Sequins High (not another teen drama)

di Elle Sinclaire
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La routine di Chase. ***
Capitolo 2: *** Il principe azzurro è gay. ***
Capitolo 3: *** Pink Flamingo. ***
Capitolo 4: *** Firmato J. ***
Capitolo 5: *** Nuovi lidi. ***
Capitolo 6: *** Il genio. ***
Capitolo 7: *** Sesso (tutto quello che Grace avrebbe voluto sapere a riguardo, ma non ha mai osato chiedere) ***
Capitolo 8: *** Problemi in famiglia. ***
Capitolo 9: *** Festa di Halloween ***



Capitolo 1
*** La routine di Chase. ***


a
(not another teen drama)


La routine di Chase.

A chi combatte ogni giorno.


Ad Emily che ha finito.
 

Chase Lucas Walker aveva una routine mattutina di cui andava più che fiero e che mai avrebbe voluto spezzare, a meno che un meteorite non si fosse abbattuto sulla terra.
Solo allora avrebbe abbandonato la sua postazione davanti al computer e lasciato incompiuta una partita di scacchi e avrebbe ballato sulle tombe di chiunque il cielo avesse voluto punire, convinto che si sarebbe salvato; lui solo, per dar vita a un mondo privo di trogloditi platinati dai muscoli guizzanti.
Chase Lucas Walker si svegliava ogni mattina alle sette, grazie alla sveglia suonata dai Metallica a tutto volume, si trascinava fino in bagno ancora bestemmiando contro James Hetfield e compagni e si lavava i denti per dodici minuti e quattordici secondi.
Meno tempo lo passava davanti all’armadio: la sua collezione di camicie Armani vantava modelli identici di variazione cromatica pressoché infinita ed erano pochi i secondi di contemplazione alla ricerca del colore adatto. Quarantasette, per la precisione.
Sorrideva davanti allo specchio, sistemandosi la piega dei pantaloni e il ciuffo di capelli più lungo sulla fronte, poi riempiva la cartella con il solito quaderno su cui appuntava storie che non avrebbe mai concluso e usciva dalla porta della sua stanza.
In quel preciso istante il caos invadeva la sua tranquillità interiore, abbattuta a colpi di urla e risate da due bambini di cinque anni: i gemelli erano la sua più grande croce. Lucy e Jamie, i piccoli di casa Walker, non conoscevano il significato di molte parole, data la loro tenera età, ma la parola che proprio non voleva entrargli in testa era “silenzio”. Due piaghe più basse di un metro, dai capelli neri e gli occhi azzurri, che passavano le loro giornate a giocare agli indiani, ai Power Rangers, ai Transformers e agli X-men.
Chase Lucas Walker avrebbe volentieri barattato la parte della sua routine giornaliera che comprendeva il loro cercare di assassinarlo fuori dalla porta della sua stanza ogni mattina dell’anno, con l’ultimo cd di Lady Gaga, ma i gemelli non sembravano essere d’accordo con questo scambio per tutti vantaggioso.
Ci impiegava con esattezza nove minuti e otto secondi a liberarsi di loro, scendere finalmente le scale e bere un bicchiere di succo di frutta e addentare una brioche alla marmellata di ciliegie. In quel momento faceva la sua apparizione la matrona di casa Walker, la signora Emma, e Chase sperava con intensità sempre maggiore che le sue raccomandazioni durassero meno dei soliti sette minuti, perché altrimenti avrebbe dovuto correre per non perdere l’autobus e non collezionare l’ennesima nota disciplinare per un’entrata in ritardo.
La routine implicava comunque il suo passo affrettato, gli spintoni sull’autobus e la puzza di topo morto proveniente dalle ascelle di Jeremy Cunningham, suo compagno nel corso di scienze; il rientro a scuola, la prima sigaretta della giornata in cortile con Coop, la sosta davanti all’armadietto di Victoria.
Ed era da quel momento in poi che rimpiangeva i morsi ai polpacci di Lucy e i pugni nello stomaco di Jamie: il primo spintone di solito era di Simon Scott, il quarterback della squadra di football, accompagnato dagli insulti di JC Cook, il ragazzo più bello e popolare della scuola.
La storia che vi racconterò, parlerà proprio di come JC Cook scardinò per sempre la routine di Chase Lucas Walker.


La cittadina di Sequins vantava un numero di poco superiore alle trentamila anime perse e annoiate.
Affacciata sull’Oceano Pacifico dal Nuovo Continente, a pochi chilometri da San Francisco, si presentava come uno dei luoghi più colorati della West Coast: le case a schiera e i prati perfettamente curati e verdi, si snodavano lungo vie e viottole strette con una geometria precisa; le pareti pitturate di colori pastello, alternati secondo abbinamenti scelti con sapienza e maestria dal sindaco Johnson, le fontane e le panchine nel parco della Sequoia e i portoni delle case aperti anche di notte.
Le trentamila anime vivevano, al sicuro da ogni tipo di perversione e crimine, una vita votata alle feste cittadine e ai barbecue nei giardini curati. Dallo svincolo autostradale, erano poche le strade da percorrere per raggiungere il corso principale: lì i negozi erano perfettamente incasellati uno accanto all’altro e animati dal via vai giornaliero dei compaesani affaccendati nelle commissioni giornaliere.
Proprio tra l’alimentari e il negozio di articoli da pesca, di fronte al monumento ai fondatori, c’era un piccolo bar dalle mura dipinte di rosa confetto, gestito dalla famiglia Peterson.
All’interno del locale dei suoi genitori, Grace Lydia Peterson poteva ammirare in tutto il suo splendore il suo fidanzato: JC si muoveva, con eleganza innata e improbabile per un giocatore di football, tra i tavoli e i clienti esigenti, distribuendo sorrisi falsi come banconote da sette dollari. Ammiccava alle cheerleader con una naturalezza che non poteva che invidiargli, fino a quando non si fingeva mortificato, vedendola entrare.
Grace anche quel giorno lo baciò con trasporto, pronta a ricevere occhiate di fuoco dalle sue compagne di squadra, invidiose della sua relazione con il ragazzo più popolare del Sequins High, poi le salutò come se niente fosse.
“Kelly, questo nuovo taglio di capelli ti dona.”
“Oddio, Sonia, ma quel braccialetto è meraviglioso! Chi te l’ha regalato, Matt?”
“Grazie, Julie, ho usato la trousse che mi ha regalato Lana per il compleanno!”
‎”Piccola, tra dieci minuti stacco.”
JC interruppe le sue futili chiacchiere, parlando al suo orecchio. Con il grembiule nero e il vassoio in mano non sembrava poi così bello, ma non le interessava molto; non era la sua bellezza ad averla colpita, dodici anni prima. E poi quella bocca enorme stonava sul suo viso angelico, come un film porno proiettato al cineforum della parrocchia.
Un’ora dopo si ritrovò sul serio al cineforum e quasi rimpiangeva le voci stridule delle altre cheerleader che mentre lei se n’era andata avevano dato luogo a una discussione su chi fosse più glamour tra Paris Hilton e Nicole Ritchie. Era così ovvio che la migliore tra le due fosse Paris che non aveva senso per lei partecipare, perciò non ci aveva pensato due volte prima di prendere la mano di JC e farsi portare fuori.
Sperava in un film più romantico, però: magari il Titanic o Casablanca; passare la serata a guardare Mars Attack! non era il suo prototipo di appuntamento ideale. Soprattutto se JC appariva così rapito dalla visione da non passarle neanche un braccio dietro le spalle.
Cosa avevano quegli abominevoli esseri alieni più di lei? Dubitava fosse il cervello, perché era convinta di averne più lei di JC, nonostante non le piacesse farne un vanto. Forse aveva gli occhi troppo piccoli.
Sì, sicuramente era per quello.
Quando durante l’intervallo JC si voltò finalmente a guardarla, la trovò con un’espressione allucinata e gli occhi sgranati che apparivano due volte più grandi del normale.
“Grace, ti senti male?”
Gli occhi ormai le lacrimavano, tanto era lo sforzo di mantenerli aperti, e tante piccole vene rosse erano apparse nella sclera.
“No, sto benissimo, perché?”
JC la osservò ancora qualche istante in silenzio, poi scosse la testa, tornando a guardare il film che era appena ricominciato.


Il primo giorno di scuola dello Junior Year al Sequins Hugh, David Elliot Cooper sfoggiava un occhio nero e un labbro tagliato a metà, ostentandolo come uno dei trofei vinti al club degli scacchi.
Nel cortile pieno di studenti camminava a testa alta e occhi socchiusi, dal dolore e dal sole, poco interessato agli sguardi preoccupati di chi sorpassava con indifferenza. Si fermò solo quando arrivò alla sinistra del grande portone d'ingresso, una sigaretta tra le labbra e un piede incrociato davanti all'altro.
Le cheerleader occupavano la sua visuale: gambe lunghe e nude e colli scoperti dai capelli raccolti; Coop era votato alla venerazione di quelle ragazze e delle loro mosse sensuali, come un pellegrino al proprio santo preferito. Soprattutto a una di loro.
“Smettila di sbavare, Coop!”
Il momento perfetto ucciso brutalmente da Victoria Roberts: un classico.
“Buongiorno a te, Vicky.”
“Non offenderti, sto solo salvando la tua dignità, cercando di evitarti il cliché del nerd innamorato della cheerleader.”
David si indignò a quelle parole e piegò le labbra in una smorfia che procurò dolore al labbro.
“Io non sono nerd, non ho neanche mai visto Star Wars.”
“E perché allora ti vesti da sfigato?”
“Sono inglese, Vic. Sono alla moda, io,” ringhiò, gli occhi ridotti a due fessure. “Non è colpa mia se voi fottuti yankees non sapete cosa siano i Mods.”
“Gli Oasis si sono sciolti, amico.”
Un’altra voce maschile interruppe la sua solita filippica e fece tirare un sospiro di sollievo a Victoria. Ecco un’altra parte della routine mattutina che Chase avrebbe volentieri barattato per un caffè decente e pieno di zucchero.
“Non ricordarmelo,” scandì Coop, mentre si avviavano tutti e tre insieme verso gli armadietti, dopo il suono della prima campanella dell’anno. “Venderei la mia collezione di vinili per una canna,” biascicò poi in uno sbadiglio.
Chase rise e scosse la testa, aprendo l’armadietto e riflettendosi nello specchio al suo interno; si sistemò il ciuffo con aria seriosa e lanciò un’occhiata apprensiva a Coop che aveva di nuovo preso a fissare le gambe di una cheerleader.
Victoria piantò un gomito ossuto nello sterno dell’inglese e imprecò a bassa voce, prima di insospettirsi per l’insolita allegria di Chase.
“Come mai sei così felice, stamattina?”
“Oh, Vic, speravo proprio me lo chiedessi!” sospirò, portandosi una mano sul cuore, in un gesto teatrale. Lasciò che per sette secondi il silenzio calasse su di loro, aumentando la suspense. “Ieri sera al Pink Flamingo ho conosciuto l’uomo della mia vita!”
Coop rise di gusto e gemette per il dolore al labbro spezzato. “Questo mese hai conosciuto tre uomini della tua vita,” disse ghignando, “e dall’inizio dell’estate sono stati almeno dieci, più qualche distrazione momentanea.”
“Questa volta è quello giusto, lo so…”
Vicky sbuffò, spostandosi la frangia troppo lunga da davanti agli occhi e sorrise. “Lo hai detto anche di Mike. E del ragazzo francese, come si chiamava? Leòn… Ah, e di Samuel!”
“E Robert come sta? È tornato in Massachusetts?”
“Stronzi,” borbottò, contrariato, e chiuse l’armadietto con un colpo secco.
La risata che sgorgò dalle gole degli amici fu interrotta da una voce profonda e sprezzante e dall’entrata in scena di un corpo dalla mole imponente e spaventosa.
“Cosa sono queste parole, principessa? Non si addicono di certo a una bocca di rosa come la tua.”
Ed eccolo lì, il bullo; lo sportivo tutto muscoli che ama usare contro i più deboli. Simon Ray Scott era uno dei ragazzi più popolari della scuola, bello e ricco; il quarterback della squadra di football, il migliore amico del capitano; il ragazzo che ogni essere di sesso femminile avrebbe voluto presentare ai propri genitori e sposare un giorno, sfornando bambini a sua immagine e somiglianza.
Un clichè ambulante, in carne, ossa, muscoli esagerati e divisa della squadra.
E Chase avrebbe scambiato quel momento delle sue giornate con i morsi di un cane rabbioso o i pugni di Mohammed Alì, perché forse sarebbero stati più dolorosi ma meno umilianti.
“Non oggi, Scott,” ringhiò Coop.
Il caro e vecchio Coop. La mattina riuscivano a tenerlo a bada per soli otto minuti esatti, prima che smettesse di ragionare e saltasse al collo di qualche armadio di muscoli; con esiti disastrosi per il suo viso, ovviamente.
Non fu Victoria però a fermarlo quella mattina; quello fu il primo segno dello spezzarsi di una routine che andava avanti da più di un anno.
“Lascia perdere, Simon.”
Fu la capo cheerleader Hope Peterson a intervenire: la ragazza più desiderata di tutta la scuola; la figlia di una delle famiglie più ricche di Sequins; la ballerina più talentuosa che si fosse mai vista in quel liceo.
“Non ne vale la pena,” continuò e Chase avrebbe dovuto capire che quell’anno avrebbe dovuto dire addio alla confortante sensazione di sapere esattamente cosa sarebbe successo ogni giorno.
Forse, se avesse visto lo sguardo che Hope lanciò a Coop prima di spingere via Scott, lo avrebbe capito prima.


“Dave! Cazzo, Dave, stai attento!”
Nessuno che fosse passato davanti alla porta dello sgabuzzino delle scope avrebbe potuto ricondurre la voce roca e leggermente isterica a quella di Hope Cassandra Peterson: nessuno l’aveva mai sentita dire parolacce o perdere il controllo.
Beh, nessuno a parte David Elliot Cooper.
“Che c’è, piccola?”
“Sono infilata tra un mocio vileda e un rastrello, ecco cosa c’è!” Quasi urlò. Cooper la zittì con un bacio, allontanando il corpo dal suo per farle trovare una sistemazione più comoda, se mai ne esistesse una in uno stanzino di quattro metri quadrati, completamente buio.
Quando sentì il suo corpo appoggiarsi al suo petto nudo, pensò di poter tornare all’attacco e di nuovo la coinvolse in un piacevole scambio di saliva. Chase avrebbe contato tre minuti e nove secondi di apnea, se fosse stato presente, ma per fortuna non era lì con loro.
Poi un gemito diverso da quelli di piacere che le erano sfuggiti prima dalle labbra si librò nello spazio ristretto e fece staccare preoccupato il ragazzo.
“Stai bene?”
“Starei meglio in un letto!”
Dave rise e la spinse contro di sé, trattenendola per il sedere; lei provò ad allontanarsi, indignata, ma senza nascondere un sorriso divertito.
“Non ti sei lamentata quel giorno in spiaggia; neanche quella volta sulla lavatrice o…”
“Ok, ok! Ho capito!” si sbrigò a interromperlo. “Ora togliti quei dannati pantaloni e facciamo in fretta!”
Dave si immobilizzò e la guardò sconvolto per qualche istante; poi rise più forte di prima.
“Facciamo in fretta? Hope, quando mai ho fatto in fretta?”
“Si chiama sveltina, apposta, cretino! Non è una gara di resistenza, tra poco la pausa pranzo finisce!”
Il suo tono di voce era sempre più isterico e non faceva altro che alimentare l’ilarità di Coop. “Smettila di ridere!”
Indignata, gli diede un pugno sulla spalla e fece un passo verso la porta, pronta a uscire da quel buco e tornare a respirare aria pulita; aria che non puzzasse di detersivo e cacca di cane. David però le afferrò il polso e la tirò di nuovo verso di sé, baciandola a tradimento prima che dalla sua bella bocca uscisse un’altra petulante lamentela.
“Ci vediamo in spiaggia, dopo le lezioni,” sussurrò sulle sue labbra, quando si separarono.
Hope annuì con un delizioso broncio a incresparle le labbra e uscì in silenzio.
Coop sorrise, passandosi una mano tra i capelli corti e pensò che quello sarebbe stato l’anno buono per distruggere le fondamenta di quell’odiosa routine che identificava le loro giornate.

 

 

***

NOTE: 
Oddio. Io chiedo venia, sul serio.
Sappiate che da incolpare per questo primo capitolo di questa storia senza drammi è solo SidRevo. 
Il fatto  è che sto scrivendo - al sicuro nel mio allegro pc - due storie una più angst dell'altra e avevo bisogno di qualcosa che mi desse un po' di gioia di vivere, lontano da catastrofi naturali e morti e tormenti interiori.
Questa storia nasce per questo e la parola chiave è: NO DRAMA. Da qui anche il titolo, che è opera di Lyra ♥
Non so quanti capitoli conterà questa "cosa" né quanto impiegherò ad aggiornare - credo poco, per ora mi sta venendo tutto molto naturale - né quanto rimarrà sul comico demenziale di questo capitolo.
So solo che ci saranno tanti cliché dei licei americani e dei paesini di provincia - Sequins (che vuol dire Lustrini) è una città di fantasia che prende ispirazione da BlueBell di Hart of Dixie e dalla città di Edward Mani di Forbice - che vediamo nei telefilm e nei film. Molti saranno inseriti così come sono, altri verranno rovesciati un po' e mi divertirò a giocarci come meglio credo.
Questa storia non avrà comunque niente di originale, sarà solo un pretesto per divertirmi :D
I protagonisti sono sette e li ho presentati più o meno tutti; gli attori che ho scelto sono appositamente volti da teen drama et similia.
Ci sarà sia dello slash sia dell'het - teoricamente più het che slash, ma non sono così convinta, perché presto approderemo al Pink Flamingo e allora...
E boh, credo di aver detto tutto.
Mi piacerebbe leggere qualche parere perché è la prima volta che mi cimento in una cosa del genere e considerando anche che sono ormai quattro anni che non vedo un liceo manco da lontano mi trovo vagamente spaesata a tornare nei corridoi xD
Per spoilers, cazzeggi, foto, di tutto e di più, il mio gruppo facebook è Fenicotteri rosa e Serpi verde.
Alla prossima,
Elle

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Capitolo 2
*** Il principe azzurro è gay. ***


a

A chi fa sogni discutibili
su Brian Kinney. 

Il principe azzurro è gay.

JC era sempre stato convinto di non aver bisogno di niente e di nessuno nella sua vita, nonostante a volte il suo cervello sembrasse necessitare di un supporto psicologico. Non che fosse stupido, solo odiava non esserlo: vivere tra cheerleader e sportivi era difficile quando si supera abbondantemente la media dei loro quozienti intellettivi.
Proprio grazie all’abbondante dose di cervello di cui i suoi genitori l’avevano gentilmente dotato, comunque, non aveva mai avuto dubbi sul fatto di riuscire a cavarsela da solo contro qualsiasi avversità la vita gli avrebbe messo davanti: solo così avrebbe affrontato i problemi economici della sua famiglia e l’inferno che sarebbe stato il liceo.
Per questo, all'inizio del suo Freshman Year aveva dovuto compiere una scelta: abbandonare per sempre i suoi sogni di popolarità, oppure rimboccarsi le maniche e guadagnare da sé i soldi che i suoi genitori non avevano.
Su cosa la scelta fosse ricaduta, nessuno aveva mai avuto dubbi: aveva venduto la sua anima al diavolo tentatore della vanagloria e deciso che avrebbe raggiunto il vertice della piramide sociale.
Il primo passo, trovato un lavoro, lo aveva portato su una poltrona del parrucchiere della signora Peterson, con la carta argentata in testa e un asciugamano rosso sulle spalle: i colpi di sole erano d’obbligo per un californiano doc e sarebbe apparso come il principe azzurro delle fiabe, ma più figo e meno gay di lui. Meno gay per quanto sarebbe potuto apparire tale uno che lo era a tutti gli effetti.
JC aveva sempre avuto il sospetto di avere tendenze particolari, ma, quando Grace lo aveva baciato a tradimento l’estate prima dell’inizio del liceo e lui aveva avuto voglia di un hamburger e di guardare le repliche di Queer as Folk, ne aveva avuto la conferma: le sue labbra non erano neanche in minima parte appetibili come quelle di Brian Kinney. Era stato allora che aveva capito che forse la cotta non se l’era preso per una bocca galleggiante nel vuoto come quella del Rocky Horror Picture Show – e a proposito di questo, avrebbe dovuto porsi qualche domanda già da quando aveva trovato sexy Tim Curry nel ruolo di Frank’n’Furter – ma anzi la sua venerazione era tutta per un uomo che ispirava sesso da qualsiasi angolazione fosse guardato. Se poi fosse stato il lato b, tanto meglio.
Era stato tentato di confessare la verità a Grace, comunque. poi però si era convinto che in fondo era un compromesso accettabile, farsi risucchiare la faccia ogni tanto dalla sua amica di infanzia, pur di essere ciò che sognava da sempre: l’eroe del liceo, il capitano della squadra di football, il ragazzo d’oro di Sequins; e poi un giocatore di fama mondiale e anche un modello che avrebbe partecipato ai video musicali di Madonna, mezzo nudo e attorniato da altri bellissimi ragazzi. In fondo, se il prezzo da pagare per questo era abituarsi all’odore troppo dolce di Grace e ai suoi capelli troppo lunghi e alle sue tette, avrebbe potuto abituarsi.
Un piccolo sacrificio per la gloria eterna.
Doveva ammettere però che sapeva essere piacevole; non parlava mai di cose troppo serie che richiedessero la sua completa attenzione, né faceva pressioni per il sesso come le altre cheerleader. Non che volesse aspettare il matrimonio: solo che gli aveva creduto quando JC le aveva raccontato di essersi preso la peste durante un viaggio a Milano, dove per altro non era mai stato. Oltretutto uscire pubblicamente con lei, la ragazza più popolare della scuola, seconda solo a Hope, aveva alzato la sua desiderabilità tra le altre ragazze.
Cosa più importante tra le altre, inoltre, Grace gli aveva trovato un lavoro: lo aveva fatto assumere dal ricco padre nel suo bar-ristorante in centro, dove lavorava ogni giorno dopo la scuola per guadagnare ciò che gli serviva per mantenere alto il suo stile di vita. Vestiti firmati, parrucchiere, benzina per la sua vecchia jeep, sbiancamento dei denti ogni tre mesi.
Anche quel pomeriggio era al Gold Lion e serviva i tavoli, veloce e annoiato come sempre. La scuola era iniziata da una settimana, ma lui era già stanco delle solite facce e delle solite cheerleader che gli sorridevano ammiccanti, sperando solo che lui tradisse la sua ragazza: l’amicizia tra ragazze, al Sequins, era pura utopia.
Aveva bisogno di un secondo lavoro, comunque, e alla svelta: le entrate del locale non erano più sufficienti a garantirgli un tenore di vita decente e lui aveva bisogno di andare a fare shopping e comprare la miracolosa nuova crema per il viso che avevano alla profumeria vicino casa. E c’era anche quel paio di jeans al negozio di abbigliamento che gli avrebbero fasciato il sedere in modo troppo perfetto per poterli lasciare sul loro triste scaffale.
Doveva trovare qualcosa da fare nel poco tempo libero a tutti i costi; la lontananza da Grace non gli avrebbe fatto male di certo.
Non avrebbe mai pensato però che la ricerca di un nuovo impiego avrebbe stravolto tutto. Forse allora avrebbe rinunciato alla sua bellezza.

 

Hope sbattè la porta di casa con un diavolo per capello e lanciò la borsa contro il muro davanti a sé. Imprecò in un paio di lingue inventate sul momento contro la tinta di Christina Aguilera e il culo troppo grande di Jennifer Lopez, poi prese un respiro profondo nel preciso istante in cui la porta dietro di lei si riapriva, facendo apparire Grace, sorridente come sempre.
“Chiunque sia il ragazzo con cui hai una relazione clandestina, dovresti vederlo più spesso, sorellina. Non mi sembri rilassata come chi vive di orgasmi.”
Hope boccheggiò qualche istante senza sapere come ribattere, sorpresa dal fatto che la sorella sapesse di lei e Coop. Poi recuperò la sua alterigia e sorrise gelida alla sorella, gli occhi fiammeggianti di collera.
“E tu, forse,  dovresti insegnare a JC a centrare un buco.”
La sua uscita di scena fu teatrale, accompagnata da porte sbattute e ticchettio delle sue zeppe sul parquet della villa; arrivò in camera con veloce eleganza e si buttò sul letto, lamentando poi il dolore al fianco.
Non poteva continuare così. Il sesso con David era sempre stato fantastico, divertente e assolutamente folle, ma, se non avessero trovato un luogo comodo per darsi alla pazza gioia, il suo corpo si sarebbe accartocciato su se stesso.
Dopo la fallimentare esperienza dello sgabuzzino delle scope, avevano provato la cabina di uno stabilimento sullo spiaggia, il bagno del Gold Lion, la casetta sullo scivolo del parco comunale. No, non potevano proprio andare avanti così, con il rischio di essere beccati da qualche bambino o dalla polizia; suo padre l’avrebbe uccisa.
Quanta fatica, mantenere una relazione clandestina. All’inizio sembrava eccitante e divertente, ma con l’inizio della scuola le occasioni si erano dimezzate e crearle non era affatto semplice. Cosa c’era di bello in una relazione senza legami né complicazioni, se era così complicato portarla avanti?
Sbuffò e si massaggiò il livido sullo stinco, causato dalla colluttazione con una chiave inglese del capannone degli attrezzi dei genitori di Cooper e imprecò di nuovo.
Qualcuno decisamente ce l’aveva con lei, pensò, perché quella giornata era stata orribile: allontanare Simon da Cooper e Walker diventava ogni giorno più difficile. Sembrava quasi fosse stato morso da una tarantola, quel nuovo anno, e che non vedesse l’ora di attaccare il trio più sfigato del Sequins; quello di pestare Coop, sembrava il suo scopo primario.
Lei non avrebbe mai voluto difenderlo, ma lui sapeva come comprarsi il suo aiuto – oh, sì, che lo sapeva. Gli bastava fare quella cosa con la lingua e allora…
Scosse la testa e si alzò dal letto, afferrando il cellulare e componendo un numero che ormai aveva imparato a memoria.
“In spiaggia, tra dieci minuti,” sibilò quando una voce dall’accento inglese rispose dall’altro capo.
“Certo, sua Maestà, come no,” rispose Coop ironico, “e pensi che io, che non obbedivo neanche alla Regina Elisabetta, ti raggiungerò in spiaggia senza neanche un per favore?”
“Fottiti, Cooper!”
Il ragazzo rise. Nessuno aveva mai sentito Hope dire parolacce o perdere il controllo.
Beh, nessuno a parte lui.
“A tra poco, zuccherino.”

 

Simon viveva in una villa fuori Sequins, circondata da un parco degno delle Riserve Naturali degli Apache. I genitori erano sempre via per lavoro e lui odiava rimanere lì da solo, a giocare a NCAA Football ’12 alla playstation3. Quando accadeva, non poteva fare a meno di insultarsi mentalmente, perché sembrava fosse un nerd come Walker e Cooper. Ci mancava solo che cominciasse a giocare a scacchi e si tatuasse “Che la forza sia con te” sul braccio.
No, lui era un figo: uno sportivo, un uomo d’azione, il più bel ragazzo della scuola; era inutile che JC provasse a eguagliare la sua popolarità, lui era sempre un passo avanti. Non che fossero in competizione, anzi. Quella con Jackson, era l’unica amicizia sincera che avesse, nata il primo giorno di liceo dell’altro: quattro anni di scherzi ai nerd, di partite giocate nel giardino di casa sua, di scaramucce degne di due fratelli; le scommesse, le confidenze e infine la verità. L’anno precedente Simon aveva ammesso per la prima volta ad alta voce di essere innamorato di Hope: ubriaco e abbracciato a una bottiglia di vodka al melone, aveva pianto mezz’ora mentre descriveva con perizia le sue labbra e i suoi capelli davanti a un JC esterrefatto e poco lucido. Aveva anche provato a baciare la statua in legno di un babbuino che suo padre e la sua nuova fiamma avevano riportato da un viaggio in Brasile, ma almeno quello aveva avuto il buon gusto di far finta di dimenticarlo.
La comodità di una casa perennemente vuota, comunque, era poter invitare cheerleader a passare la notte lì, nel suo letto e tra le sue braccia. Non c’era ancora stata una ragazza che lo avesse rifiutato; nessuna a parte Hope Peterson, un’ossessione paragonabile solo a quella che JC aveva per i propri capelli. A ben pensarci, c’era qualcosa di profondamente sbagliato nel suo amico.
Il suo letto non era vuoto neanche quel pomeriggio, sebbene non fosse di Hope il corpo nudo accanto al suo. Era una moretta niente male, una che aveva conosciuto a qualche corso pomeridiano: Emma, forse, o Jennifer, non ricordava. Ma che importanza aveva in fondo un nome? Bastava trovare dei soprannomi abbastanza smielati da far sciogliere di contentezza quelle oche: dolcezza o stellina di solito funzionavano.
Quel giorno però era troppo nervoso per considerare troppo la ragazza stesa accanto a lui: poteva vedere il suo sedere sodo spuntare da sotto le coperte e le lunghe gambe, ma pensava solo al fatto che i suoi capelli fossero troppo scuri e troppo lisci.
“Bambolina, forse è meglio che te ne vai,” le disse con tono svogliato.
Lei aprì gli occhi verdi e lo guardò come se Simon avesse risposto centonove alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto.
“Cosa?”
Il ragazzo sbuffò e si alzò dal letto, coprendo le sue chiappe d’oro alla vista della moretta che lo fissò incantata qualche istante.
“Devi andartene, i miei stanno tornando. Ci vediamo…” rifletté qualche istante sul suo nome e si ricordò l’iniziale “...Vivian!”
Gli occhi della moretta sembrarono andare a fuoco di collera e lui ebbe paura che riuscisse a evirarlo con la sola forza dello sguardo; lei avrebbe tanto voluto avere quel superpotere, ma aveva capito tanti anni prima di non essere Wonderwoman.
“Ammazzati, Scott!” Gli urlò contro mentre usciva dalla camera e poi di casa. Simon scrollò le spalle con indifferenza e finì di vestirsi, per poi uscire. Non sarebbe mai stato il principe azzurro, lui: era troppo maschio per le tutine di lycra celesti.


Quando raggiunse il Gold Lion, trovò JC impegnato in una fitta conversazione con il signor Peterson, il proprietario e padre di Hope. Sembrava agitato e muoveva le mani in aria concitato, mentre l’altro lo ascoltava con un’espressione imperturbabile sul volto.
Simon si guardò intorno alla ricerca di Hope ma non sembrava essere lì; invece, a sorpresa era presente Chase Walker.
Il ragazzo stava bevendo una limonata, seduto su un divanetto accanto alla finestra più grande e osservava l’esterno con sguardo malinconico; sembrava stesse aspettando qualcuno, qualcuno che evidentemente gli aveva dato buca o era in ritardo.
Chase spostò gli occhi sul quarterback e un lampo di terrore li attraversò, mentre l’altro ghignava, ma non fece in tempo ad avvicinarsi a lui che il frocetto fu raggiunto dal suo amico inglese: non aveva voglia di picchiare Cooper quel giorno, perciò fece dietrofront e si avvicinò a JC, pronto a placcarlo non appena avesse finito la chiacchierata con Peterson.
Chase sospirò di sollievo e salutò con un sorriso Coop: aveva uno sguardo trasognato e gli occhi lucidi, oltre che i capelli disastrosamente scompigliati.
“Hai fatto sesso!”
L’altro lo zittì con un’occhiata feroce, poi riprese a sorridere come se nulla fosse e annuì.
“Mi dirai mai chi è la fortunata? Ormai sono due mesi che sparisci ore e ore per intrallazzare con la donna del mistero e io non conosco neanche il suo nome!”
“Se conoscessi il suo nome, non potresti più chiamarla la donna del mistero ed entreresti in crisi; ami troppo dare soprannomi alla gente.”
“E che soprannome darei a lei?”
“Stronza”
Chase rise e portò una mano tra i capelli, scompigliandoli con attenzione maniacale; niente in lui era mai fuori posto, ossessionato com’era dall’ordine e dalla pulizia. Girò di cinque gradi la boccetta dell’olio davanti a sé, allineandola a quella del sale, per confermare questo assunto, e tornò a guardare l’amico, sempre più curioso.
“Quindi tu esci con Miss Stronza…”
“Usciamo solo perché non abbiamo una casa dove far sesso, altrimenti fidati che non andremmo da nessuna parte,” rise Coop, “e a proposito di questo, non dovevi vederti con l’uomo della tua vita?”
Il viso dell’altro si adombrò per un istante, ma poi tornò sorridente come suo solito; gli occhi scuri socchiusi e le adorabili fossette sulle guance ben visibili. Se fosse stato gay, Coop non ci avrebbe pensato due volte prima di legarlo al letto della sua stanza e non farlo uscire più.
“Non si è presentato, dovevamo vederci qua un’ora fa.”
David gli prese la mano e la strinse sopra al tavolo, incurante della gente intorno; al diavolo i pregiudizi di quei gorilla platinati del Sequins High, Chase aveva bisogno di lui.
“Avrà avuto un contrattempo.”
Era dolce, Cooper, come non lo era mai con nessun altro all’infuori di lui; avrebbe voluto proteggerlo da qualsiasi bullo e insulto, lui che da sempre era stato discriminato per le sue origini europee e per il suo strano accento. Poteva solo immaginare cosa significasse non essere accettato per i propri gusti e voleva troppo bene a Chase per lasciarlo solo in quella crociata contro l’omofobia.
“Sai che ti dico? Stasera vengo con te al Pink Flamingo!”
“Cosa?” Tutt’a un tratto il suo sorriso aveva riacquistato luminosità e Coop si sentì fiero di se stesso. “Dici sul serio?”
“Se mi prometti che non mi farai indossare le mutande sopra i fuseaux blu anche questa volta, sì.”
“Era una festa a tema supereroi! Eri bello vestito da Superman!”
“Non uccidere la sua virilità in questo modo barbaro, Chase.”
La voce di Victoria li sorprese ed entrambi si voltarono subito a guardarla. Aveva gli occhi arrossati, come di chi avesse da poco pianto. Coop le sorrise e le fece spazio vicino a sé.
“Tutto ok, Vicky?”
“Mai stata meglio,” ribattè, acida come solo lei poteva essere. “Stasera, allora, Pink Flamingo?”

 

Canzone trash del capitolo.

NOTE:
Sono tornata, con una velocità che per me ha del paranormale, però questi scemi si scrivono da soli. E a parte questo i capitoli sono abbastanza corti – almeno per ora – perciò non ho troppi problemi di tempo mancante.
Pubblico di corsa, prima di andare all’università, perché se no tornerei stasera dopo le nove e rimanderei di nuovo – conosco i miei polli xD – e ne approfitto per ringraziare chiunque abbia inserito la storia tra le storie preferitr, ricordate e seguite e alle undici splendide persone che hanno recensito. Sono contenta che questa storia vi ispiri e adoro le vostre idee sui personaggi, mi sono fatta veramente tante risate, dato che IO SO lol.
Comunque qui non succede granché, a parte che scopriamo qualcosina di più su JC e su Simon che ha una cotta per l’unica cheerleader che non è interessata a lui e che anzi, continua a divertirsi nei posti più strani con Coop. Il nostro Coop dolce e carino che consola Chase e gli vuole un sacco di bene e che io continuo ad amare senza remore XD Hope è inutile ribadirlo è in assoluto la mia preferita, comunque. E tra le righe ho detto una cosa che Lyretta – che ringrazio per la betatura e i suoi meravigliosi commenti (dovete sapere che ho una relazione stabile e duratura con i punti e virgola) – non ha colto. Chissà se voi la cogliete :3
C’è una citazione all’interno del testo, comunque. La risposta alla domanda fondamentale sulla vita, sull’universo e su tutto è 42, o almeno così dice Douglas Adams in Guida galattica per gli autostoppisti, che boh, è tipo una Bibbia :D
La frase "Ma che importanza aveva in fondo un nome?" è tutto un discorso tra me e Butterphil e Silver ed Eco. Tanti cuori per voi ♥ 
E niente, al prossimo capitolo con la serata al Pink Flamingo, scorcio di vita di Victoria – finalmente direte voi – l’introduzione di un nuovo personaggio e uhm credo basta con le novità!
Alla prossima e grazie ancora a tutti,
Elle.

Se volete, c'è il mio gruppo per spoiler et varie :3 Fenicotteri rosa e Serpi verdi.

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Capitolo 3
*** Pink Flamingo. ***


a

A chi deve rimettere insieme
pezzi troppo piccoli da ricostruire.
Alla donna che qui mi sembra di tradire,
ma che rimarrà per sempre la numero uno.

Pink Flamingo.

Victoria aveva messo la prima volta piede al Pink Flamingo pochi mesi prima, durante il Prom alternativo, organizzato da ignoti in quel vecchio e immenso scantinato poco lontano dal centro.
Chase, qualche giorno prima, le aveva detto che non sarebbe andato al ballo per farsi insultare anche quell’anno dai giocatori di football e che aveva scoperto l’esistenza di un locale clandestino per gay in cui si festeggiava la fine dell’anno in modo alternativo. Lei avrebbe preferito passare la serata a parlare di orribile musica inglese con Coop per tre ore di fila, piuttosto che farsi tastare da un gruppo di lesbiche dentro un locale che nessuno conosceva, ma questo ovviamente non lo aveva detto; poi si era resa conto che senza amici né accompagnatore il Prom sarebbe stato un disastro sociale su tutta la linea e che con ogni probabilità le avrebbero lanciato due litri di punch corretto negli occhi, tanto da farla diventare cieca quanto lo era diventato Cunningham con tutti i solitari che si faceva.
Quindi si era ritrovata in un vestito di paillettes accuratamente scelto da Chase in quel locale, fatiscente all’esterno, sin troppo glamour nella pista da ballo: rosa e lustrini luminosi decoravano ogni angolo delle pareti, mentre la sala era stipata di persone da abiti discutibili e palloncini a forma di falli giganti. Avrebbe riso, se non fosse stata trascinata in pista da un Chase scatenato come non lo aveva mai visto, che inneggiava all’amore libero.
Si era abituata in poco tempo alla poca inibizione di tutti quei corpi semi nudi e ballerini e aveva passato una delle serate più divertenti della sua vita. Non aveva mai visto Chase così euforico in tanti anni che lo conosceva: era come se la sua vera personalità spiccasse il volo a contatto con il sudore appiccicaticcio di tanti sconosciuti. A sorpresa si era poi accorta che, benché a scuola non fosse minimamente preso in considerazione, in pista attirava più ragazzi di quanti lei ne avesse mai attirati in tutta la sua vita; Chase era un vero e proprio animale da palcoscenico, bello e seducente nelle sue movenze fluide e nella sua perfetta imitazione di Lady Gaga nel video di Judas. Certo, forse quella volta che aveva voluto indossare un corpetto di pelle come quello di Madonna aveva esagerato, ma nessuno era mai stato perfetto.
A volte era imbarazzante uscire con lui, soprattutto se poi si ritrovava da sola a guardarlo ballare con qualche bel ragazzo dagli addominali e i pettorali scolpiti come neanche una statua li avrebbe avuti. E Cooper non era d’aiuto, mai, perché riusciva sempre a eclissarsi nel momento più opportuno, senza che nessuno sapesse dove scomparisse in un locale per soli gay; spesso aveva avuto il sospetto sparisse nei bagni con il barista sexy e vestito da coniglietto al bancone, ma poi si ricordava che Coop era eterosessuale.
Per questo si era già pentita di aver acconsentito a quella folle serata per l’Homecoming; mentre gli altri sarebbero stati al campo a guardare l’amichevole di football del liceo e poi sarebbero andati a festeggiare al Gold Lion una vittoria scontata, loro si sarebbero intrufolati in quel locale di cui nessuno in città conosceva l’esistenza, se non le persone tra cui la voce veniva fatta circolare.
Insomma, la solita serata tra uomini più truccati di lei e donne più virili del più grosso giocatore di football, a ballare successi di Gloria Gaynor e Boy George.
La verità era che Victoria adorava quelle serate, nonostante si sentisse fuori posto; le sembrava quasi di essere integrata in qualcosa come aveva sempre voluto; integrata come a scuola non era mai stata.
Tutto per colpa delle cheerleader.

aaa

“Perché non puoi venire a festeggiare il dopo partita?”
JC non ne poteva più di Grace che poneva quella domanda a ripetizione, seduta al tavolo della sua cucina di fronte al fidanzato, costretto ad ascoltare le sue lamentele petulanti.
“Devo lavorare, Grace.”
“Ma papà non ti farebbe mai lavorare la sera dell’Homecoming!”
JC sbuffò, infastidito: era la terza volta che le spiegava che aveva dovuto trovare un nuovo lavoro. Un cantiere notturno sulla quinta strada, a cui lei non si sarebbe mai avvicinata per paura di spezzarsi un unghia o di incontrare lì un alieno multiforme con dieci occhi. Forse avrebbe potuto convincerla ad accompagnarlo e poi far vestire qualcuno da alieno per rapirla…
Scosse la testa e provò a spiegare di nuovo la situazione a Grace, ma ottenne solo che le sue labbra si incurvarono in un orribile broncio, foriero di scenate a cui non era pronto; non quel giorno. Per sua fortuna Hope apparve sulla porta della cucina e mandò via la sorella, con la scusa che il suo ippopotamo da giardino volesse mangiare la sua casa delle bambole.
“Papà ti manda a lavorare al Pink Flamingo.”
JC sospirò e annuì con mestizia a quella che non era stata neanche una domanda; non aveva mai sentito nominare quel locale, ma Peterson lo aveva raccomandato al proprietario e gli aveva assicurato che la paga per servire al bancone sarebbe stata molto più alta di quella al Gold Lion.
“E ti ha detto che tipo di locale è?”
Il ragazzo annuì lentamente e sorrise a Hope con affetto. “Non preoccuparti per me, starò bene.”
“Vengo anche io, Jake.”
"Non ce n'è bisogno" rispose lui, stringendo una mano tra le sue più grandi. 
Hope era l'unica a conoscere il suo segreto, l'unica con cui si era confidato, la sera stessa in cui Grace lo aveva baciato; l'aveva trovata sul portico di casa Peterson, gli occhi persi nel cielo stellato e la divisa rosa da cheerleader posata sulle gambe. 
"Non sarà facile, lo sai"
Lei aveva sorriso e lo aveva abbracciato. JC aveva capito che Hope già lo sapeva, che era troppo intelligente per non essersi accorta della diversità del proprio migliore amico; era solo stata abbastanza discreta da non fare domande. Gli aveva ripetuto nell'orecchio infinite volte che sarebbe andato tutto bene e poi lo aveva accompagnato a casa.
"Lo so."
JC la guardò negli occhi azzurri e ricordò le sue parole: devi decidere cosa vuoi; se vuoi essere popolare, dovrai nasconderti. Lui sapeva già cosa fare, nonostante tutto.
"Verrò lo stesso," sorrise Hope, "ho proprio voglia di andare a ballare"
Non avrebbe mai dimenticato l'espressione di sollievo che si era dipinta sul volto di JC, quando aveva capito di non essere solo.
Non le interessava quanta acqua ossigenata versasse sui suoi capelli dopo ogni doccia né l’orribile musica che ascoltava a ogni ora del giorno e della notte, quando erano soli: Abba e George Michael non erano proprio i suoi preferiti, ma si divertiva a vederlo ballare nella sua stanza con i pon pon che gli prestava. Gli voleva bene, Hope: era il suo migliore amico, l'unico al mondo che considerasse abbastanza importante, più della popolarità, più di se stessa.
Era il fidanzato di sua sorella, gay, bello da far paura, ma abbastanza sfigato da lavorare al Pink Flamingo proprio la sera che avrebbe cambiato tutte le carte in tavola.

 

La partita di football fu ovviamente un successo: JC segnò il punto decisivo per la vittoria, allo scadere dell’ultimo quarto, e fu acclamato eroe della partita dall’intero Sequins High, come accadeva ogni anno a inizio e fine stagione.
Non c'era niente di meglio di un bel bagno di folla e delle chiacchiere da spogliatoio con i compagni di squadra, dopo tanto sudare: la piega dei suoi capelli andava immediatamente sistemata davanti a uno specchio.
A volte si chiedeva se fosse stata la scelta giusta, nascondere la sua vera natura; poi, dopo le partite, entrava nelle docce circondato da bellissimi ragazzi nudi e si convinceva di non aver sbagliato nulla. Dove altro avrebbe potuto ammirare dal vivo tutti quei muscoli spogliati di inutili vestiti?
No, JC non aveva dubbi sul fatto di essere esattamente dove sarebbe dovuto essere: in alto, molto in alto, più in alto del posto che spettava a Hope sulla piramide delle cheerleader. E poi lui in gonnellino non sarebbe stato affatto bello come la sua amica.
Uscì dagli spogliatoi con i capelli perfettamente sistemati e la borsa sulle spalle e si diresse verso la macchina di Hope, parcheggiata poco lontana. Grace era già andata via, ancora offesa, e, se fosse stato abbastanza fortunato, per qualche giorno avrebbe anche potuto godere dell’assenza della sua vocina e dei suoi occhi che dalla settimana precedente si ostinava a tenere sgranati in modo inquietante. Come se già non lo fosse il suo sorriso plastificato.
La monovolume di Hope era ancora vuota, segno che la ragazza fosse ancora negli spogliatoi: era strano per lui essere il primo a uscire dei due, di solito Hope lo aspettava una buona mezz’ora e poi lamentava la sua lentezza esasperante nel sistemarsi. Quando lo raggiunse, ben dieci minuti più tardi, sembrava essere sfuggita a una lotta nel fango e a un’orda inferocita di leoni pronti a sbranarla: le guance arrossate, i capelli ricci più disordinati che mai, gli occhi lucidi e i vestiti stropicciati.
“Cosa ti è successo?”
“Niente, non ti preoccupare,” lo liquidò con un gesto secco della mano, rassettandosi poi con la stessa la minigonna. Lanciò le chiavi della macchina a JC e si sedette al posto del passeggero, per poi specchiarsi e sistemarsi il rossetto sulle labbra gonfie.
Coop doveva smetterla di intrufolarsi ovunque e aggredirla a quel modo: aveva delle apparenze da mantenere, una certa posa con cui mostrarsi in pubblico. Dovevano essere più attenti e il modo irruento che avevano di saltarsi addosso su ogni superficie abitabile della città non era affatto una prova di discrezione.
“Ho sentito Walker parlare con la moretta del fatto che andranno al Pink Flamingo,” buttò lì, distratta. Era stato David a dirglielo, ma questo JC non doveva saperlo. In realtà non c’era un vero e proprio motivo per tutta quella segretezza: era la regina della scuola, la sua popolarità non sarebbe affossata neanche se il ragazzo con cui usciva – no, andava a letto – fosse stato orbo da un occhio come il cantante dei… Scosse la testa con decisione: quello era un paragone degno di Cooper e non andava affatto bene.
Il motivo di tanta segretezza, comunque, era solo la loro folle idea di rendere tutto più eccitante, divertente, scomodo.
“Ci sarà il frocetto con gli sfigati?”
Hope lo fulminò con lo sguardo. “Smettila di chiamarlo così, non ti piacerebbe se lo facessero con te.”
“Ma non lo fanno,” ribattè. “Li ignorerò, non preoccuparti.”
Hope annuì, poco tranquilla. Aveva come uno strano presentimento alla bocca dello stomaco, come se tutto stesse per cambiare. Come se niente sarebbe stato più come prima, proprio da quella sera.

aaa

Il Pink Flamingo per la festa dell’Homecoming si era rivestito dei colori della squadra del Sequins High – nero e fucsia – fino ai suoi più nascosti anfratti; sui palloncini a forma di falli giganti, erano disegnate le cuciture dalla palla ovale e, sotto i loro piedi, le linee di campo.
Sui divanetti, disposti lungo il perimetro dell'intera enorme sala circolare, erano semi sdraiati uomini e donne tra i sedici e i trent'anni, impegnati a bere cocktail e a usare le loro lingue per attività meno rumorose del parlare. Non si sarebbero comunque potuti sentire, se anche avessero abbandonato i loro baci, perché la musica dance rimbombava tra quelle pareti a un volume che avrebbe sentito anche un sordo. 
Era un locale, il Pink Flamingo, che assecondava i gusti di chiunque, dai più particolari ai più commerciali: gli ultimi successi di Rihanna si alternavano con maestria ai vecchi pezzi degli Abba, Britney Spears lasciava il posto a Cher e i Bee Gees a Usher e Justin Timberlake. Ma ogni notte, in quel locale si svolgeva l'epica battaglia tra le uniche due regine incontrastate della dancefloor e dei cuori degli avventori del locale: vecchi singoli di Madonna venivano mixati dal dj Rainbow insieme ai nuovi brani di Lady Gaga. A fine serata, una volta al mese, si votava la vincitrice che sarebbe stata il tema principale della festa successiva. Lady Gaga aveva dominato incontrastata per le ultime tre votazioni, sbaragliando senza problemi l'avversaria, per grande felicità di Chase. 
Chase in quel momento ballava vicino a Victoria un vecchio successo dei Dead or Alive, agitando le braccia in aria e saltando sul posto, ridendo e cantando e avvicinandosi scherzoso e seducente all'amica più posata ma non meno divertita.
Coop si era diretto al bancone, con l'intenzione di convincere il barista-coniglietto che aveva una cotta per lui a vendergli alcol nonostante la sua minore età. Per essere un locale clandestino, il Pink Flamingo era sin troppo fiscale su certe questioni, ma lui in un modo o nell'altro riusciva sempre a spuntarla e a tornare dagli amici con una birra, un Sex On The Beach e un Mojito. 
Quella volta però il suo amico non era presente e per poco a Coop non prese un colpo notando chi era al posto suo: il gorilla quarterback del Sequins High, mister popolarità e virilità, il fidanzato di una delle più belle ragazze della scuola, preparava cocktail dietro al bancone, con indosso solo degli attillatissimi pantaloni dorati. 
JC non si era accorto di lui, impegnato com'era a preparare un Long Island, e Coop pensò bene di allontanarsi da lì prima di essere visto. Mentre andava via, però, notò Hope in un angolo, che ballava con un ragazzo meno interessato a lei di quanto lo fosse per la sua manicure perfetta. 
Si avvicinò a lei e le arpionò la vita con le mani, facendola sobbalzare e girare furiosa. Quando lo riconobbe, gli sorrise felice e palesemente ubriaca e lo baciò con trasporto, le braccia allacciate dietro la sua nuca.
“Forse è meglio spostarci da qui,” Coop dovette dirlo tre volte, prima che Hope sentisse la sua voce coperta da quella di Kylie Minogue. Lei di tutta risposta si avvinghiò ancora più stretta e rise più forte, contagiando anche lui.
Non l’aveva mai vista così ubriaca né tanto meno così sorridente. Di solito rimaneva compassata e acida, senza dargli mai la soddisfazione di ridere a una sua battuta; si era accorto però di come arricciasse il naso con dolcezza e sbuffasse, ogni volta che tratteneva una risata. Rendersi conto di aver notato tanti dettagli era inquietante quanto Chase che ballava la Macarena a petto nudo con il disegno di un arcobaleno sullo stomaco.
Prima che potesse allontanarsi dal suo volto, però, una voce che non avrebbe mai voluto sentire in quel momento richiamò la loro attenzione.
“Cosa diavolo sta succedendo? Hope?!” JC era sconvolto, la sua espressione la perfetta imitazione di quella di Grace degli ultimi giorni; ma durò solo pochi istanti, perché poi il suo volto si trasformò in una maschera di rabbia. Hope, all’improvviso più seria, si parò davanti a Coop: non era il caso di inscenare una rissa il primo giorno di lavoro del quarterback.
“Jake…” Provò a dire ma lo sguardo furioso di JC non abbandonò quello di sfida di Coop. “Jake, ne parliamo dopo, ora devi tornare a lavorare.”
“Non devo fare un caz-”
Fu interrotto dal richiamo del barista che lavorava al suo stesso bancone, pochi metri più in là. JC respirò a fondo, con il preciso intento di sbollire la voglia che aveva di pestare l’inglese come non aveva mai fatto. Di solito non era lui a insultare Walker – per ovvi motivi – né quello che cercava rogne con Cooper; li ignorava, per quieto vivere, e usava del sarcasmo più o meno velato solo quando veniva interpellato. Questa volta però lo sfigato non l’avrebbe passata liscia.
Si girò, senza degnare più nessuno dei due di un’occhiata e ritornò alla propria postazione, pronto ad assecondare richieste di altri assurdi cocktail. Rimase comunque con l’orecchio teso e lo sguardo rivolto discretamente verso di loro. Li vide parlottare e poi prendere due direzioni differenti.
Senza pensarci un attimo, scavalcò il bancone con un salto, facendo fischiare di ammirazione qualche ragazzo lì intorno e seguì Cooper.
No, non l’avrebbe passata liscia.

 

Hope osservò abbattuta le spalle di JC per qualche istante, ancora davanti a Coop. Si ricordò di lui solo quando il ragazzo la abbracciò da dietro, posandogli un bacio sotto l’orecchio.
“Gli passerà.” La ragazza rabbrividì e annuì, in silenzio. “Devo tornare da Chase e Vicky. Aspettami vicino ai bagni tra dieci minuti, ok?”
La ragazza gli sorrise e si incamminò verso la toilette in fondo alla sala, lasciando che lui si potesse inoltrare nella folla per raggiungere i suoi amici.
Coop ci mise qualche minuto a trovarli e notò Chase, a petto nudo,  ridere con un ragazzo alle sue spalle, mentre ballava con Victoria. Era una forza della natura, quel ragazzo; non capiva come facesse ad essere sempre così entusiasta e bello da guardare.
Sulla pista poi era uno spettacolo unico: fluido nei movimenti, naturale, catalizzava tutte le attenzioni su di sé. Il ragazzo che era con lui in quel momento lo aveva già visto, forse era quel John con cui doveva uscire quel pomeriggio, ma che gli aveva dato buca.
Ballò fino al gruppetto al centro della pista da ballo e prese per mano Chase, sorridendogli malizioso e spingendolo contro di sé, come facevano sempre quando volevano allontanare uno scocciatore.
Ma l’amico non si mosse di un millimetro e rimase in mezzo a loro, continuando a ridere e a ballare con una sensualità che in lui era innata; era un gioco, quello, una danza che li divertiva e che non prendevano sul serio.
Nessuno di loro, impegnati com’erano in movenze sensuali e giocose, si accorse di JC che a meno di un metro da loro li osservava sconvolto, mentre l’ultimo singolo di Madonna usciva a tutto volume fuori dalle casse e si infiltrava nel suo cervello.
Non riusciva a staccare gli occhi dal corpo e dal volto rilassato di Chase Walker, disteso in un’espressione serena così diversa da quella preoccupata e contrita che mostrava spesso a scuola. C’era qualcosa in lui, in quel momento, di così luminoso ed eccitante, che non riuscì a muoversi di lì né a distogliere l’attenzione.

It’s so hypnotic
The way he pulls on me


Era bello, Chase Walker, e se ne accorgeva per la prima volta vedendolo in quel luogo, osservandolo risplendere di luce propria, mentre usciva dall’accogliente guscio dentro cui si nascondeva a scuola. Lo stesso guscio da cui era protetto lui, che gli sembrava essersi appena crepato, mentre anche lui tentava di rinascere se stesso, portando alla luce quella parte di sé che aveva rifiutato fino a quel momento.

I got that burnin’ hot desi-i-i-re
And no one can put out my fi-i-i-re


Fu l’istante in cui Chase puntò i propri occhi nei suoi e involontariamente si passò la lingua sulle labbra bagnate, che il guscio di JC andò in mille pezzi.
Lui quella sera avrebbe votato Madonna.

My inhibition’s gone away
I feel like sinning


Canzone trash del capitolo - colonna sonora del finale.


a          a          a

NOTE:

Ed eccomi qui con il terzo capitolo di questa delirante storia e con la prima apparizione del Pink Flamingo!
Non so in realtà se mi piace come è uscito il tutto, ma sono felice di aver scritto la fine, perché è esattamente la scena da cui è nata tutta la storia: lui che balla Girl Gone Wild di Madonna in mezzo a tanti maschioni, proprio come Lady Ciccone :D
E ricordo che uno dei sogni di JC - detto nello scorso capitolo - è fare da ballerino/modello in un suo video!
Comunque, abbiamo avuto una piccola panoramica su Victoria - che avrà più rilevanza, giuro, ma non è ancora il suo momento - e su JC e abbiamo scoperto che ha un rapporto molto bello con Hope.
Poi niente, il caro vecchio Jake (JC è il soprannome di Jackson Clay) ha scoperto della tresca tra Coop e Hope! Cosa accadrà? Prossimamente su questi schermi :D
E niente, questo è quanto. Ho due appunti da fare, anzi uno e mezzo: quando Hope parla del cantante orbo, parla di Thom Yorke, cantante dei Radiohead, gruppo inglese; inoltre c'è una piccola e reinventata citazione, solo perché io e Butterphil abbiamo deciso di fare una specie di sfida di citazioni, lol - quindi dirò cos'è a chi me lo chiederà o nel prossimo capitolo. Ma comunque non è niente di trascendentale XD
E poi buh, il capitolo non è betato, quindi la mia serpefiglia mi mazzierà per la quantità di punti e virgola che ho disseminato in giro, ma vabè, le mando tanti tantissimi baci ♥
Vogliate bene a tutti, fatemi sapere se ha un senso il tutto, alla prossima settimana, credo,
Elle

Se volete c'è anche il mio gruppo, per spoilers, cazzeggio, risate, foto, tutto quello che vi va :3 
Fenicotteri rosa e Serpi verdi


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Capitolo 4
*** Firmato J. ***


a

Ai polli lanciati, 
ai fagiani reali,
agli pterodattili rangers,
ai panda volanti
 e ai cervi.
Alle orecchie ustionate,
le suole rotte,
l'infido litorale romano.
A Bruce Calif. 

Firmato J.

La luce entrava dalla finestra rimasta scoperta delle sue tende rosa pallido e illuminava la stanza ordinata. Chase imprecò tre minuti esatti, prima di avere il coraggio di alzare la testa pulsante dal cuscino.
Per trentanove secondi era stato convinto che il bum-bum che sentiva fosse un picchio che colpisse ritmicamente la parete su cui era poggiata la testiera dell'enorme letto a baldacchino su cui dormiva.
Quando aveva aperto gli occhi confuso si era però reso conto che doveva averlo ingurgitato per sbaglio durante la notte, il suddetto volatile, e che, per qualche strana ragione, era risalito lungo i nervi fino al suo cervello, luogo in cui aveva preso dimora per poter fare i suoi rumorosi comodi. 
Lo avrebbe volentieri lanciato fuori dalla finestra, se solo fosse realmente esistito e se fosse riuscito a individuare la finestra attraverso i suoi occhi pesti di sonno. 
Il primo pensiero a metà tra il razionale e l'assurdo fu che la notte prima doveva aver bevuto come qualcuno che era rimasto senza liquidi nel deserto per quaranta giorni. Il secondo fu che, probabilmente, non avrebbe mai ricordato con cosa si era procurato quella macchia blu gigantesca che troneggiava sui pantaloni bianchi buttati per terra proprio accanto al letto.
Dopo due minuti e otto secondi, fu illuminato da un'altra constatazione, forse più sconcertanti delle precedenti: c'era un odore troppo forte di uomo - un profumo che lui non avrebbe mai e poi mai usato, perché troppo volgare, - a impregnare l'aria pigra di quella mattina. 
Il suo fiuto da segugio non lo aveva mai ingannato, sapeva che qualcun altro, oltre a lui, era stato in quella stanza; ed era altrettanto certo che non fosse il padre, perché la sua colonia non puzzava in quel modo e non usava gel per capelli. 
Si alzò allarmato, cercando la concentrazione necessaria a ricordare anche qualche piccolo frammento della serata precedente. Ricordava tutto perfettamente fino al ritorno di Coop a mani vuote, il che significava che non era stato lui a portargli da bere; forse era stato il ragazzo con cui aveva ballato fino all'arrivo dell'amico.
Sì, doveva essere stato lui. Com'è che si chiamava? S qualcosa, forse. O Luke? 
Scosse la testa nella speranza di fare chiarezza, ma niente sembrava aiutarlo nel ricostruire i pezzi di quella folle serata al Pink Flamingo. E quel che era peggio, si rese conto, dopo ben nove minuti e quarantaquattro secondi dal momento del risveglio, era l'essere in completa nudità sotto le coperte.
Si alzò con un movimento repentino, scoprendosi, e si insultò di nuovo per il troppo alcol ingerito: non poteva aver fatto niente del genere! C'era sicuramente una spiegazione razionale, qualcosa che sfuggiva alla sua mente assonnata. 
Si mise in piedi a fatica, barcollando un po' e notò un foglio sul comodino sgombro di altri oggetti.
Un biglietto: quello era un pessimo segno. Gli amanti che sgattaiolano via all'alba lasciano i messaggi; non Coop che ti riporta a casa perché sei troppo sbronzo per salire le scale fino alla tua stanza. Coop al massimo lo avrebbe svegliato all’alba riempiendolo di insulti.
La parola amante lampeggiò luminosa a caratteri cubitali davanti ai suoi occhi per qualche secondo, quanti non avrebbe saputo dirlo tanto era confuso.
Prese un respiro profondo e afferrò il foglio, su cui con grafia disordinata e nervosa vi erano scritte solo due parole e una lettera, che gli fece ricordare un viso, perfetti capelli biondi e due splendenti occhi azzurri.

"A domani,
J." 

aaa

JC ricordava perfettamente la serata precedente, ma alcune volte avrebbe voluto avere la memoria di sua nonna che continuava a fargli gli auguri di compleanno una volta al mese, perché non ricordava mai la data giusta.
Quella era una di quelle volte senz'alcun dubbio, perché non dimenticare avrebbe significato  continuare a rivivere scene sin troppo vivide nella sua mente. E lui non voleva.
Il suo stomaco - e non solo quello - si contorceva in continuazione, senza alcuna sosta, al pensiero di un unico corpo tra i tanti – anche più provocanti – che ballava senza inibizione alcuna.
Aveva provato ad alzarsi dal letto poche ore prima, ma si era reso conto fosse appena l’alba e di avere un’imbarazzante situazione da fronteggiare. Situazione che si sarebbe rifiutato di risolvere alla vecchia maniera: cedere a quella sconfitta carnale sarebbe stato troppo umiliante.
Quando la sveglia suonò, più di un’ora dopo, lui versava ancora nella stessa condizione, proprio perché, a differenza di sua nonna, lui si cibava abbondantemente di fosforo e non c’era niente che avesse rimosso.
Perciò si alzò infastidito, ancora deciso a ignorare il suo sveglio e pimpante alter ego, e si era diretto in bagno imprecando contro quella dannata checca di Chase Walker. Qualunque malattia fosse quella che gli aveva attaccato la sera precedente doveva trovare un modo per guarire al più presto, perché a scuola sarebbe dovuto tornare a essere il perfetto fidanzato di Grace Peterson, senza alcuna distrazione di alcun genere.
Sarebbe tornato a sorridere alle cheerleader, a baciare la propria ragazza, a insultare Walker, quando tutto quello che avrebbe voluto fare sarebbe stato…
“Sarebbe stato insultarlo!” esclamò ad alta voce.
Forse quel giorno sarebbe potuto rimanere a casa: niente scuola, niente Grace, o Simon, niente Hope e Cooper.
Sbuffò, in fondo non avrebbe avuto senso scappare e doveva necessariamente parlare con Hope: la sera prima aveva lasciato correre e l'aveva riaccompagnata a casa in silenzio, troppo provato per affrontare una discussione con lei oltre che con la propria coscienza.
Bastava ignorare Walker. Andare per la propria strada, non parlare con nessuno, fingere un malessere durante l'ora di scrittura creativa del pomeriggio che condivideva con Chase.
Fare come se niente fosse accaduto e la sera prima non avesse visto niente, quindi. Sì, poteva essere un piano facilmente attuabile e poco problematico.
Bastava solo dimenticare.

Capì di non poterlo fare, non appena poggiò piede sul vialetto ciottolato che portava al grande portone del liceo. Lì davanti c'era Hope, che tratteneva per un braccio un Simon furioso, slanciato in avanti verso Cooper; lo aveva visto raramente così arrabbiato e se neanche Hope riusciva a calmarlo voleva dire che era successo qualcosa di più grave del solito.
Si avvicinò cauto, ignorando lo sguardo di Chase che pungeva la sua nuca e maledicendo la voglia del suo migliore amico e di quell'idiota di un inglese di pestarsi ogni mattina.
"Ma la smetterete mai?" 
Voleva essere autoritario, ma la sua voce tremò appena quando incrociò lo sguardo di Chase: cosa aveva da fissarlo? Che avesse capito qualcosa?
Si guardò con noncuranza il cavallo dei pantaloni e ringraziò la doccia gelata di quel mattino per aver risolto il problema, poi tornò a fronteggiare Simon.
"Cosa vuoi JC?” a sorpresa fu Hope, gelida e cattiva, a rispondergli. Simon era troppo concentrato nel fulminare con lo sguardo l’inglese per prestare attenzione a lui o a qualcun altro.
“Evitare una sospensione al mio migliore amico.”
“E di me non ti interessa niente?”
Era stato un urlo e si era sentito forte e chiaro per il cortile, tanto che molte teste si erano girate verso di loro; persino Coop e Simon avevano distolto l’attenzione l’uno dall’altro per osservare quella scena più unica che rara. Nessuno li aveva mai visti litigare, pochi sapevano del rapporto che li univa, gli altri credevano facessero solo parte entrambi del gruppo dei popolari.
Invece Hope gli voleva bene, gliene voleva come a nessun altro, per questo era così arrabbiata: perché un colpo del genere, da lui, non se lo sarebbe mai aspettato.
“Hope, ma cosa…”
Lo schiaffo lo colpì in piena guancia, come la consapevolezza che quel giorno tutto sarebbe andato storto e che le conseguenze di un meccanismo innestatosi la sera precedente avevano appena cominciato a manifestarsi.
A sorpresa fu Grace a intervenire, portando via la sorella e intimando con tono autoritario e serio a JC e Simon di seguirla.
Raramente la piccola di casa Peterson appariva così decisa, ma gli altri sapevano per esperienza che sarebbe stato meglio assecondarla; perciò la seguirono in un’aula vuota al piano terra, forse un vecchio laboratorio di biologia, e si sedettero su banchi lontani tra loro.
“Vi sembra il caso di fare certe scenate?” esordì Grace, occhieggiandoli uno alla volta. “Non mi interessa che problemi avete, ma ora rimanete qua dentro e li risolvete in modo civile.”
Hope scosse la testa decisa e nel vedere i suoi capelli sballottati a destra e sinistra, JC si chiese se i suoi fossero ancora in ordine dopo lo schiaffo. Cosa poteva esserle successo, per reagire a quel modo? La pacata, indifferente e gelida Hope?
Non aveva mai fatto una piazzata a nessuno, non l’aveva mai sentita urlare né tanto meno vista schiaffeggiare qualcuno. Non doveva essere lui quello arrabbiato con lei per la storia con Cooper?
Aprì la bocca per parlare e chiedere spiegazioni, ma non fece in tempo: Simon gli mise tra le mani il proprio cellulare. Lì, sul piccolo schermo luminoso, si poteva vedere chiaramente una foto che ritraeva Coop e Hope in atteggiamenti equivoci e, sotto l’immagine, solo una lettera: J.
“Sei stato tu?” chiese Hope, mentre tentava di trattenere le lacrime di rabbia e delusione.
“Cosa?” JC si girò verso di lei ad occhi sgranati, in una perfetta imitazione di Grace. “No, che non sono stato io!”
Hope fece di nuovo ondeggiare i capelli intorno al suo bel viso, poi si alzò dal banco. “Sei stato l’unico ad averci visto, Jackson. Speravo che almeno ne avresti parlato con me, invece di fare questi giochetti.”
Lanciò uno sguardo di fuoco nella sua direzione, furiosa come mai lo era stata, ed uscì dall’aula, seguita da Grace che si prese in faccia la porta sbattuta dalla sorella.
“Non sei stato veramente tu, non è così?”
JC negò con la testa, mentre osservava ancora con sguardo vacuo la porta chiusa. “Non lo avrei mai fatto, per quanto non mi piaccia questa cosa.”
“Non devono stare insieme.” Quasi ringhiò Simon. “Lui non se la merita.”
Si alzò anche lui dal banco su cui era seduto e camminò avanti e indietro un paio di volte, prima di fermarsi davanti all’amico e parlare di nuovo.
“Me lo avresti detto?”
“Non lo so.” rispose JC. “Forse no.”
Simon lo guardò qualche istante con freddezza, poi si sciolse in un sorriso. Avrebbe preferito un’altra risposta, sentirsi dire che la lealtà dell’amico fosse abbastanza forte da superare anche il suo affetto per Hope, ma sapeva che l’altro avrebbe mentito. JC e la cheerleader erano amici da quando erano bambini e neanche il cameratismo tra compagni di squadra né la solidarietà maschile avrebbe mai potuto competere con il rapporto di totale trasparenza che li legava. A volte Simon si risentiva di questo: come se fosse un estraneo, un intruso nelle vite delle due persone più importanti per lui. Poi si rendeva conto che non aveva importanza, perché ciò che legava lui ai suoi due amici era diverso, ma non per questo meno bello; il rispetto e l’amicizia che nutriva per loro venivano prima di qualsiasi tipo di gelosia e invidia.
“Dobbiamo trovare un modo per farli lasciare e farla cadere ai miei piedi. Ci mancavano solo dei fottuti paparazzi.”
JC rise, sapendo che l’amico non se l’era presa, che almeno con lui era tutto a posto. Gli diede una pacca sulla spalla e si avviò fuori dall’aula, pensando che quel giorno Chase Walker fosse l’ultimo dei suoi problemi.
La campanella suonò e un’altra giornata ebbe inizio.

aaa

“Idiota! Per poco non ci facevi scoprire! Ma dovevi fare tutto quel rumore?”
“Io? Sei tu che hai urlato tanto forte che ti avranno sentito anche a San Francisco!”
“Se tu non…”
“Se io cosa? Mi sei praticamente saltata addosso, ero motivato a dare il meglio.”
Uno schiaffo lo colpì sul braccio.
“Ma cos’è un vizio? Stai diventando violenta a forza di frequentarmi.”
“Cretino.”
“Sorridi, bambolina.”
Stavolta fu un pugno a colpirlo.
“Non fare l’imbecille questo è un probl…”
Coop la baciò per zittirla, ingoiando una risata che stava sgorgando dritta dai suoi polmoni. Hope tentò di divincolarsi ma poi cedette.
“Non puoi zittirmi ogni volta” riprese lei con tono più conciliante.
“E tu non puoi usarmi come valvola di sfogo, ma io non mi lamento. Perciò non farlo neanche tu.”
La ragazza, per l’ennesima volta in quella giornata, scosse la sua chioma con aria esasperata, prima di lasciarsi sfuggire una risatina.
“Hope,” gli prese il mento tra le mani, improvvisamente di nuovo serio. “Non credo sia stato JC. C’era tanta gente l’altra sera al Pink Flamingo, potrebbe essere stato chiunque. Persino qualcuno di scuola che non abbiamo visto.”
La ragazza abbassò lo sguardo e si morse il labbro, ma Coop fece in modo di incrociare di nuovo i suoi occhi.
“Parlagli.”
“Cosa cambia a te?” chiese curiosa, lasciandogli un bacio leggero sulle labbra.
“Sei più bella quando sorridi.”

aaa

Mentre scendevano la scalinata che li avrebbe portati all’uscita, Victoria ascoltava distratta Coop raccontare per filo e per segno come avrebbe gonfiato di botte quel gorilla di Simon, se se lo fosse ritrovato davanti. Sorrideva e annuiva distrattamente, guardandosi intorno e pensando che, in fondo, qualche calcio in più non sarebbe stato una cattiva idea, magari il suo cervello avrebbe ricominciato a funzionare nel modo giusto.
Non si rese conto della fine del suo discorso e l’inizio di quello di Chase, finché la sua attenzione non fu catturata dalla mano dell’inglese sulla spalla.
“Ma ci stai ascoltando, Vic?”
Lei sbattè un paio di volte le palpebre, socchiudendo appena gli occhi alla forte luce del sole.
“Scusate, ero sovrappensiero.”
Chase sbuffò e la prese sotto braccio, ridendo divertito.
“Tranquilla il test di biologia è andato benissimo, sei sempre la più brava.”
Victoria sorrise e gli diede un buffetto tra i capelli, poi chiese un riassunto di ciò che stava dicendo.
“Chase ha trovato un biglietto sul comodino stamattina e non ricorda niente di ieri sera. Era firmato J.”
La ragazza sgranò gli occhi.
“J di Jackson?”
“Cristo, Vic, sii ottimista! Potrebbe essere la J di un James o di un Joe…”
“E tu sii realista, Coop! Ieri sera c’era JC e a un certo punto sono spariti entrambi e non li abbiamo più visti. Non ti sembra strana questa coincidenza?”
Chase si strinse nelle spalle, gli occhi persi nel vuoto; non poteva essere vero, era semplicemente troppo spaventoso per essere vero. Si morse le labbra e scosse la testa, come per scacciare l’immagine del corpo muscoloso e nudo di JC sopra di lui. Troppo spaventoso, ma anche intrigante, in uno strano senso.
“Lui non è gay,” riuscì solo a biascicare.
“Magari ti ha solo riaccompagnato a casa…” osservò Coop.
“Magari…”
Si guardò di nuovo intorno, ignorando gli sguardi preoccupati degli amici, e un particolare alla destra dell’edificio, poggiato alla ringhiera della scalinata catturò la sua attenzione: un ragazzo alto e visibilmente più grande di lui lo salutò con la mano e gli sorrise divertito.
“Vicky…” sussurrò, tornando a guardarla. “Come si chiamava il ragazzo con cui ho ballato mentre Coop era andato a prendere da bere?”
Il ragazzo si avvicinò di più e gli andò incontro, sorrise a Victoria che riuscì appena a borbottare un nome, stupita.
“John.”

Canzone trash del capitolo.

 

a    a    a

NOTE: 

Buona fine del mondo, gente! *ancora non capisce perché dovrebbe essere stata anticipata*
Come va? Spero tutto bene e che il capitolo vi sia piaciuto :D
Come avete potuto leggere ho instillato qualche dubbio e qualche misterio-misterioso. Le cose prima o poi si dovevano complicare e direi che questo è un buon modo! Mi piace ricordarvi - come sempre - che non tutto ciò che leggete è come sembra. Che certi indizi sono lanciati per depistare, perché mi diverto così xD
Per il resto, non amate anche voi Coop e Hope? Io ormai ho perso la testa per loro due e anche per JC in preda alle crisi d'identità.
Nella follia del tutto, Chase ha avuto un risveglio assurdo, Simon è vagamente inalberato e niente. Hope e JC chiariranno? Ai posteri l'ardua sentenza :D
Il lancio dei picchi di Chase iniziale è una dedica (doppia) alla mia folle famiglia di psicopatiche, tutte sotto esami - quasi, ma tutte come sempre adorabili ♥
Non so se c'è altro da dire riguardo il capitolo, a parte che la canzone è ovviamente il tributo alla regina del trash e del mondo (amore mio, Germanotta *w*) e che ci sta abbastanza bene nel capitolo, no?
E niente, fatemi sapere se avete idee su chi abbia mandato la foto a Simon :3
Vi bacio e spero di continuare a essere tanto rapida negli aggiornamenti. Ho un altro paio di progetti in testa e devo ancora finire l'altra long, ma dovrei riuscire almeno con questa e con Der Himmel a barcamenarmi.
Mi sono resa conto, tra l'altro che qui non ho mai messo le foto dei miei amati personaggi.
Vi lascio i link alle foto per chi non fosse nel mio gruppo folle (Fenicotteri rosa e Serpi verdi).
Un bacio e alla prossima settimana, spero,
Elle.

 

Chase.
Grace.
JC. 
Cook.
Victoria.
Simon.  
Hope

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Capitolo 5
*** Nuovi lidi. ***


a

A chi continua a vedere la California 
come sole-cuore-amore.
A San Francisco. 

Nuovi lidi.

Canzone del capitolo.

 

Non era panico quello che provava non troppo sottilmente Chase, quanto più intenso imbarazzo.
John era di fronte a lui, dall’altro lato di un tavolino del Gold Lion: erano seduti fuori, all’aria aperta e calda di settembre, sotto un cielo privo di nuvole e gabbiani rumorosi.
Chase odiava i gabbiani, come odiava i fondi di caffè all’interno della piccola tazzina bianca: entrambi troppo sporchi per i suoi gusti. In quel momento, poi, preda della vergogna, non riusciva a pensare ad altro se non al fatto che forse avrebbe preferito che qualcuno scagliasse la tazzina o un gabbiano contro di lui: meglio un viaggio in ospedale che quella situazione ai limiti dell’assurdo.
John era un bel ragazzo: alto e muscoloso, sfoggiava mezzi sorrisi sexy una volta ogni minuto e tre secondi; gli occhi scuri e i capelli corti gli davano un’aria misteriosa e al tempo stesso cordiale e Chase avrebbe voluto avere abbastanza faccia tosta da fissarlo e bearsi di tanta bellezza.
Il coraggio però sembrava averlo abbandonato. Tutta la grinta che tirava fuori per illuminare le serate al Pink Flamingo si era eclissata, davanti alla prospettiva di aver trascorso la sua prima notte di sesso con uno sconosciuto che gli aveva per altro dato buca al primo appuntamento: un pessimo biglietto da visita, insomma.
Però era bello e Chase aveva problemi di salivazione gravi davanti a ragazzi tanto belli, incontrati alla luce del sole. Al Pink Flamingo era diverso, c’era un’unica regola: mai parlare del Pink Flamingo; quello che sarebbe successo là dentro, là dentro sarebbe dovuto rimanere. Perciò era facile non farsi vincere da imbarazzi e vergogne, giocare con altri ragazzi come se non ci fosse un domani, senza mai concedersi davvero.
Lì era diverso, perché quel John dai bicipiti possenti e le spalle larghe non era solo un corpo, era anche una bocca che si muoveva – solo per parlare – e una testa che cercava di entrare in confidenza con la sua.
“Sei nervoso.”
Era la prima frase dopo minuti di interminabile silenzio, preceduta unicamente da frasi di circostanza e quell’invito che stava facendo diventare viola Chase.
“Sì. Cioè no,” balbettò. “È il caffè!”
Il ragazzo rise e Chase per poco non si strozzò con la saliva. Non andava affatto bene: tutta quella bellezza in un corpo solo non era possibile.
“Stai tranquillo, non ti mangio.”
Magari, avrebbe voluto rispondere, ma riuscì a contare dieci secondi prima di aprir bocca e dar fiato. Si impose la calma, sciolse la presa ferra con cui era ancorato al bordo del tavolino e si appoggiò con la schiena alla sedia.
“Non so che idea tu ti sia fatto stanotte, ma non ci sarà nient’altro. Non sono quel tipo di persona, non voglio esserlo e non diventerò una checca ossessionata dal sesso che va in giro per locali come se non ci fosse un domani!”
La calma non era proprio la virtù di Chase, era ovvio. John rise di nuovo, innervosendo il suo interlocutore, poi si fece serio e puntò lo sguardo nel suo.
“Eri a malapena cosciente, non è successo niente. Ti ho solo riaccompagnato a casa.” Disse. Poi il mezzo sorriso che tanto infastidiva Chase spuntò di nuovo sul suo viso. “Se la prossima volta bevi di meno ne riparliamo.”
L’altro avvampò e fu tentato di tirare la tazzina contro di lui, accantonando per qualche momento gli istinti suicidi.
“Scherzavo. Voglio solo conoscerti meglio. Niente pressioni, niente fretta.”
Sarebbe piaciuto, a Chase, utilizzare una frase a effetto, qualcosa di simpatico; una battuta salace per fargli capire che sì, sarebbe piaciuto anche a lui, ma non sarebbe stato facile conquistarlo.
Invece annuì e basta.

a

Coop era in spiaggia, sdraiato su un asciugamano dietro un’insenatura di rocce, poche miglia fuori Sequins. Aspettava lì Hope, nel punto in cui erano soli incontrarsi fuori dalla scuola: scomode superfici troppo, troppo dure per il delicato fondoschiena di sua Maestà Peterson, ma aveva smesso di lamentarsi la prima volta, dopo il primo bacio.
La loro frequentazione orizzontale era iniziata poche settimane dopo la chiusura della scuola per le vacanze, l’estate precedete. A ripensarci Coop si chiedeva ancora come avesse fatto a non scappare a gambe levate dopo la prima crisi isterica della ragazza, dopo pochi minuti dal loro incontro.
Era la settimana in cui Victoria era a Los Angeles dal padre e Chase a San Francisco per un corso di fotografia di moda e lui era solo e annoiato a Sequins, dove l’unico svago era prendere a male parole Simon Scott ogni giorno fuori dal Gold Lion e sfiorare con lui la rissa.
L’odio che intercorreva tra loro non aveva più niente a che fare con l’orientamento sessuale di Chase, anche perché Coop era sicuro che Simon non fosse realmente omofobo come si dimostrava: era un’antipatia a pelle, qualcosa che ribolliva insieme alla rabbia nelle loro vene. Victoria chiamava quel qualcosa Il Genoma dei Colonizzatori, qualcosa che l’inglese condivideva con i suoi avi, conquistatori delle Americhe; allo stesso tempo, Simon si sentiva braccato nella sua terra. A volte sembravano solo due cani che facevano pipì nei posti più astrusi per marcare il proprio territorio.
Quel giorno però Simon non era al Gold Lion; aveva sentito JC dire a Grace che era andato a fare surf in spiaggia e che probabilmente non sarebbe tornato prima di sera. Era annoiato. Terribilmente annoiato, così tanto che non trovò niente di meglio da fare se non provocare un corpulento poliziotto, stazionato davanti l’entrata di un grande magazzino.
Qualche battuta mordace, occhiolini irriverenti, insinuazioni sulla dubbia fedeltà della moglie che, considerando la reazione dell’uomo, doveva avere. Aveva cominciato a correre tra gli stand di vestiti ed elettrodomestici, inseguito da quell’armadio.
Il poliziotto, nonostante la stazza da lottatore di sumo, era piuttosto agile e lui non aveva mai avuto abbastanza resistenza: non era uno che scappava, Coop; era solo uno che colpiva forte, ma voleva evitarsi una denuncia.
Aveva corso per cinque minuti buoni, nascondendosi tra gli stand e ridendo come un pazzo; aveva anche fatto cadere un signore sui cinquant’anni, con i capelli brizzolati – ricordava terribilmente il signor Peterson.
A un certo punto però si era ritrovato in una corsia senza uscita, di fronte a sé un muro, nessuna porta: aveva sudato freddo, poi aveva alzato le spalle con noncuranza e si era rifugiato in un camerino, alla sua sinistra, ignorando i piedi che spuntavano da sotto la tendina rossa tirata.
Era stato difficile però ignorare i capelli biondi che si era ritrovato in bocca quando si era richiuso la tenda alle spalle. Aveva sputacchiato nel preciso istante in cui i capelli biondi erano stati sostituiti dal viso sconvolto della cheerleader più bella e popolare che il Sequins High avesse mai avuto: Hope Cassandra Peterson.
Si era accorto della sua espressione prima spaventata e poi indignata; quando cominciò a lanciare fulmini di rabbia dagli occhi chiari, decise che sarebbe stato meglio tapparle la bocca prima che cominciasse a urlare.
Lo aveva fatto nel modo più idiota possibile, perché si era sporto sulle sue labbra distanti pochi centimetri e l’aveva zittita con un bacio: non aveva neanche pensato a quello che stava per fare, semplicemente le sue mani erano troppo lontane per farla tacere e il suo istinto aveva impedito a qualsiasi pensiero di penetrare il suo cervello.
A ben pensarci, il calcio nelle parti basse se l’era meritato tutto e ancora quando la baciava di sorpresa aveva paura di una sua reazione violenta; in realtà con il tempo aveva imparato a placare i suoi isterismi – quando si trattava di Hope e dei suoi cambiamenti umorali era lecito parlare di isterismi – e a prendere le dovute distanze quando era in fase pre e post mestruale. Insomma, i giorni in cui era veramente una ragazza carina ed educata come suggeriva il suo aspetto  non erano più di cinque al mese e in quei giorni, anzi, Coop la trovava anche vagamente noiosa.
Litigare con lei era stimolante e divertente. Eccitante, anche, almeno a giudicare dal fatto che dopo un battibecco finissero sempre in qualche scomodo e improbabile luogo a darci dentro come conigli.
Dal giorno nei camerini era scoppiata come una scintilla che alla fine li aveva irrimediabilmente attratti: forse la strafottenza di entrambi, il loro vivere al di sopra delle regole – l’uno perché amava infrangerle, l’altra perché sembrava dettarle – e la chimica avevano fatto esplodere qualcosa che li aveva portati in un bagno pubblico a strapparsi i vestiti di dosso, appena due settimane dopo l’incontro.
Sorrise, Coop, sovrapponendo all’immagine di lei mezza nuda sul lavandino del Gold Lion, alla ragazza che in costume e cappello di paglia si stava avvicinando, con un broncio adorabile sulle labbra.
“Ben arrivata, bambolina.”
Hope lo colpì con uno schiaffo sulla spalla, ma leggero, scherzoso. Odiava essere chiamata in quel modo.
“Ciao, idiota.”
Sbuffò un sorriso tra le labbra, prima di poggiarle sulle sue. A Coop piacevano le sue labbra, erano sempre incredibilmente morbide.
“Sempre gentile, vedo.”
“Non più del solito,” rise lei. Era di buon umore, il che probabilmente implicava una precoce apocalisse, soprattutto se si consideravano gli avvenimenti della giornata.
“Il tuo buon umore mi rende nervoso,” le disse infatti. “Hai ucciso qualcuno venendo qui? Hai messo sotto una vecchietta? O forse hai amputato un braccio a Scott?”
“Niente di tutto questo, non posso essere solo felice di vederti?”
Coop alzò un sopracciglio scettico, pensando che a breve un meteorite si sarebbe abbattuto sulla terra, o un terremoto avrebbe innestato uno tsunami da cui per primi sarebbero stati travolti, loro così vicini al mare.
Hope sbuffò, stampandogli un bacio sulle labbra.
“Mal fidato.” Alluse alla sua espressione. “Hai parlato con Chase?”
Il ragazzo scosse la testa. “No, all’uscita è stato rapito da un tipo che ha conosciuto al Pink. Non ho fatto in tempo. Solo che…”
Si zittì un istante, indeciso se parlarne. Decise di sì.
“Si chiama John. E gli ha lasciato un biglietto firmato J, stamattina.” Sospirò. “Però non credo sia chi ha mandato un messaggio a Scott, che senso avrebbe?”
“Non lo so,” disse Hope e scosse la testa. “Però è stato qualcuno del Pink Flamingo e il Pink Flamingo è un locale che conoscono in pochi. Quante persone di scuola potevano esserci ieri sera?”
“A proposito, perché tu conosci il Pink Flamingo?”
“Mio padre è amico del proprietario; non mi ha mai voluto dire chi fosse, ma mi ha parlato del locale.”
Coop le afferrò la mano e la tirò su di sé, baciandole le labbra. C’era una calma irreale in quel momento, le parole fluivano con naturalezza, come se avessero sempre fatto solo quello, parlare come due amici, non saltarsi addosso come due amanti; ma nonostante il rapporto non si sarebbe mai schiodato da quella sfera, dal puro piacere di imboscarsi negli angoli più impensabili e sfidare l’autorità costituita – la scuola, la polizia, chiunque – Coop si rendeva conto di aver sviluppato una strana forma d’affetto per quella ragazza lunatica e violenta, ma impeccabile in ogni sua posa.
“Non pensiamoci adesso,” le sussurrò all’orecchio, facendola rabbrividire. “Ci sono cose più piacevoli da fare.”

a

La strada che dalla piazza principale della città, tagliava tutta Sequins ovest, prendeva il nome da uno dei padri fondatori: Ezra Wentworth road era il percorso più veloce per raggiungere la spiaggia di sabbia bianca e alte dune che caratterizzava la West Coast. Era pur vero che la lontananza da Los Angeles non garantiva il sole, le palme e il caldo asfissiante di Beverly Hills; il clima era simile a quello della ventosa San Francisco, molto più vicina, oscurata a volte da una nebbia fastidiosa e opaca che rendeva la città più grigia di quanto in realtà fosse.
La temperatura non era mai troppo bassa, ma le nuvole in quella regione si rincorrevano veloci nel cielo, spostate da venti fastidiosi che scompigliavano capelli e facevano volare le gonne delle divise delle cheerleader.
Una delle poche cose che Coop apprezza dell'America, pensò Chase con un sorriso, accomodandosi dietro una roccia: era un luogo nascosto, in cui non aveva mai incontrato nessuno. Lo considerava un po’ il suo luogo, dove si recava per scrivere e pensare, dove isolarsi dall’esuberanza di Coop e l’acidità di Vic.
Da lì poteva ammirare l’oceano e bearsi del vento che lo cullava in uno stato di semi incoscienza, in una calma irreale e perfetta, con il gorgheggiare delle onde a lambire il suo orecchio. Chase amava il mare e lo amava ancora di più quando non era calmo e piatto, quando il vento lo increspava.
Quella era una giornata perfetta, per il suo pensare. Aveva un paio d’ore prima del primo vero appuntamento con John e aveva deciso di sfruttarle rilassandosi lì, nel suo giardino zen fatto di granelli di sabbia e gabbiani. Erano passati quattro giorni dalla serata al Pink Flamingo e tre dalla loro conversazione al Gold Lion: John gli aveva mandato un sms quel giorno stesso, durante l’ora di biologia, per chiedergli se avesse voglia di andare al cinema a vedere la proiezione di Manhattan. Forse era una cosa un po’ gay, da fare, ma in fondo Chase amava Woody Allen e gay lo era veramente. Quello era un appuntamento gay.
“Il mio primo appuntamento gay,” disse ad alta voce, con aria sognante.
 Una risatina alle sue spalle lo fece girare imbarazzato: odiava esserlo, perché, nonostante la sua carnagione tutt’altro che chiara, subito le sue guance si coloravano di un rosso intenso, come una donnetta.
Probabilmente poi in quel momento il colore doveva avere dell’assurdo, perché davanti si era ritrovato JC Cook. E dopo il pensiero poco casto che aveva avuto su di lui qualche giorno prima, ogni scusa era buona per non incrociare il suo sguardo neanche per sbaglio; neanche quando spalleggiava Scott nell’insultarlo.
“Cook,” biascicò infastidito.
“Walker,” rispose quello, sorridendo. Sembrava imbarazzato anche lui, anche se Chase non avrebbe saputo dirne il motivo: non era lui che aveva appena confidato al vento di avere un appuntamento gay con qualcuno. “Non volevo origliare, passavo per caso.”
Sembravano delle scuse, quelle, e Chase se ne stupì: nessuna maschera di insofferenza o fastidio dipingeva i lineamenti del biondo, anzi sembrava quasi divertito da quell’incontro casuale.
“Non importa,” disse, occhieggiandolo con sospetto. Non sembrava intenzionato ad andarsene e questo lo mise in allarme; passare del tempo con il quarterback non era di certo la sua idea di pace e serenità. “Stavo solo…”
“Pensando.”
Chase annuì, distratto da un gabbiano che planò poco distante da lui. Quando tornò a guardare l’altro, quello era più vicino di quanto immaginasse.
“Posso?” JC indicò il posto accanto a lui e senza aspettare risposta si sedette. Chase trattenne uno sbuffo.
“Cosa vuoi, Cook? Sei qui per prendere in giro le mie preferenze sessuali?” sibilò.
L’altro lo guardò, un sorriso enigmatico in volto. “No,” si fermò. “Sono qui perché sono in pausa da lavoro e non mi andava di passarla con Grace.”
Chase ridacchiò, pensando alla folle espressione da invasata che sfoggiava dall’inizio della scuola la più piccola delle Peterson. “A volte è inquietante,” sussurrò, quasi sovra pensiero.
“Vero,” concordò. “Ma è meno stupida di quello che sembra. È solo…”
“Stupida.”
JC rise e Chase lo seguì per qualche istante, prima di bloccarsi, mentre si rendeva conto di quel che stava accadendo. Stava ridendo. Con Jackson Clay Cook.
Si fece improvvisamente serio e lo stesso JC; non erano amici, non volevano esserlo. Mal si sopportavano da tre anni, tra insulti volanti e pestaggi dei loro migliori amici.
Il silenzio che si propagò per quel fazzoletto di spiaggia era imbarazzato, carico di ricordi e precedenti poco piacevoli. Fu JC il primo a spezzarlo, diversi minuti dopo.
“Ti ho visto al Pink l’altra sera.”
Chase non seppe cosa rispondere, a quell’affermazione; non sembrava un’accusa schifata all’indirizzo dei suoi gusti, quanto più una neutra constatazione. Ma sentiva, in qualche modo, sotto pelle, che sottintendesse altro. “Eri…” JC si fermò, cercando tra le parola che affollavano la sua mente, quella che differisse per significato dal concetto di bello. “Diverso.”
Chase lo guardò perplesso, inclinando la testa di lato e mordendosi un labbro.
“E tu che ne sai come sono di solito?”
JC accusò il colpo, distogliendo lo sguardo da lui per posarlo sul mare increspato da onde violente. Stava per arrivare una tempesta, pensò, estraniato del tutto da fili logici e razionali, seduto accanto a una persona che non aveva neanche mai guardato veramente.
“Non lo so,” disse e sembrò gli costasse fatica. “Ma sembravi diverso.”
Chase scosse la testa, indispettito. Non aveva senso, quella conversazione. Non ne aveva e non voleva trovarne alcuno, perché in fondo neanche cercare un senso avrebbe avuto senso.
“Sono in ritardo.”
Si alzò e lo occhieggiò, con un mezzo sorriso; era a disagio, in quella situazione così fuori dall’ordinario. E qualcosa – un martello, un picchio, qualcosa di insistente – continuava a sbattere nella sua testa e il rumore che produceva era terribilmente simile a quello del battito del suo cuore quando arrivava a una consapevolezza nuova.
“Ci vediamo a scuola.” Disse e gli diede le spalle, avviandosi tra le dune.
Il vento spingeva la sabbia verso di lui, la faceva vorticare intorno al suo corpo, mentre si allontanava, sotto un sole pallido e con le mani in tasca. Sembrava quasi di non essere in California, con quella nebbia rada che ora avvolgeva la sua figura e che lo faceva apparire come un misterioso uomo tra i viali di Londra.
“Sì,” rispose l’altro, ammirando il panorama del suo fondoschiena che scompariva alla sua vista, ma l’altro era ormai già lontano. “A scuola.”
Sospirò, imprecando contro se stesso. Aveva un problema.




Note:
Buonsalve, gente!
Il liceo più folle del mondo è finalmente qui *lalaaaalalala*
Anche se in realtà non c'è nessuna scena al liceo che suppongo riapparirà nel prossimo capitolo, in cui ci sarà l'appuntamento di Chase e John e torneranno Victoria e Simon.
Un paio di noticine sul capitolo - anche se dovrebbe capirsi: la prima scena e quella di Hope e Coop sono ambientateil giorno dopo il Pink Flamingo, quindi lo stesso giorno dello scorso capitolo;  quella di JC e Chase è invece è ambientata tre giorni dopo. Poi c'è ovviamente una citazione dal libro/film Fight Club, quando parlo dell'unica regola del Pink Flamingo. Ultima cosa, ma non ultima, il discorso sul clima volevo farlo per forza, dopo una conversazione con Butterphil, in cui parlavamo appunto del fatto che la gente pensa alla California come palme, sole, mare e gente in bikini. Beh, io sono stata a San Francisco d'estate (le ultime due settimane di luglio) e la temperatura non saliva sopra i 20 gradi e c'era una nebbia che non ti faceva vedere le cose a due metri di distanza. Ho visto il sole tre volte in due settimane, ma comunque avevo quasi sempre una felpa addosso. Quindi via a questo assurdo cliché della California come i Caraibi!
Ora tornando alle cose non serie, direi che sono abbastanza in tempo sulla tabella di marcia, a parte tre recensioni a cui rispondere - lo farò immediatamente, I swear - e che conto di continuare con questo ritmo. Ieri ho fatto uno schema dei capitoli e credo saranno 25-30 in tutto - forse pure di meno, non lo so, dipende tutto da come mi va mentre scrivo xD
 Bene, credo di aver detto tutto :) Alla prossima settimana, fatemi sapere se questo capitolo di prime svolte vi piace :3
Mi trovate come sempre nel mio folle angolino rosa a pois verdi   e anche in giro per vari gruppi a rendere le giornate della gente folli.
Un bacio,
Elle
[se volete aggiungermi tra gli amici ditemi almeno chi siete, un piccolo messaggino non vi farà atrofizzare le dita delle mani ♥] 

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Capitolo 6
*** Il genio. ***


a

A Cristiano.

6. Il genio.
Canzone del capitolo.

L’imbarazzo di Chase era un ricordo lontano, dopo mezz’ora di chiacchiere e altrettanto tempo di film. John era al suo fianco ed era concentrato sulle immagini proiettate sul grande schermo posizionato davanti a loro, nella piazza dietro la parrocchia. Ogni tanto si avvicinava al suo orecchio e scandiva sottovoce frasi ad effetto e battute che lo facevano ridacchiare e stemperavano l’atmosfera: cercava di metterlo a proprio agio e Chase era piuttosto grato di questo.
Era un ragazzo brillante, studiava linguistica a Barkley e dalla settimana prossima si sarebbe trasferito lì per il resto dell’anno, salvo tornare a Sequins ogni weekend. Ci potremmo vedere quei giorni, gli aveva detto mentre mangiava una pizza peperoni e patatine fritte e Chase, un po’ schifato, aveva annuito.
Mangiava veramente tanto e gli aveva confessato che la maggior parte dei cibi che ingeriva fossero spazzatura. Questo aveva fatto storcere il naso a Chase, ma poi era stato zittito perché l’altro lo aveva imboccato con una patatina. Quello era stato imbarazzante.
L’altro aveva saputo rimediare in poco, cianciando dei suoi studi e del proprio compagno di stanza, un ragazzo rasta che fumava canne ventitré ore su ventiquattro, che si portava dietro puzza di stantio possibile da sentire anche a chilometri di lontananza e che ci provava con lui almeno tre volte al giorno, ma era sempre troppo fatto per non cadere a faccia avanti quando lui lo respingeva. Avevano cenato e riso e Chase gli aveva raccontato dei suoi fratelli cannibali, di Coop e della sua ossessione per la musica British, di Victoria e il suo odio decennale nei confronti delle cheerleader; aveva esitato, pensando se parlare o meno dei bulli, ma poi aveva pensato al sorriso di JC quello stesso pomeriggio ed era stato zitto.
Erano affari suoi, forse un giorno gliene avrebbe parlato; sperava ci fossero altri appuntamenti e di qualcosa avrebbero pur dovuto parlare.
“Colpi di cannone! O è il mio cuore che batte?” sussurrò John, mentre la voce di Ingrid Bergman recitava le stesse parole, sullo schermo. Poi sembrò essersi reso conto di aver parlato ad alta voce e si girò imbarazzato verso di lui. “Scusa, abitudine.”
Chase sorrise e recitò la frase successiva, guardandolo di sottecchi. John lo osservò stupito qualche istante, poi tornò a concentrarsi sul film, posando però la mano vicino alla sua, sul bracciolo della sedia. Chase sfiorò le sue dita e poi le ritrasse.
Alla fine del film, si alzarono, quasi commossi, cercando però di mantenere un certo contegno; Chase non aveva voglia di tornare a casa, Casablanca lasciava sempre in lui una sensazione di solitudine e angoscia, ma non aveva il coraggio di chiedere all’altro di fare una passeggiata, prima di salutarsi.
“Ti va di andare a prendere un gelato?” chiese però John a sorpresa. “È sempre triste rimanere soli dopo aver visto questo genere di film.”
Chase sgranò gli occhi, stupito dal pensiero formulato dall’altro, così simile al suo. Poi gli sorrise e accettò un gelato: fragola e limone, come quando era bambino, come ogni volta che i giocatori di football lo insultavano a scuola e Coop lo portava alla gelateria in piazza, come i gusti preferiti di suo fratello. Victoria diceva sempre che erano come lui, quei due gusti, un po’ dolci e un po’ acidi e scherzava sempre sul fatto che lei sarebbe uno yogurt scaduto.
John ordinò la propria coppetta gigante – dove le infilava tutte quelle calorie? – al cioccolato e crema, dolce, troppo dolce per lui.
“Mangi tantissimo,” disse e la sua faccia apparve schifata e allo stesso tempo ammirata. “Non si direbbe.”
“Metabolismo veloce.”
Sorrise di nuovo e Chase pensò che doveva essere una bella ginnastica facciale, quella.
Si sedettero su una panchina e rimasero qualche istante in silenzio, a godersi i propri dolci e l’aria tiepida della sera: il vento sembrava essersi calmato, ma era ancora lì a infiltrarsi tra i loro capelli.
Chase avrebbe voluto dire qualcosa di intelligente, una battuta sagace, una frase ad effetto, ma sentiva che se avesse parlato avrebbe spezzato un’atmosfera tutto sommato distesa. Non era abituato al silenzio, in una casa con due fratelli più piccoli che spesso lo usavano come pungiball e in una scuola in cui l’unico vero amico che aveva era un surrogato di hooligan inglese. Victoria era già più silenziosa, ma era raro sentirsi a proprio agio con lei nei dintorni, sempre pronta a scoccare frecciatine.
“A cosa pensi?” gli chiese John, con ancora il sorriso malizioso sulle labbra.
“A niente,” scosse le spalle, tornando a guardare il cielo stellato sopra di loro. “È una bella serata.”
L’altro annuì, senza staccargli gli occhi di dosso e rimase in silenzio qualche minuto.
“Sai… La prima volta che ti ho visto al Pink Flamingo stavi ballando con un tipo biondo, altissimo e non mi sono avvicinato. Eri magnetico, voglio dire… Balli benissimo e sembri così a tuo agio ed esuberante che poi non mi sarei aspettato questa timidezza.”
“Non è timidezza!” biascicò l’altro, indignato. “Non sono timido.”
John alzò un sopracciglio, eloquente, e rise della sua espressione oltraggiata. “Andiamo a casa, domani hai scuola.”
Chase si alzò, si rassettò i jeans attillati, si appiattì i capelli sulla fronte: tutto sotto lo sguardo divertito dell’altro che era rimasto impeccabile nella sua camicia a righe rosse.
John sembrava uno di quei supereroi belli ma sfigati che i fratellini guardavano ogni sera prima di andare a dormire, un po’ come Clark Kent o Peter Parker; gli mancavano solo gli occhiali. Aveva capito che la criptonite di John fosse il cibo, bastava prenderlo per la gola; il suo superpotere, invece, era di sicuro quel sorriso capace di stendere chiunque.
Lo stesso sorriso che si ritrovò vicino – troppo vicino – quando si girò a guardarlo. Pochi piccoli centimetri a separare le loro bocche.
Lo vide sporgersi piano, apparire sfocato attraverso le ciglia socchiuse, dischiudere le labbra e gli sembrava di aspettare quel bacio da una vita intera. Un bacio che però non arrivò come se l’era aspettato, perché Chase perse l’equilibrio e lo scontro di labbra fu veloce e involontario.
L’altro rise ancora, allontanandosi, e lo accompagnò a casa.

 

a

Victoria era convinta che i tre quarti della popolazione di Sequins avesse gravi problemi di tolleranza e intelligenza: si cominciava con l’omofobia dei bulli, si passava per le decine di bocciati al liceo e gli alti numeri di chi non andava all’università, ma rimaneva in quella piccola cittadina di provincia ad ammirare i colori pastello delle case, fino ad arrivare al biondo dei capelli della maggior parte degli abitanti.
Non a caso gli unici due amici che aveva erano discretamente castani – Coop era capace di strangolare con la sua Union Jack chi lo avesse definito biondo – e anche discretamente intelligenti – a volte ne dubitava persino lei, ma non potevano essere perfetti.
La perfezione non esiste, le ripeteva sua madre ogni volta che lei tornava a casa con un voto inferiore alla A, cosa che accadeva assai di rado, in effetti, e lei aveva imparato a crederci perché se perfette venivano considerate le cheerleader e i giocatori di football che poi avevano un cervello grande quanto una nocciolina, lei preferiva non esserlo. O comunque esserlo nei limiti delle sue possibilità e del suo quoziente intellettivo sopra la media.
Non ne aveva mai fatto mistero, di ritenersi più intelligente degli altri – non che ci volesse molto, comunque – e per questo era stata presa in antipatia da chiunque sin dal primo anno, soprattutto dalle cheerleader che non l’avevano accettata in squadra. Di certo era stato meglio così, perché sculettare sulla cima di una piramide umana non era la sua aspirazione nella vita: lei avrebbe studiato astrofisica e avrebbe vinto un nobel entro i trent’anni, non qualche gara nazionale in giro per gli Stati Uniti. Lei si sarebbe lasciata alle spalle il liceo, Sequins, la nebbia della baia e anche Coop e Chase. Non sarebbe rimasta lì, come la maggior parte di loro, sposata con il fidanzatino del liceo, con tre figli ad appena venticinque anni e un triste lavoro al fornaio in centro. Lei avrebbe conquistato il mondo con il suo cervello, guadagnato un sacco di soldi e si sarebbe sposata solo all’apice della propria carriera: non prima dei trent’anni, con un suo collega dal quoziente intellettivo di poco inferiore al suo.
Non aveva bisogno della popolarità per avere successo, Vic lo sapeva. Ma ormai quella era una questione di orgoglio, un desiderio che da ragazza capricciosa e viziata da genitori troppo orgogliosi di lei aveva deciso di dover esaudire. Prendersi quel posto nella micro-società liceale che secondo lei le spettava, avere una rivincita su chi per anni l’aveva ignorata e trattata come l’ultima ruota del carro. Sarebbe salita sulla cima della piramide e lo avrebbe fatto a modo suo: avrebbe conquistato Kenneth, il fullback della squadra di football, presidente del comitato studentesco.
D’altronde, lo sapeva, dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna.

“Chase, sei un disastro!”
La voce di Coop fece girare Victoria e un’altra decina di teste, incuriosite dall’urlo dell’inglese e, di conseguenza, dal volto imbarazzato di Chase.
“Fai piano, Coop! Vorrei evitare che tutti sappiano quanto io sia deficiente.”
Victoria alzò un sopracciglio, sorridendo sotto i baffi: Chase non era mai stato un tipo particolarmente sicuro di sé, ma era raro sentirlo insultarsi, a meno che non avesse infilato per distrazione il cd di Lady Gaga nel forno a microonde.
“Che succede, principino?”
I due amici erano ormai giunti davanti a lei ed entrambi fecero finta di non aver notato il tono canzonatorio con cui la ragazza si era rivolta a loro.
“Niente…”
“Niente?” Coop interruppe Chase. “Sei inciampato sulla bocca di John mentre cercava di baciarti!”
“Abbassa la voce!” Il secondo urlo fece voltare altre teste, che per fortuna non avevano sentito le parole dell’inglese.
Victoria rise. Voleva bene ai due ragazzi, ma a volte le sembravano una vecchia coppia di pensionati che litigava per quale film guardare la sera – film del quale ovviamente prima di addormentarsi, avrebbero visto solo i primi dieci minuti. Si era chiesta spesso se al di là della bella amicizia Chase avesse una cotta per l’amico e, malgrado la fama di Don Giovanni incallito di Coop, aveva anche messo in dubbio la sua sessualità un paio di volte. Si era sempre data dell’idiota da sola, dopo certi pensieri, ma ogni tanto il sospetto tornava.
“Chase, sei un disastro.” Ripeté, divertita e sorridente, e si guadagnò un’occhiata oltraggiata dall’interpellato.
“Non è colpa mia” balbettò, intimidito. “Ero imbarazzato e impaziente e sapete perfettamente che il mio equilibrio è precario anche in condizioni psicologiche normali.”
Coop scosse la testa, reprimendo una risata e battendo una mano sulla sua spalla con affetto. Victoria a volte invidiava la loro amicizia: sapeva le volevano bene, ma ogni tanto si sentiva tagliata fuori da un rapporto che era esclusivo e speciale, un rapporto in cui nessun altro sarebbe mai riuscito a entrare.
Lei non aveva un amico come Coop era per Chase e viceversa. La sua intelligenza e la sua acidità intimorivano e infastidivano le persone a cui tentava di avvicinarsi, perciò non era mai stata un asso nei rapporti interpersonali. Era stata contenta di essere accettata come parte integrante di quello strano e improbabile duo, al primo anno, ma nonostante il bel rapporto che intercorreva tra tutti e tre, sapeva che non sarebbe mai stato lo stesso. Se uno dei due avesse dovuto scegliere tra lei e l’altro, avrebbe di certo scelto l’altro.
D’altronde non se ne crucciava troppo, perché sapeva che probabilmente i due amici, finito il liceo, sarebbero rimasti a Sequins o avrebbero frequentato un qualche college pubblico, senza troppe pretese, mentre lei vinceva il nobel per la fisica o scopriva la vita su Saturno.
Prima o poi li avrebbe comunque dovuti lasciare indietro, tanto valeva godere le piccole stille di calore umano che loro le donavano. 
I due amici continuarono a battibeccare, ma presto l’attenzione di Victoria fu catturata da qualcun altro.
Kenneth Magnus Harrison, con i capelli rischiarati appena dal sole mattutino, gli occhi cangianti e il fisico possente, camminava tra due file di persone che si erano spostate al suo passaggio.
Il Grande, come lo chiamavano con reverenza i suoi compagni – che più che compagni sembravano sottoposti – era colui che, nonostante la popolarità e la bellezza di JC e Simon, teneva in mano le redini dell’intero liceo: riunioni studentesche, scioglimento e associazione di club, disposizione in mensa, person che dovevano frequentare i popolari; lui gestiva tutto e dettava le regole, nonostante evitasse di prendere parte alle azioni dei bulli il più delle volte. All’apparenza, sembrava il classico ragazzo perfetto, con una vita perfetta e un futuro perfetto.
In realtà, le rare volte in cui anche lui aveva perseguitato Chase, seguendolo nei bagni della scuola per inzupparlo fino al collo in uno dei water, tutti si erano resi conto di quanta cattiveria celasse dietro lo sguardo limpido.
A differenza di JC e Simon, che combattevano una crociata contro gli sfigati del liceo solo perché al liceo così funzionava, Kenneth credeva veramente di essere nel giusto quando insultava Chase per i suoi gusti sessuali. L’omofobia era insita in lui, quanto lo era il patriottismo inglese in Cooper.
Victoria ne era attratta e, razionalmente, non avrebbe saputo dire il perché. Non aveva alcun dubbio che fosse straordinariamente bello, ma non era quello a stuzzicare la sua curiosità. Era forse quel pizzico di follia che intravedeva nel suo sguardo quelle rare volte in cui non era concentrato a sembrare impassibile e imperturbabile.
Lo avrebbe conquistato, ne era convinta. Bastava qualche piccola bugia ed era sicura sarebbe caduto ai suoi piedi, perché, a differenza dei suoi compagni di squadra, sembrava non si fermasse alle apparenze di un bel visino, ma cercasse anche una certa dose di cervello.
E lei, di certo, non ne era sfornita.

 

a

JC camminava svelto per i corridoi del Sequins High, durante l’intervallo tra l’ora di economia domestica – a cui la madre lo aveva costretto a iscriversi – e quella di biologia, tentando di seminare Grace che, nonostante avesse assunto di nuovo un’espressione umana, continuava a lamentarsi di sentirsi trascurata.
Non che avesse tutti i torti, beninteso: JC non la stava solo trascurando, ma a tutti gli effetti la ignorava ed evitava come fosse un gigantesco dinosauro pronto a sbranarlo. In quei giorni, poi, non c’era neanche Hope ad aiutarlo nell’impresa titanica di tenere la sorella lontana da lui, dato che ancora non gli rivolgeva la parola. Non era sicuro fosse ancora arrabbiata, probabilmente era solo troppo orgogliosa per scusarsi con lui dello schiaffo immeritato; d’altra parte, a lui sembrava approfittare di lei, nell’andare a riallacciare i rapporti proprio in quel momento, con Grace alle calcagna.
Sospirò affranto, mentre svoltava un angolo e si ritrovava davanti alla presidenza, da cui stavano uscendo, a sorpresa, Victoria Roberts e il Grande. Arcuò un sopracciglio, osservandoli perplesso e attento a non rovinarsi la pettinatura, si calcò sulla testa il cappuccio e si nascose meglio, per osservarli parlottare.
La ragazza sorrideva e – avrebbe scommesso sui suoi boxer autografati da Madonna – lo faceva in modo estremamente malizioso, toccandosi i capelli e avvicinandosi di più a lui in modo impercettibile, ogni frase che diceva l’altro, forse con la scusa di non sentirlo.
Kenneth la osservava con la solita espressione annoiata stampata sul bel volto, ignorando i plateali segnali lanciati da Victoria. JC non sapeva se avvicinarsi ancora e ascoltare la loro conversazione o andare subito a far pace con Hope per raccontarle la novità: amava i pettegolezzi e quello aveva l’aria di essere succulento.
Lanciò loro un’altra occhiata, lunga e attenta, criticò mentalmente la frangetta fuori moda di Victoria e i pantaloni troppo larghi di Kenneth, e si allontanò con circospezione, mimetizzandosi con il muro grazie al cappuccio.
Avrebbe parlato con Hope.

 

Il piano di Victoria era perfetto, degno della migliore mente criminale di Gotham City e dintorni: lei si sarebbe comportata come Cat Woman, felina e furba, pronta ad attirare sotto i propri artigli l’Uomo Pipistrello, nelle sue più recondite fantasie, impersonato da Kenneth.
Dall’inizio della scuola aveva seguito con costanza e la solita attenzione i corsi di fisica e biologia, tenuti dalla signorina Willing, una giovane professoressa molto capace, ma aveva fatto finta di non riuscire a mantenere alta la concentrazione e di non capire vari passaggi delle complicate formule che la donna spiegava. Aveva esplicato i suoi finti dubbi e le sue difficoltà false alla professoressa, spiegandole che avrebbe voluto fare l’astrofisica da grande e quella, preoccupata, si era subito adoperata per farle avere un tutor nella materia.
L’unico ragazzo capace di dare ripetizioni di fisica a qualcuno, al Sequins High, era Kenneth il Grande e Victoria, ovviamente, lo sapeva. Per questo si era sorbita un’ora di ramanzina del preside, seduta sulla poltrona del suo ufficio, con accanto un Kenneth annoiato e piuttosto contrariato.
Alla fine, erano usciti dalla stanza, l’uno impassibile come sempre, l’altra sorridente e soddisfatta della riuscita della prima parte del piano.
“Quando preferisci vederci?” chiese al ragazzo, prima di dividersi.
“Non il mercoledì né il giovedì.”
La risposta lapidaria non la intimidì e continuò, imperterrita.
“Perfetto, allora, ci vediamo il lunedì e il venerdì dopo gli allenamenti?”
Si spostò una ciocca dietro l’orecchio e si avvicinò di qualche centimetro, abbastanza per invadere il suo spazio, ma troppo pochi perché lui se ne accorgesse.
“Ok.”
Sorrise di nuovo, Victoria, ma l’altro a mala pena la guardava in viso. Represse l’istinto di sbuffare e non smise di indossare la sua espressione maliziosa. Non poteva insistere troppo nel parlare con lui, l’avrebbe trovata fastidiosa e si sarebbe da subito disinteressato a lei, più di quanto già non fosse.
Invece doveva conquistare la sua testa attimo dopo attimo, parola dopo parola, centellinando il tutto in modo intelligente e furbo.
Si avvicinò, posando una mano sulla sua spalla e accostando la bocca al suo orecchio.
“Grazie, Kenneth.” Sussurrò con malizia e sfiorò appena la sua guancia con le labbra, prima di andar via, ancora sorridente e ancora più soddisfatta.
Era un genio.

 

a

Ebbene sì, con un sacco-sacchissimo ritardo - tanto perché "aggiorno regolarmente" sono state le ultime parole famose - giungo finalmente con il capitolo di Sequins!
Finalmente, per la felicità di Acqua, parlo anche di Victoria e si scopre qualcosa un po' più di lei. Appare oltretutto un nuovo personaggio, tale Kenneth - ringraziate che non l'ho chiamato Alex lol - che doveva essere marginale, ma che mi sa prenderà un po' di piede all'interno della storia.
E' una storia molto leggera, me ne rendo conto e sono contenta che sia così almeno per una volta, però ci terrei a precisare che sto inserendo vari temi ed elementi che, seppur trattati in modo ironico, sono secondo me molto importante. Lungi da me insegnare qualcosa a qualcuno,ovviamente, non è nel mio interesse, ma affronto alcuni temi che purtroppo fanno parte della nostra società e su cui la gente spesso chiude un occhio.
Simon è un bullo con un odio spropositato per Coop, ma non è veramente una persona cattiva. Kenneth invece è il classico fighetto omofobo e non lo è per scherzo o per dire; per persone come lui, gente come JC si nasconde e qui c'è un altro tema, oltre a quello della discriminazione e del bullismo che mi sta a cuore ed è appunto quello della repressione sessuale per paura. JC e Chase sono due aspetti diversi di una sessualità diversa dalla mia, che gente ancora considera anormale e che invece è assolutamente giusta e legittima.
Perciò niente, sto dicendo cose che in realtà non c'entrano molto con il capitolo, ma che volevo specificare :D
Credo che il giorno dell'aggiornamento sarà spostato al weekend, o sabato o domenica, così ho tempo e modo di scrivere e rileggere tutto con calma :3
Spero vi sia piaciuto il capitolo e che siate incuriositi dai vari intrecci che sto creando - che sono veramente troppi e non sono finiti qui xD
Ora smetti di blaterare e vi lascio il capitolo, va.
Ho notato un calo generale dell'interesse, ma capisco comunque gli esami, la voglia di non fare un cavolo, le vacanze e il tutto, perciò nessun problema ♥
Per qualsiasi cosa, anche solo per minacciarmi di morte o parlare di scemenze random, vi ricordo il mio gruppo verde e rosa, abitato da fenicotteri e serpi.
Un bacio,
Elle. 
AH! Mi stavo scordando, la canzone non ho la minima idea di cosa sia ma mi fa troppo ridere xD 

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Capitolo 7
*** Sesso (tutto quello che Grace avrebbe voluto sapere a riguardo, ma non ha mai osato chiedere) ***


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Al C.R.O.B.
e ai video tragicomici di quindici minuti. 

7. Sesso
(tutto quello che Grace avrebbe voluto sapere a riguardo, ma non ha mai osato chiedere.)

Canzone del capitolo.

Victoria aveva sopravvalutato le proprie capacità seduttive e allo stesso tempo sottovalutato l'intolleranza che Kenneth provava per qualsiasi essere umano dotato di voce e cervello inferiore - almeno apparentemente - al suo.
Per questo si trovava nella biblioteca comunale di Sequins ad ascoltare il silenzio teso di cui si erano circondati da quando l'altro ragazzo le aveva detto di leggere il capitolo del libro corrispondente all'ultima lezione di fisica per poi chiedere a lui cosa non avesse capito.
Il problema, in realtà, era che lei aveva capito tutto e non sapeva su cosa interrogarlo senza fare la figura dell’oca. La legge di Ohm? Quella di Lavoisier? La teoria della relatività?
Cos’era abbastanza difficile da giustificare la sua poca comprensione? Non riusciva a capirlo ed era frustrante. 
Dover fingere di essere stupida, ma non troppo, non era una missione affatto semplice.
"Hai finito?"
La voce di Kenneth la distrasse dai suoi pensieri. Erano in effetti più di dieci minuti che leggeva, muta, un capitolo che aveva imparato a memoria già alla prima lettura. Era un asso nella memoria fotografica.
Peccato che ancora non sapesse cosa fingere di non aver capito.
"Ehm... Si." 
Era il quarto giorno di ripetizioni e non avevano ancora fatto alcun passo avanti nella loro inconsistente relazione. Nessun sorriso lui aveva indirizzato a lei, nessun avvicinamento strategico di Victoria sembrava esser stato anche solo notato.
Kenneth sembrava una statua di sale, e soprattutto sembrava sin troppo scocciato del dover avere a che fare con lei – che era evidente pensasse fosse una povera decerebrata – due pomeriggi a settimana. 
Lei avrebbe voluto scoprire le carte in tavola, ma era consapevole che lo avrebbe fatto fuggire a gambe levate, minacciato da un cervello più produttivo del suo; le occorreva pazienza. 
Tanta pazienza. Sicuramente più di quella che dimostrava lui davanti a la sua fasulla stupidità.
“Non ho capito la legge dell’Attrazione…”
Kenneth alzò un sopracciglio scettico, scrutando nei suoi occhi. Inquietante, avrebbe detto Victoria. Inquietante, ma molto bello.
“Pensi che sia stupido? Perché credo sia abbastanza ovvio che io non lo sia.” Disse in tono acido. “E non credo che lo sia tu tanto stupida da pensare di riuscire a ingannarmi.”
Victoria spalancò gli occhi, scoperta nel suo piano che a ben pensarci presentava sin troppe lacune e punti oscuri, poi assunse in volto un’espressione maliziosa.
“Pensavo ci volesse di meno.”
“A fare?”
Alzò le spalle, sorrise, puntò gli occhi nei suoi. Era divertita, era palese anche per Kenneth che di relazioni umane non era poi così esperto.
“A piacerti, ovviamente.”
Il primo sorriso che Kenneth le rivolse fu un ghigno. Scoprì i denti solo da un lato, alzò il labbro di pochi quasi impercettibili millimetri e socchiuse gli occhi. Sembrava divertito anche lui ed era strano. Kenneth sembrava divertito solo dopo aver picchiato qualcuno a scuola.
“E volevi sedurmi dimostrandomi la tua stupidità?”
Victoria ci pensò su qualche istante, dandosi mentalmente dell’idiota. Era un piano pessimo. 
Il ragazzo continuò a osservarla, la malizia ancora impressa sul suo volto. Gli occhi chiari scintillavano di curiosità felina, la dita erano artigliate all’angolo del tavolo. Lo faceva spesso, di stringere oggetti tra le mani, come per sfogare una tensione e una violenza in modo pacifico. 
“Roberts…”
“Victoria,” lo interruppe lei. 
“Victoria…” si fermò, come pensandoci su. “Bene, Victoria. Dimostrami che meriti di uscire con me e ti porterò fuori a cena.”

f

Economia domestica era una materia inutile. 
Tanto quanto per lui lo era matematica, fisica, geometria, letteratura americana e inglese. Insomma, Coop non andava particolarmente matto per lo studio, soprattutto se questo aveva a che fare con la storia e la cultura di quel grande paese che non aveva mai apprezzato a dovere la Madre Patria.
Certo era però che la sua avversione per l'economia domestica batteva anche il suo odio per gli Stati Uniti: una materia inutile, ore buttate ad ascoltare di come risparmiare e investire i propri soldi, a guardare quell'odioso professore blaterare di bilanci mensili e figli. 
No, decisamente lui non avrebbe avuto figli. Comunque non in America, perché presto sarebbe tornato a Londra, possibilmente trascinandosi dietro Chase. Hope avrebbe potuto lasciarla lì, senza voltarsi indietro: era un peccato, perché i loro figli sarebbero stati molto belli, ma per l'onore e la gloria del Regno Unito lui avrebbe rinunciato anche a bambini con boccoli biondi e occhioni azzurri.
Ancora non lo sapeva, ma presto un esserino del genere sarebbe apparso nella sua vita.
“Bene, vorrei rendervi partecipi dell’idea che ho avuto quest’anno per la tesina di fine semestre!”
La voce acuta della Signora Perky traforò i timpani di tutti gli alunni, che a quelle parole dovettero nascondere una smorfia di fastidio e irritazione.
“Quest’anno economia domestica sarà un corso pratico di gestione delle finanze e della casa, così come dovrete fare quando sarete sposati e avrete dei bambini. In pratica vi dividerò a coppie e farò in modo che ognuno di voi si impegni a far quadrare il bilancio e i conti ogni ventisette del mese, senza scendere al di sotto di un budget virtuale che dovrebbe essere il vostro stipendio. Assegnerò a ognuno un lavoro, un partner e un budget mensile personalizzato.”
Coop si girò intorno e osservò sconvolto i visi dei compagni, specchi della sua stessa espressione. Cosa cavolo voleva dire con “Assegnerò a ognuno un partner”? Sbiancò quando quelle parole affondarono il proprio significato nel suo cervello e guardò JC e gli altri giocatori di football. Non poteva.
“Scusi, Signora?”
La professoressa si girò e lo guardò con occhi di fuoco. Lo odiava, lo odiava profondamente e lui lo sapeva. In realtà lo meritava anche, perché non aveva fatto passare delle belle settimane alla donna, da quando era iniziato il corso. L’odio era assolutamente reciproco.
“Sì, Cooper?”
“Non possiamo scegliere da noi i compagni per questo… ehm… compito? Sa, con certi gorilla sarebbe impossibile lavorare.”
Un ringhio risuonò alle sue spalle e con la coda dell’occhio vide un giocatore di football scrocchiarsi le dita, come una promessa di vendetta per quell’epiteto poco gentile.
“No, Cooper. Non accetto obiezioni in merito. Sceglierò io, senza possibilità di appello né protesta. La democrazia è solo una pia illusione in questa scuola, io ho il comando di questo corso e io ho deciso.”
Coop sospirò affranto, girandosi verso Chase nel banco accanto a lui.
“Siamo fottuti.” Sussurrò. L’altro rise e smorzò in questo modo la tensione, ma non sembrava molto a suo agio. Poi lo vide girarsi alla sua destra, guardare per un attimo JC e per poco non pensò fosse arrossito.
Ma no, sicuramente era una sua impressione, un’illusione data dallo shock dell’assegnazione dei compagni per il compito.
Chase non stava sorridendo in modo timido a JC e JC non lo stava guardando in modo strano.
No, sicuramente era una sua spaventosa impressione.

f

Chase era seduto al Gold Lion e non smetteva un attimo di parlare – spesso a vanvera – a un John piuttosto interessato a qualsiasi futilità uscisse dalle sue labbra, o almeno l’impressione era quella, sebbene in realtà le stesse fissando con insistenza, senza curarsi troppo delle parole che pronunciavano.
Si stava lamentando del nuovo compito assegnato alla classe di economia domestica con un buffo broncio sui lineamenti e un tono di voce irritato e spesso canzonatorio, quando si sperticava in commenti poco lusinghieri su quella Grassa Vacca Da Monta Che Era La Signora Perky.
Gli piaceva parlare se il suo interlocutore rimaneva in silenzio ad ascoltare, senza interromperlo, ma anzi lusingandolo anche e magari dandogli ragione: John per questo era perfetto, perché annuiva, sorrideva, annuiva di nuovo e ogni tanto si intrometteva nel suo monologo con punti di vista a supporto delle stesse tesi di Chase.
Era l’uomo perfetto, continuava a pensare quest’ultimo, come una nenia nella testa e all’improvviso lo disse anche, causando un’ondata di imbarazzo ben visibile sulle sue guance. Doveva decisamente smetterla con questa mania di esprimere pensieri compromettenti ad alta voce, soprattutto davanti a chi avrebbe potuto usare certe informazioni contro di lui.
John però rise qualche istante e gli strinse la mano sul tavolo, senza lasciarsi andare a baci appassionati in pubblico, ben conscio del fatto che il Gold Lion fosse maggiormente frequentato dai liceali e che questi non fossero esempi di tolleranza e apertura mentale, soprattutto in una cittadina come Sequins.
Una stretta di mano poteva essere abbastanza e, cosa più importante, poteva lanciare un messaggio al biondino alla cassa: le tue labbra da trota non toccheranno mai quelle del mio ragazzo.
Forse definirlo tale era prematuro e presuntuoso, ma sapeva che sarebbe stata solo questione di tempo: era ovvio si piacessero, l’unico problema era il suo alloggiare tutti i giorni al campus, esclusi i weekend, che aveva dato loro poco tempo per vedersi. Ma per il resto si comportavano come due fidanzatini innamorati e prima o poi lo sarebbero stati, biondino permettendo.
Sembrava un po’ troppo interessato, almeno a giudicare dalle occhiate che lanciava nella loro direzione, ma l’aveva anche visto baciare a stampo una bionda con gli occhi sgranati neanche fosse un alieno di Mars Attack.
Strana forte, la nuova generazione del Sequins High…
Chase seguì il suo sguardo, fermo da qualche minuto oltre le sue spalle e si accorse di JC e Grace. Lei ora gli stava chiedendo qualcosa e lui poteva immaginarsi la sua voce melensa e le sue unghie sempre perfette – sì, era invidioso, perché lui non riusciva a smettere di mangiarle – grattare con sensualità il petto del biondo. Fece una smorfia, intercettata immediatamente dall’oggetto della sua irritazione, che confuso non ne capì il motivo, e si girò di nuovo verso John che invece mostrava una non indifferente soddisfazione per la sua reazione.
Chase gli rivolse un sorriso tirato, poi strinse un po’ di più la sua mano sul tavolo, ricominciando a parlare come se niente fosse. Almeno prima di accorgersi di Coop che usciva dal bagno degli uomini con la maglietta al contrario.
Alzò gli occhi al cielo e si scusò con John, contrariato da tutte quelle interruzioni, per poi andare dall’amico e cercare di capire cosa – o per meglio dire chi – stesse facendo in bagno per uscirne così scombinato. Non fece in tempo a raggiungerlo, che dalla porta da cui lo aveva visto uscire, spuntò Hope Peterson, con i capelli scompigliati e le labbra gonfie.
Guardò verso Coop che sorrideva con aria colpevole, poi verso JC che aveva piegato le labbra in una smorfia schifata e infine capì.
Galeotto fu il Pink Flamingo. Forse avrebbe dovuto smettere di frequentarlo.

 

“Mi spieghi cosa pensavi di fare?”
“Soddisfare il mio sano e insaziabile appetito sessuale, mi pare ovvio…”
“Ti sembra una giustificazione valida al non saperti tenere il pisello nei pantaloni?”
L’altro lo guardò perplesso, prima di sogghignare per l’uso dell’epiteto ortofrutticolo.
“Beh, in realtà sì. Di solito la gente fa sesso per quello, Chase.”
“Io no!” urlò fuori di sé.
“Amico, senza offesa, ma tu non fai sesso per nessun motivo...”
Chase arrossì fino alle punte dei capelli e lo spinse con una debole manata sul petto contro il muro.
“Non ho ancora trovato la persona giusta, idiota!”
“Neanche io, questo non significa che non possa prima fare pratica. C’è bisogno di mantenersi in costante esercizio per queste cose, mica posso lasciare Randy ad accumulare ragnatele…”
“Randy? Hai chiamato il tuo coso Randy?”
L’altro fece spallucce.
“È un nome come un altro. Da piccolo volevo chiamarci un cane, ma i miei non hanno mai voluto un animale in casa.”
“Hai chiamato il tuo coso come un cane?”
“Tecnicamente non c’è nessun cane che io conosca a chiamarsi così…”
Chase si mise le mani nei capelli, esasperato. Non poteva crederci, era tutto troppo assurdo. All’improvviso tanti piccoli tasselli si incastrarono tra loro e formarono un puzzle sin troppo chiaro nella sua testa.
“Ecco perché Simon voleva picchiarti così ferocemente l’altro giorno!”
Coop annuì lentamente e Chase si dispiacque del fatto che il giocatore di football non ci fosse riuscito.
“E perché non ne sapevo niente?”
“Perché sapevo avresti reagito così e ne avresti fatto un affare di stato, quando tra me e Hope non c’è niente. Solo sesso.”
“Hope? La chiami per nome?”
“Chase, stai avendo una crisi isterica.” Disse con naturalezza. “Respira, bevi un po’ d’acqua e torna da John, non vorrei si facesse strane idee su quello che stiamo facendo qui dentro.”
“Che schifo!”
Fu l’ultima cosa che Coop sentì, prima di vedere Chase uscire dal bagno e tornare al suo appuntamento.

 

Grace da quando teneva gli occhi sgranati sul mondo si rendeva conto molto più velocemente delle cose che le accadevano intorno. Per esempio si era accorta dei capelli più chiari del solito di JC – probabilmente il parrucchiere aveva schiarito troppo i colpi di sole – delle sparizioni misteriose della sorella, dei litigi tra il padre e la madre e soprattutto della carica erotica di Chase Walker che in automatico attirava uomini come frigoriferi attiravano calamite. E a proposito di questo, forse avrebbe dovuto svuotare il suo minifrigo, altrimenti avrebbe accusato più dei due chilogrammi depositati sui suoi fianchi durante le ultime settimane.
Il suo problema era che odiava lo sport. Lo odiava, lo odiava e lo odiava – come cheerleader era diverso, era figo essere cheerleader – soprattutto perché i suoi capelli erano troppo belli e perfetti per essere scompigliati dal vento, la sua pelle  troppo morbida per essere bagnata dal sudore e i suoi occhi troppo sgranati per non rimanere accecata dal cloro di una piscina.
Aveva letto su internet che il sesso era un buon modo per bruciare calorie, ma il problema  rimaneva sempre la peste di JC. Doveva trovare un modo per curarlo e su Yahoo Answer aveva letto che probabilmente la colpa fosse del karma: in un’altra vita doveva aver dato da bere a un bambino del latte di mucca annacquato e questo dagli induisti non era stato perdonato. Chi fossero poi questi induisti non lo sapeva, forse erano persone che indossavano indumenti confezionati in India dagli Humpa Lumpa di Willy Wonka che si erano trasferiti là dopo la chiusura della Fabbrica di Cioccolato – o almeno così le aveva detto Hope.
Non sapeva però come rimediare a questo disastro cosmico – o filosofico, o religioso, o stilistico – e su internet non trovava soluzioni: forse avrebbe potuto rischiare, in fondo quante possibilità aveva di essere contagiata?
Avrebbe chiesto consiglio a Hope, comunque. Lei sapeva sempre tutto e forse avrebbe potuto aiutarla e spiegarle anche cosa significasse esattamente fare sesso: nonostante i termini che aveva sentito in giro, dubitava comprendesse l’utilizzo di scope. Però se le fosse servito a perdere quei due chili che aveva messo sui fianchi e non sulle tette sempre troppo scheletriche, avrebbe anche imparato a suonare la tromba.
Si avvicinò cauta a Hope, sorridendo impunita, ben sapendo che gli occhi da cerbiatto-alieno non avrebbero funzionato su di lei, sua sorella da sin troppi anni – anni che notava ogni mattina guardandosi allo specchio e notando un poro sulla pelle in più – aveva capito le sue tecniche più gettonate per ottenere favori, mascara waterproof di Yves Saint Laurent e appuntamenti con ragazzi più belli di JC, da cui si faceva corteggiare senza però concedere neanche un bacio sulla guancia.
“Sorellina!”
Ok, forse doveva ancora affinare la tecnica, perché dallo sguardo sospettoso di Hope immaginò di non esser riuscita a fare la vaga. Non era però da lei darsi per vinta, per questo continuò imperterrita: nessuna esitazione, Grace!
“Che ne diresti di accompagnarmi a prendere un gelato?”
Hope la guardò stranita per un istante, le sopracciglia aggrottate e un punto di domanda stampato nelle iridi chiare.
“Sorellina,” calcò ironica sulla parola, “questa è l’unica gelateria di Sequins e inoltre è di proprietà dei nostri genitori. Dove dovrei accompagnarti?”
Hope la guardò stupita qualche istante, gli occhi vacui ancora sgranati. A Hope faceva impressione.
“Hai ragione! Come sei intelligente!” La lusingò stralunata. “Allora non importa, siediti con me a quel tavolo laggiù! Devo chiederti qualcosa.”
Hope si lasciò trascinare fino al tavolo all’angolo, abbastanza lontano da JC, ma non troppo affinché Grace potesse controllare la situazione.
“Come faccio a farmi impollinare? Voglio dire, JC non è un’ape… È pur vero che potrei essere scambiata per un fiore tanto sono bella, ma…”
“Alt!” la fermò con una mano la sorella. “Di cosa stai parlando, Grace?”
“Di JC! Ha la peste, Hope! Come posso fare a non essere contagiata? E lui deve volarmi sopra? Ma avrà già imparato a volare oppure deve prendere lezioni?”
“Dimmi che non stai parlando di sesso…”
“Ovvio che sto parlando di quello! Non ti credevo così bigotta, Hope. Pensavo di poter parlare con la mia sorellona di cose tanto importanti e invece tu sei più imbranata di me! Non lo sai che il sesso serve a perdere peso? Io devo dimagrire! I miei fianchi stanno implodendo nella divisa da cheerleader e non posso permettermi distrazioni e se mangiassi di meno il topolino che abita il mio stomaco morirebbe di fame!”
Hope la guardava sconvolta e senza parole, incapace di spiegarsi dove si fosse nascosta tanto alacremente la sorella mentre Dio o chi per lui distribuiva i cervelli; forse in Paradiso c’era stata una svendita di Louboutin e si era persa il momento catartico. Sicuramente le sue scarpe tacco dodici erano più intelligenti di lei.
“Grace…” disse con calma. “La peste non esiste più da almeno un secolo. E tu non sei un fiore, JC non è un’ape e, cavolo, dubito che lui farà mai sesso con qualcuno munito di tette, per quante rachitiche siano!”
Grace la guardò confusa qualche istante, non capendo quale donna al mondo non avesse le tette. Non servivano a tutte per sparare panna dai corpetti colorati?
Osservò per qualche istante in silenzio JC, intento a fissare a propria volta un punto non ben precisato all’interno del locale. Provò a seguire il suo sguardo corrucciato e intercettò la figura sorridente di Chase Walker che fissava sognante un ragazzetto carino – lui sarà un’ape? – apparentemente più grande di loro.
Tornò con gli occhi su JC e si meravigliò di trovarlo alterato, ma poi un’illuminazione le giunse inaspettata. Chase non aveva le tette.
Ecco perché attirava così tanto gli altri uomini! Chase era una donna!

 

f

 

Salve a voi e a me con un ritardo di oltre un mese assolutamente imperdonabile, ma vagamente (molto vagamente!) giustificabile!
Vi ricordate ancora di me? Sono quella che parla in modo inquietante di api, fiori, membri maschili di nome Randy e cose folli del genere, senza un minimo senso :D
Sul serio, mi dispiace per l'alto tasso di non-sense di questo capitolo, ma avevo bisogno di scrivere roba del genere e se vi dovessi dire la seconda metà mi piace troppo, tanto è idiota XD Coop e Grace danno veramente il peggoi di loro e io li amo per questo. 
Allora come avrete notato questo è un capitolo di passaggio. Dal prossimo e cose cominceranno a muoversi, scopriremo il fantomatico compito di economia domestica - per il quale non smetterò MAI di ringraziare Giup per l'idea geniale xD - e torneremo a dare un po' di spazio alla povera Hope che negli ultimi capitoli ho un po' ignorato.
Spero comunque che il capitolo vi sia piaciuto e mi dispiace sia tanto corto, nonostante vi abbia fatto aspettare un mese, ma i capitoli di questa storia non credo supereranno mai le 5-6 pagine di word. Il motivo della mia lentezza è stata la concentrazione dovuta usare per finire Der Himmel über Berlin e l'aver iniziato un'altra storia (Cacofonia. Frammenti) molto più seria di questa ma a cui tengo molto molto di più. Spero comunque di non farvi aspettare sempre così tanto per un aggiornamento di Sequins ma credo che l'utopia di un capitolo a settimana sia finita :D Mi impegnerò comunque per non sforare mai di due settimane, però non posso promettere granché. A Ferragosto tra l'altro sto via dieci giorni, spero di riuscire ad aggiornare prima :)
Qualche nota al testo, tanto per fare la noiosa: il titolo è una parafrasi di un celebre film di Woody Allen, le labbra da trota di JC sono una citazione da Glee, in cui il Chord Overstreet interpreta Sam e viene preso appunto in giro per le sue labbra, e le tette sparapanna sono ovviamente quelle di Katy Perry. La canzone trash del capitolo è una canzone un sacco idiota degli anni '90 che ovviamente parla di sesso (uuh! you touch my tralala :D). Ah, mi stavo scordando, il latte di mucca annacquato è ripreso da una storia vera: una conoscente di mia madre è andata in India per farsi leggere le foglie di palma - sapete quelle cose che hanno scritta sopra TUTTA la tua vita? ecco quelle - e le hanno detto che era malata perché in un'altra vita aveva annacquato il latte di mucca per dare da bere al figlio. Per farvi capire la serietà della cosa XD
Bene, credo di aver detto tutto, ci sentiamo prossimamente e, se siete interessate, domani o dopo domani aggiorno sicuramente Cacofonia.
Baci,
Elle con i suoi fenicotteri e serpenti

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Capitolo 8
*** Problemi in famiglia. ***


a

 

A Emily e alla sua laurea,
al Martini rosato,
i tacchi alti,
i quiz musicali.
Mi mancate. 

 

8. Problemi in famiglia.

Canzone del capitolo.

Che quello sarebbe stato un anno particolare, JC lo aveva capito il primo giorno di scuola, mentre camminava al fianco di Simon nel corridoio principale del Sequins High: aveva sempre aspirato ad avere i denti dritti come le file degli armadietti e trovarli inclinati e ammaccati proprio al centro, in corrispondenza di quelli che dovevano essere i suoi incisivi, lo aveva sconvolto.
Oltretutto, la settimana prima dell’inizio dell’anno scolastico, una chiromante gli aveva pronosticato un futuro colorato – “quasi arcobaleno”, aveva detto – perciò aveva iniziato la scuola con un senso aspettativa piuttosto alto. Sperava in una borsa di studio per il football o che finalmente Grace smettesse di fare pressioni per il sesso. Forse avrebbe dovuto dirle che voleva aspettare il matrimonio, ma probabilmente lei avrebbe trovato il modo di sposarlo a sua insaputa. Su alcune cose era decisamente più furba di lui.
Stava ancora aspettando che qualcosa di nuovo accadesse, qualcosa che non fosse inerente agli agguati di Grace né alle cospicue prestazioni sessuali sconvenienti di Hope con lo sfigato né con il nuovo e sin troppo stimolante lavoro al Pink Flamingo. Era ormai ottobre e si sentiva sospeso in un limbo sin troppo avvilente, perché la routine del football, il lavoro e la scuola lo aveva stancato ancora prima che ricominciasse, il mese prima.
In quell’istante, per amor di precisione, stava aspettando seduto al banco in ultima fila dell’aula di Economia Domestica la professoressa Perky, la grassona rossa di capelli che meritava la sua simpatia solo per l’odio imperituro che nutriva nei confronti di Coop. Quest’ultimo era seduto tre banchi più avanti e blaterava con il piccoletto, gesticolando per aria come un pazzo, forse cercando di indovinare cosa sarebbe accaduto da lì a breve e a quale progetto avrebbe dovuto prendere parte.
Non aspettarono troppo, purtroppo, per scoprirlo: l’ignoranza sarebbe stata una culla più confortante dell’idea di dover affrontare tali compiti. La Signora Perky entrò in classe, come al solito priva di grazia e fascino alcuno, caracollando sui tacchi non più alti di cinque centimetri. JC fece una smorfia schifata e notò che sarebbe stato più femminile lui vestito di una tuta da meccanico piuttosto che la professoressa, ma non disse niente, limitandosi a fissare la nuca di Chase che invece ridacchiava a bassa voce.
“Bene, buongiorno a voi, piccoli pidocchi,” disse, con la solita gentilezza che la contraddistingueva, “la regola numero uno da ora in poi sarà: nessuno di voi avrà una vita indipendente da quella del proprio partner per i prossimi mesi. Quindi ora estrarrò i nomi e formeremo le coppie; non voglio sentire alcuna lamentela, nessuna recriminazione e se scopro che cercate di imbrogliare farò in modo che questo sia il primo di una lunga serie di Juniors Year.”
Coop sbuffò, sorridendo maligno a un ragazzo grosso il doppio di lui che sedeva al banco accanto. Chase scosse la testa divertito e allo stesso tempo preoccupato. Quella storia non gli piaceva affatto e aveva come l’impressione che qualche equilibrio stesse per saltare e sconvolgere le precarie certezze degli studenti del Sequins. Quando la professoressa parlò, ne ebbe la certezza.
“Ad ogni coppia verrà assegnato un neonato, sottoforma di bambolotto. Sono di ultima generazione, hanno bisogno di pasti regolari, che venga cambiato loro il pannolino, di dormire un certo numero di ore a notte e a pomeriggio. Dovrete passare le giornate insieme, come una famiglia e far quadrare i virtuali conti per mantenere vostro figlio. Il bambolotto avrà un nome, una data di nascita e due genitori amorevoli e presenti.”
Il silenzio era sceso sulla classe, mentre la Signora Perky parlava senza curarsi degli sguardi sbigottiti degli studenti. Coop avrebbe voluto ridere, ma si trattenne giusto in tempo prima di essere cacciato fuori dalla classe; Chase ad occhi sbarrati guardava il vuoto davanti a sé, pensando che era sempre stato contento del proprio orientamento sessuale per l’impossibilità di avere marmocchi che si svegliavano in piena notte e che vomitavano in giro per casa; Grace sorrideva con sguardo assente e si arricciava una ciocca di capelli tra le dita, pensando che in fondo poteva essere un bell’esercizio per quando di bambini ne avrebbe avuti con JC che, al contrario, sembrava terrorizzato alla sola idea di tenere in braccio un bambolotto.
“Bene, possiamo cominciare con l’estrazione.”
Quando infilò la mano nel sacchetto di plastica pieno di foglietti bianchi ripiegati, Chase tremò, Coop chiuse gli occhi e JC sperò ardentemente di non finire in coppia con Grace che sicuramente avrebbe trovato il modo per circuirlo, con la scusa di dare al loro bambolotto un fratellino o una sorellina.
“David Cooper.”
La voce della signora Perky era troppo chiara, troppo alta e troppo soddisfatta, come se già sapesse cosa quel semplice compito avrebbe messo in moto. Estrasse il secondo biglietto con un sorriso sadico in volto.
“… E Dana Turner.”
Una ragazza dai capelli castani e gli occhi grandi e verdi arrossisce sotto il suo sorriso malizioso e distoglie l’attenzione da lui, sorridendo imbarazzata.
La professoressa sbuffa, evidentemente intristita dal fallimento del suo piano di accoppiarlo con un qualche giocatore di football che avrebbe potuto spezzargli le ossa e infila nuovamente la mano nel sacchetto.
“Helena Ryder e Mark Prewett…”
“Grace Peterson…”
Grace guardò speranzosa verso JC che continuava a pregare qualunque dio gli venisse in mente di non essere il prossimo nome a uscire dalle labbra rinsecchite della Perky.
“… E Jeremy Cunningham.”
Un ragazzo magrissimo, con gli occhiali spessi come fondi di bottiglia e i capelli unti spiaccicati sulle tempi sorrise felice, mai stato così entusiasta di qualcosa in vita sua: lui che non aveva mai potuto neanche pensare di parlare con una cheerleader, ora sarebbe stato suo marito! Oltre ogni previsione, si disse imitando il tono della McGranitt, gonfiando il petto rachitico dell’orgoglio di poter essere finalmente qualcuno che conta.
La professoressa chiamò un altro paio di coppie, prima di arrivare a chiamare Chase; lui sorrise nervoso, incassando la gomitata incoraggiante di Coop che già si stava ingegnando a trovare un modo per sedurre la piccoletta con cui avrebbe.
“… E Jackson Cook!”
Il silenzio scese nella classe, nel momento in cui il ghigno sadico della signora Perky si indirizzò verso di loro. Si guardarono per un istante solo, prima di distogliere lo sguardo imbarazzati, increduli di fronte alla sfortuna che Chase era convinto si fosse accanita su di lui, ancora una volta. Non poteva far finta di essere sposato con JC, neanche per un fottuto compito di Economia Domestica; non voleva passare del tempo con lui né accudire uno stupido bambolotto né preparare le relazioni mensili alla classe; soprattutto non voleva farlo entrare in casa sua, per niente al mondo.
“Cazzo,” fu l’unica cosa che riuscì a dire, mentre Coop accanto a lui ancora non si era ripreso dallo shock e guardava sconvolto un punto imprecisato davanti a loro.
“Cazzo,” gli fece eco JC, dall’altra parte della classe.
Se c’era una cosa che Chase avrebbe dovuto capire già da settimane era che la routine non sarebbe mai più stata la stessa; al contrario JC l’aveva capito, ma non aveva immaginato catastrofi simili né colpi di scena così poco divertenti.
Come avrebbero convissuto per i prossimi mesi a stretto contatto?
Coop una riposta l’aveva: quei due si sarebbero ammazzati.

a

Casa di Chase era una graziosa villetta a due piani, a nord di Sequins; da meno di un anno era riuscito a guadagnarsi una stanza tutta per lui, non abbastanza lontana da quella dei gemelli, ma in cui comunque poteva sopravvivere in solitudine senza attentati ai suoi polpacci. Per fortuna non era uno di quei gay che amava i pantaloni corti sopra il ginocchio, altrimenti Lucy e Jamie avrebbero avuto troppa pelle da mordere a sangue.
Quando entrò in casa, quel pomeriggio, non poteva crederci che anche il sacro rito della svestizione in camera dopo la scuola, seguita da scrub e creme idratanti sul corpo – ogni parte del corpo – sarebbe stato rimandato al dopo cena: purtroppo quel pomeriggio non doveva badare solo ai gemelli, ma anche a un bambolotto, grande quanto un bambino di un pochi mesi, e a un giocatore di football tanto bello quanto idiota.
La professoressa Perky aveva infatti deciso che il compito non poteva aspettare e già il giorno dopo avrebbero dovuto consegnare un elaborato sul primo giorno da genitori.
“Qui c’è scritto che tu sei una casalinga e io porto i soldi a casa.”
JC non gli sembrava molto contento di questa situazione e del suo ruolo di donna di casa: troppi muscoli, troppo testosterone, troppo amore per il football.
“Sei tu quello con le tende rosa alle finestre,” rispose indicando la stoffa a fantasia fiorata che filtrava la luce del sole, “dovrei essere io il marito; magari pure uno violento, sai mi piacerebbe farti un occhio nero.”
Chase alzò gli occhi al cielo, già stanco delle lamentele dell’altro che da quella mattina non aveva fatto altro che minacciarlo e guardarlo male. JC non era mai stato tra i più violenti, non lo aveva mai picchiato né appeso per le mutande come spesso lo aveva visto fare con Jeremy Cunningham ed era stato anche piuttosto simpatico con lui, qualche settimana prima, quando si erano incontrati in spiaggia. Non aveva paura di lui, solo odiava dover passare i suoi pomeriggi in sua compagnia.
“Sì, sì, sono sfigato, sono una checca, mi vuoi picchiare, blablabla,” sbiascicò con poco interesse, “ora preferirei che usassi il tuo piccolo cervellino per aiutarmi con questa relazione piuttosto che per insultarmi nello stesso identico modo di sempre.”
JC ringhiò in modo poco elegante, Chase lo guardò con sufficienza qualche istante, paragonandolo a una rana dalla bocca decisamente troppo larga; forse assomigliava più a un formichiere ora che lo osservava meglio.
“Voglio chiamarlo Rocky.”
“Rocky?”
“Sì, Rocky. E Balboa sarà il suo secondo nome!”
“Ma non ci penso neanche! Il suo nome sarà Barbra, in onore di Barbra Streisand! Oppure Lady!” Rimase qualche istante in silenzio, pensieroso, poi continuò. “Oddio, Lady è perfetto! Lady Barbra Walker!”
“Rocky Balboa Cook!”
“No! Ho detto Lady Barbra! E avrà il mio cognome, sono io il padre! A proposito vai a riscaldare il biberon per la piccola Lady, ha fame.”
In quel momento JC si era reso conto che il bambolotto aveva cominciato a piangere e le sue guance si erano illuminate di rosso. Come dannazione aveva fatto Chase a capire che fosse solo fame?
“Fallo smettere di piangere, Walker, mi sta trapanando il cervello.”
“Quale cervello, Cook?”
L’altro imbestialito si alzò e si avvicinò minaccioso, tanto che Chase se lo ritrovò a pochi centimetri dal volto. Per un momento pensò che se lo avesse baciato, probabilmente sarebbe stato inghiottito, ma per fortuna non avrebbe dovuto subire tale affronto.
Chase alzò le mani in segno di resa, nient’affatto intimorito, se non per la salvezza della propria sanità mentale.
“Senti, dobbiamo riuscire a convivere pacificamente per qualche mese. Lo so, non voglio farlo neanche io, ma non abbiamo altra scelta e non voglio essere bocciato in Economia Domestica, l’avevo scelta come materia per imparare a cucire e cucinare, non per ritrovarmi con un bambolotto da dover crescere con un gorilla – senza offesa! Perciò troviamo dei punti di accordo: niente Rocky né Barbra. Che ne dici di Adelaine? Troppo antico? Costance? Selene è un nome da pornostar, ma mi piace molto, sai, mi ricorda Sailor Moon…”
“E se fosse un bambino?”
“Scordati che mio figlio giocherà mai a football, Cook!”
L’altro sbuffò, sibilò qualche imprecazione tra i denti e poi si arrese. “Bambina, ma nessun nome di icona gay.”
“Cavolo, devo depennare dalla lista anche Gloria e Madonna…”
“Volevi chiamare nostra figlia Madonna? Cavolo, Walker, tu sei davvero malato…”
Chase non fece neanche caso al fatto che stavano parlando di un bambolotto con l’appellativo di “figlio”, o forse preferì ignorarlo e continuare quel battibecco che stava assumendo connotazioni surreali e divertenti.
“Ok, vada per un nome più sobrio. Cosa consigli, mister eterosessualità?”
“Angelina? Scarlett? Jennifer?”
Ci pensò su qualche istante, camminando avanti e indietro per la stanza, poi si bloccò come folgorato da un’illuminazione improvvisa. “Joey! Come Joey Thomas dei Raiders!”
“È una bambina, quindi sarà Joey, come Joey Potter di Dawson’s Creek.”
JC rivolse uno sguardo d’amore al bambolotto che ancora piangeva per l’assenza di cibo, con le guance intermittenti e gli occhi sbarrati. “Come preferisci, Walker. Sarà sempre il mio bambino.”
A Chase sembrò quasi commosso.

a

Coop non poteva crederci: aveva incontrato la donna più bella del mondo, solo pochi minuti prima dell’uscita dalla scuola, proprio davanti al portone. Gli era andato contro, sbattendo contro una sua spalla e facendole cadere di mano i numerosi libri e fogli sparsi che si portava dietro; aveva alzato lo sguardo scocciato su di lei, mentre si abbassava per aiutarla a raccoglierli e Cupido aveva scoccato la propria freccia.
Bionda, bella, magra, sbatteva le ciglia lunghe nella sua direzione. La più bella donna mai vista, senz’alcun dubbio. Le aveva sorriso accattivante, tirandosi su il colletto della polo, come gli era stato insegnato dal suo maestro Fonzie, e poi aveva sfiorato vago una sua mano.
“Mi scusi,” aveva sussurrato, “lasci che la aiuti.”
Le era sembrato di vedere la professoressa arrossire, ma non avrebbe potuto dirlo con certezza, perché un ciuffo di capelli biondi era scivolato fuori dalla treccia e si era posato davanti al suo viso.
“Non le sembra una scena di un film? Insomma, incontrarsi così…”
Forse quella frase non era stata una buona idea: troppo sfacciata, troppo diretta, troppo da lui. La professoressa infatti si era alzata di corsa, rossa in volto e indignata, mostrandogli la perfetta panoramica delle sue gambe lunghe e se n’era andata, dandogli la possibilità di ammirare anche il suo sedere.
Aveva appena raccolto l’ultimo libro che lei non aveva fatto in tempo a recuperare, troppo impegnata a fuggire via – o forse era solo una scusa per poterlo rivedere in un luogo più nascosto? – quando gli era arrivata la strana chiamata di Hope.
“Vieni subito qui.”
Sembrava arrabbiata, ma più arrabbiata di quando lui faceva qualcosa di stupido.
“Devo ancora uscire da scuola.”
“Non mi interessa niente, alza quel tuo fottuto culo e vieni a casa mia, adesso.”
“Mi ecciti dquando fai così…”
“Niente sesso se non arrivi nei prossimi dieci minuti.”
“Dieci minuti? Ma se abiti dall’altra parte della città!”
“Ingegnati.”
Aveva attaccato così, con una minaccia neanche troppo velata nella voce e infondendogli il terrore di rimanere a stecchetto a vita.
Per questo in quel momento stava entrando di corsa dalla scala a pioli posta sul retro di casa Peterson e balzando nella stanza da letto di Hope, con l’aria sensuale che gli piaceva assumere ogni volta che faceva quel saltello goffo. Un modo come un altro per non sentirsi un cretino a fare il Joey Potter della situazione, perché ultimamente la sua vita sembrava la copia esatta di Dawson’s Creek e lui, finché poteva, preferiva differenziarsi il più possibile da quell’orrido telefilm.
I suoi pensieri omicidi sugli abitanti di Cape Side erano piuttosto frequenti, da quando conosceva Hope. Una volta avevano fatto sesso anche in una barca ormeggiata al porto ed era piuttosto sicuro di aver letto sul fianco di essa la scritta True Love. Non si era più avvicinato al porto neanche per sbaglio, nonostante le rimostranze di Hope che adorava questi strani posti.
Si guardò intorno, stupito di non trovarla sul letto già nuda come aveva fatto la volta precedente, chiedendosi dove si fosse cacciata. Sentiva delle voci al piano di sotto, sicuramente i genitori, e sperava di non dover affrontare l’ira di qualche padre furioso per aver violato le virtù della sua unica figlia – che non era davvero l’unica, ma l’altra non sembrava poter creare problemi di quel tipo, dato la natura palesemente omosessuale del fidanzato.
Si sedette sul letto, qualche minuto, in attesa, dopo essersi tolto la maglietta. Adorava sfoggiare il suo tatuaggio sul petto e anche Hope adorava guardarlo – o almeno così pensava lui, dato che i complimenti che uscivano fuori dalle sue labbra erano pari a zero. Però notava sempre i suoi occhi soffermarsi lì più del necessario e non pensava potesse fissare altro, a meno che non fosse stata una fissata di pelli lisce e vellutate, che comunque lui non aveva.
Ma il punto era un altro, non il suo tatuaggio. Il punto rimaneva sempre lo stesso: Hope non era in stanza e la sua pazienza rasentava i minimi storici normalmente, quel giorno non faceva eccezione, soprattutto perché si era scapicollato per arrivare in tempo e non dover rinunciare al sesso troppo a lungo.
Era strano il rapporto che si era instaurato tra loro, fatto di scherzi, battute acide, tanto tanto bellissimo e soddisfacente sesso e un rispetto che Coop non provava neanche per Victoria, ma che non poteva fare a meno di riversare su una ragazza con la mentalità di un uomo, o meglio con la sua stessa mentalità: niente legami, solo divertimento.
Si era risparmiato così lacrime e strappi di capelli, risse con fidanzati gelosi convinti che lui avesse circuito le loro dolci e ingenue donzelle in difficoltà, schiaffi a cinque dita e pure qualche pugno, come quello che aveva ricevuto da una certa Sarah – o Shona o Sandra – un paio d’anni prima.
Aveva avuto paura di rimanere sfigurato, ma tutto era andato per il meglio e finalmente aveva incontrato Hope: libertà, sesso, nessun’esclusiva.
Alla fine però non aveva avuto bisogno di trovarsi altre ragazze di scorta, perché si divertiva abbastanza con lei senza dover faticare il triplo a nascondere relazioni clandestine alla gente intorno a lui. Il massimo della pacchia, Hope Peterson era diventata senza dubbio la sua ragazza ideale, se mai ne avesse avuta una.
Era ancora seduto sul letto, intento a spogliarsi anche delle scarpe, quando sentì le voci dei signori Peterson alzarsi e iniziare a urlare.
La mossa più furba sarebbe stata rimanere fermo dov’era, al massimo rivestirsi e uscire dalla finestra e fare il tragitto inverso fino a casa, oppure fino a casa di Chase per prenderlo ancora in giro per il compagno del progetto di Economia Domestica che gli era capitato, sempre sperando che lui fosse stizzito dalla cosa quanto lo sarebbe stato lui…
Si alzò quindi, scalzo e senza maglietta, e aprì piano la porta della stanza, uscendo quando vide la via libera.
Le voci parlavano di eiaculazioni – o separazioni – non ne era certo e non ci sentiva troppo bene da quella distanza, non abbastanza per riconoscere le parole, comunque. Volle avvicinarsi e quindi si avviò alle scale, attento a non fare rumore o sbattere contro qualcosa. Arrivato al primo gradino però si accorse di una ragazza bionda poco più in basso che gli dava le spalle, vestita di una camicia da notte gialla leggera e appoggiata al corrimano.
Sembrava triste.
“Hope?” Chiamò, già pronto a lamentarsi di non averle mai visto prima addosso quel pigiama sexy.
La ragazza si girò e piantò i suoi occhi chiari nei suoi, per poi asciugarsi le lacrime di fretta dalle guance, rimanendo a bocca aperta e senza riuscire a emettere un solo suono.
Coop non aveva mai visto una ragazza piangere: aveva imparato presto a scappare in tempo per evitare quella fase dell’abbandono – ma non quella della rabbia – quindi si era sempre salvato da situazioni simili.
Non aveva mai pensato però che una ragazza in lacrime potesse apparire ugualmente così bella.
Scese i due gradini rimasti e, mentre la signora Peterson urlava al marito che voleva il divorzio, prese per mano la ragazza e la portò nella stanza da cui era uscito.
Grace si lasciò condurre.

a

Ok, chiedo venia, davvero, scusate, scusate, scusate!
E' una vita che non aggiorno, ma ultimamente sono un po' demotivata da tutto quanto e quindi sto scrivendo poco - o meglio, sto scrivendo tanto ma di cose inutili.
Comunque non sono sparita e non ho intenzione di abbandonare Sequins, solo che vado un po' a rilento.
Scusate davvero tanto.
Comunque qui finalmente si scopre il compito di Economia Domestica e finalmente quei due scemi di JC e Chase saranno costretti a stare un po' a contatto :D
Spero che il capitolo non sia risultato troppo noioso, so che non è divertente come gli altri, spero di riprendere un po' di verve in futuro xD
Vorrei ringraziare per questo capitolo butterphil, perché sia l'idea del bambolotto che la scena dei libri con la professoressa sono state cose che mi ha ispirato lei, come anche una nuova idea per lo sviluppo della trama che prima o poi scoprirete.
I capitoli non dovrebbero essere più di venti, secondo i miei calcoli diciassette o diciotto, ma non assicuro niente, perché potrei cambiare qualcosa in corso d'opera. Non siamo neanche a metà, ma spero di essere più veloce, davvero.
Spero mi perdonerete per il ritardo e vorrete leggere comunque e spero che vi sia piaciuto nonostante tutto.
Qualche nota tecnica: Rocky Balboa credo lo conosciate tutte, è il personaggio della serie di film Rocky; Barbra Streisand, Lady (Gaga), Gloria (Gaynor) e Madonna sono quattro icone gay; Joey Thomas è un giocatore di football niente affatto famoso che ho trovato random su wikipedia, Joey Potter è la protagonista di Dawson's Creek, nominata anche in seguito da Coop; Cape Side è il luogo dove è ambientato Dawson's Creek e True Love è la barca di Paecey su cui viaggiano lui e Joey un'estate; sempre a proposito di Dawson's Creek, la canzone del capitolo è la mitica sigla ANAUANOUAI.
Credo di aver detto tutto, spero davvero di non farvi aspettare ancora così tanto; nel frattempo potete trovarmi QUI,
baci Elle. 
Ps: scusate eventuali orrori, ma il capitolo come al solito non è betato e io ho poca pazienza nel rileggere. 

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Capitolo 9
*** Festa di Halloween ***


s

Al trash,
che è ovunque
e non ci abbandona mai
anche se io
mi dimentico di loro. 

9. Festa di Halloween 

Canzone del capitolo

Chase odiava le feste organizzate dal Sequins High: il ballo di fine anno, il ballo di Sadie Hawkins, la festa dell’Homecoming e quella dopo la prima dello spettacolo annuale del club di teatro. Ma ce n’era una, una sola, a cui non avrebbe mai rinunciato, neanche se l’alternativa fosse stata lui, John, una baita e un caminetto acceso.
Halloween.
Per questo aveva contato con ansia e aspettativa crescente ogni giorno e minuto che arrivasse anche quell'anno il trentuno ottobre. Esattamente, lo aveva aspettato per trecentosessantaquattro giorni, dodici ore e quattordici minuti, quanti ne erano passati dalla festa dell’anno precedente. Aveva già pronto il costume, aveva comprato tutto l’occorrente per sé e i suoi amici: ora doveva solo convincere Victoria e Coop ad assecondare il suo folle progetto di costume coordinato.
“Assolutamente no!”
Chase sapeva che lo zoccolo più duro da convincere sarebbe stata Victoria che già si vedeva nel suo solito, vecchio e logoro vestito da Cleopatra.
“Dai, Vic! Non è che visto che hai il caschetto e i capelli neri non puoi vestirti in nessun altro modo! È ora di cambiare! Diglielo anche tu, Coop!”
Coop sembrava interessato a guardare qualcosa oltre le sue spalle, qualcosa che sicuramente aveva un paio di gambe lunghe e i capelli biondi.
“Cosa?”
“Mi rifiuto di vestirmi da…”
“Shhh! Non urlare! Nessuno deve scoprire il nostro costume!”
Coop li guardò perplesso qualche istante, indeciso se ridere o fuggire a gambe levate dall’ennesimo battibecco.
“Ho già tutto ciò che ci serve, non dovete pensare a niente. Dovete solo venire a casa mia un paio d’ore prima della festa ed esercitarvi nelle vostre espressioni e mosse di danza.”
“Preferisco venire nuda, Walker! Io quella là la odio!”
Coop fece un passo indietro, provando a defilarsi, giusto il tempo di cercare Hope per una sveltina nel bagno del secondo piano, ma Victoria lo vide e lo afferrò con forza per un braccio.
“Non provare ad allontanarti da qui, Cooper! Questo supplizio toccherà anche a te!”
“Dai, Vic, non farla tragica. Siamo uno splendido trio, adatto a…” La rimbeccò Chase.
“Adatto a un ca…”
“Vic!”
“A un capello pubico di una donna dalla bassa autostima!”
Chase la guardò perplesso qualche istante, prima di allontanarsi.
“Perfetto, sapevo avresti capito. A stasera, mi raccomando puntuale!”

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A casa Peterson, negli ultimi giorni, si respirava un’aria tesa e poco salutare, tanto che Grace ne poteva sentire gli effetti negativi sulla pelle. La sua paura principale era che la sua fronte si raggrinzisse e le sue guance cadessero, nonostante Hope le aveva spiegato almeno tre volte, prima di lasciarla davanti allo specchio a farsi maschere su maschere, che quelle cose accadevano con l’età. Ma Grace non riusciva a smettere di pensare che stava invecchiando, se i suoi genitori avevano smesso di stare insieme. D’altronde si sa che i guai non vengono mai da soli e, peggio di un imminente divorzio, poteva solamente esserci dimostrare vent’anni invece di sedici.
Quel pomeriggio suo padre era andato via sbattendo la porta, dopo una discussione di dieci minuti bisbigliati in cucina. Hope l’aveva fatta chiudere in stanza ed era rimasta con lei a cercare qualcosa da indossare alla festa della sera, poi era fuggita, forse per vedersi con quello strano ragazzo inglese basso e brutto. Il suo JC era molto più bello e muscoloso, però ancora non era riuscito a chiuderlo nello stanzino delle scope: quella mattina ci aveva provato, ma era inciampata su un rastrello e si era ritrovata con un livido al centro della fronte che ora stava tentando di coprire con del correttore di tre gradazioni più scure della sua pelle.
Quando finì con il fondotinta e l’eyeliner, infilò la parrucca scura che legò in una treccia alta: si rimirò allo specchio e si disse piuttosto soddisfatta dei suoi pantaloncini corti e toppino e dei coltelli e pistole infilate nell’infilabile.
Sapeva che con quel travestimento finalmente sarebbe riuscita a far capitolare JC: sarebbe stata la sua donna ideale, quella che avrebbe voluto sposare e che avrebbe portato via a metà festa, per cogliere finalmente il suo fiore.
Mancava solo una cosa…
Quando JC, vestito da un affascinante Brad Pitt, entrò, per poco non gli prese un colpo. Davanti a lui, vestita da Tomb Raider, c’era quella che un tempo doveva essere Grace, con gli occhi a palla e le labbra all’infuori.
“Oh, ‘shao ‘sh, ‘shno ‘onta.”
Sarebbe stata una notte molto lunga.

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La palestra del Sequins High era addobbata in modo impeccabile. L’organizzazione dell’evento aveva dato il meglio di sé, decorando lo spazio con ragnatele finte, zucche, ragni e quant’altro; il cibo era a tema, i vassoi pieni di occhi di rospi e code di salamandra di cioccolata e pasta di zucchero.
Hope, nel suo costume da Marilyn Monroe, gongolava contenta per il successo: in ogni angolo della grande sala, sotto le luci stroboscopiche, ballavano ragazzi e ragazze, in coppia o a gruppi, sorridenti e mascherati. Da dove si trovava riusciva a riconoscere una sposa cadavere, una guardia svizzera, Pollon e Hulk. Simon, accanto a lei, continuava a blaterare sulla partita della settimana successiva, inguainato nella propria divisa del football.
Hope per poco non lo aveva cacciato dalla palestra, quando lo aveva visto vestito come lo era almeno quindici giorni al mese. Non era una vera maschera, si era lamentata, ma Simon l’aveva rabbonita con vari complimenti per la perfetta riuscita della festa. Aveva notato l’assenza della sorella e JC, che aspettava con ansia, troppo curiosa di vederli vestiti da coppia d’oro di Hollywood, e anche quella di Coop, in ritardo come sempre. Non c’erano neanche i suoi due amici strani, quindi probabilmente sarebbero arrivati a momenti, insieme: forse Walker aveva passato troppo tempo davanti allo specchio, nel tentativo di truccarsi da Lady Gaga.
Quando JC e Grace entrarono dalla porta della palestra, non erano soli. Varcarono l’ingresso proprio insieme al trio più strano che avesse mai visto. Non riusciva a credere che anche in un’occasione come quella, Chase fosse riuscito a convincere Coop a vestirsi come voleva lui.

“Io ti odio, Chase Walker,” brontolò Coop, allisciandosi le pieghe del miniabito su cui era disegnata la Union Jack. Chase si avvicinò a lui sorridendo e sistemandogli la parrucca rossa sulla testa, poi lo spinse dentro la sala, controllando che Victoria non scappasse.
“So che non è vero e in realtà sei fiero del tuo vestito britannico! Non avrei mai detto che avessi uno stacco di coscia così attraente, sai?”
Victoria accanto a loro rimaneva in silenzio, tentando di mimetizzarsi con il muro alle sue spalle. Sarebbe stato più facile se non avesse indossato un paio di pantaloncini e top leopardati e una parrucca afro munita anche di corna. L’unica sua speranza era quella di non essere riconosciuta sotto i tre strati di fondotinta scurissimo.
Si era resa conto, come se non lo avesse già immaginato, che tutti li stavano fissando. Gli sembrava di essere in una di quelle scene da film in cui la protagonista entra in una sala ed è così bella che anche la musica si ferma. Invece lei si sentiva l’attrazione principale di un circo, illuminata al neon da una freccia gigante che indicava la sua persona e i suoi amici, nella perfetta imitazione di un palco calcato dalle Spice Girls negli anni '90.
“Walker, questa me la paghi.”
Sibilò prima di avvicinarsi al buffet e affogare il naso in un bicchiere di punch corretto con vodka.

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JC era entrato proprio dietro a Chase, ma non aveva avuto la forza di alzare lo sguardo sul suo sedere lasciato quasi completamente scoperto. Non sarebbe stato in grado di affrontare improbabili protuberanze proboscidee ad altezza critica, non con Grace che aveva tentato più volte di lasciargli un gigante segno rosso sul collo con le sue labbra a ventosa.
Inquietante. Non sapeva come potesse essere possibile, ma quella ragazza era sempre più inquietante.
Doveva trovare una soluzione alle sue voglie, altrimenti sarebbe impazzito ancora prima di compiere diciassette anni. Quando raggiunse Hope, che salutò appena, e Simon che si complimentò per la sua somiglianza con Brad Pitt, riuscì a lasciare Grace alla sorella e ad allontanarsi per respirare un po’ d’aria lontano dal suo imminente attacco isterico.
Chase lo seguì con lo sguardo per trecentosessanta secondi, mentre si avvicinava al dj e poi al buffet per versarsi da bere. Non era riuscito a staccargli di dosso sin dal momento in cui aveva notato il suo travestimento: non sapeva se era possibile, ma qualcosa in lui lo rendeva molto più sexy di Brad Pitt. Aveva notato però che JC aveva evitato il suo sguardo fino a quel momento, perciò non aveva neanche provato a salutarlo da lontano.
I rapporti tra loro erano ancora tesi, nonostante la presenza del loro bambino da. Era impegnativo occuparsi di lui, dargli da mangiare e tenere conto delle spese e JC non lo aiutava per nulla in quello. La piccola Joey era abbandonata a se stessa, quando era l’altro a occuparsene: il massimo che riusciva a fare era tentare di insegnargli a prendere il pallone da football, con evidenti scarsi risultati. Se anche suo padre aveva fatto lo stesso con lui, Chase pensava di aver capito il motivo della sua stupidità.
Aveva già perso di vista Coop, infrattatosi con chissà chi, chissà dove, e Victoria, già brilla e abbracciata a Kenneth, vestito da gentiluomo dell’Ottocento. Chase perciò era solo, in un angolo della sala, che cercava di seminare Jeremy Cunningham e la sua puzza di topo morto. Quello però continuava a cercarlo e seguirlo, senza demordere. Aveva provato ad attaccare bottone, a fingersi ubriaco cadendogli addosso, a parlare del suo travestimento.
Quando si avvicinò ancora, pensò quasi di alzare per le prime volte le mani contro qualcuno, a costo di rompersi un’unghia, ma una voce li interruppe.
“Cunningham, vai a farti un giro,” borbottò JC, alle loro spalle. “Bel vestito, Walker. Victoria era la mia Spice Girl preferita.”

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Hope aveva perso di vista Coop da tempo immemore e barcollava da una parte all’altra della palestra alla ricerca della sorella, sparita anche lei, come JC. Sperava l’amico non avesse bevuto così tanto da fare qualcosa di cui si sarebbe potuto pentire: nonostante ritenesse Grace poco attraente per gli standard di famiglia, poco aggraziata in confronto a lei e troppo -  veramente troppo – stupida, si preoccupava per lei e di quello che avrebbe potuto significare per lei perdere la verginità con JC. Che era bello, davvero bello, ma che Hope dubitava avrebbe mai guardato una donna come lo aveva visto ammirare il sedere di Chase Walker. Non male, neanche il ragazzino, ma forse troppo esuberante per un tipo come JC.
“Hope?”
La ragazza si girò verso la voce di Simon alle sue spalle e nel movimento brusco gli inciampò addosso, cadendo diretta tra le sue braccia. Forti braccia da giocatore di football.
“Ti faccio addirittura quest’effetto?” Rise il ragazzo.
Hope si allontanò velocemente, allontanando le mani dai suoi bicipiti che stava palpeggiando senza vergogna.
“Originale il costume…”
“Bello il tuo.”
Scrollò le spalle, come per dirgli di stare zitto e si guardò intorno. Era ubriaca e aveva voglia di Coop. O forse aveva voglia di un letto, un altro bicchiere di vodka e qualcuno in posizione orizzontale sopra di lei. O un muro e la posizione verticale, non che gli cambiasse molto. L’unica costante della sua fantasia rimaneva la vodka.
“Chi cerchi?”
“JC,” mentì. “Mi aveva promesso un ballo su questa canzone.”
Il dj aveva appena cambiato disco e la canzone riecheggiava tra le pareti della palestra, mentre ragazzini in piena tempesta ormonale e dai gravi problemi di coordinazione motoria agitavano braccia, bacini, gambe e capelli in aria, senza alcuna logica. Simon si guardò intorno, schifato, per poi notare Victoria e Kenneth poco lontani, decisamente fuori sincrono con la musica, che per poco non si mangiavano la faccia a vicenda.
“Sono più bravo io di JC a ballare.”
Hope non poté negare quella realtà incontrovertibile: JC era tanto bello quanto imbranato sulla pista. Annuì, annoiata e sbilanciata sui tacchi alti, con gli occhi pesanti per la sbronza, pur mantenendo sempre una certa dignità, e si lasciò trascinare sotto al palco da un Simon decisamente troppo entusiasta.
Era difficile per lei capirci davvero qualcosa: sentiva la testa pulsare e i piedi dolere, ma Simon profumava di buono e di menta, al contrario di Coop che portava sempre addosso la puzza dello scadente tabacco che fumava; si muoveva bene e le sue braccia erano forti e muscolose e la toccavano sui fianchi quasi con delicatezza. Era vicino, mentre ballava contro di lei, dietro di lei. Ed era dannatamente bravo.
“Boom, boom, boom…” Canticchiò Hope, senza pensarci, forse biascicando.
“I want you in my room,” proseguì Simon e lei pensò che non ci fosse niente di male a spostare un po’ il collo per farsi baciare sotto l’orecchio.
Hope rise e si girò coprendo entrambi con la sua massa disordinata di capelli. Guardava per terra, con sguardo da cerbiatta smarrita. Sapeva che gli uomini lo adoravano, Coop non riusciva mai a resisterle, ancora più che quando si incazzava.
Sorrise sulle sue labbra quando le sentì sulle proprie e ricambiò il bacio.
“Let's have some fun, what I want is me and you.”
Si fece trascinare senza problemi fuori dalla palestra.

 

 

OOOOPS [cit.]
Chi si rivede? :D
Non sono un miraggio! (credo...)
Sono tornata, non so per quanto! Non posso promettervi aggiornamenti regolari da ora in poi, ma spero neanche così radi... 
Mi dispiace tantissimo, ho avuto taaaanti problemi di ispirazione per questa storia (come per altre) e devo essere nel mood giusto per i miei Sequinsiani. Mood che non è stato molto presente negli ultimi *tantissimi* mesi.
Nel capitolo non succede granché, in realtà perché non doveva finire così, ma visto che i capitoli di questa storia sono corti ho preferito lasciarlo così in linea con gli altri e lasciarvi in sospeso :D
Le cose stanno cominciando a muoversi per il verso giusto (giusto per chi? XD) perciò prima o poi tornerò per raccontarvi altro di questi poveri scemi.
Intanto mi scuso ancora e vi bando tanti baci!
Elle 
“Oh, ‘shao ‘sh, ‘shno ‘onta.” significa "Oh, ciao JC, sono pronta" :D

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