Il duro prezzo dell'arte

di vampiredrug
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** LENTIGGINI E CANNELLA ***
Capitolo 2: *** LEZIONE A SORPRESA ***
Capitolo 3: *** METTERSI A NUDO ***
Capitolo 4: *** CASA DOLCE CASA ***
Capitolo 5: *** A TU PER TU ***
Capitolo 6: *** MY HEART WILL GO ON ***
Capitolo 7: *** SNIF ***
Capitolo 8: *** THE KISS ***
Capitolo 9: *** C'ERA UNA (PRIMA) VOLTA... ***
Capitolo 10: *** THE DAY AFTER ***
Capitolo 11: *** VOLARE VERSO IL SOLE ***
Capitolo 12: *** THE EX-FILES ***
Capitolo 13: *** L'AMORE, SOTTO GLI OCCHI DI TUTTI ***
Capitolo 14: *** GOOD NEWS, BAD NEWS ***
Capitolo 15: *** IN FUGA ***
Capitolo 16: *** HEIDI NON ABITA PIU' QUI ***
Capitolo 17: *** ORSI, FATINE E VECCHI CLICHE' ***
Capitolo 18: *** ANGELI E DEMONI ***
Capitolo 19: *** LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA ***
Capitolo 20: *** SENZA MASCHERA ***
Capitolo 21: *** TORNA A CASA, CASSY! ***
Capitolo 22: *** LA GRANDE MELA ***
Capitolo 23: *** L'UOMO CHE SAPEVA TROPPO ***
Capitolo 24: *** IL DIAVOLO E' NEI DETTAGLI ***
Capitolo 25: *** PARENTI DEMENTI ***
Capitolo 26: *** THE J-FACTOR ***
Capitolo 27: *** PARADISE LOST ***
Capitolo 28: *** JENS & THE CITY ***
Capitolo 29: *** TWO AND A HALF MAN ***
Capitolo 30: *** STAIRWAY TO HEAVEN ***



Capitolo 1
*** LENTIGGINI E CANNELLA ***


LENTIGGINI E CANNELLA
 
 


Castiel era dannatamente, irrimediabilmente in ritardo, e come molto spesso accadeva negli ultimi tempi correva fendendo la folla di studenti e lavoratori che sciamavano sul marciapiede, facendo svolazzare qua e là l’immancabile trench, suo segno distintivo tra i docenti dell’Accademia.

Non era in ritardo per le lezioni, no, era in ritardo per vedere lui.
 
Non sapeva esattamente a che ora finisse il suo turno e non voleva assolutamente rischiare di perdere quello che da due mesi a quella parte era divenuto il suo privatissimo rito del buongiorno.
Rito che comprendeva entrare trafelato da Starbucks, disporsi ordinatamente in fila davanti ad una certa cassa e aspettare finché non avesse incrociato due occhi verdi e sorridenti che gli chiedevano “il solito?”.
 
Tutto era cominciato per caso, durante una di quelle mattine dal tempo incerto che ti portano, in un malsano moto di fiducia nella tua buona sorte, a uscire senza ombrello. Naturalmente dopo dieci minuti l’acqua aveva cominciato a scendere a secchiate e Castiel, ormai fradicio come un pulcino, si era infilato nella caffetteria stracolma di gente nelle sue stesse condizioni senza nemmeno prestare attenzione a dove stesse andando.
Una volta dentro, aveva pensato che tanto valeva prendere un caffè per riscaldarsi e aspettare che spiovesse, così si era avviato verso il bancone, mentre valutava ad occhi bassi i danni della pioggia sul completo scuro che indossava in occasione della riunione che avrebbe avuto luogo quel pomeriggio e soprattutto sulla cartella portadocumenti che non era certo waterproof.
 
- Buongiorno… cosa posso darti? - lo riscosse una voce profonda e calda che gli resettò il cervello e gli spedì un brivido giù per la schiena.
 
Nemmeno si era accorto di essere arrivato in cima alla fila! Alzò lo sguardo, stupefatto, fino ad incontrare quello del proprietario della splendida voce.
 
‘Il tuo numero di telefono, santo cielo!’ pensò Castiel, sgranando gli occhi.

Si trovava di fronte ad uno dei ragazzi più spudoratamente belli che avesse mai visto: tanto era virile e sexy la sua voce, tanto delicato e raffinato il suo viso.

Pelle leggermente abbronzata spruzzata di lentiggini, naso perfetto e due occhi incredibili di un verde che Castiel non riusciva nemmeno a classificare, e lui insegnava pittura, porca miseria!
 
Colto completamente alla sprovvista, si ritrovò a biascicare “un latte macchiato con cannella” senza nemmeno rendersene conto, sperando di non essere arrossito.
Lo splendore (Jensen, gridava al mondo la targhetta sulla sua t-shirt) si voltò per completare l’ordine e Castiel potè osservarne stranito e compiaciuto il lato B, che se la giocava alla pari con il lato A: alto, spalle larghe e sedere da urlo.

Wow.
 
Non riusciva a capacitarsi dell’effetto sconvolgente che quel ragazzo gli aveva fatto dal momento in cui aveva aperto bocca, soprattutto perché lui non era gay… semplicemente non amava le classificazioni.
In genere gli piacevano le donne, ma gli era capitato anche, un paio di volte, di trovare attraenti dei ragazzi. La cosa non lo aveva minimamente impensierito, aveva semplicemente imputato il tutto alla sua eterna ricerca e ammirazione della bellezza, in tutte le sue forme.
Forse a causa della propria innata tendenza ad osservare minuziosamente tutto ciò che aveva di fronte, deformazione professionale ma anche attitudine caratteriale, Castiel riusciva spesso a cogliere l’armonia anche dove in apparenza non c’era, uno spiraglio di perfezione mimetizzata nel caos e per questo ancora più preziosa.
Un profilo elegante, delle mani aggraziate, sia che appartenessero ad un uomo o ad una donna, riuscivano ad affascinarlo allo stesso modo in cui lo facevano la simmetria delle venature di una foglia o una goccia di rugiada in bilico su un filo d’erba.

L’incanto della perfezione era democratico, e di conseguenza aveva deciso di esserlo anche Castiel.
 
Pertanto non si stupì di aver provato attrazione per quel ragazzo, si stupì invece (e parecchio) di non riuscire a levarselo più dalla mente.
Trascorse infatti l’intera giornata a ripensare ossessivamente a lui, alla sua voce, alla linea delicata del collo, lasciato esposto dai capelli tagliati corti, alle grandi mani che gli avevano porto il caffè.
Tutto questo durante le lezioni del mattino, durante la famosa riunione col corpo insegnante, durante il tragitto del rientro e anche la sera, a casa.

Se avesse creduto a quelle scemenze tipo il colpo di fulmine o l’amore a prima vista si sarebbe preoccupato, invece con sano pragmatismo tutto maschile decise di smettere di farsi paranoie e di guardare un film in tv, stravaccato comodamente in tuta sul divano.

Il film era di una noia mortale, e in breve tempo si ritrovò a vagare con le mani dalle parti dei propri boxer e con la mente dalle parti di Starbucks … dopo l’orario di chiusura, con lui e lo splendore che chiacchieravano sorridenti nel locale ormai deserto… poi Jensen, senza alcun motivo plausibile (siano benedette le fantasie senza trama!) iniziava a sbottonargli i pantaloni, e quelle labbra pazzesche gli dicevano e gli facevano di quelle cose che… nel giro di cinque minuti, Castiel si ritrovò ad inarcare la schiena sotto le proprie carezze, venendo violentemente mentre invocava il nome di Jensen.
Ansante, appagato, stupefatto, sentì le proprie labbra piegarsi in un sorriso irreprimibile.
 
Ok, il dado era tratto: si era preso una sbandata mostruosa.

Il mattino seguente si svegliò in leggero anticipo, scattando come una molla al primo trillo della sveglia, ‘così, per fare le cose con calma una volta tanto’, si disse per giustificare un comportamento tanto alieno alla sua personalità.
Chiaramente la suddetta calma comprendeva il lanciarsi sotto la doccia talmente in fretta da allagare totalmente il bagno, saltellare ossessivamente davanti all’armadio ancora grondante acqua incapace di scegliere una camicia e catapultarsi fuori dalla porta semivestito per poi dirigersi a passo di carica verso la caffetteria.
Si fermò anche a comprare un quotidiano, per completare l'immagine di elegante noncuranza che aveva messo a punto la sera precedente e anche per avere qualcosa dietro cui ripararsi mentre attendeva pazientemente il proprio turno, così da poter occhieggiare comodamente lo splendore.
Il suo piano funzionò fino a che non colse il proprio riflesso in una vetrina: sguardo spiritato, impermeabile e giornale aperto a doppia pagina… sembrava il maniaco dei giardinetti!
Appallottolò il Boston Globe e lo gettò in un cestino appena fuori Starbucks, quindi superò la soglia col cuore in gola.

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Capitolo 2
*** LEZIONE A SORPRESA ***


LEZIONE A SORPRESA
 
Ricomponendosi alla meno peggio, Castiel arrivò al bancone in condizioni psicologiche quasi decenti. Più o meno.
 
- Ehi ciao! Sei… ‘latte macchiato con cannella’, vero? - lo apostrofò allegro Jensen tramortendolo con un sorriso.
 
Castiel deglutì, la gola improvvisamente secca, limitandosi ad annuire come un idiota mentre gli angoli della sua bocca si apprestavano a raggiungere le orecchie, facendo tutto da soli.
 
‘Si ricorda di me?’
 
- Hem, sì, ciao. Cannella. Latte. Quello che hai detto tu! - farfugliò in preda ad un guizzo incontrollabile di felicità all’idea che l’altro l’avesse riconosciuto, e rendendosi improvvisamente conto di come gli fosse uscita l’insolita ordinazione del giorno prima, proprio a lui che beveva caffè nero. La pelle appena ambrata di Jensen aveva dato origine al latte macchiato, le lentiggini alla spruzzata di cannella. Patetico.
 
- Arriva subito. Sei poi finito nei guai, ieri? - chiese il ragazzo dietro al banco, mentre preparava l’ordinazione.
 
- Guai? In che sen… perché? -
 
- Avevi l’aria un po’ sconvolta quando ci siamo parlati e ho visto che controllavi la tua cartella portadocumenti, pensavo che contenesse qualcosa d’importante… -
 
- Ah, no… no, nulla d’insostituibile. Più che altro fogli di presenza dei miei studenti e qualche piano di lavoro per il semestre. Grazie per l’interessamento, comunque! - sorrise radioso Castiel.
 
- Sei un insegnante? -
 
- Docente di pittura. - specificò l’altro.
 
- Wow, fico! Allora… - e Jensen si allungò per recuperare un abnorme cookie al cioccolato da un’alzatina sul bancone - … questo lo offro io come mio personale contributo in sostegno dell’arte! -
 
‘Oddio. Era un’avance? O quello era solo il commesso più gentile del pianeta?’
 
- Oh. Gra… grazie. Io… ora devo andare. Grazie ancora, a domani! - si ritrovò a balbettare Castiel, più confuso che mai, girando i tacchi e uscendo con il suo latte in una mano e il mega biscotto nell’altra, spostando lo sguardo dall’uno all’altro come se nemmeno sapesse com’erano finiti lì.
 
‘Come, a domani? Non tornerai qui a fare la figura del coglione, Cass.’
 
E invece era tornato.
Ogni giorno, per due mesi, alimentando una cotta disperata per quel ragazzo dall’atteggiamento indecifrabile.
Grazie ad una calibrata scelta dell’orario meno affollato da parte di Castiel, avevano sempre il tempo per scambiare due chiacchiere e ormai si chiamavano con i rispettivi nomi, anzi, Castiel lo chiamava Jensen, e Jensen lo chiamava Prof.
Inutile dire che la cosa lo faceva impazzire, perché ogni volta che ripensava a lui in privato, sognava che glielo ripetesse con la voce resa rauca dai gemiti… anche se a breve sarebbe probabilmente diventato cieco, a causa di tutta quell’attività onirico/masturbatoria.
 
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Accompagnato dal freddo pungente di dicembre si stava avvicinando il Natale e Castiel, mentre si recava in caffetteria fischiettando, si divertiva a scrivere immaginarie letterine a Babbo Natale (anzi, a Bobby Natale, dato che non riusciva a scindere l’immagine del vecchio con la barba da quella di suo zio) in cui chiedeva di ricevere Jensen con addosso solo un enorme fiocco rosso, oppure si perdeva in fantasticherie tipo loro due che casualmente si trovavano sotto il vischio… in sostanza, era regredito allo stadio larvale di ragazzina di 14 anni. Emo.
 
La sensazione era insieme fantastica e terribile, in fondo era più d’un decennio che Castiel non si sentiva il cuore e la testa così leggeri e costantemente carichi di aspettativa, ma allo stesso tempo si rendeva conto che a 34 anni suonati non poteva passare mesi interi a sbavare in silenzio su uno sconosciuto, non era propriamente un atteggiamento sano.
Voleva di più, perlomeno un chiarimento, doveva riuscire a sbloccare la situazione.
Così decise di provare ad invitare fuori Jensen, non un appuntamento naturalmente, più un’informale birra… per tastare il terreno, a rischio di fare un’epica figura di merda.
Gliel’avrebbe proposto quella mattina stessa, deciso!
 
Quando però entrò nel locale, non trovò il familiare sorriso dello splendore ad attenderlo. Eseguendo una rapida scansione laser dell’ambiente stile Robocop, appurò che Jensen non c’era da nessuna parte, e al suo posto trovò un diciassettenne di 40 chili crivellato dall’acne e con l’apparecchio, di pessimo umore per giunta.
Accantonata la delusione e anche la voglia di mandare a quel paese lo sgarbatissimo Mr. Brufolo, raccattò la propria ordinazione e uscì.
Perché diavolo avesse preso il caffè nonostante l’assenza di Jensen, poi… nemmeno gli piacevano gli oscuri bibitoni che servivano in quel posto, preferiva mille volte l’espresso della sua moka ammaccata comprata in Italia anni prima.
 
Si diresse a passo strascicato verso l’istituto e quindi verso la propria aula, rimuginando su cosa potesse essere successo a Splendore.
Il giorno prima non l’aveva avvisato che non ci sarebbe stato… e perché avrebbe dovuto, in effetti? Non erano certo a quello stadio di confidenza, e di sicuro non poteva sapere che la vera attrattiva di quel locale rumoroso, per Castiel, era lui e non la Miscela Extra Arabica.
Era forse malato? Gli era capitato qualcosa? Forse avrebbe dovuto chiedere al responsabile della caffetteria, si pentì ormai in preda alla paranoia e all’effetto C.S.I.
 
Non fece nemmeno in tempo a lanciare scompostamente il trench sulla cattedra come sua abitudine che si sentì chiamare da una ben nota, ed esitante, voce.
 
- Professor… Collins? -
 
Castiel si voltò lentamente e, sì, era proprio lui.
 
Che diavolo ci faceva nella sua aula?
 
Una volta che anche l’altro ebbe registrato la sua identità, sollevando le sopracciglia per lo stupore, gli elargì il sorriso per cui il professore si era scapicollato alla caffetteria ogni santo giorno.
 
- Oh. Ma sei tu… - constatò Jensen, sempre sorridendo.
 
- Hem, ciao… Jensen. Cosa ci… cioè, posso aiutarti? - mormorò imbarazzato Castiel mantenendo il tono più basso possibile, in modo da non farsi sentire dalla trentina di studenti che osservavano la scenetta nascosti dietro ai rispettivi cavalletti.
 
- Se questo è il laboratorio di Pittura 2 e tu sei il professor Castiel Collins, sarò io ad aiutare te, a quanto pare… - replicò l’altro con un piccolo ghigno e l’aria misteriosa.
 
- Eh? - fu l’arguta risposta del docente, la testa inclinata di lato come sempre accadeva quando qualcosa gli sfuggiva.
 
- Sono il tuo nuovo modello per la copia dal vero. - chiarì Jensen con gli occhi che ridevano.
 
‘Eh???’
 
- Cioè tu… poserai… qui? -
 
- Bè, in corridoio non mi sembra il caso, inoltre fa freschino. Non sei tu ad aver fatto richiesta per un modello? Ho sbagliato aula? Oh, ehi… ti senti bene? Sei un po’ pallido... - iniziò a preoccuparsi Jensen.
 
- No, cioè sì! Tutto ok, è stata solo una cosa un po’… uh, inaspettata. Come sapevi che insegnavo qui scusa? - domandò forse un po’ troppo bruscamente Castiel.
 
- Non lo sapevo. Mi hanno assegnato a questo corso per caso. - spiegò Splendore sulla difensiva.
 
‘Ecco, così imparo ad esprimere desideri a Bobby Natale...’ pensò Castiel, stralunato.
 
- Ok, allora, hem… non c’è molto da sapere: lì c’è la tua… postazione di lavoro - disse indicando una pedana leggermente rialzata al centro della stanza - E lì invece c’è la zona per cambiarti e per riporre le tue cose - continuò, accennando con un movimento della testa ad un angolo appartato dell’aula, caratterizzato da un enorme paravento, un armadietto e un paio di sedie.
 
Mentre vagava con lo sguardo per la classe, Castiel si rese conto che i suoi allievi (quasi tutte ragazze, per la verità, attirate sia dal corso di figura maschile che dall’inequivocabile bellezza del docente) continuavano a ridacchiare osservando Jensen di straforo e praticamente ogni femmina presente stava compulsivamente digitando sms sul proprio cellulare.
 
Poteva solo immaginare il tenore di quei messaggi… e fu lieto che il corso fosse a numero chiuso, in caso contrario nel giro di tre giorni la sua aula sarebbe stata affollata come lo stadio durante la finale del Superbowl da orde di studentesse con gli ormoni fuori controllo.
 
In effetti, ogni ragazza del corso stava avvisando le amiche che non solo aveva l’insegnante di pittura più figo che si potesse immaginare, ma che ora si era presentato pure un modello spettacolare, anche se ognuna di loro era piuttosto incuriosita dal siparietto tra i due. Il professor Collins continuava a gesticolare piuttosto agitato, e lui e il tizio nuovo avevano l’aria di conoscersi… che strano.
 
Dopo un attimo di stallo, fu Jensen a rompere il silenzio.
 
- Allora… io andrei a prepararmi, abbiamo già perso parecchio tempo, che dici?-
 
- Ma certo... sì... ovvio... vai pure. - rispose Castiel sempre più agitato.
 
Il biondino si diresse con calma nell’angolo che gli era stato assegnato e cominciò a trafficare dietro al paravento. Quando il professore vide un paio di jeans buttati di traverso oltre il bordo, però, fu il panico.
Non poteva, non poteva essere vero.
 
Aveva fantasticato immaginando Jensen nudo Dio solo sapeva quante volte, e certo che lo voleva vedere, cazzo, ma non nella sua dannata aula!
 
Non era pronto, non voleva dividerlo con le sue studentesse arrapate e soprattutto riteneva poco professionale aggirarsi tra i cavalletti distribuendo consigli tecnici sull’uso del chiaroscuro con una mostruosa erezione nei pantaloni. Doveva fermarlo.
 
Si avvicinò al paravento, sporgendosi appena oltre il bordo.
- Scusa Jense… -
 
‘Oh, Cristo. Ma chi sei, Speedy Gonzales?’
 
L’altro, infatti, si era già liberato di tutti gli abiti ed era rimasto con addosso solamente degli aderenti boxer blu. Al momento gli dava le spalle, chinato a sistemare i vestiti sulla sedia, fornendo a Castiel la panoramica widescreen su un sedere a dir poco perfetto.
Quasi si pentì di averlo interrotto.
 
- Problemi? - chiese l’altro raddrizzandosi.
 
‘Guarda che bicipiti… no, non guardarli! NON guardarli!’
 
- Uh, no, è che non abbiamo avuto tempo di discutere del… programma didattico, ecco. -
 
- Bene, dimmi pure… devo mettermi in qualche posizione particolare? - domandò ingenuamente Jensen sfiorandolo per oltrepassarlo, mentre attraversava placidamente l’aula sotto lo sguardo rapace delle studentesse, ancora incredule di fronte a tanta fortuna.
 
‘Benvenuti alla fiera del doppio senso… Dio, non ce la posso fare…’ piagnucolò fra sé e sé Castiel, osservando i muscoli della schiena dell’altro guizzare mentre camminava.
 
Intanto Jensen era salito sulla pedana e aveva agganciato i pollici al bordo dei propri boxer, nell’atto di sfilarseli, mentre tutte le ragazze trattenevano il fiato contemporaneamente, ipnotizzate.
Castiel, ormai ad occhi sbarrati come un gatto in mezzo all’autostrada, agì di puro istinto: afferrato uno dei drappi di tessuto che usavano per la copia dal vero, aveva agguantato Jensen per un polso, frenando la sua iniziativa e generando un mormorio di disappunto da parte della classe.
 
- Fermo! Non… non c’è bisogno che te li levi! Volevo parlarti giusto di questo: per qualche mese ci concentreremo sulla… hem, figura con panneggio. Panneggio… neoclassico! - inventò lì per lì con la forza della disperazione, sotto gli sguardi omicidi del 90% del corso.
 
- Tu... tu mettiti comodo, io sistemerò il tessuto, ok? -
 
Jensen si limitò ad annuire poco convinto, spiazzato dallo strano comportamento del professore, che nel frattempo gli stava posizionando addosso la stoffa come se fosse una sorta di toga, creando di proposito un migliaio di piegoline, almeno le sue studentesse avrebbero avuto qualcosa su cui concentrarsi, invece di stare a sbavare sul suo Splendore.

Durante questo ingrato compito, ogni volta che le sue mani (che non stavano affatto tremando, era colpa di tutto quel maledetto caffé) avevano sfiorato la pelle nuda dell’altro, tranquillo e a suo agio come un enorme gatto, aveva sentito lo stomaco accartocciarsi dal desiderio.
Sopravvivere a quel semestre sarebbe stata un’impresa titanica…
Terminato di drappeggiare il tessuto, Castiel fece un passo indietro per valutare il proprio operato.
 
‘Bene, ora sembra pure un fottutissimo dio greco. Chiederò il trasferimento in Uzbekistan.’
 
Finalmente la lezione iniziò, e a parte intoppi come il dover spiegare ad allievi poco attenti come la linea dell’anca di Jensen fosse più pronunciata di come l’avevano rappresentata, o far notare a ragazze imbambolate che in due ore non potevano limitarsi a disegnare solo un paio di labbra, proseguì relativamente in fretta.
Almeno aveva la scusa per poterlo guardare fino a consumarsi gli occhi, si consolò Castiel, meditando sull’allucinante situazione in cui era precipitato nel giro di poche ore.
 
L’arrivo di Jensen aveva creato uno scompiglio non indifferente ad ogni livello possibile: lui stesso era stravolto, le studentesse non facevano che squittire in preda all’eccitazione ma anche al malcontento, a causa dell’inedita digressione neoclassica presa dal semestre, mentre i pochi, sparuti ragazzi erano entrati in modalità “lasciate ogni speranza o voi che entrate”, meditando all’unisono di trasferirsi in un corso dove insegnanti e modelli assomigliassero a dei normali esseri umani, consci che per quell’anno con le compagne non avrebbero battuto chiodo.

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Capitolo 3
*** METTERSI A NUDO ***


Ringrazio pubblicamente la mia fida Ohmygod (ehi, Giud!!  ^^) per avermi affidato temporaneamente Bei Capelli. Ne avrò molta cura, stai tranquilla, e te lo restituirò lavato e phonato!


METTERSI A NUDO
 
Castiel tentò di filarsela alla chetichella nel preciso istante in cui Jensen tornò dietro al paravento a rivestirsi, sapeva che era maleducato e anche un po’ da vigliacco andarsene a quel modo ma aveva seriamente bisogno d’una boccata d’aria. Stava già attraversando di buon passo il prato antistante il campus quando venne raggiunto da Jensen.
Accidenti, pensò Castiel alzando gli occhi al cielo, aveva sottovalutato la sua inumana velocità nel mettersi e togliersi gli abiti… ma che aveva, i vestiti col velcro come gli spogliarellisti?
 
- Ehi Prof, hai un minuto? Disturbo? -
 
- No… uhm, naturalmente no. Hai bisogno di indicazioni per orientarti nel campus? – tentò di svicolare Castiel.
 
- In realtà volevo chiederti una cosa un po’ personale… ma vedo che sei di fretta… -
 
- No no, tranquillo, sto solo andando a pranzo. Ti unisci a me? Parleremo al bar. - propose il docente senza riuscire a frenarsi, pentendosene all’istante.
 
Una volta seduti uno di fronte all’altro, in attesa delle rispettive ordinazioni, Castiel si decise a chiedere spiegazioni.
 
- Allora… di cosa volevi parlarmi? - domandò cauto.
 
- Di… te, in effetti. Mi sei sembrato molto a disagio oggi, quasi arrabbiato, quando ti sei reso conto che avremmo lavorato assieme. Mi chiedevo se per te fosse un problema o meno, la mia presenza. - rispose Jensen improvvisamente serio e vagamente… stizzito?
 
Castiel si sentì un uomo veramente piccolo. Come aveva potuto? Totalmente preso dal proprio imbarazzo e dalle proprie emozioni, non si era reso conto di essersi comportato oggettivamente come uno squilibrato.
Di certo ad un occhio esterno la sua reazione nei confronti di Jensen poteva essere interpretata in un solo modo, ovvero come infastidita e maleducata (senza contare la fuga di poco prima). Che imbecille.
E dire che generalmente si reputava una persona sensibile e attenta ai bisogni degli altri!
 
Non fece però in tempo a dare una spiegazione perché Jensen proseguì, stavolta con una nota di durezza in più nella voce, interpretando il suo silenzio come l’ennesimo segno d’insofferenza.
 
- Sì, bè, almeno dì qualcosa! Senti, mi dispiace, ok? Ti assicuro che non sono un pazzo, uno stalker o qualsiasi cosa tu abbia pensato di me. Posso giurarti che sono finito al tuo corso per combinazione, e anzi, da domani chiederò di essere assegnato ad un altro docente se la cosa ti infastidisce tanto! Insomma, alla caffetteria sei sempre stato così gentile con me, non capisco… cosa posso averti fatto di così grave nelle ultime ore? - sbottò tutto d’un fiato a voce leggermente troppo alta, le labbra ridotte ad una linea sottile e gli occhi scuriti dalla rabbia trattenuta.
 
La cameriera che era sopraggiunta con le loro ordinazioni, nel mentre, captata l’atmosfera pesante si dileguò, dopo aver quasi lanciato i loro panini sul tavolino da distanza di sicurezza.
 
Entrambi non la degnarono d’uno sguardo.
 
Castiel tentennò davanti a quel nuovo lato aggressivo del suo sogno proibito, sempre così cordiale, ma si riscosse prima che la situazione peggiorasse ulteriormente.
 
‘Castiel, sii uomo’
 
- Scusami. - mormorò con assoluta sincerità, fissandolo dritto in faccia.
 
‘Come ho fatto a cacciarmi in questo casino?’
 
- Davvero, ti prego, scusami. Sono stato un coglione. E’ tutto un equivoco e ho agito senza riflettere… -
 
Jensen venne investito da un’ondata di blu oltremare miscelato a genuino dispiacere che gli smosse qualcosa dentro. Che razza di occhi aveva, questo professor Collins?
 
- Ero agitato per motivi personali, tu non c’entri nulla, te l’assicuro. Mi è solo sembrato bizzarro che, con tutti i corsi, tu fossi finito proprio con me, voglio dire, quante probabilità c’erano? Poi, insomma, è un tantino imbarazzante vedere una persona mentre ti si spoglia davanti senza preavviso - azzardò Castiel, abbozzando un sorrisino sghembo che sperava sottolineasse la sua buona fede.
 
- Bè, dovresti esserci abituato, no? Non sarò di certo il primo modello a mettere piede in una delle tue classi… - commentò per nulla ammorbidito l’altro.
 
- Certo, ma in genere sono perfetti estranei, io e te ci conosciamo! E’ come… come dal dottore! Lì ti spogli con tranquillità perché è un estraneo, ma non faresti la stessa cosa di fronte a tutti i tuoi conoscenti, no? Oh, bè, forse tu sì. - si arrampicò sugli specchi Castiel, improvvisamente a corto di idee.
 
- Uhm, in effetti… se la metti sotto questa luce, la questione ha un senso. Strano, sia chiaro, ma ce l’ha. - ammise infine Jensen dopo alcuni istanti di riflessione, assumendo una postura più rilassata e accennando a sua volta un sorriso.
 
‘Incredibile, aveva abboccato!’
 
 - E comunque hai ragione su tutti i fronti, in fondo io irrompo sul tuo luogo di lavoro tutti i giorni, perché tu non dovresti fare lo stesso? Certo, c’è da dire che io non vengo a prendere il caffè in mutande… - ammiccò Castiel, sperando di mettere così una pietra sopra a tutta la questione.
- A proposito, come mai hai lasciato il posto alla caffetteria per venire a lavorare da noi? Pagavano così male? -
 
- Ma io non ho lasciato il posto alla caffetteria. Ho solo scambiato il turno con quello pomeridiano.
 
- Due lavori? Posso chiederti perché o sono troppo ficcanaso? -
 
- Fondamentalmente, perché sono un idiota poco lungimirante. E’ una lunga storia. -
 
- Allora è una fortuna che abbia ancora parecchio tempo… - lo spronò Castiel allungandosi comodamente contro lo schienale della propria sedia in posizione d’ascolto.
 
Jensen valutò l’altro per qualche secondo, poi si accomodò meglio a sua volta.

- Devi sapere che non sono sempre stato il bravo e affidabile ragazzo che hai di fronte… - iniziò con tono solenne.
 
- Non so perché ma non fatico a crederlo… - insinuò Castiel con un sopracciglio sollevato.
 
- Ah, ah. Comunque mio padre, John, svolgeva un lavoro piuttosto insolito, e io da adolescente invece di studiare mi ero messo in testa di seguire le sue orme. -
 
- Che tipo di lavoro? -
 
- Ok, non ridere… il cacciatore di taglie. -
 
- Come… Renegade? Giura! - ridacchiò Castiel.
 
- Sì, ma senza i capelli da cretino! - ribattè l’altro, fingendo di essersi offeso, per poi continuare in tono più serio.
- Lui era davvero tosto nel suo lavoro, per me era l’uomo con più palle sulla faccia della terra, e naturalmente volevo somigliargli in tutto. Come ogni padre, avrebbe voluto che andassi al college, ma quale sedicenne di fronte alla possibilità di vivere on the road col proprio idolo, maneggiando armi e mangiando schifezze, sceglierebbe di sgobbare sui libri? Mi rifiutai categoricamente di proseguire gli studi e per qualche anno lo seguii nell’attività di famiglia. E poi lui… lui… mentre io… - si rabbuiò Jensen, agitandosi sulla sedia come se proseguire gli costasse uno sforzo enorme.
 
- Ehi, se non ne vuoi parlare non importa… in fondo sono un perfetto estraneo, lo capisco… - lo rassicurò con dolcezza Castiel, sporgendosi verso di lui e posandogli istintivamente una mano sul braccio con aria comprensiva, la testa inclinata in quel modo irresistibile.
 
La mano calda del professore sul suo avambraccio trasmise a Jensen una curiosa sensazione di conforto, come se si conoscessero da sempre e l’altro sapesse perfettamente cosa fare per farlo star bene. Strano.
 
- Scusami. Non ne parlo mai… non sei tu il problema, è solo un ricordo molto doloroso che ho cercato di rimuovere… lui è stato ucciso. Da un truffatore a cui davamo la caccia da mesi, un bastardo che prometteva facili guadagni alle sue vittime e poi spariva nel nulla, portandosi via ogni loro avere. Un sacco di gente si è suicidata per aver perso tutto, ha distrutto intere famiglie… nell’ambiente era conosciuto come “il Demone”, per la sua diabolica capacità di sparire come nebbia al sole e per la sua spietatezza. - spiegò Jensen con sguardo duro.
- Papà era letteralmente ossessionato da quell’uomo, lo abbiamo inseguito per mezza America, sempre ad un passo da lui ma mai abbastanza vicini. E alla fine… lui ha trovato noi… - mormorò poi abbassando lo sguardo, sentendo gli occhi pizzicare.
 
- Cos’è successo? - domandò Castiel sottovoce, tracciando piccoli cerchi col pollice sul polso di Jensen e stringendolo appena più forte per incitarlo a continuare, senza nemmeno rendersi conto di quello che stava facendo.
 
- Quel figlio di puttana mi ha preso, o almeno ci ha provato. Ci ha teso un agguato fuori da un motel… ha aspettato che calasse la notte e mi è saltato addosso mentre uscivo dalla camera per andare a prendere il borsone in macchina. Non aveva previsto che mio padre potesse essere dietro di me… c’è stata una colluttazione ed è partito un colpo di pistola. Io… io non ho potuto fare niente, non ho potuto inseguirlo, non potevo lasciare papà lì da solo… lui… è morto tra le mie braccia, in uno schifoso parcheggio… - terminò Jensen, mentre una lacrima scendeva silenziosa lungo la sua guancia andando a perdersi nella barba sfatta. I suoi occhi arrossati, per contrasto, sembravano ancora più verdi, le iridi tremolanti ingigantite dalle lacrime che premevano per raggiungere la fuggitiva.
 
Non sapeva nemmeno perché diamine stesse raccontando tutte quelle cose personali a uno che conosceva da cinque minuti, né tantomeno come fosse finito a piangere seduto al tavolino di un bar, con la cameriera che non osava più nemmeno transitare dalle loro parti, l’unica cosa che sapeva era che si sentiva stranamente sollevato nel condividere il suo vecchio dolore con questo professore scarmigliato e ansioso, che lo guardava concentrato con i suoi enormi occhi blu, come se davvero gli importasse di capirlo, come se al momento non ci fosse nella sua vita niente di più importante di lui.
Si passò la mano sugli occhi, sbrigativo, per cancellare le lacrime e riprendere un minimo di controllo.
 
Posò lo sguardo sulla mano dell’altro, che ancora stringeva il suo polso, e si accorse con stupore di aver rigirato la propria a palmo in su e di aver afferrato a sua volta il braccio di Castiel.
 
Che - santo cielo - sembrava sull’orlo delle lacrime quanto lui.

Chi diavolo era quell’uomo?
 
- Posso… chiederti quanti anni avevi quand’è successo? - domandò Castiel, sommessamente.
 
- Ventidue. - rispose Jensen, asciutto.
 
- Mio Dio… non riesco nemmeno ad immaginare… dev’essere stato terrificante. Sei… rimasto solo? - chiese ancora, incapace di fermarsi. Ormai era stato ben più che inopportuno, tanto valeva farsi mandare a quel paese.
 
- No, ci ha dato una mano una vecchia amica di famiglia, Ellen, e poi avevo Jared di cui occuparmi. Credo sia stato un bene, sai, perché mi ha impedito di piangermi addosso e lasciarmi andare allo sconforto. Mi ha dato un motivo per andare avanti, per continuare a vivere. - spiegò Jensen, visibilmente sollevato nello spostare il discorso sulle persone a cui voleva bene, alle persone vive.
 
Anche Castiel fu lieto della nuova rotta presa dalla discussione, si sentiva lo stomaco annodato dal dispiacere e al momento l’unica cosa che avrebbe voluto fare sarebbe stata soffocare Jensen in un abbraccio e cancellargli quell’espressione sperduta dal viso.
 
- Quindi questo Jared sarebbe… ? - chiese, sperando di accantonare definitivamente il discorso precedente.
 
- Mio fratello minore, ha quattro anni meno di me ed è… bè, il mio esatto opposto. Lui è un secchione. - spiegò Jensen con aria cospiratoria, con lo stesso tono che avrebbe usato nel rivelare che suo fratello era una spia e un sorriso che trasudava affetto, cosa che intenerì Castiel ancora di più.
 
- Sai che non avrei mai detto che avessi un fratello? Poveretto, come ha fatto a crescere equilibrato con uno come te che entra nelle stanze e si spoglia davanti a tutti? - scherzò Castiel.
 
- Molto divertente… in realtà è cresciuto fin troppo, e siamo piuttosto legati, ma purtroppo non ci vediamo spesso dal momento che è sempre in giro per lavoro: fa il modello anche lui, ma di un genere decisamente più remunerativo del mio… è un armadio alto due metri tutto muscoli e chiome fluenti, l’avrai visto sicuramente su qualche rivista o in qualche spot di prodotti per capelli… -
 
Castiel osservò per qualche istante Jensen, cercando di ravvisare una somiglianza con chiunque potesse aver visto in tv, poi, focalizzandosi sull’improbabile tonalità dei suoi occhi, ebbe un’illuminazione.
 
- No… Bei Capelli! Non può essere… non dirmi che sei il fratello di Bei Capelli!? - sbottò con espressione incredula e compiaciuta allo stesso tempo.
 
- … Bei… Capelli? - ripetè dubbioso Jensen.
 
- Ma sì, quello della pubblicità del balsamo Supernatural, “il balsamo che renderà i vostri capelli lucidi e setosi in maniera soprannaturale”… lo spot dove incenerisce i vampiri solo con la luce abbagliante riflessa dai suoi capelli è strepitoso! Oh mio Dio, devo dirlo a Gabe, lo adora, non crederà mai che conosco il fratello di Bei Capelli… - continuò Castiel, ridacchiando istericamente.
 
- Gabe? -
 
- Ah, sì, Gabriel, mio fratello maggiore. Fratellastro, a voler essere precisi. -
 
- Nemmeno io avevo capito che avessi un fratello… -
 
- Certo che no, non te l’ho detto! In effetti ne ho due, Gabe e Balthazar, entrambi maggiori. Balthazar insegna storia dell’arte a New York, Gabe invece è amministratore delegato di una grossa azienda che produce dolci. Stesso padre, tre madri diverse. - spiegò brevemente Castiel.
 
- Tre? - domandò Jensen, palesemente impressionato.
 
- Eh, diciamo che papà è un tipo… volubile. Forse ha un disturbo dell’attenzione, non so. - riassunse sbrigativamente Castiel.
- E’ un grosso imprenditore, mani in pasta praticamente ovunque, a volte sembra che abbia il dono dell’ubiquità. Ha sempre condotto uno stile di vita piuttosto esclusivo, quindi diciamo che le occasioni non gli sono mai mancate… e ti assicuro che le ha colte proprio tutte. Probabilmente ho una guarnigione di altri fratelli ufficiosi sparsi in giro per il mondo… - terminò Castiel in tono amaro - … ma dimmi di te invece. Oltre a Bei Capelli hai altri parenti? - chiese cercando di risollevare il tono della conversazione.
 
- No, siamo solo io e Jared. La figlia di Ellen, però, Jo, è una sorta di sorella per noi. Forse se mia madre non fosse morta quando lui era piccolo, avremmo avuto altri fratellini, chissà. Lei adorava i bambini… credo che, se avesse potuto, avrebbe messo su una squadra di calcio… - rammentò Jensen in tono malinconico, poi incrociò di nuovo lo sguardo dispiaciuto di Castiel che lo fissava con empatia.
Evidentemente non c’era modo di riportare la conversazione su binari che non straziassero il cuore ad entrambi.
 
- Scusa, non... non so nemmeno io perché ti sto raccontando le mie miserie, non volevo incupirti. So che suona assurdo ma con te mi viene spontaneo parlare come se ti conoscessi da anni… forse perché sei uno che ascolta davvero le persone, quando domandi qualcosa si vede che ti interessa sul serio la risposta. E’… una cosa rara. - ammise Jensen, incespicando un po’ sull’ultima parte.
 
‘Ma che cazzo di cose sdolcinate e imbarazzanti stai dicendo? Ad un uomo, poi!’
 
Castiel arrossì leggermente, non si era reso conto che l’altro lo stesse valutando così attentamente, ma fu comunque felice delle conclusioni che aveva tratto su di lui.
 
- Figurati, sempre pronto ad essere incupito! - tentò di scherzare per alleggerire l’atmosfera.
- Mi… lusinga che tu ti sia fidato abbastanza di me da raccontarmi il tuo passato. E’ una bella cosa avere fede negli altri, sai? Nulla di cui vergognarsi. - concluse con un sorriso rassicurante.
- Comunque alla fine non mi hai più detto come sei finito a fare il modello nel mio prestigioso corso… -
 
- Hai ragione. Bè, tagliando corto, dopo aver perso mio padre dovetti tirarmi su le maniche per mantenere me e Jared, non volendo pesare su Ellen. Di continuare a fare il cacciatore non se ne parlava, così ho fatto praticamente ogni lavoro che mi sia capitato, dal carpentiere al meccanico. A quel punto ho cominciato a rivalutare l’importanza del “pezzo di carta”, ma ormai quel treno era passato… - confessò con una punta d’imbarazzo.
- Ho sempre avuto certa passione per l’arte e negli anni mi sono arrangiato come meglio potevo con corsi serali e manuali tecnici, ma niente può sostituire la pratica costante, temo. Non avendo il tempo materiale per frequentare le lezioni in Accademia ho pensato che fare il modello fosse un buon modo per poter assistere alle lezioni di pittura e assorbire informazioni utili, in più pagato… e non dirlo a nessuno, ma ogni tanto riesco ad imbucarmi alle lezioni di storia dell’arte! - confessò.
 
Più Jensen parlava, più Castiel si sentiva un vero privilegiato della sorte, e la stima nei confronti del ragazzo schietto e determinato che aveva di fronte cresceva.
 
- Questo sì che si chiama unire l’utile al dilettevole! Quindi dipingi? - domandò sorpreso.
 
- Dipingo è una parola grossa… scarabocchio, insomma ci provo, ma nel loculo dove vivo non ho molto spazio per lavorare… -
 
- Uhm, uno di questi giorni dovresti visitare il mio studio, potrei dare un’occhiata ai tuoi lavori, se ti va. -
 
- Certo che mi va, anzi, ci terrei davvero molto ad avere un parere professionale! - replicò Jensen pieno d’entusiasmo, prima di gettare uno sguardo all’orologio sulla parete di fronte a loro.
 
- Oh porc… sono in ritardo per il turno! Scusa Prof, devo scappare o nel regno della caffeina mi obbligheranno a fare l’inventario! - esclamò alzandosi di scatto e dirigendosi a tutta velocità verso l’uscita del locale - Ti devo un hamburger! - urlò praticamente da oltre la porta, prima di sparire con un sorriso.
 
Castiel rimase al tavolo, piacevolmente inebetito di fronte a due panini intonsi, ancora per un po’.

 
N.D.A.

Siccome sono la solita cafona, mi sono ricordata solo ora di ringraziare tutte le persone che hanno letto, recensito e inserito la storia tra le seguite o le preferite: GRAZE A TUTTE!
Abbiate pazienza con me  °__°

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Capitolo 4
*** CASA DOLCE CASA ***


CASA DOLCE CASA

 


Durante le due settimane seguenti, Castiel ebbe modo di abituarsi gradatamente alla presenza in aula del suo sogno proibito, anche se non si sarebbe mai assuefatto alla bellezza di quel corpo che non riusciva a smettere di guardare di nascosto.
 
Perlomeno non era più così tragicamente agitato, anche se probabilmente il miglioramento era da imputarsi al fatto che non trangugiasse più ettolitri di caffè per poter vedere Jensen, più che ad un effettivo acquietarsi dei suoi nervi.
Ogni giorno facevano quattro passi nel campus dopo le lezioni, o andavano al bar insieme per un boccone veloce prima di tornare ai rispettivi impegni, ma sempre parlando di argomenti neutri, non c’erano più state discussioni personali come la prima e soprattutto Jensen non aveva più accennato alla fantomatica visita al suo studio. Forse aveva accettato per cortesia e ora si stava defilando, o magari era solo educato e attendeva un invito…
 
- Jensen hai da fare oggi? - chiese Castiel mentre si avviavano in corridoio dopo la lezione..
 
- No, oggi ho il giorno di riposo in caffetteria, perché? -
 
- Pensavo che potresti venire da me per dare un’occhiata allo studio… se ti va, naturalmente. - 
 
- Oh, cielo, credevo che non me l’avresti più chiesto! - rispose teatralmente Jensen sghignazzando, portandosi il dorso della mano alla fronte e simulando uno svenimento.
 
- Guarda che me lo potevi anche domandare tu, eh. -
 
- Sono un ragazzo d’altri tempi, io! Voglio essere invitato! - continuò la sua scenetta Jensen.
 
- Gesù… sarebbe un sì quello? - domandò l’altro massaggiandosi la nuca.
 
- Andiamo con la mia macchina. Ti piacerà! - propose il ragazzo.
 
Non fecero in tempo a percorrere un metro che vennero interrotti da una voce suadente e, bè, fastidiosa, alle loro spalle.
 
- Oh, guarda un po’ chi c’è. Ciao imbrattatele, chi è il tuo amichetto? -
 
I due si voltarono contemporaneamente, trovandosi faccia a faccia con una giovane donna minuta e dall’aria strafottente.
 
- Buongiorno Meg… - sibilò Castiel a denti stretti - Meg, ti presento Jensen, il modello del mio corso. Jensen, Meg Masters. -
 
Jensen tese la mano, che rimase a mezz’aria mentre Meg la osservava con sufficienza, scegliendo poi d’ignorarla, squadrandolo nel frattempo da capo a piedi come se stesse decidendo quanto alta farsi tagliare una bistecca.
 
- Mhhhhh… niente male, anche se non sei esattamente il mio tipo… - valutò, riportando lo sguardo su Castiel. - Ora capisco perché non si parla d’altro che del tuo corso. A proposito, come va? - domandò con voce melliflua.
- I tuoi Picasso in erba hanno già imparato a fare i cerchietti e le asticelle? I miei stanno lavorando a una rielaborazione in chiave moderna delle illustrazioni fatte da Dorè per la Divina Commedia… al momento sono fermi all’Inferno. - lo informò provocatoria.
 
- I tuoi allievi sono sempre all’inferno, Meg. - la gelò Castiel.
 
- Touché. - incassò lei con un sorriso lascivo - Ora devo andare… ricorda che mancano pochi mesi all’esposizione! - sottolineò ad alta voce allontanandosi sculettando.
 
- … -
 
- Ma chi cazzo è quella strega? - domandò Jensen allibito.
 
- Meg insegna incisione, giù nelle aule del seminterrato. Mi detesta dal giorno in cui ho messo piede qui, anche se non capisco bene il perché, probabilmente tutti i solventi che maneggia devono averle brasato il cervello. Stai attento a lei, e se la incontri da solo scappa, mentre ti chiede l’ora potrebbe rubarti un rene. O il fluido vitale. - ironizzò, senza troppa convinzione, il professore.
 
Jensen soffocò una risata.
 
- Prof, credo proprio che quella voglia il tuo, di… hem… fluido vitale!
 
- Che stai dicendo? -
 
- Che la strega ti vuole, ovviamente. Si vede lontano un chilometro! Come fai a non accorgertene? - domandò Jensen incredulo di fronte all’ingenuità del suo amico.
 
- Ma figurati. -
 
- Dammi retta, conosco quello sguardo… -
 
‘ Non credo, se no fuggiresti urlando…’
 
- Come credi, ma quando troveranno il mio cadavere in uno dei vasconi dell’acido giù di sotto non dire che non te l’avevo detto. Allora, questa macchina? - domandò Castiel una volta nel parcheggio.
 
- Ce l’hai di fronte. - disse Jensen con la voce gonfia d’orgoglio, indicando un vecchio modello della Chevrolet perfettamente restaurato a pochi metri da loro.
 
- Wow, e io che credevo che fossi il tipo da Suv… è bellissima. E’ un’Impala, vero? - chiese aggirando lentamente il cofano e accarezzando la lucida carrozzeria nera.
 
- Del ’67. Il più bel regalo che mio padre mi abbia mai fatto. E non prenderti troppe confidenze con la mia Piccola, giù quelle mani! -


 
- Dove ti porto? - chiese Jensen una volta in strada.
 
- Back Bay, al 247 di Clarendon Street, ma tanto suppongo che tu non abbia il navigatore… ti guido io. - sorrise Castiel.
 
Dopo una ventina di minuti parcheggiarono in una via residenziale composta da edifici colorati alti un paio di piani.
La casa di Castiel era rivestita di mattoni, con gli infissi azzurro polvere e un piccolo giardino sul retro, circondato da alte siepi sui lati.
Quando il padrone di casa riuscì a trovare le chiavi nelle tasche del trench e ad aprire finalmente la porta, Jensen si fermò titubante sulla soglia.
 
- Cos’è, stai aspettando che ti inviti ad entrare come un vampiro? - sogghignò Castiel - Ora non ti metterai mica a luccicare, eh? - lo prese in giro sparendo all’interno.
 
Jensen non poteva confessargli che aveva paura di entrare perché non voleva restare deluso.
Reso diffidente dalla vita e convinto sostenitore della teoria secondo cui dalla casa di una persona si può ricavare molto della personalità del proprietario, non voleva doversi ricredere su Castiel.
 
Gli piaceva quell’uomo, gli era stato simpatico dal primo istante, con quell’aria scarmigliata e perennemente confusa, e gli era piaciuto anche di più quando aveva avuto modo di conoscerlo meglio.
Sperava ardentemente che la meravigliosa spontaneità di Castiel non fosse tutta una facciata, aveva avuto un sacco di delusioni in tal senso negli anni, persone che si erano rivelate tutto il contrario di come volevano apparire, motivo che stava alla base del suo avere pochi e selezionatissimi amici.
 
Trattenendo il fiato come se stesse per effettuare un’immersione in apnea, entrò.
Si trovò in un corridoio/anticamera reso luminoso dall’intenso giallo crema delle pareti, da cui partiva una scala bianca che conduceva al piano superiore.
Alla sua destra c’era la cucina (turchese!), affacciata sulla sala da pranzo in una sorta di open space ricavato grazie ad un grande bancone a vista, su cui al momento era seduto Castiel intento a spulciare la posta che aveva raccolto entrando.
I mobili di entrambi gli ambienti erano un’allegra accozzaglia di colori e stili, frutto dell’accostamento tra moderno e recuperato, e creavano un’atmosfera bohemienne accogliente e informale. Un confortevole disordine regnava un po’ dappertutto, dando all’ambiente un’aria vissuta e gioiosa.
 
Era esattamente come Jensen aveva sperato che fosse, era esattamente come Castiel: allegra, un po’ incasinata e, per un occhio attento ai dettagli, intrigante e piena di sfaccettature.
 
- Prenderesti due birre in frigo, per favore? Dò un’occhiata alle bollette e sono da te. L’apribottiglie è nel primo cassetto. - lo avvisò il professore senza alzare gli occhi dalla corrispondenza.
 
A Jensen fece piacere non essere trattato come un’ospite ma come un amico di vecchia data, senza convenevoli e inutili formalismi. Recuperò le birre dal frigo ricoperto di buffe calamite e dopo averle stappate ne porse una a Castiel, ancora appollaiato sul bancone. L’altro fece tintinnare la propria bottiglia sulla sua.
 
- Al duro prezzo dell’arte? - propose ridendo.
 
- Assolutamente! - confermò Jensen, prendendo una lunga sorsata.
 
- Allora, come avrai già notato da solo questa è la cucina, lì c’è la sala da pranzo e… - si interruppe per saltare giù dalla sua postazione e dirigersi di nuovo nell’ingresso, aprendo una seconda porta - …questo è il mio studio! - annunciò Castiel con un certo orgoglio nella voce, introducendo Jensen in una sorta di lungo salottino ingombro di tele addossate alle pareti e permeato da un lieve sentore di colori ad olio e trementina.

Sulla parete di sinistra trovavano posto delle librerie stracolme, mentre il resto dello spazio verticale era uniformemente ricoperto da fogli, bozzetti, stampe e post-it piuttosto criptici appesi in un caotico mosaico.
Due divani consunti e dall’aria comoda formavano un angolo accanto a un basso tavolino su cui stazionava un laptop costellato da ditate colorate e una serie pressoché infinita di barattoli, tubetti e scatole di pastelli.
Poco oltre c’era il grande cavalletto posizionato in favore di luce, e infine la stanza terminava in un minuscolo bow window affacciato sul giardino, da cui entrava la luce radente del tardo pomeriggio, inondando d’oro l’intero ambiente.
 
Quella stanza era magnifica.
 
Jensen si trovò immediatamente a proprio agio in quell’allegro casino, diamine, avrebbe potuto viverci lì dentro!
 
- E’… fantastico, sul serio… - confessò ammirato, guardandosi attorno con curiosità.
 
L’occhio cadde inevitabilmente sulle varie tele addossate le une alle altre, tutte caratterizzate da un particolare che saltava immediatamente all’occhio: ali.
 
- Sono tutti… -
 
- Angeli? Sì, li sto preparando da quasi otto mesi per una mostra, anche se al momento sono un po’ bloccato… come vedi sono quasi tutti rappresentati di spalle o con il viso in ombra. -
 
- Come mai? -
 
- Diciamo che non ho ancora trovato un volto che possa rappresentare la mia idea dell’essenza angelica. Il mio modello, Michael, non ci si avvicina nemmeno lontanamente. -
 
- Sono comunque splendidi, dico davvero. Trasmettono una grande emozione, non avevo idea che fossi così bravo… - confessò Jensen, sfiorando con deferenza la superficie lucida di un dipinto ormai asciutto.
 
- Uhm, non so se offendermi o sentirmi lusingato… - ironizzò l’artefice di quelle opere.
 
- Sai perfettamente cosa intendevo, stai solo cercando di scucirmi altri complimenti! In ogni caso sei davvero fortunato a possedere un simile talento e un posto del genere per dipingere, nel mio appartamento credo che non entrerebbe nemmeno il cavalletto! -
 
- Fallo qui, no? - disse tranquillo Castiel, come sa la cosa fosse ovvia.
 
- Cosa? -
 
- Dipingi qui. A te serve lo spazio. Io ce l’ho. Dipingi qui. -
 
- Ma… mi conosci a malapena… - obiettò debolmente Jensen, tentatissimo dalla proposta.
 
- Ti conosco quel tanto che basta. Mi casa es tu casa! - rise Castiel, rendendosi conto che avrebbe potuto consegnargli le chiavi seduta stante, senza il benché minimo pensiero. Gliel’avrebbe pure intestata, la casa, pur di vederlo lì.
 
- Bè… ti ringrazio, ma non saprei come pagarti l’affitto dello studio… - balbettò Jensen, spiazzato di fronte a tanta spontaneità.
 
- E chi ha mai parlato di affitto? -
 
- Di sicuro non potrei stare qui gratis. Mio padre mi ha sempre detto che un patto non è un patto se non si dà qualcosa in cambio, e io sono d’accordo con lui. -

Riflettè per alcuni secondi.

- Senti… accetteresti un pagamento in natura? -
 
Castiel quasi sputò la birra che stava ancora bevendo, rischiando di soffocare.
 
‘Cristo!’
 
- In… natura? Cosa intendi con… hem… natura? -
 
- Potrei posare per te. Così non dovresti pagare un altro modello, che ne pensi? Può bastare? -
 
‘Basta e avanza… Cass, dì di sì, idiota, dì di sì!’
 
- Non ti sembra un po’ impegnativo dedicarti ad un terzo lavoro? -
 
‘Ma sei scemo? Accetta!’
 
- Stare immobile per un paio d’ore chiacchierando con un amico in un bel posto non lo considero esattamente un impegno sfiancante, e poi potrò osservarti lavorare, credo che imparerei tantissimo... -
 
- Se la metti così, accetto volentieri. Almeno mi libererò di Michael una volta per tutte. E’ un bravissimo modello e ha un bel fisico, ma sinceramente non ho mai sopportato la sua spocchia. -
 
- Quindi è andata? - domandò Jensen sollevando la destra a mezz’aria.
 
- Andata! - confermò Cass battendogli il cinque.

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Capitolo 5
*** A TU PER TU ***


A TU PER TU

 
Il weekend arrivò in un attimo e altrettanto velocemente passò, e Castiel ne approfittò per fare training autogeno, completamente sopraffatto dall’idea che Jensen avrebbe posato per lui.
A casa sua.
Loro due da soli.
E non aveva dovuto nemmeno chiederglielo, si era offerto da solo!
 
Michael c’era rimasto un po’ male quando gli aveva annunciato di non avere più bisogno di lui, e in effetti Castiel avrebbe dovuto provare un minimo di rimorso per averlo scaricato senza nemmeno un po’ di preavviso, ma la verità era che non gliene fregava assolutamente nulla, quell’antipatico sarebbe potuto sparire in una voragine nel terreno e non riemergere mai più, per quello che lo riguardava.
 
Lui aveva Splendore!
 
Ora doveva solo trovare il modo di non svenirgli sui piedi o farsi beccare a sbavare come un labrador, e tutto sarebbe filato liscio.
Dopo uno stop di parecchi mesi dedicò il pomeriggio allo yoga, sua pratica storica, facendo esercizi di respirazione profonda e piegandosi come un origami in improbabili “posizioni rilassanti” che ebbero come unico risultato mezza lussazione e un indolenzimento generale che si propagò fino alla radice dei capelli a causa della prolungata inattività, ma che lo fece addormentare sfinito alle dieci di domenica sera.
 
Affrontò l’arrivo del lunedì mattina in preda all’entusiasmo (con un lieve retrogusto d’isteria), sfoggiando il sorriso di Jack Nicholson in Shining mentre si recava in aula, almeno a giudicare dagli sguardi preoccupati degli studenti che incrociò in corridoio.
 
La lezione trascorse in una sorta di trance, la mente già proiettata al pomeriggio che lo aspettava con Splendore, mentre l’ansia guadagnava terreno, nonostante l’essersi quasi disarticolato una spalla il giorno precedente nel tentativo di raggiungere il Nirvana e con esso la pace dei sensi.
 
Forse sarebbe stata meglio un po’ di sana masturbazione.


 
Dopo la lezione si avviarono con la macchina di Jensen come la volta precedente, e senza quasi rendersi conto di come ci era arrivato, Castiel si trovò fuori dalla propria porta di casa, con l’amico al seguito.
 
- Vuoi qualcosa da bere? - offrì il professore una volta dentro.
 
- No, grazie, lavoriamo finché c’è il sole. Dove devo posare? -
 
- Laggiù in fondo, accanto alle finestre c’è una bellissima luce a quest’ora. - suggerì Castiel.
 
- Prof? -
 
- Mh? - rispose distrattamente Castiel, mentre radunava il materiale da disegno.
 
- Vuoi che mi tolga i vestiti? -
 
Castiel deglutì, prima di alzare gli occhi e incontrare quelli imperscrutabili di Jensen, che l’osservava serio.
 
Per qualche secondo una strana tensione riverberò tra loro, creando un’atmosfera sospesa e irreale che privò Castiel dei neuroni necessari a formulare un pensiero coerente.
Per un brevissimo istante gli era sembrato di vedere qualcosa sul fondo degli occhi dell’altro… cioè, non era possibile…
 
- N… no, Jens. Oggi vorrei solo farti un paio di ritratti. - concluse, recuperando un blocco di fogli da uno scaffale e cercando di mantenere la calma.
 
- Siediti lì. - disse indicando la panchetta che correva sotto il bow window - Mettiti di tre quarti, voltato verso il giardino. Non guardare me. -
 
Jensen fece come indicato e non appena il suo viso, assorto e concentrato, venne investito dalla luce infuocata del tardo pomeriggio, Castiel restò inebetito.
 
Il verde dei suoi occhi, colpito direttamente dai raggi del sole, aveva assunto una tonalità irreale, le labbra risaltavano armoniose e definite come quelle di una scultura classica, la pelle perfetta tesa sugli zigomi cesellati… Jensen possedeva quel genere di bellezza commovente e senza tempo in grado di fermare il cuore a Castiel.
 
L’immagine che aveva cercato invano per mesi gli si parò semplicemente e spontaneamente davanti.
 
Eccola lì, forte e splendida, la sua creatura celeste.
 
‘Ho trovato il mio angelo’ pensò incredulo, mentre un sorriso si faceva strada sul suo viso, la matita che volava leggera sul foglio per bloccare quel momento magico prima che potesse scivolare via.
 
- Ehi Jens, credo… sì, credo che i miei angeli potranno finalmente smettere di voltare le spalle al mondo… - mormorò osservando il blocco con un sorriso meravigliato, senza riuscire a mascherare l’emozione.
 
- Sul serio? -
 
- Assolutamente. -
 
Jensen annuì in silenzio, limitandosi a sorridere sornione per la mezz’ora seguente.
 
Terminata la sessione di posa, con il sole ormai troppo basso all’orizzonte per poter continuare, Castiel si allontanò per andare a prendere qualcosa da bere, e Jensen non resistette alla tentazione di dare una sbirciata al blocco da disegno abbandonato sul divano.
Quello che vide lo lasciò di stucco.
Pur essendo solo una bozza, il disegno era perfetto in ogni dettaglio, e il professore si era concentrato in particolar modo sugli occhi… a cui aveva regalato un’intensità e profondità sconvolgente.

Quello era lui, certo, ma era anche… di più.
 
Davvero Castiel vedeva tutto questo, in lui?
Era come se fosse andato oltre, come se gli avesse scrutato l’anima, come se l’avesse spogliato di tutto il superfluo, delle sue maschere, e avesse rivelato la parte più intima di lui.
 
Si sentì improvvisamente nudo, molto più esposto di quando posava.
 
Cass sembrava riuscire a leggergli dentro, e la cosa gli provocava una vago senso di inquietudine ma lo faceva anche sentire stranamente… accettato.
Quel ritratto diceva “riesco a vedere come sei davvero, e va bene così”.
 
Posò il blocco, felice di averlo rincorso dopo la sua prima lezione, felice di aver proposto il loro strambo accordo, felice di aver conosciuto una persona speciale come Castiel.
 
Il quale tornò in quel momento con due birre ghiacciate in mano, ignaro che quello sarebbe ben presto diventato uno dei loro riti, sprofondando poi nel divano.
 
- Jens, toglimi una curiosità: non è la prima volta che fai il modello, vero? -
 
- No, in effetti, come l’hai capito? -
 
- Prima di tutto, perché sei bravo. Intuisci istintivamente come posare, quando puoi muoverti e quando invece no. In secondo luogo… diciamo che non sei esattamente il ritratto della timidezza! Ogni tanto mi capitano in classe dei modelli alle prime armi che entrano con la loro aria da sbruffoni e poi, quando si trovano una trentina di paia d’occhi puntati addosso, si appallottolano come ricci… - ridacchiò Castiel.
 
- Quindi io… avrei conservato intatta la mia aria da sbruffone? - domandò inarcando esageratamente un sopracciglio.
 
- Ehm… mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Piuttosto, sei pronto per il test? - sogghignò Castiel con aria misteriosa.
 
- Test? -
 
- Dai, fammi giocare! Lo faccio a tutti i miei allievi, per capire se abbiamo gusti compatibili. Allora, spara: artisti favoriti e perché. -
 
Jensen si prese qualche istante per riflettere.
 
- Uhm… Caravaggio e Dalì per… direi per il chiaroscuro… -
 
‘Cinquanta punti.’
 
- … Klimt, Mucha e tutta l’Art Nouveau per lo stile e l’eleganza…
 
‘Accidenti, duecento punti.’
 
- …Canova e Rodin come scultori… -
 
‘Cinquecento punti. Ci mancava solo che avesse gusto!’
 
- … Hopper e Hayez per l’uso della luce e del colore. - terminò Jensen.
 
‘Ok, sei nella stratosfera.’
 
- Gli impressionisti? - domandò Castiel a tradimento.
 
- Sopravvalutati. -
 
- Andy Warhol? -
 
- E’ solo zuppa. -
 
‘Dovrei tramortirlo, portarlo a Las Vegas e sposarlo mentre è ancora incosciente…’
 
- Dovremmo andare a vedere una mostra insieme, uno di questi giorni… -
 
‘Magari a Las Vegas…’
 
- Oh sì! - replicò Jensen con entusiasmo - Non ne posso più di girare per musei da solo! A volte è anche piacevole, ma sarebbe bello avere qualcuno con cui scambiare qualche opinione, ogni tanto. - disse abbandonando il divano e portandosi verso le librerie per curiosare, seguito a ruota dal padrone di casa.
 
- Wow… - esclamò, arrivando di fronte agli scaffali pericolanti sotto il peso di centinaia di volumi: cataloghi di mostre, manuali tecnici, monografie e decine di quei patinatissimi libroni che la gente tiene ad impolverarsi sul tavolino del salotto per ostentare una cultura fittizia, ma che nel caso di Castiel erano stati evidentemente molto consultati e molto amati.
 
- Prof, è pazzesco, potresti far concorrenza alla biblioteca dell’Accademia! - disse Jensen, sfilando un libro da un ripiano e sfogliandolo distrattamente, appoggiandosi con la schiena alla libreria.
 
- Questo è il risultato di vent’anni di ricerche, mostre, viaggi ed esami. E’ il mio tesssoorooo… - scherzò Castiel avvicinandosi, occhi spalancati e mani ad artiglio nella sua migliore imitazione di Gollum.
 
Jensen l’osservò interdetto per un attimo, per poi scoppiare a ridergli, poco gentilmente, in faccia.
 
- Oddio Cass, fai veramente pena come imitatore! Che orrore! Fortuna che non lo fai per vivere! - esclamò con le lacrime agli occhi.
 
‘Cass?’

- Vada per gli occhioni, ma hai decisamente troppi capelli per essere credibile come Gollum! -
 
Capelli che, senza pensare, Jensen si trovò ad arruffare selvaggiamente, continuando a sghignazzare.
 
Gli occhi di Castiel, non appena il suo cervello processò il gesto dell’amico, si spalancarono conferendogli un’espressione stupefatta che non sfuggì all’altro, inchiodandolo a metà del gesto. Ritrasse lentamente la mano dalla massa soffice e sconvolta, dandosi mentalmente dell’imbecille.
 
- Cosa diavolo stai facendo… - mormorò Castiel, serissimo, gli occhi ridotti a due fessure.
 
- Ah, io… bè, io… scusa Prof, non… - balbettò Jensen in preda all’imbarazzo.
 
Le labbra di Castiel tremolarono appena, piegandosi impercettibilmente all’insù.
 
- Me la pagherai…- sogghignò avvicinandosi con aria minacciosa all’amico.
 
Jensen finalmente registrò lo scherzo, e cominciò ad indietreggiare lentamente, per poi lanciarsi in una folle corsa attraverso lo studio. Aggirò il tavolo e riuscì a saltare al volo un divano, ma Castiel si esibì in un placcaggio da manuale, atterrandolo e rovinandogli addosso con tutto il suo peso.
 
- Ahia! Ma sei pazzo? Se mi rompi una costola poi te lo scordi che posi per te! - ululò Jensen con le lacrime agli occhi, tentando debolmente di divincolarsi.
 
- Esagerato! Io non saprò fare le imitazioni, ma tu corri come una ragazzina… - replicò Castiel, tra una risata e l’altra.
 
- Bastardo… - ringhiò Jensen senza convinzione.
 
- Ragazzina. - replicò Castiel con un ghigno malefico.
 
Restarono a guardarsi semplicemente negli occhi, ridacchiando, mentre l’euforia poco a poco scemava lasciando il posto ad un silenzio pesante.
 
Jensen osservava l’amico che riprendeva fiato ad una manciata di centimetri da lui, labbra socchiuse e capelli scarmigliati sulla fronte, trovando stranamente confortevole il peso del corpo che schiacciava a terra il suo, senza provare fastidio o imbarazzo.

Era… strano che non fosse strano.
 
Castiel, guardando Jensen sotto di sé, affannato per la corsa e con gli occhi lucidi per le risate, pensò di non aver mai visto niente di più bello… e dovette farsi violenza per non chinarsi a baciarlo, realizzando allo stesso tempo che avrebbe dovuto rialzarsi con una certa urgenza, prima di ritrovarsi con un’imbarazzante e difficilmente giustificabile erezione nei pantaloni.
 
Restarono immobili, ognuno in attesa che l’altro facesse o dicesse qualcosa, il concetto di “spazio personale” momentaneamente accantonato, assieme alla logica e alla razionalità.
E probabilmente all’eterosessualità.
 
A salvarli dall’impasse scattò la provvidenziale segreteria di Castiel, sempre inserita durante le sessioni di lavoro, diffondendo nell’aria una voce piuttosto petulante.
 
‘Ehi Castiel? Cassy? Ci sei? No, non ci sei… oppure non vuoi rispondermi perché conosci il motivo della chiamata? Di sicuro non stai facendo sesso, figuriamoci… oh, bè, sappi che ti aspettiamo per la riunione della nostra splendida famigliola, ti ho già prenotato un volo in prima classe per il 23 mattina, quindi vedi di non inventarti epidemie di colera o invasioni di pupazzi di neve killer come l’anno passato, ok? Gabe ha già confermato e Anna tornerà appositamente da Kyoto, per cui non fare cazzate. Devo presentarti la tenore che ho conosciuto il mese scorso… ha delle tette incredibili! Chiamami!’
 
Castiel rotolò a fianco di Jensen, all’improvviso di pessimo umore pensando al supplizio che incombeva su di lui.
 
- Era…? -
 
- … Mio fratello Balthazar. Benvenuto nel mio incubo privato. Mi tocca andare a New York per le feste… non posso credere che dovrò passare una settimana o forse più in quella gabbia di pazzi, fortuna che ci sono zio Bobby e Anna o mi ritroveranno impiccato da qualche parte con il filo delle luminarie… tu invece hai dei progetti per Natale? -
 
- Anch’io raggiungerò mio fratello, credo che passeremo le feste da Ellen in South Dakota come ogni anno. Birra, maglioni imbarazzanti, zabaione e canzoni moleste… il solito tran tran… -
 
- Appena torno ti chiamo, ho l’orrendo presentimento che avrò un gran bisogno di ritrovare il contatto con la realtà… - mugugnò Castiel sconsolato.
 
- Chiama quando vuoi, e se proprio non ce la fai più scappa, ok? Ti vengo a prendere in aeroporto!
 
- Non tentarmi, ti prego… -
 
- Piuttosto, è meglio che vada, si è fatto tardi... - disse Jensen dopo essersi rialzato dal pavimento, avviandosi verso l’uscita e recuperando la giacca.
 
Il professore realizzò in quel momento che, con le vacanze di Natale di mezzo, sarebbe passato un bel po’ prima di riuscire a rivedere Splendore, imprecando mentalmente con espressioni assai poco festose.
 
- Allora… ciao Prof, passa un buon Natale… - farfugliò Jensen sulla soglia, impacciatissimo, dondolando sul posto di fronte a Castiel, intento a guardarsi appassionatamente i piedi.
 
‘Oh, al diavolo!’ pensò quest’ultimo, abbracciandolo di slancio, abbastanza forte da stritolarlo. Dopo un paio di secondi anche le braccia dell’altro si mossero titubanti per stringerlo e dargli qualche leggera pacca sulla schiena.
 
- Mi mancherai, Jens… - mormorò tristemente il professore sulla spalla dell’amico.
 
- Anche tu, Cass. - sussurrò Jensen, staccandosi da lui per scendere i gradini e avviarsi verso la macchina a testa bassa.
 
Furono i dieci giorni più lunghi della vita di Castiel.



NDA: grazie mille a chi sta seguendo zitta zitta, a chi ha inserito la storia tra le preferite o le ricordate, a chi continua stoica a recensire e a tutte le persone che hanno perso anche solo 10 minuti sui miei deliri!  :D

 
 

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Capitolo 6
*** MY HEART WILL GO ON ***


MY HEART WILL GO ON


 
Dopo le feste, Castiel fece ritorno a Boston portandosi appresso una serie di drammi familiari nuovi di zecca e un principio di esaurimento nervoso, che però vennero accantonati completamente nel preciso istante in cui Splendore varcò la soglia di casa sua.
Ripresero sia con le lezioni del mattino che con le loro sedute pomeridiane, rafforzando giorno dopo giorno la loro amicizia ed instaurando una sorta di placida routine.
 
Consolidando quella che era ormai diventata abitudine, Jensen posò per un’oretta e mezza sotto lo sguardo concentrato di Castiel, con la musica dei Metallica a riempire il silenzio dello studio. Quando infine l’altro posò blocco e matita, si alzò stiracchiandosi scompostamente.
 
‘E’ proprio un gattone gigante…’ pensò Castiel per l’ennesima volta.
 
- Birra? - propose il professore.
 
- Lascia, vado io, così mi sgranchisco le gambe. - lo anticipò Jensen, dirigendosi pigramente verso la cucina mentre recuperava la maglietta dal bracciolo del divano per rivestirsi.
 
Castiel, osservando l’altro che, scalzo e con addosso solo dei jeans, si trascinava nell’altra stanza, non riuscì a capacitarsi della naturalezza con cui Jensen si era insinuato nella sua vita, razzolando in casa sua e frugando nel suo frigorifero come se si conoscessero da sempre, come se fosse sempre stato lì, come se fosse il pezzo che mancava al puzzle della sua vita…
I suoi pensieri furono però interrotti dalla voce divertita di Jensen, ancora nella stanza attigua.
 
- Ehi prof! Mi spieghi cosa ci fa la versione extralusso 3D di Titanic appoggiata sul forno? – domandò rientrando nello studio e brandendo un enorme cofanetto dvd come fosse un’arma.
 
- Volevo usarla come combustibile… - sospirò Castiel - … a parte gli scherzi, me l’ha regalato Balthazar per Natale. Lo adora. Non chiedere. -
 
Jensen soppesò l’oggetto tra le mani per qualche secondo.
 
- Lo guardiamo? -
 
- Stai scherzando… - ribattè il professore.
 
- Dai, sono l’unico essere umano sulla faccia della terra a non averlo mai visto! Quando è uscito giravo l’America cacciando ladri e assassini, ho avuto un’adolescenza di stenti, io… pizza e film, che dici? - chiese ancora, speranzoso, sfoderando l’espressione da cucciolo delle grandi occasioni.
 
Castiel si fece circuire in tre secondi netti, non si sarebbe fatto sfuggire una serata con Splendore, nemmeno se avesse voluto fare la maratona con l’intera saga di Twilight!
 
- Ok, ok, ma questa versione rimasterizzata dura tipo… 17 ore, ne dovremo ordinare almeno sei, di pizze. -
 
- Allora sarà meglio che telefoni subito! - sorrise l’altro trionfante, correndo in cerca del depliant di Paradise Pizza che aveva intravisto attaccato allo sportello del frigo.
 
Alla fine, il film si rivelò meglio di come Castiel lo ricordava, e la serata fu estremamente piacevole: lo guardarono spaparanzati sul divano, piedi sul tavolino, cartone della pizza in grembo e birra gelata sul pavimento, scherzando e commentando ogni passaggio.
 
Almeno fino alla celebre scena in cui Jack ritrae Rose nuda.
 
Castiel ammutolì e non potè in nessun modo evitare che i parallelismi con la loro situazione non raggiungessero i suoi neuroni sovraeccitati, suggerendogli una delirante visione di Jensen completamente nudo, sdraiato sullo stesso divano dov’erano seduti, con addosso solamente il Cuore dell’Oceano…
Avvertendo un’incontrollabile euforia risvegliarsi nei propri jeans, arrossì furiosamente e afferrò un cuscino, poggiandoselo sul cavallo dei pantaloni con ostentata indifferenza, sperando ardentemente che Jensen non avesse fatto caso a tutta la delicata manovra e ringraziando il cielo di non aver guardato Ghost.
 
Jensen in ogni caso non avrebbe potuto notarlo nemmeno volendo, visto che nel frattempo il film era andato avanti fino alla seconda celebre scena, cioè a quando i due protagonisti fanno l’amore in macchina.
Nel suo cervello l’eccitante immagine di una mano, decisamente troppo grande per essere quella di una donna, che si appoggiava con violenza al finestrino dell’Impala appannato dalla condensa per poi scivolare lentamente verso il basso, lo lasciò senza fiato per dieci secondi.
Secondi durante i quali, travolto dall’imbarazzo, evitò accuratamente di voltarsi in direzione di Castiel, che apparentemente non si era accorto di nulla, abbracciato stretto ad un cuscino.
 
La visione del film proseguì nel più assoluto silenzio da parte di entrambi. Silenzio che, complici le svariate birre che avevano annaffiato la pizza, portò i due ragazzi ad addormentarsi lì dov’erano, accatastati in malo modo. Jensen crollò lentamente di lato, andando ad incastrarsi nell’angolo tra il bracciolo e lo schienale del divano, Castiel seguì a ruota scivolando nella stessa direzione, finendogli praticamente in grembo.
 
Il mattino seguente fu Jensen ad aprire gli occhi per primo, più che altro a causa del fastidioso riflesso del sole su una delle bottiglie vuote abbandonate sul pavimento, che lo colpì dritto in faccia. Dopo un minuto buono passato a raccapezzarsi su dove si trovasse e soprattutto perché, si rese conto di avere un professore di pittura che ronfava sommessamente sulle proprie gambe.
 
La vista di Castiel profondamente addormentato, ancora abbracciato al cuscino con i capelli scombinatissimi, un accenno di sorriso e le lunghe ciglia nere che fremevano impercettibilmente, probabilmente a causa di qualche sogno in corso, non lo mise affatto a disagio come sarebbe stato normale aspettarsi.
Anzi.
Si prese il lusso di osservarlo attentamente e, forse per la prima volta, notò gli zigomi pronunciati, il collo sottile ed elegante, le labbra piene, rosa e sempre leggermente screpolate, la fossetta sul mento… e capì all’improvviso il motivo per cui il corso del professor Collins era frequentato per la stragrande maggioranza da ragazze: perché Castiel era bellissimo.
 
E quelle piccole sgualdr… disgraziate, probabilmente erano tutte innamorate di lui.
 
Una misto di fastidio e irritazione si insinuò in modo strisciante dentro di lui a quel pensiero, ma passò in secondo piano a causa di un mugolio compiaciuto del suddetto professore, che strinse ancor di più il cuscino tra le braccia, ridacchiando nel sonno.
 
‘Dev’essere proprio un bel sogno…’ pensò Jensen osservandolo con gli occhi socchiusi e sorridendo a sua volta come un ebete, mentre un moto di tenerezza gli risaliva dalle viscere portandolo a tanto così dal passargli una mano tra i capelli. Si fermò con la mano a mezz’aria.
 
‘Jensen, cosa diavolo ti sta succedendo?’ si chiese in un attimo di lucidità.
 
Ma Castiel scelse quel preciso momento per svegliarsi, frullando le ciglia con espressione confusa, soprattutto quando si rese conto di essere ancora insieme a Jensen, e di osservarlo da una prospettiva piuttosto… inusuale. Scattò a sedere come un pupazzo a molla, balbettando scuse, più agitato che mai.
 
- Je… Jensen! Scusa io… noi… mi sono addormentato! Che ore sono? - chiese con voce stridula balzando in piedi.
 
- Le otto, stai calmo, non siamo in ritardo… - rispose placido l’altro.
 
- Oh. Ok. Ok, allora tu… tu puoi farti la doccia di sopra, io mi arrangio qui nel bagno di servizio. Ti lascio qualcosa da metterti in camera, sperando che i miei vestiti non ti vadano troppo stretti, va bene? - disse dileguandosi su per le scale senza nemmeno lasciare all’altro il tempo di rispondere.
 
- Il bagno è la seconda porta a destra! - urlò dal piano superiore.
 
Jensen fece la doccia, soppesando la questione barba e decidendo di lasciar perdere, poi si avvolse in vita un asciugamano ed entrò nella camera (tinteggiata di un audace viola) di Castiel, di fronte al bagno. Era molto accogliente come il resto della casa, anche se un po’ più in ordine. Trovò sul letto ad aspettarlo, accuratamente piegati, un paio di boxer grigi, calzini e un morbido maglione azzurro, che per fortuna gli stava. Una volta pronto scese in cucina, dove Castiel lo attendeva vestito di tutto punto, tenendo d’occhio una piccola moka che borbottava sul fuoco.
 
- Caffè? - chiese Castiel, porgendogli una tazzina colma di fumante liquido scuro.
 
- Certo, grazie. Ci voleva. Oh, wow… - esclamò Jensen al primo sorso.
 
- Caldo? -
 
- No, buono. Non capisco perché preferisci i nostri intrugli a questo! - esclamò Jensen.
 
‘Perché là ci sei tu’
 
- Perché sono sempre in ritardo e voi siete di strada, è più comodo. - si giustificò il professore.
 
- Sarà, ma credo valga la pena svegliarsi un po’ prima per questo. Io lo farei. -
 
‘Anche io lo faccio, e per qualcosa che vale ampiamente la pena…’
 
E nell’osservare Jensen illuminato dal sole del mattino, lì, nella sua cucina, a bere caffè con addosso il suo maglione preferito, si rese conto che ormai la sua non era più una cotta. Si era disperatamente innamorato di lui.
 
- Sei pronto Prof? Oggi lo scuolabus è nero e terribilmente sexy! - blaterò allegramente Jensen dirigendosi verso la porta, facendo dondolare le chiavi dell’Impala appese a un dito e lasciando indietro Castiel a fare i conti con un nuovo stadio di disperazione.

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Capitolo 7
*** SNIF ***


SNIF

 

Due giorni dopo la “serata cinema”, Jensen si presentò a lezione con un sacchetto di carta che conteneva i vestiti avuti in prestito, che ebbe il buon gusto di non consegnare a Castiel davanti a quei ficcanaso degli studenti.

 

Gli tese il sacchetto in corridoio, dopo la fine della lezione, mentre Castiel in automatico lo seguiva diretto verso la lucida macchina nera che spiccava tra le ibride e gli enormi SUV nell’area di parcheggio riservata.

 

- Grazie dei vestiti Prof. Ho lavato boxer e calzini naturalmente, ma… ecco… io e il cachemire non andiamo molto d’accordo, ho preferito restituirti il maglione così com’è piuttosto che di sei taglie in meno. Mi spiace… - mormorò imbarazzato.

 

Castiel fu tentato di ridergli in faccia per quant’era mortificato, figurarsi se poteva prendersela per un maglione non lavato!

 

- Ehi Jens, non importa, ti pare? Non sono l’Orco cattivo della Pura Lana Vergine, lo laverò io, stai tranquillo! - lo rassicurò sorridente.

- Dopo hai il turno alla caffetteria? - s’informò quindi.

 

Jensen rispose con una certa riluttanza.

 

- Sì ma… sembra che tutto il mondo abbia l’influenza. Dovrò coprire anche mezzo turno di un collega… temo che per oggi non potrò passare da te, mi spiace… -

 

- Oh. - replicò Castiel, palesemente deluso, riprendendosi però immediatamente per non darlo troppo a vedere - Uhm, d’altronde che puoi farci se c’è in giro un virus mortale? Bè, pazienza, vorrà dire che mi dedicherò ad un paio di tele da terminare. Allora… insomma… buona giornata, ci vediamo domani… - lo salutò esitante, allontanandosi dall’Impala e dirigendosi a piedi fuori dal parcheggio.

 

Si avviò mestamente verso casa, pensieroso e di malumore.

 

Fu costretto ad ammettere che Jensen, per lui, ormai era come una sorta di… droga legalizzata, e  che senza la sua “dose” quotidiana stava male.

Questo era preoccupante.

L’intera storia, iniziava ad assumere contorni preoccupanti.

Sentire la sua voce profonda riecheggiare tra le pareti di casa sua, vedere la sua giacca di pelle appesa nell’ingresso, la birra insieme a fine giornata, faceva tutto parte di una dolorosissima routine a cui però non riusciva a rinunciare.

 

Era come stare insieme, senza però stare davvero insieme. Una maledetta arma a doppio taglio che lo faceva stare terribilmente bene e contemporaneamente lo precipitava in un abisso di frustrazione.

 

Aveva avuto la perversa fortuna di poter frequentare assiduamente l’uomo di cui si era innamorato, ma vederlo di continuo, mangiare assieme, scherzare fino a tardi davanti alla tv o al telefono, lo aveva portato ad una soglia di intimità per cui era impossibile non desiderare di più.

La spontaneità, tra di loro, stava andando a farsi benedire, ogni volta che lo vedeva ridere desiderava solo baciarlo fino a togliergli il respiro e doveva compiere degli sforzi sovrumani per non tradirsi anche solo con lo sguardo.

 

Il loro rapporto si era cristallizzato in una situazione ambigua da cui non scorgeva via d’uscita, o meglio, una via d’uscita non catastrofica, né in un senso, né nell’altro.

 

E questo stato di cose cominciava a pesargli.

Troppo.

Si sentiva un folle masochista, ma allo stesso tempo non osava fare nulla che potesse alterare il loro fragile equilibrio, aveva troppo da perdere….

 

Jensen era del tutto imperscrutabile, non riusciva a cogliere in lui un dannato accenno di… di niente!

Non aveva avvertito vibrazioni gay, ma se era per quello nemmeno etero… da ciò che Castiel riusciva a ricordare non aveva mai fatto nemmeno un singolo riferimento alla sua vita privata.
Sempre che ne avesse una.

D’altra parte era impensabile che non ce l’avesse… vedeva come lo guardavano le donne - e anche qualche uomo - per strada, ma lui sembrava non accorgersene affatto.
Così come non pareva rendersi conto che ogni singola studentessa del corso se lo sarebbe mangiato vivo.

Sembrava che volesse tagliare completamente fuori dalla sua esistenza la sfera dei sentimenti.

 

A giudicare dalla quantità di tempo che dedicava a lui, Jensen non doveva avere molti amici, o vita sociale.

Si era scavato una nicchia di solitudine e indipendenza, in cui Castiel era piombato come una meteora, e gli era stato permesso di entrare, fin da subito… sostenere che Jensen selezionasse le proprie amicizie era un eufemismo, e lui doveva solo sentirsi onorato della fiducia che gli era stata immediatamente accordata.

 

Aveva sbagliato ogni cosa sin dal principio, non avrebbe mai dovuto instaurare con lui un rapporto personale oltre a quello lavorativo, si era letteralmente fregato con le proprie mani, ma ormai… no, di tagliarlo fuori non se ne parlava, Castiel non ne avrebbe mai avuto la forza, ma non avrebbe tradito la sua amicizia in preda al proprio egoismo, non avrebbe rovinato tutto per l’impulso di un momento.
Non era colpa di Jensen se si era innamorato di lui.

 

Non l’avrebbe deluso, a costo di diventare il suo fottutissimo migliore amico e di fargli da testimone al matrimonio con qualche biondina sciapa, decise di slancio.

 

Una volta a casa salì dritto in camera, posò il sacchetto sul letto e si buttò sotto la doccia, sperando di schiarirsi le idee. Si infilò dei vestiti comodi e scese di sotto per dipingere un po’ prima di cena, ma dopo poche, stentate pennellate, lasciò perdere: continuare in quelle condizioni avrebbe portato solo a rovinare il lavoro fatto in precedenza.

Completamente deconcentrato, sfogliò il blocco degli schizzi, osservando ogni più piccolo particolare del viso di Jensen che era riuscito a fermare sulla carta: bello da far male, letteralmente.

 

Bello e complicato.
Bello e imperscrutabile.
Così vicino… e così fuori dalla sua portata.

 

Dannazione, qualsiasi cosa provasse a fare, ogni suo pensiero riconduceva sempre a lui.

 

Chiuse il blocco con uno scatto rabbioso e si diresse di sopra a grandi passi, infastidito da sé stesso e dalla propria incapacità di dare un taglio a tutta quell’assurda storia.

 

In camera notò il sacchetto che giaceva ancora sul piumino. Ne tirò fuori boxer e calzini, che ripose nei cassetti del comò, poi sollevò delicatamente il maglione.
Se lo rigirò per un po’ tra le mani e infine lo avvicinò al viso: Jensen l’aveva indossato a pelle (questo pensiero, da solo, bastava a farlo uscire di testa) e - oh mio Dio! - quell’odore, il suo, odore…

 

Castiel inspirò a fondo il profumo di Jensen ad occhi chiusi, il viso affondato nella lana soffice, decidendo all’istante che mai e poi mai l’avrebbe lavato.

Spinto da un impulso irrazionale si sfilò il pullover che aveva indosso, sostituendolo con il morbido cachemire azzurro.

Si rannicchiò sul letto, e per un po’ s’illuse di essere stretto tra le braccia di Jensen, al caldo e al sicuro, amato, circondato dal suo meraviglioso profumo, e dopo poco si addormentò, con addosso un’indicibile sensazione di tristezza, mentre una lacrima che non avrebbe mai saputo di aver versato solcava lenta il suo viso.

 

Il mattino seguente, aprì gli occhi con addosso un tremendo senso d’oppressione e una nausea degna del peggior doposbronza, ma dal momento che non aveva bevuto nulla né tantomeno cenato, non sapeva bene a cosa imputare il disagio che sembrava impregnare ogni sua cellula.

 

Poi realizzò di avere ancora addosso il maglione azzurro, e si sentì l’essere più patetico sulla faccia del pianeta.

 

Si recò in Accademia incazzato col mondo, incazzato con sé stesso, accompagnato da quel fottuto malessere che pareva non avere la minima intenzione di abbandonarlo, contagiando l’umore della classe come un virus malefico.

 

Fu una pessima lezione.


Per tutti quanti.

 

Quando finalmente quella tortura finì, Jensen gli si avvicinò, leggermente a disagio.

 

- Prof, senti… non mi sembri molto in forma oggi. Passo da te un altro giorno? -

 

- No, no Jens. Ho solo… ho solo dormito da schifo, niente di grave. Prima ti ho visto entrare in aula con la cartellina, hai portato i lavori da farmi vedere? -

 

- Ehm, sì, ma temo che non avrei potuto scegliere giorno peggiore, a giudicare da come hai maltrattato quei poveri disgraziati… - mormorò Jensen, osservando un gruppetto di studenti che sciamava fuori dall’aula a testa bassa.

 

- Oh. Sono stato così stronzo? - domandò il professore, realizzando lì per lì di aver definito “immondi sgorbi” e “abomini” un paio di disegni e di averne addirittura accartocciato un altro, provando rimorso per le sue incolpevoli vittime.

 

- Giusto un filo. Sicuro di aver solo dormito male? -

 

‘No. Sono inferocito perché ho voglia di sbatterti contro un muro dalla prima volta che ti ho visto e non poterti avere mi fa morire dentro ogni giorno un po’ di più, ma siccome sono chiaramente cerebroleso, cerco di passare comunque ogni secondo della mia miserevole esistenza con te.’

 

- Sì sì, sicuro. Sono come i bambini, quando non dormo divento insopportabile… stai tranquillo non ti metterò in castigo dietro la lavagna! - tentò di sdrammatizzare Castiel, mentre si avviavano verso il parcheggio.

 

- Ok, ma prometti di non trattarmi come hai fatto con i ragazzi, vorrei evitare di passare il pomeriggio a piangere rannicchiato in un angolo, dondolando su me stesso... - scherzò Jensen strizzando l’occhio all’amico, superandolo per raggiungere l’auto.

 

Giunti a casa, Jensen estrasse i suoi lavori dalla cartellina con una certa riluttanza, non era più così sicuro di volere un parere spassionato.
Castiel dovette quasi strapparglieli di mano per poter dar loro un’occhiata, ma fu estremamente sollevato nello scoprire che i timori dell’amico erano completamente infondati (e felice di non dover stroncare le sue aspirazioni, non ne sarebbe mai stato capace).

 

I disegni e gli acquerelli rappresentavano per la gran parte scorci di Boston, qualche natura morta e tre o quattro ritratti di quello che Castiel riconobbe subito come Bei Capelli. Tralasciando alcune incertezze dovute alla mancanza d’esercizio, la stoffa c’era.

 

- Niente male… davvero niente male Jens. -

 

-Sul serio? -

 

- Certo. Ci sono un paio di cosette da sistemare a livello di prospettiva e di costruzione, ma per quello ci sono qui io, no? La mano c’è e hai un gran gusto per la composizione e l’inquadratura. E quella non è una cosa che s’insegna, è istinto. Talento. Potresti diventare davvero bravo… - disse il prof, già pieno d’orgoglio per il suo nuovo pupillo.

 

- Quindi diventerai il mio Pigmalione? -

 

‘Per ora mi limito ad essere il tuo pig-maglione… oh cazzo, spero che tu non sappia mai le stronzate che faccio pensando a te…’

 

- Ehm… diciamo di sì. -

 

- Allora ho fatto bene a prendere questi… - disse Jensen, estraendo dei foglietti dalla tasca posteriore dei jeans e porgendoli a Castiel.

 

- Cosa sono? - chiese l’altro, accettando quelli che sembravano dei biglietti e un ritaglio di giornale piegato in due.

 

- Per ringraziarti di tutto quello che fai per me. -

 

Il professore aprì il ritaglio e lesse ad alta voce il trafiletto della rubrica Arte & Spettacolo ritagliato dal Globe.

 

- “The kiss”. Un apostrofo rosa tra la pittura e la scultura, un tema che appassiona gli artisti da secoli. I più grandi musei del mondo prestano le loro opere più romantiche per una retrospettiva unica, preludio all’imminente San Valentino. Una mostra che vi farà… innamorare…? - concluse Castiel, con una sfumatura interrogativa nella voce, rialzando gli occhi su Jensen, che non stava evidentemente più nella pelle.

 

- Saranno presenti opere di metà dei nostri artisti preferiti, dobbiamo andarci! Ti va bene sabato pomeriggio? Ho già scambiato il turno da Starbucks con un collega. Non vedo l’ora di vedere Hayez! -

 

Ci mancava poco che si mettesse a saltellare sul posto.

 

‘Castiel, no. Dì di no. E’ una trappola mortale. La mostra sul bacio? Seriamente? Perché non chiuderti direttamente i gioielli di famiglia in un cassetto? Presto, inventa una balla! Digli che sabato devi farti estrarre chirurgicamente qualcosa… tipo la dignità, visto che non la usi, ma dì di no!’

 

- Ok, sabato è perfetto! - esclamò con un falsissimo sorriso.

 

‘Coglione.’

 

- Ma tutta questa passione per Hayez da dove salta fuori? Negli Stati Uniti non si può dire che sia molto noto… - continuò.

 

‘Taci, vigliacco.’

 

- Ok, è un po’ imbarazzante rivelare la fonte della mia immensa cultura ma… anni fa una ragazza con cui uscivo mi ha regalato un biglietto di San Valentino con una riproduzione del Bacio. Lei non mi diceva molto, a dire la verità, ma il quadro sì, così ho fatto un po’ di ricerche su internet ed è saltato fuori quest’artista che non conoscevo affatto. -

 

‘RagazzA. FemminA. Etero. Volevi saperlo? Eccoti servito.’

 

- E’ stato… una specie di colpo di fulmine. - tentò di spiegare Jensen.

 

‘Già. So cosa intendi…’

 

- Devo confessarti che il Bacio l’ho già visto una volta, anni fa, durante un viaggio in Italia. Dal vivo è… indescrivibile: la luce, i colori… ti piacerà da impazzire. - continuò imperterrito a blaterare il professore.

 

‘Ok Cass, tacere è un’attività sottovalutata. STAI ZITTO. Non dargli corda.’

 

- Sei stato in Italia? Non so se invidiarti o passare direttamente alla fase in cui ti odio, lo sai? Comunque, a proposito di Italia, ti va un caffè della tua fantastica caffettiera? Resta lì, faccio io! - dichiarò sparendo in cucina, per tornare invece dopo dieci secondi scartando qualcosa con espressione rapita.

 

- Prof, mi spieghi come mai di là hai uno scatolone con dentro un miliardo di Tortine Paradiso? - farfugliò Jensen ficcandosi in bocca una merendina intera e lasciandosi dietro una scia di zucchero a velo che restò sospesa nell’aria un paio di secondi, prima di depositarsi morbidamente sul pavimento.

 

- Gabe. Ogni tanto mi manda delle campionature dei nuovi prodotti dell’azienda. Ehi, Campanellino, stai spargendo la tua polvere magica per tutta la casa? -

 

- ‘He ‘hofa? - biascicò Jensen con gli occhi verdi sgranati, le guance come quelle di un criceto, ricoperto di briciole e con lo zucchero che gli arrivava quasi fino alle orecchie. Sembrava un bambino di cinque anni.

 

Castiel guardandolo provò un dolore quasi fisico.

 

‘Ti amo Jens.’

 

- Niente… -




N.D.A. : come sempre, mi ricordo una volta ogni morte di papa di ringraziare tutti quelli che leggono, commentano e seguono questa storia e chi l'ha inserita tra le ricordate o le preferite.


GRAZIE INFINITE! Mi rendete felice!  :D

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Capitolo 8
*** THE KISS ***


Questo capitolo è per Ohmygod. Lei sa perché.  (I LOVE GIUD)




“THE KISS”
 
La settimana passò in un battito di ciglia tra lezioni e pomeriggi di posa, e il sabato travolse Castiel come una valanga, cogliendolo, come sempre, assolutamente impreparato.

Il panico aveva già raggiunto il livello Defcon 2 (marines allertati e testate nucleari pronte al lancio), mentre era intento a consumare il marciapiede di fronte all’entrata del Museum of Fine Arts con i biglietti in mano.
Naturalmente era arrivato con un assurdo anticipo, in modo da potersi far divorare agevolmente dall’ansia… stava giusto accarezzando l’allettante idea di fuggire via quando vide Jensen svoltare l’angolo e venirgli incontro sorridente e rilassato, bello come il sole.
 
Accidenti a lui.
 
Dopo un paio di rapidi convenevoli fecero il loro ingresso al museo, e il professore ci mise un attimo a rendersi conto che quella non era una normale mostra… figuriamoci se per una volta poteva passarla liscia.
Si trattava invece di una di quelle esposizioni interattive multisensoriali che andavano così di moda, con tanto di video a tema, luci soffuse, percorsi olfattivi e musica romantica in filodiffusione.
 
In pratica un girone infernale per innamorati senza speranza.
 
In biglietteria, come gadget, distribuivano persino dei biscottini della fortuna.
 
Rosa!
 
Jensen spezzò il suo e lesse il bigliettino all’interno.
 
“La persona che ami potrebbe essere già accanto a te, devi solo allungare una mano…”.
 

Ripiegò il minuscolo foglietto e se lo ficcò in tasca dimenticandosene all’istante, sgranocchiando felice il suo biscotto.
 
Castiel lesse il suo.
 
“Tutto è pronto per il tuo piacere.”… ovvero, ‘prevedo un luminoso futuro di seghe all’orizzonte…’ pensò sconsolato, stringendo l’innocente biscotto nel pugno chiuso fino a ridurlo in briciole.
 
Entrarono, carichi di aspettative piuttosto contrastanti: Jensen era il ritratto dell’entusiasmo, Castiel sembrava un condannato diretto al patibolo.
 
La mostra, grazie al cielo, era effettivamente organizzata in maniera curata e spettacolare, una raccolta pazzesca, e per un po’ il professore riuscì ad estraniarsi dai suoi pensieri nefasti e a godersi l’esperienza, ma più procedevano verso i pezzi forti dell’esposizione, più Castiel tornava con i piedi per terra e col morale sotto la suddetta.
 
Superarono indenni Toulose Lautrec e Lichtenstein.
 
Oltrepassarono anche Magritte, Klimt e Fragonard, con le dovute soste e gli “ohhhhhhh” di prammatica.
 
Aggirarono con classe anche l’ostacolo del Bacio all’Hotel de Ville di Doisneau, quello di Rodin e persino la riproduzione in marmo di Amore e Psiche, con quello stupido e bellissimo angelo che rammentava al professore l’altro angelo al suo fianco, che blaterava senza sosta, criticando quello che secondo lui era il pessimo stile di alcuni dei baciatori rappresentati in quelle opere e vantandosi del suo indiscusso talento in tal senso.
 
Castiel stava per farsi venire un aneurisma, a furia di sforzarsi di non badare alle parole Jensen e di non visualizzare sé stesso e il suo talentuoso amico intenti a dire “ciao!” alle rispettive tonsille quando arrivarono all’ultima sala, il clou dell’esposizione.

Al centro di una stanza buia e altrimenti vuota, illuminato da uno strategico faretto, il Bacio di Hayez faceva bella mostra di sé.


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Erano soli all’interno della saletta e Jensen restò ad ammirare la tela in silenzio, con la testa inclinata nella posa tipica dell’amico, per un tempo indefinito.

Castiel, accanto a lui, osservava ora l’uno e ora l’altra, con il cuore che gli rimbalzava forsennatamente nel petto.
 
- E’… meraviglioso… - riuscì finalmente ad articolare Jensen.
 
‘Come te.’
 
- Sì. -
 
Forse fu il buio.
 
Forse fu l’atmosfera incantata.
 
Forse fu la musica.
 
O forse il quadro, oppure Jensen davvero troppo vicino, o forse fu solo che Castiel non ne poteva più, ma senza che il legittimo proprietario riuscisse ad impedirlo, la sua mano si mosse fino a raggiungere quella di Jensen, abbandonata lungo il fianco, stringendola delicatamente.
 

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Per qualche secondo non accadde nulla.
 
Poi Jensen si voltò lentamente a guardare il professore, che lo fissava con occhi straripanti di sentimento e sofferenza, quasi… rassegnati, quasi scusandosi, come se non potesse farci niente.
Poi abbassò lo sguardo sulle loro dita intrecciate.
Poi guardò verso la scolaresca che nel frattempo era sopraggiunta alle loro spalle e che a sua volta guardava loro due, ridacchiando, e ritrasse la mano in modo piuttosto brusco.
 
Lo sguardo sorpreso ma soprattutto ferito di Castiel lo colpì come un pugno allo stomaco.
 
- Io… io devo andare un attimo in bagno. - farfugliò Castiel avvampando ed arretrando, per poi precipitarsi fuori dalla sala, lasciando Jensen da solo con un crescente senso di colpa e con gli studenti rompipalle.
 
Si rifugiò davvero nel bagno, per fortuna deserto, col fiato corto e le guance in fiamme. Sostenendosi al bordo del lavandino, si guardò brevemente allo specchio, riconoscendo a stento il patetico perdente con le spalle curve che vi era riflesso, livido sotto la fredda luce dei neon, quindi chinò la testa e imprecò in tutte le lingue che conosceva, accecato dalla rabbia e dall’imbarazzo, cercando d’ignorare quanto gli pizzicassero gli occhi.
 
‘A puttane… hai mandato tutto a puttane… tu e la tua stronzissima mano! Come cazzo t’è saltato in mente? Cosa sei, una ragazzina di tredici anni? Castiel Collins, sei un COGLIONE! Bene, è finita… in fondo quant’è durata, quanto tempo sei riuscito a passare con lui, tre mesi? Pure troppo. Rispetto al vederlo in caffetteria ti  è andata ampiamente di lusso, quindi cerca di non metterti a frignare, sii uomo, esci da questo bagno e vattene a casa… frignerai lì.’
 
Quando rialzò lo sguardo, però, vide due persone riflesse nello specchio: il perdente di poco prima, stravolto, e appena dietro Jensen, che l’osservava con indicibile tristezza.

Ottimo, non solo l’aveva fatto incazzare provandoci, adesso gli faceva pure pena!
 
Strinse i pugni, tentando di mettere insieme velocemente delle scuse che non fossero troppo penose, per poter uscire da lì con ancora un briciolo d’orgoglio intatto, ma le mani dell’altro lo stavano già forzando a voltarsi, e poi Jensen lo stava baciando e tutti i concetti che Castiel avrebbe voluto esternare si condensarono in un gemito sorpreso direttamente sulle sue labbra calde.
 
Jensen aveva seguito Castiel in quel bagno istintivamente, senza la più pallida idea di cos’avrebbe potuto dirgli, il cervello momentaneamente fuori servizio, mosso solo dal dispiacere e dalla consapevolezza di essere stato davvero uno stronzo.
 
Quando però aveva incrociato il suo sguardo abbattuto e confuso nello specchio, quegli occhi blu gli avevano spezzato il cuore, e aveva dovuto ammettere quello che, sepolto da qualche parte nel suo subconscio o in quella testaccia dura che si ritrovava, il suo corpo aveva capito già da mesi, cioè che Cass non gli piaceva così tanto perché era una persona fantastica.
 
Non solo.
 
Gli piaceva a dei livelli che nemmeno avrebbe creduto possibili e ora, mentre premeva le labbra sulle sue come un disperato, tutto quello che provava per lui gli stava esplodendo nel cervello come un unico, enorme, luminoso fuoco d’artificio.
 
Perché aveva dovuto fargli del male per riuscire a capire, perché solo il pensiero di perderlo gli aveva fatto scattare la molla?
Castiel era una delle persone più sensibili, brillanti, simpatiche e belle che avesse mai conosciuto… e non l’avrebbe lasciata andare solo per continuare a vivere tranquillo, arroccato dietro alla propria rassicurante identità sessuale.
 
Qui non si trattava più tensione irrisolta, di equivoci, di etero o gay, ma di Castiel.
 
Castiel.
 
Il suo prof.
 
Suo, e di nessun altro.
 
- Perdonami… - mormorò sommessamente, la voce rotta dal dispiacere, direttamente sulle sue labbra.
 
- Non… non importa. - replicò dolcemente Castiel, incredulo e felice, sempre a pochi millimetri da lui.
 
- E’ che io non sono… o meglio, non ero… - esitò, appoggiando la fronte sulla sua.
 
- Lo so… - lo rassicurò Castiel, osservandolo con occhi languidi attraverso le lunghe ciglia, sfiorandogli una tempia con i polpastrelli e scivolando di lato fino ad appoggiare il viso sulla sua spalla, stringendolo come fosse una boa in mezzo alla tempesta, cercando di imprimersi nella mente la sensazione meravigliosa che gli stava regalando sentire il cuore di Jensen battere forte contro il proprio petto.
 
Restarono in silenzio per qualche istante, poi Jensen sciolse l’abbraccio, lo prese per mano e lo trascinò fuori a passo di carica.
 
- Andiamocene immediatamente da qui. -
 
Una volta all’esterno del museo Jensen continuò a camminare veloce e a testa bassa, abbandonando la presa sulla mano di Castiel solamente quando raggiunsero l’Impala.
Fece salire il professore, aggirò l’auto, salì a sua volta e riprese la mano del compagno senza dire una parola, lasciandola solo per cambiare occasionalmente marcia, gli occhi fissi sulla strada.
Castiel l’osservava di straforo, senza riuscire a decifrare il comportamento dell’amico, ma confortato dal calore di quella mano che stringeva possessivamente la sua.
 
Giunti di fronte all’abitazione del professore, quest’ultimo si fece cogliere ancora una volta dall’incertezza: doveva chiedere a Jensen di entrare? Sarebbe stato troppo? Meglio salutarlo lì in macchina?
A liberarlo dall’impaccio ci pensò Jensen stesso, scendendo dall’auto e dirigendosi con piglio deciso verso la porta di casa, a cui si appoggiò a braccia conserte, osservando Castiel con aria interrogativa.
 
- Vuoi venire o no? - lo spronò.
 
‘Dio, Jens, ma riesci a dire una frase di senso compiuto che non sia male interpretabile?’pensò rassegnato Castiel, mentre si avvicinava a sua volta all’entrata, armeggiando fra mille tasche come d’abitudine per recuperare le chiavi.
Non appena varcata la soglia, mentre Jensen appendeva la giacca all’ingresso, si diresse spedito in cucina: aveva un gran bisogno di bere qualcosa ma soprattutto di allontanarsi un attimo da lui.
 
E’ normale avere così paura, quando tutti i tuoi sogni finalmente si avverano? E’ normale ritrovarsi con il vuoto pneumatico nel cervello e completamente sprovveduti, dopo aver immaginato un’identica situazione un centinaio di volte? E’ normale avere paura persino di parlare?
 
Quando richiuse lo sportello del frigo senza averne prelevato nulla, troppo preso dai suoi dubbi esistenziali, voltandosi ebbe un curioso deja vu nel ritrovarsi di fronte Jensen, a distanza davvero minima, che lo fissava con un’espressione che non gli aveva mai visto.
 
Splendore gli afferrò le mani, portandogliele sopra la testa e spingendolo piuttosto brutalmente contro il frigorifero, inchiodandolo tra sé e l’elettrodomestico e provocando una pioggia di calamitine.
Il loro tintinnio mentre rimbalzavano su pavimento fu l’unico suono che echeggiò nella cucina. Castiel infatti si era completamente dimenticato di respirare.
 
Jensen osservò brevemente il suo professore, spaventato e in attesa, poi portò lo sguardo sulle proprie mani che ancora gli serravano i polsi.
Allentò la presa, percorrendo in una lenta carezza verso il basso le braccia di Castiel, soffermandosi qualche istante sull’interno del gomito, per poi scendere fino alle ascelle, sfiorare il costato, raggiungere i fianchi e da lì risalire a palmo aperto sul petto e lungo il collo, finendo con l’incorniciargli il viso.
Gli ravviò gentilmente i capelli che spiovevano sulla fronte con una mano, poi quella stessa mano scese ad accarezzarlo, giocando con l’accenno di barba, posandosi infine sulle sue labbra.
 
Un paio di polpastrelli sfiorò delicatamente quei rilievi rosei e morbidi, l’arco superiore pronunciato e le mille piegoline che le rendevano così oscenamente sexy, mentre le labbra di Jensen si avvicinavano inesorabilmente, sussurrando un “Prof…” che racchiudeva tutte le dichiarazioni del mondo, prima di appoggiarsi su quelle di Castiel, sostituendosi morbidamente alle dita.
 
Questa volta fu un bacio languido e dolce, l’esatto opposto di quello di un’ora prima, pieno di rabbia, frustrazione e sentimenti inespressi.

Questa volta si prese tutto il tempo per assaggiare Cass come si deve, prendendo tra le labbra quelle del compagno e succhiandole piano, perdendosi su quella bocca maledettamente soffice e sensuale, provando l’impulso primordiale di morderla fino a renderla gonfia e arrossata.
 
Sarebbe potuto rimanere semplicemente così per ore, baciandolo fino a rincretinirsi.
Poi la lingua di Castiel lambì, esitante, il suo labbro superiore, trasmettendogli un lungo brivido d’eccitazione e facendogli decidere che no, in effetti la situazione poteva ancora migliorare, e parecchio.
 
Castiel, nel frattempo, aveva perso ogni contatto con la realtà, dimentico persino di come si facesse ad incamerare aria per sopravvivere, c’era solo Jensen che lo guardava, lo stringeva e - Mio Dio! - lo baciava.
 
Quando la lingua di Jensen sfiorò con dolcezza la sua, in risposta al suo timido approccio, schiuse immediatamente le labbra per permettergli di entrare, e l’altro rispose all’invito, leccando, succhiando e accarezzando con  passione crescente, afferrandogli la nuca per rendere il bacio ancora più profondo, mentre Castiel gli si schiacciava contro, afferrandolo per i fianchi.
Jensen aveva avuto tutte le ragioni di questo mondo, alla mostra, vantandosi della propria bravura, era più che bravo, era fantastico, pensò confusamente Castiel lasciandosi baciare, senza opporre la minima resistenza o cercare di prevalere, abbandonandosi semplicemente al compagno, estasiato dalla sua intraprendenza e dalla lucida consapevolezza che ogni cosa era mille volte meglio rispetto alla più ardita fantasia.
 
Era tutto più bello, più bollente, più emozionante. Era Jensen. Quello vero.
 
Quando sentì le ginocchia cedere, ruotò di 180° tirandoselo dietro, in modo da trovarsi con la schiena a ridosso del bancone della cucina.
Vi posò i palmi e fece leva per issarvisi sopra, allargando le gambe per fare spazio al compagno, che tornò a stringerlo con urgenza, accarezzandolo ovunque riuscisse ad arrivare, finchè un movimento spontaneo non fece scontrare i loro bacini, provocando una fitta di piacere ad entrambi e sfociando in un gemito simultaneo sorpreso e appagato.
Castiel si spostò in avanti, in bilico sul bordo del piano di lavoro, in modo da avere un maggior contatto con Jensen, che di rimando gli si strinse ancora più strettamente addosso, aumentando la frizione e facendo salire di volume i gemiti di entrambi.

Castiel stava giusto realizzando che finalmente il bancone della sua cucina avrebbe assistito a qualcosa di più eccitante della preparazione delle lasagne, quando Jensen si staccò da lui senza alcun motivo apparente, voltandosi e dirigendosi fuori dalla stanza.
 
- Di là. - ordinò uscendo.



NDA: ancora una volta grazie a tutte, dalle lettrici silenziose a chi recensisce con eroica costanza arrivando a chi l'ha messa tra le preferite sulla fiducia (non ricredetevi, vi amo!! A breve riceverete gli assegni promessi! XD), questa storia è stata accolta benissimo e ancora continuate a seguirla... non me ne capacito ma è inutile dire che sono felicissima!

GRAZIE GRAZIE GRAZIE!!

 
 
 
 
 

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Capitolo 9
*** C'ERA UNA (PRIMA) VOLTA... ***


 C'ERA UNA (PRIMA) VOLTA...

 

 

Castiel scivolò lentamente giù dal bancone, stranito e ancora ansante, seguendo il compagno fino allo studio.

Trovò Jensen in piedi, sul tappeto, accanto alla finestra dov’era solito posare, con uno strano luccichio negli occhi. Avanzò fino a fermarsi a pochi passi da lui, incerto sul da farsi.

 

- Prof? -

 

- … -

 

- Vuoi che mi tolga i vestiti? - domandò serio Jensen, stavolta senza possibilità di fraintendimenti, lo sguardo acceso di desiderio.

 

Castiel deglutì vistosamente, la gola improvvisamente arida, incapace di proferire verbo.
Si limitò ad annuire lentamente, arrossendo, mentre Jensen si sfilava con studiata calma felpa e maglietta, senza smettere di guardarlo.

 

Rimase completamente paralizzato a fissare l’altro che terminava, una volta tanto lentamente, di spogliarsi, il che era assurdo, dal momento che aveva già visto tutto quello che c’era da vedere di lui, a parte un piccolo - Oh. Ok… non tanto piccolo - particolare.

 

Jensen restò semplicemente nudo di fronte a lui, osservandolo con uno sguardo insondabile, e la stramaledetta luce calda dello stramaledetto pomeriggio lo rendeva simile ad una stramaledetta statua dorata.

 

Castiel ebbe l’assoluta certezza di essere di fronte all’incarnazione del suo personale concetto di perfezione.

E anche se era stato lui a dare inizio a tutto, solamente un paio d’ore prima, anche se l’altro era completamente vulnerabile di fronte a lui, percepì forte e chiaro di non avere alcun controllo sulla situazione, stabilendo al contempo che non poteva importargliene di meno.

Che facesse di lui quello che desiderava.
E a quanto pareva, lo desiderava…

 

Jensen gli tese la mano in un chiaro invito, nudo e bellissimo, e Castiel coprì la breve distanza che li separava come al rallentatore, accettando la mano che gli era stata offerta e lasciandosi attirare fino a lui.
Stava vivendo un momento talmente surreale da esserne quasi sopraffatto.

La voce roca di Jensen lo riportò alla realtà.

 

- Che c’è Cass? - mormorò direttamente nel suo orecchio, sfiorandone il lobo con la lingua e accarezzandogli il collo con un soffio bollente, mentre le sue mani si insinuavano sotto il maglione e lo accarezzavano gentili, facendolo tremare.

 

- … Non vuoi che ti guardi? - chiese in tono sempre più basso, afferrando i lembi dell’ormai superfluo indumento e sfilandolo assieme alla t-shirt, gettando poi entrambi a terra.

 

- … Non vuoi che ti tocchi? - sussurrò, mentre con la punta delle dita scendeva leggero lungo il petto di Castiel, sfiorando impercettibilmente i capezzoli e giocherellando un secondo dalle parti dell’ombelico, per proseguire poi fino al cavallo dei pantaloni, dove slacciarono rapide cintura e bottoni.

 

- … Non vuoi che ti baci? - chiese ancora inginocchiandosi, aprendo i jeans del compagno e abbassandoli un poco, depositando un bacio umido appena sopra l’elastico dei boxer, il tutto senza mai staccare gli occhi dai suoi.

 

Castiel venne completamente travolto da quegli occhi, del colore che fin da bambino aveva sempre associato alla primavera, che lo fissavano dolci e sfrontati mentre mani avide lo liberavano definitivamente di boxer e Jeans.


La sola vista di Jensen nudo, in ginocchio ai suoi piedi, bastò per spedire il pochissimo sangue che ancora stazionava nel suo cervello in gita premio nei Paesi Bassi…

Jensen gli prese entrambe le mani, attirandolo sul tappeto, facendolo stendere e adagiandosi con attenzione su di lui, puntellandosi sui gomiti per poterlo baciare ancora.

Quella sua strana calma, quella sorta di concentrata attenzione, lo stavano facendo uscire di senno più che se gli fosse saltato addosso come una furia.

 

- Sei bellissimo, Prof… - sussurrò, scendendo a lambirgli la gola con la lingua.

 

Qualcosa si contorse nello stomaco di Castiel, per  la sensazione della pelle bollente di Jensen sulla propria, per il bisogno che percepì nella sua voce, e quando il compagno si spostò verso il basso per leccare il piccolo neo che aveva poco sopra un capezzolo, il movimento fece strusciare le loro erezioni, generando un gemito sorpreso nel professore.

 

- Oh! Oh, Dio, è… -

 

- … Fantastico… - terminò per lui Jensen, ansimando appena e iniziando a muoversi nuovamente sul suo corpo, ondeggiando lentamente e deliberatamente avanti e indietro, sentendo l’amante inarcarsi sotto di sé, la testa reclinata all’indietro, il respiro sempre più affannato.

Si lasciarono andare entrambi a quella danza lussuriosa fatta di saliva, carezze e gemiti, fino a che la mano di Castiel non si insinuò tra loro, andando a circondare con fermezza la propria erezione e quella di Jensen, unendole in un movimento lento e sinuoso.

 

Stavolta furono gli occhi di Jensen a spalancarsi per la sorpresa e il piacere, accompagnando gli estenuanti movimenti di Castiel con un basso gemito, assolutamente osceno.

Si puntellò sulle mani, rialzandosi leggermente per fare spazio a quella di Castiel che lo stava portando in paradiso, ma il professore si sollevò a sedere con un colpo di reni, reggendosi a terra con una mano, l’altra ancora occupata a dare piacere ad entrambi, sollecitando Jensen a mettersi a cavalcioni su di lui.

 

Jensen obbedì senza fiatare, cingendo la vita di Castiel per sostenerlo e posando la mano libera su quella del compagno per accompagnarne il movimento, facendolo rabbrividire e ricominciando a baciarlo disperatamente, con il bisogno di avere il più possibile di lui, le mani intrecciate ad inseguire il piacere, sentendo il ritmo e la tensione salire all’unisono, i gemiti rilasciati direttamente nella bocca dell’altro fino a lasciarsi travolgere da uno sconvolgente orgasmo, accolto con urla soffocate e morsi sulla pelle sudata.

 

Restarono immobili per alcuni secondi, ansanti, ognuno con la testa reclinata sulla spalla del compagno, poi Castiel si raddrizzò quel tanto che bastava per poter sfiorare ancora una volta le labbra di Jensen, baciandolo delicatamente ed incatenando poi quegli occhi assurdamente verdi nei propri.

 

- Sei in ritardo… - mormorò languidamente, inclinando la testa ed osservandolo ad occhi socchiusi.

 

- In che… in che senso? - balbettò Jensen, il cervello ancora in stand-by.

 

- Sono 34 anni che ti aspetto. Sei dannatamente in ritardo, Winchester. - sorrise Castiel, baciandolo ancora e allungandosi per raccogliere una maglietta dall’ammasso sul pavimento e ripulire entrambi.

 

Si rialzarono a fatica, e Castiel si diresse con passo malfermo verso la cucina, completamente nudo, borbottando qualcosa che Jensen interpretò più o meno come “ho fame”.

Lo sentì parlottare al telefono per un paio di minuti, per poi fare nuovamente capolino nello studio, arruffatissimo e con l’aria insonnolita e soddisfatta.

 

- Doccia? - propose, avviandosi in modalità bradipo verso il piano superiore, seguito a ruota da Jensen, piacevolmente occupato a guardargli il sedere per due rampe di scale.

 

‘Da quando ti piace guardare il culo degli uomini, Jens? Ah, già. Da quando te li fai sul tappeto come un adolescente arrapato…’

 

Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, e non potè fare a meno di notare quanto il corpo di Castiel fosse armonioso e definito, bello, molto più muscoloso di quanto sembrasse con addosso i vestiti… e il pensiero di quel corpo nuovamente premuto sul suo gli fece accartocciare lo stomaco in una piacevole morsa.

 

Si infilarono assieme nel box doccia, e mentre Castiel era ancora intento a trafficare tra spugna, bagnoschiuma e miscelatore dell’acqua, Jensen s’impossessò del flacone dello shampoo e dopo essersene versato una piccola dose sul palmo della mano, invece di insaponare la propria testa portò invece le mani tra i capelli del compagno, iniziando a massaggiargli la cute con naturalezza, placido e tranquillo come se l’avesse sempre fatto, sporgendosi ogni tanto a baciarlo con dolcezza ad occhi socchiusi, le ciglia cariche di minuscole goccioline d’acqua e un sorriso che sembrava non volesse più andarsene.

 

Castiel si sentiva svenire: già non riusciva a capacitarsi di poter toccare Jensen, di poterlo stringere finalmente tra le braccia, ma che l’altro dimostrasse nei suoi confronti altrettanto trasporto era una cosa che lo lasciava completamente instupidito.

Giocarono per una ventina di minuti sotto il getto tiepido dell’acqua, accarezzandosi, insaponandosi a vicenda ed esplorando nel frattempo ogni centimetro del corpo dell’altro, con una familiarità e una confidenza confortevoli e avvolgenti come una coperta calda.

 

Mentre ancora si stavano asciugando in camera di Castiel, scherzando e punzecchiandosi a vicenda, il campanello al piano inferiore suonò.

 

- Accidenti, la pizza! L’unica volta che arrivano in orario… ti pareva! Tu finisci di vestirti, i boxer sono in quel cassetto! - sbraitò Castiel, infilandosi velocemente dei jeans e la prima maglietta che gli capitò a tiro, per poi precipitarsi al piano di sotto e ritirare il prezioso carico prima che il fattorino decidesse di girare i tacchi lasciandoli senza cena.

Jensen scese le scale appena in tempo per vedere la porta chiudersi e Castiel dirigersi in cucina con due enormi cartoni fumanti in equilibrio su una mano e un paio di sacchetti di carta nell’altra.

 

- Hai invitato a cena i Celtics e non sono stato informato? - chiese, inarcando le sopracciglia, prendendogli dalle mani i sacchetti e depositando quelli che sembravano due chili di gelato in freezer.

 

Castiel arrossì leggermente.

 

- Ehm, no ma… ho pensato che fosse meglio prenderle grandi… cioè… magari più tardi potrebbe venirci ancora fame e… Jens? Che hai? Perché fai quella faccia? - domandò sospettoso il professore osservando l’amico avvicinarsi con un sorriso stile Stregatto.

 

L’altro alzò lentamente il bordo della lunga t-shirt che aveva indosso, scoprendo un paio di aderenti boxer viola, poi altrettanto lentamente si girò, mostrando con orgoglio l’enorme logo giallo limone del Cavaliere Oscuro stampato sul retro dell’indumento.

 

- Hai un pipistrello sul culo. - osservò Castiel, asciutto.

 

- Grazie, Capitan Ovvio, ma tu non afferri il concetto che sta alla base di queste fantastiche mutande… -

 

Castiel inclinò la testa e rimase in attesa, le sopracciglia sollevate.

 

‘Che hai un bel culo?’

 

- … Sono Batman! - sibilò Jensen con la voce rauca, in una terrificante imitazione di Christian Bale, sfoggiando un sorriso infantile e un luccichio divertito negli occhi.

 

‘Fortuna che ero io quello che non sapeva fare le imitazioni…’

 

Castiel l’osservò per qualche istante, se possibile innamorandosi un po’ di più di quell’adorabile demente, quindi annullò la distanza che li separava.

 

- Sì, sei Batman… - confermò, scuotendo leggermente la testa e sorridendo rassegnato, agguantandolo per la maglietta e baciandolo con forza. Stavolta fu lui a dettare le regole di quel bacio, reclamando con la propria lingua quella di Jensen in maniera abbastanza rude e succhiandola con prepotenza, tirandoselo contro afferrandolo per una natica.

Quando infine lo lasciò andare, Jensen l’osservò con un sorriso allusivo.

 

- Wow… e questo dove l’hai imparato? -

 

- Dal fattorino della pizza. - rispose Castiel con un ghigno.

 

- Eh? - fu tutto ciò che articolò Jensen, già intento a formulare pensieri omicidi nei confronti dell’ignaro Rashid di Paradise Pizza.

 

- Niente… era una battuta che ho sentito in una serie tv… - ridacchiò il professore.

 

- Uhm, a proposito di tv, ti dispiacerebbe molto se… ehm, guardassimo “Dottor Sexy” mentre mangiamo? Stasera c’è l’episodio in cui il suo assistente fa un trapianto di coscienza! -

 

- Ma non si può fare un trapian… no, lascia perdere… ti piace “Dottor Sexy”? - domandò incredulo Castiel, con un tremolio beffardo nella voce.

 

Jensen quasi arrossì.

 

- Piacermi… non è che mi piace… lo seguo occasionalmente, ecco… - farfugliò come un bambino pescato a rubare una tonnellata di biscotti.

 

Castiel si limitò ad alzare eloquentemente un sopracciglio.

 

- Sì, ok, lo adoro. Ho tutte le stagioni in dvd. - ammise l’altro ad occhi bassi, arrossendo sul serio.

 

Castiel raccolse i cartoni delle pizze, avviandosi verso il salotto e ridendo sguaiatamente.

 

- E comunque c’è poco da ridere! Queste mutande sono tue! - gli urlò dietro Jensen dalla cucina.

 

- Sì ma io ho la decenza di non metterle… sono regali di Balthazar, anzi, sai cosa? Se ti piacciono tanto tienile, e prendi anche le altre: quelle di Superman, quelle dell’Uomo Ragno e soprattutto quelle di Flash: non mi entusisma l’idea di indossare boxer con il simbolo del fulmine proprio sopra al mio coso! -

 

- Scommetto che preferisci quelle con il martello di Thor, eh Cass? O magari quelle di Iron Man… - gli sussurrò Jensen all’orecchio, una volta raggiunto il compagno in salotto, guadagnandosi un altro lungo bacio mozzafiato e un pizzicotto sul sedere.

 

Mangiarono sul divano come d’abitudine, guardarono Dottor Sexy, un documentario sui koala e due volte di fila un’ipnotica televendita di coltelli che avrebbe fatto venir voglia anche a Gandhi di profanare ananas, barattoli e scarponcini con una lama seghettata, finché non fu chiaro che l’ora era giunta.

Jensen, leggermente a disagio, si alzò e cominciò a raccogliere i propri vestiti sparsi in giro come coriandoli, mentre Castiel l’osservava incuriosito.

 

- Cosa stai facendo? - domandò sorpreso.

 

- Bè… credo sia ora che io vada… -

 

- Resta. -

 

- Sembra più un ordine che una domanda… - constatò Jensen, con un sorrisino ironico.

 

- Lo è. Resta. - mormorò Castiel, prendendolo per un polso e costringendolo ad abbassarsi al livello del suo viso, baciandolo languidamente - Resta con me… -

 

- Mi avevi convinto già a “cosa stai facendo” - ridacchiò sommessamente Jensen, tendendogli una mano per aiutarlo ad alzarsi e dirigendosi poi con lui al piano superiore.

 

Una volta in camera ognuno si diresse istintivamente al “proprio” lato del letto, senza nemmeno bisogno di parlare, Jensen a sinistra e Castiel a destra.
La sintonia tra loro era qualcosa che andava al di là di ogni logica, e per Castiel era come di un’overdose di endorfine sparata direttamente in vena… lo faceva stare dannatamente bene e sentiva che, per qualche misteriosa ragione, si completavano a vicenda, mentre la sensazione di aver camminato per gran parte della vita lungo una strada che l’aveva condotto inesorabilmente a lui si faceva largo in maniera prepotente nel suo cervello.

 

Jensen osservò il compagno liberarsi della maglietta e restare in boxer, pronto per infilarsi sotto le coperte.

 

- Aspetta… - lo bloccò - Toglili. - disse istintivamente.

 

- Vuoi… - domandò Castiel, sorpreso.

 

- No, ecco… voglio solo… sentirti. Se per te va bene… - mormorò, incespicando appena sulle ultime parole.


L’elevata esposizione a Castiel gli stava evidentemente giocando brutti scherzi, causando danni neurali soprattutto alla connessione cervello-bocca… da dove diavolo gli era uscita questa? Quando era diventato una ragazza?

 

Castiel si liberò senza esitazione dell’ultimo indumento superstite, con un mezzo sorrisetto compiaciuto, mentre Jensen faceva lo stesso. Una volta tra le coltri si sistemarono l’uno di fronte all’altro, le teste posate sui rispettivi cuscini ma i volti vicinissimi, i nasi che quasi si sfioravano.

Jensen non aveva mai visto gli occhi di Castiel brillare tanto intensamente, seppur velati dal sonno. Si crogiolò nell’idea di esserne almeno in parte la causa.

 

- Mi spiace. - esordì sottovoce, con un minuscolo ghigno, godendosi la sorpresa che animò il blu profondo degli occhi dell’altro.

 

- E di cosa? - domandò Castiel, che iniziava a faticare a connettere.

 

- Di essere arrivato così in ritardo. E’ che… sono stato trattenuto, impegni familiari Prof, e i compiti me li ha mangiati il cane… - continuò imperterrito Jensen, tentando di trattenere una risatina.

 

- Sei veramente un cretino, Jens… - lo rimbrottò Castiel rassegnato, la voce già impastata di sonno, pizzicandogli un braccio e baciandolo piano un’ultima volta.

Si voltò, mettendosi comodo nella sua posizione abituale, emettendo un piccolo sbuffo soddisfatto.

Jensen gli si fece vicino e lo strinse tra le braccia, aderendo completamente alla sua schiena e posandogli un piccolo bacio sulla nuca, che lo fece sentire immensamente felice e al sicuro.

 

- ‘Notte Jens… - mormorò Castiel, già semi addormentato.

 

- ‘Notte Prof. - rispose Jensen, godendosi la sensazione delle lenzuola fresche in contrasto col calore di Castiel spalmato contro il suo corpo.

 

Si addormentò dopo poco, incredulo e sereno nel rendersi conto che stare nudo in quel letto che non era il suo, in una camera sconosciuta, abbracciato ad un altro uomo, fosse la sensazione più intima e più simile a “casa” che avesse provato da un sacco di anni.



NDA: ok, lo so, lo so che vi aspettavate una certa cosa e verrò accusata di pubblicità ingannevole, ma dicono che l'attesa aumenti il piacere no? In realtà mi sembrava un approccio più sensato, visto che comunque i protagonisti non sono (erano? Sarebbero? ) gay, volevo che prendessero un po' di confidenza, ecco. Non odiatemi!
In ogni caso grazie a chiunque stia seguendo la storia e a tutte quelle che recensiscono e commentano!

 

 

 

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Capitolo 10
*** THE DAY AFTER ***


THE DAY AFTER
 

 

Il mattino seguente, Castiel si svegliò avvolto da un insolito e fantastico tepore.

In realtà, si svegliò avvolto da un metro e ottanta abbondante di muscoli e lentiggini.

Comunque insoliti nel suo letto e decisamente fantastici.

 

Jensen stava ancora dormendo profondamente, abbarbicato a lui come uno dei koala che avevano visto in tv la sera precedente: il braccio abbandonato sul suo torace, il corpo premuto contro il suo fianco e la gamba destra di traverso sul suo stomaco. Per non parlare del suo nuovo amichetto che premeva allegro e sfacciato contro la sua coscia, molto più sveglio del legittimo proprietario.

 

‘Allora è tutto vero…’ pensò, lasciandosi sfuggire un sospiro di felicità.

 

Muovendosi pianissimo per non svegliarlo, cercò di spostare la testa quel tanto che bastava per osservare Jensen dormire.

Si sentiva come la Bella Addormentata, dopo un sonno di 100 anni… erano cambiate così tante cose in neanche 24 ore!
Il giorno prima sguazzava frustrato in un mare di sconforto, e ora il suo Splendore dormiva accanto a lui con l’espressione innocente di un bambino.

 

Ma era veramente suo?
Dopo lo sconvolgente sesso sul tappeto non avevano speso nemmeno una parola a riguardo… certo, avevano diviso doccia e letto, avevano passato la serata a scherzare e baciarsi sul divano come due adolescenti e Jensen sembrava sorprendentemente a suo agio… era rimasto stupito soprattutto dalla facilità con cui si era adattato all’evoluzione del loro rapporto: nel momento esatto in cui aveva accettato di provare qualcosa per lui, era stato come se si fosse… arreso, non trovava definizione più calzante, e non avesse più nessun tipo di barriera a trattenerlo.


Aveva lasciato affiorare una dolcezza e una rilassata spontaneità di cui Castiel sapeva già di non poter più fare a meno, sentiva che i momenti “normali” della sera precedente, passare ore sul divano come una coppia collaudata a guardare scemenze, complici e senza urgenza, erano la parte più preziosa di quel rapporto a malapena iniziato.

 

Persino più del sesso.

Il professore non si capacitava di com’erano andate le cose tra loro.
Fino all’ultimo era stato certo che, giunti al dunque, Jensen si sarebbe tirato indietro, o che se anche ciò non fosse accaduto, l’esperienza si sarebbe comunque conclusa in maniera disastrosa e imbarazzante a causa sua, pronto a scommettere che in preda al terrore avrebbe rovinato tutto.

Invece, nel preciso istante in cui aveva preso un minimo d’iniziativa, tutta la tensione che aveva caratterizzato ogni singolo momento trascorso in compagnia di Jensen si era dissolta come neve al sole.

 

Aveva fantasticato per mesi sul momento in cui avrebbe finalmente fatto l’amore con lui, e ora che non era successo – perché, ammettiamolo, non era successo – non gli importava.
O meglio, gli importava sì, ma non era un problema.

Ci sarebbe stato tempo.
Ora che Jensen era nel suo letto, nulla di male sarebbe più potuto accadere, pensò distrattamente, accarezzando piano il braccio poggiato sul suo torace e causando un mugolio e uno sbuffo contrariato nel suo amico.

 

‘Amante? Ragazzo?… Batman?’

 

Jensen aprì lentamente gli occhi, sbattendo più volte ciglia dorate, incrociando infine lo sguardo divertito di Castiel.

Non avrebbe mai smesso di stupirsi di quanto incredibilmente blu potessero essere quelle iridi e di quanto lo facessero stare bene quando erano posate su di lui.

 

- ‘Ao… - grugnì, con una voce che sembrava provenire direttamente dall’oltretomba.

 

Evidentemente Jensen era una di quelle persone che la mattina hanno i bioritmi estremamente bassi.

 

- Buongiorno principessa. Era ora! Mi stava venendo una paresi, qui incastrato sotto il tuo gracile corpicino! -

 

- Mhhhh… ‘gnorno attè… ‘cusa. Tardi? - mugugnò l’altro, con la voce ancora impregnata di sonno.

 

- No, non è molto tardi, stai tranquillo. Hai degli impegni? -

 

- Nuuooooh… - rispose Jensen, a metà tra un’affermazione e uno sbadiglio che avrebbe fatto invidia a un leone marino - … E' che, mhhh… non volevo sprecare la giornata… dormendo… - concluse languido, stiracchiandosi e riuscendo infine a mettere insieme una frase di senso compiuto, spostando lentamente la mano dal torace di Castiel verso il basso, sotto il piumino.

 

- Cerchi qualcosa, principessa? - domandò quest’ultimo socchiudendo gli occhi, osservando il sorriso sornione e malizioso che si andava dipingendo sul viso di Jensen, più sveglio ad ogni secondo che passava.

 

- Non ti preoccupare, ho un ottimo senso dell’orientamento… - lo rassicurò, strascicando ancora un poco le parole, nel momento in cui la sua mano si posò sull’erezione mattutina di Castiel, che rabbrividì ed emise un lungo sospiro.

L’accarezzò a palmo aperto per qualche istante, stupefatto di quanto potesse essere piacevole il contatto con la pelle di un altro uomo.

 

‘No, non di un altro uomo: di Castiel. Solo e unicamente di Castiel’ pensò, vedendolo già inarcarsi sotto le sue carezze, ad occhi chiusi, le labbra piegate all’insù in un leggero sorriso. Indugiò ancora qualche attimo in quelle coccole delicate, prima di stringere l’erezione tra le dita e iniziare il lento movimento che fece ansimare forte il suo prof, cosa che gli diede l’imput decisivo per risvegliarsi del tutto, eccitandolo da morire.

 

Gli piaceva guardarlo godere, era sexy in modo sconvolgente mentre si mordeva quelle labbra assurde cercando di non gemere, la fronte che cominciava ad imperlarsi di sudore, gli occhi chiusi in un’espressione quasi sofferente, come se il piacere che gli stava trasmettendo troppo da sopportare… d’un tratto Jensen rese conto di volerlo vedere ancora più sconvolto, di volerlo sentire urlare senza ritegno… senza mai abbandonare la presa su di lui, si sollevò sul letto e gattonò all’indietro, scostando leggermente il piumino in modo da potercisi infilare sotto, andando a finire tra le gambe di Castiel.

 

Un po’ insicuro sui fondamentali ma piuttosto fiducioso sul potere dell’improvvisazione, azzardò una leccata in via sperimentale, continuando a masturbarlo molto lentamente, scoprendo che non era affatto male, anzi, era incredibilmente erotico sentire la pelle vellutata e bollente di Castiel sotto la lingua, così rincarò la dose, percorrendone più volte l’intera lunghezza fino a sentirlo tremare, tanto che dovette posargli con fermezza le mani sulle anche per tenerlo giù.
Quando scese a baciare i testicoli, ricoprendo l’interno coscia di piccoli morsi abbastanza forti da lasciare dei segni e accarezzando il perineo con la lingua, Castiel iniziò ad agitarsi in maniera incontrollata artigliando le lenzuola con entrambe le mani e inarcando la schiena tanto da spezzarsela, emettendo suoni assolutamente osceni inframmezzati da parole incoerenti.

 

I rauchi “Jens” che uscivano dalle labbra di Castiel, arrossate e gonfie per i morsi che si era inflitto cercando di non urlare, si infilavano direttamente sotto la sua pelle come scariche elettriche dirette al bassoventre, eccitando Jensen al di là di ogni immaginazione.


Riportò la sua attenzione verso l’alto, e dopo un ultima, vigorosa leccata, avvolse la punta con la lingua, assaporando il sapore salato e caldo di Castiel, che reagì con un vero e proprio ringhio, scalciando via il piumino per poter guardare il compagno, le pupille dilatate e la bocca socchiusa alla disperata ricerca d’ossigeno.

 

Jensen alzò gli occhi incrociando il suo sguardo carico di lussuria, e senza smettere di guardarlo, si abbassò nuovamente su di lui, prendendolo tutto in bocca e facendolo urlare.

 

Se qualcuno, anche solo una settimana prima, gli avesse detto non solo che avrebbe fatto una cosa del genere, ma che gli sarebbe anche piaciuta da pazzi, l’avrebbe spedito a casa con un paio di denti in meno.

 

‘E invece eccoti qua, a succhiare l’uccello di un uomo, arrapato come mai nella vita. Stavolta sei fottuto, Jens, completamente fottuto…’

 

 

Castiel era stato preso talmente alla sprovvista dall’iniziativa di Jensen da non riuscire nemmeno a ragionare o a dire alcunché, si era reso conto delle intenzioni dell’amante giusto in tempo per vederlo dileguarsi sotto al piumino con un sorriso sfrontato.

Soggiogato da quelle labbra che gli stavano facendo cose inimmaginabili, non riusciva a fare altro che gemere e urlare, pensando fuggevolmente che mai, mai nessuno gli aveva fatto provare quello che stava provando ora che - Ohmmioddiofallodinuovo -… -

 

Ansimò ancora, col cuore che rischiava di esplodergli nel petto, e quando si rese conto di non riuscire a trattenersi oltre tentò di avvisare il compagno, tirandogli gentilmente i capelli.


Il suo gesto venne platealmente ignorato, Jensen non vedeva l’ora di guardare il suo prof smarrire anche l’ultimo barlume di controllo a causa di quello che gli stava facendo, non si sarebbe perso quello spettacolo per niente al mondo, così aumentò il livello di tortura continuando a muoversi su di lui in maniera implacabile, tenendolo fermo con entrambe le mani e accarezzando con la lingua i punti che sapeva essere più sensibili per farlo impazzire, fino a quando non sentì i muscoli dell’altro tendersi raggiungendo l’apice e un fiotto caldo riversarsi nella sua gola, mentre una specie di ruggito prorompeva da quella di Castiel.

 

Quando dopo qualche istante rialzò lo sguardo, non trovò più il suo professore, ma una creatura devastata con dei capelli assurdi che sfoggiava il sorriso appagato più enorme che avesse mai visto.

Era assolutamente adorabile.

 

Da mangiarselo.

 

‘Ops, già fatto.’

 

- Ehi, tutto bene? - domandò con dolcezza, scostandogli i capelli sudati dalla fronte.

 

- Ma… non era già passato, Natale? - biascicò Castiel con voce trasognata, cercando di regolarizzare il respiro.

 

- Sì, ma visto che non ti avevo regalato nulla… o magari preferivi un bel maglione con la renna [1]? - ghignò Jensen, malizioso.

 

- Grazie, Bridget, va benissimo così.

 

- Allora Mr. Darcy, che ne dici se mentre tu vai a farti una doccia io scendo di sotto e ti preparo la colazione del campione? - domandò Jensen sospingendo gentilmente Castiel fuori dal letto con un piede.

 

- Basta che non sia zuppa blu… [2] ridacchiò l’altro avviandosi verso il bagno come un ubriaco, con le ginocchia che ancora tremavano.

 

Quando Castiel scese al piano inferiore, con indosso quella che era ormai diventata la loro uniforme da casa, ovvero boxer e maglietta, Jensen aveva già preso possesso della sua cucina ed era intento a rimestare una poltiglia giallina dentro ad un tegame, mentre altre cose dal profumo invitante e dal contenuto di grassi potenzialmente letale sfrigolavano sulla griglia.

 

- Prof, quanto ti piacciono strapazzate le uova? Ci vuoi il formaggio? - domandò spensierato.

 

‘Non puoi davvero avere il coraggio di strapazzare altra roba, dopo quello che hai appena fatto a me…’

 

- Sorprendimi. - replicò con un sorriso radioso, prendendo posto su uno degli sgabelli e accasciandosi sul bancone, rimirando Jensen all’opera. Era sexy anche quando cucinava o era lui che si era completamente giocato ogni traccia d’obiettività?

 

Dopo un paio di minuti un piatto colmo di uova al formaggio fumanti, pomodori grigliati e bacon croccante venne posato sotto al suo naso accompagnato da un bicchierone di spremuta, risvegliandolo dal torpore e facendo emettere al suo stomaco un ruggito degno di un T-Rex.

 

- Wow… - esclamò Castiel, ammirato -

 

- Bè, Jared non è certo diventato un armadio a quattro ante mangiando yogurt e cereali dietetici… -

 

- Grazie… non sapevo che fossi così abile in cucina! -

 

- Non sapevi che fossi così abile anche in altre cose, in fondo, ma sembra che non ti sia dispiaciuto scoprirlo… per sicurezza potremmo sempre chiedere conferma ai vicini, sempre che non abbiano già chiamato la polizia… - ribattè Jensen con un sorrisetto perfido, facendo arrossire furiosamente il compagno, ora dolorosamente consapevole dello spettacolo poco dignitoso che aveva dato al piano di sopra, urlando come un ossesso e contorcendosi come una gatta in calore.

 

- Ehm… io… sì, cioè… è stato davvero… -

 

- Cass, respira, o ti verrò un embolo. Ti stavo solo prendendo un po’ in giro! -

 

- Oh. - mormorò, ancora in imbarazzo. Si concentrò per qualche minuto sulla porzione di colesterolo che gli era stata servita, mangiando in silenzio, poi rialzò lo sguardo continuando a cincischiare le sue uova.

 

- Senti… non credi che… dovremmo parlarne? -

 

- E di cos…? Ah. - commentò Jensen, quando il senso delle parole dell’altro lo raggiunse.

 

Stranamente, non avvertì il tipico attacco d’orticaria prettamente maschile che di solito scatenavano le parole “dobbiamo parlare”.

 

- Credo di… aver bisogno di sapere delle cose… se per te va bene. - esitò Castiel.

 

- Ok. -

 

- Sono il tuo primo uomo? - domandò tutto d’un fiato, con una fretta che tradiva la curiosità che lo attanagliava dal giorno in cui l’aveva conosciuto.

 

- Sì. - rispose Jensen senza esitazione - E io? -

 

- No. Cioè, sì… ci sono stati un paio di ragazzi ai tempi dell’università, ma nulla più di qualche bacio. Credo fosse più curiosità che vera e propria attrazione. -

 

- Quindi non hai mai… -

 

- No. E tu ovviamente… -

 

- No. -

 

- Cazzo. -

 

- Già. -

 

- Siamo… -

 

- Già. -

 

- … vergini!? -

 

- Già. -

 

- Per fortuna ci sei tu che hai il dono della sintesi… -

 

- Già. -

 

Si guardarono brevemente negli occhi, poi l’assurdità della situazione fece breccia nella mente di entrambi. Iniziarono con qualche risatina soffocata, ma dopo un minuto stavano ridendo a crepapelle, abbracciati, ogni imbarazzo dissipato.

 

- Cosa ti va di fare oggi? - domandò Castiel, quando si furono calmati, per nulla allettato dall’idea di abbandonare la loro calda e confortevole bolla.

 

‘Signore, ti scongiuro, fa che non voglia uscire a correre per trenta miglia, a scalare dirupi o qualsiasi cosa occorra al suo corpo per mantenersi in quelle condizioni…’

 

- Niente. Pensavo che potremmo starcene sul divano a guardare film spazzatura e a mangiare cibo spazzatura… insomma, pomeriggio spazzatura! Che ne pensi? -

 

‘Non posso crederci… ho vinto un maniaco sessuale dedito al vizio e all’ozio… Grazie, Dio!’

 

- Ok, credo che si possa fare. - replicò con magnanimità, e un ghigno di soddisfazione piuttosto malcelato. Poi ebbe un’idea.

 

- Ehi, se ti va di esercitarti, potrei posare io per te! Non ti ho ancora visto all’opera. -

 

- Poserai nudo? - chiese l’altro, ammiccando.

 

- B… bè, se vuoi, sì. Perché? -

 

- Non ho mai avuto occasione di avere un modello. Ogni tanto Bei Cap… ehm, Jared posa per me, ma capirai che non posso e soprattutto non voglio chiedergli di mettersi nudo! -

 

- Naturalmente. Bè… se proprio devo… è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo... - concluse solennemente Castiel con un sospiro ostentato.

Abbandonò il tavolo per dirigersi pigramente verso lo studio, levandosi la maglietta mentre camminava e gettandola in direzione di Jensen, lanciandogli uno sguardo malizioso da sopra la spalla.

 

 

 

 [1-2] ovviamente le citazioni si riferiscono al film “Il diario di Bridget Jones”

 

 

N.D.A. : sante donne che fino ad ora avete letto e recensito, GRAZIE! Non avete la più pallida idea di quanto mi lusinghi e mi faccia felice sapere che la storia vi sta piacendo… :D

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Capitolo 11
*** VOLARE VERSO IL SOLE ***


VOLARE VERSO IL SOLE

 

Quando Jensen lo raggiunse nello studio, Castiel aveva ormai abbandonato anche i boxer sul pavimento e stava frugando tra la sua attrezzatura da disegno.

Nudo.

Si voltò verso di lui e gli tese un grosso album da disegno, intonso.

Jensen gli diede una squadrata che avrebbe messo in imbarazzo anche una pornostar, ma il professore restò imperturbabile, saldamente ancorato ai propri nobili propositi.

 

- Non so cosa utilizzi d’abitudine Jens, qui ho matite, carboncino e sanguigna [1]. Cosa ti do?

 

- Prima di tutto un bacio d’incoraggiamento… - mormorò avvicinandosi e appoggiando morbidamente le labbra su quelle di Castiel, che sapevano ancora di succo d’arancia, perdendosi per qualche secondo in quel bacio e valutando seriamente l’ipotesi di scaraventare via l’album e le altre carabattole per passare il pomeriggio a letto.

Quest’ultimo dovette però intuire le sue intenzioni, forse a causa dei suoi mugolii d’apprezzamento, e si staccò, anche se a malincuore, da lui.

Poi sfoderò il tono da docente-risoluto-che-non-ha-assolutamente-voglia-di-caricarti-in-spalla-e-portarti-di-sopra-di-peso.

 
- Winchester, non fare il furbo, adesso si lavora! Dai, dimmi con cosa vorresti disegnare e dove mi devo mettere… e smetti di guardarmi con quell’espressione da Bambi, non funzionerà! -


 Jensen mugugnò.


 - Va bene, schiavista. Ci terrei a ricordarti che è domenica, però, il giorno del Signore, e che gli angeli di domenica si riposano, soprattutto quelli che passano la settimana a disegnare fiorellini di cacao sui cappuccini di emeriti sconosciuti. Ti concedo due ore e poi cazzeggiamo… dammi una sanguigna… - sbuffò - L’ho usata pochissimo e sono una schiappa, vediamo se l’inequivocabile fascino del soggetto riuscirà ad ispirarmi… -

 

- Certo, Grumpy, anche se per essere un angelo ti lamenti davvero parecchio. Inoltre, scommetto che se ti avessi proposto di disegnare ieri avresti tirato fuori la scusa dello shabbat ebreo… un vero e proprio angelo multitasking! -

 

Sul viso di Jensen si dipinse un sorriso piuttosto allusivo, segno che stava per dire qualcosa che avrebbe imbarazzato profondamente Castiel.

 

- Che non fossi ebreo credevo te ne fossi già accorto… allora non sei stato attento, Prof. Hai bisogno di ripetizioni? Potresti non passare l’orale… -

 

‘Ecco. Appunto.’

 

- Zitto e disegna, maniaco. Vuoi dirmi dove devo mettermi sì o no? -

 

- Ti consiglierei il divano, e anche una posizione molto comoda. Sono piuttosto lento… ecco perché in genere mi dedico alle nature morte, ai cesti di frutta non vengono i crampi! -

 

Castiel accese lo stereo, che accompagnava immancabilmente tutte le loro giornate di lavoro, poi si diresse verso uno dei divani, in quel momento illuminato dai raggi del sole che entravano dalle finestre, e si sdraiò a pancia in giù, il mento posato sugli avambracci come se fosse in spiaggia.

 

- Vedo che hai preso alla lettera “posizione comoda”, eh? - ridacchiò Jensen, accomodandosi sul secondo divano, accavallando le gambe e posandovi l’album per poter lavorare agevolmente.

 

Dopo qualche istante di titubanza dovuta alla tecnica che non padroneggiava bene, iniziò a disegnare sempre più speditamente, estraniandosi da tutto, tanto da non accorgersi del tempo che passava e di Castiel, che nel frattempo si era addormentato.

Se ne rese conto solo quando passò a definire i tratti del viso, e non potè impedirsi di sorridere: quando dormiva tutto scarmigliato era assolutamente irresistibile.

 

Terminò diligentemente il disegno e poi, posato l’album, si portò accanto all’altro divano, inginocchiandosi a terra, in modo che il proprio viso fosse quasi a livello di quello di Castiel che continuava a respirare pesantemente, indisturbato.

Gli posò una mano sulla spalla, cercando di riscuoterlo gentilmente, ottenendo come unico risultato una specie di bofonchio irritato.

Cominciò quindi a depositare una serie di baci leggeri sul suo viso: sulla fronte, le tempie, le palpebre, il naso, l’angolo della bocca, la mascella… stava per terminare tutti i punti baciabili quando Castiel si decise a dare segni di vita, guardandosi intorno confuso.

 

- Cosa… che ore sono? Mi sono addormentato Jens…

 

- Sul serio? E io che pensavo stessi meditando per raggiungere un nuovo livello di coscienza! -

 

- Mphf… -
 

Castiel si sollevò leggermente, girandosi su un fianco e puntellandosi su un gomito, guardandosi attorno ancora leggermente disorientato, finché non gli cadde l’occhio sulla propria spalla.

 

- Ehi, non sono il tipo che fugge di fronte alle proprie responsabilità, ma dopo soli due giorni non ti sembra un tantino eccessivo? - ghignò con aria malefica.

 

- Che cosa, sarebbe eccessivo? -

 

- Marchiarmi. -

 

Jensen lo fissò senza capire, poi seguì il suo sguardo fino alla spalla dove, come una bruciatura, campeggiava l’impronta rossastra lasciata dalla sua mano sporca di sanguigna, resa ancora più evidente dalla pelle candida di Castiel.

 

- Oh, merda. Mi spiace, ho usato le dita per sfumare e mi sa che ho fatto un po’ un casino. Prendo qualcosa per darti una ripulita. - si scusò, accennando ad alzarsi in modo da recuperare una delle pezzuole per pulire i pennelli che Castiel disseminava praticamente ovunque.

Quest’ultimo, però, l’afferrò per la t-shirt prima che potesse allontanarsi, attirando il suo viso ad un soffio dal proprio.

 

- Scherzavo. Mi piace, essere marchiato da te… - gli sussurrò all’orecchio in tono lascivo, mandando una serie di brividi a infrangersi contro i neuroni di Jensen e spostandosi quindi lungo il suo collo, baciandolo sempre più avidamente fino a che l’altro non sentì chiaramente che stava succhiando.

 

- Cass… - mormorò debolmente Jensen - Cass… cosa… che stai facendo? -

 

Castiel si staccò appena da lui, osservando soddisfatto il segno violaceo che era fiorito appena sopra la clavicola di Jensen.

 

- Ti marchio anch’io. - spiegò, riprendendo a leccargli languidamente il collo.

 

Jensen si sentiva sempre meno in grado di controbattere.

 

- Ma… domani devo posare… - tentò di argomentare senza convinzione, mentre Castiel si era sollevato a sedere e gli stava sfilando la maglietta, dedicando quindi ad un capezzolo lo stesso trattamento che aveva riservato al collo, leccandolo e succhiandolo in maniera assolutamente indecente.

 

- Poserai con la sciarpa. Dì che hai mal di gola… - mormorò con voce roca, staccandosi solo per passare all’altro capezzolo e riservargli le medesime attenzioni, mentre le sue mani vagavano sulla schiena di Jensen, fino a posarsi sulle natiche ancora avviluppate nei boxer.

 

- Questi non ti servono. Toglili. - ordinò, con un tono tale che il compagno si sentì obbligato a fare come diceva, completamente soggiogato da quei fottuti occhi blu che abbattevano ogni sua difesa.

 

Castiel si alzò dal divano e fece posto a Jensen, osservandolo con sguardo torbido.

 

- Sdraiati, a pancia in giù. -

 

Jensen fece come gli era stato ordinato, senza sapere cosa aspettarsi.

Castiel si sedette a cavalcioni su di lui, e poco dopo lo sentì abbassarsi sulla sua schiena, ricoprendo le sue spalle, la nuca e la curva del collo di baci, piccoli morsi e impercettibili carezze con la lingua.

 

- Cosa stai facendo? - domandò Jensen, debolmente.

 

- Gioco ad “unisci i puntini” con le tue lentiggini… se non sbaglio alla fine dovrebbe comparire un bellissimo uomo - mormorò Castiel, sorridendo e accarezzandogli i fianchi - Mi ero ripromesso di contarle tutte ma sono davvero troppe… - continuò, scendendo un poco a sfiorare delicatamente con le labbra la spina dorsale di Jensen, che rabbrividì.

 

L’erezione di Castiel, dura e bollente, premuta contro il suo fondoschiena, avrebbe dovuto precipitarlo nel panico più totale, mentre invece il peso e il calore del corpo che sovrastava il suo, lontano anni luce dalle minute e soffici forme a cui era abituato, facevano scorrere lungo la sua schiena scariche d’eccitazione anticipatoria.

Scoprì di volerlo, di volerlo più di quanto avesse mai desiderato nient’altro. Di averne bisogno. Di voler dare a Castiel tutto ciò che era, tutto ciò che aveva.

 

Riuscì a rigirarsi sulla schiena, mentre il professore si rialzava appena, puntellandosi sulle ginocchia ed osservandolo incuriosito con il capo inclinato di lato.

 

Jensen se l’attirò vicino, prendendogli il volto tra le mani, per poterlo guardare negli occhi.

 

- Fai l’amore con me, Prof… - sussurrò piano, serio e appassionato.

 

Castiel sbattè le palpebre un paio di volte, come per accertarsi di essere del tutto sveglio, e Jensen vide i suoi occhi tingersi d’apprensione.

 

Apprensione e desiderio.

 

Desiderio e possesso.

 

Non pensò nemmeno per un istante a sincerarsi delle sue intenzioni col classico “sei sicuro?”, se c’era una cosa che aveva imparato di lui, era che niente e nessuno poteva convincere Jensen a fare una cosa che non desiderava, soprattutto alla luce della disarmante intraprendenza dimostrata nelle ultime ore.


Non l’avrebbe mai forzato a fare nulla, nonostante stesse letteralmente impazzendo di desiderio da mesi, ma il fatto che fosse stato lui a chiederglielo era non solo eccitante, quanto piuttosto la prova tangibile che ciò che li univa aveva un significato anche per Jensen, e questo travalicava ogni altra cosa.

 

Non disse nulla, non chiese a nulla, si limitò ad annuire impercettibilmente, accarezzando a sua volta il viso di Jensen con la punta delle dita come se fosse la più fragile e preziosa delle cose, per poi baciarlo con tutta la dolcezza di cui era capace, sperando che lui capisse, che cogliesse anche solo la metà di quello che si agitava nel suo cuore e che non era in grado di dire.

 

Si staccò da lui lentamente, dolorosamente, per rivolgere la propria attenzione al tavolino lì accanto, perlustrando con lo sguardo tra i vari barattoli di colore fino ad identificare ciò che cercava. Si sporse per prendere una piccola bottiglia di vetro scuro, che stappò con attenzione, prima di versare parte del contenuto sul palmo della propria mano.

Un denso liquido ambrato gli gocciolò tra le dita, sotto gli occhi vagamente preoccupati di Jensen.

 

- Ma… non sarà… nocivo? - chiese flebile.

 

Castiel sorrise.

 

- Olio di noce, 100% biologico. Vecchia scuola… - spiegò in tono rassicurante, passando la mano sulla propria erezione, per poi dedicarsi nuovamente a lui.

 

Inginocchiato tra le sue gambe, ne percorse con i palmi delle mani l’intera lunghezza partendo dalle caviglie, lentamente, soffermandosi sulle cosce per accarezzare e rilassare i muscoli inevitabilmente contratti e spingendolo con gentilezza ad allargarle per lui.

 

Attingendo ancora dalla bottiglietta, si bagnò le dita con l’olio, poi le portò tra le natiche di Jensen, visibilmente teso. Per distrarlo dalla manovra invasiva, si sporse a baciarlo mentre iniziava a sfiorare la sua zona più sensibile. Jensen rabbrividì e sospirò direttamente nella sua bocca, ma non interruppe il bacio né si tirò indietro.

 

Le dita di Castiel erano delicate, ma decise, e dopo averlo accarezzato con attenzione più volte, si spinsero piano dentro di lui. Prima uno, poi due, facendo gemere Jensen, anche se Castiel non capiva se di dolore o di piacere.

Si stava facendo tutto piuttosto… appannato, e ormai faticava a restare completamente lucido, accecato dal desiderio e dal bisogno di spingersi dentro al corpo caldo sotto il suo. Mosse le dita con circospezione, ricevendo in risposta mugolii e sospiri soffocati, finchè non sfiorò un minuscolo punto nascosto che fece scattare i fianchi di Jensen.

 

- Cazzo! -

 

Castiel sorrise, compiaciuto.

 

- Ti piace? - sussurrò il professore, soddisfatto e lascivo, ripetendo il movimento e spedendo nuovi brividi ad irradiarsi lungo la spina dorsale di Jensen.

 

- Cass… Oddio… - ansimò Jensen, cominciando a muovere il bacino per andare incontro ai movimenti dell’amante.

 

- Ti piace Jens? -

 

- Io… sì… - ansimò l’altro.

 

-Voglio sentirtelo dire… - insistette Castiel, con un tono incendiario.

 

Jensen si inarcò per una stilettata di piacere, non del tutto sicuro che dipendesse da ciò che Castiel gli stava effettivamente facendo oppure da quello che gli stava dicendo.
Sentire la voce roca del suo professore così autoritaria e spudorata era una cosa che lo mandava al manicomio.

 

‘Quella fottuta voce dovrebbe essere illegale…’

 

- Mi… mi piace… Cass, mi fai impazzire mi… ah! - gridò, perché Castiel aveva iniziato a masturbarlo, accompagnando i movimenti dell’altra mano, e osservava Jensen contorcersi sotto di sé, mentre un intenso rossore gli si andava diffondendo dal petto al viso, risalendo lungo il collo e rendendo ancora più vistose le sue lentiggini.

Era di una bellezza devastante, e Castiel sapeva che non avrebbe retto ancora per molto senza buttarglisi addosso.

 

- Cass… ti prego… -

 

- Cosa? Cosa vuoi Jens? - ansimò Castiel al suo orecchio, leccandogli la mandibola, ormai anche lui al limite ma intenzionato a mantenere la supremazia in quell’eccitante giochino.

 

Dopo un tempo che sembrò infinito, Jensen mormorò una sola parola, fissandolo con uno sguardo imperioso.

 

- Prendimi. -

 

E Castiel non se lo fece ripetere due volte, perché c’era così tanto bisogno, così tanto abbandono in quella voce che non sarebbe riuscito ad allontanarsi da quel calore nemmeno volendo.

Guidò la propria erezione fino a dove pochi attimi prima c’erano state le sue dita, e spinse piano per non fare male al suo Splendore.
Non fu sorpreso di incontrare ben poca resistenza, non dopo i miagolii eccitati di poco prima, e dovette trattenere il fiato e fare un grosso sforzo di concentrazione per non venire lì per lì.

 

Non appena fu dentro di lui, Castiel realizzò, in un cristallino momento di consapevolezza, di aver affrontato la storia con Jensen esattamente come Icaro aveva affrontato il sole, con l’incoscienza cieca generata dall’amore e dal desiderio.

Jensen era davvero come il sole… troppo bello, troppo caldo, troppo luminoso, e lui gli era volato incontro con effimere ali di cera, incurante di tutto, solo per potersi avvicinare un po’ di più, solo per poter avere per sé un po’ di quella luce.

Non appena i loro sguardi si erano incrociati, in quella caffetteria, aveva capito di essere destinato a cadere, a farsi male, ma non gli era importato.

Si era lasciato travolgere dai sentimenti senza avere alcuna speranza…

 

Ora invece, mentre affondava centimetro dopo centimetro nel calore bollente di Jensen, sentiva che non sarebbe più successo, che non sarebbe più caduto.

 

Quando entrò completamente dentro di lui, vide i suoi meravigliosi occhi verdi velarsi di dolore, per un attimo, solo per un attimo, e poi tornare a specchiarsi nei suoi colmi di fiducia, sentimento, brama… invitandolo tacitamente a muoversi.

 

Se non un atto d’amore, per uno come Jensen quello era un atto di fede. Di fede in lui, di fede in loro due.

 

L’angelo che stringeva tra le braccia gli aveva dato le sue ali, e ora poteva volare dritto al centro del sole, lasciandosi avvolgere dal calore invece di bruciare, di precipitare, di soffrire.

 

Castiel si ritrasse leggermente, per poi affondare nuovamente in lui con lentezza esasperante, fino in fondo, strappando un gemito al suo amore e sentendolo tremare, mentre si aggrappava alle sue spalle.

 

‘Oh, si, tu sei il mio angelo…’  pensò, iniziando a spingere con un ritmo lento e cadenzato, osservando il piacere dipingersi man mano sul volto accaldato sotto di sé ad ogni suo movimento, chinandosi a baciarlo e facendo il modo che l’erezione del compagno sfregasse contro la pelle morbida del proprio basso ventre.

 

 ‘Mio. Finalmente mio, corpo e anima…’ pensò fugacemente, abbandonandosi del tutto a quella sensazione.

 

Jensen, sotto di lui, era in estasi: certamente per quello che stavano facendo, ma soprattutto perché i sentimenti che stavano affiorando dentro di lui lo lasciavano completamente stordito.

 

Quel bacio, quell’unico bacio al museo era stato l’equivalente di un sassolino lanciato al centro della superficie immota di un lago… una piccola, insignificante cosa, che però aveva generato una serie di onde concentriche sempre più ampie, che si allargavano inarrestabili e sembravano non voler mai raggiungere la riva, portando a galla sensazioni dimenticate.

 

Era sconvolto da sé stesso, dalla marea di emozioni sconosciute che stava provando, da quello che aveva chiesto a Castiel di fare… non era lui, quello, non era più lui.


Castiel l’aveva cambiato, impercettibilmente, un poco alla volta, ed era riuscito ad abbattere con la sua semplicità il muro di diffidenza che Jensen aveva eretto tra sé e il resto del mondo.

 

Si era infiltrato dentro di lui come acqua, fluendo lentamente nel suo cuore, nel suo cervello, nella sua vita, colmando ogni più piccolo anfratto con la sua rassicurante presenza… e ora stava provando, forse per la prima volta dalla morte di sua madre, la sensazione totalizzante di fidarsi completamente di un’altra persona, di abbandonarsi senza paura tra le mani di qualcuno che era certo non gli avrebbe mai fatto del male, di perdere il controllo…

 

E lo stava perdendo, davvero, mentre Castiel si spingeva dentro di lui sempre più veloce, sempre più profondamente, stimolando ad ogni affondo quel punto fantastico che non sapeva nemmeno di avere e mandandogli scariche di piacere incontrollate dritte nel cervello.

 

Posò una mano sul petto di Castiel per farlo scostare leggermente, e mentre quest’ultimo si ritraeva a fatica si sollevò, invertendo le loro posizioni e mettendosi a cavalcioni su di lui, facendolo appoggiare allo schienale del divano.

 

Osservò per un attimo il volto sfatto del compagno a pochi centimetri dal proprio, scarmigliato, accaldato, felice, gli occhi blu resi enormi e luminosi dall’eccitazione, e per un attimo due parole fecero capolino nella sua mente.

 

Due parole che non aveva mai detto a nessuno, perché nessuno era mai stato tanto importante, ma che all’ultimo gli si incastrarono in gola… sopraffatto dall’emozione e dalla paura, si limitò a prendere tra le mani il viso del professore e a baciarlo con un’intensità che spinse l’altro ad affondare dentro di lui con ancora più urgenza, mentre Jensen lo stringeva forte, venendo con violenza e contraendo i muscoli attorno all’amante, che lo seguì immediatamente gridando il suo nome e volando con lui incontro al sole.


 

 

[1]: La sanguigna, che nella tradizione artistica definisce una particolare tecnica grafica, è uno strumento da disegno tra i più antichi. E' costituita da ematite, ridotta in bastoncini e opportunamente appuntita, con il quale si possono tracciare sulla carta segni dal caratteristico colore rossastro che ricorda il sangue.


NDA: rinnovo i miei ringraziamenti e i miei squittii a chi sta seguendo e recensendo la storia, a chi l'ha messa tra le ricordate e le preferite e pure a chi capita qua per caso e fugge via inorridita! :D
I nostri due ragazzoni vanno in vacanza... ebbene sì, tutta quest'attività fisica li ha un po' provati, ma i capitoli successivi sono già pronti, per cui al rientro si ricomincerà a lavorare di gran carriera... abbiamo una mostra da mandare avanti!

Buone vacanze a tutte, spero che nel frattempo le poste non abbiano fatto casino e i vostri assegni siano arrivati.  ^^

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Capitolo 12
*** THE EX-FILES ***


THE EX-FILES



Erano scivolati nel sonno esausti e sudati nella pozza di luce che riscaldava il divano, ma ora che i raggi del sole, sempre più basso all’orizzonte, si erano spostati in un altro punto della stanza, si risvegliarono entrambi scossi da brividi di freddo.

- Cass… si gela… - mugugnò Jensen, stringendosi a lui.

Castiel allungò un braccio per afferrare il plaid ripiegato che si trovava sullo schienale del divano, cercando di aprirlo con una sola mano, con scarsi risultati fino all’intervento di Jensen che, sollevatosi a sedere, dispiegò completamente la coperta, scivolandoci poi agilmente sotto.

Il divano non era particolarmente ampio, perciò i due erano allegramente accatastati, le gambe intrecciate, avvolti nel plaid come in un enorme bozzolo scozzese.

Il tepore, l’intimità e la pace che Jensen provava in quel momento dovettero probabilmente riflettersi sul suo viso, perché Castiel ridacchiò osservandolo, mentre gli accarezzava pigramente i capelli.

- Che c’è? - domandò.

- Niente, sei… diverso. Non credo di averti mai visto con un’aria così rilassata. -

- Questo non è relax, è un’esperienza di premorte. - scherzò Jensen.

- Cretino. -

- Cass lo sai che non sono uno che esterna molto ma… per me… è stato... - si bloccò, arrossendo un pochino e abbassando lo sguardo.

- Sì, per essere due verginelli alle prime armi non ce la siamo cavata male… - terminò per lui Castiel in tono leggero, cercando in tutti i modi di evitare il classico “ti è piaciuto?”.

Jensen mise su un sorrisino sbilenco tra il timido e lo sfrontato.

- Stai bene? - chiese Castiel.

- Sì. Sto bene, benissimo… anzi, era da una vita che non stavo così bene… - ammise Jensen, compiaciuto e rilassato.

- Davvero? Quindi è da molto che non hai una storia? - chiese Castiel, lasciando trapelare certa incredulità.

- Uhm… che non ho una storia sì, che non faccio sesso… bè, meno. Molto meno. -

Castiel si accigliò. Poi sorrise.

- Wow. Sto per scoprire i segreti di Casanova… accidenti, non sono sicuro di volermi addentrare lungo questo sentiero. -

Jensen ridacchiò, leggermente nervoso.

- Non sono Casanova, solo… mi è sempre piaciuto divertirmi. In compenso ho sempre avuto enormi problemi con l’impegno a lungo termine. - confessò, pentendosi immediatamente di come gli era uscita la frase.
Messa così sembrava proprio che volesse mettere le mani avanti…

Un’ombra scese sul sorriso di Castiel.

Appunto.

- Mi… devo preoccupare? - chiese esitante, cercando di sorridere con noncuranza ma senza riuscire a mascherare una nota di insicurezza nella voce.

Non avrebbe mai sopportato di essere “una botta e via” o una sorta di omo-esperimento per Jensen, non dopo gli ultimi due giorni. Non gli era passato nemmeno per l’anticamera del cervello che per l’altro ciò che avevano condiviso potesse non avere la stessa valenza che aveva per lui.
Il solito idiota.

Jensen si voltò completamente per osservare con attenzione il volto bellissimo e teso a pochi centimetri dal suo, affogando in quegli occhi blu colmi di speranza e sapendo con certezza di non poter o voler desiderare nient’altro.

Non avrebbe mai pensato che la gioia, la pura gioia, potesse irrompere nella sua vita negli stropicciati panni di un professore incasinato e ansioso, ma - ehi! - alla fortuna non si fanno le pulci, la si accetta e basta.

- Direi proprio di no, prof… - mormorò, sporgendosi verso di lui, catturando le sue labbra in un bacio lento e morbido - Non ti libererai facilmente di me… - sussurrò.

Per Castiel fu come tornare a respirare dopo una lunga apnea. Si baciarono per qualche minuto, senza urgenza, poi si staccò, osservando Jensen di sottecchi.

- Raccontami della tua ultima storia… - chiese, visibilmente più rilassato.

- Stiamo aprendo gli Ex-Files? -

Castiel sbuffò una risatina.

- Bè, è un classico, all’inizio di un rapporto… parlar male dei rapporti precedenti. -

- Non credo di aver molto di cui parlar male, sai? In genere le mie storie, per poche che siano state, sono finite sempre per colpa mia… - mormorò serio - Comunque, l’ultima risale allo scorso anno. Lei si chiamava Lisa, ha lavorato per un po’ in caffetteria, siamo stati insieme per circa 8 mesi. -

- Com’è andata? -

- Mi sembrava simpatica, oltre che bella, una ragazza per bene. Le ho chiesto di uscire, e al quarto appuntamento mi ha confessato di avere un figlio. -

- Ed è finita perché…? -

- … Perché adoravo quel ragazzino, Ben. Dalla prima volta in cui l’ho visto ho sentito qualcosa, non so davvero come spiegarlo… avrei fatto di tutto per quel moccioso… e non puoi stare con una donna perché ami suo figlio più di quanto ami lei… è stato difficile, e doloroso, ma ad un certo punto mi sono dovuto tirare indietro, prima che lui si affezionasse troppo a me e ci facessimo tutti molto male. Ho cercato di spiegarle il problema, ma ha preferito non credermi, mi ha dato del vigliacco e dell’immaturo e pochi giorni dopo si è licenziata. Mi ha fatto sentire uno schifo, ma credo che Ben meritasse una figura paterna migliore, un uomo che amasse senza riserve sia lui che sua madre… - spiegò tristemente Jensen, ancora visibilmente tormentato dal rimorso.

- Mi manca, quel nanerottolo. -

- Jens… guarda che non hai fatto niente di male. Credo che tu abbia compiuto un gesto molto nobile, anche se difficile, e mi spiace che lei possa conservare un ricordo negativo di te, anche se in realtà non credo che sia davvero così. In questo genere di cose c’è sempre chi che ne esce con le ossa rotte… penso sia inevitabile che qualcuno soffra. Probabilmente Lisa ha reagito così per autodifesa, non ti devi sentire in colpa, tu sei stato solamente onesto, con te stesso e con loro. - disse Castiel in tono conciliante.

Jensen si strinse brevemente nella spalle, come a voler dire “ormai è passata”.

- Piuttosto, cosa mi dici di te Prof? Storie serie? -

Castiel esitò un attimo, come per riordinare le idee.

- Victoria. E’ finita da un anno o poco più. Era la mia ragazza al liceo, figurati, l’ho portata persino al ballo di fine anno! Poi… sai come vanno queste cose, eravamo giovani, al college ci siamo persi di vista e non l’ho sentita per anni, ma ci siamo incontrati di nuovo ad una di quelle imbarazzanti riunioni per ex alunni dove ti appiccicano un orrenda targhetta adesiva sul petto che dice “Ciao! Sono Castiel”. Dio, dovevo essere ubriaco quando ho accettato di andarci… - mormorò sovrappensiero.

- Comunque, dicevamo? Ah, sì, Victoria. Lei non era cambiata molto negli anni, aveva sempre la solita aria da secchiona e lo stesso sarcasmo per cui era famosa al liceo… ci siamo fatti quattro risate bevendo un disgustoso punch fluorescente e al primo accenno di musica vintage siamo fuggiti a gambe levate per andare al cinema. Una cena, un altro cinema, e dopo pochi giorni ci siamo rimessi insieme. -

- Quant’è durata? -

- Quasi due anni. -

- E poi? -

- E poi… non lo so… è come quando vai in vacanza due volte di fila nello stesso luogo. Il posto ti piace, ci stai bene ma… non c’è più molto da scoprire - spiegò, alzando le spalle - Alla fine eravamo più buoni amici che compagni, non c’era più passione… ce ne siamo resi conto entrambi e ci siamo lasciati di comune accordo. -

- Vivevate insieme? - domandò Jensen con una vibrazione di fastidio malcelato nella voce, inspiegabilmente geloso che qualcuno, anzi, qualcuna, potesse aver diviso con Castiel quella casa che era stata sia spettatrice che teatro della nascita del loro rapporto.

- No. Due anni e ognuno a casa propria. Forse avrei dovuto capirlo da quello che qualcosa non andava… -

- In ogni caso sei stato fortunato, niente scenate e lanci di piatti… -

- Oh, sì, molto fortunato: lei aveva una mira decisamente migliore della mia, se mi avesse lanciato dei piatti mi avrebbe sicuramente ucciso! - rise Castiel - Meglio così, comunque, ora esce con un attore televisivo, figurati!

Negli occhi di Jensen si accese una strana luce.

- Non… non è che questo tizio ha degli agganci nella produzione di Dottor Sexy, vero? - domandò titubante.

- Jens… - lo ammonì Castiel.

- Ok, ok. - mormorò imbronciato - Nuova regola di vita: non chiedere favori al nuovo fidanzato della ex del tuo ragazzo. Uffa… -

‘Tuo Ragazzo?’

- Comunque, per la cronaca, potrei arrangiarmi anche con i miei potenti mezzi se solo lo volessi… - continuò, piuttosto imbronciato

- I tuoi… potenti mezzi? -

- Esattamente. Giusto un paio di giorni fa è capitato in caffetteria il tuo sosia, e mi ha detto che sono identico alla star della soap Life is Good, suggerendo che potrei fare la controfigura o lo stunt nella serie e -

- Frena, frena! - lo bloccò Castiel - Chi è che è venuto in caffetteria? -

- Il tuo sosia, te lo giuro. Una somiglianza impressionante, sulle prime l’avevo scambiato per te, figurati… la cosa più assurda di tutte è che dopo avermi fatto notare la stranezza del mio nome mi ha detto il suo: Castiel… -

- Mi prendi in giro? Vuoi farmi credere che in città c’è uno identico a me che per di più si chiama Castiel? - domandò l’altro Castiel, ora scettico.

- Per un attimo ho pensato anch’io che fosse un qualche stupido scherzo e di essere la vittima di un programma tipo Candid Camera, ma quel tizio quando mi ha visto si è stupito quanto me, e a quanto pare non sei il solo ad avere un gemello, anche se io sono sicuramente più muscoloso di quel Dean. Quel ragazzo aveva con sé una serie di fogli scritti fitti fitti, tutti macchiati, mi ha ricordato te quando disegni persino sui tovaglioli di carta… Oh! Sai cosa? - chiese all'improvviso, illuminandosi di una luce perversa - Dovremmo presentarci agli studi di Life Is Good e vedere cosa succede! -

- Stai scherzando… -

- Assolutamente no! Pensa, se riuscissimo ad essere sufficientemente disinvolti potremmo entrare e curiosare ovunque, intrufolarci sul set, e se riuscissimo ad incontrare questo Dean, o Castiel, potremmo fare come in quel film della Disney dove le gemelline si scambiano i genitori… come si chiama… -

- «Il cowboy con il velo da sposa » [1] ? - domandò Castiel, completamente stranito, abbandonandosi al delirante corso dei pensieri di Jensen.

- Quello! Bravissimo! - replicò l’altro con sincero entusiasmo.

Il professore ormai non sapeva più se ridere o piangere. Ogni tanto Jensen regrediva agli otto anni in modi assolutamente imbarazzanti. E tenerissimi.

- Jens… ma… ma quanti anni hai? - chiese quindi, cercando di non scoppiare a ridergli in faccia. Fallendo miseramente.

Jensen di fronte alle lacrime di Castiel, piegato in due dalle risate, perse di colpo tutto il suo entusiasmo.

- Non capisco cosa ci sia da ridere… la mia era un’idea grandiosa... - mormorò serio - ...Grandiosa! Avremmo potuto divertirci come pazzi, fare la vita delle star per un paio di giorni e conoscere un sacco di gente famosa. -

- Oddio, sto con uno stalker… - singhiozzò Castiel, cercando nel frattempo di darsi un contegno per non offendere ulteriormente Jensen - Altre storie rilevanti, oltre ai gemelli separati alla nascita? Legione straniera? Una carriera segreta come gigolò? - lo canzonò.

- Diciamo che non mi sono mai fatto mancare nulla… - ribattè Jensen, sempre più sulle sue, lasciando trapelare un certo orgoglio da macho.

‘E ci credo, probabilmente ti si gettano ai piedi per la strada fin dal liceo…’

- Quindi mi stai dicendo che ti ho strappato dalla perdizione e da una vita dissoluta? - domandò Castiel, cambiando abilmente discorso.

- Mhhhh… può darsi. Anche se non si può dire che tu mi stia facendo condurre esattamente un’esistenza monastica… - disse ridacchiando un po’ più rilassato e facendo notare a Castiel l’enorme succhiotto che l’altro gli aveva lasciato sul collo - Che mi dici invece di quella Anna? Quella di cui parli ogni tanto. Chi è? Una ex?-

- Anna? Oh, no, per carità, Anna è la sorella di Gabe. -

- Hai una sorella? - mormorò stupito Jensen.

- Tecnicamente no. Non siamo imparentati, è la figlia della madre di Gabe, l’ha avuta con un altro uomo dopo aver divorziato da mio padre, la considero mia sorella un po’ come fai tu con Jo. Gabe mi avrebbe spedito a calci in un’altra dimensione, se solo avessi osato alzare un dito su Anna. -

- Vive anche lei a New York? -

- No, lei vive… ovunque. Fa la ballerina, è l’étoile di una prestigiosa compagnia di ballo ed è sempre in tournèe in giro per il mondo, ultimamente in Giappone. Dovresti vederla… - mormorò con affetto, sorridendo orgoglioso - Ha una massa di incredibili capelli rosso fuoco, i suoi fan la chiamano “la fiamma che danza” o “the grace”, per l’armonia dei suoi movimenti…

- The grace? Non dirmi che sei imparentato anche con Anna Milton? - balbettò Jensen, stupefatto.

- La conosci? Non sospettavo che amassi il balletto, Winchester! Mhhh… non saresti male in calzamaglia… bel culo. - valutò Castiel con un ghigno.

- Non seguo il balletto, ma gli occhi ce li ho Cass, l’ho vista in tv. Fammi capire: Balthazar è un affermato professore e scrive libri di grande successo, Gabe tiene le redini di una multinazionale e Anna è una prima ballerina? Questa cosa sta diventando imbarazzante… c’è qualcuno che sia meno che straordinario, nella tua famiglia? -

- Io. - replicò l’altro con semplicità ed un sorriso, senza alcuna traccia di amarezza.

- Ed è qui che ti sbagli. - lo riprese Jensen con dolcezza - Tu sei…- si interruppe, travolto dall’imbarazzo e dall’anomala intensità dei propri sentimenti.

Non era avvezzo a certi discorsi, non era abituato ad esternare le proprie emozioni, non le aveva mai nemmeno provate, certe emozioni, cazzo!

Faceva tutto così romanzo rosa… lanciarsi in un’appassionato elenco delle qualità del proprio ragazzo?
Seriamente?
Fece violenza al vecchio Jensen, mentre gli occhioni di Castiel lo scrutavano curiosi, in attesa.

Si schiarì la voce, prendendo un grosso respiro che suonava più come una rincorsa per un salto nel vuoto.

Il suo primo salto.

- …Tu sei straordinario, Cass. Dico sul serio. Porca miseria, prima d’incontrarti io ero etero! Se non è una prova sufficiente questa… -

Castiel rise, ma smise immediatamente rendendosi conto che Jensen non aveva smesso di parlare.

- … Non ho mai incontrato nessuno come te: sei leale, diretto, intelligente, spontaneo, completamente privo di cattiveria e io… ti ammiro moltissimo per questo. Sei così bello, e ironico, sei una persona solare, piena di talento e passione… - disse tutto d’un fiato Jensen, puntando uno sguardo verde da mozzare il fiato in quello blu di Castiel e poi distogliendolo in fretta, mentre le sue lentiggini si facevano sempre più vistose...

Castiel arrossì altrettanto, ma di piacere.

- Quindi tu… saresti il mio viola? - domandò pensoso, tentando di smorzare un poco l’imbarazzo di Jensen, che sembrava sul punto di volersi sotterrare.

- Il tuo che? -

- Il mio viola. Dici che sono solare… quindi giallo… il cui colore complementare è il viola. Dopo aver assistito abusivamente alle mie lezioni per mesi dovresti sapere che un colore fa brillare il proprio complementare e lo rafforza… -

Jensen non potè fare a meno di ridere, visibilmente più rilassato, accettando l’implicito complimento.

‘Eccolo qui, il professor Collins e le sue nude ripetizioni di cromatologia.’

- Vedi la gente viola, Cass? - domandò, strizzando l’occhio al compagno.

- Eh?-

- Niente… - mormorò Jensen scuotendo la testa - Una battuta scema di un film [2]. -

- Credo che dovremmo guardare meno televisione… -

- Uhm… per dedicarci invece a fare cosa? Lezioni private di anatomia? - domandò malizioso Jensen.

- Per dedicarci alla pittura, specie di scansafatiche che non sei altro! - lo redarguì Castiel, ridendo.

- Eserciterei comunque le mie innate doti manuali… - lo blandì Jensen, percorrendo prima il braccio e poi il fianco di Castiel con una carezza delicata e insistente.

- Che stai facendo, Winchester? - domandò Castiel, a titolo assolutamente gratuito.

- Bè, sai come si dice, la pratica rende perfetti… - mormorò l’altro, accarezzandogli distrattamente un’anca con la punta delle dita.

Castiel sentì il sangue infiammarsi di nuovo per quel contatto quasi innocente.

- Stai cercando di uccidermi? - sussurrò languido, girandosi un pochino sul fianco in modo che la mano di Jensen scivolasse naturalmente dal fianco alla sua erezione.

Il più giovane non fece una piega, continuando con le sue carezze come se nulla fosse.

- Quello tra qualche anno, quando i tuoi dipinti varranno una fortuna, così potrò rivenderli e fuggire alle Barbados. - rispose con un ghigno, stringendo la presa sul compagno.

- Vedo che hai già studiato un piano quinquennale… che ragazzo assennato… - ansimò Castiel.

- Che vuoi che ti dica? Sono nato pronto… -

- Hem, io però… io dovrei proprio lavorare, Jens - mormorò Castiel, con grande difficoltà, cercando di non cedere ai tocchi sempre più serrati dell’altro - Mancano quattro settimane alla mostra… e ho ancora due dipinti da ritoccare… e cinque da terminare… -

- Mhhh… certo, capisco… - sussurò Jensen senza interrompere in alcun modo le proprie manovre.

Castiel trovava sempre più difficoltoso esporre le proprie, peraltro validissime, rimostranze.

- Jens… dovrò lavorare anche di notte… - pregò senza fiato.

- Hai ragione Prof, prima il dovere, poi il piacere… - rispose Jensen, condiscendente.

- Sì… infatti… - Castiel annuì, la voce spezzata dalle carezze che ancora non erano cessate.

Jensen si lasciò andare ad una risata infantile, con un luccichio malizioso negli occhi.

- Andiamo in camera? - propose trionfante.

Castiel chiuse gli occhi. Sarebbe stato un mese estenuante.


NDA: tutta la parte in cui Castiel e Jensen parlano dei rispettivi sosia può sembrare senza senso o fuori contesto, mi rendo conto, invece è un sentito omaggio alla magnifica fic di Aniel “Life is good”: nel capitolo 13 troverete il corrispettivo di questo strambo incontro visto dal ‘suo’ Castiel.
Le nostre menti spesso hanno sperimentato involontariamente la fusione vulcaniana, ma stavolta il crossover è assolutamente intenzionale! :D
So di aver detto che i miei due ragazzoni andavano in ferie, ma per "simmetria narrativa" (pffffffffffff... XD) pubblico in contemporanea con Aniel.



[1] Il film è un classico Disney del 1961 (titolo originale: The parent trap), credo che prima o poi, sotto Natale, sia capitato a tutti di vederlo.
Casualmente, una delle protagoniste risiede proprio a Boston con la madre, mentre l’altra vive con il padre, che sta per risposarsi con una certa… Vicky.

[2] La battuta è di Misha e viene dal film “Ragazze interrotte”, dove compare per circa trenta gloriosi secondi…

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Capitolo 13
*** L'AMORE, SOTTO GLI OCCHI DI TUTTI ***


L’AMORE, SOTTO GLI OCCHI DI TUTTI
 
 
E venne finalmente la sera dell’esposizione.
Mentre si dirigevano a bordo dell’Impala alla volta dello Space 242, uno spazio espositivo piuttosto noto del quartiere di South End, Jensen occhieggiava continuamente il sedile del passeggero, dove un Castiel elegantissimo e piuttosto ansioso non faceva che tormentarsi la cravatta.
Gli posò una mano sulla coscia e strinse leggermente.
 
- Ehi, devi stare tranquillo. Sarà un successo, fidati. I quadri sono favolosi e tu sei bellissimo… ma se non la smetti con quella cravatta dovrò legarti le mani. -
 
L’altro gli rivolse un’occhiata divertita. E parecchio interessata.
 
- Preferirei mille volte tornare a casa a farmi legare da te, piuttosto che affrontare quegli squali. Siamo ancora in tempo per fare inversione… -
 
- Non dire scemenze, l’inaugurazione andrà bene, e se te lo dice un angelo... - lo tranquillizzò Jensen, con aria di superiorità.
 
- Mh… -
 
- Che c’è? Non mi credi? Mi ritengo oltraggiato! - esclamò Jensen con tono melodrammatico, mettendo su un broncio tanto esagerato quanto fasullo.
 
- Ok, ok… angioletto dei miei stivali! - ridacchiò - Andrà bene. L’unica mia altra preoccupazione è la presenza di Balthazar. Proprio ora che ero riuscito a convincerti di essere una persona a modo… mi ero ripromesso di presentartelo quando avessi voluto farti cambiare la buona opinione che hai di me… -
 
- Accidenti, è così pessimo? -
 
- No… ecco, no. In realtà è una brava persona, se scavi molto a fondo. E’ che è un tipo… piuttosto eccentrico. Non ha peli sulla lingua né inibizioni di nessun tipo e quando vuole sa essere parecchio inopportuno, ma avrai modo di rendertene conto tu stesso a breve… - osservò, constatando che erano giunti a destinazione.
 
Entrarono alla galleria da un ingresso laterale, accolti dal direttore e dalla signorina Talbot, la curatrice della mostra. Entrambi entusiasti, li informarono che nonostante mancassero quindici minuti all’apertura, una piccola folla si era già accalcata all’entrata principale, nonché un sacco di stampa specializzata.
Castiel non riusciva a spiegarsi la risonanza che stava avendo quell’evento, poi realizzò.
 
- Balthazar. E’ stato Balthazar. -
 
- Eh? -
 
- Scommetto che ha telefonato a tutti i suoi agganci nel raggio di tre stati per far avere un’eco del genere alla mostra. -
 
- Bè, è una bella cosa, no? Si preoccupa per te. -
 
- Sì ma non sono più un ragazzino, Jens, vorrei farcela da solo. Questa è la mia prima mostra importante, la mia grande occasione, vorrei cavarmela con le mie forze. - spiegò Castiel, con una nota di disappunto nella voce.
 
- Ma sarà così. Se Balthazar ha davvero fatto una cosa del genere, ed è ancora tutto da verificare, si è limitato a richiamare qui un po’ di gente. Ciò che quella gente penserà delle tue opere, ciò che di bello riuscirà a scorgervi, sarà solo merito tuo. Si chiama libero arbitrio, sai? -
 
- Uhm… com’è che riesci sempre a dire la cosa giusta? -
 
- Perché sono incredibilmente saggio, oltre che incredibilmente bello. - commentò Jensen, raddrizzandogli la cravatta e osservando ammirato Castiel, abbagliante nel suo completo nero, la camicia color Borgogna che rendeva i suoi occhi quasi violetti - Anche tu non sei male, però… -
 
- Andiamo, saggio Yoda, stanno aprendo le porte. - disse Castiel, prendendo un profondo respiro, afferrando Jensen per un gomito e pilotandolo nei pressi dell’entrata dopo averlo sfiorato con un rapido bacio.
 
La folla si riversò all’interno della galleria, distribuendosi uniformemente tra i vari dipinti, mentre gli addetti al catering facevano la spola con grandi vassoi carichi di champagne e microscopici canapè.
 
Castiel riconobbe un gruppo di studentesse del suo corso (che evidentemente non volevano perdersi l’occasione di ammirare Jensen con indosso un po’ meno di neoclassicità), il critico di una nota rivista di settore e un paio di giornalisti di cronaca cittadina, ma preferì non pensarci e annegare la tensione sul fondo di un calice di bollicine e nei rassicuranti occhi di Jensen, che quella sera brillavano d’orgoglio, salutando affabilmente chiunque si avvicinasse per complimentarsi e stringendo mani a casaccio.
 
Intento ad esaminare con sospetto quella che poteva benissimo essere la tartina più piccola del mondo o un mattoncino Lego, Jensen notò un uomo alto e allampanato, elegante ma in maniera piuttosto vistosa, che si faceva largo nella calca puntando dritto nella loro direzione, brandendo una flûte di champagne che sembrava incollata direttamente alla sua mano.
Non appena fu a tiro, agguantò Castiel e l’abbracciò con trasporto, sotto lo sguardo curioso di Jensen.
 
- Cassy! Finalmente ti ho trovato! Temevo che fossi in bagno a vomitare anche l’anima per l’ansia! La mostra sembra notevole sai? Non credevo, fratellino, ma hai davvero fatto il salto di qualità. Mi auguro che tutti questi giornalisti diano a Cesare quel che è di Cesare, te lo meriti proprio e… oh, e lui chi è? - domandò infine, registrando la presenza di Jensen e posando immediatamente lo sguardo su una delle tele appese alle loro spalle, per poi tornare ad osservarlo con occhio critico.
 
- Ma tu… sei l’angelo! Quale onore! Io sono Balthazar, il fratello di questo qui! - esclamò allegro, dando una vigorosa pacca sulla spalla di Castiel, che lo fissava con orrore - E’ un piacere fare la tua celeste conoscenza! - blaterò ancora, con una luce divertita nei penetranti occhi azzurri.
 
Se si escludevano appunto gli occhi chiari (il cui colore però non poteva in alcun modo competere con l’incredibile blu oceano di Castiel), Balthazar non aveva nulla in comune con il fratello: i capelli biondi, i lineamenti affilati che lo facevano somigliare ad una specie di furetto e soprattutto la rilassata sicurezza che irradiava attorno a sé erano lontani anni luce da tutto ciò che Jensen amava nel suo prof.
 
- Ehm, Jensen, il piacere è mio. - replicò titubante - Ci siamo già incontrati per caso? Il tuo viso ha un che di familiare… -
 
- Lo so, lo so, mi scambiano tutti per il fottuto Gordon Ramsay, ma io non so cuocere nemmeno un uovo. E non vedo perché dovrei, mi fanno schifo le uova! Se proprio devo mangiare uova di qualche animale, scelgo il caviale… a proposito, in questa bettola non ne hanno? La curatrice di questa mostra dev’essere lesbica! - esclamò con un certo disappunto guardandosi in giro, parlando più a sé stesso che a Jensen, che lo fissava come se fosse un alieno.
 
- Amico mio, mi perdonerai se ti rubo per dieci minuti il mio fratellino, vero? Vorrei fare una visita guidata della mostra… - tubò quindi all’indirizzo di Jensen, prendendo un riluttante professore sottobraccio ed iniziando a trascinarlo via quasi di peso.
 
Jensen guardò per un istante Castiel, che non aveva ancora emesso alcun suono e aveva la frase “non lasciarmi da solo con lui” stampata in fronte a caratteri cubitali, gli occhioni blu che imploravano aiuto.
Sorrise con aria malvagia, gli strizzò l’occhio e si voltò verso un gruppetto di studentesse, che iniziarono a sbracciarsi nella sua direzione.
 
- Nessun problema, vado a salutare le ragazze, laggiù. - disse con un impercettibile ghigno, allontanandosi e lasciando soli i due fratelli.
 
Castiel sospirò.
 
- Balthazar… -
 
- Uhhhhh… quel tono. -

- Quel tono cosa? -
 
- Quel tono, quello lì, quello che usi quando stai per accusarmi di qualcosa. E poi non mi chiami mai Balthazar. Sentiamo, cos’avrei fatto stavolta? -
 
- Hai chiamato tu tutta questa stampa e i critici? -
 
- No. - rispose serafico.
 
- Giuramelo. Guardami negli occhi e giuramelo. - insistette Castiel, per nulla soddisfatto da una banale negazione, specialmente se proveniente da quel disgraziato di suo fratello.
 
Balthazar spalancò esageratamente gli occhi, fissandolo come un gufo drogato, e giurò.
 
- Non sono stato io. -
 
Castiel si rilassò visibilmente.
 
- E’ stato Gabriel. -
 
‘Ah, ecco. Ti pareva.’
 
- Cazzo, Balth! Quando la smetterete voi due? Non ho più dieci anni, maledizione! -
 
- Oh andiamo, fratellino, non puoi prendertela con me stavolta! E’ stata un’iniziativa al 100% di Gabe, io non ne sapevo nulla fino alla scorsa settimana… si sentiva in colpa per non poter essere qui, così ha fatto un paio di telefonate, non puoi biasimarlo! -
 
Castiel replicò piccato.
 
- Ti assicuro che sono perfettamente in grado di tollerare il fatto che mio fratello abbia inderogabili impegni di lavoro in Europa proprio la sera della mia mostra, non ho bisogno del contentino Balth. -
 
- Quindi devo annullare il telegramma cantato di domattina? -
 
- Ah, ah. Esilarante… - commentò il professore, senza alcuna traccia di divertimento nella voce o sul viso, su cui comparve a tempo di record un’espressione sgomenta nel vedere il fratello che si voltava ed estraeva dalla tasca il suo futuristico cellulare, pigiando un paio di tasti e mormorando sottovoce una serie di istruzioni confuse, tra cui riuscì però a riconoscere distintamente la parola “disdire” e il proprio indirizzo.
Sentendo già insorgere un principio di quella che chiamava “emicrania da congiunti”, si massaggiò la radice del naso ad occhi chiusi attendendo pazientemente che Balthazar terminasse di annullare le ridicole sorprese che Gabe aveva organizzato in suo onore.
 
Riacquistata un po’ di lucidità dopo il fastidio causato dall’ingerenza familiare, decise di affrontare a muso duro anche Balthazar.
 
- Balth, ti stai comportando in modo strano. Più strano del solito, intendo. Cosa c’è sotto la tua visita? So bene che anche tu sei occupatissimo in questo periodo, tra conferenze e promozione del tuo nuovo libro. Che ci fai qui? - domandò senza tanti preamboli.
 
- Come sei sospettoso Cassy, rilassati… - ribattè Balthazar - Ci tenevo ad esserci almeno io all’inaugurazione, ecco tutto. -
 
- Ma? -
 
- Perché dev’esserci un ma? -
 
- Perché con voi due c’è sempre un ma. -
 
Il biondo esitò, poi assunse un’espressione rassegnata.
 
- Ok. Beccato. - ammise con semplicità - In realtà il tuo affascinante fratellone ha una sopresa per te. -
 
- E sarebbe? -
 
- Pazienza, Cassy, pazienza. Mi sono permesso di portare un ospite, tra poco lo conoscerai. Si è fermato fuori per una telefonata di lavoro… - spiegò con aria misteriosa - Intanto fammi dare un’occhiata ai tuoi ultimi scarabocchi. -
 
Castiel lo fulminò con un’occhiataccia.
 
- Ok, ok, scusa! Sei permaloso proprio come papà… per fortuna in famiglia ci sono almeno io col senso dell’umorismo! Lo sai perfettamente che adoro il modo in cui dipingi… come io so che non sei più il moccioso magro e tutt’occhi che ho sempre protetto… sono fatto così fratellino, dovresti saperlo. - si giustificò, stringendosi nelle spalle, continuando la sua implacabile marcia all’interno della galleria.
 
Si fermò di fronte ad una grande tela che ritraeva Jensen in tutto il suo splendore: posa epica, ali immense da arcangelo e una grande spada fiammeggiante.
Un guerriero maestoso, potente, bellissimo.
 
Balthazar restò in silenzio per un intero minuto, una sorta di record per lui, osservando meditabondo il dipinto e spostando fuggevolmente lo sguardo su quelli adiacenti, mentre Castiel l’osservava sulle spine.
 
D’un tratto si voltò verso il fratello, gli occhi accesi di consapevolezza.
 
- Oh cazzo. Cassy… ti sei innamorato? -
 
Castiel quasi si strozzò con lo champagne.
 
- Che cos…? Perché? Perché dici questo? - farfugliò, sentendo le guance arrossarsi a velocità supersonica.
 
- Andiamo, fratello… nessuno dipinge in questo modo una persona per cui non prova nulla! Non hai mai ritratto così quel tizio… coso… Michael, o come diavolo si chiamava. Questi quadri sono come un’interminabile, colorata, vistosissima dichiarazione d’amore. -
 
- Ma non… - tentò debolmente di protestare Castiel.
 
- Ehi, sono uno storico dell’arte, chi credi di prendere per il culo? So cosa sono le muse, so cosa vuol dire ritrarre la passione… -
 
- Bé, ecco… -
 
- Castiel. -
 
- E va bene! Va bene! Ok, sì. Sono innamorato di Jensen. - ammise, fissando il pavimento.
 
- E lui lo sa? -
 
- Sì, cioè… stiamo insieme da quattro settimane… - confessò riluttante.
 
- Oh Cassy! Perché non volevi dirmelo? Sono felicissimo per te! -
 
- Davvero? Io credevo… - si interruppe Castiel, rialzando lo sguardo, leggermente spiazzato da tanta comprensione e soprattutto dall’assenza di ogni traccia d’ironia nella voce del fratello.
 
- Perché è un uomo? Ma per chi mi hai preso? Poi quel Jensen è talmente bello che quasi quasi un pensierino ce lo farei anch’io! - sghignazzò Balthazar, dissipando una volta per tutte la tensione e circondando le spalle del professore con un braccio, con fare protettivo.
 
- Ahhh… se avesse le tette sarebbe perfetto… - sospirò, facendo ridacchiare Castiel.
 
Vennero distratti da un colpetto di tosse proveniente da un uomo sui 45, più basso di entrambi, che sfoggiava un completo sartoriale dal taglio impeccabile e un’aria vagamente annoiata.
 
- Scusate se interrompo questo delizioso quadretto familiare… - li apostofò, con un marcato accento inglese.
 
Castiel lo fissò incuriosito, mentre Balthazar procedeva con le presentazioni.
 
- Fergus, questo è mio fratello Castiel, l’artista. Castiel, ti presento Fergus Crowley, il mio editore alla Hellhound Publishing. -
 
- Signor Crowley, è un piacere. A cosa debbo l’onore della sua visita? - domandò Castiel, intuendo che ci fosse qualcosa dietro alla presenza di quell’uomo - E’ un lungo viaggio fin qui da New York, solo per una piccola esposizione come questa… -
 
- Signor Collins - posso chiamarla Castiel? - suo fratello mi ha parlato moltissimo di questa mostra, e ora che posso ammirare dal vivo l’oggetto di tanto entusiasmo, posso tranquillamente dire di essere pronto a portare avanti il progetto. - disse compiaciuto.
 
Lo sguardo di Castiel vagò smarrito tra i due.
 
- Progetto? -
 
- Balthazar, non gli hai detto nulla? - chiese Crowley, voltandosi verso il biondo con aria di rimprovero.
 
Balthazar assunse un espressione imbarazzata che raramente Castiel aveva visto dipinta sul volto del fratello.
 
- Diciamo che volevo fosse una sorpresa… - mormorò, a disagio.
 
‘Diciamo che volevi incastrarmi, mettendomi di fronte al fatto compiuto…’
 
- Oh, sì, mio fratello sa quanto io ami le sorprese! E stata davvero una bella pensata, Balth. - dichiarò con uno smagliante sorriso dedicato a Crowley, rifilando a Balthazar, non visto, una gomitata nelle costole tutt’altro che delicata e un’occhiataccia di fuoco.
 
‘ Con te facciamo i conti dopo…’
 
- Quindi chi di voi due signori vuole avere la grazia d’illuminarmi? -
 
Crowley prese la parola, roteando lentamente il proprio whisky nel tumbler che reggeva con noncuranza.
 
- A questo punto, tanto vale che lo faccia io, un intermediario direi che ormai è inutile… il punto è questo, Castiel: come lei ben sa, suo fratello sta avendo un crescente successo con i suoi libri, tra romanzo e trattato, sui vari movimenti artistici. Sarà lo stile non serioso o i fatti poco noti sulla vite private degli artisti di cui infarcisce i suoi scritti, fatto sta che la gente sta letteralmente impazzendoper le sue monografie. Il nostro nuovo progetto vuole sviluppare l’analisi sui simboli, le allegorie e le iconografie classiche nella pittura, soprattutto religiosa: dal memento moridell’arte cristiana controriformista arrivando agli angeli, presenti in quasi tutte le culture. Vorrei integrare questi testi sia con immagini patrimonio della storia dell’arte mondiale che con degli inediti. E a questo punto entra in campo lei: mi piacerebbe affidarle l’intera produzione di queste immagini… quello che ho visto stasera mi ha più che convinto, il suo stile è esattamentequello che stavo cercando. -
 
E qui l’uomo fece una significativa pausa ad effetto.
 
- In sostanza, le sto offrendo un contratto. -
 
Castiel restò senza parole, voltandosi brevemente ad osservare Balthazar al suo fianco che stava letteralmente gongolando e poi oltre, cercando con lo sguardo la figura di Jensen, che finalmente era riuscito ad appropriarsi di una fetta di dolce, in fondo alla sala, quasi a volersi aggrappare a qualcosa di reale.
 
- Io… io non so che dire… - balbettò, completamente spiazzato.
 
- Mi rendo conto di averla colta di sorpresa e d’essere stato un po’ inopportuno ad affrontare questo discorso proprio durante la sua grande serata, ma ero certo che Balthazar le avesse perlomeno accennato qualcosa. Mi scuso per la mia invadenza, ma vista l’occasione di parlare a quattr’occhi mi sembrava una sciocchezza rimandare. -
 
- No, no, ha… ha fatto bene, solo le chiedo del tempo per valutare la proposta e fare mente locale sui miei impegni. Come sa insegno, e sono nel bel mezzo del semestre. -
 
- Assolutamente, capisco benissimo, mi auguro però che vorrà accettare il mio invito a New York tra qualche settimana per discutere della questione, sia in termini contrattuali che d’impegno concreto, in una sede più consona. Le lascio il mio biglietto - disse, allungando a Castiel un’elegante cartoncino color avorio - Si senta libero di contattare il mio ufficio e di concordare la data per lei più agevole. -
 
Castiel ripose il prezioso rettangolino nel taschino interno della giacca, ancora vagamente frastornato, poi sentì una mano familiare posarsi sulla propria spalla.
 
- Jens… - mormorò, confortato da quel contatto.
 
- Disturbo? - chiese il biondino con una certa curiosità nella voce.
 
- Affatto. Fergus, le presento Jensen Winchester, il mio modello. Jens, il signor Crowley. E’ l’editore di Balthazar. -
 
I due si studiarono per qualche secondo di troppo prima di stringersi la mano senza calore, sembravano quasi due animali selvatici che si stessero annusando. A parte un laconico “Piacere”, nessuno proferì verbo.
 
A salvare tutti quanti dall’imbarazzo che era calato come un’improvviso banco di nebbia ci pensò Balthazar, ricordando al gentiluomo inglese che avevano un’autista fuori che li aspettava e che il rientro fino a New York era piuttosto lungo.
Dopo una serie di saluti imbarazzati e formali, i due abbandonarono l’esposizione, lasciando soli Jensen e il professore.
 
- Quel tipo non mi piace. - esordì Jensen.
 
- Wow, l’hai presa alla larga eh? - sorrise Castiel - Che ti ha fatto? Sì, è un po’ snob, ma è inglese e vive a New York… credo sia genetico. -
 
- Non mi ha fatto nulla, è stata solo una sensazione a pelle, anch’io credo di non piacergli molto. Comunque, chi se ne frega, che voleva? -
 
- Mi ha proposto un lavoro. Un grosso, prestigioso lavoro, in effetti. -
 
- E tu che hai intenzione di fare? -
 
- Non lo so, dovrò pensarci bene, immagino. Mi ha chiesto di andare a New York per discutere i particolari. -
 
- E ci andrai? -
 
- No, ci andremo. Tu vieni con me. -
 
- E’ una domanda? - chiese Jensen con un sorriso.
 
- No. - replicò il compagno con un sorriso ancora più ampio.
 
- Ogni tanto sai essere veramente dispotico, Prof. Dai, andiamo… - disse Jensen prendendo Castiel per un braccio e trascinandolo nuovamente tra la folla - La serata è ancora lunga e poco fa ho incrociato Bela che ti cercava,… -
 
- Che palle, stasera sono braccato dagli inglesi… ti giuro che non vedo l’ora di essere a casa per togliermi questa cravatta… - mormorò Castiel, allentando la striscia di seta e lasciandola tutta sbilenca.
 
Jensen l’osservò divertito e si sporse per sussurrargli all’orecchio.
 
- Se è per quello, io non vedo l’ora di essere a casa e toglierti tutto il resto… magari la cravatta potrei lasciarla… o usarla per legarti e farti tutto quello che voglio… - mormorò suadente.
 
- Ok, fanculo la mostra. Andiamo a casa. Adesso. - ringhiò Castiel.
 
- Oh, no Prof: prima il dovere e poi il piacere… me l’hai insegnato tu, ricordi? Quando ancora ero un ragazzo cattivo e senza alcuna disciplina… - continuò, con un piccolo ghigno perverso.
 
- Ti odio Jens. -
 
- Lo so. -
 
Naturalmente quella notte non combinarono nulla, entrambi troppo stanchi, Castiel letteralmente esausto a causa del cumulo di emozioni, ma fu ugualmente soddisfacente addormentarsi stretto tra le braccia del suo amore pensando che la vita, ogni tanto, poteva essere davvero, davvero bella.




NDA: miscredenti! L'avevo detto io che il prof ce l'avrebbe fatta a finire in tempo per la sua mostra XD

 Come sempre, grazie a tutti quelli che buttano un'occhio su questa pagina... in particolar modo a GIUD.
 

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Capitolo 14
*** GOOD NEWS, BAD NEWS ***


GOOD NEWS, BAD NEWS
 
 
Quando Castiel si svegliò, la mattina seguente, allungò istintivamente la mano in cerca del calore di Jensen, ancora ad occhi chiusi. Dopo aver tastato invano lo spazio al proprio fianco, si decise ad aprire gli occhi, trovando solo lenzuola ancora tiepide e un bigliettino.
 
‘Sono uscito a procacciare la colazione per il mio eroe. Torno subito, resta a letto!

                                                                                              Jens’
 
Fece appena in tempo a stiracchiarsi pigramente, crogiolandosi nel ricordo della sera precedente, quando sentì la porta di casa aprirsi e suoni ovattati provenire dalla cucina.
Dopo pochi minuti Jensen face capolino in camera con un sorriso accecante, reggendo un vassoio con un cappuccino, una busta di carta che emanava un profumo delizioso e una vera e propria catasta di quotidiani.
 
Appoggiato il vassoio sul comodino, si sporse a baciarlo dolcemente.
 
- Buongiorno, Grande Artista… - gli sussurrò sulle labbra.
 
‘Buongiorno, Amore Mio...’
 
- Ciao Jens… hai svaligiato un’edicola? -
 
- Sì, e anche una pasticceria - ammise con un certo orgoglio, porgendogli il sacchetto di carta - Ho preso i tuoi bagels preferiti e anche dei croissant al cioccolato. Mangiali finché sono caldi e bevi il tuo cappuccino, io intanto ti leggo le recensioni.
 
- Scusa, ma quanti giornali hai comprato? -
 
- Tutti quelli che c’erano, tre copie per ognuno. -
 
- Tre? In pratica abbiamo deforestato l’Amazzonia… -
 
- Bè, ma ci servono: una copia per me, una per te e una da ritagliare per l’album dei tuoi successi. -
 
- Ma io non ho un… album dei successi. -
 
- Se le cose sono andate come penso io, da oggi temo che sarà necessario. Mangia, su! - ordinò, sedendosi sul letto a gambe incrociate mentre iniziava a smembrare, più che sfogliare, i vari quotidiani in cerca delle rubriche di cronaca e d’arte.
 
Castiel fece la miglior colazione della propria vita, sepolto tra carta stampata stropicciata, briciole, buonumore e un uomo stupendo che leggeva a voce alta ottime recensioni sulla sua mostra, infervorandosi ogni volta che ne trovava una particolarmente lusinghiera.
 
- Ehi Prof, senti questa! «Si è inaugurata ieri sera allo Space 242 la mostra “Wings”, richiamando un folto ed eterogeneo pubblico e suscitando grande interesse nel panorama artistico cittadino. Sebbene il tema degli angeli non sia certo una novità, Castiel Collins, l’autore, l’ha affrontato con rinnovato entusiasmo, personalizzando in modo impeccabile e assolutamente originale la sua visione delle creature celesti.
Ad una prima occhiata, l’effetto materico delle ali funge da catalizzatore per lo sguardo dello spettatore, libero di scivolare poi verso gli altri minuziosi particolari fino ad ammirare le tele nella loro interezza, trasportato in un mondo onirico dalla pennellata sicura e precisa di Collins, che infonde ai suoi angeli una forza e una fierezza realmente ultraterrene.
Un’esposizione impedibile, che arricchisce ed innalza il livello della vita culturale di Boston.»
 
- Accidenti, a questo Chuck Shurley piaci quasi quanto piaci a me! - esclamò, raggiante.
 
Castiel scrutò per qualche istante in quegli occhi accesi d’orgoglio, e il totale altruismo di Jensen gli trafisse il cuore ancora una volta.
 
Non c’era traccia di egoismo o invidia in quel ragazzo. Era completamente diverso da chiunque avesse conosciuto in precedenza, così genuinamente fiero e felice per il suo successo che Castiel sentì lacrime di commozione offuscargli lo sguardo.
 
E il pensiero di aver fatto qualcosa, in questa o in un’altra vita, che gli potesse far davvero meritare una persona del genere non fece che peggiorare la situazione, spingendo quelle lacrime pericolosamente vicine alla barriera delle ciglia.
 
Jensen, notandole, si rabbuiò immediatamente.
 
- Ehi, ehi… c’è qualcosa che non va? - domandò, apprensivo.
 
‘Ho paura. Ho paura di non essere abbastanza. Ho paura che finisca tutto. Ho paura di non essere più in grado di concepire la mia esistenza senza di te... ‘
 
- No, anzi. Va tutto bene. Va tutto meravigliosamente bene … - mormorò, asciugandosi le lacrime col dorso della mano e sporgendosi a baciarlo con delicatezza, rilevando con piacere che le sue labbra erano cosparse di cristalli di zucchero e premurandosi diligentemente di leccarli via, accelerandogli il respiro. Quando però iniziò ad insinuare le dita sotto la felpa del compagno, questo con fatica si scostò.
 
- E’ tardissimo… - mormorò a malincuore - facciamo appena in tempo a farci la doccia e ad uscire… -
 
- Odio il mio lavoro… -  mugugnò Castiel, tirandolo per la felpa e riavvicinandosi alle sue labbra.
 
- Sì, anch’io… - convenne Jensen sottovoce, senza nemmeno provare a sottrarsi di nuovo alle sue attenzioni.
 
- Domani mi licenzio… - sussurrò il professore sulle labbra del compagno, sbottonandogli i jeans e tirandoselo addosso.
 
- Sì, anch’io… -
 
E poi non ci furono più parole.
 
In compenso, mezz’ora dopo, ci furono due giovani uomini piuttosto trafelati e con i vestiti abbottonati malissimo che uscivano di casa correndo, ridendo come pazzi, sgommando poi via su una lucida macchina d’epoca.
 

 
La lezione era iniziata da poco meno di 20 minuti, e in ritardo, quando Castiel sentì qualcuno schiarirsi insistentemente la voce, e quella voce preannunciava solo una cosa: guai.
 
Appoggiata allo stipite della porta dell’aula c’era Meg, con dei vertiginosi stivali neri a stiletto, uno striminzito giubbotto di pelle e degli attillatissimi pantaloni che, Cass da quella distanza non riusciva a stabilirlo con precisione, avrebbero potuto benissimo essere un tatuaggio.
 
‘Ma cosa insegna, incisione o tecniche sadomaso?’
 
- Buongiorno professoressa Masters. - la salutò Castiel, educato ma glaciale.
 
- Ciao, Collins… - replicò lei, strascicando un po’ troppo la S finale.
 
- Hai bisogno d’aiuto? Posso fare qualcosa per te? -
 
- In effetti potresti, sì, ma non mi pare la sede adatta… a parte questo, sono venuta a portarvi la lieta novella. Lieta per me, ovvio. - specificò col suo solito sorrisetto, quello specifico sorriso che mandava Castiel fuori dai gangheri.
 
- Suppongo di non avere scelta… parla. In fretta. - le disse secco.
 
- Il rettore ha appena annunciato che i 5 migliori allievi del corso che vincerà l’esposizione di fine anno avranno una borsa di studio, le opere esposte in un museo cittadino e uno stage estivo al Guggenheim… -
 
Nella classe serpeggiò un mormorio eccitato.
Meg strizzò appena gli occhi, soddisfatta della bomba appena sganciata, sperando d’intercettare il solito sguardo ansioso negli occhi di Castiel, che invece la fissavano cupi e duri come acciaio.
 
- Grazie Meg, naturalmente m’informerò a riguardo. Ora, se hai finito, qui stiamo facendo lezione… - specificò, in un chiaro invito a levarsi dalle scatole.
 
- In effetti sono venuta per dare un’occhiata. Conosci il tuo nemico e bla bla bla. Non che sia preoccupata, sia ben chiaro, solo volevo conoscere meglio quelli che umilieremo… - dichiarò soavemente, passeggiando con lentezza alle spalle dei ragazzi, visibilmente nervosi, i tacchi a spillo che risuonavano sul pavimento, fermandosi di tanto in tanto ad osservare i disegni appena abbozzati.
 
Castiel compatì i suoi alunni.
 
‘Dev’essere così che ci si sente davanti al plotone d’esecuzione… o quando una tarantola ti zampetta sul collo.’
 
Poi Meg ricordò che il soggetto principale dei disegni si trovava lì, e sporse curiosa la testa al di là del muro di cavalletti.
 
A Castiel non sfuggì lo sguardo sorpreso e nonostante tutto ammirato che affiorò sul suo viso, oltrepassando l’abituale maschera di irritante sicurezza, quando scorse Jensen in posa, perfetto come il David di Michelangelo, immobile ma con uno sguardo omicida dedicato solo a lei.
 
Meg reagì con uno scatto irritato e un rapido dietrofront, marciando di nuovo alla volta di Castiel, che l’osservava palesemente divertito, appoggiato alla cattedra.
 
- Sembra più intelligente, senza vestiti. - commentò acida, riacquistando la solita faccia di bronzo.
 
‘Dovresti vederlo nudo, sembra Einstein…’
 
- Jensen è molto bravo, i ragazzi stanno facendo enormi progressi, grazie a lui. - commentò neutro, senza rispondere alla provocazione.
 
- Anche i miei ragazzi hanno fatto passi da gigante, sentiti libero di venire a dare un’occhiata quando vuoi… sempre che tu possa sopportare la competizione. -
 
Castiel aveva voglia di strangolarla.
 
- Lo sai che non scendo nell’Ade, Meg. - replicò asciutto.
 
- Ade? Ancora con questa storia? Non sono Satana, Collins. -
 
‘No, sei la puttana di Babilonia, anzi, del Babylon, a giudicare da come ti vesti’ valutò il professore, ripensando ad un equivoco locale alla periferia di New York dove una volta aveva tentato di trascinarlo Balthazar.
 
- Ade sta per Aule Delle Esalazioni, Meg. Tutti quegli acidi e solventi mi danno il mal di testa. -
 
- Uh, e io che credevo che la vecchia scusa dell’emicrania la utilizzassero solo le donne. Se Occhi Blu ha la bua potremmo sempre giocare al dottore… - replicò lei, lasciva, abbassando la voce e invadendo il suo spazio personale.
 
- Preferisco “Indovina Chi”. - ribattè lui, duro e insolitamente aggressivo - Indovina chi ti farà andar via dall’esposizione con la coda tra le gambe? -
 
Meg si protese ancor più verso di lui, incuriosita dall’insolito cipiglio del professore, in modo da potergli sussurrare all’orecchio.
 
- Oh, sarei molto felice se mi facessi andare con qualcosa tra le gambe, Occhioni… anche se preferirei venire… - bisbigliò, per poi voltarsi e uscire, lasciando Castiel sbigottito e tutti gli studenti incazzati.
 
Alla prima pausa, Jensen affiancò il professore.
 
- Che voleva? -
 
- Il mio fluido vitale… - mormorò Castiel con occhi vitrei.
 
- Cosa? -
 
- Credo che ci abbia provato, tra un insulto e l’altro.-
 
- Dio, che stronza. Come si fa a liberarsi di lei? -
 
- Temo che ci voglia un esorcista… -
 
- Ogni volta che la vedo, provo l’impulso irrefrenabile di darle fuoco. -
 
- Sì, lo so, potremmo suonare la chitarra cantando Kumbaya e scaldare marshmallows davanti al falò con i suoi resti… ma possiamo fare di meglio… - disse, rianimandosi e portandosi al centro dell’aula.
 
- Ragazzi? Avete sentito tutti quello che ha detto la str… la professoressa Masters? -
 
In risposta ricevette una serie di mugugni.
 
- Bene. Ora, se fossi un bravo insegnante, vi direi di non rispondere alle provocazioni, di essere superiori e di continuare col vostro lavoro come avete sempre fatto…-
 
Altri mugugni.
 
- … Ma siccome sono un insegnante davvero pessimo, vi dirò una cosa: facciamo il culo a quelli del seminterrato e prendiamoci quelle cazzo di borse di studio! Non mi interessa se dovremo aumentare le ore di lezione o se dovrò dare ripetizioni private, se in questo istituto qualcuno dovrà andare al Guggenheim, quelli sarete voi, che lo vogliate o meno! Sono stato chiaro? - concluse con aria di sfida.
 
La classe esplose in un boato, tutti abbandonarono i loro posti e si accalcarono attorno a Castiel, le voci che si sovrapponevano nel dare consigli, promettere massimo zelo, elaborare strategie vincenti ed urlare incoraggiamenti.
 
Jensen l’osservò con orgoglio, intenerito da quell’agguerrita e risoluta versione del suo prof.
 
Castiel Collins, l’agitatore di folle.
 
Incredibile.
 
Al termine della lezione si avviarono fianco a fianco verso la macchina, sfiorandosi impercettibilmente ad ogni passo. Jensen mise in moto e si immise nel traffico, in direzione di Back Bay.
 
- Senti, Impavido Leader, ti lascio a casa e poi corro da me per cambiarmi e farmi una doccia, non posso presentarmi al lavoro in queste condizioni, ti spiace? -
 
- Condizioni? -
 
- Avvicinati. -
 
- Sai di sesso… - constatò compiaciuto Castiel, protendendosi verso Jensen abbastanza da inspirarne l’odore e trovandolo tremendamente eccitante.
 
- Sì, lo so, anche tu. E mi piace da impazzire sentirmi il tuo odore addosso. Ma non so se ai clienti di Starbucks piacerebbe allo stesso modo… frappuccino & Eau de Cass.-
 
Castiel rise sommessamente.
 
- Questa cosa del non farsi la doccia dopo va attentamente rivalutata… -
 
- Sì - convenne Jensen ridendo, mentre parcheggiava di fronte alla casa del professore - Magari quando non siamo in pubblico, che dici? -
 
- Ci penserò. - concluse il professore, baciando fugacemente Jensen e scendendo dalla macchina - Mi chiami più tardi?
 
- Certo. A dopo! - urlò Jensen dal finestrino abbassato mentre dava gas e spariva in fondo alla via.
 


 
Dopo nemmeno dieci minuti, il cellulare di Castiel vibrò, diffondendo nell’aria le note di ”Eye of the tiger”.

Il professore sorrise: aveva scelto quella suoneria per Jensen quasi per scherzo, perché gli aveva sentito canticchiare quella canzone sotto la doccia, e ora era indissolubilmente legata all’immagine di lui, come la sua giacca di pelle o la sua preziosa Baby.
 
- Ehi, che succede? Non riesci già più a stare senza di me? - cinguettò rispondendo all’apparecchio.
 
Dall’altra parte, la voce di Jensen suonò particolarmente dura e tesa.
 
- No Cass, è successo un casino. Un fottuto casino. -
 
Il buonumore di Castiel si volatilizzò in meno d’un secondo.
 
- Jens, così mi spaventi a morte, cosa diavolo è successo? -
 
- Non ricordo se ti ho mai parlato di Rufus, un vecchio amico di mio padre… -
 
- Sì, forse me ne hai accennato, ma che c’entra ora? Che hai fatto? - domandò Castiel sempre più allarmato.
 
- Io niente… per ora. Ma appena me ne sono andato da casa tua ho ascoltato la mia segreteria, e c’era un messaggio di Rufus. Dice che quell’uomo è qui. A Boston. Dice che sta cercando me. -
 
- Uomo? Quale uom… oh. Cazzo. Cazzo Jens! - Castiel si sentì come se gli avessero appena rovesciato addosso una secchiata d’acqua gelida.
 
- Dice che il demone è qui. -
 
- Ma lui come fa a saperlo? E’ sicuro? - rispose concitato il professore.
 
- Rufus non ha mai mollato le ricerche, dopo la morte di mio padre ha “ereditato” la nostra caccia. Vuole vendetta quanto me e ha sempre monitorato gli spostamenti di quel bastardo grazie alla sua rete di informatori nella malavita. Se dice che è qui, ho buone ragioni per credergli. -
 
- Ma… ma scusa, se ha tutti questi informatori e riesce a seguire i suoi spostamenti, perché diavolo non riesce a catturarlo? -
 
- Il problema è che hanno tutti paura di quell’uomo, anche gli altri delinquenti. Non forniscono mai informazioni abbastanza dettagliate da mettersi nei guai, solo quel tanto che basta per guadagnare qualche dollaro e pararsi il culo con gli altri cacciatori. Sono pesci piccoli, spaventati e meschini. In genere avvisano Rufus quando il demone cambia stato, o quando si dirige in una specifica città… come stavolta -
 
- Non è detto che sia qui per te, può essere un caso… - Castiel cercava disperatamente di aggrapparsi a quest'idea, sentendo una morsa alla bocca dello stomaco che lo costrinse a sedersi.
 
- No. Da quando mi sono trasferito qui, ha sempre evitato questa città come la peste… deve avere in mente qualcosa se è venuto qui, ha ragione Rufus. -
 
- Ma perché? Perché ora? - la voce di Castiel stava salendo di varie ottave, man mano che la paura prendeva il sopravvento.
 
- Cass, non lo so! - rispose Jensen, brusco - Le azioni di un uomo del genere non sono certo guidate dalla razionalità… io credo, e anche Rufus… credo che voglia ammazzarmi. - disse in un soffio - Finire il lavoro.-
 
Le parole di Jensen sfumarono in un silenzio opprimente carico di tensione, mentre Castiel cercava di introiettare il senso di ciò che aveva appena udito. E di ragionare. In fretta.
 
- Jens, sei sull’elenco? - chiese con un filo di voce dopo un lungo momento, confuso e spaventato.
 
- Sì. - annuì l’altro, a denti stretti.
 
- Sa dove sei. Cristo, sa dove sei. Devi venire via da lì. Vai a casa, prepara un borsone con tutto quello che ti può servire e vieni immediatamente via da lì! - ordinò Castiel, con tono improvvisamente determinato.
 
- E dove dovrei andare? -
 
- Ho un posto. E non ci andrai da solo. - propose l’altro, d’istinto, pensando più velocemente di quanto gli fosse mai capitato - Non ci troverà mai lì, e il tuo amico e gli altri cacciatori avranno campo libero per beccare quello stronzo. Adesso chiamo in Accademia e mi prendo un paio di settimane di permesso, ho mesi e mesi di ferie arretrate, tu fai lo stesso e datti malato. -
 
- Ma i ragazzi come faranno se manchiamo entrambi? Con la storia di Meg, poi… -
 
- I ragazzi se la caveranno. Manderanno qualcuno al mio posto, probabilmente anche al tuo. Siamo avantissimo col programma e se proprio devo dirti la verità… me ne infischio. Al momento l’unica cosa che conta è metterti al sicuro, ho ben altre priorità rispetto a Meg. Tu intanto chiama tutti i tuoi vecchi amici e dì loro che quel rifiuto umano è qui, sempre che non lo sappiano già. -
 
L’improvvisa freddezza e il fare autoritario di Castiel lasciarono Jensen interdetto, sembrava essere diventato lui il cacciatore… poi, ripensando al comportamente di quella stessa mattina in Accademia, si rese conto che quando si toccavano o minacciavano le persone all’interno della sua sfera emotiva, Castiel reagiva come una leonessa che protegge i propri cuccioli, accantonando l’abituale pacatezza e remissività in favore di un atteggiamento decisamente aggressivo.
 
Avrebbe mai smesso di stupirlo?
 
- Ah, e se ne hai una, porta la pistola. - concluse Castiel prima di chiudere la telefonata, per iniziarne subito una seconda.
 
No, non avrebbe mai smesso.

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Capitolo 15
*** IN FUGA ***


IN FUGA
 
 
Non che non si stesse sforzando, beninteso, ma Castiel non riusciva davvero a comprendere o ad accettare la situazione in cui erano precipitati, nello spazio di una telefonata: come diavolo era possibile che quell’uomo girasse ancora a piede libero? Com’era possibile che cercasse Jensen, dopo tutto quel tempo?

Perché, poi?
 
Queste cose non succedevano alle persone normali, nella vita reale i truffatori sociopatici non tornavano a cercarti dopo quasi dieci anni per farti la pelle… il solo pensiero che qualcuno covasse così tanto rancore nei confronti di Jensen era un’ipotesi semplicemente inconcepibile, talmente assurda che si aspettava da un momento all’altro di vedere Horatio Caine superare i nastri gialli della polizia, nell’atto di togliersi gli occhiali da sole, dicendo qualche baggianata… poi ci sarebbe stata una canzone degli Who, titoli di coda, il cattivo in galera e la loro vita sarebbe ricominciata esattamente come prima.
 
Vero?
 
Cazzo.
 
Imprecò mentalmente un numero incalcolabile di volte mentre selezionava sul cellulare il numero del fratello: contro Dio, contro il destino che si faceva beffe di lui, contro la sfortuna… senza però ricavarne alcun conforto.
 
- Ciao fratell… - esordì allegro Balthazar, rispondendo alla telefonata di Castiel, immediatamente interrotto dalla voce allarmata di quest’ultimo.
 
- Balthazar, ascoltami, non ho tempo per cazzate e convenevoli, ho bisogno di un favore. -
 
Il maggiore capì all’istante che la faccenda era seria, Castiel non chiedeva mai aiuto per nulla, e di certo non con quel tono.
 
- Naturalmente Cassy, tutto quello che vuoi. Sei nei casini? - chiese con voce insolitamente dolce e preoccupata.
 
- Non io. Però mi occorre aiuto. Mi serve la baita. Adesso. -
 
- Ma certo. Considerala casa tua. Hai le chiavi di riserva? -
 
- No, merda! - imprecò Castiel, alterato - Le ha tenute Gabe l’ultima volta. Cazzo! -
 
- No problem, te le mando con un corriere, hai qualche ora? -
 
- No! ... Sì. Per forza… - si trovò a dire Castiel, nonostante volesse togliersi dai piedi il più in fretta possibile.

- Non riattaccare, chiamo subito e sento che mi dicono. -

Castiel rimase in attesa, ascoltando la voce di Celine Dion rammentargli che, nonostante tutto, il suo cuore sarebbe andato avanti, continuando a imprecare in una sorta di mantra.

- Cassy? Sei ancora lì? - domandò Balthazar dopo un paio di minuti, riprendendo la linea - Ok, mi confermano la consegna entro cinque ore al massimo, anche meno. Spero che per te vada bene… -
 
- Sì, sì. Ma certo. Allora io… io aspetto qui. - mormorò, improvvisamente sfinito.
 
- Fratellino, non voglio impicciarmi, ma poi mi spiegherai cosa sta succedendo? - il tono sempre leggero di Balth non riusciva a coprire del tutto la preoccupazione.
 
- Sì, certo… anzi… spero che tutta questa faccenda si risolva al più presto, Balth… - mormorò Castiel in tono stanco, stropicciandosi gli occhi con una mano ed emettendo un lungo sospiro.
 
- Allora buona fortuna, e per qualunque cosa ti occorra… - esitò Balthazar.
 
- Spero che non ce ne sia bisogno. -
 
- Ok. Bè… ciao, Cassy. -
 
- Ciao… ah, Balth? -
 
- Sì? -
 
- Grazie. -


 
Le ore successive trascorsero all’insegna di una tensione che si poteva tagliare col coltello, la gioia e la spensieratezza di quella stessa mattina già così lontane da sembrare un puntino luminoso in fondo ad un tunnel buio.
 
Jensen nel frattempo era arrivato a casa di Castiel con armi e bagagli, letteralmente, visto che aveva con sé una pistola, una carabina e un borsone.
 
Mentre aspettavano con trepidazione l’arrivo del corriere da new York (che si presentò talmente in fretta da far nascere in Castiel il sospetto che Balthazar fosse in grado di teletrasportare le persone. O di dare mance faraoniche), Jensen ragguagliò quanto meglio riuscì il compagno sulla situazione, cercando di calmarlo almeno un po’, ma il professore era teso come una corda di violino e non si sarebbe tranquillizzato fino a che non avessero messo un bel po’ di chilometri tra loro e quella città.
 
Castiel in effetti era terrorizzato. Terrorizzato come non era mai stato in vita sua.
Tutta quella situazione era talmente estranea, rispetto alla placida esistenza che aveva sempre condotto, da trasmettergli un vero e proprio senso di irrealtà.
 
Solo il pensiero di poter perdere Jensen, la consapevolezza che qualcuno volesse fargli del male, bastava a farlo precipitare in un baratro di terrore.
 
Com’era possibile che in nemmeno dodici ore le cose fossero peggiorate a quel modo? La giornata era iniziata così bene… le recensioni positive, la colazione, il frettoloso e appagantissimo sesso… poi era arrivata Meg con le sue stronzate, e le cose avevano cominciato a precipitare.
Ma avrebbe sopportato volentieri una dozzina di Meg, a tempo indeterminato, pur di non dover affrontare l’attuale stato delle cose.
 
Partirono non appena il furgone del corriere sparì in fondo alla strada.
 
Jensen guardò Castiel con aria interrogativa, aspettando istruzioni.
 
- Prendi l’Interstatale 90 fino ad Albany, dopo proseguiremo per strade secondarie. -
 
- Il posto dove stiamo andando ce l’ha, un nome? -
 
- In effetti no, è una baita isolata vicino ad uno dei mille laghetti sparsi tra le Blue Mountain. -
 
- Blue Mountain? Vermont? Stiamo davvero andando a rinchiuderci in una baita in Vermont? - chiese Jensen con la voce venata d’ironia.
 
- Sì, perché? -
 
- No è che… fa molto “fuga romantica”, più che “fuga dallo psicopatico”… - disse Jensen con un accenno di sorriso, il primo da quando si erano rivisti.
 
Anche Castiel non potè fare a meno di cogliere l’ironia della cosa, pur senza la leggerezza di Jensen.
In effetti, non fosse stato per il nervosismo che aleggiava ancora all’interno dell’abitacolo come un gas velenoso, quella sciagurata fuga sarebbe potuta sembrare una vacanza… la loro prima vacanza.
 
Grandioso.
 
Il viaggio proseguì in un silenzio innaturale, spezzato solamente dalla radio costantemente sintonizzata su una stazione heavy metal.
Si fermarono a fare provviste in un piccolo market lungo la statale, acquistando viveri sufficienti per un soggiorno piuttosto lungo, non sapendo quanto avrebbero dovuto stare nascosti e volendo evitare di rimettersi in strada dopo pochi giorni.
Il professore pensò alle cose realmente utili, Jensen invece a stipare nei cestelli, non visto, quantità industriali di crostata e un variopinto campionario di caramelle, nachos, dubbie salsine e schifezze d’ogni tipo che, una volta giunti alla cassa, fece sorridere sia la commessa che, finalmente, Castiel.
 
Rimontarono in auto con parecchi grassi insaturi e coloranti artificiali in più e un pochino d’angoscia in meno, che continuò a diminuire man mano che aumentavano i chilometri che li separavano da Boston.
Una volta abbandonata la strada principale, si addentrarono fra i boschi e i laghetti che punteggiavano l’intera regione, offrendo scorci spettacolari ad ogni curva.
 
- Wow… questa zona è bellissima… - mormorò Jensen, incantato.
 
- Dovresti vederla durante il foliage   [1]  , in autunno, diventa quasi irreale, nonostante le orde di turisti. Ho provato spesso a dipingere il paesaggio quando gli aceri esplodono di colore ma credo che niente gli renda giustizia. -
 
- Mi piacerebbe vederlo… -
 
- Torneremo. Torneremo Jens. Quando questa storia assurda sarà risolta, torneremo ogni weekend, se vorrai. - promise Castiel, con una nota disperata che gli sporcava la voce.
 
- Ok, ok… certo che torneremo. - si affrettò a rassicurarlo Jensen, preoccupato dall’angoscia che percepiva nella sua voce. In che razza di casino l’aveva cacciato?
 
- Ehi Cass devi stare tranquillo, ti prego, tra poco saremo al sicuro. Ora cerchiamo di concentrarci su qualcos’altro e vediamo di arrivare a destinazione, ok? Laggiù la strada si biforca, da che parte devo andare? -
 


 Giunsero alla baita che era praticamente buio, in fondo era a malapena primavera e le ore di luce non erano ancora aumentate di molto.
 
Il posto era spettacolare, isolato e completamente immerso nella natura lussureggiante.
La costruzione sorgeva su una piccola altura, e alle sue spalle il bosco di conifere e aceri sembrava estendersi all’infinito. Alti abeti incombevano sulla casa, come per proteggerla, mentre sul davanti un sentiero sterrato serpeggiava lungo il pendio scendendo fino al piccolo lago, dove un molo di legno che aveva visto tempi migliori sonnecchiava in attesa di pescatori o sedie a sdraio.
 
Parcheggiarono l’Impala ad una trentina di metri dalla casa, dove iniziava la pendenza, e dopo aver scaricato borsoni e provviste si avviarono lungo il breve sentiero.
 
Man mano che si avvicinavano, nonostante la luce cominciasse ad affievolirsi, Jensen non potè fare a meno di notare che quella non era affatto la modesta e usurata baita che si era aspettato, ma un favoloso chalet.
 
La costruzione sembrava nuova di zecca, o appena ristrutturata: il legno che la rivestiva interamente era lucido e la pietra che ricopriva la base dei muri perimetrali, del muschio non aveva mai nemmeno sentito parlare.
Un grande finestrone panoramico affacciava sul lago, e un paio di abbaini occhieggiavano il paesaggio circostante sbucando dal tetto spiovente.
 
- Un tipetto spartano, tuo fratello… - commentò ironico Jensen.
 
- Vedrai dentro... - sogghignò Castiel, poggiando i bagagli sulla soglia di casa ed estraendo le chiavi. Sbloccate le varie serrature, si ritrasse, e con un ampio gesto della mano fece cenno a Jensen di entrare.
 
- Dopo di te, principessa. -
 
L’altro l’oltrepassò e non appena varcata la soglia lasciò cadere a terra le borse con un tonfo.
 
- Oh cazzo. Da quando Heidi è diventata Lady Gaga? - mormorò, senza riuscire ad impedirsi di sgranare gli occhi.
 
L’interno poteva essere descritto solo come un delirio barocco/tirolese, l’esperienza allucinatoria di un arredatore cocainomane.
 
Jensen lasciò vagare lo sguardo all’interno del grande open space in cui avevano appena fatto ingresso, soffermandosi brevemente sui particolari più vistosi.
 
- Chi diavolo può mettere un pianoforte a coda e un lampadario di cristallo grande come la mia Piccola in una baita? -
 
- Balthazar… - sospirò Castiel - … o Elton John. -
 
- E perché è tutto così… peloso? - domandò, posando uno sguardo preoccupato sui tappeti a pelo lungo sparsi ovunque, sugli enormi cuscini leopardati che ornavano il divano di velluto viola e sulla pelle d’orso strategicamente posizionata di fronte al camino circolare che troneggiava al centro della stanza, preferendo non indagare sulle oscure presenze che potevano infestare l’orologio a cucù, completamente nero, appeso a poca distanza da loro.
 
- Balth ha la malsana convinzione che montagna equivalga a pelliccia. Dio, è ancora peggio dell’ultima volta… ad ogni mia visita, la situazione peggiora. Non so nemmeno dove trovi il tempo di scovare tutto questo ciarpame, e soprattutto di materializzarlo qui.
 
- Sembra uno di quei motel ad ore… o il set di un porno tedesco anni ’80. - mormorò Jensen, con una sorta di strana fascinazione nella voce.
 
- Lo so… -
 
- A volte faccio davvero fatica a credere che tu e Balthazar abbiate del dna in comune. -
 
- Ti assicuro che provo la stessa cosa… -
 
- Ok, vediamo di sistemarci, tanto anche se continuiamo a fissarlo l’arredamento non diventerà tollerabile. Le camere sono di sopra, vero? - chiese Jensen sbrigativamente, recuperando i borsoni dal pavimento e avviandosi per le scale.
 
- Sì, vai pure, intanto io sistemo le provviste in frigo. La matrimoniale è la prima porta a sinistra. -
 
Dopo meno di un minuto, una voce lamentosa giunse dal piano superiore, facendo nascere un sorrisetto sul volto di Castiel, che si aspettava esattamente quella reazione.
 
- Cass … sono pelose anche le coperte… che diavolo di problema ha Balthazar? - chiese Jensen, scendendo nuovamente da basso - E il letto! L’hai visto il letto? Sembra un unico blocco ricavato da… non lo… una sequoia preistorica? Un pino mutante? E’ una specie di monolite intagliato, una roba barbarica… col baldacchino! Dimmi che non dormiremo nel letto di Attila! - frignò in maniera estremamente virile.
 
Castiel lo guardò con aria implorante.
 
- Ti prego Jens, voglio continuare a vivere pacificamente nella più totale ignoranza, credendo che mio fratello non rubi e/o contrabbandi pezzi storici per metterseli in casa, sfruttando il fatto di redigere expertise [2] per i musei... -
 
- Sì, hai ragione, scusa… però… non è il letto di Attila, vero? -
 
- Se vuoi possiamo dormire sulla pelle d’orso lì davanti al camino. -
 
- Per carità, meglio Attila di Bestia Morta! Comunque se rimarremo qui a lungo dovrò trovarmi un bravo strizzacervelli, quando torneremo a Boston! -
 
- Invece di rivolgerti ad un costoso ciarlatano, forse potrei pensarci io a farti apprezzare la vita rustica… - mormorò Castiel, in un piccolo guizzo di spensieratezza, avvicinandosi ed iniziando a mordicchiare il lobo del compagno, che si fece sfuggire un piccolo gemito, seguito a ruota da una risatina.
 
Jensen arretrò d’un passo, inarcando un sopracciglio ed abbracciando con lo sguardo l’intero ambiente attorno a loro.
 
- … Rustica? - chiese con una certa ironia.
 
- Ok, ok… la vita kitch e pelosa, suona meglio? - commentò Castiel, tornando verso i sacchetti che lo aspettavano in cucina - Sarà il caso che mi sbrighi, o il pollo uscirà autonomamente dalle borse della spesa lamentandosi per la temperatura… e di questo passo ceneremo a notte fonda. Sei capace di accendere il camino? -
 
Jensen lo fulminò con lo sguardo, offeso.
 
- Sarei capace di accendere un fuoco anche in mezzo ad un uragano. Sfregando assieme due ghiaccioli. -
 
- Ok Mac Gyver, non volevo ferire il tuo orgoglio di boyscout, allora tu ti occupi di non dar fuoco alla casa e io invece di sfamare entrambi con qualcosa che non sia composto al 90% di zucchero, va bene? - concluse Castiel con il primo vero sorriso del pomeriggio, sentendo il proprio umore che andava migliorando.
 
Jensen lo prese per un polso, attirandolo di nuovo a sé prima che sparisse in cucina, guardandolo serio.
 
- Che c’è? -
 
- Andrà tutto bene Prof. Te lo giuro. Ci sono già passato. Rufus e gli altri lo prenderanno, sono troppo bravi perché gli sfugga. - disse dolcemente, accarezzandogli una guancia e posandogli un bacio lieve sulla fronte.
 
Castiel chiuse gli occhi. Voleva credergli. Voleva credergli con tutte le sue forze.
 
- Lo so. Deve andare tutto bene. Voglio dire… non può essere altrimenti, giusto? - chiese, cercando conferme nello sguardo di Jensen, che lo strinse forte per alcuni secondi.
 
- Certo. - sussurrò prima di staccarsi, voltare Castiel tenendolo per le spalle e indirizzarlo verso la cucina con una pacca sul sedere - Ora sbrighiamoci, ho fame e qualcuno mi ha promesso il miglior pollo con le patate della mia vita! -
 
 
 
[1] Il foliage è particolarmente suggestivo in New England, regione nordamericana composta dai sei stati (Vermont, New Hampshire, Maine, Massachusetts, Connecticut e Rhode Island).
Da metà settembre fino ai primi di novembre, questa regione si colora come d'incanto e assume tonalità inconfondibili e il fenomeno del foliage si manifesta in tutto il suo splendore: grazie a giornate ancora calde e nottate decisamente fresche, le foglie degli alberi assumono colori intensi. Gli aceri diventano rossi e arancioni, i pioppi giallo intenso e i sommacchi viola, a contrastare il cielo azzurro e i campi verdi, richiamando frotte di turisti.
 
[2] L’expertise è la perizia di un esperto di settore che attesta l’autenticità di un quadro, un opera d’arte o un oggetto di alto antiquariato. Utile per attribuire un valore o persino un’origine all’oggetto esaminato, è indispensabile anche a fini assicurativi.


Grazie, come sempre, a tutte voi che ancora non vi siete stufate di seguire questa storia, siete stoiche e avrete il mio eterno amore.

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Capitolo 16
*** HEIDI NON ABITA PIU' QUI ***


HEIDI NON ABITA PIU’ QUI
 
 
 
Cenarono sul lungo tavolo di quercia in fondo alla sala, a lume di candela, accompagnando il pollo di Castiel con un ottimo Bordeaux sequestrato dalla riserva di Balthazar.
 
Il silenzio assoluto di quel luogo, la luce soffusa e la robusta gradazione alcolica del vino contribuirono a rendere l’atmosfera rilassata, consentendo finalmente a Castiel di tirare un po’ il fiato e di godersi la cena.
Quando anche l’ultima patata al forno fu spazzolata via e la conversazione iniziò a scemare, però, i suoi pensieri tornarono inevitabilmente agli avvenimenti della giornata.
Capiva che per Jensen quella era, se non ordinaria amministrazione, una situazione non così folle come poteva apparire a lui, e invidiava il suo sangue freddo e la sua straordinaria capacità di tenere i problemi in un comparto stagno.
Lui, però, quella capacità non l’aveva.
Ora più che mai, in quell’angolo di paradiso, gli eventi del pomeriggio apparivano lontani e sfocati, ancora più irreali.
 
- Cass? Sei qui con me? - chiese Jensen, ad un certo punto, scrutandolo da sotto le ciglia, nascosto in parte dal bicchiere di vino che faceva ondeggiare pensosamente davanti al viso.
 
- Sì.. sì, scusami. E’ che… -
 
- Che? -
 
- Che è tutto così sbagliato, Jens. Sto ancora cercando di accettare che questo non sia una specie di strano e lungo incubo. Lo so che qui siamo al sicuro e che dovrei sforzarmi di non renderti le cose ancora più difficili, ti giuro che ci sto provando ma... - mormorò Castiel, in tono di scuse.
 
Jensen scosse la testa, come a non voler dar peso a quelle parole.
 
- Lo so che ce la stai mettendo tutta, Cass. Tu non c’entri nulla. Scusami tu… e scusa anche per averti trascinato con me in questa situazione, questo è un problema solo mio e tu non dovresti nemmeno essere q -
 
Castiel lo interruppe, trapassandolo all’improvviso con uno sguardo furente.
 
- Trascinato? Trascinato?? - ripetè, incredulo - Tu non mi hai trascinato in nessun posto, Jens! Non dovrei essere qui? Cos’avrei dovuto fare, darti una pacca sulla spalla e augurarti buona fortuna? Rintanarmi in casa mia e lasciare che la cosa più bella che mi sia mai capitata se ne andasse in giro per Boston con un pazzo alle calcagna? - sbraitò con voce alterata, alzandosi con tanta foga da rovesciare la sedia dietro di sé e picchiando con entrambe le mani sul tavolo, dando il via libera a tutta la tensione accumulata nelle ultime ore - Cazzo, Jens, non è affatto un problema solo tuo! Vuoi metterti in testa che non sei più solo? Lo vuoi capire sì o no che ti amo, maledizione?! -
 
Gli occhi di Jensen si spalancarono, un po’ per la veemenza con cui Castiel l’aveva apostrofato, ma soprattutto per ciò che gli aveva appena detto. Rimase semplicemente a fissarlo in silenzio, con il bicchiere a mezz’aria e stringendo inconsciamente il tovagliolo fino a sbiancarsi le nocche, come se si aspettasse da un momento all’altro la seconda parte della sfuriata.
 
Castiel l’osservò stranito per qualche istante, prendendo fiato, improvvisamente in imbarazzo per il siparietto di cui si era reso protagonista. Non era da lui sbottare a quel modo. E poi… merda, l’aveva detto davvero?
 
- Io… esco un attimo. Ho bisogno d’aria. - mormorò a testa bassa, avviandosi verso l’ingresso.
 
- Cass… -
 
- Ho. Bisogno. D’aria. - scandì, dirigendosi a passo sostenuto verso la porta e aprendola, per poi sparire all’esterno sbattendola con un po’ troppa forza.
 
Jensen non si mosse dalla propria sedia, fissando senza davvero vederle le tremule fiammelle delle candele, che si erano quasi spente per il violento spostamento d’aria.
 
Lo sapeva.
Sapeva perfettamente che Castiel l’amava.
Lo vedeva in ogni sguardo, in ogni gesto, in ogni carezza.
Sentirselo dire, però, era tutta un’altra questione.
Sentirselo dire presupponeva una risposta.
 
Castiel era innamorato di lui.
E lui?
L’amava?
Certo che lo amava.
Era stata un’ammissione talmente naturale, e ovvia, da lasciarlo in uno stato di sospesa incredulità quando finalmente se n’era reso conto, quel pomeriggio d’un mese prima.
Dio, era passato solo un mese?
Davvero?
 
Ormai non ricordava nemmeno più come fosse la vita prima di Castiel, e in realtà nelle ultime settimane si era ritrovato sempre più spesso con quelle due semplici parole sulla punta della lingua… quando lo guardava dipingere, assorto e concentrato, perso nel suo mondo segreto fatto di sfumature e colori… quando quello stesso uomo pieno di talento e gioia di vivere si avvinghiava a lui come un bambino, nella notte, alla ricerca di un po’ di calore… quando al mattino lo svegliava con un bacio sul naso e un sorriso… e allora perché non riusciva a dirglielo?
 
Perché dire ti amo a qualcuno implica mettersi totalmente nelle sue mani, senza paura, senza compromessi.
Equivale a dire “ecco, questo sono io. Questo è il mio cuore. Facci quello che vuoi”.
 
E’ come consegnarsi volontariamente come prigionieri di guerra, o almeno questo era ciò che Jensen aveva sempre pensato.
 
E non si era mai affidato in quel modo a nessuno, se c’era qualcuno che poteva aver avuto voce in capitolo sulla sua vita e sui suoi sentimenti, quello era stato sempre e solo lui.
Aveva ricoperto la carica di “amministratore delegato” della propria esistenza per anni, correndo rischi fisici come un incosciente, mentre erano quelli psicologici ad atterrirlo per davvero.
Era un vigliacco dell’amore.
 
Invece Castiel amava senza riserve.
Amava lui, senza riserve.
 
L’aveva ferito?
Di nuovo?
Castiel si sarebbe stufato di quel rapporto che, almeno all’apparenza, procedeva in una sola direzione?
 
‘Il tuo prof ha molte più palle di te, Jensen, fattene una ragione.’ constatò, spingendo indietro la sedia e alzandosi.
 
Nel frattempo, il suddetto professore era sceso lungo il sentiero arrivando fino all’Impala, a cui si appoggiò, ascoltando il proprio respiro regolarizzarsi pian piano.
Si sentiva pulsare forsennatamente le tempie e gli tremavano le mani, non sapeva se per la rabbia o l’imbarazzo.
Studiò la superficie increspata del laghetto a breve distanza che rifletteva il chiarore della Via Lattea, qui ben visibile, nonostante alcune nubi incombessero minacciose da est.
Quella notte avrebbe quasi certamente piovuto.
 
‘Bravo Cass, fai acute riflessioni sul tempo e sulle mezze stagioni, così non penserai a cosa gli hai appena detto. Anzi, urlato. Nel peggior modo possibile e nella peggior situazione immaginabile. Il tuo solito, stronzissimo tempismo. Oh, e poi che bel posto hai scelto per la vostra prima discussione… niente vie di fuga e vicinanza coatta. Favoloso...’
 
D’un tratto, sentì che gli veniva posato qualcosa sulle spalle.
 
- Prenderai freddo… - mormorò Jensen con dolcezza, facendogli scivolare addosso la propria giacca.
 
Non l’aveva nemmeno sentito arrivare.
 
- Jensen, l’incredibile barista ninjia… - commentò con un minuscolo sorriso imbarazzato, osservando ora la giacca di pelle che lo riscaldava ed ora il ragazzo al proprio fianco, appoggiato anch’esso alla fiancata dell’auto, che lo guardava dispiaciuto.
 
- Un’altra delle mie innumerevoli qualità, oltre a quella di far saltare i nervi anche ai santi. -
 
- Jens, senti… -
 
- Shhhhh. E’ tutto ok, Cass. Hai ragione tu, su tutta la linea, mi sono comportato come un cazzone insensibile. Sai… per me non è facile far entrare così tanto una persona nella mia vita, superare anni di egoismo… è tutto nuovo… - tentò di spiegare Jensen, portandosi di fronte a lui e prendendo le mani di Castiel tra le proprie.
 
- Non sei un egoista. Sei solamente… troppo autosufficiente. Voglio dire… lo so che stiamo insieme da cinque minuti e che non posso accampare chissà quali diritti però… ci sono anch’io. - mormorò ad occhi bassi - Ci sono anch’io. Non sei più solo. Non ti lascerò più solo. -
 
- Lo so. Cass, lo so. E’ solo che non ci sono abituato. Dovrai avere un bel po’ di pazienza con me, Prof… te la senti di farti carico di questo testone? - chiese, sollevando le mani di Castiel e portandosele alle labbra, per baciarne delicatamente le nocche, osservandolo da sotto le ciglia.
 
Gli occhi di Castiel si socchiusero, mentre lo scrutava con la testa inclinata, soppesandolo.
 
- Come se non sapessi già la risposta... - sussurrò, rassegnato al proprio ineluttabile destino, al fatto che avrebbe amato quegli occhi verdi fino alla fine dei propri giorni, sfilando le mani da quelle di Jensen e prendendole tra le proprie, posandosele quindi all’altezza del cuore e guardandolo dritto negli occhi.
 
L’amore di Castiel per lui era talmente palpabile che Jensen si sentì quasi in obbligo di dire qualcosa.
 
- Cass… -
 
- Zitto. Ehi. Con i tuoi tempi, ok? - sussurrò Castiel, posandogli i polpastrelli sulle labbra, dimostrando ancora una volta di conoscerlo e comprenderlo tanto profondamente da commuoverlo.
 
Jensen lo baciò delicatamente senza più dire una parola, stringendo forte l’uomo che aveva fatto a pezzi ogni sua convinzione armato solo di un paio d’occhi blu.
 
- Rientriamo, dai, si sta alzando il vento… - disse piano, prendendolo per mano e conducendolo verso lo chalet.
 
- Sono sfinito… - mormorò Castiel deponendo piatti e bicchieri nel lavello, una volta rientrati, mentre Jensen sistemava in frigo gli avanzi della cena.
 
- Anch’io. E’ stata una giornata davvero eterna… andiamo a letto? -
 
- Sì, non credo di potermi reggere in piedi un minuto di più. - ammise, risalendo stancamente le scale per dirigersi in camera.
 
- Pensi di farcela a prender sonno nel letto del re degli Unni? - chiese quindi, spogliandosi, mentre un debole sorriso illuminava il suo volto stanco.
 
Jensen s’infilò sotto le lenzuola senza esitazione, non più tanto schizzinoso quando il calore delle coperte di pelliccia lo avvolse.
 
- Al momento credo che potrei dormire anche appeso a testa in giù, altro che Attila. Spero di fare una tirata di dodici ore. -
 
- Il tuo sonno di bellezza, eh? -
 
- Certo, se no mi verranno le rughe e il mio ragazzo potrebbe lasciarmi. -
 
- Ah, allora sei consapevole che lui sta con te solo per il tuo corpo… - biascicò Castiel, sbadigliando in modo incontrollato.
 
- Potresti dargli torto? -
 
- Nnnnhhh… -
 
Poi il silenzio. Castiel si era addormentato di schianto, e già russava sommessamente accanto a lui seppellito nella coperta fino al mento, con una mano a stringere possessivamente un lembo della sua t-shirt.
 
Jensen osservò per qualche istante il suo viso ormai così familiare, ormai così indispensabile, ancora tirato per la tensione delle ultime ore, prima di spegnere la piccola lampada da lettura sul comodino.
Nel buio, gli posò un bacio leggero sulla fronte.
 
- Ti amo Cass. - sussurrò, più che altro a se stesso.
 


L’indomani, Castiel aprì gli occhi trovandosi solo nel grande letto e per un breve attimo ebbe paura, fino a quando non vide il bigliettino posato sul cuscino accanto al proprio, scritto nella familiare calligrafia inclinata di Jensen.
 
Buongiorno Mister Comatoso!
Ho provato a svegliarti, ma essendo sprovvisto di bombe a mano non ci sono riuscito. Quando ti deciderai a portare il tuo bel culetto tra i mortali, mi troverai sul molo. Ti ho aspettato per la colazione, non deludermi…
                                                                                                                                   Jens

 
Si stiracchiò alzandosi, producendo scricchiolii inquietanti dovuti  a troppe ore di immobilità, e spalancando la finestra di uno degli abbaini notò che il sole era già piuttosto alto nel cielo terso.
Quanto aveva dormito?
 
Ad una seconda occhiata verso il lago, riuscì a scorgere la sagoma di Jensen in fondo al molo, seduto su una sedia pieghevole ed intento a trafficare con una cassetta degli attrezzi. Sorrise.
Dopo una sana dormita e con la splendida giornata che l’attendeva all’esterno, la loro permanenza allo chalet non sembrava più una prospettiva così cupa.
 
Scese di sotto e trovò ad accoglierlo un bricco di caffè caldo, che sorseggiò con calma mentre preparava la colazione per sé e per Jensen.
Versò una seconda tazza di caffè e dopo essersi infilato un paio di jeans si avviò verso il piccolo pontile.
Avvicinandosi, capì finalmente cosa stava facendo Jensen: placidamente stravaccato sulla sedia a sdraio, pescava. Si schiarì la voce per non spaventarlo, porgendogli la tazza quando si voltò nella sua direzione.
 
- Buongiorno raggio di sole! -  ridacchiò Jensen, guardando Castiel arrancare sul pontile scricchiolante strascicando i piedi, ancora parecchio arruffato e con i segni del cuscino impressi sul viso.
 
- Ciao Jens… - mormorò Castiel, imbarazzato - Scusami, mi sa che avevo un po’ di sonno da recuperare… -
 
- L’ho notato… soprattutto dal modo in cui russavi. -
 
- Io non russo! -
 
- No, certo, e io sono vegetariano… - ribattè Jensen con un ghigno.
 
Castiel capì che era meglio cambiare argomento.
 
- Ti sei annoiato, tutto solo? -
 
- Annoiato? Macchè, era da una vita che non avevo un po’ di tempo per me! Ho fatto un giretto nei paraggi e poi, nel capanno attiguo alla casa, ho trovato tutta l’attrezzatura per pescare: stasera fish & chips! - annunciò allegro.
 
Il compagno lanciò uno sguardo al “secchiello per le prede” accanto alla sdraio di Jensen, desolatamente vuoto.
 
- O magari solo chips… - commentò inarcando un sopracciglio.
 
- Te l’ha mai detto nessuno che sei un uomo senza fede? -
 
- Sinceramente, sei il primo. - rise Castiel, avviandosi verso casa - Alzati e cammina, Lazzaro, che la colazione è pronta! -
 
Jensen si mise in piedi con un colpo di reni, abbandonando canna e secchiello al loro destino e trotterellando spedito dietro a Castiel, facendogli le feste come un cucciolo.
 
- Finalmente, stavo per morire di fame! Che mi hai preparato? - cinguettò pieno di speranza - Bacon? French toast? Pancake? -
 
- Farina d’avena e macedonia. -
 
- E’ uno scherzo? Ti ho aspettato per tre ore e tutto quello che mi merito è della pidocchiosa farina d’avena? E’ una congiura? Tu cuoco, Bruto… - recitò con aria melodrammatica.
 
- Sono quasi certo che si dica quoque. -
 
- Quelle sono le uova. -
 
Castiel rinunciò a ribattere. Il ritorno dell’adorabile demente.
 
- Dov’è la mia torta?-
 
- In frigo. -
 
- E si trova a suo agio, lì? O possiamo tirarla fuori e mangiarla?
 
- Jens, dovresti prendere in considerazione l’idea di nutrirti con qualcosa che non sia fritto o scolpito in un blocco di zucchero… - mormorò Castiel con una certa dose di condiscendenza, prelevando la torta dal frigorifero e affettandone una porzione piuttosto modesta per Jensen - Dovresti assaggiare la mia crostata o il mio cheesecake, e questa roba preconfezionata dopo non vorresti vederla nemmeno più in fotografia. -
 
- Benone, non aspetto altro! Fammi tutte le torte che vuoi! - replicò Jensen, vivisezionando la macedonia e separando la frutta buona, ovvero le fragole, da quella cattiva, ovvero tutto il resto.
 
- Non sono sicuro che sia una buona idea, primo perché ti creerei un’altra pericolosa dipendenza e poi perché sono quasi certo che, nel momento esatto in cui dovessi vedermi con presine e grembiule mentre sforno crostate, cominceresti a chiamarmi “mammina cara”… -
 
- Oh, non oserei mai… papi. - mormorò Jensen fingendo un colpetto di tosse sul ‘papi’.
 
- Ti ricordo che hai sì e no quattro anni meno di me, Whinchester. E poi io sono giovane dentro. -
 
- Sì, ma io sono giovane fuori. -
 
- Ora che ci penso, giovane fuori, di te ormai so praticamente vita, morte e miracoli ma non ho idea di quando sia il tuo compleanno. -
 
- Più o meno… due settimane fa. Il primo di marzo. -
 
- Che coooosa? E perché non me l’hai detto? Era il tuo trentesimo compleanno, Jens, avremmo potuto festeggiare… - commentò Castiel, dispiaciuto.
 
Jensen sembrava parecchio a disagio.
 
- Appunto. Non amo molto festeggiare… dopo la morte della mamma, mio padre non ha mai organizzato feste di compleanno per me e Jared… è una cosa che mi mette in imbarazzo.
 
Castiel sospirò.
 
- Quindi, alla fine, immagino che mi toccherà sul serio prepararti una torta, non è così? Non m’interessa se ti imbarazzi o meno, appena torniamo a Boston ti faccio la festa! -
 
- Non vorrei essere polemico ma… hem… mi sembra che tu me l’abbia già fatta, la festa, prof… - ghignò Jensen.
 
- Sei esilarante, Winchester. Raffinato ed esilarante. Finisci la tua colazione, da bravo, almeno possiamo riportare le chiappe al sole. -
 
- Ok papi… - mugugnò Jensen terminando controvoglia l’avena - Vuoi che prepari canna ed esche anche per te? Abbiamo attrezzatura sufficiente per entrambi.-
 
- Uh, no, io… non amo pescare. Lo trovo… ingiusto. -
 
- E per chi? -
 
- Per i pesci. Non è una lotta ad armi pari. -
 
Jensen adorava quando Castiel partiva con i suoi ragionamenti naïf.
 
- Quindi cosa dovrei fare di preciso, per essere corretto nei confronti dei pesci, buttarmi nel lago e prenderli a ceffoni finché non si arrendono? O sfidarli in una gara a chi sputa più lontano? - domandò sarcastico.
 
- Forse una dose extra di zucchero non ti farebbe male, in effetti… per te niente yogurt, oggi, ok? - borbottò Castiel sorridendo, dirigendosi verso un comò e prelevando un album e una scatola di pastelli da un cassetto - Questa è l’unica attrezzatura che intendo usare oggi. -
 
- Ti sei portato il materiale da disegno? Stavamo scappando e ti sei portato il materiale da disegno? -
 
- Ma no, figurati, questa è roba che tengo sempre qui per ogni evenienza… dai, butta i piatti nel lavello e muoviti! - lo spronò Castiel, uscendo.
 
Trascorsero l’intera giornata all’aperto, pranzando sul pontile con i sandwich al pollo preparati con gli avanzi della sera precedente e godendo del clima singolarmente mite per quel momento della stagione: Jensen alla fine riuscì a pescare due persici particolarmente derelitti che rilasciò tra le risate del professore, dato che non avrebbero sfamato neppure un gatto moribondo, mentre Castiel eseguì un sacco di schizzi della natura circostante e dell’uomo più bello nel raggio di parecchi chilometri.
Finalmente l’atmosfera si era rasserenata, tanto da far quasi dimenticare ad entrambi perché si trovassero lì.
 
Quella sera, dopo una cena che non comprendeva pesce, uscirono a guardare le stelle, invogliati dalla brezza tiepida, anche se all’orizzonte incombevano nuvoloni temporaleschi come la sera precedente ed in lontananza si poteva già scorgere qualche lampo squarciare il cielo.
 
- Mi piace stare qui… - commentò Jensen con il naso all’insù, seduto sul cofano della sua Piccola - Sai, quand’eravamo piccoli io e Jared stavamo spesso fuori la sera a guardare le stelle. Papà non voleva, ma noi sgattaiolavamo fuori lo stesso e ci piazzavamo qui sull’Impala… una volta abbiamo persino portato fuori il materasso e ci siamo addormentati all’aperto, Jared ha preso il raffreddore e siamo rimasti in punizione per settimane… -
 
Castiel gli sorrise, incoraggiandolo silenziosamente a continuare. Era avido d’informazioni e lo rendeva felice che Jensen condividesse con lui i suoi ricordi. In realtà non vedeva l’ora di conoscere questo fantomatico fratello che lui adorava, ma non voleva affrettare le cose tirando in ballo anche le famiglie.
 
- Era un sacco di tempo che non facevo più una cosa del genere con qualcuno. L’ultima volta è stata un quattro luglio, me lo ricordo perché abbiamo comprato di nascosto dei fuochi d’artificio e poi li abbiamo fatti esplodere nel giardino di Ellen. Si è incazzata da morire e ci ha rincorsi minacciando di sculacciarci. E io avevo diciassette anni! - ricordò ridacchiando con espressione nostalgica.
 
Fece una piccola pausa, poi sospirò.
 
- Stare qui… mi fa scordare tutta la merda che c’è là fuori…-
 
Castiel se ne stava in piedi pochi passi più avanti, ammirando il laghetto.
 
- «Siamo tutti nel rigagnolo, ma alcuni di noi fissano le stelle»? - citò, sfruttando reminescenze del college.
 
- Wilde, vero? Sì, diciamo di sì. Diciamo che ogni tanto, cambiare prospettiva e guardare in alto aiuta. E questo posto è davvero fantastico… -
 
- Sì, è vero. - convenne Castiel - Balthazar ci ha davvero visto lungo quando l’ha comprato. In piena estate, quando c’è l’erba alta, il prato si riempie di lucciole e sembra un luogo magico… non vedo l’ora di tornare quando farà caldo. -
 
- D’estate si può fare il bagno nel lago? -
 
- Purtroppo no, è piccolo ma piuttosto profondo, per cui l’acqua non si scalda mai abbastanza, ma nulla ti vieta di provarci! In fondo, tu sei giovane fuori… - lo provocò.
 
- Grazie simpaticone, passo, credo che mi troverò altri passatempi. -
 
- Non è che ce ne siano molti, in un posto così. Se fossimo in autunno avremmo potuto raccogliere funghi a caso, come contorno ai tuoi pesci immaginari, in fondo oggi è un bel giorno per morire… - tubò Castiel con espressione perfida.
 
- Questo sarcasmo non ti porterà da nessuna parte, Collins. -
 
Castiel si avvicinò sogghignando, agganciò le mani sotto alle ginocchia di Jensen e lo tirò verso di sé, facendolo scivolare sulla superficie liscia del cofano.
 
- Tu dici? - mormorò sul suo collo, mordendolo delicatamente e risalendo una coscia col palmo della mano, fino ad arrivare al cavallo dei pantaloni.
 
- Cass… ma che… -
 
Il professore cominciò a sussurragli all’orecchio con voce roca, mordicchiando e leccando, mentre slacciava la cintura di Jensen e gli sbottonava con calma i jeans.
 
- Sai, è da quando mi hai mostrato questa macchina la prima volta che sogno di sbatterti sul cofano… e con “sbatterti”, intendo proprio sbatterti… -
 
Castiel aveva la straordinaria capacità di passare da uno stato di disarmante dolcezza e ingenuità ad uno di torbida depravazione in tre secondi netti… inutile dire che Jensen aveva imparato piuttosto in fretta ad apprezzare questi mutamenti repentini, visto che in genere erano il preludio ad episodi di sesso leggendari.
 
Rabbrividì, un po’ per le parole del professore e un po’ per un’improvvisa folata di vento gelido, segno che il maltempo si stava avvicinando.
 
- Cass… non possiamo farlo qui, ci congeleremo… -
 
- Mhh… - valutò Castiel, alzando gli occhi verso il cielo e notando che le nuvole stavando rapidamente oscurando le stelle - Temo che stavolta tu abbia ragione… - tornò a mormorare, lascivo - … ma sono quasi quarantott’ore che non ti sento nudo sotto di me. Ti voglio, Jens. - concluse, insinuando la mano nei jeans del compagno e accarezzandolo sopra i boxer - Ho paura che dovremo improvvisare… -
 
A Jensen sfuggì un gemito, nonostante tutto. Castiel ne approfittò per baciarlo, intrufolandogli la lingua tra le labbra.
 
Si sarebbe mai assuefatto all’elettricità che sembrava attraversargli le membra ogni volta che Castiel lo baciava? Jensen era pronto a scommettere di no. Si staccò un attimo per riprendere fiato, ma il prof non sembrava intenzionato ad interrompere il proprio assalto. Anzi.
 
- Che c’è Jens? Non vuoi che ti guardi? - mormorò languido, con un’espressione da schiaffi stampata in volto, ricominciando ad accarezzargli ipnoticamente la minuscola porzione di addome scoperta.
 
‘Non ci credo! Mi sta facendo il verso per sedurmi…’
 
- Non vuoi che ti tocchi? - continuò, la voce ormai un roco sussurro, scivolando con la mano nei boxer e facendolo gemere piano.
 
- Bastardo… - smozzicò, già in debito di ossigeno.
 
- Non vuoi che ti baci? - concluse, inginocchiandosi e guardandolo da sotto in su in un modo che mandò Jensen completamente fuori di testa.
 
- Bastard… Oh! - Jensen quasi urlò quando Castiel riuscì finalmente a fargli scostare il fondoschiena dal cofano in modo da abbassargli jeans e boxer quel tanto che bastava a far scivolare fuori la sua erezione, che prese a succhiare senza tanti preamboli.
 
Smise completamente di protestare. O respirare. O pensare.
 
Si sostenne appoggiando le mani dietro di sé, sul cofano, gettò la testa all’indietro e si abbandonò completamente al miscuglio di sensazioni che sembravano aggredirlo da ogni direzione, dandogli le vertigini.
 
Il cielo illuminato dai lampi sopra di loro, il violento stormire del vento tra gli alberi, il metallo freddo sotto le sue mani, la bocca bollente di Cass…
 
Cass che, che dopo circa due minuti, si staccò da lui con un sonoro «Ouch!», rivolgendo gli occhi al cielo e constatando che il piccolo proiettile gelato che l’aveva colpito in fronte proveniva proprio da lì.
Jensen lo imitò, voltandosi poi immediatamente verso l’Impala, su cui i chicchi ghiacciati producevano un rumore che non gli piaceva per niente.
 
- Caaaaaaaaazzo! La grandine! - urlò mentre si riabbottonava in fretta e furia i pantaloni e aiutava Castiel a rimettersi in piedi - Cass! Presto! Nella tasca della mia giacca ci sono le chiavi! Tu corri a casa, io cerco di mettere Baby al sicuro! Merda merda merda! -
 
Castiel frugò nelle tasche, gli lanciò le chiavi e dopo un attimo decise di fare lo stesso con la giacca, poi corse verso lo chalet mentre l’improvvisa grandinata prendeva forza, con tanto di tuoni e fulmini.
 
- Non finisce qui! - urlò ridendo mentre scappava.
 
 
 
 
 NDA: Grazie, dolci pulzelle, per essere arrivate fino a qui! Sproloquiare su questi due mi diverte da pazzi e mi tiene compagnia, il mio subconscio si rifiuta di terminare la storia e a voi tocca subire... siate forti! ^___^

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Capitolo 17
*** ORSI, FATINE E VECCHI CLICHE' ***


ORSI, FATINE & VECCHI CLICHE’



Jensen cercò di fare il più in fretta possibile, e dopo una rapida retromarcia guidò fino al limitare del bosco. Fortunatamente gli alberi erano vecchi ed imponenti e l’estensione dei loro rami fornì senza problemi un riparo all’auto, preservando la preziosa carrozzeria della sua Piccola.
 
Sospirò, stringendo il volante con entrambe le mani, quindi ci si appoggiò con la fronte, esalando uno sbuffo e ridacchiando appena.
 
Sesso “en plein air”, operazione fallita.
 
Rimase in auto qualche minuto ma la pioggia che si era aggiunta alla grandine, invece di diminuire, sembrava aumentare ad ogni istante. Sarebbe potuta durare benissimo tutta la notte, valutò con un sospiro rassegnato, preparandosi ad una doccia fuori programma..
Abbandonando la giacca di pelle sul sedile per salvare il salvabile, Jensen si avventurò sotto il nubifragio, correndo come il vento.
 
Quando rientrò allo chalet, fradicio fino alle ossa, trovò Castiel a torso nudo intento ad aggiungere altra legna nel camino.
 
- Pensavo fossi riuscito a salvarti, ti sei bagnato anche tu? - chiese.
 
- Un po’, ma decisamente meno di te, Mister Maglietta Bagnata… - osservò Castiel, fissando con aria affamata la maglia zuppa che si era appiccicata al torace muscoloso di Jensen come una seconda pelle. Per non parlare dei jeans…
 
- Abbassa lo sguardo, piranha, sto congelando… - sogghignò, dirigendosi in bagno.
 
Ne emerse pochi minuti dopo in boxer, finendo di asciugarsi con una salvietta e notando che Castiel, nel frattempo, aveva spento le luci e acceso le candele usate durante la cena della sera precedente, spargendole qua e là.
 
Effettivamente, creavano una certa atmosfera.
 
Voltò lo sguardo alla ricerca del compagno, impegnato a frugare in un mobiletto, da cui estrasse una serie di bottiglie.
 
- Ti va un goccio di qualcosa di forte per riscaldarti? - propose.
 
Jensen annuì, avvicinandosi per dare un’occhiata alle bottiglie e illuminandosi: quello era il paese dei balocchi per un qualsiasi intenditore di whisky!
 
- Cass ma… qui c’è una fortuna in alcol. Macallan, Balvenie Cask, Glenfiddich Rare, Bowmore… c’è una bottiglia da duemila dollari! - constatò, sconvolto.
 
- Sì? Buon per te, Winchester… - commentò Castiel, per nulla impressionato, recuperando infine ciò che stava cercando dal fondo del mobile e posando sul tavolino una bottiglia di cristallo sfaccettato colma d’un liquido verde intenso, osservandola soddisfatto. -
 
Jensen, mentre si versava con attenzione due dita di whisky, che probabilmente costavano duecento dollari, osservò disgustato l’oggetto del desiderio di Castiel.
 
- Prof, cosa diavolo è quella roba? E’ fosforescente. -
 
- Assenzio. -
 
- Ma… negli Stati Uniti non è illegale? -
 
- Appunto. Per questo è qui. Balthazar adora sfidare il sistema con queste stronzate. E poi sa che mi piace. Ti svelo un segreto: è l’unica cosa in grado di farmi perdere completamenteil controllo… - confessò, calcando parecchio l’accento su quel ‘completamente’ con un sorriso che lasciava poco spazio all’immaginazione.
 
- Uhm… allora dovrò ricordarmi di mandargli un bel regalo… - mormorò Jensen, afferrando la bottiglia per versarne un po’ a Castiel, che l’afferrò per un polso, bloccandolo.
 
- Aspetta! C’è tutto un cerimoniale da rispettare, è quello il bello dell’assenzio. Rituale. - spiegò solennemente, recuperando dal mobile anche un minuscolo calice di vetro e uno strambo cucchiaino piatto e traforato.
Poi si diresse in cucina e tornò con una bottiglietta d’acqua e alcune zollette di zucchero.
Versò un po’ di liquore nel bicchiere e, dopo avervi posizionato il cucchiaino di traverso vi posò sopra la zolletta. Versò infine un poco d’acqua, che sciolse lo zucchero attraverso il cucchiaio e andò ad intorbidire il liquido verde.
 
- Ecco. Ora è pronto. - mormorò Castiel - Vuoi assaggiare? - propose quindi, tendendo a Jensen il bicchierino.
 
- Grazie ma passo. - rispose quest’ultimo, arretrando come se Castiel gli stesse porgendo del veleno.
 
- Niente fatina verde? -
 
- Nooo… odio le fate. -
 
Castiel rise.
 
- E perché mai? -
 
- Sono roba da hippie pazze e vecchie gattare che sniffano brillantini, rinchiuse nelle loro casette stipate di statue di unicorni. E io non mi chiamo Patchouli.
 
- Capisco. - commentò Castiel, continuando a ridere e buttando a terra i cuscini del divano, per poi trasferirsi sulla pelle d’orso accanto al camino con tutto il Kit del Piccolo Bevitore d’Assenzio [1], diligentemente posato accanto a sé sul pavimento.
 
- Che combini Cass? -
 
- Campeggio. - specificò, come se fosse più che evidente - Vieni? -
 
- Ehm, grazie, ma con Bestia Morta ho già dato. - esitò Jensen - Esistono alcune fotografie piuttosto imbarazzanti del sottoscritto, a quattro mesi, sdraiato a pancia in giù su una cosa del genere. Nudo. Credo che Jared le conservi in un caveau per ricattarmi in un prossimo futuro. -
 
- Sarei disposto a pagare una cifra esorbitante, per mettere le mani su quelle foto, diglielo pure! Oppure potrei scattartene qualcuna io, nella medesima posizione… - propose, cercando con lo sguardo il proprio cellulare abbandonato chissà dove - … dai, vieni, non fare lo snob! - lo incitò il professore, battendo ripetutamente la mano sulla porzione di pelliccia ancora libera con aria invitante - L’hai detto tu che sembrava il set di un porno, e io ti sto solo servendo un meraviglioso clichè su un piatto d’argento… abbiamo tutto: camino, pelle d’orso, candele, temporale, la scusa dell’alcol… potrebbe non capitarti mai più! - continuò con un sorriso irresistibile.
 
Jensen si arrese, e si sdraiò accanto a Castiel portandosi appresso il whisky. Quantomeno, se in futuro Jared lo avesse nuovamente accusato di confondere la realtà col porno, avrebbe potuto addossare la colpa a qualcun altro…
 
- Mi stai circuendo sfruttando la mia mania per il porno vintage… -
 
- Sono una persona orribile… - mormorò Castiel, stiracchiandosi pigramente e bevendo un po’ del proprio assenzio, per poi distendersi sulla schiena e sollevare le gambe in aria indicando a Jensen i propri jeans.
 
- Mi aiuti a levarmi questi cosi? Sono un po’ umidicci. -
 
- Che vuoi fare Cass? - chiese il compagno, rialzandosi e mettendosi in ginocchio, per aiutare il professore a liberarsi dell’impiccio.
 
- Niente, solo… godermi la serata. Alla faccia dei tuoni, dei fulmini… e di tutto il resto. - borbottò chiudendo gli occhi.
 
- Ottimo piano. - convenne Jensen, sdraiandosi nuovamente su un fianco e sorseggiando il proprio liquore, mentre sul suo viso andava allargandosi un’espressione di puro godimento.
 
 - Oh. Questo sì che è whisky. Questo sì che è un fottutissimo whisky! Tuo fratello mi sta rovinando Cass, credo che non potrò più bere niente di meno buono di così. Pessimo imprinting… davvero pessimo. -
 
- Un’altra vittima dell’opulento fascino di Balth… - sospirò Castiel, terminando il suo intruglio verde e preparandosene velocemente dell’altro - Sapevo che era solo questione di tempo. -
 
- Finiscila, tanto si vede lontano un miglio che lui è il tuo preferito. -
 
- Non so di cosa tu stia parlando… - rispose Castiel con aria evasiva, ma senza nascondere un sorrisetto.
 
- Andiamo, è sempre a lui che ti rivolgi quando hai bisogno di qualcosa, e ne parli spessissimo. -
 
- Bè, Gabe quand’ero adolescente è stato via per parecchio tempo, per cui ho sviluppato un legame più profondo con Balth. Prima è stato all’estero per motivi di studio, poi si è fatto venire una sorta di “allergia” alla famiglia, un periodo ribelle in cui ha girato l’India per ritrovare se stesso… -
 
- E…? -
 
- E l’unica cosa che ha ritrovato è stata una fidanzata bisbetica con gusti parecchio costosi. Non farmi ripensare a Kalì, quella donna mi metteva i brividi. -
 
- Ma io credevo che Gabriel fosse… insomma… mi hai detto che impazzisce per Jared… - azzardò Jensen.
 
- Non so che dirti Jens, sinceramente non ho mai voluto indagare sui gusti sessuali di mio fratello. E’ sempre stato molto riservato sulla sua vita sentimentale con noi, e non sarò certo io quello che andrà a chiedergli se gli piacciano anche i maschietti! O forse siete voi Winchester ad avere un appeal irresistibile per gli uomini della mia famiglia… - insinuò, sporgendosi a baciare una spalla nuda di Jensen.
 
- Noi Winchester esercitiamo un appeal irresistibile su qualunque cosa respiri, prof… - ridacchiò, prendendogli dolcemente il mento tra le dita e guidandolo sulle proprie labbra per un rapido bacio con tanto di schiocco.
 
- Sbruffone. Finora l’unico immune sembra proprio Balthazar. Non è che hai qualche altro prestante fratello nascosto da qualche parte, vero? - si assicurò Castiel.
 
- Che io sappia no, ma Jared è ingombrante, rompe le palle e mangia come due fratelli normali, per cui è come se anche noi fossimo tre. Comunque, a proposito di Balthazar, con tutto quello che è successo non mi hai più spiegato in cosa consisteva la proposta di quel tizio che è venuto alla mostra assieme a lui. -
 
- Me n’ero praticamente scordato… Dio, sembra che sia passato un mese! In sostanza il suo editore vorrebbe che lavorassi fianco a fianco con Balth per illustrare il suo prossimo libro e… non posso negare che la cosa m’interessi parecchio… -
 
- Posso immaginare, sembra una proposta prestigiosa, e poi dev’essere davvero bello lavorare assieme al proprio fratello… ma Balthazar com’è finito a fare lo scrittore? Perché quelli che scrive non sono semplici saggi, vero? -
 
- E’ nato tutto per caso… un po’ anche per colpa mia, lo ammetto. Come sai Balth insegna, e un paio d’anni fa stavamo discutendo su come rendere più interessanti le lezioni per i suoi studenti. Gli ho suggerito di inserire qua e là dei particolari che le rendessero facilmente memorizzabili, così ha iniziato a “punteggiare” le proprie lezioni con nozioni curiose e bizzarre su artisti e committenti con l’intento di renderle più divertenti e leggere. Delle specie di “pietre miliari”, facili da ricordare ma che a loro volta trainassero il resto delle informazioni. - spiegò - Gli studenti hanno accolto piuttosto bene quest’iniziativa e il rendimento medio in tutti i suoi corsi è sensibilmente migliorato. Uno di questi ragazzi era un blogger con un certo seguito, e ha cominciato a mettere online i riassunti delle lezioni ogni settimana, “il metodo Collins” in poco tempo si è trasformato in un fenomeno virale e Balth è stato contattato dalla Hellhound Publishing. Il resto è storia. - concluse.
 
- Quindi è così che è diventato tanto ricco? -
 
- Sì e no… diciamo che lui e Gabe si sono sempre fatti molti meno problemi di me ad accettare l’aiuto di nostro padre. Fondi fiduciari compresi. -
 
Jensen si battè teatralmente una mano sulla fronte, poggiando il bicchiere sul pavimento e fissando Castiel con aria divertita.
 
- Mi stai dicendo che sto con un ereditiere? Dio, esco con Paris Hilton e non lo sapevo… -
 
- Come ti ho già detto, Winchester, io esco con te solo per il tuo splendido aspetto, per cui direi che siamo pari… - commentò Castiel, finendo il suo assenzio in un sorso e versandosene un terzo.
 
- Ehi, vacci piano con quella roba, tigre, non ho voglia di portarti di sopra in spalla. -
 
Castiel alzò su di lui occhi già pericolosamente torbidi. Prosciugò platealmente il bicchiere in un’unica sorsata e sorrise sornione.
 
- Non hai… voglia? - chiese sbattendo le ciglia come un cerbiatto. Un cerbiatto ubriaco.
 
- Non di caricarmi un’ottantina di chili sulla schiena… - specificò Jensen, levandogli il bicchiere di mano e posandolo dal proprio lato, sperando che Castiel non si attaccasse direttamente al collo della bottiglia.
 
- Mhhh… e se invece ci salissi da solo, sulla tua schiena? -
 
- Cass, sei sbronzo? - ridacchiò Jensen.
 
- Naaaaaaaaaa… -
 
- Ok, allora toccati la punta del naso con l’indice. - lo provocò.
 
- Toccatelo tu, il naso! Io se permetti ho di meglio… - rispose piccato, allungando la mano sul sedere di Jensen, che ora giaceva prono come nelle fantomatiche foto, appoggiato suoi gomiti, la schiena che disegnava un’elegante e invitante curva. -
 
Jensen tentennò, mentre l’altro procedeva ad un minuzioso palpeggiamento: non sapeva se era corretto approfittarsi di Castiel in queste condizioni, anche se, a voler essere precisi, sembrava che fosse quest’ultimo a volersi approfittare di lui.
 
- Guarda qui… curva e controcurva… - mormorò tra sé e sé, rapito, facendo scorrere la mano dalle scapole al fondoschiena scolpito di Jensen - Sembri l’Uomo Vitruviano di Leonardo. Sei perfetto, Jens. Perfetto. -
 
- Sì, sei decisamente sbronzo. -
 
- Chi se ne frega. Quando ha iniziato a piovere te l’ho detto che il discorso non era affatto terminato, ricordi? E io pago sempre i miei debiti… - mormorò, sollevandosi sulle ginocchia, portandosi dietro al compagno e sfilandogli i boxer con un movimento fluido.
 
Non che l’altro opponesse una strenua resistenza, comunque.
 
In effetti erano davvero quarantott’ore che non facevano sesso, e nell’ultimo mese non erano mai riusciti a lasciarne passare più di dodici senza saltarsi addosso… alla fine il più giovane si convinse piuttosto in fretta che, anche se erano entrambi non propriamente lucidi, non sarebbe potuto accadere nulla di male: in fondo Castiel non era mica uno sconosciuto rimorchiato al bar… al massimo, si sarebbero ritrovati indolenziti e con una mostruosa emicrania l’indomani mattina.
 
Perfettamente accettabile, no?
 
E se sesso ubriaco doveva essere, ebbene sì, sesso ubriaco sarebbe stato, pensò Jensen con decisione, scolando tutto il whisky nel proprio bicchiere in una volta sola. Il liquido invecchiato oltre vent’anni esplose come una bomba nel suo stomaco, irradiando una bolla di calore e una sorta d’attutita euforia in ogni recesso del suo cervello.
 
‘Wow, di questo passo comincerò davvero a vedere le fatine verdi… e gli elefantini rosa.’
 
Quello che non aveva messo in conto era che sarebbe stato lui l’attrazione della serata: Castiel si sedette a cavalcioni su di lui e, dopo avergli posizionato una zolletta alla base della schiena, proprio sopra l’osso sacro, afferrò la bottiglia d’assenzio iniziando a fargli gocciolare il liquido verde tra le scapole di modo che, seguendo l’incavo naturale della spina dorsale, scorresse fino allo zucchero, impregnandolo.
 
La nuova frontiera dell’open bar.
 
Posata la bottiglia, il professore iniziò a seguire la traccia verdognola con la lingua, lentamente e scrupolosamente, partendo dalla nuca e facendo rabbrividire violentemente Jensen man mano che scendeva, mentre mani forti gli serravano i fianchi.
L’alcol cominciava a dare alla testa anche a lui, o forse era solo l’effetto che gli faceva il professore… come aveva ormai ampiamente appurato, Castiel dava tutto sé stesso in ogni cosa che faceva: nel lavoro, nella sua arte, negli affetti, nel sesso.
 
Nel mentre, il suddetto professore aveva raggiunto il capolinea del suo percorso umido, arrivando infine alla zolletta e facendola sparire tra le labbra. Le sue mani dai fianchi si erano spostate ad accarezzare con insistenza il sedere di Jensen, mentre la lingua non sembrava intenzionata ad arrestare in alcun modo la propria discesa…
Jensen deglutì.
Cosa voleva fare?
La risposta non tardò ad arrivare, quando un paio di mani gentili gli separarò le natiche e potè sentire l'alito caldo di Cass infrangersi sulla sua pelle e poi la lingua lambire delicatamente la sua apertura, prima tutt’intorno e poi spingendosi esitante all’interno.
 
Si lasciò sfuggire un verso strozzato, tra lo stupore e il piacere. Non era sicuro di essere pronto per una cos… Oh. Oh sì. Sì! Era decisamente pronto, oh cazzo sì!
 
Completamente travolto da un tipo di piacere del tutto sconosciuto, si ritrovò a pensare confusamente che quella era la sensazione più strana, umida e maledettamente eccitante che gli fosse mai capitato di provare, e sentì il proprio bacino prendere ad ondeggiare di sua iniziativa per andare incontro a quell’intrusa calda e insistente mentre un’erezione nuova di zecca strusciava sensualmente sulla soffice pelliccia sotto di sé, spedendo inediti e bizzarri stimoli a sommarsi a quelli che già sovraccaricavano i suoi centri nervosi.
Probabilmente non ce l’aveva mai avuto così duro in tutta la sua vita.
 
Gemendo tutto il suo apprezzamento, Jensen si lasciò completamente andare mentre Castiel si faceva sempre più intraprendente, leccando, baciando e facendogli vedere l’intero firmamento per la seconda volta quella sera, selvaggio e disinibito a causa dell’alcol.
 
Era sempre stato convinto di essere una forza della natura, a letto, ma Castiel era letteralmente implacabile.
Era un fottutissimo dio del sesso, e Jensen aveva tutte le intenzioni di diventare il suo umile schiavo.
 
- Cass… - pregò debolmente - Cass credo di stare per… Oddio Cass, smettila o non durerò un altro minuto… -
 
Il professore si staccò da lui con un ghigno compiaciuto, distendendosi interamente sul suo corpo e gravandogli addosso con tutto il proprio peso.
 
- Sei ancora convinto di non volermi sulla tua schiena? - mormorò, appannato dalla lussuria e dall’assenzio, mordendogli la nuca e ondeggiando piano su di lui.
 
Jensen lo voleva sulla sua schiena, nella sua bocca, tra le sue gambe, voleva venire tra le mani del suo professore, voleva urlare, e morderlo, voleva seppellire il viso in quella cazzo di pelle d’orso e lasciare che Castiel lo scopasse tanto da fargli dimenticare il proprio nome, ma si limitò a voltare la testa e baciarlo rudemente, mordendogli un labbro abbastanza forte da fargli capire che non stavano ballando il minuetto e che si sarebbe lasciato strapazzare un po’.
 
Castiel, afferrato il messaggio ed eccitato da quella provocazione, si sollevò e gli passò un braccio sotto la pancia in modo da sollevarlo e farlo mettere carponi, poi lo indirizzò verso il divano poco distante.
 
- Mettiti lì. Faccia in giù. - ringhiò con urgenza, mentre si liberava dei boxer.
 
Jensen si voltò ancora una volta a guardarlo con aria di sfida, mentre obbediva e si metteva in ginocchio di fronte al divano, lo stomaco poggiato sulla seduta.
 
- Chiedimelo gentilmente… - sibilò beffardo, da sopra una spalla.
 
Castiel sorrise e si appoggiò nuovamente su di lui, afferrando una manciata di capelli biondicci e tirandola senza troppo garbo per farlo voltare di più e potergli sussurrare all’orecchio.
 
- Finiscila Winchester. Sappiamo entrambi quanto ti piaccia prendere ordini da me… - mormorò con quella voce resa ancora più roca dal desiderio che bastava, da sola, a spedire in orbita Jensen, quindi portò due dita alle labbra del compagno, che si schiusero per leccarle e poi accoglierle in bocca e succhiarle, avvolgendovi sapientemente la lingua.
 
A Castiel sfuggì un gemito nell’immaginare quella stessa lingua fare a lui quello che stava facendo alle sue dita, ma ugualmente le sfilò e le portò tra le sue natiche mentre continuava a tenerlo schiacciato sul divano con l’altra mano, che non mollava la presa tra i capelli.
Spinse le dita dentro di lui senza alcuna difficoltà, preparandolo con lentezza e sentendolo gemere sempre più affannato sotto le sue carezze, decidendo di protrarle.
All’infinito.
Avrebbe potuto guardare quel viso arrossato e stravolto dal piacere premuto contro i cuscini del divano anche per tutta la notte, ma qualcuno non era dello stesso avviso…
 
- Dio Cass, scopami, basta giochetti! - sbottò Jensen, reso esplicito dall’alcol.
 
Castiel ritirò anche le dita, tenendolo per i fianchi.
 
- Chiedimelo gentilmente… - lo provocò.
 
Niente da fare.
Quando Castiel entrava in modalità Signore dell’Universo non si poteva fare niente se non assecondarlo.

Non che a Jensen dispiacesse.

Essere l’unico a conoscere quel lato perverso e selvaggio di Castiel, e soprattutto esserne la causa scatenante, era una cosa che lo riempiva segretamente d’orgoglio e lo eccitava da morire, anche se non l’avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura.
 
- Scopami… ti prego. - mormorò docile, sentendo già l’erezione del compagno premere contro di sé ed affondare un centimetro dopo l’altro dentro di lui, fino in fondo, per poi cominciare a muoversi con spinte profonde, lente, e quel respiro affannato che, come ormai ben sapeva, significava che anche Castiel era già pericolosamente vicino al punto di non ritorno.
 
- Sei così caldo, Jens… e stretto e… Dio… - ansimò, sconvolto, come se fosse la prima volta. Cosa diavolo c’era in quell’assenzio?
 
Ma il professore non era il solo a subire gli effetti disinibitori dell’alcol: ogni fottuta parola pronunciata da Castiel era come benzina sul fuoco dell’eccitazione di Jensen, e non faceva che sommarsi alla sensazione di sentirsi completamente dominato, che lo lasciava del tutto libero di godere senza preoccuparsi di niente se non del piacere stesso, amplificandolo a dismisura.
 
- Prenditi tutto… prenditi… tutto… Cristo Cass, non smettere! - biascicò il whisky per lui.
 
E Castiel non se lo fece ripetere due volte.
Si spinse dentro di lui ancora più a fondo, masturbando Jensen che gemeva senza alcun ritegno, con gli occhi serrati e la fronte poggiata sul divano.
Era come un guanto attorno a lui, il guanto più morbido ed eccitante che Castiel riuscisse ad immaginare, con la schiena ampia resa scivolosa dal sudore e le spalle costellate dai suoi morsi, libero e sfrenato come non l’aveva mai visto, e quando i suoi gemiti si fecero più intensi, divenenendo praticamente urla e anticipando con chiarezza quello che stava per accadere, portò una mano a stringere fermamente la base della sua erezione per bloccare l’imminente conclusione, generando un’imprecazione carica di disappunto.
 
- Cosa… stai… facendo? - ruggì Jensen.
 
- Il tuo orgasmo è mio… e… deciderò io quando potrai venire. - ansimò Castiel in tono autoritario, facendo allo stesso tempo arrabbiare ed eccitare Jensen ancora di più, se mai fosse stato possibile.
 
Se voleva il gioco sporco, benone, sarebbe stato ciò che avrebbe ottenuto, pensò, iniziando a contrarre sadicamente i muscoli attorno a Castiel, a ritmo con i suoi affondi, sentendolo tremare e gemere sorpreso.
Ma la sorpresa durò poco, perché il professore non aveva alcuna intenzione di fermarsi o sottrarsi a quella piacevole vendetta, e dopo poche, furiose spinte, venne travolto dall’orgasmo, accasciandosi sulla schiena di Jensen, ancora insoddisfatto ma piuttosto compiaciuto d’aver perlomeno ripreso il controllo della situazione.
Situazione che cambiò nuovamente titolare in un battito di ciglia, non appena Castiel riacquisì un minimo di controllo, la luce dissoluta nei suoi occhi non ancora placata e le labbra distese in un sorrisetto sghembo che illuminava il viso appagato.
Liberò Jensen dal proprio peso scivolando a terra, sulle ginocchia, afferrandolo per un polso e facendolo stendere ancora una volta sulla pelliccia.
 
- Come dicevo prima, abbiamo un discorso in sospeso, noi due... - mormorò senza fiato, inginocchiandosi tra le sue gambe e chinandosi su di lui fino a sfiorare con la lingua l’erezione di Jensen, ancora ben presente e poggiata sul suo stomaco.
 
- Cass… ti scongiuro… -

- Zitto. -
 
Ne percorse l’intera lunghezza lentamente, più e più volte, sentendola pulsare d’impazienza, e quando finalmente l'accolse tra le labbra decise di rendere il tutto ancora più piacevole tornando alla ricerca della prostata di Jensen, che si inarcò con un lungo gemito artigliando tra le mani ciuffi di pelliccia, affondando così ancora di più nella sua bocca e prendendo a muoversi con un’urgenza disperata, soprattutto quando Castiel unì a tutti gli stimoli già presenti delle piccole pressioni circolari del pollice sul perineo.
 
Non durò molto a lungo.
 
Ma fu probabilmente l’orgasmo più incredibile della giovane vita di Jensen.
 
 
 
 
[1] L’assenzio, il vero assenzio, ha un’altissima gradazione alcolica (arriva ai 75°), ed è ciò che beve Future!Cas nel 2014 a Camp Chitaqua per sballarsi (oltre ad orge e droga, naturalmente XD).
Conosciuto anche come ‘fata verde’, l’assenzio è inoltre presente in alcune opere di Picasso, di Degas, di Manet, essendo il liquore più in voga nella Parigi dei bohémien.

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Capitolo 18
*** ANGELI E DEMONI ***


ANGELI E DEMONI
 
 

Non occorre dunque che tu passi attraverso
l'inferno per incontrare un angelo. (Kahlil Gibran)



 

Il primo sole del mattino colse Jensen alla sprovvista, spedendogli una fitta di dolore lancinante esattamente al centro del cervello: ubriachi com’erano, lui e Castiel non avevano certo avuto la lungimiranza di chiudere gli scuri, e ora ne pagavano le conseguenze.
In realtà non ricordava nemmeno come diamine avesse fatto ad inerpicarsi fino al piano superiore in quelle condizioni trascinandosi appresso Castiel ridotto anche peggio, la cosa che rammentava con più chiarezza era una copiosa quantità d’alcol, sì, davvero tanto, e del sesso spettacolare, roba da ultima notte sulla Terra… e a quel ricordo si voltò ad osservare il suo prof, completamente sepolto dalla coperta, che al riparo dai dispettosi raggi del sole russava beato.
 
Decise di non disturbarlo, almeno non subito, e pregando con tutte le sue forze che in casa ci fosse un flacone formato famiglia di aspirina caracollò fino al bagno, dove si concesse una lunga doccia bollente, che lo rimise al mondo e gli schiarì di parecchio le idee.
Dopo aver buttato giù un paio di pillole scovate nell’armadietto dei medicinali ed aver infilato dei jeans e una felpa scese di sotto, trovandovi ovviamente lo scempio che avevano lasciato la sera prima: cuscini e vestiti sparsi ovunque, bicchieri rovesciati, appiccicose tracce di zucchero e quant’altro sul pavimento e un odore di alcol stantio che gli diede immediatamente la nausea.
Si avvicinò ad una delle finestre per spalancarla e far entrare un po’ d’aria fresca, trovandola già socchiusa: probabilmente avevano avuto la geniale pensata prima di trascinarsi a letto, anche se i risultati non erano stati particolarmente entusiasmanti…

Preparò la prima delle innumerevoli caraffe di caffè che sarebbero di certo servite quel giorno, imprecando mentalmente contro le fatine francesi e le distillerie delle Highlands.
 
Versò un’abbondante dose di caffè nero in una mug che, col calore del liquido, si colorò facendo apparire sulla superficie esterna l’immagine di una donna nuda e sogghignò per la propensione di Balthazar verso il lusso pacchiano e i gadget da camionista, mentre risaliva le scale per svegliare Cass.
 
Posò la tazza sul comodino, aprì la piccola finestra dell’abbaino e cercò di scuotere Castiel il più dolcemente possibile, ottenendo solo di farlo appallottolare ancora di più tra le coltri.
Dopo vari, gentili ed infruttuosi tentativi, passò alle maniere forti, strappandogli di dosso le coperte e lasciandolo nudo, esposto alla frizzante aria del mattino e alla luce tagliente che entrava dalla finestra.

Sorrise.
Se il suo professore, di natura, appariva sempre piuttosto ‘stropicciato’, quella mattina sembrava un fazzolettino di carta usato: capelli incredibili (come facevano ad essere sempre così incasinati?), inequivocabili segni rossastri sul corpo (ok, di quelli si assumeva la piena responsabilità), musetto accartocciato e l’espressione di uno che sarebbe benissimo potuto morire di emicrania da un momento all’altro.
 
Non prima di averlo mandato a quel paese, però.
 
- Jeeeeeeens! Ma cosa diavolo… ? - biascicò, riappropriandosi di un lembo di coperta.

- Ben svegliato, Bukowski. Ti ho portato il caffè. - spiegò Jensen porgendogli la tazza e due aspirine - Lo bevi liscio o vuoi che te lo corregga con un po’ di assenzio? - lo provocò.
 
- Non… non nominarmi quel veleno! Mi viene da vomitare Jens… - piagnucolò come un bambino - Chiudi la finestra, ti scongiuro… -
 
- Mi spiace, ma se la chiudessi andresti di nuovo in coma. Su, bevi un po’ di caffè, prendi le aspirine e buttati sotto la doccia, vedrai che ti sentirai meglio. -
 
Castiel sorseggiò controvoglia un po’ di caffè, chiudendo gli occhi e lasciando che il liquido caldo invadesse il suo corpo e contrastasse in qualche maniera il tasso alcolico del suo sangue, buttò giù le aspirine e si lanciò di nuovo a faccia in giù tra i cuscini, bofonchiando qualcosa d’incomprensibile.
 
Jensen emise un lungo sospiro.
 
- Ascolta, Cass, ora vado a recuperare la giacca in auto. - spiegò con pazienza - Ho lasciato il cellulare in una tasca, si è scaricato la sera che siamo arrivati qui e ieri me ne sono completamente scordato. Sarà meglio che faccia uno squillo a Jared, prima che chiami la Guardia Nazionale. Tu alzati e vedi di prepararmi la colazione, una vera colazione: sono un uomo, non una modella di Vogue! Al nostro organismo serve qualcosa di unto, per tamponare tutto quell’alcol. -
 
- Ma ho mal di testa… - replicò Castiel in tono lamentoso, ficcando la testa sotto il cuscino.
 
- Così impari a bere certe porcherie di contrabbando. - lo sgridò benevolmente Jensen, scostando di nuovo le coperte e dandogli una pacca sul sedere nudo.
 
- Non hai alcuna comprensione. -
 
- Vedi di renderti presentabile e di farti trovare a grigliare del bacon, per quando rientro, o potrei scatenare l’inferno. - lo ammonì.
 
- Sei cattivo. -
 
- Non hai idea di quanto… - mormorò Jensen prima di uscire dalla camera, sporgendosi ad arruffargli ulteriormente i capelli.
 
- Torturatore… - mugugnò ancora Castiel, mentre l’altro già scendeva le scale.
 
Non appena mise piede fuori dallo chalet venne aggredito dai raggi del sole, intollerabili nelle sue condizioni, che lo spinsero ad affrettarsi in direzione dell’Impala, dove aveva lasciato anche i suoi amati Rayban.
 
‘C’è qualcosa che non ho dimenticato su quell’auto?’ pensò, appuntandosi mentalmente di recuperare anche il caricabatterie dal cruscotto.
 
Quando arrivò sotto agli abeti che avevano protetto la sua Baby dal nubifragio, verificò prima di tutto che non vi fossero danni alla carrozzeria e poi, soddisfatto, si sedette al posto di guida. Estrasse il cellulare da una delle tasche della giacca e provò ad accenderlo: niente da fare, completamente morto.
Chissà poi se c’era segnale, in mezzo a tutti quegli alberi.
Aprendo il vano portaoggetti trovò il caricabatterie e se lo ficcò in tasca, indossò gli occhiali da sole con un moto di gratitudine e si diresse nuovamente verso la casa, zigzagando ai lati del sentiero per evitare le pozze di fango formatesi a causa della pioggia.
 
Appena varcata la soglia, capì subito che qualcosa non andava.
 
Senso di ragno, premonizione o qualunque cosa fosse, avvertì un brivido lungo la schiena che lo portò a fare qualche passo guardingo in direzione del soggiorno, dove trovò Castiel con occhi enormi e un’espressione semplicemente terrorizzata dipinta sul viso che lo fissava muto scuotendo la testa, in posizione innaturale su una sedia, come se avesse le mani legate dietro la schiena.
Jensen aprì e richiuse più volte la bocca cercando di dire qualcosa, ma non uscì alcun suono dalle sue labbra.

Poi sentì molto chiaramente qualcosa di freddo premere contro la propria nuca, mentre l’inconfondibile rumore del cane di una pistola, della sua pistola, che veniva armato, gli rimbombò nelle orecchie.
 
- Ciao, stronzetto. Ma guarda un po’, sei cresciuto… - ghignò una voce gelida e cantilenante che si era augurato di non dover sentire mai più.
 
Jensen voltò con cautela la testa, mentre alzava lentamente le mani, in modo da poter vedere con la coda dell’occhio l’uomo che lo teneva sotto tiro.
 
Erano passati degli anni, aveva i baffi, molti meno capelli e tinti di un altro colore, ma avrebbe riconosciuto ovunque quegli occhi freddi da bestia selvatica che l’avevano fissato beffardi prima di fuggire, lasciandolo con il corpo di suo padre tra le braccia, in un lago di sangue.
 
- Tu… - ringhiò Jensen.
 
- Chiamami Alastair, dopo tutti questi anni evitiamo le formalità, stronzetto. Che splendida sorpresa, vero? Siete stati davvero gentili, ieri sera, a lasciarmi la finestra aperta, non ho dovuto nemmeno fare la fatica di scassinarla. - lo canzonò l’uomo, spingendolo brutalmente nel punto dov’era già immobilizzato Castiel e costringendolo a sedersi, ammanettandogli entrambe le mani alla struttura della sedia.
 
Jensen si voltò a scansionare l’intera figura di Castiel, spaventato, cercando di capire se avesse riportato danni fisici o sanguinasse, ma quest’ultimo lo rassicurò con un impercettibile movimento del capo.
 
- Non preoccuparti, non ho torto un capello a bel faccino, qui, mi sono limitato ad ammanettarlo, ma ho come l’impressione che per lui non sia la prima volta, anche se la meno piacevole… - disse beffardo.
 
Jensen tornò a rivolgere la propria attenzione all’uomo che li teneva sotto tiro.
 
- Come hai fatto a trovarmi? - chiese senza tanti giri di parole.
 
- Così mi ferisci… non sono sulla piazza da vent’anni perché sono un’incapace come te o tuo padre, testolina di cazzo. Ho nemici, e anche amici, che mi temono, per sapere dove fossi ci ho messo un paio di telefonate e meno di dieci minuti. -
 
- No, voglio sapere come hai fatto a trovarmi qui. -
 
- Qui? - chiese l’altro, scoppiando a ridere - Non ti ho trovato, ti ho seguito. Vi sto dietro fin da Boston.
 
Gli occhi di Jensen si spalancarono per lo sgomento, poi si strinsero in una fessura. Lanciò uno sguardo a Castiel, che lo fissava senza capire.
 
- Oh, andiamo, stronzetto, non vorrei sembrare ovvio, ma quella specie di bidone dell’immondizia che ti ostini a guidare è come una cazzo di insegna al neon. Quante credi che ce ne siano a Boston? Qualche ricerca sul sito della motorizzazione e beccarti è stata una passeggiata. -
 
Jensen chiuse gli occhi un secondo, assimilando il significato di quelle parole, maledicendo se stesso e il suo stupido sentimentalismo. L’amore per una macchina aveva fottuto entrambi. Ora quel bastardo non aveva solo lui, aveva Cass.
 
Cristo, aveva Cass…
 
Tentò di prendere tempo. Gli sembrò quasi di sentire la voce di suo padre risuonargli nel cervello…
 
‘Sempre prendere tempo, con qualsiasi mezzo.’
 
Mantieni la calma e fallo parlare.
 
- Se ci hai seguiti fin da Boston, perché hai agito solo ora? - domandò con voce il più ferma possibile, scatenando un’altra risata compiaciuta nell’uomo che aveva di fronte.
 
- Proprio non mi conosci, eh, stronzetto? Volevo che ti rilassassi, che ti sentissi al sicuro. Raddoppia il piacere. Oh, e poi così ho avuto modo di divertirmi parecchio… è incredibile quello che si riesce a vedere con un binocolo ad infrarossi… tipo voi due ragazzoni che ieri sera quasi scopavate sul cofano di quel rottame. Per non parlare dello spettacolino che avete allestito dopo, sul pavimento: roba di classe, te l’assicuro, meglio di qualsiasi porno… - sottolineò con sadico compiacimento - Dimmi un po’, il tuo adorato paparino lo sapeva che eri un merdoso finocchio? Uhm, non credo, no… non sarebbe stato così orgoglioso di te sapendo che lo prendevi nel culo, vero? -
 
Jensen chiuse con forza gli occhi, stringendo le labbra fino a trasformarle in una linea pallida e sottile, cercando di contenere la collera.
 
- Jens, non ascoltarlo! Vuole solo farti male! - intervenne Castiel, assicurandosi all’istante un manrovescio che per poco non lo fece rovesciare a terra assieme alla sedia.
 
- Sei stato interrogato, Occhi Blu? Tu parli quando ti dico che puoi parlare, o vuoi che alle manette aggiunga un bavaglio? - sibilò il demone, stizzito, mentre Jensen non riusciva ad impedirsi di dare un involontario strattone alle proprie manette, vinto dall’istinto di proteggere Castiel.
 
- Cass… stai zitto, ti prego. Non scherza… -
 
- Sul serio? Mi era venuto il dubbio quando mi ha ammanettato… - mormorò Castiel in maniera del tutto incoerente, sconvolto e dolorante.
 
- Cass! Taci, cazzo! - ringhiò Jensen, con la rabbia dettata dalla paura.
 
Alastair, infastidito, alzò la mano per assestare un secondo colpo al professore, poi si fermò come per un improvviso ripensamento.
 
- No stronzetto, sentiamo che cos’ha da dire la tua fidanzata… oggi sono particolarmente di buonumore per questa nostra piccola rimpatriata. -
 
Jensen sentiva la furia salire, e salire, ribollirgli nelle vene come lava e incenerire ogni altra emozione al suo passaggio, ma fece uno sforzo sovrumano per tenerla a bada, cercando di ricordare a se stesso l’inutilità di perdere le staffe. Se volevano portare a casa la pelle, doveva rimanere lucido.
 
Castiel sollevò il mento con aria di sfida, gli occhi freddi come acciaio.
 
- Non ho altro da dire, non a te almeno. - mormorò rivolto al loro aguzzino, voltandosi quindi in direzione di Jensen, che lo fissava con orrore.
 
D'improvviso i suoi occhi ebbero un guizzo, si voltò nuovamente verso Alastair e riprese a parlare - Anzi, sì che ce l’ho. Non so cosa tu voglia esattamente da noi, ma posso offrirti la possibilità di uscire da questa storia con le mani pulite e un bel po’ di soldi. Mio padre è un uomo molto ricco: se ci lasci andare, entrambi, ti darà tutto quello che vuoi. - propose, allettante.
 
Alastair per un attimo lo fissò con interesse, risvegliando un debole barlume di speranza in Jensen, ma subito il suo sguardo mutò in un’espressione indecifrabile.
 
- Oh ma io ho già tutto quello che voglio, occhioni. Proprio qui, in questa stanza. Qui non si tratta di soldi, non più, ma di vendetta. - spiegò con un sorriso sadico.
 
- Vendetta? - sbottò Jensen, incredulo, incapace di trattenersi ancora - Tu, vorresti vendicarti? E di cosa? -
 
- Tu e il tuo caro papà avete reso la mia vita un inferno per anni, stronzetto. Avete rovinato i miei affari. Se non avessi avuto voi due appiccicati al culo per tutto il fottuto tempo, avrei potuto truffare in santa pace per altri tre o quattro anni e ritirarmi in Florida a godermi la pensione – ma no! – voi avete dovuto far saltare tutti i miei piani. Soprattutto dopo aver fatto fuori il tuo vecchio non ho più avuto un attimo di pace. Mi hai messo alle calcagna i cacciatori di otto stati, hai fornito il mio identikit persino ai federali… ho dovuto tingermi i capelli e farmi una cazzo di plastica al naso per poter anche solo andare a mangiare in una tavola calda! - ringhiò Alastair.
 
- Ehi, non è colpa mia se ho un talento per i ritratti e se mio padre aveva molti amici. E poi ti donano i baffi, fanno tanto Village People e coprono un po’ quella faccia di cazzo che ti ritrovi… - rispose Jensen, serafico, tentando di attirare su di sé le attenzioni dell’uomo.
 
Alastair incassò, senza reagire. Non era un buon segno.
 
- Hai ancora voglia di scherzare, vero? Ti passerà presto, non preoccuparti… - assicurò con un ghigno, avvicinandosi a Castiel e aprendo le sue manette in modo da staccarlo dalla sedia, per richiudergliele attorno ai polsi subito dopo averlo fatto alzare in piedi. Sciolse allo stesso modo anche Jensen, sempre tenendoli sotto tiro.
 
Li condusse fuori, mandando avanti Jensen e strattonando il professore per le manette, con la pistola alla schiena.
 
- Ora niente scherzi, stronzetto, tu cammini senza fare storie e io non faccio saltare il cervello al tuo amichetto, siamo d’accordo? -
 
Jensen si trovò suo malgrado ad annuire, cercando di intuire le intenzioni del loro rapitore, mentre ogni fibra del suo essere ribolliva per la collera e il senso d’impotenza che sentiva crescere dentro. Con tutta probabilità se non ci fosse stato di mezzo Castiel avrebbe già fatto qualche stronzata, ma s’impose di obbedire e non fiatare.
 
Vennero spintonati in malo modo fino al piccolo molo, quindi fatti inginocchiare a terra con un calcio. Non si metteva bene.
 
- Ok, pezzo di merda, facciamola finita una volta per tutte. Ammazzami, ma lascia andare lui - disse risoluto, accennando a Castiel, che boccheggiò per l’orrore al suono di quelle parole.
 
Alastair lo guardò come se fosse un idiota.
 
- Non hai ancora capito, vero, coglione? Io non voglio ammazzarti. - precisò, scandendo le parole - Io voglio che tu viva, e il più a lungo possibile, divorato dal rimorso. Sarà questa la mia vendetta. -
 
- Cos…? Razza di bastardo, ma non ti basta quello che mi hai già fatto? Hai ucciso mio padre, cazzo! Mio padre! Sotto i miei occhi! Si può sapere che cazzo vuoi ancora da me? Perché proprio ora? Non ha senso! - sbraitò Jensen, ogni traccia d’autocontrollo ormai scomparsa, soppiantata da una furia cieca che minacciava di farlo uscire di senno.
 
- Ohhhhhhh, buuuuuu… - lo derise l’uomo armato - Povero, piccolo stronzetto, senza papino! Non ha senso, dici? Non me ne frega un cazzo se per te abbia senso o no! Perché ora, dici? Perché ne avevo voglia. Perché posso. - sottolineò - Sono fatto così… tu rovini la vita a me, io la rovino di più a te. La chiamo dissuasione. -
 
- Quindi cosa? Se non vuoi farmi fuori, qual è il punto? Vuoi torturarmi? -
 
- Diciamo di sì… ma non come pensi tu, sarebbe troppo facile. Per te, chiaro. – specificò.
- Ammazzerò lui. - dichiarò serenamente, indicando Castiel con la canna della pistola - E tu guarderai. -
 
Il cuore di Jensen si fermò in quel preciso istante, mentre si voltava in direzione del compagno, che sembrava sotto shock, il volto ridotto ad una maschera di terrore.
Di colpo capì perché suo padre era quasi impazzito di dolore quando aveva perso sua madre: perché anche solo l’idea era semplicemente intollerabile.
 
No.
No no no.
Non per colpa sua.
Non di nuovo.
Non Castiel.
 
- Oh, e ringrazia che non è una ragazza… - aggiunse Alastair - se no prima di piantargli una pallottola in fronte me la sarei anche scopata davanti a te. Anche se lui, in effetti, sembra particolarmente bravo a succhiarlo. Quasi quasi… - valutò - Bah, voi froci, sempre i soliti piccoli bastardi fortunati… - mormorò scuotendo la testa, dopo un breve tentennamento.
 
- Se tocchi lui, ti conviene ammazzare anche me, ti avverto. Perché ovunque andrai, qualsiasi cosa farai, non ci sarà una fogna in grado di nasconderti… - ringhiò Jensen, il viso stravolto dalla rabbia - Ti troverò, bastardo, ma non ti consegnerò alla polizia… ti strapperò la pelle di dosso, poi ci verserò il sale, poi ti farò male di nuovo e poi ti guarderò morire… -
 
Alastair si strinse nelle spalle con noncuranza.
 
- Sì, bè, intanto che ne dici di guardare morire il tuo bello? - domandò, togliendo la sicura dalla Colt con l’elegante calcio di madreperla e portandosi di fronte al professore - Il tuo ragazzo che viene ucciso con la pistola di tuo padre, non lo trovi quasi… poetico? - lo provocò con un sorriso sardonico.
 
Ma Jensen ormai non l’ascoltava, non più.
 
Niente avrebbe potuto ferirlo ulteriormente.
 
Stava guardando Castiel, il volto rigato di lacrime.
 
Anche Castiel si voltò verso di lui, e non c’era rabbia sul suo viso, nemmeno paura, solo rassegnazione ed un infinita pena che traspariva dai suoi occhi blu.
 
- Ti amo, Cass. Ti amo. Mi dispiace… - mormorò Jensen, incapace di dire altro, completamente annichilito.
 
Castiel serrò le palpebre per un secondo, assaporando il suono di quelle parole, immaginando per un momento di averle sentite in un altro posto, in un altro momento, in un altro modo.
 
Se la sua vita era giunta al capolinea, voleva che almeno le ultime cose che vedeva fossero belle.
Li riaprì.
Evitando deliberatamente Alastair, guardò il lago davanti a sè, luccicante come una distesa di diamanti sotto il sole, guardò il cielo blu sopra di loro, costellato qua e là di soffici nuvolette candide, e infine guardò di nuovo Jensen, disperato, umiliato, in ginocchio.
 
Gli rivolse un ultimo sorriso.
 
- Non è colpa tua Jens… - mormorò.
 
- Mi state facendo venire da vomitare voi due puttane, vediamo di finirla con queste cazzate da checche! Saluta la tua fidanzata, stronzetto. - esclamò Alastair, nauseato, puntando la pistola alla testa di Castiel e posando il dito sul grilletto.
 
Castiel chiuse di nuovo gli occhi dopo un ultimo sguardo a Jensen, che ormai non vedeva più nulla, completamente accecato dalle lacrime e dal dolore che rimbombava sordo nel suo cervello.
 
Lo sparo echeggiò nel silenzio con un’eco mostruosa.





NDA: ok, sono pronta, lapidatemi. XD
Svolta dark, lo so, ma non voglio dire nulla... se non che ringrazio chi è arrivata fino a questo punto e chi avrà la pazienza di arrivare oltre. Questa long sta diventando davvero long e siete state grandi ad accompagnarmi fino a qui.

Come sempre ci sono GRAZIE per tutti: per i lettori silenziosi, per chi commenta ogni tanto, per chi commenta sempre, per i vari preferiti, seguiti e ricordati e un grazie speciale a LaTuM per aver segnalato questa ff per le storie scelte (me ne sono accorta solo ora  ç___ç  shame on me)!

 
 

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Capitolo 19
*** LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA ***


LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA
 
 

"Tutti dobbiamo affrontare i demoni che abbiamo dentro, e che si chiamano: paura, odio e rabbia. Se non riusciamo a sconfiggerli, cento anni di vita ci appariranno come una tragedia; se ci riusciamo, un solo giorno di vita potrà essere un trionfo."
 
-Bruce Lee-
 

 
Il primo colpo gli fece saltare di mano la pistola, ferendolo di striscio. Il secondo lo colpì alla spalla sinistra, mandandolo al tappeto.
 
Jensen sollevò lo sguardo, disorientato, osservando la piccola pozza di sangue che si andava allargando sotto al corpo del loro aguzzino riverso a terra, e poi Castiel, che ad occhi sbarrati a sua volta guardava in direzione del bosco.
Dal folto degli alberi, emerse la sagoma di un uomo di colore con un malconcio berretto da baseball calato sul viso, un gilet da cacciatore ed un fucile di precisione tra le mani.
Non appena Jensen ebbe messo a fuoco chi si trattasse, oltre il velo di lacrime, si accasciò sedendosi sui propri talloni e si abbandonò una risata che voleva essere liberatoria ma che suonò più che altro isterica, a causa del violento rilascio di adrenalina.
 
- Felice di vedervi tutti interi, ragazzi! - esordì l’uomo non appena fu a portata di voce.
 
- Rufus… - mormorò debolmente Jensen, seguendo con lo sguardo il vecchio cacciatore che con pochi gesti secchi rigirava il corpo di Alastair ancora semisvenuto, lo ammanettava e lo allontanava dalla pistola.
 
- Come… come ci hai trovati? -
 
Sembrava la domanda del giorno.
 
- Sono vecchio, figliolo, ma non sono rincoglionito. - spiegò l’uomo, recuperando le chiavi delle manette dalle tasche di Alastair - Appena ho saputo che questo figlio di puttana era diretto a Boston, ancora prima di avvisarti sono passato da casa tua e ho infilato un rilevatore GPS su per le sottane della tua carretta, e a quanto pare ho fatto bene. Quando ieri non mi hai più risposto al cellulare ho chiamato Jared, che per la cronaca era spaventatissimo, e quando anche lui mi ha detto di non sapere dove fossi ho capito che qualcosa non andava e mi sono messo sulle tue tracce. - terminò, liberando Jensen e poi Castiel, che sembrava catatonico.
 
Jensen non riuscì a dire nulla, si limitò ad annuire pieno di gratitudine mentre si massaggiava i polsi doloranti, quindi aiutò Castiel a rialzarsi, stringendolo tra le braccia e premendogli le labbra sulla fronte, incurante dello sguardo indagatore di Rufus.
 
- Ok ragazzi, io sistemo questo sacco di merda in macchina, lo rattoppo per evitare che muoia dissanguato e chiamo lo sceriffo della Contea. Voi andate dentro, parleremo dopo. -
 
I due ragazzi si diressero verso casa in silenzio, sorreggendosi a vicenda.
 
Una volta chiusa la porta, Jensen pilotò Castiel fino al divano, lo fece sedere e si inginocchiò a terra di fronte a lui, scrutandolo preoccupato.
 
- Questa… questa era la tua vita? - domandò questi debolmente, dopo un po’, ficcandosi entrambe le mani tra i capelli e rastrellandoli più e più volte con le dita, meccanicamente, in una specie di tic.
 
Il compagno si limitò ad annuire, incapace di guardarlo negli occhi, e Castiel non disse più nulla.
 
Il primo istinto di Jensen sarebbe stato quello di tastarlo da capo a piedi per accertarsi che fosse ancora tutto intero, ma temeva che, se solo l’avesse toccato, Cass sarebbe potuto andare in mille pezzi, non tanto fisicamente quanto psicologicamente.
 
Non che questo improvviso silenzio non gli facesse altrettanta paura.
 
Si limitò a sfiorare impercettibilmente con la punta delle dita lo zigomo che Alastair aveva colpito, sperando che non fosse rotto, e a quel minimo contatto Castiel arretrò violentemente come per una scottatura.
L’ematoma non era ancora affiorato, ma evidentemente doveva fargli un male cane.
 
- Ok Cass… - disse piano, rialzandosi e dirigendosi in cucina - Ora ti cerco qualcosa da mettere sulla faccia. Non muoverti. -
 
Non avendo la più pallida idea di dove recuperare una borsa del ghiaccio, tornò dopo pochi istanti con una confezione di piselli surgelati, si inginocchiò nuovamente ai piedi di Castiel, gli prese una mano, vi posò la busta e poi guidò entrambe fino al suo viso, il più delicatamente possibile.
Castiel sussultò, ma chiuse gli occhi sotto l’effetto anestetizzante del freddo e stavolta non si scostò.
 
Jensen aveva così tante cose da dire che non sapeva davvero da dove cominciare. O dove diavolo racimolare il coraggio.
Il loro futuro non era nemmeno cominciato ed era già tutto finito… per colpa del suo stramaledetto passato.
 
Partì in quarta, come ogni volta che si sentiva in colpa, o messo alle strette.
 
- Cass, io… cioè io… oddio mi sento un coglione anche solo a provare a spiegare, non so come fare a scusarmi, a farti capire quanto mi dispiaccia che tu abbia dovuto subire… bè… questo schifo. Per colpa mia. - farfugliò - Non… non ci sono parole, anche perché non c’è scusa che tenga, lo so benissimo… ho messo in pericolo la tua vita e se ti fosse accaduto qualcosa sarei impazzito… io… mi rendo conto di non avere più alcun diritto di chiedere il tuo perdono, immagino che non vorrai vedermi mai più, e giuro che ti capisco, ma vorrei solo che sapess-
 
- Era vero? - lo interruppe Castiel, aprendo gli occhi e trapassandolo con lo sguardo.
 
Jensen sbattè le palpebre, confuso, un po’ perché non si aspettava che Castiel aprisse bocca, un po’ perché non erano certo queste le parole che immaginava avrebbe sentito.
 
- Che… che cosa? - balbettò.
 
- Quello che hai detto là fuori. Era vero? O l’hai detto solo perché pensavi che stessi per morire? -
 
Jensen finalmente capì.
 
- Oh mio Dio, Cass. Certo che era… che è vero. - ammise finalmente, osservando contemporaneamente gli occhi di Castiel tingersi di… era sollievo, quello? - Lo penso da tanto, lo so da tanto… io… sono una testa di cazzo, non sono mai riuscito a dirtelo ed ora ho rovinato tutto… - disse mogio, mentre osservava un ingiustificabile sorriso stirare le labbra di Castiel, almeno stando a quello che poteva intravedere al di là della busta di piselli.
 
‘Questo è il chiaro indizio di un grave trauma cranico.’
 
Al sorriso si aggiunse uno sbuffo che sembrava un accenno di risata.
 
‘Danni permanenti?’
 
Castiel continuò a sorridere dolcemente, ignorando la fitta di dolore che gli avvolgeva metà del viso in una morsa.
 
- Siamo… due imbecilli. Credo… che entrambi… - mormorò faticosamente, fra gli spasmi di dolore che lo aggredivano ad ogni movimento delle labbra - … non avremmo potuto scegliere un modo e un momento peggiori nemmeno se ci fossimo impegnati… io te l’ho urlato e sono scappato, tu ti sei dichiarato in ginocchio, certo… ma con una pistola puntata contro. Bè, di sicuro non sarà un momento che… dimenticheremo facilmente. - commentò infine, stringendosi nelle spalle con semplicità.
 
Non era arrabbiato con lui. Non voleva lasciarlo. Non lo stava mandando a quel paese. Stava liquidando quella terrificante esperienza con un’alzata di spalle?
Sul serio?
 
Ok, se in precedenza Jensen aveva avuto solo dei pallidi sospetti, questa era la conferma che Castiel era irrimediabilmente, completamente pazzo.
 
- Cass, penso che tu abbia una commozione cerebrale o qualcosa del genere. - mormorò, stranito, osservando dubbioso la dimensione delle sue pupille.
 
Castiel si limitò a sospirare stancamente, appoggiandosi allo schienale del divano e chiudendo di nuovo gli occhi.
 
- Ehi ehi, non svenirmi qui, ti prego. Ora ti cerco un antidolorifico e poi tu e questa bella busta ghiacciata ve ne andate di sopra a fare una dormita. A Rufus e a tutto il resto ci penso io. - assicurò Jensen, rimettendosi in piedi per scovare del Vicodin (se Balthazar era folle la metà di quanto sembrava, aveva di certo una scorta da fare invidia al dottor House).

Rimediato con una certa delusione un più blando e soprattutto legale prodotto da banco, Jensen convinse Castiel a buttar giù un paio di pillole con un bicchiere d’acqua, poi lo portò di sopra e lo mise a letto, tirandogli le coperte fino al mento ed accarezzandogli delicatamente la fronte come se fosse un bambino.
 
- Avresti preferito che fossi Joe l’idraulico [1], eh? Più facile da gestire… - ironizzò con dolcezza. Dire cose senza senso gli sembrava comunque meglio di un opprimente silenzio.

- Joe l’idraulico non avrebbe il tuo bel culo… - ribattè stancamente Castiel, con la voce leggermente impastata - E io non voglio una persona facile, voglio una persona speciale. Voglio te Jens... - terminò, ad occhi chiusi.
 
Jensen osservò il suo volto sfinito, le sopracciglia leggermente aggrottate per il dolore allo zigomo, e di nuovo non gli sembrò vero che fossero entrambi vivi, con danni minimi.
E che uno come Castiel fosse davvero suo.
 
- E’ finita, Cass. Stavolta è finita per sempre. Niente della mia vecchia vita verrà mai più a cercarmi. Ci siamo solo noi, ora. - sussurrò, sfiorandogli la tempia con un bacio - Adesso dormi. -
 
E quel noi, per Castiel, significò più di ogni altra cosa detta fino a quel momento.
 
Poi scivolò nell’oblio.
 
Quando Jensen scese di sotto trovò Rufus che sorseggiava una birra direttamente dalla bottiglia, in piedi nel bel mezzo del soggiorno, guardandosi attorno con una certa curiosità, soprattutto notando le macerie della sera precedente ancora lì dov’erano rimaste, sollevando un sopracciglio e fissando prima i boxer abbandonati davanti al camino, quindi Bestia Morta e poi Jensen con aria interrogativa.
 
- Come sta il tuo, uh, amico? - domandò, premuroso e leggermente titubante sull’appropriata scelta dei termini.
 
- Andiamo Rufus, lo sai perfettamente che lui non è solo un mio amico… - rispose il maggiore dei Winchester sfoggiando il suo collaudatissimo sorriso da spaccone, nel tentativo di non sembrare imbarazzato e di far passare il proprio cambio di rotta come ordinaria amministrazione..
Non tanto per il fatto di stare con un uomo, ma perché stava ammettendo, di fronte a quello che considerava una sorta di zio, di avere una relazione seria.
 
Per la prima volta nella sua vita.
 
- Uhm, sì, qualunque cosa sia spero che stia bene. Certo che non ti smentisci mai, ragazzo. Fin da adolescente hai sempre avuto ragazze bellissime, ora un bellissimo uomo. Temo però di essermi perso qualche passaggio fondamentale… -
 
- Non più di me, te l’assicuro. - ammise Jensen - Non ho esattamente cambiato gusti dall’oggi al domani, se è questo che ti stai chiedendo, è che… è lui. Solo lui. - borbottò ad occhi bassi.
 
Rufus sorrise, intenerito, anche se si sforzò di non farlo trapelare per non imbarazzare ulteriormente Jensen e, diciamoci la verità, per non intaccare la ruvida scorza di uomo tutto d’un pezzo che aveva faticato anni a cucirsi addosso.
 
Non aveva mai sentito Jensen parlare con tanto trasporto di nessuno, se non di Jared. Finalmente aveva trovato qualcuno di cui prendersi cura e che si prendesse cura di lui.
Che lo rendesse felice.
 
- Bè, a parte tutto, credo che questo “lui”-
 
- Castiel. - lo interruppe Jensen - Si chiama Castiel. -
 
- Sì, ok, credo che questo Castiel ti stia facendo davvero bene. Sei cambiato, sai? In meglio. -
 
Jensen arrossì lievemente, annuendo in maniera meccanica e dirigendosi in cucina per prendersi una birra o qualsiasi altra cosa, di modo da tenere le mani impegnate. Si sentiva un cretino a stare lì in piedi con le braccia ciondoloni mentre Rufus analizzava al microscopio la sua nuova relazione omosessuale.
 
- Il bastardo dov’è, Rufus? - si informò per cambiare discorso, anche se in realtà sarebbe stato felice di sapere dove si trovasse quel sacco di merda esclusivamente se la risposta fosse stata ‘in fondo al lago con una cintura di mattoni’.
 
- Avevo la Jeep parcheggiata non lontano da qui. Sono tornato a prenderla e l’ho infilato sui sedili posteriori. E’ ancora svenuto, ma per quando arriverà lo sceriffo credo che si sarà già ripreso. Spero che la ferita alla spalla gli faccia un male cane. -
 
- Io spero che gli vada in cancrena e gli si stacchi il braccio… - mormorò Jensen, ancora pieno di rabbia ma anche con un certo distacco. Come se parlasse più per dovere ed abitudine.
 
- E’ questo che intendo quando dico che sei cambiato, ragazzo. Il Jensen che conosco io non avrebbe mai permesso che quella feccia andasse in galera. Eri troppo affamato di vendetta, troppo arrabbiato. Fino a poco tempo fa, nel momento esatto in cui ti fossi trovato senza manette, avresti raccolto la pistola e l’avresti ammazzato come un cane rognoso senza pensarci un istante. Sei maturato. -
 
- Il rancore è stato il mio compagno di viaggio per troppo tempo, Rufus. Diciamo che le mie priorità ora sono cambiate. - ammise con naturalezza Jensen, e il suo pensiero volò a Castiel che riposava al piano di sopra.
 
- In ogni caso, quello stronzo ha una fedina penale lunga da qui fino all’Alabama. Con tutti i reati che ha commesso e le morti che ha causato, direttamente ed indirettamente, credo abbia buone probabilità di uscire di galera per il 2327. -
 
- Sarà sempre troppo presto. Spero che in carcere gli facciano un’accoglianza festosa stile “Le ali della libertà”… -
 
Rufus annuì gravemente.
 
- Considerando che, ogni volta che ha lavorato con dei complici, li ha regolarmente fregati incastrandoli in retate a sorpresa o facendo soffiate alla polizia per intascarsi tutto il malloppo, posso tranquillamente affermare che ovunque lo sbattano trovarà un discreto fan club a dargli il benvenuto, stai tranquillo… il suo caso è ancora sotto la giurisdizione del Texas, e lo sai che nelle loro prigioni non sono esattamente indulgenti o affabili.
 
- Non hai idea di quanto questo mi renda felice. - disse Jensen con un ghigno soddisfatto.
 
Discussero per un altro po' delle ultime cacce di Rufus, fino all’arrivo di una macchina con le insegne della contea che si arrestò accanto alle altre due che già sostavano in fondo al sentiero.
I due uomini uscirono dallo chalet, accolsero lo sceriffo e gli consegnarono il prigioniero ormai sveglio, parecchio incazzato e parecchio impegnato a sputare una sequela pressoché infinita d’insulti e minacce all’indirizzo di Jensen. Minacce che però, pronunciate da un uomo di mezza età legato come un salame e ricoperto di sangue raggrumato, persero parecchio del loro mordente.
 
Jensen osservò un’ultima volta l’uomo che aveva popolato i suoi incubi per anni.
La sua mente di ragazzo, alimentata dalla paura e dal dolore, lo aveva in un certo qual modo “mitizzato”: lo ricordava così imponente mentre incombeva su di lui inginocchiato a terra… malvagio, potente, diabolico, quasi soprannaturale… invece era solo un patetico e squallido essere umano sulla cinquantina, che come unici poteri aveva solo una ferocia inaudita e la totale assenza di sentimenti.
 
Cercò di imprimersi nella mente ogni particolare di quel relitto umano, come regalo personale al proprio subconscio, prima di sbattere la portiera dell’auto sul proprio passato.
 
Lasciarono Alastair sulla volante a macerare nel proprio astio e rientrarono allo chalet per completare le ultime pratiche riguardanti la cattura e stendere una bozza di rapporto sull’accaduto.
Jensen fornì i propri dati e anche quelli di Castiel, promettendo totale disponibilità in caso di problemi ma pregando lo sceriffo di non costringerlo a svegliarlo.
Quest’ultimo acconsentì di buon grado, in fondo aveva già tutto ciò che occorreva per chiudere il caso, due testimoni oculari bastavano e avanzavano, e Jensen gliene fu estremamente grato.
 
Dopo una decina di minuti ed un ultimo scambio di numeri telefonici, l’uomo se ne andò, portando via con sé il lato oscuro del passato di Jensen.
Per sempre.
Nonostante il pericolo scampato per un soffio, nonostante lo stress, nonostante la paura, il ragazzo sentì un enorme peso che come per magia veniva sollevato dal suo cuore.
 
Pensò a suo padre, finalmente vendicato.
 
Pensò a se stesso, finalmente libero da ombre e spettri.
 
Pensò a Castiel, al piano superiore, sano e salvo, ignaro di avergli cambiato la vita.
 
Si lasciò sommergere da questo groviglio di emozioni, indeciso se ridere o piangere, passandosi nervosamente una mano sulle labbra, come spesso faceva quando era scombussolato.
 
Rufus interruppe il flusso dei suoi pensieri, posandogli una mano sul braccio.
 
- Ehi campione, credo che porterò le mie vecchie e stanche chiappe a casa… si sta facendo tardi e la strada per rientrare è lunga. -
 
- Oh… oh, ma certo. Scusa Rufus, ero soprappensiero. Sicuro di non volerti fermare? C’è la camera degli ospiti, e sono certo che Castiel sarebbe più che felice se restassi. -
 
- No ragazzo mio, credo che sia meglio che restiate da soli, ho il sospetto che abbiate parecchio di cui parlare, quando si sveglierà. Ma grazie. Un’altra volta, ok ? - mormorò imbarazzato, già dirigendosi verso la porta.
 
Il solito vecchio burbero, allergico a ringraziamenti e addii.
 
Jensen lo seguì fino all’auto, tentando inutilmente di persuaderlo a rimanere. Si rassegnò a salutarlo, stringendolo in un improvvisato e titubante abbraccio a cui nessuno dei due era avvezzo, ringraziandolo per la milionesima volta.
 
- Ho fatto solo il mio lavoro Jens, è l’unica cosa che so fare. Te la saresti cavata comunque. - si schermì Rufus, battendogli qualche timida pacca sulla schiena e cercando nel frattempo di staccarselo di dosso, consapevole tanto quanto Jensen che non era affatto così e che era un vero e proprio miracolo che quella faccenda non si fosse risolta in un bagno di sangue.
 
- Non lasciamo più passare così tanto tempo, Rufus. Manchi anche a Jared. -
 
- Anche voi mi siete mancati, ragazzi. A proposito di quel capellone di tuo fratello, vedi di chiamarlo, prima che si faccia venire l’alopecia per lo stress… ieri era sull’orlo dell’isteria quando ci siamo sentiti, aveva la vocina stridula da Geraldine, e tu sai meglio di me cosa significa. -
 
- Sarà la prima cosa che farò appena rimetto piede in casa, te lo prometto. Però, Rufus, se ti capitasse di sentirlo, non fare parola di quello che è accaduto qui. Devo ancora pensare a cosa dirgli e a quanto dirgli, e in ogni caso vorrei non doverlo fare al telefono, ok? -
 
- Ok. Famiglia tua, regole tue. -
 
- Grazie. -
 
- Allora ci si vede, figliolo. Stammi bene e saluta il tuo… Castiel. - mormorò, sedendosi al posto di guida e mettendo in moto.
 
Jensen osservò la Jeep allontanarsi lungo la strada fino a sparire oltre ad una curva.
 
Rientrò in casa con lentezza e altrettanto lentamente inserì il caricabatteria nella presa di corrente, per poter finalmente chiamare il fratello.
 
Che lo prese a male parole senza nemmeno dargli il tempo di dire “ciao”.
 
- Jensen! - tuonò - Ma dove cazzo sei finito? Maledizione, ti chiamo da tre giorni! Il demone si presenta a Boston e tu sparisci senza lasciare tracce, razza di decerebrato? Mi auguro che tu sia stato rapito dagli alieni o segregato in un bunker antiatomico, perché sarebbe davvero l’unica scusa che accetterei! -
 
Jensen valutò velocemente il livello d’incazzatura del fratello: quando lo chiamava col suo nome completo, la situazione era critica. Impostò la voce nel tono più suadente e calmo che gli riuscì.
 
- Non sono esattamente in un bunker, ma quasi. In realtà sono tappato in una baita in Vermont. - spiegò.
 
- COOOSA? - sbraitò Jared, con voce talmente acuta da essere percepibile probabilmente solo dai cani e da qualche roditore - Io qui a farmi divorare dall’ansia e tu eri a scopare in Vermont? Stavolta ti uccido Jens, giuro che stavolta ti uccido! - ringhiò.
 
- Jay, frena gli ultrasuoni, non sono in una baita a scopare… - specificò Jensen, mentendo spudoratamente, almeno in parte - Rufus mi ha avvisato che quell’uomo era a Boston e ho pensato di levarmi dai piedi mentre lui, Carl e egli altri piombavano in città per la caccia. Sono qui ospite di Castiel, e tra una cosa e l’altra mi sono dimenticato di avvisarti, mi dispiace moltissimo… non volevo angosciarti Jay. Lo sai che non ti farei mai preoccupare volontariamente, soprattutto in una situazione del genere, scusami, sono stato un’idiota, fratellino… - azzardò Jensen con voce dolce, calando l’asso della contrizione, l’unica cosa in grado di far leva sulla rabbia di Jared.
 
Ci fu un attimo di silenzio in cui Jensen potè quasi sentire le rotelline del meccanismo della furia nel cervello dell’altro rallentare e poi incepparsi lentamente.
 
- Ma io… però tu… che cazzo… uhm… immagino di dovermi calmare, visto che ti sei scusato subito, vero? - mormorò l’altro, riluttante.
 
- Immagini bene, sì. - confermò Jensen, fiero di se stesso per essersi giocato la carta dei sentimenti ed aver incastrato il fratello arginando sul nascere una discussione infinita su quanto fosse stato irresponsabile e sconsiderato.
 
- Uhm. Ok, allora… è tutto a posto. - confermò Jared - Credo… - aggiunse, con la vaga sensazione di essere stato raggirato - … Però resti un cazzone. -
 
- L’hanno preso Jay. - buttò lì Jensen, di botto, chiudendo definitivamente il discorso precedente.
 
- Cosa? -
 
- L’hanno preso. Stamattina. -
 
- E cosa diavolo aspettavi a dirmelo? - ricominciò a lamentarsi l’altro.
 
- Che ti passasse l’attacco isterico da sindrome premestruale, Geraldine… - disse Jensen con un ghigno.
 
- Sei sempre adorabile, Jens, ma ci passo sopra perché sono troppo felice! L’hanno preso sul serio? - domandò, incredulo.
 
- Sul serio. -
 
- Dio Jens… papà. - mormorò Jared in tono basso, commosso.
 
- Lo so. E’ finita. - confermò.
 
- Dopo tutto questo tempo… com’è successo? L’ha preso Rufus? Ti ha raccontato qualcosa? -
 
- Sì, l’ha preso Rufus. L’ho sentito poco fa quando ho riacceso il cellulare. Mi ha raccontato qualche particolare, sì, ma preferirei parlartene a quattr’occhi… - nicchiò Jensen. 
 
- E… e quando, scusa? -
 
- A breve dovrei venire a New York, Castiel ha un colloquio di lavoro e mi ha chiesto di accompagnarlo, volevo sfruttare l’occasione per visitare un paio di musei e vederti, sempre che tu non sia troppo impegnato. -
 
- Ma scherzi? Non ci vediamo da Natale, farò i salti mortali per esserci, puoi scommetterci! - trillò Jared, di nuovo in versione ragazzina sovraeccitata.
 
- Ci sentiamo appena so qualcosa sulle date precise, ok? -
 
- Va bene. E stavolta ricordati di chiamarmi, fesso… - scherzò, con una lievissima sfumatura acida nella voce.
 
- Ciao, puttana. - disse Jensen, sorridendo e chiudendo la telefonata.
 
Quando si voltò, trovò Castiel seduto sulle scale, i gomiti poggiati sulle ginocchia e il mento appoggiato sui pugni chiusi, che l’osservava tranquillo.
 
- Ehi… - mormorò Jensen con dolcezza, avvicinandosi - Che ci fai in piedi, tu? -
 
- Guarda che non sono moribondo, Jens… -
 
- Lo so, ma ti sei preso un bel pugno, e la giornata non è stata delle più rilassanti. - specificò, rimarcando l’ovvio, sedendosi accanto a lui e facendolo voltare dalla propria parte per esaminargli minuziosamente il viso - Forse l’abbiamo preso in tempo - valutò - E’ molto arrossato e probabilmente ti farà parecchio male per qualche giorno, ma se il livido non è ancora comparso ci sono buone probabilità che tu non debba tornare a scuola con un occhio nero. -
 
- Peccato… - commentò Castiel - … Avrei potuto dire che me l’ero fatto in una rissa da bar ed alimentare la mia immagine di uomo pericoloso e sexy-professore… -
 
- Alla tua immagine sexy non occorre aggiungere proprio niente, professore, te l’assicuro… - sussurrò Jensen, sfiorando la metà sana del suo viso con un bacio delicato. Era caldo sotto le sue labbra, così reale, così… vivo, che d’un tratto ripensò a quello che aveva rischiato di perdere e fu scosso da un vero e proprio tremito.
 
Forse era la paura che si ripresentava a ondate, forse l’adrenalina che scemava dal suo organismo, forse lo shock post-traumatico… ma d’istinto si strinse a Castiel, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo, respirando il suo profumo, come un bambino, come se temesse che potesse volare via.
O sparire.
Gli erano state portate via troppe cose, ma Castiel era ancora con lui.
Non l’avrebbe lasciato andare.
Non avrebbe permesso che il suo passato o le sue assurde paranoie facessero fuggire quell’uomo meraviglioso.

Il professore, intuendo lo stato d’animo del compagno, non disse nulla ma si limitò ad accarezzargli i capelli e a cullarlo impercettibilmente.
 
- Solo un minuto… - sussurrò Jensen, il volto seppellito nel maglione del suo prof.
 
I minuti diventarono almeno dieci, ma nessuno parve farci caso.


[1] Dalla 4X15 Death Takes a Holiday, dove in realtà è Sam a dirlo a Dean.

NDA: visto che sono tutti sani (quasi) e salvi? Non avrei mai potuto far accadere qualcosa di brutto al mio Cass, quindi ora potete anche smettere di giocare con le bamboline voodoo, così forse mi passa il mal di schiena! XD
Un ringraziamento a lettrici, commentatrici, seguitrici, preferitrici e ricordatrici, come sempre, per l'affetto dimostrato a questa storia <3 Andrete tutte in Paradiso! :D
 

 
 

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Capitolo 20
*** SENZA MASCHERA ***


SENZA MASCHERA
 
Questo capitolo era nato “senza musica”, come tutti gli altri, ma dopo averlo scritto, un mesetto fa, mi è capitato sotto mano il testo di una canzone di Celine Dion (e stavolta non c’è lo zampino di Balthazar) che è una delle cose più destiel che abbia mai letto.
Inizialmente avevo pensato di poterci scrivere una song-fic, poi mi sono accorta che si adattava alla perfezione a questo capitolo, per cui troverete parti della canzone inframmezzate al testo…
Se volete ascoltare la canzone, la trovate qui:
www.youtube.com/watch?v=4jOGowScSUI
 
 
 
Jensen aveva temuto che Castiel potesse essere vittima di un crollo emotivo da un momento all’altro, ma a quanto pareva era lui quello che stava crollando.
Miseramente.
Come un castello di carte in mezzo ad un tornado.
Come una sciocca e fragile ragazzina.
Ma stava tenendo duro da quando ne aveva memoria, poteva concedersi qualche istante di debolezza, pensò, autoassolvendosi forse per la prima volta da… bè, da sempre.
 

I was waiting for so long
For a miracle to come
Everyone told me to be strong
Hold on and don't shed a tear
 
Through the darkness and good times
I knew I'd make it through
And the world thought I had it all
But I was waiting for you…

 
Si strinse a Castiel e si lasciò rassicurare dal suo abbraccio, dal suo calore.
Aveva aspettato una vita intera qualcuno a cui potersi arrendere, davanti a cui poter smettere di essere quello forte, qualcuno che lo capisse solo guardandolo negli occhi, che riuscisse a farlo sentire al sicuro con il semplice tocco di una mano.
Senza parole, senza spiegazioni.
Castiel era uno di quei miracoli che capitano una volta nella vita, se si è molto, ma molto fortunati, e si rese conto di essere stato un folle ad avere anche solo tentato di mantenere un briciolo di distanza, ad aver avuto il timore di legarsi a lui.
Non riusciva nemmeno a ricordare il motivo preciso, forse perché non c’era nessuna ragione che potesse giustificare un atteggiamento tanto stupido.
Se davvero in passato aveva pensato che amare profondamente qualcuno equivalesse a consegnarsi come prigionieri di guerra, bè… ora stava deponendo le armi e uscendo con le mani alzate.
E un sorriso sulle labbra.
 
Piano piano riprese il controllo di sè, ricordandosi di essere un uomo, un cacciatore, e vergognandosi anche un pochino di quello slancio da femminuccia ma consapevole che se c’era uno che non l’avrebbe mai e poi mai giudicato per le sue “debolezze”, quello era proprio il professore.
 
Si sfilò lentamente dal suo abbraccio, schiarendosi la voce, rialzandosi in piedi e porgendo la mano al compagno per aiutarlo ad alzarsi, traghettandolo quindi verso la cucina.
 
‘Cerchiamo di riprendere una parvenza di normalità. Ho un fottuto bisogno di normalità…’
 
- Stasera ti meriti un po’ di coccole, Cass. Cucino io. Cosa ti piacerebbe mangiare? - chiese, cercando di dare un tono spensierato alle proprie parole, per non far intuire a Castiel quanto ancora fosse turbato.
 
- Zuppa in scatola. -
 
- Come, zuppa in scatola? Mi offro come personal chef e mi chiedi robaccia in scatola? -
 
- E’ il mio cibo consolatorio per eccellenza, fin da quando ero bambino. I miei erano sempre fuori casa tra vacanze, mostre, viaggi, eventi… e come sai Bathazar non cucina, non riuscirebbe a far scoppiare nemmeno i popcorn nel microonde,  questa zuppa era l’unica cosa che ero in grado di prepararmi da solo. Non mi piaceva tanto il sapore, quanto piuttosto il colore, ma mi metteva di buonumore e mi faceva sentire grande, autonomo. - spiegò Castiel con semplicità - Dai Jens, ne ho voglia… - mormorò con una vocetta implorante.
 
- Va bene, va bene, e zuppa sia, allora! - si arrese Jensen - Come ho detto, stasera decidi tu. Dove trovo questa fantomatica zuppa? - chiese quindi, perlustrando la cucina in cerca di barattoli in vista.
 
Castiel indicò l’ultimo di una serie di pensili che si susseguivano lungo la parete.
 
- Se non sbaglio le scorte anti guerra atomica di Balth sono lì. Ci saranno un trilione di scatolette più una serie di merendine di Gabe a scadenza quasi illimitata. -
 
Jensen aprì lo sportello dell’armadietto e si trovò di fronte ad un muro compatto di lattine bianche e rosse [1].
 
‘Alla faccia della previdenza…’
 
- Voglio quella al pomodoro. - precisò Castiel.
 
Jensen, dopo aver cercato brevemente, estrasse dall’armadietto una lattina, osservandola con aria assente mentre il sorriso sbiadiva lentamente dal suo viso.
 
- Jens? Tutto ok? - domandò Castiel.
 
- No. Sì. E’ solo che… erano moltissimi anni che non mi capitava una di queste tra le mani… - mormorò, perso in chissà quali ricordi.
 
Castiel non capiva cosa ci fosse di tanto affascinante in una lattina di zuppa pronta, ma tacque e lasciò che Jensen parlasse spontaneamente… sempre che prima o poi decidesse di riprendere a parlare, ovviamente.
Dopo un altro minuto buono di assorta contemplazione, Jensen si riscosse, rendendosi conto che Castiel lo stava ancora fissando in silenzio.
 
- Scusa prof, io… non so che mi è preso. Dopo la morte della mamma, mio padre non ha più permesso che una di queste entrasse in casa nostra, e col tempo ho imparato anche ad evitarne il reparto al supermercato. E’ una cosa… stupida. - borbottò fra sé e sé, iniziando ad armeggiare con l’apriscatole - Così stupida… -
 
Castiel continuava a non capire, guardando il compagno con aria interrogativa.
 
- Questa era la zuppa che lei mi preparava quando ero malato. - chiarì - Esattamente questa, di questa marca, al pomodoro. Solo che, per convincermi a mangiarla, mi diceva che era la zuppa del nonno… -
 
- Perché del nonno? - domandò timidamente Castiel.
 
Jensen sorrise, e riprese a parlare perso in un ricordo che tingeva i suoi occhi una luce dolce e malinconica.
 
- Perché mio nonno, di cognome si chiamava Campbell. E così lei si era inventata questa favola in cui lui, per far mangiare le verdure a tutti i bambini del mondo, aveva donato le ricette delle sue famose zuppe ad una grande azienda la quale, per ringraziarlo, le aveva battezzate col suo nome. Ogni volta che sentivo questa storia rimanevo incantato, ero così orgoglioso… e mangiavo. Mi ha fregato per anni. - mormorò.
 
Castiel sorrise e fece per commentare, ma Jensen riprese subito a parlare.
 
- Quando ero malato me la preparava sempre, e poi ci aggiungeva il riso bollito, non so perché ma la considerava una sorta di miracoloso toccasana praticamente per qualsiasi cosa. Sai lei… mi cantava “Hey Jude” dei Beatles per farmi addormentare. E mi tagliava la crosta dai sandwich. Proprio come fai tu… - confessò, in balia dei ricordi, mentre Castiel osservava preoccupato i suoi occhi velarsi di una lucida patina di lacrime.
 
- Ed era sempre allegra. Sempre. Se anche si sentiva sola, non lo dava mai a vedere. Per me. Per non farmi preoccupare. Ogni volta che papà era via per una caccia e restavamo da soli, mi ripeteva sempre che non era triste, perché aveva me, e che ero il suo piccolo angelo. Non… non avrei mai creduto di sentirmelo dire ancora. - sussurrò, alzando su di lui uno sguardo pieno d’amore e gratitudine.
 
Castiel non riusciva a dire nulla. Jensen non aveva mai parlato così tanto del suo passato, non spontaneamente, perciò tacque. E ascoltò.
 
- Era una donna forte. E bella, sai? Lo so che probabilmente dicono tutti così ma lei… era la mia mamma… - terminò, la voce appena incrinata, mentre con mani malferme travasava il contenuto della lattina in un pentolino.
 
- Oh, Jens… -
 
Castiel si alzò, tolse la lattina dalle mani di Jensen e la posò sul ripiano, quindi l’abbracciò senza una parola, accorgendosi che tremava impercettibilmente, come se stesse per esplodere, come se tutta la tensione e la paura accumulate in quei tre giorni avessero trovato una strada per emergere, anche se in maniera del tutto imprevista, alla fine.
Alastair aveva scoperchiato il vaso di Pandora e riportato a galla tutto il bagaglio di sofferenza e tristezza che Jensen aveva seppellito dentro di sé… e ora che tutti i suoi nervi erano scoperti, Castiel temeva che sarebbe stato sufficiente sfiorarli anche solo con una carezza per procurargli un dolore inimmaginabile.
 
Per un attimo, l’immagine di un bambino dai grandi occhi verdi spauriti si sovrappose a quella dell’uomo grande e grosso aggrappato a lui, e Castiel capì.
Capì perché Jensen avesse così tante difficoltà nel legarsi a qualcuno, a lasciar entrare le persone nella sua vita.
Non era arido o egoista, come lui soleva affermare, era spaventato.
Era tutt’altro che incapace di legarsi… quando Jensen amava una persona lo faceva in maniera incondizionata, ma questo gli aveva portato in cambio solo grandissima sofferenza.
Aveva il terrore di affezionarsi a qualcuno, e che quel qualcuno gli venisse strappato via ancora una volta, esattamente com’era successo alle due persone più importanti della sua vita.
 
E poche ore prima era quasi successo di nuovo…
 
Potè solo tentare d’immaginare come dovesse essersi sentito, su quel molo… e provò una pena infinita per quel giovane uomo che la vita aveva già messo alla prova troppe volte e troppo presto, unita ad un violento istinto di protezione nei suoi confronti.
 
‘Non soffrirai più, Jens. Io non lo permetterò. Non ti lascerò mai.’ pensò con rabbia, mentre passava dolcemente le mani tra i capelli di Jensen, che aveva smesso di tremare abbandonandosi a quel contatto rassicurante.
 
Dopo lo straziante racconto sulla morte del padre, quel giorno ormai lontano al bar dell’Accademia, Castiel non aveva più osato fare domande sul passato di Jensen, avendo intuito quanto dolore celasse il suo atteggiamento apparentemente stoico e distaccato.
Ma dopo le emozioni violente di quell’allucinante giornata, fra loro si era creata una corrente emozionale profonda, fatta di sentimento, di totale sincerità, di abbandono.
Castiel sentiva Jensen vicino come non mai e sapeva che un momento simile non si sarebbe più ripresentato: un momento per sfogarsi, per liberarsi di tutto il peso che l’opprimeva da una vita intera… per ricominciare.
 

… Let the rain come down and wash away my tears
Let it fill my soul and drown my fears
Let it shatter the walls for a new, new sun…
 

Senza smettere di stringerlo ed accarezzarlo, azzardò sottovoce una domanda che si teneva dentro da mesi.
 
- Jens, cos’è successo a tua madre? - chiese in un sussurro.
 
Jensen si scostò un poco da lui, senza sciogliere il contatto fra loro, gli prese entrambe le mani e se lo trascinò dietro, sedendosi sul ripiano della cucina a testa bassa, guardandosi i piedi.
 
- E’ morta per salvare Jared. - spiegò, asciutto.
 
- Da… da cosa? -
 
- Da un incendio. Non abbiamo mai saputo da cosa sia stato causato, il piano superiore della casa era talmente carbonizzato che nemmeno i pompieri sono riusciti a stabilirne le cause. Hanno ipotizzato un cortocircuito, o un malfunzionamento di qualche apparecchio elettrico che abbia causato delle scintille. Forse lo scaldabiberon nella cameretta di Jared… -
 
- Ma tu… dove…? -
 
- Dov’ero? Ero di sotto, con papà. Stavamo guardando una partita di baseball in tv e ci siamo addormentati sul divano. Quando mi sono svegliato, la casa era invasa dal fumo e sentivo le urla dei miei al piano di sopra. Non capivo niente, ero confuso e forse avevo già inalato un po’ di fumo, così senza pensare sono corso su per le scale: di sopra, ho trovato papà in corridoio, in ginocchio, che continuava a piangere, stringendo un fagotto da cui venivano gli strilli di Jared… - spiegò con voce incerta.
 
Castiel si ritrovò a trattenere involontariamente il fiato.

- La mamma era poco distante, intrappolata da una libreria che era caduta mentre cercava di portarlo via dalla sua cameretta, e continuava ad inveire contro papà, gli gridava di portarci via, in fretta, prima che la casa andasse completamente a fuoco… ma lui non se ne andava, era come paralizzato… poi lei mi ha visto lì, in cima alle scale. - esalò, a fatica - Sulle prime si è spaventata, ma dopo il suo sguardo è tornato… non so… risoluto.  Mi ha ordinato di prendere Jared e correre fuori. Io… ero terrorizzato, faceva sempre più caldo e cominciavo a faticare a respirare, così ho sfilato Jared dalla presa di mio padre e sono indietreggiato di un paio di passi, ma non sapevo cosa fare, non osavo andare via. Allora lei mi ha sorriso, mi ha detto che sarebbe andato tutto bene e che mi amava, che mi avrebbe amato sempre, e che avrei dovuto prendermi cura di mio fratello e di papà… a quel punto lui si è come risvegliato, e quando mi ha visto con Jared in braccio è scattato in piedi, con una luce folle negli occhi. Non ricordo cosa mi abbia urlato di preciso, ma si è voltato verso la mamma, le ha fatto una carezza… deve averle anche detto qualcosa, non so… lei ha annuito e lui non s’è più voltato indietro, mi ha preso di peso mentre ancora stringevo Jared e siamo corsi di sotto, e poi fuori, in giardino, mentre i muri del piano di sopra cominciavano a cedere verso l'interno. -
 
Emise un lungo sospiro, prima di continuare.
 
- Ci siamo buttati sull’erba e poi… non ricordo bene… è tutto confuso, non so quanto siamo rimasti lì a tossire, a guardare la casa bruciare. Ricordo le sirene dei pompieri e della polizia, luci… qualcuno che mi ha messo una coperta sulle spalle, la nostra vicina in lacrime, che cullava Jared in vestaglia, con i bigodini in testa … mio padre che piangeva, accasciato a terra… -
 
Castiel avvertiva un senso di nausea alla bocca dello stomaco, unito ad un’intensa voglia di picchiare qualcuno o spaccare qualcosa, mentre stringeva le mani di Jensen tra le proprie.
 
- Jens io… non so nemmeno cosa dire… scusa se te l’ho domandato. Non pensavo ad una cosa del genere. Non te l’avrei mai chiesto se-
 
- No Cass, sono contento che tu l’abbia fatto... - mormorò Jensen, con una voce così stanca da stringere il cuore a Castiel - Non voglio che ci siano segreti, tra noi. Niente barriere, non con te. Non più. Era una vita che non ci pensavo… non ho mai detto a nessuno che lassù c’ero anch’io, sai? Nemmeno a Jared. Lo sapeva solo mio padre… -
 
- Quanti anni avevi? - chiese Castiel, pieno di compassione.
 
- Poco più di cinque. Jared aveva sì e no sei mesi. -
 
- Jens… -
 
- Non l’ho neanche salutata, Cass. Neanche salutata. Ero così stordito, avevo così tanta paura… non ho pensato nemmeno per un minuto che quella era l’ultima volta in cui l’avrei vista… lei mi ha detto che mi amava e io non ho detto niente, capisci? Niente! Mi sono limitato ad annuire come un idiota… e poi papà ci ha portati via… e tutto è finito. -
 
- Eri solo un bambino, eri spaventato, non avresti potuto fare niente di più… -
 
- Mi manca, Cass. Mi manca ogni fottuto giorno. - mormorò con la voce spezzata, mentre una lacrima cadeva e si insinuava tra le loro dita ancora intrecciate.
 
- Mi dispiace così tanto… così tanto… - mormorò Castiel, incapace di trovare parole adatte a lenire tanto dolore, un tale trauma, stringendo di nuovo Jensen contro di sé e cullandolo piano.
 
Avrebbe voluto avere il potere di viaggiare nel tempo. Di tornare indietro. Di mettere a posto le cose. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter restituire a Jensen un’infanzia degna di tal nome, per poterlo liberare dai ricordi, il senso d’impotenza che gli toglieva quasi la forza per respirare.

Quella maledetta giornata avrebbe mai avuto fine?
 
Restarono uno tra le braccia dell’altro per un tempo indefinito, mentre Castiel si rendeva dolorosamente conto che ogni particolare che scopriva su di lui, ogni tassello di quel complicato puzzle che era Jensen, glielo faceva amare ancora di più.
 
Non aveva scampo, stava precipitando in un baratro senza fondo da almeno sei mesi, e ancora non aveva finito di cadere…
 
Jensen era diventato la fantastica persona che era forgiato dal dolore, e il professore non potè impedirsi di immaginare che persona sarebbe potuto diventare se invece fosse cresciuto circondato dall’amore e dall’affetto dei suoi genitori, quante possibilità avrebbe avuto, che vita avrebbe condotto… forse non si sarebbero mai conosciuti, forse avrebbe avuto una famiglia sua, avrebbe potuto intraprendere una carriera come pittore… magari sarebbe diventato un insegnante come lui, sarebbero stati colleghi in Accademia… forse non sarebbero mai stati insieme, ma Jensen avrebbe potuto essere felice
 
Ancora occupato a cercare il modo di mettere una pezza a tutta quella situazione e maledicendosi per non aver taciuto, non si era accorto subito che Jensen aveva allentato la presa su di lui. Non si aggrappava più a lui come fino a pochi istanti prima. Non tremava più.
 
Si staccò da lui con cautela, completamente impreparato all’espressione che gli lesse sul viso.

Ora Jensen sorrideva, anche se solo con gli occhi, ma sorrideva.

E lo scrutava in maniera indecifrabile.
 
- Adesso ho capito… - sembrò dire più che altro a se stesso.
 
- Che… che cosa? - balbettò Castiel.
 
- Perché sin dal primo istante mi è sembrato di conoscerti, perché mi sono sempre fidato di te, perché riesci sempre e comunque a rasserenarmi. -
 
- … -
 
- I tuoi occhi. Sono così… limpidi. Come i suoi. Tu mi guardi esattamente come mi guardava lei… -
 
 - In genere, quando un uomo dice ad una donna che gli ricorda la propria madre, le cose non vanno mai a finire bene… e non vorrei azzardare un’ipotesi ma credo che fra due uomini sia decisamente peggio… stai camminando su ghiaccio sottile, Jens. - mormorò Castiel, gli angoli della bocca piegati appena all’insù, cercando di sdrammatizzare.
 
- Stupido… -
 
- Va un po’ meglio ora? - domandò, cauto, accennando un’altra carezza.
 
- Sì, credo… cioè, ricordare fa così dannatamente male… anche dopo tanto tempo. Non credere a quelli che dicono che il tempo guarisce ogni cosa, Cass. E’ una stronzata. Puoi imparare a prendere le distanze, ma il dolore è sempre lì, in agguato. E se ti distrai, se lasci uno spiraglio, lui si riversa dentro di te esattamente come se fosse la prima volta. Probabilmente sarà sempre così, probabilmente farà male allo stesso modo fino al mio ultimo respiro, ma parlarne a qualcuno, parlarne a te, fa sembrare tutto un po’ meno… vivido. Attutisce i rumori. -
 
- Jens, è un peso enorme da portare da solo, come potevi pretendere di stare bene? -
 
- Non lo so, io… mi sono sempre arrangiato. - ammise - Credevo di poter continuare ad oltranza, probabilmente… -
 
- E dire che, all’inizio, mi eri sembrato intelligente, Winchester. Mai fidarsi della prima impressione… - disse Castiel con aria grave, suscitando finalmente un accenno di sorriso nel compagno.
 
Le spalle di Jensen finalmente si rilassarono, mentre la tensione lentamente le abbandonava.

La tempesta era passata.
 
- Hai ancora fame? - domandò stancamente a Castiel, volgendo lo sguardo verso il piccolo tegame e la lattina ancora poggiati accanto a loro.
 
- Sinceramente, no… e di sicuro non di zuppa. Ce ne andiamo di sopra? - propose quest’ultimo, avviandosi verso il soggiorno.
 
- Forse dovremmo sistemare un po’ il casino che abbiamo lasciato l’altra sera… - osservò dubbioso Jensen.
 
- Sono certo che quel disastro sarà ancora lì ad aspettarci, domattina. Al momento non ho la forza di fare la casalinga disperata, Jens, andiamocene a letto. - mormorò, già a metà della scala che conduceva alle camere.
 
Jensen lo seguì in silenzio, osservandolo spogliarsi completamente e gettare i vestiti in un angolo, prima di infilarsi sotto le coperte. Avevano preso l’abitudine di dormire nudi fin dalla loro prima notte insieme, e Jensen trovava stranamente rassicurante sentire la pelle tiepida di Castiel contro la propria, quando di notte si rigirava nel letto.
Si spogliò a sua volta, spense la luce e scivolò accanto al professore in un fruscio di lenzuola, limitandosi a stringergli una mano invece di abbarbicarglisi addosso come suo solito, per lasciarlo riposare tranquillo.
Castiel si puntellò su un fianco e lo fissò per qualche istante, con il capo inclinato e la sua solita espressione concentrata, forse cercando di capire se potesse fidarsi a chiudere gli occhi e a lasciarlo solo con i suoi pensieri, poi lo baciò, dolcemente e a lungo, tornando infine a stendersi al suo fianco.
Nessuno disse una parola.
In fondo, quella sera ne erano state dette fin troppe.
 
Non appena spente le luci, il professore scivolò nel sonno piuttosto in fretta, giustamente provato dagli eventi, nonostante sostenesse strenuamente il contrario, impuntandosi come un bambino.
 
Jensen restò ad occhi aperti nel buio, stentando a prender sonno, pur cullato dal suo respiro sommesso e regolare.
Alla fine rinunciò e, sfilata delicatamente la mano da quella del professore, sprimacciò un paio di cuscini e se li sistemò dietro la schiena, contro la testata del letto, rannicchiandosi ginocchia al petto, a riflettere.
Non era semplice smettere di pensare alle ultime quarantott’ore.
Aveva fantasticato centinaia di volte su quello che avrebbe provato quando su quella maledetta storia sarebbe finalmente calato il sipario ma, tra tutte le ipotesi al vaglio, questa non c’era: vuoto.
 
Un vertiginoso senso di vuoto.
 
Una voragine di nulla dove prima albergavano frustrazione, dolore, rabbia.
Aveva sempre creduto che queste sensazioni l’avrebbero abbandonato gradatamente, sbiadendo di giorno in giorno come ricordi d’infanzia o vecchie fotografie, invece nel preciso momento in cui aveva sbattuto la portiera dell’auto dello sceriffo sul brutto muso di Alastair, livido di rabbia, tutto aveva cessato di esistere.
 
Puf.
 
Ma non si trattava di un vuoto doloroso. Anzi.
 
Era come entrare in una stanza polverosa e piena di antichi strumenti di tortura e buttare via tutto, togliere le ragnatele, ritinteggiare con colori chiari, aprire le finestre per far entrare aria fresca.
 
E quell’aria era Cass.
 
Se mai avesse avuto qualche dubbio, e non ne aveva, ora Jensen era consapevole di qual era la portata dei propri sentimenti per il suo scarmigliato professore.
 
L’angolo buio e freddo del suo cuore, dove Jensen aveva tentato di guardare il meno possibile per tanti anni, si stava colmando dell’amore per Castiel.
 
Dell’amore di Castiel.
 
Di quell’uomo buono che, per qualche strano miracolo, vedeva in lui la scintilla di qualcosa di speciale, quell’uomo che gli aveva riempito l’anima.
 
O forse gliel’aveva restituita.
 
Aveva rimesso al suo posto la parte di lui che era morta assieme a suo padre.
 

… Where it was dark now there's light
Where there was pain now there's joy
Where there was weakness, I found my strength
All in the eyes of a boy…

 
D’un tratto lo sentì lamentarsi nel sonno, mentre il suo respiro si faceva concitato: istintivamente, nel buio, Jensen mosse la mano per sfiorargli il viso, pur senza vederlo distintamente, scoprendolo madido di sudore.
 
Stava avendo un incubo, che sembrava peggiorare di attimo in attimo, almeno a giudicare da come si stava agitando, lamentandosi sommessamente.
 
Jensen li aveva avuti per mesi, dopo aver avuto a che fare con Alastair.
Incubi terribili, da cui si risvegliava devastato.
 
Lo scosse gentilmente per una spalla, parlandogli sottovoce per non spaventarlo.
 
- Cass… ehi… -
 
- … Jens… che…? Che succede? - mormorò il professor, confuso, rigirandosi di scatto nel letto.
 
- Scusami, non volevo svegliarti… stavi avendo un incubo e ho pensato che fosse come quando io… niente, lascia perdere, torna a dormire… - bisbigliò Jensen, dispiaciuto, accarezzandogli impercettibilmente un braccio.
 
- Incubo… sì… non ricordo bene cosa stessi sognando, ma… non era piacevole… - mormorò, passandosi una mano tra i capelli sulla fronte, umidi di sudore - Hai fatto bene a svegliarmi. Ma tu perché non dormi? - chiese lentamente, sollevandosi a sua volta a sedere e appoggiandosi schiena al muro come Jensen.
 
- Troppi pensieri che mi frullano per la testa, niente di grave. - minimizzò l’altro - Mi spiace per l’incubo, come se per oggi non ne avessi passate abbastanza… -
 
- Jens, non so più come dirtelo, ma non sono di cristallo, non preoccuparti, è stato semplicemente un brutto sogno, ok? - cercò di spiegare Castiel, col tono più convincente e rassicurante che gli riuscì.
 
- Cass… mi dispiace… - mormorò Jensen, mortificato, dimostrando di non aver recepito una sola parola di ciò che aveva detto il compagno - Vorrei tanto avere dei superpoteri per cancellare tutto quello che è successo dalla tua mente… -
 
Castiel gli prese una mano.
 
- Ma ce li hai. Sei pur sempre Batman, no? - disse, in tono leggero, cercando di stemperare la tristezza e il senso di colpa che sembrava avessero assalito l’altro ancora una volta.
 
- Batman non ha superpoteri. E’ solo un uomo che ha visto uccidere il proprio padre e che scorrazza in giro su una macchina nera… è solo un uomo triste, dietro la maschera. - commentò Jensen con amarezza, senza più sapere di chi stesse parlando in realtà.
 
- E’ solo un grande uomo, dietro la maschera. E quando la maschera cade, resta il grande uomo… - sussurrò Castiel, dolcemente, stringendo un po’ di più la sua mano - Batman non ha bisogno di martelli magici, cinture dorate o ragni radioattivi per fare quello che fa. Non sarà super, ma resta un eroe. -
 
- Ma… -
 
- Il mio, eroe. - lo mise a tacere Castiel, chiudendo la questione e abbandonando la testata del letto per inginocchiarsi al suo fianco, posandogli un bacio sulla spalla, pur senza vederlo.
 
Rimasero per un po’ avvolti dal buio e dal silenzio, immobili.
 
- Cass… grazie. - balbettò Jensen, dopo un po’, cercando di trovare nell’oscurità il coraggio che gli serviva.
 
- E di cosa? - rispose l’altro, sinceramente stupito.
 
- Grazie di… di amarmi così tanto. Di essere la persona che sei. Di aver accettato ogni cosa di me. - borbottò tutto d’un fiato con quel suo modo frettoloso che ormai il professore conosceva bene, cercando di districarsi in quel groviglio di emozioni.
 
- Guarda che in ognuno di noi ci sono delle zone d’ombra, Jens… - tentò di minimizzare Castiel.
 
- Sì, ma tu hai portato la luce nelle mie. Sei davvero il mio colore complementare… si è accorto persino Rufus di quanto tu mi abbia cambiato. Io… davvero, non so cos’avrei fatto se ti fosse accaduto qualcosa… - farfugliò.
 
- Lo so. L’ho visto… - mormorò Castiel, dolcemente.
 
- Vuoi tacere? - lo rimproverò benevolmente Jensen, sfilando la mano da quella del professore e posandogliela sulle labbra - Sto cercando di… di… dannazione, ti amo Cass. Ti amo davvero. Avrei dovuto dirtelo prima… -
 
Castiel potè solo immaginare l’adorabile rossore che stava sicuramente incendiando le lentiggini di Jensen, i suoi occhi verdi resi lucidi dall’emozione, le rughette ai lati della bocca che gli venivano quando stirava le labbra perché era imbarazzato, ma fu come se li vedesse, nonostante la notte gravasse su di loro come inchiostro.
 
Scivolando sulle ginocchia si mise a cavalcioni su di lui, baciando morbidamente il palmo della mano che ancora era poggiato sulle sue labbra, e quando lo leccò con lentezza, potè sentire Jensen sospirare nel buio.
Risalì con la lingua fra le dita, prendendone infine un paio fra le labbra ed inziando a succhiarle piano.
 
Jensen gemette.
 
Quando sfilò le dita dalla propria bocca e guidò la mano dell’altro fino a poggiarla sul proprio fianco, facendogli intuire piuttosto chiaramente le proprie intenzioni, lo sentì agitarsi sotto di sé.
 
- Che stai facendo? - domandò con voce incerta.
 
- Secondo te? - sussurrò Castiel.
 
- Cass non… non è necessario… -
 
- Lo so. Ma è quello che voglio. -
 
- Ma cosa-
 
- Equilibrio. - sintetizzò Castiel, interrompendolo e prendendogli il viso tra le mani, anche senza poterlo guardare negli occhi - L’hai detto tu: basta barriere fra noi. Voglio essere completamente tuo, in ogni modo possibile… -
 
- Sì ma-
 
- Va tutto bene… - sussurrò.
 
- Sei sic-
 
Castiel interruppe di nuovo le obiezioni del compagno, in tono sommesso ma definitivo.
 
- Jens. Basta. Ora, per cortesia, vuoi tacere e fare l’amore con me? - sussurrò, senza cambiare posizione ma allungando una mano verso il comodino, in cerca del lubrificante.
 
Né applicò un’abbondante quantità su di sé e sull’erezione traditrice di Jensen che, nonostante tutte le sue rimostranze, era lì, ben presente, a riprova del fatto che lo volesse anche lui.
 
Come se poi avesse avuto bisogno di conferme… Castiel sapeva perfettamente che Jensen lo desiderava, gliel’aveva letto negli occhi ben più d’una volta, ma l’assurdo pudore che lo caratterizzava su certe questioni gli aveva sempre impedito di chiederglielo o farglielo capire chiaramente. E comprendeva perfettamente il suo bisogno, in fondo era lo stesso che animava anche lui: il desiderio rovente di affondare nel corpo del proprio amore, fino ad annullarsi, fino ad impazzire.
 
Si chinò a baciarlo, a lungo, profondamente, un po’ per farlo stare zitto e un po’ per fargli capire che era tutto ok, che era esattamente quello che voleva, masturbandolo con lentezza mentre si sollevava sulle ginocchia e si sistemava su di lui.
Jensen fremeva sotto il suo tocco, eccitato, spaventato, e quando interruppe le carezze per puntellarsi sul suo petto, calandosi con attenzione su di lui, lo sentì trattenere il fiato con un una specie di singhiozzo.
 
Castiel si lasciò semplicemente andare, cercando di affidare parte del lavoro alla gravità, ma la manovra non si poteva certo definire del tutto indolore. Tremando, si aggrappò alle spalle di Jensen, il quale portò immediatamente le mani sulla sua schiena, che già iniziava ad imperlarsi di sudore, sostenendolo e allo stesso tempo accarezzandolo per farlo rilassare, accompagnandone l’estenuante discesa fino a che non fu completamente dentro di lui.
 
Per un lungo momento, nessuno dei due mosse un muscolo. Jensen era come paralizzato, in bilico tra la voglia di spingersi selvaggiamente dentro Castiel in preda ad un’eccitazione devastante e il terrore di fargli del male.
 
In fondo, era di nuovo la loro prima volta…
 
Poi il professore si chinò fino al suo orecchio, sussurrandogli un bollente “scopami” che mandò in pappa ogni neurone di Jensen, iniziando a dondolare molto lentamente su di lui e coinvolgendolo nuovamente in un bacio morbido e bagnato.
A Jensen sfuggì un gemito quasi disperato che vibrò direttamente sulla lingua di Castiel, mentre le sue mani vagavano lungo la schiena del professore, fermandosi infine ad accarezzare con un movimento ipnotico quelle fantastiche fossette alla base della schiena che lo facevano ammattire…
 
Quello era per lui un piacere del tutto nuovo, non la solita emozione affannata e bollente, il solito bisogno da “tutto e subito”.
Quello era amore, era unione, era appartenenza.
Iniziò a muoversi, sempre meno titubante, andando incontro col bacino ai dondolii di Castiel, che stringeva le ginocchia attorno ai suoi fianchi, vinto da quel calore avvolgente che minacciava di farlo uscire di senno, sentendo il piacere montare come un’onda di marea, pronta a sommergere ogni pensiero razionale.
 
Anche se non poteva vederlo, Castiel poteva sentire il viso di Jensen in fiamme sotto la punta delle dita, poteva sentire il suo respiro spezzato, il corpo madido di sudore, i muscoli tesi che lo stringevano, per spingersi sempre più a fondo dentro di lui.
 
E pur avvertendo ancora un leggero dolore, stava letteralmente impazzendo nel sentirlo muoversi sempre più veloce, tra gemiti sconvolgenti e parole sconnesse, nel sentirlo mordergli il collo, le clavicole, e succhiargli i capezzoli, accarezzando tutto quello a cui riusciva ad arrivare.
Poi Jensen ruotò leggermente i fianchi, o chissà cosa, e Castiel vinse un biglietto di sola andata per il paese degli unicorni e degli arcobaleni, mentre un punto sensibilissimo veniva stimolato in maniera talmente perfetta da fargli esplodere i fuochi d’artificio direttamente nel cervello, portandolo a tanto così dall’orgasmo.
Appoggiò la fronte contro quella di Jensen, stravolto, avvertendo dal suo respiro convulso che anche lui era vicino, molto vicino.
 
- Toccami, Jens… - ansimò Castiel, prendendogli la mano e posandola sulla propria erezione.
 
Jensen, ormai completamente incapace di ragionare o formulare un pensiero coerente, la strinse, forse con un po’ troppa forza, accompagnando le proprie carezze a spinte sempre più serrate, facendo urlare Castiel di piacere.
 
- Jens… Dio, Jens… di più… oh sì, sì, ti prego… -
 
Sentire il proprio nome pronunciato a quel modo, con quella dannatissima, pornografica voce, diede a Jensen il colpo di grazia.
Dopo un’ultima, affannata spinta, si riversò nel corpo del suo amore con un ringhio strozzato, seguito dopo poco da Castiel, che venne soffocando un urlo sulla sua spalla, accasciandosi senza fiato su di lui.
 
Dopo aver lentamente ripreso a respirare, Castiel si accoccolò sul fianco di un Jensen distrutto, tracciando lentamente pigri ghirigori con un dito sulla pelle sudata, sospirando soddisfatto nell’incavo del suo collo.
 
- Ti amo anch’io. - sussurrò dopo un po’, con un sorriso.
 

... Hush Now
 
I see a light in the sky
Oh, it's almost blinding me
I can't believe
I've been touched by an angel with love.

 
 
 
 
 
 
[1] Le lattine bianche e rosse citate nel capitolo sono naturalmente le zuppe Campbell al pomodoro ritratte e rese celebri da Andy Warhol (perdonate la licenza poetica ma era un'occasione troppo ghiotta per non approfittarne e usarla come introduzione alla storia di Jens), mentre i ricordi di Jensen legati a Mary (zuppa al pomodoro ecc) sono citazioni legate alla 5X13 e 5X16, Dark Side of the Moon e The Song Remains the Same.
 
 
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Capitolo 21
*** TORNA A CASA, CASSY! ***


TORNA A CASA, CASSY!
 
 
Entrambi non tornarono al mondo che nel primo pomeriggio: erano stati messi a dura prova, ed evidentemente sia il corpo che la mente di entrambi avevano accusato il colpo molto più di quanto non si fossero resi conto.
Castiel riprese lentamente conoscenza e, dopo aver ascoltato ad occhi chiusi gli scricchioli della casa battuta dal vento e il sommesso respiro di Jensen lì accanto, si sollevò a sedere sul letto, ancora leggermente intontito dagli antidolorifici, soffermandosi ad osservare il compagno che riposava tranquillo con le labbra socchiuse.
Come solo tre giorni prima non era stato in grado di metabolizzare o a dare un senso coerente alla svolta dark che la loro vita aveva preso nel giro di cinque minuti, così non riusciva ora a credere che tutto quel carosello di guai, paura e adrenalina fosse finito.
 
Che il pericolo non fosse più tale, che avessero vinto i buoni. Che Jensen lo amasse.
 
Ebbe un dejà-vu della prima volta che erano stati insieme, incapace di credere a quanto il loro rapporto si fosse evoluto nel corso di così poco tempo.
Ok, erano state le settantadue ore più traumatizzanti della sua intera esistenza, ma quell’esperienza ai limiti dell’assurdo aveva anche portato le cose tra loro ad un nuovo livello.
Non solo avevano messo la parola fine, una volta per tutte, al burrascoso passato che tormentava Jensen, ma finalmente era riuscito a farsi accettare da lui al cento per cento, finalmente era riuscito a fare breccia nel suo cuore… Jensen aveva smesso di avere paura di lui e di tutto quello che il loro stare insieme rappresentava, aveva abbassato definitivamente la guardia e si era confidato…  dichiarato… ricordò con un sorriso un po’ ebete.
 
Castiel era assolutamente consapevole di avere qualche rotella fuori posto, e che avrebbe dovuto essere almeno un po’ turbato dagli eventi, ma l’insopprimibile gioia che provava nel rammentare la sera precedente, il ricordo di Jensen vicino come non mai, così disponibile a svelare la parte più intima e fragile di se stesso, così sincero, vulnerabile, quello che aveva provato nel fare l’amore con lui, sovrastava ogni altra cosa.
Certo, col tempo probabilmente avrebbe pagato gli strascichi di tutto quello che era successo, non era così stupido da illudersi del contrario, ma al momento era troppo felice da preoccuparsene.
 
Si sporse lentamente a baciare Jensen per svegliarlo, ricevendo in risposta un agguato in piena regola: non appena le sue labbra sfiorarono quelle del compagno, infatti, venne afferrato per le spalle e atterrato sulla schiena come fosse un pupazzo, ritrovandosi in men che non si dica sotto il corpo dell’altro che lo fissava con una luce divertita e malevola negli occhi, tenendolo bloccato con tutto il suo peso ed emettendo un sommesso brontolio.
 
- Jens! Ma sei impazzito? Mi hai fatto perdere dieci anni di vita! Che ti prende? -
 
- Fame. - replicò l’altro con un ghigno.
 
- Cos…? Eri sveglio? -
 
- Da un po’. -
 
- E non potevi scendere di sotto e mangiare? -
 
- No. - rispose Jensen con un sorriso, sbattendo platealmente le lunghe ciglia.
 
- Fammi capire se ho indovinato, Bambi… stai morendo di fame e non mangi perché vuoi che sia io a prepararti la colazione? -
 
- Esatto. - confermò Jensen con enfasi, annuendo gravemente, fiero del proprio atteggiamento infantile e soprattutto di quanto Castiel lo conoscesse bene.
 
- Sto ancora aspettando la mia sontuosa colazione di ieri… quindi, direi che a questo punto me ne merito due. Ah, e niente farina d’avena o altro polistirolo macinato, Alfred [1]. Voglio roba unta, salata e abbondante. -
 
- Sul fatto che tu stia ancora aspettando, non ci piove Jens, quanto al meritartela… mhhh… non ne sarei così sicuro. - osservò Castiel, dubbioso.
 
Jensen sorrise, mellifluo, e si chinò su di lui leccandogli lentamente il collo, arrivando fino alla linea della mandibola ed iniziando a mordicchiarla, strusciandosi lentamente sul suo corpo nudo e iniziando a sussurrargli all’orecchio i suoi programmi per il post-colazione.
 
Castiel emise un gemito e lo spinse via, scattando a sedere sul letto come una molla.
 
- Ok, Winchester, scansati. Devo uscire ad abbattere un alce a mani nude per cucinarti una bistecca! Accendi la griglia, torno tra due ore! - farfugliò ridendo, con le guance già arrossate ed il respiro corto.
 
Jensen gattonò di nuovo fino a lui e l’abbracciò stretto, ridendo a sua volta.
 
- Buongiorno, Prof… -
 
- Buongiorno, Jens… -
 
Ed era davvero un buon giorno.
 
Un giorno che era il preludio ad una vita diversa, soprattutto per Jensen, che faticava a contenere il suo buonumore e sembrava un bimbo la mattina di Natale, mentre ciondolava per la cucina in attesa della tanto agognata colazione.
 
Aveva esorcizzato entrambi i propri demoni, sia quello vero e proprio sia la propria inconscia paura di instaurare un legame profondo con qualcuno, ed ora si sentiva meravigliosamente leggero… e libero.
Paradossalmente non avrebbe mai creduto che legare la propria esistenza, la propria anima, il proprio futuro a quelli di un’altra persona l’avrebbe fatto sentire così, era una sensazione a tratti surreale, almeno in confronto alle sue esperienze passate, e faticava ancora un po’ a darle una collocazione, ad incasellarla nella sua particolare classifica delle “cose che mi rendono felice”.
In ogni caso, era palesemente, vistosamente, innegabilmente felice.
 
Castiel non si sarebbe mai stancato di vedere quell’espressione spensierata sul suo viso e toccandosi con cautela, non visto, lo zigomo che gli faceva ancora un male tremendo, si ritrovò a pensare che forse era valsa la pena di attraversare quell’inferno, se il risultato era quello che vedeva.
 
- Jens, per favore, apparecchieresti la tavola mentre cucino? - chiese direttamente dall’interno del frigorifero, prelevando una quantità spropositata di cibo e poggiandola sul bancone della cucina.
 
Jensen obbedì senza fiatare, insolitamente docile. Di solito non amava molto quel genere di compiti, ma nell’istante in cui aveva visto Castiel estrarre dal frigorifero salsicce, burro e sciroppo al cioccolato, aveva deciso di assumere un atteggiamento collaborativo, prima che cambiasse idea e gli rifilasse della frutta, o peggio.
 
‘Ok essere collaborativi…’ pensò, caricandosi tra le braccia tovagliette, piatti, tazze, posate e quant’altro potesse servire loro, tutto in una volta ‘…ma cerchiamo anche di essere pratici…’
 
Sì avviò con cautela in direzione del soggiorno, sorreggendo come meglio riusciva la traballante catasta di stoviglie.
Non aveva però fatto i conti con il vecchio pavimento in legno, che decise che quello era il momento buono per sfoderare qualche scheggia, direttamente sotto i suoi piedi nudi.
Jensen saltò, ululò, imprecò e lanciò in aria tutto quello che aveva tra le mani, che ricadde a terra col fragore di uno sparo, disseminando ovunque cocci e vetri rotti.
 
Saltellando su un piede solo, si voltò in direzione di Castiel con un sorrisetto colpevole, emettendo un flebile “ops”… che gli morì sulle labbra non appena vide l’espressione del professore.
 
Castiel infatti era immobile, con l’aria terrorizzata di un cervo di fronte ai fari di un’automobile, e aveva a sua volta lasciato lasciato cadere ciò che aveva tra le mani.
 
- Cass? Cass, che c’è? Stai bene? - mormorò Jensen, preoccupato, correndogli incontro, incurante del dolore al piede.
 
Castiel nel frattempo si era accoccolato sul pavimento a capo chino, intento a raccogliere le cose che aveva lasciato cadere, mormorando un frettoloso e per nulla convincente “Sì, sì”.
Jensen s’inginocchiò al suo fianco, gli rialzò il mento con una mano e lo costrinse a guardarlo negli occhi, aiutandolo nel frattempo a rialzarsi.
 
- Ehi… guardami. -
 
- Sto bene Jens. - assicurò il professore, la voce più alta di un’ottava rispetto al solito, scosso da un impercettibile tremito - Mi sono solo spaventato… -
 
- Merda, Cass, lo sapevo che non stavi bene! Lo sapevo che non potevi stare bene! Guarda qui, hai i nervi a fior di pelle… Che coglione sono stato, dovevo portarti subito via da qui, e magari un bel giretto in ospedale per far vedere quello zigomo non ti avrebbe fatto male. Ma cosa diavolo pensavo, che bastassero una bella dormita e qualche pillola a sistemare tutto?- si ritrovò a ringhiare Jensen, passeggiando come un animale in gabbia per la cucina e fermandosi infine davanti al bancone, su cui sbattè le mani a testa bassa, esasperato.
 
- Coglione… - ripetè nuovamente.
 
Castiel gli strinse leggermente un braccio, rassicurandolo con voce dolce.
 
 - Jens, calmati dai, non è successo niente… -
 
- Sì, oggi non è successo niente, ma ieri? - lo rimbrottò Jensen, voltandsi nella sua direzione, in modo più duro di quanto volesse.
 
Poi, vedendo che Castiel si ritraeva da lui, incassando il collo tra le spalle e assumendo un’aria ferita, fece marcia indietro, in tono più gentile.
 
- Cass, non ce l’ho con te, ma con me stesso. Scusami… non volevo aggredirti. Forse quello che ho detto appena siamo arrivati qui, l’idea del “costoso ciarlatano”, come lo chiami tu, non sarebbe poi così campata per aria, a questo punto. Che ne diresti di-
 
- Non ho bisogno di una terapia. - affermò Castiel, deciso, interrompendolo - Sai cosa mi farebbe davvero stare meglio? -
 
- Cosa? - chiese Jensen, stancamente.
 
Gli si avvicinò alle spalle, stringendolo tra le braccia e strusciando lentamente il viso tra le sue scapole, inspirando il suo profumo ad occhi chiusi.
 
- Tu. -
 
- Mi stai paragonando ad un pupazzo antistress? -
 
- No. Ti sto paragonando ad un gigantesco, bellissimo e un po’ ottuso pupazzo antistress… - disse piano Castiel, continuando a sfiorargli la nuca col naso.
 
- Sei tutto quello di cui ho bisogno… - mormorò sommessamente - Sto bene. Starò bene. Sono solo un po’ scosso. Ma è normale, probabilmente sarebbe strano il contrario… non lo so, forse è tutto questo silenzio… andiamo a casa, Jens, non ne posso più di questo posto… -
 
- Grazie al cielo, Cass, credevo che non l’avresti mai detto… - mormorò Jensen, con gratitudine - Fai i bagagli, io sistemo di qua! - esclamò, dirigendosi a grandi passi nell’altra stanza.
 
________________________________________________________________________________
 
Una volta rassettata e sigillata la casa, caricarono i bagagli in fretta e partirono senza voltarsi indietro. Di sicuro sarebbe passato un bel po’ di tempo, prima che facessero ritorno per un weekend romantico.
 
Castiel osservò di sottecchi Jensen, concentrato sulla guida.
 
- Jens, senti… visto che per l'Accademia ufficialmente siamo ancora io in ferie e tu malato, che ne penseresti se andassimo a New York, il prossimo fine settimana? Sai, per la proposta di lavoro di Crowley. - chiese timidamente.
 
Jensen l’osservò a sua volta, un po’ stupito.
 
- Come mai? Credevo volessi prenderti un po’ di tempo per pensarci… -
 
- Credi che non sia una buona idea? -
 
- No no, non intendevo dire questo, solo che fino a pochi giorni fa eri un po’ titubante a riguardo, e quindi mi sembrava strana questa tua improvvisa voglia di partire. -
 
- Bè, diciamo che gli ultimi avvenimenti hanno leggermente cambiato la mia prospettiva. Non sono mai stato un tipo fatalista, ma mi sembra che il destino mi stia suggerendo di cogliere al volo le opportunità, quando mi si presentano, prima che mi scivolino tra le dita. -
 
- Carpe Diem, eh? -
 
- Sì. Diciamo di sì. Allora che dici, vieni con me? -
 
- Certo che vengo con te. Non ti lascerei mai andare in giro per New York tutto solo! E poi così potrò vedere Jared prima del previsto… di solito fa la spola tra Los Angeles e New York, ma se non mi sbaglio a breve ci saranno le sfilate delle collezioni Autunno/Inverno, sono quasi certo che sarà in città per i casting. -
 
- A proposito di fratelli, dobbiamo decidere cosa dire. -
 
- A chi? -
 
- A loro. Su questo casino… su di noi… -
 
- Oddio Cass, non lo so. Cioè, sul fatto che stiamo insieme non ho problemi, se non li hai nemmeno tu. Volevo dirlo a Jared, ma preferivo farlo di persona... -
 
- Balthazar lo sa già. -
 
- Sul serio? E quando…? -
 
- L’ha capito alla mostra. Gli è bastato guardare un paio di quadri e ha capito… - mormorò Castiel, arrossendo un pochino.
 
- Uh, Mister Pacchiano legge nel pensiero? -
 
- No, ma mi vede disegnare da quando avevo cinque anni, Jens, la prima scatola di pastelli me l’ha regalata lui… evidentemente conosce me e il mio modo di esternare le emozioni molto più profondamente di quanto pensassi. Sostiene che quei dipinti urlino al mondo i miei sentimenti… -
 
Jensen gli rivolse uno sguardo malizioso e lusingato.
 
- Ed è così? - lo pungolò.
 
- Forse. Forse mi sono lasciato un po’ trasportare, mentre dipingevo, in effetti. -
 
- Trasportare, eh? - ghignò Jensen - Comunque, come l’ha presa Balthazar? -
 
- Ti sorprenderà saperlo, ma era felicissimo per noi. -
 
- Sul serio? - domandò Jensen, dubbioso.
 
- Balth è composto al 50% da stronzate, al 25% da sarcasmo e al 20% da pessimo gusto. Ma c’è un restante 5% di lui che sa essere veramente un’ottima persona. Mi vuole bene… -
 
Jensen annuì, persuaso.
 
- Bè, almeno uno è andato. Ci restano Jared e Gabriel, quindi. -
 
- Come credi che la prenderà Jared? -
 
- Sinceramente non lo so. E’ di mentalità apertissima, praticamente su ogni cosa, per cui sono quasi certo che non ci saranno problemi. In ogni caso vorrei dirglielo prima di farvi conoscere, per correttezza. E anche per poter essere a mio agio con te davanti a lui: voglio poterti abbracciare senza problemi, se mi va. - spiegò, ammiccando.
 
- Quindi lo conoscerò? - replicò Castiel, senza riuscire a mascherare l’entusiasmo.
 
- Bè, certo, credevi che ti avrei tenuto nascosto, o rinchiuso in albergo? -
 
- No ma… non sapevo se eri pronto. -
 
- Sono pronto. Dopo tutto quello che ci è capitato, che sarà mai dire a mio fratello che sto con un uomo? Sono stra-pronto. - ridacchiò Jensen.
 
- Hem, ecco, a proposito di rivelazioni sconvolgenti, che cos’hai intenzione di dirgli su tutto quello che è successo allo chalet? -
 
- Tu che hai intenzione di dire a Balthazar? -
 
- Non puoi rispondere ogni volta con una domanda, Jens! - sbuffò esasperato Castiel - Non lo so, di sicuro non posso far passare la cosa sotto silenzio… quando l’ho chiamato per chiedergli la baita ero sull’orlo dell’isteria, qualcosa dovrò raccontargli per forza, anche se l’idea di dirgli che la sua casa è stata lo scenario di un tentato omicidio, non è che mi alletti molto… -
 
- Digli che Rufus ha seguito le tracce di Alastair fino alla baita e che l’ha catturato lì prima che potesse tentare di farci del male… è più o meno la verità, e se dovessero saltar fuori scartoffie dall’ufficio dello sceriffo riguardanti il luogo o il giorno della cattura, tutto sarebbe coerente. - suggerì Jensen in automatico, senza neanche dover riflettere.
 
Castiel l’osservò ammirato… e preoccupato.
 
- Jens, sei un vero genio del male! Devo iniziare ad avere paura? -
 
- Come ti ho detto tempo fa, da ragazzino non amavo molto la scuola; saltavo spesso le lezioni, e avresti dovuto sentire le scuse che tiravo fuori… ho alle spalle anni di allenamento! - confessò ridacchiando.
 
- Va bene, allora mi atterrò alla tua diabolica versione. - valutò Castiel - Tu che pensi di fare? -
 
- Jared chiaramente sa tutto di questa storia, e sa anche che Alastair era a Boston, probabilmente per cercare me… non lo so, visto che tutto si è risolto per il meglio mi piacerebbe dirgli la verità, anche se è piuttosto cruenta, ma non sono del tutto sicuro. Una parte di me vorrebbe proteggerlo, risparmiargli l’ennesimo dolore, anche se stiamo tutti bene, l’altra mi dice che Jay non è più un bambino e possiede la maturità necessaria a metabolizzare tutto questo. Credo che ci penserò ancora un po’. - concluse.
 
- Quindi… New York, eh? Quando pensavi di partire? - domandò, dopo una breve pausa.
 
- Dunque… - riflettè ad alta voce Castiel - … oggi è domenica… pensavo a giovedì, sempre che a quelli della Hellhound vada bene. Domattina come prima cosa li chiamo e sento che mi dicono, così poi potrai chiamare Jared. -
 
- Ok ma… perché proprio giovedì? -
 
- Perché giovedì è il mio giorno fortunato. - spiegò - Sono nato di giovedì. Mi sono laureato di giovedì. L’inaugurazione della mia mostra è stata di giovedì e… la prima volta che ti ho visto, era giovedì. -
 
Jensen sorrise.
 
- Dai, non dirmi che te lo ricordi… - mormorò incredulo -
 
- Quando mi accade qualcosa di veramente bello, io me lo ricordo sempre, Jens. - asserì Castiel in tono dolce, con uno sguardo serio che era ancora capace di far arrossire Jensen per tutti sottintesi che racchiudeva.
 
Castiel possedeva il rarissimo dono di farlo sentire unico al mondo, con una semplice frase, e Jensen spesso si sentiva inadeguato, immeritevole d'una tale devozione.
 
Nessuno l’aveva mai circondato con così tanto rassicurante amore, e anche se non metteva in dubbio l’assoluta e cristallina sincerità dei sentimenti del professore, ancora faticava a considerare se stesso l’oggetto di tante attenzioni, non sapeva mai cosa dire e temeva di fare un gran casino con le parole come suo solito, rovinando tutto.
Così, lusingato ma anche e soprattutto imbarazzato, si limitò a posare la mano sulla gamba di Castiel e a stringerla leggermente, regalandogli uno sguardo e un sorriso che sperava parlassero per lui, per poi accendere la radio e mettersi a canticchiare, prima di dire qualcosa di stupido.
Il professore sapeva benissimo quali pensieri stessero rimbalzando nella testolina biondiccia del compagno come palline impazzite dentro ad un flipper, ormai conosceva i contorti ragionamenti e le assurde insicurezze di Jensen come le proprie tasche e decise di non metterlo ulteriormente in crisi, anche se lo divertiva da pazzi vederlo arrossire all’inverosimile per ogni sciocchezza.
 
Proseguirono a quel modo fino a Boston, con Castiel che leggeva i silenzi di Jensen come un libro aperto e Jensen che si cullava nell’illusione di essere furbo.
 
Arrivati nei pressi di Back Bay, nonostante avessero la macchina carica di tutti i viveri prelevati dallo chalet, si fermarono comunque a prendere del cibo cinese d’asporto, per una sorta di silenzioso patto di non-spignattamento.
Lanciarono malamente in casa i bagagli, abbandonandoli poco oltre l’ingresso, e stiparono in frigorifero il cibo, trasferendosi poi con cartoni e bacchette direttamente al piano di sopra.
Mangiarono a letto, guardando sit-com in spagnolo, ridendo per un bizzarro personaggio che continuava ad urlare “Ola, mishamigos” e cercando in ogni modo di riportare le cose alla normalità.

Questa volta, i biscottini della fortuna che trovarono sul fondo delle buste del “Giardino di Giada” , gentile omaggio del signor Wong, rimasero intatti.
Entrambi erano ormai consapevoli che il loro futuro non era già scritto, ma era quello che avevano scelto di vivere giorno per giorno.
Insieme.
 
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Quando Jensen aprì gli occhi di buon’ora, l’indomani, si stupì non poco di non trovare Castiel accanto a sé.
Il prof e il letto erano praticamente una cosa sola, e da quando stavano insieme non si era mai – mai – alzato prima di lui. Anche nei rarissimi casi in cui l’aveva trovato ad occhi aperti al proprio risveglio, l’altro se n’era rimasto pigramente a crogiolarsi tra le lenzuola, come una specie di orsetto in pieno letargo, aspettando che Jensen si facesse la doccia o gli preparasse la colazione.
Tese l’orecchio cercando di captare lo scroscio dell’acqua proveniente dal bagno, ma l’unico flebile suono che animava la casa sembrava giungere dal piano di sotto.
Dopo una breve stiracchiata, Jensen recuperò velocemente dal proprio cassetto (ebbene sì: aveva un cassetto, e allora?) una maglietta e un paio di pantaloni morbidi e scese al piano di sotto.
Ad ogni gradino, il suono era più chiaro.
Musica.
E sopra la musica, Castiel che cantava.
 
Più che cantare, in effetti, si esibiva in una sorta di “mhhhhhmhhhhhhmhhh”, mentre le note della Quinta Sinfonia di Beethoven si diffondevano nell’aria dello studio.
 
Jensen si fermò sulla soglia, appoggiato allo stipite a braccia conserte, osservando affascinato la figura del professore in controluce, scalzo, con addosso dei jeans strappati e una t-shirt consunta e macchiata, che lavorava e canticchiava, o meglio, mugolava.
Aveva spostato il cavalletto vicino al bow-window per sfruttare al meglio la luce del mattino e dipingeva con tale foga e concentrazione che sembrava seguisse il ritmo concitato della musica, facendo sorridere Jensen.
Sembrava uno di quei direttori d’orchestra agitatissimi e scarmigliati, solo che invece della bacchetta brandiva un pennello.
Quando il brano terminò, fu la volta della Tempesta di Vivaldi, seguita dalla Cavalcata delle Valchirie di Wagner.
Evidentemente, pensò Jensen, Castiel teneva in serbo sul suo iPod delle compilation motivazionali per mattine come quella.
 
- Mi piace l’odore di trementina al mattino! Sa di… vittoria! [2] - urlò per sovrastare la musica, palesando infine la propria presenza e avvicinandosi al cavalletto con un sorriso.
 
Castiel si riscosse, come se fosse stato beccato a fare chissà cosa, smettendo di cantare e arrossendo leggermente, anche se era difficile intuirlo, visto che aveva il viso tutto macchiato di colore.
Salutò Jensen, mentre quest’ultimo allungava il collo oltre la tela per vedere cosa stesse combinando.
Non ricordava che il professore avesse quadri in lavorazione, aveva finito a malapena in tempo quelli per la mostra, e infatti…
 
- Cass, e questo da dove sbuca? - domandò, aggirando il cavalletto e portandosi dietro al compagno seduto, posandogli le mani sulle spalle e scrutando con attenzione la tela, spinto soprattutto dal fatto che quel particolare dipinto era diverso da tutti quelli che lo avevano preceduto.
 
Contemplò per un po’ il quadro, in silenzio.
Il soggetto principale era sempre un angelo, sì, ma stavolta, la creatura alata in questione non era lui.
 
Il volto non era ancora del tutto definito, ma poteva distinguere chiaramente capelli scuri e… occhi blu. Inoltre non era in una delle classiche pose piene di fierezza che avevano caratterizzato i precedenti dipinti, ma stava schiacciando la testa di un serpente con piede, mentre stringeva tra le braccia un ragazzo, nudo e voltato di spalle, proteggendolo con le proprie ali e osservandolo con aria sofferente.
 
Era bellissimo.
E non occorreva essere Freud per capire cosa rappresentasse.
 
- L’ho iniziato oggi. E’… nuovo. - confermò Castiel, vagamente imbarazzato, dopo qualche istante.
 
- Oggi quando, scusa? Sono le nove! -
 
- Oggi… alle tre. - confessò Castiel, e solo allora Jensen si accorse che, tra una macchia colorata e l’altra, il compagno era piuttosto pallido e portava i segni di una notte insonne.
 
- Cass, che succede? - chiese dolcemente, lasciando scivolare le proprie mani dalle spalle di Castiel fino a cingerlo in un abbraccio, mentre si chinava a sfiorargli una guancia con la propria, ispida di barba, macchiandosi un pochino di colore.
 
- Niente… non riuscivo a dormire e allora ho pensato che tanto valesse alzarmi e fare qualcosa. Quando mi sono trovato davanti alla tela, non ho dovuto nemmeno fare il disegno, sapevo perfettamente cosa volevo fare, e ho iniziato a dipingere… -
 
- E cosa volevi fare? -
 
- Correggere il tiro. Ho sbagliato tutto, Jens. Finora i miei angeli erano solo dei guerrieri, solo degli strumenti, esseri gloriosi ma senza… spessore. Mi sono sempre attenuto all’iconografia biblica, ma d’ora in avanti farò di testa mia, d’ora in avanti dipingerò solo la mia visione degli angeli. -
 
- Che sarebbe…? -
 
- Saranno creature di misericordia. Sempre guerrieri, ma guerrieri pieni di compassione. Saranno angeli che aiutano, che salvano, che proteggono, che soffrono… e che s’innamorano. - mormorò, voltandosi piano verso Jensen e guardandolo esitante con quei suoi occhioni blu.
Jensen posò le labbra sulle sue, dolcemente, intuendo il suo bisogno di rassicurazioni.
 
Capì che quel dipinto, e quelli che sarebbero venuti in seguito, rappresentava il bizzarro modo di Castiel per prendere le distanze da emozioni troppo difficili da metabolizzare tutte assieme, un modo di mettere ordine tra i suoi pensieri e poterli osservare dall’esterno con un briciolo di freddezza in più, uno sfogo verso ciò che gli aveva fatto del male, una personalissima forma di auto-terapia… e chi era lui per poter dire qualcosa?

Forse Castiel aveva ragione.
Nessuno strizzacervelli avrebbe mai potuto, in sole sei ore, estorcergli nemmeno un decimo di quello che vedeva ora sulla tela.
Era stupefatto e ammirato dal fatto che avesse trovato tanto in fretta e in maniera così efficace un sistema per incanalare i traumi di quell’esperienza orribile trasformandoli in qualcosa di positivo, creando qualcosa di tanto nobile ed emozionante.

Invidiava la capacità del suo prof di vedere la bellezza dove all’apparenza non vi era nulla, o di creare partendo dalla quasi distruzione, dalla loro, quasi distruzione. Aveva un che di… divino, e avrebbe voluto esserne anche solo minimamente capace.
 
Castiel interruppe i suoi pensieri, aggrappandosi ai polsi che ancora lo stringevano e voltandosi nuovamente verso di lui, guardandolo con aria insolitamente apprensiva.
 
- Quindi che… che ne pensi? - chiese, e Jensen notò di non averlo mai visto tanto ansioso per un parere. L’insicurezza nei confronti della strada appena intrapresa, sia emotivamente che lavorativamente, era evidente.
 
- E’ bellissimo, Prof. E’… commovente. Smuove qualcosa qui. - lo rassicurò Jensen, portandosi una mano all’altezza del cuore - Suppongo sia questo che dovrebbe fare la vera arte. -
 
- Davvero? -
 
- Davvero. E ho come la sensazione che, se continui a dipingere a questi ritmi, a breve ti ritroverai ad inaugurare un’altra mostra… -
 
- Così potrai comprare un’altra tonnellata di giornali? - ridacchiò sommessamente Castiel.
 
- Bè… anche. Sì. E poi adoro essere l’orgogliosa musa dell’artista… - rise a sua volta Jensen, baciandolo di nuovo e sporcandosi il naso di blu.
 
- A proposito di mostra, Jens, credo di aver trovato il tema da assegnare ai ragazzi per l’esposizione di fine anno. -
 
- Illuminami. -
 
- I concetti assoluti. -
 
- E con concetti assoluti tu intendi…? –
 
- Bene. Sofferenza. Gioia. Paura… -
 
- Ma non sono concetti assoluti. Da un tema del genere potrebbe partire una dissertazione filosofica praticamente infinita… -
 
- Appunto. Voglio che ognuno dei ragazzi svisceri le proprie idee e le trasponga su tela. Voglio quadri che facciano discutere chi li osserva, che pongano quesiti, che facciano pensare. Voglio che tirino fuori ogni cosa, che espongano le loro paure, il loro concetto di male, o che mi facciano vedere cos’è per loro l’amore con la A maiuscola. Dovranno metterci cuore e lacrime in quei dipinti, se vogliamo vincere. -
 
- Wow, sei ancora deciso a battere Meg, eh? -
 
- Non c’è solo Meg da battere, anche se probabilmente è uno degli avversari più tosti. Uno di cui aver paura è Kripke, sta due aule più giù della nostra, è mezzo matto ma è un fottuto genio, ha una visione delle cose piuttosto originale e riesce a trasmetterla ai suoi studenti, purtroppo. Anche Carver, di scultura, potrebbe darci del filo da torcere. Quanto agli altri… bè, di sicuro la Gamble, con le sue idee strampalate, non mi preoccupa… voglio dire,“natura morta cubista”? Seriamente? Non saranno banane quadrate a crearci dei problemi. E anche il professor Uriel non m’impensierisce, con i suoi tristissimi paesaggi post-atomici. Quei due mi danno l’impressione di non divertirsi da tanto di quel tempo da non sapere nemmeno più come si fa… -
 
- Non credevo ci tenessi così tanto a vincere. -
 
- Di solito no, voglio dire, il giusto. Ma Meg stavolta ha davvero esagerato a venire a provocarci a quel modo nella nostra aula, non vedo l’ora di vedere i miei ragazzi partire per New York e cancellare quel sorrisetto irritante dal suo bel faccino… -
 
- A proposito di New York, hai già chiamato? -
 
- Sì, mentre dormivi. E’ tutto confermato, ho appuntamento con Crowley nel primo pomeriggio. Pensavo che potremmo partire di mattina, verso le nove. Se per te va bene posso iniziare a prenotare il volo. -
 
Jensen impallidì.
 
- Volo? Ma… ma non andiamo in macchina? - chiese con voce allarmata.
 
- Bè, no. Lo davo per scontato. -
 
- E perché? Non è così lontano, e se spingo sull’acceleratore potremmo essere lì in poco più di quattro ore… -
 
Castiel lo squadrò con sospetto.
 
- Jens… non avrai mica paura di volare, vero? - domandò, intuendo la risposta.
 
- … No? -
 
Il professore chiuse gli occhi e si massaggiò le palpebre, ridendo sotto i baffi.
 
- Oh, signore. Non posso credere che un ragazzo grande e grosso come te ab-
 
- Gli aerei cadono, sai? - lo interruppe Jensen, in tono saccente.
 
- Sì, bè, anche tu, se ti butto giù dalle scale! - lo rimbeccò Castiel, ridendo ormai apertamente.
 
- E comunque, se Dio avesse voluto che l’uomo volasse, l’avrebbe fatto nascere con un biglietto! [3] -
 
- Senza stare a scomodare il buon vecchio Mel, fifone lentigginoso, dammi retta per un secondo. A New York nessuno ha la macchina, lo sai bene anche tu. Andiamo Jens, non c’è parcheggio, e l’Impala è enorme. Poi è una macchina d’epoca, è vistosa, potrebbero rubartela… -
 
“Rubartela” fu la parola magica. Gli occhi di Jensen si strinsero in una fessura al solo pensiero dei vetri della sua Bambina fracassati da qualche malintenzionato.
 
- E va bene, va bene, vada per il maledetto aereo! Però dovrai sedarmi. - sbuffò Jensen, le labbra tirate dalla tensione nell’immaginare il proprio culo sollevarsi da terra intrappolato in una scatoletta di tonno con le ali.
 
- Compreremo qualcosa al mercato nero, su internet. I farmaci messicani pare che siano ottimi. - lo blandì Castiel.
 
- Oh, credo che faremo molto prima a chiedere al tuo biondo fratellone. Non so perché ma ho la sensazione che Balthazar possieda una farmacia clandestina o abbia contatti oltre frontiera. -
 
- Ok, ok, ora per prima cosa vado di là a prenotare i biglietti e poi mi occuperò di te, ok? - disse Castiel col tono rassicurante che si usa per calmare gli psicopatici, dirigendosi in cucina dove aveva abbandonato il portatile.
 

 Arrivò il mercoledì sera.Tutto era pronto.
 
Biglietti aerei ritirati, bagagli pronti, Balthazar allertato, Jensen tenuto a bada con ingenti quantità di crostata.
 
Restava una sola cosa da fare, e Castiel si rese conto di non poter più rimandare. Doveva dirglielo. Doveva dirglielo perché, se l’avesse scoperto da solo, a cosa avvenuta, avrebbe scatenato l’Apocalisse.
 
Sollevò il cellulare abbandonato sul divano e premette uno dei tasti di chiamata rapida.
 
- Ehi, bro! A cosa devo l’onore di una telefonata? - cinguettò Gabriel.
 
- Ciao, volevo dirti una cosa e… Gabe, cosa diavolo è questo sfrigolio che sento?
 
- Caramelle effervescenti -
 
- Gesù, potresti smetterla con quella roba almeno per tre secondi? -
 
- Ma mi piacciono. -
 
- Certo. E immagino che al tuo dentista piaccia poter pagare l’università anche ai suoi pronipoti… a parte questo, volevo avvisarti che domai sarò a New York per una questione di lavoro. Se non sei troppo impegnato potremmo vederci per una cena… -
 
- Lo so che vieni in città, me l’ha detto Balth. -
 
Castiel alzò gli occhi al cielo, esasperato, anche se il fratello non poteva vederlo. Avere a che fare con quei due era come essere imparentato con la CIA.
 
- E sai anche il perché, suppongo. -
 
- Certo, l’ho saputo prima di te. - replicò Gabe con una certa supponenza.
 
- Sai anche che vengo con una persona? -
 
- Ovvio, vi ho prenotato due suite con vista sul parco al Plaza.-
 
- Non voglio due suite. -
 
- Oh mio Dio, ricominci? Me lo posso permettere fratellino, e a ben guardare potresti anche tu, una volta tanto non potresti semplicemente tacere e accettare? - ribattè Gabriel all’altro capo del filo, esasperato.
 
- Non voglio due suite. Ne voglio una. -
 
- Ah. E il tuo amico dove lo sistemiamo per la notte, in una scatola di cartone nel sottoscala? - propose beffardo.
 
‘Toh?! Ecco qualcosa che non sai, Nostro Signore della Carie…’  pensò Castiel con perversa soddisfazione, pregustando il momento che sarebbe seguito.
 
- Lui dorme con me. Nel mio letto. - rispose serafico, affondando il colpo.
 
- … Ah. -
 
Ci fu un silenzio inquietante in cui Castiel pensò che Gabe fosse stramazzato al suolo. Per un istante, amò intensamente Balthazar per aver taciuto.
 
- Ok, chi sei tu? E cosa ne hai fatto di mio fratello? - riprese la voce all’altro capo del filo, allarmata, senza più tracce di sgranocchiamenti.
 
- Mi sa che sei rimasto un po’ indietro con gli ultimi aggiornamenti sulla mia vita privata, Gabe. - sogghignò.
 
- E’ uno scherzo? No perché non sei mai stato un granché come cabarettista, Cassy, lo sai che siamo io e Balth quelli simpatici… -
 
- Bè, Mister Simpatia, domani sera potrai renderti conto con i tuoi occhi se io stia scherzando o meno. -
 
- Uhm, sembri quasi serio… quasi. E sentiamo, chi sarebbe questo fantomatico ragazzo? - lo pungolò Gabriel in tono beffardo.
 
- Si chiama Jensen ed è -
 
- Jensen? Quel Jensen? Quello che ha posato per i tuoi quadri? - lo interruppe Gabriel, incredulo.
 
- Sì. -
 
- Quello accanto a te nelle foto dell’inaugurazione? -
 
- Sì… - sospirò Castiel, un po’ stufo di quel tono.
 
- Quello che sembra un modello di biancheria intima? -
 
- Sì, Gabe: Jensen, quel Jensen, quel figo pazzesco di Jensen! - sbottò Castiel esasperato.
 
All’altro capo del filo scese il silenzio. Sperare che durasse era pura utopia.
 
- Uh… ora mi spiego tante cose. - mormorò Gabriel, meditabondo.
 
- Quali cose, scusa? -
 
- Perché, per esempio, ti sei sempre accompagnato a ragazze così anonime, e perché sei stato per due anni con una che sembrava un uomo. -
 
- Gabe, non ricominciare con la storiella di “Victor Victoria” [4], per favore, lo sai che mi dà sui nervi! Vicky non sarà stata una bellezza classica, ma era intelligente, simpatica e coltissima. -
 
- Bellezza classica? Quando per Halloween vi siete vestiti lei da uomo e tu da donna eri più femminile tu di lei, andiamo Cassy! Non sto dicendo che non fosse simpatica, però… insomma, questo Jensen è la ricompensa karmica per tutte le sciacquette che ti sei portato in giro per anni! - ghignò Gabe.
 
Castiel sbuffò, rassegnato.
 
- Temo che la nostra sarà una serata veramente eterna… - mugugnò, prima di concludere la telefonata.
 
Meditando vendetta riprese di nuovo in mano il cellulare, per chiamare Jensen in palestra e pianificare la controffensiva.
 
 
 
[1] Alfred è il maggiordomo di Bruce Wayne, ovvero Batman.
 
[2] Jensen ha stravolto la celebre battuta «Mi piace l’odore del napalm al mattino. Profuma come di… vittoria» tratta da Apocalypse Now, film in cui la Cavalcata delle Valchirie fa da accompagnamento musicale alla celebre scena del bombardamento con gli elicotteri.
 
[3] storica battuta di Mel Brooks.
 
[4] film del 1982 con Julie Andrews, in cui la protagonista fingeva di essere un uomo travestito da donna per poter lavorare nel mondo dello spettacolo, dando il via ad una serie di gag ed equivoci.





NDA: buon lunedì!
Capitolo insolitamente lungo per i miei standard, ma c'erano un sacco di cose da dire... spero di riuscire ad aggiornare in tempo la prossima settimana, sono un po' incasinata e ho problemi con una parte del capitolo. °__°
Come sempre, ringrazio chiunque stia posando gli occhi su queste righe per la prima volta ma soprattutto le persone che hanno seguito con amore la storia fino ad ora, inserendola tra le seguite, le preferite o ricordate.
GRAZIE INFINITE! SQUIT! <3
 
 
 

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Capitolo 22
*** LA GRANDE MELA ***


LA GRANDE MELA
 
 
- Ciao Piccola, mi dispiace… - mormorò sconsolato Jensen, battendo un paio di malinconiche pacche sul cofano, mentre si allontanavano dall’Impala nel parcheggio dell’aeroporto.
 
- Jens, non la stiamo lasciando dallo sfasciacarrozze, è un parcheggio custodito, e fra tre giorni saremo di nuovo qui a riprendercela, sana e salva. - lo rassicurò Castiel in tono paziente. Per la ventesima volta.
 
- Lo so, ma questo posto è così… squallido. -
 
Castiel ridacchiò.
 
- "Nessuno mette Baby in un angolo", eh? -
 
- Cosa? - chiese Jensen, smarrito.
 
‘Ok Titanic, ma forse Dirty Dancing è un po’ troppo per lui…’
 
- Niente. -
 
- Mi sento nudo… [1]  - mugugnò il compagno in tono lamentoso, voltandosi un’ultima volta in direzione dell’auto.
 
Castiel l’osservò divertito, inarcando un sopracciglio.
 
- Oh, se fosse davvero così non credo che darebbe fastidio a nessuno, sai? Anzi, immagino che allieterebbe il volo a parecchie signore… e forse anche a qualche giovanotto - ghignò, mentre trascinava un recalcitrante Jensen verso l’area partenze del Logan International Airport.
 
Individuati i banchi della Delta, si disposero ordinatamente in fila per il check-in, mentre Castiel non riusciva a levarsi un ghigno compiaciuto dalla faccia.
 
- Si può sapere che hai da ridere? - chiese infine Jensen, avanzando piano insieme alla fila.
 
Castiel si sporse verso di lui, afferrandolo per il bavero della giacca in modo da ritrovarsi con il suo orecchio a portata di labbra. Dopo un rapidissimo bacio appena sotto il lobo, confessò.
 
- Continuo ad immaginarti nudo. E lo sai che gli artisti hanno una fervida immaginazione… -
 
- Stupido… -
 
- Sarei stupido se non pensassi a tutto quel ben di Dio, Winchester. - continuò il professore, imperterrito, abbassando gradualmente la voce fino ad arrivare al roco mormorio che ormai Jensen associava esclusivamente al sesso - Anche se credo che il bagno dell’aereo, per noi due, sia un po’ strettino in effetti. Non credo che riuscirei davvero a godermi la vista di te nudo… dovrei limitarmi a sbottonarti i jeans e ad infilarti le mani nei boxer, accarezzandoti fino a fartelo diventare duro, oppure potrei leccarti come l’altra notte… - sussurrò.
 
Jensen si ritrasse di scatto dalla presa di Castiel, arrossendo all’inverosimile e guardando stranito il compagno che l’osservava serafico, sprizzando innocenza da ogni poro, con la testa inclinata da un lato e l’espressione ingenua di uno che stesse recitando le preghiere della sera.
 
Si guardò attorno con aria colpevole, sperando con tutto il cuore che la minuscola vecchietta che arrancava a mezzo metro da loro trascinandosi dietro un altrettanto minuscolo trolley e un ombrello non avesse sentito.
Non aveva l’aria di una che poteva sopravvivere ad un infarto. In compenso aveva l’aria di una che poteva prenderli ad ombrellate.
 
- Cass, ma che stai facendo? - sibilò - Vuoi che a nonna Eunice, qui, salti per aria il pacemaker? -
 
Castiel si strinse nelle spalle stirando le labbra in un sorriso che ogni volta lasciava Jensen in bilico tra la voglia di prenderlo a schiaffi e quella di farselo, sbattendo le ciglia come un dannato cerbiatto.
 
- Non sto facendo assolutamente nulla… purtroppo. - sussurrò ancora, mentre la fila avanzava un altro po’ - Ma ti dico cosa mi piacerebbe fare, o meglio, cosa mi piacerebbe farti… -
 
- Smettila Cass, ci sentiranno! - farfugliò Jensen, avvertendo già una certa agitazione dalle parti dei propri boxer. Grazie al cielo la sua giacca era piuttosto lunga…
 
- La nonnina non ci sentirebbe nemmeno se avesse l’apparecchio acustico regolato al massimo del volume, è troppo occupata a guardarti il culo e a disapprovare la coppia che litiga ad alta voce dietro di lei. Non ci sente nessuno, rilassati. Ecco, sì, rilassati… e lascia che mi occupi di te. - mormorò in tono suggestivo - Dov’eravamo? Ah, sì, avevo le mani dentro ai tuoi boxer… e a te piaceva. - ghignò.
 
Jensen gli scoccò un’occhiata omicida. Ma non si spostò di un millimetro.
 
- Non ti piacerebbe, Jens? Non ti piacerebbe che ti prendessi completamente vestito, sudato, eccitato, in quello spazio angusto? Non ti piacerebbe venire a diecimila metri, implorandomi di scoparti più forte, mentre fuori dalla porta un centinaio di persone continua ignaro a dormire, sgranocchiare arachidi o guardare un film? No? -
 
- Cass… smettila, per favore...- pregò debolmente Jensen, che aveva ormai raggiunto lo stadio di fluorescenza.
 
Castiel non lo degnò della benché minima considerazione.
 
- Sai, adoro quando urli sotto di me, ma quello che mi fa devvero impazzire è quando cerchi di trattenerti, quando ti mordi le labbra cercando di non gridare, come quella volta che ti ho fatto qualche coccola in aula, dopo la lezione… -
 
- Coccola? Quando mi hai molestato, vorrai dire! - precisò Jensen mentre un involontario, e traditore, sorrisetto, al ricordo di quelle molestie, privava di mordente le sue proteste.
 
- Come sei drammatico. Comunque, ti assicuro che con quello ho intenzione di farti, ti verrebbe voglia di urlare Jens. Un sacco. -
 
- … -
 
- Mi scusi? Signore? Può darmi la sua carta d’imbarco, per cortesia? - lo riscosse una voce gentile ma leggermente spazientita.
 
Jensen rialzò uno sguardo un po’ vitreo, ritrovandosi davanti all’addetta al check-in, senza nemmeno sapere come c’era arrivato.
Lievemente frastornato e con un colorito francamente preoccupante, consegnò bagagli, documenti e carte d’imbarco come un automa, mentre le parole roventi di Castiel, che ridacchiava sommessamente alle sue spalle, gli rimbombavano ancora nel cervello.
E nelle mutande.
 
Castiel era incredibilmente fiero di se stesso. Aveva appena scoperto come far superare il volo a Jensen: volgarità.
Se fosse stato abbastanza creativo, non si sarebbe nemmeno reso conto che si erano alzati da terra…
 
Una volta saliti sull’aereo, quando l’hostess mostrò loro le comode poltrone in pelle color crema Jensen si voltò nella sua direzione con aria interrogativa.
 
- Cass, ma hai prenotato la prima classe per un volo di un’ora? -
 
- Bè, tu hai accettato di prendere un aereo solo per accompagnarmi, renderti l’esperienza il più confortevole possibile era il minimo che potessi fare… - spiegò Castiel, con una sfumatura allusiva nella voce che solo il compagno poteva cogliere.
 
- Grazie. Morire su uno di questi sedili sarà meno orribile. -
 
- Smettila di dire sciocchezze e cerca di rilassarti, ho portato la medicina. - lo blandì, sfilando dalla tasca interna della giacca una fiaschetta d’argento e porgendogliela.
 
- Cos’è? - domandò Jensen, rigirandosi tra le mani l’oggetto e notando il proprio nome inciso tra gli arabeschi in filigrana che ne decoravano la superficie.
 
- Regalo. - sintetizzò Castiel, sorridendo.
 
Lo sguardo di Jensen si raddolcì, percorrendo con la punta delle dita gli eleganti caratteri dell’incisione.
 
- E’ bellissima… grazie Cass, non me ne separerò mai. -
 
- Non è solo bella, Jens, è anche piena. Fossi in te ne approfitterei, prima che accendano i motori. -
 
Le parole di Castiel riportarono Jensen alla realtà, rammentandogli cosa stava per accadere e catapultandolo di nuovo nell’incubo volante di poco prima.
Tacque, sprofondando nel morbido sedile, rigido come un baccalà e con una vena delle dimensioni di un acquedotto che pulsava su una tempia. Svitò il tappo della fiaschetta, prese una lunga sorsata dell’ottimo whisky con cui Castiel l’aveva riempita e sospirò come un condannato a morte, ad occhi chiusi.
 
Castiel capì che avrebbe dovuto dare fondo ad ogni sua fantasia, per superare quel volo.
 
Non appena ebbero allacciato le cinture, si sporse verso Jensen e ricominciò a sussurrare ogni genere di sconcezza che gli saltava in mente con voce bassa e suadente, sfiorandogli impercettibilmente la coscia e mettendolo talmente in imbarazzo che il poveretto nemmeno si accorse dell’aereo che rullava sulla pista e poi si alzava in volo, troppo occupato a coprirsi la patta dei pantaloni con il tavolinetto pieghevole e a guardarsi attorno come un ladro, terrorizzato all’idea che qualcuno potesse sentire quello che il professore gli stava dicendo.

Per un attimo, disperatamente eccitato e reso audace dal whisky, valutò sul serio l’ipotesi di trascinare Castiel in bagno, sbottonargli quegli stupidi jeans che gli facevano un sedere da paura e farlo urlare fino a non avere più fiato, ma la vista di due suore sedute ad un metro dalla porta del suddetto bagno bastò a farlo desistere dai suoi propositi lussuriosi.
Fu uno dei voli più divertenti della vita di Castiel e sicuramente il più indolore per Jensen, anche se non certo il più rilassante.
In men che non si dica, uno stranito Winchester posò i propri stivali da motociclista su suolo newyorchese, seguito da un soddisfattissimo professore ormai pronto per intraprendere una nuova carriera a Telefono Erotico.
 
- Allora, ti sei goduto il volo Jens? - domandò Castiel, sornione.
 
- Sì, grazie… Mistress Magda. -
 
- Se fossi davvero Mistress Magda, dopo un’ora e passa mi dovresti almeno quattrocento dollari. Non essere così sarcastico, in fondo nemmeno ti sei accorto che siamo atterrati… -
 
- Già. In compenso sono quasi imploso. - commentò acido Jensen, dirigendosi verso l’area ritiro bagagli.
 
- In albergo potrai esplodere quanto ti pare… e dove ti pare. - continuò il prof con aria allusiva.
 
Jensen sorrise apertamente, allettato dalla prospettiva.
 
- Ecco, a proposito, in che albergo siamo? -
 
- Avevo prenotato al Michelangelo, sulla Settima, ma Gabriel ha insistito perché fossimo suoi ospiti al Plaza. -
 
- Gabriel mi sta già simpatico. -
 
- Io aspetterei a dirlo… -
 
- Guastafeste. Viene qualcuno a prenderci o chiamiamo un taxi? - chiese quindi Jensen, recuperando i bagagli di entrambi dal nastro trasportatore e porgendo a Castiel la sua valigia.
 
- Non ho voluto disturbare nessuno, tanto vedremo tutti stasera, facciamo i turisti e prendiamo una di quelle belle macchine gialle che hanno qui! - mormorò allegro Castiel, avviandosi a passo svelto verso l’area di parcheggio dei taxi del JFK.
 

 
Non appena il concierge consegnò loro con un misto di deferenza e curiosià la tessera magnetica che dava accesso alla camera, dopo aver scrutato a lungo i loro nomi sulla schermata delle prenotazioni in cerca di un qualche indizio sulla loro vera identità, Castiel capì che Gabe doveva aver scelto una suite principesca, di quelle abitualmente riservate a divi del cinema e rockstar.
 
Mentre l’ascensore saliva silenzioso verso l’attico, Jensen non potè fare a meno di notare l’aria divertita del compagno.
 
- Che c’è? - chiese.
 
- Secondo te per chi ci ha scambiati il concierge? -
 
- Se fossimo attori o membri di qualche rock band ci avrebbe riconosciuti, poveretto, si starà scervellando per capire se siamo rampolli di qualche nobile casata o principi in incognito… -
 
- Di sicuro tu sembri una principessa, bel biondino… - ghignò Castiel, ricordando a Jensen il nomignolo che gli rifilava ogni tanto.
 
- Tra noi due non sono certo io quello che dorme in continuazione come se fosse morto, Biancaneve. Anzi, sai che c’è? Le somigli pure! Capelli neri, labbra rosa, pelle candida… sei proprio un amore, sai? Mi stupisce che tu non abbia un coro di scoiattoli e passerotti che ti segue ovunque. - ribattè Jensen, sarcastico.
 
- Biancaneve, eh? Vorrà dire che andrò a vivere con sette uomini… - lo provocò il professore, sorridendo con aria perfida.
 
- Nani, Cass. Erano sette nani. -
 
- Allora li baratterò con tre di altezza normale. Sarà bellissimo. - rispose Castiel senza scomporsi.
 
Jensen rinunciò a controbattere, esasperato..
 
- Sai che sei impossibile? - mugugnò.
 
- Lo so. -
 
- E ti detesto. - continuò, mettendo su il broncio.
 
- So anche quello… - mormorò Castiel, avvicinandosi e spingendolo delicatamente contro la parete della cabina, incorniciandogli il viso tra le mani e guardandolo con occhi sorridenti da distanza ravvicinata, il viso inclinato in quel modo ingenuo e sexy che Jensen ormai considerava arma impropria.
 
Si sciolse come burro sotto quello sguardo, incapace di opporre resistenza. Fece scivolare una mano sulla nuca di Castiel e lo tirò a sé annullando la già esigua distanza tra loro.
Sfiorò le sue labbra tiepide con un bacio leggero e delicato, romantico, godendone ogni istante.
Castiel si ritrasse dopo un poco, sorridendo, appoggiando la fronte sulla sua.
 
- So anche questo… - sussurrò, facendo arrossire Jensen.
 
Prima che potessero dire o fare qualsiasi altra cosa, però, vennero interrotti dal «PING!» dell’ascensore, che li avvisava dell’arrivo al piano.
Si staccarono appena in tempo, prima che le porte si aprissero e un’altezzosa matrona in un’agghiacciante mise leopardata prendesse il loro posto all’interno della cabina, reggendo un orribile cagnetto come fosse una pochette.
Si diressero verso la camera ridacchiando, vittime di una silenziosa telepatia, immaginando i punti del lifting della signora saltare uno dopo l’altro come grilli impazziti e il suo viso botulinizzato contrarsi in una smorfia d’orrore dopo averli visti baciarsi, o peggio.
 
Castiel strisciò la tessera magnetica nell’apposita fenditura ed entrambi, fatti pochi passi all’interno della suite, dovettero ammettere che non smentiva affatto le aspettive. In pratica era un mini appartamento con tanto di salotto e piccolo studio, e la vista era mozzafiato, constatò Castiel avvicinandosi alle grandi finestre.
 
Jensen emise un lungo fischio d’ammirazione mentre lasciava vagare lo sguardo sul sontuoso arredamento, dirigendosi verso la camera per posare i bagagli.
 
- Wow… sembra il set di “Jens e Cass al Grand Hotel” [2] … - gridò dall’altra stanza, pregustando la notte che avrebbero passato sull’enorme materasso king-size.
 
- Devi smetterla con i porno! Quante volte te lo devo dire che ti bruciano il cervello?! - urlò di rimando Castiel, ridendo e raggiungendolo poi in camera.
 
Poggiò la valigia sul letto e l’aprì velocemente, estraendone come prima cosa un completo scuro e dirigendosi con esso alla volta dell’enorme bagno, sotto lo sguardo curioso di Jensen.
 
- Che fai? - chiese.
 
- Lo appendo di là, così forse col vapore della doccia sembrerà meno sgualcito. - spiegò Castiel, osservando con disappunto la giacca che sembrava uscita da un frullatore.
 
Jensen non proferì verbo, si limitò a fissarlo con aria canzonatoria e un sopracciglio tanto inarcato da sfiorare l’attaccatura dei capelli, cercando di non ridere sguaiatamente nel sentire una frase simile uscire dalle labbra del suo stazzonatissimo e scarmigliato prof.
 
- Andiamo, Jens, lo sai come sono qui a New York, l’immagine è tutto! Non importa quanto tu sia bravo, devi essere bravo e impeccabile. La prima impressione conta, e non voglio andare là sembrando un barbone… - mormorò, un po’ sulle sue.
 
- Ok Cas, solo… cominci ad assomigliare ogni giorno di più a Martha Stewart. - rise Jensen - Senza la galera e l’insider trading, ovviamente. - aggiunse poi, come se con quella rettifica il paragone fosse meno offensivo - Quando inizierai a preparare ciotole di pot-pourri? -
 
- Ah, ah. - ribattè Castiel, fulminandolo con lo sguardo - Comunque, ti spiace se faccio la doccia per primo? Non voglio rischiare di arrivare in ritardo… - mormorò Castiel sparendo oltre la soglia del bagno, facendo chiaramente intendere che lui si sarebbe accaparrato la doccia, che Jensen lo volesse o meno.
 
- Vai pure, io intanto disfo i bagagli e mi rilasso un po’. - disse Jensen, ben consapevole che  mancavano almeno tre ore all’appuntamento e che Castiel non sarebbe riuscito ad arrivare in ritardo nemmeno provandoci.
 
Fece scorrere lentamente la cerniera della propria valigia, fermandosi a metà e lasciando che un sorrisetto malvagio si facesse strada sul suo viso.
 
‘Ma che diavolo sto facendo?’ chiese a se stesso, voltandosi e calciando via gli stivali, per poi dirigersi pigramente verso il bagno, disseminando una scia di vestiti alle proprie spalle.
 
Castiel, intento ad insaponarsi i capelli ad occhi chiusi, non fece caso allo spostamento d’aria dovuto all’improvvisa apertura del box doccia fino a quando non si trovò spiaccicato contro il muro, intrappolato tra le piastrelle gelate e il corpo caldo di Jensen, che aderiva alla sua schiena come una seconda pelle.
 
Emise uno sbuffo sorpreso quando le sue braccia vennero sollevate e tenute in alto bloccate per i polsi, mentre Jensen gli baciava la nuca, succhiando le prime vertebre e mordicchiandogli le spalle, poi chiuse gli occhi e sospirò, godendosi la sensazione.
 
- Credevi di passarla liscia, Collins? - ringhiò al suo orecchio, facendosi strada con la mano libera tra la parete ed il suo corpo, fino ad arrivare all’inguine - Credevi davvero di potermi dire tutte quelle cose, su quel dannato aereo, e poi di andare al tuo colloquio come se niente fosse? - continuò, accarezzando Castiel e sentendolo reagire sotto le sue mani.
 
- Jens no… non ora, devo andare… devo… - tentò di protestare Castiel, divincolandosi senza convinzione ed ottenendo solo che la presa di Jensen si facesse più salda.
 
- Oh, non credo proprio. - replicò Jensen beffardo, direttamente sul suo collo, senza smettere di toccarlo - Ora te lo dico io, cosa devi fare. Devi stare zitto e fermo, mentre ti faccio tutto quello che mi pare. E sai qual è la cosa più divertente? Che tutte queste belle idee me le hai date tu… -
 
Castiel si limitò ad ansimare.
 
- Lasciami… - protestò debolmente.
 
Jensen lo voltò, sempre tenendolo inchiodato al muro, il viso a pochi centimetri dal proprio, l’acqua bollente che ancora scrosciava su entrambi, creando una nuvola di vapore soffocante.
 
- Tu non vai da nessuna parte. -
 
- Stronzo. - ringhiò Castiel, cercando di non cedere.
 
- Perlomeno, non finché io non avrò finito con te. - specificò Jensen, osservando il professore fremere sotto le sue carezze e lasciandosi cadere in ginocchio ai suoi piedi.
 
Quando il compagno affondò il viso nel suo inguine, giocherellando con la lingua e succhiando piano, Castiel fu piuttosto contento di essere appoggiato contro la parete e di avere qualcosa a cui reggersi.
 
- Fottiti. - mormorò, la voce già arrochita da quella che cercava di spacciare per rabbia.
 
Guardò verso il basso, e lo spettacolo gli devastò gli ultimi neuroni superstiti.
Ansimò disperato e artigliò i capelli di Jensen tra le mani, per spingerlo a prenderne di più, ma l’altro si tirò indietro sollevando verso di lui un ghigno perfido, gli occhi ridotti a due fessure.
 
- Che hai detto? -
 
- Ho detto fottiti. Vuoi che ti faccia un disegno? - replicò Castiel, riacquistando un barlume di lucidità.
 
Jensen inclinò il capo, osservandolo, insolitamente divertito.
 
- Fuochino… - replicò malizioso.
 
Poi lo prese in bocca. Fino in fondo.
 
A Castiel mancò il fiato persino per urlare.
 
- … Dio Jens, fottimi… -
 
- Fuoco.-
 

 
Dopo aver prosciugato la rete idrica newyorchese per la doccia più lunga di sempre, Jensen tornò in camera, infagottato in uno dei lussuosi accappatoi messi a disposizione dall’hotel, mentre Castiel si attardava in bagno per radersi.
In fondo, erano passate già otto ore dall’ultima volta, pensò ridacchiando tra sè, intenerito dal sempreverde nervosismo del professore e dalla sua smania di perfezione.
Probabilmente non si rendeva conto che se il boss della Hellhound in persona si era preso la briga di venire fino a Boston per fargli la corte, l’affare si poteva dire concluso.
Non aveva bisogno d’impressionare nessuno, era chiaro come il sole che lo volevano.
E parecchio.
Pazienza, si disse, raccogliendo dal comodino il proprio cellulare che si illuminava ad intermittenza segnalando l’arrivo di un sms, se ne sarebbe accorto anche lui a breve.
 
Dopo una decina di minuti Castiel, uscendo dal bagno, notò Jensen già vestito di tutto punto.

Era bello come al solito, con una semplice t-shirt nera e i jeans, ma il giaccone verde salvia che indossava gli faceva risaltare gli occhi in un modo incredibile, e Castiel avrebbe tanto, tanto voluto non essere costretto ad uscire per potersi prendere una rivincita come si deve…
 
Immerso nei propri peccaminosi pensieri si vestì a sua volta, sotto lo sguardo divertito di Jensen, che gli si avvicinò con un sorrisetto di scherno.
 
- Cosa. - disse Castiel, esalando un sospiro scocciato, intuendo di avere qualcosa fuori posto come al solito.

Jensen lo aggirò e si portò alle sue spalle, poi il professore lo sentì trafficare col collo della sua camicia, tirando leggermente la cravatta.
 
- Sei stato allevato in un fienile? [3] - domandò ridacchiando, mentre sistemava la striscia di seta sotto il  risvolto del colletto, ovvero lì dove avrebbe dovuto essere fin da principio.

 Il fatto che non sapesse ancora vestirsi da solo, senza la supervisione di un altro adulto, lo inteneriva oltre misura, ed era uno dei mille aspetti che amava così tanto in lui.
 
- Lo sai che non sono mai stato bravo con le cravatte… - sbuffò Castiel - Come mai tu sei già pronto, piuttosto? Non dovevi uscire tra un paio d’ore? -
 
- Jared ha anticipato il nostro appuntamento, mi è appena arrivato un suo messaggio. E’ da molto che non ci vediamo, evidentemente vuole sfruttare tutto il tempo a disposizione! - commentò Jensen, allegro.
 
- Allora oggi andate al Guggenheim? -
 
- Sì, come stabilito, perché? -
 
- Dovresti farmi un grosso favore… - mormorò Castiel, estraendo una busta sigillata dalla borsa del portatile e porgendogliela.
 
- Cos’è? - domandò Jensen incuriosito, rigirandosi tra le mani la missiva che a quanto pareva era stata scritta su carta intestata dell’Accademia.
 
- E’ una lettera di raccomandazione per un paio di studenti del corso… sai, per la questione delle borse di studio e degli stage estivi. -
 
- Stai giocando sporco Cass? Oddio, scorgo una malevola scintilla di Balthazar, in te… - lo prese in giro Jensen, fingendosi inorridito e arretrando di un paio di passi.
 
- No, sono ancora umano, stai tranquillo. Non sto giocando sporco, se così fosse andrei io stesso a perorare la causa, fidati… voglio semplicemente offrire un’occasione a due allievi meritevoli, al di là delle manie di protagonismo di Meg, vada come vada l’esposizione. - commentò Castiel, insolitamente reticente.
 
- Mi dirai chi sono gli Eletti di tua spontanea volontà o torno a riempire di vapore la doccia? O magari… - mormorò Jensen avvicinandosi alla finestra e cercando di leggere in trasparenza, facendo capire al compagno che, in un modo o nell’altro, gli avrebbe estorto l’informazione.
 
- Sei insopportabile, Jens. Va bene, allora, uno è il signor Qualls… -
 
- Vuoi dire DJ? Ratto? -
 
- … Ratto? Bo, sì, quello mingherlino innamorato perso della ragazza greca sempre incazzata… quella col cognome strano… Atropos… -
 
- La biondina che sembra una sexy bibliotecaria? -
 
- Sì, lei. E Jens, seriamente, basta con i porno. - rise Castiel.
 
- Bè, poveretto, non ha alcuna speranza con una così… -
 
- In effetti, lei se lo mangerebbe vivo. - constatò il professore.
 
- Non per quel motivo, Cass… - Jensen esalò un sospiro, sconfortato - Prima di tutto quella non ha occhi che per te, e il paragone già di per sé è abbastanza impietoso. In secondo luogo, finché DJ si ostinerà a girare con quello schifoso calzino nello zaino, di cui non voglio nemmeno immaginare gli usi alternativi, non combinerà mai nulla con una femmina. -
 
- Parli di Mister Fizzles? Ma scherzi? Lo adoro, mi ricorda il mio berretto-scimmia… guarda che secondo me alle ragazze piace. Impazziscono tutte per il mio berretto. - si vantò Castiel tradendo un certo orgoglio.
 
- Cass, a volte sei di un’ingenuità davvero imbarazzante. Le ragazze impazziscono per te, non per quel coso orrendo con cui vagavi per strada quest’inverno! -
 
- Come “coso orrendo”? Hai qualcosa contro il mio berretto? -
 
- Ok, senti, mettiamola così: al prossimo cambio di stagione ci terrei ad essere presente per procedere ad un’epurazione nel nome della decenza. -
 
- Epurazione? - gli fece eco Castiel, scandalizzato - Se solo ti avvicini al mio berretto giuro che do fuoco a tutte le tue camicie a quadri! -
 
- Ma io possiedo solo camicie a quad… Oh. Ok. Capito. - cedette infine Jensen, sconfitto dall’arguzia del compagno - Lasciamo perdere… chi è l’altra persona? -
 
- La signorina Cortese. -
 
- La piccola Gen? Uh… - Jensen soppresse un sorrisetto maligno.
 
- “Uh” che?
 
- Niente… lei è l’unica del corso che, a quanto pare, non subisca il tuo fascino. - insinuò Jensen.
 
- O il tuo, se è per quello… - ribattè Castiel, tagliente.
 
- In compenso sbava dietro a mio fratello. -
 
- E tu che ne sai? -
 
- Un mesetto fa, durante la pausa, l’ho vista sfogliare una rivista di gossip assieme ad altre due o tre ragazze. Ad un certo punto è incappata in una pubblicità dove compariva Jared ed ha iniziato letteralmente a squittire “questo è l’uomo che sposerò!”… l’ho sentita dire in più d’un’occasione che al termine degli studi vuole entrare a far parte del mondo della moda perché vuole incontrarlo. E col caratterino che si ritrova quello scricciolo, sono pronto a scommettere che prima o poi ce la farà. Che il signore aiuti quel poveretto… -
 
- … disse lo stalker. - ridacchiò Castiel - Seriamente, Jens, fra mitomani dovreste riconoscervi, sostenervi, sono sicuro che potreste diventare ottimi amici! -
 
- Lo sai che Balthazar ha ragione quando afferma che tu non hai alcun senso dell’umorismo? Le tue basse insinuazioni non mi toccano. - ribattè Jensen, ostentando superiorità - Comunque, a chi dovrei consegnare questa benedetta lettera? -
 
- Al direttore del museo. L’ho già contattato io al telefono, basterà dare il tuo nome all’entrata, poi potrai dedicarti al tuo pomeriggio con Jared. -
 
- Ok, capo. - mormorò, baciando fugacemente Castiel - A più tardi… e in bocca al lupo per l’incontro. Chiamami quando hai finito. -

Fece quindi per allontanarsi, ma Castiel lo trattenne afferrandogli un polso e guardandolo con occhi imploranti.
 
- Che c’è Cass? - sussurrò dolcemente, riavvicinandosi a lui.
 
- Ho paura - confessò come un bambino.
 
- E di che? -
 
- Non lo so. Sono così nervoso… - farfugliò a testa bassa.
 
Jensen gli prese il viso tra le mani poi posò le labbra sulla sua fronte, tornando infine a guardarlo pieno di fiducia.
 
- Sono certo che ti adoreranno e ti pregheranno in ginocchio di lavorare per loro. Sei fantastico e loro lo sanno. Così come lo so io. Ok? - mormorò.
 
Castiel annuì, rassicurato da quelle poche parole e dall’incredibile effetto che Jensen riusciva sempre ad avere su di lui.
 
- Ok. Grazie Jens… e divertiti, con Jared. -
 
- Falli neri! - augurò Jensen uscendo.
 
 
 
 
[1] Ho usato la battuta di Dean nella 5X02 quando consegna il proprio ciondolo a Castiel.

[2] Anche qui ho riciclato spudoratamente la battuta di Dean nella 4X22 (credo, ma non sono proprio sicurissima!) “Zach & Cass al grand hotel”.
 
[3] Il dialogo si riferisce a questa scena:
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  Continuo imperterrita a ringraziare chi continua imperterrita a seguire e/o commentare... GRAZIE INFINITE!  :)
 

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Capitolo 23
*** L'UOMO CHE SAPEVA TROPPO ***


L’UOMO CHE SAPEVA TROPPO
 
 
 
Si erano dati appuntamento in un piccolo caffè-tavola calda di fronte al Guggenheim.
 
Jensen si stupì, entrando nel locale, di non trovare il fratello ad aspettarlo: di solito, il Perfettino era puntualissimo.
 
Questo fino a che non intercettò con la coda nell’occhio una specie di hippie con i capelli lunghi, il viso completamente celato da una folta barba e occhiali da sole a specchio alzare gli occhi dal menù, sorridergli e alzarsi per venirgli incontro.
 
- Jay… ma che diamine…? - farfugliò, mentre il fratello si levava gli Aviator, poggiati sul nasino dalla linea delicata, e lo stringeva in un abbraccio.
 
- Ehi, Jens. -
 
- “Ehi Jens”? Ma sei scemo? Come ti sei conciato? - chiese ancora staccandosi da lui, esaminandolo con aria critica - Cos’è questa barba da santone? Dio, sembri Cugino It sotto steroidi, ti manca solo la bombetta. -
 
- Sì, anche tu sei un fiore… oh, ma è una ruga nuova quella? - commentò Jared, sarcastico.
 
- Sul serio Jay, cos’è questa pagliacciata? -
 
- Mimetismo. - chiarì il minore con aria cospiratoria, mentre si riaccomodava al tavolo seguito da Jensen.
 
- Eh? -
 
- Sono costretto a tenere un basso profilo: da quando ho girato lo spot per quel maledetto dopobarba non ho più un attimo di pace, per strada le ragazze mi inseguono e mi dicono delle cose assurde… ma che hanno in testa le donne? - chiese sconsolato, come se davvero un ragazzone come lui potesse sentirsi minacciato da minuscole e fragili ragazze arrapate.
 
- Dopobarba? Parli di Devil’s Trap? - domandò Jensen ridacchiando - Ahhhhhhh, non saprei… in fondo nella versione estesa dello spot ti rotolavi semplicemente sulla spiaggia con una splendida sexy diavolessa, coperto solo da un velo d’olio sui pettorali e jeans sdruciti, mentre le onde s’infrangevano su di voi… chissà che ci trovano le signore! - ironizzò.
 
Jared arrossì, imbarazzato.
Era il suo lavoro, lo faceva bene e non se ne vergognava, in fondo si limitava a sfruttare i doni che la natura gli aveva così generosamente elargito, ma ogni tanto avrebbe voluto che i membri della sua famiglia fossero ciechi e sordi. Nel caso specifico di Jensen, ciechi e muti.
 
Nel mentre, la cameriera aveva raggiunto il loro tavolo per prendere le ordinazioni. Jared prese un salutare tè verde, Jensen un espresso.
 
Quando le bevande giunsero al tavolo quest’ultimo, osservando il contenuto della tazza del fratello, non potè nascondere un sorrisetto: ormai non riusciva più a posare gli occhi su un liquido verde, fosse anche stato sapone per i piatti, senza che tutti i suoi neuroni migrassero in autonomia nella zona del suo cervello denominata “posticino felice” (per la scienza, ippocampo), portando prepotentemente alla ribalta il ricordo della serata dell’assenzio e del sesso incredibile che era seguito subito dopo.
 
Pavlov avrebbe potuto usarlo al posto del celebre cane.
 
- Jens, a che pensi? - chiese Jared, interrompendo il piacevole flusso dei suoi pensieri.
 
- Mh? -
 
- Sembri Gatto Silvestro dopo che si è mangiato Titti… -
 
- Niente, una sciocchezza… - svicolò Jensen, buttando giù nervosamente una sorsata di caffè bollente, ustionandosi la lingua e mettendosi a tossire.
 
- Ok, ok, non c’è bisogno di bere lava per dissuadermi dal fare domande! Tanto lo so che quando non vuoi parlare di qualcosa non c’è verso di -
 
- Ecco, appunto, per cui non farle. - tagliò corto Jensen - Piuttosto, stasera sei libero per cena? -
 
- Per te? Certo. -
 
- Bè, non solo per me in realtà. Volevo presentarti Castiel. Dovrebbero esserci anche i suoi fratelli: Balthazar già lo conosco e ti anticipo che è un potenziale serial killer, Gabriel, per quel che ne so, sembra sulla buona strada… -
 
- Castiel, Balthazar e Gabriel? Sul serio? - domandò Jared in uno sbuffo di risa.
 
- Lo so…lascia perdere. -
 
- E dove si va di bello? -
 
- Non ne ho idea, Balthazar ce lo dirà più tardi, ma se prenota lui sarà di sicuro un posto pretenzioso, con un tocco di cattivo gusto… vestiti bene e, per l’amor del cielo, sbarbati! -
 
- Come ti permetti? Io mi vesto sempre bene! E’ il mio lavoro! - replicò Jared, punto sul vivo, facendo notare a Jensen la propria camicia Ralph Lauren perfettamente inamidata e la giacca di taglio sportivo appoggiata sullo schienale della sedia.
 
- Ok, ma conciato così sembreresti comunque un hippie strafatto con il vestito della prima comunione. Sbarbati. Non è un suggerimento. - intimò Jensen, rispolverando il cipiglio da fratello maggiore che con Jared non funzionava più da oltre dieci anni.
 
- Sì Jens. Come desideri Jens. Ai tuoi ordini Jens. - mormorò docilmente Jared, chinando il capo e ridendo sotto i baffi.
 
- Bravo, così mi piaci. Che si fa, vogliamo muoverci? - domandò, già in procinto di alzarsi, mentre Jared terminava il proprio tè.
 
Pagarono rapidamente e uscirono nella luce accecante del primo pomeriggio. Era una bellissima giornata di sole e i muri candidi del museo facevano risaltare ancor più la sua forma singolare, incastonata come una bizzarra gemma tra gli alti palazzi circostanti.
Jensen si fermò qualche istante ad osservarlo da lontano.

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- Jay… - mormorò lentamente - Credo di aver lavorato troppo da Starbucks… -
 
Jared lo fissò con aria interrogativa.
 
- Lo vedo solo io o il museo sembra un enorme Frappuccino? -
 
Il fratello scoppiò a ridere, annuendo comprensivo, gli diede una pacca sulla spalla e lo trascinò giù dal marciapiede. Attraversarono la strada schivando i taxi e fecero il loro ingresso in biglietteria.
 
Jensen si guardò brevemente attorno e, individuato lo sportello che faceva al caso suo, si scusò con Jared.
 
- Devo fare una commissione per conto di Castiel, ci metto un attimo, mi aspetteresti qualche minuto? -
 
Jared, già intento a sfogliare un opuscolo con la mappa del museo, bofonchiò qualcosa che il fratello prese come un sì.
 
Il maggiore dei Winchester si presentò alla segretaria, chiarì il motivo della propria presenza e dopo pochi minuti d’attesa venne raggiunto da un distinto signore con cui confabulò brevemente, prima di porgergli la busta.
Dopo una stretta di mano ed un saluto si separarono e Jensen potè raggiungere il fratello.
 
- Chi era? - domandò curioso.
 
- Il direttore del museo, dovevo consegnargli una lettera da parte di Cass. Ha detto che possiamo farci stampare dei biglietti omaggio da quella ragazza laggiù. - disse, indicando con un cenno una graziosa brunetta oltre il banco della biglietteria, fasciata in un abitino blu dalla scollatura piuttosto generosa.
 
Jared voltò lo sguardo nella direzione suggerita da Jensen e ridacchiò malizioso.
 
- Tette e biglietti gratis. E’ la tua giornata fortunata, amico! - esclamò, avviandosi verso la biglietteria.
 
Recuperati anche i biglietti, presero l’ascensore fino alla sommità del museo ed emersero poco sotto la cupola del lucernario, per iniziare la lenta discesa che pian piano li avrebbe ricondotti al pianterreno. L’interno della galleria era, infatti, una continua balconata a spirale, che si dipanava senza interruzioni fino a terra grazie ad una dolce pendenza e trasformava la visita alla galleria in una sorta di rilassante “passeggiata lungo l’arte”, invitando alla conversazione.

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Conversazione che Jensen non poteva più rimandare.
 
Aveva già cazzeggiato anche troppo.
 
Era stato sulle spine per giorni, pensando e ripensando a come parlare al fratello della propria storia con Castiel. Si era perfino preparato un discorso, ma aveva accantonato l’idea abbastanza in fretta, catalogandola come stronzata, consapevole che al momento buono non avrebbe ricordato una singola parola, esattamente come gli capitava a scuola.
 
Già aveva fatto uno sforzo non indifferente per ammettere con se stesso di amare un uomo, ma il pensiero di dirlo a Jared lo atterriva.
Non certo perché si vergognasse dei propri sentimenti, o di Cass - per carità! - solo non voleva che la prendesse nel verso sbagliato.
 
Non voleva… deluderlo.
 
Non voleva… sì, ok, aveva paura di perdere suo fratello, va bene?
 
Stavano camminando affiancati, immersi in chiacchiere oziose sulle opere esposte, quando Jensen d’impulso l’afferrò per un braccio, facendolo voltare nella propria direzione.
 
- Jared, devo dirti una cosa. Ora. - dichiarò in tono grave, raccogliendo tutto il suo coraggio.
 
Lo sguardo interrogativo che l’altro gli restituì, lo spronò a continuare.
 
- Io… io credo di essere… anzi, no, io sono innamorato. - dichiarò solenne.
 
- Di una persona. - specificò in modo del tutto incoerente dopo una piccola pausa.
 
- O… Ok…? - mormorò Jared, stranito.
 
- Stiamo insieme. -
 
- Va bene…? - lo blandì l’altro, come se stesse parlando ad uno squilibrato.
 
- E’ Castiel. - ammise infine Jensen, in un soffio.
 
- Oh. Lo sapevo. - rispose l’altro, placido.
 
- Come sarebbe a dire, “lo sapevo”? -
 
- Jens, sono tuo fratello, ti conosco meglio di chiunque, non avrai davvero creduto che non me ne fossi accorto? -
 
- A… accorto? Ma che…? - chiese Jensen, mortificato nel proprio orgoglio di 007. Credeva di essere stato una maschera di compostezza, fino a quel momento…
 
- Guarda che lo so da Natale! -
 
- Natale? Come, da Natale? Natale?! Ma se non lo sapevo nemmeno io, a Natale! - tentò di ribattere con la forza della disperazione.
 
- Non è mica colpa mia se sei tonto… -
 
- Stai mentendo, dici così solo per darti un tono. -
 
Jared prese un lungo respiro.
 
- Jens, ascoltami, da quando hai conosciuto questo tizio, non fai altro che parlare di lui o di quello che fate assieme: Castiel di qua, Castiel di là, io e Castiel abbiamo visto quel film, ho mangiato messicano con Castiel… -
 
- Questo perché eravamo amici! -
 
- Appunto! Tu non hai amici. -
 
- Certo che ho degli amici! - replicò, offeso da quell’insinuazione.
 
- Invece no. Tu hai dei conoscenti. Persone che gravitano attorno a te ma che in sostanza, di te, non sanno nulla. - specificò Jared, serio - Non hai mai permesso a nessuno di far parte della tua vita in questo modo, nemmeno a Lisa e Ben. A lei non hai mai raccontato di papà, a Castiel ne hai parlato dopo quanto, tre minuti? -
 
- E’ stato un caso… circostanze fortuite… - farfugliò il fratello, rimuginando per la prima volta su che razza di impatto avesse avuto Castiel sulle sue barriere, fin dal primo istante.
 
- Se ti piace crederlo… comunque a Natale, da Ellen, non hai perso di vista il cellulare neanche per un minuto, proprio tu che lo dimentichi ovunque, e ogni volta che ti arrivava un sms sobbalzavi come un ladro colto sul fatto. - spiegò, piuttosto compiaciuto dal proprio spirito d’osservazione - E se tutto questo non mi avesse insospettito a sufficienza… per venire qui hai preso un aereo. Tu. Un aereo. Quando siamo a meno di cinque ore di macchina da Boston. Un aereo per accompagnare un … “amico” - e qui Jared mimò le virgolette con le mani - ad un colloquio di lavoro? Sul serio? Così insulti la mia intelligenza… -
 
Jensen, messo all’angolo dalla logica di Bei Capelli, capitolò.
 
La nave della dignità ormai aveva salpato gli ormeggi.
 
‘Dannato secchione.’
 
- Ok, va bene energumeno dall’intuito soprannaturale, hai vinto. Tu lo sapevi… - ammise esasperato - … Ma se lo sapevi, perché diavolo non me l’hai detto? - sbottò all’improvviso.
 
Jared sgranò tanto d’occhi, allibito da quell’accusa.
 
- Cosa? E cos’avrei dovuto dirti, scusa? Buon Natale fratellone, eccoti una bella sciarpa di Calvin Klein e - oh! - lo sai che probabilmente ti sei preso una cotta devastante per l’insegnante del tuo corso? -
 
- Non è una cotta. - mugugnò Jensen, a testa bassa - E’… una dannata cosa seria. - chiarì, piombando poi nel silenzio.
 
Jared gli posò una mano sulla spalla, chinando il viso all’altezza di quello del fratello per cercare il contatto visivo.
 
- Ehi… non è una cosa brutta, o di cui vergognarsi. Succede a tutti di perdere la testa, prima o poi, anche ad un macho come te… - mormorò dolcemente, sperando che le sue parole sortissero un qualche effetto sul suo imbarazzatissimo fratello, che si stava comportando più o meno come se avesse ucciso qualcuno e gli stesse rivelando dove aveva occultato il cadavere.
 
Tentò con un’altra tattica.
 
- Senti, e lui… ehm, lui ti ricambia? -
 
Jensen rialzò finalmente lo sguardo. E sorrise raggiante.
 
- Oh, sì. Lui riguardo ai sentimenti e a tutto quel genere di cose ha il tuo stesso identico atteggiamento, Geraldine. E’ idealista, romantico, totalmente a suo agio con le proprie emozioni e… tutte quelle cose lì… - affermò, allergico ai discorsi troppo melensi.
 
- E perché una persona del genere sprecherebbe il suo tempo con te? -
 
- Taci, Gigantor. - lo zittì Jensen anche se, sotto sotto, si domandava la stessa cosa - Piuttosto, Jay, mi stai dicendo che a te sta bene? - chiese senza nascondere una certa trepidazione.
 
- Ma certo che mi sta bene! Non si era ancora capito? Perché mi fai questa domanda? -
 
- Non fraintendermi, lo so che sei la persona più pacifica del pianeta e non hai mai avuto nulla contro i gay o chiunque altro, ma quando si va a toccare la famiglia la gente spesso reagisce in modi inaspettati. -
 
Jared a quel punto si accigliò.
 
- Ok, Jens, spalanca quelle tue stupide orecchie, perché lo dirò una volta sola: primo, io non sono la gente. Secondo: qualunque cosa, o chiunque ti renda tanto felice avrà la mia eterna gratitudine e tutta la mia solidarietà per il compito ingrato che si è accollato. - sentenziò con un risolino - Seriamente Jens, hai presente l’ambiente in cui lavoro? Credo di non aver più conosciuto una persona completamente etero dal 2007! Nella moda lavorano talmente tante persone gay, bisessuali o indecise che se avessi anche solo il minimo problema a riguardo, avrei cambiato mestiere da tempo. E poi lo so che non sei gay. -
 
- E come? -
 
- Diciamo che ne ho avuto conferma quando sei quasi caduto a faccia in giù sul bancone della biglietteria per sporgerti a guardare le tette della ragazza che ci stava stampando gli ingressi. -
 
- Ah. -
 
- Io non credo che a te piacciano gli uomini. Non ti sei innamorato di un uomo: come hai detto tu, ti sei innamorato di una persona. E questo Castiel sembra una persona davvero meravigliosa. -
 
Jensen adorava l’assoluta tolleranza e l’arguzia con cui suo fratello accettava e minimizzava anche le questioni potenzialmente più spinose. Ogni tanto si dimenticava di aver a che fare con Mister Empatia…
 
- Non ti spettinano nemmeno i tornado, eh? - commentò sorridendo.
 
- Lo sai. E poi andiamo, sei il mio fratellone, chiunque tu abbia scelto, per me va bene.
 
Jensen sorrise ancora e abbassò lo sguardo, ormai sembrava incapace di fare altro.
 
- Grazie Jay. -
 
- Allora, com’è? - chiese Jared dopo una breve pausa di silenzio.
 
Jensen si voltò a guardarlo, stupefatto, arrossendo un altro po’.

Non era da Jared indulgere in questi discorsi da spogliatoio, ma d’altra parte era stato così comprensivo… doveva cercare di andargli incontro a sua volta e soddisfare almeno in parte la sua curiosità.
 
- B-bè… non ti mentirò, all’inizio è stato strano, ma con un po’ di pazienza e parecchio lubrific-
 
Ma non fece in tempo a finire la frase perché Jared, con uno scatto fulmineo e uno strattone, gli aveva afferrato la testa con la mano sinistra e tappato la bocca con la destra.
 
- Intendevo fisicamente, idiota! Com’è lui, com’è fatto! Dio, Jens, non dire mai più ‘lubrificante’ in mia presenza o dovrai pagarmi l’analista. Il fatto che mi vada bene non implica necessariamente che debba conoscere tutti i particolari… -
 
- Ah. Ehm… scusa. - ridacchiò il fratello - Com’è fatto, dici? Bè… ha gli occhi blu. -
 
- Tutto qui? Occhi blu? -
 
- Dai Jay, mi sembra strano descrivertelo come farei con una ragazza! E poi lo vedrai tra poche ore, che t’importa? -
 
- Scusa, sai, ma sono davvero curioso di sapere che aspetto abbia l’uomo che ha fatto perdere la testa al più incallito Dongiovanni che abbia mai conosciuto! -
 
- Va bene, va bene… ma che ne so… è alto, poco meno di me… -
 
- Quindi è basso. - insinuò Jared con un ghigno.
 
- Ah, ah, Bigfoot. Guarda che sei tu che sei uno scherzo della natura. Io sono perfettamente nella norma, anzi, sono più alto della media! - blaterò Jensen, scatenando le risate del fratello che sapeva sempre come provocarlo, esattamente come quando erano bambini - Comunque, se proprio ci tieni a saperlo, è alto, ha i capelli neri, un culo fantastico e le più belle labbra che io abbia mai visto. - sciorinò con un certo orgoglio.
 
- Però… - commentò Jared con un fischio - Non ti fai mancare niente… sembra quasi troppo bello per essere vero! -
 
- Lo vedrai con i tuoi occhi questa sera, miscredente. - concluse Jensen, mettendo così un definitivo punto al discorso - Jay, ascolta, non ti ho portato qui solo per fare outing, che ne dici se proseguiamo con il giro? Anche perché ho fame, non vedo l’ora di andare a mangiare un paio dei celeberrimi hot dog di New York, e magari anche un bagel al pastrami. Uh, e anche dei cupcake! -
 
- Uhm, vedo che nemmeno “The Amazing professor Collins” è riuscito ad operare il miracolo sulla tua dieta dissennata… - sospirò Jared, rassegnato - Parli come uno a digiuno dal mese scorso, Jens! Non mangeremo quelle schifezze, adesso cerco una bella insalateria su internet e dopo andiamo a mangiare qualcosa di sano… - proclamò, iniziando a digitare sullo smartphone.
 
- Cos…? Insalateria? Quei posti dove ti fanno pagare per mangiare erba? Oh no, non mi avranno! - dichiarò Jensen strappandogli il cellulare di mano, allarmato come se il fratello stesse cercando di consegnarlo agli squadroni della morte - Piuttosto vado a brucare un’aiuola a Central Park! Jay si può sapere perché diavolo non mangi come tutte le persone normali? Che cosa ti hanno fatto di male i cheeseburger e i locali che li preparano? - chiese infine, esasperato.
 
- In quei posti c’è sempre la statua di un clown, lo sai. - ribattè l’altro, piuttosto reticente nel ricordare al fratello la propria fobia - E poi io quella roba non la mangio. « Il corpo umano e' un tempio e come tale va curato e rispettato, sempre.». - citò solenne.
 
- Ipocrita. -
 
- Guarda che è Ippocrate. -
 
- Guarda che dicevo a te. Ho visto una tua foto in aeroporto, scattata da un paparazzo. E avevi in mano un Toblerone. Lungo trenta centimetri. -
 
L’espressione di Jared sfumò in un attimo da Superiorità ad Allarme, passando quindi per Colpa e arrivando fino a Totale & Profondo Imbarazzo.
Abbassò il viso, nascondendosi dietro una cortina di capelli, come se fosse stato beccato a girare in aeroporto con in mano un vibratore.
Lungo trenta centimetri.
 
- Non… non era mio. Era per un amico. - si giustificò debolmente.
 
- Certo, dicono tutti così… - ghignò Jensen - Comunque non m’importa se il tuo ingombrante corpo è un tempio, per oggi consideralo un luna park. Stasera andremo al ristorante e potrai ordinare tutti i covoni di fieno che desideri, ma oggi pomeriggio si fa quel che dico io. E io dico hot dog. Punto. - concluse, prendendolo per un braccio ed iniziando a trascinarlo lungo il nastro bianco che si snodava per tutto il Guggenheim.


 
 
NDA: per tutte quelle che attendevano con ansia la comparsa di Jared nella storia, eccovelo, con tanto di chiome fluttuanti!
E alla mia Giud, Buon Compleanno... lo sai.
 

 
 
 
 
 

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Capitolo 24
*** IL DIAVOLO E' NEI DETTAGLI ***


IL DIAVOLO E' NEI DETTAGLI

Dimmi una cosa, amico mio. Danzi mai col diavolo nel pallido plenilunio?
Batman
 

 
 
Nel frattempo, a Wall Street, quartiere sede della borsa e delle più importanti case editrici…
 
Vetro e acciaio.
 
Un palazzo tanto elegante quanto anonimo riluceva nel sole, specchiandosi all’infinito nei palazzi vicini, altrettanto eleganti e altrettanto anonimi.
E davanti all’entrata di quel palazzo, un uomo con la cravatta storta e gli occhi blu pieni di dubbi se ne stava immobile con il naso all’aria, ad osservare i piani che si susseguivano tutti uguali uno dopo l’altro, in cerca di un segno. O di un’ispirazione.
Castiel era terrorizzato.
Insicuro, quando si trattava di decisioni che avevano grandi ripercussioni sulla sua vita, lo era sempre stato, ma stavolta era diverso.
Stavolta provava un senso d’inquietudine diverso dal solito eccitante fremito d’incertezza associato al prepotente desiderio di ottenere qualcosa, quella sensazione a cavallo tra il piacere dell’attesa e l’ansia che, una volta avuto ciò che si vuole, non sia come sperato.
Stavolta, l’atmosfera aveva un che di definitivo, di ineluttabile, era come se, varcando quella soglia, dovesse cambiare per sempre il proprio futuro.
Temeva che persino lo spostamento d’aria generato dall’apertura di quella porta avrebbe dato il via ad una sorta di “Butterfly Effect”, innescando una serie di eventi a catena che sarebbero culminati in un qualche clamoroso disastro.
 
Poi pensò a Jensen, e a quanto l’avrebbe preso in giro se solo si fosse azzardato a rivelargli quel genere di timori. E dopo averlo preso in giro, l’avrebbe afferrato saldamente per le spalle e sospinto verso quella porta, riempiendogli la testa di frasi d’incoraggiamento…
 
Si fece forza ed afferrò la maniglia, abbandonando il tiepido sole del pomeriggio ed entrando nell’atrio ombroso.
Venne subito accolto da una gentilissima e professionale centralinista che gli fornì in men che non si dica un badge-visitatore, garantendogli l’accesso all’ultimo piano dell’edificio.
Dopo un breve e solitario viaggio in ascensore, accompagnato solo da “Devil in Disguise” di Elvis, sbucò in un asettico atrio dominato dai toni del grigio che sembrava uscito da una rivista di design.
Gli uffici della HP erano estremamente sobri e lineari, ma di quella sobrietà che grida “lusso” dalla prima poltroncina ergonomica fino all’ultimo posacenere di cristallo.
Era tutto molto ampio, molto luminoso, molto neutro, e per qualche strana ragione metteva Castiel molto a disagio.
Perché là dentro non c’era la caotica confusione che si era immaginato?
 
Ok, l’idea che Castiel aveva di una casa editrice corrispondeva più o meno alla redazione di un grande quotidiano degli anni ’40, con ticchettio di macchine da scrivere, telescriventi e belle donne dalle acconciature elaborate che venivano a confessare ad impavidi cronisti di nera di aver assistito ad orribili delitti, ma era strano lo stesso che non ci fosse nessuno.
 
Si guardò intorno intimidito e un po’ spaesato, indeciso se accomodarsi o no su una delle poltrone di pelle che sembravano progettate apposta per rovinarti la giornata e la spina dorsale, indeciso se levarsi la giacca, indeciso se girare i tacchi e fuggire.
 
Una ragazza bionda, piuttosto bella ma dall’espressione vagamente inquietante lo trasse d’impiccio, pregandolo di seguirla e conducendolo lungo un corridoio su cui s’affacciavano varie porte chiuse, fino ad arrivare ad un piccolo open space arredato anch’esso sobriamente con una scrivania, un paio di poltrone e qualche pianta in vaso.
Oltre la postazione della segretaria c’era una porta che si apriva su un grande ufficio d’angolo, in cui Castiel venne introdotto dopo essere stato annunciato dalla ragazza, guardandosi in giro stupefatto, giusto per assicurarsi di essere ancora nello stesso palazzo.
 
Se il resto della casa editrice era stato progettato e arredato per suggerire un’atmosfera di efficienza e rigore, l’ufficio di Crowley era fatto per impressionare: imponenti mobili di legno scuro, enormi librerie a rivestire le pareti rosso sangue, stipate di tutte le edizioni possibili dei volumi pubblicati dalla HP, opere d’arte di pregio in elaborate cornici barocche, sontuose poltrone di cuoio invecchiato e al centro… il monolito nero [1], una mastodontica scrivania di mogano, strategicamente posizionata di spalle rispetto all’enorme finestrone panoramico che illuminava quello che altrimenti sarebbe stato un ambiente opprimente.
Dietro al gigantesco blocco di legno lucido si annidava Crowley, vestito interamente di nero esattamente come la prima e unica volta in cui Castiel l’aveva visto, praticamente un tutt’uno col resto dell’arredamento.
 
- Grazie Lilith. - mormorò placidamente - Per ora non ho più bisogno di te, se vuoi andare in pausa fai pure. -
 
La ragazza annuì silenziosamente e si ritrasse chiudendo la porta alle spalle di Castiel.
 
- Allora, signor Collins… Castiel… finalmente nel mio regno! - esordì, alzandosi e facendosi incontro ad uno spaesato prof per stringergli la mano, lasciando trapelare un certo compiacimento dal suo sorrisetto - Mi fa piacere che sia venuto in città così presto, lo prendo come un segnale di interesse da parte sua… -
 
- In realtà ho avuto un impegno personale che mi ha costretto a prendere delle ferie, così ho pensato di sfruttare il tempo che avevo ancora a disposizione per venire qui a sentire cos’ha da dirmi. - ribatté Castiel in tono asciutto, cercando di smorzare la sicurezza del suo interlocutore che, a dirla tutta, un po’ lo infastidiva.
 
Detestava essere dato per scontato e di sicuro quell’altezzoso inglese, scozzese, o cosa diavolo era, lo considerava come una transazione già conclusa.
 
Crowley non mostrò di aver interpretato il senso delle sue parole, o incassò la stoccata con estrema classe.
 
- Bè, qualunque sia il motivo che l’ha spinta fin qui, sono lieto che sia passato. - concluse, dirigendosi verso il mobile bar nell’angolo dell’ufficio - Posso offrirle qualcosa? Craig? Io non bevo altro. - chiese quindi, versando un paio di dita di whisky liscio e tendendo il bicchiere a Castiel, che declinò con un educato cenno del capo.
 
- No grazie, sono le tre del pomeriggio, per me è ancora un po’ presto… -
 
- Da qualche parte saranno pure le tre di notte, no? E’ questo l’importante… - sorrise Crowley, tornando dietro alla scrivania con il bicchiere e invitando Castiel ad accomodarsi.
 
Non appena si fu accomodato sulla poltrona di pelle che solo all’apparenza era comoda ma che anzi, lo costringeva a stare con la schiena rigida e le spalle contratte, Castiel si pentì di non aver accettato il bicchiere offertogli, almeno avrebbe avuto qualcosa con cui giocherellare invece di starsene lì con le mani sudate, a calcolare quanto ridicolmente larga fosse la scrivania che aveva di fronte e quanta distanza psicologica riuscisse ad instillare nel malcapitato che si trovasse dal lato sbagliato di quel pretenzioso pezzo d’arredamento.
 
‘Maledette tattiche da piani alti’ mugugnò tra sé, cercando di trovare una posizione rilassata ma decorosa su quell’infernale trappola di cuoio.
 
Crowley si sistemò altrettanto comodamente sulla propria poltrona, che aveva l’aria di essere soffice come una nuvola, intrecciando le mani sotto il mento e mantenendo un atteggiamento informale che sembrava urlare ‘Siamo tra amici, qui! Nessun colloquio, questa è solo una piacevole chiacchierata!’
 
- Dunque, Castiel, cercherò di farla breve, lei non mi sembra il tipo da giochetti perciò le dico subito come stanno le cose. La vogliamo. La vogliamo assolutamente per questo libro. Il suo stile sembra fatto apposta per la linea editoriale che intendiamo seguire con le pubblicazioni di suo fratello… sarà questione di DNA, non ne ho idea, ma è come se ci fosse una connessione tra il cervello di Balthazar e la sua mano. -
 
Castiel non voleva mostrarsi impressionato, ma un lieve rossore trovò comunque la strada delle sue gote, senza passare inosservato agli occhi del suo interlocutore, che si strinsero leggermente a scrutarlo, consapevoli di aver fatto breccia.
 
- La ringrazio, ma la trovo un’affermazione un po’ eccessiva… - si limitò a dire il professore, cercando di ridimensionare un discorso già troppo enfatico per i suoi gusti.
 
Era sempre stato uno con i piedi piantati ben saldi a terra, non si sarebbe fatto trascinare in un vortice di adulazione, lasciando che il proprio ego lisciato e vezzeggiato prendesse il sopravvento.
 
- Io non credo, e le garantisco che non sono uno che si spertica in complimenti. Le do un consiglio spassionato: accetti le lodi che le vengono fatte, Castiel, non appena il suo nome e la sua arte saranno sotto gli occhi del grande pubblico, dovrà farci l’abitudine. -
 
- … -
 
- Ora, se vogliamo passare ad argomenti un po’ più tecnici, mi piacerebbe illustrarle come si svolgerà il lavoro, se deciderà di unirsi alla nostra squadra. - continuò Crowley - Questo nuovo libro di Balthazar, potrebbe essere il primo di una lunga serie. Questo dipenderà dal suo successo ovviamente, pertanto voglio che la “posa della prima pietra” di questa collana, se mi passa l’allegoria, sia spettacolare. Pretenderò un livello altissimo da chiunque collabori con noi, dai grafici fino ad arrivare agli stampatori, quest’edizione dev’essere perfetta e non tollererò nulla di meno. In cambio, darò ad ognuna delle persone coinvolte una dose di fiducia e libertà che credo raramente si riscontrino nel nostro ambiente. Sto radunando un team di grandi professionisti, il meglio che sono riuscito a trovare, e non avrebbe senso fare una cosa del genere se poi non mi fidassi delle persone che ho scelto, le pare? - domandò, rivolto a Castiel.
 
Che dovette convenire con lui, pur controvoglia. Non sapeva perché, ma provava l’irresistibile impulso di contraddire quell’uomo, qualunque cosa dicesse.
 
- In effetti, la fiducia professionale è merce abbastanza rara. Tendenzialmente la gente assume dei professionisti e poi non ne segue mai i consigli, convinta di saperne sempre di più. - si trovò ad ammettere, suo malgrado, ricordando spiacevoli incidenti diplomatici con committenti piuttosto saccenti e sgradevoli.
 
- Esattamente. Ma io sono convinto che lei, come tutte le persone a cui ho intenzione di affiancarla, sappia perfettamente quello che fa. -
 
- Che tradotto significherebbe…? -
 
- Che tradotto in parole povere significherebbe che, una volta stabilito il piano complessivo dell’opera insieme a me, tutti voi collaboratori avrete massima libertà di scelta in quanto a contenuti, aspetti grafici, impaginazione, scelte stilistiche. Voglio che diventiate un unico organismo in grado di gestirsi autonomamente. -
 
- Sul serio? - chiese il professore, leggermente scettico.
 
- Non scherzo mai quando si tratta di lavoro. O di profitto. - rispose serissimo Crowley, terminando il suo whisky e poggiando il suo bicchiere sulla scrivania con un tonfo secco - Non sono arrivato ai vertici di un’azienda come questa facendo scelte sbagliate. Mi fido del mio istinto e so quando è il caso di rischiare e quando invece non lo è. Questo non vuol dire che lascerò un’intera equipe editoriale allo sbaraglio, non mi fraintenda. E’ ovvio che ci saranno dei controlli periodici, sia sull’avanzamento del lavoro che sulla sua effettiva qualità, ma a parte clamorose deviazioni dal percorso stabilito, che sono certo non avverranno, cercherò di limitare al massimo la mia ingerenza. Credo fermamente che una squadra, spronata da una tale dose di fiducia, possa rendere al massimo della motivazione. Mi rendo conto che è un azzardo ma spero vivamente di non sbagliarmi. -
 
- Bè, sembra fantastico… - commentò Castiel, conservando una traccia di dubbio nella voce.
 
- C’è solo un piccolo dettaglio… - aggiunse Crowley con noncuranza.
 
‘Eccolo qua, l’inghippo.’
 
- Non ho primogeniti da offrire in sacrificio, e la mia anima è già di proprietà di qualcun altro, se è quello che mi sta chiedendo… - scherzò, ma Crowley non diede segno d’aver capito la battuta e rimase impassibile, aspettando forse una risposta più coerente.
 
- Ehm, quale sarebbe? - sospirò Castiel, dopo un’imbarazzante pausa di silenzio.
 
- Dovrebbe trasferirsi qui per tutta la durata del contratto. -
 
Il professore credette di aver capito male.
 
- Cosa? -
 
- Castiel, non faccia quell’espressione da cucciolo abbandonato sull’autostrada, la prego. - mormorò con un leggerissimo accenno di scherno - Ora, se permette, vorrei spiegarle come funziona il mondo dell’editoria: è un ambiente molto competitivo e-
 
- Anche l’arte lo è, non mi tratti come uno sprovveduto. - lo interruppe Castiel, vagamente irritato da quella condiscendenza e insolitamente sulla difensiva.
 
- Oh. Ne sono certo, ma la differenza sostanziale fra il suo ambito e il mio sono le tempistiche. Il suo mondo è basato sulla contemplazione: mostre, critiche, pigri giri per musei alla ricerca di un’ispirazione, minuziosi ritocchi su opere già perfette. Il mio mondo è frenetico, spietato, bisogna essere sempre un passo avanti a tutti, non basta avere le idee, occorre presentarle prima di tutti gli altri, e nella veste migliore. E’ come un girone infernale da cui non si esce mai.
 
- Con questo cosa vorrebbe dire? -
 
- Voglio dire che, come probabilmente ben sa, realizzare un libro del genere, a metà tra un saggio e un libro d’arte, non è una passeggiata. Non si può semplicemente infilare un dipinto a caso sotto lo scanner. Va ponderato, eseguito, quindi fotografato, in un apposito studio e da professionisti, ci vuole la luce giusta per mantenere inalterati i contrasti cromatici ed evitare riflessi, e in fase di elaborazione digitale serve qualcuno – nello specifico, lei – che affianchi i grafici e aiuti a bilanciare i colori per mantenere la verosimiglianza con l’opera originale… -
 
- … -
 
- Quello che sto cercando di dirle è che lei ci serve qui. Non si può fare continuamente la spola tra Boston e New York trasportando avanti e indietro dipinti e illustrazioni, e non è certo un lavoro che possa essere affrontato via e-mail. Possono sorgere mille problemi durante la realizzazione di un libro, le assicuro che ne so qualcosa, e noi dobbiamo averla qui per poter far fronte a qualunque evenienza ci si presenti. Una modifica veloce, un ritocco, un suggerimento, un’idea… e poi voglio che lavori gomito a gomito con Balthazar. Come le ho detto prima, voglio una sinergia, non due autori che lavorano separatamente. Voglio che lei sia a stretto contatto con il team che ho intenzione di affiancarle, che sia presente ad ogni riunione di redazione, solo con il brainstorming collettivo possiamo sperare di raggiungere l’eccellenza, e con essa il profitto. -
 
- Sì ma-
 
- Castiel. Mi ascolti. Purtoppo nessuno di noi può permettersi di fare le cose per la gloria o per beneficenza: siamo qui per guadagnare, e pur non avendo la pressione di dover sfornare best sellers su vampiri sessualmente repressi per adolescenti in piena tempesta ormonale, ho comunque un consiglio d’amministrazione a cui render conto. Ho dei tempi da rispettare e degli obiettivi da raggiungere, qualunque sia il target di pubblico a cui si rivolge il mio prodotto. - chiarì - Mi rendo conto che la richiesta di un trasferimento non è una cosa da poco, ma dato che lei è un insegnante universitario potrebbe prendersi un anno sabbatico, no? Inoltre Balthazar mi ha detto che lei è single, per cui non dovrebbe avere ripercus-
 
- La situazione è cambiata. - lo bloccò Castiel. - Di recente. -
 
- Ah. - mormorò Crowley - Spero che questo non si trasformi in un problema. -
 
- Non lo so, ma potrebbe anche darsi. In ogni caso, non sarebbe che uno dei tanti che dovrei affrontare in vista di una permanenza tanto lunga. Dovrei anche trovarmi una casa. In fretta. Non posso certo passare un anno in albergo, e non è che New York sia famosa per la facilità con cui si rimedia un appartamento decente… -
 
- Di quello non si deve preoccupare. -
 
- In che senso? -
 
- In quanto socio fondatore e amministratore delegato della HP, ho pensato di diversificare il pacchetto d’investimenti dell’azienda, acquistando alcune proprietà immobiliari in varie zone della città. Dall’Upper East Side al Greenwich Village, la società è l’orgogliosa proprietaria di una decina di appartamenti di pregio. - rivelò Crowley con una certa soddisfazione - Sa come si dice, no? Location, location, location [2]… -
 
- Non vedo cosa c’entri tutto questo con il mio trasferimento. -
 
- Queste proprietà sono degli investimenti di un certo prestigio, che affittiamo per riprese cinematografiche o pubblicitarie, ma che utilizziamo anche per ospitare i nostri collaboratori esterni. Lo consideri un… un incentivo, una sorta di bonus. Posso farle avere un elenco dettagliato dei vari immobili dal nostro legale, quando andrà da lui per discutere delle questioni contrattuali. Può scegliere quello che preferisce e restarci come gradito ospite, con chiunque lei voglia, fino alla fine del progetto. -
 
- Cosa le fa pensare che si passerà a discutere di questioni contrattuali? - domandò Castiel, vagamente irritato da tanta ostentata sicurezza.
 
- Questo. - rispose l’inglese, allungando una mano verso Castiel e facendo scivolare sulla superficie lucida della scrivania un foglietto piegato in due. -
 
Castiel l’osservò intimorito per qualche istante, come se potesse aggredirlo da un momento all’altro, poi si decise a prenderlo e ad aprirlo.
E si ritrovò a fissare ad occhi sgranati un assegno che riportava una cifra tanto alta da poter essere definita solo come imbarazzante.
Rialzò uno sguardo incerto su Crowley, che lo fissava come un gatto fissa il topolino con cui sta giocando da mezz’ora.
 
- E’ uno scherzo? -
 
- Certo che no. Semplicemente, crediamo molto in questo progetto. -
 
- Sì ma… perché io? Perché proprio io? Ci saranno decine di artisti a New York disposti a farlo anche gratis, e lei mi ha appena detto che il guadagno e lo scopo primario della sua azienda. Quindi perché? -
 
- Marketing. - sintetizzò Crowley - Due fratelli così diversi ma pieni di talento che lavorano insieme, un pittore e uno scrittore, uniti in un progetto su un argomento tanto affascinante in una sorta di “family business”, interpretando uno il pensiero dell’altro. Faremo milioni. La gente adora queste cose… e la vostra foto, sul risvolto di copertina, farà il resto. Lei possiede un, seppur discutibile, scarmigliato sex appeal. Magari con un’aggiustatina al look… - osservò, squadrando il professore come se fosse un diamante grezzo pronto per essere tagliato e fatto brillare.

Castiel si raddrizzò involontariamente sulla sedia, rimuovendo invisibili pelucchi dalla giacca scura in un gesto automatico e tastando il nodo della cravatta, sentendosi inadeguato come non mai.
Che cavolo, era un artista, erano le sue opere a rappresentarlo, com’erano passati dal parlare dei suoi quadri a criticare il suo taglio di capelli?
 
- Sì, bè, queste sono cose ancora tutte da vedere. - balbettò - Non mi pare di aver ancora accettato. -
 
- No, purtroppo no. Non credevo che lei fosse un osso tanto duro… - ammise Crowley, più compiaciuto che irritato dalla reticenza del professore - Mi piace. Mi piace che non si faccia semplicemente allettare da un facile guadagno. Denota grande integrità professionale ed etica. Questo però non fa che aumentare il mio desiderio di averla in squadra, temo… -
 
- Un bell’impasse. - commentò Castiel, senza la minima intenzione di rendergli le cose semplici.

Crowley riflettè in silenzio per alcuni istanti, quindi parve cedere, si raddrizzò a sua volta sulla sedia ed emise una sorta di sospiro.
 
- Senta Castiel, ho come l’impressione che siamo partiti con il piede sbagliato noi due… -

Il professore si limitò ad annuire impercettibilmente, facendogli segno di continuare.
 
- Non so a cosa sia dovuto tutto il sospetto che sembra nutrire nei confronti di questo progetto, o dell’azienda ma-
 
- Forse perché sembra che questa abbia tutte le carte in regola per diventare la classica “offerta che non si può rifiutare”…? - lo interruppe Castiel.
 
Crowley rise di gusto.
 
- Non sono Don Corleone, Castiel, nessuno può costringerla a fare nulla o ad accettare la mia proposta se lei non ne vuole sapere. La prego però di pensarci bene, è una grossa, grossissima occasione, per entrambi. - disse quindi, serio.
 
Castiel tentennò.
 
- Io… non so, ho davvero bisogno di riflettere, soprattutto sulla questione del trasferimento… -
 
Dopo una breve riflessione, Crowley se ne uscì con un’altra proposta, col tono più conciliante che Castiel gli avesse sentito usare fino a quel momento.
 
- Senta, facciamo così: ora la faccio accompagnare dal legale dell’azienda, che le illustrerà nella maniera più esauriente possibile ogni aspetto del contratto che le vogliamo proporre, fino alla più piccola postilla, di modo che non possa esserci nemmeno il minimo fraintendimento. Mentre si trova lì, potrebbe dare un’occhiata ai fascicoli delle proprietà immobiliari a cui ho accennato prima, che ne pensa? Inoltre vorrei che tornasse qui domani, se possibile, per conoscere il resto dello staff, in modo da avere ben chiaro ogni aspetto di ciò che sta inspiegabilmente rifiutando… se dopo la riunione di domani sarà ancora fermo nei suoi propositi, giuro che non la importunerò più. - concluse.
 
- Lei non è uno abituato a ricevere un no come risposta, vero? -
 
- No. - sorrise Crowley - Ma le mie non sembrano delle richieste così irragionevoli, in fondo. -
 
Dopo aver meditato qualche istante, Castiel si trovò ad accettare, avendo davvero terminato tutte le scuse plausibili sia con se stesso che con l’insondabile uomo che aveva di fronte.

Che sprizzava soddisfazione da ogni poro, mentre sollevava il telefono per chiamare uno degli interni dell’ufficio.
 
- Tessa? Per cortesia, potrebbe venire nel mio ufficio un secondo? Dovrei affidarle un ospite. - specificò, prima di riattaccare.
 
Dopo un paio di minuti fece la sua comparsa una bellissima ragazza dal viso dolce e dai grandi e luminosi occhi chiari.
 
- Aveva bisogno di me, signor Crowley? -
 
- Sì, tesoro, dovresti accompagnare il signor Collins nell’ufficio di Knight. E’ già atteso. -
 
‘Già atteso?’
 
- Certamente. Se vuole seguirmi, mister Collins… - accennò con discrezione, invitando Castiel ad andarle dietro con un ampio gesto della mano.
 
Dopo essersi congedato da Crowley, con la promessa di ripresentarsi il giorno successivo, il professore venne condotto in un altro uffico, sul medesimo piano ma all’estremità opposta del palazzo rispetto a quello dell’amministratore della Hellhound.
 
L’ampia stanza aveva uno stile simile a quella che ospitava Crowley, giusto un po’ più… tetra.
La grande finestra era oscurata da pesanti tendaggi e ogni cosa emanava un fascino d’altri tempi, oltre ad un lieve sentore di stantio, come se millenni di polvere si fossero depositati sulle decine e decine di vecchi tomi di diritto che riempivano le librerie.
L’impressione generale era che qualcuno avesse strappato un’antica biblioteca da qualche vecchia residenza nobiliare inglese per poi materializzarla lì, in un asettico palazzo nel cuore della City.
 
Sembrava quasi di stare in una capsula del tempo, pensò Castiel, vagamente a disagio, osservando la lampada art deco che illuminava con una pozza di luce la scrivania del titolare dell’ufficio, che non aveva niente da invidiare al resto della stanza… anche lui, infatti, aveva l’aria di stare lì da un secolo, anno più anno meno.
 
‘Ok, Cass, appunti per il ritorno a Boston: buttare il dvd dell’Avvocato del Diavolo. Obsoleto.’
 
Definirlo un personaggio singolare sarebbe stato riduttivo, e Castiel potè constatarlo anche meglio quando quest’ultimo si alzò in piedi per riceverlo: alto, ben più che emaciato, quasi scheletrico in effetti, grande naso adunco e mento sfuggente, la pelle tirata sugli zigomi prominenti.
Vestito completamente di nero, sembrava il perfetto prototipo dell’impresario di pompe funebri, non fosse stato per il pacchianissimo anello che sfoggiava alla mano sinistra, che non avrebbe sfigurato al dito di un pappone della East Coast.
O di Balthazar.
 
Castiel non sapeva nemmeno se tendergli la mano, non pareva esattamente un tipo incline al contatto fisico, e l’altro confermò le sue impressioni limitandosi a salutarlo con un cortese cenno del capo e nulla più.
 
Dopo essersi presentato, Knight invitò Castiel a sedersi e dopo aver prelevato da uno schedario una cartellina che recava un’etichetta col suo nome, ne estrasse una spessa risma di fogli stampati.
Passò quindi l’ora successiva ad illustrare e chiarire al professore, con grande pazienza, ogni più piccolo dettaglio legale del contratto che intendevano offrirgli, proprio come aveva promesso Crowley, rivelando sorprendentemente di essere una persona molto più gradevole e affabile di quanto non apparisse ad una prima occhiata e arrivando persino a consigliargli un paio di locali in città dove pareva si mangiasse la miglior pizza di New York.
 
Fu però quando mostrò a Castiel i famigerati fascicoli sulle proprietà immobiliari che tutto cambiò.
 
Non fu infatti la prospettiva di una splendida carriera.
Né la fama o il prestigio.
Né l’esorbitante assegno che gli era stato offerto.
A spostare l’ago della bilancia dal lato newyorchese della questione, fu una casa.
 
Dopo aver visionato le foto di pretenziosi appartamenti zeppi di mobili elaborati che sarebbero piaciuti probabilmente solo alla regina Elisabetta e attici ultramoderni freddi e sterili come l’Antartide, Castiel arrivò alla scheda di un meraviglioso loft a Soho: caldo, accogliente, spazioso ma non ridicolmente grande, pavimenti in legno, muri di mattoni a vista in stile vecchia New York, luminosissimo grazie ai grandi finestroni tipici di quel genere di costruzione, perfetto per dipingere.
 
Doveva essere stato un vecchio magazzino o un laboratorio, all’origine.
 
E ora sarà la mia casa. La nostra, casa.’ pensò Castiel, vittima di un vero e proprio colpo di fulmine.
 
Nell’istante in cui aveva posato lo sguardo sulla prima foto, il suo cervello aveva preso autonomamente ad elaborare una serie di immagini che coinvolgevano lui e Jensen in scenette di vita casalinga, tanto vivide da sembrare reali.
 
E irrinunciabili.
 
In preda ad un delirio da romanzo rosa, immaginava già i loro cavalletti affiancati davanti alle finestre, i pomeriggi passati a dipingere e fare l’amore, senza fretta, senza lezioni a cui arrivare in ritardo o stupidi turni in caffetteria.
 
Immaginava pigre mattine domenicali passate a leggere il giornale e bere caffè ai lati opposti del grande divano.
 
Immaginava le loro famiglie riunite accanto al grande albero che avrebbero addobbato accanto al caminetto, a Natale.
 
Immaginava… un futuro.
 
Sarebbe stato meraviglioso passare un anno insieme in un ambiente culturalmente tanto stimolante, e senza la preoccupazione dell’affitto Jensen avrebbe finalmente potuto iscriversi alla scuola d’arte. E vedere Jared più spesso.
I soldi dell’assegno sarebbero bastati e avanzati per vivere più che tranquillamente, e se tutto fosse andato per il verso giusto avrebbero anche potuto pensare di stabilirsi definitivamente lì.
 
Ringraziò goffamente Knight, congedandosi in tutta fretta e pregandolo di tenere da parte il loft fino al giorno successivo, mentre un piano folle e ambizioso si andava delineando nel suo cervello sovraeccitato.
 
 Mentre tornava a piedi verso l’hotel, Castiel ne approfittò per chiamare il fratello.
 
- Balth, ciao, sono io, volevo i dettagli per stasera. -
 
- Ciao Cassy, hai già finito col tuo appuntamento da Crowley? Tutto a posto? -
 
- Sì sì, tutto ok, poi ti racconto. Dove ci incontriamo? -
 
- Fatevi trovare a Soho per le 20.30. -
 
Castiel si scribacchiò un appunto sulla mano.
 
- Ok, Soho, 20.30. Nome del ristorante? -
 
- Balthazar [3]. -
 
- Stai scherzando? Ceneremo con te al Balthazar? Non lo trovi ridondante? -
 
‘Per non dire irritante?’
 
- E’ un ottimo ristorante. E’ francese. - specificò il maggiore, come se la parola “francese” chiudesse definitivamente la questione.
 
- Motivo in più per non andarci, Balth… dai, non ho nessuna voglia di districarmi fra mini quiche, carotine glassate e porzioni da canarino in stile nouvelle cuisine, ti prego! -
 
Conoscendo alla perfezione la smodata passione del fratello per hamburger e carne rossa in generale, Balthazar non potè evitare di sorridere.
 
- Sono specializzati in carne alla griglia e patate fritte. Guarda che le hanno inventate i francesi, le patate fritte… -
 
- Saremo lì per le 20.30. -
 
- Ciao Cassy, a dopo… - lo salutò Balthazar tra le risate.
 
- Ah, dimenticavo, prenota per cinque, portiamo un’ospite! - disse Castiel all’ultimo momento.
 
 

 
 
Non fece ritorno al Plaza che nel tardo pomeriggio, cogliendo sul fatto Jensen che, in ginocchio sulla soffice moquette della suite, tentava con scarsi risultati di stipare un’enorme scatola di ciambelle glassate nel minibar della camera.
 
- Ciao Jens! - esordì, arrivandogli di proposito alle spalle e facendolo trasalire - Che cosa c’è lì dentro ? - domandò quindi con aria casuale.
 
- … Frutta. - rispose Jensen, arrossendo appena, pigiando la scatola nel piccolo frigo, chiudendo in fretta lo sportello e rendendosi immediatamente conto di aver dato la peggior risposta possibile.
 
Sarebbe stato più plausibile se avesse risposto cocaina.
 
- Ce ne occorre dell’altra? - chiese perfidamente Castiel, impassibile, accennando con lo sguardo all’enorme fruttiera di cristallo colma d’ogni ben di Dio che troneggiava sul tavolo all’ingresso.
 
‘Ecco. Appunto.’
 
- Credevo… che fosse… finta. - ribattè debolmente Jensen, assordato dal rumore delle proprie unghie che stridevano sugli specchi.
 
Castiel riusci in qualche modo a non scoppiare a ridere e portò entrambe le mani a massaggiarsi il viso, celando così il sorrisetto traditore che avrebbe rivelato al compagno quanto adorasse quel suo lato infantile.

E questo non doveva accadere, o avrebbe perso la sua adulta supremazia.
 
 - Piuttosto tu, che ci fai già qui? Credevo che saresti tornato molto più tardi… - chiese quindi Jensen, sviando il discorso e umettandosi le labbra, controllando con cautela che non vi fossero pezzetti di glassa residui ed evitando di aggiungere l’ovvio ‘Almeno non mi sarei fatto beccare come un fesso ad occultare la refurtiva…’.
 
- Non ho fatto anticamera. - si limitò a dire Castiel.
 
- Ok, ma cosa aspetti a dirmi com’è andata? Hai un’espressione strana, non riesco a capire se tu sia felice o no… non tenermi sulle spine! -
 
- Non scaldarti Jens, il colloquio presumo sia andato abbastanza bene, ma ancora non c’è stata una proposta concreta. Devo tornare là domani per conoscere il resto dello staff, allora saprò qualcosa di più. - mentì.
 
Jensen parve piuttosto deluso dalla cosa.
 
- Oh. Peccato. Speravo che stasera avremmo potuto festeggiare tutti insieme… - mormorò.
 
- Stai tranquillo, direi che per stasera avremo ben altro a cui pensare, anzi, sono felice che sia tutto rimandato a domani, così se ci sarà qualcosa da festeggiare lo faremo noi due da soli, voglio averti tutto per me, almeno per una sera. -
 
- Effettivamente non hai tutti i torti, stasera sarà già un manicomio sufficiente senza stare ad aggiungerci dei festeggiamenti. Che sono solo rimandati di ventiquattr’ore, non certo certo annullati, fattene una ragione. Mi sembra chiaro che se ti hanno chiesto di tornare è perché sono molto interessati. - sentenziò Jensen con convinzione.
 
‘Pure troppo…’ pensò Castiel, trepidante, levandosi giacca e cravatta ed accennando a sbottonarsi la camicia.
 
- Aspetta, non levartela! - lo bloccò Jensen, correndo in camera e facendo subito ritorno reggendo tra le mani un pacchetto lungo e stretto - Prima apri questo. - mormorò, porgendolo a Castiel.
 
Il professore osservò l’elegante confezione, chiaramente proveniente da una boutique del centro, con una certa curiosità.
 
- Cos’è? -
 
- Credi di avere l’esclusiva sui regali? - chiese Jensen, riferendosi chiaramente alla fiaschetta d’argento ricevuta in dono solo poche ore prima.
 
- No ma… quando l’hai presa? -
 
- Oggi. Dopo aver fatto merenda con Jared l’ho accomp-
 
- Merenda? - lo interruppe Castiel, sbuffando una risatina.
 
- Sì, ho fatto merenda col mio fratellino, perché? Che c’è di strano? - domandò ingenuamente Jensen, ignaro di aver peggiorato la situazione.
 
- No no… niente. - lo rassicurò il prof con un ghigno - E dimmi, le figurine ve le siete scambiate prima o dopo aver giocato a nascondino? -
 
- Ah, ah. Esilarante. Non costringermi a trascinarti in camera per un orecchio e a tapparti quella boccaccia, Collins. - ringhiò sommessamente Jensen.
 
- Di solito, quando mi trascini in camera, non è mai per un orecchio… e non parliamo di come mi tappi la boc-
 
- Cass! Vuoi finirla e aprire il pacchetto, santo cielo? - sbottò Jensen, vagamente esasperato.
 
Castiel ubbidì, diligente, ridacchiando sotto i baffi e strappando la carta lucida senza tante cerimonie. Aprì la confezione di cartoncino e ne estrasse una splendida cravatta di seta color fiordaliso, punteggiata da minuscoli motivi più scuri.
Se la fece scorrere tra le dita, apprezzandone la consistenza morbida e liscia, poi rialzò uno sguardo curioso su Jensen.
 
- Grazie Jens, è davvero molto bella, ma… come mai? Cioè, sai bene che non le indosso spesso… e soprattutto che non me le so mettere. - ammise.
 
- Ecco perché ci sono qui io. - mormorò Jensen sorridendo, prendendogli la striscia di seta dalle mani e passandogliela quindi attorno al collo, annodandola alla perfezione con gesti rapidi e precisi e facendo poi un passo indietro per ammirare il proprio operato.
 
- Come sospettavo, ti sta benissimo. - convenne soddisfatto.
 
- Sei molto gentile, ma ancora non mi hai risposto. Perché proprio una cravatta? -
 
Jensen abbassò lo sguardo, mentre le sue lentiggini iniziavano a spiccare sempre più.
 
- Oggi ho accompagnato Jared a comprarsi una camicia per stasera, mentre gironzolavo nel negozio l’ho vista… e ho pensato che dovessi averla, perché è dell’esatto colore dei tuoi occhi. - farfugliò in tono sempre meno udibile, vergognandosi a morte.
 
Jensen Winchester: gesti, non parole.
 
L’espressione curiosa di Castiel si addolcì, gli rialzò il viso con una mano e sfiorò le sue labbra, sussurrando un “grazie” che sottintendeva ben altro.
 
- Sono a tanto così dal diario segreto, vero? - mugugnò Jensen quando si staccarono, per nulla fiero della propria imminente trasformazione in adolescente emotivamente instabile, piantando uno sguardo accusatore su Castiel - Tu mi stai rammollendo. E’ tutta colpa tua. -
 
Il professore sorrise sornione e lasciò scivolare entrambe le proprie mani lungo la schiena di Jensen fino ad aggrapparsi saldamente al suo sedere, che iniziò ad esplorare con grande accuratezza.
 
- Non saprei, Winchester, “rammollito” non mi pare proprio la parola adatta… - sussurrò, continuando a palpeggiare tranquillo.
 
- Cass, credi forse di trovare delle scritte in braille sul mio culo? - domandò Jensen inarcando un sopracciglio.
 
- No, ma anche le trovassi non ne avrei bisogno, da quando ci sei tu non rischio più di diventare cieco… -
 
- Sei un pervertito. -
 
- Disse l’uomo con il kink per le cravatte. - bisbigliò perfidamente Castiel.
 
‘Beccato.’
 
Jensen non potè evitare di assumere un’espressione colpevole.
 
- Si… ehm… si nota molto? - chiese, impacciato, ormai consapevole dell’inutilità di un bluff.
 
- Giusto un po’. - sghignazzò Castiel - L’ho capito la sera dell’inaugurazione, quando mi hai visto pronto per uscire avevi una faccia… mi hai guardato con un’espressione che in genere riservi solo alle crostate! E anche alla mostra, ogni tanto ti beccavo ad osservarmi con un’aria che potrei definire solo come affamata… -
 
- E’ che… non ti avevo mai visto vestito così elegante. Stai… ehm, stai molto bene con la cravatta… e non riesco a non pensare ad un sacco di cose quando te la vedo addosso… - confessò Jensen, sempre più in imbarazzo.
 
- Oh. Davvero? E senti… - mormorò languido il prof afferrando l’indice del compagno e agganciandoselo al nodo della cravatta - … pensi di avere il tempo di illustrarmene qualcuna, prima di uscire, o devi fare di nuovo merenda? - lo provocò.
 
- Penso che potrei ritagliarmi un’oretta per erudirti sulla questione… oppure potrei semplicemente trascinarti in camera e tapparti quella boccaccia… - sogghignò Jensen, iniziando a tirare la cravatta come fosse un guinzaglio e portandosi dietro Castiel.


 
 
[1] Da “2001: Odissea nello spazio”, film di Kubrick del 1968
[2] Citazione della frase che lo stesso Crowley dice a Castiel nella 6X20, quando riesce ad “indurlo in tentazione” proponendogli di aprire il Purgatorio.
[3] Il Balthazar esiste davvero a New York, ed è un rinomato ristorante specializzato in ostriche e carne alla griglia.

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Capitolo 25
*** PARENTI DEMENTI ***



PARENTI DEMENTI

 

 

 

Castiel, mentre con Jensen attendeva l’arrivo di Jared sotto la pensilina del Plaza, si ritrovò in men che non si dica ad annaspare nelle vecchie e familiari sabbie mobili dell’insicurezza che, negli ultimi tempi, l’aveva apparentemente abbandonato.

In realtà, più che annaspare, era partito in quarta con una serie di ragionamenti sconclusionati in cui tragedie e faide familiari degne di Romeo e Giulietta andavano a sommarsi a scenari apocalittici da predizioni Maya.

 

‘Arriva. Adesso arriva. Stai calmo Castiel. In fondo è solo suo fratello. Il suo unico, amatissimo fratello. Oh, cazzo. Vabbè, però lo sa di voi, te l’ha detto Jensen che lo sa. Quindi il più è fatto. Lo sa, ma sarà d’accordo? E se fosse omofobo? Ma no, figurati… però non penserà mica che abbia circuito suo fratello? Magari crede che abbia approfittato di lui… E se fosse uno spocchioso esaltato, il classico bello senz’anima? E se fosse un decerebrato che pensa solo a pomparsi i bicipiti in palestra? E se non dovessi piacergli? E se non dovesse piacermi lui? E se i miei capelli non fossero abbastanza lucenti? E se ci odiassimo? Come faremmo? Dovremmo mentire entrambi, per forza, Jensen non lo sopporterebbe. Come faremmo per il Ringraziamento? Chissà che imbarazzo… Oddio… dovremo fare le vacanze di Natale separati, sarà orribile! ORRIBILE!’

 

Intento a passeggiare sul posto con l’aria angosciata e gli occhi vitrei, cincischiando di continuo la cravatta fiordaliso rimasta miracolosamente intonsa, aveva tutte questi dubbi - e pure parecchi altri - che aleggiavano chiari come il sole sul suo viso, mentre Jensen l’osservava intenerito ma anche divertito, un po' perché era da parecchio che non vedeva il lato adorabilmente paranoico di Castiel manifestarsi in tutta la sua potenza - e ammise con se stesso che un po’ gli era mancata l’ingenua confusione del suo sguardo - e poi perché se il professore avesse avuto la minima idea di quanto Jared fosse affettuoso e alla mano si sarebbe preso a sberle da solo per essersi agitato a quel modo.

Persino il portiere dell’hotel lo aveva notato e ridacchiava sotto i baffi.

 

- Cass. Cass, fermati. Ti vuoi calmare? - gli suggerì, avvicinandosi.

 

- Non credo di esserne in grado… - biascicò Castiel con aria melodrammatica, continuando a misurare a grandi passi l’area antistante l’hotel.

 

- Potresti almeno smettere consumare il marciapiede e di stropicciare quella povera cravatta? -

 

- No. E poi che t’importa della cravatta? In fondo hai già compiuto il suo dovere, no? Anzi, quasi quasi me la tolgo… - disse, cercando di sciogliere il nodo già pericolosamente allentato.

 

- Non osare! - intervenne Jensen, schiaffeggiandogli piano le mani e risistemando ogni cosa al suo posto, raddrizzando il bavero della giacca e lisciando il trench di Castiel come avrebbe fatto mamma gatta - Primo: questa cravatta non ha ancora neanche lontanamente esaurito la sua missione. Secondo: adoro vedertela addosso e quindi non te la toglierai. Terzo… e qui ti pregherei di non prenderla dal verso sbagliato… so che adori il tuo completo nero e giuro che stai benissimo con la camicia bianca, ma per evitare che al ristorante qualcuno ti scambi per un pinguino e ti ordini il piatto del giorno, suggerirei di conservare un tocco di colore sulla tua mise… -

 

Il professore si limitò a guardarlo malissimo, bofonchiando offeso, mentre contemporaneamente ed in perfetto orario un taxi si arrestava davanti all’albergo.

Castiel, sorpreso suo malgrado, osservò un bellissimo e altissimo uomo scendere dalla vettura con insolita grazia per uno della sua stazza, guardarsi attorno con un sinuoso scuotimento di capelli luccicanti ed infine illuminarsi nel vedere lui e Jensen.

 

‘Alla faccia del «fratellino»…’

 

Ricordando a Castiel l’inquietante immagine di uno squalo bianco in picchiata sulla preda - maledetto National Geographic! - Jared coprì in poche, lunghe falcate la distanza che li separava, sfoggiando la dentatura bianchissima in un enorme sorriso e puntando dritto su di lui.

 

La sorpresa del professore venne immediatamente soppiantata dal fatto che il gigante in questione gli era piombato addosso e l’aveva stritolato in un soffocante abbraccio da orso, e c’era mancato tanto così che non l’avesse sollevato da terra.

 

Tutto questo tra le risate convulse di Jensen, che si stava sorreggendo al muro per non collassare sul marciapiede.

 

Quando finalmente potè nuovamente respirare, Castiel non ebbe nemmeno il tempo di aprir bocca che una sorta di cucciolo festante alto due metri lo investì con un’entusiastica raffica di parole.

 

- Tu devi essere Cass! É davvero, davvero un piacere immenso conoscerti. Sai, sei proprio come ti immaginavo, una volta tanto Jensen non ha mentito su una delle sue conquiste! Amico, fattelo dire, tu sei il mio eroe e -

 

- Ehi, ehi! Io non ho mai mentito sulle mie innumerevoli conquiste! - intervenne Jensen, ferito nel proprio orgoglio di sciupafemmine, posandogli una mano sul braccio nel tentativo di strappare almeno in parte Castiel dalle sue grinfie.

 

- Zitto tu. Levati dai piedi… - lo rimbeccò il fratello, spingendolo da parte con una mano, un’enorme mano - … Sto parlando col mio amico Cass. - continuò serio, volgendo di nuovo un limpido sguardo verde su Castiel e facendogli l’occhiolino come un ragazzino.

 

Castiel lo adorò all’istante.

 

E in quel momento Jensen seppe di aver perso. Su tutta la linea.

Se quei due, separatamente, era più o meno in grado di gestirli, assieme sarebbero stati semplicemente insopportabili.

Era praticamente certo che si sarebbero coalizzati ai suoi danni su ogni fronte.

 

E questo lo rendeva felice come non mai.

 

Guardare suo fratello ridere di gusto, con una mano posata sulla spalla dell’uomo che amava, mentre quest’ultimo sorrideva timido, sbalordito da tanto calore, gli occhi blu accesi d’emozione, era una cosa che gli scaldava il cuore.

 

- Scusa Jay, perché mai sarebbe lui il tuo eroe? Non dovrebbe essere tuo fratello maggiore? - lo punzecchiò.

 

- Perchè lui è riuscito a far mettere la testa a posto al mio scapestrato fratello, impresa che personalmente ritengo epica. “Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità”. - sentenziò solennemente.

 

- Star Trek, seconda stagione? -

 

- Neil Armstrong, primo allunaggio. -

 

- E’ uguale. Nerd. Si tratta comunque di “là dove nessun uomo è mai giunto prima”. -

 

- Wowow, troppi dettagli, Jens! - rise Jared, fingendosi scandalizzato.

 

- Ma io intendevo… lo spazio… - specificò il più grande dei Winchester, mortificato, arrossendo un po’.

 

- Lo so, fesso! -

 

- Puttana! -

 

Castiel stava assistendo a quella sorta di ping pong del tutto affascinato, percepiva l’affetto tra quei due in ogni singolo insulto, invidiava quel genere di rapporto simbiotico e complice, e fu davvero felice di aver conosciuto Jared.

Anche se diametralmente opposto al fratello più o meno sotto ogni aspetto, era chiaramente una persona fantastica, semplice ed educata, inoltre sprizzava simpatia e vitalità da ogni poro.

 

E il merito di tutto questo andava in larga parte a Jensen, che l’aveva praticamente cresciuto e aveva vegliato su di lui per tutta la vita, badando che facesse i compiti, difendendolo dai bulli, curandolo quando si ammalava, preparandogli le sue untissime colazioni… un giorno sarebbe stato un papà meraviglioso, pensò, mentre una strana sensazione dolce e allo stesso tempo malinconica invadeva il suo cuore, morbida e calda come cioccolato fuso.

 

Ai piedi di un hotel extralusso di New York, immerso nella confusione caotica della città, tra il vociare di persone noncuranti, per la prima volta in vita sua Castiel desiderò un figlio.

 

Lo scalpiccio di minuscoli piedini, occhi verdi dalle lunghe ciglia nere e un faccino paffuto cosparso di lentiggini si fusero in un’unica, struggente e quanto mai irrealistica immagine mentre, come un ebete, guardava Jensen che ancora battibeccava con suo fratello.

 

Non avrebbe mai cessato di stupirsi di quanto Jensen avesse sgretolato ogni sua convinzione.

Due anni con Victoria e non avevano preso nemmeno un criceto, due mesi con Jensen e si ritrovava a sognare che la scienza trovasse il modo di mescolare il proprio DNA al suo…

 

- Ehm, scusate ragazzi, odio interrompere queste commoventi manifestazioni d’affetto, ma ci aspettano altrove… - azzardò timidamente, riavendosi dalle sua fantasie e schiarendosi la voce.

 

Jared si riscosse come se fosse stato beccato a rubare, tornando immediatamente in modalità Piccolo Lord e scusandosi per lo sfoggio di amore fraterno a cui Castiel era stato obbligato ad assistere.

Jensen si limitò a continuare a sghignazzare sommessamente.

Fermarono un altro taxi, fornirono rapidamente la destinazione all’autista e subito i due fratelli si reimmersero nella conversazione.

 

Castiel, frattanto, non riusciva a staccare gli occhi da Jared: a parte le spalle larghe e il colore degli occhi che era più o meno lo stesso (anche se quello del minore era “sporcato” d’azzurro), l’altro Winchester aveva folti capelli castano ramati, labbra sottili ben diverse da quelle di Jensen e occhi obliqui da felino.
Solo un’attento osservatore, qualcuno che conoscesse davvero bene Jensen, avrebbe potuto notare nel fratello, come in uno specchio, l’identico gesticolare, lo sguardo aperto e sincero, quel modo incredibile di ridere, con la testa rovesciata all’indietro, la camminata rilassata di chi sa di possedere una bellezza fuori dal comune…
Perso nelle proprie elucubrazioni, quasi non si accorse del taxi che rallentava, ed infine si arrestava, nei pressi di una serie vetrine decorate da tende rosse su cui spiccava il nome Balthazar.


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Scesero dall’auto a pochi metri dal ristorante, e Castiel notò subito la slanciata figura del fratello che passaggiava avanti e indietro di fronte all’entrata, con le mani in tasca. Indossava degli stranamente sobri, per quanto aderenti, jeans scuri, un’elegante giacca di velluto nero e… un’imbarazzante, fuori luogo, attillatissima t-shirt colorata con uno scollo a V abissale.

Sospirò.

Balthazar sembrava sempre l’inizio di una pessima barzelletta: aveva l’innato snobismo di un francese, la parlata altezzosa ed enfatica di un inglese e il gusto per l’abbigliamento di un tedesco. Dopo cinque pinte di birra.

 

Camminando un paio di passi avanti ai suoi due ospiti e sorridendo di fronte all’immagine didascalica del fratello sotto al suo nome scritto a caratteri cubitali, si diresse verso il re del cattivo gusto che, riconosciutolo, gli andò incontro a sua volta, stringendolo in un abbraccio con tanto di pacca sulle spalle, approfittando di quel contatto ravvicinato per sussurrargli all’orecchio.

 

- Cassy, sono colpito da quest’entusiasmo per la tua svolta omo, ma due così non ti sembrano un po’ difficili da gestire? Voglio dire, due così metterebbero in difficoltà persino me… e io una volta ho avuto un ménage a dodici. Stai mettendo su un allevamento di manzi? -

 

- Quello è il fratello di Jensen, idiota… - sibilò Castiel, pentendosi istantaneamente di aver organizzato quella cena.

 

- Ah. - commentò il biondo a voce alta, sciogliendosi dall’abbraccio e squadrando i due fratelli sopraggiunti nel frattempo con aria critica - E cosa vi davano da mangiare, da piccoli? No perché non è normale che siate entrambi così-

 

- Allora Balth, Jensen lo conosci già. - lo interruppe Castiel con noncuranza - E questo invece è suo fratello, Jared… - spiegò, indicando con un cenno il sorridente gigante che tese amichevolmente la mano - … detto anche Bei Capelli… - specificò con voce appena udibile e un sogghigno complice rivolto solo a Balthazar.

 

- Bei Cap…? Oh. Oh Cassy, piccolo, perverso, bastardo Cassy… lui lo sa? - mormorò a bassa voce il fratello, stringendo cortesemente la mano che gli era stata offerta e trattenendo a stento una risata, gli occhi luccicanti di malevolo divertimento, mentre Jared e Jensen si guardavano con aria confusa, tagliati fuori dal criptico scambio di informazioni tra i due.

 

- No. E’ all’oscuro di tutto. - replicò Castiel, orgoglioso - E a proposito di Gabe, dov’è? -

 

- Se lo conosco, e purtroppo lo conosco, sarà al bar del ristorante da almeno mezz’ora intento a bere uno di quegli intrugli zuccherosi che, probabilmente, nessuno ordina più dal 1986. A proposito, prima che diano il nostro tavolo a qualcun altro sarebbe meglio accomodarci, che dite gentiluomini, si va? - chiese, accennando all’entrata del locale.

 

Mentre facevano il loro ingresso nel ristorante, Jensen osservava Castiel cercando di capire se fosse impazzito, mentre Jared gli rivolgeva con lo sguardo una muta domanda a cui non era in grado di dare risposta.

Muovendosi in direzione del bar dove, come predetto da Balthazar, stazionava un biondino alle prese con un coloratissimo cocktail decorato da ombrellini e frammenti d’ogni frutto conosciuto, Castiel e i due Winchester non riuscirono a restare immuni all’innegabile fascino anni ’20 del locale: specchi a perdita d’occhio circondati da massicce cornici di legno scuro, tavolini da bistrot, divanetti in pelle e una scenografica parete interamente rivestita di prestigiose etichette di vino contribuivano a rendere l’ambiente allo stesso tempo raffinato e intimo.

 

Mentre Jared e Jensen, rimasti indietro con Balthazar, si guardavano intorno ammirati, Castiel giunto al bancone del bar posò la mano sulla spalla del biondino solitario, facendolo voltare giusto mentre stava per ingoiare una ciliegina al maraschino pescata da quella sorta di boccia per i pesci rossi che racchiudeva il suo cocktail.

Senza posare il bicchiere, Gabe si limitò ad accogliere il fratello con un gran sorriso ed un “Ehi Bro!”, scrutando curioso Balthazar che, alle sue spalle, zigzagava tra i tavoli seguito da altri due ragazzi, puntando verso di loro.

Quando finalmente il maggiore dei Collins li raggiunse e si scostò, rivelando l’origine di quella che, fino ad un secondo prima, era solo una massa di capelli setosi che faceva capolino da dietro la sua testa, per poco Gabriel non si fece un piercing al naso con l’ombrellino del cocktail, visto che gli sfuggì di mano il bicchiere, afferrato al volo da Castiel.

 

Impallidì leggermente, per poi assumere un’impressionante tonalità melanzana.

 

- Ossignore, Bei Capel… - mormorò, per poi interrompersi spontaneamente e rimanere a guardare Jared a bocca spalancata senza più dire una parola, appollaiato sul suo sgabello come un pappagallino un po’ fatto, mentre Castiel e Balthazar bisbigliavano divertiti tra loro.

 

- Allora non gliel’avevi detto davvero! - sghignazzò il maggiore.

 

- E perdermi questo? Stai scherzando? -

 

- Fino ad oggi ho sottovalutato la tua vena sadica, Cassy, sono davvero, davvero ammirato! Guardalo… no, dico, guardalo! - mormorò sottovoce, accennando al fratello catatonico.

 

La voce esitante di Jensen interruppe l’idillio tra i due fratelli.

 

- Ehm, scusate… qualcuno può procedere con le presentazioni, per cortesia? - domandò, scambiando sguardi confusi con Jared, ancora più spiazzato di lui dalla reazione di Gabriel.

 

Castiel si riscosse come da un sogno, riacquistando l’abituale educazione ma conservando la traccia d’un ghigno malvagio che non sfuggì al compagno.

 

- Oh. Sì. Scusate. Gabe, lui è Jensen, il mio ragazzo. - disse Castiel, tradendo un infantile orgoglio nel poterlo affermare per la prima volta e sospingendo Gabriel giù dallo sgabello in direzione del suddetto ragazzo - E lui invece è suo fratello Jared. Ragazzi, lui è mio fratello Gabriel. -

 

Jensen, tendendogli la mano, si ritrovò per la seconda volta a constatare quanto Castiel non somigliasse ai propri fratelli.
Gabriel aveva lisci capelli color miele, penetranti occhi ambrati, un’espressione furba che rivedeva anche in Balthazar e… bè, era decisamente più basso degli altri due, come potè notare quando l’ebbe finalmente di fronte.

 

- Felice di conoscerti, Jensen-suo-ragazzo. Accidenti, vedo che mio fratello, nei suoi quadri, non ha fatto assolutamente nulla per migliorarti… chiamami Gabe, comunque. - disse  Gabriel con aria strafottente, l’imbarazzante gaffe di poco prima già archiviata, serrando la mano che l’altro gli porgeva in una stretta decisa. Pure troppo.

 

Sorprendente capacità di ripresa’, valutò il maggiore dei Winchester, probabilmente frutto di una posizione lavorativa che gli richiedeva di mantenere un’inossidabile aplomb anche di fronte ad un consiglio d’amministrazione inferocito o ad un crollo della borsa.

 

O forse era solo faccia da schiaffi.

 

Quello che Gabriel non aveva in altezza, chiaramente, lo compensava in sicurezza e sfrontatezza, notò ancora Jensen, mentre l’altro tentava di sbriciolargli uno degli arti superiori in uno sfoggio di testosterone, osservandolo contemporaneamente come se cercasse di catalogarlo.

 

- Piacere, Gabe-fratello-di-Cass, chiamami pure Jens. Vedo che Castiel non ha esagerato neppure nel descrivere te… - ribatté ironicamente, aumentando a sua volta la stretta, giusto per sottolineare che se voleva combattere sul piano del sarcasmo, aveva trovato pane per i suoi denti.

 

Gabriel lo squadrò per un attimo, spiazzato, poi un largo sorriso soddisfatto gli illuminò il volto mentre lasciava andare la sua mano strizzandogli l’occhio prima di fronteggiare Jared, che ancora si stava guardando attorno spaesato, ergendosi in tutto il suo metro e settantadue ed osservandolo da un dislivello di almeno venti centimetri ad occhi sgranati, la testa inclinata nel tipico atteggiamento di Castiel come se stesse ammirando un qualche animale esotico o un’opera d’arte.

 

- La bellezza scorre potente nella tua famiglia, Luke [1] … - mormorò Gabe trasognato.

 

- Cosa? - domandarono in coro i due Winchester.

 

- Cosa. - ripetè Gabriel, rendendosi conto di aver pensato ad alta voce.

 

- Che hai detto? - chiese ancora Jared.

 

- Che… che l’altezza, è una caratteristica della vostra famiglia. - farfugliò il biondino, porgendogli la mano e salvandosi in corner, mentre Balthazar non aveva ancora smesso di ridere, con grande disappunto di Castiel che non poteva fare lo stesso.

 

 - Ciao. Io… io sono il fratello di Cassy. Sono Gabe. Sono onorato. Sono un tuo fan. - mormorò, emozionato come una tredicenne di fronte a Justin Bieber.

 

‘Sei un cretino.’ pensò Castiel, sospirando e alzando gli occhi al cielo, anche se una parte di lui poteva capirlo, rammentando le reazioni inconsulte avute di fronte a Jensen all’inizio della loro storia.

 

Jared gli strinse la mano e lo salutò affabilmente, anche se con un atteggiamento decisamente più guardingo di quello adottato nel salutare Castiel.

L’istinto di conservazione, evidentemente era una caratteristica propria di tutti i Winchester.

 

- Posso farti una domanda personale? - esordì a quel punto Gabriel, senza aver nemmeno terminato di stringergli la mano, con grande costernazione da parte del fratello minore.

‘Dio fai che non gli chieda se è bisessuale, se gli piace essere ricoperto di miele, o peggio…’

- O… ok… - rispose educatamente Jared, tentennando appena.


- Come mai hai un cognome diverso da quello di tuo fratello? Voglio dire, Padalecki non è esattamente il tipico cognome d’arte… Winchester non andava bene? -

Jared scambiò un breve sguardo con Jensen, che gli diede il via libera con un cenno del capo.

 

- No, no… andava benissimo, ma non volevo che quel cognome fosse riconducibile a me. O a Jens. Sintetizzando al massimo, la nostra famiglia è stata toccata negli anni da alcune vicende travagliate e piuttosto dolorose, che preferiremmo restassero private. Vista la tendenza dei paparazzi e delle riviste di gossip a dare il tormento ai personaggi pubblici e alle loro famiglie, ho preferito evitare che qualcuno trovasse ed importunasse mio fratello o i nostri amici e che buttassero in piazza gli affari nostri, così d’accordo col mio agente ho cambiato legalmente cognome. Ne ho scelto uno di famiglia, quello della nostra bisnonna polacca, così se qualcuno dovesse scavare sulle mie origini non ci sarebbero problemi. - chiarì - In effetti non è una storia molto interessante, nulla di trascendentale o particolarmente intrigante… - aggiunse, stringendosi nelle spalle, come se con le proprie rivelazioni potesse aver deluso le aspettative di qualcuno.

 

Gabriel pendeva dalle sue labbra completamente rapito, sotto gli occhi increduli di Castiel e Balthazar, come se quest’ultima informazione avesse aggiunto una nuova dimensione al mito di Bei Capelli.

 

- Wow. - commentò - Sei… come un’agente segreto. Come uno del programma Protezione Testimoni… è una cosa così affascinante… -

 

Jared si agitò un po’ sul posto, impacciato, senza sapere cosa dire di fronte a tanta palese ed inquietante ammirazione, vagando con lo sguardo in cerca d’aiuto, a questo punto da parte di chiunque.

Aiuto che arrivò da Castiel, particolarmente sensibile al discorso “fratelli molesti”.


- Ehm, ragazzi, che ne dite se ci accomodassimo? - propose, spezzando l’atmosfera d’imbarazzo che si era venuta a creare - Non so voi ma io ho una fame da lupi! Tu no Gabe? - proseguì, agguantando Gabriel per un gomito e indirizzandolo verso la sala.

 

L’eterogeneo gruppetto migrò quindi dal bancone del bar al tavolo che era stato loro riservato, mentre mezzo ristorante si voltava nella loro direzione.

 

Castiel iniziò a tastarsi nervosamente il viso e ad esaminare il trench, per controllare di non avere qualcosa fuori posto o una gigantesca macchia di cui non si era accorto, tra le risate di Balthazar.

 

- Che c’è? - chiese irritato, facendo salire di tono le risate del fratello.

 

- Oh, Cassy… sei talmente ingenuo! - sghignazzò.

 

- Ma che diavolo hanno da guardare? -

 

- Direi che di roba da guardare ce n’è parecchia, fratellino. - spiegò il maggiore, accomodandosi in un separé seguito a ruota dagli altri - Siamo tutti piuttosto belli, bè, a parte Gabe, tutti piuttosto eleganti, cioè… a parte Gabe, e tutti piuttosto alti…-

 

- … A parte Gabe. - concluse Gabriel, riservandogli un’occhiata per nulla divertita - Ah, ah, ah. Davvero Balth, sei uno spasso, dovresti cambiare mestiere. Uh, a proposito, hanno chiamato dall’ufficio oggetti smarriti, qualcuno ha ritrovato il tuo senso dell’umorismo… dicono che è come nuovo. -

 

- Ehi, non è mica colpa mia se sei alto come un nano da giardino. -

 

- Non costringermi a dire dove te lo potresti mettere, il nano da giardino… Gordon. - ribattè Gabriel, scandendo a voce altissima l’ultima parola, ben sapendo quanto il fratello detestasse essere scambiato per l’irascibile chef londinese ed importunato dai cacciatori di autografi.

 

Balthazar non fece in tempo a mettere insieme una risposta tagliente, anticipato da Castiel.

 

- Ragazzi, che ne direste di smetterla? Abbiamo ospiti, non so se l’avete notato. Gabe, non fare caso a Balth, non sa quello che dice e ha bevuto troppo Chardonnay prima di venire qui. Quanto a te… - mormorò tra i denti, rivolto al fratello maggiore, rifilandogli uno scappellotto sulla nuca tra le risate di Jensen - … zitto. -

 

I due smisero immediatamente di battibeccare, scambiandosi un’occhiata improvvisamente complice.

 

- Balth, hai sentito? Il cucciolo ha alzato la cresta… - disse Gabriel con aria divertita.

 

- Vorrà farsi bello col suo fidanzato, forse… - commentò distrattamente Balthazar osservandosi le unghie, come se il diretto interessato non fosse presente.

 

- Ok, ora il cucciolo, oltre alla cresta, alza anche le mani se non la smettete immediatamente. - ringhiò Castiel sottovoce, pentendosi per la milionesima volta in un quarto d’ora di aver organizzato quella cena e alzando su Jensen uno sguardo implorante che diceva solo “Portami via da qui”, mentre Jared cercava di ridere il più sommessamente possibile nascosto dietro al menu.

 

- Sei il solito guastafeste, Cassy, stavamo solo giocando… - specificò Gabriel - Comunque, vedo che Bei… cioè, Jared, sta già esaminando il menu, forse sarebbe il caso di ordinare. - propose, notando una cameriera in fondo alla sala che occhieggiava il loro tavolo con aria impaziente.

 

- Sì, ti prego, prima che vi uccida. -

 

- Allora, che prendete ragazzi? E tu, cucciolo? Se non sbaglio, Dalì diceva che il suo animale preferito era il filetto di sogliola no? Dovresti seguire l’esempio dei grandi maestri Cassy… - lo provocò Balthazar, vendicativo, sfruttando la marea di cazzate che conosceva su ogni artista mai esistito.

 

- Grazie, ma preferisco il filetto di manzo. Alto tre dita e al sangue. Un po’ come finirai tu a breve se non chiudi quella bocca... - lo gelò Castiel, le cui orecchie stavano iniziando a prendere colore, segno inequivocabile di esplosione imminente.

 

- Balth, ho come l’impressione che il senso dell’umorismo all’ufficio oggetti smarriti non sia il tuo… - commentò Gabriel, mentre l’altro annuiva con aria grave.

 

Jensen rivolse ad entrambi uno sguardo carico di rimprovero, intimando loro silenziosamente di lasciar stare Castiel, prima che quest’ultimo venisse incarcerato per fratricidio plurimo.


Un conto era il suo battersela alla pari con Jared, ma guardare il prof in balia di quei due era un po’ come vedere il piccolo Nemo e la sua pinnetta atrofica circondato dagli squali…

 

- Va bene gente, passando ad altro, che ne dite se ordiniamo una magnum di champagne per festeggiare il successo del colloquio di Cassy? - suggerì Balthazar, intercettando l’occhiataccia e cambiando repentinamente argomento, garantendosi in tal modo una seconda occhiata assassina da parte di Castiel ed una inquisitoria da parte di Jensen, che riportò poi lo sguardo sul professore, osservandolo con sospetto da sotto le ciglia.

 

‘Dannazione, ma che diavolo gli ha detto Crowley?’ imprecò dentro di sé Castiel.

 

- Hem, no… no, Balth, ancora non c’è nulla di definito, devi aver capito male. - balbettò Castiel, chiaramente in difficoltà - Devo tornare da voi domani per un secondo incontro con lo staff, anzi, credevo che saresti stato presente anche tu… -

 

Balthazar dimostrò genuina sorpresa.

 

- Uhm, no, non ne so niente, Crowley non mi ha detto nulla… sì, credo proprio di aver capito male. Forse dovrei iniziare ad ascoltare le persone, quando mi parlano… certo, se  avessero qualcosa d’interessante da dire sarebbe splendido e non mi annoierei così tanto, ma non si può pretendere troppo… - sospirò, altezzoso.

 

- In ogni caso siamo qui per conoscerci e passare una bella serata, non certo per parlare di me e del mio noioso colloquio. - aggiunse Castiel, rivolgendosi poi allo spilungone alla propria destra - Jared, come stanno andando i casting per le sfilate? Ti tratterrai molto in città? -

 

- Stanno andando piuttosto bene, grazie. E’ un po’ stressante correre tutto il giorno di qua e di là in metro col proprio book sottobraccio, ma è il rovescio della medaglia di questo mestiere. Credo che mi fermerò ancora per una settimana ad occhio e croce, il mio agente vuole che faccia un provino per il pilot di un telefilm, ma non sono particolarmente convinto del soggetto, inoltre non sono sicuro di volermi buttare nella recitazione, non credo di avere il talento necessario… - si schermì Jared.

 

- Oh, se hai anche solo la metà del talento che tuo fratello possiede nel raccontare balle, avrai una brillante carriera davanti a te! - rise Castiel, rimediando una gomitata nella costole da parte di Jensen.

 

- Di che soggetto si tratta? - s’intromise  Balthazar.

 

- Bah, da quel poco che ho capito è la storia di due cacciatori di mostri, due fratelli codipendenti che vanno in giro ad accoltellare e bruciare creature soprannaturali… detto fra noi, mi sembra una scemenza, non credo che una cosa simile possa andare oltre la prima stagione, ma tant’è, l’agenzia ci tiene e andrò comunque a far presenza. -

 

- In effetti Jay, per il tuo esordio nel campo della recitazione, opterei per qualcosa di un po’ più impegnato, giusto per non fare la figura del modello che viene scritturato solo per il suo bel faccino... - consigliò Jensen in tono lievemente paternalistico, accendendo in Jared uno sguardo malevolo.


- Hai ragione Jens, anche se non è nemmeno lontanamente umiliante come recitare in una soap opera… - affermò, con un’accenno di derisione nella voce che non sfuggì a Castiel, che gli rivolse uno sguardo palesemente smarrito.

 

- Oh, Cass, non mi dire. Non dirmi che non te l’ha detto… - ridacchiò Jared, senza riuscire a trattenersi, le spalle che tremavano leggermente.

 

Castiel, così come Gabriel e Balthazar, si voltò lentamente ad osservare Jensen, che nel frattempo si era chiuso in un altero riserbo, anche se un certo rossore si stava rapidamente facendo strada risalendo dal colletto della sua camicia in direzione del viso.

 

- Jens, vuoi condividere con la classe? - lo provocò, usando l’autoritario tono da prof che in genere sul compagno sortiva un certo effetto.

 

- In effetti, no. - rispose l’altro a denti stretti e occhi bassi, contemplando la forchetta che aveva tra le mani come fosse un manufatto alieno.

 

Castiel, intuendo quanto succosa potesse essere l’informazione custodita da Jared, non mollò la presa, cambiando semplicemente bersaglio.

 

- Jared. - disse con voce carezzevole, facendo gli occhi dolci - Jared, Jared, Jared, mio nuovo, fantastico amico. Splendida, intelligente creatura, che ne diresti di raccontare a zio Cass l’oscuro segreto di tuo fratello? Zio Cass te ne sarebbe infinitamente riconoscente e-

 

- Ah, no! - intervenne Jensen - Se qualcuno deve raccontare questa… questa cosa, lo farò io. Lui esagererebbe di sicuro! - continuò, promettendo con lo sguardo al fratello una dipartita lunga e dolorosa - In realtà non c’è nessun segreto, si tratta di una sciocchezza, uno scivolone di poco conto. Ero giovane… e inesperto… erano soldi facili… - esitò, le guance ormai imporporate dall’imbarazzo.

 

- Cassy, il tuo ragazzo si prostituiva. - sintetizzò Balthazar, impassibile.

 

- Ma… ma non è vero! - balbettò Jensen, arrossendo ancora di più, mentre Jared si stava facendo venire un embolo a furia di trattenere le risate.

 

- Uh, quindi spacciavi? - dedusse Gabriel, scuotendo la testa - Cattivo Winchester, cattivo... -

 

- Non spacciavo né tantomeno facevo il gigolo! - sbraitò Jensen, cercando comunque di contenersi per non far voltare l’intero ristorante - Facevo le soap, va bene? Facevo le soap! - ammise, esasperato.

Sull’intera tavolata calò un silenzio surreale che durò un minuto buono, mentre tutti tranne Jensen si scambiavano sguardi gravi, carichi di disapprovazione.

Poi gli angoli della bocca di ognuno di loro tremolarono sempre più, finendo poi per scoppiare a ridere sguaiatamente praticamente all’unisono, con gran disappunto della malcapitata vittima, che osservava risentita il proprio ragazzo battere i pugni sul tavolo sghignazzando fino alle lacrime e il proprio fratello ululare appoggiato allo schienale della panca.


Quando Castiel, dopo un bel pezzo, smise di ridere e riprese fiato, chiese ulteriori spiegazioni ad un offesissimo Jensen, che però dopo un po’ di pressione cedette, più che altro per evitare altre speculazioni ai propri danni.

 

- E’ successo quando siamo andati a vivere da Ellen, io al tempo avevo ventitre anni, ok? Un sabato pomeriggio io e Jared stavamo mangiando un boccone in un fast food, perché allora il mio prestante fratello non aveva ancora paura dei clown… - aggiunse, perfidamente - … E un talent scout di un’agenzia ci ha notati. Ha proposto a me la carriera televisiva e a Jay di fare il modello, vista la sua altezza, così ci siamo buttati in questa cosa un po’ senza pensare. Come ti ho raccontato tempo fa - disse rivolto a Castiel - stavo cercando di mantenere entrambi senza pesare sulle spalle di Ellen, e quella mi sembrò una strada veloce… il problema fu che mi presero come personaggio occasionale in una soap per la tv via cavo. Io avrei voluto lavorare in una serie culto come Star Treck, non quella schifezza dove mi truccavano come una sgualdrina… ho girato qualche episodio, giusto per mettere da parte un po’ di soldi, poi me ne sono andato perché mi vergognavo da morire a dire battute tanto insulse e girare scene così improbabili. Dopo sono andato a fare il meccanico, ed era mille volte meglio. Bah, comunque non ero tagliato per la recitazione. - tagliò corto.

 

- E dimmi, Jens, d’ora in poi come ti dobbiamo chiamare? Sebastian? Felipe? Ramon?... Jolanda? - ridacchiò ancora Castiel, senza riuscire a darsi un freno.

 

- Guarda che era una produzione americana. Il mio personaggio si chiamava Eric Brady [2], e tu me la pagherai Cass… - promise - E anche tu. - sentenziò, ringhiando in direzione del fratello e lanciandogli un grissino che gli si incastrò fra i capelli - Vi soffocherò nel sonno. Entrambi. -

Prima che potesse passare al lancio di oggetti più pericolosi come le posate, la cameriera si materializzò al loro tavolo per prendere le ordinazioni, approfittando della pausa tra le risate.

Quando pochi minuti dopo il cibo, accompagnato da un’abbondante quantità di vino e birra, fece la sua comparsa, l’atmosfera era diventata ormai ben più che informale.

Le giacche erano state relegate in guardaroba, le maniche delle camice arrotolate, le cravatte allentate e i discorsi avevano preso la piega allegra e spensierata che Castiel aveva sognato per quella serata, nonostante un inizio un po’ burrascoso.
 

Dopo una mezz’ora poi, ebbe la certezza di essere finito in una puntata di “Ai confini della realtà”, osservando sconcertato Balthazar e Jared che dissertavano su quanto, effettivamente, potesse essere aderente una maglietta senza che lasciasse intravedere troppo i piercing ai capezzoli, mentre Jensen elogiava le qualità delle crostate farcite con la frutta in pezzi a Gabriel, che lo ascoltava concentrato, tutto questo dopo aver proposto a Jared di prestare il proprio volto per una campagnia pubblicitaria per la sua azienda.

 

Quando le pance furono piene, i bicchieri vuoti e la conversazione iniziò a scemare, Castiel chiese il conto ad un cameriere di passaggio, che si ripresentò dopo pochi istanti porgendogli la fattura, sottratta al volo da Balthazar con una mossa da prestigiatore.

- Balth, molla il conto, ci penso io. -

- Non penso proprio. -

 

- Ci tengo a pagare io, Gabe ha fatto il diavolo a quattro per ospitarmi al Plaza, lascia almeno che vi offra la cena!

 

- Appunto. A Gabe l’hotel, a me la cena. - sentenziò lapidario il maggiore estraendo dal portafogli una black card di titanio, confermando in tal modo che la mitica Carta Centurion non era solo una leggenda urbana e consegnandola al cameriere che la fissò con una reverenza degna del Santo Graal, prima di eclissarsi verso la cassa col prezioso rettangolino tra le mani.

- Perché continuate a comportarvi in questo modo? Come ve lo devo dire che sono perfettamente in grado di gestire i miei soldi e la mia vita? Credevo che a questo punto fosse ormai evidente… - disse Castiel, scocciato, accennando a Jensen.

- Non conta che tu sia diventato grande, Cassy. - intervenne Gabriel, in tono insolitamente mite - Per me e Balth resterai sempre un moccioso. Un moccioso in trench, ma pur sempre un moccioso. -
 

Probabilmente, l’uscita di Gabe aveva un intento affettuoso ed era un modo contorto per dire “ Non importa se sei cresciuto, per i tuoi fratelloni sarai sempre il piccolo di casa, da accudire e proteggere”, ma l’ego di Castiel, messo più volte alla prova durante la serata, interpretò la cosa più come “Sei un inetto che non sa badare a se stesso”.

 

Irritato, diede uno strattone a Jensen sotto il tavolo e l’altro, capita l’antifona, propose di andare a recuperare le giacche al guardaroba, abbandonando Jared al proprio destino.

Oh bè, in fondo era grande e grosso, poteva resistere da solo con quei due per qualche minuto, pensò, sperando che Balth e Gabe rosicchiassero solo le ossa e gli lasciassero almeno dei resti da seppellire.
 

Una volta riappropriatisi di trench e giacca, Castiel si appoggiò alla parete del breve corridoio, emettendo un lungo sospiro.

 

Jensen si avvicinò.

 

- Tutto ok? -

 

- Benvenuti al Circo Barnum… solo per oggi, l’uomo che sfidava il diabete e l’umana pazienza in coppia con Pacchianoman, in un numero senza precedenti… - sospirò ancora, rassegnato - Ora sai che non esageravo, su di loro. -

- Dai, non sono così male in fondo, solo un po’ invadenti. - commentò - E inopportuni. E dispotici. - aggiunse, rendendosi conto che quei due erano francamente dei disgraziati.

 

- Non pensarci, Cass… - mormorò comprensivo, appoggiando la fronte su quella del professore e facendo scorrere tra le mani il bavero del trench - Pensa a questo… - sussurrò, baciandogli la punta del naso - … a questo … - proseguì, sfiorando con baci delicati le palpebre chiuse - … e a questo… - concluse, arrivando alle labbra e accarezzandole con le proprie fino a farle schiudere, permettendo così alla propria lingua di lambire con dolcezza quella di Castiel, che mugolò di piacere, rilassandosi sotto le mani che lo cingevano.

 

- A-ehm, Cassy, hai un Winchester sulla faccia. - osservò una voce petulante, alle spalle di Jensen.

- Balth, che diavolo vuoi? - ringhiò Castiel, sporgendo la testa oltre la spalla del compagno e fulminando il fratello con lo sguardo.

 

- In effetti, volevo riprendermi la giacca, possibilmente senza dover scavalcare i vostri corpi avvinghiati nell’idillio dell’amore… -


Castiel socchiuse gli occhi, lottando con il prepotente desiderio di rompergli il naso.


- Dio, essere te dev’essere proprio un lavoro a tempo pieno… - commentò sarcastico, prendendo Jensen per una manica e cominciando a trascinarlo fuori dal locale.

 

- La perfezione richiede pratica costante! - urlò loro dietro Balthazar, proseguendo per il guardaroba con un sorrisino sornione stampato sul volto.
 

Quando infine uscirono dal ristorante, miracolosamente tutti illesi, ognuno di loro aveva rimediato qualcosa: Jared un nuovo contratto pubblicitario, Balthazar l’accesso Vip garantito alle sfilate della moda uomo, Jensen una fornitura illimitata di dolciumi e Gabriel una nuova cavia umana per i prodotti dell’azienda.

 
Castiel aveva rimediato un fegato delle dimensioni dell’Illinois.

 

Quando, dopo aver salutato tre fratelli un po’ brilli, si accasciò sul sedile del taxi reclinando il capo all’indietro e massaggiandosi le palpebre, Jensen si preoccupò.

 

- Cass? Ehi, tutto a posto?

 

- Sì, è stata solo una lunga, lunga giornata. E un’ancor più lunga cena… Dio, mi sembra di aver passato dieci ore in quel ristorante… -

 

- Sei ancora nervoso, vero? Pensa che a me la serata è volata… e sinceramente, non credevo che sarebbe andata così bene… -

 

- Bene? Dici sul serio? -

 

- Bè, considerando che nessuno è deceduto per morte violenta, possiamo considerare la serata come un successo… -

 

- Uhm, se la metti su questo piano, hai ragione. - convenne Castiel.

 

- E poi Gabriel ha promesso di mandarmi un sacco di roba da assaggiare, ci tiene molto al parere dell’uomo comune! - annunciò entusiasta, cercando di cambiare discorso.

 

- Il tuo appetito e la tua insana passione per i dolci non hanno nulla di comune, Jens. E quei due prima o poi mi faranno impazzire. - mormorò stancamente.

 

- Bè, quello è il compito primario di un fratello maggiore… il dramma è che tu ne hai due. - ribattè solidale.

 

- Già. Jared, invece, è fantastico. Sei molto fortunato… - disse piano Castiel, aggrappandosi al suo braccio e appoggiando la testa sulla sua spalla, sul punto di addormentarsi.

 

- Sì. - sorrise Jensen, appoggiando la testa sulla sua - Sono molto fortunato. -




[1] Dalla frase di Obi Wan Kenobi "La forza scorre potente nella tua famiglia" nel Ritorno dello Jedi.
[2] Eric Brady era davvero il personaggio interpretato da un giovanissimo Jensen Ackles nella soap Days of Our Lives

NDA: visto che avete sopportato stoicamente il capitolo precedente (vi siete guadagnate il paradiso), ho pensato di bilanciare dando il via libera alla demenza... che dio mi perdoni.
E grazie per l'ennesima volta a tutte le persone che ancora leggono questo delirio <3

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Capitolo 26
*** THE J-FACTOR ***


THE J-FACTOR
 
 
Quando il mattino seguente Castiel battè ripetutamente le palpebre, svegliato dalla luce che filtrava dalle tende, trovò un paio d’occhi verdi che lo fissavano dal cuscino accanto al proprio.
 
- Buongiorno… - biascicò, ancora non del tutto lucido - Lo sai che, mhhhhhh… per quanto tu sia carino appena sveglio, è inquietante aprire gli occhi e vedere che mi fissi a quel modo, Cullen? -
 
- Guarda che la colpa è tua, mi ha svegliato il tuo cellulare. Balthazar ha chiamato un migliaio di volte ma tu andavi avanti imperterrito a russare, così alla fine l’ho impostato su silenzioso, solo che non sono più riuscito a riaddormentarmi. - spiegò, guadagnandosi un’occhiata piena di riconoscenza da parte del professore.
 
Riprendere conoscenza e sentire come prima cosa i fastidiosi chiacchiericci del fratello non era decisamente contemplata fra le cose che amava di prima mattina. Al contrario dello stropicciato ammasso di lentiggini a pochi centimetri da lui.
 
- E comunque ti stavo fissando per assicurarmi che fossi vivo, prof, quando dormi così profondamente quasi non respiri più… sorgi e splendi, Collins, oggi è il gran giorno no? Colloquio decisivo. - scandì solenne, osservando incuriosito l'espressione impassibile del compagno - Insomma Cass, non sei nemmeno un po’ nervoso? Pensavo che ti saresti svegliato all’alba in preda al panico… - mormorò Jensen, spostandogli una ciocca di capelli dal viso.
 
- Stranamente no… - rispose il prof, stiracchiandosi e omettendo i motivi reconditi che stavano dietro alla propria inusuale calma - Non sono per niente eccitato… -
 
- No? - ghignò Jensen, alludendo all’evidente rigonfiamento del lenzuolo sotto cui era sdraiato Castiel, che stava chiaramente augurando una buona giornata ad entrambi - E io che credevo fossi felice di vedermi… - mormorò, allungando una mano sotto le coperte e accarezzandolo con delicatezza.
 
- Cretino. Io sono sempre… mhhh… sempre felice di vederti. - mugolò Castiel, afferrando la mano di Jensen e allontanandola da sé di qualche centimetro, per guardarlo negli occhi - Ehi. Che succede, Jens? E’ New York, questa camera o che altro? Sbaglio o da quando siamo qui sei particolarmente su di giri? -
 
- E’ colpa tua. Hai innescato la bomba sull’aereo, ora ne paghi le conseguenze. - rispose convinto, come se quella potesse davvero essere una motivazione plausibile.
 
- Certo. Colpa mia. Quindi ora cosa dovrei fare, chiamare gli artificieri? - domandò Castiel, soffocando una risata.
 
- Non è il caso di arrivare a tanto, basterai tu… filo rosso o filo blu? - chiese Jensen, portando le mani dietro la propria schiena con un sogghigno.
 
- Eh? - commentò Castiel, smarrito, prima di afferrare il gioco e rispondere condiscendente - Filo rosso. -
 
- Boom. - esclamò enfaticamente Jensen - Dai Cass, lo sanno tutti che il filo rosso è quello che fa saltare in aria tutta la baracca. E’ sempre “blu” la risposta giusta… - proseguì, mostrando al professore la cravatta fiordaliso che stava nascondendo e facendosela scorrere tra le mani, tendendola all’improvviso con uno scatto secco e un’espressione che lasciava poco spazio all’immaginazione.
 
Castiel deglutì.

- Jens? Che vuoi…? - farfugliò mentre osservava il compagno avvicinarsi con la cravatta tra le mani - Oh, no. Io… no no. -
 
- Chiudi gli occhi e pensa all’Inghilterra [1]… - ghignò Jensen.
 
Il suo sorriso trionfante, prima che i propri occhi venissero coperti dalla striscia di seta, fu l’ultima cosa che Castiel vide nella mezz’ora successiva.
 
Rotolando sul letto sfatto, tra le lenzuola sudate, Castiel si raggomitolò tra le braccia di Jensen, pigro e soddisfatto, mentre l’altro gli passava distrattamente le dita tra i capelli.
 
- Jens…? -
 
- Mh? -
 
- Non so quanto tu abbia pagato quella cravatta, ma sono indubbiamente i soldi meglio spesi degli ultimi dieci anni… - mormorò Castiel, con una risatina.
 
Jensen sorrise, stringendoselo addosso.
 
- Fortuna che il mio è un colloquio serio e non un provino per un posto da stripper, con tutti i segni di morsi che mi hai lasciato sul sedere avrei fatto una figuraccia tremenda… -
 
- Scherzi? Per gli spogliarellisti morsi e succhiotti sono come lettere di raccomandazione! Ti avrebbero assunto in cinque minuti. - replicò Jensen con un ghigno.
 
- Non dopo avermi visto in azione, te l’assicuro. Oltre ad essere leggiadro come un macigno, sono anche il ritratto della scoordinazione… fortuna che so dipingere, se no morirei di fame! -
 
- Sarà, ma a me prima non sembravi molto scoordinato… - sussurrò maliziosamente Jensen - Bè, vorrà dire che per Natale ti regalerò un bel palo da lap-dance da mettere nello studio, così potrai perfezionare la tua tecnica. Io, naturalmente, guarderò per correggerti nei movimenti… -
 
- Il tuo altruismo mi commuove. -
 
- E’ un dono. - ribattè Jensen, serafico.
 
- Piuttosto… - esitò quindi il professore, tracciando lentamente col dito il profilo dei suoi addominali - … non è che nel tuo kit del Piccolo Cacciatore di Taglie per caso ti sono avanzate delle manette, vero? -
 
Jensen si scostò di qualche centimetro, per poterlo guardare negli occhi e capire se stesse scherzando o meno.
 
Non sembrava scherzare.
 
- Oddio, ho creato un mostro… - commentò incredulo, ridendo.
 
- Bè, non sembra che tutto ciò ti riempia di dispiacere, sai? -
 
- Vedremo Cass, vedremo. Se ti comporterai bene… anzi, male… - promise, sornione, per poi passare ad argomenti più prosaici - Ascolta, non so a te, ma a me tutto questo movimento ha messo una gran fame, che ne diresti di fare colazione? -
 
- Confesso di avere fame anch’io… - mormorò il professore appallottolandosi un altro po’ fra le lenzuola e su Jensen - … ma l’idea di uscire mi atterrisce. Non potremmo restarcene qua e mangiare la… hem… fruttache hai messo nel minibar ieri pomeriggio? - chiese, per nulla allettato all’idea di buttar giù ciambelle fredde e presumibilmente spiaccicate, vista la foga con cui Jensen le aveva spinte nel piccolo frigo, ma ancora meno entusiasta all’idea di abbandonare l’ovattata atmosfera del loro paradiso privato.
 
- Prof, non so se tu ne sia a conoscenza, ma negli hotel in genere esiste una cosa conosciuta come “servizio in camera” e sono ragionevolmente convinto che in questa bettola ne abbiano uno ottimo. - lo prese in giro Jensen, sciogliendosi dal suo abbraccio ed alzandosi, alla ricerca di uno dei depliant del Plaza, trascinandosi dietro il lenzuolo e avvolgendovisi alla bell’e meglio.
 
- Oh, Jens, lo so che esiste il servizio in camera, ma credevo fosse quello che avevo mi avevi appena fatto… - ribattè Castiel in tono suggestivo - E molla quel lenzuolo, tanto lì sotto non c’è niente che non abbia già visto. O leccato. - ridacchiò, mentre Jensen lasciava scivolare sul pavimento il morbido cotone che si era drappeggiato addosso, sorridendo strafottente.
 
- Ecco qua! - commentò entusiasta, dopo aver estratto un cartoncino plastificato da una cartelletta posata sul tavolo - Praticamente possono farci avere qualsiasi cosa in quindici minuti. Dio, adoro questi posti! Mentre io ordino controlla che voleva Balthazar, prima che piombi qui perché non l’hai richiamato. - suggerì a Castiel, che si mise a sedere sul letto per prendere il proprio cellulare dal comodino, continuando a seguire con lo sguardo Jensen che vagava nudo per la camera, leggiucchiando il menù con l’aria di un bambino la mattina di Natale.

Mentre constatava sgomento di avere sul display tredici chiamate non risposte, cinque messaggi in segreteria e due coloriti sms pieni di parolacce e faccine incazzose, non riuscì ad impedirsi di sorridere, ascoltando Jensen parlare col room service.

- Sì, buongiorno, vorrei ordinare la colazione in camera. Suite 999, esatto. Dunque, per cominciare vorremmo uova alla Benedict con salsa olandese e spinaci, poi del salmone affumicato… bacon, parecchio caffè, spremuta d’arancia… uhm, dei pancake, qualche brownie, se ne avete anche della marmellata… come? Sì, sì, lo so che è una matrimoniale… sì, infatti siamo in due… sì, gliel’assicuro. Senta, facciamo così: smetta di scrivere e ci porti tutto quello che avete. Ok, venti minuti massimo, perfetto. Grazie a lei. - mormorò, posando il telefono e tornando verso il letto.

- Uhm, Jens, sarà meglio che ci rendiamo presentabili per quando arriverà la colazione, credo che tu abbia già sconvolto abbastanza il poveretto che ti ha risposto. Fatti la doccia, io intanto chiamo Balth. - suggerì Castiel, accingendosi controvoglia a fare quella benedetta telefonata mentre Jensen si dileguava in bagno.
 
Balthazar rispose al primo squillo.

- Cassy! Alla buon’ora! Avevi lasciato il cellulare nell’altra ala del castello? Quanto mai sarà grande quella suite? -
 
- Ciao Balth, scusa, io stavo… ero… cioè… - farfugliò Castiel, incapace di trovare una scusa convincente.
 
- Oh… non mi dire. - ridacchiò Balthazar dopo una breve pausa - Ginnastica mattutina col tuo stallone? E dire che ti ho sempre immaginato come uno da missionario il venerdì sera! Dopo la cena di ieri ti sto davvero rivalutando, sai? -
 
- Balth, che vuoi? - tagliò corto Castiel, sostituendo l’imbarazzo con l’irritazione.
 
- Volevo avvisarti che stamattina presto ho sentito Crowley al telefono. Deve partire per Detroit assieme a Knight per una questione imprevista e ha anticipato l’incontro di oggi alle dodici e trenta. Ce la fai ad esserci? -
 
Castiel controllò l’ora. Erano solo le nove e venti, aveva tutto il tempo.
 
- Sì, certo che ce la faccio. Ma… tredici chiamate solo per dirmi questo, Balth? Non bastava un messaggio in segreteria? - chiese.
 
- Non potevo esser certo che avresti controllato la casella vocale, e poi so come vai in catalessi quando dormi, cercavo solo di essere sicuro che ti arrivasse il messaggio. -
 
- E scusa, non potevi chiamare il Plaza e farti passare la camera? -
 
- Ci ho provato! Ma quell’incompetente di un concierge era bizzarramente convinto che tu e Jensen foste dei principi sauditi… o dei violoncellisti bulgari… non ho ben capito… comunque si è categoricamente rifiutato di passarmi il vostro interno, accusandomi di essere un paparazzo. Così ho chiesto che mi passasse il direttore dell’hotel e quello… quell’idiota mi ha sbattuto il telefono in faccia! A me! Puoi crederci? - spiegò Balthazar, al colmo dell’indignazione.
 
Castiel poteva eccome, e dovette ricacciare indietro la risata che gli era nata in gola nell’immaginare il fratello, sdegnato, che veniva liquidato da un impiegato se possibile più snob di lui.

- Dai Balth, adesso sono qui, lascia perdere. C’è altro che volevi dirmi? -
 
- In effetti sì. Ti andrebbe se ci vedessimo un po’ prima dell’incontro? Vorrei parlarti. -

- Ok, va bene… - accettò Castiel, intuendo una trappola - … ma perché? In fondo abbiamo parlato per ore giusto ieri. -

- Sì, ma volevo parlarti da solo. - specificò il maggiore - Non credere che mi sia scordato della telefonata che mi hai fatto la scorsa settimana, Cassy. La tua non era semplice agitazione, eri in preda al panico. Vero panico. E ora sei qui tranquillo e felice come nulla fosse successo, mangiando costate e limonando col tuo ragazzo. Credo di meritare una spiegazione, no? Non m’importa se non vuoi dirlo a Gabe, prometto che con lui starò zitto, ma a me hai sempre raccontato tutto. -

- Grazie tante, da bambino mi torturavi finché non confessavo! - ribattè Castiel, tentando di smorzare il tono serio del fratello.

- Dettagli. Me lo devi Cassy, se sei finito in un guaio voglio saperlo. - continuò serio Balthazar.

Castiel si arrese.
 
- Non sono nei guai, non più, almeno, per ora fatti bastare questo. Va bene per mezzogiorno? -

- Sì, vediamoci nel bar all’angolo dell’isolato dove si trova l’HP. Si chiama Libertine. -
 
‘Figuriamoci…’
 
- Lo troverò. A dopo. - concluse, chiudendo la chiamata giusto in tempo per veder sbucare Jensen dal bagno, avvolto nell’accappatoio, e per sentir bussare alla porta.

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La prima cosa che Castiel vide, entrando nel piccolo caffè in Gold Street, fu la testa bionda del fratello china su un libro, seduto ad un tavolo un po’ appartato.
Lo raggiunse in fretta, vagamente sulle spine, e si accomodò sulla poltroncina di fronte alla sua.
 
Dopo un rapido saluto senza troppi convenevoli e ordinati un paio di espressi, Balthazar andò subito al punto, anzi, ai punti.
 
- Bene Cassy, visto che non ci sente nessuno, prima di tutto volevo dirti che mi dispiace per ieri sera. Non credevo di metterti nei guai con Jensen e non avevo idea che la faccenda fosse un segreto, Crowley mi era sembrato entusiasta del vostro incontro del pomeriggio e sapevo che avevi parlato anche con Knight, così ho dedotto che l’affare fosse andato in porto… mi pare di capire di aver tratto delle conclusioni piuttosto affrettate. -
 
Castiel rimase in silenzio per alcuni istanti, cercando di imprimere nella propria memoria l’immagine del fratello che gli porgeva sincere scuse per qualcosa che aveva fatto, in modo da non pensare di esserselo sognato, in seguito.
 
- Non fa niente Balth, quando ti sei corretto sembravi talmente sincero che Jensen non ha fatto domande, nemmeno quando siamo rimasti soli. È tutto a posto. - lo rassicurò Castiel.
 
- Bè, se sono sembrato sincero è perché lo ero. È vero che non ero al corrente dell’incontro di oggi. Forse Fergus ha ritenuto che la mia presenza fosse superflua, visto che conosco alla perfezione sia lo staff che te. -
 
- Ah. E quindi che ci fai qui adesso? Vuoi solo spremermi informazioni su quello che è successo la scorsa settimana? - chiese Castiel, sospettoso.
 
- No. O almeno, non del tutto. Quando stamani ho sentito Crowley, gli ho riferito della nostra chiacchierata di ieri e lui mi ha detto che ovviamente non c’era problema se oggi volevo essere presente, per cui… eccomi qui. Credo che la mia presenza, dal momento che sono in confidenza sia con te che con gli altri, potrà rendere meno formale la riunione… -
 
- Sì, certo, per me va benissimo. -
 
- Perciò, dato che oggi sarò presente, fammi capire bene la situazione. Dal momento che oggi sei qui, la proposta ti interessa? -
 
- Sì. -
 
- E intendi accettare? -
 
- Sì, mi piacerebbe molto. -
 
- Dal tuo atteggiamento di ieri deduco che Jensen non ne sappia nulla… -
 
- Infatti. -
 
- E cos’aspetti a dirglielo? -
 
- Intendevo parlargliene stasera. Ma prima devo chiedere una cosa a Crowley. -
 
- Con “parlargliene”, intendi un sobrio discorso di commiato nel quale gli comunichi che ti trasferisci qui oppure…? -
 
- Oppure. -
 
- Vuoi chiedergli di venire con te? - domandò Balthazar, piuttosto stupefatto.
 
- L’idea è questa, sì. -
 
- Accidenti… quindi tutto ciò che ti separa da New York, per ora, è il Fattore J? -
 
- Fattore J? Sì, ok, chiamiamolo così… non posso decidere senza prima parlarne con Jensen e soprattutto senza prima sapere cosa ne pensa. Non posso più pensare solo a me stesso o a quello che desidero io. Siamo in due. -
 
- Capisco… bè, più o meno, lo sai che le relazioni serie mi fanno venire l’orticaria. Bene, ora che abbiamo chiarito questo punto, vorresti degnarti di raccontarmi quello che è successo la scorsa settimana? - chiese quindi Balthazar, con aria di leggero rimprovero ma anche preoccupata - Ho come l’impressione che il Fattore J c’entri anche qui… -
 
Castiel tentennò, scrutando per qualche secondo negli occhi ansiosi del fratello, decidendosi infine a vuotare il sacco e cercando di esporre i fatti nel tono più pacato possibile, per minimizzare l’accaduto.

Naturalmente si attenne alla versione edulcorata della vicenda suggerita da Jensen, non era sicuro che l’indole protettiva di Balthazar potesse reagire bene alla realtà dei fatti. Conoscendolo, temeva infatti che potesse risentirsi con Jensen per averlo messo in una situazione tanto pericolosa, e questa era l’ultima cosa che desiderava.

Balthazar non interruppe il monologo di Castiel nemmeno una volta, non fece una sola domanda, limitandosi ad ascoltare concentrato, e quando quest’ultimo terminò di parlare, restò in silenzio ancora per un po’, mescolando distrattamente lo zucchero rimasto sul fondo della tazzina.
 
- Wow. - commentò infine - Se non ti conoscessi Cassy, potrei pensare che ti sei inventato tutto… -
 
‘Se sapessi com’è andata davvero ti verrebbe un colpo.’
 
- E così… un cacciatore di taglie, eh? Aveva una certa aria vissuta da uomo che non deve chiedere mai, questo Winchester… poi, con un cognome del genere… bè, di sicuro non sembrava un barista. - valutò Balthazar - Certo che metterti con una persona normale non fa parte del tuo DNA, vero Cassy? -
 
- La parola “normale” detta da te, Balth, mi fa venire la pelle d’oca. -
 
- Ma io sono anormale nel senso bello del termine. -
 
- Esiste un senso bello del termine? -

- Sì, il mio. - asserì Balthazar, convinto - Comunque sono davvero senza parole… rispetto ad un paio di mesi fa sembri un’altra persona, fratellino. Conoscendoti, pensavo che un’avventura del genere ti avrebbe fatto fuggire a gambe levate. Tu non sei fatto per queste cose, hai sempre desiderato una vita tranquilla, regolare e senza scossoni, un’esistenza preordinata e prevedibile. Poi un bel giorno arriva questo… questo tizio, e non solo ti fa cambiare sponda, ma ti trascina in una spy story che avrebbe provato psicologicamente chiunque, mentre tu sembri fresco come una rosa… e mediti persino una convivenza. - sembrò riflettere Balthazar ad alta voce.
 
 - Lo ami sul serio, vero? - chiese serio dopo una breve pausa, rialzando gli occhi dalla tazzina e puntandoli in quelli del fratello.
 
- Sì. - ammise semplicemente Castiel - Non credo di aver mai tenuto a niente o nessuno in questo modo. Lui è… tutto. Non so se riesco a spiegarmi, Balth, lui è tutto quello che ho sempre voluto, ma fino a quando non l’ho incontrato non ne ero consapevole. E’ incredibile come non ci si accorga di avere un pezzo mancante, fino a quando non lo si trova per un puro colpo di fortuna… - mormorò, scuotendo leggermente il capo - Dovrebbe essere una cosa così chiara, così evidente, e invece fino all’istante prima che quel’unico tassello vada a posto non ci si accorge di essere incompleti… -
 
- Cassy… - mormorò Balthazar, osservando Castiel con… era commozione, quella? - Non hai idea di quanto mi renda felice sentire queste parole. Sai, ho sempre pensato che vivessi al di sotto delle tue possibilità, e non intendo economicamente, non fare quella faccia… - lo rimproverò, vedendolo già pronto a protestare - … Non so, avevo l’impressione che in un certo qual modo tu ti accontentassi, fin da ragazzo: la tua routine, il tuo lavoro, i tuoi quadri, qualche tiepida relazione con ragazze francamente non adatte a te… era come se, invece di vivere la tua vita come il fottuto protagonista che meriti di essere, fossi solo uno capitato lì per sbaglio che si limitava ad osservare da dietro le quinte. - confessò.
 
- Mi sarebbe piaciuto aiutarti in qualche modo, darti una bella scrollata e tirarti fuori dal tuo guscio, ma adesso ho finalmente capito che non era compito mio. Non ti avevo mai visto con il fuoco che hai ora negli occhi, non ti avevo mai visto rischiare per qualcosa, buttarti senza farti assalire dalla paranoia, e suppongo  di dover ringraziare il tuo manzo per questo cambiamento… - concluse, sorridendo complice.
 
Castiel, annuì, un po’ in imbarazzo.
Non era sorpreso dall’atteggiamento del maggiore, in fondo non era la prima volta che Balthazar si trasformava da insopportabile cazzone in fratello premuroso, ovviamente quand’erano soli, ma era da tantissimo tempo che non avevano una discussione tanto intima e profonda, forse addirittura da quando Castiel era ancora adolescente.
Il fatto poi che il fratello gli leggesse dentro con tanta facilità lo lasciava un po’ sconcertato.
Era davvero così trasparente? Oppure Balthazar, dietro alla sua volubilità e a tutte le sue stronzate, nascondeva un animo sensibile? L’ipotesi gli metteva i brividi…
 
- Ehm… bene Balth, sono felice che tu sia felice di quanto sono felice… ora che sai tutto, possiamo andare? E’ quasi ora. - constatò, accennando a rialzarsi, seguito dal fratello.
 
- Sì, meglio andare. Ah, dovrai offrirmi il caffè, sono senza soldi… - mormorò, facendogli l’occhiolino e chiedendogli così implicitamente scusa anche per la discussione sul conto della sera precedente.
 

 
Una volta giunti alla sede dell’HP, trovarono già tutti gli altri ad attenderli, Crowley compreso, fasciato come al solito di nero da capo a piedi.
 
Castiel gli chiese di scambiare due parole in privato prima di iniziare, lasciandosi condurre in un ufficetto attiguo all’elegante sala riunioni.
 
- Bene Castiel, mi dica pure, ma prima mi permetta di esprimere la mia soddisfazione nel vederla qui oggi. Knigth mi ha detto che il vostro incontro è stato piuttosto proficuo, sono lieto che abbia trovato una sistemazione di suo gradimento fra le nostre proprietà… - disse Crowley, senza nascondare la propria soddisfazione.
 
- Uhm, sì, in effetti ho visto un appartamento che m’interessa, così come m’interessa la sua proposta, ormai è inutile girarci intorno… - ammise Castiel, ancora riluttante a darla vinta a quel borioso inglese - Come le ho detto ieri, però, la mia situazione sentimentale è cambiata di recente, pertanto non potrò darle una risposta definitiva oggi. Devo chiederle un po’ di tempo per valutare questo trasferimento con la persona che frequento.
 
- Sì, ma certo, anche se mi auguro che tutto ciò non vada ad inficiare la nostra trattativa. Posso concederle un paio di settimane, non di più, mi spiace ma come sa ho delle tempistiche da rispettare, e se lei non accetta dovremo avere il tempo di trovare un sostituto. -
 
- No no, capisco benissimo. Me le farò bastare, la ringrazio. -
 
- Perfetto. Vogliamo procedere con il nostro incontro, ora? - chiese Crowley, riaprendo la porta dell’ufficio e invitando Castiel a rientrare nella sala riunioni con un ampio gesto della mano - Prego, dopo di lei… -
 
Castiel si ritrovò subito con quattro paia d’occhi curiosi puntati addosso, più quelli del fratello che sprizzavano sommo disinteresse per tutta la faccenda.
 
- Allora, Castiel, le presento le persone con cui, se deciderà di far parte del progetto, dovrà interagire più spesso. - esordì Crowley - Questa è Pamela Burns, la nostra responsabile editoriale, non si faccia spaventare dalle sue battutacce, è innocua. Lei è Katie Cassidy, la nostra efficientissima segretaria di redazione, lui è Ash, grafico portentoso nonché mago del computer ed infine questo è Mark Pellegrino, il nostro fotografo. Lo scrittore sul punto di addormentarsi lì nell’angolo mi pare lo conosca fin troppo bene… - mormorò, alludendo a Balthazar appoggiato alla parete con le palpebre semi abbassate.
 
Castiel, strinse mani, distribuì sorrisi e scambiò qualche parola con i quattro, anche se quella Katie se ne stava piuttosto sulle sue, rispetto alla cordialità dimostrata dagli altri… Mark aveva la scintilla della follia nello sguardo e pareva un tipo abbastanza imprevedibile, mentre Pamela sembrava molto competente, nonostante il suo aspetto da predatrice, lo sguardo perennemente allusivo con cui sembrava spogliare ogni uomo e il vistoso tatuaggio che sfoggiava poco sopra il sedere, come il professore potè ammirare quando lei si chinò a raccogliere degli appunti caduti a terra.
 
Ash, bè, era un personaggio piuttosto singolare.
Balthazar gliene aveva parlato a lungo quando l’aveva conosciuto, piuttosto colpito dalla sua eccentricità, e se qualcuno riusciva a colpire suo fratello, bè, significava che era davvero eccentrico.
In azienda era ufficialmente un grafico di alto livello, mentre ufficiosamente gestiva la rete informatica di tutta la baracca e si occupava anche di altre… cose.
Si vociferava che anni prima fosse stato pizzicato dall’F.B.I. per aver hackerato un paio di siti governativi e fosse stato in seguito arruolato in maniera coatta per qualche tempo con la promessa di una bella passata di Mastro Lindo sulla sua fedina penale.
Ash pareva adorare queste dicerie, alimentando lui stesso la propria leggenda.
Balthazar sosteneva che il suo cervello fosse regolato mezz’ora avanti rispetto a quelli dei comuni mortali, in compenso i suoi capelli erano fermi al 1984, constatò Castiel sorridendo tra sé e sé.
 
Tra convenevoli, presentazione del piano editoriale e dopo la discussione di un buon numero di idee, scrupolosamente appuntate da Katie, le cose andarono piuttosto per le lunghe.
Crowley si assentò dopo circa un’ora, dovendo prendere il volo per Detroit, affidando Castiel e gli altri alle amorevoli cure di Pamela e rivolgendo un lungo e significativo sguardo al prof, prima di uscire.
 
Dopo più di quattro ore passate a discutere con persone così creative e brillanti, Castiel si avviò verso l’uscita in uno stato di completa euforia, eccitato all’idea di poter lavorare in un ambiente tanto stimolante.
 
Una mano affusolata e con le unghie laccate si posò sulla sua spalla, trattenendolo appena. Si voltò e davanti a lui Pamela sorrideva maliziosa.
 
- Castiel, prima che tu vada posso farti una domanda? - chiese, con una nota di timidezza nella voce che non sembrava certo far parte del suo abituale comportamento.
 
- Ma… ma certo… Pamela, giusto? -
 
- Sì. Chiamami Pam. Io… ho visto le foto di tutti  i quadri della mostra, quando Fergus ci ha illustrato il nuovo progetto editoriale… volevo sapere se… se l’angelo che hai raffigurato esiste, se è una persona vera, oppure se l’hai immaginato col solo scopo di far sentire inadeguati tutti i maschi del pianeta…
 
Castiel sgranò tanto d’occhi.
 
‘Gesù, dovrò avvolgere Jens nel filo spinato…’
 
- Sì, è una persona vera, si chiama Jensen. - rispose, gentile ma asciutto. Probabilmente non abbastanza gentile, o forse troppo asciutto, visto che Pamela si rese conto della propria indelicatezza e fece immediatamente marcia indietro.
 
- Oh, dolcezza, non fraintendermi, tu sei assolutamente delizioso, dovrei essere cieca per non averti notato e ti spolperei come un’aletta di pollo, ma lui… ecco… lui dov’è? - domandò speranzosa, sfoderando un sorriso seduttivo.
 
- Lui al momento è in una suite al Plaza… -
 
Il sorriso della donna si allargò impercettibilmente.
 
- … ad aspettare che al mio rientro lo spolpi come un’aletta di pollo. -
 
Per poi sgretolarsi.
 
- Oh. Oh, io… non pensavo… non credevo… scusami, se avessi immaginato non avrei mai detto quello che… Dio, che figura! - esclamò, portando le mani perfettamente curate a coprire il viso che si andava tingendo di rosso, in preda ad uno dei suoi rarissimi momenti d’imbarazzo.
 
Castiel non riuscì a trattenersi dal ridere.
 
- Tranquilla, Pam, Lui fa quest’effetto quasi a tutti… diavolo, l’ha fatto anche a me! Dai, un giorno te lo porterò qui, e se farai la brava ti permetterò di abbracciarlo. - le promise, ammiccando.
 
Lei ritrovò immediatamente la propria baldanza, allettata dalla promessa.
 
- Davvero? E potrò tastare quel culetto di marmo? - domandò con l’entusiasmo di una bambina.
 
- Non allargarti, donna! - rise ancora Castiel, camminando lentamente all’indietro verso l’ascensore aperto, continuando a guardarla.
 
- Dimmi almeno se bacia bene! - gli urlò dietro lei dal fondo del corridoio, ostentando una sconfinata disperazione.
 
Castiel entrò nella cabina e le rivolse un enorme sorriso.
 
- Pamela, credo che noi due diventeremo grandissimi amici. - ridacchiò, premendo il tasto del pianterreno.
 
Poi le porte si chiusero, e Castiel tornò dal suo amore.
 

 
Una volta rimesso piede nella suite, Castiel fu lieto di non trovarvi Jensen: meno tempo passavano lì dentro e meno probabilità c’erano di subire un interrogatorio sull’esito del fantomatico secondo colloquio e di farsi estorcere informazioni che intendeva conservare per la loro cena speciale.
 
Si liberò per prima cosa dalla costrizione della cravatta e poi del resto degli abiti, per infilarsi quindi sotto il getto ristoratore della doccia, godendosi il massaggio rilassante dell’acqua calda sulle spalle contratte.

Spalle che dopo nemmeno cinque minuti vennero baciate e circondate da un abbraccio caldo e possessivo.
 
Castiel si voltò quanto gli era possibile ad osservare Jensen, quasi aspettandosi quell’agguato.
 
- Dov’eri nascosto, sotto il letto? - chiese ridendo.
 
- No, sono rientrato ora… gran colpo di fortuna, direi. -
 
- Ormai lavarsi con te nei paraggi è come farsi la doccia in prigione… - constatò Castiel.
 
- Ti è capitato spesso? - replicò l’altro, stringendolo più forte e baciandolo dietro l’orecchio.
 
- Ho visto un sacco di film… -
 
- Sì? Mhhh… e cosa accade in genere, in quei film? - chiese Jensen, il viso ancora affondato nel suo collo, intento ad assaporarne ogni centimetro.
 
Castiel riuscì a rigirarsi, voltandosi verso di lui con un enorme sorriso e liberando un braccio dalla sua stretta in modo da poter recuperare il sapone dal suo supporto, per poi lasciarlo cadere con un gesto plateale, inarcando un sopracciglio.
 
- OPS… - disse ridendo.


 Reduce da un’altra lunga e decisamente appagante doccia, Jensen non indagò in maniera troppo approfondita sul pomeriggio del professore, troppo saturo di endorfine per badare a qualcosa di più complesso dello scegliere cosa indossare per la serata.
Si limitò a qualche sporadica e pigra domanda, che però venne aggirata piuttosto abilmente da Castiel, così alla fine semplicemente rinunciò. In fondo, aveva di fronte a sé un’intera serata per far cantare Occhi Blu come un fringuello.
 
Quando però uscirono dal Plaza, l’arietta fresca che spirava tra i palazzi riportò in funzione almeno un paio di neuroni, instillandogli una certa dose di curiosità nei confronti dell’atteggiamento cospiratorio del compagno.
 
- Dove andiamo? - domandò Jensen, mentre si avviavano a piedi verso il parco, sempre più insospettito dal misterioso modo di fare che Castiel aveva tenuto fin dal suo ritorno.
 
Non aveva voluto rivelare alcun particolare del suo secondo incontro e aveva tergiversato con estrema abilità per eludere le sue domande, rispondendo ogni volta con un vago “più tardi”.
 
Ora che la sua curiosità era stata risvegliata, però, Jensen cominciava a non poterne più: ma che diavolo aveva Castiel?
 
- Tra poco vedrai… - ridacchiò il professore.
 
Era emozionato e ansioso, aveva fatto le cose per bene e prenotato un tavolo sulla veranda del romanticissimo Central Park Boathouse, nel cuore del parco, dove di sera le luci della balconata si riflettevano sulle acque del laghetto, creando un’atmosfera da paese delle fate.
Dio, si sentiva quasi come se dovesse chiedere la mano di Jensen, ed in effetti poco ci mancava, almeno per gli standard emotivi ancora un po’ rigidi del suo ragazzo… ma sarebbe andato tutto bene, e avrebbero iniziato una nuova vita insieme. Insomma, era solo un misero anno, in fondo…

- Cass, perché stiamo entrando nel parco? - chiese Jensen, trotterellando dietro al compagno che puntava con decisione verso il laghetto - Non vorrai tentare di nuovo con un esperimento di sesso bucolico, vero? - s’ informò Jensen, con una nota preoccupata nella voce.

Non tanto per l’idea di imboscarsi in un cespuglio con il rischio di farsi beccare, quanto piuttosto perché aveva fame.
 
- Tranquillo Jens, siamo quasi arrivati - lo rassicurò il prof - Non oserei mai trascinarti dietro ad una siepe prima di averti fatto mangiare, sento il tuo stomaco ruggire fin da quando abbiamo messo piede fuori dalla camera! - rise - Comunque eccoci, siamo arrivati. - esclamò, fermandosi davanti all’entrata del ristorante, illuminata da un migliaio di lucine.

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Jensen si soffermò un istante ad osservare la struttura bassa e allungata, che risplendeva come la casa di Babbo Natale in Finlandia, grazie alle minuscole lampadine disseminate praticamente ovunque, la luna che si rifletteva nel piccolo lago, poi di nuovo Castiel.
 
- Cass… vuoi per caso chiedermi di sposarti? - scherzò, sbuffando una risatina ironica.
 
Castiel deglutì. Arrossì. Mentì.
 
- N… no! Ma che ti salta in mente Jens? Perché? Perché dici questo? - chiese, cercando di ostentare un cauto distacco.
 
- Bè… insomma… questo posto urla “sposami” o “toglimi le mutande”… dici che non vuoi sposarmi… vuoi togliermi le mutande Cass? - ridacchiò ancora, perfido, divertito dell’evidente imbarazzo del professore.
 
Imbarazzo che sfumò ben presto in delusione, vedendo il proprio piano che andava in pezzi, trasformandosi in polvere.

Era stato tanto occupato a cercare un bel posto, le parole giuste, perso nella sua bolla di fantasticherie da non aver assolutamente preventivato una reazione simile da parte di Jensen.
 
- Se… se non ti piace possiamo andare da un’altra parte Jens, non importa… - mormorò mogio, le spalle improvvisamente curve.
 
Di nuovo la cara, vecchia insicurezza. New York stava avendo un effetto devastante su di lui.
 
- Ehi, prof, guarda che stavo scherzando! - specificò Jensen non appena registrò l’espressione triste del compagno - Certo che mi piace, è un posto splendido. Ma come l’hai trovato? -
 
- Ehm, me ne aveva parlato un collega, a scuola. - mentì ancora Castiel, risollevandosi un poco.
 
Non poteva certo confessare di averlo scovato su “Sposafelice.net, il posto più bello per il tuo giorno più bello”, Jensen l’avrebbe preso per i fondelli tipo, bè, per sempre… o sarebbe fuggito nella notte lasciando un buco nel muro a forma di Winchester, come nei cartoni di Will Coyote.
 
- Non si può dire che non sia scenografico… se la cucina è all’altezza del resto, sarà davvero una serata da ricordare! Dai, entriamo. - commentò allegro Jensen, calandosi nella parte di gentiluomo e aprendo la porta a Castiel.
 
‘Speriamo…’ pensò quest’ultimo, facendo il suo ingresso nel locale.
 
 
 
[1] Secondo la tradizione, è la frase che la regina Vittoria avrebbe detto a sua figlia in occasione della sua prima notte di nozze.

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Capitolo 27
*** PARADISE LOST ***


PARADISE LOST
 
 
Il maître di sala li accompagnò fino ad un bellissimo tavolo d’angolo sulla veranda, a ridosso della balconata, proprio come si era più volte raccomandato Castiel quando aveva prenotato nel pomeriggio.
La brezza della sera era piacevole, nonostante non fosse ancora aprile, grazie alle grandi lampade riscaldanti disseminate fra i tavoli.
La luna era piena e in lontananza si poteva sentire l’eco della musica di una qualche orchestrina che si esibiva nel parco.
 
‘Perfetto, è tutto perfetto… sarà tutto perfetto…’ si autoconvinse Castiel, appoggiato alla balaustra, osservando distrattamente il lago e cercando al contempo di calmare la corsa sfrenata del proprio cuore, operazione non facilitata da Jensen che, ignaro dei suoi drammi interiori, si sporse a sfiorarlo con un bacio fugace prima di accomodarsi al tavolo sprizzando serenità da ogni poro.
 
- Che c’è Jens? - domandò stupito Castiel, sedendosi a sua volta di fronte a lui.
 
- Niente. Solo… mi piace New York. Adoro essere libero di baciarti e di tenerti la mano in un locale pubblico, se mi va. - confessò con un sorriso complice, intrecciando le proprie dita a quelle del professore - Anche se tutte queste lunghe uscite confesso che mi sembrano ancora un po’ strane… stavamo veramente rischiando di diventare agorafobici. -
 
Castiel annuì sorridendo di rimando, condividendo il senso delle sue parole.
 
Erano ancora in quella fase del rapporto in cui, ogni volta che mettevano il naso fuori, non vedevano l’ora di tornare a casa di corsa, pertanto le loro sortite pubbliche fino a quel momento erano state sporadiche (ormai erano praticamente azionisti di Paradise Pizza e Delhi Delights), veloci (come quando Jensen, durante la cena, esordiva con finto candore confessando di - Oh!– essersi dimenticato di indossare i boxer sotto i jeans, costringendo Castiel a trangugiare qualsiasi cosa avesse nel piatto in tempi record) e soprattutto all’insegna della massima platonicità (a parte una furtiva ed eccitantissima pomiciata nelle ultime file del cinema, arrapati come due adolescenti, da cui uscirono con le guance arrossate e l’aria colpevole, ridacchiando come due idioti).
 
Nella parte della città dove risiedeva Castiel, infatti, era alta la possibilità di imbattersi in qualche docente o studente dell’Accademia, e né a lui né a Jensen era parso opportuno o professionale farsi beccare in atteggiamenti equivoci.
Dovevano solo tener duro fino alla fine del semestre, si ripetevano di continuo, con l’inizio del nuovo anno scolastico Jensen avrebbe chiesto di essere trasferito ad un altro corso e allora sarebbero potuti uscire allo scoperto, anche se Castiel non era entusiasta all’idea del compagno mezzo, o del tutto, nudo in un aula che non fosse la sua.

A questo punto, però, il problema non si poneva più.

Forse.
 
Quando infine un giovanissimo cameriere, chiaramente gay e chiaramente abbagliato da entrambi, si presentò al loro tavolo rosso come un peperone per prendere le ordinazioni, Jensen trattenne a stento una risata, osservando l’involontario show messo in piedi da Castiel, che con aria implorante e voce seducente stava chiedendo una serie di variazioni sulle specialità dello chef.
 
- Sarebbe possibile avere il salmone alla griglia ma senza il contorno di patate? Preferirei le verdure agrodolci, che però sono servite col pollo. - domandò, sgranando a tradimento due enormi occhi blu sull’inerme cameriere.
 
- B… bè, signore, sul menù c’è scritto che le variazioni non sono consentite, se non in caso di allergie… -
 
- Oh. Ma io sono allergico! -
 
- Alle… patate arrosto? - chiese il ragazzo, dubbioso.
 
- Ehm… con cosa sono condite? -
 
- Aglio e prezzemolo. -
 
- Sono allergico a quelli. Entrambi. Potrei morire, sai? Tu non vuole che io muoia, vero? - chiese, rivolgendo al poveraccio uno sguardo da martire.
 
- N-no, signore, chiedo subito allo chef… - mormorò il ragazzo, arretrando d’un passo per tornare in cucina.
 
Castiel lo ricompensò con un sorriso a trentadue denti.
 
- Non so come ringraziarti, davvero. - mormorò, calcando la mano sul “davvero” e afferrandolo per un braccio prima che si rifugiasse altrove - Ah, mentre sei lì, potresti chiedere anche se invece della salsa al rafano è possibile avere della panna acida? E potremmo avere un altro po’ di questo buonissimo pane alle noci?-
 
- C-certo signore! - farfugliò l’altro, prima di sparire come un fulmine in direzione delle cucine.
 
- Non posso crederci. - commentò Jensen, dopo qualche secondo.
 
- A cosa ti riferisci? -
 
- Hai appena inebetito il cameriere con gli occhioni da Gatto con gli Stivali per ottenere ciò che desideravi, e come se non bastasse hai ordinato come in “Harry ti presento Sally”…-
 
- Non è affatto vero! Non ho inebetito nessuno! -
 
- Ma scherzi? Quel poveretto non sognerà che te per almeno una settimana, è arrossito fino alla radice dei capelli quando gli hai sfiorato il braccio per chiedergli il cestino del pane! Mi toccherà lasciargli una mancia mostruosa… -
 
- Tu hai le allucinazioni. E la mia ordinazione, per la cronaca, era semplicemente molto dettagliata. Solo perché so quello che voglio sarei Sally, nella tua personale barzelletta? -
 
- Indovina… - ghignò Jensen.
 
- Certo, e chiaramente tu saresti Harry, lo sciupafemmine… - commentò caustico.
 
- Ormai ho appeso il… le… cioè, ho appeso tutto quanto al chiodo e sono diventato un ragazzo serio ma sì, se c’è uno tra noi due che può fare Harry, quello sono io. - ribattè Jensen, punto sul vivo.
 
- Bene, Harry, visto che hai da ridire su come ordino, sarai lieto di vedermi ripetere per intero la scena del ristorante… - lo provocò Castiel con il sorriso di chi era pronto a fare una figuraccia colossale per farne fare una ancora peggiore al proprio commensale.
 
Jensen deglutì.
 
- Non oseresti… - biascicò, conoscendo invece perfettamente la triste realtà.
 
- Oh, non mettermi alla prova. - mormorò il professore con un ghigno minaccioso, allontanando un pochino la propria sedia dal tavolo e aggrappandosi al bordo di quest’ultimo con entrambe le mani, la testa leggermente reclinata all’indietro, gli occhi socchiusi e un piccolo gemito in agguato sul fondo della gola, pronto per dare il via alla scena madre [1] sotto lo sguardo sgomento di Jensen.
 
Grazie al cielo furono interrotti, anzi, accecati, da un lampo di luce, seguito da una serie di imprecazioni e mormorii soffocati.
 
- Cretina! Te l’avevo detto di togliere il flash! -
 
- Ma prima quando si sono baciati non è scattato… -
 
- Sei sempre la solita, devi controllare ogni volta… -
 
- Se ne saranno accorti? -
 
- Abbiamo illuminato a giorno la veranda… secondo te? -
 
- Dio, avete visto che occhi ha quello con le lentiggini? -
 
- Perché, le labbra del suo ragazzo? Awww, sono l’incarnazione di tutti i miei sogni… -
 
- Becky chiedigli se puoi fare una foto con loro! -
 
- Neanche morta! Potrei morire d’imbarazzo! -
 
- Zitte, si stanno girando! Oh no, speriamo non si arrabbino… -
 
Jensen e Castiel si voltarono contemporaneamente in direzione della luce, ritrovandosi a fissare un tavolo da dodici occupato esclusivamente da ragazze sui venticinque anni che ostentavano indifferenza, disposte in un caotico mosaico di tette, tacchi, capelli mechati e unghie laccate. Fra loro spiccava una biondina, quasi bordeaux dall’imbarazzo, che sfoggiava una diadema di strass con tanto di velo. Doveva essere un addio al nubilato, almeno a giudicare dal grado di euforia, estrogeni e schiamazzi.
 
Jensen, divertito, inarcò ironicamente un sopracciglio, rivolto a Castiel.
 
- Jens, è una mia impressione o quelle squilibrate ci stavano fotografando? - chiese il prof, esitante.
 
- Temo che tu abbia ragione… -

 - Ma… perché? Perché ci fotografavano? Non mi piace il modo in cui ci guardano… - osservò, sulle spine, lanciando occhiate furtive in direzione delle ragazze e agitandosi sulla sedia.
 
Jensen sorrise, con lo sguardo di chi la sa lunga, ancora una volta stupito dal candore del compagno, specie se paragonato alla lucida perfidia di pochi istanti prima.
 
- Oh, Cass, proprio non saprei, ma diamo loro qualcosa che valga la pena fotografare… - mormorò, sornione staccandosi dalla sedia e sporgendosi verso il prof al di sopra del tavolo, afferrandolo per la cravatta e costringendolo ad alzarsi leggermente a sua volta per poi coinvolgerlo in un languido bacio.
 
Con un sacco, ma proprio un sacco di lingua.

Bacio che diede origine ad una tale quantità di squittii presso il tavolo delle guardone da attirare l’attenzione del maître, accorso di gran carriera temendo che quel gruppo di ragazze squinternate e rumorose avesse trovato un intero parrucchino o una colonia di scarafaggi nel consommé.
 
Jensen ridacchiò soddisfatto, lasciando la presa sulla cravatta e tornando a sedersi composto come nulla fosse successo, e anche Castiel non potè fare a meno di ridere di tutto quel trambusto.
 
- Jens, sai che in effetti non è una cattiva idea? - esordì dopo qualche secondo.
 
- Mh? A cosa ti riferisci? -
 
- Alle foto. Potrei fotografarti. -
 
- Cass, sai che stai diventando davvero un pervertito? - rise Jensen, fingendosi scandalizzato.
 
- Cos…? Ma no, che hai capito? Intendevo per i quadri, se ti fotografassi non dovresti passare ore e ore in posa per me… stupido. -
 
- Di tutte le scuse che ho sentito per avere delle mie foto senza veli, questa è sicuramente una delle più fantasiose… - insinuò perfidamente Jensen - E poi mi piace passare le ore in posa per te. E’ una delle cose che preferisco, è… una cosa nostra: noi due che chiacchieriamo, che ascoltiamo la musica, solamente noi e tutto il mondo fuori dalla porta… Cass, adoro guardarti dipingere, vedere come mi osservi, e l’idea di essere parte di una cosa così bella mi riempie d’orgoglio, non ci rinuncerei mai… - mormorò ad occhi bassi.
 
Castiel sorrise, forse era il momento buono.
 
- Potresti essere parte di una cosa ancora più bella… - accennò con noncuranza, risvegliando la curiosità di jensen, che rialzò lo sguardo e l’osservò interrogativo per qualche istante.
 
Raccolse tutto il suo coraggio e poi disse semplicemente - Vieni a vivere con me.-
 
Niente giri di parole.
Così, nudo e crudo.
Bum.
 
Jensen reagì sdrammatizzando, pensando ad un qualche tipo di scherzo.
 
- Bè, praticamente già lo faccio! - commentò in tono leggero - Ormai torno a casa sì e no una volta alla settimana, e solo per procurarmi dei cambi di vestiario!-
 
- No. Intendevo qui. Vieni a vivere con me qui. A New York. - precisò Castiel, serissimo.
 
Jensen lo squadrò ancora per qualche istante, poi, notando che non vi era alcuna traccia di umorismo nella sua voce, o sul suo viso, si fece serio a sua volta.
 
- Cosa significa, Cass? - domandò, guardingo.
 
- Crowley mi ha fatto una proposta. Una proposta pazzesca, in effetti. Il progetto del libro è intrigante, oggi ho conosciuto lo staff con cui dovrei lavorare e sembra davvero una bella squadra, senza contare Balth… mi hanno offerto una cifra mostruosa e garantito totale libertà creativa… è un sogno, Jens. Un sogno a portata di mano… - spiegò Castiel, entusiasta, cercando di mettere in luce i lati positivi della cosa.
 
- … Ma? -
 
- Ma… vogliono la mia presenza qui. Per tutta la durata del progetto. - specificò in tono più basso come se, pronunciandola sottovoce, l’implicazione della frase perdesse importanza.
 
- E dove dovresti vivere? In albergo? - chiese Jensen, ponendo la domanda con una seconda persona singolare che ferì Castiel come una coltellata, come a sottolineare la propria estraneità alla questione.
 
- No, mi hanno anche offerto una casa da sogno in cui potremmo abitare gratis… - aggiunse mogio.
 
- Ah, certo, dimenticavo. È un sogno. Un sogno talmente bello da sembrare un po’ un patto con il diavolo… - commentò Jensen, in tono incolore.
 
- É un loft stupendo, Jens, a Soho. Sarebbe perfetto per noi… - tornò ad spiegare Castiel in tono ottimistico, ben deciso ad ignorare l’atteggiamento di Jensen e a fargli apprezzare tutte le possibilità che un eventuale trasferimento avrebbe offerto - Pensaci bene, dato che non dovremmo pagare l’affitto potresti tranquillamente riprendere gli studi, iscriverti finalmente all’istituto d’arte e lasciare quella pidocchiosa caffetteria che detesti. A parte le riunioni in redazione io lavorerei a casa, e potremmo passare un sacco di tempo assieme, dipingere, andare per musei, al cinema… insomma, fare qualsiasi cosa ci salti in mente… e tu potresti vedere Jared spessissimo. So che Crowley non ti ha fatto una buona impressione alla mostra, anche a me non fa impazzire ma ti prego, non essere prevenuto! -
 
L’entusiasmo di Castiel non sembrò contagiare minimamente il compagno, che continuava a fissarlo serio come se non avesse ascoltato una sola parola.
 
- Cass, non voglio demolire la tua idilliaca versione omosessuale della “apple pie life”, ma noi due non saremo mai una coppia della middle class con un paio di marmocchi, un labrador e una Ford familiare parcheggiata nel vialetto. Noi siamo due uomini con un paio di fratelli pazzi, un Balthazar col cimurro e un’Impala parcheggiata in divieto di sosta… - replicò in maniera forse un po’ troppo brusca Jensen.
 
- Mi stai dicendo… Jens, stai dicendo che non vuoi vivere “ufficialmente” con me per non essere etichettato come gay? - farfugliò il professore, incredulo e avvilito.

Si era aspettato sorpresa, indecisione, remore sul lasciare Boston, o il lavoro, non certo un atteggiamento tanto disfattista riferito a loro due.
 
- Non dire stupidaggini Cass, ti ho appena baciato di fronte a quaranta persone, ti sembra forse che m’importi qualcosa di ciò che pensa la gente? -
 
Castiel era completamente frastornato, proprio non riusciva a capire il problema.
 
Ma Jensen non aveva ancora finito.
 
- Mi rendo conto che per la tua carriera sarebbe un lancio pazzesco, non sono stupido, ma ho come l’impressione che la tua visione dell’intera faccenda sia un po’ semplicistica… certo, senza la preoccupazione dell’affitto e delle bollette potrei riprendere a studiare, ma riguardo a tutto il resto come dovrei fare a vivere, ad esempio? - chiese Jensen.
 
- Te l’ho già detto, mi hanno proposto una cifra pazzesca per questo lavoro, i soldi sarebbero l’ultimo dei tuoi problemi. Dei nostri problemi. - ribadì Castiel accennando un sorriso speranzoso, subito gelato dall’espressione illeggibile di Jensen, che lo mise tremendamente a disagio.
 
- Quindi cosa diventerei, di preciso, un mantenuto? - chiese, sputando la parola come se gli bruciasse sulla lingua.
 
- Ma… ma no, che dici? - balbettò Castiel, incredulo. Un pensiero del genere non l’aveva nemmeno sfiorato - Jens, siamo noi due. Insieme. Tutto quello che ho è anche tuo, non me ne frega niente dei soldi, lo sai, servirebbero solo a farci vivere tranquilli! Perché la stai prendendo così male? -
 
- Perché credevo che ormai mi conoscessi, che avessi capito chi sono. Sai perfettamente che nella vita me la sono sempre cavata da solo, anche da ragazzo, anche quando avrei avuto tutto il diritto di appoggiarmi a qualcuno, o di raggomitolarmi in un angolo e piangere, e non sono arrivato a trent’anni per mollare quel poco che sono riuscito a conquistare e venire a fare la bella vita a New York, come… come una moglie trofeo. - sibilò.
 
- M… moglie trofeo? Jens… - farfugliò Castiel, mortificato.
 
Non solo le cose non stavano andando come aveva preventivato, ma avevano preso la piega di una potenziale catastrofe, constatò spaventato, ripensando alla brutta sensazione che l’aveva bloccato sulla porta della HP il giorno precedente.
 
Tentò di mediare ancora una volta, in preda ad un panico strisciante che si stava insinuando in ogni sua cellula.
 
- Jens, ascolta, la mia era solo un’idea… nessuno ti obbliga a tornare a scuola o altro, se vuoi lavorare lavora, se vuoi studiare studia, abbiamo un mondo di possibilità davanti a noi, questa è una grande occasione, per entrambi… -
 
- Non per entrambi. Per te. E bada bene, non sono invidioso, anzi, ti meriti tutto questo e molto di più, solo che io non posso far parte del quadretto. Sarei solo d’intralcio, una zavorra che ti impedisce di spiccare il volo verso una splendida carriera e una splendida vita, e l’ultima cosa che voglio è trasformarmi nella palla al piede che ti tiene ancorato a terra. Stai per intraprendere una strada che inevitabilmente cambierà la tua vita, e forse anche te, mentre io rimarrò il solito, vecchio Jensen. Sarò sempre uguale a me stesso, Cass, mentre tu brillerai ogni giorno di più, fino ad accorgerti che sono solo un puntino opaco sullo sfondo della tua vita… - mormorò amaramente - … fino a quando, un bel mattino, ti sveglierai, e vedendomi al tuo fianco ti chiederai “ma cosa diavolo ci faccio con lui?”. Tu sei straordinario, te l’ho sempre detto. E ora se ne stanno accorgendo anche le altre persone… verrà il giorno in cui anche tu te ne renderai conto, e quello sarà il giorno in cui realizzerai di aver perso tempo con uno che non è alla tua altezza. -
 
- A… altezza? Palla al piede? Jensen, ma come ti viene in mente? Perché fai così? - chiese Castiel, con la disperazione che gli alterava la voce - Perché stai deliberatamente cercando di mandare tutto a puttane? -
 
- Perché tu sei un’idealista, Cass. Un romantico. Una persona dolce, spontanea e generosa. E anche se questi sono alcuni dei motivi che mi hanno spinto ad innamorarmi di te, sono anche ciò che mi costringe ad essere quello con i piedi per terra. Almeno uno di noi due deve mantenere il contatto con la realtà. Stiamo insieme a malapena da due mesi, non puoi semplicemente offrirmi la tua casa, i tuoi soldi, la possibilità di studiare, senza chiedere nulla in cambio, come se fosse la cosa più ovvia. Nella mia vita non funziona in questo modo. -
 
- Le cose belle accadono, Jens [2]. - ribattè Castiel, monocorde, deluso di fronte ad un atteggiamento tanto negativo e immotivato.
 
- Non secondo la mia esperienza. -
 
- Ah. Bene, quindi noi due cosa saremmo? Io, cosa sarei? -
 
- Tu sei la cosa migliore che potesse succedermi, prof, ma questo non significa automaticamente che io lo meriti… che io ti meriti… così come non ho meritato di sopravvivere all’incendio, da bambino, o di vivere al posto di mio padre, visto che è morto per salvare me. - aggiunse Jensen dopo un po’, in tono quasi inudibile.
 
- Quindi credi… credi di non meritare di essere salvato? [3] - balbettò Castiel, incredulo - Credi di non meritare di vivere? Di essere felice? -
 
- Non a discapito di qualcun altro. Ho visto morire in modo orribile entrambi i miei genitori, Cass, e sono ancora qui per raccontarlo. Ho rischiato persino di veder morire te, e anche in quel contesto io me la sarei cavata senza un graffio. Di nuovo. Ti sembra giusto? - ringhiò.
 
- Evidentemente Dio ha una missione ben precisa per te… -
 
- E sarebbe? - ribattè Jensen con aria scettica.
 
- Farmi felice. - concluse serissimo Castiel, gli occhi blu puntati in quelli di Jensen in una supplica silenziosa.
 
L’altro rimase in silenzio, senza sapere come replicare.
 
- Hai… hai già accettato? - domandò quindi, esitante.
 
- No. Ma vorrei farlo. Ho un paio di settimane per dare una risposta, poi cercheranno qualcun altro. Non possono aspettarmi in eterno. -
 
- E’ un ultimatum? -
 
- No, ovvio che non lo è… - rispose stancamente Castiel - … Jens, lo so che non è molto che stiamo insieme e in parte posso capire i tuoi dubbi, ma quando incontri la persona giusta lo sai, anche dopo due giorni. E io so che sei tu quella persona. Magari non credi nel destino, ma io sì, fermamente: ci dev’essere un motivo dietro al nostro incontro, non può essere solo una catena di coincidenze. La prima volta che ti ho visto ho avvertito un brivido lungo la schiena e da quel momento non ho fatto che pensare a te... non so se sia stato un colpo di fulmine o chissà che, ma so di non aver mai provato nulla del genere, né prima, né dopo. E non osavo nemmeno sperare di poterti conoscere meglio, invece l’universo ha complottato per far andare le cose diversamente: ci siamo rivisti a scuola, siamo diventati amici, poi ci siamo messi insieme… in così poco tempo ci è successo davvero di tutto, e l’abbiamo superato. Insieme. - specificò - Nel mio destino era scritto che ti avrei incontrato… e non riesco nemmeno ad immaginare un futuro senza di te. Non voglio nemmeno provarci. Ti prego Jens, ti scongiuro, pensaci. E’ il momento perfetto. Vieni con me… - 
 
- Io… non sono sicuro di volerlo fare. - sussurrò Jensen, flebile, mandando in pezzi il cuore di Castiel, che parve come afflosciarsi sulla sedia al suono di quelle parole e non disse più nulla.
 
Pochi istanti dopo comparve il cameriere con le ordinazioni, e non potè fare a meno di notare l’atmosfera glaciale che era improvvisamente scesa a quel tavolo.
Posò i piatti da portata, il vino e tutto il resto senza dire una parola e si allontanò quasi in punta di piedi, con la certezza matematica di poter dire addio alla mancia.

La cena durò pochissimo, in un silenzio tanto greve da essere quasi assordante.

Castiel toccò a malapena cibo, Jensen giocherellò con la propria ordinazione spostando il contorno da un lato all’altro del piatto fino a che non gli venne portato via.
Non discussero nemmeno come d’abitudine su chi dovesse pagare il conto, Jensen lasciò che ci pensasse il professore e lo aspettò accanto alla porta del ristorante, tenendogliela aperta.
Prima di mettere piede all’esterno, Castiel si fermò ad un passo da lui, rivolgendogli un lungo sguardo implorante, dandogli ancora una possibilità di dire qualcosa.
 
Jensen non aprì bocca, evitando il contatto visivo, così Castiel abbassò il capo e uscì.
 
La temperatura, all’esterno, era calata di qualche grado, rispecchiando il gelo che si era insinuato tra loro, constatò mestamente il professore, avviandosi al fianco di Jensen in direzione del Plaza.
 
La salita fino all’attico, in quel mutismo opprimente, sembrò semplicemente interminabile.
Castiel ad un certo punto non ce la fece più.
 
Odiava sentire quella distanza tra sé e Jensen, odiava quel silenzio, odiava New York, odiava Balthazar e i suoi libri e odiava chiunque c’entrasse anche solo vagamente con la situazione che stavano vivendo.
 
- Jens, dimmi cosa vuoi. Dimmelo. Dimmi come vuoi che vada avanti tra noi, perché credevo di saperlo, ma forse mi sono sbagliato! - sbottò, in quella che era un misto tra una preghiera ed un’accusa.
 
Jensen si soffermò brevemente a guardarlo, scavò nei suoi occhi blu, lucidi di rabbia e delusione, e non riusci a dare una risposta coerente.
 
- Vorrei… vorrei solo portarti in camera, baciarti e fare l’amore con te, senza dover pensare al domani. Senza dover pensare. Non sono abituato a guardare al di là del mio naso Cass. Ogni volta che mi sono permesso di sognare, di sperare, mi è crollato il mondo addosso. Così, semplicemente, ho smesso. -
 
- Quindi si riduce tutto a questo? - domandò il professore, la voce tremante per lo sdegno - Paura? Paura che vada male? Credi che l’unico modo di tenere sotto controllo le cose sia rimanere a Boston e allontanarti da me? -
 
Jensen si chiuse in un silenzio colpevole, lo sguardo rivolto al pavimento della cabina.
 
Nel frattempo l’ascensore giunse al loro piano, permettendogli così di fuggire da quella claustrofobica scatoletta e dallo sguardo accusatore di Castiel.
Il quale, non appena la porta della suite si fu richiusa alle loro spalle, ricominciò a provocarlo, con un tono aggressivo che non gli aveva mai riservato in precedenza.
 
- Allora? Non merito nemmeno più una risposta? Hai paura di offendermi, Jens? Di ferirmi? Troppo tardi, già fatto. Per cui dimmi quello che hai da dire. Avanti, sono tutt’orecchie. -
 
- … -
 
- Non posso crederci… - sembrò dire più che altro a se stesso, sedendosi sul letto, le spalle curve e la testa tra le mani - Jens, rischia, cazzo! Rischia per noi, rischia per me, se credi di non meritare tutto questo fallo almeno per me! Maledizione, sei tu il cacciatore, sei tu quello che ha sempre affrontato la vita a muso duro, cos’è cambiato? - urlò Castiel, ormai esasperato, rialzando il viso verso il compagno, in piedi a pochi passi da lui.
 
- Sono cambiato io. - disse finalmente Jensen, inerme, con le braccia abbandonate lungo i fianchi - E a cambiarmi sei stato tu. Non scherzavo ieri, quando ti ho detto che mi hai rammollito. In un certo senso è proprio così. Tu hai distrutto l’ armatura che mi ero costruito in tanti anni, hai tirato fuori cose che avevo seppellito dentro di me, cose con cui credevo che non avrei più fatto i conti, e adesso non credo di essere in grado di sopportare altro dolore. Non chiedermi questo, Cass. -
 
Il professore lo fissò senza capire.
 
- Mi stai dicendo che preferiresti perdere tutto quanto ora piuttosto che correre il rischio di perderlo più avanti? Vuoi abbandonare la nave prima che affondi? - chiese, mentre sentiva un senso di nausea attanagliargli lo stomaco.
 
- Non ti sto lasciando, se è quello che pensi, ma… non potremmo provare a stare insieme lo stesso? Sono disposto anche a prendere l’aereo ogni maledetto sabato, se serve. Ci vedremo ogni weekend, te lo prometto. - disse in tono conciliante, cercando di rabbonire Castiel.
 
- Sono troppo vecchio per i rapporti a distanza. - mormorò quest’ultimo - Che alla lunga non funzionano mai. -
 
- Jens, non voglio vederti ogni weekend, non sei il mio fottuto hobby della domenica, voglio che tu sia la prima cosa che vedo la mattina non appena apro gli occhi e l’ultima che vedo la sera prima di addormentarmi. Voglio mangiare con te, guardare la tv con te. E ridere. E litigare per il telecomando, o perché hai lasciato il dentifricio aperto. Voglio baciarti ogni volta che mi salta in mente. Come potremo farlo se tu sarai a Boston e io qui? -
 
- Non lo so… - ammise Jensen - Ma se tu lo volessi davvero, troveremmo il modo di far funzionare la cosa. -
 
- Potrei dirti lo stesso. - replicò secco Castel, mettendolo all’angolo.
 
- Cass, non lo so! - sbraitò l’altro, esasperato - Non so che dirti, è stato tutto così improvviso… -
 
- E allora pensaci. Pensaci, prima di dire di no. Ti chiedo solo questo. Ti prego. Per me… - mormorò il professore con aria implorante.
 
Jensen tagliò corto, incapace di reggere più a lungo quello sguardo che lo faceva sentire un mostro.
 
- Va bene… ok, io… ci penserò. Ora, per favore, possiamo andare a dormire? Sono stanco. - mormorò, liberandosi delle scarpe e del maglione ma tenendosi addosso i jeans e la t-shirt.

Si sdraiò sopra il copriletto, rigirandosi su un fianco e voltando le spalle a Castiel, che non potè far altro che osservare tristemente quella schiena ampia che amava così tanto mentre a sua volta indossava una maglietta e un paio di pantaloni della tuta, per poi scivolare in silenzio tra le lenzuola.
 
‘Buonanotte, Jens…’
 
Fu la prima volta in cui dormirono completamente vestiti.
 
 
 
 
[1] La scena incriminata, che ha fatto implodere le ovaie a tutte noi, è chiaramente questa: http://www.youtube.com/watch?v=jrJOIIOrEog
 
[2] [3] Dalla 4X01, primo incontro fra Castiel e Dean.

 
 
NDA: siamo quasi alla fine... un paio di capitoli e poi dovrò salutare "i miei bambini"...
Sob.
Approfitto ancora una volta per ringraziare tutte le persone che hanno continuato a leggere fino a qui, chi ha recensito, preferito e ricordato: mi fate felice, spero tanto di darvi un finale che vi soddisfi!  ^___^

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Capitolo 28
*** JENS & THE CITY ***


JENS & THE CITY
 
 

Perché la solitudine talvolta è la migliore compagnia,
E un breve esilio rende dolce il ritorno.
(John Milton, Paradise Lost)

 
 
Jensen non riusciva ad addormentarsi.
 
Sentiva il respiro sommesso e regolare di Castiel alle proprie spalle, ma sapeva bene che nemmeno il compagno riusciva a dormire.
 
Quella maledetta cena era stato l’equivalente emotivo di un tamponamento a catena, la tessera di un perverso domino che, cadendo, si era portata dietro tutte le altre, trasformando una serata fantastica in una catastrofe.
 
Come diavolo erano finiti in una situazione simile?
 
Quando, esattamente, tutto era andato in pezzi?
 
Perché stavolta, il loro, non era un litigio. Era una frattura.
 
Una frattura che aveva scavato un solco profondo nel loro rapporto.
Un canyon abbastanza stretto da permettere loro di guardarsi con occhi spenti, ognuno su un differente bordo del crepaccio,  ma comunque troppo ampio per concedere la possibilità di un contatto, non abbastanza vicino affinché Jensen potesse prendere la rincorsa e saltare dall’altro lato.
 
Perché era lui che avrebbe dovuto saltare, giusto?
Era lui che aveva preso le distanze da Castiel, anzi, da loro due.
 
Toccava a lui risanare in qualche modo la frattura… come diceva sempre Rufus, chi rompe paga, e i cocci sono suoi.
 
Ma Jensen non sapeva che farsene dei cocci, avrebbe voluto solamente girarsi, mormorare mille scuse e stringere Castiel tra le braccia, visto che quella era l’unica cosa che lo faceva sentire come se avesse finalmente trovato il proprio posto nel mondo, ma purtroppo era anche ciò che lo inchiodava su quel letto, costringendolo a voltare le spalle a tutto ciò che amava.
 
Da due mesi a quella parte, era stato tutto talmente estremo da atterrirlo.
 
Castiel era piombato nella sua ordinaria vita come uno scoppiettante fuoco d’artificio, e da allora tutto quanto sembrava procedere a cento all’ora.
 
Non avevano bruciato le tappe, le avevano proprio saltate.
 
Tutte.
 
Non c’era stato corteggiamento, niente goffi primi appuntamenti, nessuna mossa più o meno collaudata, era passato nel giro di ventiquattr’ore da “sono etero e non mi piace il professore” al farsi sbattere sul divano.
 
E da lì in poi era stata un’escalation, un susseguirsi di emozioni che non era stato in grado né di controllare né di comprendere fino in fondo: la naturalezza con cui era scivolato nella vita quotidiana con Castiel, il sesso, le piccole abitudini consolidatesi nello spazio di una sera… poi la mostra, la fuga, il disastro con Alastair, quel “ti amo” che non aveva potuto reprimere in alcun modo… e ora questo viaggio, la conoscenza con le rispettive famiglie… la proposta di vivere assieme.
 
Troppo, troppo veloce.
 
Se una convivenza, dopo così poco tempo, era già un banco di prova non indifferente, una convivenza con trasferimento in un’altra città, con conseguente cambio di lavoro e di vita, era un vero e proprio salto nel buio.
Stare con Castiel si stava rivelando come un’interminabile giro sulle montagne russe.
 
Solo che, prima o poi, dalle montagne russe occorre scendere.
 
La passione, i sentimenti, tra loro, erano divampati come un incendio estivo nell’erba secca e ora Jensen temeva che, accelerando ancor più le cose con un trasferimento, il loro rapporto ardesse e si consumasse in un’unica fiammata, bella e luminosa ma… effimera.
Piuttosto, preferiva che covasse come brace sotto la cenere, ben deciso a far durare quello stato di grazia il più a lungo possibile, ma questo Castiel non riusciva o non voleva capirlo.
 
Mentre cercava di convincersi di aver agito per il meglio, con lungimiranza, per il bene di entrambi, il battito assordante del suo cuore ce la stava mettendo davvero tutta per sovrastare il rumore di fondo del cervello, per zittire lo stupido ronzio della ragione e della coerenza in nome dell’istinto.
Dell’amore.
Della gioia che era lì, a portata di mano.
 
Bastava solo trovare il coraggio per saltare dall’altro lato di quel fottuto crepaccio...
 
Perso fra questi pensieri, pieno di dubbi e di tristezza, Jensen finì con l’addormentarsi.
 
Fece un sogno angosciante e surreale.
 
Senza alcun motivo apparente camminava con innaturale lentezza attraverso un campo di grano maturo, riscaldato dal sole, sfiorando le spighe dorate con la punta delle dita al proprio passaggio, piegandole appena.
Stava piangendo, e sul suo viso scorrevano senza sosta lacrime bollenti che, cadendo, si trasformavano in gocce di sangue, tramutandosi a loro volta in grandi fiori scarlatti, forse papaveri, una volta raggiunto il terreno.
Alle sue spalle, poco distante, camminava Castiel, chinandosi a raccogliere con delicatezza ogni singolo fiore, ma nessuno dei due mostrava d’aver notato la presenza dell’altro, come se fossero entrambi invisibili ai rispettivi occhi.
Quando infine Jensen raggiunse l’ombra dell’unico albero nel raggio di chilometri e guardò alle proprie spalle, si trovò di fronte  Castiel, con un enorme fascio di papaveri tra le braccia e la solita espressione dolce e ingenua.
 
“Io raccoglierò sempre i pezzi del tuo cuore, Jens. Sempre…” disse il professore, porgendogli ciò che teneva tra le mani, prima di svanire e lasciarlo, solo e confuso, su un tappeto di fiori rossi che planavano a terra lenti e leggeri come piume.
 
Si rigirò nel dormiveglia, agitato, rotolando nel grande letto in cerca del calore di Castiel (dimostrando che almeno il suo subconscio non era stupido quanto lui), ma trovò solo lenzuola fredde e un posto vuoto.
 
Aprì lentamente gli occhi, e man mano che questi ultimi si abituavano al debole chiarore che filtrava nella camera, riuscì a scorgere il compagno in piedi di fronte alla grande porta-finestra che affacciava sul parco, le mani e la fronte poggiate sul vetro freddo, una sagoma scura stagliata contro le luci della città addormentata.
 
Lo vide tracciare con il dito minuscoli ghirigori sulla superficie liscia appannata dal suo respito, come un bambino… per poi cancellare tutto con un gesto rabbioso della mano e battere silenziosamente sul vetro con i pugni chiusi.
 
Sembrava così piccolo, così… fragile.
 
A Jensen si strinse il cuore.
 
Avrebbe potuto alzarsi e andare ad abbracciarlo.
 
Avrebbe potuto chiamarlo, scostare le coperte e tendergli le braccia.
 
Avrebbe potuto dire qualcosa, qualsiasi cosa, invece prese un lungo respiro triste, si voltò dall’altra parte e tornò a dormire.
 
Solo.



 
Il nervosismo della sera precedente, il sonno agitato e i sogni inquietanti, contribuirono a far risvegliare Jensen ancora più stanco e di malumore di quand’era andato a dormire. Gli ci vollero almeno cinque minuti per raccapezzarsi su dove fosse e su come mai si sentisse uno straccio, realizzando infine che l’orribile serata non era stata un incubo, ma l’amara realtà.
 
Sentendo il rumore di acqua corrente provenire dal bagno, si rese conto che Castiel non era al suo fianco.
Non era nemmeno sicuro che fosse ritornato a letto, che non avesse passato le ultime ore incollato a quella dannata finestra, probabilmente maledicendo il giorno in cui si erano incontrati…
 
Incredibile.
Un giorno.
 
Un solo giorno, anzi, una notte lontano da Castiel, non tanto fisicamente quanto emotivamente, e Jensen si sentiva perso, solo come non si era mai sentito in tutta la sua esistenza.
 
Per tutta la vita si era considerato un’isola, un microcosmo perfettamente autosufficiente ed immune alla dipendenza sentimentale, che aveva sempre giudicato come un’imperdonabile debolezza, ed ora non riusciva a pensare ad altro che a quanto gli mancassero la mano di Cass fra i capelli, gli occhi blu che erano sempre l’ultima cosa che vedeva prima di dormire, la sua voce un po’ roca che gli dava il buongiorno.
 
- Che mi hai fatto, Cass? E soprattutto, io, che ti sto facendo? Che ci sto facendo?- pensò, confuso, non più così sicuro di tutte le cose dette la sera precedente, che sul momento erano parse così logiche e sensate. Grattando la superficie delle proprie convinzioni, si rese conto che poggiavano su esili e traballanti fondamenta di… nulla, e un brivido percorse la sua spina dorsale, accompagnato dall’orrendo dubbio di aver gettato al vento la cosa più preziosa che avesse...
 
Nel frattempo Castiel uscì dal bagno, irrigidendosi per un istante nel trovarlo sveglio e salutandolo con un sorriso forzato.
 
- Oh. Ciao Jens. Io… mi sono alzato presto. Se vuoi andare a farti la doccia fai pure, di là ho finito. - borbottò neutro, evitando di soffermarsi troppo a lungo a guardarlo e rivolgendo la propria attenzione ad uno dei cassetti dell’armadio, in cerca di biancheria pulita.
 
- Sì… grazie, adesso vado. Senti Cass… pensavo che dopo potremmo fare colazione fuori, per guadagnare tempo e vedere più cose possibili, sempre che tu voglia ancora uscire in esplorazione. - propose Jensen in tono mite e un po’ esitante, alzandosi e azzardando qualche passo in direzione del prof.
 
- Certo, come preferisci. Usciamo. Allora sbrigati, ti aspetto qui. - ribattè Castiel, garbato ma senza calore, sgusciando via con i vestiti tra le mani e allontanandosi da lui con ben poca grazia.
 
Jensen filò spedito in bagno prima di dire qualche scemenza.
 
Mentre sotto la doccia si sfregava la pelle fin quasi a scorticarsi, pieno di frustrazione e di una rabbia a cui non riusciva a dare un nome, non riuscì a non pensare che avrebbe preferito mille volte essere insultato, magari prendersi anche un pugno, piuttosto che subire quell’atteggiamento passivo, quella remissività forzata che non era affatto da Castiel, non del Castiel che conosceva, almeno.
L’odierna fredda cortesia era decisamente peggio del silenzio della sera precedente, e lo mandava inspiegabilmente fuori dai gangheri.
La sua esperienza in fatto di guerra psicologica all’interno di una relazione si fermava a qualche banale screzio per una telefonata non fatta, o l’essersi presentato in ritardo ad un appuntamento.
Questo era tutto un altro livello.
Questo era il Super Bowl dei litigi.
 
E lui non conosceva le regole.
 
Quando uscì dal bagno, il professore era già pronto, perfettamente vestito, e quando lasciò cadere l’accappatoio sul pavimento per vestirsi a sua volta, accennando un timido sorriso, l’altro lasciò la stanza per andare a sedersi nel salottino attiguo, fingendosi interessato alla guida di New York che si era portato da casa.
 
Jensen chiuse gli occhi per un istante e contò mentalmente fino a dieci, trattenendosi dall’andare a scuoterlo come un albero per farlo reagire.
 
Avevano programmato una giornata da turisti, dato che quelle sarebbero state le uniche ore libere da parenti o impegni di lavoro dell’intero weekend, prima del rientro a Boston in serata.
 
Entrambi avevano già visitato New York, più volte, ma mai con la “forma mentis del viaggiatore”, come la chiamava Castiel, e il professore era parso entusiasta di poter fare quest’esperienza insieme a Jensen, di poter condividere il piacere infantile di vedere la città con occhi nuovi assieme alla persona più infantile che conoscesse.
 
Questo, naturalmente, prima della cena più disastrosa di sempre.
 
Castiel però non si stava comportando in modo tanto scostante per ripicca.
Anzi.
Conosceva alla perfezione i propri limiti, ed era ben conscio che questi ultimi arrivavano ad un metro circa dal corpo di Jensen, confine che non doveva per nessuna ragione oltrepassare.

Sapeva bene che se solo fosse transitato nel suo campo gravitazionale si sarebbe fatto inevitabilmente irretire dai suoi dannati occhi verdi, dalle sue stupide lentiggini, dal calore del suo corpo, dall’amore che continuava ad attirarlo verso di lui come un magnete.
 
‘Maledetta Orbita d’Attrazione Winchester…’
 
Sapeva che se solo gli avesse permesso di stringerlo tra le braccia, o di baciarlo, l’esito sarebbe stato uno solo: sesso ruvido e arrabbiato… si conosceva abbastanza da sapere che avrebbe reagito in malo modo, che tutta la frustrazione e la rabbia insensata che gli si agitavano dentro avrebbero trovato uno sfogo scopando Jensen con durezza, piegandolo a faccia in giù sul tavolo senza tanti riguardi, affondando dentro di lui senza preoccuparsi di fargli male.

Esattamente come Jensen aveva fatto con lui la sera precedente.
 
Ma Castiel non voleva assolutamente comportarsi in modo tanto meschino, lui non era così, maledizione, si faceva schifo anche solo per averlo pensato, ed ecco perché stargli a debita distanza era parsa l’unica opzione valida, sul momento.
 
E la cosa ancor più triste, in tutto ciò, era la certezza che Jensen gliel’avrebbe lasciato fare.
Per espiare in qualche modo.
Perché lui era così. Perché gliel’aveva letto negli occhi, solo pochi istanti prima.
Perché Jensen credeva di meritare esclusivamente il dolore, e di dover pagare a caro prezzo anche solo il fatto di essere al mondo…

In lui convivevano in un bizzarro equilibrio forza e fragilità, una conseguenza diretta dell’altra, in una specie di infinito rimpiattino, e se pure la fragilità che aveva percepito fin da subito sotto la sua scorza era indubbiamente una delle caratteristiche che avevano contribuito a farlo innamorare di Jensen, ora Castiel si trovava a doverla affrontare come la nemica numero uno che lo separava da tutto ciò che desiderava.
 
Sentiva la felicità scivolargli come sabbia tra le dita, e più stringeva il pugno per trattenerla più questa s’insinuava tra gli interstizi e svaniva velocemente… sentiva che stava perdendo la sua migliore occasione, forse l’ultima, forse l’unica… pensò sgomento, mentre osservava di sottecchi il compagno entrare nel salottino e raccogliere la giacca dallo schienale di una sedia, pronto per uscire, fermandosi ad aspettarlo nei pressi della porta.

Si mise in piedi, afferrò a sua volta il trench e lasciò la suite con Jensen, senza una sola parola. Presero l’ascensore come due sconosciuti, senza mai incrociare gli sguardi, Castiel confuso, spaventato, Jensen risentito e ansioso.
 
Una volta fuori, presero un taxi in direzione di Lower Manhattan, alla ricerca di una pasticceria tipica a Little Italy, e anche se l’enclave italoamericana della città stava venendo lentamente fagocitata da Chinatown, grazie alle ricerche fatte da Castiel prima della partenza riuscirono comunque a localizzare una fantastica piccola bottega in cui Jensen potè gustare le delizie che sognava da giorni.

Naturalmente, se in questo idilliaco e iperglicemico scenario il professore si fosse degnato di emettere suoni che non fossero stentati monosillabi, sarebbe stato tutto perfetto, constatò mestamente Jensen...

Da Little Italy in poi decisero di spostarsi a piedi, per godere della vera atmosfera della città e della giornata soleggiata, seppur ventosa, zigzagando senza un itinerario preciso da Brodway fino a Battery Park, risalendo quindi verso Tribeca.

Grazie al cielo, complici le chiacchiere neutre sulle differenti zone della città che attraversavano di buon passo, sulla storia dei vari quartieri e sulle leggende urbane tipo alligatori nelle fogne che divertivano inspiegabilmente Jensen, il clima fra loro si fece appena appena più tiepido, senza però andare oltre ad una generica gentilezza, quella che, come Jensen ben sapeva, Castiel riservava agli sconosciuti, ai colleghi in Accademia e persino al postino.
 
Non si era mai sentito tanto a disagio in vita sua, si sentiva goffo e impacciato nel proprio non toccare Castiel, così come gli sembrava di camminare sulle uova ogni volta che apriva bocca, e fu molto grato della sosta per il pranzo.
Se mangiava, almeno, non doveva pensare, e soprattutto non doveva cercare di riempire il silenzio che grondava tra loro come melma nera, appiccicandosi ad ogni cosa.
Mentre ancora erano seduti ai tavolini del caffè all’aperto dove avevano pranzato, attivamente occupati a cercare di evitare gli sguardi uno dell’altro, il professore leggiucchiando la guida turistica e Jensen mimetizzato dietro la mappa della città, la suoneria del cellulare di Castiel segnalò l’arrivo di un sms.
Jensen, facendo capolino dalla cortina di carta stropicciata, l’osservò leggere il messaggio, stirare per un momento le labbra in una linea pallida e sottile e digitare in fretta una breve risposta, per poi riporre il telefono in tasca assumendo di nuovo un’espressione impassibile.
Non passarono che pochi istanti ed anche il display del suo cellulare si illuminò con l’immagine di una bustina. Afferrò il telefono posato sul tavolino e quando aprì il messaggio, proveniente da un numero sconosciuto, constatò che diceva solo IDIOTA, in maiuscolo.

‘Breve ed esaustivo...’ valutò.

Preferì non indagare su come Balthazar si fosse procurato il suo numero, concentrandosi invece sul fatto che Castiel, evidentemente, gli aveva comunicato l’esito della loro serata.
Fissò per un po’ il telefono, senza sapere che fare, poi lentamente digitò LO SO e premette invio.

Non fece quasi in tempo a posarlo che arrivò un secondo messaggio, questa volta da Jared.
Diceva: COGLIONE.
 
Jensen digitò subito una risposta: MA CHE AVETE TUTTI?  :(
 
Dopo pochi secondi arrivò la replica del fratello: BALTHAZAR HA CHIAMATO GABRIEL. GABRIEL HA CHIAMATO ME.
 
Jensen evitò di rispondere, esasperato.

Era semplicemente assurdo: una serata fuori, un paio di bistecche, qualche birra, e quattro emeriti sconosciuti si erano trasformati in una società segreta che tramava ai suoi danni.
A questo punto mancava solo Gabe, per completare l’elenco di epiteti che descrivevano in maniera abbastanza esauriente l’opinione che tutti quanti avevano di lui.
Gabe però non si fece sentire, inquietando Jensen ancora di più.
Per la propria salvaguardia personale, decise di non assaggiare nulla di ciò che Gabriel gli avrebbe inviato nell’immediato futuro.

In fondo, le crostatine all’arsenico non si rivelavano quasi mai una buona idea.
 
Dopo uno spuntino breve e punteggiato da chiacchiere stentate, pur senza averlo pianificato, si avviarono automaticamente alla volta di quella che era una tappa quasi obbligata per ogni americano in visita alla città, Ground Zero.

Una volta giunti nei pressi dell’enorme voragine, o ex-voragine, ora cantiere, che strideva in maniera assordante col brulicare di palazzi e di vita tutt’attorno, si zittirono del tutto.
 
Il silenzio, il rispetto, il senso di tragedia e di perdita che permeavano l’intera area fecero drizzare i capelli sulla nuca ad entrambi.
Era come se la vita, lì attorno, rallentasse spontaneamente, come se il mondo respirasse sottovoce.
 
Castiel avvertì un malessere strisciante farsi strada dentro di sé. Quello spazio negativo lo metteva profondamente a disagio, era un’area innaturalmente vuota, uno luogo che portava una ferita insanabile, e rispecchiava esattamente le sensazioni che combattevano dentro al suo cuore.
 
L’idea di vivere senza Jensen lo faceva sentire un guscio vuoto, un’involucro senz’anima, e perderlo l’avrebbe fatto sanguinare per sempre… proprio come il terreno su cui stava camminando, pensò con un brivido.
 
Osservò i fiori lasciati qua e là, le foto, i bigliettini, e ripensando a tutti i messaggi d’amore che erano partiti dalle torri durante la tragedia, a tutte le telefonate che non chiedevano aiuto, ma gridavano disperati “ti amo” alle proprie famiglie, ai figli, ai fidanzati, con la cruda consapevolezza che quella sarebbe stata l’ultima volta, si sentì improvvisamente piccolo.
E stupido.
Lui la possibilità di guardare negli occhi il proprio uomo ce l’aveva ancora, la possibilità di dirgli quanto lo amasse era lì, bastava trovare il coraggio, e invece stava tacendo come un idiota, invischiato tra il reciproco orgoglio e una stupida congiura del silenzio che stava logorando i nervi ad entrambi, senza sapere come uscirne.
 
Jensen si trovò invece a riflettere sul destino, sull’essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, al tempismo che condiziona la vita di tutti, vecchi e giovani, poveri e ricchi, senza senza guardare in faccia a nessuno.
Un taxi non trovato, un treno perso, una metro piena e tu continui a vivere.
Sliding Doors non era solo un film.
 
Alla fine tutto si riduce a questo: tempo.
C’è un tempo per ogni cosa? Arriva mai il momento giusto? Il momento perfetto?
E se sì, come capirlo?

Stava allontanando Cass per una questione di tempo, ma se fossero stati assieme da più di due mesi? Se i mesi fossero stati otto? Se fosse stato un anno? Le cose sarebbero state diverse?
Gli costò un enorme sforzo, ma fu costretto ad ammettere con se stesso di no.
Non era il tempo il problema, era la paura. La paura gli stava fottendo il cervello e, perseverando su quella strada, gli avrebbe fottuto la vita.
E dire che, alla baita, si era ripromesso di accantonare le proprie stupide diffidenze e di dare a Castiel tutto ciò che era in suo potere dargli.

Che, alla luce dei fatti, era ben misera cosa, pensò tristemente, osservando il professore di sottecchi perso in chissà quali pensieri, gli occhi blu stretti i due fessure e la fronte leggermente corrugata.
 
Si allontanarono da Ground Zero col cuore pesante e piuttosto scossi, in direzione del Village, ormai consci della pochezza dei loro problemi di fronte ad una tragedia di tali proporzioni ed entrambi più malleabili nei confronti l’uno dell’altro, ma senza sapere bene come fare a sbloccare la situazione.

Fu Castiel a rompere il ghiaccio per primo, domandando in tono remissivo a Jensen se ci fosse qualcos’altro che volesse vedere o visitare e guardandolo finalmente negli occhi, anche se solo per pochi secondi.
Jensen, a sua volta ammorbidito dall’atteggiamento del professore e dalla luce limpida che per un breve istante colse nel suo sguardo ci pensò su e poi, cartina alla mano, pilotò il compagno fino al numero quattro di Pennsylvania Plaza, ovvero al Madison Square Garden.
 
- Con tutti i monumenti e le opere d’arte da ammirare a New York, tu vuoi vedere uno stadio? - domandò Castiel con un mezzo sorriso, il primo dell'intera giornata.
 
- Bè, ognuno ha il proprio concetto di arte, Professor Noioso… tu non ti rendi conto, ma questo è un luogo leggendario: non solo ci giocano i Knicks, che già di per sé basterebbe a farne un luogo di culto, ma ci hanno anche suonato i Led Zeppelin. E i Grateful Dead. Sport e buona musica, cosa potrei volere di più? - chiese, un po’ più rilassato e in preda all’entusiasmo nel trovarsi di fronte al proprio personale tempio sacro.
 
Castiel scosse la testa, rassegnato, ma gli scattò comunque una foto col cellulare davanti all’ingresso, prima di proseguire con il loro tour.
 
- Bene, non credo che ci resti ancora molto tempo Cass, stavolta tocca a te scegliere l’ultimo posto da visitare. Dove vuoi andare? - propose Jensen.
 
- Mi piacerebbe molto visitare il Chrysler Building… - disse in tono pacato.
 
- Benissimo, andiamoci. -
 
- Non si può. -
 
- E perché? -
 
- L’edificio non è aperto al pubblico, purtroppo si può visitare solo l’atrio. -

- Bè, è un peccato, ma come mai ci tenevi così tanto a visitarlo? -
 
- È uno dei più begli esempi di art déco applicata all’architettura, un edificio unico nel suo genere, curato fin nel minimo dettaglio, persino gli ascensori sono delle opere d’arte... -
 
- Wow, non ne avevo idea. Mi spiace prof… - commentò Jensen con sincero rammarico, rimuginando fra sè - Senti, e se invece di rimanere qui a guardarlo sconsolato con il naso all’insù potessi godertelo da una prospettiva diversa? -
 
- Che intendi dire? -
 
- Intendo dire Empire State Building [1], ovviamente. Da lì si gode una vista strepitosa della città ma anche del Chrysler. -
 
- Dici sul serio? -

- Certo che dico sul serio! - ribadì Jensen, iniziando a camminare e voltandosi verso Castiel, che era rimasto impalato sul marciapiede - Avanti, sbrigati, dobbiamo ancora arrivare lì, e poi abbiamo ben trecentoventi metri da risalire! - lo spronò.
 
- Aspettami! Non correre… - gli urlò Castiel, caracollandogli dietro - Come sai tutte queste cose? - s’informò poi, genuinamente stupito.
 
- Ehi, io leggo! [2] - replicò Jensen, piccato.

- Le mie scuse, non era mia intenzione offenderti, solo che non ti facevo un appassionato di architettura, visto che non sapevi nulla del Chrysler. -
 
- Infatti non sono un’appassionato, però ho letto un articolo sulla costruzione del palazzo e mi è rimasto impresso… - confessò Jensen, continuando a camminare a passo spedito e voltandosi indietro ogni tanto per assicurarsi che Castiel lo stesse ancora seguendo - Dopo un solo anno, l’Empire ha strappato al Chrysler il primato di edificio più alto del mondo, lo sapevi? Questo ovviamente negli anni trenta, prima dell’avvento della tecnologia nelle tecniche costruttive. Centodue piani costruiti così tanti anni fa ed è ancora in piedi, ci pensi? -
 
Castiel gli rivolse uno sguardo indecifrabile.
 
- Ho come l’impressione che tra poco dovrò essere io a chiamarti prof… - mormorò, colpito.
 
- Come no. Sono praticamente un pozzo di scienza. -  sibilò ironicamente Jensen - Oh, guarda, siamo arrivati. - disse infine, arrestandosi ai piedi del palazzo e soffermandosi brevemente a guardare verso l’alto, prima di afferrare Castiel per una manica del trench e trascinarlo all’interno della hall dell’edificio, verso la biglietteria.
 
Dopo una coda non tanto breve sia ai controlli di sicurezza che per l’acquisto dei biglietti, presero finalmente uno dei velocissimi ascensori per l’ottantaseiesimo piano dell’edificio.
Non appena si aprirono le porte e sbucarono sulla grande terrazza panoramica, affollata di turisti come ad ogni ora del giorno, Castiel corse immediatamente al lato nord, ovvero quello che affacciava sul Chrysler, aggrappandosi con le mani alle reti protettive che correvano tutt’attorno alle ringhiere, come un bambino.
Jensen lo raggiunse dopo pochi secondi, sorridendo intenerito nell’osservarlo ammirare l’edificio con occhi luccicanti.
 
‘Basta così poco per farlo felice…’
 
- Allora, Cass, soddisfatto dalla vista? -
 
- Oh, sì. È bellissimo non trovi? -
 
‘In effetti…’ pensò Jensen, osservandolo con i capelli sconvolti dal vento e l’aria estasiata, le labbra screpolate piegate leggermente all’insù.
 
- Sì, è davvero un edificio elegante. -
 
- Guarda le rifiniture di metallo, Jens. Le curve. Guarda i gargoyle. Sai che è stato praticamente costruito a mano? La guglia, le finestre e le lamine di copertura sono state lavorate in officine dislocate direttamente all’interno del palazzo, mi pare al sessantacinquesimo piano. È  pazzesco… -
 
- Ti piace proprio, eh? -
 
- Sì. - ammise Castiel - È un esempio prodigioso del genio umano, la prova che anche una cosa creata per fini economici può essere bella come un’opera d’arte… e pensa che la guglia è stata montata in novanta minuti! -
 
- Che cosa? Ma peserà tonnellate… -
 
- Ventisette, per la precisione. Venne tenuta nascosta all’interno dell’edificio per settimane, prima di essere installata, suscitando un incredibile scalpore fra stampa ed opinione pubblica. Lo stesso architetto che l’aveva progettata ammise che quelli furono novanta minuti di puro terrore che trascorse, tremando come una foglia, sulla quarantesima strada in una mattina di ottobre del ’29. -
 
Jensen, fischiò, impressionato.
 
- Accidenti. -
 
- Già. E’ incredibile come le cose possano cambiare in uno spazio di tempo così breve, vero? - mormorò dopo una breve pausa il professore, la testa inclinata e la voce carica di sottintesi, fissandolo dritto negli occhi, mentre il blu delle sue iridi si velava appena di una sottile patina lucida.
 
Jensen non fu in grado di sostenere a lungo quello sguardo che sembrava privarlo di ogni difesa o giudizio e si voltò ad osservare lo skyline dritto davanti a sé, riflettendo sul significato delle parole di Castiel.
Anche quest’ultimo rivolse lo sguardo verso la città ai propri piedi, passandosi sbrigativamente sugli occhi una manica del trench.
 
Osservarono in silenzio il panorama mozzafiato per un po’, fianco a fianco ma senza sfiorarsi, sopraffatti, quasi schiacciati, dal senso di maestosità che in genere permeava posti simili, smarriti nei rispettivi pensieri.
 
Poi Castiel si voltò lentamente ad osservare il profilo di Jensen, lo sguardo perso nel nulla, le ciglia tremanti per il vento che lassù soffiava impetuoso, le lentiggini accentuate dal primo sole, e realizzò definitivamente che l’unico spettacolo mozzafiato che desiderava vedere ogni giorno non era davanti a sé, ma al suo fianco.
 
Si rese conto che la sua felicità era lì e in quel momento, non in un ipotetico futuro…
 
Esattamente come aveva fatto al museo quella che sembrava una vita prima, lasciò scivolare la propria mano fino a stringere titubante quella di Jensen, intrecciando le proprie dita con le sue.
 
Ed esattamente come aveva fatto al museo, Jensen si voltò a guardarlo, incontrando uno sguardo dispiaciuto e carico d’emozione, ma questa volta non si ritrasse.
 
- Mi dispiace, Jens. Ho sbagliato, perdonami. - mormorò il professore - Ho sbagliato a chiederti una cosa del genere. Se deve creare problemi tra noi io… ritiro tutto quello che ho detto. Dimenticatene. Non ci ho riflettuto abbastanza, anzi, non ci ho proprio riflettuto, ero sull’onda dell’entusiasmo per la proposta di Crowley, per la casa e tutto il resto, non ho pensato a cosa ti stavo realmente chiedendo… io… scusa. -
 
Jensen l’attirò dolcemente a sé, tutta la tensione delle ultime ore già dimenticata.
 
- Cass… -
 
- Quello è solo un lavoro. Un’occasione. Ne verranno altre. E se anche non venissero, tutto ciò che è davvero importante è qui, tra le mie braccia. Sei la cosa più bella che sia mai stata mia, e non ho intenzione di lasciarti andare per uno stupido libro. Non desidero niente di più di quello che ho in questo momento. - mormorò, strusciando il viso sulla sua spalla, ad occhi chiusi - Non voglio svegliarmi a New York, se al mio fianco non ci sei tu. -
 
Jensen sospirò, stringendo forte il suo professore.
 
Si stava scusando.

Lui, si stava scusando.

E Jensen sapeva perfettamente che non lo stava facendo per mettere una sbrigativa pietra sopra alla questione e poter così accantonare i contrasti delle ultime ore, Castiel non era quel genere di persona, lo stava facendo perché ci credeva veramente.
 
Si stava scusando per aver desiderato un futuro insieme, per avergli prospettato una vita felice e senza preoccupazioni, per avergli dato l’opportunità di riprendere gli studi e dedicarsi ad una passione troppo a lungo accantonata.
 
Si stava scusando per non averlo lasciato indietro, nemmeno di fronte alla possibilità di una sfolgorante carriera in una sfolgorante città.
 
Castiel non ragionava seguendo i canonici binari del pensiero comune, ma seguiva il sentiero alternativo fatto d’innocenza e di fiducia cristallina proprie dei bambini. Non parlava di sé al singolare, ma considerava loro due come un’unica entità, proprio per questo indivisibile.
 
Il suo non era stato un poco ponderato atto d’egoismo, quanto piuttosto uno slancio d’altruismo tanto genuino da sfiorare l’assurdo… almeno per le persone ordinarie.
 
Ma il professore di ordinario non aveva proprio nulla.
 
Stavano insieme si e no da due mesi e Castiel era disposto a dividere con lui ogni cosa.
La propria casa, la propria buona sorte, la propria vita.
 
Ogni. Dannata. Cosa.
 
Senza nemmeno pensarci.
 
‘Jensen, sei un povero coglione… ‘ pensò con amarezza, stringendolo ancora di più.
 
Sarà stato anche il re degli insicuri sotto tutta una serie di aspetti, ma Castiel gli faceva davvero mangiare la polvere quando si trattava di affrontare i propri sentimenti, perché al contrario di lui non aveva alcuna paura nel mostrare la propria debolezza, il proprio umanissimo bisogno di amare e di essere amato, senza nessun tipo di rete di sicurezza o giustificazione.
 
Quell’uomo dagli innocenti occhi blu era davvero la creatura più incredibilmente pura che avesse mai conosciuto… il suo cuore, la sua anima, erano grandi quanto il fottuto Chrysler Building lì davanti a loro, e se c’era al mondo qualcosa, o qualcuno, per cui valesse la pena buttare all’aria la propria intera esistenza senza voltarsi indietro, quello era Castiel.
 
Finalmente Jensen capì cos’era il calore che sentiva nel cuore quando stava con lui.
Il calore di casa, della sicurezza, il calore che ti fa dormire tranquillo la notte, che ti fa sentire al sicuro.
 
Non fuoco che brucia, non fuoco che consuma, ma una fiamma rassicurante che riscalda e illumina.
 
Si staccò da lui per poterlo guardare negli occhi, e venne travolto da una tale quantità d’amore che per un attimo restò senza fiato.
 
- Cass, mi sa che ti sei sbagliato sul mio conto. Qui, se davvero c’è un angelo, non sono io, sei tu… tu sei il mio angelo. - sussurrò, commosso, prendendogli il viso tra le mani, incurante degli sguardi curiosi attorno a loro - Sei la persona più incredibile che abbia mai conosciuto… -
 
- Io… se davvero fossi un angelo, mi strapperei le ali per te… - smozzicò Castiel, la voce spezzata dall’emozione - Io… cadrei per te… darei ogni cosa per te… non sono disposto a perderti, Jens. - terminò in un sussurro, mentre Jensen si chinava a baciarlo come non ci fosse un domani, generando un applauso spontaneo nella folla di turisti attorno a loro, come in una commedia romantica di serie B.
 
- La… la gente ci guarda… - mormorò Castiel sulle sue labbra dopo qualche istante, scostandosi appena, con le guance arrossate dall’imbarazzo e accennando alle persone che li fissavano.
 
- Quale gente…? - bisbigliò Jensen, osservandolo tra le ciglia socchiuse, stringendolo più forte e ricominciando a baciarlo.
 
Era ora di smettere di guardarsi i piedi col timore di sbagliare i passi.

Doveva ballare e basta.
 
- Andiamo a casa… - sussurrò.
 
Ma restarono abbracciati stretti ancora per un bel po’ sul tetto del mondo, prima di riprendere l’ascensore ed iniziare la lunga discesa verso la vita reale.
 
 
 
 

Wherever you go, I'll be with you.
Whatever you want, I'll give it to you.
Whenever you need someone
To lay your heart and head upon.
Remember: after the fire, after all the rain,
I will be the flame.
I will be the flame.
 
(Cheap Trick – The flame)

 
 
 
[1] La cima dell’Empire, di notte, viene spesso illuminata con colori che corrispondono alle varie occasioni o ricorrenze. Per il Columbus Day, ad esempio, viene illuminata con i toni del tricolore italiano.
Il 24 giugno 2011, quando è stata approvata anche nello stato di New York la legge che legalizzava i matrimoni gay, l'Empire State Building è stato illuminato con i colori della bandiera arcobaleno!
 
[2] Dalla 4X14, Sex & Violence.



NDA: eccomi qua a cospargermi il capo di cenere... sono in megaritardo con l'aggiornamento, lo so. Senza contare i casini prenatalizi, a mia discolpa posso dire che sono stata tecnologicamente lesa, e che il modem questa settimana ha fatto come le caprette di Heidi, ovvero mi ha fatto ciao. ç__ç
Non vogliatemene!
Tralasciando le mie consuete botte di fortuna, vorrei approfittare di queste righe per augurare a tutte le persone che leggono questa storia buone feste e buone vacanze, se avrete modo di stare a casa a rilassarvi un po'.
Mangiate, dormite e divertitevi!
Buon Natale ^___^

 
 

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Capitolo 29
*** TWO AND A HALF MAN ***


TWO AND A HALF MAN

 
Il rientro a Boston, in serata, avvenne senza particolari scossoni, e in maniera sicuramente meno eccitante dell’andata.
Jensen era stravolto a causa della notte quasi insonne e sia lui che il prof avevano sulle spalle parecchie ore di camminata attraverso l’intera città, per non parlare della quantità di emozioni vissute nelle precedenti ventiquattr'ore.
 
Quando Castiel si accomodò nel confortevole sedile accanto al suo, allacciando le cintura di sicurezza e preparandosi a snocciolare una sequela infinita di porcherie, Jensen fece appena in tempo a stringergli la mano e a borbottare “Odio volare...” prima di addormentarsi di schianto.
Il professore sorrise, osservando prima il compagno che respirava pesantemente accanto a lui con le labbra socchiuse, sbavando un pochino, quindi le loro mani intrecciate; dopo poco anche i suoi occhi si chiusero lentamente, e Castiel scivolò  a sua volta in un sonno tranquillo, da cui riemerse direttamente all’atterraggio, constatando che la sua mano era ancora stretta in quella di Jensen.
 
Una volta giunti al gate, dovette quasi caricarsi sulle spalle una sorta di zombie per riuscire a portarlo giù dalla scaletta dell’aereo, zombie che si rianimò solamente nel parcheggio, una volta ripreso possesso dell’Impala, non senza averne controllato ogni lato per verificare che non avesse subito danni, e che guidò in stato di semincoscienza fino a Back Bay, dove crollarono addormentati in cinque secondi netti.
 
Quando il mattino seguente, sul tardi, Castiel si risvegliò, immediatamente le sue narici vennero solleticate da un profumino delizioso proveniente dal piano di sotto, e le sue orecchie aggredite da musica tenuta ad un volume decisamente alto accompagnata da suoni sguaiati che potevano provenire da una sola fonte.
Tornare alla loro solita routine era… bè, fantastico, e non riusciva nemmeno a credere di aver rischiato di perdere tutto solo poche ore prima…
 
Si buttò addosso qualcosa in fretta e fece gli scalini due a due, piombando da basso con un sorriso smagliante e trovando ad accogliarlo due cose: Jensen che frugava con aria scocciata nella propria cassetta dei colori sul bancone della cucina stonando in maniera impressionante sulle note di Heat of the Moment degli Asia e, poco lontano da lui, un piatto su cui si ergeva una traballante torre di pancake appena fatti e uno colmo di bacon croccante.
 
- Mhhh… “friggilo e lui verrà?” [1] - domandò ironicamente il professore, continuando ad annusare l’aria ed avvicinandosi a Jensen fino a posargli un bacio sul collo.
 
- Sì… qualcosa del genere… - ridacchiò l’altro, lasciando perdere per un secondo la cassetta.

- Questo è il Paradiso? - mormorò dolcemente Castiel, sfiorandogli ripetutamente il collo con la punta del naso ed ispirando, questa volta, il suoprofumo.
 
- No, è il Massachusetts. [2] - replicò Jensen stando al gioco ed abbracciandolo, insinuandogli le dita sotto la maglietta per accarezzargli la schiena calda.

- Mi hai fatto i pancake. - mugolò Castiel soddisfatto, con il viso affondato nella sua spalla e le braccia a circondargli la vita.
 
- Ti ho fatto i pancake. - convenne Jensen.
 
- Mhhh… ci hai messo del blu di cobalto? Lo sai che sulle frittelle lo adoro… - ghignò il professore, staccandosi un poco da lui e accennando ai colori sparsi sul ripiano a poca distanza dai piatti.
 
- Guarda che sono almeno a trenta centimetri dalla tua colazione, Signor Schizzinoso. Piuttosto, mangia finché è tutto caldo, da bravo. - ordinò Jensen, sospingendolo via con una pacca sul sedere e tornando a rivolgere la propria attenzione ai tubetti ammaccati sparsi in giro.
 
Castiel annuì, obbediente, si versò una tazza di caffè con un bel po’ di zucchero, avvicinò uno sgabello al bancone e, dopo averci affettato sopra una banana, inondò il piatto di pancake con un vero e proprio tsunami di sciroppo d’acero, attaccandolo poi con l’entusiasmo degno di un bulimico uscito da un campo di concentramento, mentre Jensen l’osservava con un sorrisetto piuttosto eloquente.
 
- ‘E ‘scè? - domandò il professore a bocca piena, rendendosi conto dello sguardo canzonatorio dell'altro.
 
- Niente… è solo che… sai, mi somigli ogni giorno di più… - ghignò Jensen, continuando ad ammirarlo a braccia conserte, appoggiato con un fianco al bancone.
 
Castiel smise immediatamente di masticare, arrossì un pochino e tentò di biascicare qualcosa, ma si trovò a dover deglutire con un certo sforzo l’enorme boccone, suscitando in Jensen altre risate.
 
- ‘Hon… cough… non è affatto vero! - replicò tossicchiando, rischiando di soffocare e buttando infine giù una lunga sorsata di caffè - E comunque cosa stavi combinando con la cassetta? - chiese, tentando di spostare l’attenzione del compagno su qualcosa che non fossero le proprie abitudini alimentari in netto declino.
 
- Visto che abbiamo ancora qualche giorno libero prima di rientrare in Accademia volevo iniziare un quadro, ma molti colori si sono seccati… non li uso da troppo tempo. - spiegò con disappunto.
 
- E allora? Che problema c’è? Dammi il tempo di finire qui e di vestirmi e poi ce ne andiamo al negozio di belle arti a comprare tutto ciò che ti occorre. -
 
- Ti va sul serio? - chiese Jensen, stupito. Castiel detestava fare shopping.
 
- Scherzi? Quel posto per me è come Disneyland, dovrai trascinarmi fuori di peso! -
 
- Ma se di là in studio avrai un capitale in tele e colori… -
 
- Lo so, ma quelli del negozio sono nuovi. I pastelli luccicano, nelle loro belle scatole di legno. I gessetti non sono rotti, i tubetti non sono mezzi spremuti… Dio, adoro l’odore di quel negozio… - esclamò Castiel con aria sognante, mentre un pezzetto di pancake minacciava di finire dritto in faccia a Jensen, prendendo il volo dalla forchetta agitata qua e là da un gesticolante professore.
 
- Oddio. Sapevo che prima o poi sarebbe accaduto. - commentò l’altro con aria grave, sorvegliando diffidente la forchetta che ancora non aveva terminato la sua danza a mezz’aria.

- Cosa intendi dire? -
 
- Che eri troppo perfetto per essere vero. Dovevi pur avere una qualche grave tara mentale… ora so qual è. - ridacchiò Jensen - Sei un sociopatico dei colori. -
 
- Come ti permetti di insinuare una cosa del genere? -
 
- Oh, io non insinuo. Io lo so. -
 
- Certo, come no, voglio proprio vedere il contegno che manterrai tu, una volta là dentro… -
 
- Come vuoi che mi comporti, scusa? Prenderò quello che mi serve, pagherò e usciremo in men che non si dica. - replicò Jensen con aria di superiorità.
 
- Oh sì, ne sono sicuro… - sogghignò Castiel, terminando la propria colazione e tornando al piano superiore per vestirsi.
 
Prima di uscire di casa Jensen, già sulla soglia, si bloccò per un istante, osservando il prof con aria preoccupata, come se all’improvviso avesse rammentato qualcosa d’importantissimo.
 
- Jens che c’è? Hai dimenticato le chiavi della macchina? - domandò il prof, voltandosi verso il tavolino all’ingresso per controllare.
 
- No no, è che mi chiedevo… se avessi già telefonato a Crowley per… sai, per il libro. - spiegò cauto, cercando di non premere un punto ancora troppo dolente.
 
Castiel si rabbuiò per una frazione di secondo, mentre un lampo di rimpianto saettò quasi impecettibilmente nel suo sguardo.
 
- Oh. No, in effetti no. Io… non ne ho avuto il coraggio. Hem, cioè, preferisco aspettare qualche altro giorno, giusto per… metabolizzare la cosa. - disse pacatamente, stringendosi nelle spalle, mentre rivolgeva uno stentato sorriso a Jensen tentando di non fargli capire quanto ancora tenesse a quel progetto.
 
- Capisco… ma hai fatto bene, Cass. Se posso permettermi di darti un consiglio, io non chiamerei fino all’ultimo minuto. Ti hanno dato due settimane, no? Lasciale passare tutte. -
 
- Perché? -
 
- Fidati di me, conosco i meccanismi contorti di certe faccende, e se c’è uno che ha l’aria di fare giochetti, è proprio quel Crowley. Sono pronto a scommettere che le sue pretese, allo scadere del tempo, si saranno notevolmente ridimensionate. Sono tutte tattiche imprenditoriali, ma se tieni duro si accorgeranno di avere a che fare con un osso duro, dammi retta. Se ti hanno concesso così tanto tempo è perché tengono ad averti più di quanto non vogliano ammettere, e a quel punto potrebbero anche scendere a compromessi all’idea di un tuo rifiuto.
 
- Tu dici? - mormorò Castiel, mentre una flebile speranza si riaccendeva dentro di lui.
 
- Ne sono certo. - asserì Jensen, convincente, nel suo speciale tono “calma-Geraldine” - E comunque aspettare non costa nulla, quindi perché non provare? - concluse, pragmatico, posando una mano sulla spalla di Castiel e stringendo leggermente, per sottolineare il concetto.
 
- In effetti… - valutò il professore - Va bene, se ci tieni farò come dici, sperando che cambino idea. Tieni le dita incrociate, però! - sorrise, un po’ più sereno a quella prospettiva, oltrepassando Jensen ancora fermo sulla soglia e dirigendosi verso l’Impala.
 


- Cass, come funziona l’esposizione? - domandò Jensen una volta in auto, giusto per cambiare definitivamente discorso.

- Mh? Come mai vuoi saperlo? -
 
- Bè, ne abbiamo parlato tantissimo negli ultimi tempi, ma mi sono reso conto di non avere la più pallida idea di come sia strutturata la cosa… -
 
- Dunque… è una specie… è come una specie di torneo medievale, in effetti. Ogni docente manda avanti i propri “campioni”, i cinque studenti più promettenti, con i loro migliori lavori, che vengono esposti in aula magna per un determinato periodo. -
 
- E questi campioni con che criterio vengono scelti? -
 
- Non basta che siano bravi, devono anche essere motivati. Originali. A questo punto del semestre in genere so già chi ha le caratteristiche necessarie per affrontare la competizione, ma assegno comunque un tema all’intero corso e poi faccio la mia scelta definitiva. Ho imparato col tempo che ci sono talenti che emergono sulla lunga distanza, regalandomi soddisfazioni inaspettate… -
 
- Accidenti, è una bella responsabilità dover decidere del futuro di quei ragazzi… -
 
- E’ una responsabilità, certo, ma anche un onore. So quello che faccio Jens, quello forse è l’unico aspetto della mia vita su cui non nutro la minima incertezza. Poter aiutare uno studente brillante a mettersi in luce, contribuire, se pur indirettamente, a cambiare il futuro panorama artistico del paese, è un raro privilegio per me. - ammise Castiel, con un sorriso che trasudava determinazione e sicurezza - Anzi, sai una cosa? Quei ragazzi si meritano un incentivo, si stanno impegnando molto, voglio comprare pennelli nuovi per tutti, al negozio, così al nostro rientro potranno ripartire più motivati che mai! -
 
Jensen si voltò a guardare Castiel, pieno d’ammirazione.
 
- Dio, ma perché al liceo non avevo te come professore? - chiese con un sospiro.
 
- Perché ci avrebbero arrestati… - ghignò l'altro, ammiccando, per poi indicare a Jensen una serie di vetrine variopinte - Uh, rallenta, siamo arrivati. - mormorò - Dannazione, non c’è parcheggio, dovremo fare il giro dell’isolato… - constatò quindi, guardandosi attorno senza risultato.
 
- Cosa? Certo che c’è parcheggio! Ecco. Visto? Parcheggio. - ribatté Jensen, orgoglioso, infilando con una manovra fluida l’Impala in uno spazio strettissimo, tutta sbilenca, ostruendo allo stesso tempo sia il marciapiede che le strisce pedonali.
 
- E questo cosa sarebbe? - chiese Castiel, dubbioso, osservando Jensen con le sopracciglia aggrottate.
 
- Io lo chiamo “parcheggio creativo”. -
 
- Io lo chiamerei “multa assicurata”, piuttosto… -
 
- Oh dai Cass, andiamo, a quest’ora i poliziotti sono tutti a pranzo, inoltre sembra che stia per piovere, di sicuro non se ne andranno in giro a distribuire multe. E poi ci fermeremo al massimo dieci minuti, cosa vuoi che succeda? - cinguettò Jensen, sfarfallando le ciglia in direzione di un rassegnato prof.
 
Due ore dopo, effettuati tutti i propri acquisti, Castiel stava ancora vagando per il secondo piano del gigantesco negozio alla ricerca di Jensen, che trovò impegnato in una discussione sulla resistenza alla luce del bianco di zinco rispetto a quello di titanio con un commesso dall’aria decisamente stremata.
 
‘Poi sono io il sociopatico, eh?’ ridacchiò fra sé il professore, schiarendosi la voce per attirare l’attenzione del compagno e guadagnandosi uno sguardo pieno di riconoscenza da parte dello sventurato commesso.
 
- Jens, scusa, si è fatto tardi, a che punto sei? Io avrei finito… -
 
Jensen abbassò gli occhi sul proprio cestello straripante di tubetti, solventi, album e pennelli, arrossendo appena.
 
- Ho finito anch’io, sì. Credo, hem, credo di aver preso tutto. - mormorò.
 
- Con tutto, intendi tutto il negozio? - chiese Castiel inarcando un sopracciglio, accennando all’imbarazzante quantità di merce che giaceva nel cesto.
 
- Bè… c’era l’offerta speciale sugli acquerelli. E i nuovi pennelli inglesi di martora. Poi avevo finito anche i carboncini… - si giustificò, mentre Castiel annuiva con la tipica aria da “te l’avevo detto” - E… e poi sono tutte cose che mi servono, ecco! - replicò Jensen, sulle sue.
 
- Naturalmente Jens, e chi dice nulla? Anzi, noto con piacere che con le caramelle e i pastelli hai lo stesso atteggiamento da cleptomane… almeno sei coerente… - disse Castiel avviandosi verso le scale ridendo sommessamente, mentre Jensen lo seguiva bofonchiando.
 
Fuori dal negozio scoprirono con disappunto che una fine e fastidiosa pioggerellina aveva preso a cadere sulla città, e si affrettarono verso l’auto per non correre il rischio di bagnare gli album appena comprati.

Jensen, che correva un paio di metri avanti a Castiel, si bloccò a poca distanza dall’Impala.
 
- Ma che cazzo…?! - imprecò, osservando la scatola di cartone posata sul cofano, che minacciava di disfarsi sotto l’azione della pioggia, trasformandosi in poltiglia e appiccicandosi alla carrozzeria della sua preziosa Baby.
 
- Che succede ? - chiese Castiel, sopraggiunto alle sue spalle.  - Ti hanno lasciato un regalino come premio per il tuo strabiliante parcheggio? -
 
- Succede che qualche stronzo ha lasciato una scatola sul mio cofano, maledizione, spero di non dover raschiare via il cartone! - sbottò Jensen, arrabbiato, mentre dal cartone in questione sembrò provenire un debole suono.
 
Castiel non prestò particolare attenzione alle rimostranze del compagno, avvicinandosi alla scatola e tendendo l’orecchio.
La scatola miagolò, disperata.
Solo allora il professore notò i buchi per l’aria e la scritta su un lato, tracciata con un pennarello blu e tutta slavata dalla pioggia.
 
Diceva: GATTINI GRATIS.
 
Posati a terra i sacchetti con tutti i propri acquisti, incurante dell’acqua che li avrebbe inzuppati, Castiel sollevò lentamente il coperchio, chiuso solo per tre quarti, scoprendo un micino che aveva l’aria di un siamese, piccolissimo, terrorizzato e infreddolito, che piangeva da spezzare il cuore.

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Si voltò verso Jensen, che nel mentre aveva smesso di blaterare e si stava sporgendo per osservare ad occhi sgranati il contenuto della scatola.
 
- Ma… ma è un gatto. - sottolineò, come se Castiel avesse potuto mai scambiarlo per un Ufo.
 
- Grazie, Capitan Ovvio. Sulla scatola c’è scritto gatti, dentro c’è un gatto, quindi sì, è un gatto. -
 
- Cosa diavolo ci fa un gatto sul mio cofano? -
 
- Azzardando un’ipotesi, credo che abbiano lasciato la scatola a terra mentre eravamo dentro al negozio, e quando ha iniziato a piovere qualche passante si dev’essere impietosito, mettendola in alto perché non rischiasse di finire nel canale di scolo. E siccome il punto rialzato più vicino, anzi, sopra il marciapiede era la tua macchina… -
 
- Oh, fantastico. - ringhiò Jensen - E gli altri gatti che fine avranno fatto? -
 
- Mi auguro che qualcuno li abbia presi e portati a casa, poveri piccoli… - mormorò Castiel, guardandosi attorno e cercando di captare altri miagolii.
 
- Quindi ora che ce ne facciamo di lui? - chiese Jensen, osservando il gattino rannicchiarsi terrorizzato in un angolo della sua prigione ormai inzuppata.
 
- Mi sembra ovvio, lo portiamo via. Non possiamo lasciarlo qui, morirebbe di sicuro. - decretò Castiel con sguardo serio e un tono che non ammetteva repliche, sfilandosi il trench e appallottolandoselo nell’incavo del gomito sinistro, mentre con la mano destra prelevava il più delicatamente possibile il micino dalla scatola, per poi posarlo sul tessuto beige e avvolgervelo alla bell’e meglio.
 
Jensen, non trovando nulla di sensato da dire, si limitò a gettare via la scatola, sistemarsi al posto di guida e mettere in moto, occhieggiando di tanto in tanto Castiel che asciugava il piccolo con movimenti delicati, passandogli un lembo del trench sul pelo umido e mormorando cose senza senso con voce dolce, cercando di calmarlo.
 
Se non avesse avuto le mani sul volante, se le sarebbe ficcate nei capelli. Non potevano portarsi a casa un gatto. Insomma, un g.a.t.t.o.
 
Lui odiava i gatti!
 
- Senti Cass, questa è solo una cosa temporanea, vero?- azzardò.
 
- Zitto e guida. - lo liquidò Castiel.
 
Jensen tacque fino a casa.
 
E poi sbuffò, non appena rientrato, buttandosi mollemente sul divano.
 
- Credi… credi che dovremmo tenerlo al caldo sotto una lampada? - chiese, titubante, scrutando con sospetto la piccola palletta di pelo ancora sepolta nel trench di Castiel.
 
Il quale alzò gli occhi al cielo.
 
- Non è un pulcino Jens… -
 
- Ok, allora in cantina. -
 
- … E nemmeno una bomba ad orologeria. - sospirò Castiel - Dai, Jensen, è un gattino! Ma non hai mai avuto un animaletto domestico? -
 
- Solo Jared. E quell’affare non è un animale domestico. - replicò lievemente sulla difensiva.
 
Castiel si lasciò sfuggire uno sbuffo rassegnato.
 
- Certo. E sentiamo, quale animale soddisferebbe la tua maschia idea di animale domestico? Un golden retriever? Un alligatore? Un velociraptor? - domandò ironicamente, prelevando dall’impermeabile e posando con delicatezza sul petto di Jensen il minuscolo batuffolo ormai asciutto, che zampettò fino al suo viso, strusciandosi con soddisfazione sulla sua barba ed emettendo un tremulo «Miaouuuu» che sembrava più un pigolio, per poi sedersi composto arrotolando la piccola coda attorno al corpicino, mentre due vivaci occhietti azzurri lo fissavano con curiosità.
 
Gli occhi di Jensen si socchiusero leggermente, scrutando la creaturina dal peso inconsistente che si muoveva sul suo torace, e non appena la sua mano si posò esitante su quella testolina tutta orecchie, il micetto iniziò a ronfare come un piccolo motore.
 
Non riuscì a reprimere un sorriso, intenerito da quel mucchietto di ossicini, il tutto sotto lo sguardo divertito di Castiel.
 
- Tu… tu lo sapevi che questi cosi erano così carini? - chiese stupefatto al professore.
 
- Sette secondi, Winchester. Che tempra… -
 
- Ce lo teniamo? -
 
- Io per strada non lo riporto di sicuro. -
 
- Ce lo teniamo. - confermò Jensen, ostentando rassegnazione ma già perdutamente innamorato della soffice cosina che non accennava minimamente a volersi staccare da lui - Lo sai che, ora che ci faccio caso, questo affarino ti somiglia? -
 
- In che senso? -
 
- Dai, guardalo: occhioni azzurri, testolina nera e pelo beige come se indossasse un minuscolo trench. E’ un mini Castiel! - ridacchiò.
 
- Non è affatto vero! -
 
- Oh, sì che lo è. Fantastico, ora ne ho due… - gongolò.
 
- Certo, simpaticone. Dovremmo trovargli un nome, però. -
 
- Che ne pensi di Krull? -
 
- Ma sei scemo? Peserà 50 grammi e vuoi chiamarlo Krull? - rise Castiel.
 
- Krull, il temibile Signore dei Gatti. Secondo me suonava bene… - mormorò Jensen, offeso.
 
- Ma se non sappiamo nemmeno se sia un maschio o una femmina! Quando sono così piccoli non è molto facile capirlo senza l’aiuto di un veterinario… dovremmo cercare un nome che vada bene in entrambi i casi, per ora, poi si vedrà. - valutò Castiel, pensoso.
 
- Jefferson Starship! [3] - esclamò Jensen, sprizzando entusiasmo.
 
-Eh? -
 
-Lascia perdere… chiamiamolo Fluffy e non parliamone più. - bofonchiò, sempre più risentito.
 
- Trovato! Che mi dici di Misha? - domandò orgoglioso il prof, dopo una breve riflessione.
 
Jensen assunse un’espressione disgustata nel ripetere il nome suggerito da Castiel.
 
- M-i-s-h-a? - scandì - Ma che cavolo di nome è Misha? [4] -

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- Dai, è perfetto per un gatto: è breve e va bene per entrambi i sessi. Aspetta, facciamo una prova… - disse, avvicinandosi al micetto sul petto di Jensen e accoccolandosi a terra per essere alla sua altezza.
 
Il piccolo drizzò le orecchie, osservando Castiel.
 
- Misha. - disse quest’ultimo.
 
- Miao. - fece il gattino.
 
- Mishaaaaa… - tentò ancora, come verifica.
 
- Miaoooooo. - rispose il micio senza esitazioni.
 
- Visto? - esclamò Castiel, trionfante, rivolgendo a Jensen il sorriso di chi sa il fatto suo - Risponde. Le piace. Gli piace. Insomma, ha capito che è il suo nome! -
 
- Cass, non sta rispondendo a te, è un gatto! Risponderebbe a qualsiasi nome! Sta a vedere. - spiegò condiscendente, per poi rivolgersi al cucciolo e guardarlo serio.
 
- Krull. - disse con voce profonda.
 
Il micetto mosse più volte le orecchie avanti e indietro, senza emettere alcun suono, fissandolo con quei suoi occhietti azzurri sgranati, le pupille ridotte ad una sottile fessura verticale.
 
Castiel si concesse un sorrisetto e sollevò le sopracciglia, guardando con aria innocente Jensen, che al contrario le stava corrugando, fissando accigliato il micio.
 
- Thanatos. Brutus.Tiger. -
 
Niente.
 
- Colt. Diablo. Hulk. -
 
Solo una codina nervosa e minuscole vibrisse tremanti.
 
- Ozzy…
 
Nulla.
 
- … Misha? - cedette, esasperato.
 
- Miao. -
 
Castiel a quel punto si stava praticamente rotolando sul pavimento, ridendo tanto da soffocare, sotto lo sguardo offeso e umiliato di Jensen, mentre il gattino, dopo aver calcolato le distanze ondeggiando il piccolo posteriore e bilanciandosi con la coda, gli si era lanciato addosso per giocare.
 
- Voi due mi state già antipatici. E Misha sia… - sospirò - anche se sono quasi sicuro che si tratti di una femmina. -
 
- E da cosa l’avresti dedotto, Sherlock? - ribattè il professore, mentre il micino gli leccava le mani con la linguetta ruvida, facendogli il solletico.
 
- Elementare, Watson: la piccola ha subito capito chi è il maschio Alfa, qui dentro. Non so se hai notato come mi si è buttata adosso, strusciandosi sulla mia barba. Le piaccio, è chiaro. - dichiarò Jensen con un certo orgoglio.
 
- Non vorrei disilluderti, ma sei stato proprio tu a dire che mi somiglia… e se davvero mi somiglia anche solo un pochino e gli piaci… bè, allora è un maschietto. Maschio Alfa… tzè.- bofonchiò Castiel, ridacchiando - Bè, in ogni caso direi che tra lui/lei e Bestia Morta abbiamo decisamente fatto pace con le cose pelose, che dici? Balthazar sarebbe orgoglioso di noi. -
 
- Oh, mi manca l’Orso Yoghi… - mormorò Jensen in tono suggestivo, mettendo su un musino sconsolato nel tentativo di intenerire il professore per indurlo ad un acquisto scellerato o ad elemosinare pelo a Balthazar.
 
- Ora è diventato Yoghi? -
 
- Bè, dopo quello a cui ha assistito direi che siamo passati ad un nuovo livello di confidenza. -
 
- Jens, sono certo che se gli spiegassimo dettagliatamente cosa abbiamo fatto sul suo prezioso animaletto, Balth sarebbe lieto di farcene gentile omaggio, ci arriverebbe a casa in confezione regalo entro 24 ore! -
 
- Non tentarmi… -
 
- Invece di pensare a come descrivere a mio fratello la nostra vita sessuale, che ne diresti di fare un salto al negozio di animali? A qualcuno occorre della pappa e soprattutto una cassettina con della sabbietta, e io non ho tempo di uscire, devo finire delle valutazioni prima del mio ritorno a scuola. -
 
- Capito. Vado, vado… schiavista. - mugugnò Jensen stancamente, alzandosi e recuperando le chiavi dell’Impala per poi dirigersi con lentezza esasperante verso l’ingresso.

Tornò dopo un’oretta, stracarico di roba al novanta per cento superflua, tra cui topini di pezza imbottiti di erba gatta, latte specifico per la crescita dei cuccioli, palline per lo sviluppo psicomotorio e tiragraffi ergonomici.
 
Castiel l’osservò posare l’enorme scatolone sul ripiano della cucina ed iniziare a svuotarlo.
 
- Jens, dimmi che non ti sei fatto abbindolare da una commessa con la quarta misura… - sospirò, man mano che le cianfrusaglie andavano accumulandosi sul ripiano.
 
- Sarà stata al massimo una terza abbond… cioè, nessuna commessa. Era un uomo. Si chiamava Max. Gran simpaticone. Bei baffi. -
 
- Naturalmente. - mormorò Castiel - E dimmi, “Max” cosa diavolo ti ha detto, o fatto vedere, per convincerti a comprare un collarino con gli strass? Con tanto di medaglietta incisa? -
 
- No no, quello l’ho scelto da solo. - replicò con orgoglio Jensen - Cioè, insomma, alla piccola servirà pure un collarino, no? E se dovesse uscire e perdersi? Sono solo previdente. -
 
- La… piccola? Hai appena chiamato Piccola qualcosa che non è la tua auto? - ridacchiò, Castiel, stupefatto - Non posso crederci… a quando la pioggia di rane e l’invasione di cavallette? -
 
- Mi sto solo preoccupando per un essere vivente sotto la mia responsabilità. - sentenziò Jensen piccato, ora consapevole di avere, forse, un filino esagerato.
 
- Domani busseranno alla porta i Cavalieri dell’Apocalisse. - sentenziò Castiel, rassegnato.
 
- Li manderò via a calci nel culo. -
 
- Come no, Lord Winchester… - ghignò ancora una volta il professore, osservando la piccola Misha che, alla velocità della luce, si arrampicava sulla gamba di Jensen come se fosse un albero, sotto lo sguardo rapito del diretto interessato.

Bè, magari non voleva trasferirsi, ma nello spazio di due ore, Jensen era diventato un apprensivo papà.

 
 
 
[1] - [2] Entrambe sono citazioni dal film “L’uomo dei sogni”. [1] La frase originale era “Costruiscilo e lui verrà” mentre l’altra [2] riprende il dialogo fra Ray (Kevin Costner) e lo spirito di Shoeless Joe (Ray Lotta): “Questo è il paradiso?” “No, è l’Iowa.”.
 
[3] Dalla6x19, Mommy Dearest.
 
[4] dalla 6X15 The French Mistake.

 
NDA: Lo so. Lo so che questo doveva essere l'ultimo capitolo, ma mentre scrivevo mi sono resa conto che stava diventando davvero lunghissimo e allora l'ho diviso in due... però sono stata diligente e ho aggiornato in fretta, nonostante l'abbruttimento da pandoro e la bilancia che mi guarda come se fossi una criminale!
In realtà ho pubblicato oggi anche perché volevo augurare a tutte voi che mi avete seguita fino a qui uno splendido 2013, ve lo meritate!! XD
Un bacione! <3

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Capitolo 30
*** STAIRWAY TO HEAVEN ***


STAIRWAY TO HEAVEN
 
 
Nel giro di ventiquattr’ore, come ogni gatto che si rispetti, quella che in seguito si rivelò essere effettivamente una micina aveva assunto il totale controllo dell’intera casa e, tempo due giorni, stabilito la propria supremazia sugli insulsi umani che l’abitavano, pretendendo il legittimo possesso di ogni superficie abbastanza morbida, calda o confortevole, il che comprendeva divani, letti, pile di biancheria pulita, tappeti e il petto di Castiel, per cui nutriva una viscerale adorazione.
 
Con grande disappunto di Jensen che no, non era affatto - affatto! - geloso di un esserino indifeso grande come un pugno.
 
Jensen che, prima di sgattaiolare furtivamente via in un soleggiato venerdì mattina, si soffermò un istante ad osservare Castiel ancora profondamente addormentato, che russacchiava disposto a stella marina al centro del letto con la piccola Misha avvolta attorno al collo come una sciarpina pelosa.
 
Era… buffo.
E ancora una volta si stupì di quanto amasse quell’uomo adorabile.
 
Quell’uomo adorabile che ora lo stava fissando.
 
- Dove vai? - biascicò Castiel, un occhio aperto e uno chiuso nella penombra della stanza, notando Jensen vestito di tutto punto che tentava di strisciare fuori facendo il minor rumore possibile.
 
‘Maledizione.’
 
Aveva stupidamente pensato di cavarsela come al solito con un biglietto lasciato in bella vista, facendo affidamento sul proverbiale stato comatoso del professore, che non si svegliava nemmeno con le cannonate, ma ovviamente il ghiro mutante aveva scelto proprio quel giorno per evolversi come un dannato Pokémon e passare allo stadio di coma vigile.
Era bastato il tintinnio d’un paio di monete nella tasca dei jeans ed ecco che un occhio blu si era spalancato a scrutarlo. Bè, magari se non avesse aperto anche l’altro, non avrebbe notato la sua aria furtiva e sarebbe riuscito a farla franca.
 
Castiel spalancò anche l’altro.
 
- Dove vai? - ripetè, come se Jensen non l’avesse semplicemente sentito e non stesse invece a guardarlo impalato sulla soglia della camera con aria colpevole.
 
- Devo… devo… ecco, mi è arrivato un messaggio del padrone di casa, dice che nel palazzo c’è stata una perdita d’acqua da alcune tubature e dovrei andare a controllare che non ci siano danni anche al mio appartamento. -
 
‘Grazie, archivio di balle scolastiche, grazie.’
 
- Mh-mh. - annuì Castiel - E non mi salutavi neanche? -
 
- Hai ragione, ma dormivi così tranquillo… ti avrei lasciato un biglietto. - si giustificò Jensen, riavvicinandosi al letto e poggiandovi un ginocchio per potersi chinare su Castiel, sfiorando con il collo la gattina addormentata.
 
Posò le labbra sulle sue in un bacio leggero che fece mugolare soddisfatto il professore.
 
- Ora va meglio… -
 
Jensen sorrise nell’osservare le sue labbra stirate in un enorme sorriso e gli occhi chiusi in un’espressione di pura goduria.
 
E Misha che non si era spostata di un millimetro.
 
- Ti sto viziando troppo, mi sa. -
 
- Non sono viziato. Al limite, vizioso… -
 
- Mhh… senti, vizioso, non so quanto mi ci vorrà lì a casa, se non facessi in tempo a tornare a prenderti sarebbe un problema? -
 
- Ma figurati, sono un bambino grande, so andare a scuola da solo, mammina… - lo prese in giro Castiel.
 
- Quindi ci vediamo direttamente in aula? -
 
- Certo, tranquillo, fai quello che devi fare, ci vediamo dopo. -
 
Jensen, un po’ più rilassato, uscì di casa.
 
Aveva tempo per mettere in atto il suo piano.
 
 
Qualche tempo dopo, quello stesso mattino, entrando in aula, Castiel non potè fare a meno di notare che Jensen non era ancora arrivato. Imputò il ritardo a qualche contrattempo causato dall’infiltrazione d’acqua, ma era strano che non avesse chiamato per avvisarlo.
Provò a fargli un colpo di telefono, giusto per sapere a che punto erano le cose, ma dopo una serie di squilli a vuoto, all’altro capo della linea scattò la segreteria.
Castiel riattaccò senza lasciare messaggi, ma non senza aver ascoltato per intero il messaggio inciso da Jensen, che era capace di fargli venire i brividi persino con un semplice “vi richiamerò appena possibile”.
 
‘Probabilmente sta guidando e non può rispondere, a breve sarà qui. Devo ricordarmi di comprargli un auricolare…’
 
Posate le proprie cose sulla cattedra si schiarì la voce, rivolgendosi agli studenti che stavano chiacchierando tra loro sparpagliati per l’aula, in attesa del suo arrivo.
Era la prima settimana di lezioni dopo la loro “pausa forzata” e Castiel ci teneva a far riprendere il lavoro a pieno ritmo.
 
- Ehm, ragazzi…? Scusate, abbiamo un piccolo problema, Jensen è in ritardo, se non volete perdere tempo posso sistemare alcuni oggetti sulla pedana per improvvisare una copia dal vero, oppure se avete dei dipinti da ritoccare, concentrat-
 
- Professor Collins? - si intromise un ragazzo magrolino, con un naso piuttosto importante e l’aria furba - Scusi se la interrompo, ma Jensen non è in ritardo. In realtà è venuto e se n’è già andato. -
 
Castiel si avvicinò al cavalletto del ragazzo, abbassando il tono di voce.

- DJ, che vuol dire che Jensen se n’è andato? Stava male? -
 
- No, no, anzi, stava benone. Solo… è andato via. Ha detto che per oggi dovevamo arrangiarci. -
 
- Cosa? Vi ha detto di… di arrangiarvi? Ma è impazzito? E… e dov’è andato? - chiese Castiel, iniziando a preoccuparsi sul serio. Non era da Jensen un comportamento tanto irresponsabile.
 
- Non ne ho idea, non me l’ha detto, però mi ha affidato un messaggio per lei. Anzi… in realtà l’ha affidato a lui. - mormorò il ragazzo, chinandosi a frugare dentro al proprio zaino ed estraendone un calzino che aveva visto tempi migliori, modificato in modo da formare una rudimentale faccia, con due bottoni al posto degli occhi - Ha detto che lei avrebbe capito. - continuò, porgendo a Castiel una busta infilata nella bocca di Mr Fizzles.
 
Castiel sfilò guardingo dal calzino la semplice busta bianca, sigillata, su cui la calligrafia obliqua di Jensen aveva tracciato un semplice PROF.
 
- Grazie DJ, sei stato molto… hem, disponibile. -
 
- Oh, non deve ringraziare me, ringrazi Mr Fizzles. - rispose l’altro.
 
- Uhm, sì, certo. Grazie a… a entrambi. - farfugliò Castiel, voltandosi e tornando verso la cattedra, rigirandosi la busta tra le mani tremanti.
 
A questo punto, la preoccupazione stava cedendo il posto alla paura.
Perché Jensen era scomparso, senza nemmeno una telefonata? Perché gli aveva lasciato quella lettera?
Stava forse abbandonando la città e non aveva avuto il coraggio di dirglielo esplicitamente? Dio, era per la storia di New York?
 
‘Lo sapevo. Lo sapevo! Diceva che andava tutto bene, che era tutto risolto, mentre invece stava solo prendendo tempo per crearsi una nuova identità, comprare una parrucca e dei baffi posticci per poter fuggire e mettere più chilometri possibile fra me e lui. Ormai sarà già nella Legione Straniera. L’ho spaventato a morte e adesso è scappato… maledizione, ma perché devo sempre rovinare tutto? Non bastava stare insieme, noooo, ho dovuto chiedergli di trasferirsi con me in un’altra città come una donnetta bisognosa. Bravo Castiel, ancora una volta sei riuscito ad incasinare tutto. E hai ottenuto quello che volevi: Jensen si è trasferito in un’altra città. Peccato che tu non saprai mai quale… ‘
 
Nonostante l’angoscia non trovò il coraggio di aprirla subito, voleva essere solo e soprattutto non sarebbe mai riuscito a portare a termine la lezione se le notizie contenute nella missiva fossero state quelle che temeva. Furono tre ore infernali, che passò a misurare l’aula avanti e indietro sotto lo sguardo curioso dei ragazzi, mentre la lettera bruciava come fosse incandescente nella tasca posteriore dei suoi pantaloni.

Non appena l’ultimo dei suoi studenti lasciò l’aula, strappò febbrilmente la busta, estraendone un foglio piegato in due che, invece del poema epico in cui Jensen spiegava le ragioni della propria fuga in uno struggente addio, conteneva una sola frase:
 

Vai dove tutto è iniziato.
Jens

 
Il corpo del professore reagì in automatico, più in fretta della sua mente, e ancora prima di realizzare dove stesse esattamente andando le sue mani avevano già afferrato il trench poggiato sulla cattedra, per precipitarsi fuori in direzione di Starbucks.
 
Mentre correva come un disperato verso la caffetteria, ringraziando fra sé e sè il fatto di non aver mai completamente abbandonato lo jogging, Castiel tentò in tutti i modi di trovare un senso al criptico messaggio di Jensen, ma senza alcun successo.
Entrò da Starbucks come una furia, sempre più confuso, sotto lo sguardo incuriosito di parecchi clienti, perlustrando con lo sguardo l’intero ambiente alla ricerca di Jensen, senza però trovarne traccia.
Deluso e un po’ demoralizzato tentennò sulla soglia per alcuni secondi, cercando di riprendere fiato e analizzare la situazione, quindi si diresse risoluto verso le casse.
Alla postazione generalmente occupata da Jensen c’era una brunetta decisamente troppo attraente per lavorare in un posto come quello, e Castiel decise di tentare con lei.
 
‘Ma che diavolo di problema hanno, in questo posto, se non sei bello e con un nome improbabile non ti assumono?’ pensò, mentre leggeva il nome della ragazza sulla targhetta appuntata alla t-shirt aderente che ne sottolineava le forme.
 
- Ehm, scusa… Danneel? - chiese, approcciandola il più amichevolmente possibile con aria speranzosa - Ciao, io stavo… stavo cercando Jensen. Saresti così gentile da dirmi se l’hai visto, oggi, o se sai dove sia? -
 
La ragazza, non appena sentì pronunciare il nome di Jensen, arrossì furiosamente, annuendo imbarazzata per poi voltarsi a recuperare qualcosa dal ripiano alle sue spalle.
 
‘Dio, eccone un’altra innamorata di lui. Ma cos’è, un virus?’ pensò Castiel, sgomento, mentre la ragazza gli porgeva un vassoio.
 
- Jensen ha detto di darti questo. - spiegò mentre glielo passava, bloccandosi poi all’improvviso - Un momento. Tu sei Castiel, vero? - domandò quindi con aria sospettosa, trattenendo il vassoio che il prof aveva già afferrato dall’altro lato e tirandolo nuovamente verso di sé.
 
Lui annuì con aria rassicurante, cercando di non tirare e strapparglielo di mano come invece gli suggeriva l’istinto, mentre la ragazza lo squadrava ad occhi socchiusi come se fosse un impostore.
 
- Uhm… sì, l’aveva detto che avresti indossato un trench. E che avresti avuto quei capelli… - stabilì infine con sguardo critico, alludendo alla massa sconvolta in cui Castiel aveva ripetutamente ficcato le mani in preda all’ansia e che ora sparava in tutte le direzioni.
 
Mentre il prof cercava di sistemare goffamente il disastro tricologico che aveva in testa, invidiando a morte la chioma di Jared, la ragazza si decise a lasciare il vassoio sul bancone, dedicandosi agli altri clienti ma senza perderlo di vista.
 
Conquistato finalmente il malloppo, Castiel si diresse verso uno dei tavoli del locale, scegliendo il più appartato, lontano dal vociare della clientela e dall’occhio vigile di Danneel, che lo metteva inspiegabilmente in soggezione.
 
Una volta seduto, potè finalmente dedicare la propria completa attenzione a ciò che era posato sul vassoio.
C’era un bicchiere di Starbucks, pieno, su cui Jensen aveva incollato un piccolo post-it che diceva “BEVIMI”. Castiel lo prese e sollevò delicatamente il coperchietto di plastica, annusandone il contenuto.
Latte e cannella.
Ma certo.
Aprì quindi il sacchetto di carta, il cui post-it diceva “MANGIAMI”, intuendo già cos’avrebbe trovato al suo interno.
Confermando i propri sospetti, ne estrasse un gigantesco cookie al cioccolato, lo stesso che Jensen gli aveva regalato quasi sette mesi prima, la seconda volta che si erano visti. Gli diede un morso distratto, cercando di capire se fosse per caso finito in una bizzarra versione di “Alice nel Paese delle Meraviglie”, prelevando infine l’ultimo oggetto dal vassoio.
Un pacchettino rettangolare, avvolto piuttosto male in semplice carta da imballaggio, una cosa tipicamente da Jensen, su cui campeggiava la scritta “LEGGIMI”.
Castiel strappò la carta marrone senza tante cerimonie trovandosi tra le mani, invece di “Alice”, una copia de “Il piccolo principe”.
 
L’osservò per qualche istante, spiazzato.
 
Ok il resto, ma quel libro con loro due non c’entrava proprio niente, il professore l’aveva letto quasi vent’anni prima al liceo, e non gli veniva in mente nessun collegamento utile.
Iniziò a far scorrere velocemente le pagine, alla ricerca di un indizio, che si presentò nuovamente sotto forma di un post- it, applicato nel bel mezzo di una pagina, a segnare l’inizio di un paragrafo, quello dell’incontro fra il Principe e la Volpe, che Jensen aveva sottolineato rigorosamente a matita.
Castiel, ormai incuriosito, nonostante l’assurdità della situazione, si mise comodo e iniziò a leggere.
 
 
“In quel momento apparve la volpe.
 
- Buon giorno - disse la volpe.
- Buon giorno - rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non
vide nessuno.
- Sono qui, - disse la voce - sotto il melo...
- Chi sei? - domandò il piccolo principe - Sei molto carino...
- Sono una volpe. - disse la volpe.
- Vieni a giocare con me, - le propose il piccolo principe - sono così
triste...
- Non posso giocare con te, - disse la volpe - non sono addomesticata.
- Ah! Scusa. - fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
- Che cosa vuol dire "addomesticare"?
- Non sei di queste parti, tu, - disse la volpe - che cosa cerchi?
- Cerco gli uomini - disse il piccolo principe - Che cosa vuol dire
"addomesticare"?
- Gli uomini - disse la volpe - hanno i fucili e cacciano. È molto noioso!
Allevano anche delle galline. È il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?
- No - disse il piccolo principe. - Cerco degli amici. Che cosa vuol dire
"addomesticare"?
- È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire "creare dei legami"...
- Creare dei legami?
- Certo - disse la volpe. - Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino
uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai
bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma
se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me
unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.
 
[…]
 
- La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la
caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si
assomigliano. E io mi annoio, perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita
sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti
gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sottoterra. Il tuo, mi farà
uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo,
dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano per me è inutile. I campi
di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli
color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il
grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel
grano...
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:
- Per favore... addomesticami - disse.
- Volentieri, - rispose il piccolo principe - ma non ho molto tempo. Devo
scoprire degli amici, e devo conoscere molte cose.
- Non si conoscono che le cose che si addomesticano - disse la volpe. - Gli
uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose
già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno
più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami!
- Che bisogna fare? - domandò il piccolo principe.
- Bisogna essere molto pazienti - rispose la volpe. - In principio tu ti
siederai un pò lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda
dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di
malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un pò più vicino...
Il piccolo principe ritornò l'indomani.
- Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora - disse la volpe. - Se tu
vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad
essere felice. Col passare dell'ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno
le quattro, incomincerò ad agitarmi e a inquietarmi; scoprirò il prezzo
della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora
prepararmi il cuore... Ci vogliono riti.
 
[…]
 
Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l'ora della partenza
fu vicina:
- Ah! - disse la volpe - ... piangerò.
- La colpa è tua, - disse il piccolo principe - io non volevo farti del male,
ma tu hai voluto che ti addomesticassi...
- È vero - disse la volpe.
- Ma piangerai! - disse il piccolo principe.
- È certo - disse la volpe.
- Ma allora che ci guadagni?
- Ci guadagno - disse la volpe - il colore del grano.
Poi soggiunse:
- Và a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando
ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto.
Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose.
- Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente -
disse. - Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno.
Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila
altre. Ma ne ho fatto il mio amico e ora è per me unica al mondo.
E le rose erano a disagio.
- Voi siete belle, ma siete vuote - disse ancora. - Non si può morire per voi.
Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma
lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiata.
Perché è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho
riparata col paravento. Perché su di lei ho ucciso i bruchi (salvo i due o tre
per le farfalle). Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche
qualche volta tacere. Perché è la mia rosa.
E ritornò dalla volpe.
- Addio - disse.
- Addio - disse la volpe. - Ecco il mio segreto. È molto semplice: Non si
vede bene che con il cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi.
- L'essenziale è invisibile agli occhi - ripeté il piccolo principe, per
ricordarselo.
- È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa
così importante.
- È il tempo che ho perduto per la mia rosa... - sussurrò il piccolo principe
per ricordarselo.
E, riverso sull'erba, pianse.
- Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu
diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei
responsabile della tua rosa...
- Io sono responsabile della mia rosa... - ripetè il piccolo principe per
ricordarselo. [1]

 
Voltando pagina per leggere le ultime righe del paragrafo, Castiel trovò una seconda busta, identica alla precedente e con la stessa breve intestazione.
L’aprì in fretta e furia.
 
 

Avrei dovuto capirlo subito.
Quando dovevo venire da te alle quattro, iniziavo ad essere felice alle tre… e ora sono sotto la tua responsabilità.
Vai dove mi hai addomesticato.
Jens

 
 
Riflettè per alcuni istanti, sempre più smarrito, smangiucchiando sovrappensiero il proprio biscotto, poi chiuse il libro con un tonfo secco, se lo ficcò nella tasca interna del trench e uscì in fretta dalla caffetteria, in direzione di Clarendon Street.
Corse verso casa come un pazzo, rischiando di travolgere svariati passanti e di schiantarsi contro la porta d’ingresso, nell’errata convinzione di trovare Jensen nell’appartamento e che quest’ultima fosse quindi aperta.
Dopo aver sbloccato la serratura con mano malferma diede un rapido sguardo all’interno dello studio, chiamando Jensen a gran voce, quindi in cucina, per poi precipitarsi al piano superiore, deserto, e aprire l’armadio in preda all’ansia.
Il cassetto di Jensen  era intatto, tutte le sue cose erano ancora al loro posto, e anche il suo borsone giaceva semiaperto sul pavimento come al solito.
Misha dormiva tranquilla tra le pieghe del letto sfatto, evidentemente non l’aveva nemmeno sentito entrare.
 
Per un breve attimo, quella vista lo rassicurò.
 
Un attimo davvero breve.
 
‘Certo, Cass, ora che hai trovato i suoi vestiti e verificato che non abbia rapito il gatto puoi stare tranquillo, come no… è assolutamente plausibile che un uomo in fuga si premuri di recuperare qualche t-shirt e dei calzini… Jens, cosa diamine stai combinando… dove sei finito?’
 
Tornando sconsolato al piano di sotto con passo strascicato, gettò di nuovo un’occhiata distratta all’interno dello studio, stavolta notando che il suo cavalletto era stato spostato. Avvicinandosi, si rese conto che al posto dell’ultima tela a cui stava lavorando era stato posato un foglio, non molto grande.
Era un ritratto, un suo ritratto.
Un semplice disegno a matita di lui che dormiva sul divano, con Misha incastrata sotto il mento, che Jensen aveva acquerellato solo in alcuni punti.
 
Castiel lo prese tra le mani, emozionato.
Era splendido, pieno di cura, così… intimo, ma ancora non riusciva a capirne il senso.
 
Poi, nel maneggiarlo, qualcosa si staccò dal retro. L’ennesimo post-it, che raccolse dal pavimento, sempre più stranito.

Quand’ero bambino, mia madre mi ripeteva sempre
che gli angeli vegliavano su di me… avevo smesso di crederci, sai,
poi sei arrivatu tu.
Ti amo.

Jens

 
Tutto lì.
Niente spiegazioni, niente indicazioni, nulla.

Era… un regalo d’addio?
 
‘E  adesso cosa faccio?’ pensò Castiel confuso, dirigendosi mestamente in cucina, assetato dopo la lunga corsa.
 
Ma una volta di fronte al frigorifero, la sua attenzione venne attirata da un’altra busta, attaccata all’anta di quest’ultimo con almeno venti calamite, in modo che non si spostasse o cadesse.
Le gettò tutte all’aria nel prenderla senza troppa delicatezza, scoprendo quindi che conteneva l’ennesimo messaggio misterioso da parte di Jensen.
 

Vai dove tutto è davvero iniziato.

 
Che razza di indizio era? Si trovava già dove tutto era iniziato… cosa intendeva Jensen?
 
Stava ancora riflettendo sul messaggio quando Misha fece la sua comparsa in cucina, zampettando goffamente verso di lui e iniziando a descrivere sinuose S attorno ai suoi piedi in cerca di coccole, miagolando piano.
Castiel si chinò a raccoglierla con una mano, sollevandola e avvicinandosela al viso, in modo che la piccola potesse esibirsi nel suo personale saluto, fatto di soffici testate contro il suo mento e leccatine affettuose.
 
- Oh piccola, per fortuna ci sei tu. - mormorò il professore, godendosi le attenzioni - Finora non è stata una gran giornata, sai? Mi ci voleva proprio un bel bacio di bentornato… Oh. Ma certo! Il bacio! Che idiota… Misha, sei un genio! - farfugliò, stampando a sua volta un bacio sulla testolina della gattina e posandola delicatamente a terra, avviandosi velocemente verso l’uscita - Comportati bene, ok? E fai la guardia! - urlò dalla soglia, prima di uscire di casa.
 
E di rimettersi a correre.
 
Seduto su uno dei gradini alla base della scalinata del Museum of Fine Arts, Jensen individuò Castiel da lontano, una piccola figura beige e trafelata che correva come se avesse il diavolo alle calcagna, mentre i lembi del trench, alle sue spalle, svolazzavano talmente tanto da dare l’impressione di ali.
Sorrise.
Sembrava davvero un angelo. Un angelo un po’ stravolto, magari, ma pur sempre un angelo…
 
Quando anche Castiel si accorse di lui, svoltando affannato l’angolo del museo, i suoi occhi si colorarono di gioia.
All’inizio.
Poi assunse un’espressione decisamente poco rassicurante, mentre si avvicinava rallentando il passo, fino a fermarsi a circa un metro da lui, piegandosi in avanti e poggiando le mani sulle ginocchia a testa bassa, cercando di riprendere fiato.
 
Non capiva se stesse provando sollievo per averlo finalmente trovato o stizza per l’aria placida che l’altro sfoggiva, nel sorridergli tranquillo come nulla fosse successo.
 
Rialzò la testa, cercando di parlare.
 
- Jens… - ansimò, tentando contemporaneamente di incamerare ossigeno - … cosa diavolo… perché… oh, Signore, sono troppo vecchio per queste cose… perché tutto questo? Che succede? -
 
Jensen si alzò in piedi, avvicinandosi e posandogli le mani sulle spalle.
 
- Cass, calmati, prendi fiato. - mormorò con voce dolce.
 
- Calmarmi? - sbottò Castiel, stravolto - Fiato? Non ti presenti a scuola, stacchi il telefono, mi fai correre per mezza città disseminando enigmatici bigliettini in ogni dove e dovrei calmarmi? Anzi, fammi controllare una cosa… - mormorò, afferrando i lembi della giacca di pelle di Jensen e aprendoli, esaminando la t-shirt sottostante.
 
- Che stai facendo? -
 
- Controllo che sulla tua maglietta non ci siano scritte come quelle che hai lasciato sul bicchiere o sul biscotto, specie d’incosciente, tipo “ABBRACCIAMI” o cose del genere. - ringhiò Castiel.
 
- Ti dispiacerebbe molto se ci fossero? - domandò l’altro, sornione.
 
- Al momento, sì. Più che di abbracciarti ho voglia di ucciderti. - replicò duro Castiel, e finalmente Jensen colse la vena di rabbia nella sua voce.
 
- Si può sapere cosa ti è saltato in mente? Mi hai fatto morire di paura! Maledizione Jens, credevo fossi scappato! - lo aggredì quindi il professore, sfogando la tensione.
 
- S… Scappato? E dove? - chiese ingenuamente Jensen, cadendo dalle nuvole.
 
- Ma che ne so? Via! Lontano da me! - chiarì Castiel, esasperato, lasciando venire a galla tutta la propria insicurezza.
 
Jensen assunse un’aria mortificata, rendendosi conto dell’enormità dell’equivoco che aveva generato.
 
- Oh. Ma io… Cass, mi dispiace, non mi era passato nemmeno per l’anticamera del cervello che tu potessi pensare ad un’eventualità del genere… credevo che la caccia al tesoro fosse una cosa divertente… -
 
- Divertente? Oh, sì, non vedi come mi sono divertito? Ho quasi rischiato di svenire, a furia di ridere. - sibilò Castiel, grondando sarcasmo.
 
- Scusami… davvero, non volevo spaventarti, te lo giuro. - mormorò Jensen, mogio, accolto solo dal silenzio del compagno - Ora però credo che dovremmo tralasciare tutto il resto della giornata e concentrarci solo sulla cosa più importante, ovvero che tu sei qui… - aggiunse quindi in tono mite.
 
- Sì, giusto. Che ci faccio qui? E in tutti gli altri posti? Cosa diavolo significa tutto questo? - chiese Castiel, per nulla ammorbidito.
 
- Ecco… - esitò Jensen, all’improvviso titubante - Volevo farti ripercorrere le tappe, anche se mi rendo conto solo ora che sono proprio poche, della nostra storia. L’Accademia, la caffetteria, poi casa tua ed infine il museo. Insomma… questo posto ha cambiato la mia vita, perciò… volevo che accadesse qui. -
 
- Che accadesse cosa? - sbuffò Castiel, esausto, sperando che non ci fossero altri bigliettini o enigmi da risolvere.
 
- Questo. - mormorò Jensen con un timido sorriso, estraendo dalla tasca interna della giacca una scatolina di velluto blu.
 
Una scatolina da gioielliere.
 
Una scatolina che fece perdere un colpo al cuore di Castiel, che al suo cospetto arretrò istintivamente d’un passo, osservando alternativamente quest’ultima e Jensen con occhi grandi come piattini.
 
- Cosa… ma cosa…? - farfugliò, incapace di formulare una frase coerente.
 
Il sorriso di Jensen si fece sempre più ampio, mentre allungava la scatolina verso Castiel, invitandolo a prenderla.
 
- Cass, respira. Stai iperventilando. Non ti sto chiedendo di sposarmi, stai tranquillo… su, aprila. – lo incitò in tono dolce.
 
Il prof la scrutò ancora per qualche istante, sospettoso, prelevandola poi dal palmo di Jensen con tale cautela che si sarebbe detto scottasse, per poi aprirla con fare incerto.
 
In effetti, all’interno c’era sì un anello, ma del tutto diverso da quello che aveva temuto.
Si trattava infatti di un anello portachiavi.
E attaccati a quest’ultimo, c’erano un pezzetto di plastica azzurra ed una sorta di targhetta.
Castiel rialzò uno sguardo interrogativo su Jensen, che con un cenno del capo lo incitò ad estrarre il portachiavi dal piccolo astuccio blu.
 
Cosa che il professore fece, sempre più smarrito.
 
Esaminandolo da vicino, notò che uno degli oggetti agganciati all’anello era una piccola ala di plastica celeste, tondeggiante e cicciottella, uno di quei regalini da due soldi che si trovano nelle confezioni dei cornflakes.
 
- Questa l’ho comprata in aeroporto, mentre tu controllavi i biglietti e le carte d’imbarco. Costa cinquanta cents. - spiegò Jensen, intrepretando i suoi pensieri - So che è roba da poco, ma è il suo valore simbolico quello che m’interessa. Voglio che ti ricordi ogni giorno che tu sei il mio angelo… - disse serio, guardando dritto negli occhi Castiel.
 
Che non riuscì a fare nulla di meglio se non sorridergli come un cretino, imbarazzato, la rabbia di poco prima già nel dimenticatoio, tornando a rivolgere la propria attenzione al secondo ciondolo che pendeva dal portachiavi.
Era una lunga strisciolina di carta stampata, racchiusa fra due sottili fogli di plexiglass. Castiel la lesse. Sembrava quasi…
 
- Oh. - mormorò, incredulo - Jens… questo… ma è…? -
 
- Sì, è il bigliettino del mio biscotto della fortuna. - confermò Jensen.
 
- Non posso crederci… l’hai conservato… - mormorò, commosso.
 
- L’ho trovato nella tasca della giacca un paio di giorni dopo che noi… sai… - borbottò Jensen - Non ce l’ho fatta a gettarlo via, mi ha ricordato quanto sono stato fortunato a trovare il coraggio di allungare quella mano. - spiegò, impacciato, alludendo al testo del bigliettino. [2] -
 
Castiel, anche se visibilmente emozionato e sorpreso, ancora non riusciva a mettere a fuoco il nocciolo di tutta quella complessa messinscena.

- Temo di continuare a non capire… perché mi hai regalato un portachiavi? -
 
- Bè… tu quando si è trattato di noi, di me, non hai mai esitato un secondo. Mi hai offerto casa tua per dipingere quando mi conoscevi appena, e da allora non hai più smesso. Mi hai dato tutto, senza mai chiedere niente in cambio e anche io, nel mio piccolo, sto cercando di fare altrettanto. Per questo voglio darti la cosa più preziosa che possiedo. - spiegò, estraendo dalla tasca una chiave e posandola con decisione sul palmo del professore.
 
Castiel balbettò, fissandola come se fosse radioattiva, avvertendone l’esiguo peso, contrapposto al peso notevole delle sue implicazioni.
 
- Questa è… è… -
 
- … la chiave dell’Impala. - concluse per lui Jensen.
 
- Ma… ma io non posso…. io non… -
 
- Non te la sto regalando, Cass, non agitarti. Però voglio che sia tanto tua quanto mia… e questo puoi accettarlo. - concluse Jensen, prendendo la mano di Castiel e richiudendola sulla chiave.
 
Il professore osservò per un po’ la propria mano stretta tra quelle di Jensen, sentendo la superficie dentellata della chiave premere contro il proprio palmo e lacrime bollenti premere contro le proprie ciglia. Lacrime che ricacciò prontamente indietro.

Guardò brevemente Jensen, che ancora non aveva smesso di sorridere, appoggiandoglisi contro e posando la testa sulla sua spalla.
 
- Grazie. - mormorò semplicemente, ad occhi chiusi, godendosi l’abbraccio del compagno.
 
- Non è nulla… anche se non è per darti la chiave che ti ho fatto venire fin qui. Non solo, almeno. -
 
Castiel si scostò di qualche centimetro senza sciogliersi dall’abbraccio, giusto per poterlo guardare negli occhi.
 
- Ah, no? -
 
- No. Cioè, la chiave sarebbe, anzi è… maledizione, lo sai che non sono bravo con le parole… è il mio modo di dirti che, anche se tardiva, la mia risposta è sì. -
 
- Che significa? - chiese Castiel, confuso.
 
- Significa , Cass. - ripetè Jensen, serio e sorridente, aspettando che Castiel facesse due più due.
 
- Oh mio Dio… - sussurrò il professore, sentendo il cuore accelerare - Sì? Quel sì? - chiese, cercando di non farsi prendere prematuramente dall’entusiasmo.
 
Jensen annuì.
 
- Vuol dire… vuol dire che verrai con me a new York? - domandò esitante, aggrappato al bavero della giacca di Jensen.
 
- No. -
 
- Oh… -
 
- Vuol dire che verrò con te ovunque, Cass. Ovunque vorrai. Sono un’idiota che ci mette cent’anni a capire quali siano le cose che contano, ma una volta che l’ho capito, puoi scommetterci il tuo bel culetto che non me le lascio sfuggire. -
 
- Jens… - mormorò Castiel con gli occhi lucidi, avvicinandosi al suo viso per baciarlo ma ritraendosi immediatamente, tornando con i piedi per terra - Un momento. E per la questione dei soldi? Come la mettiamo? -
 
- Non sono più un problema. -
 
- E… e come? E’ passata la Fata Dentina? -
 
- Due o tre giorni fa mi ha chiamato Rufus. Lì per lì non ci avevo nemmeno pensato, con tutto quello che avevamo passato, ma sulla testa di Alastair pendeva una bella taglia, era ricercato da due decenni. -
 
- Ma… la taglia non spetterebbe al cacciatore che l’ha catturato? -
 
- Infatti. All’inizio non volevo nemmeno starlo ad ascoltare, ma Rufus ha dato di matto, mi avrà richiamato quaranta volte… dice che se non fosse stato per me non l’avrebbe mai preso, che la mia famiglia ha già pagato abbastanza, e mi ha dato il tormento per cedermi metà della somma. Così alla fine ho accettato. Diciamo che l’ho preso come una specie di… di segno. La cosa giusta al momento giusto. -
 
- Quindi… -
 
- Quindi trentamila dollari, Cass. Direi che potrò stare tranquillo per un po’, anche se non dovessi trovare subito un lavoro. Perché lavorerò, e divideremo le spese, mettiti il cuore in pace. - lo ammonì Jensen.
 
- Questo… è tutto vero? Cioè tu… vieni davvero a vivere con me? - farfugliò Castiel, fregandosene del lavoro e delle spese, faticando a contenere l’entusiasmo.
 
- Non ti libererai così facilmente di me, Collins. -  ghignò Jensen, stringendoselo addosso.
 
- Ringrazia che siamo in mezzo ad una strada, se no ti sarei già saltato addosso, Winchester. – ringhiò piano Castiel, aggrappandosi poco gentilmente ai suoi capelli.
 
- Non credo di aver nulla per cui ringraziare, allora… -
 
- Dio, ho una voglia di portarti a letto che non ne hai idea… credo che non ti permetterò di uscire per un paio di giorni. -
 
- Tanto i menù di Paradise Pizza ce li abbiamo, no? -
 
- Mhhh… non vedo l’ora di festeggiare come si deve… e con “come si deve” intendo sopra di te, nudo. -
 
- È una minaccia? -
 
- No, è una promessa… - assicurò il professore con voce roca - Corriamo a casa. Subito. -
 
- Correre? Non se ne parla. Ho… anzi, abbiamo qui la macchina… -
 
- L’impala ha i sedili reclinabili? - ghignò Castiel, agguantando il compagno per un lembo della giacca e tirandoselo dietro, avviandosi verso il parcheggio.
 

Un paio di mesi dopo…

 
 
- Cass, sbrigati! Dobbiamo uscire, siamo già in ritardo! - urlò Jensen dal piano di sotto.
 
- Lo so, lo so, ma non trovo niente da mettermi, maledizione! Proprio questa settimana doveva rompersi, la lavatrice? - replicò Castiel, irritato e nervoso, dal piano superiore, senza dar segno di voler scendere.
 
Jensen si avviò su per le scale, ben deciso ad interrompere la farsa che stava andando avanti da più di venti minuti, a costo di trascinare fuori di casa il professore di peso.
E in mutande.
Mutande che peraltro erano le sue, constatò con disappunto una volta entrato in camera.
 
- Non posso crederci, sei ancora in quelle condizioni? - sbottò, non appena si rese conto che Castiel stava vagando davanti all’armadio aperto con addosso solo i boxer di Batman - Ehi, e poi quelli sono miei! Possibile che l’unica cosa che hai trovato da metterti addosso non sia nemmeno tua? -
 
Castiel si voltò nella sua direzione, più arruffato che mai, con un’aria talmente angosciata e indifesa da ricordare a Jensen un pulcino spelacchiato e da fargli soppesare la possibilità di fare a meno della baggianata che li attendeva in Accademia per rimanere a casa a riappropriarsi delle sue mutande con relativo, sconvolto, contenuto.
 
- Jens, non ho nulla. Nulla che vada bene! -
 
- Ma che dici? Hai un mucchio di roba pulita! E poi sei sveglio da talmente tante ore che avresti potuto benissimo andare a lavare le tue cose al fiume! -
 
- Sì ma non va bene… - mormorò sconsolato Castiel, scandagliando mesto il contenuto dell’armadio - E’ tutto troppo sportivo o troppo elegante… se indossassi un completo rischierei di fare la figura di chi crede d’aver già vinto, e se invece mi mettessi jeans e maglietta sembrerei poco rispettoso nei confronti del collegio docente e dell’occasione… -
 
Jensen realizzò che il problema non erano affatto i vestiti, e che quello era un attacco di paranoia in pieno stile Collins. Non tanto per se stesso, ma perché non voleva che i sogni dei suoi ragazzi si infrangessero, desiderava solo mandarli trionfanti a New York. Scartando l’ipotesi di far respirare il professore in un sacchetto fino a che non si fosse calmato, optò per una soluzione più veloce, prendendo in mano la situazione.
 
- Ok, ora ci penso io Prof, fidati di me. - dichiarò, mettendosi a frugare nell’armadio e lanciando alcuni indumenti sul letto già ingombro dopo averli esaminati brevemente - Il dna di Bei Capelli scorre anche dentro di me, non posso sbagliare!
 
Castiel li osservò, dubbioso.
 
- Ma-
 
- No! Niente ma, Cass. Non abbiamo tempo per i ma. Ora ti metti quello che ho scelto e porti il tuo culo fuori di qui. Adesso. - ringhiò con aria torva, fissando il professore a braccia conserte come uno di quei sergenti cattivi dei film, fino a che quest’ultimo non cedette sotto il peso del suo sguardo ed iniziò a vestirsi senza fiatare.
 
Dopo nemmeno cinque minuti, Jensen riuscì con grande soddisfazione a caricare sull’Impala uno spettinatissimo Castiel con addosso un paio di jeans scuri, camicia azzurra e giacca sportiva grigia.
 
Durante il tragitto il professore non aprì bocca nemmeno una volta, e Jensen lo lasciò in pace, lo conosceva abbastanza da sapere che, al momento buono, avrebbe tirato fuori le unghie.
 
Il momento buono arrivò quasi subito quando, una volta in Accademia, vennero intercettati da Meg in corridoio mentre si recavano in aula magna.
 
- Ohhhh, ma guarda un po’ chi abbiamo qui… il professorino perfettino e il suo modello preferito. Collins, mi fa piacere vederti in piedi, credevo che fossi in un angolino della tua aula piagnucolare e a dondolare su te stesso… non hai un bel colorito, sai? -
 
- Ho passato molte notti in bianco, negli ultimi tempi… - replicò Castiel, tra i denti.
 
- Ansia da prestazione? - insinuò perfidamente Meg.
 
- Se vuoi vederla così… più prestazione, che ansia, in effetti… - ribattè Castiel con un minuscolo ghigno e una fugace occhiata all’indirizzo di Jensen, che faticava a restare serio.
 
Meg rimase interdetta per qualche istante, in attesa, non tanto sicura di aver colto il significato della battuta, continuando a fissare Castiel senza dire una parola.
 
- C’è altro veleno che devi sputare, Meg, o possiamo andare? - domandò il professore, affabile, sfoggiando un gran sorriso.
 
- Niente, a parte il fatto che sono estremamente felice che la fine dei corsi sia arrivata, così per almeno un paio di mesi non dovrò vedere il tuo pulcioso trench svolazzare in giro per i corridoi. - rispose la professoressa, indispettita.
 
- Oh, di quello non dovrai preoccuparti per un bel pezzo. -
 
- Che significa? - domandò lei, colta alla sprovvista.
 
- Significa che me ne vado, Meg. -
 
- T… te ne vai? - balbettò quest’ultima, impallidendo impercettibilmente e spostando lo sguardo ora su Jensen e ora su Castiel, per capire se fosse uno scherzo - E dove? - si lasciò sfuggire.
 
- New York. Per ora mi sono preso un anno sabbatico, poi si vedrà. -
 
- Ma… - esitò Meg.
 
- Problemi? - si intromise Jensen, con un sorrisino innocente che fece andare su tutte le furie la giovane donna, che gli riservò un’occhiata omicida.
 
- Non stavo parlando con te, Lentiggini. E no, nessun problema, mi spiace solo che non avrò più nessuno da schiacciare sotto i tacchi come un’insulsa formica. Con tutti gli altri è troppo facile… l’anno prossimo dovranno consegnarmi il premio all’inizio del semestre, tanto sarà scontato chi vincerà. - ribattè prontamente, recuperando la consueta sfacciataggine.
 
- Prima di volare tanto lontano con la fantasia, che ne diresti di cominciare a vincere quest’anno, Meg? Non mi pare che tu abbia ancora la targa tra le mani… - la provocò Castiel.
 
- Questione di minuti, Collins, questione di minuti... - replicò lei, allontanandosi ancheggiando per poi bloccarsi e ritornare spedita sui propri passi.
 
- Scordato qualcosa? - domandò Jensen ridacchiando, mentre la donna oltrepassava sia lui che Castiel a testa bassa. -
 
- L’aula magna è di là. - ringhiò lei, inferocita, mentre i due scoppiavano a ridere.

Una volta che buona parte degli studenti e i rispettivi professori si furono riversati nella grande sala, il rettore tenne un non tanto breve discorso dal piccolo podio che era stato allestito per l’occasione, elogiando l’impegno profuso da tutti quanti nell’allestire l’esposizione e il talento dimostrato dai partecipanti, ringraziando il corpo insegnante per la disponibilità dimostrata e l’amore per la propria materia, per poi lanciarsi in un tedioso monologo sull’importanza del sostegno alla cultura in generale e all’arte nello specifico.
 
- Bla bla bla… come si fa a spegnere quell’uomo? - si lamentò Jensen, in piedi accanto a Castiel, ormai decisamente più calmo dopo essersi sfogato con Meg.
 
- Dai Jens, non essere impaziente, lo so che detesti queste cose ma cerca di tener duro, manca poco.
 
- Ho fame. - borbottò Jensen in uno dei suoi tipici attacchi d’infantilismo, dondolando afflitto sui propri piedi - Voglio andare a casa. Ho sete. -
 
- Di questo passo tratterrai il fiato fino a che non ti ci riporterò, vero? - ridacchiò il professore - Dov’è finito l’adulto responsabile che voleva trascinarmi in strada nonostante fossi mezzo nudo? -
 
- È morto di noia ascoltando quel tizio… Dio, altro che trascinarti fuori mezzo nudo, sarebbe stato molto più saggio trascinarti a letto e risparmiare ad entrambi questo strazio… - sussurrò Jensen al suo orecchio -
 
- Zitto, zitto, sembra che stavolta abbia terminato! - mormorò Castiel dandogli una gomitata - Oh, grazie al cielo, ci siamo! - constatò, osservando il rettore che si chinava a prendere la targa da consegnare al vincitore.
 
- Allora… - disse l’uomo, rivolgendosi alla platea in fermento - So che siete tutti ansiosi di sapere chi andrà al Guggenheim quest’estate, per cui non indugerò oltre nell’annunciare i vincitori. -
 
Jensen, pigiato nella calca, strinse forte la mano di Castiel.
 
- Al terzo posto si piazza il professor Olsson, con le opere del suo corso ispirate ai miti sui vampiri. Complimenti a lei e ai suoi, professore. - disse, indirizzando un breve applauso in direzione del docente dai penetranti occhi azzurri, che chinò il capo in segno di ringraziamento.
 
 - E ora il trionfatore di quest’anno… - riprese l’uomo dopo la breve interruzione - … che ha strappato la vittoria al secondo classificato, il professor Collins, solo per una manciata di voti: professor Edlund, la prego di venire qui… e a lei, professor Collins, le mie congratulazioni! - disse quindi, rivolgendosi sia a Castiel che all’uomo dai capelli lunghi e scarmigliati che si stava facendo largo tra la folla per andare a ritirare il prestigioso riconoscimento.
 
Mentre gli applausi per il vincitore stavano ancora scrosciando, Castiel si voltò stupefatto ad osservare Jensen, che gli stava stritolando una mano imprecando sottovoce come uno scaricatore di porto.
 
- Jens, ma che hai? Smettila, mi fai male! - protestò, sottraendosi alla stretta.
 
- Scusa Cass, ma sono troppo incazzato! Come diavolo ha fatto quel tizio ad arrivare primo? E da dov’è sbucato, poi? Hai sentito che ha detto il rettore? “Manciata di voti”. Scommetto che avranno truccato le votazioni, dovresti chiedere il riconteggio… - borbottò Jensen - Dovevi vincere tu, questa è una truffa bella e buona… -
 
- Truffa? Sei impazzito? Non sono mica le presidenziali! Mi ero completamente scordato di Edlund perché è stato ad insegnare all’estero per qualche tempo, ha ripreso la cattedra solo quest’anno. - spiegò - E anche se ti trovo adorabile quando ti comporti da idiota come stai facendo ora, ti garantisco che i voti non sono truccati. Sono gli studenti a designare il vincitore, i docenti non hanno alcuna voce in capitolo. Persino nell’improbabile caso di un pareggio, il regolamento sancisce che il voto risolutivo spetta al rettore e alla piccola delegazione di galleristi che presenzia ogni anno. È tutto assolutamente regolare, te lo posso assicurare, non devi prendertela in questo modo… - cercò di consolarlo Castiel.
 
- Ma non ti spiace nemmeno un po’ di non aver vinto? E con uno scarto tanto minimo, poi? Ci siamo impegnati tutti così tanto… - continuò ad obiettare l’altro.
 
- Oh, ma io ho vinto. - dichiarò Castiel, serafico.
 
- Che stai dicendo? -
 
- Guarda . - suggerì il prof, indicando con un cenno del capo Meg che stava letteralmente schiumando rabbia, pallida e furente, un paio di metri alla destra di Jensen, piantandosi le unghie nei palmi mentre osservava Edlund ritirare la targa dalle mani del rettore - Visto? Non si è nemmeno classificata fra i primi tre, e scommetto che si sta facendo venire un embolo per non lasciarsi andare ad una scenata isterica davanti a tutti. Ti assicuro che aver battuto quella strega per me è già una grande vittoria, Jens. - assicurò il professore, sorridendo sincero a Jensen, che si lasciò infine contagiare dal suo buonumore e si voltò verso Meg, incrociandone lo sguardo e facendole l’occhiolino, guadagnandosi in tal modo un’occhiata assassina prima che quest’ultima si allontanasse stizzita.
 
- Speriamo solo che non sia una specie di Glenn Close… [3] - commentò Jensen, tra il divertito e il preoccupato.
 
- In che senso? -
 
- Nel senso che non sarei molto contento di rientrare a casa e trovare Misha che bolle nel pentolone… -
 
- Non preoccuparti, la nostra piccola sa il fatto suo, non si farebbe mai prendere da una stronza psicopatica come Meg! - rise Castiel, piuttosto euforico, agguantandolo per una manica e pilotandolo fuori dalla confusione, uscendo quindi dall’aula e guidandolo lungo un corridoio secondario fino ad una rampa di scale, che discesero, sbucando in un altro corridoio su cui si affacciavano alcune porte.
 
Castiel ne aprì una a caso, mentre iniziava a mordicchiargli un orecchio senza dire una parola.
 
- Prof… ma che fai? Dove siamo? - farfugliò Jensen, mentre veniva sospinto all’indietro fino a appoggiarsi ad una cattedra, scorgendo con la coda dell’occhio un torchio ed alcuni vasconi dentro cui galleggiavano dei fogli, nella fioca luce della stanza poco illuminata.
 
- Aule d’incisione. Non ci vedrà nessuno, qui… - mormorò Castiel sul suo collo, alito bollente sulla pelle e dita che s’insinuavano sotto la t-shirt, accarezzandogli delicate lo stomaco.
 
- Stai… stai scherzando? Noi non faremo sesso mentre l’intera scuola pullula di studenti in festa! - replicò Jensen, cercando di spingere gentilmente via il professore.
 
- Ti sbagli. Il piano di sopra pullula di studenti, qui nelle catacombe non ci disturberà anima viva… - sussurrò Castiel, forzando la sua stretta e tornando a strusciarglisi addosso.
 
- Ma che ti prende? -
 
- Non lo so… è solo che con oggi si è chiuso un capitolo e comincia la mia, anzi, la nostra nuova vita e… sono eccitato, non posso farci nulla. - spiegò - Suvvia, sii buono con me… - sussurrò carezzevole all’orecchio di Jensen - Non mi merito un piccolo premio di consolazione per non aver vinto? - chiese, bisognoso, prima di iniziare a succhiargli una clavicola.
 
- Avevi… mh… avevi detto che era tutto a posto… -
 
- Mentivo. Sono così triste, Jens… così deluso… - continuò a bisbigliare Castiel, cercando di apparire più sconsolato che eccitato - Smetti di parlare … smetti… di pensare… -
 
E fu quello che Jensen fece, al grido mentale di “ma sì, chi se ne frega!”, invertendo le loro posizioni con un colpo di reni e facendo appoggiare il compagno alla cattedra ingombra, mentre con entrambe le mani faceva scivolare la giacca giù dalle sue spalle, per dedicarsi poi ai bottoncini della camicia.
 
- Dannati… piccoli… cosi… - imprecò, disincastrandoli dalle asole a fatica e facendone saltare uno per scoprire il petto glabro di Castiel, accarezzandolo verso il basso con la punta delle dita fino ad arrivare al rigonfiamento nei jeans, che sfiorò con molta meno delicatezza, facendo gemere il professore, la testa reclinata all’indietro.
 
Jensen si chinò, percorrendo con la lingua il collo esposto, insinuando una gamba tra le sue e aumentando la frizione tanto da rimanere a sua volta senza fiato, mentre Castiel gli passava le dita tra i capelli, tirandoselo più vicino.
Sfilò con lentezza la cintura dai passanti, lasciandola cadere a terra con un rumore sordo, amplificato dall’assoluto silenzio che li circondava, iniziando a sbottonare i jeans del professore.
 
- Sì… così… - lo incitò Castiel ad occhi chiusi - Non pensare Jens… -
 
Poi l’aula si riempì improvvisamente di luce.
 
- Voi due! Siete forse impazziti? Volete farvi sospend… oh. Oh mio… Dio… -
 
L’espressione sconvolta di Meg quando entrambi si voltarono stupefatti a guardarla, ferma sulla porta dell’aula, con ancora la mano posata sull’interruttore, fu impagabile.
 
Per qualche secondo rimase in silenzio, la bocca atteggiata in una perfetta “O”, mentre tutto il sangue che aveva in corpo pareva che le stesse affluendo al viso.
Poi cominciò ad indietreggiare molto lentamente, un passo alla volta, forse sperando di passare inosservata, ma questo non le impedì di inciampare e di cadere, atterrando poco elegantemente sul fondoschiena con un gran tonfo.
Il tutto sotto lo sguardo attonito di Castiel e di Jensen, uno con la camicia completamente aperta e l’altro con le mani ancora sul cavallo dei pantaloni del compagno.
 
- Co… Collins io… io ero venuta… a riprendermi la… hem… la giacca, ma vedo che… ecco, non importa! Passo più tardi, ok? Ora… ora devo andare! - farfugliò, raccattando la borsetta dal pavimento e rimettendosi goffamente in piedi, per poi correre via come un fulmine rischiando di spezzarsi una caviglia sui tacchi da dodici.
 
Jensen guardò Castiel, che ancora stava fissando la porta ad occhi sgranati.
 
- È successo davvero? - chiese, inarcando un sopracciglio, mentre una risatina isterica risaliva a solleticargli la gola, condensandosi in piccoli sbuffi trattenuti.
 
Castiel annuì meccanicamente, voltandosi verso la cattedra e rendendosi conto di essere seduto, tra le altre cose, sopra ad uno striminzito giubbotto di pelle, che sollevò a mezz’aria con un sorrisetto.
 
- Ok. Ora ho davvero vinto. - sentenziò, prima lanciarselo alle spalle e di ricominciare a baciare Jensen.
 

 EPILOGO

 
Dieci giorni dopo, mentre Jensen gettava un’ultimo sguardo allo studio di Castiel, fermo sulla soglia, reggendo la gabbietta che conteneva una recalcitrante ed inferocita Misha che non aveva fatto altro che soffiare offesa da quando ce l’avevano infilata a forza, Castiel si avvicinò alle sue spalle e, posato sulle scale lo scatolone che stava trasportando, lo cinse tra le braccia, deponendogli un bacio morbido sulla nuca.
 
Jensen reclinò il capo all’indietro, fino a poggiarlo sulla sua spalla, sospirando ad occhi chiusi.
 
- Pentito? - chiese dolcemente il professore.
 
- Affatto. Solo… mi mancherà questo posto. - confessò.
 
- Ehi, non stiamo andando all’altro capo del paese, possiamo tornare ogni volta che ci salta in mente… -
 
- Sicuro di non volerla affittare mentre siamo via? -
 
- Sicurissimo. Questa è la nostra casa, Jens, non sopporterei di sapere che ci vive qualcun altro. -
 
- Sei così sentimentale… -
 
- … Disse quello che ha conservato il biglietto di un biscotto della fortuna. -
 
- Touché. - ridacchiò Jensen.
 
- Che si fa, vogliamo muoverci? - chiese Castiel, staccandosi da lui con un ultimo bacio sui capelli.
 
- Sì… tu vai avanti e metti in moto, io arrivo subito. - mormorò in tono pacato, osservando il professore recuperare la scatola e oltrepassare la soglia.
 
Si soffermò qualche istante ad osservare le stanze al pianterreno, ora un po’ più spoglie, i muri colorati, i mobili scompagnati coperti con i teli e la confusione che vi regnava ancora nonostante tutto, riassaporando ogni singola emozione provata in quella casa.
Era come se avesse iniziato a vivere realmente solo da quando aveva messo piede lì dentro… e probabilmente era davvero così, pensò, con una punta di malinconia all’idea di doverla lasciare.
 
‘Questo non è un addio, è un arrivederci…’ promise, chiudendosi la porta alle spalle e incamminandosi verso Castiel, che gli sorrideva dal finestrino dell’Impala stracarica.
 
Aveva creduto di aver passato gli ultimi otto anni a sfuggire al proprio passato, mentre invece li aveva passati a correre incontro al proprio futuro.
 
 
 
 

Il mondo era tutto davanti a loro, per scegliere
il loro posto o riposarvi, e la Provvidenza la loro guida.

Tenendosi per mano, con passi erranti e lenti
attraverso l'Eden presero la loro via solitaria.

.
(John Milton, Paradise Lost)
 

 
 

FINE

 
 
 
 
[1] Da “Il piccolo principe” di Antoine de Saint Exupéry ©.
 
[2] Vedi capitolo 8.
 
[3]
Dalla 5X13 The Song Remains The Same
 
 
 
NDA:
Stavolta è terminata sul serio, non so come ma sono riuscita a mettere la parola fine in fondo al capitolo.
Avevo programmato di pubblicare l’ultimo capitolo la vigilia di Natale e una one shot “a tema” durante le vacanze, ma nulla è andato per il verso giusto… ovviamente.
Al momento mi sento un po’ triste e/o scombussolata e mi mancheranno i miei ragazzi, ma mi consolerò rileggendo tutte le fantastiche recensioni che hanno reso indimenticabile questo viaggio che, durante il tragitto, si è rivelato moooooolto più lungo del previsto (confessò la ragazza affetta da incontinenza verbale)!
 
♥ Ringrazio tutte voi che avete recensito (sante subito!) in rigoroso ordine sparso, sperando di non dimenticare nessuna e di non fare una delle mie intramontabili gaffe… per cui un milione di grazie a pepsidrunk, PearLina, Jam_WinCAS, orianafrankie, Monroe, Ai_Sellie, pannasullenuvole, Alice_InWonderland, xxrosy92, Aliensl, ELE106, crisB, titti187, Vehuel, mickymouse, Eris666, cipollina96, TrenchcoatMeg, Andy2412, Camelya, ThanatosTH, ladyash e all’ultima arrivata Draco Malfoy! ♥
 
♥ Un grazie ad emma2626, le cui bellissime recensioni mi fanno sempre sentire oltremodo figa, a xena89, puntuale come un orologio, ad Aniel e alla nostra incontestabile fusione mentale (falafel a perdita d’occhio!) e, ultima ma non ultima, ad Ohmygod: l'idea per questa storia mi è arrivata da un nostro folle discorso tipo “pensa che roba, avere in classe un modello come Jensen”… perciò grazie (ma riprenditi Bei Capelli, che mantenerlo mi costa una fortuna in shampoo!). ♥
 
♥ Un grazie formato famiglia a LaTuM (spero che almeno una delle tue due personalità abbia gradito l’happy end! XD), Maliktum Ishtar e Cattivissima_Me per aver segnalato la storia per la sezione Scelte (awwww…). ♥
 
♥ Infine un ringraziamento a tutte le lettrici silenziose, a chi non ha mai commentato ma ha inserito la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite! ♥

È stato bello.
Siete state belle.
 
 

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