteva legarli, se voleva. La prima volta che ci aveva provato, dopo anni che non era stata in grado di farlo, non era riuscita a trattenere le lacrime davanti allo specchio che rifletteva la sua immagine.
Linalee svolgeva altri “rituali” quotidiani per lei sacrosanti, come il lavarsi i denti dopo ogni pasto, anche solo uno spuntino, e passarsi il filo interdentale ogni sera. Oppure le maschere di bellezza che si applicava una volta alla settimana, sempre lo stesso giorno, o ancora, i regolari bagni col sale grosso. La sua, però, non era vanità. Non era per apparire bella agli occhi degli altri che faceva tutto questo. Piuttosto, era una cura e pulizia maniacale del proprio corpo. Come se in un certo senso, credesse che in questo modo si potesse purificare da tutte le scorie che era fermamente convinta di avere dentro di sé.
Quel giorno però, stava affrontando la sua tanto amata manicure non con la solita calma. Normalmente, avrebbe aspettato con pazienza i minuti necessari affinché lo smalto si asciugasse, senza appunto muoversi di un solo millimetro per evitare di prendere dentro con le unghie da qualche parte e dover ricominciare tutto daccapo. Anche il tempo che dedicava a sé stessa e ai suoi rituali, per lei che per tutta la vita aveva messo sempre gli altri al primo posto, su un piedistallo, era qualcosa di sacro. E qualcosa di cui approfittava, per prendere una pausa dalla sua vita e rilassarsi un po’. Eppure in quel momento, avrebbe voluto veramente che il tempo accelerasse, perché le sue dita fremevano davvero dalla voglia che aveva di battere sulla tastiera del computer sulla scrivania al suo fianco, la risposta che aveva già costruito e cambiato tante volte nella sua testa.
 
   -Mugetsu:                                                                                                                                                                                                              06:13 pm
È la cosa più stupida che abbia mai sentito.
   -YanWeiDie:                                                                                                                                                                                                         06:13 pm
Tecnicamente non la stai sentendo, la stai leggendo...
   -Mugetsu:                                                                                                                                                                                                              06:15 pm
Resta una cosa stupida. Completamente idiota.
   -YanWeiDie:                                                                                                                                                                                                         06:16 pm
Per te ogni cosa che dico lo è. Non mi prendi mai sul serio.
   -Mugetsu:                                                                                                                                                                                                              06:17 pm
... “Tecnicamente” non stai dicendo niente, stai scrivendo.
   -YanWeiDie:                                                                                                                                                                                                         06:20 pm
...
   -Mugetsu:                                                                                                                                                                                                              06:21 pm
Perché quando ho ragione io ti offendi?
   -YanWeiDie:                                                                                                                                                                                                         06:21 pm
Perché tu vuoi sempre avere ragione. E non mi sono offesa.
   -Mugetsu:                                                                                                                                                                                                              06:22 pm
Ah no?
   -YanWeiDie:                                                                                                                                                                                                         06:24 pm
No.
   -Mugetsu:                                                                                                                                                                                                              06:24 pm
Come vuoi.
   -YanWeiDie:                                                                                                                                                                                                         06:32 pm
... Va bene, forse un po’ sì. Ma mi da fastidio che etichetti quello che penso come “stupido”.
   -Mugetsu:                                                                                                                                                                                                              06:37 pm
Ma lo è.
   -YanWeiDie:                                                                                                                                                                                                         06:40 pm
Vedi? Lo stai facendo ancora.
   -Mugetsu:                                                                                                                                                                                                              06:41 pm
...
Tecnicamente non posso vedere niente.
   -YanWeiDie:                                                                                                                                                                                                         06:42 pm
!!!!!
   -Mugetsu:                                                                                                                                                                                                              06:46 pm
Va bene, scusa. La pianto.
   -YanWeiDie:                                                                                                                                                                                                         06:53 pm
Tanto lo so che stai ridendo di me, come ogni volta che chattiamo...
   -YanWeiDie:                                                                                                                                                                                                         07:05 pm
Mugetsu?
   -Mugetsu:                                                                                                                                                                                                              07:07 pm
Scusa, un contrattempo.
Piuttosto... Come fai ad essere convinta che io stia ridendo se non mi vedi neanche?

 
Era vero.
Linalee Lee, alias Yān Wěi Dié, nome cinese per il macaone, un tipo di farfalla dalle ali particolari, non poteva saperlo.
Così come non poteva sapere, anzi, neanche lontanamente immaginare, chi fosse il suo interlocutore, con cui da mesi si intratteneva a parlare. Anche per ore, senza che si accorgesse minimamente di quanto in fretta il tempo scorresse.

Preferiva non fare supposizioni campate per aria sulla sua identità. Da come si esprimeva, però, doveva essere un uomo. Cosa che inizialmente l’aveva frenata. Ma al riparo dietro lo schermo del computer, si era fatta forza. E pian piano, si era trovata ad aprirsi sempre di più con quello sconosciuto.
Le loro conversazioni erano sempre così. Discutevano. Non facevano che discutere. Presto però Linalee si era resa conto che le concise e pungenti risposte, o meglio, frecciatine di Mugetsu non erano che un sottile modo per prenderla in giro, ma non con intento offensivo. Linalee Lee conosceva i propri difetti, si rendeva perfettamente conto di essere molto permalosa. Ma per qualche motivo che ancora non riusciva a spiegarsi nonostante mesi e mesi di messaggi – scambiati privatamente, perché entrambi preferivano mantenere una sorta di intimità – non riusciva proprio a mettere il broncio per le sue parole. Anzi. Avevano sempre il potere di strapparle un sorriso.
Esattamente come in quel momento in cui delicatamente aveva preso a schiacciare coi polpastrelli le lettere della tastiera.
 
   -YanWeiDie:                                                                                                                                                                                                         07:13 pm
Perché anche io sto ridendo. Come ogni volta che chattiamo.
Lo sai... mi piace parlare con te.
   -Mugetsu:                                                                                                                                                                                                              07:15 pm
...
   -YanWeiDie:                                                                                                                                                                                                         07:15 pm
?
   -Mugetsu:                                                                                                                                                                                                              07:18 pm
Niente.
“Scriverti”, vorrai dire.
   -YanWeiDie:                                                                                                                                                                                                         07:20 pm
Va bene, va bene! Chi me l’ha fatto fare di correggerti...!
   -Mugetsu:                                                                                                                                                                                                              07:21 pm
Ecco, l’hai capito.
   -YanWeiDie:                                                                                                                                                                                                         07:21 pm
Smettila di ridere!
   -Mugetsu:
                                                                                                                                                                                                             07:22 pm
Anche tu, se è per questo.
 
Stava giusto portandosi una mano alla bocca per nascondere un sorriso, come se lui potesse vederla nonostante tutto, quando il tintinnio di un mazzo di chiavi la riscosse dai suoi pensieri, facendola tornare alla realtà. Distogliendo lo sguardo dallo schermo del computer, si voltò nella direzione della porta, riuscendo appena ad intravvedere la minuta figura di una ragazza dai capelli corvini che si chinava per raccogliere e indossare un paio di bassi anfibi, sparendo dietro il muro ad angolo che segnava l’ingresso.
Esitò solo un secondo prima di formulare la domanda.
   « Rukia, esci? »
In tutta risposta, Rukia Kuchiki non diede nessuna risposta. Ovviamente. Linalee aveva chiesto qualcosa del tutto superfluo, visto che era più che evidente il fatto che lei si stesse preparando per uscire.
   « Verso... verso che ora torni? », Linalee provò nuovamente, cercando di risultare cordiale.
   « Tornerò quando tornerò. », si limitò a replicare la ragazza senza neanche degnarla di uno sguardo, mentre si sistemava sulle spalle un sobrio trench nero, legandosi la cintola attorno alla sottile vita.
Colta da un improvviso moto di irritazione, Linalee tentò, come sempre, di sorvolare sulla sua indifferenza e mandare giù le sue risposte secche che avevano il chiaro intento di stabilire un confine netto tra di loro. Ormai aveva capito da tempo che Rukia non aveva la minima intenzione di instaurare il benché minimo rapporto di amicizia con lei, nonostante condividessero lo stesso tetto. Voleva starsene per i fatti suoi, in pace, senza essere disturbata da nessuno. Ma Linalee non riusciva proprio a rassegnarsi ad essere così palesemente ignorata dalla sua coinquilina, con cui aveva sperato fin dal primo momento di andare d’accordo. Le sarebbe bastato anche solo un saluto prima che uscisse di casa, cavolo.
   « Okay. Hai preso il cellulare, vero? Così posso chiamarti nel caso-... »
Ma la porta si chiuse non proprio delicatamente dietro le spalle di una Rukia a cui era bastato voltarsi per una breve frazione di secondo e guardarla con la stessa pena ed esasperazione con cui si guarda la propria madre troppo ansiosa, per zittirla all’istante.
Linalee Lee si sentì infinitamente stupida. Eppure la sua indole amichevole e forse davvero un po’ materna e apprensiva, le rendevano veramente impossibile non impicciarsi, o comunque, non tentare di intavolare un minimo di discorso.
Con un sospiro sconsolato, appoggiò la testa alla scrivania, rendendosi conto troppo tardi che con la fronte aveva preso dentro la tastiera del computer.
 
   -YanWeiDie:                                                                                                                                                                                                         07:33 pm
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   -Mugetsu:                                                                                                                                                                                                              07:34 pm
... Che?
   -YanWeiDie:                                                                                                                                                                                                         07:34 pm
Aaah, scusa!
 
 
 
Rukia Kuchiki tamburellò con le corte unghie mangiucchiate da anni e anni di nervosismo sul tavolo di legno, mentre sfogliava l’ennesima pagina. Non si accorse minimamente dell’occhiata curiosa che una cameriera dai lunghi capelli biondo ramato e il ventre teneramente arrotondato sotto il grembiule, le lanciò passandole davanti, andando a registrare sul taccuino l’ennesima ordinazione. Quella singolare ragazza dalla corporatura minuta e dal trucco esasperato, era ormai seduta a quel tavolo ai margini del locale da più di tre quarti d’ora. Aveva ordinato una bibita e delle patatine fritte, che non aveva pressoché toccato, e non aveva fatto altro che starsene seduta compostamente – fin troppo, ogni tanto l’aveva persino vista guardarsi intorno con aria circospetta e rilassare la schiena impostata rigidamente contro lo schienale della panchina di legno, per poi tornare al suo libro.
Dava l’idea di non sentirsi a suo agio, fuori posto. Anche se si stava dedicando a un passatempo tranquillo come la lettura, per di più di un libro che da quando lo aveva iniziato l’aveva presa molto, era visibilmente nervosa, e ci metteva secoli a girare una pagina. La verità è che Rukia Kuchiki aveva sfogliato almeno una decina di facciate rileggendo tre volte ogni frase senza neanche rendersene conto, perché non riusciva proprio a concentrarsi e ad estraniarsi da tutto il resto come era solita fare quando le capitava di imbattersi in un libro così bello e avvincente. La sua mente era assente, persa neanche in pensieri, ma piuttosto attanagliata nell’ansia, così come il suo stomaco.
   È in ritardo, riusciva solo a formulare, ogni volta che spostava lo sguardo dalle lettere stampate ai numeri in rilievo dell’orologio appeso al muro dall’altro lato della tavola calda.
C’è anche da dire che lei era arrivata in anticipo di almeno trenta minuti rispetto all’ora segnata sul pezzo di carta che ancora conservava, al sicuro nella tasca dei jeans. Sta di fatto che il misterioso... ragazzo?, uomo?, che gliel’aveva consegnato quella famosa sera in cui aveva creduto di essere vittima di una rapina, non le si era ancora presentato.
È in ritardo di un quarto d’ora.
Tentò per l’ennesima volta di rilassarsi, lanciando un’occhiata alle patatine fritte davanti a lei. Ne prese una, constatando già al tatto ancor prima di dare un netto morso coi denti, che ormai tutto il piatto doveva essere diventato freddo.
Lui era in ritardo, ma il luogo dell’appuntamento era quello, senza dubbio. Non poteva essersi sbagliata, aveva controllato più e più volte prima di recarsi lì quella sera. Si era chiesta perché quella persona avesse scelto un posto così affollato e dall’atmosfera accogliente come quel ristorante per famiglie, l’Oinari, pure a pochi isolati dal suo appartamento. Si era domandata parecchie volte anche cosa volesse da lei, quale fosse lo scopo di quell’incontro. La sua mente era al contempo piena di ipotesi e vuota di certezze.
Cosa sta aspettando?
La tensione saliva dentro di lei a ogni scocco della lancetta dell’orologio a muro che non poteva udire, sovrastato da tutte le voci dei clienti con figli al seguito, che all’ora di cena riempivano la tavola calda.
Sfogliò un'altra pagina, senza aver realmente afferrato una parola.
   « Buonasera. », disse a quel punto una voce dal tono perfettamente studiato per risultare profonda e accattivante, con una punta di ironia, amplificata dalle labbra da cui proveniva, tese in un sorriso che a prima vista, per uno sguardo ingenuo, sarebbe potuto apparire amichevole.
Rukia Kuchiki trasalì, ma cercò in tutti i modi di non darlo a vedere. Così come si impose di non alzare lo gli occhi verso la figura che si era posta di fronte a lei, con le mani coperte da mezzi guanti infilate nelle tasche di un paio di pantaloni color khaki. Si concentrò sui suoi vestiti evitando accuratamente il suo viso, mentre chiudeva il libro, infilandoci l’indice dentro per tenere il segno. Indossava una sciarpa, una giacca di pelle slacciata di evidente scarsa qualità. Niente completi eleganti e cravatte. Niente abiti costosi e firmati. Sembrava incredibilmente un ragazzo normale, come tanti, come quelli che erano seduti a qualche tavolo di distanza da loro, e che stavano ridendo per chissà quale battuta, poveri stolti senza preoccupazioni di sorta.
Non rispose al suo saluto, non lo degnò neanche di uno sguardo come faceva sempre con le persone che evidentemente volevano qualcosa da lei, ma non arrivavano dritte al punto se non dopo una serie infinita di falsi convenevoli e gentilezze immotivate. E quando infine lo facevano, si esprimevano con un tono talmente mellifluo da farle venire la nausea, credendo che adulandola avrebbero ottenuto un risultato migliore. Aveva passato gli ultimi cinque anni della sua adolescenza in mezzo a gente del genere, gente bugiarda, calcolatrice, egocentrica ed egoista, oppure fredda, altezzosa, sprezzante. Gente che era stata costretta a chiamare “famiglia”. Si era ripromessa davanti alla tomba di sua sorella che non si sarebbe più lasciata ingannare da persone del genere, mai più.
   « Mi scuso per averla fatta attendere, non era mia intenzione. », continuò il ragazzo che ai suoi occhi rimaneva ancora con un volto sfuocato, indistinto, mentre si accomodava sulla panchina di fronte a lei.
Rukia prese fiato e socchiuse gli occhi, prendendo il segnalibro e chiudendo definitivamente il volume che posò sul tavolo, spingendolo di lato. Aveva bisogno di concentrarsi per trovare la forza di guardarlo in faccia senza sentire l’impulso di riversargli contro tutta la sua ira repressa per troppo tempo. Oppure senza provare l’istinto di scappare via a gambe levate per la paura.
Rukia Kuchiki era incredibilmente brava a scappare.
Ma era stanca di farlo, stanca di comportarsi così debolmente, senza polso. Almeno, non con qualcuno che avrebbe saputo come gestire. La sua cosiddetta famiglia era qualcosa di completamente diverso, qualcosa contro cui era meglio non mettersi. Per questo, per il modo in cui quel ragazzo l’aveva avvicinata, aveva concluso che non lavorasse per i Kuchiki. Probabilmente era un giornalista, o un informatore che campava di notizie, o qualcosa del genere. Insomma, qualcuno che voleva essere pagato per il proprio silenzio. Quindi i tremiti che inizialmente l’avevano scossa la notte dopo quel loro incontro, impedendole di dormire, erano cessati lentamente. E Rukia aveva preso ad analizzare la situazione con mentre fredda, lucida. Calcolatrice, come le persone che odiava e in cui si era trasformata vivendo insieme a loro. Sul suo cuore era calata una spessa coltre di ghiaccio, talmente gelida da mordere la carne della mano di chiunque avesse provato a sfiorarla, a scioglierla.
Questo si rifletté nei suoi occhi blu scuro, quando finalmente li piantò sul viso di Lavi Bookman, gelando il suo sorriso.
   « Non si scusi se non è veramente dispiaciuto. »
   « ... Prego? »
   « Se non fosse stata sua attenzione farmi attendere, non avrebbe passato gli ultimi venti minuti a fissarmi seduto all’altro capo del locale. »
Lavi Bookman ricambiò il suo sguardo, sconcertato. Era vero. Lui era arrivato in perfetto orario, non un minuto in anticipo o uno di ritardo. Eppure aveva passato esattamente venti minuti ad osservare e fotografare mentalmente la figura di Rukia mentre sfogliava lentamente le pagine di un libro, nascondendo il viso e i capelli facilmente riconoscibili sotto il cappello che era solito indossare. Era stato quello a tradirlo? Ma non era possibile, fino a quel momento c’erano stati metri di distanza tra di loro, lei non avrebbe mai potuto riconoscerlo da così lontano, e per di più la prima volta non l’aveva nemmeno guardato in faccia. Resistette all’impulso di girarsi per gettare un’occhiata al lato del bancone presso cui era stato seduto, per controllare come fosse la visuale dal posto di lei, e se la distanza fosse effettivamente quanta gli era sembrata. In fondo, nella sua testa, ricordava perfettamente quanti passi avesse fatto per raggiungerla, quando finalmente si era deciso ad alzarsi, stanco di studiare da lontano i suoi gesti, il suo modo di porsi apparentemente ignaro del suo sguardo attento. Già, apparentemente. Perché Rukia Kuchiki si era accorta di tutto, solo Dio – sulla quale esistenza preferiva non pronunciarsi – sapeva come.
Represse a stento un sorriso che gli nacque spontaneo sulle labbra di fronte a quella magistrale dimostrazione di furbizia, nella quale lui, a cui non sfuggiva niente, era cascato in pieno. Se non fosse stato che si era già tolto il cappello sedendosi di fronte a lei, l’avrebbe fatto in quel momento rivolgendole un cenno della testa a mo’ di inchino. Aveva fatto bene a studiare la sua strategia mettendo in conto che quella ragazza non era da sottovalutare. Ma non avrebbe mai pensato che gli avrebbe dato così filo da torcere.
Ora che aveva trovato la forza di guardalo, Rukia Kuchiki studiò il suo viso, la sua chioma rossa mediamente lunga e vagamente spettinata, i dorati orecchini a cerchio che portava ai lobi delle orecchie, ma più di tutto, le sue labbra incurvate leggermente, come se fosse divertito, o piacevolmente sorpreso, e l’unico occhio visibile, quello sinistro, non coperto da una benda nera che non la incuriosì più di tanto. Un occhio di un verde incredibile, brillante, ma allo stesso tempo completamente vuoto. Il sorriso sulla sua bocca non raggiungeva il suo sguardo.
La ragazza prese nuovamente fiato, intrecciando le mani sul piano di legno. Lei, al contrario di tutti i giri di parole velati di disprezzo degli altri Kuchiki, amava andare direttamente al punto.
   « Cosa vuole? », chiese quindi, pungente, gelida come ghiaccio. « Soldi? Al momento, probabilmente lei ne ha più di me. »
Lavi considerò mentalmente che nonostante la sua esile corporatura e l’aria da adolescente ribelle a dispetto dei suoi venti anni di età, la sua voce, il tono con cui si esprimeva, erano improntati di una maturità incredibile. Così come i suoi occhi. Li trovava incredibili, come ipnotizzanti. Le sorrise ancora, accondiscendente.
   « Su questo avrei i miei dubbi, ma comunque... Se il suo timore è che vada a spifferare ai quattro venti chi è e dove abita, allora non si preoccupi, non sono queste le mie intenzioni. »
E quali sono, allora?, si chiese Rukia assottigliando lo sguardo.
   « Sa dove abito? »
   « So cose che lei nemmeno immagina, signorina Ku-... »
   « Rukia. Mi chiami Rukia e basta. »
   « Possiamo anche smettere di usare il lei e darci un taglio con questo tono formale? », propose Lavi sempre con un fare affabile che non intaccò minimamente l’impassibilità di Rukia.
   « Non ho intenzione di offrirle tutto il braccio. Si accontenti del dito. »
   « Ma come, non era la mano? »
   « Non ho intenzione di darle nemmeno quella. »
Questa volta, Lavi dovette sopprimere una vera e propria risata, che sicuramente agli occhi della sua glaciale interlocutrice sarebbe parsa sgarbata. O forse non si sarebbe scomposta minimamente, chissà. Tossicchiò appena, coprendosi la bocca con il dorso di una mano, mentre con l’altra attirava l’attenzione di Rangiku Matsumoto che stava passando proprio davanti a loro, diretta in cucina. Ordinò un caffè, per poi abbandonarsi contro lo schienale della panca in legno, prendendosi un momento per raccogliere i propri pensieri e riorganizzare la sua “strategia d’attacco”. Dopo qualche secondo di silenzio, fece un cenno verso il tavolo, indicando il piatto di patatine fredde.
   « Posso rubargliene una? »
   « Anche tutte. », e Lavi non se lo fece ripetere due volte, anche se non aveva esattamente fame. Ma sentiva come il bisogno di temporeggiare per alleggerire la tensione. Come aveva immaginato, la sua aria amichevole non attecchiva minimamente con quella Kuchiki-... no, Rukia. Nome che trovò incredibilmente adatto ai suoi occhi di una tonalità di blu profonda quanto la notte, nonostante significasse “luce”.
   « Bella trilogia, Millennium. », commentò quindi con noncuranza, leccandosi il sale delle patatine dal labbro superiore. Anche se non sarebbe servito ad ingraziarsela, Lavi non avrebbe mai rinunciato la sua galanteria e la sua parlantina sciolta. Dopotutto, amava conversare, trovava che così si potesse capire molto di più delle persone rispetto al semplice osservarle. “Conosci il tuo nemico”, diceva il buon vecchio Sun Tzu ne L’arte della guerra.
Se poi l’argomento su cui verteva la discussione erano i libri, chi era lui per tirarsi indietro?
   « Ottima trama e caratterizzazione psicologica dei personaggi », continuò, « anche se a mio parere poteva essere scritta meglio. In particolare tutta quella abbondanza di caffè e tramezzini infilata in ogni capitolo, Larsson avrebbe potuto risparmiarsela. »
Incredibilmente, il ragazzo notò che Rukia fu colpita da quella sua constatazione, senza però poter sapere che il tono secco con cui replicò fosse dovuto al fatto che le sue parole avevano espresso un pensiero che più di una volte era passato anche per la sua testa. E la cosa, per qualche motivo, l’aveva irritata. Senza volerlo, Lavi aveva messo a segno il primo punto contro l’imperturbabilità di Rukia Kuchiki.
   « Peccato che non fosse lei il suo editore, almeno così gliel’avrebbe fatto notare. »
   « Oh, se fosse ancora vivo avrei sicuramente fatto di tutto per diventarlo e presentargli le mie critiche una per una. Ah, grazie. », aggiunse poi, rivolto a Rangiku che era tornata col caffè che lui aveva ordinato. Lavi le rivolse un sorriso gentile, scendendo poi ad accarezzarle la pancia con lo sguardo. « Mi dica, di quante settimane è? »
   « Sono alla quindicesima. », sospirò la donna. « Il pensiero di essere neanche a metà mi uccide...! »
   « Non lo dico per consolarla, mi creda. Ma per quel che posso vedere io, sta affrontando il tutto splendidamente. Non credo di aver mai visto una madre più bella. »
Rangiku posò le mani sui fianchi con fare di rimproverò. Ma il sorriso furbo che le si dipinse sulle labbra carnose, rese la sua aria solo più dolce.
   « Sono sposata, ragazzino. E quasi potrei essere la tua, di madre. »
   « Sarei un ragazzino molto fortunato, allora. »
Rukia approfittò di quel breve scambio di battute in cui l’attenzione era stata distolta da lei per ritrarre le mani sotto il tavolo, dove le strinse forte per farsi coraggio.
La sua espressione non cambiò di una virgola.
Eppure non si poteva dire lo stesso di quella di Lavi. Quando aveva guardato la pancia della cameriera, per un attimo il suo occhio verde le era sembrato brillare rendendo giustizia a quel bel colore così vivo.
Ma era stato davvero solo un attimo, e nello stesso in cui la cameriera si era allontanata e lui era tornato a posare quell’occhio su di lei, ogni luce in esso si era spenta.
Lavi appoggiò il mento sul palmo di una mano e sollevò la tazzina di caffè – rigorosamente senza zucchero – fino a portarla alle proprie labbra, lanciando un'altra occhiata al libro di Rukia, mentre un pensiero lo folgorava, stimolato dalla copertina e dall’aroma della bevanda.
   « È a lei che si ispira? Lisbeth, dico. », le chiese con un sorriso, affilando lo sguardo per studiare meglio il trucco nero che contornava gli occhi di Rukia, proseguendo lungo il profilo del suo naso fino all’anellino a una narice. Forse era anche per questo che si era tagliata i capelli, anche se in un’acconciatura molto più sobria di quella della protagonista di quella trilogia.
   « Cosa glielo fa pensare? », domandò con noncuranza lei. Il sorriso di Lavi si allargò senza che lui riuscì ad impedirlo.
   « Non è evidente? »
   « La diverto così tanto? »
Per Lavi non aveva alcun senso negare, quando ormai era evidente.
   « Molto, sì. »
Ma chissà perché Rukia era convinta che fosse l’esatto contrario.
In tutta risposta, quindi, si portò una mano al naso e sfilò l’anellino, che subito si rivelò un piercing con la clip. Falso, insomma.
   « È una specie... di travestimento? », le chiese quindi il ragazzo, inarcando un sopracciglio.
   « Lei è l’ultima persona nella posizione di farmi una domanda del genere. », replicò Rukia con insensibile calma, facendo un cenno con la mano rivolto alla sua benda sull’occhio destro, che poteva benissimo essere definita “da pirata”.
Per la seconda volta, Lavi cercò di trattenere una risata, ma questa volta gli fu impossibile. Poi la battuta, se così si poteva definire il freddo umorismo di Rukia Kuchiki, era rivolta a lui, quindi poteva permettersi di ridere senza sembrare offensivo nei suoi confronti, no?
Ma si ricompose in fretta, scuotendo la testa.
   « Le è passata la voglia di prendermi in giro? »
   « Direi di sì. È meno divertente quando ti rendono pan per focaccia. »
   « A proposito di pan per focaccia... Lei dice di sapere molte cose su di me, ma io non so nemmeno il suo nome. Non mi pare corretto. », puntualizzò, mentre lui faceva un cenno d’assenso.
   « Vero, Lisbeth odia non conoscere i propri avversari o alleati che siano. »
   « E lei a quale delle due categorie apparterrebbe? »
   « Questo dipende tutto dalla decisione che lei stessa prenderà, Rukia. A questo punto, lasci che mi presenti come il Mikael Bloomkvist della situazione. »
Il biglietto da visita che le aveva allungato sul tavolo recitava a caratteri eleganti:
   Dick Bookman, giornalista freelance.

Rukia non poté fare a meno di irrigidirsi. Un giornalista. I suoi sospetti erano fondati, dunque.
   « Bloomkvist è un personaggio che non rientra esattamente tra i miei preferiti. »
   « Eppure Sally ne è fatalmente attratta. »
   « Io non sono Lisbeth Salander così come lei non è Kalle Bloomkvist. »
   « Altrimenti questo starebbe a significare che lei è fatalmente attratta da me. », scherzò lui.
La ragazza lo fissò per un lungo istante, decidendo ad occhio e croce che era un bel ragazzo. O meglio, più che bellezza, aveva carisma.
   « Cosa che trovo alquanto improbabile. », concluse.
   « Così mi ferisce... »
   « Non è niente di personale, mi creda. Non sono attratta dagli uomini. »
   « Capisco. »
   « Neanche dalle donne. », Rukia si sentì in dovere di precisare di fronte all’ammirevole flemma con cui lui aveva interpretato quella che aveva creduto una pacata affermazione di omosessualità.
   « ... Ora non capisco. », replicò quindi Lavi, alquanto perplesso.
   « Non c’è niente di difficile da capire. »
   « Così si perde le gioie migliori della vita, me lo lasci dire. »
   « Se è del sesso che parla, lasci dire a me che è qualcosa che sicuramente non mi perdo quando mi capita l’occasione. »
Lavi corrugò la fronte. Quella ragazza era una fonte incredibile di novità. Per un attimo pensò che non sarebbe riuscito a tracciare un quadro completo della sua psiche neanche avendo a disposizione interi secoli.
   « In pratica sta dicendo che quando le “capita l’occasione” è capace di fare sesso con una donna o uomo che sia, verso il quale non prova neanche la minima attrazione? »
Quello che pensò Rukia, invece, fu come fossero finiti a parlare di un argomento del genere. Soppesò la sua domanda per qualche secondo.
   « No, credo che abbia frainteso le mie parole. Sono stata poco chiara. Per attrazione intendo... quello che probabilmente lei chiamerebbe “amore”. », precisò sempre con la solita freddezza.
Anche Lavi esitò un attimo, considerando da vari punti di vista quella risposta a suo parere... interessante. E anche utile, in un certo senso. Si erano spinti a parlare di qualcosa di più personale. Ottimo, pensò, tendendosi un po’ di più sul tavolo.
   « Non crede nell’amore, quindi. »
Rukia si strinse brevemente nelle spalle, con fare indifferente.
   « Mettiamola così. »
   « E nell’amicizia? », le sorrise Lavi, sempre più colpito. Ma la sua aria divertita tornò a congelarsi come la prima volta che Rukia gli aveva rivolto il suo sguardo affilato, mentre lei tornava a posare le mani intrecciate sul tavolo, lentamente.
   « Credo nell’egoismo dell’essere umano, signor Bookman. »
E quelle parole, erano cariche di una veemenza devastante, nonostante fossero state pronunciate nel tono più calmo e pacato che Lavi Bookman avesse mai udito. Come se fossero state lentamente forgiate da anni e anni di confronto con un mondo che non aveva fatto che rivelarsi immancabilmente crudele e sì, egoista, agli occhi di quella piccola ragazza di cui Lavi si trovò ad ammirare ancora una volta la maturità nella voce, che, al contrario del suo aspetto, sapeva molto più di donna vissuta.
Si concesse altri secondi per riunire i propri pensieri, visto che il tono e gli occhi di lei avevano lo strano potere di fargli perdere il filo del discorso. Per un attimo, considerò di non aver mai incontrato un individuo che avesse avuto la capacità di risvegliare il suo interesse così prepotentemente come aveva fatto lei in neanche mezz’ora di colloquio.
   « Se io la posso chiamare Rukia, allora insisto perché lei mi chiami Lavi. »
   « Lavi...? » ripeté lei. Per il ragazzo dai capelli rossi era la prima volta che si presentava con quel nome, e trovò che pronunciato da Rukia, gli calzasse incredibilmente a pennello. E dire che aveva scelto a caso solo qualche settimana prima.
   « Sì, Dick è solo uno pseudonimo per il lavoro. »
Uno dei tanti.
Rukia sembrò riflettere per un istante.
   « ... Lavi, allora. Non mi ha ancora detto il motivo per cui mi ha chiesto di incontrarla. Se non è per i soldi, per che cos’è? »
Lavi le regalò l’ennesimo sorriso, improntato di furbizia questa volta, mentre si passava appena un dito sulle labbra.
   « Io non ho mai detto che i soldi non c’entrino. »
   « Ma io-... »
   « Non parlo dei suoi, Rukia. », la interruppe lui prima che potesse ribadire le sue scarse condizioni economiche. « E nemmeno di quelli che la sua famiglia mi darebbe se vendessi a loro l’informazione. »
La ragazza esitò ancora. Improvvisamente, il sorriso di lui le era parso più minaccioso di quanto le fosse sembrato per l’intera durata della serata. Senza sapere ancora perché, si sentì già in trappola.
   « Ora sono io che non capisco. », avanzò cautamente, mentre Lavi si tendeva ancora di più sul tavolo verso di lei, abbassando il tono di voce con fare confidenziale.
   « Cosa fanno i giornalisti, Rukia? Perdoni la domanda ovvia, non sto cercando di trattarla come una stupida. »
   « Direi che scrivono storie. », rispose dopo un attimo di prudente riflessione.
   « Raccontano stralci di vita, mi piace più vederla in questo modo. », le sorrise affabilmente lui. Rukia sentì un moto di irritazione salirle dentro, come prima. Chissà come, quel ragazzo aveva il potere di colpirla in modo di far cadere le sue fredde e imperturbabili difese. Si impose di restare calma come sempre.
   « Arrivi al punto. »
Lavi usufruì di una pausa ad effetto per rendere le sue parole ancora più cariche di tensione, che sciolse lentamente usando un tono carezzevole.
   « Nessuno ha mai scritto della vita di sua sorella Hisana. E neanche... della sua morte. O almeno, nessuno ha mai scritto la verità. »
Rukia Kuchiki rimase impassibile.
Rukia Kuchiki che non ci pensò neanche due volte prima di afferrare il proprio libro e la borsa, estrarre dalla tasca una banconota e qualche spicciolo per pagare le patatine che aveva ordinato, ed alzarsi rigidamente composta.
   « Il nostro colloquio finisce qui. »
Lavi spalancò gli occhi sorpreso, alzandosi a sua volta.
   « Mi dispiace se l’ho ferita, non-... »
   « Lei non ha idea di quello di cui sta parlando. », lo interruppe Rukia. La voce le era uscita più inferma di quanto avesse voluto, mentre stringeva un pugno lungo un fianco. Si sentiva paralizzata, un pezzo di legno.
Lavi aprì la bocca per replicare, ma si zittì subito, con aria dispiaciuta. Dopo qualche secondo riprese.
   « Ed è esattamente per questo le sto proponendo una collaborazione. », sospirò, passandosi una mano alla base del collo. « Rukia... mi dispiace. Sinceramente. Mi sono espresso senza il minimo tatto, capisco la sua reazione, è comprensibile. »
No, tu non capisci proprio un bel niente, sibilò Rukia mentalmente, senza riuscire ad aprir bocca.
   « Però... mi ascolti. Mi dia solo un secondo. Poi è libera di andarsene da qui, e se vuole io non mi farò più rivedere. Non mi azzarderò neanche a vendere questa informazione, si fidi. Non è mia intenzione rovinarla, neanche se non mi vuole aiutare. »
Rukia rimase ancora in silenzio, fissandolo con astio. Lavi prese fiato, interpretandolo come un muto consenso.
   « È vero, molti punti di questa faccenda mi sono oscuri. Principalmente sono le dinamiche familiari dei Kuchiki che non capisco. Eppure... eppure mi creda quanto le dico che è anche vero che io so cose di cui è lei a non avere idea. »
Cosa?
Cos’era che Rukia non sapeva? Per un breve istante si sentì divorare dal tarlo della curiosità e della vendetta. Ma poi si rivide, sola, con in mano un mazzo di fiori e il vento che le scompigliava i capelli come una carezza, e lo sguardo velato lacrime che però non le impedivano di leggere il nome di sua sorella scolpito nella pietra della sua tomba, dove avrebbe passato il resto di quella che sarebbe stata la sua vita.
 
Hisana Kuchiki
21 febbraio 1979 -14 settembre 2011
Sorella e moglie amata.
 
Non avevano scritto neanche il suo vero cognome, quei bastardi. Eppure non l’avevano nemmeno seppellita nella cripta di famiglia con gli altri membri dei Kuchiki.
Rukia chiuse gli occhi, mentre la voce di Lavi le arrivò ovattata alle orecchie.
   « Insieme potremmo portare alla luce la verità, Rukia. »
Quale verità? Le la sapeva già, la verità.
Hisana era morta.
E questo non sarebbe mai potuto cambiare.
Quando li riaprì, si sentiva molto più sicura di sé, anche se non tanto da sciogliere i pugni che aveva serrato lungo i fianchi. Prese fiato. Lei, al contrario di Hisana, poteva farlo.
   « Non permetterò mai che quel poco che rimane di mia sorella sia venduto in questo modo. »
Lavi parve stupito.
   « Neanche se le stessi offrendo la vendetta su un piatto d’argento? »
Le labbra di Rukia tremarono per un secondo, mentre si costringeva a serrare i denti per impedirne il fremito. Eppure la fermezza nei suoi occhi non vacillò neanche per un istante.
   « Mai. »
 
Lavi Bookman, tornatosi a sedere sulla panca di legno, osservò silenziosamente la figura di Rukia Kuchiki mentre si dirigeva a passo svelto verso l’uscita del ristorante. Sulla porta, quasi si scontrò con un uomo di mezza età che stava entrando in quel momento per raggiungere la famiglia già seduta a qualche tavolo di distanza da quello che avevano condiviso loro due fino a qualche minuto prima. La ragazza buttò lì qualche parola di scusa e si allontanò prima che l’uomo avesse anche solo la possibilità di replicare.
Era sconvolta, anche se aveva fatto di tutto per non darlo a vedere di fronte a lui.
   Ottimo, pensò ancora una volta con l’ennesimo sorriso, nascosto dalla tazzina che si era riportato alle labbra, mentre faceva un cenno di saluto verso Rangiku Matsumoto che passava in quel momento al suo fianco per accogliere il nuovo cliente.
   Questo caffè è davvero ottimo.
 
Era andato tutto esattamente come Lavi Bookman aveva previsto.
 
 
 
-
 
 
 
NDA n.2: ... Lavi, fattelo dire, sei un vero bastardo. /facepalm/



Se il LaviRuki come pairing vi intriga, vi consiglio VIVAMENTE di dare un’occhiata ai profili di N e m e e Angy_Valentine, che sono delle ottime scrittrici e hanno fatto dei veri capolavori su di loro!

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