La danza del sole

di chaplin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Io, John ***
Capitolo 2: *** Reg ***
Capitolo 3: *** Mike ***



Capitolo 1
*** Io, John ***


A Isabella

 

 

Il mio nome è John London.
Non come lo scrittore. Lui si chiamava Jack. Come il tipo del fagiolo.
Inizierei con l'offrire dei dati salienti sul mio conto, partendo dal
fatto numero uno, ossia la prima cosa che mi ha fatto notare Reginald (che d'ora in poi preferirei denominare con un breve, conciso e rispettoso “Reg”) quando ci siamo incontrati per la prima volta: sono un tipo molto alto. Un metro e ottantanove, a essere precisi.
A dodici anni ero già un bel tipo alto un metro e ottantadue. Senza contare i sette millimetri. Sapete, non vorrei risultare
pignolo. L'ho promesso a Reg. “Non sarò pignolo,” gli ho giurato. Dovevo avere dodici anni, quando gliel'ho detto, perché già mi pareva di superarlo di una spanna intera – che nel mio caso corrisponde a ventisei centimetri virgola tre, anche se in realtà dipende dalla mano; io sono un tipo dalle dita abbastanza lunghe, quindi non posso dire niente.
Reg, comunque, mi ha sempre raccomandato di non essere troppo pignolo, perché potrei offendere le persone. Mi sono sempre chiesto perché la pignoleria possa essere offensiva. In fondo, una cosa meglio è fatta e più la si apprezza. No?
Il
fatto numero due consiste in un'altra cosa che Reg ha notato di me: ripeto spesso alcune parole.
Ad esempio, menziono la parola “tipo” nel 57,3% delle frasi che pronuncio.
Mi è sempre piaciuta quella parola. Raccoglie in sé tantissimi significati. Me l'ha insegnata Mike. Avevamo tipo otto anni, ai tempi.
Mike in realtà detesta la parola “tipo”, almeno così mi dice, però finisce sempre per dirla in continuazione.
Una volta gli ho chiesto come mai dicesse per così tante volte una parola che tanto detestava. Doveva essere tipo settembre, quindi poche settimane dopo che ci eravamo rivisti. Lui mi ha guardato per un momento, ha rilasciato un lungo sospiro e mi ha detto: “Abbiamo tutti dei vizi, Johnny. Cerchiamo di toglierceli di torno, ma quelli finiscono sempre per incastrarci di nuovo. Un po' come il fumo per i fumatori.”
“Cosa c'entrano i fumatori?” gli ho chiesto, ma lui ha alzato gli occhi al cielo ed è tornato a leggere.
Il
fatto numero tre consiste in un'altra cosa ancora che Reg ha notato di me e di cui sono ben cosapevole: mi piace la cultura, la storia e tutto quel che riguarda i nativi americani.
Gran bei tipi, i nativi americani.
A detta di Reg, dei miei genitori, di Mike, di Phyllis e di tutti i miei parenti (ramo materno e ramo paterno), ne sono totalmente ossessionato. A me non sembra. Ne sono semplicemente appassionato, tutto qui.
Posso dirvi di tutto sui nativi americani. Non saprei nemmeno da dove iniziare. Da piccolo adoravo i Cheyenne. Sapete chi sono i Cheyenne? Non intendo la città, intendo proprio
i Cheyenne, il popolo. Sono dei tipi incredibili. Sono stati un'ardita – Reg mi ha insegnato questa parola; trovo si adatti perfettamente a un po' tutte le tribù di nativi – popolazione derivante dal ramo degli algonchini – tipi simpatici pure gli algonchini. Hanno avuto a che fare con vari modi di vivere e di sopravvivere, hanno avuto e hanno tuttora una cultura basata su una grande tendenza a previlegiare i rituali e le cerimonie spirituali, sono stati nomadi e coltivatori, ma anche cacciatori e lottatori. Arditi, assolutamente arditi.
Un episodio relativo ai Cheyenne che da piccolo mi aveva impressionato molto e di cui ancora oggi parlo spesso è il massacro di Sand Creek, avvenuto nel 1864, quando i soldati statunitensi dal Colorado hanno fatto una completa strage in un villaggio. Molte delle vittime erano soprattutto donne e bambini, credo che sia stato proprio questo a colpirmi. Reg mi ha detto che è normale che queste cose ci colpiscano; se ne rimaniamo immuni, con molta probabilità siamo noi ad avere problemi.
Quando abitavo ancora a Dallas, correvo sempre nel giardino di casa, mi arrampicavo sulla vecchia quercia con il viso dipinto di rosso e fingevo di essere un cheyenne – ai tempi ero già un tipo bello alto, e anche altrettanto robusto; quanto basta per essere convincente.
Ricordo che ai miei genitori non piacevano i miei passatempi in giardino, soprattutto a mio padre.
Ogni volta che mio padre mi vedeva appollaiato su un ramo, diventava paonazzo, urlava e mi raccomandava di scendere, altrimenti mi prendeva e mi faceva a pezzi. Obbedivo sempre perch
é, avendo presente che in casa avevamo un'accetta, non desideravo di certo morire in una maniera tanto sanguinosa.
Vorrei parlarvi anche su Cavallo Pazzo, sui Cherokee, su Geronimo, ma meglio se rimando il tutto a un'altra volta. Reg mi ha sempre detto di non parlare mai sullo stesso argomento per più di cinque minuti, perché il suddetto argomento potrebbe non interessare molto all'interlocutore – anche se è una cosa del tutto improbabile; i Cheyenne sono così interessanti, ci sono almeno un altro migliaio di cose che potrei raccontarvi sul loro conto, ma questa considerazione si estende un po' su tutti i nativi americani.
Quindi, penso che la lista dei fatti possa concludersi qui. Avrei molte altre cose da dire su di me, peccato che non sappia da dove iniziare né tantomeno cosa dire di preciso. Potrei parlare di come in realtà non sono americano bensì inglese e di altre cose del genere quali la mia scarsa padronanza con la bicicletta, i miei piatti preferiti, la mia grande passione per i libri storici e la matematica, il lieve fastidio che provo nei confronti del disordine e via dicendo.
Tuttavia, niente di tutto questo ha una particolare rilevanza. Niente che vi possa interessare, al momento.
Magari di alcune di queste cose ve ne parlerò più in avanti, ma per il resto non c'è davvero nulla di interessante da sapere.
Dico sul serio.





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Capitolo 2
*** Reg ***


 

 

 

Reg

 

Ho incontrato Reg tipo il 24 settembre del 1993, alle cinque e ventitre del pomeriggio.
Mancavano precisamente un mese e tre giorni al mio dodicesimo compleanno e avevo ufficialmente lasciato la scuola da quindici giorni. Ricordo anche le varie spiegazioni che mi hanno dato i miei genitori in quell'occasione, che erano perlopiù frasi tipo: “Troviamo che un differente metodo di apprendimento e un... certo cambiamento d'ambiente... possa esserti
molto più... di beneficio, non so se capisci cosa intendiamo”, “Lo stiamo facendo per il tuo bene, Francis. Non so se capisci cosa intendiamo” o anche “In fondo non ti piaceva andare a scuola... Non è vero, Francis? Non so se capisci cosa intendiamo” e tante altre cose di questo tipo che finivano per quattro volte su cinque con la frase “Non so se capisci cosa intendiamo”.
Non hanno fatto altro che chiamarmi “Francis”, quella volta.
Mi chiamano “Francis” quando sta per succedere qualcosa che potrebbe cambiare radicalmente le mie abitudini quotidiane (una cosa che mi dà assai fastidio, se devo esser sincero), oppure dopo aver avuto un colloquio con un insegnante. Poi mi chiamano “Johnny” quando devono dire qualcosa per lusingarmi – “Oh, Johnny, siamo davvero fieri di te!”. Invece, quando mi chiamano “John Francis Lancelot London”, lo fanno per sgridarmi. “John Francis Lancelot London, scendi
subito da quell'albero o ti faccio a pezzi!”. Mai che mi chiamino “Lancelot” e basta, però.
Comunque, avevo appena lasciato la scuola e mancavano tipo un mese e tre giorni al mio dodicesimo compleanno.
Quando i miei mi hanno chiamato, io stavo tipo giocando in giardino.
Reg stava seduto sul tavolo della cucina assieme a mio padre. Era un tipo dai capelli ricci e scuri che indossava un maglioncino di lana e portava al collo un lungo sciarpone colorato; teneva la guancia appoggiata al palmo della mano destra mentre guardava fuori dalla finestra, teneva le estremità della bocca lievemente alzate. In generale, somigliava molto al tipo con la sciarpa di Doctor Who, non so se avete presente. Il Dottore, intendo. Che tipo, il Dottore.
Non sembrava stesse prestando molta attenzione a quello che stava dicendo mio padre. Forse stava guardando qualcosa di divertente, come una carovana di mormoni alla ricerca della terra promessa o una corsa equestre.
“Ah, Francis!” ha esclamato mio padre, tipo voltandosi. “Questo è...”
“Reginald Cunningham, nato il due agosto millenovecentosessantanove a Tulsa, Oklahoma.”
Sia mio padre sia Reg mi hanno guardato a bocca aperta. Mi viene l'ansia quando qualcuno mi guarda così. E' come se ci fosse qualcosa che non va in me. Non è un bel tipo di sensazione.
Dopo tre secondi e mezzo, mio padre mi ha domandato qualcosa tipo “Prego?”. Nel frattempo, Reg si stava coprendo convulsamente la bocca con una mano, guardandomi di sottecchi. In seguito, mi ha spiegato che la ragione di questo suo gesto consisteva nel semplice fatto che stava tentando di trattenere una risata, poiché non è opportuno ridere in certe occasioni.
“C'è scritto qui, sir,” ho risposto, indicando col dito il foglio poggiato al centro del tavolo.
Le estremità della bocca di Reg si sono ulteriormente alzate, poi ha avvicinato la mano destra verso di me dicendo: “Sono davvero lieto di conoscerti, John. Era ora! I tuoi genitori mi hanno parlato di te per settimane, non vedevo l'ora di incontrarti dal vivo... Me l'avevano detto che eri alto, in effetti...”
“Un metro e ottantadue virgola sette millimetri, sir,” ho detto. “Non so se ci sia tipo un ulteriore mezzo millimetro. Sa, mi sono misurato per l'ultima volta sei giorni fa, alle tre e quarantadue, nell'ambulatorio che sta in centro. Essendo quindi passati tipo sei giorni e altrettante ore, non ricordo con precisione, sir.”
Reg è rimasto in silenzio per circa due secondi, la mano destra ancora sospesa in aria e la bocca tipo semichiusa.
Mio padre, nel frattempo, continuava a sussurrarmi “Stringigli la mano,
stringigli la mano!”, con le sopracciglia inarcate e a denti stretti. Ho corrugato la fronte e ho obbedito.
In seguito, Reg mi ha spiegato che due tipi si stringono le mani, quando si incontrano.
“Un metro e ottantadue, eh?” ha commentato allora Reg, tipo ridendo.
“E sette millimetri, sir.”
“E sette millimetri, va bene, va bene,” Reg ha abbassato gli occhi, scuotendo la testa. “Comunque sia, è un vero piacere, John. Ormai sai il mio nome, ma non c'è bisogno che tu mi chiami
sir, né tantomeno signor Cunningham o altre cose del genere, mi basta anche un semplice “Reginald”, oppure se ti va anche...”
“Reggie-baby, sir?” ho chiesto.
Reg ha rialzato gli occhi su di me. Poi, è tipo scoppiato a ridere.
“Tu ed io andremo molto d'accordo, John,” ha detto.
In effetti, io e Reg siamo sempre andati molto d'accordo, proprio come aveva previsto, però mi chiedo tuttora cosa c'entrasse quell'accurata intuizione in tale contesto.

 

Il Natale del '96, Reg è tipo tornato da noi.
Ho avuto tipo cinque o sei tutori differenti tra il novembre del '94 e i primi undici mesi (e ventiquattro giorni) del '96. Durante quel periodo, mia madre aveva preso la strana abitudine di subire un bizzarro attacco naturale di lacrimogeni almeno una volta ogni due giorni. Cioè, si accovacciava da qualche parte, diventava tipo rossa come un peperone e perdeva una grande quantità di lacrime dagli occhi. Non che fosse tanto carino da vedere.
“Non so cosa fare,” diceva. O urlava, a seconda dei casi.
In ogni caso, dopo tipo cinque o sei tutori differenti, i miei genitori hanno optato per far tornare Reg, anche perché era dal novembre del '94 che gli chiedevo cose tipo “E Reg quando torna?”. Quindi, il Natale del '96, Reg
è tipo comparso davanti all'ingresso con un pacchetto colorato sotto il braccio e la solita sciarpa colorata attorno al collo.
Ricordo che, in quell'occasione, Reg mi ha tipo scompigliato i capelli con la mano sinistra.
Le carezze mi hanno sempre dato un gran fastidio, sapete, ma in quel momento mi sono sentito addirittura lusingato nel ricevere quel gesto che, da quanto avevo appreso in quegli ultimi anni, simboleggiava un concreto affetto.
Nel pacchetto colorato, comunque, c'era tipo un libro per bambini dedicato al Far West. Un testo assai simpatico, anche se era tipo pieno di inaccuratezze e divagamenti poco necessari.

 

Al momento, sono un freshman in un istituto superiore situato nella zona compresa ai confini di Memphis, Tennessee.
In realtà sono in età da
sophomore, ma i miei genitori mi hanno spiegato che ricominciare da capo sarebbe stata una scelta migliore per me e altre cose simili. Anche in quest'occasione, non hanno fatto altro che chiamarmi in continuazione “Francis”. Mai che mi chiamino “Lancelot” e basta, però.
A scuola (ossia all'istituto superiore), comunque, ho incontrato Phyllis.
Non è molto alta, ha il viso ovale e porta un carrè color nocciola. Viene tipo da New York, il che conferma l'esistenza di quella città sulla superficie del pianeta. Ho sempre sempre avuto dei dubbi riguardo all'esistenza di New York, sapete. Quando le ho esposto i miei pensieri riguardo a New York e alla sua dubbia esistenza, ha riso per un paio di minuti – precisamente, tre e mezzo, riprendendo fiato mediamente ogni undici secondi virgola due. Passati cinque minuti, mi ha detto qualcosa tipo “Sei tenero”. E quando le ho chiesto cosa significava “tenero”, ha riso di nuovo. Tipo per altri tre minuti. Anzi, stavolta per due minuti precisi.
Che tipo, Phyllis.
Dice di aver vissuto in “millemila” posti diversi, metà dei quali inclusi nel territorio del Texas. Il che mi pare impossibile, visto che il Texas, pur essendo il secondo stato più grande degli Stati Uniti, non ha abbastanza spazio fisico per contenere addirittura cinquecentomila città (barra comuni) differenti – cinquecentomila poiché immagino che Phyllis, con “millemila”, intendesse dire
un miliardo, e un miliardo diviso due fa cinquecentomila. In ogni caso, in Texas ci sono stato pure io, quindi siamo andati tipo d'accordo fin dall'inizio, quando mi ha visto in giro per i corridoi del primo piano e mi ha aiutato a trovare l'aula di chimica (gran bella materia la chimica, nonostante gli scienziati tendessero a dare nomi fin troppo confusionari a ciascun elemento).
Phyllis, poi, mi ha presentato a sua volta un suo amico, di cui in realtà ero già a conoscenza.
Il suo amico si chiama Mike, viene da una località compresa tipo in Houston, Texas, ha tipo dieci mesi e tre giorni in meno di me e alle elementari ha frequentato la mia stessa scuola, a Dallas, sempre nel Texas, a due aule di distanza da me; ai tempi abitava pure nel mio stesso isolato.
Riguardo al tipo di rapporto che io e Mike avevamo alle elementari, ricordo che ad un certo punto, a due mesi e una settimana di distanza dalla prima volta che ci eravamo parlati, avevamo deciso di diventare “migliori amici”.
“Vuoi diventare il mio “migliore amico”?” gli avevo chiesto. “Bennie dice che i “migliori amici” sono quelli con cui giochi a palla in cortile almeno per più di dieci volte, e noi abbiamo giocato a palla in cortile per undici volte lungo l'arco di tempo compreso dal ventidue settembre fino al ventinove novembre, ossia oggi.”
Mike aveva alzato le spalle e aveva detto che gli andava bene.
Un'altra cosa che ricordo è che anche i nostri genitori erano tipo amici – anche se non “migliori amici”, non avendo mai giocato a palla in cortile.
Vedevo sempre i miei genitori e la madre di Mike ridere in salotto, parlando a voce molto alta. Mio padre diceva le sue freddure, mia madre rideva tipo tutto il tempo. E quando eravamo a tavola, dopo che la madre di Mike se n'era andata, mia madre diceva qualcosa tipo: “... e che s'affretti a sposarsi, diamine! Altrimenti...” tra una risata e l'altra, accompagnata a sua volta dalla risata di mio padre.
Ricordo inoltre che a volte Mike si fermava da me a giocare tipo ai Sioux. Io facevo lo schieramento delle trib
ù native, Mike faceva l'esercito statunitense.
Ai tempi ero del tutto convinto che i Sioux avessero ottenuto la vittoria nei grandi conflitti tra nativi e tipi europei che si sono scatenati tra il 1876 e il 1877, quindi nei nostri giochi vincevo sempre io. Poi solitamente era Mike a farmi vincere, visto che non sono mai stato un tipo bravo a correre.
In ogni caso, Phyllis e Mike sono i due tipi con cui passo la maggior parte del tempo quando sono nei corridoi e durante l'intervallo.
Mi piace stare con loro. Sono due tipi molto spassosi, nonostante il loro umorismo non sia particolarmente europeo.
Mike scrive tipo poesie e racconti.
L'ha sempre fatto fin dalle elementari, ma è bello sapere che ha continuato a farlo. Ci dice sempre cose tipo “Sto tipo scrivendo una cosa”, “Ho tipo quasi finito di scrivere una cosa”, “Niente da fare. Alla fine c'ho tipo rinunciato a finire quella cosa, non so se mi seguite” e tende a portare con sé un blocco note, una penna e un registratore portatile di cassette. Quando lo si vede fuori dall'edificio scolastico, suole a portarsi dietro la chitarra. La suona. Ho sempre trovato ganzi i tipi che sono capaci di suonare uno strumento.
Phyllis, invece, disegna.
Per lo più animali o paesaggi.
E' tipo brava forte. A chimica, la vedo sempre con la testa china sul margine del foglio, intenta a scarabocchiare fiorellini, gufi e scoiattoli. Adora disegnare le stelline, poi. Quelle le mette tipo dappertutto.
A volte, ci incontriamo tutti e tre fuori dall'istituto e
vvvvuuuummmm saliamo su un autobus che ci porta fino al centro della città, verso i posti più affollati di Memphis.
Non che Memphis sia tipo il massimo, però. E' un po' la solita squallida cittadina dall'aria esageratamente statunitense, per dire.
Qui a Memphis, non vedi altro che facce nere di tipi negri. Oltre il 60% della popolazione è composta da tipi negri.
I nativi restano in ogni caso una minoranza, però.

 

Quando gli ho parlato di Phyllis e Mike per la prima volta, Reg ha tipo alzato i lati della bocca come fa ogni volta che è “felice” (so che un tipo è “felice” quando ride, alza i lati della bocca e accelera il suo parlato. In quest'ultimo caso, il tipo può anche corrispondere agli aspetti che caratterizzano un tipo “eccitato”) e mi ha dato una pacca sulla parte alta della schiena, nella zona compresa tra le scapole, dicendomi che era davvero felice per me, appunto.
Reg, comunque, viene a scuola con me. Nel senso che seguo tipo un orario che hanno prescritto apposta per me in cui c'è annotato che, durante certe ore (precisamente la terza e la quarta ora ogni martedì, giovedì e sabato. Non per risultare pignolo, ovviamente), devo recarmi in un'aula dove tipo studio assieme a lui. Poi, i mercoledì, ho un'ora supplementare alla fine delle lezioni in cui mi devo recare da questo tipo molto frisco (un termine per denominare un tipo molto ammirevole, come detta il gergo degli autostoppisti galattici) che si chiama tipo Sandler. A Sandler parlo tipo delle mie giornate, di come mi sento a livello psicologico e di tutta quella roba l
à. E' divertente.
Reg, comunque, dice che sto facendo progressi. Non che abbia ben capito in che cosa, ma è piacevole sentirselo dire.

 

 

 

 


Prima di introdurre una qualsiasi spiegazione, vorrei ringraziare di cuore chi ha dedicato un po' del suo tempo nel leggere questa storia e nel commentarla.
Sono molto affezionata a questo personaggio, quindi mi ritrovo a provare una certa felicità nel vederlo apprezzato e, soprattutto, compreso, “ascoltato”. Lo stesso vale per questa storia in sé, che scrivo con un indubbio piacere e con molto impegno – ma è un mio frequente vizio di questi ultimi tempi, quello di metterci tutta me stessa in ogni sfida che mi viene/a cui vado incontro.
Ci sono delle persone realmente esistenti, in questa storia, ma per lo più sono delle licenze poetiche personificate: personaggi di un determinato contesto che sono stati obbligati ad affrontare un nuovo tipo di realtà, sicuramente estraneo al tipo di realtà a cui appartenevano in precedenza.
All'inizio, John non era un vero e proprio personaggio. Era solo una singolare comparsa in una storia che stavo scrivendo in precedenza, ma che lentamente ha iniziato a ribellarsi e a dire che voleva essere qualcuno. Non pensiate che John sia davvero quel gran modestone che vuole sembrare, in realtà muore dalla voglia di dirvi qualcosa di più su se stesso, di mostrarvi un altro po' della sua particolare realtà. Spero quindi che questo capitolo non sia poi così male come pare a me e ringrazio di cuore, per un'altra volta, le persone che hanno letto e commentato e apprezzato, rivolgendo allo stesso tempo un nuovo ringraziamento altrettanto caloroso a chiunque s'appresti a iniziare questo scritto.
Detto questo, un bacio.

 

(Un breve disclaimer: tutti i personaggi qui raffigurati mi appartengono, eccetto Mike Nesmith e Phyllis Ann Barbour.
Ringrazio il signor John Carl Kuehne per il nome che mi ha indirettamente suggerito.)

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Capitolo 3
*** Mike ***


 

 

 

Mike

 

Mike diceva che il mondo incomincia dai nostri passi e crolla alle nostre spalle.
In poche parole, esiste tipo solo quello che abbiamo davanti, mentre ciò che sta tipo dietro di noi non esiste. Una teoria piuttosto azzardata, poiché la superficie del nostro pianeta è tonda, il che implica che, a camminare sempre verso una direzione, prima o poi si arriva tipo al punto di partenza – e ciò basterebbe a spiegare come mai il mondo non crolla affatto alle nostre spalle, anzi. Questa era anche una teoria che Cristoforo Colombo aveva tentato di sostenere, comunque, tipo partendo per le Indie di Marco Polo prendendo la direzione opposta, ossia verso Ponente. Avrei molte cose da dire al riguardo, ma vorrei rimandare le mie spiegazioni a più tardi. Mike, comunque, è un tipo che tipo non vuole mai smentire qualcosa che ha detto. Proprio come un nativo delle Praterie. Il mondo crolla alle nostre spalle, punto e stop. Per evitare litigate – anche se Reg mi consiglia di “affrontare le cose”, piuttosto che “aggirarle”; il punto è che non mi piace vedere Mike che si arrabbia –, ho deciso di dargli retta.
Perché Mike è il mio “migliore amico”, sapete.
Mike è un tipo alto tipo sette millimetri in più di un metro e settantanove e gli mancano tipo due mesi e quindici giorni ai quindici anni. Poi, quando parla, fa tipo una gran fatica a farsi capire dagli altri. Un po' perché ha la strana abitudine di interrompere le parole tipo a metà, un po' per via del suo accento particolarmente marcato.
Ricordo che una volta mi aveva tipo spiegato le ragioni per cui possedeva questa strana abitudine e questo accento particolarmente marcato. Ma ricordo anche che quella volta era stata tipo tra le prime volte che ci eravamo parlati, quindi ricordo di non aver capito molto di quello che mi aveva detto.
Col tempo, comunque, ho tipo imparato a capire la sua parlantina. Sarà che all'inizio non ci parlavamo molto. O meglio, ero tipo io a parlare, in prevalenza. Lui preferiva stare tipo in silenzio e ascoltare, tipo annuendo e alzando ogni tanto gli angoli della bocca. E io gli raccontavo dell'inaccuratezza del termine “indiani” per definire i nativi e questo genere di cose che, a mio giudizio, possono intrigare molto. Cristoforo Colombo, il tipo di cui vi parlavo prima, era tipo un gran tontolone. Un tipo assai ingenuo. Molto probabilmente, uno dei tipi più ingenui che la storia internazionale abbia mai conosciuto.
A volte mi viene pure da chiedermi se il termine “indiano” sia gradito ad un nativo.
Ma stavamo parlando di Mike e – e Mike scrive storie, ma immagino di avervelo già detto da qualche altra parte. Quando gli capita, inventa anche delle poesie e dei sonetti. A volte lo vedo tipo con la chitarra a fischiettare, decantando alcuni versi che scrive.
La sua voce appartiene al canone dei tipi che sono bravi con la musica, nel senso che è proprio bravo. E' il musicista migliore che conosca, oltre a essere l'unico che abbia mai conosciuto. E potrebbe diventare famoso, solo che continua a non credermi. La prima volta che ho espresso questa mia opinione, mi ha tipo spettinato i capelli, il che mi ha fatto molto arrabbiare. Non sopporto quando la gente mi spettina i capelli. E' tipo fastidioso.
Tra parentesi, Mike dice che faccio tipo ridere, quando mi arrabbio. Dice che divento tipo rosso come un pomodoro e inizio a urlare come un “forsennato”. Il meglio, dice sempre lui, è tipo quando inizio ad agitare le braccia e a urlare il nome di Reg e dei miei genitori. Reg, quando gli ho tipo raccontato di quando mi arrabbio, ha tipo detto che l'importante è che non mi agiti troppo, perché dice che potrei perdere il controllo.
Mike è anche tra i tipi più arrabbiati che conosca. Dice che è costantemente arrabbiato (anzi, incazzato) con il mondo e le persone che l'abitano perché queste ultime non sono mai capaci di accettare le cose così come stanno, perché la società non avrà mai molto da offrire alla gioventù, perché l'America non fa altro che combinare svarioni, perché è texano e ciò gli impedirà sempre e comunque di essere preso sul serio, perché è da quando aveva quattro anni che non vede suo padre e altre quarantacinque ragioni che al momento non ricordo.
Phyllis dice di lasciarlo fare, perché Mike è fatto così. Avrà sempre qualcosa da ribadire sul conto della cosiddetta società e tutte quelle altre cose che lo fanno incazzare.
E ha solo quattordici anni, dice Phyllis. Quasi quindici, soggiunge Mike. Bisticciano spesso.
Phyllis deve volergli davvero bene, però. Glielo dice in continuazione, dopotutto. “Ti voglio bene, Mike”, gli dice, e almeno per quattro volte alla settimana. Una cosa che gli dico spesso pure io, perché voglio davvero bene a Mike pure io. Quindi gli dico “Ti voglio bene, Mike”, e glielo dico almeno tre volte alla settimana, altrimenti sento uno strano peso all'altezza dello stomaco che mi impedisce di respirare regolarmente per almeno trentacinque secondi. Reg denomina quella sensazione con la seguente definizione: sensi di colpa. E quando gli ho chiesto se si provano questi “sensi di colpa” anche dopo aver mangiato troppo cioccolato, Reg ha riso e ha detto che quella potrebbe trattarsi di indigestione.
Mike, comunque, racconta che, la prima volta che ha visto Phyllis, le ha detto qualcosa tipo: “Il nove è bruno.”
Phyllis, allora, ha alzato i lati della bocca e ha risposto: “Il tre è blu.”
Mike e Phyllis sono dei tipi complicati.
Mike dice che Phyllis è splendida. Bellissima, una ragazza davvero carina.
Phyllis dice che Mike è un bel tipo. Simpatico, davvero simpatico, e altrettanto carino.
Il punto è che non se lo dicono mai a vicenda, e io proprio non riesco a capire il perché. Se uno apprezza un'altra persona, dovrebbe essere ben disposta a dirglielo. A quell'altra persona, farebbe solo un gran piacere. Ne sono certo.
Quando ho detto a Mike qualcosa tipo “Phyllis ti trova carino”, le guance di Mike hanno subito un vigoroso afflusso di globuli rossi dall'interno. Gli ho chiesto se gli desse fastidio, questa cosa, ma lui ha solo detto che no, non gli dava fastidio, ma che aveva bisogno di farsi una doccia fredda per rendersi conto di quello che aveva appena sentito. Il che è bizzarro, poiché a scuola non ci sono docce. Devo ancora abituarmi a Mike e ai suoi modi strani.
Quando ho detto a Phyllis qualcosa tipo “Ho detto a Mike che lo trovi carino”, anche le guance di Phyllis hanno subito un altrettanto vigoroso afflusso di globuli rossi dall'interno. Solo che lei non ha detto niente ed è subito corsa via. O forse mi ha anche urlato che sono un gran “cafone”. Non lo so. Non so nemmeno cosa possa significare la parola “cafone”.

 

In ogni caso, l'altro giorno ho scoperto che molti ragazzi della scuola provano diletto nel prendere a botte Mike.
Una cosa molto strana, perché è un tipo davvero simpatico. Lo dice pure Phyllis, che Mike è un tipo davvero simpatico. Phyllis ha però aggiunto che a loro non importa niente di questo, che a loro interessa solo avere qualcuno da prendere tipo di mira. Allora le ho chiesto cosa significasse “prendere di mira” qualcuno e lei mi ha risposto che è tipo una cosa da non fare mai e poi mai con nessuno. Non che abbia compreso del tutto il concetto, ma almeno ho tipo capito che è una cosa molto brutta. Poi, comunque, tipo che non dev'essere carino venire preso a botte.
Inoltre, ho scoperto di trovare sgradevole la vista di un particolare accumulo di globuli rossi, l'ho capito quando ho rischiato di subire tipo un attacco d'asma alla vista di Mike con un graffio lungo due centimetri sulla tempia e la maglietta tipo bianca sporca tipo di rosso.
La mia particolare fobia per il sangue – dettasi tipo emofobia – si tratta di un concetto che non ho mai potuto elaborare, poiché le uniche volte in cui ho visto del sangue sono state tipo due: quando mi sono sbucciato un ginocchio e quando mi sono erroneamente tagliato con la carta (a dire la verità, mi sono tipo tagliato più volte con la carta, ma non ricordo con precisione le volte in cui questo fatto si è tipo ripetuto, quindi vi chiedo di considerare quelle due volte come due casi invece che due eventi singoli).
Ho dei genitori molto protettivi, sapete.
“A quest'età, John, i ragazzi sono sempre molto concentrati nel crearsi una certa notorietà tra i loro coetanei...” spiega Sandler, “... e nell'inserirsi in una gerarchia, tentando di scalare più “classi sociali” possibili. Bisogna comprenderli, fino ad un certo punto. Atteggiamenti come prepotenza, insensata violenza e atti di bullismo vengono naturali, in questo periodo della vita, e le vittime di questo fenomeno spesso si ritrovano impotenti. E' proprio per questo che questi ultimi devono evitare di rimanere in silenzio. Penso che tu debba convincere questo tuo “migliore amico” a confidarsi con i suoi genitori, oppure con gli insegnanti. La signorina Moran è sempre disposta ad ascoltare i problemi degli studenti di questa scuola...”
“Oh, tipo che lo sa, da quel che so,” gli rispondo, mentre il comandante Sanchez ordina alle file spagnole di partire alla carica. “Solo che tipo non vuole andare da lei. Dice che piuttosto se lo farebbe mettere tipo nel culo.”
Le truppe ispaniche avanzano.
Alzo gli occhi. Sandler mi guarda.
“Cosa significa farselo mettere nel culo?” gli chiedo.
Sandler si sofferma sul vaso color beige che sta subito dietro la mia poltrona, sfregandosi le mani.
“Diciamo che è un'espressione dai sensi più... svariati.”
“Capisco.”
“In ogni caso, non dirla. Non è corretto dirla.”
“Va bene.”
“E se qualcuno la dice, nel caso tu debba riferire a qualcun'altro le sue parole, di' che preferirebbe andare a farsi una sauna.”
“Andare a farsi una sauna...” ripeto. “Me lo ricorderò.”
Detto questo, i conquistadores assediano l'ennesimo accampamento pellerossa. Tipo.

 

Phyllis sta facendo il caffè. Ne sento il profumo dal salotto.
Se c'è una bevanda che amo, quella di sicuro è il caffè, anche se i miei genitori mi dicono sempre che tipo non devo berne troppa perché troppa caffeina provoca tipo infiammazioni allo stomaco. E se c'è una cosa in cui Reg è d'accordo con i miei genitori, è questa. Reg dice sempre che bere troppo caffè rende tipo troppo nervosi. Credo che il caffè sia l'unica cosa con cui Reg si mostra tanto severo.
Phyllis si mette a ridere ogni volta che le chiedo tipo la cannuccia per bere. Dice che non ha mai conosciuto un'altra persona che tipo beve il caffè con la cannuccia all'infuori di me. Mike, invece, alza gli occhi al cielo. Ci è tipo abituato, dice. Sempre la stessa storia, borbotta.
Il punto è che sul bordo della tazza, che di sicuro è stata utilizzata da tipo altri tipi oltre a Phyllis, devono esserci attaccati tipo migliaia di miliardi di germi appartenenti ad altri tipi a me sconosciuti. I germi delle altre persone mi hanno sempre inquietato, ecco perché tipo scappavo via ogni volta che Mike faceva tipo i gargarismi con la sua saliva per prepararsi a stringere tipo un patto. Non sai mai quale tipo di malattia potrebbero attaccarti, i germi di altri tipi. Ci sono malattie che si possono trasmettere da un corpo all'altro tipo attraverso qualsiasi via, attraverso sangue, saliva o, addirittura, contatto fisico. La mononucleosi infettiva, che è tipo una delle malattie virali più pericolose che circolano, si trasmette tipo via saliva. Gli effetti della mononucleosi durano per settimane intere, in certi, e ricordo che tipo Mike l'ha avuta quando aveva dieci anni e otto giorni. E' una gran seccatura, dice lui, ma non così tragica come viene tipo presentata dai libri di biologia. I libri di biologia, secondo lui, usano tipo una cosiddetta politica del terrore, secondo lui. Io ho comunque paura della mononucleosi. Reg dice che prevenire è sempre un buon modo per non combinare pasticci, quindi tipo che preferisco non rischiare.
“Stai meglio?” chiede allora Phyllis, dopo aver fatto passare un minuto e quarantacinque secondi di silenzio.
“Oh, io sto benone,” rispondo.
Phyllis tace. Alzo gli occhi dalla tazza, con la cannuccia tra i denti.
Mike e Phyllis mi guardano per un secondo e mezzo, per poi scoppiare a ridere. Non li capisco quando fanno così.
“Scusa, Johnny, ma io parlavo con Michael,” dice Phyllis, coi lati della bocca alzati.
“Ah.”
E' buffo. Phyllis parla delle altre persone chiamandole per il loro nome completo, anche quando queste ultime le stanno sedute accanto. Ad esempio, quando parla di Mike, lo chiama sempre “Michael”. Oppure, quando parla con Mike su di me, menziona un “John”, rimuovendo il vezzeggiativo finale. Non mi sono mai piaciuti, i vezzeggiativi.
Mike prende un sorso, guarda la sua tazza e sospira. Mi chiedo se il suo caffè si sia raffreddato.
“Sto bene, April,” dice, “il taglio dovrebbe rimarginarsi tra una settimana ancora al massimo, basta solo che non mi riaprano la ferita. Per il resto, non è la prima volta che mi fanno sputare il pranzo a furia di prendermi a calci sullo stomaco, no? A certe cose, prima o poi ti abitui,” e le sue labbra si contorcono in una strana smorfia.
Phyllis, alla vista di quella strana smorfia, si morde il labbro.
Mike, comunque, dice che non gli piace il nome di Phyllis. Preferisce chiamarla tipo “April”.
Non mi piacciono i silenzi lunghi e improvvisi, quindi stacco le labbra dalla cannuccia e dico: “Che brutta abitudine.”
“Sono d'accordo,” dice Phyllis, mentre riempie la sua tazza. Phyllis tipo si dimentica sempre di riempire la sua tazza, dopo aver riempito le nostre.
“Lo so,” replica Mike.
“Ma tipo un giorno la smetteranno, vero?” chiedo.
“Lo spero, Johnny.”
“Lo spero pure io. Non mi è mai piaciuto il colore rosso. E' tipo molto brutto che ti colorino tutto di rosso.”
“Lo so, Johnny, lo penso anch'io.” Beve tipo un altro sorso. “Anche se a me piace, il colore rosso.”
“A me no. Ma io intendo tipo quel rosso scuro scuro, che sembra tipo un misto tra nero e marrone piuttosto che un rosso.”
“Il rosso sangue, Johnny.”
“Sì, proprio quello. E' tipo un brutto colore. Davvero brutto. Fastidioso, anche. Per niente estetico. E' che tipo non mi piace quella parola che tipo inizia con la s. Tipo non riesco a pronunciarla. Mi fa sentire tipo male, non so se sapete tipo cosa intendo. Reg mi ha detto che, quando mi vengono tipo degli attacchi d'asma e tipo delle palpitazioni, non devo preoccuparmi: passa in fretta, mi sto solo sentendo male. Guardare grandi agglomerati di globuli rossi e globuli bianchi e piastrine e DNA mi fa tipo sentire male, seppur per pochi minuti, non so se sapete tipo cosa intendo.” E qui mi rivolgo sia a Mike sia a Phyllis che, nel frattempo, sta aprendo una confezione di barrette di cereali.
Mike fa un altro sospiro. Mi chiedo ancora una volta se il suo caffè si sia raffreddato. Glielo chiedo. Mike mi guarda. Rimane in silenzio per tipo tre secondi, per poi borbottare: “Bevi.”

 

Tra sette giorni, diciassette ore, diciotto minuti e diciannove secondi, cadrà il mio sedicesimo compleanno.
Mike inserisce i centesimi dentro la macchinetta del caffè e sceglie una bevanda. Oggi, Mike indossa tipo una camicia con sopra un motivo a quadri e dei pantaloni tipo attillati, cioè molto stretti, cioè che si restringono molto all'altezza dei polpacci e tipo del fondoschiena. Phyllis è in bagno. L'orologio segna le ore dieci – minuti quattro, secondi ventotto.
Mike dice che gli scappa da morire, ma che ha anche una gran paura di andare in bagno.
Gli chiedo perché.
Nel frattempo, cinquantasei truppe inglesi, affiancate dai temibili Mohawk, s'abbattono sul territorio a loro nemico.
Mike risponde che in bagno c'è quel bastardo di Nonmiricordopiùcomesichiama Smith, pronto a farlo a fette.
Gli chiedo il perché di tale gesto. Tagliare qualcuno a fette non è per niente educato.
I Lunghi Coltelli resistono. La Rivoluzione inizia a dare i suoi frutti quando Mike fa per rispondere, ma viene interrotto da Phyllis che lo prende per le spalle. Fine della battaglia, il rullino si spezza. Fine della proiezione.
“Gradirei un cappuccino, per cortesia,” dice lei, porgendogli una moneta da un dollaro, “e anche bello zuccherato. Tre zollette.” Phyllis solleva i lati della bocca.
Mike sbuffa.
“Phyllis, ho paura di andare in bagno,” dice.
Quando Mike chiama Phyllis per nome, significa che vuole dirle qualcosa di tipo molto importante. Phyllis lo sa – infatti me l'ha spiegato lei – e sa anche come rispondere in questi casi. Anche questo ho dovuto farmelo spiegare, anche se tipo non ho capito molto bene.
“Non andarci, allora,” risponde lei, guardando il bicchierino di plastica che gira dietro il pannello di plastica della macchinetta.
“E se avessi bisogno di pisciare?”
“Ti fai accompagnare da John.”
Mike apre la bocca, ma non dice niente. Reg dice che le persone fanno così quando non sanno tipo cosa dire, oppure quando vogliono tipo trattenersi dal dire qualcosa. Non ho mai trovato uno scopo per cui una persona dovrebbe tipo reprimere qualcosa che sta per dire.
Quando il cappuccino è pronto, Mike dice qualcosa tipo: “A dopo,” e se ne va.
Phyllis mi sussurra: “Gli scappa da morire, si vede da come cammina.”
“E come sta camminando?” le chiedo.
“Si trattiene dal saltellare. Cerca di tenere le coscie unite e va a passo da papera. Gli tremano un po' le braccia, anche,” dice, e ride.
“E cos'è un passo da papera, Phyllis?” le chiedo.
“Chiedilo a Reginald.”
Passate quattro ore e mezzo, dopo quella che viene definita tipo “ora di pranzo” (che in realtà si tratta di una doppia illusione, essendo il tempo stesso tipo un'illusione, come dice Ford Prefect), Reg mi spiega cos'è un passo da papera.
Reg dice che anch'io ho il passo da papera, cioè cammino come una papera. Un paragone che non regge molto, poiché le papere sono uccelli mentre noi siamo mammiferi derivanti da una determinata progenie di primati, e tra uccelli e mammiferi ci sono grosse differenze nell'anatomia e nell'atteggiamento che non si possono nascondere, ma in ogni caso ho tipo capito cosa voleva dire, dopo alcuni tentativi di comprensione. Reg dice che, quando cammino, tengo la schiena tipo troppo tesa e all'indietro, la testa tipo troppo in avanti e non piego molto le gambe, tenendole quindi lievemente divaricate e spingendo la punta dei piedi tipo all'infuori. La mia brutta abitudine, sempre secondo Reg, consiste nel fatto che, sempre quando cammino, mi poggiò più sul tallone che sulla punta.
“E' come se stessi costantemente barcollando,” spiega Reg, agitando le mani davanti a sé, “ogni volta che fai un passo, il tuo corpo va lievemente all'indietro e poi torna in avanti quando fai atterrare il piede alzato, e questo movimento che fai rende molto meccanico il tuo modo di camminare.” Prende la tazza tra le mani, beve uno, due sorsi di tè, posa di nuovo la tazza sul piattino e aggiunge, riprendendo ad agitare le mani davanti a sé: “Solo quando corri, riesci a bilanciare il tuo corpo, ritrovando in maniera sicura il baricentro e iniziando a capire le varie articolazioni da cui è composto lo scheletro che ti sorregge. Forse tieni le braccia a penzoloni, e la schiena rimane sempre un po' storta, ma riesci a piegare e a stendere le gambe al momento giusto.”
“Ed è brutto che io cammini così?” chiedo.
Reg guarda verso il lampadario. Fa sempre così, quando deve pensare.
“Diciamo che no, non si tratta di “brutto” o “bello”, è anzi un discorso completamete diverso. Per dirla in maniera semplice, le tue sono delle abitudini che vanno corrette per evitare che ti vengano ulteriori problemi alla schiena.”
“Ok,” dico. Il vapore si eleva dal liquido dell'infuso. “Reg, quando vedo dell'intenso accumulo di globuli rossi e globuli bianchi e piastrine, tipo non riesco a respirare e il mio cuore incomincia tipo a pompare maggiori accumuli di tipo globuli rossi e globuli bianchi e piastrine lungo le vene. La mia pressione tipo si alza e inizio a sentirmi tipo male. So che si tratta di fobia, precisamente emofobia, ma non so che tipo di cosa possa avermi spinto a soffrire di qualcosa del genere. E speravo che tu sapessi il perché.”
Dopo altri trenta secondi di silenzio, durante i quali pensavo che Reg stesse guardando il lampadario della cucina, alzo gli occhi e lo trovo invece a guardare me, tenendo una mano sulla sua tazza e l'altra mano sul mento.
“Perché mi guardi così?” chiedo. “Non mi piace come mi stai guardando.”
Reg abbassa gli occhi e trattiene una risata.
“Le fobie sono irrazionali, John,” dice. “Comunque, hai altro da raccontarmi? O da confessarmi, almeno.”
Non ho mai capito come faccia Reg a capire le cose così, senza nemmeno un indizio.
Gli dico: “Mike viene picchiato dai ragazzi e io l'ho visto tutto sporco di sangue.”
“E si è deciso a dirlo a qualcuno?”
La mano di Reg va a coprire tipo la sua guancia.
“No,” rispondo, “dice che, piuttosto, preferirebbe farsi una sauna.”
Reg corruga la fronte, poi scuote la testa, ridendo a bassa voce.
Più tardi, Reg dice che tipo mia madre gli ha tipo detto di dirmi che tipo verrà a vivere da noi suo fratello, ossia mio zio, perché è stato tipo sfrattato e non ricorda quali altre ragioni. Verrà il giorno del mio compleanno, tipo quattro ore e dodici minuti dopo la sedicesima volta in cui cade il momento in cui sono nato.
Non ho mai conosciuto mio zio, dico a Reg. Reg dice che non devo avere paura di conoscerlo e che non devo rimanere deluso se tipo, come il 94% delle persone con cui ho parlato finora, è ancora convinto che il Grande Spirito sia per davvero tipo un'entità predicata dai nativi. Gli dico che tipo ci proverò.

 

Il giorno dopo, Mike indossa una maglietta rossa a maniche lunghe e un paio di pantaloni da militare.
“Non mi abituerò mai alle tizie dell'ambulatorio, sono tutte delle stronze,” dice. “Pensano che sia un farabutto, perché vado sempre da loro. Pensano che sia
io a voler fare a botte con quelli, quando in realtà non me ne frega un cazzo di loro. C'è quel Trey che non la finisce di scassarmi i coglioni. Non lo sopporto e non me ne frega niente se ha il muso nero e se pensa che sia un repubblicano o quel cazzo che crede, e non me ne frega niente se quell'altro, Brian, pensa che sia frocio o non so cos'altro possa pensare. E stamattina, Beth mi ha detto che si sposa di nuovo, e con un tizio che si chiama Robert. Robert. Anche papà si chiamava Robert. E poi quel bastardo di Nonmiricordopiùcomesichiama Smith. Sono stufo, Johnny.”
“Chi è Trey?” chiedo.
“Un coglione,” dice Mike, e beve.
“Dicevi che Trey ti scassava i coglioni, quindi non può essere un coglione,” dico. Perché è vero: come può un coglione scassare un altro coglione? Si tratta pur sempre di un organo genitale (
coglione è tipo un'espressione gergale per definirlo), non può avere una propria volontà poiché al suo interno non ha un sistema nervoso che gli permetta tipo di agire e pensare.
Inoltre, non capisco come mai qualcuno o qualcosa debba scassare i coglioni di Mike. Non mi sembra gentile.
“Trey è un cazzo di negretto che si veste sempre di viola e che si diverte a dire che sono un razzista e a picchiarmi, ok?” dice Mike, alzando la voce. Poi, col tono nuovamente sul normotipo, dice: “... invece, Brian ha i capelli biondi e puzza in una maniera assurda di liquore e tabacco; una volta mi ha quasi spaccato le costole e non si degna manco a dire il perché.” Ride.
“Brian.”
“Sì, Brian. Ti fa passare la voglia di iniziare a fumare, quello.”
“Brian,” borbotto. E propongo: “Potresti tipo chiedergli perché ti picchia.”
Mike mi guarda.
“Johnny...”
“Brian. Allora glielo chiedo io,” dico. “Brian.”
“Piuttosto, mi guardo alle spalle.”
“Brian. E tu non dovresti aver paura di guardarti alle spalle. Studi astronomici hanno verificato che la Terra è rotonda,
il che implica che, a camminare sempre verso una direzione, prima o poi si arriva tipo al punto di partenza. Brian.”
Mike rimane in silenzio per tipo due secondi, quando improvvisamente si ferma e mi prende per mano.
Reg mi ha insegnato a non spaventarmi quando una persona mi tocca all'improvviso, dicendomi che spesso le persone hanno dei momenti in cui hanno voglia di abbracciare qualcuno, oppure di stringere la mano sempre a quel qualcuno. Quindi, lascio che Mike mi stringa la mano e, dopo avermi guardato le scarpe per altri due secondi punto trenta, si guardi alle spalle.
“Brian.”
Mike è anche tra i tipi più coraggiosi che conosca.

 

 

 

 


Mi scuso per due cose:
1) il capitolo smisuratamente lungo. Non sapevo cosa tenere e cosa togliere, e per la maggior parte delle volte sono andata molto a caso. Spero che l'insieme non risulti troppo forzato;
2) il ritardo smisuratamente sfacciato. Ho avuto un aprile e un maggio alquanto terribili, tra scuola, disegni da disegnare e libri da leggere. Ho appena scoperto di avere due richieste su deviantART ma, francamente, chi ha la minima voglia di tornarci?
Mike è un personaggio molto divertente. In ogni caso, spero che il capitolo possa essere gradito nonostante tutto~
E come sempre, grazie mille a chi ha recensito, letto, preferito, seguito. Grazie.

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