UN SOFFIO DI VITA- Giorni d'inverno

di avalon9
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima Parte ***
Capitolo 2: *** 2. PREOCCUPAZIONI ***
Capitolo 3: *** 3. CHI SEI? ***
Capitolo 4: *** 4. DUBBI E PROGETTI ***
Capitolo 5: *** 5. MALATTIA (Prima parte) ***
Capitolo 6: *** 6. MALATTIA (Seconda parte) ***
Capitolo 7: *** 7. PAURE E SOTTERFUGI ***
Capitolo 8: *** 8. COSA NASCONDI? ***
Capitolo 9: *** 9. SCHEGGIE DI MEMORIA (Prima parte) ***
Capitolo 10: *** 10. SCHEGGIE DI MEMORIA (Seconda parte) ***
Capitolo 11: *** 11. ACCORDI ***
Capitolo 12: *** 12. CIARDA DI GHIACCIO ***
Capitolo 13: *** 13. INSEGNAMI ***
Capitolo 14: *** 14. SCEGLI ***
Capitolo 15: *** 15. INCERTEZZE ***
Capitolo 16: *** 16. AGGUATO ***
Capitolo 17: *** 17. BUIO ***
Capitolo 18: *** 18. RABBIA ***
Capitolo 19: *** 19. EMOZIONI ***
Capitolo 20: *** 20. RICORDI ***
Capitolo 21: *** 21. CONVALESCENZA ***
Capitolo 22: *** 22. FIDUCIA ***
Capitolo 23: *** 23. LIBERO ***
Capitolo 24: *** 24. SIGNIFICATI ***
Capitolo 25: *** 25. ARRIVO ***
Capitolo 26: *** 26. INIZIO ***
Capitolo 27: *** 27. ATTRITO ***
Capitolo 28: *** 28. ALLEATI ***
Capitolo 29: *** 29. PIOGGIA ***
Capitolo 30: *** 30. PAURA ***
Capitolo 31: *** 31. RIFLESSIONI ***
Capitolo 32: *** 32. AIUTAMI ***
Capitolo 33: *** 33. FRATELLI ***
Capitolo 34: *** 34. DOMANDE ***
Capitolo 35: *** 35. PASSATO ***
Capitolo 36: *** 36. ASSEDIO ***
Capitolo 37: *** 37. DUELLO ***
Capitolo 38: *** 38. PRINCIPE ***
Capitolo 39: *** 39. VERITA' ***
Capitolo 40: *** 40. DECISIONI ***
Capitolo 41: *** 41. CONFIDENZE ***
Capitolo 42: *** 42. FRUSTRAZIONE ***
Capitolo 43: *** 43. ULTIMI ISTANTI ***
Capitolo 44: *** 44. TRAPPOLA ***
Capitolo 45: *** 45. ANGOSCIA ***
Capitolo 46: *** 46. PORTAMI VIA ***
Capitolo 47: *** 47. RESA ***
Capitolo 48: *** 48. LUCCIOLE ***
Capitolo 49: *** PICCOLO DIZIONARIO ***



Capitolo 1
*** Prima Parte ***



Prima parte

Giorno d’inverno

Vette di nuvole.

Appaiono anche in sogno,

senza confini

Kato Shuson

CAPITOLO 1

FREDDO

Freddo.

Fu la prima cosa che avvertì. E poi un dolore sordo, pulsante alla tempia destra. E la sensazione sgradevole di non possedere più un corpo.

Strinse i denti, e con un immenso sforzo riuscì a mettersi a sedere. Respirò piano, cercando di scacciare le vertigini che l’assalivano. Quando si sentì abbastanza sicura, apri gli occhi.

Bianco. Non c’era altro. Bianco. Bianco. Dovunque.

Cercò di mettere a fuoco le immagini, ma la neve cadeva troppo fitta e dal terreno si alzava una nebbia leggera che confondeva i contorni delle cose.

Una nuova fitta la costrinse a portare una mano alla testa. Avvertì qualcosa di vischioso sulle dita. Non dovette neanche guardare per capire di cosa si trattasse. Sangue. Poco, per fortuna. Giusto un graffio.

Prese un po’ di neve e se la passo sul taglio alla tempia, sul viso, sul collo.

Sudava.

Era freddo, ma lei sudava. Le sembrava di soffocare.

Prese fiato, e provò ad alzarsi in piedi. Ci riuscì solo per un istante; un violento capogiro la costrinse di nuovo a terra.

Freddo. Di nuovo. E bianco. La neve continuava a cadere, soffici fiocchi. Una coperta mortale.

Non poteva restare lì, sdraiata nella neve. Lo sapeva bene. Sarebbe morta. Però era anche cosciente che non aveva la forza per muoversi di molto. Ma non si sarebbe arresa. Non lo avrebbe mai fatto.

Si trascinò carponi verso il suo zaino e appoggiandosi ad un albero riuscì a mettersi in piedi.

Doveva andarsene da lì. Era l’unica cosa che in quel momento le passava per la testa. Non importava dove fosse, solo non poteva stare lì. Né addormentarsi. Doveva cercare un riparo, uno qualsiasi.

Conosceva la montagna. Ci era nata. E anche se non aveva idea delle insidie che quel luogo sconosciuto poteva celare, iniziò a camminare.

Bastava quello. Camminare. Per restare svegli e sfuggire alla morsa del gelo. Almeno, finchè le forze non l’avessero abbandonata. Ma per allora sperava di aver trovato un riparo.

Attizzò il fuoco aggiungendovi un ciocco di legna e si strinse di più nel maglione.

Era stata fortunata a trovare quel rifugio. Probabilmente, d’estate veniva usato dai taglialegna che salivano sulla montagna. Anche se le era sembrato piuttosto vecchio; anzi, più che vecchio, “primitivo”. Le assi non dovevano mai aver conosciuto la pialla, e anche i chiodi erano strani. In ferro, e non in acciaio, come erano quelli che si vendono in tutti i negozi di ferramenta. E poi sembravano lavorati a mano, usciti dalla fucina di un fabbro.

Ci riflettè un po’, ma era troppo stanca per arrovellarsi il cervello con riflessioni di così poca utilità. Piuttosto, avrebbe voluto tanto sapere dove si trovava.

L’ultima cosa che ricordava era di esser scivolata lungo un pendio roccioso. Come una principiante. Dannazione. Non che con quella nebbia improvvisa si vedesse qualcosa, ma lei si era tradita in modo stupido. Infantile.

Sperò che glia altri si accorgessero presto della sua assenza, e tornassero a cercarla. Scacciò subito quel pensiero. Sarebbe stato da imprudenti avventurarsi sul monte Fuji con quel tempo e senza essere esperti del luogo.

No. Era più probabile che si sarebbero rivolti alle autorità forestali. Il che significava di certo passare quella notte all’addiaccio.

Sospirò. Non le importava più di tanto. Ora che aveva un riparo, non le importava quanto ci avrebbero messo.

Gettò un nuovo ramo nel fuoco e si smarrì nel guardare la danza di sottili pagliuzze dorate.

Sarebbe arrivata a valle da sola. Aveva deciso.

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Capitolo 2
*** 2. PREOCCUPAZIONI ***


CAPITOLO 2

CAPITOLO 2

PREOCCUPAZIONI

 

 

La palla di neve volò veloce nell’aria e finì in faccia ad Inuyasha, colto di sorpresa. Il giovane mezzo-demone ignorò la cosa, facendo appello a tutta la sua poca pazienza e tornò a guardare il pozzo, con aria spazientita.

 

Shippo sospirò, tornando a concentrarsi sul suo gioco con Kirara. Decisamente, quel giorno Inuyasha non era di buon umore, e il fatto che non rispondesse alle provocazioni, cosa peraltro rara se non praticamente inimmaginabile, era segno evidente della sua preoccupazione.

 

“Inutile che tu stia lì ad aspettare, Inuyasha. La divina Kagome ha detto che non sarebbe ritornata prima di un paio di giorni”.

 

Un giovane monaco gli si avvicinò, posandogli una mano sulla spalla, scuotendolo dai suoi pensieri.

 

Miroku…hai detto qualcosa?”. Il giovane sospirò; decisamente c’era qualcosa che non andava e alla fine si decise a chiedere spiegazioni all’amico. Il mezzo-demone, gli fece semplicemente cenno di seguirlo e si allontanò dal pozzo in direzione del villaggio.

 

“L’hai avvertita anche tu, non è vero? Un’aura demoniaca immensa, più grande anche di quella di Naraku. E in mezzo il fetore di quel maledetto…”

 

Erano orami passati due giorni da quando un’aura di incredibile potenza era esplosa in direzione del monte Fuji, e il fatto che l’odore del suo acerrimo nemico vi fosse mescolato, rendeva Inuyasha quanto mai preoccupato.

 

“Temi che stia preparando qualcosa?”

 

“Non ne ho idea. Il bonzo sei tu. Prova a vedere se percepisci qualcosa con i tuoi poteri. Il mio fiuto fa cilecca in questo momento. Troppa neve”.

 

“Sono un monaco. Non un bonzo; e tanto meno un veggente. E comunque neanch’io percepisco qualcosa. L’aura dell’altro giorno era fortissima, ma si è esaurita in fretta. Non credo che ce ne dovremo preoccupare”.

 

Inuyasha annuì, ma con poca convinzione. Non era tranquillo. Era come se avvertisse una minaccia, ma il senso di paura e di allarme che piano piano gli si stava formando nel cuore non lo aveva mai provato prima. Ed era soprattutto questo a spaventarlo.

 

*****

 

Due giorni. Era da due maledettissimi giorni che camminava con la neve alle ginocchia, arrancando. Non riusciva a orientarsi. Albero, albero, roccia, muschio, Nord…Lei s doveva dirigere a Est…Albero, albero, precipizio…Punto a capo. Gettò scoraggiata lo zaino a terra e si sedette ai piedi di un albero che sembrava aver voluto ritagliare per lei uno spazio verde in tutto quel bianco. Non ci capiva più niente. Quella montagna era un vero e proprio labirinto.

 

Maledisse Ginta per l’ennesima volta. Come diavolo gli era passato per la testa l’idea di andare a pattinare a un laghetto del monte?

 

“Conosco perfettamente la strada” aveva detto, “ci divertiremo e faremo anche una bella escursione.

 

Sospirò. La colpa non era di Ginta. Certo, lui era stato un incosciente; ma la colpa vera ce l’aveva lei. Per essersi lasciata convincere. Per aver voluto fidarsi di nuovo. Perché aveva voluto provare a crederci, in quei ragazzi. E adesso si trovava nei guai. E non sperava più neanche in un aiuto. Diamine, dopo due giorni i soccorsi sarebbero dovuti arrivare e anche se lei si era mossa aveva lasciato dei segnali ben visibili.

 

E invece nulla. Silenzio assoluto.

Si rimise in spalla lo zaino e si rincamminò. Sicuramente non sarebbe arrivata ad un qualche villaggio, ma un riparo per la notte lo doveva trovare. Anche perché il cielo non minacciava nulla di buono.

 

*****

 

“Mi dispiace, padrone. Non so come sia potuto accadere. Mi devo essere distratto un attimo, e lei ne ha approfittato per allontanarsi. Quello ragazzina…Lo sa che non deve farlo…Non è stata colpa mia, lo sapete come è fatta…se vede qualcosa che le interessa…”.

 

Il piccolo demone verde era inginocchiato a terra, nella neve fresca. Prostrato. E continuava a blaterare parole di scusa che il suo signore non ascoltava nemmeno. Gli davano, anzi, un profondo fastidio. Più del solito.

 

“Smettila”.

 

“Ma…mio signore…”. L’occhiata gelida che ricevette fu più eloquente di qualunque parola, e il piccolo demone si allontanò strisciando.

 

Sesshomaru socchiuse gli occhi, respirando mentalmente. Odiava il vociare concitato, il rumore insistente e continuo, le parole vuote. E odiava le scuse. Soprattutto quelle di Jacken. Questa volta gliela avrebbe fatta pagare. Gli aveva affidato un compito, e lui aveva fallito. Lo avrebbe punito. Sicuramente. Ma dopo.

 

Ora un’altra cosa gli premeva. Ritrovarla. Perchè gli mancavano le sue risate. L’unica voce che non gli risultasse sgradevole.

 

Non gli sarebbe stato difficile, ritrovarla. Il suo odore lo conosceva bene e lo avvertiva ovunque intorno a sé, e poi nella neve si vedevano chiare le sue impronte. No, non sarebbe stato difficile per lui.

 

Una folata di vento gli scompigliò i lunghi capelli argentati. Un vento freddo. Bagnato. Un vento che sapeva di neve. Alzò gli occhi al cielo, assottigliandoli impercettibilmente. Il cielo si stava rannuvolando e dense nubi si avvicendavano veloci all’orizzonte. Doveva sbrigarsi. O l’avrebbe persa. La neve avrebbe cancellato ogni traccia, e confuso ogni odore. L’avrebbe persa. Iniziò a correre, tendendo al massimo i sensi acuti.

 

*****

 

“Vi fidate di lui, mio signore?”.

 

Il demone riaprì gli occhi, e spostò la sua attenzione sulla bambina che gli sedeva accanto, bianca e perfetta come una statua di porcellana. Occhi neri e vuoti in occhi rossi. Nonostante il sua aspetto infantile, Kanna possedeva un’intelligenza sveglia e pronta. Una capacità di prevedere le possibili complicazioni e di valutare le situazioni tale che, se l’avesse potuta esercitare liberamente, l’avrebbe avvantaggiata non poco su qualunque altro demone vivente.

 

“Per il momento, lo lascerò agire come preferisce. I tempi non sono ancora maturi ed è bene non affrettare le cose”.

 

Naraku richiuse gli occhi poggiandosi stancamente alla parete che lo sorreggeva. Era debole. Molto debole. Lo sforzo che aveva dovuto compiere due giorni addietro lo aveva sfinito. Ma forse gli aveva anche valso l’occasione per sistemare definitivamente tutti i conti in sospeso e recuperare tutti i frammenti della Sfera dei quattro spiriti. Poco importava, dunque, che adesso si dovesse aspettare. Forse, per lui era addirittura meglio.

 

L’esplosione dell’aura demoniaca che aveva provocato doveva esser stata avvertita molto lontano, e non sarebbe stato prudente muoversi in quel momento, quando tutti erano in allarme. No. Avrebbe aspettato. In fondo, anche il suo alleato avrebbe impiegato del tempo per organizzare e traghettare l’esercito.

 

“E poi, l’ultimo atto…prima della battaglia finale che mi vedrà vincitore”

 

 

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Capitolo 3
*** 3. CHI SEI? ***


CAPITOLO 3

CAPITOLO 3

CHI SEI?

 

 

“Dove…dove sono?”.

 

Stropicciandosi gli occhi, Rin si mise a sedere. Piano, i contorni delle cose assunsero spessore e la bambina riuscì a definire il luogo dove si trovava. Una grotta. Come ci era arrivata? L’ultima cosa che ricordava era il freddo. Si era allontanata per rincorrere un coniglietto, e si era persa. Così, si era raggomitolata ai piedi di un albero, e aveva iniziato a pregare perché il suo signore arrivasse presto a prenderla. Non le piaceva quel posto. Era buio, e faceva tanto freddo. La neve cadeva a larghe falde e soffiava un vento gelido, simile all’ululare del lupo. Aveva paura.

 

Rin si guardò intorno curiosa. Non vedeva Jacken da nessuna parte e neanche il suo signore. Che si fossero arrabbiati e l’avessero lasciata lì sola? A quel pensiero, gli occhi della bimba si velarono di lacrime, che però ricacciò subito indietro. Non era possibile. Non l’avrebbero cercata se poi avessero voluto abbandonarla.

 

Abbandonarmi…Non lo devo pensare! Il signor Sesshomaru non lo farebbe. Si arrabbierà perché mi sono allontanata, ma nulla di più. Al massimo mi proibirà di muovermi per un po’…Forse è qui fuori con Jacken e Ah-Un che mi sta aspettando!

 

Si alzò in fretta dirigendosi verso l’apertura della grotta, ma vi si appiattì contro scoraggiata. Fuori nevicava ancora con forza, e non c’era traccia dei suoi compagni di viaggio. Mosse qualche passo oltre l’apertura, cercando di vedere oltre la neve. Nulla. Si rannicchiò a terra e iniziò a piangere piano. Era sola. Di nuovo.

 

“Non devi uscire con questo tempo. Rischi di ammalarti”.

 

La voce che sentì alle sue spalle era nuova per lei, ma non sembrava minacciosa. E poi aveva quel vuoto dentro che le faceva male. Molto male. Girò un po’ il viso, ma non riuscì a vere in faccia la persona che la sovrastava, perché la luce del fuoco alle sue spalle ne oscurava le fattezza. Non le importò. Si alzò di scatto, gettandosi contro di lei, artigliando con le mani rattrappite dal freddo il suo vestito. Non voleva che sparisse anche lei. Non lo voleva.

Continuò a piangere anche quando si sentì prendere in braccio e riportare verso il fuoco.

 

“Basta piangere”.

 

Un ordine. Come quegli del suo padrone. Ma pronunciato con una voce tanto gentile che sembrava più una supplica. Rin si impose di trattenere le lacrime. Chissà perché, non le piaceva l’idea che potesse dispiacere a chi la teneva in braccio vederla piangere. Si sentiva protetta da quelle braccia. Come quando era vicina a Sesshomaru.

Alzò timidamente gli occhioni luccicati e si trovò a fissare il volto di una ragazza.

 

“Chi sei?”

 

La ragazza sorrise. Un sorriso dolce, ma anche malinconico.

 

“Alessandra”.

 

Non aggiunse altro. Solo, riprese da terra quella strana coperta colorata e ci avvolse la bimba, portandola poi vicino al fuoco. La vicinanza col fuoco destò completamente Rin, che si mise ad osservare curiosa la ragazza che le sedeva accanto. Era alta (almeno rispetto a lei), forse come il signor Sesshomaru, e portava degli strani vestiti. Pantaloni scuri e una grande casacca nera senza bottoni. I capelli, lunghi e raccolti in uno shignone, incorniciavano un viso dove, sotto una frangia un po’ ribelle, brillavano due occhi del colore del mare in tempesta. Non riusciva a capire il colore dei capelli: neri dietro, perché in ombra, davanti passavano da tonalità ramate a bagliori dorati. Colpa del fuoco.

 

Rin non ne aveva paura. Restava in silenzio, come assorta nei suoi pensieri, ma non le faceva paura. Allora decise di parlare lei. Non le piaceva il silenzio. Ecco, quello la spaventava. Non quella sconosciuta un po’ fredda e silenziosa.

 

“Senti…io mi chiamo Rin. Piacere. Da dove vieni? Sei stata tu a trovarmi? Quanti anni hai? Io ne ho sette, quasi otto. E poi…”.Un sommesso gorgoglio salì dallo stomaco di Rin, che si interruppe, abbracciandosi un po’ imbarazzata la pancia.

 

“Vuoi un biscotto al cioccolato?”. Alessandra aveva iniziato a frugare nel suo zaino per poi porgere a Rin un pacchetto di biscotti. La bimba li guardò sorpresa. Non aveva mai visto biscotti di quel colore, se non quando si bruciavano. Ma aveva troppa fame per pensare ed assaggiò. Anche se bruciati, erano comunque qualcosa da mangiare.

 

Buoooni!!! Li hai fatti tu?”

 

Alessandra la guardò mentre finiva il pacchetto di biscotti e riprendeva a tempestarla di domande. Ma come fa una bambina appena scampata all’assideramento ad avere tanta energia? Si rassegnò a rispondere alle sue curiosità, anche se in modo un po’ evasivo. Non era ancora pronta a parlare. Non se la sentiva ancora. Tuttavia, dovette ammettere a se stessa che era piacevole dopo tanto tempo avere accanto una persona che le parlasse sinceramente, senza compassione, pietismi o doppi fini.

 

*****

 

Un kimono. Quella bambina indossava un kimono.

Lo aveva notato, ma non ci aveva dato molto peso. Sapeva che in Giappone le persone, di tutte le età, indossavano abbastanza di frequente il loro abito tradizionale. Non come in Europa. Non come faceva lei, che si vestiva del costume tipico della sua terra solo in occasioni particolari. Oppure c’era una festa. E Rin si era allontanata attratta da chissà cosa e persa.

 

Si rigirò rincorrendo il sonno che scappava. Non riusciva ad addormentarsi ed alla fine si alzò. Accanto a lei, Rin dormiva tranquillamente, gli occhi ancora un po’ gonfi per il pianto. Quando le aveva promesso che l’avrebbe portata in paese, la piccola si era fatta prendere da un vera crisi isterica. Aveva iniziato a piangere, spaventata. L’aveva supplicata di non farlo, di non portarla in un villaggio. Perché lui non l’avrebbe più trovata o avrebbe deciso di lasciarla lì. E lei non lo voleva. Voleva stare con lui. Sempre.

 

Alla fine, Alessandra si era dovuta arrendere. Le aveva promesso che l’avrebbe aiutata a ritrovare questa persona e che non l’avrebbe condotta in nessun paese. Rin, esausta per il pianto, si era addormentata tranquillamente.

 

Alessandra invece non riusciva proprio a dormire. Fuori dal riparo, la neve cadeva ancora, ma ormai era rada e il cielo iniziava a schiarirsi. Il giorno dopo sarebbe stata una bella giornata di sole. Sospirò. Sapeva che avrebbe dovuto scendere completamente a valle e rivolgersi alla prima stazione di polizia, ma non ne aveva il coraggio. Anche perché le sembrava che per Rin la cosa più importante fosse ritrovare questo signore. Non gli aveva detto il nome, ma lo aveva chiamato in un modo strano: yankii. In realtà la bimba aveva usato un altro nome…YekaiYounkiy…Un termine che non aveva mai sentito. Ma aveva ipotizzato che lo avesse storpiato perché ancora troppo piccola.

 

Yanki…americano…ma cosa ci faceva un americano in Giappone, con una bimba al seguito, sulle montagne in piena tempesta di neve? E soprattutto, come aveva potuto lasciarla andare in giro così? Rabbia, nostalgia, frustrazione…Mille emozioni le si agitavano dentro, fra la gola e lo stomaco, ma il suo volto era rimasto una maschera di cera. Aveva imparato col tempo, e a sue spese, che per andare avanti doveva fingersi indifferente. Perché la gente è sempre pronta ad approfittare delle debolezze altrui. E lei non poteva permettere che accadesse. Perché era sola. Ed aveva già sofferto troppo.

 

*****

 

L’odore era scomparso, confuso con la neve che era caduta. Aveva perso la pista. Ma non poteva essere andata lontana. In fondo, era solo una bambina.

Saltando agilmente di ramo in ramo, Sesshomaru arrivò sulle rive di un piccolo torrente, in parte ghiacciato. Si fermò su di un ramo, in alto. Aveva percepito qualcosa…Odore umano.

 

Alessandra si avvicinò al torrente e lanciò un sasso un po’ pesante sul ghiaccio, rompendolo quel tanto necessario per riempire la borraccia. L’alba era vicina, e alle prime luci del crepuscolo, il demone la potè osservare senza essere visto. Era un’umana di certo. Lo capiva dal suo odore, in mezzo al quale distingueva anche quello di Rin. Doveva averla incontrata. E toccata. Tuttavia, qualcosa lo infastidiva: il colore dei capelli. Ramati. Rossi. Non aveva mai visto umani con i capelli di quel colore. Quello era un colore da demoni. Eppure, era umana. Di questo era certo.

 

“Ti avevo detto di non…”.

 

Alessandra, avvertendo un leggero fruscio alle sue spalle, si era voltata. Ma invece di Rin, come si aspettava, aveva di fronte un ragazzo, che la sovrastava. Sesshomaru era infatti sceso dall’albero e le si era avvicinato. Voleva sapere dove fosse Rin. E accertarsi che la ragazza che aveva di fronte non fosse un fantoccio demoniaco.

 

“Dov’è Rin?”.

 

Una voce fredda, incolore, ma al tempo stesso molto suadente. Come una malìa, ti restava nelle orecchie, ti ipnotizzava. Alessandra aveva capito perfettamente la domanda, ma non riusciva ad articolare risposta. Si sentiva vulnerabile sotto lo sguardo tagliente di quel ragazzo. E odiava sentirsi così. Indifesa.

 

“Perché lo vuoi sapere?”.

 

Aveva capito chi fosse. Quello era il signore che Rin voleva ritrovare. Ma non era un americano. Di questo Alessandra ne era assolutamente convinta. Era in ombra, perché il sole che stava sorgendo alle sue spalle le impediva di vederlo bene; di certo il suo incedere era affascinate, quasi regale.

 

Sesshomaru le si fermò a pochi centimetri di distanza, assottigliando impercettibilmente gli occhi e lei si alzò con calma, arrivando quasi alla sua altezza. Ora lo poteva vedere in viso. Le iridi ambrate percorse da sottili striature dorate che zizzagavano attorno alla pupilla. Uno sguardo austero, penetrante. Lo sguardo di chi è abituato a comandare. Ma anche un’ombra più scura, che non riusciva a definire. Poi, alcuni segni sul volto, graffi rosati, forse tatuaggi, e una mezzaluna in fronte, seminascosta da una frangia del colore della luna.

 

“Perché mi appartiene”. Di nuovo quella voce. Quella voce dannatamente inebriante. Ma la risposta non le piacque.

 

“Ti appartiene?”. Alessandra fremeva di rabbia, di sdegno. “E chi lo ha deciso? Tu?”

 

Sesshomaru ne fu sorpreso, anche se non lo diede a vedere. Non solo quella ragazza lo guardava negli occhi senza paura, ma gli rispondeva a tono anche. Se escludeva Rin, finora tutte le persone che aveva incontrato o erano morte per avergli mancato di rispetto o si erano gettate strisciando e implorando pietà ai suoi piedi. O lo avevano riverito, prostrate a terra. Quella ragazza, invece, non aveva intenzione né di piegarsi né di portargli rispetto. E la cosa lo irritava parecchio.

 

“E se anche fosse?” lo sibilò appena, avvicinandosi pericolosamente ad Alessandra che dovette reclinare un po’ la testa per poter continuare a guardarlo in viso.

 

“Non ne hai alcun diritto”.

 

Una mano artigliata chiusa intorno alla sua gola, il peso di quel ragazzo pronto a soffocarla e un tronco a immobilizzarla. Era successo tutto in una frazione di secondo. E adesso, Alessandra si trovava nei guai. Ma non lo aveva ancora capito. L’unico pensiero che la sua mente riusciva a formulare era che quel ragazzo non era umano. Non lo era.

 

Si ricordò in un lampo della parola con cui Rin lo aveva definito. L’elaborò nella sua mente, la ricostruì e ne riesumò il significato da un luogo nascosto della memoria.

 

Youkai…Demone…Questo ragazzo è un demone…non è possibile…

 

Sesshomaru intanto continuava a guardarla negli occhi. Occhi spenti, vuoti, tristi, ma che non avevano la minima paura. Anche adesso che la sua vita era in pericolo, che gli sarebbe bastata una leggera pressione delle dita per staccarle la testa. Non aveva paura.

 

Perché?

 

Un rumore di passi lo costrinse a voltarsi verso la boscaglia, da cui uscì la piccola Rin, per poi correre ad abbracciare Sesshomaru. Il demone la guardò, inespressivo, e la bambina gli regalò uno dei suoi soliti splendidi sorrisi, capaci di intenerire anche lui. Sospirò mentalmente. Stava bene. Ma una piccola punizione non l’avrebbe evitata. Doveva imparare che poteva essere pericoloso andarsene in giro da sola.

 

“Preparati” le aveva detto calmo, e mentre Rin si era allontanata per andare a prendere qualcosa nella caverna dove aveva dormito, Sesshomaru si era girato nuovamente verso Alessandra, avvicinando pericolosamente i loro visi.

 

“Per questa volta, vivrai. Ma la prossima…”.

 

Le sussurrò all’orecchio, lasciando volutamente la frase in sospeso e ritrasse la mano. Libera da quella morsa, Alessandra si accasciò a terra, nella neve fresca, senza un gemito. Sembrava che la sua anima si fosse staccata da lei. Sesshomaru la guardò ancora per un istante, poi si voltò facendo frusciare la veste e sparì veloce e lieve come era venuto.

 

Un demone…Quello era un demone…Com’è possibile?...

 

Allo stupore si sostituì la rabbia per la minaccia fattale, ma poi, ripensando al suo volto e i suoi occhi lo sguardo di Alessandra si addolcì, senza che neanche lei se ne accorgesse. Le avevano sempre detto che gli occhi sono lo specchio dell’anima. E gli occhi di quel ragazzo nascondevano qualcosa. E lei si sorprese a desiderare si sapere cosa. Scosse la testa. Doveva essere impazzita. Conseguenza dello shock.

 

Tuttavia, Alessandra sapeva una cosa. Nonostante tutto, non le avevano fatto paura. Sembravano piuttosto gridare aiuto. Un grido che però era soffocato. Pensò di essersi sbagliata. Un essere simile non avrebbe mai potuto gridare aiuto. Anzi, essere triste.

 

Eppure…Anche se la sua mente le diceva di non pensarci più, nel profondo del suo cuore voleva crederci…Perché, anche se non lo avrebbe mai ammesso, sperava di aver trovato qualcuno capace di capire anche il suo dolore.

 

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Capitolo 4
*** 4. DUBBI E PROGETTI ***


CAPITOLO 4

CAPITOLO 4

DUBBI E PROGETTI

 

 

“Oh iissaaa…Mamma mia, quanto pesa!”.

 

Kagome si sedette sul bordo del pozzo, trascinando verso di sé due pesantissimi zaini, che sembravano pronti a scoppiare da un momento all’altro.

 

“Sei tornata finalmente! Sono tre giorni che ti stiamo aspettando!”. Inuyasha le si avvicinò con la sua solita aria di rimprovero, ma in realtà era contento di rivederla. Le era mancata, anche se non lo avrebbe ammesso mai, neanche sotto tortura. Ma ormai la presenza al suo fianco di quella ragazza cocciuta e delicata, bisognosa di protezione da quel mondo selvaggio e tanto forte da sconfiggere demoni e purificare la Sfera era diventata quasi abituale. Quando lei non c’era, il ragazzo era teso, in agitazione e scontroso più del solito. Le mancava. Come se fosse l’aria che respirava.

 

“E dai, Inuyasha! Non ti arrabbiare; sono stata via di più perché avevo bisogno di qualcosa contro la neve e poi ogni tanto devo anche farmi vedere a scuola, se no non riesco a recuperare e resto indietro. Guarda che quest’anno ho gli esami!”

 

“Esami? E cosa sono?”

 

Kagome sospirò. Sarebbe stato duro spiegare al suo amico la complicata trafila scolastica, allora si limitò a paragonare il tutto ad una prova un po’ speciale. Il ragazzo non fu molto soddisfatto della risposta, ma Kagome era troppo impegnata a issare un voluminoso pacco per prestargli troppa attenzione.

 

Accidentaccio, ma quanto pesa?! Speriamo che sia l’imballaggio, se no come faccio a portarmela dietro?

 

Kagome…”. Il mugolio della ragazza lo convinse a continuare. Doveva farle quella domanda, se no non sarebbe stato tranquillo. Era vero che non aveva più avvertito nulla, ma una forza simile l’aveva percepita solo una volta, cinquant’anni prima, mentre stringeva fra le mani la sfera dei quattro spiriti.

 

“Senti Kagome…l’altro giorno…In quell’energia…”

 

“Finalmente! Adesso mi carico tutto in spalla e andiamo al villaggio. Ho portato tante cose interessanti e utili. Va bene?”

 

“Ehi! Ma non mi stai neanche ascoltando?!”.

 

Il giovane mezzo-demone si arrabbiò, ed era pronto a continuare la sua sfuriata, ma quando la vide, mentre tentava di portare tutto quel peso, la rabbia gli passò completamente. Anzi, più la guardava, avvolta in quella giacca ingombrante, soffocata da quella lunga sciarpa azzurra, più la sua testa azzerava i pensieri. E l’unica cosa che gli venisse in mente per descriverla era: incantevole.

 

Scosse la testa con forza, sorprendendosi di quei pensieri. Ma che gli prendeva? Si avvicinò alla ragazza e le prese zaini e pacco, avviandosi a grandi passi verso il villaggio. Possibile? Perché non lo stava mai ad ascoltare? Perché?

 

“Lascia fare a me. Sono troppo pesanti per te”

 

Kagome rimase molto sorpresa del gesto. Era abituata ad essere protetta da Inuyasha, ma capitava di rado che il ragazzo si mostrasse così gentile con lei. Sorrise. Forse era in pensiero per lei e così voleva mostrarle che era contento che fosse tornata.

 

“Allora?! Vieni o hai deciso di restar lì a prender freddo?”. Sì, decisamente era gentile. Kagome fece una piccola corsa e lo raggiunse, iniziando a camminare al suo fianco in silenzio.

 

“Senti…”

 

Mh?”

 

“Cosa volevi chiedermi prima?”. Inuyasha ne fu sorpreso, non si aspettava quella domanda. E ancor di più non si aspettava il tono interessato della ragazza. Ma allora mi ascoltavi…

 

“La sfera…”

 

Kagome si fece attenta. Cosa c’entrava la sfera dei quattro spiriti? Era da tanto che non ne avvertiva la presenza.

 

“Tre giorni fa, hai avvertito la presenza della sfera assieme all’aura di Naraku?”. La ragazza scosse la testa, e lui ne fu deluso. Possibile che si fosse sbagliato?

 

Kagomeee!!!Che bello! Sei tornata!”. Il piccolo Shippo le saltò al collo, mentre anche Sango e Miroku si avvicinavano agli amici.

 

*****

 

“…e per finire una tenda”. Kagome aveva svuotato i suoi bagagli sotto gli occhi meravigliati dei suoi amici. Non avevano mai visto nulla del genere.

 

“Cos’è una tenda?”chiese curioso Shippo.

 

“Una specie di capanna portatile. Serve per dormire all’aperto”.

 

Kagome aveva controllato tutto. Non si era dimenticata niente per fortuna; anche se l’idea di viaggiare con l neve non la entusiasmava per niente, sperava almeno di aver pensato ad ogni evenienza. In realtà, non si era mai preoccupata più di tanto del suo girovagare, confortata dal fatto di non esser mai sola, ma dopo quello che aveva saputo a scuola…

 

“E che ne facciamo di una…Sì, insomma, di quell’affare?”

 

“Mi sembra logico, Inuyasha. Ci dormiamo”. Shippo rispose con aria da saputello e si beccò un pugno in testa dal mezzo-demone.

 

“Abbiamo sempre dormito all’aperto, e non ci sono mai stati problemi. Perché dovremmo cambiare?”

 

“Perché è invero, e io no ho la minima intenzione di buscarmi una polmonite”. Inuyasha non rispose. Lui aveva sempre dormito all’aperto, con qualunque tempo, e non si era mai ammalato. Non sapeva neanche cosa volesse dire polmonite. Però decise di fidarsi.

 

“Divina Kagome. Perché questa freccia indica Sango? Serve forse ad individuare le belle ragazze?”. Il commento di Miroku non piacque molto alla sterminatrice, che infatti gli assestò un sonoro ceffone, per poi restituire l’oggetto all’amica.

 

“Questa è una bussola. Serve per non perdere la strada”.

 

Kagome, scusa se mi permetto, ma mi sembra che tu abbia preso più precauzioni del solito. Hai forse paura?”. L’anziana Kaede era rimasta affascinata anche lei da tutti quegli strani oggetti, ma aveva anche notato lo sguardo preoccupato della ragazza.

 

“No!No! Assolutamente! È solo che…”

 

“Che…?” la invitò Sango a continuare.

 

“Ecco, non vorrei fare l’esperienza che sta vivendo una mia compagna di scuola. È dispersa da tre giorni e nessuno riesce a trovarla. Sembra sparita nel nulla. Me lo hanno raccontato le mie amiche, a scuola, ma se ne parla anche ai giornali. Da quello che mi è stato detto, questa ragazza, assieme ad alcuni suoi compagni si era recata sul monte Fuji per raggiungere un laghetto stupendo per pattinare. Però a un certo punto si è alzata la nebbia e lei è sparita. Per questo sono un po’ preoccupata. Quella ragazza è nata sulle montagne, è abituata a percorrerle con qualsiasi tempo…Quando ho saputo che era scomparsa, mi sono ricordata che quando ero partita qui nevicava e ho avuto paura…”

 

Kagome…Non ti fidi a stare con noi?”

 

“No, Shippo…Lo sai che di voi mi fido. Non so cosa mi abbia preso, ma mi sono sentita meno protetta e …”

 

“Quante storie! Con o senza neve noi andremo lo stesso a cercare Naraku! Se tu hai paura, ritornatene a casa!” Inuyasha afferrò la sua katana e uscì dalla capanna, scocciato. Aveva recitato proprio bene.

 

“Forse Inuyasha è stato un po’ brusco, ma cosa pensate di fare divina Kagome?”

 

“Quello stupido…Per chi mi ha presa? Non ho alcuna intenzione di andarmene. Ci siete voi con me, no? Non ho motivo di aver paura di un po’ di neve!”

 

Intanto, fuori dalla capanna, sotto un cielo terso spazzato da un vento glaciale, Inuyasha osservava il vuoto, sperando in cuor suo che la ragazza decidesse di tornare a casa sua. Anche se questo lo faceva star male. Ma più i giorni passavano, più una sensazione di pericolo si faceva strada in lui. E tutto era iniziato dopo aver sentito quell’aura…

 

Kagome…Ti prego, vattene…Questa volta, c’è qualcosa di diverso…

 

*****

 

Le rocce trasudavano acqua, e un leggero vapore si spandeva per i corridoi di pietra. Un demone camminava attento, cercando di scorgere il sentiero nell’oscurità totale.

 

Giunse infine in una caverna più grande, illuminata da una fredda luce che sembrava venire dalle pareti stesse. Si inginocchiò e attese, paziente.

 

“Che notizie mi porti?”

 

Era arrivato. Il suo signore gli si era manifestato all’improvviso, immagine evanescente e sfumata in lingue azzurre.

 

“Ha accettato, e i sigilli sono già stati indeboliti. È solo questione di tempo ormai, prima che voi possiate tornare”

 

L’ectoplasma annuì sommessamente. Il tempo era vicino, il giorno della riscossa che li avrebbe visti conquistare quelle verdi isole bagnate dal mare.

 

“Che mi dici del nostro nemico? Sei riuscito a rintracciarlo?”

 

Il demone inginocchiato sussultò impercettibilmente. Lo aveva cercato a lungo, con circospezione, per non destare sospetti e mandare a monte una vendetta preparata nei secoli. Sapeva bene che i suoi signori, più ancora del potere, del territorio, del bottino, desideravano prendersi vendetta su di lui, su quel demone che più di quattrocentocinquant’anni prima li aveva sconfitti, umiliati, costretti a ritirarsi sul continente. Una vendetta che sembrava ormai impossibile.

 

“Mi dispiace, mio signore,ma è morto”

 

“Morto?”. Il demone annuì. “Non sono ancora riuscito a scoprirne le cause, ma se mi lasciate un altro po’ di tempo, io…”

 

“No! È inutile cercare nel passato qualcosa che non ci può servire”.

 

Lo spirito strinse i denti, facendoli stridere sinistramente. Fino a un attimo prima, pregustava il sapore della vendetta, un miele dolcissimo. Ora invece assaporava il gusto acre della delusione. Era una situazione imprevista, che volgeva a suo vantaggio, ma che lo lasciava insoddisfatto. Voleva lo scontro, la rivincita, lo aveva atteso per secoli, e adesso se la vedeva sottratta.

 

“Aspettava un erede. Trovalo!”.

 

Sì, aveva deciso. Si sarebbe vendicato sul figlio del suo antico nemico. Avrebbe ucciso lui, come se fosse il padre. Non aspettò neanche la risposta e si voltò per andarsene, mentre le fiamme che lambivano la sua inconsistente figura fremettero e ondeggiarono.

 

Si fermò un istante. Un ultimo dettaglio.

 

Naraku?”

 

“Per il momento non è pericoloso. E ci può essere utile. Ma se si dovesse rivelare troppo pericoloso, allora…”.La sciò la frase in sospeso, ma accarezzò i corti pugnali che teneva alla cintura.

 

Il suo signore sorrise, compiaciuto, per poi dileguarsi come era venuto.

 

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Capitolo 5
*** 5. MALATTIA (Prima parte) ***


CAPITOLO 5

CAPITOLO 5

MALATTIA

Prima parte

 

 

Qualcosa non andava.

Una sensazione, che col tempo si era fatta sempre più chiara. E ora i suoi sintomi erano evidenti. Lampanti. E lo facevano preoccupare. Anche se non lo avrebbe mai ammesso.

Sesshomaru si fermò, lasciando che il drago bicefalo lo superasse, col suo passo lento e pesante che lo faceva affondare nella neve alta. Si lasciò superare, fingendo indifferenza, guardando il vuoto davanti a sé.

 

“Padrone…”.

 

Jacken gli si affiancò, scrutandolo dal basso in alto. Avrebbe voluto sapere cosa passava per la testa del suo signore, percepire i suoi pensieri; ma sapeva benissimo che il demone non lo avrebbe mai reso partecipe delle sue riflessioni. Per di più, temeva che Sesshomaru fosse ancora in collera con lui per aver perso Rin. Ormai una settimana prima. Lo aveva punito. Duramente. Come aveva punito Rin. Ciononostante, osò terminare la frase e chiedere se qualcosa tormentasse il giovane. Si aspettava solo il silenzio, come al solito, o un’occhiata gelida, ma invece…

 

Sesshomaru assottigliò lo sguardo, fissandolo su un punto preciso davanti a lui.

 

“Rin…”

 

L’youkai se ne era accorto. Qualcosa nella bambina non andava.

 

Sentendosi osservata, Rin si voltò e regalò un ampio sorriso a Sesshomaru. Uno dei soliti, in apparenza. Un sorriso forzato in realtà. E il demone lo percepì. Avvertì chiaramente lo sforzo che Rin faceva di mostrarsi allegra come al solito. Vivace, spensierata. Anche se non lo era.

E Sesshomaru lo sapeva. Lo aveva ignorato fino a quel momento. Volutamente. Aveva preferito credere che il calo di vitalità della sua protetta fosse legato al fatto che le aveva vietato di allontanarsi da Ah-Un. Che l’avesse rimproverata duramente.

 

Ma era da più di una settimana che Rin era strana. Svogliata. Certo, sorrideva come sempre, ma non giocava più. Non correva a rotolarsi nella neve fresca dopo una nevicata; non cercava di coinvolgere Jacken in qualche gioco e non lo disturbava nemmeno la sera, quando montava il piccolo campo. Si limitava a sedersi vicino al fuoco e a spiluccare un po’ di cibo. Aveva perso l’appetito, e anche il sorriso. Quel sorriso che Sesshomaru le aveva sempre visto sul viso.

 

Era come se si stesse svuotando lentamente. Non gli camminava più al fianco, non cercava più qualcosa da regalargli. Camminava accanto ad Ah-Un, ma anche in quel caso per poco. La maggior parte della giornata la trascorreva in groppa al dragone, silenziosa.

 

Sesshomaru non capiva. E non capire lo infastidiva. Rin ce l’aveva forse con lui perché l’aveva punita? No, scacciò subito quel pensiero. La bambina era sveglia e sapeva che se l’aveva ripresa il suo motivo c’era; e poi, se fosse stata arrabbiata, perché sforzarsi di mostrarsi sempre allegra con lui, quando si sentiva osservata? Sesshomaru questo l’aveva notato. Rin fingeva. Soprattutto con lui. Solo quando credeva di non essere vista si lasciava andare.

 

Fastidio, fastidio…Non riusciva a provare altro. Per non riuscire a capire. Affidò Rin al servitore e con un elegante salto distanziò il gruppo, addentrandosi nella foresta. Aveva bisogno di restare solo.

 

 

 

 

Il fazzoletto si impregnò d’acqua gelida e prima che potesse affondare una mano lo strinse forte. Alessandra si portò il tampone improvvisato al volto, vicino alle labbra, per pulire il sangue che ancora le incrostava. Il contatto col liquido freddo le fece male, ma il dolore si attenuò subito, sostituito dalla piacevole sensazione anestetizzante che il gelo produceva.

 

Da una settimana vagava per quel paese sconosciuto e ormai aveva chiare in testa due cose: la prima era che si trovava ancora in Giappone e la seconda che quel Giappone somigliava tantissimo a quello del 1500, almeno per quello che ricordava di storia medievale nipponica.

 

E’ impossibile…ma sembra che sia finita in una specie di universo parallelo, sospeso nel tempo…Almeno ci fosse il modo di tornare; e magari anche di sapere come sono finita qui…

 

Si rilassò contro il tronco dell’albero cui si era appoggiata. Inutile. Le risposte non sono mai portate dal vento e lei non riusciva ad avvicinare qualcuno senza essere presa a sassate. Le faceva male un po’ tutto il corpo. Aveva incontrato alcuni villaggi, e tutti l’avevano ricevuta allo stesso modo: con minacce e sassi. Aveva rischiato il linciaggio più di una volta. Si specchiò nella pozza d’acqua semighiacciata. Odiava guardarsi allo specchio, odiava la sua immagine, perché le riportava alla mente cose che avrebbe preferito dimenticare. Tuttavia, doveva ammettere a se stessa di non incutere certo timore. Va bene, l’espressione avrebbe potuto anche essere un po’ più cordiale, ma non era certo da farne una tragedia e cacciarla a sassate. Perché avrebbe dovuto sorridere e mostrarsi gioviale quando non ne aveva motivo? Lei odiava la falsità, e l’ipocrisia. Ne aveva avuto abbastanza.

 

Sarà meglio che mi cerchi un riparo, perché stanotte nevicherà pensò rimettendosi in spalla il suo zaino e scrutando il cielo plumbeo. Un bel colore. Colore di fuliggine. Colore che richiamava il fuoco. Avrebbe tanto voluto un camino acceso e una buona tazza di infuso caldo.

 

Sospirò. Pazienza. Ne faceva anche a meno. L’unica cosa che le premesse in verità era avere delle risposte e da come stavano andando le cose, pensò che l’unico modo per averle fosse di incontrare una miko, una sacerdotessa di un qualche villaggio. Sperava che almeno lei l’avrebbe ascoltata; poi avrebbe anche potuto cacciarlo. Ma le sarebbe sembrata una vittoria anche il solo riuscire ad avvicinarla.

 

Ripose il fazzoletto in tasca e iniziò a incamminarsi, stringendosi nel maglione che indossava. Aveva iniziato a soffiare un vento tiepido che non prometteva nulla di buono.

 

 

 

 

 

Un debole fuoco illuminava le pareti di roccia della caverna dove Jacken aveva piantato il campo per la notte. Dopo che Sesshomaru si era allontanato, il piccolo demone aveva proseguito la marcia come da ordini e si era fermato solo dopo il tramonto, quando ormai iniziavano a cadere dal cielo larghe falde bianche.

 

Per tutto il giorno, non aveva fatto altro che pensare alla risposta che il suo signore gli aveva dato. Sembrava preoccupato e la cosa era decisamente strana. Ma anche Rin era strana, a ben pensarci. Era orami da una settimana che non lo tormentava più e, se all’inizio la cosa gli era parsa una piacevole novità, ora gli mancavano la vivacità e le chiacchere di quella bambina. In fondo, gli si era affezionato, doveva ammetterlo.

 

Si voltò verso un piccolo futon, in cui Rin era rannicchiata, con le coperte fin a metà del volto. Dormiva. Ma ogni tanto dava qualche colpetto di tosse. Jacken non ci fece caso. Da un po’ Rin tossiva, ma era già successo. Probabilmente aveva preso freddo.

 

Sesshomaru arrivò che era notte fonda, figura bianca ed elegante nel candore della neve. Aveva corso per ore nei boschi, si era allenato, aveva cercato di tenere la mente concentrata su qualcosa che non fosse Rin. Alla fine, aveva deciso di rientrare. Un presentimento, forse.

 

Appena varcata la soglia della caverna, sentì dei colpi di tosse. Secchi, pesanti. E poi un sussurro che sembrava un’invocazione. Una preghiera.

 

Si avvicinò al futon e si inginocchiò accanto a Rin. La bambina dormiva un sonno agitato. Continuava a rigirarsi nelle coperte, il respiro affannoso interro di quando in quando violenti colpi di tosse . E poi, c’era quel sussurro confuso col respiro strozzato. Sesshomaru tese le orecchie e lo colse finalmente. Due parole sospirate e confuse col gorgoglio dell’aria che le usciva a fatica dalla gola.

 

“Si..gnor…Se..ssho..ma..ru…”

 

L’youkai si piegò di più su di lei. Era accaldata. Sorprendendosi lui stesso del suo gesto, le posò una mano sulla fronte. Era calda. Molto calda. A quel contatto, però, Rin sembrò percepire la sue presenza, perché sorrise di riflesso, lasciando il demone un po’ sorpreso. Sesshomaru però si riprese subito e svegliò con malagrazia Jacken per poi indicargli con un’occhiata Rin.

 

Il demonietto si avvicinò alla bambina e le toccò la fronte.

 

“Ha la febbre, mio Signore.”. Sesshomaru lo fulminò con lo sguardo. Quello lo sapeva già. Non occorreva certo che fosse lui a dirglielo. Ciò che voleva sapere era altro.

 

“Non dovete preoccuparvi. È già successo che Rin si ammali; dopo una dormita sarà di nuovo in forze” concluse Jacken, tornando verso il suo giaciglio.

 

Sesshomaru però non era convinto. Rin stava male. Molto male. L’aveva già vista malata. Ma mai così. Aveva bisogno di cure. Subito.

 

 

 

 

Alessandra avanzava sotto la neve che cadeva lenta, quasi facendosi beffa di lei. Lei che arrancava e sudava per andare avanti, mentre quei sottili cristalli di ghiaccio danzavano nell’aere. Le era sempre piaciuta la neve, ma in quel momento la detestava. Detestava il suo colore, la sua freddezza. Detestava che scendesse irriverente dal cielo. E che confondesse tutto ciò che la circondava.

 

Sesshomaru le apparve davanti senza alcun preavviso. Si era avvicinato silenzioso come un gatto e ora le si ergeva davanti. Regale. E la scrutava con quei suoi occhi freddi. Alessandra odiava esser fissata così. Esser studiata. Soprattutto da quel ragazzo. Le metteva soggezione, anche se non avrebbe mai abbassato lo sguardo. Quegli occhi di ambra sembravano voler leggerle dentro. Sapere tutto di lei. Istintivamente, la ragazza raddrizzò le spalle: se voleva scoprire i suoi segreti si accomodasse pure. Non avrebbe mai saputo niente. Lei non glielo avrebbe permesso.

 

Occhi blu. Quella ragazza aveva gli occhi colore del mare. Bui. Risplendevano di una luce inquieta e strana. Capace di ammaliare per l’enigma delle sue sfumature cangianti. E Sesshomaru continuava a fissare quelle iridi senza neanche capire cosa veramente stesse cercandovi. Semplicemente, non voleva distogliere lo sguardo.

 

Aveva sentito il suo odore. Odore umano. Ed era uscito dalla grotta. Non c’era il tempo di cercare un guaritore. O meglio, non lo sapeva se ci sarebbe stato il tempo. Ma quando aveva percepito quell’odore, aveva preso rapido la sua decisione. Ci avrebbe provato. Perché era l’unica cosa che poteva fare in quel momento.

 

E adesso si trovava di fronte a quella ragazza che lo guardava fisso, senza alcuna intenzione di abbassare lo sguardo. Sfrontata come l’altra volta. Un’impertinenza temeraria. Folle. Perché doveva ben ricordarsi della sua promessa: se l’avesse rincontrata sulla sua strada, allora…

 

Eppure quell’umana non sembrava aver memoria di quella minaccia. Gli stava di fronte come se niente fosse; con freddezza.

 

“Seguimi”.

 

Un ordine, secco. Perentorio. Sesshomaru si girò, incamminandosi. La veste di seta frusciò e riempì il silenzio. Per istanti lunghissimi ci fu solo silenzio.

 

“Perché?”.

 

Dubbio nella voce, attenzione, sospetto. Ma non paura. C’erano molte sfumature in quella voce, ma non quella della paura. E di nuovo Sesshomaru si chiese perché. Perché quella ragazza umana non ne avesse paura. Ma non aveva tempo in quel momento per pensare.

 

“Rin”.

 

La risposata fu poco più di un sussurro. Piatta. Incolore. Ma Alessandra la percepì benissimo e senza pensare si incamminò dietro al demone.

 

Sesshomaru la guidò nella nebbia, accertandosi con la coda dell’occhio se lo seguisse. Non le disse nulla per tutto il tragitto, né si voltò. Solo una volta entrato nella caverna si scansò, mostrando alla ragazza il corpicino tremante e sudato di Rin raggomitolato nel futon.

 

Alessandra si inginocchiò accanto alla bimba; respirava a fatica, un rantolo soffocante e forzato. Le sfiorò la fronte. Scottava terribilmente.

 

“Puoi guarirla?” Di nuovo quella voce. Quella voce inebriante, e piatta.

 

“Posso tentare” rispose Alessandra, riprendendo posizione eretta. Non le piaceva dover alzare gli occhi per guardarlo in faccia. Per guardare quel viso così…intrigante. Si sorprese del pensiero, che scacciò subito. Non era il momento. Doveva pensare a Rin.

 

“Ma non qui. Ho bisogno di un posto più caldo”.

 

Il tono sembrava non ammettere repliche. Un tono che mai nessuno avrebbe osato usare con Sesshomaru. L’youkai assottigliò lo sguardo, rendendolo affilato come un pugnale. Non le era piaciuta quella risposta. Per niente.

 

“Come ti permetti di rivolgerti così al sommo…”

 

“Fosse anche il più importante degli Shogun imperiali, o mi procura un’abitazione decente in cui Rin possa essere curata come si deve, o può scordarsi il mio aiuto”.

 

Alessandra concluse la frase fissando dura Sesshomaru e ignorando completamente Jacken, che era rimasto a bocca aperta per la sfacciataggine dell’umana e si aspettava di veder scattare il suo signore da un momento all’altro.

 

Sesshomaru, invece, si limitò a indurire lo sguardo, come a voler sottolineare che se si piegava non era certo per lei, ma perché concordava nel suo pensiero. Ma che non osasse più quel tono con lui. Non era nella posizione per poterselo permettere.

 

“Jacken…”.

 

Un nome. Solo quello. Il bel demone non pronunciò altro, e tornò a concentrarsi sul suo duello di sguardi. Il primo che avesse distolto gli occhi dall’altro ne avrebbe ammesso la vittoria. Ed era impensabile per lui di perdere. Soprattutto contro un’umana. Una femmina.

 

“Ecco...Sì…Ci sarebbe un piccola hokora… È abbandonata e mezza diroccata, ma…”

 

“Meglio di niente” sospirò Alessandra, che era si era voltata verso Rin. Non s’intendeva molto di medicina, ma un’idea di quello che Rin aveva se l’era fatta. E la cosa certa era che quella grotta non era il luogo adatto per curarla. Oltretutto, aveva bisogno anche di recipienti, e forse in un tempio, anche se diroccato, avrebbe trovato qualcosa. “Fatemi strada”.

 

Si avvicinò a Rin togliendosi il maglione con l’intenzione di farglielo indossare per poi avvolgerla nelle coperte. Era assolutamente necessario che non prendesse freddo. Non più del minimo inevitabile. E le sole coperte del futon le erano parse troppo leggere ad assolvere quel compito.

Una voce fermò a metà il suo gesto.

 

“Jacken! Provvedi alla mia armatura.”

 

Con un clangore metallico, la corazza scivolò a terra e Sesshomaru la superò noncurante, avvicinandosi al futon. Sciolse la cintura e si liberò della parte superiore del kimono con un fruscio. Solo allora Alessandra notò la veste scivolare morbida lungo il fianco sinistro del demone, senza ostacoli. Non lo aveva notato prima, ma quel ragazzo era privo del braccio sinistro. Con la copertura esterna del kimono in dosso, la menomazione era quasi invisibile, ma ora che Sesshomaru era coperto solo della tunica più aderente, la differenza fra le due maniche si notava.

 

L’youkai, non si curò dell’espressione leggermente sorpresa della ragazza ma, chinatosi su Rin, l’avvolse nel kimono e la sollevò in braccio, stringendosela al petto e cercando di coprirla come meglio poteva anche con la stola di pelliccia. Compito difficile, con l’ausilio di un solo braccio.

 

D’improvviso, si accorse che qualcosa lo stava aiutando. Mani leggere stavano drappeggiando la pelliccia attorno al corpo della bambina e al suo, perché non cadesse e riuscisse a coprirla bene. Rin scomparve in quel mare soffice e bianco. Di lei si intravedeva solo un ciuffo di capelli.

 

Alessandra si allontanò di un passo, sistemandosi il maglione, sentendo gli occhi di Sesshomaru fissi sulla sua schiena. Aveva agito senza riflettere, mossa dall’istinto, in un gesto che le era venuto naturale, che tante volte aveva ricevuto. Ma vedere quel ragazzo, anzi, quel demone, piegarsi su Rin e stringersela al petto per proteggerla, le aveva fatto affiorare alla mente immagini sfuocate e lontane, e sensazioni forti. Un gesto strano, che cozzava con quel viso dall’espressione sempre distaccata e imperturbabile, ma che lei aveva colto come spontaneo. Forse non si era sbagliata. Forse quel ragazzo davvero le assomigliava. Almeno in quella maschera di apparente freddezza.

 

“Andiamo”.

 

Un ordine. Di nuovo. E a lei non piaceva ricevere ordini. Non da lui. Ma Sesshomaru non attese risposta e si incamminò verso l’uscita. Alessandra sospirò: per una volta, poteva anche eseguire.

Solo per una volta, però.

 

 

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Capitolo 6
*** 6. MALATTIA (Seconda parte) ***


CAPITOLO 6

CAPITOLO 6

MALATTIA

Seconda parte

 

 

L’hokora doveva essere abbandonata da molto tempo, almeno a giudicare dalla polvere che ricopriva ogni cosa. Ma sembrava essere ancora solida a sufficienza da permettere di abitarvi. Almeno per il tempo necessario.

 

Alessandra sgombrò da detriti e legni la parte più riparata del pavimento rialzato e vi stese il futon su cui Sesshomaru adagiò Rin. La bambina respirava sempre più con fatica e la febbre doveva essere aumentata, almeno a giudicare dai brividi che le scuotevano il corpo. La ragazza provò una stretta al cuore nel vederla così. Una tristezza che credeva di aver dimenticato. Di aver imparato a domare. Perché era una debolezza che non si poteva permettere. E invece, tutti i suoi sforzi si stavano sciogliendo davanti a quella bambina che continuava a sussurrare il nome del suo signore, senza sapere che lui fosse lì accanto. Freddo e controllato come sempre. Impassibile.

 

Insensibile

 

Quella definizione attraversò veloce la mene di Alessandra, ma la scacciò concentrandosi su quanto fosse necessario fare. Iniziò a girare per il piccolo ambiente ed alla fine trovò alcuni recipienti di bronzo, che dovevano servire per le offerte e l’incenso.

 

Ne afferrò uno non molto grande e uscì, per poi rientrare subito dopo col contenitore colmo di neve. Prese poi il suo zaino e si sedette vicino a Rin, estraendo una cassetta medica. Sorrise dentro di sé, ripensando alle prese in giro dei suoi compagni di escursione quando l’avevano vista arrivare alla stazione così carica, almeno secondo loro.

 

“Guarda che andiamo solo a pattinare e a passare la notte in un rifugio! Non intendiamo mica scalare l’Everest!” avevano detto canzonandola. Ma lei aveva scrollato le spalle ed era salita sul treno. Non le importava quello che pensavano, lei era nata in montagna e sapeva che poteva essere tremenda e benevola al tempo stesso. Lei non era di città come loro, lei ne conosceva i pericoli, anche quelli di una gita preparata nei particolari.

 

E adesso, non poteva far altro che ringraziare il buon senso che le aveva consigliato di non ascoltare quei ragazzi e di preparare il suo bagaglio come da abitudine.

Prese il termometro e lo avvicinò a Rin, ignorando le domande di Jacken e lo sguardo di Sesshomaru.

 

“Serve solo a misurare la febbre” si decise infine a rispondere, almeno per far tacere il piccolo demone. Un trillo meccanico.

 

39.5”. Un sussurro e gli occhi della ragazza s’incupirono di più. Ora l’oceano era sparito, lasciando il posto al colore di una notte priva di stelle.

 

Rin tossiva, forte. Una tosse secca e profonda, ma che faceva gorgogliare il respiro. Una tosse che non piaceva per nulla ad Alessandra. Le sciolse il kimono a quadri quel tanto necessario a scoprirle il petto gracile e la ausculto. Nei polmoni si sentiva qualcosa di strano. Un suono che lei conosceva.

 

“Che cos’ha?”chiese Jacken con voce gracchiante. Le risultava sgradevole quella voce mentre cercava di afferrare ricordi e spiegazioni lontane, dell’infanzia. Mentre voci che la facevano soffrire le risuonavano in testa.

 

“Acqua”.

 

Non aggiunse altro e prese un’aspirina dall’astuccio medico. Tachipirina. Non sarebbe servita per la tosse, ma almeno avrebbe fermato la febbre. Per un po’. La fece sciogliere e avvicinò il bicchiere alla bocca di Rin quando una mano artigliata la fermò tagliando l’aria davanti a lei. Sesshomaru la guardava duro, con occhi colmi di minacce: sembrava non volersi fidare. Alessandra rispose allo sguardo e repentinamente si portò la ciotola alle labbra, bevendone un sorso. Non era veleno. Il demone ritrasse la mano e la lasciò avvicinare.

 

Dopo che Rin ebbe bevuto, Alessandra iniziò a parlare con sussurri: pensava a voce alta permettendo così anche agli altri di avere maggiori delucidazioni.

 

“Ha la febbre molto alta e acqua nei polmoni. Bisogna tenerla al caldo. Il farmaco che le ho dato abbasserà la temperatura, ma per i polmoni non possiamo fare molto”.

 

Intanto girava nella stanza alla ricerca di legna, assi rotte e quanto fosse combustibile. Ci voleva un fuoco. Per riscaldare Rin e farla sudare. E per preparare l’unico aiuto possibile. Ammucchiò il suo bottino nel piccolo camino in pietra e iniziò a sfregare i fiammiferi. Inutile. Avevano preso troppa neve. Erano fradici.

 

“Significa che Rin morirà?”.

 

La domanda di Jacken fece sobbalzare la ragazza e ruppe un fiammifero, sfregato con troppa forza. Morirà…No; non lo avrebbe permesso. Mai.

 

“No”. Una risposta che voleva essere decisa e che però aveva il sapore di una speranza che si estingue. “Non deve accadere…”.Un sussurro, rivolto a se stessa. Guardò la bambina, avvolta nel futon, con la parte superiore del kimono dell’youkai sopra e la testa appoggiata sulla stola di pelliccia. Non lo avrebbe mai permesso. Questa volta non sarebbe rimasta a guardare, avrebbe provato il tutto per tutto. Nessuno l’avrebbe allontanata.

 

“Dannazione!” imprecò quando anche l’ultimo fiammifero le si spezzo fra le dita. Troppo agitata. Anche se lo mascherava bene. Jacken le offrì allora il suo aiuto; anche lui voleva fare qualcosa per quella bimba umana. Perché, se anche lo faceva impazzire, gli voleva bene. Piantò il bastone Ninto davanti ai ceppi e vi fece scaturire il fuoco.

 

Lingue rosse danzarono nell’aria, contorcendosi e regalando un po’ di luce all’ambiente. Finalmente.

 

“La ringrazio”. Alessandra si girò verso il piccolo demone con un sorriso appena accennato, ma nei suoi occhi c’era davvero gratitudine.

 

“Ah, figurati e …Ehi!!! Un momento!!! Non è a me che devi portare questo rispetto ma…”. Il demone si voltò terrorizzato verso Sesshomaru. Come avrebbe preso il suo signore il fatto che quell’umana lo avesse ringraziato dandoli del lei, mentre si ostinava a tenere un atteggiamento irrispettoso verso di lui? Gli dava del tu! Cosa che fino a quel momento, a memoria di Jacken, solo il fratello di Sesshomaru aveva fatto. Una confidenza che il demone odiava.

 

Sesshomaru si limitò a fissarla. Di nuovo quegli occhi d’ambra. Di nuovo quello sguardo tagliente. Ma non disse nulla. La prese come una provocazione cui era meglio non rispondere. Non al momento. Di quell’umana aveva bisogno. Anche se detestava doverlo ammettere. Ma gli serviva. Per Rin.

 

 

 

 

L’acqua bolliva nel recipiente di bronzo. Borbottava. Ogni tanto, un legno mescolava il suo contenuto, fatto di stoffa e pezze strappate.

 

Alessandra aveva pregato Jacken di procurarle alcune cose. Non era necessarie nell’immediato, ma avrebbe preferito averle al più presto. Alcune erano erbe e radici abbastanza facili da trovare; per le altre, si sarebbe dovuto recare in un villaggio. Il piccolo demone aveva aspettato il consenso di Sesshomaru, che aveva semplicemente annuito con il capo. Così, nell’hokora erano rimasti solo Sesshomaru, Alessandra e Rin.

 

La ragazza aveva recuperato alcuni stole sacerdotali e aveva strappato anche qualcuna delle sue magliette di ricambio. La stoffa ideale sarebbe stata quella del vestito che indossava il demone, ma non se la sentì di chiedergli anche l’altra parte alta del kimono. Non lo avrebbe mai lasciato a torso nudo. Poteva anche ammettere che fosse un demone, ma per lei restava un ragazzo. E un ragazzo può soffrire il freddo, anche se lo sente meno. E poi, l’idea di trovarsi con un ragazzo mezzo nudo nella stessa stanza non le piaceva proprio. La imbarazzava troppo.

 

Un lampo nella memoria. Lei che gioca con un ragazzo su un grande letto, mentre piume volano ovunque. Due bambini.

 

Leone…

 

“Come ti sei procurata quei lividi?”.

 

Il legno che usava come mestolo le cadde di mano. Li aveva notati? Beh, in fondo non è che proprio non si vedessero, ma non credeva che lui li avrebbe notati. E tanto meno che le avrebbe chiesto l’origine. Con quella voce strana, impalpabile. Sembrava non avere sfumature, ma dietro nascondeva un tono suadente. Incantatore.

 

“Non sei obbligata a dirlo”.

 

Gentile. Freddo, ma gentile. Non costringeva. Perché quel cambiamento in lui? Che stesse giocondo? Con lei? Alessandra lo temeva. Temeva che stesse giocando con lei come il gatto col topo; che mostrasse due facce del suo carattere per confonderla e poi sconfiggerla. Per vincere.

 

“Contadini”. Aveva deciso. Ci avrebbe provato, almeno. Avrebbe giocato anche lei. O meglio, sarebbe stata più accondiscendente. Per un po’. Per vedere che intenzioni avesse.

 

“Appena mi avvicino ad un villaggio, mi attaccano. Anche se non so il perché”.

 

Una curiosità interessante. Forse avrebbe potuto ottenere delle risposte dal ragazzo, senza dovergli porre direttamente delle domande. Era certa che se lo avesse fatto lui non avrebbe risposto. Non certo perché non le sapesse, le risposte, ma per non darle alcuna soddisfazione, alcun aiuto. Sì, avrebbe cercato qualche risposta. Almeno per raccapezzarci di più in quel mondo che non conosceva.

 

“I capelli”.

 

Sesshomaru stava osservando i capelli della ragazza, spettinati e disordinati dal vento; ricadevano in piccoli ciuffi scomposti sul collo sottile, nascondevano una nuca aggraziata. Morbidi. Dovevano essere molto morbidi al tatto. Setosi. Erano lisci, lunghi e risplendevano un po’ davanti al fuoco, per via della neve che ancora era rimasta intrappolata e che si stava sciogliendo piano.

 

Silenzio. Alessandra non domandò nulla e Sesshomaru apprezzò questo fatto. Come solo lui sapeva apprezzare il silenzio. Non era invadente, non lo forzava alla parola. In questo erano simili, pensò. Non le aveva ancora sentito pronunciare una parola più del necessario. Nulla che non avesse un’utilità diretta. Neanche il suo nome. E allora parlò lui, sorprendendosi intimamente del desiderio che sentiva di spiegarsi, di abbattere le ambiguità che una parola può racchiudere.

 

“I tuoi capelli sono rossi. Un colore da demoni”.

 

Alessandra sussultò. Da demoni? Che razza di spiegazione. I suoi capelli erano così di natura. Punto. Non gli aveva certo tinti. Perché mai il rame era un colore da demoni? Poteva anche ammettere che fosse una tonalità un po’ particolare, ma da qui ad averne paura…Erano solo un po’ rari; tutto qui.

 

Poi capì. Improvvisamente. Collegando nella mente tasselli sparsi. Si trovava in Giappone…Giappone medievale, per la precisione…Contatti col continente: zero, almeno secondo i libri di storia…Popolazione geneticamente scura di capelli…Uniche varianti: i demoni. Come quello che aveva alle spalle, con quei capelli argentei. Doveva essere normale per la popolazione di quel tempo reagire davanti a qualcuno con tratti fuori dalla norma. E così si era trovata di nuovo isolata. Non era demone, ma non poteva stare con gli uomini. Neanche avvicinarli.

 

Sospirò. Ci avrebbe pensato in seguito. Ora, doveva continuare a occuparsi di Rin.

 

 

 

 

Erano stati in silenzio per circa un quarto d’ora. Lei concentrata sul fuoco, lui seduto vicino al futon.

Alla fine, Alessandra allontanò il recipiente di bronzo e iniziò a versarne l’acqua bollente attraverso una grata.

 

Lo sciabordio dell’acqua distrasse Sesshomaru, che si voltò verso di lei. Avvolta dal fumo del vapore, con la fronte leggermente imperlata di sudore e gli occhi concentrati. Si stava mordicchiando il labbro inferiore, forse per nervosismo.

 

Magnetica pensò il demone, senza neanche realizzare il perché di quel pensiero. Non c’era nulla di magnetico in lei. Era solo un’umana. Irriverente per di più. Uno strumento. Solo quello. Un mugolio attirò nuovamente la sua attenzione.

 

Acqua. Alcune gocce bollenti erano saltate sulla mano della ragazza, che istintivamente aveva stretto gli occhi e mugolato. Nulla di più. L’youkai ne rimase colpito. Aveva visto alcune volte uomini e donne avvicinarsi troppo all’acqua calda per poi ritrarre urlando le mani ustionate o scottate. Lui stesso, pur avendo una soglia di sopportazione del dolore molto alta, doveva fare attenzione al calore eccessivo. Era come il freddo, lo avvertiva, ma non lo soffriva. Era come se non provasse nulla. Per un ningen però era diverso. Loro non sopportano facilmente il dolore. Quella ragazza invece si era limitata a stringere gli occhi, ma non aveva interrotto il suo lavoro. Aveva continuato imperterrita versare l’acqua e adesso stava estraendo dalla pentola improvvisata delle stoffe fumanti.

 

Tornò a guardare Rin. La febbre doveva essere scesa, perché dormiva più tranquillamente; tuttavia, il respiro gorgogliava sempre e la tosse non sembrava proprio attenuarsi. Provò l’impulso di farle una carezza, per tranquillizzarla. Una sensazione strana. Non era fastidio, era qualcosa che ricordava di aver provato. Molto tempo prima. Forse quando era ancora un bambino. Qualcosa che aveva desiderato, forse. Sfiorò la pelle calda e rossa della guancia con la mano, attento a non ferirla involontariamente con i suoi artigli. No; non voleva farle del male…

 

La piccola Rin…era l’unica che fosse riuscita ad avvicinarlo, a rompere il suo isolamento fisico ed emotivo. L’unica che riuscisse a toccarlo. La teneva a distanza, certo. Carezze lui non ne elargiva, né abbracci e neanche parole. Ma lei gli era rimasta lo stesso accanto. E ogni tanto riusciva anche a rubargli un abbraccio. Anzi, a donarglielo. Perché era sempre lei a stringerlo; ad un braccio o una gamba. Sorridendogli.

 

Alessandra aveva finito di stendere la crema di menta sulle pezze ancora calde e si era voltata. Restando poi immobile.

 

Sesshomaru era chinato su Rin e le stava accarezzando il viso. Un movimento lento e delicato. Sensuale. I capelli, lunghi e leggermente umidi, gli ricadevano scomposti lungo la schiena e in parte sul petto. Seducenti. Ma era il viso a incantarla. Fiero, come sempre, ma con un’ombra di tenerezza intrappolata in fondo agli occhi. Freddo. Ma era davvero impassibile quel ragazzo?

 

Istinto. Sesshomaru alzò gli occhi per istinto e incontrò il viso di Alessandra. Lo stava fissando. Seria. Come non si era mai sentito fissare. Scrutare. O forse l’unico che lo avesse mai guardato in quel modo, ormai, era morto da tempo.

 

Nessuna parola, nessun commento.

 

La ragazza si avvicinò tranquilla e lui si scostò con eleganza. Ma dentro aveva agito d’impulso, come se la distanza potesse annullare il sottile filo che si era stretto attorno a loro.

La studiò mentre apriva piano il kimono di Rin e le sistemava sul petto un suo indumento, molto sottile. Poi, prese una delle stoffe che aveva fatto bollire. Fumava ancora, anche se meno rispetto a prima, e brillava sommossamente. E poi aveva un buon profumo: di menta.

 

Alessandra lo sapeva. Sapeva che il bel demone non le staccava gli occhi di dosso. Quello che non riusciva a capire era se fosse per curiosità verso i suoi gesti o per qualcos’altro. Nel primo caso si rimediava subito: gli avrebbe spiegato lei, adesso, qualcosa. Come lui prima aveva fatto, anche se involontariamente. Per quanto riguardava le seconda ipotesi, finse indifferenza. Era un argomento che non se la sentiva di affrontare in quel momento.

 

Posò piano il tessuto sul petto di Rin, che sussultò al contatto del calore. Alessandra però non si scompose e tenne ferma la pezza. Dava fastidio, lo sapeva bene, lo aveva provato anche lei, ma serviva. L’avrebbe salvata.

 

“I tessuti caldi servono a far evaporare l’acqua contenuta nei polmoni” spiegava intanto a Sesshomaru, che al movimento di Rin si era mosso, seppur impercettibilmente. “La sostanza che vi ho spalmato sopra invece le dilaterà un po’ i bronchi e le permetterà di respirare meglio”.

 

L’youkai non rispose nulla. Non le aveva chiesto spiegazioni, ma intimamente le era grato per avergliele date. Non stava facendo male a Rin, la stava curando. Gratitudine…No; non la provava per quell’umana. Non poteva provarla. I sentimenti sono estranei ai demoni. Non li conoscono. Perché sono fonte di debolezza. Per questo sono degli uomini. Loro sono deboli.

 

“È il tuo nome?”.

 

Alessandra lo strappò alle sue riflessioni. Al cambio della benda, Rin aveva sussurrato di nuovo quel nome che le era sempre stato sulle labbra. Ma questa volta anche Alessandra era riuscita ad afferrarlo meglio.

 

“Sì”.

 

Le rispose dopo secondi eterni. Gli sembrava di scoprirsi dicendogli il suo nome, di legarla a sé. Non lo aveva mai provato prima. Il suo nome era fonte di vanto e di gloria, era associato a forza e potenza, alla vittoria. Era il suo orgoglio. Sesshomaru. Il ragazzo che uccide. Il nome di un vincitore.

 

Sesshomaru…il ragazzo che uccide

 

Alessandra ne era rimasta colpita. Un nome che faceva gelare il sangue, che odorava di morte, ma che su di lui suonava dolce, aggraziato. La sua essenza. Era un nome imponente, come lo era lui; da vincitore, per intimidire…Solo per quello? Alessandra si interrogò se quel ragazzo avesse mai davvero concretizzato il suo nome. Se avesse mai ucciso qualcuno.

 

Concentrata sul suo lavoro, gettò una veloce occhiata alla sua mano. Artigli. La sua mano era dotata di artigli. Bianchi. Lunari. Erano mai stati tinti di rosso? Era un demone, uno youkai, sarebbe stato normale per lui? Scosse la testa forte, violentemente. Niente sangue. Niente morte. Non ci doveva pensare. Se non voleva essere colta dal panico, non doveva pensarci. Sbagliava, lo sapeva. Ma a volte è meglio difendersi, piuttosto che attaccare. Anche se significa restare nell’ignoranza.

 

Sentì i suoi occhi chiamarla. La continuavano a fissare. Da quando gli aveva detto sì. Da quando lei sapeva il suo nome. Freddi. Dannatamente freddi. Il riflesso del fuoco si liquefaceva nelle sfumature dorate. Magia. Magia. La testa continuava a dirle di non guardare, di sottrarsi a quella danza ipnotica. Non l’ascoltò. Ricambiò lo sguardo.

 

Azzurro. Il colore del cielo di primavera. Gli occhi di quella ragazza erano un mistero. Affascinanti. Continuavano a mutare a seconda della luce. O forse del suo umore. Stregati. Dovevano esserlo. Perché altrimenti Sesshomaru non riusciva a capire cosa l’attirasse tanto in quello sguardo. Aveva incontrato molte donne, demoni o umane. Belle, molto belle. Affascinanti, seducenti. Con ovali perfetti per viso, capelli profumati di mille essenze, corpi flessuosi come il giunco. Eleganti, raffinate, volitive, battagliere…Ne aveva incontrate tante, eppure nessuna lo aveva affascinato come quell’umana. Nemmeno Rin. E tutta la magia stava in quello sguardo, era racchiusa in quegli occhi fieri e terribilmente malinconici. Occhi dalle striature d’argento. Del colore della luna.

 

Il nome. Voleva sapere il suo nome. Perché ora lei sapeva il suo. Ma non glielo voleva chiedere. Non lo avrebbe mai fatto. Mai. Si limitava a guardarla. Intensamente. Freddamente. E lei rispondeva impassibile a quella muta interrogazione. Vide le sue labbra schiudersi appena il necessario per far uscire un sussurro, prima che la ragazza tornasse a concentrasi su Rin, rompendo quella sospensione in cui erano caduti.

 

Quel sussurro Sesshomaru lo colse chiaro e lo gustò fino in fondo, sorridendone compiaciuto dentro di sé.

 

“Alessandra”.

 

 

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Capitolo 7
*** 7. PAURE E SOTTERFUGI ***


CAPITOLO 7

CAPITOLO 7

PAURE E SOTTERFUGI

 

 

Ecciii…”.

 

Kagome si strinse di più nel pesante piumino, arrotolando di nuovo la sciarpa attorno al collo e calandosi il berretto sulle orecchie. Ormai, del suo viso, si intravedevano solo gli occhi.

 

“Ti buscherai un malanno. Perchè non torni indietro?”. Inuyasha si era voltato ed era tornato indietro fermandosi di fronte alla ragazza. Ma perché doveva essere così testarda? Non lo capiva che lui era preoccupato.

 

Forse dovrei dirglielo… Scosse la testa. Neanche morto! La prenderebbe troppo male e poi mi toccherebbe anche scusarmi! Se vuol fare di testa sua si accomodi!

 

“Non ti sembra di esagerare, Inuyasha? Ho solo starnutito! In quest’epoca fa più freddo che nella mia e io non ci sono abituata!”

 

L’hanyou si girò stizzito. Ma quale freddo?! L’inverno vero non era neanche iniziato e lei già diceva che era freddo?

 

“Tornatene indietro, allora!”.

 

Tono duro, scocciato. Quello che Kagome non sopportava. E lui lo sapeva bene. Molto bene. Lo aveva fatto apposta. Adesso si sarebbe arrabbiata, gli avrebbe dato dello stupido, probabilmente lo avrebbe sbattuto a terra e poi se ne sarebbe tornata nella sua epoca. Tutto calcolato. Sarebbe stata al sicuro e lui più tranquillo.

 

“Ti scoccia tanto viaggiare da solo con me?”.

 

Non c’era livore, solo paura. Paura di una risposata affermativa. Di sentirsi dire che non la voleva con lui. Di essere scacciata. Kagome viveva spesso quella sensazione. Temeva che prima o poi Inuyasha non sarebbe più andato a prenderla.

 

Attese. Quanto ci metteva a risponderle? Si divertiva, forse, a tenerla sulle spine? Una volta loro viaggiavano da soli. Solo in un secondo tempo il gruppo si era allargato. Perché allora non la voleva più con lui?

 

“Stupida…”.

 

Braccia forte attorno al suo corpo, un petto sicuro su cui affondare il viso e una voce calda sussurrare al suo orecchio, con la bocca nascosta fra il nero dei suoi capelli. Inuyasha l’aveva attirata a sé e ora la stava abbracciando. Un abbraccio nervoso, disperato, ma che le trasmetteva anche tanta dolcezza. Preoccupato? Possibile che lo fosse? Ma perché? Non stavano facendo nulla di diverso dal normale; anche se Sango e Miroku erano dovuti andare con Kirara al villaggio degli Sterminatori e se avevano deciso di lasciare Shippo con Kaede, nulla era diverso. Stavano cercano Naraku. E presto i loro amici li avrebbero raggiunti. Ma allora perché il mezzo-demone era così diverso dal solito? Perché un attimo prima era scorbutico e maleducato e un attimo dopo tenero e appassionato?

 

Kagome era spiazzata. Non riusciva più a capirlo. E allora si affidò all’istinto. E lo abbracciò forte a sua volta.

 

“Voglio solo che non ti succeda niente…”

 

“Ma ci sei tu con me”. Voleva mostrarsi sicura perché, quando era accanto a lui, nulla le sembrava impossibile. Nulla.

 

“Basterà?...”

 

Inuyasha…Si può sapere che ti succede?”.

 

Non lo aveva mai visto così. Dubitava persino di se stesso. Della sua forza. Di quella forza di cui andava tanto orgoglioso e che gli aveva permesso più di una volta di mettere in difficoltà non solo suo fratello Sesshomaru, ma anche Naraku. Cosa gli stava succedendo?

 

L’hanyou sospirò pesantemente. Doveva dirle tutto.

Sciolse l’abbraccio e la prese per mano, facendola sedere davanti a , sotto ad una grande magnolia secolare. Rami spogli con fiori di neve.

 

Kagome si sentì stringere nuovamente. Un abbraccio diverso, come alla ricerca di una presenza che sta per fuggire. Non si voltò. Sapeva che per Inuyasha sarebbe stato più difficile parlare se lei lo fissava. Si limitò ad abbandonarsi contro il suo petto e a stringergli le mani. Erano fredde.

 

Hai paura?...

 

“Coraggio…Dimmi cosa ti preoccupa…”

 

 

 

 

Sangue. Piccole gocce cadevano a terra, macchiando la stuoia intrecciata. Nel buio, risuonava solo un respiro affannato. Quello di chi ha appena compiuto uno sforzo immenso.

 

“Avevi scoperto troppo…”

 

Un corpo, a terra, in una pozza scarlatta. Trapassato. Naraku si lasciò andare all’indietro, sbatte contro il muro e scivolò lentamente a terra, mentre alcune strisce scure sporcavano la parete. Aria. Aria. Ne aveva bisogno. Gli girava la testa. Troppo velocemente per restare in piedi. Dannazione! Era ancora debole. Molto debole. Nonostante fossero passate ormai due settimane.

 

Si guardò la mano. Rossa. Brillante. Sinistra. Contro la sue pelle diafana, quel colore cupo risaltava ancora di più. Gli era costata grande fatica, quella morte. Più del previsto.

 

Ed era solo un semplice subordinato…

 

Un pensiero che gli fece scorrere un brivido lungo la schiena. Compiaciuto. Lo era davvero. Perché con simili alleati la vittoria sarebbe stata sua. Certamente. Ma ora doveva provvedere a fruttare quella situazione a sua vantaggio. Non era stato previsto quel contrattempo e, anche se gli creava qualche preoccupazione, in fin dei conti poteva farlo fruttare. Per rinsaldare il patto. E forse accelerare un po’ le cose. Era impaziente. Molto impaziente.

 

Kagura!”.

 

La yasha apparve veloce e silenziosa. Vento. Ne era l’incarnazione. L’essenza resa concreta e tangibile. L’essenza imprigionata. Così simile alla sorella Kanna nello sguardo vuoto, così diversa da lei nel carattere ribelle. Due volti dello stesso Naraku. Due parti del suo essere.

 

Il demone la percepì entrare, gustò il suo moto di disgusto e sorpresa nello scorgere il cadavere e lui a terra, ferito. Una ferita non insignificante. Uno squarcio su tutto il fianco destro. Quel maledetto sapeva usarli bene, i suoi affilati pugnali. E avevano già inciso sopra il suo nome. Ma non era andata come aveva previsto. Lui non si sarebbe mai fatto sconfiggere. Neanche da loro.

 

Riaprì gli occhi. Rubino nel rubino. Un sorriso scaltro, una smorfia di sinistra soddisfazione. Naraku assaporava già l’effetto della sua trappola.

 

“Porta via questo sprovveduto. Liberati del cadavere come preferisci, ma fa in modo che sia ritrovabile. Semina indizi, corrompi qualche demone non apertamente nostro alleato. Ti lascio carta bianca. Agisci come preferisci, ma incolpa chi sai”

 

La yasha non rispose nulla, limitandosi ad uno sbuffo fugace ed aprì il suo ventaglio con gesto rapido ed aggraziato. Una corrente d’aria tagliente sollevò il corpo esanime, producendogli tagli sottili come quelli di una spada. Opera perfetta. Una messa in scena perfetta.

 

Kagura…Vedi di non fallire…Altrimenti…”

 

Di schiena, la demone fremette di paura. Anche se ridotto in quello stato, Naraku era sempre temibile. Soprattutto per lei. Perché ne aveva in pugno il cuore. La vita. Si allontanò senza rispondere; l’unico suo pensiero era fisso su quel demone. Quanto c’era di vero nella sua debolezza e quanto era invece un inganno?

 

 

 

 

Shin!”

 

Voce profonda. Voce di chi è abituato a dare ordini. Voce di chi comanda. Da secoli. Voce distorta da rabbia e furore. Il demone aveva fissato i suoi occhi in quelli del figlio. Occhi opposti. Per sfumature e luce. Neri come il dolore quelli dell’youkai anziano; viola quelli del giovane. Occhi di velluto.

 

Il ragazzo aveva in mano una pergamena, sgualcita. La stava lisciando con gesti nervosi. Appena convocato, gli era stata messa in mano. E dopo averla letta l’aveva stretta. Forte. Come se potesse distruggere il suo contenuto. Cancellare la realtà.

Sei parole. Sei maledettissime parole.

 

Il tuo inviato è morto. Assassinato.

 

Non riusciva a crederci. Uno dei demoni più anziani che vivessero al palazzo. Un veterano, abituato alla morte, allo scontro, abile con la diplomazia e ancor più abile con la spada. Invincibile, se liberava la sua forza demoniaca. Un subordinato,è vero. Di suo padre. E anche suo. Ma per lui, soprattutto un compagno, un amico. Il suo maestro d’armi…

 

“Andrai da Naraku”.

 

Un ordine secco. Che non ammetteva repliche. Giusto. Lui non era vincolato. I sigilli su di lui non potevano più fare effetto. Ma presto neanche su suo padre.

 

Si alzò senza dire parola e si girò. Il fuoco del tramonto incendiò la stanza, facendo brillare le armature indossate e le armi appese alle pareti. Era un arrivederci…Si sarebbero rivisti su un campo di battaglia. L’inizio della fine. Per poi festeggiare la vittoria. La vendetta.

 

Vendetta…una parola dal sapore dolce, di acqua che disseta nella calura estiva…

 

Un ronzio intenso. Vicino all’orecchio. La sua guida. Il suo lasciapassare. Un saimyosho. Va bene. Sarebbe andato. Glielo doveva. A chi lo aveva cresciuto.

 

 

 

 

Kagome trascinava l’hanyou per una mano. Sorridendo.

Accidenti! Quel sorriso non voleva proprio spegnersi. E Inuyasha ne era felice. Perché quel sorriso lo inebriava. Lo stordiva. Come una ventata calda d’estate. Come un profumo intenso.

 

Le aveva detto tutto. Tutto. Le sue sensazioni, il potere della sfera (o almeno un potere molto simile a quello che lui aveva sentito molti anni prima) confuso nell’aura di Naraku, la sua inquietudine. Quella sensazione che preannuncia sempre guai. E il pulsare sommesso di Tessaiga.

 

Già…perché la spada era viva. E reagiva. Rispondeva a qualcosa che lei sola sentiva. Una minaccia, o forse un richiamo. Una sola volta l’aveva sentita pulsare così. Palpitare. Una sola volta. Quando l’aveva unita a quella del fratello. Quando Tessaiga e Tenseiga avevano combattuto assieme. Contro Sounga. Contro il passato.

 

Tutto. Le aveva detto tutto. E lei si era limitata a voltarsi, guardandolo negli occhi. Uno sguardo disperato. Ma non di paura. Lo sguardo di chi vuole trasmettere qualcosa. Con tutte le sue forze. Ma non trova le parole. Per paura di non riuscire a farsi capire. Per paura di essere frainteso. Inuyasha non aveva più pensato a nulla. Si era smarrito nelle sfumature di mogano dello sguardo della ragazza. Si era lasciato avvolgere. Vi era sprofondato. Niente pensieri. Niente preoccupazioni.

 

Pesca…Sapore di pesca…Fresco e dolce; delicato e invitante…Un bacio…

 

Kagome lo aveva baciato. Piano. Con la paura di osare troppo e la sicurezza di riuscire a farsi capire del tutto. Lo aveva baciato. Con trepidazione.

 

E poi si era alzata, spezzando quel contatto che aveva spiazzato il mezzo-demone. E si era incamminata. Tranquilla. Rilassata. Come se lui le avesse appena narrato una bella storia. Sorrise, scuotendo rassegnato la testa. Pazza. Doveva esserlo. Per fidarsi di lui anche quando lui, di fiducia, non ne aveva. E glielo aveva confessato. Candidamente. Le aveva detto di temere per lei. E lei in risposta lo aveva baciato.

 

Sì, doveva essere pazza. Malata di quella pazzia che si chiama amore…

 

Inuyasha!”.

 

Alzò gli occhi; era ferma su un masso verde e bianco. E lo salutava con la mano. Sorrideva. Poi, aveva aperto le braccia e si era lasciata cadere all’indietro. L’hanyou si aspettava di vederla subito rialzarsi, magari con una palla di neve in mano. Niente. Attese un attimo, poi scatto. Rapido. Preoccupato.

 

La trovò sdraiata nella neve alta; fradicia e divertita della sua espressione spaventata. Rideva. Una risata cristallina. Fresca. Acqua di sorgente. Il ragazzo pensò al suono dell’acqua di una sorgente. Lucente, fra il muschio e le felci. E intanto Kagome rideva e muoveva le braccia e le gambe: su-giù, su-giù; destra-sinistra; destra-sinistra.

 

“Aiutami…”. Prese la mano che gli tendeva e l’aiutò ad alzarsi. Lei si girò, osservando compiaciuta il suo lavoro. “Ti piace?”

 

“Cos’è?”. Inuyasha fissava la sagoma nella neve. Non riusciva a darle una forma chiara.

 

“Un angelo di neve”

 

“È bello…”

 

Mentì. Non vedeva nessun angelo. Solo una sagoma informe. Ma non gli importava. Perché l’aveva fatto lei. Perché vi vedeva la ragazza distesa, con gli occhi che ridevano. Perché lei gli aveva ridato quel coraggio che il sentire quel potere gli aveva tolto. Gli aveva restituito se stesso. Forse già da molto tempo. E lui se ne era accorto solo in quel momento. Mentì. Perché l’unico angelo che vedeva era la suo fianco.

 

 

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Capitolo 8
*** 8. COSA NASCONDI? ***


CAPITOLO 8

CAPITOLO 8

COSA NASCONDI?

 

 

Cinque giorni.

Per cinque giorni Alessandra era rimasta al capezzale di Rin . Ininterrottamente. Si coricava la sera tardi e si alzava prestissimo al mattino. Per lei. Per starle accanto. Per cercare di guarirla. Trascurando se stessa. Se non fosse stato per Jacken che le dava il cambio ogni tanto, non avrebbe nemmeno dormito, né mangiato. Il piccolo demone infatti, all’inizio, aveva dovuto insistere perché ingoiasse qualcosa. Poi era diventata un’abitudine. Quando il pranzo era pronto, lui si andava a sedere accanto a Rin e Alessandra si allontanava un po’ per consumare il suo pasto e rinfrescarsi. Prima di tornare lì. A cambiare le tele calde odorose di menta. A vegliarla. E tutto in silenzio, o scambiandosi poche parole. Sussurri. Quasi col timore di spezzare un’atmosfera di speranza sospesa.

 

Se non l’avesse sentita parlare con il suo signore giorni addietro, Jacken l’avrebbe pensata muta. E stranamente gli sarebbe dispiaciuto. Perché in quei giorni aveva iniziato ad ammirare quella ragazza. Non un lamento, non un sospiro; reggeva un ritmo che, se per lui era quasi indifferente, a lei doveva costare uno sforzo immenso. Ma non diceva mai nulla. Si era assunta una responsabilità, e cercava di assolverla al meglio. Punto a suo favore.

 

Ma soprattutto lo aveva sorpreso il modo in cui lo trattava. Con rispetto. Quando era tornato con quanto gli aveva chiesto, il primo giorno, aveva ricevuto in cambio del suo servizio una sguardo riconoscente. Triste, ma riconoscente. Come quando lo aveva ringraziato per il fuoco. Uno sguardo che lo aveva sorpreso. E così aveva deciso di aiutarla per quanto potesse. Si era fatto spiegare come fare gli impacchi a Rin, così da permetterle di riposare almeno qualche ora.

 

Cinque giorni. Rin stava meglio. La febbre era scesa e anche la tosse si era attenuata. Acqua nei polmoni non ce n’era più. Per fortuna, la malattia era solo alle sue avvisaglie,e Alessandra era potuta intervenire in tempo.

 

Sesshomaru invece era sparito. Dopo la prima notte, in cui non aveva lasciato per un istante il futon dove dormiva Rin, alla comparsa del suo servitore si era dileguato. Dissolto. E Alessandra lo odiava per questo. Non lo approvava. Rin lo aveva sempre chiamato nel delirio, ma lui non c’era più stato accanto a lei, a tenerle la mano, a accarezzarle il viso sudato. Lo odiava. Di un odio che è più repulsione, rifiuto, che antipatia pura. Non lo voleva vedere. Perché non sarebbe riuscita nascondergli il suo disprezzo. L’avesse avuta lei quella possibilità…Avesse potuto stare seduta su quella sedia, invece che distesa in un letto…Quella volta…

 

Scosse la testa. Non ci doveva pensare. Niente ricordi. Niente ricordi. Un ritornello costante. E inutile. Perché la mente ti coglie con i suoi segreti quando non te lo aspetti. Appena abbassi la guardia. È la tua mente, ma ti tradisce. O forse vuole aiutarti. Ma tu ti ostini. Testarda. Non vuoi ascoltare. Non vuoi accettare.

 

Ale-chan…”.

 

Rin. La stava chiamando. Erano ormai alcuni giorni che aveva ripreso conoscenza. Era ancora debole, e ci sarebbe voluto del tempo perché si riprendesse completamente, ma almeno riusciva a stare sveglia alcune ore. E sembrava riacquistare anche la sua vitalità.

 

“Dov’è il signor Sesshomaru?”

 

Una stretta al cuore. Ogni vota che le faceva quella domanda. Perché doveva mentirle. Anche se odiava doverlo fare. Ma si può dire ad una bambina malata, appena scampata alla morte, che la persona cui è più affezionata non ha interesse verso di lei? Che non è mai venuto a trovarla?. No. Non si può. E Alessandra mentiva. Sfoggiando una disinvoltura che le risultava odiosa.

 

“È fuori. Tornerà questa sera.”

 

Falso. Falso. Perché lui non tornava. Perché lui non era più tornato. Se ne era disinteressato. Rabbia. Rabbia. Non lo sopportava. La costringeva a mentire. A sentirsi sporca. A comportarsi come quelle persone che tanto le davano fastidio. Ipocrita. Ipocrisia. A questo la costringeva.

 

Occhi d’oro…Si era sbagliata…Quel ragazzo non poteva provare nulla…Nessuna compassione, nessun dolore…Si era sbagliata…

 

 

 

 

“…e così vissero tutti felici e contenti.

 

Alessandra rimboccò le coperte a Rin e la osservò per un po’. Respirava piano. Tranquilla. La febbre era scomparsa. Ora sarebbero stati sufficienti alcuni giorni di riposo al caldo e sarebbe tornate in piena forma. La osservò rincorrendo nelle ombre della luna ricordi lontani, giocando con il dolore e le sfumature d’argento. Illudendosi e abbattendo i propri castelli.

 

Jacken le allungò una scodella di oden. La guardò per un attimo. Verdure. Varie. Fumanti. Dall’aspetto appetitoso. Una gentilezza verso il suo stomaco vuoto. Scosse piano la testa in segno di diniego. Nausea. L’idea di mangiare la disgustava.

 

“Dovresti mangiare…” cerco di convincerla il piccolo demone. Ma sapeva che era inutile. Quella ragazza era testarda. Declinava con gentilezza, ma se decideva una cosa non era facile farle cambiare idea. Un lato del carattere che Jacken aveva di traverso. Ma anche in simpatia. Perché era stata la cocciutaggine di quella ragazza a salvare la protetta del suo padrone.

 

Già…il suo padrone. Lui sapeva che Alessandra non andava d’accordo con l’youkai. Non le aveva mai sentito dir nulla contro Sesshomaru, ma il disprezzo glielo si leggeva negli occhi quando era costretta a mentire a Rin. Solo una volta l’aveva sentita sussurrare qualcosa. E non gli era piaciuto.

 

“È un bastardo! Non gli interessa nulla di Rin…”.

 

Jacken aveva taciuto. Perché non poteva parlare. Non poteva dire alla ragazza che ogni notte lui sgattaiolava fuori mentre lei dormiva. Non poteva dirle che andava a incontrare Sesshomaru, poco distante dall’hokora. Il demone non gli chiedeva mai nulla. E lui si limitava a informarlo sulle condizioni di Rin. Qualunque cosa dicesse, il volto del suo signore restava immutato. Nessuna espressione. Nulla. Poi si voltava, sparendo fra gli alberi. Dove andasse, Jacken non lo sapeva. Così come non sapeva perché non poteva far sapere ad Alessandra che lui si era sempre informato. Non poteva dirglielo. Punto Questi erano gli ordini. E lui doveva obbedire.

 

 

 

 

Aria. Aveva bisogno di aria.

Per ossigenare la mente; e riordinare i pensieri. Si allontanò dall’hokora, lasciando impronte leggere nella neve dura e compatta. Cielo scuro, costellato di scintille di ghiaccio. Diamanti. Bellissimi. Inarrivabili. Si sedette su un tronco abbattuto, al limitare della foresta.

 

Odore di muschio, di resina, di legno…L’odore dei suoi boschi, della sua terra. Le mancava. Più di ogni altra cosa. Anche se le faceva male ricordarla. Molto male. Voleva tornarci. Tornare a scalare le cime spruzzate di neve. A perdersi negli orizzonti azzurri e sfumati. Voleva tornare a casa. A casa…Faceva male, ricordarla…Tutto il dolore, e l’ipocrisia. La solitudine, il senso di colpa, la voglia di essere forte e la consapevolezza di essere come cristallo.

 

Spaziò con lo sguardo il piccolo prato davanti all’edificio. Diamante. Frammenti di diamanti. Polvere di stelle. Scaglie di ghiaccio lucente nel riverbero notturno. Si chinò riempiendone le mani. Freddo. Bianco contro pelle arrossata. Aprì piano le dita girando su se stessa. Pioggia. Bianca. Leggera. Di ghiaccio. Polvere splendente nell’aere immobile.

 

Un gioco, un ricordo…La voglia di dimenticare e la paura di perdere qualcosa di importante…

 

Alessandra si lasciò cadere a terra, avvicinandosi le ginocchia al petto. Alzò lo sguardo al cielo. Velluto blu. Velluto oscuro. Come i suoi occhi. Cupi. Vuoti.

 

 

 

 

L’aveva osservata. Per tutto il tempo.

Da quando era uscita dal piccolo tempio, non le aveva tolto gli occhi di dosso. Sembrava un fantasma. Pallida. Eterea. Si distingueva in tutto quel bianco per via degli abiti scuri. Solo per quello.

 

L’aveva osservata. Aveva sentito i suoi sospiri, i suoi movimenti lenti e aggraziati. Una danza nel silenzio. Tintinnio d’argento. Ghiaccio che vola. Nuvole di polvere brillante. Nuvole fredde. Come lei. Come lui.

 

Sesshomaru l’aveva spiata. Continuamente. Ipnotizzato. Affascinato. Non la capiva, non ci riusciva. E questo lo infastidiva. Terribilmente. Perché lei era riuscita ad attirare la sua attenzione. A interessarlo. Senza neanche rendersene conto…Era diversa dalle altre umane. Era triste, ma non piangeva; era arrabbiata, ma non urlava; si limitava al silenzio. Solo silenzio. Debole o forte? Non lo avrebbe saputo dire. Non lo sapeva dire. Non era un miko, non possedeva nessuna energia spirituale. Eppure, lui percepiva qualcosa provenire da lei. Qualcosa cui non riusciva dare nome. Ma che lo avvinghiava come spire invisibili. Non si era mai interessato agli altri. Solo a Rin. E in modo tutto suo. Senza mai scoprirsi. Ma ora quella ragazza destava in lui curiosità. Era una sfida. Una prova da affrontare e vincere.

 

I suoi occhi… Cangianti. Blu, azzurri, quasi neri…mutevoli come il mare, come il cielo di montagna…Cosa c’era in fondo a quegli occhi spenti, asciutti? In fondo a quegli occhi tristi?

 

Sesshomaru voleva sapere. Senza motivo. Solo sapere.

 

Sorrise. Appena un accenno. Aveva deciso. L’avrebbe tenuta con sé. L’avrebbe presa per sfinimento. Solo quando gli avesse detto ciò che voleva, avrebbe potuto considerare l’ipotesi di lasciarla andare. Solo dopo. Prima voleva vincerla in quella battaglia di sguardi che scaturiva ogni volta che si guardavano.

 

 

 

 

Se lo ritrovò davanti. Fra l’hokora e lei.

Un ostacolo. Un confronto che in quel momento non voleva. Non se la sentiva. Era così stanca…Ma lui era lì. Bellissimo. Aveva rindossato l’armatura, sopra la tunica aderente che gli delineava il torace. Atletico. Spalle larghe. Viso freddo. Immutabile. Viso da schiaffi. Alessandra avrebbe voluto davvero prenderlo a schiaffi. Per la sua insensibilità, per il suo menefreghismo. Ma non ce la fece. Rimase intrappolate nell’oro dei suoi occhi. Come sempre. Come ogni volta. Come ogni dannata volta in cui lo guardava.

 

Sesshomaru si divertiva a provocarla. A stuzzicare la sua pazienza comparendole davanti e sfidandola. Con lo sguardo. Mai parole. Usava il silenzio per parlare. Un gioco pericoloso. Perchè anche lui poteva cadere nella trappola. E ne era pienamente consapevole. Irritato. Ogni volta che la guardava, una nuova sfumatura lo colpiva. Possibile che quegli occhi fossero umani?

 

“Dove sei andata?”

 

Fredda. Perché la sua voce doveva essere sempre così fredda? Incolore. Alessandra trasalì. La stava forse controllando? Non ne aveva alcun diritto. Lei non gli apparteneva. Non era sua. E se forse pensava che sarebbe potuta diventarle, Alessandra era ben decisa a mettere le cose in chiaro. Lei era lì per Rin. Guarita lei, se ne sarebbe andata.

 

“Non ti deve interessare”.

 

Occhi negli occhi. Aveva sostenuto lo sguardo. Uno sguardo che bucava l’anima. Anche se non lo avrebbe mai ammesso, Sesshomaru era bello. Molto bello. Di una bellezza perfetta e immutabile. Immobile nel tempo. E lei ne subiva il fascino. Subiva il fascino mutevole e ammaliatore di quel figlio della luna. La luna…Pensò ad una storia lontana…Il suo segno aveva la luna per protettrice…

 

Occhi negli occhi. Stava sostenendo lo sguardo. Con quella sua aria di sfida e indifferenza pura che lo faceva infuriare. Una rabbia che gli capitava di rado di provare. Quasi mai neanche con suo fratello. Una rabbia antica. Di invidia. Anche se non lo avrebbe mai accettato. Lui non aveva nulla da invidiare ad un’umana. Ad una debole, insignificante umana. Caso mai, doveva essere il contrario.

 

Un guizzo nell’oro. Occhi assottigliati.

 

“Il tuo posto è con Rin”.

 

Voce dura. Imperiosa. Di chi non ammette obiezioni. E uno scatto fulmineo. La mano di Sesshomaru si era chiusa sul polso di Alessandra, strattonandola verso di sé. Un contatto. Non lo voleva. No. Nessun contatto. Niente.

 

Muscoli che si contraggono. Pelle che si lacera sotto i suoi artigli. Ansia spasmodica di divincolarsi. Sentì la propria mano perdere la presa. Stupore. Si era liberata. Con forza. Con disperazione. Si era allontanata da lui. Dalla sua presa. Come se la sua mano fosse stata incandescente.

 

Alessandra gli era di fronte. Il polso graffiato stretto al petto e coperto dall’altra mano. A proteggerlo. Cullarlo. Graffi. Rossi. Lunghi. Sul polso bianco e sottile. Graffi. Fatti dai suoi artigli. Senza volerlo. Spaventarla. Va bene. Ma non ferirla. Quello no. Non lo voleva.

 

Occhi bassi. Labbra che tremano. Rosse. Come il sangue che cola dai graffi. Poco. Ma nitido. Accecante. Sesshomaru rilassò il braccio, portandolo lungo il fianco. Che le era preso? Lo aveva sempre affrontato con noncuranza…perchè adesso tremava? Perché coglieva nei suoi uno scintillio d’argento?

 

Attimi…attimi…Secondi interminabili…poi la sua voce, un rantolo forzato…incrinato da qualcosa fermo un gola…Un frase pronunciata con gli occhi bassi, per la prima volta senza guardarlo, prima di superarlo di corsa e rifugiarsi nell’hokora.

 

“Non devi toccarmi”.

 

Sesshomaru la segui con lo sguardo. Non la fermò. Non se la sentiva. Scosso dentro da qualcosa che non capiva. E che lo spaventava. Si guardò la mano. Piccole macchie rosse sugli artigli bianchi. Tristezza. Colpa. Sentimenti nuovi. Non accettati. Solo sorpresa. Per una reazione strana. Testardaggine. Esasperante.

 

Cosa nascondi?

 

 

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Capitolo 9
*** 9. SCHEGGIE DI MEMORIA (Prima parte) ***


CAPITOLO 9

CAPITOLO 9

SCHEGGIE DI MEMORIA

Prima parte

 

 

Ale-chan! Cosa sono questi?”

 

Per Rin, lo zaino di Alessandra era una sorpresa continua. Una scatola magica. Da cui estraeva le cose più strane. Particolari. Un diversivo piacevole, visto che non le permettevano ancora di uscire, anche se lei ormai si sentiva bene e scalpitava per tornare all’aria aperta. A giocare.

 

Alessandra sollevò gli occhi dalla stoffa che aveva in grembo. La bimba stringeva in mano un paio di calzature un po’ particolari, con sotto la suola una lama lucente. Sorrise. Era a causa loro che lei si trovava lì in quel momento. Era a causa loro che Rin si era salvata.

 

“Pattini”.

 

Riabbassò gli occhi. Esenziale come sempre. Rin ci aveva fatto presto l’abitudine a questo suo strano modo di esprimersi. Parlava davvero poco, come il signor Sesshomaru. Però con lei aveva sempre una bella voce. E le raccontava cose incantevoli. Storie che lei non aveva mai sentito e di luoghi che non aveva mai visto. Forse il suo signore li aveva visitati. Lui aveva viaggiato molto…

 

Rin guardò di nuovo le strane calzature, sfiorandole con la mano. Le posò a terra. Pesavano un po’. E lei non era ancora del tutto in forze, anche se cercava sempre di persuadere Jacken a farla uscire. L’hokora non faceva per lei. Le stava stretta. Ormai, non era più abituata a vivere fra le pareti di una casa. Ormai era diventata una piccola zingara. Sempre in movimento. Costantemente. Libera. Libera come il suo signore. Libera di seguire lui. Sempre.

 

Alessandra le fece un cenno e Rin le si avvicinò, continuando a fissarla con occhi pieni di domande. Faceva così. La fissava. E sapeva che prima o dopo la ragazza avrebbe soddisfatto la sua curiosità. Non come faceva Sesshomaru. Lui non rispondeva mai. Si limitava a ricambiare lo sguardo, qualche rara volta. Ma non spiegava mai nulla. A nessuno.

 

“I pattini servono per stare in piedi sul ghiaccio e correrci sopra. È come danzare”.

 

Alessandra aveva fatto indossare alla bimba un kimono che Jacken le aveva portato e ora stava cercando di adattarlo al corpicino minuto di Rin. Era un kimono molto pesante. Ideale contro quel freddo. E lei aveva deciso di renderlo una scempie di cappotto per la bambina, così da evitarle di prendersi un nuovo malanno. Il suo kimono era troppo leggero per quella stagione. Anche se la bambina non sembrava soffrire il freddo.

 

In disparte, Jacken osservava contrariato la scena. Quell’umana aveva di nuovo voluto fare di testa sua. E lui ci sarebbe andato di mezzo. Lo sapeva. Sesshomaru se la sarebbe presa con lui.

 

Due sere prima, dopo che la ragazza era entrata sconvolta nell’hokora, l’youkai gli aveva ordinato di procurargli un kimono da donna. Per Alessandra. E di darglielo.

 

“Perché?” aveva osato chiedere il demonietto. Non era normale per il suo padrone mostrarsi gentile e premuroso verso qualcuno che non fosse Rin. E poi, visto che la ragazza se ne sarebbe andata presto, che senso aveva procurarle un kimono caldo e avvolgente, ideale contro la neve e il freddo? Perché su questo Sesshomaru era stato chiaro. Doveva essere adatto a viaggiare durante l’inverno. Della stoffa migliore e più pregiata.

 

“Verrà con noi”.

 

Risposta spiazzante. Jacken non riusciva proprio più a capire il suo signore. Non più una sola umana, ma due nel suo seguito. Nel seguito del Signore delle Terre dell’Ovest. Nel seguito del demone che odiava gli umani. Di un odio profondo. Viscerale.

 

Ed ora, eccolo lì, il prezioso kimono. Tagliato e cucito fino a ridurlo alle dimensioni di una bambina. Fino a renderlo perfettamente indossabile a Rin. Sesshomaru si sarebbe arrabbiato. Di certo. Lui aveva provato a fermarla; le aveva spiegato che era un regalo per lei. Si era inventato la scusa che il suo padrone gli aveva ordinato di darglielo per ringraziarla per le sue cure.

 

“Sai, il padrone non dice mai grazie. Non è da lui farlo.”

 

Mentire. Per convincerla a prenderlo. Perché Sesshomaru era stato chiaro. Lei non doveva sapere che lui la voleva con sé. Non ancora.

Ed ora, il kimono era diventato di Rin. Alessandra lo aveva preso, certo. Per poi subito mettersi a lavorarlo e adattarlo. E ora la bimba saltellava felice per la stanza, drappeggiata di stoffa calda e preziosa. Drappeggiata come una principessa.

 

Jacken! Jacken! Come mi sta? Bene?”

 

Il demonietto la squadrò critico e poi gracchiò affermativamente, con quella sua voce stridula che fece ancor più contenta Rin. Alessandra aveva fatto proprio un buon lavoro. Davvero notevole. Non sembrava neanche che fosse mai stato un kimono da donna.

 

“Grazie Ale-chan! È davvero bellissimo! Ma perché non lo hai tenuto tu? Il signor Sesshomaru aveva detto a Jacken che era per te!”. Beata innocenza. Pura. Cristallina.

 

Alessandra le sorrise, mentre riponeva aghi e fili nella scatoletta di latta. Lei non voleva nulla da Sesshomaru. Niente. Aveva curato Rin perché lo aveva voluto. Perché non era giusto che, a causa di un demone insensibile, una bambina ci rimettesse. L’aveva curata per illudersi di star vivendo una seconda opportunità. Per dimostrare a se stessa che le poche conoscenze mediche apprese sbirciando ripassi e giocando al dottore da piccola non erano perse. Che non le avrebbe mai perse. In fondo, era figlia di un medico. Di uno dei migliori.

 

“A me non serviva. È più utile a te. Ti eviterà altri malanni.

 

Lo aveva usato come aveva ritenuto più giusto. Per la piccola. Perché qualcosa dentro le aveva detto di non fidarsi. Perché non voleva più fidarsi. Di nessuno. Perché era un dono. E un dono significa sempre qualcosa. Ci si aspetta qualcosa in cambio. E lei non voleva aver più niente a che fare con Sesshomaru. Niente.

 

Graffi rosa. Pelle appena rimarginata. Non le faceva male fisicamente. Le faceva male dentro. Nell’anima. L’aveva toccata. Stretta al polso. E attirata a sé. Un errore. Un maledettissimo errore. Non era stata abbastanza attenta. E lui l’aveva toccata. Odiava essere toccata. Odiava il contatto fisico. L’odiava. Ormai da due anni. Forse era il risultato di tutti quegli abbracci falsi che aveva dovuto sopportare. Di tutte quelle mani compassionevoli, che avrebbe piuttosto preferito allontanare con uno schiaffo. E che invece aveva dovuto stringere. Ma senza sorridere. Anche se il galateo avrebbe imposto almeno un sorriso sforzato. Di finta gratitudine. Ma lei niente. Di pietra. Come una statua. Senza sentimenti. Senz’anima. La sua anima era volata via con tre persone…

 

“Ti sei tagliata?” Rin fissava il suo polso. Senza rendersene conto, aveva scoperto i graffi e Rin li aveva notati.

 

“No. È stato…”.

 

Alessandra si fermò. Poteva dirglielo? Dire a quella bambina che a farglieli era stato il suo signore, la persona che più amava al mondo? No. Non poteva. Sarebbe stato come dirgli che lui non la voleva più. Sarebbe stato come distruggere un mito, una certezza.

 

“…un incidente.”

 

Mentire. Di nuovo. Per non far conoscere anche a Rin il sapore odioso della delusione. Di sentirsi abbandonati. Di vedersi allontanare. Da chi si credeva amici. Mentire per non ferire. Per nascondere una realtà che sarebbe emersa prima o poi, forse più devastante.

 

Sesshomaru…Perché continuava a costringerla a mentire? Perché doveva sporcarla, farle toccare il fondo del suo disgusto, equipararla a quella gente che lei tanto disprezzava? Mentire. Mentire. Per coprirlo. Involontariamente. Per non far soffrire Rin. Come aveva sofferto lei. Quando i suoi carissimi amici l’avevano abbandonata. Nella difficoltà. Nel bisogno. In fondo, pensò Alessandra, Sesshomaru non si meritava il suo aiuto. La sua copertura. Non era stato diverso dai suoi vecchi compagni. Anche lui se ne era andato quando Rn era stata male. Se ne era disinteressato. No. Non si meritava il suo aiuto.

 

Però, non riusciva a negarglielo.

 

 

 

 

“Signor Sesshoamru! Guardi Rin! Sta bene?”

 

La bambina corse in contro all’youkai, fermo nel grande prato coperto di neve. Era felice. Felice di rivederlo. Felice di potergli regalare il suo sorriso. Felice di essere di nuovo all’aria aperta. Accanto a lui.

 

Sesshomaru girò appena il capo, come infastidito dall’interruzione. Ma in fondo era contento di sentire di nuovo la voce allegra della bambina. Di venirne disturbato.

 

Disturbo. Qualcosa lo disturbava. L’abito. Il kimono che Rin indossava era quello che aveva fatto dare all’umana. Perché ora era addosso a Rin? Assottigliò gli occhi. Contrariato. Ma poi accennò appena con la testa, in senso affermativo. Non poteva deluderla. La luce che si accese nello sguardo di Rin gli attraversò il cuore. Era contenta. Per niente. Solo perché lui aveva annuito. Non l’avrebbe mai capita. Come non l’aveva capita quando si ostinava a curarlo un anno prima. Senza paura, solo con un po’ di timore.

 

Paura e timore…Qualcosa che gli occhi della ragazza che usciva dall’hokora non conoscevano.

 

“Domani partiamo”. Rin annuì e corse via, contenta di potersi rotolare nella neve e scherzare con Ah-Un. Sì. Era guarita.

 

Sesshomaru fulminò Jacken appena sopraggiunto. Non gli era piaciuta la sorpresa. Proprio per niente. Il kimono non era per la bambina. Ma per l’umana. Per conquistarne un po’ di gratitudine. Per vedere se si sarebbe ammorbidita.

 

Il demoniatto scosse la testa. Non era colpa sua. Lui ci aveva provato. Era lei ad essere cocciuta: non lo aveva voluto. E adesso sedeva fuori dal tempio avvolta solo dal suo pesante maglione. Nero. Quello di sempre.

 

Non l’aveva più avvicinata. Dopo quella sera in cui l’aveva graffiata, anche se involontariamente, non le si era più accostato. Era tornato all’hokora più di una volta; entrandovi anche. Per vedere Rin. Ma non le aveva più rivolto la parola e sempre lei gli si allontanava come se temesse di scottarsi.

 

Però si erano guardati ancora. Si erano smarriti a vicenda nelle loro iridi. In quegli sguardi freddi e distanti. In quegli sguardi cangianti. Simili e diversi. Inebrianti. L’aveva fissata ancora. E non aveva mai trovato paura. Mai. Quegli occhi gli erano sfuggiti una sola volta. Una sola. L’unica in cui davvero avrebbe voluto poterli guardare.

 

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Capitolo 10
*** 10. SCHEGGIE DI MEMORIA (Seconda parte) ***


CAPITOLO 10

CAPITOLO 10

SCHEGGIE DI MEMORIA

Seconda parte

 

 

Pallido. Un sole malato. Per la foschia. Per la stagione. Un tramonto che non riscalda, che non dona sogni dolci. Un tramonto. Che le metteva tristezza. Si era seduta su di una roccia, con una gamba stretta al petto e l’altra distesa. Osservava. Bianco ovunque. E un cielo sempre più luminoso e indistinto. Irreale.

Tristezza. Una notte rossa. Fuoco. Azzurro. Blu. Sirene. Dolore. Solo dolore. E non capire. Sensazioni. Poi diventate urla. Dentro nell’anima.

 

Sesshomaru le si accostò silenzioso, restando in piedi accanto a lei. Senza guardarla. Gli occhi d’ambra fisso sul sole. Luce nella luce. Alessandra tremò. Dentro. Una piccola frana. Averlo accanto la sconvolgeva. La rendeva inquieta. Le piaceva, ma al tempo stesso avrebbe voluto che non e si avvicinasse mai. Avrebbe voluto tenerlo lontano.

Un figlio della luna…un demone…Non avrebbe dovuto esistere…una fantasia…una magia…E invece era lì accanto a lei. Affascinante. Ammaliatore. Seducente…maledettamente seducente con la sua espressione fredda e imperturbabile; con la sua indifferenza. Se ne rendeva conto? Si rendeva conto di quanto fosse magnetico? Di quanto inebriasse?

 

No. Probabilmente, era consapevole della sua bellezza, ma non gli dava importanza. Probabilmente, era abituato a vedere le donne cadere ai suoi piedi alla prima occhiata. Anche solo accennata. Non era narcisista. Questo era certo. Una bellezza libera e selvaggia. Accecante. Come le notti di luna piena.

 

“Domani partiamo”. Sussurri nel vento. Voce inespressiva, voce sensuale. Impalpabile. Una cantilena che strega. Una cantilena fatta di suoni privi di forma. Una malia dell’udito.

Alessandra annuì. Voleva sottrarsi al suo potere. Restare cosciente. Tornare in sé. Non gli si sarebbe mai ceduta. Mai. Era bello, ma non lo avrebbe mai fatto.

Se ne sarebbe andata. Non voleva più rischiare. Nessun contatto. Due giorni addietro, quella mano, l’aveva fatta morire. Di terrore. Di angosia. L’aveva distrutta. Psicologicamente annientata. Non ce l’avrebbe più fatta a restare lì con lui più a lungo.

 

Basta! Le dispiaceva dover lasciare Rin, ma era meglio così. Niente che potesse intaccare la sua corazza. Niente che le facesse ricordare il passato. Perché era così. Da quando aveva incontrato l’youkai, i ricordi tornavano ad affacciarsi alla memoria. Prepotenti. E lei voleva scacciarli. Eliminarli. E per eliminarli, doveva eliminare lui. Doveva eliminare i suoi occhi. Quelle pozze d’oro liquido in cui affogava, in cui si smarriva. Doveva andarsene. E l’avrebbe fatto. Era ora di separarsi. Un addio per soffrire e respirare.

 

Alessandra annuì. Lo stava ascoltando, come si ascolta una musica piacevole. Di carillon. E annuì. Dentro di sé, Sesshomaru sorrise. Sì. L’avrebbe tenuta con sé. Avrebbe scoperto il segreto nascosto nei suoi occhi. E poi…non ci volle pensare, al dopo. Per non dover afferrare un sentimento che si rifiutava di poter provare.

 

“Verrai con noi”. Un nuovo ordine. Più tranquillo dei precedenti. Quasi una domanda. Perché il demone sapeva che non gli sarebbe stato facile, convincerla. Non senza scoprirsi. Senza spiegarsi. Una situazione nuova. Fastidiosa. Perché lui era stato abituato a non dover mai spiegare. Erano gli altri che dovevano limitarsi ad obbedire. Ma con lei non funzionava. Alessandra non si piegava.

 

“Chi lo ha deciso?”. Una domanda. Calma. Tranquilla. Indifferente. Come se non fosse lei l’argomento della conversazione. Come se si stesse parlando di un pacco da spedire a qualcuno. Di un oggetto. Indifferenza. Nella voce e nello sguardo.

 

“Non ti deve interessare”. Si era voltato in un fruscio di seta, allontanandosi di un passo. Silenzio. Un altro passo. Ancora silenzio. Tre, quattro, cinque…Ormai era a un metro di distanza. E lei taceva. Che si fosse sbagliato? Che la cocciutaggine di quella ragazza non esistesse in realtà? Finzione. Era solo quello. Bastava mostrarsi veramente autoritari e lei chinava il capo. Una smorfia sulle labbra. Buono a sapersi. Ormai, era sua. Una preda. Una magnifica preda.

 

“Scordatelo”. Un sospiro deciso. Sesshomaru si fermò. Voltandosi. Il sorriso si era congelato, e poi sparito. Sostituito da indispezione. Si rifiutava. Ancora.

 

“Io non verrò con te. Chi lo avrebbe deciso questo? Tu? Tu non puoi decidere niente per me. Tu non sei me. E io appartengo solo a me stessa”. Era furiosa, offesa, umiliata. Si sentiva trattata come un oggetto. Una nullità. Va bene, nel Giappone feudale le donne non godevano certo di grande considerazione, ma lei non era disposta a farsi umiliare così. Non era un soprammobile da spostare a piacimento. Un oggetto da prendere e poi buttare. Non lo era.

Era furiosa, ma la voce le uscì piatta. Incolore. La sua arma migliore. La calma. L’unica per opporsi.

Si alzò, elegante. Di nuovo, Sesshomaru avvertì qualcosa in lei, qualcosa che non aveva mai avvertito in una donna. Per di più in un’umana. La guardò, ritta di fronte a lui. Ferma. Decisa. Senza espressione. Una statua. Una statua che lo colpiva. Perché era bella. Di una bellezza strana. Che stordiva. Non era sofisticata, ma neanche ribelle. Non come ci si aspetterebbe dalle sue risposte. Modesta, ma senza essere scialba. Intrigante, coinvolgente, anche senza trucco o acconciature ricercate. Semplice. Sì. Era semplice. E non sembrava neanche accorgersi di quanto ascendente quella sua semplicità poteva avere su di lui. Un’umana pericolosa. Troppo.

 

“ Io non verrò con te. Mai”. Alessandra prese il suo zaino e se lo mise in spalla. Gli passò accanto. Odore di muschio. Profumava di muschio, di fresco. Un profumo buono. Inebriante. Sesshomaru aveva davvero un buon profumo.

Una stretta al cuore…un crampo allo stomaco…

Sussurri ignorati.

Non si voltò neanche, continuando a camminare sotto la luna, verso il bosco. Da lui non avrebbe più avuto alcun aiuto. E lui non abbisognava più del suo. Era un addio, dunque. Si sarebbe arrangiata.

 

 

 

 

Demone…

 

Sesshomaru uscì leggero dall’hokora. Un odore. Lo aveva avvertito. Odore di demone. Verso la direzione di Alessandra. Mescolato a quello della ragazza. Fissò la foresta. Nera. Pericolosa.

Non sarebbe andato. Alessandra aveva fatto la sua scelta. Lo aveva umiliato. Rifiutando il suo invito. La sua decisione. Rifiutando lui.

Non lo riguardava più. No. Il destino di quell’umana non lo riguardava. Si voltò, sistemandosi la lunga stola di pelliccia e alzò lo sguardo al cielo. Stelle…Mute compagne della sua vita. Immutabili. Immortali. Si perdeva nella contemplazione del firmamento. Percorreva galassie sconfinate con la mente. Sempre alla ricerca di una risposta. Di una risposta che conosceva e non voleva accettare.

Stelle…su un manto di velluto blu. Cobalto…Come i suoi occhi…Gli occhi di quell’umana…Due cieli privi di stelle…Non doveva pensarci. Doveva levarsela dalla testa. Non era un comportamento che gli si confaceva, non era da lui.

All’improvviso, una sensazione. Agilmente, saltò sul ramo più alto di un abete, al limitare della foresta. Occhi sottili; sfumature d’oro in un volto bianco.

Gettò un’occhiata a Jacken, appena uscito dal tempio. Ordinò. Con uno sguardo. Come sempre.

Poi, si concentrò. Millesimi di secondò e saltò di nuovo, scomparendo nella vegetazione.

Sangue. Aveva sentito odore di sangue.

 

 

 

 

L’aveva avvertita.

La foresta, anzi, tutto il Giappone erano pericolosi. Abitato da uomini cui lei non poteva avvicinarsi, infestato da demoni che l’avrebbero divorata. L’aveva avvertita. Per spaventarla. Per farla desistere dalla sua follia. Ma lei aveva alzato le spalle e continuato a camminare.

Ed ora era di fronte a lui, oltre il corpo squarciato di un demone.

 

Alessandra era scivolata a terra. Schoccata. Aveva visto il corpo del demone che la sovrastava, che stava per assalirla, spaccarsi in due. Attraversato da una luce abbacinante. Rantoli. E sangue. Odore di sangue. Acre. Pungente. Nauseante. Le era andato addosso. L’aveva bagnata completamente. Sangue. Nero. Vischioso. Ne era ricoperta.

Alzò gli occhi. Sbarrati. Nel riverbero lunare, una figura d’argento. Oltre quel corpo fumante. Sesshomaru. La veste candida leggermente macchiata. Schizzi. Scarlatti. Sulla corazza; sul kimono; sul volto.

Fece scivolare lo sguardo fino alla sua mano. Rossa. Cremisi. Gocciolante. Lo aveva ucciso. Quella luce…era stato lui a provocarla. Lui…per uccidere. E sembrava non risentirne minimamente. Sempre indifferente. Cercò i suoi occhi. Ambra. Voleva sapere se in quell’ambra ci fosse una qualche ombra. Rimorso, paura, dolore…Niente. Non vi lesse niente. La solita freddezza. La solita indifferenza.

Risposte…Le aveva avuto. Ora. In modo diretto. Brutale. Sesshomaru…il ragazzo che uccide. Sì. Lui uccideva. Lui sapeva uccidere. E gioiva nel farlo. Nel sentire il sangue caldo sulla sua pelle, nell’affondare gli artigli nella carne. Nel dare morte. Lui gioiva. Lo sapeva. Lo aveva capito. Il suo sguardo…era quello di chi è soddisfatto. Appagato. Era quello di chi aveva appena goduto in modo completo di qualcosa…

 

Una fitta alla testa, forte. Dolorosa. Avrebbe voluto urlare, ma non lo fece. Si prese il capo fra le mani e iniziò a scuoterlo. Violenta. Niente sangue. Non avrebbe voluto vedere sangue. Non di nuovo. E invece lo sentiva. Sulla pelle. Sul suo corpo. Il suo odore…Disgusto.

E lui era lì, di fronte a lei. Immobile. Non si avvicinava. Non parlava. Si limitava a fissarla.

 

Sesshomaru non sapeva come comportarsi. Sembrava sconvolta. Gli occhi dilatati. Accesi di una luce strana. Febbrile. Non aveva mai colto quello sguardo. In nessuno. Rin lo aveva visto uccidere più di una volta. Aveva urlato. Ma poi taceva ad un suo ordine. L’aveva seguito in battaglia. Lo aveva soccorso in battaglia. Era abituata alla morte. Ma quella ragazza no. Non era abituata a vedere uccisioni.

 

La vide alzarsi, sorreggendosi al tronco contro cui era caduta. Pallida. Sconvolta. Un capogiro. Instabilità. Scivolò di nuovo lungo il tronco. Silenziosa. Svuotata. E vomitò.

 

Alessandra rimase seduta, stringendosi gli omeri in un abbraccio di protezione. Per scaldarsi. Perché, oltre alla tremenda sensazione di nausea, si sentiva gelare. Gelo. Gelo. Acuto. Penetrante. E lui era lì, a guardarla. Alessandra immaginò sul suo volto un sorriso soddisfatto. Un sorriso di scherno. Lei che non gli si era piegata, ora era inginocchiata davanti a lui. Fra pezzi di carne fumante e sangue ormai rappreso. Grumoso.

Un nuovo conato.

 

Lo sentì avvicinare. Lento. Leggero. Abbassò di più la testa e chiuse gli occhi. Veniva ad ucciderla? Probabile. La fine che spetta a chi gli si oppone. A chi si oppone ad un youkai. Non le importava. Aveva già conosciuto la morte, la gioia di uccidere. Una vittima in più non avrebbe fatto alcuna differenza. Alessandra ne era certa. Sesshomaru era davanti a lei per finirla. Si aspettava da un momento all’altro di sentire la sua mano su di lei. Sul suo corpo. Questa volta non sarebbe riuscita a liberarsi. Non ne aveva la forza. O forse, dentro di sé, non lo voleva.

 

Attese…

 

Qualcosa di morbido. Di caldo. Seta. Pesante. Soffice. L’aveva coperta come un velo. Strinse a sé quell’inaspettato mantello. Profumo di muschio. Il profumo di Sesshomaru.

 

L’aveva vista tremare. Fremere scossa da brividi- e le si era avvicinato. In quel momento, avrebbe potuto ucciderla senza sforzo. Non aveva più la forza di scappare. Avrebbe anche potuto toccarla. Non si sarebbe divincolata come due sere prima. Era in suo potere. Avrebbe potuto farne quello che voleva. Aveva vinto.

Invece, Sesshomaru avvertì l’impulso di proteggerla, rassicurarla. Il desiderio che lei non lo guardasse con disprezzo. Che non lo temesse perché l’aveva visto uccidere. Sciolse la veste e se la tolse, facendola ricadere su Alessandra. Un conforto. Un aiuto. Indiretto. Perché non l’avrebbe toccata. Sapeva che altrimenti avrebbe solo peggiorato la situazione. E lui voleva sapere ancora tanto da lei. Voleva ancora vedere i suoi occhi. Anche se cercava di convincersi che il suo era solo un gesto strategico. Un allungare la vita alla preda. Per poi ucciderla con lentezza maggiore, con raddoppiata soddisfazione.

 

Nessuno dei due parlò. Nessuno dei due accennò un movimento. Rimasero immobili per un tempo che nessuno calcolò. Perché a nessuno dei due importava.

Finalmente, Alessandra trovò la forza di alzarsi. Passo malfermo. Volto esangue. Passò accanto al cadavere senza neanche vederlo. Un automa. Chiuso a tutto. Per non sprofondare di nuovo. Per non cedere.

Sesshomaru gli vide. I suoi occhi. Bui. Scuri. Senza vita. E ne ebbe soggezione. Perché erano il riflesso di pensieri tremendi che la ragazza stava disperatamente cercando di non far affiorare. Ma in loro c’era anche un’ombra sfuggente che lui colse.

Sesshomaru ne fu consapevole. Questa volta l’afferrò. Colse la magia che lo legava a lei, che aveva saputo inebriarlo e catturarlo. Stringerlo in sottili maglie invisibili. Colse l’origine del suo fascino. Di quel fascino conturbante.

Dignità. Quella ragazza era dignitosa. Anche nel dolore. Anche nello strazio. E Sesshomaru l’invidiò. Di quell’invidia che provava solo verso suo fratello. Perché aveva una dignità propria di una sovrana. Quella dignità che lui si era imposto come una corazza. Che era falsa. Mendace.

 

 

 

 

…Alessandra…

…Alessandra…

…Chi sei?...

…Mi senti, Alessandra?…

…Sì…Dimmi chi sei…

…Non importa, chi sono…

…Perché?...

…Sogni ancora, Alessandra?...

…No…

 

Caldo.

Fu la prima cosa che percepì.. Un calore intenso. Come se si trovasse in una fornace accesa. Poi venne il dolore. Acuto. Penetrante. Solo dolore. Neanche più il corpo. Anestetizzato da quel dolore.

Il sapore del sangue in bocca e l’odore di benzina le davano la nausea.

Stava male. Malissimo.

E intanto il calore attorno a lei continuava ad aumentare d’intensità. Fuoco. Crepitava. Sibilava. Avanzava divorando quella poca aria che ancora non sapeva di fumo e gomma bruciata.

Ansimava. Ogni respiro le bruciava nei polmoni. Aria come acido. Che scende nella trachea seccando la gola, la bocca, cementando la lingua. Per poi esplodere nei bronchi. Dolore sordo. Profondo. Fatica. Urla ridotte a gemiti sommessi. Muscoli che si contraggono disperati. Tensioni spasmodiche. Lancinanti. Inutili.

 

Un getto gelido d’acqua mista a qualcosa di soffice e vaporo. La investì senza alcun preavviso, togliendole ogni forza residua. Da quel momento tutto era confuso e sfuocato. Sensazioni. Solo quello. Semplici sensazioni che arrivavano lente al suo cervello. Voci confuse, concitare; richiami, forse imprecazioni. Rumori metallici; di lamiere stritolate; di vetri infranti e calpestati. Mani su di lei. Rudi, ma esperte. Un riverbero rosso agonizzante su un carcassa nera, informe. Echi di urla, di pianti, di voci metalliche. E piccole luci blu intermittenti. Tante piccole luci blu.

La sensazione di qualcosa di morbido sotto la schiena, sotto la testa. Frasi ascoltate e non capite. Ombre sbiadite di persone. Una luce fredda, forse al neon. Chiazze colorate davanti ai suoi occhi annebbiati.

Due occhi. Fermi nei suoi per un istante. Occhi tristi angosciati. L’ultimo sguardo.

 

                        Leone…

 

Poi, il rombo assordante di un motore, l’urlo stridente di una sirena. E il buio.

 

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Capitolo 11
*** 11. ACCORDI ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!

 

Ho visto che l'hatml mi mangiava delle parole, così ho reinviato i primi capitoli, che adesso sono completi e anche corretti.

 

Questa volta, Sesshomaru e Alessandra non ci saranno, Chiamaiamolo capitolo di cornice. ma è lo stesso importante, perchè iniziamo a sapere qualcosa in più sui cattivi e poi compare anche...Sorpresa-sorpresa...

Coraggio comunque! Inoltre, invio anche  il capitolo 12, in cui, per la gioia di tutti voi, finalmente il passato di Alessandra si saprà.

 

Come sempre, ringrazio tanto tutti quelli che leggono e commentano e anche chi si limita a leggere soltanto.

 

Buona lettura!

 

 

 

 

CAPITOLO 11

ACCORDI

 

 

Inuyasha si fermò, tendendo i sensi acuti. Aveva sentito qualcosa.

“Cosa succede, Inuyasha?”. Dietro di lui, Miroku aveva afferrato più saldamente lo shakujo. Quando Inuyasha fiutava l’aria in quel modo, significava solo una cosa: guai in avvicinamento. Il gruppo si era riformato da alcuni giorni e procedeva tranquillo in direzione del luogo di provenienza di quella strana aura maligna che avevano avvertito tre settimane prima.

 

Tre settimane…Kagome mancava da casa da quasi un mese. Una cosa abituale. Ma in tutto quel tempo non aveva potuto evitare di ripensare, talvolta, alla storia che aveva sentito a scuola. Si chiedeva se avessero ritrovato quella ragazza e se stesse bene. Pensava a lei e si diceva di essere fortunata ad avere accanto persone come Inuyasha, Sango e Miroku. Persone di cui si fidava ciecamente. Amici. Le avevano detto che quella ragazza non aveva amici. Era più grande di lei, e forse questo era un elemento detrattore. E in più era straniera. Ma a Kagome non era sembrata una scusa sufficiente a spiegare il fatto che fosse sempre sola.

 

“Non si sa molto di lei. Solo che è reduce da una brutta esperienza…” le avevano detto le sue compagne. Di che tipo di esperienza si trattasse, probabilmente, gli unici a saperlo erano gli insegnanti e il preside. Ai ragazzi non era stato detto nulla, e quella ragazza non si era mai sbilanciata. Kagome si era sentita in pena per lei. Non l’aveva mai vista, è vero, ma istintivamente le faceva tenerezza. Aveva pensato ai suoi amici nel passato, a come sarebbe stata diversa la vita senza di loro. Più normale forse, ma meno ricca.

 

Tutti dovrebbero avere degli amici su cui contare…

 

Aveva deciso. Quando sarebbe tornata, l’avrebbe conosciuta. Perché Kagome era certa che l’avrebbero ritrovata presto. Magari, mentre lei era lì nel passato, quella ragazza stava tranquillamente seguendo le lezioni nel presente.

 

“Hai fiutato qualcosa?”

 

Sango osservava intorno, guardinga, e anche Kagome aveva impugnato l’arco che solitamente portava a tracolla. L’hanyou annusò ancora qualche istante, con gli occhi chiusi. Odore famigliare. Odore che gli dava fastidio. Sbuffò.

 

“Odore di lupo…”

 

Finì appena la frase che un piccolo tornado attraversò la pianura, fermandosi proprio di fronte a Kagome. Un ragazzo. Alto e atletico. Capelli neri e occhi azzurri. Koga. Inuyasha si girò stizzito. Non voleva vedere. Non lo sopportava. Non riusciva proprio a sostenere la vista di quel dannato lupastro mentre faceva la corte alla sua Kagome.

 

La mia Kagome…Già…Perché lei è mia… È me che ha…ha…

 

Una mano sulla spalla lo fece trasalire. Miroku lo fissava scuotendo il capo, con aria di commiserazione. Doveva avere proprio un’espressione strana se il monaco aveva preso la sua finta indifferenza per abbattimento.

 

“Fatti forza, Inuyasha! Dev’essere un duro colpo per te…Ma il mondo è pieno di belle ragazze…”proseguì il monaco occhieggiando verso la sterminatrice, che afferrata l’allusione provvide ad assestare un sonoro schiaffo a Miroku.

 

Belle ragazze? Miroku era forse impazzito? Ma quali belle ragazze! Lui voleva solo Kagome. La sua Kagome.

 

Si voltò. Rabbia. Gelosia. Koga continuava a tenere le mani della ragazza, a stringerle, a parlare. La investiva con tutte le sue chiacchere. La stordiva. Lo detestò. Non sopportava che qualcuno la toccasse. No. Nessuno doveva prenderla in giro. Perché Koga stava facendo questo. Giocando. Senza cattiveria. Candidamente. Con se stesso. Si stava illudendo.

 

“Ehi! Lupo randagio!”

 

Lo raggiunse veloce. Calmo. Si sorprese lui stesso della calma che riusciva a mostrare. Di solito, gli sarebbe saltato addosso e avrebbe ingaggiato battaglia. Ma non quella volta. Era deciso a chiarire definitivamente le cose senza possibilità di futuri equivoci. Chiarirle definitivamente. E gli era venuto in mente un solo modo per farlo.

 

“Che c’è cuccioletto? Non seccarmi!”

 

Finalmente, l’youkai aveva degnato anche lui di attenzione. Ma se ne pentì. Perché invece del solito mezzo-demone furioso e impulsivo aveva davanti un ragazzo con uno sguardo fermo e deciso. Un ragazzo troppo calmo per essere il solito Inuyasha. La provocazione gli morì in gola.

 

Inuyasha liberò Kagome dalle mani di Koga e l’attirò a sé. Un abbraccio urgente, possessivo. Le strinse forte la vita. E la baciò. Con veemenza. Con passione. Ne aveva bisogno. Bisogno di sentire le sue labbra di pesca. Di sentire il suo sapore. Per non temere di perderla.

 

Kagome inizialmente rimase spiazzata. La stava baciando. Davanti a tutti. Un baciò che sembrava contenere una domanda. Una preghiera. La paura di essere lasciato. La stava baciando. Per dimostrare a tutti che lei era sua. Che lui l’amava. Per dichiarasi. La più bella dichiarazione che la ragazza avesse potuto immaginare…

 

Si abbandonò fra le sue braccia, cingendogli il collo e affondando le mani nei suoi capelli. Brividi. Lungo la schiena. Piccole scosse elettriche. Di chi sta osando. Di chi sta trasgredendo a un segreto. Perché il loro bacio era stato finora un segreto. Nessuno ne era a conoscenza. E con tutti si erano comportati normalmente.

 

Koga era rimasto a fissarli sbalordito. Inuyasha, dopo aver stretto Kagome e averla baciata, ora lo stava fissando dritto negli occhi, mentre la ragazza era appoggiata al suo petto. Lei aveva scelto. Koga lo sapeva. Lo capiva dall’espressione sul suo volto. Estasi pura. Lei aveva scelto. E lui aveva perso. Definitivamente.

 

Sorrise. Forse compiaciuto, forse triste. E li salutò con la mano. Prima di andarsene. Avvolto dal vento. Non ricordava più neanche perché fosse andato alla loro ricerca. Semplicemente, sapeva che adesso, qualora si fosse nuovamente imbattuto in loro, avrebbe dovuto comportarsi diversamente. Era finito il tempo degli scherzi. Delle provocazioni. Lo aveva capito.

Era tempo di crescere.

 

 

 

 

Kagura fissò terrorizzata l’youkai davanti a lei.

Era andata al suo palazzo, come da ordini, e lui si era avvicinato, per poi fendere repentino l’aria. Decapitato. Aveva decapitato il kugutsu di Naraku. Si era accorto subito del trucco. E non gli era piaciuto.

 

E adesso gli stava davanti. Occhi viola guizzanti. Splendenti. Contornati da capelli d’ebano. Lunghi. Lucenti.

 

“Riferisci a Naraku che se vuole parlarmi dovrà venire di persona”

 

Voce calda. Sensuale. Voce giovane. La yasha non aveva mai sentito un tono simile. Né mai visto una simile potenza. Certo, il simulacro non era potente, ma l’aura demoniaca che avvertiva emanarsi da quel ragazzo era impressionante. Molto più di quella di Naraku. Pari solo ad un’altra aura. Quella di Sesshomaru.

 

Ed è solo il figlio del nuovo alleato di Naraku

 

Kagura si rialzò da terra sorridendo dietro il ventaglio. Notevole. Se giocava bene le sue carte, forse avrebbe potuto usare quel ragazzo per liberarsi del suo padrone; per essere libera.

 

“Farò come vuoi” gli rispose in modo mellifluo, inclinando un po’ la testa. Sapeva di essere bella e di poter avere molto ascendente sugli uomini. Le bastava volerlo. Accennò un inchino e iniziò a ritirarsi. Poi, con una mossa studiata e magistralmente eseguita, si voltò verso il giovane, mostrando il suo corpo flessuoso. Gli si avvicinò rapida e lo baciò. Con urgenza. Con finta passione. Mordendogli le labbra. Infine si staccò, facendogli scivolare fra le pieghe del kimono una piccola pergamena.

 

 

 

 

Shin guardò la carta contorcersi nel braciere di bronzo. Non sarebbe mai sceso a patti con una yasha. Non con una demone di quel genere. Capace di vendersi per libertà. Senza dignità. Senza onore.

 

Era indispettito. Sia per il comportamento di Kagura sia, soprattutto, per l’atteggiamento di Naraku. Come aveva osato inviargli un semplice simulacro? Non lo aveva forse ritenuto degno della sua attenzione? Se fosse stato così, sbagliava. In questo lui e suo padre si assomigliavano. Dai loro alleati esigevano entrambi il massimo rispetto.

 

La porta scorrevole si aprì. Un uomo. Alto. Inquietante. Vestito solo di una pelle di babbuino. Naraku. Si fissarono. Rubino contro ametista. Si studiarono. Attenti; sospettosi; da consumati esperti di vita e inganni. Shin si sorprese: il mezzo-demone che aveva di fronte era più giovane di lui; molto più giovane. Almeno quattrocento anni. Ma aveva il corpo di un uomo adulto. Un corpo molto diverso dal suo. Quello di un ragazzo. Appena ventenne.

 

Naraku osservava il ragazzo in piedi davanti a lui. Sorrise soddisfatto. Aveva dovuto farlo attendere più di una settimana prima di incontrarlo. Per permettere alla ferita al fianco di rimarginarsi e alle forze di tornare in quantità sufficiente a lasciarlo muovere come voleva. Ma era soddisfatto.

 

Se questo è solo il figlio del mio caro “amico”, il suo potere demoniaco deve essere inimmaginabile

 

“È un onore poter-”. Voce di miele. Falsa. Ripugnante. Troppo ossequiosa.

 

“Ho visto il corpo di Takakuni

 

Shin non lo aveva neanche ascoltato. Non voleva i suoi convenevoli, non voleva doversi abbassare a parlare con lui. Ma ci era costretto. Solo per il minimo indispensabile però. Solo per quello. Disprezzo. Verso di lui riusciva a provare solo quello. E non perché fosse un hanyou. Quel fatto per lui era irrilevante. No. Era proprio lui che detestava. Epidermicamente. Il suo modo di agire. Subdolo. Nell’ombra. Senza mai esporsi apertamente. Solo all’occorrenza. Un modo di agire che suo padre lusingava, certo, ma che lui non approvava. Non era quello che gli era stato insegnato. Quello per cui rifiutava anche l’altro motivo che aveva spinto suo padre a inviarlo lì così presto.

 

“È stato lui?”.

 

Naraku non diede segno di essersi offeso. Sapeva bene di non poter rischiare. Quel ragazzo non era uno sprovveduto. Si era subito accorto del suo feticcio, e lo aveva distrutto con la stessa facilità con cui si scaccia una mosca. No. Non era uno sprovveduto. E lui doveva stare attento.

 

“Un drammatico incidente. Lo avevo avvertito di non esporsi, ma lui non ha voluto ascoltarmi. Non siamo potuti intervenire…”.

 

Mentire. Per aggravare le cose. Per far aumentare la rabbia, il risentimento. Se voleva vincere, Naraku sapeva che doveva portare all’esasperazione il sentimento di vendetta che i suoi alleati provavano.

 

Shin non commentò. Accennò solo col capo. Ombre gli velarono lo sguardo. Lo avrebbe vendicato. Lo giurò sul fuoco che ardeva nel braciere e sulla sua vita. Lo giurò col silenzio. A se stesso. Sarebbe morto. L’erede era condannato.

 

Si riscosse all’improvviso, facendo segno al demone di seguirlo. Corridoi. Lunghi. Bui. Abbandonati da anni. Da secoli. Odore di muffa, di chiuso. Quel castello apparteneva alla sua famiglia da generazioni. Il loro epicentro. La sede del loro passato potere. Sarebbe risorto. Shin ne era sicuro. Sarebbe tornato a vivere. In un modo o nell’altro, quello che suo padre aveva preparato in tutti quegli anni, si sarebbe avverato.

 

Un oni gigantesco, al suo apparire, spalancò una porta. Una rimessa. Immensa. Sinistra. Shin appoggiò la mano su una cassa. Odiava quel compito…

 

“Come da accordi”

 

Naraku si avvicinò sollevando la copertura di legno. Un guizzo lucente al chiarore del fuoco. Un guizzo mortale. Fucili. L’hanyou sorrise, imbracciandone uno. Perfetto. Maneggevole, leggero, ma potente. Gli ultimi arrivati sul continente.

 

“E per i proiettili?”

 

Non era uno stupido. Sapeva bene che un’arma da fuoco, per quanto potente, non poteva nulla contro un demone. Non era per quello che aveva cercato un alleato capace di procurargli fucili. No. Gli serviva anche qualcos’altro. Qualcosa che solo il clan di Shin possedeva.

 

Il ragazzo sospirò mentalmente e lo introdusse in una stanza colma di alambicchi e provette. Un laboratorio. Doveva obbedire agli ordini anche lui…

 

Yaone!”. La voce rimbombò nella stanza silenziosa, e nel buio si delineò una figura di donna. L’alchimista.

 

Yaone si avvicinò leggera. Sembrava non avere consistenza terrena. Naraku la osservò. Era giovane e molto bella. Capelli del colore dell’acciaio, pelle di latte, labbra di fuoco. E due occhi: uno nero come la morte, l’altro verde come la vita. Era viva, ma il suo odore era quello di un morto. Il demone non capì cosa fosse. Forse un non-morto. Ma aveva un potere nascosto che si avvertiva palpabile attorno alla sua figura. Un potere sconvolgente.

 

“Signori…Ecco il composto che ci darà la vittoria”. La yasha sollevò la mano, dove reggeva un’ampolla colma di un liquido rosato. Fluorescente.

 

“Ne sei certa?”. Quello era Naraku, dunque. Un demone. Anzi, un mezzo-demone. Molto potente. Yaone sorrise e scosse una corda. Un tintinnio. Poi afferrò una pistola e ne bagnò un proiettile con il suo intruglio. Appena uno sfiorarsi di liquido e metallo.

 

Una detonazione. Secca. Assordante. Il corpo del demone cadde a terra senza respiro. Freddato. Senza neanche aver capito cosa stesse accadendo. Aveva aperto la porta ed era stato investito dal colpo. Prosciugato della sua aura.

 

“Splendido”

 

Un sorriso sinistro. Compiaciuto. Naraku era soddisfatto. Una dimostrazione perfetta. Soddisfacente. Chimica e youki fusi assieme. Un’arma potente. Letale.

Sorrise. Sì. La vittoria sarebbe stata sua.

 

 

 

 

Arcobaleno di luna. Leggero. Delicato. Fra acqua e colonne di ghiaccio. Un ricordo lontano. Un ricordo smarrito. Un sorriso sulle labbra. Triste. Il ricordo di una promessa che non si può mantenere. La consapevolezza che si farà soffrire. E che no lo si può evitare.

 

Un fruscio alle spalle.

 

“Ce ne hai messo di tempo per arrivare!”. Koga si girò, abbandonando le riflessioni e la malinconia. Davanti a lui, un ragazzo dai capelli neri. Inuyasha.

 

Il demone lupo si sorprese un po’. Non ci aveva fatto caso, ma quella era lo shingetsu. La prima notte di luna nuova. Quella in cui Inuyasha perdeva l’aura demoniaca.

Koga lo sapeva, ma non aveva calcolato che il mese era finito. Lo aveva chiamato. Aumentando di poco la sua aura. Il suo odore. Per parlargli. Per chiedergli quello che nel pomeriggio non aveva più voluto dire.

 

Non si aspettava che gli si sarebbe presentato in forma umana. Da solo. Si rendeva almeno conto del pericolo che stava correndo ad andarsene in giro così?

 

“Ma sei impazzito?! Che diavolo ti è saltato in mente?!”.

 

Già. Inuyasha doveva proprio essere ammattito per girare in quelle condizioni per la foresta. Avrebbe dovuto ignorare la sua chiamata. Non fare l’eroe senza paura. Correva un bel rischio. Che Naraku lo attaccasse e scoprisse il suo segreto.

 

“Non mi seccare anche tu!”.

 

Inuyasha sospirò pesantemente, incrociando le braccia. Si era allontanato perché non ce la faceva più. Lo stavano facendo impazzire con tutte le loro domande. Non la smettevano più. E se Kagome rispondeva un po’ imbarazzata alle continue richieste di chiarimenti da parte di Sango e Miroku, lui si era davvero spazientito. E imbarazzato. Molto.

 

Accidenti! Se avessi saputo che mi sarebbe toccato questo interrogatorio, sarei saltato addosso al lupastro come al solito. Ma come diavolo mi è passato per la testa di baciarla davanti a tutti?!

 

Aveva fissato Kagome. Non si era arrabbiata per quel bacio. Le era piaciuto. E adesso stava cercando di rispondere alle domande dei loro amici, glissando su alcuni particolari che avrebbero fatto sapere anche a loro le paure di Inuyasha. L’hanyou l’aveva ringraziata per questo. Gli stava evitando un pressione eccessiva. Che non sapeva se sarebbe riuscito a reggere. Ma anche quella situazione lo aveva infastidito. Così aveva afferrato la sua katana e si era allontanato.

 

Si era trovato Koga di fronte senza preavviso. Non ne aveva sentito l’odore. Che stupido! In forma umana e per di più perso nei suoi pensieri, avrebbe potuto trovarsi faccia a faccia con Naraku in persona e accorgersene solo andando a sbatterci contro. Un rischio cui non aveva pensato. Stupido! Stupido!

 

Koga continuava a fissarlo. Sorpreso. Della risposta e del suo menefreghismo. Ma possibile che avesse così poca voglia di vivere?!

 

“Nervosetto? Forse Kagome non ha gradito le tue attenzioni di questo pomeriggio e ti ha sgridato? Povero cuccioletto”

 

Provocare. Per venire alle mani. Per battersi. Senza volontà di farsi male davvero. Solo per scaricare la tensione. Per distrarsi. Perché sapeva di avere perso. Lo accettava, ma non voleva far credere al mezzo-demone di avere paura di lui. Voleva continuare la farsa ancora per un po’. Solo un altro po’. Per potersi illudere.

 

Lo fissò. Continuava a fissarlo. Zaffiro nell’ambra. Ambra nello zaffiro. Espressioni dure. Concentrate. Muscoli tesi, pronti a scattare. Pugni chiusi per colpire. Aveva voglia di picchiarlo. Per cancellare l’immagine di quel bacio. Lo avrebbe fatto. Non con la sua forza demoniaca però. Solo picchiarlo. Un’ultima rivincita…

 

Allargò il ghigno. Un sorriso. Sorrise. Rise. Inuyasha rimase spiazzato. Koga stava ridendo. Semplicemente. Divertito. Non lo capiva più. Forse aveva preso una botta in testa. O forse il vederlo baciare Kagome lo aveva scioccato troppo. Rideva. Non una risata di scherno però. Non un riso provocatoria. Ma il suono di chi ride perché è contento. Si lasciò contagiare. E rise anche lui. Senza un vero motivo. Per cancellare la tensione.

 

“E bravo cuccioletto! Alla fine, sei riuscito a portarmela via”. Niente livore. Solo realtà.

 

“No…”

 

“Come no?! Vuoi dire che l’hai baciata solo per ingelosirmi?! Che lei non è la tua donna?!”.

 

“Sì…”

 

Sorpreso. Esterrefatto. Ma che diavolo stava succedendo, allora? Kagome che si lascia baciare senza reagire? Delirio puro. Stava per ribattere, ma Inuyasha lo prevenne, completando la frase in sospeso.

 

“Sono io ad essere suo…Mi ha conquistato il cuore…”.

 

Koga respirò rumorosamente, lasciandosi cadere seduto a terra.

 

“Ah ecco, mi sembrava! Mi hai fatto venire un colpo! Bada a non riprovarci, cagnaccio!”

 

Inuyasha sorrise. Tono finto sfrontato. Già…Koga lo stava canzonando di proposito. Perché le persone non cambiano dall’oggi al domani. E a lui sembrava già incredibili star solo parlando con quel demone-lupo senza averlo ancora preso a pugni. Koga gli fece un ceno, invitandolo a sedersi. Voleva parlare, ma l’hanyou lo prevenne.

 

“Perché mi cercavi?”

 

“Dovevo farti alcune domande. Ma dopo quello che hai combinato questo pomeriggio, mi erano passate di mente. Ma guarda un po’ in che razza di situazione mi dovevo cacciare! Costretto a parlare con te! E per di più in forma umana!”

 

“Se ti do tanto fastidio, me ne vado!”

 

Inuyasha accennò ad alzarsi, ma, rapido, Koga lo afferrò per il braccio rimettendolo a sedere. Lo fissò negli occhi. Serio. Non era più il momento di scherzare.

 

“Cosa sai dell’aura di tre settimane fa?”

 

“Nulla”

 

“Non cercare di prendermi in giro! Credi forse che non l’abbia percepita la forza di Naraku in quel concentrato di potere demoniaco?! Ti sei forse scontrato con lui?”

 

“No”

 

Koga sospirò. Stizzito.

 

“Stai diventando peggio di tuo fratello, oggi! Cosa devo fare per avere risposte? Prenderti a pugni forse?”

 

Inuyasha assottigliò lo sguardo. Il riferimento al fratello non gli era piaciuto. Per niente. Ma di fare a pugni in quel momento non se la sentiva proprio. Aveva ancora sulle labbra il sapore del bacio dato a Kagome. Ed era stanco. Molto più del solito. Fissò l’youkai. In fondo, poteva fidarsi di lui. L’odio che provava per Naraku era una garanzia sufficiente. Almeno per lui.

 

“So solo che quell’aura è esplosa in direzione del monte Fuji, che al suo interno si avvertiva il fetore di quel maledetto e… la forza della sfera dei quattro spiriti.

 

Scherzi, vero? Perché mai Naraku avrebbe usato la sfera, tra l’altro incompleta?”

 

“Che vuoi che ne sappia io? Se ci tieni vai a chiederlo a lui! Sempre che tu lo trovi ancora vivo, perché ho intenzione di finirlo appena mi capita a tiro!”

 

Silenzio. Nessuno dei due aggiunse altro. Sapevano entrambi di non avere altro da dirsi. Nessun aiuto da scambiarsi.

 

“…Ayame?”

 

Koga addolcì lo sguardo a quel nome e sorrise trasognato.

 

“È sulla montagna, col patriarca”

 

“Perché non la raggiungi?”

 

“Prima devo vendicare i miei compagni. Lo sai”.

 

Inuyasha annuì. Sì. Lo sapeva. Conosceva l’origine dell’accanimento del giovane principe. Principe…Perché Koga lo era. Era l’erede della tribù dei lupi. L’erede di un antico clan. Antico come quello di suo padre. E lui era l’erede. Come lo era Sesshomaru fra loro.

 

“Sentirà la tua mancanza…”

 

Silenzio. Koga non gli rispose. Quella conversazione stava prendendo una piega inaspettata. Sorprendente. Era una situazione che nessuno dei due si sarebbe mai aspettato di vivere.

 

“Come l’ha presa Sesshomaru?”

 

“Non lo sa. Non siamo in buoni rapporti”. Il mezzo-demone sospirò. “ Non lo siamo mai stati…”

 

“Peccato. Non credo che farebbe i salti di gioia a saperti innamorato di una donna umana, ma…Almeno come fratello dovrebbe interessarsi!”

 

“Fratellastro…” precisò Inuyasha. Rimpianto nella voce.

 

“È lo stesso”. Koga scosse le spalle. “Quando si ha un fratello, bisognerebbe stare dalla sua parte. Comunque.”

 

L’hanyou non capì. C’era tutta una storia nascosta dietro quelle parole. Una storia che lui non conosceva. Che lo incuriosiva. Ma gli sembrava improbabile che Koga gliela avrebbe narrata. Invece…

 

“Avevo un fratello. Più piccolo. L’ho perso. Avevamo litigato, e lo avevo lasciato andare ad allenarsi. Da solo. Non è più tornato…Non so che fine abbia fatto. Ogni tanto, quando ti vedo, me ne ricordo. Perché tu gli assomigli un po’. Per carattere, intendo. Non voglio la tua compassione. Solo dirti di non rinunciare. Sesshomaru potrà anche detestarti, e forse dal suo punto di vista ha anche ragione. Ma tu non dimenticare mai che lui è tuo fratello. Che lui lo voglia o no”.

 

Koga si alzò. Lo sguardo smarrito dietro a ricordi lontani. S’incamminò.

 

“Ci vediamo, botolo”. Corse via, senza aspettare risposta.

 

Un sussurro.

 

“A presto, lupastro…”.

 

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Capitolo 12
*** 12. CIARDA DI GHIACCIO ***


Finalmente, si saprà qualcosa di definito sul passato di Alessandra, e per bocca della stessa Anche

Finalmente, si saprà qualcosa di definito sul passato di Alessandra, e per bocca della stessa Anche. Ma non aspettatevi che vi sveli tutti i segreti subito. Zone d'ombra rimangono. Siete avvertiti. Invece qualcuno cambia, anche se non vuole ammetterlo.

Il Capitolo e un po' lungo (16 pagine), ma non ho voluto dividerlo questa volta, perchè i fatti sono strettamente legati.

 

Buona lettura!!!

 

 

CAPITOLO 12

CIARDA DI GHIACCIO

 

 

Alessandra si svegliò nel cuore della notte, con echi di grida nella testa, con la fronte imperlata di sudore. Quel sogno…Quel dannato sogno…Tornava. Sempre. A tormentarla. A costringerla a ricordare. Perché non erano solo il risultato delle sue paure, quelle visioni. Erano la realtà. Una realtà che ancora a tre anni di distanza lei non riusciva ad accettare.

 

Si strinse nelle coperte. Aveva freddo. Molto freddo. Anche se era accanto al fuoco. Spaziò con lo sguardo il piccolo accampamento. Aveva bisogno di distrarsi. Di concentrare la mente su qualcosa.

 

Rin, Jacken e Ah-Un dormivano tranquillamente. Alla fine, era rimasta. Per necessità più che per scelta. Perché la pericolosità di quel luogo le era stata mostrata nel modo più brutale che conoscesse. E lo aveva fatto lui. Per aiutarla. Ma davvero lo aveva fatto per lei?

 

Alessandra non ci voleva pensare. Non voleva ricordare la sua figura bianca sporca di sangue. L’odore del sangue. Perché era stato quello la causa di tutto. Aveva riaperto la sua ferita. E ora sanguinava; la stava dissanguando. Lentamente. Inesorabilmente.

 

Una settimana…Ormai era da una settimana che viaggiava con loro. E che sognava. Incubi. Ricordi. Tutto confuso. Mescolato. E sensazioni forti. Annichilenti.

 

Si sollevò a sedere, stringendosi nel kimono che indossava. Il suo maglione aveva dovuto abbandonarlo. Troppo impregnato di sangue per poterlo ancora portare. Odore di morte. Nausea e disgusto. Lo aveva abbandonato. E Jacken le aveva procurato quel kimono. Caldo e pesante. Prezioso. Come l’altra volta. Come quello che lei aveva adattato a Rin. Ma stavolta non lo aveva rifiutato. Non aveva potuto. Lo aveva indossato, tagliandolo però all’altezza della coscia. Più comodo. Più maschile. Per cercare esteriormente di ricreare quella protezione andata smarrita.

 

Sospirò e tornò a sdraiarsi, girandosi su se stessa per cercare una posizione più comoda. Per dimenticare la nauseante sensazione di malessere che l’aveva svegliata. Per dimenticare gli incubi delle sue notti agitate. Un movimento davanti agli occhi ormai assonnati. Non se ne curò. Forse era lui che rientrava.

 

 

 

 

Sesshomaru non dormiva. Non lo faceva mai. Non ne aveva bisogno. Chiudeva gli occhi solo per pensare. E restava così. Immobile e col respiro regolare e tranquillo. Sembrava davvero dormire, certe volte. Invece, i suoi sensi erano sempre attenti. Vigili.

 

Percepì un rumore nella grotta. Fruscio di stoffa. Discese con eleganza dal ramo, atterrando nella neve. Nessun rumore. Leggero. La vide. Seduta nel futon, con le braccia strette al petto. Un disperato tentativo di proteggersi. Calmarsi. Perché era agitata. Lo sentiva dall’odore. E poi bastava guardarla. Tremava. Come quella sera. La prima in cui l’avesse vista veramente fragile. Quella sera…sette giorni prima…Quando era stato costretto a mostrarle davvero chi fosse…Costretto a uccidere…davanti ai suoi occhi.

 

Era cambiata. Da quel momento era stato come se fosse entrata in trance.

Si era diretta all’hokora e il giorno dopo non aveva opposto resistenza quando le aveva ordinato di seguirlo. Era stata docile. Come mai l’aveva vista prima. Neanche quando l’aveva graffiata afferrandola per il polso aveva reagito così. Adesso, invece, tutto le era indifferente. Era una marionetta vuota che si muoveva per inerzia.

 

Aveva cercato i suoi occhi in quella settimana. Per cercare di leggerli, sperando di trovarvi le solite sfumature cangianti. Non li aveva più incontrati. Più. Alessandra li teneva sempre bassi; rivolti al suolo. E non parlava. Non le aveva sentito pronunciare una parola dopo che era rientrata al tempio. Muta. Neanche con Rin si apriva. Le uniche parole che avesse sentito uscire dalle sue labbra erano sospiri confusi dal sonno. Un nome ripetuto. Nulla di più. E sempre in stato di incoscienza.

 

E adesso era lì, sveglia. Spaventata. Ma sapeva che non avrebbe chiesto aiuto. A nessuno. E meno che mai a lui. Sesshomaru ne era consapevole. E la ammirava per questo. In quella settimana, aveva imparato ad ammirarla. A modo suo, vero; ma non lo poteva negare.

 

Reggeva un ritmo che avrebbe sfiancato anche un demone; un ritmo che distruggeva Jacken. Gli camminava alle spalle, senza mai lamentarsi, fermandosi quando lui lo decideva, accelerando quando lui faceva altrettanto. Notevole. Davvero.

 

Sesshomaru, però, in quel momento, vedendola così, percependo tutto l’angoscia che la pervadeva, si chiese per quanto ancora sarebbe riuscita a reggere. Non mangiava più. Non dormiva più. Era cambiata. Era mutata. E lui non riusciva a sopportarlo. Perché lo infastidiva il fatto che qualcosa accadesse sotto la sua attenzione, senza che lui però riuscisse a darvi una spiegazione. Una spiegazione esauriente.

 

La guardò stendersi e rincorrere il sonno. Agitato. Inquieto. Entrò finalmente nella grotta e le sedette vicino. Il suo viso. Così pallido. Così provato. Così…asciutto. Sesshomaru si chiese perché non piangesse. Perché non avesse mai sentito l’odore delle sue lacrime. Non aveva pianto neanche quella sera. Eppure impressionata lo era rimasta. Traumatizzata. Ma niente lacrime. Come se il suo corpo avesse dimenticato come fare a piangerle.

 

Perché quei pensieri? Perché quella sensazione verso di lei? Voleva proteggerla. Lo sentiva necessario. E non lo capiva,

 

Solo curiosità

 

Mentiva. A se stesso. Soprattutto. Ma la vera ragione non la sapeva neanche lui. Avvicinò la mano al suo viso. Una carezza…Avrebbe voluto sfiorarla. Per tranquillizzarla. Come aveva tranquillizzato Rin quando era malata.

 

Distese le dita. Artigli. Si fermò. Un sussurro nella memoria…

 

“Non devi toccarmi…”

 

Sospirò; e ritrasse la mano. Forse sì. Forse sapeva cosa lo attraeva di lei. Ma non lo avrebbe mai accettato. Perché significava provare compassione. Commiserazione. Autocommiserazione. Perché significava provare sentimenti umani.

 

Impossibile…

 

Però, in quella ragazza rivedeva se stesso. La sua freddezza. Il suo dolore. E il suo interesse nasceva dalla volontà di salvarla. Di impedirle di diventare come lui.

 

 

 

 

Alessandra si svegliò che il sole era già alto. Aveva fatto tardi. Strano che nessuno l’avesse svegliata. Guardò fuori dalla finestra della capanna dove avevano trovato riparo. Cielo grigio. Cielo che minaccia neve. Aperto in un solo punto, da cui filtravano raggi. Caldi. Dorati.

 

Come i suoi occhi…

 

Scosse la testa. Si sentiva ubriaca. Delirava. Mal di testa. Il cranio che pulsa. Violento. Doloroso. Aveva dormito troppo, e male. Sentiva delle voci in lontananza. Risate. Non si mosse. Rimase stesa, con lo sguardo alla finestra. Non aveva intenzione di alzarsi. Non ne aveva voglia. Apatia. Era come una malattia. La stava divorando piano. E la consumava. Assieme a quei sogni terribili.

 

Ale-chan! Ale-chan! Ben svegliata! Il signor Sesshomaru ha detto che ci fermeremo per un po’. Qui c’è un lago ghiacciato. Tu mi avevi detto che questi servivano per correre sul ghiaccio. Mi insegni a farlo?”

 

Rin le era corsa incontro, stringendo nelle mani i suoi pattini. Glieli aveva costruiti lei, con legno, stoffa e le lame di riserva dei suoi pattini. Lo aveva fatto per impedirsi di pensare. Per occupare le ore notturne che trascorreva sveglia. A volte si era anche intestardita a non voler dormire. Per paura di rivedere quelle scene.

 

Quando glieli aveva consegnati, Rin era stata felicissima. Aveva saltellato per un po’ attorno a Jacken, per nulla tranquillo dell’inoffensività del dono, e poi aveva cercato di abbracciarla. Alessandra aveva avuto uno scatto nervoso e si era allontanata, lasciando Rin sorpresa. La bimba era rimasta interdetta per un attimo, ma poi aveva ripreso a correre. Verso Sesshomaru. Voleva mostrargli il dono che aveva ricevuto.

 

L’youkai l’aveva fissata e le aveva fatto una carezza sulla testa. Un contatto. Delicato. E poi aveva alzato gli occhi su Alessandra. Una dimostrazione. Che da Rin non aveva nulla da temere. Perché se aveva già allontanato lui, non l’aveva mai vista sottrarsi alle mani di Rin. Fino a quel momento.

 

“Allora, Ale-chan? Mi insegni?”

 

Alessandra annuì. Sì. Le avrebbe insegnato a pattinare. Se non altro, le avrebbe impedito di pensare veramente. Andò a prendere i suoi pattini e raggiunse Rin vicino al laghetto. La bambina cercava di capire come si mettessero quelle strane lame. Non ci riuscì e allora si rivolse alla ragazza. Alessandra si sedette accanto a lei e le infilò i suoi pattini, veloce ed elegante.

 

Rin la osservò attentamente. Sapeva che la sua amica non avrebbe parlato. Era da tanto che non la sentiva parlare. Neanche il signor Sesshomaru era mai stato in silenzio così a lungo. Rin non sapeva il perché, ma credeva che la causa fosse lei.

 

Ale-chan… È per colpa di Rin che tu non parli più? Perché sei arrabbiata con Rin?”

 

Inginocchiata a terra davanti alla bambina, intenta a stringere bene i pattini, Alessandra rimase folgorata da quella domanda. Perché si accorse che la stava facendo soffrire. Per la prima volta, si accorse che il suo mutismo rendeva triste qualcuno. Si sentì male. Perché avrebbe voluto abbracciarla e dirle di no, che non era arrabbiata con lei. Anzi, che le era grata. Perché era da tanto che qualcuno non mostrava un interesse simile per lei. Un interesse sincero.

 

Scosse la testa. Con forza. Guardandola fisso negli occhi.

 

No. Tu non c’entri. È mia la colpa…

 

Non parlò. Non ce la faceva. Non aveva ancora la forza per farlo. Invece, le strinse le mani e la fece entrare sul ghiaccio. Rin si spaventò un po’ e si aggrappo di più alle sue braccia. Sapeva che quello era tutto il contatto che poteva avere. Come sapeva che Alessandra prima le aveva parlato senza usare le parole. Ma le andava bene lo stesso. Perché non era arrabbiata con lei.

 

 

 

 

Quel giorno, Rin imparò che riuscire a stare in piedi sul ghiaccio poteva essere molto facile e molto difficile allo stesso tempo. Se ci si spinge poco, non ci si muove. Se ci si spinge forte, si rischia di cadere. Bisogna stare attenti alla lama, a non frenare con la punta perchè altrimenti si cade. A non muoversi troppo bruscamente per non perdere l’equilibrio.

 

Alessandra era orgogliosa di lei. Dopo solo poche ore, era riuscita a stare in piedi e a muovere i primi passi. E sempre sorridendo. Nonostante le cadute e i lividi. E nonostante gli urli angosciati di Jacken ogni volta che Rin scivolava. Perché il demonietto temeva che il suo padrone l’avrebbe ucciso se Rin si fosse fatta anche solo una sbucciatura.

 

L’aveva ricondotta al tronco, e le aveva regalato gli ultimi biscotti al cioccolato rimastile. Per premio. Ormai era sera. Rin era esausta, anche se continuava a ripetere che si era divertita tantissimo e se cercava di convincere Jacken a provare anche lui.

 

Alessandra sentiva male alla caviglia sinistra. Dove l’osso si era rotto. Ma non ci diede importanza. Sentiva il richiamo del ghiaccio. Voleva pattinare. Ancora. Per sfinirsi. E non avere più la forza neanche di sognare.

 

Ritornò sul laghetto, fermandosi al centro. Chiuse gli occhi. Musica…Sentiva nelle orecchie Maurice Ravel. Tzigane . Un campo minato , il cavallo di battaglia dei grandi virtuosi. Il suo cavallo di battaglia. La sua fatica. Il suo orgoglio. Respirò. Non eseguiva quella danza da due anni. Ma ricordava tutto. Perfettamente. Lucidamente.

 

Iniziò a muoversi. Lentamente. Seguendo una melodia che lei sola sentiva. Ricordando. La cadenza virtuosistica del violino, accompagnata da un’altrettanto rigogliosa cadenza del pianoforte. Iniziò la danza. Alessandra cominciò a muoversi, abbandonandosi al ritmo coinvolgente che risuonava solo per lei. Dapprima lentamente, con scivolate lente e aggraziate, poi sempre più velocemente, saltando e volteggiando. Spaziando per tutta la pista. Riempiendo la mente e i movimenti di una musica d’irresistibile fascino.

 

Rin e Jacken osservavano estasiati Alessandra esibirsi in quella danza. Una ciarda. La sua migliore interpretazione. Una ciarda di ghiaccio. La notò anche Sesshomaru, in piedi vicino ad un albero. Appena sopraggiunto. E ne fu conquistato. Si accorse della passione che sprigionava da ogni movimento, sempre più sinuosi e intriganti. Una danza raffinata, che aveva calamitato lo sguardo del bel demone, incantato da quell’affascinante magia e stregato dagli occhi provocanti e determinati di Alessandra.

 

Dov’era la ragazza che aveva visto tremare nel futon? Quella che si era divincolata dalla sua mano, che aveva perso la parola? Non la riconosceva più. Ne era ammaliato. Sesshomaru non si era mosso, ma aveva gli occhi spiritati e le labbra lucide e tese. Era immobile, eppure dentro fremeva ad ogni axel di Alessandra, ad ogni suo sguardo sempre più intenso. Uno sguardo nuovo. Alessandra non si rendeva minimamente conto del fascino esuberante che sprigionava da quella vivace danza, con la sua mente totalmente impegnata nel ricordare la musica e nell’esecuzione.

 

Durante la performance, Alessandra dimenticò tutto. Il dolore, la solitudine, il luogo sconosciuto dove si trovava…Tutto. C’erano solo lei, la sua musica e la scivolare veloce dei pattini sul ghiaccio. Un sogno mai concretizzato. La sua occasione dissoltasi.

 

Durante la performance, Sesshomaru dimenticò tutto. Chi fosse lui. Chi fosse lei. Restò cosciente solo di quello che provava. Trasposto. Coinvolgimento. Magia. Alessandra era solo una donna. Quella che avrebbe voluto veder ridere. Quella di cui avrebbe voluto conoscere il sapore delle labbra.

 

Quando Alessandra si fermò, mettendo fine a quel volteggio estatico, terminò anche l’incanto che li aveva pervasi. Tornarono quelli di sempre: freddo e distaccato lui; smarrita nei suoi fantasmi lei. Avevano dimenticato l’intraprendenza, le sensazioni provate.

 

Alessandra scivolò a riva, rispondendo con un tenue sorriso a Rin, che era stata letteralmente conquistata da quel ballo. Superò Jacken, imbambolato, dirigendosi verso la capanna. Aveva bisogno di togliersi il pattino sinistro. Aveva sforzato troppo la caviglia. Non era più abituata. Lo vide. Vicino all’edificio. Statuario. Regale. Seducente. Si senti in imbarazzo. Perché l’aveva vista danzare. Perché aveva eseguito quei gesti davanti ai suoi occhi. E la cosa la imbarazzava tanto. Troppo. Lo superò cercando di fingere noncuranza. E sparì nell’edificio.

 

Sesshomaru non la fermò. La magia era finita, ma lui non era ancora del tutto padrone di sé. La lasciò andare. Ma la seguì con lo sguardo. Voleva vederla di nuovo così. Coinvolgente Sensuale. Magnetica. Lo voleva. A tutti i costi. Ignorando ancora, cocciutamente, il perché.

 

 

 

 

Di nuovo.

Caldo. Fuoco. Polmoni che bruciano. Arsura. Acqua. Freddo. Rumori. Tanti. Confusi. Luci. Luci blu. Sensazioni. Malessere. Annebbiante. Occhi…due occhi…l’ultimo sguardo…

 

Leone…

 

Alessandra si passò una mano sul viso sudato. Ancora. Sempre. Rifaceva continuamente lo steso sogno. Non le serviva a nulla sfinirsi fisicamente. Appena chiudeva gli occhi la sua mente ricominciava a giocare con lei. Crudele. Le ripresentava quelle immagini. Una carrellata continua. Immobile. Si avvicendavano lente e veloci. Esasperando le emozioni che suscitavano. Accrescendo le sensazioni. Un viaggio onirico nel suo passato. Un viaggio nell’incubo di quella notte. Sempre. Sempre. Senza possibilità di scampo.

 

La luna…la prima falce. Tenue e sottile. Delicata. Bianca. La luna…la sua protettrice…Leone le raccontava sempre il mito della bella Selene, la dea greca dell’astro lunare che si era innamorata del bellissimo pastore Endimione. Ma a lei la storia metteva tristezza, perché alla fine la dea era stata costretta a rinunciare al suo amore e il pastore era stato condannato a dormire un sonno eterno.

 

Ecco perché la luna ha due volti…All’uomo mostra sempre la faccia luminosa e delicata, quella da cui nasce la luce con cui ogni notte bacia il suo innamorato; Ma la faccia oscura è quella più autentica, perché cela il suo dolore, le lacrime che versa e di cui l’uomo ha testimonianza ogni mattina, nella rugiada…

 

La sua voce…le risuonava nella mente come se lui le fosse accanto, come se le stesse parlando. Alzò gli occhi al firmamento immenso. La via lattea, le costellazioni zodiacali, Polaris…si divertivano a rincorrere con gli occhi le scintille del cielo…A sfidarsi a riconoscerle, a chi ne ricordava meglio il mito d’origine…

 

Le mancava. Terribilmente. Si strinse le ginocchia al petto e vi affondò la testa. Immobile. Si confondeva con le ombre degli alberi. Scompariva. Sarebbe stato il suo desiderio. Tornare da lui…da loro…vederli di nuovo…Vivi…e non nei sogni, nei ricordi angosciosi della notte…

 

“Leone…”

 

Quel nome, pronunciato senza sfumature. Con voce piatta. Pronunciato da una voce che conosceva. Che la inebriava. Anche in quel momento. Quando era totalmente sfinita.

 

Sesshomaru le si avvicinò silenzioso. Le si fermò accanto, ma mantenne una certa distanza. Non voleva intimorirla. Non voleva che fuggisse. Dal ramo dove stava osservando la volta stellare l’aveva vista uscire dal capanno e dirigersi verso il lago. L’aveva vista contemplare le stelle seduta sotto gli alti alberi. Nascondersi nell’ombra. Venirne inghiottita. Era sceso con un agile salto e si era incamminato verso di lei. Aveva deciso. Era stufo di aspettare. Voleva sapere. Voleva capire.

 

“Leone…”.

 

Sesshomaru aveva pronunciato quel nome per attirare la sua attenzione, ma lei era solo sussultata. Impercettibilmente però. Forse stava sbagliando. Forse non era quello il modo di rivolgersi a qualcuno che sembra versare in uno stato di come perenne. Forse avrebbe dovuto sedersi accanto a lei e cercare di distrarla. Sesshomaru non sapeva come comportarsi. Non si era mai trovato in una situazione simile. E soprattutto non riusciva (meglio, non voleva) trovare una spiegazione razionale al perché si preoccupasse tanto di non ferirla ulteriormente con le sue domande. Non gli era mai successo. Aveva sempre chiesto ciò che lo interessava. Senza perifrasi. Diretto. Tagliente. A senza mai curarsi dell’effetto delle sue domande.

 

Ora invece aveva paura. Paura di peggiorare le cose. Ma non ce la faceva più. Perchè il mutismo di Alessandra era uno strazio per lui. Non che prima l’avesse sentita parlare a briglia sciolta. Questo mai. Ma gli mancavano le sue risposte a tono. Il suo sfidarlo con lo sguardo. Il suo confrontarsi con lui.

 

Ma, soprattutto, da quando l’aveva vista pattinare quel pomeriggio, era stato rapito dalla sua espressione estatica. Perché, in quel momento, forse senza neanche rendersene conto, Alessandra aveva sorriso. Di riflesso. Seguendo forse un ricordo. Un pensiero.

 

Ma lui quel sorriso lo aveva visto, e gli era rimasto intrappolato nella memoria. Fisso. Indelebile. E adesso lo voleva vedere ancora. Sempre.

 

“Lo hai pronunciato nel sonno”

 

Fingere indifferenza. Disinteresse. Per non scoprirsi. Perché quello non lo avrebbe mai fatto. Non voleva farle sapere come lo coinvolgeva. Quanto lo scombussolava. Perché quella ragazza c’era riuscita. Aveva incrinato la sua corazza di ghiaccio. La stava facendo evaporare. E lui non lo riusciva ad ammettere. Soprattutto con se stesso.

 

“Chi è?”

 

Silenzio.

 

“Il tuo uomo?”

 

Ancora silenzio. Sesshomaru attendeva. Agitato. Temeva che gli dicesse di sì, che era il suo uomo. Che la stava spettando a casa, che lei voleva andarsene. Temeva di perderla.

Attendeva…Con la mente vuota e il cuore pieno di domande che la testa ignorava volutamente. Cocciutamente.

 

Alessandra non rispose. Mai. A nessuna domanda. Perché gliele stava facendo? Cosa voleva da lei? Forse non si era accorto che soffriva, che il sentire quel nome su labbra estranee, nelle orecchie, le dilaniava l’anima? No. Sesshomaru lo sapeva. Lo stava facendo apposta. Per ferirla. Per vincere. Perché solo di quello gli importava. Vincere.

 

“Lasciami in pace”. Un sussurro strozzato. “Ti prego…”

 

Sesshomaru si voltò. Odore di sale. Aveva percepito l’odore delle lacrime. Delle sue lacrime. Stava piangendo. E gli stava dicendo di andarsene. Che non voleva la sua vicinanza. Forse la sua compassione. Lo stava pregando.

 

Aveva vinto. Lei aveva chinato il capo. Aveva riconosciuto la sua superiorità. Aveva vinto. Ma non ne era contento. Per nulla. Aveva sempre gioito per una vittoria. Quella realizzò in quel momento di non volerla. Voleva solo il suo sorriso.

 

“Perché?”

 

Voce incrinata. Alessandra percepì una strana inflessione nella voce dell’youkai. La prima che gli sentisse. Dolore. Sorpresa. Rimpianto. Aveva una sfumatura strana, che racchiudeva mille domande.

 

“Perché mi stai facendo male”.

 

La verità. Nuda. Cruda. Sbattutagli in faccia. Forte. Come uno schiaffo. Aveva risposto con sincerità, non aveva cercato scuse. Aveva ammesso in quel momento di essere debole. E Sesshomaru si accorse invece di quanta forza sprigionasse il suo corpo rannicchiato vicino a quel tronco. La forza di ammettere se stessi. Le proprie debolezze. Le proprie paure. Candidamente. Senza timore di mostrarsi deboli. Perché dalla consapevolezza della sua debolezza Alessandra traeva la sua forza. E non se ne accorgeva neanche.

 

Ma lui sì. Lui se ne accorse. Lui. Sesshomaru. La sentì la sua forza. Quella che l’aveva spinta a tornare a parlare. Pur di difendersi. Quella che le aveva dato il coraggio folle di rispondergli a quel modo. Di pregarlo. Di regalargli una vittoria che lei avrebbe potuto tenere per sé.

 

Si inginocchiò davanti a lei. Non riusciva a vedere il suo viso, ma distingueva chiare le scie delle sue lacrime. Argento sotto la pallida luce lunare. Respiro spezzato da singhiozzi soffocati. Avrebbe voluto asciugare quelle lacrime, stringersela al petto per tranquillizzarla. Non si riconosceva più.

 

Stanotte non riesco più a ragionare…Ma per una notte, posso anche accettarlo…Un gesto sconsiderato…Solo per una notte…

 

Alessandra cercò di alzarsi, ma lui le impedì il movimento. Non la toccò, ma fissò la sua mano sul tronco, sopra di lei. Non poteva più alzarsi.

 

“Non andare…”.

 

Alessandra sentì la sua voce vicina. Molto vicina. Così calda. Così sensuale. Non voleva alzare la testa, ma poteva vedere il suo petto, il kimono bianco ricoperto dai capelli d’argento. Perché gli era venuto così vicino? Cosa voleva?

 

“Guardami…”

 

Sesshomaru aveva sporto un po’ il viso verso di lei. Una supplica. Un ordine che aveva le sfumature dell’invito. Un ordine che non voleva essere tale. Un tono mai sentito da lui.

 

“No…Non riesco a smettere di piangere…”

 

“Non importa…”

 

Davvero. Non gli importava che lei si mostrasse debole. Non gli importava. Voleva solo vedere i suoi occhi. Solo quello. Alessandra si sorprese della risposta. Da quando ad un demone non danno fastidio le lacrime? Da quando non danno fastidio a lui?

 

“Sei sleale…”.

 

Alessandra sorrise, un sorriso un po’ triste, ma che dissipò le rughe sulla fronte. Il magone in gola. Sesshomaru non rispose. Si limitò a sedersi accanto a lei. E ad alzare gli occhi al cielo. Ambra screziata di blu. Stelle nell’oro del suo sguardo.

 

Alessandra apprezzò il suo silenzio. Il suo limitarsi alle parole. Nessun contatto. Come aveva detto lei.

 

“Chi è Leone?”

 

Quella domanda. Di nuovo. Alessandra sospirò.

 

“Un fantasma…”

 

“I fantasmi non tolgono il sonno”.

 

Aveva ragione. Dannazione! Aveva maledettamente ragione. E lei lo sapeva.

 

“Allora è un ricordo”. Si fermò. Esitò un istante. “Un ricordo doloroso”

 

Va bene. Aveva deciso. Glielo avrebbe detto. Gli avrebbe spiegato i suoi sogni. Gli avrebbe detto tutto. Tutto.

 

“Leone è…era…mio fratello”.

 

Sesshomaru non commentò. Si limitò a chiudere gli occhi. Era come se Alessandra parlasse a se stessa. Ma sapeva che il bel demone la stava ascoltando. Sorbiva ogni sua sillaba fino in fondo.

 

“È morto…Un incidente automobilistico”. Si fermò di nuovo, un sorriso tirato. “Già…Adesso ti chiederai cosa vuol dire automobilistico…”.Sesshomaru di nuovo non rispose. Non voleva bloccarla. Confonderla. Non gli importava la parola. Voleva solo che lei si sfogasse.

 

“Due anni fa…Noi due, con i nostri genitori, stavamo facendo un viaggio…mi stavano accompagnando…Dovevo partecipare ad una gara…Una gara di pattinaggio…Erano venuti per incoraggiarmi…Perché era la mia grande occasione…Poi…”. La voce le morì in gola e gli occhi si riempirono di nuove lacrime.

 

“Successe tutto in fretta…Un incidente…La nostra macchina prese fuoco…Non so perché…Non ho mai voluto saperlo…Ricordo l’odore della benzina, del fumo acre…Il caldo…Poi l’acqua e qualcuno che mi portò in salvo; l’ambulanza…Le luci intermittenti…E due occhi…Azzurri…Quelli di Leone…Ricordo il suo sguardo…Un incoraggiamento…Mi svegliai in un letto d’ospedale, due mesi dopo. Avevo riportato una commozione cerebrale e varie fratture, fra cui quella alla caviglia sinistra. Non avrei più potuto pattinare, almeno non come prima. Ma non mi importava…Volevo i miei genitori, mio fratello…Nessuno volle dirmi la verità…La dovetti scoprire da sola…Un necrologio sul giornale…Trovato per caso…Morti…Erano tutti morti…Mi avevano lasciata sola…”

 

Alessandra tuffò il viso nelle ginocchia. Pianse. Pianse come non aveva mai fatto. Pianse tutte le lacrime che in due anni aveva tenuto dentro di sé. Accanto a lei, Sesshomaru non commentò. Non disse nulla. Né cercò di abbracciarla. Sapeva che sarebbe stato inutile. Gli sembrava anche ipocrita. Cinico. La lasciò sfogare. Confortandola solo con la sua presenza. Nulla di più. Rimase seduto lì. Per farle capire che sola non lo era più.

 

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Capitolo 13
*** 13. INSEGNAMI ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!
Come promesso, eccomi di nuovo qua. e con un nuovo capitolo su Alessandra e Sesshomaru. Le cose iniziano a cambiare, anche se poco alla volta; bisognerà aspettare un po' ancora prima dell'evoluzione completa di Alessandra.

Grazie infinite a chi è sempre così genrile da leggere e commentare sempre e anche a chi legge soltanto.

Buona lettura!!!

P.S. Lo so di insistere su alcune cose un po' troppo, ma è voluto. si spiegherà tutto con il proseguio della storia.



CAPITOLO 13
INSEGNAMI


Spade.
Cozzare del metallo. Acciaio. Stridio. Scintille. Suono…Suono secco, di lame che si scontrano. Suono di duello. Di scontro. Riempie l’aria. Assordante. Attraente. Un’attrazione pericolosa. Mortale.

Sesshomaru si fermò, osservando con attenzione il suo avversario. Era affaticato e respirava rumorosamente. Ma non demordeva. Stava solo rifiatando. Studiandolo. Cercando di cogliere il momento giusto per attaccarlo. Non da sprovveduto, però. Sembrava cosciente della sua superiorità. Che non lo avrebbe mai sconfitto. Disarmato. Ma non sembrava che gli importasse. Vedeva nei suoi occhi scintille di rabbia, di frustrazione.
L’youkai rilassò un po’ il braccio, abbassando la lama. Un gesto di apparente fine del duello. Un trucco. Perché il sole colpì la spada mandando un lampo accecante. Una mossa per ottenere la vittoria. Un trucco, che gli veniva dal passato. Un ricordo della sua infanzia.
Sesshomaru sentì l’avversario imprecare, contrariato. Abbagliato. Aveva perso. Ora gli sarebbe bastato scattare per finirlo. Un colpo secco. La sua fine.
Il demone sospirò mentalmente, riprendendo una rilassata posizione eretta. Con un fruscio lieve, rinfoderò la spada. E restò impassibile ad osservare chi gli stava di fronte. Non aveva alcuna volontà di ucciderlo.

Alessandra riprese a sua volta la totale posizione eretta. Era sudata e respirava a fatica, cercando di recuperare tutta l’aria che aveva perso nello scontro. L’ultimo assalto, poi, lo aveva praticamente portato in apnea, con i polmoni che le bruciavano per lo sforzo. Le girava un po’ la testa. Piantò la katana nel terreno e le si inginocchiò accanto. Esausta. Non riusciva a restare in piedi. Il terreno ondeggiava troppo. E la testa le rimbombava.
Guardò Sesshoamru. Il bel demone era fermo a qualche metro da lei. Apparentemente tranquillo e rilassato. Sembrava non aver neanche impugnato la sua arma. Il viso fresco, senza neanche un’ombra di sudore o affaticamento. Il respiro regolare. Forse, solo appena più accelerato del solito. Come era possibile? Perché non mostrava alcun segno di sfinimento? Perché non era ridotto come lei?

Alessandra si lasciò cadere seduta a terra, reclinando la testa e portandosi una mano agli occhi. Voleva che gli alberi smettessero di girare.
L’aveva battuta. Lo aveva capito. Vinta di nuovo. Per l’ennesima volta. Non aveva portato l’assalto finale; non l’aveva atterrata né disarmata. Ma lei sapeva di avere perso. Per via di quella luce. Di quel riflesso accecante. Un trucco. Semplice. Stupido. E disonesto. Maledettamente disonesto. Anche se efficace. Perché si era accorta che in quel momento non ci vedeva più, e che ucciderla sarebbe stato uno scherzo.

“Non dovresti eccedere troppo”.

Le si era avvicinato. Con quel suo passo impercettibile, nonostante l’armatura che indossava. La voce così vicina, così inebriante. Perché non riusciva ad ascoltarlo senza lasciarsi avvolgere da quel tono freddo e seducente? Non le era mai successo. Quelle modulazioni vocali avevano la capacità di farle perdere il senno, di confonderla.
Scosse la testa. La stava rimproverando. Bonariamente. Perché lì era lui l’esperto. E lei aveva sbagliato. Aveva esagerato. E il risultato era stato quella sconfitta. Che però non le bruciava neanche. Non era per vincere che gli aveva chiesto di insegnarle a combattere. Non era per duellare. Ma per tenere vivo il ricordo di una passione.

Sesshomaru la osservò, distesa a terra. Aveva scosso la testa al suo rimprovero. Come a volerlo minimizzare. Ma lui sapeva che lo aveva ascoltato, e che in futuro avrebbe cercato di non ripetere l’errore. Perché come allieva si stava rivelando brava. Molto brava. Più del previsto. Più di quanto si sarebbe aspettato da un nigen. Da una donna umana.

Le sedette accanto. Poggiando la schiena ad un albero. Anche se non lo avrebbe mai ammesso e non lo dimostrava, quello scontro lo aveva impegnato non poco. Mai uno sforzo come quello che gli costava un duello contro suo fratello, in cui si impegnava sia fisicamente sia spiritualmente. Ma sempre uno sforzo.

“Hai barato…”.

Un respiro stentato. Di chi ancora cerca l’aria. Di chi ancora è in debito d’ossigeno. La sua voce. Gli piaceva sentirla. Cercare di coglierne le sfumature. Perché da un po’ di tempo quella voce stava cambiando. Era più calda. Più suadente. Ma all’occorrenza tornava fredda e tagliente. Come la sua. Come la voce che gli apparteneva. Da sempre.
Sesshomaru piegò un po’ la testa, per vedere in viso la ragazza. Alessandra era sdraiata accanto a lui,nella neve fresca; le mani dietro la nuca e gli occhi chiusi.

Aprili…Voglio poterti guardare negli occhi quando ti parlo…

Attese. Inutilmente. E lo sapeva. Alessandra era troppo stanca per riuscire a sostenere anche uno scontro di sguardi. E piuttosto che cedere anche in quel campo, preferiva dribblare abilmente. Precludendogli i suoi frammenti di cielo. Sospirò, rilassandosi maggiormente contro il tronco nodoso.

“No”. Una sillaba. Si esprimeva spesso così. Ma Alessandra aspettò. Ormai sembrava aver capito che al bel demone serviva tempo per esprimersi. Per soppesare le parole. Ma che alla fine le avrebbe fornito una spiegazione.
“Ho usato un trucco, vero. Ma ricordati che in uno scontro tutto è lecito. Lo scopo finale è solo…”

“Non dirlo!”.

Adesso era seduta davanti a lui. Si era sollevata con un gesto nervoso, accompagnato da parole dure e secche. Lo aveva fissato negli occhi. In quelle pozze d’ambra splendente che la confondevano. Che la seducevano. Perché se il suo viso era sempre freddo, l’oro di quelle iridi era un sole lucente. Capace di sciogliere il cuore. Soprattutto se vi restava intrappolata un’ombra diversa da quella di consueta indifferenza. Un’ombra come quella che le attraversava adesso. Di sorpresa. Per lo scatto improvviso. Per il costante rifiuto di quella parola.

…uccidere… È questo che non vuoi che dica…Eppure sai che lo faccio…mi hai visto farlo, davanti ai tuoi occhi…ma non vuoi sentirlo…Stai ancora fuggendo…

Annuì. No. Non lo avrebbe detto. Non le avrebbe fatto del male. Non lo voleva. Alessandra accennò appena un sorriso di ringraziamento e gli sedette accanto, togliendo la spada distesa fra loro. Le maniche dei kimoni si sfioravano mosse dal vento; i loro profumi si confondevano; il muschio di lui si mescolava con quello fresco di lei. Sesshomaru non riusciva a definirlo. Perché non era un’essenza da lui conosciuta. Non era giapponese. Ma gli piaceva. Molto. Gli piaceva potersene cibare. Assaporarla fino in fondo. Soprattutto in momenti come quello. Quando stavano così vicini. Perché quello era il massimo contatto che c’era fra loro. Quello della stoffa e del profumo.

…e delle spade… aggiunse nella sua testa.

Silenzio. Non parlavano quasi mai durante il giorno. Era solo alla sera che cadevano i muri di ghiaccio e le allusioni nascoste negli sguardi. Perché di notte parlavano. Sussurravano. O meglio era lei a parlare, se lo voleva. Lui ascoltava. E basta. Ma spesso trascorrevano anche le ore notturne in silenzio. Un silenzio carico di significati. Perché riportava alla mente di entrambi quella sera in riva la lago.

Sesshomaru non riusciva a dimenticarsela. L’aveva ascoltata sfogarsi. L’aveva ascoltata piangere. Senza toccarla. Senza cercare di fermarla. L’aveva ascoltata e basta. E alla fine, Alessandra aveva rialzato il capo. Gli aveva mostrato i suoi occhi. Bui e tristi. Bagnati. Occhi pieni di dolore. Di un dolore che lui stranamente non sentiva estraneo. Sentiva suo. Come se lo avesse già provato.
Lo aveva fissato e poi si era alzata. Morbida. Sinuosa. E lui aveva seguito attento ogni suo movimento. Si era alzato a sua volta, restando però immobile mentre lei si allontanava. Non voleva sforzarla.

“Da quel giorno…sei il primo, che mi abbia vista piangere…”. Un sussurro. Una chiosa. La sua forza. Tutta la sua forza. Glielo aveva detto senza voltarsi. Con gli occhi fissi sulla falce lunare. Perché in quella falce Alessandra rivedeva perfettamente il ragazzo che aveva alle spalle. Il ragazzo davanti al quale aveva pianto. Lui. Sesshomaru.

Il primo che ti ha vista piangere… Sorrise dentro di sé a quel ricordo. Una vittoria che gli dava più soddisfazione di uno scontro sul campo. Di un trionfo nel sangue. Perché si trovava a dover ricorrere ad armi nuove per lui. Armi che non aveva mai saputo di possedere.

Ora però vorrei vederti sorridere… Lo pensava veramente. Lo voleva. Era l’unica cosa che la sua mente riuscisse a elaborare, mentre restava seduto accanto a lei. Mentre la guardava. Perché era quello che stava facendo. Non le staccava gli occhi di dosso. Senza neanche accorgersene. Continuava ad accarezzarla con lo sguardo. Percorreva l’ovale perfetto del viso. Dalla fronte scendeva lungo le guance, ancora arrossate per lo sforzo.

Quando ti vedrò arrossire per l’imbarazzo?... Un pensiero che lo divertiva. che lo prendeva.

Scendeva ancora, fino al mento, per poi risalire dall’altro lato, fermandosi all’altezza degli zigomi. Ora era concentrato sulle sue labbra. Rosse. Carnose. Provò l’impulso di sfiorarle. Di scoprire se anche al tatto erano morbide come alla vista. Mosse la mano, ma nella mente di nuovo gli risuonò quel sussurro…
“non devi toccarmi…”

D’accordo. Avrebbe aspettato. Le avrebbe chiesto il permesso. Tornò a concentrarsi sul viso. Avrebbe voluto perdersi nei suoi occhi. Come sempre più spesso gli capitava. Gli fissava. Senza motivo. E si dimenticava di distogliere lo sguardo. Che lei gli fosse vicina o lontana, il riuscire a cogliere le sfumature cangianti di quegli occhi era il suo desiderio più grande. Non si chiedeva perché. Non si faceva domande. Perché sapeva che altrimenti avrebbe dovuto trovare le risposte. E poi una soluzione. Finché poteva, preferiva che tutto restasse così. Indefinito. Sospeso nel tempo. Anche per sempre. Lo avrebbe voluto davvero.




Alessandra non si muoveva. Aveva visto il suo cenno affermativo ed era tornata a rilassarsi lungo il tronco, al suo fianco. Nessun contatto però. Per quello non si sentiva ancora pronta. Almeno ad avere un contatto fisico con lui. Fosse solo anche uno sfiorarsi involontario. No. Non ancora.
Perché continuava a ricordare la sua mano macchiata di sangue. Il godimento intrappolato nei suoi lineamenti quando aveva ucciso. Continuava a venirle alla mente. Eppure, non era sufficiente a farle provare paura. Perché lei, del bel demone, non aveva mai avuto timore. Neanche in quell’occasione.

Eppure continuava a tenerlo a distanza. Anche se meno di prima. Paradossalmente, infatti, era con lui che aveva stretto il legame più saldo. Anche se era il più difficile da mantenere. Perché era silenzioso, poggiava su movimenti appena accennati, su parole pensate e mai pronunciate, su sguardi rubati a vicenda. Una complicità, una collaborazione che avevano stretto senza precisa volontà di farlo. Senza neanche rendersene veramente conto.

Alessandra non capiva esattamente cosa la legasse all’youkai. Forse il suo fascino…il fascino che emanava…Così simile a quello della luna…perché lui era un figlio della luna…come lei…Anche ei in modo diverso…Non capiva la natura di quel legame, ma neanche voleva realmente afferrarla. Le andava bene così. Restare nell’indefinito. Affondare in quelle sfumature emotive. Senza impegno. Senza essere chiamata in causa alla luce del sole.
Sesshomaru non aveva più cercato di imporsi su di lei. La spronava, ma in modo diverso da prima. Con una sensibilità che lei non si sarebbe mai aspettata che il demone avesse. E di cui forse neanche lui era realmente cosciente.
E tutto da quando lei aveva pianto…aveva deciso di rischiare il tutto per tutto e si era messa a nudo davanti a lui. Semplicemente. Senza vergogna. Aveva ripreso a parlare. E non aveva più smesso. Perché la sera era diventata un’abitudine, andarlo a cercare. Anche solo per godere della sua silenziosa compagnia. E lui non la scacciava mai.
Lo trovava in luoghi impensati, ma magici e ricchi di fascino. Come lui. Sdraiato in cima ad un albero, sospeso su un precipizio, seduto su un masso dalle venature ataviche…Lo cercava senza assillarlo, e se poteva gli sedeva al fianco. Silenziosa. Non sempre voleva parlare. E lui non la costringeva. A volte le bastava solo godere della sua presenza. Rassicurante. Avvolgente. Come l’aveva avvertita quella sera. Perché lui era rimasto a confortarla senza avere bisogno di nulla. E per la prima volta dopo tanto aveva avuto la sensazione di essere capita. Che Sesshomaru non sentisse estraneo quel dolore.

Gli occhi…La sfumatura racchiusa in fonda a quelle iridi ambrate. Imprigionata. Il grido soffocato che aveva creduto di leggervi la prima volta che lo aveva incontrato. Ogni tanto gli tornava alla mente quella sensazione. Ma la scacciava. Perché se davvero anche lui aveva bisogno di aiuto, Alessandra sapeva che in quello stato ancora non era in grado di darglielo. Ma che grazie a lui, un giorno, forse ce l’avrebbe fatta. E allora sarebbe stata lei ad ascoltare.

Alessandra aveva chiuso gli occhi e sembrava dormire. In realtà, sentiva su di sé lo sguardo indagatore dell’youkai. Un modo di guardarla che la metteva a disagio. Perché non era per studiarla che l’osservava così intensamente. Almeno non per studiarla al solito modo. Percepiva i suoi occhi soffermarsi su ogni sfumatura le suo viso, su ogni piega, contorno. Come farebbe un pittore. Un artista. Ma Sesshomaru pittore non lo era di certo. Perché allora quell’insistenza? Perché? C’era almeno un motivo?

Non lo sapeva. Ma non glielo avrebbe neanche chiesto. Perché voleva fidarsi. Di lui. Voleva provarci. Perché era diverso. Non sembrava nascondere doppi fini. Altrimenti avrebbe potuto approfittare di lei già da tempo. No. Lui era diverso. Doveva esserlo. I suoi occhi avranno anche potuto essere freddi e insensibili, ma lui era buono, aveva un animo buono.

Un animo buono…Ma cosa significa, poi, avere un animo buono? Chi lo ha? Chi non fa del male?

Sotto quel punto di vista, il bel demone non era buono. Perché lui uccideva. Tranquillamente. Eppure non era malvagio.

No…Forse vuol dire agire senza volontà di inganno…Qualunque sia la scelta da fare…

Ripensò al trucco che aveva usato prima. Quello era un inganno, o no? Lo poteva definire tale?
Lui gli aveva detto di no, che era qualcosa che ci si deve aspettare. E lei lo sapeva. Gli dava ragione. Perché quella era una lezione che già suo fratello gli aveva dato.




Sesshomaru non capiva se stesse dormendo davvero o se solo facesse finta. Non riusciva a capirlo. Se stava fingendo, lo faceva proprio bene. Il respiro calmo, regolare. Il viso rilassato. Acconsentì. Che lo stesse ingannando o meno, non gli importava. Sviò a malincuore lo sguardo e si concentrò sul cielo. Azzurro. Lucente.

Come i suoi occhi in questi giorni…
Scosse piano la testa, facendo ondeggiare i lunghi capelli. Possibile che ogni suo pensiero lo dovesse riportare a lei? Non era più in grado di separare le sue riflessioni. Tutto ruotava attorno a quella ragazza. Tutto.

Sorrise. Lei non lo poteva vedere. Ma quel sorriso, quella linea sottile che aveva fatto piegare le labbra a Sesshomaru era stata lei a produrlo. Una delle poche persone che lo avesse fatto sorridere a quel modo. Dolcemente. Quasi con malinconica sorpresa.

E tutto grazie ad una spada…

Era iniziato tutto per caso. Una sera in cui aveva fatto più tardi del solito. E in cui forse Alessandra aveva bisogno di vederlo più degli altri giorni. Di parlargli.
Quel giorno, infatti, Rin le aveva narrato la sua storia. Come ci fosse arrivata Alessandra non lo sapeva. La bambina spesso iniziava a parlare senza motivo, perché detestava il silenzio troppo prolungato. E perché sapeva che il suo ciarlare allegro non dava fastidio più di tanto.
Aveva iniziato a parlale, e poi le aveva posto quella domanda.
Ale-chan! Tu hai fratelli? Io ne avevo uno, ma è morto con i miei genitori. È stato ucciso dai briganti e…”. Alessandra non era più riuscita ad ascoltare indifferente. Aveva sentito ogni parola. Pugnalate al cuore. La stessa esperienza. O almeno un’esperienza molto simile. Eppure Rin ne parlava col sorriso sulle labbra. Senza farsi prendere dallo sconforto. Senza deprimersi.
La ragazza si era chiesta quale fosse il suo segreto. E l’aveva invidiata. Tanto.

Sesshomaru si stava allenando. E aveva totalmente perso la cognizione del tempo. La luna ormai era già sorta da molto quando aveva deciso di fermarsi a rifiatare.
Solo allora l’aveva vista. Lo stava fissando dal limitare della radura. Immobile. Sesshomaru non sapeva da quanto fosse lì. Non l’aveva sentita arrivare. Troppo concentrato.
Notò i suoi occhi inquieti fissare la sua mano, e in modo particolare la katana. Un brivido gli percorse la schiena. Non avrebbe voluto che lo vedesse con Tokijin in mano, mentre provava la sua forza. Mentre ne saggiava il filo. Con un gesto aggraziato, rinfoderò la spada. Ma dentro di sé Sesshomaru sorrise amaramente. Perché anche senza la katana in mano, lui non poteva evitare di ricordarle l’omicidio che aveva compiuto davanti ai suoi occhi. Perché in lui tutto richiamava la morte. L’armatura, la mano artigliata, il nome…Perfino quel nome di cui era sempre andato fiero, adesso temeva che potesse spaventare quella ragazza.

Alessandra lo vide rinfoderare la spada e avvicinarsi a lei. Negli occhi d’oro parole che non avrebbe mai pronunciato. Con quel gesto le voleva forse chiedere scusa per averle nuovamente ricordato quello di cui era capace? Perché aveva smesso di danzare con quella lama in mano? Perché? Alessandra avrebbe voluto poterlo guardare ancora.

“Insegnami…”.

Sesshomaru udì la richiesta uscirle dalle labbra con l’inflessione di una supplica. Ne rimase sorpreso. Assottigliò lo sguardo, riducendo le pupille a due sottili linee nere che naufragavano nell’ambra. Non capiva perché quella ragazza volesse imparare ad usare una spada. Era certo che, anche in caso di bisogno, non avrebbe avuto la forza di usarla. Eppure nei suoi occhi leggeva una determinazione che aveva scorto una sola altra volta: quando l’aveva vista pattinare.

Non le aveva chiesto niente, né le aveva risposto. Ma il giorno dopo l’aveva chiamata, lanciandole la guaina di una katana. Se insegnarle a usarla sarebbe servito a farla sorridere, allora gli andava bene. Glielo avrebbe insegnato.
Aveva estratto la sua spada, deponendo a terra Tenseiga, e l’aveva invitata a sfoderare anche lei l’arma. Alessandra aveva seguito i suoi movimenti leggermente sorpresa. Non credeva che avrebbe accettato.
Aveva snudato la katana, soppesandola in mano. Lucente, affilata. Dal taglio sottile e un po’ ricurva verso la punta. Bellissima e letale. Come il demone che aveva di fronte. Ammaliatore. Sorprendente.

Sesshomaru era rimasto sorpreso. Piacevolmente. Aveva una buona impugnatura, e sembrava anche possedere qualche rudimento di scherma. Si era aspettato di trovarsi davanti una ragazza totalmente incapace anche solo di impugnare correttamente l’arma. Aveva previsto solo quel pomeriggio per fargliela bilanciare bene, con una mano sola. Invece…Invece Alessandra gli stava di fronte con gli occhi concentrati e con la spada leggermente protesa in avanti. Un invito. Una sfida.
Aveva sorriso. Compiaciuto. E aveva iniziato a duellare. A danzare. Perché quella era una danza molto simile alla ciarda della ragazza. Una danza d’acciaio. In cui per la prima volta dopo tanto non era solo a eseguirla.

Non era stato uno scontro vero e proprio. Solo un allenamento, per saggiarne l’esperienza. La bravura. E brava lo era. Lo aveva dovuto ammettere. Non era ricorso al suo youki. Non lo avrebbe mai fatto neanche in seguito. Era solo un confronto fisico. Ma era stata in grado comunque di sorprenderlo. Anche se lui la superava di molto per agilità e potenza. Solo in resistenza avrebbero potuto eguagliarsi.

Alla fine, l’aveva disarmata. Prevedibile. Scontato. Ma Alessandra non se l’era presa. Aveva raccolto la katana, visibilmente soddisfatta.

Come si può gioire di una sconfitta? C’erano volte, come quella, in cui il bel demone non la comprendeva proprio. Per lui, una sconfitta era una sconfitta. Nulla di cui essere soddisfatti. Anche se ci si fosse impegnati con tutte le proprie forze. Una sconfitta restava sempre una sconfitta. E lei aveva perso. Ma era soddisfatta.

Le si era avvicinato, sostituendo la sua mano alla mano di lei, mentre cercava di agganciare il fodero alla cintura che portava in vita. Sempre attento a non toccarla, a non sfiorarla neanche inavvertitamente. Chiedendole con lo sguardo il permesso. Alessandra lo aveva lasciato fare, inebriandosi del profumo di muschio che emanava il suo corpo. Un corpo saldo. Muscoloso. Guizzante. Lo aveva visto danzare. Con quella lama argentea in mano. Muoversi seguendo una musica invisibile. Fatta di sibili acuti come trilli di pianoforti, di fendenti rapidi come scale di violino. Lo aveva visto eseguire una danza mortale.

“Perché?”

Sesshomaru si era trovato a pochi centimetri da lei. Dal suo volto. E aveva sussurrato. Una domanda. Per cercare di sciogliere un po’ l’arcano dei suoi occhi cangianti. Una domanda. Con mille implicazioni. Con mille riferimenti.

“Mio fratello era appassionato di scherma. Mi ha insegnato lui le mosse base”. Alessandra si era allontanata. Sesshomaru le era venuto troppo vicino per i suoi gusti. Per la sua protezione. Si era allontanata, ma non perché ne avesse timore. Solo perché ancora non si sentiva pronta a lasciarlo avvicinare.

“Riuscire a maneggiare una spada è un modo per non far morire il suo ricordo. E per non esserne soffocata”.
Glielo aveva spigato dandogli le spalle. Rincorrendo parole lontane. Con voce calma. Tranquilla. Solo un po’ malinconica. Solo poco. Sesshomaru ne era stato soddisfatto. Una risposta essenziale, ma che conteneva tutto l’indispensabile. E con una voce nuova. Quella che lui le voleva sentire.




“Guarda…”

La voce di Alessandra lo riscosse. Si era smarrito nei suoi pensieri. Con gli occhi chiusi. Si era abbandonato ad un sonno strano, fatto di rievocazioni e sensazioni. Non aveva dormito. E questo la ragazza lo aveva capito. Aveva capito che i demoni non dormono quasi mai. Che non ne hanno bisogno. E allora lo aveva chiamato. Con un sussurro. Mentre si rimetteva a sedere.

Sesshomaru seguì l’indice della ragazza, trovandosi ad osservare un piccolo uccellino. Un pettirosso. Un batuffolo di piume saltellante nella neve fresca.
Non capì. Cos’aveva quell’uccello di particolare? Nulla. Era uguale a molti altri che abitano una foresta. Si volse ad Alessandra. Ma le parole gli morirono in gola. Occhi che sorridono. Gli occhi di Alessandra stavano sorridendo. In quei cieli azzurri in cui le uniche stelle che aveva visto erano state quelle delle lacrime, ora risplendeva una luce. Una luce dolce e delicata. Di commozione estatica.

Stai sorridendo…e tutto solo per un uccello?

“È bello, vero?”. Cercava la sua approvazione. Cercava di coinvolgerlo. Ma lui non vedeva nulla di strano. Nulla. Uccelli ne aveva visti molti. Ne vedeva ogni giorno. Di molte specie. E anche lei. E allora perché in quel momento veniva rapita da uno di loro? Cos’aveva di così bello?
Sesshomaru non capiva.

“Non lo so…”. Non le volle neanche mentire. Si scoprì anche lui. Lui ammetteva di non capire. Come non aveva mai capito la felicità di Rin ad un suo semplice accenno, ad un suo movimento. Cosa possedeva il mondo che lo circondava da essere capace di smuovere persino l’animo tormentato di Alessandra.

La ragazza si voltò verso di lui. Non era sorpresa. Solo dispiaciuta. Che lui non capisse. Che lui non desse importanza a quell’uccellino solo perché era piccolo e fragile. Solo perché era diverso da lui. Non gli disse nulla. Avrebbe voluto che lui capisse la magia di un passerotto su un tappeto di neve. La magia della semplicità. Perché sentiva che quel ragazzo ne era dispiaciuto. Dispiaciuto di non riuscire a provare nulla. Di essere freddo.

Si sentì osservato e voltò il viso. Ambra nello zaffiro. I loro occhi si parlarono. Si capirono. Più di quanto le loro menti volessero.
Sesshomaru si perse nello sguardo di Alessandra. Si smarrì come gli era successo quando pattinava. La vide dispiaciuta. Per lui. Triste perché non riusciva a comprendere. A gustare quella cosa semplicissima che era capace di scaldarle il cuore. Percepì il suo dispiacere. E ne fu colpito. Tanto che lui stesso si sorprese del sussurro che gli usci dalle labbra.

“Insegnami…”

 

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Capitolo 14
*** 14. SCEGLI ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!

 

Aggiornamento lampo perché devo andare in facoltà. Vi invio subito un nuovo capitolo, in cui Alessandra e Sesshomaru...Curiosi?

 

Bene! Allora lettege!

 

Grazie come sempre a tutti quelli che leggono e commentano.

 

 

 

 

CAPITOLO 14

SCEGLI

 

 

Rin saltellava contenta per il grande prato. Rincorrendo la neve che cadeva lenta. Rincorrendo quelle soffici farfalle bianche. Buttandosi su un mucchietto freddo per poi rialzarsi e iniziare a correre senza meta. Divertita dalla scia delle sue impronte. Correva senza una direzione precisa. Creando disegni che lei sola capiva. Seguendo la sua fantasia di bambina. La sua estroversa allegria.

Le piaceva quando nevicava. Sesshomaru la voleva accanto a sé, sotto i suoi occhi. Voleva poterla vedere sempre. Perché non si smarrisse nella nebbia leggera che saliva dal terreno.

 

L’ennesima capriola, e Rin finì inavvertitamente fra le gambe dell’youkai, che si fermò subito. Rin aprì gli occhi che aveva tenuto chiusi mentre rotolava. Era stesa davanti a lui; lo poteva vedere bene. Come era alto, ed elegante…le piaceva quella posizione, perché sembrava riuscire ad attirare l’attenzione del suo signore. Sesshomaru infatti la stava fissando. Inespressivo. E lei gli regalò il suo migliore sorriso.

 

“Stupida! Che stai facendo? Così ostacoli il passo al sommo Sesshomaru! Togliti subito”. Jacken le si era accostato furioso. Possibile che quella bambina umana trovasse sempre il modo di creare scompiglio e metterlo nei guai? Una volta aveva fame, l’altra era stanca, un’altra voleva giocare con lui…Era una persecuzione!

 

“Ma Jacken! Io sono stanca! E qui si sta così bene!”. Chiuse gli occhi, fingendo di addormentarsi. Le piaceva la sensazione della neve fresca attraverso la stoffa pesante del kimono. La sensazione di sprofondare in una coperta morbida e avvolgente. In una coperta bianca. Come la pelliccia del suo signore.

 

Rin tendeva a confondere l’abbraccio della neve con quello della stola di Sesshomaru. Le sembrava di averlo già provato. Di essere stata stretta da lui assieme al pelo caldo e vaporoso. Un ricordo che non sapeva se autentico o meno, ma che le piaceva. Soprattutto in quel momento. Perché stanca lo era davvero. Il sole doveva essere tramontato da un bel po’. E lei iniziava ad avere sonno.

 

“Ma cosa ti salta in testa? Padron Sesshomaru non ha ancora detto di fermarci. Alzati subito!”.

 

La voce di Jacken ai suoi piedi iniziava a infastidirlo. Non sopportava quel tono gracchiante e nasale. Tuttavia, non disse nulla. Perché sapeva che Jacken stava solo eseguendo le sue direttive. Come aveva sempre fatto. Aveva deciso di avanzare ancora, perché non era prudente fermarsi in piena pianura, senza un riparo vicino. Non per lui. Ma per le due umane che portava con sé. Perché se Rin gli era sdraiata davanti, Alessandra gli camminava alle spalle. Silenziosa come sempre. Ma presente. Una presenza che lui avvertiva sempre di più come familiare.

 

Si voltò verso la ragazza. Teneva per le briglie Ah-Un, carezzandogli il collo possente. La chiamò. Senza parole. Alessandra capì la sua domanda e accennò di no con la testa. Non era stanca. E poi sapeva che non si potevano fermare ancora. La neve era lenta e rada, ma le nubi nere minacciavano tempesta.

 

Sesshomaru le si avvicinò, alzando anche lui gli occhi al cielo. Da quando c’era lei, da quando lei aveva ritrovato la parola, il demone aveva iniziato a condividere le sue decisioni. In modo schivo. Riservato. Ma in varie occasioni aveva cercato il suo parere. Con lo sguardo. Sempre e solo con quello.

 

Intanto, Jacken era riuscito a far mettere Rin seduta e la rimproverava sul comportamento irrispettoso che stava assumendo. Dal canto suo, la bimba non lo ascoltava, troppo impegnata a stropicciarsi gli occhi per restare sveglia. Altro effetto della neve. Perché se in principio rende euforici, basta abbandonarcisi per un istante che ti priva di tutte le forze. In modo inesorabile. Ed era quello che stava succedendo a Rin. Ma Jacken sembrava non voler ascoltare ragioni.

 

Sesshomaru si voltò spazientito. Aveva già perso troppo tempo. E le chiacchere di Jacken in quel momento erano del tutto inutili. Se le voleva fare la predica, quello non era il momento opportuno. Perché Rin era davvero esausta. Era tutto il giorno che camminava davanti a loro, giocando e saltando. Una cavalletta arancione nel bianco accecante.

 

Si avvicinò alla bambina che faticava a tenere gli occhi aperti e le si inginocchiò davanti, aprendo il braccio in segno di invito.

 

“Vieni…”.

 

Rin fu felice. Gli sorrise e poi gli passò le braccia attorno al collo, sotto lo sguardo esterrefatto del demonietto. Affondò la testa nella stola di pelliccia e chiuse gli occhi addormentandosi subito. Sesshomaru serrò la presa attorno a quel corpicino fragile che gli si era affidato sicuro e si rialzò con un movimento fluido, mettendo a tacere con un’occhiata ogni tentativo di protesta di Jacken.

 

Stava per rincamminarsi, quando Alessandra gli si materializzò davanti repentina. In mano teneva una parte del futon: la coperta. L’aprì e l’avvolse attorno al corpo di Rin e alla spalla di Sesshomaru. Mentre lei drappeggiava la stoffa, il bel demone non smise mai di guardarla. Non sapeva cosa significava per lui quell’umana. Cosa rappresentava. Però, non era stata un semplice oggetto. Forse all’inizio. Per salvare Rin. Ma poi era successo qualcosa. Qualcosa che gliela aveva fatta percepire in un modo diverso.

 

Mentre camminava, sotto la neve lenta e bianca, Sesshomaru sentiva nella mente parole lontane. Parole pronunciate su una spiaggia. Mentre la neve si confondeva con la spuma delle onde.

 

“Tu hai qualcosa da proteggere?”

 

Assottigliò lo sguardo. Dalla battagli contro Sounga, quella domanda gli ronzava in testa. Perché lui esattamente non sapeva neanche cosa volesse dire proteggere. Cosa significasse aver bisogno di protezione. Se lui stesso l’avesse ricercata, era un qualcosa che apparteneva al suo passato. Forse alla sua infanzia. Ma neanche allora era sicuro di aver ricevuto protezione da qualcuno.

 

Cosa significa proteggere?

 

Gettò un’occhiata alla bimba che stringeva a sé. Era quella una forma di protezione? Era il desiderio di vedere Alessandra con il sorriso sulle labbra? La volontà di vedere i suoi occhi senza riflessi inquieti? Non lo sapeva. Solo, si era reso conto che dall’incontro con quella ragazza, quell’interrogativo si era riaffacciato alla sua mente con prepotenza. E lui non se ne riusciva a spiegare la ragione.

 

 

 

 

Era cambiato. Rispetto alla prima volta che lo aveva incontrato, era cambiato. E molto anche. Restava sempre schivo e riservato, ma non la allontanava. Non sembrava che la sua presenza lo infastidisse.

 

Alessandra ne era rimasta affascinata. Ormai lo ammetteva. Quel ragazzo introverso la stava aiutando più di quanto tutte le persone conosciute in passato avessero mai fatto. Non la giudicava, non la compativa né la rimproverava. L’ascoltava. Soltanto questo. Ascoltava la sua voce, il suo silenzio; il clangore della sua spada.

 

Ma mentre lei si stava aprendo piano-piano, scoprendo di nuovo la sicurezza di qualcuno su cui contare, di lui non sapeva nulla. Perché di sé non parlava mai. Jacken ogni tanto bofonchiava qualcosa a proposito di un palazzo, di una carica importante…Ma lei non ascoltava. Se glielo avesse chiesto, probabilmente il demonietto sarebbe stato felice di soddisfare la sua curiosità. Perché si sarebbe sentito per un po’ al centro dell’attenzione. Si sarebbe sentito importante. Ma Alessandra non voleva. Un po’ di curiosità c’era, questo è vero, ma se doveva davvero colmarla, voleva che fosse lui a raccontare. Con la sua voce fredda e impalpabile. Con quella voce dalle cadenze regolari. Ma in cui aveva sentito sempre più di frequente un tono nuovo.

 

Lasciava che restasse un mistero. Bello e intrigante. Perturbante. Un mistero che Alessandra non era neanche sicura di voler svelare. Perché sarebbe significato conoscere anche se lui davvero uccideva solo per il gusto di farlo. O se quella volta lo aveva fatto perché costretto. Solo per quello.

 

Gode nell’uccidere? Nel sentire il sangue caldo, il corpo pulsare negli spasimi?...

 

Quel pensiero la fece rabbrividire. Alzò gli occhi su Sesshomaru. Gli stava camminando al fianco. Come sempre. Istintivamente, cercò la sua mano. Era chiusa attorno al corpo di Rin. La stava portando in braccio. Dita lunghe e affusolate, con unghie taglienti come piccole lame. Dita da demone. Letali. Mano rossa di sangue. Scarlatta. Mano bianca. Innocente.

 

Come sei veramente?...

 

Non lo sapeva. Non riusciva a capirlo. Perché quando duellavano lui cambiava. Mostrava la tempra del guerriero. Di chi è cresciuto fra le armi, con la convinzione che solo la forza e la freddezza, solo l’autorità imposta e mantenuta con determinazione può durare. Mostrava la tempra di chi è cresciuto senza amore. Ma poi, c’erano momenti, come quello, in cui emergeva un lato di Sesshomaru che l’youkai sembrava rifiutare. Momenti in cui i suoi occhi si addolcivano, in cui era capace di gesti semplici ma pieni di sorprendente tenerezza. Come quello. Come l’abbraccio che stava dando a Rin.

 

Più guardava la bambina stretta al petto del demone, più desiderava essere al suo posto. Avrebbe voluto sentire su di lei la stoffa del suo kimono. L’odore della sua pelle. Sentire se davvero quella mano artigliata era capace solo di morte, o se sapeva anche carezzare dolcemente. Con trasposto.

 

Dentro lo voleva, ma continuava a tenerlo a distanza. Cocciutamente. Perché se gli avesse permesso di avvicinarsi, di insinuarsi ancora di più nel suo cuore, sapeva che ne avrebbe sofferto troppo al momento del distacco. Perché era cosciente di quello. Lei non apparteneva a quel mondo. E non avrebbe potuto restarci. Prima o poi, avrebbe dovuto trovare il modo di tornare. Anche se nel suo mondo non l’aspettava nessuno. Solo ipocrisia e pietismi.

 

Ma è davvero solo per questo che non voglio che mi tocchi?...Non è forse perché quando mi guarda sento il cuore accelerare, tanto che credo che non riuscirei a sopportarlo se mi sfiorasse?...

 

 

 

 

“Signor Sesshomaru! Ale-chan!”

 

Rin corse verso la testa del piccolo gruppo, seguita da un gracchiante Jacken, che cercava in tutti i modi di fermarla. La bimba terminò la sua corsa davanti alla ragazza e all’youkai, con il respiro affannato.

 

Come ogni mattina, Rin, appena sveglia, aveva iniziato a camminare con i suoi compagni di viaggio, ma dopo un po’ si era annoiata e aveva iniziato a correre nella neve, entrando nel bosco che costeggiavano. Non abbastanza da sfuggire alla vista acuta del demone, ma a sufficienza da smarrirsi nel bianco screziato di verde. Correva per un po’, giocava, e alla fine tornava dal suo signore e da Alessandra, regalando loro il suo sorriso e qualcosa raccolta nel bosco.

 

Quella mattina, però, Rin li aveva raggiunti troppo presto. Si era appena allontanata.

 

Nel sentirsi chiamare, Sesshomaru si era voltato elegante ed era tornato sui suoi passi, affiancandosi ad Alessandra. Gli piaceva che gli stesse al fianco. Era un posto che sapeva essere riservato solo alla sua futura sposa. Ma lui riusciva ad associarlo solo a lei. Inconsciamente. Senza definire il pensiero in tutte le sue sfacettature.

 

Finchè è possibile, cammina tu al mio fianco…

 

Sapeva che era un’illusione. Che stava sbagliando. Commettendo lo stesso errore di suo padre. Quell’errore che non si era mai riuscito a spiegare. Che neanche adesso che lui stesso rischiava di commetterlo aveva per lui una motivazione logica. Accettava quelle strane emozioni con la cocciutaggine di chi vuole sperimentare e ha la sicurezza di sapersi allontanare dal fuoco prima di restarne bruciato.

 

È solo curiosità…Un mezzo per cercare di capire cosa mio padre trovasse in una donna umana…per dargli un’ultima possibilità…

 

“Non è morto, vero Signor Sesshomaru?”. La voce di Rin lo chiamò. Singhiozzava. Tendendo verso di lui le mani chiuse a coppa. Un uccellino. Piccolo. Di quelli di nido. Immobile. Rin continuava a guardarlo con gli occhi pieni di lacrime. Anche se sapeva che il suo signore uccideva, non le piaceva vedere la morte. Non voleva che morisse nessuno attorno a lei. Nessuna delle persone cui era affezionata.

 

“Non è morto, stai tranquilla. Ha solo tanto freddo”. Alessandra si era inginocchiata davanti alla bambina e cercava di tranquillizzarla. Rin sembrava davvero molto triste per quell’uccellino.

 

“Cosa possiamo fare? Non possiamo lasciare che muoia…”. Rin aveva chiuso le mani stringendosele al petto, come a scaldare lei stessa l’esserino che contenevano.

 

“Figuriamoci se abbiamo tempo da perdere con un uccello! Rin, portalo dove lo hai trovato e lascia proseguire il padrone!”

 

Jacken le si era avvicinato con l’intento di prenderle il pulcino. Non capiva perché quella bambina dovesse preoccuparsi tanto per un essere così debole. Allungò le mani verdi, ma Rin scattò gridando e si rifugiò dietro ad Alessandra. Non voleva che Jacken lo toccasse. Non voleva che glielo portasse via. Voleva che quell’uccellino aprisse gli occhi e volasse. Volasse alto nel cielo.

 

“La smetta”

 

Due parole. Pronunciate pacate, ma con decisione. Alessandra, inginocchiata a terra, aveva fissato il demonietto con uno sguardo omicida. Non le piaceva proprio come stava trattando Rin in quel momento. In fondo, la bambina non stava facendo nulla di male.

 

Jacken era rimasto pietrificato da quello sguardo. Gli occhi della ragazza erano bui e freddi; erano uno sguardo tagliente, un pugnale. Era simile allo sguardo di Sesshomaru. Fece un passo indietro, istintivamente. Quella ragazza lo metteva in soggezione. Nonostante fosse umana. Nonostante sapesse benissimo che fosse fragile. Fece un passo indietro, e si allontanò, per recuperare Ah-Un, sorpreso del fatto che il suo signore non fosse intervenuto.

 

Sesshomaru non si era neanche quasi accorto di Jacken. Continuava a guardare Rin che si appiattiva contro la schiena della ragazza perché non le fosse sottratto il suo nuovo amichetto. Perché potesse aiutarlo. Sapeva che se glielo avesse detto lui, la bimba lo avrebbe abbandonato. A malincuore, certo. Ma lo avrebbe fatto.

 

Perché non riesco a dirglielo?...

 

Nella mente si delineò la figura di un altro uccellino. Un pettirosso che zampettava nella neve fresca. Era iniziato così. E ora lui riusciva a cogliere certe sfumature dell’animo umano, anche se ancora non le comprendeva appieno. E tutto questo lo doveva a lei. Ad Alessandra. Perché se il bel demone le insegnava scherma, lei gli stava schiudendo davanti un mondo nuovo. Lo stesso in cui aveva sempre vissuto, ma percependolo in modo diverso.

 

Paesaggi che ho sempre conosciuto…montagne, laghi, pianure che ho sempre guardato con indifferenza…che non mi hanno mai suscitato nulla…Che non mi toccavano minimamente…Tu mi stai insegnando a vedere tutto in modo diverso…A viverli perché esistono…Me li hai mostrati davvero per la prima volta…

 

Scosse la testa. Stava cambiato. Dentro. Nell’anima. Qualcosa si stava sciogliendo. E a lui non dispiaceva. Ne era spaventato, ma non riusciva a impedire che accadesse. Perché sentiva il ghiaccio essere sostituito da un calore che lo confortava.

 

Sesshomaru ne era consapevole. Ogni giorno di più. E tutto grazie a quella ragazza. Perché se si era esposto era stato per lei. Per vincere una sfida muta con se stesso. Per vederla sorridere.

 

Alessandra seguì il movimento inaspettato del bel demone. Ogni sua azione era elegante e raffinata. Sensuale. Si era inginocchiò accanto a Rin, arrivando alla sua altezza e aveva disteso la mano artigliata verso l’uccellino. Rin lo aveva lasciato fare, ma aveva paura che il suo signore lo avrebbe ucciso. Invece, Sesshomaru lo raccolse nel palmo della mano e se lo avvicinò alla stola di pelliccia. Socchiuse appena gli occhi e si concentrò.

 

Alessandra non capiva cosa stesse facendo. Solo, all’improvviso, avvertì un brivido lungo la schiena; come una piccola scossa elettrica. Poi, un fremito. Da sotto le dita piegate del demone. L’uccellino si era mosso. E adesso saltellava tranquillo sulla mano del demone, incurante della vicinanza degli artigli letali.

 

Rin aveva lanciato un gridolino di gioia e aveva abbracciato Sesshomaru, ringraziandolo. Poi aveva prelevato il suo nuovo amico, che si stava riprendendo in fretta, e aveva iniziato a incitarlo a volare, correndo sorridente per la pianura bianca.

 

Sesshomaru sorrise. Un sorriso che gli increspò le labbra sottili e che non nascose. Sentire quel batuffolo di pelo gracile nella sua mano, sentire il suo cuore battere piano, sentirlo muoversi, e poi l’abbraccio di Rin lo avevano fatto sorridere. Non sapeva neanche per cosa esattamente. Sentiva solo un grande benessere dentro.

 

Alessandra si meravigliò. Stava sorridendo. Lui. Sesshomaru. Il bel demone dallo sguardo di ghiaccio stava sorridendo. Inginocchiato accanto a lei. Con gli occhi d’ambra fissi sulla bambina che saltava nel prato.

 

Non lo aveva mai visto sorridere. Mai. Ma era bellissimo. Il volto di porcellana sembrava illuminarsi; i muscoli facciali si erano rilassati e erano apparse due ridenti fossette. Accanto alle labbra. Un sorriso innocente. E dannatamente sensuale.

 

Alessandra fu rapita dalle sua labbra. Sottili. Pallide. Appena cosparse di un tenue colore rosato. Avevano mia baciato? Quelle labbra…sapevano cosa vuol dire baciare? Scosse la testa.

 

Ma cosa mi passa per la mente?...

 

Però, alla fine, sorrise anche lei. Un sorriso che sentiva venirle da dentro. Dal cuore. Perché le piaceva vederlo così. Le piaceva molto.

 

Sesshomaru lo vide quel sorriso. Quel sorriso che lei gli rivolgeva, e si smarrì dentro l’espressione contenta della ragazza.

 

Sto cambiando molto…Sto imparato…Grazie a te…

 

 

 

 

Alto. Sedeva in alto. Sul ramo di un albero secolare. Da solo. Sotto il riverbero lunare.

Sesshomaru si passò una mano sul viso, sugli occhi. Mal di testa. Gli doleva la testa in modo indicibile. Troppi pensieri. Troppi. Si rilassò contro il tronco, attirando a la gamba sinistra. Non riusciva a capire di cosa si trattasse.

 

Un mese prima ormai, aveva avvertito un’aura potentissima esplodere verso il monte Fuji, assieme al potere del suo nemico. Naraku. Nome odioso. Gli bruciava sulla lingua. Ma poi non era successo altro. L’odore del vento era cambiato, ma non era stato attaccato. Nulla.

 

Tuttavia, da quel giorno, Tenseiga aveva iniziato a pulsare, a reagire. Come quando si era risvegliata Sounga. Come quando l’aveva unita a quella del fratello. Un battito leggero, a ricordargli la sua presenza. Senza però permettere al demone di capirne l’origine.

E ora quelle notizie…

Royakan lo aveva raggiunto nel primo pomeriggio. Aveva comunicazioni importanti. Una pergamena. In cui i membri del suo clan lo invitavano a tornare a palazzo. Ad assumere completamente il titolo e l’eredità che gli spettava. Lo invitavano a prendere il posto di suo padre. Una convocazione improvvisa. Senza senso. Perché lui già deteneva quel titolo. E se ne serviva sempre all’occorrenza. Lui era il Principe delle Terre dell’Ovest. Da duecento anni ormai.

Quella repentina richiesta di tornare non aveva senso. O forse sì. Dal demone guardiano aveva saputo che nell’ultimo mese erano stati avvistati nuovi demoni aggirarsi attorno ad un determinato territorio. Un territorio che non era sotto la sua giurisdizione. Non avevano creato alcuno scompiglio; in compenso erano stati rinvenuti cadaveri di youkai uccisi in modo inspiegabile. Prosciugati del loro youki.

Sesshomaru all’inizio aveva ipotizzato l’opera di una miko o di un shihandai. Ma Royakan aveva dovuto contraddirlo. Nulla che facesse pensare all’azione di un essere umano, anche se molto potente.

Ecco allora svelato il motivo della richiesta di tornare. I membri del suo clan avevano paura. Si sentivano minacciati. E richiedevano la sua presenza. Subito. Nell’immediato. Perché gli difendesse e organizzasse una possibile controffensiva.

 

Una difesa contro cosa?...Fantasmi?...Nessuno mi ha attaccato o minacciato…

 

Aveva congedato il demone senza dare risposta. Non era comunque tranquillo. Tenseiga doveva pur avere un motivo per pulsare. Sembrava chiamare la gemella. Sembrava comunicare con Tessaiga. Una conversazione muta. Ma che incupiva non poco Sesshomaru.

 

 

 

 

Sesshomaru arrivò alla grotta e vi entrò senza riflettere. Troppi pensieri in testa. Lo accolse una densa nube di vapore, che si alzava dalla sorgente . Calda e avvolgente. Le pareti erano di roccia e trasudavano acqua, ma non faceva freddo.

 

Si disfò della stola di pelliccia e dell’armatura. Aveva bisogno di un bagno, per rilassare i muscoli e dissipare i pensieri. Dopo avrebbe dovuto parlare ad Alessandra. Sapere cosa voleva. Perché ora lui una meta l’aveva e non poteva sottrarsi.

 

La lascerò libera di scegliere…

 

Sì. Non l’avrebbe costretta a nulla. Perché aveva imparato che la ragazza comunque non gli si sarebbe piegata. Il demone sorrise. Non lo aveva mai fatto. Forse lui l’aveva sempre vinta nei loro scontri, ma, senza una spada i mano, era lui a soccombere. Una sensazione che lo divertiva. Né fastidio né velleità di rivincita. Stava per slacciarsi anche il kimono, quando notò un indumento femminile a terra. Un kimono da donna. Scuro. Blu. Con ricami d’argento.

 

Rin

 

Decise. Le avrebbe fatto una sorpresa. Per il bagno, c’era ancora tempo. O al massimo lo avrebbe fatto con la bambina. Non era una cosa nuova per lui. Lasciò accanto alla corazza la copertura esterna dell’abito e si avvicinò alla grande apertura nella parete che immetteva alla grotta con la sola copertura leggera della tunica più aderente.

 

Il vapore aveva formato quasi un muro che lo pervase. Subito fu avvolto da una piacevole sensazione di calore dovuta la vapore che diffondeva per tutto l’ambiente. Chiuse gli occhi per abituarsi all’umida caligine e intanto sondava la stanza con i sensi. Troppo silenzio perché Rin stesse facendo il bagno. Forse era appena uscita…

 

La sua vista non impiegò molto tempo ad abituarsi e, attraverso le zone meno dense di vapore, riuscì a intravedere qualcosa muoversi nella pozza. Si immobilizzò. Sorpreso.

 

Alessandra era immersa fino al petto, seduta probabilmente su una delle sporgenze rocciose che fungevano da sedili. Le braccia in acqua e la schiena comodamente appoggiata al bordo della pozza. La testa rovesciata di lato, in una posa che indicava il suo totale rilassamento. I capelli erano sparsi attorno alla sua schiena. Liberi. Era la prima volta che li vedeva sciolti.

 

Sesshomaru avanzò come ipnotizzato verso di lei, con l’intenzione di non farsi sentire. Immaginava compiaciuto, attraverso la nebbia di vapore, il corpo della ragazza. Desiderò di vederla. Di sapere quanto fosse fragile o forte. Perché combattere contro di lei, a volte, era stata una tortura. Senza sapere quanta resistenza avesse la sua costituzione fisica. Senza sapere esattamente come agire per non ferirla. Alessandra indossava sempre quel kimono blu, ma le era un po’ abbondante e le nascondeva le forme. Sesshomaru si era immaginato che lo avrebbe adattato in modo che le fasciasse il corpo e ne esaltasse le forme. Invece, la ragazza si era limitata a renderlo più maschile, accorciandolo e stringendoselo largo in vita. Senza intenzione di provocare. Senza intenzione di sedurre. Un comportamento che il demone aveva visto tenere a ben poche donne.

Ma adesso lei era là, e l’avrebbe potuta vedere.

 

Quando arrivò al bordo della vasca, mise il piede in una piccola pozzanghera e rivelò la sua presenza. Attirata dal rumore, Alessandra volse la testa e lo vide. Imbarazzo. Istintivamente, abbassò le braccia al petto e si allontanò da lui, cercando coprirsi con quel lenzuolo d’acqua.

 

Sesshomaru?!”, riuscì appena a sospirare. “Non ti ho sentito arrivare…”

 

Avrebbe voluto uscire immediatamente ed andarsene, ma era troppo imbarazzata. Un problema che sembrava non riguardare il bel demone. Sesshomaru era ancora fermo sul bordo della vasca, silenzioso, avvolto nel kimono aderente che per l’umidità gli si era appiccicato come una seconda pelle e che gli disegnava leggermente il torace e il braccio. Sentiva su di lei lo sguardo ambrato del ragazzo. E incominciò ad agitarsi. Non le piaceva che la guardasse così. Fisso. Intensamente.

 

“Ti devo parlare”

 

Proprio in quel momento? Non poteva aspettare che uscisse e si cambiasse. No; era dovuto entrare ugualmente. Sesshomaru fece scorrere lo sguardo lungo tutto il copro della ragazza. Si lasciò sfuggire un sorriso. Non era contento. Ma neanche del tutto dispiaciuto. Alessandra indossava uno strano abito nero e blu. Le copriva tutto il tronco, lasciandole scoperte solo le braccia e le gambe. Ma anche così poteva vederla. Quell’abito era diverso dal kimono. La fasciava. Gli permetteva di guardarla.

 

“Mi è stato comunicato che è richiesta la mia presenza al mio palazzo”. Alessandra sorrise nervosamente, cercando di escogitare un modo che gli permettesse di andarsene senza essere costretta a farsi vedere da lui. Anche se non capiva l’origine di quell’imbarazzo. In fondo indossava un costume da bagno. In piscina, ci sono vari ragazzi e lei non si era mai preoccupata a mostrare quell’abbigliamento. Eppure in quel momento non riusciva a restare indifferente. Forse anche perché il ragazzo che aveva di fronte, avvolto dai vapori termali, era terribilmente sensuale. Soprattutto nella sua indifferenza.

 

“Non so il motivo preciso della richiesta, ma ho deciso di andare. In fondo, è mio dovere come principe…”

 

Sesshomaru parlava avvicinandosi con noncuranza, girando intorno alla pozza come un lupo attorno alla preda. E ad Alessandra non piaceva l’idea di essere una sua preda. Non le era mai piaciuta. Ma non riusciva a farlo fermare. A dirgli di smettere. Coglieva solo mozziconi delle sue parole. Troppo imbarazzata.

 

Principe?...

 

Non riusciva ad articolare il pensiero in suono. Continuava a restare in silenzio, con lo sguardo fisso davanti a sé e il viso tirato in un’espressione quasi sofferente. Sesshomaru, godendo intimamente della rigida immobilità della ragazza, non mancava di mantenere un’espressione fredda e indifferente. Voleva provocarla. Stuzzicarla. Risvegliare in lei un lato femminile che sembrava avesse dovuto soffocare per non cedere al dolore.

 

Ora non hai più bisogno di nasconderti…Non lotti da sola… Si soffermò un attimo su quel pensiero. Era solo Alessandra ad avere intrapreso una lotto con se stessa? Davvero era solo lei? Cacciò quel pensiero. Per quella sera, non voleva più riflettere.

 

“Cosa pensi di fare?”

 

Si voltò a guardarla con un movimento lento della testa, e si pentì immediatamente della domanda. Alessandra sembrava essersi improvvisamente liberata del suo imbarazzo. Lo sguardo annacquato. Sesshomaru si morse impercettibilmente un labbro. Temeva di aver riportato alla memoria ricordi troppo tristi.

 

“In che senso?”

 

“Devi scegliere”

 

“Non lo so” rispose in un sussurro, sforzandosi di mostrargli un sorriso. “Lasciamici riflettere. Ti darò una risposta domattina”.

 

Sesshomaru annui. Una notte. Prima di sapere se l’avrebbe persa o ancora gli sarebbe stata al fianco. Personalmente, avrebbe preferito la seconda possibilità , ma la lucidità che lo caratterizzava aveva subito considerato tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso. E gli ultimi prevalevano.

 

Sentirono la tensione allentarsi, inconsci del fatale fascino che gli accomunava e li attirava l’uno all’atra. Alessandra rimase ipnotizzata dallo sguardo di Sesshomaru: i suoi occhi allungati color dell’oro, i suoi capelli umidi che ricadevano scomposti attorno al viso. Doveva aver corso prima di entrare. Si sentì arrossire. Come non le capitava da molto tempo. E abbassò gli occhi.

 

Dal canto suo, il demone, nel vedere le labbra di Alessandra socchiuse e perfettamente disegnate, il rossore che le imporporava le guance e gli occhi blu con striature di luna, dovette ammettere che quella ragazza trasmetteva una sensualità che non lo lasciava indifferente.

 

“Come vuoi”

 

Alessandra percepì la voce troppo vicina perché l’youkai si trovasse ancora sul bordo della pozza. Si girò sorpresa e lo vide davanti a lei. Sesshomaru era entrato in acqua vestito e adesso le era di fronte. Il kimono, ormai fradicio, gli delineava il petto muscoloso. Lo scolpiva. Aveva lasciato pochi centimetri fra loro. Solo il minino possibile.

 

“Posso?...”

 

Alessandra non rispose. Guardava in trance il braccio di Sesshomaru sollevarsi e sussultò quando, lentamente, gli artigli del demone le accarezzarono una spalla. L’youkai si fermò subito. Ma non tolse gli artigli dalla pelle della ragazza.

 

Smettila di fuggire…

 

Attese. Alessandra non gli diceva nulla. Non lo allontanava, ma neanche gli diceva di continuare. Era troppo sconcertata dai brividi che l’avevano fatta trasalire al semplice tocco della sua mano. Quella mano che aveva sempre voluto allontanare. Che temeva per il suo colore cremisi. La guardò. Ora era bianca. Lunare.

 

Non si oppose quando la mano del demone riprese lenta il suo tragitto; chiuse gli occhi mentre il respiro iniziava ad assumere un andamento irregolare. Sesshomaru saliva fino alla base della gola, lungo il collo, sempre sfiorando la pelle dolcemente. Alessandra si lasciò accarezzare la guancia e le labbra. Le piaceva. Le piaceva sentire la mano di lui sulla sua pelle calda. Un tocco inebriante e fresco. Che la faceva rabbrividire.

 

Sesshomaru era arrivato alla bocca. Non resisteva più. Voleva baciarla. Voleva gustare il suo sapore. Le sollevò piano il mento e le si avvicinò.

 

Alessandra aprì si scatto gli occhi, sentendo il respiro del ragazzo sulle sue labbra. Lo allontanò, decisa ma con gentilezza.

 

“No…”

 

Sulle labbra di Sesshomaru si era dipinto un sorriso incredulo. Alessandra lo aveva allontanato, ed ora sembrava assorta. Aveva sentito il suo respiro caldo su di lei, e lo aveva allontanato. Era stato capace di ammaliarla e sedurla, di incantarla. Ma baciarlo era qualcosa che voleva e temeva troppo. Era rimettersi completamente in gioco, abbandonando i fantasmi del passato. Non che non lo volesse, ma non era sicura di essere pronta. Di esserne capace. E allora aveva preferito allontanarlo. Per non illuderlo o fargli del male.

 

Illuderlo…Ma per lui cosa significa baciare?...Quante donne ha già baciato?...

 

Sesshomaru intanto la fissava, con gli occhi assottigliati. Indagatori. Alessandra non aveva rialzato lo sguardo su di lui, e questo lo offendeva. Anzi, gli faceva male.

 

“Cosa succede?”

 

La voce sensuale e suadente di Sesshomaru aveva la capacità di confonderla. Oltre a ciò, sentire la mano del demone continuare ad accarezzarle la pelle chiara luccicante di gocciole di vapore, faceva vacillare il suo proposito di negarsi. Si passò una mano sulla fronte. Come spiegare quello che provava?

 

“Non…posso…Mi dispiace”.

 

Sesshomaru le stava adesso accarezzando di nuovo il volto, dolcemente. Sentì sotto le dita qualcosa di fresco. Nell’aria odore di sale. Stava piangendo. Abbandonata alla sua mano. Le passo il braccio attorno al collo e l’attirò a sé. Alessandra non si oppose. Si lasciò stringere affondando il volto nel petto di lui. Aveva tanto voluto quell’abbraccio. Aveva tanto voluto le sue braccia attorno al suo corpo. Il suo profumo di muschio a inebriarla. Si lasciò abbracciare, e continuò a piangere.

 

“Non importa…Non dire nulla…”. Sapeva di aver sbagliato. Di aver forzato troppo la mano. Ma non aveva saputo resistere davanti alla sua figura semplice e provocante. Aveva smesso di pensare, e si era lasciato guidare dall’istinto. Non lo aveva mai fatto. Come non aveva mai provato l’impulso di baciare qualcuno. Mai.

 

…Sono stato uno stupido…

 

La strinse di più a sé, con urgenza. Aveva bisogno di assicurarsi che lei non scappasse. Perché aveva paura di vederla volatilizzarsi. Aveva sbagliato. Avrebbe dovuto accontentarsi del semplice tocco della sua pelle. Che lo avesse lasciato avvicinare. Aveva osato troppo. Troppo. Non era una stolta, un fantoccio senza cervello come quelle che, a volte, gli venivano offerte quando soggiornava a palazzo. Non era la ragazza con cui sarebbero stati sufficienti gli sguardi languidi e gli atteggiamenti provocanti. Alessandra aveva bisogno dell’amore, per volerlo. Della fiducia. E lui fiducia gliela aveva mostrata, tanto che la ragazza lo aveva fatto avvicinare. Non si era più scostata al suo tocco. Ma non bastava. Evidentemente, c’era ancora qualcosa che la bloccava. E Sesshomaru aveva la sgradevole sensazione che quell’ostacolo non provenisse dal passato traumatico della ragazza, ma che riguardasse lui di persona.

 

Alessandra si era abbandonata contro al suo petto. Non piangeva più, ma non voleva staccarsi. Le piaceva quel senso di protezione che provava. Ma non sapeva se poteva fidarsi. Cosa fosse per lui. E di rischiare e soffrire non ne aveva la forza.

 

…non avrei voluto allontanarti…Perché vorrei sentire il sapore delle tue labbra…Ma non ce la faccio…Se dopo scoprissi che sono stata solo un passatempo, un diversivo, non riuscirei più a rialzarmi…Non voglio rovinare questo rapporto che c’è tra noi…Non voglio…Mi sto illudendo…Ormai, l’ho già rovinato…

 

Padron Sesshomaru!”. La voce di Jacken. Gracchiante. Fastidiosa. Era vicino. Molto vicino. “Padrone! Dove siete?”

 

“È meglio che tu vada…”

 

Gli sussurrò all’orecchio. Sesshomaru fu costretto a lasciare Alessandra. Con rammarico. Uscì dalla vasca e si diresse verso l’apertura della grotta. Incurante dei capelli e del kimono bagnato. Jacken avrebbe avuto il buon senso di non fare domande, si augurò. In caso contrario, lo avrebbe liquidato velocemente. Al demonietto non doveva spiegare nulla.

 

Sesshomaru…”. Voce strascicata. Voce che fatica a uscire dalla gola. L’youkai si fermò, voltando appena la testa. Alessandra era rimasta immobile e gli dava le spalle. I capelli bagnati le cadevano sulla schiena. Un manto lucente e serico.

 

“Io…voglio tornare a casa…”.

 

No…

 

Le iridi del demone si dilatarono. Aveva rovinato tutto. L’aveva persa. Perché? Perché voleva fuggire da lui? Aveva sbagliato. Quel tentativo di baciarla era stato un grosso errore. Ma non l’aveva costretta. Si era fermato. Quella ragazza non lo capiva che non le avrebbe mai fatto del male? Che non l’avrebbe mai toccata senza il suo permesso? Lui. Sesshomaru. Il Principe dei demoni. Lui aspettava il permesso di un’umana. Di una semplice umana.

 

“Ti accompagnerò…”. Voce fredda. Ma dentro si sentiva a pezzi. Perché l’aveva rifiutato. Con gentilezza. Ma un rifiuto resta sempre tale. Sospirò, voltandole di nuovo le spalle e uscì dalla grotta.

 

Solo allora, Alessandra si volse. Negli occhi scintillavano lacrime che scendevano piano a bagnare la guance.

 

…Mi avevi chiesto di scegliere…E io l’ho fatto…Perdonami…

 

Si lasciò cadere nella vasca e si immerse, confondendo le lacrime con l’acqua. Voleva convincersi di aver fatto la scelta giusta. Che all’inizio avrebbe sofferto un po’ la perdita di quell’amico. Il primo vero, autentico, dopo tanto tempo. L’unico che avrebbe potuto prendere il posto di Leone. Ma quell’amicizia era diventata qualcos’altro. Stava sbocciando. Almeno per lei. E aveva troppa paura si soffrire. Preferiva soffocarla. Non perché non si fidasse di lui. Ma perché aveva paura di quello che era. Non dei suoi artiglio. Ma del suo cuore. Del suo diverso modo di percepire le cose, soprattutto i sentimenti.

 

Aveva paura. Davvero. Per la prima volta. Paura dei sentimenti che Sesshomaru avrebbe potuto nutrire per lei.

 

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Capitolo 15
*** 15. INCERTEZZE ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!

 

Eccomi con un nuovo capitolo. Con nuovi personaggi. Che ruolo avranno? E a cosa servirà quella fiala? Chi è in realtà Yaone? Domande, domande...Fatemi sapere le vostre idee. Forse qualcuno è un buon detective.

 

Grazie a tutti quelli che mi leggono e commentano.

 

Buona lettura!!!

 

 

 

 

CAPITOLO 15

INCERTEZZE

 

 

Acqua.

Nera. Fredda. Acqua. Per cancellare. Per cercare di togliere ogni traccia di quel colore, di quell’odore. Inutile. Dannatamente inutile. Acqua rossa. Scura. Dolorosa.

 

Inuyasha continuava a sfregarsi freneticamente le mani. Ormai non le sentiva neanche più. Troppo fredde per la corrente gelida. Troppo rosse per lo sfregamento continuo. Ma non gli importava. Continuava. Anche perché gli facevano male. E nella testa aveva solo il pensiero che quel dolore fosse giusto. Se lo meritasse. Voleva sentirlo, quel male. La sensazione del gelo che ti brucia la pelle; che di azzanna la carne fino a farti urlare. Del resto non gli importava nulla. Nulla. Neanche delle lacrime che a stento riusciva a trattenere. Un riflesso incondizionato.

 

Di nuovo. Era successo di nuovo. Aveva perso Tessaiga, e si era trasformato. Il sangue demoniaco aveva preso il sopravvento. E lui si era trasformato. Era diventato una macchina di morte. Un assassino. Che pregusta solo la sofferenza del suo avversario. Un assassino sadico, senza più sangue nelle vene né lacrime in corpo. Non era più lui.

 

Era successo già altre volte, ma mai in modo così devastante. Mai con un rischio simile. Avrebbe voluto potersi svegliare. Che tutto fosse solo un sogno. Un incubo. Terribile. Agghiacciante. Ma solo quello. E invece la realtà era impressa nelle sue mani; sui suoi artigli tinti di rosso. Sulla devastazione che aveva provocato. Su quelle ferite. Inferte da lui.

 

Tuffò con rabbia ancora maggiore le mani nell’acqua. Sapeva che era inutile. Che il riverbero rosso che vedeva sulle mani non esisteva. Era solo frutto della sua testa. Solo la proiezione del suo rimorso. Ma non riusciva a cacciarlo. A farlo sparire. Forse, non lo voleva neanche Quella era la sua punizione…

 

Inuyasha! Adesso smettila! Non c’è più sangue sulle mani!”.

 

Le parole di Miroku caddero nel vuoto. Per l’ennesima volta. L’hanyou era come in trance. Non sentiva nulla. Non percepiva nulla. Solo il suo dolore. Il monaco respirò profondamente. Non aveva potere su di lui. Non sarebbe mai riuscito a destarlo da quello stato catatonico. Non lui.

Si passò una mano fra i corti capelli, in un gesto di rassegnata impotenza. La tunica del braccio scivolò piano, scoprendo una vistosa fasciatura che percorreva tutto l’avambraccio sinistro. Era chiazzata di un tenue alone rossastro.

 

“Dovresti cambiare la benda. La ferita potrebbe infettarsi”. Sango lo aveva raggiunto alle spalle. Indossava ancora la sua tenuta da combattimento e il volto appariva pallido e tirato. Doveva essere molto stanca.

 

Miroku annuì sommossamente, ma in quel momento la sua ferita non gli dava preoccupazione. Era abituato a entrare in contatto con lo youki e ad assorbirlo. L’avvelenamento non lo preoccupava, e neanche una possibile infezione. Certo, il veleno contenuto negli artigli di Inuyasha non era da sottovalutare, ma lui non se ne diede pensiero. Non in quel momento.

 

“Guarda che parlo sul serio!”

 

Sango gli posò una mano sulla spalla, costringendolo a votarsi. Gli occhi del monaco era lucidi. Forse aveva un po’ di febbre…Quasi senza accorgersene, la sterminatrice distese la sua mano sulla fronte di Miroku. Un contatto leggero, appena una sfiorarsi della pelle. Ma il monaco provò un brivido lungo tutto il corpo. Contrariamente alle sue abitudini, però, non si mosse. Era la prima vota che Sango gli si avvicinava così tanto di sua iniziativa. Che lo sfiorava. Ed era una sensazione bellissima. No. Non avrebbe fatto nulla. Non voleva rovinare quell’istante. Solo, chiuse gli occhi.

 

“Forse hai un po’ di febbre…”. La ragazza ritrasse la mano e arrossì al sorriso che le rivolse il monaco. “È meglio se rientri con me”

 

“E come facciamo con Inuyasha? Non possiamo lasciarlo qui fuori. In queste condizioni…”

 

Sango si morse il labbro inferiore. Anche a lei faceva male vederlo in quello stato, ma non sapeva cosa fare per aiutarlo. Solo Kagome avrebbe potuto fare qualcosa, raggiungere la sua mente con le parole, ma la ragazza, in quel momento non era nelle condizioni di farlo.

 

“Lo so…Ma non possiamo certo chiedere a Kagome di alzarsi. È ancora debole, e poi…”

 

“Parlerò io con Inuyasha

 

Il sussurro li fece voltare. In piedi, accanto ad un albero che usava come sostegno, Kagome guardava verso di loro con il respiro corto. Dalla tenda a quell’albero erano solo pochi passi, ma le erano costati molta fatica. Sango si precipitò da lei, aiutandola a reggersi in piedi e tempestandola di domante e rimproveri, anche se bonari. Kagome non rispondeva. I suoi occhi erano fissi su una macchia nera in mezzo al fiume. Miroku le si avvicinò e ne seguì lo sguardo fino allo stesso punto. Aveva capito. Come Sango. Era per questo che la giovane sterminatrice cercava in tutti i modi di convincere Kagome a tornare indietro.

 

“Sei sicura?”

 

“Sì…”

 

Kagome non ricambiò neanche lo sguardo di Miroku. Era troppo stanca. Ma voleva aiutarlo. Lui capì, perché accennò appena col capo e prese Sango sottobraccio, riconducendola alla tenda, ignorandone le lamentele. Peraltro sensate.

 

Si fermò solo un attimo.

 

“Se avrai bisogno, noi ci saremo…”

 

 

 

 

Acqua.

Sentiva solo lo sciabordio dell’acqua. E urla confuse nella sua mente. Urla che gli laceravano il cuore. Continuava a lavarsi freneticamente le mani. Schiaffeggiandole contro la superficie fredda e cristallina. Ferendosi sulle piccole pietre e sul ghiaccio.

 

Non si accorse neanche dai passi incerti che infrangevano la corrente tranquilla. Sentì solo la sua voce vicina. Molto vicina. E il cuore ebbe una stretta dolorosa.

 

Inuyasha…”

 

Nascose di più la testa nelle spalle e colpì l’acqua con forza ancora maggiore. Tonfi secchi. Schiocchi.

 

“Smettila! Basta Inuyasha!”

 

Le mani di Kagome si era chiuse sulle sue. Le avevano strette, fermandone quell’altalena folle e inutile. Le sue mani…Inuyasha le guardò. Erano piccole e bianche. Fragili. Eppure avevano avuto la forza di prendere le sue. Di toccare i suoi artigli.

 

Kagome si era inginocchiata nell’acqua. Avrebbe voluto poterlo vedere in faccia, leggere nei suoi occhi. Ma lui teneva la testa china. Cocciutamente.

 

Sospirò. Anche se non li vedeva, poteva immaginare l’angoscia intrappolata nei suoi occhi. L’aveva già vista. Iniziò ad accarezzarli piano una mano, poi il volto. Un tocco lento e delicato; materno. Un tocco diverso dalle carezze che si erano scambiati di nascosto nei giorni precedenti. Non era una carezza per amare, ma per consolare.

 

“Va tutto bene…Non è successo niente di grave…Smettila di tormentarti…Va tutto bene…Davvero…”

 

Le parole gli giungevano ovattate attraverso i sensi storditi. Ma neanche il tono riusciva a rilassarlo. A confortarlo un po’.

 

Tutto bene?...Davvero stai dicendo questo?...Non riesco a capire…No…Nulla va bene…

 

Finalmente, riuscì a guardarla in volto. Sotto la luce della luna, il pallore della ragazza era ancora più accentuato. Il volto era un po’ gonfio, con alcuni lividi vicino alla bocca e a un occhio. E poi, c’erano le bende…Attorno ai polsi, alla testa, probabilmente anche sul tronco doveva essere bendata, perché si muoveva piano e cercava di evitare movimenti troppo bruschi.

 

Non hai pura di me?...Dopo quello che ti ho fatto…

 

Era accaduto. La cosa che più temeva si era avverata. L’aveva colpita. Brutalmente. Le si era avventato contro con l’intento di ucciderla. Senza riuscirci, per fortuna. Lei aveva solo tentato di farlo tornare normale, ma questa volta il demone che dorme dentro di lui si era opposto. Troppo. Aveva reagito. E la sua parte umana non aveva potuto far altro che assistere impotente alle azioni del suo corpo. Aveva urlato. Ma nessuno lo aveva sentito. Aveva pianto. Ma le lacrime non avevano bagnato gli occhi rossi di quel mostro. Perché lui in quel momento era un mostro. Non un youkai. Solo un mostro.

 

Eppure, era sempre lui…Era il suo corpo quello che gioiva delle urla che riusciva a strappare alla ragazza; che la schiaffeggiava col desiderio di vedere la paura nei suoi occhi. Il terrore. Voleva sentire l’odore del suo terrore. E poi, quando lei ormai non aveva più voce per gridare, quando ormai era completamente svuotata da ogni forza e lo guardava con occhi vuoti…Sangue. Aveva provato l’impulso di assaporare il suo sangue. E l’aveva trafitta. Al fianco. Solo di striscio per fortuna. Perché Miroku era riuscito a proteggere Kagome ricevendo lui per primo gli artigli. Gli avevano trapassato tutto l’avambraccio e avevano colpito anche Kagome, ma il veleno lo aveva assorbito tutto Miroku. Una fortuna. Altrimenti la ragazza difficilmente sarebbe sopravvissuta.

 

“Dovresti odiarmi…”

 

Una consapevolezza. Che gli faceva male al cuore. Perché lui amava quella ragazza. Lo sapeva. Lo aveva capito finalmente. E l’idea che adesso lei fosse in quello stato per colpa sua lo portava alla follia.

 

“Dopo quello che è successo…Vattene! Torna nel tuo mondo, e non venire più qui! Vai via e dimenticami!”

 

“No!”

 

Un urlo disperato. Più di quelli che i suoi schiaffi le erano riusciti a strappare. Inuyasha si sentì investire dal corpo della ragazza, dal suo profumo. Si sentì spingere indietro e si ritrovò seduto sulla riva del torrente, con lei che piangeva contro il suo petto.

 

“Ti prego…Ti prego, non mandarmi via…”. Parole roche, spezzate dal pianto. Kagome non lo voleva lasciare. Perché sapeva che non sarebbe mai riuscita a dimenticarlo. E perché non voleva che lui si trasformasse di nuovo. Ne aveva avuto così paura…Non riusciva a parlargli. In quei momenti, l’ego di Inuyasha, quello del ragazzo che lei amava, era lontano, inghiottito dal suo stesso corpo. Eppure, era sempre lui. E Kagome non riusciva a pensare cosa potrebbe succedere se lei non gli fosse accanto. Cosa potrebbe essere di lei stessa.

 

“Ma non capisci! Io sono pericoloso! Questa volta ti ho solo picchiato, ma la prossima?...Potrebbe non esserci Miroku a salvarti…Potresti morire…”

 

Per mano mia…

 

L’hanyou l’aveva allontanata tenendola per le spalle. Non voleva che gli stesse così vicina. Aveva paura di ferirla. Aveva paura di se stesso. In quel momento, maledisse suo padre per avergli dato il suo sangue demoniaco. Per avergli lasciato quell’eredità troppo pesante da sopportare. Perché l’unica soluzione che lui riusciva a vedere era la solitudine. Se non voleva far del male a chi gli voleva bene, alle persone cui lui voleva bene, doveva lasciarle. Soprattutto Kagome.

 

“Non m’importa! Perché tu non mi ucciderai! Non sei tu quel mostro! Non lo sei! Lo capisci? Capisci che io non riesco a starti lontano? Non posso!”.

 

Inuyasha l’abbracciò forte. Aveva vinto. Poteva restare. Lui la forza di mandarla via non l’aveva. Perché di lei aveva bisogno. Del suo amore. Per cercare di andare avanti. Per non sentirsi solo. Neanche in quei momenti.

 

“Vedrai…Troveremo una soluzione…Un giorno, non dovrai più temere di trasformarti…” gli sussurrò Kagome affondando il volto nella sua spalla e accarezzandogli il viso.

 

L’hanyou annuì. Aveva ragione. Doveva trovare una soluzione. E a quel pensiero un’immagine bianca sfuocata gli si materializzò nella testa.

 

Sesshomaru…Hai ragione a disprezzarmi…Non sono umano, non sono demone…Sono solo un involucro che trasporta un mostro sanguinario…Hai ragione a volermi uccidere…Fratello…Cosa posso fare?...

 

 

 

 

Shin si rilassò appoggiandosi alla parete. Era stanco. Molto stanco. I generali erano appena usciti, e lui adesso poteva smettere quella maschera di freddezza e autocontrollo che si doveva imporre durante quelle riunioni.

 

Avrebbe voluto urlare, in certe occasioni. Perché se anche era consapevole che una guerra va preparata anche a tavolino, l’idea che i suoi uomini fossero considerati semplici pedine per ottenere la vittoria non gli piaceva. Non gli era mai piaciuta.

 

E neanche a suo padre. Almeno, una volta era così. Ma da qualche tempo, le loro opinioni avevano iniziato a divergere. Tanto che il sospetto che lui, il principe ereditario, fosse in realtà incapace di occupare un giorno il posto del padre, si era fatto strada nella mente di molti cortigiani. E suo padre sembrava aver perso anche lui la stima che una volta gli mostrava.

 

Ma era strano. Suo padre era sempre stato un signore attento ai suoi subordinati. Eppure, nell’ultimo periodo, era cambiato. La volontà di vendetta lo stava portando alla follia. Non riusciva a pensare ad altro. Solo al modo per vendicare l’antico affronto. Per uccidere l’erede del suo nemico.

 

Shin si passò una mano sul volto. Anche lui voleva vendetta. La giusta ricompensa dopo le sofferenze dell’esilio. Ma voleva anche lo scontro leale. Come gli era stato insegnato. Altrimenti, non si sarebbe trattato più di vendetta, ma di omicidio. E in quello non c’era nulla di glorioso. Ma non era solo la gloria a muoverlo; aveva fatto un giuramento. Di uccidere l’uomo che aveva assassinato Takakuni. Per questo accettava di presenziare a quei interminabili consigli di guerra.

 

La porta si aprì. Non girò nemmeno la testa. Sapeva chi fosse. Ed era contento che lo avessero raggiunto. Ad occhi chiusi, fece un cenno, perché si avvicinassero. Con loro non c’erano segreti. Con loro, anche le diverse opinioni avevano voce.

 

“Allora fratellino! Com’è andata?”

 

Shin fece una smorfia. Risposta ovvia. Il piano ideato dagli illustri generali faceva acqua da molte parti, peggio di una barca ormai destinata alla rottamazione.

 

“Non avvilirti! Ci siano noi a darti una mano, no? Rimetteremo in sesto questo sgangherato progetto di assedio. Assedio…Ma dico io! Non era meglio una bella battaglia? O si vive o si muore. Altro che assedio!”

 

Shin sorrise. Inutile. Suo fratello non sarebbe cambiato mai. Impulsivo come sempre. Ma anche molto sveglio. Aveva la capacità di rovesciare le sorti di uno scontro con la sola intelligenza. Per poi lasciare a lui la gloria. Shin questo non lo aveva mai sopportato. Avevano anche litigato più volte per quel motivo. Se voleva degli onori, se li sapeva benissimo conquistare da solo. Non aveva bisogno dell’elemosina di nessuno. Anche se era lui l’erede, non gli piaceva che suo fratello facesse di tutto per metterlo in mostra. Gli attriti con suo padre li avrebbe risolti lui di persona. E poi, non erano molti.

 

“Smettila Yashi! Non mi sembra il momento di scherzare!”

 

Shin sorrise dentro di sé. Adesso suo fratello avrebbe risposto con una battuta e allora anche l’altro avrebbe replicato per le rime. Tutto normale. Finalmente, respirava aria di casa. In fondo, gli erano mancati. Gli erano mancate le litigate, i segreti, le confidenze, gli allenamenti… Erano tutto il suo mondo. Era perché loro finalmente uscissero da quell’esilio in cui erano nati e cresciuti che Shin aveva accettato di combattere quella guerra che andava contro i suoi principi. Fin dall’alleanza con Naraku e dall’uso dei fucili corretti con un’arte proibita. Ma per loro, era pronto anche ha rinnegare se stesso. I suoi fratelli…

 

Aprì finalmente gli occhi. Eccoli là, seduti davanti a lui. A scherzare allegramente. Ma sapeva benissimo che all’occorrenza non c’erano demoni più potenti di loro. E più fedeli. Non importava chi fosse l’erede. Loro tre erano legati da un giuramento. E nessuno si sarebbe mai sognato di infrangerlo.

 

Loro tre…Shin era il maggiore, mentre Yashi e Koji avevano la stessa età. Solo quella però, oltre al carattere. L’youkai li guardò. Ricordavano la verità? Forse no. Erano troppo piccoli ancora. Ma lui sì. La sapeva. E forse un giorno l’avrebbe detta.

 

 

 

 

Yaone apparve al centro della piccola radura come se emergesse dalle tenebre stesse. Eterea. E pericolosa. Estremamente. Molto più del suo nuovo alleato.

Naraku non aveva mai provato nulla di simile. Attrazione e repulsione al tempo stesso. Quell’alchimista era un vero mistero. Fin dal suo odore distorto. Un mistero che lo intrigava. Terribilmente.

 

“L’hai portato?”

 

“Naturalmente!”. Sorriso seducente. E inquietante. Yaone estrasse dal kimono una piccola fiala con un liquido giallognolo. Il demone allungò la mano per prenderla, ma la donna fece scivolare la fiala fra il collo dell’abito e iniziò a camminare tranquillamente per la radura. Voleva conoscere bene quel mezzo-demone che aveva l’aura di un youkai completo. Forse gli sarebbe potuto tornare utile.

 

“Sai…Non credo che il mio signore approverebbe il tuo piano…”

 

“Al contrario, invece…Quando lo saprà, mi ringrazierà. Perché lo farò soffrire ancora di più. Ed è quello che lui vuole. Vedere la sua preda contorcersi dal dolore. Un sorriso scaltro. No. Non era per quello che le aveva chiesto quel composto. Era per evitare che tutti i suoi sforzi venissero vanificati da un demone giunto all’improvviso dal continente. Non poteva permetterlo.

 

“Lo vuoi per te, non è così?”

 

Yaone gli si era formata di fronte, fissandolo con le sue iridi bicrome. L’aveva capito. Come aveva fatto? Naraku si trovò impreparato a fornire una qualsiasi risposta. E il suo silenzio era la migliore delle confessioni. Adesso, lei avrebbe potuto smascherarlo e tutto il suo piano sarebbe andato in fumo. Un lavoro lungo e paziente. Distrutto. Per una imprudenza che non riusciva a capire di aver commesso.

 

La risata di Yaone gli fece assottigliare lo sguardo. Non gli piaceva che qualcuno lo prendesse in giro. Per niente. Soprattutto, non gli piaceva che fosse quella donna. Le disse di smetterla, ma lei continuò, reclinando la testa fiera e mostrandogli la pelle liscia della gola. Sarebbe bastato un attimo…Un colpo preciso e non avrebbe più parlato. Facile. Come lo era stato liberarsi di quell’altro.

 

“Mi piaci”. Le parole bloccarono la sua mano prima che vi concentrasse la sua aura demoniaca. “Mi piace il tuo modo di fare. Agisci solo per te stesso. Bravo!”. E abbozzò un applauso.

 

“Non scherzare con me. Rischi molto.”

 

“Ah sì? E cosa, la vita forse?”. Di nuovo quella risata. Di nuovo quella strana sensazione. E la domanda fissa in testa: chi era quella yasha?

 

Yaone gli mise in mano la provetta con un gesto fluido. La sua pelle…era fredda. Ghiacciata. Come quella di un morto. Eppure il suo cuore batteva. Lo aveva sentito benissimo.

 

“Ricorda! Il mio aiuto in cambio della possibilità di usare la sfera”

 

Stava per allontanarsi, ma Naraku le cinse la vita, attirandola a sé.

 

“Perché?”. Yaone lo fisso negli occhi intensamente. E così, anche il grande Naraku era curioso. Voleva sapere cosa fosse. Perché gli avesse chiesto solo la possibilità di usare la sfera una volta, invece che di averla per sempre.

 

Domande, domande…Me le hanno sempre fatte…E io non so mai cosa rispondere…

 

“Lo saprai a suo tempo. Per ora dovrai accontentarti di quella pozione”

 

“Mi devo fidare? In fondo, hai ragione tu. C’è qualcuno che non approverebbe il mio piano…E tu potresti decidere di fare il doppio gioco…” sibilo l’hanyou serrando di più la presa. Gli occhi di Yaone si incupirono.

 

“Stai pensando a Shin…Non preoccuparti. Io non gioco mai. Non con l’alchimia.” Si liberò agilmente dalla stretta e si incamminò.

 

“E soprattutto, io non appartengo a nessuno! Gioco solo per me stessa”

 

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Capitolo 16
*** 16. AGGUATO ***


Rieccomi con un nuovo capitolo

Rieccomi con un nuovo capitolo. Cosa succedera? Alessandra e Sesshomaru sono di nuovo soli, ma arriva un guastafeste!

 

A stasera, spero, con la seconda parte.

 

Buona lettura!

 

 

 

CAPITOLO 16

AGGUATO

 

 

Erano soli. Da alcuni giorni, ormai.

Sesshomaru aveva dato ordine a Jacken di proseguire verso il palazzo con Rin. Lui li avrebbe raggiunti più tardi. Si era voltato e aveva iniziato a incamminarsi verso Sud, ignorando le continue domande che il demonietto gli rivolgeva. Nessuno doveva chiedergli spiegazioni. Nessuno doveva contestare le sue decisioni. Bisognava solo obbedire.

 

Alessandra lo aveva osservato allontanarsi di alcuni passi e poi fermarsi. Di schiena. In attesa. Stava aspettando lei. Aveva sospirato. Le dispiaceva dover lasciare Rin, ma quello non era il suo posto. Lo sapeva. Lei non apparteneva a quel mondo. Non gli sarebbe mai appartenuta.

Rin era aggrappata alla manica del suo kimono, e la guardava con gli occhi lucidi. La supplicava. Di restare. Non voleva perdere quella “sorella”.

 

Ale-chan…Non andare! Rin farà la brava! Resta!”. Alessandra le si era inginocchiata davanti e l’aveva abbracciata forte, facendone soffocare i singhiozzi contro la stoffa dell’abito. Povera Rin. Di nuovo sola. Di nuovo in compagnia di esseri diversi da lei. Ma che comunque le volevano bene. A modo loro. Sì. Alessandra era confortata al pensiero che comunque la bimba non sarebbe rimasta mai davvero sola. Con lei ci sarebbero stati Jacken, Ah-Un e…Sesshomaru. Perché, anche se cercava di nasconderlo, lei si era accorta che il demone era affezionato a Rin. Senza un vero motivo. Una spiegazione.

 

“Non posso…”

 

Lo aveva sussurrato più a se stessa che alla bimba, stringendola ancora di più. Le faceva male qualcosa, dentro. Vicino al cuore. Non un male fisico, ma palpabile. La dilaniava. Aveva arruffato i capelli della bimba e si era alzata. Aveva fatto una carezza al drago bicefalo e poi fissato Jacken, accennando un piccolo inchino. Il demonietto non aveva risposto. Era contento che se ne andasse. Da quando c’era lei, il padrone era strano. Lo aveva visto cambiare e tornare normale molte volte. Come se stesse lottando contro qualcosa dentro di lui. La sera prima Sesshomaru gli si era materializzato davanti con il kimono e i capelli bagnati. Sembrava appena uscito da un lago. Non lo aveva degnato di una parola ed era sparito per tutta la notte. Jacken era rimasto molto colpito da quell’apparizione. Il suo padrone aveva un’espressione insolita. Stralunata. Anche se fredda come sempre.

 

Anche Alessandra era rimasta in silenzio tutta la sera e non aveva neanche cenato. Doveva essere successo qualcosa, e Jacken si era augurato che quella ragazza se ne andasse presto. Richiesta esaudita. Sesshomaru lo aveva svegliato con mala grazia all’alba, per comunicargli gli ordini. E adesso era lì fermo, che attendeva la ragazza.

 

 

 

 

Gli camminava alle spalle, cercando di ignorare la sua figura elegante. Ma bastava appena un attimo per riportare alla mente quelle sera. Lo rivedeva bagnato davanti a lei, rivedeva il suo corpo scolpito dalla stoffa umida, le sue labbra sottili, i suoi occhi…C’erano state sfumature strane, quella sera, negli occhi dell’youkai. Lampi che avevano acceso le iridi d’ambra. Riavvertiva i brividi prodotti dalla sua mano sul suo corpo, quelle carezze stranianti e poi…il suo respiro. Caldo. Vicino. Molto vicino.

 

Alessandra scosse la testa per l’ennesima volta. Doveva smettere di pensarci. Togliersi quei ricordi dalla testa. Convincersi di aver fatto la scelta migliore. Anche se qualcosa dentro di lei gridava forte. Non doveva ascoltare.

 

Stava scappando. Lo sapeva. Scappava da un sentimento che aveva paura ad accettare. Che si ostinava cocciutamente a negare. Perché? Perché non si era lasciata baciare? Lo avrebbe voluto. Il suo corpo glielo aveva detto, eppure la sua mente le aveva fatto allontanare il demone. Lo aveva respinto.

 

Alessandra fissò l’youkai; le sue spalle larghe, il portamento solenne, i movimenti sempre freddi e controllati. All’apparenza non mostrava più di ventitrè-ventiquattro anni. Due- tre più di lei, quindi. Ma dalla mitologia nipponica sapeva che i demoni possono vivere molto a lungo. Anche millenni. Quanti anni aveva in realtà Sesshomaru? Quanto aveva vissuto davvero? Ogni sua azione era improntata alla razionalità, trasmetteva una secolare abitudine alla compostezza. Al decoro. Non rideva mai, non scherzava; parlava quel poco necessario e quasi sempre con un tono di comando. Non le piaceva quel tono. Lo rendeva affascinante, certo; un uomo sicuro di sé; ma le sembrava stonare sulle labbra di qualcuno all’apparenza così giovane. Sesshomaru possedeva una maturità invidiabile, quella che deriva dal dolore e dalla sofferenza. Aveva l’aspetto di un ragazzo, ma era un adulto. Molto adulto. Forse più anche della sua reale età.

 

Eppure, quella sera le era sembrato solo un ragazzo. Solo quello. Nei suoi occhi, nei suoi gesti, c’era qualcosa di spontaneo, di istintivo…Forse, per un attimo, aveva lasciato che qualcosa affiorasse in lui.

 

Alessandra si passò una mano sul volto. Iniziava a essere stanca; era da prima dell’alba che camminavano, senza concedersi pause. Avrebbe voluto riposare un attimo, ma non gli avrebbe chiesto di fermarsi. Avrebbe stretto i denti e continuato a seguirlo. Sesshomaru era stato un po’ vago circa la loro destinazione. Sapeva solo che l’avrebbe condotta ad un villaggio, dove risiedeva una sacerdotessa che forse avrebbe potuto aiutarla. Non lo aveva mostrato, ma Alessandra aveva percepito del disprezzo mentre parlava di quel luogo. Un sentimento che neanche la sua voce fredda riusciva del tutto a dissimulare.

 

Un segreto del tuo passato?... Di lui non sapeva nulla. Aveva scoperto solo da pochi giorni che era un principe, il signore di un vastissimo territorio, un demone dal potere immenso. Aveva scoperto un titolo. Ma per il resto non lo conosceva. Si fidava di lui, ma non abbastanza da rischiare una delusione troppo cocente.

 

Le tornò in mente l’espressione del suo viso, quando lo aveva allontanato. Sorpresa. Forse una punta di incredulità. Sembrava incapace di spiegarsi quel rifiuto. Come se non ne fosse abituato. Anzi, probabilmente, non era abituato a essere respinto. Bello, fiero, con un titolo importante…Nessuna donna lo avrebbe mai rifiutato. Lo avrebbe anzi considerato un onore, un privilegio…

 

Nessuna donna…

 

Sesshomaru spostò con noncuranza un ramo basso. Un gesto fluido. Il suo braccio si mosse elegante. Le sue braccia…Quante donne avevano stretto? Quante avevano goduto della vicinanza del suo corpo, del profumo della sua pelle? Alessandra si scoprì invidiosa. Gelosa di chi gli era stato accanto, di chi lo aveva accarezzato, baciato…Quante donne aveva già baciato? Gelosia. Un sentimento nuovo per lei. Estraneo. Non era mai stata gelosa di nessuno. Neanche di suo fratello. E adesso, scopriva qualcosa che la spaventava, perché si può essere gelosi solo di qualcosa cui si tiene.

 

E provò una stretta ancora più forte quando la sfiorò il pensiero che probabilmente il bel demone dovesse avere anche una fidanzata, da qualche parte. Una promessa sposa. Forse non l’aveva mai vista, ma doveva esserci. Perché era un principe, e il matrimonio di convenienza era una cosa normale per quell’epoca. Sì…Probabilmente, c’era una donna, una yasha che lo attendeva, che lo avrebbe legato a sé per sempre. Forse non l’avrebbe mai amata, ma lei avrebbe potuto rivendicare con orgoglio che lui le apparteneva. Che era suo. Suo marito.

 

Alessandra si fermò senza neanche accorgersene, gli occhi dilatati. Quel pensiero le aveva gelato il sangue, l’aveva fatta ribollire nelle vene. Rabbia e invidia; consapevolezza e illusione. Si stropicciò la faccia con le mani. Perché doveva tormentarsi con quei pensieri? Lei la sua scelta l’aveva fatta: andarsene. Per evitare proprio quei timori, quei pensieri che probabilmente avrebbe scoperto reali. Per non soffrire. Per salvare il sottile benessere che aveva appena recuperato. Grazie a lui.

 

Sei stanca?”

 

Sesshomaru si era accorto che non lo seguiva più, ed era tornato indietro. L’aveva trovata come in trance, con gli occhi spalancati e le mani chiuse a pugno, strette forte. Che le era successo? Aveva spaziato con gli occhi ogni angolo del luogo che li circondava: nessun pericolo. Allora, cos’aveva? Forse solo stanchezza

 

Sono una stupida…

 

Alessandra scosse la testa. Non era stanca. Era triste. Solo quello. Ma non glielo avrebbe mai detto. Non si sarebbe mai confidata con lui. Non a quel proposito. Perché non poteva certo rivelargli che lui non le era indifferente, ma che non poteva lasciarsi andare.

 

Un’amante…Ecco cosa sarebbe diventata. Solo unamante. Probabilmente una delle tante. U nome, un numero, senza volto e anima. Solo un corpo. E non era quello che lei voleva. Non lo avrebbe mai sopportato. Essere un oggetto. Sempre in competizione. Sempre attenta che qualcun’altra non prendesse il suo posto. Fino a quando? Se lui un giorno si fosse stancato di lei, cosa sarebbe successo? Sarebbe stata sostituita con una donna più interessante, e lei si sarebbe trovata ad aspettare che lui la chiamasse di nuovo, solo perché aveva freddo nel letto. Oppure l’avrebbe uccisa, o forse l’avrebbe ceduta a qualcun altro…Rabbrividì a quei pensieri…Alzò lo sguardo e incontrò solo ambra. Due oceani d’oro in cui affogare. Cosa aveva visto nei suoi occhi quella sera? Cosa…?

 

Amore? No. Non era amore. Non poteva esserlo. Non doveva esserlo. Quello era solo desiderio. Forse neanche di lei, del suo corpo, ma di una vittoria. Lo aveva sempre sfidato. Non si era mai piegata alla sua autorità. Lo aveva sfidato. Fino a quella sera. Quando gli aveva raccontato il suo passato. Da quella volta, qualcosa era cambiato. Lei era cambiata. Stava tornando a vivere. E adesso era sul filo di un rasoio.

 

Amore…In fondo, cos’è l’amore? Alessandra conosceva quello che aveva provato per i suoi genitori, per suo fratello, ma un uomo…lei non aveva mai amato un uomo. Non si era mai innamorata. Ricambiò lo sguardo di Sesshomaru. Doveva apparire normale. Mostrarsi indifferente ai ricordi. Anche se quel viso di porcellana non l’aiutava affatto. Non l’aiutava la sua vicinanza. Il suo freddo autocontrollo. Perché non riusciva a sciogliersi un po’? Un sorriso, dentro di sé. Proprio lei, che per due anni era stata rigida come una statua, fredda come il ghiaccio, si chiedeva perché lui fosse altrettanto contenuto nelle sue manifestazioni.

 

Sesshomaru si voltò, facendo ondeggiare i lunghi capelli. Riprese a camminare. Silenzioso. Erano giorni che non parlavano. Solo il minimo indispensabile. A cosa pensava? Al palazzo, al motivo per cui gli era stato chiesto di tornare? Alessandra non riusciva mai a capire i suoi pensieri. Se fosse preoccupato o tranquillo. Qualunque cosa avesse in testa, il suo volto non tradiva mai nessuna emozione.

 

Aveva mai ripensato a quella sera, alla pozza? Aveva mai pensato a lei?

 

Cosa sono per te?...Un oggetto oppure…

 

Amore. Poteva il bel demone provare qualcosa di simile all’amore nei suoi confronti? Forse. Alessandra si sorprese a fantasticare su quel sentimento. Sul sogno che lui lo provasse per lei. Ma cercava di convincersi che fosse solo quello. Un’illusione.

 

Sesshomaru avrebbe anche potuto innamorarsi di lei, ma quanto sarebbe durato? Mesi, anni forse…Ma non sarebbe mai stato qualcosa di lungo; solo una parentesi nella vita del demone, forse neanche molto lunga. Un’ombra nella memoria.

 

E poi, anche se l’avesse amata davvero, con tutto se stesso, Alessandra era cosciente che fra loro ci fosse un abisso invalicabile. E lei non pensava neanche alla differenza di razza; per quanto la riguardava, fra youkai e ningen non c’erano differenze alcune. No. La differenza era diversa. Di censo. Lei non aveva titoli, mentre lui era un principe, l’erede di una grande dinastia. Anche se l’avesse amata, non avrebbe mai potuto sposarla. Doveva dare al suo clan un erede degno di quel nome, non un bastardo. Un mezzo sangue. Non lo avrebbero mai accettato. Non avrebbero mai accettato neanche lei.

 

Sarei sempre e solo un’amante...

 

 

 

 

Sesshomaru si voltò, facendo ondeggiare i lunghi capelli. Riprese a camminare. Silenzioso. Erano giorni che non parlavano. Solo il minimo indispensabile. Ma non riusciva a guardarla in viso senza ricordarla avvolta dai vapori termali. Senza ricordare il suo corpo, la sua pelle bagnata e vellutata, le sue labbra…

 

Aveva voluto baciarle. Per la prima volta. Aveva avvertito il desiderio di sentire il loro sapore. Lui. Lui che non si lasciava mai dominare dai sentimenti. Che li considerava la debolezza degli uomini. Del suo fratellastro. Lui si era fatto guidare dia suoi sentimenti.

 

No. Solo dall’istinto

 

Voleva convincersene. Che quel bacio era stato cercato solo per istinto. Per affermare il suo potere, la sua supremazia. Come ogni altro gesto. Se l’avesse baciata, avrebbe voluto dire che aveva vinto. Che lei si era piegata. Sconfitta.

 

Non lo aveva fatto. Lei lo aveva allontanato, e lui non si era ribellato. Eppure, sapeva che avrebbe potuto rubarle ben più di un bacio. La superava di molto in forza fisica. Alessandra non gli si sarebbe potuta opporre. Avrebbe potuto fare di lei quello che avrebbe voluto. Ma non ci era riuscito. Non lo voleva.

 

Perché?

 

Non riusciva a capire. Lui era stato rifiutato. Lui. Sesshomaru. Principe dei demoni. E non aveva alcuna velleità di vendetta. Solo molta delusione. Un amaro in bocca che gli rendeva difficoltoso anche solo il semplice inghiottire. Stava…soffrendo? Possibile? Stava soffrendo per un’umana? Una femmina, come quella che gli aveva sottratto suo padre, che aveva partorito suo fratello? Per una che avrebbe gettato nuovo fango sull’onore della sua famiglia?

 

Ridicolo!

 

Cosa l’attirava in lei? Era bella, ma non era un motivo sufficiente per coinvolgerlo a quel modo. La bellezza sfiorisce col tempo. Soprattutto la bellezza umana. E poi, aveva incontrato molte donne estremamente affascinanti e seducenti. Ma nessuna lo aveva preso a quel modo. No. Non era la bellezza, ad attrarlo. O almeno, non era quella la principale motivazione.

 

Forse, il suo atteggiamento

 

Quello lo aveva colpito. E neanche poco. Una durezza strana, che stonava su un volto così giovane e delicato. Era sempre sulla difensiva, controllata e fredda quasi come lui. Era molto simile a lui nel suo rifiuto di essere avvicinata, di essere toccata. Due maschere imposte dalle circostanze. Molto simili. Per fiducia tradita.

 

L’aveva ammirata. Doveva avere circa vent’anni, ed era riuscita a erigere intorno a sé una corazza solida, come quella che lui si era costruito in circa duecento anni. Una forza di volontà davvero notevole. Una disperazione estrema.

 

Non bastava. Non bastava qualcosa di anormale in un’umana ad attirare la sua attenzione. Non era mai successo. Neanche quella strana sacerdotessa che viaggiava con suo fratello c’era mai riuscita.

Già, quella sacerdotessa…

 

Era da lei che la stava portando. Perché Alessandra voleva tornare a casa sua. Nel suo mondo. Dovunque fosse. Avrebbe potuto dirle di arrangiarsi, e abbandonarla. Avrebbe potuto imporle di seguirlo, costringerla con la forza se lei si fosse ribellata. Invece, si era offerto di accompagnarla. Di scortarla. Pur di non vederla andar via subito.

 

No. È solo curiosità. Se non tornerà nel suo mondo, verrà con me. Lei mi appartiene

 

Ne era davvero sicuro? Avrebbe davvero potuto dire con sicurezza che quella ragazza era sua, come Rin? Con la bimba non ci aveva mai pensato. Rin lo aveva seguito da subito e non lo avrebbe mai lasciato se lui non l’avesse abbandonata. Rin ormai gli apparteneva. Perché se un youkai non uccide un essere umano, quello gli appartiene in eterno. Così gli era stato insegnato. In quello credeva. Solo in quello. Nelle regole che gli erano state inculcate: l’onore della stirpe al primo posto. Il desiderio di vendicare l’onta. L’importanza del potere.

 

Potere…Sesshomaru era stranamente consapevole di non avere potere sulla ragazza. Lei non gli si sottometteva. Non lo temeva. E lui ne era offeso e lusingato al contempo.

 

La guardò con la coda dell’occhio. In spalla il suo zaino, alla vita la spada che lui le aveva procurato e un corto pugnale. Aveva imparato a usare anche quello. Ed era diventata brava. Molto. Se avesse voluto, avrebbe potuto uccidere facilmente anche un demone debole. Ma Sesshomaru sapeva che non lo avrebbe mai fatto. Arrancava un po’ nella neve alta. Ma non gli chiedeva aiuto. Non lo aveva mai fatto.

 

Si fermò su una piccola altura, ad aspettarla. Non sarebbe stato prudente distanziarla troppo. Osservò il kimono blu. Largo. Nascondeva. Confondeva. E lui invece avrebbe voluto che lo legasse stretto in vita. Che le sagomasse bene il corpo. Come l’abito di quella sera. Perché voleva guardarla.

Il suo corpo. Lo aveva stretto a sé. Alessandra si era fatta abbracciare. Quella volta non lo aveva respinto. Lo aveva sentito contro il suo e il cuore accelerare a quella semplice vicinanza.

 

Risalì con gli occhi fino al viso e si soffermò sulle sue labbra. Rosse. Lucide. Per il freddo. Seducenti. Dannatamente invitanti. Gli sarebbe bastato un istante per chiuderle la bocca con la sua. Ma adesso non voleva più. O meglio, una parte di lui desiderava accarezzarla, sentire di nuovo il calore del suo corpo, assaporare finalmente il gusto della sua bocca; ma l’altra gli continuava a chiedere il perchè di quel desiderio.

 

Solo desiderio. Solo quello. Io non sono come mio padre. Come molti altri demoni. Io non avrò mai un’amante umana

 

Amanti umane. Erano state la rovine di molte stirpi. Molti figli di sangue puro si erano lasciati irretire da braccia snelle e soavi. Avevano compromesso sé stessi e la loro dinastia senza macchia. Molti erano stati uccisi. Con le donne che li avevano condotti al disonore. Morti. Come sue padre. Per difendere una misera donna umana e il frutto del suo errore.

 

Lui non avrebbe mai fatto lo stesso errore. Non si sarebbe mai unito ad una donna umana. Mai. Piuttosto la morte. Ma non avrebbe disonorato nuovamente il suo casato. Lo aveva giurato. Lo aveva gridato al vento la notte in cui suo padre era morto. Quando aveva sentito la sua aura esplodere nella battaglia e contorcersi negli ultimi spasimi. Niente amore. Niente pietà. Per nessuno. Youkai, hanyou o ningen che fosse. Solo vendetta. E rispetto. Per ripristinare l’onore.

 

Fissò Alessandra con maggior intensità. Assottigliando gli occhi. Un’amante…Era la sola cosa che avrebbe potuto essere. La sola cosa che era. Un corpo. Una condanna, per chi fosse caduto nella rete della sua seduzione. Indegno anche solo di restare a testa alta di fronte a lui. Alla purezza del suo sangue. Eppure, quella parola gli bruciava sulle labbra. Gli rivoltava. Avrebbe potuto associarla a qualsiasi femmina, ma gli riusciva estremamente faticoso anche solo pensarla e al tempo stesso guardare la ragazza. Gli sembrava di sporcarla, così facendo. Di insudiciare un candore e una fanciullezza che erano nascosti in fondo a quell’anima provata. Ma che lui aveva visto. Molto bene.

 

Tu non sarai mai la mia amante…

 

 

 

 

Odore conosciuto. Disprezzato. Rivoltante. Odore di mezzo-demone. Fetore di morte.

 

Sesshomaru si fermò di colpo al centro della radura, tendendo i sensi acuti. Ne era sicuro. Lui era là. Da qualche parte. E non il solito fantoccio. Lui in persona. Era uscito allo scoperto. Personalmente. Un sorriso gli storse le labbra. Un ghigno. Di soddisfazione. Una nuova prova della sua superiorità.

 

Lo avrebbe ucciso. Questa volta, non gli sarebbe sfuggito. E nessuno avrebbe interferito. Nessuno. Una vendetta da assaporare adagio. Godendo nel sentire la spada sprofondare nella carne. Nel vedere il sangue colare a macchiare la pelliccia bianca. Nel vedere la consapevolezza della fine negli occhi dell’avversario. Sarebbe morto. Perché nessuno deve sfidare il Principe delle Terre dell’Ovest. Nessuno deve osare sfidare lui. Sperare di poterlo usare.

Estrasse Tokijin con un gesto lento e minaccioso. Il sorriso si allargò di più. Stava per scattare in direzione dello youki, quando avvertì un fremito dietro di sé. Alessandra. Si era dimenticato di lei. Si girò e la vide pallida, anche se cercava di apparire controllata.

Lo aveva visto snudare la katana, e alla mente si era affacciata la sua figura bianca, sotto la luna, screziata di rosso. Sangue. Lui stava per combattere. Per uccidere. Lo aveva capito. Dalla sua espressione. Da quel sorriso che ghiacciava il sangue. Perché era di macabra soddisfazione. Alessandra aveva provato l’impulso di fuggire, di chiudere gli occhi per non vedere. Invece, era rimasta immobile. A fissarlo con gli occhi blu dilatati. Insicurezza. Di ricadere di nuovo negli incubi.

Per la prima volta in vita sua, Sesshomaru desiderò rinfoderare la sua arma e andarsene. Per la prima volta, la battaglia non lo attirava. Voleva solo cancellare quell’espressione dal viso della ragazza.

 

“Potente Sesshomaru”. Voce affettata. Melliflua. Voce falsa. Rivoltante.

 

Naraku”. Un ringhio di disprezzo represso. “Cosa vuoi?”

 

“Dovreste saperlo”. L’hanyou sorrise da sotto la maschera. “Voi. La vostra suprema forza demoniaca”.

 

“Desiderio patetico e irrealizzabile”. Questa volta fu il demone a sorridere, mostrando i canini appuntiti. Una minaccia. Evidente.

 

Naraku non vi badò. Era abituato alle risposte taglienti del suo avversario. In quel momento la sua attenzione fu rapita dalla figura che era seminascosta dalla persona di Sesshomaru. Una donna. Un’umana. Senza potere spirituale. Senza difese. Particolare. Per quei capelli rossi. Mai visti, se non nei demoni.

 

Un ottimo omaggio per il mio alleato

 

Sesshomaru si avvide di quello sguardo. E non gli piacque. Sentì un brivido percorrerlo. Timore. Ma non lo volle accettare. Senza staccare gli occhi da Naraku, disse ad Alessandra si allontanarsi. E poi scattò. Forse avrebbe visto del sangue. Forse avrebbe di nuovo assistito alla morte di qualcuno. Ma meglio quello, che il rischio che Naraku la prendesse. Meglio uno shock, che finire nelle luride mani di quel bastardo.

 

Il colpo si infranse. Un oni lo aveva intercettato. Senza sforzo. E adesso Naraku rideva divertito della sorpresa dipinta sul volto del demone.

 

“Sapete, questo mio servitore è diverso dagli altri. Vi ucciderà”

 

Sesshomaru si riprese in fretta, ma per quanto cercasse di avvicinarsi all’hanyou, quell’oni riusciva sempre a impedirglielo, e in più continuava a crescere. Senza controllo. Mentre lui, ad ogni assalto, era come se fosse privato di un po’ del suo youki.

 

Un grido lo fece voltare. Agitazione. Una voce di donna. Alessandra.

 

La vide. Fra le braccia di Naraku. Si divincolava. Mentre il demone la stringeva sempre più forte. La toccava. E lei non voleva essere toccata. Non in quel modo. Non da lui. Sesshomaru sentì la rabbia crescere, fluire vorticosa nelle vene. Annebbiargli la mente. Non doveva toccarla. Neanche avvicinarsi a quella ragazza.

 

Naraku percepì l’odore diverso nell’aria. Sollevò un po’ la testa per gustarsi la scena. Il Principe dei demoni geloso. Uno spettacolo che mai aveva immaginato di vedere. Il sorriso di sfida si allargò in un ghigno subdolo, mentre sollevava il viso di Alessandra e lo avvicinava al suo. Prima di ucciderlo, gli avrebbe fatto vedere la sua donna baciata da un altro.

 

L’youkai sentì le vene pulsargli fino al limite della sopportazione; scattò e nuovamente fu ricacciato indietro dall’oni. Non li vedeva più. Sentì solo un grido strozzato. Uno schiocco secco e assordante. Poi, null’altro. Lasciò che il furore invadesse ogni suo anfratto, fisico e cerebrale.

 

 

 

 

Pioggia.

Sentiva solo lo scroscio della pioggia. Un fischio continuo nella mente. Assordante. Doloroso. Alessandra aprì gli occhi con fatica. Sapore di terra in bocca, mischiato a neve. Sapore acre. Di sangue.

 

Bianco. Una luce accecante. Si riversava nella radura, assieme a quella pioggia gelida. Acqua. Lame sottili. Continue. Martellavano su tutto il corpo. S’insinuavano nelle pieghe degli abiti, fra i capelli. Scivolavano lente, strappando brividi continui. Bruciando. Come se fosse fuoco.

 

Facendo forza sulle braccia, riuscì a sollevarsi a sedere. Le pulsava tutta la parte sinistra del viso. Un dolore sordo. Continuo. Un formicolio fastidioso. Si sentiva esausta. Completamente svuotata di ogni forza.

 

Lo scroscio dell’acqua aumentava sempre di più. Copriva i suoi pensieri. Non ricordava quando aveva iniziato a piovere. Non ricordava come ci fosse finita, distesa a terra. Aveva tanta confusione in testa.

 

Alzò il viso al cielo e lasciò che la pioggia lavasse via le tracce del fango, il sangue incrostato. Che le alleviasse quel dolore sordo al volto. Ricordava…Piano, le immagini di quello che era accaduto si riaffacciavano alla sua mente…

 

Era apparso quell’uomo…un youkai…No; forse un hanyou…Aveva un nome che l’aveva fatta rabbrividire…Naraku…Sembrava conoscere il suo compagno di viaggio…

 

Ha detto che lo voleva…cosa significa?...

 

Si passò una mano fra i capelli bagnati. Non aveva importanza, in quel momento. Poi…poi l’youkai le aveva detto di allontanarsi, ed era scattato. Voleva combattere. E c’era un mostro. Gigantesco. E continuava a crescere.

 

Lei si era allontanata, ma solo per ritrovarsi fra le braccia di quell’uomo strano. Aveva gridato. Forte. Non le piaceva che la toccasse. Non voleva esserlo. Le sue mani…Erano diverse da quelle dell’youkai…erano viscide, scivolavano bramose sul suo corpo. Non era un tocco delicato, fresco. Le facevano ribrezzo. Aveva iniziato a dibattersi, a muoversi. Mettendoci tutta la sua forza. Ma l’hanyou l’aveva stretta ancora di più a sé. Poi, aveva alzato il viso. Lo aveva visto sorridere. Un sorriso che le aveva fatto gelare il sangue. A chi stava sorridendo? E perché in quel modo così subdolo? Non aveva avuto tempo di pensarci; si era sentita sollevare il viso con prepotenza e lo aveva visto chinarsi su di lei. Voleva baciarla. Voleva ciò che non aveva permesso neanche al demone che ora stava combattendo poco lontano.

 

Non voleva. No. Quello sarebbe stato il suo primo bacio. Strappato con la forza. Dato a un essere che la ripugnava. D’istinto, aveva afferrato il pugnale alla cintura e con un gesto brusco aveva spazzato l’aria davanti al suo volto. Ad occhi chiusi.

 

Un grido strozzato. Un’imprecazione. Aveva sentito la presa allentarsi e poi…Un dolore fortissimo al viso. Uno schiocco secco. Poi più nulla. Doveva essere svenuta.

 

Non sapeva neanche lei per quanto tempo. Minuti, ore…Non lo sapeva dire. Però, in quel momento, attorno a lei, c’era silenzio. Eppure, la radura era la stessa dell’agguato. Non era stata spostata. Quell’hanyou non l’aveva rapita. Probabilmente Sesshomaru l’aveva difesa.

 

Un brivido lungo tutto il corpo. Perché non l’aveva svegliata? Perché non era accanto a lei? Iniziò a guardarsi freneticamente attorno. Voleva trovarlo. Voleva che la smettesse di nascondersi e uscisse da quel maledetto bosco. Non era il momento, quello, di giocare.

 

Dove sei?...

 

Gli occhi le caddero su una enorme massa nera informe. Fumava. E nell’aria c’era un disgustoso odore di carne bruciata. Nausea. Represse il conato e distolse lo sguardo. Non era quello il momento adatto. Avrebbe potuto stare male dopo. In quel momento, doveva essere forte.

 

Lo vide. Un corpo bianco disteso per terra. Oltre quella carcassa carbonizzata. Immobile.

 

Sesshomaru

 

Un po’ strisciando un po’ camminando carponi riuscì a raggiungerlo. Era prono, nella neve fangosa chiazzata di sangue. E anche lui…la sua veste bianca era tinta di rosso. Quasi nera all’altezza di un fianco. Lo afferrò per le spalle e lo girò, poggiandolo a sé. Alessandra trattenne a stento un grido, mentre gli occhi le si riempirono di lacrime e orrore.

 

La corazza era completamente infranta e alcune schegge dovevano essergli penetrate nella carne, almeno a giudicare dai tenui aloni rossastri disseminati su tutto il suo corpo. Poi, c’era lo squarcio al fianco, la mano sanguinante e bruciacchiata.

 

Alessandra sentì le lacrime, calde, confondersi alla pioggia fredda quando riuscì finalmente a guardarlo di nuovo in volto. Il suo volto…la pelle diafana, quel viso di porcellana…Ora era una tragica maschera di sangue. Soprattutto attorno agli occhi. Sembravano essere loro a grondare sangue. A versare inconsapevoli lacrime rosse.

 

Sfigurato.

 

Il volto di Sesshomaru era completamente sfigurato. Quasi irriconoscibile. La pioggia continuava a cadere, appiccicandogli al volto i capelli. Confondendo l’argento con il cremisi. Alessandra gli scostò dal viso bagnato alcune ciocche incrostate di sangue. Mosse piano, ma Sesshomaru ebbe comunque un fremito.

 

Aveva sentito un tocco gentile. Una carezza delicata. Non una sensazione di pericolo. Solo di avvolgente tranquillità. Aprì gli occhi. Immagini sfuocate. Non riusciva a distinguere molto. Ma sapeva che la ragazza era accanto a lui. Lo sentiva. Dall’odore. Mescolato a quello del sangue. Del suo sangue.

 

Si concentrò, assottigliando impercettibilmente gli occhi. Finalmente, riuscì a delineare il suo viso. Anche se in modo incerto. Attraverso un velo scarlatto. Tutto aveva quel colore scarlatto. Tutto. Mosse le labbra. Piano. Con fatica mai provata.

 

Musashi

 

Alessandra si era piegata su di lui. Aveva visto i suoi occhi sforzarsi di mettere a fuoco ciò che lo circondava. Aveva visto le sue iridi d’ambra naufragare in un mare rosso. Perdere le loro sfumature d’oro. E aveva visto le sue labbra muoversi a comporre una parola muta.

 

“Non sforzarti…”

 

No…Non mi capisci? Sesshomaru scosse debolmente il capo. Era davvero esausto. Ma non poteva permettere che lei restasse lì. Non in quel momento. Lui non era in grado di proteggerla. Non era stato in grado di difenderla.

 

“…Mu…sa…shi…”

 

Stentato. Il nome del villaggio gli uscì con uno sforzo immenso. Ma doveva dirglielo, perché potesse raggiungerlo. Perché potesse tornare nel suo mondo. Glielo aveva promesso. La vide dilatare un po’ le iridi azzurre. Aveva capito. La stava cacciando. Le stava dicendo di andarsene e lasciarlo lì. Di abbandonarlo.

Alessandra scosse la testa. Non lo voleva abbandonare.

 

“Vai…al villaggio…”.

 

Più si sforzava di parlare, più riusciva ad articolare le parole. Riusciva a prendere fiato, anche se soffriva dolori lancinanti alle costole, al fianco, al viso. Soprattutto agli occhi. Ma la sensazione di malessere era di molto diminuita. L’adrenalina e la paura di non riuscire a farsi capire, ad allontanarla da lui prima che Naraku tornasse funzionavano come il migliore degli analgesici.

 

Alessandra continuava a scuotere la testa. Perché sempre e solo ordini? Perché anche in quel momento la sua voce doveva avere quel tono dannatamente freddo? Perchè?!

 

Sesshomaru riuscì con un enorme sforzo ad alzare la mano.

 

“Devi andare…”

 

Una carezza. Leggera. Per farle coraggio. Per scusarsi di aver dovuto di nuovo uccidere davanti ai suoi occhi. Si aspettava la delicatezza della sua pelle. Invece, avvertì qualcosa di duro. Di gonfio.

 

Rabbia. Aveva capito. Un rabbia ancora più forte della precedente lo invase. Qualcosa che gli restituiva una forza che subito però fuoriusciva col sangue. Era troppo debole. Non riusciva più a muoversi. Neanche a reagire a quella folle volontà di rivalsa.

 

Mosse piano le labbra. Un sibilo nella sua mente. Una promessa che giurò a se stesso perché la voce era solo un sospiro strozzato. Prima di sprofondare nell’incoscienza.

 

…Me la pagherà…Ti vendicherò…

 

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Capitolo 17
*** 17. BUIO ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!

 

Come promesso, ecco la seconda parte. Vi ha lasciato in sospeso, vero? Sesshomaru ferito, gravemente...sfigurato!!! Come andrà a finire?

 

Buona lettura!!!

Grazie infinite a tutti coloro che leggono e commentano!

 

 

 

CAPITOLO 17

BUIO

 

 

Sesshomaru rimase senza conoscenza per vari giorni.

Quando riuscì a riprendere un po’ coscienza del suo corpo, capì soltanto di trovarsi disteso. Forse in un letto. Forse ancora in quella maledetta radura. Sentiva che qualcuno si muoveva attorno a lui. Silenzioso. Discreto. Non capiva chi fosse. Forse un altro demone. Forse Naraku stesso che era tornato a dargli il colpo di grazia. Sconfitto. Questa volta lo sarebbe stato. Era totalmente inerme. A stento, riusciva a percepire il suo respiro. Il copro era completamente insensibile.

 

Chi sei?...

 

Non riusciva a capirlo. Non riusciva a distinguere gli odori. Tutto gli arrivava confuso ai sensi. Distorto. Aveva provato ad aprire gli occhi, ma non ci era riuscito. La stanchezza, la debolezza e poi…sentiva qualcosa sopra le palpebre. Qualcosa di fastidioso.

 

Vagamente, iniziò a rendersi conto che qualcuno lo stava curando. Forse un ningen, pensò. Solo loro possono ignorare il fatto che un youkai non ha bisogno di cure. Che il suo corpo si rigenerare nel giro di poche ore, al massimo nell’arco di pochi giorni. Sì. Doveva essere un umano. Forse una sacerdotessa. E non doveva essere passato molto tempo dallo scontro. Al massimo, mezza giornata. Non di più.

 

Nel delirio della febbre, gli sembrava di avvertire la presenza di qualcuno accanto a lui. Sensazioni. Percepiva solo frammenti di sensazioni. Neanche il dolore. Quello gli era pressoché sconosciuto. Acqua…Qualcuno gli bagnava le labbra riarse. Sapore amaro in bocca. Disgustoso. Avrebbe voluto allontanare quella scodella. Rifiutarsi di inghiottire. Ma non ce la faceva. Non ancora.

 

Oppure, sentiva una sensazione di fresco sul viso. Come se qualcuno lo accarezzasse. Una mano leggera s’insinuava nei suoi capelli. Glieli scostava dal viso. Gli sfiorava il volto. Non riusciva a sentirla, però, quella pelle. La percepiva come filtrata attraverso a qualcosa. Qualcosa di indefinito.

 

Aveva momenti di tranquillità quasi comatosa e momenti di agitazione febbrile, durante i quali percepiva la difficoltà del curatore di tenerlo fermo. Non riusciva calcolare il tempo. Gli sembravano trascorrere pochi secondi fra le sensazioni, ma non ne aveva la certezza.

 

Avrebbe voluto sapere dove si trovava. Chi lo stava curando. Forse era Jacken. Si doveva essere preoccupato del suo ritardo ed era tornato indietro. Scacciò subito quel pensiero. Il suo servitore sapeva bene che lui non aveva bisogno di cure. No. Era qualcun altro. Ma chi?

 

 

 

 

Cinque giorni.

Per cinque giorni Alessandra era rimasta al capezzale di Sesshomaru. Si era allontanata solo il tempo necessario a procurarsi erbe e acqua. Ma cercava di non lasciarlo mai solo. Mai.

 

Dopo che l’youkai le era svenuto fra le braccia, la ragazza se lo era caricato in spalla alla meno peggio e aveva iniziato a trascinarlo verso una grotta intravista in mattinata. Non potevano restare lì. La pioggia stava facendo scendere velocemente la temperatura corporea, e poi, quel maledetto hanyou avrebbe potuto tornare da un momento all’altro. No. Doveva portarlo al sicuro. E curarlo.

 

Aveva raggiunto la grotta, un piccolo anfratto naturale grande appena il necessario per ospitare loro due e un fuoco, ma ben riparato da un costone di roccia. Lì difficilmente qualcuno li avrebbe trovati.

 

Aveva disteso il demone sul suo futon, sopra a un vecchio letto di foglie. Era fradicio. I lunghi capelli argentati gocciolavano continuamente, confondendo l’acqua al sangue. Rivoli sottili che gli lavano il viso. Il kimono zuppo appiccicato al corpo. Maledizione! Se non fosse versato in quelle condizioni disperate, Alessandra avrebbe dovuto ammettere il fascino incredibile che emanava. Ma quel pensiero non la sfiorò nemmeno.

 

Curarlo. Era la sola cosa che riuscisse a elaborare la sua mente.

 

Alessandra lo aveva dapprima osservato attentamente, e poi aveva cercato di visitarlo, tentando di farlo parlare quando sembrava riprendere lucidità. Inutilmente. Sesshomaru era pallido, sotto il rosso del sangue rappreso, i suoi movimenti erano sconnessi e la sua respirazione irregolare. Passava continuamente da uno stato di irrequietezza al torpore.

 

Alessandra non lo aveva mai sentito lamentarsi per nulla. Né per il freddo né per null’altro. Adesso, invece, mugugnava per il bruciore procuratogli dalle ferite. Aveva la febbre, e continui brividi di freddo.

 

Accese un piccolo fuoco e iniziò a spogliarlo. Doveva liberarlo dagli abiti bagnati, per cerare di rialzare la temperatura corporea. Per riuscire a capacitarsi della gravità delle ferite. Sesshomaru non collaborò minimamente. Non si avvide neanche delle mani che scivolavano lungo il suo corpo, che lo liberavano della corazza ormai distrutta, della stola fradicia, del kimono gocciolante. Era come in coma. Articolava suoni sconnessi, quasi ringhi soffocati. Si agitava e si dimenava.

 

Alessandra non si lasciò impressionare. Finì di liberarlo degli abiti e lo avvolse nella coperta del futon. Per fortuna, lo zaino era impermeabile.

 

Alessandra era tesa in volto. Aveva paura. Per lui.

 

Aveva sentito dire da Jacken che i demoni, soprattutto quelli potenti, non avvertono il dolore, neanche quello più accecante. E che le loro ferite si rimarginano da sole. In poco tempo. Eppure, in quel momento, Sesshomaru stava soffrendo. Stava combattendo con qualcosa che sembrava volerlo distruggere.

 

Aveva attacchi d’ansia e inquietudine improvvisi e intensi, sudava e chiedeva continuamente acqua. Lui. Lui che non lo aveva neanche mai visto mangiare. Che più volte aveva rifiutato, quasi sdegnato, la borraccia che Rin gli porgeva. No. Non era normale. Qualcosa non andava.

 

Perché le ferite non si rimarginano? Almeno i graffi dovrebbero richiudersi in pochissimo tempo…Perché invece continua a sanguinare?...

 

Scosse la testa. Va bene. Se il suo corpo non reagiva, lo avrebbe fatto lei al suo posto. Non lo avrebbe lasciato morire. No. Mai. Non voleva che morisse. Recuperò un panno e dell’acqua e iniziò a tergergli le ferite. Movimenti lenti e precisi. Per non fargli male. Gesti che aveva appreso da piccola. Che aveva visto spesso compiere da sua madre e suo fratello. Che ripeteva meccanicamente.

 

Sua madre era medico, e Leone aveva studiato per diventarlo. E lei si divertiva a partecipare alle loro esercitazioni. Magari facendo l’infortunato. Le piaceva essere cosparsa di quel colore rosso vischioso e poi vederlo sparire dal suo corpo grazie alle “cure” del fratello.

 

Ora, quel gioco le tornava utile. Anche se non avrebbe mai immaginato la difficoltà che stava provando a evitare di fargli male. Di sfiorare appena la pelle lacerata.

 

Sesshomaru era piombato in uno stato di torpore irrequieto e lei, per confortarlo, gli sussurrava qualche frase. Gli asciugava l’abbondante sudore, lo faceva bere ogni volta che riusciva. Ogni tanto si voltava verso di lei, con gli occhi sbarrati. Due gemme d’ambra che naufragavano in un mare rosso. Non la vedeva. Il suo sguardo l’attraversava.

 

Gli bendò la ferita al fianco, gli tampono quelle più superficiali e fu anche costretta ad arroventare la punta del pugnale sul fuoco, per potergli estrarre i frammenti di corazza che gli erano penetrati nel corpo. Sospirò e si girò verso di lui. Doveva farlo. Altrimenti il metallo avrebbe fatto infezione. Gli sfiorò il viso sfigurato con una carezza.

 

Forse sentirai dolore…Scusami, ma non so come altro fare…

 

Alessandra esaminò la ferita per un attimo, poi incise la carne. Il copro del demone ebbe uno spasimo, ma lei riuscì ugualmente a tenerlo fermo. L’operazione non era difficile, ma era dolorosa. Sesshomaru aprì la bocca come per gridare, ma uscì solo un gorgoglio rauco, mentre la mano si contorceva artigliando le terra. Dolore. Sentiva qualcosa di sconosciuto. Di devastante. Quando Alessandra estrasse la scheggia, lui ebbe un ultimo gemito e svenne.

 

Per fortuna. Altrimenti la ragazza non sapeva se sarebbe riuscita a estrargli anche le altre, soprattutto avvertendo le continue contrazioni dei suoi muscoli. Lui non urlava, ma erano le sue azioni a farlo al suo posto.

 

Finì di bendarlo con strisce di stoffa strappate dai suoi abiti di ricambio, e uscì a gettare l’acqua ormai rossa. Aveva bisogno di respirare un attimo. Aveva toccato il suo corpo. Senza inibizioni. Senza imbarazzo. Lo aveva esplorato in ogni sua parte. E aveva desiderato che il demone la fermasse, le prendesse la mano e la stringesse a sé. Come quella sera.

 

Si passò della neve sul viso. La stanchezza iniziava a giocargli dei brutti scherzi. Sesshomaru era disteso moribondo alle sue spalle, e lei pensava a quella sera alla pozza. Stupidaggini! Era a lui che doveva pensare, come aveva fatto fino a quel momento. Raccolse della nuova neve nella bacinella e si apprestò a rientrare. Ora veniva la parte più difficile…

 

Il volto di Sesshomaru era completamente incrostato di sangue. Tanto che Alessandra non riusciva a capire se fosse solo sporco o se avesse anche ferite gravi. Bagnò un nuovo panno e iniziò a passarglielo sul viso, premendo dolcemente. Il sangue si scioglieva piano, colorando la stoffa. Più la ragazza procedeva nella sua medicazione, più sentiva le lacrime invaderle gli occhi. Non cercò neanche di fermarle quando le sentì scivolare sul suo viso. Voleva piangere. Altrimenti non avrebbe retto all’angoscia prodotta da quello che stava vedendo. Scoprendo.

 

Sotto il sangue, quel viso d’avorio era completamente rovinato. La pelle sembrava esser stata aggredita con rabbia. Aveva come dei piccoli morsi che gliela intaccavano, che gli deformavano i graffi rosati, la mezzaluna in fronte. Acido. Sembrava l’azione corrosiva di un acido. Micidiale.

 

Alessandra trattenne a stento un gemito d’orrore quando iniziò a togliere le ultime tracce di sangue rimaste. Attorno agli occhi. Le palpebre erano state intaccate poco, per fortuna, ma il bulbo oculare forse no. Perché Alessandra si accorse con orrore che era proprio dai suoi occhi che sgorgava ancora un po’ di sangue. Finì di pulirlo e gli applicò due piccoli tamponi sulle cavità oculari, per poi fasciargli quasi tutto il viso. Tralasciò solo la parte bassa, la bocca e il mento. Scampati miracolosamente.

 

Prima di applicare i tamponi, la ragazza aveva fissato quel volto ormai completamente irriconoscibile. Ma non ne aveva provato ribrezzo. Avrebbe voluto che lui aprisse i suoi occhi e la guardasse. Non le importava che sguardo avrebbe potuto rivolgerle. Voleva solo vedere l’ambra dei suoi occhi. Solo quello.

 

…Tu guarirai…Te lo prometto…

 

 

 

 

Passarono tre estenuanti giorni dalla medicazione.

 

Alessandra trascurava le sue esigenze personali come riposarsi o nutrirsi per dedicarsi solo a lui. Dormiva rannicchiata a terra, pronta a reagire ad ogni suo movimento, a farlo bere quando riusciva, a cambiargli le bende. Le ferite l’avevano preoccupata non poco, le zone di pelle erano secche e arrossate. Non erano ferite normali. Doveva esserci dell’altro. E l’unica cosa che poteva produrre un effetto simile, per quello che sapeva lei, era il veleno.

 

…Veleno…Ti hanno avvelenato…

 

Non sapeva che tipo di veleno fosse e neanche come fare per scoprirlo, ma doveva essere molto potente. Anche se Sesshomaru era incredibilmente forte e stava resistendo, Alessandra si era accorta che ormai aveva perso la sensibilità agli arti.

 

Era stata tentata di andare in un villaggio a chiedere aiuto, ma aveva scartato subito l’idea. Nessuno l’avrebbe fatta avvicinare. E se anche fosse successo, chi si sarebbe prestato ad aiutare un demone? No. Piuttosto, lo avrebbero ucciso. Si sarebbero fermati solo alle apparenze. Non sarebbe importato a nessuno che quel demone freddo e distaccato aveva anche un cuore, capace di battere. Solo congelato dal dolore.

 

Alessandra conosceva le erbe, e in un bosco non avrebbe avuto difficoltà a trovarne, ma non sarebbe stata in grado di preparare un antidoto. Non senza sapere esattamente cosa lo stava avvelenando. Però, aveva un’arma segreta. E per fortuna era riuscita a procurarsene a sufficienza intrufolandosi in un tempio vicino: aceto.

 

Doveva fargliene bere in grande quantità. Sarebbe stato un problema farglielo ingurgitare, ma doveva riuscirci. Ne andava della sua vita. Lo metteva a sedere, ma Sesshomaru faticava sempre a bere i bicchieri acidi. Il suo gusto sensibile gli faceva esplodere in bocca il sapore pungente. La prima volta, Alessandra non ne aveva tenuto conto e il demone era stato colto da conati di vomito che lo avevano indotto a rigurgitare.

 

In seguito, Alessandra lo aveva fatto adagiare puntellandogli però dietro la schiena la stola di pelliccia, facendogli assumere una posizione semisdraiata. Sesshomaru, con quello stratagemma, era rimasto calmo. E ingoiava anche con minor fatica gli altri infusi cui la ragazza aveva aggiunto un po’ di miele per attenuarne il sapore altrimenti troppo sgradevole. In più, alla sera gli frizionava e massaggiava il corpo con pezze di cotone imbevuto di un decotto che ne doveva mantenere viva la circolazione.

 

Sesshomaru non si era ripreso ancora, ma le cure sembravano almeno lenire le sue sofferenze.

 

 

 

 

Sesshomaru si svegliò completamente dopo circa una settimana.

In quel tempo, le sue percezioni erano state confuse e si riprese completamente solo quando avvertì qualcosa muoversi accanto a lui.

 

Alessandra si destò appena percepì il movimenti del demone e si accorse che era cosciente. Aveva imparato a interpretare ogni suo movimento in quei giorni trascorsi al suo fianco, mentre lui lottava fra la vita e la morte.

 

“Ben svegliato” disse gentilmente, avvicinandosi a lui per aiutarlo. Sesshomaru infatti cercava di sollevarsi a sedere, ma fitte di dolore gli strapparono un gemito. Sorpresa. Lui non aveva mai provato dolore. Non era da demoni provarlo. L’unica cosa simile al dolore era stato il senso di vuoto e abbandono avvertito quando suo padre aveva incontrato quella maledetta donna umana. Poi, mai più. In quel momento, tuttavia, si sentiva indolenzito in ogni parte del corpo.

 

Avvertì le mani di Alessandra afferrarlo con perizia e aiutarlo a sedersi. Sesshomaru non potè però vedere il leggero colorito che imporporò le guance di Alessandra. Si sentiva in imbarazza. In quei giorni, lo aveva toccato, accarezzato e medicato senza mai arrossire. Ma lui era incosciente. Ora, invece, le sembrava di percepire il suo sguardo. I suoi occhi che la fissavano. Anche se sapeva benissimo che in volto aveva una benda. Ma era il modo in cui piegava la testa, in cui teneva fermo il viso.

 

La sentì allontanarsi e armeggiare con qualcosa. Allora, si concentrò, cercando di riprendere pieno controllo del suo corpo. Era pieno di lividi e ferite di tutte le dimensioni sparsi un po’ dappertutto. Gli faceva male un fianco, e soprattutto il volto. Vi passò una mano. Lino. Bende. Attorno ai suoi occhi. Già…gli avevano gettato qualcosa, addosso…Qualcosa di fresco…Non ricordava…Era tutto così confuso…Anche il combattimento. Dopo che aveva sentito quello schiocco secco, che aveva visto Naraku piegarsi sulla ragazza con quel sorriso disgustoso, la sua mente non aveva più ragionato. Avrebbe ricordato, ne era sicuro; ma ci sarebbe voluto un po’ di tempo.

 

“Mangia qualcosa” lo esortò Alessandra avvicinandogli al viso una scodella fumante. L’youkai avvertì un profumo strano, gradevole, ma respinse il contenitore con la mano. Piano. Anche quel semplice gesto gli costava una grande fatica. Lui non mangiava cibo umano. Non gli si confaceva.

 

“Quanto sono stato privo di conoscenza, esattamente?”

 

Si aspettava una risposta sola: poche ore, al massimo un giorno. Come quando era stato “curato” da Rin. E poi, voleva togliersi quelle bende. A lui non servivano. Erano una cosa inutile. La ragazza si era affannata inutilmente. Sorrise dentro di sé. Chissà come doveva essersi sorpresa della capacità di rigenerazione del suo corpo.

 

“Una settimana”. Alessandra non aveva insistito nell’immediato. Aveva assecondato il suo rifiuto e risposto alla sua domanda. Ma non aveva intenzione di farlo digiunare. “Adesso mangia, per favore”.

 

…una settimana…Impossibile…

 

Sesshomaru aveva sussultato impercettibilmente. Mai nessuna ferita lo aveva costretto a letto così a lungo. Neanche il più debole degli hanyou impiega così tanto a rimettersi. Perché allora il suo corpo non aveva reagito come al solito? Che era accaduto per impedirlo?

 

Aprì la bocca per chiedere ancora. Per assicurarsi che non lo stesse prendendo in giro. Non riuscì a parlare. Alessandra ne aveva approfittato per avvicinargli la scodella e infilargliela in bocca appena gli aveva visto dischiudere le labbra. Il demone fu costretto ad inghiottire per non soffocare. La minestra era buona, ma dopo poco davvero il suo stomaco non riuscì ad accettare oltre alla metà della porzione. Alessandra non lo sforzò oltre e allontanò la ciotola. Sapeva che il suo stomaco doveva riabituarsi alla consistenza del cibo, dato che negli ultimi giorni aveva ingerito solo liquidi.

 

“Non…riprovarci…”. Lo aveva costretto a ingoiare cibo umano. A sentire qualcosa di strano. Forse quello che era il sapore. Lo aveva trattato come un bambino. E a lui non piaceva quel suo atteggiamento. Ma sapeva anche di essere ancora troppo spossato per riuscire a reagire come avrebbe voluto.

 

Sbuffò scocciato, rilassandosi sulla stola che fungeva da cuscino. Avvertì Alessandra avvicinarsi di nuovo e alzare le coperte. Non trattenne uno scarto improvviso quando percepì le mani della ragazza sul suo corpo. Un movimento brusco. Che lo fece contorcere.

 

“Stai fermo!”.

 

Si ritrovò le sue braccia attorno alle spalle. Le era pressoché caduto contro. Alla cieca, senza la possibilità di capire esattamente dove lei fosse, aveva solo reagito d’istinto per sottrarsi alle sue mani.

 

Fu investito dal suo profumo. Buono. Fresco e inebriante. L’odore della sua pelle. Quello della sera alla pozza. Sentì la mano della ragazza insinuarsi nei suoi capelli, carezzargli la testa in modo materno. E dannatamente sensuale.

 

“Stai fermo…Altrimenti le ferite si riaprono…” ripetè in tono più sommesso. Quello di prima era stato un grido allarmato; adesso era una voce lieve che gli sussurrava all’orecchio. Lo fece adagiare di nuovo e constatò con soddisfazione che quel movimento improvviso non aveva provocato nessun effetto indesiderato.

 

“Tutto a posto”

 

Lo ricoprì e si sedette accanto a lui. Era contenta: che si stesse riprendendo; che avesse ripreso conoscenza. Ma non sapeva neanche lei come spiegare quella sensazione. Dirgli che era contenta e che la felicità derivava dalla semplice presenza di lui, sarebbe stato difficile. Illuminato dal riverbero del fuoco, Sesshomaru le appariva più seducente che mai. Sembrava essersi assopito, ma lei sapeva benissimo che stava semplicemente pensando. Cercando di riordinare i ricordi confusi del duello e degli ultimi giorni. Forse, le sensazioni provate.

 

“Recupererai presto le forze”

 

Alessandra aveva attirato le ginocchia al petto e adesso stava osservando il fuoco. Era strano sentirla parlare così. Il bel demone finora l’aveva sentita perlopiù raccontare, ma comunque poco. Di solito, si nutrivano dei rispettivi silenzi. Dei loro sguardi. Invece, adesso, era lei ad aver iniziato una conversazione. Senza particolari argomenti. Dicendo un’ovvietà. Come se non riuscisse a sopportare il suo silenzio. Sesshomaru girò appena la testa verso di lei, sulle labbra un sorriso di commiserazione. Per la sua affermazione.

 

Che stupida! Una frase più banale non la potevo trovare!

 

Ma non le importò. Voleva parlare. E sentire anche la sua voce. Quando lo aveva visto riverso a terra, aveva creduto che fosse morto. E si era sentita morire anche lei. Aveva percepito benissimo un senso di vuoto e dolore invaderla; la disperazione che le attanagliava lo stomaco mentre lo medicava. Quelle ore trascorse accanto a lui, con lui in stato d’incoscienza…Sospeso fra la vita e la morte…Una tensione febbrile che la portava ad allarmarsi ad ogni suo movimento. A sperare che riprendesse conoscenza. Perché temeva terribilmente che non riaprisse più gli occhi. Di non riuscire ad aiutarlo.

 

“Penso che tu sia stato avvelenato…Hai dimostrato grande resistenza…Ora dovresti essere fuori pericolo…”

 

Banalità. Banalità. Per riempire il silenzio. Per non cedere al sollievo e alla tensione che si allentava. Per non scoppiare a piangere come una bambina. Le avrebbe fatto bene, invece. Ma era abituata a tenersi tutto dentro. E con l’youkai ancora così debole, era lei adesso che doveva mostrarsi forte. E, a parte la voglia di quel pianto liberatore, era davvero determinata. Come poche volte le era capitato. Si sentiva cambiare. Sempre di più. Ritrovare la sicurezza persa dopo quell’incidente.

 

Sesshomaru allargò un po’ il sorriso. Ricordava quello che era accaduto, anche se vagamente. Un colpo al fianco e poi altri in più parti del corpo. Anche al volto. Ma il veleno non lo aveva mai provato. Almeno, non un veleno così potente. Capace di paralizzare la sua forza di rigenerazione. Di prosciugarlo quasi del suo youki.

 

“E questo?...” chiese alzando faticosamente la mano e passandosela sulla fasciatura al viso.

 

“Una ferita alla testa. Sopra gli occhi” spiegò Alessandra. Ma dentro sentì il cuore stringersi perché aveva dovuto mentirgli. Non era ferito alla testa; era stato ferito agli occhi. Colpito da qualcosa simile all’acido. Da un corrosivo potente. Tanto che lo aveva sfigurato in un primo momento. Ora la pelle del viso si stava lentamente riformando, coprendo le cicatrici e ritornando perfetta e lunare. Ma non aveva la stessa sicurezza per gli occhi. Però non voleva allarmarlo. Allarmare se stessa. In fondo, di oculistica non aveva mai saputo niente.

 

“Perché non te ne sei andata?”

 

Sesshomaru respirò a pieni polmoni l’aria fredda che entrava nella grotta. Doveva essere notte. Non si sarebbe mai aspettato di risvegliarsi con lei al fianco. Che fosse suo, l’odore che avvertiva confuso nella semi incoscienza. Le aveva detto che doveva andare. Perché gli aveva disubbidito? Cosa l’aveva spinta a restare? Accanto a lui, a vedere sangue, il suo corpo martoriato? Perché anche se bendato, il demone sentiva su tutto il corpo la pelle nuova tirare, appena rimarginata. Molte ferite. Alcune superficiali, altre profonde.

 

“Ti sembrano domande da fare?”

 

Rammarico, rabbia, delusione…C’erano molte sfumature i quella risposta. E aveva un tono un po’ più alto del normale. Quasi un urlo strozzato. Di chi cerca di imporsi la calma. Bastava così poco per farla arrabbiare? No di certo. Non l’aveva mai sentita urlare. In nessuna occasione. Anche quando l’aveva minacciata. O quando combattevano. Perché allora in quel momento la sua calma era vacillata? Sapeva che sarebbe inutile insistere. Glissò l’argomento. Almeno per il momento.

 

Naraku?”

 

“Non si è più fatto vedere”. Buono a sapersi. Perché in quelle condizioni non avrebbe potuto fare molto per difenderla.

 

“Lo schiaffo?”. Alessandra si sorprese; non pensava che lo avesse notato, attraverso il sangue che gli velava gli occhi. Forse aveva sentito la guancia gonfia quando l’aveva accarezzata.

 

“Passato” rispose scrollando le spalle. “Certo che voi uomini date di quegli schiaffi…Ti prendono tutta la faccia e sembra che ti strappino la testa”

 

Sesshomaru sorrise dentro di sé. Era la prima volta che la sentiva scherzare. Anche se aveva un modo strano di sdrammatizzare le cose. Cerco d’istinto il suo viso, muovendo piano la mano nell’aria per non ferirla inavvertitamente con gli artigli. Lo trovò e lo fece voltare verso di lui. Avrebbe voluto vedere i suoi occhi. Sapere se erano azzurri come il cielo di primavera o blu come il mare in tempesta. Avrebbe voluto vedere le sue emozioni.

 

“Non tutti danno schiaffi…” le sussurrò accarezzandole la guancia col dorso della mano. Era normale. Non gli aveva mentito. Alessandra rimase rigida per un attimo, ma poi si abbandonò alla sua mano. Si lasciò sfiorare dai suoi artigli. Senza timore.

 

“Lui…ti ha…baciata?...”

 

Silenzio. Sentì la ragazza sussultare sotto la sua mano. Non si aspettava quella domanda. Non sapeva che lui lo aveva visto chinarsi su di lei. Ecco a chi sorrideva. A lui. Per fargli rabbia; per ingelosirlo.

 

…Sei geloso?...Di me?...

 

C’era esitazione nella sua voce. Paura, forse. Di sentire qualcosa che non voleva. Sesshomaru aveva la testa che gli pulsava forte. Assordandolo. Se non si fosse sbrigata a rispondergli, sarebbe diventato folle. Perché taceva? Allora era vero: l’aveva baciata. Lui. Quell’essere immondo. Quel disgustoso hanyou. L’aveva baciata. Aveva chiuso le sue labbra di velluto con le sue ributtanti. Aveva sentito il suo sapore. Aveva…

 

“…No…”

 

A Sesshomaru sembrò che il respiro si fosse fermato. Aveva detto no. Non l’aveva sfiorata. Quell’urlo soffocato. Doveva essere suo, non della ragazza. Nella testa, per alcuni minuti, quel monosillabo fu ripetuto all’infinito. Per convincersene. Che non le aveva rubato nulla. E ogni volta che lo sentiva il respiro si faceva più leggero. Stava riacquistando la sua sicurezza.

 

“Perché sei rimasta?”

 

Lei gli prese la mano fra le sue, rigirandola piano. Fissava i suoi artigli. La sua mano diafana, bianca. L’aveva vista grondare sangue; aveva pulito il sangue che la incrostava. Eppure, non le faceva paura. Come era riuscita a sopportare di nuovo la vista di un corpo martoriato.

 

In fondo, quella era un’altra realtà. C’erano regole diverse. Lui era diverso. Era un assassino. Lo diceva il suo nome. Ma non era malvagio. Uccideva, ma senza…senza cosa? Non lo sapeva neanche lei. Però, sapeva la risposta alla sua domanda. E gliela avrebbe data. Perché era inutile ormai per lei scappare. Non si sfugge a se stessi. E poi, non le piaceva mentire. Per quel giorno, la sua bugia necessaria l’aveva detta.

 

“Per te…”

 

 

 

 

Sesshomaru si svegliò improvvisamente. Si sentiva riposato, dopo il lungo sonno, anche se le membra erano pesanti. Attorno a lui solo buio. E il crepitare del fuoco. Non si era accorto di essersi addormentato. Non era abituato a farlo. Ricordò il discorso fatto con la ragazza, alcuni giorni prima. La sua risposta alla sua domanda.

 

…Per te…

 

Sorrise. Trasognato. Aveva provato l’impulso di baciarla. Aveva provato la certezza che questa volta non lo avrebbe respinto. Ma si era dominato. La voleva. Quello sì. Ma voleva poterla guardare, mentre l’attirava a sé, vedere l’espressione sul suo volto prima di chiudere gli occhi e scoprire il suo sapore.

 

Non l’aveva baciata. Si era limitato a stringerle una mano. Poi, doveva essere scivolato nel sonno. Quell’emozione, quel tuffo al cuore provato a quella risposta gli aveva rubato l’ultima forza residua. Mosse la mano nell’aria, come ad afferrare qualcosa. Non era lì. Lo poteva sentire anche dall’odore. Ma, per un attimo, sperò di scoprire di nuovo sotto le dita la sua pelle.

 

Si mosse un po’. Non sapeva da quanto tempo dormisse, se fosse giorno o notte. Però, si sorprese un po’ affamato. Cosa davvero inusuale per lui. Aspettò che arrivasse la ragazza, pazientemente. Voltava di quando in quando la testa verso l’apertura della grotta, da dove sentiva provenire una brezza fresca. Nessun rumore però. Nessun odore. Si passò una mano sul viso.

 

Devo togliere questa benda, mi da fastidio. Pizzica terribilmente

 

Si sollevò a sedere sul letto. A fatica. Era vestito solo con i pantaloni del kimono. Ma almeno indossava qualcosa, constatò con sollievo. Stranamente, l’idea di essere nudo lo metteva a disagio. Non si era mai vergognato del suo corpo. Non aveva nulla di cui vergognarsi. Ma l’idea che lei lo vedesse in quello stato, lo imbarazzava non poco. Alla pozza, era stato pronto a entrare in acqua, ma stranamente anche lì non aveva pensato a spogliarsi. Semplicemente, non si sentiva pronto a che lei lo vedesse così. Scosse la testa. Quei pensieri gli erano estranei. Da quando lui era così pudico? Non ricordava di esserlo mai stato. Decoroso, ma non moralista.

 

Portò la mano alla benda, iniziando a disfare lentamente la fasciatura. Alessandra si sarebbe arrabbiata, ma lui proprio non resisteva. E in fondo, non sarebbe successo nulla di irreparabile. A breve, la ragazza l’avrebbe sciolta personalmente per cambiarla. Anticipare di poco non avrebbe avuto nessuna conseguenza. E poi, finalmente, avrebbe potuto vedere dove si trovava. Quando veniva medicato, Alessandra gli impediva di aprire gli occhi. Sempre. Diceva che voleva evitare che quello che spalmava sulle ferite ormai cicatrizzate potesse reagire con gli occhi. Infettarli.

 

Sesshomaru sentiva il lino scivolare morbido fra le dita. Pregustava il piacere che avrebbe provato nell’affogare di nuovo nel blu degli occhi della ragazza. L’avrebbe baciata. Questa volta, lo avrebbe fatto. L’avrebbe afferrata e attirata a sé. Guardandola negli occhi fino all’ultimo. Fino a un soffio dalle sue labbra. Per godersi ogni sua emozione. Ogni istante.

 

L’ultimo giro di garza scivolò leggero.

 

Aprì gli occhi.

 

Alessandra lasciò cadere a terra la legna che aveva raccolto. Un suono assordante nel silenzio irreale della caverna.

 

…No…Perché non mi hai aspettata?...

 

Lo aveva visto. Seduto nel futon. Con la benda sulle ginocchia. L’aveva sciolta. Per un qualche motivo, non l’aveva aspettata. E aveva sciolto la fasciatura. E ora era immobile, con gli occhi fissi davanti a lui.

 

Buio. Non vedeva altro.

 

Sesshomaru artigliò la coperta del letto; percepì la stoffa lacerarsi sotto la sua stretta. Negli spasimi della sua mano.

 

Buio. Buio.

 

Ovunque, intorno a sé.

 

Alessandra non si mosse. Fissava le iridi vuote del demone. Ormai, lo aveva scoperto. E forse, era anche meglio così. Non avrebbe potuto mantenere ancora a lungo quel segreto.

 

“Tu…lo sapevi?”

 

Alessandra annuì. Ormai, non aveva più senso mentire.

 

“…Lo sospettavo…”.

 

Era vero. Certezze non ne aveva. Si era sempre rifiutata di analizzare le pupille dell’youkai. Per non veder naufragare anche l’ultima speranza. Per illudersi che quel liquido che gli aveva ustionato il volto gli avesse risparmiato la vista. Inutile. Inutile.

 

E lui lo aveva scoperto nel modo più doloroso. Aprendo gli occhi senza riuscire a percepire nulla. A distinguere nulla. Solo oscurità. Avvolgente. Soffocante.

 

Sesshomaru non replicò. Non ne aveva la forza. Tutto il suo mondo…gli era crollato addosso…Cieco…Lui era cieco…Non avrebbe più potuto vederla. Più perdersi nei suoi occhi. Vedere quel sorriso che tanto desiderava che fosse dipinto su quelle labbra. Più. Mai più.

 

Digrignò i denti. Scoprì i canini appuntiti. Rabbia. Frustrazione. Una furia folle e impotente. Sì. Era furioso. Con se stesso. Con il suo corpo. Con i suoi occhi. Lo avevano tradito.

 

Percepì delle braccia stringergli le spalle. Un abbraccio. Silenzioso. Una mano a carezzargli il viso. Alessandra gli si era avvicinata e lo aveva stretto a sé. Forte. Lo aveva circondato come se volesse proteggerlo. Come per allontanare da lui ogni male possibile. Lo aveva sfiorato con una carezza e ora appoggiava il viso alla sua testa, affondando nei suoi capelli serici. Affogando nel suo odore di muschio.

 

Sesshomaru capì il conforto che voleva dargli. Assottigliò le iridi opache e sovrappose la sua mano a quella di lei. Strinse forte. Aveva bisogno di quel contatto. In quel momento più che mai. Della vicinanza di qualcuno. Della sua vicinanza.

 

Si sentiva estremamente scoperto in quelle condizioni. Si sentiva…Non si sentiva più lui. Non era più sicuro di nulla in quel momento. Neanche di chi fosse.

 

Lo disse. Per la prima volta da quando la conosceva. Pronunciò il suo nome. Con una voce roca che non gli apparteneva. Come se cercasse disperatamente di fermare in gola le lacrime. La chiamò. Perché aveva bisogno di lei. Per la prima volta. Per la prima volta, aveva bisogno di qualcuno. Lui. Sesshomaru. Il principe dei demoni.

 

La chiamo come se la pregasse. Come se temesse che quella presenza svanisse. Si dissolvesse da sotto le sue mani. Perché di lei aveva bisogno, in quel momento più che mai.

 

Un sussurro che era un singhiozzo strozzato.

 

“Alessandra…”

 

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Capitolo 18
*** 18. RABBIA ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!

 

Per prima cosa: tanti auguri a tutti, anche se in ritardo!

 

Grazie per i commenti! Ho recepito il messaggio: Sesshomaru cieco non vi piace. Rassicuro tutti: NON è una condizione permanente!

 

Ma adesso bisogna andare a vanti. Cosa accadrà? Per un po' Sesshomaru e Alessandra non ci saranno, ma non disperate. Spero che la storia vi piaccia lo stesso.

Visto che siamo sotto le feste, e che non ho molto tempo, posto due capitoli, fatemi sapere.

 

Buona lettura!

 

 

 

CAPITOLO 18

RABBIA

 

 

Fatica.

Aveva faticato non poco a raggiungere il suo palazzo. Una spossatezza che poche volte aveva provato. Si era materializzato in una delle innumerevoli stanze buie. In una nube di miasma velenoso. Lo aveva respirato. A fondo. Per cercare di recuperare un po’ di forza. Come se fosse ossigeno. Il suo veleno…la sua vita

 

Chiuse gli occhi, digrignando i denti. Quel maledetto…C’era andato vicino, questa volta. Vicino a vincere. A ucciderlo. Lui: il mezzo-demone che vantava lo youki di un youkai puro. Lui. Naraku.

 

Sconfitto. E vincitore al tempo stesso. In uno scontro che non era andato secondo le previsioni. Che aveva avuto una piega del tutto inaspettata. Un atteggiamento strano, nel suo avversario. Non era morto. Non era riuscito a farlo uccidere. Ma almeno lo aveva ferito. Gravemente. L’oni era riuscito fargli entrare in circolo quel composto alchemico.

 

Sarebbe morto. Nel giro di poche ore. Non avrebbe avuto nessuna possibilità di salvezza. Il suo youki sarebbe stato prosciugato e il suo corpo non avrebbe avuto energia sufficiente per rimarginare le ferite. Morto soffrendo come un cane. Senza neanche la possibilità di capire esattamente cosa gli stesse succedendo.

 

Lo aveva perso. Non avrebbe potuto assorbirlo. Avere la sua forza. E in più, rischiava di veder compromessa anche la sua recente alleanza. Rilassò i muscoli. No. Non sarebbe successo nulla. Sesshomaru era stato ferito, certo; prima dall’oni e poi da lui. Il composto preso in pieno viso e poi lui era riuscito a trapassarlo a un fianco. Ma non sarebbe morto. Quello era un dato di fatto. Ci voleva altro per fermarlo. Forse, se il ritrovato fosse penetrato direttamente da una ferita, allora…Ma non era successo. E lui stesso non aveva avuto direttamente l’intenzione di ucciderlo. Gli serviva vivo. Per assorbirne la potenza.

 

Riuscì a mettersi seduto. Si guardò con compassione. Quasi tutto il suo corpo era andato distrutto nello scontro. E ora si stava lentamente riformando. A fatica. Perché il veleno di Sesshomaru era potente. Letale. Se non avesse ricevuto i colpi dopo che l’youkai era stato colpito dal suo oni, probabilmente, a quest’ora, sarebbe lui a rantolare gli ultimi respiri.

 

Non lo aveva mai visto così. Nella sua vera forma. Si era trasformato. Per un attimo, lo aveva perso di vista, poi…un enorme cane bianco rabbioso lo aveva assalito. Con follia. Senza neanche cercare di mettere in pratica una strategia. Lasciandosi guidare dall’istinto. Meglio, dall’irrazionalità. Era irriconoscibile. Grondava sangue in tutto il corpo, il volto doveva bruciargli terribilmente eppure continuava incurante ad attaccarlo.

 

Era stato costretto a mutarsi anche lui. Ad assumere la sua forma animale. Per non soccombere. E aveva lottato per sopravvivere. Per la prima volta, la sicurezza di riuscire a fuggire era inesistente. Aveva avuto paura. Di quel mostro bianco che gli si avventava contro strappandogli la carne, incurante del suo miasma.

 

Alla fine, era riuscito a trapassarlo ad un fianco. Lo aveva costretto a indietreggiare. E lui era potuto andarsene. Fuggire. Per non cadere all’assalto successivo.

 

E tutto per quell’umana…

 

Naraku sorrise, subdolo. Si portò una mano al viso, sfiorando il sangue che colava dal taglio sottile sulla guancia. Lo aveva ferito. Di striscio; nulla di preoccupante. Ma aveva osato alzare il pugnale su di lui. Mentre stava per baciarla. Aveva strozzato un grido. Di sorpresa, più che di dolore. E l’aveva colpita. Uno schiocco secco. Era caduta a terra, perdendo i sensi.

 

Poi, si era ritrovato davanti Sesshomaru ed era stato costretto ad andarsene lasciando lì la sua preda. Il suo omaggio.

 

Quella ragazza…Una pedina preziosa, almeno in apparenza. Era riuscita ad avvicinare il demone, e avrebbe potuto usarla suo piacimento se l’avesse avuta nelle sue mani. Una perfetta arma di ricatto. Per ferire la superiorità di Sesshomaru. Per farlo strisciare nella polvere. Lui. Il demone puro.

 

Il sorriso si allargò in un ghigno. Lo avrebbe fatto soffrire. Come aveva fatto soffrire suo fratello. Non c’era differenza fra loro. Si sarebbero contorti dal dolore. Ma questa volta non sarebbe stato lui ad agire.

 

Allungò la mano verso la schiena del ragazzo che gli era inginocchiato davanti. Occhi spenti e vuoti. Un involucro che combatte contro qualcosa che non conosce. Che si dispera per la volontà di ribellarsi e il desiderio di soggiacere. Che desidera ricordare e non vuole sapere.

 

Un luccichio sommesso, e il ragazzo si accasciò senza un gemito. Morto.

 

Naraku avvicinò il frammento alla sfera e ve lo congiunse, sprigionando una luce accecante. Stava imparando. Iniziava a capire come usare quel prezioso oggetto, anche se incompleto.

 

Ancora per poco

 

Il suo corpo si rigenerò totalmente, e nuova forza e vigore scorrevano nelle sue vene. Era tornato potente. Molto potente. E pericoloso.

 

Poco dopo, un respiro. Nell’aria immobile.

Il ragazzo si svegliò. E fissò assente gli occhi rossi del suo signore. Non aveva esitato a togliergli la vita e a ridargliela. Non era nulla. Solo un oggetto. Da usare, buttare e riprendere secondo le necessità. Solo un oggetto. Senz’anima e senza cuore.

 

Kohaku…Conduci l’esercito al castello ad Est. Vi raggiungerò a breve… È ora di far smuovere le cose…”

 

 

 

 

Kagura entrò svogliatamente nella stanza buia.

Tutto in quel castello sembrava immobile. Sapeva di morte. Di stantio.

 

L’aveva chiamata. Il suo signore. Pensare a lui le faceva disgusto. Era nata da Naraku, ma non gli era fedele. Lei era il vento, e non sopportava di essere rinchiusa. Di essere costretta a comando. Non lo aveva mai sopportato.

 

Ma, ora, forse sarebbe riuscita a liberarsi di lui. Quel nuovo alleato…Shin, le sembrava si chiamasse…Lo avrebbe avuto. Sarebbe riuscita a piegarlo. A farlo suo. E l’avrebbe liberata.

 

Sospirò chiudendo gli occhi rossi. Quanto odiava i suoi occhi. Lo stesso colore. Quel colore che vedeva sempre uguale nel suo schiavista. Odio. Odio.

 

Aveva già provato a ribellarsi. E aveva fallito. Ma non per colpa sua. Ma di lui. Di quel demone dannatamente orgoglioso.

 

Sesshomaru Lo desiderava. Perché aveva la possibilità di liberarla. Perché era potente e fiero. Perché era libero. Un figlio della notte. Come lei. Due lati oscuri che dovevano cercarsi. Dovevano. Se lei fosse stata libera, lui non avrebbe potuto respingerla. Non avrebbe più provato ribrezzo per lei.

 

Un trofeo. Magnifico. Importante. Il primo, dopo la sua liberazione. Avrebbe piegato l’acciaio dei suoi occhi. Lo avrebbe reso folle per lei. Succube. Lo avrebbe fatto. Con la sua bellezza e il suo fascino. Lo avrebbe umiliato per non averla voluta aiutare.

 

Dove sarà Naraku?

 

Spaziò con lo sguardo per la stanza vuota. Solo uno specchio. Quello di Kanna. Strano. La sorella non se ne separava mai. Era la sua arma. Di difesa e offesa. Chiuse il ventaglio con un gesto elegante e afferrò l’oggetto.

 

Nulla. Dapprima, la superficie restituì solo la sua immagine. La sua bellezza fiera e altera. Poi, il nero si increspò. Acqua. Immagini sbiadite, all’iniziò. Ma sempre più nitide. Kagura le fissò inizialmente con sufficienza, senza coglierne il significato, ma più le immagini aumentavano più lei sentiva crescere dentro la rabbia. L’odio. Il disprezzo.

 

Scaraventò lo specchiò a terra. Mille schegge di vetro restituirono un viso trasfigurato. Irriconoscibile. Umiliata. L’aveva umiliata. Ma si sarebbe vendicata. Aprì la finestra e sparì, silenziosa come il vento.

 

Naraku uscì allora dal suo nascondiglio. Compiaciuto.

 

Da dietro il paravento, aveva spiato ogni cambiamento della yasha. Aveva visto il suo viso impassibile contorcersi, digrignare i denti, abbandonare la solita compostezza per trasformarsi in una maschera furiosa. Un’espressione allucinata, quasi pazza. L’aveva vista tremare. Brividi percorrerle tutto il corpo. Assottigliare gli occhi sempre più ipnotizzati da quella danza onirica.

 

Sapeva cosa aveva visto. E sapeva che ormai non l’avrebbe delusa. Avrebbe fatto il suo gioco. Senza saperlo. Altrimenti, non si sarebbe espressa al meglio di sé. Per questo era ricorso a quello stratagemma.

 

Perfettamente riuscito.

 

 

 

 

Correva. Il cuore in gola. Incredulo.

Non gli sembrava possibile che fosse la verità. Doveva esserci uno sbaglio. Doveva! Perché non riusciva a capacitarsi di quello che aveva letto.

 

Koji irruppe nella sala delle guardie. Il viso stravolto. Sudato. Tutto si congelò per un istante, mentre i suoi occhi azzurri frugavano in ogni angolo dell’immensa sala. Dov’era? Dove diavolo si era andato a cacciare?

 

Agguantò il primo soldato che gli fu vicino e lo avvicinò pericolosamente al suo viso. Era furioso. Non sembrava neanche più lui. Il volto era completamente distorto.

 

“Dov’è il comandante?”. Voce roca. Gutturale. Per lo sforzo e la difficoltà di controllarsi. Il soldato, spaventato, non ce la fece a rispondergli. Riuscì solo a indicargli con la mano tremante una scala. Koji lo lasciò cadere con mala grazia e si precipitò al piano superiore. Sentì qualcuno gridargli qualcosa relativo a disturbo o simili, ma non se ne curò. Non era quello il momento di andare tanto per il sottile.

 

Entrò senza neanche bussare. Nella stanza c’era solo un braciere a illuminare l’ambiente. E un futon. Dalla confusione delle coperte, emerse la testa di una donna che rise non appena vide Koji.

 

“Penso che cerchino te, Yashi”.

 

Il giovane si mise a sedere, stiracchiandosi. Era pronto a farla pagare a chi lo aveva importunato, quando vide il volto del fratello. Irriconoscibile.

 

“Vattene, donna”.

 

L’youkai si era fatto scuro in volto. La ragazza si vestì e uscì scambiando un’occhiata truce con Koji, ma lui non la vide neanche. Era addolorato, dispiaciuto, sdegnato. Come poteva, suo fratello, pensare alle donne in un momento come quello? Quando loro stessi erano minacciati? Usurpati?

 

“Cos’è successo?”. La voce di Yashi lo riscosse. Si stava rivestendo, ravvivando la lunga chioma bionda. Possibile che loro fossero fratelli? Avevano così poco in comune, certe volte. Lo fissò negli occhi. Occhi viola. Velluto scuro. Profondo. Come quelli di Shin. Come quelli della loro madre.

 

Non rispose alla domanda. Gli porse solo il dispaccio che aveva in mano. Non aveva più neanche la forza di parlare. Voleva che lo leggesse e poi gli battesse una mano sulla spalla, dicendogli che era tutto normale, che lui si era sbagliato. Che aveva sognato.

 

Yashi afferrò il foglio con mani nervose. Il silenzio cupo del fratello lo metteva in agitazione. Lesse avidamente le poche righe. E sbiancò. Lesse un’altra volta. Una seconda. E una terza. Come se le parole potessero cambiare da sotto i suoi occhi.

 

Infine, sollevò uno sguardo allibito su Koji.

 

“Se è uno scherzo, non mi piace per niente”

 

Koji sospirò, scuotendo la testa. Magari fosse stato uno scherzo. Invece, era la realtà. Lo stemma impresso sulla ceralacca non lasciava adito a dubbi.

 

 

 

 

Shin non si mosse. Continuò a fissare la luna piena anche quando li sentì irrompere nella sua stanza. Dovevano aver saputo. E non erano contenti, almeno giudicare dal silenzio carico di tensione.

 

Alla fine, decise di voltarsi. Erano di fronte a lui. Vestiti delle loro armature. Fieri. E arrabbiati. Dannatamente inferociti. Se era loro abitudine perdere la pazienza facilmente, la rabbia che leggeva nei loro occhi era diversa. Era un fuoco sordo che bruciava.

 

“Dimmi che non è vero”

 

Shin scosse la testa. Purtroppo era vero. Verissimo. E bruciava anche a lui. Terribilmente.

 

“Io lo uccido”. Un ringhiò, che fece allarmare Shin. Perché sapeva che Yashi era capace di farlo. Di mettere subito in pratica quella minaccia. Senza pensare alle conseguenze. Solo per vendetta.

 

“Vedi di calmarti”.

 

“Calmarmi?! Dovrei calmarmi e starmene a guardare mentre un dannato bastardo occupa un posto che non gli spetta? Il tuo posto?!

 

Shin sospirò, passandosi una mano sugli occhi. Suo fratello aveva ragione. Quel posto spettava a lui. Come erede. E invece, suo padre gli aveva preferito il suo nuovo alleato. Quell’essere rivoltante. Naraku.

 

Ancora non riusciva crederci. Aveva letto il dispaccio decine di volte prima di sprofondare nei cuscini. Lo aveva atteso a lungo, e adesso avrebbe voluto che non fosse mai arrivato. Erano le nomine dei capitani e dei generali. Un solo generale supremo. Suo padre. Poi, quattro capitani. Due sarebbero stati i suoi fratelli, come sempre. Gli altri, membri scelti della guardia stretta. E poi, quella carica…quella più ambita e invidiata. Quella di luogotenente del generale. La carica che avrebbe dovuto essere sua. Come era sempre stato. E che invece ricopriva lui. Naraku.

 

E l’erede doveva piegarsi a essere un semplice comandante. A soggiacere a quel lurido hanyou. Un’offesa. Imperdonabile.

 

“Nostro padre ha deciso così”. Voce spenta. Disillusa. Non aveva più neanche la forza di ribellarsi.

 

“Col cavolo! Me ne infischio di ciò che può aver deciso! Io non accetto ordini da qualcuno che non sia tu! Mi hai sentito?! O mi guidi tu in battaglia, o io diserto! E non tirar fuori il discorso sull’onore, la giustizia delle scelte, le strategie…Non attacca! Ha esagerato!”

 

Shin era allibito. Il loro patto era così forte che loro avrebbe sfidato il padre? Davvero erano pronti a questo? Per lui? Guardò Koji. Lo sguardo azzurro era duro e risoluto come l’acciaio. La pensava allo stesso modo.

 

ShinYashi ha ragione. O con te al comando, o non ci sarà nessuna guerra. Basta una tua parola. E noi solleveremo l’esercito e ti insedieremo sul trono. La punta è con noi. Con te. Lo è sempre stata. Il tuo battaglio non ti abbandonerà mai. E se anche fossimo soli, siamo in un centinaio, e ti siamo fedeli. Lo sai”

 

“Altro che centinaio! Fossimo anche noi tre soli, quell’odioso bastardo non avrà mai il tuo posto! Piuttosto…piuttosto…” non riuscì neanche a terminare la frase, tanta era la rabbia e la frustrazione.

 

Shin li guardò. Li fissò. Lesse nei loro occhi una determinazione folle. Per lui, sarebbero scesi all’inferno. Sarebbero andati contro loro padre. Contro il loro stesso sangue.

 

Non posso chiedervelo…

 

L’youkai raddrizzò la spalle. Era maestoso, incuteva timore. Giovane, ma sul viso una durezza antica. Di una promessa fatta col sangue.

 

“Io ho accettato. E voi farete altrettanto. Questo è ciò che vi ordino”

 

Si fissarono. Non si capirono. Per la prima volta. Qualcosa fra loro si era incrinato. Qualcosa che solo Shin sapeva. Conosceva. Un dolore nuovo per evitare loro la sua stessa sorte. La sua infelicità.

 

Li vide chinare la testa e andarsene senza aggiungere nulla. Lo disprezzavano. Lo credevano un debole. Uno che si era arreso. In realtà, la sua battaglia iniziava in quel momento. E doveva intraprenderla da solo. Anche a costo di rinnegare se stesso, la sua dignità.

 

Si lasciò investire dal vento gelido e dall’oscurità che calò improvvisa nella stanza. Ora era solo. Per davvero. Portava il peso dell’eredità cui la sua primogenitura lo chiamava.

 

Perdonatemi…Un giorno capirete…

 

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Capitolo 19
*** 19. EMOZIONI ***


CAPITOLO 19

CAPITOLO 19

EMOZIONI

 

 

Un rumore secco. Furioso.

La porta di casa Higurashi era stata chiusa con forza. Con rabbia. Kagome vi si appoggiò contro un attimo per domare la tensione. Inutile. Ogni fibra del suo essere la mostrava. Mista a un’allibita delusione.

 

Non riusciva a crederci. Come potevano esistere persone simili? Come?

 

Riprese lo scatolone che aveva poggiato a terra e si diresse verso la sua stanza. Voleva restare sola. Per riprendersi. Per sfogarsi. Senza degnare di uno sguardo il fratellino e il nonno, si chiuse in camera sua.

 

In piedi. Immobile. Tremava. Rabbia. Rabbia. Non riusciva a pensare ad altro. Ricordava la voglia che aveva avuto di prenderlo a schiaffi. Di urlargli in faccia tutto il suo disprezzo. A lui. A loro. Appoggiò con cura lo scatolone e si buttò sul letto. Esausta. Psicologicamente distrutta.

 

Tuffò la testa nel cuscino e lo morse per non urlare. Sentiva qualcosa pungerle gli occhi. Ma non avrebbe pianto. Non lo avrebbe fatto. Sarebbe stata forte, anche se ancora non riusciva a capacitarsene.

 

Cinico. Quel suo mondo tanto vagheggiato e descritto come luogo meraviglioso era cinico. Sporco. Più di quanto lei stessa credesse. Sapesse. Egoista; approfittatore; falso. Rivoltante. Le metteva la nausea. Perché non voleva crederci.

 

Recuperò dalla cartella una fotografia. In bianco e nero. Un primo piano. Un volto triste, con un’espressione lontana. Una fotografia rubata, perché il soggetto non guardava l’obiettivo. Una ragazza.

 

Era la prima volta che la vedeva, benché per due mesi avessero vissuto nella stessa scuola. Ma lei era più grande, e con dentro un dolore che ancora Kagome non conosceva bene. Era tornata nella sua epoca un po’ per recuperare la scuola, da cui era assente da quasi due mesi, un po’ per riordinare le idee.

 

Ne aveva bisogno. Dopo quel giorno, restare accanto a Inuyasha le metteva una tensione infinita. Ne aveva paura. Ma in modo strano. Una paura razionale e al contempo istintiva, ma che invece che spingerla ad allontanarlo, la buttava fra le sue braccia. La spronava a cercare il suo contatto, la sua vicinanza. Quante volte si era svegliata nel cuore della notte, preda di incubi orribili. E lo aveva visto. Sveglio. Accanto al fuoco o al suo sacco a pelo. Assente. Anche lui non si era del tutto ripreso. Anche lui aveva paura. Di se stesso. Anche se si fingeva il solito. Sbruffone e arrogante. Ma dentro, qualcosa si era rotto. Spezzato. E Kagome non sapeva se sarebbero mai riusciti a riformarlo. Sapeva che questa volta forse il suo aiuto non sarebbe bastato.

 

Quando era partita, nessuno si era opposto. Aveva detto che sarebbe stata via alcuni giorni. Ancora approvazione. Si era sentita spaesata. Voleva che l’hanyou si lamentasse come al solito; invece, si limitava a fissarla, come se fosse sollevato che si allontanasse. Prima che saltasse, però, l’aveva attirata a sé e baciata. Un contatto gentile, delicato. Come se avesse paura di romperla. Appena uno sfiorarsi di labbra. Le aveva accarezzato il viso e le aveva detto tre parole.

 

“Cerca di riposare…”

 

Per lei. Era preoccupato per lei. E glielo aveva fatto capire perfettamente.

 

E ora, quella realtà contro cui era andata a sbattere. Brutta. Troppo, per essere vera. Che l’aveva fatta arrabbiare come davvero solo poche cose hanno il potere di fare.

 

A scuola, aveva chiesto se c’erano notizie di quella ragazza scomparsa sul monte Fuji. Chissà perché, le era rimasta in mente per tutto quel tempo. Forse, involontariamente, aveva iniziato un confronto fra loro. In effetti, le riusciva strano credere che non avesse neanche un amico. Con qualcuno, almeno una volta, doveva aver parlato. E poi, cos’era quel segreto che la rendeva così silenziosa e schiva?

 

Le sue amiche non avevano saputo darle risposte. Le ricerche proseguivano ancora. Era sparita. Volatilizzata nel nulla. Così, su loro consiglio, si era recata nella classe che frequentava. Una classe superiore. Non aveva ben capito come mai si trovasse nella sua scuola; era molto più grande, eppure ancora frequentava un istituto superiore. Ma non le importava nell’immediato. Voleva avere notizie su di lei. Cocciutamente. Senza una ragione precisa.

 

Ma quello che aveva sentito non le era piaciuto. I compagni di quella ragazza si erano pressoché dimenticati di lei. Era sparita da appena due mesi, e già faticavano a ricordare il suo viso. Gliela avevano descritta come una ragazza strana, piena di sé. Se ne stava sempre in disparte perché “non voleva confondersi con la marmaglia; in fondo lei era più grande…Frequentava già l’università…”. Era arrogante, asociale e godeva della protezione degli insegnanti. Un’egocentrica raccomandata, insomma. Una persona detestabile.

 

Kagome non aveva saputo cosa ribattere. In fondo, lei non la conosceva di persona. Anzi, non l’aveva neanche mai vista. Non avrebbe mai potuto darne un giudizio senza conoscerla. Neanche un giudizio superficiale.

 

Una domanda nella testa. Se era davvero così, allora perché l’avevano invitata con loro a pattinare? Forse, volevano cercare di stringere un rapporto. La risata alla sua perplessità la sorprese e la risposta la fece rabbrividire di sdegno.

 

“Perché l’abbiamo portata con noi?! Girava voce che fosse bravissima a pattinare. Una specie di campionessa mancata. Volevamo constatarlo di persona. Nulla di più. Le abbiamo fatto un po’ di moine per convincerla, e alla fine ha accettato. Al lago ci aspettava una nostra amica. È campionessa regionale. L’avrebbe surclassata. Una bella lezione per quell’arrogante, non trovi?”

 

Se ne era andata per non prenderlo a pugni. Se anche quella ragazza fosse stata così antipatica, non le sembrava un buon motivo per prendersi gioco di lei. Anche Inuyasha era scontroso a volte, ma era un modo che aveva di difendersi. Perché aveva sofferto tanto. Forse era così anche per quella ragazza.

 

Kagome sospirò. Avrebbe davvero voluto saperne di più. E la tentazione di aprire lo scatolone che le era stato consegnato in portineria era grande. Conteneva gli effetti della ragazza. Forse qualcosa che le avrebbe permesso di capire l’origine della sua arroganza.

 

Sempre se è vera…

 

Attirò a sé la scatola, tamburellandovi sopra per un po’ le dita. Indecisa. Ma aveva il diritto di curiosare fra le cose di una persona che non conosceva neanche? E se poi si fosse arrabbiata? Scosse la testa e strappò il nastro.

 

Non faccio nulla di male…Solo una sbirciatina…Almeno, per sapere il suo nome…

 

 

 

 

Depose a terra la tazza di thè e si rilassò contro il letto.

Il nome non lo aveva trovato. Ma qualcosa in più la sapeva. Anche se non aveva letto il quadernetto che aveva trovato. E non aveva intenzione di farlo. Lì dovevano esserci racchiusi i pensieri di quella ragazza. E lei non aveva il diritto di leggerli.

 

Invece, fra le varie cose, l’aveva incuriosita una scatola di latta. C’erano dentro delle fotografie e alcuni ritagli di giornale. Ma nessuna di lei. Perlopiù, erano immagini di due persone adulte.

 

Forse, sono i suoi genitori…

 

Poi, c’erano alcune foto di un ragazzo. Molto bello. Alto, fisico atletico, occhi azzurri, capelli biondi e sorriso innocente, ma maturo. Indossava come un’uniforme. Forse era ad una cerimonia. Sul retro, solo un nome e una data sbiadita.

 

Leone…19…

 

Aveva riposto tutto, quando lo sguardo le era caduto su una pagina ingiallita dal tempo. Il foglio di un quotidiano. La data era di due anni prima. Quasi tre, ormai. Kagome non era riuscita a capire molto. Non era in giapponese e lei non conosceva altre lingue se non l’inglese. Però, c’erano le immagini delle stesse persone delle fotografie e l’istantanea di quella che doveva essere una macchina. Capì solo il titolo. Anzi, una parola del titolo.

 

Morti…

 

 

 

 

Sota rincorreva spensierato il pallone.

Gli piaceva giocare all’aria aperta, anche se c’era la neve e faceva freddo. E, soprattutto, gli piaceva avere un compagno di giochi. Anche se era un po’ strano. Non aveva ancora mostrato segni d’impazienza. Sembrava cambiato.

 

Kagome arrivò a casa a tardo pomeriggio. Erano ormai quattro giorni che era tornata nel presente, e aveva ripreso la sua vita normale. Ancora per un po’, si diceva, voleva restare lì. Per riprendere contatto con la normalità e poi poter tornare più serena nel passato.

 

Le sembrava strano che Inuyasha non si fosse ancora presentato a casa sua per riportarla indietro. Davvero inusuale. Ma glielo avevano fatto promettere. Sarebbe stata Kagome a decidere quando tornare. Fosse passato anche un mese. E l’hanyou aveva accettato. Un po’ intristito. Non poterla vedere, sarebbe stato un supplizio.

 

Sota la raggiunse sul pianerottolo, mentre saliva in camera sua. Iniziò il riassunto della sue giornata: scuola, giardinetti, giochi, compiti…La normalità. Kagome annuiva ogni tanto, ma in realtà non lo ascoltava.

 

“Ah, sorellina guarda che…”

 

Non terminò la frase che Kagome entrò in camera sua e si trovò di fronte Inuyasha. Cosa ci faceva lì? Era forse successo qualcosa nel passato? Kagome iniziò ad agitarsi, ma il ragazzo la tranquillizzò. Nulla. Nell’epoca Sengoku era tutto tranquillo. La ragazza fece un respiro profondo. Per un attimo aveva temuto il peggio.

 

Poi, però, si ricordò della promessa che aveva rotto. E si arrabbiò. Era felice di vederlo, ma non sopportava che la controllasse, che scandisse i ritmi della sua vita, che decidesse per lei quanto e quando andare o restare.

 

Glielo urlò contro. Con rabbia. E delusione. Sota si spaventò. Non l’aveva mai vista così. Era furiosa. Quasi isterica. Urlava. Urlava e basta. Non gli permetteva neanche di aprir bocca per difendersi. Di muovere un muscolo. Il bambino si appiattì contro la porta. Aveva un po’ di paura. E gli sembrava strano che il “fratellone” non reagisse. Restava immobile, con la testa leggermente abbassata.

 

“Ma cosa ti ha fatto, sorellina?”

 

“Non ti deve interessare! Vattene!”

 

Sota si era frapposto fra i due ragazzi, ma alla reazione di Kagome si era stretto al kimono di Inuyahsa, nascondendosi dietro di lui. All’hanyou dispiacque vederlo così. Lui non aveva colpa. Non doveva prendersela con lui. Gli sorrise per tranquillizzarlo e gli posò una mano sulle tasta, stropicciandogli piano i capelli.

 

“Ora vai, campione. Obbedisci a tua sorella” lo esortò gentilmente. Sota si toccò i capelli, inorgoglito e confortato da quella carezza e corse via.

 

“Non prendertela con lui…”

 

“È vero! Devo prendermela con te!”

 

Inuyasha sospirò. Avrebbe voluto abbracciarla, baciarla. Sentirla fra le sue braccia, sentire il suo profumo, la sua risata. Non le sue urla. La sua rabbia. Ma sapeva comunque di meritarsela. Aveva infranto una promessa. Anche se aveva il suo motivo. Ma accettava comunque quei rimproveri. Gli sembravano giusti. Uno sfogo. Dopo quello che le aveva fatto. Perché lei, nonostante tutto, non lo aveva abbandonato.

 

“Lo avevi dimenticato. Shippo diceva che era importante…”

 

Le mise in mano un libro. Geometria. Aveva passato ore a cercarlo. Non riusciva a ricordare dove lo aveva messo. Doveva preparare l’esame. E quel libro le serviva. Kagome fissò sorpresa il ragazzo. Continuava a tenere la testa china e lei si sentì in colpa. Era venuto per riportarle una cosa importante, e lo aveva trattato a quel modo.

 

Lo vide abbozzare un sorriso e voltarsi per andarsene. Se non l’avesse fermato, se ne sarebbe tornato nel passato. Ad aspettarla. Non le aveva detto nulla. Né di prepararsi né di seguirlo. Le aveva dato il libro e basta.

 

Non voleva che se ne andasse. Non lo voleva. Le piaceva quando gli era accanto. Quando la toccava.

 

Inuyasha…”

 

L’hanyou si fermò. Di schiena. Il suo tono era dolce, un po’ roco. Ma a lui piaceva tanto. Era come una droga che lo stordiva. Si sentì abbracciare alla vita e stringere forte.

 

“Scusami…”.

 

Lacrime. Stava piangendo. Per sfogarsi. Perché lo aveva aggredito senza ragione. Quando lui cercava solo di farle un favore. Inuyasha si voltò e le asciugò le lacrime con il dorso della mano. Non gli piaceva vederla piangere. Non gli piaceva veder piangere qualcuno.

 

Gli tornava in mente sua madre. Piangeva quando lo vedeva. Quando sentiva quella parola che lui ancora non capiva. Non conosceva. Hanyou. Piangeva perché in lui rivedeva la fisionomia dell’uomo che aveva amato e l’ombra di un sentimento ormai perduto.

 

La baciò. Sentì il suo sapore di pesca confondersi col sale. Le sue labbra fresche tremare impercettibilmente per il respiro un po’ accelerato. La baciò e la strinse a sé. Le era mancata. Troppo.

 

La sentì sussurrare, con la testa sulla sua spalla. E annuì. Era qualcosa che voleva.

 

“Resta qui, per un po’. Con me…”

 

 

 

 

Il cielo si accese di mille colori. Accecanti. Stupendi nella notte fredda e tersa. Con rumori assordanti che si tramutavano in corolle abbaglianti. Fontane iridescenti.

 

Inuyasha allargò maggiormente il sorriso estatico. Non aveva mai visto uno spettacolo simile. Gli sembrava che il cielo fiorisse. Si riempisse di piante stupende e magiche. Purtroppo, di effimera durata. Ma non gli importava. Gli piaceva. Tanto. Neanche il rumore assordante dei fuochi d’artificio lo distraeva. Non lo sentiva neppure.

 

Kagome si commosse nel vederlo, appoggiato al vetro della cabina, come un bambino. Rapito. Rapito da qualcosa che non aveva mai visto e che lo incantava. Era felice.

 

Si voltò a guardarla, con un sorriso incredulo, e si perse nei suoi occhi. Quanto l’amava. Avrebbe sempre voluto averla vicino a sé. Le si sedette accanto attirandola contro il suo petto. In quella cabina della ruota panoramica, davanti a tutte quelle luci nel cielo, si sentiva finalmente felice. E libero. Come non lo era mai stato prima. Neanche con Kikyo. Le aveva voluto bene, certo. L’aveva amata. A lei aveva dato il primo bacio. Quello che non si può dimenticare. Quello in cui sei insicuro e temi di sbagliare. Aveva baciato lei. Per prima. Su un molo di legno. Nel rosso di un tramonto d’autunno.

 

L’aveva amata. Ma Kikyo ormai era il passato. Un passato che gli faceva male e piacere al contempo. Perché era comunque una parte di lui. Della sua vita. Ma ormai era solo quello: un ricordo. Un pensiero che avrebbe sempre avuto un posto speciale nel suo cuore. Ma che non lo occupava.

 

Era Kagome ad essere onnipresente nella sua mente e nella sua anima. Lei era riuscita a farlo innamorare di nuovo. In modo diverso. Quello che provava per lei era un sentimento capace di resistere per anni, immutato, e anzi di crescere ogni giorno, nutrito col solo pensiero di lei.

 

Le sollevò il viso. La voleva. Voleva stare con lei. Sempre. Per sempre. Voleva che sapesse quanto l’amava. Che quella non era una semplice infatuazione. Una di quelle cotte che cambiano con il mutare del vento. Lui non era innamorato. Lui l’amava.

 

Amore. Amore.

 

Quello vero. Quello che non aveva mai sentito per nessuno. Solo per lei. Le accarezzò il viso. Piano, sfiorandola appena con gli artigli. Disegnando il contorno del suo volto, delle sue labbra, scendendo lungo la gola per poi salire ad accarezzarle la nuca, i capelli. La vedeva chiudere gli occhi per cercare di domare l’ansia, per controllare il respiro che accelerava sempre di più.

 

Deglutì alcune volte. A vuoto. Aveva la gola secca. Non riusciva a dire nulla. Solo, continuava a sfiorarla. In quella notte, non si sentiva diverso da nessuno. Non invidiava nessuno. Non gli importava di essere un youkai, un hanyou o un ningen. Gli importava solo della ragazza che aveva di fronte. Che gli si abbandonava fiduciosa fra le braccia.

 

Glielo disse. Lo sussurrò sulle sue labbra, fissandola negli occhi. Prima di baciarla. Di scoprire di nuovo il suo sapore. Due parole. Due parole che non si pronunciano al vento. Che si dicono poche volte, se non mai. Due parole che si pronunciano quando si è sicuri. E che contengono mille promesse.

 

“Ti amo”

 

 

 

 

Seducente.

Era dannatamente seducente. Con i capelli argentati mossi dal vento freddo della notte, con il suo corpo scolpito, armonioso. Aveva lo sguardo triste. Smarrito. Fissava l’ultimo spicchio di luna, come rincorrendo qualcosa.

 

Sarebbero ritornati. Quella era l’ultima notte. Ormai, era tempo di riprendere la ricerca dei frammenti. Erano due settimane che erano lì. Due settimane magnifiche. In cui Kagome gli aveva mostrato il suo mondo. In cui lo aveva portato in giro con noncuranza. Anche con un po’ di femminile orgoglio. Perchè si era accorta degli sguardi che le altre ragazza lanciavano ad Inuyasha quando lo vedevano. Sguardi bramosi e rabbiosi. Perché non erano loro quella che lui teneva per mano, quella cui parlava all’orecchio, quella che stringeva al suo petto e baciava con quelle labbra carnose. E invitanti.

 

Kagome si rigirò nel letto. Non riusciva a dormire. Avrebbe avuto tanto da raccontare a Sango, una volta tornata. Emozioni da condividere. Forse anche Inuyasha ne avrebbe parlato con Miroku, anche se lei proprio non riusciva a vederli fare un discorso serio e delicato senza prendersi a pugni. No. Probabilmente, Inuyasha avrebbe tenuto le sue emozioni dentro di sé. Come in uno scrigno.

 

Lo guardò, attraverso la tenda leggera mossa dal vento. Ma come gli era passato per la testa l’idea di sedersi sul davanzale della finestra aperta, con quel freddo. A torso nudo, per di più. Se lei era abituata alla sua presenza in camera, adesso la metteva in imbarazzo. In un maledetto imbarazzo. Ma non lo capiva? Non era più come prima. Non era più l’amico che viene a prenderla e magari si ferma lì una notte. Non lo era più. Era qualcos’altro. Qualcosa di molto più importante.

 

Era stata sua madre a insistere. Diceva che forse non si sarebbe trovato bene in una stanza da solo. Ma non era mica un bambino! Anzi, del bimbo innocente non aveva proprio nulla. Forse solo lo sguardo.

 

Era rimasta colpita dalla sua bellezza fin dalla prima volta che lo aveva visto, sigillato al dio albero. Forse, se ne era innamorata già in quel momento. Ora, a distanza di alcuni anni, le cose erano un po’ cambiate.

 

Inuyasha aveva ancora l’aspetto di un ragazzo, ma con tratti più decisi. Gli occhi d’ambra spiccavano su quel viso da ragazzo ribelle e ogni tanto erano attraversati da sfumature che lo rendevano ancora più attraente. Kagome lo fissò attentamente; notò il fisico prestante che neanche il kimono riusciva a nascondere del tutto e che i vestiti della sua epoca avevano messo in mostra. Era ancora bellissimo, ma di una bellezza diversa, non più tenera e innocente, ma sensuale.

 

Inuyasha le piaceva, perché, a prescindere dall’aspetto fisico, sembrava condensare una dolcezza e una sicurezza che erano capaci di rassicurarla e commuoverla al tempo stesso. Le piaceva. Di più. Lo amava. Non pensava che lo avrebbe mai potuto dire. O almeno non alla sua età.

 

Si era sempre ritenuta ancora troppo giovane per poter dire con sicurezza cosa fosse l’amore. Rispetto a lui, era una bambina appena nata. Ma non le importava. Sentiva che quello che provava era un sentimento forte, che le prendeva lo stomaco e la faceva sussultare ogni volta che lui le era vicino.

 

Sentiva che lo voleva sempre felice, o almeno di poter essere la sua confidente, di riuscire a dissipare le ombre tristi dei suoi occhi.

 

“Cos’hai?”

 

Gli si era avvicinata, in pigiama, offrendosi alla luce della luna. Inuyasha agitò una mano, per farle capire che non aveva nessun problema. Lei non ci credette. Qualcosa doveva esserci. Era da alcuni giorni che era strano. Gli fece appoggiare la testa al suo petto e iniziò ad accarezzargli i capelli. Affondava in quella massa lunare e soffice, gli accarezzava le piccole orecchie canine. Lui non diceva nulla. La lasciava fare. Non gli dava fastidio.

 

“Cosa si prova?”

 

Glielo chiese in un sospiro, senza staccare gli occhi dalla luna. Kagome non capì a cosa si stesse riferendo. Non sembrava una domanda a voce alta, ma che si faceva a se stesso. Una domanda che non sembrava aspettare una vera e propria risposta.

 

“Quando abbracci Sota…Cosa provi?”

 

Kagome iniziò a capire. L’ombra in fondo ai suoi occhi. Iniziava a intuire da cosa era prodotta. Era comparsa quella sera. Quando, rincasando, si erano imbattuti in un bambino. Piangeva. Perché alcuni piccoli teppisti gli avevano rubato il giocattolo e lo stavano canzonando. Malignamente. Aveva visto Inuyasha fare alcuni passi verso di loro. Non gli piaceva che qualcuno si approfittasse di chi è più piccolo. Forse perché lui aveva vissuto spesso situazioni simili da bambino. Lo aveva visto allontanarsi da lei, e poi fermarsi. Quando uno dei ragazzini era finito con la faccia nella polvere. Una zuffa. Di quelle fra bambini. Conclusasi con un solo vincitore. Un ragazzino anche lui. Si era avvicinato al piccolo che ancora piangeva, e gli aveva restituito il giocattolo.

 

“Grazie, fratellone…”. L’ aveva sentito chiaramente. Prima che il bimbo lo abbracciasse e a sua volta fosse stretto dal ragazzino più grande.

 

Da quella sera, Inuyasha aveva dei momenti di tristezza e malinconia che lo portavano come in trance. E spesso quando lei e Sota erano assieme, davanti a lui. Sospirò. Adesso sapeva a chi stava pensando. A una persona che non lo aveva mai abbracciato. Che per lui non c’era mai stata.

 

“Un grande calore. Qui, nel cuore”. Gli rispose sfiorandogli la parte sinistra del petto. “Come quanto sono fra le tue braccia”

 

Inuyasha sorrise. Non era vero. I sentimenti potevano assomigliarsi, ma non erano uguali. Probabilmente, quello che Kagome sentiva era un affetto che si colorava delle sfumature della fiducia e della sicurezza. Un sentimento nato da qualcosa che lui non conosceva.

 

“Sai…Da piccolo, desideravo tanto avere un fratello maggiore…Qualcuno che mi abbracciasse, dopo che mia madre era morta, che mi aiutasse contro chi mi rinfacciava di essere un hanyou e mi cacciava a sassate…Qualcuno che mi volesse bene, di cui mi potessi fidare…”

 

Kagome sentì un nodo in gola. Sapeva bene a chi si stava riferendo e che quello che aveva desiderato da piccolo si era concretizzato in un peso ancora più difficile da sopportare. Lo strinse ancora di più a sé. Per confortarlo.

 

“Ma tu sei diventato lo stesso fortissimo. E hai tante persone che ti vogliono bene! Ci sono Sango, Miroku, Shippo, l’anziana Kaede, Kirara…E poi, anche mai madre, mio nonno e Sota…ormai non riesce più a fare a meno di te…”. Si fermò un attimo. “Ci sono anch’io…Anch’io ti voglio bene…Lo sai”

 

Inuyasha annuì. Lo sapeva. Sapeva di non essere più solo ormai. E non che questo non gli bastasse. Ma c’era come un vuoto dentro di lui. Una mancanza che neanche l’amore per Kagome riusciva a riempire.

 

Le sorrise. Non voleva farla preoccupare. La fece sedere accanto a lui, sul davanzale, e sollevò di nuovo lo sguardo alla luna. Pura. Perfetta. Uno spicchio sottile nel buio della notte. Da quando lo aveva incontrato per la prima volta, era entrato in competizione con lui…Inconsciamente, aveva iniziato a imitarlo, perché voleva diventare forte come lui…Perché lui non dovesse vergognarsi; perchè ne fosse invece orgoglioso.

 

…Vorrei che un giorno mi abbracciassi anche tu…come fa un fratello…

 

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Capitolo 20
*** 20. RICORDI ***


CAPITOLO 20

CAPITOLO 20

RICORDI

 

 

Fuoco.

Solo la sua voce pura risuonava nella caverna nera. Una poesia arcana. Una voce che sussurra verità lontane, nel suo crepitio sommesso.

 

Guardava assorto la fiamma contorcersi nella semplice architettura dei rami, disposti con arte sapiente. Non un’accozzaglia confusa, ma un bilanciamento studiato. Le lingue vermiglie danzavano piano dapprima, poi sempre più vive e gagliarde. Divennero azzurre e infine quasi bianche. Accecanti.

 

Fissava gli occhi scavati in quella luce purissima, in quella danza meravigliosa, levando un mormorio simile ad una preghiera. Una cantilena rauca e monotona. L’aria, in quell’ora del mattino, in quel luogo magico e solitario, era del tutto immota.

 

Avvertì una presenza. Silenziosa. Una presenza che conosceva. Pur essendo anni, secoli, che non l’incontrava più. Così simile a quella di un altro uomo. Così diversa. Due sensazioni uguali, che si distorcevano l’una nell’altra.

 

Shin apparve nella grotta. Solo. Disarmato. Vestiva un semplice kimono scuro, che gli delineava il fisico atletico. Nessuna armatura, niente insegne. Era solo nella sua essenza. Un youkai. Puro. Ribelle.

 

Si sedette senza dire una parola. E fissò lo sguardo viola in quella luce accecante. Aveva paura. Ma voleva farlo. Anche se era pericoloso. Ma di lui si fidava. Sapeva che non lo avrebbe abbandonato. L’unico. L’unico rimasto in quelle terre. Per più di quattrocento anni. Uno dei pochi a ricordare. Il solo, forse, che avesse assistito a quell’incontro, oltre a suo padre, e che ancora vivesse.

 

Non lo riconosceva più. Scheletrico, avvolto in un kimono logoro e ingrigito dal tempo. I capelli bianchi si erano diradati, per l’incuria e l’azione del tempo. Quanti anni aveva? Shin non lo sapeva. Probabilmente millenni. Uno dei demoni più potenti mai nati. Uno dei più antichi. Più forte di suo padre, del suo nemico.

 

Lui. Il Sensei.

 

Il suo nome non lo conosceva. Nessuno probabilmente lo sapeva. Smarrito nelle pieghe della memoria. Per tutti, lui era il Sensei. Il Maestro. La memoria della loro stirpe. Della loro razza gloriosa. Non aveva clan. Apparteneva a tutti e fuggiva da ogni legame. Non prendeva posizione. Mai. Si limitava ad assistere e registrare nella sua mente.

 

Era stato un combattente valoroso. Sul volto rugoso e ormai decrepito, correva una lunga cicatrice, che gli tagliava un occhio fino alla base del collo. Una. Delle tante che quel corpo raggrinzito doveva nascondere nella sua pelle rugosa e macchiata.

 

“Sei pronto?” gli chiese il Sensei.

 

“Sono pronto”. Shin rispose in un sussurro. Era avvolto dall’immobilità che permeava ogni atomo di quella grotta. Sapeva che stava facendo qualcosa di proibito, ma non gli importava. Ci avrebbe provato. Ugualmente.

 

Non gli aveva detto niente, ma il Sensei aveva capito. Forse gli aveva letto nella mente, forse lo vedeva nei suoi occhi. Non gli importava sapere come, ma ne era venuto a conoscenza. Ora, doveva sapere se era lui anche ad essere pronto. Shin ormai la sua decisione l’aveva presa.

 

“A cosa, sei pronto?”

 

“A tutto”

 

“Anche alla morte?”

 

“Sì”

 

Sì. Lo era. Era davvero pronto a morire. Pur di scoprire davvero la verità, di ricordare quel giorno vissuto con gli occhi di un bambino. Pur di sentire di nuovo in sé l’odio per il suo nemico, il desiderio di rivalsa e di fugare ogni dubbio sul comportamento di suo padre. Sì. Era pronto a tutto.

 

Il Sensei si sollevò in piedi. Sembrava potersi spezzare da un momento all’altro, eppure il suo portamento era solenne. Era ancora l’andatura di un guerriero. Aveva uno sguardo febbrile che accendeva gli occhi grigi e vuoti.

 

Shin lo seguì fuori dalla caverna, lungo una strada che s’inerpicava sul costone roccioso. Su. In alto. Sotto la neve e le stelle. Fino alla sommità. Dove solo pochi passi dividevano terra e cielo.

 

“Spogliati, e distenditi nella neve”

 

Shin obbedì. Si distese supino nel manto nevoso senza avvertire nulla al contatto. Un youkai non avverte mai nulla. Come se la sua pelle non reagisse. Come gli sono estranei i sentimenti.

 

L’odio non è forse un sentimento?...

 

Vide il Sensei inginocchiarsi vicino a lui e cominciare a cantare, dondolandosi sui talloni. Avanti e indietro. Avanti e indietro. Una nenia strana. Sincopata da brevi grida. Incomprensibile. In una lingua antica. Forse quanto quella terra stessa. E mentre quel canto saliva verso il cielo, algido e lontano, il suo corpo sprofondava nella neve. Fino quasi ad esserne sommerso.

 

Dolore. Qualcosa che non aveva mai provato. La pelle trafitta da migliaia di aghi ghiacciati. Arrivavano al cuore e al cervello. E il dolore cresceva continuamente. Diventava insostenibile. Shin si accorse di emettere lui stesso le brevi grida sincopate in quella lingua mai sentita. Ne ebbe paura e sorpresa.

 

Vide il Sensei, inginocchiato davanti a lui, con gli occhi bianchi e il viso senza espressione. Come una statua.

 

Cercò di urlare, ma non vi riuscì; cercò di sollevarsi, ma si accorse di non avere più forze. Cercò anche di parlare, ma non aveva più voce. Sprofondava nel ghiaccio sempre di più, o forse fluttuava nell’aria gelata e trasparente…

 

Si rivide bambino, come in un sogno. Correva per le sale del palazzo, mentre la nutrice, affannata, cercava di raggiungerlo. Poi, la sala del consiglio, e due uomini parlare. Uno era suo padre. Ne era certo. Lo riconosceva dall’armatura. L’atro… aveva una spada sulla schiena, e lunghi capelli argentati: l’antico amico di suo padre. Lui. Il suo nemico.

 

Non ricordava il volto. Solo una chiazza indistinta. Ma rammentava la sua voce. Calda. Gli aveva sorriso, lo aveva accarezzato.

 

Poi, c’era stato il fuoco. Il sangue. La rabbia. La furia di una battaglia. Il palazzo bruciava. E lui si era sentito prendere e portare via, mentre aveva visto suo padre sovrastato da un mostro contorcersi gridando. Grida inumane. Ringhi animali. Il suo youki…Glielo avevano strappato. Sigillato.

 

Lui. Lui. Tutto a causa sua. Era successo tutto per colpa sua. Era stato lui a causare lo scontro. A distruggere la potenza della sua famiglia. Lui. Lui. Per avidità di potere. Per invidia. Per invidia erano morte molte persone; per invidia suo padre, uno dei demoni maggiori più potenti era stato costretto all’esilio. Per colpa sua, Shin era cresciuto in un territorio sconosciuto, imparando fin da piccolissimo che il rispetto era amaro da guadagnare. Additato come il figlio di un perdente. Un perdente lui stesso. Per colpa sua, i suoi fratelli erano nati in esilio. E non avrebbero mai conosciuto i territori dei loro antenati. Non avrebbero mai avuto quell’eredità e quel prestigio che la sua famiglia aveva sempre mantenuto.

 

Perché? Perché? Cos’era accaduto? Cosa aveva intaccato il patto che esisteva fra i due youkai? Cosa era stato capace di trasformare un’amicizia antica in un odio sconfinato? Shin lo ignorava. Nulla nelle visioni oniriche gli permettevano di capirlo. Nulla. Sapeva solo di odiarlo anche lui. Con tutto il cuore. Perché gli aveva rubato la felicità dell’infanzia. Perciò voleva vendicarsi.

 

Scosse la testa per delineare meglio le ombre, ma vide davanti a sé il paesaggio pieno di neve, la prima luce dell’alba e il vecchio Sensei ancora in ginocchio, rigido come un cadavere, e con gli occhi bianchi e vuoti.

 

Fece disperatamente appello alle ultime energie. Voleva raggiungere il kimono che aveva abbandonato sulla neve. Girò appena il capo e restò paralizzato per lo stupore. Davanti a lui c’era il suo nemico. La fonte del suo odio. Del suo dolore.

 

Di schiena, senza spade o armature, solo con il kimono e la pelliccia che danzava nel vento. Cosa voleva ancora da lui? Non gli bastava quello che gli aveva già fatto? Rubargli la sua terra. La sua eredità. Disonorare suo padre e la loro antica amicizia.

 

Un groppo serrava la gola di Shin. Aveva voglia di saltargli addosso e ucciderlo nuovamente. Di dilaniarlo. Sentì la sua aura demoniaca espandersi, aumentare come mai prima di allora. Le vene del corpo pulsavano sangue, impazzite per quella forza. Se non si fosse fermato, il suo corpo non avrebbe retto quella folle pressione. Quel disperato potere.

 

“Non perderti anche tu…”

 

La sentì. Quella voce. Calda e paterna. Come quella di suo padre. Come quella del padre che aveva perso dopo la sconfitta. La voce che non aveva più sentito rivolgergli parole.

 

Cosa significa?...

 

Urlò. Tutta la sua rabbia. Il suo dolore e la sua frustrazione. La urlò al vento e a quella figura evanescente. Non sapeva neanche se la stesse immaginando o fosse reale. Non gli importava. Urlò. Con tutta la forza che gli restava. E giurò che si sarebbe vendicato.

 

“Mi hai sentito?! Lo ucciderò! Lo ucciderò come tu hai distrutto noi. Tuo filgio! Morirà! Mi hai sentito?!

 

Lo vide allontanarsi a passi lenti sulla neve immacolata e svanire nell’ombra. In quel momento, Shin ebbe un soprassalto di coscienza. Vide di fronte a sé il Sensei che teneva in mano il suo kimono.

 

Shin riuscì a sollevarsi e ad avvolgersi nel kimono. Caldo. Un tepore lieve. Dalla lana. Lo rianimò un po’. Era stato vicino al morire. Il Sesnei, invece, sembrava non risentire minimamente dello sforzo compito e del freddo pungente.

 

“L’ho visto…”. Shin fissava il sole nascere oltre le montagne; indorare i territori della sua infanzia.

 

Takakuni?”

 

Shin scosse la testa. Perché quella domanda? Lui sapeva benissimo chi aveva visto. Era stato lui a chiamarlo. Invece del suo maestro d’armi, aveva evocato il suo peggior nemico. Perché il Sensei lo aveva fatto?

 

L’anziano youkai lo fissò nelle iridi viola. Vedeva mille domande in quegli occhi. Risposte sbagliate e convinzioni forti. Vedeva una determinazione splendente e invidiabile. Ma se usata nel modo giusto non lo sapeva. O forse, non voleva doverglielo dire.

 

“Hai capito cosa ti ha detto?”

 

“L’ho sentito. Ma non aveva senso”. Shin abbassò il capo in un gesto sconsolato. “Perché lo hai fatto? Io volevo poter incontrare Takakuni…Volevo…”

 

“Ascoltare non vuol dir capire”

 

Il Sensei si era alzato, iniziando la discesa con passo un po’ malfermo, ma sempre solenne. Shin abbassò il capo ancora di più. Ne aveva abbastanza di prediche e insegnamenti. Non servivano mai. Non avevano ridato il regno a suo padre. Né avrebbero riportato in vita il suo maestro.

 

Ormai, l’unica cosa che volesse era la vedetta. Gli occhi ardenti ebbero un sussulto quanto sentì le ultime parole dell’anziano. Come se volessero indicargli una strada.

 

“Inizia a capire e non solo ad ascoltare, ragazzo. Solo allora potrai sapere se veramente non hanno senso”

 

 

 

 

§§

 

Il messaggero arrivò che era quasi notte. Esausto. Sfiancato.

Aveva corso per due giorni interi per portare la notizia al suo signore. E a volte aveva temuto di non farcela. Ma quando si affacciò sulle colline che dominavano la fortezza vide un brulicare di fuochi e schiamazzi e seppe di essere arrivato.

 

Il suo sovrano, in armatura da combattimento, era seduto sotto la sua tenda, circondato dai suoi generali. Dietro di lui, c’era il suo luogotenente. Tutt’intorno, i rappresentanti della fortezza sconfitta ascoltavano le sue condizioni.

 

Era lui il vincitore. Lo sapevano. L’youkai più forte al momento vivente. Il dominatore del mondo.

 

Il messaggero ne subiva il fascino potente come ogni altro essere vivente. Sapeva che la sua intromissione non sarebbe stata tollerata, ma anche che un suo ritardo nel riferire la notizia sarebbe stato tollerato ancor meno.

 

Oyakata-sama, una notizia dal palazzo: è nato vostro figlio!”

 

I delegati, pallidi e smagriti, si guardarono in faccia e si alzarono da terra. E ugualmente fece il luogotenente, con le braccia incrociate sul petto, come chi attende l’ordine o la parola del sovrano.

 

Inutaisho restò con le parole troncate a metà. “Le condizioni impongono un…” e terminò con una voce del tutto mutata. “…figlio”.

 

Rimase immobile per alcuni istanti, poi si alzò in piedi e afferrò per le spalle il messaggero. Le fiamme dei candelabri gli scolpivano il volto giovane di luci e ombre taglienti, gli incendiavano lo sguardo d’ambra e scivolavano sui capelli d’argento, infrangendosi sulla corazza e mandando bagliori sommessi.

 

“Dimmi com’è!”

 

Voce dura. Di comando. La stessa con cui ordinava una battaglia. Con cui si buttava lui per primo nella mischia. Voce profonda. Austera.

 

Il messaggero si sentì spaventosamente inadeguato. Aveva solo quelle parole da riferire al suo signore. Lui, il bambino, non lo aveva neanche visto. Si raschiò la gola e gli disse la verità, con voce stentorea.

 

“Mio signore, non lo so. Io non l’ho visto”

 

Inutaisho, allentò un po’ la presa sulle spalle del soldato. Che sciocco! Doveva esser partito subito, non appena la notizia era riecheggiata per il palazzo. Doveva essersi precipitato fuori dalla reggia e aver corso fino a quel momento. Aveva un aspetto stravolto.

 

“Quando è successo?”

 

“L’altra notte, poco dopo che il sole era calato. Appena sorta la luna”

 

…un figlio della luna…

 

Inutaisho gli batte una mano sulla spalla e lo congedò. Era felice. Un figlio. Il suo primo figlio. Il suo erede. Si girò verso il suo luogotenente e gli andò incontro per abbracciarlo. Mentre quella parola gli rimbombava nella testa. Assieme ad unaltra che piano piano stava prendendo corpo. Vederlo. Voleva vederlo.

 

Prese le spade che aveva sfilato e ignorando i presenti uscì dalla tenda. Il luogotenente lo seguì. Anche lui pronto a partire. Non aveva bisogno di parole. Aveva capito cosa intendeva fare. E non lo disapprovava proprio.

 

Un altro generale uscì in quel momento. Hidoshi. Capelli neri lunghi, occhi azzurri e una coda da lupo. Fece appena in tempo a vedere Inutaisho assumere la sua forma animale che gli arrivò in mano il sigillo reale. Un cerchietto d’oro lucente con un’incisione complessa che raffigurava la luna e un cane.

Rimase qualche istante a osservare il suo signore che ululava al cielo e all’esercito la notizia, prima di slanciarsi con il suo luogotenente verso Ovest.

 

Il generale gridò ai demoni della guardia: “Seguitelo, idioti! Lo lasciate andare da solo? Muovetevi, accidenti a voi!”

 

E mentre gli youkai correvano al suo inseguimento, Hidoshi vide ancora per un attimo la pelliccia di Inutaisho biancheggiare nel riverbero lunare, poi più nulla.

 

 

 

 

Inutaisho corse tutta la notte e tutto il giorno successivo, assieme al suo luogotenente. La scorta aveva dovuto rinunciare da tempo a reggere il suo ritmo.

 

Giunse in vista del palazzo dopo il crepuscolo, quando l’ultima luce del sole ormai declinava, tingendo di porpora la superficie del lago. La luna sorse in quegli istanti, una falce sottile e argentata. Il suo emblema. Il simbolo tatuato sul corpo.

 

Inutaisho si fermò per contemplarla e invocarne la protezione su quel figlio che ancora non aveva visto e che già sentiva suo. Perché era nato da lui. Un essere dal sangue puro. Un youkai puro.

 

Assisti mio figlio…

 

Aveva come la sensazione che non lo avrebbe visto crescere. Che non avrebbe guidato i suoi passi fino all’ultimo istante. Che si sarebbero dovuti allontanar prima. Che non gli sarebbe stato sempre accanto.

 

Poi, salì alla reggia, inatteso, stremato e madido di sudore. Un brusio lo accolse, un frusciare di vesti di donne che si affaccendavano per i corridoi, un tintinnare di armi che risuonavano nei corridoi di guardia.

 

Quando si affacciò alla porta della camera da letto, la sua signora era seduta nel futon, il corpo nudo appena velato da un kimono azzurro. Fra le braccia, teneva un fagottino.

 

Il suo luogotenente gli sciolse gli spallacci della corazza e gli sganciò le spade dal fianco. Voleva sentire il contatto con la pelle del bambino. Lo prese in braccio e lo osservò, mentre gli sorrideva. Un sorriso innocente e curioso. Uno dei pochi, che quelle labbra sottili avrebbero visto. Uno spicchio di luna in fronte. Gli occhi d’ambra dal taglio sottile. In quegli occhi, un giorno, avrebbe letto tanta determinazione ad divenire il migliore. Ad assolvere con onore al compito che la sua nascita gli imponeva. Ma in quel momento, lesse solo tanta innocenza.

 

Lo tenne a lungo stretto a sé, con la testa argentata appoggiata fra il collo e l’omero. Sentiva le labbra tenere del piccolo sulla cicatrice che gli induriva la spalla, sentiva il calore e il profumo della sua pelle non ancora macchiata dal sangue. Dalla lotta.

 

Chiuse gli occhi e restò immobile nella stanza silenziosa. Dimenticò il fragore della battaglia, il sapore del sangue, lo stridio delle armi.

 

Ascoltava il respiro di suo figlio.

 

§§

 

 

 

 

L’anziano generale si chiuse la corazza.

Un rientro a palazzo doveva avvenire in grande stile. Per questo l’aveva rispolverata. Per l’occasione. Anche se infausta.

 

Questa volta, a palazzo non avrebbe trovato il suo antico signore. Il suo vecchio amico. Mancava dalla reggia da quel giorno. Da quando lui era morto. Ma adesso era tempo di tornare. Per vedere quanto era cresciuto il piccolo principe.

 

Quella sera, quattrocentocinquant’anni prima, lo aveva visto sparire nella pelliccia del padre. Lo aveva visto crescere. Determinato e forte. Solo. Con rari sorrisi sulle labbra sottili. Sorrisi che il piccolo principe regalava solo al padre.

 

Duecentocinquant’anni. Erano deucentocinquant’anni che non lo vedeva. Certo, la fama della sua potenza era giunta anche a lui. Ma anche quella della sua freddezza. Del suo odio per tutto ciò che è umano.

 

E questo lo faceva impensierire. Quanto era cambiato il suo piccolo principe in quegli anni? Cosa era cambiato in lui? Cosa?

 

…Tradito…Ecco come si dev’essere sentito…

 

Soppesò la katana al fianco, ed uscì. Doveva guidare il suo plotone.

Prima di trasformarsi, ripensò quella sera lontana, quando lui e Inutaisho si erano mutati sotto la luna, per andare a vedere un bimbo appena nato. Ora quel bimbo avrebbe dovuto combattere la battaglia più difficile della sua vita.

 

E il vecchio generale si sorprese a invocare la protezione del suo antico signore, perché guidasse il figlio e finalmente gli facesse di nuovo piegare le labbra in un sorriso. Come quello di quella notte ormai persa nel tempo.

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Capitolo 21
*** 21. CONVALESCENZA ***


CAPITOLO 21

CAPITOLO 21

CONVALESCENZA

 

 

Whiteout.

Le riflessioni, forti e diffuse, della luce del sole s’intrufolavano sulla neve fresca appena posata. Nella nebbia leggera tutti i contorni e le ombre si perdevano. Luce. Luce. Solo quello. Bianca. Accecante. Luce nuova, completamente sconosciuta.

 

Alessandra fissò lo sguardo azzurro su quello spettacolo che toglieva il fiato. Lo vedeva ogni mattina. Quando apriva gli occhi. E sempre era capace di emozionarla. Di rapirla in un’estasi pura e sovrumana. La bocca della caverna sembrava aprirsi sul nulla. Un vuoto rilassante e invitante.

 

Aveva il suo colore. Il colore dei suoi capelli. Lunare. Era capace di stordirla come solo lui era riuscito a fare. Capace di affascinare, di far arrabbiare, di sedurre. Era un fenomeno tipico delle regioni artiche. Delle terre delle nevi eterne. Una meraviglia del ghiaccio. E lui…Lui non era forse di ghiaccio? Non lo aveva visto forse impassibile e freddo?

 

Sì. Aveva un carattere forte e determinato. L’aveva assorbita, e in un certo modo la dominava, anche. All’inizio, era stato la controparte forte del suo carattere debole, ferito. L’aveva aiutata a rimettersi in piedi. Senza neanche rendersene conto. Le aveva lanciato una sfida che lei inconsciamente aveva accettato.

 

E il risultato, era quel sentimento che Alessandra non riusciva più a ignorare. Non voleva neanche farlo, ormai. Aveva faticato, ad accettarlo. A sentire di nuovo il cuore sussultare e battere senza venir travolta dal rimorso. Rimorso di essere viva. Di respirare. Di amare. Alla fine, però, aveva dovuto capitolare. Anche se ancora non sapeva se lo avrebbe cullato dentro di sé come una gemma preziosa, o lo avrebbe vissuto alla luce del sole.

 

In quei giorni, aveva scordato di essere una ningen. Aveva scordato di avere una casa, in un altro mondo. Aveva scordato se stessa. E soprattutto, aveva dimenticato chi era lui. Niente sangue, niente morte, né titoli o differenze. Lo aveva visto solo come un ragazzo. Il ragazzo cui avrebbe voluto stare al fianco.

 

Lo aveva amato.

 

In quei giorni, lo aveva amato continuamente. In silenzio. Con lo sguardo. Gli era stata accanto per aiutarlo a ritrovare un po’ dell’equilibrio che la cecità gli aveva strappato. Per cercare di rivedere sul suo viso perfetto la sicurezza quasi strafottente della prima volta. Amava quella sicurezza. La presunzione che gli veniva dalla sua età ancora giovane.

 

Distolse lo sguardo dall’apertura della caverna e si girò, appoggiandosi al suo petto. Aveva dormito con lui. Stretta a lui. Come ormai capitava spasso. Un’abitudine che non aveva significato, o il cui vero valore nessuno dei due voleva saperlo. Un’abitudine, iniziata per caso.

 

Una sera…Lo aveva visto più cupo del solito, con gli occhi vuoti fissi sul nulla, concentrati a mettere a fuoco solo il buio che vedevano. Le faceva male vederlo così, vedere la sua sofferenza e non sapere come alleviarla. Sapere che non c’era rimedio.

 

Aveva rovistato nello zaino e aveva iniziato a leggere un passo da un libro che aveva sempre con sé. Un regalo di suo fratello. Una raccolta di poesie greche. Non aveva neanche scelto il componimento. Aveva semplicemente aperto il libro e letto a voce alta le prime parole che era riuscita a distinguere.

 

 

Simile agli dei mi sembra

colui che ti siede accanto

e ascolta te

che parli con dolcezza

e desiderabilmente sorridi…

 

 

Saffo. Aveva letto Saffo. Un canto di gelosia. Non molto lungo, anche incompleto, ma bellissimo. Un’analisi approfondita della sua stessa situazione psichica. Perché lei si sentiva ancora bloccata. Avrebbe voluto potergli stare accanto come in quei giorni, ma sapeva benissimo che una vola tornato in forze lui si sarebbe diretto al suo palazzo e lì lei avrebbe avuto solo il ruolo dell’amante. E questo non riusciva ad accettarlo. Non sopportava il pensiero che se fosse rimasta con lui, un giorno, lo avrebbe dovuto dividere con un’altra donna. Con la legittima sposa. Che lo avrebbe perso.

 

Sesshomaru l’aveva ascoltata impassibile recitare quei versi. Aveva sentito la sua voce incrinarsi nel tentativo di trattenere le lacrime. L’aveva sentita avvicinarsi e sedersi accanto a lui. Stava cercando di distrarlo. Di fargli ignorare la cecità che gli impediva di leggere le sue emozioni.

 

Non aveva mai sentito una poesia simile. Le uniche che ricordava erano degli haiku. Componimenti brevi, anche se non meno intrisi di saggezza e sentimento. Ma erano parole lontane nella memoria. Pronunciate da una donna di cui non ricordava neanche il volto, se non vagamente. Sua madre.

 

Dopo che si era fermata, lui le aveva passato il braccio attorno alla vita e l’aveva fatta stendere accanto a sé. L’aveva sentita abbandonarsi tranquilla contro il suo petto e si era lasciato inebriare dal suo odore. La voleva. La voleva lì accanto a sé. Perché era la fonte di qualcosa di nuovo che aveva sentito nascere in lui lentamente.

 

Un desiderio strano, diverso da quello per il potere, che non si esauriva nella semplice volontà di averla. Anzi, quel pensiero lo disgustava. Perché, anche se non lo ammetteva ancora, non voleva il corpo di Alessandra, ma la sua anima. Il suo cuore.

 

“Continua…”

 

Ordini. Ordini. Possibile che sapesse solo dare ordini? Anche in quel momento, mentre l’aveva stretta a sé, il suo tono non era cambiato. Solo più basso. Ma sempre imperioso. E seducente. Dannatamente seducente. Come la mano che le aveva accarezzato la testa, che si era intrecciata ai suoi capelli ramati, per scendere ogni tanto a sfiorarle la gola, la nuca, le guance, le labbra.

 

L’aveva ascoltata, mentre cercava con il tatto di richiamare il suo volto. Di delinearlo chiaro nella sua mente. Un viso arrossato per il caldo del vapore, bagnato di lacrime, baciato dalla luna. Con le labbra rosse e carnose. Invitanti. Con due labbra dal sapore ancora sconosciuto.

 

Aveva provato un impulso irrefrenabile. La voleva. A ogni costo. Anche se era umana. Anche se avrebbe potuto compromettere la sua reputazione. La sua stirpe pura. In quell’istante, non gli importava nulla di tutto quello che gli era stato insegnato. Solo voci lontane e sfumate. La voleva.

 

Si era voltato verso di lei. Deciso. Questa volta, lo avrebbe fatto. Nulla avrebbe potuto interromperlo. La voleva baciare e l’avrebbe baciata. Si era piegato su di lei, un po’ stupito di non avvertire alcuna reazione. Alcun fremito. Nessun movimento. Nel silenzio, aveva percepito solo un respiro calmo e regolare. Si era addormentata.

 

Stupendo. Ancora più facile. Gli sarebbe stato estremamente semplice avere quel bacio che sentiva reclamare da ogni parte del suo essere. Gli avrebbe impedito di sottrarsi e l’avrebbe avuto. Si era piegato ancora, ormai poteva sentire il respiro della ragazza su di sé, sul suo viso.

 

Un istante e…

 

Si era ritratto. Impaurito. Non era accaduto nulla, ma lui aveva avvertito un fremito che lo aveva fatto allontanare. Dubbio. Di essere respinto. Di nuovo. Di essere rifiutato. Quel bacio avrebbe anche potuto rubarglielo, ma forse avrebbe perso lei. Non aveva voluto rischiare. L’aveva attirata di più a sé, facendole poggiare la testa alla stola, e l’aveva coperta. Il suo corpo contro il suo. Il suo viso sul suo petto.

 

Da quella sera, Alessandra dormiva fra le braccia del demone, dopo avergli letto qualche altra poesia o avergli descritto quello che vedeva oltre l’apertura della grotta.

Sesshomaru non aveva più provato a baciarla. Non che non lo desiderasse, ma farlo nel sonno per lui sarebbe equivalso a violarla contro sua volontà. No. Quel bacio glielo voleva dare alla luce del sole, con la ragazza che si avvicinava a lui.

 

Un’abitudine…bellissima…

 

Alessandra fissò Sesshomaru senza imbarazzo. Certo, il primo giorno, svegliasi accanto a lui l’aveva letteralmente scioccata. Aveva dormito con un uomo. Un uomo con cui non aveva alcun legame di sangue. Non era certo come dormire con suo fratello per placare gli incubi notturni. Dormire con un uomo…con un ragazzo…Con lui…Quello per cui nutriva qualcosa di forte…Ma poi, con i giorni, le era venuto naturale. Si sentiva protetta fra quelle braccia, vicina a quel corpo saldo e muscoloso. Sentiva il suo calore, il profumo della sua pelle, l’odore di muschio dei suoi abiti.

 

L’youkai percepì che si era svegliata e che lo stava fissando. Abbassò gli occhi vuoti e rispose al suo saluto con una carezza gentile. Presto, l’incanto si sarebbe rotto. Lui avrebbe dovuto tornare al suo palazzo e lei…cosa avrebbe fatto lei?

 

Tre settimane prima gli aveva dato una risposta. Ora, il bel demone si chiedeva se quella risposta fosse mutata. Intimamente, ci sperava benché fosse pienamente cosciente del fatto che a palazzo lei sarebbe stata trattata da tutti come un’amante. Rispettata, d’accordo. Ma sempre un’amante. Umana per di più. Lo stesso errore. Quell’errore che lui aveva giurato di non commettere.

 

Cosa sei per me?...

 

Non voleva darsi risposta, benché la sapesse bene. Continuava a tormentarsi con le domande, nella folle illusione di imbattersi in una risposta diversa da quella che il suo animo gridava. Perché la voleva. Per sé. Per sempre. Voleva stare con lei. Per scoprire se quello che provava era amore, desiderio o qualcos’altro. Per scoprire se stesso.

 

“Verrai con me a palazzo”

 

Questa volta non le avrebbe lasciato scegliere. Aveva deciso lui. E se si fosse rifiutata, l’avrebbe costretta con la forza. Per impedirle di andarsene. Non gli importava come sarebbe potuta essere accolta a palazzo. All’inizio l’avrebbe guardata con sufficienza, ma poi avrebbero dovuto farsene tutti una ragione. Come avevano fatto con Rin.

 

In fondo, portarla a palazzo non significava nulla. Non era l’ammissione di un qualche sentimento per lei.

 

La sentì scostarsi dal suo tocco. Arrabbiata. Imbronciata. Possibile che Sesshomaru sapesse solo dare ordini? Alessandra proprio non sopportava quel tono. Lei non era un oggetto. Le sembrava di averglielo già spiegato. Ma forse era così sicuro di sé da tralasciare volutamente il fatto che lei non era ai suoi comandi.

 

“E se non volessi?”

 

Come avrebbe reagito? Sesshomaru non si aspettava di certo una risposta simile. Probabilmente, credeva ormai che fosse ai suoi piedi. Ed era vero, accidenti a lei. Ma aveva ancora un orgoglio. E questo le impediva di acconsentire a chi la trattava come se lei non avesse un proprio cervello pensante.

 

“Saprò obbligarti”

 

Alessandra si voltò a guardarlo con gli occhi blu sbarrati. Sorpresa. Sconcerto. Una risposta seria. Pronunciata con voce piatta e incolore. Obbligarla? In che senso, obbligarla? Come? Si allontanò di alcuni passi, gattonando.

 

Sesshomaru percepì il corpo di Alessandra allontanarsi da lui, come se ne avesse ricevuto una scossa. Reazione calcolata. Sapeva di essere stato troppo diretto. Troppo brusco. Ma non era riuscito a trovare null’altro da rispondere. Perché se davvero lei non lo avesse voluto, il bel demone sapeva di non aver forza per trattenerla. Allora, aveva preferito giocare d’astuzia, e cercare di spaventarla.

 

“Cosa vorresti farmi?”

 

Voce strascicata. E ferma al tempo stesso. Non ne aveva paura. Neanche in quel momento, con nella mente lo spauracchio di una forza che le si sarebbe potuta scagliare contro. Sesshomaru sospirò mentalmente. Niente sembrava riuscire a piegarla. Niente. Nessuna minaccia. Quella ragazza era ribelle nella sua volontà di non essere domata. Una ribellione dolce e delicata, ma anche estremamente determinata.

 

“Nulla…”. Con lei, non riusciva a mentire. Nessuna strategia di persuasione aveva presa su di lei. “Vorrei solo che tu venissi con me”

 

Alessandra si rilassò. Non era stato un ordine, anche se gli era uscito dalle labbra con quel tono. Voleva essere una domanda. Una richiesta. Non voleva nulla da lei che non fosse la sua presenza. O almeno, se voleva qualcos’altro, in quel momento lo nascondeva bene. Aveva reagito così perché si era sentito scoperto. Toccato forse in qualcosa di nuovo. Aveva reagito così perché non era abituato a sentirsi rispondere a tono.

 

Lo fissò nelle iridi vuote. Vi lesse una tristezza antica che probabilmente neanche lo youkai sapeva di mostrare a volte. Un dolore che aveva sempre celato dentro di sé. Come un disonore.

 

Sesshomaru sentì il respiro della ragazza sul collo. Caldo e inebriante. Sensuale. Aveva caldo e il cuore accelerò i suoi battiti, quando sentì la risposta che gli fu data. In un respiro.

 

“Se me lo chiedi i questo modo…allora verrò”

 

 

 

 

Due settimane.

C’erano volute due settimane perché Sesshomaru si riprendesse completamente, se non nello spirito almeno nel corpo. Giorni che erano nati pigri, all’ombra di notti passate tra l’insonnia e lo scoramento e che morivano stancamente.

 

Sesshomaru aveva reagito bene alle cure di Alessandra, ma per il suo animo ferito e offeso non esistevano rimedi se non il tempo. Non era mai uscito dalla caverna. Alessandra non glielo aveva impedito; anzi, a volte, aveva cercato di convincerlo, ma lui aveva sempre rifiutato. Sedeva sul futon, vicino al fuoco, e fissava il buio davanti ai suoi occhi, mentre riverberi rossi si liquefacevano nelle sue iridi vuote.

 

Alessandra lo aveva guardato rinvigorirsi nel corpo e spegnersi lentamente. Aveva percepito il suo disorientamento, ma non glielo aveva fatto pesare. Con lui, si era comportata normalmente. Gli aveva parlato di sé, del suo mondo, di cose futili o importanti. Alla sera, gli aveva letto poesie e narrato storie antiche, prima di addormentarsi fra le sue braccia. Aveva cercato di distrarlo, ma si era accorta della quasi costante assenza spirituale dell’youkai.

 

Quando poi le giornate si erano ulteriormente accorciate e le ore di luce erano grigie e spente, come il sole che non scaldava, Sesshomaru finalmente aveva deciso che era tempo di ripartire. Le sue ferite erano scomparse, e anche il viso era tornato perfetto. L’unica traccia rimasta del combattimento erano gli occhi spenti e ciechi.

 

Una traccia pressoché invisibile, perché il bel demone aveva mantenuto immutato il suo portamento fiero ed eretto. Camminava affidandosi all’olfatto e all’udito, con gli occhi fissi davanti a sé e la ragazza al suo fianco. Alessandra aveva creduto di doverlo guidare per mano, e invece aveva scoperto con sorpresa che lui si era abituato in fretta a quella nuova situazione, ed era perfettamente in grado di destreggiarsi in ogni situazione.

 

Aveva accettato. Sarebbe andata con lui a palazzo. Senza una vera ragione; solo perché non lo voleva ancora lasciare. Non sapeva bene come l’avrebbero accolta, ma sperò che Sesshomaru le sarebbe stato accanto. Sperava di riuscire a leggere in quel cuore freddo e solitario.

 

Era riuscita ad avvicinarlo, ma ancora restava un mistero. Intoccabile. Ora era lei a voler sapere, a voler sciogliere i nastri che chiudevano il suo cuore e i suoi ricordi. Per provare a capirlo, a confortarlo come lui aveva fatto con lei.

 

Ma nonostante Alessandra dormisse sempre con lui, l’youkai sembrava mantenere fra loro una certa distanza. Anche se non fisica. Che la desiderasse, Alessandra lo aveva capito. Da come la fissava, da come seguiva i suoi movimenti e piegava la testa di lato quando lei parlava. L’aveva capito da mille piccole cose. Ma non sapeva esattamente cosa volesse di lei. Se fosse solo il suo corpo ad attrarlo. Se la volesse per poter dimenticare per un attimo il vuoto che sentiva dentro. Per affogare nel piacere dei sensi. Per ritrovarsi forte e dominatore.

 

Cosa sono per te?...

 

 

 

 

A terra.

Era sdraiato a terra, con il peso della ragazza sopra di sé. Con il suo corpo caldo e sodo che premeva sul suo, facendolo sprofondare leggermente nell’abbraccio gelido della neve.

 

Gli era venuta addosso. Non sapeva neanche perché. E lui non se ne era neanche accorto fino all’ultimo. Si era voltato per afferrarla, ma era stato investito all’improvviso dalla sua persona. L’aveva sbilanciato e si era trovato a rotolare nella neve soffice, con lei contro al suo petto.

 

E ora, si trovava in quella situazione. Poteva avvertire il corpo di Alessandra irrigidirsi al contatto con il suo; tremare impercettibilmente per l’emozione e l’imbarazzo. Sentì il suo cuore cominciare ad accelerare il suo ritmo, mentre percepiva il respiro della ragazza vicino al suo viso e i suoi capelli di rame solleticargli il collo. Dovevano essersi sciolti, mentre rotolavano. E lui avrebbe tanto voluto vederli. Perdersi nei suoi occhi.

 

Lo capì. Per la prima volta, capì cosa l’aveva sostenuto nei giorni passati, nei momenti di disperazione totale, quando, anche sforzandosi e ripetendosi che tutto sarebbe passato e che la cecità non aveva minimamente intaccato la sua potenza e forza offensiva, che nulla sarebbe cambiato per lui, sentiva che avrebbe potuto cedere. C’era ancora spazio nel suo cuore indurito per i sentimenti. Per Alessandra.

 

Aveva parlato poco con lei, aveva sempre preferito ascoltarla. L’aveva sempre fatto. Ma aveva sentito costantemente gli occhi della ragazza addosso. Inizialmente ne era rimasto turbato, perché si sentiva osservato da vicino, come se la ragazza volesse scoprire i suoi segreti più intimi e nascosti. Una vicinanza e una confidenza cui non era più abituato. Da secoli ormai. Neanche con Rin. Ma quegli occhi, penetranti e avvolgenti, non erano indagatori; lo avevano tacitamente sostenuto in quei giorni. Alessandra lo aveva amato con lo sguardo ogni giorno di più e sempre con intensità crescente. Senza mai chiedere nulla. Lo aveva capito. E lui, in cambio di occhiate tristi e vuote, aveva ricevuto sempre parole di conforto o carezze delicate.

 

Tese l’orecchio e sentì, nel silenzio riempito dal frusciare del vento, il respiro un po’ accelerato della ragazza. Avvertì una strana sensazione di piacere al pensiero di cosa lo stesse producendo. Il calore dei loro corpi, vicini come la notte, ma in modo diverso. Una smania improvvisa lo colse e volle sfiorarla, per verificare se fosse veramente lì con lui. O se la stesse immaginando. Perché c’erano momenti, come quello, in cui il non poterla vedere lo faceva impazzire.

 

Allungò una mano fino al suo viso, accarezzandolo lentamente. Avvertiva la pelle morbida sotto gli artigli, il tremore sommesso dato dal piacere e dall’imbarazzo. Lui non avrebbe mai tremato per così poco, ma quella sensazione gli piaceva molto.

 

Intensificò un po’ la pressione della mano. Ora non era più una carezza leggera, a fior di pelle, ma un contatto forte, anche se ancora delicato. Possessivo. Ardente.

 

“Vorrei poterti vedere…”

 

Alessandra non volle capire esattamente cosa significassero quelle parole. Percepì solo una punta di rimpianto in quella voce solitamente così fredda e inespressiva. Sovrappose la sua mano a quella dell’youkai e chiuse gli occhi. Stava bene con lui. Troppo bene.

 

Rimasero fermi per un momento lunghissimo. Finalmente Alessandra si mosse per alzarsi, ma Sesshomaru la trattenne, passandole la mano fra i capelli sciolti, attorno al collo, spingendola lentamente verso di lui. Verso il suo viso.

 

Alessandra non oppose resistenza, come se le sue forze se ne andassero rispondendo ad un ordine del bel demone. Si lasciò attirare dalle sue labbra sottili e rosate. In quel momento, i suoi dubbi non significavano niente, erano solo brutti ricordi. Incubi privi di valore.

 

Sentirono i propri respiri accelerare, confondersi. Alessandra chiuse gli occhi. Voleva sentire il sapore di Sesshomaru, e anche lui lo voleva. Volevano quel bacio. Entrambi.

 

“Allora è vero!”

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Capitolo 22
*** 22. FIDUCIA ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!

 

Per prima cosa, vi faccio gli auguri (anche se in anticipo) di buon anno nuovo!!!

Questo è l’ultimo aggiornamento dell’anno, e spero che vi piaccia il capitolo, perché c’è una sorpresa! Dunque, ci eravamo fermati con Alessandra e Sesshomaru vicini al baciarsi e interrotti da qualcuno. Chi sarà? Per scoprirlo basta leggere!

 

Ne approfitto anche per chiarire alcune piccole cose, visto che mi sono accorta che nel precedente aggiornamento, per chissà quale scherzo del mio “caro” computer, le note di commento sono saltate. Allora, andando con ordine, i segni §§ indicano i ricordi dei personaggi (forse era chiaro, ma è sempre meglio mettere una leggenda ^__^!). Inoltre, ho aggiunto l’introduzione, cosicché la numerazione appare sfasata; nulla di particolare, solo chiarisce che ci troviamo nella prima parte della storia e che quindi dovete aspettarvela mooolto lunga. Si tratta comunque di due storie di cui la seconda è il seguito della prima; so che molti preferiscono spezzare, ma io ho optato per un solo titolo (e spero di riuscire a scriverla tutta, prima o poi). Infine, piccolo appunto: ad ogni aggiornamento, da oggi in poi, posterò aggiornandolo sempre un piccolo dizionario con la traduzione e le spiegazioni dei termini giapponesi e con piccole note esplicative di alcune situazioni della storia (come perché Alessandra ha un costume da bagno, che sembra inusuale come mi è stato fatto giustamente notare, me che, libri alla mano, ha una sua possibile motivazione),in corsivo e con termini in più di quelli che ho finora usato, anche perché è il frutto di un mio lavoro e riguarda i capitoli anche futuri.

 

Un’ultima cosa: ringrazio tutti quelli che leggono e commentano e anche chi legge soltanto e in particolare Jame, che commenta ogni capitolo e rispondo alla sua domanda, anticipandole che ho effettivamente intenzione di affrontare il problema del rapporto Sesshomaru-Inuyasha, sia in questa prima parte della storia, sia nella seconda, dove avrà un certo peso.

 

Bene, per ora è tutto. Ancora grazie e tanti auguri!!!

 

Avalon

 

 

 

 

 

CAPITOLO 22

FIDUCIA

 

 

Si erano separati.

Veloci. Imbarazzati. Ma mentre Alessandra si era rifugiata dietro alla schiena di Sesshomaru, il demone fissava gli occhi vuoti davanti a sé. Sulle labbra una smorfia di disgusto. Non la poteva vedere, certo, ma il suo odore era inconfondibile. Un odore che lo nauseava.

 

Kagura” sibilò, scoprendo appena i canini appuntiti. Non sopportava quella yasha. Il suo modo di fare, le sue attenzione e le sue provocazioni. E poi, era un’emanazione di Naraku. Era responsabile quanto lui di quello che gli era successo.

 

La demone strinse di più il ventaglio. Lo fissava con occhi rabbiosi e ogni muscolo della sua persona fremeva d’indignazione. Un’umana. Le aveva preferito un’umana. Una ragazzina. Inutile. Insignificante.

 

Non aveva voluto crederci. Quando nello specchio di Kanna aveva visto il demone accarezzato da quella ningen, dormire con lei, abbracciarla, non aveva voluto crederci. Aveva scaraventato a terra l’oggetto ed era uscita, decisa a constatarlo di persona.

 

Aveva impiegato molto tempo a rintracciarlo, perché la sua aura demoniaca era pressoché sparita. Ma alla fine lo aveva raggiunto. E lui stava di nuovo stringendo fra le braccia quel corpo che le sembrava acerbo e disgustoso.

 

Stava per baciarla…

 

In un modo di rabbia isterica, aprì il ventaglio, scagliando loro contro una raffica di vento. Solo vento però. Intrecciò i capelli di Alessandra e Sesshomaru e confuse i kimoni, ma non li ferì minimamente.

 

“Cos’è, Sesshomaru? La tua nuova amante?”

 

Sapeva di non poterlo battere sul piano fisico. E allora preferì stuzzicarlo. Sondare la realtà di quello che aveva visto. Inoltre, avrebbe umiliato quella insulsa ningen.

 

“È graziosa…ma è sempre una ningen…Mi hai delusa, lo sai? Desiderare una sciocca femmina umana…Finora, le tue amanti sono state donne sofisticate, esperte nel dare piacere, nel farti godere…”

 

Kagura allargò il sorriso malizioso. Aveva visto la ragazza, seminascosata dal demone, appiattirsi ancora di più contro di lui e sbarrare gli occhi. Incredulità.

 

“Ah, non glielo avevi detto?...Non le avevi detto che sarebbe stata solo un passatempo?”

 

Sesshomaru sentì il corpo di Alessandra irrigidirsi. Immaginò la sua espressione stravolta. Kagura lo stava facendo passare per un bastardo. Per uno che usa le donne solo per il suo piacere e poi se ne libera senza farsi problemi.

 

“Smettila”

 

Glielo sibilò con un tono carico di minacce. Voleva che tacesse. Che smettesse quelle sue folli farneticazioni. Lui non era così. Non lo era mai stato. Non aveva avuto amanti. Mai nessuna. Gli si erano offerte molte donne, quello non lo poteva negare, ma lui aveva sempre rifiutato. Non aveva mai cercato l’amore e neanche il piacere dei sensi. L’unica gioia che aveva era quella della battaglia, del potere nelle vene.

 

Solo quella, fino a quando non aveva conosciuto Alessandra.

 

Kagura assottigliò lo sguardo di rubino. L’youkai aveva qualcosa di strano. Era ancora inginocchiato a terra, come a proteggere la ragazza, e muoveva continuamente gli occhi e la testa, anche se in modo impercettibile. Perché non la fissava con quel suo sguardo di ghiaccio? Perché sembrava cercarla dovunque, mentre la yasha era ben visibile davanti a lui?

 

Sesshomaru non riusciva a individuarla. Il vento aveva confuso gli odori e adesso da ogni atomo di quel luogo trapelava l’odore rivoltante della demone. Non riusciva a capire dove si trovasse. E temeva un attacco improvviso. Non capiva esattamente lo scopo del suo discorso. Se era per farlo arrabbiare, ci stava riuscendo. Ma non sperasse che si muovesse alla cieca come uno sciocco. La demone sembrava avercela soprattutto con Alessandra, e finchè lui fosse rimasto lì il campo d’azione si restringeva.

 

Una risata. Roca. Nervosa. Rimbombava ovunque. E lo faceva fremere ancora di più. Doveva ricorrere a tutta la sua volontà per dominarsi e non muoversi.

 

Kagura gettò indietro la testa, nascondendo la bocca con il ventaglio. Divertita. Era sinceramente divertita dalla passività del demone. Non si muoveva. Teneva la mano sull’elsa della katana, ma non accennava un movimento.

 

“E perché smettere? Non è forse la verità? Non ti si sono offerte già molte donne?”. Fece una pausa, spiando di nuovo la ragazza. Aveva il volto teso in un’espressione sofferente. Alessandra non voleva credere a quello che sentiva.

 

Solo un’amante. Una delle tante. Anzi, la più insignificante. Non riusciva a riconoscere, nelle parole della yasha, l’uomo con cui aveva dormito. Era davvero così? Davvero usava le donne solo per il suo piacere?

 

“Cosa si dirà quando si saprà che nel tuo letto c’è spazio per tutte? Anche per le umane?...Il grande signore delle Terre dell’Ovest che commette lo stesso errore del padre…Divertente, non trovi?”

 

Sesshomaru non ci vide più. Estrasse Tokijin e si avventò nella direzione da cui aveva sentito provenire la voce. Voleva farla tacere. Farla smettere. Nessuno poteva permettersi di parlargli a quel modo. Di insultarlo. E di insultare suo padre. Nessuno.

 

Kagura evitò facilmente il fendente. Ma nell’attimo in cui gli passò accanto potè vedere le iridi spente di Sesshomaru. E capì. Capì il motivo dello strano comportamento del demone. Quei suoi gesti apparentemente insensati, anche se quasi invisibili. Il fatto che l’avesse mancata e non sapesse con esattezza dove mirare.

 

Cieco…sei diventato cieco…e tutto per lei?...

 

Kagura si materializzò accanto ad Alessandra, ancora inginocchiata a terra. Le afferrò il viso con una mano e glielo sollevò. Gli occhi della ragazza erano cupi come il cielo notturno. Vuoti e senza espressione.

 

“Ma guarda, sei più graziosa di quello che avessi visto…”. Affondò leggermente le unghie nel volto della ragazza, che però non si mosse.

 

“Non toccarla”

 

La voce di Sesshomaru arrivò distorta in un ringhio, ma la yasha lo ignorò. Sapeva che in quelle condizioni era lei a condurre la partita, perché l’youkai non avrebbe mai sferrato un attacco col pericolo di colpire anche lei.

 

…davvero provi qualcosa per questa stupida umana?...Non sa neanche difendersi…

 

Alessandra sentì la voce del demone e si riscosse giusto in tempo per ricevere un’altra offesa. Kagura aveva avvicinato maggiormente i loro visi.

 

“Allora, mia cara…”. Fermò con malizia la frase, occhieggiando verso Sesshomaru. “Com’è giacere con il Principe dei demoni? A letto è tanto focoso quanto è freddo in battaglia?”

 

Alessandra fu gelata da quel discorso. Ma chi credeva che fosse? Davvero pensava che gli fosse accanto per quello? Solo per quello? Kagura lesse il disgusto nei suoi occhi e anche l’imbarazzo. E ne rise estremamente compiaciuta.

 

“Ma come, Sesshomaru?”. Lasciò la ragazza che ricadde nella neve senza un respiro. “Non l’hai ancora fatta tua? Da quando sei così galante con una semplice femmina umana? Di solito, non vai tanto per il sottile…”

 

Il demone rimase spiazzato. Da dove le usciva quel discorso? Cosa diavolo voleva ottenere con quelle parole, con la sua volgarità? Un mostro. Lo stava dipingendo come un mostro. E lui non provò mai come in quel momento la voglia di ucciderla. Di sentire il suo sangue scorrere e i suoi ultimi rantoli.

 

“Sei disgustosa”.

 

Protese la lama in un invito mortale, mentre si lasciava avvolgere dal suo youki. Sarebbe morta. Ora. Subito. Per l’avare l’offesa. Come aveva osato parlargli così? Come aveva potuto lui, permetterglielo?

 

Kagura agitò il ventaglio producendo una piccola corrente d’aria che nuovamente confuse gli odori. Sesshomaru era di nuovo incapace di localizzarla attraverso l’olfatto, e anche l’udito non glielo permetteva. Sentì solo la yasha gridare il nome del colpo, e aspetto un impatto che non avvenne.

Il vento calò d’improvviso.

 

“Maledetta sgualdrina!”

 

Alessandra si era gettata su Kagura con il pugnale ben saldo, ed era riuscita a strapparle di mano il ventaglio prima che il colpo partisse. Ma non aveva potuto evitare il manrovescio che l’aveva gettata a terra. E adesso Kagura serrava le sue dita affusolate sulla sua gola.

 

“Cosa credevi di fare? Tu non sei nulla al mio confronto…Tu non vali nulla…sei solo una patetica umana che ha dormito fra le braccia del Principe dell’Ovest…una delle tante…neanche capace di dargli il piacere che vi cercava…una stupida, debole e insignificante umana…solo un’amante…una squallida amante…”

 

Perché non ha voluto me? Cos’ho in meno di lei? Cosa?!

 

Un nuovo fendente la costrinse ad allontanarsi e Alessandra tossì per recuperare il respiro. Sesshomaru adesso era davanti alla ragazza, gli occhi d’ambra assottigliati e minacciosi. Voleva ucciderla. Aveva esagerato. E non gliela avrebbe fatta passare liscia.

 

Kagura si sfilò dai capelli una piuma, gettandola in aria. Lo odiava e lo disprezzava. Avrebbe potuto avere lei, gli si era offerta assieme ai frammenti della sfera. Gli si sarebbe data in cambio dell’aiuto per liberarsi da Naraku. Gli avrebbe dato il suo corpo perché uccidesse il suo signore. Una proposta invitante, visto che così Sesshomaru avrebbe potuto vendicare anche l’onta che l’hanyou gli aveva fatto.

 

Invece, l’aveva rifiutata. Lei. Una demone completa. Potente, anche se schiava. E adesso le preferiva una semplice umana. Una donna umana. Una ragazza.

 

“Mi fai schifo”. Saltò sulla piuma e lo fissò un’ultima volta, piena di disprezzo. Perché non l’aveva ritenuta all’altezza del Principe dei demoni. Perché giudicava una ningen più degna di attenzione di lei.

 

“Godi di lei, finchè puoi. Pesto non avrei più il tempo per farlo”

 

*****

 

Silenzio.

Per tutto il resto del giorno, nessuno dei due aveva parlato. Dopo l’attacco di Kagura si erano rimessi in marcia senza scambiarsi una parola. Erano entrambi concentrati nelle loro riflessioni, e paurosamente silenziosi.

 

All’inizio, il silenzio prolungato aveva reso inquieta Alessandra. Si era aspettata che il demone rispondesse qualcosa a tutte le allusioni che la yasha aveva fatto, invece si era limitato a rinfoderare la katana e a incamminarsi. Lei lo aveva guardato allontanarsi e poi si era trovata costretta ad alzarsi per seguirlo. Lo aveva fissato intensamente, ma l’youkai sembrava non ricordarsi nemmeno della sua presenza.

 

Dimmi qualcosa, non startene lì zitto senza dire una parola…Qualcosa lo avrai pur da dire! Starai ben pensando a qualcosa con quell’espressione cupa stampata in faccia! Vorrei tanto dirti che ti odio quando non parli!

 

Aveva anche provato l’impulso si parlare lei, di chiedergli di spiegarsi, ma aveva resistito, per orgoglio. Aveva tanto su cui riflettere e il silenzio avrebbe giovato anche a lei.

 

Sesshomaru non si era accorto delle mute domande della ragazza. Non aveva percepito l’odore dei suoi dubbi e delle sue preoccupazioni. Aveva ripreso il cammino con un solo pensiero fisso in testa: non era riuscito a ucciderla.

 

Lui, il grande demone, il signore degli Inuyoukai , non era riuscito a uccidere una patetica yasha; anzi, non l’aveva neanche sfiorata. E le aveva permesso di giocare con lui, di insultarlo. Si era continuamente detto, nei giorni precedenti, che la cecità non costituiva un problema per lui. Aveva sempre indovinato qualsiasi movimento esterno alla grotta, grazie all’olfatto e all’udito. Aveva sperato di poter fare ugualmente in caso di battaglia. Si era illuso.

 

Era bastata una leggera brezza a far crollare le sue certezze. Il vento aveva confuso gli odori e l’eco gli aveva impedito di localizzare l’avversario. Era stato cosciente solo del fatto che fosse intorno a lui. Dove, non lo aveva saputo.

 

Solo alla fine era riuscito a respingerla, approfittando del fatto che fosse distratta da lui. Ma non si faceva illusioni. Era perfettamente consapevole che, in uno scontro frontale, sarebbe stato lui a soccombere.

 

Patetico!

 

Gli bruciava. Quella sua incapacità di difendersi gli bruciava dentro come un fuoco che lo consumava. Nonostante il portamento eretto e il passo sicuro, era una preda facile. Dannatamente facile. Era ancora vivo perché Alessandra aveva strappato di mano a Kagura il tessan, prima che lei potesse attaccare.

 

Debole. Lui era debole. Una realtà che non aveva voluto accettare e che gli era stata sbattuta in faccia nel modo più brutale. Con una sconfitta sul campo. Una sconfitta che gli bruciava. Neanche le parole della yasha avevano prodotto le stesso effetto.

 

Si era irritato per le sue allusioni, ma non vi aveva dato in seguito tanto peso. Perché farlo, poi? In fondo, nessuno avrebbe mai prestato fede a un’emanazione di Naraku e comunque si trattava di voci che già aveva sentito circolare sul suo conto.

 

No. Sesshomaru non si soffermò a considerarle neanche per un attimo. Non gli interessavano. Gli arrecavano solo fastidio, perché insinuavano il dubbio che lui si stesse comportando come suo padre.

 

…No…Non farò mai lo stesso errore…

 

Però, per quanto lo ripetesse convinto nella sua mente, sapeva benissimo che le sue azioni dimostravano il contrario. Perché non era forse una femmina umana quella che gli camminava alle spalle, silenziosa e pensierosa?

 

Alessandra continuava a torturarsi con le parole di Kagura. Le rimbombavano nel cervello come una crudele cantilena. E più il tempo passava, senza che Sesshomaru dicesse niente, più lei si convinceva che quelle parole fossero vere.

 

Si cerca di chiarire solo quello che è falso…tu non dici niente, però…

 

Il bel demone non aveva mai detto che fossero menzogne. Non aveva negato che già molte donne gli si erano offerte; che aveva già preso molte umane, con la forza; non aveva negato che lei era solo un passatempo.

 

…non hai negato niente…

 

Alessandra si convinse che il silenzio del demone fosse la sua implicita ammissione, altrimenti chiunque avrebbe reagito e poi provato a chiarire. Invece, lui non aveva fatto nulla di tutto questo. Altrimenti, avrebbe dovuto ammettere che la sua strategia di seduzione era fallita per le parole troppo insolenti di una yasha.

 

Perché era solo un gioco di seduzione quello che il demone aveva intrapreso. Nulla di più. Invece di prenderla con la forza, aveva preferito illuderla, comportandosi da amico, consolandola, fingendo di assecondare le sue richieste. Lo scopo finale era sempre lo stesso: averla. Avere il suo corpo. Goderne.

 

Alessandra sentì la disillusione invaderla completamente. Era stata una stupida; si era fatta ingannare per bene, perché in lui aveva riposto fiducia. Si era lasciata irretire dai suoi modi eleganti, dal suo atteggiamento freddo che nascondeva carezze ardenti. Si era lasciata sedurre da lui, come un’ingenua. E quasi gli aveva ceduto.

 

Un bacio. Gli aveva quasi concesso un bacio. Il primo della sua vita. A un uomo di cui non sapeva nulla. Anche se ci viveva assieme da tre mesi ormai. Eppure continuava ad essere quasi uno sconosciuto. Lo aveva curato, accarezzato. Lo aveva amato con gli occhi e desiderato che si svegliasse. Aveva pianto davanti a lui e da quelle braccia si era fatta stringere.

 

…ho perfino…dormito…con lui…

 

Inganni. Tutto era stato un inganno. Con il solo scopo di condurla al suo castello. Di esibirla come nuovo trofeo. Di farla entrare nel suo letto. Ecco cosa voleva quel bellissimo demone da lei: una notte di passione.

 

*****

 

Aria pungente.

Nonostante la protezione delle radici, nel piccolo anfratto ai piedi di una quercia secolare il freddo della notte penetrava tranquillamente, facendo danzare il fuoco. Un fuoco che non riusciva però a scaldare il gelo di quel silenzio.

 

Alessandra era seduta in un angolo, quasi avvolta dal buio. E davvero avrebbe voluto essere inghiottita dalla notte. Scomparire. Si abbracciò le ginocchia con più forza e vi tuffò il viso, mentre una lacrima rotolava solitaria sulla sua guancia.

 

L’asciugò con rabbia. Anche se in quel momento era sola, non avrebbe pianto. Non valeva la pena piangere per un uomo come lui. Per un misogino, per uno che è abituato a vedere le donne come un oggetto e che le ricerca solo perché ha voglia di un bacio o di una notte d’amore.

 

Non gli faceva paura comunque. Era solo profondamente affranta. Di essere stata così ingenua; di essere caduta nelle maglie della sua rete con un candore disarmante. Chissà come doveva essersi divertito, il bel demone, nel “cacciarla”, nel percepire la sua confusione emotiva e nel fingere disinteresse verso di lei.

 

…perché fingere?...In fondo, non sono nulla per lui…Ha solo provato ad avermi in un modo diverso…Forse aveva tempo di giocare…

 

Sesshomaru tornò alcune ore dopo. Aveva ispezionato gran parte del bosco, accertandosi che non ci fossero pericoli. In realtà, si era allontanato per allenarsi senza che la ragazza si dovesse preoccupare per lui. Non era ancora abituato ad aver accanto qualcuno da proteggere, nonostante la presenza di Rin.

 

Qualcuno da proteggere…

 

No. Era diverso. Non era ancora abituato al sentimento che sentiva verso una delle persone che aveva da proteggere.

 

Trovò Alessandra raggomitolata in un angolo, addormentata. La giornata doveva averla stancata molto, soprattutto a livello emotivo. Aveva sempre considerato le ningen insignificanti e deboli, indegne della sua attenzione, ma doveva ammettere che quella ragazza era riuscito a incuriosirlo. Di più, ad attrarlo. Perché era più fragile di quello che volesse mostrare, eppure, in caso di bisogno, era capace di sfoggiare una determinazione e una durezza invidiabile. Era un’anima mutevole, caleidoscopica e cangiante come lo erano i suoi occhi.

 

Quanto gli mancavano. Gli mancava poterci affogare dentro. Gli mancava poter spiare le ombre del suo volto. Gli mancavano la sua tristezza e il suo sorriso leggero. Avrebbe tanto voluto sentirla ridere. Percepire in lei spensieratezza e allegria, come in Rin.

 

Aveva sperato di trovarla sveglia, di poterla stringere a sé inebriandosi del suo profumo e assaporando il suo calore. Aveva sperato di trovarla sveglia, per poterla avvolgere nel suo kimono e piegarsi su di lei. Per baciarla. Aveva sperato di poterla finalmente baciare.

 

Se non fosse stato per Kagura, quel pomeriggio avrebbe conosciuto il sapore di quelle labbra. Invece, aveva dovuto rinunciarvi. E per tutto il resto del giorno era stato avvolto da pensieri così infausti da dimenticarsi perfino della presenza della ragazza e di quello che quasi era riuscito ad avere.

 

Si sedette accanto a lei, richiamando alla memoria il suo viso tranquillamente addormentato. Lo aveva visto poche volte e solo dopo che lei gli aveva narrato la sua storia. Non l’avrebbe svegliata, ma la voleva comunque accanto a sé. Passò il braccio attorno alla vita di Alessandra e mosse piano per farla adagiare al suo fianco.

 

Un bruciore improvviso alla guancia lo costrinse a lasciare la presa e lo lasciò a bocca aperta per lo stupore, mentre una voce gli rimbombava nelle orecchie.

 

“Non ti avvicinare!”

 

Alessandra, nel dormiveglia, si era accorta del suo braccio e aveva reagito d’istinto, colpendolo con uno schiaffo con tutta la sua forza. E adesso se ne stava lì davanti a lui, con gli occhi colmi di rabbia e disgusto. Sì. La disgustava. Perché aveva cercato il suo corpo senza preoccuparsi di lei. Perché, in fondo, di lei non gli importava nulla.

 

Sesshomaru si portò una mano alla guancia bruciante. La sentiva pulsare in modo nuovo. Non ricordava di aver mai ricevuto uno schiaffo. Neanche da suo padre. E adesso, una semplice umana si permetteva di darglielo. Senza neanche una ragione.

 

“Ma cosa ti salta in mente?” le chiese, massaggiandosi la guancia e recuperando la sua abituale freddezza. Se non voleva dormire con lui, bastava dirlo. Non si sarebbe opposto. Ma non vedeva la necessità di prenderlo a schiaffi e urlargli contro.

 

“Cosa mi prende?! Credi che non lo sappia cosa vuoi? Mi credi davvero così ingenua?”. Alessandra era furiosa, tutti i suoi dubbi le erano stati schiaffeggiati in faccia da Kagura, e il silenzio di Sesshomaru non aveva fatto altro che alimentare la convinzione che le parole della yasha fossero veritiere. Quando poi aveva percepito il suo tocco, non aveva avuto più dubbi. “Pensi davvero che io sia pronta a cadere ai tuoi piedi perché ti sei mostrato gentile con me? Credi che sia rimasta ammagliata dal tuo corpo o dai tuoi begli occhi? Sei affascinante, è vero, ma non credere che questo basti a farmi cedere.”

 

Sesshomaru subì la sfuriata isterica senza riuscire a trovare il tempo di controbattere. Troppo impegnato a tenere il filo di quel veloce discorso. Alessandra era davvero arrabbiata, come non l’aveva mai vista.

 

Cosa le era successo? Nei giorni addietro e anche quel pomeriggio lo aveva lasciato avvicinare senza nessuna reazione. Si era avvicinata lei, facendosi stringere dalle sue braccia, contro il suo petto. Poteva capire che il suo passato l’avesse resa diffidente, lui stesso aveva avuto una reazione simile alla morte di suo padre, ma ormai credeva di aver superato quello scoglio. Che lei si fidasse. Invece, era a un punto morto. Ogni volta che credeva di essere ad una svolta, doveva ricominciare tutto da capo. E il bel demone non era abituato a rincorrere qualcosa troppo a lungo.

 

“È per Kagura, vero?”

 

Ne era sicuro. La causa di quella reazione dovevano essere le parole della yasha. Probabilmente, lei si era sentita offesa e ignorata dal suo silenzio. Ma lui non era abituato a dover rispondere delle sue azioni e neanche in quel caso lo aveva fatto.

 

Alessandra rise. Una risata roca e amara. Da ubriaca. E forse lo era davvero. Era ubriaca di rabbia e delusione.

 

“Cos’è, ti dispiace che il tuo piano di seduzione sia stato svelato? Oh, certo: arrivare al tuo palazzo assieme ad una nuova amante deve essere molto eccitante. Ti deve far sentire importante e dominatore. Il grande Principe è tornato dalla caccia con un buon bottino. Che passerà ai suoi subordinati quando lui se ne sarà stancato. In fondo, un’umana è insignificante, serve solo per fare nuove esperienze quando l’oiran di turno non è soddisfacente.”

 

“Non ti permettere”.

 

Lo sibilò appena, assottigliando gli occhi d’ambra. Quella sciocca ragazzina lo stava insultando. E lui non lo poteva permettere. Non due volte nello stesso giorno. Non di nuovo le stesse insensate allusioni. Lui non era come suo padre. Lui non avrebbe rifatto lo stesso errore. Lui non era così.

 

Sesshomaru si alzò in piedi in un impeto di collera. Aveva gli occhi ridotti a due fessure, i muscoli delle guance tirati e sporgenti e le labbra serrate. Afferrò la ragazza per un polso, poi per le spalle. Alessandra si contorse per il dolore, per quella presa fortissima che sembrava volerle spezzare le ossa. Afferrò la mano del demone e cercò di liberarsi. Gli occhi dell’youkai erano di ghiaccio, attraversati da fiamme rabbiose.

 

“Lasciami, Sesshomaru!”

 

“No!”. L’attirò di più a sé, fissando le iridi vuote sul suo volto. “Dimmi chi ti autorizza a parlarmi così! Dimmelo!”.

 

Sesshomaru alzò ancora di più la voce e la scosse per la spalla. La sbatté contro il tronco dell’albero e si sporse verso di lei. Alessandra poté avvertire il copro del demone premere contro il suo, i suoi occhi carichi di rabbia. Sentì crescere in lei la voglia di ribellarsi, di sottrarsi a lui e scappare lontana. Aveva sbagliato. Aveva sbagliato a fidarsi di lui.

 

“Lasciami andare! Puoi anche forzarmi alle tue voglie, puoi anche avere il mio corpo, ma sappi che non mi piegherò mai a te!”

 

Sesshomaru lasciò immediatamente la presa, come se quelle parole l’avessero fatto rinsavire di colpo, e si allontanò di alcuni passi, mentre Alessandra scivolava a terra, massaggiandosi la spalla sinistra dove le unghie del demone avevano lasciato dei lividi dolorosi.

 

“Alessandra…”. Sorpreso, era fermo con il viso abbassato verso la sua mano, tesa in un’immobilità marmorea. “Io…”

 

“Cosa?! Non è forse quello che volevi? Non sarei forse stata la tua amante? Uno stupido oggetto! La ricompensa per la gentilezza mostratami.

 

Sesshomaru indietreggiò ancora di un passo. Davvero credeva che il suo comportamento avesse doppi fini? Non aveva mai avvicinato una donna come lei senza alcuna volontà se non quella di farla sorridere. Se fosse stata un’altra ningen a parlargli a quel modo, probabilmente sarebbe già morta.

 

“Cosa te lo ha fatto credere?” chiese con innocenza. Non era mai riuscito a capire gli esseri umani, e quella ragazza meno di tutti.

 

“Oh, non guardarmi così, perché l’innocenza sul tuo volto stona! Gli uomini desiderano sempre qualcosa in cambio, non fanno mai nulla senza uno scopo: c’era forse una sfida? Il primo che ottiene una donna, vince una nuova spada? E poi, naturalmente, una nuova amante nel letto”. Ora era sfrontata, irriverente e irrispettosa. Non sembrava più neanche importarle di quello che sarebbe potuto accaderle.

 

“Non ti ha mai trattata come una yotaka

 

Sesshomaru raddrizzò le spalle. Sembrava davvero imponente, alla luce rossa del fuoco che si infrangeva nei suoi occhi e scivolava lungo il suo corpo.

 

“Forse. Ma questo pomeriggio non mi sembra che tu ti sia prodigato nel rassicurarmi del contrario”

 

L’youkai si sentì un po’ in colpa. In fondo, lei non lo conosceva molto e lui aveva dato troppe cose per scontato. Non aveva pensato a chiarire nulla.

 

“Bastava che tu chiedessi”

 

“Davvero? Per sentirmi rispondere col silenzio? No, grazie!” Alessandra ora era in piedi davanti a lui, con i pugni chiusi. Ancora arrabbiata. Ancora offesa.

 

“Non lo avrei fatto”

 

“Non mi sembra di ricordare la tua spiccata capacità oratoria”

 

Sesshomaru rialzò il viso su di lei. Aveva ragione. Aveva dannatamente ragione. Lui non parlava molto. Anzi, non parlava proprio. Ma credeva di averglielo fatto capire, quello che contava per lui. Con i gesti. Con il rispettarla.

 

“Come posso capire qualcosa se tu non dici mai niente e non rispondi neanche alle domande! Sai solo ordinare. Ordini, e basta! Sono tre mesi che ti conosco, e non ti ho ancora sentito dire qualcosa che non sia un comando! Finora, ho parlato solo io! Ho sempre parlato solo io!”

 

Alessandra abbassò sconsolata la testa. Ecco che fine faceva la sua nuova amicizia. Ecco il risultato della voglia di aprirsi, di trovare qualcuno su cui contare. Sbagliato, sbagliato! Aveva sbagliato tutto. Non le era bastata la lezione del passato? Non le era bastato vedersi abbandonata da ragazzi che conosceva da una vita per capire che non si può far affidamento su nessuno? No. Probabilmente non aveva ancora imparato. Altrimenti non si sarebbe trovata in quella situazione. Davanti a quel ragazzo, a piangere senza riuscire a controllarsi

 

Sesshomaru sentì l’odore del sale e ne ricevette una stretta al cuore. Non voleva che piangesse. Non lo sopportava. E più di tutto non sopportava l’idea di essere stato lui a farla piangere. Con il suo atteggiamento.

 

Vorresti che ti parlassi? Per dirti cosa? Tutto il dolore che ho provato quando mio padre è morto? La rabbia per vedermi preferito un fratello mezzo-sangue? La solitudine della mia infanzia, quando non mi era permesso neanche giocare perché dovevo allenarmi…dovevo diventare il migliore…Gli obblighi che la mia nascita mi impongono…Vorresti che ti dicessi perché non rido? Sono secoli che non lo faccio…Non so neanche se l’ho mai fatto…Non ricordo di aver mai avuto qualcosa per cui valesse la pena anche solo di sorridere…

 

“Perché piangi?”

 

Alessandra sollevò il viso, cercando di apparire dignitosa nonostante le lacrime, e di nascondere lo sconforto. Si morse le labbra e socchiuse la bocca, ma non riuscì a esprimere il tumulto di emozioni e le uscì solo un lunghissimo sospiro. Sesshomaru allungò una mano per asciugarle il viso.

 

“Hai idea di come mi sono sentita?...un oggetto privo di valore…solo una cosa da usare e poi gettare…” mormorò premendo la guancia contro la mano di lui. Perchè non riusciva a sottrarsi a quel contatto? Perché, nonostante tutto, riusciva a tranquillizzarla e a farla sentire al sicuro?

 

“Non so nulla di te…Solo il tuo nome…”.

 

Sesshomaru l’attirò al petto, sprofondando nel suo profumo. Era la sola cosa che volesse. Averla vicina. Sentirla sorridere.

 

“Non sei un oggetto…”. Si fermò, cercando le parole giuste. Era difficile per lui spiegare qualcosa che non conosceva.

 

“Sei…importante…per me…”. Si fermò di nuovo. Non era timidezza a bloccarlo, ma la paura di non riuscire a parlare senza essere frainteso. Di perderla.

 

“Non ci sono mai state amenti. Io…non ho mai…amato…nessuno…Tu…tu sei la prima…la prima che riesca a farmi sentire così…” Sorrise. Una leggera smorfia gli increspò le labbra. “…coinvolto…”

 

Di nuovo, silenzio. Alessandra aveva smesso di piangere e ora lo ascoltava trattenendo il respiro. Per la prima volta, era lui a parlare di sé. Seguì il movimento del suo corpo che si sedeva e si abbandonò fra le sue braccia, con la testa sulla stola e gli occhi al fuoco.

 

“Io…non so cosa voglia dire…amare…Non l’ho mai saputo…Un youkai non può provare amore, questo mi hanno insegnato…Ma…da quando ti ho incontrata…qualcosa è cambiato…qui, nella mia anima…Stai abbattendo la mia corazza…le mie sicurezze…Tutto ciò per cui ho sempre combattuto…”

 

Le passò la mano fra i capelli. Era strano quel discorso. Quel modo di mettersi a nudo senza provare imbarazzo, senza avere la sensazione di mostrarsi debole. E la cosa che più di tutto lo sorprendeva era che non lo faceva perché sperava così di averla. Assolutamente no. Gli sarebbe bastato anche solo restare con lei fra le braccia tutta la notte. Non gli importava più neanche del sapore delle sue labbra. Voleva solo che si fidasse di nuovo di lui.

 

“Io…non ho mai cercato di approfittarmi di te…Voglio che tu lo sappia…Ti ho trattato con un rispetto che non avevo mai usato con nessuno…Forse questo non era il modo giusto, ma era l’unico che conoscessi… per dirti che…per me…sei importante”

 

Respirò a fondo. Non avrebbe cercato di baciarla, per farle capire che era sincero, né le avrebbe detto che l’amava, perché neanche lui sapeva esattamente cosa significasse. Cosa provasse. Non si sentiva ancora pronto per parlarle di tutto il suo passato. Perché significava riaprire ricordi e sensazioni che lo avevano fatto stare troppo male. Però, non voleva perdere quel rapporto. Quel sentimento strano che li legava l’uno all’altra.

 

“…Fidati ancora di me…”

 

Alessandra lo aveva ascoltato spigare il suo comportamento e quando finì di parlare si girò verso di lui. Aveva il viso tirato in un’espressione di angoscia. Stava aspettando la sua risposta. Cosa sarebbe successo se lei lo avesse rifiutato? Se gli avesse detto che non si fidava più di lui? Alessandra guardò nei suoi occhi spenti e ricordò il modo in cui l’aveva chiamata quella sera in cui aveva scoperto di essere cieco. Aveva una voce roca da bambino. Come di chi cerca di ingoiare le lacrime. Gli aveva fatto tanta tenerezza. Ma sapeva anche che era capace di uccidere. Lo aveva visto farlo, davanti ai suoi occhi, lo aveva visto sporco di sangue. Eppure, si era fidata di lui. Per istinto. Era stato l’istinto a condurla fra le sue braccia, a farglielo amare sempre di più.

 

“…Tu…mi vuoi…bene?...”

 

Sesshomaru abbassò il viso verso di lei. Per un attimo, i loro cuori risposero al loro posto. Anche se la mente diceva loro cose differenti sul valore delle parole, i loro cuori parlavano la stessa lingua. Si fissarono per un lunghissimo istante.

 

“Sì”

 

Alessandra sorrise debolmente; sentiva un gran calore dentro. Non era una dichiarazione, ma era pur sempre un’ammissione. E lei sapeva che non era falsa. Il bel demone non stava giocando con le parole. Era la verità. Perché aveva letto la stessa risposta nel bagliore che aveva attraversato i suoi occhi spenti.

 

Per adesso, mi basta questo…

 

Le braci crepitarono, mentre Alessandra si alzava sedendosi di fronte lui.

 

Sei stato sincero…Io…mi fido di te…

 

Il fuoco frustò l’aria quando Alessandra allungò le braccia attorno al collo del bel demone. Nel riparo, la luce soffusa rendeva incerti i contorni.

 

“Alessandra…”

 

Lei si sporse di più. “Se fai così, non riuscirò più a controllarmi…” sussurrò Sesshomaru impacciato.

 

“E tu non lo fare…”

 

Sesshomaru tremò mentre le mani di Alessandra passarono ad accarezzargli la nuca, tuffandosi in modo dannatamente sensuale nei suoi capelli. Una scarica di brividi si trasmise come un’onda a tutto il suo corpo quando avvertì quello della ragazza appoggiarsi al suo.

 

Poteva sentire il suo petto alzarsi e abbassarsi sempre più velocemente, il suo cuore aumentare il battito. Impazzito. Sembrava che ogni suo fibra, ogni suo muscolo fosse impazzito. Cinse la vita di Alessandra attirandola ancora di più verso di lui.

 

Ora i loro visi erano vicinissimi. Potevano sentire l’uno il respiro dell’altra. Alessandra non aveva diminuito la distanza, continuava a torturare i serici fili d’argento. Aspettava. Era stata lei ad avvicinarsi per prima, a offrire le sue labbra, ma voleva che fosse il bel demone a continuare, ora.

 

Sesshomaru sembrò capire il motivo di quella fase di stallo. Sorrise dentro di sé, mentre si chinava su Alessandra, sfiorando appena le sue labbra. Un bacio delicato, casto quasi. Voleva assaporare ogni emozione.

 

Fragola. Le sue labbra avevano il sapore della fragola. Dolce e delicato, appena un po’ aspro. Il sapore delle fragole selvatiche. Delle fragoline di bosco. Piccole e rosse, zuccherine ma con un retrogusto amarognolo che consente di non stancarsi mai del loro sapore.

 

Un contatto leggero, perché stranamente il demone capì che quello era il primo bacio che la ragazza riceveva. Così come era il primo per lui.

 

Pino. Le labbra dell’youkai sapevano di fresco. Del pino selvatico che cresce possente sulle pendici di vette invalicabili. Sapevano di pino e di vento.

 

Alessandra provò una sensazione strana quando le avvertì sulla sua bocca. Un vuoto allo stomaco e crampi continui. Crampi che le trasmettevano una frenesia costante. Eccitazione pura. Il primo bacio. Lo stava ricevendo da un ragazzo che era ancora uno sconosciuto, ma di cui sapeva di potersi fidare. Ciecamente. Ormai, ne era sicura.

 

Anche se lui doveva essere molto più vecchio, riusciva a percepire nel tremore sommesso delle sue labbra la sua stessa agitazione. Forse, davvero non aveva mai amato. Davvero non aveva mai baciato. I suoi gesti erano imbarazzati, timorosi di sbagliare.

 

…Sesshomaru…Voglio fidarmi di te…

 

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Capitolo 23
*** 23. LIBERO ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!

Per prima cosa: Buon anno a tutti!!!

 

Purtroppo, ho molto da fare perché devo preparare quattro esami, quindi sarò molto veloce: posto due capitoli. Ormai, la premesse sono quasi finite e adesso si inizia una scalata fino allo scontro finale.

 

Nel primo, non ci saranno Sesshomaru e Alessandra, mentre nel secondo passano assieme le ultime ore di "libertà". Nel prossimo, siamo a palazzo. Cosa si diranno? e perchè la nostra amica è di nuovo triste?

Leggere per scoprire!

 

Grazie a tutti coloro che leggono e commentano e anche a chi legge soltanto!

 

Buona lettura!!!

 

 

 

 

CAPITOLO 23

LIBERO

 

 

Quattrocentocinqunt’anni.

Erano da più di quattrocentocinquant’anni che aspettava quel momento, ma, finalmente, il tempo era giunto. Il suo youki, imprigionato, sarebbe stato liberato e avrebbe potuto ricongiungersi a lui. Sarebbe tornato potentissimo. Come prima di quello scontro. Anzi, di più. Perché in tutti quegli anni aveva ripristinato parte della sua forza.

 

Sarebbe stato invincibile. E si sarebbe preso la sua vendetta. Avrebbe ucciso il figlio del suo nemico. Avrebbe avuto i suoi territori, la sua gloria e gli onori. Avrebbe avuto tutto Nihon. Tutto quello che non aveva potuto ottenere in passato, perché lui lo aveva impedito.

 

Uno sciocco. Era cosa era stato Inutaisho. Un debole, stupido sciocco. E come tale era anche morto. Per proteggere una semplice ningen. Un’amante, e il frutto di quell’unione proibita. Patetico. Il dominatore del mondo era caduto nel modo più disonorevole. Lui, che aveva ucciso e sigillato i demoni più forti della terra, era morto contro un essere un amano.

 

Increspò le labbra in un sorriso ironico. Quando gli avevano narrato quella storia, si era divertito. Aveva goduto della fine miserevole del suo vecchio amico. E aveva gioito al pensiero di avere ben due eredi su cui sfogare la sua rabbia.

 

Due eredi…Un youkai e un hanyou…Incapaci di parlarsi. Costantemente in attrito. L’uno contro l’altro. Fin troppo facile. Li avrebbe annientati in un soffio, si diceva. Anche se le informazioni raccolte avrebbero potuto far pensare ad altro.

 

L’erede era potente, degno del padre. Ma non si era mai curato molto dei suoi territori e adesso questo gli sarebbe costato caro. Essere spietati è un’ottima qualità, ma è insufficiente se non la si accompagna alla pratica del comando. E il giovane principe combatteva da solo.

 

Doveva aver ricevuto una salda educazione militare, su questo non aveva dubbi. Probabilmente, simile a quella che lui aveva fatto impartire a Shin. Ma se il suo ragazzo era stato costantemente sotto controllo, incanalando tutte le sue forze alla vendetta e all’esercizio guerriero, il figlio di Inutaisho, alla morte del padre, aveva acquistato una libertà che probabilmente gli sarebbe costata cara. Certo, forte e potente lo era. Ma non avrebbe mai potuto eguagliare il padre.

 

Dell’altro figlio, non si preoccupava minimamente. Era destinato al suo alleato: Naraku. Glielo aveva chiesto in cambio dei suoi servigi. Del suo aiuto a sciogliere i sigilli. E lui glielo aveva concesso volentieri. Un insulso hanyou non costituiva certo un problema, né tanto meno l’avversario ideale per una riscossa.

 

No. Lui voleva il ragazzo che già prima di nascere rendeva il padre orgoglioso di lui. Quello che gli aveva reso soddisfazioni immense. Quello che ne aveva raccolto l’eredità.

 

Voleva lui. Sesshomaru.

 

*****

 

Un riverbero d’argento.

Nell’immensa caverna, scavata nelle profondità del monte Fuji, l’unica luce proveniva da un globo enorme. Stretto fra zanne di demone e sbarre calcaree millenarie. Sigillato.

 

Naraku rigirò nelle sue mani la sfera per l’ennesima volta. Era tempo. Tempo che tutto iniziasse. Tempo per lui di vincere, assorbire il potere degli antichi youkai maggiori e diventare invincibile. Con quella suprema forza demoniaca e la sfera completa, avrebbe dominato il mondo. Anche senza detenere le tre spade.

 

Già…Le spade. Delle tre, la più antica, Sounga, ormai era perduta per sempre. Sigillata e inarrivabile nel regno della terra. Perduta. Ne restavano due. In mani diverse. Due spade che dovevano aver percepito quello che lui stava preparando e che si dovevano chiamare, ma senza che i rispettivi proprietari vi dessero importanza.

 

Quelle spade erano pericolose. Forse, non avrebbero più potuto sconfiggere il suo alleato, ma rappresentavano comunque una minaccia. Tuttavia, solo una minaccia latente. Perché, singolarmente, ciascuna spada era incapace anche solo di scalfire l’energia demoniaca che un tempo avevano contribuito a rinchiudere. Erano solo lame arrugginite e spuntate.

 

Naraku sorrise. Non c’era pericolo che le spade si unissero in battaglia. Vero che lo avevano già fatto, ma ormai era inutile pensare che si sarebbe avverato di nuovo quel miracolo. I prodigi avvengono una volta sola.

 

Distese le mani fino a sfiorare la superficie della sfera. E mentre chiamava a sé tutto il suo youki per spezzare gli ultimi sigilli e liberare quella forza spropositata, iniziò un mantra con lo scopo di convogliare ogni energia della sfera dei quattro spiriti. Ormai, era quasi completa. Mancavano solo cinque frammenti, e ben presto li avrebbe avuti.

 

Sentì le forze aumentare a dismisura e l’energia fluire veloce nella sua persona, per poi abbandonarlo repentinamente, prosciugandolo quasi del respiro. Aveva dovuto attendere a lungo per essere in grado di sopportare quello sforzo.

 

Ma, ormai, era pronto.

 

Gli occhi si dilatarono e una luce abbacinante irradiò le pendici del monte, strappando all’hanyou un urlo disumano. Le colonne calcaree e le zanne demoniache si sbriciolarono come sabbia e il globo pulsò.

 

Vivo. Era vivo. Dopo più di quattro secoli di morte, era tornato a vivere. Ed era libero.

 

*****

 

Inuyasha si accasciò a terra all’improvviso, stringendo convulsamente la stoffa del kimono. All’altezza del cuore.

 

Gli faceva male. Dannatamente male. Come se qualcuno glielo stesse strappando. Boccheggiava disperato, alla ricerca d’aria. Ossigeno. Aveva bisogno di ossigeno. Non riusciva a respirare.

 

Si piegò ancora di più, raggomitolandosi su sé stesso come a proteggersi da quel dolore che gli strappava la ragione. Sentì il proprio sangue demoniaco iniziare a scorrere. A reagire in modo disperato a qualcosa. Stava impazzendo. Stava tentando di prendere il sopravvento. Senza motivo. Fluiva veloce nelle vene, assorbiva l’essenza umana del suo essere. Gli attanagliava la mente e rischiava di portarlo alla follia.

 

Kagome si piegò su di lui. Non riusciva a capire cosa avesse. Fino ad un attimo prima stavano parlando tranquillamente tutti e quattro. Poi, all’improvviso, Inuyasha si era fermato. Aveva uno sguardo strano, vuoto. E si era gettato a terra mugugnando e stringendo i denti per il dolore.

 

Si sta…trasformando?...

 

Non sembrava la solita trasformazione. Anche perché non c’era motivo che avvenisse. Non c’erano pericoli. Nulla che la potesse giustificare.

 

Lo sentì rantolare, con una voce gutturale che sembrava provenire da un altro mondo.

 

“Al…lon...ta…nate…vi…”

 

L’hanyou riuscì appena ad alzare gli occhi sulla ragazza inginocchiata davanti a lui, a regalarle un sorriso forzato, che una nuova fitta lo costrinse a chinare la testa. Ormai il dolore era insopportabile. E il suo sangue demoniaco stava per vincere.

 

Sottili graffi violacei si delinearono sul suo volto, mentre i canini si allungavano maggiormente. Stava per perdere nuovamente il controllo. Stava per tornare a essere un mostro sanguinario. Anche se non lo voleva. Anche se quell’idea lo rivoltava.

 

“…Mi...ro...ku…”

 

Il monaco si sporse di più su di lui. Doveva davvero soffrire tremendamente, se chiedeva il suo aiuto.

 

Ka…go…me…Por…ta…la…via”

 

Il ragazzo annuì e scambiò una breve occhiata con Sango. Aveva bisogno anche del suo aiuto. Kagome non era forte fisicamente, ma sapevano entrambi che si sarebbe dibattuta pur di non lasciarlo lì in quello stato. Erano coscienti che avrebbe voluto restare al suo fianco, e che così si sarebbe messa in pericolo.

 

Quando un nuovo spasimo colse il mezzo-demone, Miroku e Sango afferrarono la ragazza e cercarono di farla allontanare. Lei si dibatteva, urlava e piangeva, ma non riusciva a opporsi. Vedeva solo il copro del ragazzo che amava contorcersi sempre di più sulla neve bianca.

 

Poi, una soffusa luce dorata lo avvolse e i rantoli cessarono immediatamente. Furono pochi istanti. Il bagliore divenne sempre più intenso e poi si dissolse all’improvviso, così come era apparso.

 

Kagome si liberò dalla presa e corse dal ragazzo. Lo trovò svenuto a terra, sudato ed esausto. Al petto stringeva la sua katana. L’abbracciava, come se stesse abbracciando una persona importante.

 

*****

 

Energia.

Sentì un’energia antica sfiorarlo. Potente. Immensa. Se ne lasciò invadere, chiudendo gli occhi per assaporare appieno la sensazione di vigore che sentiva scorrere nelle vene.

 

Libero.

 

Lo avevano liberato. Finalmente, nulla li avrebbe più ostacolati. Quel potere, immenso e devastante, li avrebbe condotti alla vittoria. Alla riscossa. Avrebbero ripreso ciò che era loro per diritto e che si erano visti strappare.

 

Non perderti anche tu…

 

Shin scosse la testa. Al diavolo anche il Sensei! Gli aveva chiesto aiuto e lui invece di Takakuni gli aveva fatto incontrare Inutaisho. E poi, c’erano quelle parole. Così strane.

 

Non voleva pensarci. Alzò gli occhi al cielo, dove stava ormai scomparendo una sottile striscia rossa. Una traccia. La scia di un potere che torna al suo proprietario.

 

I sigilli sono stati definitivamente spezzati. Fra poco, lui sarà qui

 

Spiccò una veloce corsa fino alla radura dove aveva lasciato i fratelli. Anche loro stavano gustando quella presenza. Anche loro sapevano che l’inizio della guerra era ormai prossimo.

 

Yashi e Koji si alzarono assieme, mentre il fratello si materializzava nella radura. Si fissarono. Occhi viola e occhi azzurri. Un patto fra loro, e un segreto che solo uno di loro conosceva.

 

Shin sospirò, e per la prima volta da secoli abbracciò i fratelli. Come quando erano piccoli e cercavano la sua protezione dopo una marachella. I due ragazzi non capirono. Non aveva senso quel suo comportamento. Ma non importava. Lo strinsero a loro volta. Rinnovando in loro un vecchio accordo.

 

…uniti per sempre…una mente, un anima, un corpo…

 

*****

 

Un’esplosione.

Era stato come se una stella fosse caduta su di lui. Una forza impressionante, ancora maggiore di quella che ricordasse. Si era impadronita di lui con prepotenza, si era conficcata nelle sue membra facendolo gemere di piacere e gli aveva restituito una potenza ormai lontana.

 

Sentì un’energia impressionante scorrergli nelle vene, infiammare i suoi occhi. Accenderlo di nuovo vigore. Rinato. Lui era come rinato. Dopo più di quattro secoli di apatica agonia, era tornato in vita.

 

Libero.

 

Lo era davvero. Libero dai sigilli. Libero di tornare. Libero di vendicarsi. Di conquistare quel paese che sentiva suo per diritto di potenza.

 

Snudò la katana e fendette l’aria con decisione. Un secondo di silenzio, poi una linea sottile si allargo nella foresta secolare, lunga centinaia di chilometri, abbattendo alberi imponenti e distruggendo interi villaggi.

 

Sorrise, gustando il riflesso dei suoi occhi carichi di youki nella lama.

 

“Preparati, ragazzo. Sto venendo a strapparti il cuore.

 

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Capitolo 24
*** 24. SIGNIFICATI ***


CAPITOLO 24

CAPITOLO 24

SIGNIFICATI

 

 

Un jinja.

Gli aveva chiesto se conoscesse un jinja nelle vicinanze. Anche abbandonato. Le bastava che ci fosse la statua di un kami. Solo quello.

 

Ne era rimasto sorpreso. Ormai, mancava poco perché lasciassero completamente i territori dei ningen ed entrassero nei suoi diretti possedimenti. In quelle terre abitate solo da youkai e sotto il suo stretto controllo. Nelle terre che aveva ereditato da suo padre. Nelle terre dell’Ovest.

 

Glielo aveva detto. E lei gli aveva chiesto di accompagnarla prima in un tempio. Senza senso. Lui non riusciva proprio a capire certi suoi atteggiamenti. Ma non si era sentito di ignorare quella richiesta. In quegli ultimi giorni, Alessandra era diventata più schiva e taciturna di quanto avesse mai visto.

 

Sesshomaru si sentiva impotente. Per la prima volta nella sua vita. La sentiva intristirsi sempre di più, e non sapere cosa fare lo faceva impazzire. Toccava appena il cibo e lo cercava sempre con più urgenza. Anche se poi non parlava e ignorava anche le sue domande. Gli si accoccolava fra le braccia e trascorreva la notte insonne, a osservare il cielo stellato. Cercava di nascondere il suo stato d’animo, forse pensando che il demone non se ne sarebbe accorto. Inutile. Anche se cieco, Sesshomaru la percepiva la sua tristezza.

 

Ne sapeva l’origine, anche se non capiva bene perché quegli incubi fossero tornati a tormentarla così all’improvviso. Era da molto che Alessandra dormiva tranquilla la notte, da quando aveva parlato con lui. Sulla riva di un lago lontano. Aveva cercato di nuovo di spingerla a confidarsi. Di farla aprire, ma senza sforzarla. Perché lui per primo sapeva che a volte il dolore più grande è quello celato dal tempo.

 

Alessandra aveva sempre scosso la testa a quegli inviti. Si stringeva di più a lui e si lasciava avvolgere dal suo profumo. Gli aveva detto di non preoccuparsi, che presto sarebbe stata meglio e che gli avrebbe spiegato tutto. Ma lui doveva fidarsi. E lasciarle quei giorni di dolore.

 

E Sesshomaru aveva acconsentito.

 

*****

 

Sole.

Una luce che non scalda. Si lasciava accarezzare da quei raggi delicati, mentre la aspettava. Alla fine, l’aveva accompagnata ad un tempio. Aveva dovuto lasciarla entrare da sola nel recinto sacro, ma si era seduto sul ramo più alto di un albero, appena fuori le mura.

 

Aveva vegliato su di lei. Sul modo in cui era stata accolta. Perché temeva che il colore dei suoi capelli avrebbero spinto i monaci a reagire. Invece, era andato tutto bene. L’avevano riconosciuta come una ningen e l’avevano fatta entrare. E adesso lui l’aspettava pazientemente.

 

Glielo aveva promesso. Dopo quella visita, non sarebbe più stata così triste. Sarebbe passato tutto. Ma in quei giorni, lei proprio non poteva evitare di sentirsi estremamente malinconica. E in fondo, lui la capiva. Anche se non lo voleva ammettere.

 

Paura.

 

La notte precedente, aveva avuto paura. O qualcosa di molto simile. Una sensazione di pericolo che aveva avvertito una sola volta. Quando aveva visto suo padre per l’ultima volta. La sensazione che stesse per succedere qualcosa di sgradevole.

 

Lui. Proprio lui. Che non si era mia preoccupato più di tanto di chi gli fosse accanto. Che non aveva provato quasi mai niente per nessuno.

 

Era cambiato. Ed era stata lei a farlo cambiare. A renderlo più conciliante. A piegare la sua corazza. Non aveva mai permesso a nessuno di farlo capitolare. Non si era arreso a nessuno. Neanche a Rin. Libero. Senza vincoli né legami. Nemmeno quelli che gli derivavano dal titolo.

 

Eppure, aveva permesso che quella ningen lo abbattesse. Si era lasciato avvincere dai suoi occhi, dal suo tocco. Lo aveva sedotto con la sua ritrosia e tristezza. Con la forza e la determinazione. Lo aveva conquistato.

 

Aveva cambiato le sue abitudini. Ormai, non restava più fuori la notte. Anche se lui non aveva bisogno di dormire, si sdraiava nel futon, accanto ad Alessandra e la faceva dormire appoggiata a sé. A volte parlavano un po’ oppure seguivano la danza sibilante del fuoco. Non gli importava cosa facessero, gli bastava non lasciarla.

 

Ma la sera prima…Sesshomaru aveva aspettato che Alessandra si addormentasse ed era uscito dal riparo. Aveva bisogno di stare solo. Per riordinare le idee. Per cercare di trovare una spiegazione al pulsare sommesso di Tenseiga. Sembrava piangere, o chiamare qualcuno. E poi, quel pomeriggio, aveva avvertito un dolore lancinante al cuore. Come se glielo volessero strappare. Era stato costretto a inginocchiarsi a terra, stringendo la stoffa del kimono e digrignando i denti in un ringhio mal represso. Gli era sembrato di poter divenire folle per quel dolore. Aveva avvertito la ragazza accanto a sé, ma erano state percezioni confuse e distanti. Aveva sentito solo un fuoco arderlo dentro. Infine, una pace profonda. Il dolore si era spento lentamente, mentre Tenseiga aveva aumentato freneticamente il proprio battito. A proteggerlo. Creando come una barriera in cui niente potesse ferirlo. La spada lo aveva aiutato. E ora continuava a pulsare sempre di più, tremando e fremendo dentro il saya. Cosa avesse, lui non riusciva a capirlo. Non l’aveva mai sentita comportarsi in quel modo. In nessuna passata occasione.

 

Era preoccupato. Se la spada di suo padre si comportava a quel modo, una spiegazione doveva esserci, anche se lui non riusciva a trovarla. Inoltre, non riusciva a fingere la solita indifferenza. Pensava ad Alessandra, che aveva in lui una fiducia totale ormai. Pensava alla sua fragilità e alla sua forza latente. Voleva portarla al sicuro. Al castello. Il prima possibile. Lì non avrebbe più corso pericoli.

 

Si era sfiorato le labbra, riassaporando nella mente il gusto di quel bacio che si erano scambiati. Un gesto semplice, delicato. Il suo sapore…non si sarebbe mai stancato di quel sapore fresco e dolce…L’aveva baciata sfiorandole appena le labbra, quasi con paura di osare troppo. Di precipitare le cose. Non sapeva bene neanche lui cosa provasse. Era un sentimento nuovo e del tutto estraneo. Non sapeva come chiamarlo. Se avesse potuto davvero provarlo. E poi…c’era l’ombra di suo padre nella sua mente. Il ricordo della sua morte ingloriosa e l’odio verso la donna che ve lo aveva gettato. Ora, lui sembrava essere preda della stessa malia che aveva ucciso suo padre. E non aveva neanche la ferma volontà di allontanarsi.

 

Confuso. Era tanto, troppo confuso. Avrebbe potuto averla, certo, ma non lo desiderava. Non lo aveva mai desiderato. Voleva lei, ma non per il suo corpo. Di questo ne era sicuro. La voleva per qualcos’altro. Per qualcosa di simile alla sensazione che lo aveva spinto a prendere Rin con sé. A farne la sua protetta. Voleva proteggere Alessandra. Qualunque cosa volesse dire, non voleva che le accadesse nulla. Solo che fosse serena e che gli sorridesse. Come aveva sorriso quando l’aveva vista pattinare. Sesshomaru desiderò che la ragazza gli rivolgesse quel sorriso. Anche se lui non avrebbe più potuto vederlo, lo avrebbe percepito ugualmente, ne era sicuro. E ne avrebbe goduto fino in fondo.

 

Improvviso, un urlo. Acuto. Nella notte calma. Era tornato di corsa all’accampamento. Aveva temuto un demone. Aveva trovato invece qualcosa che non sapeva fronteggiare.

Alessandra era seduta nel suo futon. Tremava. Come aveva percepito la sua presenza, la ragazza aveva alzato gli occhi su di lui. Sbarrati. Terrorizzati. Piangeva. Singhiozzi strazianti le squassavano il petto. Il tempo di palesare la sua presenza, che fu investito dalla ragazza. Se l’era ritrovata al petto, stretta contro di lui. Artigliava il suo kimono e non smetteva di piangere. Era rimasto spiazzato. Ma poi aveva seguito l’istinto e l’aveva abbracciata.

 

Alessandra balbettava. Confuse con il respiro spezzato, uscivano parole inarticolate. Affondava il viso nel suo petto. Lo aveva stretto. Lo aveva abbracciato con il terrore che scomparisse da un istante all’altro. Quel sogno…quel maledetto sogno era ritornato. Con particolari ancora più nitidi del passato. Come sempre in quel periodo.

 

Sesshomaru aveva aspettato che si sfogasse, l’aveva lasciata urlare e piangere senza intervenire, solo limitandosi a stringerla più forte quando gli sembrava che il pianto aumentasse e a passarle la mano fra i capelli, in una carezza delicata e continua. Alla fine, aveva dovuto sorreggerla per evitare che cadesse. Era davvero distrutta. L’aveva presa in braccio come una bambina e si era seduto con lei sulle ginocchia vicino al fuoco. La cullava. Piano. Mentre ancora alcune lacrime le bagnavano il viso.

 

Non le aveva fatto alcuna domanda. Perché la ragazza sapeva che lui c’era sempre per ascoltarla. Che lo avrebbe sempre fatto. Ma anche che non glielo avrebbe mai imposto. Lentamente, Alessandra sentì la tensione allentarsi, scacciata dal semplice tocco dell’youkai sul suo volto. Nonostante il suo aspetto richiamasse in mille particolari la morte, per lei era la vita. La sola persona capace di trasmetterle quella tranquillità e di placare gli squarci del suo animo.

 

“Scusami…”

 

Il bel demone l’aveva sentita abbassare la testa prima di pronunciare quella parola, come se se ne vergognasse. Aveva sorriso. Perché voleva mostrarsi forte anche quando di forza non ne aveva molta; voleva tenersi tutto dentro e poi il risultato era che i suoi nervi cedevano e quegli incubi tornavano a tormentarla.

 

L’aveva sfiorata, alzandole con dolcezza il volto bagnato di sale, scostando i ciuffi ramati. Si era chinato su di lei e l’aveva baciata. Con passione, ma anche con infinita dolcezza. Alessandra aveva sentito di nuovo il suo sapore fresco e inebriante, e si era abbandonata a lui. Quel bacio conteneva tutte le parole che il demone non riusciva a pronunciare. Tutto quello che non riusciva a comunicare per via della sua rigida educazione. Era una promessa di aiuto, la consapevolezza che lui ci sarebbe stato sempre, la sicurezza di non essere più sola.

 

Glielo aveva spiegato. Il motivo di quella rinnovata tristezza. Anche se con lui stava bene, anche se si addormentava serena fra le sue braccia, anche se non provava rimorso nel baciarlo. Non dipendeva da lui. Anzi, lui era tutto ciò che le permetteva di andare avanti. Quella malinconia era dovuta a un numero. Alla data di un giorno. Ad una ricorrenza. Quella dell’anniversario di quell’incidente.

 

Sesshomaru si volse verso il tempio. Il vento gli portava un odore di incenso che lo infastidiva. Era da parecchio ormai che era entrata. Presto, lo avrebbe raggiunto di nuovo e finalmente sarebbero entrati nei suoi domini.

 

Non voleva pensare a quello che avrebbe scatenato il suo rientro con una donna umana al fianco. Non in un momento come quello. Quando, ad aggravare la sua cecità, c’era una situazione sociale nebulosa e incerta.

 

Non sapeva come avrebbero agito, ma era determinato a tenere Alessandra con sé. Anche senza più poterla avvicinare e baciare. Voleva che fosse al sicuro. Con lui. Non voleva altro.

 

*****

 

La stupa era buia e impregnata del fumo di molte candele e dell’incenso che bruciava in un grande braciere. Le ombre si infrangevano sulla superficie lavorata, infilandosi nelle decorazioni sontuose del soffitto e dell’altare. Una luce soffusa permeava l’ambiente. Una luce quasi irreale.

 

Alessandra prese un po’ di polvere grigia e la gettò nel fuoco. Sembrava cenere profumata. Un piccolo sbuffo, un guizzare sommesso che ravvivò la fiamma. Poi, di nuovo l’immobilità ieratica del dio che aveva davanti. Un buddha dal volto sereno e imperturbabile.

 

Si inginocchiò sulla stuoia intrecciata e iniziò a pregare. Da quando era giunta in quell’epoca, pensò, non lo aveva fatto. Non lo fece per i sogni angosciosi che erano tornati a tormentarla, non per paura del sentimento che sentiva crescere dentro di lei e diventare sempre più forte, né perché si fosse pentita di non aver pregato per tre mesi, ma forse anche tutte queste cose influirono.

 

Pregò per i suoi genitori e suo fratello, perché loro erano sempre nei suoi pensieri. Il loro ricordo non l’avrebbe mai abbandonata e sarebbe servito come sostegno nei momenti difficili. Chiuse gli occhi e strinse con forza le nocche, fino quasi a farle diventare bianche. Avrebbe voluto che loro fossero lì, ma ormai sapeva che era un desiderio folle e insensato. Ingiusto forse, anche. Aveva sentito dire che in Giappone credono che le anime non possano raggiungere la quiete eterna se in terra c’è qualcuno che le trattiene con il loro dolore. Lei non sapeva se fosse vero o meno. Ma non le importava. Come non le importava in quel momento essere inginocchiata davanti ad un effige che non ritraeva il suo dio.

 

Voleva solo parlare con loro. Raccontar loro quello che le era successo e quello che stava vivendo. Voleva chiedere di non farle mancare la loro protezione, e di vegliare sempre su di lei. Voleva finalmente poter dire addio ai suoi tormenti e ai suoi sensi di colpa.

 

La voce…quella voce che talvolta credeva di sentire nel sonno…quella voce così calda…Sembrava quella di Leone. Non ci avrebbe mai creduto, ma voleva illudersi che lo fosse. Che fosse un invito a superare il passato e a guardare avanti. Al futuro.

 

Forse stava rincorrendo anche in quel momento un sogno. Perché una vita accanto a un demone, ad un essere che razionalmente non dovrebbe esistere, sfiorava l’assurdo. Ma reale o meno, Sesshomaru era l’unico che fosse riuscito a guarirla dalla depressione in cui era caduto tre anni addietro. L’unico che avesse saputo cogliere il grido racchiuso nei suoi occhi, senza fermarsi alla loro difensiva freddezza.

 

Forse il loro rapporto non sarebbe durato, forse invece era destinato a vivere in eterno. Non lo sapeva e non lo voleva sapere. Voleva solo vivere il presente, con serenità. Affrontarlo con la leggerezza con cui si affronta la vita a vent’anni. Senza stupidità, ma anche senza cinismo. Vivere. E basta. Non voleva altro. Accanto a lui.

 

Si alzò con le ginocchia indolenzite. Era rimasta in quella posizione per più di un’ora. A raccontare loro il suo cuore, le sue paure e le sue speranze. Gettò un’altra manciata d’incenso nel braciere e uscì senza voltarsi.

 

Arrivederci…

 

*****

 

Stelle.

Luminose. Splendenti. Accecanti nel velluto oscuro della notte. Infinite. In quell’epoca, le stelle illuminavano davvero il cielo notturno, irradiando una tenue luminescenza sulla terra. Diamanti puri e perfetti. Custodi di sogni e illusioni.

 

Novilunio. Si erano fermati in una radura fra le rocce, e fra le cime degli alberi si intravedeva un ritaglio di cielo. Magnetico, nella notte fredda e tersa. Alessandra lo fissava in completa contemplazione, rincorrendo le scie di alcune piccole comete, giocando con le costellazioni e la memoria. Serena. Rilassata.

 

Seduto su un ramo sopra di lei, Sesshomaru l’ascoltava descrivergli la volta celeste. L’unica presenza costante della sua vita. Gli descriveva quel cielo che lo aveva visto nascere e in cui aveva corso. L’unico confidente di tutti i suoi pensieri. L’ascoltava, e nella sua mente piccole scintille bianche danzavano al suono della sua voce, creando un nuovo cielo. Sempre uguale, ma estremamente diverso. Perché era lei a delinearlo per lui.

 

Quando l’aveva sentita uscire dal tempio, aveva percepito un cambiamento in lei. L’odore. Aveva un odore nuovo. Non sentiva più tristezza o dolore in lei. Solo molta tranquillità. Era sceso dall’albero e l’aveva fissata. Sapeva di averla di fronte, a pochi passi, anche se non poteva vederla.

 

Alessandra aveva letto in quello sguardo molte domande, che il bel demone non avrebbe mai proferito a voce. Ma la sua sorpresa era evidente nel modo in cui atteggiava la testa: piegata leggermente di lato, con alcuni ciuffi di capelli che ricadevano un po’ scomposti sul petto. Aveva preso un respiro profondo, lasciandosi inebriare dall’aria fresca.

 

Aveva scelto. Non le importava il dopo, voleva solo il presente. Lo aveva di fronte. E aveva l’aspetto di un bellissimo ragazzo dallo sguardo d’oro. Di un uomo. Di cui non sapeva quasi nulla, ma che le ispirava una fiducia totale. La stava spettando. La ragazza non sapeva per quanto l’avrebbe aspettata, per quanto lei avrebbe potuto camminargli accanto. Ma aveva promesso a se stessa di non preoccuparsi di quello. Aveva promesso di vivere e basta. Per loro. Per lui. Per se stessa.

 

Aveva sorriso. E, spiccata una piccola corsa, lo aveva raggiunto per afferrarlo al braccio e trascinarselo dietro. Ridendo. Sesshomaru l’aveva sentita ridere per la prima volta. Una risata cristallina e dolce. Il suono di chi ride senza un vero motivo. Solo perché è contento. Quella risata gli era entrata nel cuore e aveva anche lui piegato le labbra in un tenue sorriso. Il massimo che la sua rigida educazione gli permettesse. Ma dentro di sé, l’youkai aveva sentito come se un peso fosse scomparso. Si era sentito bene, veramente bene.

 

L’aveva pesa in braccio e, fra lo stupore e l’imbarazzo della ragazza, aveva iniziato a correre veloce, permettendole di assaporare il gusto dell’aria sul viso, fra i capelli; aveva saltato sopra le cime degli alberi e fra le stelle della notte. L’aveva fatta volare.

 

E ora, erano lì. L’ultima notte che avrebbero passato da soli, all’aperto. Poi, sarebbero giunti a palazzo. E molte cose forse sarebbero cambiate. In quel momento, però, voleva solo gustarsi la voce della ragazza seduto ai piedi dell’albero. La voce di quella ragazza così speciale per lui.

 

“Sesshomaru…Tu credi nei kami?”

 

La domanda lo aveva un po’ sorpreso. Non aveva mai visitato un tempio né aveva mai provato il bisogno di credere in qualcosa di soprannaturale. Credeva solo in sé stesso. Quello era tutto ciò di cui abbisognava. Si era chiesto più volte il motivo per cui i ningen costruissero edifici enormi dove poi non abitavano, se non in pochissimi, e perché plasmassero statue e regalassero loro cibo e incenso. Era anche successo, a volte, che incontrasse dei ningen che dopo averlo riconosciuto come un youkai si gettavano ai suoi piedi e iniziavano a pregarlo e venerarlo. Come li aveva visti fare con le statue. Non sapeva se fosse per paura o per rispetto, o se ci fosse qualcos’altro. E non si era mai curato di saperlo. Se si prostravano ai suoi piedi, era per lui la conferma della sua superiorità. E questo gli bastava.

 

Alessandra si sorprese lei pure della domanda. Ma cosa le era passato per la mente? La risposta era talmente ovvia. Certo che ci credeva. Lui stesso, in fondo, era un kami. Uno youkai è un kami. Entrambi sono spiriti puri, giunti al massimo della loro espansone spirituale. Erano divinità. Lui era una divinità. Da venerare e adorare. Da guardare da lontano, con rispetto e devozione. Ma da non toccare.

 

Eppure, lei l’aveva toccato. E lo aveva scoperto di carne e sentimenti. Lo aveva scoperto più umano di molti ningen. Nonostante il rigore ferreo inculcatogli e le idee sulla purezza della sua razza, Sesshomaru si era dimostrato disposto al dialogo, se così si poteva chiamare. Non si era fermato al suo aspetto esteriore, ma era sceso in profondità. Nel suo cuore. E lo aveva sciolto.

 

“…No…”

 

Alessandra sussultò, sollevando gli occhi al demone seduto sopra di lei. Aveva detto no? Ma non era possibile; era un contro senso. Se lui non credeva nei kami, era come se negasse se stesso. O forse era lei ad avere le idee un po’ confuse in materia. Forse kami e youkai non sono la stessa cosa. Sesshomaru percepì la sua confusione e ne sorrise un po’ divertito. Scese dall’albero e si sedette accanto a lei.

 

“Io non credo nei kami-gami perché mi è stato insegnato a credere solo in me stesso. Non ha senso dedicare sé stessi a qualcosa, svilendosi interiormente. Le vittorie e le sconfitte vengono da noi stessi. Non esiste nessun kami-gami. Esitiamo solo noi. Con la nostra forza”

 

Parlava bene. Lo faceva poco, vero, ma quando parlava aveva un tono caldo e rilassato. Da oratore in erba. Riusciva a esprimere concetti difficili con lucidità a volte disarmante. Solo quando doveva parlare di sé faticava a trovare le parole adatte. Ma Alessandra era sicura che col tempo sarebbe riuscito anche in quello. E lei avrebbe saputo di più di lui.

 

“Quindi, il mondo è regolato dalla forza”

 

Sesshomaru annuì. Il potere era la sola cosa importante. E la forza era necessaria per esercitarlo. Quella era la prima lezione che gli era stata impartita. Quella che suo padre aveva dimenticato. Assottigliò le iridi ambrate. Forse, anche lui la stava dimenticando. Quella donna umana era forse l’avvisaglia dell’inizio della sua debolezza? La prova che si stava indebolendo?

 

No. Era certo che la sua forza non fosse stata minimamente intaccata da Alessandra. L’unico ostacolo cui doveva abituarsi era la cecità. Avrebbe dovuto imparare di nuovo a combattere. Avvolto dal buio. Ma non gli mancava la forza.

 

Inoltre, stranamente, non riusciva a percepire Alessandra come un essere debole. L’avvertiva bisognosa di protezione e sostegno, ma da lei emanava anche una forza strana. Quella della disperazione forse. Che l’aveva spinta a gettarsi su Kagura anche se consapevole della superiorità della yasha. Una forza che lui non conosceva, ma che aveva visto bene in suo fratello. Quando era riuscito a sconfiggere il corpo posseduto da Sounga. Una forza che non si sarebbe mai aspettato di trovare in un semplice hanyou.

 

“Secondo me, non è vero”

 

Sesshomaru voltò il viso inarcando un sopracciglio. Alessandra era rimasta un po’ in silenzio e ora era uscita con una frase che lui non capiva. E l’ascoltò attento mentre spiegava che la forza cui si riferiva lui era quella fisica, ma invece ne esistevano tante. Diverse. Molteplici. Come sono infinite le sfumature dei sentimenti. Quindi, uno non è di necessità debole; solo ha una forza diversa dalle altre.

 

“Quindi, io sarei debole”

 

“No. Semplicemente, fai affidamento su una sola forza. Quella fisica”

 

Il silenzio calò fra loro. Ognuno smarrito nei suoi pensieri. Alessandra si accoccolò sul suo petto e si fece avvolgere dal suo kimono. Continuava a guardare il cielo. Serena. Sesshomaru, invece, continuava a sentire le ultime parole della ragazza confondersi con quelle di suo padre. Gli sembrava che lei avrebbe potuto spiegargli il loro valore. Delineare bene le supposizioni che si erano avvicendate nella sua mente. Ma non si sentiva di chiederglielo. Non ancora. Perché significava anche spiegare molte altre cose. Troppe.

 

“Perché sei andata al tempio?”

 

“Per pregare”

 

“Pregare?...”

 

L’youkai non conosceva quella parola. Nel suo valore effettivo. Come non sapeva veramente il valore del vocabolo amore. Forse, erano solo etichette diverse che venivano date a cose uguali. Forse, erano modi diversi per esprimere qualcosa che era uguale a ningen e demoni. Però, queste sembravano più illusioni. Di avere qualcosa in comune.

 

“Sì…Lo si fa per i morti. Per parlare con loro. Tu non preghi mai?”

 

“…No…”

 

Sesshomaru abbassò confuso il capo. Per i morti? Per parlare con loro? Avrebbe davvero potuto parlare di nuovo con suo padre? Non gli sembrava possibile. Gli avevano insegnato che quando qualcuno muore, diviene solo un cadavere. Non bisognava più curarsi di loro. Si volta pagina e si ricomincia come se nulla fosse successo. Solo i ningen edificano tombe e vi portano fiori. Solo loro. Perché farlo vuol dire mostrare sentimenti. Mostrarsi deboli e facilmente influenzabili da dolore e malinconia.

 

Tu preghi…eppure non sei veramente così fragile come appari…Perché i sentimenti non ti indeboliscono?...

 

Alessandra vide la costernazione sul suo volto. Quel ragazzo sembrava aver vissuto fino a quel momento in un limbo. Senza percepire nulla. Vissuto solo per il sangue. Eppure, nel mondo, c’erano molte altre cose oltre alla lotta per cui valesse vivere. Cose che portano il sorriso sui visi dei bimbi. Banalità quotidiane e semplici, ma capaci di scaldare il cuore.

 

Lui sembrava non averle mai conosciute. Sembrava aver percorso fino a quel momento un lungo tunnel buio, in cui le uniche luci che riuscivano a penetrarvi avevano le sfumature disilluse del grigio. In quel momento, Sesshomaru le sembrò un bambino che cerca di capire un concetto troppo difficile per lui. Troppo grande.

 

“Non è una colpa. Significa che non hai perso nessuno di importante”

 

L’youkai la strinse di più a sé, in un abbraccio che sorprese la ragazza e la fece pentire delle sue parole. Cosa ne sapeva lei? Non era neanche a conoscenza del fatto se avesse ancora i genitori, se avesse fratelli, sorelle…Inoltre, forse per i demoni era diverso. Forse anche loro pregavano, ma non come fanno i ningen.

 

Nessuno di importante…

 

Capelli d’argento e una voce calda e avvolgente nella mente. Una figura bianca nella notte di plenilunio. Una figura macchiata di sangue. Si portò una mano alla testa. Perché all’improvviso quel ricordo gli faceva male? Non più rabbia, rancore, delusione…Solo male. Rimpianto.

 

La voce della ragazza lo riscosse. Si era accorta che aveva qualcosa che non andava, ma lui evitò le sue domande discrete con un fugace sorriso. Provò a ingannarla. A farle credere che non avesse nulla.

 

“Fingerò di crederci…Però, sappi che io ci sono…Sempre…per qualunque cosa…”

 

Le sfiorò il volto con la mano, disegnandole con le unghie i contorni delicati, le labbra carnose. Affondò la mano nei suoi capelli di rame e se la strinse al petto. L’avvolse completamente con il suo profumo, la sua stola, il suo kimono. Sentirla così vicina era la sola cosa che riuscisse in quel momento a donare tranquillità alla sua anima. A un’anima che era stata inquieta per secoli. Alla ricerca di qualcosa che ancora non aveva un nome e i contorni definiti.

 

Grazie…

 

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Capitolo 25
*** 25. ARRIVO ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!

 

Ieri sera ho fatto le ore piccole per studiare, e adesso mi prendo cinque minuti di pausa e aggiorno. Mi dispiace di questa pubblicazione a singhiozzo, ma davvero, anche se ho già pronti alcuni capitoli, non posso fare più di così. Dovrete pazientare fino a metà febbraio circa: finiti gli esami, anche la storia procederà con un ritmi più regolare (sempre se la tesi me lo permette).

Comunque, per farmi perdonare aggiungo due capitoli.

 

Dunque, nel primo di nuovo, Alessandra e Sesshomaru e come promesso arrivano al palazzo del bel principe? Come entreranno e come saranno accolti?

 

Buona lettura!!!

 

Grazie infinite a tutti quelli che commentano!

 

 

 

CAPITOLO 25

ARRIVO

 

 

Alba.

Luce opaca, con i contorni sfumati di nebbia leggera. Aria immobile. Umida e fredda. Bianco e azzurro che si confondono con l’orizzonte. Paesaggio di un acquarello. Irreale. Straniante.

 

Sesshomaru si era fermato sul ciglio del dirupo. Fissava il bianco davanti a sé. Sul viso, l’espressione di chi incontra qualcuno che non vede da molto tempo. Come se avesse appena rivisto un’antica amante. Chiuse gli occhi, inspirando appieno l’aria profumata di pino e resina. Il suo mondo. La sua terra. Le selvagge distese dell’Ovest. Indomite. Come lo era suo padre. Come lo è lui.

 

Non vedeva nulla. Ma sapeva benissimo cosa si estendesse fin oltre la linea incerta dell’orizzonte. Era una visione che aveva contemplato innumerevoli volte. Con sufficienza, con indifferenza. Una cosa tanto abituale da essere data per scontata. Una verità che non si sarebbe mai infranta. Ogni volta che fosse tornato, lo avrebbe accolto quello spettacolo capace di mozzare il fiato e lui lo avrebbe contemplato con la stessa espressione fredda con cui si volgeva ad un ningen.

 

In quel momento, per la prima volta in quattro secoli, gli mancò. Sentì nostalgia per quel paesaggio tanto familiare e al tempo stesso così estraneo. Laggiù, sotto quella nebbia vaporosa, si ergeva il suo palazzo. L’antica residenza del suo clan. Casa sua. Gli sembrava strano pensarci con tanta insistenza. L’aveva sempre odiata. Una prigione dorata e soffocante. Piena di regole e ordini che aveva sopportato e cui aveva ubbidito, ma sempre con malcelata riluttanza.

 

Lui non era fatto per restare confinato fra le mura di un palazzo. Scalpitava e mordeva il freno. Fin da quando era piccolo. Aveva sognato più volte il giorno in cui sarebbe sceso in battaglia col padre. Avrebbe voluto distinguersi e mostrare il suo valore. Avrebbe voluto rendere fiero quel padre che vedeva poco o niente e di cui seguiva con ammirazione assoluta le imprese.

 

Non era successo. Non aveva potuto far avverare quel sogno che cullava dentro di sé. Suo padre non lo aveva mai voluto con sé sul campo. E così, quando era stato abbastanza grande, se ne era andato. Si era fatto strada fra i demoni più potenti, vantando la sua forza e la sua gloriosa provenienza. Ma ancora non riceveva elogi dal padre. E alla fine…Alla fine, non aveva neanche potuto battersi con lui per dimostragli quanto fosse cresciuto. Lo aveva perso. Definitivamente.

 

Il palazzo…era la sua prigione. Triste e vuota. Avvolta in quel grigiore che gli era penetrato fin dentro l’anima. Che aveva congelato i suoi sentimenti, fissato il suo volto in tratti alteri e superbi. Non era mai stato il suo rifugio. I suoi nascondigli erano le foreste azzurre e impenetrabili, i cieli sconfinati, le vette innevate. Non quelle mura eleganti, cesellate di corallo e oro.

 

Ora, però, vi ritornava. Perché comunque era fra quelle mura che avevano preso forma i ricordi più belli della sua infanzia. Ricordi sfumati e labili, cui non dedicava mai la sua mente. Ma che ogni tanto facevano capolino, come piccoli raggi di sole fra le tenebre. Ma lui li scacciava subito. Irreali, si diceva. Fantasie che aveva costruito e sovrapposto alla realtà. Per non soffrire.

 

Vi ritornava. Perché quelle mura avrebbero offerto protezione alla seconda cosa bella, dopo Rin, che la vita gli aveva offerto. Ad Alessandra.

 

La ragazza, al suo fianco, ammirava estasiata le vallate azzurre, le foreste sconfinate, le vette invalicabili spruzzate di nevi eterne. Un paesaggio di ghiaccio che si colorava alle prime luci del crepuscolo, mentre il sole alle loro spalle fendeva la nebbia e ridava consistenza alle cose.

 

Era un territorio immenso, sconfinato. Non sembrava finire mai, estendersi fin oltre l’orizzonte ormai terso e accecante. Oltre quella luce, c’era il mare. Di un blu intenso e cangiante. Come gli occhi di Alessandra.

 

L’youkai disegnò con il braccio un ampio semicerchio nell’aria. Un gesto regale e maestoso. Di chi è orgoglioso di ciò che sta mostrando. E lui le definiva il suo regno. La sua terra pura e libera. Dove lui era l’unico, incontrastato signore. Il Principe.

 

“È bellissimo”

 

Sesshomaru rilassò il braccio. Bellissimo…Non aveva mai percepito i suoi possedimenti in quel modo. Per lui erano stati sempre un insieme di terra, legno e rocce. Non aveva mai percepito molte delle cose che lo circondavano. Per molto tempo.

 

C’erano volute la dolcezza di una bimba e il dolore di una ragazza a fargli aprire gli occhi. A permettergli di iniziare a sfiorare una bellezza che è racchiusa nella banalità. Prima di perderla per sempre. Oscurata dal buio dei suoi occhi. Eppure, anche se in quel momento desiderò veramente poter vedere di nuovo i suoi domini, era solo una nostalgia quella che gli sfiorava il cuore. Perché, finchè avesse avuto Alessandra accanto, non sarebbe mai stato veramente cieco. Perché era lei a vere per lui.

 

Tuttavia, il pensiero dell’accoglienza che avrebbe potuto ricevere, delle insinuazioni che sarebbero serpeggiate nel palazzo e delle malelingue lo disturbava. Molto. Perché temeva che avrebbero potuto infrangere il rapporto che aveva con la ragazza. Scosse piano la testa. Era ancora troppo inesperto per potersi fidare di quelli che forse erano i suoi sentimenti.

 

Per chi si è sempre rifiutato di provarne, anche il semplice accelerare del cuore è una sensazione straniante e temuta. Inspiegabile.

 

Poi, sapeva che non avrebbe potuto stare molto con lei. C’erano molti problemi da affrontare. Aveva ritardato il suo rientro di un mese, e in quel periodo poteva esser accaduto tutto e niente. Non sapeva cosa aspettarsi. Ma di certo non avrebbe coinvolto la ragazza; ma forse avrebbero trasformato lui. Almeno in apparenza.

 

La strinse a sé, mantenendo le iridi vuote fisse sull’orizzonte. Alessandra dapprima non capì il motivo di quel contatto nervoso. Non era da lui far trapelare la sua agitazione. Però, con la fronte solcata da marcate rughe espressive e le labbra leggermente contorte, era davvero bello. Gli donavano un’espressione adulta che incantava. E poi, bastava una carezza leggera della ragazza perché i muscoli si rilassassero e di nuovo apparissero le ridenti fossette ai lati delle labbra.

 

Alessandra gli sfiorò il volto, ma lui le prese la mano e gliela tenne stretta. Il volto si incupì maggiormente. Era come se stesse cercando le parole per esprimere un concetto difficile. Qualcosa che lo riguardava da vicino.

 

“Cosa c’è?”

 

La voce della ragazza era un sussurro roco. Il suo silenzio la preoccupava. Gli aveva detto che qualsiasi cosa avrebbe dovuto affrontare, lei gli sarebbe stata accanto. Forse ora la voleva cacciare? Alessandra si sentiva impazzire per quel silenzio prolungato e inspiegabile. Voce. Voce. Voleva sentire la sua voce. Qualsiasi cosa volesse dirle.

 

“Voglio che tu sappia una cosa…”

 

Sesshomaru assottigliò ancora di più gli occhi, mentre un vento leggero gli scompigliava i lunghi capelli. Strinse la ragazza di più a sé, per proteggerla da quel freddo improvviso. Dal freddo delle sue parole.

 

“Quando saremo a palazzo, non sarà più come adesso. Sarà un altro mondo, altra gente, altre donne, e io pure sarò molto diverso”.

 

Di nuovo, un pausa. Le sollevò il viso, sfiorandolo con il dorso della mano e la fissò intensamente. Benché le iridi d’oro fossero spente, l’ardore che trapelava da quello sguardo era palese. Fluiva in ogni ombra e sfumatura. Si confondeva con la luce del sole che vi restava intrappolata.

 

“Ma qualunque cosa succeda…per me…sei…importante”

 

Alessandra lo abbracciò, poggiando la testa al suo petto. Sapeva che quello poteva essere l’ultimo abbraccio che gli dava in quel modo. Perché, da quel momento, lui avrebbe cessato di essere il semplice ragazzo con cui aveva condiviso tre mesi di vita, con cui aveva parlato e fra le cui braccia aveva dormito. Cessava di essere l’uomo, il giovane cui la legava un affetto infinito. Diventava il Principe.

 

Cessava di essere il suo uomo, per diventare quello di tutti.

 

 

 

 

Novilunio.

Ombre che confondono. Incertezza oscura in cui scivolare, senza preoccupazioni, con la sicurezza di non esser scorti. Ombre che scolpivano i visi dei demoni di guardia, frustate dalle lingue di fuoco dei bivacchi, delle mura perimetrali.

 

Luna nera.

Nemica alla sua gente. Notte in cui la sua protettrice è lontana. Notte di incubi. Notte ideale. Per scivolare non visto oltre le mura del palazzo. Per rientrare nei suoi alloggi senza suscitare subito scompiglio. Per trasmettere l’idea che lui potesse tornare da un momento all’altro, sempre. Senza che nessuno se ne accorgesse. Per portare la ragazza al sicuro nel palazzo. Sottraendola agli occhi dei suoi soldati e dei generali.

 

Non subito. Sapeva che la sua presenza sarebbe stata avvertita presto. Ma non quella sera. Non poteva permetterlo. Alessandra non aveva la forza fisica di sostenere un confronto e di ribattere ad accuse e insinuazioni. Era troppo stanca. E anche lui lo era.

 

Mentre camminavano avvolti dalle tenebre, desiderò prendere la ragazza fra le sue braccia e andarsene. Rifiutare tutto quello cui aveva dedicato se stesso. Solo per addormentarsi avvolto dal suo profumo. Solo per quello. Chissà quando avrebbe potuto rivederla. Come in quel momento. Ricreando quell’intimità che gli aveva circondati durante le notti passate all’addiaccio.

 

Certo, nessuno si sarebbe opposto al suo volere. Lui voleva un’altra umana a palazzo e l’avrebbe avuto. Non era di quello che si preoccupava. Per la prima volta, temette le voci malevole che crescono in fretta e che si propagano con la velocità del vento. Sarebbero piovuti commenti e insinuazioni. Anche pesanti.

 

A lui non importavano. Di quello che si sarebbe potuto dire di lui, non se ne dava minimamente pensiero. Tutti sapevano che se una parola di troppo fosse uscita dalle labbra di qualcuno, la vendetta del Principe sarebbe calata inesorabile. Non si scherza con lui. Con Sesshomaru.

 

Ma lo disgustava, invece, l’idea che l’argomento dei pettegolezzi potesse essere Alessandra. Se solo ci pensava, si sentiva ardere di rabbia e sdegno. Non lo avrebbe sopportato. Come gli era intollerabile l’idea che avrebbe dovuto vederla di nascosto. Come un ladro. Vergognandosi di qualcosa che era innocente e puro come la luna.

 

No. Doveva trovare una soluzione. E l’avrebbe fatto. Anche se era consapevole che non poteva presentarla né come alleata, perché da lei non trapelava alcuna aura spirituale, né come…Come si dice? Fidanzata. Sì, fidanzata. Perché era umana, e in quel momento più che mai lui doveva evitare di creare nuovi attriti e nuovi scandali. Aveva bisogno della fedeltà, se la poteva chiamare così, dei suoi subordinati. Anche se non ci contava molto.

 

C’era solo un altro modo in cui avrebbe potuto presentarla, senza destare obiezioni e opposizioni. Ma non aveva la minima intenzione di farlo. Solo l’idea gli dava la nausea. Non l’aveva mai considerata in quel modo e non avrebbe di certo iniziato a definirla così solo per evitare commenti e litigi. No. Non l’avrebbe mai trattata da amante.

 

Amante…Tu non sei la mia amante…

 

 

 

 

Rossa. Maestosa.

 

La mole del palazzo si stagliò improvvisa nella notte scura. Dal riverbero che incendiava gli alberi e la pianura era emerso un edificio imponente, austero. I bivacchi dei soldati era molteplici, e anche le tende rizzate nella spianata prospiciente il cancello principale. L’esercito si stava radunando. Ed era tanto esteso da non poter essere ospitato nella guarnigione interna.

 

Alessandra rimase impressionata dalla potenza che sembrava emanare da quelle mura. Schiacciante. Soffocante. Le sembrava di sentirsela pesare addosso, come un macigno che le impediva di respirare. Si appiattì per un istante contro un albero. Erano ancora lontani, eppure le urla sconce, le imprecazioni, l’odore di sakè arrivavano distinti fino a loro. La ragazza ebbe un lieve capogiro, per la stanchezza e il freddo, ma si riprese subito.

 

Sesshomaru le era accanto, bellissimo e fiero. Schiena ritta, spalle tese, viso fermo e duro. Occhi fissi. Se non lo avesse saputo, neanche lei in quel momento avrebbe potuto dire che l’youkai era cieco. Si muoveva e atteggiava ogni suo muscolo con una naturalezza disarmante.

 

Il bel demone le fece un cenno con la testa, e la condusse verso le mura, sempre rimanendo sottovento per evitare che il suo odore fosse percepito. Percorsero buona parte della foresta che delimitava la grande pianura antistante il palazzo e che improvvisamente fu infranta da un muro, alto e massiccio.

 

Alessandra si fermò a un cenno del demone, che tese i sensi acuti. Silenzio. Inizialmente, nessun rumore. Poi, un passo metallico e cadenzato. In lontananza. Ma sempre più definito mano a mano che si avvicinava: le sentinelle della cerchia esterna.

 

Sesshomaru premette Alessandra contro il muro, nell’ombra, e la nascose anche con il suo corpo. Si stava davvero comportando come un ladro. Ma scosse la testa. Era la soluzione migliore. Avrebbe messo tutti davanti al fatto compiuto. Una volta introdottala a palazzo, nessuno si sarebbe mai sognato di rivolgergli qualche domanda.

 

Quando fu sicuro che le guardie erano passate oltre, si accorse del respiro accelerato della ragazza. Le era praticamente addosso, poteva sentire il movimento agitato del suo petto. La sua altalena costante. Poteva avvertire il leggero tremore che scuoteva la ragazza. Non era paura. Il demone lo sapeva. Era imbarazzo. Semplice. Innocente.

 

Nessuna delle donne che aveva visto in passato o che gli si erano offerte aveva mai tremato a quel modo. Alcune lo avevano fatto per timore, altre per passione. Ma erano brividi diversi. Scosse violente e convulse o più simili a piccole scariche. Nessuna aveva mai tremato solo perché avesse sentito il respiro del bel Principe vicino e il leggero contatto del suo corpo. Nessuna aveva mai tremato per l’imbarazzo.

 

Alessandra aveva lo sguardo a terra. Benché fosse abituata, ormai, alle sue braccia attorno al suo corpo, benché ne avesse accarezzato e medicato il corpo, benché dormisse con lui, ancora non riusciva a frenare il suo imbarazzo quando lui le si avvicinava in quel modo. Era troppo seducente. Sentiva il suo profumo, i suoi capelli sul viso, solleticarle il collo. Sentiva il suo respiro caldo e invitante sulle labbra.

 

Chiuse gli occhi quando percepì il braccio di Sesshomaru attorno alla vita. Un abbraccio dolce, poi le mancò la terra sotto i piedi. Ma non urlò. Si aggrappò a lui, e strinse il suo kimono, tuffando la testa nel suo petto.

 

Sesshomaru atterrò silenzioso ed elegante oltre il muro di cinta, ma non liberò subito la ragazza. La volle tenere stretta sé ancora per un po’. Al diavolo anche le sentinelle e il pericolo di essere scoperti. Non potevano fargli nulla.

 

Percorsero in silenzio i giardini immensi del palazzo. Alessandra si lasciò guidare smarrendo più volte l’orientamento. Passarono accanto a boschetti di bambù, a laghetti e ruscelli, ad alberi antichi e imponenti. A un certo punto, la ragazza fu sicura di aver attraversato un’alta cinta muraria, attraverso una porta ad arco.

 

Alzò lo sguardo e, al riverbero rosso del fuoco, potè vedere la sagoma del palazzo sovrastarla. Non sapeva verso quale ala Sesshomaru si stesse dirigendo, ma capì subito la grandiosità di quella costruzione in legno e carta di riso. Un vero palazzo imperiale.

 

Doveva articolarsi in più parti, e sembrava raggiungere i tre piani d’altezza, almeno a giudicare dalle torri che si stagliavano armoniose ed elaborate verso il cielo. Era bellissimo. E inquietante. La luce ardente scivolava sinistra sulle colonne di corallo, giocava con le ombre delle decorazioni scolpite nel legno, con gli arabeschi delle statue di pietra. S’infrangeva contro i rivestimenti dorati. E poi, c’erano quelle figure. Nere. Deformi. Contro un cielo fumoso. Guardie.

 

Nella mente di Alessandra esplose il ricordo di un altro fuoco. Di un rogo su un macchina. In mezzo ad una carreggiata. Nel buio di una notte, mentre larghe falde danzavano nell’aria. Trattenne Sesshomaru per il braccio e gli si appoggiò contro. Per un attimo, tutti i suoi buoni intenti sembrarono naufragare nel riverbero del fuoco che incendiava le sue iridi dilatate. Ma fu solo un attimo.

 

Alessandra raddrizzò fiera la schiena e alzò la testa. Non avrebbe più ceduto allo sconforto e al dolore dei ricordi. Ora, c’era qualcuno che aveva bisogno di lei. E lei non voleva deludere il suo Principe.

 

 

 

 

Terrore.

Un terrore folle, misto ad un irrazionale sbigottimento. Jacken era rimasto immobile. Pietrificato quando aveva visto comparirgli davanti la figura imponente del suo signore.

 

Lo aveva aspettato tanto, contando i giorni e tormentandosi del fatto che non tornasse. Aveva anche inviato alcuni demoni a cercarlo, ma non si erano mai spinti fino a Musashi. Erano rimasti sempre abbastanza vicini ai confini. Aveva perfino temuto che fosse successo qualcosa al suo padrone. Ma se da una parte scacciava quel pensiero continuando a ripetersi che non era ancora nato chi fosse in grado di mettere in difficoltà il sommo Sesshomaru, le domande di Rin non facevano che far aumentare la sua agitazione. Tanto più che la bambina, lontana dal suo signore, aveva iniziato a intristirsi sempre di più. Non giocava con gli altri, e anche farla mangiare era un grande sforzo. Restava per ore seduta nei giardini, a guardare il cielo e le mura. Come se da un momento all’altro il demone potesse materializzarsi davanti a lei. A quella vista, il demonietto scuoteva la testa sconsolata. Anche lui voleva che il padrone tornasse.

 

Adesso, Sesshomaru gli era di fronte, avvolto dal riverbero delle fiamme. Freddo. Impassibile. Ma Jacken notò che c’era qualcosa di diverso in lui. E non era dovuto al kimono strappato e chiazzato di sangue, nè alla mancanza dell’armatura. No. Era piuttosto una sensazione. Che il servitore non riusciva a spiegarsi.

 

Si gettò piangente ai suoi piedi. Era davvero felice di vederlo. Ma quando scorse Alessandra dietro di lui, rimase esterrefatto. Non solo il suo signore non si era sbarazzato di lei, ma addirittura l’aveva portata con sé al suo palazzo.

 

La sorpresa gli fece dimenticare la paura reverenziale che aveva sempre nutrito per il demone, e iniziò a tempestalo di domande in merito alla ragazza. Sesshomaru non vi badò più di tanto. Richiuse la parete scorrevole che dava su un giardino, controllando che nessuno l’avesse sentito. Nessun rumore. Perfetto.

 

Si volse al demonietto. Era abituato alle farneticazioni illogiche e campate in aria di Jacken, ma in quel momento proprio non le sopportava più. Era stanco. E più di lui doveva esserlo Alessandra. L’unica cosa che volesse, in quel momento, era rientrare nelle sue stanze e riposarsi un po’. Non dormire. Solo riposare. Prima di riprendere la maschera di glaciale Principe dei demoni.

 

Le parole che Jacken pronunciò dopo un lungo silenzio riflessivo lo strapparono con violenza ai suoi pensieri e lo colpirono come una frustata.

 

“Ma certo! Adesso ho capito! È naturale! L’avete portata qui perché ne volete fare la vostra amante!”

 

Ebbe solo il tempo di finire la frase che sentì la stretta furiosa e possente attorno alla sua gola. Sesshomaru lo aveva afferrato per il collo e sollevato di peso, avvicinandolo al suo viso inespressivo. Le parole gli uscirono terribilmente fredde dalle labbra esangui.

 

“Alessandra non è la mia amante.”

 

Le scandì chiare per farle capire anche a lei. Cosa fosse esattamente per lui, ancora non riusciva a capirlo, ma era certo di quello che aveva detto. Non era e non sarebbe mai stata un’amante. Un oggetto di cui godere per poi liberarsene. No. Lei era qualcosa di molto di più. Lei era speciale.

 

“La tratterai con tutti gli onori. Come se fossi io stesso. Mi hai inteso, Jacken?”

 

Il demonietto, quasi in apnea, annuì e il demone lasciò immediatamente la presa. Jacken tossì per recuperare il fiato e vide il suo signore voltarsi verso la ragazza e sussurrarle qualcosa all’orecchio. Sembrava tranquilla. L’idea che il suo padrone la trattasse in quel modo, lei che era una semplice, insignificante ningen che gli aveva sempre mancato di rispetto, lo faceva infuriare.

 

“D’accordo, Sesshomaru”

 

Di nuovo, Jacken scattò nel sentirla interloquire con il Principe con tanta confidenza. Se l’era permessa fin dal primo incontro, ma lì non erano più nei boschi. Lì erano in un palazzo. E tutti dovevano rivolgersi al sommo Sesshomaru con la dovuta deferenza.

 

“Ehi! Rivolgiti al padrone in modo più rispetto…”

 

L’occhiata gelida dell’youkai gli fece morire le parole in gola. Ma ancora di più lo sconcertò lo sguardo vuoto che vide nelle iridi del demone.

 

“M-ma…mio signore…Voi…Voi siete…”

 

“Cieco”

 

Quella parola gli bruciò sulla lingua, ma riuscire a pronunciarla era già di per sé una vittoria. Non l’aveva mai detta fino a quel momento. E quando fu costretto a pronunciarla, sentì la mano di Alessandra stringergli il braccio, a trasmettergli coraggio e appoggio.

 

 

 

 

Quella notte, Alessandra dormì sola.

 

Per la prima volta da un mese a questa parte. In un grande e confortevole futon. Sotto una trapunta preziosa di piume d’oca e seta. Mentre fuori le porte scorrevoli la neve aveva ripreso a cadere, lenta. Dormì in una stanza calda e confortevole. In un letto vero. Su un materasso imbottito.

 

Sesshomaru l’aveva condotta in quella stanza, dicendole che era accanto a quella di Rin e che per qualunque necessità si rivolgesse a Jacken. Il tono del bel demone era freddo e autoritario. Era quello che usava quando dava degli ordini. Quel tono che l’aveva ammaliata in principio.

 

Ma se anche la voce poteva essere modulata in modo piatto, gli occhi lo tradirono. E Alessandra lesse in quelle iridi d’oro opaco tanta dolcezza e tanto dispiacere. Quello di non poterla portare con sé nelle sue stanze. Di non poterle stare accanto e riscaldarla col suo corpo. Di non poterla abbracciare o consolare se avesse fatto un altro dei suoi incubi.

 

Avrebbe voluto mandare tutto al diavolo e tenerla vicino a lui. Ma non poteva rischiare. Quella, per quella sera almeno, era l’unica soluzione. La rassicurò spiegandole che le sue stanze erano nella torre che poteva vedere aprendo la porta. Appena svoltato l’angolo. Se fosse passata all’esterno, sarebbe arrivata subito. Il corridoio protetto da un tetto di legno era all’aperto. La scala e poi sarebbe arrivata.

 

“Se avrai paura, se ti sentirai sola…vieni quando vuoi…Io sarò sveglio”

 

Le sussurrò accarezzandola col dorso della mano. Avrebbe voluto baciala, ma non poteva farlo in presenza di Jacken. Troppo imbarazzante. E troppo palese. Quindi, pericoloso. Anche se non dubitava della fedeltà del piccolo kappa, una parola di troppo può sempre sfuggire. Anche involontariamente.

 

“Non preoccuparti. Starò bene”

 

Gli aveva sfiorato le labbra con le dita, disegnandone il profilo sottile e intrigante. Lo aveva baciato così. Senza un vero contatto. Facendogli assaporare il fresco della sua mano e l’ardore del suo tocco.

 

E adesso, Alessandra si rannicchiava nel futon. Troppo grande per lei sola. Avvertì la mancanza del corpo saldo e muscolose dell’youkai accanto a sé. La sicurezza assoluta data dalla sua presenza. Le aveva detto di andare. Le aveva dato una stanza, ma non le aveva proibito di raggiungerlo. Ma lei sapeva che il rischio era grande. E aveva capito anche che la presenza di tutti quei demoni in armi non era normale. Sentiva che si stava preparando qualcosa. Qualcosa che spingeva Sesshomaru ad una prudenza strana e circospetta.

 

Non lo avrebbe raggiunto. Si sarebbe mostrata forte. Come era lui. Prese la parte superiore del kimono che il demone aveva dimenticato lì. Gliela aveva fatta togliere per non sporcarla mentre gli fasciava gli occhi. Perché, anche se i suoi rimedi non funzionavano, lei non voleva arrendersi. Sesshomaru l’aveva accontentata e poi, nell’andarsene, aveva lasciato lì la veste. Forse se ne era davvero dimenticato, forse lo aveva fatto apposta.

 

Alessandra la prese e la strinse a sé, inspirandone il forte profumo di muschio. Il suo profumo. Quello della sua pelle. L’avvolse intorno al suo corpo e tornò a sdraiarsi.

 

Nel sonno confuse la seta ancora calda con l’abbraccio del demone, e si sentì meno sola. Si sentì protetta.

 

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Capitolo 26
*** 26. INIZIO ***


Secondo capitolo di oggi

Secondo capitolo di oggi.

 

Allora, sono trascorsi alcuni giorni; come si sarà trovata ALessandra nel palazzo del bel demone? E lui? sarà stato con lei o no? Inoltre, finalmente si scoprirà il nome del nemico, e finalmente anche Seshomaru avrà un punto di riferimento, anche se è un nome che si rivelerà un problema (il perchè lo si saprà in seguito ^__^). La nostra amica, invece, dopo un iniziale smarrimento, tirerà fuori le unghie e inizierà una scalata, che la porterà...Basta con le anticipazioni! Gustatevi questo capitolo e alla prossima!

 

Buona lettura!!!

 

 

 

CAPITOLO 26

INIZIO

 

 

Problemi.

Tanti. Troppi. Personali e non. Una marea che sommerge, avvolge e trascina. Senza possibilità di scampo. Senza lasciare il tempo di riflettere. Pericolosi. Perché da una risposta sbagliata può derivare un danno irrimediabile.

 

Domande. Dubbi. Perplessità. Senza risposte. Solo voci. Insinuazioni. Teorie. Ma mai nulla di concreto. Nulla di certo. E il nulla non lo si può combattere. Come non si può combattere alla cieca. Odiava quella situazione. Sentiva la tensione crescere ogni istante. Frustrante. Non sapeva cosa aspettarsi e non sapere lo infastidiva terribilmente.

 

“Tutto bene, padrone?”

 

La voce di Jacken lo risveglio dal vortice mentale in cui era caduto. Non aveva ascoltato mezza parola della relazione che il demonietto gli stava facendo. Aveva appoggiato la testa alla mano e si era perso nel vento fresco che proveniva dalla finestra. Una carezza dolce e delicata. Come la mano di Alessandra.

 

Gli mancava. Anche se lo ammetteva con fatica, gli mancava la sua presenza. La sapeva vicina, fra le stesse mura di carta di riso, ma non gli bastava. Anzi, la consapevolezza di quella vicinanza e il fatto che non potesse vederla non facevano che aumentare quel sentimento sottile che serpeggiava nel suo animo. Malinconia.

 

Tuttavia, non poteva vederla. Non poteva. Gli erano già state riferite delle voci che circolavano fra i membri della corte. Voci non molto felici. Si bisbigliava che il Principe fosse tornato con una donna umana. E che fosse la sua amante. Una femmina che lo aveva irretito e che ora lo comandava a bacchetta. Un’insulsa ningen. E il fatto che non si fosse ancora mostrato con lei non faceva altro che sottolineare l’ipotesi del concubinato.

 

Quando glielo avevano riferito, Sesshomaru aveva stretto convulsamente il bicchiere di ceramica che aveva in mano. Come se quell’insignificante oggetto identificasse tutte le parole che venivano rigurgitate contro la ragazza. Se non ci fossero mai stati quei problemi, se non fosse mai stato costretto a ritornare, nessuno avrebbe mai insinuato nulla. E lui avrebbe potuto stare tranquillamente con lei dimenticandosi di chi fosse. Dimenticando tutto quello che gli era stato insegnato. Avrebbe avuto anche lui, forse, un po’ di pace per la sua anima tormentata.

 

Invece, quel sogno di cristallo gli si era sbriciolato fra le mani. È vero, adesso era lì con lui, ma lontana e irraggiungibile come mai. Perché anche se sapeva benissimo che avrebbe potuto tranquillamente starle accanto, era altrettanto cosciente delle calunnie che ne sarebbero nate. Era ancora troppo fresco il ricordo di quello che aveva fatto suo padre, e di come era morto. Se anche lui avesse commesso un passo falso, avrebbe perso tutto. Non che gli importasse molto, ma era pur sempre ciò che suo padre gli aveva lasciato. L’ultimo legame.

 

Aveva stretto con rabbia bruciante quel bicchiere e lo aveva stritolato nella sia forte stretta. Quando aveva aperto la mano, nel palmo rimanevano una manciata di cocci. Aveva sentito le vene pulsargli ancora, ma non un’ombra aveva intaccato l’imperturbabilità del suo viso. Doveva restare sempre freddo e indifferente.

 

“Padrone?”

 

Di nuovo, quel suono gracchiante. Sesshomaru si costrinse a riportare l’attenzione alla realtà. Rapporti. Rapporti. Nulla di più. Niente che gli permettesse di capire esattamente cosa aspettarsi. Fece un cenno a Jacken e questi riprese a leggere. In passato, quando doveva valutare i vari messaggi, almeno lo faceva nel silenzio assoluto del suo studio. Ora, invece, anche quello gli era negato. Strappato dalla cecità.

 

Ricordò una poesia. La prima di una lunga serie. Un sussurro inebriante fra il crepitare del fuoco. Alessandra gliela aveva letta anche in greco, con un andamento musicale straniante e coinvolgente. Non aveva capito nulla, ma quel suono lo aveva rilassato completamente. O forse era stata la mano della ragazza nei suoi capelli.

 

Scosse piano la testa. Non era giornata. Non riusciva a concentrarsi. Per quanto si sforzasse, la mente ripeteva sempre quel gioco infelice e l’immagine della ragazza tornava a delinearsi chiara davanti ai suoi occhi spenti.

 

Eppure, di cose per tenere occupata la mente ne avrebbe avute fino alla nausea. Gli era stato riferito che l’antico maniero a Nord-Est era tornato abitato. Ma nessuno sapeva da chi. La cosa strana, poi, era che gli youkai rinvenuti morti provenivano tutti da quella zona. E la nuova attività di quel castello impensieriva non poco il bel Principe. Lo sapeva disabitato da prima della sua nascita. Gli avevano raccontato che era stato l’epicentro di un vasto impero, quasi come il suo. E a capo del quale si trovava un grande demone alleato di suo padre. Poi…tutto si perdeva nel buio. Il castello era stato in parte distrutto e di quella stirpe fiera si erano perse le tracce. Da secoli ormai. Forse c’era ancora qualcuno che sapesse qualcosa, ma sarebbe stato difficile da trovare. E poi forse non avrebbe parlato.

 

Aveva inviato degli youkai in avanscoperta, e non erano più tornati a riferire. Il secondo gruppo aveva trovato i resti dei compagni. Orribilmente mutilati e sfigurati, oltre che con delle strane sfere di piombo in corpo. Aveva preferito rinunciare a quella tattica.

 

Benché fosse abituato ad una strategia di azione, Sesshomaru si era visto costretto a ripiegare sulla difesa. Aveva dato ordine di rinforzare i controlli e intensificare i turni di guardia. Aveva ordinato di erigere palizzate attorno al muro d’ingresso e di scavare un fossato che tagliasse la pianura. Aveva inoltre dovuto far spostare la maggior parte dell’esercito all’interno del palazzo e trasformare i giardini immensi della cinta esterna in un accampamento stabile. Tanto che alle tende si stavano già sostituendo alcune costruzioni in legno, alloggi dei comandanti.

 

Aveva fatto chiudere e sbarrare tutte le porte d’accesso ai giardini interni, tranne due sorvegliate costantemente: gli unici accessi al palazzo da parte dell’accampamento. Una che passava per i giardini stessi e l’altra che si apriva sulla piazza d’armi prospiciente la facciata principale dell’edificio.

 

Chiunque fosse il suo nemico, gli stava lasciando tempo a sufficienza per radunare le sue truppe e apprestare l’esercito. Un errore imperdonabile. Perché in uno scontro in campo aperto lui non aveva mai temuto rivali.

 

L’ufficiale che faceva le veci del Principe in sua assenza aveva, inoltre, già convocato i maggiori esponenti della corte che non risiedevano a palazzo e richiamato anche le truppe non necessarie dai confini. Alcuni erano già arrivati, con al seguito le truppe e le mogli, i figli o le amanti. La notte, la luna illuminava la neve creando effetti di luce argentata che rendeva quasi inutile il bagliore dei fuochi da campo che brillavano a centinaia.

 

Dal palazzo, in ogni istante, si poteva osservare esterrefatti la distesa di tende scure e il movimento negli accampamenti. Gli alloggi di comandanti e capi erano chiaramente distinguibili da quelli dei soldati, semplici tende di pelle cucite. Erano più grandi, con le pelli ben tese da numerosi paletti infissi nel suolo e ciascuno con uno stendardo sventolane raffigurante l’emblema della famiglia o il simbolo di riconoscimento.

 

Tuttavia, pur essendo molto vicine, le tende erano divise a gruppi, piccoli agglomerati separati dagli altri, uno per ogni battaglione, poi gli ausiliari, le ali, la punta e ogni altra parte del vastissimo esercito.

 

Sesshomaru sospirò mentalmente, con nelle orecchie la voce del demonietto simile a un disco rotto. Più tardi, avrebbe dovuto incontrare i dignitari, poi i vari comandanti per i rapporti di frontiera. Ricevere i nuovi arrivati e infine, il giorno dopo, ci sarebbe stato l’incontro con i generali. Per definire i termini della difesa.

 

Licenziò Jacken con un gesto che non ammetteva repliche e si rilassò sui cuscini di seta e bisso, chiudendo gli occhi.

 

Benché fosse un demone, abituato a riposare pochissimo e a reggere ritmi inimmaginabili, in quel momento Sesshomaru si sentì profondamente stanco. Ogni responsabilità gravava sulle sue spalle, così come ogni decisione. Doveva avere mille occhi, mille orecchie. Doveva arrivare a scoprire ogni pensiero di chi lo circondava. Soppesare le parole, imporre costantemente la sua autorità. Doveva mostrarsi sicuro e imperturbabile, anche se dentro si sentiva fragile come un bambino.

 

Gli mancò. Per la prima volta, dopo secoli, avvertì la mancanza di una guida. Di qualcuno che gli dicesse cosa fare e lo aiutasse, alleviandolo da parte di quel lavoro. Gli mancò suo padre. E invidiò la sua attitudine al comando, la capacità che aveva di farsi obbedire anche solo con uno sguardo. Invidiò la cerchia ristretta dei generali che gli erano sempre accanto.

 

Lui non l’aveva mai voluta, quella cerchia. Si era sempre ritenuto in grado di affrontare da solo ogni situazione. E poi, non si era mai fidato di nessuno. In fondo, avevano provato più volte a metterlo contro suo padre, a insinuargli dubbi e a spingerlo al trono. Non ultimo, quando Inutaisho aveva conosciuto quella maledetta donna umana. Eppure, lui era sempre stato sordo a quelle melliflue parole. Era un ragazzo, d’accordo, ma non uno sciocco da manovrare a piacimento. Lui era l’erede. E avrebbe ricoperto il suo posto al momento opportuno.

 

In quei momenti di dormiveglia, desiderò che suo padre entrasse dalla porta. Per portarlo via da quella stanza. Come faceva quando era piccolo e tornava da una battaglia. Andava da lui e lo “sequestrava”. Lo portava nei boschi, e correvano assieme per delle giornate intere. Poi, quando il piccolo Principe era stanco, il padre lo prendeva in braccio e lo riportava a palazzo. Ad attenderli c’era sempre una candela nella stanza del piccolo. E sua madre.

 

Poi, sua madre era morta e tutto era cambiato. Aveva visto sempre meno il padre, impegnato in interminabili battaglie lungo i confini del territorio, e aveva iniziato a frequentare sempre di più i precettori. Tanti. Troppi. Il maestro d’armi, di strategia, di…Non li ricordava neanche tutti. Ma ricordava il pedagogo cui tutti facevano riferimento.

 

Un demone anziano e asciutto, inesperto di guerra ma perito nell’insegnargli onore e dovere. Gli aveva inculcato le idee sulla superiorità della sua razza, sulla purezza della sua stirpe. Gli aveva insegnato l’assoluta mancanza di valore dei sentimenti e la totale indifferenza da avere verso chiunque fosse più debole. Soprattutto i ningen. Che esistono solo per servire e reverire gli youkai, o per soddisfare i loro desideri, nel caso delle donne. Solo schiavi.

 

Da quel momento, aveva visto sempre meno il padre e sempre più i maestri. Ma anche quando Inutaisho tornava non andava più a prenderlo per portarlo a correre nei boschi. Si limitava ad andare a salutarlo mentre era intento a studiare. Non faceva altro per la maggior parte del giorno. Studiava e si esercitava nell’uso delle armi e del suo youki.

 

Le prime volte, quando Sesshomaru vedeva il padre entrare dimenticava tutto e gli correva incontro. Era ancora così piccolo, e la perdita della madre aveva lasciato in lui un vuoto profondo che però esternava poco. Come si conviene a un piccolo Principe. Inutaisho lo abbracciava e si fermava a parlare un po’ con lui. Sotto lo sguardo critico del precettore.

 

Ma quando il padre se ne andava, inesorabile arrivava la punizione del maestro per essersi abbandonato ad un sorriso o ad un abbraccio. Per non aver mantenuto un comportamento controllato e rispettoso. E la motivazione era sempre la stessa: suo padre ormai era potente, e poteva anche allentare una atteggiamento che avrebbe potuto riprendere subito. Lui invece era solo un ragazzino, ancora troppo inesperto per poterselo permettere.

 

Ma più delle frustate, gli faceva male il pensiero che suo padre potesse non essere orgoglioso di lui. Nelle poche occasioni in cui lo vedeva, sentiva su di sé uno sguardo nuovo. Come se lo scrutasse. Se volesse leggere nelle sfumature dei suoi occhi. Il piccolo Principe allora raddrizzava le spalle e sfoggiava una glacialità degna di un adulto. Imperturbabile. Impassibile. Eppure, negli occhi d’ambra del padre non trovava più la luce che vi vedeva quando era ancora piccolo.

 

Dei passi nel corridoio lo costrinsero di nuovo alla realtà. Si era lasciato andare a ricordi e sensazioni spiacevoli, ma che in quel momento erano state come un balsamo. Il ricordo di suo padre sarebbe stato sempre fisso nella sua mente. Per un istante, si illuse di nuovo che la persona che aprì la porta fosse lui.

 

Invece, era l’ufficiale da campo. Doveva ricevere i dignitari.

 

 

 

 

Ale-chan! Ale-chan! Guarda quanti soldati! Cosa fanno?”

 

Rin si sporse di più dall’albero su cui era salita. Un ciliegio immenso, vicino al muro di cinta. Le piaceva molto arrampicarsi sugli alberi e saltellare sui rami. Soprattutto in primavera, quando sono tutti verdi e pieni di fiori. Talvolta, inoltre, trovava nascosto dalle foglie qualche nido con dei pulcini pigolanti.

 

Ai piedi del tronco, Alessandra seguiva attenta ogni gesto della bambina. Pronta ad afferrarla al volo se fosse scivolata. Non le aveva impedito di arrampicarsi, non le impediva nulla. Ma era sempre costantemente vigile e pronta a intervenire per evitare che eccedesse. Senza mai sgridarla o urlare. Le spiegava il concetto con la sua voce tranquilla, e Rin alla fine le obbediva sempre. E la cosa faceva infuriare sempre Jacken, che per farsi ascoltare doveva sbraitare ogni volta minimo un quarto d’ora.

 

Se non fosse stato per la presenza allegra e spensierata di Rin, Alessandra si sarebbe sentita smarrita in quel grande palazzo. Erano parecchi giorni che non vedeva Sesshomaru, benché i loro appartamenti non distassero molto.

 

Non chiedeva mai nulla di lui a Jacken, col timore di alimentare le dicerie che sapeva circolavano su di lei e il demone e di dargli ulteriori preoccupazioni. Perché di problemi doveva averne parecchi, il suo Principe. Da quando erano arrivati, aveva visto le file dell’esercito crescere sempre di più e le tende aumentare. Ormai, avevano invaso tutti gli immensi giardini esterni, con grande dolore di Rin.

 

Allora, lei aveva preferito non disturbarlo. Gli sembrava banale il suo desiderio di vederlo in confronto a tutte le occupazioni dell’youkai. Anche se la notte, quando le canzoni e le urla dei soldati non la lasciavano riposare, rimpiangeva la mancanza del suo abbraccio. E si stringeva di più nella trapunta. Cercando con la mente di richiamare alla memoria il calore del suo corpo. Il suo profumo.

 

Non aveva più neanche il suo haori. Quando il giorno dopo il suo arrivo si era svegliata, aveva trovato nella sua stanza alcune demoni che si affaccendavano attorno ad un armadio a muro. Nella parziale incoscienza del dormiveglia, Alessandra aveva fatto per metter mano alla katana, ma si era trattenuta. E alzatasi a sedere nel futon aveva chiesto spiegazioni. Le era stato detto che erano inservienti addette alla sua persona, come aveva ordinato il Principe. E che stavano sistemando gli abiti che le sarebbero appartenuti.

 

Alessandra le vide avvicinarsi a lei con un’aria remissiva ma anche palesemente scocciata. Si capiva subito che avrebbero preferito qualsiasi cosa piuttosto che dover servire un ningen. Si era riscossa quando aveva avvertito le loro mani sulla trapunta e attorno al suo corpo e si era alzata di scatto. Sospettosa. Le yasha avevano cercato di tranquillizzarla spigandole che la volevano solo aiutare a spogliarsi per farsi un bagno, ma lei aveva declinato. Non aveva bisogno di nessun aiuto. E le aveva congedate.

 

Poi, c’era stato l’incontro con Rin. La bimba era felice di rivederla e di sapere che sarebbe rimasta a palazzo con lei. E soprattutto era felice che il signor Sesshomaru fosse tornato. Rin sembrava conoscere bene gran parte del palazzo, e si muoveva con disinvoltura anche per i giardini.

 

Alessandra si fece contagiare dalla sua allegria e con la bimba come cicerone d’eccezione aveva visitato quasi due ali dell’edificio, rimanendo incantata dall’architettura imponente e armoniosa al contempo. Aveva percorso innumerevoli corridoi di legno interni, visitato stanze profumate di incenso e nardo. Aveva camminato su tatami morbidi come erba novella e aveva ammirato i disegni semplici e suggestivi dei paraventi e delle pareti scorrevoli.

 

Alla fine, Rin l’aveva trascinata in giardino. E lì, per la seconda volta, aveva ricevuto occhiate di sufficienza. Le demoni presenti erano tutte abbigliate in modo sontuoso, con junihitoe raffinati e preziosi e capelli lucidi ornati da kanzashi di molte forme e dimensioni. Dovevano essere le consorti dei dignitari. E si vedeva che erano abituate alla raffinatezza. Nulla che fosse fuori posto. Erano semplicemente perfette. Statuette di porcellana che la fissavano con sguardi ironici, maliziosi o di malcelata gelosia.

 

Alessandra si era improvvisamente sentita in imbarazzo, fuori luogo, con i suoi pantaloni neri stinti e il suo corto kimono blu stretto in vita da un obi privo di orpelli. Per non parlare dei capelli raccolti in una semplice treccia che le ricadeva sulle spalle. Niente trucco. Nessun gioiello. Al loro confronto, era insignificante.

 

Aveva sentito Rin tirarle la mano e si era incamminata dietro la bimba ergendosi in tutta la sua altezza, con le spalle ritte e il viso fermo. Che non era simpatica a nessuno, lo sapeva. Lo aveva percepito benissimo. Ma non avrebbe mai dato loro la soddisfazione di vederla umiliata e imbarazzata.

 

Era rientrata nella sua stanza con ancora nelle orecchie i sussurri di scherno e commiserazione e le allusioni imbarazzanti. Sesshomaru l’aveva avvertita. Sarebbe stato un altro mondo, in cui lei non valeva niente. Se non per una bimba umana. E per lui. Lui che però non avrebbe potuto mostrarglielo, il suo affetto.

 

Si era coricata, cercando di ritrovare l’hoari del demone. Inutile. Lo avevano portato via. Si era sentita piena di sconforto e si era rigirata a lungo nel letto, incapace di addormentarsi. Alla fine, era uscita sulla veranda e aveva iniziato a camminare lungo il corridoio esterno. Faceva un freddo maledetto. La lucerna nelle stanze di Sesshomaru era ancora accesa. Era sveglio.

 

Salì scalza e con circospezione le scale. Non voleva dormire con lui. Solo dargli un bacio. Un abbraccio. Vederlo e respirare il suo profumo. Poi, se ne sarebbe tornata nella sua stanza. Voleva solo ricordarsi che lui era lì.

 

Dalla porta provenivano varie voci. Alessandra riconobbe subito il tono freddo del demone, ma con lui c’erano altre persone. Non poteva entrare. Stavano discutendo di confini, morti, un palazzo…Aveva sospirato e, portatasi due dita alle labbra, aveva depositato un bacio sull’infisso della porta. E se ne era andata.

 

Buonanotte…

 

Non era più andata a cercarlo. Ma la sera, prima di addormentarsi, si sedeva sulla veranda, qualunque tempo fosse. Osservava la finestra illuminata del demone e si immaginava di parlare con lui, gli raccontava la giornata trascorsa e i progressi o le nuove idee che aveva avuto. Perché, in quei giorni, aveva preso in mano alcuni libri di medicina rinvenuti nell’immensa biblioteca del palazzo e si era messa a studiarli nella speranza di trovare un antidoto alla sua cecità.

 

Ale-chan! Non mangi? Non hai fame? Stai male?”

 

La voce di Rin la riscosse. Erano tornate in camera e come ogni giorno avevano trovato il pranzo. Rin era troppo piccola per mangiare al tavolo degli adulti e Alessandra si era rifiutata di pranzare con i cortigiani nella grande sala. Anche se questo significava rinunciare a vedere Sesshomaru. Ma aveva deciso di cercar di contenere al massimo le dicerie con un comportamento esemplare. Così il bel demone non avrebbe avuto altro di cui preoccuparsi.

 

Sesshomaru si era impercettibilemente rabbuiato alla notizia, ma aveva lodato la discrezione di Alessandra. Alla fine, aveva acconsentito anche se a malincuore.

 

La ragazza osservò le mense di legno laccato davanti a lei. Sapeva che non una parola era uscita dalla labbra del Principe e che a tutto pensava Jacken, e non potè fare a meno di complimentarsi mentalmente con il demonietto. Il vitto era sempre vario e ricercato. E in più, sul tavolino di Rin non mancava mai una fettina di dolce.

 

Vide la bimba mangiare con gusto la sua porzione di chawan mushi accompagnandola con onigiri e si lasciò contagiare, assaggiando lei pure il ramen e il sukiyaki. In quel momento, forse anche l’youkai era a pranzo, forse dopo sarebbe andato a trovarla, forse…Scosse la testa. Niente illusioni. Lui non sarebbe andato, e neanche lei. Almeno senza prima aver trovato un possibile rimedio. Una scusa.

 

Gettò un’occhiata ai rotoli e ai libri sul piccolo tavolo. Sì. Avrebbe trovato un rimedio. Lo avrebbe aiutato così. Mettendoci tutta se stessa.

 

 

 

 

Il messaggero giunse a palazzo a notte inoltrata, mentre un vento glaciale spazzava la vasta pianura e costringeva molti soldati a interrompere la costruzione del fossato. Un demone può anche non sentir freddo, ma è difficoltoso lavorare con la terra e la polvere che ti entrano negli occhi, nella gola, facendoti tossire e faticare a respirare.

 

Sesshomaru era ancora seduto in consiglio con i suoi generali. Niente di definito. Solo proposte, teorie, ipotesi. Ma il Principe si era accorto subito della strana atmosfera. Anche i più passionali tenevano un tono dimesso, quasi di sufficienza. Gli esponevano le idee e le informazioni raccolte con puntigliosa precisione, ma sembrava che da un momento all’altro volessero gettare tutto all’aria e fargli quella domanda.

 

Quella domanda che era passata sulle bocche di tutti e che lui stesso si era sentito riferire da Jacken. La sua “affezionata” corte era preoccupata: voleva sapere il ruolo della ragazza che era giunta con lui. Voleva sapere chi fosse Alessandra. E soprattutto cosa fosse per lui. Anche se l’opinione più diffusa era quella dell’amante.

 

Maledetti vigliacchi! Neanche il coraggio di chiedere, avete. Lo so che siete stati voi i primi a far circolare quella voce. Ma adesso non vi azzardate minimamente a tirar fuori il discorso

 

Sesshomaru tratteneva a stento la sua rabbia, mostrandosi tuttavia irraggiungibile da qualsiasi insinuazione. Eppure, una soluzione la doveva trovare. Subito. Prima di impazzire. Se almeno avessero insinuato qualcosa apertamente, si sarebbe tolto la soddisfazione di minacciarli e contraddirli. Invece, niente.

 

Il demone entrò senza esser annunciato, creando un po’ di scompiglio nella grande sala delle riunioni. Ebbe solo il tempo di invocare il suo signore, che si accasciò a terra in un lago di sangue. Era ferito gravemente e sembrava allo stremo delle forze. Uno dei generali lo riconobbe dalle insegne sulla corazza: apparteneva ad uno dei reparti di stanza lungo il confine Nord-Est.

 

Sesshomaru si alzò prontamente e si inginocchiò accanto al subordinato. Senza vista, non era in grado di sapere nulla sul nemico dal tipo di ferite e non percepiva neanche nessun youki. Anzi, sembrava quasi che quello del demone stesso sotto di lui stesse scomparendo.

 

Uno dei generali, intanto, aveva dato voce nel corridoio ed erano prontamente accorsi alcuni guaritori. Non c’era bisogno spesso della loro opera, ma quel soldato stava davvero trattenendo la vita con i denti e doveva riuscire a vivere ancora un po’. Aveva delle informazioni preziose.

 

Quando i guaritori ebbero finito di medicare lo sfortunato demone, la situazione era critica. Si stava lentamente spegnendo, perdendo tutto il suo youki. La sua forza vitale. E non esisteva cura capace di fermare il processo. Era una cosa mai vista. Le ferite, neanche quelle superficiali, si rimarginavano.

 

Nel sentire quelle parole, Sesshomaru trattenne a stento un sussulto. Le ferite che non si rimarginano, lo youki che si annulla lentamente…la stessa cosa capitata a lui. Solo che lui era riuscito a sopravvivere.

 

Chiamate Alessandra

 

Fu un ordine che non ammetteva repliche e in quel frangente nessuno si azzardò a fare commenti. Il Principe sembrava estremamente sicuro e fu lui stesso a scansare in malo modo il guaritore che impediva l’accesso alla stanza alla ragazza.

 

M-ma…mio signore…”. Proteste inutili. Sesshomaru le sussurrò qualcosa all’orecchio e poi richiuse la porta scorrevole.

 

Passarono secondi, minuti. Lui che non aveva mai ritenuto il tempo degno di calcolo, si sorprese in totale dipendenza da esso. Se quell’youkai era giunto in quello stato fino a palazzo, doveva esser successo qualcosa di grave. Aveva fatto preparare un contingente e ordinato che uno dei suoi generali si tenesse pronto alla partenza.

 

Se il soldato fosse sopravvissuto, o almeno fosse riuscito a raccontare qualcosa, avrebbero agito subito, senza ulteriori perdite di tempo. Cercò di ignorare i borbottii contrariati dei guaritori e quelli maliziosi dei suoi subordinati. Ma era davvero difficile. Se avessero pronunciato una parola di troppo, non era certo di riuscire a controllarsi ancora.

 

“Potete entrare”

 

La voce di Alessandra lo riscosse dai suoi pensieri cupi. Un tono stanco e provato. Certamente, per lei non doveva esser stato facile vedere di nuovo un corpo martoriato e coperto di sangue. Eppure, quando le aveva chiesto di provare a salvarlo, lei aveva annuito con semplicità e determinazione.

 

Sesshomaru entrò nella stanza senza curarsi del tatami prezioso. E con lui i generali e i guaritori, che scansarono malamente la ragazza e la guardarono con un’espressione di malcelata invidia. Una sfida muta. Ci provasse, a metterli in ombra davanti al Principe. Gliela avrebbero fatta pagare.

 

“Non gli resta molto…fagli ora le domande che vuoi”

 

Alessandra, ignorando i presenti, si era affiancata a Sesshomaru e gli aveva sussurrato quella frase. Anche se sapeva benissimo che il bel demone doveva essersi accorto comunque della gravità della situazione dal respiro spezzato, simile al rantolo di una bestia colpita a morte.

 

Sesshomaru non dovette neanche aprir bocca, perché appena il sudore permise al soldato di riconoscerlo, facendo appello alle sue ultime forze, iniziò a raccontargli tutto.

 

“Mio signore…Siamo stati attaccati…Colti di sorpresa…Demoni…Come noi…Sono…ci sono piombati addosso all’improvviso…Nessun rumore…Nessun odore…Sbu-sbucati dal nulla…”

 

Colpì convulsi di tosse lo costrinsero a fermarsi. Uno dei generali lo afferrò per una spalla, strattonandolo e minacciandolo se non avesse subito continuato. Un gesto folle. Perché poteva far morire subito il demone per una nuova emorragia. Sesshomaru fece per intervenire, ma fu fermato da una voce. Fredda. Tagliente.

 

“Veda di smetterla. O davvero non potrà più parlare”

 

Alessandra aveva liberato l’youkai dalla presa rozza e pericolosa del generale e si era frapposta fra loro, mentre il soldato, anche se libero, sembrava essere caduto preda di un totale delirio. Il generale, un demone robusto, con lunghi capelli verdi raccolti in una treccia e la carnagione scura come l’ocra, dapprima squadrò la ragazza che gli stava ferma di fronte. Determinata e autoritaria.

 

Il suo primo impulso fu quello di darle uno schiaffo, ma poi dovette ammettere che non era così brutta come dicevano. Era desiderabile, per essere un’umana. Molto desiderabile. Ed era un peccato che fosse solo del Principe. Perché i ningen appartengono a tutti. Esistono solo per soddisfare gli youkai. In ogni loro desiderio.

 

Nooo!…Capitano…Capitano fugga! È un mostro…Non è viva…Non muore…Fugga…Lui… È lui…è venuto per la vendetta…vuole la guerra…La nostra morte…”

 

A quelle parole, Sesshomaru si piegò sul soldato ormai preda di spasimi frenetici. Percepì la sua aura scomparire lentamente. Dannazione! Non ancora! Aveva bisogno di sapere ancora molte cose. Molte. Ma soprattutto chi voleva la guerra. Chi voleva vendetta.

 

“Il nome. Dimmi il suo nome!”

 

Un ordine, freddo e atono, anche se dentro sentiva una rabbia e uno sconcerto immensi. Il sodato, nell’incoscienza, gli strinse il braccio e lo fissò con le iridi dilatate e vuote. Sesshomaru non lo vedeva, ma percepì uno sguardo estremamente profondo, una preghiera che gli uscì dalle labbra in un sospiro.

 

“…Ven…di…cate…ci…”

 

Sesshomaru annuì, stringendo quella mano in segno di promessa. Lui combatteva da solo, ma anche se quell’youkai era solo un soldato e di basso livello anche, non se la sentì di rispondergli in modo sprezzante. Non se la sentì di allontanarsi e mantenere la sua posizione di superiorità come gli era stato insegnato. In quegli attimi, la sua mente fu attraversata da un ricordo lontano. Sbiadito quanto un sogno. Parole che non riuscì ad afferrare. Uninsegnamento di suo padre.

 

Il soldato sorrise. Soddisfatto. Tranquillo. Il Principe aveva promesso. Il Principe avrebbe mantenuto la promessa. Come faceva sempre suo padre.

 

“…Mo…riga…wa…”

 

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Capitolo 27
*** 27. ATTRITO ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!

 

Aggiornamento-lampo perché devo subito tornare a studiare (aaaahhh!!! Il greco è anche bello, ma sono stufa!!! ^__^). Niente Alessandra e Sesshomaru in questo capitolo, ma spero comunque che no vi deluda. Fatemi sapere cosa ne pensate.

 

Buona lettura e a presto (spero).

 

 

 

 

CAPITOLO 27

ATTRITO

 

 

Quella mattina, fu Shin in persona a svegliarlo.

Yashi non rispose subito, e quando finalmente si svegliò, si trovò davanti la faccia scura del fratello. Doveva aver saputo. E dalla sua espressione, ne deduceva che ne erano venuti solo guai.

 

Shin si accorse immediatamente del labbro ancora gonfio, eredità della notte trascorsa, e della sua aria stanca. Lo afferrò saldamente per lo yukata e gli fece immergere a forza la testa nel catino d’acqua gelida. Una, due, tre volte. Finchè Yashi non riuscì a liberarsi della presa forte del fratello.

 

Shin aveva una luce strana negli occhi, un misto di rabbia, disappunto e colpevolezza. Indugiò a lungo sul paesaggio innevato oltre la finestra, mentre suo fratello si vestiva e rassettava. Davvero non si rendeva conto di quello che aveva fatto? Doveva essere completamente ubriaco per provocare a quel modo. E poi, cosa diavolo era andato a fare da Naraku a notte fonda?

 

Koji entrò prima che i due fratelli potessero scambiare una parola. Percepì subito la tensione e fece per togliere il disturbo, ma la voce di Shin lo fermò. In fondo, anche lui era legato dal patto. Anche lui era suo fratello. Anche se a volte si comportava in modo diverso. Per Shin non c’era differenza.

 

Dalla finestra filtrava la gelida luce del sole, nascosto dietro a nubi bianche che si muovevano veloci spinte da folate di vento ghiacciato e proiettavano la loro scura ombra sulla terra e sui monti. Era difficile iniziare. Perché in fondo le risposte le conosceva già. Ma aveva preferito esser lui ad affrontarli per primo. Prima di suo padre.

 

Suo padre…Li aveva raggiunti, rivestito della più sontuosa e lucente delle sue armature. Fiero e terribilmente potente. Benché contenesse al massimo la sua aura demoniaca, Morigawa non poteva impedire che questa aleggiasse intorno alla sua persona. Terrore. Una sensazione di reverenziale e folle terrore prendeva chiunque gli si accostasse. Lo accendeva di volontà guerriera irrefrenabile e di desiderio insaziabile di vendetta.

 

Non sembrava più lui. Non era più lui. Aveva varcato l’antica soglia del palazzo e si era seduto sul trono ristabilendo un’autorità toltagli più di quattrocentocinquant’anni prima. Era tornato per dominare. Per essere il nuovo dominatore del mondo. Nel viso deformato dalla rabbia e dalla soddisfazione, gli occhi neri ardevano come braci. Bui. Profondi.

 

Shin aveva avuto un brivido quando gli aveva incrociati. Vi aveva trovato un fuoco che bruciava da secoli, alimentato solo da una volontà incrollabile, da un desiderio inseguito con ogni fibra. Aveva incrociato uno sguardo sconosciuto. Dov’era finito il padre della sua infanzia? Quello che gli sorrideva e gli regalava sempre una carezza? Dov’erano i suoi occhi autoritari e anche tanto rassicuranti?

 

Scomparsi. Inghiottiti dal vortice nero della vendetta. Inghiottiti da qualcosa che lui non conosceva. Shin non aveva potuto impedirsi di ricordare le parole che l’ombra di Inutaisho gli aveva rivolto. Non le capiva ancora, ma avevano iniziato a far sorgere in lui l’ombra del sospetto. Che ci fosse qualcosa di più dietro a tutto quello che gli era sempre stato raccontato.

 

Gli avevano spiegato sempre che l’alleanza fra suo padre e Inutaisho, antichissima e rafforzata da un’amicizia atavica, si era incrinata quando il signore dell’Ovest aveva iniziato a invidiare Morigawa per i suoi nuovi domini e la crescente potenza. Lo aveva costretto ad una guerra e poi lo aveva attaccato a tradimento nel palazzo, costringendolo all’ultimo scontro. Erano sopravvissuti tutti e due, ma suo padre aveva perso il suo youki. Stappatogli dall’inuyoukai. Sigillato.

 

Eppure, lui ricordava bene le ombre di quella notte. Quella di suo padre e di un mostro che lo sovrastava. Ma che però non sembrava avere le fattezze di Inutaisho né umane né demoniache. Poi, il fumo aveva coperto tutto; c’erano state grida, urla disumane e lui era stato preso di peso e portato via. Si era risvegliato fra le braccia di sua madre. Gli avevano detto che era stato Takakuni a portarlo in salvo.

 

Ora, suo padre era pronto e si sarebbe vendicato. E anche lui avrebbe visto la fine dell’esilio, per sé e i fratelli nati lontano dai territori aviti. Ma allora, perché non riusciva più a creare un’intesa con suo padre? Perché si limitava a ubbidire agli ordini come un bravo soldato e dentro sentiva sempre più prepotente l’idea che ci fosse dell’altro? Qualcosa che nessuno gli aveva detto e che forse l’unica persona che la conoscesse fosse proprio suo padre?

 

“Allora? Me la vuoi fare questa predica, così poi la finiamo?”

 

La voce sarcastica di Yashi lo costrinse alla realtà. Sospirò spostando lo sguardo sui fratelli. Erano entrambi tranquilli, quasi sprezzanti. E la cosa che più gli faceva male era che avevano agito in quel modo per lui. Ma le conseguenze potevano essere gravi.

 

“Non scherzare. Ti rendi conto di cosa hai fatto, vero?”

 

Yashi si portò un dito al mento, e assunse un’aria innocente e pensierosa al tempo stesso. La stessa espressione di quando era ancora piccolo, e cercava di spiegare qualcosa di sbagliato e che a lui sembrava naturale.

 

“Dunque, vediamo…Cos’è che avrei fatto?...Ah, sì! Ora ricordo”. Tolse la mano e fissò il fratello maggiore dritto negli occhi. Non aveva più voglia di scherzare. “Ho dato una ripassatina a quel maledetto bastardo. La cosa ti dispiace, forse?”

 

Shin assottigliò le iridi viola. Possibile che la sfrontatezza di suo fratello non temesse nulla? A volte era davvero esasperante.

 

“No! Tu hai minacciato e colpito il luogotenente di nostro padre! Te ne rendi conto?! È come se avessi colpito lui stesso!”

 

“Ero ubriaco”

 

Yashi rispose con una scrollata di spalle. Non gliene importava nulla di chi fosse. Ben gli stavano i pugni che aveva preso. Così imparava a occupare posti che non gli spettano e a cercare di mettere in ombra suo fratello. Le calunnie non gli erano mai piaciute. Soprattutto le calunnie di quel maledetto hanyou.

 

“Perché lo hai fatto?”

 

La voce di Shin era un sussurro che si confondeva con il rumore del vento oltre la finestra aperta. Voleva una risposta precisa. Perché si rifiutava di credere che i fumi dell’alcool avessero annebbiato completamente la mente del fratello. No. Impossibile. Quella era stata la versione ufficiale: il comandante Yashi aveva bevuto un po’ troppo e di ritorno a palazzo aveva frainteso le parole di Naraku, scatenando una rissa. Ma Shin si rifiutava categoricamente di crederci. Aveva visto Naraku. E le sue ferite non erano certo di quelle che può infliggere un ubriaco barcollante. Suo fratello era andato a cercarlo perfettamente lucido. E lo aveva minacciato. Poi, la discussione doveva esser degenerata. Ma adesso lui voleva sapere il perché.

 

“Perché siamo stufi di vedere come ti tratta. Sei costretto sempre a piegare la testa, quando lui non dovrebbe neanche osare porsi a livello della tua ombra. Non è mica lui l’erede! Ancora non capisco perché nostro padre gli permetta di fare quello che vuole”

 

Shin spostò lo sguardo a Koji. La pensava anche lui così? Davvero credeva che fosse solo un burattino nelle mani sudaticce di quell’hanyou? Che avesse perso la sua determinazione e il suo orgoglio?

 

“Tu non dici niente?”

 

“La penso come Yashi. Shin…Noi sappiamo quanto vali, e non credo che da un momento all’altro tu abbia dimenticato il tuo stramaledetto orgoglio. Forse potremmo farlo noi due, ma tu no. Mai. E allora perché permetti che accada? Perché ti lasci trattare in quel modo? Anche ieri al consiglio. Perché non hai risposto per le rime alle accuse che ti erano rivolte?”

 

“Perché erano vere”

 

Sorpresa. Incredulità. Shin vide lo sconcerto puro impadronirsi delle espressioni dei fratelli. Non ci credevano. Eppure era vero. Tutto quello che era stato insinuato era vero. Dannatamente autentico. Lui si era rifiutato di eseguire gli ordini. Lui aveva bloccato l’attacco che avrebbe portato all’occupazione di buona parte del versante Nord-Est. Lui era venuto meno alle direttive di Naraku. Aveva disubbidito a suo padre. E se ne era andato. Lasciandosi dietro cadaveri e distruzione, vero. Ma senza completare l’opera per cui era stato inviato a compiere quella sortita improvvisa. E il risultato era stata una punizione esemplare e umiliante, più della morte stessa. Si passò una mano sugli occhi, fra i capelli ormai corti. Era così stanco.

 

“Spiegaci”

 

Shin si lasciò cadere su una sedia, le mani fra le gambe e la testa reclinata sul petto. Era l’immagine stessa della disperazione. I fratelli non lo avevano mai visto così. In quelle condizioni. Era irriconoscibile. Lui che li aveva sempre spronati, lui che fra loro era il più grande e forte. Un modello da imitare. Ora sembrava solo un bimbo terrorizzato da un incubo troppo vero per essere solo un sogno.

 

“Avete mai visto sparare ad un demone?”

 

Parlava piano, rincorrendo pensieri, immagini e sensazioni che lo straziavano. Dentro. Nel profondo. Non era la morte a spaventarlo. Aveva visto uccidere e ucciso molte volte. Era stato educato a quello. Era nella sua natura demoniaca. Non temeva la morte che sapeva sempre al fianco del guerriero. Non gli ripugnava il sangue.

 

Ma una morte come quella che aveva visto dare a quei soldati, una morte fra tormenti e sofferenze muti, che lasciavano però solchi profondi sui visi come scavati nella pietra. Quel modo di uccider lo aveva gettato in un profondo sconforto.

 

“Io sì…Prima c’è quella detonazione. Ti rimbomba nelle orecchie continuamente. E vedi lo youkai davanti a te irrigidirsi improvvisamente, per poi cadere a terra con gli occhi dilatati…abbiamo guardato più volte negli occhi qualcuno che muore…Sia voi sia io…Eppure…Quello sguardo…non riesco a togliermelo dalla testa…I brividi spasmodici, quel contorcersi sconnesso…e tu sei lì davanti e senti il suo youki che piano piano svanisce, che si porta via la sua vita. Alla fine, resta congelato in una maschera che sembra sempre pronta urlare, a rincorrerti per ricordarti il modo in cui lo hai ucciso…”

 

Shin tuffò il viso nelle mani. Aveva assistito all’eccidio del contingente di guardi al fronte. Colto di sorpresa. Incapace di difendersi. Avevano vinto. Ma lui aveva bloccato tutto ed era tornato indietro. Lasciando al nemico un avamposto ormai conquistato. Non era quello lo scontro che voleva. Non era quello il modo di combattere che gli avevano insegnato.

 

Quello era un massacro, non una guerra. Quello era omicidio, non vendetta.

 

Yashi gli si inginocchiò davanti e lo abbracciò forte. Per la prima volta, Shin si mostrava loro debole e provato. Sapevano entrambi cosa doveva aver provato nel disubbidire ad un ordine di suo padre. Lui disposto a tutto pur di renderlo fiero. Ma sapevano anche che il suo orgoglio non gli permetteva di passare sopra anche all’onore.

 

Shin era un soldato. Il migliore fra loro tre. Il migliore fra tutti. Eppure, aveva piegato il capo e sacrificato se stesso, obbedendo agli ordini di un maledetto hanyou. Sempre per suo padre. Ma oltre non ce l’aveva fatta ad andare. Obbedire, ma non annullarsi personalmente.

 

*****

 

Naraku imprecò fra i denti.

Inutile. Dannatamente inutile. Lo specchio di Kanna restituiva sempre uno sfondo nero e indefinito. Avvolgente. L’energia demoniaca era troppo potente. Non riusciva a penetrare nelle terre dell’Ovest e spiare Sesshomaru. Non riusciva vedere i suoi piani e la situazione al suo palazzo.

 

Non ci sperava davvero, ma aveva voluto provare a illudersi. Inutilmente. Anche con la sfera non ci sarebbe riuscito. Avrebbe anzi rischiato di rovinare tutto. Non era il caso. Non dopo che Morigawa si dimostrava così favorevole nei suoi confronti. Tanto da richiamare ufficialmente il figlio e ammonirlo davanti a tutta la corte.

 

Aveva goduto nel vedere Shin costretto a terra, con le mani legate dietro la schiena, mentre un ufficiale gli tagliava fino alla base del collo i lunghi capelli neri. Umiliazione massima. Seconda solo alla condanna a morte.

 

I principi reali si facevano crescere i capelli per sottolineare la loro stirpe e la loro posizione. L’appartenenza alla famiglia egemone. Era come se in essi fosse racchiusa la loro autorità e la loro forza.

 

Aveva goduto intimamente, perché quel ragazzo, col suo comportamento sprezzante e orgoglioso, costituiva per lui un grave problema. Tuttavia, aveva tentato falsamente di intercedere per lui presso il padre. Aveva addotto le solite, banali scuse: l’ardore dell’età, l’inesperienza, la voglia di vendicarsi. Tutte scuse per rabbonire Morigawa e conquistarsi la fiducia di Shin. Se l’erede fosse stato dalla sua parte, anche gli altri principi lo avrebbero accettato come nuovo luogotenente, e avrebbe avuto maggior libertà d’azione.

 

L’arringa aveva procurato l’indulgenza di Morigawa, che aveva deciso di mostrarsi clemente. Non avrebbe sollevato il figlio dall’incarico. Solo, non doveva più agire di sua iniziativa. Naraku si era profuso in profondi ringraziamenti ed elogi, ma quando si era girato verso il giovane lo sguardo che aveva visto non gli era proprio piaciuto.

 

Disgusto. Negli occhi viola di Shin c’era un profondo disgusto e una disprezzo malcelato. Si era alzato da terra, ma nonostante i capelli corti e la semplice yukata, da quel ragazzo emanava una regalità incredibile. Sembrava che il suo sguardo potesse trafiggere. Anzi, sembrava ancora più autoritario del normale. Aveva il fascino dell’orgoglio indomito e giovane. Aveva un ascendente pericoloso sulla corte, che non riusciva a credere a quello che aveva fatto, ma neanche gli era apertamente ostile.

 

Naraku sospirò, congedando Kanna. Doveva esistere un modo per piegare quel ragazzo. O almeno per tenerlo sotto controllo. Un punto debole doveva pur avercelo anche lui, dannazione. Forse i suoi fratelli, ma in quel caso la partita era persa. Erano troppo legati per poterli mettere uno contro l’altro. Ne aveva avuto dimostrazione sulla sua pelle. In una scazzottata con l’altro dei principi: Yashi. E anche in quel caso aveva dovuto ammettere la grande energia che quelle membra giovani sprigionavano. Se non fosse stato per l’intervento di Koji e dei soldati, Naraku ammise a se stesso che non era sicuro che se la sarebbe cavata solo con qualche livido.

 

Ma il problema rimaneva. Shin. Bisognava trovare qualcosa su cui far leva. Qualcosa che gli permettesse di conoscere sempre i suoi pensieri e tenerlo a freno.

 

“Forse io posso esserti utile, Naraku”

 

Kagura era entrata nella stanza senza farsi annunciare, e ora fissava con un sorriso ironico il suo signore. Lo odiava, ma forse in quel momento, se avesse giocato bene le sue carte, sarebbe riuscita a mettersi in una posizione tale da consentirle di ottenere la libertà agognata e la vendetta contro Sesshomaru.

 

Naraku socchiuse appena gli occhi. Doveva fidarsi della yasha? In fondo, già una volta aveva provato a tradirlo, offrendo se stessa e i frammenti a Sesshomaru. Perché mai adesso gli avrebbe dovuto offrire spontaneamente aiuto? Non riusciva a capirlo. Ma colse il tremare nervoso delle mani di Kagura attorno al ventaglio. Non paura, ma rabbia.

 

Si ricordò il viso della yasha davanti allo specchio della sorella. E capì, mentre un sorriso di scherno si dipingeva sulle sue labbra. Forse avrebbe potuto funzionare davvero. In fondo, Kagura era molto bella. E poi, questa volta non lo avrebbe tradito. Era troppo forte il desiderio che aveva di umiliare Sesshomaru.

 

…e la sua piccola amante umana…

 

L’invitò a sedersi con un cenno. Voleva sentire il suo piano. E se era quello che aveva intuito, gli piaceva.

 

*****

 

Quella sera, Shin rientrò tardi nei suoi alloggi.

Aveva passato tutta la giornata fuori da palazzo, fra i suoi soldati. Controllando i rifornimenti, l’ordine, la preparazione di uomini ed equipaggiamento. Ormai, mancava poco. Un mese. Al massimo un mese e mezzo. E l’assedio sarebbe iniziato. La fine di tutto. L’inizio di una nuova vita. Quella che gli era stata rubata.

 

Entrò nella sua stanza ancora perso in elucubrazioni militari. Gli uomini sembravano non aver dato peso al fatto che fosse stato disonorato. Si erano comportati con lui normalmente, anche se alcune occhiate pietose o di sufficienza c’erano state; ma perlopiù da parte dei demoni di grado maggiore. Poteva ritenersi soddisfatto. Buona parte dell’esercito era con lui, anche se non lo dava apertamente a vedere, e questo confermava il fatto che suo padre era cambiato. In passato, nessun soldato si sarebbe mai neanche sognato di preferire il Principe al Signore in carica. C’era una dedizione totale e assoluta. Una dedizione reciproca. Ma Morigawa sembrava essersene dimenticato, avvolto dal vortice della vendetta. Orami, era solo quello a interessargli. Non teneva più neanche in considerazione i suoi figli.

 

Si passò una mano fra i capelli. Non si era ancora abituato a portarli così corti. E poi, bruciava terribilmente il ricordo del tentativo di Naraku di perorare la sua causa. Il tentativo subdolo e mellifluo di quel maledetto. Lo sapeva, cosa voleva ottenere in quel modo. La sua fiducia, il suo appoggio.

 

Ma il Principe non era uno sciocco. Lo aveva accettato perché così gli aveva imposto il padre, ma non era più tanto sicuro della felicità di quella scelta. Sempre più spesso, c’era come un pungolo dentro la sua anima. Qualcosa che lo spingeva a ribellarsi, a soppesare e analizzare ordini che in passato aveva sempre eseguito senza batter ciglio. E tutto dopo che il Sensei gli aveva mostrato quel maledetto fantasma. Ormai, se lo sognava anche di notte. In un delirio continuo e angoscioso. Insensato. Eppure quelle parole dovevano contenere qualcos’altro. Dovevano. E lui avrebbe scoperto cosa, o sarebbe impazzito.

 

Si riscosse all’improvviso e si passò una mano sul volto. Era stanco. Un peso immenso gli gravava sul cuore, oltre a quello dell’umiliazione e del comando. Voleva farsi un bagno caldo e poi riposare alcune ore. La giornata seguente sarebbe stata letteralmente massacrante. Chiamò l’youkai addetto alla sua persona, ma non ebbe risposta.

 

Ripetè il nome, spazientito. Doveva essere gravemente indisposto per non accorrere subito. In fondo, erano amici e si conoscevano da tempo. Una delle poche persone veramente fidate che avesse a palazzo.

 

“Il tuo servitore si è dovuto allontanare. Tornerà domattina”

 

Shin avvertì quella voce provenire da oltre il paravento; era una voce che non gli era del tutto sconosciuta, ma in quel momento non riusciva proprio ad associarla ad un volto. E la stanza era troppo impregnata di un profumo strano che stordiva i sensi per riconoscere l’intruso in base all’odore. Mise la mano sull’elsa della katana e aggirò il separè.

 

Nel suo letto, avvolta solo dalle coperte preziose, Kagura lo fissava sorridente e con la malizia negli occhi. Seducente. Sperava di riuscire ad avvincere quel ragazzo con la sua bellezza altera, di piegarlo a lei e insinuarsi nei suoi pensieri. In fondo, un bacio glielo aveva già rubato. E anche se lui non aveva risposto alla sua proposta, nulla era ancora perduto.

 

Shin si sorprese un po’ nel vederla; avvolto solo dalle coperte leggere, il suo fisico provocante risaltava ancora di più, e la luce calda e soffusa della lucerna regalava una penombra dannatamente coinvolgente. Non poteva negare a se stesso che quella yasha era bella. Molto bella. Eppure, provava un senso di repulsione verso di lei. Perchè aveva intuito benissimo il motivo di quella inaspettata visita.

 

Certo, era venuta per lui. Ma solo per riuscire a prenderlo all’amo e rimbecillirlo. Forse l’idea era stata sua o forse di Naraku; un nuovo tentativo di accattivarsi la sua simpatia. Comunque fosse, ora la yasha era seduta davanti a lui; gli si stava offrendo, come gli si era offerta la prima volta che l’aveva incontrata.

 

Kagura si alzò in piedi, drappeggiandosi attorno al corpo il lenzuolo quel minimo necessario a rendere ancora più conturbante la sua figura. Aveva un collo liscio e morbido, spalle diritte, un viso perfetto incorniciato da corti capelli d’ebano, labbra rosse e carnose. E anche ciò che non mostrava ancora doveva avere le proporzioni della perfezione.

 

Gli si avvicinò con malizia crescente. Ogni sua mossa era studiata per incantarlo e sedurlo. Nulla era lasciato al caso. Gli girò attorno, passando gli artigli sulle sue spalle, sul collo, attorcigliando i capelli neri. Scese con la mano sul suo petto prestante che neanche il kimono nascondeva totalmente nelle sue forme. Se fosse divenuto il suo amante, ne sarebbe anche andata fiera. Era un giovane molto bello. Soprattutto per la profondità dei suoi occhi viola. Così seri e malinconici.

 

Sì. Non aveva proprio nulla da invidiare a Sesshomaru. E Kagura pregustava già la faccia del demone quando gli avrebbe detto di essere la compagna di un principe pari, se non superiore, a lui. L’aveva umiliata preferendole una sciocca ragazzina umana. Una ningen acerba e insignificante. Gliela avrebbe fatta pagare. Ferendolo nell’amor proprio e nei sentimenti. Perché dopo Shin, si sarebbe occupata anche di quella ragazza.

 

Gli si avvicinò di più, facendo quasi aderire i loro corpi e pose una mano sull’obi dell’youkai, iniziando piano a scioglierlo.

 

“Posso spogliarti?”

 

Shin le fermò la mano. Una stretta salda e decisa. Kagura alzò gli occhi al giovane e ricevette uno sguardo duro e sospettoso. Probabilmente, non aveva dimenticato il suo messaggio. E la sua presenza non lo lasciava tranquillo. Dentro di sé la yasha sorrise; si prospettava più difficile del previsto averlo. Ma non se lo sarebbe lasciato sfuggire.

 

Lasciò stare l’obi e iniziò a carezzargli il viso, con gesti lenti e delicati, mentre faceva scivolare una mano fra le pieghe del kimono, andando ad accarezzargli l’addome scolpito. Sentì la pelle di Shin rabbrividire al suo tocco esperto, eppure gli occhi del ragazzo non cambiavano. La fissavano come se volessero leggerle fin dentro l’anima.

 

Risalì fino alle sue spalle e iniziò a massaggiargli piano la base del collo, lì dove si concentra la tensione. Sentì i muscoli che si rilassavano, ma iniziava a indispettirsi della rigidità e freddezza del suo amante. Si sporse verso di lui, cercando le sue labbra. Shin si riscosse in quel momento, come liberatosi della malia dei suoi gesti, e si allontanò da lei.

 

“A cosa miri, Kagura?”

 

“Solo al tuo piacere” gli sussurrò la yasha all’orecchio, dopo avergli gettato le braccia al collo. Ora i loro corpi aderivano perfettamente, e Shin poteva sentire le forme prosperose della yasha contro di sé. Tuttavia, l’unica cosa che riuscì a provare fu una profonda repulsione.

 

“Davvero?” le chiese con una punta di sarcasmo. “Non stai cercando piuttosto di umiliare qualcuno?”

 

Kagura si staccò da lui, osservandolo con sospetto. Era impossibile che lui sapesse di Sesshomaru, del rifiuto che le aveva mosso e della sua rabbia. No. Stava solo bluffando. E lei non avrebbe perso a quel gioco. Sfoggiò il più intrigante dei suoi sorrisi e di nuovo gli buttò le braccia al collo. Non era disposta a rinunciare a lui facilmente.

 

“Non so cosa tu voglia dire. Mi preme solo di te” gli sussurrò all’orecchio, in tono suadente, e iniziò a baciarlo con insistenza, muovendo le mani sul suo corpo per esplorarlo. Sentendo però il ragazzo irrigidirsi, smise di importunarlo, ma cercò comunque di convincerlo con le parole.

 

“Non mi credi, Shin? Non credi alle mie parole?”

 

“No”. Un’affermazione determinata. L’youkai era consapevole che Kagura stava giocando con lui, ma non sapeva bene il motivo. Di certo, non era un semplice ordine di Naraku quel tentativo di seduzione. No. Doveva esserci dell’altro. Perché se no avrebbe già dovuto offrirsi a lui in cambio della libertà dall’hanyou?

 

“Tu ti stai concedendo solo per capriccio. Per ripicca”. Shin era serio, ma Kagura non potè evitare di prorompere in una risata isterica.

 

“Concedersi…Come suona equivoco!”. Si stava innervosendo per via dell’ostinata ritrosia di Shin e delle sue domande. “Io non mi concedo mai, mio caro, è disonorevole. Io scelgo…e ho scelto te!”

 

Shin le afferrò i polsi con forza, impedendole qualsiasi movimento. La fissò negli occhi con insistenza. Non poteva leggere nella sua anima, non aveva quel potere, ma vi scorse ugualmente una falsità e un’ipocrisia che lo nausearono.

 

“Vattene”. Glielo scandì a pochi millimetri dal volto, e si gustò la sorpresa invadere i lineamenti della yasha. L’aveva rifiutata. Gli aveva rubato dei baci, ma non era riuscita ad avvincerlo. A sedurlo. La stava rifiutando come l’aveva rifiutata Sesshomaru.

 

“Perché? Temi di non riuscire a resistermi, se non me ne vado?”. Si era liberata dalla stretta e aveva giocato la sua ultima carta. Pungerlo nel suo orgoglio maschile. Se avesse detto di sì, si sarebbe sminuito. E doveva essere quella la risposta, altrimenti la sua presenza non lo avrebbe minimamente disturbato. Shin, che intanto si era allontanato da lei verso la finestra, si girò a fissarla e scosse la testa.

 

“No. Perché il mio rifiuto sarebbe più imbarazzante per te che per me”. Tornò a guardare il paesaggio alla luce della luna. “E adesso, vattene”

 

Kagura avrebbe voluto controbattere, ma scoprì di non aver il coraggio di alzare gli occhi su di lui per la troppa vergogna. Recuperò il suo kimono e si avviò alla porta. Prima di uscire, gettò un’ultima occhiata a quel ragazzo bello come la notte e che l’aveva rifiutata come aveva fatto l’inuyoukai. Si sarebbe vendicata anche di lui. Per averla respinta e messa in imbarazzo. Per averla fatta vergognare.

 

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Capitolo 28
*** 28. ALLEATI ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!!!

 

Allora, per prima cosa ringrazio tutti quelli che seguono la storia (che tra parentesi è ancora ben lontana dall’esser conclusa, anche perché è divisa in due parti ^__^), e in particolare Jame.

 

Come al solito, sono un po’ di fretta, e quindi vi lascio alla lettura del prossimo capitolo. Ancora una volta, Alessandra e Sesshomaru non ci saranno, anche se, in verità, l’ultimo paragrafo riguarda il nostro bel demone da piccolo. Fatemi sapere cosa ne pensate.

 

Buona lettura!!!

 

 

§§ questo segno indica un ricordo, aprendolo e chiudendolo

 

 

 

CAPITOLO 28

ALLEATI

 

 

Betulla.

Il vento portava con sé l’odore delicato della betulla. E un soffuso profumo di fiori. Anzi, di un fiore. Bello. Dalle sfumature incantevoli. Ma che non fiorisce certo in inverno. L’iris è un fiore del sole, non del gelo.

 

Quel profumo…Era lei. Ne era sicuro. Come era altrettanto certo di non volerla vedere. Di non volerle far del male. Maledizione! Ma perché doveva essere così testarda? Non riusciva a capire che lo faceva per lei? Non era sicuro di aver un futuro. Un presente sì, con uno scopo ben delineato nella sua mente. Ma non un futuro. Un avvenire. E con queste premesse, non se la sentiva di impegnarsi con lei. Di illuderla e poi deluderla. Di farla aspettare. Inutilmente. Perché lui non sarebbe tornato.

 

Koga sorrise. Amaramente. Testarda. Testarda. Ma anche infinitamente dolce. Lo ricordava benissimo. Due occhi sognanti. Due gemme in cui la determinazione si fonde con la fanciullezza. Sotto certi aspetti, era ancora una bambina. La bambina che aveva salvato. La bimba cui aveva fatto una promessa impossibile. La bimba di un ricordo smarrito nel tempo.

 

Si decise ad abbassare finalmente lo sguardo. Eccola lì, la bambina impaurita della sua mente. Una ragazza, bella e fiera. Si era materializzata d’improvviso fra loro, mentre stavano riposando. Avvolta da piccole foglie verdi. Avvolta dal profumo dei boschi. L’youkai l’aveva ignorata. Era rimasto immobile, seduto sull’albero a fissare l’orizzonte bianco. L’aveva ignorata. Volutamente. Con la speranza che si stancasse di aspettare e se ne andasse.

 

Non aveva voglia di sentire di nuovo proposte di matrimonio. Obblighi da assolvere. Non aveva voglia di sentire la sua voce parlare e ridere. Non voleva star male. Di nuovo. E invece, la ragazza era ancora là, e il suono della sua voce era una melodia struggente nelle orecchie.

 

Si smarrì nella sua risata. Nel modo innocente con cui gettava indietro la testa ridendo, mentre i lunghi capelli rossi le solleticavano il collo. Si perse nel bianco dei denti che faceva timidamente capolino fra le labbra rosse e piccole. La bocca di una bambolina. Bella ed innocente.

 

Stava semplicemente parlando con Ginta e Hakkaku, eppure da lei emanava un fascino conturbante. Una seduzione schiva e intrigante. Forse era solo la sua fantasia, ma Koga ebbe il sospetto che l’essere ignorato facesse parte di un gioco strano. Un gioco di cui solo la ragazza conosceva le regole precise, ma che aveva lo scopo di farlo perdere. Capitolare. E se avesse continuato così, avrebbe vinto, accidenti a lui.

 

Ormai, lo aveva stregato. No, anzi. Lo aveva fatto già molto tempo prima. La prima volta che l’aveva rivista. Ma allora non aveva voluto accettarlo. Non aveva potuto. Aveva anche mentito, perché invece la promessa se la ricordava bene. Ricordava quella notte di pioggia leggera, quando la luna era stata attraversata da un arco policromo. L’aveva ricordata perfettamente, eppure le aveva mentito. Spudoratamente.

 

Allora, c’era anche una scusa pronta. Kagome. Fingere l’amore per lei. L’infatuazione terribile e la determinazione a volerla. Mostrare rabbia per celare dispiacere. Azzuffarsi con Inuyasha per confermare una realtà di schermo. Un’illusione.

 

Ora, però, non aveva neanche più quella via di fuga. Era arrivato il tempo di crescere. E di smettere di mentire agli altri e a se stesso. Soprattutto, a se stesso. Non aveva più nessuna scusa, ormai. Kagome non era più la ragazza contesa; lei aveva scelto. E adesso era al fianco di Inuyasha con piena consapevolezza. C’era per qualcosa in più di un semplice impegno a riparare il danno fatto.

 

Gli metteva tristezza ed euforia il ricordo di quei due. Li aveva sorpresi abbracciati in una capanna. E si era divertito a vedere il loro imbarazzo, soprattutto quello dell’hanyou. Potevano anche esser consapevoli che ragazzi in eterno non lo si resta, ma la voglia di scherzare e provocarsi non svanisce da un momento all’altro. E benché debilitato, Inuyasha non aveva perso l’occasione di provocarlo, inciampando alla fine nelle sue minacce, alle allusioni innocenti e maliziose di Koga.

 

E adesso, con quella ragazza davanti agli occhi, gli tornavano alla mente le parole che l’hanyou gli aveva detto prima che se ne andasse. Gli aveva consigliato di non scappare dai sentimenti, perché il rischio è accorgersi troppo tardi di non aver più tempo per viverli. Allora, aveva solo fatto un cenno di sufficienza e se ne era andato. Per lui, era facile parlare così. Ora credeva di essere il detentore di una verità certa; eppure non riusciva a dargli torto del tutto.

 

Scese dall’albero e prese la ragazza per un braccio, trascinandola verso il boschetto. Si lasciava dietro i suoi compagni stupidi e confusi e il suo silenzio. In quei mesi aveva riflettuto molto. Su di lui, sul legame che aveva con Kagome e su quello con la ragazza dietro di lui. Aveva riflettuto, e aveva preso una decisione. Ma adesso gli sembrava così sbagliata da volerla cambiare. Subito.

 

“Koga?...”

 

Ayame si massaggiava il polso e fissava il principe, di schiena. L’aveva portata sulle rive di un ruscello; l’aveva lasciata andare e si fermato a qualche passo da lei. Muto. Pensieroso. Non gli aveva ancora sentito dire una parola. Eppure sapeva che non la stava ignorando. Sapeva che l’aveva portata lì per dirle qualcosa di importante, lontano da orecchie indiscrete.

 

Se fosse stata un’altra occasione, Ayame si sarebbe sentita morire dall’agitazione e avrebbe iniziato a fantasticare sulle parole che il ragazzo avrebbe potuto dirle. Perché lei voleva bene a quel principe testardo e orgoglioso. Al ragazzo che l’aveva salvata da bambina e che la proteggeva allontanandola da sé. Dal dolore.

 

Fissò la sua schiena ampia, protetta dalla corazza e accarezzata dai lunghi capelli neri. Il fisico prestante e armonioso, indomito e selvaggio, nella muscolatura guizzante e nelle vesti di pelliccia. Si sorprese a immaginare il profumo della sua pelle, il calore del suo corpo. Arrossì al pensiero delle mani dell’youkai che l’accarezzavano e del gusto delle sue labbra.

 

Non adesso. Non era lì per ricordagli una promessa. Non era lì per lei. C’era dell’altro. Aveva un compito da svolgere. Doveva farsi forza e sfoggiare tutta la sua grinta per persuaderlo. Non sarebbe stato facile, ma ci sarebbe riuscita.

 

“Koga”. Di nuovo, non ottenne risposta. Prese un respiro profondo. Doveva dirglielo. Subito. Prima che il coraggio le venisse meno. “Devi tornare con me sulla montagna. Il nonno ti deve parlare. È importante”

 

Aveva parlato troppo in fretta. Parole pronunciate veloci, con l’intonazione del comando, dell’ordine che non ammette risposte negative. Lo vide girarsi con una luce strana negli occhi.

 

“Ayame…Io non posso sposarti, se è questo il motivo della convocazione”

 

Gli faceva male dirlo, ma non poteva esimersi dal farlo. Poteva anche accettare di amarla, di non riuscire a togliersela dalla testa, ma non poteva in alcun modo legarla a sé, per poi abbandonarla. No. L’avrebbe amata in silenzio, con gli occhi e il ricordo. Lasciandola libera di vivere.

 

“No!”. La yasha scosse con forza la testa. Possibile che dovesse sempre aver da ribattere? Possibile che pensasse sempre ad una trappola? Non era per parlare di loro che era venuta. Era stato solo per comunicargli la convocazione. Certo, così avrebbe anche potuto passare un po’ di tempo con lui, ma questo era un fatto secondario. O almeno voleva convincersi che era così.

 

“Possibile che tu non voglia mai ascoltarmi? Non è per la promessa che mi hai fatto. È il nonno che mi ha detto di chiamarti. È per via di…”. Ayame si fermò, come intimorita. Dannazione. Si era lasciata sfuggire una parola di troppo. Forse lui non l’aveva sentita. Ci sperò. Perché sapeva che quell’argomento gli faceva male. Come può far male ad un demone, certo, ma sempre di dolore si tratta.

 

“Di…?”. Koga le si era avvicinato. Gli era sembrato strano che non completasse la frase e adesso, alla sua domanda, Ayame si mordicchiava un labbro, incerta se parlare o meno. La sfiorò con una carezza, per tranquillizzarla. Sembrava così spaventata, ma da lui non aveva nulla da temere. Lo sapeva bene.

 

Un tocco leggero che la fece rabbrividire. Koga la stava accarezzando. Piano. A darle coraggio. Qualunque cosa avesse da dire, lui l’avrebbe ascoltata. Chiuse gli occhi. Ormai, il danno era fatto. Avrebbe dovuto dirglielo. Anche se poi non sarebbe stata in grado di fornirgli altre spiegazioni. Le risposte le aveva solo il nonno.

 

Sentì le dita dell’youkai disegnarle il volto, sfiorarle la frangia ribelle, soffermarsi sulle labbra. Si muovevano in modo dannatamente sensuale. Cosa diavolo gli stava prendendo? Perché quei gesti? Koga non riusciva a smettere di accarezzarla. Facoltà cerebrali ridotte a zero. Averla davanti a lui era una tortura incredibile. Sapeva di essere geloso, ma non si sarebbe mai immaginato che lo sarebbe stato anche solo del pensiero che qualcun altro avrebbe potuto avere Ayame.

 

…la mia Ayame…

 

Si piegò su di lei e le sfiorò le labbra con un bacio. Un contatto leggero, un semplice sfiorarsi delle labbra. Ayame tremò a quel contatto, ma non si sottrasse. Gli passò le braccia attorno al collo e lo ricambiò, per poi nascondere il viso nell’incavo della sua spalla.

 

“Chi riguarda?...”. La sua voce roca nelle orecchie era anche più sensuale della mano che si insinuava nei suoi capelli. Chiuse gli occhi stringendolo di più. Non sapeva la sua reazione, ma lei era lì per sostenerlo.

 

“Tuo padre”

 

*****

 

Anziano.

Il patriarca era un anziano e autoritario lupo bianco. Da giovane, era stato il vanto degli Ookami, un condottiero fiero e invincibile, un signore giusto e un uomo molto affascinante, anche se ormai preferiva non mostrarsi più in forma umana.

 

Ma nonostante il corpo un po’ scheletrico e le membra non proprio toniche, gli occhi, sotto quelle volte sopracciglia bianche, erano vivi e guizzanti. E in quel momento stavano scrutando il giovane principe in ginocchio davanti a lui.

 

Ayame era riuscita a portarlo sulla montagna. A portarlo al suo cospetto. Ma lui si era accorto che doveva essere successo dell’altro fra i ragazzi. Lo aveva letto nella felicità racchiusa negli occhi della nipote. Doveva essere successo qualcosa di bello. Di molto bello.

 

Koga avrebbe dovuto spiegarglielo. Prima di andare, avrebbe dovuto rispondere ad alcune delle sue domande. Ma in quel momento, era più importante comunicargli gli ordini e il compito che il clan gli affidava.

 

“Guiderai l’esercito in battaglia”

 

“No”.

 

Koga aveva abbassato di più la testa, ma la risposta era stata decisa e irremovibile. Lui non aveva alcuna intenzione di essere un generale, un comandante e di prender parte ad una guerra. La sua guerra lui la stava già combattendo, e di interromperla non se ne parlava proprio. Voleva Naraku, e lo avrebbe avuto. Senza possibilità di distrazioni.

 

Il patriarca sospirò. Quel ragazzo aveva davvero una cocciutaggine sorprendente. Neanche un suo ordine accettava senza discutere. Era davvero ribelle e inconsapevole di obblighi e compiti. Ma, in fondo, era cresciuto lontano dal centro del potere del loro clan. Era cresciuto fra i boschi, perché l’erede del clan dei lupi doveva essere come loro. Libero e selvaggio. Tanto solitario quanto attaccato al suo clan e al suo benessere.

 

Koga aveva visto i suoi compagni massacrati e usati sotto i suoi occhi. Era stato costretto a ucciderli di nuovo, a macchiarsi del loro sangue. Del suo stesso sangue. Aveva visto decimata la schiera che a lui faceva capo per discendenza diretta. Aveva visto morire la sua famiglia.

 

“Ayame…Per favore, lasciaci soli”

 

La ragazza sussultò impercettibilmente e fissò prima il nonno e poi il ragazzo. Koga le sorrise e le fece un leggero cenno del capo, e la guardò andarsene. Intensamente. Poi, concentrò di nuovo la sua attenzione sul patriarca e gli si affiancò quando questi lo invitò a seguirlo.

 

“Avrai avvertito anche tu l’aura maligna che ha spazzato la regione una settimana fa. Era una potenza smisurata, che erano secoli che non avvertivo più”

 

Koga lo ascoltò attentamente, assottigliando gli occhi azzurri. Certo che aveva avvertito quell’aura demoniaca, in mezzo alla quale aveva sentito anche quella di Naraku. Ma non ricordava di averla mai percepita prima. Per lui era completamente estranea.

 

“Koga… È a causa di quell’aura che sono stato costretto a radunare il nostro esercito. Mi è stato chiesto aiuto, in base ad un vecchio accordo. Ad un accordo basato su un’antica amicizia. Non ho potuto rifiutare. Adesso, tu dovrai comandare quelle truppe”

 

“Non posso”. L’youkai si strinse nelle spalle. Non riusciva a capire cosa c’entrasse suo padre in tutto quel discorso, ma sapeva che non avrebbe mai dovuto rifiutare. E invece, lo aveva appena fatto. Lo diseredassero pure. Non gli importava. L’unica cosa che gli premeva era vendicare i suoi compagni.

 

“Devi, invece. Sei tu il nostro ultimo erede”.

 

Se non lo avesse convinto, sarebbe toccato ad Ayame prendere il suo posto a capo delle truppe. Ma per quanto forte restava pur sempre ancora una ragazzina, inesperta di guerra perdi più. Koga invece, almeno nei primi anni di vita, aveva ricevuto dal padre i rudimenti base e poi aveva già fatto esperienza di comando, in modo eccellente.

 

“Se non accetterai, sarà Ayame a dover assumere il comando”. Lo vide sussultare, dilatando appena gli occhi. Anche se non lo voleva mostrare, doveva tenerci alla ragazza. E molto anche. “Riflettici”. S’incamminò per lasciargli il tempo di pensare, ma dopo alcuni passi si fermò. Aveva ancora una carta da giocare.

 

“Ah, un’ultima cosa…Da fonte certa sappiamo che fra gli ufficiali che dovresti combattere si trova anche colui che stai cercando”

 

Naraku…

 

Koga valutò a lungo a proposta, soppesando ogni parola, ogni possibile conseguenza delle sue scelte. Se avesse rifiutato, Ayame sarebbe stata costretta a esporsi, a rischiare la vita in prima persona. E lui non lo avrebbe mai permesso. Non lo accettava. Ma, acconsentire, significava mettersi agli ordini di un qualche spocchioso demone e venir deriso da tutti per l’abitudine a vivere nei boschi. Non era certo che non avrebbe risposto alle provocazioni. La vita militare gli piaceva da piccolo, ma erano passati troppi anni perché si potesse riabituare subito. Comunque, se c’era la possibilità di trovare Naraku, non avrebbe lasciato nulla di intentato.

 

Era notte fonda quando raggiunse il patriarca, sotto un cielo terso e accecante. Ayame gli andò in contro e non trattenne le lacrime quando vide la determinazione nei suoi occhi. Aveva deciso di accettare. Non aveva neanche bisogno di dirglielo. Lo aveva capito benissimo da sola. Non era una sciocca.

 

Koga le asciugò le lacrime e l’attirò a sé, baciandola con infinita dolcezza. Non gli importava nulla del fatto che la stesse mettendo in imbarazzo, che la stesse baciando davanti al patriarca e che non avrebbe dovuto farlo se non fosse stato il suo promesso. Se ne fregò di regole e convenzioni. Aveva desiderato solo che lei non fosse triste.

 

“Accetto”. La strinse di più a sé, mentre pronunciò quella parola. A darle la sua forza, e la sicurezza che sarebbe tornato.

 

Il patriarca annuì, soddisfatto. In quel momento il giovane principe somigliava tantissimo a suo padre. E l’anziano ookami non potè impedirsi di ricordare un’altra notte di molti anni prima. Una notte d’estate, in cui, sotto un cielo simile, il padre di Koga aveva accettato di guidare un altro esercito in un’altra battaglia. E stringeva fra le braccia la sua sposa, proprio come il ragazzo stava abbracciando Ayame.

 

Non li avrebbe separati. La ragazza sarebbe andata con lui. Al castello non avrebbe corso nessun pericolo. Non conosceva personalmente il nuovo signore dell’Ovest, né sapeva quanto fosse simile al padre. Ma era stato informato della sua freddezza e dell’odio che nutriva verso tutto quello che era umano. Il temperamento ardente di Koga aveva bisogno di un freno, altrimenti i due principi sarebbero venuti alle mani molto in fretta. E quel freno era Ayame.

 

“Molto bene. Domani partirai per l’Ovest”

 

“Un’ultima cosa…Con chi era stato stretto il patto di amicizia?”

 

“Con tuo padre. Hidoshi.”

 

*****

 

Fredda.

La sala del consiglio era fredda e buia. Solo poche candele spandevano intorno una luce tenue e soffusa. Regalavano a quell’ambiente un’aria raccolta. Un’atmosfera che invogliava ai ricordi. Alla malinconia.

 

Erano duecento anni che non sedeva più a quel tavolo. Un unico pezzo, ricavato dal tronco di un albero secolare. Piallato e cerato, fino a renderlo lucido e spendente. Scavato al centro, per potervi incastonare le tessere che componevano l’emblema della casata. La testa di un cane intrecciata ad uno spicchio di luna.

 

Sfiorò il legno con la mano vecchia e ruvida. Nonostante fosse sempre tenuto lucido, sotto le dita avvertiva le tacche provocate nel tempo dal battere dei pugni coperti di metallo sulla sua superficie. Erano quasi invisibili, a occhio nudo, tranne una. A capotavola. Dove un tempo sedeva il suo vecchio amico.

 

C’era un piccolo avvallamento sulla destra di quel posta. Gli sembrava di risentire la voce adirata di Inutaisho e il rumore secco del suo pugno che si abbatteva sul tavolo. Per un attimo, quel suono era rimbombato per tutta la stanza e aveva anche temuto che il tavolo cedesse sotto la forza di quell’urto. Invece, aveva retto, ma quella tacca profonda non era stata evitabile.

 

Un tempo, sedeva alla destra del suo signore. Davanti a lui invece c’era Hidoshi. Chissà adesso quale sarebbe stato il suo posto, sempre che lo avessero richiamato per farlo restare lì, per farlo sedere ancora a quel tavolo. In fondo, lui era l’ultimo rimasto della vecchia guardia del padre di Sesshomaru. O almeno, l’ultimo che non lo avesse abbandonato.

 

Con Morigawa le cose erano degenerate all’improvviso e si era allontanato spontaneamente, prima di quella tragica notte. L’altro…l’altro non avrebbe neanche saputo dove cercarlo. Ma il vecchio generale era perfettamente consapevole del fatto che, nonostante la sua età, se avesse ritenuto necessaria la sua presenza, si sarebbe presentato. E sarebbe stato al corrente di tutto. Senza il bisogno che qualcuno gli spiegasse nulla.

 

Si lasciò cadere su uno dei preziosi cuscini disposti attorno al tavolo. Era molto stanco. Avrebbe dovuto fare nuovamente l’abitudine a quella vita, fatta di sveglie all’alba e di nottate insonni. Una vita in cui non è possibile distrarsi, specie sul campo. In cui devi sospettare di tutto e di tutti. In cui sei talmente sotto pressione che basta un nonnulla per farti perdere la pazienza. Per farti sbagliare.

 

Era una lezione che avevano imparato a loro spese. Lui e Inutaisho. Arrischiando, da ragazzi, una mossa disperata. Aveva portato la vittoria e l’elogio delle truppe, ma era costata a lui un occhio, e al suo amico una ferita profonda alla spalla. L’unica di cui fosse rimasta la cicatrice.

 

Il vecchio soldato si passò una mano fra la chioma canuta. Era arrivato a notte inoltrata, dopo una marcia sfibrante e lenta, imbattendosi anche in un gruppo di youkai mandati in ricognizione e uccisi, crivellati di colpi. Non aveva mai visto uccidere in quel modo. In tanti anni, mai visto ferite di quel genere. Ma che l’autore di quelle stragi fosse Morigawa era una voce che gli era giunta e che lo faceva impensierire non poco.

 

Aspettava. Era già da un bel po’ che aspettava. Ma il principe non era al castello in quel momento. Uscito anche lui per una sortita notturna. Avrebbe potuto andare a riposarsi. Ci avrebbero pensato i servi a svegliarlo al momento giusto. Ma lui aveva rifiutato. Non si sarebbe mai coricato prima di aver reso omaggio al Principe. Non lo aveva mai fatto e non aveva intenzione di iniziare in quel momento.

 

Tanto più che ne stava approfittando per studiare le carte che aveva trovato sul tavolo e se avesse avuto bisogno di qualcosa fuori dalla porta c’era un attendente pronto ad eseguire qualsiasi sua richiesta. Aprì la porta della veranda e frugò nelle ombre della notte. Se gli appartamenti del Principe non erano stati sposati, dovevano ancora trovarsi nella torre. Quella che si intravedeva appena, oltre l’ala centrale orizzontale del palazzo. Una delle finestre era illuminata.

 

Il generale si sorprese non poco. Visto che il Principe era fuori, le stanze avrebbero dovuto essere vuote. Ma forse quella era la prova che le voci che aveva sentito erano veritiere. Ad accoglierlo era venuto un piccolo kappa, diretto subordinato del Principe,e lo aveva condotto alla sala delle riunioni. Dunque, il ragazzo non aveva ancora né una sposa né una fidanzata che assolvesse all’incombenza di accogliere gli ospiti, anche quelli che si presentavano nel cuore della notte.

 

Tuttavia, aveva anche sentito dire che Sesshomaru era ritornato dopo una ,unga assenza con una ragazza umana al seguito. E che fosse la sua amante, anche se nessuno era ancora riuscito a sorprenderli in atteggiamenti intimi. Una notizia che lo aveva fatto sorridere e ben sperare, ma che non sembrava aver trovato forte consenso nella corte. Non se ne era stupito più di tanto. In fondo, non avevano capito neanche Inutaisho. Perché mai avrebbero dovuto sforzarsi di nuovo? E più facile spettegolare e condannare, che cercare di conoscere la verità.

 

Lui però non era incline alle voci di corte. Aveva deciso che avrebbe incontrato questa fantomatica ragazza, e solo allora avrebbe espresso il suo parere. Dopo averla conosciuto e averle parlato.

 

Si voltò di nuovo verso l’interno. il silenzio che permeava ogni cosa gli sembrava innaturale. Era abituato a ricordare quella sala piena di persone in armi, e Inutaisho intento a controllare e amministrare tutto. Quanti anni erano passati. Lui era invecchiato, due suoi carissimi amici erano morti, un altro era pronto a muovere una guerra assurda, e il piccolo principe era cresciuto.

 

Sì. Il suo principe ormai era diventato un uomo. Ma solo nel vederlo avrebbe saputo dire se assomigliava davvero al padre, o se la morte prematura della madre e il senso di abbandono e rifiuto provato quando Inutaisho era morto lo avevano cambiato davvero e nel profondo. Che non fosse più uguale a quando era il bambino che ricordava, il vecchio soldato lo sapeva bene.

 

Però, sperava davvero che la glacialità che aveva visto in lui l’ultima volta che lo aveva incontrato fosse solo una maschera. Fosse rimovibile. Perché quel ragazzo era l’orgoglio di suo padre, anche quando la disciplina ferrea aveva alzato un muro fra loro. E lui sapeva che il cruccio più grande di Inutaisho era stato quello di non riuscire più a parlare al figlio come faceva un tempo. Quello di non riuscire a fargli comprendere tutta la soddisfazione che riceveva da lui.

 

Tornò a sedersi e attese pazientemente, cadendo in uno stato di stanca dormiveglia che gli fece riaffiorare alla mente le immagini della fanciullezza del suo piccolo principe.

 

*****

 

§§

 

Quando Sesshomaru cominciò a intuire ciò che accadeva attorno a lui e chi fossero suo padre e sua madre aveva solo sei anni. Ancora un bambino, ma che parlava senza incertezze e capiva anche ragionamenti difficili. Era l’orgoglio del padre. Quando veniva a sapere che suo padre era a palazzo, lasciva le stanze sue e della regina e camminava fino alla stanza delle riunioni dove suo padre sedeva a consiglio con i suoi generali. Gli sembravano tutti molto anziani, autoritari nelle loro armature lucide, eppure avevano poco più di duecento anni, tranne Kumamoto, che di anni ne aveva quasi duecentocinquanta.

 

Quando Sesshomaru lo vedeva gli correva incontro e cercava di mostrargli quello che aveva imparato. Il generale allora lo ascoltava compiaciuto e gli regalava una carezza che inorgogliva il piccolo principe. Era come un figlio per lui. Poi, da copione, Inutaisho arrivava silenzioso alle spalle del piccolo Sesshomaru e a sorpresa se lo issava sulle spalle, facendolo ridere. Quando era ancora un bambino, il sorriso aveva attraversato spesso le sue labbra. Prima della morte della madre, prima dei precettori, quelle labbra sottili avevano conosciuto la spensieratezza del sorriso.

 

Il legame che c’era fra di loro era incredibile. Inutaisho adorava suo figlio, e non si vergognava di mostre anche in pubblico questo affetto. Ma era soprattutto con i suoi amici che mostrava un carattere giocoso e ilare. Era con i suoi amici che tornava lui stesso bambino, per poter giocare con suo figlio, le rare volte che passava tempo con lui.

 

Tornava bambino, rivivendo quell’infanzia durata troppo poco. Perché era salito al trono appena cinquantenne. Un bambino lui pure. E aveva dovuto subito dimenticare giochi e trastulli per dedicarsi completamente al governo e alla guerra.

 

Sesshomaru adorava il padre. Era il suo modello da imitare. Il suo idolo. Lo si capiva dal modo in cui lo osservava. Studiava i suoi atteggiamenti, il modo di muovere le mani e di volgere intorno gli occhi, il tono e il timbro della voce, la maniera con cui dominava i più forti e potenti demoni del regno con la sola profondità del suo sguardo.

 

Si avvicinava a lui mentre presiedeva un consiglio, passo dopo passo, e quando era più infervorato nei suoi discorsi o nelle sue discussioni, cercava di salire sulle sue ginocchia, come se pensasse che in quel momento nessuno lo avrebbe visto.

 

Solo a quel punto Inutaisho sembrava accorgersi del figlio e lo stringeva contro il petto, senza interrompersi, senza perdere il filo del discorso, ma vedeva bene che i suoi amici mutavano atteggiamenti, vedeva i loro occhi fissare il bambino e le loro espressioni cambiare in un lieve sorriso, qualunque fosse l’argomento che lui stava trattando. E anche Kumamoto sorrideva, pensando alla risata di Sesshomaru.

 

Poi, così come era venuto, il bimbo se ne andava. A volte si ritirava nella sua camera sperando che il padre lo raggiungesse. Altre, dopo averlo atteso a lungo, andava a sedersi su uno dei balconi del palazzo, fissava lo sguardo all’orizzonte e restava così, muto e immobile, ad osservare l’immensità del cielo e della terra.

 

Se la madre gli si avvicinava leggera in quei momenti, vedeva negli occhi del figlio l’ambra risplendere di scintille infuocate. Rivedeva lo sguardo del marito. Fiero e autoritario, ma anche dolce e malinconico. Gli occhi che l’avevano fatta innamorare. Allora, abbracciava il piccolo Sesshomaru, e lo teneva stretto a sé.

 

Perché sapeva che la strada di suo figlio sarebbe stata difficile e solitaria come quella del padre. Perché sapeva che probabilmente, col tempo, i suoi sorrisi felici si sarebbero dileguati, e al loro posto sarebbe comparso un viso intrigante, ma freddo. In quei momenti, sua madre sperava che lui non fosse mai costretto a dimenticare come si fa a ridere. Che nonostante il suo nome importante e dal sapore della morte, lui vivesse sempre. Fino in fondo.

 

Alla fine, li raggiungeva anche Inutaisho e davanti a quella scena, lo stesso pensiero gli attraversava la mente. Prendeva in braccio il figlio e stringeva la moglie. Quella era la sua forza. Tutta la sua forza, la sua determinazione a continuare era data da loro. Da quelle creature che lui stringeva a sé con amore infinito. Sesshomaru gli abbracciava il collo e si addormentava così, respirando sulla pelle del padre. E il demone non poteva evitare di tornare indietro con la mente, ad una notte di luna, in cui aveva stretto suo figlio per la prima volta.

 

§§

 

 

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Capitolo 29
*** 29. PIOGGIA ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!

 

Questa volta ho aggiornato abbastanza in fretta. Allora, il capitolo è un po’ lungo, ma spero che vi piaccia ugualmente. In effetti, la storia in generale procede nel complesso molto lentamente, e forse, ma maggiormente più avanti, tirerà in ballo dubbi e riflessioni che non sono proprio quelli di una ragazzina. Ma il motivo è che ho conosciuto “Inuyasha” possiamo dire da grande e questo, sommato ai miei studi, sta molto influenzando la stesura della storia.

 

Spero comunque che vi piaccia, e che continuerete a seguirla. Grazie infinite a Jame per i suoi commenti, ma anche ha chi legge soltanto.

 

Buona lettura!!!

 

 

P.S.

La prima scena, come molti di voi capiranno leggendola, non mi appartiene, ma è semplicemente la descrizione di una sequenza del terzo film della serie (non dico quale per non rovinarvi la sorpresa^__^).

 

 

 

 

CAPITOLO 29

PIOGGIA

 

 

Neve. Freddo. Vento.

Sulla riva del mare, il sangue gocciolava confondendosi con la sabbia bianca. Con la neve candida. Mentre due figure, immobili, si confrontavano. Due figure identiche, ma al contempo così distanti. Due anime ormai incapaci di parlarsi. Di comunicare come un tempo.

 

“Ve ne state andando, padre?”

 

“Vorresti forse impedirmelo, Sesshomaru?’

 

Un ragazzo. Fissava la schiena del padre. Il suo riflesso sulla luna. Una brutta sensazione. Il presentimento di qualcosa che si sta per infrangere. Definitivamente. Ma la cocciutaggine di non volerlo accettare. E l’orgoglio di non ammettere di non capire. Di sentirsi escluso. Solo.

 

“No, non lo farò. Non ho intenzione di fermarvi. Voglio solo le vostre zanne. Consegnatemi Sounga e Tessaiga

 

“E se mi rifiutassi…arriveresti a uccidere tuo padre?”

 

Silenzio. Nessuna risposta. Il ragazzo non lo voleva. Non lo avrebbe mai voluto uccidere. Batterlo, quello sì. Dimostrargli di essere degno di lui. Anche se era ancora un ragazzino. Dimostrargli di essere capace di impugnare le sue spade come se fosse lui stesso. Voleva solo…rivedere quella sfumatura che attraversava gli occhi del padre quando lui era piccolo. Solo quello.

 

Non rispose. Lasciò che il vento facesse danzare i suoi capelli d’argento, sbattere la stoffa del kimono. Non aveva senso dare una risposta. L’educazione ricevuta lo aveva abituato alla freddezza, ma non alla mancanza di rispetto. E tutto il suo rispetto si condensava verso quella figura che gli stava davanti.

 

“Desideri a tal punto il potere?...Che cosa ti spinge a bramarlo tanto?”

 

“Siamo nati per percorrere la strada del dominio. Il potere ci consente di aprire questa strada”

 

Risposta ovvia. Sensata. Quella che gli era stata insegnata. La risposta che dava al suo maestro quando gli poneva la stessa domanda. Un pensiero appreso, forse senza neanche capirlo davvero. Era l’idea che era stata comune a tutti i membri del suo clan. E quindi doveva appartenere anche a lui. Senza una motivazione vera. Autentica.

 

“Il dominio…Dimmi, Sesshomaru…Tu possiedi qualcosa da proteggere?”

 

Qualcosa da proteggere?

 

Non capì. Non capiva più la persona che si rifletteva nelle sue iridi d’ambra. Così simili, con lo stesso sangue, eppure…eppure così diversi. Cosa avrebbe dovuto proteggere? Cosa significava proteggere? No. Lui non aveva nulla da proteggere. Perché avrebbe voluto dire che provava qualcosa. Che provava sentimenti e gli era stato insegnato che i demoni non provano nulla. Solo il piacere della battaglia.

 

“Non ho alcun bisogno di farmi rallentare da simili sciocchezze”

 

Distese nell’aria la mano artigliata. Se quello era l’unico modo per dimostrargli che era cresciuto, che era degno di lui, allora…avrebbe combattuto. Contro di lui. Contro suo padre. Lo avrebbe battuto. E gli avrebbe ricordato cosa vuol dire essere un demone. Cosa significano le parole che anche lui doveva aver appreso nella sua infanzia. Gli avrebbe ricordato l’importanza del dominio.

 

Non riuscì a muovere un muscolo. Il vento cambiò d’improvviso, circondò suo padre, agitò la lunga pelliccia bianca sulle sue spalle, i suoi capelli d’argento. Lo vide trasformarsi. Per la prima volta nella sua vita, lo vide nella sua vera forma. Un grandissimo cane bianco, che ululava alla luna. Maestoso. Regale. Nonostante le ferite. Incuteva timore. Soggezione.

 

E lui fu incapace di impedirsi di sussultare, di sbarrare gli occhi davanti a quello che vedeva. A quello che sentiva. Una forza smisurata che elettrizzava l’aria, confondendosi con l’ululato profondo. Quasi triste.

 

Lo vide spiccare una corsa folle verso il bosco, verso una sciocca, insulsa donna umana. Lasciandosi dietro una scia scarlatta. Anche quando ormai la sua figura era un’ombra fra le ombre, la sua voce era palpabile nella sua mente. Quella domanda…

 

Tu possiedi qualcosa da proteggere?

 

Fissò ancora per un istante la boscaglia, poi si girò stizzito. Non riusciva più a comprenderlo. Non capiva perché volesse andare a rischiare la vita solo per una donna umana. E per un bastardo. Sì, per un bastardo…

 

“Sciocchezze”

 

S’incamminò lungo la battigia deserta. Non lo aveva nemmeno visto in viso. Non aveva neanche potuto sapere se le sue risposte gli erano piaciute, se lo avevano reso fiero di lui. Non gli aveva detto nulla. in elogio in rimprovero. Lo aveva lasciato con quella domanda.

 

Continuò a camminare finchè un dolore improvviso al petto lo costrinse a inginocchiarsi nella sabbia fredda e bagnata. Ansimando. Si voltò verso l’entroterra. Stupito. Incredulo. Eppure, non aveva nessun dubbio. Anche se non ci voleva credere. Era morto. Suo padre…suo padre era morto. In modo indegno di lui.

 

Era morto. Lo aveva visto solo poche ore prima. E ora non lo avrebbe rivisto mai più. Quella domanda, erano state le ultime parole che gli aveva detto. Il suo ultimo insegnamento. L’unico che suo figlio non capì.

 

*****

 

Sesshomaru aprì di scatto gli occhi, sollevandosi dal piano del tavolo con un gesto improvviso. Si sorprese del respiro affannato, del sudore che gli imperlava la fronte. Si passò una maso sul viso, stropicciandosi gli occhi spenti.

 

Era da un po’ che quel ricordo continuava a bussare alla sua mente. Con insistenza. Bastava che lui abbassasse un attimo la guardia, e quelle immagini iniziavano a tormentarlo. Assieme ai suoi interrogativi. Alle sue domande che sarebbero restate per sempre senza risposta.

 

Aprì la finestra e si lasciò investire dalla pioggia fredda che batteva incessante. Uno scroscio continuo. Un fischio assordante nelle orecchie. Non vi badò. Non diede peso al fatto che il kimono si stava bagnando, che il vento impetuoso si insinuava nella stanza gettando in aria le varie pergamene e facendo ondeggiare in modo preoccupante la lucerna. Non sentiva nulla oltre il rumore dei suoi pensieri.

 

Due settimane. Erano due settimane che quella sensazione di vuoto era esplosa in lui. Antica. Eppure, ancora così bruciante da togliere il respiro. Annichilente. E a lei si sommavano le preoccupazioni e la frustrazione di una guerra che non voleva iniziare apertamente ancora, ma che si consumava in scontri alla macchia. In una guerriglia sfibrante.

 

Due settimane…Quella notte era rientrato molto tardi. Sotto un cielo che vomitava acqua da ore. Dopo uno scontro all’arma bianca con un drappello nemico. Dopo aver sentito molti dei suoi soldati morire dopo quelle detonazioni, dopo aver rischiato lui stesso di perdere la vita. Non ce la faceva. Nonostante si fosse sforzato di mantenere la concentrazione massima, in campo aperto e in condizioni avverse, non era riuscito a fare molto. Era stato costretto alla ritirata, pur avendo inflitto numerose perdite al gruppo nemico.

 

Lui. Sesshomaru. Lui era stato costretto a ritirarsi. A voltare le spalle. Non per paura. Quello mai. Ma per incapacità. Era diventato incapace di combattere fuori da un allenamento ben calibrato. Tutto l’esercizio cui si era sottoposto con un suo luogotenente, tutta la fatica di quelle settimane…Svanita. Dissolta davanti alla realtà. La cecità gli impediva di difendersi. Di combattere come una volta. Lo esponeva, anzi, a un pericolo mortale. Era rimasto fermo, nel centro della mischia, assordato dai rumori, frastornato. Per un istante, aveva pensato di trasformarsi. Ma poi, aveva subito scartato l’idea. La sensazione di confusione sarebbe solo aumentata, e inoltre sarebbe stato un bersaglio fin troppo facile con la sua mole enorme.

 

No. Era stato costretto ad andarsene. Ricevendo anche alcune frecce. Aveva sentito il sibilo, ma troppo tardi per poterle schivare. Confuso nel clangore dello scontro. Aveva spezzato il legno senza neanche preoccuparsi di estrarre la punta e aveva scagliato un Soryuha, con furia cieca. Travolgendo nemici e soldati.

 

Era tornato a palazzo, psicologicamente abbattuto. Non era riuscito a combattere, non era stato in grado di percepire gli avversari e di attaccarli come in passato. Si era mostrato debole. Maledettamente debole. Aveva sentito il metallo iniziare a bruciargli. Non c’era veleno nelle frecce che aveva in corpo, tuttavia, benché il suo corpo si rigenerasse da solo, non lo allettava l’idea di mantenere al suo interno elementi estranei. Avrebbe dovuto andare da Alessandra, a farsi estrarre le punte. Ma in quel momento non se la sentiva di vederla. Di parlare. Perché lei si sarebbe subito accorta di quello che era successo. E avrebbe iniziato a insistere perché si allenasse meglio. O anche perché non si esponesse in prima persona.

 

Aveva sospirato, raccogliendo i lunghi capelli in una coda alta. Erano fradici. Come il kimono e la pelliccia, del resto. Aveva deciso. Non sarebbe andato dalla ragazza. Jacken era più che sufficiente per togliere alcune schegge di metallo. Lo avrebbe fatto chiamare.

 

Era entrato nella sala delle riunioni ancora perso nei suoi pensieri, quando aveva avvertito quel sussurro sorpreso.

 

Inutaisho…?”

 

Si era voltato verso la voce, mettendo la mano all’elsa della katana. Non la riconosceva. Quel timbro gli era del tutto estraneo. Sconosciuto. Eppure, in quel luogo potevano accedere solo i generali, o chi lui avesse convocato. Ma non aspettava nessuno. Almeno, non così presto.

 

“Chi sei?”

 

Voce fredda. Di comando. Molto simile, ma non uguale. Si era voltato di fronte, e Kumamoto aveva potuto vederlo bene, alla luce tenue della lucerna. Per un attimo, quando era entrato avvolto dall’ombra, lo aveva scambiato per il suo vecchio amico. Lo stesso portamento, due spade al fianco, l’armatura lucente e i capelli raccolti. Ma era stato solo un attimo. Non era Inutaisho quello che gli stava di fronte. Era il Principe. Il suo piccolo principe.

 

Sesshomaru sospirò, poggiandosi stancamente all’infisso. Il fatto di esser stato scambiato per suo padre lo aveva lusingato e rattristato al contempo. Anche se non lo aveva mostrato subito. Come non aveva palesato il sollievo dato dal sapere a palazzo quel vecchio generale. Certo, ricordava poco di lui, il suo volto, ma lo sapeva uno dei migliori. Un amico fidato di suo padre. Un alleato prezioso. Forse l’unico generale di cui si sarebbe potuto fidare ciecamente, come si fidava suo padre. Eppure…eppure lo aveva tenuto a distanza. Quando Kumamoto si era avvicinato per abbracciarlo, aveva avuto uno scarto nervoso e aveva raddrizzato le spalle. Come a imporre la sua autorità.

 

“Già, l’etichetta…Perdonate, Signore, questo vecchio soldato. Non è più avvezzo a vivere in un grande palazzo”.

 

Lo aveva sentito inginocchiarsi e armeggiare con la sua spada. Probabilmente l’aveva sciolta e ora gliela stava tendendo, per sapere se era reinvestito dell’incarico o congedato. Ma perché gli aveva fatto male il saperlo in ginocchio? Perché aveva ricordato l’abbraccio che si scambiava con suo padre e che lui aveva rifiutato? Era una cosa normale, inginocchiarsi davanti a lui. Portargli rispetto. L’unica che si ostinava a non mostrarglielo era Alessandra. Ma a lei era permesso. Tanto l’youkai sapeva che non l’avrebbe mai piegata.

 

Aveva accettato la katana e lo aveva reinvestito del suo grado. E se ne era andato. Senza dirgli una parola. Senza informarsi di nulla. Benchè fossero più di duecento anni che non lo vedeva e non aveva sue notizie. Ma lui apparteneva al passato. A quel passato che gli faceva male ricordare e poi, lui aveva conosciuto suo padre.

 

Possibile che tema il suo giudizio?...Io…?

 

*****

 

Alessandra finì di filtrare il preparato e chiuse l’ampolla, sistemandola poi assieme alle altre. Prese un respiro profondo, ravvivandosi i lunghi capelli ramati, e tornò a concentrarsi sul suo interlocutore.

 

Era da un po’ che si sentiva osservata. Con discrezione, certo, ma quella sensazione le era corsa sulla pelle come un brivido. All’inizio, aveva pensato a qualche cortigiano che cercava di sorprenderla in atteggiamenti ambigui con il Principe, poi a un qualche curatore, che intendeva vendicarsi per l’offesa subita.

 

Già, un’offesa…perché Sesshomaru l’aveva nominata archiatra reale. Lei. Proprio lei che di medicina aveva solo poche nozioni apprese quasi per gioco, si trovava ora a ricoprire una delle cariche più importanti del palazzo. Mettendo in ombra demoni molto anziani e molto esperti. Sicuramente molto più di lei. E che aspettavano solo un suo passo falso per tacciarla di incapacità ed eliminarla. Di nuovo sotto pressione, quindi, ma almeno adesso sapeva da chi principalmente doveva guardarsi. E poi, fortunatamente, non c’era bisogno frequente del suo intervento. Finora, nulla di importante. Ma i problemi sarebbero iniziati con la guerra. Lì, allora, la ragazza avrebbe dovuto davvero mostrare gli artigli. Per far vedere a tutti che Sesshomaru non era impazzito affidandosi ad una ningen, e che quella ningen era perfettamente capace di assolvere il suo compito.

 

“Andrete da lui anche stasera, Alessandra-chan?”

 

Alessandra sussultò impercettibilmente. Si era smarrita nei ricordi. Si concentrò di nuovo e annuì con un sorriso all’uomo che le stava di fronte. Kumamoto aveva deciso di incontrare di persona la ragazza che aveva gettato scompiglio fra i generali per la sua freddezza e la considerazione in cui la teneva il Principe.

 

L’aveva osservata a lungo, anche se non si era mai mostrato apertamente. Prima regola: studiare il soggetto desiderato da lontano. Per non intaccare la sua naturalezza. Da quello che aveva sentito, si aspettava una ragazza frivola e capricciosa, che aveva irretito il suo signore a tal punto da ottenere una carica importante come quella di medico di corte solo per aver libero accesso alle sue stanze. Invece, aveva scoperto una ningen riservata e seria, che trascorreva la maggior parte delle sue giornate studiando, e dedicando i pochi momenti liberi alla piccola Rin o alla scherma. Un archiatra scrupoloso, anche , e che non aveva mai avvicinato il Principe senza che non fosse presente anche una terza persona.

 

Lo aveva stupito. E conquistato. Anzi, quasi gli era dispiaciuto che le voci relative alla sua relazione con l’youkai non si fossero rivelate fondate. In fondo, quella ragazza sarebbe stata una compagna adatta per lui. Anche Inutaisho l’avrebbe approvata, benchè umana. Ecco. Quello era un particolare dolente.

 

“Sì, Kumamoto-sama, ho appena finito di distillare un nuovo composto. Spero solo che faccia effetto”

 

Il generale annuì, e le rivolse un sorriso gentile. Lui era uno dei pochi che le sorridesse in modo spontaneo a palazzo. Lui, sua figlia e Rin. Pochi davvero. Si potevano contare sulle mani. E a loro si dovevano aggiungere anche quei due demoni-lupo: due principi, se era riuscita a capire bene. Koga e Ayame.

 

Era stato il loro arrivo a permettere al vecchio generale di avvicinarla. Le si era affiancato sul corridoio esterno al secondo piano, quello che dava sulla piazza d’armi principale. E le aveva spiegato il motivo di tutto quel movimento,che l’aveva attirata fuori dalla biblioteca. Le aveva spigato con gentilezza chi fosse arrivato, presentandoglielo come il figlio di un caro amico suo e del padre di Sesshomaru.

 

Era stata la prima volta che Alessandra avesse sentito qualcosa sulla famiglia del bel demone. A palazzo non aveva mai incontrato nessuno. E non si era mai neanche azzardata a chiedere. Troppo rischioso all’inizio. Ma in quel momento, la domanda le uscì spontanea dalle labbra anche se se ne pentì subito, scusandosi e allontanandosi prima che Kumamoto potesse risponderle. E da quel momento il vecchio soldato aveva preso la sua decisione. Era con quella ragazza. Le piaceva.

 

“Sono certo che prima o dopo troverà un rimedio, Alessandra- chan

 

“La ringrazio”. Accennò un piccolo inchino e gli allungo una scatolina di lacca, nera con sbalzi rossi. “Questo è per lei, Kumamoto-sama. Per ringraziarla”

 

Il generale prese l’oggetto e si stupì scoprendolo pieno di una sostanza molle e vischiosa, dal profumo di resina. Ma soprattutto si commosse quando Alessandra gli spiegò che era un unguento, che aveva preparato per lui, perché aveva notato che la sua gamba sinistra gli dava qualche problema.

 

Quella ragazza era incredibile. Lo aveva visto si o no tre volte, e si era preoccupata di preparargli un unguento per alleviargli il fastidio. E per ringraziarlo, aveva anche detto. Ma ringraziarlo di cosa, gli chiese.

 

“Per non avermi giudicata subito”

 

Alessandra raccolse alcune provette e bende, disponendole su un basso tavolino di legno di rosa laccato. Era quasi ora. Koga sarebbe andato a far rapporto a Sesshomaru, e lei ne avrebbe approfittato per medicare il demone. Non avrebbe potuto parlare con lui, fargli una carezza, ma non le importava. Da due settimane,ormai, poteva vederlo. E le bastava. Le bastava saperlo in buona salute e potergli stare accanto anche se solo per il tempo di una medicazione.

 

In quei loro incontri, il bel demone non le rivolgeva neanche la parola. Si limitava ad assecondare il movimento delle sue mani con il capo, ma con la mente era concentrato sulla conversazione che intratteneva. Non necessariamente con Koga. Poteva essere chiunque. Era solo un modo per non cedere all’impulso di baciarla. Così come era una maschera il tono freddo con cui la congedava. Ma nei loro gesti, nei loro silenzi, si celavano discorsi eterni, che nutrivano le loro anime costrette ad ignorarsi. A fingere.

 

Kumamoto la vide alzarsi e lo fece a sua volta, aprendole la porta scorrevole. Sesshomaru non gli aveva mai detto nulla in quelle settimane su quella ragazza. Mai una parola. Ma lui si era accorto che, alla sera, il Principe sembrava aspettare impaziente il suo arrivo. Solitamente, lo raggiungeva nella sala delle riunioni, dove si trattenevano fino a tardi. Alessandra entrava silenziosa, ignorando gli sguardi maliziosi dei generali e si sedeva accanto al Principe. E, dopo averlo fasciato, se ne andava. Ormai, la cecità dell’youkai era un fatto noto a tutti. Anche se nessuno osava mettere in discussione la sua attitudine al comando.

 

Kumamoto la vide incamminarsi come al solito verso l’ala sud; sorrise dentro di sé. Forse aveva trovato il modo di ringraziarla dell’unguento. Prima del previsto. La fermò sfiorandole un braccio e la superò, sussurrandole alcune parole, che fecero sussultare Alessandra e sorridere lui. La lasciò dirigendosi all’entrata principale del palazzo: doveva fermare Koga prima che chiedesse del Principe.

 

Con la coda dell’occhio, vide Alessandra incamminarsi verso il corridoio esterno, leggera e forse anche un po’ agitata. Probabilmente, stava ancora pensando alle sue parole.

 

“Il Principe è nei suoi appartamenti”

 

*****

 

Non la sentì entrare.

Troppo smarrito nei suoi echi interiori. Troppo impegnato a domare quelle emozioni che lo avevano svegliato all’improvviso. Non gli capitava spesso di addormentarsi così, sul suo tavolo da lavoro. Ma in quei giorni la stanchezza era davvero molta. Si accumulava sempre di più, senza lasciargli il tempo necessario a riprendersi completamente.

 

Anche se, doveva ammettere, la presenza a palazzo di Kumamoto lo aveva tranquillizzato non poco. Si fidava di lui, e anche se non gli aveva assegnato incarichi fuori le mura, almeno della parte riguardante l’amministrazione interna poteva dirsi sollevato. Certo, tutto doveva svolgersi sotto la sua supervisione, ma anche se il generale non gli avesse riferito tutto nei dettagli ogni giorno, non sarebbe caduto il mondo. Quel demone aveva una secolare abitudine alla vita militare, e anche se non lo accettava facilmente, nonostante la sua età, lo superava di molto ancora.

 

Ricordava bene le reazioni che avevano avuto gli altri generali quando lo aveva reintegrato nella schiera. Speravano che il posto vuoto venisse occupato da uno dei loro rampolli. Un ragazzetto forse anche istruito nel campo militare, ma completamente inesperto e più propenso alla bella vita; ma lui in quel momento aveva bisogno di un demone esperto, non di un bamboccio da istruire. E Kumamoto era l’uomo ideale. Anche perché di energie ne aveva ancora molte, nonostante le molte battaglie, i molti assedi e le molte veglie notturne sulle spalle.

 

Alle insinuazioni di un suo congedo, quel giorno, Kumamoto aveva alzato la testa e girato intorno lo sguardo come un vecchio leone circondato da cuccioli divenuti troppo petulanti.

 

“Io non ho bisogno di nessun riposo. E sono ancora in grado di insegnare a chiunque qui dentro, escluso il Principe- ma si capiva benissimo che intendeva “incluso il Principe”- come si tiene in mano una katana”

 

Sì. Il vecchio generale di suo padre sarebbe stata la colonna della sua cerchia. Anche se questo avrebbe significato averne gli occhi costantemente addosso, sentirsi continuamente sotto esame e paragonato a suo padre. Una situazione che non gli piaceva proprio per nulla. Ma che era costretto a sopportare.

 

Per quanto riguardava i problemi esterni, però, i più gravosi, per quelli non poteva far affidamento su nessuno. Gli altri suoi subalterni lo seguivano soltanto perché era lui il più forte e perché lo temevano, ma non c’era nessun altro tipo di legame. Lui non aveva provveduto a crearne, e poi non gli avevano mai ispirato molta fiducia. Se anche suo padre tendeva a delegar loro incarichi minori, un motivo doveva esserci.

 

Restava solo Koga. Il giovane principe degli Yoro era estraneo a quel mondo. Si vedeva che faticava a resistere, fra le mura del palazzo, e che scalpitava per uscire. Ogni occasione era buona. Si prestava a qualsiasi missione. Purchè lo portasse lontano da quel luogo soffocante.

 

In fondo, lo capiva. Anche se i loro caratteri erano opposti, capiva il suo desiderio di libertà. La natura dell’ookami lo portava a correre col vento, così come la sua lo costringeva fra le mura di quel palazzo. Anche se erano odiose anche a lui. Quando aveva scoperto che era lui il figlio di un antico alleato di suo padre, di uno dei suoi migliori amici, subito gli si era materializzata nella mente l’immagine di Rin. Come avrebbe reagito a scoprire che il signore dei lupi che l’avevano uccisa era nel castello? Poco lontano da lei?

 

Non aveva potuto cacciarlo, ma il suo primo ordine era stato quello di precludergli i giardini interni. Senza dargli spiegazioni. Aveva provato il desiderio di proteggere la bambina. Di tenerle nascosta una realtà che la spaventava ancora troppo. Gli aveva dato quell’ordine, e fin da subito Koga si era rifiutato di eseguirlo. Almeno senza una motivazione precisa. C’era voluto l’intervento di Ayame per impedire che la situazione degenerasse.

 

Ma nonostante l’attrito iniziale, il principe degli Yoro era ancora il miglior collaboratore che si potesse aspettare. Per potenza e velocità. Per capacità di dominio. Non lo eguagliava, certo, ma riusciva a mantenere l’ordine nelle sue truppe in modo esemplare, impedendo quegli attriti che serpeggiavano invece nel resto dell’esercito.

 

La mano che gli sfiorò la spalla lo fece sussultare. Non si era accorto di non essere più solo. Ma appena focalizzò chi fosse l’intruso, si rilassò. Era contento che fosse lei.

 

“Rischi di ammalarti, con questo freddo”.

 

Sorrise. Non avrebbe mai imparato che un demone non si ammala, almeno non per un po’ di pioggia. O forse, lo sapeva bene, ma era un modo come un altro per avviare un discorso. Per mostrarsi interessata a lui.

 

“Vieni. Sei tutto bagnato”

 

Sesshomaru la sentì allontanarsi da lui, e sorrise impercettibilmente. Averla così vicina, sentirne la voce, era il miglior rimedio alle sue preoccupazioni. Aveva fatto bene a nominarla archiatra. Lei era la sola a sapere come combattere il veleno che prosciugava i demoni del loro youki; ne aveva avuto lui stesso la prova. Se questa guerra fosse scoppiata, la sua esperienza sarebbe stata utile. E poi, aveva trovato un modo per giustificare la sua presenza a palazzo, dissipando anche un po’ le malelingue.

 

Alessandra lo osservò con la coda dell’occhio. Appoggiato allo stipite, avvolto dalla nebbia leggera che saliva dall’esterno e illuminato dal tenue riverbero ambrato della lucerna. Era bellissimo. Riusciva a incantarla anche senza far niente, mentre rincorreva il filo dei suoi pensieri. Doveva avere molte preoccupazioni. Non ultima proprio la cecità.

 

Alessandra sapeva che gli impediva di combattere come in passato, che lo esponeva alla furia dell’avversario e lo lasciava completamente indifeso. Sapeva che, in più di uno scontro, lui era stato ferito. Nulla di grave, vero. Graffi superficiali. Ma che intaccavano l’orgoglio. Sapeva che si era allenato a lungo, con un suo subalterno, ma senza risultati concreti. E non se ne era sorpresa. Figuriamoci se un sottoposto si impegnerà mai seriamente a sconfiggere il suo signore. No. Ci sarebbe voluto qualcuno che non lo temesse.

 

Un lampo. Fendette il cielo, regalando sfumature d’acciaio alla figura del bel demone. Sembrava così triste. E Alessandra avrebbe tanto voluto che le parlasse di quello che lo faceva preoccupare. E invece, lui si teneva tutto dentro. Mai un gesto o un’espressione che le permettesse di capire a cosa pensasse. Aveva scoperto che suo padre era morto, anche se non sapeva in quali circostanze. Si era lasciata sfuggire la domanda, ma se ne era subito pentita. Era da lui che voleva le risposte, non da altri. Ma forse, se voleva riuscire ad aiutarlo di più, avrebbe dovuto trovare la forza di chiedere. O di interrogare lui direttamente. Anche a costo di fargli del male. In fondo, lui non le aveva forse rivolto con insistenza delle domande, per smuoverla e farle ritrovare la parola?

 

Quando un nuovo squarcio di luce attraversò il cielo, l’youkai rientrò e si sedette. Era completamente bagnato, lavato dall’acqua gelida di quel temporale d’inverno. La pelle fredda, cosparse di mille goccioline. I capelli appiccicati al volto e al kimono. Alessandra sbuffò. Certe volte si comportava come un bambino: che bisogno c’era di restare sotto la pioggia? Però, se fosse stato davvero un bambino, si sarebbe messo a rincorrere le gocce, invece lui era rimasto immobile. Forse per unire un pianto silenzioso e asciutto a quello del cielo.

 

Sesshomaru la sentì avvicinarsi e si voltò interrogativo verso di lei, quando avvertì le mani della ragazza sciogliere il suo obi e cercare di sfilargli il kimono. Lo stava spogliando. Senza motivo. E, istintivamente, Sesshomaru la fermò, richiudendo i lembi dell’abito sul petto. Incredibile. Era in imbarazzo. Sapeva benissimo che l’aveva già visto a torso nudo, ma quella volta era incosciente e non aveva potuto opporsi.

 

Non voleva che lo vedesse nudo. Anche se non ne capiva il motivo. I demoni addetti al servizio lo avevano già visto e non si era mai sentito in imbarazzo. Non aveva mai provato vergogna nel mostrare il suo corpo. Ma con lei era diverso. Anche se non lo voleva ammettere.

 

Alessandra rise, per dissimulare l’imbarazzo che aveva avvolto anche lei. Neanche lei sapeva esattamente cosa le fosse preso. Spogliarlo…Aveva davvero cercato di spogliarlo. Ma non voleva fare nulla di male, solo evitare che si raffreddasse. Rise, anche perché era la prima volta che lo vedeva così impacciato. Lo aveva sentito irrigidirsi al suo tocco e ora la osservava con una punta di sorpresa e sconcerto negli occhi vuoti. Il grande guerriero, il demone più potente, messo con le spalle al muro dal semplice tocco di una ningen. La situazione era davvero comica.

 

“Se non ti cambi, ti ammalerai”

 

Lo vide come risvegliarsi da un sogno, alzarsi e sparire dietro ad una porta. Forse lo aveva offeso. Forse se ne era andato perché aveva cercato di spogliarlo. Ma i suoi abiti era fradici, e lei voleva solo evitare che si raffreddasse. Anche se sapeva benissimo che per un demone le condizioni atmosferiche sono irrilevanti.

 

Sesshomaru ricomparì poco dopo, con in dosso un komon blu con un semplice motivo ricamato in argento. Era un abito molto informale, forse per sottolineare che con lei non voleva mantenere un atteggiamento improntato all’etichetta. Gli stava bene, quell’abito. Gli fasciava il corpo denotando il suo fisico, magro e prestante.

 

Quando si fu seduto, l’youkai avvertì qualcosa sulla testa. Un panno a coprirla, e poi mani leggere che gli frizionavano i capelli bagnati. Alessandra non gli aveva detto nulla; si era limitata a sedersi dietro a lui e adesso gli stava asciugando i capelli con una spugna, percorrendogli il capo con movimenti lenti e rilassanti. Sesshomaru sentì imbarazzi e tensioni dissiparsi sotto quelle carezze innocenti, e si rilassò completamente. Era da più di un mese che non stavano da soli. Che non avevano occasione di parlare come quando dormivano nei boschi all’addiaccio.

 

Ora avrebbero potuto conversare di tutto quello che volevano, ma non trovavano le parole. Non volevano rompere una sospensione per loro preziosa. Avrebbero avuto molto da dirsi, da raccontarsi. Eppure, preferirono il silenzio. Come lo avevano sempre preferito alle parole. Anche quando il demone non era più stato in grado di conversare con la forza del suo sguardo.

 

“Alessandra…”

 

La ragazza interruppe il suo lento massaggio. Forse gli aveva fatto male. Sesshomaru, invece, assottigliò u po’ le iridi, percependo la sottile agitazione che la faceva tremare impercettibilmente. Le prese un polso e la costrinse a sedersi davanti a lui, togliendosi la stoffa dalla testa. Quando il panno scivolò, la ragazza non potè evitare una leggera risata, che sorprese il demone.

 

“Cosa c’è?”. La sua voce. Calda. Sensuale. Con una punta di curiosità. Quanto le piaceva quella voce. Soprattutto quando non aveva il tono del comando. Quando non era la voce del Principe, ma del ragazzo.

 

“Sei buffo” gli rispose, insinuando le dita sottili nei suoi capelli, risistemando quello che lo strofinio continuo aveva mosso e scompigliato. Fino a regalargli una pettinatura improbabile. L’youkai chiuse gli occhi a quel tocco. Bastava un solo gesto di lei a far naufragare qualsiasi suo intento. Quella ragazza era amabilmente pericolosa. Perché riusciva ad azzerare ogni sua volontà.

 

Un nuovo fulmine si infranse, accecando con la sua luce, quando Sesshomaru si piegò all’improvviso su di lei per rubarle un bacio. Agognato. Desiderato. Passionale.

 

Alessandra provò l’impulso di allontanarsi, per il timore che qualcuno gli scoprisse. Ma poi si abbandonò a lui, cingendogli il collo e lasciandosi stringere. Aveva desiderato la sua bocca, il suo calore, il tocco gentile della sua mano. In quel mese le era mancato. Tanto da impazzire.

 

L’youkai la sentì rispondere al bacio. Prima timidamente, poi con desiderio crescente. L’aveva desiderata. In quel mese, prima la lontananza coatta e poi il fingere indifferenza avevano esasperato le sue emozioni. E adesso che lei era lì con lui non aveva saputo resistere. E si era abbandonato all’istinto. Come poche volte gli capitava. Ma ormai sembrava sapere che con quella ragazza era solo l’istinto la sua arma. Assecondare quello che sentiva, senza ragionare troppo sulle azioni. Perché era cosciente che solo in quel modo avrebbe potuto starle accanto senza paura di ferirla. Perché per istinto si sarebbe fermato prima di farle del male. Come era già accaduto in passato.

 

La strinse a sé, insinuando la mani nei suoi capelli, scandendo ad accarezzarle la nuca, il collo, cingendole le spalle. Non era mai sazio del suo profumo, del suo sapore. Si lasciò cadere sui cuscini trascinandola con sé. Ora era distesa su di lui, con la testa sul suo petto. Le accarezzava il viso con gli artigli, sentiva il suo sorriso, il suo cuore battere impazzito e il tremore imbarazzato del suo corpo.

 

Fuori dalla finestra, la pioggia cadeva con forza sempre maggiore, in uno scroscio incessante che copriva ogni altro rumore. Ogni pensiero. Lasciando solo le emozioni. I sentimenti. Mentre bagliori accecanti si rincorrevano sempre più frenetici nel cielo, esplodendo in tuoni assordanti.

 

Alessandra osservava il cielo grigio e scuro della notte, lasciandosi cullare dal respiro tranquillo del ragazzo, dal tocco della sua mano. Avrebbe voluto restare stretta a lui. Chiudere gli occhi e addormentarsi fra le sue braccia. Come prima di arrivare a palazzo.

 

“Alessandra…”

 

Alzò gli occhi su di lui. La testa sprofondata in un cuscino rosso, con i capelli sparsi attorno. Gli occhi vuoti pieni di emozioni che difficilmente avrebbe espresso a parole, che probabilmente avrebbe sempre ignorato. Un sorriso leggero a increspare le labbra sottili.

 

“Sei felice qui, a palazzo?”

 

Il sorriso della ragazza si spense. Un po’ per la sorpresa, perché non si sarebbe mai aspettata quella domanda. Non si sarebbe mai aspettata che lui le facesse una domanda del genere. Il demone freddo e distaccato, che considerava i sentimenti come inutili sciocchezze, quel demone che amava, ora le stava chiedendo se fosse felice lì. Mentre era fra le sue braccia.

 

Il suo sorriso si spense. Anche perché non ci aveva mai voluto pensare veramente. Non si era mai posta quella domanda, e se si affacciava alla mente la ricacciava subito indietro. Aveva deciso di vivere accanto a lui, in qualsiasi modo e senza preoccuparsi del futuro. Di ignorare il passato. Anche se talvolta le tornava in mente la sua casa fra le montagne. I luoghi della sua infanzia. E la nostalgia si faceva sentire. Forte. Quasi come una malattia. Anche se ormai era sola, nel suo mondo, non poteva evitare di non desiderare di tornarci.

 

“…Sì…”

 

“Non mentirmi”

 

Alessandra sospirò. Già. Impossibile mentirgli. Ormai, la conosceva troppo bene. Riusciva a leggere nelle sfumature della sua voce. Nelle inflessioni vocali. Ma, in fondo, non gli aveva mentito. Gli sfiorò le labbra con le sue, e si mise a sedere, lasciando che il demone disteso al suo fianco giocasse con i suoi capelli e le pieghe dell’obi.

 

Sesshomaru non aveva fretta. Aveva tutta la notte. Non voleva che le desse una risposta affermativa per farlo contento. Voleva che gli dicesse la verità. Per questo, le lasciava il tempo di soppesare le parole. Solo, voleva sentire la verità. Se davvero si trovava bene lì, a palazzo, se c’era qualcosa che la infastidiva. Se se ne voleva andare.

 

L’aveva sentita sedersi accanto a lui, come se volesse pensare un attimo la risposta. E lui continuava a tormentare le pieghe della sua veste, per scacciare la tensione di quel silenzio che era calato fra loro. Avrebbe potuto ignora quella domanda, e continuare a credere che lei stesse benissimo lì, in quella situazione snervante, che non concedeva loro neanche il tempo di un saluto innocente. Con una guerra alle porte e l’ostilità di tutta una corte. Velata verso di lui, aperta verso di lei.

 

Il bel demone avrebbe potuto ignorare tutto, e illudersi. Non aveva voluto. Non voleva metterla in una situazione di sofferenza, di rimpianto. Anche se adesso avrebbe potuto dire che no, non era felice lì. Che si sentiva soffocare e avrebbe voluto andarsene. Che voleva tornare nel suo mondo. Per questo glielo aveva chiesto. Per sapere esattamente cosa pensasse. Perché ormai lui non poteva più cercare di intuirlo dalle sfumature dei suoi occhi.

 

“Sai, ogni tanto mi torna in mente la mia casa…nel mio mondo…mi manca…”. Alessandra si mordicchiò nervosamente un labbro. Aveva sentito la mano dell’youkai allontanarsi da lei e lui sollevarsi a sedere. Adesso, era dietro di lei, con il viso quasi appoggiato alla sua spalla. Poteva sentire il suo respiro caldo sul collo.

 

“…però…sono solo momenti passeggeri…Perché adesso è qui, quello che m rende felice…”

 

“Cioè?”. Era una domanda. Per scherzare. Per stuzzicarla a parlare. Ma anche per capire. Per riuscire davvero a comprendere cosa bastava a rendere felice la vita in un posto come quello, dove tutti o quasi ti sono ostili, dove con lui non poteva neanche parlare. Dove lui era una persona totalmente diversa da quella che lei lo aveva fatto diventare.

 

Alessandra sorrise. Lo avrebbe preso un po’ in giro. Punzecchiato. Così avrebbe imparato a farle quelle domande che le mettevano tristezza e la costringevano a spiegare i suoi sentimenti.

 

“Rin, ad esempio. È dolcissima. E poi, anche Kumamoto-sama. Parlare con lui è estremamente interessante. O anche con sua figlia, o con Ayame. Perfino Jacken, adesso, mi parla in modo più conciliante”

 

Sesshomaru non sapeva se essere contento perché gli stava dicendo che non proprio tutti la allontanavano, e perché fra questi c’era uno dei maggiori generali, o rattristarsi perché non lo aveva nominato. Aveva menzionato anche Jacken, ma non lui. Avrebbe potuto offendersi.

 

D’un tratto, capì. Lo stava prendendo in giro. Si stava facendo beffa di lui. Per vedere come reagiva. Lo capì quando realizzò che lo stava osservando, e che aveva un sorriso divertito sulle labbra. Fu sollevato. Si lasciò ricadere sui cuscini, e quasi senza accorgersene, iniziò a sorridere. E poi a ridere. Una risata leggere e ironica. Di autocommiserazione. Ma terribilmente bella.

 

Alessandra ne rimase sorpresa. Era la prima volta che lo sentiva ridere. Che vedeva le sue labbra aperte a mostrare i denti bianchi e perfetti, i canini appuntiti. Senza nessun intento aggressivo. Una risata leggera, da bambino. Di chi si è accorto di uno scherzo e non se la prende per esserne stato l’oggetto.

 

“Non ti aveva mia visto ridere”

 

“Finora, non aveva nessun motivo per farlo”

 

Alessandra incrociò le braccia, voltandosi dall’altra parte fingendosi arrabbiata. E di nuovo lo punzecchiò. Fingendosi offesa perché la considerava degna solo della sua risata. Perché la trovava comica. Sesshomaru sorrise ancora. Stupendosi di se stesso. Era da tanto che non rideva. Da secoli. Il sorrido glielo aveva ridato Rin, ma quella ragazza gli aveva restituito la risata. Il suono della spensieratezza.

 

In quei momenti, mentre scherzava con lei, dimenticava tutte le lacerazioni della sua anima. Dimenticava titoli, compiti, responsabilità. C’era solo lei. E la sua voce ora allegra. Quel suono che aveva tanto voluto sentire.

 

“Ci sei tu. Mi basta questo per essere felice”

 

Alessandra glielo disse a bruciapelo, con ancora il sorriso sulle labbra, e la leggerezza di una battuta. Perché non era una cosa importante. Era una cosa ovvia. Il vero motivo che la tratteneva lì. Quello stesso che non glielo aveva fatto abbandonare, ferito, per tornare a casa.

 

Sesshomaru smise di colpo la sua allegria. Quasi impossibilitato a capacitarsi delle parole che gli aveva detto. Per lui. Era lì per lui. Perché era lui, con la sua presenza anche solo accennata, a renderla felice. Anche se tutto si risolveva in pochi gesti meccanici, freddi.

 

Allungò una mano, accarezzandole il viso. Stava bene. Con lei, si sentiva libero. Anche fra quelle mura.

 

“Resta qui stanotte. Con me.”

 

*****

 

La porta si aprì poco; uno spiraglio appena. Che lasciava entrare la luce dei lampi e il fragore dei tuoni. Nel mezzo della notte fredda e ventosa.

 

Sesshomaru percepì il rumore, anche se lieve. E si alzò a sedere. Era coperto solo del komon; non aveva neanche la consueta benda sugli occhi. Tese i sensi acuti. Doveva esserci qualcuno, anche se la pioggia gli impediva di definire l’odore. Accanto a lui, sui cuscini, Alessandra dormiva tranquillamente, avvolta da una pesante coperta.

 

Si era fermata. Era riuscito a convincerla. Avevano parlato ancora, e poi, lei si era addormentata lì. Sui cuscini dello studio. Il demone aveva pensato di portarla nella sua stanza da letto, al piano superiore, ma poi aveva rinunciato. Un po’ per paura di svegliarla, un po’ per non affrettare le cose. La ragazza non aveva mai visto i suoi appartamenti, fatto salvo lo studio dove si trovavano. Portarcela nel sonno forse sarebbe stata un’imposizione. Un rischio innocente, ma non se la sentiva di rischiare neanche quello.

 

In definitiva, non si stava neanche troppo male lì, sui cuscini. Erano tanti, e molto morbidi. Non confortevoli quanto il futon, certo, ma avevano dormito anche in condizioni peggiori. Le si era disteso accanto, con la mano dietro la testa, e aveva chiuso gli occhi. Aveva ascoltato il suo respiro.

 

Un nuovo tuono. E un grido trattenuto con fatica. Un’ombra, piccola, nell’incavo della porta. Sesshomaru percepì l’odore, portatogli dal vento che s’intrufolava nell’atrio, nel vano delle scale. Lo percepì chiaro e lo riconobbe.

 

“Rin”

 

La bimba, sentitasi scoperta, allargò lo spiraglio quel tanto sufficiente a farla entrare. Teneva gli occhi bassi, e stringeva convulsamente un coniglietto di pezza. Un pupazzetto che aveva costruito assieme ad Alessandra, mentre la ragazza studiava. Tremava. Un po’ perché aveva paura di aver osato troppo, un po’ per il freddo.

 

Sentiva lo sguardo del demone su di lei, e la voglia di scappare. Aveva sbagliato. Non sarebbe dovuta andare. Ma i temporali le mettevano sempre paura. La spaventava il fragore del tuono. Soprattutto se si trovava da sola in una grande stanza com’era la sua camera. Era andata da Alessandra, per farsi tranquillizzare un po’, ma aveva trovato la camera vuota.

 

Aveva avuto tanta voglia di piangere; poi, alla luce di un nuovo fulmine, aveva visto la torre con gli appartamenti dell’youkai e non ci aveva neanche riflettuto. Si era incamminata lungo il corridoio esterno e poi aveva aperto la porta. Solo che adesso si pentiva di non essersi fermata prima. Di non essere tornata in camera sua, o di non aver aspettato Alessandra nella sua stanza.

 

Sesshomaru la percepì tremare; era spaventata. Ad ogni nuovo tuono, chiudeva gli occhi e soffocava un urlo con le mani. Il demone sapeva che non le piacevano i temporali. Che ne aveva sempre avuto paura. Quando viaggiavano, se pioveva, Rin si raggomitolava nel futon e restava sveglia fino a non cedere, sfinita, al sonno. Ora, invece, sembrava che la paura avesse più potere della stanchezza.

 

“Cosa succede?”

 

La bimba strinse ancora di più a sé il pupazzetto. La voce del demone era sempre così fredda. Non capiva mai se stesse sbagliando o no. Però non le faceva paura. Solo, in quel momento, proprio non riusciva a trattenere le lacrime. Aveva troppa paura del temporale.

 

M-mi perdoni, Signor Sesshomaru…C-c’è il temporale…e io…io…”

 

Lampo. Luce che abbaglia. Tuono. Fragore che assorda. E uno scroscio ancora più violento. Rin si tappò le orecchie e si accucciò a terra, nascondendo il viso nelle ginocchia. Piangeva. L’youkai sentiva l’odore delle sue lacrime. Silenziose. Spaventate.

 

Voltò leggermente la testa verso Alessandra. Stava riposando tranquillamente. Non aveva paura quando era vicina a lui. Di nulla. Neanche dei maggiori generali del regno. Forse, se si fosse svegliata per il temporale, allora gli avrebbe chiesto di stringerla. Per riscaldarla. Per darle coraggio.

 

Un sorriso gli increspò le labbra. Se il giorno dopo avesse saputo che aveva cacciato la bambina, era capace di non rivolgergli più la parola. E sarebbe stato il minimo. Non l’aveva mai vista arrabbiata, e non la temeva certo per quello, ma era un’ottima scusa per giustificare quello che gli era passato per la testa. Perché, altrimenti, neanche lui era più in grado di riconoscersi.

 

Sentì Rin alzarsi, strofinandosi gli occhi, e fare alcuni passi verso l’uscita. Se ne stava andando. Anche se aveva paura. Pur di non disturbarlo ancora. Sperò solo che il Principe non dicesse nulla a Jacken, altrimenti questa volta solo un miracolo le avrebbe evitato una punizione da parte del demonietto. Le sembrava quasi di sentirlo: “Cosa ti è saltato in mente?! Disturbare il padrone nel mezzo della notte! E solo perché avevi paura!”. Bla, bla, bla. Tante parole che le avrebbero fatto pesare ancora di più il fatto di essersi mostrata così spaventata al suo signore.

 

“Vuoi dormire qui?”

 

La voce la fece fermare. Si voltò sorpresa e confusa. Credeva di non aver capito bene. Anzi, di certo aveva capito sbagliato. Non poteva essere stato il suo signore a parlare. Intravide Sesshomaru alla luce di un nuovo lampo, che lo scolpì con violenza nella notte, regalandogli ombre inquiete.

 

Si avvicinò di più, come se lo sguardo del demone riuscisse a piegare ogni tentativo di resistenza. Si fermò davanti al ragazzo seduto sui cuscini. Teneva la testa bassa e continuava a dondolarsi leggermente, indecisa.

 

Davvero mi ha chiesto di dormire qui?

 

Non riuscì ad articolare il pensiero in parole che si sentì stringere e sollevare, per poi essere depositata con dolcezza su un grande cuscino e coperta. Sesshomaru l’aveva presa in braccio e fatta sdraiare accanto a sé. Perché si tranquillizzasse. E si stese a sua volta.

 

Rin intravide Alessandra, che riposava accanto all’youkai. Ecco dov’era andata. Ma non aveva nulla da temere. Lei non avrebbe mai detto nulla. Anzi, le faceva piacere il pensiero che potesse esserci qualcosa fra quella ragazza gentile e il suo signore. Perché era grazie a lei se il demone era cambiato. Prima, non si sarebbe mai immaginata che l’avrebbe presa in braccio e fatta dormire con lui perché non si preoccupasse del temporale.

 

Sesshomaru percepiva la bambina stringersi a lui, quando un nuovo tuono riempiva l’aria. Ma solo per poco tempo. Rin infatti si addormentò quasi subito. La sfiorò con una carezza, e chiuse gli occhi, cercando anche lui di riposare, e non pensare alla reazione spropositata di Jacken la mattina dopo. Gli sarebbe venuto come minimo un infarto. Ma guai a lui se si fosse lasciato sfuggire anche solo una sillaba di quello che avrebbe visto.

 

Sentì due labbra posarsi sulle sue.

 

Alessandra…Ma allora eri sveglia…

 

La ragazza si allontanò, stendendosi di nuovo accanto a lui. Non gli aveva detto nulla, ma con quel gesto gli aveva fato capire che era molto contenta. Perché non l’aveva cacciata. Perché adesso Rin era lì con loro.

 

Sospirò, sfiorandosi le labbra. Sentiva un grande benessere. Qualcosa che credeva di aver dimenticato. Di non aver mai provato. E doveva tutto a quelle due ningen che dormivano strette a lui. A chi gli aveva insegnato che l’amore esiste, e a chi glielo aveva fatto provare.

 

Sesshomaru chiuse gli occhi. Era stanco. Provato da qualcosa che non sapeva come chiamare, ma che non gli aveva tolto con prepotenza le forze. Gliele aveva come assopite con dolcezza. Sentì di nuovo quel sussurro nella mente: la voce di suo padre. E sorrise. Inconsciamente. Perché ormai conosceva la risposta. E almeno a se stesso, a quell’io avvolto dal ghiaccio, non poteva mentire.

 

Padre…Questo significa avere qualcosa da proteggere?…

 

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Capitolo 30
*** 30. PAURA ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!

 

Scusate se non mi dilungo, ma sono davvero di fretta: l’esame è vicinissimo e io devo finire di ripetere- Perciò, vi lascio subito il capitolo e scappo a studiare.

 

Buona lettura!

 

Per Jame: grazie della mail. Scusa se non ti ho risposto, ma sono presissima. Comunque, rimedierò appena avrò un minuto libero.

 

 

 

CAPITOLO 30

PAURA

 

 

“Il Principe è morto! Il Principe è morto!”

La notizia volò per il campo e il palazzo come un fulmine, di bocca in bocca, seminando il panico.

Voci confuse si accavallavano, fornendo particolari sempre più precisi e contraddittori. Il messaggero cui chiedere era sparito, inghiottito dai corridoi del palazzo. Doveva riferire. Subito.

 

Kumamoto, che in quel momento stava visionando gli approvvigionamenti, sbiancò appena la voce gli giunse. Mise malamente in mano all’attendente carte e pergamene e si precipitò all’interno. Se si trattava di uno scherzo, il suo autore avrebbe passato un brutto quarto d’ora. Gli stava per venire un colpo.

 

Non poteva crederci. Il principe…morto. No. Era impossibile. Sesshomaru non poteva essere morto. Continuava a ripeterselo come una cantilena snervante, eppure era perfettamente cosciente che non c’è nulla di più facile che cadere in un’imboscata, mentre si è in perlustrazione. Per di più, se ci si intestardisce a compiere le sortite ciechi e non ancora abbastanza capaci di fronteggiare uno scontro in campo aperto.

 

Alessandra aveva cercato di farlo desistere. Senza risultato. Lui voleva partecipare a quelle ricognizioni, e nessuno glielo avrebbe impedito. Le ferite superficiali riportate non gli avevano insegnato nulla. O forse anche troppo. Lo avevano messo di fronte a un’incapacità che non riusciva ad accettare. Come gli era impossibile restare nelle retrovie, confinato a palazzo in attesa di notizie. Era un uomo d’azione, razionale e calcolata, certo. Ma sempre d’azione.

 

Kumamoto raggiunse il messaggero prima che entrasse nella sala del consiglio e con lui tornò verso la piazza d’armi. Vivo o morto che fosse, era ben intenzionato ad andare a riprendere il suo signore. E il sollievo fu grande quando gli fu detto che Sesshomaru era vivo. Ferito, ma vivo. E che si stava dirigendo verso il palazzo.

 

Si era imbattuto in un’avanguardia nemica, per di più in posizione sfavorevole. Ma non era servito. Questa volta, gli avversari avevano con sé quelle strane canne che riuscivano a uccidere gli youkai prosciugandoli della loro aura. Sotto un fuoco di sbarramento che non si curava di chi colpisse, era iniziato un duello all’arma bianca. Il vecchio generale si rabbuiò. Se adesso iniziavano a portarsi dietro quei maledetti aggeggi, significava che erano sempre più vicini.

 

Nella piazza d’armi trovò gli altri generali a palazzo e un vociare confuso. La notizia della presunta morte dell’inuyoukai aveva seminato il panico ovunque, e qualche ardimentoso stava già proponendo di uscire in massa per andare a vendicarlo. Un’idea magnifica. Dritti nelle braccia della morte. Ci volle l’intervento della guardia scelta che faceva capo direttamente al vecchio generale per sedare gli animi e riuscire a riportare la calma. Kumamoto ordinò di inviare messaggeri agi altri reparti in perlustrazione, perché comunicassero di tornare subito; rafforzare le guardie lungo le mura e costituire un gruppo di volontari, non numeroso, perché andassero nuovamente in avanscoperta, col preciso ordine di non ingaggiare battaglia. C’era bisogno di informazioni, non di nuovo morti.

 

Ordinò a Jacken, appena sopraggiunto, di allertare i curatori del palazzo, perché probabilmente sarebbe stata necessaria la loro opera, e di informare Alessandra dell’accaduto. Voleva che la ragazza fosse lì quando sarebbe entrato dalla porta principale con il Principe, perché lo prendesse subito in consegna.

 

Jacken, che si era allontanato di corsa per eseguire gli ordini, si bloccò pietrificato dall’ultimo. Cosa che non sfuggì a Kumamoto. Il demonietto tremava di paura; doveva sapere qualcosa di importante. E di poco piacevole. Lo agguantò per il kimono e gli urlò a pochi centimetri dal viso di parlar chiaro, invece di balbettare scuse. Non ottenne alcun effetto; Jacken si spaventò ancora di più e le sue parole era suoni gutturali e privi di una qualsiasi articolazione. Ma non ci fu bisogno di alcuna parola.

 

Kumamoto vide qualcosa attraversare a grande velocità tutta la piazza, fendendo la folla dei soldati, e dirigersi verso il grande portone aperto. Gli ci volle un secondo per capire cosa fosse. Gettò malamente Jacken a terra e si precipitò dietro a quella scia.

 

La fermò che ormai stava per attraversare il portone. Le si materializzò davanti all’improvviso, costringendola a tirare le briglie per evitarlo. Si aspettava una ragazza in preda all’isterismo, sconvolta dal dolore e piangente, come avevano subito pianto le donne del palazzo. Invece, si trovò di fronte qualcosa di veramente inaspettato. Alessandra lo fissava con il buio negli occhi. Era seria, composta e da lei emanava una determinazione incredibile. Nessun segno di lacrime, di cedimento. Tuttavia, la preoccupazione era evidente nel suo pallore.

 

Quando le era giunta la notizia, aveva affidato un’allibita Rin a Homoe e aveva afferrato le sue armi e una bisaccia, infilandovi dentro il minimo necessario per un primo intervento. Non poteva credere che Sesshomaru fosse morto. Non voleva crederlo. Lo aveva salutato poche ore prima. E lui l’aveva baciata. A sorpresa. Attirandola fra le ombre del corridoio deserto, col rischio di essere scoperti. L’aveva stretta e baciata con un ardore immenso. Quasi fosse l’ultima volta che la vedeva. Adesso, Alessandra non voleva credere che lui lo sapesse. Che se lo sentisse che quello era l’ultimo bacio che le dava.

 

L’ultimo bacio…

 

Aveva scosso la testa con violenza e si era precipitata alle scuderie. Una settimana prima, Sesshomaru le aveva donato uno stupendo cavallo-demone, col manto nero attraversato da sottili striature d’argento. Incredibilmente resistente e veloce, capace di volare e creare barrire difensive, anche se deboli. Le aveva insegnato a montarlo, a comunicare con lui.

 

Era stata una settimana strana, quella. In cui il demone aveva passato più tempo del solito con lei e Rin. Lontano da occhi indiscreti, nella parte dei giardini interni riservata solo a lui. Una cosa davvero inusuale. Però, Sesshomaru sembrava volersi ricordare di qualcosa, di qualche sentimento. Una settimana, da quella sera, da quando avevano nuovamente dormito assieme. Una settimana in cui lo aveva convinto ad allenarsi con Koga, e non più con un attendente. Perché almeno il principe degli Yoro non avrebbe trattenuto i colpi.

 

Era montata in sella e aveva lanciato la cavalcatura in una corsa folle verso l’uscita. Voleva andare da lui. Scoprire con i suoi occhi se quelle parole fossero vere, o solo voci ingigantite da molte bocche. Voleva sperare di rivederlo. Ce l’aveva quasi fatta, ma adesso, invece, l’anziano generale le era davanti, e teneva saldamente il cavallo per le briglie, impedendogli di muoversi.

 

“Non fare pazzie”

 

“Devo andare da lui”

 

Alessandra cercò di liberare le briglie dalla presa del demone. Inutilmente. Era troppo salda. E in fondo sapeva che aveva ragione. Rischiava di mandare a monte tutte le precauzioni di quelle cinque settimane e di esporsi in prima persona a un pericolo mortale. Eppure, non le importava nulla. L’unica cosa che aveva in mente era l’immagine di Sesshomaru e il bacio di quella mattina. Si sorprese a pregare. Per lui.

 

Kumamoto percepì la sua agitazione, ma rimase comunque sorpreso della razionalità con cui aveva agito. Aveva preso con sé delle armi, e una bisaccia che probabilmente doveva contenere dei farmaci. Però, non poteva lasciarla andare. Se le fosse successo qualcosa, non solo il Principe, ma lui stesso non se lo sarebbe mai perdonato. Affidò le redini ad un soldato appena sopraggiunto e la trascinò di peso giù dalla sella. Alessandra aveva provato a resistere, ma il generale, anche se anziano, era ancora vigoroso e aveva facilmente avuto la meglio.

 

E ora la ragazza era vicinissima a lui e lo fissava con due occhi pieni rabbia e angoscia. Non aveva mai visto nessun ningen guardarlo così. E anche fra gli youkai erano pochi quelli che si azzardavano a rivolgergli un simile sguardo. Eppure, Alessandra lo faceva. E sembrava non avere la minima paura di quello che sarebbe potuto succederle. Lo stava sfidando. Promettendogli, con quegli occhi freddi e taglienti, che in un modo o nell’altro lei sarebbe andata. Non l’avrebbero lasciata indietro.

 

Una voce dal ballatoio di guardia li costrinse a interrompere il loro duello silenzioso. Stava arrivando qualcuno. Si voltarono; dal bosco avanzava una macchia informe. Ma, mano a mano che si avvicinava, assumeva sempre più contorni definiti. Infine, fu chiaramente riconoscibile la sagoma di Sesshomaru.

 

Procedeva in testa, con passo un po’ malfermo. Aveva un profondo taglio sulla fronte, la corazza insozzata di fango e sangue e numerose macchie rosse su tutto il corpo. Eppure, sul suo volto era intrappolata una durezza che gli scolpiva i lineamenti. Alessandra liberò un profondo respiro di sollievo. Era vivo. E nel complesso sembrava star bene. Però…però i suoi occhi erano troppo freddi. Sembravano voler uccidere chiunque lo guardasse. La dolcezza dell’amante era scomparsa, lasciando il posto alla glacialità del guerriero.

 

Si trattenne dal gettarglisi al collo e baciarlo. Erano in mezzo a troppa gente. E poi, la sua attenzione fu catturata da una barella, che aveva seguito il demone a poca distanza. Un graticcio di canne, portato a spalla da due dei soldati superstiti. C’era disteso qualcuno. Koga.

 

La barella si fermò vicino ad Alessandra, mentre il Principe dei demoni la superava. Sfuggendo volutamente i suoi occhi. Lasciò un ordine a riempire l’aria. Un sussurro freddo e altero. Con quel tono che lei odiava.

 

“Salvalo”

 

*****

 

Un leggero suono metallico le fece alzare gli occhi dai suoi libri. Sul tavolo, alcune piccole sferette di metallo. Lucevano in modo sinistro al chiarore della lucerna. Alzò lo sguardo e incrociò il suo viso. Non lo aveva sentito entrare. Un po’ perché troppo concentrata sui testi, un po’ perché molto stanca e ormai prossima al sonno.

 

Aveva smesso la corazza e l’abito imbrattato di sangue, ma indossava ancora un kimono da battaglia. Probabilmente, era stato in riunione fino a quel momento, e forse ci sarebbe dovuto stare ancora per molto. Per quella notte, quindi, non c’era speranza che le raccontasse cosa era successo. Gli accarezzò il viso con gli occhi. La fronte ormai priva del segno di qualsiasi ferita, la mascella forte, i graffi rosati, le labbra pallide e sottili. Si fermò sui suoi occhi. Oro opaco. Spenti. E freddi. Come la prima volta che lo aveva incontrato. Un muro di ghiaccio a dividerli.

 

Ricambiò lo sguardo. Un mare profondo, un blu oscuro e pieno di tenebre, cosperso di scintille d’acciaio. La luce si liquefaceva nei loro occhi, donava ai loro visi sfumature calde e complici, ma inutili.

 

Sesshomaru scosse leggermente la testa, come se si fosse ricordato solo in quel momento dove fosse. L’inclinò un po’ verso destra, lasciando che i capelli gli ricadessero leggeri sul petto e sulle spalle e le sorrise dolcemente. Ma Alessandra non aveva intenzione di cedere. Non quella volta. Anche se adesso era di nuovo il ragazzo. Anche se aveva nuovamente smesso la maschera fredda e austera, questa volta non lo avrebbe accontentato. Non si sarebbe alzata per baciarlo, non gli si sarebbe avvicinata per abbracciarlo. Anche se sapeva che l’youkai era andato in camera sua per quello. No. Non questa volta.

 

Il demone percepì la sua ostilità, la sua rabbia repressa. E sospirò mentalmente. Già. Lei non era come le altre. Se si fosse recato da una delle nobildonne del palazzo, sarebbe stato accolto con tutti gli onori e avrebbe trovato qualcuno pronto a cercare di distrarlo da quanto avvenuto in giornata. Con abbracci, carezze, baci; con passione e ardore. Con superficialità. Perché sarebbe stata solo una parentesi fra le preoccupazioni. Nemmeno realmente appagante.

 

“Erano nei corpi dei soldati uccisi oggi. Hai idea di cosa siano?”

 

Va bene. Se non voleva smettere subito la sua rabbia, lui non l’avrebbe costretta. In fondo, aveva ragione lei. Ma non lo avrebbe mai ammesso. Mai. Così, preferì aggirare l’argomento. Il fatto che non fosse della sua epoca poteva giocare a suo vantaggio. Forse lei conosceva qualcosa in più, conosceva quelle strane sfere che i curatori gli avevano consegnato. Si sedette sul cuscino, affianco a lei. Per il momento, avrebbero solo parlato.

 

Alessandra sospirò. Va bene, non avrebbe affrontato subito il discorso. Avrebbe aspettato. Ma non aveva la minima intenzione di lasciarlo cadere di nuovo. Questa volta, il demone non sarebbe riuscito a sottrarsi incanalando il discorso verso una direzione diversa o facendole scordare le sue parole con i suoi baci e il tocco della sua mano.

 

“Nel mio mondo, si chiamano proiettili”

 

“Proiettili?...”. Sesshomaru aggrottò la fronte. Non aveva mai sentito quella parola, ma non gli piaceva per nulla. Istintivamente. Sapeva di morte. Alessandra annuì, e iniziò a spiegargli cosa fossero e a cosa servissero, ma si accorse ben presto dello sguardo smarrito dell’youkai. Sembrava che gli stesse raccontando qualcosa di incredibile.

 

“Sesshomaru…tu hai mai visto un fucile o una pistola?”

 

Il ragazzo pensò un attimo, cercando di ricordare se mai avesse incontrato qualcuno con un’arma simile a quella che la ragazza gli aveva descritto. Ma per quanto si sforzasse, non riusciva a identificare nulla di simile. Alla fine, scosse la testa in segno di diniego. Alessandra iniziò allora a raccontargli come fossero fatte quelle armi, ma lui non l’ascoltava completamente attento. Certo, seguiva le sue parole, ma si perdeva nelle sfumature della sua voce. Perché stavano parlando di quello? Perché invece non faceva smettere quelle parole e non la baciava? Ne aveva sentite molte, di chiacchere, quel giorno. E anche di malcelati rimproveri. Era stufo. Almeno con lei, avrebbe voluto non parlare di guerra.

 

Si sorprese di quel pensiero. Da quando aveva incontrato Alessandra, nulla sembrava più riuscire a interessarlo così tanto come in passato. Neanche le battaglie per cui era sempre vissuto. Eppure, sapeva che la situazione fra loro era ancora incerta. Nebulosa. Anche se, forse, lo era solo per lui.

 

L’aveva condotta con sé, l’aveva fatta dormire con lui. Nei suoi appartamenti. L’aveva baciata. Ma nulla di più. Non le aveva mai detto di amarla. Non le aveva mai detto nulla. Nessuna promessa. Nessun impegno. Lei, ufficialmente, era lì come archiatra. Ma in realtà, che ruolo aveva per lui?

 

Le voleva bene, questo non lo poteva negare. Questo glielo aveva detto. Un affetto simile a quello che provava per Rin, solo molto più intenso. Qualcosa che lo faceva sentire triste se lei non gli era accanto. Che lo rigettava nel tunnel buio del suo passato. Eppure, non sapeva ancora cosa fosse per lui. Se, quando la teneva fra le braccia, l’amasse. Se quello significasse amare. Se lo chiedeva spesso.

 

Perché, se la risposta fosse stata affermativa, allora non avrebbe potuto accettarla. Perché avrebbe voluto dire commettere lo stesso errore di suo padre. Compromettere la sua stirpe pura, gettare nuovo fango sulla sua casata. Non avrebbe mai accettato di amarla, e soprattutto non avrebbe mai potuto sposarla. Forse era prematuro pensare al matrimonio, ma non poteva certo dimenticarsi che chi sarebbe stata la sua consorte aveva, per la corte, un solo compito: procreare un erede maschio. Un demone puro. Completo. Non avrebbero mai accettato un hanyou. Come non lo avrebbe mai accettato lui. Come non lo aveva mai accettato.

 

Sesshomaru si rese improvvisamente conto del fatto che, benché lo avesse ribadito e avesse fatto di tutto per evitare quella voce, in realtà trattava Alessandra proprio come un’amante. Anche se non l’aveva mai sfiorata con un dito. Lei non chiedeva nulla di più che stare con lui, ma fino a quando sarebbe potuto durare?

 

Si passò una mano sul viso. Non ci volva pensare. Non in quel momento. Di lei aveva bisogno. Della sua presenza. Per recuperare la sua forza. Per vincere la cecità. La stava forse…usando? Seducendo perché gli stesse accanto senza creargli troppi problemi per poi abbandonarla? No. No. No! Ma cosa diavolo gli passava per la testa? Era forse impazzito?

 

Lei non sarebbe mai stata la sua amante. Non era un oggetto da usare e poi gettare. Non l’avrebbe mai abbandonata. Alessandra era…era…

 

…importante…

 

Sì. Ecco cos’era. Importante. Qualunque cosa volesse dire quella parola.

 

Ritornò a concentrarsi sulla sua voce. Non capiva più di cosa stesse parlando, ma si accorse che doveva essersi appoggiata al tavolo, perché ora la voce era più vicina. E anche il suo profumo. Non ci pensò due volte. Si piegò su di lei cercando le sue labbra. Non le trovò. Sentì invece, sulla stoffa del petto, una mano che lo fermava.

 

“Ti rendi conto di quello che hai rischiato?”

 

Ci risiamo. Di nuovo la solita storia. Non voleva proprio capire che lui non poteva esimersi dal partecipare almeno ad alcune di quelle esplorazioni. Non poteva mostrare come la cecità lo aveva reso vulnerabile, altrimenti avrebbe messo in dubbio non solo il suo prestigio, ma anche la sua credibilità.

 

“Non è successo nulla di irreparabile”

 

Le sorrise, cercando di sdrammatizzare. Sapeva bene che era falso. Che l’irreparabile quasi era accaduto. E che se non fosse stato per Koga, a quest’ora lui sarebbe solo un cadavere. E Alessandra e Rin prigioniere di quei maledetti. Se non peggio.

 

Già…Se non fosse stato per il principe degli Yoro, adesso si troverebbe lui in un futon, e non certamente con una semplice spalla trafitta. Non si era accorto di quanto Naraku fosse riuscito ad avvicinarsi a lui. Fin a meno di due metri. Confuso dalla battaglia, dai rumori, dagli odori, non lo aveva percepito. Aveva solo sentito la sua voce leggermente ironica vicina. Troppo, perchè si trovasse ancora ai margini del campo. Poi, la detonazione. Assordante. Ma nessun dolore. Niente. Un grido strozzato, e un corpo che gli cade addosso.

 

Perché lo avrà fatto?...

 

“Sesshomaru. Mi stai ascoltando, almeno?”

 

Era arrabbiata. Si era preoccupata molto quando la voce della sua morte era circolata a palazzo e il resoconto che gli avevano fatto alcuni soldati, mentre li curava, aveva solo aumentato i suoi timori. Ora che il giovane Ookami sarebbe stato costretto a letto per un po’, non solo il Principe non avrebbe più potuto continuare i suoi allenamenti, ma si trovava di nuovo totalmente esposto al pericolo. Un pericolo da non sottovalutare, visto che Naraku, a quanto le avevano raccontato, era riuscito a scaricargli addosso l’arma da una distanza pressoché minima. Ed era stato solo per pura fortuna che il proiettile intercettato dal corpo di Koga fosse scivolato sulla corazza, perforandogli la spalla, ma senza restare dentro. Altrimenti, a quest’ora…

 

“Sì”. L’youkai sospirò. Non l’aveva mai sentita così, con un tono quasi isterico nella voce. Una voce che tremava, di paura e di frustrazione. Perché in fondo Alessandra si riteneva responsabile della cecità del demone. Anche se non lo aveva mai ammesso a se stessa, era convinta che se quel giorno lei non ci fosse stata, adesso Sesshomaru avrebbe la vista.

 

“Sì, ti ascolto. Ma non mi farai cambiare idea”

 

“Ma perché? Che senso ha esporsi inutilmente?”

 

Alessandra faticava a trattenere le lacrime. In quel momento, con ancora tutta la tensione della giornata addosso, era sicura che non ce l’avrebbe fatta a sopportare un’altra attesa del genere. Vederlo andare, senza mai sapere se poi lo avrebbe anche visto tornare. Sapeva di rincorrere solo parole vuote. Conosceva perfettamente le risposte. Gliele aveva già date lui. Ma le conosceva da prima. Erano le stesse che suo padre dava a lei e a suo fratello quando erano piccoli.

 

“Ne abbiamo già parlato”

 

Voce fredda. Forse con quel tono avrebbe smesso di insistere. Forse sarebbe riuscito a farla tranquillizzare, a rassicurarla. Che stupido! Non era certo alzando muri di finta indifferenza che non l’avrebbe fatta preoccupare. La sentì alzarsi e andare verso la veranda. Credeva di capire come si dovesse sentire. Un po’ come si sentiva lui quando suo padre non gli permetteva di andare in battaglia con lui.

 

Era una sensazione di vuoto, di incompletezza. L’impressione di essere insignificanti, se non di troppo. Un peso. Inutili. Lui si era sentito così, delle volte, da piccolo. Ma Alessandra era diversa. Non era inutile.

 

La raggiunse, mentre ancora cercava di trattenere le lacrime e fissava la neve che scendeva lenta nella speranza di calmarsi. L’abbracciò da dietro, avvicinandola a sé. Poteva avvertire i suoi respiri profondi, le mani della ragazza accarezzare la sua. Sentiva il suo profumo strano avvolgerlo e stordirlo.

 

Alessandra si era lasciata abbracciare. Non ce la faceva ad allontanarlo di nuovo. Aveva bisogno di lui. Del contatto del suo corpo. Della sua sicurezza quasi sfacciata. Del suo apparente menefreghismo. Ne aveva bisogno. Per convincersi che lui sarebbe sempre tornato.

 

“Promettimi almeno che sarai prudente…”

 

Sesshomaru la strinse di più a sé, piegando la testa a regalarle un bacio sulla guancia, mentre i suoi capelli le ricadevano sul petto e il suo profumo l’inebriava.

 

“Promesso…”

 

La lasciò con rammarico. Avrebbe preferito trascorrere la notte con lei, e non in una sala a discutere. Però, sapeva che finchè Alessandra non avesse visto le luci dell’ala sud spegnersi anche lei non avrebbe smesso di lavorare. Fino allo sfinimento. Fino ad addormentarsi sul suo tavolo. Per aspettarlo. Per salutarlo un’altra volta.

 

“Sesshomaru…”. Si sentì chiamare che già era alla porta. Girò appena la testa. “Non esiste qualcun altro capace di aiutarti negli allenamenti?”

 

Il bel demone soppesò un attimo la risposta. Era ovvia: lui era il più forte dei demoni, nessuno poteva stargli alla pari. Solo suo padre avrebbe potuto batterlo. Aveva accettato di allenarsi con Koga perché il principe dei lupi era veloce e potente, un ottimo avversario con cui allenarsi, e perché non lesinava in forza durante gli attacchi. Neanche se si trattava di allenamenti. Con lui avrebbe avuto la sicurezza di sapere sempre a che livello si trovava. Non c’era però nessuno al suo livello. Di questo era certo.

 

Ma allora perché gli si era materializzata nella mente l’immagine sfuocata di un ragazzo, molto simile a lui, eppure così diverso? La scacciò subito, anche se non potè impedirsi di pensare a lui, e alla sua forza. Ma mentì, perché ammettere il contrario sarebbe equivalso ad ammettere qualcosa che non poteva essere vero.

 

“…Nessuno…”

 

*****

 

“Come vi sentite?”

 

Koga si liberò delle mani di Ayame, che tentavano, senza molti risultati, di farlo stendere nuovamente, per evitare che la ferita si riaprisse e la ragazza avesse lavorato per nulla. Ma era un’impresa difficile. Un po’ per orgoglio, un po’ per carattere, il principe degli Yoro non accettava facilmente di dover rimanere confinato in un letto. Soprattutto al pensiero che ha obbligarcelo era stato Naraku.

 

Alessandra aveva sentito le loro discussioni già in corridoio. Aveva pensato di non entrare, inizialmente. Ma poi, complice anche la curiosità di conoscere meglio il ragazzo, aveva cambiato i suoi progetti. In definitiva, Sesshomaru avrebbe avuto da fare ancora a lungo, quel giorno, e lei era stanca per le molte ore già trascorse su rotoli e pergamene. Aveva deciso di staccare un po’ e stare con Rin, ma la bimba era occupata con Homoe e aveva preferito non disturbarle. Di allenarsi o distrarsi con una cavalcata, poi, neanche a parlarne, vista la tormenta che imperversava.

 

Alla fine, si era lasciata attrarre dalle voci degli ookami. In fondo, doveva ancora ringraziare Koga per aver salvato il suo Principe. Non lo avrebbe potuto fare direttamente, certo, ma almeno interessandosi a lui si sarebbe sdebitata, anche se le vere motivazioni dei suoi gesti le avrebbe sapute solo lei.

 

Aveva aperto la porta scorrevole, attirando l’attenzione dei due ragazzi. Koga la fissava con un po’ di sospetto. Non ricordava il volto di chi l’avesse curato due giorni addietro, arso dalla febbre e semicosciente a causa dell’emorragia. Nei giorni precedenti, si era sorpreso non poco nel vedere comparire nella sala delle riunioni una ningen. Una ragazza umana nel castello di Sesshomaru. Del Principe dei demoni.

 

Ayame gli aveva parlato di una ragazza, ma non aveva capito che si trattava di un’umana. O forse, non aveva voluto crederci. L’aveva vista più volte e adesso era lì davanti a lui. E sembrava anche godere anche di buona salute. Cosa strana, visto che si trovava nella case di chi odia gli esseri umani.

 

Alessandra gli sorrise tranquilla. Aveva sempre visto il demone solo di sfuggita o da lontano. E alle descrizioni di Ayame aveva prestato solo un po’ di attenzione, giusto per non essere scortese. Però, in quel momento, guardando il ragazzo disteso nel futon, i lunghi capelli neri sciolti che gli ricadevano sulla fasciatura attorno alla spalla e al torace prestante, dovette ammettere che era molto bello. Una bellezza diversa da quella di Sesshomaru, ma sempre capace di affascinare. Se il Principe ammaliava con la sua freddezza e la purezza dei suoi lineamenti, Koga seduceva con il trasposto dei suoi occhi, con l’indole selvaggia che trasmettevano le sue membra.

 

Si riscosse quando riavvertì la voce di Ayame che cercava di nuovo di convincerlo a sdraiarsi. Lo aveva intuito dal modo in cui ne parlava, ma adesso ne aveva la conferma. Dai suoi gesti. Dal tono della sua voce. La yasha ne era innamorata. Doveva voler molto bene a quel ragazzo un po’ scontroso, ma che alla fine cedette e acconsentì alle sue pressioni.

 

E quello che era un semplice sospetto si trasformò in realtà certa quando vide Koga attirare a sé la ragazza con un trucco e baciarla con ardore. Ayame si abbandonò solo un attimo alle sue labbra. Si ricordò che non erano soli nella stanza e si allontanò da lui, imbarazzata.

 

“Ma che ti salta in mente?!

 

“Volevo solo chiarire le cose”. Lo disse con un sorriso malizioso. Ma anche molto intrigante. Che fece arrossire maggiormente la yasha e sorridere Alessandra. Li invidiava. Invidiava la luce sotto cui potevano amarsi. Invidiava la mancanza di pensieri, la spensieratezza con cui rincorrevano i loro sguardi, le loro mani.

 

Ripensò al suo rapporto con Sesshomaru. Alle sue corse nel buio perché non venissero scoperti; agli stratagemmi per incontrarsi, ai baci scambiati con timore e trepidazione. Riassaporò il desiderio di infrangere tutto e urlare forte il bene che gli voleva e la razionalità che le diceva di tacere. Di aspettare. Il bel demone era la sua vita. Colui che le aveva restituito la vita. La spensieratezza della sua età. Eppure, sapeva bene che c’erano dei punti oscuri nel loro rapporto. Qualcosa che scivola silenzioso fra le pieghe della mente, e che nessuno dei due ancora si decideva ad affrontare. Una realtà che è meglio ignorare, finchè possibile.

 

Onna! Quando potrò alzarmi?”

 

“Koga! Ma ti sembra il modo?!

 

La voce autoritaria del demone la riscosse. Come l’aveva chiamata? Neanche Sesshomaru si era mai permesso quel tono con lei e viceversa. Se adesso, il demone-lupo sperava di aver trovato una ragazza docile e remissiva solo perché l’aveva sempre vista silenziosa, si sbagliava di grosso. Raddrizzò le spalle istintivamente e gli scoccò uno sguardo duro e determinato. Uno sguardo freddo.

 

“Alessandra”

 

Si scambiarono uno sguardo ostile. Poi il ragazzo sorrise mostrando un canino appuntito. Una provocazione. Per vedere la sua reazione. La sua paura. Ayame non riusciva a capirlo. Un attimo prima stavano litigando, poi l’aveva baciata e adesso si divertiva a provocare la ragazza. Perfetto. Tutto chiaro. Le sfuggiva solo un particolare: perché? Non era da lui quel comportamento totalmente irrispettoso. Non fino a quel livello.

 

Alessandra stava sostenendo senza alcun timore il suo sguardo. Koga non credeva che avrebbe mai incontrato un’altra ningen, dopo Kagome, capace di parlargli a quel modo. Con la sfrontatezza di volerlo mettere in riga. E, in più, questa ragazza non possedeva nessun potere particolare. Era un semplice involucro di carne. Debole. Eppure, gli stava davanti come se fosse sua pari.

 

Se fosse stata l’amante di Sesshomaru il suo atteggiamento avrebbe avuto almeno un senso. Ricoprendo quel ruolo, avrebbe potuto esigere un certo rispetto. E ottenerlo. In vari modi anche. Invece, era solo l’archiatra. Allargò maggiormente il ghigno, fino a trasformarlo in un sorriso. Gli stava simpatica. Aveva coraggio. Forse, anche un po’ di follia.

 

“Va bene. Quando portò alzarmi, Alessandra?”

 

Ayame si sorprese. Non era da lui cedere a quel modo. Ma che diavolo gli passava per la testa? Lo vide tranquillo, mentre attendeva la risposta della ragazza. Forse, per un attimo aveva pensato a Kagome e aveva voluto fare un paragone. In fondo, anche lei non aveva potuto esimersi dal pensare alla strana sacerdotessa quando aveva incontrato Alessandra per la prima volta.

 

“Non molto presto, Principe”

 

Alessandra si era inginocchiata accanto al futon e stava esaminando con occhi attenti la ferita. Fortunatamente, il proiettile aveva attraversato il muscolo senza ledere ossa e organi vitali. La corazza l’aveva deviato ad arte.

 

Koga sbuffò contrariato. L’immobilità forzata non faceva per lui. Inoltre, pensò all’impegno che si era preso con l’inuyoukai. Non che fremesse dal desiderio di allenarsi con lui, ma aveva dato la sua parola. E poi…Se quell’allenamento non fosse continuato, per il Principe sarebbero stati grossi guai.

 

Bevete. Vi lenirà il dolore e impedirà che le possibili tracce di veleno agiscano”

 

Ayame gli allungò la scodella. L’odore non era invitante, ma il sapore era decisamente pessimo. Tuttavia, Koga fu costretto a inghiottire tutto, perché Ayame non allontanò il contenitore finchè non fu desolatamente vuoto. Solo allora il ragazzo potè respirare e lamentarsi per il sapore orribile, subito cancellato da quello delle labbra della yasha.

 

Ayame gli scompigliò leggermente i capelli ed uscì. Probabilmente, Alessandra aveva da chiedere qualcosa al demone, e la sua presenza li avrebbe solo distratti. Più tardi Koga le avrebbe fatto un esauriente riassunto. E guai a lui se le avesse mentito.

 

Nella stanza però era calato il silenzio. Alessandra aveva solo una cosa da chiedere, ma non voleva che il demone la prendesse male. In fondo, lo conosceva appena. Sospirò e si fece coraggio. Doveva sapere cosa ne pensava del modo di combattere di Sesshomaru

 

Koga-sama…”

 

“Non sopravviverà

 

Le parole le gelarono il sangue. Lui aveva capito tutto e le stava dicendo la realtà. Anche se adesso Alessandra si pentiva di averla voluta conoscere. Perché era una paura che prendeva forma concreta. E con lei la sicurezza di non avere una soluzione pronta. Di non poter far nulla per affrontarla. Una verità che le faceva male. Sbattuta in faccia come uno schiaffo. E che più di tutto doveva angosciare terribilmente Sesshomaru.

 

“Se non continua ad allenarsi come in questi ultimi giorni, non ce la farà”

 

Koga si era voltato verso di lei. E come già Kumamto, si sorprese nell’incontrare uno sguardo buio e freddo. Un cielo privo di stelle. Sembrava che quella ragazza non sapesse piangere. Che nulla riuscisse a farle perdere una freddezza e una lucidità davvero invidiabili. Se fosse stata un demone, sarebbe stata molto potente.

 

Ayame era un demone completo, eppure Koga ricordava bene come aveva pianto di gioia quando lui aveva ripreso conoscenza. Il pianto di una bambina. Molto umano. Infinitamente dolce. E ora, quella ragazza, che di disperarsi aveva mille ragioni, se lui aveva capito davvero cosa il bel demone significasse per lei, stava silenziosa e assorta.

 

Prima, l’aveva provocata apposta. Per saggiare il suo carattere. Per metterla alla prova. Per vedere se era solo un fantoccio debole e insignificante, come aveva sentito a corte, o se aveva una sua personalità, come invece sosteneva Kumamoto. Esame superato. Non era forte, ma non era neanche debole. Una forza latente. Una delle più pericolose.

 

Gli era simpatica. Gli ispirava tenerezza. Un po’ come Ayame. Forse perché gliela ricordava. Nel colore simile di capelli. Nel dolore che entrambe conoscevano: stavano accanto a due uomini che, per posizione, imponevano loro di essere sempre controllate e rigide. E Alessandra più ancora di Ayame, che almeno poteva godere dell’appoggio del nonno e di molti nella tribù. La ragazza invece era perlopiù sola. Il Principe non si sarebbe mai potuto esporre in prima persona. Non in un momento come quello.

 

Sempre che quel ghiacciolo possa provare davvero qualcosa per lei…

 

“Principe…”

 

Il ragazzo scosse la testa. Non gli piacevano i titoli. Gli erano sempre andati stretti. Preferiva il suo nome. Schietto. Diretto. E glielo disse: voleva che lo chiamasse semplicemente così. Koga. Come se fosse un amico. Alessandra sorrise. Non lo avrebbe considerato un amico; non subito almeno. Ma sentì di potergli dare un po’ di fiducia. In fondo, anche con Sesshomaru non aveva mai tenuto le distanze. A parole, il dargli sempre del tu era stato un modo per stupirlo e imporgli il suo pensiero.

 

“Non prenderla male, ma…Esiste qualcuno che potrebbe sostituirti?”

 

Koga chiuse gli occhi. Voleva riflettere. Non era facile come risposta. Dunque, Sesshomaru, anche se cieco, era fortissimo. No. Il punto non era aumentare la sua forza. Ci voleva qualcuno che non temesse nell’attaccarlo; capace di effettuare attacchi da più parti, magari senza coerente prevedibilità. Che fosse forte, e al tempo stesso veloce per simulare un attacco su più fronti. In definitiva, erano requisiti da poco, ironizzò fra sé l’ookami: Facilissimo trovarne uno così. In realtà non aveva idea si dove diavolo cercarlo. Sarebbe equivalso a trovare un ago in un pagliaio.

 

Poi, si ricordò di un legame. Di una parentela. Forse, aveva trovato il candidato giusto. Un po’ difficile da convincere, ma la ragazza seduto accanto a lui ci sarebbe riuscita. E così, avrebbe anche potuto ringraziarlo per quel maledetto consiglio. Perché se adesso era con Ayame, in parte lo doveva a lui.

 

Sorrise tranquillo, regalando con la sua risposta un po’ di fiducia anche ad Alessandra.

 

“Sì”

 

*****

 

La porta si aprì silenziosa nella notte.

Koga si rigirò sotto le coperte. Si era appena addormentato. Cosa diavolo era successo perché lo svegliassero a quell’ora? Almeno i feriti avrebbero potuto farli riposare, in quel castello. Invece, neanche quello. Sperò solo che non ci fossero problemi al campo. Perché di alzarsi per andare a risolverli proprio non ne aveva voglia. In più, se Ayame avesse scoperto che aveva lasciato il letto, poteva iniziare a invocare clemenza.

 

Il silenzio prolungato lo spazientì e lo fece girare, imprecando in modo non proprio amichevole. Era davvero scocciato. Ma trattenne ogni parola quando si rese conto di chi era. L’ultima persona al mondo che si sarebbe aspettato.

 

Sesshomaru richiuse la porta in un fruscio leggero. Solo una domanda. Doveva sapere solo una cosa. Per riuscire a comprendere esattamente quel demone-lupo. O rischiava di impazzire.

 

“Perché?”

 

Koga lo guardò. Alla luce della luna che filtrava dalla finestra i capelli del demone risplendevano come neve, dandogli una parvenza perfettamente eterea. Simile a quella di un’altra persona in un suo ricordo lontano. Sì. Sesshomaru, per quel che riusciva a ricordare di lui, assomigliava molto al padre. Di sfuggita si sarebbero anche potuti confondere. Ma forse stava esagerando con le sue elucubrazioni. In fondo, la seconda e ultima volta che aveva visto Inutaisho aveva solo quindic’anni. Praticamente un bimbo piccolo.

 

Sesshomaru non aveva pronunciato nient’altro. Era chiaro che era l’unica cosa che gli premeva sapere. Da quella risposta, forse, si sarebbe deciso il loro futuro rapporto. E anche la possibilità di restare dentro il palazzo. Koga sapeva perfettamente che se si trovava lì e non nella sua tenda all’accampamento lo doveva ad Alessandra e non certo ad un ordine del Principe. In fondo, a lui i giardini interni erano stati preclusi. E giardini uguale ali del secondo corpo dell’edificio. Poteva accedere a ogni parte dei luoghi principali, ma non agli appartamenti del Principe come gli altri generali.

 

Koga si mise faticosamente a sedere. Avrebbe voluto alzarsi, ma non ci riuscì. Una risposta. Una risposta…ma per dire cosa? Che neanche lui lo sapeva bene il perché? Che aveva agito di riflesso?

 

“Per rispettare una promessa”

 

Un sorriso malinconico sulle labbra. Sesshomaru assottigliò le iridi vuote. Non gli piaceva non capire. E odiava dover far domande perché gli altri si spiegassero. Quello era un gioco che solo ad Alessandra era permesso.

 

Koga se ne accorse. Aveva gettato la pietra. Ora, non poteva ritirare la mano. Doveva raccontare tutta quella vecchie storia. Che Sesshomaru sembrava non conoscere.

 

“Tuo padre salvò la vita al mio un giorno, in battaglia. Ho solo restituito il favore”

 

Silenzio. Nessuno aggiunse altro né commentarono. Solo il sussurro lieve del vento e l’ululato dei lupi che, dall’accampamento, chiamavano il loro signore. Sesshomaru si riscosse dai sui pensieri e si voltò, aprendo la porta. Ma non uscì subito.

 

“Appena ti sarai rimesso, riprenderemo l’allenamento”.

 

Tentennò ancora un attimo. Ormai, era tempo che Rin superasse le sue paure. In fondo non le avrebbe affrontata da sola. Ci sarebbe stata Alessandra con lei, e anche lui. Sì. Era tempo. Avrebbe informato la ragazza, e avrebbe sentito la sua opinione. Ma quelle parole gli uscirono spontanee delle labbra.

 

“Spero che presto sarai in grado di venire a far rapporto nei miei appartamenti, generale”

 

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Capitolo 31
*** 31. RIFLESSIONI ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!!!

 

Sono appena rientrata dall’università dopo il primo esame della sessione invernale (ancora due e per un po’ sono tranquilla) e per festeggiare il bel risultato vi invio DUE capitoli. Fatemi sapere cosa ne pensate!!!

 

Grazie infinite a chi legge e commenta e anche a chi legge soltanto.

 

Buona lettura!!!

 

 

 

CAPITOLO 31

RIFLESSIONI

 

 

Shin vegliava nella notte.

Le sorti di quella guerra, non ancora incominciata, ma che si prevedeva dura e sfibrante, erano certe per tutti: vittoria. Ma non per lui. Più volte, nel corso degli scontri ormai quasi giornalieri con un qualche gruppo di esploratori, si era sentito sull’orlo della sconfitta e dell’umiliazione. Non fisica però. Con i fucili che possedevano, erano i loro avversari ad avere sempre la peggio. No. La sua sconfitta era personale, e per questo più lancinante. Ad ogni colpo, ad ogni proiettile, si spegneva una parte di lui. Perdeva se stesso. Quello che era e che gli avevano insegnato. Tradiva.

 

Si stava riscattando dall’umiliazione, stava eseguendo ogni ordine in modo impeccabile: lui era l’erede, e nessuno avrebbe più potuto dire che non era degno del padre e a lui devoto. Nessuno. Eppure…Eppure, non riusciva a chiudere occhio per la sensazione di nausea e abbrutimento che gli opprimeva il cuore.

 

I suoi uomini avevano acceso un falò al centro del piccolo accampamento, e lui aspettava la luce dell’alba con tutti i sensi tesi allo spasimo. La notte buia, le ombre incerte e inquietanti del bosco, la nebbia leggera che sfumava i contorni. Lui era visibile, ma il nemico avrebbe potuto nascondersi nell’ombra. Si trovava nel territorio dell’Ovest. E come lui, molti altri gruppi erano stati sparpagliati in ricognizione. Due scopi: creare scompiglio e verificare le condizioni geomorfe. Per preparare l’assedio bisogna conoscere il terreno, la dislocazione dei corsi d’acqua, la disposizione del palazzo avversario.

 

Non aveva fretta. Morigawa scalpitava per uccidere il Principe, ma non si sarebbe buttato allo sbaraglio. Era pur sempre un generale pieno di esperienza. E quello che voleva era una battaglia monumentale, che sarebbe per sempre rimasta nella memoria di tutti. Un ritorno a trionfatore.

 

Shin però non riusciva più a condividere i suoi progetti. Ormai da tempo. Era cresciuto per quello, a quello era stato preparato: vendicarsi dell’umiliazione dell’esilio. Per anni, non aveva avuto altro scopo. Poi, all’improvviso, qualcosa era crollato, e non era più riuscito a riconoscere suo padre. In lui non aveva più trovato il signore, ma il tiranno. Con un viso deformato del rancore, dall’odio dal desiderio di dominio. Dall’invidia. Non lo aveva più riconosciuto.

 

E poi, c’erano quelle parole. Quelle dell’ombra di Inutaisho. Non le capiva; gli rimbombavano nella testa continuamente, ma non avevano mai senso. Odiava quella situazione. Con il tarlo del dubbio nella mente, costretto a sottostare agli ordini di un essere che gli dava la nausea, obbligato a cancellare orgoglio e dignità per non inimicarsi la sua stessa gente.

 

Stava facendo la cosa giusta? Aveva davvero senso quella guerra, o era una chimera partorita dalla mente di un uomo che non riusciva più a riconoscere? Si passò una mano sul braccio. La ferita era scomparsa. Ma un’altra, più profonda, gli sanguinava nell’anima.

 

Si era scontrato con un vecchio generale, e aveva avuto la peggio. Sconfitto. Il nemico era riuscito a metterlo in difficoltà, a disarmarlo e costringerlo con le spalle a terra. Ma non lo aveva ucciso. Aveva visto negli occhi di quell’youkai un lampo sorpreso. Quasi di incredulità. Lo aveva visto allontanare la katana, ignorando i suoi inviti a ucciderlo e andarsene. Lo aveva risparmiato. E lui non aveva avuto la forza di sparargli. Benché portasse una pistola alla vita.

 

Perché non lo aveva ucciso? Sembrava incapacitato a farlo. Come se avesse visto un fantasma. Non sapeva perché quel generale non lo avesse finito, ma di una cosa era certo: lo aveva già visto. Anche se non ne ricordava il nome né il volto. Forse non era neanche lui. Però, le sensazioni che aveva provato nell’incrociare i suoi occhi erano le stesse che sentiva quando ricordava una figura sbiadita del suo passato. Prima dell’esilio.

 

Scosse la testa. Voleva pensare ad altro, per distrarre la mente e alleggerire il cuore. Pensieri diversi dalla guerra e dalla fatica della lotta. Diversi dai dubbi. S trovò a ripensare allora alle montagne della sua casa, nel Continente. Alle battute di caccia e agli allenamenti lontani dell’infanzia. Pensava ai suoi fratelli. A quello che avevano passato assieme; al suo orgoglio per loro. E al segreto che lui solo sapeva, fra loro. Loro…il loro patto…Quella guerra adombrava più segreti e verità di qualsiasi intrigo. Era un gioco di scacchi, in cui ad ogni mossa si deve rispondere in modo calcolato. Un solo pezzo perso o conservato poteva decidere le sorti di tutto. E fra loro tre c’era un pezzo che poteva diventare incerto.

 

Ma chi stava giocando? Suo padre? O forse era Naraku a farlo? L’hanyou giocava con lui, questo era certo. Sfidando il fuoco. Perché Shin non era certo di riuscire ancora a lungo a sopportare la sua infida boria, la sua malcelata sfacciataggine, nascosta sotto un’umiltà e una reverenza false e striscianti. Subdole.

 

Pensava anche a sua madre. Non la vedeva da mesi. E quando la immaginava seduta nella sua stanza solitaria a creare composizioni floreali, sentiva che c’era ancora un bambino nascosto in lui. Il bambino che trasaliva istintivamente nella notte se l’urlo improvviso di un uccello notturno echeggiava nel cielo cavo e vuoto.

 

Si riscosse all’improvviso, quando una mano gli si posò sulla spalla. Aveva trascorso nei suoi pensieri un tempo che gli sembrava indeterminato. Infinito.

 

Koji…Sei tu?”

 

Il fratello gli porse una ciotola calda. “Mangia qualcosa. Yashi l’ha fatto cucinare per te e l’ha mandato qui con un portaordini”

 

“Che cos’è?”

 

Kake soba. È buono: ne ho assaggiato un po’”. Shin sorrise malinconico. Solo suo fratello era capace di preoccuparsi così per lui. Mandare un soldato allo sbaraglio nella notte, in territorio nemico, con il solo scopo di fargli avere un piatto caldo. Solo lui era capace di quello. Prese la scodella e iniziò a mangiare, lentamente.

 

“Non è male. Te ne lascio un po’?”

 

Koji annuì. “Come ai vecchi tempi, quando eravamo in montagna. Per l’addestramento”

 

“È vero. Ma chi l’ha mai visto allora un piatto caldo?”

 

“Già…”

 

“Rimpiangi quel tempo, Koji?”

 

“No, no di certo. Però lo ricordo con piacere. Eravamo solo tu, io e Yashi contro tutto il mondo”. Gli appoggiò una mano sulla testa e gli arruffò i corti capelli neri. “Adesso è diverso. Mi chiedo se succederà mai più”

 

“Che cosa?”

 

“Che saremo di nuovo liberi, noi tre soli”

 

“Accadrà. È per questo che combattiamo”

 

Almeno voi sarete liberi. Io invece…

 

Koji si chinò ad attizzare il fuoco con la punto della spada e Shin vide che un oggetto luccicante gli pendeva dal collo: una piastrina d’oro, un terzo di un cerchio, con incisi dei simboli tronchi. Si portò una mano al petto, là dove anche lui portava un oggetto identico. Ricordò il giorno lontano in cui, ragazzi, si erano scambiati la loro promessa e avevano spezzato in tre parti uguali quel ciondolo. L’emblema della sua famiglia, che avrebbe dovuto portare solo lui.

 

“Fino alla morte?” aveva chiesto.

 

“Fino alla morte” avevano risposto Yashi e Koji.

 

*****

 

“Che cosa significa?”

 

La voce gli giunse leggermente alterata. E lo sorprese. Non si aspettava che sarebbe venuta. Non così presto almeno. Licenziò l’attendente e si voltò verso la donna.

 

Vestiva un kimono semplice e al contempo prezioso, ideale per viaggiare. Non si era neanche cambiata. Doveva essere appena arrivata. E lui era contento di rivederla. Dopo quei mesi.

 

Yashi si alzò dal cuscino e le si avvicinò. Avrebbe voluto abbracciarla, ma non era più un bambino. Erano anni che non riceveva un abbraccio da lei. Però, in quel momento lo desiderò. Non era cambiata per nulla dai suoi ricordi di bambino. Era sempre bellissima. Con i lunghi capelli biondi raccolti in una treccia e gli occhi di un viola profondissimo. Occhi di velluto. Potevano essere dolcissimi o fissarti con uno sguardo tanto penetrante da farla apparire un ashura o un’altra creatura degli inferi.

 

“Madre…”

 

Voce soffocata. Un rantolo. Per fermare le lacrime in gola. Quelle lacrime che l’youkai non versava da anni. Da secoli. Che si era promesso di dimenticare dopo quel patto. E che adesso invece gli inumidivano gli occhi. Come quando era ancora piccolo.

 

Si era inginocchiato e le aveva poggiato la testa in grembo. E adesso sentiva la sua mano accarezzarlo per tranquillizzarlo. La yasha si era sorpresa molto quando le avevano detto che nello studio del luogotenente non c’era suo figlio, ma un hanyou di nome Naraku. Che Shin non era al castello, ma in missione nel territorio nemico, con Koji. E che lì era rimasto solo Yashi, che ora non solo ricopriva un posto che sarebbe spettato al fratello, ma anche che era da tutti trattato come il principe ereditario.

 

Sentì suo figlio tremare impercettibilmente, nel tentativo di trattenere lacrime che non avrebbe mai versato. Perché si sentiva colpevole. Colpevole del posto che ricopriva. Colpevole per non esser potuto intervenire mentre Shin veniva disonorato. Colpevole e impotente. Inutile.

 

Non lo voleva quel posto. Quelle responsabilità. Era Shin l’erede. Solo lui. E lui, che già sopportava a fatica di prender ordini da qualcuno che non fosse il fratello, si era ritrovato con il potere di darglieli. Non avrebbe voluto accettare, ma non aveva neanche potuto rifiutare. Meglio lui, che qualcun’altro. Qualcuno che avrebbe potuto gettare nuovo discredito su suo fratello.

 

Kyoko gli sedette davanti e lo abbracciò forte. Quel ragazzo le assomigliava molto. Per aspetto e carattere. Come lei, era impulsivo e passionale. Seguiva l’istinto. E si fidava delle sue percezioni. Anche se, all’occorrenza, il buon senso e il sangue freddo non mancavano mai. Yashi era la sua copia al maschile. Ma questo non significava che lo amasse più degli altri. Solo, riusciva a capirlo meglio. A leggere dentro di lui come non riusciva invece a fare con Shin.

 

“Va tutto bene…Tranquillizzati…”

 

Yashi si sentiva proprio come quando era un bambino e temeva che suo fratello fosse arrabbiato con lui. Per la sua ennesima trovata, che aveva messo tutti nei guai. Lui progettava ogni tipo di scherzo e puntualmente riusciva a trascinarci dentro anche Shin, regalandogli una parentesi d’infanzia. Quella che lui non aveva avuto come erede. Forse era per quello che, scoperti, il fratello maggiore si addossava sempre tutte le responsabilità. Per ringraziarli.

 

In quelle occasioni, Yashi si rifugiava dalla madre, e le raccontava tutto. Con gli occhi lucidi, mentre Koji non poteva trattenere le lacrime. Le diceva di sentirsi in colpa, che Shin non aveva fatto niente e che non voleva che si arrabbiasse con lui. Che era pronto ad andare da suo padre e accettare qualsiasi punizione. Voleva solo che Shin non fosse arrabbiato con lui. Per le sue trovate che gli costavano quasi sempre una frustata.

 

Accadeva così, e puntualmente Shin, scontata la punizione, li raggiungeva che ancora piangevano dalla madre. E poi, li abbracciava. Si metteva Yashi sulle spalle e prendeva Koji per mano. Se ne andava così, dopo aver scambiato uno sguardo intenso con sua madre. Loro non avevano bisogno di parole.

 

Kyoko conosceva il suo primogenito. Ed era orgogliosa di lui. E molto preoccupata. Perché, anche se fra Shin e i suoi fratelli c’erano solo settant’anni, lui sembrava molto più vecchio. Si preoccupava di loro come un padre, più che come un fratello. Era stato il loro maestro, aveva insegnato loro tutto quello che lui stesso aveva imparato.

 

Shin era una persona orgogliosa e sempre calma. Testarda, e poco esperta del mondo. Imprigionata in sogni e visioni di grandi battaglie. In una vita di leggende. Quelle della sua infanzia. Era triste. Perché lui aveva avvertito molto bene la rottura di qualcosa, dopo quella notte maledetta.

 

La yasha riuscì a tranquillizzare il figlio. E si fece raccontare tutto quello che era successo mentre lei era rimasta nel Continente. Yashi vide lo sguardo di sua madre indurirsi, fino a diventare penetrante e pregno di soggezione. Non le aveva mai visto gli occhi così cupi. Quello era lo sguardo di Shin, quando la rabbia si impossessava di lui. Il viola profondo virava fino al nero, e il suo corpo sembrava pervaso da una calma innaturale. E ora, sua madre aveva la stessa espressione in viso, i lineamenti regali fermati in una maschera di marmo. Ne ebbe paura.

 

Kyoko lo fissò; era tornata la guerriera di molti secoli prima. La sovrana di youkai fieri e ribelli. La demone capace di rivaleggiare con gli uomini nel comando e nella scherma. Potente. Altera. Fiera. Morigawa era cambiato. Troppo, perché si potesse tornare indietro. Era solo un demonio vendicatore. Neanche più un essere vivente.

 

Non era servito. L’esilio, la battaglia, le sofferenze di quei secoli…tutto in fumo. Annullato da una volontà folle impossibile da piegare. Incrollabile. Era perduto. Imprigionato nel suo delirio di potenza e dominio. Incapace anche solo di riconoscere i figli che tanto amava. Figli ridotti a pedine su una scacchiera contro ombre del passato.

 

Non era più tempo di provare. Ora, era tempo di agire, di soffrire anche. Tutto, purchè i suoi figli uscissero da quell’inferno e l’unico modo era trovare lui. Lui che aveva le chiavi di tutto. Lui che solo sapeva tutto.

 

“Preparati. Mi devi accompagnare in un luogo”

 

*****

 

Koga…

 

Non se lo era aspettato. Era qualcosa di imprevisto. Che lo aveva colto di sorpresa e lo divertiva parecchio. Anche se rischiava di compromettere lo svolgimento del suo piano. Ma non importava. In fondo, in quel modo avrebbe ottenuto il suo scopo più in fretta. Tanta fatica risparmiata, insomma.

 

Naraku sogghignò, seguendo i movimenti lenti della donna davanti a lui. Non si sarebbe mai aspettato di vedere il Principe degli Yoro su quel campo di battaglia. E soprattutto non avrebbe mai immaginato che avrebbe protetto con il suo copro Sesshomaru. In fondo, nulla li legava. Stando a quanto gli era stato detto, solo un vecchio patto, neanche stretto direttamente da loro.

 

Quando aveva riferito a Morigawa che la sua preda si era salvata, l’youkai si era adirato. Sembrava una belva ferita, preda di una furia cieca. Aveva distrutto tutto il mobilio pregiato dello studio e poi si era avventato anche su di lui, stringendolo al collo per soffocarlo. Naraku comunque era rimasto calmo. Non sarebbe bastato quello a ucciderlo. E poi, una notizia positiva l’aveva. La conferma di voci che da un po’ circolavano, dopo gli scontri che altri drappelli avevano avuto con il Principe: Sesshomaru era cieco. Una preda facile quindi.

 

Morigawa  era sembrato essersi ripreso all’improvviso. Aveva continuato a chiedere sempre maggiori dettagli dello scontro. Era chiaro che in futuro non gli avrebbe permesso di affrontarlo nuovamente con l’intento di ucciderlo. Sesshomaru era una sua preda e solo lui avrebbe potuto decidere come e quando doveva morire. Altrimenti, la sua vendetta non lo avrebbe appagato. No, non gli bastava vederlo agonizzante nella polvere; voleva restituirgli le angherie e le umiliazioni che suo padre gli aveva inflitto.

 

Il nome di Koga era sfuggito alle labbra dell’hanyou e il demone si era fermato di colpo, rincorrendo un lontano ricordo. Koga…Koga…Dove l’aveva già sentito quel nome? Perché gli suonava così famigliare? Poi, aveva ricordato. Capelli neri lunghi e occhi azzurri. Hidoshi. Quello doveva essere il figlio di Hidoshi. Di un altro “vecchio amico”. Di un altro traditore.

 

“Sarà ancora più divertente…”

 

Naraku chiuse gli occhi. Quel demone era pazzo. Folle di odio e assetato di vendetta. Ormai incapace di distinguere la realtà dai suoi deliri mentali. E un pazzo va assecondato. Soprattutto se possiede la lucidità di ordire e attuare un piano di quella portata. Studiato nei minimi dettagli per uccidere Sesshomaru. Anche se la situazione estremamente propizia la doveva a lui. O meglio, a un composto chimico.

 

Tornò a concentrarsi sulla donna. Yaone si muoveva a suo agio fra alambicchi e provette, mescolando polverine finissime con composti liquidi. Agitando i contenitori alla sola flebile luce di una fiamma azzurra. Spettrale.

 

Naraku non era riuscito ancora a capire cosa fosse. Era fredda come un cadavere, se ferita non sanguinava, se colpita non moriva. Eppure, odorava di essere vivente, il suo cuore pulsava e da lei emanava un’aura estremamente potente.

 

“C’è antidoto?”

 

La yasha fermò il movimento lento del polso. Non le piaceva che la disturbassero mentre stava lavorando. Quando era intenta a parlare con i suoi composti alchemici, a conversare con loro sull’eternità del nulla e sulla mutevolezza del tutto. Mentre ripercorreva le tracce della sua vita, perdendosi nel buio del passato e naufragando nell’inconsistenza del futuro. Mentre annegava nella vita.

 

“No”

 

Ne era certa. La formula che aveva trovato prosciugava i demoni del loro youki appena entrava in contatto con il loro sangue. In dose massiccia, anche solo attraverso la pelle. In dose ridotta, poteva avere gli effetti di un acido estremamente potente, e comunque indeboliva il potere rigenerativo dei corpi, paralizzava le qualità demoniache. Si sarebbe potuti sopravvivere, ma certamente non indenni.

 

“Sesshomaru però è vivo. E il tuo intruglio lo ha solo accecato”

 

Naraku si sorprese della reazione della yasha. Aveva creduto che sarebbe scattata con voce isterica, che gli si sarebbe scagliata addosso e avrebbe cercato di ucciderlo. In fondo, la stava offendendo. Le stava dando dell’incapace e stava dubitando delle sue parole. Invece, Yaone si limitò a posare il contenitore e a regolare con calma la fiammella azzurra.

 

“Dimentichi che era un filtro modificato. Avresti dovuto farglielo bere, per poi assorbirlo. Non rovesciarglielo addosso”

 

Si voltò verso di lui e gli si avvicinò fissandolo con i suoi occhi bicromi. Uno sguardo troppo conciliante per essere innocente. Uno sguardo pericoloso. L’hanyou si irrigidì, anche se non lo diede a vedere. Non aveva paura della demone, ma doveva ammettere che gli metteva soggezione. Che era capace di stordirlo come neanche Kikyo era mai riuscita a fare. Non la temeva, eppure sentiva un brivido percorrergli la spina dorsale.

 

“Non si scherza con me”

 

Yaone gli sfiorò una guancia con la mano, per poi dargli un bacio leggero. Insensato. Fu un attimo, e con quelle labbra calde ancora sulle sue, Naraku sentì il suo respiro fermarsi. Spalancò gli occhi, incredulo. Non respirava. Non riusciva a muoversi. Era solo fermo. Immobile. Il cuore lentamente cessava di battere. Percepì un gelo bruciante invaderlo, trascinarlo verso un buio opprimente. Sensazioni confuse, distanti.

 

Si accasciò a terra liberando un respiro profondo e tossendo in modo convulso. Si portò una mano alla bocca. Sangue. Stava tossendo sangue. E una debolezza incredibile pervadeva ogni parte del suo corpo. Riuscì appena ad alzare la testa. Sopra di lui, Yaone lo fissava, l’occhio verde ancora acceso di un riverbero di smeraldo.

 

“Cosa diavolo…”

 

“Ti avevo avvertito. Io non gioco mai. Non con l’alchimia”

 

Per la prima volta in vita sua, Naraku si sentì perduto. Quella dannata yasha possedeva qualcosa di sovrannaturale. Qualcosa che non avrebbe mai neanche immaginato: un corpo immortale, anche se era diverso da quello di Kaguya. Era vita e morte al contempo.

 

Aveva perso. E ora lo avrebbe ucciso. Lui, il grande Naraku, morto per mano di una donna. Di una insignificante yasha. Avrebbe potuto trasformarsi, ma non sarebbe servito. Era troppo debole. La vide piegarsi su di lui e la sentì sfiorargli le labbra con due dita. Lo aveva costretto a inghiottire qualcosa grande come un chicco di melagrana.

 

Fu colto da spasmi violenti, i muscoli si tiravano in modo lancinante, ma lui non poteva muoversi. Apriva la bocca per gridare, ma non aveva voce. Cercava di muoversi, ma era bloccato a terra. Con gli occhi inespressivi di Yaone puntati addosso. Si stava godendo lo spettacolo. La sua fine disonorevole. Assurda.

 

Con una fitta più forte si contorse su se stesso, scoprendo di riuscire di nuovo a controllare il suo corpo. E che il dolore stava svanendo. Riuscì a mettersi seduto, e poi a trascinarsi in piedi. Sempre sotto gli occhi di quella maledetta femmina. Umiliato. Sconfitto.

 

“Ora hai capito”

 

Yaone gli voltò le spalle e tornò a concentrarsi sui suoi alambicchi, ignorandolo completamente. Nessuno poteva sperare di insultarla e passarla liscia. Nessuno. Ma lui le serviva ancora. Doveva darle la sfera. Le serviva vivo. E poi, le aveva fornito una notizia interessante. Esisteva qualcuno che conosceva una cura per il suo veleno. Un alchimista molto potente, di certo.

 

Sbirciò con la cosa dell’occhio Naraku che ancora faticava a mantenersi in piedi. Forse, lui lo sapeva chi aveva curato l’youkai. E appena lo avesse scoperto, gli avrebbe inviato i suoi fedeli. Perché gli consegnassero un invito a palazzo.

 

“Chi c’era con lui quando lo hai attaccato?”

 

Naraku sorrise. Allora, era vero che il suo filtro non aveva avuto l’effetto desiderato. Buono a sapersi. Però, con lei non avrebbe potuto ricorrere al ricatto o ai suoi soliti sistemi. Già in quel momento, se era ancora vivo, lo doveva al fatto che lui possedeva la sfera e che Yaone la voleva. Ma da sola non l’avrebbe mai trovata, perché l’aveva nascosta molto bene e in un luogo noto a lui solo.

 

In fondo, quella yasha gli piaceva. Gli assomigliava. E poteva rivelarsi molto utile. Un tassello prezioso nel suo puzzle. Aveva fatto ingelosire Kagura, tanto che la demone scalpitava per poter di nuovo combattere. Non l’aveva mai vista così pronta ai suoi comandi. Se si trattava si attaccare Sesshomaru, con la possibilità di incontrare anche quella ragazza, non ribatteva nulla e obbediva subito. Solo, gli aveva chiesto che la ragazza fosse una sua preda.

 

Il sorriso dell’hanyou si allargò di più. Aveva deciso. Avrebbe usato lo stesso stratagemma. Avrebbe fatto leva sull’invidia femminile. Sulla gelosia. Così avrebbe avuto più possibilità di ottenere la sua preziosa pedina umana.

 

Glielo disse, e intimamente godè nel vedere la sorpresa e lo stupore impadronirsi dei lineamenti della yasha. Significava che aveva fatto centro: non si aspettava quella risposta, e presto allo sgomento si sarebbe sostituita una vendetta fredda e spietata.

 

“Una ningen”

 

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Capitolo 32
*** 32. AIUTAMI ***


CAPITOLO 32

CAPITOLO 32

AIUTAMI

 

 

Il cucciolo ruzzolò nella neve. Si alzò, riprese la sua corsa e finì nuovamente in un mucchietto freddo e bianco. Rin gli si gettò sorridendo accanto, lo liberò dalla neve e lo prese in braccio. Le piaceva quel cucciolo, era un compagno di giochi infaticabile. Si divertiva a rincorrerlo, a gattonare con lui per il giardino innevato o nella sua stanza. Soprattutto, le piaceva quando giocavano a nascondino.

 

Era una presenza che le metteva allegria, che le faceva dimenticare la solitudine di certe giornate. Non sapeva il perchè, ma Sesshomaru era sempre impegnato e anche Alessandra non riusciva a trascorrere molto tempo con lei. Aveva già visto il suo signore preso da affari di palazzo, ma mai come in quelle settimane. E poi, c’era molta più gente al castello. Persone che non aveva mai visto. Inoltre, i giardini esterni erano stati chiusi. Al loro posto, adesso, c’era una distesa immensa di tende.

 

Prese in braccio il cucciolo e si avvicinò ad Ayame, inginocchiata nella neve. Le stava simpatica quella ragazza. E poi, le insegnava a parlare con il suo piccolo amico. Adesso, non le facevano più paura i lupi. Anche la ragazza era un lupo, ma non era cattiva. Era buona. E molto simpatica.

 

“Penso che domani potrai alzarti. Ma niente sforzi eccessivi”

 

Koga si voltò verso il medico. Alessandra si era presa cura personalmente di lui, durante quei tre giorni, e adesso lui stava molto meglio. Si richiuse il kimono e tornò a fissare lo sguardo sulla bimba e su Ayame. La yasha aveva creato un’intesa perfetta con Rin; erano complici in tutto, particolarmente si divertivano a esasperarlo. Non lo lasciavano riposare, lo volevano accudire fino quasi a farlo soffocare con le loro premure, lo costringevano a mangiare minestre e decotti che gli lasciavano sempre lo stomaco vuoto. Ma guai a obiettare: quelli erano gli ordini del medico e andavano eseguiti.

 

Alessandra, intanto, si era seduta sulla veranda e indugiava sulla neve cosparsa di mille impronte. Sarebbe dovuta tornare a studiare, perché era cosciente che solo preparandosi continuamente avrebbe potuto far fronte alle sue responsabilità. Per non deludere la fiducia che Sesshomaru aveva riposto in lei. Ma non subito. Non ce la faceva.

 

Il suo Principe…Era preoccupata per lui. Non ne avevano più parlato, anche perché il demone rientrava sempre tardissimo nei suoi appartamenti e lei non voleva disturbarlo. Questo però non evitava che lei si sentisse in agitazione. Era stato costretto a interrompere gli allenamenti. Un rischio. Perché l’ookami era stato chiaro: Sesshomaru non era in grado di combattere in campo aperto. L’allenamento non avrebbe potuto che giovargli, ma le condizioni di Koga non avrebbero permesso una ripresa almeno per una settima ancora.

 

“Andrai a cercarlo?”

 

La domanda la strappò ai suoi pensieri. Koga continuava ad accarezzare con gli occhi la figura di Ayame, che adesso stava insegnando a Rin cosa dire per richiamare il cucciolo. Gli occhi del demone erano di solito sfacciati, ma quando si posavano sulla ragazza mutavano profondamente. Erano dolci, languidi. Alessandra ripensò alle iridi vuote di Sesshomaru. Al suo viso altero e freddo, alla dolcezza di un sorriso che di rado gli increspava le labbra. Anche nei suoi sentimenti era sempre controllato. Eppure, lei era cosciente del fatto che in lui qualcosa era cambiato. Lentamente, si stava trasformando.

 

Sospirò. In quei tre giorni vederlo anche solo di sfuggita era stato quasi impossibile. Lo incrociava per i corridoi, lo intravedeva nella piazza d’armi o nell’accampamento. Ma sempre da lontano o quando era in compagnia di altri ufficiali. Avrebbe potuto andare da lui con una scusa, ma preferiva evitare le stanze pubbliche della corte. Il disprezzo e l’invidia nei suoi confronti si facevano sempre più palpabili. Le ignorava, ma non poteva non vedere le occhiate ambigue che le demoni del palazzo le rivolgevano.

 

Le voci circolavano ancora, e Alessandra si sentiva anche un po’ colpevole perché aveva ceduto al demone, e dormiva con lui ogni volta che potevano. Era ridicolo, eppure non poteva evitare di sentirsi in imbarazzo. Non facevano nulla di male o di compromettente. Semplicemente, parlavano avvolti dalla notte o si saziavano dei rispettivi silenzi. Nulla di più.

 

Era stanca di quella situazione. La sopportava e l’avrebbe sopportata ancora, ma non poteva evitare quel senso di fastidio che le cresceva dentro. Lì, lei era meno di niente. Un oggetto agli occhi dei più. Quello che provava, quel sentimento dolce e intenso che le faceva battere il cuore…quello era un qualcosa di proibito fra quelle mura. Aveva colto frammenti di dialoghi fra cortigiani, e quello che aveva capito non le era piaciuto molto. Anche se era l’archiatra, la sua presenza era tollerata appena. E quel disprezzo era dovuto solo al fatto che era umana. Solo per quel motivo.

 

Poi, aveva sentito di un errore. Commesso dal padre di Sesshomaru. Un errore che adesso si temeva che il figlio ripetesse. Si passò una mano fra i capelli. Troppe domande. Mal di testa. Cosa doveva fare? Ignorare tutto e vivere concentrata solo su di lui o cercare quelle risposte? Anche a costo di sentire cose di cui poi si sarebbe pentita?

 

L’esclamazione di Koga la svegliò dalle sue riflessioni. Non gli aveva neanche risposto. E lui non aveva insistito. Lo osservò mentre cercava di liberarsi del cucciolo e di Rin, che gli era saltata addosso e cercava di convincerlo a uscire in giardino.

 

Era strano vedere la bimba abbracciare e scherzare con l’ookami. Ma era anche un segno positivo: voleva dire che non lo temeva più. Che aveva vinto la sua paura. Alessandra ricordava bene come, tre sere prima, Sesshomaru si fosse infilato nel suo letto a notte inoltrata. L’aveva spaventata, perché non lo aveva sentito entrare, avvolta dal sonno. Il demone si era limitato a stendersi accanto a lei e per svariato tempo non aveva parlato. Sembrava intento a costruire parole nella sua mente, per riuscire a esprimersi. Quando Alessandra gli vedeva quell’espressione seria e immutabile sul viso, poteva significare solo due cose: rimproveri in vista o si stava preparando a parlare.

 

Alla fine, il demone le aveva raccontato la storia di Rin, di come l’avesse salvata dalla morte e della paura della bimba per i lupi. E le aveva spiegato anche il ruolo di Koga in tutta quella vicenda. Alessandra lo aveva ascoltato, con interesse sempre maggiore. Solo in quel momento aveva capito perché Sesshomaru gli aveva precluso i giardini interni. Lo aveva fatto per Rin, per proteggerla. Ma adesso, le stava chiedendo di aiutare la bimba a vincere quella paura.

 

Quello era stato l’ultimo momento intimo che avevano avuto. Un momento in cui il bel demone le si era mostrato sotto una luce nuova, quella del ragazzo preoccupato per la bimba che proteggeva, del ragazzo maturo, cresciuto troppo in fretta, e forse per questo incerto delle sue decisioni, delle sue azioni. Le si era mostrato fragile. Come era stato fragile il primo bacio che le aveva dato.

 

La mattina dopo, Alessandra aveva preso per mano Rin e l’aveva portata nella stanza di Koga. Nel vederlo, la bambina aveva spalancato gli occhi, impaurita, e si era nascosta dietro alla ragazza. Il suo signore l’aveva svegliata con dolcezza, dicendole che quel girono avrebbe dovuto sostenere una prova difficile, ma che lui era sicuro che l’avrebbe superata. Rin si era spaventata, e prima di seguire la ragazza si era voltata a guardarlo, morsicchiandosi un dito per cercare di calmare la paura. Sembrava ancora più piccola e fragile del solito. Stupendosi di se stesso, Sesshomaru le si era inginocchiato davanti. Aveva percepito la sua paura, e aveva immaginato i suoi occhi dilatati. Avrebbe voluto essere presente, ma non poteva. Riunioni e impegni glielo impedivano, e Jacken era lì apposta per ricordarglielo.

 

Lo tranquillizzava solo il pensiero che con la bimba ci fosse Alessandra. Le aveva accarezzato la testolina, spostandole un po’ la frangia, e le aveva dato un bacio in fronte. Un contatto quasi impercettibile, di cui lo stesso demone si era sorpreso. Lui non ricordava di aver mai ricevuto un bacio simile. O forse, glielo avevano dato che era ancora molto piccolo. Però, quel gesto gli era venuto spontaneo. Anche se non lo voleva ammettere, quella bimba era come una figlia per lui. Qualcuno su cui aveva riversato tutto l’affetto e l’amore che la morte di suo padre avevano congelato. In un modo freddo e distaccato, certo, come solo lui sapeva amare, nascondendo i sentimenti anche a se stesso. Ma non importava. Le voleva bene.

 

Koga aveva alzato gli occhi quando aveva sentito Alessandra entrare e poi aveva riconosciuto la bambina seminascosta dietro di lei. L’aveva già vista, in un villaggio, e poi in compagnia del demone. Ginta e Hakkaku gli avevano raccontato che alcuni suoi lupi l’avevano attaccata e uccisa e quelle parole gli avevano anche chiarito il motivo dello sguardo ostile che Sesshomaru gli aveva rivolto la prima volta che si erano visti. In quel momento gli fu chiaro anche il perchè del divieto di accedere ai giardini, anche se faticava a credere che una persona fredda e insensibile come si presentava il Principe avesse dato quell’ordine solo per evitare che la bimba potesse spaventarsi.

 

Alessandra aveva sussurrato qualcosa all’orecchio di Rin, che gli si era avvicinata. Lui aveva cercato di sorridere rassicurate, ma involontariamente aveva mostrato i canini appuntiti e Rin si era ritratta. Per istinto. E Koga aveva abbassato confuso lo sguardo. In fondo, era il responsabile del male che i suoi lupi le avevano fatto. Anche se a quel tempo non gli importava nulla dei ningen, dopo l’incontro con Kagome era cambiato. E il sapere che quella bambina, che stava accanto a Sesshomaru senza alcun timore, avesse paura di lui non lo riempiva per nulla di orgoglio.

 

“Che cos’è?”

 

Rin era stata attirata dall’involto che il demone aveva fra le braccia. Si muoveva in modo strano, di tanto in tanto. Glielo aveva appena portato Ayame, ma lui si era dimenticato anche di averlo.

 

“Un povero orfanello. Sua madre è stata uccisa nello scontro dell’altro giorno”

 

Aveva aperto il fagotto e mostrato alla bambina un cucciolo morbidissimo di un bel colore bianco, con due occhi gialli piccoli. Guaiva piano, agitando nell’aria le zampe ancora morbide. Rin lo fissava seria. Era un cucciolo di lupo. Bello come non ne aveva mai visti, sembrava un pupazzo con tutto quel pelo arruffato. Aveva allungato la mano fino a sfiorargli il musetto e poi l’aveva ritratta con un sorriso, quando gli aveva sentito il nasino umido.

 

La mente di Koga era stata attraversata da un pensiero strano, ma che gli aveva messo addosso un’eccitazione incredibile.

 

“Lo vuoi?” le aveva domandato con un sorriso invitante. “Se gli vorrai bene ti si affezionerà come un essere umano e sarà il tuo compagno di giochi”

 

Rin aveva guardato prima Alessandra, poi il ragazzo e infine si era concentrata di nuovo sul cucciolo. Un sorriso le aveva attraversato le labbra. Se quel demone stringeva così piano quel lupacchiotto, non poteva essere davvero cattivo. Forse, non era vero che tutti i lupi sono cattivi, forse lui aveva fatto quello che aveva fatto perché costretto. Non ci credeva davvero, perché aveva visto tante volte il suo signore uccidere, ma non per questo aveva avuto paura di Sesshomaru. In fondo, se ora lei era con il demone in parte lo doveva al ragazzo seduto davanti a lei.

 

Koga le aveva passato una mano attorno alla vita e l’aveva fatta sedere contro il suo petto. Rin non si era opposta, incantata a osservare i movimenti giocosi del cucciolo. Glielo aveva messo sulle ginocchia e la bimba aveva iniziato ad accarezzarlo timidamente. Il lupacchiotto si era mosso un po’, ma Koga gli aveva detto qualcosa e lui si era rilassato sotto la mano leggera che gli grattava le orecchie.

 

“Davvero posso tenerlo?”

 

“È tuo” le aveva risposto il ragazzo. “Ma dovrai accudirlo. Prendeva ancora il latte da sua madre. E poi, Sesshomaru deve essere d’accordo”. Aveva scambiato un’occhiata con Alessandra, ancora ferma vicino alla porta, a cercare il suo permesso. Come se un cenno della ragazza equivalesse alla volontà dell’inuyoukai. Lei aveva sorriso e assentito col capo.

 

Koga aveva liberato un sospiro e aveva inclinato un po’ la testa di lato. Poteva vedere il profilo dolce di Rin, con le labbra piegate in un sorriso contento.

 

“Ti piace?”

 

In risposta, si era sentito abbracciare stretto e ringraziare, con una voce che era quasi una cantilena. Una bambina…quella bambina…lo stava abbracciando. Aveva dimenticato tutto il dolore che gli aveva fatto. E lo abbracciava. Forse era riuscito a capire perché il Principe se la fosse portata dietro così a lungo.

 

“Stai male? Alessandra?”

 

La mano sulla spalla la costrinse a trasalire. Koga si era seduto accanto a lei, sulla veranda, mentre Rin era tornata in giardino. Non si era nemmeno accorta che fosse uscita. Si passò una mano sugli occhi e sospirò. Sì. Stava male. Le faceva male il pensiero del Principe in pericolo costante, la faceva preoccupare il fatto che non conoscesse le armi da fuoco e che non fosse in grado di difendersi in uno scontro. Le faceva male che lui non si confidasse con lei, che la mettesse al corrente di quanto avveniva solo quando ormai era troppo tardi per cambiare le cose. Le faceva male non averlo vicino.

 

Ma mentì. Perché comunque non era abituata a lasciarsi andare davanti ad altri. Anche lei, in fondo, si teneva dentro tutto, senza mai mostrare apertamente le sue emozioni. Forse era per questo che loro due si capivano così bene. Avevano un atteggiamento molto simile. Freddo e determinato, ma dentro potevano essere fragili come il cristallo.

 

Sesshomaru fragile…Sto delirando…

 

“No. Va tutto bene”.

 

Prese un respiro profondo e lo fissò nelle iridi azzurre. A Koga non piacque quello sguardo. Perché sapeva cosa gli stesse chiedendo. E proprio non gli piaceva. Ma sapeva anche che ormai la ragazza era risoluta.

 

Abbassò la testa e un sorriso ironico gli piegò le labbra.

 

“Spero solo che Sesshomaru non mi ammazzi, quando lo scopre”

 

*****

 

“Accidenti a quel vecchiaccio!”

 

Inuyasha saltò l’ultimo tratto scosceso e atterrò nella neve, facendo scendere Kagome dalle sue spalle. Si era rimesso completamente, ma ormai era da più di un mese che la spada continuava a pulsare. E se prima riusciva a percepirlo solo lui, adesso il suo movimento era visibile anche ai suoi amici.

 

Aveva sperato che Totosai conoscesse le risposte a quello strano comportamento. In definitiva, quella katana l’aveva costruita lui. Voleva chiedergli spiegazioni, anche riguardo al fatto che aveva rischiato di trasformarsi senza un vero motivo. Tanto più che Tessaiga l’aveva al fianco. Per fortuna che era stato solo un episodio isolato. Non gli era più successo. Anche se un residuo di preoccupazione si era depositato nel suo animo. Avrebbe voluto delle risposte dal fabbro, ma non lo aveva trovato. Sparito chissà dove.

 

Il suono di uno schiaffo lo vece voltare verso Kagome. La sua Kagome. L’amava. Glielo aveva detto e non passava giorno che se lo ripetesse. L’amava. Era la prima cosa bella che la sua vita gli avesse donato. Era stato felice con Kikyo, ma la miko tendeva a soffocarlo, a fargli reprimere il suo lato demoniaco. Sapeva essere dolce, ma anche molto fredda. Kagome invece era sempre allegra, lo riscaldava con i suoi sorrisi e anche quando litigavano sapevano entrambi che poi comunque avrebbero fatto pace.

 

L’amava. E lei era sua. Ricordava perfettamente la faccia allibita dei suoi amici quando, di ritorno dall’epoca della ragazza, lei aveva dichiarato che era la sua donna. Aveva detto proprio così. Non che l’amava o che era la sua ragazza. Aveva detto che era la sua donna. Sua, e di nessun altro. L’aveva solo baciata, eppure sentiva di appartenerle del tutto. Stregato dalla sua dolcezza.

 

C’era voluta una buona dose di pazienza per mettere a tacere le allusioni e le domande indiscrete di Miroku. Quando voleva, quel bonzo era più seccante di Shippo. Però, l’ultima osservazione gli aveva messo tristezza. Il monaco aveva pronunciato il nome di Sesshomaru, con leggerezza, sottolineando una vittoria di razza: il demone puro battuto di nuovo! Suo fratello si era innamorato! Qualcosa che lui non sapeva neanche cosa fosse!

 

Ad Inuyasha non era piaciuto il riferimento. Anche perchè da qualche tempo sentiva la mancanza di qualcosa. Una mancanza che neanche Kagome riusciva a riempire. Perché lei era il futuro, mentre lui avrebbe voluto conoscere il passato. E l’unico che gliene avrebbe potuto parlare, era più propenso a ucciderlo che a conversare con lui.

 

“Inuyasha! Forse lui ti può dare qualche risposta”

 

L’hanyou fissò la mano della ragazza. Myoga scuoteva la testa calva, riprendendosi dalla sberla. Già…lui era stato al servizio di suo padre. Se il pulsare di Tessaiga aveva una motivazione lui la doveva conoscere. A quella domanda il demone-pulce cercò di sottrarsi, ma il ragazzo non apprezzò i suoi giri di parole. Alla fine Myoga fu costretto a rivelare quello che sapeva. Poco in verità, e quasi di nessuna utilità

 

Da qualche tempo aveva sentito un’aura maligna nuova, che si diffondeva su tutti i territori e che aveva il suo fulcro verso Ovest. Non avrebbe potuto giurarlo, ma quello youki assomigliava a quello di un grande demone che Inutaisho aveva sconfitto molti secoli addietro, prima ancora che Sesshomaru nascesse. Un demone potentissimo, relegato sul Continente e impossibilitato a tornare. Quella era l’unica cosa anormale che si era verificata, e forse Tessaiga aveva reagito a quel potere, come aveva reagito anche al risveglio di Sounga. Però, non riusciva a spiegarsi il morivo della trasformazione. Il padrone non gli aveva mai detto nulla al riguardo: Tessaiga era il freno del sangue demoniaco, con lei accanto il ragazzo non doveva temere di trasformarsi in un youkai completo.

 

Quanto al pulsare della spada e al fatto che sembrasse reagire a un richiamo come quando era ricomparsa Sounga, ci sarebbe stata conferma del fatto che tutto fosse da collegarsi a quell’youki solo se anche Tenseiga si stesse comportando così. Cosa impossibile da verificare. Inuyasha non incrociava il fratello da più di sei mesi. Non sapeva nulla di lui.

 

Rientrarono a Musashi che il tramonto incendiava il cielo. Prima di arrivare al villaggio, però, Inuyasha si allontanò verso il Goshinboku. Aveva bisogno di riflettere, da solo. Ma Kagome lo seguì ugualmente, di nascosto. Non le piaceva che si tenesse tutto dentro. Che c’era a fare lei, allora, se non lo poteva aiutare?

 

Lo raggiunse che era seduto ai piedi dell’albero. Accarezzava la spada, come se fosse il viso di una persona cara. In fondo, quello era tutto ciò che gli restava del padre. Non sapeva come fosse, se mai fosse stato orgoglioso di lui. Di avere un figlio mezzo-demone. Non sapeva se somigliava di più a lui o al fratello. Lo aveva visto solo una volta, in spirito. Avvolto da una luce azzurra che confondeva i suoi lineamenti. Ma per quello che aveva potuto distinguere, da lui aveva preso poco: i capelli e gli occhi probabilmente. Sesshomaru invece era il suo ritratto, solo più giovane. Con i tratti che ancora indulgevano all’adolescenza.

 

Gli sarebbe piaciuto sapere qualcosa in più di lui. Sapere come fosse veramente, sapere quanto aveva amato sua madre e se davvero per lui non c’erano mai state differenze fra youkai e hanyou. In definitiva, Sesshomaru era il figlio che ogni padre avrebbe voluto avere. Forte, determinato, sicuro di sé…Capace di ricoprire in modo perfetto il compito che la nascita gli imponeva. Una persona affidabile, insomma. Non come lui. Debole. In balia di sentimenti umani.

 

“Com’era mio padre?”

 

Kagome gli sedette accanto, e appoggiò la testa alla sua spalla. Era difficile rispondere alla sua domanda. Però, la capiva bene. Anche suo fratello le faceva spesso domande riguardo al loro papà. Era morto che Sota era ancora piccolo, troppo perché potesse ricordarlo. E allora Kagome gli raccontava quello che ricordava lei: sensazioni, più che immagini definite, ma che rapivano il fratellino, trasportandolo in un universo fantastico in cui lui poteva ritrovarlo, immaginarselo, renderlo concreto. E ogni volta, bisognava aggiungere particolari, perché il bambino non ne era mai sazio.

 

Inuyasha invece non aveva nulla di tutto quello. Sua madre era morta che lui era ancora piccolo, prima che la sua testolina iniziasse a elaborare domande e dubbi che andavano oltre la realtà che lo circondava. Aveva solo un ricordo confuso delle parole con cui Izayoi gli aveva descritto il padre. E quando le domande si erano presentate, non c’era stato nessuno a dargli risposte. Aveva ragione suo fratello, dannazione. Lui era cresciuto nell’ignoranza. Non sapeva nulla. Non aveva radici. Non aveva passato.

 

“Io penso che tuo padre fosse una persona gentile. E che ti volesse bene”

 

Inuyasha appoggiò la sua testa a quella della ragazza, e Kagome gli abbracciò un braccio. Aveva freddo, seduta ai piedi dell’albero secolare, ma non voleva andarsene. Stava bene con lui, vicino a lui. Non riusciva a pensare a una vita senza l’hanyou, alla quotidianità amorfa e normale.

 

“Tu dici?”

 

Lo sbirciò, alzando appena la testa. L’ambra del ragazzo era attraversata da sfumature tristi, malinconiche e anche dal volto emanava una solitudine e una rassegnazione esasperata. Avrebbe voluto sapere, e non poteva chiedere. Non gli interessava conoscere il grande demone, il signore vittorioso e capace di assoggettare territori immensi. Myoga gliene aveva parlato fino alla nausea. No. Non voleva conoscere il condottiero, voleva conoscere il demone. Lui solo. Nella sua natura. Nel suo essere padre.

 

“Sì. E credo anche che fosse molto orgoglioso e testardo.

 

L’hanyou la guardò un po’ sorpreso. Da dove le veniva quella sicurezza? Perché c’era questo nella voce della ragazza: la certezza di aver detto una cosa giusta. Quasi elementare. Ma che lui proprio non riusciva a capire. Doveva avere un’espressione davvero buffa, con una mano nei capelli, a massaggiarsi la testa e lo sguardo perso di chi rincorre un concetto che continua a fuggire, tanto che Kagome non potè evitare una risata leggera, che prima lo mise in imbarazzo e poi lo fece arrabbiare. Cosa aveva da ridere, poi? Anche a lui sarebbe piaciuto essere altrettanto sicuro. Visto che lei lo era, gli spiegasse le motivazioni della sua certezza.

 

Dopo che la ragazza gliele ebbe dette, avrebbe preferito non saperle: sosteneva infatti che doveva averle presi per forza dal padre l’orgoglio e la testardaggine che lo caratterizzavano. Non le sembravano proprio caratteristiche di una donna come le era sempre stata descritta la madre di Inuyasha. E poi, a conferma delle sue teorie, c’era il fatto che anche Sesshomaru aveva le stesse “qualità”. Magari le nascondeva sotto uno strato di ghiaccio, ma c’erano.

 

Il ragionamento filava. Inuyasha dovette ammetterlo: lui e suo fratello possedevano una cocciutaggine incredibile, e un orgoglio indomabile. Uguale. Come i loro occhi. Quelli di loro padre. Aveva ragione Kagome, accidenti a lei. Ma non gli andava. Le diede le spalle, fingendosi arrabbiato e quando la sentì sporgersi maggiormente verso di lui, si girò all’improvviso e la baciò, rovesciandola nella neve. La ragazza si era lasciata travolgere dal ragazzo, dalla passione di quel contatto e dal calore del suo corpo.

 

Ma quando si staccò, invece del viso della ragazza, l’hanyou vide solo del bianco. Freddo. Neve. Gli aveva tirato una manciata di neve negli occhi ed era scivolata via, da sotto di lui, rintandosi dietro all’albero. Faceva capolino ogni tanto, per cercare di colpirlo con una nuova palla. Alla fine Inuyasha fu costretto a decretare la resa, lasciandosi cadere a terra, fradicio e sudato. E allora Kagome uscì dal suo riparo, bagnata anche lei: aveva lanciato molte palle di neve, ma ne aveva ricevute altrettante. Il suo respiro si condensava in novelle bianche che dileguavano in pochi istanti.

 

Cominciava a fare più freddo, e la sera portava con sé un vento bagnato che penetrava nelle ossa facendo rabbrividire. La vide tremare e strofinarsi le mani rosse per il freddo. Non voleva che si ammalasse, così l’avvolse nella veste del suo kimono. Lui non correva certo il rischio di beccarsi una polmonite. Ma lei sì. L’abbracciò stretta. Un ultima volta, prima di tornare dagli scalmanati, al villaggio.

 

Il vento gli portò un odore strano, conosciuto. Un odore che non si sarebbe mai aspettato di sentire lì. Sciolse Kagome dal suo abbraccio e si voltò in direzione del villaggio. Possibile che si fosse sbagliato? Che il naso gli avesse giocato un brutto scherzo? Stava per convincersene, quando avvertì l’eco di un colpo. Un rumore familiare: il frastuono dell’Hiraikotsu di Sango.

 

*****

 

“Aiutami”

 

L’aveva di fronte. Una ragazza. Una ragazza umana. Lo capiva dall’odore. Si era precipitato al villaggio con Kagome, temendo un attacco e invece aveva trovato qualcuno di sconosciuto. Quella ningen, che lo aveva fissato negli occhi appena era arrivato. Per alcuni istanti lo aveva osservato. Sembrava sorpresa. Quasi incredula. Poi, gli occhi blu erano stati attraversati da un bagliore. Ora erano tristi, imploranti. L’aveva vista prendere un respiro profondo e fissarlo di nuovo.

 

Una sola parola. Solo quella era uscita dalle sue labbra. L’aveva solo ascoltata. Non l’aveva capita. Troppo sorpreso di trovarsela davanti. Aveva percepito l’odore di suo fratello, mescolato al vento della sera. L’odore di Sesshomaru. E si era precipitato al villaggio. Il demone non aveva mai attaccato Musashi, ma nulla glielo avrebbe mai impedito in realtà. Se poi voleva un confronto diretto con lui, lì era il primo posto dove cercarlo.

 

Tuttavia, adesso la sua spada era puntata non contro un’youkai, ma contro una ragazza. Una semplice ragazza da cui non emanava nessuna forza. Una normalissima ningen. Anzi, forse proprio non del tutto normale, visto che aveva addosso l’odore di Sesshomaru e accanto a lei Ah-Un muoveva le teste con fare minaccioso, soffiando aria dalle froghe.

 

Alessandra accarezzò il collo del drago bicefalo, che si rilassò al suo tocco. Era abituato alla sua presenza. Le obbediva come aveva sempre obbedito al suo signore. Forse, lui solo dei demoni al castello aveva percepito il filo che legava la ningen e l’youkai. Solo lui, affidandosi all’istinto. All’odore della ragazza, cui si mescolava quello di Sesshomaru. Alessandra lo aveva scelto come cavalcatura perché con lui aveva più confidenza ed era molto resistente. Prendere il suo cavallo sarebbe stato un rischio. Anche perchè non sapeva esattamente la distanza fra il palazzo e il villaggio e non era sicura che sarebbe riuscita a ritrovare la strada. Ah-Un, invece, sarebbe stato sempre in grado di riportarla a palazzo. Da lui.

 

Era arrivata nel villaggio scatenando il panico: l’avevano scambiata per un demone, per i suoi capelli e il suo compagno di viaggio. E l’avevano attaccata. Due ragazzi. Era sfuggita loro solo grazie alla prontezza di riflessi del drago. Poi, tutto si era congelato. E lei era ancora immobile, e fissava con trepidazione il ragazzo che aveva davanti.

 

Si era materializzato all’improvviso, fendendo la folla. Aveva letto sul suo volto stupore, sorpresa. E adesso sospetto. Non sapeva neanche come si chiamasse, ma non aveva dubbi. Era lui. Lunghi capelli color della luna, due piccole orecchie canine e occhi dal taglio dolce, espressivi. Occhi d’ambra.

 

Era partita senza neanche farsi dire il suo nome o una descrizione. Non ci aveva pensato. Aveva concentrato tutta se stessa nell’elaborare un piano che le permettesse di allontanarsi senza che il demone lo scoprisse. Aveva coinvolto Koga e Ayame, ed era certa che per almeno due giorni le scuse avrebbero retto. D’altro canto, il suo odore residuo sarebbe stato sufficiente a confondere Sesshomaru. Almeno per un po’.

 

Adesso, però, sapeva di essere arrivata. Lo aveva trovato. Non aveva dubbi. Lo aveva capito dagli occhi. Lo stesso colore. La stessa ombra triste intrappolata nelle loro sfumature d’oro. Ma anche un atteggiamento più estroverso. Più aggressivo, forse. Tuttavia, se lo avesse visto da lontano, avrebbe potuto davvero scambiarlo per Sesshomaru; la somiglianza era incredibile.

 

Continuava a fissarla. A scrutarla con i suoi occhi. Interrogativo. Sospettoso. Forse la credeva un demone. Forse temeva un inganno. Altrimenti, non capiva il motivo di tanta ostilità. Sentiva gli occhi e i mormorii delle persone che li circondavano. Viveva in un villaggio. In questo, differiva dal Principe. Lui non si sarebbe mai abbassato a condividere la sua presenza con dei ningen, con degli essere inferiori. Sospirò. Non era il momento di pensare al suo rapporto ambiguo con lui. Era il momento di aiutarlo invece. Per quello era lì.

 

Stava aspettando una reazione. Una reazione qualsiasi da parte di quel ragazzo. Qualsiasi cosa. Per capire cosa dovesse aspettarsi. Una voce attirò la sua attenzione. Incredulità. Impossibilità a capacitarsi. C’era sorpresa e sconcerto in quella voce. Ma anche lei si sentiva uguale. Perché aveva distinto una parola inaspettata. Inattesa. Aveva sentito il suo nome.

 

“Alessandra?...”

 

*****

 

Freddo.

Fuori dalla piccola casa, un vento gelido piegava i rami degli alberi, trascinava foglie secche e frammenti di ghiaccio. Mulinelli leggeri e luccicanti. Nessun suono. Nessun odore. Solo quello bagnato dell’aria. Mentre dense nubi scure cancellavano le stelle e la sottile falce di luna. Ombre. Ombre. Riverberi. Chiazze chiare e scure. Altalena. Dondolio. Tremito lieve.

 

Inuyasha chiuse gli occhi. Sentiva sotto di sé il tepore del fuoco. Ma nessuna voce. Dovevano essersi addormentati. Erano tutti stanchi. Per le emozioni e le sorprese di quella giornata. Lui però non era voluto restare. Aveva molto cui pensare.

 

Nella casa, c’era anche lei. Quella ragazza. Kagome la conosceva. Veniva dal suo tempo, aveva detto, dal mondo oltre il pozzo. Anche se non era riuscita a spiegare come avesse fatto a raggiungere l’epoca Sengoku. Semplicemente, si era svegliata lì. Da sola.

 

Era stata fortunata. Era ancora viva, benché quel tempo non fosse privo di pericoli, nuovi e inaspettati per una ragazza di un altro mondo. Guerre, briganti, ningen ostili e arroganti e…demoni. Soprattutto demoni. Come suo fratello.

 

Non riusciva ancora a crederlo possibile. Alessandra aveva incontrato Sesshomaru; anzi, viveva con lui da più di quattro mesi. Ed era ancora viva. Viva! Non riusciva a capacitarsene. Suo fratello…suo fratello che si abbassa a convivere con un ningen, che viaggia con lei, che sopporta la sua determinazione. Perché quella ragazza determinata lo era: lo aveva capito alla prima occhiata. Quando gli aveva piantato in faccia i suoi occhi. Strani, che mutavano a seconda dalla luce: azzurri, blu, neri. Uno sguardo di supplica, ma privo di paura.

 

L’avevano invitata nella casa di Kaede. Perché raccontasse loro di che aiuto necessitava. In un primo momento, l’hanyou aveva pensato che volesse esser nascosta da Sesshomaru. Che suo fratello le avesse fatto del male, la tenesse prigioniera e lei fosse riuscita a scappare solo per pura fortuna. E che si fosse trovata lì per caso. A quella richiesta avrebbe acconsentito. Anche se significava venir nuovamente alle mani con il demone. Anche se avrebbe potuto voler dire mettere in pericolo Kagome e i suoi amici. Ma non se la sarebbe sentita di lasciare la ragazza in balia dell’youkai.

 

Invece…invece, la realtà era ben diversa. E lui non riusciva ad accettarla. O più probabilmente, non riusciva a crederla possibile. Alessandra era venuto a cercarlo di sua spontanea volontà. Era vero che aveva bisogno di aiuto, ma non per se stessa: gli aveva chiesto di aiutare Sesshomaru. Era stata un po’ parca di spiegazioni, in verità, limitandosi a rivelare che l’youkai era stato coinvolto in una guerra che al momento si concretizzava solo in scontri brevi e che necessitava di un adeguato avversario negli allenamenti. Inuyasha aveva pensato ad una trappola. Da quando suo fratello aveva bisogno di un compagno di allenamento? E poi, chi lo riteneva all’altezza di quel ruolo? L’inuyoukai no di certo. Lo aveva sempre disprezzato.

 

Alessandra si era morsa le labbra. Non voleva esser costretta a rivelare troppo. Almeno, finchè non avesse conosciuto la risposta dell’hanyou. Solo allora gli avrebbe detto della cecità di Sesshomaru. Perché aveva paura che il ragazzo ne avrebbe potuto altrimenti approfittare a svantaggio del Principe.

 

All’inizio, quando aveva saputo da Koga che Sesshomaru aveva un fratello, le era sembrato strano che il bel demone non lo avesse convocato a palazzo perché lo aiutasse. Va bene che era lui l’erede, ma davvero poteva essere così orgoglioso da rifiutare anche l’aiuto di un consanguineo? Poi, quando lo aveva incontrato, aveva capito tutto. Era un hanyou, un mezzo-demone. E Sesshomaru li disprezzava. Come disprezzava i ningen. Ecco perchè non gliene aveva mai parlato. Ecco perché non lo aveva fatto cercare.

 

Nuovo scoglio da affrontare. Se anche Inuyasha avesse acconsentito, poi ci sarebbe stato Sesshomaru da convincere. E conoscendolo, Alessandra sapeva che non sarebbe stata un’impresa semplice. Tuttavia, aveva deciso di affrontare un problema alla volta. Prima di tutto: convincere il ragazzo a seguirla a palazzo. Nella tana del lupo.

 

Le aveva risposto di no. Subito. Senza ripensamenti o tentennamenti. Ma anche con un po’ di malinconia nella voce. Come se rifiutare gli costasse tanto. Fosse una violenza contro se stesso. Le era sembrato un po’ strano il suo comportamento. Va bene che era un hanyou, ma erano pur sempre fratelli. Possibile che la razza li dividesse tanto? Lo aveva fermato prima che uscisse dalla stanza. Gli si era parata davanti, fissandolo dura negli occhi. Voleva sapere il perché. Non le bastava un semplice rifiuto. Lo aveva scrutato per un po’, ma poi era stata costretta a fargli la domanda. Era diverso da Sesshomaru, lui non le riusciva a leggere gli occhi. Non riuscivano a parlare col silenzio.

 

Inuyasha le aveva detto di no e si era alzato per andarsene. Ma se l’era trovata davanti. Gli impediva di uscire. E lo guardava. Fisso. Dritto negli occhi. Con quegli occhi cangianti che adesso assomigliavano tanto a quelli del fratello. Possibile che quella fosse una ragazza umana? Neanche Kagome o Kikyo gli avevano mai rivolto un simile sguardo. Sembrava volergli bucare l’anima. Prenderla e leggerla fin ne profondo. Era una sguardo freddo, quasi rabbioso. Lo sguardo si suo fratello quando si trovavano a parlare di loro padre. Quando l’youkai gli esprimeva tutto il suo disappunto e il suo disprezzo.

 

Aveva sostenuto lo sguardo con fierezza. Cosa voleva sapere ancora? Le aveva già risposto. E aveva detto no. Chiaro. Conciso. Secco. Perché…perché…Non lo sapeva neanche lui il motivo. In realtà, avrebbe voluto urlare di sì. Che era pronto a farlo, ad aiutarlo. Che sarebbe stato il suo compagno di allenamenti. Ma aveva detto no. E adesso si sentiva chiedere ragione del suo rifiuto.

 

“Perché non mi accetterebbe mai”

 

Quella risposta…Gli rimbombava ancora nella testa. E gli faceva male. Dannatamente male. Perché era la verità. Sesshomaru non lo aveva cercato. Era minacciato da una guerra, ma non aveva chiesto il suo aiuto. Quello di suo fratello. Aveva preferito affidarsi ai suoi alleati. Era quasi propenso a credere che piuttosto che rivolgersi a lui, avrebbe contattato Naraku. Andava bene anche un subdolo hanyou come lui. Andavano bene tutti. Purchè non si trattasse di lui. Del suo fratellastro.

 

Si stava illudendo. Fra di loro, non ci sarebbe mai stato nessun tipo di rapporto. Solo odio e metallo. Solo quello. Né abbracci né aiuto reciproco. E neanche semplici parole, se non quelle di scherno. Nulla. Nulla. Il vuoto totale. Si poggiò stancamente la fronte alla mano. Non ce la faceva più. Quella situazione lo distruggeva psicologicamente. Se almeno non avesse saputo nulla…Invece, Alessandra era venuta a infrangere la sua ignoranza. La sua protezione. Se non avesse saputo, non si sarebbe preoccupato. Mai.

 

Preoccupato…Possibile che lui fosse preoccupato? Per Sesshomaru? No. Solo stizzito. Arrabbiato. Solo…Solo…agitato. Sì. Era agitato. Perché l’istinto gli diceva che doveva esserci qualcos’altro. Che non era possibile che il demone avesse bisogno di aiuto. Anche se Alessandra aveva detto di essere venuta di sua iniziativa, dal momento che aveva vissuto con l’youkai per un po’ doveva conoscerne la forza. Forse, l’aveva anche sperimentata sulla sua pelle…Ma allora perché quella supplica? Perché?!

 

“…Inuyasha…”

 

Alzò la testa appena in tempo per afferrarla. Era scivolata e rischiava di cadere dal tetto. Era tutto ghiacciato, nonostante il calore che proveniva dal fuoco acceso nella stanza sottostante. Kagome si era aggrappata a lui, lasciandosi trascinare sulla neve. Stava bene lì. Fra le sue braccia. Anche se ogni respiro era una nuvoletta bianca che disperdeva in un attimo.

 

“Stupida! Perché sei salita? Rischiavi di farti male…”

 

C’era una punta di preoccupazione isterica nella sua voce. E alla ragazza piaceva. Piaceva che lui si preoccupasse anche per una sciocchezza. Perché significava che a lei teneva. Che le voleva bene. Si accoccolò fra le sue braccia, affondando nel suo petto. Lo aveva spettato alzata, ma lui non tornava. E allora aveva deciso di andare lei a cercarlo. Quando era uscito, aveva un’espressione talmente abbattuta…ma non aveva voluto disturbarlo subito. Sapeva che doveva riflettere. Perché Alessandra gli aveva detto che avrebbe aspettato fino all’alba. Solo allora avrebbe voluto la risposta definitiva.

 

“Di cosa avete parlato?”

 

Aveva bisogno di distrarsi. Di cancellare dalla testa tutte quelle preoccupazioni e quei pensieri. Aveva bisogno di fermarsi un attimo. Sperò che Kagome non gli facesse nessuna domanda. Che lo lasciasse tranquillo per alcuni minuti. Solo per un po’. E la ragazza capì. Non gli avrebbe chiesto niente per un po’.

 

Iniziò invece a raccontagli di Alessandra. Si era stupita non poco di trovarsela di fronte nel passato. Nel suo mondo la stavano ancora cercando. Ma ormai le possibilità di trovarla viva si erano ridotte al minimo. C’era anche chi diceva che si fosse deliberatamente allontanata per suicidarsi. In fondo, visto il suo passato e lo strascico doloroso e depressivo che doveva averle lasciato, l’ipotesi non era da scartare a priori. Gli investigatori, anzi, la tenevano ben presente. Era stato da loro che Kagome aveva saputo  il nome della ragazza e qualcosa sul suo passato: era l’unica sopravvissuta della sua famiglia. Morta in un incidente automobilistico. Tre anni prima.

 

Ma non lo aveva detto a nessuno. Né ai suoi compagni né aveva fatto intendere ad Alessandra di saperne. Non era il caso di far emergere ricordi dolorosi. Inoltre, era rimasta sorpresa della ragazza che le si era presentata. Completamente diversa da quella della fotografia in bianco e nero. E non certo per i vestiti che indossava. Non aveva nulla della persona emaciata che si era immaginata, costretta a prendere i tranquillanti, i sonniferi e gli antidepressivi che aveva trovato fra i suoi effetti personali. Aveva una luce diversa negli occhi. Viva. Palpabile. Determinata. La tristezza era solo una sfumatura più scura in uno sguardo limpido. Sereno.

 

Mentre l’aveva ascoltata quello che le era successo in cui mesi, Kagome non aveva potuto impedirsi di chiedersi cosa avesse cancellato la sua tristezza, la sua depressione. Era rinata. E le sembrava davvero incredibile, soprattutto visto il fatto che aveva incontrato Sesshomaru ed era sempre rimasta con lui. E non si poteva certo dire che il carattere freddo, controllato e insensibile del demone fosse l’ideale per una persona così provata psicologicamente.

 

Le stava simpatica. Anche se non riusciva a capire se il sentimento era reciproco. Alessandra era stata sempre sulla difensiva e in fondo non la biasimava: visto i compagni di classe che si era ritrovata, era il minimo. Però almeno non si era chiusa in un ostinato mutismo. Aveva parlato con lei, e con anche gli altri. Aveva anche sorriso, vedendo la faccia terrorizzata di Miroku davanti allo spauracchio di dover affrontare Sesshomaru se solo l’avesse sfiorata con un dito. Il monaco era caduto nel suo solito comportamento libertino, ma prima che potesse dire o fare qualcosa, Alessandra aveva rivelato il nome della persona con cui era stata fino a quel momento. E ogni tentativo di approccio di Miroku si era dissipato.

 

Non era prigioniera. Sesshomaru non l’aveva costretta con la forza a stare con lui. La scelta di restare era stata sua. Lei non lo aveva detto, ma doveva essere così, altrimenti non avrebbe avuto senso il suo rifiuto di tornare a casa, lasciando quel mondo e il demone.

 

Inuyahsa…Sai, ho avuto l’impressione che Alessandra vada d’accordo con Sesshomaru…”

 

“Impossibile. Andare d’accordo con mio fratello non riesce a nessuno. Lo sai: per lui siamo tutti inferiori. Probabilmente ne parla bene perché ne ha paura, tanto a cercare di andarsene che a contraddirlo”

 

Kagome annuì, anche se non era molto convinta. Una volta oltrepassato il pozzo, sarebbe stata al sicuro. Se davvero Sesshomaru la teneva prigioniera, perché non approfittarne? Ma forse aveva ragione Inuyasha. Aveva paura di una vendetta.

 

“Davvero non andrai con lei?”

 

Ci fu un lungo silenzio. Solo il respiro che si condensava e spariva lento. Solo il battito di un cuore agitato.

 

“…Non lo so…”. Un respiro, e un abbraccio disperato. Si sentiva troppo insicuro. E non si vergognava a mostrarlo a lei. “…Non so cosa fare…”

 

Kagome ricambiò la stretta. Era confusa anche lei. Molto. Però, sapeva anche che quella era forse la sola occasione che si presentava all’hanyou per riallacciare i contatti con il fratello. Forse era destinata a fallire, forse sarebbe stato cacciato e deriso, ma perché non provare comunque?

Alzò il viso e incontrò un’ambra malinconica e triste. Già…anche lui avrebbe voluto andare, ma aveva pura di essere rifiutato. Di nuovo. Gli sorrise per incoraggiarlo e gli regalò un bacio. Intenso. Appassionato. Tanto da lasciare il ragazzo sorpreso e confuso.

 

La guardò scendere dal tetto, e le augurò la buona notte con un sorriso. In fondo, aveva ragione lei. Doveva andare. E non sarebbe stato solo neanche a quel punto. Kagome glielo aveva detto. Sospirato sulla bocca prima di baciarlo.

 

“La scelta è tua, ma io andrei…Ci proverei…Comunque, ricorda che non sarai mai solo…Io ci sarò sempre…”

 

Sorrise. Sembrava un’idea suicida, ma non importava. Ormai, aveva deciso. Ci avrebbe provato. Provato a recuperare qualcosa che non era mai esistito.

 

Ti aiuterò, se me lo permetterai…Perché … per me…sei… mio…fratello…

 

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Capitolo 33
*** 33. FRATELLI ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!

Finalmente, ho finito gli esami della sezione invernale e per un mesetto-un mesetto e mezzo posso starmene tranquilla. Certo, ne ho già altri quattro da preparare, ma dovrei anche avere il tempo di scrivere qualcosina e andare avanti con la storia che, secondo le mie previsioni, per la prima parte, non dovrebbe superare i cinquanta capitoli.

 

Bene, avevamo lasciato Alessandra con Inuyasha e con una richiesta di aiuto. Cosa avrà deciso il nostro amico? E come reagirà Sesshomaru?

 

Fatemi sapere cosa ne pensate! E grazie infinite a chi legge e commenta, ma anche a chi legge soltanto.

 

 

 

CAPITOLO 33

FRATELLI

 

 

Rabbia. Odio. Disprezzo.

Il volto di Sesshomaru era fisso in un’espressione altera e sprezzate. Furiosa. Anche se nemmeno un muscolo faceva trapelare il ribollire del suo sangue nelle vene. La voglia di scattare e uccidere. Cancellare quell’errore. Definitivamente.

 

Inuyasha provò un fremito, quando lo guardò. Era così calmo. Da quando era entrato nel suo studio non aveva ancora detto una parola. Prima, si era irrigidito per la sorpresa. Naturale del resto. Nessuno lo aveva convocato. E lui non aveva mai visto quel palazzo, quello di suo padre. Non avrebbe neppure dovuto sapere della sua esistenza, e fino al giorno prima lo ignorava completamente. Eppure, adesso era di fronte al fratello, in piedi. A separarli, solo un basso tavolino di lacca. E Alessandra.

 

Aveva accettato. Era partito con lei per provare ad aiutare il fratello. Forse per curiosità anche. Perché davvero non riusciva a capacitarsi del motivo per cui il demone avesse bisogno di un compagno di allenamento. La ragazza era stata molto vaga circa le motivazioni. Gli aveva detto che lo avrebbe capito da solo, al momento opportuno. Frasi sibilline. Ambigue. Ma non inganni. L’hanyou era certo che non si stesse dirigendo in una trappola.

 

Era stato sincero anche lui. Ci avrebbe provato, ma non era sicuro che Sesshomaru lo avrebbe accettato. Probabilmente, quello si sarebbe rivelato un viaggio a vuoto. Non si facesse illusioni. L’odio reciproco era troppo antico per poter essere cancellato in un attimo. Anche se lui, in realtà, aveva sempre e solo ammirato il fratello. Invidiato. Ma mai odiato davvero. Sesshomaru, invece…ne era certo: lo avrebbe ucciso appena avesse potuto.

 

“Cosa significa?”

 

Sesshomaru si alzò lentamente in piedi. Non accettava l’idea di dover alzare la testa verso il fratellastro. Un’umiliazione cui non si sarebbe mai sottoposto. Ma più di tutto lo infastidiva il fatto che fosse lì, nella casa di suo padre. Nella sua casa. E che ce lo avesse portato Alessandra. Dimostrando una capacità di azione e decisione che avrebbe potuto definitivamente comprometterla a corte. Già era sopportata per sola paura dell’inuyoukai; se si fosse sparsa la voce che aveva invitato il bastardo, sarebbe stata in grave pericolo.

 

No. Non era solo quello. Sesshomaru non riusciva ad accettare il fatto che fosse quella l’unica soluzione possibile. La conosceva anche lui, ma si era cocciutamente rifiutato di accettarla. Sarebbe significato rivedere tutte le sue convinzioni, tutto se stesso. E in più gli faceva male il pensiero che la ragazza fosse uscita da palazzo a sua insaputa. Gli faceva male la preoccupazione che gli era esplosa dentro all’improvviso. Per due giorni lo avevano ingannato bene. Raggirato come uno sciocco. Intollerabile. Gli avevano detto che non stava molto bene, ma nulla di grave. Aveva solo bisogno di riposare. Non aveva voluto disturbarla. Anche perché era stato molto impegnato. E adesso si pentiva di non aver voluto controllare di persona.

 

Alessandra continuava a fissarlo. Possibile che davvero non sopportasse il fratello? Non riusciva a crederlo. Ma non capiva la fortuna che aveva, ad averlo lì, a poter contare su di lui? Niente, invece. Sesshomaru la fissava col gelo negli occhi spenti. Era davvero arrabbiato. Offeso. Perché lei si era presa una libertà che lo aveva ferito. Perché gli aveva portato davanti il frutto di un’umiliazione. Di un dolore che il Principe aveva solo accantonato. Mai medicato.

 

Inuyasha continuava a spostare lo sguardo dal fratello alla ragazza. Non aveva mai visto nessun essere umano fronteggiare suo fratello in quel modo. Con autorità e sicurezza. Senza paura. In quel momento, lui aveva paura. Era nervoso e solleticava il saya, pronto a impugnare la katana ad un minimo accenno di pericolo. Sesshomaru avrebbe potuto attaccarlo in un qualsiasi momento. La ragazza, invece, era perfettamente tranquilla. E continuava a sfidarlo con lo sguardo. Doveva essere molto coraggiosa, o pazza. Fino a che punto il demone avrebbe sopportato quel comportamento?

 

“Cosa significa?” ripetè Sesshomaru con un tono leggermente più alto. Nella sua voce si coglieva una punta di nervosismo. Di rabbia. Voleva una risposta chiara. Perché lo aveva portato lì? Chi le aveva detto dell’esistenza di suo fratello? Lui non gliene aveva mai parlato. Lui non aveva mai parlato della sua famiglia.

 

“È la soluzione per gli allenamenti”

 

“Lui?”

 

Sesshomaru indicò con sufficienza l’hanyou, mentre sulle labbra gli si dipingeva un sorriso di scherno. Davvero credeva che si sarebbe abbassato a tanto? Non avrebbe mai accettato suo fratello come compagno negli allenamenti. Non avrebbe mai permesso che soggiornasse nel palazzo della sua famiglia. Non si sarebbe mai mostrato debole davanti a lui.

 

“È solo un patetico mezzo-demone. Indegno di ciò che ha ingiustamente ricevuto in eredità. Insignificante. Pensi davvero che sia alla mia altezza? Non è nulla. È solo un…”, fermò un istante la frase. “…bastardo”.

 

Assottigliò gli occhi, compiaciuto. Lo aveva umiliato di nuovo, davanti alla ragazza. Aveva sottolineato il suo essere spezzato a metà. La sua duplice natura che non gli permetteva nessuna collocazione definita. Che lo gettava in un limbo di vuoto e solitudine. S’immaginò la rabbia deformargli i lineamenti, incendiargli gli occhi. E godette al pensiero che si doveva trattenere. Che non lo poteva attaccare, se voleva uscir vivo da quelle mura. Era alla sua mercè. Esposto alle sue parole, ai suoi insulti. Alla sua spada.

 

Non potè vedere Inuyasha chinare la testa e nascondere gli occhi nell’ombra della frangia. Non potè vedere l’amarezza nei suoi lineamenti, il sorriso di autocommiserazione che gli increspò le labbra. Non vide il suo dolore, l’umiliazione di non essere nulla per lui. Solo un errore…un bastardo…ecco, cos’era…Qualcosa da eliminare, per non provare vergogna nei possibili paragoni.

 

Sesshomaru non lo vide, ma lo fece invece Alessandra. Le parole del demone l’avevano disgustata. Lo aveva offeso volutamente. Lo aveva deriso e denigrato per umiliarlo. Si era aspettata che il ragazzo reagisse, e invece lo aveva solo visto chinare la testa sul petto. Sconsolato. Annullato. Provò tanta tristezza per lui. Come si sarebbe sentita lei se Leone l’avesse trattata in quel modo? Cosa avrebbe provato? Era un sentimento che non aveva nome, un misto di disillusione, rancore, abbattimento…

 

Sentì la rabbia montare, mentre fissava l’youkai impassibile davanti a lei. Era compiaciuto del suo risultato. Gli sembrò odioso. In quel momento, non riusciva a ritrovare in lui nulla del ragazzo che amava. Era solo il demone. Accecato dalle sue convinzioni di razza. Dal suo delirio di potenza e superiorità. Ma non ce la fece più quando sentì di nuovo quella voce fredda e tagliente. Una spada nel cuore.

 

“Vattene. Non sopporto più il tuo fetore nauseante”. Sesshomaru si voltò verso una porta. Per lui, il colloquio era finito. Lo aveva cacciato. Lo aveva rifiutato. Non c’erano possibilità, speranze. Fra loro non ci sarebbe mai stato nessun rapporto. Inuyasha liberò un respiro profondo. Non avrebbe mai visto realizzato il suo sogno di bambino. E adesso, non avrebbe più neanche potuto tenere in piedi un’illusione.

 

Si girò. Voleva uscire da lì. Voleva prendere Kagome e andarsene. Dimenticare quell’incontro, quelle parole. Dimenticarsi di lui. Voleva tornare a Musashi. A casa. Lontano dal disprezzo. Dall’odio. Solo con la sua fragile incompletezza e la sua felicità costruita con fatica.

 

Ebbe appena il tempo di accennare il movimento, quando vide Alessandra attraversare la stanza per andare a fermare il demone. Lo afferrò per il braccio, trattenendolo e costringendolo a voltarsi verso di lei. La ragazza lo aveva raggiunto. E adesso lo fissava dura. Cocciuta. Senza paura. Inuyasha aprì e chiuse la mani, sentendo le dita scricchiolare. Teso. Era agitato e preoccupato. Per Alessandra. Cosa le era passato per la testa? Era già fortunata che l’youkai non le avesse detto niente. Perché adesso lo aveva afferrato in quel modo brusco?

 

Deglutì a vuoto. Si stavano fissando. Si studiavano. Come due avversari su un campo di battaglia. Dannazione, non avrebbe mai fatto in tempo. Se Sesshomaru si fosse spazientito, non avrebbe fatto in tempo a salvarla. A sottrarla alla mano mortale del fratello. Doveva avvicinarsi e portarla via. Doveva metterla al sicuro. Per ringraziarla della possibilità che gli aveva offerto. Perché non era giusto che lei ci andasse di mezzo.

 

Tuttavia, non riusciva a muoversi. Li guardava, comandando al suo corpo di camminare. Ma non rispondeva. Nessun muscolo gli obbediva. Poteva solo restare lì, immobile, muto spettatore di quel duello silenzioso. Isolato. Dimenticato.

 

Sesshomaru e Alessandra si dimenticarono la sua presenza. Concentrati solo su se stessi. L’youkai a cercare di cogliere le emozioni della ragazza, ad aspettare una sua parola, una spiegazione al suo gesto. Lei a fissare le sue iridi spente, a ricercare un segno della sua dolcezza, su quel viso di marmo. Freddo. Altero.

 

“Sei uno stupido!”

 

Sesshomaru assottigliò lo sguardo. Nessuno poteva permettersi di parlargli in quel modo. Neanche lei. Di insultarlo. Soprattutto, davanti a un bastardo com’era Inuyasha. Si liberò con uno strattone dalla mano della ragazza e si girò completamente verso di lei. Era imponente, alla luce infuocata del tramonto. Alto, teso, autoritario. In un altro frangente, le sarebbe parso dannatamente sensuale. Ma, in quel momento, la ragazza riusciva solo a percepire le tempie pulsarle selvaggiamente. Rabbia. Rabbia. Rabbia. Come non l’aveva mai provata verso di lui. Neanche delusione. Solo rabbia. Perché non voleva capire. Perché si ostinava.

 

Era arrabbiata con lui. Avrebbe voluto prenderlo a schiaffi. Alessandra si sorprese spaventata, mentre cercava di trattenere il tremore furioso del corpo. Temeva le differenze che c’erano anche fra loro. Temeva di veder la fine di quel sentimento che li legava. Le sue paure e i suoi dubbi erano tornati. Prepotenti. Le martellavano nella mente. Lancinanti. Aveva disconosciuto suo fratello. Un fratellastro, va bene, ma con il suo stesso sangue. Eppure, non aveva esitato un attimo a insultarlo e cacciarlo.

 

Avrebbe fatto lo stesso con lei? Perchè fra loro nessuno aveva mai voluto affrontare quell’argomento. Qual era il nome del loro rapporto? Stavano assieme? Poteva considerarsi la sua fidanzata? Sesshomaru non le aveva mai chiarito cosa fosse per lui. Non le aveva mai fatto promesse. Non le aveva mai detto di amarla. Solo che era importante.

 

Ma cosa voleva dire, importante? Fino a che punto? Quanto un oggetto prezioso, o era di più? Non era un oggetto. Non lo sarebbe mai stato. Il demone era stato chiaro a quel riguardo. Ma avevano sempre ignorato quello che lei sarebbe stata dopo la guerra. Quando il suo ruolo di archiatra sarebbe stato superfluo. Si era ripromessa solo di vivere. Con lui. Senza porsi domande. Ma quelle domande non potava proprio ignorarle.

 

Era disposta anche a passare tutta la vita in quel palazzo, fra demoni che non la consideravano e la schernivano. Che la equiparavano a un insetto insignificante. Non le sarebbe importato nulla della loro invidia e del loro astio. Ma voleva essere sicura che per lui invece contava qualcosa. Che non era un’ombra nelle sue giornate. Voleva sapere se…l’amasse.

 

“Bada”. Sussurrò con voce bassa e tagliente. “Sesshomaru non permette a nessun ningen di parlargli in questo modo”

 

“Allora sarò io il primo a farlo” sibilò Alessandra di rimando, avanzando di un passo.

 

Inuyasha, visibilmente sorpreso del cambiamento della ragazza, si spostò di lato per riuscire a vederle il viso. Una maschera di cera. Fredda. Gli occhi bui e taglienti. Magnetici, ma inquietanti. Un mare oscuro in cui affogare. Naufragare senza salvezza. Ne fu impressionato. Molto. Quella ragazza fragile, quella ragazza umana, stava sfidando suo fratello con un menefreghismo folle. Sembrava che il viso impassibile del demone trovasse in lei lo specchio della sua espressione.

 

Alessandra aveva dovuto alzare un po’ la testa per poter continuare a fissarlo. Non le era proprio piaciuto come l’aveva chiamata: ningen. Sì, era una ningen. Un essere umano. Che male c’era, in fondo? Si credeva superiore perché aveva i sensi più sottili e un aspetto etereo? Se le differenze si basavano su quello, allora era un superficiale. Un illuso.

 

“Vedi di smetterla. Queste non sono cose che ti riguardino”. Erano emerse l’aggressività e la strafottenza che caratterizzavano le sue reazioni nei momenti di eccessiva tensione. Sesshomaru non si lasciava travolgere quasi mai dagli eventi e non abbandonava la sua singolare eloquenza, espressiva e penetrante, anche se lo tradiva la sfumatura glaciale e seccata della sua voce. Però, in quel momento, riusciva solo a pensare a quello che era. Al ruolo che ricopriva e che la ragazza stava mettendo in discussione. Si stava intromettendo nel suo passato. Nella sua vita segreta e dolorosa.

 

“Non mi riguardano?! Hai davvero un’alta considerazione di me, se lo pensi davvero!”. Alessandra aveva ricevuto in pieno viso quella frase. Con la forza di uno schiaffo. Probabilmente, se davvero l’avesse colpita, le avrebbe fatto meno male. Invece, l’aveva trafitta con le parole. Dure. Pungenti. Affilate. Lame.

 

Non era nulla per lui. Nulla! Era importante, ma per cosa? Per cosa?! Per le sue labbra, forse. O per il suo corpo. No. Non lo voleva credere. Glielo aveva detto: le aveva detto che non era la sua amante. In un istante, le ritornarono alla mente le settimane trascorse. Gli incontri clandestini, le carezze e i baci rubati con la paura di essere scoperti. Lei che si alza prima dell’alba, scivolando fuori dalle sue braccia, per raggiungere la sua stanza prima che Jacken o un attendente si rechi dal Principe.

 

Non era la sua amante, eppure perché in quel momento si vergognò di avergli ceduto? Di aver dormito con lui? Non si era mai pentita della sua scelta. Perché credeva che lui le volesse bene. Che prima o dopo avrebbero trovato il modo per poter camminare alla luce del sole. Invece, adesso, nella sua mente si insinuava il dubbio che non fosse la corte il nemico da affrontare. Ma lui. Con le sue convinzioni. Con la sua testardaggine.

 

Non era la corte a non volerla, era Sesshomaru ad essere incapace di accettare per lei un ruolo diversi da quello di una presenza indefinita al suo fianco. Si era adagiato nell’incerto, lasciando tutto irrisolto. Fornendole spiegazioni false. Mendaci. Solo per non affrontare se stesso.

 

“Cosa sono per te?...”. Un sussurro impercettibile, ma che giunse alle orecchie del demone. Sesshomaru però lo ignorò. In quel momento, la sua rabbia era ancor troppo grande. Per l’umiliazione. Perché gli aveva risposto a quel modo davanti a suo fratello.

 

“Ritirati adesso. Ci vedremo dopo”

 

Alessandra raddrizzò le spalle. Non era ai suoi ordini. Non gli apparteneva. Lei sola decideva per sé. E in quel momento, nonostante tutto quello che le gravava sul cuore, un solo pensiero le attraversava la mente. Convincerlo. Perché di Inuyasha aveva bisogno. Doveva allenarsi, per riuscire a sopravvivere. Per vincere la sua cecità. L’ultima cosa: convincerlo. Perché, anche se lei poteva non valere nulla, lui era troppo importante. E all’idea che fosse esposto alla morte non poteva evitare di sentirsi angosciata. Nonostante il modo in cui l’aveva trattata.

 

“No! Io non ma ne vado finchè non mi spieghi come pensi di risolvere la questione”

 

“Come è stato fatto finora”

 

“Koga non potrà muoversi per almeno una settimana ancora!”. Aveva alzato la voce. Per la prima volta, la sentiva urlare, con la forza della disperazione e un’intonazione roca e agitata.

 

“Smettila di urlare”. Alessandra si accorse solo in quel momento di aver gridato. Non lo faceva quasi mai. E con lui non lo aveva mai fatto. Aveva sempre trovato nella calma la sua forza. L’arma migliore per affrontarlo e stupirlo. Invece, adesso si era lasciata travolgere dalla paura.

 

“Se servirà una settimana, aspetterò”

 

“Ma non vuoi capire?! Ogni giorno perso equivale a un suicidio! Cosa ti impedisce di accettare il suo aiuto? Cosa?!”

 

Sesshomaru si allontanò da lei. Sentiva la rabbia pronta a esplodere. Ma istintivamente si era ritratto. Per evitare di farle del male. Per cercare di dominare una reazione che lo avrebbe portato a colpirla. A ferirla. Senza volerlo. Solo per rabbia. Per farla tacere. Per non dover sentire quelle domande che lo costringevano a cercare delle risposte che non voleva più ascoltare.

 

“Sesshomaru! Rispondimi!”. Lo afferrò per le spalle e lo scosse con disperazione.

 

“È solo un bastardo”

 

“È tuo fratello!” ribattè stringendo ancora di più la veste del suo kimono. Non capiva il motivo di quella ostinazione. Di quell’insensato rifiuto.

 

“Un fratello che vorrei morto!”

 

Sentì la presa allentarsi si colpo e la ragazza allontanarsi da lui. Aspettava una risposta che non venne. Ci mise un attimo a capire il motivo di quel silenzio. Le sue parole…Quello che aveva detto. Come aveva potuto farlo? Quelle parole…dovevano averla ferita. Lei…suo fratello…lo aveva perso. E gli voleva bene. Solo in quell’istante realizzò le drammatiche conseguenze di quelle parole che gli erano sfuggite. La verità, ma che probabilmente la ragazza non avrebbe mai accettato. Non lo avrebbe più accettato. Non lo avrebbe più voluto. Solo odiato. Per quello che aveva detto.

 

La sentì allontanarsi, sconvolta. Incredula. Percepì il suo odore confuso con quello dell’hanyou. Se ne stava andando. Con lui. Lasciando un sussurro a riempire il buio della sua mente.

 

“Ti auguro che non accada mai. Anche se te lo meriteresti. Perché quello che si prova è straziante”

 

*****

 

Sistemò un nuovo hoari nel bagaglio, e poi si voltò verso il futon. Rin si era addormentata, finalmente. Accanto a lei, un batuffolo bianco sonnecchiava, muovendo di quando in quando le orecchie a captare qualche rumore sospetto. Alzava il musetto a controllare e poi si risistemava accanto alla sua padroncina.

 

Alessandra coprì la bimba e la sfiorò con una carezza. Per quella sera, le avrebbe lasciato il suo letto. Tanto lei, di dormire, non ne aveva voglia. Si alzò per prendere una coperta da infilare nello zaino di Kagome. La strada per tornare a Musashi sarebbe stata lunga, e l’inverno era ormai al suo culmine. La ragazza avrebbe sofferto il freddo, durante la notte. Anche se Inuyasha, probabilmente, l’avrebbe scaldata tenendola stretta a sé, voleva cercar di rendere il loro ritorno il più agevole possibile. In fondo, se si erano spinti così lontani, era stato per colpa sua.

 

Avrebbero dovuto percorrere un territorio molto vasto. Avrebbero fatto quella stessa strada che lei aveva compiuto con il demone. Si abbracciò istintivamente le spalle. Era bello quando erano ancora lontani dal palazzo. Quando erano solo loro due, senza nomi né impegni. Quando Sesshomaru l’aiutava a salire sugli alberi e la teneva stretta a sé, mentre aspettavano l’alba. Quando lui era solo un ragazzo. Quello che l’aveva accarezzata, che le aveva dato il suo primo bacio, con cui aveva dormito. Allora non c’erano paure se non quelle dettate dal loro imbarazzo, dalla loro innocenza. Allora, non c’era niente. Solo loro due.

 

“Stai bene?”

 

Alessandra trasalì nel sentirsi toccare la spalla. Kagome le si era seduta accanto, un po’ preoccupata. L’aveva chiamata tre volte, ma non aveva risposto. Restava lì immobile, persa nei suoi pensieri. L’aveva sfiorata, ma ancora non rispondeva. Alla fine, le aveva scosso la spalla.

 

Alessandra alzò su di lei gli occhi tristi. La luce della candela sfumò nel buio di quello sguardo. Tremò e si contorse. Ne era come inghiottita. Ma comunque le sorrise rassicurante. Stava bene. Aveva solo avuto un momento di debolezza. Di sconforto.

 

Kagome le prese di mano la coperta, e la sistemò nello zaino. Sembrava pronto a scoppiare. Forse aveva esagerato. Ma in fondo, meglio essere prudenti. Alessandra rubò un biscotto dal tavolino e gettò un’occhiata alla torre, oltre la veranda. La luce dello studio era accesa: Sesshomaru era ancora sveglio. Sospirò, passandosi una mano nei capelli. Non era più arrabbiata con lui. Solo delusa. Mortalmente affranta. Non sapeva se sarebbe ancora riuscita a guardarlo come prima. Rischiava di ritrovarsi ad analizzare ogni suo gesto, ogni sua parola.

 

“Hai un’altra coperta?”

 

Il sussurro di Inuyasha la fece voltare verso l’interno della stanza. Kagome si era addormentata appoggiata al ragazzo. Era davvero stanchissima. Le avevano raccontato del colloquio, degli insulti e delle parole sprezzanti. Era stata tentata di andare dall’youkai e scaricare su di lui tutta la sua rabbia. Ma chi si credeva di essere? Solo perché era un demone completo si considerava superiore al fratello?

 

È facile ritenersi migliori quando la vita ti ha offerto sempre tutto su un piatto d’argento. Quando non hai mai dovuto lottare, per conquistarti qualcosa. Per affermare quello che sei. Sesshomaru aveva sempre trovato tutto pronto, mentre Inuyasha aveva dovuto farsi strada nella vita con le unghie e con i denti. Ricacciando indietro umiliazioni e angherie. Alzando la testa anche quando la voglia di piangere è un nodo alla gola che ti impedisce di respirare.

 

E nonostante quello che le avevano detto, del modo in cui Alessandra era stata trattata e di come avevano litigato, la ragazza aveva rifiutato il loro invito. Aveva scosso la testa e sorriso malinconica. Voleva restare. Almeno, ancora per un po’.

 

Alessandra estrasse dall’armadio un futon e l’hanyou vi adagiò la ragazza, facendo attenzione a non svegliarla. Le sfiorò il viso con una carezza gentile e le diede un bacio sulla fronte. Kagome mugolò qualcosa di incomprensibile, ma le sue labbra si atteggiarono in un sorriso. La contemplò ancora un attimo, e poi raggiunse Alessandra sulla veranda.

 

“Non hai freddo?”

 

La ragazza scosse le spalle. Sì. Aveva freddo. Ma non era un freddo normale. Le veniva da dentro. Dalla mancanza di lui. Da quello che le aveva detto. Invitò il ragazzo a sedersi e tornò a concentrarsi sul primo spicchio di luna. Forse anche lei era destinata a vivere la storia della signora d’argento. Amare qualcuno d’irraggiungibile. Perché loro appartenevano a due modi troppo diversi. Avevano educazioni diverse e convinzioni differenti. Eppure…eppure erano sempre stati capaci di capirsi. Avevano instaurato fra loro una complicità silenziosa e intrigante. Un coinvolgimento suadente.

 

In fumo. Era davvero andato tutto in fumo? Scosse la testa e si voltò verso il suo ospite. Di profilo, nella penombra della candela, assomigliava molto al fratello. Se non fosse stato per le orecchie canine e lo sguardo caldo, avrebbe davvero potuto illudersi che ci fosse Sesshomaru con lei. Inuyasha si accorse dello sguardo smarrito della ragazza e si voltò interrogativo verso di lei. Lo fissava in un modo strano. Malinconico.

 

“Che hai?”

 

“Scusami” Alessandra abbassò il viso.”Non avrei dovuto insistere. Se sei stato insultato, la colpa è mia”

 

“Non dire sciocchezze!”. Il ragazzo l’aveva interrotta bruscamente, sviando il suo sguardo subito dopo. Non doveva essere abituato a ricevere delle scuse. Lo mettevano in imbarazzo. Alessandra si sorprese della sua reazione e dopo un attimo lui continuò in modo più conciliante.

 

“Tu non hai colpe. E poi, sono abituato alle offese di Sesshomaru. Non ti preoccupare. Non è la prima volta che mi rinfaccia di essere un bastardo, né sarà l’ultima. Ho sopportato di peggio”

 

Alessandra si cinse le gambe e non commentò. Avrebbe voluto consolarlo, rassicurarlo. Cambiare discorso per distrarlo. Ma lei non era brava in quello. Non sarebbe mai stata in grado di consolarlo come aveva fatto Kagome alcune ore prima. Era riuscita a dissipare tutte le rughe dalla sua fronte e a cancellare la malinconia dai suoi occhi. Lei, invece, quando si trovava in situazioni del genere, non sapeva mai come comportarsi. Aveva paura di peggiorare le cose. E allora se ne stava zitta. In disparte. La tacciavano di superficialità, di cinismo e indifferenza. In realtà, la sua sensibilità la spingeva a restare accanto a che fosse triste per offrigli il suo aiuto. Ma non con le parole, che spesso sono vuote e false. Con la sua presenza.

 

“Sei sicura di voler restare qui?”

 

Annuì. Non lo sapeva spigare bene neanche lei, ma non aveva la forza di lasciare il demone. Nonostante quello che le aveva detto. Non se ne sarebbe mai andata, almeno non prima di aver chiarito con lui tutte le domande che le ronzavano in testa. Ed erano tante. Sarebbe rimasta con Sesshomaru. Anche perché aveva preso un impegno. Era l’archiatra di corte. Finchè il fantasma della guerra non si fosse dissolto, lei non se ne sarebbe andata. Ma anche non gli avrebbe più ceduto. Non prima di aver ottenuto delle risposte. Vere. Esaurienti. Autentiche.

 

“Perché? Hai visto come ti ha trattata, no? Per lui, tutto ciò che non ha un’aura demoniaca al suo livello vale meno di un verme. Perché vuoi restr qui a farti umiliare?”

 

Non riusciva capire la testardaggine di quella ragazza. Quando le aveva sentito addosso l’odore del fratello, lo aveva sfiorato il dubbio che fosse la sua amante. Anche Rin odorava di demone, ma in modo diverso. Meno penetrante. Alessandra, invece, ne era rivestita come un velo invisibile. E perché fosse accaduto doveva essere stata molto tempo e molto a lungo vicina al demone. Ma poi, dopo aver visto come l’aveva trattata quella sera, si era dovuto ricredere. L’odore era dovuto al fatto che, come medico, forse lo aveva curato alcune volte. Nulla di più.

 

La ragazza lo guardò e poi fissò la torre con gli appartamenti dell’youkai. Perché voleva restare? Facile. Perché lo amava. Perché stare lontano da lui significava perdere ciò che le aveva ridato la vita. Equivaleva a riprecipitare nel buio della depressione. Dell’inganno disilluso. Lei lo sapeva, ma non poteva dirglielo. Non poteva esprimergli quello che provava per Sesshomaru. Forse l’avrebbe derisa o forse solo avrebbe creduto ad una scusa. Mentì. Aggrappandosi a quella bugia che il demone aveva costruito per lei. Alla loro protezione ingannevole.

 

“Ho preso un impegno”.

 

*****

 

§§

 

Appena rientrò a palazzo, gli fu comunicato che un alcuni subordinati di suo padre chiedevano di poterlo incontrare: ragioni di stato della massima importanza. Sbuffò in modo impercettibile. Suo padre gli aveva lasciato un compito ingrato. Avrebbe mille volte preferito andare con lui in battaglia, invece di restare a palazzo.

 

Ma Inutaisho era stato categorico. Lo aveva fatto chiamare nel suo studio e lo aveva fissato serio negli occhi. Suo figlio stava crescendo: bello, fiero, autoritario. Adulto. Troppo adulto, per la sua età ancora giovane. Non si abbandonava mai ad uno scherzo, ad un sorriso. Sembrava che fosse stato estratto dal ghiaccio: ammaliatore, ma freddo.

 

E adesso, una responsabilità enorme su spalle ancora fragili. Un compito gravoso per un ragazzo così giovane. Ma aveva bisogno di essere sicuro, nella sua casa. Di lasciarsi dietro qualcuno di fidato. Della sua vecchia cerchia, Morigawa era ormai solo un ricordo e Hidoshi purtroppo era morto già da tempo. Restava solo Kumamoto, ma lui doveva seguirlo in battaglia. Quindi non c’erano altre possibilità. Aveva affidato al figlio il sigillo della casata. Lo aveva investito del compito di rappresentarlo, ogni suo atto sarebbe equivalso alla sua parola.

 

Sesshomaru lo aveva fissato con una punta di delusione negli occhi d’ambra. Avrebbe preferito una nomina nell’esercito. Inutaisho, allora, gli aveva poggiato un mano sulla spalla. Un contatto, dopo tanto tempo. Uno dei pochi che riusciva a strappare al figlio. Capiva perfettamente il suo stato d’animo.

 

“Quel sigillo è segno di una delle più alte dignità al mondo e il portarlo comporta capacità ben maggiori di quelle di un guerriero. È qui, nel palazzo, che imparerai ad essere un Principe, non sul campo di battaglia. È la politica la professione di un sovrano, non l’uso della lancia e della spada”.

 

Quelle parole gli risuonarono in testa, mentre lasciava le sue stanze e si dirigeva verso la sala delle udienze. Chissà cosa avevano da dirgli di tanto importante, da non aspettare nemmeno il giorno e non lasciarlo riposare.

 

Entrò nella grande sala illuminata da lucerne d’oro cesellato e con colonne lignee rivestite di corallo e avorio. Raggiunse la piattaforma rialzata e sedette al suo posto. Non si sarebbe mai seduto al posto del padre. Non ancora. E in cuor suo sperò che quel giorno non arrivasse mai.

 

Ad un suo cenno, il più anziano dei dignitari gli si avvicinò e si inginocchiò davanti a lui. La freddezza degli occhi del principino era tale da scoraggiare chiunque. Era ancora giovanissimo, eppure si mostrava degno del padre. E forse migliore di lui.

 

“Mio signore…Perdoni la nostra impudenza…ma è cosa importante è…”

 

“Non tergiversare”. Voce fredda e tagliente. Gli stavano solo facendo perder tempo. E lui non era proprio nelle condizioni di spirito ideali per sentire le loro sciocche preoccupazioni e i loro insulsi battibecchi.

 

“Vostro padre ha un’amante”

 

Sesshomaru sorrise. Un sorriso impercettibile. Di scherno. Nel vedere il dignitario spiare impaziente la sua reazione. Non sapeva nulla, di un’amante. Ma non ne avrebbe certo fatto una tragedia. Lui era cresciuto ormai, e suo padre aveva tutti i diritti di cercare qualcuno che lo compiacesse.

 

“Mio padre è vedovo da molti anni. Se ha voluto un’amante, non posso certo biasimarlo”

 

Il dignitario alzò il viso. Sembrava sorpreso. E molto preoccupato. E Sesshomaru non ne capiva la ragione.

 

“È diverso, signore. Vostro padre si è innamorato di una principessa. Di una ningen”

 

Provò un moto di ribrezzo. Una ningen. Ma, in fondo, forse era meglio così. Non poteva che significare che era alla ricerca di un semplice divertimento. Una ningen richiede meno attenzioni di una yasha. Nessun riguardo.

 

“Non vedo differenze. Anzi, ritengo proprio che il fatto che abbia scelto una ningen denoti solo che cerca un’avventura”

 

“Vi dico che è diverso!” insistette il demone, con una sfrontatezza che lo fece tremare, perché il giovane Principe non perdonava chi gli avesse recato in alcun modo offesa. Come stava facendo lui, contraddicendolo. “È innamorato, ha perso la testa. È come quando…” fece un breve respiro “…come quando viveva ancora vostra madre”

 

Sesshomaru cominciò a sentirsi agitato. Suo padre…suo padre innamorato. Infatuato di un’umana. Di una stupida ningen. No. Non poteva essere vero. Doveva essere un trucco. Una trappola ordita apposta. Avevano detto che era una principessa…Forse sperava di ottenere un qualche vantaggio per i suoi possedimenti.

 

Sì. Doveva essere così. Suo padre si stava fingendo innamorato perché la voleva usare per arrivare ai suoi territori. E in più si sarebbe concesso un’avventura. Tutto calcolato. Certo. Perfetto. Ma la sua sicurezza svanì appena il cortigiano riprese a parlare.

 

“L’umana è incinta, e noi temiamo che la voglia sposare”

 

“Sono solo vostre supposizioni”. Voce ferma, ma dentro un campanello d’allarme suonò. Avvisaglia di un sospetto che non voleva accettare. Era incinta…E allora perché era ancora viva? Perché suo padre non l’aveva uccisa, cancellando la possibilità di un figlio di sangue misto? Di una macchia nella loro stirpe pura?

 

“Supponiamo che la ragazza partorisca un maschio…”

 

Sesshomaru ammutolì, agitato da un turbamento improvviso. “Spiegati chiaramente. Dì quello che pensi: chi ci ascolta condivide le tue parole”

 

“Supponiamo, dunque, che il Principe voglia davvero sposarla. Noi non potremmo opporci, è troppo potente. Ma quella femmina comprometterebbe la nostra stirpe pura e suo figlio potrebbe essere nominato Principe come voi. Potrebbe, anche, divenire lui l’erede legittimo, e voi il bastardo, il figlio della precedente sposa”

 

Sesshomaru non ci voleva credere. Suo padre gli voleva bene. Si era sempre impegnato perché fosse fiero di lui e lo aveva educato per essere un Principe. Non aveva senso quel discorso. Non poteva averlo.

 

“Non succederà mai”

 

“Voi non capite. Una ragazza bella e ardente può sconvolgere completamente la mente di un uomo maturo, e un bambino appena nato attirerà tutte le sue attenzioni, perché lo farà sentire giovane, riportando indietro il tempo che scorre inesorabile anche per noi demoni”.

 

Sesshomaru non sapeva cosa rispondere, ma si vedeva che quelle parole lo avevano profondamente turbato. Si passò una mano sugli occhi. Doveva fidarsi di quei demoni? Doveva credere alle loro parole spesso ingannevoli?

 

“Cosa dovrei fare, secondo voi?”

 

“Siete l’erede. Voi ora avete il sigillo e il potere, in questo momento”

 

“Cosa intendi?”

 

“Per voi, ora, sarebbe facile eliminare il problema. Anche fino alla radice. Basterebbe pagare qualcuno”

 

Sesshomaru rabbrividì. Gli stavano proponendo di ordire un omicidio. Un agguato mortale ai danni di quella ningen e del frutto di un errore. Gli stavano proponendo di eliminare anche suo padre, se aveva capito bene le loro allusioni. Ne fu disgustato. Non per la donna umana. Lei avrebbe potuto essere eliminata in ogni istante. Ma per suo padre. Perché non riusciva a credere che potesse lasciarsi irretire da un essere inferiore. Che non avesse calcolato tutto. Che davvero volesse un altro figlio. Anche un hanyou. Che non fosse soddisfatto di lui.

 

Si alzò senza degnargli di una risposta e uscì dalla sala. Avrebbe parlato con suo padre. Direttamente. Avrebbe chiesto a lui spiegazioni. Sperando di sentirsi dire una parola diversa dalla realtà prospettata.

 

§§

 

*****

 

Cieco.

Sesshomaru era cieco. Ecco spiegato il motivo per cui necessitava di aiuto. Non se ne era accorto, la sera prima. Non si era avvicinato al fratello abbastanza, e poi lui aveva atteggiato ogni suo movimento alla naturalezza. Lo aveva ingannato.

 

Ora, però, lo stava fissando nelle iridi d’oro opaco. A poca distanza dal suo viso. Gli occhi dell’youkai leggermente dilatati per la sorpresa. Per lo stupore. E anche lui era stupito. Incredulo. Ansimava. Quasi addosso a lui. Se non fosse stato per la presa che esercitava sull’elsa, probabilmente gli sarebbe rovinato addosso.

 

Continuava a fissarlo. Adesso, la sensazione di pericolo era esplosa nella sua testa. Ecco cosa Alessandra non aveva voluto dirgli. Le parole ambigue, le frasi sibilline…tutto assumeva contorni chiari e definiti. Spiegazioni. Anche la frase della ragazza, prima che iniziassero a combattere.

 

Si erano alzati all’alba, per ripartire evitando di dover incrociare qualche cortigiano. Inuyasha non aveva voglia neanche di vedere Koga. Eppure, avrebbe dovuto andare a ringraziarlo, perché, facendo il suo nome ad Alessandra, lo aveva indirettamente riconosciuto come una persona molto forte. Più di lui. Aveva cacciato quel pensiero. Non se la sentiva proprio di dover spiegare all’ookami i motivi della sua partenza. Non in quel momento.

 

Voleva solo tornare a Musashi. Con Kagome. La ragazza aveva messo in spalla il suo zaino e aveva di nuovo cercato di convincere Alessandra a seguirli. Le sembrava incredibile che preferisse restar lì. Che senso aveva, se nulla la legava a quel luogo? Non avrebbe preferito, invece, tornare nel presente? Alessandra aveva scosso la testa. Lei lì non aveva più nulla, solo ipocrisia. Che senso aveva quindi, ritornare? La credessero pure morta suicida. Non le importava.

 

Kagome proprio non capiva: anche in quel palazzo era circondata dall’ipocrisia e dal disprezzo. C’erano Rin, Koga e Ayame, d’accordo, ma lei non credeva che fosse quello un motivo sufficiente. Tanto più che la persona di cui era medico era un demone freddo e insensibile, distaccato. Almeno fosse stato gentile con lei. E invece niente. L’aveva umiliata.

 

Alla fine, aveva dovuto desistere, ma era riuscita comunque a strappare alla ragazza la promessa che, se non si fosse trovata bene, se non avesse più sopportato quel luogo, li avrebbe raggiunti. Loro erano disposti a proteggerla, ad allontanarla dal demone. Non doveva temere una vendetta o per la sua vita. Loro non avrebbero permesso che Sesshomaru le facesse del male.

 

Stavano per incamminarsi, quando una voce li aveva fermati. Dal palazzo, si era avvicinata lentamente una persona. Kagome non aveva capito subito di chi si trattasse, ma Inuyasha invece sì. Lo aveva capito dall’odore. E la cosa non gli piaceva.

 

Sesshomaru li aveva raggiunti. In mano, stringeva la sua spada. Tokijin. Un riverbero sinistro alla prima luce del giorno. Aveva un’espressione fredda e dannatamente determinata. Vogliosa di combattere.

 

“Se vuoi andartene, allora dovrai sconfiggermi”

 

Lo sapeva. Lo sapeva. Suo fratello non avrebbe perso l’occasione di sfidarlo. Di batterlo. Nella sua casa. Nel suo palazzo. Avrebbe trionfato di nuovo; lo avrebbe sconfitto e umiliato. Lo avrebbe ucciso. E Kagome sarebbe stata persa. No. Non poteva lasciarsi sconfiggere. Anche se di combattere non aveva nessuna voglia. Era stufo di farlo. Contro di lui. Perché non lo lasciava in pace? Perché?!

 

Aveva snudato Tessaiga contro voglia e aveva detto alle ragazze di allontanarsi. Kagome aveva subito obbedito al suo invito, ma Alessandra invece non si era mossa. Continuava a fissare l’youkai. A scrutarlo come se volesse leggere nella sua anima. Era vestito con un semplice komon nero con motivi d’oro. Non era in tenuta da combattimento. Come se la decisione di combattere lo avesse colto all’improvviso. Facendolo uscire dalle sue stanze senza neanche curarsi di smettere l’abbigliamento informale.

 

Avrebbe voluto chiedergli spiegazioni. Sapere il perché di quello scontro. Ma lui si era limitato a gettarle un’occhiata distratta e poi si era concentrato nuovamente sul fratellastro. Non gli aveva mai visto uno sguardo simile. Non era quello di quando voleva uccidere. Di quando si allenavano o combatteva realmente. C’era l’ombra del dubbio in quelle sfumature opache. E Alessandra ne fu sorpresa.

 

Alla fine, si era allontanata. Sussurrando all’orecchio di Inuyasha una preghiera. Quella di non affrontarlo con tutta la sua forza, se non fosse stato strettamente necessario. Quella di evitare un attacco frontale che avrebbe potuto essergli fatale. L’hanyou aveva acconsentito con un cenno del capo, ma senza capire il perché della richiesta. Se non ci stava attento, era lui quello che rischiava di non uscirne illeso. Altro che andarci per il sottile.

 

Adesso, sapeva. Tutto tornava. Alessandra gli aveva fatto quella richiesta perché era a conoscenza della cecità del demone. E perché non voleva che si uccidessero. Che lui lo uccidesse. Continuava a fissare l’ambra opaca del fratello. A spiare le sue reazioni. Sembrava non ricordarsi nemmeno di averlo davanti.

 

Il viso si Sesshomaru si rifletteva sulla lama di Tessaiga. Gli aveva sfiorato il volto, producendogli un sottile taglio sulla guancia e conficcandosi nel muro di cinta dietro di lui. Se suo fratello non avesse calibrato male l’attacco, lui, in quel momento, non sarebbe più vivo. Un rivolo di sudore gli percorse il viso. Ancora non riusciva crederci. Lo aveva battuto. E con una facilità sorprendente. Aveva percepito l’odore della cicatrice del vento, ma con l’aria che si era alzata durante lo scontro non sarebbe mai stato in grado di evitarla. Era stato vicino all’essere ucciso.

 

Ma anche durante lo scontro, nonostante fossero solo cinque giorni che aveva smesso gli allenamenti con Koga, aveva faticato molto. Non riusciva tener testa al fratello. Si trovava costretto a schivare gli assalti all’ultimo, sentendo l’odore del ferro sfiorarlo.

 

Non aveva proferito parola per tutto il tempo. Concentrato sulle mosse dell’avversario. Era sceso in campo con la convinzione di liquidarlo in poco tempo. Con la determinazione di aver ragione: lui non aveva paura di essere sconfitto da lui. Non voleva convincersi che Kumamoto avesse ragione. Non lo avrebbe mai accettato.

 

Il generale si era presentato davanti alle sue stanze poco prima dell’alba. Appena rientrato dalla notte passata in esplorazione, aveva saputo da Homoe che Alessandra aveva portato a palazzo il fratello di Sesshomaru. Che si erano scontrati e che alla fine il suo signore aveva cacciato il ragazzo e liquidato qualsiasi possibilità di allenamento con lui. Gli era stato detto che lo aveva deriso e schernito, e che non aveva risparmiato neanche la ragazza.

 

Non aveva neanche aspettato che gli slacciassero la corazza e si era precipitato verso gli appartamenti del Principe. I soldati di guardia lungo i corridoi avevano tentato inutilmente di fermarlo, ma lui aveva ruggito come un leone. Si sentiva le vene scoppiare per la rabbia, l’incredulità e la frustrazione. Aveva fulminato con un’occhiata Jacken, che gli si era fatto incontro, e lo aveva scostato con un gesto rude. Non gli importava proprio che fosse ancora prestissimo e che l’youkai fosse rientrato da poco nei suoi appartamenti. Doveva vederlo subito.

 

Sesshomaru era balzato sul letto, tenendosi la testa che gli scoppiava. Era appena riuscito a chiudere occhio, sprofondando in un sonno greve e agitato. Tormentato da mille ricordi, dal pensiero di quando aveva saputo della possibilità di avere un fratello mezzo-sangue. Dal ricordo delle emozioni provate quando suo padre aveva confermato la veridicità delle parole dei cortigiani. La prospettiva di un fratello hanyou si era insinuata nel suo cervello come una fitta atroce, che ti scuote per poi farti svenire. La rabbia, il dubbio di aver fallito, di non esser stato all’altezza. Aveva rivissuto tutto in una carrellata continua e snervante. Agitata. Si era dimenato nel sonno, sudando, ansimando.

 

E ora veniva svegliato in quel modo. All’improvviso. Quando aveva dato chiaramente disposizione di non disturbarlo per nessun motivo. Si era sollevato a sedere e aveva gridato. Cosa che faceva davvero raramente. Ma di cui non si accorse nemmeno. Ancora troppo intontito per prestare attenzione la tono della sua voce.

 

“Chi osa…”

 

“Io!”, aveva gridato non meno forte Kumamoto.

 

Sesshomaru aveva smorzato la sua collera come fosse stato Inutaisho in persona a entrare nella sua stanza. Si era alzato sistemandosi la veste e passandosi la mano fra capelli scarmigliati. Non lo poteva vedere, ma aveva percepito la collera del soldato.

 

“Cosa c’è, generale?”

 

“Perché lo hai fatto? Perché hai cacciato tuo fratello?”

 

Aveva saputo. Non erano passate che poche ore, e lui ne era già stato informato. Davvero la corte poteva avere orecchie dappertutto, se un incontro riservato come quello nel suo studio già era di dominio pubblico. Ma non fu quello a indignarlo. Fu il tono di rimprovero di Kumamoto. Come se lui avesse potuto rimproverargli qualcosa.

 

“Inuyasha non è mio fratello. È solo un hanyou”

 

“Che sciocchezze stai dicendo?! È questo che ti hanno insegnato i tuoi maestri? Questi i principi cui ti sei rifatto fino adesso? Dove sono, invece, gli insegnamenti di tuo padre?”

 

“Questi sono gli insegnamenti che ho ricevuto e che mio padre ha dimenticato! E io non ha intenzione di mostrarmi debole come lui!”

 

Sesshomaru ormai gridava senza neanche cercare di trattenersi. Come si permetteva, quel generale, di salire in cattedra, di riprenderlo e insinuare il sospetto che lui non fosse degno del padre? Lo stava trattando come se fosse suo figlio. Come se lui avesse il dovere di riprenderlo perché stava sbagliando. Ma lui non sbagliava. Stava facendo quello che i suoi criteri morali gli dettavano. Salvaguardava l’integrità della sua famiglia. Della sua stirpe pura.

 

“Sei uno sciocco! Neanche tu lo hai capito! Eppure, Inutaisho si augurava che tu cambiassi. Che almeno tu stessi dalla sua parte! E da quella di Inuyasha! Quel ragazzo è venuto qui per aiutarti! Si è avventurato nella tana del lupo consapevole di quello che avresti potuto fargli! Ma non ha esitato!”

 

Kumamoto era livido di indignazione. Il figlio del suo caro amico, il suo piccolo principe, era stato plagiato per bene. I dubbi e le preoccupazioni di Inutaisho si stavano rivelando corrette. L’educazione di Sesshomaru gli stava impedendo di crescere realmente. Lo aveva confinato in una rigidità mentale da cui difficilmente sarebbe riuscito a uscire.

 

“Vedi di smetterla, altrimenti non avrò riguardo nemmeno per il fatto che eri un subordinato di mio padre!”

 

“Tuo padre mi ha sempre trattato da suo pari! Lui non sapeva neanche cosa fosse la superiorità di cui ti hanno riempito la testa i tuoi maestri! Lui era fortissimo, ma non certo perché credeva nell’invincibilità della sua razza!”

 

“Bada! Stai disonorando la sua memoria! E mancando di rispetto a me!”

 

“Oh, ma io ti sto facendo mostra del rispetto che meriti! E sto salvaguardando il ricordo di tuo padre dai tuoi stupidi deliri di supremazia e dominio!”

 

Sesshomaru aveva fatto scricchiolare le nocche. Aveva voglia di picchiarlo. Di farlo tacere. Lo stava umiliando. Sbeffeggiando. Irridendo. E soprattutto, stava dicendo che aveva sbagliato tutto. Che non aveva mai seguito le orme del padre. Che non era alla sua altezza. Non ebbe tempo di far nulla che ricevette un comando secco. Il primo che gli venisse dato, in tutta la sua vita.

 

“Preparati! Tu adesso andrai a chiedere scusa a quel ragazzo! E anche ad Alessandra”

 

“Non hai alcun diritto di darmi ordini, generale!”

 

“E tu che diritto hai di trattarli a quel modo? Rispondimi! Ti credi davvero tanto superiore? Perché allora non accetti che si alleni con te? Se davvero non è alla tua altezza, lo batterai in poco tempo. O forse hai paura che ti possa sconfiggere?”

 

“Io non ho nessuna paura. E non devo dimostrare a nessuno quello di cui sono capace! Né a te né a nessun altro”

 

Kumamoto lo aveva afferrato per la veste e strattonato. Possibile che gli occhi di quel ragazzo dovessero essere sempre così gelidi? Non riusciva a essere grato alla ragazza che si era preoccupata per lui? Non riusciva a riconoscere di aver bisogno di aiuto? Non ci sarebbe stato nulla di male. Nessuno glielo avrebbe mai rinfacciato. Non era una debolezza mostrarsi vulnerabili, ma il crederlo. Quello sì.

 

“Tu ti allenerai con lui! O di tua volontà o ti saprò costringere io!”

 

“Mai! Piuttosto la morte!”

 

“È tuo fratello!”

 

“È un bastardo!”

 

Sesshomaru si era ritrovato a terra, scaraventatovi da uno schiaffo inaspettato. Improvviso. Non era preparato e non aveva potuto evitarlo. Aveva sentito un bruciore fortissimo alla guancia e poi aveva realizzato di non trovarsi più in piedi. Si era portato la mano al volto; gli occhi sbarrati e increduli. Lo aveva colpito. Kumamoto. Lo aveva schiaffeggiato come neanche suo padre aveva mai fatto. Lo aveva trattato come un bambino. E adesso lo sentiva incombere su di sé. Ansimante.

 

“Battilo, e io accetterò qualsiasi pena. Ma se fallirai, almeno sarai cosciente di cosa hai perso”

 

Se ne era andato lasciandolo a terra, con il labbro spaccato. E la testa che gli pulsava. Il Principe aveva afferrato la sua katana e si era precipitato fuori. Ripetendosi che lo faceva solo per dimostragli che lui non temeva nessuno. Che lui non era secondo a nessuno. E che Inuyasha non avrebbe mai potuto batterlo.

 

E ora, la realtà era davanti a lui. Suo fratello lo aveva sconfitto. E lui era vivo solo per miracolo. Si riprese e lo allontanò con un gesto brusco, incamminandosi verso il palazzo. Sentì la voce del ragazzo chiamarlo.

 

“Sesshomaru…”

 

Si fermò senza voltarsi. Cosa voleva ancora? Irriderlo? Schernirlo? Pensò ad Alessandra, a pochi passi da lui. Non aveva mai avvertito così incolmabile quella distanza come in quel momento. Doveva esser contenta. Aveva ragione lei. Non era in grado di combattere. E Inuyasha era l’unico che avrebbe potuto aiutarlo. Aveva ragione. Aveva dannatamente ragione. Alla fine, aveva vinto lei. Eppure, non riuscì a immaginarsi sul viso della ragazza la soddisfazione per quanto avvenuto sotto i suoi occhi.

 

“Tu…Tu sei…”

 

Inuyasha non completò neanche la frase. Ancora non voleva crederci. Aveva combattuto con lui in quelle condizioni, ed era riuscito a impegnarlo non poco. Nulla da dire. Suo fratello era davvero forte. E molto abile.

 

Sesshomaru sospirò mentalmente. Già… aveva scoperto che era cieco, non poteva non averlo notato. Inutile mentirgli. Ma non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di dirglielo. Di ammettere la sua debolezza.

 

“Hai vinto. Puoi andartene”

 

“Non ne ho alcuna intenzione”

 

“Non voglio la tua pietà”

 

Inuyasha sorrise. Quello era suo fratello. Cocciuto e ostinato. Freddo. Fiero. Quello era il fratello che gli era toccato. E cui voleva bene. Anche se non lo ammetteva apertamente.

 

“Nessuna pietà. Diciamo che non voglio rischiare che tu venga ucciso da qualcun altro”

 

Sesshomaru tentennò un attimo. Ma poi riprese a camminare. Passando accanto al generale che aveva assistito a tutto lo scontro. Non vide, negli occhi di Kumamoto, la scintilla di soddisfazione che li attraversava. Il piccolo principe forse stava iniziando a crescere davvero.

 

“Fa come ti pare”

 

Il sorriso di Inuyasha si allargò maggiormente. In un modo tutto suo, ma gli aveva accordato il permesso di restare. E aveva accettato di allenarsi con lui.

 

Maledetto testardo! Certo che farò di testa mia! E tu tornerai a combattere come una volta. Te lo prometto, Sesshomaru!

 

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Capitolo 34
*** 34. DOMANDE ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!

 

Lo so che vi ho fatto aspettare un po', ma per scusarmi oggi posterò due capitoli. Mi dispiace per questa pubblicazione a singhiozzo, ma non ho proprio la possibilità materiale di attenermi ad una cadenza regolare. Per quella, dovrete aspettare l’estate. Comunque, nei momenti liberi sto procedendo con i nuovi capitoli, quindi non credo passerà molto tempo dal prossimo aggiornamento.

 

Per quanto riguarda i capitoli, sono entrambi ambientati a palazzo, il primo con Inuyasha e Kagome e il secondo...

 

Grazie infinite a tutti coloro che leggono e commentato e anche a chi legge soltanto.

 

Buona lettura!!!

 

 

 

CAPITOLO 34

DOMANDE

 

 

Inuyasha si fermò lungo il corridoio esterno, respirando a pieni polmoni l’aria umida e tiepida della notte. Continua a nevicare, anche se con minor intensità. Erano giorni che nevicava. Ogni volta che apriva gli occhi, lo accoglieva un cielo dalle sfumature grigie e malinconiche. Un cielo che continuava a riversare sulla terra sottili pagliuzze bianche.

 

Odiava la neve. Tutto quel bianco. Quel colore immacolato e accecante. Quel colore puro. Odiava la neve. E l’inverno. Perché lui era nato in inverno. Era venuto a sporcare con la sua presenza la vita di sua madre. A condannarla al disprezzo. Odiava l’inverno, perché gli aveva fatto conoscere Kikyo. Perché l’aveva vista per la prima volta sotto un cielo triste e abbacinante. Pallida, fragile e autorevole. Adulta, nel suo aspetto di bambina cresciuta in fretta. Aveva sporcato anche lei. L’aveva trascinata con sé nel suo mondo di rifiuti e disprezzo. Si era aggrappato a lei come un naufrago. E l’aveva trascinata con sé. Odiava l’inverno, perché gli aveva donato sentimenti che poi si erano sciolti alla prime avvisaglie di sole. Perché lo aveva ingannato.

 

Fermò il lento strofinio dell’asciugamano sui capelli ancora umidi. Restò fermo, la testa fra le mani, sotto la stoffa. L’inverno gli aveva fatto un nuovo regalo: l’amore di Kagome. Ma questa volta non avrebbe permesso al sole di portarglielo via. Non avrebbe acconsentito che la sua vita scivolasse di nuovo fra le sue mani. Kagome era tutto. Il respiro, il sangue veloce nelle vene, il cuore che pulsa impazzito. Kagome era la vita; la vita ridatagli dopo cinquant’anni di oblio. Dopo anni trascorsi nel sonno, cullando la speranza di non risvegliarsi per non dover di nuovo lottare. Per non dover di nuovo soffrire.

 

Lei era stata la luce nel suo dolore freddo e oscuro. La mano sempre pronta a tendersi verso di lui, per quanto l’allontanasse. Per quanto si allontanasse. No. Questa volta l’inverno avrebbe covato un germoglio destinato a fiorire. Non una gemma condannata a morire.

 

Sospirò. Nonostante i pensieri cupi, si sentiva bene. Rilassato. Tranquillo. Eppure, si trovava nella casa di suo fratello. Nella casa di loro padre. Nessuna sicurezza, in teoria. Inuyasha, però, aveva avvertito raramente una sensazione simile nella sua vita. Forse stava semplicemente cullando la fantasia di una famiglia. Di una vita normale fra quelle mura. La vita che avrebbe voluto da bambino.

 

Scosse la testa. Stava correndo troppo. Stava andando oltre i sogni. Alzò gli occhi alla torre. Alta, oscura, si confondeva con le ombre della notte. Non distava tanto; passando dall’esterno era raggiungibile in un attimo. La finestra al primo piano era ancora illuminata. Era sempre illuminata. Ogni notte. Anche quando il Principe non occupava le sue stanze, quando era impegnato in riunioni e consigli, quella finestra diffondeva sempre una debole luminescenza. Sembrava un faro. Timido. Fragile. Un richiamo. Un sussurro che si confonde nel silenzio.

 

Chissà se era davvero così. Chissà se davvero l’youkai lasciasse accesa quella candela per chiamare qualcuno. O se semplicemente era abituato così. In fondo, a lui la luce non doveva servire: né nelle sue attuali condizioni né prima. Con i suoi sensi finissimi non ne avrebbe avuto certo bisogno. Inuyasha risalì con lo sguardo la struttura di legno, carta di riso e mattoni. Un altro piano, con un balcone incastonato fra le tegole d’ardesia del tetto. E poi, in cima, una torretta. Non la più alta del palazzo, a quanto ne sapeva lui, ma quella da cui di certo si poteva godere lo spettacolo migliore. Affacciava sui giardini esterni senza ostacoli, spaziando fino al lago oltre il perimetro delle mura e alle montagne invalicabili. Sì, una vista da togliere il fiato.

 

Si sorprese a pensare se mai suo fratello l’avesse contemplata. Forse, era stato proprio da quella torretta che loro padre gli aveva disegnato i suoi territori. Un piccolo quadrato di legno pregno di ricordi, dunque. Per Sesshomaru esistevano, quei ricordi? Li conservava gelosamente nel cuore, come avrebbe fatto lui se li avesse avuti? Li manteneva vivi? O semplicemente li aveva abbandonati alle pieghe del tempo? Sommersi sotto la sabbia di una clessidra che non si può girare.

 

La fioca luce al primo piano attirò nuotante la sua attenzione. Sembrava tremare lievemente. Ondeggiò, disegnando un’ombra fugace ed evanescente. Naufragò, inghiottita dalla notte. Era stata spenta. Per la prima volta da una settimana, il ragazzo vide quella luce spegnersi prima dell’alba. E poi, il rumore leggero del legno che scorre. Per un istante, gli sembrò di scorgere la figura del fratello affacciato alla finestra. Solo un istante, però.

 

Si convinse di aver sognato. La stanchezza, il vapore caldo e il rilassamento dovevano avergli tirato un brutto scherzo. Non era possibile che Sesshomaru si affacciasse verso l’ala dove alloggiavano gli unici ningen presenti a palazzo. Non avrebbe avuto alcun senso. Inuyasha sedette sulla veranda, appoggiandosi pigramente ad una delle colonne di legno. Nonostante fosse vestito a metà e reduce da un ofuro, non aveva freddo. Stava bene lì. Nel silenzio.

 

I passi metallici delle sentinelle lungo le mura perimetrali gli arrivavano attutiti dalla distanza; anche dall’accampamento proveniva ormai solo un leggero brusio. In definitiva, quella prima settimana era trascorsa tranquilla. Certo, era stato confinato nell’ala più interna del palazzo. Gli era stato proibito di mostrarsi e raccomandato di evitare qualsiasi contatto con la corte. Ma, anche se all’inizio si era opposto, alla fine aveva realizzato che era la cosa migliore.

 

In quel palazzo, lui era un intruso. Una presenza scomoda e imbarazzante. Quasi scandalosa. Perché era additato come il bastardo, il frutto di un legame proibito e disdicevole. Una macchia. Che andrebbe subito cancellata. E se si trovava lì lo doveva solo ad Alessandra, e all’educazione rigida del fratello, che gli impediva di venir meno a un impegno preso. Anche con un hanyou. E Sesshomaru aveva dovuto cedere all’evidenza: lo aveva sconfitto nel loro scontro. Si era guadagnato la possibilità di andarsene, ma era rimasto. Forse per orgoglio, forse per non deludere Alessandra. Forse per illudersi.

 

Inuyasha sapeva di essersi imbarcato in un gioco pericoloso. E che avrebbe potuto uscirne psicologicamente distrutto. Restare a palazzo significava confrontarsi sempre con Sesshomaru. Non solo durante gli allenamenti, ma in ogni cosa. Nel comportamento, nello sguardo, nella modulazione della voce. Anche semplicemente nell’orgoglio. Significava avere sempre davanti la forza e la superiorità del fratello, la sua natura completa, la sua imperturbabile sicurezza. Significava avere davanti agli occhi, costantemente, un modello cui rifarsi. Scomodo. Ingombrante. Significava mettersi in competizione con lui. E con l’ombra di suo padre.

 

Anche se non lo voleva ammettere, dopo la battaglia con Sounga, aveva iniziato a guardare al fratello in modo diverso. Cercava in lui le tracce del padre, le caratteristiche comuni. Per avere almeno una parvenza effimera di un padre sconosciuto. Non bastava un’immagine sfuocata ed evanescente a colmare la sua voglia di conoscere. Di sapere. L’immagine era solo il primo passo. Un involucro da riempire. Con caratteristiche. Sensazioni. Elementi.

 

Iniziò a giocherellare soprappensiero col rosario che portava al collo. Si chiedeva se mai ce l’avrebbe fatta a farle, al fratello, le mille domande che gli ronzavano in testa. Non era certo di averne il coraggio. Gli sembrava assurdo ma, benché combattesse con lui ogni giorno per molte ore, si era drammaticamente reso conto che non avrebbe mai trovato la forza di affrontare Sesshomaru come aveva fatto Alessandra. Non sarebbe mai riuscito a sostenere così a lungo gli occhi del fratello.

 

Si tormentava sul motivo di quegli sguardi. Perché ricordava bene le sfumature strane, cangianti, che aveva visto negli occhi della ragazza il mattino in cui lui e l’youkai avevano combattuto. Rabbia, delusione, rimpianto, orgoglio. Era lo sguardo in cui lui si era sempre specchiato quando battagliava col demone. E adesso, lo aveva visto sul volto di una ningen.

 

Non capiva. Non capiva cosa legasse Alessandra al demone. Non voleva pensare a un sentimento di affetto. Gli sembrava impossibile. Forse sarebbe stato ipotizzabile nella ragazza. Sesshomaru, a dispetto della cecità, era e restava pur sempre un bellissimo ragazzo. Maturo, intrigante, ammaliatore nella sua sfuggevolezza. Restava pur sempre un figlio della luna. E come la luna possedeva un fascino conturbante. Ma se anche Alessandra provasse o avesse provato una certa simpatia nei confronti del demone, Inuyasha non riusciva a immaginarsi ricambiato quel sentimento. No. Era impossibile. In quella settimana, la ragazza e il demone non si erano mai visti, se non di sfuggita. E sempre si erano apparentemente ignorati. Ma, allora, perché lei si era rifiutata di andarsene, di tornare nel suo mondo, comodo e agiato, sicuro? Perché?

 

Cosa vi lega?...

 

*****

 

Dal shoji socchiuso filtrava una debole luminescenza. Una luce calda e avvolgente, che dissipava le ombre della notte dipingendo la neve bianca e il legno scuro. Il ragazzo si avvicinò alla fessura. La stanza era illuminata da delle candele e, nel mezzo, un futon. Spartana, come sistemazione, ma comunque confortevole.

 

Sorrise e fece scivolare la porta di legno e carta di riso, per poi appoggiarsi allo stipite. Kagome fu attirata dal rumore e si voltò interrogativa. Era tardi. Non poteva essere Rin; e poi sarebbe passata per il corridoio interno. Allora, chi mai la cercava a quell’ora?

 

Quando lo vide, appoggiato alla porta, i capelli ancora leggermente umidi e l’aria trasognata, Kagome si sollevò a sedere d’istinto e si smarrì nell’ambra dei suoi occhi. Le piaceva fissare le sfumature d’oro delle sue iridi. Affogare nel sole di quello sguardo innocente, da bambino. Erano occhi simili a quelli di Sesshomaru, ma Kagome non ricordava di aver mai visto nel demone un’espressione infantile. Il viso dell’youkai era sempre serio e distaccato. Mauro. Responsabile. Quello di Inuyasha, invece, indulgeva più volentieri ai sentimenti: lasciva trasparire la rabbia, la tristezza, l’imbarazzo, la gioia.

 

“Posso entrare?...”

 

Fu il ragazzo a riprendersi per primo. A sfuggire alla magia della notte. All’incanto di lei, avvolta nel suo pigiama rosa pallido di flanella. Gli piaceva quando potava i vestiti della sua epoca. Non che con il kimono che le aveva visto indossare durante quella settimana non stesse bene, ma non era più lei. Non era così che l’aveva vista la prima volta. Non era con quegli abiti che era abituato a cercarla. In quel momento, mentre si chiudeva la porta alle spalle e si andava a sedere su uno zabuton, Inuyasha ringraziò mentalmente il fatto che Kagome non sopportasse il freddo. Perché era stato il freddo a farle preferire quel vestito allo yukata che si userebbe per dormire.

 

La ragazza segui i suoi movimenti, e quando lui le sedette accanto, istintivamente si avvolse con la trapunta. Prima, per la sorpresa di vederlo, non si era accorta che non indossava più il suo solito kimono. Kagome abbassò il viso, imbarazzata. Lisciava le pieghe della coperta con mani nervose e rispondeva a monosillabi alle domande pacate dell’hanyou. Non riusciva ad alzare gli occhi su di lui.

 

Nel sedersi, il komon che Inuyasha indossava si era mosso e ora lasciava intravedere il petto muscoloso del ragazzo. L’uso della katana aveva scolpito il suo fisico e lo rendeva estremamente conturbante. I pettorali ben delineati, i muscoli tesi e definiti, senza però essere eccessivi. In fondo, era ancora un ragazzo. E come se non bastasse, c’era quel profumo di sapone e di fresco nell’aria che la stordiva. Un sapore buono. Gustoso. Le ricordava la sua casa, un abbraccio rassicurante.

 

Kagome si sentì sollevare il viso e incontrò lo sguardo preoccupato di Inuyasha. Si era accorto che qualcosa non andava, che la ragazza era strana, anormale. Le aveva chiesto il motivo e lei non aveva risposto. Allora, aveva fatto pressione sul mento per costringerla ad alzare la testa. Sorrise divertito quando la vide arrossire ancora di più. Cercava di sfuggire il suo sguardo, di evitare di guardarlo.

 

Inuyasha si era accorto di cosa l’imbarazzasse e con un gesto apparentemente casuale si stiracchiò, richiudendo l’abito. E tutto tornò come prima, con la ragazza che iniziò a parlare di mille cose Gli bastava poco per essere felice: il sorriso della sua Kagome. La risata di quella ragazza pura e bella. Sentì il respiro accelerare mentre le prendeva il viso fra le mani, interrompendo all’improvviso il fiume delle sue parole. Si chinò su di lei e le sfiorò le labbra, per poi approfondire il bacio e stringere la ragazza in un abbraccio possessivo.

 

Kagome si sentì avvolgere dal profumo dell’hanyou, dall’odore di sapone della sua pelle. Dal calore del suo corpo. Gli passò le mani sulle spalle, risalì il collo e affondò nei capelli lunari e umidi, massaggiandogli la testa in modo maledettamente sensuale.

 

Non importava che fossero nel palazzo di Sesshomaru. Non importava che fossero di due razze diverse, che demoni o mezzi-demoni e ningen non dovessero amarsi. Non importava che Kagome fosse una sacerdotessa e che il suo ruolo la chiamasse, invece, a uccidere quelli come Inuyasha.

 

A loro non importava nulla. Avevano sempre vissuto ignorando quelle regole; combattendo per abbattere stupidi pregiudizi. Non importava nulla. C’erano solo loro, con il loro amore e le loro paure. Con le insicurezze di chi sente qualcosa di sconosciuto far battere il cuore. Il desiderio di scappare e la voglia che il dolore continui. Perché è piacevole quel martellare continuo del petto. Quel nodo in gola e nello stomaco che ti sembra voler spezzare il respiro.

 

Inuyasha aveva attirato a sé la ragazza, e ora le stava accarezzando il viso. Dovunque fosse, se c’era lei nulla aveva più importanza. Nulla. Si sentiva invincibile. Pari a suo fratello. Lei sola poteva batterlo davvero. Lei sola aveva presa sul suo cuore.

 

Ne aveva avuto l’ennesima conferma una alcuni giorni prima. Quel giorno, il terzo da quando aveva incominciato gli allenamenti, si avvertiva una certa tensione nell’aria. Ormai, la notizia che il secondogenito di Inutaisho, il bastardo, il figlio di una relazione infamante, fosse a palazzo era trapelata. E Sesshomaru si era visto costretto a rassicurare tutti sui suoi progetti: una situazione temporanea, finchè il Principe degli Yoro non si fosse ripreso. Lui. Lui che odiava dover fornire spiegazioni si era trovato costretto ad ammettere non solo la presenza del fratellastro, ma anche il suo bisogno di aiuto. Si era dovuto umiliare da solo.

 

Sesshomaru era entrato nella grande palestra senza alcun entusiasmo. Anzi, quel girono gli costava più fatica del solito doversi allenare col fratellastro. Non lo aveva neanche degnato di una risposta al suo saluto e si era sfilato la corazza e l’haori. Almeno in quelle occasioni, almeno all’inizio, doveva essere completamente libero per saggiare le sue effettive capacità. Aveva snudato Tokijin e deposto Tenseiga. Nessun impedimento. Come quando era lui a insegnare. Quando era lui il maestro. Solo che , allora, aveva davanti una ragazza dagli occhi tristi e vuoti. Aveva fiutato per un istante l’aria. Si era illuso. Solo per un momento. Aveva sperato di avvertire l’odore di Alessandra, in quella palestra. Di saperla lì, a osservarlo. Invece, dopo il primo giorno, la ragazza non aveva più assistito agli allenamenti. C’era sempre una terza persona, ma mai lei. Sesshomaru non aveva ancora smesso il suo disappunto per l’iniziativa che aveva preso, e a quanto sembrava neanche lei gli aveva perdonato il modo in cui l’aveva trattata.

 

Eppure, entrambi soffrivano per quella lontananza dettata solo dal loro orgoglio. Perché entrambi si erano sentiti violare nella propria intimità. Nelle proprie insicurezze. Si erano scontrati, e ne erano usciti entrambi scottati. E adesso, nessuno dei due aveva la forza di tentare una nuova conversazione. Meglio ignorarsi. Piuttosto che veder crollare definitivamente qualcosa che era nato fra loro, su basi di vetro. Meglio ignorare. Meglio resistere. Cercare di convincersi di essere nel giusto, e che è l’altro a dover per primo presentare le proprie scuse.

 

Sesshomaru aveva sospirato mentalmente. Anche se non lo voleva accettare, Alessandra gli mancava. Gli mancava la sua presenza, il modo che aveva di accarezzarlo con lo sguardo, di scherzare con lui. Con serietà, ma anche con innocenza. Il modo in cui riusciva a dominarlo, senza mai imporsi davvero. Senza forza o violenza. Quella ragazza…quella ragazza era riuscita davvero a domare il Principe dei demoni. A entrare in lui, dribblando fra le sue ferite per raggiungere quel posticino nel suo cuore che la aspettava. Che l’aveva sempre aspettata. Impedendo l’accesso a odio, violenza, dolore.

 

Aveva raggiunto il centro della palestra. Quel giorno aveva fretta di concludere. Di smettere l’allenamento e di ritirarsi nei suoi appartamenti. Non lo lasciavano in pace. Non bastavano i grattacapi dati dalla guerriglia; ci si mettevano pure i cortigiani, tempestandolo di domande sull’hanyou e sulla ragazza. Di nuovo. Di nuovo le insinuazioni. Le allusioni. Sempre più chiare. Sempre più esplicite. E lui che doveva imporsi una calma che in realtà non possedeva e dare a tutti una risposta. L’aveva scandita bene, una sola volta, e se ne era andato: Alessandra non era la sua amante; era l’archiatra di corte. Aveva voltato le spalle ai convenuti per le udienze e aveva indetto un consiglio di guerra. Inutile. Vano. Ma efficace per incanalare meglio la stizza e la rabbia.

 

E ora, lo aspettavano delle ore di concentrazione massima. Mentre l’unica cosa che lui avrebbe voluto era andarsene. Lasciar perdere tutto. Tornare alla sua vita errante. Ai suoi boschi azzurri e ai cieli infiniti. Tornare a viaggiare. Con Alessandra. Come prima di arrivare a palazzo. Come prima che il suo orgoglio lo trascinasse in quella situazione sfibrante.

 

“Ti muovi?”

 

Voce scocciata. Inuyasha aveva raggiunto il fratello e avevano iniziato a combattere. A lato del rettangolo degli allenamenti, Koga aveva osservato i due fratelli iniziare a duellare e aveva notato lo sguardo severo del demone. Sembrava dimentico del fatto che fosse lui a dover imparare. Che lo scopo non era vincere, ma abituarsi ai suoni, agli odori, al mutamento impercettibile del respiro dell’avversario.

 

Alessandra aveva espressamente proibito ai ragazzi di allenarsi utilizzando tutta la loro potenza, per evitare pericolosi incidenti, e questa sua decisione era dovuta proprio al fatto che l’intento non era decretare un vincitore e un vinto, ma abituare il demone a percepire la velocità del combattimento, evitando però che rischiassero di ferirsi gravemente.

 

Inuyasha era molto forte, avvantaggiato dalla sua grande determinazione a vincere, abile nell’uso creativo della katana; non rispondeva a nessuna tecnica particolare, seguiva solo l’istinto. Sesshomaru, invece, nonostante superasse il fratello in altezza, era veloce e sapeva andare a segno, colpendo indifferentemente e facendo prevalere il suo lato glaciale, quello che gli derivava da anni di addestramento militare.

 

Ecco perché Alessandra aveva raccomandato che ci fosse sempre presente una terza persona; ufficialmente, per valutare i progressi e i punti deboli su cui intervenire, in realtà per evitare che la perdita di controllo da parte di uno dei due non portasse gravi conseguenze. In principio, la ragazza aveva pensato di seguire personalmente l’evolversi degli allenamenti, ma dopo il primo giorno aveva dovuto, amaramente, constatare di non essere in grado di seguire l’incontro. Vedere Sesshomaru le provocava una serie di reazioni contrastanti che la portavano a distasi. Risultava inutile. Allora, aveva chiesto a Koga e Kumamoto di sostituirla, adducendo il pretesto che fossero maggiormente periti di lei nella scherma.

 

“State tranquilli” aveva suggerito Koga sistemandosi contro il muro, “è solo un allenamento”.

 

Si era accorto che i due fratelli, dopo essersi studiati per un momento, avevano iniziato a muoversi, parando l’uno gli assalti dell’altro, portati con troppa lentezza perché potessero essere di qualche efficacia. Pian piano Sesshomaru aveva cominciato ad accelerare l’esecuzione delle mosse, tentando di variare la direzione improvvisamente per cogliere di sorpresa Inuyasha. Adeguandosi al ritmo dell’avversario, l’hanyou si era mosso anche lui più velocemente, continuando a schivare e parare, senza perdere per un attimo la concentrazione. Non riusciva a capire l’atteggiamento del fratello. Non era il solito. Non aspettava l’ultimo momento, non calibrava attacchi e parate. Non usava i sensi, ma l’istinto. Ed era pericoloso. Perché il ragazzo non era sicuro di potersi fermare in tempo prima di fargli male, se lui per primo manteneva un atteggiamento che sfuggiva alla prudenza.

 

“Stai sudando, Sesshomaru” si era stupito ad un certo punto Inuyasha. Aveva parato l’ennesimo fendente e si era allontanato con un salto. Davanti a lui, il fratello digrignava i denti, emettendo un ringhio strozzato. Sembrava che la sua mente fosse annebbiata. Lottare. Lottare. Voleva solo quello.

 

“Vuoi che facciamo una pausa?”

 

In risposta, Inuyasha ebbe un affondo che lo costrinse a inarcare la schiena per evitare la lama. Gli occhi spenti del demone era furiosi. Ardenti. Vedeva fantasmi, paure, rimproveri. Vedeva Naraku, la sua condizione inaccettabile per un demone come lui. Per un vincitore. E rivedeva se stesso ridotto ad allenarsi con il fratellastro. Con un hanyou. Rivedeva Alessandra. I suoi occhi tristi. La sfumatura disillusa e amareggiata della sua voce. Risentiva il suo odore allontanarsi da lui. Confondersi con quello di Inuyasha.

 

“Sta zitto!”

 

Lo aveva urlato; tanto che Inuyasha ne fu sorpreso. Non aveva mai visto il fratello perdere la pazienza. Avrebbe voluto fermare il combattimento, ma Sesshomaru non gli aveva lasciato possibilità alcuna. Continuava ad attaccare, senza logica. Solo istinto.

 

“Tu! Tu vieni qui e credi di potermi insegnare! Di poter battere me, il Principe dei demoni! Tu che sei solo un bastardo!”

 

Credi di poter portare via Alessandra!

 

Inuyasha aveva respinto la spada e il corpo del fratello. Aveva iniziato ad arrabbiarsi lui pure. Era abituato alle offese del demone, ma il riceverle in quel momento lo mise sotto pressione. Aveva sentito gli insulti, le insinuazioni e gli oltraggi. Aveva sentito Sesshomaru buttargli contro un veleno sottile e doloroso. Una realtà che detestava dover ammettere, e che però era tale. Era un bastardo. Un mezzo-sangue. Per colpa sua, suo padre era morto. Per colpa sua, sua madre era stata macchiata di infamia. Aveva condannato al dolore chi gli aveva dato la vita. E in quel vortice di umiliazione aveva trascinato anche il fratello. Puro. Completo. Perfetto.

 

“Non è mia la colpa! Mettitelo in testa una volta per tutte!”

 

Sesshomaru aveva abbandonato completamente la ragione, la sua abituale compostezza, e si era gettato contro il fratello avvolgendo la spada del suo youki.

 

Koga però si era reso conto che il livello di combattimento s’era alzato troppo. I due avversari si muovevano troppo velocemente, attaccavano con rabbia e determinazione, cominciavano ad accrescere la loro energia più del dovuto.

 

“Adesso smettetela! Per oggi, vi siete divertiti abbastanza!”

 

Sesshomaru aveva spazzato l’aria con fendenti micidiali e Inuyasha si era difeso bene ma aveva iniziato a sentire il pericolo, la sua vita in gioco come in un vero scontro, e aveva iniziato anche lui ad abbandonarsi all’istinto. A far appello a tutte le sue forze per sopravvivere. Non c’era più l’allenamento, non c’era più il fratello. Solo un avversario da battere per sopravvivere.

 

“Inuyasha! Sesshomaru!”

 

Le grida d’avvertimento di Koga furono ignorate. Inuyasha ormai era sordo alle parole, e continuava ad attaccare. Voleva sconfiggere il fratello, fargli ingoiare tutti i suoi insulti. Nello spazio di pochi secondi, il vantaggio del demone era stato annullato e Sesshomaru si era ritrovato costretto a indietreggiare, a schivare all’ultimo e per miracolo la lama letale del fratello. Eppure, non smetteva di far accrescere il suo youki.

 

Alla fine, l’youkai aveva scagliato il suo colpo, che era esploso in un’onda devastante rivolta contro il fratello. Il Soryuha si era abbattuto su Inuyasha, che non aveva potuto far altro che contrattaccare, rispondendo inconsciamente al pericolo come avrebbe fatto in una battaglia vera. Aveva scagliato il Bakuryuha.

 

Le due energie si erano scontrate, ma, diversamente che in passato, l’hanyou era riuscito prevalere. La cecità aveva impedito al demone di calibrare le distanze e di imprimere forza sufficiente al colpo. Sarebbe bastata una leggera pressione, e Sesshomaru sarebbe stato travolto. Inuyasha aveva raccolto le sue forze e si era lanciato sul fratello.

 

“Inuyasha!”

 

Il vento prodotto dai colpi era calato d’intensità, riportando la calma nella palestra devastata. Nell’aria fluttuavano ancora i brandelli di sfotta della manica di Sesshomaru. All’ultimo, quella voce aveva risvegliato Inuyasha dal combattimento e gli aveva permesso di deviare il colpo, quel tanto da evitare di colpire il fratello. Aveva centrato la manica sinistra dell’abito, tranciandogliela fin quasi alla spalla.

Adesso, il ragazzo era inginocchiato a terra. Ansimava per lo sforzo e fissava delirante il fratello. Sesshomaru continuava a guardare davanti a sé, apparentemente impassibile. Però, sentiva piccoli brividi attraversargli il corpo, e un rivolo di sudore freddo disegnargli il viso. Di nuovo. Di nuovo suo fratello lo aveva battuto. E lo aveva risparmiato. Se non fosse stato per l’urlo di Kagome, lui non avrebbe potuto evitare di essere travolto. Nonostante la potenza del Bakuryuha, Sesshomaru si era reso conto che non sarebbe stato in grado di evitarlo. Lo aveva sentito incombere su di sé. Avvolgerlo e cercare di schiacciarlo. Lo aveva percepito in ogni atomi della stanza, avrebbe potuto arrivare da ogni parte. Alla fine, l’energia devastante lo aveva solo sfiorato. Aveva distrutto il kimono, ma lasciato illeso lui.

 

E tutto perché il suo fratellastro era stato risvegliato e aveva impresso una rotazione maggiore alla katana. Lo aveva sentito ansimare, davanti a lui, per lo sforzo sostenuto. Tessaiga era una spada potentissima. Insignificante all’apparenza, ma in realtà letale. Era la spada che il demone avrebbe voluto per sé. La spada del guerriero. Non come quella che gli era toccata in eredita.

 

Sesshomaru si era sfiorato la spalla sinistra, lì dove il fratello gli aveva amputato il braccio. Sentiva male. Molto male. Anche se non c’era nessuna ferita. L’onda d’urto della spada. Un male accecante. Come allora. Come quando aveva perso l’arto. Ma non aveva voluto dargli la soddisfazione di sentilo lamentarsi. Si era voltato, deciso ad andarsene. Per quel giorno, gli allenamenti erano finiti. Non si era fermato nemmeno ai richiami del fratello. Li aveva totalmente ignorati. Il suo nome urlato, invocato, ridotto a un sussurro. Flebile. Angosciato.

 

“…Sesshomaru…”

 

Inuyasha era rimasto a terra, balbettando quel nome. Incapace di credere che per poco non lo aveva ucciso. Che solo la voce di Kagome era riuscito a risvegliarlo. E che erano della ragazza le mani che sentiva premergli leggermente sulle spalle, a dargli coraggio. Aveva vagato con lo sguardo per tutto l’ambiente. La bella palestra di legno pregiato era squarciata. Distrutta. E la neve s’insinuava col vento nelle lacerazioni del tetto. Si era alzato a fatica. Con un peso enorme nel cuore. Con un qualcosa di indefinito che gli toglieva il respiro. Se non fosse stato per Koga probabilmente sarebbe caduto di nuovo a terra. Kagome non era in grado di sorreggerlo. Gli era venuto un capogiro e aveva chiuso gli occhi. Invece del pavimento, aveva avvertito delle mani; lo avevano afferrato e lo sostenevano. L’ookami aveva fatto passare un braccio del ragazzo attorno al suo collo e lo aveva trasportato fuori. Lontano da quel luogo di lotta.

 

“Inuyasha? Rispondimi! Che hai?”

 

La voce di Kagome e la mano della ragazza davanti al suo viso. L’hanyou si riprese, come riemergendo da un abisso in cui era sprofondato senza neanche accorgersene. Si era abbandonato ai ricordi di quella giornata. Alle emozioni. Dopo quella volta, la palestra era stata ricostruita a tempo di record, e lui e il fratello avevano ripreso ad allenarsi. Solo che adesso la tensione era sempre più palpabile. E lui sapeva di non riuscire a combattere come prima. Temeva di ferire il fratello. Di perdere di nuovo il controllo.

 

Sospirò e si strinse nelle spalle. Aveva deciso di raccontare tutto alla ragazza. Le sue paure, le sensazioni. La voglia di aiutare il fratello e la delusione di andare a sbattere sempre contro un muro. L’ostilità di Sesshomaru era davvero esasperante. Eppure… eppure lui non voleva rinunciare. Non lo avrebbe mai fatto. Non gli sarebbe mai più capitata un’occasione simile. Forse non sarebbe riuscito a stringere un vero rapporto col fratello, ma qualcosa sarebbe pur dovuto cambiare. Ce l’avrebbe messa tutta per farlo cambiare.

 

*****

 

Non riusciva a dormire.

Si rigirò di nuovo sotto la trapunta calda e pesante. Sveglia. Sveglia. Era maledettamente sveglia. Anche se sentiva tutto il suo corpo lamentarsi e reclamare un po’ di riposo. Anche se ogni sua fibra le stava chiedendo di chiudere gli occhi e abbandonarsi alla notte. Niente. La sua testa non smetteva di lavorare. Di ragionare e creare ipotesi che poi demoliva in un attimo.

 

Kagome sospirò, girandosi prona e tuffando la testa nel cuscino. Non sapeva che ora fosse, ma doveva essere molto tardi. Tutto il palazzo era avvolto da un silenzio quasi irreale. Spettrale. Ululati di lupo e stormire di fronde. Se non fosse stato per il fatto che Inuyasha era troppo stanco, lo avrebbe raggiunto nella stanza accanto. La notte le faceva paura quel palazzo. Ma forse era solo la sua mente che ingigantiva le ombre.

 

Certo, trovarsi in un luogo dove gli esseri umani si possono contare sulla punta delle dita non è affatto rassicurante. Almeno ci fosse stata anche Sango con lei. Invece, era sola. In quella stanza buia.

 

…Inuyasha…

 

Sospirò. Non aveva voluto trattenerlo. Avevano entrambi bisogno di pensare. E riposare. Il ragazzo sembrava stare meglio, dopo che si era sfogato con lei. Ma Kagome capiva benissimo la frustrazione che lo attraversava in quei giorni. Bastava un accenno, anche solo una sciocchezza, perché la sua tranquillità sparisse e riaffiorasse la realtà incerta e scomoda. Avrebbe voluto aiutare il fratello, ma era difficile, visto che Sesshomaru per primo non si lasciva avvicinare facilmente. In più, a volte, sembrava loro di essere prigionieri.

 

Per fortuna, anche se erano confinati in quell’ala del palazzo avevano una certa libertà. Potevano muoversi per i giardini riservati e giungere fino alla biblioteca. E poi, quando Inuyasha era impegnato negli allenamenti, a Kagome non mancava certo la compagnia. Passava molto tempo con Ayame e con Rin, e aveva stretto amicizia anche con Homoe, la figlia di Kumamoto.

 

Nessuno di loro la trattava con disprezzo, anzi c’era sempre un’atmosfera tranquilla e rilassata. Distesa. Un clima che giovava a lei e soprattutto all’hanyou. Gli faceva dimenticare le preoccupazioni e le tensioni. E poi, con Koga si stava instaurando un buon rapporto. Finiva spesso che si insultavano e picchiavano, ma entrambi sapevano che era solo un gioco. Un modo per sfogarsi e indugiare ancora alla giovinezza. Inuyasha non aveva nessun ruolo, in quel palazzo, se non quello di assistere Sesshomaru negli allenamenti. Un incarico neanche ufficiale.

 

Koga invece aveva il grado di generale, nelle armate del Principe dell’Ovest, e di suo alleato. Uno dei principali alleati. Spesso era stato costretto a restare fuori per dei giorni; aveva ingaggiato battaglie rapide, esplorato i territori verso Nord-Est.

 

La presenza di Kagome era quindi un diversivo piacevole per Ayame e la ragazza riusciva a capire perfettamente l’apprensione che leggeva negli occhi della yasha ogni volta che vedeva Koga dirigersi verso la sala delle riunioni. Ogni volta, era un’attesa angosciante: per sapere se sarebbe rimasto o andato incontro al pericolo.

 

Kagome sospirò, mentre si faceva passare fra le dita le sfere del rosario. Glielo aveva tolto. Senza che lui le dicesse niente. Lo aveva liberato da quell’oggetto che li legava indissolubilmente l’uno all’altra. Poche ore prima, quando Inuyasha stava per andarsene, Kagome gli aveva chiesto di chiudere gli occhi. E come al solito il ragazzo aveva accettato di stare al gioco. Aveva sentito le labbra leggere della ragazza sulle sue e le sue mani attorno al collo. Quando poi aveva riaperto gli occhi, aveva visto nelle mani della ragazza lo jyuzu. Sorpresa. Sconcerto. Paura. Aveva provato mille emozioni in pochissimi istanti. E sopra ogni cosa paura.

 

Perché gli aveva tolto il rosario? Era stata lei a rimetterglielo, dopo la battaglia con Sounga. Era stata lei a insistere perché lo portasse ancora. Anche se non ce n’era più bisogno. Anche se ormai lei non aveva paura del ragazzo e si fidava ciecamente di lui. Lo aveva convito a portarlo ancora perché era un simbolo. Il segno di ciò che li univa.

 

E allora perché adesso glielo aveva tolto? In un momento come quello, quando lui aveva più che mai bisogno di sapere che lei c’era, che gli era vicina. Kagome gli aveva sorriso malinconica. Dispiaceva anche a lei non vederglielo più in dosso, ma non voleva rischiare. Meglio rinunciare a un simbolo, che correre il rischio di metterlo in ridicolo davanti a tutta la corte. Se per puro caso gli fosse sfuggita la frase magica al momento sbagliato, non osava nemmeno immaginare le conseguenze. No. Meglio evitare. In fondo, ormai il loro legame era troppo saldo per essere spezzato.

 

Kagome ne era sicura. Anche se Kikyo si fosse materializzata all’improvviso fra loro, lei ormai era certa dei sentimenti suoi e dell’hanyou. E nulla avrebbe potuto scalfirli. Si arrotolò il rosario al polso e si girò in cerca di una posizione più comoda. Quell’oggetto aveva un buon profumo. L’odore del ragazzo, mischiato a quello del legno. Un odore che la rilassava.

 

Chiuse gli occhi. Doveva dormire! Il giorno dopo aveva promesso a Rin che avrebbe pattinato con lei. All’inizio, si era sorpresa della richiesta: non sapeva che nell’epoca Sengoku sapessero pattinare. Ma poi la bimba era stata più chiara, e le aveva detto che era stata Ale-chan a insegnarglielo. E che lei era bravissima.

 

Già…Bravissima a pattinare. Era stato proprio per andare a pattinare, che Alessandra si era avventurata sul Fuji, trovandosi chissà come nel passato. Eppure, anche se adesso avrebbe potuto andarsene, non voleva lasciare quel mondo. Kagome proprio non capiva. Sesshomaru poteva anche essere un bel ragazzo, ma con il carattere algido che aveva non sarebbe mai riuscito ad aiutarla a vincere la depressione. No. Alessandra doveva aver trovato, in quel mondo, qualcosa che l’aveva costretta a reagire. E forse non la voleva lasciare senza aver la sicurezza di non ricadere nella disperazione.

 

…Chissà cos’ha trovato?...

 

Nonostante vivessero nella stessa ala, Kagome aveva visto Alessandra solo di rado in quella settimana. Incrociandola mentre tornava carica di libri dalla biblioteca. Dalle sue amiche aveva saputo che la ragazza passava la maggior parte del tempo nella sua camera, a studiare. Però, prima, usciva più spesso e veniva a giocare con Rin. Adesso, invece, le visite si erano diradate. E anche i pasti, che prima consumavano assieme, adesso la ragazza li faceva da sola, nella sua stanza.

 

Ogni tanto, Rin e Kiba si spingevano fino alla sua porta, ma non entravano. Kagome aveva trovato spesso la bimba e il lupacchiotto seduti davanti alla fusuma della ragazza e solo con una scusa era riuscita farsi seguire e portarli via. Ma anche lei spesso aveva sentito il desiderio di entrare, anche se poi lo aveva sempre messo a tacere.

 

Inoltre, Rin era un ottimo motivo di distrazione, sempre in movimento, pronta giocare, incurante della presenza di demoni accanto a lei, dell’incombenza di una guerra. Quando Kagome le aveva chiesto se non avesse paura a restare lì o non si sentisse sola, la bimba gli aveva sorriso e aveva stretto il suo inseparabile amichetto. Non capiva perché dovesse avere aver paura o sentirsi sola.

 

“Rin non ha paura e non si sente sola. Prima era un po’ triste, perché Rin non aveva nessuno con cui giocare e Jacken a palazzo non può sempre stare con me. Ma adesso Rin non è più sola! Rin ha tanti amici: tu, Kiba, Homoe e Ayame, Koga-kun e Inuyasha-san. E poi anche Ale-chan e…Sesshoamru-sama!”

 

Kagome aveva sorriso sentendo l’appellativo un po’ altisonante che la bimba aveva dato a Inuyasha. Chissà cosa ne avrebbe pensato, sentendolo. Ma era rimasta molto sorpresa che Rin parlasse di affetto anche da parte del demone. Per quello che ne sapeva lei, l’inuyoukai odiava gli esseri umani. E anche se si portava dietro quella bambina, non lo credeva capace di mostrarle il suo affetto. Sempre se ce ne fosse stato. Eppure, aveva visto con i suoi occhi, due giorni prima, qualcosa di molto strano.

 

Sesshomaru si era presentato nella stanza dove Rin e Homoe stavano studiando. La yasha le aveva detto che era stato il Principe in persona ad affidarle l’incarico di provvedere all’istruzione della bimba. Voleva che le fossero date tutte le conoscenze che spettavano ad una hime, anche se era di origine popolare ed era una ningen.

 

Homoe aveva ricevuto un’istruzione eccellente, conosceva perfettamente tutto ciò che una donna doveva sapere, ma suo padre le aveva fatto impartire anche un’educazione di stampo maschile, includendo elementi che solitamente erano riservati agli youkai. E Sesshomaru aveva scelto lei proprio per quel motivo. Voleva che la bimba non fosse seconda a nessuno.

 

Kagome era rimasta molto sorpresa della cosa. Nell’epoca Sengoku l’analfabetismo era molto diffuso, sia fra i ningen sia fra i demoni. Sesshomaru e Inuyasha potevano considerarsi dei privilegiati, perché appartenevano ad una famiglia nobile e quindi avevano ricevuto una buona educazione, e lo stesso dicasi per Sango e Miroku, che dalle rispettive situazioni avevano derivato una cultura molto vasta. Ma la maggior parte della gente non sapeva neanche leggere e scrivere.

 

Ora, che il demone avesse preso quella decisione era un fatto che l’aveva parecchio incuriosita, come l’aveva sorpresa l’ingresso improvviso si Sesshomaru nella stanza. Aveva un momento libero, prima di dover ricevere dei dignitari, e aveva deciso di andare a controllare come se la stessero cavando bimba e istruttrice. Appena era entrato, Rin si era alzata con uno stupendo sorriso e gli era corsa incontro, abbracciandogli una gamba.

 

Kagome aveva temuto che il demone reagisse male, ed era pronta a vederlo allontanare in modo sgarbato la bimba. Invece, Sesshomaru l’aveva presa in braccio e aveva iniziato a parlare con Homoe, mentre Rin gli torturava tranquillamente i capelli d’argento.

 

In quel momento, a Kagome l’youkai le era sembrato un padre amorevole con la figlia. E non era riuscita a capacitarsi di quello che vedeva. Sul viso di Sesshomaru, la freddezza rimaneva, ma era come attenuata da un qualcosa di indefinito. Era come se dai suoi occhi diffondesse un affetto enorme per quella bambina. Kagome si era incantata a studiarlo. Non aveva mai immaginato il fratello di Inuyasha con un’espressione diversa dall’alterigia e dall’indifferenza.

 

Però, significava che proprio tutto di ghiaccio non era. Ma allora perché non mostrava anche solo un briciolo di quell’affetto anche a Inuyasha? Perché si ostinava a trattarlo come l’essere più rivoltante esistente e non smetteva di rinfacciargli la sua origine illegittima? Perché quel demone aveva due volti? Qual era quello autentico?

 

Aveva evitato di riferire quanto aveva vista a Inuyasha. Non voleva umiliarlo, né rattristarlo maggiormente. Però, qualcosa doveva essere successo, perché altrimenti Kagome non riusciva a spiegarsi il cambiamento del Principe. E l’unica cosa cui lei riuscisse a pensare era Alessandra.

 

Sorrise. Si sistemò meglio nel futon e chiuse gli occhi. Aveva deciso. Sarebbe andata a parlare con la ragazza. In fondo, si era ripromessa di diventarle amica. Bene. Sarebbe andata da lei e l’avrebbe tirata fuori dalla sua stanza anche a forza se necessario. L’avrebbe aiutata.

 

Voleva capire cosa la tenesse legata a quel luogo dove lo scherno dilagava. Voleva sapere cosa aveva trasformato Sesshomaru. Voleva sapere se c’era un legame fra la ragazza e il demone. Un po’ per femminile curiosità, un po’ perché Ayame e Homoe le avevano detto che Alessandra e Sesshomaru avevano passato un mese circa da soli, nei boschi. E nessuno sapeva cosa fosse accaduto. Kagome non voleva pensare al peggio, ma non poteva evitare quel pensiero. E allora davvero la ragazza avrebbe avuto bisogno di aiuto per liberarsi dai suoi fantasmi.

 

Vorrei solo poterti aiutare…Spero che me lo permetterai…Vorrei solo esserti amica, Alessandra…

 

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Capitolo 35
*** 35. PASSATO ***


Ecco il secondo capitolo

Ecco il secondo capitolo!

 

Come si risolverà la situazione tesa fra Alessandra e Sesshomaru? Leggere per scoprire. E’ abbastanza lungo, e poi…Fae attenzione al titolo: non è quello che sembra!

 

Fatemi sapere che ne pensate.

 

Un abbraccio a tutti.

 

 

 

CAPITOLO 35

PASSATO

 

 

Rin si gettò sorridente sui cuscini. Era fradicia, ma felice.

Continuava a ripetere che pattinare le piaceva tantissimo, e che voleva tornare presto al laghetto. Prendeva Kiba e lo faceva rotolare con lei, saltellando per la stanza. Eccitata. Contenta. Irrefrenabile. Kagome l’osservava con un sorriso dolce. Era incredibile la vitalità di quella bimba. Un’allegria che contagia, che fa intenerire. Una gioia di vivere che entrava nel cuore e faceva dimenticare dolore e sofferenze. Sentimenti che esplodono violenti, travolgenti. Soffocandoti in respiri profondi.

 

Kagome fece scorrere le oshiire e prese dall’armadio uno yukata verde, con piccoli disegni di fogli e fusti di bambù. Doveva far cambiare la bimba prima che prendesse freddo e si ammalasse. Altrimenti, chi l’avrebbe salvata dalla collera del demone? La ragazza era certa dell’esistenza di un legame forte fra Rin e Sesshomaru, anche se ancora faticava a crederci. Era un legame strano, fatto di gesti accennati e sguardi enigmatici da parte di lui e di sorrisi aperti e parole continue da parte della bambina.

 

“Rin! Vieni a cambiarti, o prenderai freddo”

 

Rin a quelle parole si fermò nella stanza e si toccò il kimono bagnato. Si accorse solo in quel momento di star tremando per il freddo. Fissò la ragazza con in mano il vestito asciutto, poi il suo kimono blu e di nuovo Kagome, regalandole un grande sorriso. Non ci pensava nemmeno, a cambiarsi. Se davvero si sarebbe ammalate per il freddo, forse allora Ale-chan sarebbe andata da lei per curarla. E forse anche il signor Sesshomaru sarebbe venuto.

 

Kagome rimase spiazzata. Quella bimba aveva un cervellino davvero pestifero, a volte. Ma addirittura arrivare ad ammalarsi perché l’inuyoukai e la ragazza andassero da lei era un piano tanto astuto quanto incredibile. Cercò di convincerla a cambiarsi, che non era quello il modo migliore per far venire da lei Alessandra. Le aveva anche promesso che se si fosse cambiata sarebbero andate assieme da lei. Niente. Rin continuava a scapparle. E a ripetere come una cantilena che si voleva ammalare.

 

“Non dire sciocchezze!”

 

Due mani forti, ma gentile, le avevano afferrato le spalle, facendo cessare il suo girotondo entusiasta. L’idea di poter attirare un po’ l’attenzione del suo signore e di Alessandra le aveva messo addosso una frenesia incontrollabile. Ma adesso qualcuno la teneva ferma. Rin si sentì sollevare in braccio e portare verso Kagome.

 

Inuyasha era entrato dalla porta del giardino. Aveva aspettato un attimo prima di intervenire, ma poi, sentendo tutte quelle sciocchezze, aveva deciso di agire. L’aveva presa in braccio e adesso la bimba era contro al suo petto, rannicchiata e con un’espressione triste sul viso. Dannazione! In quel modo ci faceva la figura del mostro cattivo che le toglie qualcosa che la faceva contenta. No. Non voleva questo. Solo che la bimba si cambiasse.

 

Gli piaceva Rin, anche se a volte era un po’ troppo rumorosa. Ma, probabilmente, era proprio quella sua allegria che contagiava ad aver fatto breccia nel cuore di Sesshomaru. Anche se davvero l’hanyou non riusciva a immaginarsi il fratello paziente con lei. Sesshomaru…Trovato! Ecco come convincerla e farle tornare il sorriso.

 

“Se ti ammali, Sesshomaru non sarà affatto contento. Ci hai pensato, Rin?”

 

Rin alzò gli occhi verso il ragazzo che la teneva in braccio. Ambra. Si specchiò in due pozze d’ambra e oro. Fra sfumature che conosceva bene, ma che le sembravano trasmettere più calore, più emozioni. Inuyasha aveva gli stessi occhi del suo signore, ma erano più caldi. Il demone, invece, aveva sempre quello sguardo freddo e lontano. Triste. Anche se un sorriso gli avesse increspato le labbra.

 

Non voleva che il suo signore si preoccupasse. Che fosse scontento di lei. Voleva che fosse orgoglioso di Rin e che la prendesse ancora in braccio. Voleva che venisse un altro temporale, tanto forte da farle così paura da andare di nuovo dal demone. Per poter dormire con lui. Come quella sera. Non lo aveva detto mai a nessuno. Era il loro segreto: suo, di Sesshomaru e Alessandra.

 

Adesso, però, la ragazza non andava più dal demone, non andava più da Rin. Stava sempre nella sua stanza, e non mangiava neanche con loro. Certo, Rin non poteva lamentarsi che le mancasse la compagnia: adesso aveva molte persone attorno a sé, e poi Kiba non la lasciava mai. Anche in quel momento, stava ringhiando contro l’hanyou, reo si tener in braccio la sua padroncina e di aver spento il suo sorriso.

 

“Va bene: mi cambio. Ma poi lei gioca un po’ con Rin, Inuyasha-san?”

 

Kagome represse con fatica una risata nel vedere l’espressione fra l’imbarazzato e il sorpreso di Inuyasha. Che titolo gli aveva dato, quella bambina? San…Nessuno gli aveva mai parlato con tanta deferenza. Anche se sulle labbra di un bimbo poteva suonare più di scherzo che di valore onorifico, il ragazzo ne fu sorpreso e commosso al contempo.

 

Consegnò Rin a Kagome e si dispose ad aspettare. Aveva promesso. Adesso, non avrebbe potuto andarsene. Tanto più che Sesshomaru non era ancora tornato dall’esplorazione cui aveva voluto partecipare e lui si ritrovava senza nulla da fare. Aveva cercato Koga, ma anche il demone- lupo era in perlustrazione. Si era imbattuto invece in quel generale, mentre usciva dalla stanza di Alessandra.

 

Kumamoto lo aveva fissato, e gli aveva rivolto un sorriso sincero. Paterno. Chissà se anche suo padre avrebbe sorriso così. Homoe gli aveva raccontato che lui e Inutaisho erano stati compagni per molti anni e che erano amici di vecchissima data. Kumamoto aveva vissuto a palazzo fino alla morte del Principe, aveva visto crescere Sesshomaru, aveva conosciuto suo padre oltre la corazza. Inuyasha aveva sospirato. Possibile che in mezzo a tutti quei demoni, lui solo dovesse mendicare delle parole, delle informazioni?

 

“Somigli molto a tua madre, ragazzo”

 

A quelle parole, l’hanyou aveva rialzato sorpreso la testa. Non si era neanche accorto di averla abbassata. Aveva fissato il generale e lo aveva visto accennare con il capo. Non lo stava prendendo in giro e schernendo. Era la verità. Semplice. Naturale.

 

Lo aveva seguito verso i giardini interni, ascoltandolo come si ascolta una persona più grande che ti svela realtà mai immaginate. Kumamoto gli aveva raccontato di aver incontrato la principessa Izayoi. Una donna bellissima, dolce e delicata, che la maternità rendeva ancora più affascinante. Già, perché l’aveva vista prima che il ragazzo nascesse. In una delle rare occasioni in cui Inutaisho riusciva a incontrarla senza rischiare di scatenare una guerra.

 

Il generale gli aveva raccontato le sue impressioni, lo sguardo del padre quando la principessa gli era al fianco. Il loro sorriso. Inuyasha ricordava bene il sorriso triste e malinconico della madre. C’era sempre l’ombra di un rimpianto a velarlo. Ma gli era molto difficile immaginare il padre senza un’espressione fredda e altera. La sua perplessità era stata notata dal vecchio soldato. La capiva, in fondo il ragazzo doveva essersi sempre rifatto a Sesshomaru per sapere qualcosa, e visto l’atteggiamento del Principe Kumamoto non si era sorpreso più di tanto che l’hanyou faticasse a credere alle sue parole.

 

“Ragazzo mio! Se vuoi sapere com’era tuo padre non devi cercare poi molto. Basta che pensi al tuo carattere.”

 

Gli aveva detto battendogli una mano sulla spalla. Se Inuyasha era confuso prima, adesso era nel caos più totale. Suo padre…suo padre aveva il suo carattere? La sua arroganza, testardaggine, orgoglio…La sua impulsività e avventatezza? Aveva scosso la testa totalmente incredulo. Quel demone lo aveva canzonato per bene, e lui ci era cascato completamente. Lui simile a suo padre. Delirio puro. Sesshomaru era il ritratto di loro padre. Lui solo. Per aspetto e carattere.

 

“Puoi anche non credermi, ragazzo. Sei libero di farlo. Ma io ho vissuto e combattuto con tuo padre per secoli e ti posso assicurare che sei tu ad avere il suo carattere, non Sesshomaru. Forse ancora un po’ acerbo e immaturo, ma anche tuo padre lo era, alla tua età”

 

Lo aveva lasciato nei giardini, immerso nei suoi pensieri, e si era diretto verso la guarnigione. Per quel giorno, aveva già rivelato troppo all’hanyou. Verità mai sentite e che dovevano cozzare con l’immagine che il ragazzo si era fatto del padre. Un’immagine con Sesshomaru come unico referente. Sbagliato. Sbagliato. Se Voleva sapere avrebbe dovuto chiedere al demone, ma anche guardare dentro di sé.

 

Inuyasha si passò una mano sul viso. Quel discorso lo aveva un po’ scombussolato e non aveva fatto altro che accrescere la sua voglia di conoscere. Per il momento, però, di domandare non se ne parlava. Adesso doveva giocare con Rin. Perché una promessa è una promessa.

 

La bimba ritornò poco dopo, e lo prese per mano, facendolo sedere. Inuyasha rimase sorpreso di come non temesse i suoi artigli, di come non avesse paura a girargli attorno e a stuzzicarlo. O aveva capito che l’assecondava più dell’youkai o era davvero abituata a trattare con i demoni. Anche con quelli pericolosi. Rin adesso aveva preso Kiba in braccio: lo voleva presentare al ragazzo. Ma quando Inuyasha allungò la mano per accarezzarlo, il lupacchiotto ringhiò e si divincolò dalla presa. Sorpresa. Stupore. Non gli aveva fatto nulla.

 

Kiba! Torna qui! Inuyasha-san non è cattivo. Anche Koga-kun è suo amico”

 

Koga-kun…Koga! Ma certo! Ecco perché il cucciolo si era allontanato. Doveva venire dal branco dell’Ookami, e a quanto sembrava l’antipatia per gli inugami era comune. Sbuffò. Ci aveva messo parecchio ad avere un rapporto “civile” con il principe degli Yoro. Adesso doveva ricominciare da capo con quel cucciolo testardo.

 

Koga questa me la paga!

 

All’improvviso, si era sentito toccare le orecchie. Tornando alla realtà, aveva visto davanti a sé Rin. Gli stava accarezzando le piccole orecchie canine, con grande curiosità. Inizialmente ne fu irritato e pensò di allontanarsi, ma poi rimase e un piccolo sorriso si dipinse sulle sue labbra. Certo che quella bambina era davvero strana.

 

Inuyasha-san…Voi resterete sempre qui, vero? Resterete con Rin?”

 

Inuyasha rimase spiazzato dalla domanda. Non aveva mai pensato di potersi fermare a palazzo. Non era una possibilità cui aveva fatto riferimento. Aveva sempre pensato a quella situazione come a qualcosa di estremamente labile e temporaneo. Una parentesi da conservare con cura fra i ricordi. Ma mai nulla di più. In fondo, non spettava a lui quella decisione. Con Sesshomaru si sopportavano più che altro per quieto vivere, perché il demone di lui aveva bisogno. Ma nulla gli impediva di pensare che appena fosse stato in grado di nuovo di combattere, lo avrebbe cacciato. Se non peggio.

 

Alzò le spalle. Rin non doveva preoccuparsi per quello. Le disse che non lo sapeva, ma che finchè fosse rimasto lì sarebbero stati amici. Però la pregò di non dargli quel titolo. Per lui Inuyasha bastava. Non era come Sesshomaru. Lui non voleva titoli. Non gli importavano. Avrebbe voluto solo le sue radici.

 

…Restare…Lo vorrei davvero?...

 

*****

 

“Ti disturbo?”

 

Alessandra sollevò appena la testa verso la porta e accennò col capo in segno di diniego, per poi invitare l’ospite inattesa a entrare.

Kagome si richiuse la porta alle spalle, e vi rimase appoggiata contro. Ferma. Aveva deciso di approfittare del fatto che Inuyasha fosse impegnato con Rin per andare a trovare la ragazza. Non le parlava da una settimana. Nulla, tranne un veloce saluto la mattina, se mai la incontrasse. Alessandra non si era quasi più mostrata. E Kagome supponeva che il morivo della sua reazione fosse da imputare a come l’aveva trattata il demone.

 

Si guardò attorno. La stanza era semplice, spartana. Come la sua. Solo molto più piena di libri e pergamene. C’era anche un tavolino ingombro di scatolette di lacca e alambicchi di porcellana e ceramica. La sera del suo arrivo a palazzo era troppo stanca per prestare attenzione a quelle cose. In quel momento, invece, la incuriosivano molto. Anche perché non ricordava di aver letto o sentito che Alessandra frequentasse una facoltà di medicina. Eppure, a palazzo del demone lei era l’archiatra.

 

“Sono venuta a riportarti questi. Grazie per avermeli prestati”

 

Solo in quel momento si era ricordata della scusa che aveva trovato. E adesso era lì, con il braccio disteso verso la ragazza e i pattini in mano. Era stata Rin ad andare a chiederglieli; perché Kagome potesse pattinare con lei. Ale-chan non pattinava più, e alla bimba dispiaceva, perché le piaceva guardarla pattinare.

 

Alessandra sollevò di nuovo la testa dal suo piccolo tavolino. Fissò per un istante i pattini. Bianchi. Un po’ vecchi, ma ancora in perfetto stato. Con le lame lucide che brillavano nella semioscurità della stanza. Ricordò la sensazione provata mesi prima. Quando li aveva reindossati dopo tanto tempo. Quando aveva sentito il richiamo del ghiaccio.

 

Quella volta, su un lago disperso fra le montagne, aveva danzato solo perché lo aveva desiderato. Per distrarre la mente. E, dopo quella ciarda, era iniziato quel gioco di silenzi e parole. Aveva iniziato a confidarsi con Sesshomaru; gli aveva aperto il cuore. Ora, quei giorni le sembravano ricordi sbiaditi. Sogni troppo lontani per essere reali. Il demone l’aveva ferita. Molo a fondo. Forse troppo. L’aveva umiliata. E, tuttavia, lei restava lì, incapace di andarsene per non perdere anche solo il sollievo di saperlo vivo.

 

…Perché non vuoi capire? Era l’unica soluzione…Io…non voglio che ti succeda nulla…

 

Scosse la testa. Di nuovo, i pattini. Sospesi nell’aria. Avrebbe dovuto riprenderli. Non li voleva. Le facevano riaffiorare il ricordo degli occhi dell’youkai. Magia. Magia. Lo sguardo di quella sera. La voce sensuale di quella notte. L’incanto fra loro. La complicità.

 

Tutto infranto. Dissolto. Come neve al sole. Costruito su basi labili come cristallo. Sottili come la scia lasciata su una lastra di giaccio. Stargli accanto, va bene. Amarlo. Nel suo carattere freddo e distaccato. Nella sua dolcezza nascosta. Amare la sua determinazione audace e irriverente. La passione delle carezze e dello sguardo. Amare i suoi occhi. Magnetici. Ammaliatori. Vuoti e malinconici, ma sempre capaci di sedurre. Di avvolgere.

 

Lo aveva amato. Senza farsi domande. Senza preoccuparsi d’altro se non di non dargli preoccupazioni. Lo continuava ad amare. Alla follia. Perché solo una persona folle può decidere di restare accanto a qualcuno che ti considera poco più di un oggetto. Bello. Prezioso. Importante. Ma solo un oggetto. Eppure…eppure lei restava. Adducendo la scusa di un impegno preso. Una bugia perché era per lui che restava. Solo per lui.

 

“Tienili pure, se vuoi. Rin vorrà pattinare ancora e a me non servono”

 

Liberarsene. Non essere più costretta a vederli ogni volta che apriva l’armadio. Non essere più costretta a ricordare. A rimpiangere. Sbagli e illusioni. A sentirsi ripetere dalla testa una cantilena snervante: vattene. Mentre il cuore ti urla di non farlo. Ti grida di restare. Altrimenti, si spezza. Si infrange. Ti supplica. Ti non farlo di nuovo soffrire. Di non sottoporlo di nuovo a un distacco.

 

…Forse dovrei andarmene davvero...

 

“Ti va una tazza di tè?”

 

Kagome aveva posato i pattini al loro posto, nell’armadio a muro. Non voleva tenerli. Sapeva che per la ragazza dovevano essere importanti. Era stata quasi una campionessa, non ci avrebbe mai creduto che non li avrebbe più messi. Probabilmente, il vederli le facevano ricordare cose spiacevoli. Ma secondo lei non era un buon motivo per liberarsene. Le paure vanno affrontate, non accantonate.

 

Kagome non aspetto neanche la risposta. Si sedette di fronte ad Alessandra e le strappo da sotto le mani stilo e testo. Basta studio. Adesso, ci voleva una pausa. Come se fossero ancora nel loro mondo. Lontano da guerre, demoni, problemi. Solo loro due. Due ragazze che si fermano un istante. Che si scrutano negli occhi. Che cercano di capirsi a vicenda.

 

Alessandra fissò sorpresa il suo tavolino venir liberato da ogni ingombro. In un istante libri e fogli erano stati riposti con cura per terra, facendo attenzione a non sgualcirli, e stavano fiorendo tazzine, piattini, salviette e un bollitore caldo. Non fece niente. Lasciò che la sua ospite disponesse tutto senza la capacità di opporsi. O forse non ne aveva la volontà.

 

In quella settimana, si era chiusa a riccio. Aveva evitato accuratamente i contatti con gli altri, per impedirsi di cedere. Di mostrarsi provata e ferita. Si era mantenuta in contatto costante con Kumamoto e Koga, ma aveva anche evitato di partecipare al pranzo comune con Rin, Kagome e Inuyasha. Improvvisamente, si rese conto di essersi comportata da egoista, e da maleducata. Li aveva totalmente ignorati. Quasi accusandoli implicitamente di essere i responsabili del vuoto che sentiva dentro. E invece loro non centravano nulla.

 

Non sembravano neanche essersela presa. Altrimenti, perché adesso Kagome le sarebbe seduta di fronte, intenta versarle la bevanda profumata e calda? La fissò, concentrata in gesti lenti e raffinati. E delicatamente semplici. Non stava fingendo. Era sincera. Alessandra era sicura. In quel momento, nessuno la stava prendendo in giro.

 

Si rilassò. In fondo, era piacevole avere la compagnia di una persona della propria epoca. Kagome le stava raccontando quello che era successo dopo che lei era sparita. Le ricerche, le voci che circolavano scuola. Le disse la sua sorpresa nel vederla lì e le parlo anche della sua incapacità a capire la sua scelta. Sesshomaru, a detta della ragazza, era una persona estremamente fredda, quasi cinica. Era altezzoso, egocentrico, con una boria che non era tanto una facciata per imporsi, ma una convinzione ben radicata nel suo animo.

 

Alessandra ne rimase sorpresa e turbata. Tanto che Kagome si morse la lingua. Ma lei non poteva farci niente. Era sincera. Non sapeva mentire e non avrebbe mai imparato a farlo. Forse dissimulare, ma anche in quel caso non ce la faceva mai a lungo. E anche in quel momento aveva detto ciò che pensava. Alzò gli occhi sull’amica, anche se con un po’ di imbarazzo.

 

“Scusa. Non volevo essere maleducata. Ma proprio non riesco a immaginare come devono essere stati questi mesi con una persona insensibile com’è Sesshomaru. Devi esserti sentita molto sola”.

 

Alessandra fissò le sfumature d’ambra nella tazzina. Si attorcigliavano leggere, sbiadendo e brillando fra il vapore leggero.

Molto sola…

 

No. In quei mesi, dopo anni, finalmente non si era sentita sola. All’inizio, forse. Ma poi era cambiato tutto. Aveva trovato qualcosa che aveva dimenticato. Aveva trovato lui. Sesshomaru. La sua amicizia, i loro confronti silenziosi, il conforto che le dava, la sicurezza che le sapeva infondere. Kagome aveva ragione: il bel demone le era apparso distaccato e freddo. Ma aveva sempre in mente il grido soffocato che aveva letto nei suoi occhi. Non poteva certo esserselo sognato. Aveva un carattere difficile: orgoglioso e testardo. Ma erano proprio quelle le caratteristiche che più l’avevano aiutata.

 

Se l’inuyoukai non si fosse intestardito nel voler sciogliere l’arcano dei suoi occhi tristi, forse adesso lei sarebbe di nuovo nel suo mondo. Sarebbe di nuovo a casa sua. Sola. Depressa. Sconsolata. Di questo, Alessandra ne era certa. Se era riuscita a uscire dal tunnel in cui la morte dei suoi genitori e di Leone l’avevano gettata lo doveva alla mano che lui le aveva teso. Forse senza neanche rendersene conto.

 

“No…Sono stati mesi molto belli…”

 

Kagome dilatò gli occhi. Aveva capito bene? Davvero le era piaciuta la vita col demone? Non ci credeva. Non poteva crederci. La scrutava attenta, desiderosa di cogliere anche la più piccola emozione. Alessandra aveva un sorriso dolce e trasognate e lo sguardo smarrito. Sembrava rincorrere ricordi e sensazioni, smarrendosi negli arabeschi della memoria.

 

Sentendosi fissata, la ragazza sollevò gli occhi e si trovò il viso di Kagome a pochi centimetri dal suo. Due occhi scuri che la sondavano, curiosi. Doveva essere successo qualcosa. Qualsiasi cosa. In fondo, Homoe le aveva raccontato che Sesshomaru e Alessandra erano rientrati a palazzo più tardi rispetto a Jacken e Rin. Cosa inusuale. Un mese. I due erano rimasti da soli per un intero mese.

 

“Davvero Sesshomaru non ti ha fatto niente? Neanche quando siete rimasti soli per un mese?”

 

A quelle domande, a quelle insinuazioni dettate solo dal desiderio di assicurarsi che lei stesse davvero bene, Alessandra reagì con fierezza. Come aveva sempre reagito alle stesse amare accuse della corte. In quel momento, non pensò a nulla e parlò solo per dissipare l’ombra del sospetto. Come sempre aveva parlato. Raddrizzò le spalle e fisso la sua interlocutrice dritto negli occhi. Azzurro e marrone. Cielo e terra. Non la vedeva. Non rispondeva a Kagome. Rispondeva a voci lontane.

 

“Sesshomaru mi ha sempre trattata con rispetto. Non mi ha mai sfiorata con un dito”

 

Ha aspettato che fossi io a lasciarlo avvicinare…

 

Kagome si ritrasse spaventata dalla sua reazione aggressiva e balbettò delle scuse. Alessandra sembrò risvegliarsi da un sogno, come se solo in quel momento si fosse ricordata di chi avesse di fronte. Scosse la testa e chiese perdono del suo comportamento. Le raccontò quello che aveva vissuto i primi tempi che era stata a corte. Le insinuazioni pesanti e il disprezzo. Le accuse di essere un’amante. Di essere un oggetto di piacere. Null’altro.

 

Cosa sono per lui?...Cosa?...

 

“Mi dispiace…Se avessi saputo, io…”

 

Alessandra le strinse un braccio per tranquillizzarla. Non era successo nulla. Se ne aveva parlato, era perché lo aveva voluto. Altrimenti, lei per prima si sarebbe rifiutata di farlo. In fondo, ammise a se stessa, aveva bisogno di sfogarsi. Sesshomaru era sempre stato il suo punto di riferimento. Una sicurezza. Ma non poteva dipendere da lui per tutto.

 

“Però lui è stato insensibile! Prima non ti lascia cercare un modo per tornare a casa tua. Poi ti trascina qui e infine ti offende! Io, al tuo posto, gli avrei dato come minimo uno schiaffo!”

 

Alessandra sorrise. Aveva già schiaffeggiato il bel demone. Una sola volta e preda di collera e umiliazione. Lo aveva colpito con forza. Ma poi…dopo quello schiaffo, si erano baciati. Per la prima volta. Inconsciamente, si sfiorò le labbra. Quant’era che non sentiva il sapore di quelle di Sesshomaru? Quant’era che lui non l’abbracciava?

 

Troppo tempo. Anche per la rabbia e il rancore. Anche per un’umiliazione. Lei si era risentita molto e il demone era orgoglioso. Non le avrebbe mai chiesto scusa. Non subito almeno. Però, Alessandra l’aveva vista, nella notte, la lucerna accesa nelle stanze del demone. Un richiamo. Un sussurro. Forse inconsapevole, forse macerato. Ma costante. Per lei.

 

“Poteva evitare certe frasi. Non sa quello che hai passato, e se lo sapesse…”

 

“Tu cosa ne sai di quello che io ho passato?”

 

Calò un silenzio imbarazzato. Kagome si era accorta di essersi lasciata sfuggire una parola di troppo, ma ormai era detta. Come fare adesso? Dirle che lei già sapeva forse l’avrebbe fatta sentire spiata e compatita. E Kagome non voleva affatto che Alessandra pensasse che lei provasse pietà. Anzi, l’ammirava molto. Ma anche l’ipotesi che lei si torturasse nel tentativo di liberarsi da sola della sua angoscia, sempre se decidesse di farlo le sembrava ancora più deprimente come prospettiva. Restò con le labbra serrate, stringendo forte i denti.

 

“Io…me lo hanno raccontato…alla polizia…e ho i tuoi effetti personali…”

 

Aveva deciso. Se voleva diventare sua amica, doveva dirle tutto. Dirle che lei sapeva, che conosceva il dramma che l’aveva colpita, che le dispiaceva ma anche l’ammirava. Per la forza che aveva avuto e per come sembrava essersi rimessa. Niente menzogne. Niente bugie. Dire la verità. Magari passare per indiscreta, magari farsi odiare. Ma almeno avere la consapevolezza di non essere stata falsa.

 

Alessandra sospirò. Kagome sapeva. Kagome conosceva il suo passato, fatto di lutti e delusioni. Di depressione. Avrebbe potuto tacere, e approfittare della situazione per prendersi gioco di lei. per avvicinarla. Per ottenere da lei qualcosa. In fondo, nel suo modo, restava sempre la figlia di un medico d’importanza internazionale e di un generale dell’esercito del suo paese. Restava sempre la figlia di persone impostanti, l’ultima erede di una importante e ricca famiglia. Kagome questo lo doveva sapere, e avrebbe potuto approfittarne.

 

Invece, non lo aveva fatto. Si era lasciata sfuggire involontariamente la frase, ma poi non aveva cercato di nasconderle la verità. Era stata sincera. Diretta. Era stata pronta a rischiare e compromettere il rapporto che avrebbero potuto creare. Ma non aveva esitato.

 

La fissò. Tormentava il tovagliolo, appallottolandolo e stirandolo continuamente. Aspettava la sua risposta. Se l’avesse cacciata o se poteva considerarla sua amica. Si sentì stringere le mani. Erano fredde e tremavano impercettibilmente, e furono chiuse in uno scrigno caldo e rassicurante.

 

“Grazie…”

 

Alessandra le sorrise, riconoscente. Non si era arrabbiata. Non l’aveva cacciata. Anzi, l’aveva ringraziata. Kagome ne rimase sorpresa. Le aveva fatto ricordare cose tristi e spiacevoli e la ringraziava? Perché? Cosa aveva fatto di speciale. Balbettò qualche parola confusa, chiedendo spiegazioni.

 

“Perché sei stata sincera”

 

Kagome arrossì e chinò il volto, con u sorriso contento. Quella ragazza era capace di imbarazzarla come poche persone e di farla sentire una bambina. Si tranquillizzò. Adesso, erano amiche. O almeno erano cadute ambiguità e sottintesi.

 

Quel pomeriggio, Alessandra non studiò. Lo trascorse invece a chiacchierare e scherzare con Kagome. Come non faceva da molto. Una complicità femminile che non aveva mai provato. Nel suo mondo c’era sempre stato Leone e lì Sesshomaru. Ma più il tempo passava, più sentiva che voleva riallacciare il rapporto col demone. Non sarebbe stato semplice, perché non c’era in gioco solo una semplice scusa. Si trattava di perdonare  senza essere sconfitti, senza mostrarsi troppo arrendevoli. Se lo avesse perdonato come se non le avesse fatto niente, sarebbe potuta sembrare sottomessa e totalmente dipendente da lui. E Alessandra non voleva questo.

 

Era disposta a vivere con lui in qualsiasi situazione, ma non si sarebbe mai adattata a essere considerata come le donne di quell’epoca. Umili e sottomesse. Insignificanti. Non lo avrebbe mai accettato. Sacrificare tutto sì, ma non sacrificare la propria dignità. Neanche a lui. Altrimenti, davvero lo avrebbe perso.

 

*****

 

Alessandra sbuffò.

Proprio non riusciva trovare quel quaderno di appunti. Eppure, non era passato molto tempo dall’ultima volta che lo aveva usato. Dannazione! Doveva trovarlo. C’erano registrati tutti i componenti che aveva usato per preparare i rimedi per lo youkai, i tempi di preparazione i giorni in cui glieli aveva proposti. C’erano riportati tutti i suoi sforzi per farlo guarire. E adesso lo aveva perso! Ma si può essere più distratti?

 

Aveva setacciato la sua camera. Aveva ricontrollato i libri che aveva riportato in biblioteca. Forse, era finito inavvertitamente fra le loro pagine. Niente. Svanito. Volatilizzato. Di lui non c’era traccia. Eppure, da qualche parte doveva essere finito. Si lasciò cadere sul futon, imponendosi la calma e cercando di ricordare quand’era stata l’ultima volta che lo aveva usato. Da più di una settimana non i appuntava nulla, ne era certa. Quindi, doveva averlo usato prima. Ma quando? Quando?

 

Se lo ricordò all’improvviso. Una sera tersa e fredda. La stanza di Sesshomaru. Gli aveva appena portato un nuovo rimedio e mentre lui lo bevevo, lei compilava qual quaderno. Poi…poi era rimasta con lui. Per tutta la notte. Koga non aveva bisogno di assistenza, e poi con lui c’era Ayame. Era rimasta a parlare con l’youkai, a scherzare. Non avevano ancora litigato. Non si erano ancora feriti a vicenda. Alla fine, si era addormentata con lui. E alla mattina, nella fretta di non essere scoperti, doveva averlo dimenticato lì.

 

Aprì la porta che dava sul giardino. Doveva andare a prenderlo. Anche se significava vedere Sesshomaru in quelle stanze. Anche se significava trovarsi sola con lui. Alessandra avrebbe voluto chiarire, ma non era ancora pronta. Aveva costruito mille discorsi e ne aveva demoliti altrettanti. Ogni volta, le sembrava di essere lei a uscire sconfitta. Remissiva. E non lo voleva. Accettava di aver sbagliato. Di poter averlo ferito, anche se non ne capiva il motivo. Ma non ammetteva di essere la sola a scusarsi. Perché anche lui aveva la sua parte di colpa.

 

Sospirò e si avviò lungo il corridoio esterno. La finestra dello studio nella torre era illuminata. Forse il bel demone era nei suoi appartamenti, ma non era una certezza. Con un po’ di fortuna avrebbe potuto recuperare il suo quaderno senza incontrarlo. Non se la sentiva, quella sera, di chiarire con lui. Di rischiare di litigare. Avrebbe rimandato. Di nuovo.

 

…Sto solo scappando…

 

Lo sapeva. Sapeva di essere una vigliacca. Una codarda in quel momento. E che avrebbe dovuto o infrangere tutto o ricominciare da capo. E si stava preparando psicologicamente a sopportare l’eventualità di un rifiuto totale. Sesshomaru avrebbe davvero potuto cacciarla. Magari non subito, ma appena conclusasi la guerra. Quando non gli sarebbe più servita. Allora, lei se ne sarebbe andata. Lo aveva già deciso. Ma forse si stava creando lei stessa paure infondate.

 

Respirò profondamente; ci avrebbe pensato. Per il momento, voleva solo riprendere il quaderno e farsi una bella dormita. La notte le avrebbe portato consiglio. E il giorno dopo avrebbe affrontato il Principe. Una volta per tutte.

 

Restò per un po’immobile sulla soglia. Con il cuore che batteva impazzito e la testa che le girava. Nonostante tutto, l’avvicinarsi a quelle stanze l’emozionava sempre. Troppo. Conservavano ricordi piacevoli, di notti trascorse a scherzare, a ridere. Di notti passate fra le sue braccia, protetta. Al sicuro. Di notti innocenti, e speciali.

 

“Posso?...” chiese bussando leggermente allo stipite. Fece scorrere la porta senza aspettare risposta e entrò con gli occhi bassi. Se lo avesse visto, probabilmente non avrebbe avuto la forza di andarsene di nuovo.

 

“Devo solo cercare il quaderno…”

 

Ancora silenzio. Alessandra, incuriosita, alzò la testa. La stanza era vuota. L’youkai non era ancora rientrato nei suoi appartamenti. Probabilmente, la lucerna era stata accesa da un inserviente. Come d’abitudine. Sospirò e salì le scale. Al paino superiore c’era la stanza da letto. Doveva averlo lasciato lì. Quando entrò, fu avvolta da un profumo buono. Maschile. Da un odore che conosceva bene. Muschio. L’odore di Sesshomaru.

 

Ignorò volutamente il futon nella penombra della luna e cercò di ricordare dove lo avesse appoggiato. La ricerca durò poco: eccolo, accuratamente riposto su un piccolo tavolino di legno di rosa laccato. Alessandra lo prese con un sorriso soddisfatto. Poteva andarsene. Sfuggire alla memoria. Almeno, ancora per una notte.

 

Ritornò nello studio q stava per andarsene quando la sua attenzione fu attirata da una porta socchiusa. Non sapeva che ci fosse un’altra stanza, eppure poteva dire di conoscere abbastanza bene gli appartamenti del Principe. Tentennò un attimo, ferma vicino alla porta. Non era mais tata curiosa, ma quello spiraglio era un richiamo cui sarebbe stato difficile sottrarsi. Sospirò; in fondo si trattava solo di una sbirciatina. Nulla di drammatico. Il bel demone non lo avrebbe mai saputo.

 

Fece scorrere la porta ed entrò nella stanza buia. Nella lama di luce che irradiava dalla finestra, s delineava una massa scura e lucida. Alessandra si avvicinò come affascinata e rimase rapita ed estasiata della bellezza dell’oggetto. S una gruccia, era composta una stupenda armatura. Uno splendido insieme di eleganza , bellezza ed efficienza, con le fettucce di seta e broccati che univano tra loro le piastre d’acciaio e formare così un insieme compatto e al contempo armonioso. Il kabuto, l’ho-ate, le kote, gli sune-ate, lo yoroi e i koshi-ate…ogni pezzo era perfetto e prezioso, con sottili ed elaborate decorazioni a sbalzo, simboli incisi; una sinfonia di ferro, cuoio acciaio e stoffa, preziosa e delicata.

 

Alessandra sfiorò la corazza lucida, le stoffe fredde; si smarrì nelle ombre della maschera, abbacinante nel suo colore opalescente. Aveva già visto le corazze dei demoni; Sesshomaru stesso, la prima volta che lo aveva incontrato, indossava una corazza. Ma quell’armatura era strana, diversa. Sembrava molto antica. E da lei emanava come una forte energia. Qualcosa che la ragazza non riusciva ad afferrare, ma di cui era cosciente.

 

“Apparteneva a mio padre”

 

Un sussurro lieve, malinconico. Alessandra trasalì, ritirando la mano di scatto come se si fosse scottata. Nel rettangolo di luce della porta era comparso Sesshomaru. E adesso la fissava, con la testa reclinata di lato, come sempre quando voleva entrare nell’anima delle persone. Era senza vista, ma i suoi atteggiamenti non erano mutati per nulla. E anche se vuoti i suoi occhi erano capaci di mettere soggezione e di trasmettere emozioni forti, violente.

 

Alessandra non rispose; si limitò a sviare lo sguardo, imbarazzata dal fatto di essere stata scoperta. Se non le aveva mai mostrato quella stanza un motivo doveva esserci. E lei, in quel moment, faceva la figura della curiosa e indiscreta. Dopo che rimproverava lui di mancanza di tatto, a volte. Di essere troppo diretto. Glaciale.

 

“…Me ne vado subito…”

 

Si avviò verso la porta, ma lui non si spostò. Rimase fermo a percepire i suoi movimenti. Quando era rientrato, aveva sentito il suo profumo. troppo intenso per essere portato dal vento o il residuo dei giorni passati. Lei doveva essere lì. E infatti l’ave trovata. Nella stanza dell’armatura. Vicina alla corazza. Aveva sentito l’odore di Alessandra confondersi con il potere emanato dal metallo. Sfiorarsi, fondersi, annullarsi l’uno nell’altro. Aveva percepito una sensazione nuova, e un brivido lungo la schiena. Solitamente lo youki residuo nell’armatura allontanava chiunque fosse umano. Invece, aveva lascito avvicinare lei.

 

Al sentì avvicinarsi e fermarsi a poca distanza da sé. Era da una settimana che non la vedeva. Che non le parlava. Eppure, nonostante si ripetesse che con lei doveva essere in collera perché aveva scavalcato la sua autorità, perché lo aveva offeso portando nella sua casa il suo fratellastro, non riusciva a dissimulare interiormente una sensazione di piacere, di felicità, nel saperla davanti a lui. Nel poter di nuovo assaporare il suo odore.

Ma lei adesso voleva andarsene. Non c’era rabbia nella sua voce. Un po’ d’imbarazzo, e tristezza. Come se anche a lei costasse doversi allontanare di nuovo da lui. La distanza tra loro si era di nuovo annullata, nonostante il litigio. In quel momento la rabbia era dimenticata, e anche le critiche erano passate in secondo piano. Sembrava che, dopo aver assaporato il piacere di star bene insieme, non vi potessero rinunciare nonostante i dissidi.

Sesshomaru era cosciente del fatto che aveva esagerato. Sapeva di esser stato diretto, tagliente, meschino. Sapeva di avere torto, perché, qualunque fosse stato il motivo che aveva spinto Alessandra a portare a palazzo Inuyasha, lei aveva gito in buona fede. Lui non le aveva mai parlato del fratello, non le ave a mai detto dell’odio che provava nei suoi confronti. Lui non aveva mai detto nulla. E la ragazza non poteva certo leggergliele nella mente, tutte quelle cose.

 

Si era sentito violato, tradito, ma in realtà Alessandra non poteva saperlo. E comunque, lui non aveva il diritto di rispondere al dolore facendo soffrire anche lei. aveva sbagliato a dire quella frase. A dirle in faccia che avrebbe voluto veder morto il fratellastro. A dire quelle parole, ben sapendo quello che lei aveva vissuto. Quello con cui aveva combattuto.

 

Aveva pensato più volte di chiederle scusa, ma era sempre stato un pensiero veloce e subito accantonato. Lui era il Principe, un demone potentissimo, un essere superiore…Non si sarebbe mai abbassato a chiedere perdono ad una ningen. Non sapeva neanche come fare. Eppure, in quel momento maledì se stesso per non riuscire a trovare le parole per esprimere tutto il suo dispiacere per quello che le aveva fatto e la gioia che lei fosse lì.

 

“Posso passare?...”

 

Alessandra dondolava piano. Aveva aspettato che lui si spostasse, ma il bel demone non si era mosso. Aveva continuato a fissarla, rincorrendo pensieri e parole che però non si erano concretizzati in nulla. Allora, alla fine aveva parlato lei. voleva andarsene. Voleva rimandare. Anche perché, l’espressione triste sul volto dell’youkai era una tentazione troppo grande.

 

Sesshomaru sorrise debolmente. L’aveva persa. Non voleva più restare con lui. Di lui, doveva aver paura. Una paura strana, che non ti fa tremare e non ti porta a riverire e assecondare. Un paura diversa. Che ti allontana. Che ti spinge a scappare, per non rischiare. Per evitare di soffrire ancora.

 

Sorrise, ma non si mosse. Era incredibile, era schiavo di quella ragazza fragile e insignificante. Era in balia delle sue emozioni, che solo lei sapeva provocargli. Sentiva la ragione sussurrargli di fargliela pagare. Di punirla duramente per la libertà che si era presa. Si farle capire chi era lui. Ma dell’altra parte l’istinto gli diceva di trovare un modo per farsi perdonare, per farsi capire. Gli diceva di mettersi a nudo. Di raccontargli la storia di quell’odio.

 

Cosa fare? Seguire la ragione o l’istinto? Averla con la forza e perderla davvero o azzerare il passato e ricominciare da capo? Di nuovo. Assieme. Su basi salde. L’youkai continuava a restare fermo. Indeciso. Si riscosse all’improvviso, accorgendosi dell’imbarazzo di Alessandra. Realizzando che non lo stava guardano in viso. Non sapeva neanche lui come facesse ad esserne convinto, ma lo sapeva. Alessandra aveva gli occhi bassi.

 

Decise. Avrebbe seguito l’istinto. Forse l’avrebbe persa comunque, forse nulla avrebbe più rinsaldato il loro legame incrinato, ma almeno non l’avrebbe più fatta soffrire. Non lui.

 

“Perché non mi guardi?”

 

Alessandra esitò, combattuta fra il desiderio di sfiorare con lo sguardo i suoi lineamenti puri e perfetti e la paura di perdersi di nuovo nelle sfumature d’oro dei suoi occhi. Fra la volontà di amarlo e la paura di essere di nuovo ferita. Si stropicciò la fronte. In quel momento, si pentì di essere andata nella sua stanza. Di essersi attardata. Si pentì di non essersene andata via subito. Temeva d’udire dalla sua bocca parole che non avrebbe voluto ascoltare, ma sapeva che a quel punto non poteva rimandare oltre un chiarimento che era necessario. Anche se in quel momento desiderò soltanto di esser lascia in pace.

 

“Perché ti comporti così?”

 

Alessandra alzò la testa e in quell’istante incrociò i suoi occhi dopo un tempo che era sembrato infinito.

“Non capisco cosa vuoi dire” tagliò corto lei, voltandosi. Sesshomaru sorrise.

“Guardati! Non riesci nemmeno a fissarmi. Cosa dovrebbe significare questo comportamento?”

Alessandra si strinse nelle spalle e sbuffò. “Non so di cosa stai parlando, davvero”

“Perché non mi guardi, allora?” insistette lui, sollevandole il viso con la mano e costringendola ad allontanarsi e voltare di nuovo la testa. “Ti vergogni tanto di quello che abbiamo fatto?” suggerì.

Alessandra scosse la testa. “No…non mi vergogno. Non mi sono mai vergognata di aver dormito con te” sospirò. “Ma è davvero difficile dimenticare quello che è successo, per me”

“Lo è per entrambi” lo assicurò lui.

“…Perché?...Perchè ho scavalcato la tua autorità? È questo che non riesci a dimenticare? Il fatto che io non sia disposta a ubbidire e basta?” sussurrò la ragazza. Non avrebbe più urlato. Non ne aveva la voglia. La forza. Forse, non voleva neanche sapere le risposte. Ma ormai il discorso era stato avviato. Inutile rimandare ancora.

Sesshomaru sospirò. In fondo, aveva ragione. Cosa gli era difficile sopportare? Non certo la libertà che si era presa. A quella era abituato. Sapeva benissimo che non l’avrebbe mai piegata. E l’aveva accettata così. Era stato quel suo lato ribelle e al contempo delicato ad attrarlo. A sedurlo. No. Non era Alessandra il problema. Era il passato. Quello che lei gli aveva portato di fronte, anche se inconsapevolmente. Quell’umiliazione cui lo aveva costretto senza volerlo.

 

Si allontanò dalla porta, andandosi ad appoggiare allo stipite della finestra. Ora, lei avrebbe potuto andarsene. ma non lo fece. Sapeva che il demone le avrebbe dato una risposta. E non la prima cosa che gli passava per la testa. Le avrebbe detto la verità. Ne era cosciente lui stesso. E si stava preparando a sopportare il dolore, il senso di vuoto e di sbandano, tutte le emozioni che lo percorrevano ogni volta che ripensava a quanto era successo.

 

“…Perché non posso dimenticare l’errore di mio padre…Il fatto che è morto per salvare un bastardo…Non posso dimenticar la morte ingloriosa che ha avuto…Cui lo hanno trascinato Inuyasha e quella dannata femmina…Io avrei potuto fermarlo, e non l’ho fatto…L’ho lasciato andare…”

 

Sesshomaru si passò una mano sugli occhi, nascondendo il volto. Troppo dolore. Troppo. Ricordare. Risentire il senso di colpa, la rabbia, la frustrazione. Riprovare il sentimento di delusione. Di incapacità. Si era sentito un fallito. Inutile. Inadeguato.

 

Suo padre aveva preferito a lui un fratello mezzo-sangue. Aveva preferito a lui il frutto di uno sbaglio, di una relazione clandestina. Aveva preferito morire per una ningen e un hanyou, piuttosto che vivere con lui. Con il suo primogenito.

 

Si appoggiò stancamente allo stipite, mentre raccontava quello che aveva vissuto, quello che era successo. Mentre si svelava, mostrando una fragilità e una debolezza che aveva sempre mantenute sepolte nel suo io. che aveva sempre rifiutato. Se non fosse stato un demone, abituato da secoli a controllare le sue emozioni, probabilmente avrebbe anche pianto. Si sarebbe sfogato. Del tutto. Invece, i suoi occhi rimasero asciutti. Ma la voce si spezzò più e più volte. Usciva roca e gutturale dalla bocca, strascicata e dolorante. Come se le parole fossero strappate al suo cuore con forza. Con violenza.

 

Quando finì, rimase in silenzio. Intento a fermare il respiro che era accelerato, concentrato a cercare di domare il battito folle del cuore. Non provava vergogna di quello che si era mostrato. Era solo avvolto dal dolore. Tanto forte, tanto soffocante che gli sembrava togliergli il respiro.

 

…Io…volevo solo che…mio padre…fosse fiero di me…che mi volesse…bene…

 

Sentì delle braccia avvolgerlo, delicate. E la testa di Alessandra sulla sua schiena. Percepì il conforto che la ragazza voleva dargli. Non con le parole, ma con la sua presenza. Rispettava il suo silenzio, il suo dolore, accarezzando la sua anima come accarezzava piano le sue spalle. Un tocco che non voleva sedurre, ammaliare. Un tocco che voleva confortare, consolare.

 

“Mi dispiace…io…”

 

Sesshomaru sentì l’odore del sale delle sue lacrime. Lui l’aveva offesa, lui l’aveva trattata come un oggetto, lui l’aveva umiliata. Lui. Lui avrebbe dovuto chiedere scusa. Lui solo. E invece…invece Alessandra era lì, e piangeva contro di lui chiedendogli di perdonarla di scusarla per averlo fatto soffrire. Le dispiaceva. Era sincera. Non lo stava compatendo. Le dispiaceva dal profondo del cuore.

 

Continuava a ripeterlo all’infinito, con il viso premuto contro la sua schiena. Come se fosse successo per causa sua. Come se di quello che aveva sofferto lui Alessandra avesse una qualche colpa. Si sentiva una stupida. Aveva pensato che fosse sempre stato il suo orgoglio a parlare. Che il suo atteggiamento, il suo rifiuto del fratello fosse imputabile solo alla sua educazione. Ottusa e autoritaria. Non aveva mai pensato che quella sua reazione potesse nascondere qualcos’altro. Qualcosa di più profondo. Di devastante.

 

“Non piangere…Non è colpa tua…non potevi sapere…”

 

Si era voltato e l’aveva abbracciata, lasciandola sfogare. La sincerità era una cosa bellissima. Lui avrebbe potuto tenersi tutto dentro, nascondere il suo dolore e continuare la sua maschera di menefreghismo e sicurezza. Alessandra non avrebbe mai sospettato nulla. Invece, aveva scelto di parlare, di mostrarsi per quello che era veramente. E adesso, riusciva a sentire il conforto che gli veniva dalla vicinanza della ragazza. Sentiva le sue lacrime bagnargli il kimono, ma non ne provò rabbia, ribrezzo o repulsione. Erano per lui, quelle lacrime. Lei le stava versando per lui. Per lui. Per chi l’aveva offesa. Umiliata.

 

Quel pianto non fece altro che acuire il suo senso di colpa. Era lui a dover chiedere scusa. Era lui ad aver parlato per ferire. Con il preciso intento di far del male. Senza preoccuparsi delle conseguenze, senza pensare alle conseguenze. Aveva detto che avrebbe voluto morto il fratello, ignorando volutamente la reazione della ragazza a quelle parole. Ignorando la consapevolezza dello strazio che avrebbero creato. E adesso, invece di scusarsi, di chinare la testa come non aveva mai fatto e di chiedere perdono, si sentiva consolare. Strinse di più a sé la ragazza. Davvero non riusciva a capire i ningen. Avrebbe dovuto godere di quello che gli aveva raccontato, avrebbe dovuto odiarlo, ridere di lui perché gli si era mostrato debole, avrebbe dovuto andarsene soddisfatto di averlo visto in quello stato. E invece era lì, fra le sue braccia, con la testa sul suo petto…Aveva sentito il suo cuore accelerare quando lei lo aveva abbracciato. Aveva… Si era sentito bene. si era sentito accettato e non compatito. Le aveva parlato apertamente, come non aveva mai fatto con nessuno. Aveva temuto il suo disprezzo, ma lo aveva fatto comunque. E ne aveva ricevuto quel contatto disperato e avvolgente.

 

Alessandra si lasciava cullare dal ritmico alzarsi e abbassarsi del petto del ragazzo nel respiro, mentre sentiva il battito del suo cuore tornare ad un ritmo regolare. Come quello di Sesshomaru. quel suono…quel pulsare accelerato…Aveva dormito spesso sul suo petto, era stata spesso abbracciata a lui, eppure…eppure non aveva mai notato il battito di quel cuore…Quasi come se non fosse mai esistito…Come se fino a quel momento si fosse sempre vergognato di mostrare la sua presenza. In quel momento, invece, era lì, a ricordare timidamente la sua esistenza. A ricordare che anche il demone poteva sentire quel muscolo cambiare nel suo ritmo vitale.

 

Avrebbe voluto dimenticare. Cancellare tutto e fingere che non fosse mai successo niente. Avrebbe voluto ricominciare. E sapeva di non poterlo fare. Non ancora almeno. Sapeva di aver sbagliato, ad abbracciarlo. Di star sbagliano nel chiedergli scusa. Perché stava mostrando un’arrendevolezza che si poteva scambiare per remissività. Ma lei non voleva mostrarsi remissiva. Se fosse stata ancora con lui lo avrebbe fatto perché lo voleva, non perché ne aveva paura. Di lui, del demone che aveva visto uccidere davanti ai suoi occhi, Alessandra non aveva mai avuto paura.

 

Sospirò, allontanandosi un po’ dal suo petto. Un errore…Sesshomaru aveva usato quella parola…errore…Ave definito la relazione fra suo padre e la madre di Inuyasha un errore…la relazione fra un youkai e una ningen…Una relazione come la loro…

 

…Voglio sapere…

 

Si allontanò ancora da lui, sciogliendo il suo abbraccio. Sesshomaru seguì interdetto il suo movimento. La sentì scivolare lontano dal suo braccio, staccarsi da lui con dolcezza, ma anche con fermezza. Cosa era successo? Perché quel silenzio teso, all’improvviso? Perché quella sensazione di pericolo? Un sensazione uguale a quella su un campo di battaglia, ma, per istinto, foriera di una minaccia più grande.

 

Di tanto in tanto, la sentiva schioccare la lingua, apriva la bocca per parlare ma non le usciva la voce. Rimaneva ferma a boccheggiare, con mille smorfie e la fronte corrugata, rilassata e ancora aggrottata. Alessandra era alla disperata ricerca del coraggio necessario a porgli quella domanda. Per sapere, finalmente, cosa davvero provasse. Cosa si dovesse aspettare. E al contempo aveva paura a porla, quella dannata domanda. Poche parole, che avrebbe potuto restituirle la sicurezza della felicità o togliergliela completamente. Era cambiata. In quei mesi, era cambiata molto. Era diversa. Ma era mutata a tal punto da non voler più nemmeno ascoltare?

 

Alessandra si affacciò alla finestra. Erano l’uno accanto all’altra. Sentiva il suo profumo pervadere ogni anfratto della stanza. Sentiva la sua presenza, rassicurante, salda. Sentiva le sue domande. E tutto quello che il demone le aveva fato provare esploderle dentro con una forza devastate.

… Nello spazio d’un respiro mi hai fatto provato rabbia e vergogna…mi hai trattata come l’ultima delle tue serve…come un oggetto… Ma hai anche saputo far battere il mio cuore disilluso….Un battito doloro e bello e quell’agitazione che mi ha assalito, emozioni che non provavo da troppo tempo… Accanto a te mi sento viva, emozionata nell’incrociare quel tuo sguardo che mi suscita scariche di brividi che mi pungono la pelle, sotto la pelle, che mi attraversano il corpo e mi scuotono. Ma non posso dimenticare questa settimana… le notti insonni e il cuscino fradicio di lacrime…La paura per la tua sorte quando ti ostini a uscire sul campo…Non posso cancellare le voci che ho sentito…le domande che mi salgono alle labbra…Io…cosa sono io?...Cos’è il nostro rapporto?...Un errore? È anche un errore come hai definito quello di tuo padre?...

Il silenzio prolungato della ragazza agitò Sesshomaru. percepiva che c’era qualcosa di strano in lei. Come se si stesse preparando ad affrontare un nemico a vincere una battaglia. O forse, più semplicemente, stava aspettando le sue scuse. Sorrise fra sé e sé. Non aveva mai chiesto scusa a nessuno, ma per lei era pronto a farlo. Anche a mettersi in ginocchio e invocare il suo perdono. Era pronto a distruggere la sua immagine di fiero e spietato Principe dei demoni. Per lei. purchè fra loro tutto tornasse come prima. Purchè potesse di nuovo abbracciala, baciarla…

Per cosa sono pronto a chiedere perdono?...Perchè voglio i suoi baci, il suo corpo?...

Scosse la testa, disgustato. Quelli avrebbe potuto averli da una demone qualsiasi del palazzo. No. Non cercava Alessandra per il suo corpo. La cercava per la sua anima. Per quello che provava ogni volta che erano assieme. Per quel battito discreto del suo cuore, che avvertiva ogni volta che la ragazza gi era accanto e la pensava. Per quel suono ritmico che gli ricordava la sua esistenza. Che gli rammentava che anche lui era capace di provare sentimenti. Si passò una mano sul petto. Poteva sentirlo anche in quel momento. Il suo cuore. Batteva. Agitato. Trepido. Per lei.

“Cosa sono per te?...”

Sesshomaru percepì quella domanda appena sussurrata con estrema chiarezza. E gli esplose nella mente dolorosa e devastante. Era la stessa che lui si ripeteva da sempre. Quella che aveva sentito, ovattata fra la rabbia e il sangue che gli pulsava nelle tempie, la sera in cui avevano litigato. Era la domanda cui non voleva dare risposta definita. Perché la conosceva e non riusciva a capacitarsi di quello che avrebbe voluto…potuto…dire.

Il silenzio prolungato del demone fece sorridere mestamente Alessandra. Non voleva dirle, cos’era. Non voleva perdere il suo prezioso oggetto. Un qualcosa di importante, ma indefinito, discreto…Un qualcosa di non ingombrante. I suoi sospetti si fecero spessi e pesanti, difficili da accettare. Aveva chiesto a Sesshomaru di rivelarle qualcosa che non era certa di voler sentire, qualcosa che aveva sospettato fin dall’inizio.

“Sono un errore, vero?...Il nostro rapporto…è tutto…un errore…”

Alessandra incrociò le braccia sul petto. Si stava abbracciando, nell’inconscio tentativo di proteggersi, di proteggere il suo cuore dal dolore delle parole che si aspettava di sentire da un momento all’altro. Pregò perché quella tortura finisse al più presto. Perché lui le dicesse la verità, e poi la lasciasse andare. Voleva solo andare via da lui. Sfuggire al suo fascino, ai suoi modi autoritari e infinitamente dolci, al suo sguardo…Voleva fuggire dall’oro opaco di quelle iridi.

“Sì”. Voce fredda. Distante. La voce del demone. La voce della realtà. “Sì…è tutto un errore…”

Alessandra affondò le mani nelle spalle; artigliò la stoffa del kimono, cercando di ferirsi lei stessa, per soffocare nel dolore fisico quello che sentiva lancinante devastarle l’anima. Chiuse gli occhi e strinse forte i denti. Cercava di domare il respiro, il magone in gola e le lacrime che avrebbe voluto scorrere. Abbondanti. Di disillusione. Perché era doloroso ripensare a quanto provato e sofferto e paragonarlo alla leggerezza con cui lui doveva aver vissuto le medesime situazioni.

Lo sentì avvicinarsi e fermarsi dietro di lei. la testa piegata verso il suo viso, a sfiorare il suo orecchio. Il suo respiro caldo sul collo. I capelli d’argento a solleticarle la pelle. Stava per darle il benservito. Non si ribellò quando sentì la mano del demone cingerle la vita. Non si mosse. Non reagì. Non provò nulla. Né disgusto né emozioni. Orami, si sentiva completamene svuotata. Un involucro inutile su cui sarebbe stato facile infierire. Lei non si sarebbe ribellata. Non aveva senso ribellarsi.

…Perché ribellarmi?...

“…Un errore che ripeterei ancora…”

Sesshomaru mormorò quelle parole con una voce suadente, roca. La voce di chi ammette qualcosa stupendosene lui stesso. Un tono impastato di emozioni, che sfumavano in inflessioni quasi impercettibili, ma estremamente seducenti.

Non stava mentendo. Avrebbe potuto farlo. Avrebbe potuto illuderla o averla con la forza. E invece, ammetteva di non essere pentito di averla accanto. Sottolineava che fosse un errore, ma si diceva pronto a compierlo ancora. Affermava e negava al contempo un sentimento che ormai no poteva più ignorare. Gli era sbocciato dentro lentamente, riportandogli alla mente il ricordo di un cuore capace di pulsare anche per qualcosa che non fosse la rabbia o l’odio.

Alessandra si voltò a fissarlo. Studiò le ombre sul suo volto. I riflessi d’argento che l’ultima falce gli donava. Analizzò quel viso perfetto che sembrava esser stato scolpito nel marmo per la sua freddezza, ma che in quel momento era profondamente umano. C’era un velo di trepidazione in quei lineamenti puri. Un imbarazzo diffuso, un’angoscia intrappolata in fondo agli occhi spenti. Teneva lo sguardo leggermente basso, con la testa appena reclinata di lato, lasciando che alcuni ciuffi di capelli gli ricadessero sul viso.

Alessandra lo sfiorò prima con esitazione. Quasi temendo che si potesse frantumare sotto le sue mani. Temeva che fosse tutto un sogno. Un’illusione della sua mente. Gli scostò i capelli e iniziò a disegnare con la punta del dito i suoi lineamenti. Sembrava volersi convincere della realtà di quello che stava vivendo.

Sesshomaru socchiuse gli occhi. Non lo aveva mai accarezzato così. Era un tocco innocente, curioso. Eppure lo sentiva bruciare. Lo percepiva inebriante. Ammaliatore. Seducente. Eppure, sapeva benissimo che la ragazza davanti a lui stava facendo tutto fuorché provare a sedurlo.

“…Cosa sono?...”

Si era fermata vicino alle sue labbra. Pallide e sottili. Invitanti. Poteva capire la sua confusione. Poteva capire che per lui fosse un’ammissione importante l’ammettere di esser capace di ripetere quello che definiva un errore, anche se nella sua voce non cera astio, rifiuto o repulsione. Alessandra credeva di capire che il bel demone usasse quella parola per comodità. Per non doverne impiegare un’altra che sembrava spaventarlo. Una parola di cui gli aveva detto non conoscere il significato.

“…Sei la cosa più importante che abbi mai avuto…”

Sesshomaru poggiò la sua fronte a quella della ragazza. Un rossore lievissimo gli colorò le guance e lo sorprese. Imbarazzo…Lui provava imbarazzo…nel dire quelle parole…nell’ammettere di avere qualcosa di importante. Non avrebbe usato una parola di cui ancora non conosceva l’esatto valore. Forse non l’avrebbe mai usata. Ma in quel momento promise a se stesso di riuscire a far capire alla ragazza quello che sentiva senza possibilità di equivoci.

“…Scusami…per quello che ho detto…e per come ti ho trattata…”

Le aveva chiesto scusa. Lui. Il demone dallo sguardo di ghiaccio; il Principe dell’Ovest. Lui. Sesshomaru. Aveva chinato il capo. E le aveva chiesto perdono. Per tutto. Per averla fatta soffrire. Per non averla voluta capire. Aveva dimenticato il suo orgoglio, la sua strafottenza. Eppure, non si sentì umiliato come credeva. Al contrario, si sentì soddisfatto, quasi realizzato.

Alessandra gli passò le mani attorno al collo elegante. Lo fissò negli occhi e sorrise. Anche se in modo inusuale, si era dichiarato. Non le aveva detto di amarla e lei ormai aveva capito che forse non avrebbe mai sentito sulle sua labbra quella parola. Ma non le importava. Le voleva bene per quello che era. Non gli importava che fosse una ningen. Che quel rapporto fosse un errore per la società in cui lui viveva. Per quello che gli era stato insegnato.

Non importava. Alessandra aveva visto il rossore leggero che gli aveva imporporato il viso. Un colore soffuso e dolcissimo. Non avrebbe mai pensato che quel ragazzo sarebbe stato capace di arrossire. Di mostrare imbarazzo tanto spudoratamente. Ma, in fondo, non significava altro che a lei ci teneva. Davvero. Che in quell’essere importante lui racchiudeva tutta una gamma di sentimenti e emozioni che non riusciva a esprimere altrimenti. In fondo, cosa importava che parola usasse? Le parole sono solo suoni convenzionali.

Quello che importava era il sentimento che si voleva trasmettere. Quello che lui voleva trasmettere. Le parole sono solo una sequenza si sillabe. Nulla di più. Non importava che non le avrebbe mai detto che l’amava. Le importava solo esser sicura che era quello il sentimento che li univa. Che era quello ciò che il demone cercava di farle capire di provare.

Intensificò la sterra sulle sua spalle, mentre sollevava la testa verso di lui, chiudendo gli occhi. Cercava le sue labbra, cercava quel sapore di fresco e di pino. Cercava un bacio per suggellare la fine di tutto e l’inizio. Sesshomaru le sfiorò le labbra dapprima con esitazione, tremando leggermente. Timoroso di esser respinto. Ma poi la travolse in un bacio in cui l’ingenuità e la passione si fondevano. Si abbandonò fra le sua braccia, si appoggiò completamente a lui. Non voleva lasciarlo. Non lo avrebbe lasciato.

…Amami…Non m’importa se non me lo dirai mai…Amami come solo tu sai fare…Con la tua freddezza e la tua insospettabile dolcezza…Amami per quello che sono…

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Capitolo 36
*** 36. ASSEDIO ***


Allora

Allora!

 

Siamo arrivato a un momento importante della storia: una svolta che lascerà molti interrogativi e che apre a nuove soluzioni. Quale legame intercorre fra Inutasiho e Morigawa? Quel è la verità che Shin ha scoperto?

 

Per saperlo, leggete e poi fatemi sapere cosa ne pensate.

 

Grazie infinite a tutti coloro che leggono e commentano, ma anche a chi legge soltanto.

 

 

 

 

CAPITOLO 36

ASSEDIO

 

 

Kyoko lasciò il figlio nella radura e s’incamminò verso il costone di roccia che si intravedeva fra le ombre della notte. Erano anni che non lo vedeva. Anni che non aveva ricevuto sue notizie. Eppure, il suo ricordo e le sue parole continuavano a riecheggiarle nella mente.

 

La yasha sospirò profondamente. Probabilmente, presto i suoi pensieri si sarebbero mutati in suoni, e la verità su quella notte, su quella guerra, su quell’odio, tutta la verità, sarebbe emersa. Non si era sorpresa quando Yashi le aveva detto di esser già stato in quel luogo, e molto di recente. Non aveva neanche chiesto il motivo, perché dentro di sé già conosceva la risposta: Shin. Era l’unico che potesse ricordare il Sensei. L’unico che sapesse della sua esistenza, fra i suoi figli.

 

Shin…Non lo aveva ancora visto. Appena arrivata, era subito ripartita con il secondogenito. Doveva sapere cosa fare. Se poteva ancora sperare. Voleva avere risposte, illudendosi che potessero essere diverse da quelle che lei stessa conosceva. Un sorriso amaro le increspò le labbra. Era una sciocca. Qualunque fosse stato il destino, loro avevano fallito. E forse lei avrebbe perso i suoi figli. La sua vita.

 

Mentre saliva l’erta che l’avrebbe condotta alla caverna, l’intensificarsi dello sforzo fisico, benché pressoché nullo, si aggiunse all’enorme prostrazione psichica che gravava da tempo sulla sua anima e si sentì d’un tratto mortalmente stanca e bisognosa d’aiuto. E senza apparente ragione le venne in mente Inutaisho. Le sembrava quasi di vederlo, ritto in mezzo al campo di battaglia. Avrebbe voluto che fosse vero. Avrebbe voluto corrergli incontro come quella notte. E avrebbe voluto sedere con lui e chiedergli consiglio.

 

Era profondamente immersa in quei pensieri quando, giunta ormai alla grotta, nel buio spezzato soltanto dal riverbero della luce lunare, scorse una lanterna accesa, appesa probabilmente a un bastone. E c’era un uomo ritto in piedi, in silenzio. Le dava le spalle.

 

Aveva la stessa corporatura di Morigawa ed era avvolto in un ampio mantello bianco di pelliccia, come Inutaisho l’ultima volta che lo vide. Kyoko si fermò e restò a guardarlo ammutolita, quasi non credendo ai propri occhi, quasi aspettando che da un momento all’altro si volgesse verso di lei con la voce e lo sguardo di Inutaisho. Ma l’uomo restava immobile; soltanto il mantello fluttuava nell’aria con un fruscio lieve, d’ali d’uccello.

 

La yasha si avvicinò con passo leggero. Il Sensei, che pure doveva averla udita, non si girò: sembrava osservare qualcosa dentro ad una polla cristallina che mandava riflessi inquieti sulla roccia. La sentì affiancarlo e scrutare nelle ombre gettate dal fuoco. Nulla. Il nero del fondo non lasciva intravedere cosa alcuna di un qualche interesse.

 

“…Soffrirai…”

 

Kyoko abbassò la testa. Lui sapeva. Lui conosceva le domande e i dubbi della sua anima. Leggeva dentro di lei come su un libro; percorreva il labirinto dei suoi pensieri come una strada diritta e ben lastricata. Non aveva neanche avuto bisogno di parlare. Non aveva neanche dovuto proferire una parola. Il Sensei già conosceva quello che gli voleva chiedere. Forse, lo aveva sempre saputo. Da prima che lei arrivasse. Da prima che seguisse il marito sul continente. Forse, aveva saputo che sarebbe venuta da sempre. E aveva aspettato. Elaborando la più elementare e dolorosa delle parole. Una realtà che le veniva gettata in faccia con violenza. Secca e dolorosa come uno schiaffo. Assordante come il silenzio che era improvvisamente calato attorno a loro.

 

Il Sensei si voltò lentamente. La luce fioca strappò guizzi di metallo alla corazza seminascosta dal mantello, scolpì il viso anziano e incredibilmente stanco. Eppure, gli occhi brillavano di una luce inquieta, ardente. Gli occhi di un ragazzo. La stessa vitalità, la stessa disperata sicurezza. La convinzione di essere immortale.

 

Kyoko trasalì. Un brivido le corse sotto la pelle, ma si trattenne dal gridare tutta la disperazione che quella corazza le trasmetteva. Se l’aveva indossata, significava una cosa sola: avrebbe combattuto. Lui. Lui. Il Sensei. Lui che erano millenni che si limitava ad osservare il fluire del tempo; lui che, l’ultima volta che aveva partecipato ad uno scontro lo aveva fatto per evitare che i suoi allievi fossero costretti a uccidersi. Ma senza armatura. Solo all’ultimo aveva deciso di intervenire. Solo per evitare la rovina.

 

Era stata semplicemente rimandata. Il Sensei considerava quel momento di debolezza, vecchio più di quattrocento anni, il suo errore più grande. Aveva mostrato clemenza. Aveva mostrato l’affetto che lo legava a qui ragazzi. Aveva sbagliato. E ora un altro ragazzo rischiava di pagare per il suo sbaglio. Un ragazzo così simile al suo allievo prediletto, e tuttavia così diverso. E per di più incapace in quel momento di vincere. Solo per il suo stupido orgoglio.

 

“…Cosa devo fare?...”

 

“Combatti per ciò che ami”

 

Il Sensei si voltò e con passo saldo e s’incamminò verso l’uscita della grotta. Per lui, era tempo di andare a rimediare a quel vecchio errore. Era strano. Era sopravvissuto a quasi tutti i suoi allievi. Era vissuto per millenni. Aveva riso, amato, sofferto, ucciso…Aveva provato tutto ciò che un uomo e un demone potevano provare…Conosceva il passato, e sapeva leggere nel futuro…Aveva osservato per secoli il lento fluire del tempo, limitandosi a considerare la stoltezza di demoni e uomini. Limitandosi a chiudere gli occhi su errori e boria. Era strano…era sopravissuto a tutto, eppure in quegli istanti la sua mente fu attraversata da una consapevolezza disarmante: non sarebbe più tornato in quella grotta.

 

Il suo corpo…la sua anima…nulla vi avrebbe più fatto ritorno. Lo aveva capito da ormai due mesi. Da quando il sigillo era stato spezzato. Da quando quella potenza spaventosa gli aveva quasi strappato il cuore, costringendolo a digrignare i denti. Ad abbandonare la sua atarassia.

 

Gettò un’occhiata a Kyoko. Era ancora vicino alla fonte. Stava cercando di raccogliere tutte le sue energie. Lui sapeva benissimo per cosa avrebbe combattuto. Sapeva che avrebbe fatto di tutto perché non fossero i suoi figli a pagare per la follia paterna. Sapeva che era pronta anche all’odio e al disprezzo, per aver taciuto loro la verità. Una realtà che Shin aveva sfiorato e che continuava a tormentarlo. Lo spingeva continuamente al dubbio. Al sospetto.

 

Il Sensei sospirò impercettibilmente. Se ci fosse riuscito, se tutto fosse andato come sperava, senza errori e debolezze, quel ragazzo sarebbe diventato il nuovo Principe, al posto di Morigawa. Sarebbe avvenuto quello che i suoi discepoli prospettavano quando erano ancora ragazzi, quando l’odio e l’invidia non li aveva ancora corrosi nel profondo.

 

Avrei dovuto accorgermene…

 

Alzò gli occhi allo spicchio di luna. Presto, lo avrebbe incontrato. Molto presto. Avrebbe incontrato l’erede di Inutaisho. E avrebbe combattuto per lui.

 

*****

 

“Sapevo di trovarti qui”

 

Kyoko si sedette accanto al figlio, su una grande trave carbonizzata. Odore di cenere e legno bruciato. Odore di fumo. Nauseante. Dava fastidio. Confondeva l’olfatto. Soffocava. Ecco cosa rimaneva della grande ala Ovest dell’edificio dopo quell’incendio: un cumulo di rovine.

 

Il palazzo era stato ricostruito, in quei secoli, ma quelle sale erano state lasciate andare in rovina. Per esorcismo. Per soffocare qualsiasi ricordo. Per scongiurare un nuovo incendio. Ormai, solo la memoria poteva riedificare la bellezza austera di quella stanza, rilucente dell’oro delle decorazioni e dei bagliori dell’argento e dell’avorio. Slanciata nelle colonne sottili che reggevano la volta a cassettoni lignei. Ora, quelle colonne sembravano giunchi appassiti, mentre il superbo soffitto era sostituito dalla volta del cielo. Nei fasci di luce, talvolta riluceva un barbaglio. Un superstite del fuoco, avvolto dalla polvere del tempo.

 

Shin chiuse gli occhi e si lasciò scivolare dalla trave a terra, tuffando il viso nelle braccia conserte. Quante volte aveva sognato l’inferno che si era scatenato in quella stanza? Quante volte aveva rivisto l’ombra distorta del padre proiettarsi sul muro? Se alzava la testa la vedeva ancora: enorme, deforme, inquietante. E poi quelle urla…quelle grida che non avevano nulla di umano o demoniaco. Sembravano provenire dall’inferno stesso.

 

…Non perderti anche tu…

 

Cosa volevano dire quelle parole? Cosa?! Strinse con forza la stoffa del kimono. Stava impazzendo. Stava rinnegando tutto quello che gli era stato insegnato. Stava mettendo in dubbio la parola di suo padre. Una storia che aveva sentito ripetere uguale migliaia di volte. Non se l’era fornita lui, quella versione. Non l’aveva immaginata. Ma era certo di non essersi immaginato neanche l’abbraccio di una pelliccia, in quella notte rossa.

 

Una sensazione che gli aveva attraversato la mente all’improvviso, mentre osservava un fuoco all’accampamento. Un ricordo sfumato, che aveva cercato di delineare meglio. Lo aveva rincorso, ma gli era sfuggito. Ingoiato fra le pieghe della memoria di un bambino.

 

Avrebbe potuto anche essere frutto della sua mente, ma non ci credeva. Era convinto che non fosse un sogno, ma una realtà concreta. Una pelliccia…Qualcuno lo aveva avvolto in una pelliccia…E poi, si era svegliato fra le braccia di sua madre.

 

Shin!”

 

La mano che lo scosse lo riportò alla realtà. Alzò la testa e incontrò il viso della madre. I suoi capelli dorati. I suoi occhi viola, ora dolci e pieni d’amore. Ma lui sapeva che potevano anche risplendere di determinazione e potere. Le posò in grembo la testa e le strinse la vita. Come quando era bambino, i primi anni dell’esilio. Quando si trovava fra demoni sconosciuti che lo guardavano con compassione e pietà. Quando non era altro che il figlio di uno sconfitto. Di un demone privato del suo youki.

 

“…Abbracciatemi…”

 

Kyoko strinse quel corpo saldo e giovane, il corpo di suo figlio. Shin…era tormentato da angosce e ricordi, lo sapeva bene. Era cosciente del fatto che doveva essere avvenuto qualcosa, dopo il suo incontro con il Sensei. Qualcosa che aveva insinuato il dubbio nella mente del giovane Principe. Che lo aveva spinto ad assumere un atteggiamento sfuggente. Quasi ostile.

 

Gli passò la mano nei corti capelli neri. Era strano vedergli quella pettinatura. Davvero inusuale. Eppure, stava bene. Più che con i capelli lunghi. Gli incorniciavano il viso dai tratti marcati, con la mascella forte e le labbra carnose ben disegnate.

 

“…Chi è stato a salvarmi?...”

 

Kyoko sussultò impercettibilmente. Shin non le aveva mai posto quella domanda. Gli aveva sempre detto che era stato Takakuni a sottrarlo alle fiamme. Gli aveva sempre raccontato una menzogna per evitare di dover svelare la realtà. Perché adesso il ragazzo le faceva quella domanda? Che avesse ricordato? Che sapesse?

 

“…Quella notte…di chi era quella pelliccia?...”

 

Shin si strinse di più alla madre. Temeva le risposte che avrebbe potuto dargli. Temeva una realtà diversa da quella in cui aveva sempre creduto, ma ormai non poteva più vivere con la sensazione di esser sempre stato ingannato. Con l’idea di essere solo una pedina su una scacchiera. Di rendersi complice di un qualcosa che lo avrebbe potuto disgustare. Fino a quel momento, aveva obbedito. Aveva piegato la testa. Ora, non era più disposto a farlo. Non prima di aver saputo la realtà.

 

“…È stato…Takakuni…a salvarti…Lo sai…”

 

Voce roca, incerta. Voce falsa. Stava mentendo. E male anche. Kyoko, di nuovo, non aveva voluto dirgli la verità. Per paura di perderlo. Si sentiva una vigliacca. Una maledetta vigliacca. Preferiva davvero tenerlo legato a sé con la menzogna, piuttosto di perderlo ma saperlo finalmente privo di tormenti? Che Shin soffrisse era evidente dall’ombra che velava i suoi occhi. Un’ombra inquieta e profonda, oscura quanto la morte.

 

“…Non mentite…Vi prego…”

 

Aveva alzato il viso, fissandola con il suo sguardo profondo. L’aveva supplicata, come non aveva mai fatto con nessuno. In ginocchio davanti a lei, con il viso pallido e segnato da fatiche e lunghe notti insonni, con il corpo attraversato da un tremito di attesa e paura. Kyoko gli accarezzò il viso, sorridendo trasognata. Suo figlio…suo figlio voleva sapere. Ne aveva il diritto. Aveva solo un’immagine evanescente nella mente…il ricordo di una pelliccia…avrebbe potuto convincersi che fosse solo il prodotto della sua mente, la sovrapposizione di più ricordi, filtrati attraverso la fantasia di un bambino…Shin avrebbe potuto ignorarlo, quel ricordo e invece…Invece vi si aggrappava come un naufrago. Era l’unica traccia che potesse venir confermata o smentita. L’unica traccia, per riuscire a sapere la verità.

 

Kyoko socchiuse gli occhi. Non doveva mentire. Shin non lo meritava. Lui non se lo meritava. Ormai, inoltre, sarebbe stato inutile. Alzò gli occhi all’ultimo spicchio di luna che si intravedeva fra il soffitto squarciato.

 

“…Di chi era quella pelliccia?...”

 

“…Di Inutaisho…”

 

*****

 

L’esercito si snodava silenzioso e ordinato. Un trionfo di bagliori accecanti e di colori. Una marea nera e policroma, spaventosa contro il bianco accecante della neve. Rifulgente sotto il sole meridiano. Migliaia di demoni. Di tutti i livelli e le razze. Di tutte le provenienze. Alleati o mercenari. Desiderosi di vendetta o più semplicemente di combattere. Bramosi di sangue e morte.

 

Morigawa osservava compiaciuto i suoi uomini marciare verso l’ultimo atto di quella vendetta. L’ultimo colpo: avrebbe espugnato la fortezza che fu di Inutaisho. Ormai, poteva considerare sua la vittoria. Indiscussa. Meritata. Spronò la sua cavalcatura lungo il pendio, fino a raggiungere l’altura che dominava la vallata. Oltre il passo che s’inerpicava sulla montagna, c’erano i territori dell’Ovest. Le terre di Sesshomaru. Un ghigno subdolo gli deformò la bocca, mentre estraeva la spada e fendeva l’aria, colpendo un punto preciso davanti all’avanguardia dell’ esercito.

 

Nel silenzio, un fragore assordante si levò, mentre una striscia di roccia andava in frantumi, delineando una strada diritta e rossa. La rena infiammava il fianco della montagna con il suo colore; sembrava la promesse del dolore che Morigawa avrebbe portato con sé. Un boato si levò dall’esercito, che inneggiò al suo Principe, battendo confusamente gli scudi. Un crescendo di rimbombo e rida che si ampliava per l’eco, un fragore di tuono.

 

Ad un suo semplice cenno, tutto cessò, e la truppe ripresero la loro marcia, ordinate. Ogni tanto i tessan sventolavano dai lati della colonna, e i cavalieri lungo i fianchi spronavano a mantenere il passo. In un guizzo di lucidità, Morigawa riconobbe Yashi, fermo su un’altura, in sella al suo stambecco. Provò un fortissimo senso di nausea e di dolore. La convinzione di star sbagliando, ma cacciò subito quel malessere, tornando a ergersi fiero.

 

Naraku gli si avvicinò. Fremeva, sotto la pelliccia di babbuino. Fra poco, avrebbe avuto anche lui la sua vendetta. Fra poco, avrebbe visto cadere Sesshomaru e avrebbe ucciso Inuyasha. Finalmente. Dopo anni, mesi, giorni. Aveva accettato l’aiuto che gli veniva richiesto e aveva trovato un alleato prezioso. Scaltro, determinato, risoluto. Astuto.

 

Maledettamene astuto. Perché aveva spettato mesi prima di far muovere l’esercito. Aveva aspettato l’inverno per scatenare una guerriglia che aveva costretto Sesshomaru a chiamare a sé e stanziare a palazzo il suo vastissimo esercito, sguarnendo così i passi e i confini. Lo aveva costretto a mantenere migliaia di uomini con incombente la prospettiva di un confronto in campo aperto. Niente di più avventato. In uno scontro frontale, non avrebbero mai avuto possibilità di salvezza. Morigawa lo sapeva bene. Per questo, aveva sfibrato il nemico. Lo aveva costretto dentro la sua fortezza, limitandogli il più possibile i rifornimenti.

 

Un demone non ha bisogno di mangiare molto. Può resistere digiuno anche a lungo. Ma comunque viene indebolito. Ne risente come ogni essere vivente. Più lentamente degli uomini, ma comunque in modo inesorabile. E lui aveva impedito che a palazzo giungessero anche solo le derrate abituali. Quasi impossibile, quindi, sostenere un esercito di quelle dimensioni. Inoltre, probabilmente proprio confidando su uno scontro in campo aperto, nulla era stato razionalizzato e improntato al risparmio.

 

Quando Morigawa gli aveva spiegato il motivo della lunga attesa, Naraku era stato costretto a riconoscere la genialità del progetto. Sesshomaru non sarebbe solo stato sconfitto sul campo, ma avrebbe anche dovuto affrontare l’onta dell’inganno. La consapevolezza della sua incapacità a guidare un esercito.

 

“È da molto che Shin si è allontanato. Non credi che sarebbe meglio farlo rientrare?”

 

A quella domanda, l’hanyou ebbe un fremito. Anche lui aveva notato l’assenza del Principe, lungo la colonna in marcia. Assottigliò lo sguardo. Non era neanche riuscito a opporsi quando il ragazzo gli si era piazzato di fronte e gli aveva detto che avrebbe compiuto un breve giro del territorio circostante. Non era una richiesta. Era un’affermazione. Con tono strafottente. Irrispettoso. Non si era neanche preoccupato di dissimulare l’astio che gli velava la voce ogni volta che era costretto a comunicare i suoi spostamenti al luogotenente. Né tanto meno si era dato pensiero che quelle parole irrispettose non fossero udite da suo padre. Le aveva anzi scandite bene, perché anche lui potesse sentirle senza possibilità di errore.

 

“TI preoccupi per lui?”

 

Morigawa sorrise. Un ghigno gli distorse la bocca. Una piega che non aveva nulla di rassicurante. Se si preoccupava del suo erede? Naturale! In fondo, Shin era preziosissimo. Per anni aveva esasperato e convogliato i suoi sentimenti verso l’odio. Lo aveva addestrato all’arte militare, lo aveva preparato in modo impeccabile. Il suo lasciapassare. La sua carta vincente. Sarebbe stato lui a dover sfinire Sesshomaru, prima che lui stesso potesse scendere in campo e farlo prigioniero. O certo, lo avrebbe anche ucciso, ma dopo. Dopo avergli mostrato il crollo del suo impero. Dopo essersi vendicato dell’esilio e della sconfitta bruciante. Lo avrebbe ridotto in catene. Lui, il grande inuyoukai, l’erede di Inutaisho. Lui. Il demone altero e sprezzante. Lo avrebbe costretto a piegare la testa, e poi gliela avrebbe tagliata. Sulla pubblica piazza. Ucciso come un volgare criminale. Equiparato a un delinquente. Umiliato. Offeso.

 

Fra tutti quei pensieri, l’immagine di suo figlio sbiadiva. Si riduceva ad una pallida ombra senza alcuna consistenza. Shin non era nulla. Solo una pedina. Quella che gli avrebbe portato davanti Sesshomaru. Quella che lo avrebbe rincorso in battaglia e sfiancato, lottando e facendolo combattere sotto i suoi occhi per il suo piacere. Perché godesse della difficoltà esasperata che avrebbe visto negli occhi del Principe dell’Ovest.

 

Naraku ghignò malignamente, mentre Morigawa gli svelava quel piano subdolo e vigliacco: servirsi di tutto, anche del proprio figlio, pur di ottenere una vittoria, era uno stratagemma degno davvero del grande condottiero che l’youkai doveva esser stato quasi cinquecento anni prima. Il Principe non era stato domato, ma comunque avrebbe fatto il gioco del padre. E il suo di riflesso. Però, la sua assenza prolungata e immotivata iniziò a renderlo nervoso. Agitato.

 

Non gli piaceva. Non gli piaceva che il ragazzo si fosse allontanato. Per di più, in quella zona, vicino a dove aveva fatto precipitare e poi recuperare il cadavere di Takakuni. Era pericoloso. Molto pericoloso. Se avesse scoperto il trucco, avrebbe potuto comprometterlo pericolosamente.

 

Morigawa si era di nuovo scordato del figlio, smarrito nei suoi vaneggiamenti di dominio, tornando a concentrarsi sulla colonna in marcia. Dovevano far presto, e in silenzio, per evitare di venir attaccati prima di aver collocato i presidi di avanguardia. Naraku lo vide avviarsi verso la testa dell’esercito, ma non lo seguì.

 

Una sensazione. Un brivido sotto la pelle, lungo tutto il corpo. Un fremito di allarme. Non c’era alcun pericolo imminente, ma la sensazione che si stesse preparando qualcosa di pericoloso non lo voleva abbandonare. Il campanellino di allarme che continuava a suonargli in testa aumentava sempre di più, diventava assordante. Inconsciamente, caricò la pistola che portava alla vita. Non aveva senso, si disse, ma avere quell’arma pronta gli dava uno strano senso di sicurezza.

 

Kohaku gli si inginocchiò accanto in quel momento. Aveva un messaggio per lui da parte del Principe. Lo attendeva in una radura più a Sud, vicino al dirupo. Doveva sapere dove si trovasse. Naraku annuì e il ragazzo ritornò alle sue mansioni, nelle file dell’esercito. Il dirupo a Sud…il dirupo a Sud…proprio dove Kagura aveva gettato il cadavere di Takakuni. Che Shin avesse scoperto tutto? Sarebbe stato pericoloso. Il risentimento del Principe sarebbe solo aumentato, e forse avrebbe trascinato con sé anche Yashi e Koji. Quei tre erano troppo legati perché si mettessero a combattere l’uno contro l’altro. E poi, perdere Shin significava rendere impossibile da compiersi il piano di Morigawa.

 

Naraku si scoprì il viso. Forse, si stava solo facendo suggestionare dalle sue ipotesi. Era probabile che fosse una coincidenza, quella del luogo. Il ragazzo non poteva aver scoperto nulla. I segni sul corpo del demone che aveva ucciso imitavano alla perfezione i tagli di una spada. E Sesshomaru combatte quasi sempre con la sua katana. Tagli sottili e precisi. Micidiali. No. Non poteva aver commesso un errore. Non riusciva a trovarlo, un dannato errore.

 

Si allontanò senza avvertire nessuno. Se Shin non aveva scoperto nulla, sarebbe tornato come se niente fosse. Altrimenti, meglio non creare testimoni e sospetti.

 

*****

 

Quando lo raggiunse, Shin sembrava intento a osservare il panorama bianco e accecante nel sole pomeridiano. Era solo. Naraku scrutò il perimetro del bosco da cui era uscito. Nessun aura. Nessun demone nei paraggi. Tuttavia, non si sentiva tranquillo. Quello era effettivamente il luogo dove aveva fatto gettare il cadavere del maestro del ragazzo. Perché gli aveva dato appuntamento in quel luogo?

 

“Non ci sono segni di lotta”

 

La voce di Shin costrinse Naraku a riportare la sua attenzione a lui. Si era girato, il bel volto pericolosamente serio e gli occhi infuocati. Ovvio che non ci fossero segni di combattimento; Takakuni era stato ucciso in un luogo molto distante da lì. Ma non pensava che mai qualcuno si sarebbe preoccupato di approfondire qualcosa sulla sua morte. Soprattutto, sperava che non sarebbe mai stato Shin a farlo personalmente. Corrompere un soldato sarebbe stato facile, e poi eliminarlo per non lasciare tracce. In un incidente. E invece, senza mai mostrare alcun segno di sospetto a quel riguardo, Shin aveva indagato con discrezione, probabilmente fino ad elaborare una sua teoria. E dallo sguardo rabbioso e disgustato che gli incupiva gli occhi, probabilmente non doveva neanche essere troppo lontano dalla realtà.

 

“È passato del tempo”. Cercò di minimizzare il fatto, ma sapeva che stava rischiando grosso. Il ragazzo aveva fiutato qualcosa. Lo capiva dal sorriso di scherno che gli vedeva sulle labbra. Sapeva che stava mentendo. Spudoratamente.

 

“Tracce di quel genere non svaniscono così velocemente” e agitò nell’aria una mano, mimando qualcosa che si volatilizza in un attimo. Era quasi divertito del tentativo del suo nemico di raggirarlo. Di nuovo. Ancora. Ancora menzogne, bugie, realtà distorte.

 

Naraku scrollò le spalle, in segno di noncuranza. Fingeva che il discorso lo annoiasse. Che considerasse il tutto come un puerile tentativo di rivalsa nei suoi confronti. Lo accusava di essere invidioso di lui per la carica che ricopriva. Perché si era dimostrato migliore per Principe. Lo accusava di esser incapace di ragionare lucidamene per la folle gelosia che gli ottenebrava l’animo.

 

Shin rise, amaramente. Ottenebrato? Lui?! Mai come in quel momento aveva le idee chiare. Tutti i ricordi e le voci che si avvicendavano nella sua mente; tutta una realtà che aveva ignorato e che ora gli era stata svelata. E che lo aveva confuso e spaventato.

 

Avrebbe dovuto prendere una decisione. Affrontare suo padre. Perché non voleva più quella guerra. Quell’inutile scontro. Non voleva più essere un giocattolo. Non avrebbe smesso di combattere, ma lo avrebbe fatto solo per se stesso e i suoi fratelli. Solo per la loro serenità. E per sua madre…Dopo che gli aveva raccontato tutta la storia, quella vera, Shin l’aveva abbracciata ancora più forte. Gli erano sembrate ridicole le sue parole su odio e disprezzo. Come avrebbe mai potuto odiarla? Gli aveva mentito, per anni, ma il ragazzo sapeva che lo aveva fatto per proteggerlo. E non c’è amore più grande di quello di chi accetta il disprezzo pur di non perdere una persona cui tiene.

 

Adesso, era lui a dover decidere. E la sua scelta dipendeva tutta da quel colloquio. Da quello che aveva scoperto e dalle conferme che avrebbe trovato. Se tutto si fosse risolto in una bolla di sapone, allora avrebbe continuato a combattere con suo padre. Per vendicare la morte di Takakuni. Altrimenti, non avrebbe più avuto motivo di voler la morte di Sesshomaru…Non si sarebbe alleato con il Principe dell’Ovest, ma di certo avrebbe abbandonato quell’inutile guerra non sua. E avrebbe portato con sé anche Yashi e Koji. Se i suoi sospetti si fossero rivelati fondati, avrebbe raccontato loro tutta la storia. Quella vera. Finora, non aveva detto niente a nessuno, per non creare inutili allarmismi. E poi, conosceva bene il carattere dei suoi fratelli: sarebbe bastata anche solo l’ombra del dubbio perché agissero senza riflettere, con conseguenze anche disastrose.

 

Naraku iniziava ad agitarsi. Era consapevole della sua forza, cui poteva aggiungere anche i poteri della sfera, ma qualcosa gli diceva di non sottovalutare quel demone. Anche se l’aspetto era quello di un ragazzo, era estremamente potente. Pari a Sesshomaru. E quindi pericoloso. Troppo, per lasciarlo in vita se conosceva la verità. Sfiorò il cane della pistola, sotto la pelliccia. Doveva sapere cosa avesse scoperto. In quel momento, avrebbe deciso.

 

“Puoi dire quello che vuoi, Naraku. Tanto mi sono già fatto un’idea di come sono andate le cose”

 

Aveva smesso di ridere e era tornato a fissarlo. Voleva leggergli dentro l’anima. Voleva costringerlo ad ammettere tutto. Tutte quello che Yaone gli aveva detto e che lui non aveva ancora accettato razionalmente. Morto per veleno…Takakuni era stato ucciso da un veleno potentissimo. Da un miasma mortale e corrosovi. Non da una spada. E se anche negli artigli dell’inuyoukai c’era veleno, non era di quel tipo. Inoltre, che vantaggio poteva trarne Sesshomaru dall’uccidere Takakuni, dall’infierire con la spada sul suo cadavere e dal gettarlo poi in quel luogo? Non era ancora iniziata alcuna guerriglia. Non doveva sapere ancora nulla di loro. No. Davvero era un comportamento che non sembrava aver senso.

 

“Allora? Quel è quest’idea?” lo esortò l’hanyou. Sudava freddo,sotto la pelliccia; nonostante ci fosse il sole; nonostante la temperatura fosse di alcuni gradi sopra lo zero. Nonostante fosse un demone. Sudava, concentrando sempre di più la sua attenzione sullo youkai che aveva di fronte. Appariva tranquillo e rilassato, come se stesse intrattenendo una normale conversazione per futili motivi. Eppure, il suo volto era una maschera dura e risoluta. Il viso di un adulto, non di un ragazzo.

 

“L’idea è che sia stato tu a uccidere Takakuni, Naraku”. Shin pronunciò quelle parole d’un fiato. Impassibile. Ma dentro, sentiva il cuore pulsare impazzito mentre gli rimbombavano nella testa. Se fosse stato vero, e orami era certo che lo fosse, quell’hanyou lo disgustava più di quanto non avesse già fatto in passato.

 

“Cosa dici!”. Naraku rise nervosamente. Voleva apparire divertito dalla strampalata teoria del Principe; illuderlo che si fosse sbagliato in pieno. Invece, Shin gli si avvicinò pericolosamente. Poteva distinguere benissimo il suo youki vorticare nelle vene e invadere ogni sua cellula. Pronto a esplodergli contro.

 

“Dico…Sei stato molto abile a ingannarci, a ingannarmi. Lo hai ucciso perché aveva scoperto che ci volevi usare, e poi hai riversato la colpa su Sesshomaru. Dovevi esasperare il nostro odio, perché mio padre si decidesse a muovere l’esercito e inviarti i fucili…Hai costruito una scena teatrale, in cui tu solo avresti saputo l’esatto valore di ogni cosa. Ci avresti usato per ottenere il potere di un demone superiore…Peccato che la somma di più bugie porti alla verità…”

 

Naraku sentì la propria agitazione crescere maggiormente. Sapeva tutto. Ogni cosa gli era chiara nella mente: gli sarebbe bastato un istante per smascherarlo. Per fargli perdere la sua vittoria e il potere che aveva sempre bramato.

 

“Con chi hai parlato di questa tua teoria?”

 

“Con nessuno, per ora” rispose seccamente Shin. Ma era intenzionato a dirlo subito ai fratelli, perché abbandonassero quella guerra per loro senza senso. Soprattutto, doveva abbandonarla Koji. Non poteva permettere che si rendesse fratricida.

 

“Hai fatto bene, perché è un’idiozia!” ribatte Naraku, cupo in volto. Ormai, non si preoccupava più neanche di mantenere un tono mellifluo e rispettoso. Ora c’era in gioco di più di un’alleanza. C’era in gioco la vita. Sapeva perfettamente che Shin non gli avrebbe mai perdonato la morte del maestro. Aveva giurato che ne avrebbe ucciso l’assassino.

 

“Un’idiozia dici?” scherzò Shin. “Allora spiegami perché Yaone ha trovato tracce del tuo miasma, nel corpo di Takakuni. Gliel’ho fatto analizzare, sai?”

 

L’hanyou impallidì. E quella fu la più eloquente delle risposte. Yaone non gli aveva detto a chi potesse appartenere il veleno, ma lui lo aveva dato per scontato. Aveva luffato, fingendo sicurezza nell’attribuirlo a lui e l’hanyou era caduto nella trappola, smascherandosi. Ora, Shin concentrava il proprio potere nella mano, pronto a scaglialo contro Naraku.

 

“Morirai”

 

Una detonazione. Secca. E Shin fu costretto a piegare le ginocchia, premendosi l’addome nel vano tentativo di tamponare la ferita. Nonostante l’armatura, il proiettile aveva superato la sua difesa, e adesso gli divorava le carni. Tossì sangue, e sentì la testa girargli terribilmente. Riuscì a fatica a sollevare la testa. Naraku torreggiava su di lui, imponente: la pistola ancora fumante e un ghigno sul viso.

 

“Non è ancora giunta la mia ora, principe” calcò l’ultima parola con malcelata ironia. “Sei stato bravo a capire tutto…Chi ha ucciso Takakuni, perché, come…Era un piano perfetto, ma ho trascurato la tua intelligenza…D'altronde, eri un avversario interessante. Stimolante. Non sei caduto nella mia rete, e questo mi ha sorpreso. Ma come vedi non sono uno sciocco, come te. Avresti dovuto prevedere che non sarebbe stato facile uccidermi. Ci hanno provato in molti, ma nessuno ci è riuscito.

 

Shin si rialzò in piedi. Le gambe lo reggevano a stento e il sangue continuava a gocciolare a terra. Una macchia rossa sul bianco della neve. Strinse i denti, mente un ringhio sordo gli usciva dalla gola. Aveva ragione. Aveva maledettamente ragione. Non aveva previsto la pistola. Non aveva pesato alla furbizia subdola del suo avversario. E adesso ne pagava le conseguenze. Ma lo avrebbe portato con lui all’inferno. Prima che il veleno nei proiettili facesse effetto. Ormai, lo doveva considerare inerme; aveva abbassato la guardia e non aveva più colpi in canna. Gli si gettò addosso.

 

Un nuovo sparo. Shin barcollò indietro. Davanti agli occhi l’immagine di Naraku soddisfatto con la pistola ancora fumante. Aveva una altro colpo, aveva il nuovo modello. Non riusciva a recuperare l’equilibrio. Indietreggiò barcollando, come un ubriaco. Chiuse gli occhi quando sentì il vuoto sotto di sé.

 

Sono stato uno stupido…

 

*****

 

Naraku raggiunse l’accampamento che era ormai notte inoltrata.

Aveva guardato impassibile Shin arretrare e cadere nel precipizio che gli era alle spalle. Non aveva neanche gridato. Forse, era già morto sul colpo. Tuttavia, l’hanyou aveva preferito accertarsi della sua effettiva dipartita. Era stato costretto a scendere fino in fondo al dirupo: niente cadavere. Forse era caduto nel fiume e la corrente lo aveva trascinato via. Aveva sorriso. Di certo, se anche fosse stato ancora vivo, non avrebbe potuto salvarsi. Il letto del fiume era molto grosso e pieno di rocce aguzze: avrebbero martoriato le sue membra e strappatogli la vita. E se anche fosse sopravvissuto ancora, ci avrebbe pensato il freddo a finirlo. O più semplicemente la perdita di sangue.

 

Raggiunse la tenda di Morigawa e si fermò un istante, girandosi verso la distesa scura e informe. Dalla collina, di poteva dominare tutta la pianura in cui sorgeva il castello di Sesshomaru, chiusa da tutti i lati da una morsa che gli sarebbe risultata fatale. Le tende erano disposte su più linee, divise secondo l’assetto dell’esercito. Dietro, venivano le macchine da guerra: catapulte, balestre, torri d’assedio. Ogni via d’accesso era stata chiusa. La grande foresta abbattuta per chilometri, per meglio disporre le truppe. In poche ore, Morigawa aveva posizionato il più potente e vasto esercito finora mai riunito. Più ancora di quello di Inutaisho. Le sue truppe erano disposte frontalmente. Tenevano sotto costante controllo la porta principale, sbarrata. Gli altri lati erano sorvegliati dagli alleati, provenienti da tutto Nihon. Demoni che vedevano in quella guerra la possibilità di espandere il loro territorio o di vendicarsi di un’antica offesa. L’odio e la volontà di rivalsa verso la stirpe fiera degli inuyoukai era grande e serpeggiava in tutte le isole.

 

Inuyoukai…Una stirpe antica quanto il mondo. Esseri superiori, bellissimi e potenti. Dominatori. Avevano costruito un impero, pezzo per pezzo. Un territorio vastissimo che scavalcava gli effettivi confini del regno. Un territorio che racchiudeva in sé il cielo, la terra e il mare. Inutaisho era stato l’ultimo dei grandi Principi: il dominatore del mondo. Aveva portato all’estremo la potenza della sua dinastia. Ma era morto in modo infamante, gettando discredito sulla sua stirpe, sulla sua discendenza e permettendo alla volontà di vendetta di riaccendersi.

 

Naraku sogghignò. Sesshomaru era potente, ma non sarebbe mai stato all’altezza del padre. Soprattutto, nelle condizioni in cui si trovava. Sarebbe caduto. E dopo, sarebbe morto anche Inuyasha, lasciando a lui i frammenti della sfera e il potere ormai completo. Lasciandogli la vittoria. Allora, con la sfera nelle sue mani, sbarazzarsi di Morigawa sarebbe stato estremamente facile.

 

Sollevò un lembo della tenda ed entrò. Morigawa stava tenendo consiglio con i comandanti. Mancavano solo lui e Shin. Ignorò le occhiate ostili che gli gettarono i Principi e si rivolse direttamente al Signore, scandendo bene le parole e gustandosi il dolore deformare i volti di Yashi e Koji.

 

Morigawa: tuo figlio Shin è morto”

 

Il silenziò calò nella tenda, mentre i demoni si guardavano l’un l’altro sconcertati. L’erede era morto. Il Principe. Il futuro della loro stirpe non c’era più. Poteva anche esser stato disonorato; poteva anche aver perso il più importante degli incarichi, aver disubbidito ed essersi sottratto agli ordini, ma restava sempre il primogenito. Il successore.

 

Morigawa non disse nulla. Concentrato sulle carte logistiche. Si limitò soltanto a richiamarlo per il ritardo: l’esercito ormai era schierato e dal giorno successivo avrebbero iniziato a forzare per abbattere le mura. Del fossato scavato non c’era da preoccuparsi. L’unica cosa importante era evitare qualsiasi tipo di rifornimento. Anche i demoni, a furia di combattere, perdono le energie. Allora, avrebbe lanciato l’attacco finale e la vittoria sarebbe stata sua.

 

Si fermò un istante e fissò il secondogenito. Yashi teneva la testa bassa. Sembrava aver perso tutta la sua carica sfrontata e irriverente. Probabilmente, si stava dominando per non piangere. Per non piantare lì tutti quei signori incartapecoriri e andare a controllare di persona la sorte del fratello. Non poteva credere che Shin non ci fosse più. Che fosse morto. Lui era troppo potente, lui era invincibile, lui era…

 

Yashi! Prenderai il posto di Shin nella punta”

 

La voce di suo padre lo riscosse. E gli fece digrignare i denti. Non una parola di consolazione, non una sfumatura triste nella voce. Gli aveva affidato quell’incarico come se si fosse trattato di sostituire l’ingranaggio rotto di una macchina. Con indifferenza.

 

Yashi si sollevò in piedi in un impeto di collera, e puntò il dito contro il padre. Lo accusò di aver preferito ai suoi figli un dannato hanyou. Di aver disonorato pubblicamente Shin; di avergli sottratto il posto che gli spettava per nascita. Gli rinfacciò tutto quello cui aveva assistito impotente. Ora non c’era più Shin a trattenerlo; ora non avrebbe più dovuto obbedire al fratello, anzi era chiamato a prenderne il posto. Non poteva sopportare oltre quell’ipocrisia nauseante.

 

Koji fu costretto ad afferrarlo per le spalle, immobilizzandolo. Rischiava di attaccare anche fisicamente il padre. Rischiava anche lui di essere allontanato dai suoi incarichi. Di fare il gioco di Naraku. Forse era per quello che Shin aveva fatto le scelte che aveva fatto. Perché sapeva di rischiare grosso e non voleva coinvolgerli.

 

Yashi si dibatteva fra le braccia del fratello e inveiva continuamente contro il padre. Koji vide gli occhi di Morigawa infiammarsi d’ira. Lo sentì minacciare il fratello, rinfacciarli ingratitudine e mancanza di rispetto. Minacciarlo. Se non avesse mantenuto il suo posto, anche lui avrebbe subito la giusta punizione. Il fatto di essere suo figlio, il nuovo erede, non lo metteva certo nelle condizioni di parlargli a quel modo.

 

Con uno strattone più deciso, Yashi si liberò e afferrò uno dei pugnali che bloccavano al tavolo la cartina. La lama luccicò al riverbero delle lucerne, sinistra. Un riflesso metallico che attraversò gli occhi viola del ragazzo. Aveva uno sguardo adulto e rabbioso; uno sguardo che nessuno gli aveva mai visto. Gli altri presenti si allontanarono dal tavolo, appiattendosi contro le pareti del padiglione reale. Temevano di restare coinvolti in un possibile scontro.

 

“Credi che basti darmi il comando della punta per farmi dimenticare Shin?! Credi che basti far di me l’erede?!”. Non gridava più. Scandiva le parole con voce secca e chiara. Quasi assordante nel silenzio rotto dal vento. “Certo che guiderò la punta! Ma in quanto attendente di Shin, non perché adesso sarei io il Principe! Ecco cosa m’importa della tua eredità!”

 

Si passò la lama lungo il collo, tranciando di netto i lunghi capelli biondi raccolti in una treccia. Ora, anche lui aveva rinunciato. Anche lui si era messo al livello del fratello. Si era dato dello stupido mille volte per non averlo fatto prima. Ci aveva provato anche, ma alla fine Shin gli aveva fatto promettere che lo avrebbe fatto solo se costretto. Bastava che uno di loro portasse il segno del disonore. Non occorreva che qualcun altro subisse medesima condanna.

 

Shin…Non ho mantenuto la promessa…ti ho disubbidito…

 

Il pugnale si conficcò a terra, a pochi centimetri da Naraku. Era una promessa. Con quel gesto, Yashi si impegnava a ucciderlo se avesse scoperto che lui c’entrava con la morte del fratello. E non gli sarebbe bastata tutta l’eternità per nascondersi. Perché lo avrebbe trovato dovunque.

 

Naraku ebbe un sobbalzo nel vederlo così deciso: ora, con i capelli corti e l’espressione cupa e decisa, la figura di Yashi richiamava pericolosamente e in modo ambiguo quella di Shin. Se non fosse stato per il colore dei capelli, davvero Naraku avrebbe creduto di aver davanti il ragazzo che aveva ucciso poche ore prima.

 

Koji aveva assistito all’azione del fratello senza trovare il tempo e la forza per intervenire. Gli era ancora al fianco e non lo avrebbe di certo lasciato. Anche se se ciò avrebbe potuto significare andare contro a Morigawa. Non lo avrebbe lasciato solo.

 

Lo seguì fuori dalla tenda senza aggiungere una parola. Nel silenzio irreale che era seguito, prima che la collera di Morigawa esplodesse e i suoi subordinati facessero di tutto per placarne l’ira, altrimenti sarebbe stato capace anche di uccidere i suoi stessi figli.

 

Più si allontanavano, più le urla si confondevano col vento, venivano rapite dalla neve che ovatta i suoni. Raggiunsero la loro tenda in silenzio, mentre i demoni che costituivano il corpo scelto della punta si spostavano al loro passaggio e piegavano la testa. La notizia della morte di Shin, della morte del principe, era corsa veloce per tutto il campo, accolta con dolore, indifferenza, costernazione. Aveva abbattuto gli animi di chi lo conosceva e infiammato la volontà di vendetta. Ora, il vedere anche Yashi con i capelli corti, con i segni del disonore camminare fiero e risoluto, non faceva che provocare maggior sconcerto fra i membri di quello che era stato l’orgoglio del Principe.

 

Tre brande. Tre. Uguali, sotto la tenda pesante e spartana. Yashi si lasciò cadere sulla sua, fissando con occhi lucidi la corazza del fratello, composta sulla gruccia. Gli sembrava incredibile che non gliela avrebbe più vista indosso. Che non lo avrebbe più visto. Gli sembrava incredibile. Impossibile. Si prese la testa fra le mani scuotendola con forza. Balbettava di colpe, si rimproverava di non averlo seguito quanto si era allontanato. Continuava a ripetere che lo aveva abbandonato quando era in pericolo.

 

Si ritrovò a terra. Sbattutovi da un pugno. La bocca sanguinante. Koji respirava affannosamente sopra di lui. Occhi azzurri colmi di disperazione. Non poteva accettare lo stato in cui suo fratello si stava riducendo. Non poteva accettare che Yashi si lasciasse andare a quel modo. Era vero: forse avevano abbandonato Shin, forse davvero non si erano stretti a lui abbastanza, lasciandolo solo ad affrontare il peso del disonore. Ma ormai era inutile recriminare. Orami, l’unica cosa da fare era impegnarsi per ristabilire la sua memoria.

 

Si lasciò a sua volta cadere a terra, battendo un pugno con forza. Ritmicamente. Con disperazione. Non poteva credere alle parole di Naraku. Non ci avrebbe mai creduto. Shin non aveva tradito. Non stava cercando di scappare, di informare Sesshomaru. Non era un traditore. Naraku…Naraku era il responsabile di tutto. Da quando lui era comparso, Shin aveva iniziato una lenta discesa verso l’inferno. Ma nessuno lo avrebbe mai convinto che avrebbe rinnegato la sua famiglia. Mai nessuno. Neanche il fatto compiuto sotto i suoi occhi.

 

Strinse convulsamente il terzo di cerchio che l’hanyou aveva portato come prova dell’effettiva morte del Principe. Lo strinse fino a sentire il metallo lacerargli le carni, il sangue scorrere leggero fra le pieghe della pelle.

 

Yashi lo abbracciò. Benché avessero la stessa età, Koji era sempre sembrato più piccolo e bisognoso di protezione. Era sempre restato un po’ ai margini di quel mondo, quasi non ne facesse veramente parte. Quasi vi fosse entrato per errore. Per forza. In passato, era stato Shin a dare a entrambi la forza di rialzarsi nelle situazioni difficili. L’esempio da seguire.

 

In quella notte d’inverno, avvolti dal vento che spazzava rabbioso la pianura, i due youkai piansero come non facevano più da secoli. Illudendosi di sentire da un momento all’altro la voce del fratello e le sua parole incoraggianti. Piansero, e si scambiarono un giuramento col sangue: lo avrebbero vendicato.

 

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Capitolo 37
*** 37. DUELLO ***


Ciao

Ciao!

 

Tecnicamente, questo non è un vero e proprio aggiornamento: piuttosto, una correzione. Mi sono infatti accorta di aver saltato un capitolo, esattamente questo, il 37, per cui lo inserisco. Spero si capisca e la cosa non crei troppa confusione. Quindi, i NUOVI capitoli sono il 37”DUELLO” e il 39 “VERITA’”.

 

Fatemi sapere cosa ne pensate e se si capisce, in questo capitolo, cosa è accaduto (o no) ad Alessandra.

 

Buona lettura

 

 

 

 

CAPITOLO 37

DUELLO

 

 

Grida.

Ordini secchi portati dall’aria, scanditi con voce forte e chiara. Passi cadenzati e ritmici. Passi di uomini che si muovono con ordine e disciplina. Imprecazioni. Urla. rimproveri. Cigolii e tonfi secchi. Inquietanti. Rimbombano nell’animo, rimbalzano nei polmoni. Ti soffocano. Ti intontiscono.

 

Koga continuava a scrutare fra la marea nera delle tende nemiche. Continuava a cercare. Ormai, erano parecchi giorni che quell’assedio era iniziato: attacchi a ogni ora del giorno; sortite; scontri all’arma bianca; tentativi di superare il fuoco di sbarramento che impediva di uscire anche solo di un passo dal castello. Le derrate alimentari iniziavano a scarseggiare. Nelle dispense del palazzo erano stati stipati i rifornimenti per permettere alla corte ce solitamente soggiornava al castello di trascorrere l’inverno senza problemi, ma mai nessuno si sarebbe aspettato un assedio vero e proprio. Era una tattica cui loro demoni ricorrevano molto di rado. Invece, Morigawa l’aveva preferita allo scontro in campo aperto, dove probabilmente sapeva di essere inferiore.

 

Koga si appoggiò stancamente al parapetto del camminatoio di ronda. Poco distante da lui, alcuni soldati chiacchieravano fra loro sottovoce, gettando di tanto in tanto occhiate preoccupate verso l’accampamento nemico. Ormai, mancava poco. Si iniziava già a vedere un certo movimento fra le tende e fra poco una linea scura e compatta si sarebbe delineata davanti ai loro occhi. Un fronte formato di yari splendenti nella luce del sole, e dietro di loro demoni arcieri. Poi, il contingente munito di…Come le aveva chiamate Alessandra?...Armi da fuoco. Erano estremamente pericolose. Molti di loro erano già caduti sotto quei proiettili e, se anche non morivano subito, si spegnevano fra atroci sofferenze.

 

Eppure, in quel momento, il Principe degli Yoro aveva la mente presa da tutt’altri pensieri. Non stava dedicando la sua attenzione all’attività nemica. Stava cercando una persona. Quella con cui si era scontrato due giorni prima. Uno dei Principi avversari.

 

“Ti preoccupa la battaglia, ragazzo?”

 

Kumamoto lo aveva raggiunto sul ballatoio. Era incredibile quanto quel ragazzo gli ricordasse Hidoshi. Ogni volta, doveva fare uno sforzo su se stesso per non chiamarlo con quel nome. Lo aveva visto dalla piazza d’armi e lo aveva raggiunto. Era da quando era sceso in campo direttamente l’ultima volta che era sempre più cupo e pensieroso. E questo non era certo un bene: la lucidità, in momenti come quello, era essenziale. Per se stessi e per gli uomini che ti sono affidati. Quel giorno, inoltre, sarebbe stato Koga a dover guidare il primo squadrone, in caso di attacco. E lo scontro ci sarebbe stato, inevitabile, di lì a poche ore. E quel ragazzo non sembrava pronto a sostenerlo.

 

“Non dire sciocchezze! Quelli, io li uccido tutti in un attimo, li…”

 

Koga inciampò nelle sue stesse parole. Aveva voluto mostrarsi risoluto,ma anche se in apparenza il volto giovane era fiero e calmo, gli occhi tradivano un’inquietudine profonda. Sconcertante nello sguardo di un demone.

 

“Sai, anche tuo padre prima di uno scontro era sempre agitato come te. Ti assicuro che non  ne avrebbe avuto motivo, eppure…Era capace di tirar giù dal letto me e Inutaisho anche cinque ore prima, anche se ci fossimo appena sdraiati, con la scusa che preparare uno squadrone non è cosa di cinque minuti. E se ancora avanzava tempo, non perdeva occasione per battersi con chi fosse disposto a sfidarlo. Era il suo modo di scaricare la tensione”

 

Koga sorrise. Gli piaceva quando il vecchio generale gli raccontava qualche aneddoto della giovinezza di suo padre. Gli piaceva che gli narrasse del suo carattere, della sua figura, del rapporto che c’era stato fra loro.

 

Incrociò le mani dietro la testa e si stiracchiò la schiena, per poi rivolgere un sorriso contratto al demone. “Non penso che resterei illeso se adesso andassi a svegliare Sesshomaru”.

 

Kumamoto ridacchiò a sua volta. L’immagine del Principe che rotola fuori dal suo futon, buttatovi da Koga solo per allenarsi e distrarsi gli metteva addosso allegria. Sapeva bene che Sesshomaru non gli avrebbe di certo perdonato la libertà e la confidenza prese, tuttavia non era un’idea da scartare a priori. Anche se, per quel giorno, era davvero meglio lasciar perdere. Il Principe aveva già un impegno tutt’altro che allegro e leggere. Un duello resta sempre un duello. Per di più, avrebbe dovuto affrontarlo in quelle condizioni.

 

“Già…Anch’io credo che non la prenderebbe molto bene. Soprattutto, dopo quello che è successo stanotte ad Alessandra”

 

Koga aveva riportato lo sguardo verso l’accampamento nemico. Aveva sentito dei rumori. E per un attimo gli era sembrato di vedere quel ragazzo aggirarsi al limitare delle tende. Non poteva essere lui. Non poteva!

 

Kumamoto si accorse dello sguardo dell’Ookami; gli passò una mano sulla spalla e fissò anche lui le linee nemiche. Forse, se non lo avesse guardato in faccia gli avrebbe detto le motivazioni della sua agitazione. Perché davvero non poteva essere solo l’imminenza di uno scontro a preoccuparlo a quel modo.

 

“Cosa c’è che non va?”

 

Koga sospirò. Dirglielo? Confidarsi con lui? Non aveva prove. Era solo una sensazione. Solo un presentimento che gli aveva attraversato l’anima quando aveva incrociato la spada con quell’youkai. Capelli neri lunghi, occhi azzurri. E quell’odore…quell’odore familiare, anche se distorto…

 

Aprì la bocca, ma la richiuse subito. Si sentiva la gola secca e faticava ad articolare anche un semplice suono. E se si sbagliasse? Se fosse ala sua mente a volerlo illudere, a volergli giocare un brutto scherzo? Probabile. Possibile, anzi. Forse stava solo cercando una forma di espiazione. Ma, in caso contrario, se si suoi sospetti si fossero rivelati veri, come era potuto succedere? Come?! E lui, poi, cosa avrebbe fatto?

 

Si sentì chiamare dai soldati, dal cortile. Doveva prepararsi. Ormai, mancava poco, e prima di chiudersi nella corazza avrebbe voluto salutare Ayame e avere notizie di Alessandra. Sesshomaru non si era ancora visto, quella mattina, benché l’alba fosse ormai trascorsa da un pezzo. Nessuno aveva provato ad andarlo a cercare nei suoi appartamenti, soprattutto visto quando successo durante la notte, e a chi domandava del Principe, lui e Kumamoto rispondevano che si stava allenando per il duello. Falso. Falso. Koga aveva incrociato Inuyasha in corridoio non molto tempo prima e non aveva nessun allenamento col fratello. Ma meglio una bugia che sospetti e calunnie. Non in un momento come quello.

Meglio tacere, e lasciare che fossero solo loro a sapere la verità. O forse, a immaginarla. Anche perché neanche qualcuno fra loro aveva ancora voluto formulare razionalmente un pensiero a quel proposito. In quella notte non ce n’era stato il tempo. Koga increspò le labbra in un sorriso ironico. Non si sarebbe mai aspettato, un giorno, di ritrovarsi a coprire il Principe dei demoni. Sempre che effettivamente le cose stessero come lui pensava.

 

Salutò Kumamoto e discese. Non gli avrebbe detto nulla, ancora. Prima, doveva accertarsi di una cosa. E se si fosse rivelata vera, allora avrebbe informato anche gli altri. Voleva una prova certa, la sicurezza ineluttabile. Mentre raggiungeva Ayame sulla porta del palazzo, pregò di incrociare di incrociare di nuovo la spada con quel ragazzo, quel giorno.

 

 

*****

 

 

Sesshomaru sentì voci lontane riecheggiare nell’aria. Il palazzo si stava svegliando, e si apprestava ad una nuova giornata di sangue e scontri. Era così da giorni ormai. Non si sarebbe mai aspettato di subire un assedio. Aveva sempre pensato di risolvere la questione in campo aperto, con l’esercito schierato e pronto all’attacco. Quella situazione lo sfibrava, invece. Perché coinvolgeva nel pericolo anche chi rimaneva a palazzo.

 

L’idea di perdere non gli attraversava mai la mente, tuttavia non poteva impedirsi di considerare il tempo che ci sarebbe voluto a vincere. Lui avrebbe resistito, i suoi demoni avrebbero resistito, ma i ningen? Loro no. Loro avevano bisogno di mangiare. E le scorte si stavano esaurendo. Aveva dato ordine di razionare tutto, ma ormai era tardi. L’inverno presto sarebbe finito e allora i suoi avversari avrebbero potuto procurarsi il sostentamento anche semplicemente con poche ore di caccia. Lui, invece, avrebbe visto i suoi subordinati indebolirsi lentamente, ma inesorabilmente. Allora, sarebbe stata la disfatta.

 

Non poteva permetterlo. Doveva vincere. Avrebbe vinto. Prima che tutto degenerasse. Prima che la fame e la debolezza minassero le sue truppe. Bastavano le voci e i sospetti a minare la sicurezza del palazzo; non occorreva che ci si mettessero anche i ragionamenti irrazionali degli affamati. In quel caso, sarebbe stato il tracollo. E già quel giorno avrebbe dovuto combattere per ristabilire la sua autorità. Un duello, da cui non era certo di uscire illeso. Avrebbe ucciso chi gli aveva recato offesa, quello era certo, ma forse neanche lui si sarebbe rialzato.

 

Si erano offerti di sostituirlo: koga e Kumamoto. Ma lui era stato irremovibile. Poche ore prima ne avevano discusso fino a sfibrarsi. Inutilmente. Il Principe era cocciuto e non si sarebbe mai sottratto allo scontro. Era la sua autorità ad esser stata messa in discussione, erano stati i suoi ordini a non esser stati eseguiti. Era stata la sua anima ad esser ferita. E anche se il suo avversario aveva fatto apposta a invocare il diritto al duello, confidando sul fatto che l’inuyoukai fosse cieco e quindi più vulnerabile, Sesshomaru era ben intenzionato a fargliela pagare. Non si scavalca impunemente la sua autorità. Non si ferisce chi lui vuole proteggere.

 

<<…Avrei dovuto proteggerti…>>

 

Un mugolio accanto a sé lo riportò alla realtà. Alessandra si mosse nel sonno, al suo fianco, il respiro regolare e tranquillo. Kagome le aveva dato delle erbe,perché si calmasse e riposasse un po’. Quando l’avevano portata nelle stanze del Principe era in un totale stato si shock. E poi, la botta in testa che aveva ricevuto era stata molto forte. Meglio farla dormire. Doveva recuperare le forze.

 

Sesshomaru si girò su un fianco. Avrebbe tanto voluto vederla. Avrebbe voluto poter rincorrere le sfumature di luce sul suo volto, perdersi nei riflessi di rame dei suoi capelli. Era bello quando il sole li illuminava. Strappava loro sfumature d’oro fulvo che le irradiavano il viso. Avrebbe voluto vederla sorridere. Certo, era in grado di percepire ogni espressione della ragazza, ma non era la stessa cosa. Non era come gustarsi le sue labbra piegate a scoprire i denti, contratte a fingere la rabbia; storte per stizza; arricciate dal disappunto.

 

Sollevò la mano e le sfiorò il volto. Sentì la pelle della ragazza rabbrividire leggermente a quel contatto. Di riflesso. Già…la sua mano sinistra era ancora fredda. Meno che all’inizio, ma ci sarebbe voluto ancora del tempo perché assumesse il normale calore corporeo.

 

La sollevò davanti al viso, aprendola e chiudendola. La sentiva appena. Un formicolio leggero che gli prendeva tutto il braccio sinistro. L’unica sensazione che gli desse la certezza di riavere l’arto. Un braccio di argilla che lentamente stava diventando di carne e sangue. Stava diventando il suo braccio. In sostituzione di quello perduto.

 

Si passò la mano sugli occhi. Purtroppo, il Sensei non aveva potuto trovare un rimedio alla cecità. Era riuscito solo a restituirgli l’arto amputato. Cancellando il segno di un odio atavico fra lui e suo fratello. Sesshomaru, in quel momento, si chiese se fosse stato solo cancellato un segno, o se piuttosto era il suo odio verso il fratellastro ad essere mutato. In fondo, non aveva più cercato scuse per cacciarlo e il saperlo a palazzo, anche se non lo avrebbe mai ammesso, gli dava una sensazione strana. Simile al piacere, alla sicurezza. Scacciò quel pensiero e si riconcentrò su chi gli aveva restituito il braccio.

 

Il Sensei…Si era materializzato nella piazza d’armi una sera, all’improvviso, appena prima del tramonto suscitando grande sgomento e costernazione nei soldati di guardia. Lei stesso era accorso, quando gli era stata data la notizia che un intruso era penetrato nel castello e che chiedeva di incontrarlo.

 

Era stato Kumamoto a riconoscerlo, nonostante il tempo trascorso. Il Sensei. Il maestro del vecchio generale. Del padre di Koga. Di suo padre. L’youkai ne aveva sentito parlare, ma non lo aveva mai incontrato di persona. Non lo aveva mai neanche fatto cercare. Però, fin dal primo istante, ne aveva percepito l’immensa potenza, nonostante l’aspetto macilento e vecchio, quasi provato, era dignitoso e da lui emanava uno youki impressionante. Impossibile da eludere del tutto.

 

Si era detto pronto ad aiutarlo. Si era messo a completa disposizione del Principe. Per riparare ad un errore, aveva detto. Non aveva intenzione di obbedirgli come un soldatino, ma era pronto ad aiutarlo in tutto quello che avrebbe potuto. A modo suo, naturalmente. Sesshomaru non tollerava, in genere, chi gli parlava a quel modo, con strafottenza e superiorità, ma aveva ignorato il tono autoritario dell’youkai per rispetto al fatto che fosse stato maestro di suo padre. E che comunque era una persona degna di rispetto, come lui ne riconosceva poche.

 

Non aveva sbagliato ad accoglierlo e ad accettare il suo aiuto. Il Sensei aveva fornito informazioni preziose. Tuttavia, aveva taciuto particolari altrettanto importanti, pur conoscendo le risposte alle domande che gli venivano fatte. Va bene aiutare, ma se davvero quella sarebbe stata la sua ultima lezione, data ai figli dei suoi allievi, allora il Maestro intendeva condurre il gioco come suo solito. Troppo facile offrir loro la soluzione su un piatto d’argento. Avrebbero dovuto cercarla. Con il suo aiuto, ma anche con la loro testa.

 

Però, aveva comunque voluto fare qualcosa di concreto per dimostrare la sua presa di posizione. Aveva deciso di rendere il braccio al figlio di Inutaisho. All’inizio, il Sensei era rimasto molto sorpreso del fatto che il Principe, benché assomigliasse in aspetto in modo impressionante al padre, avesse un carattere che era quasi all’opposto. Certo, caratteristiche comuni restavano, come la testardaggine e l’orgoglio contro cui aveva dovuto lottare anche con Inutaisho, ma non molto di più. Sesshomaru sfoggiava un carattere freddo e solitario, scontroso e distaccato che sembrava essergli stato inculcato ad arte. E non certamente dal padre. Era stato plagiato, creato quasi dovesse essere non un Principe, ma uno strumento di potere, il mezzo per mantenere salda la dinastia degli inuyoukai.

 

Lo aveva osservato a lungo, mentre preparava l’argilla che gli serviva per ricreare il braccio. Sarebbe stato doloroso riallacciare i nervi all’argilla e rinfondere vita a quell’involucro freddo. Per molto tempo, probabilmente il bel demone non lo avrebbe nemmeno avvertito; solo sensazioni distorte. E poi, sarebbe stato freddo. Per muoverlo, avrebbe potuto muoverlo, ma all’inizio con molta difficoltà.

 

Aveva chiesto che Kumamoto lo assistesse, ma il Principe aveva rifiutato anche quella presenza. Se davvero c’era la possibilità che sentisse dolore, non avrebbe mai permesso ad altri di vederlo contorcersi negli spasimi. Accettava il Sensei per rispetto, ma non concepiva di mettere in dubbio la sua capacità di resistere al dolore. Non avrebbe mai permesso che dei subordinati, come li aveva chiamati per darsi un contegno, lo vedessero in quelle condizioni. Soprattutto, non avrebbe mai voluto che fosse Alessandra a doverlo vedere. Per questo aveva ordinato che nessuno entrasse nella stanza. Qualunque cosa fosse successa.

 

Kumamoto e Koga erano stati gli unici cui era stato permesso di sostare nel corridoio, col preciso compito di impedire l’accesso a chiunque. Tuttavia, i due youkai non avevano avuto la forza di cacciare nessuno di quanti si erano presentati. Soprattutto, l’anziano generale aveva mentalmente maledetto mille volte Sesshomaru per il maledetto orgoglio che aveva ereditato dal padre. Non voleva mostrarsi debole, diceva. Forse, senza neanche rendersi conto, che il suo comportamento non faceva altro che ferire chi gli era affezionato. E che lui si ostinava a non vedere e a ignorare.

 

In quel corridoio buio, dove l’unica fonte di luce era la fiammella tremolante di una lucerna, le ombre avevano scolpito in modo inquietante i volti dei presenti: Inuyasha, Kagome, Ayame, Homoe, Koga, Jacken. Ma fu un volto in particolare ad attirare l’attenzione del generale: quello di Alessandra. Pallida, gli occhi blu privi di luce. si vedeva che cercava di dominarsi, di non mostrare quanto gli pesasse il fatto che il demone non l’aveva voluta accanto a sé. Anche se come archiatra la scusa ci sarebbe stata. E benché la ragazza sapesse che il Principe aveva preso quella decisione soprattutto per proteggerla, lei non riusciva a ignorare il fatto che comunque, anche fra quelle persone che ormai conosceva e la conoscevano, fra la stima reciproca, dovesse fingere i suoi sentimenti. Nasconderli. Ignorarli.

 

Alessandra aveva sentito il cuore contrarsi, avvolto dall’angoscia, quando, dopo minuti interminabili di silenzi e ringhi soffocati, un urlo roco e gutturale aveva riempito ogni anfratto del corridoio. Si era portata le mani alle orecchie, come se il non sentire le avrebbe permesso di non provare nulla. Inutile. La sua mente aveva catturato quel suono e glielo restituiva ampliato da mille echi prive di origine. La faceva impazzire.

 

Si era confusa nell’oscurità del corridoio, scivolando a terra e implorando che nessuno notasse il suo gesto, le lacrime che le tremavano negli occhi. Aveva tuffato le mani nei capelli e stretto forte la testa, raggomitolandosi su se stessa. A proteggersi. A illudersi che lui le era accanto, che l’avrebbe abbracciata per rassicurarla, come quando un incubo, di notte, la svegliava, ansante. Allora, il demone la faceva sdraiare sul suo petto e l’abbracciava con una dolcezza rassicurante.

 

Aveva voluto illudersi che fosse tutto un sogno, che l’youkai era accanto a lei, e non oltre quella porta, a soffrire. A urlare.

 

Alessandra non aveva visto, avvolta dall’ondata delle sue emozioni, la costernazione che si era dipinta sul volto degli astanti per quel grido. Il Principe…quella era la voce del Principe. Era stato Sesshomaru a gridare, come nessuno di loro lo aveva mai sentito fare. Neanche quando gli aveva tagliato il braccio, Inuyasha ricordava che il fratello si fosse abbandonato a una così forte manifestazione di dolore. Eppure, in quel momento aveva gridato. E la cosa che più aveva impietrito l’hanyou era l’idea che probabilmente Sesshomaru aveva comunque represso anche quell’urlo. Che fosse stato solo la punta del dolore realmente provato.

 

Alla fine, il Sensei, spossato, era uscito dalla stanza, pulendosi le mani rosse in uno straccio. Nessuno aveva osato chiedere se quel colore fosse dovuto alla creta o al sangue del demone. L’importante era che il Principe stesse bene.

 

In seguito, il Sensei non aveva fatto molto. Si era limitato a risiedere a palazzo, presenziando ai consigli di guerra e puntualizzando a volte dei particolari o facendo valere la sua esperienza; perlopiù, comunque, si limitava a osservare il lento fluire degli eventi. Un comportamento che però non faceva altro che urtare Sesshomaru. Perché, se già il bel demone sopportava a fatica l’idea di essere costantemente analizzato da Kumamoto, il pensiero di essere quotidianamente sottoposto ad un ulteriore esame da parte del maestro di suo padre lo rendeva estremamente nervoso.

 

Eppure, Sesshomaru era perfettamente consapevole del fatto che era lui che doveva ringraziare. Se il Sensei non fosse andato ad avvertirlo, benché con il suo solito modo sibillino di parlare, Alessandra non se la sarebbe cavato solo con uno spavento e alcuni lividi e contusioni. Sarebbe potuta andare molto peggio. Scosse la testa. Non ci voleva neanche pensare, a cosa sarebbe potuto succedere. Non l’aveva protetta. Aveva permesso che le facessero del male. Benché la ragazza avesse la sua parte di colpa per esser uscita in piena notte  senza avvertire nessuno, tuttavia quella consapevolezza non lo sollevava per nulla. Si sentiva il sangue ribollire nelle vene al solo pensiero di quello che era successo. Probabilmente, anche suo padre doveva essersi sentito allo stesso modo. Con la differenza che lui aveva protetto la madre di Inuyasha. Da solo. Anche se a costo della sua vita. Al contrario, se non fosse stato per una serie di fortuite coincidenze, Alessandra non avrebbe avuto alcuna protezione.

 

Le passò il braccio attorno alla schiena, e l’attirò a sé, facendole poggiare la testa nell’incavo della sua spalla. La strinse forte, facendo comunque attenzione a non svegliarla. Non ce n’era motivo. Aveva diritto di riposare. Diritto di recuperare le forze. Di superare anche quella brutta esperienza.

 

Gliela avrebbe fatta pagare, a quel generale. Per aver osato alzare la mani su di lei. Per averla considerata un oggetto. Un qualcosa da usare e poi gettare. Per aver tentato di sporcarla con la sua arrogante, presunta superiorirità.

 

Gli venne da ridere. Possibile che quei pensieri fossero suoi? Possibile che davvero fosse lui a considerare arrogante e fasulla la superiorità che gli era stata inculcata? La superiorità che aveva sempre avuto sulle labbra, ogni volta che si rivolgeva a qualcuno? Non ci credeva, eppure sapeva che erano suoi quei pensieri. Suoi e di nessun altro. E che era stata Alessandra a regalargli quella nuova visione del mondo. Una concezione che forse avrebbe anche potuto attenuare il dolore sordo che gli pulsava nel petto quando ripensava a suo padre.

 

 

*****

 

 

 

Sole.

Un raggio fastidioso la colpì. Si mosse, cercando di rincorrere il sonno che scappava. Non voleva ancora svegliarsi. Non voleva aprire gli occhi e tornare alla realtà di tutti i giorni. Non voleva dover andare di nuovo al campo, vedere sangue, corpi martoriati; raccogliere gli ultimi spasimi di demoni che la fissavano ora con gratitudine ora con disprezzo. Non voleva doverlo rivedere.

 

Lì dov’era stava così bene. si sentiva protetta. C’era un tepore rassicurante. La sensazione di un abbraccio, un respiro tranquillo. Alla fine, dovette arrendersi. Si era svegliata. La prossima volta, pensò, la porta l’avrebbe chiusa meglio. Così non sarebbe stata costretta ad alzarsi all’alba, se non per necessità.

 

“Ben svegliata”

 

Alessandra impiegò alcuni secondi a riconoscere la voce calda del demone. Era ancora leggermente intontita dal sonno. Si riprese completamente sentendo le labbra di Sesshomaru sulle sue. Un bacio leggere, a rassicurarla. Quando era andata da lui? Non ricordava. Non ricordava di essersi addormentata fra le sue braccio. Anzi, non ricordava neanche di essere andata a letto.

 

Si sollevò su un braccio. Adesso, avrebbe dovuto andarsene. L’youkai si sveglia sempre prestissimo e un attendente lo raggiunge per comunicargli la situazione. Se l’avessero trovata lì, nel suo letto, sarebbe successo il finimondo. Doveva alzarsi prima che il sole sorgesse del tutto.

 

Gettò una rapida occhiata alla finestra e quasi urlò per la sorpresa. Altro che appena sorto il sole. Dovevano esser già passate le nove, con tutta quella luce. Tentò di alzarsi, ma un capogiro la costrinse a fermarsi. Rimase seduto nel futon, con la testa che le pulsava e un’orribile sensazione di nausea. Si abbandonò alle mani di Sesshomaru, seguendo i loro movimenti che la invitavano di nuovo a sdraiarsi.

 

“Come ti senti?”

 

Come si sentiva? Male, questo era certo. Le scoppiava la testa. Ma perché? Cos’era successo? Guardò Sesshomaru: i capelli leggermente arruffati, il kimono blu. Aveva dormito vestito. Perché? Perché non aveva smesso l’abbigliamento formale? Sentì la bocca insolitamente secca. Ruvida. Faticava anche a parlare.

 

“…Avrei sete…”

 

Sesshomaru sorrise. Aveva un tono umile e colpevole. Come se anche il solo chiedere dell’acqua potesse suonare troppo sfacciato. Le passò un dito sulle labbra e si alzò. Erano secche e screpolate. Colpa del freddo. E forse anche di quello che le avevano fatto bere perché dormisse. Quando l’aveva baciata, aveva sentito una punta di amaro. Verbena, o forse lavanda…Non si era preoccupato di riconoscere il sapore.

 

Alessandra bevve quasi con avidità. Se non fosse stato per il fatto che era Sesshomaru a reggere il bicchiere, probabilmente avrebbe tracannato tutto d’un fiato. Almeno così non rischiava di soffocare. La sentì risistemarsi sui cuscini e cercò di capire se stesse dissimulando il suo stato psicologico o se davvero fosse tranquilla. Possibile che avesse dimenticato? L’youkai se lo augurò, anche perché la botta che aveva ricevuto poteva davvero aver provocato una piccola amnesia. O forse la mente di Alessandra non aveva ancora iniziato a elaborare completamente la realtà e quindi a restituirle le immagini di quella notte.

 

“…Perché non mi hai svegliata? Così rischiamo che ci scoprano…”

 

Sesshomaru sospirò impercettibilmente. Lo sapevano che era lì a dormire; ce l’aveva fatta portare lui. Kagome aveva dovuto preparare delle erbe e l’odore delle loro foglie in macerazione era troppo penetrante. Faceva venire mal di testa. Non aveva accettato che Alessandra dovesse restare nella sua stanza-laboratorio. Lì non sarebbe mai riuscita a riposare bene, anche se svenuta. Per questo aveva ordinato che fosse portata nei suoi alloggi. Ma lui se ne era andato. Con la ragazza erano rimaste Kagome e Homoe. Lui aveva un’importante questione da risolvere.

 

“Non preoccuparti di questo. Pensa solo a rimetterti”

 

Le sfiorò il viso con il dorso della mano, e si piegò a baciarla di nuovo. La sentì mugugnare qualcosa, e poi addormentarsi stringendogli il braccio. La polverina aveva fatto effetto. Avrebbe dormito ancora alcune ore. Giusto il tempo di rimettersi completamente e di dare a lui la possibilità di sistemare le cose.

 

Sesshomaru sapeva che Alessandra non avrebbe approvato. Sapeva che si sarebbe arrabbiata, una volta venutane a conoscenza. Perché non le piaceva quando doveva uccidere. Non le piaceva sentire quella parola. L’aveva sempre rifiutata. Eppure, per quanto detestasse vedere le proprie mani tinte di rosso, non si era sottratta alle incombenze che la sua carica di archiatra le comportava. Da quando era iniziato l’assedio e i conseguenti scontri giornalieri, lei aveva messo tutta se stessa nello svolgere al meglio i suoi incarichi.

 

Aveva fatto allestire una specie di…come lo aveva chiamato? Ospedale…Sì; aveva usato quel nome. Un luogo dove radunare tutti i feriti, dove ci fosse sempre almeno un guaritore pronto a prestare i primi soccorsi; dove i demoni indisposti potessero recuperare le forze. Ne erano morti molti, di youkai, sotto quella grande tenda. Sotto le mani della ragazza. Non era riuscita a salvarli. L’aceto era un buon antidoto, ma non sempre era sufficiente. Spesso i demoni avevano ferite tanto gravi che anche riuscendo a trattenere il loro youki non sarebbero sopravvissuti.

 

Sesshomaru era entrato più volte in quel luogo. E ogni volta un fortissimo senso di vertigine lo prendeva. L’ambiente era saturo dell’odore di aceto, di sangue, di sakè caldo che Alessandra faceva usare come disinfettante. Però, nessuno gridava. C’era solo un brusio sommesso. Quasi rispettoso dell’altrui agonia.

 

Alessandra era stata più volte allontanata da quel luogo con una scusa. Sesshomaru lo sapeva. Era a conoscenza del fatto che Inuyasha o Koga andassero a prenderla. Per farla riposare almeno qualche ora. Molto difficile. Se non era impegnata nella tenda, restava chiusa in camera a preparare nuovi rimedi. Almeno, parte del lavoro le era alleggerito dall’aiuto di Kagome, Ayame e Homoe. Lei dirigeva tutto, ma qualcuno accanto che l’aiutasse c’era. Anche perché, il Principe era perfettamente consapevole del fatto che i chirurghi presenti a palazzo erano più propensi a ostacolarla che ad aiutarla. Se solo ci avessero provato quando lui era presente…

 

Scosse la testa. Avrebbe voluto non doverla ai costringere a vedere ancora la morte. Avrebbe voluto che non dovesse più sentire l’odore del sangue. Inutile. Inutile. Lui era un demone e sangue e morte avevano sempre ruotato attorno a lui con una naturalezza impressionante. Erano sempre stati parte della sua vita, e non riusciva, per quanto si sforzasse, a immaginare un’esistenza diversa da quella. Era arrivato in alto. Giovanissimo, era stato reverito e acclamato, si era guadagnato il rispetto di moltissimi demoni più potenti e anziani. Era ancora un ragazzo. Eppure…quanti cadaveri avevano segnato la sua strada? Quanti esseri viventi, youkai o ningen, erano morti sotto i suoi artigli? Aveva sempre combattuto per il solo gusto di farlo. Per le sensazioni che gli venivano dall’youki che scorre impetuoso nelle vene.

 

Sesshomaru si ritrovò per la prima volta costretto a confrontarsi con se stesso. Non si sentiva in colpa per le uccisioni che aveva perpetrato. Erano nella sua natura demoniaca. Però, un brivido gli corse lungo la schiena. Cosa ne avrebbe pensato di lui Alessandra se davvero avesse conosciuto tutta la sua vita? Se fosse venuta a conoscenza di tutto quello che realmente aveva compiuto, gli sarebbe stata ancora al fianco? E…e se poi lo avesse visto nella sua vera forma? Cosa sarebbe successo se lo avesse visto combattere, quel giorno? Se avesse assistito al duello che doveva sostenere?

 

<<…Ti farei terrore…Vorresti solo fuggire lontano da me…Dal mostro che sarei ai tuoi occhi…>>

 

Se fosse stato necessario, sarebbe ricorso alla sua forma animale. Pur di non morire da solo. Pur di portare con se chi aveva osato scavalcare la sua autorità. E ferire Alessandra. Anche se sperò di riuscire a risolvere il tutto con la sola spada. In passato, ne sarebbe stato certo. Quel generale avrebbe potuto ucciderlo in un attimo. Adesso, invece…

 

Gli allenamenti con Inuyasha, doveva ammettere suo malgrado, iniziavano a dare i loro frutti: riusciva reggere un buon ritmo, prevedeva le mosse da sensazioni quasi impercettibili, schivava e affondava sempre con maggior precisione. Avesse avuto più tempo, sarebbe andato perfettamente preparato a quello scontro. Purtroppo, il tempo era una cosa che in quel momento gli faceva difetto.

 

Quando sentì bussare, non si mosse. Si limitò a ritrarre la man prima che qualcuno entrasse. Profumo di pesca. La miko che viaggiava assieme al suo fratellastro. E Rin. Ne avvertì la presenza, accanto a sé. La bimba lo abbracciò e gli posò la testolina sulla spalla. Aveva pianto tanto quando Alessandra era stata portata a palazzo. Fino a non aver più voce. Fino a tossire per riuscire a respirare; le sembrava che le lacrime le avessero bloccato la gola, la bocca, i polmoni.

 

Anche quando ormai si era certi che ad Alessandra non fosse capitato nulla di estremamente grave, Rin non era riuscita a calmarsi subito. Sesshomaru non era ancora arrivato e lei aveva tanta paura. Aveva lasciato Kiba fuori dalle stanze dell’youkai, ed era rimasta a fissare le persone salire e scendere per le scale che conducevano alla camera da letto. Nessuno le diceva nulla. Allora, si era rannicchiata in un angolino continuando a piangere.

 

Inuyasha l’aveva trovata così. Raggomitolata su se stessa, rannicchiata fra le ombre dello studio del fratello. Le si era inginocchiato accanto, per tranquillizzarla. Appena si era accorta di lui, Rin gli aveva gettato le braccia al colle e aveva nascosto il viso pieno di lacrime nel suo petto. L’hanyou l’aveva stretta e sollevata in braccio. Aveva cercato di tranquillizzarla passeggiando per lo studio, con pochi risultati. Quando però aveva visto finalmente Sesshomaru entrare dalla porta gli si era parato davanti mettendogli letteralmente in braccio la bambina.

 

“Ha bisogno di te”

 

Non gli aveva detto altro, e aveva raggiunto Kagome che lo stava chiamando dalla camera da letto del demone. Sesshomaru si era ritrovato stretto al petto il corpicino tremante della bambina. Non aveva più pensato e si era lasciato guidare dall’istinto. Come quando era vicino ad Alessandra. In quel momento, solo l’istinto gli avrebbe detto esattamente cosa fare per tranquillizzare Rin. Inconsciamente, si era resto conto che in quel frangente un ordine, per quanto la bimba fosse abituata a ubbidirgli, avrebbe solo aggravato la situazione. Aveva congedato koga con alcuni ordini da eseguire immediatamente e aveva chinato la testa verso il visetto rosso di Rin. Quasi senza accorgersene, Sesshomaru aveva iniziato a mormorare sommossamente una canzoncina. Come una ninna-nanna. Neanche lui avrebbe saputo da dove gli veniva, ma mano a mano che il tempo passava il suono si trasformava in parole, che uscivano sempre più chiare e sicure dalle sua labbra.

 

Grazie a quell’inaspettata cantilena, Rin si era calmata e addormentata in braccio al suo signore. Finalmente tranquilla. Solo allora il Principe si era deciso a salire per aver notizie di Alessandra. Il suo cuore aveva urlato per tutto il tempo, ma non se l’era comunque sentita di ignorare Rin. Aveva trovato Kagome vicino alla ragazza. E con lei c’era Inuyasha. Lo capiva dall’odore. Riusciva a definire la posizione di ogni cosa in quella stanza solo grazie all’olfatto.

 

“Se la svegli, te ne pentirai”

 

Inuyasha era rimasto dapprima sorpreso nel vederlo porgergliela, poi si era sfilato la giacca del kimono e vi aveva avvolto Rin, prima di scendere al paino inferiore. Dopo pochi minuti, aveva viso il fratello uscire. E sapeva benissimo dove stava andando.

 

Padron Sesshomaru…mi perdoni, ma…”

 

La voce gracchiante di Jacken. Era ora. Annuì, pur restando concentrato sul respiro si Alessandra. Le regalò un’ultima carezza e si alzò, facendo scivolare a terra Rin. Passò accanto a Kagome, ancora ferma sulla soglia, e si diresse al paino inferiore. Doveva prepararsi per il duello. Lasciò solo un sussurro, rivolto alla miko.

 

“Abbi cura di lei”

 

 

 

 

Un sibilo.

Vicinissimo. Sesshomaru piegò leggermente la testa ed evitò la lama. Appena pochi millimetri, e adesso sarebbe morto. Fendette l’aria davanti a sé, e con un salto distanziò il suo avversario. Cercava di recuperare la concentrazione e il fiato. Quel duello si stava rivelando più impegnativo del previsto. Aveva sperato di aver recuperato il suo svantaggio dovuto alla cecità, ma non si era fatto molte illusioni. Effettivamente, riusciva a reggere il ritmo e a parare, ma rischiava sempre molto e per on abbassare la guardia era costretto a limitare anche la portata degli attacchi. Il suo avversario, invece, aveva campo libero.

 

Eppure…eppure non poteva perdere. Quando sentiva la voce del generale che aveva davanti, il sangue gli ribolliva nelle vene. Aveva attirato al campo Alessandra con uno stratagemma. Perché sapeva che la ragazza non si sarebbe mai tirata indietro ad una richiesta di aiuto. Le aveva fatto credere che ci fosse un youkai in fin di vita. E lei si era precipitata fuori, nella notte, senza avvertire nessuno. Non ne avrebbe neanche avuto il tempo. Non ci aveva neanche pensato.

 

Al campo, la aspettava una brutta sorpresa. Di feriti non c’era traccia. Invece, quel generale l’aveva intrappolata nella sua tenda. Alessandra sapeva bene chi fosse. lo stesso che aveva provocato la morte del soldato sopravvissuto all’attacco ai confini. Si era scontrata ancora con lui, soprattutto negli ultimi giorni, quando aveva dovuto richiedere l’aiuto di uomini per la costruzione del padiglione da campo. Lui si era opposto, e la ragazza gli aveva risposto per le rime. Alla fine, solo un intervento di Kumamoto aveva evitato che la situazione degenerasse e il generale era stato costretto a ritirarsi.

 

Kumamoto aveva cercato di metterla in guardia, ma Alessandra non se l’era comunque sentita di rifiutare aiuto neanche a lui. Così, si era cacciata in un guaio. Erano soli, in quella tenda, e il demone la superava di molto in forza fisica. Alessandra non credeva per nulla all’incontro amichevole. Anche perché era stata attirata lì con l’inganno. No. Quel demone voleva qualcos’altro da lei. Lo capì da come la guardava, da come cercò di afferrarla e toccarla.

 

Alessandra non sapeva combattere, ma comunque non sarebbe rimasta inerte. Un po’ per sicurezza, un po’ per abitudine, portava sempre con sé almeno il tanto. Lo aveva afferrato ed era anche riuscita a ferire di striscio il suo aggressore, ma il generale si era spazientito del carattere ribelle della ningen. Con uno schiaffo l’aveva fatta cadere a terra, fuori dalla tenda. Rotolando, Alessandra aveva battuto la testa su una pietra, ed era rimasta svenuta a suolo. Inerte. Se non fosse stato per i lupi di Koga, aizzati in difesa della ragazza dall’Ookami, e perché il Sensei era andato ad avvertirlo dello scompiglio che c’era al campo, Sesshomaru non voleva neanche immaginare cosa sarebbe potuto succedere ad Alessandra. Alla sua Alessandra.

 

Digrignò i denti e riprese ad attaccare. Il generale, quando era stato colto in flagrante, contravvenendo agli ordini del Principe che aveva espressamente ammonito tutti i suoi subordinati a non osare toccare la ragazza, si era appellato al suo diritto di duello. Invece di essere sottoposto a un processo, il cui esito era scontato, aveva chiesto di battersi con il Principe, come era nei suoi diritti. E Sesshomaru non aveva potuto rifiutare. Adesso, era lì, che cercava di ristabilire la sua autorità e di farla pagare a chi aveva anche solo pensato di toccare Alessandra.

 

Tuttavia, nonostante il desiderio di rivalsa fosse fortissimo, l’inuyoukai dovette ammettere che non era ancora pronto per un duello simile. Abituato a scontrarsi col fratello nel silenzio della palestra, le voci, le grida, le imprecazioni degli uomini che delimitavano l’area dello scontro lo confondevano e gli impedivano di cogliere i particolari più sottili dell’avversario. Se non avesse trovato una soluzione in fretta, quel duello si sarebbe protratto troppo a lungo. E con un menico alle porte non era il caso.

 

“Para di tre quarti!”

 

Di riflesso, seguì quel consiglio, evitando senza difficoltà la lama dell’avversario. Non lo aveva percepito. C’era mancato davvero poco. Lo ricacciò indietro, e si getto su di lui. Di nuovo, quella voce lo mise in guardia, guidando il suo braccio a deviare un nuovo attacco. Nonostante tutto il rumore che lo circondava, Sesshomaru riusciva sempre a coglierlo, quel timbro vocale. Non era più forte degli altri, si confondeva con le altre voci, ma comunque era la più nitida che gli arrivasse alle orecchie.

 

<<…Chi sei?...>>

 

Pensò ad Alessandra, ma scartò subito l’ipotesi. Non era uno voce da donna. Era di un uomo. Anzi, di un ragazzo. Forse Koga. No. Neanche lui. Il demone-lupo gli era di fronte, oltre il suo avversario. La voce, invece, proveniva dalle sue spalle.

 

Riprese a duellare. Si faceva sempre più sotto, serrando l’avversario e non lasciandogli molte possibilità di fuga. E quando eccedeva troppo, quella voce distorta dalla lontananza era sempre pronta a richiamarlo. Ad avvertirlo del pericolo. Si fidò. Lasciò che fossero gli occhi di quella persona a vedere per lui.

 

“Taglia il vento!”

 

Sesshomaru si accorse solo in quel preciso istante che l’ultimo attacco lo aveva portato in ginocchio sotto il suo avversario. D’istinto, fece ruotare la katana e se stesso con lei, mentre si alzava in piedi. Tokijin tracciò un solco profondo nella carne del demone, che stramazzo al suolo privo di vita. Sesshomaru aggirò il cadavere e ne spiccò la testa, come voleva l’usanza per chi moriva in quel combattimento. Prima di colpire, però, aveva velocemente annusato l’aria. Niente. Non era stata di Alessandra la voce che lo aveva guidato nello scontro. Poco probabile, d’altro canto. Il sonnifero che gli aveva fatto bere era potente.

 

D’un tratto, il vento gli portò un odore conosciuto. E improvvisamente si ricordò con chi avesse provato quella tecnica che gli aveva dato la vittoria. Esistevano solo tre persone che l’avessero vista: una era morta, ed era suo padre; l’altra era Alessandra. La terza era quella contro cui l’aveva rivolta la prima volta, con il solo intento di mostrare la propria abilità.

 

<<…Inuyasha…Non è possibile…>>

 

Alzò lo sguardo alla torre che si affacciava sulla piazza d’armi. Nessuno. Nessun odore. Forse si era sbagliato. Rinfoderò la katana e si allontanò dal cortile, con Kumamoto e Koga. Doveva decidere le azioni militari per quel giorno.

 

Non vide il sorriso di soddisfazione che si delineò sul viso dell’hanyou. Inuyasha riemerse dalle ombre in cui si era nascosto. Anche se il fratello non lo poteva vedere, avrebbe percepito il suo odore se fosse stato vicino al parapetto come pochi istanti prima. Era andato ad assistere allo scontro come tanti altri, ma nel vedere Sesshomaru in difficoltà, anche se limitata, qualcosa si era ribellato in lui. Si era diretto alla torre e lo aveva guidato nel duello. La sua voce giungeva distorta ai sensi dell’youkai, Inuyasha lo sapeva bene, ma sperava che si fidasse di quel tono e ne seguisse i consigli.

 

E con sua grande sorpresa era avvenuto. Non ci aveva mai sperato, ma era accaduto. Sesshomaru si era fidato di lui. Anzi, di una voce forse sconosciuta. Anche se alla fine si era tradito, usando il nome di quel colpo. In quel momento, Inuyasha aveva avuto la conferma che il fratello si era battuto seguendo le sue indicazioni. Che la sua non era stata una semplice voce fra le altre mille.

 

Sorrise soddisfatto e incrociò le mani dietro la testa, incamminandosi verso gli appartamenti dello youkai. Adesso, voleva sapere se Alessandra si fosse ripresa completamente. Cosa di cui non dubitava neanche molto. Benché gli sembrasse quasi incredibile, suo fratello ci teneva a quella ragazza. Lo aveva capito da come aveva gito quella notte; dal fatto che si fosse precipitato da lei non appena aveva fatto imprigionare il generale; perché aveva passato ore a interrogare soldati e ufficiali con il preciso intento di sapere cosa era esattamente successo. Un interesse insensato se per lui Alessandra non avesse significato davvero niente.

 

<>

 

Spiccò un breve salto e atterro su un balcone più basso e da lì nei giardini del Principe. Suo fratello innamorato. Sembrava delirio anche solo il pensarlo. Eppure…eppure in fondo agli occhi dell’youkai c’era un’ombra nuova. Qualcosa che Inuyasha non aveva mai visto. Come davvero non si era capacitato del fatto di averlo sentito cantare, per tranquillizzare Rin. Anzi, era stato quasi sicuro che l’avrebbe fatta scendere a terra e ignorata. Invece…invece sembrava che anche l’inuyoukai avesse una specie di cuore. Un muscolo che batteva.

 

Sorrise amaramente, prima di salire nella camera da letto di Sesshomaru. In fondo, i miracoli non avvengono mai troppo spesso. E il Principe ne era stato già oggetto. Inutile illudersi troppo. Avrebbe potuto davvero amare Alessandra, ma lui non lo avrebbe mai degnato di nessuna considerazione.

 

<<…In fondo, resto sempre un mezzo-demone…Non sarai mai fiero di me…vero, Sesshomaru?...>>

 

 

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Capitolo 38
*** 38. PRINCIPE ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!

 

Allora, dopo una piccola assenza dovuta a motivi universitari, ecco un nuovo capitolo. Ormai, anche se lentamente, ci stiamo avvicinando alla fine della prima parte, che NON supererà i cinquanta capitoli. Naturalmente, alcune vicende rimarranno ambigue o abbozzate, ma saranno riprese nel continuo. ATTENZIONE! La seconda parte NON è il seguito. La storia è un tutto unitario, semplicemente divisa in due parti (al momento, ad esser sincera, sto vagliando se farne anche una terza, ma questo dipenderà dalla lunghezza della seconda) per sottolineare una spaccatura temporale.

 

Ringrazio tutti quelli che hanno atteso con pazienza che io trovassi il tempo per riprendere a scrivere e che spero non si siano stancati di questa snervante attesa. Non faccio promesse di pubblicazione, semplicemente perchè non voglio dare false speranze. L'unica cosa che posso dirvi è che ho intenzione di finire tutta la storia, anche se i tempi saranno molto lunghi.

 

Grazie infinite per la vostra pazienza e attenzione.

 

Un abbraccio,

 

Avalon

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 38

PRINCIPE

 

 

Muffa. Marcio.

Quell’anfratto aveva un odore nauseante. Di melma. Di erbe macerate. Di umido. C’era un umidità fastidiosa, che ti penetra nelle ossa, facendoti rabbrividire. Riportandoti alla mente, in una crudele gioco, il calore di un fuoco, il tepore di una casa.

 

Melma.

Rendeva difficile muoversi. Faceva affondare ogni passo, legava i movimenti. Incrostava ogni cosa, con quel suo colore rivoltante. Scivolosa. Infida. Disgustosa. Copriva ogni cosa. Confondeva ogni odore.

 

Miroku spiò ancora per un po’ fra il fogliame che lo circondava. Nessun rumore. Tutto tranquillo. I demoni erano passati oltre, e non sembrava che si fossero accorti di loro. Tuttavia, per il momento era più prudente restare ancora nascosti, anche perché quei soldati non avrebbero rinunciato facilmente alla loro cattura. Alle loro prede.

 

Retrocesse carponi per alcuni metri, e poi si lasciò scivolare lungo l’anfratto fangoso. Di nuovo, una forte senso di disgusto lo prese. Più si scendeva in quella specie di falda, più l’odore di marcio aumentava. Dava il voltastomaco. Ma almeno permetteva che l’olfatto degli youkai fosse confuso. Arrancando un po’, il monaco gettò un’ultima occhiata all’apertura nascosta dalle fronde; sembrava preoccupato.

 

“Se ne sono andati?”

 

Sango sollevò stancamente la testa. Faticava molto a distinguere la figura dell’amico nell’oscurità di quel pertugio. E poi, aveva paura che le chiedesse qualcosa. Che la rimproverasse. In fondo, se erano stai scoperti la colpa era sua. Era stata lei ad abbandonare le precauzioni necessario e a gettarsi all’inseguimento di quell’ombra. Come una principiante. Anzi, come una stupida. Una maledetta stupida. Avrebbe fatto il loro gioco, lo sapeva bene, ma ogni volta che la figura di suo fratello si materializzava davanti a lei, Sango smetteva di ragionare. Si lasciva travolgere da tutte le emozioni e le paure che le si agitavano in cuore. Abbandonava, prudenza, razionalità, freddezza. Quando vedeva Khoaku, smetteva di essere una seminatrice, e diventava solo una ragazza. Senza neanche accorgersene.

 

Miroku annuì e ricambiò lo sguardo. Era esausto anche lui. Prima la corsa per tentare di fermare la ragazza, poi la resistenza che aveva opposto e infine lo sforzo compiuto per trascinarla via e continuare a correre lo avevano provato molto. Senza contare il fatto che aveva dovuto risucchiare vari demoni per aprirsi il passaggio. Non avevano neanche potuto fuggire in volo con Kirara. Troppo pericoloso: bersaglio facile da colpire per quelle strane armi in possesso dei demoni. Un’esplosione, e poi rischiavi di esser colpito da qualcosa che ti uccideva all’istante.

 

Sospirò e si inginocchiò davanti alla ragazza, incurante del fango che gli sporcava la veste. Gli faceva male vedere quell’espressione sul viso dell’amica. Gli occhi tristi e bui, il pallore sconvolto, il tremore sommesso…Stava cercando di dominarsi; di non piangere e mostrarsi forte. Stava cercando di arginare la mareggiata di emozioni che le sconvolgevano la mente e l’anima. Per quel giorno, aveva già combinato abbastanza guai. E se non fosse stato per Miroku, a quell’ora, lei sarebbe stata uccisa. Con tutti i sensi tesi a evitare di perdere le tracce del fratello, non si era neanche accorta di esser finita in trappola. Era rovinata a terra, e non avrebbe neanche avuto la forza di allontanarsi se il monaco non se la fosse caricata di peso sulle spalle. Aveva corso per ore in quel maledetto bosco con lei in spalla, portando anche Hiraikhotsu, che di certo non era un peso indifferente per chi non ci è abituato. Alla fine, avevano trovato quell’anfratto. Avevano trovato quel riparo. Miroku vi si era gettato senza pensare, rotolando e scivolando nel fango, scendendo fin quasi in fondo. Aveva trascinato Sango con sé e poi l’aveva lasciata lì, contro la roccia, per controllare che nessuno si fosse accorto d loro.

 

L’aveva ritrovata nella medesima posizione. Con le gambe strette al petto e il viso tuffato nelle ginocchia. Anche Kirara sembrava faticare a riconoscerla; le faceva delle piccole fuse, nella speranza di attirare un po’ l’attenzione della padrona. Inutile. Sango con le sentiva nemmeno, le carezze gentili della nekomata. Solitamente, almenoo Kirara riusciva a destarla dallo stato catatonico in cui cadeva dopo aver rivisto il fratello. Quella volta, però, neanche quello funzionava.

 

Miroku sospirò scoraggiato. Possibile che doveva ridursi in quello stato ogni volta? Capiva perfettamente il dolore della ragazza, il suo senso di colpa, la volontà di salvare il fratellino, ma non sopportava che, se falliva, si abbattesse a quel modo. Conosceva bene Sango: la ragazza esigeva sempre il massimo da sé, spremendo fino al limite le proprie forze e ancora era disposta a non cedere. Ancora era pronta a lottare. Fino al completo sfinimento. Quello era un lato del carattere di Sango che lo aveva da sempre affascinato. All’inizio, era stata proprio la sua grande capacità di ripresa a impressionarlo. Si era ristabilita da ferite gravissime in pochissimo tempo. Davvero notevole. Poi, aveva scoperto col tempo anche sfumature delicate di quell’anima. Aveva conosciuto tutte le sfaccettature emozionali di quella ragazza: rabbia, disappunto, felicità, gioia, tristezza…aveva visto quel viso illuminarsi per un sorriso e incupirsi per una lacrima.

 

Sango si accorse del lungo silenzio che era calato fra loro solo quando sentì le mani del ragazzo tastarle la caviglia. La pelle nuda. Non si era neanche accorta che Miroku le aveva fatto stendere la gamba e le aveva sfilato lo stivale inzaccherato. Lo fissò stranita: stava palpando lentamente la zona attorno al malleolo. E un pensiero le attraversò la testa, improvviso: l’espressione concentrata dipinta sul viso del ragazzo lo rendeva ancora più bello, più affascinante. Scosse leggermente la testa. Doveva davvero esser impazzita per arrivare a pensare simili cose. No. Doveva concentrare la sua attenzione su qualcos’altro, qualcosa che non c’entrasse direttamente con Khoaku e non la costringesse a fissare incantata Miroku.

 

“Credi che manchi ancora molto al palazzo?”

 

“Non ne ho idea. Ma se abbiamo incontrato quei demoni, non penso che sia molto lontano”

 

Miroku non aveva neanche alzato lo sguardo, rimanendo concentrato sulla caviglia della ragazza. Era un po’ gonfia, ma era del tutto naturale con la botta che aveva preso. L’unica cosa di cui voleva accertarsi era che non si fosse rotta. Alla fine, tirò un sospiro di sollievo: Sango aveva preso una brutta storta, che le avrebbe impedito di muoversi come sua abitudine e soprattutto di correre per un po’, ma nulla di più. Alla peggio, l’avrebbe portata lui in spalla.

 

Rialzò il viso e rivolse un sorriso rassicurante alla ragazza. Fu un attimo, e si ritrovò Sango sul suo petto. Avvinghiata. Stringeva convulsamente la sua veste e piangeva, balbettando scuse. Continuamente. Non faceva che ripetere quella parola. Una cantilena infinita.

 

Miroku esitò un istante, poi le passò le braccia attorno alle spalle e la strinse a sé. Non aveva nulla da farsi perdonare. Aveva commesso un errore, vero, ma quante volte lei lo aveva slavato dai suoi errori? Miroku non lo ricordava nemmeno, e non si sarebbe mai sognato di rimproverare alla ragazza uno dei rari momenti di debolezza che aveva avuto. Tuttavia, si limitò ad abbracciarla, senza nemmeno provare a fermarne le lacrime. Sapeva che Sango aveva bisogno di quel pianto. Aveva bisogno di liberarsi di tutto il groviglio emotivo che le gravava dentro. Aveva psicologicamente bisogno di sfogarsi, altrimenti la tensione mentale l’avrebbe distrutta.

 

Alla fine, Sango si addormentò senza neanche accorgersene fra le braccia del ragazzo. Quando se ne accorse, Miroku si piegò leggermente su di lei e le scostò i capelli disordinati dal viso, regalandole un leggere bacio sulla fronte. A rassicurarla. Quel pertugio non era certo il luogo più confortevole della terra, ma a lui sembrò la regga di un sovrano. Perché la ragazza era stretta a lui.

 

Tuttavia, miroku non poteva esimersi dal ripensare al motivo che gli aveva spinti a lasciare Musashi. Era passato quasi un mese da quando Inuayasha e Kagome se ne erano andati, assieme a quella ragazza, Alessandra. Da allora, non avevano più avuto loro notizie. E ormai, senza di necessità temere il peggio, erano preoccupati. Anche perché a giorni sarebbe stata luna nuova e Inuyasha si sarebbe ritrovato, umano e senza difese, nella casa del fratello. Alla sua mercè.

 

Per questo avevano deciso di raggiungerlo: per assicurarsi che stessero bene e non fossero caduti in una qualche trappola e per cercare una soluzione al problema della trasformazione. Bisognava trovarla, o il segreto dell’hanyou sarebbe divenuto di dominio pubblico.

 

Miroku si accoccolò contro la parete di terra e roccia, cercando di riscaldare Sango come meglio poteva con il suo corpo. Un fuoco sarebbe stato l’ideale, ma la luce e il fumo avrebbero potuto attirare l’attenzione. Meglio evitare e sopportare un po’ di freddo. Si addormentò a sua volta, dopo aver ricontato i giorni che li separavano dalla luna nuova: ne mancava uno.

 

Speriamo di arrivare in tempo…

 

*****

 

“Stai dormendo?”

 

Nella tenda, un piccolo braciere spandeva intorno una debole luminescenza, troppo fioca per riscaldare anche quell’ambiente così piccolo. Per il resto, l’arredamento era ridotto al minimo: una stuoia intrecciata per terra, una specie di cassapanca e una gruccia appesa al palo centrale, con l’armatura composta. Infine, un cumulo di coperte scure, su una branda nell’ombra.

 

“No…Siediti, se vuoi parlare”

 

Koga non aprì nemmeno gli occhi e rimase con le coperte tirate fin sopra metà del viso. Non aveva freddo e neanche reale bisogno di coprirsi, ma era un modo comodo per sfuggire a chi lo voleva assillare. Fingere di dormire. Di non sentire. Per questo aveva preferito ritirarsi nella sua tenda, all’accampamento, piuttosto che rientrare a palazzo. Non gli andava proprio di dover sostenere discussioni infinite e spiegare a tutti il perché di quel gesto: un gesto insensato, che avrebbe potuto costare caro, decretare la sconfitta, ma lui non ce l’aveva fatta a uccidere quel ragazzo. Non ci era riuscito.

 

Inuyasha si sedette per terra, contro il letto, con un mezzo sospiro, togliendosi il mantello fradicio che aveva indossato per confondersi con i soldati. Se anche le truppe di Koga non lo avrebbero mai attaccato, non poteva esser così certo anche degli altri demoni che vivevano all’accampamento. Soprattutto, per lui non era molto sicuro aggirarsi fra quelle tende la notte. Tramortirlo e ucciderlo sarebbe stato molto semplice. E nessuno avrebbe parlato. Un’omertà totale. Un’indifferenza dilagante. In fondo, perché preoccuparsi di che fine avesse fatto il bastardo? Se era morto, il Principe non avrebbe potuto che rallegrarsene.

 

Tuttavia, in quel momento andare da Koga gli era sembrata la cosa migliore. Per due motivi: doveva chiedergli un favore e poi voleva sapere cosa accidenti gli fosse preso. Non era da lui risparmiare un nemico, in battaglia. Quando gli era giunta la notizia, aveva sorriso isterico. impossibile. Impossibile. Koga non si sarebbe mai lasciato sfuggire l’occasione di uccidere uno dei principi nemici. No: doveva esser successo qualcosa che glielo aveva impedito. Forse, era stato costretto a risparmiarlo per non venir catturato, o per evitare i proiettili di quelle dannate armi.

 

L’hanyou sapeva bene quanto fossero pericolose. Erano vari giorni che aiutava all’ospedale da campo, e ogni giorno si rendeva conto del grave pericolo che quelle aledette armi comportavano: aveva visto moltissimi demoni, veterani di battaglie, esperti e potenti, spegnersi fra sofferenze e spasimi che gli avevano straziato l’anima come mai nulla prima di allora.

 

Infine Koga, stanco del silenzio del ragazzo, si girò su un fianco, emergendo dalle coperte. “Cosa vuoi? Sei venuto anche tu a farmi la predica?”

 

“…No…” rispose inuyasha, ma con ben poco sollievo. Sapeva benissimo che Koga aveva già sopportato le sfuriate degli altri generali. Nella sala delle udienze stava per accadere il finimondo e alle accuse e agli insulti si sarebbero ben presto sostituite le mani se l’arrivo di Sesshomaru non avesse imposto di nuovo l’ordine. L’inuyoukai non aveva commentato nulla, limitandosi a freddare con lo sguardo tutti i presenti. Koga si era nuovamente sorpreso della capacità di soggezione che il bel demone era in grado di esercitare. Anche se cieco, la maestà della sua figura era sufficiente a imporre un potere e un controllo totale. E in oltre, la sua autorità si era rinsaldata dopo il duello di due giorni prima, quando il Principe aveva dimostrato di saper di nuovo combattere.

 

“Vuoi dirmi cosa è successo?”. Inuyasha abbassò il volto, a guardarsi le mani intrecciate. Sapeva che il fratello non aveva sprecato mezza parola di commento sull’accaduto. Aveva lasciato correre, forse ritenendo che il Principe degli Yoro aveva agito in quel modo per sue motivazioni. Comunque, il fatto aveva suscitato un certo clamore, anche perché era veramente raro che qualcuno, disubbidendo a Sesshomaru non incorresse nella sua fredda furia. Eppure, niente. Neanche un blando rimprovero. Neanche da parte di Kumamoto. E forse era davvero quell’indulgenza a pesare all’ookami.

 

“Perché? Per poi poter ridere di me? Della mia debolezza?”. Koga sogghignò. Una smorfia di autocommiserazione. “Ti piacerebbe, vero, potermi sbeffeggiare davanti a tutti…”

 

Inuyasha si alzò stizzito. Non era venuto per prenderlo in giro, solo per cercare di aiutarlo. In definitiva, potevano dire di conoscersi da anni, e se anche i loro rapporti erano migliorati di molto solo negli ultimi mesi, nessuno dei due poteva negare di provare una profonda stima nei confronti dell’altro. Anzi, più di una volta koga aveva dovuto ammettere a se stesso la superiorità dell’hanyou.

 

“Se la pensi così…Quando avrei finito di farneticare, vai da Ayame. È molto preoccupata per il tuo comportamento”

 

Inuyasha aveva alzato un lembo della tenda, fermandosi un attimo sulla soglia. Era stata la yasha a raccontargli quello che era accaduto, e a chiedergli di andare a parlargli. Con lei, diceva, non si confidava moto, ma forse con un ragazzo sarebbe stato diverso, forse si sarebbe sentito meno in imbarazzo. Perché lei si rifiutava di credere che Koga avesse deliberatamente risparmiato quell’avversario. Lei lo conosceva bene. In battaglia dava tutto se stesso e non si ritirava prima di esser sicura di aver fatto tutto il possibile.

 

“…mio fratello…”

 

La voce gli arrivò in un sospiro. Inuyasha si voltò, facendo ricadere la stoffa della tenda. Rimase immobile, a fissare l’amico sul letto. Koga si era girato supino, portandosi un braccio sulla fronte con un sospiro.

 

Inuyasha deglutì a vuoto. Forse non aveva capito bene. Sicuramente. Koga gli aveva accennato qualcosa riguarda a suo fratello, ma gli aveva anche detto che era scomparso da moltissimi anni. E che lui non ne aveva più avuto notizie. Sperò di aver capito male, perché altrimenti, se davvero la realtà era quella che stava prendendo corpo velocemente nella sua mente, allora per Koga sarebbe stato arduo decidere la sua posizione.

 

“…Quel demone…è mio fratello…”

 

Vero. Vero. Vero. I suoi sospetti si erano rivelati autentici. E lui per primo non riusciva crederci. Gli sembrava impossibile. Inconcepibile. Aveva tenuto segreti i suoi dubbi, e aveva sperato di ritrovarsi di nuovo faccia a faccia con lui sul campo di battaglia. Lo aveva cercato per tutta la durata dello scontro. Alla fine, gli si era parato davanti all’improvviso: capelli neri lunghi, occhi azzurri. Della stessa tonalità dei suoi. Dal taglio sottile. Si erano fissati per alcuni istanti. Entrambi sembravano intenti ad afferrare immagini sbiadite della memoria. Koga aveva rivisto un cucciolo di demone correre con lui nei boschi, aveva visto suo fratello rotolare nella neve, tuffarsi in un fiume, gettarsi fra le foglie rosse d’autunno. E il viso di quel bambino somigliava in modo impressionante a quello del Principe che aveva di fronte. Coincidenza? Caso? Scherzo del destino? Koga non avrebbe potuto dire se davvero aveva davanti suo fratello, ma c’era un solo modo per scoprirlo.

 

Aveva attaccato. Con decisione e frustrazione. Con la paura che fosse davvero lui e la trepidazione di assicurarsi di averlo ritrovato. Mentre nella sua mente si accavallavano veloci immagini, ricordi, pensieri, supposizioni, aveva continuato a lottare cercando in ogni ombra del viso avversario conferme o smentite. Cercando di sapere la verità. Infine era riuscito a costringerlo a terra, la veste del kimono, sotto la corazza, strappata per tutto il lembo superiore. Aperta a mostrare una cicatrice sottile, che dalla base del collo scendeva sul petto. Koga si era fermato, pietrificato da quanto aveva visto. Quella cicatrice…quella cicatrice era una prova inconfutabile. Suo fratello se l’era fatta da piccolo, cadendo da un albero, mentre facevano a gara nel scalarlo. Era impossibile sbagliarsi. Le ferite dei demoni si rimarginano da sole e normalmente non se ne conserva la cicatrice. Sono davvero pochi i casi in cui rimane il segno, e trovare due demoni con la medesima cicatrice era pressoché impossibile.

 

Era rimasto immobile, incapace di dire o fare qualcosa. Qualsiasi cosa. E il nemico ne aveva approfittato per allontanarsi e ritirarsi verso il capo. Ma anche lui era scosso. Lo aveva capito dal modo con ci girava di continuo indietro la testa. Quasi ad assicurarsi che non se lo fosse sognato.

 

“Ne sei sicuro?”

 

Inuyasha si era seduto sulla branda del demone, e adesso lo fissava con una punta di sorpreso sconcerto nello sguardo. Koga sorrise ironico. Impossibile sbagliare. Era certo che quello fosse suo fratello. Il suo caro fratellino. Non capiva il motivo per cui si trovasse con i loro avversari, né perché non si fosse fatto vivo per tutti quegli anni. Però, era ben deciso a non lasciarlo fuggire di nuovo. Lo aveva ritrovato, e prima di rischiare di perderlo di nuovo lo avrebbe costretto a dargli un’esauriente spiegazione.

 

Si mise a sedere, scambiando un’occhiata carica di parola con l’hanyou. Inuyasha sorrise e accennò con la testa. Lo avrebbe aiutato, per quanto in suo potere. Ma doveva sbrigarsi a mettere le cose in chiaro almeno con Kumamoto e Sesshomaru. altrimenti, il rischio era troppo grande. Inoltre, il Principe non c avrebbe pensato duo volte a eliminare un nemico, se gli fosse capitato sotto gli artigli. No. Meglio prevenire, e avvertire che quel ragazzo doveva esser catturato vivo.

 

“Hai da dirmi qualcos’altro?”

 

Inuyasha si riscosse, avvedendosi di esser rimasto immobile per tutto il tempo che il demone si preparava e che adesso lo stava fissando con uno sguardo fra il divertito e il preoccupato, mentre finiva di allacciare la corazza.

 

“Ho bisogno di un favore…”

 

“Questa è bella! Vuoi che ti procuri un osso, cagnolino?”

 

Inuyasha rimase spiazzato dalla domanda. Lo stava prendendo in giro. Candidamente. Stava scherzando con lui con il sorriso sulle labbra. Come avevano sempre fatto. Anzi, forse che il potersi concedere una battuta fosse, in quel momento, una necessità. La sicurezza di potersi adagiare per un istante nella giovinezza. Di poter distogliere la mente dalle preoccupazioni.

 

“Stupido!”

 

Le risate di koga lo invogliarono al sorriso. Non riusciva più ad arrabbiarsi con quel lupastro come una volta. Forse perché sapeva che,anche se lo provocava, koga non lo faceva mai con l’intento di offenderlo seriamente. Era solo una dimostrazione della complicità che era nata fra loro.

 

“Allora? Cosa dovrei fare? Ti avviso che al momento non mi ci azzardo a perorare la tua causa da Sesshomaru! e già tanto se non ammazzerà me per quello che devo dirgli!”

 

Inuyasha scosse la testa. A quanto pare, koga non aveva rinunciato alla sua idea di costringerlo a cercar di riallacciare maggiormente i rapporti con il Principe. E la possibilità di riavere al fianco il fratello sembrava aver dato una nuova sferzata all’idea dell’ookami.

 

“Nulla del genere. Solo ospitarmi qui, domani notte”

 

Koga compì un rapido calcolo. La sera seguente…la sera seguente…perché Inuyasha avrebbe dovuto lasciare il palazzo, la sera seguente?...per quale motivo?...Luna nuova…se ne ricordò all’improvviso. Inuyasha era arrivato a palazzo con la luna che iniziava a crescere, e da allora era passato un mese. Rischiava di rivelare il suo segreto, se fosse rimasto al castello. Sesshomaru avrebbe percepito il nuovo odore e non avrebbe faticato a scoprirne l’origine. E con lui la corte. Un rischio troppo pericoloso.

 

Restando all’accampamento, invece, fra i lupi di Koga, il suo odore umano si sarebbe confuso, fino a diventare quasi impercettibile anche per l’olfatto dell’inuyoukai. Koga scollò le spalle e gli battè una mano sulla testa, facendolo arrabbiare, e corse fuori ancora ridendo, lasciando l’hanyou nella tenda, sorpreso per la disponibilità dell’amico.

 

“Neanche da chiederlo. Da questo momento considerala casa tua, cucciolone

 

*****

 

Ogni volta che entrava in quel grande padiglione, un forte senso di nausea lo prendeva. L’aria era pregna di mille odori, da quello acre del sangue a quello rivoltante del sudore e dolciastro del sakè. Il suo fine olfatto gli percepiva tutti, catalogandoli e distinguendoli con precisione inconfutabile. La cecità lo aveva reso ancora più attento a quanto captava con gli altri sensi. Solo facendo affidamento su quelli era riuscito a mantenere, almeno esteriormente, la sicurezza sfacciata che tutti gli conoscevano.

 

Sesshomaru si fermò appena oltre la soglia, mentre i suoi uomini gli passavano accanto. Si era appena concluso un altro scontro. Per l’ennesima volta erano riusciti a respingere gli assalitori e a mantenere inviolate le mura. Tuttavia, la domanda che serpeggiava sulle bocche di tutti era. Per quanto ancora? C’era bisogno di un’azione decisiva ed energica, o non si sarebbe arrivati a nulla, se non al tracollo lento e inevitabile.

 

I demoni che gli sfilavano accanto erano i sopravissuti del plotone di guardia sugli spalti. Neanche la metà del numero originario. Lo superavano senza vederlo, chiusi nel loro dolore, nella sofferenza che delineava i loro lineamenti. Sapevano che il metallo nel loro corpo avrebbe potuto ucciderli. Sapevano che avevano pochissime speranze si sopravvivenza e che forse avrebbero consumato gli ultimi istanti della loro via in un letto, soffrendo come cani. Molti, se non morivano appena colpiti, si gettavano a corpo morto contro i nemici, ormai consapevoli dell’ineluttabilità della loro fine e quindi decisi almeno a morire con onore, evitando una lenta agonia.

 

Sesshomaru veniva ignorato da tutti i reseti, ma quella era l’unica cosa che gli piacesse di quel posto. Lì era uguale agli altri, non si sentiva giudicato, non si sentiva costretto a mostrarsi per il demone che tutti credevano e che aveva sempre finto di essere. La confusione era tale che poteva aggirarsi tranquillamente fra le brande senza il rischio di essere fermato. Certo, tutti sapevano chi fosse, e che gli si sarebbe dovuto portare un rispetto tale da inginocchiarsi al suo solo passaggio, ma nessuno lo faceva. Anche perché nessuno ce l’avrebbe fatta. Semplicemente, in quel luogo l’etichetta e il rigore militare erano caduti, cedendo il posto al semplice buon senso.

 

Nessuno gli diceva nulla, e lui non rivolgeva la parola a nessuno. Si recava al padiglione di rado, solo quando la preoccupazione per Alessandra era incontenibile. Due giorni prima non avrebbe voluto che la ragazza riprendesse subito a prestare la sua opera di chirurgo, avrebbe preferito che restasse al sicuro a palazzo. Inutile. Alessandra era stata irremovibile: c’era bisogno di lei, in quel momento più che mai. Non avevano mai parlato di quello che era successo quella notte maledetta e del duello che il demone aveva sostenuto. Sesshomaru non sapeva come comportarsi a quel riguardo: la ragazza non dava segni di ricordare nulla, e forse era davvero così, ma in caso contrario lui non sapeva come introdurre l’argomento senza essere indelicato. Avrebbe potuto chiedere direttamente, ma temeva che la brutalità della sue parole avrebbe potuto ferire Alessandra più del ricordo stesso di quanto accaduto.

 

Alla fine, si era rassegnato a tacere e ad acconsentire che riprendesse il suo posto. Ma in quel momento si pentiva di essersi lasciato convincere: Alessandra odiava il sangue, la morte, il dolore. Aveva già sofferto molto da sola, e lui l’aveva costretta a un ruolo che doveva risultarle odioso e doloroso. Tuttavia, era stata l’unica cosa che fosse riuscito a trovare per consentir loro si vedersi senza sospetti. Un archiatra è un archiatra, e vista la sua cecità poteva recarsi da lui a qualsiasi ora senza troppo scalpore.

 

Si passò una mano nei capelli, sospirando. Avrebbe voluto poterla portare via da lì. Avrebbe voluto poterle dare una via diversa, senza sangue e morte. Avrebbe voluto…che fosse felice. Quella era l’unica cosa che riuscisse a pensare: la felicità di Alessandra. Né guerra né potere. Solo lei. anche se non riusciva proprio a capire se davvero quello che provava era amore. Più probabilmente, ammetteva a se stesso di aver paura ad accettare il nome di quel sentimento. Ad ammettere di amarla. Per questo preferiva barricarsi dietro alle domande e ai sinonimi, tanto era cosciente che la ragazza capiva ugualmente i suoi gesti tronchi e le sue parole silenziose.

 

Annusò l’aria, cercando di distinguere il suo odore in mezzo a quel tanfo nauseante. Delineò la presenza degli altri chirurghi, di Ayame e Kagome, ma non quella dei Alessandra. Fu un altro l’odore che lo colpì. Mezzo-demone. Inuyasha.

 

Voltò la testa in quella direzione, cercando di delineare nella sua mente quello che gli occhi non potevano mostrargli. Inuyasha si affaccendava poco distante da lui. Non gli aveva mai affidato un compito, a palazzo, e da quanto aveva dovuto sospendere gli allenamenti la sua presenza non sarebbe neppure più stata necessaria. Eppure, era rimasto. E l’umana con lui. Rischiando la vita. Sesshomaru si chiedeva per cosa. Si domandava cosa spingesse il fratellastro a restare fra demoni che lo insultavano e disprezzavano, cosa gli desse la forza di sopportare e anche di darsi da fare per aiutare youkai che non lo avrebbero mai considerato se non un bastardo.

 

Eppure, Inuyasha in quel momento era davanti a lui, occupato a ricucire una ferita, a tergere del sangue, a estrarre con i ferri medici i proiettili dai corpi dei demoni. Si era fatto spiegare da Alessandra ogni cosa possibile, così da poterle essere di effettivo aiuto. Trasportava gli uomini che non ce la facevano a muoversi da soli, quando le barelle erano troppo lente, sostituiva la ragazza quando teiera giunta al limite, la costringeva ad allontanarsi a forza dal padiglione perché non eccedesse troppo. Le stava accanto come un fratello premuroso, insomma. E Sesshomaru si scoprì geloso della confidenza che si era instaurata fra loro. Quasi temesse davvero che l’hanyou potesse portargliela via. In realtà, temeva un confronto col fratellastro. e la sconfitta che ne sarebbe seguita.

 

Sesshomaru colse frammenti si dialoghi e mormorii. I demoni distesi accanto a lui stavano parlando di suo fratello, e in toni tutt’altro che negativi. Ne lodavano le scelte e l’operato, senza intenti di scherno. Apprezzavano che ci fosse anche lui a prendersi cura dei soldati. E il demone non potè evitare di sentire anche la voce di alcuni veterani, di demoni che avevano combattuto con suo padre, ricordare come anche Inutaisho fosse solito recarsi ad aiutare i suoi soldati, prima ancora che preoccuparsi delle proprie ferite. Inoltre, c’era chi ravvisava una grande somiglianza fra padre e figlio. Una somiglianza, che andava oltre l’aspetto fisico. E che ferva Sesshomaru. Nel profondo.

 

Fermò il primo demone che gli passò acanto, con l’ordine di trovare Alessandra e dirle che il Principe la stava cercando, e che l’avrebbe aspettata fuori dal padiglione. Uscì senza attendere una risposta. Aveva la testa piena di pensieri, così tanti da fargli male. Quei demoni erano dei semplici soldati, quindi la loro opinione non avrebbe dovuto aver nessun valore per lui, ma non era comunque facile ignorare quello che aveva sentito. Perché era l’avvisaglia di quello che aveva sempre temuto. Lui si era sempre dedicato con tutto se stesso al proprio ruolo, perché suo padre potesse esser fiero di lui, e non aveva mai ricevuto una parola di elogio. Il suo caro fratellino, invece, era stato amato e accettato da suo padre ancor prima di nascere. E adesso anche i suoi uomini lo trattavano con un certo rispetto. Lo paragonavano addirittura a Inutaisho. Umiliando lui. Facendo apparire futili e inutili tutti i suoi sforzi di mostrarsi degni del padre.

 

Mosse il braccio sinistro, sfiorando Tenseiga al suo fianco. Aveva perso l’arto nel tentativo di ottenere la forza del padre. Cercando di impadronirsi di una spada che lo rifiutava e che suo padre aveva affidato a Inuyasha. Da quando Inutaisho era morto, la sua massima priorità era recuperare la zanna.

 

Con il suo immenso potere avrebbe potuto raggiungere la forza senza limiti che il suo spirito bramava da tempo. Nella testa, la domanda su cosa lo spingesse avanti a cercare n potere sempre maggiore. In principio, lo aveva attribuita alla sua età ancora giovane, mettendo a tacere quell’altro dubbio: il timone di essere inadeguato. Impossibile, si diceva. Il suo era solo uno sconfinato desiderio: una brama di potere insaziabile.

 

Che stupido!

 

Sorrise mestamente. Per anni si era illuso, barricandosi dietro parole e idee che gli erano stati inculcati. Ma in realtà Sesshomaru sentiva pesare su di sé l’eredita del padre, sentiva il suo operato sempre giudicato e raffrontato a quello del genitore. Suo padre era sempre stato per lui un modello di riferimento, l’unico che avesse ritenuto degno di ispirarlo, ma ne era quasi rimasto schiacciato. Nonostante lo rifiutasse. Nonostante non accattasse di poter essergli inferiore. Di averlo deluso.

 

…non sei mai stato fiero di me, vero padre?...

 

“Un ryo per i tuoi pensieri”

 

Sesshomaru voltò leggermente la testa e un sorriso gli increspò le labbra. Alessandra. Finalmente, lo aveva raggiunto. Il suo profumo, anche se mescolato agli odori di sakè e sangue, era sempre inconfondibile. Dolcissimo. Seduttore. Prima o poi, avrebbe dovuto chiederle l’origine di quella strana essenza. Assomigliava al profumo dell’acqua, ma si dissolveva in mille sfumature diverse. Comunque, era un profuma adatto alla ragazza; gli riportava alla mente il colore cangiante dei suoi occhi, la sua personalità mutevole e sorprendente. Gli parlava di lei.

 

Alessandra lo raggiunse, sedendosi sulla panchina di pietra sotto l’hoozuki, mentre piccoli petali arancione fluttuavano nell’aria. Era strano vedere un ciliegio fiorito in inverno. Una macchia infuocata che spiccava nel bianco accecante della neve. Era uno dei pochi superstiti del giardino, forse per caso, forse proprio per la sua distaccata bellezza. La ragazza si appoggiò al tronco, rilassandosi e assaporando quell’attimo di quiete. Quando un soldato le aveva riferito che il Principe la cercava, dapprima si era preoccupata: Sesshomaru non era solito farla chiamare, se non ci fosse stato urgente bisogno di lei. e in quel momento la sua presenza era richiesta lì, per curare i feriti e cercar di salvare quante più vite possibili. Che non fosse ferito ne era certa, altrimenti il soldato non sarebbe stato così pacato nel comunicargli quelle parole. Alessandra aveva esitato, anche perché incontrare il bel demone fuori dalla tenda, alla luce del sole, significava compromettersi se non ci fosse stata presente una terza persona. Alla fine, però, Kagome l’aveva spinta a forza fuori dalla tenda, senza dirle una parole e sorridendole con aia complice. Alessandra non si era mai confidata con lei riguardo al rapporto che la legava al demone, ma dopo quello che era successo due noti prima a alcuni sospetti erano più che plausibili.

 

Lo aveva visto in lontananza, appoggiato al tronco di quel ciliegio secolare, le braccia conserte, avvolto dai suoi pensieri. Sembrava triste. Affranto. Alessandra maledisse il fatto che fosse così abile a mescolare le sue espressioni: un attimo prima era altero e sprezzante, un attimo dopo seducente, e poi ancora estremamente dolce. Le vedeva le ombre inquiete sul suo volto, e sperava che si decidesse a parlargliene, prima o poi, quando si fosse sentito pronto. Eppure, quel momento non arrivava mai. Sesshomaru, con lei, non parlava mai di ciò che gli attraversava la mente riguardo al suo rapporto col padre e con Inuyasha. Si teneva tutto dentro, pur con la consapevolezza che la ragazza sapesse e soffrisse per il suo silenzio. Ma non era capace ancora di vincere quello scoglio.

 

“Perché mi cercavi?”

 

Non le piaceva che la guardasse in quel modo. Fisso. Immobile. Con la tranquillità dipinta sul volto. Non le piaceva perché la metteva in imbarazzo. Perché la faceva arrossire e aveva paura di tradirsi. E il bel demone lo sapeva. Era pienamente cosciente del fatto che quel suo modo di fare irritava la ragazza, ma lo divertiva anche. Le sedette accanto, continuando a guardare l’accampamento. Perché l’aveva cercata? Non c’era un vero motivo. Semplicemente, aveva sentito il bisogno di sentirla accanto a sé. Aveva avvertito il desiderio di stringersela al petto. Prepotente come poche volte lo aveva preso. Ma adesso, come doveva rispondere? Ammettere quello o cercare una scusa? Perché, quello che provava, l’importanza che la ragazza rivestiva per lui era qualcosa di troppo forte per essere solo un’emozione passeggera. E ne era spaventato. Tanto. Troppo.

 

“Nulla di particolare”

 

Mentire. Aveva di nuovo deciso di mentire. Di non dirle che l’aveva cercata solo per poterle rubare un attimo, un respiro. Un bacio. Le disse invece che non approvava che stesse continuamente in quella tenda, anche se era lei l’archiatra reale. C’erano molti guaritori, a palazzo, che avrebbero potuto sostituirla e lei si sarebbe riservata solo le incombenze più gravi. Non era il caso che si stancasse a quel modo e si facesse vedere in giro q qualunque ora. Non voleva che di nuovo…Si fermò. Esitò un istante. Dannazione! Si era fatto trascinare dal discorso. Aveva sbagliato.

 

“…che mi accada di nuovo quello che è successo due giorni fa”, concluse la ragazza, stringendogli un braccio e appoggiando la testa sulla sua spalla. Sesshomaru si voltò verso di lei sorpreso. Allora ricordava. Ricordava ogni cosa. Ma perché non glielo aveva mai detto? Perché non gli aveva mai chiesto nulla?

 

Alessandra chiuse gli occhi, abbracciandolo più forte. Sapeva che il demone era sorpreso. Sapeva che sperava che lei non ricordasse. Lo avrebbe voluto anche lei stessa. Purtroppo, quando l’effetto del sonnifero era finito, si era svegliata nella stanza dell’youkai. Sola. E la mente iniziò a giocare con lei, riportandole le immagini della notte trascorsa. Le sensazioni, la paura, la rabbia, il dolore…Una fiumana che la prese; devastante. Si era girata su un fianco, raggomitolandosi nelle coperte. Cercando di convincersi che si fosse sognata tutto. Aveva fatto semplicemente un incubo. Orribile. Ma nulla di più di un vano sogno.

 

Inutile. Inutile. Sapeva benissimo che era la realtà. Che quel generale l’avrebbe…l’avrebbe…Non riusciva neanche pensarlo. Non lo voleva pensare. Aveva tuffato la testa con più forza nel cuscino, quanto il vento le portava l’eco di urla di incitamento, d’imprecazioni. Le grida per un duello. E non aveva avuto dubbi.

 

Aveva iniziato a piangere. Le lacrime si raccoglievano all’angolo degli occhi, e scivolavano lungo il viso, fredde, dolorose. Bagnavano il cuscino, con una sgradevole sensazione di umido. Non aveva pianto per sé, ma per lui. O forse per entrambe le cose, per scacciare la tensione: sapeva che Sesshomaru stava combattendo, e che quel duello avrebbe potuto costargli la vita. E in più, non le piaceva quando doveva uccidere. Non le piaceva lo soddisfazione intrappolata nei suoi occhi; il godimento espresso dal leggero sorriso compiaciuto. In quei momenti, non lo riconosceva. Non sapeva più chi aveva di fronte.

 

Eppure, in quel momento, aveva capito che quella era una parte del demone che avrebbe dovuto accettare. Con tutte le sue conseguenze. La morte gli apparteneva. Gli era compagna, nel senso che aveva sempre attraversato la sua vita, con indifferenza, con l’ovvietà quotidiana. Sesshomaru era mutato in quei sei mesi, ma se davvero avesse perso anche la sua capacità di uccidere senza rimorso, allora avrebbe perso se stesso. Non sarebbe più stato lui. Alessandra ne prese drammaticamente consapevolezza in quegli istanti, mentre il combattimento scorreva davanti ai suoi occhi in vivide forme d’immaginazione. Però, al contempo, era cosciente che lui la voleva proteggere. Non le aveva detto nulla del duello. Non le aveva chiesto nulla che la potesse ferire. La sua vita, il suo nome, tutto attorno a lui racchiudeva in sé la morte; tuttavia, il bel demone non voleva negare la vita. Per questo, non le avrebbe mai fatto paura.

 

Sesshomaru sentì una sensazione nuova, piacevole. Qualcosa di caldo che ti attraversa la pelle. La consapevolezza di una presenza pronta ad aiutare. La sicurezza di non essere solo. Non più. Alessandra aveva cercato la sua mano, e l’aveva chiusa con la sua. Per la prima volta. Per la prima volta aveva toccato quella mano che portava morte. Se ne era lasciata accarezzare molte volte. L’aveva abbracciata, sfiorata; aveva asciugato le sue lacrime e accarezzato il suo viso. Eppure, in quel momento la ragazza si ricordò di non aver mai preso il demone per mano. Quasi inconsciamente rifiutasse quella parte di lui che dava la morte, rifiutando di toccare i suoi artigli.

 

Ora, quella mano era sotto la sua, racchiusa nella sua. Una mano. Grande, calda; una mano da uomo, anche se ancora affusolata per la giovinezza. Elegante. Come tutto in lui era legante ed etereo. Sfiorò gli artigli lunati, i graffi sottili che gli disegnavano il polso. Infine, intrecciò le sue dita con quelle del demone. Ricevendone una bellissima sensazione di protezione e vicinanza.

 

Sesshomaru aveva seguito turbato ogni gesto della ragazza. Alla fine, si era fermata intrecciando le loro dita. Sentiva accanto alle sue dita sottili, delicate. Fragili. Percepiva il calore di quella stretta infantile, ma abbastanza matura da averlo accettato per quello che era. Da quando l’aveva incontrata, da quando aveva compreso di tenere a lei, aveva sempre sentito pesare dentro di sé la sua natura demoniaca. Se ne sentiva lacerato. Perché sapeva che non la poteva annullare, ma al contempo temeva che Alessandra non potesse accettarla. I mille particolari che in lui richiamavano la morte erano per la ragazza un motivo sufficiente per allontanarlo. Eppure, nonostante per tre anni avesse combattuto dentro di sé per sfuggire ai ricordi di quell’incidente stradale, adesso accettava di trascorrere le sue giornate in mezzo al sangue e al dolore. Gli stringeva la mano. Nessuno, che lui ricordasse, lo aveva mai fatto.

 

Rimase immobile per istanti lunghissimi, a godersi quella strana sensazione che lo percorreva in ogni fibra. E anche un po’ perché esattamente non sapeva come comportarsi. Cosa fare. Infine, si limitò a stringere a sua volta la mano, sfiorando la pelle della ragazza con i suoi artigli. Temeva che si sarebbe ritratta, invece non accadde nulla. Alessandra non si allontanò e non diede segno di nervosismo.

 

“Provi mai rimorso nell’uccidere?”

 

“…No…”

 

Un brivido la percorse, e il demone sorrise mestamente. Avrebbe potuto mentirle, ma non avrebbe avuto senso. Perché nasconderle una realtà che sospettava, dietro false promesse e illusioni? Le aveva già taciuto una volta, non raccontandole nulla del fratellastro, e aveva rischiato di perderla per sempre. Solo per il suo stupido orgoglio. Non avrebbe più commesso lo stesso errore.

 

Per lui non era affatto facile parlare, Alessandra lo sapeva bene. come l’youkai era cosciente che con lei non poteva rivolgersi in modo troppo diretto e brutale. Eppure, quella voglia di sapere l’uno dell’altra li accomunava e al contempo li frenava. Entrambi aveva domande che la voce non formulava per non infliggere ferite troppo profonde. Tuttavia, anche in quel frangente, con quella guerra che rubava loro istanti, respiri, attimi, che alimentava l’ombra di potersi non rivedere più ogni volta che il bronza risuonava per un attacco…anche in quei pochi attimi che riuscivano a condividere, lentamente scoprivano qualcosa di loro. Con delicatezza.

 

Quello che li legava non era semplice attrazione fisica. Non era il banale desiderio del corpo altrui. Era qualcosa di più forte, capace di resistere a tutto quello che accadeva e che li metteva alla prova. Era la sensazione di essere protetti, capiti, e soprattutto accettati per quello che erano. Sesshomaru non si sentiva costretto a dimostrare nulla, né la sua freddezza la sua impassibilità. Poteva abbandonarsi a un sorriso senza timore di essere schernito per quella debolezza, di essere giudicato. Alessandra lo amava in tutte le sue sfaccettature: dalla sua vitalità composta e affascinante, ai suoi lati più oscuri e terribili. Da parte sua, la ragazza riusciva finalmente ad abbandonare la rigidità e l’isolamento cui si era costretta per non cedere dopo la morte della sua famiglia. Se anche avesse pianto davanti al demone, era cosciente che lui non l’avrebbe schernita né umiliata. Si sarebbe invece limitato a confortarla. Senza falsità.

Era quel bisogno reciproco di essere accettati per le proprie debolezze che permetteva loro di intrattenere discorsi lunghissimi senza bisogno di usare la voce, che consentiva di assaporare fino in fondo la banalità di una cosa, come i brividi caldi delle loro mani intrecciate.

 

“Non riuscirò a impedirti di aiutare i feriti, vero?”

 

Alessandra annuì. Non avrebbe mai rinunciato al suo compito. Nonostante tutto. Perché le permetteva di dimostrare alla corte ostile degli inuyoukai che lei non era un incapace né tanto meno l’amante del Principe. Inoltre, le permetteva di distrarre la mente, di impedirsi di pensare al fatto che in ogni istante sarebbe potuto arrivare qualcuno a dirle che il Principe non c’era più, morto in battaglia. Crivellato dei proiettili nemici. Lei non era riuscita a dissuaderlo dall’idea di partecipare ai combattimenti, e il bel demone capiva perfettamente che anche lui non avrebbe potuto dissuaderla.

 

“Almeno, cerca di non affaticarti troppo…”

 

La ragazza gli rivolse uno stupendo sorriso. Uno dei pochi che le arricciavano le labbra e che erano perlopiù per il demone. E anche lui, storse le labbra, dolcemente. Percepiva il suo sorriso, la sua gratitudine e tutte le emozioni che gli voleva trasmettere. Avrebbe voluto baciarla, ma sapeva perfettamente che non poteva ancora permettere che trapelasse il sentimento che li univa. Prima, avrebbe dovuto accettare lui il vero nome del loro legame. Solo allora, avrebbe trovato tutta la forza necessaria ad affrontare la corte e a imporre la sua volontà in modo inequivocabile.

 

Le accarezzò il viso, avvolgendo la mano ai sottili fili di rame. Non avrebbe permesso ad una guerra di portargli via il futuro che gli si era offerto. Se con Rin la sua vita aveva iniziato ad avere un senso, con l’inconscio bisogno di proteggere la bambina, con Alessandra la strada era emersa nitida dalle nebbie e dal grigiore. Una via non senza difficoltà, me che non temeva di affrontare. Forse anche per chiudere le pendenze con il suo passato e con le domande sbagliate della sua anima.

 

…non voglio perderti…

 

*****

 

Respiro strozzato. Ansimare. Fatica.

Si terse con mano rabbiosa il sudore che gli bagnava la fronte. Era affaticato. Quasi al limite. Stremato. E in più aveva la dannata consapevolezza che quella volta non ce l’avrebbe fatta. Che era spacciato.

 

Ricacciò indietro l’ennesimo soldato, mentre la sua imprecazione si tramutava in una nuvoletta bianca che disperdeva nel vento che si era alzato e continuava ad aumentare. Alla luce incerta gettata dal riverbero dei fuochi e del palazzo era estremamente difficile scorgere esattamente gli assalitori. Erano sagome oscure che danzavano in modo macabro, strisciando fra i riverberi di luce e di ombre. Bastava una minima distrazione, e sarebbe morto.

 

Inuyasha arretrò di qualche passo, schiena contro schiena con Sango e Miroku. Ormai, erano accerchiati. Inoltre, dubitava fortemente che qualcuno sarebbe venuto in loro aiuto dal palazzo. Kagome non poteva nulla e anche Alessandra, nonostante ormai avesse fiutato lo strano rapporto che la legava a Sesshomaru, non aveva purtroppo alcuna autorità in campo militare. Disperava anche di Kumamoto che, benché non gli avesse mai mostrato rancore, probabilmente non sarebbe mai intervenuto senza un preciso ordine dl Principe. L’ultima speranza era Koga. Forse lui si sarebbe infischiato delle regole militare e sarebbe venuto a dar loro una mano. Certo, l’idea di esser salvato dal lupastro non era delle più allettanti, ma sempre meglio che rimetterci la vita.

 

Spaziò con lo sguardo la zona attorno a sé. Chiuso. Il cerchio nemico li chiudeva da ogni lato. Inesorabile. E pensare che in condizioni normali gli sarebbe bastato un attimo per liberarsi di quei demoni. In quelle condizioni, invece…Improvviso, nella mente un piano. Pericoloso. folle. Praticamente, una condanna a morte. Ma almeno avrebbe permesso ai suoi amici di raggiungere il castello dell’inuyoukai.

 

Avrebbe sfondato le file avversarie con l’hiraikotsu di Sango, aprendo loro la via e poi ne avrebbe coperto la corsa impegnando gli uomini per quanto gli fosse stato possibile. Non avrebbe potuto reggere a lungo, solo e per di più in forma umana, ma almeno sperava di riuscire a guadagnare abbastanza tempo da permettere ai ragazzi di andarsene. Con Kirara non avrebbero dovuto trovare particolar problemi a raggiungere le porte. L’importante era non volare.

 

“Sei impazzito?! È un suicidio!” sibilò Miroku fra i denti. Forse, usando il suo vortice e risucchiando alcuni nemici avrebbe potuto atterrire gli altri il tempo necessario a farli allontanare assieme. Anche se soldati, alla loro vita dovevano pur tenerci. Poco importava se rischiava di aspirare anche alcuni insetti velenosi. Fino a un certo numero era ormai abituato a contrastarne il veleno.

 

L’hanyou sorrise isterico. C’era da aspettarselo: mai una volta che facciano come dice lui. Eppure, non poteva permettere che morissero a causa sua, solo perché erano preoccupati per lui. Ormai disperava di un aiuto. Anzi, probabilmente, se avesse potuto voltarsi e vedere nella notte, avrebbe distinto suo fratello sugli spalti, a godersi la sua fine miserevole. Ucciso nel suo aspetto umano. Forse, aveva ragione miroku; si poteva cercare un’altra soluzione. Ogni speranza, tuttavia, naufragò quando scorse un bagliore metallico: fucili. Il nemico si stava organizzando per attaccargli con quelle maledette armi. Allora, sarebbero morti sicuramente. Non c’era più tempo per pensare.

 

Obbligò Sango e Miroku a salire su Kirara e si fece affidare l’arma di Sango, promettendole con un sorriso tirato che gliel’avrebbe restituita. Infine, si voltò verso il castello, prendendo un lungo respiro. Sapeva di aver mentito, che non avrebbe più rivisto né loro né la ragazza che lo stava spettando oltre le mura. Ripensò al suo sorriso, alla sua voce. Avrebbe pianto, si sarebbe disperata, tuttavia, il tempo le avrebbe permesso di dimenticarlo, avrebbe reso il dolore sempre più sopportabile. Le avrebbe permesso di continuare a vivere. Forse, in modo più felice, senza l’assillo del timore per lui.

 

“Vi affido Kagome”

 

I suoi amici non ebbero neanche il tempo di ribattere che già Inuyasha si era lanciata a testa bassa contro gli avversari. Ruppe il fronte compatto, e dietro di lui, nello scompiglio, Kirara riuscì a passare correndo verso il castello. Intanto, il ragazzo si era voltato, facendo ostruzione agli assalitori e deviando i proiettili con l’hiraikotsu. Infine, lanciò il boomerang falciando numerosi nemici, ma non lo riprese. Lasciò che lo superasse e volasse verso la sua proprietaria. Sango l’afferrò al volo, girandosi giusto in tempo per vedere l’amico, ormai inerme ed esausto, rassegnarsi alla morte.

 

Inuyasha, a terra, ormai prostrato per lo sforzo cui aveva sottoposto il suo copro umano, chiuse gli occhi quando vide un oni gigantesco sovrastarlo brandendo un’ascia da guerra. Ecco: era la fine. Almeno, suo fratello in quell’istante avrebbe dovuto pensare a lui, anche se con disprezzo. Peccato solo che i suoi amici avrebbero sofferto. Per loro, non si sarebbe mai arreso, ma davvero aveva a malapena ancora la forza di mantenersi cosciente. Chiuse gli occhi grigi. Rassegnato.

 

“Sei uno stupido!”

 

L’imprecazione gli fece rialzare il volto. Sorpreso. Davanti a lui, l’oni era a terra, mentre Koga lo rimproverava con i tratti del viso fiero deformati dalla preoccupazione dal sollievo di vederlo vivo. Era arrivato in tempo, grazie al cielo. Inuyasha si sollevò prima sulle braccia e poi in piedi, lentamente. Sotto lo sguardo duro dell’ookami. Non si era piegato ad aiutarlo. Doveva rimettersi in piedi da solo. Doveva dimostrare a quei maledetti soldati che fissavano la scena dal palazzo che lui non era un pusillanime, un debole. Che era forte. Molte forte. Anche se era un hanyou. Anche se era un bastardo.

 

“Torna indietro, adesso. Per questa notte hai fatto l’eroe a sufficienza. Qui adesso me la sbrigo io con i miei lupi”

 

Koga gli fece un cenno, e poi si gettò nella battaglia che infuriava poco distante. Tuttavia, Inuyasha non si mosse. Fissava delirante i soldati che lo superavano. Non c’erano solo i lupi di Koga, ma anche gli uomini di Sesshomaru. probabilmente, avevano seguito il Principe degli Yoro di loro iniziativa. E il ragazzo si rammaricò del fatto che, se fossero scampati alla morte, avrebbero dovuto affrontare la collera del loro signore.

 

“Vattene da qui”

 

Voce fredda. Autoritaria. Impassibile. Inuyasha si voltò lentamente, trovandosi a fissare il viso di suo fratello, a pochi passi da lui. La katana sguainata e rossa di sangue. Solo in quel momento, la mente del ragazzo realizzò che poco prima Koga non aveva alcun segno di lotta. Come se non avesse neanche toccato l’oni per ucciderlo. Gettò una rapida occhiata al cadavere: ferita lunga e sottile. Ferite da spada. Precise. Netta. Mortale.

 

Tornò a scrutare il fratello. Non era possibile. Non ci credeva. Già gli sembrava incredibile esserselo ritrovato di fronte, ma anche il solo pensare che a uccidere l’oni fosse stato lui e non il demone-lupo gli sembrava inconcepibile. Inimmaginabile. Sesshomaru non diceva nulla, limitandosi a farsi investire dai mille rumori del combattimento che infuriava poco lontano da loro. Respirando l’odore umano del fratellastro. non c’era alcun youki nel corpo di Inuyasha, in quel momento. Se avesse potuto guardarlo, avrebbe visto un ragazzo di circa diciassette anni, con lunghi capelli neri e occhi grigi profondi. Gli occhi della madre. Di quella donna che Sesshomaru odiava. Occhi che in quel momento erano attraversati da uno scintillio sospetto, simile alle lacrime, e dilatati per lo stupore, la stanchezza e la paura.

 

Paura…Inuyasha si sorprese del battito ansioso del cuore. Ora, suo fratello avrebbe potuto ucciderlo. Ora sapeva il suo segreto e ne avrebbe potuto approfittare in qualsiasi momento. Durante il shingetsu non aveva alcuna possibilità di difendersi. Reclinò la testa sul petto, mentre un sorriso di autocommiserazione gli increspò le labbra. Sesshomaru gli aveva detto di andarsene, non lo considerava nemmeno degno di morire per mano sua, ora che era un semplice umano. Non poteva, il Principe dei demoni, abbassarsi a uccidere una nullità come lui. Neanche in preda all’odio più profondo e viscerale. La gloria che ne avrebbe tratto sarebbe stata quella di schiacciare un insetto. Più un fastidio, che qualcos’altro. Gli veniva da ridere.

 

…Ora sai quanto sono inferiore a te…e ti fa disgusto anche solo l’idea di sporcarti del sangue di una nullità come me…

 

Sesshomaru continuava a lasciare i suoi occhi senti fissi sul fratellastro. cosa diavolo aspettava ad andarsene? Perché, anzi, percepiva il suo cuore battere velocemente e il sottile odore della rassegnazione? Se stava aspettando una predica, poteva giurarci che l’avrebbe ricevuta. Ma dopo. Non c’era tempo di rimproverarlo, con uno scontro in corso.

 

“Sparisci”

 

Gli si avvicinò ancora, sibilando appena quella parola. Tuttavia, non c’era astio o ribrezzo nella voce del bel demone e lui per primo si sorprese del tono con cui aveva modulato l’ordine. Non era il tono del comando, quello che Inuyasha gli aveva sempre sentito. L’hanyou sollevò la testa di scatto, aprendo la bocca per ribattere ma restando comunque zitto. Non avrebbe saputo cosa dire. E poi, l’espressione del fratello era strana: con la testa leggermente piegata di lato, Sesshomaru sembrava aver addolcito lo sguardo, quasi come se fosse più tranquillo. Non poteva essere: dov’era l’espressione di sprezzante alterigia che Inuyasha gli aveva sempre visto? Dove diavolo era finita? Possibile che le ombre del fuoco gli definissero il volto in modo così ambiguo, tanto da alterarne in apparenza i tratti? Sbagliato. Sbagliato. Sbagliato. Si stava sbagliando. Probabilmente, quella del fratello era l’ennesima occhiata di nauseante sufficienza.

 

Inuyasha si rassegnò. Stava per andarsene, quando sentì lo scatto di un grilletto, alle sue spalle: una pistola pronta a sparare. Fu un attimo: la detonazione assordante, mentre si voltava per vedere dove fosse il demone armato. Una spinta forte al petto, che lo sbalzò indietro, facendoli perdere l’equilibrio. E una parola che si confondè con il tuonare dello sparo.

 

Soryuha

 

Si ritrovò a terra, nella neve fangosa. Grigia e nera. Rossa. Sangue. Sulla sua mano. Attorno a lui. Alzò lentamente la testa. Sesshomaru. in piedi davanti a lui. Al rallentatore, lo vide lasciar cadere a terra la katana e piegarsi in ginocchio. A terra. Soffocando un ringhio fra i denti.

 

“Se..Sesshomaru…?”

 

Un colpo di tosse. Profondo. Bagnato. E il nero che scende a bagnare la corazza, a colorare il kimono bianco, la stola candida.

 

“Sesshomaru!”

 

Inuyasha gli fu accanto senza neanche chiedersi dove avesse trovato la forza per alzarsi. Il viso sudato di suo fratello; i capelli d’argento che ricadevano scomposti sul petto, macchiandosi del sangue che il demone cercava vanamente di fermare; gli occhi assottigliati a due fessure rabbiose e la bocca contratta in un ringhio represso.

 

Sesshoamru, alzati!”

 

Lo urlava senza crederlo possibile. La ragione gli diceva che non avrebbe mai potuto alzarsi come niente fosse, ma lui non riusciva ad accettarlo. Non lo voleva. Continuava a ripetersi nella testa, in una cantilena snervante, che suo fratello adesso si sarebbe alzato e lo avrebbe schernito perché credeva che davvero un proiettile bastava a metterlo fuori combattimento. Sì, adesso il demone gli avrebbe risposto come al solito, con il suo tono sprezzante, e sarebbe tornato a combattere. Doveva tornare a combattere. Doveva…

 

“Sesshomaru?!”

 

Sta’ zitto!

 

Il demone sentiva la presenza del fratellastro, le sue parole rimbombargli nella testa. Ma sentiva anche il piombo nel suo corpo iniziare a bruciare in modo insostenibile. Lo sentiva nutrirsi del suo sangue e della sua forza. E più il tempo passava più in lui cresceva la rabbia e la voglia di gettarsi sul nemico e fargliela pagare. Eppure, nonostante i mille ordini che dava ai suoi muscoli, il suo corpo si rifiutava di obbedirgli. C’era solo la voce di Inuyasha.

 

“Non sono cose da te queste! Che ti è saltato in mente?”

 

È quello…

 

Una smorfia tirata, il bianco di denti tinti di rosso e un nuovo colpo che lo costringe a tossire sangue. Prima di accasciarsi al suolo.

 

…che mi sto chiedendo anch’io…

 

*****

 

Freddo.

Un sudore leggero le bagnava la fronte. Un misto di agitazione e sollievo. Si alzò e immerse la testa in una bacinella d’acqua. Gelida. Bruciante. Ma le serviva. Per mantenere lucidità; per non cedere ancora. Non quanto tutto si era risolto per il meglio.

 

Prese un asciugamano, iniziando a strofinare piano il viso stanco. Quella stoffa aveva un buon profumo. L’odore di muschio di Sesshomaru. Come tutto in quella stanza sapeva di lui. Del profumo penetrante e maschile del ragazzo.

 

Nel futon, Sesshomaru si mosse lentamente, riprendendo conoscenza. Era stranito, non riconobbe subito la sua stanza. Solo, percepì il profumo della ragazza molto vicino. La chiamò, più per disperazione che per reale idea che fosse presente. Invece, con suo grande sollievo, si sentì stringere la mano e sfiorare la testa con una carezza gentile. Un attimo prima di svegliarsi completamente aveva desiderato poter tornare a dormire. Per non doversi scoprire solo in un qualche letto; per non dover sentire le voci riprovevoli dei suoi cortigiani, la loro sorpresa e il disappunto per esser uscito in campo. Per esser andato in aiuto di un bastardo.

 

Ricordava perfettamente ogni cosa: la sua mente gli restituiva con disarmante freddezza ogni scena, in una moviola continua. Snervante. Insensata. E in quella farandola delirante, all’improvviso si era affacciato un volto: Alessandra. Lei che lo bacia, che lo accoglie fra le sue braccia, che gli stringe la mano e lo accarezza. Lei che ride, che piange, che gli insegna ogni istante una sfumatura nuova del cuore e dell’anima. Anche della sua anima. Di quell’anima e di quelle emozioni che gli avevano sempre detto di non avere e di non poter provare.

 

“…Come stai?...”

 

Il bel demone le sorrise rassicurante, facendo scorrere un braccio dietro la sua testa e costringendola piegarsi su di lui, per baciarla. Uno sfiorarsi leggero delle labbra, protettivo e rassicurante. Un contatto voluto da entrambi, per assicurarsi che davvero quella era la realtà, dolce e malinconica.

 

“Adesso, bene”

 

“Scemo!”

 

Alessandra sorrise: se aveva la forza di scherzare, allora significava che le sue capacità demoniache gli stavano permettendo di riprendersi decisamente in fretta. Lo aiutò ad alzarsi a sedere, posizionandogli dietro la schiena vari cuscini perché comunque non fosse costretto ad affaticare un corpo ancora provato. Sesshomaru si passò una mano sul fianco fasciato. Sentiva la pelle tirare in modo fastidioso, ma quella sensazione gli dava la certezza di essere ormai quasi guarito. Un solo dubbio: quanto ci aveva impiegato a riprendere conoscenza?

 

“Non preoccuparti: sono passate solo poche ore da quando sei stato ferito”

 

Annuì, maggiormente rilassato. Doveva essere ancora notte, perché non sentiva il vociare che di solito riempiva l’aria del palazzo. Percepì Alessandra sdraiarsi accanto a lui, con delicatezza. Le passò un braccio dietro la schiena e la fece accoccolare sul suo petto. In quel momento, non gli importò nulla del fatto che qualcuno potesse entrare e scoprirgli. La ragazza doveva essere distrutta sia a livello psicologico sia fisico.

 

Alessandra era davvero annientata, ma l’adrenalina, l’agitazione che le aveva frustrato il corpo durante quelle ore, ancora non la voleva lasciare e le impediva di abbandonarsi al riposo accanto al demone. Si lasciava cullare dalla tranquilla altalena del suo petto nel respiro, dal discreto battito del suo cuore. Stava bene. Stava bene. Adesso, non voleva neanche pensare a quello che era successo nelle poche ore precedenti.

 

Aveva attraversato di corsa tutto il palazzo, per poi bloccarsi appena scesi i gradini che la separavano dalla piazza d’armi. Nel centro del rettangolo in terra battuta, Inuyasha sorreggeva sulle spalle il corpo del fratello. E la fissava. Con uno sguardo dilatato e colmo di terrore. Allo stato puro. Devastante. Negli istanti che erano seguiti, Alessandra aveva impartito ordini ai guaritori che erano accorsi perché si occupassero dei feriti, e aveva fatto portare il Principe nei suoi appartamenti. La mente, crudele, le aveva restituito attimo per attimo i ricordi di mesi prima. Quando aveva dovuto curare il demone da quella specie di acido. In quel momento, la situazione era ancora più critica, perché il Principe aveva un proiettile in corpo che andava estratto.

 

Aveva voluto come assistente solo Homoe, che possedeva alcune nozioni di medicina. Le aveva fatto procurare ago, filo, bollire dell’acqua e prendere delle bende pulite., mentre lei esaminava la ferita, con la speranza di non vedere le piaghe e i segni del veleno che iniziava ad agire. On un sospiro di sollievo, aveva constatato che la pallottola, per qualche strana e fortuita ragione, non era stato imbevuta di veleno.

 

Alla fine, lo aveva baciato con lo sguardo, a lungo, seguendone con intensità i contorni sottili e pallidi delle labbra e poi aveva lavato la ferita con aceto e sakè per disinfettarla. Poi, aveva dovuto estrarre la pallottola, tagliando la carne viva con le forbici e bagnandosi le mani di sangue. Del sangue del ragazzo che amava. Infine, estratto il proiettile, aveva fatto arroventare dalla yasha l’ago sulla fiamma della lucerna e aveva ricucito la ferita, mentre Homoe teneva insieme le labbra del taglio.

 

Alla fine, la yahsa se ne era andata, ma Alessandra era rimasta accanto a Sesshomaru. gli aveva asciugato il sudore, lo aveva fatto bere perché non si disidratasse per la perdita di sangue che aveva subito; gli diede anche, per precauzione, l’aceto contro il veleno. Ogni gesto, ogni movimento, le risultavano dannatamente amari. Una già visto, un già vissuto che le entrava con prepotente violenza nell’anima, bucandole la mente e prelevando dal suo subconscio paure che aveva sempre cercato di accantonare. Eppure, ogni volta che finiva uno scontro i suoi occhi percorrevano ansiosi la lunga teoria di feriti, con la disperata speranza di non veder anche lui fra qui demoni. Tuttavia, il solo desiderio non pasta a scongiurare un timore: il demone si trovava davanti a lei, pallido e provato, anche se ancora vivo.

 

Alessandra liberò un sospiro che sembrava esserle rimasto annodato in gola da ore. Sesshomaru sentì una strana quiete impadronirsi della ragazza, e la strinse a sé con più forza. Le era grato del fatto che non gli facesse domande, che assecondasse il suo silenzio riflessivo e stanco. Tuttavia, sapeva anche che prima o poi avrebbe dovuto darle spiegazioni di quello che aveva fatto. Anche se lui per primo non ne aveva.

 

“Cerca di rimanere tranquillo almeno per qualche ora ancora. Giusto il tempo che il tuo corpo si rigeneri completamente”

 

Il Principe sorrise, annuendo leggermente. Quella ragazza era capace di far passare per supplica anche il più indiscutibile degli ordini. Sapeva benissimo che non gli aveva dato un consiglio, e che solo si fosse azzardato a tentare di muoversi o a opporsi, Alessandra era capace di incatenarlo al letto pur di costringerlo all’immobilità. Immobilità che non faceva per nulla parte della sua natura, ma cui stranamente si rassegnò volentieri. Aveva molto cui pensare.

 

Alessandra gli regalò un baciò carico di affetto e delicatezza, e uscì dalla stanza. Doveva andare a controllare l’opera dei guaritori all’ospedale e assicurarsi che tutti i feriti fossero stati medicati in modo adeguato. Non si fidava molto dei demoni cui aveva sottratto il posto di archiatra: più di una volta ne aveva sorpreso qualcuno intento a modificare i rimedi o negligente nel suo operato solo perché la reputazione della ningen fosse compromessa.

 

Scese le scale e con un mezzo sospiro aprì la porta dello studio di Sesshomaru. avrebbe voluto restare con il demone, riposare sul suo petto e farsi cullare dalla sua presenza rassicurante. Invece, doveva tornare fra il sangue e il dolore. No poteva certo addossare tutto il lavoro a Kagome, Ayame e Homoe.

 

“Come sta?”

 

Alessandra trasalì a quella voce. Inuyasha aveva aspettato lì per tutto quel tempo, senza provare a salire neanche quando aveva visto la yasha lasciare gli appartamenti del fratello. Si era limitato a passeggiare nervosamente per lo studio, cercando di percepire anche la più leggera parola. Nulla. Purtroppo, era ancora in forma umana e non poteva distinguere nessun suono troppo leggere.

 

Alessandra lo fissò seria per un istante, e il ragazzo abbassò la testa, temendo un rimprovero che comunque gli sembrava più che giusto. In definitiva, se il Principe era stato ferito la colpa era solo sua. Perché era stato lui a mettersi nei guai, anche se per salvare degli amici.

 

“Ha ripreso conoscenza, e la ferita è quasi rimarginata. Poche ore e sarà di nuovo in forma come prima”

 

Vide il ragazzo liberare un profondo respiro di sollievo e provò tanta tenerezza per lui. Nonostante il modo in cui Sesshomaru lo trattava, lui era rimasto lì, ad aspettare in ansia per lui. Doveva tenerci molto a quel fratello scontroso e testardo, che probabilmente neanche il fatto compiuto avrebbe fatto retrocedere dalle sue convinzioni. Le venne da sorridere, perché, in definitiva, fra i due fratelli, era proprio il maggiore a mostrarsi il più immaturo in quel rapporto. Anche se poteva capire la rabbia, del demone, non ne giustificava il rifiuto a oltranza di Inuyasha.

 

“Va da lui”

 

Inuyasha sollevò di scatto la testa. Era forse impazzita? Che razza di consiglio! Presentarsi a Sesshomaru dopo quello che gli era successo per colpa sua e della sua debolezze, e per di più ancora in forma umana, sarebbe equivalso a gettarsi diritti nelle braccia della morte. Lo avrebbe ucciso senza pensarci un attimo.

 

Le sue parole caddero nel vuoto. Alessandra era già uscita, e lui si ritrovò a fissare la scala oltre la fusuma aperta. Una tentazione troppo grande. I gradini scricchiolarono nel silenzio assordante, e a lui sembro un rumore insopportabile. Quattro, cinque, sei…eccola, la porta della stanza di suo fratello. Del signore delle Terre dell’Ovest. Del Principe.

 

Inuyasha prese un respiro profondo e la fece scorrere, chiudendo per un attimo gli occhi mentre cercava disperatamente di trattenere il coraggio che il varcare la soglia sembrava volergli strappare. Richiuse la porta e vi si appoggiò contro. La testa bassa. Non trovava il coraggio di alzarla a fissare il fratello.

 

Lo sbirciò di soppiatto, seduto nel futon. Poteva distinguerne il rifilo fiero alla luce della lucerna. Non sembrava nemmeno essersi accorto della sua presenza, ma Inuyasha sapeva benissimo che ne aveva percepito l’odore. Tuttavia, Sesshomaru non parlava. Lo ignorava semplicemente. Forse era proprio il suo modo di dirgli che non la voleva, la sua presenza.

 

In realtà, in quel momento la mente del demone era attraversata da mille pensieri. Si stava ponendo per l’ennesima volta quella domanda: perché era andato in aiuto del fratellastro? quale dannato motivo lo aveva spinto a gettarsi fuori dalla sala delle riunioni quando una delle sentinelle vi aveva fatto irruzione? Non lo sapeva neanche lui dire, il perché. Semplicemente, sentire che suo fratello era uscito dalle mura per salvare dei ningen che si stavano scontrando con il nemico, l’afferrare Tokijin e il precipitarsi fuori con Koga era stato un tutt’uno. Una decisione razionalmente insensata, ma che aveva obbedito al battito ansioso del suo cuore all’immagine del fratellastro in difficoltà.

 

Fratellastro…Perché continuava a chiamarlo così? Non riusciva a dire altro. Eppure, sarebbe bastato un piccolo sforzo, per pronunciare quell’altra parola. Quella che avrebbe sicuramente spiazzato Inuyasha. Quasi quanto era rimasto sorpreso lui nell’accorgersi che l’hanyou che si era ritrovato davanti era in forma umana. Debole e vulnerabile come non lo aveva mai sentito. Eppure, non aveva esitato ad arrischiare un’azione disperata pur di sottrarre i suoi amici alla morte. Due ningen, che in quel momento erano al sicuro nel palazzo. E poi, cos’era stato quel desiderio prorompente di proteggerlo, quando aveva percepito lo scatto del grilletto? La stessa sensazione di quella volta, quando gli aveva fatto da scudo contro l’attacco di Sounga.

 

Follia. Follia. Follia. Non poteva essere vero. Non poteva davvero aver iniziato ad affezionarsi a quel miserabile rifiuto del suo mondo. Ad un essere dal sangue misto, disonore della sua famiglia. In un istante, tuttavia, si trovò a considerare tutto quello che Inuyasha doveva aver sopportato fin dalla nascita, per il solo fatto di esser un hanyou. Non ne ebbe pietà, ma neanche altezzoso compiacimento.

 

Intanto, il ragazzo dondolava leggermente, incapace di decidersi a parlare o ad andarsene. Semplicemente, continuava a tenere la testa bassa. In fondo, Sesshomaru aveva tutti i diritti di trattarlo a quel modo, di considerarlo solo il frutto di un errore del padre. Di deriderlo e schernirlo. Di ignorarlo, mettendolo allo stesso livello di Naraku. Anzi, ancora più in basso.

 

Le parole che sentì gli trafissero la mente all’improvviso, procurandogli un’emozione fortissima. Quasi capace di togliergli il respiro. Sesshomaru non aveva mosso la testa, continuando apparentemente a ignorarlo, ma la sua voce non poteva essersela inventata. L’aveva davvero sentita, e non con il suo solito tono freddo. Una voce nuova. Come erano nuove e del tutto inattese le parole che aveva distinto. Quell’esortazione a farsi forza.

 

“Alza la testa. Un Principe non la abbassami mai”

 

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Capitolo 39
*** 39. VERITA' ***


Ciao a tutti

Ciao a tutti!

 

Come vedete, sono riuscita ad aggiornare senza lasciar passare troppo tempo. Tuttavia, è più un episodio sporadico, dal momento che sono sotto esami e non ho proprio tempo per continuare la fanfic (che, assicuro tutti, passassero cent’anni, voglio finire).

 

Bene. Adesso passiamo al capitolo, che non procede per nulla nella narrazione presente, ma ci trascina nel passato, permettendoci di vedere, attraverso una finestra mentale...Che cosa? Per saperlo, basta leggere. Se ve lo dicessi non ci sarebbe gusto, no?

 

Buona lettura, e grazie infinite a tutti coloro che leggono, e in particolare a Jame, che commenta sempre ogni capitolo.

 

Buona lettura!

 

P.S.

Non m’intendo molto di strategia militare; ho provato a documentarmi e ho studiato le varie tecniche possibili, anche se una cosa è leggere e un’altra è vederle in pratica in simulazioni e simili. Spero comunque che risulti sia abbastanza realistico sia no troppo confusionario.

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 39

VERITA’

 

 

§§

 

Pallore.

Terreo. Freddo. Indifferente. Un viso inespressivo, cementato in lineamenti determinati. Due occhi d’ambra scrutavano inquieti, oltre la sottile cortina di nebbia e foglie. Cercavano. Vagavano. Confondevano il presente e il passato. S’intrecciavano con ricordi e verità. Incredule. Inaccettabili.

 

La mano si mosse in un gesto lento e consueto. Un ordine. Uno dei tanti. Il più pesante di tutti. Perché era carico di frustrazione. Di rabbia. Di dolore. Come si era potuti arrivare a quel punto? Perché non aveva notato nulla prima? Perché?

 

Una mano sulla spalla. Un contatto sicuro. Un conforto. Di chi comprende il dolore e l’angoscia. Di chi capisce. E ne soffre. Non si mosse. Continuava a scrutare il palazzo. Quelle mura che tante volte lo avevano accolto. Da amico. Continuava a osservarlo, percorrendo il perimetro della cinta esterna, scalando le torri e affondando nell’ombra dei giardini. La tranquillità della notte rotta dal clangore del maglio. Laggiù, si stava preparando una guerra. Si stava preparando la morte. Senza senso. Un desiderio folle e insensato. Una volontà di conquista e rivalsa senza motivo.

 

“Gli uomini sono in posizione. È ora”

 

Inutaisho annuì. Non voleva combattere. Non voleva doverlo uccidere. Anche se il Sensei glielo aveva ordinato. Era uno youkai, e la morte gli era compagna fin dalla nascita. Come lo era la capacità di uccidere senza rimorso. Semplice deformazione. Affondare gli artigli in un corpo, sentirne gli spasimi e strapparne la vita non gli procurava né ribrezzo né gioia. Era la sua natura, che lo portava a uccidere, a cercare il confronto. A provare sempre a se stesso i propri limiti, per poterli superare. Per poter vincere. Tuttavia…tuttavia in quegli istanti si chiese se davvero cercare il potere bastasse di per se stesso. Se davvero fosse solo il desiderio di possedere una forza sempre più grande a spingerlo avanti, ad avergli fatto conquistare terre e regni. Ad averlo reso un condottiero invincibile.

 

Possedeva una spada capace di dargli il controllo su tutti il loro mondo; possedeva ricchezze, territori, gloria e presto avrebbe avuto anche un erede. Un figlio del suo sangue. Forte e puro come lui stesso. Come la sua stirpe inviolata. Un figlio da crescere e vedere camminare, fiero e bellissimo. Vincitore. Il più grande orgoglio.

 

Era per questo che lei non gli era al fianco. Era per questo che Inutaisho aveva ordinato alla moglie di non seguirlo in battaglia. Questa volta, avrebbe dovuto restare a palazzo. Per la sua incolumità. E per quella del bimbo che portava in grembo. Un campo militare non era certo il posto più indicato per una primipara, anche se era una yasha. Una delle più potenti.

 

Perché era lì, e non accanto alla sua sposa, attento a cogliere il battito leggero di quel nuovo cuore, i suoi movimenti? Mancavano pochi mesi ormai, e il piccolo già scalciava, strappando alla madre una smorfia velata di sorriso. Sarebbe stato un guerriero. Il migliore mai nato. La sua creatura. Una parte di se stesso. E allora perché adesso era lontano? Per quale maledetto motivo aveva dovuto prendere le armi e marciare contro di lui? Contro un amico?

 

<…per il potere…>>

 

Già. Risposta semplice. Schietta. Annichilente. La colpa di quell’assurda battaglia ormai imminente era la semplice brama di potere. L’avidità che loro demoni avevano sempre rinfacciato ai ningen e di cui erano a loro volta preda. Esseri superiori? Sciocchezze. Voci false e mentoniere. Voci. Messe in giro fin dai tempi più antichi per intimorire e mettere soggezione. Per fingere una linea di demarcazione netta e insuperabile. Solo sciocchezze. Loro demoni non differivano di molto dai ningen: avevano sensi più sviluppati e capacità quasi divine, ma erano preda di sentimenti come tutti. Odiavano, disprezzavano, sapevano cosa fosse l’invidia e il desiderio. Sapevano adirarsi e perdonare. Sapevano…amare.

 

Molti lo rifiutavano. Molti si dicevano intoccabili da sentimenti del genere. Li negavano storcendo il naso e la bocca con disgusto. Inaccettabile, sentenziavano. Lui no. Inutaisho li aveva scoperti e non li aveva rinnegati. Sarebbe equivalso a disconoscere il suo futuro figlio. Sarebbe equivalso ad accettare di averlo concepito solo per dovere, solo per dare un erede alla stirpe degno di questo nome. Li aveva accettati. E la sua forza aveva iniziato a crescere. Lentamente, ma sempre con maggior intensità. Continuando a superare gli altri Principi, continuando a superare se stesso. I livelli che aveva raggiunto li doveva alla sua natura demoniaca, ma anche a quella parte umana che aveva scoperto esistere in lui. Diversa da quella dei ningen, e tuttavia presente. Palpitante.

 

Ricacciò indietro il lungo mantello di pelliccia in un gesto abituale. Ogni volta che era nervoso, ne tormentava il pelo soffice e vaporoso. Lo arrotolava fra gli artigli, lisciandolo e annodandolo di continuo. Scaricava con gesti secchi e spezzati la tensione. Chi lo avesse visto da lontano lo avrebbe detto perfettamente tranquillo e sicuro di sé. Ma gli amici che gli stavano al fianco vedevano perfettamente il movimento frenetico della sua mano.

 

<<…perché amico mio?...>>

 

*****

 

I soldati furono colti di sorpresa dalle truppe d’assalto di Inutaisho. Erano arrivate a poca distanza dalle mura nemiche, silenziose e non viste, scivolando nelle ombre sicure della notte. Poi, un ululato di lupo. Inatteso, nel silenzio irreale. Secondi. Secondi interminabili. Chi ci aveva fatto caso aveva stretto l’asta e scrutato nell’oscurità. Non era zona di lupi, quella. Ancora silenzio. Solo silenzio. Falso allarme.

 

Il tempo di girarsi e sentire la morte prenderti, entrando in te con le fauci di un lupo. Hidoshi, al segnale, aveva atteso un istante e poi aveva scatenato il suo reparto. Un impatto improvviso che produsse grida di allarme e sorpresa, un clangore di tuono che percosse tutta la valle, urtando i fianchi dei monti e perforando il cielo, e saliva ancora, spinto in alto dalla foga degli uomini dell’inuyoukai.

 

Gli uomini di Morigawa ondeggiarono sotto la furia dell’attacco inaspettato; si dispersero senza prestare ascolto ai loro comandanti. Nessuno pensò a sbarrare la spessa porta di quercia del portone principale: rimase spalancata verso la corte interna. Un invito da non rifiutare. E mentre le zuffe si accendevano sempre più numerose e violente fuori il perimetro delle mura e nella piazza d’armi, Inutaisho irruppe nel castello seguito dai suoi uomini.

 

Il secondo reparto si disperse velocemente fra i corridoi di legno, calpestando tatami preziosi, squarciando paraventi e abbattendo fusume, uccidendo chi cercasse di opporre resistenza. Inutaisho aveva dato ordine che nessuno si fermasse a spogliare i cadaveri finche la battaglia non fosse terminata. Si cercava solo il varco nel nemico per trafiggere e ferire, per sfoltire con il ferro il nemico. Per far cessare tutto.

 

A un cenno di Inutaisho, un soldato che era rimasto sulla porta iniziò ad agitare dei ventagli e l’ultimo battaglione, quello di Kumamoto, prese a scendere lentamente verso la fortezza, sbarrando la strada ai fuggiaschi, mentre gli uomini di Hidoshi iniziarono lentamente a ritirarsi. I soldati di Morigawa, vedendoli arretrare, convinti di potergli ancora battere se si fossero organizzati, serrarono le file e iniziarono a premere contro i nemici, fino a uno scoglio roccioso che si ergeva a cento passi sulla sinistra, dove le truppe di Inutasiho si volsero e si diedero alla fuga. Gli avversari allora, presi dalla furia del combattimento, ubriachi per le grida, il sangue e il fragore delle armi, entusiasti per la vittoria che credevano di aver già in pugno, si gettarono al loro inseguimento per annientarli.

 

A quel punto, un altro ventaglio si abbassò repentino nell’aria e Kumamoto fece avanzare i suoi dodici battaglioni insieme a passo cadenzato, scaglionati su una linea obliqua. Appena superato il leggero dislivello del terreno, fecero breccia nel fronte nemico, sbaragliandolo per poi passare oltre. Dietro di loro, in linea obliqua, venivano gli altri, demoni delle pianure, con le lunghe yari dalla punta dritta abbassate fino alla terza fila, mentre i fanti della retroguardia mantenevano ritte le naginata ricurve, facendole ondeggiare al passo cadenzato. Un tintinnio metallico di armi e corazze, angoscioso presagio. Suono di morte.

 

Gli uomini di Morigawa cercarono di stringere i ranghi, piantando le lance a terra e opponendo le punte al nemico che avanzava sempre più velocemente, ormai a passo di corsa. Ma ormai giunto a tiro, l’ultimo squadrone di Kumamoto fu scavalcato da demoni alati, fino a quel momento rimasti nascosti nelle retrovie, che si abbatterono sugli avversari. Una conversione, e subito seguì la seconda ondata e poi la terza e di nuovo la prima. A quel punto, Kumamoto fece assumere ai suoi uomini una formazione a cuneo e vi si mise alla testa, mutandosi in un superbo cane dal pelo marrone, quasi dorato sotto i riflessi argentei della luna. Caricò nel mezzo, guidando i suoi uomini nelle file avversarie e colpendo nel mezzo dei ranghi avversari, sbaragliandoli definitivamente, fino ad arrestare la sua corsa al fianco di un magnifico lupo nero. Hidoshi.

 

I due demoni ripresero aspetto umano e spazzarono con lo sguardo la devastazione da loro provocata: corpi lacerati, principi di incendi, sangue che scorreva a confondersi con il fango e rendeva scivoloso il terreno. Una carneficina. Insensata. E su quella moltitudine di cadaveri i loro uomini danzavano come fuori di sé. Ebbri del sangue e della vittoria.

 

Inutasiho?”

 

Hidoshi si limitò a girare il capo, indicando il palazzo dove il generale aveva fatto irruzione con i suoi uomini. In quel momento, ne stavano uscendo i prigionieri e la Signora del palazzo. Kyoko. Pallida e stravolta. Quasi delirante. Continuava a dimenarsi, cercando di tornare nel castello. I due demoni la presero subito in consegna, assicurandosi che stesse bene e disponendo perché non fosse fatto del male alle yasha e ai sopravvissuti.

 

Non ebbero il tempo di scambiarsi una parola che un’esplosione dilaniò il corpo centrale dell’edificio, costringendoli a cercare riparo dai detriti e dal fuoco. Una fiamma sanguigna si alzò a frustrare l’aria, avvolgendo la torre fino a farla schiantare al suolo, mentre urla disumane si mischiavano al fischio delle fiamme. Alla luce sanguigna, si delineò una figura, barcollante. Inutaisho.

 

*****

 

Morigawa

Erano cresciuti assieme: loro due, Kumamoto e Hidoshi. Frequentavano con lui le lezioni del loro precettore, tranne Kumamoto, che era più grande e quindi dipendeva dal Signore per la sua educazione e il suo addestramento.

C’erano altri ragazzi a palazzo, figli di alleati, di dignitari, ostaggi…Ma fra loro quattro era nata fin da subito un’amicizia particolare. Un rapporto di complicità che si erano giurati che non si sarebbe mai spezzato. Quattro caratteri, diversi e a volte opposti, fra loro ostili ma capaci di integrarsi e accettarsi reciprocamente, fra intemperanze ed eccessi.

 

Hidoshi era il più impulsivo, seguiva l’istinto che caratterizzava la sua natura di ookami, un’astuzia pronta e quasi ferina, non ancora levigata e piegata dal costante esercizio. Non sopportava assolutamente la costrizione delle mura; era cresciuto libero nei boschi e nelle praterie, agguerrito e pronto alla provocazione, tanto che era sempre pronto ad azzuffarsi anche con demoni più grandi di lui, con il risultato che era costantemente pieno di lividi e graffi, quasi sempre impresentabile nelle cerimonie di corte e alle occasioni ufficiali.

 

Inutaisho aveva legato fin da subito con il ribelle ookami, facendosi spesso trascinare in giochi e scherzi che avevano quasi sempre di mira il loro precettore. Il giovane principe aveva di per sé un carattere aperto, anche se non così sfacciato come quello del demone-lupo. Era testardo e molto orgoglioso, conscio del suo ruolo e del posto che un giorno avrebbe dovuto occupare, per cui, tanto era favorevole e dimenticare la propria condizione e a mettersi alla pari con dei subordinati, altrettanto era veloce nel ristabilire le gerarchie, soprattutto se qualcuno si azzardava a mettere in dubbio le sue capacità. C’erano momenti in cui Inutaisho mostrava il volto del bambino, quello furbo e scaltro del ragazzo di stalla, con la risposta pronta e sprezzante, con la passione che accendeva le iridi d’ambra davanti anche ad una sciocchezza o per la voglia di conoscere, per quell’inesauribile desiderio di sapere che aveva. Ma c’erano anche momenti in cui sembrava più adulto della sua stessa età, con il portamento fiero e la sguardo freddo e tagliente. In quei momenti, la parte umana della sua anima, quella che non si vergognava mai di mostrare, scompariva. Inghiottita dal gelido lato demoniaco. Quando i suoi occhi si assottigliavano e indurivano, le labbra si serravano come incise nel marmo, in una distaccata superiorità, chi lo conosceva bene sapeva che era pronto a sostenere la sfida, a ricoprire appieno il ruolo cui era chiamato come Principe.

 

Fra Hidoshi e Inutaisho, la razionalità estrema e pacata era rappresentata da Kumamoto, che calibrava gli eccessi dell’ookami e stemperava la rigidità di corte dell’inuyoukai. Il padre di Inutaisho glielo aveva messo al fianco perché lo proteggesse e si instaurasse fra loro un rapporto saldo, visto che Kumamoto era il figlio di uno dei maggiori generali del regno. Inoltre, il Signore sperava che domasse il carattere a volte troppo umano del figlio, imprigionandolo nell’algido autocontrollo proprio dei demoni. O meglio, dei demoni superiori come erano loro. Perché la loro antica dinastia non poteva certo permettersi di esser soggetta a discredito solo per le intemperanze di un demone ancora troppo giovane. Anche se era, soprattutto se era, il Principe.

 

In realtà, Kumamoto non era riuscito a frenare Inutaisho, venendone invece conquistato dall’apparente leggerezza con cui affrontava la realtà quotidiana, per poi mutare all’improvviso, perdendo il sorriso e assumendo un’espressione greve e austera. Sapeva dominare con una sola occhiata, imponendosi su ragazzi più grandi senza altro bisogno che la sua persona. Lo aveva visto davvero poche volte ricorrere alla forza fisica per prevalere in una discussione, ma quando accadeva l’inuyoukai ne usciva sempre vincitore.

 

Morigawa

Si era inserito più tardi nel terzetto; ostaggio a palazzo. Isolato, guardato con sufficienza, quasi disgusto. Eppure, non era diverso dagli altri cuccioli di demone presenti al castello del Signore dell’Ovest. Era arrivato a metà della primavera, quando gli uomini iniziavano a riorganizzarsi per riprendere le campagne militari o semplicemente la caccia ai ningen.

Un giorno come gli altri, in cui Inutasiho era entrato nella stanza di Kumamoto, per vederne i molti rotoli che custodiva. Erano ancora due ragazzini, eppure la loro vita già ruotava attorno alla morte, alle battaglie e al sangue. Kumamoto aveva già partecipato ad alcune cacce, mentre Inutaisho aveva inizio già da più di un anno ad esercitarsi nella scherma e nella lotta. Un universo in cui erano nati, privo di abbracci e carezze, parco di elogi e più propenso a schiacciare chi si fosse mostrato debole, fosse stato anche il Principe, più che ad aiutarlo e sostenerlo. Inutaisho era l’erede, e come tale aveva solo il ruolo di continuare, un giorno, la sua stirpe gloriosa, mantenendone alto il nome e dandogli figli puri e perfetti. Una macchina in grado di imporre a tutti la legge degli inuyoukai.

 

“Lo sai che è arrivato un ragazzo della tua età?” gli aveva chiesto Kumamoto riponendo un trattato, mentre vedeva gli occhi del suo amico illuminarsi. Glielo aveva indicato dalla finestra: un puntino nella piazza d’armi, intento a tirar calci ad una palla. Inutaisho era corso giù per le scale più in fretta che aveva potuto, fermandosi sull’engawa ad osservare il nuovo ospite. Curioso e sospettoso ad un tempo. Quel ragazzo era della sua stessa stirpe, un demone-cane. Lo capiva dall’odore, e anche dall’occhiata di sufficienza che Hidoshi gli aveva rivolto, prima si sussurrargli all’orecchio, quasi con disgusto: “Un altro botolo…come se tu non fossi già sufficiente”.

 

Inutasiho aveva sorriso a quelle parole, voltandosi verso l’amico che se ne andava scuotendo la testa e facendo ondeggiare i lunghi capelli neri. Hidoshi non sarebbe mai cambiato. Anche quando lo aveva conosciuto, la prima cosa che gli aveva detto era stata un’offesa simile. Lui aveva risposte per le rime e si erano azzuffati, fino a crollare al suolo ridendo. Amici.

 

“Tirami la palla”

 

Inutaisho si accorse solo in quell’istante della sfera che era rotolata fin ai suoi piedi. La prese e si avvicinò al ragazzo, fissandolo negli occhi neri come la notte. Inquietanti. Aveva assunto un atteggiamento strafottente che non gli piaceva molto. E lui stesso aveva assottigliato gli occhi d’ambra. Voleva sfidarlo?

 

“Come ti chiami?”

 

Morigawa” rispose gonfiando il petto, come se il suo nome fosse già quello di un guerriero che incute timore. “Se hai qualcosa da dire, ti ascolto, perché qui sei il padrone. Ma nessuno può chiamarmi botolo. Specialmente, un lupastro”

 

Morigawa gli strappò di mano la palla, calciandola con precisione e facendole colpire alla testa Hidoshi, colto alla sprovvista. L’ookaimi, accortosi si essersi fatto giocare, lo raggiunse per avere vendetta, ma la mano di Inutasiho lo fermò. Stava ancora scrutando con espressione neutra il nuovo venuto quando le sue labbra si piegarono in un sorriso e i muscoli si rilassarono, mentre gli porgeva la mano.

 

“Benvenuto fra noi, comandante!”

 

*****

 

Ancora fermo appena oltre le shoji abbattute, Inutasiho strinse convulsamente la mano, fino a piantarsi gli artigli nella carne, lacerando la stoffa della manica. Quella stretta era stata leale. Quella volta…Quando erano ancora bambini, si erano stretti la mano senza ambiguità e sotterfugi. Erano diventati amici. Davvero.

 

Avevano vissuto assieme la loro infanzia e l’adolescenza. Morigawa era al suo fianco quando suo padre era morto e lui aveva dovuto salire sul trono antico degli inuyoukai. Era stato con lui nelle molte battaglie; lo aveva aiutato a ristabilire la sua autorità; lo aveva elevato alla carica maggiore del suo impero, affidandogli proprio quei territori che da tempi immemori appartenevano alla famiglia di Morigawa. Gli aveva restituito la dignità che secoli prima era stato sottratta alla sua famiglia.

 

Morigawa era uno della sua stirpe, come Kumamoto. Un inuyoukai. Un possibile candidato al trono se a lui fosse successo qualcosa. Un erede appartenente ad un ramo collaterale, neanche con un qualche vincolo di parentela con lui, ma pur sempre un erede. Tuttavia, Inutaisho non si era mai preoccupato di questo. Lo aveva sempre visto come un saldo punto di appoggio. Fidato. Una fiducia che adesso scopriva tradita. Il tradimento peggiore. Quello di un’amicizia giurato sulla reciproca persona.

 

Prese un respiro profondo e si diresse verso il dongione a cinque ordini, centro del palazzo. Era la cittadella, con la sala del trono. Perfettamente al centro del vasto e articolato edificio, separava le stanze pubbliche dagli appartamenti privati del Principe dell’Est. Ad ogni passo, una parte del suo essere si contorceva, annullandosi, soffrendo. Aveva percorso quei corridoi centinaia di volte, sempre con il desiderio di riabbracciare l’amico. Adesso, camminava fra detriti e legni bruciacchiati, investito dal riverbero del fuoco che stava lentamente consumando tutto l’edificio. L’odore del sangue e dell’olio bruciato si faceva sempre più intenso.

 

Una porta scurita dal fuoco. La sfiorò con la mano. Si potevano ancora sentire i rilievi decorativi che la caratterizzavano. Forme armoniose e delicate, in argento e avorio. Raffigurazioni di battaglia, paesaggi di fantastica bellezza. La schiuse senza sforzo apparente. Eppure, non aveva mai fatto così fatica ad aprirla. Perché farlo significava uccidere parte della sua vita. Distruggere se stesso.

 

Una nube di fumo acre e maleodorante lo investì, costringendolo a ripararsi la bocca con la mano. La sala del trono stava bruciando. Un inferno in terra. L’aria calda e irrespirabile fluttuava gelatinosa, facendo ondeggiare i contorni. E fiamme lambivano sinistre la superba selva delle colonne, con uno scricchiolio inquietante. Sotto il baldacchino, ormai una cortina di fuoco, una figura gli dava le spalle.

 

“Perché?”

 

Inutaisho si era avvicinato, incurante del respiro spezzato, del caldo che gli faceva scivolare rivoli di sudore sul viso. Vedeva solo il suo amico. Vedeva solo Morigawa davanti a sé. E sperava che si girasse per abbracciarlo come aveva fatto infine volte in quella stessa sala. Eppure, sapeva che il passato non ritorna. Che qualcosa fra loro si era rotto. Perso per sempre. E la sua frustrazione e la rabbia non facevano che aumentare nel disperato tentativo di capire cosa fosse stato perduto. E per quale motivo.

 

Morigawa ebbe un sorriso di scherno quando si girò verso di lui. Il grande Inutaisho gli chiedeva spiegazioni. Non capiva perché avesse tramato contro di lui. Ma davvero era così difficile? Davvero non riusciva a capirlo? Era la cosa più ovvia, la più banale. Quasi da vergognarsi del fatto che fosse quella la motivazione del suo agire. Una vergogna ovvia, ma insensata. Perché era la cosa giusta da fare.

 

“Perché ti ho sempre odiato”

 

Odiato. Odiato. Con tutta l’anima. Con ogni fibra del suo essere. Morigawa non ricordava più due bambini che si erano stretti la mano in un pomeriggio di primavera. Non ricordava gli anni trascorsi assieme, gli insegnamenti del Sensei, le confidenze e l’aiuto reciproco. Morigawa vedeva solo il demone che lo superava. Sempre. In ogni cosa che facesse. Lui non sarebbe mai stato al livello dell’amico, per quanto si sforzasse, e questo lo rendeva livido di rabbia.

 

Poteva sfibrarsi, metterci tutto il suo essere, ma Inutaisho si sarebbe sempre trovato un passo davanti a lui. Lui era l’erede degli inuyoukai, lui era a capo di un vastissimo impero, lui aveva quell’autorità e quel potere che la sua famiglia avevano perso da secoli. Forse, quello avrebbe anche potuto sopportarlo; in fondo lo aveva sempre fatto. Lo aveva sempre aiutato come un fratello. Senza chiedere nulla in cambio.

 

Ma dopo quella volta…Dopo che gli era stata rifiutata Sounga…Si era sentito definitivamente umiliato. Isolato. Accusato di incapacità. E tutto per colpa del Sensei. Perché era stato lui a sbattergli in faccia la sua inadeguatezza. In modo chiaro. Inequivocabile.

 

“Perché ti dominerebbe”

 

Poche parole. Poche lucide parole. Taglienti come lame. Affilate come spade. Non era all’altezza. Non lo aveva mai ritenuto all’altezza. Lo considerava un debole. Incapace anche di dominare lo youki di Sounga. Lo accusava di indolenza, di debolezza. Di incapacità a domarla. Si sarebbe fatto sottomettere. Sottomettere. Sottomettere. La spada lo avrebbe piegato alla sua volontà. Lo avrebbe schiavizzato.

 

Quelle parole continuavano a rimbombargli in testa. Perché erano l’accusa della sua inferiorità. Pronunciata davanti a tutti. Davanti a lui, che aveva impugnato la spada sigillandone l’antico spirito demoniaco. Piegandolo a sé e alla sua volontà. Dominandolo.

 

Morigawa scattò. Spada in mano. Sguardo folle e dilatato. Gliela avrebbe fatta pagare. Gli avrebbe fatto ingoiare tutti gli ossequi cui lo aveva costretto. Tutte le umiliazioni subite. La falsa amicizia con cui lo teneva legato a sé. Avrebbe ucciso il dominatore del mondo e ne avrebbe preso il posto. Non per follia. Non perché era impazzito. Ma perché lui non aveva nulla da invidiare a Inutaisho. Nulla. E il fatto che fosse Inutasiho l’erede degli inuyoukai e non lui non era una motivazione bastevole per accusarlo di incapacità. Perché erano solo menzogne. Bugie costruite ad arte. Per impedire che l’erede si trovasse in una posizione scomoda. Che la sua incapacità e inadeguatezza divenissero manifeste.

 

Inutaisho fu costretto a schivare, arretrando sempre di più. Non riusciva a credere alle farneticazioni di Morigawa. Tutto quello era avvenuto solo perché si era sentito sminuito. Perché era convinto che una specie di congiura avesse fatto in modo di sottometterlo a lui e umiliarlo. Solo per impedirgli di mostrare a tutti che il Principe era in realtà un perdente. Incapace di u passo senza l’aiuto dei suoi generali. Che a lui andava la gloria, mentre erano loro a fare tutto il lavoro. A rischiare la vita.

 

No. Falso. Falso. Falso. Inutaisho non ci credeva. Non poteva convincersi che le cause di quell’odio fossero dettate solo dall’invidia. Perché sarebbe stata davvero la rovina della loro amicizia. Se gli avesse detto che gli aveva fatto un torto, che doveva vendicare un vecchio affronto…Qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa sarebbe andata bene. Anche che lo voleva uccidere perché gli aveva soffiato una donna. Andava bene anche una motivazione futile come quella. Tutto. Ma non l’invidia. Perché quel sentimento era l’unico che Inutaisho non accettava. Lui aveva sempre diviso tutto con loro. Con i suoi amici. Le gioie come le sofferenze. Bevendo con loro e mangiando il loro cibo. Digiunando con loro ed esponendosi ai medesimi pericoli. Acconpagnandoli in battaglia e rischiando guerre per il loro onore. Trattandoli come pari. Considerandoli suoi pari.

 

All’ennesimo fendente, si allontanò con un salto. Per un istante, lo fissò negli occhi. Pece ed oro. Oro e pece. Lo sguardo di Morigawa era incendiato, ardeva di pura follia. Di rabbia totalmente umana. Di insensata invidia. Inutaisho sospirò. Era perso. Per sempre. Non avrebbe più potuto ricucire nulla. Nulla avrebbe riportato la serenità dell’infanzia negli occhi di Morigawa. E anche lui, dopo quella notte, non avrebbe più potuto perdonarsi per aver ucciso un amico che il suo stesso comportamento aveva portato all’estremo.

 

Si rialzò in piedi con lentezza, ricacciando indietro il magone che gli chiudeva la gola. Le travi del soffitto precipitavano al suolo in una nube di scintille infuocate. Inutaisho socchiuse gli occhi mentre stringeva la mano sull’elsa di Sounga. Rivide altre scintille, altri fuochi. Quelli di un giorno lontano, quando Morigawa gli aveva presentato suo figlio. Il suo primo figlio. Il suo erede. Aveva sperato di poter fare lo stesso. Adesso, invece, tutto naufragava nel riverbero liquido del fuoco.

 

Strinse le mani sulla katana, piegando alla sua volontà lo spirito della spada. Avrebbe scatenato il dragone dell’inferno. Avrebbe vinto. Con la morte nel cuore. Ormai, il potere lo avvolgeva completamente; e si preparò ad attaccare. Morigawa non sarebbe mai scappato, lo aspettava a piè fermo e con il viso deformato dal piacere e dalla gioia di una vittoria. Ormai, non era più neanche capace di distinguere la realtà dell’imminente sconfitta dai suoi folli sogni.

 

“Padre!”

 

Una voce di bambino. Confusa con le fiamme che frustravano l’aria. Inutaisho la colse e assopì d’istinto lo youki che lo avvolgeva. Aveva riconosciuto a chi apparteneva quella voce. Girò appena la testa e scorse fra le fiamme la sagome nera di un bambino. Sentì ancora quel grido disperato, poi la vide accasciarsi a terra. Esausta e tossendo. Sentì lo scricchiolio delle assi; uno schiocco secco e l’odore dell’aria fresca. Si voltò ignorando completamente il suo avversario. Lo attaccasse pure. Non gli importava. Gli diede le spalle e saltò oltre la cortina di fumo e fiamme, sottraendo il bambino alle macerie del soffitto che crollava un attimo prima dello schianto e venendo sospinto lontano dall’onda d’urto del colpo di Morigawa.

 

Avvolse Shin nella sua pelliccia e si rialzò lentamente, ancora confuso e stordito per il contraccolpo. Fra le finestre del fuoco, vide il suo amico trasformarsi in un mostruoso cane nero, contorcersi fra urla spaventose, deformandosi, brillare e poi accasciandosi al suolo. In un silenzio irreale di morte. Fra le sue braccia Shin, semicosciente, aveva distinto solo l’ombra gigantesca del padre proiettata sul muro e un suono profondo e doloroso. Poi, solo il buio.

 

Inutaisho sentì un brivido percorrergli la schiena e d’istinto iniziò a correre, stringendo a sé il fagottino di pelliccia. Non sapeva neanche lui perché quella paura improvviso lo avesse colto, ma era una sensazione istintiva. Se non fosse riuscito a uscire subito da lì, sarebbe morto. Anche se razionalmente non aveva senso, l’istinto gli diceva di correre. Correre. Correre. Veloce. Verso l’esterno. Verso l’aria.

 

Attraversò di slancio l’entrata, e venne sospinto avanti dallo spostamento d’aria di un’esplosione. Aveva squarciato il corpo centrale dell’edificio, percorrendo i corridoi del palazzo alla disperata ricerca di una via di sfogo. Potè solo osservare col terrore negli occhi spenti le fiamme alzarsi fino al cielo, infuocando la montagna lontana e tingendo il cielo basso e nuvoloso.

 

*****

 

Vento caldo. Secco. Vento d’estate. Le ultime manifestazioni di una stagione che declinava. Vento che sa di sabbia.

Scompigliava leggermente le chiome nere, s’insinuava fra l’erba alta facendola ondeggiare come un mare tranquillo; ondate d’argento e d’oliva. Riflessi fiabeschi sotto la luna. E un profumo forte di muschi e acqua. Inebriante.

 

Inutaisho sollevò il viso al cielo terso e scuro. La luna lo osservava nella sua algida lontananza. La luna…la sua protettrice; il simbolo della sua stirpe. L’emblema tatuato sulla pelle, proprio del Clan egemone, dei discendenti diretti. Chissà suo figlio dove avrebbe avuto quel tatuaggio?...Forse sulla fronte come sua madre, forse su una spalla come lui…suo figlio…sarebbe nato presto…E lui forse non sarebbe stato a palazzo. Morigawa era stato sconfitto, ma i suoi alleati, gli ultimi, ancora facevano resistenza. Una fortezza. Una fortezza verso Sud, arroccata fra le rocce. Quasi imprendibile. Doveva conquistarla. Doveva prenderla, per non perdere anche il futuro di suo figlio. Forse non ne avrebbe sentito il primo vagito, ma non avrebbe permesso a nessuno di rubarglielo. A nessuno.

 

Si passò una mano nei capelli d’argento, sciogliendo la coda alta e facendoli ricadere liberi sulla schiena. Era così stanco. Quella battaglia gli era costata più energie di mille scontri. Più sudore e sangue di secoli di conflitti. Gli era costata una parte del suo cuore. Strinse la pelliccia che gli copriva le spalle. Sentiva freddo, anche se era piena estate e l’aria calda sapeva di frutta e sole. Aveva freddo. Molto freddo.

 

Suo figlio avrebbe avuto un padre…ma lui aveva strappato il genitore ad un bambino. A quel bambino che aveva raccolto fra le mani dopo che era nato. A quel bambino che avrebbe dovuto tenere per una spalla il giorno del suo battesimo delle armi. Shin…Come avrebbe reagito quanto glielo avrebbero detto? Cosa avrebbe cercato, cosa avrebbe capito? Era ancora troppo piccolo per intuirne il carattere: forse si sarebbe reso conto che quella era l’unica soluzione possibile, forse avrebbe cercato vendetta, accecato dal suo sangue ancora giovane. L’unica cosa che sperava era che non si perdesse anche lui, che non inseguisse vuote chimere.

 

“Te la senti o vuoi riposare ancora un po’?”

 

Hidoshi lo aveva raggiunto alle spalle, silenzioso come solo un predatore sa essere. Nessuno di loro era mai riuscito a batterlo in quel gioco. Se voleva, l’ookami era in grado di avvicinarsi a qualcuno fino a piazzarglisi d’improvviso a pochi millimetri dalla faccia. Leggero e inafferrabile. Confuso con tutta la natura che lo circondava. Si prendevano in giro come da ragazzi, si rinfacciavano gli sbagli dell’addestramento e gli scherzi preparati. Eppure, fino a poche ore prima lui non aveva mai pensato che la sua amicizia potesse essere un peso per loro. Un ostacolo. Non aveva mai considerato il fatto che potessero sentirsi schiacciare dalla sua presenza. Mettersi in competizione era normale fra ragazzi, ma che questa sana rivalità fosse degenerata fino all’invidia che dilania il cuore non riusciva ancora ad accettarlo. Eppure, era la verità. Sbattutagli in faccia con la forza di uno schiaffo. Colta con disarmante lucidità. Annichilente.

 

Morigawa aveva ordito tutto quel piano perché lo odiava. Perché si sentiva da lui usato e sfruttato. Perché lo riteneva un arrivista, che approfitta del lavoro altrui per coprire se stesso di gloria, ignorando chi davvero aveva rischiato in battaglia, infischiandosene del numero dei morti necessari a soddisfare un suo capriccio. Morigawa lo aveva accusato di essere un tiranno, non un Principe. Il più indegno della sua stirpe.

 

Tuffò la testa nelle braccia e si smarrì nelle ombre del bosco. Quella foresta era immensa e selvaggia. Inviolata. Un intricato labirinto vegetale in cui anche per un demone sarebbe stato difficile ritrovare l’uscita una volta avventuratosi nei suoi meandri vegetali. Un guardiano perfetto. Eterno e incorruttibile.

 

“Non è colpa tua…”. Hidoshi lo aveva affiancato, rivolgendo a sua volta l’attenzione alla boscaglia fitta e silenziosa. Capiva perfettamente come doveva sentirsi l’amico. Le stesse laceranti sensazioni che si rincorrevano nell’animo suo e di Kumamoto. Il primo di loro era caduto. Perso per sempre. Qualcosa era riuscito a entrare nel loro gruppo e lo aveva spezzato. Qualcosa di più profondo e devastante della morte. Se Morigawa fosse caduto su un campo di battaglia, allora…Ma smettere di essere un demone fiero in quel modo, essere condannato a quella pena…forse era peggiore che averlo perso in battaglia.

 

“Anche per voi io sono un peso? Un ostacolo?”

 

Lo sussurrò appena, le labbra premute sulle braccia, un respiro articolato in suono. Era da quando aveva consegnato Shin a Kyoko che voleva far loro quella domanda. Voleva sapere se quelle accuse erano vere o un capo espiatorio cui Morigawa si era aggrappato. Una realtà deformata dalla sua mente, e non la verità.

 

Il silenzio prolungato dell’ookami lo costrinse ad alzare gli occhi su di lui. Un’ occhiata ansiosa e disperata, angosciata. Uno sguardo nascosto dietro una cortina di fili d’argento. Un velo a separarli. Leggero. Perché per la prima volta Inutasiho non aveva la forza di fissare dritto negli occhi l’amico, di sostenerne lo sguardo.

 

Hidoshi continuava a scrutare con apparente interesse le ombre della notte. Avrebbe voluto prenderlo a pugni, ma sapeva che probabilmente era ancora troppo sconvolto per capacitarsi realmente di quello che aveva detto. Tuttavia, una sottile rabbia gli faceva fremere le membra. Idiozie. Stava dicendo solo idiozie. Come poteva anche solo lontanamente passargli per la testa l’idea che fosse un ostacolo? Lui era il migliore di loro, e proprio per questo era un modello. Un esempio che ti spinge a dare sempre il massimo. A sforzarti per non essere inadeguato.

 

Inutaisho aveva gioito con loro dei loro risultati e si era rattristato con loro per gli insuccessi. C’era sempre stato, al loro fianco, nei momenti belli dell’addestramento e in quelli cupi della vita. Li trattava come gli altri quando sedevano al tavolo, in riunione, elogiandoli o riprendendoli come faceva con ogni altro generale. Dominando con la sola forza dello sguardo e il timbro della voce youkai di razze e provenienze diverse, convincendoli della possibilità di vittoria anche dopo la più devastante delle sconfitte. Questo era Inutaisho: un demone d’incredibile forza d’animo e determinazione, di vitalità indomabile, di mente acuta e fervida. Altresì capace, a riunione finita, di prendere loro tre per le spalle e trascinarli a caccia, senza preoccuparsi che la sua immagine non ne risultasse compromessa. Tornando al castello ridendo come un ragazzino.

Una persona poliedrica, che il potere non era riuscito a piegare ai suoi capricci, facendogli semplicemente assumere più facce: maschere che continuamente indossava e toglieva. Rendendo difficile capire realmente chi fosse, quale fosse la sua natura. Solo i suoi amici conoscevano la profonda solitudine che lo accompagnava e la paura che ne derivava: l’inuyoukai era attanagliato dal terrore di ritrovarsi solo, impedito di dedicarsi a coloro che lo circondavano. Dai suoi amici a sua moglie, fino al figlio che presto avrebbe avuto.

 

“Io non rispondo a chi mi pone le domande in questo modo”

 

Hidoshi aveva intrecciato le mani dietro la nuca e si era stirato la schiena. Lui non era e non sarebbe mai stato un ostacolo per loro. La fonte del loro possibile odio. Morigawa si era lascito accecare dal potere; ne era divenuto succube fino a non riuscire più a distinguere la realtà dall’immaginazione. Si era lasciato irretire dai discorsi forvianti e avvelenati dei suoi cortigiani. Si era fatto plasmare senza neanche accorgersene.

 

Inutaisho ridacchiò. Quella risposta era tipica dell’ookami. Sprezzante. Non ci sarebbero mai riusciti: Hidoshi non avrebbe mai accettato il rigore dell’etichetta se non quando proprio era strettamente necessario. D’altronde, cercare di imporgli regole era come pretendere che un lupo cresciuto in cattività avesse il medesimo istinto di un fratello sempre vissuto libero. E in fondo, a lui andava bene così.

 

“Andiamo, botolo. Finiamo questa brutta faccenda, o ti sei davvero rammollito così tanto a star seduto su quel trono?”

 

Inutaisho afferrò la mano che il demone-lupo gli porgeva e ricambiò il sorriso, a metà fra lo scherno e il sollievo. Ma sentitelo…Aveva le occhiaie profonde e un’espressione sfinita e ancora lo canzonava? Strinse la mano e lo strattonò, facendolo finire a terra, nell’erba alta, mentre rideva contento di avergli dimostrato che lui di forza ne aveva ancora e si allontanava tranquillamente verso la grotta.

 

“Chi è che si sarebbe rammollito?”

 

Hidoshi sollevò il braccio, pronto a gettargli contro la prima cosa che gli fosse passata fra le mani, ma lo riabbassò subito, iniziando a sorridere e poi a ridere. Almeno, lo aveva tirato un po’ su di morale.

 

*****

 

Luce fioca. Spettrale. Luce irreale.

S’infrangeva sulla roccia, scivolano sulle colonne calcaree e oscillando al soffio leggero del vento. Stalattiti lucenti percosse dal sudore della terra; lacrime piante in silenzio, senza motivo, in una caverna che si insinuava nel cuore della montagna sacra. Vapore leggero che ammanta la terra. Acqua che evapora in uno sfrigolio appena udibile.

 

Inutaisho si fermò alla fine della galleria scavato dal tempo e dal vento. Una grotta immensa, in cui il fresco delle viscere della terra si confondeva col calore del magma del vulcano. Le pareti trasudavano acqua. La falda lavica non doveva distare molto da quel luogo. Spaziò con lo sguardo tutta la caverna, concentrandosi infine sul globo luminoso al suo centro. Salutò con un cenno Kumamoto che stava per uscire e si avvicinò alla sfera. Piccola. Palpitante.

 

La sfiorò con gli artigli, ricevendone come una scossa e riavvertendo un potere conosciuto sfiorarlo. Morigawa…Quella piccola sfera concentrava in sé l’youki del suo amico. Strappato con un incantesimo proibito. Rubato con gli artigli della magia fusa all’alchimia. Il solo modo per evitare di ucciderlo.

 

Il Sensei non aveva avuto scelta. Quando era intervenuto per impedire che Morigawa uccidesse l’inuyoukai aveva avuto solo due scelte: uccidere il suo allievo o privarlo del suo youki. Renderlo inerme. Aveva scelto di lasciargli la vita. Si era mostrato…clemente. Forse compassionevole della fragilità d’animo che Morigawa aveva mostrato. Lo aveva costretto a trasformarsi e lo aveva dilaniato nell’animo con una tecnica proibita fin dal tempo più antico. Fondendo la sua forza demoniaca a pratiche alchemiche umane. Contaminando fin nella sua essenza la sua natura di youkai puro.

 

Gli aveva sottratto lo youki concentrandolo in quel globo pulsante; lo aveva relegato ad un semplice involucro. Sfinito. Distrutto. Ma almeno, ancora vivo. Il Sensei stesso lo aveva portato fuori dal palazzo in fiamme, restituendolo a sua moglie e ai pochi fedeli della corte che erano sopravvissuti. Morigawa era e sarebbe rimasto incosciente molto a lungo, per recuperare tutte le sue forze. Ma non sarebbe più stato in grado di rompere il sigillo che frenava la sua forza demoniaca.

 

“Sei pronto?”

 

Inutaisho annuì solamente. Sapeva benissimo cosa volesse da lui il Sensei. E che lui solo era in grado di sostenere quello sforzo. Chiuse gli occhi, mentre si lasciva avvolgere dal suo youki e si mutava in un magnifico cane bianco. Ululò al vento il suo dolore e poi piegò docile la testa. Chiuse gli occhi. Mille sensazioni gli attraversarono la mente, gli dilaniarono i muscoli. Percepì il respiro spezzarsi e il cuore smettere di battere. Sentì un freddo innaturale cementargli ogni azione e poi il sangue prendere a scorrere nelle vene con una forza tale che sembrava volergliele spezzare. Forse, stava già sanguinando. Qualcosa di caldo fuoriusciva da lui. Docile al comando del Sensei. Si sentì invadere con violenza, come se stessero cercando di strappargli il cuore, la vita. Strinse i denti in un ringhio soffocato, mostrando la dentatura possente, il sangue che lentamente scendeva a colorare il terreno.

 

Quando riaprì gli occhi, era di nuovo in forma umana, sorretto da Kumamoto, con addosso la sua pelliccia e anche quella di Hidoshi. Faticava a mettere a fuoco i contorni, i suoni gli arrivavano ovattati e gli odori confusi. Chiazze di vario colore davanti all’ambra appannata. Qualcuno lo costrinse ad aprire la bocca. Un liquido caldo in bocca, nella gola…lo stavano facendo bere qualcosa…non aveva sapore…non riusciva subito a distinguere il sapore…

 

Inutaisho allontanò d’improvviso Hidoshi, rovesciando la scodella e cercando di sputare quanto più possibile di quel maledetto intruglio. Volevano forse avvelenarlo? Era disgustoso. Non ci provò nemmeno a immaginare cosa diavolo doveva averci messo dentro il suo amico. Almeno, lo aveva fatto riprendere completamente coscienza. Unica nota positiva. Ignorò l’invito di Kumamoto a rilassarsi di nuovo e si alzò in piedi barcollando. Cercò con lo sguardo il Sensei, ma non lo trovò. Al suo posto, un gigantesca sfera di potere demoniaco, incatenata da zanne e colonne calcaree, stretta nella morse di uno youki. Il suo youki.

 

Il Sensei gliene aveva sottratto un po’ perché avvolgesse e domasse quello di Morigawa. Sigillato. Ora, davvero non avrebbe più potuto liberarsi. E se per caso fosse successo, Inutaisho avrebbe avvertito un dolore inimmaginabile, come se stessero tentando di strappargli il cuore.

 

Si girò facendo ondeggiare il mantello di pelliccia. Ora, era finita.

 

*****

 

L’imbarcazione dondolava pigramente. Era una buona nave, nel legno migliore e più pregiato. Con una vela di seta nera legata all’albero maestro. La prua leggera e scattante, la poppa possente, con un castello semplice, ma comunque degno di una famiglia reale. Degno di loro.

 

Dal pontile, Kyoko la osservava assorta, lasciandosi inebriare dall’aria marina e dal suono placido della risacca. Poco tempo ancora, e avrebbe detto addio alla sua terra natale. Avrebbe lasciato il Nihon per avventurarsi sul Continente. Una terra sconosciuta. Forse più ospitale, forse più pericolosa. Comunque, un altro mondo. Diverso da quello dove era nata e di cui era signora.

 

“Mi dispiace…”

 

Inutaisho le si era affiancato silenzioso. Se solo ci fosse stata un’altra soluzione. Qualsiasi cosa. Invece, l’unico modo perché Morigawa potesse vivere e non fosse più una minaccia era l’esilio. Per lui e per la sua famiglia. La yasha scosse la testa e gli rivolse un sorriso tirato. In definitiva, era lei a voler andare. A non voler lasciar solo il marito. Sperava che la lontananza lo potesse cambiare. Gli restituisse il demone che aveva conosciuto su un campo di battaglia e di cui si era innamorata. Un demone fiero e valoroso. Non un assassino votato ad una insensata vendetta.

 

L’inuyoukai ricambiò mesto il suo sorriso. Una smorfia tirata. Rivedeva Kyoko all’apice della sua bellezza, quando si recava al suo palazzo al fianco di Morigawa. Fiera e altera. Orgogliosa del marito e della sua forza. Da quando lo aveva sposato aveva rinunciato al potere diretto sulle terre che le appartenevano, quasi trasformandosi in una tranquilla hime, eppure, i suoi tratti puri e indomiti rivelavano la natura selvaggia della sua origine, la sua provenienza dal Nord, da un’isola sperduta oltre il mare, avvolta da nebbie, d’oro d’estate e bianca d’inverno.

 

E anche in quella sua scelta, nella volontà di abbandonare tutto solo per seguire Morigawa, riaffiorava il suo carattere indomito. La sua passionale testardaggine.

 

Una yasha li raggiunse. Era avvolta in vesti sontuose, ma che comunque lasciavano intravedere la sua gravidanza. Occhi d’acciaio e capelli d’oro bianco. Uno spicchio di luna in fronte. Inutaisho le diede il braccio e lei vi si appoggiò. Il bimbo nel suo grembo scalciava. Vivo. Ribelle. Indomato. Mostrava già un carattere un po’ troppo combattivo.

 

Kyoko le sorrise complice e le sfiorò la mano. Avrebbe voluto esserci quando sarebbe nato l’erede degli inuyoukai, come loro erano stati presenti quando era nato Shin. Purtroppo, il destino aveva deciso diversamente. Gettò un’ultima occhiata ad Inutaisho prima di salire su una piccola scialuppa e alzò il braccio in segno di saluto. Lasciava il suo mondo. Lasciava gli amici che l’avevano accettata anche se di una terra diversa dalla loro.

 

Il mare inghiottì il vascello, portando con sé oltre l’orizzonte speranze, dolori, sogni e vendette

 

§§

 

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Capitolo 40
*** 40. DECISIONI ***


Carissime lettrici e carissimi lettori,

Carissime lettrici e carissimi lettori,

 

dopo un’assenza di più di tre mesi, sono finalmente riuscita a concludere la tesi (adesso è al vaglio del professore) e posso riprendere ad aggiornare. Per questo, vi invio subito un nuovo capitolo, che spero sarà di vostro gradimento. Inoltre, il prossimo è quasi concluso e spero di inviarlo a breve. Comunque, ormai siamo in dirittura di arrivo. Ancora dieci capitoli e la prima parte sarà conclusa. Vi avverto, comunque, che questi ultimi capitoli, oltre ad essere più drammatici, non chiuderanno tutte le questioni. Molti elementi resteranno in sospeso, anche perché si svilupperanno nel continuo.

 

Bene , adesso vi lascio alla lettura; fatemi sapere cosa ne pensate. Anche perché ci saranno alcune rivelazioni importanti e si porranno le basi di possibili svolte nuove.

 

Ringrazio infinitamente tutti voi per la pazienza che mi mostrate, e soprattutto Jame, Celina e Chiby per i commenti che mi hanno lasicato.

 

Buona lettura!

 

Avalon

 

 

 

 

 

CAPITOLO 40

DECISIONI

 

 

Koji si lasciò quasi cadere a terra dal suo stambecco e si trascinò nella tenda. Nausea. Fastidio. Emicrania. Aveva le orecchie piene di urla strazianti, di invocazioni e lamenti, le mani sporche di sangue.

 

Non degnò di uno sguardo il cibo e l’acqua sul basso tavolino. Gli davano il voltastomaco. Gli era impossibile anche solo il pensiero di mettere qualcosa sotto i denti senza venir preso da conati di vomito. Si tolse quasi con frustrazione le armi di dosso e si lasciò cadere a peso morto sulla sua branda in preda a spaventose convulsioni. Non aveva più il controllo dei suoi muscoli o dei suoi sensi: incubi e allucinazioni gli passavano negli occhi e nell’anima, tempeste devastanti che sradicavano dalla sua mente ogni pensiero non appena questo accennava a prender forma.

 

Il dolore e la disperazione di quello che aveva visto, di quello cui si era prestato, nonostante ora sapesse la verità, gli pesavano sull’animo come un macigno e l’oppressione divenne così forte da esplodere in un grido quasi ferino di delirio e strazio. Nessuno lo distinse dalle molte altre grida che ferivano quella notte maledetta, percorsa da ombre ubriache, da spettri sanguinosi. In cui il vento si mescolava all’ululato dei lupi che si aggiravano sul campo di battaglia, fra le mura squarciate del palazzo.

 

“È una carneficina, non una battaglia…”

 

Yashi si mise a sedere accanto a lui, con un’espressione stralunata, quasi folle. Era ancora ricoperto di sangue, un odore penetrante e acre. Rivoltante. Si slacciò con meticolosa lentezza la corazza e si tolse il kimono, restando nudo nella tenda buia. Fuori, risuonavano le grida euforiche degli uomini, ebbri di vittoria. Orgogliosi del risultato ottenuto: le mura erano state violate; un largo tratto della cinta era crollato sotto il loro fuoco e alcuni reparti erano riusciti a fare incursione, anche se poi erano stati quasi decimati dagli uomini di Sesshomaru. Comunque, il risultato era ormai evidente a tutti: una ferita profonda, aperta verso il castello.

 

Il ragazzo, in piedi, si rovesciò addosso tutta la bacinella d’acqua, incurante della sua temperatura gelata, strofinando spasmodicamente la pelle come a volersela strappare di dosso. Mai il sangue gli aveva dato una simile sensazione di malessere. Mai uccidere gli aveva provocato simili sensazioni. Non era rimorso. La morte faceva da sempre parte della sua vita. Uccidere era una cosa naturale come respirare. Non c’era alcun senso di colpa per aver ucciso. Si sentiva schiacciare al solo pensiero di come avesse ucciso.

 

Shin aveva ragione. Dannatamente ragione. Sparare non è come affrontare un avversario con la spada in mano o a mani nude. Sparare è diverso. Glielo aveva detto. Per quanto puoi allenarti a colpire una sagoma di legno, nel momento in cui ti trovi a dover premere il grilletto davanti a un demone vivo, e non a un fantoccio, tutto cambia. Persino il rumore del proiettile che colpisce il bersaglio.

 

Shin lo sapeva. Lo aveva provato prima di loro. E da quel momento era come impazzito. C’era qualcosa in quel modo di uccidere che lo aveva ripugnato. E che adesso disgustava anche loro. Forse l’idea di combattere ad armi impari, forse il sottile sospetto di essere inferiori senza l’uso delle armi da fuoco, o forse, semplicemente, la consapevolezza di essere nel torto. Sbagliato. Sbagliato. Sbagliato. Tutto quell’eccidio era insensato. Dannatamente insulso.

 

Non avevano preso parte diretta allo scontro più importante. Non erano stati loro a comandare il reparto che aveva fatto irruzione nella breccia aperta. Yashi e Koji si erano limitati a comandare i loro uomini ingaggiando scontri nella vasta piana fra il castello e l’accampamento. Alzando di quando in quando la testa al cielo pieno di fumo e lapilli di cenere. L’aria era quasi irrespirabile. Sapeva di polvere da sparo e ferro. Il sapore della morte. Bruciava le labbra, raschiava la gola. Giù-giù fin nei polmoni, nello stomaco. Fin nei recessi dell’anima. Artigliava la carne. Disgustava.

 

E fra le grida di agonia e incoraggiamento, continuamente il rimbombo cupo dei cannoni. Il frastuono di un tuono di morte. Mentre scie infuocate tracciavano nel cielo il loro reticolato, prima di schiantarsi al suolo, oltre la difesa avversaria, frantumandosi in un’infinità di schegge mortali. Loro non aveva visto gli effetti di quei proiettili nelle file nemiche, ma le urla strazianti che ancora riempivano l’aria ghiacciavano il sangue nelle vene. Se avessero potuto vedere la piazza d’armi del palazzo dell’inuyoukai, l’avrebbero trovata ancora ingombra di cadaveri mutilati, irriconoscibili. Di entrambe le parti.

 

Una nuova secchiata. Come se il freddo del liquido potesse mettere a tacere quello dell’anima. Come se lavandosi tutto mutasse. Si purificasse. Yashi sentiva l’acqua scorrere sul suo copro, disegnargli i muscoli e trasportare via i residui di sangue e fango. La polvere della battaglia. La sentiva percorrergli i capelli e disegnargli il volto, lacrime timide e senza sapore. Rimase ritto nella tenda, cercando di calmare il respiro rotto e il vorticare dei pensieri. Il contatto con qualcosa di morbido lo scosse d’un tratto.

 

Koji aveva seguito per tutto il tempo i suoi movimenti esasperati. Sapeva benissimo cosa passasse nella mente del fratello. Conosceva perfettamente ogni suo pensiero, riusciva a trovare una motivazione per ogni ombra che gli solcava il viso. Non occorreva che parlassero. Erano stati l’uno accanto all’altro per tutto il girono. Avevano visto le medesime cose, avevano provato le stesse emozioni. Violente. Devastanti. E alla fine, un attimo prima di voltare le loro cavalcature e tornare al campo, si erano cercati con gli occhi. Dilatati. Quasi terrorizzati.

 

Mentre frizionava il corpo del fratello, Koji non potè evitare di tornare con la mente a un’immagine fugace che aveva strappato alla confusione della battaglia. Un ragazzo, un nemico, un Principe avversario…Capelli neri lunghi, occhi azzurri, e furia folle e disperata. Lo conosceva. Si era già scontrato con lui. Più di una volta. E lui lo aveva risparmiato. Koji non riusciva a dimenticare l’espressione incredula che gli aveva visto sul viso. Neanche si fosse ritrovato faccia a faccia con un fantasma.

 

“Quanto durerà ancora?”

 

La voce di Yashi lo strappò alle sue riflessioni. Non tremava più. Ma anche prima, quando il fratello lo aveva avvolto nello yukata per fermarne i brividi, lui non si era accorto di star tremando. Non sentiva nulla. Le sue percezioni erano troppo distorte. Yashi sistemò la veste d’amaranto e si lasciò cadere prono sulla branda, chiudendo gli occhi. Koji non se la sentì di dare una risposta alla sua domanda, limitandosi a imitarlo e tornando a sdraiarsi anche lui sul suo letto. Fissava la cima della tenda, le ombre sanguigne che i fuochi da campo riflettevano sulla stoffa tesa, insinuandosi fra le pelli che la ricoprivano.

 

Quasi di muto accordo, i fratelli si fissarono nel silenzio assordante dei rumori che avvolgevano tutto il campo. Azzurro e viola. Due sguardi diversi. Due sguardi profondi e adulti. Cercavano l’uno negli occhi dell’altro un barlume dell’innocenza di quando erano ancora bambini. Cercavano le risposte alle proprie domande. Inutilmente. Non c’era altro modo. Dovevano continuare a combattere. Anche se quella guerra non apparteneva a loro. Anche se era il frutto di un pensiero folle e irrazionale.

 

Doveva ancora fingere di voler combattere. Fingere l’odio verso qualcuno che non avevano neanche mai visto. Dovevano fingere di aver dimenticato se stessi, la propria dignità, gli insegnamenti. Fingere di aver dimenticato Shin.

 

*****

 

“Il clan di Yezo?”

“Vostro fratello?”

 

Kyoko sospirò, trattenendo un sorriso nel vedere le facce allibite dei suoi figli, mentre posava il pennello e arrotolava la pergamena, dopo avervi fatto scorrere sopra il tampone per assorbire l’inchiostro in eccesso. Con meticolosa lentezza, fece sciogliere un po’ di cera da una candela rossa, versandola su un nastro di seta che legava il rotolo di carta, per poi imprimere il suo sigillo. Quanti anni erano che non lo faceva? Quanti anni era trascorsi dall’ultima volta che aveva preso direttamente in mano le redini del potere, dispensando ordini, tramando, facendo e disfacendo trame, progetti, alleanze…Per molti anni era vissuta di intrighi e politica, era stata accanto a suo fratello, condividendo con lui le incombenze del governo. Credeva che non avrebbe mai potuto vivere una vita diversa. Lei era la Signora degli inuyoukai di Yezo, o almeno lo sarebbe stata finchè suo fratello non avesse trovato una compagna. Solo in quel caso, Kyoko aveva previsto la possibilità di farsi da parte. E invece, erano bastati due occhi neri profondi e maliziosi a sconvolgere i suoi progetti, incrinando la sua realtà fatta di intrighi e battaglie.

 

Morigawa si era presentato nei loro territori a inizio primavera, mentre la neve ancora colorava le vette selvagge di Yezo. La sua isola…Fredda, quasi inospitale, con le sue alte montagne, le gole, i laghi; con la sua natura imponente e rigogliosa…Era il suo orgoglio. Una terra quasi disabitata, in cui si erano stanziati pochissimi ningen. Il regno incontrastato di loro demoni. Eppure, appena la yasha aveva posato gli occhi sull’inuyoukai, tutto era passato in secondo piano. Aveva impiegato molto tempo a convincere se stessa che amava quello youkai giunto da un’isola molto più a Sud, e che il suo comportamento aggressivo era dovuto al fatto che lui riusciva come pochi a imbarazzarla.

 

Morigawa era giunto come ambasciatore: portava proposte di alleanza da parte di un potente demone della loro razza, del Primo fra di loro. Inutaisho non era salito al potere neanche da cinquant’anni, e gia in tutto Nihon le sue imprese erano raccontate come leggende, incantando i cuccioli, entusiasmando i giovani e provocando reazioni contrastanti negli anziani. La potenza dell’inuyoukai era riconosciuta da tutti, ma non sempre ne era approvata la mitezza. Inutaisho non si era certo risparmiato nelle numerose guerre che aveva sostenuto, ma non aveva mai dato prova di essere efferato e sanguinario. Non aveva mai mostrato di possedere la freddezza tipica dei demoni.

 

Kyoko lo sapeva. Conosceva le voci che circolavano sul conto del Signore delle terre dell’Ovest, del Primo della Famiglia, ma non ci aveva mai dato molto peso. Era un mondo troppo lontano dal loro per preoccuparsene, o almeno così lei aveva sempre creduto, finchè non era comparso Morigawa, con la ferma intenzione di non andarsene senza aver ottenuto una risposta definitiva: o l’alleanza o la guerra. Un ricatto, aveva pensato la yasha. Un ricatto bello e buono travestito da visita amichevole. Disgustoso. Eppure, l’idea di essere stretta fra due fuochi la eccitava. Le provocava brividi di piacere ogni volta che incrociava lo sguardo del demone. Non era una stupida: una guerra col regno dell’Ovest significava la fine della sua stirpe. Il clan di Inutasiho regnava incontrastato non solo nella Famiglia, ma deteneva anche la massima autorità nel Consiglio. Opporglisi sarebbe stato un suicidio. Tuttavia, neanche cedere e sottomettersi era una proposta così allettante.

 

Hidesuke, suo fratello, era propenso all’alleanza, ma lei non riusciva proprio a sopportare la faccia che Morigawa aveva quando trattavano l’argomento. Sembrava di sufficienza, soprattutto quando guardava lei. Era stata la sua solita impulsività a spingerla a sfidarlo, senza neanche ascoltare le rimostranze di suo fratello. Se Morigawa l’avesse battuta in un duello, Yezo e la sua stirpe avrebbe stretto l’alleanza, altrimenti, l’inuyoukai avrebbe dovuto rinunciare alle sue mire su di loro. Piano semplice. Conciso. Atterrare quello sbruffone in poche mosse, facendogli mordere la polvere, e poi vederlo andarsene con la coda fra le gambe e un pugno di mosche. Kyoko era certa che avrebbe vinto. Nessuno della sua gente era mai riuscita a batterla, tranne suo fratello durante la prova di successione. Ma in quell’occasione, Kyoko aveva trattenuto la sua forza, perché voleva che fosse il fratello a regnare, così da poter esser libera di andare e venire da palazzo senza l’assillo di impegni e restrizioni dell’etichetta. Aveva rinunciato al potere per ottenere una totale libertà, ma non aveva avuto alcuna intenzione di abbandonare la scena politica e militare.

 

E anche in quell’occasione, la sua cocciutaggine aveva prevalso. Salvo poi ritrovarsi a terra dolorante e sconfitta, con Morigawa che la inchiodava al terreno per le braccia, quasi completamente sdraiato su di lei. Kyoko aveva scalciato e si era dimenata in preda ad una furia folle, incapace di accettare l’idea di esser stata battuta e impossibilitata a sostenere il sorriso del suo avversario. Doveva essere proprio soddisfatto. Aveva vinto lui, maledizione! Non aveva risparmiato un insulto al sempre più divertito inuyoukai, investendolo di un colorito repertorio gergale che stonava terribilmente in bocca ad una hime come Kyoko. Uno sfogo, violento, almeno per salvare l’orgoglio. Uno sproloquio cui Morigawa aveva posto fine chiudendole la bocca con la sua, in un bacio appassionato. Al demone, in realtà, non era più importato nulla dell’ambasciata da quando l’aveva vista. L’aveva desiderata fin dal primo istante. Desiderio fisico, che però, con il tempo che aveva trascorso al palazzo di Hidesuke, aveva scoperto essere molto più profondo. Diverso. Aveva dovuto aspettare cinque mesi prima di riuscire a trovarsela di fronte da sola, ed erano al centro di un ring in terra battuta e paglia. Si era detto che l’avrebbe battuta, soddisfando il desiderio di Inutasiho, e poi avrebbe chiesto la mano di Kyoko secondo le regole e la buona creanza, ma quando si era ritrovato quasi disteso sopra di lei, mentre la yasha lo investiva di ingiurie, aveva mandato al diavolo i suoi buoni intenti e l’aveva baciata.

 

Kyoko si sfiorò le labbra in un gesto incosciente. Erano anni che suo marito non la baciava più, che non cercava la sua presenza, che non condivideva con lei i suoi pensieri. Erano anni che non cercava più il suo spirito, ma neanche il suo corpo. Morigawa le aveva preferito delle concubine, delle demoni anche di infimo livello. Forse anche delle ningen. E la cosa la disgustava. Lei era sempre la Signora del Kansai, la madre dell’erede al trono, ma ormai la sua presenza al fianco di Morigawa era di semplice apparato. Quasi umiliante.

 

Dopo l’esilio, si era dedicata solo a Shin. Poi, quando era di nuovo rimasta incinta, Morigawa sembrava aver dimenticato le ragioni della loro presenza sul continente ed era tornato il marito premuroso di una volta, l’uomo che l’aveva baciata al cospetto di tutta la corte su un ring di paglia. Eppure, era stata solo un’illusione. Dopo la nascita di Yashi, Morigawa si era lasciato a poco a poco avvolgere dal vortice della vendetta, prestando ascolto alle voci suadenti e serpentine che gli sussurravano all’orecchio di non ignorare la sua forza e la sua natura, che gli ricordavano come la sua stirpe non dovesse temere un confronto con quella di Inutasiho. E tutto quell’odio, quel rancore, ora avevano prodotto quell’assedio e la morte di Shin.

 

Kyoko sospirò, passando la pergamena a un portaordini che aspettava in piedi, a doverosa distanza e in rispettoso silenzio. Era fedele alla sua Signora, anche se aveva subodorato il fatto che era chiamato a tradire il suo Principe. Perchè era chiaro che il demone che avrebbe dovuto raggiungere non era quello che si sarebbe potuto definire un alleato di Morigawa. Hidesuke non aveva mai partecipato direttamente alle questioni dei demoni di Honshu, ma una chiamata della sorella lo avrebbe persuaso più di ogni altra cosa a lasciare la sua isola fredda e selvaggia e scendere con le sue armate a Sud.

 

“Ormai, dovrebbe essere vicino a Nikko. Non risparmiarti: dalla tua celerità dipende molto”

 

Il demone si inchinò profondamente e uscì. Non occorreva giurare: ce l’avrebbe messa tutta per non deludere la sua regina. E poi, da quello che aveva capito, quel messaggio conteneva la possibilità di vendicare la morte del Principe Shin. Un’occasione da non perdere, quindi. L’unica cosa importante era non farsi scoprire delle altre guardie e dai demoni di quel nuovo luogotenente. Una volta che fosse riuscito a uscire dall’accampamento e ad addentrarsi nella foresta, sarebbe stato al sicuro. E Nikko non distava più di una settimana, se correva al massimo, senza lesinare le forze e non si fosse mai fermato. Salvo imprevisti, in una settimana ce l’avrebbe fatta.

 

*****

 

Yashi si lasciò cadere sugli zafu, passandosi una mano fra i corti capelli biondi. Le punte irregolari spesso gli sfioravano la pelle, procurandogli un leggero e fastidioso solletico. Prima o poi, avrebbe dovuto regolare meglio quel taglio. Ma comunque, quello non era il momento migliore per pensarci.

 

Prima, sua madre aveva convocato lui e Koji, nel cuore della notte, per poi farli aspettare quasi mezz’ora. E infine, come se le rivelazioni di pochi giorni prima sulle vere origini del loro esilio e di quella guerra non fossero state abbastanza sconcertanti, ecco una nuova realtà affacciarsi alla sua mente. Qualcosa che lo toccava da vicino e di cui non si era mai accorto. Dannazione! Gli sembrava di esser stato catapultato in un altro mondo, dove le persone erano sempre le stesse, ma le situazioni contingenti lo lasciavano basito e sconcertato. Un punto fermo. Ci fosse almeno un maledetto punto fermo nella sua vita. Nulla, invece. Tutto quello in cui aveva creduto gli era scivolato fra le dita, sgretolandosi come un mero castello di sabbia.

 

Aveva misurato a grandi passi tutto il padiglione materno, in preda a sentimenti contrastanti e nuovi. Rabbia, frustrazione, sconcerto, sorpresa…Non era riuscito a definirne uno, ma sapeva che lo stavano dilaniando. Che lo avrebbero portato sull’orlo di una crisi isterica. Come una femminuccia. Davvero patetico. In quegli istanti, aveva rimpianto di non possedere la lucidità fredda ed analitica di Shin. Anzi, più semplicemente, aveva rimpianto di non avere il fratello accanto. Maledizione! Ne aveva già perso uno, di fratello, perché adesso avrebbe dovuto separarsi anche dall’altro? Perché?!

 

In realtà, Yashi era perfettamente cosciente che quella fosse la soluzione migliore e che Kyoko aveva rivelato loro anche quell’ultimo segreto perché era preoccupata e ormai era tempo di giocare a carte scoperte. Però, non gli andava giù. Ecco, lo aveva ammesso. Non si può far crescere tre ragazzi assieme, chiamandoli figli, far loro condividere gioie e dolori e poi, di punto in bianco, sbatter loro in faccia una realtà diversa da quella consueta.

 

Si chiamavano fratelli, e adesso scoprivano di non aver nessun legame di sangue. Si chiamavano fratelli, e scoprivano di appartenere a due stirpi diverse. Si chiamavano fratelli, e presto si sarebbero trovati costretti su fronti opposti a combattere l’uno contro l’altro.

 

Yashi girò appena la testa. Koji era stancamente appoggiato al tavolo, una mano a sostenere pigramente la testa. Sembrava non essere neanche presente realmente nella tenda. Lo sguardo vacuo indugiava sulle venature del legno, ma la mente era intrappolata molto lontano. Vagava fra sensazioni e ricordi di un passato lontanissimo. Sospirò, passandosi una mano sul viso stanco. Si sentiva mortalmente esausto. Quasi privato di ogni energia. Non poteva negare di aver avuto una strana sensazione la prima volta che aveva incrociato lo sguardo di quell’ookami, ma mai si sarebbe aspettato una simile realtà. Eppure, avrebbe ben dovuto accorgersi che le loro youki erano come entrate in risonanza, che si cercavano e si confondevano, ma senza un reale intento aggressivo. Aveva attribuito quelle sensazioni alla battaglia, all’eccitazione della lotta, e invece era un semplice richiamo. Il riconoscersi del sangue.

 

Fissò la propria mano, aprendola e chiudendola come a cercarne la presenza, a risvegliarla. Artigli. Lunghi e affilati. Inconsciamente, sfiorò con la lingua i canini appuntiti. Certo, erano zanne, le sue solite zanne, ma perché adesso gli risultavano così estranee? O meglio, perché adesso gli tornavano alla memoria mille piccoli particolari che non sembravano avere senso, e che invece acquistavano tutti un significato ovvio.

 

Il suo bisogno di evadere da un palazzo, la predilezione per la corsa, la passione per la caccia e il bisogno di sentirsi circondato da compagni fidati. Di sentire la presenza di qualcuno al fianco. Anche lo strano colore dei suoi occhi aveva adesso una spiegazione. Si era sempre chiesto perché mai la sorte aveva regalato ai fratelli gli occhi viola della madre, assegnando a lui quel colore azzurro. Per quanto ne aveva sempre saputo lui, nessuno degli inuyoukai del Kansai aveva mai potuto vantare un simile colore. E adesso che conosceva tutte le risposte, si trovò a desiderare che il tempo tornasse indietro e che la sua memoria venisse cancellata. Mille volte meglio vivere nell’incertezza, che dover affrontare il futuro che lo aspettava. Eppure, sapeva perfettamente che ormai non si poteva più cambiare nulla.

 

Era un ookami. Eccola, la verità. Nelle sue vene scorreva il sangue delle selvagge tribù dei lupi. Il loro sfrontato desiderio di libertà, il loro attaccamento al branco, la loro passione per le cacce veloci nei boschi. Era sempre stato bravo a seguire le tracce, più di Shin e Yashi messi assieme. Lo considerava il suo dono segreto, perché anche il fiuto dei fratelli era incredibile. In realtà, era semplicemente il suo naso ad essere per inclinazione genetica più sviluppato che quello dei fratelli.

 

Koji…”

 

Il ragazzo sorrise mestamente, passandosi una mano alla base del collo. Si sentiva un fascio di nervi, tanto era teso e confuso. Koji…Non era neanche il suo vero nome. Era quello che Kyoko gli aveva dato quando Takakuni lo aveva portato sul continente. Lo aveva trovato pesto e incosciente in una foresta, e lo aveva preso con sé. Quando si era risvegliato, dopo moltissimi giorni, era in un grande palazzo, con un bambino biondo della sua età che lo scrutava curioso. Yashi aveva strillato, quando lui si era ripreso, perforandogli i timpani. Bel modo di trattare i malati! A momenti lo assordava. Ma poi, lo aveva abbracciato, chiamandolo in quel modo. Fratello. Nella mente del bambino era passato un lampo veloce. L’immagine di un volto circondato da capelli neri. Aveva provato ad afferrare e definire quel lampo, ma una fitta alla testa lo aveva fatto desistere. E poi, quando Shin era entrato nella stanza, si era convinto che il volto che non riusciva a ricordare fosse il suo. Quello di suo fratello maggiore.

 

Che stupida ironia. Se solo Shin non avesse avuto i capelli di quel colore, probabilmente lui si sarebbe accorto prima delle differenze. No. In realtà, le differenze le aveva sempre notate, ma non ci aveva mai badato. Come non aveva mai dato peso all’odore diverso del suo corpo. Aveva un che di ferino, selvaggio. Qualcosa che non era affatto presente nell’odore dei fratelli. Lo aveva ignorato, dimenticandosene completamente. Vivendo costantemente con degli inuyoukai, anche il suo vero odore era sparito, confuso con quello dei demoni-cane. Tuttavia, ormai era inutile mentire a se stessi. Ormai, dopo il racconto di Kyoko, anche i ricordi bloccati nella sua mente erano riemersi, lentamente, dapprima a sprazzi, per poi trasformarsi in una marea che lo aveva sommerso.

 

“Ehi Koji!”

 

Si girò stancamente verso il fratello. Avrebbe voluto dirgli di smetterla di chiamarlo così. Non era quello il suo nome. Non era così che lo aveva chiamato suo padre quando era nato. Avrebbe voluto dirgli che era inutile continuare quella farsa, smetterla di trattarlo da fratello, quando ormai era chiaro a entrambi che nulla li legava, che erano solo due youkai che avevano vissuto un periodo della loro vita assieme. Ma nulla si più. Invece, non disse nulla. Inconsciamente, non si sentiva ancora pronto a lasciare il mondo in cui era cresciuto, per cercare una passato che lui ricordava, ma che forse a nessuno sarebbe interessato.

 

“Hai ricordato qualcosa?”

 

Gli occhi viola di Yashi. La stessa espressione di quel giorno lontano, quando quasi lo aveva assordato appena si era svegliato. Non sembrava esser cambiato nulla fra loro, eppure l’ookami avvertiva che si stava creando una frattura, che era lui a crearla, ma non riusciva a trovare la forza per fermarla, per impedire che avvenisse. Si limitò solo ad annuire, incrociando le mani sulle ginocchia. Adesso, avrebbe dovuto raccontar loro di quella famiglia che aveva dimenticato. Di un universo che gli era ancora nebuloso e lontano, ma che sentiva come suo. Lo avvertiva nel sangue.

 

“Forse, è meglio per voi non sapere…”

 

Yashi gattonò fino a lui, abbracciandolo da dietro al collo e strattonandolo verso di sé, quasi volesse soffocarlo. Aveva un’espressione fra l’arrabbiato e l’attonito che per un istante Kyoko ebbe il sospetto che lo avrebbe strozzato davvero se non si decideva a parlare. In fondo, il suo secondogenito era impulsivo e avventato quanto lei. Si rilassò quando sentì le parole offese e irritate di Yashi e trattenne un sorriso nel vedere che anche Koji rispondeva alla provocazione, come facevano sempre quando litigavano; solo che lei non aveva la minima intenzione di intervenire questa volta.

 

“Ma sei scemo?!” urlava intanto Yashi all’orecchio del fratello, che cercava di allentare le presa, per altro non particolarmente pericolosa, attorno alla sua gola. “Si può sapere cos’hai nel cervello? Segatura?! Cos’è questo discorso che noi non dovremmo sapere?”

 

Yashi! Ti decidi a lasciarmi? Ma non capisci che lo faccio per voi? Io…”

 

“Tu sei e resti mio fratello” lo zittì Yashi, mollando all’improvviso la presa finalmente conscio di cosa avesse torturato le mente e il cuore di Koji fino a pochi istanti prima. Ma si era bevuto il cervello? Che razza di discorsi, faceva. Come se un altro nome, l’appartenere ad un’altra tribù, l’esser un lupastro invece di un inuyoukai lo cambiasse. Idiozie. Koji restava sempre Koji. Con qualunque nome e sotto qualunque forma. Era con lui che aveva passato l’infanzia e l’adolescenza, era con lui che aveva ordito scherzi e burle, che era andato a caccia e che aveva beccato punizioni per le loro scappatelle. Era con lui che aveva imparato a combattere e con cui si era allenato. E questo non sarebbe mai cambiato.

 

“E se adesso hai finito con le tue sciocchezze, vedi di sputare il rospo. Io sono curioso!”

 

Koji si massaggiava ancora intontito la gola. Certo che quando voleva, suo fratello non ci andava tanto per il sottile. Lo aveva quasi strozzato davvero; adesso un bel livido non glielo toglieva nessuno, almeno per un quarto d’ora. Gli fece una smorfia offesa e si voltò verso…Poteva ancora chiamarla madre? Il sorriso incoraggiante di Kyoko dissipò i suoi ultimi dubbi. Prese un respiro profondo e, lanciando un’occhiata in tralice a Yashi, seduto ancora troppo vicino a lui, inizio a parlare.

 

“Per prima cosa, ho ricordato il mio nome…”. Una breve pausa, prima di dirlo d’un fiato. “Nijiya

Poi, raccontò di come, dopo un litigio, si fosse allontanato nella foresta per allenarsi da solo e andare a caccia. In preda alla rabbia, si era spinto molto lontano dalla tana del branco, fin a trovarsi completamente disorientato e in una zona della foresta che non aveva mai esplorato. Era stato mentre cercava una soluzione al guaio in cui si era cacciato che era stato attaccato. Paradisee. Demoni da sempre nemici degli ookami. Senza neanche rendersene conto, era finito nel loro territorio. Aveva provato a combattere, ma poi aveva dovuto ripiegare sulla fuga, sopraffatto.

 

“Sei fuggito?!” lo interruppe incredulo Yashi. A quel che ne sapeva lui, suo fratello era capace di morire mordendosi la lingua, piuttosto che voltare le spalle a un nemico che ancora respirava.

 

“Ero un cucciolo!” cercò di giustificarsi Koji. “E loro era tanti e agguerriti. Avrei voluto vedere te al mio posto! Se volevo salvare la pelle l’unica era dimenticare l’orgoglio e darsela a gambe. Non ne sono fiero, sai?!

 

Yashi alzò le mani in segno di resa e il fratello potè riprendere a raccontare con un sospiro rassegnato. A volte, aveva l’impressione che Yashi lo stuzzicasse apposta per fargli perdere le staffe e si divertisse nel vederlo arrabbiato.

 

“Comunque, prima che tu mi interrompessi,”riprese lanciandogli un’occhiata torva “stavo per dire che mi stufai ben presto di scappare”

 

“Ah, ecco! Mi sembrava strano!”. Un leggero colpo costrinse di nuovo Yashi al silenzio, e mentre il demone si massaggiava la parte offesa, Kyoko ritornava a sedersi con una pazienza davvero incredibile. Possibile che quei due non crescessero mai? Yashi poi era sempre pronto allo scherzo e alla battuta. S’infiammava per un nonnulla, ma al contempo era lesto nel rimbeccare ad un’offesa. E poi, se era convinto di aver ragione, era capace di tenere il broncio per giorni. Tuttavia, in quel momento Kyoko non potè che rallegrarsi del comportamento del figlio. Koji forse non se ne era accorto, ma lei aveva visto l’ombra scura che attraversava le iridi di Yashi. Forse per la prima volta, il demone stava fingendo la sua allegria, per sdrammatizzare la situazione e non farla pesare eccessivamente a Koji. Benché fra loro l’affetto non potesse mutare, qualcosa sarebbe inevitabilmente cambiato. Per uno strano accostamento, Kyoko si trovò a ricordare un atteggiamento simile a quello di Yashi. Morigawa assomigliava al figlio in modo impressionane da quel punto di vista. Quando loro due litigavano, da giovani, spesso ci voleva l’intervento di Inutaisho per riportare la pace. Anche se, a ben pensare, l’unico non incline a stuzzicare gli altri era solo Kumamoto. Quando ci si mettevano, Inutaisho e Hodoshi erano ancor più insopportabili di Morigawa. E la ciliegina sulla torta era quando litigavano fra di loro, tutti e tre. Erano imprevedibili: capaci di ignorasi altamente per giorni, anche settimane, o di ammutolirsi all’istante nel bel mezzo della discussione, guardandosi negli occhi per poi scoppiare a ridere.

 

Kyoko si accorse del silenzio nella tenda e degli sguardi preoccupati dei figli. Si era rifugiata nei suoi ricordi e loro se ne erano accorti. Fece un segno leggero, a minimizzare l’accaduto, e tornò ad ascoltare Koji, che riprese a spiegare come, alla fine, fosse riuscito sì a eliminare tutti gli inseguitori, ma ne era uscito così malconcio da non accorgersi neanche di essere ormai vicino allo strapiombo. L’ultimo ricordo, era l’eco della sua stessa voce mentre cadeva.

 

“L’ho sempre detto, io, che tu hai la testa dura! Cadi da uno strapiombo e il massimo che ti tocca è una piccola amnesia. Ma si può esser può fortunati?”

 

Koji rispose per le rime, piccato. Una fortuna?! Era quasi morto sfracellato, e suo fratello diceva che era una fortuna? Con Yashi era pressoché impossibile fare un discorso serio. Ci infilava dentro sempre qualche battutina. Era praticamente un caso senza speranza.

 

“E della tua famiglia? Non ricordi nulla?”

 

Koji scacciò l’insulto che gli era salito alle labbra e si voltò verso la madre, deglutendo rumorosamente. All’improvviso, si sentiva la gola secca e aveva perso tutta la sua baldanza. Poteva dirglielo? Poteva dare quel dolore a sua madre? Perché, in fondo, la domanda di Kyoko era precisa: voleva sapere i nomi dei suoi genitori. Ecco, cosa voleva.

 

“Sì…”. Inutile mentire, lo avrebbe capito subito. Però, sentiva i polmoni in debito di ossigeno anche se continuava a prendere respiri profondi. L’ansia gli era ormai salita al cervello, facendogli sfuocare le immagini e costringendolo a scaricarla contorcendo un lembo del karingiru che indossava, fino a lacerarlo senza neanche accorgersene.

 

Hidoshi”sussurrò appena. “Hidoshi è il nome di mio padre” ripetè più forte. Kyoko sbiancò in volto. Il figlio di Hidoshi…Davvero il suo Koji, il cucciolo di lupo che aveva allevato, era il figlio di un suo caro amico? Che potesse esser imparentato con l’ookami e quindi anche con il giovane Principe degli Yoro che adesso combatteva con Sesshomaru, lo aveva pensato dal colore delle sue iridi. Quella tonalità forte, quasi violenta di azzurro, era tipica del clan egemone degli ookami. Ma non aveva mai pensato ad una discendenza diretta.

 

“Ma allora…Quel lupastro che combatte con Sesshomaru è tuo fratello?” riuscì a biascicare Yashi, boccheggiando per la sorpresa e al contempo il sollievo di non averlo mai avuto sotto gli artigli. Se fosse morto, in quel momento il fatto di ricordare avrebbe distrutto totalmente Koji. Bastava aver già perso un fratello, anche se non di sangue.

 

“Esatto”annuì piano, per poi ripensare un istante alla frase del fratello “Ehi! Com’è che lo hai chiamato?!

 

La discussione si riaccese, ma Kyoko non ci badò nemmeno. Figlio di Hidoshi…Figlio di Hidoshi…Non riusciva a pensare ad altro e al modo per farlo andar via dal campo. Ora più che mai non voleva che venisse coinvolto in quell’inutile guerra.

 

<Hidesuke fosse già qui…>>

 

Aveva mandato a chiamare il fratello proprio per poter metter fine a quell’inutile massacro. Stretto fra due fuochi, Morigawa sarebbe stato costretto a capitolare. Definitivamente. Allora, col Sensei, avrebbero cercato un’altra soluzione. Anche drastica questa volta. Ma almeno definitiva.

 

*****

 

Lo scheletro del torii si intravedeva appena, seminascosto dalla vegetazione secca e brulla dell’inverno. Un groviglio di ramaglie grigie e fragili, rinsecchite dal freddo. Sembrava uno spettro funesto, ricordava una grandezza ormai lontana. Il bel rosso acceso che un a volta gli era appartenuto era naufragato nel tempo, lasciando il posto ad un colore scuro e annerito. Bruciato.

 

Yaone sospirò leggermente, mentre chiudeva gli occhi e respirava l’aria fredda della notte. In quella radura regnava un silenzio che non era neanche immaginabile al campo di Morigawa. Una quiete totale, quasi mortuaria. Si ritrovò a ridacchiare, con autocommiserazione. Quel posto aveva proprio tutto l’aspetto di un cimitero, con la nebbia leggera che strisciava fra le foreste di bambù. Quale ironia. Lei che voleva la morte, lei che aveva sempre cercato di morire, camminava da viva in quel luogo.

 

Quel luogo…assomigliava molto ad un altro, della sua memoria. Alla radura che celava l’ingresso a quel tempio, forse l’unico che gli youkai avessero mai eretto. Sempre se effettivamente lo si potesse chiamare tempio: nella sua mente, la yasha riedificò una fortezza, chiusa fra cinta murarie a ventaglio e stagliata verso il cielo, in un sovrapporsi di materiali e stili architettonici. Antica. Molto antica. Quanto lei. Più di lei. Anni…Erano passati anni, secoli, da quando era stata cacciata da quel luogo, per i suoi esperimenti eretici. Quegli esperimenti che l’avevano portata ad essere quello che era. Un qualcosa che non è vivo né morto. Un qualcosa che respira, il cui cuore batte, ma che non prova nulla, che è vuoto dentro.

 

Si era condannata. Da sola. Per la sua caparbia cocciutaggine. Glielo avevano detto che un simile esperimento era assolutamente pericoloso, oltre che proibito. Non è concepibile mescolare l’alchimia alla purezza dello youki. Un’azione infamante e che poteva provocare disastrose conseguenze, sconvolgere equilibri millenari. E poi, lei era ancora un’apprendista, troppo piccola anche solo per concepire un simile piano. Figurarsi, metterlo in pratica. Avrebbe dovuto limitarsi a continuare i suoi esercizi spirituali, come ogni bravo discepolo, accrescendo il suo youki con l’esercizio e la meditazione. Solo la profonda e completa conoscenza di se stessa le avrebbe dato tutto il potere che sembrava così impaziente di possedere, per cui era anche disposta a ricorrere alle arti proibite.

 

Yaone si concesse un sorriso stanco. Nessuno aveva mai capito il reale motivo del suo interesse. Ampliare il proprio youki? Certo, era allettante come prospettiva, ma non era il suo vero obiettivo. Era l’ignoto a interessarla, l’ambiguo, il proibito. Yaone era attratta dall’alchimia, da quella scienza capace di creare fuoco e ghiaccio dal nulla senza ricorrere a nessun potere demoniaco, per il semplice fatto che sfuggiva alla sua comprensione. Sapeva che era proibito. Che mescolare le due tecniche poteva portare a gravi conseguenze, ma non le importava. Lei voleva sapere. Voleva conoscere. Voleva provare.

 

Non aveva mai posto un limite al suo desiderio di conoscenza. Appena veniva a contatto con qualcosa di nuovo, si tuffava a capofitto nello studio per approfondirla. Ma come era nato in fretta, il suo entusiasmo scemava altrettanto velocemente sostituito da una nuova passione, da un nuovo interesse. Aveva raccolto informazioni molteplici e disparate, senza mai preoccuparsi di articolarle in maniera coerente. Sentiva solo che prima o dopo tutta quella marea di nozioni le sarebbero tornate utili, le sarebbero servite a definire il senso di inquietudine che avvertiva da sempre nel suo animo. E alla fine, le sue previsioni si erano rivelate esatte.

 

Quando aveva scoperto l’alchimia, tutto quello che aveva studiato si era rivelato estremamente prezioso. Aveva un controllo totale sul proprio youki, e riusciva a scandagliare nel profondo ogni anfratto del suo potere. Non aveva poteri particolari, ma aveva dalla sua un’intelligenza fine e scattante, e la capacità, che affinava col tempo, di agire sul sistema vitale altrui tramite la sua aura demoniaca e le sostanze chimiche. Aveva passato anni dedicandosi a sviluppare quelle capacità, fino all’ultimo esperimento.

 

La yasha chiuse gli occhi, mentre si sfiorava con la mano il plesso solare. La pelle era intatta, e nulla lasciava immaginare quello che era accaduto. Un altro vantaggio dell’esser youkai. Se si è feriti le cicatrici non rimangono se non in casi rarissimi. Una piccola risata. Lei era uno youkai? Poteva ancora definirsi tale? Oh, certo! I suoi poteri e l’aura demoniaca li aveva conservati, addirittura accresciuti, ora era in grado di dare la vita e toglierla semplicemente con lo sguardo. Ma per il resto…non era vivente, ma non era neanche morta. Respirava, il suo cuore batteva, ma nelle sue vene non scorreva più una goccia di sangue. Ricordava bene le sensazioni che aveva provato mentre il sangue le fuoriusciva lento dallo squarcio sul petto. La sua vita che se ne andava lentamente, mentre il suo corpo era scosso da tremiti e convulsioni. Aveva assistito alla sua lenta agonia come se non riguardasse lei stessa. Non aveva provato dolore, non aveva provato sofferenza. Nulla. Attraverso le percezioni confuse, aveva rappresentato nella sua mente l’immagine miserevole del suo corpo ormai prossimo alla fine. Riverso a terra, a coprire il suo stesso sangue che andava a cancellare i simboli alchemici tracciati sul pavimento, con le mani vischiose ancora strette all’elsa del tanto. Di quel maledetto pugnale.

 

Aveva voluto provare; superare i limiti con un esperimento che l’avrebbe resa pari a un kami, se fosse riuscito. Non le importava nulla del potere che ne avrebbe potuto trarre. Il solo pensiero di riuscire a entrare nel buio della morte con piena coscienza per poi ritornare alla vita le sembrava sufficiente. Un pensiero che la eccitava, la entusiasmava. Aveva tracciato cerchi e ideogrammi in una simbologia antica e quasi dimenticata, prodotto di menti umane di cui si era persa la memoria, e vi aveva aggiunto il suo sangue puro di demone. Aveva stretto il tanto demoniaco, ricavato da zanne pregne di youki e lo aveva cosparso di un estratto chimico che avrebbe dovuto indurle una morte temporanea. Ebbra di eccitazione, Yaone si era denudata il seno in una danza lenta e sconvolgente, che l’aveva portata ad accasciarsi a terra su se stessa, quasi prosciugata delle sue forze, mentre una luce verde si sprigionava dall’inchiostro e dai simboli corrotti. Solo quando ormai i contorni erano irriconoscibili per l’intensità di quella luce, la yasha aveva sollevato il pugnale, conficcandoselo in petto con un grido rauco e gutturale. Disumano. Mentre contorceva le mani artigliate e arricciava le labbra a mostrare le zanne sempre più propense ad allungarsi.

 

Di quello che era successo dopo, Yaone conservava solo una memoria confusa. Era stata come catapultata in un frenetico tunnel di luci e ombre, dove immagini confuse saettavano davanti ai suoi occhi. Il passato e probabilmente il futuro. Non era riuscita ad afferrare nulla di tutto quello che aveva visto, eppure aveva piena coscienza del fatto che avrebbe ricordato ogni cosa mano a mano che le si sarebbe presentata. Sentiva la testa pulsarle selvaggiamente, intenta ad immagazzinare la grande quantità di nozioni cui era sottoposta. L’onniscienza propria dei kami, il sapere assoluto e totale proprio solo degli dei si stava riversando in lei con forza. Troppa, perché anche il suo corpo di youkai potesse sostenerla. Aveva cercato di spezzare il contatto. Ma qualcosa non andava. Era come incatenata in quel limbo. Costretta a ripiegarsi costantemente su se stessa. Ansante, dilaniata.

 

Non avrebbe mai saputo dire come, ma si era ritrovata a fissare le ombre inquietanti del soffitto della sua stanza, mentre avvertiva il sangue scivolare dalla ferita al petto, fra le pieghe della pelle e l’acciaio demoniaco del pugnale. Eppure, non aveva voluto morire. Aveva ancora così tanto da sperimentare, da vedere, da studiare. Non aveva voluto morire. Yaone scostò appena i lembi del kimono, mettendo in mostra uno strano tatuaggio. Irregolare, sembrava esser stato tracciato sulla sua pelle col sangue e gli artigli. Una smorfia le storse la bocca mentre ne seguiva i contorni. Quella era stata l’unica cosa che le fosse venuta in mente in quel momento. Legare la sua anima e la sua essenza youki ad un oggetto e poi innestarlo nel suo corpo. Ecco cosa aveva fatto. Si era trasformata in uno shikigami. O in qualcosa di molto simile.

 

Un leggero fruscio la costrinse a ritornare alla realtà. Aveva avuto la sensazione che ci fosse qualcuno, che fosse osservata. Spaziò con lo sguardo la vegetazione circostante, tendendo al massimo i sensi acuti. Se ci fosse stato qualcuno, lo avrebbe individuato e ucciso prima che potesse anche solo pensare di avvicinarsi. Il suo udito fine catturò un lieve fruscio, prodotto dal vento leggero che le carezzava il viso. Poi, un fremito più forte, fra le fronde rinsecchite di un cespuglio. Scattò senza pensare, l’occhio nero rilucente di potere, e calò sulla vittima. La volpe perì immediatamente sotto il suo tocco, prosciugata della sua energia vitale, e rimase a terra immobile e rigida. Yaone si risollevò con un sospiro quasi scocciato. Era molto tesa in quei giorni, e bastava un nonnulla a farla innervosire e scattare. Non temeva la morte, ma non ammetteva che qualcuno osasse sfidarla. Forse, erano proprio quei lati contrastanti del suo carattere la causa del suo dolore. Voleva morire, ma non riusciva a trovare nessuno degno di ucciderla.

 

Riportò la sua attenzione sulla piccola vittima e con espressione neutra si chinò su di lei. Il suo occhio verde sfavillò, mentre lei accarezzava il pelo della volpe. Era così morbido e lucido. Ancora caldo. Dopo pochi istanti, la volpe ebbe un leggero fremito, per poi riprendersi completamente e scartare lontano dalla mano che l’accarezzava. Pericolo. Questo doveva esser passato nella sua mente. E l’istinto l’aveva portata ad allontanarsi. Puro istinto di sopravvivenza. Yaone la vide ringhiare leggermente, mostrando le zanne, e i suoi occhi sfavillare nel buio, prima che si allontanasse. Sapeva che non avrebbe mai potuto ferire un demone, ma non voleva certo mostrarsi debole.

 

La yasha ridacchiò rialzandosi in un fruscio di seta. Quella volpe le assomigliava. Astuta, incapace di rassegnarsi ad una sconfitta, ad una realtà diversa da quella che lei voleva. Scosse la testa, voltandosi per tornare al campo. Orami, la sua assenza rischiava di essere notata ed era meglio non alimentare malumori e tensioni. E poi, doveva accertarsi che tutto fosse pronto. Aveva impiegato molto tempo a organizzare tutto, soppesando ogni cosa con meticolosità e attenzione. Non era certo il caso di farsi prendere dalla fretta e rovinare l’unica occasione possibile. Perché, se avessero fallito, Yaone era perfettamente consapevole che una seconda opportunità non si sarebbe più presentata, e lei voleva quella ningen. Voleva l’unica che fosse riuscita a creare un antidoto al suo filtro, anche se non sempre efficace. La stuzzicava, la intrigava. Quella donna doveva avere delle conoscenze a lei oscure o qualcosa che le aveva fatto intuire cosa usare. E poi, sarebbe stati un ostaggio prezioso, un ottima merce di scambio. In questo modo, sarebbero stati raggiunti due obiettivi: lei avrebbe potuto fare le sue domande, e Morigawa avrebbe avuto in mano un efficace mezzo di ricatto, sempre se fosse stato possibile che il Principe dell’Ovest fosse realmente interessato a quella ragazza. Però, in definitiva, quel dato era irrilevante. Sesshomaru non avrebbe mai tollerato un simile affronto e anche solo per l’avare l’onta di esser stato ingannato e di aver visto la sua dimora violata, avrebbe reagito e giocato il loro gioco. Senza contare che, alla fine, la ragazza sarebbe stata preda di Kagura. Era l’unica condizione che la signora del vento aveva posto per il suo aiuto: dopo che il ruolo della ragazza fosse divenuto insignificante, sarebbe stata sua. Yaone non sapeva il motivo di quell’accanimento, ma lo aveva avvertito chiaramente quando Kagura le aveva fatto la proposta. Odio puro. Le aveva fatto fremere le mani e digrignare i denti in un ringhio ferino.

 

Scrollò le spalle. Non le interessavano le motivazioni della yasha. L’unica cosa che volesse, era carpire a quella ningen alcune informazioni. Per il resto, non le interessava nulla della sua sorte, come non le interessava affatto quella guerra. Si era messa al servizio di Morigawa perché il demone era stato disposto a fornirle il necessario alle sue ricerche, senza remore né restrizioni. In cambio, doveva solo informarlo di qualsiasi scoperta utile contro gli youkai in battaglia. Come quel suo derivato che li prosciugava del loro youki.

 

Si voltò scuotendo il capo, pietrificandosi sul posto. A pochi metri da lei, avvolto dalla nebbia lattiginosa, c’era un uomo. Dannazione! Aveva avuto ragione, allora: c’era davvero qualcuno che la spiava. E quella maledetta volpe le aveva fatto abbassare la guardia. Un errore imperdonabile. Anche se sapeva di non poter morire per una semplice ferita o per il veleno di un demone, il fatto di essersi lasciata sorprendere in modo così ingenuo la faceva infuriare. Ma perché non si era accorta prima di quello sgradito visitatore? Non sembrava provenire nessuna aura demoniaca da lui. Forse si trattava di un ningen; però non riusciva a capire cosa ci potesse fare un essere umano nei territori del Signore dell’Ovest. Nei suoi diretti possedimenti, e con un assedio in corso per di più. Socchiuse gli occhi, cercando di definire il suo viso. Le nubi che avvolgevano la luna permettevano che filtrasse solo una debole luminescenza, appena sufficiente a meglio delimitare le masse, ma senza permettere di disegnare i contorni.

 

“Non sei cambiata, Yaone…”

 

Quella voce…quel timbro basso, vibrante…Possibile che fosse la sua voce? La voce di quella persona? Erano secoli che non la sentiva, ma non l’aveva mai dimenticata. Un tono carezzevole, con una punta di ironia e sorriso. Anche quando si trattava di affrontare argomenti seri, quel tono non veniva mai abbandonato. Ma non poteva essere lui. Lui doveva essere ormai morto. O comunque essere molto anziano. La youki che proveniva da quel corpo, e che adesso riusciva a distinguere chiaramente, era invece vibrante e forte. Sempre più potente, e continuava a crescere, anche se non mostrava alcun intento aggressivo.

 

Sentì una breve risata sarcastica. Di autocommiserazione, e lo vide avvicinarsi, permettendo alla fioca luce di meglio colpire il suo viso. Dalle ombre della notte emerse la figura di un anziano demone, con il corpo asciutto e le membra rinsecchite, e uno sguardo malizioso. Quasi divertito. Il Sensei si stava gustando la sorpresa che lentamente si faceva strada nello sguardo della yasha. Yaone…Bellissima, come l’ultima volta che l’aveva vista, prima che lasciasse il tempio dove avevano studiato assieme. Prima che fosse scacciata e dovesse iniziare a peregrinare senza meta, bollata come eretica. Avrebbe voluto seguirla, ma non lo aveva fatto. L’aveva lasciata andar via, accompagnandola con lo sguardo finchè la sua figura non era scomparsa all’orizzonte.

 

Destino beffardo. L’aveva cercata a lungo, in seguito, e adesso l’aveva ritrovata. Al servizio di un suo allievo. Schierata contro di lui. Nemici come non lo erano mai stati. Identica a quel giorno lontano secoli. Giovane, affascinante, nel pieno della sua bellezza. Che contrasto pietoso in relazione al suo copro ormai vecchio e stanco.

La vide portarsi una mano alla bocca socchiusa per lo stupore. Quanto aveva desiderato quella bocca, quando erano assieme al tempio? Quante volte avrebbe voluto far tacere i suoi deliri alchemici con un bacio? Già allora lui non disprezzava i sentimenti e le inclinazioni umane che esistono anche nel cuore dei demoni. Ed erano stati quegli stessi sentimenti a dissuaderlo, perché ancora troppo inesperto di essi per capire se quello che provava andava oltre la mera attrazione fisica.

 

Ashitaka…?”

 

Un mormorio stretto in gola. Possibile che fosse davvero lui? Che quel corpo raggrinzito nascondesse uno dei demoni più potenti mai comparsi sulla terra? Il suo vecchio amico? No. Era un trucco. Un fantasma della sua mente. Forse la trappola di un qualche servitore di Sesshomaru per confonderla e poi catturarla.

Lo vide abbozzare un sorrisetto malinconico, simile ad una smorfia. Lo stesso modo di arricciare le labbra, di socchiudere gli occhi quando era infastidito o contrariato. Lo stesso atteggiamento. Non poteva essere solo una menzogna. Non poteva essere solo un simulacro.

 

“Era da molti secoli che nessuno pronunciava più il mio nome”

 

Certezze. Ora le aveva. Era davvero lui. L’unico che non l’avesse mai rinnegata. L’unico che, anche dopo la cacciata, non avesse mai ritrattato la loro amicizia. Sfidando tutte le leggi e le convenzioni che vigono anche fra i demoni. Gli si avvicinò sfiorandoli il viso rugoso, avvertendo la pelle secca e tirata. Ma era davvero impossibile sbagliarsi. In quegli occhi ora seri ora smaliziati vedeva lo stesso sguardo di allora. La stessa ombra potente e indomita.

 

“Sei invecchiato…” sussurrò con un sorriso fra il divertito e il malinconico. Anche invecchiare era una condizione che le era preclusa. Lei sarebbe per sempre rimasta così, uguale alla notte di quell’esperimento. La notte in cui aveva cessato di vivere, pur senza morire. Smarrita nelle sue memorie, si avvide troppo tardi delle mani che erano scivolate sul suo petto, fino ai lembi del kimono e che le avevano fatto scivolare la stoffa preziosa, mettendole a nudo quasi completamente il seno. Non se ne era accorta, se non quando aveva avvertito il freddo della notte sulla pelle e l’incupirsi dello sguardo di Ashitaka. Un brivido la colse, ma non per la temperatura rigida. Non avvertiva più nulla attraverso la pelle che non fossero sensazioni distorte, echi lontane delle capacità sensoriali del suo corpo. Il brivido glielo aveva dato quello sguardo. Dolente.

 

“È questo che sei diventata…”

 

Sfiorò il tatuaggio con le mano, seguendone i contorni con delicatezza, quasi col timore che potesse produrle dolore. Uno shikigami. Yaone aveva fatto di se stessa marionetta e burattinaio. Probabilmente, il conduttore era all’interno del suo corpo. Una qualche tessera che recava lo stesso simbolo e che legava la sua natura demoniaca ad un corpo ormai vuoto. Ad una insieme di carne e vasi sanguigni ormai vuoti e privo di calore. Ora aveva senso tutto quello che gli era stato raccontato: la demone che non moriva mai e che non sanguinava…Ora aveva una spiegazione logica ogni frammento di dialogo raccolto. Non si può uccidere chi è già morto. E soprattutto, non si può uccidere chi lega se stesso con l’alchimia a un corpo.

 

“Era l’unico modo per continuare a vivere!”

 

Yaone si liberò dalle mani del Sensei con uno scarto rabbioso. Cosa ne sapeva lui? Era venuto a giudicare il suo comportamento, forse? Lo sapeva che aveva fatto una cosa proibita e che era quasi morta. Anzi, che era morta. Non si era mai chiesto come mai poi si fosse rialzata da sola da quel pavimento, appena un po’ affaticata nonostante la grandissima quantità di sangue perso? Non se l’era mai chiesto?! Cosa credeva? Neanche a lei interessava più vivere. Ormai, aveva visto abbastanza, e quella che inizialmente le era sembrata la condizione ideale, si era rivelata un peso insostenibile nel tempo. Quel marchio e la sua stessa natura la rendevano la prova vivente dell’errore perpetrato. C’era un solo modo per metter fine a quella condizione: distruggere il conduttore nel suo corpo. Ma lei aveva provveduto a fornirgli una potentissima barriera, quando lo aveva innestato. E nessuno, nemmeno lei poteva più rimuoverla. Ecco perchè le serviva la sfera. Ecco perché le bastava esprimere un desiderio. Uno solo. Avrebbe chiesto che fosse distrutto il conduttore nel suo corpo.

 

Ashitaka subì la sfuriata senza ribattere. Probabilmente, Yaone aveva sempre aspettato qualcuno contro cui vomitare la sua rabbia e la sua frustrazione. E lui era l’unico di cui si fidasse. Anche a distanza di molti anni. Ma, benché comprendesse il suo desiderio, non poteva permetterle di rovinarsi fino a quel punto e, se davvero voleva esser cinico, non poteva permettere che Morigawa avesse un alleato così pericoloso. Aveva capito che si trattava di lei fin dal primo giorno in cui era arrivato al palazzo di Sesshomaru, esaminando le ferite per cui erano morti molti demoni. La ningen, l’archiatra, era stata brava a trovare un modo per arginare il composto chimico, anche se non aveva sempre effetto. Tuttavia, il problema doveva esser risolto alla radice, o si sarebbe giunti alla disfatta del Signore dell’Ovest, e lui non lo poteva permettere.

 

“Vieni con me”

 

Non era una domanda. Era un’affermazione precisa, che si era insinuata nella fiumana di parole arrabbiate e sconclusionate di Yaone, zittendola. Le stava dicendo di lasciare tutto e passare dalla parte del nemico. Di tradire il suo obiettivo di impadronirsi della Sfera e di accettare le umiliazioni cui la corte fiera degli inu-youkai l’avrebbero sottoposta. Doveva essere impazzito, o forse non rendersi perfettamente conto della situazione. Rise; una risata roca e amara. Già…in fondo, cosa ne poteva sapere lui, di quello che si prova nell’essere l’esempio vivente di un’azione proibita? Lui era il Sensei, il demone più importante fra tutti, il detentore di una saggezza antica e intoccabile. Lei era perfetto nella sua condotta. Irreprensibile.

 

“Non farmi ridere…Sesshomaru non mi accetterebbe mai alla sua corte”. Una smorfia. “E poi, lì non c’è nulla che mi interessi…”

 

“Tenseiga”

 

Yaone bloccò a metà il suo gesto, incapace di andarsene come aveva deciso. Pietrificata da quella sola parola. Conosceva di fama la spada del regno del cielo, capace di ridare la vita a cento creature con un solo colpo, ma sapeva anche che ci volevano sentimenti umani per esser capaci vedere i servitori dell’aldilà. E Sesshomaru, l’orgoglioso Signore dei demoni, non poteva di certo possederli. La sua crudeltà e la sua freddezza erano note in tutto il Nihon e anche in Zougo ne era giunta l’eco. Anche se la spada si trovava a portata di mano, non le sarebbe servita nulla.

 

“Il ragazzo ha imparato a usarla”

 

Aggiunse il Sensei, intuendo i suoi pensieri e cercando nuovamente di convincerla. Se fosse riuscito a portarla a palazzo, avrebbe di molto intaccato la forza offensiva di Morigawa e c’era la possibilità che la yasha potesse guarire il Principe dalla cecità che un suo stesso ritrovato gli aveva provocato. Per quanto riguardava il desiderio di Yaone, poi, ci avrebbe pensato lui a convincere Sesshomaru a non impuntarsi e a cedere. A costo di prenderlo a schiaffi. Comunque, pensava ormai di sapere come prendere il figlio di Inutaisho. Aveva fatto pratica con la cocciutaggine paterna, ormai.

 

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Capitolo 41
*** 41. CONFIDENZE ***


Carissime lettrici e carissimi lettori,

Carissime lettrici e carissimi lettori,

 

rieccomi a voi. Vi ringrazio infinitamente per la pazienza che mi mostrate. Dunque, ormai siamo in dirittura di arrivo: quarantunesimo capitolo. Ne mancano pochi. Finalmente, direte voi. Già: dopo quasi un anno, finalmente questa prima parte si avvia alla sua conclusione. Un epiglogo che però è ben lungi dall'essere totale e che prima dovrà passare fra molte sofferneze, violenze, costrizioni. Ma anche fra amore e snesualità. Eh sì. Avete capito bene. Sensualità...Ma come e fin dove, questo non dipenderà da me: in fondo, spetta a Sesshomaru e Alessandra stabilire ritmi e tempi, no?

 

Per il momento, gustatevi questo capitolo: è uno delgi ultimi relativamente tranquilli. Ma presto, molto presto, le vicende subiranno una brusca impennata.

 

A presto, e grazie infinite a tutti coloro che mi leggono e commentano. La vostra genitlezza è immensa.

 

Un abbraccio,

 

Avalon

 

 

 

 

 

CAPITOLO 41

CONFIDENZE

 

 

Incoscienza.

Lo aveva permeato a lungo. Per moltissimi giorni. Lo aveva gettato in un limbo buio e agitato, in cui fluttuavano immagini, sogni, illusioni, incubi. Avrebbe voluto svegliarsi, ma non ci riusciva; non era neanche certo se stesse semplicemente dormendo, o se invece quello fosse il destino che lo attendeva oltre la morte. Non sapeva nulla. Non voleva sapere nulla. Si dava del vigliacco, ma una tale frustrazione lo assaliva al pensiero di aver sempre fatto il gioco di suo padre, di aver sempre ignorato la verità e di essersi lasciato plasmare come meglio conveniva, che l’idea di lottare per cambiare quella sua situazione di totale e straniante sospensione era subito accantonata. In quello stato, almeno, non avrebbe dovuto vedere nulla di ciò che lo disgustava, non sarebbe stato costretto a battersi per motivi futili e a lui totalmente estranei. Avrebbe continuato a vagare. Abbandonato a se stesso. Naufrago forse della propria mente, forse di un universo che non gli interessava conoscere, avvolto da spire nere e fredde.

 

Strinse appena gli occhi, senza quasi accorgersi del passaggio dall’incoscienza alla veglia. Era tornato. Riemerso da quel suo stato catatonico senza aver coscienza di essersene lentamente allontanato. Forse qualcuno lo aveva chiamato, forse era stato il suo innato istinto di sopravvivenza a impedire al suo corpo di cedere, benché l’animo fosse provato a tal punto da non desiderare altro che l’oblio. Eppure, la rassegnazione non gli era mai appartenuta. Era nella sua natura fiera non arrendersi mai, portarsi al limite se fosse stato necessario, e ancora superarlo, dando tutto se stesso a ciò in cui credeva. Alle persone cui aveva giurato di vivere. Quelle persone…I suoi fratelli…Gli avrebbero dato una bella strigliata: farsi fregare a quel modo da Naraku, come un dilettante. Lui, abituato a calcolare ogni possibilità, ogni pericolo, a soppesare ogni azione, si era lasciato trascinare dalla foga, ignorando la più semplice delle opzioni: il suo avversario doveva aver subodorato qualcosa, e di certo non si sarebbe presentato inerte al loro appuntamento. Si era giocato con le sue stesse mani.

 

Shin aprì lentamente gli occhi, faticando a ridare consistenza alla luce che gli parve subito opprimente. Era come se avesse un sole in faccia, che lo accecava e gli impediva di definire i chiaroscuri del mondo attorno a lui. Bianco. Bianco. Con alcune chiazze nere. Fastidiose. Dannatamente fastidiose. Sentiva il bulbo oculare tremare nello sforzo di non sottrarsi alla luce, lo sentiva contorcersi nel disperato tentativo di convincere il suo padrone a restituirlo al buio, facendo smettere quella tortura. Niente. Il ragazzo non prestava ascolto alla sua supplica, e alla fine riuscì a ridare consistenza all’ambiente.

 

Con incredulità, si accorse di trovarsi in una stanza. Il soffitto ligneo decorato con motivi floreali, le eleganti fusume dipinte e le shoji da cui filtrava quella debole luminescenza che prima gli era parsa insostenibile. Poi, venne una sensazione di tepore diffuso e, muovendo appena le mani, avvertì la morbidezza di una trapunta e del cotone caldo della yukata. Ancora stordito, si lasciò cullare da quella piacevole sensazione, che lo riportava indietro nel tempo, al rassicurante calore del suo palazzo, sul Continente, all’abbraccio di sua madre.

 

Istanti. Il suo totale rilassamento durò pochi secondi, e subito la mente del giovane fu attraversata da una consapevolezza che portava con sé una forte sensazione di pericolo e insicurezza. Sconosciuta. Quella stanza gli era totalmente estranea. La consapevolezza dello scontro con Naraku, il ricordo della caduta nel crepaccio e la sensazione di esser entrato a contatto con qualcosa di freddo e poi trascinato senza possibilità di opporre resistenza lo assalirono con prepotenza. Dove si trovava? Dov’era?! Con amici o nemici? Ancora nei territori di Kansai, oppure era stato trascinato altrove?

 

In un impeto di preoccupazione e tensione cercò di alzarsi, ma il movimento brusco gli trapassò la mente con fitte di dolore all’addome, alla spalla e ad una gamba, quasi strappandogli un gemito. Rimase steso, boccheggiando alla ricerca di aria per calmare le scariche di dolore che lo attraversavano. Solo in quel momento si accorse di esser stato fasciato e medicato, e che le ferite infertegli da Naraku era ancor ben lontane dalla completa guarigione. Il suo gesto, inoltre, aveva risvegliato i centri nervosi, e non c’era parte del suo corpo che si esimesse dal comunicargli la sua condizione sofferente, in una miriade di sensazioni che lo stordivano.

 

Shin strinse i denti, storcendo la bocca in una smorfia. Doveva andarsene da lì; alzarsi e cercare di capire se si trovava presso amici o nemici. Benché l’ultima ipotesi gli sembrasse molto improbabile, visto che si trovava in una stanza e non in una prigione, non poteva tuttavia restare inerme mentre si consumava una guerra che trascinava i suoi fratelli. Una guerra estranea alla loro vita. Inutile. Insensata. Dovunque fosse, avrebbe trovato il modo per andarsene, e raggiungere i suoi fratelli. Non avrebbe più permesso che loro scontassero l’invidia e la rabbia paterne. La verità. Avrebbe detto loro la verità. Come avrebbe dovuto fare già da tempo. Fin da quando sua madre gliela aveva racconta, durante quella notte trascorsa nel relitto della sala del trono. Avrebbe dovuto parlar con loro, invece di prestar attenzione al suo stupido orgoglio, che gli aveva imposto di cercare prima la vendetta. Aveva voluto prima assicurarsi che ogni sospetto, ogni voce raccolta, ogni pensiero fugace che gli avevano attraversato la mente trovassero esatta conferma nei fatti. Allora, e solo allora, avrebbe parlato. Anche per quello che riguardava Koji. Perché non poteva permettere che il suo fratellino fosse coinvolto in una realtà che gli era totalmente estranea. Aveva una sola certezza: era un ookami. Lo aveva capito fin dal suo arrivo a palazzo, sul Continente, moltissimi anni prima. E ciononostante lo aveva adottato come fratello, senza mai tradire quel segreto. Ma adesso, era tempo di scoprire tutte le carte.

 

Di nuovo, lentamente, cercò di alzarsi, facendo forza prima sui gomiti e poi sulle braccia. Riuscì a mettersi seduto che già ansimava e la fronte era imperlata di sudore. La ferita al fianco gli doleva e non sarebbe stato indicato sforzarla oltre, ma Shin strinse i denti. Aveva sopportato di peggio, ricordò. Non sarebbe stata una ferita del genere a decretare la sua fine. Con meticolosa lentezza si alzò in piedi, arrancando e ondeggiando nel tentativo di mantenere il precario equilibrio raggiunto.

 

Riuscì a compiere solo pochi passi che la stanza iniziò a vorticare. Impazzita. Shin ebbe una mezza esclamazione di disappunto, mentre perdeva il senso dell’equilibrio ed era costretto a piegare un ginocchio a terra. Dannazione! Si passò una mano sul volto, sentendo uno strano freddo corrergli sotto la pelle. Era ancora troppo debole. Cercò di calmare i conati e la sensazione di malessere che lo aveva preso allo stomaco. Inutile. Inutile. Tutto continuava a ondeggiare pericolosamente. Aveva l’orribile sensazione che anche la sua sensibilità diminuisse progressivamente. Distingueva a malapena la consistenza del tatami sotto le dita, mentre nella testa il sangue pulsava tanto forte da ottenebragli la mente e i sensi.

 

“Cosa fate? Non dovete alzarvi! Siete ancora debole!”

 

Una voce…Una voce di donna lo raggiunse attraverso il ronzio che gli assordava le orecchie. Non riuscì a opporsi mentre qualcuno lo aiutava a tornare al futon, facendolo nuovamente stendere. Avrebbe voluto sottrarsi a quelle mani e fuggire, ma la nausea non accennava minimamente a passare. Gli occhi gli restituivano solo un’immagine sfuocata e incerta. Una chiazza scura, forse di capelli, attorno a un contorno più chiaro. Ad un viso…indefinibile. Appoggiò la testa sul piccolo cuscino, e finalmente la stanza sembrò fermarsi.

 

“Chi sei?”

 

Debole. Anche solo parlare gli costava uno sforzo immenso. Ma doveva sapere se si trovava al sicuro o in una situazione incerta. C’erano molte cose che voleva sapere: quanto era rimasto privo di conoscenza; voleva notizie della guerra che infiammava i territori dell’Ovest, se fosse finita o ancora in corso. Voleva sapere dei suoi fratelli, di sua madre e …di suo padre.

 

Homoe, hime delle Terre del Nord” rispose la voce, mentre un nuovo cuscino si aggiungeva a quello già presente, sotto le spalle del ragazzo, permettendogli di restare un po’ più sollevato col busto e ponendo fine alla sgradevole sensazione di inabilità.

 

Shin riuscì a definire la sua interlocutrice: una yasha, dai capelli color della notte e occhi d’acciaio. Una yasha molto bella, e potente, almeno a giudicare dall’youki che le aleggiava attorno. Continuava a guardarlo con un’espressione dolce e quasi materna, senza perdere però in dignità. La dignità di una regina. Una hime…Una principessa. La donna che gli sedeva acconto poteva stargli alla pari per lignaggio, e lui l’aveva trattata come una serva, anche se lei non sembrava aver dato importanza al suo tono irriverente.

 

Le terre del Nord… Si trovava, dunque, nei territori più settentrionali di Honshu, nel regno di quel generale che era stato un tempo amico anche di suo padre. Come fosse finito in quei territori, oltrepassando quelli di Sesshomaru, non avrebbe mai saputo dirlo. Ma almeno, dato che non lo avevano ucciso e non si trovava in una prigione, in balia di se stesso, poteva considerarsi al sicuro; avrebbe chiesto ospitalità per il tempo appena sufficiente a reggersi in piedi. Non poteva certo aspettare di rimettersi completamente. Solo le forze necessarie. Gli bastava recuperare solo le forze necessarie per tornare al suo accampamento e avvertire i fratelli. Poi, avrebbero pensato assieme ad una soluzione per porre fine a quell’efferato e inutile scontro.

 

La mano che gli sfiorò la fronte lo risvegliò dai suoi pensieri. Una mano delicata, aggraziata. Gli aveva scostato i capelli neri e sfiorato appena la pelle, regalandogli una sensazione di benessere. Probabilmente, il suo corpo reagiva a quel gesto, quasi fosse il migliore dei calmanti. Nei giorni trascorsi, quando doveva trovarsi preda del delirio, era possibile che quella mano avesse più volte cercato di calmarlo, e adesso lui, inconsciamente, la riconosceva. Rispondeva per un riflesso istintivo a quel gesto tanto semplice e innocente.

 

Homoe ritirò compiaciuta la mano, dopo aver constatato che la febbre era scesa. La resistenza di quel ragazzo era ammirevole. In un mese era riuscito a riprendere coscienza e le sue ferite, nonostante le tracce di veleno che comunque dovevano essergli entrate in circolo, iniziavano, pur se molto lentamente, a rimarginarsi. In breve, sarebbe stato in grado di alzarsi e camminare, se non le faceva un altro scherzo come quello di prima. Alzarsi nelle su condizioni…Delirio puro. Anche se, in realtà, la yasha si era aspettata una reazione simile. Anche i suoi fratelli erano sempre stati restii a restare distesi in un letto, nonostante la possibile gravità delle loro ferite. Ciononostante, lei era ben intenzionata a non fargli ripetere la trovata. Gli era stato affidato perchè lo curasse e sarebbe davvero stato un peccato che tutti gli sforzi suoi e di Alessandra venissero vanificati solo dall’orgoglio di un ragazzo.

 

“Come sono giunto nei vostri territori?”

 

Non capiva. Shin non riusciva a capire come avesse potuto scavalcare le terre dell’Ovest. Chiunque lo avesse portato nel regno del Nord, doveva aver avuto ottimi motivi per sfidare l’ira di Sesshomaru. Benché il demone fosse impegnato in un assedio, era poco probabile che non avesse spie in ogni angolo del suo regno, pronte a riferirgli qualsiasi movimento sospetto. Inoltre, sembrava che non lo avessero riconosciuto e forse era quello il motivo che spiegava il trattamento di favore riservatogli, per quanto lui non sapesse quali rapporti intercorressero fra i Principi delle terre dell’Ovest e del Nord.

 

Comunque fosse, era però ben intenzionato a far chiarezza sulla sua identità, su come fosse giunto in Hoshu del Nord e magari avrebbe anche tentato di stringere un’alleanza con il padre di Homoe. Avere dalla sua almeno uno degli otto Clan principali della Famiglia sarebbe stato un grande vantaggio nel momento in cui avrebbe dovuto affrontare suo padre e il suo Clan. La risata leggera che sentì lo lasciò sorpreso, ma ancor più sconcerto gettarono le parole che udì subito dopo.

 

“Non siete nelle Terre del Nord, Principe Shin. Vi trovate nel kyuden di Sesshomaru-sama”

 

Homoe prevenne il suo movimento brusco, dettato dalla sorpresa di sentirsi chiamare per nome e soprattutto dal sapere dove si trovasse, premendogli leggermente le spalle, facendo attenzione a non stimolare la parte lesa all’altezza dell’omero. Solo quando fu certa che Shin non avrebbe tentato nulla di avventato lo liberò dal suo tocco, restando pazientemente ad aspettare. Sapeva che il ragazzo doveva digerire le lapidarie ma sconcertanti informazioni che gli aveva fornito. Prima fra tutto il fatto di trovarsi nella casa del suo nemico. Vivo.

 

Shin chiuse gli occhi, incapace di razionalizzare le parole della yasha. Impegnato a digerire quelle spartane e sconvolgenti informazioni. Vivo e nella reggia di Sesshomaru. Impossibile. Inconcepibile. La sua testa continuava quella cantilena snervante. Se anche fosse stato vero e ancora si trovava nei territori dell’Ovest, perché mai l’inuyoukai non aveva approfittato delle sue condizioni e non lo aveva ucciso? Avrebbe potuto infierire su di lui, inerme e privo di coscienza, e poi rimandare il suo cadavere al campo, monito per chi osava sfidarlo. O anche appendere le sue spoglie alle mura del palazzo. Una coreografia macabra e disgustosa, ma di sicuro effetto sul morale delle truppe avversarie. Avrebbe galvanizzato i suoi uomini e gettato nella costernazione i soldati di Morigawa. E invece, con sua sorpresa, Shin apprendeva che non solo Sesshomaru non lo aveva ucciso, ma lo aveva anche fatto curare, alloggiandolo in una stanza vera e propria e non in una cella. Forse voleva tenerlo in vita perché ponderava l’ipotesi di un possibile ricatto o di uno scambio. Ecco, quello sarebbe stato un ottimo stratagemma, peccato solo che a suo padre di lui non importasse più nulla. Lo aveva totalmente cancellato dalla sua mente, e la prova l’aveva avuta quando lo aveva condannato al disonore. Lui, Principe dei kuroinuyoukai, costretto a subire l’oltraggio solo perché aveva cercato di mantenere alto il nome della sua stirpe.

 

C’erano molti interrogativi nella mente di Shin. Domande e supposizioni che si avvicendavano veloci, trascinate dalla frenesia di comprendere in quale reale frangente si trovasse, spronate dal desiderio di far chiarezza prima che la debolezza lo cogliesse di nuovo, gettandolo nel buio dei sogni. Una smorfia gli storse le labbra. Patetico. Lui non avrebbe mai tradito il suo Clan, anche se significava condannarsi a morte, e poi, suo padre non lo metteva a parte delle sue intenzioni da molto tempo. Da quando quel maledetto hanyou era apparso. Socchiuse gli occhi, liberando un leggero respiro. Falso. Falso. La nomina di Naraku a luogotenente era stata la molla che lo aveva costretto ad aprire gli occhi, che gli aveva fatto balenare nella mente particolari e dubbi che si erano accumulati negli anni e che lui aveva sempre, cocciutamente, accantonato, tuffandoli in un anglo nascosto della sua mente.

 

Richiuse completamene gli occhi, abbandonandosi nel futon. Si sentiva così stanco. Annullato. Svuotato. Cercò di rilassarsi completamene e lasciò che i pensieri fluissero senza controllo, senza preoccuparsi del loro avvicendamento logico. Non gli interessava più che avessero una logica. Non l’avevano mai avuta. Carrellate di sensazioni, immagini, ricordi, realtà e fantasie sfilarono lente e dolorose, sferzanti. Mille particolari…e la consapevolezza che si stava consumando qualcosa che forse si sarebbe potuto evitare. La sensazione orribile di esser stato solo una pedina, un pezzo da giocare al momento opportuno e togliere dalla scacchiera appena divenuto ingombrante.

 

Shin si lasciò travolgere da rimorsi e critiche così pungenti che gli laceravano lo spirito, ignorando completamente Homoe che si era chinata su di lui per controllare lo stato delle ferite. La yasha lo aveva sfiorato molte volte, mentre era incosciente; gli aveva cambiato le bende e terso il sudore che gli imperlava la fronte. Aveva sentito il suo corpo teso a contrastare inconsciamente il dolore, percosso dai tremiti del freddo, accaldato dal veleno che lo divorava. Eppure, in quelle settimane non aveva mai percepito una tensione simile a quella che adesso contraeva i muscoli del ragazzo.

 

Shin sembrava dormire, completamente rilassato e immobile. Eppure, bastava soffermarsi un istante sul suo volto scavato e pallido per cogliere la leggera smorfia di disappunto che gli storceva la bocca. Le membra tese e percorse da un fremito sottile, quasi impercettibile. Si stava dominando. Era palese. Ma tutta la sua frustrazione era evidente da semplici accenni: un gesto nervoso spezzato d’inconscio, uno scarto frenato, un’imprecazione inghiottita. E poi, quella maledetta domanda che gli ronzava in testa. Assillante. Perché era vivo? Perché? Perché?!

 

Non aveva mai avuto alcuna intenzione di morire, ma se lui si fosse trovato al posto del Principe dell’Ovest non avrebbe esitato un solo istante e avrebbe ucciso il suo nemico. Forse avrebbe commesso uno sbaglio, ma non avrebbe lasciato in vita e anche curato uno dei responsabili di un’offesa arrecatagli. E Sesshomaru non aveva la fama del sovrano clemente e misericordioso. Al contrario, era noto in Nihon e anche sul Continente per la sua glaciale indifferenza, che a volte scadeva nell’efferatezza. Per la sua potenza che si basava sul sangue. Le caratteristiche che lo avevano portato, giovanissimo, al vertice della Famiglia e a capo del Consiglio.

 

Si risolse a voltarsi verso Homoe, senza la certezza di trovarla ancora accano a lui. Era rimasto in silenzio per molto tempo, smarrito in echi mentali e perdendo completamente la cognizione del tempo. E invece, la yasha aveva aspettato pazientemente che lui tornasse a concentrarsi sul presente. Non furono necessarie parole perché Homoe capisse cosa l’youkai desiderava sapere. Era una richiesta più che legittima, naturale in definitiva. Chiunque si sarebbe interessato al perché un nemico, con una guerra in atto, si dovesse far degli scrupoli e risparmiare un avversario, anche considerando il fatto che la morte di Shin avrebbe arrecato non poco danno al nemico. In effetti, probabilmente, se Sesshomaru si fosse trovato da solo davanti al ragazzo non avrebbe esitato un istante a ucciderlo. Anche senza nessun motivo reale. Avrebbe potuto eliminarlo semplicemente perché gli aveva intralciato il cammino. Per fortuna di Shin, invece, quando alcuni demoni lo avevano trovato e trasportato a palazzo scambiandolo per uno dei loro, Kumamoto lo aveva riconosciuto ed era riuscito a ottenere dal Principe il permesso che fosse alloggiato a palazzo e curato dall’archiatra di corte.

 

Alessandra aveva dedicato molto tempo ed energie alla persona di Shin, chiudendogli le ferite da arma da fuoco e medicandogli quelle che il letto sassoso del fiume gli aveva provocato. Infatti, benché la corrente impetuosa e le pietre aguzze avessero martoriato il corpo si Shin, il ragazzo doveva la sua salvezza proprio a quell’acqua limacciosa, che aveva lavato i proiettili nel suo corpo del veleno di cui erano imbevuti, impedendo così che entrasse in circolo in quantità mortale. Quello che era stato inevitabilmente assorbito era sufficiente a paralizzare le facoltà rigeneratrici di un demone, ma non bastevole a ucciderlo.

 

“Perché sono vivo?”

 

Un respiro, quasi un pensiero sussurrato, ma pronunciato abbastanza chiaramente da esser udibile a Homoe. Shin voleva sapere. Doveva sapere. Per dipanare almeno un po’ la confusione che gli attanagliava la testa. Per cercare di estorcere qualche informazione e potersi regolare di conseguenza. In definitiva, non poteva dimenticare che si trovava nelle mani del nemico. Un nemico che forse ignorava la realtà della situazione, gli avvenimenti di quattrocento anni prima. Si voltò con un movimento lento della testa verso la yasha. Voleva sapere. E nei suoi occhi Homoe lesse disperazione e un fuoco oscuro e ammaliatore.

 

*****

 

Nigatsu.

Il mese più corto. L’ultimo dell’inverno. Presto, la neve si sarebbe sciolta del tutto e il vento e le stagioni avrebbero ripetuto il loro eterno gioco. Un avvicendarsi lento, scandito da ritmi arcani. Cadenze che il suo mondo aveva dimenticato da tantissimi anni. Che forse aveva volutamente accantonato. In nome di un progresso che non sapeva se migliore o peggiore.

 

Nigatsu…Sei mesi…Erano quasi sei mesi che era in quel mondo, in quell’epoca antica e pregna di consuetudini dal sapore arcano. Magiche. Sei mesi da quando si era risvegliata in un bosco bianco, sotto un cielo che vomitava neve. Sola. Distrutta nell’animo. Ma ancora aggrappata alla vita il necessario per non lasciarsi andare. Per trascinare lentamente la sua esistenza. Fra altalene emozionali e brevissimi istanti di tranquillità.

 

Sei mesi…Da quanto aveva incontrato lui. Da quanto aveva ingaggiato una sfida muta. Disperata. Chissà perché l’aveva fatto. Quando lo aveva incontrato per la prima volta, avvolto dalla luce del crepuscolo, non lo aveva nemmeno notato. Era solo riuscita a pensare che era l’uomo che Rin cercava. Troppo concentrata su se stessa, sullo spasmodico tentativo di allontanare da sé il mondo e qualsiasi cosa che potesse nuovamente ferirla, anche solo per realizzare l’assurdità di quell’incontro. Si era trovata di fronte un demone, e non aveva avuto una minima reazione di stupore o sconcerto. Aveva, invece, avuto la folle idea di sfidarlo; di mantenere gli occhi fisi sul suo volto. Aveva avuto la sfacciataggine di rispondergli, senza piegarsi. Un sorriso ironico. Leggero. A ripensarci, le sembrava incredibile. Come minimo, avrebbe dovuto farsi cogliere dal panico. E non solo perché gli si era materializzata davanti uno creatura mitologica, una creatura che non avrebbe mai dovuto esistere, ma perché era pericoloso. Mortale.

 

Scosse le spalle, sistemandosi meglio lo scollo del kimono. Era appena l’alba e la pioggia che cadeva incessante dalla sera prima lasciava sulla pelle un’umidità pesante, opprimente. Le era sempre piaciuta la pioggia. Più del sole. Eppure, nonostante in quel momento permettesse al palazzo di rifiatare e allentare la tensione, le sembrava racchiudere un presagio orribile. O forse, era lei che somatizzava troppo ogni situazione. Comunque, il cielo piangeva. Lacrime fredde e continue. Assordanti nel loro sibilo. Piangeva per tutti quelli che erano morti in quegli ultimi giorni.

 

Alessandra si formò sull’engawa, lasciandosi scivolare a terra lungo uno dei sottili sostegni di legno. Benché fossero ormai quasi due mesi che l’assedio era iniziato, lei non era ancora riuscita ad abituarsi all’odore di morte che costantemente aleggiava attorno ala palazzo. Abbassò lo sguardo alle sue mani. Quanti demoni erano morti, senza che lei riuscisse a far nulla per aiutarli? Quante volte aveva dovuto reprimere conati e svenimenti per restare al suo posto, a ricucire ferite, bendare arti amputati, a operare e medicare?...

 

Nascose le mani nelle lunghe maniche e si abbracciò stretta. All’improvviso, sentiva freddo. Tanto freddo. Un gelo che neanche il kimono awase riusciva a frenare. Assolvere il suo compito di archiatra le costava ogni volta un grande sforzo, una violenza che faceva a se stessa, costringendosi fra sangue e dolore. Eppure, sapeva che non si sarebbe mai tirata indietro. Aveva accettato, anche se Sesshomaru l’aveva messa di fronte al fatto compiuto senza accennarle nulla in proposito. Ormai, quello era il suo compito. Tuttavia, negli ultimi giorni più volte aveva dovuto allontanarsi dal padiglione. Aveva davvero raggiunto il limite.

 

Quei corpi…Quella teoria sanguinante, spettrale…Nel giro di poche ore, tutto era cambiato e la freddezza che aveva costruito attorno a sé per non cedere mentre prestava alla sua opera di chirurgo si era frantumata. Spezzata come cristallo. Non ricordava più neanche quante volte aveva dovuto farsi sostituire e allontanarsi. Anche solo per raggiungere la piccola zona della tenda che le era riservata e coprirsi le orecchie. Con disperazione. Inutilmente. Perché le grida non venivano attenuate e le rimbombavano nella testa dolorose. Devastanti.

 

Molte lingue, imprecazioni, esclamazioni, invocazioni…ma soprattutto urla. Urla strazianti. Disumane. E alle grida si sommavano le immagini cariche d’orrore che ogni giorno le sfilavano davanti agli occhi. E l’odore nauseante della carne che brucia. L’odore acre del fumo mescolato all’incenso. I morti erano tanto numerosi che era stato dato l’ordine di bruciarne i corpi, per evitare il diffondersi di malattie. Spesso, capitava che nel groviglio sanguinante di carne si trovasse un demone ancora vivo. Una maschera orribile di sangue. Non era più neanche riconoscibile. Sfigurato dal dolore e dal ferro.

 

Granate. I nemici avevano iniziato a ricorrere alle granate. Appena erano riusciti a far breccia nelle mura, avevano scoperto la loro ultima arma: quei maledetti proiettili metallici. Appena toccavano terra, esplodevano in una miriade di schegge di metallo e ferro. Penetravano la carne, laceravano muscoli e giunture, strappavano urla che si confondevano con detonazioni che squassavano il campo di battaglia, salendo fino al cielo. E quando la polvere si diradava, il risultato era una carneficina. Impossibile da ignorare. Da dimenticare. Perché se anche i corpi venivano sgombrati, restavano i solchi prodotti dall’esplosione. Ferite nere nella rena della piazza d’armi.

 

Alessandra strinse con più forza la stoffa del kimono, rannicchiandosi su se stessa nel disperato tentativo di proteggersi da quella realtà che non avrebbe mai voluto conoscere. Dall’orrore di una guerra che era insensata. Inutile. E che mieteva ogni istante vittime. Demoni. Di tutti i livelli. Una guerra che avrebbe potuto portarle via anche lui. Lui!

 

Non lo vedeva quasi mai. Non potevano quasi mai trascorrere un istante assieme. Da quando la situazione era degenerata, in quegli ultimi giorni, Sesshomaru non si era concesso un solo istante di riposo. E non l’aveva concesso nemmeno ai suoi subordinati. L’attenzione al castello era sempre massima, e lui si era dovuto districare fra moltissimi impegni e prendere decisioni basilari in pochissimi secondi. Aveva anche dovuto accettare l’aiuto che Miroku gli aveva offerto. Un’umiliazione di cui non si era curato. In quel momento, l’unica cosa che sembrava importante per il Principe era la vittoria. Una vittoria che si stava rivelando troppo lunga da ottenere. E che lo spazientiva.

 

Sesshomaru era abituato ad attaccare, non a difendersi. Non era uno sciocco né un impulsivo, e non era facile esasperarlo, se in gioco c’era il suo onore. Ma, al contempo, era estremamente suscettibile se si trovava ad affrontare una situazione di cui non aveva il diretto controllo o in cui non era lui a condurre il gioco. E in quella guerra lui era quello svantaggiato. Asserragliato in casa sua. Ferito nella sua persona, nel suo orgoglio. Bastava un nonnulla per scatenare la sua collera. Gelida e spietata. E per questo ancor più pericolosa.

 

Alessandra si era accorta che attorno a Sesshomaru tutto ruotava posandosi sulla violenza e sul timore. La maggior parte di chi lo serviva era accondiscendente solo per paura. Lui era il più forte, e per questo gli andava portato rispetto e obbedienza. Sesshomaru possedeva sui suoi subalterni pieno potere di vita e di morte. Poteva mandarli a morire con un semplice cenno, quasi con sufficienza. E loro avrebbero dovuto piegare il capo ed eseguire. Senza possibilità di protestare. Eppure, lei non temeva l’inuyoukai. Non lo aveva mai temuto.

 

La prima volta che lo aveva visto, all’inizio, lo aveva scambiato per un ragazzo. Per un essere umano. E ancora in lui cercava i segnali di quel giorno. Lo vedeva sempre e solo come un ragazzo. Il demone le si mostrava estremamente di rado, e quasi mai quando erano soli. Neanche in condizioni normali Sesshomaru l’avrebbe palesemente cercata,di questo era certa; la sua educazione lo portava a reprimere qualsiasi tipo di manifestazione emotiva, lasciando trapelare solo piccoli accenni che rendevano i pochi attimi che trascorrevano assieme avvolti da un sentimento così difficile da definire…Eppure, Alessandra era convinta che il demone non le avrebbe mai fatto del male. Non ne aveva paura, perché le permetteva di vivere. Le aveva ridato la vita.

 

Sesshomaru…C’erano istanti, come quando l’angoscia le attanagliava lo stomaco o le condizioni dei feriti erano davvero raccapriccianti, che le risultava insopportabile la sua lontananza. Momenti in cui chiudeva gli occhi alla disperata ricerca del ricordo di un suo abbraccio, di una sua carezza. Le bastava riuscire a ricordare anche solo il calore del suo corpo e il profumo della sua pelle per riceverne un effetto calmante. Bastava solo il profilo fiero e austero del suo viso. C’erano volte che avrebbe voluto vederlo comparire nel padiglione, vederlo entrare per portarla via. Lontana da quel mondo. Lontana dal sangue.

 

Scosse la testa, mentre un sorriso amaro le storceva le labbra. Fantasie. Sesshomaru non sarebbe mai andato a prenderla. Non avrebbe mai rinunciato alla battaglia. Al sangue. Non lo faceva per cattiveria, non lo faceva perché voleva costringerla fra orrori e morte, ma semplicemente perché la sua natura lo spingeva a non ignorare la provocazione, l’offesa.

 

Le mancava. Tanto. Troppo, a volte. La frenesia delle giornate non le impediva di rivolgere a lui i pensieri delle rare pause che aveva. Quasi un’ossessione. Lentamente, stava vedendo scemare la forza che l’aveva sorretta fino a quel momento. Trasportata via dalla stanchezza, dalla frustrazione, dall’ansia. Ansia per lui. Per la sua sorte. Ansia dettata dal fatto che non poteva mai chiedere nulla. Doveva sempre aspettare; attendere se l’avrebbero chiamata perché era stato ferito o se invece avrebbe dovuto medicare solo soldati. Momenti trascorsi con il fiato annodato fra la gola e lo stomaco. Costretta a dissimulare.

 

 Fingere. Aveva sempre dovuto fingere. Con la corte, ma anche con tutte le persone con cui condivideva le giornate. Mentire a Kagome, Inuyasha, a Koga e Ayame…a tutti. Mostrare un volto ipocrita e falso. Una faccia che la nauseava. Eppure, non poteva fare diversamente. Non poteva permettere di tradirsi. Anche se era sempre più difficile.

 

Controllarsi. Doveva sempre domare le sue reazioni, gustandosi le poche fuggevoli occhiate che lei e Sesshomaru riuscivano a scambiarsi. Da lontano. Non riusciva quasi più neanche ad avvicinarlo. Rapito dal vortice della guerra. Assorbito in una realtà militare che lei conosceva, e che sapeva necessitare di tutte le attenzioni del Principe.

 

Eppure, Alessandra lo avrebbe voluto accanto a sé. Anche solo per una notte. Anche solo per poche ore. Perché, da quando lo aveva conosciuto, aveva imparato che pochi istanti possono valere quanto un’intera esistenza. Lo avrebbe voluto con sé. Egoisticamente. E lo sapeva. Sapeva che quello era solo un capriccio. Lo sciocco desiderio di una ragazza innamorata, insignificante davanti alle molte vite che ogni giorno si spegnevano. Eppure, non poteva esimersi da formulare quel pensiero. Non voleva esimersi.

 

Chiuse gli occhi, inghiottendo le lacrime. Bruciavano dannatamente la gola, scendendo ad aumentare il nodo che le rendeva penoso il respiro. Si stava comportando come una stupida. Ma non le importava. Per un istante, voleva davvero lasciare libero sfogo a tutto quel groviglio emozionale che teneva dentro di sé. I suoi nervi erano davvero al limite. Gettò indietro la testa, mentre alcune lacrime sfuggivano al suo controllo e scendevano a disegnarle il viso. Un pianto muto e disperato. Un pianto per sfogarsi.

 

Perché, a volte, il vedere il rapporto che intercorreva fra i suoi amici, la spontaneità di alcuni gesti, la dolcezza di una carezza o di uno sguardo, erano stilettate che le facevano sanguinare il cuore, andando ad aggiungersi a frustrazione e stanchezza. Perché? C’era solo quella domanda nella sua testa. Perché loro sì? Perché anche lei non poteva vivere il suo sentimento?

 

Sapeva che quello era solo uno sfogo. Il risultato di giorni, mesi di rigido autocontrollo. Sapeva che non le sarebbe mai uscito un lamento dalle labbra. Tuttavia, Alessandra non riusciva proprio, in quel momento, ad articolare coerentemente il suo pensiero. Aveva visto, in poco tempo, troppe cose che l’avevano segnata nel profondo. Facendo riaffiorare ferite non ancora del tutto chiuse, gettandola in una realtà che non era minimamente pronta ad affrontare. Si passò una mano nei capelli. Si stava dimostrando debole. Pietosamente debole. Incapace di reagire. Si stava mostrando indegna di Sesshomaru.

 

Lui così perfetto, così intoccabile. Sempre ordinato e composto. Sempre controllato. Lui così…affascinante. Quanto tempo era dovuto trascorrere perché ne subisse il fascino malinconico e fiero? Non lo sapeva. All’inizio, la sua bellezza l’aveva colpita, ma non conquistata. Come la sua voce. Era stato il dopo, a farla innamorare. Un qualcosa di imprecisato. Non un atteggiamento, né uno sguardo o una parola…erano state tutte queste cose insieme, ma nessuna di preciso. Semplicemente, si era lasciata avvicinare dai suoi modi freddi, ma rispettosi.

 

Quanti altri demoni l’avrebbero trattata allo stesso modo? Sesshomaru l’aveva minacciata, la prima volta che i loro occhi si erano incrociati, ma poi…poi aveva mostrato l’educazione che probabilmente gli deriva dal suo rango. L’autorità mescolata alla freddezza e alla determinazione, cui si associa un’affabilità strana. Ma per nulla stridente. Un’affabilità che il Principe aveva mostrato solo a lei. Per motivi sconosciuti.

 

Sesshomaru l’aveva rispettata. Anche quando dormivano assieme, Alessandra non aveva nessun timore. Sapeva perfettamente che il ragazzo non avrebbe mai approfittato di lei nel sonno. Che quel pensiero gli era totalmente estraneo. Di lui si fidava ciecamente. Una sensazione sentita a pelle. Senza una ragione precisa. Ma che l’aveva portata fra le sue braccia.

 

Si rilassò contro la colonna sottile. Sesshomaru non le avrebbe mai detto di amarla, ormai lo sapeva. Né si sarebbe mai dichiarato apertamente. Effusioni e dimostrazioni d’affetto gli erano totalmente estranee in pubblico, e anche nell’intimità delle sue stanze erano sempre filtrate da una specie di freno. Come se il lasciarsi andare completamente gli fosse impossibile. Alessandra non poteva comunque rimproverargli di trattarla con indifferenza quando erano soli; con pochissime azioni era capace di farla sentire la persona più importane del mondo.

 

Glielo aveva detto. A palazzo, lui sarebbe stato diverso. La complicità che si era creata fra loro avrebbe dovuto trovare nuovi mezzi di espressione. Capaci di non insospettire minimamente la corte. Un gioco interessante, senonchè era estremamente servante. L’unica consolazione, era il premio finale: la labbra del bel demone sulle sue. E i pochi istanti che Alessandra e Sesshomaru riuscivano a trovare bastavano a ripagarli anche di molte ore di lontananza. Ma soprattutto, era straordinario il legame che si era creato fra loro. Non avevano mai bisogno di parlarsi. Benché la cecità precludesse al demone la possibilità di leggere le emozioni della ragazza, riusciva sempre a intuirne lo stato d’animo. Come Alessandra riusciva sempre a trovare le parole o i gesti adatti per spronarlo o rilassarlo.

 

Si sostenevano a vicenda, poggiando il loro reciproco equilibrio si istanti labili ed effimeri. Quasi inconsistenti e che avrebbero sorpreso chiunque. Erano capaci di amarsi, gustandosi solo pochi minuti, e poi di comportarsi con estrema indifferenza con gli altri. Come se non si fossero mai scambiati neanche un bacio o una carezza. Alessandra lo amava in tutte le sue sfaccettature. Dalla più infantile a quella terribile della morte. E Sesshomaru traeva da lei la forza per non abbandonarsi mai alla brutalità del massacro e al richiamo del sangue.

 

Alessandra si sfiorò le labbra. Cercava di richiamare la sensazione che provava nell’avvertire quelle del demone sulle sue. I brividi piacevoli che le trasmettevano. Si era accorta spesso che i loro corpi si chiamavano, e doveva essersene accorto anche Sesshomaru, ma non aveva mai fatto nulla per forzarla. L’aveva sempre lasciata libera di condurre il gioco della seduzione, accontentandosi delle carezze innocenti e dei baci. Senza mai dare segni di fastidio o impazienza. Il bel demone, il Principe dell’Ovest, si lasciava domare solo da lei. Le permetteva un controllo totale della sua persona. E la ragazza sapeva che quello era il suo modo per dimostrare che l’amava. Non con le parole, che a volte gli risultava così difficile usare. Quasi le temesse. Quasi percepisse in loro un potere magico. Arcano. Non le diceva nulla, ma le dimostrava il suo amore con le azioni. Con un rispetto che, Alessandra era certa, non era affatto comune nei demoni. Soprattutto nei riguardi di una ningen.

 

Si passò le mani sul volto, asciugandosi le scie umide delle lacrime. Una sensazione piacevole: le sue mani calde sulla pelle fredda e bagnata. Un gesto che la rilassò maggiormente, facendole socchiudere gli occhi. Aveva lasciato che i pensieri fluissero spontanei e illogici. Non si era minimamente preoccupata di articolarli in modo coerente e dar loro un andamento logico. Se ne era semplicemente lasciata investire. Schiacciare, per potersene liberare. Ne aveva preso coscienza. Era consapevole del fatto che quella non era la soluzione migliore, perché in un simile frangente converrebbe esser propositivi, ma lei, invece, aveva fatto di testa sua. Come al solito. Preferendo affogare in dubbi e dispiaceri, abbandonandosi a una fiumana mentale pericolosa, ma che le dava la forza di andare avanti. Un controsenso, in apparenza. In realtà, la piena consapevolezza dei suoi limiti, dei suoi punti deboli, era stata da sempre la sua arma migliore. Per non trovarsi mai impreparata. Per non permettere che odio e gelosia facessero presa in lei oltre il minimo naturale.

 

Gelosia…Era gelosa. Di Sesshomaru. Ma non in modo possessivo. Forse, anche quel sentimento era dovuto alla loro relazione difficile e al poco tempo che potevano passare assieme. Alessandra, però, era gelosa dei generali, dei soldati, che potevano vederlo, ascoltare la sua voce, fissare il suo viso. A lei, quei piccoli piaceri erano quasi negati. Sì. Era gelosa. Ma una gelosia sottile che la faceva arrossire, di vergogna e imbarazzo. Perché l’invidia che provava non era nulla di strano. Era normale che si sentisse sola e isolata; era normale che il Principe passasse molto tempo con i suoi subalterni, e che lei soffrisse la sua lontananza. Era tutto maledettamente normale. Umano. E lo accettava, gustandosi anche quelle emozioni contrastanti.

 

Ale-chan…”

 

Un sussurro fra la pioggia. Catturò la sua attenzione e la riportò alla realtà, su quell’engawa dove era rimasta seduta per un tempo indefinito. Al riverbero rosso del fuoco, distinse la sagome di Rin. Non si sarebbe mai aspettata di vederla a quell’ora. Era ancora prestissimo, e se lei ormai era abituata a seguire i ritmi del demone, Rin era ancora troppo piccola per adattarvisi completamene. Allora, cosa ci faceva lì invece che al caldo nel suo lettino?

 

Le sorrise rassicurante, perché aveva capito che qualcosa non andava. Rin aveva ancora gli occhi pieni di sonno e lo yukata che indossava per dormire. Inoltre, non c’era neanche Kiba con lei. E la cosa era davvero inusuale visto che il lupacchiotto non lasciava mai la sua padroncina. Probabilmente, era successo qualcosa che aveva spinto la bimba a uscire dalla sua stanza in fretta. Tanto in fretta da non svegliare nemmeno il suo amichetto.

 

Alessandra le tese le braccia e un attimo dopo stringeva a sé il corpicino tremante di Rin. Non piangeva, ma non occorreva avere il fiuto di un demone per accorgersi della sua paura. Probabilmente, in quei giorni, Rin si era sentita abbandonata: né lei né Sesshomaru potevano passare del tempo con la bimba e anche Inuyasha e i suoi amici erano pieni di compiti e incombenze che li portavano lontano dagli appartamenti privati. Lontano da Rin. Homoe aveva provato a tenerla con sé, alcune volte, ma la visione della frenesia che attraversava il palazzo, il senso di agitazione e apprensione, erano deleteri sulla psicologia di Rin. Era meglio lasciarla al sicuro, nelle sue stanze. Con la presenza vigile di Kiba e di un soldato della guardia scelta.

 

Rin si rannicchiò fra le braccia di Alessandra. Tremava leggermente, un po’ per il freddo, un po’ per la sottile agitazione che da giorni le attraversava il corpo. Sapeva che fuori le mura si stava facendo la guerra, e che anche il suo signore andava ogni giorno a combattere. Sapeva che Ale-chan era sempre occupata, perché era il medico e doveva aiutare molti demoni a guarire; sentiva tutti i giorni dei boati simili al tuono, ma molto più forti e spaventosi. Le entravano dentro, facendole sussultare il cuore e rimbombavano nella cassa toracica.

 

A Rin non piacevano quei suoni. Quei cupi rimbombi. Quando li sentiva, si tappava le orecchie accucciandosi a terra, nel tentativo di farsi piccolissima e di scomparire, e si rannicchiava nell’angolo più nascosto e buio della stanza. Se qualcuno fosse entrato in quei momenti, avrebbe faticato a distinguere la figura della bimba, accoccolata a terra e protetta dal copro di Kiba.

Non le piacevano quei suoni, ma non le piaceva neanche il colore del cielo. Soprattutto la notte. Un cielo sempre rosso e arancio. Infuocato. Piene di colonne di fumo che si alzavano scure nella luce spettrale. Fuoco. Tanto fuoco. Per notti intere, il fuoco arrossava il cielo.

 

Rin ormai temeva anche solo ad aprire le shoji della sua stanza, perché aveva paura di vedere sempre quel cielo. Non le piaceva proprio. Le faceva tornare alla mente una notte lontana. Lontanissima nella sua memoria di bambina. Una notte che aveva infestato a lungo i suoi incubi Quando era ancora sola e, se si svegliava sudata e tremante nel cuore della notte, non c’era nessuno accanto a lei. Una notte maledetta, in cui aveva gridato tanto, ma senza che la voce le uscisse dalla gola. Aveva gridato con gli occhi, con le membra contratte in spasimi lancinanti, con l’orrore che sentiva invaderla e gettarla nel panico più totale.

 

Non le piaceva il cielo rosso, perché le faceva ritornare alla mente la notte in cui i briganti avevano ucciso la sua famiglia. Una bella notte d’estate, arrossata dal fuoco appiccato al suo villaggio. Una notte in cui l’inferno era sceso in terra. Rosso il cielo, rossa la terra, rossa ogni figura, ogni corpo straziato. Rosse anche le sue mani mentre scuotevano i corpi dei suoi genitori, di suo fratello…Rosso…Troppo, per una bimba di soli quattro anni.

 

Anche in quel momento il cielo era infuocato. Rin ne aveva visto il riflesso oltre i pannelli di carta di riso. Un riverbero tenue che lambiva la sua stanza, quasi un improbabile tramonto estivo. Aveva sentito l’agitazione farsi lentamente strada in lei, assieme alla paura. Aveva steso la mano, chiudendo gli occhi. Aveva aspettato. Tanto. Infine, era stata costretta a riavvicinare la manina al petto. Era fredda, la sua mano. Tanto fredda. L’aveva coperta con l’altra e l’aveva stretta forte. Piangendo piano.

 

Non c’era la mano di Sesshomaru a farle coraggio. Non c’era il suo signore accanto a lei, a vegliarla e proteggerla. Era sola, e aveva freddo. Tanto freddo. Aveva teso la mano, e chiuso gli occhi. Avrebbe voluto sentire gli artigli del demone sulla sua pelle. Avrebbe voluto sentire la stretta calda e discreta del suo signore. Come quella volta. Come in una notte ormai trascorsa, quando lui l’aveva presa con sé e lei ancora non parlava. Una notte come le altre, in cui gli incubi continuavano a tormentarla: il rosso del fuoco, il nero della morte, i colori spenti di un sentiero che non aveva mai visto prima di allora. Gigio e triste. Tanto triste. Aveva aperto gli occhi e aveva visto il Signor Sesshomaru seduto poco distante. Indifferente. Forse era stata la disperazione, forse la sua ingenuità di bambina, ma Rin aveva teso la mano verso quell’algida figura. Verso il bianco.

 

L’aveva allungata sul terreno per quanto il suo piccolo corpo stanco glielo aveva permesso. Non lo aveva raggiunto. Non era neanche riuscita a sfiorarlo. Lui era lì, davanti a lei, ma irraggiungibile. Aveva chiuso gli occhi e iniziato a trascinare la mano sulla terra. Non avrebbe mai potuto toccarlo…Dolcezza. Uno carezza leggera, e una mano grande. Molto grande. Aveva raccolto la sua. L’aveva allontanata dalla terra fredda, e chiusa al caldo. Al sicuro.

 

Sesshomaru non era riuscito a ignorare quel gesto. Quel tendersi disperato della bimba umana che aveva iniziato a seguirlo senza un perché. Lo spietato demone non era riuscito a guardare con indifferenza quella mano gracile e pallida, abbandonata sulla terra nera. Qualcosa lo aveva costretto ad allungare i suoi artigli. Ad afferrare quella mano. Qualcosa che lui non conosceva e che non aveva mai provato.

 

Quella notte, Rin aveva dormito per la prima volta tranquilla dopo tanto tempo. Con la sua mano stretta a quella di un demone. Con la sua piccola manina cullata dal discreto calore di un essere che avrebbe potuto ucciderla. E che invece le dava sicurezza solo con la sua presenza.

 

Adesso, invece, Sesshomaru non era con lei. Sesshomaru non c’era mai. Era sempre lontano. Tanto lontano. E Rin aveva paura che non tornasse più da lei. Che si dimenticasse di lei in una stanza di quel grande palazzo. Lei aveva provato a cercarlo. Aveva camminato per i preziosi corridoi, aveva aperto stanze e salito scale. Niente. Il bel demone sembrava esser sparito. Ma Rin aveva paura che non si facesse trovare solo da lei. Che Sesshomaru fosse arrabbiato con lei.

 

“Perché Sesshomaru-sama non va più da Rin? È arrabbiato con Rin?”

 

Un sussurro pieno di curiosità. Ma non quella gioiosa di un bimbo che vuole esplorare, che si avventura in un mondo fantastico. La curiosità di un bimbo che non capisce. O che ha paura di aver capito troppo bene e non vuole accettare. Una curiosità disillusa, quasi uno scoglio cui aggrapparsi, prima di esser trascinato in fondo. Prima di affondare.

 

Alessandra la strinse a sé con tenerezza, accarezzandole la testolina arruffata. Le mancava. A Rin mancava la presenza del suo signore accanto a sé. Le mancava la figura attorno cui ruotava tutto il suo mondo. Per la bimba non poter vedere Sesshomaru, non potergli regalare il suo sorriso, non poter raccogliere per lui fiori o ghiande, o anche semplicemente non poter più scrutare curiosa il suo viso impassibile, era come la morte. Era come se le avessero portato via l’aria. Non era facile capire che rapporto intercorresse fra il demone e la bimba, ma era un qualcosa di cui necessitavano entrambi. Qualcosa che permetteva loro di non smarrirsi e di andare avanti. Rin si rapportava all’youkai senza alcun timore, con rispetto privo però di ogni possibile traccia di paura. Lo vedeva come un fratello, o forse come un padre. Ma era anche possibile che non si fosse mai soffermata a rifletterci. Per lei, era solo il Signor Sesshomaru. Il demone algido che l’aveva strappato alla morte. Ad una signora nera e triste. Sola.

 

Per Sesshomaru invece era più difficile stabilire il rapporto. Alessandra aveva visto l’affetto che voleva alla bambina, ma non sarebbe mai stata in grado di dire cosa esattamente Rin rappresentasse per lui. Forse una sorellina da proteggere, forse una figlia. O forse, più semplicemente, la prima creatura che lo aveva guardato senza timore. Il primo essere vivente che gli avesse mostrato un po’ di affetto. Folle. Irrazionale. Ma sempre affetto.

 

E adesso, l’assenza di Sesshomaru, del destinatario di quel legame, stava facendo soffrire Rin. La gettava nel buio del dubbio e dell’angoscia. In ragionamenti forse troppo difficile anche per una bambina abituata a trascorrere la sua vita con i demoni. Soprattutto per una bambina che sulla presenza di un demone aveva rifondato la sua vita.

 

“Sesshomaru ha molto da fare”

 

Voce pacata, per tranquillizzarla e dissipare le sue paure. Alessandra cercava di spiegare a Rin la realtà della guerra, che costringeva l’youkai ad essere sempre presente sul campo, vigile e attento. Che lo costringeva a tralasciare quel piccolo mondo che si era costruito attorno a lui, forse senza che lui se ne rendesse realmente conto. Un universo schivo e fragile, in cui rifugiarsi per rifiatare e non essere giudicato. Un universo quasi clandestino, che difficilmente il demone avrebbe fatto accettare alla corte, e che forse, lui stesso, doveva realizzare con piena cognizione di causa. Un mondo in cui rientravano solo due persone. Due ningen: Alessandra e Rin.

 

La bimba sembrò capire. Mente ascoltava le spiegazioni soffuse della ragazza, mentre sentiva quelle parole scivolare lentamente in lei, la paura di essere rimasta sola si attenuava lentamente, diventando un lumicino che un semplice soffio avrebbe potuto spegnere. Un soffio che però, Alessandra ne era consapevole, non sarebbe mai potuto scaturire dalle sue labbra o da quelle di un’altra persona. L’unico che avrebbe potuto spegnere definitivamente quella debole luce che ancora minacciava un fuoco di terrore, era solo Sesshomaru.

 

*****

 

“Non dovresti essere qui, ma a riposare”

 

Kagome sollevò stancamente la testa, regalando un fugace sorriso all’amica. Un sorriso lontano. Triste. Si era aspettata che sarebbe venuta. Quasi scontato, anche se sperava che dormisse ancora un po’. In definitiva era da poco passata l’alba e la pioggia avrebbe regalato almeno un po’ di riposo. Avrebbe dovuto restare a letto, invece che alzarsi per andare a cercare lei. In definitiva, non c’erano molte possibilità a quell’ora a palazzo. Perciò…perciò non avrebbe dovuto, accidenti a lei! La stanchezza che gravava su entrambe era diversa, e Kagome lo sapeva bene: non erano toccate a lei le sfibranti battaglie dei giorni precedenti. Non era stata lei a dover respingere demoni che ti assalgono da ogni lato, attenta che nessuno superasse la difesa e colpisse le mura. Non era stata lei a vedersi scagliar contro proiettili e granate, e a correre col respiro interrotto, con la paura di non farcela.

 

No. Non lei. Non l’avevano voluta con loro sul campo. Non glielo avevano permesso. Lui non glielo aveva permesso. Kagome lo sapeva che la decisione era dettata solo dal desiderio di proteggerla e non dal fatto che la ritenessero incapace di difendersi. In fondo, avevano già combattuto molte battaglie, si erano già scontrati con youkai potenti e agguerriti. Negli anni trascorsi, vagabondando alla ricerca della Sfera, fra loro si era creato un affiatamento unico, quasi irripetibile. Si capivano e si completavano a vicenda, nonostante i caratteri e i temperamenti diversi. Litigavano, e l’intesa non era sempre perfetta. A volte, non si capivano e capitava che il lato più estremo di uno di loro prendesse il sopravvento. Eppure, neanche in quei casi il loro legame si scioglieva. Neanche la lontananza riusciva a piegare ciò che loro avevano faticosamente costruito. Loro erano una squadra. Comunque e sempre.

 

Una squadra che adesso era divisa. Perché solo due di loro scendevano sempre sul campo, unici ningen fra le file del Signore dell’Ovest. Unici cui fosse stato dato il permesso di intervenire. E Kagome era certa che Sesshomaru avesse ceduto solo per lucido e semplice calcolo militare. Accettando, anzi meglio dire sopportando, due esseri umani immetteva un elemento di disturbo non indifferente sulla scena militare. I demoni conoscevano il reciproco modo di combattere, ma davanti a due umani si erano trovati più volte interdetti e avevano confidato solo sulla loro forza. Venendo sconfitti. Certo, anche i suoi amici si erano trovati più volte in pericolo, ma erano sempre riusciti a cavarsela egregiamente, suscitando la disapprovazione della gran parte della corte inuyoukai. Come erano corse voci di incredulità e sconcerto alla notizia che il Principe aveva deciso di “arruolare” i due ningen arrivati a palazzo.

 

Kagome sospirò, passandosi una mano nei capelli. Non le piaceva dover restare a guardare, ma Inuyasha era stato categorico: non le avrebbe permesso di muovere un passo su quel maledetto campo di battaglia; non avrebbe fatto di nuovo lo stesso errore. Lo stesso errore…quello di costringerla a combattere…come aveva fatto con Kikyo…L’hanyou non voleva rischiare di perderla; di vedersi di nuovo strappare la donna che amava, di non riuscire a salvarla…Non lo avrebbe permesso. Lo aveva giurato: Kagome non sarebbe stata coinvolta in una guerra che riguardava solo loro inuyoukai. Anzi, che riguardava solo suo fratello.

 

Non aveva avuto la forza di opporsi e così aveva accettato di aiutare Alessandra all’ospedale. Anche perché scendere in campo voleva dire costringere Inuyasha ad una costante tensione psicologica. Benché si mostrasse spesso con Koga, aiutasse all’ospedale e sgombrasse la corte interna dai cadaveri dei soldati, l’hanyou non aveva alcun ruolo all’interno del palazzo. Era solo una presenza scomoda e irritante. Almeno per la corte. Sesshomaru, stranamente, non aveva fatto nulla perché se ne andasse. Non lo aveva cacciato né gli aveva detto di non immischiarsi in quella faccenda. Si era limitato a sopportarne la presenza coatta per gli allenamenti e a evitare accuratamente di incrociarlo nei corridoi. Un comportamento davvero insolito, soprattutto considerando il fatto che il demone non si era mai fatto problemi nel rinfacciargli la sua origine illegittima e l’isolamento in cui era cresciuto. Non era forse stato Sesshomaru a sbattere in faccia al fratello la realtà, quando avevano combattuto contro Sounga? Inuyasha non solo, al tempo, non conosceva tutti i trascorsi prima della sua nascita, ma non sapeva nulla neanche del padre. Un’ignoranza che, Kagome lo sapeva bene, lo faceva soffrire e riusciva a gettarlo in un baratro nero e disperato. La consapevolezza della sua condizione e la sua estraneità a quel mondo si poteva riassumere in quel semplice fatto: lui non aveva mai incontrato suo padre.

 

Sango si lasciò sfuggire un mezzo sospiro, mentre si sedeva accanto all’amica deponendo in un angolo hiraikotsu. Anche se non c’era nessun pericolo imminente, la ragazza non si arrischiava mai a girare per il palazzo senza almeno un’arma di offesa. Era coscia dell’astio che si era venuto a creare attorno a loro da quando erano piombati all’improvviso a palazzo. E soprattutto da quando, reclutati nell’esercito, avessero ottenuto più risultati in pochi giorni loro di quanti ne avessero conseguito i demoni durante i mesi d’assedio. Un’apparente superiorità che la gelida e fiera corte inuyoukai non riusciva a digerire e che Sesshomaru non mancava mai di sottolineare con frasi allusive o taglienti. Un modo per tenere tranquilli i cortigiani e impedir loro di creargli troppi problemi. Finchè la corte si fosse trovata di fronte all’abilità del monaco e della sterminatrice, non avrebbe più pesato ad Alessandra. I pensieri del Principe erano oscuri per chiunque, ma la sensazione che l’inusuale accondiscendenza dell’inuyoukai celasse un altro obiettivo era palpabile. Quasi palese. Perché lui non degnava di alcuna considerazione i nuovi alleati, le nuove reclute, e lasciava che fossero Kumamoto o Koga a trasmetter loro i suoi ordini.

 

Certo, non erano mai stati impiegati in campo aperto e il loro compito si limitava, essenzialmente, alla difesa della parte delle mura che avevano ceduto. Un punto nevralgico, ma cui gli uomini di Sesshomaru non lasciavano quasi avvicinare nessuno e i pochi che superavano la linea di difesa incontravano la morte per mano della ragazza o del potere spirituale di Miroku. E molti demoni preferivano la morte in battaglia che essere purificai dal potere spirituale. E il Principe lo sapeva. Conosceva perfettamente la leggenda che si tramandava fra loro youkai: chi fosse morto purificato per mano di un monaco, sarebbe precipitato nel regno della terra, equiparato ad un qualsiasi ningen e costretto a rivivere come uomo, conscio del suo glorioso passato demoniaco. Una fine, insomma, che non allettava nessun youkai, neanche il più codardo e subdolo, comunque orgoglioso della sua origine semidivina. Sesshomaru lo sapeva, e aveva usato la leggenda a suo vantaggio. E si era portato così in discreto vantaggio. I suoi uomini continuavano a morire, falciati dal fuoco delle granate, ma gli avversari non osavano più spingersi fin sotto le mura. Erano giunti, in sostanza, ad una situazione di stallo. Maledettamente snervante.

 

Sango appoggiò il viso alla mano e si voltò verso le shoji aperte. Poteva avvertire lo scroscio sommesso dell’acqua e un leggero odore di terra bagnata. Socchiuse gli occhi e ispirò a pieni polmoni l’aria fresca. Era abituata a combattere fin dall’infanzia, ma quella battaglia era diversa. Non le apparteneva. E poi, era strano battersi a fianco dei demoni, accanto a chi si è sempre combattuto. Inoltre, la sua mente era sottoposta ad una continua e snervante tensione psicologica. Ogni volta che prendeva posizione, i suoi occhi correvano febbrili alle file avversarie, scrutando i volti dei suoi nemici. Cercando un volto. Erano pochi attimi, per sapere se avrebbe rischiato di vedersi comparire di fronte Khoaku o se invece non era stato mandato sul campo. Erano pochi attimi, ma sufficienti a farle dimenticare ogni altra cosa. Secondi in cui si trovava esposta all’avversario, incapace di reagire prontamente in caso di attacco. E la cosa snervante era che ne era perfettamente consapevole, ma non poteva farci nulla. Non riusciva a evitarlo. Doveva frugare le file avversarie ogni volta. Doveva. Punto e basta.

 

“Tieni”

 

Kagome le porse una scodella di natto con un sorriso rilassato. Era da tanto che non avevano occasione di fare colazione assieme. Di respirare un po’ di tranquillità. Sapevano entrambe che era un’illusione, che fuori da quella stanza si stavano preparando morte e distruzione, ma i quel momento preferivano non pensarci. Non volevano farlo. Semplicemente. Illudersi per un istante. Bastava questo, per ritrovare il motivo per cui combattevano. Perché, anche se quella non era la loro battaglia, Sango e Miroku avevano un motivo valido per continuare a battersi. E quel motivo si chiamava Inuyasha.

 

Era stato per lui che si erano avventurati nei territori dell’Ovest, era stato per lui che avevano lasciato Musashi; era stato per lui che avevano accettato di battersi sotto il comando di Sesshomaru ed era per lui che affrontavano ogni giorno i pericoli della battaglia. Non ne avevano neanche discusso. Era stata una decisione spontanea. Quasi naturale. Forse un modo per dimostrare all’hanyou che anche loro erano forti, forse l’occasione per sdebitarsi con lui di tutte le volte che gli aveva aiutati. Le motivazioni erano molte e non sempre chiare, nemmeno nella mente di Sango e miroku l’unica cosa certa era che non era stata la pietà a muoverli. E neanche la compassione. E questa consapevolezza bastava a renderli orgogliosi di essere lì, benché l’orgoglio non fosse la gioia di dover lottare.

 

Kagome si soffermò un attimo sul viso dell’amica: era pallida e provata nel corpo e nello spirito. Benché abituata alla morte, un conflitto di quelle dimensioni non era mai stato affrontato da nessuno di loro. E in più, la ragazza non poteva dimenticarlo, Sango era costantemente in tensione per il fratellino. C’era una domanda inespressa nella mente di tutti: cosa avrebbe fatto la sterminatrice se se lo fosse ritrovato di fronte? Sarebbe riuscita a combattere contro di lui? Un profondo respiro sfuggì al controllo di Kagome, mentre posava sul loro sostegno gli hashi. La risposta era così scontata che nessuno avrebbe potuto ignorarla: Sango non avrebbe mai combattuto il fratellino. Piuttosto, si sarebbe fatta uccidere.

 

Morire al posto del fratello…Un concetto del tutto estraneo alla mentalità demoniaca. Un legame di sangue, fra i demoni, non significa per forza qualcosa. E la prova era il rapporto conflittuale che da sempre intercorreva fra Sesshomaru e Inuyasha. Un legame che aveva sempre provocato disgusto nel primo e frustrazione nel secondo. Perché, comunque, il loro sangue si riconosceva, e anche solo nell’aspetto i due fratelli si richiamavano. Un sottile filo che sosteneva un peso enorme. Nessuno di loro si sarebbe mai immaginato Sesshomaru intervenire a difesa del fratellastro. sarebbe stato delirio anche il solo pensarlo. Eppure, era ben viva nella memoria di tutti la notte del shingetsu: la notte in cui il demone aveva evitato la morte di Inuyasha. E in cui lo aveva chiamato Principe.

 

Consapevolezza? Accettazione? O, più semplicemente, solo un modo ancora più sottile per ferire l’hanyou? Appellandolo a quel modo, cosa voleva dire l’inuyoukai? Lo aveva riconosciuto o semplicemente gli aveva sbattuto in faccia di nuovo la differenza che c’era fra loro? Kagome non avrebbe mai dimenticato l’espressione che Inuyasha aveva stampata in viso quando era rientrato dalle stanze del fratello. Incredulità pura. E forse una punta di speranza. Si era lasciato andare a terra scivolando lungo ala parete ed era rimasto a lungo in silenzio. Ignorando totalmente le voci allarmate dei suoi amici. Nulla. Non aveva voluto dire nulla. Prima, aveva avuto bisogno lui stesso di razionalizzare quello che aveva sentito. Di renderne totale coscienza. Ma invece di andare nella sua stanza o in un qualsiasi punto tranquillo del palazzo, aveva preferito recarsi dai suoi amici. Aveva bisogno di sapere che loro c’erano. Che Kagome c’era. Alla fine, aveva raccontato loro di quelle poche parole che il fratello gli aveva rivolto e di quanto accaduto sul campo di battaglia. Non si era illuso, ma ne era rimasto comunque sorpreso: Inuyasha aveva sempre immaginato che suo fratello avrebbe goduto nel vederlo morire, magari proprio in forma umana. Non si sarebbe mai immaginato, neanche nei suoi più rosei pensieri, che Sesshomaru avrebbe intercettato un colpo diretto a lui. O forse, il vero punto della questione era: perché?

 

Un nuovo sospiro. Dopo quella notte, tutto aveva ripreso a scorrere normalmente. Inuyasha non aveva nessun incarico ufficiale a palazzo né Sesshomaru lo aveva presentato alla corte riconoscendolo come principe cadetto. C’erano state solo quelle parole. Dal significato ambiguo. Due braccia forti attorno alla vita e un respiro caldo a solleticarle il viso. Kagome trasalì quando avvertì l’abbraccio di Inuyasha, alle sue spalle, arrossendo per l’imbarazzo. Benché ormai i suoi amici sapessero del legame che li univa, non era abituata alla plateali manifestazioni d’affetto dell’hanyou. Anzi, solitamente era molto timido e si imbarazzava facilmente. Ci aveva messo degli anni a dichiararsi, e ancora avrebbe voluto mantenere segreta la cosa per evitare, aveva provato a giustificare, le allusioni maliziose di Miroku.

 

“Che Koga non mi senta, ma…ho una fame da lupi!”

 

Inuyasha lasciò a malincuore la ragazza e le sedette accanto. L’aveva sentita irrigidirsi al suo abbraccio e si era accorto del rossore che le aveva colorato il viso. Gli piaceva imbarazzarla quando sapeva che i presenti non l’avrebbero canzonata malignamente. Gli piaceva vedere il suo viso arrossato dal suo semplice tocco; gli trasmetteva un’eccitazione che lo percorreva in ogni parte, una scarica di brividi intensa e piacevole. La osservò mentre gli riempiva la ciotola di riso, pesce e sottaceti: le vesti sacerdotali che indossava le disegnavano appena il corpo, in modo dannatamente conturbante. Il volto pallido, incorniciato dall’ebano dei capelli, risaltava ancora di più, in contrasto con il rosso acceso dell’hakamana. Con il chihaya, Kagome richiamava pericolosamente la figura di Kikyo, e per questo la ragazza aveva inizialmente rifiutato di indossarlo. Tuttavia, alla fine Kagome aveva dovuto riconoscere che quell’abito era la garanzia migliore per la sua incolumità. Inoltre, il ragazzo omai non associava più le due figure: Kikyo era la donna che aveva amato e che gli aveva mostrato che il mondo non è sempre spietato. Kikyo era stata la sua ancora di salvezza, priam che il dolore e la disillusione lo trasformassero davvero, prima che perdesse completamente il lato timido e infantile della sua anima. Ma Kikyo era il passato. Il presente invece era Kagome, con la sua solarità, l’ingenuità della sua età e la fiducia totale che aveva in lui. Era stata lei a finire il lavoro della miko. Lei era riuscita a farlo volare lontano da un mondo che lo soffocava. Lei lo aveva accettato semplicemente per quello che era.

 

La ringraziò con un sorriso quando gli porse la ciotola, ignorando volutamente l’occhiata stupita e sospettosa della ragazza. La stessa che attraversava gli occhi di Sango e che aveva caratterizzato Miroku poco prima. Effettivamente, non era facile vederlo separarsi dal suo karingiru, ma dopo la notte trascorsa ad assolvere l’odioso compito di sgombrare la corte interna dei cadaveri dei demoni che erano stati dilaniati dalle granate, l’abito era talmente pregno dell’odore di sangue e carne bruciata che gli dava la nausea. Era stato costretto a toglierselo e Jacken gli aveva portato quel tsukesage nero con ricamato in cremisi un dragone sulla manica destra e sull’orlo inferiore. Probabilmente, lo aveva preso dall’armadio di Sesshomaru; un vecchio tsukesage che il Principe non indossava più. D’altro canto, non era neanche il caso di sprecare soldi e stoffe per fargli avere un kimono degno di un principe cadetto. Lui era un bastardo, quella era la realtà. Costretto ad elemosinare anche un pezzo di stoffa nella casa di suo padre. In una casa che non gli era mai appartenuta, e che disperava di riuscire mai a sentire, almeno un po’, parte di sé.

 

Si passò una mano nella lunga frangia, abbassando inconsciamente le orecchiette. Si sentiva completamente inutile. Insensato. Sesshomaru lo aveva chiamato Principe, ma non aveva fatto nulla per dimostrare di averlo riconosciuto. Inoltre, poteva benissimo essere una nuova trovata per esasperarlo. Gli era sempre piaciuto giocare con la sua psiche. Alludere, dribblare fra realtà e ricordi lontani, per poi lasciarlo nel dubbio o sbattergli in faccia la verità. Eppure, Inuyasha era certo di aver sentito un tono diverso nella voce del fratello. Qualcosa che non si sapeva spiegare e neanche riusciva ad accettare razionalmente, visti i precedenti, ma che non riusciva assolutamente a negare. Non voleva negare quel qualcosa di indefinito che sembrava aver iniziato ad avvolgerli. In bene o in male.

 

Sbirciò i suoi amici, dall’altro lato del tavolo. Sango, tralasciando il leggero pallore dovuto alla stanchezza e alla tensione che neanche il sonno riusciva a cancellare, nel complesso si poteva dire che stava bene, pronta a scendere in campo in ogni momento. Un sorrisetto, quasi di orgoglio, gli piegò le labbra. Aveva sperimentato sulla sua pelle, anni prima, la forza e la determinazione della taijiya ed era sempre stato fiero di averla al suo fianco in battaglia. Non glielo aveva mai detto, perché parlare era una cosa che in certi momenti gli risultava estremamente difficile, tuttavia era davvero onorato di potersi battere con lei.

 

“Maniaco!”

 

Il rimprovero e l’eco di uno schiaffo lo risvegliarono dalle sue considerazioni. Miroku aveva tentato di nuovo di lusingare Sango, col risultato che adesso si stava massaggiando la guancia rossa con un sorriso a metà fra l’ebete e l’imbarazzato. Inutile farsi false speranze: il monaco non sarebbe mai cambiato. Tuttavia, il fatto che avesse voglia di scherzare era un elemento positivo, come era palese agli occhi di Inuyasha e Kagome il fatto che lo schiaffo di Sango era stato meno forte del solito. L’hanyou sospirò, tornando a concentrare la sua attenzione sull’amico, che cercava inutilmente di riappacificarsi con la sterminatrice. Miroku era pallido, il viso scavato e segnato da profonde occhiaie; anche la veste sacerdotale gli cadeva addosso con poca grazia, sottolineando quando fosse dimagrito in poco tempo. Tenere in piedi una barriera spirituale per quasi ventiquattr’ore al giorno non era certo un compito indifferente, neanche per un monaco anziano e molto allenato. E Miroku era ancora un ragazzo; eppure, non si sottraeva mai all’incombenza che lo chiamava a erigere una barriera a difesa della breccia nelle mura, concedendosi pochissimo riposo, giusto quello necessario a riprendere un poco le forze. Se Kagome non gli trasmettesse, quotidianamente, un po’ della sua energia di miko, probabilmente il ragazzo avrebbe ceduto già da tempo.

 

…vi ho trascinato in una situazione che vi sta distruggendo…Voi rischiate ogni giorno la vita, e io non posso neanche uscire da queste stanze…non posso neanche essere con voi in battaglia…

 

Si voltò lentamente verso Kagome. Sorrideva. Scherzava. Rideva. Anche in quella situazione precaria, la ragazza non perdeva il suo sorriso. La sua vitalità avvolgente. Quella forza che lo aveva incantato e che lo spingeva avanti. Seguì il profilo del viso: la fronte coperta dalla frangia corvina, il naso piccolo, le labbra carnose. Giù-giù lungo il mento, il collo elegante e snello, lungo quella linea aggraziata e conturbante che spariva oltre l’orlo del date-eri. Quanto tempo era trascorso dall’ultima volta che era tornata a casa? Mesi di certo. Il numero esatto non lo ricordava, ma dovevano essere almeno due mesi. Si era offerta di accompagnarlo a palazzo. Si era offerta di stare con lui. Non lo aveva voluto abbandonare. Non lo aveva mai abbandonato, nonostante tutte le volte che in passato l’aveva fatta soffrire, lei era sempre rimasta al suo fianco. Discreta, ma costante. Sicura.

 

Inuyasha rubò un pezzetto di tamago-yaki dal piatto di portata comune, assaporandolo direttamente con gusto e fregandosene dell’etichetta. Aveva fame. Una maledetta fame. Dovuta al nervosismo. Avrebbe preferito sfogarsi in altro modo, magari con una bella scazzottata con Koga, ma in mancanza di meglio andava bene anche il cibo. E non era solo la situazione di assedio endemico a fargli mantenere un atteggiamento di continua irrequietezza, ma anche il fatto che, in circa due mesi, non era ancora riuscito a capire cosa diavolo passasse per la testa di suo fratello e di Alessandra. Chiedere loro era pressoché inutile: Sesshomaru non gli avrebbe mai perdonato la sua indiscrezione, specie in un momento del genere, e la ragazza non si lasciava sfuggire una sola parola. Anzi, nei rari casi in cui erano tutti assieme si comportava verso il Principe con fredda cortesia. Quasi con indifferenza.

 

Ignorò i rimproveri di Kagome e rimase sdraiato sul tatami, le braccia dietro la nuca. Lo sapeva anche lui che era da maleducati stendesi subito dopo aver mangiato, soprattutto se gli altri commensali non avevano ancora finito, ma rispose ai richiami della ragazza con una smorfia e strizzando gli occhi: aveva solo voglia di esser lasciato in pace a pensare. Alla fine, Kagome si rassegnò e lo lasciò tranquillo a fissare il soffitto a cassettoni finemente intagliati.

Inuyasha non riusciva a mantenere la sua attenzione su un solo pensiero che subito un altro si affacciava alla mente. Erano troppo le novità che lo avevano investito in quei giorni, e non ultima la storia che il Sensei aveva raccontato loro: le origini di quella guerra, vecchie più di quattrocento anni. Un conflitto che aveva riguardato suo padre, che lo aveva toccato molto da vicino. Aveva provato a saperne di più da Kumamoto, ma il vecchio generale si era mostrato piuttosto restio a parlare. E lui credeva di poter capire quello che provava.

 

“Dolce Alessandra! Fate colazione con noi?”

 

Si rimise a sedere di colpo, con una spinta di reni. Non si aspettava di vederla così presto. Sembrava quasi che i suoi pensieri sconclusionati l’avessero evocata. Purtroppo, in un momento per lui poco opportuno. Non era facile che Alessandra avesse un momento libero, e lui non riusciva mai ad avvicinarla in privato. E anche se ce l’avesse fatta, non era certo che sarebbe riuscito a intavolare il discorso senza arrossire e balbettare. Non era faccende adatte a lui, quelle. Maledizione! Sapeva benissimo che se voleva risposte doveva chiedere, ma come si fa a porre una domanda tanto personale senza essere indiscreti? Inuyasha sospirò. Avrebbe rimandato ancora, benché la curiosità lo stesse divorando. Una curiosità cui si sommava l’incredulità che suo fratello potesse provare qualcosa per la ragazza, anche se aveva avuto personalmente prova del fatto che non gli era indifferente. Tuttavia, riuscire a capire se l’interesse del demone verso qualcosa fosse dettato da semplice calcolo o da altre motivazioni era una cosa che Inuyasha non era mai stato abituato a fare, da sempre costretto a scrutare il volto del fratello alla ricerca solo del sorrisetto di scherno che precedeva un attacco.

 

Alessandra, ferma vicino alle shoji socchiuse, storse la bocca. Non che l’idea di mangiare la nauseasse, ma non l’allettava una colazione come quella che stavano consumando i suoi amici. Certo, era un pasto nutriente, molto adatto alle giornate sfibranti che vivevano, ma lei non era mai riuscita ad abituarsi ad una colazione salata con riso, sottaceti, natto, miso, frittata e pesce salato e cotto alla griglia, e magari anche un piatto di bollito e di alghe. Tuttavia, quando intravide anche dei wagashi e un kyusu, si risolse ad accomodarsi di fianco ad Inuyasha, mascherando il leggero sorriso che le aveva attraversato le labbra. Aveva riconosciuto il tsukesage che indossava l’hanyou: un abito di Sesshomaru. Il demone lo aveva consegnato di persona a Jacken con apparente malagrazia, ma Alessandra non aveva potuto evitare di notare che fra tutti i kimoni, lui aveva scelto uno dei più belli. Forse inconsciamente, forse con piena cognizione di causa, il Principe stava lentamente iniziando, se non proprio a riconoscere, almeno ad accettare la figura del fratellastro. Peccato solo che di tutto quello che era successo negli appartamenti del Principe Inuyasha non sapesse niente. In caso contrario, ci sarebbe stata la speranza di veder sparire almeno per un po’ la sua espressione crucciata e affranta.

 

Alessandra scosse la testa. Inutile farsi illusioni. Sesshomaru aveva non poche difficoltà anche solo a parlare con lei; era quasi impossibile sperare che sarebbe riuscito a intavolare una conversazione pacifica con il fratello. Meglio aspettare, e lasciare che il tempo faccia elaborare sensazioni e percezioni, creando nuove certezze e facendogli accettare una realtà che si era modificata lentamente sotto i suoi occhi e che lui ancora rifiutava. In definitiva, anche il loro rapporto si era evoluto lentamente, e non esisteva parola capace di definirlo. Si cercavano, ma nessuno di loro aveva mai detto all’altro di amarlo. Si accontentavano della sicurezza che i loro gesti, le parole inespresse e le sensazioni regalavano loro. Comportamenti ambigui, di cui Alessandra aveva piena coscienza. Come sapeva perfettamente che le occhiate curiose che gli amici le lanciavano, anche in quel momento, celavano il desiderio di porre domande anche impertinenti. Per sapere. Per vincere una curiosità che li stava divorando. E che prendeva soprattutto Inuyasha. Era quasi comica la situazione. Probabilmente, se non si fossero trovati nel mezzo di un assedio, avrebbe dovuto sopportare quasi quotidianamente un vero e proprio interrogatorio. Un pensiero che la faceva sorridere, e al contempo l’intristiva. Perché ormai sapeva che, almeno a breve, non avrebbe potuto rivelare nulla del reale rapporto che la legava a Sesshomaru. Ancora per molto, probabilmente, sarebbe rimasta un’ombra della vita del demone. Anzi, una macchietta che la corte avrebbe voluto eliminare alla prima occasione.

 

Basta! Non voleva più pensare. In quel momento, desiderava soltanto gustarsi quei minuti di tranquillità, ascoltando le conversazioni e le battute dei suoi amici. Sì…Amici. Poteva chiamarli così. Si sentiva di chiamarli così. Di riusare un vocabolo che credeva di aver dimenticato. Con Sesshomaru aveva realizzato nel modo più profondo possibile il peso che anche una singola parola può avere. Il demone calibrava ogni sospiro, ogni suono. Non si lasciava sfuggire nulla che non avesse un suo preciso valore. Lapidario. Incisivo. Mordente. Sapeva essere spietato anche solo con il tono freddo e distaccato della voce. Quella voce che, quando era con lei, cambiava. Veniva modulata con maggior dolcezza, piegandosi in inflessioni strane e seduttrici. Poche parole. Sesshomaru non le sprecava mai, sia che comandasse sia che…amasse. Tuttavia, ad Alessandra andava bene così. Sapeva di non poterlo cambiare più di tanto, e sapeva anche di amarlo proprio per come era, con la sua sfacciata sicurezza e l’autorità austera, con le sue piccole manie e i suoi limiti. Con la sua gentilezza discreta e la passione nascosta.

 

Appoggiò il mento alla mano e si finse interessata alla conversazione. In realtà, si limitava a gustare le sensazioni che l’oribenishiki le trasmetteva. Lo sentiva sciogliersi morbido sulla lingua, con il suo sapore di castagna. Lo zucchero che scricchiola sotto i denti. La marmellata che bagna il palato, mescolata al sapore forte del tè. Le piaceva. Semplicemente.

 

“Avete visto Rin? Non riesco a trovarla”

 

Jacken. Era entrato senza molte cerimonie nella stanza, tormentando fra le mani secche il bastone Ninto. Ancora non riusciva a capacitarsi del fatto che il suo signore permettesse a dei ningen di risiedere al castello e di combattere per lui. E soprattutto non riusciva ad accettare che un hanyou come Inuyasha potesse muoversi quasi in assoluta libertà. Era intollerabile. Non riusciva neanche a guardarlo senza dissimulare un moto di stizza. Anche in quel momento. Perché, con addosso il tsukesage del fratello, il ragazzo richiamava pericolosamente, pur se a sua insaputa, la figura del Principe. E il piccolo kappa non riusciva ad accettare che un miserabile mezzo-sangue si pavoneggiasse con quelle vesti lussuose indegne di lui. Chissà poi perché il padrone aveva scelto proprio quell’abito, quando poteva benissimo ignorare le necessità del fratellastro o magari fargli avere uno dei cenci dei servi.

 

Aveva ingoiato fiele prima di trovare la forza di entrare in quella stanza. Non gli piaceva l’idea che lui, diretto subordinato del grande Sesshomaru, doveva ridursi a mendicare alcune informazioni da dei miserabili umani. Tuttavia, la bimba sembrava sparita, e più che al suo sottile orgoglio, Jacken teneva alla sua vita. Sentiva i brividi percorrergli tutto il corpo al solo pensiero di cosa sarebbe stato capace di fargli il suo signore se fosse capitato qualcosa a Rin.

 

Inuyasha e i suoi amici ne ebbero quasi pena; Jaken sembrava prossimo ad una crisi isterica, tanta era la tensione che lo attanagliava. Tuttavia, loro non avevano visto la bimba dalla sera prima, e quindi non potevano essergli di nessun aiuto. Jacken respirò rumorosamente. Mai che quegli stupidi fossero utili a qualcosa, davvero il padrone doveva esser ammattito per aver accettato di ospitarli. Anzi, se non fosse che erano tutti più grandi di lui e che, quando voleva, anche Inuyasha poteva essere crudele come il fratello, Jacken li avrebbe volentieri messi tutti alla porta. Guerra o non guerra.

 

Ma in fondo, non era neanche certo che fosse stato il suo signore a volere quella situazione. Anzi, ne era sicura. la colpa di tutta quella situazione che rasentava l’assurdo era di quella ragazza che se ne stava tranquilla in disparte a grattare la testa di Kiba, appena entrato dall’engawa. Se non fosse mai comparsa lei, forse Sesshomaru non sarebbe mai cambiato. Prima, Jacken non sarebbe mai stato concepire il suo padrone capace di preoccuparsi per qualcuno che non fosse Rin. E in quei casi era sempre un interesse quasi impercettibile. Non che con Alessandra il demone fosse più espansivo di attenzioni, ma per chi, come lui, lo conosceva da anni certi piccoli particolari non sfuggivano.

 

“E tu? Non ne sai niente neanche tu?”

 

Voce scocciata, finto autoritaria. Non ci riusciva. Proprio non riusciva a rivolgersi a lei come se fosse la padrona. Sesshomaru glielo aveva detto chiaramente: avrebbe dovuto trattarla con tutti gli onori, con deferenza, ma Jacken proprio non ci riusciva. E la sua repulsione non era motivata semplicemente da un sentimento come la gelosia. Ammetteva di esser infastidito dal fatto che la ragazza aveva occupato una posizione di tutto rispetto. Come archiatra, avrebbe potuto godere di un prestigio non indifferente, capace di mettere in ombra anche lui, che a palazzo, in condizioni normali, era secondo solo al Principe. No. Non era neanche questa la causa originaria del suo fastidio. Jacken sapeva bene che un giorno accanto al suo signore ci sarebbe stata una donna. Anche solo per necessità dinastiche. E si era sempre preparato psicologicamente al fatto che, a quel punto, lui sarebbe stato messo da parte. Una donna lo avrebbe scalzato dalla sua posizione. Una yasha. Bellissima e fiera. Una yasha potente, degna di padron Sesshomaru. Una yahsa. Non una semplice ningen. Era quello che Jacken proprio non riusciva ad accettare: il suo padrone non poteva davvero voler al suo fianco una misera donna umana. Averla come diversivo, come passatempo, era accettabile. Un giocattolo, con cui divertirsi prima che la corte gli imponesse un legame consono al suo rango.

 

Tuttavia, Alessandra era trattata dal demone con un’affabilità che Jacken non gli aveva mai visto usare con nessuno. E adesso, anche lui si trovava costretto a parlarle. E non sopportava l’idea che lei avesse la risposta. Come gli risultava odioso il leggero sorriso, innocente, rilassato, che accompagnò la risposta della ragazza, che continuava tranquillamente a coccolare il lupacchiotto.

 

“Non preoccuparti. Sono sicura che sta bene”

 

*****

 

Stizza.

Una sensazione sgradevole, che gli faceva arricciare le labbra, in un moto di rabbia mal repressa. Che lo portava a scoprire i canini appuntiti. Un fremito leggero a incurvare le labbra sottili, unico accenno su un viso che si ostinava a non tradire un’emozione. Imprigionato nella sua consueta glacialità. Forse, ancora più sinistra in quel momento; la freddezza degli occhi spenti cozzava terribilmente con la figura ancora giovane. Era estremamente difficile capire se si avesse davanti un ragazzo o un uomo adulto. L’aurora sottolineava la pelle quasi diafana, addolciva i tratti e gli conferiva un aspetto etereo e infantile. I lineamenti sottili e affilati sembravano quelli di un ragazzino. Quelli della sua apparente età. Ma gli occhi…Quegli occhi inespressivi, maledettamente freddi. Sembravano incapaci di trasmettere qualcosa che non fosse rabbia e disgusto.

 

C’erano momenti, come quello, in cui davvero neanche Kumamoto sapeva come prenderlo. In Sesshomaru sembravano convivere e scontrarsi due nature: la forza selvaggia e indomita della sua razza, la fierezza che gli veniva dalla madre, e anche barlumi di infanzia, piccoli particolari che rivelavano la sua giovinezza rubata, piegata ad una causa più grande di lui. In quei momenti, nel volto del Principe, Kumamoto rivedeva i tratti di Inutaisho. Rivedeva l’austerità cui il suo amico doveva costringere se stesso contro sua volontà. In quei momenti, inconsciamente, Sesshomaru soffriva ciò che aveva sofferto suo padre.

 

“Esigo una spiegazione”

 

Voce tremante. Di rabbia. Di indignazione. Forse, di paura. Kumamoto si era abituato in fretta a cogliere le sfumature del suo Principe. Ed era sicuro che ci fosse anche paura nella sua voce. Il sospetto di venir ritenuto inadeguato, di esser paragonato al genitore uscendone sconfitto. La paura di non aver superato un esame che esisteva solo nella testa del Principe. Il vecchio generale sospirò. Se Sesshomaru aveva deciso che lo stava esaminando, difficilmente sarebbe riuscito a fargli cambiare idea. Era cosciente che sarebbero state inutili anche le rassicurazioni. Lui non ci avrebbe mai creduto. Diffidente, come sempre. Insicuro.

 

Un sorrisetto gli increspò le labbra. Era davvero incredibile pensare al Principe come ad una persona insicura. Lui sempre distaccato e controllato; lui che non sembrava minimamente in grado di distinguere una battuta da un’offesa. Eppure, Sesshomaru era profondamente insicuro. Soprattutto, quando si trovava a dover parlare con il vecchio amico di suo padre.

 

“Sto aspettando, Principe di Kita

 

Kumamoto socchiuse l’occhio sano. Se usava quell’appellativo doveva essere proprio infuriato. In tanti anni, in quei mesi, non lo aveva mai chiamato in quel modo; si era sempre rivolto a lui come al generale di suo padre. Mai come al Principe del Nord. In quel momento, Sesshomaru stava rivestendo anche il ruolo che la sua discendenza e il suo potere gli conferivano: lo stava interrogando non più come Principe dell’Ovest, ma come Primo della Famiglia. E il motivo era quasi infantile: si sentiva violato nella sua autorità. Si sentiva scavalcato. Anzi, probabilmente, la sua mente non riusciva che ad elaborare una parola: inadeguato.

 

Spiegare…Trovare le parole giuste, per fargli capire che aveva agito solo per il suo interesse. Senza alcuna volontà di offenderlo. E nel pieno dei suoi diritti. Lo sapevano entrambi: Kumamoto non aveva fatto nulla di scorretto, limitandosi ad avvertire gli altri clan inuyoukai del conflitto in corso. Quella era una prassi rara all’interno della Famiglia, ma il generale l’aveva ritenuta importante in quel frangente. Uno scontro fra due dei sei principali clan dei demoni-cane poteva provocare ritorsioni e astio nei riguardi di Sesshomaru da parte degli altri. Già quattrocento anni prima, durante il primo scontro con Morigawa, si era rischiata una guerra interna che avrebbe potuto compromettere enormemente il prestigio e l’influenza degli inuyoukai all’interno del Consiglio. A quel tempo, l’abilità diplomatica e la fermezza di Inutaisho erano riusciti a reprimere i contrasti, ma in quel momento suo figlio non era ancora capace di esercitare la stessa influenza e soggezione. Era ancor troppo giovane.

 

Per questo, Kumamoto aveva preferito chiarire con gli altri clan. Per evitare possibili futuri conflitti. Non per mancanza di fiducia verso il Principe dell’Ovest. Solo, aveva cercato di guardargli le spalle. Una premura che il bel demone non sembrava comprendere; o più semplicemente non voleva accettare, arroccato nella sua testarda convinzione di essere totalmente e sempre autosufficiente. Lo sapeva. Il vecchio generale riusciva a intuire i mille pensieri che gli attraversavano la mente con una facilità disarmante. In quei mesi, da quando era tornato agli ordini del Principe come suo generale e alleato, aveva imparato a interpretare ogni suo gesto, come riusciva a capire, un tempo, anche Inutaisho. Sesshomaru era più sfuggente, e molti dei suoi atteggiamenti erano spesso indecifrabili, tuttavia c’erano momenti, soprattutto quando la rabbia lo prendeva e lui cercava di dominarla, in cui era più facile intuirne i pensieri.

 

Il Sensei aveva voluto raccontare l’origine di quella guerra insensata. Una guerra nata dall’invidia, da un semplice sentimento umano, e che aveva già portato numerosi lutti. E adesso, il suo fantasma era ancora incombente, pronto a mietere altre vittime. Kumamoto non aveva fatto obbiezioni alla decisione dell’anziano Maestro. Di chi era agli ordini del Principe, solo loro due conoscevano la storia nella sua interezza, ed entrambi concordavano nel fatto che fosse ora che i figli conoscessero la storia dei padri. Quello che però il Sensei non aveva detto era la sua volontà di non far ripetere la storia. A qualsiasi costo, questa volta non ci sarebbe stati errori o ripensamenti.

 

Sesshomaru strinse la mascella, indurendo maggiormente la sua espressione. Non gli piacevano proprio le parole di Kumamoto. Lui non temeva certo la Famiglia; anzi, se avesse voluto, avrebbe potuto annientarla subito. Senza alcun ripensamento. Tutti. Per questo non riusciva a vedere l’azione del generale sotto una luce diversa dalla mancanza di fiducia. E la cosa gli faceva rabbia. Rabbia. Rabbia. Folle. Devastante. Perché voleva dire che, nonostante tutti gli sforzi fatti, non era ancora riuscito a raggiungere i livelli di suo padre. Gli era ancora inferiore. Inadeguato. Indegno di succedergli. Era ancora un pivello, bisognoso di esser guidato per mano. Una situazione che lui, per troppo orgoglio, non voleva neanche dover considerare.

 

“L’ho fatto per il tuo bene, ragazzo. Ficcatelo in testa!”

 

Inconsciamente, la rabbia dell’inuyoukai dileguò e i suoi occhi si rilassarono, diventando quasi malinconici. Tristi. Lontani. Ragazzo…Lui era l’unico che lo chiamasse così. L’unico che gli si rivolgesse con quel tono confidenziale. Neanche Alessandra gli usava il rispetto che gli sarebbe dovuto, ma con lei era diverso. Anche solo il modo in cui lo chiamava era diverso. Era sempre il suo nome, quello che pronunciava, anche se privo del suffisso onorifico. Kumamoto, invece, era l’unico che ancora gli rivolgesse quell’appellativo. L’unico per cui non smetteva mai di essere il bambino che in un passato orami remoto gli correva in contro sorridendo.

 

Ragazzo…Non ricordava che suo padre avesse mai usato una parola tanto confidenziale nei suoi riguardi. Lo chiamava figlio, lo chiamava per nome, ma non ricordava di avergli mai sentito rivolgere una parola a metà fra l’orgoglioso e il canzonatorio. Suo padre lo aveva sempre trattato con distacco, ma Sesshomaru era pronto a scommettere che con Inuyasha non avrebbe mai avuto lo stesso atteggiamento. Lo avrebbe coperto di premure e attenzioni, lo avrebbe chiamato figlio, lo avrebbe chiamato forse proprio in quel modo. Con parole che a lui non aveva mai rivolto.

 

Appoggiò la fronte alla mano, oscurando parzialmente il volto. Ricordare l’atteggiamento di suo padre nei suoi confronti gli faceva sempre male. Evitava di pensarci il più possibile, ma sapeva che il pungolo del rimorso era sempre in agguato, pronto a stuzzicare il suo senso di inadeguatezza in qualsiasi momento. E da quando era iniziata tutta quella storia, lui sembrava non trovare più un attimo di respiro. Si sentiva continuamente in tensione, sotto analisi, costretto a dimostrare a tutti chi fosse; costretto a dimostrare il suo valore al Sensei, a Kumamoto. Costretto a non cedere mai, per impedire che anche solo il sospetto di un possibile confronto con Inuyasha si affacciasse. Non voleva esser raffrontato al fratellastro. Non sopportava quell’idea, perché, lentamente, stava prendendo sempre più corpo in lui la convinzione che da un passibile paragone lui ne sarebbe uscito sconfitto. annientato. Suo fratello lo avrebbe di nuovo battuto. E non su un campo di battaglia, dove si può rimediare con un nuovo duello. Lo avrebbe surclassato in quello che era il suo orgoglio, la sua ragione di vita: lo avrebbe mostrato indegno dell’eredità che portava.

 

Stupido! Era da stupidi farsi prendere da simili pensieri. Sesshomaru ne era pienamente consapevole. Si stava comportando come un bambino, quasi crogiolandosi in quella situazione sfiancante. Perché non lo cacciava? Perché non riusciva ad allontanarlo dal palazzo? Non sarebbe neanche stata necessaria una scusa. Lui era il Principe, ed era a sua discrezione decidere chi potesse restare al palazzo e chi invece dovesse andarsene. Eppure, niente. Non lo avrebbe mai ammesso, neanche a se stesso, ma il saperlo lì gli dava una sensazione indefinibile. Quasi di sicurezza. Di certezza. Inconsciamente, il pensiero di averlo al fianco, di poter contare su quella forza che non avrebbe mai riconosciuto ma che sapeva che c’era, la certezza di potersi fidare, perché Inuyasha non lo avrebbe mai colpito a tradimento neanche in quel frangente erano tutte sensazioni che gli impedivano di cacciarlo. Era stato per quelle sensazioni che lui si ostinava a non voler decifrare che aveva consegnato a Jacken un suo tsukesage. Un gesto insensato. Perché avrebbe potuto benissimo ignorare quella necessità del fratello o approfittarne per stuzzicarlo nuovamente. E cosa aveva fatto, invece? Gli aveva dato un kimono della stoffa più pregiata e preziosa. Il kimono degno di un Principe.

 

Principe…Già; lo aveva chiamato proprio così. Lui. Lui che aveva sempre cercato di ucciderlo, proprio perché nessuno potesse mai anche solo pensare di dargli quel titolo. Ucciderlo per lavare l’onta della dinastia disonorata. Ucciderlo per non vedersi affiancare un fratello mai voluto e detestato. Tragica ironia! Alla fine, era stato proprio lui a dargli quel titolo per primo. A chiamarlo come mai nessuno, ningen o youkai, aveva mai fatto. Perché? Buona domanda. Peccato che non ce l’avesse, la risposta. Aveva parlato senza pensare, e la voce si era modulata da sola fino a comporre quelle parole. Quella parola. Quasi avesse voluto proteggerlo. Come se quello fosse l’inizio di una serie di insegnamenti. Un qualcosa che sapeva di conosciuto.

 

Sesshomaru trasalì impercettibilmente. All’improvviso, si era ricordato perché quelle parole gli suonassero così familiari. Quelle parole…Il primo, forse l’unico, consiglio che suo padre gli avesse mai dato: non abbassare mai la testa. Non arrendersi mai. Sempre e comunque. Andare sempre avanti, fregandosene degli altri. Attenti solo a fare quello che veramente si crede giusto. Andare avanti, per qualcosa di veramente importante. Rialzò il viso verso Kumamoto. Stava aspettando un suo giudizio. L’anziano generale, da cui lui avrebbe avuto molto da imparare, stava aspettando una sua parola come un discepolo aspetta la verità dal maestro. Sesshomaru sospirò. Aveva agito d’impulso, spinto dalla rabbia, e non aveva considerato tutte le circostanze. Si era lasciato andare, convinto di aver trovato un capro espiatorio al groviglio emozionale che lo sfibrava. Invece, aveva solo rischiato di compromettere un’alleanza atavica. O forse, un rapporto di amicizia che lui non voleva riconoscere.

 

“Torna ai tuoi compiti, generale”

 

Lo sentì alzarsi con un leggerissimo mormorio, non avrebbe saputo dire se di approvazione o delusione. Sesshomaru sapeva che avrebbe dovuto aggiungere ancora qualcosa, anche solo una parola. Ma non ci riusciva. A volte, parlare gli sembrava la cosa più difficile al mondo.

 

Quando Kumamoto fu uscito, si portò la mano alla testa. Fitte gli attraversavano il cranio, facendogli rimbombare le tempie. Ronzio nelle orecchie. Si trascinò fino alla finestra, sedendosi con una gamba stretta al petto e il capo abbandonato sulla braccia conserte. Non riusciva più a riconoscersi. A comprendere lo sconforto che a volte lo coglieva. Il desiderio di liberarsi di qualcosa che non conosceva, ma che sentiva benissimo che lo stava soffocando. All’inizio, aveva pensato che il motivo di quel nodo alla gola fosse Alessandra. Il loro rapporto difficile. Ambiguo. Ora, non ne era più così sicuro. Con la ragazza stava bene. Riusciva di nuovo a respirare, senza alcun pensiero. Riusciva a sentirsi accettato senza condizioni. In ogni suo aspetto. Da quelli che lui ancora non conosceva a quelli su cui per secoli aveva basato la sua vita. Rimaneva sempre il problema di come riuscire a farla accettare a corte, e fino a quel momento lui non aveva mai voluto pensarci seriamente, tuttavia era ben intenzionato a non dover rinunciare a lei. E a dare finalmente un nome a quel sentimento che li univa. Ad accettare quel nome.

 

No. Il problema non era Alessandra. Era qualcos’altro. Qualcosa che non riusciva ad afferrare; gli scivolava irritante fra le dita, gli si mostrava per istanti troppo veloci perché riuscisse ad afferrarlo. Che si sentisse…stanco di essere da solo? Possibile che esistesse una simile solitudine? Una solitudine che neanche Alessandra e Rin riuscivano a colmare. Più che altro, una mancanza. Ma di che cosa? Di chi? Sesshomaru strinse forte gli occhi, come a reprimere lacrime che non esistevano, mentre un respiro lungo e profondo gli sfuggiva dalle labbra sottili, simile a un singhiozzo inconscio.

 

“Signor Sesshomaru…”

 

Rin. Profumo di bambina. Odore di carne tenera e fresca. Odore di erba bagnata. Odore di pioggia. Sollevò la testa con uno scarto nervoso. Era lì. La bimba che lo aveva salvato tre anni prima era davanti a lui. A pochi passi da lui. Timida e sorpresa. Forse, un po’ spaventata. Sesshomaru sorrise fra sé. Era davvero patetico. Non si era nemmeno accorto di non esser più solo nel kuroshoin. Decisamente, si stava rammollendo. La percepì avvicinarsi, più silenziosa del solito però. Forse, il trovarlo in quella insolita posizione l’aveva un po’ scossa. In definitiva, Rin era abituata a vederlo smarrito nei suoi pensieri, ma mai di certo lo aveva visto vicino allo sconforto. Quello era un lusso che non si era mai permesso. Una concessione cui non aveva mai indugiato. Non si era mai sentito, in passato, come in quei giorni. O forse, era sempre riuscito a farci fronte senza il minimo sforzo. Ma allora perché non era più così? Cosa era cambiato? Cosa?!... Un dubbio: davvero era cambiato qualcosa? Non era, più semplicemente, lui stesso che iniziava ad accettare inconsciamente i suoi limiti e le sue debolezze?

 

Mughetto. Profumo dolciastro di fiori. Riportò la sua attenzione a Rin. Ormai, gli era davanti. Lo scrutava a metà fra la curiosità e il sospetto. Quando era entrata, si era un po’ spaventata nel vederlo rannicchiato in un angolo, vicino alla finestra. Una figura bianca contro il nero della parete. Avvolta da una luce di pietra. Rin non aveva mai visto il suo signore in un simile atteggiamento. Le era sembrato un bambino. Le era sembrato piccolo e fragile. Le era sembrato…strano. Non era più il demone. Era diventato qualcosa che lei non aveva mai visto. Lo aveva chiamato e lui l’aveva fissata. Quasi spaurito. Non doveva neanche essersi accorto dello sguardo smarrito che le aveva lanciato. Oro opaco traballante. Occhi infinitamente tristi. Disperati. Lo spazio di un respiro, e avevano riassunto la loro solita sfumatura ambrata, gelida. Era stato questione di pochissimo, ma Rin era sicura di averlo visto davvero quello sguardo negli occhi del suo signore.

 

Era andata da lui perché voleva regalargli quei fiori. Quei piccoli mughetti che aveva visto bucare la neve e crescere, verdi e bianchi. Alzarsi nel freddo del vento, a dispetto di un inverno che ancora non voleva cessare. Quei fiorellini coraggiosi. Bianchi. Come lo era lui. Come solo il suo signore sapeva essere. E adesso che poteva darglieli, che ne stringeva il gambo tenero e verde fra le manine ancora sporche di terra e fango, si era anche dimenticata del suo regalo. Vedeva solo il signor Sesshomaru, con la sua apparente freddezza. E l’ombra che aveva attraversato prima i suoi occhi.

 

“Perché siete triste, Sesshomaru-sama?”

 

Il demone chiuse gli occhi, rilassandosi con un respiro impercettibile contro la parete. Triste…lo era davvero? Non sapeva esattamente cosa significasse esserlo. Non sapeva quasi nulla dei sentimenti che provava. Li avvertiva, ma non si era mai curato di classificarli, di attribuir loro un nome. Li aveva sempre considerati seccature transitorie. Inevitabili, ma facilmente ignorabili. Aveva visto la tristezza sul viso di Rin; si era intestardito perchè l’ombra inquieta sparisse dagli occhi di Alessandra. Si era trovato più volte di fronte a sentimenti che ignorava, e non si era quasi mai preoccupato di capirli. Si era semplicemente impegnato ad allontanarli. Come si farebbe per un fastidio. Per un qualcosa che non si riesce e non si vuole afferrare, convinti che non abbia alcuna importanza.

 

Triste…Poteva essere triste anche lui? Ma perché? Preoccupato avrebbe potuto esserlo. Avrebbe avuto senso esserlo, con un assedio in corso. Eppure, Rin gli aveva chiesto se fosse triste. Non preoccupato. E non poteva di certo trattarsi di un errore. Lui avrebbe anche potuto confondere i due atteggiamenti, ma non la bambina. Lo conosceva bene orami. E conosceva le sfumature che le emozioni lasciano negli occhi.

 

“Non sono triste”

 

Mentire; senza neanche sapere se si sta dicendo la verità. Negare qualcosa che non si riesce a definire. Che si ha paura ad affrontare. Perché non era quello il momento per simili sensazioni. Prima aveva un assedio da sbaragliare e una guerra da vincere. Avrebbe battuto un antico avversario di suo padre. Un taiyoukai. Avrebbe affermato la sua forza e la sua potenza. Si sarebbe dimostrato invincibile. Pari a suo padre. Anzi, superiore a lui. Avrebbe finalmente messo a tacere tutte le voci che lo volevano inadatto, tutti i sospetti che, nonostante la sua freddezza, non sarebbe mai riuscito a raggiungere i livelli del genitore e ripristinare l’antico onore. Avrebbe estirpato una volta per sempre la malalingua che lo voleva destinato a commettere i medesimi errori di suo padre: il sangue non può mutare, dicevano, e lui avrebbe condotto la sua stirpe di nuovo al disonore.

 

Lo sapeva. Sesshomaru era perfettamente conscio delle voci che da sempre erano circolate all’interno delle mura del suo palazzo. Se, negli anni, con la sua condotta feroce e spietata, irreprensibile da un punto di vista demoniaco, sapeva di averle messe a tacere, era altresì conscio che il suo arrivo con Alessandra le aveva ridestate. E i corridoi risuonavano di sussurri di commiserazione e risatine ironiche: neanche il nuovo Principe era riuscito a restare immune al fascino delle femmine umane. Era un debole.

 

Debole…No. Assolutamente falso. Alessandra non lo aveva minimamente indebolito. La donna umana che teneva accanto a sé non lo avrebbe mai privato di quella forza di cui andava fiero, non lo avrebbe mai costretto a dimenticare la sua indole demoniaca. Per questo, era deciso a vincere: per dimostrare a tutta la corte che la sua forza non era minimamente scemata. Per sancire con le azioni una realtà, un’autorità, che la presenza di Alessandra non aveva assolutamente mutato. Allora, e solo allora, Sesshomaru si sarebbe sentito pronto. Sicuro. Determinato. Avrebbe imposto il suo volere senza tentennamenti: lui voleva Alessandra al suo fianco, e l’avrebbe avuta. Nessun youkai avrebbe mai osato contraddirlo, se ci teneva alla vita. Lei sarebbe rimasta con lui. Per sempre.

 

“Non dovete essere triste, Sesshomaru-sama. Se Sesshomaru-sama è triste, lo è anche Rin”

 

Una mano sul viso. Piccola, un po’ tremante. Gli scostava i lunghi capelli d’argento, disegnandoli il profilo elegante e severo. Qualcosa di strano. Di nuovo. Una sensazione che lo sorprese, facendogli dilatare leggermente gli occhi. Un respiro leggermente accelerato a sfiorargli la guancia, e un profumo penetrante di terra e di pioggia. Sentì il proprio braccio muoversi, incapace di controllarlo. Lo sentì sollevarsi, dimentico dei suoi comandi di restare fermo. Dimentico della sua freddezza. La mano si soffermò con delicatezza su quel corpicino che ora gli era vicinissimo, tremante e timoroso di aver davvero osato troppo. Di essersi spinto troppo aldilà di un limite che pure poteva superare.

 

Rin aveva chiuso gli occhi appena aveva visto la mano del suo signore muoversi. Sapeva che aveva fatto una cosa proibita. Sapeva di aver infranto un tabù, ma non riusciva proprio a capire perché dovesse esser sbagliato. Non le era piaciuta la risposta del suo signore, perché era falsa. E Rin non era abituata a sentir mentire il demone. Distante, freddo, anche sbrigativo. Ma non le aveva mai mentito. In quel moneto, invece, Sesshomaru aveva detto una bugia. E lei aveva capito che con le sue parole semplici, troppo infantili per esprimere quello che voleva dire, non sarebbe mai riuscita a parlargli. A offrirgli quella consolazione che l’inuyoukai sembrava chiedere inconsciamente con il suo atteggiamento distante. Non aveva trovato altro modo di non farlo sentire solo, se non avvicinandosi a lui fino a sfiorargli il viso con una carezza. Un contatto timoroso di sbagliare e sporcare quel viso irraggiungibile, quel viso perfetto, con la sua mano sporca di terra. Gli aveva dato una carezza e si era sollevata sulle punte, fino a riuscire a depositare un piccolo bacio sulla guancia del suo signore. Un qualcosa di mai fatto prima. Perché, se anche Sesshomaru le aveva permesso un contatto fisico, non era le aveva mai permesso di andare oltre un semplice abbraccio. Non le aveva mai permesso di toccarlo in quel modo. Di sfiorargli il viso. Neanche quando avrebbe voluto curarlo da graffi sottili che possibili combattimenti gli lasciavano.

 

Rin aveva chiuso gli occhi, incassando leggermente la testa nelle spalle. Aspettava. Aspettava con le labbra serrate e il respiro spezzato. Aspettava uno schiaffo che non arrivò mai. Al suo posto, la mano del suo signore le sfiorò il viso, salendo fino agli occhi e tergendo le piccole lacrime di sconforto e agitazione che la bimba non era riuscita a frenare. Rin, al contatto, socchiuse gli occhi, sbirciando fra il velo leggero e tremante che le offuscava la vista. Sesshomaru manteneva con ostinazione un viso impassibile, ma dai suoi occhi trapelava qualcosa che, forse, si sarebbe potuta dire commozione. L’youkai non si era mai aspettato un gesto simile, neanche dalla bambina. Era cosciente che Rin lo abbracciava appena ne aveva occasione, ma l’aveva sempre interpretato come un gesto dettato dalla necessità di assicurarsi della sua presenza. Per i bambini, il contatto fisico è importante, in quanto permette loro di mantenere saldo il mondo che li circonda. Sesshomaru aveva sempre pensato che gli abbracci di Rin fossero solo dettati dal bisogno di rassicurare se stessa della sua vita. Del fatto che lui non era una creatura della sua mente. Forse per pigrizia, forse proprio in virtù di quel circuito mentale che lo vedeva sempre dominatore e assogettatore, si era sempre convinto che Rin lo seguisse mossa soltanto da riconoscenza e timore. In definitiva, era stato lui a riportarla alla vita, anche se, ancora, cocciutamente, si diceva che lo aveva fatto solo per testare Tenseiga. Era sempre stato convinto che, un giorno, non avrebbe più travato la bimba ad attenderlo. L’avrebbe vista uscire dalla sua vita con lo stesso passo timido con cui le si era avvicinato la prima volta. Si era sempre convinto che Rin, prima o dopo, avrebbe avvertito il richiamo del mondo umano e sarebbe fuggita da lui, perché sapeva bene che, altrimenti, lui non l’avrebbe mai lasciata andare, anche solo per non dover separarsi da un qualcosa che diceva appartenergli. Come se fosse un oggetto.

 

Rispetto e paura. Ecco cosa aveva sempre ritenuto presente nell’animo della bambina. I soli sentimenti che lui aveva ritenuto possibili, almeno fino a quando non aveva incontrato Alessandra. La misura della sua autorità. Invece, era un altro il legame che aveva tenuto Rin accanto a lui. Qualcosa che l’aveva spinta a ritrovare la parola per il solo piacere di fargli conoscere la sua voce; qualcosa che l’aveva spinta a mostrare a lui il suo sorriso aperto e infantile. Ingenuo. Qualcosa che le diceva di raccogliere fiori per lui, di confidare in lui, di non lasciarlo mai. Un sentimento che Sesshomaru non sapeva definire, ma che in quel momento aveva avvertito chiaramente. Un sentimento che Rin avrebbe tranquillamente chiamato affetto.

 

Rin seguì la mano del demone che scendeva fino alla sua, liberandola dei mughetti che aveva raccolto per lui e che venivano deposti con attenzione sul tatami. Sembrava quasi che l’youkai temesse di rovinarli, di poter spezzare con un gesto brusco i loro calici delicati. Rin si sentì sollevare da due mani forti e, senza neanche aver il tempo di rendersi conto di quanto stesse effettivamente accadendo, si ritrovò seduta sulle ginocchia del suo signore. Stretta a lui. Vicina come solo poche volte le era stato permesso. Un pigolio leggero le uscì dalle labbra, un sussurro che faticava a mutarsi in suono.

 

“Sesshomaru-sama è arrabbiato con Rin?”

 

“No”

 

Rin sorrise, stringendo la stoffa del karingiru del suo signore e tuffando la testa nel suo petto. Contenta. Sesshomaru-sama non era arrabbiato con lei. Sesshomaru-sama le voleva bene. Perché aveva accettato il suo regalo; perché l’aveva presa in braccio e ora non dava segni di esser infastidito dalla sua presenza. Percepì la mano del demone sorreggerla e sistemarla meglio contro al suo petto, mentre il sonno si impadroniva di lei.

 

Sesshomaru piegò il viso verso la bimba che teneva stretta a sé. Aveva acconsentito che Rin lo seguisse convincendosi che fosse un suo capriccio. Aveva accettato di proteggerla nell’ottusa convinzione di star difendendo un oggetto di sua proprietà. Un leggero sorriso gli attraversò le labbra. Rin aveva infranto per prima la sua fredda corazza. Si era avventurata in un mondo nuovo e pericoloso senza timore. All’improvviso aveva deciso che tutto quello che le era stato detto fino a quel punto era sbagliato. Sbagliato considerare i demoni cattivi. Sbagliato pensare che gli uomini devono fuggire dagli youkai. Giusto stare con lui. Giusto sorridere per lui. Sesshomaru non era certo che un giorno sarebbe riuscito a comprendere qual era stata la molla che aveva spinto Rin a prendersi cura di un essere pericoloso e rosso di sangue. A restare con lui, a portargli cibo e acqua anche se lui l’aveva trattata male, a sorridere felice con la bocca sdentata e il viso coperto di lividi solo perché le aveva chiesto il modo in cui se li era procurati. Non sapeva se sarebbe mai riuscito a comprendere i ningen, ma non gli importava neanche. Era cosciente del fatto che Alessandra e Rin avrebbero sempre atteso pazientemente che lui capisse, che lui accettasse le loro particolarità, le loro diverse capacità di esprimersi. Come loro accettavano le sue.

 

Sfiorò il viso della bimba con una carezza. L’avrebbe protetta. Sempre. Perché lo voleva, non perché la considerava una sua proprietà. L’avrebbe protetta da tutto, perché lei fosse libera di poter restargli accanto, senza alcun timore per se stessa.

 

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Capitolo 42
*** 42. FRUSTRAZIONE ***


Gentilissime lettrici e gentilissimi lettori,

Gentilissime lettrici e gentilissimi lettori,

 

rieccomi a voi con un nuovo capitolo. Capitolo di passaggio, perchè, effettivamente, sarà il penultimo prima dell’inizio dello scontro finale. Niente Sesshomaru e Alessandra. Intendo torturarvi ancora un po’, ma non temete non saranno del tutto assenti. Certo, i personaggi principali sono altri, ma anche il demone e la ragazza saranno costanti nelle conversazioni.

 

Vi ringrazio sempre infinitamente per la comprensione e per la pazienza mostratemi.

Ringrazio Cornelia84, fairyelly83 e Jame che hanno avuto la gentilezza di commentarmi.

 

Buona lettura!

 

Avalon

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 42

FRUSTRAZIONE

 

 

Preciso.

La lama falciò di netto il suo bersaglio, con un taglio sottile e perfetto. Nessuna sbavatura, nessuna esitazione. Il ciocco di legna si divise in due, scivolando mollemente lungo quella linea sottile e diritta. Netta. Come un confine. Il prima dal dopo. Ieri e domani. Non c’è un oggi. Solo un respiro, quell’attimo prima di capire quando lanciare e dove. Per colpire. Per tagliare senza nessuna esitazione. Per uccidere.

 

Un tintinnio di metallo, e mentre il legno cadeva a terra con un tonfo sordo, il kusarigama ritornava ben saldo nelle mani del suo proprietario. Una lama lucida, leggermente sbozzata e tozza, ma estremamente pericolosa. Letale. Un’arma fatta di ossa di demone. Un’arma per uccidere demoni. Usata per loro. Per uno di loro. Perché quell’arma era al servizio di un demone.

 

Kohaku rilassò il braccio, lasciando che la catena sfiorasse la terra in un suono sommesso. Chi gli aveva dato quell’arma, chi gli aveva insegnato a usarla? Non lo sapeva. Non lo ricordava. Però, era consapevole di usarla nel modo sbagliato. Contro lo scopo per cui era stata creata; un’arma umana, un’arma di difesa, adoperata per servire uno youkai. Per servire il nemico della sua razza…

Un sorriso gli storse le labbra. La sua razza…Poteva ancora definirsi un ningen?...Ricordi non ne possedeva, ma sapeva che se era in vita lo doveva solo al frammento di sfera nel suo corpo. Solo a quello. Ma il perché di quella sorte, il motivo che lo aveva portato fra le fila di Naraku…quello era un qualcosa che gli sfuggiva. Se provava a ricordare, fitte di dolore gli attraversavano il cranio. Un male sordo, come un sibilo di avvertimento, come lo sforzo di sollevare un macigno franato troppo in fretta e troppo pesante.

 

No. Bugie. Non era difficile ricordare. Sarebbe stato così semplice…Vincere quel male, quella morsa che stringe le tempie e toglie la ragione; avrebbe potuto ricordare, ma la verità e che non voleva farlo. Non aveva il coraggio di farlo. Era come se lui stesso volesse precludersi qualcosa di troppo difficile da sopportare. Qualcosa che non avrebbe potuto vincere e che lo avrebbe prosciugato, distrutto. I ricordi…i suoi ricordi si interrompono ad un massacro, compito da lui. Prima di quell’episodio, il nulla. Una densa nebbia a precludere la memoria. Ma quell’eccidio lo ricordava bene. Gente di un villaggio, ningen…li aveva trucidati senza esitazione, senza distinzione, sotto lo sguardo compiaciuto del suo padrone. Sentendo sulla nuca i suoi occhi e nell’aria il suo sorriso compiaciuto. Poi, un duello…con una ragazza…Con quella ragazza…L’unico volto che la sua mente si ostina a non cancellare…

 

Lei che lo chiama per nome; lei che preferisce farsi ferire piuttosto che combatterlo; lei che lo atterra e piange mentre solleva la spada; lei ferma davanti a lui, trepida e agitata; lei che lo salva e lo medica, che lo difende da Kagura senza motivo. Lei, lei, lei…Sempre lei nella sua mente. Fissa. Indelebile. Ossessiva. Lei che ha voluto salvare, che avrebbe voluto condurre lontano dal monte Hakurei, che avrebbe voluto non dovere combattere. Lei, che gli fa male vedere e prova gioia nell’incontrare…Lei. Lei. Lei. Solo lei.

 

C’erano dei vuoti, nella sua mente. Voragini create forse per non ricordare, forse perché…Non lo sapeva neanche lui, il perché. Più di una volta, si era risvegliato in un luogo diverso da dove era convinto di essere. E la sua arma era sporca di sangue. Più di una volta, non ricordava di aver indossato i suoi abiti da combattimento. Già…i suoi abiti. La veste nera orlata di verde, la maschera metallica, le protezioni in cuoio…Tutto così distante, eppure così normale. Tutto così conosciuto, anche se non ricordava perché li avesse indossati, la prima volta. I suoi vestiti, così simili ai suoi. La stessa maschera a proteggere il viso, le stesse nappe a fermare le protezioni, gli stessi gambali, stretti da un laccio sottile e resistente…Quella ragazza, come lui…Quella ragazza che faceva parte di lui…

 

Kohaku strinse con forza l’impugnatura del kusarigama. Perchè non voleva ricordare? Cosa temeva di ricordare? Solo una parola. La sola che gli rimbombasse nella testa. Ed era riferita a lei. Solo e sempre a lei.

 

<<…Nee-san…>>

 

L’aveva ricordata più volte, l’aveva detta più volte. L’aveva gridata. Senza pensare. Senza associarla ad un volto, riferendola a lei per poi dimenticarsi di averla pronunciata. Quella parola fluttuava irriverente nella sua testa; ma l’immagine della ragazza era sempre lì. Figura dai tratti incerti, ora sfumata ora definita…Figura salda della sua memoria…L’aveva protetta, ci aveva provato almeno. Senza un perché, contro Kaguya si era gettato su di lei per proteggerla. Lo aveva fatto perché aveva sentito che era giusto così. Che doveva farlo. Aveva cercato di allontanarla dalla montagna sacra, di evitare di battersi con lei.

 

Ricordava…di esser stato con lei, da qualche parte. Un luogo rischiarato dalla luna piena, umido d’acqua. Un luogo fantasma, ma…così distante. Forse non era mai esistito, quel luogo che lui avvertiva come familiare. Forse, la sensazione che provava a quel ricordo era solo un’invenzione della sua mente. Una fantasia, il surrogato di un passato che non voleva sapere. Non gli sarebbe servito a nulla, sapere. Non doveva servire a nulla. Perché lui non doveva ricordare nulla. Voleva convincersene. Doveva convincersene. Altrimenti, affrontare lei, sul campo di battaglia, sarebbe stato ogni volta più difficile.

 

Difficile…No. Semplicemente impossibile. Per questo aveva sempre cercato di evitare la breccia nelle mura; per questo aveva cercato di non mostrare mai la sua presenza. Evitare un incontro equivaleva a evitare il disagio che ne sarebbe seguito. Evitare le domande, e la frustrazione di non avere risposte. Evitare il passato. Eppure, lui lo perseguitava, sotto le spoglie di quella ragazza che sentiva così importante, e così pericolosa. Un pericolo rassicurante.

 

Aveva cercato di allontanarla dal palazzo di Sesshomaru, la notte che l’aveva sorpresa nella foresta. Si era mostrato apposta perché lei lo seguisse e potesse condurla al sicuro. Non voleva doversi battere con lei. Non voleva che lei fosse in pericolo. Non sapeva neanche perché si trovasse lì: cercavano Naraku, certo, ma in quel momento chi muoveva ogni cosa era Morigawa, non l’hanyou. E in definitiva, quella, era solo una battaglia fra demoni. Quindi, perché mai lei doveva trovarsi lì? Perché?

 

Non gli era interessato. Aveva solo cercato di portarla via. E aveva sbagliato. L’aveva gettata dritta nelle braccia della morte. Se non fosse stato per il ragazzo che era con lei, sarebbe morta. Sicuramente. E lui non avrebbe potuto far nulla per intervenire. Ma perché quel maledetto drappello d’esploratori era dovuto passare di là proprio in quel momento? Perché?! Aveva rischiato di farla uccidere, di vederla morire…E si era sentito lo stomaco stretto in una morse di colpevolezza e angoscia. Si era sentito…sporco…

 

Come se avesse rischiato di tradire qualcuno di importante. Sporco, come se la situazione venutasi a creare non fosse stata dovuta ad un fatto fortuito, ma l’avesse ricercata lui. Sporco, perché l’aveva tradita. E la cosa che più lo aveva terrorizzato era il sentire nota quella emozione. Il riconoscere quel leggero tremore che gli aveva preso le membra, la difficoltà di articolare suono. La consapevolezza di aver già provato quell’emozione, di averla già tradita. Tradita, delusa, fatta soffrire…lo sentiva d’istinto. Quella ragazza soffriva per lui, a causa sua. Per qualcosa che lui aveva fatto. Per quel passato che si rifiutava di ricordare, che scivolava irritante fra i chiaroscuri della sua mente. Non voleva ricordare, e non poteva ricordare.

 

Anche se, col tempo, aveva imparato a mantenere maggior controllo sulla sua parte cosciente, c’erano occasioni in cui non poteva far altro che restare spettatore di quello che il suo corpo compiva. In lui, nella sua anima, un lumicino di coscienza era condannato ad assistere sempre, senza possibilità di scampo, ad ogni sua azione efferata. Era come se in lui convivessero due nature: esistevano due Kohaku. Quello timido e gentile, obbediente e smarrito nei fantasmi della sua mente; quello spietato e indifferente, il ragazzo dallo sguardo vuoto e privo di emozioni. Il burattino.

 

Kohaku riavvolse la catena dell’arma con gesti lenti e meticolosi. Una marionetta…sapeva di esserlo, di poter diventare un semplice involucro nelle mani del suo signore. Uno strumento perfetto per uccidere, per svolgere quel lavoro sporco che tanto sembrava ripugnare Naraku. Soppesò in mano il peso di piombo. Era stato proprio una volta in cui era soggiogato che qualcosa dentro di lui si era ribellato. Quel lumicino che collegava la sua mente e il suo corpo si era acceso, in quell’occasione. Troppo debole. Non aveva potuto far nulla per fermarsi; solo assistere da spettatore a quello che voleva compiere, dall’omicidio alla provocazione.

 

Si voltò verso l’accampamento, addormentato nella pianura. All’orizzonte si poteva distinguere la massa scura del castello di Sesshomaru. Colonne di fumo si levavano ad avvolgerlo, colorando di cremisi e inchiostro i profili del palazzo. Era imponente in quel riverbero spettrale. Il grande corpo centrale sovrastava la piazza d’armi, chiusa da quelle mura a ventaglio che tanto davano filo da torcere agli uomini di Morigawa e ai demoni di Naraku. Percorse con lo sguardo tutto il perimetro di cinta. Lo conosceva ormai a memoria. Infinite volte, nei giorni passati, lo aveva costeggiato di corsa, protetto dai servi del suo signore. Cercandovi un varco, un sintomo di cedimento. Mai nulla. Quelle mura sembravano di diamante. Impossibili da scalfire. Resistenti, nonostante i profondi solchi che le granate tagliavano nella roccia viva e i fori di proiettile. Le conosceva a memoria, ormai. Dalla porta principale, spingendosi verso Ovest, distanza quattrocento-cinquecento passi, una feritoia; poco più avanti, un castello di guardia del camminatoio di ronda. Ancora più avanti, il muro mostrava i segni di numerosi tentativi di dare l’assolto alle mura; se si aguzzava lo sguardo, era ancora possibile distinguere i relitti di rampini e yari lanciati come arpioni verso le mura. Scale ammucchiate a terra, a ridosso della trincea che, all’inizio dell’assedio, tagliava la piana per tutto il fronte del palazzo. Kohaku procedette ancora. Con la mente, ripassò davanti ai cadaveri dei soldati che crollavano al suolo, scavalcò corpi maciullati da proiettili e squartati dalla violenza delle esplosioni. Avanti, avanti ancora. Senza fermarsi su volti irriconoscibili, su ferite sanguinanti, su scenari raccapriccianti. Sempre avanti. Il limite del muro frontale; adesso si scolta a destra e poi…Kohaku si ferma. Non vuole ricordare cosa si trova in quel luogo.

 

Lì le mura hanno ceduto, appena cinquanta metri sotto l’angolo di svolta. Eccolo, il fianco vulnerabile. Eccola la breccia costata tanto sangue e feriti. Ed ecco anche lei. Kohaku la rivede danti a sé, precisa come se l’avesse realmente dinnanzi: ritta in piedi nel mezzo della breccia, su un cumulo di detriti volutamente non sgombrati. Ferma e determinata. Agguerrita. La rivede stringere la nappa dell’hiraikotsu; sente il fischio che l’arma produce e il rumore di ossa che si spezzano, di corpi falciati. Il rimbombo di quell’arma che attraversa il campo seminando cadaveri. Abbassò gli occhi al suo kusarigama. Ossa di demone…Entrambe le armi erano fatte di ossa di demone. Strinse gli occhi, scuotendo la testa. E’ inutile pensarci. Non doveva pensarci. Armi simili, va bene. Dato di fatto. Punto. Inutile congetturarci sopra. Pericoloso.

 

Kohaku si lasciò cadere sull’erba, le gambe incrociate e le mani in grembo. Continuava a fissare il palazzo del Principe dei demoni. Fra quelle mura, aveva riparo quella ragazza. Per quel demone, lei scendeva ogni giorno in campo. Combatteva. Contro di lui. Il ragazzino non capiva. Non riusciva a capire il perché di quella scelta. Davvero quella ragazza odiava a tal punto il suo signore da accettare anche l’alleanza con un demone pur di ucciderlo? Quelle mura…quelle maledette mura…Se l’esercito di Morigawa fosse riuscito a espugnarle subito, lui non avrebbe dovuto rincontrarla. Lei non sarebbe scesa in campo. Lei non rischierebbe ogni giorno la vita. E invece…invece, quelle mura erano ancora là, a ridere beffarde dei loro tentativi. A sbatter loro in faccia un’invincibilità quasi assoluta. Una resistenza detestabile.

 

Detestare…Kohaku non ricordava di aver detestato davvero mai nessuno, in vita sua. Neanche il suo signore. No. Menzogne. Sapeva benissimo di detestare se stesso. La propria incapacità di ricordare; la costante indecisione fra il desiderio di sapere e il timore di una verità che non si è pronti ad affrontare. Odiava la sua arma, odiava i suoi vestiti, odiava la sua capacità di combattere. Così simili a quelli di lei. Così vicini ad un passato che gli camminava costantemente accanto e che lui voleva solo ignorare. Per paura. Sciocca, stupida, umana paura. Dannatamente umana.

 

Odiava se stesso, e Sesshomaru. Un odio diverso da quello che altri gli portavano; un’avversione che era più simile al rimpianto. Già…Kohaku rimpiangeva l’oblio in cui precipitava un volta, quando la sua mente non era in grado di catturare le sensazioni del suo corpo. Quando uccidere non gli procurava nessun ricordo, e tutto quello che restava era lavar via del sangue che non ricordava di chi fosse né da dove provenisse. Finchè era stato una marionetta di morte, avrebbe continuato ad eseguire senza pensare. Ma poi, era arrivata quella bimba. Rin…

 

Quando l’aveva conosciuta, era da molto tempo che non scambiava parola con un essere umano. E lei di parlare aveva bisogno. Molto bisogno. Per vincere la paura che la prendeva. Per vincere il silenzio e i cupi pensieri che le portava. Aveva parlato con Rin, senza neanche chiedersi il perché. Le aveva raccontato di non riuscire a ricordare il suo passato. Né suo padre né sua madre. Il buio che avvolgeva la sua mente. Non le aveva detto di quella ragazza che non riusciva mai a dimenticare. Non lo aveva ritenuto importante. Semplicemente, aveva voluto proteggersi, impedire che la bimba potesse capire qualcosa, potesse dar voce alle risposte che la sua mente conosceva. In verità, era consapevole di non voler ricordare perché temeva che nel suo passato ci fosse qualcosa di terribile. E Rin lo aveva detto. Aveva dato voce a quelle sue paure. Con un candore e un’ingenuità disarmante. Parole pronunciate a voce bassa, con la bocca ancora impastata dall’anguria e il liquido fresco che scendeva in gola. Un balsamo. Come la voce della bimba, un suono piccolo, un pigolio così consapevole. Anche lei aveva paura del suo passato, paura della notte che si popolava di incubi e fantasmi. Ma gli aveva detto che però, anche se quei sogni non la abbandonavo mai del tutto, lei era tranquilla. Perché non era più sola. Accanto a lei c’era una persona. E sarebbe venuto a prenderla. Ne era certa. Gli aveva anche chiesto se non gli sarebbe piaciuto andare con lei. Il suo Signore non avrebbe detto niente; Jacken di certo avrebbe strepitato, ma non il suo Signore.

 

Il suo Signore…Sesshomaru…Kohaku lo ricordava bene, quel demone freddo e indifferente. Ricordava la sua voce tagliente e ironica, i suoi occhi impassibili fissare prima lui e poi il corpo a terra di Rin. Non aveva fatto una piega. Non un’esitazione. Se non fosse stato per una ragazza, lui non si sarebbe mai inginocchiato a terra a sincerarsi delle condizioni di Rin. Aveva ubbidito, ma in quegli istanti la sua anima era rimasta cosciente. Smarrita la mente, soggiogata da Naraku. Ma la coscienza era rimasta lì, a seguire i movimenti esperti della sua mano, a fissare con occhi vuoti il viso spaventato della bimba. Un attimo prima, stavano parlando, e dopo lui aveva cercato di ucciderla. Un attimo prima, aveva ascoltato la sua voce come un piacevole diversivo; e dopo avrebbe voluto riuscire a schiudere le labbra, a muovere la sua lingua e dirle di scappare. Niente, invece. La sua voce era rimasta muta, annodata in gola. Sentiva nella mente quell’ordine perentorio: uccidila. Aveva agito con meticolosa lentezza. Con apparente sadismo. In realtà, dentro di sé si stava ribellando in ogni modo. Non voleva doverla uccidere. Non voleva dover vedere il sangue di quella bimba.

 

Aveva ringraziato i kami quando si era accorto che c’era un demone. Non avrebbe mai saputo dire come, ma aveva capito che era lui il Signore che Rin avrebbe voluto rivedere. L’uomo di cui parlava adorante, con una luce negli occhi che faceva intenerire. Si capiva subito l’adorazione che aveva per lui, l’affetto smisurato. Affetto per un demone. Non aveva avuto il tempo di sorprendersi a quella rivelazione. Troppo preso dal suo corpo che cercava in tutti i modi di provocare Sesshomaru. Troppo concentrato sul piacere di porre fine alla sua vita. Era disposto a lasciare che le sue membra fossero martoriate, era disposto a farsi squartare da quell’youkai, se questo sarebbe equivalso a smettere di tormentarsi. A smettere di soffrire.

 

In pochi secondi, aveva visto le sue speranze naufragare con l’arrivo di Inuyasha e la sua volontà suicida spingerlo a rialzarsi e attaccare il demone. Istanti, in cui la sua arma era rimbalzata sulla lama di Tessaiga, il tempo di assaporare la frustrazione della delusione, e il sentire gli artigli dell’inuyoukai sulla sua gola. La sua mano a stringere la giugulare, solleticando la pelle con finta noncuranza. Si era anche concesso il lusso di una battutina di scherno, mentre lo teneva sollevato da terra, senza respiro. E dentro di sé Kohaku già pregustava il momento in cui avrebbe avvertito le vertebre del suo collo scricchiolare, gemere sempre più forte fino a spezzarsi. Allora, sarebbe davvero stato simile ad una marionetta. Ma non gli importava. Se avesse potuto, avrebbe supplicato quel demone di ucciderlo. Di smetterla di fissarlo e di ucciderlo. Aveva rapito la sua protetta; aveva cercato di uccidere Rin. Per quale dannato motivo un essere che vive di morte doveva farsi venire degli scrupoli nell’uccidere proprio lui? Perché?!

 

Ricordava bene gli occhi di Sesshomaru. Ambra. Due gocce d’ambra fredde e austere. Adulte. Terribilmente adulte. Uno sguardo capace di raggelare. Non aveva voluto chiedersi cosa vi avesse trovato Rin. Voleva solo sperare che la freddezza di quegli occhi fosse l’ultima cosa che avrebbe visto. Il respiro che si era rimpadronito della sua gola e la sensazione dell’erba umida sotto le mani erano stati come il colpo di grazia. Lo aveva lasciato andare. Senza un motivo. Dopo averlo scrutato dentro, aveva allentato la presa e il suo copro era scivolato a terra. Senza senso. Non aveva senso quel gesto. Non ne aveva. Di quello che era successo dopo, Kohaku ricordava la voce di Rin che gli chiedeva se stesse bene e il suo impellente desiderio di fuggire. Fuggire dalla pietà. Dall’accondiscendenza di quel demone.

 

Se solo Sesshomaru lo avesse ucciso, se solo la sua mano avesse stretto di più attrono al suo collo, se solo non si fosse fermato per un qualcosa che aveva visto solo lui…Rimpianto. Di esser vivo. Di dover vivere. Gli pesava. Tanto. Troppo. Eppure, in cuor suo sapeva che non avrebbe mai voluto morire prima di aver scoperto cosa davvero significasse per lui quella ragazza. Cosa celassero le nebbie della sua mente.

 

Sospirò. Se solo l’indifferenza intrappolata nei tratti duri del demone, quel giorno lontano, si fosse mutata in rabbia, lui, in quel momento, non si sarebbe trovato a dover evitare i suoi fantasmi. Perché Inuyasha lo aveva fermato? Perché sembrava in ogni modo possibile voler impedirgli di ucciderlo? Perché, dannazione, voleva evitare che fosse liberato? La sua non era vita, lo sapeva bene. Era semplicemente schiavitù. Vuota. Incolore. Insensata. Solo servilismo e annullamento. Nient’altro. Aveva la salvezza a portata di mano. Provocare lui, farsi uccidere da lui. Ma niente. Che lo volesse davvero o fosse solo un piano del suo padrone per far soffrire i suoi nemici a lui non era interessato. Almeno, la sua ricompensa sarebbe stata l’oblio. Un oblio simile a quello eterno della sua mente, ma mille volte più rassicurante. Senza rischi, senza pericoli. Senza possibilità di ritorno, di ricordo.

 

“Kohaku”

 

Un sospiro nel silenzio della foresta. Il ragazzino voltò appena la testa. Rassegnato. Era finito il tempo del riposo, il tempo delle domande e dei rimpianti. Adesso, di nuovo, tornava a essere Kohaku il burattino. L’involucro senz’anima obbediente e ossequioso. Tornava ad essere il servo, l’oggetto dei piani del suo padrone. Un pezzo da muovere su una scacchiera sempre più contorta. Ma anche in quei momenti, ormai, Kohaku sapeva di non poter più godere del beneficio della dimenticanza. Chissà…Forse anche il suo mantenere, pur se flebile, uno stato di coscienza quando era sotto il totale controllo del potere della Sfera era voluto da Naraku. Forse tutto, fin nei suoi sentimenti di morte, nei suoi desideri e nella sua frustrazione, era solo un insieme di pensieri che non gli appartenevano. Convinzioni innestate nella sua mente, così radicate che lui le sentiva sue. Ma erano davvero sue? Davvero pensava alla morte come alla liberazione? Davvero non soffriva all’idea di andarsene e non poter più riaprire gli occhi?

 

Si alzò da terra liberando un lungo respiro. Cosa pensava davvero e cosa era indotto a pensare? Fino a che punto era davvero ancora padrone di sé fin dove il suo padrone era riuscito a insinuarsi? Non lo sapeva, non lo voleva sapere; o forse, di nuovo, era lui che voleva farglielo credere. Non capiva niente, non capiva più neanche se stesso. Se davvero, quando pensava, lo faceva di sua volontà o Naraku gli soffiava nella mente ragionamenti e dubbi.

 

Scosse la testa, facendo ondeggiare leggermente i capelli raccolti. La sua vita era come la catena del kusarigama: inerte nella mani di qualcuno; atta a uccider e impossibilitata a sottrarsi. Era lui stesso un’arma per uccidere e ferire. Era lui stesso freddo come la catena, legato alla vita da un solo anello: quel maledetto frammento che portava nella schiena.

 

Sistemò l’arma nella cintura, badando bene che la lama a doppio taglio gli sfiorasse il fianco, senza ferirlo. Qualcuno, un tempo, gli aveva insegnato che doveva sempre tenerla a contatto col corpo, per sincerarsi sempre della sua presenza. Tanto vicina da sentirne il filo accarezzare la stoffa, ma abbastanza lontana da non restarne ferito. Qualcuno gli aveva insegnato molte cose. Qualcuno che non aveva viso e nome. Ma gli sembrava di riavvertire i suoi commenti duri e aspri, i suoi occhi sulla nuca, il suo viso severo. Di riflesso sorrise. Senza una vera ragione. Ma nella sua mente si era fatta strada la consapevolezza di un qualcosa di cui esser contento. Di cui rallegrarsi. Senza saperne il perché. Come di un complimento ricevuto e mai aspettato.

 

Fece un gesto vago con la mano a Kanna, ferma appena oltre il limitare della foresta. Sì, stava arrivando. Non sapeva quale nuovo compito il suo padrone gli avesse assegnato, ma qualunque cosa sarebbe stata meglio che dover scendere in campo contro di lei. Si soffermò ancora un istante sulla mole del palazzo, in lontananza. Incapace di decidersi a sperare se lei scampasse la morte o perisse. Incapace di riconoscere nel suo cuore il grido di disperazione ad esser costretto ad allontanarsi da lei.

 

 

*****

 

 

Spazientito.

Decisamente, la resistenza di quel demone, di quel semplice soldato, lo stava indisponendo. Non era abituato a dover aspettar tanto per ottenere le informazioni che voleva. E anche il suo alleato non sembrava esser molto contento della piega che gli avvenimenti stavano prendendo. Ma aveva comunque ordinato di non eccedere. Non lo voleva uccidere. Non subito almeno.

 

Naraku storse la bocca. Un ghigno, sotto la maschera di babbuino. Il sadismo di Morigawa non gli dispiaceva, ma in quel frangente lo trovava davvero esasperante. Erano due settimane che quello youkai era loro prigioniero, e ancora non erano riusciti a cavargli di bocca una parola soddisfacente. Davvero irritante. Dannatamente irritante. Se solo lo avesse lasciato a lui, a costo di strappargli la lingua, avrebbe avuto tutte le informazioni che desideravano. Anche se, giunti a quel punto, l’hanyou iniziava seriamente a dubitare che il demone sapesse qualcosa in più di quelle poche parole che la tortura era riuscita a estorcergli.

 

“Ricominciamo da capo”

 

La voce finto conciliante dell’ufficiale risuonò sotto la grande tenda. Aveva un tono mellifluo che faceva accapponare la pelle. Erano giorni che costringeva il prigioniero a ripetere sempre la stessa storia, forse con la speranza che si tradisse e rivelasse qualcosa. Il soldato rantolò qualcosa, stremato dalle catene e dalle percosse. Quasi ignudo, grondante sangue e coperto di lividi, sembrava un cadavere squartato e appesa ad essiccare. Non c’era centimetro del suo corpo risparmiato dalla frusta.

 

La lenta litania dell’ufficiale di Morigawa continuava. Inesorabile. Ossessiva. Precisa fino all’eccesso. Puntigliosa. Insensata. Naraku si sistemò meglio contro il palo centrale della tenda. Annoiato. Non riusciva proprio a capire l’utilità di tenere in vita quel demone. Ormai, aveva detto il poco che sapeva. Ogni minuto che passava ne era sempre più convinto. Eppure, il suo alleato sembrava non essere mai sazio delle esigue informazioni. Lo sbirciò con fare indifferente. Il sorriso maligno stonava in modo odioso su quel viso contratto dalla rabbia. Sembrava godere della sofferenza che infliggeva, ma al contempo si tormentava per i respiri spezzati che riusciva a estirpare da quelle labbra.

 

Fece un cenno all’ufficiale. Il racconto del prigioniero, la stessa interminabile sequenza di sillabe, fu interrotta da un mugolio di dolore. L’attendente aveva percosso crudelmente il demone con la frusta. Una lunga striscia di sangue si era andata ad aggiungere alle altre che segnavano il petto del martoriato. Eppure, lui riprese, stoico. Continuava quella cantilena irritante. Dopo che Kumamoto-sama lo aveva fatto chiamare, aveva ricevuto l’ordine di portare ai rappresentanti degli altri sei Clan il rapporti sulla situazione vigente. Avrebbe dovuto riferire che Sesshomaru-sama, Principe dell’Ovest, Primo della Famiglia, era stato cinto d’assedio da Morigawa-sama, ritornato dal Continente. Non era richiesto nessun aiuto. Solo l’estraneità all’avvenimento. E si chiariva, inoltre, che il Principe aveva solo risposto alle provocazioni che un altro membro della Famiglia gli aveva mosso. Nulla da rivendicare, quindi, in futuro.

 

Morigawa aveva storto la bocca in una smorfia ironica, la prima volta che aveva sentito quella storia. Gli suonava dannatamente familiare. Anche quattrocento anni prima Kumamoto aveva tentato una mossa del genere, e gli era riuscita, anche grazie all’abilità diplomatica di Inutaisho. Nulla da dire. In campo politico, il vecchio Principe era sempre stato imbattibile. Aveva risolto ben più di una divergenza senza bisogno di ricorrere alle armi. Una strategia d’azione che la Famiglia non sempre condivideva. Con la sua politica conciliante e di compromessi, Inutaisho sottraeva spesso a loro inuyoukai la possibilità di affermare col sangue la loro supremazia. Morigawa non se ne era mai curato molto. Fino alla comparsa di Sounga, aveva anche condiviso la politica del suo vecchio amico. Rispecchiava completamente gli insegnamenti del Sensei.

 

E adesso la storia si ripeteva. Kumamoto era di nuovo là, al fianco del Signore delle Terre dell’Ovest. Accanto ad un ragazzino che avrebbe dovuto espiare sulla sua pelle la superbia paterna. Morigawa pregustava continuamente il momento in cui, costretto Sesshomaru a terra, lo avrebbe obbligato a invocare pietà. Non si illudeva che il fiero inuyoukai lo avrebbe fatto e allora sarebbe stato ancora più gustoso trucidare davanti ai suoi occhi le persona che gli erano care. Lo avrebbe privato di tutto, fuorché della vita fino all’ultimo. Lo avrebbe visto dibattersi preda del dolore. E ne avrebbe gioito. Restituire l’umiliazione subita colpo su colpo. Una sferzata a quel viso così simile a quello del padre per ogni falso sorriso che aveva ricevuto da Inutaisho. Avrebbe deturpato la bellezza algida e perfetta del Principe di Higashi e Nishi. Lo avrebbe costretto a strisciare a terra.

 

Peccato solo che la cecità gli avrebbe impedito di gustarsi appieno le esecuzioni dei suoi seguaci. Massacrati uno ad uno, davanti al loro Signore, incapace di reagire. Non avrebbe potuto sfogare la sua collera sul secondogenito di Inutaisho. Quella era la preda di Naraku, e un sovrano ha una sola parola, anche con un alleato infido com’era l’hanyou. Tuttavia, la cosa non gli importava neanche molto. Era Sesshomaru che voleva annientare, l’orgoglio di Inutaisho, l’erede della sua dinastia. Quel figlio che il Signore dell’Ovest aveva amato fin dal primo istante che aveva sapute che sarebbe nato.

 

Si umettò le labbra, gustandosi il sapore residuo del sakè che aveva bevuto. Avrebbe anche potuto divertirsi con l’amante di Sesshomaru, prima di ucciderla. Una ragazza umana, gli era sto detto. Forse non bellissima, ma piacente. Negli occhi scuri passò un lampo di sadica malizia. Sì. Si sarebbe proprio divertito, con quella ningen. E Sesshomaru avrebbe assistito da una posizione privilegiata. Anche se cieco, il suo udito restava sempre estremamente sviluppato e non avrebbe fatto alcuna fatica a seguire il trattamento che lui pregustava già di riservare alla ragazza.

 

“Parla maledetto! O non uscirai vivo da qui!”

 

La voce era roca, arrabbiata. Esasperata. Non era possibile che quel soldato resistesse alla tortura solo per caparbietà. Ormai, anche il suo corpo demoniaco doveva essere al limite. Perché continuare a soffrire, dunque? Per quale assurdo motivo rischiare a tal punto la vita? Poche parole. In fondo gli chiedevano solo quelle: la dislocazione del passaggio che lo aveva portato all’esterno del palazzo. Perché, quel passaggio, doveva esserci. Non era altrimenti possibile che un nemico fosse riuscito a sgusciare fra le file dell’esercito senza destare il minimo sospetto. No. Davvero impossibile. Poche parole. In cambio della vita. Lo avevano scoperto aggirarsi per la foresta, guardingo. Cercava di allontanarsi dal campo senza destare sospetti. Purtroppo per lui, i demoni di Naraku lo avevano fiutato. Nessuna via di fuga. Era stato accerchiato e catturato, ma forse sarebbe stato meglio morire lì, subito. Tutto sarebbe stato meglio, piuttosto che quelle due settimane di percosse e torture.

 

Il prigioniero alzò la fronte madida di sudore e sangue. Cosa volevano, ancora? Glielo aveva ripetuto fino allo sfinimento: non c’era nessun dannato passaggio segreto! Era uscito da palazzo dopo un attacco, confondendosi con i soldati avversari dopo aver indossato un’armatura sottratta a un cadavere ed essersi impastato il copro di terra e sangue. Era uscito dalla porta principale e si era unito alla massa informe e disordinata che ripiegava verso l’accampamento. Eccola, la sua via d’uscita. La stessa che loro cercavano disperatamente di forzare da mesi. La porta principale delle mura.

 

Niente. Parole al vento. Sembrava che nessuno potesse credere a quella storia. Eppure, era la più semplice di tutte. Un trucco talmente vecchio da far apparire ridicola la facilità con cui era riuscito. Se non fosse stato per la sua precipitazione, sarebbe sgusciato indenne fra le mani di Morigawa. Niente. Era bastato un attimo, e si era tradito. Una sottigliezza, una cosa stupida e insignificante, ma bastevole ad attirare su di sé i sospetti. Sufficiente a tradirsi. E quello era il risultato. Miserevole.

 

L’ufficiale si volse con sguardo interrogativo a Morigawa, in piedi in un angolo semibuio della tenda. Vi era rimasto per il tempo dell’interrogatorio, assieme a Naraku. Silenzioso, riflessivo. Compiaciuto di ogni singolo lamento che usciva da quelle labbra spaccate; indignato per ogni parola inutile che sentiva pronunciare. Stava davvero perdendo la pazienza. L’assedio era ormai giunto ad un punto di stallo. La breccia che era riuscito ad aprire nelle mura gli aveva fatto pregustare la vittoria, ma erano passate settimane da quella piccola soddisfazione. Lui e i suoi uomini arrancavano nella frustrazione di andar costantemente a sbattere contro un muro infrangibile, mentre Sesshomaru era addirittura riuscito a reclutare un monaco e una sterminatrice fra le sue file.

 

Era davvero esasperato. Stufo. Non era mai stato avventato, aveva pianificato fin nei minimi particolari quell’assedio, ma non aveva calcolato due cose: la strenua resistenza dell’inuyoukai e la presenza di quella ragazza all’interno del palazzo. Se lei non ci fosse stata, se lei non fosse mai comparsa, almeno un quarto degli uomini di Sesshomaru sarebbero morti sotto il fuoco dei suoi fucili. Ci avrebbe messo pochissimo a decimarli grazie al veleno creato da Yaone e alle granate. Quelle dovevano essere le sue armi vincenti; armi che i demoni non conoscevano, umane e quindi sottovalutate. Ma lei sì, che le conosceva. Lei sapeva come potevano venir aggirate, franate. I sacchi di sabbia sui ballatoi per trincerarsi dai proiettili; le strategie di lasciare scaricare le armi e attendere il secondo in cui una fila di fucilieri doveva ritrarsi per lasciar spazio all’altra per attaccare; la consapevolezza di dover sfruttare al meglio le giornate di pioggia per cercare di affondare il più possibile nelle file avversarie, perché con l’acqua e l’umidità la polvere da sparo è più soggetta a deperire…Tutte quegli accorgimenti tecnici Sesshomaru non poteva averli ideati da solo. Non era possibile. Benchè, giovanissimo, fosse esperto in campo militare, benchè la sua mente acuta fosse costantemente in movimento per trovare soluzioni e ideare progetti, benchè fosse un Principe degno del nome che portava, quelle trovate non potevano essere sue. Assolutamente impossibile. Cieco, incapace di valutare realmente la situazione avversaria e di studiare le armi nemiche, doveva aver avuto al fianco qualcuno capace di sostituire i suoi occhi. Qualcuno che fosse per lui occhi e mente capaci di vedere e capire cosa vedevano. Qualcuno di cui fidarsi, cui prestare ascolto.

 

Kumamoto non era possibile. Come Sesshomaru, anche lui non doveva essersi mai imbattuto nelle armi da fuoco. E l’unica che rimaneva era quella maledetta ragazza. Strana, almeno a giudicare dalle descrizioni che ne aveva avute. Già Naraku gliene aveva parlato. Con malcelata sorpresa. Non era usuale, infatti, che Sesshomaru si accompagnasse ad una donna umana. No. Non era affatto normale. Anche se relegato sul continente, Morigawa aveva fatto in modo che gli giungessero notizie da Nihon. Poche e frammentate, certo, tanto da non esser venuto a conoscenza prima dell’invio di Takakuni della morte di Inutaisho. Tuttavia, non aveva impiegato molto, ritornato nei suoi territori, a ottenere tutte le informazioni che gli erano necessarie. E fra queste rientrava anche la diceria della freddezza spietata del Signore dell’Ovest.

 

Quando aveva saputo da Naraku della ragazza, Morigawa non aveva potuto trattenere un sorriso ironico. Dunque, anche il caro Principe cedeva alla lussuria come suo padre. Ma in fondo, come dargli torto? Una bella donna, sottomessa e accondiscendente, pronta a soddisfare ogni desiderio del suo Signore, doveva essere un diversivo interessante e un giocattolo stimolante. E il fatto che fosse umana lasciava a Sesshomaru la possibilità di farle quello che voleva. Senza riguardi, senza timori di possibili ritorsioni da parte di altri Clan. Non che il Principe avesse motivo di temere attacchi neanche se si fosse scelto come amante una yasha, anche del livello più alto, ma in quel caso avrebbe dovuto comunque frenare il suo impeto giovanile. Con una ningen, invece, non erano necessari riguardi. Era solo una bambolina di porcellana, una bella bambolina sorridente e piacente. Una stupida bambolina.

 

Morigawa stiracchiò le labbra in un sorriso che assomigliava ad un ghigno. Lo avevano raggirato per bene. Quella dannata ragazza…non le aveva mai dato importanza fino alla fine. E invece era lei l’asso nella manica di Sesshomaru. E la cosa divertente era che, probabilmente, lui neanche lo sapeva quanto le doveva. Perché, se non fosse stato per lei, a quell’ora del castello sarebbe rimasto solo un cumulo di cenere. Oh, gliela avrebbe fatta pagare: a tutti e due. Li avrebbe torturati lentamente, con gusto, assaporando ogni smorfia che avrebbe distorti i loro lineamenti. Sarebbe stato anche piacevole occuparsi di quella ragazza. Molto piacevole aver a che fare con lei. Forse si sarebbe rivelata più interessante delle donne e delle yasha con cui condivideva il letto. In fondo, non è cosa abituale imbattersi in una ningen capace di pensare come un uomo. Capace di aiutare un Principe youkai e di agire come un uomo. E se anche lo avesse deluso, poco male. Gli sarebbe sempre rimasta la soddisfazione di godere di lei sotto gli occhi di Sesshomaru.

 

“Quest’uomo ha ragione, in fondo”. Le parole di Naraku lo costrinsero a spostare di nuovo la sua attenzione sul presente. Giusto. Non era quello il momento e il luogo adatti a fantasticare sulle umiliazioni che avrebbe inferto al Principe. “Perché mai dovrebbe mentirci ancora e sopportare il dolore?”. L’hanyou aveva un tono che fece rabbrividire il prigioniero. Sotto la maschera di babbuino, gli occhi rossi brillavano in modo sinistro. Compiaciuto. Sottile. Morigawa capì il suo gioco. Capì perfettamente dove voleva arrivare, e si predispose a gustarsi la scena. In fin dei conti, non conveniva che lui, il Principe del Kansai si sporcasse le mani solo per ottenere alcune informazioni. Ma intendeva ugualmente assistere. Non era usuale che Naraku prendesse direttamente in mano una questione. Solitamente, infatti, era più propenso a ordire complicate trame affinché i suoi avversari finissero per ferirsi a vicenda. Lui ne traeva maggior godimento, e al tempo stesso raggiungeva il suo scopo. Senza che la sua bella pelliccia rischiasse mai di essere lordata di sangue.

 

“Sappiamo bene, infatti” continuava intanto l’hanyou, prendendo la frusta dalle mani dell’ufficiale e avvicinandosi lentamente al prigioniero, “ che il tuo Signore avrebbe voluto delle risposte, alla sua missiva. Quindi, tu saresti dovuto rientrare a palazzo”. Gli girava attorno, facendo fremere la pelliccia bianca e lasciando che i capelli neri scendessero ad arabescare la sua schiena. Naraku si era sfilato la maschera, facendola scivolare lungo il collo, fino alle spalle. Con lentezza, quasi fosse nella sua tenda si stesse semplicemente intrattenendo in una piacevole conversazione.

 

“Coraggio…Smetti di proteggerlo, e dicci per che via saresti dovuto rientrare”. Gli si avvicinò ad un orecchio, sussurrando “dopo, finirà tutto e tu sari libero”.

 

Il soldato alzò la mano incatenata per detergersi la fronte e guadagnare un attimo per pensare, per non cadere in un tranello. Bastava una parola pronunciata con un’inflessione sbagliata e loro avrebbero potuto fraintendere ogni cosa. Bastava un niente, e lui sarebbe stato finito.

 

“Non lo sto proteggendo”, disse infine “e non sarei mai dovuto rientrare a palazzo”

 

“Non mentire…” cantilenò Naraku, con un sorriso falso e subdolo, che fece tremare il demone. Poi, lo vide squadrarlo per un istante, come alla ricerca della veridicità di quelle parole sul suo volto. Lo vide voltarsi, e ebbe appena il tempo di illudersi di poter respirare. Un colpo violento lo raggiunse al naso, facendolo mugugnare e rantolare. Naraku lo aveva colpito col manico della frusta, e ora fissava compiaciuto il fiotto di sangue che zampillava dalla carne martoriata, scendendo a inondare la bocca e il petto del demone. Il volto del prigioniero era ormai una maschera informe: gli occhi quasi chiusi per il gonfiore delle percosse, le labbra spaccate dai pugni, il respiro un rantolo affannoso.

 

“Signore” trovò comunque la forza di dire “…io non posso dire quello che non so. Ma anche se lo sapessi…io non lo direi per aver salva la vita”. Reclinò il capo sul petto, stremato. Naraku si riavvicinò all’ufficiale e a Morigawa. Indispettito. Era davvero contrariato dall’atteggiamento di quel demone e dalla sua cocciuta resistenza. Le possibilità, ormai, erano solo due: era molto forte, e quindi poteva aver ancora resistito e mentito. Le sue parole potevano benissimo essere state un tentativo per metterli fuori strada. Oppure, davvero non sapeva niente. E quelle due settimane passate ad interrogarlo erano state una completa perdita di tempo.

 

“Cosa dovremmo fare, secondo voi?”

 

Morigawa si lisciò il mento. Forse era davvero come diceva Naraku. Forse davvero non sapeva nulla e quelle settimane erano state solo tempo sprecato. Ma lui non ne era del tutto convinto. Non ancora almeno. C’era un luce strana negli occhi tumefatti del demone. Una luce che era quasi un ghigno di soddisfazione, di compiacimento. Forse lo scherno per aver fatto loro consumare voce ed energie per nulla, o forse la consapevolezza di non esser riusciti a strappargli le informazioni che aveva.

 

“Continuare a torturarlo. Forse la sua resistenza non è ancora stata vinta”. No. Ci doveva esser qualcosa. Non era possibile altrimenti spiegare il fatto che la notte precedente, benchè stremato, avesse trovato la forza quasi di spezzare il giogo cui era stato legato con le sole mani. C’erano voluti quattro demoni per riuscire a incatenarlo di nuovo. Forse si trattava solo dell’ultimo flato di vitalità che restava in quelle membra, forse era solo il disperato tentativo di chi si sente ad un passo dalla morte e cerca in ogni modo di sfuggirle.

 

“Spingi la tortura fino al limite”, continuò Morigawa, occhieggiando verso un ferro che si arroventava in un braciere. “Sai cosa intendo”. Sul viso dell’ufficiale passò un ghigno, mentre annuiva. “Se non parlerà, allora davvero sarò sicuro che ormai non ha più nulla da dirci. E se anche avesse qualcosa, a questo punto sarebbe inutile cercare di strapparglielo: non tutti i demoni possono esser piegati dalla tortura”.

 

Naraku lo fissò sorpreso nel viso abbronzato e segnato da un’espressione allucinata. Non aveva detto tutto. Non lo aveva fatto. Negli occhi di Morigawa brillava quella luce che lo caratterizzava quando aveva appena escogitato un nuovo piano. Il lampo che prende gli occhi folli di un bambino davanti ad un nuovo giocattolo, ma mille volte più raggelante e crudele. Mentre l’ufficiale si allontanava per occuparsi della sua vittima, l’hanyou si avvicinò all’inuyoukai. Parole sussurrate. Perché voleva sapere. Doveva sapere, per evitare che la folle lucidità di quel demone compromettesse i suoi progetti.

 

“Se non dirà niente, cosa pensi di farne?”

 

“Ucciderlo”. Di nuovo, un lampo compiaciuto. Sì, Morigawa stava davvero tramando qualcosa, e dal suo sguardo sembrava desideroso che l’ufficiale completasse il suo compito per poter uccidere il prigioniero. Come se dalla morte di quel demone, improvvisamente, potessero dipendere le sorti dell’assedio. Come se la sua morte fosse il tassello mancante alla vittoria.

 

“Ormai, ci odia più di quanto ci tema. Inoltre, anche se da vivo non mi è servito a molto, da morto mi sarà molto utile: porterà la mia ambasciata a Sesshomaru”

 

Naraku non capì a cosa si riferisse, ma intuì che non gli sarebbe piaciuto il progetto dell’inuyoukai. Intuì che sarebbe stato un ostacolo ai suoi progetti. Non ebbe il tempo di ribattere, che Morigawa si era già tirato il mantello sulla testa ed era uscito dalla tenda. Naraku si concesse un ultimo sguardo sornione all’ufficiale che si stava riaccostando al prigioniero con secchio d’acqua per risvegliarlo. Va bene. non gli interessava come sarebbe finita. Adesso gli importava solo riuscire a estorcere qualche informazione a quel maledetto demone-cane. Risistemò la maschera sul viso e uscì anche lui.

 

Il freddo dell’acqua ridestò completamente il prigioniero. Dapprima, vide confusamente, poi più chiaro e il terrore esplose dentro di lui lacerandogli l’animo: ad un palmo dal suo viso un ferro rovente risplendeva di luce candida. Sentiva il calore sulla pelle. Il respiro del fuoco lambirgli le ferite sanguinanti e far sfrigolare leggermente il sangue.

 

“Ora parlerai”, promise calmo l’ufficiale, mentre lo afferrava per i capelli e gli avvicinava il ferro. Il demone tese i muscoli in un vano e disperato sforzo di liberarsi, ma i crampi straziarono le membra duramente provate e restò immobile chiamando a raccolta le residue energie del suo animo. Aspettava. Dissanguato dalle ferite, inerte, era una preda dannatamente facile. Non faceva altro che cercare l’attimo in cui il suo carceriere avrebbe affondato il colpo.

 

“Parla!” incitò l’ufficiale accostando ancor di più il ferro. Il demone soffiò sangue dal naso, contrasse la bocca coperta di bava. “Non so…nulla” fremette fra i denti inchiodati dagli spasmi. L’ufficiale lo afferrò più saldamente e gli affondò il ferro rovente nell’occhio sinistro. L’urlo scoppiò nella tenda passando attraverso le sottili stoffe che la formavano, uscì nel campo come un lungo, atroce muggito e riscosse quanti sonnecchiavano pigramente durante il turno di guardia.

 

Dopo attimi che sembrarono ore, mentre gli uomini si guardavano di sottecchi e fissavano con spavento l’entrata della tenda, la luce si affievolì lentamente. Poco dopo che fu spenta l’ufficiale uscì e, senza rispondere al saluto delle guardie, attraversò l’accampamento e di dileguò nel buio. Aveva compiuto il suo lavoro con scrupolo, secondo gli ordini ricevuti: era convinto che quel disgraziato nella tenda non sapesse veramente nulla. Gli aveva fatto credere che lo avrebbe accecato completamente, e quello non aveva parlato. E comunque, ormai, non avrebbe più potuto farlo. Prima che spirasse, gli aveva potuto leggere in quell’unico occhio tumefatto un terrore che passava ogni immaginazione. No. Davvero non sapeva più di quello che aveva già detto. Si strinse nel mantello ed entrò nel suo alloggio, per riposarsi.

 

 

*****

 

 

Opale.

Il cielo si tingeva di sfumature eburnee e iridescenti. Accecanti. Magiche. La luce saliva leggera da Est, con quel colore così chiaro, a tergere la notte scura e informe. A ridare i contorni alle cose, a rischiarare una giornata e un campo di battaglia. Scendeva a lambire le guglie di roccia delle montagne a Ovest, disegnando i costoni e le valli, seguendo il profilo irregolare delle pendici. Giù-giù. Dal gelo delle nevi perenni fino ai primi timidi alberi. Scende ancora, alle distese di aceri e querce, a quel primo timido verde di primavera. E poi ancora più in basso, dove la macchia diventa accecante. Non come la neve, eppure della stessa intensità. E l’unica cosa che altera tutta quell’equilibrio, quell’immobilità, è il vento. Vento di crepuscolo. Vento tiepido e timido. Vento di prima primavera. Ancora saporito di neve, ancora arido di fiori.

 

Odiava l’alba. Quei colori così chiari, quelle sfumature argentee e forti. Della forza della vita libera e selvaggia. Perché l’alba è selvaggia. Straccia la notte amica, straccia le illusioni. L’alba è selvaggia e crudele. Come lui. È d’argento, come lui. È libera, come lui. È lui. È tutto quello che lei non potrà mai essere.

 

Odiava l’alba, quell’accendersi lento e maestoso del mondo, il risplendere della neve e del verde. Il rilucere della vita. Odiava l’alba, perché odiava lui. Lo detestava. Perché lui era vita, lui era aria, lui era libertà. Perché lui l’aveva costretta ad amarlo. Le aveva fatto ricordare cosa significa un cuore che batte. Le aveva fatto ricordare il respiro che galoppa con un ritmo cardiaco che accelera e decelera senza ragione. Le aveva fatto capire cosa significa non sentire più il torace rimbombare per quel dolore sordo e intenso. Le aveva fatto desiderare qualcosa che non aveva mai provato.

 

Lo odiava, lo invidiava, lo amava, lo bramava. Avrebbe voluto su di sé i suoi occhi freddi e indifferenti. Avrebbe voluto su di sé le sue mani affilate e pericolose. Avrebbe voluto la morte da lui, perché almeno avrebbe avuto anche una nuova vita. Avrebbe voluto la libertà da lui, per potergli stare accanto. Avrebbe voluto il suo disprezzo, la sua rabbia, la sua indifferenza. Avrebbe voluto la sua vita, la sua anima, la sua mente. Avrebbe voluto lui. Perché l’aveva condannata. Maledetto, affascinante, dannato youkai. Perché doveva essere così affascinate, così altero, così regale, così…Non sapeva trovare l’aggettivo giusto. Non poteva trovarlo. Lui era tutto. Tutto. Ed era perfetto. In ogni cosa. In ogni piccolo particolare. Dalla linea sottile e fiera del mento, alla fronte liscia ombreggiata d’argento, agli occhi taglienti e sprezzati. Perfetto. E non suo.

 

Perché, per lui, lei non esisteva. Lei non era niente. Solo una macchia, un intralcio, un essere da ignorare. Da eliminare. Se solo avesse saputo come un suo sguardo le bruciava gli occhi, le incendiava il sangue, la faceva fremere di piacere e dolore. Se solo avesse saputo quando la infiammava il contatto con lui, nei combattimenti. Lo sfiorasi dei loro kimoni, l’ondeggiare dei capelli. Il suo vento che lo lambisce, che lo accarezza. Il suo vento che lo tocca, come le sue mani non potranno mai fare. Il suo vento che lo ferisce, lo taglia, lo graffia. Il vento che si sfoga, che scarica su di lui il suo odio e il suo amore. La sua frustrazione. Per averlo davanti e non poterlo avere. Per essere sua e non appartenergli.

 

Una risata leggera, malinconica. Lui era così freddo, algido. Lui come di ghiaccio. E quel ghiaccio le bruciava la pelle, più del fuoco, più della lava. Quel freddo le mordeva la carne e le strappava gemiti intimi e acuti. Piacere ammantato di dolore. Perché lui è freddo, ma lei lo sente ardente sul corpo. Lei lo desidera così: freddo, fiero, spietato, bianco. Irraggiungibile. Ecco, irraggiungibile. Perchè lui non è altro che questo. Un miraggio. Il suo miraggio. Il suo sogno proibito e la sua eterna dannazione. Lui che potrebbe salvarla e la ignora. Lui che potrebbe averla e la rifiuta. Lui, lui, lui…Sempre e solo lui.

 

Lui che scende in battaglia ogni giorno; lui che si muove fra sangue e morte come se nulla lo sfiorasse; lui che elargisce oblio con la grazia di un angelo. Lui che ha l’odore della libertà. Lui che combatte con le movenze del vento. Lui che è vento impetuoso che spazza il campo di battaglia. Lui che è come lei. Lui così distante da lei. Lui: un angelo dell’inferno. Un demone. L’unico che l’ha battuta. L’unico da cui ha accettato di venir sconfitta. Ma ammetterlo, questo mai. Non davanti a lui; non a lui. Troppo pericoloso, troppo umiliante. Concedersi a lui, va bene. Dirgli di amarlo, no. È sbagliato. È impossibile. È ingiusto. È assurdo.

 

Averlo nella sua indifferenza sarebbe andato bene. Averlo e poter dire di esser stata sua. A qualunque prezzo, in qualunque condizione. Come compagna, amante, serva, schiava. Non sarebbe importato. Qualunque condizione. Purchè fosse con lui. Accanto a lui. Pur di poterlo sfiorare quando lo desiderava; pur di poter rubare un bacio a quelle labbra esangui, e renderle rosse e tumide. Assetate. Bramose di lei. Della sua pelle, del suo corpo. Anche solo bramose, e basta. Avrebbe accettato qualunque cosa, se avesse significato poter esser accanto a lui. Libera di essere solo schiava di lui.

 

Un respiro rassegnato le sfuggì dalle labbra. Un respiro fatto di vento, di lacrime mai versate, di consapevolezza e rimpianto. Un respiro lontano. Vuoto. Aria che fugge, come scompare lui. Dalla sua portata, dalle sua speranze, dai suoi sogni.

 

<<…Mi hai uccisa, Sesshomaru…Ma mi hai lasciato la vita…questa mia disgustosa vita…>>

 

Perso. Perso. Perso. Per sempre. Senza possibilità di ritorno. Senza più illusioni da erigere. Lui davanti a lei sul campo di battaglia, lui splendido nel kimono niveo, lui demoniaco nelle movenze e così lontano nello sguardo. Lui ormai sfuggito, scappato, perduto. Lui mai posseduto. Lui mai suo. Solo nella sua fantasia. Nelle sue chimere notturne. Lui così bianco, lei così rossa. Nelle sue labbra irriverenti, nei suoi occhi sfacciati, nel suo kimono elegante, nei disegni violenti del tessan. Lei, vento schiavo. Lui, vento libero. Non più suo. Mai suo. Mai…mai, mai.

 

Perché lui, ormai, apparteneva ad un’altra. Era di un’altra. Lo sentiva. Lo sentiva dal suo odore. Odore di uomo, di maschio, di forza. Odore con cui si intrecciava il profumo dell’acqua, il profumo della femminilità. Odore diverso dal suo, non demoniaco, non selvaggio. Odore di ningen, di donna umana, di donna innamorata. L’odore di quella ragazza.

 

Kagura sciolse i capelli, iniziando a giocare distrattemene con una ciocca lasciata libera. Inutile negarlo a se stessa. Lo aveva sentito benissimo su di lui quando lo aveva affrontato in combattimento. Sesshomaru recava con sé l’odore di quella ragazza umana. Ancora più forte della prima volta che l’aveva incontrata. Ancora più intenso. E non era una sua illusione. Non poteva essere solo un gioco della sua gelosia. Era sicura di quello che aveva sentito, di quello che aveva intuito.

 

Lo aveva capito dal lampo di agitazione che aveva attraversato le sue iridi d’oro dopo il fragore dell’esplosione. Vi aveva letto costernazione, agitazione, trepidazione. Vi aveva letto tutta l’umanità che il demone non aveva mai mostrato. Un’umanità terribilmente devastante, forte, assoluta. Vi aveva scorto lo sguardo di un uomo innamorato. Non più gli occhi rabbiosi di quella volta, né la volontà di vendicarsi. Era lontano lo sguardo che gli aveva rubato mentre era disteso nella neve, con quella ragazza addosso, mente i loro visi si avvicinavano lentamente. Quello era stato lo sguardo di un ragazzo che si avvicinava a qualcosa di nuovo e sconosciuto. Questi, invece, erano gli occhi di un uomo innamorato. Gli occhi di un uomo consapevole del qualcosa che si cela nel suo cuore.

 

Kagura lo aveva capito. Aveva desiderato infinite volte di vedere quello sguardo attraversare gli occhi di Sesshomaru. Lo aveva agognato per sé miliardi di volte. Lo aveva desiderato con la stessa forza con cui desiderava lui. Ma non era stato sufficiente. Non era bastato volerlo, per legare il Principe dei demoni. Non sarebbe mai bastato. E lei lo aveva capito in quell’attimo, nel movimento nervoso della testa dello youkai, in quel suo volgersi d’istinto al boato. Ne era sicura: lei sola aveva colto il fremito del suo viso, il nervosismo nelle sue membra, la distrazione che per un attimo aveva allontanato la sua mente dalla battaglia. Se lo avesse attaccato in quel momento, lo avrebbe ferito. Forse anche gravemente. Ma non lo aveva fatto. Non era riuscita a farlo.

 

Sesshomaru aveva finto indifferenza, aveva dissimulato la sua agitazione, e non si era mosso. Ma aveva avuto fretta di concludere. Lei lo aveva capito. Lo aveva sentito dai suoi movimenti, dal roteare veloce della katana, dallo youki che cresceva lento ma inesorabile. Non stava neanche più combattendo con lei. Stava solo cercando di eliminare l’ostacolo che gli impediva di voltarsi e correre a controllare cosa fosse accaduto. Stava solo cercando il modo per disimpegnarsi e andare da quella ragazza. Perché Kagura sapeva bene che l’obiettivo di quella granata era la tenda dove venivano curati i soldati di Sesshomaru. La tenda dove di trovava lei.

 

Avrebbe voluto lasciarlo andare. Avrebbe voluto dirgli di andare da lei. Avrebbe voluto poter fare qualcosa, qualunque cosa, pur di cancellare l’ombra inquieta che vedeva sul suo volto. Non poteva sopportarla. Non l’aveva mai sopportata. Lui doveva restare sempre perfetto, intoccabile. Nulla doveva smuovere la sua maschera di ghiaccio, la sua indifferenza. In quel momento, in cui lui era davanti a lei, in cui lui era suo, in suo potere, Kagura seppe di non potergli più fare del male. Lo seppe e basta. Senza bisogno di pensarci. Lo seppe quando si accorse che il suo vento non aveva forza, quando realizzò che le lame che gli lanciava contro erano solo raffiche inoffensive. Carezze rabbiose ed esasperate. Carezze di chi ormai è disilluso. Lo seppe lei, e lo seppe anche Sesshomaru. Lo vide fermare ogni azione, e lasciarsi avvolgere dal vento.

 

Kagura seppe. Seppe davvero di averlo perso, di non poterlo mai più avere. Seppe che non l’avrebbe mai amata, né con rabbia né con desiderio. Seppe di dovergli dire addio. E allora danzò per lui, danzò la sua ultima danza per lui. La sua ultima performance da amante. Da amante mancata. Lo amò in quel modo. Intensamente, carezzando col vento il suo corpo, scompigliando i suoi capelli, baciando il suo viso. Lo amò senza mai sfiorarlo con le mani, senza mai toccarlo davvero. Perché lui non glielo avrebbe permesso. Perché lui non le avrebbe mai lasciato avere qualcosa che non le spettava, qualcosa che era solo di una ragazza umana.

 

Danzò per lui, sollevando mulinelli di polvere che li sottrassero allo sguardo di tutti. Sollevando una cortina per nascondere l’ansia di un demone troppo freddo e troppo umano. Danzò per lui perchè almeno non la odiasse. Danzò per lui. Solo per lui. E quando il vento era ormai calato d’intensità, quando la polvere rossa scendeva lenta a terra, lei era lì, inginocchiata al suolo. Una smorfia sul viso, un sorriso ironico e beffardo. Dolce e malinconico. Una mano al ventre, a stringere la stoffa del kimomo. Lì dove lui l’aveva colpita con l’elsa della spada, lì dove lui le aveva fornito l’alibi per la sua fuga. Abbastanza forte da lasciarle il segno, abbastanza piano da non ferirla davvero. E in quell’istante, in quel solo istante, aveva avvertito i suoi capelli di luna sfiorarle il viso, il suo respiro accelerato accarezzarle il collo sudato, aveva avvertito le sue labbra sfiorale i capelli d’ebano, lambire la piuma che li adornava. Aveva sentito le sue mani accompagnarla nella sua caduta, rudi e delicate.

 

In quel solo istante, Sesshomaru aveva rivelato a lei quanto quella ningen lo avesse mutato. Protetto dalla cortina di polvere, aveva svelato un segreto che solo il demone e la ningen conoscevano. E lo aveva confidato a lei. Senza parole. Senza voce. Perché la sua lingua doveva pronunciare solo un nome di donna, perché sulle sue labbra poteva posarsi solo il nome della donna che amava. Anche se non lo aveva ancora accettato, anche se ancora non ne era del tutto cosciente. Solo quel nome era giusto che fosse pronunciato da lui. E solo da lui. Kagura lo capì, e lo lasciò andare. Permise che la seta del kimono le scivolasse dal copro, la seguì con la mano, la carezzò fino alla fine. Lasciò che l’argento dei suoi capelli piano piano la svelasse di nuovo. Chiuse gli occhi, quando l’ultima ciocca lunare le sfiorò le labbra. A ringraziala, a salutarla, a darle un addio. A porre fine a un qualcosa di mai nato. A un qualcosa che moriva col vento che si andava spegnendo. Sesshomaru le disse addio, e lei lo guardò voltarle le spalle sicuro della propria incolumità. Sicuro che lei non lo avrebbe più attaccato.

 

Il sole stava ormai inondano d’oro la vallata quando Kagura si risolse, finalmente, a ridiscendere al campo. Si sistemò i lunghi capelli sulla nuca, ma prima di legarli con la sua piuma, la sfiorò con le labbra. Aveva ancora su di sé il suo odore. Il suo profumo intenso di muschio, di aria, di liberta. Con un sorriso ironico la sistemò sul capo. Non poteva farci niente. Gli aveva detto addio, ma non era così facile dimenticarlo.

 

Per questo odiava l’alba. E odiava anche lui. Per la vita che le aveva mostrato. Per la libertà che le aveva fatto gustare in quel solo istante. Per il battito di un cuore che lei non possedeva e che era riuscita comunque ad avvertire. Per quell’addio che le aveva dato. Per averla guardata negli occhi senza odiarla. Senza più disprezzarla.

 

Indugiò ancora un istante sul palazzo, ormai quasi completamente inondato dalla prima luce. Aprì il ventaglio con un gesto secco e aggraziato, spazzando l’aria davanti a sé. La piuma, ribelle, sfuggì dai suoi capelli e si unì a quella brezza delicata. Si librò nel cielo, e ridiscese verso il palazzo. A portare un saluto ad un uomo perso, e alla donna che dormiva fra le sue braccia. A portare un ringraziamento. Per la vita assaporata in quell’istante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parentesi:

 

 

Per adesso,quindi, questo ultimo capitolo inviatovi si concentra sugli avversari. Su pochi personaggi, in verità. Ma era una scelta doverosa e necessaria, per quanto mi sia dispiaciuto dover accantonare Yashi, Koji e Kyoko. Un’assenza che non è solo dovuta a un mio “capriccio”, ma che ha un preciso riscontro narrativo. Non temete: non dovrete aspettare relativamente molto per scoprirlo. Solo fino al capitolo 44 “Trappola”.

 

Come avrete potuto leggere, le tra parti sono strutturate a cornice, con la prima e l’ultima basate sui pensieri di un singolo personaggio, e la parte centrale concentrata su un avvenimento particolare. Non ho voluto scendere troppo nei particolari nella scena della tortura, sia perché non era mia intenzione scrivere un paragrafo in stile horror, sia perché ritengo, ma è solo il mio modesto parere, che una dimostrazione gratuita di violenza non serva a molto. Certo, una tortura è una tortura. E non ho potuto tralasciare alcuni elementi necessari, potremmo definirli propri del topos classico della tortura: sangue, dolore, crudeltà. Il resto, alla vostra immaginazione

 

Una struttura a cornice, dicevo. E la prima parte è riservata a Kohaku. Ho provato a immaginare cosa fluttui nella mente del ragazzino. Quali possano essere le sue paure e i suoi timori. Il ruolo di Sango nella sua memoria, lei chiave del passato che Kohaku vuole conoscere e teme di conoscere. Ho tentato di ripercorrere quello che può provare ogni volta che la sua mente diviene schiava di Naraku. E l’ho calato in riferimento ad un preciso episodio dell’anime, quello del rapimento di Rin. Perché è il primo contatto che Kohaku ha con un ningen da “cosciente”, perché sarebbe potuta essere la fine della sua vita, e invece Sesshomaru l’ha risparmiato, condensato nelle poche parole che pensa, nella sua lucidità di demone avvezzo allo scontro, quello che Kohaku prova: né sofferenza né paura. Con uno sguardo che non è normale. Kohaku ha incontrato la sorella, pronuncia quel nome senza esserne sempre pienamente cosciente. Naraku lo invia sul campo di battaglia, e lui cerca di evitare la breccia. Cerca di evitare istintivamente un confronto che sa poterlo ferire. Più di quanto potrebbe una spada o un pugnale.

 

Non era proprio l’incontro che, forse, auspicavate voi. Ma era l’unico modo per porli a confronto. Indirettamente. Non c’è stato, e non ci sarà, un incontro fuori dal campo di battaglia, per loro. Non vogliatemene, ma questa prima parte si inserisce ad un punto della narrazione “classica” in cui Sango e Kohaku ancora non hanno parlato. È una parentesi, fra gli avvenimenti. Il loro incontro è quello che si diranno non l’ho deciso io, ma Rumiko Takahashi. E ho scelto di lasciare il più possibile inalterata la narrazione “storica”.

 

Kohaku da una parte. E Kagura dall’altra. La Signora del Vento. Ho sempre apprezzato questo personaggio dalla psicologia complessa. E’ affascinante nella sua spasmodica ricerca di una libertà che le sarà negata fino all’ultimo. È come Sesshomaru: fiera e orgogliosa; me è schiava. In lei si riuniscono la natura del demone la sofferenza della ningen. È una yasha, ma la su condizione di sottomissione è pari a quella di una donna del Giappone medievale. Non ha autonomia, non ha idee proprie, non ha nulla. Neanche il suo cuore. La forza che le dovrebbe valere la superiorità è ciò che la lega.

 

Kagura è umana nelle aspirazioni. E come tale cerca di fare in modo che si avverino. L’ho mostrata gelosa di Alessandra. Di una ragazza che è riuscita ad avvicinare il Principe, che è riuscita là dove lei ha fallito. Gelosa, ferita, battuta. Non è solo un sentimento di rivalsa prettamente femminile, non è solo la consapevolezza di aver perduto l’uomo che ama a farla soffrire. È anche lo smarrimento davanti ad un cambiamento. Lo sconforto di veder svanire l’illusione che per molto tempo l’ha aiutata ad andare avanti. Sesshomaru. Quel nome nella sua mente. Quel nome, quel viso, quel corpo…Una promessa di libertà. La volontà di averlo, e per questo di aver prima ottenuto la libertà. Sesshomaru, Shin…Non importa chi sia, non è questo che conta. Quello che Kagura vuole è l’obiettivo di un futuro oltre la prigionia. Quello che cerca è uno stimolo a continuare. Una motivazione che la porti aldilà di Naraku e della sua vita da schiava.

 

Ma Kagura è anche innamorata. Ha odiato Alessandra perché glielo ha portato via, ha odiato forse anche se stessa per non poter competere con la libertà della ningen. Kagura odia. Detesta tutto ciò che le ricorda lui. tutto ciò che le ricorda la libertà che non possiede. E detesta anche Sesshomaru. Con quell’odio che può provare solo chi ama. Quell’invidia che è malinconia. Kagura lo sa. Kagura lo capisce. Lei ha perso. Sconfitta. Lo vede. Lo so: suona strano che Sesshomaru possa mostrare, in combattimento, un turbamento, un’esitazione. E, in effetti, quello che compie non è altro che un leggero movimento della testa. Calcolato. Regale. Distante. Ma a Kagua basta. Perché lo consoce. Perché lo ama.

 

Lo ha davanti, è suo. E capisce che non può averlo. Che non le apparterrà mai. Fin dall’antichità, nella danza si sono espresse le arti femminili della seduzione. Un gioco erotico che on si basa quasi mai sul corpo, sul suo velarsi, sulla pelle nuda. Un gioco fatto di movimenti, di trame d’immaginazione, di linee che si snodano nell’aria. La più seducente delle danze è quella di Salomè, e se si va al testo biblico, tutta la sensualità è concentrata nel movimento delle mani e delle dita. Nei gesti compiuti modulando aria. E Kagura è aria. Aria che respira. E soffre.

 

La sua danza è quella della battaglia per tutti (la danza del drago); per tutti ma non per loro. Kagura e Sesshomaru sanno cosa significhino quei movimenti. Il demone conosce la seduzione che potrebbe esercitare su di lui, e lo sa anche Kagura. Ma è anche una danza d’addio. Un modo, l’unico, che hanno per parlarsi su un campo di battaglia. Kagura esegue quella danza che forse avrebbe fatto per conquistarlo, si muove come probabilmente ha sognato a lungo di fare, per catturare i suoi occhi, la sua attenzione. Però sa che non può osare oltre il vento. Sa che Sesshomaru ormai non è più suo. E mai lo sarà. Ha capito che, ormai, la maschera di ghiaccio del demone si sta sfaldando. Rivelando tutta la sensibilità e l’umanità che Sesshomaru possiede. Da sempre. Solo nascoste, sotterrate in lui da un’educazione troppo rigida. Troppo austera.

 

Amanti. Per un istante, sono amanti. Platonici. Sono vicino. Ne sono consapevoli entrambi. Forse, se lei fosse stata libera…Ma non è stato così. E adesso è Alessandra l’unica donna che il demone ama. Anche se non glielo ha mai detto. Anche se non glielo dirà mai. Ma il Principe non dimentica. Non può cancellare dalla sua mente una yasha che lo ha amato, e che ha protetto la sua vulnerabilità umana. Non può più essere sprezzante con Kagura. E la ama per un istante, un solo istante, nell’unico modo che gli è permesso, nell’unico modo in cui non tradisce Alessandra. La ama con gratitudine, fornendole un alibi e per un istante dandole quell’illusione che lei cercava. La sua vicinanza, il suo corpo, la protezione delle sue braccia. L’avvolge con i suoi capelli quasi volesse farla sua. Volesse farla entrare in sé. Ma è solo un istante. Perchè lui non la ama, lui non la desidera; perché lei non è Alessandra. A Kagura basta. È sufficiente per iniziare a dire addio. Per provare a dimenticarlo. Anche se non è facile. Anche se mai sarà facile guardarlo, e sapere che è stato di un’altra donna. Sapere che nel suo cuore sofferente, anche in futuro, ci sarà sempre un’altra donna.

 

Perché questa scena, vi chiederete. Certo, rivaluta Kagura. Ma non solo. Quando ho letto gli scan del manga relativi alla morte della yasha, mi ha colpito una cosa: lo sguardo. Gli occhi di Kagura e Sesshomaru. In quelli della yasha c’era come un amore antico, non dimenticato, e la mesta e sommessa felicità della rassegnazione. C’era un sorriso distante, di gioia e di sorpresa. Ma anche il Principe sembrava turbato, combattuto, quasi dispiaciuto. Eppure, gli occhi di Sesshomaru la guardavano non come si osserva la donna amata, ma qualcuno a cui si deve qualcosa, che sia molto o che sia poco. Qualcuno con cui si condivide o si ha condiviso qualcosa di importante. Anche se fosse durato un istante.

 

Ho preso questa scena, queste sensazioni ( e voi direte che ho lavorato troppo di fantasia, che ho visto cose che non esistono), e vi ho ricamato sopra l’anteffatto. L’origine di quello scambio di sguardi. Due amanti mancati. Due demoni che si sono concessi solo una danza d’addio. E uno sfiorarsi sottile. Due “persone” adulte. Perché Kagura, fuggita Alessandra, avrebbe potuto cercare di riavere il suo Principe. Ma sa che è partita persa. Sa che, anche nel dolore, nella rabbia, nella frustrazione, nell’impotenza, nel senso di colpevolezza, Sesshomaru ama e continuerà ad amare Alessandra. Anche se, quando si dicono addio per davvero, quando lei si muta in vento su quel campo di fiori, Sesshomaru non vede Alessandra da quasi quattro anni. Da quattro anni non sa nulla di lei. Eppure continua ad amarla. E per questo non può rivolgere alla yasha uno sguardo d’amante, ma solo di grata compassione. Perché, comunque, lei lo ha amato e lo ama. Perché comunque Kagura non è mai riuscita davvero a dirgli addio.

 

Sesshomaru…Sesshomaru è un enigma. Mi sguscia continuamente fra le righe che scrivo. Volevo mostrare il suo cambiamento con Alessandra, e lui sorprende me. Portandomi a descriverlo come sensibile, forte di sentimenti, umano. Solo costretto, ingabbiato. Chiuso. Bloccato in quel mondo e in quell’educazione in cui è cresciuto: la mentalità medievale giapponese e la fiera e fredda corte inuyoukai. Avevo deciso per una sensualità latente fino alla fine della prima parte, e lui si ribella. Si fa più appassionato, più ardente. Dopo la concessione a Kagura, marcia indietro non la si può fare. Inutile. Sesshomaru detesta fare ciò che gli altri vorrebbero imporgli.

 

Ma non è solo in camp sentimentale che Sesshomaru mi si ribella. All’inizio, volevo che Inuyasha scendesse in campo dopo il capitolo “Duello”. Ho posticipato, e il nostro Principe mi sconvolge le carte in tavola. Gioca sporco. Chiama Inuyasha Principe. Ma lo fa nelle sue stanze, senza testimoni. Lo fa dopo che ha rischiato di perderlo, dopo che l’ha protetto. Forse sull’onda delle emozioni, forse sena una vera ragione. Ma lo fa. Eppure lo odio. Vuole umiliarlo, annientarlo, e gli dona un kimono pregiato. Un kimono degno di un rango che Inuyasha non ha mai avuto ufficialmente, quello di Principe cadetto. Sesshomaru non gli parla, ma lasci che aiuti all’ospedale, lascia che percorra i corridoi del palazzo paterno assieme a Koga, lascia che si occupi di far sgombrare la piazza d’armi dai cadaveri che gli scontri mietono.

 

Inuyasha fa, ma a corte non è niente. C’è solo una cosa che non gli è permessa: combattere. Sesshomaru ha accettato Sango e Miroku, accetterà anche Kagome. Ma lui no. Inuyasha non può combattere. Non deve combattere sotto il Principe. Lui è un bastardo, è il disonore nella sua stirpe. Permettergli di schierarsi in campo equivale a riconoscerlo, ad accettarlo, ad insignirlo si un ruolo che Sesshomaru sente suo e solo suo. Non un Principe e un fratello cadetto. Solo lui. Egoisticamente.

 

Ma noi conosciamo bene il nostro hanyou. E non si rassegna. Combatterà. Combatterà alla testa della guarnigione di difesa del palazzo. Combatterà assieme a Shin per difendere quella casa paterna ce da sempre lo ha rifiutato. Combatterà per Sesshomaru, per Alessandra, per le persone cui vuole bene. E combatterà anche per se stesso. Soprattutto per se stesso. Necessità lo permette. E il suo cuore lo impone. È rimasto troppo nelle retrovie. Si è lasciato cullare troppo a lungo dall’inadeguatezza, dal timore, dallo smarrimento che la morte di Kikyo gli ha provocato. Basta. Verrà il momento, e non è affatto lontano, solo un capitolo, che sentiremo l’aria fremere per la cicatrice del vento. Che vedremo Inuyasha spavaldo e incosciente come sempre; cocciuto e determinato. E sarà per questo suo temperamento, quel questo suo modo di porsi, così diverso da quello algido e controllato del fratello, così simile a quello di Inutaisho, di quel padre mai conosciuto, che la guarnigione rimasta al castello lo seguirà. Ciecamente.

 

E vinceranno, perché, si sa, i giusti devono vincere, e anche se saranno in difficoltà estrema un aiuto può sempre arrivare (a voi, per il momento, immaginare da parte di chi ^^).

 

E poi Shin. Sono contenta che non vi sia dispiaciuto che non sia morto. Anche perché il primogenito di Morigawa tornerà anche nelle altre due parti, benchè sarà soprattutto nella terza che avrà un ruolo non trascurabile. Già…Primogenito. Perché è davvero figlio del Signore del Kansai e di Kyoko. Lo so: vi ho ingannato, ma il sospetto che ci potesse essere una parentela fra lui e Sesshomaru è stato troppo forte ^^. Chiedo venia.

 

No. A Shin basta Yashi, come fratello. E anche Koji. Perché il giovane ookami non riuscirà mai ad affrancarsi totalmente dal suo passato: sarà per sempre diviso. Fratello del Principe del Kansai e fratello del Principe degli Yoro. Un mediatore, direte voi, fra lupi e inuyoukai. Sì certo. Ma soprattutto un “ragazzo” che più di molti altri ha compreso davvero che non è la razza a decretare le differenze. E in questo sarà sempre sostenuto da Kumamoto, che di figli, oltre ad Homoe, ne ha a avuti altri tre, fra cui un hanyou, legittimamente riconosciuto. E purtroppo tutti deceduti, tranne la femmina. Ma sto divagando troppo.

 

Shin, dicevano. Lui che è prigioniero e vivo nel castello dell’inuyoukai. Lui che aiuterà Sesshomaru. Lui che combatterà con Inuyasha. Lui che farà di tutto perché i suoi soldati non affrontino quelli del Principe dell’Ovest. Lui che avrebbe voluto portare Alessandra lontana da un campo di battaglia, e non può opporsi, ferito e debilitato dai postumi dell’agguato che ha subito da Naraku, che la ragazza corra. Corra verso Sesshomaru e il dolore.

 

Shin. Ma anche Koga. E Ayame, Miroku e Sango. Kagome. In questi ultimi, pochi capitoli, tutti avranno la loro scena. In gloria o in impotenza. Perché, finita la guerra, il lieto fine è ancora lontano. Sarà allora che i vincitori, i nostri amici, dovranno affrontare una prova molto dura. E dovranno farlo soprattutto Sesshomaru e Alessandra. Lui dovrà vincere contro se stesso, contro una realtà che non ha ai voluto focalizzare che gli verrà sbattuta in faccia con la forza di uno schiaffo. Lei dovrà trovare la forza di sopportare la nuova umiliazione, la violenza che la corte le farà. Perché in quel momento Sesshomaru non è con lei. Sesshomaru è lontano. E la corte può approfittare di quella ragazza, debole e indifesa. Può violarla, e al tempo stesso rispettare la volontà del Principe. E fuori dalla stanza, a cogliere i respiri strozzati della ragazza, i suoi amici: Miroku, Sango, Kagome, Rin, Ayame, Koga e Kumamoto. E non potranno fare niente per impedirlo. Non potranno fermare le mani che la toccheranno e i respiri che la sfioreranno. Non potranno. E alla fine, per la prima volta, i suoi amici la sentiranno piangere. Silenziosamente. Disperatamente.

 

Direte che sono “malvagia”, che godo nel complicare le cose. E’ vero: ma il motivo è semplice. La storia prova a essere la narrazione di una vita; e nella vita ci sono i sogni, ma anche la realtà. E in una realtà diversa, medievale, estranea, avversa agli esseri umani, i sogni possono sembrare più lontani e inafferrabili delle stelle del firmamento. Specialmente se il perno di quei sogni, in quel momento, è instabile e provato. Confuso. Scosso.

 

Credo sia arrivato il momento di chiudere questa mia parentesi. Ho un po’ ripercorso alcune parti dell’ultimo capitolo, provando a spiegare cosa me lo ha ispirato e cosa volevo trasmettere. Spero solo che non vi risulti una noiosa ripetizione. Ho ripreso capitoli vecchi, perché, se nella mia mente la trama è complessivamente definita, è quasi certo che nella realtà possa esser più difficile trovare i miei enigmatici riferimenti. Non me ne volgiate. E se ci fossero problemi, se vorreste più chiarimenti, ditemelo. E vedrò di modificare lo stile in certi punti. Qualsiasi critica, lo sapete, è bene accetta. Anche la più aspra.

 

Vi ho trascinato indietro, ma vi ho anche portato avanti. Anticipazioni ce ne sono state. Spero che non vi diano noia. Cerco solo di solleticare la vostra curiosità, spingendovi a ipotizzare possibili soluzioni.

 

Bene: vi ringrazio di nuovo infinitamente per la gentilezza che mi mostrate. Siete davvero…fenomenali! E, davvero, mi imbarazza molto ricevere i vostri complimenti. Grazie. Grazie davvero.

 

Un abbraccio,

 

Avalon

 

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Capitolo 43
*** 43. ULTIMI ISTANTI ***


Gentilissime lettrici e gentili lettori,

Gentilissime lettrici e gentili lettori,

 

finalmente, ci siamo: ultimo capitolo prima dell’inizio dello scontro finale. Prima che le spade cozzino e il sangue corra nelle vene. Prima che tutto venga sconvolto, in nodo irreparabile questa volta. Cambierà. Cambieranno molte cose, dal prossimo capitolo. Come già in questo si chiariranno e si adombreranno situazioni che spero troverete piacevoli.

 

C’è poco tempo. Troppo poco. Ultime scene. Ultimi momenti. Nello spazio di una giornata quante cose possono cambiare. Nello spazio di ore, si possono provare sensazioni intense, si può sfiorare l'estasi e vederla sprofondare nel dolore. Si può sperare di esser amati.

 

Ringrazio tutti colore che leggono, e chi commenta e sopratutto:

 

fairyelly83: Sono molto contento che il capitolo sia stato di tuo gradimento. E non preoccuparti di credere banali le parole che usi, in bene o in male. C’è più forza e incisività in una parola comune usata con consapevolezza che in mille termini elaborati impiegati solo per abbellire la retorica di una frase. E per me, anche solo una parola, un aggettivo, è fonte di profonda riconoscenza per te che hai pensato a inviarmela. Grazie infinite.

Sono molto contenta che tu abbi anche apprezzato la Parentesi finale. E’ un piccolo esamotage che ho ideato per meglio comunicare con voi che mi leggete e avete la cortesia di recensirmi, cosa che altrimenti non potrei garantire in modo costante. Ci sono piccole anticipazioni, e provo anche ha spiegare quello che volevo dire, perchè a volte nella mia mente le scene sono chiare, ma non riesco a tradurle esattamente in carta.

 

 

Celina: Vedere il tuo nome è sempre una gioia, uno stimolo a continuare, un incentivo a concludere questa prima parte che ormai si sta avviando al suo epilogo. E soprattutto voglio ringraziarti per avermi commentata ben due volte, qui e sull’altro sito. Il sapere che mi leggi più di una volta è per me fonte di piacere e di grande imbarazzo.

Il leggere le tue parole e l’apprezzamento che tu hai verso la scena finale di Kagura sono le più belle parole che mi potessi rivolgere. Sei riuscita a “leggere” quello che volevo esprimere. Grazie infinite.

 

Kaimi_11: Per prima cosa, ti ringrazio per avermi commentata e per i complimenti che mi hai rivolto e che, ti assicuro mi imbarazzano non poco. Purtroppo causa impegni universitaria, la pubblicazione della storia è alquanto discontinua, e di questo non smetterò mai di scusarmi e ringraziare voi che avete la pazienza e la cortesia di attendere. Comunque, non hai motivo di temere: anche se con tempi dilatati la storia finirà e non smetterò di scrivere. Terminata questa prima parte, forse è vero che sospenderò del tutto il lavoro per un po’, dal momento che ho in lavorazione altre due storia, ma a settembre, se non prima, riprenderò anche con la seconda parte (altri cinquanta capitolo) e poi seguirà la terza.

Sono felice di sapere che il personaggio di Shin è di tuo gradimento. In effetti, all’inizio avevo pensato ad una morte definitiva, ma poi ho modificato il progetto. Mi ero troppo affezionata a lui per toglierlo completamente di scena, e allora cambio direzione. Riappare nel palazzo di Sesshomaru e continuerà a vivere anche nelle parti future, anche s avrò un peso maggiore nella terza.

 

Infine, un sentito e doveroso grazie a Lara e alla sua fanfic Esbat, fonte di ispirazione per alcuni passaggi del penultimo paragrafo. E a te, Lara, rinnovo il mio ringraziamento per avermi concesso l’onore di ispirarmi. Consideralo un tributo.

 

Adesso, vi lascio al capitolo, che è il più lungo che abbia finora mai scritto. Spero sinceramente che lo troviate di vostro gradimento, e non noioso. Questo sarà l’ultimo aggiornamento prima della tesi che discuterò mercoledì, e quindi per il prossimo capitolo temo che dovrete aspettare un po’. Tuttavia, spero di riuscire a postarlo fra una settimana.

 

Merci a tutte le monde!

 

Avalon

 

 

 

 

 

CAPITOLO 43

ULTIMI ISTANTI

 

 

Bella.

Che parola scontata. Bella. Un aggettivo semplice, banale, insulso. Bella. Un qualcosa di così impreciso, di così grande da non definire nulla. Un qualcosa di così immenso. E ovvio. Sì. Ovvio. Perché è la solita, sciocca parola che sale alle labbra di un innamorato. Il solo complimento che si ripete, come se fosse scontato doverlo dire. Dover confermare l’evidente.

 

Bella. Odiava quella parola. Perché rimbombava nella sua mente, ma non era mai riuscito a dirgliela. Mai. Non le aveva mai fatto un complimento. L’aveva amata senza elogiarla. L’aveva amata con ardore e forza. Con la sua parte più selvaggia e affamata. Affamata d’affetto, di comprensione, di dolcezza. Affamata di lei. L’aveva amata, e non le aveva mai detto di amarla. E lei non si era ribellata. Lei lo aveva accolto, ricambiato, accettato. Lo aveva rincorso per tanto tempo, e adesso lo aveva avuto. Suo per sempre. Suo, e di nessun’altra. Solo suo.

 

L’aveva amata…Quella notte, con la sensazione del pericolo sulla pelle, con il desiderio di non perdersi troppo presto, con la passione a velare lo sguardo, l’aveva amata come mai aveva creduto che un demone potesse amare. Con intensità, rabbia, dolcezza, attenzione. Con amore. Con quel sentimento che molti youkai rifiutano, che ritengono inutile, umano, inopportuno. L’aveva amata, perché non voleva rifiutare quello che sentiva per lei. Non poteva più nasconderlo né ignorarlo. Non più. Mai più.

 

Si girò su un fianco, puntellando la testa con una mano. Bella. Di nuovo quella parola. Di nuovo quel complimento mai pronunciato. Bella. Con i suoi capelli ribelli ad arabescare il cuscino, con la sua piccola bocca dischiusa nel respiro, con quel braccio candido che gli abbracciava il torace, con quel piccolo piede che ogni tanto faceva capolino fra le coltri del futon. Bella. Innocente. Ardente. Fiera. Forte. Debole. Selvaggia. Docile. Delicata. Da proteggere, da difendere, da amare. Da non far soffrire. Perché non avrebbe mai voluto vederla soffrire a causa sua. E sapeva di volere l’impossibile. Sapeva di rincorrere fantasmi. Perché lei soffriva per lui. Aveva sempre sofferto per lui. Anche in quei mesi. E nella sofferenza gli sorrideva.

 

Sorrise della piccola smorfia che le disegnava le labbra. Il broncio di una bambina contrariata, indispettito e tenero. Infantile. Perché lei era ancora così piccola, così fragile. Perché lei era vissuta lontano da quel mondo cui lui apparteneva. In una realtà fatta di sogni e di speranze. Nella favola di una notte lontana. Scese a sfiorale una guancia con le labbra, premuroso di non svegliarla. Si accontentò di lambire la sua pelle ancora calda, i suoi capelli ribelli. Risalì fino all’orecchio, fermandosi e godendo del piccolo mugolio che il suo respiro le strappò. Risalì con gli artigli il braccio nudo, sfiorando appena la pelle liscia; su-su fino alla spalla, al contorno accennato delle scapole. Arrivò alla gola, e tornò indietro. Sempre leggero, sempre attento, sempre delicato.

 

Non si stancava mai di toccarla, di assaporare il suo corpo, le membra così toniche e aggraziate. Flessuose. Come un giunco. Adatte alla corsa, al vento veloce che corre fra i boschi. Si rimise sdraiato, con un sorriso rapito sulle labbra irriverenti. Bella. Bellissima. E sua. Solo sua. Era un pensiero così strano…Quel monosillabo nella testa, sulle labbra…Quel monosillabo sussurrato sulla sua fronte, mentre attorcigliava i suoi capelli sciolti. Sciolti…Già. Era stato lui a liberarli dai fermagli e dai nastri. Con frenesia. Le sue dita erano corse in quella massa soffice e ramata, con voluttà, torturandola. E assieme ai suoi capelli aveva sciolto anche lei. Languida. Passionale. Dolce. Come il suo odore. Profumo di bosco. Profumo di betulla.

 

Allungò la mano oltre il cuscino, fino a sfiorare i petali del fiore che la sera prima le aveva strappato con un sorriso divertito. Vincendo con lei una gara di risate. Vincendo con lei la sensazione di apprensione che gli correva sotto la pelle. Accendendo quel fuoco sottile che li aveva fatti bruciare, in brividi violenti, in scosse convulse e nuove. L’aveva fatta ridere, l’aveva fatta felice, l’aveva baciata su quelle labbra piegate e gaie. L’aveva amata. Amata. Raccolse il fiore e si risistemò supino. Iris. Il suo fiore. Il suo nome. Dolce e bello. Come lei.

 

Ayame

 

Koga rigirò il gambo fra le dita artigliate. Piano; cercando di cogliere ogni sfumatura dei petali, ogni ombra che la debole luce che filtrava riusciva a strappare a quei petali. Quel fiore…lei lo portava sempre, fin da quando era piccola. Era con quel fiore in mano che l’aveva trovata; era stato respirando quel profumo che l’aveva riportata a casa sulle sue spalle. Era stato quell’odore il primo che aveva sentito di lei, quando l’aveva rivista. Profumo di boschi, di betulle, di fiori. Un fiore solo. Il suo fiore.

 

Indaco acceso, capace di ferire gli occhi per la sua bellezza. Come lei. Bella e pericolosa. Un sorriso gli increspò le labbra. Aveva vinto. Alla fine, aveva vinto lei. E lui aveva dovuto deporre le armi. Sconfitto. Conquistato. Stregato dal suo cipiglio, dalla sua irruenza; affascinato dalla sua irriverenza, dalla sua dolcezza. Aveva cercato di farla ingelosire; l’aveva trattata male per non illuderla. Le aveva anche mentito, pur di evitare di farle del male. Accampare scuse, salutarla con sgarbo e correre via, corteggiare un’altra donna sotto i suoi occhi…le aveva provate tutte, perché Ayame si dimenticasse di lui. Niente. Cocciuta. Ostinata. Ayame era andata continuamente da lui, aveva continuato a lasciarsi ferire, a farsi male. A rincorrerlo anche se lui le diceva di non volerla. Che di lei non gli importava.

 

Aveva cercato in ogni modo di distruggere il ricordo che la yasha aveva di lui: un giovane youkai che la salva e la porta in spalla. L’immagine del principe azzurro che compare nei sogni di una bambina, quando s’immagina il proprio futuro. Aveva cercato in ogni modo di farsi detestare da lei, per non doverla illudere. Per non rischiare di legarla a sé e doverle mentire. Non aveva tempo di amare, lui: Naraku era il suo unico obiettivo, e si era ripromesso di non avere pace finchè quel maledetto hanyou non fosse stato annientato e i suoi compagni vendicati. Belle promesse, molto nobili…ma erano bastati gli occhi grandi di Ayame, quelle iridi così ingenue e affascinanti, per mettere tutto in secondo piano.

 

Gli occhi verdi di Ayame…Quella notte, lo sguardo della bambina era sparito. Era rimasto il candore, l’ingenuità, ma sfumato da qualcosa di più intenso, di più acceso. Koga se ne era accorto. Quella notte, Ayame aveva smesso di guardarlo come il principe di un bel sogno di bambina, aveva smesso di fissarlo come una ragazzina guarda un oggetto proibito. Lo aveva guardato come una donna, con le iridi accese di amore e calore, con lo sguardo malizioso e irriverente. E lui si era sentito entrare dentro quegli occhi, di un verde accecante, vivido come le foglie dopo un temporale estivo. Si era sentito impotente. Schiavo. Costretto a capitolare.

 

In quegli istanti, per un attimo si era chiesto che fine avesse fatto la bambina. Era sparita. Al suo posto, solo una donna. La sua donna. Quella che aveva legato a sé. Senza pensare. Senza riflettere. Seguendo l’istinto. Perché, altrimenti, lo sapeva bene che la testa gli avrebbe detto di fermarsi prima, di non farne la sua amante. Di non amarla. La ragione avrebbe parlato; forse lo aveva anche fatto, ma lui non era stato in grado di ascoltarla, di distinguere quella voce razionale all’interno delle emozioni che lo avevano attraversato.

 

Sospirò, coprendosi il viso con un braccio. Inutile recriminare. Sapeva benissimo quello che stava facendo, e cosa ne sarebbe derivato. Lo sapeva, e non si era fermato. Lei lo aveva pregato di non farlo. Non aveva voluto sentire scuse o paure. Non aveva voluto sentire niente. Solo le sue labbra e la sue mani. Solo lui. E Koga non era stato capace di resisterle, di rifiutarsi. Maledizione. A lui e agli occhi di Ayame. A quelle parole che gli aveva sussurrato all’orecchio, divertendosi a solleticargli il collo con gli artigli, godendo nel farlo fremere per poi ritrarsi. Maledette le mani della ragazza nei suoi capelli, maledette le sue mani che scivolavano piano sul suo corpo, slacciando le fettucce della corazza, sciogliendogli il kimono. Maledetto il suo sorriso ingenuo e le sue labbra provocanti. Maledetto il suo autocontrollo dimenticato e il suo istinto. Maledetto il suo amore per lei.

 

Cosa poteva prometterle? Cosa aveva da prometterle? Una vita d’angoscia, col fiato sul collo e la paura che lui non sarebbe mai tornato. Un futuro fatto di solitudine, di stagioni che si srotolano lente. Primavera, estate, autunno, inverno…e di nuovo primavera. Per anni. Per molti anni ancora. Finchè Naraku non fosse morto. Finchè lui non avesse vendicato i suoi compagni. Koga lo sapeva. Sapeva di non avere niente. Solo un giuramento verso il suo clan sterminato. Per questo aveva cercato di allontanare Ayame da lui. Per questo aveva cercato di rifiutarla, di cacciarla, di farla desistere. Sapeva di non poterle dare nulla, neanche la falsità di una speranza. Lo sapeva lui. Ma lo sapeva anche Ayame.

 

“Amami…Anche solo per una notte…anche solo per questa notte…”

 

Ayame glielo aveva detto: non nutriva né illusioni né false speranze. Sapeva perfettamente che, finita la guerra contro Morigawa, Koga l’avrebbe riportata sulla montagna, da suo nonno. Sapeva che lo avrebbe visto andarsene col suo sorriso sfacciato e l’aria sicura. Sapeva che non si sarebbe fermato con lei, sapeva che non si sarebbe voltato per salutarla. Lo conosceva troppo bene ormai. Ed era perfettamente conscia del fatto che per il principe degli Yoro la parola data viene prima di tutto. Anche del suo cuore. Eppure, lei non aveva avuto paura del nulla che le offriva. Non aveva avuto paura dell’assenza di futuro che l’aspettava. Gli si era concessa senza esitazione. Le sarebbe bastata anche solo quella notte. Quelle ore fatte di respiri, di baci, di carezze ardenti. Quelle ore amare e dolci. Quelle ore effimere. Le sarebbe bastata anche l’illusione di una notte, in cui lui era stato suo, in cui Koga aveva pensato solo a lei, e a nient’altro. Anche solo una notte. Le bastava davvero. Per poter cullare un ricordo segreto durante il tempo di attesa. Per poter stringersi le braccia al seno e illudersi di sentire su di sé le mani del demone. Per potersi sfiorare una ciocca di capelli cercando di ripetere la piega strana che assumevano dopo che Koga ci aveva giocato con le dita.

 

Ayame non gli aveva chiesto altro. Né promesse né speranze. Non gli aveva chiesto parole che non fossero il suo nome. Pronunciato da labbra carnose e calde. Da labbra forti e vogliose. Labbra di uomo. Labbra di demone. Aveva voluto solo una notte, e nulla di più. Anche a costo di passare per svergognata, di esser accusata di aver ceduto alle lusinghe e al copro. Di essersi venduta. Non le sarebbe importato nulla. Avrebbe sempre camminato a testa alta, senza vergogna per averlo amato. Sicura e fiera, nella sua pelliccia bianca. Perché la sua pelliccia sarebbe sempre rimasta bianca. Almeno fino alla morte di Naraku.

 

Koga respirò profondamente. Quella notte non conteneva forse la più esplicita delle promesse? Quella di essere suo e di ritornare da lei. Non importa quando, ma tornare da lei. Non era forse la più crudele e dolce delle illusioni quella che aveva permesso che prendesse corpo? Quella che lui stesso aveva voluto esistesse, anche se sapeva benissimo che le avrebbe fatto male? Sì. Sì. Sì. Lo aveva fatto. E benchè non se ne sentisse orgoglioso, sapeva anche che non si sarebbe mai tirato indietro. Come sapeva che il sole che stava per nascere non avrebbe cancellato quello che era successo.

 

Avrebbe potuto fingere indifferenza; avrebbe potuto alzarsi e andarsene senza degnarla di una parola. Avrebbe potuto dissimulare il suo comportamento e fingere di averla solo usata, di essersi approfittato di lei e del suo affetto. Avrebbe potuto uscire dalla tenda come se nulla fosse, e trattarla come ogni altro giorno. Ayame non avrebbe potuto opporsi, né rinfacciargli apertamente quello che era accaduto fra loro. Avrebbe potuto trattarla come una squallida amante, e lei non si sarebbe potuta opporre. Avrebbe solo dovuto piegare la testa e inghiottire lacrime. Perché Koga era il Principe, perché lui era l’ultimo erede della Famiglia dei lupi. E lei…lei era solo una delle tante hime degli ookami; lei era solo una di tante e lui era l’unico. Non le sarebbe valso a nulla esser la nipote del patriarca. Era Koga a dettar legge, nella loro Famiglia, bastava che lo volesse. Bastava che raccogliesse l’eredità di suo padre. E lei sarebbe stata solo una fra le molte conquiste che il demone avrebbe potuto fare. Forse il nome più prestigioso, ma pur sempre un nome.

 

Koga solleticò il mento di Ayame. Scese a carezzarle il braccio con i petali del fiore, solleticandole la pelle; percorse il profilo sinuoso dalla spalla, scendendo al gomito per soffermandosi nell’incavo prima di proseguire fino al polso. Le sfregò la mano e poi tornò a salire, fino al collo, sotto il mento, attorno alle labbra, in piccoli cerchi che si spegnevano vicino al lobo dell’orecchio, per poi riprendere in direzione opposta. Ayame mugulò fra il piacere e il disappunto. Quel tocco discreto la stava svegliando, ma l’odore che sentiva confuso vicino a sé non le dispiaceva. Odore di uomo. Odore di lupo. Odore di amante. L’odore di Koga.

 

Si mosse lentamente, stiracchiandosi sorniona. Non aveva alcuna fretta. Non voleva avere fretta. Sapeva che quelli erano gli ultimi momenti che poteva condividere con lui, gli ultimi minuti che avrebbe potuto trascorrere al suo fianco, nel suo letto. Non voleva rovinarli; non voleva sprecarli. Allungò pigramente le braccia sopra la testa, stirando bene le membra ancora assonnate. Non avrebbe voluto alzarsi, ma ormai il sogno era finito. Inutile pensare a un lieto fine. Aveva avuto quello che aveva chiesto: una notte con lui. Non doveva sperare in qualcos’altro. Non ne aveva il diritto. Forse, dopo la morte di Naraku…Ma non prima. Quella era stata solo una parentesi. Irreale. Impossibile. Assurda. Magica. Bellissima. Ma solo una parentesi. Solo una notte.

 

Aprì gli occhi, cercando in ogni modo di mostrare uno sguardo sereno e compiaciuto. Uno sguardo rilassato, stiracchiando le labbra in un sorriso di convenzione. Non poteva certo mostrarsi triste al suo amante. Pessima figura. Perché significava non prestar fede alle parole che gli aveva detto. Significava tradirsi prima del tempo. E Ayame voleva che lui conservasse di quella notte il suo volto sorridente e soddisfatto. Lo sguardo di una donna innamorata.

 

Non ci riuscì. Addio al sorriso, addio agli occhi allegri, alle battute che si era preparata, alla parte che sapeva che avrebbe dovuto recitare. Addio a tutto. Non poteva. Il viso di Koga era a pochi centimetri dal suo, il suo copro a imprigionala sul materasso. Vicino come poche ore prima, maledettamente seducente come alla luce della candela. Con i capelli neri che coprivano disordinati le spalle nude e spiovevano sul suo decolté, solleticandole la pelle. Il suo sorriso scaltro, da schiaffi, con le labbra dischiuse a lasciar intravedere le zanne bianche. E negli occhi una luce strana, velata, forte. Folle. Koga non le lasciò il tempo di formulare nessuna domanda. Nessun pensiero. Si chinò a baciarla, catturando le sue labbra. Con irruenza. Inarcando le spalle e lasciando che le mani di Ayame vagassero sul suo corpo, fino alla base della nuca, fino a massaggiargli il trapezio teso a reggere il suo peso.

 

“Ti amo”

 

Glielo soffiò in un orecchio, con tutta la dolcezza che riuscì a metterci. Con il miglior tono che la sua voce roca e il suo imbarazzo erano riusciti a formulare. Glielo sussurrò mentre le intrecciava l’iris ai capelli. Mentre scendeva con la mano alla sua nuca e la costringeva di nuovo a lui, sulle sue labbra mai stanche, mai sazie di lei. Ayame potè solo piangere mentre le baciava il sorriso incredulo che le dipingeva le labbra. Pianse affondando la testa nell’incavo del suo collo e stringendogli il petto caldo.

 

La mano del demone era corsa alla sua nuca, scostandole quasi con urgenza i capelli spettinati e ribelli. Sentì le zanne di Koga morderle la base del collo, entrare lente in lei. Le sentì marchiarla con una cicatrice indelebile. Ayame conficcò gli artigli nelle spalle di Koga, trattenendo un singulto. Si strinse di più a lui mentre sentiva un rivolo di sangue scendere lungo la schiena nuda, disegnandole la colonna vertebrale. Fu solo un istante, e mentre avvertiva il dolore scemare lentamente, sostituito dalle labbra premurose dell’ookami che succhiavano la ferita inferta, Ayame reagì d’istinto. Morse anche lei, con la sensazione di essere ad un passo da una cosa tanto desiderata e di poterla perdere da un istante all’altro. Lo morse nello stesso punto, insinuando le zanne fra i suoi capelli di pece, raggiungendo la pelle e sfiorandogliela con le labbra. Lo sentì irrigidirsi, forse contrarre la bocca in una smorfia. Ayame non si fermò. Affondò di più, finchè non sentì il sapore metallico del suo sangue.

 

Lasciò che Koga la riadagiasse sul cuscino, sudata e ansane. Avevano entrambi il fiato corto e la pelle velata da un leggero sudore. Labbra lucide e tese; le mani di lui ai lati della testa di Ayame. Le mani di lei ancora affondate nei capelli di Koga. Si fissarono. Era stato l’istinto a guidarli, ma entrambi sapevano benissimo cosa significasse quel gesto. Si erano legati. Più di quanto già non si fossero compromessi. Si erano marchiati. E adesso, ognuno apparteneva solo all’altro. Koga deglutì a vuoto. Si sentiva la bocca secca e la gola in fiamme. Cercava di riprendere il controllo della sua lingua, per dire una cosa qualsiasi. Anche una stupidaggine. Si umettò le labbra, scioccò la lingua, aprì la bocca…e la richiuse subito. Cosa poteva dirle? Che gli dispiaceva di averla morsa, che non avrebbe voluto farlo, ma era stato il suo corpo a ordinarglielo? Dirle che non doveva sentirsi legata a lui, se non avesse voluto? Una fitta leggera alla nuca gli ricordò che lei aveva risposto. Un istante dopo che le sue zanne avevano allentano la presa, appena si era accorta di quello che aveva fatto, Ayame aveva risposto. E lo aveva morso. Nello stesso punto. Allo stesso modo.

 

Decise. Era inutile parlare. Decise solo di sorriderle. Perché non sarebbe mai riuscito a trovare le parole per dirle quello che sentiva dentro. Non gli veniva in mente nessuna sciocca, sdolcinata, banale frase da dirle. Volle solo sorriderle. E gustarsi le labbra della yasha arricciate dalla gioia, e i suoi occhi lucidi di lacrime. Ayame. La sua Ayame.

 

…mia…per sempre mia…

 

 

*****

 

 

Caldo.

Una sensazione rassicurante. Come quella di un abbraccio. L’idea della protezione, della sicurezza, della tranquillità. Caldo. Come l’estate, quando l’aria è pesante. Quando il sole martella la testa, forte, ossessivo. Quando l’umidità delle risaie ammorba l’aria e i vestiti sono sempre troppo pesanti da portare. Troppo caldi. Come l’aria secca e arida che brucia sulla pelle. Che strozza il fiato.

 

Gli piaceva l’estate. Gli era sempre piaciuta. Anche se il clima afoso lo intontiva un po’; anche se le sue vesti pesanti lo facevano sudare e gli lasciavo addosso una sgradevole sensazione di appiccicoso. Di sporco. Poteva essersi appena rinfrescato, e subito quella sensazione lo coglieva. Ossessiva. Rassicurante. Perché, in fondo, gli piaceva. Gli piaceva sentire il corpo pesante, abbandonato. Gli piaceva la sonnolenza cui la stagione estiva lo induceva. Gli piaceva l’abbandono che dava. Cercare un posticino tranquillo, all’ombra, fra i rami di un albero, e aspettare placidamente il fresco della sera, cullato da quel tepore, rassicurato dalla canicola.

 

Quando era piccolo, l’estate era la sua liberazione. Agognata. Attesa. Desiderata. Perché d’estate i ningen lo lasciavano tranquillo, troppo spossati dal calore e dall’afa. Non si curavano di lui, e gli lasciavano la libertà di muoversi come voleva. Troppo fatica cercare di umiliarlo. Meglio semplicemente evitarlo, rifugiandosi all’ombra delle engawa, vicino ai piccoli laghetti o nelle sale più fresche del palazzo. Loro attendevano con ansia il refrigerio della sera, lui aspirava alla canicola pomeridiana.

 

Poteva correre tranquillo per i giardini, uscire dalle mura senza preoccupazione e tornare senza che nessuno gli dicesse nulla. D’estate riusciva ad assaporare un po’ di libertà. Era ancora troppo piccolo perché la sua esuberanza fosse frenata dal caldo, troppo curioso perché il sole riuscisse a fiaccare la sua forza. Nella sua testolina arruffata c’era posto per un solo pensiero: l’estate voleva dire possibilità di vivere fuori dalle stanze del palazzo, possibilità di respirare aria aperta, libertà di muoversi.

 

Estate significava stare con lei. Con sua madre. Inuyasha lo sapeva: quando nel tokonoma degli appartamenti di sua madre veniva sostituito il rotolo, quando dai fukurodana venivano prelevati i kimoni usumono con fiori e foglie di ciliegio, peonie, giovani foglie, pawlonia, gigli, germogli di bambù, quando le mado restavano aperte per tutto il giorno, velate solo da una cortina di listelle di bambù, allora l’estate era arrivata, e sua madre avrebbe trascorso le giornate con lui, nei giardini del palazzo. Avrebbe indossato le sue kasane coordinando i colori e le decorazioni, avrebbe lasciato sciolti i serici capelli neri, e sarebbe restata con lui. Avrebbe giocato con lui, si sarebbe seduta sotto una magnolia o un ginko biloba e lo avrebbe guardato improvvisare una pesca alle carpe dello stagno. Oppure avrebbe giocato con lui a palla o semplicemente lo avrebbe tenuto sulle sue ginocchia, raccontandogli le gesta di un demone d’argento. Gli avrebbe narrato dell’amore fra uno youkai e una ningen, di un amore proibito e contrastato. Gli avrebbe detto di quel padre che Inuyasha non aveva mai visto, e che era morto per salvarli. Morto d’inverno. Fra il bianco della neve.

 

Inuyasha amava l’estate anche per quello: in quella stagione quasi nulla aveva un colore niveo. Tutto era verde, giallo, rosso, viola, azzurro…Tutto era colorato, ma quasi nulla era bianco. E lui poteva toccare tutto senza la sensazione di sporcare qualcosa. Poteva non pensare a quello che la sua nascita aveva comportato, al sudiciume che aveva imbrattato sua madre. Lei pura e bella come la neve. Lei candida nella pelle delicata, nelle movenze aggraziate. Il calore dell’estate gli ricordava l’abbraccio di sua madre. La sensazione di tranquillo abbandono che provava quando si accoccolava contro di lei.

 

Anche in quel momento sentiva quel tepore, quello dato da un copro vicino al suo, quello dato da un abbraccio. Gli piaceva così tanto quella sensazione…Dopo che sua madre era morta, nessuno lo aveva più abbracciato. Erano dovuti trascorrere molti anni prima che un’altra donna lo avvicinasse; prima che una ragazzina riuscisse a insinuarsi fra le spaccature del suo animo. E lo stringesse a sé. Kikyo era stata la prima. La prima persona cui avesse permesso un contatto fisico, dopo sua madre. La prima che lo aveva stretto, la prima che lo aveva cullato, la prima che avesse accarezzato di nuovo il suo volto e sfiorato il suo corpo senza ripugnanza. Sua madre non lo aveva mai odiato. E Kikyo aveva vinto la diffidenza che un hanyou ispira nei ningen. La diffidenza, ma non la vergogna. Perché per lei, per una miko potente come lei, doveva essere umiliante mostrarsi con lui. Con un rifiuto del mondo. Con qualcosa che non era umano e non era demoniaco. Si erano sempre incontrati di nascosto, avevano consumato il loro amore nella clandestinità. Inuyasha era sempre stato cosciente del fatto che non avrebbe potuto restare con Kikyo se non come amante.

 

Forse, se fosse diventato umano, allora qualcosa sarebbe cambiato. Avrebbe potuto anche lui avere una vita normale, avere accanto qualcuno, non dover scappare da un luogo all’altro. Forse, da umano, la sua vita errabonda e solitaria sarebbe cessata. Si era aggrappato a quella speranza. Cinquant’anni prima ci credeva veramente: se Kikyo gli avesse dato la sfera, lui si sarebbe trasformato in un ningen senza pensare. Perchè l’amava, e non sopportava di vedere la vergogna sfiorare i suoi lineamenti, non sopportava le occhiate fugaci che dovevano riservare alla strada ogni volta che si appartavano. Non sopportava la sottile agitazione che le correva sulla pelle. Brividi di ansia, di paura. Lei aveva sempre cercato di dissimulare, di mentire, ma non è possibile ingannare l’olfatto di un demone, anche di chi lo è solo per metà. E la paura e la vergogna di Kikyo erano un odore sottile che si confondeva a quello d’incenso. E lui lo fiutava. Chiaramente. E la stringeva a sé con la tristezza nel cuore, conscio che era proprio quello ciò che la tormentava. Ma lui non riusciva a lasciarla andare. Non voleva lasciarla andare.

 

L’aveva persa. Per la seconda volta. Senza poterle dire addio. Di nuovo, senza poter far nulla per lei. Non era riuscito a proteggerla, non era riuscito a vendicarla, non era riuscito a onorare la sua promessa…Aveva lasciato che lei morisse, che Naraku la uccidesse di nuovo…Non era stato in grado neanche di ritrovare le sue ceneri. Kaede-sama aveva cercato di non fargliene una colpa, ma lui l’aveva sentito il tono triste della vecchia miko. Cosa aveva riportato, di Kikyo? Solo un arco spezzato. Un arco come tanti. E nel cuore le parole crude di Sesshomaru. Non si sarebbe mai aspettato compassione dal fratello; ma quelle parole erano state il colpo di grazia: la verità sbattuta in faccia, con la freddezza e la lucidità che era propria del Principe dei demoni.

 

“Sei tu che l’hai uccisa”

 

Già…Non averla potuta proteggere equivaleva ad averla ucciderla. A lasciare che Naraku giocasse con lei, si divertisse raggirandoli tutti: lo scopo era solo quello, era sempre stato quello. Uccidere Kikyo. Eliminare la miko che il suo cuore umano desiderava di avere, distruggere la sacerdotessa che avrebbe potuto eliminarlo. Annientare chi non poteva neanche solo pensare di toccare. Inuyasha si lasciò sfuggire un sospiro stanco, stringendo gli occhi. Le orecchiette, d’istinto, si appiattirono sulla sua testa. Rimorso. Colpevolezza. Si era lasciato lusingare da quella sicurezza: Naraku non sarebbe mai riuscito ad ucciderla. Mai. Mai. Mai. E quella parola gli era rimbombata nella testa come una promessa. Come una sicurezza mai alterabile. Mai incrinabile. Kikyo voleva rincorrere il suo assassino, voleva cercare di distruggere con le sue mani chi l’aveva condannato al rimpianto…Inuyasha non aveva saputo opporsi. Non era mai riuscito a opporsi alla volontà forte e fiera della miko. Lei lo dominava. Lo aveva dominato a lungo. Senza incantesimi o stregonerie. Senza malefici e violenze. Lo aveva legato a sé solo col cuore. Con quel suo cuore che avrebbe dovuto restare puro, vedovo di quel sentimento che i ningen chiamano amore.

 

A Kikyo non sarebbe stato permesso innamorarsi. A Kikyo non sarebbe mai stato concesso un uomo al fianco. Lei doveva esser votata solo al suo sacerdozio, sposa della sua fede, suddita dei suoi doveri. Solo questo. Non avrebbe mai dovuto conoscere il calore di un abbraccio; ignote le palpitazioni del cuore; oscuri i brividi di un bacio, di un contatto fugace. Inviolate le sue labbra. Le labbra di Kikyo…Inuyasha le ricordava ancora. Sottili e severe. Di porcellana. Perfette come quelle di una bambola. Da guardare. Da desiderare. Molti ningen dovevano aver sospirato per quelle labbra, eppure…Eppure lui solo le aveva avute. Le aveva concesse solo a lui. Labbra piccole e tremanti, agitate e affamate. Desiderose di qualcosa di nuovo, di mai provato. Di proibito.

 

Kikyo avrebbe potuto avere chiunque, un daimyo, perfino uno shogun. Avrebbe potuto scegliere di abbandonare il sacerdozio e sposare un uomo potente e nobile. Aveva avuto davanti a sé la possibilità di scegliere: la vita di donna agiata e frivola e il peso della custode della Sfera. Non aveva esitato. Non era da lei esitare. Mai un tentennamento, mai un cedimento. Sicura, fiera, ignara di cosa davvero fosse la vita, di cosa esistesse davvero oltre le guerre e le epidemie. Avrebbe potuto avere tutto, e non aveva voluto nulla. Solo continuare a vestire gli abiti delle miko. Solo essere una miko. Orgogliosa della sua scelta.

 

Non se ne era mai pentita. Mai. Almeno, fino a quando lui non era irrotto nella sua vita. Lui diverso; lui nemico; lui scontroso; lui sgarbato. Lui timido, diffidente, sospettoso, infantile. Lui risparmiato. Inuyasha lo sapeva bene: lo aveva risparmiato. Quella volta, la prima che lo aveva visto, che lui l’aveva attaccata, si era limitata a inchiodarlo a un albero con le sue frecce sacre. Ma avrebbe dovuto ucciderlo. Sarebbe stato suo compito ucciderlo. Inuyasha si era sempre chiesto cosa fosse passato nella mente di Kikyo negli istanti che avevano separato il tendersi e il rilassarsi della corda dell’arco. Cosa avesse portato sulle labbra di Kikyo un velo di sorriso, mentre socchiudeva gli occhi scuri.

 

Scuri, neri, profondi. Due oceani tenebrosi. Due voragini aperte sull’oscurità. Gli occhi di Kikyo erano stati la sua condanna. La sua dannazione. La sua follia. Se solo non li avesse mai incontrati. Se solo non avesse mai visto il suo riflesso in loro. Sapeva che era sbagliato. Sapeva che era pericoloso. Sapeva che rasentava la bestemmia e l’eresia. Eppure, non aveva fatto nulla per impedirlo. Non aveva fatto nulla perché lei non si innamorasse. Perché lui non la amasse.

 

Amarla…L’aveva amata con tutto il cuore. Con tutta la forza e l’intensità di cui era stato capace. Vergognandosi del sudiciume che si portava addosso. Maledicendo la sua parte umana, che lo spingeva fra le braccia di quella donna. Odiando il battito del suo cuore e l’incapacità di averla o ucciderla. Maledetto cuore umano! Era sempre stata la sua debolezza. La sua maggiore debolezza. Lo sapeva bene. Lo aveva sempre saputo. E benchè sbraitasse continuamente che non aveva alcuna intenzione di lasciar perdere i frammenti della Sfera, che voleva assolutamente diventare un vero demone, che i suoi amici non dovevano neanche provare a fargli cambiare idea…Nonostante si sentisse indegno di suo padre, succube dell’enorme distanza che avvertiva separarlo in modo incolmabile da Sesshomaru…nonostante tutto, non riusciva ad odiare la parte più fragile di se stesso.

 

Faceva male, certo. Aveva sempre fatto male. Tanto. Fin troppo, a volte. Quando veniva schernito e offeso; quando lo chiamavano lurido bastardo; quando vedeva il sorrisetto di scerno sulle labbra di Sesshomaru…Tutte quelle volte si era sentito contorcere dentro per la disperazione e l’umiliazione. E aveva sempre reagito attaccando. Per far tacere il male che sentiva dentro. Per lenire quei crampi interiori con il dolore delle ferite e dei pugni. Qualsiasi cosa, pur di non sentire l’inferno che lo divorava.

 

Anche la relazione con Kikyo era stata una lenta discesa nel dolore. Un dolore ammantato di piacere, di gioia, di passione. Era stato stupido a innamorarsi. Era stato stupido a lasciar vincere la sua parte umana. Era stato stupido a desiderare di restare con lei. Era stato davvero stupido, ma non se ne pentiva. Non se ne era mai pentito. Tutto quello che le aveva detto lo aveva sempre pensato realmente. Aveva davvero desiderato di proteggerla sempre. Sempre.

 

Non gli era mai interessato che nella vita della miko ci fossero due cose: lui e il suo ruolo. Non gli aveva mai dato importanza. Inuyasha sapeva benissimo di essere lui l’elemento di disturbo, in quella realtà. Sapeva di essere lui quello da allontanare, quello sbagliato, fuori posto. E allora non pretendeva altro che la compagnia occasionale della ragazza, il poterla guardare anche solo da un albero e bearsi del suo sorriso e della sua risata. Pur di stare con lei, l’aveva accompagnata in vari incarichi. Le aveva fatto da cavalier servante, con devozione e affetto. Perchè Kikyo non lo aveva mai usato. Non aveva mai cercato di stringerlo a sé per renderlo un suo servitore. Anche se avrebbe potuto farlo; i suoi poteri glielo avrebbero permesso.

 

Kikyo invece si era limitata ad avvicinarsi a lui lentamente, con la diffidenza della sacerdotessa e della ragazza. Attratta da lui, dai suoi modi bruschi, dai suoi occhi tristi. Ma aveva sempre parlato all’hanyou. Sempre. Forse senza neanche mai rendersene veramente conto. Aveva cercato di cambiarlo. Di giustificare a se stessa il batticuore che la coglieva quando lui le era accanto. Aveva cercato di dare una risposta alle sue domande mascherandosi dietro la facciata della miko. Aveva cercato in tutti i modi di convincerlo a diventare umano: solo così sarebbero potuti stare assieme. Lui non avrebbe più sofferto e lei…lei lo avrebbe avuto accanto. Kikyo non lo aveva mai rifiutato; ma non lo aveva mai neanche accettato.

 

E alla fine, erano rimasti solo un hanyou e una miko. Loro si erano distrutti a vicenda. Loro erano stati costretti a ferirsi. Loro che si amavano erano stati costretti a vedere il loro peccaminoso rapporto naufragare nel sangue. Sangue di morte, e non d’amore. Kikyo aveva cercato di impedirgli fino alla fine di diventare un demone. Per vendicarsi di lui che credeva l’avesse ingannata. Per impedirgli di soffrire ancora. Lo aveva consegnato al sonno eterno. Incapace realmente di ucciderlo, lo aveva consegnato solo all’oblio. Non si sarebbe mai più dovuto svegliare, ma, tuttavia, non era riuscita a togliere a se stessa la speranza che un giorno lui potesse ridestarsi.

 

Kikyo…Lei che lo amava era arrivata a odiarlo. Lei che lo baciava, era giunta a sputargli in faccia. Lei che lo voleva per sé avrebbe voluto ucciderlo. Porre fine alla sua vita come non aveva avuto il coraggio di fare cinquant’anni prima. Cos’era tornato in vita, di lei? Solo un feticcio di terra. Un concentrato d’odio verso tutto e tutti. Un’anima errante senza meta, destinata a sopravvivere solo cibandosi del rancore altrui. Di lei, ormai, era rimasta quasi solo l’apparenza. Inuyasha lo sapeva. Lo aveva sempre saputo.

 

Eppure, non era mai riuscito a separare il prima dal dopo. Non era mai riuscito a condannare le miko. E non riusciva ancora a darsi pace per esser arrivato troppo tardi quando lei aveva avuto bisogno di lui. Non riusciva a perdonarsi di aver fatto il gioco di Naraku per ucciderla e aver permesso a quel maledetto di divertirsi con lei. Strinse di più a sé il corpo accanto al suo. Calore. Quella sensazione che lo tranquillizzava. Che lo rilassava.

 

Ricordava il calore del corpo di Kikyo. Era bello quando gli concedeva un abbraccio, quando lo lasciava posargli la testa in grembo, quando gli accarezzava i capelli. Era bello anche solo stringersela stretta al petto, cullandola, e ricevere da lei un contatto simile. L’ultima volta che l’aveva abbracciata, prima che morisse, aveva sentito il suo corpo caldo attraversato da piccoli brividi eccitati. Quella volta, quella sola volta, Kikyo gli aveva mostrato il più dolce e infantile dei suoi sorrisi. La felicità per la sua scelta: diventare un essere umano.

 

Cinquant’anni dopo, il corpo che aveva stretto era freddo e umido, e sapeva di terra e pietra tombale. Di ceneri e fuoco. Era un semplice involucro. Privo di vita. Condannato solo al gelo. Quando l’aveva abbracciata, si era accorto lentamente del fatto che Kikyo non riuscisse a trattenere il calore corporeo che lui le trasmetteva. Non sarebbe più riuscito a riscaldarla, non avrebbe più potuto strapparle brividi freddi sulla sua pelle sudata. E alla fine non era riuscito nemmeno a salvare quel corpo fatto di cenere. In mano a Naraku. In sua balia. E il fatto che Kikyo avesse sempre fatto di tutto per ritrovarsi proprio faccia a faccia con il suo assassino, che quello che era accaduto era esattamente ciò che la miko voleva, non riusciva comunque ad attenuare lo sconforto di Inuyasha.

 

Quanti mesi erano trascorsi da quella notte sull’Hakurei? Nove, forse dieci…Era tutto così dannatamente vivido nella sua mente. Si era sentito completamente svuotato, come se qualcuno gli avesse strappato tutte le forze che la rabbia contro Naraku gli dava. Era proprio come diceva Sesshomaru: lui l’aveva uccisa. E Inuyasha sapeva benissimo di non essersi ancora rassegnato all’idea di averla persa di nuovo. Non in quel modo. Il suo lutto era ancora lontano dall’esser elaborato. Ci sarebbe voluto ancora molto tempo. Lo sapeva. E per la prima volta nella sua vita l’impazienza non lo prendeva. Non voleva ancora lasciarla andare. Non si sentiva ancora pronto per accantonarla in un angolo del suo cuore. Era conscio che lei ormai era il passato; era consapevole che Kikyo ormai non era più il fulcro dei suoi pensieri. Ma non bastava. Accidenti a lui, non bastava mai. Poteva elaborare tutti i più bei ragionamenti, degni del fratello per lucidità e freddezza…E poi bastava solo un attimo, e il castello di carte si accasciava al suolo. Irriverente.

 

Non lo sopportava. E più di tutto non sopportava la consapevolezza che il suo comportamento faceva soffrire un persona. Quella che aveva giurato di proteggere e sostenere. Quella che, si era solennemente promesso, non avrebbe mai permesso che Naraku sfiorasse. Lei che gli aveva ridato la vita. Lei che lo trattava come se fosse stato normale. Lei con cui litigava, con cui si scontrava, con cui riusciva a sorridere e che baciava. Lei che amava. Kagome.

 

Abbozzò un sorriso, mentre insinuava di più il viso fra i capelli della ragazza. Il sole era già sorto da un po’, ma non voleva svegliarla. Non aveva nessuna fretta, quel giorno. Non voleva che lei si allontanasse dal suo petto. Scese con le mani fino ai suoi fianchi, in una carezza attenta e premurosa. Kagome…Era cambiata in quegli anni, se ne era accorto. Quando la prendeva sulle spalle, aveva sentito la sua vita farsi più sottile, i fianchi divenire leggermente più rotondi, il suo seno premergli sempre di più sulla schiena…All’inizio, le prime volte che la portava, si era accorto del tepore che sentiva provenire da lei. Gli sembrava quasi che lo invadesse, che gli donasse una sensazione di tranquillità. Per questo aveva cercato di allontanarla; le aveva detto che non sopportava il suo odore, ma in realtà gli piaceva molto. Troppo. E questo era pericoloso. Anche con Kikyo era iniziato tutto perché il profumo della miko lo aveva colpito. E lui non avrebbe mai voluto ripetere lo stesso errore. Si era ripromesso che nessuno sarebbe mai riuscito ad avvicinarlo di nuovo. A fargli male.

 

Disegnò con un artiglio il viso della ragazza. Kagome si era insinuata con freschezza nel suo cuore, imponendosi nei suoi pensieri per quell’aria da bambina, per la sua ingenuità e le sue idee estreme. Idealista, irremovibile su molte cose, cocciuta, romantica; era capace di arrabbiarsi per una sciocchezza e di tenergli il broncio per ore. Kagome era diversa da Kikyo: esuberante, istintiva, mutevole. Se la miko era austera e controllata, Kagome era sempre una sorpresa continua. Passava dalle lacrime ai sorrisi con una facilità per lui disarmante. A volta, aveva il sospetto che lo facesse apposta a farsi vedere triste da lui: ottima arma di ricatto. Perché lui, per sua dannazione, non poteva sopportare di vederla cupa e abbattuta.

 

Kagome stava cambiando, stava crescendo nel corpo. Inuyasha se ne era accorto. E si era accorto anche che lui stesso era cambiato. Il respiro di Kagome sul suo collo quando la portava in spalla gli dava brividi di eccitazione, gli faceva quasi perdere il senno; le mani della ragazza sulle sue spalle e i suoi artigli che le carezzavano le gambe. Se Kagome avesse anche solo immaginato cosa gli passava per la mente quando la stringeva di più a sé perché non cadesse lo avrebbe sbattuto a cuccia senza tanti complimenti. Altro che Miroku! Certe volte temeva che l’influsso del monaco libertino avesse iniziato a lasciare tracce anche in lui.

 

Sospirò. Kagome stava crescendo, ma restava sempre la ragazzina che lo aveva liberato dal Goshinboku. Con i suoi grandi occhi vispi e allegri, con il suo sorriso aperto e solare. Con le sue paure e i fantasmi che un mondo estraneo e nuovo come la sua epoca potevano suscitare. Kagome era sempre rimasta affascinata dal mondo dell’hanyou. Era magico, incredibile, diverso. Ma fino ad alcuni mesi prima lo aveva solo sfiorato. Aveva sempre fatto la spola fra passato e presente in modo quasi regolare. Non si era mai allontanata da casa per più di due settimane, e la vita con Inuyasha non l’aveva mai messa in contatto con la realtà vera dell’età Sengoku.

 

Loro non avevano mai incontrato i daimyo e i loro eserciti in lotta. Non si erano mai imbattuti in uno scontro fra esseri umani. Certo, era successo più di una volta che arrivassero su un campo di battaglia; era accaduto con normalità che Inuyasha dovesse uccidere demoni per proteggerla. Anche Kagome aveva combattuto contro gli youkai, purificandoli con le sue frecce hama. Ma era stato tutto diverso: non aveva mai considerato che i demoni che scomparivano morivano, non aveva mai realizzato che anche lei uccideva qualcuno mentre impugnava l’arco. Aveva sempre vissuto quelle avventure come se fossero un sogno. Bellissimo. Impossibile. Stupendo. Doloroso. Tangibile. Ma pur sempre un sogno. E nelle fantasie oniriche della mente tutto è permesso. Anche uccidere senza esser chiamati assassini.

 

Inuyasha lo aveva sempre sospettato. Si era sempre chiesto cosa davvero Kagome avesse afferrato del suo mondo, della sua vita. Si metteva in viaggio con loro, con lui, con una leggerezza che lo aveva sempre lasciato basito. Fin dal primo giorno. Fin da quando lo aveva liberato dal sigillo di Kikyo. Lo aveva trattato con una naturalezza disarmante, e continuava a farlo. Sembrava che non riuscisse a realizzare che loro erano diversi. Che lui era un hanyou. Da un parte, la spontaneità della ragazza era un qualcosa che lui aveva desiderato inconsciamente per molto tempo. L’unica che lo avesse trattato in un modo simile, senza disgusto o repulsione nel toccarlo, o anche solo vergogna, era stata sua madre. Dall’altra, però, in quegli ultimi mesi si era accorto che Kagome non aveva mai realizzato veramente la drammaticità della situazione. Almeno, fino a quella notte.

 

Inuyasha alzò gli occhi alla porta del doji. Era ancora socchiusa, come l’aveva lasciata lei. Kagome si era affacciata spaventata da quella fessura ed era scivolata silenziosa nella palestra. Inuyasha non si era accorto subito di lei, concentrato nel dimenare la spada per scaricare un po’ di tensione. Odore di pesca; e di sale. Si era voltato incuriosito e preoccupato. C’era solo una persona che avesse quell’odore. Ed in quel momento era alle sue spalle e stava piangendo.

 

Aveva appena fatto in tempo a voltarsi e abbassare Tessaiga che se l’era ritrovata stretta al petto. Kagome. La sua Kagome. Non piangeva, ma gli occhi rossi e le guance bagnate la tradivano. Inuyasha aveva lasciato cadere a terra la katana. Un rumore metallico e assordante nel silenzio della palestra. L’aveva abbracciata. Stretta con disperazione. Come se potesse in quel modo cancellare quello che avevano visto quel giorno, come se la dovesse consolare da un incubo che sembrava troppo realistico. Kagome si era afflosciata fra le sue braccia. Esausta. Svuotata. Le poche forze che il pianto continuo le avevano lasciato erano state appena sufficienti a permetterle di trascinarsi fino al dojo.

 

Stringimi Inuyasha…Ti prego, stringimi…”

 

Un singhiozzo, con voce arrochita da lacrime che scendevano in gola, che scendevano a bagnare il kariginu del ragazzo. Kagome aveva sentito le ginocchia liquefarsi appena gli era stata vicino, e allora si era aggrappata a lui. Aveva artigliato la sua veste come se potesse affondare le unghie nella sua carne. Aveva gettato lo testa contro il suo petto. Non ce la faceva. Non ce la faceva. Aveva paura. Paura di quello che aveva visto. Paura di quello che era successo. Paura di non tornare più a casa. Paura che lui potesse lasciarla sola.

 

Kagome era troppo sconvolta per realizzare le mani di Inuyasha che la carezzavano per tranquillizzarla, per distinguere le parole che le sussurrava, per riconoscere le sue labbra che cercavano di cancellare le lacrime. Si accorse solo che qualcosa si muoveva, che non era ferma contro il ragazzo. E quando lo sconforto si era attenuato, quando di nuovo era riuscita a socchiudere gli occhi, si era accorta di essere praticamente seduta sulle ginocchia del ragazzo. Cullata del movimento lento del suo busto. La stava trattando come una bambina piccola, costringendola in un’altalena lenta, lenta, lenta…La stava facendo ondeggiare piano, come aveva visto fare a sua madre quando Sota era piccolo e piangeva, piangeva forte.

 

Si era lasciata tranquillizzare. Aveva permesso che la sua mente si svuotasse e che la tenerezza del ragazzo entrasse in lei. Si era lasciata andare alle sensazioni di pace e protezione che la carezza regolare fra i suoi capelli, il respiro caldo, il leggero movimento del petto del ragazzo le davano. Lo aveva trattenuto quando lui aveva provato ad allontanarsi. Non aveva voluto lasciarlo andare. Non voleva lascialo andare. Aveva bisogno di lui. Della sua arroganza e della sua sicurezza. Aveva bisogno della sua determinazione e dei suoi occhi d’oro. Aveva bisogno della sua dolcezza, rozza e intensa.

 

Inuyasha si era limitato a stringerla di più. Aveva cercato di apparire rilassato, ma dentro era un fascio di nervi. Sapeva che la colpa di tutto era da attribuire a quello che era successo nel pomeriggio. Dopo che la granata era esplosa, a pochissima distanza dalla tenda dell’ospedale, lui si era precipitato da Kagome. Illesa. Miracolosamente illesa. Aveva solo qualche contusione ed escoriazioni superficiali. Si era tolto il kariginu e ve l’aveva avvolta, per darle sicurezza e proteggerne le nudità che l’abito sacerdotale, sbrindellato dal contraccolpo e dalle schegge, lasciava intravedere. Se le fosse successo qualcosa lui…lui…

 

No. Kagome stava bene; era solo rimasta un po’ frastornata dall’esplosione. Ma quando era riuscita schiarirsi la vista e a cacciare quelle odiose macchie luminose che la accecavano, era impallidita. La grande tenda era completamente divelta, con le pelli e le stoffe lacerate e bruciacchiate. In alcuni punti, dei demoni cercavano di spegnere dei principi di incendio. La trave portante, quel tronco così grande che c’erano voluti due oni per portarlo fin lì e conficcarlo nel suolo, quel tronco che non riusciva neanche ad abbracciare per metà, era schiantato a terra, frantumato in una miriade di schegge. Ne rimaneva solo un mozzicone carbonizzato, altro non più di mezzo metro. Brande, corpi, coperte…Tutto era stato scaraventato in un’accozzaglia confusa e impressionante.

 

Kagome aveva osservato con occhi vuoti corpi sanguinanti, orrendamente mutilati, rialzarsi in piedi o strisciare sulla terra rossa e nera. Si era sentita investire dalle urla e dagli spasimi dei feriti. Aveva abbassato gli occhi sulle sue mani, sporche di terra e di sangue, completamente rovinate dalle abrasioni. E poi era tornata a fissare i cadaveri disseminati tutt’attorno. Feriti e guaritori giacevano scomposti per terra, molti ignudi, o con i brandelli delle vesti carbonizzate attaccate ai corpi fumanti. Ad alcuni mancavano gli arti, ad altri la testa, altri ancora erano stati falciati di netto a metà. E le ossa biancheggiavano nella luce incerta che si infiltrava fra la polvere, spettrali fra brandelli di carne sanguinante. Kagome non ce l’aveva fatta. Aveva sentito l’odore nauseante della carne bruciata scenderle in gola, esploderle nei polmoni e artigliarle lo stomaco. Aveva sentito il suo corpo tendersi in spasmi violenti dettati dal terrore. Non ce l’aveva fatta. Si era piegata ancor più sulle ginocchia e aveva stretto spasmodicamente il kariginu di Inuyasha. Cercava di frenare le lacrime e i violenti conati. Alla fine, aveva vomitato per il disgusto e l’orrore. Aveva continuato a sforzarsi anche quando ormai il suo stomaco era completante vuoto, deformando il viso in maschere di sforzo e disperazione, lasciando che le lacrime di confondessero con la saliva che le scendeva al mento.

 

Inuyasha non aveva potuto far altro che tenerle le spalle; e chiudere gli occhi. Non era disgusto. Era dolore. Impotenza. Sapere di essere la causa di quello che era successo, di quello che aveva visto, e non poter far nulla per cambiare le cose. Se non fosse stato per quel separè di legno pesante dove Kagome si trovava, a quell’ora la ragazza che amava sarebbe stata solo un cumulo di carne martoriata e scomposta. E lui non avrebbe potuto fare niente. Non aveva potuto fare niente. Aveva scosso la testa. Non doveva pensarci: Kagome era viva, e si sarebbe ripresa. Le aveva pulito il viso e l’aveva presa in braccio, portandola nella sua stanza a palazzo. L’aveva affidata ad Homoe ed era tornato a ciò che restava dell’ospedale. Morte nel cuore.

 

Era stata la voce inespressiva di Alessandra a riportarlo di colpo alla realtà. L’aveva vista: il suo corto kimono bruciacchiato e rammendato alla mento peggio, giusto il necessario che le permettesse di muoversi senza rimanere nuda. I capelli sciolti raccolti in ciocche scomposte che le frustavano il viso quando si muoveva. Muoveva freneticamente il braccio destro per richiamare l’attenzione e impartire gli ordini. L’aveva vista strapparsi la manica destra per improvvisare un tampone ad un ferito, scoprendo i lividi che le segnavano la pelle. Le schegge della granata non sembravano averla raggiunta, ma il violento spostamento d’aria doveva averle fatto perdere l’equilibrio e rotolare malamente al suolo, contro i detriti. Eppure, sembrava che non le importasse. Come ignorava completamente la lunga striscia di sangue che le percorreva il viso conferendole un aspetto quasi sovrannaturale.

 

Restava lì, in piedi in mezzo a quel massacro, e con voce atona dirigeva i soccorsi, spronando gli uomini che si mantenevano in piedi e quelli che stavano accorrendo da palazzo. Si chinava a medicare un ferito, si volgeva per riprendere chi muoveva i mutilati con troppo foga, cercava di impartire ordine e razionalità in quel girone d’inferno. Eppure, Inuyasha aveva la netta impressione che davanti a lui non ci fosse una persona, ma una specie di oggetto. Gli occhi della ragazza erano strani. Continuavano a sfuggirgli. Sfuggivano ogni cosa. Ed erano bui. Abissi di perdizione. Non era lo sguardo triste che le aveva visto quando aveva litigato con suo fratello; non era lo sguardo vuoto che le parole di Sesshomaru le avevano strappato una sera di mesi prima. Quello sguardo era di gelo totale, inespressivo. Inesistente. Era come se la sua voce parlasse, e lei non fosse lì. Come se Alessandra non ci fosse.

 

Aveva ignorato anche Sesshomaru. Il Principe aveva raggiunto lo spiazzo dove, fino a pochi istanti prima, si ergeva al tenda dell’ospedale e si era fermato. Pietrificato. Aveva distinto benissimo, fra i gemiti e le urla, la voce di Alessandra. E non gli era piaciuta. Per niente. Era la voce di mesi prima, il tono incolore delle prime volte che le aveva parlato. Un timbro indifferente e vuoto. Avulso dalla realtà. Si era sentito frustrato da un qualcosa di indefinibile. Come se all’improvviso tutti i mesi trascorsi con lei, tutto quello che avevano faticosamente costruito, potesse sparire. Inghiottito da quella voce e da occhi che, anche se non poteva vedere, Sesshomaru sapeva essere spenti. Inesorabilmente morti.

 

Inuyasha lo aveva visto contrarre la mascella ed emettere come un guaito doloroso. Ma nulla di più. Non aveva fatto un passo verso la ragazza, non le aveva rivolto una parola. L’hanyou si era chiesto se quella manifestazione di rabbia e frustrazione fosse rivolta all’atteggiamento che in quel momento Alessandra mostrava o se fosse più semplicemente l’effetto di un’offesa che il Principe non poteva sopportare. Lo aveva visto andarsene, veloce come era apparso. E poi non ci aveva quasi più pensato fino a sera. Travolto dalla frenesia del bisogno.

 

Kagome si mosse accanto a lui. Probabilmente la sua mano che giocava con i capelli della ragazza la stava svegliando. Inuyasha abbandonò la ciocca che stringeva e avvicinò le labbra alla fronte della ragazza. Lasciò che il suo respiro le sfiorasse la pelle e i capelli. Quando lui era piccolo sua madre lo prendeva sulle ginocchia e lo stringeva a sé in quel modo, con le labbra sulla sua fronte. Non aveva mai capito il perché, ma quel gesto, la sensazione del respiro tranquillo di sua madre sulla pelle, lo rilassava.

 

Quella notte, quando Kagome si era presentata nel dojo, mentre la teneva far le braccia e la cullava, Inuyasha aveva inconsciamente accostato le sue labbra alla fronte della ragazza. E lei si era rilassata, obbedendo ad una muta preghiera. Kagome…Aveva rindossato la sua divisa scolastica. L’abito sacerdotale era ormai inutilizzabile. Si era presentata davanti a lui con i suoi soliti abiti e gli occhi spauriti. Per la prima volta, Kagome si era resa veramente conto di cosa fosse una guerra; per la prima volta aveva realizzato che quel mondo non era un suo sogno, ma era reale. Dolorosamente vero. E che il sangue che l’aveva bagnata la macchiava inesorabilmente. Per la prima volta, aveva avuto paura, e aveva avuto nostalgia di casa sua. Della sua vita monotona e regolare: casa, compiti, scuola. Per la prima volta, si era resa conto del perché Inuyasha fosse a volte tanto cinico con il mondo, del perché avesse dovuto imparare fin da piccolo a uccidere e, soprattutto, perché gli risultasse difficile dar fiducia a qualcuno.

 

Per la prima volta, Kagome aveva pianto perché si trovava lontano dal Pozzo, perché non poteva tornare a casa sua e piangere stretta nell’abbraccio di sua madre. Per la prima volta aveva realizzato che, se non ci fosse stato Inuyasha al suo fianco, lei non avrebbe avuto molte possibilità di sopravvivere in quel mondo. E si era resa conto che quel mondo antico e magico, quel mondo fatto di creature fantastiche, è dolore. Si basa soprattutto sul dolore. Sulla guerra e sul sangue. Sulla morte. E ne aveva avuto paura. Tanta. Folle. Devastante.

 

“Vuoi andare via?...”

 

Inuyasha aveva sussurrato quelle parole scendendo a baciarla. Quasi volesse impedirle di dargli una risposta. Aveva paura di quello che avrebbe potuto dirgli: sì. Kagome gli avrebbe detto di sì. Gli avrebbe detto che voleva tornare a casa sua, gli avrebbe detto che era stanca di quei mesi trascorsi fra feriti e morti. Gli avrebbe detto che non voleva più stare con lui, che la sua vita gli risultava orribile, spaventosa. Brutta. Gli avrebbe detto che non gli piaceva la vita cui lui la costringeva, cui l’aveva costretta. Gli avrebbe detto che una cosa era aiutarlo a cercare i frammenti della sfera, ma era diverso rimanere asserragliati in quel palazzo, costretti a dormire con le orecchie tese, con la speranza di non sentire la campana risuonare nella notte a dare l’allarme.

 

Sì. Kagome gli avrebbe detto che voleva andarsene, e lui sapeva che non avrebbe avuto la forza di trattenerla. L’avrebbe lasciata andare. Si sarebbe dato da fare in mille modi pur di riuscire a portarla lontano dal palazzo di Sesshomaru e farla ritornare a casa. Nel suo mondo. Nel suo presente tranquillo e rassicurante. Erano molti mesi che non tornava a casa, che non dava sue notizie. I suoi familiari dovevano essere molto preoccupati. Kagome non era mai rimasta lontana così a lungo. Inuyasha era convinto che, una volta ritornata a casa, la ragazza non sarebbe tornata tanto presto indietro. O forse non avrebbe più voluto tornare. Chi mai vorrebbe vivere in quel modo pericoloso e snervante, se l’alternativa era la tranquillità di una casa e il calore della famiglia? Lui non aveva mai potuto scegliere. Lui si era ritrovato catapultato in quella realtà da un giorno all’altro. E non aveva potuto far altro che abituarsi in fretta. Non gli era mai piaciuta quella vita, ma era la sua. L’unica su cui riuscisse a mantenere il controllo. L’unica che aveva imparato a vivere.

 

Ma Kagome no. Lei aveva un’altra vita; lei poteva avere una vita diversa, migliore della sua. E lui la stava incatenando. Le stava facendo del male. Se non le avesse permesso di seguirlo lei non avrebbe mai visto l’orrore dei massacri, non avrebbe conosciuto l’odore di morte di quell’ospedale, il dolore e lo strazio di feriti e corpi mutilati. Se avesse insistito perché tornasse indietro, invece di farla venire con lui, Kagome non avrebbe rischiato la vita, non avrebbe visto la realtà della sua epoca. Non avrebbe pianto.

 

Kagome gli aveva preso il viso fra le mani e aveva risposto al suo bacio. Con urgenza. Con terrore. Non voleva andarsene, ma non era stata pronta a quello che era successo. Il suo mondo diverso, il suo sogno…Sbriciolato fra le mani. Annullato. Non si era mai soffermata veramente sulle diversità fra i loro mondi. Non si era mai soffermata veramente neanche sulla reale natura di Inuyasha. Si era innamorata lui, ma a volte si chiedeva cosa esattamente amasse. Se il ragazzo e il demone. Le era venuto naturale trattarlo come se fosse stato uguale a lei, senza realizzare davvero che, comunque, fra loro c’erano delle diversità. Inuyasha aveva l’aspetto di un suo coetaneo, ma aveva alle spalle secoli di vita, di sofferenza. A volte sembrava immaturo, ma in realtà poteva vantare una quantità di esperienze di vita cui Kagome non poteva neanche lontanamente aspirare.

 

Lo aveva sempre trattato come un essere umano, anche se razionalmente sapeva che lui era diverso. Eppure…eppure non ci era mai riuscita. Non era mai riuscita a sentilo estraneo, lontano. Per lei Inuyasha era Inuyasha, demone o umano che fosse. E voleva stare con lui. Come una bambina. Anche se questo significava dover conoscere quella realtà. Anche se voleva dire andar a sbattere contro dolore e sofferenza. Pretendeva di riuscire a capirlo, si proclamava in grado di leggere benissimo dentro di lui…E quando aveva visto la violenza delle guerre fra demoni ne era rimasta schiacciata. Annullata. Ma se davvero voleva provare a capire cosa Inuyasha avesse vissuto fin dalla sua infanzia, se davvero voleva cercare di alleviare le ferite della sua anima, Kagome aveva capito che doveva imparare a vivere in quel mondo. A viverci non come turista, ma davvero. Senza rinunciare a se stessa, ma senza dimenticare le differenze.

 

“…Io voglio stare dove sei tu…”

 

La sua famiglia avrebbe capito. Quando la guerra fosse finita, quando Sesshomaru avesse vinto, perché era certo che sarebbe stato il demone a vincere (Kagome non voleva neanche ipotizzare una possibile sconfitta), Kagome sapeva che sarebbe tornata a casa e che sua madre avrebbe capito. Forse per un po’ l’avrebbero costretta a restare nel presente, ma comunque l’avrebbero capita. E riconosciuta. Perché lei sarebbe rimasta ugualmente la stessa Kagome, anche se più adulta e consapevole.

 

La ragazza si mosse, salendo con le braccia fino al collo del ragazzo e stringendolo forte. Inuyasha ricambiò l’abbraccio, per poi lasciare che lei si svegliasse del tutto e si portasse a sedere. Adesso Kagome era in piedi, vicino alle soji. Era bella, con la luce del sole che le fasciava il corpo. Era bella, mentre si massaggiava assonnata un braccio. Avevano dormito per terra, sul pavimento del dojo. Kagome si era addormentata fra le sue braccia, esausta per il pianto e le parole. Inuyasha non aveva voluto rischiare di svegliarla, e si era semplicemente lasciato scivolare a terra, cercando in tutti i modi di farla stare comoda e stringendosela al petto per non farle prendere freddo. Era fine aprile, e ormai il clima invernale era solo un ricordo, ma la notte portava con un venticello ancora fresco che per un ningen poteva esser pericoloso. E lui non avrebbe mai voluto che al ragazza si ammalasse.

 

Kagome sbadigliò sollevando in alto le braccia indolenzite. Incredibile. Aveva dormito benissimo. Non si sarebbe mai aspettata che un pavimento di legno potesse esser così comodo. Gettò uno sguardo distratto all’hanyou ancora sdraiato su un fianco. Con gli occhi socchiusi, i capelli arruffati dal sonno e i vestiti leggermente sgualciti le faceva una tenerezza infinita. La luce del sole gli disegnava il profilo duro , eppure dai tratti dolci. Era bello: un bambino cresciuto in fretta.

 

Kagome gattonò fino a lui, continuando a fissarlo con uno sguardo troppo innocente. Stava meditando qualcosa, di sicuro. Aveva il viso ancora arrossato per il lungo pianto, ma era tornato il suo stupendo sorriso. Solare. Infantile. Inuyasha lasciò che gli si avvicinasse, lasciò che lo fissasse come per accertarsi che non si fosse riaddormentato e poi, con un guizzo improvviso, la rovesciò a terra, sdraiandosi sopra di lei e bloccandole i polsi sopra la testa. Lei rideva, rideva divertita e offesa per essersi lasciata sorprendere. Con un sorriso poco rassicurante, Inuyasha scese con una mano fino alla pancia della ragazza, solleticandole la pelle che la maglietta le aveva scoperto. Le disegnò l’arcata epigastrica con attenzione quasi critica, inarcando un angolo della bocca compiaciuto del rossore e del respiro che si spezzava della ragazza. Le liberò i polsi e lasciò che Kagome gli abbracciasse il collo, mentre le sue mani risalivano al suo viso per stringerlo e accarezzarlo.

 

Un altro, probabilmente, avrebbe approfittato della situazione, della superiorità fisica, dell’amore che li legava. Un altro, al suo posto, non ci avrebbe pensato due volte ad approfondire il contatto. Kagome non avrebbe potuto opporsi, Kagome non avrebbe avuto la forza di fermarlo. Solo il realizzare quei pensieri fece salire il sangue alla testa ad Inuyasha, colorandogli il viso di un rosso acceso, che nascose baciando la ragazza con ardore. Kagome era ancora giovane, era ancora una bambina. Rispetto a lui, sarebbe sempre stata una bambina, ma non l’avrebbe mai costretta contro la sua volontà. Non avrebbe mai fatto accelerare i tempi. E poi, lui era troppo timido per quelle cose, non sapeva neanche da che parte cominciare. Anzi, non sapeva nemmeno dove diavolo aveva preso il coraggio di sfiorale la pelle della pancia e di baciarla a quel modo. Ma non ci voleva pensare. L’unica cosa importante era che Kagome non lo allontanava e che sentiva di nuovo l’odore della sua tranquillità.

 

 

*****

 

 

“Si era detto che avreste riposato, houshi-sama…”

 

Tono di bonario rimprovero. Tono rilassato e leggermente contrariato. Miroku sistemò con maniacale attenzione la botticella che aveva trasportato, dilatando i tempi di attesa della sua risposta, concedendosi un lieve sorriso nell’immaginare il viso leggermente adirato della sua interlocutrice. Alla fine si risollevò con lentezza, stirando le invisibili pieghe della sua veste sacerdotale. Gli piaceva cercar di esasperare quella ragazza. Come gli piaceva poter scambiare alcune parole con lei ogni tanto.

 

Alla fine, si risolse a voltarsi e incrociare lo sguardo contrariato di Alessandra, preparando il migliore dei suoi sorrisi innocenti. Eccola lì, la sua guardiana: spalle dritte, braccia conserte, viso fermo contornato dai capelli di rame. Raccolti. Miroku si era chiesto spesso perché non li lasciasse sciolti. Alessandra aveva sempre risposto per praticità, perché non poteva permettersi, mentre curava un ferito, di scostare una ciocca indisponente. Tuttavia, anche le poche volte che erano riusciti a consumare assieme un pasto in relativa tranquillità lei aveva sempre mantenuto i capelli raccolti. Un vero peccato, pensava il monaco, visto che la bellezza di una donna è accentuata dai riflessi della sua chioma.

 

Sorrise a quel pensiero. Non era facile blandire Alessandra. Sembrava che su di lei la sua squisita abilità retorica non avesse presa. Non era ancora riuscito a strapparle un sorriso veramente imbarazzato o, se c’era riuscito, lei lo aveva dissimulato con grande maestria. Da consumata attrice. Eppure, non aveva minimamente l’aria della donna abituata a civettare con un uomo; al contrario, non era né frivola né superficiale. E più di una volta, parlando con lei, si era trovato in difficoltà.

 

Quasi incredibile. Miroku aveva sempre fatto affidamento sulla sua abilità con le parole per far colpo su una donna o per irretire nobili e contadini troppo creduloni. Era consapevole che, con le sue parole, riusciva a lusingare e confondere, a spingere i discorsi nelle direzioni che gli premevano, a incanalare la conversazione per ottenere precisi risultati. Era conscio del fascino che il suo tono poteva esercitare: profondo e vellutato per sedurre una donna; compito e competente per persuadere della necessità di un esorcismo. Miroku sapeva esattamente come insistere, quanto insistere, come giocare le carte a sua disposizione per raggiungere i suoi scopi. L’unica cosa che ancora non gli fosse riuscita era convincere una donna a dargli il tanto desiderato figlio. Ci aveva provato anche con Alessandra, un po’ per abitudine, un po’ per saggiare il campo e cercare di capire se davvero ci fosse qualcosa fra la ragazza e Sesshomaru, oltre ad una arida e utilitaristica convivenza. La risposta che gli aveva dato lo aveva lasciato a bocca aperta, incapace di ribattere nell’immediato.

 

“Ne sarei davvero onorata, houshi-sama. Sfortunatamente, per avere un figlio da me dovreste prima sposarmi, e al momento il matrimonio non è nei miei progetti”

 

Esterrefatto. Era rimasto completamente esterrefatto da quella risposta: da quando una donna aveva l’arguzia di rispondere ad una proposta a quel modo, canzonando anche il suo interlocutore? Perché era quello che Alessandra aveva fatto: aveva finto di assecondarlo per poi sbattergli in faccia un totale rifiuto. Senza possibilità di appello. Aveva declinato con grazia e sottigliezza, ma in modo categorico. E sembrava aver colto anche le possibili implicazioni che Miroku aveva fatto sottintendere con la domanda. Volevano sapere se c’era stato qualcosa fra lei e Sesshomaru? Risposta immediata: Alessandra si sarebbe concessa solo a chi l’avesse sposata. E questo escludeva qualsiasi possibilità “piccante” di cui Miroku era in cerca. Tuttavia, aveva lasciato aperto lo spiraglio che, comunque, fra loro intercorresse un rapporto che andava oltre il semplice sfruttamento per interesse.

 

Miroku si era intestardito: non poteva permetter che qualcosa nascesse sotto ai suoi occhi senza che lui se ne accorgesse. No. No. No. Ne andava della sua fama di abile seduttore. Voleva, doveva scoprire qualcosa di più preciso oltre ai pettegolezzi di palazzo. E quella sembrava essere un’ottima occasione. Stranamente, infatti, quel giorno non si erano ancora verificati attacchi alle mura e vigeva una relativa calma sia dentro sia fuori il palazzo. Sesshomaru aveva fatto comunque schierare gli uomini ai loro posti, e aveva personalmente passato in rivista l’esercito, controllato i bastioni, appurato quanto ancora la breccia potesse reggere e fino a che punto costituisse una minaccia. Aveva fatto sostituire i sacchi di sabbia sugli spalti per meglio opporsi ai proiettili e aveva dato ordine ad alcuni oni di aiutare a sgombrare i detriti dell’ospedale. L’esplosione della granata del giorno prima aveva ucciso quasi tutti i ricoverati, e il numero dei sopravvissuti era tanto esiguo da poter essere ospitato in un padiglione del giardino. L’elegante costruzione in bambù era diventata, in pochissimo tempo, un organizzatissimo centro di primo soccorso e una camerata d’ospedale con non più di una ventina di brande.

 

Alessandra si era affaccendata per tutta la mattina, cercando di incanalare le forze che il demone le aveva concesso e di riportare un minimo di ordine e sicurezza all’interno dell’ambito medico. Gli youkai che, sebbene feriti, erano in grado di reggersi in piedi si erano anche offerti di aiutare, e lei, per necessità, si era trovata costretta ad accettare, sotto il preciso ordine di non eccedere. Miroku allargò maggiormente il sorriso, compiaciuto della ragazza che gli stava davanti, ancora in attesa di un suo cenno. Alessandra gli piaceva perché, a dispetto dell’aspetto fisico, comunque affascinante e insolito per una ningen, riusciva a tener testa a demoni e uomini senza mostrare esitazione o tentennamenti. Che non fosse il suo reale carattere, o meglio, che fosse solo una delle sfaccettature del carattere della ragazza, Miroku ne era persuaso. E neanche i kami lo avrebbero mai convinto del contrario.

 

Alessandra era riuscita a rimettere in riga anche i più testardi e ostili curatori della corte inuyoukai. Non che fossero felici di sottostare ad una donna umana, ma vedere, quella mattina, le loro facce falsamente ossequiose e la loro impacciata solerzia nell’eseguire gli ordini della ragazza era stato un divertimento davvero impagabile. Miroku non credeva che mai vi avrebbe assistito, e quello che si era svolto sotto i suoi occhi lo aveva costretto più volte a voltarsi e dissimile un sorriso altrimenti troppo compiaciuto e divertito. Un sorriso orgoglioso. C’era da dire, tuttavia, che se non fosse stato per la presenza di Yaone Alessandra avrebbe incontrato difficoltà ancora maggiori.

 

Alessandra-san…Voi sapete da dove provenga Yaone-san?”

 

Alessandra rilassò le braccia. Inutile. Se Miroku non voleva rispondere sapeva benissimo come girare i discorsi, solleticando curiosità o accenni che facevano dimenticare al suo interlocutore qualsiasi cosa detta in precedenza. Nulla da dire. Nella sua epoca, Miroku avrebbe avuto un futuro come arringatore di folle. Un demagogo perfetto. Scosse la testa. Almeno, se lo faceva parlare, gli impediva di andarsene in giro a dare una mano e a stancarsi. Doveva tenerlo buono e a riposo, o quella sera Sango le avrebbe fatto una bella ramanzina. Come se la cocciutaggine del monaco fosse facile da domare. Certo, non era come quella di Sesshomaru…Quando si impuntava, il demone era davvero esasperante, e il suo carattere distaccato contribuiva a innervosire anche lei in quei momenti…Miroku almeno ti parlava sempre con quel sorriso finto innocente sulle labbra, cercando di strappare un consenso o una promessa con elogi e fiumi sconclusionati di complimenti. Però, la cocciutaggine è cocciutaggine, e in questo anche Miroku non faceva difetto.

 

Se Kagome non si fosse imposta, quella mattina, per prendere il suo posto per erigere la barriera mistica attorno alla breccia, lui avrebbe ripreso il suo posto sul campo anche se faticava solo a restare in piedi. Era davvero spossato: ore di sonno perse, energia spirituale consumata per erigere barriere e difendersi, ansia e preoccupazione erano stati un miscuglio deleterio anche per il suo fisico allenato. Quella mattina, Miroku si era letteralmente trascinato fuori dalla sua stanza, aggrappandosi con tutte le sue forze al suo shakujo. Probabilmente, se non fosse stato per il bastone e Sango, che si era imbattutati in lui per caso, Miroku si sarebbe accasciato a terra nel giro di pochi minuti.

 

Aveva faticato a rimanere cosciente, mentre attorno a lui i suoi amici e Alessandra cercavano di fargli riprendere almeno un po’ di colore. Alla fine, gli avevano fatto ingurgitare qualcosa di amarissimo, ma che aveva avuto il pregio di regalare una effimera sferzata di energia al suo copro esaurito. Giusto quella necessaria a sentire distintamente la voce di Kagome affermare con decisione la sua volontà di sostituirlo nel mantenimento della barriera, per quel giorno almeno. Ricordava ancora i tentativi di Inuyasha e Koga di farla desistere, il misto di sollievo e preoccupazione che era passato negli occhi di Sango e l’ombra sul viso di Alessandra. Niente. Kagome era stata irremovibile: lei poteva fare qualcosa e voleva fare qualcosa. Come miko aveva un potere spirituale pari, se non superiore, a quello di Miroku. Tenere in piedi una barriera per una giornata non l’avrebbe di certo ridotta ad una larva. In fondo, si trattava solo di poche ore, giusto il tempo necessario affinché Miroku riposasse e recuperasse le sue forze. Inuyasha, alla fine, aveva dovuto arrendersi e lasciarla andare. L’aveva obbligata ad indossare il suo kariginu e l’aveva abbracciata forte.

 

Vedere l’espressione seria sul viso del suo amico era stato per Miroku un colpo al cuore. Raramente Inuyasha permetteva loro di leggere le sue emozioni, ma il dolore, il senso di impotenza, la frustrazione e l’ansia erano tracciati a fuoco nei lineamenti duri dell’hanyou. Sapere Kagome, la sua Kagome, là fuori sola, indifesa, e tutto per una stupida guerra, era un groviglio emozionale che lo schiacciava. Se solo Sesshomaru gli avesse permesso di combattere. Anche come l’ultimo dei soldati. Anche come un bastardo. Non gli importava. Gli sarebbe bastato poter combattere anche solo per quelle poche ore, stare con Kagome per quelle poche ore. Non gli interessava minimante la possibilità di gloria che ne avrebbe potuto trarre. Non gli era mai importato davvero di combattere per il suo onore. Fin da piccolo, aveva imparato a usare i suoi artigli solo per difendersi. Per necessità. Per sopravvivere. Perché lui era debole, lo sapeva bene, e solo se fosse diventato sempre più forte, solo se avesse posseduto la forza di un demone, avrebbe dovuto smettere di temere per la sua vita e illudersi di potersi almeno avvicinare a suo padre e a suo fratello.

 

Kagome si era imposta, e Inuyasha era stato costretto a lasciarla andare. Si era ammorbidito solo dopo aver strappato a Kagome la promessa di restare al sicuro all’interno della breccia e dopo che Koga e Ayame gli avevano garantito che la ragazza sarebbe stata protetta per tutta la giornata dai loro lupi. Lei non avrebbe dovuto far altro che rimanere concentrata per mantenere la barriera; al resto avrebbero pensato i lupi degli ookami.

 

“Te la affido”

 

Tre paorle. Le ultime che Miroku era riuscito a distinguere, prima che la spossatezza si rimpadronisse di lui confinandolo nei sogni. Tre parole. Una supplica inespressa. Una sicurezza indiscutibile. Inuyasha le aveva quasi sussurrate, dopo aver strattonato Koga per un braccio e averlo avvicinato a sé perché Kagome non lo sentisse. Gli costava. Gli costava orgoglio doverle dire, gli costava dolore non poter andare con lei ma, dannazione, avevano ragione loro. Mostrarsi sul campo di battaglia, fra le file regolari, senza un preciso ordine del Principe, senza un suo chiaro consenso, poteva significare la sua morte, magari proprio per mano di Sesshomaru. L’unica alternativa fattibile sarebbe stato combattere fra i lupi di Koga. Non realmente in relazione con Sesshomaru, quindi. Ma era comunque un azzardo troppo rischioso. No. Inuyasha aveva dovuto lasciarla andare.

 

Miroku, quando si era risvegliato nella sua stanza, varie ore dopo, aveva ancora fissa nella mente l’immagine dei Principi dei demoni-lupo e delle ragazze che se ne vanno. Sulle spalle di Inuyasha, in un ultimo barlume di coscienza, aveva desiderato di avere la forza per rimettersi in piedi, per raggiungere Sango e prenderla per mano. Veramente. Non per fare il maniaco, ma solo per sentire il calore della sua mano. Invece, quando aveva ripreso coscienza, aveva scoperto di avere accanto a sé quella demone di cui nessuno sapeva nulla: Yaone.

 

Era arrivata a palazzo circa una settimana prima, senza fornire una spiegazione del modo in cui fosse entrata. Sesshomaru l’aveva accolta con freddezza, ma sembrava sapere benissimo chi aveva di fronte. L’aveva condotta personalmente al padiglione dell’ospedale e l’aveva presentata come un’alchimista, facendo storcere il naso a molti dei guaritori di palazzo. Le aveva presentato Alessandra, e poi se ne era andato. Non una parola alla ragazza, non un saluto. Aveva lasciato ningen e yasha a fronteggiarsi, e con grande stupore di tutti Alessandra non aveva mostrato il minimo segno di gelosia nei confronti di Yaone. Le aveva anzi detto di esser profondamente onorata di poter avere accanto una persona di così vasta conoscenza. Da quel momento, Alessandra e Yaone di erano divise le incombenze principali, assieme a Kagome e Homoe. E nonostante l’abilità e le competenze della yasha fosse, talvolta, palesi e scontate, Yaone non aveva mai mostrato interesse nei confronti del posto occupato da Alessandra. Lei restava l’archiatra e , salvo una precisa volontà del Principe, quello era lo stato delle cose che si sarebbe mantenuto.

 

Miroku si concesse un sorriso, mentre si lasciava sedere a terra, poggiando la schiena alla botticella che aveva ammucchiato accanto alle altre. Yaone non era riuscita a persuaderlo a restare a letto più a lungo, e neanche Alessandra sarebbe riuscita a costringerlo all’immobilità. Anche se, doveva ammetterlo, quella pausa forzata cui la ragazza lo aveva indotto non gli risultava affatto sgradita. Se giocava bene le sue carte, quella era l’occasione per scoprire un po’ di più sul passato della ragazza e su come avesse incontrato Sesshomaru. Domande innocenti, per carità. Nulla di indiscreto e compromettente. Solo un po’ di sana e rilassante conversazione. Giusto per conoscersi un po’, approfittando della momentanea quiete. Nonostante i mesi passati nello stesso palazzo e le mense condivise, non nessuno di loro aveva mai trovato l’occasione, e il coraggio, di intavolare una qualche discussione relativamente impegnata con Alessandra.

 

Di lei, Miroku sapeva solo quello che la ragazza stessa aveva raccontato quando si era presentata a Musashi e il poco che aveva detto loro Kagome. Alessandra proveniva dalla stessa epoca della miko, ma da un paese molto più lontano, oltre Nihon e il continente; anzi al capo opposto del continente. Sapeva che era orfana, anche se non aveva capito bene le circostanze. E inoltre, quando l’aveva conosciuta, Alessandra si era presentata come l’archiatra di Sesshomaru. Acquisto recente, vero, ma doveva pur sempre aver vissuto con il demone a sufficienza da ottenerne, se non rispetto, un briciolo anche solo impercettibili di attenzione. Miroku non conosceva molto bene il Principe dell’Ovest, ma di una cosa era certo: non era affatto facile farsi accettare da Sesshomaru. Eppure, anche se quando Alessandra parlava del demone o si rivolgeva a lui aggiungeva sempre il suffisso onorifico, sembrava che dovesse fare uno sforzo con se stessa per non ometterlo. E da che ne sapeva lui, solo Inuyasha si era sempre permesso di rivolgersi al fratello senza fronzoli e titoli nobiliari. Anche il monaco parlava dell’inuyoukai senza tributargli titoli, ma le poche volte che aveva scambiato con lui due parole, o meglio, che era riuscito a balbettare qualcosa, gli era venuto naturale aggiungere il suffisso nobiliare. Era la figura stessa del demone a imporlo, a renderlo ovvio. Banale. Scontato.

 

Miroku si sistemò meglio, raddrizzando la schiena e sorridendo ad Alessandra in modo troppo aperto e conciliante. Benissimo: le avrebbe carpito qualche informazione, con la scusa che la ragazza, si era accorto, era propensa a farlo parlare in quel momento, era propensa a tutto purchè rimanesse lì fermo e seduto. Occasione da non sprecare. Si schiarì la voce con un colpetto di tosse, cercando velocemente nella sua testa il modo per avviare la conversazione senza metter subito sull’allerta la ragazza. Per puro caso, intravide sull’engawa passare di corsa Kiba, il lupacchitto di Rin. Perfetto: la bimba sarebbe stata un ottimo primo argomento. Totalmente privo di impegnativa.

 

“Rin-chan vi vuole molto bene, Alessandra-san”. La vide stiracchiare un sorriso e annuire leggermente. “Posso sapere come l’avete conosciuta?”

 

Alessandra allargò il sorriso, quasi una piccola smorfia ironica, mentre con una mano si ravvivava la frangia leggermente spettinata. Miroku si morse impercettibilmente il labbro, con il timore di aver compromesso i suoi piani fin dalla prima battuta. Possibile che quella ragazza avesse già capito dove voleva andare a parare? Si rilassò subito, perché Alessandra gli raccontò del suo incontro con Rin senza dar segni di aver subodorato qualcosa. O forse era divertita dalla situazione e voleva vedere fin dove il monaco si sarebbe spinto.

 

“Interessante. Quindi, se ho ben compreso, Rin-chan vi deve la vita. Due volte, addirittura: prima la salvate dal freddo invernale e poi da una brutta malattia”. Miroku spiò l’espressione della ragazza, prima di continuare. Sembrava tranquilla.

 

“Una vera fortuna, per lei, che vi trovaste a vagare nelle vicinanze. Soprattutto, la seconda volta…Se non l’aveste incontrata febbricitante…”. Lasciò volutamente in sospeso la frase, perché si era accorto che Alessandra era stata molto vaga nel raccontare il secondo incontro con la bimba. Si era limitata a un “l’ho rivista che era malata e l’ho curata”. Troppo veloce. Ci doveva essere qualcosa in mezzo. Qualcosa di insignificante, di banale, ma che era uno dei tasselli per il puzzle che lui stava cercando di comporre.

 

Alessandra si morse nervosamente un labbro: non poteva certo dire che era stato Sesshomaru a trovarla e che il demone era stato costretto a darle ragione e a spostare Rin dalla grotta dove si trovavano. Se ci pensava, lo rivedeva disfarsi dell’armatura e sciogliere elegantemente la fascia del kimono awase. Quante volte gli aveva rivisto compire quel gesto, in seguito? Alla sera, quando lui rientrava nelle sue stanze e lei era nel suo letto, nel dormiveglia, lo vedeva sciogliere i nodi e disfarsi degli indumenti con la stessa grazia della prima volta. Vedeva i capelli del demone sfiorargli la schiena, accarezzandogli i dorsali tesi, ……… tonici; vedeva la linea sottile della sua colonna vertebrale, i tendini del collo comparire e scomparire al movimento dei suoi capelli. Sensuale. Era dannatamente sensuale in quei movimenti lenti, nel fruscio leggerissimo della seta. Di notte, Alessandra seguiva con occhi rapaci la stoffa del kimono scivolare sul corpo del demone, scoprendogli la pelle pallida, l’anatomia perfetta. Ricordava con lucidità impressionante le linee del suo corpo; lo aveva medicato più di una volta. Lo aveva curato quella volta dopo l’attacco di Naraku che gli era costato la cecità.

 

Quella volta…Era stata la prima volta che aveva spogliato un uomo. Aveva visto il corpo di Sesshomaru emergere dalla stoffa bagnata e sporca, lo aveva visto delinearsi ai suoi occhi nelle sue forme perfette e non eccessive. La forza delle sue membra era concentrata in muscoli tonici e nervi guizzanti. Nulla di esagerato. Non era il copro di un uomo, ma di un ragazzo. La forza Sesshomaru la derivava in maggior parte dalla sua natura, e non dallo sviluppo della sua muscolatura. Eppure, anche se ancora un po’ acerbo nelle membra, anche se i suoi tratti sottili lo facevano apparire etereo e intoccabile, Alessandra lo sapeva saldo, forte. Lo sapeva concreto, vivo. Uomo. Perché era il copro di un ragazzo, di un uomo, quello contro cui dormiva ogni notte; perché erano di un uomo le braccia che le cingevano la vita e l’attiravano verso di lui; perché era di un uomo il respiro che le sfiorava il collo; perché erano di un uomo le labbra che la baciavano. Dolci, rispettose. Ma di uomo. Di maschio. Di amante, e non di fratello.

 

Baci ardenti e casti al contempo. Baci vogliosi, assetati, ma che non si erano mai spinti oltre il limite. Come le mani del demone non l’avevano mai sfiorata se non con discrezione, con il suo consenso. Sesshomaru la bramava, la voleva, Alessandra lo aveva capito, lo sentiva sempre di più nel modo in cui i suoi baci stavano cambiando, ma sapeva anche che non l’avrebbe mai costretta. Era forse follia pensarlo: lui, un demone, il Principe, lui che avrebbe potuto avere una diversa amante al giorno, lui che avrebbe potuto averla con la forza senza neanche doversi preoccupare di una sua possibile resistenza, lui…Lui aspettava. Pazientemente. Tranquillamente. Accontentandosi di ciò che Alessandra gli permetteva, aspettando sempre il suo consenso. Il suo permesso. Come se, nella sua mente, risuonasse ancora quella supplica, quelle parole sussurrate stringendosi al petto il polso offeso: “Non mi toccare”.

 

“Per fortuna, siete riuscita a sistemare tutto per il meglio”. Miroku aveva colto il nervosismo della sua interlocutrice. Centro perfetto. C’era qualcos’altro ma, da esperto retore, aveva preferito non insistere. Se Alessandra avesse voluto parlare, lei per prima non sarebbe mai stata così evasiva. Meglio cercare qualche altro spunto, fare un altro giro, provare a riavvicinarsi in modo diverso. Doveva allargare il discorso, se davvero aspirava a farle sfuggire qualche confessione.

 

Alessandra rispose a tutte le sue domande, in modo esauriente, ma mai troppo dettagliato, sviando soprattutto quando il discorso rischiava di cadere su Sesshomaru e, se proprio non poteva evitare di parlare del demone, cercava di mantenere un tono neutro e reverenziale, aggiungendo sempre il suffisso nobiliare al nome del Principe. Miroku, invece, iniziava a sudare. Non gli capitava spesso di conversare con una persona abile tanto quanto lui a elargire fumo e a parlare tanto senza dire nulla di importante. Un metodo che il monaco conosceva bene, ideale per confondere l’uditorio, e che, più di una volta, aveva rischiato di irretirlo. Ma d’altro canto, cosa si aspettava? Conversare lo divertiva, se poi, al piacere della parola poteva aggiungere anche la compagnia di una bella donna, che non gli era seconda per arguzia e abilità retorica, colta come ne aveva incontrate davvero poche, Miroku sapeva di dover stare attento o sarebbe caduto lui nella trappola che aveva teso.

 

“Non avete un compagno, Alessandra-san?” le chiese all’improvviso con un sorriso poco raccomandabile, sporgendosi un po’ verso di lei. La vide deviare con nonchalance lo sguardo, fissandolo con insistenza sul legno di un secchio poco distante. Affondata. Anche se gli avesse detto di no, la sua reazione era già di per sé una risposta. E quella era affermativa. Ora, si trattava di scoprire chi fosse, meglio, di accertare che il nome fosse quello di Sesshomaru. Si avvicinò ancora di più, fino a pochi centimetri dal viso della ragazza, con una mano poggiata a terra, dietro la sua schiena, e l’altra che aspettava il momento buono per prenderle la mano. Le avrebbe fatto un po’ di scena, e l’avrebbe costretta a dirgli quel nome. Glielo avrebbe suggerito lui, se proprio Alessandra non avesse voluto sbilanciarsi. Per lui, gli sarebbe bastato anche solo un piccolissimo sussulto per aver conferma dei suoi sospetti. Addolcì il sorriso e sollevò la mano, pronto a stringerle la vita. Alessandra sembrava come ipnotizzata, smarrita, ma per Miroku era la più ovvia delle reazioni: un po’ di femminile pudore e riservatezza, bellissimo su una donna così giovane.

 

“Se solo provi a sfiorarla, ti stacco la mano”

 

Miroku sobbalzò e istintivamente si ritrasse con una smorfia impaurita sul viso, mente una goccia di sudore gli scendeva lungo la tempia. Si allontanò lentamente, girandosi verso quella voce e cercando di preparare il più innocente dei suoi sorrisi. Una smorfia che era un insieme di colpevolezza, vergogna e imbarazzo. Ridacchiò cercando di apparire normale e rilassato, ma l’occhiataccia di Inuyasha gli fece correre un brivido lungo la schiena. Sapeva che non era entusiasta dei suoi modi libertini, che non apprezzava affatto il suo costante tentativo di trovare una donna che gli desse un figlio; sapeva che lo infastidiva la libertà che riusciva a prendersi con le ragazze, a sua detta solo perché l’hanyou, al contrario, era talmente timido e impacciato che qualsiasi approccio gli costava un grande sforzo e vedere lui disinibito e tranquillo lo faceva fremere di rabbia e invidia.

 

Però…però c’era qualcosa di diverso, in quel momento. Il tono non era affatto bonario, anche se non c’era traccia di odio o rabbia negli occhi di Inuyasha. Sembrava solo leggermente contrariato, e insieme quasi sollevato. Come se fosse intervenuto appena in tempo per evitare una catastrofe. Miroku si risentì più della sua occhiata che dell’intrusione: si conoscevano da anni, era mai possibile che Inuyasha non avesse ancora imparato a distinguere quando lui scherzava e quando invece cercava di fare sul serio? Andiamo! Non voleva fare nulla di male! Fino al giorno prima era lui che si torturava per la curiosità di sapere se davvero potesse esserci qualcosa fra Alessandra e Sesshomaru. Puro interesse scientifico, diceva: gli sembrava impossibile che quel borioso e indifferente pezzo di ghiaccio che si ritrovava per fratello potesse davvero essersi interessato ad una donna, e umana per di più. E adesso, di punto in bianco, sembrava che la questione non gli importasse più. E il monaco non era propenso ad attribuire quella mancanza di voglia solo al fatto che Kagome-sama fosse impegnata alla breccia. La situazione era straordinariamente tranquilla. Perché quindi quel nervosismo?

 

Miroku cercò di rabbonirlo, di alleggerire la tensione che improvvisamente aveva sentito crearsi. Che fosse geloso, anche se lo negava continuamente, era un dato di fatto: bastava ripensare alle impennate di rabbia che lo prendevano se solo Koga osava avvicinarsi a Kagome. In quel momento, però, che senso avrebbe mai potuto avere, la sua gelosia? Certo, se si fosse ritrovato faccia a faccia con Sesshomaru, Miroku avrebbe avuto conferma delle sue supposizioni, anche se, doveva ammettere, avrebbe dovuto anche disperare di poterle mai comunicare agli altri. Il Principe non si sarebbe neanche preso il disturbo di minacciarlo, togliendolo dal suo cammino immediatamente ed eliminando una possibile fonte di disturbo per Alessandra.

 

“Non capisco cosa tu voglia dire, Inuyasha” bluffò, schiarendosi la voce e assumendo un tono da finto offeso. “Stavamo solo chiacchierando…”

 

“Altro che chiacchierare!” sbraitò subito il ragazzo “Tu adesso te ne fili a riposare! Non ho alcuna voglia, questa sera, di sorbirmi i rimproveri di Sango e Kagome perché non ti ho tenuto a letto!”

 

Miroku fu costretto a cedere. Con un teatrale sospiro si alzò da terra e, dopo un plateale saluto ad Alessandra, che si era goduta la scena con estremo divertimento, si risolse a ritornare nella sua stanza, prima che Inuyasha si decidesse a riportarcelo di peso. Sentì ancora per un po’ le minacce dell’amico se solo si fosse azzardato a mostrare ancora in giro la sua faccia (adorabile, gli fece eco) prima di sera, e infine oltrepassò il perimetro interno delle mura che dividevano i giardini interni da quelli privati del Principe.

 

“Quel pervertito! Non cambierà mai!”

 

Le mani sui fianchi, il viso atteggiato in una smorfia fra l’arrabbiato e il rassegnato, Inuyasha mosse la mano nell’aria, velocemente, come a dare un sonoro schiaffo riparatore all’amico libertino. Alessandra sorrise della sua espressione da bambino. Per dei mesi lo aveva visto cupo e immusonito, scostante anche se cercava di non apparire maleducato. Per mesi, aveva visto il suo viso attraversato da un’ombra scura e inquieta. Gli occhi tristi e malinconici. Aveva passato con lui mesi sotto la tenda dell’ospedale. Se non fosse stato per l’aiuto di Inuyasha e la sua cocciutaggine nell’allontanarla quando davvero era allo stremo, Alessandra non era del tutto convinta che sarebbe riuscita a mantenere il controllo di ogni situazione, imponendosi sui guaritori di palazzo.

 

Si voltò verso di lei, regalandole un sorriso rilassato. Era bello vederlo sorridere. Sembrava davvero un bambino, con quelle fossette ai lati delle labbra, con i capelli leggermente spettinati e quelle orecchiette che si muovevano impercettibilmente, attente a cogliere sempre anche il minimo rumore. Alessandra, per un istante, rivide il sorriso di Sesshomaru, risentì la risata infantile che era riuscita a suscitare in lui una sera di pioggia. Un suono profondo, ancora così vivo nella sua memoria. Non lo aveva più sentito ridere, ma in compenso i sorrisi si presentavano un po’ più spesso. Aperti, o piccole smorfie che appena gli intaccavano le labbra. Maledizione! Certe notti le sorrideva in un modo, indugiando su di lei come se potesse vederla, schiudendo appena le labbra e lasciandole intravedere i canini appuntiti oppure sfiorandosele con la lingua dopo un bacio. Un contatto leggero, appena percettibile, ma dannatamente eccitante. Sesshomaru stava lentamente imparando, stava imparando da lei come doveva comportarsi con la ragazza che per lui era importante. Stava scoprendo quanto lo divertiva stuzzicarla, farle desiderare un bacio, una carezza fino al punto che, per la sua apparente indifferenza, Alessandra a volte si imbronciava. E allora lui le si avvicinava compiaciuto del suo risultato. Gli piaceva quando lei, nel sonno, gli sfiorava il petto che lasciava scoperto per dormire; quando i suoi capelli si distribuivano sul suo viso e sul suo collo.

 

Inuyasha somigliava così tanto al suo demone, eppure c’erano tante piccole cose che li differenziavano. E la più evidente era la diversa educazione che avevano ricevuti: troppo rigida quella di Sesshomaru, troppo incentrata sull’utilità guerriera, infarcita di mille sciocche dottrine di supremazia. Forse, se fosse cresciuto come Inuyasha allora…Alessandra scosse la testa. Inutile pensarci: lo amava per quello che era. Anche per i suoi difetti. Per il modo in cui riusciva parlarle senza usare la voce.

 

Inuyasha le sventolò una mano davanti al viso. Era come in trans, con un sorriso divertito sulle labbra e un leggero rossore sul viso. Stava pensando a lui. Poco ma sicuro. E la cosa gli faceva un immenso piacere. Più di quanto avesse mai immaginato. Ridacchiò, beandosi dell’espressione imbarazzata della ragazza quando si era accorta di essersi lasciata distrarre dai suoi pensieri. Sì. Fra loro sarebbe potuta nascere una splendida complicità. Come fra fratello e sorella. E gli effetti gli avrebbe sortiti Sesshomaru. Già…a proposito del demone…Inuyasha lasciò correre lo sguardo sul braccio sinistro della ragazza, con insistenza, accennando appena con la testa. Chissà come aveva reagito…

 

“Non ne sa nulla” sospirò Alessandra, sfiorandosi con attenzione la stoffa della manica. “Questa notte non si è coricato. Ho dormito sola”

 

Inuyasha annuì. Gli sembrava quasi surreale sentire quelle parole, pronunciate con quel tono rilassato, normale. Non sembrava arrabbiata o dispiaciuta per aver passato la notte sola nelle stanze del Principe. Solo rassegnata. Probabilmente, era abituata al fatto che Sesshomaru potesse non rientrare a riposare, avvantaggiato dalla sua natura demoniaca e impegnato in interminabili consigli di guerra, che lo rendevano sempre di pessimo umore. Lui ne sapeva qualcosa. Koga, dopo quelle riunioni, era pressoché intrattabile, capace di scattare per un nonnulla. L’ookami, almeno, quando era davvero esasperato riusciva a scaricare un po’ di frustrazione ingaggiando uno scontro di allenamento con lui. Sesshomaru, invece, doveva tenersi tutto dentro. Era, infatti, poco probabile che condividesse con Alessandra anche quelle preoccupazioni, dopo che la ragazza aveva i suoi bei grattacapi con l’ospedale. Tuttavia, Inuyasha non se la sentiva di escludere quella possibilità a priori. Se c’era una cosa che aveva imparato in quei mesi era che ben poco di quello che lo circondava corrispondeva sempre a quello che vedeva.

 

Si sedette a terra, gambe incrociate e una mano a sorreggere pigramente la testa. Era bastato così poco per riuscire a porre le sue domande. Era bastato preoccuparsi per lei e intestardirsi. Forse, era stata la stessa cosa che aveva fatto Sesshomaru, anche se lui, per avvicinare la ragazza, doveva aver fatto un giro lungo mesi. Comunque, sembrava che, in qualche modo, ci fosse riuscito. Anche se Inuyasha non appezzava la clandestinità cui suo fratello e la ragazza erano costretti. La conosceva bene: l’aveva vissuto sulla sua pelle in prima persona. Con Kikyo. Ed era la stessa che sua madre aveva vissuto con Inutaisho. Adesso Sesshomaru sembrava ripercorrere gli stessi passi, anche se Inuyasha non era del tutto sicuro che avesse totale cognizione di quello che stava accadendo dentro di lui.

 

Alessandra, intanto,continuava a massaggiarsi il braccio. Il decotto che vi aveva applicato in mattinata era stato miracoloso: il dolore era pressoché scomparso, e riusciva anche a compiere sforzi non eccessivi senza risentirne. Doveva proprio ringraziare Inuyasha per averglielo preparato; se non fosse stato per lui, probabilmente lei a quell’ora si sarebbe ritrovata con una bella infezione. E la febbre anche. Un vero peccato, soprattutto ripensando a quello che era successo dopo. Alessandra sollevò istintivamente lo sguardo al ragazzo seduto accanto a lei. Inuyasha si accorse della sua occhiata…come definirla?...Complice, forse, e sorrise di riflesso. Certo che quella ragazza rilassata e tranquilla non sembrava quasi quella che aveva trovato, la notte prima, seduta sul suo futon, alla tenue luce di una candela, avvolta in un kimono lercio e sbrindellato, sporca di sangue, fango e sudore.

 

Era andato nella camera di Alessandra per sapere da lei se avevano dato un qualche sonnifero a Kagome e se pensava di poterlo congedare, visto che il grosso del lavoro per sgombrare i resti della tenda dell’ospedale che la granata aveva spazzato via era ormai fatto. Aveva bisogno di un bagno, e poi se ne sarebbe andato da qualche parte a riflettere un po’ su quello che era successo. Sul turbinio che il vedere Kagome a terra, rialzarsi barcollante, svenirgli esausta fra le braccia gli aveva provocato. Sì. Aveva deciso che doveva assolutamente pensare. Mettere un po’ di ordine nei ricordi di quegli ultimi mesi. Per una sera, se anche non si fosse arrovellato un po’ su Alessandra, non sarebbe stata la fine del mondo.

 

Aveva aperto la fusuma, entrando senza bussare come sua abitudine, e si era bloccato sulla porta, inghiottendo le parole veloci che aveva preparato. Seduta sul suo futon, Alessandra gli dava parzialmente le spalle, ma nonostante la penombra della stanza il suo fiuto catturò chiaramente l’odore del sangue. Sangue fresco. E appena i suoi occhi si furono abituati all’oscurità quasi totale riuscì a distinguere chiaramente la chiazza che anneriva la mani del kimono di Alessandra e l’alone scuro che stava imbrattando il materasso. Si sentì mancare il respiro, per la sorpresa e la paura. Quella ferita doveva essersela procurata in seguito all’esplosione della granata, perché in seguito, solo in quel momento Inuyasha lo ricordò chiaramente, Alessandra aveva sempre cercato di limitare i movimenti del braccio sinistro.

 

Sentendo il fruscio della porta, Alessandra sobbalzò lasciando cadere a terra il bisturi che aveva in mano. Non si aspettava che qualcuno andasse da lei a quell’ora e nei secondi che impiegò per voltare il viso verso la porta pregò che non fosse Sesshomaru ad essere entrato. Non poteva, non doveva essere lui. Non in quel momento. Liberò un impercettibile respiro quando riconobbe Inuyasha, ma il sollievo dileguò immediatamente, appena realizzò che l’hanyou fissava con sgomento il suo sangue. Si strinse il braccio al petto, nel vano tentativo di nascondere ciò che comunque l’olfatto fine del ragazzo avrebbe distinto.

 

Inuyasha la vide spaventata, sorpresa, confusa. Le si avvicinò di corsa, il cuore in gola. Quella stupida! Perché non lo aveva detto prima, che era ferita? Sperava solo che fosse un graffio. Voleva convincersi che lo fosse, benchè il sangue che bagnava la manica sembrava far propendere per tutt’altro. Nel vederlo avvicinarsi e protendere una mano verso di lei, Alessandra si ritirò verso il muro. Non voleva essere toccata. Nessuno doveva toccarla. Solo Sesshomaru poteva. Solo lui. Nessun altro. Odiava esser sfiorata, odiava il contatto fisico. Le faceva venire in mente il dolore seguito alla morte della sua famiglia, e la falsità ipocrita di tanti abbracci, di tante stucchevoli attenzioni.

 

Inuyasha aveva appena disteso la mano, deciso a vincere quell’insensata paura, e non le aveva neanche sfiorato il polso che si ritrovò a fissare l’armadio a muro sulla parete accanto. Bruciore. La guancia gli bruciava tantissimo e formicolava in modo fastidioso. Si portò una mano al viso, mentre lentamente rigirava la testa con un’espressione esterrefatta sulla faccia. Davanti a lui, Alessandra ansimava furiosamente , con la mano ancora sollevata dopo il sonoro ceffone che gli aveva inferto. La vide sbattere le palpebre alcune volte, fissare alternativamente la sua mano e la guancia offesa, per poi socchiudere la bocca in un’esclamazione muta di colpevolezza e dispiacere.

 

“Certo che picchi forte, se vuoi!” cercò di sdrammatizzare Inuyasha, massaggiandosi il viso. Accidenti a quella ragazza. Lo aveva preso completamente di sorpresa, e adesso si ritrovava con un bel segno rosso. Neanche Sango ci andava così pesante con Miroku. E lui, per di più, non aveva fatto assolutamente nulla.

 

“M-mi dispiace…Scusami…Io…Io non volevo…”. Alessandra abbassò gli occhi, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore. Lo aveva schiaffeggiato. Aveva avuto paura della sua mano e lo aveva colpito. Come aveva colpito Sesshomaru mesi prima. Perché aveva paure a lasciarsi toccare. Soprattutto quando non si sentiva forte, quando si sapeva ferita e quindi debole. Esposta.

 

Inuyasha sbraitò qualcosa sul fatto che non sarebbe certo stato una schiaffo da una ragazza a metterlo fuori combattimento e che sarebbe passato subito, perché anche lui aveva sangue demoniaco nelle vene e Alessandra sembrò rilassarsi, benchè il braccio le strappasse ogni tanto una smorfia.

 

“Allora? Mi lasci dare un’occhiata?” riprovò, chiedendo prima il permesso. “Non sarò bravo come te a maneggiare questi arnesi, ma qualcosa ho imparato in questi mesi”. Le fece un sorriso rassicurante, distendendo la mano in un invito. Alessandra lo fissò, fissò la mano e infine si decise ad allungargli il braccio, fermandosi un attimo prima di incontrare la sua mano. Se voleva medicarla avrebbe dovuto togliersi la parte superiore del kimono, e questo significava restare nuda davanti a lui. Si raggomitolò di nuovo. No. Mai. Non ce la faceva. Anche se provava a considerarlo un medico. Inuyasha la vide stringere i lembi del kimono al seno, e sollevare le ginocchia a difesa, in posizione fetale. Doveva essere davvero spaventata, anche se non riusciva a capire il perché. Se davvero era in rapporti intimi con Sesshomaru doveva esser abituata la contatto fisico, alla presenza di un uomo. Invece, sembrava che riuscisse a toccare i suoi pazienti, ma se solo era lei a dover essere sfiorata si chiudeva a riccio. Comunque, non poteva lasciare che si medicasse da sola. Doveva trovare un modo per vedere la sua ferita, senza costringerla all’imbarazzo. Perché, lo aveva capito, Alessandra non si sarebbe tolta il kimono neanche se lui si fosse voltato e poi lei se lo fosse premuto al petto.

 

“Facciamo così”

 

Lentamente, con la velocità dei movimenti ridotti al minimo, Inuyasha allungò gli artigli fino a toccare la stoffa bagnata. La strinse fra le mani e la lacerò con un colpo secco fino alla spalla, scoprendole il braccio e il profondo taglio che una scheggia di metallo le aveva provocato. Vedendolo concentrato sulla ferita, Alessandra si rilassò e gli allungò meglio il braccio, permettendogli di vedere. Alla luce della lampada, qualcosa brillò nella ferita, facendo incurvare le labbra del mezzo-demone in una smorfia.

 

“Mmm…Non è molto profonda, ma ti è rimasta dentro una scheggia di ferro e sembra abbastanza grande. Devo togliertela, prima che faccia infezione”. Sollevò su di lei due occhi da cucciolo addolorato. “Farà male…”

 

In risposta, Alessandra afferrò un pezzo di cuoio che aveva preparato in precedenza e lo strinse fra i denti, consegnando il bisturi al ragazzo. Inuyasha la vide mordere con forza quando le incideva la pelle e cercava di fasi spazio fra le pieghe della ferita procurandole meno dolore possibile. Dal sangue rappreso lungo le labbra del taglio, la ferita doveva esser stata lasciata in balia di se stessa per molte ore. Inuyasha imprecò fra i denti per non essersi accorto prima di quello che era successo ad Alessandra. Aveva lavorato al suo fianco tutto il giorno, me l’odore del sangue, della carne bruciata e del ferro erano stati troppo intensi e troppo duraturi perchè lui riuscisse a distinguere quello della ragazza. Inoltre, lei aveva avuto cura di cospargere il suo kimono di sangue demoniaco, per alterare gli odori.

 

Inuyasha sistemò con cura la garza, facendola aderire con attenzione e complimentandosi mentalmente con se stesso per il discreto lavoro. In quei mesi, grazie alla pazienza di Alessandra e Homoe, si era trasformato in un ragazzo capace di padroneggiare i ferri medici bene quasi quanto la sua spada. Certo, brandire Tessaiga era tutta un’altra cosa, era nella sua indole demoniaca come la battaglia, ma le soddisfazioni che ne aveva ricevuto non erano state inferiori. Solo diverse. Il suo prodigarsi all’ospedale da campo gli aveva anche valso, con sua grande incredulità, un certo rispetto da parte dei soldati, soprattutto dei veterani.

 

Mentre ripuliva i ferri e le sue mani, gettò un’occhiata distratta al futon. Sarebbe stato meglio se fosse riuscito a portarlo fuori dalla stanza alle chetichella e dargli fuoco. Non era proprio il caso che le inservienti a palazzo scoprissero il letto imbrattato di sangue; la voce si sarebbe subito sparsa e le conclusioni avrebbero potuto essere estremamente lontane dalla realtà. Sistemò l’ultimo bisturi e si massaggiò nervosamente la fronte. Chissà poi perché si preoccupava tanto di quella ragazza. Si sistemò meglio, mentre una vocina, dentro di lui, gli sussurrava che quella ragazza gli era piaciuta da subito, e che il bisogno di proteggerla nasceva dal fatto che lui conosceva fino a che punto poteva arrivare la crudeltà, umana o demoniaca che fosse, nei confronti di chi fosse considerato diverso. E Alessandra, nel palazzo di Sesshomaru, costituiva un elemento di estraneità potenzialmente più pericoloso di lui stesso. Certo, nessuno si sarebbe mai sognato di muovere dei rimproveri al Principe, se mai avesse deciso di concedersi, prima del matrimonio, delle avventure con delle ningen. Non era ideale, ma neanche indecoroso. Le donne umane servivano solo, agli occhi dei demoni, come cibo e divertimento. Invece, quello che Alessandra era e il modo in cui Sesshomaru la trattava, equiparandola, nelle rare occasioni pubbliche in cui le rivolgeva parola, ad una yasha della corte non poteva far altro che aumentare l’astio dei subordinati del demone. E di conseguenza l’istinto di protezione di Inuyasha.

 

“Gradirei che tu non dicessi niente a nessuno, Inuyasha”

 

Alessandra si stava passando una mano sulla fasciatura, constatando come davvero fosse stata eseguita con perizia. La sua voce era stata un sussurro dolce, ma che non sembrava ammettere obiezioni. Perentorio. Non voleva farlo preoccupare. Sapeva che era arrivato all’ospedale pochi minuti dopo l’esplosione della granata, e sapeva che se ne era andato altrettanto velocemente. Lei non lo aveva visto, e sperava con tutto il cuore che, se anche fosse avvenuto il contrario, se anche il demone l’avesse individuata, non si fosse accorto del fatto che era ferita.

 

“Il naso di Sesshomaru è fino. Se gli vai vicino prima di quattro giorni, si accorgerà da solo che sei ferita”.

 

Incrociò le braccia dietro la nuca, sdraiandosi a terra. Con un occhio socchiuso, cercava di spiare la reazione della ragazza. Aveva fatto volutamente solo il nome del fratello e la frase gli era uscita perfetta: parole dal doppio senso. Ideali per incastrare qualcuno. Doveva ricordarsi di ringraziare Miroku. A forza di starlo a sentire mentre imbastiva i suoi finti esorcismi e tentava di sedurre delle donne, qualcosa dell’arguzia dialogica del monaco doveva esser entrata anche nella sua testa. Non che facesse capolino di frequente, ma almeno in quell’occasione aveva scelto il momento propizio.

 

Vide Alessandra sussultare impercettibilmente. La vide stringere un lembo della manica lacerata e mordersi nervosamente un labbro. Lo faceva sempre quando era nervosa o molto concentrata. La vide abbassare gli occhi. E questo soprattutto le persuase di aver fatto centro. Alessandra non abbassava mai lo sguardo. Neanche davanti a Sesshomaru. Si rivolgeva a lui con deferenza, senza mai omettere il suffisso nobiliare, ma il tono appariva affettato e di circostanza. Falso. Come se fossero altre, le parole che avrebbero dovuto esser dette. Come se stesse cercando di nascondere qualcosa.

 

“Si nota così tanto?...”

 

Alessandra si concesse un sorriso. Dolce, rilassato. Imbarazzato. Un sorriso di sconfitta. Che bella figura! Aveva cercato in tutti i modi di celare i suoi sentimenti, ma davvero era una pessima attrice se anche un ragazzo ingenuo come Inuyasha era riuscito a leggerle dentro. A quel punto, inutile continuare la farsa. Tanto più che, se non l’aveva tradita fino a quel momento, non vedeva perché avrebbe dovuto farlo in seguito.

 

“Cosa?...” canticchiò l’hanyou, fingendo innocenza con la falsità di Giuda.

 

“Che…mi sono…”.

 

Era difficile, da dire. Molto difficile. Lo aveva ripetuto mille volte nella sua mente, ma dirlo ad alta voce era diverso. Era riconoscere definitivamente quel sentimento, era dire una parola che fra loro non era mai corsa, e probabilmente non ci sarebbe mai stata. Sollevò gli occhi e sorrise imbarazzata. Inuyasha si era riportato a sedere e la fissava con un sopracciglio inarcato, senza smettere la sua espressione di finta ingenuità. Alessandra si concesse un respiro. Anche Sesshomaru, quando era indispettito, contrariato o semplicemente…interessato…a una cosa qualsiasi aveva la stessa abitudine. Quante volte aveva visto il suo sopracciglio sinistro, sottile, quasi una linea appena percettibile, inarcarsi leggermente, creando alcune invisibili rughe alla radice del suo naso. Era il solo gesto che sottolineasse se il Principe era presente nella conversazione; per il resto, il viso rimaneva impassibile. Sorrise. Forse, i due fratelli non sapevano neanche di avere la stessa abitudine, curiosa e dolcissima. Non poteva considerarsi un tic, ma era uno di quegli atteggiamenti di Sesshomaru che lei aveva imparato a conoscere.

 

“…che sei?...”. Inuyasha, desideroso che lei completasse la frase, cercò di imboccarla. Cavoli, però, come gli bruciava la gola. Solo in quel momento si era accorto di avere la bocca socchiusa e secca. La lingua sembrava incollata, e le mani, sudate, erano chiuse a pugno, con gli artigli che ne carezzavano pericolosamente i palmi.

 

“…innamorata di Sesshomaru…”

 

Inuyasha restò basito. I sospetti c’erano, certo, e aveva sempre cercato conferme e smentite, ma mai si sarebbe aspettato una confessione del genere dalla ragazza. La fissava. Continuava a guardare il suo viso leggermente rosso per l’imbarazzo, il sorriso strano che le increspava le labbra, lo scintillio leggero degli occhi. Sembrava come se finalmente riuscisse di nuovo a respirare. Come se stesse accarezzando qualcosa di mai sfiorato, qualcosa che aveva sempre avuto davanti agli occhi, e che non aveva mai potuto toccare.

 

“…innamorata di Sesshomaru…” ripetè in un soffio, come se il risentire quelle parole lo aiutassero a prenderne pienamente coscienza. Lo sapeva, lo sapeva che poteva esser accaduto, ma non aveva mai pensato che quella sarebbe stata la reazione a sentirselo dire: era felice. Incredulo, ma felice. Felice per suo fratello, anche se forse, invece, avrebbe dovuto commiserare quella ragazza che si era invaghita di un demone, cercare di farla ragionare e dirle che era un legame impossibile, che le avrebbe solo procurato dolore. Si passò una mano nella frangia, percorrendo i capelli fino alla nuca e iniziando a massaggiarsela energicamente. Avrebbe dovuto metterla in guardia, e non ci riusciva. Era felice. Troppo felice.

 

Alessandra amava suo fratello. Alessandra aveva sopportato la corte inuyoukai pur di restargli accanto. Alessandra che finge indifferenza nei suoi confronti per evitare che le malelingue venissero alimentate. Alessandra che lo ama, che ama Sesshomaru…Lei che…La fiumana dei suoi pensieri si arrestò di colpo. Alessandra lo amava, ma lui?...Sesshomaru aveva sempre dimostrato di detestare i ningen; rasentava l’impossibile il fatto che potesse essersi affezionato, se non addirittura innamorato, di una donna umana. Tornò a rivolgere la sua attenzione alla ragazza. Sulla lingua gli formicolavano alcune domande che non si sarebbe ami sognato di porre in un’altra circostanza, ma arrivati a quel punto gli sembrava stupido esitare. La vide rialzare la testa, e nei loro occhi passò una scintilla di complicità.

 

“…Lui ti ama?...” riuscì a chiedere titubante. Alessandra socchiuse gli occhi. Quella domanda…quella domanda se l’era posta spesso anche lei. fino a quando il demone non si era dichiarato, fino a quando non le aveva detto di tenere a lei sopra ogni altra cosa. Sorrise felice, mentre due fossette da bambina si disegnavano ai lati delle sue labbra e le sue guance aumentavano il loro colore.

 

“Ha detto…che sono la cosa più importante che abbia mai avuto…”

 

“Tipico”. Inuyasha ridacchiò. Chissà perché, ma non si sarebbe aspettato una dichiarazione diversa da suo fratello. Si appoggiò con il gomito al tavoli e iniziò a scrutare la ragazza, scuotendo appena la testa.

 

“Mi dispiace davvero…”. Alessandra corrugò la fronte. Gli dispiaceva per cosa? Forse non voleva che Sesshomaru si compromettesse con una ragazza umana? Forse si era sbagliata e ora lui avrebbe rivelato tutto alla corte? Il sorriso del mezzo-demone sembrava un ghigno.

 

“Ma fra tutti i demoni che ci sono proprio di quel ghiacciolo di mio fratello ti dovevi innamorare?!”.

 

Lo disse con un tono talmente melodrammatico e forzato che Alessandra non potè evitare di ridere, seguita subito da Inuyasha. L’aveva spaventata,accidenti a lui. Per un istante, si era aspettata di vederlo far schioccare le nocche e prepararsi a ucciderla.

 

“Non sarà facile, lo sai?” riprese il ragazzo, tornando di colpo serio. Alessandra prese un respiro e annuì. Lo sapeva. Sapeva che amare un demone non sarebbe mai stata una cosa semplice. Sapeva che amare Sesshomaru l’avrebbe, probabilmente, costretta a violentare più volte se stessa e la propria anima. Sapeva che poteva significare scontrarsi con lui, per idee e mentalità. Sapeva che significava scontrarsi con la corte. Sapeva che voleva dire essere sola. Ma se davvero lui le fosse sempre rimasto accanto, se davvero Sesshomaru l’avesse tenuta per sempre con sé, allora…Allora era pronta anche alla solitudine di quel palazzo. Era pronta a essere considerata un’amante da tutti, se per lui invece era l’unica. Le sarebbe bastato. Amarlo, e essere riamata.

 

Inuyasha sentì un brivido percorrergli la spina dorsale. Con le labbra tese in quel sorriso sottile e la fiamma della candela a liquefasi nei suoi occhi il viso di Alessandra era dannatamente sicuro e autoritario. In quel momento, la ragazza assomigliava davvero molto al Principe. Stessa determinazione, stesso orgoglio. Stessa luce negli occhi, stesso sorriso di sfida sulle labbra. Era stato solo un attimo, ma in quei secondi, che quell’espressione se la fosse immaginata o meno, che fosse stata reale o il frutto di una sua suggestione, Inuyasha aveva capito che avrebbe fatto di tutto per sostenere la ragazza. Di tutto.

 

“Ti ho portato un futon nuovo. Anche se non sarà comodo come quello di Sesshomaru, dovrebbe essere decoroso per la tua messa in scena”

 

Alessandra gli colpì debolmente un braccio, rossa in viso. Ma che razza di…Sbuffò, mentre Inuyasha continuava a ridacchiare. Sembrava che si divertisse molto a metterla in imbarazzo. O forse era semplicemente il suo modo di dirle che era contento di quello che gli aveva rivelato la notte trascorsa. Era stato anche gentile, in fondo, a far sparire il suo letto macchiato di sangue e a procuragliene uno nuovo. Il fatto che, alla mattina, le demoni che prestavano servizio a palazzo trovassero il suo letto sfatto era fondamentale per gettare fumo negli occhi a tutti e convincere la corte che lei dormiva nella sua stanza, e non che, ogni notte, si coricava nel futon del Principe, aspettandolo, per poi tornare in camera sua poco prima dell’alba, a sprimacciare cuscino e coperte per mantenere l’apparenza.

 

Inuyasha aveva pronta un’atra frecciatina. Lo divertiva troppo metterla in imbarazzo, cercando di carpirle qualche altra parole. Non poteva farci niente. Era contento della fortuna che suo fratello aveva avuto, era contento che fosse riuscito a capire che anche un demone può innamorarsi. Era concento, anche se sapeva benissimo che, se Sesshomaru fosse stato presente, avrebbe dovuto fingere di ignorare la cosa. Se il Principe lo avesse anche solo sospettato, poteva iniziare a mettersi nell’ordine di idee di doversi costantemente guardare le spalle. Ecco: gli dispiaceva che non avrebbe mai potuto dirgli quanto era contento per lui.

 

Alessandra vide il suo sorriso sfacciata svanire di colpo, mentre alzava la testa in direzione del palazzo, annusando l’aria. Le orecchiette si muovevano veloci e nervose, cercando di captare meglio quello che in principio sembrava solo un brusio leggero, ma che stava lentamente aumentando di tono. In un impeto di preoccupazione, Inuyasha si alzò in piedi, sfiorando in un gesto automatico l’elsa di Tessaiga.

 

“Ma che diavolo…?!

 

C’era qualcosa, nell’aria. Qualcosa di strano. Elettrico. Come una sensazione che ti fa tremare ogni fibra del corpo. Pericolo. Riusciva solo a elaborare quel pensiero: pericolo. Anche se non capiva di che natura. Nella sua testa, suonava solo quel campanellino d’allarme. Eppure non c’era odore di polvere da sparo né sentiva grida di battaglia o rumore di armi. Le orecchiette si tesero nervose, quando riuscì a distinguere un odore: sangue. Poco, molto poco perché sia quello di una battaglia. Ma sangue. Fresco.

 

Scambiò un’occhiata con Alessandra che, allarmata dal suo comportamento, si era a sua volta messa in piedi e adesso seguiva con lo sguardo l’affrettarsi di alcuni soldati verso la piazza d’armi. C’era una strana agitazione, parole scambiate velocemente in un mormorio che cresceva mano a mano che si raggiungeva la piazza antistante il corpo centrale del palazzo. Inuyasha scoprì i denti in un ringhio frustrato. Non gli piaceva quello che stava accadendo. Non gli piaceva proprio. Doveva esserci qualcosa di strano. di grave.

 

Alessandra gli annuì. Leggeva nei suoi occhi dolore, preoccupazione, agitazione. Desiderio. Di non esser trattenuto. Di poter andare a controllare che i suoi amici stessero bene, che Kagome stesse bene , e di poter scoprire cos’era successo per scatenare quella che, lentamente, stava prendendo i contorni di un vero e proprio avvenimento straordinario. Lo vide accennare con la testa al nuovo ospedale temporaneo e poi iniziare a correre velocemente verso il palazzo. Sapere. Doveva e voleva sapere. Perché lo sentiva dentro che era successo qualcosa che avrebbe cambiato molte cose.

 

 

*****

 

 

“Al diavolo voi e le vostre cure!”

 

Voce arrabbiata. Frustrata. Roca di dolore. Homoe sospirò, nel sentire quelle imprecazioni riecheggiare nei corridoi del palazzo. Chissà perché, ma se lo era immaginato. L’agitazione era esplosa improvvisa a palazzo dopo ore di calma innaturale, dopo quasi tutta una mattina trascorsa in una fase di stati fin quasi sospetta. Era passato neanche una mezz’ora, e già tutto il palazzo sapeva. E anche lui era stato informato. La yasha masticò amaro. Se scopriva chi aveva avuto la brillante idea di avvertirlo, parola sua lo avrebbe ridotto a pezzetti così piccoli che neanche in duecento anni si sarebbe potuto riassemblare.

 

“Ma siete ancora debole!”.

 

Protesta inutile. Troppo debole. Troppo remissiva. Si era già arreso. D’altro canto, cercare di trattenerlo doveva far parte più della facciata che delle reali intenzioni di quel cerusico che cercava di fermare il suo paziente. Adesso li poteva vedere. La corporatura minuta del guaritore tentava di sbarrare la strada ad un ragazzo, tutt’altro che intenzionato a prestar ascolto alle sue suppliche. Shin lo scansò malamente, riprendendo a percorrere l’engawa con la maggior velocità che il suo passo ancora claudicante gli consentisse. Ignorava completamene il piagnucolio di quel fastidioso demone che lo stava seguendo fin dalla sua stanza, concentrato nel tentativo di sistemarsi in modo almeno passabile l’haori che si era buttato addosso, sugli hakama.

 

Sospirò sconsolato. Non era certo l’ideale presentarsi nella sala del consiglio mezzo svestito e scarmigliato, ma non aveva certo il tempo di farsi andare a prendere kimono e armatura, sempre che gli avessero fatto la grazia. Come ostaggio, non doveva avere molte possibilità di domanda. Più probabile, invece, che fosse costretto a rispondere, presto o tardi. Si passò una mano nei corti capelli neri, cercando di ravvivarli. Era strano: era ostaggio a palazzo da quasi due mesi e ancora Sesshomaru non lo aveva fatto interrogare. All’inizio, aveva sospettato che il motivo della tranquillità di cui godeva fosse dovuto ai pareri clinici di Homoe e Alessandra, ma con il tempo aveva scartato l’ipotesi. Almeno nell’ultima settimana le sue condizioni erano tali che gli permettevano ormai di alzarsi dal futon e muoversi nella stanza che gli era stata assegnata. A volte, alla sera, aveva passeggiato con Homoe e Rin nei giardini privati, per testare i miglioramenti e tonificare il corpo.

 

Si era trovato bene, in quelle uscite. Con sua grande sorpresa, aveva provato il desiderio di confidarsi con qualcuno, e quasi senza rendersene conto aveva narrato a Homoe tutta la sua storia, ricordando gli anni trascorsi sul Continente con i suoi fratelli; le aveva detto delle trovate di Yashi e Koji, in cui puntualmente lui veniva coinvolto. Le aveva raccontato degli anni dell’addestramento, delle guerre combattute, del prestigio che la sua famiglia si era ricostruita lentamente, in una nuova terra. Le aveva descritto il palazzo, le regioni del Continente, le bizzarrie di una terra simile e diversa d a Nihon. Si era accorto di parlarne con nostalgia: da quattrocento anni quella era la sua casa, ed era lì che desiderava tornare con tutto se stesso. Il desiderio di riconquistare le terre avite, la brama di vendetta, l’aspettativa di potere…Era tutto sparito, lavato via dalle acque limacciose del fiume che lo aveva salvato dalla morte. L’unica cosa che ancora gli premeva era vendicare la morte di Takakuni, e quindi uccidere Naraku. Poi, aveva raccontato a Homoe, sarebbe tornato sul Continente Sarebbe tornato a casa.

 

Lei lo aveva ascoltato con Rin sulle ginocchia, lasciandosi rapire dal movimento delle sue labbra, dalla parca gestualità delle sue mani. Shin aveva delle mani molto belle. Dovevano essere forti, avvezze ad impugnare la katana, ma le aveva viste anche capaci di tenerezza, come quando regalava una carezza a Rin, che non avrebbe voluto altro che sentir raccontare di quella terra incredibile ai suoi occhi di bambina. Una volta, Shin aveva anche preso sulle spalle la bimba, e Homoe si era smarrita nel contemplare l’espressione rilassato dei suoi occhi. Viola lucente. Luminoso. Vivo. Uno sguardo molto diverso dal buio della prima volta, dalla rassegnazione. L’aveva osservato parlare tranquillamente con la bambina, farla ridere, e si era immaginata il demone con accanto dei bambini. Figli. Dai capelli neri e gli occhi d’acciaio. Come i suoi. Quella volta, aveva scosso la testa dandosi della stupida. Anche se il rapporto fra Shin e Kumamoto era estremamente informale, quasi quello di un padre con un figlio, Homoe era tristemente consapevole che suo padre non le avrebbe mai permesso un simile legame. Lei era l’ultima del clan di Kita, l’ultima di quattro fratelli. Suo padre non avrebbe mai permesso che abbandonasse l’eredità per un capriccio del cuore. No. Le avrebbe imposto di sposare un demone potente, ma inferiore a lei per rango. Un marito fantoccio, solo per lasciare a lei le terre del Nord.

 

Homoe scosse la testa. Non era quello il momento di pensare a un sentimento che non poteva provare, che si era imposta di cancellare. In quel momento premeva cercare di fermare l’irruenza del Principe del Kansai, altrimenti era davvero capace di presentarsi davanti a Sesshomaru a petto nudo. Rischio davvero azzardato.

 

Homoe-sama! Vi prego, convincetelo voi!” piagnucolò il guaritore alzando le mani a preghiera nella sua direzione. Sembrava davvero sull’orlo d una crisi isterica. Certo, tenere a freno Shin era impresa difficile. Anche se molto riservato ed estremamente corretto, lo youkai tradiva una natura indomita e facilmente avvezza al freno. O più probabilmente era l’impulsività propria di chi, dopo aver provato troppo a lungo il morso della sottomissione, si sente finalmente padrone di se stesso.

 

“È fiato sprecato, vi avverto” ammonì Shin. La yasha, tuttavia, non si scompose minimamente e dopo aver congedato il guaritore, che apparve quasi sollevato, si affiancò al demone per procedere con lui. Shin rallentò il passo, visibilmente affaticato. Era stato uno stupido a muoversi a quel modo dopo due mesi che calibrava le energie per ogni movimento. Eppure, quando aveva avuto la notizia non era riuscito a trattenersi. Si strinse di più al braccio che Homoe gli aveva offerto perché non cadesse quando, un istante prima, era pericolosamente vacillato e si rassegnò a fermarsi contro una delle colonnine di legno dell’engawa. Aveva il respiro affannato e il volto bagnato di sudore.

 

“Vi conviene tornare nelle vostre stanze” tentò di persuaderlo Homoe. Niente. Shin scosse energicamente la testa. Doveva parlare subito con Sesshomaru. Era questione di poco ormai. Lo avesse anche dovuto costringere, il Principe lo avrebbe ascoltato. Non avrebbe permesso che i suoi fratelli e sua madre perissero in uno scontro contro le truppe dell’inuyoukai. Non se lui aveva la possibilità di risolvere la situazione. In fondo, poteva ancora essere una buona merce di scambio. Era il momento di tornare ad essere il Principe del Kansai.

 

Shin le rivolse uno sguardo che la fece rabbrividire. I suoi occhi era di un viola cupo, brillanti di determinazione. Era uno sguardo capace di toglier e il respiro, di paralizzare la voce e incatenare gli occhi. Era uno sguardo che le fece accelerare il cuore e battere il respiro. Sussultò quando la mano del demone le sfiorò la guancia, tesa per indicare la piccola Rin che giocava spensierata nel prato, sotto il controllo di Kiba. Homoe riuscì a mettere a fuoco la figura della bimba con estrema lentezza.

 

“Lei è spensierata…” sussurrò Shin. La sua voce era bassa, roca. Dannatamente sensuale. Homoe fece un grande sforzo su se stessa per non cedere. No poteva lasciarsi irretire solo dalla sua voce, non doveva cedere alla malia delle sua parola. La stregava, l’avrebbe condotta a morte, avrebbe fatto morire di dolore il suo cuore. Non doveva ascoltare la sua voce, ma le sue parole. Solo le sue parole.

 

“Devo andare: perché ho giurato che i miei fratelli avranno un futuro. Perché voglio potermi illudere di tornare a casa. Voglio che mio padre smetta di lacerarsi nell’odio…”. Fece una paura, abbassando gli occhi un istante per poi tornare ad alzarli. Fissi nei suoi. Affondavano nei suoi. Viola e acciaio. Acciaio e viola. “Lo voglio per te”.

 

Non respirava. I suoi polmoni dicevano di mandare aria, ma lei non respirava. Muta. Paralizzata. Pensieri ridotti a zero. Mente svuotata. Labbra socchiuse, lingua di pietra, occhi dilatati. Non respirava. Sentiva la gola stringersi in una morsa che la soffocava, sentiva un fastidioso formicolio alle braccia, sentiva le orecchie ronzare. Non respirava. Non respirava. Non voleva respirare. Non poteva respirare. Altrimenti, avrebbe respirato lui. Se avesse respirato, avrebbe respirato il suo odore, il suo profumo di uomo. Avrebbe respirato le sue labbra, scese veloci a sfiorare le sue, a rubarle un bacio che non riusciva a negargli.

 

Shin indugiò ancora qualche minuto. Sentiva la pelle secca e umida di quelle labbra, sentiva il respiro impercettibile sfiorarlo. Sentiva un tremito leggero. Non si era chiesto perché; aveva solo sentito che voleva farle capire che a lei teneva. Che lei era una goccia d’acqua nel deserto; lei era il soccorso di un moribondo; lei era la stella di un marinaio, lei era…Non aveva voluto banalizzare, non aveva voluto dire banalità. E allora l’aveva baciata. Semplicemente.

 

“Devo andare…”. Lo sussurrò sulla sua bocca, risalendo con le labbra il profilo del naso della yasha, disegnandole le sopracciglia e immergendole nei suoi capelli. La superò ergendo la schiena fiero. Falso. Non aveva risposto. Homoe-sama…No…Homoe non aveva risposto. Lo aveva lasciato fare, fredda e distante. Indispettita probabilmente. Non l’aveva guardata; aveva abbassato gli occhi e l’aveva superata ignorando volutamente il suo sguardo, il suo disprezzo.

 

Sentì una mano insinuarsi fra le sue dita, costringerlo a fermarsi con una stretta lieve. La sentì guidarlo nel voltarsi, e poi la sentì sfiorargli la pelle. Lentamente. Come una carezza leggera. La sentì indugiare sulle pieghe dell’haori, accompagnare la stoffa verso il basso, liberandogli il torace. La sentì seguire i contorni dei muscoli, il rilievo leggero dei tendini e delle vene. Sentì la mano svanire, sostituita dall’aria e poi riapparire. Movimento inverso. Una carezza che sale, portando con sé la morbidezza di un abito. La gustò sfiorargli le clavicole, sistemare lo scollo accarezzandogli con le unghie la gola di uomo. La sentì svanire dalla sua pelle, solleticandolo dalla stoffa che chiudeva. Quando anche l’ultima piega dell’obi fu lisciata, Shin raccolse quella mano che gli aveva dato brividi intensi, passionali, e la portò alle labbra.

 

“Dovevi almeno essere presentabile…”

 

Homoe deviò il sorriso dei suoi occhi, concentrandosi sul motivo dell’haori che stringeva in mano. Per fortuna che, vista la situazione, aveva scelto di indossare un kimono dai motivi maschili. Tuttavia, come aveva fatto a passarle per la testa quell’idea? Eppure…Era stato un attimo. Non se ne era neanche resa conto, e già stava accarezzando il suo corpo, lo stava privando dell’haori indugiando volutamente sulla pelle che scopriva, sui muscoli che lentamente stavano riprendendo tono. Si era allontanata da lui a malincuore, per disfarsi del più esterno dei suoi kimoni e poi riprendere quel gioco di seduzione. Di eccitazione. Le spalle salde, il collo dritto con la linea della trachea che scende fino al petto. E poi ancora più giù. Era tornata sulla stoffa. Lo aveva solleticato con finta innocenza. Aveva sistemato con minuzia estenuante ogni piega, solo per ingannare il tatto. Solo per compiacersi dei brividi leggeri che gli suscitava. E adesso, si ritrovava con le sue labbra sulla mano, con il suo respiro sulla pelle…E con i suoi occhi a sorriderle. Belli. Belli come non le erano mai sembrati. Felici. Maliziosi. Velati di un qualcosa di imprecisato.

 

“E comunque…” scosse la testa e ritrasse la mano, suscitando una smorfia nel ragazzo. Ma come poteva dispiacersi, se poi lei gli sorrideva a quel modo? Compiaciuta e furba. Astuta. Perfida. Provocante. Homoe risalì con la punta dell’artiglio il profilo della sua mandibola, la fossetta del mento, le labbra. Si avvicinò a lui fino a sfiorargli il collo con i capelli e a respirare sul suo respiro.

 

“…qualunque cosa tu abbia in mente, prima devi ricevere l’approvazione del tuo medico”.

 

 

*****

 

 

Usignolo.

Un trillo melodico. Leggero. Nel silenzio della camera. I morsetti mandarono quello scricchiolio fugace. Magico. Era la cosa che più l’aveva colpita, di quella stanza: i tatami più esterni, ai limiti delle pareti, costruiti in modo tale che cantassero. Un vero canto di usignolo. Un pigolio leggero e gradevole. Morsetti e chiodi che scricchiolano in modo armonico. Cigolio musicale. Rilassante. Lieve come il pigolio di un pulcino; intenso come il gorgheggio di un uccello.

 

Usignolo. E la fusuma scorre lieve nel suo telaio. Scorre avanti. Silenzio. Scorre indietro. Un colpo sordo. Attutito. Usignolo. Un ultimo trillo. Poi silenzio. Aria fresca sul viso. Mani contorte sulle braccia. Respiro. Lento. Per rilassarsi. Per calmare ansia e paure. Alessandra chiuse gli occhi, rialzando appena la testa. Non occorreva che si voltasse. Sapeva perfettamente chi fosse entrato. Solo lui avrebbe potuto andare a cercarla a quell’ora di notte. Solo lui avrebbe potuto seguire il suo odore fino a quella stanza ed entrare in quel modo. Solo lui, adesso, poteva restare così, immobile alle sue spalle; muto. Lui: Sesshomaru.

 

“…Perché non mi hai detto niente?...”

 

Niente. Per lui era come se non fosse successo niente. Se Alessandra fosse rimasta nella sua stanza da letto, lui si sarebbe coricato al suo fianco e avrebbe riposato con lei senza dirle una parola. Ne era sicura. Forse avrebbe addotto la scusa che credeva dormisse, quando lei sapeva benissimo che il suo fiuto gli permetteva di cogliere le differenze fra la veglia e il sonno. Non le avrebbe detto niente, e lei si sarebbe trovata di fronte la realtà nel giro di un respiro. Lo avrebbe visto indossare l’armatura, soppesare al fianco le katane; avrebbe visto la sua pelliccia drappeggiata con grazia sulla sua spalla, al suo posto dopo mesi che non la portava. Lo avrebbe osservato ravvivarsi i capelli d’argento e raddrizzare le spalle nel sua solita postura fiera. Lo avrebbe guardato andarsene. Senza sapere esattamente cosa significasse quell’abbigliamento. Lo avrebbe guardato sparire oltre i battenti dell’ingresso principale, con gran parte dell’esercito. E solo allora a avrebbe capito. Solo allora le avrebbero spiegato. Troppo tardi. Troppo tardi per dirgli arrivederci. Troppo tardi per dirgli addio.

 

Alessandra indugiò con lo sguardo sulle cicatrici che le granate avevano prodotto nella terra. Solchi scuri, quasi indistinguibili nel riverbero lunare. Solchi neri e rossi. Artigliate di ferro. Rivide in un brivido quella testa rotolata al centro della piazza d’armi. Rivide quegli occhi sbarrati, quel viso deturpato e abbruttito dalle percosse. Rivide l’orbita oculare sinistra annerita da una bruciatura spaventosa; la palpebra orami inesistente e il sangue rappreso. L’occhio…l’occhio sinistro non c’era più. Trapassato da qualcosa che aveva incendiato la pelle e poi estratto il bulbo. Risentì l’orrore chiuderle lo stomaco. Risalire nella gola in un conato che non ebbe neanche la forza di formarsi. Brusio attorno a lei. Sommesso. Sgomento. La testa era rotolata all’improvviso nella piazza d’armi, e con lei una freccia con una pergamena. Un invito. Una sfida. L’ultimo scontro.

 

Kumamoto aveva fissato attonito la testa del soldato che aveva inviato presso gli altri Clan a riferire della situazione. Lo credeva ormai vicino a Yezo. E invece, aveva scoperto che aveva consumato le sue giornate nelle torture dei loro nemici. Aveva stretto i denti in uno scricchiolio innaturale. Non lo aveva previsto. Dannazione a lui! Non si era aspettato che Morigawa presagisse una mossa simile, ma che in realtà era dannatamente ovvia. Da copione. La stessa di quattrocento anni prima. Kumamoto avrebbe voluto poter tornare indietro, e riparare a quell’errore. Avrebbe voluto poter cambiare le cose. Avrebbe voluto riveder vivo quel soldato. Non aveva mosso un muscolo, ma gli occhi gli si erano inumiditi mentre alcuni suoi uomini raccoglievano il macabro resto e lo avvolgevano in un anonimo sacco di juta. Ecco che fine faceva il soldato che aveva dato la vita per un piano del suo signore: una testa in un anonimo sacco. Niente. Era morto per non esser neanche ricordato.

 

Kumamoto aveva stretto la pergamena che un sodato gli aveva portato e, con voce roca, aveva ordinato che fossero tributati i più alti onori a quel misero resto: non si stava portando una vittima, si stava portando un eroe. Si era voltato verso il sunoko. In piedi alla sommità del kizashi stava Sesshomaru. Serio. Teso. Terribile. Kumamoto aveva sentito un brivido percorrergli la schiena. Quel ragazzo era capace di incutere un soggezione impressionante. Forse ancora maggiore di Inutaisho. E il vuoto che si scorgeva nelle sue iridi contribuiva ad aumentare l’effetto di imperturbabilità.

 

Alessandra aveva visto il generale raggiungere il Principe, scambiarsi alcune parole e poi, dopo un gesto secco della mano, Sesshomaru si era precipitato all’interno del palazzo con Kumamoto e da lì a poco anche gli altri generali e i capi alleati era entrati alla spicciolata nel palazzo. Per il resto della giornata non c’era stato nessun movimento da parte avversaria, tanto che Sesshomaru aveva dato l’ordine di allentare l’attenzione. Meno sentinelle, ma per la maggior parte concentrate sulla muraglia principale. Il demone, invece, era rimasto in consiglio di guerra fino a quell’ora. La mezzanotte doveva già essere passata da molto, ma Alessandra non era proprio riuscita a prendere sonno. Non ci aveva neanche provato.

 

Se non fosse stato per un curioso scherzo del destino, non avrebbe neanche saputo che quella poteva essere l’ultima notte che passava con lui. Per caso. Era stato tutto un caso. Perchè lei non avrebbe dovuto trovarsi lì, ma all’ospedale. Non era previsto che si allontanasse prima per prendere un bagno e poi raggiungesse gli altri. Quando la porta della sala da pranzo privata del Principe si era aperta lei teoricamente non doveva trovarsi lì. Era ancora troppo presto. Se solo lo avesse intuito probabilmente Sesshomaru non avrebbe mai acconsentito a quella prova. Inuyasha, Kagome e Sango erano sobbalzati nel vedere comparire sulla porta il Principe Shin in perfetta tenuta da battaglia.

 

“Cosa vuoi, dannato?”. Inuyasha gli aveva ringhiato contro. Non aveva un motivo profondo per odiarlo, e sinceramente non capiva perché Sesshomaru avesse permesso che fosse salvato e curato da Alessandra e Homoe, ma non gli interessava saperlo. Gli bastava che fosse un nemico, e che vivesse, mentre i suoi amici rischiavano la vita ogni istante. Aveva fatto scroccare le nocche e in due salti gli era stato davanti. Bocca aperta in un nuovo insulto, quando le parole gli erano morte in gola. A pochi centimetri da suo viso due occhi blu lo avevano fissato divertiti. Due occhi blu sfacciati e maliziosi. Gli occhi di Miroku.

 

“Ma che diavolo…?!” Non aveva potuto terminare la frase che nella stanza era entrato anche Shin, compiaciuto nel riscontrare che il travestimento, ad una certa distanza, reggeva benissimo. Inuyasha aveva incorciato le braccia sul petto, stizzito. Non gli andava proprio l’idea di essersi fatto imbrogliare cos’ facilmente, ma doveva ammettere che il travestimento era davvero molto realistico. E anche le ragazze ne erano convenute. Con l’armatura dei Signori del Kansai, i capelli sciolti, il kimono da battaglia e la postura rigida e dritta Miroku poteva davvero esser scambiato per Shin. La frangia era stata domata, e il corto codino sciolto, con grande dispiacere del monaco. L’unica cosa cui non aveva potuto rinunciare e che s’intravedeva appena nell’ampia manica del kimono nero era il rosario che era costretto a portare sul braccio destro.

 

Alessandra non aveva capito il motivo di quella mascherata, per altro troppo accurata perché fosse solo uno scherzo. Però aveva un brutto presentimento. Bruttissimo. C’era un’espressione troppo strana sul viso del monaco. Dov’era finita la sua eterna malizia, la sua costante sfacciataggine? Sorrideva in modo forzato, intavolava una conversazione neutra. Falsa. Dannatamente falsa. Era teso, nervoso; continuava a lanciare occhiate a Shin che si era seduto con loro e cercava di attirare l’attenzione di Inuyasha. Era evasivo sul perché del travestimento; monosillabi e parole strascicate.

 

Alessandra ne era stata sicura quando Jacken si era presentato nella stanza gracchiando che Sesshomaru li aveva convocati da lì a un’ora per discutere con loro. Nascondevano qualcosa, impossibile mentire ormai. Aveva visto benissimo l’occhiata omicida che Miroku aveva lanciato al demonietto e aveva visto Jacken affrettarsi a lasciare la stanza, tremante e sudato. Basta. Qualcosa dentro di lei si era ribellato. Si era spezzato. Le menzogne cui la relazione con il Principe la costringevano erano già sufficienti da sopportare, ma vivere nell’ignoranza di ciò che le succedeva attorno era orami inammissibile.

 

Aveva posato con una calma innaturale la tazza sul tavolo e aveva scandito chiaramente la richiesta di spiegazioni. Tono neutro e fermo. Deciso. Inuyasha aveva arricciato la bocca in un mezzo sorriso. Se Alessandra si fosse potuta vedere allo specchio, in quel momento, avrebbe visto nei suoi occhi la luce assassina che attraversava l’ambra di Sesshomaru quando qualcosa lo contrariava. Occhi determinati e dura. Occhi capaci di soggiogare. Di comandare. E la cosa che più lo divertiva era il fatto che lei probabilmente non se ne rendeva nemmeno conto.

 

Shin e Miroku avevano provato un brivido davanti alla sua apparente calma. Avevano visto benissimo le sue mani stringere la porcellana, cercare inutilmente di incidere la superficie della tazza con le unghie. Sesshomaru era stato categorico: non una sola parola doveva uscire dalla sala del consiglio, ma vederla in quello stato era un qualcosa che straziava il cuore di Miroku. Al diavolo anche gli ordini del Principe! Lui non era certo tenuto a ubbidirgli; lui si trovava lì e aveva offerto il suo aiuto solo perché in quella storia, in qualche modo, era coinvolto anche Inuyasha.

 

Miroku aveva scansato malamente l’inuyoukai e aveva posto fine in un attimo ai suoi tentativi di farlo tacere. Se voleva che collaborasse, il prezzo da pagare era quello: la verità per Alessandra. Shin aveva sospirato rassegnato. Si giocava la testa, ma in definitiva gli andava bene comunque. Tanto più che, nel giro di poche ore, lo avrebbe comunque saputo. Anticipare di poco non avrebbe cambiato nulla. Il demone si era passato una mano nei capelli, scompigliando la frangia e sistemandosi meglio sullo zabuton. Doveva trovare le parole adatte per spiegare il piano che avevano escogitato.

 

Quando aveva fatto irruzione nella sala del consiglio, i generali erano scattati in piedi e dopo un primo istante di smarrimento avevano iniziato a urlargli contro improbi e ingiurie. Shin non aveva sentito nulla. Aveva continuata a fissare Sesshomaru, seduto a una estremità del tavolo, composto e incurante del frastuono che si era creato attorno a lui. Fissava il foglio che teneva in mano, come se potesse realmente leggere i caratteri che portava. Non aveva fatto una piega neanche quando Shin aveva insinuato la sua voce fra le molte che riempivano la stanza. Diceva di avere un piano, diceva che poteva offrigli informazioni utili; diceva che lo avrebbe aiutato, ma in cambio voleva la salvezza di sua madre e dei suoi fratelli.

 

Risate. Di scherno. Di sufficienza. I generali gli avevano concesso il loro disprezzo. Forse non si era ancora reso conto di essere un ostaggio di Sesshomaru-sama e che quello che lui offriva loro glielo avrebbero comunque strappato con la forza se necessario? Shin risentì alcune mani afferrargli saldamente i polsi e rivide un generale rotolare malamente a terra, sbattutovi da un pugno di Koga. Il giovane ookami sembrava fidarsi di lui. Non volle indagare sull’immediato il motivo, anche se un sospetto aveva preso forma nella sua mente. Veloce e dolorosa. Ovvio.

 

Approfittando del momento di sorpresa che la reazione del Principe degli Yoro aveva provocato, Shin era riuscito a raggiungere Sesshomaru. solo a quel punto il demone ava rialzato gli occhi, freddandolo. Shin si era chiesto come potessero gli occhi di un cieco essere carichi di una tale soggezione. Si era sentito schiacciare, perforare l’anima. E tuttavia aveva resistito, stoico, raddrizzando le spalle e aveva ripreso a parlare con voce ferma e determinata. La voce di un Principe.

 

La voce che, assieme alla testa del soldato, fosse arrivata anche una lettera di sfida era corsa veloce per tutto il palazzo. Morigawa era stanco di consumare le giornate nell’assedio. La sua brama di vendetta lo stava portando a dimenticare la prudenza e a considerare il fatto che ormai mancava davvero poco a far crollare il palazzo, quasi totalmente privo di viveri e incapacitato a procurarsene. Non lo aveva neanche ipotizzato. Da quando aveva avuto fra le mani quel soldato, il suo solo pensiero era stato porre fine alla guerra. Con la sua vittoria. Dapprima contava sull’esistenza di un passaggio segreto che gli avrebbe permesso di prendere il Principe alle spalle. Svanita quell’idea, aveva risolto per un’ultimo, decisivo scontro in campo aperto: tre eserciti si sarebbero scontrati, il giorno dopo nella piana a Sud-Est del palazzo. Se Sesshomaru voleva chiudere la questione, che venisse con i suoi uomini. Altrimenti sarebbe stato solo un infame vigliacco, indegno di titolo di Primo, indegno di esser chiamato Principe dei demoni. Indegno di suo padre.

 

Morigawa sapeva come muoversi, cosa stuzzicare, cosa insinuare. E le sue parole avevano sortito l’effetto voluto. Sesshomaru aveva accettato la richiesta di scontro, pregustando già la possibilità di veder rotolare nella polvere il cadavere del suo avversario. L’unica cosa da definire era come ripartire lo forze, decidere la tattica migliore da adottare e scegliere che avrebbe assunto il potere durante la sua assenza. Morigawa aveva fatto togliere l’assedio, e l’accampamento si era effettivamente spostato, ma non per questo non ci si doveva aspettare una trappola, che la sfida fosse solo un espediente per allontanare il grosso dell’esercito da palazzo e prendere l’edificio senza troppa difficoltà.

 

Shin aveva confermato ogni parola. Sapeva benissimo che suo padre, in definitiva, bramava il confronto diretto con Sesshomaru, ma non poteva permettere che per un capriccio di una mente ormai smarrita i suoi fratelli rischiassero di venir uccisi. Se Sesshomaru lo avesse portato con lui, invece, avrebbe cercato di negoziare. Vedendolo vivo, ne era sicuro, Yashi non si sarebbe mai sognato di lanciare la punta all’attacco. Non poteva garantire la resa dell’esercito, ma poteva assicurare la fedeltà di un buon numero di uomini alla sua voce e in più era da considerare il fattore sorpresa che il riapparire del principe del Kansai avrebbe suscitato. Shin non avrebbe tolto a Sesshomaru il confronto con suo padre né sarebbero intervenuti lui o i suoi fratelli. Gli chiedeva solo di cercar di evitare la strage della sua gente.

 

Sesshomaru, alla fine, si era ritrovato ad ascoltare l’ansimare sommesso del demone. Aveva dato fondo a tutte le sue forze per parlare senza rischiare di venir interrotto. E in quel momento era davanti a lui, in attesa di una sua parola. Se avesse rifiutato, cosa sarebbe successo? Non sprecò nemmeno il tempo alla ricerca di una risposta. Non gli interessava. Riportò di nuovo al sua attenzione sui presenti e gli ordinò di sedersi e spiegare dettagliatamente il suo piano. Una scelta che aveva decretato lo sconcerto e le proteste di alcuni generali, ma il Principe era stato spietato, tagliente con la sua voce inespressiva: se avevano un piano da proporre, lo facessero subito. Altrimenti, lui non era intenzionato a perder tempo con le loro lamentele futili e inconcludenti. Li aveva rimessi in riga in un istante. E Shni aveva provato una fortissima ammirazione e invidia nei confronti di Sesshomaru.

 

Alla fine, il suo piano d’attacco era stato accettato, con una sola variante voluta caparbiamente da Homoe: il Principe del Kansai non era minimamente in grado di scendere in campo. O si trovava una soluzione o Sesshomaru poteva dire addio alla carta del principe redivivo. Era stato a quel punto che Koga aveva proposto di sostituire Shin con Miroku. Il demone e il monaco si somigliavano parecchio e, con i dovuti accorgimento, l’inganno sarebbe stato credibile, almeno da lontano; inoltre il tutto sarebbe stato reso più realistico dall’odore residuo di Shin sugli abiti che l’houshi avrebbe indossato.

 

Quello era il piano: Sesshomaru si sarebbe presentato alla testa del suo esercito all’appuntamento e Miroku avrebbe cercato di intermediare con i Principi nemici spacciandosi per Shin. Forse sarebbe riuscito forse no; l’unico dato certo era che il Principe avrebbe dovuto ingaggiar battaglia con Morigawa. Era impensabile che il demone, anche se solo, anche se i suoi figli lo avessero abbandonato, rinunciasse a battersi con il figlio di Inutaisho erano quattro secoli che pregustava e pianificava la sua vendetta. Avere Sesshomaru davanti agli occhi, cieco e quindi quasi inerme, era come offrirgli la vittoria su un piatto d’argento. Perché il Principe non sarebbe sopravvissuto.

 

Alessandra aveva deglutito a vuoto alla fine. Le parole di Shin le erano scese in gola, nello stomaco, in crampi che le contorcevano l’anima, in ansia che le chiudeva il respiro. Non sentiva più nulla. Non voleva capire più nulla. Si era alzata con un gesto rigido, come se stesse trascinando con sé qualcosa di pesantissimo. Si era alzata ed era scivolata fuori dalla stanza ignorando i richiami dei suoi amici. Inuyasha le si era parato davanti un attimo prima che uscisse sull’engawa, ma alla fine era stato costretto a lasciarla andare. Nei suoi occhi aveva letto dolore, paura, angoscia. Sesshomaru non le aveva detto nulla. Aveva fatto in modo che lei non ne sapesse nulla. Le aveva volutamente nascosto quella lettera di sfida. All’ospedale, Alessandra non sarebbe mai venuta a conoscenza in fretta della proposta di Morigawa e il fatto che rientrasse sempre che il palazzo già dormiva avrebbe permesso al demone di mantenere più a lungo il segreto. Alessandra non avrebbe parlato con nessuno fino alla mattina dopo, e nessun cortigiano si sarebbe mai scomodato per informare dell’accaduto una ningen.

 

“…Perché continui a tenermi fuori dalla tua vita?...”

 

Si strinse le spalle in un abbraccio. Avrebbe dovuto essere forte, lo sapeva bene. Forte e indifferente, per fargli vedere che i suoi timori era infondati, che lei era perfettamente in grado di gestire le emozioni che quella notizia le avrebbero trasmesso. Risoluta. Fredda. Controllata. Perfetta. Perfetta com’era lui. Si morse un labbro a sangue, deglutendo due, tre volte. A fatica. Era difficile. Era dannatamente difficile. Lo sapeva. Lo aveva sempre immaginato. Lo aveva sempre visto. Qualunque cosa succedesse a palazzo, lui non la informava, non la coinvolgeva. Lasciava che si occupasse dei feriti, ma non le permetteva di avvicinarsi alla sua vita militare. Una sola concessione: quando Morigawa aveva iniziato a impiegare le granate, Sesshomaru era stato costretto ad ascoltarla, a farla entrare per un istante nel mondo militare. Alessandra lo aveva aspettato nello studio quella notte, ben decisa a rifiutarsi di coricarsi se prima lui non l’avesse ascoltata. Ascoltata davvero. Perché lei conosceva una possibile difesa, lei conosceva quelle armi e sapeva come arginarle. Come tentare almeno. Aveva dovuto cedere. L’inuyoukai aveva dovuto cedere e ascoltarla. L’unica volta che avesse parlato con lei di guerra trattandola come un generale. L’unica volta in cui Alessandra si era sentita finalmente utile. A lui.

 

Sesshomaru non parlava. Non rispondeva. Perché non l’aveva coinvolta? Non erano cose da donne, le guerre. Non era sua competenza l’intendersi di strategia militare; lei non era in grado di seguire quei discorsi tecnici e contorti Lei non doveva interessarsi di armi e battaglioni; lei non doveva sapere nulla di guerra…Lei non doveva soffrire. Lei non doveva essere in pericolo. Piegò la testa di lato. La voleva proteggere. Da tutto. E da se stesso. Soprattutto da lui. Dal demone che era, da quella parte ferina e violenta che Alessandra non aveva mai conosciuto. E che non avrebbe mai dovuto vedere.

 

Tenerla fuori dalla sua vita…Non era così. Lui non voleva affatto allontanarla, relegarla in un angolo della sua esistenza. La voleva sempre. Presente. Costante. Rassicurante. La voleva e basta. Ma non poteva dirle tutto, non poteva rivelarle le ombre della sua natura. Non poteva raccontarle delle stragi che aveva perpetrato in passato, senza il minimo rimorso, senza la più lontana esitazione. Non poteva dirle di aver ucciso in modo indiscriminato uomini e donne, vecchi e bambini solo per capriccio. Per noia. Non poteva dirle di essere morte per chiunque gli avesse attraversato la strada. Bastava che lui lo volesse, e chiunque, colpevole o innocente, periva sotto i suoi artigli. Un gesto veloce quanto il suo respiro freddo. Spietato.

 

Non poteva dirle l’orrore che lo accompagnava e per cui lui non provava repulsione. Non poteva dirle di aver avuto la violenza come amante senza neanche che la voce si incrinasse. Non poteva dirle nulla, e allora taceva e la teneva lontana. Lontana da quello che era; lontana da una parte di lui di cui era sempre andato orgoglioso, e che adesso non sapeva come mostrare. La notte che lo aveva visto uccidere per la prima volta Alessandra aveva solo sfiorato la sua reale essenza. E ne era rimastra traumatizzata. Sesshomaru ricordava nitidamente lo stato di apatia in cui era caduta, e non voleva rischiare. Non voleva ferirla. Per questo aveva taciuto. Per questo aveva cercato di nasconderle tutto.

 

Chiuse gli occhi, respirando l’aria della notte che gli arrivava con l’odore di lei. La vide: in piedi, accanto alla finestra aperta. Doveva avere il suo kimono tagliato corto e i capelli raccolti; non gli scioglieva quasi mai. Peccato. Erano belli i suoi capelli. Molto belli. Gli piaceva intrecciargli ai suoi artigli, gli piaceva percorrerli in tutta la loro lunghezza, dalle punte fino all’attaccatura per poi massaggiare dolcemente il cuoio capelluto. Gli piaceva il modo in cui lei gettava indietro la testa a quella carezza, il modo in cui le sue labbra dovevano schiudersi in un mugolio di rilassamento. Avrebbe voluto vedere la sua espressione, in quei momenti. Avrebbe voluto vedere i suoi sorrisi, i suoi occhi, la sua determinazione, le labbra arricciate da un broncio di bambina quando era offesa. Avrebbe voluto vedere le sue lacrime, e non dover immaginarle scorrere sulle sue guance. Lucide. Accecanti. Intense nell’odore di acqua e sale. Avrebbe voluto vederle, per poterle asciugare, e non doverle ricordare. Come in quel momento. Perché, lui lo sapeva bene, Alessandra stava piangendo. Silenziosa. Disperata.

 

Alessandra lo sentì avvicinarsi. Sentì la punta del suo artiglio sfiorare la stoffa dl kimono. Delicatezza. Sesshomaru risalì lungo la colonna vertebrale premendo appena l’indice per intuire lo scorrere delle vertebre. Risalì con lentezza esasperante, facendole fremere il respiro. Una smorfia leggerissima gli incurvò le labbra. Era arrivato al date-eri. Poteva scegliere: ridiscendere o continuare. Doveva scegliere. Sfiorò la base del collo, insinuando il polpastrello sotto lo scollo. La ragazza ebbe un brivido, e il respiro si trasformò. Basso, difficile, irregolare. Il suo dito era freddo, gelido. Un brivido di eccitazione.

 

Alessandra sentì l’artiglio posarsi sulla sua nuca. Dal basso verso l’alto. Un brivido intenso. La stava torturando piano. Lentamente. Con gusto. Dall’alto al basso. Il suo respiro a sfiorarle il collo, le solletica la pelle. Lo sentì. Si era chinato su di lei. Dietro. E adesso risaliva piano fino al suo orecchio, sfiorandola appena con la punta del naso, regalandole solo brividi, quasi nessun contatto. L’artiglio continuava. Malvagio. Non smetteva di percorrerle la nuca, intrecciandosi ai suoi capelli. Continuava. Il respiro ormai alto.

 

Sesshomaru sorrise. aveva incrociato un ostacolo, una massa di capelli raccolti. Spinse con lentezza l’ago crinale. Un tonfo lievissimo, e i capelli di Alessandra furono liberi. Ricaddero a coprirle la nuca, a sfiorale il collo, a nasconderle la pelle. Ricaddero sulla mano di lui. Sesshomaru li strinse, li arrotolò alle dita, lasciò che gli avvinghiassero il polso. Li rialzò in modo disordinato e li premette contro la sua testa. Lentamente. Lentamente la sua mano la massaggiava. Alessandra chiuse gli occhi. Si abbandonò a lui, reclinando appena la testa. Gli offriva la gola, le labbra lucide e socchiuse. Gli affidava il suo corpo. Alle sue carezze. A quel tocco dannatamente eccitante.

 

Un uomo. Quello che aveva alle spalle, che le stuzzicava la pelle, che le percorreva la schiena, che le respirava sul collo era un uomo. Svanito il ragazzo; mai esistito il demone. Era solo un uomo. un uomo innamorato. Lei lo sapeva. Ma lo sapeva anche lui. Sesshomaru si era accorto che, lentamente, con il passare dei mesi, le sue mani aveva perso la loro timidezza. Si erano fatte più audaci, vogliose di toccare, di percorrere quel corpo che dormiva accanto a lui. Si era accorto che il respiro della ragazza sul collo, nel sonno, non lo lasciava indifferente. Avrebbe voluto assaggiare la sua pelle, avrebbe voluto accarezzare il suo copro nudo. Avrebbe voluto la sensazione della loro pelle che si sfiora, che si tocca, che si abbraccia. L’ostacolo del kimono stava diventando una costrizione snervante. Un impedimento che avrebbe voluto abbattere. Strappare.

 

Si era accorto di desiderarla. Di volerla con un’intensità che non si sarebbe mai aspettato di poter provare. Eppure, sentiva di non volerla solamente. Non era semplice desiderio carnale. Non solo. Perché altrimenti l’avrebbe violata senza preoccuparsi di lei. L’avrebbe avuta senza possibilità che lei si ribellasse. Non voleva. Non in quel modo. Cosa voleva davvero da lei? Voleva il suo corpo, il suo viso trasfigurato dal dolore e dal piacere, voleva i suoi gemiti? Voleva sentirsi supplicare, sentirla in suo potere come doveva essere ciò che lui voleva? Cosa voleva? Cosa?!

 

Si staccò da lei, ma continuò a torturarle la nuca. Era bella la sua nuca. La ricordava bene. Aggraziata, accarezzata da piccoli ciuffi di capelli che non riusciva mai a domare del tutto. Era bella. La vedeva nitida nella sua mente. E rivedeva i suoi capelli sciolti. Li sentiva scorrere di seta fra gli artigli. Li liberò lentamente, scendendo fino alle punte e portandosene una ciocca alle labbra. Morbidi. Freschi. Umidi. Doveva essersi da poco concessa un bagno. I suoi capelli avevano ancora una leggera umidità. Conturbante. Sensuale. Eccitante.

 

Non era solo divertimento. Non era solo basso istinto. C’era qualcos’altro. Qualcosa di selvaggio e delicato. Qualcosa che gliela faceva desiderare con ogni fibra e gli impediva di prenderla con la forza. Qualcosa che lo spingeva a spiare sempre la sua espressione; ogni suo gesto, fin nel più innocente, era compiuto solo dopo che aveva sentito che non c’era timore a mescolarsi con il suo odore. E in quel momento l’odore che sentiva era di eccitazione e paura. Odore di donna e di bambina.

 

Alessandra inghiottì rumorosamente. Faceva fatica. Una maledetta fatica. Non poteva pensare che quelle sarebbero potute essere le ultime carezze che le donava. Non riusciva a immaginare il freddo del suo letto, la mancanza del suo copro. Non riusciva a immaginare la mancanza di lui. Non voleva immaginarla. Non poteva. Non era giusto. Perché doveva succedere? Perché?! Aveva già perso i suoi genitori e suo fratello. Aveva già perso se stessa una volta. Perché adesso doveva perdere anche lui? Per quale crudele gioco lui doveva andarsene? Via, lontano da lei. Preso. Rubato. Strappato. Sottratto alle sue braccia, alla sua bocca. Violentata la sua anima. Affondò le unghie nella stoffa. Lacrime sul viso. Lacrime in gola.

 

...Sesshomaru...

 

Ruvido. Freddo. Delicato. Lento. Qualcosa sulla guancia. Sulla sua guancia. Passava e ritornava. Una, due, tre volte. Si portava via il sale; si portava via la sua debolezza, il suo dolore. Le braccia si rilassarono. Svuotate. Si stesero lungo i fianchi, seguirono il contorno del suo braccio che le cingeva la vita e l’attirava a lui.

 

Ora era dietro l’orecchio, sulla carne tenera del collo, scendeva lungo le vertebre cervicali. Le zanne si insinuavano fra il rame, sfioravano appena la pelle sempre più calda, sempre più coinvolta. La stoffa scivolò sulla pelle, scoprì la spalla delicata. Spalle che troppo a lungo avevano sopportato il dolore e la solitudine. Spalle sottili, ma forti come le sue nell’affrontar il destino. Sesshomaru le sfiorò con le labbra, lasciò che i suoi capelli le solleticassero la pelle.

 

Alessandra non sa come sia successo. Un istante prima Sesshomaru era dietro di lei, che le baciava la schiena, che le saggiava la pelle con i suoi artigli. Affilati, ma inoffensivi. Premurosi. Ora eccitanti ora innocenti. Un istante prima era in piedi, gli occhi sulla piazza d’armi. Un istante prima, lui era alle sue spalle. Adesso, Alessandra era a terra, con il kimono scivolato a scoprirle le spalle e a mostrale il decolté fino all’attaccatura del seno. Adesso, lei era stesa su quei tatami che sapevano di polvere e di chiuso. Adesso, lui era sopra di lei. Il respiro irregolare, i capelli spettinati dalle mani irriverenti della ragazza. La sua bocca socchiusa, le spalle tese a reggere il suo peso. La sovrastava, la dominava. Lui sopra di lei. A petto nudo. La giacca del kimono di Sesshomaru era a terra. Non ricorda nemmeno lui quando sia scivolata dalla sua pelle. Non gli interessa ricordare quel particolare insignificante.

 

Tornò a impossessarsi delle sue labbra, delicato, ma passionale. Desideroso, ma non prepotente. Rispettoso anche se affamato. Di lei. Della sua pelle. Del suo corpo. Della sua anima. È fuoco, è forza. Brucia. Devasta. Ma non scotta. Sesshomaru non ha ancora perso totalmente il controllo. È calmo, pacato, attento. La baciò sulla bocca, scese lungo il collo, lungo la linea della gola. Scese sul petto, sfiorò la stoffa che le celava i seni. Non proseguì. Risalì fino alla spalla. Scie di fuoco. Baci e solchi leggeri che le fecero accelerare il respiro, che le velavano la pelle di sudore. Alessandra sentì le mani del demone sui fianchi. Le sentì insinuarsi nell’incavo della schiena e risalire lungo la stoffa. Le sentì stringerla al petto di Sesshomaru, forte e delicato. Odore di pelle, odore di uomo. Il torace prestante schiacciava il suo seno. Le mani bramose si infilavano nelle ampie maniche. Sesshomaru la brama. Sesshomaru la desidera. Lo sapeva. Lo sentiva. Lo vide. Nell’ombra che gli velava lo sguardo.

 

Il demone si fermò all’improvviso. Qualcosa di strano. Di sbagliato. Sollevò la manica sinistra del kimono scoprendo la fasciatura. Garza, lino. Stoffa sotto gli artigli. Stoffa che gli sottraeva la sua pelle. Stoffa che celava la sua pelle profanata. Sentì la collera montare, sentì il sangue affluire vorticoso al cervello, sentì formarsi un ringhio sordo nella sua gola e le zanne stridere per non urlare. Non se ne era accorto. Quando si era precipitato al campo, dopo l’esplosione della granata, non si era curato di verificare che non fosse ferita. Aveva sentito la sua voce imporsi sul caos, aveva sentito i suoi ordini secchi sovrastare urla e grida concitate. L’aveva sentita viva, e il pensiero che fosse ferita non lo aveva minimamente sfiorato.

 

Sfiorò con le dita la fasciatura appena velata di un alone rossastro. Sentiva l’odore lievissimo del sangue. Il suo sangue. Un odore che non avrebbe più voluto sentire. Un odore che non doveva sentire. In un lampo, la rivide davanti a , una mano stretta al petto. Una mano graffiata dai suoi artigli. Occhi bassi. E una supplica nella voce. Sesshomaru sentì lo stomaco contrarsi. Sentì male. E le piantò in faccia i suoi occhi vuoti, come se potesse guardarla. Come se, tenendo ferme le iridi opache, il viso della ragazza potesse emergere dal nulla che vedeva. Rabbia; colpa; dolore; tristezza; desiderio. Era consapevole che i suoi occhi erano velati di qualcosa che non avrebbe mai creduto di poter provare. Qualcosa che razionalmente lo disgustava, ma che lo accendeva di vita se solo si soffermava un istante su quel pensiero. E il disgusto diventava solo un’eresia formulata da una mente troppo abituata a giudicare solo secondo parametri demoniaci. Una mente vedova di affetto da molto, moltissimo tempo. Alessandra fece scivolare la propria mano sul braccio nudo del demone. Pelle fredda e tesa. Una sensazione che le toglieva la lucidità. Il polso disegnato da graffi sottili, l’incavo del braccio, il bicipite tonico. Poi la spalla dura nello sforzo di reggerlo.

 

Fronte contro fronte. Capelli nei capelli. Bocca sulla bocca. Le mani del demone le racchiusero il viso, sfiorandole la pelle con i lunghi artigli. Scesero peccaminose sul collo, si soffermarono sullo scollo; lo ignorarono; giù, lungo i fianchi fasciati dal kimono. E intanto continuava a baciarla. Con ardore e passione. Con violenza e urgenza. Sesshomaru aveva perso il controllo. Per la prima volta nella sua vita. Per la prima volta in quattrocento anni di vita, non rispondeva più di se stesso. Non riusciva a fermarsi, non voleva fermarsi. Baciarla. Averla. Voleva solo lei. C’era solo lei nella sua mente. Sparita la guerra. Dimenticato l’onore, la brama di potere, l’orgoglio. Messo a tacere anche il suo freddo e indifferente orgoglio. Scomparsa la glacialità. Adesso, c’era solo calore. Tanto. Intenso. Acceso. Calore. Fuoco. Desiderio. Passione.

 

La voleva, non riusciva a staccare il pensiero da lei. E non la odiava. Non desiderava ucciderla perchè aveva abbattuto la sua imperturbabilità; non era adirato con lei perchè aveva svelato qualcosa di troppo fragile, di troppo umano che il demone aveva relegato nei recessi più profondi della sua anima. Dimenticato.

 

Alessandra ansimò, reclinando appena la testa e accarezzando il collo del demone, che scendeva lungo l’incavo della spalla, sul petto. Si era fermato sul suo seno. Non lo aveva scoperto, ma adesso, con la fronte appoggiata sul suo plesso solare, lei lo sentiva respirare pesantemente. Respiro caldo e affaticato. Respiro d’amante. Gli insinuò timidamente una mano fra i capelli. Seta pura. Lisci. Bellissimi al tatto. Perfetti. Sentiva la testa pulsare per l’imbarazzo, il piacere. Sentiva caldo. Molto caldo. E la testa girare in preda ad una forte vertigine. Eccitazione. Eccitazione pura. Il suo respiro galoppante sulla pelle, i canini che la sfioravano appena. Qualcosa di umido a disegnarle le vene della gola, le scapole. Il suo petto nudo. La sua pelle sudata su di lei. Le sue mani che la sfioravano, che la toccavano, che la bramavano. Sempre più intense, sempre più audaci.

 

 

*****

 

 

Aria fresca.

Gli accarezzava la pelle calda e sudata. Gli rinfrescava il petto nudo, gli sfiorava il viso all’apparenza impassibile. S’insinuava nei capelli arruffati, nelle pieghe della veste svogliatamente lasciata aperta. Vento fresco. Refrigerio. Salvezza. Per recuperare anche solo un barlume di autocontrollo. Per consolidare la scintilla che gli era balenata nell’animo. Sesshomaru lo desidera. Lo agogna. Voleva solo cercare di recuperare la sua freddezza. E’ tardi, gli ripete una vocina. È irrimediabilmente tardi. E lui lo sapeva. Lo sapeva bene. Perso. Irrimediabilmente perso in lei. Stravolto. Non riusciva a restare indifferente. E allora cercò di svuotare la mente, anche se sapeva che quella partita contro se stesso era persa. Definitivamente persa. Non poteva ignorarla. Non riusciva a ignorarla. Il fruscio della stoffa era un musica tentatrice, il respiro della ragazza che si regolarizza un sadico invito. Vorrebbe sentirlo di nuovo sulla sua pelle, aritmico, spezzato, caldo. Vorrebbe di nuovo le mani di Alessandra a esplorargli il corpo, a risvegliare ogni più piccolo centro nervoso del suo petto.

 

L’accolse fra le braccia, ostentando apaticità e continuando, cocciuto, a fissare lo sguardo fuori dalla finestra. Intenso e ancora velato di passione e desiderio. I sui occhi brillavano. Rilucevano di qualcosa di violento e mai prima d’ora conosciuto. Alessandra gli sorrise: grata per l’appoggio che la sua gamba tesa le offriva; grata per quella luce intensa che gli leggeva nello sguardo. Grata perchè si è fermato. Fermato...Sesshomaru carezzò la seta degli hakama; la mano si contrasse appena, come se dovesse forzarla per trattenerla lontana dalla carne della ragazza. Lontana da quel corpo che lo aveva fatto impazzire.

 

Si era dovuto imporre di fermarsi. Ha dovuto ricorrere a tutta la sua forza di volontà per allontanarsi da lei. Ha costretto le mani a rallentare le carezze, a ridiscendere sul tatami e conficcare le unghie delle foglie di riso pur di non tornare da lei. Ha costretto il respiro a regolarizzarsi. Piano. Con estrema lentezza. Per niente facile, con il suo odore a pochi centimetri, con Alessandra che gli respirava sulla giugulare. Una sola volta, si era detto. Un solo, ultimo bacio. Le aveva catturato le labbra con forza, con disperata urgenza. E si era allontanato con estrema lentezza, continuando a immaginare il suo viso arrossato, i suoi occhi socchiusi, il piacere nei suoi lineamenti. Avrebbe voluto vederla. Avrebbe voluto gustarsi le sue espressioni. Avrebbe voluto guardarla.

 

Si era allontanato. Con falsa decisione. Con cocciuta razionalità. Non poteva averla. Non doveva averla. Non ancora. Non in quel modo e in quel momento. Doveva reprimere il suo istinto maschile, doveva mettere a tacere il suo desiderio. Non doveva e non poteva averla solo per portarsi il ricordo di una notte sul campo di battaglia. Sbagliato e ingiusto. Soprattutto per Alessandra. Doveva cercare di proteggerla in ogni modo. Non doveva permettere al suo copro e al suo cuore di aver ragione della sua freddezza demoniaca. Non poteva averla e poi lasciarla a palazzo, preda di una corte che non aspettava altro che sentire il cambiamento dell’odore della ragazza per gridare apertamente allo scandalo. Non poteva lasciarla alla mercè di demoni spietati e indifferenti. Doveva aspettare. Doveva illudersi che avrebbero avuto molto tempo, dopo quello scontro. Doveva darle quella mendace certezza. La sicurezza che lui sarebbe tornato, e che lei lo avrebbe aspettato.

 

Alessandra lo costrinse ad abbassare lievemente il viso. Glielo accarezzò maliziosa e innocente, tracciando i graffi rosa che denotavano la sua natura demoniaca. Seguì il percorso dritto del naso, il contorno arcuato degli occhi dalle sopraciglia sottili. Ridiscese lungo lo zigomo e finalmente gli accarezzò le labbra, facendogliele schiudere appena a liberare un respiro profondo mentre chiudeva gli occhi per un istante. Doveva fermarla, o poteva dire addio al suo autocontrollo e ai suoi buoni propositi. Le strinse la mano e se la portò alle labbra. Meno pericoloso. Un semplice ed eccitante baciamano, con la pelle premuta contro la guancia e le labbra che, maliziose, sono volate a tradimento a sfiorarle le dita e il dorso.

 

Alessandra rise leggera per quel gioco di sottile seduzione. Per quel modo che aveva di amarla. Si accoccolò meglio contro il suo petto e lasciò vagare lo sguardo sulla stanza. Quando vi era entrata, dopo aver vagato svuotata di ogni emozione per i corridoi del palazzo, non vi aveva neanche prestato attenzione. Le bastava aver trovato un riparo, un luogo dove poter restare tranquilla a frenare le lacrime. A contorcere l’anima. Poi, quando era entrato Sesshomaru, aveva riconosciuto solo il mormorio dei tatami musicali. L’unico elemento conscio che avesse di quella stanza. Non sapeva neanche in che ala si trovasse, ma ha giudicare dalla vista era ancora nell’edificio riservato alla famiglia del Principe.

 

Socchiuse gli occhi, respirando l’aria fresca della notte. L’odore di polvere e chiuso si era attenuato di molto. Restava un profumo di antico, di pergamena invecchiata. Dovevano essere i primi che entravano in quella stanza da molto tempo. La luna piena permetteva di distinguere le masse scure di un tansu e di un byobu. Bagliori soffusi, per la polvere e la poca luce. Alessandra risalì con gli occhi le linee severe e slanciate del paravento, su fino al soffitto, fino alle ramma arabescate di fiori e motivi geometrici. Listelle lignee sottili e mirabilmente intagliate a comporre qui motivi. Ridiscese lungo i telai delle fusume elegantemente decorate. Paesaggi sfumati in grigio e azzurro. Rupi ammantate di neve e nebbie. Vallate soffuse di inchiostro appena accennato. Un grande cane bianco si mostrava in tutta la sua potenza: pelo folto, testa fiera, occhi rossi e intensi dalla sclera blu, coda vaporosa. Affascinante. Magnetico.

 

La karakami socchiusa lasciava intravedere un’altra stanza, forse ancora più raffinata e austera. Quella tamarinoma sorprendeva per la semplice raffinatezza dei suoi arredi e delle decorazioni. Gusto femminile, senza alcun dubbio. O comunque era stata una donna ad arredarla. Una donna decisa come il grande cane raffigurato sulla parete di fronte a lei, e femminile per la delicatezza dei paesaggi. Una donna importante. Si soffermò sul rotolo del tokonoma: aki; autunno. L’unico carattere che riuscì a decifrare. La stagione in cui quella stanza è morta.

 

Alessandra sollevò lo sguardo al demone. Sembrava che l’aria della notte l’avesse aiutato a domare il desiderio, a restituire un po’ di equilibrio alla sua mente. La ragazza avrebbe voluto chiedergli a chi apparteneva quella stanza, se forse Sesshomaru aveva anche una sorella. Avrebbe voluto conoscere ogni angolo della sua mente, ogni fibra dei suoi ricordi. Avrebbe voluto conoscere un po’ di più il suo passato. Finora, aveva saputo solo che aveva un fratello e che suo padre era morto per salvare Inuyasha e sua madre. Di sua madre, Sesshomaru non le aveva mai fatto parola, di altri possibili parenti. Sembrava che tutto il suo mondo affettivo e relazionale fosse sempre ruotato attorno a lui stesso e a Rin. Esclusa ogni altra cosa. Anche Inuyasha; meglio, mai considerato.

 

“...Questa stanza doveva essere bellissima un tempo...”

 

Frase neutra. Perfetta. Per avviare pacatamente una conversazione. Per provarci almeno. Alessandra sapeva che adesso tutto dipendeva da lui. Era Sesshomaru che doveva scegliere: poteva parlare o semplicemente assentire con la testa, e allora lei avrebbe fatto cadere ogni altro tentativo di dialogo. Perchè ormai aveva imparato che lui non parlava soprattutto per un motivo: evitare di soffrire. Quando il discorso cadeva su qualcosa di personale, Sesshomaru tendeva a chiudersi su se stesso, limitandosi a monosillabi o semplici cenni del capo. A volte, lasciava anche la stanza pur di non sentirsi costretto a rispondere ad Alessandra. Se la ragazza, ingenuamente, gli domandava qualcosa che lo riguardava troppo da vicino e che era collegata con la sua infanzia, si alzava senza dire una parola e usciva. Le prime volte Alessandra si era arrabbiata, ma quando aveva cercato di fermarlo, esasperata da quel suo comportamento irrispettoso nei suoi confronti, aveva letto dolore nei suoi occhi e le sue parole erano state un sussurro strano. Innaturale. Provato.

 

“Non costringermi a risponderti...”

 

Da quel momento, Alessandra cercava di evitare qualsiasi domanda troppo personale, anche se dentro fremeva. Non era semplice curiosità, ma anche il desiderio di aiutarlo, di provare a capirlo, di alleviare un po’ quell’ombra triste in fondo ai suoi occhi. Per questo aveva imparato a porgli le domande in modo indiretto. Stava a lui scegliere se aprirsi o declinare, ma in quel modo non si sentiva costretto a rispondere. E Sesshomaru lo sapeva. Come sapeva che forse doveva iniziare a parlare con lei, che lei non avrebbe provato pietà per lui. Non lo avrebbe compatito con indifferenza. Sapeva che era il momento di parlare. Perchè, da quando era entrato in quella stanza, non le aveva ancora rivolto una parola. Non aveva risposto alle sue domande e non aveva detto nulla. Aveva lasciato uscire dalle labbra solo il suo respiro caldo e accelerato.

 

“Erano le stanze di mia madre”

 

...Ha detto erano...

 

Alessandra sentì il respiro fermarsi fra i denti e rimase immobile. La voce del demone era così distante, sembrava che pronunciare quelle parole gli fosse costato uno sforzo immenso, quasi avessero prosciugato le sue energie. Lo spiò di sottecchi. Il viso non aveva tradito un’emozione. La stessa espressione algida e distaccata, la stessa imperturbabilità. Sesshomaru non aveva mosso un muscolo, ma non era più lì. Non si era accorto che la ragazza lo stava osservando; non si era reso conto che i suoi occhi si erano incupiti, facendo trapelare una scintilla di dolore. Non si era accorto che Alessandra gli aveva passato le braccia attorno al busto, e ora premeva la sua testa sul suo petto. Non si era accorto di nulla. Sentiva solo i ricordi insinuarsi con prepotenza attraverso le difese della sua mente. Li sentiva bussare alla porta della sua coscienza.

 

Quella stanza...Illuminata. Inondata di un sole gentile e profumata di umido. Rivide il rosso accecante degli aceri, risentì il sapore di bosco e terra bagnata. La finestra di quella stanza spaziava sulla piazza d’armi, ma proprio lì accanto c’era l’ultimo tratto dei giardini provati. Con quel meraviglioso albero. Un albero infuocato. Rosso. Rosso come il sangue che macchiava il tatami. Si era morso nervosamente un labbro. Sua madre si sarebbe arrabbiata. Adorava quelle stanze e non permetteva a nessuno di rovinarle. Le custodiva come un gioiello. Non gli avrebbe perdonato di averle rovinate con il suo sangue. Di non essersi accorto della leggera ferita che aveva gocciolato a terra. Avrebbe dovuto aspettare, invece di entrare subito. Aspettare alcuni minuti, il tempo che si rimarginasse da sola e poi sarebbe dovuto entrare.

 

Rialzò la testolina arruffata sulla fusuma. C’erano brusii, voci, mugolii. Nessun urlo. E questo era ciò che non riusciva a sopportare. Non poteva capire. Non riusciva a capire. Si avvicinò alla fusuma fino a poggiarvi contro la testa. La carezzò con le mani sporche di terra e fango. Sfiorò la carta decorata e il legno. Non importava se poi sua madre si sarebbe arrabbiata. Ormai aveva già fatto un danno; anche se avrebbe peggiorato il tutto non gli importava. Voleva che sua madre lo sgridasse. Voleva la sua voce farsi fredda e tagliente. Voleva le sue parole dure. Voleva che lo fissasse con i suoi occhi freddi e magnetici. Voleva vederla.

 

Un inserviente lo prese in braccio un attimo prima che un guaritore facesse aprire le fusume per entrare nella camera da letto. Uno spiraglio. Dannatamente sufficiente. Sesshomaru vide sua madre stesa a letto, il bellissimo kimono macchiato di scuro, i capelli scarmigliati distesi sul cuscino. No. Doveva dire a qualcuno di ricomporglieli. Sua madre odiava mostrasi a qualcuno in disordine. Odiava apparire scomposta. Tese la piccola mano alla fessura. Vedeva la pelliccia bianca di sua madre a terra. Accartocciata. Il suo viso pallido e contratto in una smorfia appena percettibile. Vide suo padre che le stringeva la mano, che le baciava il dorso. E lei non reagiva, lei lo lasciava fare. Mentre attorno a loro si muovevano demoni. Molti demoni. Era sbagliato. Era tutto sbagliato. Sesshomaru lo sapeva. Sua madre non sopportava le effusioni soprattutto in pubblico. Era stata lei a insegnargli a controllarsi. Era stata lei a dirgli che un demone deve esser sempre padrone delle proprie emozioni. E adesso, invece, lasciava che suo padre l’accarezzasse e la baciasse davanti a estranei. Suo padre non lo aveva mai fatto. Conosceva bene la differenza di comportamento che teneva fra le stanze pubbliche e i sui alloggi privati. E solo quando erano soli con lui, Sesshomaru aveva visto sua madre abbandonare la rigidità del viso e sciogliersi in un sorriso, in una risata. Ridere come una ragazzina alla battuta che il marito le aveva sussurrato all’orecchio. Ridere gettando indietro con grazia la testa. Ridere mostrando i canini appuntiti, e concedergli un bacio appassionato.

 

Sesshomaru vide gli occhi d’oro di sua madre. Occhi freddi e stupendi. Occhi velati. Tremanti. Luccicanti. Non le aveva mai visto quello sguardo. Gli occhi di sua madre erano lucidi, e lui non poteva crederci. Non poteva credere che sua madre stesse per piangere. Che fosse una lacrima quella riga umida che le disegnava la guancia pallida. La fusuma si richiuse su quel viso e sulla mano che cercava di alzarsi verso il figlio intravisto.

 

Sesshomaru restò a fissare quella porta così grande. Enorme rispetto a lui. Rimase lì in piedi per ore, e poi si accoccolò vicino alla finestra. Le braccia sulle ginocchia strette al petto. Il visino tuffato nella stoffa del kimono sporco e strappato. Sentiva gli occhi bruciare, pizzicare. Sentiva la paura crescere lentamente. Era piccolo ancora, appena otto anni, ma aveva capito. Aveva capito che qualcosa non andava, che sua madre stava male. Molto male. E che la colpa era sua. Solo sua.

 

Restò immobile mentre le ore passavano. Nessuno si avvicinò al piccolo principe. Nessuno si preoccupò di rassicurarlo, di dirgli una parola gentile. Lo lasciarono solo nello strazio dell’angoscia e dell’ignoranza. Perchè era questo che gli faceva più male: essere lì, a pochi metri da lei, e non sapere come stava, non poter entrare nella sua stanza. Non poter spalancare la fusuma e correre da lei come faceva ogni mattina; vederla spazzolarsi i bellissimi capelli d’oro bianco, riporre il pettine d’osso intarsiato di madreperla; seguire i suoi movimenti che acconciavano le ciocche in modo semplice e perfetto. Gli piaceva guardarla prepararsi. Perchè, alla fine, sua madre lo prendeva sulle ginocchia per separarli a dovere la frangetta ribelle e rivelare la mezzaluna sulla sua fronte. Identica alla sua. Gli diceva sempre di andar fiero di quel simbolo, l’emblema del loro casato. La falce che contraddistingue i membri della famiglia inuyoukai. Il simbolo dell’eredità.

 

Sesshomaru sfiorò la fronte. Alla mattina, quando sua madre posava sempre un bacio sulla sua fronte, lui incrociava le braccia al petto e si fingeva offeso. Imbronciato. Sua madre gli diceva di non sopportare le smancerie, ma appena poteva con lui si abbandonava a baci e carezze. Nella solitudine delle stanze private. Non era affatto coerente. No. Non lo era proprio. E vedendo quel visetto arricciato dal disappunto, sua madre sorrideva divertita. Sesshomaru non riusciva a capire perchè mostrasse sempre due volti: la demone e la madre. Comunque, la venerava. Con suo padre, sua madre era tutto il suo mondo. Il suo solo universo.

 

La fusuma strusciò lentamente. Al rallentatore. Solo silenzio. Non riuscì a capire se era un bene o un male. Non voleva doverlo capire. Aspettò. Ancora silenzio. Sollevò lentamente la testolina. Oscurità. Notte fonda. A quell’ora, di solito, lui era già a letto; sua madre però quella volta non si sarebbe arrabbiata se aveva fatto un po’ tardi. Forse, lo avrebbe fatto dormire con lei. Perchè sparisse la paura provata. Non è dei demoni, la paura. Ma un cucciolo può ancora esserne preda, soprattutto nelle braccia della madre.

 

Inutaisho lo vide rialzare la testa. Nel buio, sembrava un fagottino abbandonato. Sembrava più piccolo e fragile di quanto non fosse. Sembrava terribilmente umano nei suoi occhioni d’oro lucidi e tremolanti. Il demone lo seppe subito: nel momento stesso in cui era riuscito a metterlo a fuoco, Sesshomaru aveva capito. Aveva saputo. Forse non avrebbe saputo dare un nome a quello che era successo, ma aveva capito che era qualcosa di grave, di irreparabile. Qualcosa che non si può cambiare, e che gli faceva male.

 

Inutaisho aveva avuto appena il tempo di inginocchiarsi, prima di stringere a il figlio. L’aver riconosciuto suo padre alla luce della luna, il leggere il dolore infinito nei suoi occhi bagnati e arrossati, l’alzarsi per correre da lui e farsi stringere erano state azioni autonome. Senza pensiero. Il corpo si era mosso d’istinto. E il bambino si era ritrovato contro il petto del padre, a strofinare la testa d’argento contro di lui, ad afferrarne con disperazione il kimono sgualcito e scomposto. A piangere. Sesshomaru piangeva e singhiozzava. Non occorreva che glielo dicessero. Lo sapeva. Dietro quella porta non c’era più sua madre.

 

Non sarebbe più andato da lei al mattino. Non avrebbe più seguito la sua tolettatura; non avrebbe ricevuto quel bacio tradizionale che tanto fingeva di detestare. Non avrebbe visto mai più i suoi occhi severi e austeri accendersi d’orgoglio per un suo risultato positivo, brillare di rabbia per una sua disobbedienza. Non più la solennità del suo incedere e la finezza di ogni suo gesto. Non avrebbe più camminato al suo fianco per il palazzo, con il portamento fiero che lei gli aveva insegnato.

 

Sesshomaru sentì la mano di suo padre accarezzargli la testa. Stringerselo al petto di più, come se potesse in quel modo proteggerlo dal dolore. Sentiva che gli sussurrava qualcosa. Parole basse e roche. Parole rotte da lacrime. Non voleva ascoltare. Non poteva ascoltare. Sentiva solo le sue lacrime. Sentiva solo il suo viso bagnato. Sentiva solo male. Tanto male.

 

Sesshomaru si portò una mano al viso, stropicciandosi gli occhi. Quanti anni erano che non ripensava a quel giorno? Quanti anni erano trascorsi da quando aveva fatto chiudere quella stanza? Proibito l’ingresso. Per chiunque. Chiusa. Sprangata. Dimenticata. Abbandonata nel fondo del cuore, relegata nei recessi dell’anima. Quanti anni erano che non pensava a sua madre? Molti davvero. Troppi anche per un demone. Per quel demone freddo e spietato che era diventato dopo che lei se ne era andata. Dopo che lei lo aveva lasciato solo a crescere.

 

Si passò la mano nei capelli, arruffandoli leggermente. La testa lievemente reclinata di lato. Un respiro. Due. Tre. Sguardo distante; lontano. Chiuse gli occhi. Rivedeva l’ovale perfetto di sua madre, dai tratti decisi e aggraziati. Risentiva la sua voce delicata e altera. Gli occhi d’oro e la mezzaluna in fronte. Le sottilissime strisce rosate sulle guance. Un capriccio della sua natura demoniaca, tanto erano impalpabili. La ricordava benissimo. In ogni particolare. Nella sua mente, nulla era mutato del fulgore accecante che sembrava portare sempre con .

 

Un sorriso gli storse malinconico le labbra. Suo padre aveva dannatamente ragione: lui le assomigliava molto. Davvero. Quasi una sua copia al maschile. Stessi occhi. stessa tonalità nei graffi. Stessa postura rigida e altera. Stessa falce di luna in fronte. Bastava che si soffermasse sulla sua immagine e la rivedeva. Gli mancava? Una volta avrebbe detto di no. Come sosteneva che non gli mancava suo padre. Sentimenti...Stupidi freni degli esseri umani. Adesso, mentre sentiva le mani di Alessandra massaggiargli le spalle tese e affaticate, cercare di stemperare la rigidità che lo aveva attraversato quando la sua mente era stata preda di quei ricordi...adesso non avrebbe più saputo cosa rispondere. Ricordarla non gli faceva male come quando era piccolo e lei era appena morta, ma non lo lasciva nemmeno indifferente. Sentiva una vena sottile di nostalgia. Di rimpianto. Di rassegnata mancanza.

 

Soffocò una lieve risata. Chissà come avrebbe reagito sua madre se si fosse presentato a palazzo con Alessandra. La immaginò dilatare le iridi in modo quasi doloroso, si figurò la sua voce fremente di sdegno represso. Non gli sarebbe stato facile convincere sua madre ad accettare Alessandra. Ad accogliere una ningen. Eppure, gli mancò. Gli mancò la possibilità di scontrarsi con lei; l’occasione di imporle la sua volontà. Rimpianse che non fosse più per poterla fronteggiare, per non poter vedere i suoi occhi fremere d’ira e il suo copro d’indignazione. Per non poterle mostrare la fierezza e la sicurezza di un figlio cresciuto. Di un figlio ormai uomo.

 

“Mia madre era una donna straordinaria”.

 

Alessandra lo fissò. C’era una nota malinconica nella sua voce e di reverenziale affetto. Sesshomaru doveva averla amata molto, doveva esser stata per lui un punto fermò insostituibile. Sapeva come si doveva esser sentito. Sapeva cosa si provasse nel rivivere ogni banale consuetudine, e accorgersi all’improvviso che tutto è passato e non tornerà più. Mai più. Alessandra conosceva il sapore amaro dell’impotenza, dell’incapacità a rassegnarsi. Sentiva ancora il nodo alla gola che ti impedisce di respirare. Lo aveva vissuto sulla sua pelle. E anche Sesshomaru. Allora, si strinse a lui, per dirgli con le azioni che lo capiva. Che lo comprendeva.

 

“Se vorrai, ti parlerò di lei”.

 

Non sapeva neanche lui perchè, ma voleva raccontarle della sua infanzia, di sua madre. Del suo cipiglio fiero e della dolcezza nascosta. Voleva che Alessandra riuscisse ad averne anche solo il barlume di un’idea. Voleva che, quando sentiva il nome di sua madre, la ragazza lo associasse ad un volto delicato e intenso. A un viso che lui non avrebbe mai potuto cancellare. Neanche volendo. Perchè lo rivedeva ogni volta che si specchiava. Non sapeva perchè, ma aveva bisogno di parlare. E dopo sua madre, forse avrebbe trovato la forza anche di parlare di suo padre.

 

Alessandra non riusciva credere alle sue parole. Lui. Lui si era offerto spontaneamente di parlare. E di qualcosa di intimo e riservato anche. Di un segreto della sua mente. Non gli rispose a parole. Gli cinse il collo con le braccia e lo baciò. Fu un attimo, e si ritrovò di nuovo a terra, i polsi bloccati dalle mani del demone, il suo sorriso pericoloso. Sesshomaru tornò a catturarle le labbra. rosse, gonfie, tumide. Labbra assetate come le sue. Labbra affamate. Doveva fermarsi subito, prima di essere sicuro di non riuscire a trattenersi. La liberò e si risistemò contro la finestra.

 

“Non voglio che tu vada”

 

Glielo aveva detto. Sapeva che non sarebbe servito, ma doveva dirglielo ugualmente. Glielo aveva soffiato in un orecchio. Terribilmente provocante. Astuta. Malvagia. Il demone sorrise non visto. Doveva divertirsi molto a provocarlo in quel modo, sfiorandogli col respiro la pelle ancora calda e vogliosa di lei, incendiandogli il fuoco nelle vene. Lo stuzzicava e poi si ritraeva. Innocente. Ingenua.

 

“Tornerò”

 

Le accarezzò una guancia con gli artigli, risalendo allo zigomo per poi proseguire verso l’orecchio, insinuarsi nei capelli e sollevarli a scoprile parte del collo. Scivolò fino alla sua nuca e l’attirò al suo petto. La strinse nell’incavo del collo, sfiorandole la fronte con le labbra, stringendole la vita in modo possessivo. Bramoso.

 

“Tornerò...e allora...”

 

Non completò la frase. La baciò con più passione di prima. Un bacio così diverso dal primo che si erano scambiati. Il bacio di un uomo. Il bacio di un demone: intenso, voglioso, passionale, dolce, delicato, rispettoso. Alessandra si strinse a lui cingendogli il collo, premendosi al suo petto. Sentiva le sue mani esplorarla attraverso la stoffa del kimono come se Sesshomaru volesse imprimersi bene nella mente il suo copro. Ogni centimetro della sua pelle. Ma sapeva anche che non l’avrebbe amata ancora. Che quel tocco incendiato era ancora razionale. Non l’avrebbe amata solo per soffocare nel piacere fisico una notte di tensione snervante, per scaricare l’adrenalina che sale con l’avvicinarsi del momento decisivo.

 

Sarebbe tornato. Glielo aveva promesso. Una sola parola. Una constatazione ovvia. Quasi una precisazione superflua. Sarebbe tornato. E allora...Allora cosa sarebbe successo? Le avrebbe parlato di sua madre? Possibile. L’avrebbe amata? Forse. Non lo sapeva. Non voleva saperlo. Solo rivederlo entrare nella piazza d’armi. Solo quello.

 

Sesshomaru non sapeva esattamente perchè glielo aveva promesso. Sapeva che era quasi un suicidio quello scontro. Sapeva che sarebbe potuto morire. Sapeva che era ingiusto darle una falsa speranza, ma lui era egoista. In fondo, era un demone abituato a concentrarsi su se stesso. E lui aveva bisogno di quella parola per avere uno stimolo in più a vincere. Sarebbe tornato. E allora... Allora cosa?...Le avrebbe raccontato di sua madre, della sua infanzia. Avrebbe finalmente avuto il tempo per decidere il nome del sentimento che li legava. Avrebbe avuto il tempo di risentire la risata allegra di Rin e il calore di Alessandra. Già...Il suo calore. Il suo corpo. Lo avrebbe risentito contro il suo. Completamente questa volta.

 

Tornerò...e allora andrò fino in fondo...In ogni cosa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parentesi

 

 

Molte scene, dunque, in questo capitolo: ben quattordici. E su più piani temporali anche. Dall’infanzia di Inuyasha al presente, al passato più prossimo fino alla memoria di Sesshomaru. Piccole scene che ho voluto costruire per voi e per i protagonisti della storia, in questo ultimo capitolo che permette loro di avvicinarsi e chiarirsi, di parlarsi come forse alcuni non hanno mai fatto. Certo, ci sono spunti e appigli; ci sono elementi che iniziano a delinearsi. Tutto rimane sospeso in istanti, ma avrà un seguito. Ve lo assicuro.

 

Un capitolo anche sofferto, perchè può sembrar pesante concentrare in una sol colpo molte rivelazioni, forti cambi di relazioni interpersonali. Il filo conduttore è quello di un erotismo sottile e di sentimenti che crescono e maturano. Di consapevolezze che si lasciano sbocciare e di ricordi dolceamari. Ma in fondo è l’amore stesso che scioglie le membra, dolceamara irresistibile creatura.  I demoni non gli sono indifferenti. Non possono essergli indifferenti, nonostante l’apparente repulsione. Che sia semplice piacere carnale o passione travolgente, che sia puro sentimento platonico o acceso desiderio di comunanza di anime, l’amore colpisce anche loro. Soprattutto loro. Perchè è un qualcosa di nuovo e bello. Di mai provato e quindi pericoloso.

 

Troppo veloce, forse. Questa può essere l’impressione. In un solo capitolo ho concentrato più situazioni equivoche e ardenti di quanto non abbia fatto in oltre quaranta capitoli. Non è un fatto casuale, un accorgersi in ritardo di dover aggiustare le narrazione e rimediare in modo veloce. É stata una vera scelta. Perchè è adesso che tutto è a un passo da precipitare. É adesso che siamo sul confine: dopo una granata che ha colpito il cuore del palazzo; prima dell’ultimo scontro da cui Sesshomaru e altri potrebbero non tornare. É un sentimento che esplode con violenza, che non accetta di nascere e crescere lento per poi rassegnarsi a perdersi senza possibilità di ritorno. É un amore che non accetta il rimpianto, che non può vivere di rimpianto. E non si vergogna ad ammetterlo. É egoismo. Perchè in definitiva l’amore è anche egoismo. Una forma distorta, lontana dal cinismo e dall’egocentrismo, ma pur sempre egoismo. Dolce. Violento. Delicato. Prepotente. Il desiderio della felicità. Propria e altri. Il desiderio di un ricordo.

 

Ayame e Koga. Prima scena. Vi ho ingannati. Ho giocato sulle illusioni, sul fatto che la yasha e Alessandra condividono il simile colore dei capelli e che la scena riprende una in cui i protagonisti erano Sesshomaru e la ragazza. Troppo facile, però. E la suspance verrebbe a cadere. No. Non Sesshomaru, ma un altro demone comunque. Koga. Come lui, simile al Principe fino a non molto tempo prima. Un demone che è cambiato per amore, che per l’affetto nutrito verso Kagome si è messo in discussione. Koga è orgoglio, è forza selvaggia, è istinto; ma è anche passione, dolcezza, calore. É il principe di cui Ayame si è innamorata bambina e lui lo sa e sa anche che ormai non può più allontanarla. Non vuole allontanarla. Ayame gli chiede solo una notte, una notte d’amore per conservare un suo ricordo. Non le importa se poi lui se ne andrà, se poi lui la lascerà per anni o forse per sempre. É disillusa. Non nutre più sogni. Culla solo ricordi. Crea già ricordi per un futuro che non sa ancora come sarà. Lo plasma lei nella sua mente. Per non soffrire. Come il copione di una recita.

 

Ayame recita. Vorrebbe almeno. Recita la parte dell’amante disinibita, della ragazza facile che cede per passione. Però sa che non se ne vergognerà mai. É pronta a tutto purchè, per almeno una notte, Koga abbia solo il suo nome sulle labbra. Abbia solo lei nella mente e nell’anima. Perchè la abbia. Sa che fra loro ci sono differenze. Sa che lui è l’ultimo erede della loro stirpe. Non le importa. Non vuole saperlo. Vuole ignorarlo. Perchè soffermarsi su quel pensiero le farebbe troppo male. Koga conosce la sua posizione, ma non ne approfitta. Non può farlo. Averla e poi trattarla come l’ultima delle concubine. Sa di essere incapace con le parole. Sa di non averle mai detto nulla di romantico. Sa di aver solo goduto di lei senza darle certezze. Senza permettere certezze e speranze a se stesso.

 

Koga non parla. Non ne sente il bisogno. Perchè è l’istinto a guidarlo. E l’egoismo. Perchè sarà per quel suo amore che lui considera maledetto, deliziosamente maledetto, che morderà Ayame. Che la sposerà a . Un legame antico e ferino. Un ordine del corpo, della mente e dell’anima. Un qualcosa di necessario, per tornare a vivere.

 

Koga ormai vive nel presente. E nel futuro. Inuyasha no. Inuyasha non può. Continua a ondeggiare fra passato e presente. Continua a ricordare. Ed ha la consapevolezza al contempo del suo cambiamento. Tre donne. Nella seconda scena sono tre le donne che visitano i pensieri del nostro hanyou. Loro, e il calore del loro abbraccio. Di ciò che Inuyasha non ha mai ricevuto da suo fratello. Non necessariamente un abbraccio fisico, ma neanche metafisico.

 

Prima Izayoi. L’infanzia di Inuyasha è ridotta a poche immagini di cellulosa, e mi sono divertita a immaginare altri particolare, altre piccole situazione. Sono ancora accenni, ma in futuro diverranno racconti più estesi. Soprattutto quando i nostri due fratellini dovranno confrontarsi sulle loro esperienze infantili. Perchè, in effetti, negli anni, Sesshomaru e Inuyasha parleranno. Forse a modo loro, ma parleranno. Soprattutto infittiranno la loro conversazione nei primi capitoli della seconda parte. E Sesshomaru vedrà con i suoi occhi, proverà sulla sua pelle cosa significa sentire la parola mezzodemone e il dolore che porta con . Lo capirà, e suo fratello lo aiuterà a sentirlo e a cercare di superarlo.

 

Izayoi, e poi Kikyo. Due donne del passato. Due ricordi belli e malinconici. La madre e il primo amore. Perchè Inuyasha ha davvero amato Kikyo. Amore platonico, ma comunque acceso di forza e passione. Kikyo...Lei è stata la diversità in anni di grigia rassegnazione. La prima simile a sua madre. Ma Kikyo era una sacerdotessa, non una donna. E forse non sarebbe mai riuscita ad amarlo davvero per quello che era. Amava il ragazzo, ma non il demone. Quello era il problema. Quello era il conflitto. Il demone. La natura di Inuyasha, che il ragazzo ha sempre avvertito pesante e opprimente. Che ha sempre detestato e amato. Perchè, anche se lo ha fatto soffrire, gli ha regalato emozioni che lo facevano sentire vivo. Vivo. Anche nella consapevolezza dell’errore; anche nella coscienza che lui era sbagliato, e le avrebbe fatto solo del male. Ma a lei non poteva rinunciare. Non poteva tronare alla solitudine dopo aver conosciuto il calore di un sorriso e di un abbraccio. Gli bastava il poco che Kikyo gli poteva dare. Gli bastava la sua vicinanza.

 

Ma Kikyo è morta. Per lui. Due volte. Due. E lui non ha mai potuto far nulla per evitarlo. Mai. Il lutto c’è ancora. Lento. Lento. Inuyasha inizia piano ad accettare di aver sbagliato, di averla lasciata sola. Accetta la sua colpa senza sentirsene schiacciato. Perchè lui l’ha amata, e per lei era pronto a tutto, ma adesso non è Kikyo il presente. Adesso è Kagome.

 

Kagome. La nostra amica è dovutoa crescere. Velocemente come sono precipitati gli avvenimenti. E si è accorta che il mondo di Inuyasha non è una realtà onirica e bella. Ma è sangue, dolore e morte. Lo ha visto con i suoi occhi, lo ha sentito sulla sua pelle, lo ha sentito dentro di . Fin nel profondo. E ha avuto paura. Paura di non tornare più indietro. Paura di non riuscire ad andare avanti. C’è solo lei. E le sue emozioni. Non sente Inuyasha. Non sente nulla. La granata è esplosa, e l’unica cosa che la scuote sono i conati di vomito per l’orrore. Non vede null’altro. Non sente null’altro. Neanche Inuaysha che le stringe le spalle e serra gli occhi. Annichilito dal dolere che per causa sua sta vivendo.

 

Kagome. Kagome che trema, che si smarrisce. Che ritorna ad essere quella di sempre. Solo più adulta. Solo più consapevole. Kagome che costringe il nostro mezzodemone a reagire, a essere lui a consolarla, a essere lui a sostenerla. E quando la fuga le è offerta, lei non tentenna. Sa cosa vuole: lui. Anche se questo significa il dolore e la morte. La sofferenza. Vuole lui. E resta con lui. Con  un Inuyasha che si sta accorgendo di quanto lei sia cambiata, che la sta guardando come non ha mai guardato neanche Kikyo. Kagome è una donna. La donna che lui ama. Sta crescendo la ragazza, ma sta crescendo anche lui.

 

Inuyasha che osa, che prova, che difende. Che inizia a fidarsi. Inizia davvero ha sapere cosa significa avere amici su cui contare. Amici cui non interessa la sua natura, ma solo quello che pensa e che ha nel cuore. Amici che erano nemici, e che resteranno compagni. Come Koga. Perchè è a lui che affida la cocciutaggine di Kagome, perchè è a lui che si rimette. In tutto e per tutto.

 

Ma Inuyasha, in questo capitolo, è anche malizioso. Gioca. Gioca come non lo abbiamo mai visto fare. Con le parole, con i sottintesi, con le ambiguità; gioca con candore e malizia. Gioca come un ragazzo che d’ingenua ha solo la faccia. Gioca e protegge. Perchè qui il velo cade. E lui per primo lo vede scivolare a terra. Alessandra. Alessandra gli parla. Gli rivela quello che intercorre fra lei e suo fratello. E Inuyasha è felice. Felice per lei, e per Sesshomaru. Triste solo di non potersi congratulare con lui. E’ felice, ma sa anche che non sarà mai facile. E per questo si ripromette di proteggerla sempre. Lì dove suo fratello non può arrivare, nel peso di esser additati come diversi dai demoni.

 

Proteggere Alessandra. Dai demoni e da Miroku. Soprattutto da miroku, in questo capitolo. Il monaco cerca di approfittare della situazione. E della sua abilità retorica; Alessandra però non  si lascia ammaliare. Conosce il peso delle parole; lo ha imparato da Sesshomaru. lo conosce  e gioca. Gioca con la voce, con i significati. Seduce. E non se ne rende nemmeno conto. Ma Miroku sì. Lui è esperto, lui capisce. E avverte il sottile gioco civettuolo che Alessandra ha creato, cui si è adeguata senza nemmeno averne coscienza. Perchè Alessandra, anche se non lo dimostra, è profondamente insicura, soprattutto nella sua natura femminile. Nel suo essere donna. Mortifica se stessa in abiti dal taglio maschile e anonimi. Certo, la situazione contingente non offre occasione per sfoggiare vestiti di gala, ma ogni scusa è buona per sottrarsi all’attenzione. Anche semplicemente l’ostinare a tenere raccolti i capelli. Scioglierli è un rischio, è come se mostrasse meglio che lei è donna e quindi si svelasse. No. I capelli non vanno sciolti. E’ accaduto una volta, e Sesshomaru l’aveva quasi baciata. Accade anche alla fine di questo capitolo, e Alessandra si scioglie, assieme alla sua acconciatura. É donna, e accetta le attenzioni del demone che ama.

 

Sesshomaru. Il Principe ha fatto breccia, è riuscito ad avvicinarla, ma non è stato affatto facile. Come per Inuyasha. Alessandra non ha superato ancora del tutto il trauma. Forse non lo supererà mai e continuerà ad essere diffidente. Ma di certo l’esser toccata è una repulsione che non l’aiuta. Toccare, sfiorare, abbracciare. Se lei subisce l’azione, è perchè è debole, esposta. E quindi pericoloso. Allora reagisce, e schiaffeggia Inuyasha. Come aveva colpito Sesshomaru. Di riflesso. Per rabbia, paura, dolore. Disperazione. Alessandra non sopporta il contatto fisico, ma quando lo concede dà anche la fiducia. Totale.

 

Dopo che Inuyasha l’ha toccata, gli rivelerà il suo segreto. Dopo che l’ha curata, si instaurerà fra loro un rapporto di complicità. Un legame importantissimo, perchè sarà a quella complicità che Alessandra farà appello in futuro; sarà per l’affetto fraterno che li lega che riuscirà a convincere Inuyasha al silenzio. Sarà perchè rivede in Inuyasha un fratello simile a quello che a perso, simile a Leone, che Alessandra accetterà di mostragli le sue lacrime. A lui solo, oltre che a Sesshomaru.

 

Ma questo sarà. Adesso...adesso semplicemtne la menzogna è caduta fra loro, ma non per gli altri. Inuyasha dovrà reggerla. E deve proteggere Alessandra. Dal contatto fisico. Dal suo rifiuto a lasciarsi andare. Può solo proteggerla; lo sa. Inconsciamente, ma lo sa. Solo Sesshomaru può aiutarla a vincere la paura. Solo lui potrebbe.

Non ci saranno Inuyasha Sesshomaru. Quando Alessandra avrà davvero bisogno di esser protetta, quando mani estranee percorreranno il suo corpo, lei potrà solo chiudere gli occhi e inghiottire lacrime. Illudersi. Che ha toccarla sia il Principe, e che tutto finisca in fretta. Molto in fretta. Ignorando le parole e il respiro sconosciuto.

 

Ma questo accadrà. Sarà. Il presente...Il presente è, appunto, questo capitolo. Con un’altra coppia. Possibile, almeno. Shin e Homoe. Forse ve la aspettavate tutti. Forse durerà. Forse no. É difficile dirlo. Homoe...Homoe non ha risposto al bacio, ma poi ha accarezzato il corpo del demone. E non come fa un medico, ma una donna. Certo. Scontato. E invece no. Perchè Homoe ha un segreto. Qualcosa che le fa male al cuore. Soprattutto, inoltre, è l’ultima della sua stirpe, e nel Giappone medievale i matrimoni sono combinati, per creare alleanze a mantenere domini. Kumamoto potrebbe accettare Shin? A voi immaginarlo.

 

Amore...Anche negli ultimi due paragrafi. Erotismo e sensualità. Alessandra e Sesshomaru. Il demone trema, ha paura. E per la prima volta si scopre a sua volta umano. Perchè Sesshomaru è più sensibile di quanto lui stesso sappia, ricordi. La ama, vorrebbe amarla. E si ferma; si trattine facendo violenza a se stesso. Alessandra resterà a palazzo e lui deve impedire che qualcuno possa ferirla. Anche solo con il sospetto. Deve custodirla. Come custodisce il suo passato. I ricordi di sua madre. Schizzi che ho tracciato velocemente, ma che con il tempo assumeranno sempre più una passato e un futuro.

 

Al vostro affetto e alla vostra gentilevva.

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Capitolo 44
*** 44. TRAPPOLA ***


CAPITOLO 44

A chi, anche da lontano,

ha saputo essermi

vicino.

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 44

TRAPPOLA

 

 

“Manterrai la promessa?”

 

Yaone sorrise, indugiando con lo sguardo sulla fiammella che andava estinguendosi. Sorrise appena. Quasi con rassegnazione. Con malcelata ironia. Sorrise socchiudendo gli occhi. Una smorfia di malinconica aspettativa. Una promessa...Era riuscito a strapparle quella promessa. Maledettamente snervante. Avere finalmente in mano quello che aveva desiderato, cercato per anni...e non poterne usufruire. Vincolata. L’aveva obbligata al giuramento. E ancora non si fidava.

 

Si passò una mano alla base del collo, risalendo lentamente verso la nuca. Su su fino agli aghi di madreperla e argento che le fermavano i capelli ormai scomposti. Strinse di più la base del collo, massaggiandosela leggermente con i polpastrelli. Gettò indietro la testa, rilassando le spalle provate e liberando un sospiro. Scocciato. Esasperato. Deluso. Rassegnato.

 

Non era possibile definire quel respiro. Non era mai stato possibile delineare con esattezza cosa passasse nella mente della yasha. Enigmatica. Proteiforme. Ti sorride accondiscendente, finge di ascoltare ogni tua parola, di sorbire ogni tuo pensiero...e all’improvviso sei tu, ad esser avvinghiato nella sua rete. Stretto. Intrappolato. Catturato. Dal suo sorriso astuto. Dai suoi occhi inquieti. Dalla sensualità del suo indice che le accarezza il contorno delicato del mento quando sta pensando.

 

Yaone è come la sua alchimia: complessa, inafferrabile se non per spruzzi che ti bagnano appena. Instabile. Può reagire in ogni istante, ma è impossibile prevedere l’esatta natura della sua reazione. Pericolosa, affascinante, ammaliatrice, suadente, mortale...Inclassificabile. Yaone non accettava definizioni. Non voleva costrizioni di nessun genere. Da sempre. Da quando l’aveva incontrata la prima volta, nei corridoi di un’antica scuola. Un cucciolo di demone che saltellava vivace nelle stanze austere, incurante di etichette e rigore. L’espressione curiosa che le aveva visto dipinta sul viso di fronte alle eleganti e complesse decorazioni della carta di riso l’aveva sorpreso. L’aveva seguita nella sua escursione proibita, in stanze precluse agli allievi, attraverso i giardini tinti di oro e rosso, nei laboratori riservati ai discepoli più anziani. L’aveva vista soffermarsi con attenta curiosità sulle ampolle soffuse di tenui luminescenze; studiare con occhio quasi critico l’intensità delle fiammelle accese sotto gli alambicchi; sollevare con due mani un pestello di legno, scuro e pesante. Yaone aveva riso. Stringendosi al petto quel pestello, aveva iniziato a ridere e girare su se stessa. Contenta. Entusiasta. Appagata. Sembrava perfettamente a suo agio in quel laboratorio tetro e pregno dell’odore di mille composti.

 

Quanti anni erano passati, da quel giorno? Da quella prima volta che l’aveva avvicinata, afferrandola senza tante cerimonie per un braccio e trascinandola via prima che uno dei maestri la sorprendesse. Non avrebbe saputo dire neanche lui perchè lo avesse fatto. Gli era venuto naturale. Spontaneo. Forse per innata complicità cameratesca, forse per inconscio desiderio di protezione verso una compagna più giovane e ancora inesperta delle severe regole. Una smorfia gli stiracchiò le labbra secche. Aveva agito d’impulso, e ne era nata una corsa a perdifiato per i corridoi della scuola, un nascondino estenuante in ogni anfratto, in ogni ombra che incontravano. Prima di fermarsi davanti ai corridoi dei dormitori, con il fiato corto e una voglia irrefrenabile di ridere. Avevano dovuto premersi le mani sui sorrisi per non scoprire.

 

Il sorriso di Yaone...Il Sensei lo ricordava bene. Ingenuo e infantile. Curioso. Assomigliava molto al sorriso della bimba umana che viveva nel palazzo di Sesshomaru. La stessa sicurezza nella vita; la voglia di conoscere e scoprire; la sensazione di poter osare perchè, comunque, voltandosi, ci sarebbe sempre stato qualcuno alle spalle, pronto a sostenere e aiutare. Il Sensei lo sapeva bene: per anni aveva guidato Yaone, ne aveva fatto la sua protetta, la sua piccola allieva come lui amava chiamarla. L’aveva messa a parte delle spiegazioni e delle lezioni che i maestri riservavano a loro allievi più grandi; l’aveva seguita nei suoi progressi e spronata quando era sul punto di rassegnarsi. L’aveva costretta a non arrendersi mai, a stringere i denti e rialzarsi sempre, per quanto dolorosa potesse esser stata la caduta.

 

Anche adesso, Yaone aveva bisogno di lui. Per non cedere alle sue false speranze, alle sue sbagliate illusioni. Aveva già sbagliato una volta, chiudendo gli occhi davanti al suo progetto. Credeva che scherzasse quando gli aveva confidato di voler provare a ottenere quella che chiamava la conoscenza. Aveva sorriso scuotendo la testa al suo ambizioso progetto. Sapeva benissimo che era attratta dalle arti umane. Sapeva che adorava mescolare i composti e ottenere risultati strabilianti senza far nessun affidamento sulla sua youki. Ma quell’idea proibita, la voglia di scoprire il connubio fra chimica e arti demoniache, di infrangere il tabù...quello che lui aveva creduto il delirio di un momento si era rivelato l’anticamera della condanna di una vita.

 

Ashitaka non riusciva a perdonarsi di non averla fermata allora. Di non esser stato con lei in quel maledetto momento, a fermare quella mano stretta su un pugnale. Aveva solo potuto vederla sorridere in modo strano davanti al consiglio degli anziani. Le vesti discinte e imbrattate di sangue; i capelli scarmigliati. Aveva visto quel sorriso quasi di scherno e il rilucere innaturale dei suoi occhi. Occhi di due colori. Yaone aveva dato lo smeraldo di un suo occhio in cambio di un qualcosa di quasi divino.

 

“Niente inganni, Yaone”

 

Non questa volta. Non lo avrebbe permesso. Tollerato. La vide annuire e poi voltarsi verso di lui con una smorfia di malcelato disappunto. C’erano momenti, come quello, in cui gli sembrava di tornare indietro nel tempo. Secoli indietro. Ad una stanza di studente. Ad un tempo in cui Yaone gli sorrideva in quel modo, indispettita per un suo rimprovero. Stiracchiò a sua volta le labbra. Era felice di aver potuto condividere con lei quei mesi. Di esser riuscito a salvarla come non aveva fatto secoli prima.

 

In corpo di Yaone, adesso, era caldo, e nelle sue vene il sangue aveva ripreso a scorrere. La sospensione del tempo era finita. Aveva ripreso a vivere. Probabilmente, il segno sul seno non si sarebbe mai cancellato, ma ormai non aveva più importanza. Sarebbe rimasto quale spettro di secoli vissuti in un limbo di rassegnata e frustrante impotenza.

 

Non era stato affatto facile convincere Sesshomaru a incontrarsi di nascosto, una sera di mesi prima. Il Principe non si fidava molto del Sensei. Anzi, non si fidava praticamente di nessuno. Un atteggiamento che non aveva di certo ereditato dal padre. Ashitaka ricordava benissimo la fiducia quasi eccessiva che Inutaisho dava a chi lo circondava. Ma la sua era stata un’altra infanzia, con altre persone al fianco, con altri maestri. Nessuno dei suoi figli, aveva dovuto riconoscere il Sensei, aveva avuto un’infanzia serena. Il maggiore pressato da una corte che continuava a sbattergli davanti i successi e la forza di un padre pressochè assente e vedovo di ogni più piccolo affetto. Il secondogenito costretto fin da subito a confrontarsi con la realtà del rifiuto cui la sua origine ibrida lo costringeva. Se il Sensei non biasimava, a differenza di molti altri demoni, la scelta del suo allievo di rischiare anche la vita pur di salvare la donna che amava e il figlio che ne aveva avuto, tuttavia non riusciva proprio a capire il motivo che aveva spinto Inutaisho a trascurare il suo erede. Sesshomaru era cresciuto solo. Senza amici, senza genitori, senza il più piccolo gesto di affetto. Nelle rare occasioni in cui si erano visti, Inutaisho gli aveva confidato più volte di essere preoccupato. Il Principe stava crescendo fiero e potente, ma non c’era modo di avvicinarlo. Rifuggiva il contatto fisico come un disonore; condannava un sorriso o una risata come la peggiore delle umiliazioni.

 

Inutaisho riconosceva di esser colpevole del fatto di averlo abbandonato ai precettori, e che quando si era accorto dell’errore commesso era forse troppo tardi. Sesshomaru era diventato un estraneo. Un ragazzo taciturno e introverso con cui era quasi impossibile conversare. Era diventato molto simile alla madre. A com’era prima del matrimonio con il Principe dell’Ovest. Quando i pochi sorrisi che le percorrevano le labbra erano di sprezzante superiorità. Un’armatura dura e impenetrabile, ideale per proteggerla e affermare la forza dell’unica erede del regno di Nishi.

 

Sesshomaru aveva esasperato quell’atteggiamento. Ne aveva guadagnato in rispetto fra i demoni, ma non avrebbe mai ottenuto l’approvazione del padre. Ashitaka se ne era accorto. Il giovane Principe rincorreva l’esempio del padre come se ne fosse ossessionato. Per lui che aveva visto Inutaisho crescere e diventare lo splendido generale e il superbo Principe che tutti conoscevano, Sesshomaru era un libro aperto. La postura delle spalle, la fermezza del viso, i movimenti precisi e letali, la durezza dello sguardo nelle situazioni critiche, il fascino malinconico e solitario. Il Principe cercava in tutti i modi di ripercorrere le impronte paterne, senza accorgersi di quanto già gli assomigliasse e condannando le differenze che lo avrebbero reso davvero, in linea teorica, più potente del padre.

 

“Sesshomaru-sama non era molto contento di accogliermi”

 

Yaone sorrise alla smorfia del Sensei. In effetti, quando si erano incontrati fuori dal palazzo, mesi prima, Sesshomaru non l’aveva uccisa subito probabilmente solo per un recondito istinto. Altrimenti, non si sarebbe di certo fatto sfuggire l’occasione di eliminare l’alchimista del suo nemico. Aveva ringhiato in modo pericoloso quando aveva saputo che era stata lei a fornire a Naraku il composto che lo aveva accecato, e ce n’era voluto perchè accettasse di ingoiare quello che poteva essere l’unico rimedio.

 

Un sospiro stizzita. Nonostante il tempo passato, Sesshomaru continuava a restare cieco, e il suo antidoto non sortiva effetto alcuno. Tuttavia, nonostante il pessimo biglietto di presentazione, Sesshomaru l’aveva accolta al suo seguito, assegnandole un incarico in ambito medico. Con la ferma consegna di obbedire all’archiatra di corte senza possibilità di discutere sulla questione.

 

In effetti, all’inizio Yaone ammetteva a se stessa che l’idea di lavorare come sottoposta di una ningen non l’aveva entusiasmata. L’unica nota positiva sarebbe stato il fatto che finalmente avrebbe potuto vedere in faccia la donna che aveva saputo fronteggiare il suo composto. Si era aspettata una ragazza boriosa e arrogante per la posizione ricoperta. Era rimasta piacevolmente sorpresa di doversi rapportare con una ragazza modesta e pronta ad imparare da lei, riconoscendole una maggiore competenza e preparazione. Yaone si era accorta che, fra i demoni presenti, lei era l’unica che Alessandra trattasse con rispetto. I guaritori di corte le obbedivano, e lei era sempre corretta nei loro confronti, una fredda cortesia, ma era palese che non aspettavano altro che un suo passo falso. E Yaone odiava gli arrivisti.

 

Per questo si era subito schierata con Alessandra. Seguendo l’istinto. E quel cuore che adesso pompava sangue. Perchè l’accordo era stato quello: un fendente di Tenseiga in cambio di quello che sarebbe potuto essere l’unico antidoto. Nessuna garanzia che funzionasse, almeno nell’immediato, ma la sicurezza che, se davvero esisteva un composto capace di ridare la vista al Principe, altri non era che quello.

 

“Scenderai in campo con lui, Ashitaka?”

 

Il Sensei annuì, mentre un sorriso gli storceva le labbra. Morigawa era una faccenda che lo riguardava più di quanto avesse mai lasciato intuire al Principe. A palazzo, solo Kumamoto sapeva realmente il peso di quello che aveva fatto più di quattrocento anni prima. Si passò una mano sul viso scarno e rinsecchito dal tempo. Era ridicolo! Lo chiamavano con quel titolo altisonante, si era ritrovato nella situazione di far la predica a Yaone per aver infranto un divieto atavico, era indicato come uno dei più grandi demoni ancora viventi e in realtà lui per primo portava dentro di sè un marchio infame. Lo aveva fatto a fin di bene, ma una legge violata rimane violata.

 

“Saresti pronto a morire per espiare quella colpa?”

 

Yaone giocherellava con un pestello, indecisa se riprendere il suo lavoro o continuare quella conversazione. Alla fine, afferrò il piccolo mortaio di legno e iniziò a battere. Con rabbia. non le importava nulla del fatto che avesse commesso il suo stesso errore. Lui lo aveva fatto per il bene di tutti, non per egoistico interesse. Non le importava un accidenti che il suo onore si fosse infangato. Si vive benissimo anche senza, maledizione! Ma non era mai riuscita a inculcarglielo nella testa. E sull’onore il Sensei aveva fondato parte dei suoi insegnamenti.

 

“Sarò pronto ad accettare ciò che accadrà”

 

“Testardo fino alla fine. Gli anni non hanno giovato alla tua cocciutaggine”

 

Era un rimprovero, esasperato e stanco. Inutile combattere con lui. Partita persa. Ashitaka aveva deciso che per ristabilire se stesso doveva affrontare Morigawa. Sconfiggerlo senza ricorrere, questa volta, alla corruzione della youki con l’alchimia. Sconfiggerlo e basta. A qualsiasi costo.

 

 

*****

 

Sciocchezze.

Ecco cos’era tutto quel ridicolo, convenzionale rituale. Solo un pesante, inutile, contorto insieme di sciocchezze. Una fissazione partorita dalla mente nei secoli passati, solo un barlume di facciata. Solo inutili sciocchezze. Fastidiose. Tediose. Deprecabili.

 

Gli avevano sempre dato fastidio. Non era mai riuscito a cogliere il loro senso, la loro utilità. Un lento, continuo, snervante affaccendarsi ad ottenere la protezione divina. Il favore degli dei. Ridicolo. Gli dei...agli dei non importa nulla della loro vita. Certo, ne può accettare l’esistenza, ne percepisce il respiro nel mondo che lo circonda, accondiscente che possano popolare il cielo. Per il resto, li ignora. Come loro non si curano di lui. Non avrebbe senso, curarsi dei demoni. Sono così simili e al contempo così lontani. Gli dei sono l’armonia, l’ordine, l’equilibrio, la luce. Gli youkai sono il disordine, il caos, l’oscurità.

 

Un sorriso gli storse le labbra, mentre faceva ricadere sulle spalle l’asciugamano umido. Aria fresca e saporita di ortensie. Albeggiava appena. Si gustò il tepore lieve dei primi raggi che gli carezzavano il viso. Non gli era mai importato della realtà che lo circondava. Era ovvia. E benchè lui non fosse eterno, la lunghezza della sua vita gli consentivano di non indugiare sulle malinconie del tempo che scorre. Il rimpianto della vita che si consuma è dei ningen. É la loro esistenza ad essere labile, rapida come il battito d’ali di una farfalla. Insignificante. Sopratutto se paragonata alla sua vita. Al suo tempo.

 

Sono i ningen a rincorrere certezze, a costruire rituali apotropaici e haniwa di terracotta per fissare il tempo e storcere il buio dell’angoscia. Gli ha sempre compatiti. Con superiore indifferenza. Lui basta a se stesso, non abbisogna di ricercare conferme o smentire fantasmi notturni. Lui esiste. Punto. Conosce la sua forza, è capace di calibrare la sua potenza. Controlla un territorio che copre quasi tutto Nihon, domina sui demoni come già suo padre prima di lui. Lui è. Questa è una certezza. La sua più grande sicurezza. Perfetto, fiero, orgoglioso, capace, potente, sicuro...

 

...incompleto. Sesshomaru si concesse un sorriso di scherno. Quella parola gli suonava strana. Non aveva mai soppesato la possibilità che gli potesse mancare qualcosa. Qualcosa che suo padre sembrava conoscere e che lui stava scoprendo per qualcosa di diverso da quello che aveva sempre ritenuto. Si era sempre considerato superiore a qui sentimenti che animano i ningen. Li aveva disprezzati, classificandoli come facili punti di debolezza su cui far leva per ferire e colpire. Non ne aveva mai avuto bisogno. La sua potenza smisurata era sempre bastata, concedendogli il privilegio di non abbassarsi mai all’inganno. La mente acuta calibrava ogni azione senza costringerlo a ricorrere a espedienti che gli risultavano fastidiosi.

 

Amore, dolore, passione, tristezza, anche il semplice desiderio carnale... bisogni non necessari, come lo erano il nutrirsi e il riposare. Da appagare sporadicamente per concedersi una distrazione, una piccola rottura nella normalità della sua vita. Un fluire certo e diritto, privo di qualsivoglia deviazione. Per nulla in grado di riscaldare la sua pelle, di far accelerare il suo respiro. Di perderlo.

 

Eppure...eppure, qualcosa era successo. Qualcosa di simile ad un incantesimo, che lo aveva avvinto con fili sottili, capaci di stringersi attorno a lui con sadica, malinconica, languida lentezza. Qualcosa che lo faceva infiammare di collera e bruciare di desiderio. Qualcosa che aveva costretto il suo cuore ad accelerare il suo battito, che aveva cosparso di sudore il suo corpo, che aveva acceso di passione i suoi occhi spenti. Irrazionalità. Abbandono. Annullamento. Violenza. Brama. E anche consapevolezza e ...paura. O un sentimento che poteva avvicinarsi a quello che lui credeva la paura. No. Meglio. Doloroso stupore. Come quello che aveva provato quando si era accorto della dipartita di suo padre.

 

Aprì e chiuse le mani. Gli sembrava di sentire ancora sotto gli artigli la morbidezza delle forme di Alessandra, il fruscio della stoffa, la sottigliezza dei suoi capelli. L’aveva stretta come mai prima di allora, l’aveva baciata, toccata, desiderata con una forza, con una voglia che non credeva che avrebbe mai potuto provare. Considerava impossibile per lui anche solo elaborare la volontà di volere una donna. Una schiavitù della carne da cui si proclamava orgogliosamente immune.

 

Le labbra di Alessandra, invece, erano state la perdizione, il suo respiro nelle orecchie eccitante, le sue mani sul suo corpo gli avevano strappato brividi intensi, più profondi dell’adrenalina che lo percorreva prima di un confronto degno di questo nome. Alessandra...i suoi denti fragili, il suo seno morbido, il pulsare veloce della giugulare sotto il tocco dei suoi artigli, l’ansimare contratto e il suo profumo. Quell’odore di acqua che aveva sentito in lei fin dalla prima volta. Un profumo che non era un’essenza distillata ad arte, ma che era sua. L’odore del suo essere umano. L’odore dell’essere donna. Un afrodisiaco innocente e intenso. L’odore della sua pelle, mescolato a quello del sudore e della trepidazione. Odore di donna che viene desiderata, stuzzicata, bramata.

 

Si passò la lingua sulle labbra, schiudendo appena la bocca. Un movimento lento e seducente. Lo stesso che aveva imparato a concedersi dopo che la baciava. Un tentativo di catturare meglio il suo sapore, di imprigionare a sè la sua bocca. Gli sembrava di risentirle quelle labbra morbide e carnose, bagnasi sempre di più, inaridirsi e poi tornare umide. Eccitanti. Dannatamente eccitanti. Se non fosse stato per la guerra incombente, se non fosse stato perchè...Non lo sapeva bene neanche lui, il perchè. Non riusciva a capirlo. Si ostinava a non volerlo capire. Accettare. Sapeva solo che in quel momento qualcosa, nella sua testa, dentro di lui, gli aveva detto: fermati. E lui aveva ubbidito. A fatica. Con molta, estrema fatica. Ma aveva ubbidito. E si era ritratto da lei. Doveva ringraziare la sua consueta abitudine nel dominare istinti e moti dell’animo. Perchè si era accorto di volerla come mai prima di allora, e che, probabilmente, se non fosse stato per il suo autocontrollo e la sua educazione, avrebbe per la prima volta lasciato libera la sua parte più istintiva. Più passionale. Più...umana.

 

Scrollò le spalle con eleganza, e riprese a frizionarsi i capelli ancora leggermente umidi. Alessandra gli aveva fatto qualcosa. Qualcosa che lo attraeva e lo impensieriva. Tuttavia, sapeva anche che non lo infastidiva, e che non aveva intenzione di sciogliere qualsiasi laccio la ragazza gli avesse gettato addosso. Almeno, non prima di averne realmente capito la natura.

 

Curioso. Non lo avrebbe mai pensato, ma era curioso. Voglioso di capire, interessato a comprendere. Voleva saper perchè la vicinanza di Alessandra lo tranquillizzava; perchè i suoi baci erano capaci di accendere ogni nervo del suo corpo, infiammandogli le vene e facendogli bruciore la mente. Voleva scoprire cosa lo spingesse verso di lei, verso quella che, in definitiva, non era altro che una semplice, insulsa ningen. In nulla dissimile da mille altre che aveva incontrato nel corso della sua vita, che erano morte sotto i suoi artigli senza un motivo valido. Senza una spiegazione che andasse oltre il semplice fatto che avevano incrociato la sua strada.

 

Ningen, donne, ragazze...Le aveva uccise incurante delle loro lacrime, infastidito dalle loro urla acute che gli avevano ferito l’udito sottile. Le aveva viste riversarsi a terra, la bocca congelata in un urlo privo di voce, gli occhi inesorabilmente vuoti. Aveva visto i loro corpi nudi, i seni floridi o cadenti, la pelle avvizzita o tonica, i ventri morbidi o sformati dalle numerose gravidanze. Le aveva viste. E le aveva ignorate. Come se davanti a lui ci fosse stato il nulla. I corpi di quelle donne non gli avevano procurato nessuna emozione, nessun brivido di macabra eccitazione. E nemmeno quelli delle demoni. Nessuna, fra le yasha degli altri Clan, aveva mai attirato l’attenzione del Principe. Le aveva incontrate poco e nelle occasioni ufficiali, avvolte in magnifici kimoni della stoffa più pregiata, pudiche e remissive come conviene ad una donna quando si mostra ad un uomo, e al contempo aveva visto balenare nei loro occhi l’orgoglio della loro razza d’appartenenza. La sicurezza della propria superiorità demoniaca. Nulla. Nessuna sensazione, nessuna emozione.

 

Aveva dormito stringendo fra le braccia Alessandra, aveva accarezzato e assaggiato il suo corpo, l’aveva baciata e fatta gemere. Il corpo della ragazza, il suo pudore, la sua ingenuità, il contatto anche solo con la stoffa che la avvolgeva erano più eccitanti e coinvolgenti do ogni altro contatto, di ogni qualsivoglia concessione. Un lampo nella memoria. Sesshomaru ricordò una notte di pochi anni prima. Una notte di estate, una delle rare che aveva trascorso a palazzo. Un ritorno inaspettato, inatteso anzi. Il Principe non è solito rientrare quando la stagione è particolarmente propizia agli spostamenti. Ciononostante, Sesshomaru ricordava perfettamente che, alla sera, quando era rientrato nei suoi alloggi, lo attendeva nella tenue luce di una andon una yasha. Bellissima e fiera nella sua sfrontata e provocante nudità. Aveva sperato di diventare l’amante del Principe e forse, un giorno, la sua consorte. Erano stati i cortigiani anziani a fargliela trovare nel letto, con il preciso scopo di avere finalmente in mano un’arma per meglio controllare quel Principe inavvicinabile e orgoglioso. Non avevano ottenuto altro che irritarlo. Sesshomaru aveva gelato la yasha con uno sguardo di sufficienza ed era uscito dai suoi appartamenti. Era ripartito il giorno dopo, all’alba.

 

Non gli era interessato il piacere carnale. Non si era mai curato di nulla che non suscitasse la sua attenzione, e anche in quel caso erano momenti veloci e difficili da cogliere. Attrarre il Principe era impresa estremamente difficile. Sesshomaru amava il confronto, la battaglia, l’adrenalina dell’azione che però sfuma troppo rapidamente in battaglia. É arduo sedurlo con le movenze del corpo, con la floridezza dei seni e la morbidezza dei fianchi. Labbra carnose e occhi bramosi non hanno mai avuto presa su di lui. Sesshomaru è consapevole che nulla ha mai smosso la sua parte maschile, la sua parte istintiva. Nulla, prima di Alessandra.

 

Scoprì i canini appuntiti. Un ringhio, o un sorriso di sfida. Non avrebbe neanche lui saputo dirlo. Era...eccitante. doveva confrontarsi con un nemico che, probabilmente, era l’unico capace di tenergli testa. Se stesso. Si era scoperto animato da differenti sentimenti, da volontà che cozzavano fra loro. Fino a quella sera, si era semplicemente lasciato investire dagli eventi, assecondandoli senza neanche rendersi conto fino a che punto stava entrando in lui un qualcosa di sconosciuto.

 

Alessandra era importante. Di questo era certo. Il punto era un altro. Cosa voleva dire quella parola: importante. Perchè lo sfidava, non si piegava? Sbagliato. Erano mesi che, se si incontravano nelle stanze pubbliche, Alessandra si rivolgeva a lui con una deferenza che non gli aveva mai usato, aggiungendo il suffisso onorifico al suo nome. Gli aveva provocato...qualcosa come di disagio. La prima volta che lo aveva sentito, pronunciato con una voce che suonava così forzata, artificiosa, falsa alle sue orecchie, era stato tentato di dirle di smetterla. Non lo sopportava. Perchè? Era normale che tutti si rivolgessero a lui in quel modo. Nemmeno Rin aveva mai messo in discussione quell’appellativo. Perfino Kumamoto, che si permetteva un rapporto anche meno formale, che svicolava dal rigido cerimoniale, era pronto a ristabilire le distanze se solo si formava il sospetto che al Principe non era portato il dovuto rispetto. L’ossequio gli era proprio e, ammetteva a se stesso, lo aveva irritato non poco, all’inizio, il fatto che Alessandra si ostinasse a dargli del tu. Allora aveva preferito non replicare; la ningen, come la chiamava, gli serviva per Rin. Ma in seguito...In seguito il sentirla pronunciare il suo nome in quel modo era diventata un’ovvietà. Un malinconico ricordo. Una sensazione forse piacevole. Anche se non lo avrebbe mai accettato.

 

Lasciò scorrere la mano sulla manica del braccio sinistro. Nonostante fossero passati già dei mesi, le capacità sensoriali erano ancora minime. Faticava a distinguere le sensazioni che gli arrivavano come ovattate. E quel fastidioso formicolio non accennava a passare. L’unica nota positiva era che il braccio aveva assunto un certo calore. Lontano da quello del resto del corpo, ma almeno non era più freddo come all’inizio. Lo mosse, sincerandosi di nuovo che ne era in possesso. Aveva provato più volte a sostituirlo, e alla fine non gli era più importato. Era comunque in grado di esprimere la sua forza anche menomato.

 

Adesso, però, il braccio gli era stato restituito, e tremava al solo pensiero di poter di nuovo stringere Alessandra. Scosse la testa. Aveva sperato che il bagno che aveva dovuto prendere lo aiutasse a ritrovare la lucidità. La trepidazione per uno scontro può giocare brutti scherzi, anche a lui, che da sempre misurava la sua vita sulla forza e sul duello. Aveva accolto quell’obbligo quasi come una liberazione. E, avvolto nei vapori termali, aveva lasciato vagare i pensieri, cercando di elaborare e rivedere la strategia decisa in precedenza. Non era del tutto persuaso che il piano di quel nemico, di Shin, avesse successo, e gli risultava decisamente sgradevole il pensiero di aver dovuto ricorrere all’aiuto di quel ningen, di quel monaco. Tuttavia, Sesshomaru sapeva quando era il caso di domare il suo orgoglio e di accondiscendere con superiore freddezza. Quasi non gli fosse offerto aiuto, ma fosse lui a concedere che gli fosse dato.

 

Alla fine, però, nonostante i suoi sforzi, la sua mente lo riportava sempre ad Alessandra. E a quelle sensazioni che gli erano esplose dentro all’improvviso. Era stato cosciente del fatto che, con il tempo, qualcosa in lui si era formato, qualcosa che non capiva da dove avesse origine e che si intestardiva nel non voler indagare. Ma poche ore prima, lo sapeva bene, aveva perso il controllo come mai si era aspettato che potesse accadere. Corrugò più volte la fronte, aggrottando le sopraciglia sottili. Fastidio. Un tremendo fastidio. Che davanti a lui, in lui, si scatenasse qualcosa che non riusciva a comprendere, a domare, stuzzicava la sua poca propensione alla pazienza.

 

Sbuffò appena, concedendosi quel piccolo sfogo nella sicurezza di essere solo. Se li concedeva di rado, quando era certo che nessuno lo stesse osservando. Non gli era concesso mostrare un tentennamento, un attimo di debolezza, di stanchezza, se la poteva chiamare così. Lui doveva sempre essere perfetto e intoccabile, inavvicinabile. Era quello che si era sempre prefissato, quello che gli era stato insegnato e di cui era andato fiero. E adesso, inspiegabilmente, iniziava ad andargli stretta. Claustrofobia. Quasi i panni che indossava da secoli fosse divenuti all’improvviso troppo stretti. Costrittivi.

 

Strappò dalle spalle l’asciugamano con uno schiocco secco. Avrebbe avuto tempo per districare quella confusione che gli irritava la mente. Tempo per capire e provare molte cose. Tempo per avere Alessandra e scoprire, finalmente, cosa gli aveva fatto. L’avrebbe avuto, questo era certo. Appena tornato vincitore dallo scontro. Dei festeggiamenti che ne sarebbero seguiti non gli importava nulla. L’avrebbe presa e trascinata nelle sue stanze con la forza se avesse opposto resistenza. La voleva e non le avrebbe permesso di sottrarsi. Questa volta, niente avrebbe potuto e dovuto impedirgli di capire se quello che sentiva era solo giovanile, normale in definitiva, desiderio fisico o se...se...c’era qualcos’altro. Qualcosa che lui non ricordava di aver mai provato.

 

Sì. L’avrebbe avuta. Ad ogni costo. Le avrebbe afferrato i polsi, l’avrebbe premuta sul futon, l’avrebbe baciata, avrebbe gettato lontano quel maledetto kimono dal taglio maschile, le avrebbe sciolto i capelli, l’avrebbe...Sorrise. Tristemente. Scernendosi di se stesso. Quelli erano solo pensieri. Sbagliati. Insensati. Perchè sapeva benissimo che, per quanto la desiderasse, se Alessandra si fosse mostrata contraria o anche solo impaurita, se non l’avesse sentita pronta, lui si sarebbe fermato. Lui non l’avrebbe costretta. Avrebbe potuto, ma inspiegabilmente sapeva che non l’avrebbe fatto. Era un atteggiamento che era nato in lui lentamente, e che aveva riservato solo a lei. Senza senso. Senza un vero perchè. E lo infastidiva non avere le risposte.

 

Avere Alessandra. Non era facile. Significava mettere in conto l’ostilità della corte. Significava considerare la reazione che i suoi subordinati avrebbero avuto e il pericolo cui sarebbe stata esposta la ragazza. Per se stesso, non aveva nessuna preoccupazione. Se solo avessero provato a sfidarlo, gli incuti sarebbero morti immediatamente. Senza esitazione. Perchè nessuno può azzardarsi a opporsi al suo volere.

 

Il problema, in fondo, era uno solo. Nessuno si sarebbe lamentato se avesse avuto un’amante umana. Non ne sarebbero stati entusiasti, ma non avrebbero nemmeno avuto reali motivi per opporsi. Gli eventuali problemi si sarebbero potuti sopprimere in fretta e lo spauracchio che potesse avere dei figli bastardi da un’eventuale amante erano dissipati dalla consapevolezza della sua repulsione per tutto ciò che non fosse di sangue puro. L’odio che nutriva verso il suo fratellastro era una prova più che sufficiente.

 

Alessandra, però, non sarebbe mai diventata la sua amante. Non lo avrebbe mai voluto lei, e lui stesso, lo sapeva bene anche se non voleva afferrarne le reali motivazioni, non lo avrebbe mai permesso. Alessandra non era mai stata e non sarebbe mai divenuta la sua amante. La voleva la suo fianco, voleva esser certo della sua presenza al castello, e sapeva che avrebbe dovuto trovare una soluzione. Qualcosa che la rendesse indispensabile. E non solo a lui. Non avrebbe potuto far reggere la scusa dell’archiatra ancora a lungo. Yaone si era messa al suo servizio, e la disparità fra la yasha e la ningen era spesso evidente. Palese.

 

Arrotolò l’asciugamano attorno al braccio. Basta. Ci avrebbe pensato. Adesso, la priorità era metter fine a quella dannata guerra. Era chiudere i conti con Morigawa e dimenticarsi dell’ombra di suo padre. Liberarsene sarebbe stato impossibile, ormai lo sapeva. Per prima cosa, però, doveva eliminare il problema del Principe del Kansai. Gli aveva arrecato già troppi guai, e causato una cecità che ormai non sembrava più avere soluzione. S sarebbe vendicato anche di quello. Naraku era il primo responsabile di quanto gli era successo, ma sfogarsi a quel proposito anche con Morigawa sarebbe servito a sfogare tutta la rabbia che aveva dentro. E la ferocia in battaglia, la fredda, letale ferocia che lo aveva sempre caratterizzato era la sua arma migliore per sfogare la carica di morte e distruzione che lo avvolgeva.

 

Ansimare sommesso. Qualche piccolo gemito. Sesshomaru si fermò davanti alle sohji chiuse. Il suo udito non poteva ingannarlo, e quelli erano proprio lamenti. Sussurrati, soffocati. Ingenui. Delicati. Infantili. Fece scorrere la porta sul telaio. Non era la prima volta che sentiva Rin lamentarsi nel sonno, ma era passato molto tempo da quando Rin aveva fatto un incubo. Nonostante l’assedio continuo che ormai durava da quattro-cinque mesi, la bimba si era sempre addormentata abbastanza serena nel duo futon, sotto la guardia vigile di Kiba.

 

Il lupacchiotto, appena riconobbe Sesshomaru dall’odore, smorzò il ringhio leggero della gola e riabbassò il capo sonnacchioso. Sapeva che il Principe non voleva far del male alla sua padroncina, e sapeva che la bimba gli era molto legata. Nei pomeriggi che il cucciolo aveva trascorso con lei, Rin aveva intrecciato più volte coroncine di fiori. Tante. Una per ogni suo amico. E una era sempre riservata all’inuyoukai, benchè Rin non lo vedesse quasi mai e sapesse per certo che non l’avrebbe mai indossata. Non importata. Rin la faceva sempre, per poi lasciarla sul tavolino nello studio privato di Sesshomaru-sama. Le bastava che il suo signore la pensasse anche solo così.

 

Kiba si stiracchiò pigramente, concedendosi un grande sbadiglio e rotolandosi meglio nelle coperte. Arrivò vicinissimo al corpo di Rin e le leccò piano una manina. Non gli piaceva quando la sua padroncina aveva gli incubi. Piangeva e di muoveva nel sonno, girando la testa da una parte all’altra. Sudava e si dimenava. Più di una volta l’aveva vista svegliarsi terrorizzata e allora lui le si accucciava in grembo e si lasciava stringere forte. Rin soffocava i singhiozzi nella sua pelliccia, assieme al nome di una persona per lei importantissima.

 

Sesshomaru sedette accanto al futon. Rin non smetteva di agitarsi. Ansimava e si arrotolava nelle coperte, preda di un incubo. Della più grande delle sue paure. La sera prima, il Principe si era recato nella stanza della bimba per augurarle la buona notte. Un comportamento davvero inusuale, almeno per quanto riguardava gli ultimi mesi. Nemmeno prima Sesshomaru degnava di apparente attenzione Rin, ma almeno, alla sera, le rivolgeva il suo sguardo indecifrabile. E Rin si addormentava con il sorriso sulle labbra, sicura che se avesse fatto un incubo ci sarebbe sempre stata una mano pronta a raccogliere la sua per tranquillizzarla. Non aveva mai visto Sesshomaru-sama avvicinarsi a lei e stringerla per consolarla; conservava solo il ricordo confuso di una percezione. Sicurezza. Ed era certo che fosse dovuto all’inuyoukai.

 

Quando Rin aveva visto Sesshomaru-sama entrare nella sua stanza aveva gettato via le coperte ed era corsa ad abbracciargli una gamba. Era strano. C’era qualcosa di strano in quella visita inaspettata. Di stonato. Lo sapeva Rin, ma ne era cosciente anche il demone. La bimba non rideva, non lo tempestava di domande. Non faceva nulla. Si limitava a stringere la stoffa degli hakama e a premere sempre di più la testa contro la sua gamba. Stava piangendo. Non sapeva neanche lei perchè, ma aveva voglia di piangere. Un desiderio fortissimo. Irrefrenabile.

 

“Perchè volete lasciare Rin sola, Sesshomaru-sama?” aveva pigolato fra i singhiozzi, stringendo ancora di più la presa. Non sapeva il motivo, ma quella visita le suonava tanto di addio, di abbandono, di solitudine. Sentiva che c’era qualcosa che non andava, che non era come le altre volte. Sesshomaru-sama era andato in battaglia molte volte, ma non si era mai recato a salutarla per quello. Il demone, invece, adesso era davanti a lei, impassibile, insensibile alle sue lacrime e ai suoi singhiozzi.

 

Sesshomaru aveva aspettato che il pianto di Rin si placasse, che i singhiozzi diventassero flebili e che le lacrime trascinassero con sè le forze della bambina. Solo allora le aveva posato una mano sulla testa, in una carezza un po’ rozza e imbarazzata, prima di prenderla in braccio e depositarla nel suo futon. Non lo aveva mai fatto. Non si era mai preoccupato di mettere realmente Rin a letto. Glielo ordinava, e la bimba eseguiva. Avrebbe potuto farlo anche in quel momento, ma qualcosa dentro di lui gli aveva urlato di tacere e stringere quel corpicino stanco.

 

Rin gli aveva gettato le bracci ala collo. Non voleva lasciarlo andare. Non voleva che uscisse dalla sua stanza. Non le era importato che il demone si arrabbiasse per esser toccato, perchè lo abbracciava. Non le era importato se l’avrebbe sgridata, se l’avrebbe schiaffeggiata. Andava bene lo stesso. Le sarebbe andato bene tutto, purchè Sesshomaru-sama non se ne andasse. Invece, il Principe l’aveva stretta forte e cullata come Rin non ricordava avesse mai fatto. Mostrandogli una gentilezza, un affetto che solitamente teneva ben celati nel suo cuore. Rin avrebbe voluto che cantasse quella canzoncina che le gli aveva sentito mesi prima. Era bello sentire la voce di Sesshomaru-sama intrappolata in parole inusuali. Era molto bello.

 

Sesshomaru non aveva parlato. Aveva avuto timore che Rin avrebbe colto l’inflessione roca, spezzata, della sua voce. Aveva avuto timore che si accorgesse di quello che provava. L’aveva fatta addormentare, e poi aveva trovato Alessandra nelle stanze di sua madre. Aveva trascorso con lei alcune ore, riaccompagnandola nella sua camera alla fine. Anche se la voglia di portarla nei suoi appartamenti, nel suo letto, era stata forte. Troppo forte. E adesso era di nuovo seduto accanto al futon di Rin. A immaginare il viso della bimba arrossato e bagnato da lacrime. A ricordare i capelli perennemente spettinati e le mani troppo piccole per riuscire ad afferrare qualcosa di più grande di un suo dito.

 

Sesshomaru si voltò verso le shoji che aveva lasciato aperte. Il silenzio innaturale lo tranquillizzava. Finchè non avesse sentito risuonare gli horagai risuonare nell’aria, poteva illudersi che il tempo si dilatasse e lui poteva concedersi un attimo di debolezza. Di quell’arrendevolezza che gli risultava, con irritazione fasulla, così necessaria.

 

Si sdraiò accanto a Rin e l’avvicinò al suo petto, avvolgendola nelle sue braccia e permettendo ai suoi capelli di sfiorarla e coprila come un velo. La sentì agitarsi ancora per u po’, prima di abbandonarsi al calore rassicurante che sentiva. La percepì cercare la sua mano in un gesto di inconscio desiderio di sicurezza e protezione. Rin strinse un dito del demone, avvicinandoselo al petto come se volesse custodire quell’attimo di intimità, di famigliarità, che il suo signore le concedeva. Si rannicchiò di più contro di lui, mentre la mano di Sesshomaru era scivolata nei suoi capelli, in una carezza continua. Sesshomaru non vide il leggero sorriso che arcuò le labbra della bimba, mentre le faceva scivolare nelle orecchie la melodia di una nenia antichissima. Non vide il sorriso di una bimba che ormai lo vedeva come un padre.

 

 

*****

 

 

Alessandra.

Ne percepì l’odore fresco, femminile. E non gli piacque. Non era pronto a incontrarla. Non così presto; non di nuovo. Non con ancora nella mente le sensazioni di poche ore prima, e il fresco dell’acqua sulla pelle. In quel momento, seppe che il bagno che aveva fatto non gli era servito a molto. Lo aveva rilassato, ma bastava solo l’odore della ragazza a risvegliare in lui qualcosa di istintivo e passionale. Qualcosa che non sapeva come giostrare, e che non era sicuro di poter controllare.

 

Sesshomaru si era aspettato di trovare un attendente. Kumamoto o forse un semplice subordinato. Chiunque. Non avrebbe avuto importanza. Ma non lei. Lei vicino alla mado, lei che si volta e gli sorride in modo strano, con una punta di rossore che la renderebbe ancora più desiderabile se l’inuyoukai la potesse vedere. Lei che veste quel suo solito kimono dal taglio maschile, con i capelli raccolti e l’assenza di ogni elemento prettamente femminile. Lei che cela la sua natura umana, che cerca di apparire sicura e impeccabile, che si ostina a rasentare una perfezione che non possiede solo per lui. Perchè nessuno possa rimproverargli il fatto di averla portata a palazzo, perchè lui non debba preoccuparsi, perchè lui resti intoccato da voci e dicerie velenose.

 

Sesshomaru richiuse lentamente la fusuma alle sue spalle. La stanza dell’armatura. Dove si è mostrato remissivo per la prima volta, dove le ha chiesto scusa. Non riesce a capire perchè è lì. Sa solo che è pericoloso. A momenti deve arrivare qualcuno che lo aiuta nell’indossare la corazza che è stata di suo padre. Perchè ha scelto di vestire quell’armatura per l’ultimo scontro. Ha rifiutato l’idea di indossare la sua abituale corazza e ha optato per quella paterna, più pesante e complessa, ma anche più spettacolare. Sarà ben visibile da lontano, da ogni parte del terreno di scontro. I suoi uomini sapranno che si sta battendo con loro, in prima fila. E Morigawa lo avrà sempre davanti agli occhi. Assieme ai fantasmi che quell’abbigliamento portano con sè.

 

Non lo entusiasma l’idea. Vestire la corazza di suo padre, dei suoi antenati non lo alletta per nulla. Rievoca ricordi molto spiacevoli. Ha dovuto indossarla una sola volta, duecento anni prima. Il giorno in cui è salito al trono del suo Clan. Ricorda ancora nitidamente il senso di claustrofobia, di pesantezza che le vesti e il metallo gli avevano trasmesso. A quel tempo, la corazza era troppo grande per lui. Era stato costretto a tenerla ferma con un complicato sistema di cinghie che gli avevano legato i movimenti. Togliersela era stata una liberazione. Ma quello che non era mai riuscito a scrollarsi di dosso era il ricordo di suo padre, l’ombra della sua figura.

 

Socchiuse gli occhi. Non aveva tempo per pensare. Non aveva più molto tempo. La piana decisa per lo scontro distava alcune ore di marcia, e l’esercito si stava già allineando nella piazza d’armi in attesa di essere passato in rivista. Prima della battaglia. Sesshomaru sapeva che a breve sarebbe uscito dalla porta del suo palazzo, sapeva che vi avrebbe lasciato all’interno una bambina che gli aveva regalato sorrisi e aveva addolcito gli spigoli della sua anima dilaniata. E sapeva anche che avrebbe lasciato una donna senza averla amata. Che avrebbe corso il rischio di non vederla più senza prenderle qualcosa che il suo corpo desiderava. Il calore di quell’abbraccio, la perdizione di quelle labbra. Per la prima volta in vita sua, nonostante la consapevolezza della sua forza, il Principe si sentiva insicuro. Scendeva in battaglia senza la consapevolezza se sarebbe tornato vincitore. Non aveva mai messo in dubbio la sua vittoria; l’annientamento di Morigawa era un dato certo nella sua mente. Eppure, in quel momento, si accorse che davvero la cecità avrebbe potuto essere il peso decisivo sui piatti della bilancia del suo futuro. Per la prima volta, lo sfiorò il pensiero di non tornare. Che sarebbe potuto morire in quello scontro. Non da solo; Morigawa sarebbe caduto con lui, ma il suo cervello elaborò velocemente la possibilità che per abbattere il nemico il suo corpo sarebbe dovuto divenire preda dei suoi artigli e del suo furore.

 

D’altro canto, su chi avrebbe potuto contare per elaborare una strategia diversa? Non c’era più tempo, e comunque, anche se ce ne fosse stato, non era da lui ricercare l’aiuto di qualcuno. Di chi, poi? Koga e Kumamoto erano suoi alleati, ma non si sarebbe mai abbassato a chieder loro appoggio in battaglia. Fare affidamento sul Sensei era del tutto inutile. Appariva e spariva come vento, inconsistente nelle sue decisioni, evanescente. Sarebbe stato capace di accompagnarlo fin nelle fauci di Morigawa per poi lasciarlo lì. Abbandonato a se stesso, solo per un capriccio di una mente troppo imperscrutabile. Irritante l’idea di potersi appoggiare al ningen che sarebbe andato con loro. Eresia.

 

Chi gli restava, allora? Se ci fosse stato suo padre, almeno. No qualcuno gli restava. Qualcuno che aveva sbraitato come un ossesso nel sapere che gli era impedito di prender parte ad uno scontro con Naraku; qualcuno che gli aveva urlato contro rabbia e forse anche delusione. Frustrazione e impotenza. Qualcuno che aveva perso pazienza e contegno davanti alla corte e a lui come il Principe non aveva mai fatto. Qualcuno che, per un istante, un solo istante, aveva destato in lui una specie di malinconica invidia. Qualcosa di assolutamente disdicevole e irritante. Inuyasha.

 

Sesshomaru era cosciente che solo con lui avrebbe potuto attuare un attacco combinato, ma eliminato l’idea appena si era formata. Non avrebbe mai permesso al suo fratellastro, all’onta che infangava l’onore suo e di suo padre di scendere sul campo al suo fianco. Lo aveva tollerato fin a quel momento, aveva, in certe occasioni, assunto nei suoi confronti un atteggiamento che lui stesso riusciva razionalmente a spigare, ma non gli avrebbe mai messo in mano la possibilità di insinuarsi ancora di più nella mente dei veterani. Avrebbe estirpato le voci che paragonavano suo fratello al padre alla radice. Precludendogli lo scontro con quello che era il suo più acerrimo nemico. Quasi a sottolineare che un dannato hanyou non sarebbe mai riuscito a sconfiggerlo. Per rimarcare la sua potenza di demone puro. E perchè, in definitiva, Naraku era un argomento che lo riguardava da vicino. Aveva cercato più volte di servirsi di lui, lo aveva coinvolto suo malgrado nei suoi intrallazzi cervellotici, aveva avuto l’ardire di pretendere di usare lui. Sesshomaru. Principe dei demoni. Gliel’avrebbe fatta pagare. Cara. Carissima.

 

Mancanza. La sensazione di esser stato privato di qualcosa lo ricondusse alla realtà. Inclinò la testa di lato, aggrottando appena il viso. Alessandra era davanti a lui. le mani della ragazza erano scivolate all’ hanhaba obi del suo yukata. Sciolto. Con lentezza esasperante, con gesti audaci. Lo stava ripiegando sulle mani. Una fascia di cotone, sottile, bianca. Risaltava nettamente contro l’indaco della stoffa. Alessandra lo rigirò fra le mani per tutta la sua lunghezza, prima di lasciarlo cadere sul tavolino laccato.

 

Appoggiò le mani sul petto del demone, lasciandole scorrere lungo il lino fino a risalire alle sue spalle, premendo sulla stoffa in modo eccitante, sfiorando i muscoli nascosti e la pelle ancora leggermente umida per il bagno. Socchiuse gli occhi quando Sesshomaru le accarezzò il viso con il dorso della mano. Lasciò che le esplorasse le gote, gli zigomi, le labbra. reclinò la testa sul suo petto quando la mano raggiunse la sua nuca, accarezzandola in modo maledettamente seducente. Gli schiuse le braccia attorno al collo mentre i capelli ricadevano sciolti sulla sua schiena e le braccia del Principe la catturavano, stringendola possessivo al suo corpo.

 

Alessandra assaporò il respiro di Sesshomaru fra i suoi capelli, l’eccitazione di mani che la esploravano con bramosia sempre maggiore. Il volto del demone che scendeva lungo il suo, fino al collo, alitandole all’orecchio, sulla gola, affondando nell’incavo del collo. Non lasciò che le denudasse le spalle. Gli sollevò in viso e lo baciò con forza. Con rabbia. Con desiderio. Non poteva perderlo. Non voleva che andasse a combattere. Voleva che restasse con lei. voleva che la stringesse fra le braccia e l’amasse. Voleva risentire il suo respiro eccitato, le sue mani che la sfioravano. Voleva i suoi artigli sulla pelle, la sua bocca sul corpo. I capelli che si confondono, l’imbarazzo e la sfacciataggine che li aveva avvolti solo poche ore prima. Il rossore del suo viso e il desiderio dei suoi occhi. Voleva che la guardasse ancora in quel modo. Con le iridi d’oro liquide per il passione, per la voglia che aveva di lei.

 

Insinuò le mani nello scollo dello yukata. Non credeva che la paura di perderlo le avrebbe dato una simile sfacciataggine. Nessuna vergogna. Nessuna inibizione. Costrinse la stoffa a scivolare dalla spalle del demone, aprendosi leggermente a scoprire l petto glabro. Scendeva lungo braccia dai tendini guizzanti e con le vene appena accennate. L’addome leggermente scolpito, con l’arcata epigastrica che sottolineava quella muscolatura conturbante. Le gambe tornite, agili. Lo yukata rimase a terra, mentre Alessandra percorreva con l’unghia i contorni di quel corpo. Quel corpo eterno, quasi divino. Quel corpo così diverso dal suo. Miserevolmente umano e soggetto al tempo.

 

Sesshomaru socchiuse gli occhi quando Alessandra accostò le labbra al suo petto, schiudendo le labbra. Secco. Aveva la bocca arida e la lingua di pietra. Ma le labbra della ragazza ero umide, calde, coinvolgenti. La sentiva ansimare leggermente, accaldata, eccitata. E si accorse lui pure di essere sul punto di non rispondere più di sè. Le mani gli scivolarono al corpo della ragazza, s’insinuarono sotto il corto kinomo, andando ad accarezzare la pelle della schiena. Dapprima uno sfiorarsi leggero, quasi indistinguibile da quello della stoffa. Poi sempre più audaci. Le esplorarono la colonna vertebrale, le scapole, scendendo fino alla fascia degli hakama. Sesshomaru costrinse il viso di Alessandra alle sue labbra assetate. Le premette la nuca contro di lui, assaggiandola con violenza. Pelle, capelli, respiri...Si confusero in un bacio passionale e rabbioso. Irrazionale. Un demone pressochè nudo che stringeva fra le braccia un corpo umano. Fece scivolare una mano sul seno della ragazza. Alessandra si appoggiò maggiormente a lui, ma non si ritrasse. Gli artigli si fecero strada fra le pieghe della veste. Raggiunsero la pelle leggermente accaldata e la sfiorarono in un brivido che fece ansimare la ragazza. Il respiro sempre più violento e irregolare. Una mano affamata di donna, di carne, di scoprire. Sesshomaru le sfiorò un seno, e Alessandra si risveglio d’improvviso.

 

La sua mano fermò quella del demone che la guardava con una punta di sorpresa e delusione. Sesshomaru non capiva se era stata la sua audacia a metterla in imbarazzo, o se c’era dell’altro. Cercò di impedirle di allontanarsi, rimpossessandosi della sua bocca e imprigionandola con le sue braccia. Non poteva. Non poteva stuzzicarlo a quel modo e poi ritrarsi così, senza un vero motivo. Non poteva portare la sua mente alla follia, al delirio dei sensi, e poi...poi ritrarsi come scottata. Alessandra gli bruciava sulla pelle, nella carne. Lo infiammava in modo doloroso, facendogli gemere ogni fibra del corpo.

 

“Devi...prepararti...”

 

Sesshomaru scosse la testa. Non gli importava della battaglia, non gli importava del suo orgoglio, del nemico che lo aveva umiliato. In quel momento, la sua mente riusciva solo a elaborare l’immagine di Alessandra, a gustare l’idea di restare stretto a lei, di affondare nel suo calore e sentirla finalmente sua. Sua e di nessun altro. Non gli importava cosa avrebbe pensato la corte, non gli interessava la morale che gli era stata impartita, l’onore che avrebbe macchiato. Alessandra non era una donna, una ningen, un essere umano. Alessandra era Alessandra e basta. E la voleva con ancora più desiderio, più passione, più voglia di poche ore prima. Adesso che l’aveva fra le braccia, non l’avrebbe fatta andar via di nuovo.

 

“Se vuoi fermarmi, dovrai essere molto convincente”

 

Glielo soffiò all’orecchio, prima di tornare a baciarla. Di soffocare una sua possibile risposta con la sua bocca affamata. La costrinse quasi a dimenticare il respiro, sentendola sempre più eccitata e desiderosa. Vogliosa. Quella non era la ragazza che aveva incontrato mesi prima. E lui non era il demone freddo e insensibile che tutti conoscevano. C’era qualcosa di diverso adesso. Qualcosa che impediva a entrambi di pensare razionalmente.

 

“...il tuo orgoglio...”

 

“...non basta...”

 

Sesshomaru riuscì ad allentare lo scollo del kimono, e fece scivolare la bocca lungo le scapole, seguendo una linea immaginaria che lo portava sempre più in basso. Alessandra era rimasta pressochè vestita, mentre lui era coperto solo dal fundoshi. Sentì il calore del sole di maggio sfiorargli la pelle sudata, allungarsi sul corpo suo e di Alessandra. Avrebbe voluto poterla contemplare nuda in quella luce, bearsi dei riflessi bruniti che il sole le avrebbe donato. La trascinò con sè sul pavimento, afferrandole i polsi e bloccandoglieli sopra la testa. Piegandosi fino a soffiarle sulle labbra. Una mano le solleticava la gola. Artigli vicino alla giugulare. Un pericolo che per la ragazza non esisteva. Sesshomaru le fece stringere con le gambe i suoi fianchi, prima di sprofondare nel suo seno. Lasciò che gli accarezzasse i capelli ormai spettinati e scomposti, che scendesse lungo la sua schiena nuda, lungo le spalle e le braccia.

 

“...ti stanno...aspettando...”

 

“...non importa...”

 

Si sollevò sulle braccia. La sovrastava. Alessandra gli passò le mani attorno al collo e lo rovesciò sul pavimento. Sesshomaru non aveva opposto resistenza. Quella situazione inusuale lo eccitava in ogni recesso del corpo. Alessandra era sopra di lui. Le mani ai lati della testa e i capelli che ricadevano disordinati lungo il collo e sul suo petto. Le gambe attorno al suo addome e il corpo quasi riverso sul suo.

 

Sentì qualcosa di umido bagnargli il viso, e poi ancora. E ancora. E un lieve tremore scuotere il corpo che lo premeva a terra. Alzò una mano fino al viso di Alessandra. Umido. Bagnato. Salato. Come le lacrime che gli erano cadute sulle labbra. Non capì. Quelle lacrime non avevano senso per lui. adesso che era con lei, che era stretto fra le sue braccia, che non voleva altro che quella ragazza...lei piangeva.

 

“Non mentire…”

 

Lacrime più copiose.

 

“Non mentire”

 

Un piccolo pugno sul petto.

 

“Non mentire!”

 

Un secondo colpo. E un terzo. Pugni sempre più forti. Lacrime che ormai le solcavano la pelle. Rabbia, dolore, rassegnazione. Continuava a ripetere quelle parole come una cantilena snervane. Ribellandosi quando lui cercava di calmarla, cercando il suo corpo se lo sentiva allontanarsi. Alessandra agitava la testa e i capelli frustravano il suo viso e il petto di Sesshomaru. Lo colpiva e lo graffiava, per poi baciarlo e riprendere a picchiarlo.

 

Sesshomaru non sentiva male. Non sentiva nulla. Solo il respiro roco e spezzato di Alessandra, e l’odore sempre più forte delle sue lacrime. Era crollata. Dopo tutti quei mesi, era caduta la maschera che si era imposta. E adesso gli vomitava contro rabbia e solitudine, i macigni che aveva dovuto tenere dentro di sè per non allarmare e insospettire la corte.

 

Sesshomaru, all’ennesimo pugno, le afferrò le spalle e la costrinse sul suo petto. La strinse e non la lasciò nonostante Alessandra si dimenasse e scalciasse, urlasse e piangesse facendolo dolere per l’udito sottile. Allentò la stretta quando fu certo che non lo avrebbe di nuovo aggredito e che si era realmente calmata. Alessandra sentì le braccia del demone scivolare lentamente sul suo corpo. Le ci vollero minuti eterni per trovare la forza di rialzarsi prima sui gomiti e poi a sedere. Si ricompose come potè e raggiunse carponi gli abiti da battaglia del demone. Sesshomaru doveva andare. Doveva aiutarlo a vestirsi come aveva prefissato. Solo quello. Tutto il resto, era successo senza che lei avesse il controllo del suo corpo. Lasciando che la passione, il desiderio, l’irrazionalità e la paura avessero il sopravvento.

 

Si trascinò in piedi e afferrò il hadajuban. Cotone bianco e morbido. Lo strinse al petto. Adesso, doveva farglielo indossare. Doveva lasciarlo scorrere sulla pelle e lisciarne le pieghe. Sesshomaru era in piedi dietro di lei. L’abbracciò alla vita e le poggiò la testa sulla spalla. Voleva confortarla e rassicurarla.

 

“Posso vestirmi da solo”

 

Alessandra scosse la testa, e mentre le lacrime ritornavano a scendere, avvolse il corpo dell’uomo che amava con quella stoffa bianca. Il sole si infrangeva sulla pelle diafana, nei capelli d’argento, negli occhi d’ambra. Nuovo pezzo. Il nagajuban. Sistemò la sottoveste blu di seta, indugiando su ogni piega per imprimersi bene nella mente i contorni di quel corpo. Strinse il nodo del koshihimo e lasciò scivolare le braccia attorno alla vita del demone. Aveva bisogno di un attimo, prima di continuare. Sesshomaru si limito a stringerla a sè, accarezzandole la nuca. In quel momento, non gli interessò che avrebbe già dovuto passere l’esercito in rivista. Dimenticò il fragore della battaglia e il sapore del sangue. Nella sua mente c’era solo il dolore cui costringeva Alessandra. Lei fragile, insicura, ferita, umiliata, irrisa. Lei che aveva reagito creandosi una corazza, che aveva allontanato tutto e tutti, che aveva mostrato una sicurezza quasi arrogante e una forza invidiabile.

 

Sesshomaru la conosceva bene. Alessandra aveva sempre venduto fumo alla corte. Che non fosse una smidollata lo sapeva, ma aveva anche imparato che poteva crollare. Più facilmente di quanto si era aspettato. Aveva imparato che, per riuscire a riposare la notte, anche quando era con lui, aveva bisogno di ricorrere a infusi calmanti. Si era accorto che mortificava se stessa in abiti anonimi e maschili non semplicemente per sviare l’attenzione dalla sua figura, ma perchè non sopportava di essere osservata. Voleva apparire invisibile perchè si considerava invisibile. Si sfiniva con gli impegni all’ospedale pur di non esser costretta a pensare, tuffava tutta se stessa in un qualcosa che la assorbiva e la drogava. L’unica cosa che era mutata era il contatto fisico. Adesso, sembrava averne bisogno sempre. Lo ricercava con la stessa trepidazione con cui lo rifiutava. Alessandra aveva allontanato più volte il corpo del demone, in passato. Adesso, quando lui si coricava al suo fianco, lo abbracciava in modo possessivo, affamato. Non voleva altro. Solo quel calore.

 

Sesshomaru riconobbe le mani di Alessandra sul collo. Stava cercando di sistemane l’han-eri. Sovrappose le loro mani e la guidò nei movimenti, prima di risalire a quel viso che adesso piangeva in silenzio. Sesshomaru si piegò per baciarla, ma Alessandra gli negò la sua bocca, limitandosi a intrecciare la mano fra i suoi capelli. L’inuyoukai scivolò con il viso lunga la guancia, risalì alla fronte e accostò le labbra alla tempia.

 

I movimenti erano vuoti. Il kimono bianco avvolse il demone, e poi gli hakama, e ancora l’haori. Ogni volta, Sesshomaru cercava di ricondurla a sè e ogni volta Alessandra concedeva sempre meno. Ma bastava che lui fosse più discreto, e allora era la ragazza a risvegliare ogni suo centro nervoso. Lo desiderava, lo eccitava e poi si ritraeva come pentita. Sentiva le lacrime scendere sempre. Non si preoccupava nemmeno del kimono umido e della sgradevole sensazione che avvertiva sul collo. C’era solo il demone. La sua pelle, il suo corpo, il suo calore. E la consapevolezza che lo stava allontanando da sè. Avrebbe voluto spogliarlo di nuovo, e amarlo. Avrebbe voluto il suo respiro, la sua bocca audace. Sesshomaru, invece, si limitava a immaginare ogni suo movimento, sostituendosi alle sue mani per meglio fissare i vari pezzi della corazza.

 

Alessandra si allontanò appena da lui. Era bellissimo. Il sole faceva risplendere le eleganti cesellature degli schinieri, del pettorale. Le spade rifulgono sospese al fianco, avvolte dalla fusciacca di seta blu con ricami in argento. L’ultimo particolare: la pelliccia bianca. Alessandra faticò a sollevare l’ampio mantello. Aveva l’odore del vento e di uomo. Un odore intenso, simile a quello di Sesshomaru, e così diverso. Forse era l’odore del padre. Forse era il profumo dell’età antica di quella pelliccia. La fissò sotto gli spallacci, e si trovò in trappola.

 

Sesshomaru aveva cercato disperatamente di riacquistare lucidità, analizzando con freddezza ogni gesto di Alessandra. Aveva tentato di mettere a tacere il suo istinto, di domare il suo desiderio. Era convinto di esser nuovamente riuscito a riportare l’autocontrollo su se stesso, ma erano bastate le braccia della ragazza attorno al suo collo e il suo respiro troppo vicino per sgretolare i suoi intenti. La strinse al petto, la premette all’armatura. Alessandra si aggrappò a lui come un naufrago, bagnando il metallo e i broccati di sale. Avrebbe voluto trattenerlo. O andare con lui. Non lasciarlo. Mai. Mai. Mai.

 

Sesshomaru la spinse contro una parete, affondando nella sua bocca, premendole la testa sulle sue labbra, scarmigliandole i capelli. Scese sul collo in una scia di baci e morsi sempre più eccitanti e irriverenti. Le leccò la clavicola, mentre faceva scivolare il kimono dalle spalle. La morse piano, in un brivido intenso che la fece tremare. Si aggrappò di più a lui, reclinando la testa all’indietro, mentre le mani di Sesshomaru erano scese all’obi. Rumore di stoffa lacerata. Gli artigli tagliarono velocemente la seta pregiata. La bocca del demone era all’attaccatura del seno. Vogliosa. Irrefrenabile. Affamata. Pericolosa.

 

Lo vide schiudere la bocca in un sorriso malizioso, leccandosi le labbra e i canini appuntiti. Era eccitante. Maledettamente eccitante. Ingabbiato in quella corazza, il suo viso accaldato, leggermente bagnato di eccitazione, gli occhi brillanti e attraversati da ombre di istinto, i capelli leggermente spettinati che ricadevano sulla fronte, sul collo, sul petto. Era a un passo dell’estasi. Sembrava un dio. Una divinità travolta d qualcosa che non può controllare e da cui si lascia guidare.

Sesshomaru decise. Non voleva più ragionare. Ha Alessandra fra le braccia. La desidera. La brama. La vuole. Sente ogni fibra del suo corpo ricercare la pelle della ragazza, la sua bocca intrappolare quelle labbra, stingerle fra i denti e morderle come se aspettasse di gustare un frutto carnoso. La premette di più contro la parete, affondando il viso nell’incavo del suo collo, mentre una mano scivolava sui suoi fianchi, scendendo verso la coscia. Strinse fra gli artigli la bretellina che univa gli orli del kimono. La solleticava con gli artigli, stuzzicando assieme la pelle che sfiorava. Bastava una leggera pressione dell’unghia affilata, e Alessandra sarebbe rimasta a seno nudo davanti a lui.

Le sorrise. uno di qui rari, suadenti, conturbati sorrisi che aveva imparato a formulare. Per lei. Solo per lei. Chiuse gli occhi, mentre riprese a baciarla. Sentì la bretellina assottigliarsi lentamente. Un crepitio leggero.

 

“Padron Sesshomaru”

 

Sesshomaru ignorò la voce sgradevole. Se la stava solo immaginando. Impedì ad Alessandra di allontanarsi dalla sua bocca, racchiudendole in viso fra gli artigli, accarezzandole la pelle sudata e calda.

 

“Padron Sesshomaru! Mi perdoni, ma la stanno aspettando”

 

L’odore sempre più vicino e il lieve, appena accennato scorrere del legno lungo i canaletti. Sesshomaru fu costretto a scostare la testa per prendere respiro e fermare quello che, ai suoi occhi, appariva come un intruso da eliminare subito. Jacken era arrivato, con la sua voce gracchiante, a riportarlo alla realtà dello scontro imminente. Aveva già esitato troppo. E il fuoco che Alessandra riusciva a versare nelle sue vene aveva quasi piegato le sue precauzioni, incendiando e distruggendo.

 

“Arrivo”

 

Jacken bofonchiò qualcosa e si allontanò. Sesshomaru sospirò dentro di sè. Il demonietto non aveva notato il tono inusuale della sua voce. Benchè avesse cercato do modularla, gli era uscita roca e aggressiva. Gli aveva risposto, ma il suo viso non si era mosso. Restava inchiodata a quello di Alessandra, al sale che scorreva e gli bagnava le dita. La baciò un’ultima volta, mentre le risistemava sulle spalle il kimono.

 

“Aspettami”

 

Glielo soffiò in un orecchio, staccandosi da lei con disperata violenza. Si strappò da lei quasi a forza, incapace di toglierle gli occhi di dosso, impossibilitato a formulare un pensiero realmente coerente. Doveva costringersi a ritornare il demone spietato e freddo di sempre. Doveva chiudere alla mente le sensazioni e l’istinto. Alessandra si lasciò scivolare lungo la parete, svuotata. Raccolse le ginocchia al petto e continuò a fissare la schiena del demone. L’argento dei capelli che riluceva contro il bianco del mantello e il bronzo del sole. Lo vide tentennare davanti alla porta ancora chiusa e si accorse di parole che le uscivano dalle labbra. Con una voce rotta dal pianto e dai singhiozzi.

 

“Tu sei per me padre, e nobile madre, e fratello, tu sei...”

 

Sesshomaru si fermò aspettando la fine di quei versi in una lingua mai sentita. Non capiva cosa volessero dire, ma sentì il peso che dovevano avere per Alessandra. Una confessione, un riconoscere in lui qualcosa che le era necessario. Vitale. Aprì lentamente la fusuma, sperando di sentire ancora la sua voce. Chiuse gli occhi mentre vacava la soglia, obbligandosi a non sentire lo scorrere assordante delle lacrime sulla pelle della ragazza, i singhiozzi soffocati dalle mani, il respiro annodato in gola.

 

Alessandra fissò la fusuma richiudersi e si rannicchiò di più su se stesso, rovesciandosi al suolo e stringendosi le braccia al seno. Aveva paura. Una folle, disperata paura. Di perderlo. Di non vederlo più tornare. Di non esser abbastanza forte per affrontare la corte mentre lui non c’era. Paura di restare sola. Di nuovo. Miserabilmente sola. Abbandonata.

 

Strinse forte lo yukata abbandonato sul pavimento. Sapeva di lui. Di muschio. Di demone. Di uomo. Lo stinse affogandovi il respiro e i singhiozzi che le squassavano il petto. Battendo con rabbia rassegnata un pugno sul pavimento, maledicendosi per non avere la forza, le capacità per seguirlo in battaglia. Imprecando contro se stessa per esser solo una donna. Una misera, insulsa donna umana. Inutile a lui. Incapace di aiutarlo davvero. Affamata di lui. Necessaria di Sesshomaru.

 

...tu sei il mio sposo fiorente

 

 

*****

 

 

Tenebra.

Di che colore sono, le tenebre? Che razza di domanda! Le tenebre sono nere, buie, profonde. Le tenebre sono…Accidenti! Ma che cosa gli importa, delle tenebre? Quello che prova è diverso. Non sono le tenebre. Non sente niente. Non riesce a distinguere nemmeno il suo corpo. Sempre se ce l’ha ancora, il corpo. Potrebbe benissimo esser morto. Un colpo più forte, un ferro che affonda di più nella carne…e tanti saluti al mondo. Ucciso in un buco di prigione. In uno squallido, disdicevole buco nella roccia.

 

Patetico. Vorrebbe ridere, ma non sa neanche se ha ancora una bocca per farlo. Suo fratello sarebbe fiero di lui. Ha resistito bene. Ha resistito a lungo. Non si è fatto cavare nulla di bocca. E poi…cosa diavolo doveva raccontare?! Che avevano deciso di metter fine a quella follia? Inutile. Lo sapevano già. Lo avevano ingabbiato proprio per quello. Che odiava a morte quel rivoltante hanyou e che gli avrebbe volentieri stappato le interiora? Minacce. Vuote e futili minacce. Ridotto com’era, non era nemmeno in grado nemmeno di difendersi dai colpi dei suoi carcerieri.

 

Lo avevano torturato a dovere. Con sadismo. Compiacendosi degli spasimi dei suoi muscoli, dei solchi sanguinolenti che i ferri roventi tracciavano nella sua carne. Ricordava che a un certo punto non aveva più sentito le braccia, né il sangue che colava dalle abrasioni delle catene, né le sferzate. Aveva sentito solo voci, e il dolore, la follia erano diventate lontane. Sapeva di non esser svenuto subito, ma nemmeno in quel momento avrebbe potuto dire se era cosciente o se invece era solo la sua mente a ragionare.

 

Dannazione! Dannazione! Se solo non fossero ricorsi a quel maledetto trucco per prenderlo i demoni di Naraku se lo sarebbero sognati di potersi far beffa di lui. E invece…Invece lo avevano incastrato proprio per bene. Usare sua madre come dissuasore era stata una mossa maledettamente scorretta, e maledettamente efficace. Non poteva certo arrischiarne la vita. Lo sapeva che avrebbe preferito morire piuttosto che cedere a quelle braccia che la immobilizzavano, ma lui non ce l’aveva fatta. Lui non era forte. Non lo era mai stato davvero. Finchè al suo fianco c’era suo fratello, il discorso era un altro. E, forse, se si fosse trovato da solo avrebbe rischiato anche il tutto per tutto. Al diavolo anche la sua vita. Gli faceva schifo ogni giorno di più. Voglia di sputarsi addosso e prendersi a schiaffi.

 

Pazienza. Ormai, sembrava tardi anche per l’autocommiserazione. Erano nei guai. In grossi, grossissimi guai. E disperava che qualcuno sarebbe venuto ad aiutarli. All’accampamento, la parola di suo padre era legge e Naraku aveva agito su suo ordine. Il padre che imprigiona e uccide i figli per non perdere il potere. Credeva che potesse succedere solo in Clan di infimo livello. Credeva che il suo Clan si sarebbe sempre mantenuto al riparo da simili farneticazioni dinastiche. Morto suo padre, l’erede era già stato designato da tempo. E lui non si sognava di certo di muovere mari e monti per prenderne il posto. Gli andava bene così. Sarebbe stato il naturale svolgimento delle cose. Non gli interessava minimamente una responsabilità opprimente, una gabbia dorata che lo avrebbe costretto a dominare un carattere troppo impulsivo e acceso. Non era fatto per la diplomazia, lui. Se qualcosa non gli andava bene, ricorreva alle mani. Testardo, impulsivo, avventato, irresponsabile…Risentiva tutte le sfuriate di suo fratello dopo che lo aveva aiutato a uscire dai guai in cui si cacciava. Altro che uno dei principi! Il suo comportamento assomigliava piuttosto a quello del più infimo dei demoni. Se ne sarebbe anche vergognato, se non avesse saputo che ai suoi fratelli andava bene così. Che gli volevano bene anche con quel carattere indomabile e la sua cocciutaggine.

 

Deprimente. Stava conversando con il nulla. O con qualunque cosa fosse quel nero che aveva davanti agli occhi. Gli montava il sangue alla testa solo al pensiero che, forse, non avrebbe mai potuto rifare i connotati a quei maledetti demoni che gli avevano riservato quel trattamento certosino. Facile vincere contro un principe, contro uno inuyoukai se lo si droga e si tengono in ostaggio davanti ai suoi occhi i suoi famigliari. Certo, ad un demone forse non dovrebbe importare nulla. A suo padre, arrivati a questo punto, non importava di certo. Ma non era quello che gli era stato insegnato. Non erano state quelle le parole che Takakuni aveva impartito loro. All’inizio aveva sogghignato. I sentimenti importanti per i demoni…Che assurdità! Al loro maestro doveva esser partita qualche rotella. I demoni non provano sentimenti. Provano piacere nell’uccidere, godono del sangue e delle urla, amano il confronto in battaglia. Ma anche tutte quelle sensazioni, prima o dopo, era convinto, sarebbero venute a noia. E, alla fine, avrebbe consumato l’esistenza in un superiore e indifferente contemplazione fugace del mondo.

 

Bravo! Bravissimo! Poche volte aveva detto una stupidaggine più grande! E ci era andato a sbattere contro prima di capire davvero la veridicità di quelle parole. Perché, in definitiva, non era un sentimento anche quello che lo legava ai suoi fratelli, a sua madre? Non era un sentimento l’adorazione che aveva avuto verso suo padre e l’odio, la frustrante rassegnazione che gli rivolgeva adesso? Non era forse per quei stramaledetti, odiosi, soffocanti, necessari sentimenti se si trovava in quelle condizioni, a delirare e spremersi il cervello per capire dove accidenti si trovasse e se si potesse, in qualche modo, tornare indietro. O andare avanti o…Insomma! Per tornare ad aprire gli occhi e sogghignare davanti alla faccia stupita dei suoi carcerieri nel vederlo fissarli con sfida, con ironia da sotto gli occhi gonfi e imbrattati di sangue.

 

Storse la bocca in una smorfia. Un sorriso tirato. Aveva sentito male. Aveva sentito qualcosa. Che assurdità! Era felice di sentir dolore, che i suoi muscoli continuassero a tormentarlo con fitte lancinanti che quasi gli facevano venir voglia di piangere. Era soddisfatto della pesantezza che avvertiva, della pelle che bruciava e tirava in modo fastidioso. Anormale. Sentire il petto alzarsi al suo respiro. Sentire aria fredda raschiare la gola secca e screpolata dopo tante urla e tante maledizioni. Si era sgolato, mentre lo torturavano. Aveva vomitato addossi a quei demoni tutto la sua rabbia e, se solo non fosse stato così debole e con davanti agli occhi i suoi cari in ostaggi, gliela avrebbe fatta vedere chi era. Li avrebbe annientati, squartati. Avrebbe riso lui della loro insignificante debolezza. Della loro nullità. E invece, si era limitato a urlare la sua rabbia, per nascondere il dolore che gli strumenti di persuasione sulla sua pelle gli producevano.

 

Aprì a fatica gli occhi. O almeno, credette di averli aperti. Nulla. Buio. Nessuna differenza. Non vedeva assolutamente niente. E nella mente gli balenò il sospetto che lo avessero accecato. Non ricordava come si era conclusa quella che, ironicamente, aveva definito una simpatica seduta. Doveva aver perso i sensi ad un certo punto, e nulla impediva che i suoi aguzzini non avessero continuato ad infierire sul suo corpo, ormai anestetizzato dal dolore. Iniziò a sudare freddo. Se davvero lo avevano accecato, allora era nei guai. In grossi guai. La vista era uno dei sensi che aveva più sviluppati, e gli era pressochè necessaria per muoversi. Senza gli occhi, come accidenti avrebbe fatto a capire come uscire da quel buco in cui era stato rinchiuso? Si concesse un sorriso amaro. Non credeva che il solo sospetto avrebbe potuto spaventarlo a quel punto. Sapeva benissimo che in battaglia può accadere di tutto, e che un accecamento nella mischia non era affatto casuale. Tuttavia, non si era mai preoccupato dell’eventualità. L’aveva sempre ritenuta inverosimile. Peccato che, adesso, ci fosse dentro fino al collo.

 

“Come ti senti?”

 

Voci. Voci conosciute. Non hanno un volto, un corpo preciso. Ma le conosce. Ne ha la certezza. Si sforzò di mettere a fuoco il buio che lo avvolgeva. Forza. Un piccolo sforzo. É troppo presto per cedere al buio, è troppo presto per rassegnarsi alla cecità. Un riverbero rosso prese lentamente corpo, assieme ad una sagoma indistinta. No. Due sagome. E la sensazione della testa poggiata su qualcosa di morbido, di liquido freddo che brucia le ferite sul volto. Ustiona e da refrigerio.

 

“Mai...stato...peggio...”

 

Koji sorrise. Suo fratello non perdeva la sua ironia in nessuna occasione. E se aveva anche la forza di essere ironico voleva dire che si sarebbe ripreso in fretta. Quando i loro carcerieri avevano riportato Yashi in cella gli si era gelato il sangue. Lo avevano trascinato di peso fino all’inferriata, per poi gettarlo a peso morto nella loro cella. Yashi era uscito baldanzoso e con le sue gambe. Vederlo rientrare in quello stato era stata una pugnalata al cuore. Aveva avuto paura ad avvicinarsi a quel fagotto sanguinolento. Paura che non respirasse, che fosse alla fine. Paura di stringerlo fra le braccia e restare lì, impotente, mentre il respiro di suo fratello agonizzava, si riduceva sempre di più, spariva.

 

Alla fine, aveva aiutato Kyoko a distenderlo e avevano cercato di medicarlo come meglio era stato in loro potere. Il corpo era disastrato da ferite, ustioni e lacerazioni che lo avrebbero portato a morte se non avesse avuto una così forte resistenza. Lo avevano picchiato selvaggiamente, e doveva esserci stato un perchè se Yashi non aveva reagito. Di certo, avesse potuto, Koji era sicuro che non si sarebbe lasciato ridurre in quello stato. Ma la cosa che gli faceva ribollire il sangue nelle vene era che tutto quello che stava loro accadendo avveniva con il consenso di Morigawa.

 

Era stato per suo ordine che Naraku aveva sguinzagliato i suoi demoni. Era stato per suo ordine che loro erano stati catturati e condotti lontano dall’accampamento, imprigionati e umiliati. E ci avrebbe scommesso che anche la trovata delle torture riscuoteva il consenso di loro padre. L’idea doveva esser partorita da Naraku, per carpire loro di bocca informazioni circa un nemico che poteva rivelarsi scomodo con l’avvicinarsi dell’ultimo scontro. Koji scompiglio affettuosamente i capelli si suo fratello e si lasciò scivolare contro la roccia. Aveva perso il conto dei giorni che erano trascorsi da quando erano stati imprigionati. Dovevano essere come minimo due settimane.

 

Dapprima, si erano limitati a rinchiuderli e costringerli a patire la fame e la sete. Tuttavia, loro tre erano comunque demoni molto potenti e simili mezzucci non servivano certo a fiaccare la loro resistenza in breve tempo. Allora, ecco la nuova trovata. Torturare i prigionieri. Ottenere con la forza quelle informazioni che erano restii a dare. Koji si tastò la spalla. Rimetterla a posto dopo che gliela avevano slogata non era stato certo facile, e se la muoveva male fitte gli straziavano i nervi e i legamenti. Dannazione. Lo avevano legato ad una fune e alzato grazie a duna carrucola. Non ricordava più quante volte era stato fatto precipitare al suolo e rialzato bruscamente. Avrebbe giurato di sentire tutte le sue articolazioni frantumarsi. In definitiva, era stato fortunato ad essersela cavata solo con una spalla lussata e una caviglia slogata. Nonostante tutto, comunque, quando i suoi aguzzini lo prendevano dovevano faticare parecchio per tenerlo fermo. A volte, erano arrivati addirittura a tramortirlo pur di portarlo nella stanza di tortura.

 

Con Yashi, però, avevano davvero esagerato. Sembrava che non importasse più molto il fatto che Naraku aveva detto di non ucciderli. Almeno, all’inizio valeva quell’ordine. Se era mutato, nessuno si sarebbe certo preso il disturbo di comunicarlo loro. Sospirò, facendosi scorrere la lingua sulle labbra spaccate e secche. Aveva una maledetta sete. Lo avevano costretto a inghiottire acqua bollente, e davvero a quel punto era stato convinto di morire. La gola era bruciata, e anche adesso, nonostante la sua forza demoniaca gli avesse concesso una guarigione abbastanza veloce, parlare e anche solo respirare era uno strazio. C’erano notti, o giorni, non lo sapeva bene, perchè lì non arrivava mai la luce del sole, in cui si artigliava la gola dal bruciore, in cui le sue urla d’agonia sotto i ferri roventi erano roche e dalla bocca, assieme alla voce, colava sangue.

 

Socchiuse gli occhi. Suo fratello riposava tranquillamente con la testa in grembo a sua madre. Si sarebbe ripreso. Come sempre. Quei brevi intervalli che concedevano loro servivano a recuperare energie. Tuttavia, non avrebbero resistito ancora a lungo. Erano al limite. Senza nutrimento, seviziati di continuo, impediti nel riposare quel tanto che sarebbe stato sufficiente a recuperare le forze necessarie a sbranare i carcerieri e fuggire. Erano completamente nelle loro mani. E la cosa gli faceva rodere il fegato di rabbia. E con l’andar del tempo si infittiva il timore che la farsa che avevano mutamente eretto, il silenzio di stoica resistenza dietro cui si trinceravano sarebbe venuto meno, prima o dopo. Sia lui che Yashi non avrebbero retto ancora a lungo; forse i carcerieri avrebbero capito che davvero non avevano le informazioni che Naraku e Morigawa desideravano. E allora...allora... Scosse la testa. Non ci voleva neanche pensare.

 

Kyoko. Allora, ad esser esposta alle barbarie di quei maledetti youkai sarebbe stata sua madre. La yasha che ormai chiamava per nome, e che restava ad essere la madre che lo aveva allevato per anni, che gli aveva offerto il seno per calmare il pianto di bambino, che aveva sorriso orgogliosa dei suoi risultati. Loro due avevano cercato in ogni modo di precluderla alle torture, ma non ce l’avrebbero fatta. Non per molto ancora. Kyoko era una yasha potente, e fra loro forse sarebbe stata l’unica che avrebbe potuto tentare la fuga. Eppure, Koji era certo che non li avrebbe mai abbandonati. Rabbrividì. Il solo pensiero del corpo nudo della donna, lasciato alla mercè di quei diavoli, lo riempiva di disgusto. Non si sarebbero limitati a umiliarla, non si sarebbero limitati a torturarla nel fisico. Alle donne riservavano anche dell’altro. Una violenza psicologica che su un demone avrebbe avuto meno presa.

 

“Kyoko-sama”

 

La yasha rialzò la testa. Non si era opposta quando Koji aveva iniziato a rivolgersi a lei in quel modo. Poteva capire che chiamarla madre, in quel momento, fosse qualcosa di troppo difficile. Non le aggradava il nuovo titolo, ma lo sopportava. Come sarebbe stata pronta a contrastare qualsiasi umiliazione, fisica e psicologica, che i demoni di Naraku avessero voluto infliggerle. Avrebbe mostrato loro che le yasha di Yezo non si lasciano piegare facilmente. Avrebbe volentieri affondato nella giugulare di quei cani le sue zanne, ma ormai era troppo tardi. Anche se fosse riuscita a costruirsi una via di fuga, avrebbe dovuto abbandonare i suoi figli, e questo non era un pensiero da prendere in considerazione. Benchè sapesse benissimo che, se fosse dipeso da loro, Yashi e Koji avrebbe fatto di tutto, sarebbe anche morti, pur di liberarla.

 

“Non ho risposte”

 

Non serviva che suo figlio chiedesse. Kyoko aveva capito benissimo cosa volesse sapere. E, purtroppo per loro, non c’era una risposta. Hidesuke avrebbe dovuto trovarsi a Nikko già da tempo; avrebbe dovuto calare con il suo esercito sull’accampamento dei signori del Kansai e offrire aiuto a Sesshomaru. Volente o nolente che fosse il Principe di Nishi. Invece...il suo messaggero era stato intercettato, la missiva caduta in mano a Morigawa, i suoi tentativi di abbattere suo marito e insediare sul trono Yashi svaniti in una bolla di sapone. Era stata troppo incauta, e precipitosa.

 

Kyoko si sfiorò la guancia destra. Il segno non era più visibile, ma dentro, nel cuore, ardeva al solo ricordo del livido che Morigawa le aveva procurato settimane prima. Aveva subodorato qualcosa fin da quando era stata convocata nel padiglione del Principe. Per un consiglio, aveva detto l’araldo. Sospetto. Morigawa non chiedeva il suo consiglio da troppo tempo ormai. La convocazione doveva nascondere dell’altro. I suoi timori si erano rivelati fondati. Appena varcata la soglia del padiglione, Kyoko aveva percepito un’aura maligna carica di rabbia e furore, e aveva avuto appena il tempo di sussultare che si era ritrovata per terra. La guancia bruciava terribilmente e il sangue colava dal labbro spaccato. Morigawa troneggiava sopra di lei, con indosso solo gli hakama. Una luce troppo pericolosa negli occhi perchè fosse solo furore a muoverlo. Follia. Follia e delirio puri.

 

Kyoko ricordava solo confusamente i pochi minuti che avevano separato la sua entrata nella tenda del marito e l’irrompere dei suoi figli. Urla, ingiurie, accuse, schiaffi, pugni. Vesti che si strappano, capelli che si confondono, corpi che si annodano, che rotolano per terra, che lottano. Si sfiorò gli occhi. Morigawa l’avrebbe violata. Se non fosse stato per l’intervento di Yashi e Koji, suo marito, quello che aveva considerato suo marito fino a quel momento, l’avrebbe violata e umiliata, costretta a sè con la forza solo per rabbia, per toglierle dalla testa l’idea di spodestarlo e farle ricordare chi era il Principe.

 

“Si è ripreso?”

 

Kyoko scruto nella semioscurità, mentre Koji si alzava faticosamente in piedi per fronteggiare l’intruso. Avrebbe difeso suo fratello se erano venuti a riprenderlo. Tuttavia, il tono sommesso con cui era stata rivolta la domanda lo faceva ben sperare. Infatti, rilassò i pugni e si lasciò scivolare nuovamente a terra appena riconobbe la figura di una yasha alla luce delle torce.

 

Kagura fece scattare la serratura ed entrò nella cella con un recipiente in mano, andando a sedersi accanto a Yashi. L’ookami non si mosse, ma come Kyoko seguì con attenzione i movimenti della yasha mentre osservava lo stato miserevole in cui era stato ridotto il demone. Kagura sbuffò contrariata. Non l’aggradava affatto l’incarico cui Naraku l’aveva costretta. Far da carceriera a quei demoni era la prova che il suo signore non si fidava di lei. Soprattutto dopo che si era lasciata sfuggire Sesshomaru. La scusa aveva retto, ma non era bastata a debellare sospetti che serpeggiavano già da tempo. Probabilmente, Naraku non l’aveva ancora uccisa perchè, in qualche modo, aveva ancora bisogno di lei. Comunque fosse, esser costretta in quel buco nella roccia, lontana dall’aria e impedita di muoversi liberamente era già di per sè un supplizio.

 

“Vedete di far sparire il recipiente dopo che vi siete dissetati. Se lo scoprissero, sarebbero guai”. Socchiude gli occhi, prima di continuare in un soffio. “Per tutti”

 

Si rialzò sistemandosi il kimono. Non era da lei un simile gesto: portare dell’acqua a quelli che erano i suoi prigionieri, con il rischio di esser sorpresa e finire, possibilmente, lei stessa in catene. Si passò una mano nei capelli. Doveva esser impazzita. Non poteva aspettarsi nulla da loro, eppure rischiava molto.

 

“Perchè ci aiuti?”

 

Kagura si fermò sulla porta della cella. Era una buona domanda. Anzi, un’ottima domanda. Peccato che non conoscesse la risposta. O, forse, non volesse ammetterla. Non poteva certo riconoscere che lo faceva per gratitudine. Per cercare di ripagare un debito che non avrebbe, altrimenti, più potuto saldare. Eppure, quando aveva ricevuto l’ordine da Naraku di controllare i prigionieri e accertarsi che i demoni non eccedessero nelle sevizie, qualcosa dentro di lei si era mosso. Lo aveva ignorato a lungo. Due settimane. Per due settimane aveva fatto a pugni con la sua coscienza. E adesso aveva raggiunto il limite.

 

Tuttavia, non si sarebbe mai abbassata a confessare che prestava loro aiuto solo per ringraziare il gesto che mesi prima gli aveva mostrato Shin. Strinse con forza il ventaglio. Quella notte, la gelosia, la frustrazione, la rabbia di aver trovato Sesshomaru con una ningen, stretto da lei, sdraiato accanto a lei l’avevano spianta a concedersi al Principe del Kansai. Una rivincita. La possibilità di sbattere in faccia all’inuyoukai il fatto che l’aveva persa. Si sarebbe concessa per ripicca, per gelosia, per squallido piacere carnale.

 

Shin l’aveva rifiutata. Avrebbe potuto infischiarsene e prenderla, e poi trattarla come una pezzente. Una squallida prostituta. Invece, non l’aveva toccata con un dito e l’aveva cacciata. L’aveva onorata. Le parole del demone all’inizio l’avevano fatta fremere, di rabbia e vergogna, perchè le sbattevano in faccia la realtà del suo gesto. Alla fine, le aveva accettate. E a modo suo cercava di ricambiare quel favore.

 

“Non mi piace avere debiti”

 

 

*****

 

 

Strinse più forte le redini, cercando di mantenere la postura rigida cui l’armatura lo costringeva. Non era affatto facile cavalcare quello stambecco. Soprattutto per lui che non era abituato e con in più l’ingombro del metallo che lo cingeva da ogni parte. Sotto un sole di maggio che presto avrebbe raggiunto lo zenit. Si asciugò non visto il sudore che gli imperlava la fronte. Ma come diavolo facevano i demoni a muoversi con addosso tutto quel peso senza risentirne minimamente?

 

Miroku arricciò le labbra. No. Proprio non era a suo agio. Mille volte meglio il suo abito cerimoniale e il suo shakujo alla sicurezza ingombrante delle spade. L’unica nota positiva era che aveva potuto portare più fuda del normale, nascondendoli nelle innumerevoli tasche che si formavano nella veste. Se il piano non avesse funzionato, non aveva alcuna intenzione di rimetterci la pelle senza muovere un dito. In effetti, ammetteva a se stesso, era passato molto tempo da quando vagabondava da solo e faceva affidamento solo sulle sue forze. L’incontro con Inuyasha aveva risvegliato in lui la necessità di vivere in gruppo e la sicurezza di aver accanto sempre qualcuno di cui potersi fidare. Non aveva mai avuto intenzione di essere un peso per i suoi amici, ma il sapere che c’è qualcuno che conta su di te, che fa affidamento sulla tua forza anche senza fartelo pesare era uno stimolo a continuare a lottare anche quando le forze vengono meno e gli occhi vorrebbero chiudersi.

 

Si umettò le labbra secche. Aveva sete. Una maledetta sete, e sapeva che non poteva fermarsi per un capriccio così infantile. Un demone non avverte la sete. E nemmeno il freddo, e il caldo, e la stanchezza...Sospirò rassegnato. Immuni da troppe cose, i demoni, per i suoi gusti. Soprattutto se a dover emulare uno youkai era lui, sotto un sole rovente. Era già un’ora che erano partiti dal castello, e la piana distava ancora diverse miglia. Sarebbero arrivati nel primo pomeriggio, con il sole a picco e l’aria molle per il caldo. Quell’anno, sembrava proprio che la stagione delle piogge avesse deciso di anticipare i tempi. L’umidità, soprattutto nel primo pomeriggio, era soffocante, e benchè i demoni ne risentissero meno era comunque un detrattore nello scontro che sarebbe avvenuto. L’unica speranza era che piovesse, sebbene il cielo non desse segni di annuvolarsi. In realtà, Miroku non sapeva se augurarsi la poggia o meno. Non conosceva la configurazione del territorio, e se da un lato l’acqua avrebbe portato refrigerio, dall’altra avrebbe potuto compromettere i movimenti e rendere troppo scivoloso il terreno.

 

Sbuffò. Avrebbe preferito che almeno uno dei suoi amici fosse con lui. Tuttavia, l’idea di saperli al sicuro a palazzo lo rincuorava. Inuyasha aveva strepitato per la volontà del fratello di escluderlo dalla battaglia, aveva minacciato di fare di testa sua e seguirli a costo di doversi difendere anche da Sesshomaru e non solo dai demoni di Morigawa. Ce n’era voluto per farlo ragionare, per riuscire a costringerlo al castello. Kagome ce l’aveva messa tutta, e alla fine Inuyasha se ne era andato chissà dove a sbollire la rabbia. Ma almeno aveva promesso, e loro erano certi che avrebbe mantenuto la parola.

 

Quando stavano per partire, l’hanyou lo aveva raggiunto. Lì. Alla testa dell’esercito. Davanti a demoni che lo squadravano con sospetto e lo canzonavano malignamente. Davanti a suo fratello che si ostinava a fissare il vuoto davanti a sè. Inuyasha aveva tentennato un attimo, prima di chiedergli una promessa. La sola cosa che, gli aveva assicurato, lo avrebbe persuaso a non seguirli.

 

“Non dovrai mai usare il vortice. Hai capito, Miroku? Mai! Per nessuna ragione!”

 

Aveva colto come trepidazione nella sua voce, e allora gli aveva messo una mano sulla spalla e aveva annuito con un sorriso. Gli aveva fatto uno strano effetto montare lo stambecco che gli era stato assegnato mentre l’hanyou ne reggeva le briglie. Non aveva potuto esimersi dal formulare il pensiero di quanto fosse grottesca la scena. Avrebbe dovuto esser lui a reggere la staffa al principe cadetto, e non il contrario. Invece, Sesshomaru non lo avrebbe mai permesso.

 

Si passò una mano sul collo. Caldo. Caldo. Maledettamente caldo. Il sudore gli appiccicava al corpo le vesti pesanti e opprimenti. Doveva distrarsi. Occupare la mente con qualcosa che gli impedisse di prestare attenzione al sole che picchiava sempre più forte. La figura di Sesshomaru gli balenò davanti agli occhi. Procedeva in testa, montando Ah-Un con una sicurezza invidiabile. La corazza riluceva continuamente e l’ampio mantello di pelliccia era drappeggiato in modo solenne. Miroku ebbe una smorfia che represse a fatica. Quel mantello gli faceva venir caldo solo a vederlo. Però, ammetteva a se stesso, contribuiva a rendere ancora più imponente e austera la figura dell’inuyoukai. Invece, non capiva perchè il demone avesse raccolto i capelli in una coda alta. Aveva supposto per una forma di comodità, ma non era un’idea troppo convincente. Da che lo conosceva, o forse era meglio dire dalla prima volta che lo aveva incontrato, Sesshomaru non aveva mai mostrato segni di disturbo nei combattimenti per i capelli lasciati sciolti. Inoltre, non gli era sfuggito il moto di sorpresa e sconcerto che aveva attraversato le file dell’esercito schierato all’apparire del Principe. E anche Inuyasha aveva avuto una reazione strana nel vedere il fratello. Miroku si gratto il mento. Avrebbe avuto da chiedere alcune cosette all’amico, una volta tornato a palazzo.

 

Un magnifico lupo grigio affiancò lo stambecco. Miroku inclinò appena la testa. Koga cavalcava l’animale come se fosse un tutt’uno con lui, assecondandone i movimenti con ogni parte del corpo. Al fianco portava la spada e nella sinistra reggeva una yari di quasi tre metri. Sembrava davvero uno shinigami. Faceva paura, con i capelli che sferzavano il viso e i canini pronti ad uccidere. Se non lo avesse saputo suo alleato, Miroku avrebbe tremato. Anche perchè l’armatura che indossava e l’ampio mantello nero di pelliccia conferiva al giovane principe degli Yoro un aspetto davvero minaccioso. Ripensandoci, nemmeno Kumamoto sembrava aver più nulla del bonario generale che aveva conosciuto in quei mesi. Era come se la prospettiva dello scontro li avesse completamente trasfigurati. Per il Principe era più difficile fare supposizioni, in quanto Sesshomaru era assolutamente restio a mostrare anche una piccola emozione, mentre il cambiamento nei suoi alleati era evidente.

 

Si concesse un sorriso mentre annuiva a Koga in segno di saluto. L’ookami spronò il suo lupo affiancandosi a Sesshomaru. Miroku li vide procedere appaiati per un tratto, prima che la punta della lancia rifulgesse nel sole e un coro di ululati si levasse dal grosso dell’esercito come unico, profondo sinistro lamento di morte. I lupi e gli ookami al seguito del principe degli Yoro si staccarono dal gruppo, assumendo una conformazione a cuneo che si inerpicò per la collina che costeggiava la strada, seguendo il loro signore. Svanirono alla vista e all’udito. Tuttavia, Miroku era certo che fossero ancora a portata di naso per gli inuyoukai. Koga era l’avanguardia, per la spiccate capacità predatorie che la natura aveva conferito alla sua Famiglia. Se c’era qualcuno che potesse avvicinarsi al nemico tanto da non essere visto e da controllarlo per accertarsi che non i fossero trappole, quello era solo Koga.

 

Miroku cercò di sistemarsi meglio sul dorso dello stambecco. Già gli riusciva difficile montare un semplice cavallo con nomale sella; riuscire a non cadere cavalcando a pelo era davvero un’impresa. Si concesse un sorrisino di scherno. Se lo avesse visto Sango, forse lo avrebbe deriso per bene. Socchiuse gli occhi. La rivedeva nella stanza che condivideva con Inuyasha. Non l’aveva nemmeno sentita entrare, tanto era concentrato a ricordarsi come diavolo si indossasse quell’armatura. Era stata lei a riscuoterlo, chiamandolo in un sussurro.

 

Miroku si era voltato, e trovarsela di fronte gli aveva seccato la bocca. Si era ripromesso di salutarla assieme agli altri, così da evitare situazioni troppo pesanti o imbarazzanti. Invece, lei era davanti a lui. Con le mani strette in grembo e lo sguardo basso. Che bambina. Una dolcissima, ingenua, spaventata bambina. L’aveva vista muovere le labbra a pronunciare parole senza suono, alzare la testa e riabbassarla subito. Era imbarazzata. Era terribilmente imbarazzate. Ed era bellissima. Le aveva afferrato un polso a tradimento e l’aveva attirata al suo petto. Senza pensare che reazione avrebbe potuto avere. Era libera di prenderlo a schiaffi. Ma lui non aveva voluto lasciarsi sfuggire l’opportunità di sentire il suo calore contro la pelle, il suo corpo stretto fra le braccia.

 

Sango era rimasta dapprima immobile, con gli occhi sbarrati. Poi, lentamente, aveva intrecciato le mani dietro alla schiena del monaco, sprofondando la testa nel suo petto e lasciandosi imprigionare da quella stretta possessiva e dolce. Aveva sperato che Miroku le sollevasse il viso e la baciasse. Aveva sperato che le dicesse qualcosa di dolce. Le sarebbe andato bene anche se fosse ricaduto nei suoi comportamenti libertini. Ma, in definitiva, quell’abbraccio era qualcosa che non si erano mai concessi. Non in quel modo. Non con le mani così strette, con i corpi così vicini. Sango aveva sentito una mano di Miroku risalire lungo la sua schiena e insinuarsi fra i suoi capelli, mentre con l’altra la stringeva di più a sè. Il respiro caldo del ragazzo sul collo, le labbra a un soffio dalla pelle erano un qualcosa di mai provato. Di proibito. Di seducente.

 

Sango aveva afferrato il viso del suo monaco e lo aveva costretto a guardarla negli occhi. A fissarla con quel sorriso dolce e irriverente che gli piegava sempre le labbra. Si era avvicinata alla sua bocca fino a sentire il respiro sulla pelle. Fino a sentire il suo odore di incenso e uomo avvolgerla e stordirla. Portarla al delirio. Aveva lasciato la presa; erano rimasti interi minuti a millimetri di distanza, baciandosi senza toccarsi, intrecciando una danza fatta di occhiate e respiri. Alla fine, Sango si era sciolta dal suo abbraccio ed era uscita sull’engawa.

 

“Sango”

 

Caldo. Morbido. Prepotente. Affamato. Le labbra di Miroku l’avevano imprigionata senza alcun preavviso. E l’avevano fatta godere di un qualcosa di nuovo ed eccitante. Leccandole la bocca e stuzzicandole la pelle. Non si era mossa. Era rimasta in piedi sul limite della porta, catturata da un bacio che sembrava dato per scherzo, con il monaco appoggiato con una mano al telaio della porta e l’altra sotto il suo mento.

 

Miroku si sfiorò le labbra con la lingua. Quel bacio che si era ripromesso di non darle fino alla morte di Naraku era stata l’idea migliore che gli fosse mai venuta. Il più bel modo per salutare una persona e andarsene sereno sul campo di battaglia. Raddrizzò d’istinto la schiena quando colse il rallentare dell’andatura di Ah-Un. Sorrise malizioso.

 

Ecco.

 

Si alzava il sipario.

 

 

*****

 

 

“Cicatrice del vento!”

 

Il fendente attraversò il cielo distruggendo un gruppo di demoni prima che potessero calare sul castello. Corpi sanguinanti, pezzi di carne e ossa ricaddero al suolo, in una pioggia grottesca e nauseabonda. L’odore di carne in putrefazione, di sangue e di miasma ammorbava l’aria pesante e afosa del primo pomeriggio.

 

Inuyasha si terse rabbioso il sudore che gli oscurava la vista. Ansimava forte, e con uno sforzo riuscì a risollevare Tessaiga e a lanciare un nuovo attacco. Dannazione. Dannazione. Dannazione! Quei demoni non finivano più. Erano come minimo due ore che combatteva, e sembrava non aver nemmeno intaccato il numero degli avversari. Doveva farsi venire un’idea. E subito, o questa volta non ne sarebbe uscito illeso.

 

Un bruciore lancinante al braccio lo costrinse a smetter di pensare. Chiuse gli occhi soffocando un urlo, e portandosi prontamente la mano al braccio. Il muscolo era stato perforato e quasi strappato, ma l’osso, che biancheggiava fra i ritagli di carne grondanti sangue, sembrava essere intatto. Con un ringhio in gola che si confuse con un urlo, sollevò la spada a distruggere il demone che sogghignava compiaciuto sopra di lui. Non sarebbe stato certamente un colpo simile a metterlo fuori combattimento. Si ritrovò in piedi senza respiro. La testa girava in modo fastidioso e i contorni delle cose sbiadivano lentamente. Fu costretto a piegare un ginocchio a terra per evitare di cadere svenuto.

 

Avvertì l’incombere su di sè di qualcosa, qualcosa di pericoloso. Strinse i denti scoprendo i canini appuntiti e sollevò stancamente la mano. Usare Tessaiga comportava una forza che lui, in quel momento, non possedeva. Avrebbe dovuto far affidamento sugli artigli. Affondò la mano nello squarcio al braccio, lacerando ulteriormente le fibre muscolari e bagnandosi del suo stesso sangue. L’hijin kessou aveva una forza distruttrice maggiore dei semplici artigli, e avrebbe eliminato il nemico. Peccato che, lanciandolo in quello condizioni, lo avrebbe reso incapace di difendersi per un po’.

 

Le lame di sangue squarciarono il corpo del demone davanti a lui, saettarono per il campo di battaglia falciando e mutilando prima di esaurire la propria carica distruttiva. Inuyasha si concesse un ghigno di soddisfazione nel vedere la sorpresa che attraversava i lineamenti dei suoi avversari, ma dovette ben presto portare entrambe le mani a terra per impedirsi di rovinare al suolo. Dannazione. Non vedeva nulla. Bianco. Bianco. Bianco. E poi nero. Un sudore freddo gli bagnò la fronte, lo fece tremare lungo la colonna vertebrale. Il sangue colava dalla ferita al braccio, lungo i muscoli fino al polso, insinuandosi fra le dita e gli artigli, allargandosi in una macchia scura.

 

Sentì qualcuno deriderlo, e da lontano la voce di Kagome farsi strada fra urla e strepiti. Lo stava chiamando. Gli stava dicendo di non mollare. Lo stava chiamando col rischio di esser individuata e trovarsi in pericolo. Avrebbe voluto rispondere, ma anche il solo pensare, in quel momento gli costava grande fatica. Sperò solo che la ragazza avesse il buon senso di non muoversi dal sunoko del corpo principale. Non doveva assolutamente lasciare la sicurezza di quelle mura. Gli venne da sorridere. Kagome non avrebbe mai ragionato in modo razionale, soprattutto se nel discorso entrava lui. Era fatta così, quella ragazza. Impulsiva, avventata, testarda, irresponsabile...In certe cose, avevano un carattere molto simile. Kagome, però, sapeva anche essere dolce, comprensiva, delicata. Tutto il contrario di lui, che era sempre frenato nelle parole e nei gesti da un’eccessiva timidezza.

 

Un nuovo urlo di Kagome lo costrinse ad aprire gli occhi. Non poteva cedere. Non quando avevano bisogno di lui. Raccolse Tessaiga e, usandola come sostegno, si rimise faticosamente in piedi. Il braccio sinistro penzolava inerte lungo il fianco. Pazienza. Doveva solo cercar di pazientare un po’, giusto il tempo che il suo sangue demoniaco facesse coagulare il sangue e iniziar e il processo di guarigione. I fasci muscolari avrebbero impiegato del tempo per riformarsi, ma almeno avrebbe potuto rimuovere il braccio, anche se con fatica.

 

Alzò la testa e si accorse che la battaglia si era momentaneamente spostata. Era solo in mezzo a un mucchio di cadaveri di demoni. Represse un conato. Quella scena era raccapricciante anche per lui che fin da bambino era stato abituato alle uccisioni. Scrollò la mano intrisa di sangue. Ignora, gli diceva la testa. Passerà. Passa tutto. E poi, è la tua realtà. Normale. Brutta, ma normale. Se considerava, inoltre, che facendo strage di quei demoni avrebbe arrecato un possibile dispiacere a Naraku, un moto di soddisfazione gli riempiva l’animo. Perchè i demoni che stavano attaccando in massa il castello erano di quel maledetto hanyou. Inuyasha non aveva dubbi. Sentiva il suo odore in ogni atomo d’aria. Quando gli aveva visti apparire all’orizzonte, minacciosi e infervorati dalla prospettiva di una strage, aveva ordinato a Kagome e Alessandra di prendere Rin e rifugiarsi nel corpo centrale dell’edificio, mentre lui, con Sango, si era gettato all’attacco.

 

O meglio, ci aveva provato. Il generale che Sesshomaru aveva lasciato a capo della guarnigione di difesa era tutt’altro che propenso al suo intervento e a quello della sterminatrice. Lo aveva ignorato concedendogli soltanto una serie di insulti, sogghignando che quei demoni non li avrebbero mai attaccati. Solo dei folli si sarebbero scagliati contro la fortezza di Sesshomaru-sama, e inoltre Morigawa aveva dato la sua parola che lo scontro sarebbe avvenuto solo e esclusivamente nella piana concordata. Inuyasha aveva ringhiato esasperato. Di quello che pensava lui non gli importava un accidente, come non interessava a quei demoni il fatto che potessero violare un accordo. Erano accoliti di Naraku, non del Principe del Kansai, e per Naraku i patti non hanno alcun valore se può arrecare un qualche danno o ottenere un suo obiettivo.

 

Inuyasha non aveva e non capiva ancora cosa volesse ottenere Naraku attaccando il palazzo, tanto più che Sesshomaru non era presente. L’unica spiegazione plausibile era che cercasse di ottenere i frammenti di Sfera che Kagome custodiva. Ma era un suicidio anche solo pensare di riuscirci. Nonostante la superiorità numerica degli avversari e la reazione tarda e disorganizzata dei difensori delle mura a causa dell’ottusità di quel generale, gli uomini di Sesshomaru stava riuscendo a mantenere le posizioni.

 

Certo, se non fosse stato per i veterani che avevano reagito alle sue urla ed erano intervenuti mettendosi ai suoi ordini, infischiandosene altamente degli strepiti e delle rimostranze di quell’ottuso generale, a quell’ora più della metà degli uomini di guardia sarebbe morta e il palazzo violato. Inuyasha avrebbe ricordato a lungo il pungo che uno dei veterani aveva rifilato al suo superiore per farlo star zitto prima di consegnarlo ad alcuni uomini perchè gli impedissero di disturbare e arrecare più danni di quelli che già aveva provocato. Poi, il veterano si era voltato verso di lui e gli aveva mostrato uno strano sorriso. Non sarebbe riuscito a dirne la natura. Orgoglio, nostalgia, sorpresa, soddisfazione.

 

“Guidaci, ragazzo”

 

Aveva ricambiato il sorriso, e si era gettato nella mischia. I demoni non erano stati respinti, ma almeno non erano riusciti a continuare la loro avanzata. Alcuni superavano la linea delle mura dove era stato arrestato il grosso dei nemici, e ingaggiavano scontri con gli uomini lasciati indietro, ma erano solo casi isolati quelli che si avvicinavano in modo preoccupante al corpo del palazzo che affacciava sulla piazza d’armi.

 

Inuyasha sentì una mano posarsi sulla sua spalla, e qualcosa stringere forte la carne, al braccio. Sango aveva abbandonato momentaneamente la sua posizione per sincerarsi delle sue condizioni. Il vederlo immobile in un angolo del campo era troppo strano. Stonava. Invece, con sollievo, si era accorta che Inuyasha aveva, per una volta, fatto lavorare il cervello e non la passione, e si era fermato prima che le sue forze scomparissero di colpo nel mezzo di uno scontro. Si era tenuto fermo dopo il suo ultimo attacco per recuperare un po’ di energia, e l’occhiata che le lanciò quando ebbe finito di contenere l’emorragia valse più di mille parole. Era pronto a ricominciare. A resistere, anche se il suo corpo gli urlava di non muoversi, di fermarsi e concedergli ancora riposo. I muscoli protestarono quando cercò di rimettersi in piedi e, forse, sarebbe ripiombato nella terra se delle mani non lo avessero sorretto e aiutato a ritrovare l’equilibrio.

 

Un veterano, lo stesso che, per primo, aveva preso le sue difese alcune ore addietro, adesso lo stava aiutando. Inuyasha si limitò ad accennare con la testa per rassicurarlo delle sue condizioni, per poi vederlo ritornare a combattere poco distante. Sentiva qualcosa di strano, dentro, nell’anima. Era la prima volta che demoni dal sangue puro lo trattavano in quel modo, che qualcuno se ne fregava della sua condizione bastarda e lo trattava semplicemente come un qualcosa che respira. Scrollò le spalle. Non era il momento, quello, di arrovellarsi il cervello a cercare il perchè di un simile comportamento. Sesshomaru lo avrebbe ammazzato, se qualcuno avesse messo piede nel palazzo. Una smorfia gli deformò le labbra: lo avrebbe ammazzato anche non appena fosse venuto a conoscenza del fatto che avevano rinchiuso il generale cui aveva lasciato la difesa e avevano proclamato lui comandante di quella resistenza. Deglutì a vuoto. Sentiva gli artigli del fratello sulla pelle della gola, e il ringhio che avrebbe represso a fatica. Il Principe aveva sempre cercato di impedirgli di prendere parte ad uno scontro, lo aveva minacciato se solo avesse provato a seguirli per partecipare alla battaglia contro Morigawa, e adesso lui si trovava a capo di quegli uomini, impegnato a dare ordini, a cercare di elaborare una qualche strategia per respingere gli assalti, quando invece l’unica cosa che avrebbe voluto fare era caricare a testa bassa. Non era avvezzo a coordinare uomini sul campo, non era in grado di tenere le file di battaglia, di analizzare ogni situazione, di prevenire le mosse avversarie e prontamente formulare una reazione e insieme continuare a combattere. Dannazione! Lui non era Sesshomaru, lui non era in grado di tenere a freno il sangue che corre veloce nelle vene mentre combatte. Agiva d’istinto, senza premeditazione, senza un preciso piano. Con i suoi compagni ha sempre funzionato. Sango e Miroku sanno cavarsela egregiamente da soli, e lui deve pensare solo che Kagome non si esponga troppo. Con i suoi amici si sostengono a vicenda, ma ormai l’affiatamento era tale che non era necessario parlare per decidere uno straccio di strategia. E se lui sbaglia, si dimostra troppo avventato e impulsivo, ci sono loro a correggerlo, ad aiutarlo.

 

É diverso. É maledettamente diverso. Deve pensare per sè e per mille altri demoni che agiscono solo dopo una sua parola, che si lascerebbero falciare e dilaniare dal nemico se lui non dà loro l’ordine di scansarsi. Per assuefazione, probabilmente. Sono talmente abituati ad ubbidire agli ordini del Principe, non mettendone mai in dubbio la parola e le decisioni, terrorizzati dall’idea di quello che potrebbe capitare loro se solo provassero a opporsi, che in quel momento, senza una guida, sarebbero una preda ridicola. Inuyasha, però, aveva paura. Sentiva addosso la responsabilità di ogni parola, il peso di un comando che non ha voluto e gli è piombato addosso senza preavviso. Lui, in quel momento, vale come il fratello, è come Sesshomaru. Ha quel posto che lo youkai ha sempre voluto negargli, da cui lo ha tenuto in tutti i modi lontano. Il posto che avrebbe ricoperto se suo padre non fosse morto. Ha qualcosa che ha sempre detto non interessargli e che inconsciamente ha sempre bramato. Il suo riconoscimento. Il sentirsi qualcosa nel mondo che era di suo padre, nel mondo che lo ha sempre allontanato.

 

“Ce la fai a continuare?”

 

Sango accarezza nervosa Kirara. Non lo ha ancora lasciato. Non lo farà finchè non sarà sicura che sa cosa vuole fare: ritirarsi o restare. Inuyasha sollevò Tessaiga soppesandola col braccio. Sì. Anche con una sola mano può gestire bene la forza della spada. Continuerà a combattere. Un istante, uno scambio di sguardi, ed entrambi si rigettano nella mischia: Sango riprende la sua posizione a difesa dell’ingresso dell’edificio, davanti a Kagome che imbraccia l’arco, e Inuyasha raggiunge le mura, saltando sul ballatoio e cercando di spronare gli uomini, di articolare una qualche strategia che permetta anche di contrattaccare, e non solo difendersi. Andando avanti di quel passo, altrimenti, rischiano di esaurire tutte le energie e di cedere, alla fine. I demoni di Naraku sembrano non finire più. Oscurano il cielo e il sole con il loro numero. Una cappa pesante. Opprimente.

 

Urla di terrore lo costrinsero a voltare il viso sopra la spalla. Kagome. La voce di Kagome, mescolata a mille altre, a quelle delle yasha e dei cortigiani. Un drappello avversario ha superato le difese, serpeggia fra i cadaveri e sta per avventarsi sulla ragazza e quanti sono nell’edificio. Sango è lontana, impegnata con altri demoni. Le frecce di Kagome non bastano. Scatta. Verso di loro. Verso di lei. Artiglia demoni che cercano di fermarlo, impreca e maledice il sangue perso che lo ha indebolito. Stringe i denti fino a sanguinare. Non farà in tempo. Non ha più tempo.

 

I demoni calarono.

 

Brandelli di carne coprirono il terreno, e il nemico si arrestò. Un istante, prima di tentare una ritirata senza possibilità di salvezza. Morirono tutti, falciati da una luce d’argento. Fra gli squarci nella carne e il fumare del sangue, Shin riprese la posizione eretta. Pallido, sudato e visibilmente provato, ma con una katana ben salda in mano e gli artigli gocciolanti.

 

“Non penserai che basti a pareggiare il conto, vero?”

 

Inuyasha gli era grato, ma non poteva darlo a vedere. Lo vuole canzonare un po’, giusto per salvare le apparenze, ma intanto rinfoderò Tessaiga e si avvicinò per sincerarsi che Kagome non fosse ferita. L’accolse fra le braccia, continuando a guardare di traverso Shin, che respirava pesantemente e si sorreggeva alla spada. Aveva rischiato la vita per difendere quella soglia, quando avrebbe potuto fregarsene o aiutare i demoni di Naraku. Avrebbe potuto approfittare della confusione per fuggire, e invece era restato. Per combattere. Per aiutare.

 

“Metti in conto. Vedremo di saldare la questione quando avremo finito con questa scocciatura”

 

Il sorriso era di provocazione, di scherno. Spavaldo, nonostante il tremore delle membra e la voce roca. Inuyasha annuì. Per prima cosa, andavano eliminati i demoni di Naraku. E definitivamente. Gli uomini erano orami allo stremo. Per un istante, rimpianse che non ci fosse Sesshomaru lì con lui. Lo avrebbe ferito con parole taglienti e gli avrebbe riservato una delle sue solite occhiatacce, una di quelle che neanche la cecità era riuscita a fargli abbandonare, lo avrebbe scansato malamente, storcendo le labbra in uno dei suoi sorrisi pericolosi. Gli avrebbe fatto pesare il fatto che non aveva concluso nulla, ma alla fine avrebbe saputo cosa fare. Avrebbe riportato l’ordine fra le file dei suoi uomini con poche parole fredde e decise, avrebbe fissato con sufficienza i suoi avversari e snudato Tokijin con eleganza. Sarebbe scattato, e i suoi uomini con lui. Pochi istanti, perchè il terreno di tingesse di rosso, perchè i muri venissero arabescati di sangue e il tanfo di cadaveri bruciati e corrosi dal veleno ammorbasse l’aria. Se Sesshomaru fosse stato presente, tutto si sarebbe risolto in un attimo.

 

Inuyasha piegò la testa sotto il peso di quella consapevolezza. Non sarebbe mai stato degno del fratello. Strinse gli occhi e rialzò il viso verso l’ingresso del palazzo. La porta si socchiuse e la testolina di Rin fece capolino assieme al musetto di Kiba. Quella bimba...Era troppo pericoloso uscire. Scambiò un’occhiata con Shin e Homoe, appena sopraggiunta, e dopo aver afferrato Kagome per la vita saltò sul sunoko. Appena arrivato, Rin gli si aggrappò ad una gamba. Come faceva con Sesshomaru. Era spaventata. Tanto spaventata. E Inuyasha-kun le ricordava tanto il suo signore, la protezione che lui le aveva sempre dato anche se non lo dimostrava mai apertamente. Strinse forte la stoffa degli hakama, strofinandovi contro le testolina arruffata e il viso bagnato di pianto. Voleva che tornasse Sesshomaru-sama, voleva andargli in contro e regalargli il suo sorriso, voleva che la guardasse e poi tornasse a camminare per poterlo seguire, voleva la sua mano sulla testa, in un gesto impacciato e strano.

 

Artigli nei capelli, e un certo nervosismo nell’accarezzare quella testolina scura. Inuyasha non capiva bene nemmeno lui il perchè di quel gesto, ma gli era venuto naturale. Come quando Kagome era triste e lui la voleva consolare. Si sedeva accanto a lei e le accarezzava la testa, quasi che la sua mano avesse il potere di scacciare le sue paure. Si era chiesto se avrebbe funzionato anche con Rin, si era chiesto se si sarebbe spaventata. Aveva allungato la mano, sfiorando appena i capelli per poi premere leggermente. Adesso, Rin lo fissava a metà fra lo stupita e il sollevata. Lui ritrasse lentamente la mano, e la bimba si toccò i capelli, proprio nel punto dove prima c’era la mano dell’hanyou. Lo stesso contatto che ogni tanto il suo signore le concedeva, lo stesso calore della mano che la vuole confortare. Sorrise ad Inuyasha tendendo le mani verso di lui: voleva essere presa in braccio.

 

“Rin è sicura che Inuyasha-kun ucciderà tutti i demoni cattivi. Come farebbe Sesshomaru-sama”

 

Inuyasha potè solo annuire con un leggero sorriso, mentre la bimba gli si stringeva di più al collo. Non aveva alcun diritto di deludere le certezze di Rin. La passò a Kagome e si voltò nuovamente verso la piazza d’armi. Era stufo. non gli piacevano per nulla le cose che andavano troppo per le lunghe. Adesso, voleva mettere fine a tutto. Gettò un’occhiata a Sango, che si stava disimpegnando da alcuni demoni troppo fastidiosi. Alle mura, la resistenza teneva e mentre lui si era allontanato qualche veterano aveva preso il controllo della situazione, anche se continuava a lanciare occhiate nella sua direzione. Sembravano impazienti che lui tornasse fra loro per condurli e comandarli. Per ultimo, si soffermò su Homoe e Shin, che stavano tenendo libero il centro dello spiazzo. In Principe del Kansai stava dando fondo a tutte le poche forze che aveva recuperato per difendere la casa del suo avversario. Senza senso, pensò Inuyasha, ma avrebbe avuto tempo per chiarirsi le idee.

 

Gettò un’occhiata da sopra la spalla a Kagome, che ancora teneva in braccio Rin. La vide annuire sicura, e si sentì riempire di determinazione. All’ultimo, incrociò occhi blu cerchiati di rosso. Uno sguardo smarrito e angosciato che gli fece stringere il cuore. Alessandra. Era il fantasma dei mesi passati, con i capelli scarmigliati e il kimono sgualcito.

 

Quando, poco dopo l’alba, si era recato negli appartamenti di suo fratello per cercare di convincerlo a portarlo sul campo di battaglia, non aveva trovato Sesshomaru, ma Alessandra. Era rannicchiata in un angolo, il kimono scomposto e le mani strette attorno alla testa. Non piangeva, ma gli occhi dilatati erano gonfi e cerchiati di rosso. Aveva pianto. Tanto, anche. Ne ebbe la conferma quando l’aveva sentita pronunciare il nome di suo fratello. Un tono roco, raschiato nella gola. Non si era accorta di non esser più sola nella stanza. E poi, c’era quell’odore. Un odore forte, ferino. Inuyasha aveva percepito distintamente l’odore di suo fratello, ma sembrava più intenso, più violento del normale. Era ovunque in quella stanza, e soprattutto addosso ad Alessandra. Odorava di demone, di Sesshomaru, come non si era mai accorto. Come non era mai accaduto.

 

Si era inginocchiato davanti a lei, costringendola a togliere le mani dai capelli sconvolti. Era terrorizzata. Tremava e respirava pesantemente, una spalla del kimono era scesa lungo il braccio, a scoprire la pelle e il decoltè. Inuyasha aveva inghiottito a vuoto. Sentiva la gola innaturalmente secca. Se Sesshomaru aveva osato farle qualcosa, se Alessandra era in quello stato perchè il demone aveva osato alzare le mani su di lei, cercare di forzarla alle sue voglie, se l’aveva violata lui...lui...

 

Aveva sentito braccia avvolgersi al suo collo, mani aggrapparsi convulsamente alle maniche del kariginu e un respiro violento cozzare sul suo petto. Alessandra, appena lo aveva riconosciuto, si era gettata nel suo abbraccio, affondando le testa nel suo petto e artigliandosi a lui come se fosse l’unica cosa che le impedisse di cadere, di sprofondare in un baratro oscuro. Inuyasha l’aveva lasciata sfogare, e lentamente aveva cercato di stringerla per provare a confortarla. Si era mosso pianissimo, insicuro sulla reazione che avrebbe potuto provocare. Sapeva benissimo che la ragazza rifuggiva il contatto fisico, lo aveva provato sulla sua pelle. Alessandra, però, in quel momento era troppo sconvolta per realizzare le braccia che la cullavano. Sentiva ancora su di sè le mani di Sesshomaru, il suo respiro soffiarle sulla pelle, le labbra sulle sue, nei capelli, lungo la gola, sulla spalla. I capelli scivolare fra le dita, la passione e la rabbia esasperata dei baci, delle carezze. Lo sguardo eccitato e acceso, i barbagli che il sole strappava al vuoto di quegli occhi, la disperata violenza con cui si era staccato da lei.

 

“Alessandra...”. Inuyasha aveva tentennato. Non era certo facile porre una simile domanda. Si era umettato le labbra, aveva schioccato la lingua e richiuso subito la bocca, pentendosi delle parole che sarebbero potute sfuggirgli. Eppure, doveva sapere, cercare di capire.

 

“Sesshomaru...Sesshomaru ti ha...ti ha...”

 

Era difficile. Troppo difficile da dire. Gli era pressochè impossibile pensarlo, figuriamoci chiederlo. Non riusciva a vedere suo fratello perdere il controllo fino a usare violenza ad Alessandra. Un altro demone certamente, ma non lui. Non il Principe. Non il freddo e controllato Sesshomaru. Eppure, non era un pensiero così impossibile. Dopotutto, era un maschio anche lui, e anche se sotto strati di ghiaccio aveva un corpo che rispondeva a pulsioni e sensazioni fisiche. E la vicinanza di una ragazza, di Alessandra, poteva benissimo aver risvegliato in lui il suo istinto...il suo istinto...Inuyasha era arrossito. Oh, insomma! Avrebbe benissimo potuto desiderare di averla nel letto. In modo diverso dalle innocenti notti che Alessandra gli aveva detto trascorrevano.

 

“Tornerà...Tornerà, vero?... Me l’ha promesso...Tornerà da me...Mi ha detto di aspettarlo...Io...Io lo aspetto...perchè...perchè lui mantiene la parola, vero?...Lui non mente, non sa mentire...”

 

Inuyasha l’aveva stretta di più a sè. Iniziava a capire. Il timore di poter perdere Sesshomaru in quella battaglia aveva fatto cedere la maschera che Alessandra doveva essersi imposta in quei mesi per far fronte alla corte e gestire una relazione che era tutto fuorchè semplice. In effetti, la prima volta che l’aveva vista, Alessandra gli aveva fatto una strana impressione. Gli era sembrata...come dire...Perfetta! Ecco, tanto composta e controllata da sembrare falsa. Anche quando aveva litigato con suo fratello il tutto era sembrato artificioso. Per nulla rassicurante e tranquillo, ma come frenato da qualcosa. E quel qualcosa era l’autocontrollo che probabilmente, consciamente e anche inconsciamente, Alessandra si era sempre autoimposta. Adesso, però, era crollata. Era fragile, vulnerabile fra le sue braccia, tremante e spaurita come una bambina. Inuyasha aveva immaginato che Alessandra non fosse nemmeno del tutto lucida in quel momento, che non avesse pienamente realizzato di esser abbracciata a lui e non a Sesshomaru.

 

“Inuyasha...Ti prego, dimmi che non morirà...”

 

No. Si era sbagliato. Alessandra sapeva perfettamente chi fosse, e non si era preoccupata di nascondergli il suo dolore, il suo stato d’animo. Le aveva sollevato il viso, e le aveva asciugato le lacrime; aveva risistemato il kimono evitando di guardarla per non esser colto dall’imbarazzo. Aveva tergiversato per trovare le parole giuste. Non aveva dubbi che suo fratello avrebbe vinto lo scontro, lo conosceva meglio di quanto entrambi ammettessero. Il dubbio era se quella vittoria non gli sarebbe costata più di quanto avesse supposto. Affrontare Morigawa non era uno scherzo già in condizioni normali, ma farlo anche privo della vista, per quanto l’allenamento e l’abitudine lo avessero impratichito, poteva significare comunque la morte per Sesshomaru.

 

“Certo che non morirà!”

 

Non poteva scoraggiarla, non poteva ferirla ulteriormente. Doveva apparire sicuro di se stesso, anche se avrebbe voluto lui stesso sentirsi dire quelle parole. Doveva convincere Alessandra, e se stesso.

 

“E se non torna subito a palazzo, giuro che ce lo trascino io di persona! A costo di infangargli la sua bella stola di pelliccia!”

 

Era riuscito a strapparle un sorriso, nonostante la voce un po’ roca. L’aveva accompagnata all’ospedale e poi...poi era avvenuto l’attacco, e adesso, vedersela davanti come quella mattina gli fece temere che potesse crollare di nuovo. E allora le sorrise. Perchè neanche lui aveva intenzione di lasciarci la pelle, in quello scontro. E meno di tutti Sesshomaru avrebbe permesso che qualcuno lo uccidesse.

 

 

*****

 

 

Soddisfatto.

Sì. Poteva proprio dirlo. Un ghigno gli storse le labbra. Stava andando tutto come nei suoi piani, anzi forse ancora meglio di quanto si aspettasse. Carezzò la katana che gli pendeva dal fianco, ticchettando leggermente sull’elsa con gli artigli. Non era per nulla impaziente; adorava sentire l’adrenalina salire, percorrere ogni fibra del suo corpo a riscaldare il sangue, fino ad infiammare il cervello e anestetizzare ogni altra sensazione. La battaglia era la miglior amante che avesse mai avuto. Compiacente, appassionata, violenta, imprevedibile, eccitante. Adorava la sensazione di euforia che lo prendeva, l’eccesso che sentiva in corpo, gli spasimi e il sudore che lo attraversavano. Meglio di una notte d’amore, meglio della seduzione della più esperta yasha. La battaglia, poi, non è mai fedele, e questo lo conquista ancora di più. Lei c’è sempre, ma cambia amante senza preoccupazioni e senza pensieri. Un istante è al tuo fianco, e l’istante dopo si è concessa al tuo avversario. Un po’ come la vittoria. Va incatenata se la si vuole trattenere. Sedotta e schiavizzata a te. Al vincitore.

 

Puoi ottenere la vittoria, ma la battaglia sarà sempre un’amante. La più appagante delle tue amanti. Con le labbra accese dal sangue dei caduti, con la pelle bianca come i cadaveri, i capelli inariditi dalla distruzione e scarmigliati dal furore, gli occhi infiammati di follia e godimento, il respiro caldo e molle della trepidazione. Una bella donna; anzi, una bellissima donna. Desiderabile, appetibile, e mai conquistabile. Ma il divertimento è proprio quello: attirare la sua attenzione. Si concede, forse anche troppo facilmente. Indistintamente. A demoni e ningen. Non le importa l’amante. Basta che la faccia godere, che le dia tutta la violenza, la rabbia, la perdizione di cui è capace. Lei prende. Prende e basta. Non concede mai. Si lascia toccare, ma non la puoi imprigionare. La senti al tuo fianco mentre combatti, la senti sfiorarti mentre affondi la mano in un corpo, ti bacia sul sangue che ti macchia la pelle, ti eccita con i rantoli di un morente.

 

Morigawa ne era certo: la battaglia è la migliore amante di un demone. E come ogni amante va fatta aspettare, va esasperata e fatta sentire desiderata. Solo così la si può avvicinare, solo così la si può conquistare. E lei, sedotta, presa, ceduta, ti darà il piacere più intenso, il godimento più profondo. Fino a ottenebrarti la mente. Fino a lasciarti con il respiro rotto e la pelle bagnata di sudore e sabbia. In bocca, il sapore dolce e rovente della soddisfazione. Dell’appagamento.

 

Sistemò meglio gli spallacci della corazza, con meticolosa lentezza ed esasperante indifferenza. La battaglia che si consumava nella piana lo entusiasmava e lo lasciava apatico. Non era ancora giunto il suo momento; era ancora troppo presto per scendere in campo e infliggere il colpo di grazia. Voleva farli stancare, prima. Voleva vederli grondare sangue e sudore, ansimare e crollare per poi rialzarsi nel disperato tentativo di resistere. Di illudersi di potercela fare. Di poter ottenere la vittoria. Voleva conceder loro il beneficio dell’illusione. Strappargliela sarebbe stato ancora più soddisfacente. Le loro speranze naufragare, gli occhi dilatarsi nella drammatica consapevolezza e la promessa di una rovina totale a sussurrare nelle orecchie. Godimento puro.

 

Si lisciò il mento mente faceva vagare lo sguardo sullo scontro in atto. I suoi uomini erano dispersi in drappelli, ingaggiando scontri furiosi con gli uomini si Sesshomaru. Cadaveri ammucchiati a terra, lacerati da artigli, armi, corrosi da acidi e veleni. Violenza pura. La forza della loro razza superiore, la potenza distruttiva di loro demoni concentrata davanti ai suoi occhi. Urla, gemiti, lamenti strazianti. Sangue che sgorga, che sprizza nell’aria e imbratta la terra. Si leccò le labbra con gusto. Eccitante. Stimolante. Appagante.

 

Avevano provato a fregarlo, ed era andata male. Il ningen che aveva cercato di impersonare suo figlio, adesso, si dimenava come un leone ferito. Al limite. Ancora poco, e sarebbe crollato. Concedeva loro il fatto di aver ben congeniato quel piano: se fossero stati presenti Yashi e Koji, forse avrebbe anche potuto funzionare. Si sarebbero accontentati dell’odore familiare di cui le vesti di quel ragazzo erano intrise per accorrere da lui e fermare lo scontro imminente. Peccato. Per loro. Lui non era uno stupido. E quello stratagemma era stato del tutto inutile. Un ronzio gli fece sollevare gli angoli della bocca a scoprire i canini appuntiti. I saimyosho. Doveva ricordarsi di ringraziare Naraku per quell’aiuto inaspettato. Senza quegli insetti venefici, forse le cose avrebbe rischiato di andare diversamente. Quel ragazzo, quel monaco, non era mai ricorso al vortice che lo malediva. Si era sempre limitato a erigere una barriere a protezione della breccia che avevano aperto nelle mura. Se il suo alleato non lo avesse riconosciuto nonostante il travestimento e non lo avesse avvertito, benchè lo stratagemma fosse fallito, l’houshi sarebbe riuscito a risucchiare non pochi dei suoi uomini. Aprendo il foro a sorpresa.

 

Scosse la testa. Non era più un suo problema. Gli insetti velenosi lo avrebbero tenuto a bada, impedendogli di usare il vortice, e primo o dopo anche i suoi fuda sarebbero terminati. Assieme alla sua resistenza. Al momento, riusciva a resistere contando su una lancia recuperata da un cadavere e soprattutto sulla protezione di alcuni lupi di Koga.

 

Morigawa cercò nella mischia il figlio del suo vecchio amico. Hidoshi poteva esser fiero del suo erede. Forte e selvaggio, indomito. Dilaniava e uccideva con la furia del vento. Nella velocità riponeva una sicurezza che gli dava non poco vantaggio. Dovette ammettere a se stesso che non gli sarebbe dispiaciuto trovarselo di fronte e doverne saggiare la forza ferina. Koga grondava sangue dagli artigli, passando come un fulmine nero fra gli avversari. Dietro di sè, solo cadaveri squartati e moribondi che i suoi lupi finivano. La schiuma alla bocca per lo sforzo e la tensione, gli occhi assetati. Ogni tanto, un bagliore dorato sembrava attraversare il bulbo di Koga. Era un istante, ma per Morigawa bastava a cogliere lo sforzo del Principe degli Yoro a non abbandonarsi totalmente al suo sangue demoniaco. Patetico. Non voleva trasformarsi. Eppure, in forma animale, avrebbe potuto liberarsi dei suoi avversari con estrema facilità. In fondo, però, si trattava sempre del figlio di Hidoshi. Probabilmente, aveva ereditato dal padre l’inclinazione a non usufruire della sua forza piena se non in caso di estremo bisogno. Un peccato, però. Gli sarebbe piaciuto ammirare la potenza nervosa e guizzante dell’ultimo principe degli ookami.

 

Tuttavia, forse solo intervenendo di persona ci sarebbe riuscito. Ma non era il caso di sprecarsi con lui. Koga sarebbe stato un buon divertimento, un’altro trofeo da aggiungere alla sua vittoria, se fosse sopravvissuto alla morte del suo alleato. Annuì a se stesso. Se dopo aver ucciso Sesshomaru lo avesse trovato ancora vivo, si sarebbe divertito anche con lui. Il ningen lo lasciava volentieri ai suoi uomini, e anche Kumamoto non costituiva una minaccia. Gli scappò un ghigno di commiserazione. Eccolo lì, il principe di Kita. Il braccio destro del grande Inutaisho. Si batteva ancora con vigore, ma ormai era solo un vecchio demone che trascinava la sua carcassa. Non era nemmeno capace di assumere la forma canina per liberarsi dei pochi insetti che lo infastidivano. Davvero penoso. Eppure, se lo conosceva bene, poteva anche trattarsi di una mascherata. Gliela aveva vista mettere in atto una volta, in un combattimento in cui erano ancora alleati.

 

Ricordava bene che lo aveva creduto spacciato, e che aveva cercato in tutti i modi di raggiungerlo per prestargli aiuto prima che gli assalitori finissero a terra o nelle fauci di un superbo cane dal pelo fulvo. Kumamoto sapeva fare della sua apparente debolezza e della sua lucida calma la miglior arma per colpire a sorpresa. Poteva riservare quella carta anche per quel duello. In definitiva, qualunque fosse la realtà, non gli interessava. Non in quel momento.

 

“Sta resistendo bene, ne convieni?”

 

Morigawa voltò appena la testa, accogliendo il suo alleato con un sorriso obliquo. Naraku riusciva a sorprenderlo sempre di più. Aveva smesso la pelliccia di babbuino e la sua aria remissiva e accondiscendente per rivelare un corpo di uomo saldo e affidabile in combattimento. Un corpo artificiale, lui lo sapeva bene; un ricettacolo delle parti migliori dei demoni che era riuscito a inglobare e che lo avevano generato. Una perfetta macchina per combattere. Molto abile, da parte sua, e molto prudente anche, nascondergli fino all’ultimo la sua effettiva potenza. Un ottimo stratagemma per tenersi sempre aperta una via di fuga se le cose si fossero complicate e avessero preso la piega sbagliata. Non si fidava di lui, ma non gli negava di certo amicizia. Dopotutto, se il progetto di spodestarlo non era riuscito e se i suoi figli e sua moglie, in quel momento, non erano più in condizioni di nuocergli, lo doveva a lui. Era stato suo anche il progetto di attaccare il palazzo di Sesshomaru durante quello scontro. Con le difese ridotte al minimo e gli infermi, espugnarlo era un gioco da ragazzi. Nessun pericolo con la Famiglia e il Congresso: l’idea era partita da Naraku senza consultare il suo alleato, e lui non si preoccupava certo di soggiacere alle regole che governano i demoni. Se ci fossero state complicazioni, Naraku era pronto ad accollarsi la responsabilità dell’attacco; in cambio, però voleva la morte del secondogenito di Inutaisho e la donna che era sempre con lui. Morigawa non aveva avuto alcun motivo di opporsi a quella proposta vantaggiosa. Non gli interessava un dannato bastardo e la sua sgualdrina. L’unica cosa che gli premesse, in quel momento, ce l’aveva davanti agli occhi.

 

Sesshomaru affondò maggiormente una mano nel demone che gli si era affondato contro. Raschiò nella carne imbottendolo di veleno e lo trapassò. Se ne liberò con un gesto fluido per poi artigliare l’aria con lame di veleno. Non sembrava dar segni di cedimento, ma la fronte grondava sudore e i capelli erano appiccicati al volto. Con un gesto secco slacciò la pesante pelliccia. Ormai, era diventata solo un inutile ingombro, zuppa di sangue e sudore. Però, dovette ammettere a se stesso, la corazza di suo padre lo aveva salvato più di una volta. Sfiorò il pettorale facendo stridere il metallo. Sentiva le incisioni di denti, artigli, veleni. Lo aveva protetto assorbendo colpi di cui non avrebbe saputo individuare la provenienza. La cecità lo metteva in forte svantaggio su un campo di battaglia di quel genere: attorniato da mille rumori, voci, odori, non poteva far affidamento sui suoi sensi per le lunghe distanze e limitarsi a seguire l’istinto.

 

Continuava a squarciare corpi che gli si avventavano contro, affondando nella carne calda e pulsante con gli artigli, aprendosi la strada con fendenti precisi quando Tokijin recuperava un po’ della sua carica demoniaca, affondando i denti nella giugulare dell’avversario, nella spalla, nella testa se fosse stato necessario. Sentiva il sangue fluirgli in bocca, macchiargli il kimono appesantendolo e appestandolo con un odore metallico. Dilaniò il petto dell’incauto che aveva osato attaccarlo alle spalle conficcandogli i denti nella spalla sinistra, lì dove le giunture della corazza erano più fragili. Il sangue ruscellò dalla ferita, scendendo a bagnargli il petto bagnato di sudore e stanchezza. Rivoli caldi che si portavano via lentamente un po’ di forza.

 

Si sentì trascinare a terra. Un oni probabilmente. Confidando nella sua mole, lo aveva rovesciato e adesso cercava di fracassargli la testa con qualcosa. Percepì il sibilo dell’aria sfiorargli il viso. Peccato. Aveva perso. Costrinse il corpo a scattare verso l’alto, azzannandolo alla gola. Le braccia erano ancora stette a terra. L’oni urlò scuotendo la testa. Strinse di più. Perforò la carotide, spinse le zanne sempre più in profondità, soffiando aria e sangue dalle narici. Chiuse. Strappò. La trachea, l’esofago, la laringe furono recise in un colpo solo, e il demone stramazzò al suolo. Sesshomaru si risollevò in ginocchio. Era consapevole che attorno a lui, in quel momento, il tempo si era fermato e che i suoi avversari lo stavano fissando allibiti. Aveva ancora in bocca frammenti di quella carne. Per un istante, gli balenò l’idea di inghiottire. Di assaporare quella carne sanguinolenta e molle. Avrebbe fatto ancor più impressione della sua figura con l’armatura imbrattata e il viso grondante sangue avversario. Si risollevò in piedi e sputò a terra sangue e carne, pulendosi la bocca con il dorso della mano. Il solo pensiero di mangiarla gli aveva dato la nausea. E poi, era scattato qualcosa in lui. La consapevolezza che, se lo avesse fatto, non sarebbe più riuscito a baciare Alessandra. Una stupidaggine. Ma lo aveva fermato.

 

Morigawa si era gustato la scena con un sorriso compiaciuto. La violenza e l’efferatezza del principe dei demoni corrispondeva al vero. Non risparmiava nemico che gli si parasse di fronte. Totalmente diverso dal padre. Ammetteva a se stesso che quando lo aveva visto comparire nella piana, con quell’armatura lucente e i capelli raccolti in una coda alta, per un istante si era sentito pietrificare. Come se avesse rivisto Inutaisho. E istintivamente aveva raddrizzato la schiena, mentre un sottile senso di gioia gli aveva attraversato il corpo in un fremito. In quei brevissimi istanti, si era risentito catapultare indietro, a più di quattrocento anni di distanza, in un tempo in cui lo avrebbe atteso schierato prima di dirigersi con lui verso qualche impresa. Verso combattimenti in cui si guardavano le spalle a vicenda. Aveva scosso la testa. In passato era e doveva rimanere tale. Inutaisho lo aveva tradito, offrendogli un’amicizia falsa e irrisoria. Sbattendogli sempre in faccia la sua superiorità. Non aveva nemmeno provato a sostenerlo per testare se fosse stato in grado di controllare Sounga. Si era limitato a guardarlo. Con odioso, intollerabile pietà.

 

Forse, gli avrebbe fatto un certo effetto combattere contro Sesshomaru in quelle vesti. Fisicamente, il Principe assomigliava in modo impressionante al padre. A Inutaisho da ragazzo, quando aveva l’età del figlio. Tuttavia, Morigawa non poteva ingannarsi. A parte la somiglianza visiva, nulla accomunava Sesshomaru al padre. Inutaisho si sarebbe gettato nella mischia con Tessaiga brandita, urlando e infischiandosene di approntare una strategia efficiente. Avrebbe contato principalmente sulla sua tenacia e la sua determinazione a vincere. E di certo di sarebbe ritrovato accerchiato, isolato in mezzo agli avversari che avrebbe atterrato. Non si sarebbe preoccupato di tenersi una via di fuga, sicuro che i suoi compagni sarebbero accorsi in suo aiuto se fosse stato necessario. Sesshomaru, invece, avanzava calibrando bene ogni passo, assicurandosi che alle sue spalle ci fossero i suoi uomini a tenere le posizioni e cadaveri avversari. Non interveniva a difesa di qualcuno, non si affiancava a Kumamoto o Koga nello scontro. Procedeva sicuro e solo. I capelli a frustare l’aria e piccoli righi indispettiti se un avversario si rivelava più tenace del previsto. Ora, con i capelli sciolti per un colpo avversario che aveva reciso il nastro, Sesshomaru appariva davvero un ragazzo. Un ragazzo dell’età di suo figlio. E con una rabbia, un’efferatezza e una freddezza capace di raggelare il più anziano e consumato demone.

 

Lo vide liberarsi di un altro soldato e muovere lentamente la testa. Morigawa ebbe un sorriso ironico. Lo stava cercando. Stava procedendo alla cieca nella speranza di trovarselo di fronte. Se non fosse stato privo della vista, certamente Sesshomaru si sarebbe diretto immediatamente da lui. Perchè non si confà ad un Principe incrociare la spada con inutili, deboli sottoposti. Invece, Sesshomaru si era costretto all’umiliazione di avanzare concedendosi agli uomini del suo avversario. Sentiva il suo odore nell’aria, ma il tanfo di sudore, il metallo del sangue e la confusione che regnava intorno a lui gli impedivano di identificare Morigawa con sicurezza. E non sarebbe stato tanto sciocco da avventurarsi in uno scontro senza esser certo di caso si sarebbe trovato di fronte. Non per paura, ma perchè orami aveva capito che Morigawa non era ancora sceso in battaglia. Che quello scontro era una farsa ideata apposta per stancarlo e fargli consumare energie. Recuperò Tokijin e la soppesò al fianco. Benissimo. Se il suo nemico aveva voglia di giocare con lui come il gatto col topo, la sua pazienza si stava invece esaurendo. Fece scattare gli artigli fino a creare una frusta di veleno che sferzò l’aria e mutilò gli avversari che lo stavano accerchiando. Pesci piccoli. Avrebbe costretto Morigawa a spazientirsi e scendere in campo.

 

Da parte sua, il Principe del Kansai stava fremendo. I suoi uomini cadevano sotto i suoi occhi per effetto del suo avversario, e anche se gli alleati di Sesshomaru erano impegnati su più fronti e lo scontro aveva raggiunto una fase di stasi, il Principe dell’Ovest continuava a mettere un piede davanti all’altro, macchiandosi sempre di più di sangue e lamenti. Non conveniva fargli perpetrare quel massacro con il solo scopo di indebolirlo. Ghignò accennando a Naraku e ricevendone in risposta un risolino compiaciuto. L’hanyou sarebbe rimasto a coprirgli le spalle, nel malaugurato caso che Sesshomaru avesse dovuto ideare qualcosa che gli avrebbe permesso di scampare alla morte. In fondo, interessava anche a lui la dipartita di quel demone che lo aveva sempre guardato con un disprezzo irritante. E poi, era stato l’unico che non era riuscito a raggirare ai suoi scopi. Uno smacco per lui, che faceva della sua abilità di manipolare gli eventi e le menti la sua carta vincente.

 

Sesshomaru si avvide all’improvviso che attorno a lui era sceso un silenzio innaturale. Affondò maggiormente la mano nel corpo che premeva a terra e chiuse la presa sul cuore. Un ultimo spasimo, e sentì il sangue pulsare fra le sue dita. Si risollevò in piedi con calma. Adesso, lo aveva di fronte. Lo sentiva bene. Morigawa doveva distare meno di cinquanta metri da lui. Ci era riuscito: lo aveva fatto uscire allo scoperto. Si concesse un brevissimo sorriso. Affrontare un vecchio alleato di suo padre significava affrontare anche lo spettro del genitore. Dimostrare finalmente a se stesso che era degno di lui; anzi, che lo aveva superato. Mostrare quello che non aveva potuto fargli vedere in quella maledetta notte, sotto la luna che si alzava dal mare.

 

Sfiorò Tessaiga che pulsava al suo fianco, ma si risolse a snudare Tokijin. La zanna, probabilmente, rispondeva al richiamo della youki di suo padre che ancora sopravviveva in quella del suo avversario. Affrontarlo con l’eredità che gli era stata lasciata sarebbe stata un’imprudenza inammissibile: Morigawa era un fantasma del passato, ma in carne ed ossa; non un cadavere resuscitato come quel misero umano di cui si era servita Sounga. Con lui aveva funzionato, ma questa volta era diverso. Peccato solo che non cambiasse quell’inquietudine che gli si agitava nel cuore, quel senso di inadeguatezza e di rimpianto.

 

Morigawa lo vide mettersi in posizione, ma restare immobile. Non attaccava. Suo padre non avrebbe di certo aspettato, anche se non conosceva il suo avversario. Il Principe, invece, si dimostrava meno soggetto alla passione. Ottimo. Ancora più stimolante affrontarlo e sconfiggerlo. Estrasse a sua volta la katana e acconsentì al fatto che doveva fare lui la prima mossa. Sesshomaru era disposto a mantenere quella situazione di stallo anche all’infinito, se smuoverla avrebbe comportato il fatto di esser lui a dover attaccare per primo. Non era uno stupido, e sapeva benissimo che il suo avversario vantava una maggior esperienza di lui e soprattutto aveva combattuto con suo padre. Certi trucchi, certi piccoli insignificanti accorgimenti che a volte gli avevano salvato la vita sarebbero stati, quindi, inutili con Morigawa.

 

Se lo ritrovò addosso senza preavviso, incrociando le spade e socchiudendo istintivamente gli occhi alle scintille e alle scariche di energia. Sesshomaru fu costretto a spostare indietro un piede per aver maggior presa sul terreno e non esser sbilanciato. Sentiva l’elsa fremere nelle sue mani e i menuki tagliargli la pelle, inzuppando di sangue le nastrature di seta e pelle. Morigawa aveva una potenza d’urto di molto superiore alla sua; avrebbe dovuto far molta attenzione perchè avrebbe anche potuto disarmarlo se avesse colpito senza che lui riuscisse a prevederlo e quindi a rinforzare la presa sul piatto o il dorso della katana. Si disimpegnò tagliando l’aria davanti a sè con gli artigli e costringendo il suo avversario a reclinare la testa di scatto per non venir colpito. Aveva l’affanno, ed era solo il primo confronto. Tokijin fumava arroventata dallo scontro delle due youki. Non avrebbe retto a lungo una simile pressione.

 

Morigawa si preparava ad assalirlo di nuovo. Era rimasto piacevolmente sorpreso di non averlo sbilanciato sotto l’impatto del colpo. Sesshomaru era riuscito a recuperare l’equilibrio e lo aveva costretto anche a ritrarsi. Tuttavia, la sua katana, benchè ottima, non avrebbe resistito a lungo. Aveva fatto forgiare la sua spada dai migliori kaji del Continente; solo Sounga, o forse Tessaiga sarebbero riuscite a spezzarla. Ma, a quanto vedeva, Sesshomaru aveva con sè solo Tenseiga, l’artiglio inutile in battaglia. Storse la bocca. Aveva sbagliato a sottovalutarlo a quel modo e a optare per una spada qualsiasi, invece di portare con sè Tessaiga. Gli avrebbe dimostrato che il Principe del Kansai sarebbe stato degno di esser affrontato con la zanna di Inutaisho.

 

Gli fu di nuovo addosso, e si compiacque di avvertire l’opposizione iniziare a indebolirsi. La ferita alla spalla iniziava a fiaccare la resistenza di un braccio, e Sesshomaru ne risentiva, benchè il suo viso non tradisse un’emozione, eccezion fatta per il sudore che gli bagnava la fronte. Stava facendo fatica. Molta fatica a reggere l’impugnatura. Le lame si piegarono verso la testa del Principe dell’Ovest. Sesshomaru avvertì lo sfrigolio del calore sulla sua pelle. Doveva allontanare la lama prima che fosse troppo tardi. Piegò leggermente le ginocchia per dare l’illusione di un prossimo cedimento e raccolse le forze nel disperato tentativo di ricacciare indietro il suo avversario. La mossa riuscì solo a metà. Morigawa, ingannato al principio, aumentò immediatamente la pressione e, approfittando, del fatto che il suo avversario era cieco, concentrò tutta il suo peso in una mano, liberando indisturbato l’altra.

 

Fu un istante. Sesshomaru avvertì un leggero cambiamento nella spada avversaria, ma non riuscì a definirlo. Sentì solo degli artigli perforargli la spalla, insinuandosi nella ferita che già aveva. Gli sentì stringersi attorno alle sue ossa e iniziare a corrodere le carni con dell’acido. La pelle bruciava e il sangue sfrigolava sottoposto a quel contatto. Morigawa ruotò leggermente la mano strappandogli un sussulto. Gli artigli iniziarono lentamente a scendere verso il basso, strappando muscoli e terminazioni nervose, affondando sempre di più. Sulla corazza le decorazioni erano sparite sotto il sangue e l’inuyoukai sentiva il kimono farsi sempre più pesante e bagnato, appiccicato al petto da un qualcosa di vischioso che continuava a scendere lungo il suo corpo Sesshomaru ebbe per un istante l’impressione di esser sul punto di cedere. Non era più in grado di reggere la pressione del corpo di Morigawa e se non si allontanava al più presto il suo avversario lo avrebbe squartato.

 

“Non vali la metà di quanto valeva tuo padre”

 

Morigawa ormai lo aveva costretto in ginocchio. Gli si era avvicinato all’orecchio, compiaciuto della posizione di superiorità che aveva, e gli aveva soffiato nella testa quella verità. Quelle parole che bruciavano la mente e il cuore di Sesshomaru più del veleno che gli stava corrodendo le carni. Perchè erano vere. Maledettamente vere. Suo padre non si sarebbe mai fatto mettere in ginocchio, suo padre non avrebbe avuto difficoltà ad eliminare un demone simile. Ma lui sì. Lui era incapace di controbattere, incapace di finirlo. Anzi, anche solo di resistergli in un confronto corpo a corpo.

 

Sesshomaru strinse i denti in un ringhio greve che gli saliva dalla gola. Era disteso a terra, sotto il suo avversario. Morigawa continuava a premere la katana sempre più vicina al suo petto e intanto la mano nel suo corpo scendeva sadicamente verso il basso. Gli sussurrava all’orecchio la sua debolezza, e iniziò a paventargli davanti quello che avrebbe fatto una volta che lo avesse ucciso. Sentì la sua voce assumere una nota bassa e torbida mentre gli confidava che avrebbe riservato un trattamento speciale alla ningen che teneva a palazzo. A quell’archiatra che era riuscita a trovare un antidoto al veleno di Yaone.

 

Morigawa sollevò leggermente la testa nel vedere per un istante i lineamenti del suo avversario fermarsi nello stupore e poi contrarsi in un furore impotente. Sogghignò compiaciuto di aver trovato qualcosa su cui far presa per smuovere quella maschera di apatica superiorità. Calcò il discorso sulla ningen, con toni allusivi e volgari, fino a quando la sua risata si tramutò in un gridò di collera e dolore. La presa della spada di allentò di colpo così come la mano uscì dal corpo del demone. Sesshomaru approfitto della libertà di movimento per strisciare indietro e mettersi fuori dalla portata di Morigawa.

 

Il Principe del Kansai urlava colto da spasimi di furore e dolore. Non si era aspettato una mossa del genere, e adesso ne stava pagando le conseguenze. Stringendo i denti, afferrò il pugnale e lo strappò con un colpo deciso. Sentì il nervo ottico frantumarsi sotto quella pressione improvvisa, mentre la lama usciva dalla cavità oculare portando con sè il bulbo destro. Sesshomaru, approfittando delle chiacchiere del suo avversario, era riuscito a far scivolare una mano fino alla propria schiena, insinuarla sotto l’arcata dorsale e afferrare il tanto. Lo aveva sollevato all’improvviso e abbattuto sul suo avversario senza preoccuparsi di dove avrebbe colpito. Gli era sufficiente costringerlo ad allontanarsi da lui. Il pugnale era scivolato sull’osso zigomatico e si era conficcato nell’occhio. Adesso, Morigawa ringhiava cercando di arrestare il sangue che colava dall’orbita vuota e scendeva a imbrattagli il volto, le labbra e i denti. Si rannicchiò su se stesso e scattò cercando di afferrare alla gola Sesshomaru. Riuscì solo a strappargli uno spallaccio della corazza e parte del kimono, perchè il Principe, avvertendo un pericolo era rotolato di lato per istinto, sottraendosi all’artigliata che adesso stava corrodendo il metallo.

 

Morigawa si alzò in piedi ebbro di furia, folle di dolore e rabbia, e iniziò a concentrare la propria energia demoniaca. L’unico occhio che gli era rimasto si oscurò, mentre la sclera assumeva una colorazione rossastra. Il viso, le mani, il corpo iniziarono a perdere la forma umana e in pochi istanti Sesshomaru avvertì incombere su di sè la mole di Morigawa, ormai trasformato in un enorme cane nero, con il muso imbrattato di sangue e i denti scoperti in un ringhio assassino. Sesshomaru seppe di avere poco tempo. Doveva allontanarsi da lui subito. Prima che una distrazione lo portasse nelle sue zampe. Sentì l’alito rovente del demone sfiorarlo e ammorbarlo, ma riuscì a mettersi a distanza di sicurezza.

 

Strinse a sua volta i denti. In quelle condizioni, con la spalla lacerata, le energie al minimo e il respiro pesante non sarebbe mai riuscito a batterlo in forma umana, dal momento che doveva anche considerare che, non potendo contare sulla vista, la pericolosità e velocità dei suoi attacchi era diminuita di molto. Doveva affrontarlo in forma canina, benchè trasformarsi con quelle poche energie che gli rimanevano poteva benissimo esser paragonato a un suicidio. Il suo corpo, benchè demoniaco, non avrebbe retto a lungo in quello stato la fortissima pressione del sangue e della youki. I vasi sanguigni si sarebbero rotti, provocandogli un’emorragia interna che non avrebbe avuto il tempo reale di sanare con la sua capacità di autorigenerazione. Inoltre, il molto sangue perso non gli avrebbe consentito di mantenere al massimo per molto tempo la sua capacità offensiva e al contempo il livello di guardia. In definitiva, ammetteva a se stesso, avrebbe avuto a disposizione un solo attacco. Fallito quello, Morigawa lo avrebbe avuto alla sua mercè.

 

Lasciò scorrere la sua youki nelle vene, aumentandola lentamente per cercare di far abituare il suo corpo al cambiamento. Peccato che non avesse troppo tempo. In altre circostanze, forse si sarebbe potuto trasformare dilatando notevolmente i tempi. Ma su un campo di battaglia era superfluo ipotizzare una simile possibilità. I capelli si gonfiarono leggermente per effetto del leggero elettromagnetismo che la sua aura produceva, mentre le zanne si allungavano. Sbarrò gli occhi divenuti vermigli mentre la sclera si assottigliava e assumeva la caratteristica colorazione bluastra.

Era quasi al limite, pronto a cambiare, quando un sottile dolore alla testa lo colse di sorpresa. E più cercava di ignorarlo e continuare la trasformazione, più l’emicrania aumentava, raggiungendo i nervi degli occhi facendoli fremere. Sesshomaru sentì i propri bulbi oculari tremare, arrecandogli un dolore atroce. Peggio dell’acido che li aveva rovinati mesi prima.

 

Fu costretto a fermare la trasformazione, ma il dolore non accennava a diminuire. Al contrario, si faceva sempre più penetrante, artigliandogli il cervello e costringendolo a portare una mano alla testa in un inutile tentativo di bloccarlo. Se continuava così, gli avrebbe tolto tutta la lucidità. Distingueva a malapena i rumori più violenti, ma ormai le sue capacità sensoriali stavano naufragando. Fu sicuro che Morigawa era pronto ad azzannarlo, e che lui sarebbe stato incapace di difendersi. Ne sentì il respiro pesante lambirlo, e poi ringhi, latrati, arti che si spezzano, carni che si lacerano. Prima di esser costretto a piegarsi a terra, la testa che doleva all’inverosimile stretta fra le mani e un ringhio soffocato in gola, stretto fra i denti che si tingevano di rosso per il sangue delle gengive contratte.

 

 

*****

 

 

Paura.

Non sentiva altro. Paura. Paura. Le faceva battere il cuore, pulsare le tempie e accelerare il respiro. Quel sottile strato di agitazione che l’aveva attraversata da quando era arrivata a palazzo, la paura di essere inadeguata, la tensione dovuta alla guerra e agli scontri che si susseguivano sempre, l’ansia di non vederlo più tornare da un uno scontro...Era esploso tutto all’improvviso, trascinato dal precipitare degli eventi, dal timore di perderlo e dal pensiero di precipitare in quel vortice buio di disperazione e depressione in cui era vissuto per anni dopo la morte della sua famiglia.

 

Alessandra strinse di più le mani sul collo possente del cervo. Strinse gli occhi per fermare le lacrime che il vento e la trepidazione le strappavano. Inghiottì a vuoto e storse la bocca. La sua maschera di perfezione, la sua falsa sicurezza erano scivolate via dal suo volto e dalla sua anima insieme alle mani del demone sul suo corpo, alle sue labbra sulla sua bocca. Sesshomaru aveva infranto la sua debole, inesistente forza, annullandola in quelle poche ore che erano appena trascorse. Strofinò il dorso della mano su una guancia sporca e secca di lacrime ormai asciutte. Ricacciò indietro i capelli che sfuggivano allo shignone sfatto. Sentiva freddo nonostante l’aria pesante di maggio le gravasse ogni respiro. Sentiva freddo e brividi percorrerle il corpo. Le braccia che l’avvolgevano si strinsero leggermente attorno al suo corpo, e una voce scese a sussurrarle all’orecchio.

 

“Arriveremo in tempo. Vedrai”

 

Alessandra annuì e premette la schiena al petto di Inuyasha. Il calore dell’hanyou era così simile a quello dell’abbraccio di Sesshomaru, il profumo intenso e maschile, penetrante. L’odore di polvere e sudore, di uomo e della loro cavalcatura. Cercava di rassicurarla, ma anche lui era preoccupato. Le parole di Hidesuke suonavano troppo come un presagio negativo. Tutto quello che avevano dovuto affrontare in quelle ultime ore aveva un’aura di oscurità. L’attacco insensato dei demoni di Naraku, quell’aiuto inaspettato e sospetto, il sospetto che tutto fosse stato architettato per mettere in atto una trappola. Uno stratagemma ordito apposta per ottenere qualcosa. Il punto era cosa Morigawa o Naraku volevano ottenere.

 

Inuyasha strinse di più le redini e conficcò i talloni nel ventre del cervo. Non se ne era andato. Il senso di inquietudine che lo aveva preso non accennava minimamente a scendere. Saliva. Saliva e basta. Assieme all’adrenalina che andava a infiammargli il cervello. Smosse un po’ le orecchiette, cercando di captare i rumori lontani di uno scontro. Inutile. Il suo udito era ancora compromesso, e probabilmente ci sarebbe voluto ancora un po’ di tempo prima che tornasse come prima. In definitiva, doveva ammettere a se stesso, era anche stato fortunato. Quando quel maledetto demone serpente aveva iniziato a suonare quell’ hitoyogiri aveva avvertito un fastidioso formicolio alle orecchie. Poi, più la musica continuava, più il suono si trasformava in un sibilo acuto e insistente. Gli aveva dato fastidio all’inizio, e poi male. Un dolore che gli aveva trapassato il cervello con scariche violente. Gli era sembrato di poter impazzire. Si era portato le mani alle orecchie nel disperato tentativo di attenuare quel suono. Inutile. Aveva visto i soldati accanto a lui contorcersi in preda al suo stesso dolore. Alcuni si rotolavano a terra preda di spasmi dibattendosi impazziti nella polvere. Molti erano morti. Li aveva visti cadere a terra con il sangue che colava dai padiglioni auricolari spezzati. Con la vista annebbiata, si era accorto soltanto che qualcuno lo stava trascinando via dal ballatoio sulle mura. Aveva riconosciuto Sango un attimo prima di artigliarla in un raptus difensivo. Non sembrava risentire minimamente di quel maledettissimo hitoyogiri. Gli aveva parlato, ma lui era riuscito a distingue re a malapena il movimento delle labbra della ragazza. L’aveva allontanata da sè con un gesto brusco, facendola inciampare in un cadavere e finire a terra mentre sentiva il proprio sangue demoniaco iniziare a prendere il sopravvento. Sango aveva fissato con terrore le sottili strisce violacee farsi strada sul viso di Inuyasha, i canini allungarsi fino a vere e proprie zanne e gli artigli affilarsi, mentre i capelli diventavano più lucidi e fini. Kirara aveva ringhiato dietro di lei, avvertendola che a breve l’hanyou avrebbe perso il controllo di sè. L’orbita oculare era ormai completamente infiammata, e la sclera stava quasi per mutarsi del tutto.

 

Inuyasha aveva continuato a scuotere la testa nel disperato e vano tentativo di fermare quel dolore, la perdita del suo ego, di ricacciare indietro la bestia che si annidava in lui e che stava per scatenarsi. Se la sua trasformazione era legata alla follia cui lo spingeva il suono di quel dannato flauto, era pronto anche a perforarsi i timpani pur di non sentirlo più e non rischiare di perdere il controllo. Aveva allargato le braccia, e un attimo prima di conficcarsi gli artigli nei timpani si era sentito afferrare per i polsi. Kagome. Kagome lo aveva raggiunto e lo supplicava di fermarsi, di non ricorrere ad un gesto inutile ed estremo. L’aveva vista piangere attraverso quel velo rosso che colorava ogni cosa. L’aveva vista urlare, anche se la sua voce non riusciva a coprire quel suono maledetto. Si era sentito stringere in un abbraccio disperato e aveva ringraziato i kami che almeno un suo braccio fosse tanto malmesso da faticare a muoverlo. L’altro, poteva ancora controllarlo, ma non per molto. Aveva stretto i denti, conficcandosi i canini nella pelle viva, lasciando che un rivolo di sangue gli disegnasse il mento. Non voleva cedere. Non poteva farlo.

 

Il silenzio che gli aveva attraversato il cervello all’improvviso lo aveva lasciato esterrefatto e si era portato via le ultime energie che lo avevano sorretto. Si era accasciato fra le braccia di Kagome, respirando affannosamente e cercando di sfiorarsi le orecchie. Avevano continuato a dolergli. Quando aveva rialzato lo sguardo, aveva visto Shin arrancare nella sua direzione, sostenuto da Alessandra. Zoppicava vistosamente e il fianco era zuppo di sangue all’altezza dell’addome. L’inuyoukai cercava di arginare l’emorragia con una mano, e probabilmente era molto profonda. Se non gli avevano strappato l’intestino era stato solo pura fortuna. Si concesse uno sguardo rammaricato agli uomini che erano morti. Probabilmente, quell’ hitoyogiri emetteva un suono mirato per loro inuyoukai. Avevano resistito solo i demoni più potenti come Shin e quelli cui il suono giungeva meno intenso. E lui che era un hanyou. Un sorriso sarcastico. Quella era stata una delle poche volte che era stato contento della sua natura ibrida.

 

Si era risolleva faticosamente in piedi mentre i pochi superstiti si radunavano attorno a lui. Escludendo Kagome, Alessandra, Sango e Homoe e senza contare i cortigiani e le yasha che erano rimasti tappati nel palazzo, con una certa protezione anche da quel maledetto strumento, della guarnigione di difesa restavano appena una decina di uomini e qualche veterano. E tutti in condizioni gravi. Non avrebbero retto a lungo l’offensiva nemica che di certo si sarebbe scatenata di lì a poco. Inuyasha aveva stretto i denti e la mano sull’elsa di Tessaiga. Aveva maledetto per l’ennesima volta il fatto di non possedere la fredda razionalità di suo fratello, la capacità che aveva di trovare sempre una certa, ovvia, infallibile soluzione. Sesshomaru non considerava la sconfitta perchè era certo che sarebbe riuscito a far fronte ad ogni situazione. In quel momento, aveva sentito il disperato bisogno che qualcuno gli dicesse che potevano ancora farcela, che il fatto che era un hanyou non significava niente e che avrebbero trovato il modo di resistere.

 

Le grida e il cozzare delle armi era sempre più frenetico. Gli uomini sopravvissuti si erano disposti in due file fra Inuyasha e la porta d’ingresso, le armi in pugno e un ghigno di sfida sulle labbra. Erano perlopiù demoni che avevano combattuto sotto Inutaisho, e che si erano messi al servizio di suo figlio. Anzi, dei suoi figli. Perchè, in quel frangente, il giovane hanyou aveva dimostrato una tempra e una risolutezza insolita per quelli della sua razza. Non era corso a nascondersi, ma era sceso in campo in prima persona, fregandosene che il comandante lasciato da Sesshomaru-sama non gli prestasse attenzione. Era stato pronto a combattere per quello che credeva giusto. Per quello che credeva andasse fatto. Come suo padre. Esattamente come Inutaisho-sama.

 

Inuyasha gli aveva osservati con un smorfia amara, prima di risollevare gli occhi e scambiare uno sguardo intenso con il Principe del Kansai. Shin aveva sorriso mostrando le zanne insanguinate. Ormai, non si sarebbe di certo tirato indietro. Aveva ripreso la posizione eretta, e gli si era affiancato. Se doveva morire, lo avrebbe fatto con la spada in mano e la sicurezza di star combattendo per qualcosa che sentiva di voler difendere. Anche se era la casa del suo nemico.

 

Inuyasha non aveva auto il tempo di aprir bocca che la pesante porta di quercia e bronzo era stata scardinata da una violenta esplosione e una folla di demoni si era rovesciata nella piazza d’armi. Era successo tutto talmente in fretta che nessuno di loro si era accorto di cosa esattamente fosse avvenuto. Quando la polvere si era diradata, i demoni di Naraku stavano cercando di raggiungere il piccolo manipolo che proteggeva l’ingresso al corpo centrale dell’edificio, ma erano ostacolati da inuyoukai. Demoni mai visti si stavano opponendo a quelli di Naraku, seminando la morte fra le file avversarie e decimandone lentamente il numero. In breve tempo, i superstiti del numeroso gruppo che Naraku aveva mandato contro al castello, vedendo la mala parata, avevano optato per una poco dignitosa ma sicura fuga.

 

Inuyasha incitò ancora la sua cavalcatura. Si malediva in tutti i modi per non esser riuscito a convincere Alessandra a restare a palazzo. Suo fratello lo avrebbe ammazzato, ma anche lui si dava dello stupido. Se solo fosse successo qualcosa alla ragazza, non se lo sarebbe mai perdonato. Eppure, non era riuscito a opporsi davanti alla sua disperata risolutezza. Aveva avuto il sospetto che sarebbe stata capace di crollare lì, davanti ai veterani, alla corte, ai Principi di Yezo e del Kansai. Davanti a tutti, urlando e dimenandosi come una forsennata pur di ottenere di andare con loro. Di andare da lui. in quel momento, la fragilità di Alessandra era stata messa a dura prova. Probabilmente, la ragazza doveva ringraziare un inconscio senso del pudore, che le aveva impedito di abbandonarsi all’isterismo. Tuttavia, davanti al suo viso sporco di fango e polvere, con i capelli scarmigliati e le labbra esangui che tremavano nel disperato tentativo di formulare una supplica, non era riuscito a dirle di no. L’aveva fatta salire con sè su uno dei cervi che Hidesuke aveva messo a loro disposizione per raggiungere il campo di battaglia, ignorando le proteste di Kagome e facendole promettere di occuparsi dei feriti con Homoe e Sango.

 

E adesso, cavalcava assieme al Principe di Yezo e al suo esercito verso quella maledetta battaglia. Sperando che non fosse troppo tardi. Kagura era stata chiara: in un modo o nell’altro, Morigawa e Naraku avrebbero impedito che Sesshomaru sopravvivesse a quello scontro. Alessandra abbassò la testa. Rivedere la yasha le aveva provocato un modo di timore. Kagura era apparsa nella piazza d’armi alla fine dello scontro, quando ormai i demoni di Naraku erano lontani. Accompagnava due feriti e una yasha provata, ama ancora capace di intimorire con lo sguardo: i fratelli e la madre di Shin. Non sembrava prigioniera. Non aveva guardie che la scortassero, nè le era stato tolto il tessan. Si era limitata ad un sorriso di scherno verso Inuyasha e poi aveva guardato lei. Occhi rossi. Occhi rossi e malinconici, e un sospiro che era di rimpianto.

 

“Sesshomaru corre un grave pericolo”

 

Cinque parole. Cinque maledette parole che le aveva sbattuto in faccia. Perchè, Alessandra ne era stata sicuro, Kagura si era rivolta a lei. Non aveva fatto nomi, ma il suo sguardo parlava da solo. Gelosia e stanca rassegnazione. Non aveva aggiunto altro e si era librata nel cielo sulla sua piuma. L’aveva lasciata andare. Alessandra non sapeva il perchè, ma aveva impedito a Inuyasha di attaccarla, anche se il ragazzo aveva cercato di convincerla che lasciarla libera significava permetterle di avvertire Naraku. Alessandra aveva scosso la testa. Non sapeva perchè, ma non voleva che quella yasha morisse. Se aveva rivelato loro quell’informazione, senza chiedere nulla in cambio, era perchè voleva che Sesshomaru vivesse. Anche se non capiva, non osava voler capire, il perchè.

 

Strinse le mani sulle braccia che la circondavano. Inuyasha non aveva voluto sentir ragioni. Si era fatto fasciare il braccio alla meno peggio ed era montato in sella. Faceva lo sbruffone come al solito, ma il suo viso era pallido e il sudore per la stanchezza, la debolezza e l’agitazione denunciavano la sua insicurezza. Alessandra lo sentì irrigidirsi d’improvviso, e voltando appena la testa lo vide tendere il collo e fiutare l’aria. Pochi istanti, e i suoi occhi si dilatarono per poi assottigliarsi a due fessure. Lame affilate. Spietate. Lo stesso sguardo di Sesshomaru quando si accingeva a combattere, dovette ammettere Alessandra a se stessa. Quello sguardo freddo e indifferente. Lontano. Divino,

Inuyasha voltò la testa verso Hidesuke, scambiando con lui un cenno di complicità, e incitò ancora di più il cervo, che ormai schiumava dalla bocca ed era coperto di sudore. Abbassò la testa a incrociare il viso ansioso di Alessandra. Con lui, non si preoccupava di mascherare più alcuna emozione. Non sapeva come dirglielo, ma era cosciente che tacere sarebbe stato solo peggio nel caso che quello che li aspettava fosse stato tragicamente immutabile.

 

“Ho sentito odore di sangue”. Esitò un attimo. Storse la bocca, ma decise di continuare. Fiele che gli bruciava la lingua. “Il suo”

 

 

*****

 

 

Lo vide.

Nonostante la confusione che regnava nella piana, la sua armatura mandava bagliori sommessi sotto il sole del tardo pomeriggio. Lo vide, e sentì il cuore rallentare il suo ritmo e il respiro annodarsi fra i denti. Le gambe tremarono e forse sarebbe anche caduta a terra se Inuyasha non avesse avuto la prontezza di offrile il braccio. Si scambiarono uno sguardo disperato, e tornarono a fissare quel punto in mezzo a sagome che si muovevano veloci e li superavano. Hidesuke aveva lanciato i suoi uomini all’attacco, andando a sostenere i soldati orami stremati del Principe dell’Ovest.

 

Alessandra sentì le lacrime premere gli occhi e dovette mordersi un labbro per trattenerle, affondando le unghie nel kariginu di Inuyasha. Sesshomaru era inginocchiato a terra. Era vivo, ma continuava a scuotere la testa e a piegarsi sempre di più su se stesso. Inuyasha ebbe l’impressione di sentirne il respiro spezzato e pesante, i ringhi che soffocava in gola. Non lo aveva mai visto in quello stato; non aveva mai pensato di poterlo vedere. Suo fratello, l’orgoglioso principe dei demoni, s stava contorcendo preda di spasimi violenti che gli disarticolavano i movimenti. Era doloroso vederlo in quello stato.

 

Un ululare violento e l’immagine di corpi che si aggrovigliano attirano l’attenzione dell’hanyou. Sullo sfondo del campo, fra solchi scuri nel terreno, mucchi di cadaveri attorcigliati in un groviglio informe di viscere, ossa e carne sanguinante due enormi cani si stavano azzuffando con disperato furore. Uno doveva essere Morigawa, probabilmente quello nero. Inuyasha inclinò appena le labbra nel vedere la ferita che segnava il muso del cane e l’orbita vuota. Non aveva alcuna prova, ma l’istinto gli diceva che quella ferita gliela aveva inferta suo fratello. Se era stato Morigawa a ridurlo in quello stato, non ne era di certo uscito indenne. L’altro demone, però, non riusciva a capire chi fosse. In un primo momento ipotizzò Kumamoto, ma poi lo intravide da un’altra parte del campo, impegnato a combattere assieme ad Ayame. Un orribile angoscia lo prese, e cercò febbrilmente con gli occhi una figura. Spaziò il campo finchè non individuò una figurina che si dibatteva conto alcuni demoni, protetto alle spalle da alcuni lupi. Miroku. Vivo. Sudato, affaticato, pressochè esausto. Ma ancora vivo. E poco distante Koga mulinava gli artigli come ossessionato dalla voglia di vincere.

 

Sesshomaru restava fermo. Inginocchiato a terra. Non aveva senso. Non era normale. Non era da lui. Inuyasha provò l’impulso di correre da lui, ma lasciare Alessandra significava esporla ad un pericolo che lei non sarebbe stata capace di affrontare. Cercò di trascinarla indietro, verso il cervo. Se almeno fosse riuscito a farla montare in sella, avrebbe spinto l’animale verso il palazzo, incitandolo in una corsa folle. La ragazza non sarebbe riuscita a domarlo e si sarebbe allontanata e messa al sicuro. Inutile. Nonostante la trascinasse, Alessandra si dibatteva fra le sue braccia, tendendo le mani verso Sesshomaru. La bocca aperta in urla che non riusciva ad articolare, gli occhi vacui e lucidi incapaci di versare lacrime. L’unica cosa che il suo corpo riuscisse a fare era opporre una strenua resistenza. Scalciava, picchiava, graffiava. Colpì Inuyasha più volte anche sul braccio leso, lì dove la ferita era fresca e il sangue ancora faticava a coagularsi del tutto. Non si accorgeva delle smorfie che gli produceva, dello sforzo cui costringeva il ragazzo per impedirle di divincolarsi dalla presa e correre da Sesshomaru. Vedeva solo lui. Piegato a terra. A terra.

 

Quando un urlo roco e profondo attraversò il campo, confondendosi con altre grida, Inuyasha si pietrificò prima di voltarsi verso la figura del fratello. Era stato lui a gridare. Ne era sicuro. Era stato lui ad abbandonarsi a quel grido che gli era sceso fin dentro l’anima. Annichilendolo. Sentì Alessandra smettere ogni resistenza fra le sue braccia e abbandonarsi come svuotata al suo appoggio. Avrebbe dovuto voltare la testa e occuparsi di lei, ma non ce la faceva. Non poteva credere che Sesshomaru stesse davvero per morire. Non ebbe il tempo di accorgersi del guizzo improvviso del corpo che stringeva contro di sè. Sentì solo un colpo abbattersi sul suo torace svuotandogli i polmoni e costringendolo a tossire per recuperare il fiato. Alessandra aveva approfittato della sua distrazione e, in un momento di lucidità, lo aveva colpito con tutta la forza che era riuscita a trovare. In condizioni normali non gli avrebbe fatto nulla, ma era ormai allo stremo e la sua capacità di resistenza era di pochissimo superiore a quella di un normale ningen. Fu costretto a piegarsi a terra.

 

“Alessandra, no! Fermati!Aspetta!”

 

Inuyasha provò a rialzarsi, ma le gambe lo tradirono e si ritrovò in ginocchio di nuovo. Miroku, disimpegnatosi da un demone, si voltò incredulo di aver riconosciuto la voce dell’amico e vide Alessandra correre verso la base di una piccola altura e poi dirigersi annaspando verso il centro della piana. Verso un demone inginocchiato a terra. Sesshomaru. Chiamò Koga per indicargli la ragazza e l’hanyou e si diresse con lui verso Inuyasha che cercava di rimettersi in piedi per raggiungere Alessandra.

 

Sesshomaru, intanto, ansimava ormai certo che, qualunque stregoneria lo avesse colpito, lo avrebbe ucciso. Che stupido, indegno modo di morire. Quasi quanto quello di suo padre, morto per una insignificante ningen e un figlio bastardo. Aveva sempre creduto che la morte lo avrebbe colto all’apice del godimento della battaglia. Nell’intensità di uno scontro contro un nemico veramente degno di lui. Invece, stava facendo davvero una fine miserevole. Disgustosa.

 

Patetico

 

Strinse i denti. Se solo quel maledetto cerchio che gli stringeva la testa e gli faceva contorcere gli occhi fosse diminuito un po’. Solo poco. Giusto il necessario per riuscire a pensare coerentemente. Aveva l’orribile impressione che, se fosse riuscito a sollevare le palpebre, dai suoi stessi occhi il sangue avrebbe iniziato a colare. Lento e inesorabile. Qualunque cosa lo stesse distruggendo, stava accanendosi sui suoi bulbi e sui nervi oculari, risvegliando ogni più piccola terminazione nervosa con scariche violente. Contrasse ancora di più i denti. Poteva anche frantumarsi la mandibola, tanta era la pressione con cui li serrava. Non gli importava. Non si sarebbe abbandonato ad un’altra plateale, disonorevole manifestazione di dolore. Aveva urlato, prima; con tutto se stesso, come probabilmente non aveva mai fatto. Ma quella lama di dolore lo aveva colto troppo di sorpresa, intensificando la lenta tortura che lo stava facendo impazzire. Troppo repentino. Come se gli avessero strappato gli occhi. Male. Male. Maaale. Non credeva che potesse esistere una simile sensazione: qualcosa che annulla ogni pensiero razionale, ogni capacità senziente. Ti trascina in un vortice, giù in un abisso dove perdi lentamente coscienza di te. Del tuo corpo. Rimane solo quella sensazione. Soffocante. Come acqua nei polmoni; ti toglie l’aria, ti annega in qualcosa di opprimente.

 

Dolore. Ne aveva provato ancora. Sapeva cosa fosse. Non lo aveva mai toccato veramente, però. La sua sola volontà era stata sufficiente a domarlo, a estraniare dalla sua mente le fitte lancinanti che il suo corpo martoriato gli aveva trasmesso. Era come se bloccasse le sue terminazioni nervose, e lasciasse perfettamente lucida solo una piccola parte del cervello. Quella che gli permetteva di vincere in battaglia. E anche dopo uno scontro, la rabbia di esser stato ferito era più forte del male che avrebbe potuto provare. Il dolore era solo la misura della sua debolezza, dell’incapacità di essere al livello di suo padre. Però, non si era mai abbassato a tanto. Ridotto in ginocchio, incapace di reagire. Onnubilato da quelle fitte che gli strappavano la poca lucidità che riusciva a trattenere. Debole. Schifosamente debole. E probabilmente lo era diventato a causa di quella ragazza. Lo aveva distratto, si era lasciato distrarre e adesso ne pagava le conseguenze. Anche la cecità, in definitiva, era stata causata da lei. Perchè era stato per difendere lei che era stato ferito.

 

Quella ningen. Inutile, patetica, pericolosa come la donna che aveva procurato la morte a suo padre. Che stupido. Stupido! Stava facendo la stessa fine. La stessa orribile, infamante morte. Distrutto da una donna, lui, Sesshomaru, Principe dei demoni. Si era lasciato prendere troppo, si era lasciato confondere da qualcosa che non capiva: lussuria, solo passione. Non poteva essere diversamente. Si era umiliato portandola con sè, inserendola a palazzo e offrendole una carica di prima importanza. L’aveva avuta nel letto, l’aveva stretta e baciata, aveva toccato il suo corpo e soprattutto si era lasciato toccare. Le aveva permesso di vedere oltre la sua freddezza, le aveva concesso uno spiraglio per chissà quale maledetto motivo. E adesso, sarebbe morto per quello. Per quella sua stupida, insensata, compromettente debolezza. Lei al sicuro a palazzo, e lui ad agonizzare su un campo di battaglia. Prostrato a terra, vinto da se stesso.

 

Il dolore si attenuava lentamente. Sesshomaru riuscì a fatica a risollevare il busto. C’erano molte voci attorno a lui, e il fragore di scontri, il latrare di lupi e i righi rabbiosi di due demoni. Qualcuno...qualcuno aveva impedito che Morigawa lo assalisse. Ma non riusciva a capire chi. Gli odori si confondevano al suo olfatto, e se solo provava a differenziarli, il cerchio alla testa ricominciava a premere. Anche se stava lentamente perdendo forza. Sempre meno. Sempre più debole. Percepiva alcuni demoni attorno a lui. lontani, ma si stavano lentamente avvicinando. Probabilmente, erano rimasti a guardarlo agonizzare, indecisi se sottrarre la preda al loro signore. Ma Morigawa stava combattendo, ne era sicuro, e lui era un trofeo troppo invitante. Strinse i denti e fece schioccare gli artigli. Il dolore alla testa si intensificò di nuovo. Pazienza. Erano vicini. Troppo vicini. La frusta saettò nell’aria, prima di riavvolgersi attorno a Sesshomaru e sparire. Dei suoi assalitori restavano solo brandelli di carne e interiora.

 

Istintivamente, rialzò il viso sudato e sporco per prendere maggior respiro. Se non si forzava e si fosse mosso lentamente, poteva anche sperare di riuscire a mettersi in piedi. Era stufo di quella posizione umiliante. Senza esattamente sapere il perchè, si arrischiò a socchiudere le palpebre. Il dolore era quasi del tutto scomparso. Inizialmente, solo buio. Poi, lentamente alcune chiazze chiare farsi strada nella cortina di tenebra. Il nero divenne grigio, e poi bianco. Strinse gli occhi. In quella strana luce abbagliante si iniziavano a condensare macchie più scure. Informi. Lentamente, i contorni diventavano sempre meno sbiaditi, i colori sfumavano in molteplici tonalità abbandonando le sfumature grigiastre. Esterrefatto, incredulo, allibito Sesshomaru si ritrovò a fissare le proprie mani imbrattate di sangue. Gli artigli incrostati, la pelle segnata al polso da graffi sottili, le maniche lerce e strappate.

 

Vedeva. Vedeva di nuovo. Sbattè le palpebre più volte, per schiarire meglio le immagini. Non era possibile. Non sarebbe mai dovuto accadere. Non coltivava più nemmeno l’illusione di poter recuperare la vista. Aveva smesso di sperarci mesi addietro, rassegnandosi a quell’eterna condizione di invalido. Si era assuefatto all’idea di restare per sempre nel buio, e che a guidarlo ci sarebbero stati solo i suoi sensi, la sua forza e ...lo ammise: le voci di Rin e Alessandra.

 

Spaziò lentamente per il campo di battaglia. Troppo scosso per cogliere davvero quello che vedeva. Si soffermò su una sagoma, in cima al piccolo pendio che attraversava la piana. Strinse gli occhi. Non riusciva bene a capire chi fosse. Poi, un guizzo del sole gli permise di vedere. Di vedere davvero: Alessandra. Lo stava fissando da quel piccolo rialzo del terreno, leggermente piegata sulle ginocchia per l’affanno della corsa. Si era fermata per riprendere fiato. I polmoni le bruciavano per lo sforzo, e vedere il demone in mezzo a cadaveri e distruzione, rannicchiato su se stesso, le aveva fatto male. Molto male. Ma poi lo aveva visto rialzare la testa, fissarsi le mani e muovere lentamente il viso. Era successo qualcosa. Doveva esser successo qualcosa. Si mosse per scendere e raggiungerlo. Non capì cosa successe. Percepì solo qualcosa straziarle le carni, il fiato uscire violentemente dai polmoni lasciandola in apnea, e un colpo violento sbilanciarla in avanti, tanto che credeva che le avrebbe spezzato la spina dorsale.

 

Sesshomaru la vide fermarsi a mezz’aria, gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. Vide rosso schizzare attorno al suo viso, e poi il corpo di Alessandra rotolare malamente lungo il piccolo pendio roccioso, nel fango e nella polvere, fra cadaveri mutilati e sangue rappreso. Si fermò alla fine della discesa. Prono. Da una spalla, spuntava un mozzicone di legno. La naginata che l’aveva colpita si era spezzata nella caduta, e la ragazza aveva sentito solo qualcosa premere per entrare di più in lei. Sesshomaru la fissava immobile a terra. Non si muoveva. Non dava segni di muoversi. Si accorse di non respirare, di essere immobile in ginocchio a terra. Incatenato a quella figura inerte. Male. Diverso da prima, ma ancora più profondo. Come se gli avessero strappato il cuore. Come se lo avessero trapassato con mille lame. E continuassero. Ancora. Ancora.

 

Alzò lo sguardo al piccolo pendio. Sorse la bocca e ringhiò. A mezz’aria, in un piccolo campo di energia, un bambino lo osservava a metà fra lo stizzito e il divertito. Hakudoshi. Era sua l’arma che aveva colpito Alessandra, era stato lui a lanciarla. Forse proprio per colpire la ragazza, forse era diretta a lui, e Alessandra si era trovata inavvertitamente sulla traiettoria. E adesso era a terra. E non si muoveva. Non dava segni di vita. Hidesuke si sedette in volo, soppesando il mento alla mano. Sembrava annoiato. Fece un gesto vago con la mano, e da dietro di lui dei demoni si precipitarono verso il Principe dell’Ovest e la ragazza. Prede. Inermi. Facili.

 

Sesshomaru concentrò le forze rimastegli nelle gambe, per poter scattare in una corsa verso la ragazza prima che ci arrivassero i demoni. Quanto distava? Cinquecento, settecento metri al massimo. Pochissimo in condizioni normali. Adesso, gli sembrava di non riuscire a raggiungerla. Che fosse sempre troppo distante. Squartò l’ennesimo demone che tentava di opporglisi, lasciando che il suo sangue gli macchiasse il viso e i capelli. Ne mutilò un altro e ne sgozzò un terzo. Riuscì a crearsi un piccolissimo spazio, giusto in tempo per vedere un demone- millepiedi avventarsi sul corpo inerte di Alessandra. Sesshomaru estrasse Tokijin e la lanciò contro lo youkai. Sentì il grido riempire l’aria e il demone esser rovesciato al suolo dal contraccolpo. Si liberò di alcuni demoni e fu accanto alla ragazza. Si inginocchiò per poterla proteggere meglio con il proprio corpo. Erano troppi. Gli avversari erano troppi, e freschi di forze. Quei demoni non erano al servizio di Morigawa. Quelli eseguivano solo gli ordini di Naraku e Hakudoshi.

 

Si voltò con gli occhi infiammati d’ira. Sarebbe morto, va bene. Ma avrebbe trascinato con se all’infermo molti di loro. Prima che la scure potesse calare e lui cercasse di schivare e rispondere, l’oni fu azzannato alla gola da un lupo e rovesciato indietro. L’animale rialzò il muso grondante sangue e ringhiando si avventò contro un altro demone aprendogli il ventre. Sesshomaru volse velocemente la testa. Attorno a lui e Alessandra, i lupi di Koga stavano cercando di creare una catena di sicurezza, mentre il principe degli Yoro e il ningen tenevano occupato Hidesuke. Il Principe vide suo fratello precipitarsi dal piccolo rialzo del terreno, brandendo la spada e urlando qualcosa che lui non riusciva a capire. In pochi istanti, Inuyasha si era aperto il passo fino a suo fratello e Alessandra, ma si girò all’improvviso per dare fronte ai demoni di Naraku che continuavano a scendere verso di loro. Squarciò in due il primo che si fece avanti, dalla testa all’inguine, e gli altri, terrorizzati dalla sua forza e dal furore sanguinario dei suoi occhi, indietreggiarono. Un attimo di sospensione, giusto il tempo che i lupi di Koga e Ayame chiudessero il cerchio attorno al Principe.

 

Inuyasha si risolse infine ad abbassare l’arma che ormai faticava a tenere sollevata e si voltò verso il fratello. Sesshomaru aveva raccolto fra le braccia il corpo di Alessandra. Le scostava dal viso imbrattato di fango ed escoriato i capelli, le disegnava le labbra con le dita. Un rivolo sottile colava dall’angolo della bocca fino al mento, scendendo lungo il collo assieme al sangue che scendeva da una ferita alla testa, vicino alla tempia. Sesshomaru la chiamò. La chiamò disperatamente più e più volte, ma non osò scuoterla. Era viva. Lo sapeva. Vedeva il suo petto alzarsi e abbassarsi nel respiro, anche se era lento e affaticato. L’aveva maledetta. Aveva dato a lei la colpa della sua debolezza. E lei, stupida, testarda ragazza, gli aveva disubbidito, e invece di restare a palazzo era andata da lui. In mezzo alla battaglia. Esponendosi al pericolo. Sciocca. Sciocca. E lui, lui...maledizione! Non se ne era accorto. Non aveva sentito nulla. Nè l’aura di Hakudoshi nè il sibilo della naginata.

 

Strinse Alessandra per le spalle, comprimendo inavvertitamente la ferita che le dilaniava la spalla e costringendo il suo corpo a reagire al dolore. Alessandra ebbe un fremito, e riprese coscienza. Provò a dire qualcosa, a muovere le labbra, ma era troppo debole. Non sentiva più il suo corpo. Lentamente, stava perdendo sensibilità agli arti, e anche le voci le arrivavano ovattate. In mezzo a macchie scure e chiare, riuscì a distinguere il viso di Inuyasha e quello di Sesshomaru. Avrebbe voluto accarezzarlo, avrebbe voluto che la baciasse e le dicesse che sarebbe andato tutto bene. Invece, avvertì le mani del demone costringerla seduta e Sesshomaru stringerle le braccia davanti al seno. Si abbandonò contro il suo petto, appoggiando le mani sulle sue spalle e la testa nell’incavo del suo collo. Non capiva. Non riusciva a sentire quello che le dicevano, le parole che Sesshomaru le sussurrava.

 

Inuyasha aveva fissato la ragazza per un istante, e poi suo fratello. Doveva esser sconvolto, ma non lo dimostrava. Però, le sue mani tramavano mentre percorreva il viso di Alessandra. Si era accorto del legno che fuoriusciva dalla spalla destra della ragazza, e aveva realizzato che non avevano molto tempo se la volevano salvare. E dovevano salvarla.

 

“Sesshomaru dobbiamo portarla a palazzo. Subito!”

 

Inuyasha aveva visto suo fratello annuire e afferrare Alessandra per le spalle con lo scopo di sollevarla in braccio. Il dolore che le aveva provocato l’aveva fatta rinvenire, ma aveva dato loro anche la consapevolezza che trasportarla in quelle condizioni era impossibile. Un movimento sbagliato, e la ferita poteva aggravarsi in modo irreparabile. L’unica soluzione era quella di estrarre il ferro. Sesshomaru aveva stretto le braccia della ragazza davanti, permettendole di appoggiarsi a lui con tutto il peso, e aveva rivolto un’occhiata eloquente al fratello. Doveva strappare quella lama dal corpo di Alessandra. Lo avrebbe permesso solo a lui. Lui stesso, ne era cosciente, non ne avrebbe avuto la forza fisica e psichica.

 

Inuyasha attese di esser sicuro che suo fratello imprigionasse bene Alessandra e che le avrebbe impedito movimenti bruschi, prima di inginocchiarsi a sua volta. Afferrò il kimono e lo stracciò fino all’obi, per poi strappare totalmente la parte destra mettendo a nudo la ferita e il seno di Alessandra. Sesshomaru la sentì irrigidirsi, quasi nel disperato tentativo di sottrarsi a quel contatto. La premette di più contro di sè. La testa della ragazza era affondata della sua spalla, e le sue forme nude gli premevano sulla stoffa degli abiti. Avrebbe voluto averla così fra le braccia; avrebbe voluto sentire sotto gli artigli la sua nudità, la morbidezza delle sue forme. Ma non così. Non con il sangue a deturparle la pelle, con le lacrime a bagnargli il kimono zuppo di sangue e sudore.

 

Inuyasha rivolse a suo fratello un cenno d’intesa e Sesshomaru, rinsaldata la presa sulle braccia di Alessandra, gli concesse una specie di sorriso. L’hanyou, allora, si appoggiò con una mano alla schiena nuda della ragazza e con l’altra cerò di svellere il dardo. Alessandra conficcò le unghie nella stoffa, raggiungendo la pelle di Sesshomaru e strinse i denti fino a farli scricchiolare. Inuyasha faceva forza, e il corpo della ragazza era attraversato da spasimi che solo la salda presa di Sesshomaru impediva che si tramutassero in movimenti bruschi. Alla fine, il ragazzo allentò la presa, sconsolato, mentre Alessandra si lasciava sfuggire un roco respiro. Il dolore era insopportabile, ma quello di poco prima la faceva davvero impazzire.

 

Sesshomaru lo fissò con astio e stupore. Si era fermato. Per quale maledetto motivo non estraeva quell’arma? Credeva forse che avessero tutto il tempo del mondo? Inuyasha scosse sconsolato la testa e cercò di evitare le occhiate del fratello. La lama della naginata era incastrata fra la clavicola e la scapola e non si lasciava estrarre. Forzare ancora, oltre a costringere Alessandra a un dolore inutile, significava rischiare anche di frantumarle le ossa. Forse in modo irreparabile. Si allontanò carponi di qualche metro, fino ad un gruppo di cadaveri corrosi dal veleno. Vincendo la repulsione, affondò le mani in quella massa fumante e viscida, scostando brandelli di carne e abiti carbonizzati. Alla fine, riuscì a trovare un hachiwari. Non era il massimo, ma aveva una lama abbastanza lunga e sottile da potersi infilare nella ferita senza ingigantirla troppo e una tempratura abbastanza robusta perchè non si spezzasse.

 

Tornò davanti ad Alessandra e fissò Sesshomaru. Lo vide dilatare gli occhi quando capì cosa dovesse fare. Era necessario far leva con l’arma per estrarre la naginata. Sesshomaru deviò inizialmente lo sguardo, reclinando la testa verso la ragazza che respirava sempre più pesantemente sulla sua spalla. Le carezzò la testa e strinse i denti in una smorfia di rassegnata impotenza. Inuyasha avvicinò la lama alla ferita, e sfiorò a sua vota la testa della ragazza.

 

“Grida Alessandra. Senza ritegno. Grida più forte che puoi”

 

Con un gesto fluido, infilò la lama nella ferita, cercando con la punta la scapola per spingerla indietro. Alessandra urlava, straziata da fitte lancinanti. Stringeva la veste di Sesshomaru, affondandovi le unghie e attorcigliandola in spasimi e convulsioni. Continuava a sfregare la testa sulla spalla del demone, mordendolo e aprendo la bocca in urla acute che le deformavano la voce fino a renderla stridula. Tossiva per la violenza con cui si liberava del respiro e restava a boccheggiare, con la bocca aperta e rivoli di saliva a colarle dalle labbra, sciogliendo il sangue rappreso. Sesshomaru chiuse gli occhi. Strinse forte le braccia della ragazza mentre la sentiva contorcersi. Non era così. Non erano quelle le urla che avrebbe voluto sentire dalla sua bocca, i gemiti, gli spasimi. Quello era dolore, non il piacere che avrebbe voluto darle. Le mani di Alessandra stringevano la sua carne con disperazione; era diverso da quando lo aveva stretto nella notte, da quando lo aveva picchiato esasperata e impaurita. Alessandra non capiva nemmeno più che lo stava ferendo, che stava graffiando la sua pelle e affondando i denti nella sua spalla.

 

Inuyasha abbassò le orecchiette nel disperato e vano tentativo di ignorare le grida della ragazza. Riuscì a trovare la scapola e la spinse con forza, mentre con l’altra mano tirava l’asta della naginata, lacerandosi i palmi sul mozzicone scheggiato. La lama si sfilò d’un tratto, liberando un gran fiotto di sangue che ruscellò sulla schiena di Alessandra, in arabeschi inquietanti, confondendosi con il sudore che la bagnava. Alessandra gridò un’ultima volta fino a bruciarsi polmoni nello sforzo, accasciandosi alla fine svenuta contro Sesshomaru con la saliva e il sangue che uscivano dalla sua bocca e macchiavano il petto e il kimono del demone.

 

“Miroku” Cerca un tizzone, resto! Devo cauterizzarla!”

 

Il monaco, che si era avvicinato appena era riuscito a liberarsi dei suoi assalitori, scattò il più velocemente. Aveva assistito da lontano all’agonia della ragazza, mordendosi le labbra e stringendo gli occhi. distogliendo lo sguardo nel vano tentativo di non sentire le urla che riempivano l’aria, assieme alle grida di battaglia e ai lamenti dei feriti. Ritornò poco dopo con un pezzo di legno che aveva recuperato chissà dove e lo cacciò nella ferita di Alessandra. Il corpo della ragazza ebbe una spasimo, ma non reagì più di tanto, distrutto dal dolore straziante e con i gangli nervosi saturi e pressochè insensibili ormai.  Si sentì un odore nauseabondo di carne bruciata che fece storcere il naso a Inuyasha e stringere gli occhi a Sesshomaru. In compenso, il fiotto di sangue si arrestò. Inuyasha bendò la ferita come meglio potè, strappandosi la nagajuban nei punti dove sembrava meno sporca per evitare di infettare ulteriormente. Sesshomaru, lasciata per un istante Alessandra alle cure del fratello e di Miroku, si era liberato delle parti rovinate dell’armatura e prima che potesse controllare velocemente la ferita alla spalle, si era ritrovato suo fratello addosso mentre cercava di tamponare alla meno peggio il sangue che continuava a uscire. Il suo primo impulso fu quello di scacciarlo, ma alla fine lasciò che gli fissasse un tampone improvvisato fra i lembi squarciati di carne e stoffa. Inuyasha non era ridotto meglio di lui: aveva un braccio praticamente distrutto e numerose ferite su tutto il corpo ed era visibilmente esausto. Nel superarlo, si chiede per un istante perchè si fosse dato tanta pena anche per lui. Verso Alessandra era anche normale, ma non per lui. Ignorò i suoi dubbi e si inginocchiò accanto ad Alessandra. Il respiro era pesante e la fronte grondava sudore freddo. Il rumore della battaglia gli attraversò la mente, rendendogli noto che lo scontro non era ancora finito. Girò il viso sopra la spalla e vide due inuyoukai battersi ancora selvaggiamente in forma canina. Riabbassò gli occhi sulla ragazza.

 

“Sesshomaru-sama...”cercò di chiamarlo Miroku. Aveva scorto il lampo che era passato negli occhi del Principe. Il richiamo della battaglia. Sembrava combattuto fra la sua natura demoniaca e un qualcosa di nuovo per lui.

 

“Sesshomaru-sama. Il fisico di Alessandra non resisterà ancora a lungo”. Esitò un istante, prima di pronunciare quelle parole che forse avrebbero potuto risvegliare il demone. “É un essere umano”

 

Sesshomaru raccolse Alessandra fra le braccia, avvicinandosela al petto come per proteggerla, e si risollevò con rinnovata eleganza, incamminandosi verso il perimetro del campo di battaglia. Verso il palazzo. Incurante delle scaramucce che ancora si accendevano e chiudendo la mente ai ringhi e ai suoni della battaglia. Gli costava molto lasciare il campo in quel modo, ma qualcosa gli diceva che se fosse restato avrebbe perso. Non sapeva cosa, ma quella sensazione lo metteva in agitazione.

 

“Sesshomaru. Te ne vai così? E la battaglia?”

 

Inuyasha. Possibile che suo fratello avesse la maledetta abitudine di stuzzicare le zone più sensibili della sua mente quando erano più scoperte. Lo spiò con la coda dell’occhio. Era distrutto e a fatica si reggeva in piedi, appoggiandosi a Miroku. Eppure, il Principe ebbe la certezza, insensata, che se gli avesse detto che voleva continuare a combattere, suo fratello avrebbe sbraitato, ma poi lo avrebbe seguito. Scosse la testa. Il sangue perso lo stava portando al delirio. Lanciò uno sguardo a Kumamoto e Koga che si erano avvicinati. Era un ordine cui di due demoni assentirono con il capo e un sorriso sinistro di Koga. Sesshomaru lasciò che lo superassero verso il centro della battaglia, là dove ancora infuriavano combattimenti. Sospirò dentro di sè stringendo Alessandra e sfiorandole, non visto, la fronte con le labbra prima di ricominciare a camminare aumentando velocemente il passo fino a correre. Era pronto a dar fondo a tutte le sue ultime energie pur di portarla a palazzo il prima possibile. Ma non riusciva a tenere il ritmo normale, tanto che Inuyasha gli si affiancò con sguardo torvo. Avrebbe detto che era preoccupato anche per lui, se la cosa non fosse stata semplicemente ridicola e insensata.

 

“Si può sapere che intenzioni hai?”

 

Sesshomaru inghiottì a vuoto prima di distanziare il fratello di pochi passi. Non voleva fargli vedere la sua espressione mentre pronunciava quelle parole. Mentre abbassava la testa verso il viso sempre più pallido e il corpo lentamente più pesante di Alessandra.

 

“Tornare a casa”

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Capitolo 45
*** 45. ANGOSCIA ***


Gentilissime lettrici e gentilissimi lettori,

Gentilissime lettrici e gentilissimi lettori,

 

vi prego di scusare questo mio ritardo, ma purtroppo impegni e problemi di vario genere mi costringono a dedicare pochissimo tempo al computer. Tuttavia, spero ardentemente di poter postare al più presto il prossimo capitolo.

Intanto, vi lascio questo parto della mia mente, nella speranza che sia di vostro gradimento. Vi avevo lasciato in una situazione di sospensione: Alessandra ferita e Sesshomaru che si appresta a riportarla a palazzo.

Adesso, l’interrogativo si sposta su come reagirà il nostro Demone davanti all’accaduto? Avete un’idea?

Per scoprirlo, basta leggerlo. Poi, se volete, fatemi sapere se ho deluso le vostre aspettative, se vi ho sorpreso o se sono riuscita a leggervi nella mente.

 

Infine, ringrazio infinitamente tutti coloro che leggono, colore che commentano e in particolar modo:

 

Celina: leggere le tue parole è sempre un onore e uno stimolo a trovare il tempo per concludere almeno la prima parte di questa mia storia. Hai colto perfettamente il fulcro: Alessandra e Sesshomaru, anche se per motivi diversi, sono persone sole. Di certo, il loro incontro ha cambiata qualcosa nei rispettivi animi, tuttavia non va dimenticato che appartengono a due realtà diverse. Riusciranno davvero a fondersi, o resteranno solo in sintonia? Già in questo capitolo adombro il problema, ma sarà in futuro che proverò a svilupparlo meglio. Un grazie sincero per le tue parole. Un abbraccio.

 

Kaimi_11: mi rincresce sinceramente che tu sia costretta a cambiar casa. Spero che riuscirai ad ambientarti in fretta, e che la nuova locazione sia piacevole. Un abbraccio.

 

Lilika: felice di vedere il tuo nome fra i commenti, e imbarazzata per i complimenti che mi hai inviato. Spero che continuerai a seguire la storia. Un abbraccio.

 

Hypnotic Poison: sono felicissima di rivedere il tuo nome e sapere che la storia continua a riscuotere la tua attenzione. Ti ringrazio infinitamente per il commento, e sono contenta di sapere che ti aggrada il modo in cui sto trattando il rapporto fra Inuyasha e Sesshomaru. Proprio come sottolinei tu, è uno dei perni della storia e si svilupperà molto anche in seguito, soprattutto nella seconda parte, dove il peso della relazione fra i due fratelli sarà affatto secondaria. Comunque, già nel prossimo capitolo (il 46. Portami via) ne avrai un assaggio: Inuyasha e Sesshomaru a confronto. Non si preannuncia nulla di tranquillo.

Alessandra. Alessandra, come dici giustamente tu, fatica. Molto per capire e provare a vivere alla corte inuyoukai. Ha cercato di mascherare la sua fragilità umana e di apparire perfetta, ma forse non è stato un bene. Me lo dirai tu, se vorrai, dopo aver letto questo capitolo. Concordo con te: Alessandra si meriterebbe che Sesshomaru le dicesse chiaro e tondo di amarla. Ma non avverrà. Mai. Questa è una delle poche cose che sono sicura di che non scriverò: nessuna dichiarazione da parte del Principe. Spero, con questa anticipazione, di non indurti ad abbandonare la storia. É vero che Sesshomaru non dirà mai ashiteru ad Alessandra, ma questo non significa che non glielo farà capire. Ormai, sappiamo bene che le parole non sono il punto forte del nostro Demone.

Sono altresì contenta che le coppie che ho adombrato incontrino il tuo favore. Per quanto riguarda Sango e Miroku, già in questo capitolo avranno un nuovo momento di intimità, ma sarà soprattutto nella seconda parte che la loro coppia (eh sì, lo ammetto: non ho la minima intenzione di farli separare)avrà uno spazio maggiore. Shin e Homoe, invece, sono al momento una piccola incognita. Soprattutto perchè la yasha ha dei segreti non trascurabili nel suo passato. Vedremo.

Per rispondere alle tue domande, adesso: in effetti, Shippo e rimasto a Musashi, ma presto tornerà in scena,; inoltre hai perfettamente ragione: le parole di Alessandra (sarebbero in greco, ma ho riportato la traduzione italiana per maggior comodità. Tanto, Sesshomaru non conosce entrambe le lingue) sono proprio quelle del V canto dell’Iliade, il saluto fra Ettore e Andromaca.

Di nuovo grazie per il tuo commento. Un abbraccio.

 

Lucy6: benvenuta! Sono davvero felice che la storia abbia riscosso il tuo interesse e non preoccuparti: le parole che mi hai scritto non le considero affatto sciocchezze. Al contrario. Sentirmi dire che con la mia piccola storia ti ho riportato all’adolescenza è un complimento che mi imbarazza moltissimo e non sono sicura di meritare. Grazie infinite.

 

 

Con affetto e riconoscenza,

 

Avalon

 

 

 

CAPITOLO 45

ANGOSCIA

 

 

Non andava bene. Non andava affatto bene.

Yaone scostò con un gesto stanco la frangia che le copriva gli occhi. Era arrabbiata. Molto arrabbiata. Avrebbe avuto bisogno di lui, del suo consiglio, della sua saggezza, e Ashitaka l’aveva lasciata sola. Di nuovo. A gestire una situazione, questa volta, davvero più grande di lei. Una realtà in cui era pressochè impotente. E la cosa le bruciava da morire. Non era possibile. Inconcepibile. Lei che era la miglior alchimista che i demoni potessero vantare. Maledetta, ma pur sempre impareggiabile. Lei avrebbe dovuto gettare la spugna. Rassegnarsi davanti alle sue scarsissime capacità. Non sapeva cosa fare. Non sapeva più cosa tentare.

 

Rabbia. Rabbia. Rabbia. Verso di lui, e soprattutto verso se stessa. Non era possibile che non riuscisse a trovare un rimedio. Eppure, benchè si sforzasse, leggesse e rileggesse i testi medici e sapienzali, non trovava nessun rimedio che le sembrasse efficacie. Ed erano ore, ormai, che Alessandra restava immobile in quel letto. Sempre più pallida, sempre più debole. Dannazione! Era un essere umano, non un demone come loro. Yaone non sapeva esattamente quanta resistenza avesse, come il suo corpo avrebbe potuto reagire ad una possibile cura. Un farmaco debole sarebbe potuto risultare inefficacie; uno troppo forte, avrebbe potuto decretare reazioni troppo violente in un corpo umano. Sempre che avessero realmente una certa importanza, i farmaci. E se lei riuscisse a trovare qualcosa di adatto. Di tentabile. Niente, invece. Brancolava nel buio. Nello sconforto totale.

 

Si sedette accanto al futon con un sospiro stanco. Il petto di Alessandra era lento nel respiro. Quasi innaturale. Slacciò lo yukata e la auscultò di nuovo. Lo faceva di continuo. Quasi nell’illusione di accorgersi che si era sbagliata. Che aveva fallito la diagnosi. Possibile. Possibilissimo. Non se ne intende di corpi umani. Non li conosce. Può aver sbagliato. Deve aver sbagliato.

Richiuse i lembi del kimono. No. Lo sapeva benissimo. Non aveva sbagliato. Non poteva ingannarsi in modo così grossolano. Ma davvero avrebbe preferito sentirsi dire che aveva commesso un errore madornale, invece che quella fosse la verità.

 

“Come sta?”

 

Homoe si sedette accanto all’alchimista, sfiorandole la spalla. In quegli ultimi giorni, sembrava che una cappa pesante avvolgesse il palazzo, e soprattutto l’ala riservata al Principe. Nemmeno Rin usciva più a giocare nei giardini. Era più facile trovarla rannicchiata in un angolo della sala da pranzo, con accanto Kiba. Yaone ricambiò lo sguardo della yasha. Se si eccettuava Kagome, la hime del Nord era l’unica, fra loro, ad aver riportato ferite lievi in combattimento e per questo le era stato possibile affiancarla nelle cure mediche e sostituirla all’ospedale. Yaone aveva la priorità di occuparsi di Alessandra, tanto che ne aveva preso il posto. Adesso, era lei che chiamavano archiatra. Sorrise amara. Sapeva benissimo che i cortigiani e vari demoni erano felici del fatto che la ningen fosse rimasta ferita e che lei le fosse succeduta nella carica. Erano disposti ad ignorare i suoi trascorsi, se questo equivaleva a non dover sopportare una donna umana a capo dei guaritori.

 

“Sopravvive. Per il momento”

 

Parole che le costavano caro. Perchè, in definitiva, Yaone non sapeva per quanto ancora Alessandra avrebbe potuto reggere. Non aveva mai certezze per chi la interrogava, non aveva risposte incoraggianti per gli sguardi d’angoscia che riceveva. Poteva solo abbassare sconsolata la testa e mordersi un labbro per evitare di agitare di più gli animi. Per il resto, si fissava impotente le mani. Le sue mani, che più di una volta erano venute in aiuto alla ragazza nel periodo trascorso a lavorare assieme, che più di una volta si era sostituite alle sue per maggiore esperienza, adesso non potevano fare niente. Per lei era totalmente inutili.

 

“Sesshomaru-sama?”

 

Homoe cambiò il fazzoletto umido dalla fronte della ragazza. La febbre non accennava a diminuire, e nemmeno i bagni gelidi cui avevano costretto il corpo di Alessandra avevano dato risultati. Il viso restava pallido e bruciante. Sempre peggio. Andava sempre peggio. E l’alzata di spalle di Yaone alla sua domanda sul Principe non era molto incoraggiante. Non lo si era più visto. Sparito. Dissolto. Erano tre giorni che di lui non si avevano più notizie. Yaone aveva provato ad entrare nei suoi appartamenti, ma aveva trovato la fusuma chiusa. Bloccata.

 

Tre giorni. Homoe non riusciva a crederci. Ormai, quasi più nessuno di loro teneva la misura del tempo trascorso da quella notte. Quando Sesshomaru si era ripresentato a palazzo distrutto dalla fatica, grondante sangue e sudore, a piedi e senza esercito. Con lui c’era solo Inuyasha, ormai allo stremo delle forze e che aveva consumato ogni sua energia probabilmente per tenere l’andatura del fratello. Era crollato a terra appena messo piede nella piazza d’armi. Il Principe, invece, era riuscito ad avvicinarsi a passo malfermo all’entrata del palazzo. Vederlo camminare quasi con la forza della disperazione faceva un effetto strano. Ghiacciava il sangue quasi più del suo normale e austero portamento. Fra le braccia, stringeva il corpo privo di sensi di Alessandra, arsa dalla febbre. Sesshomaru era riuscito a trasportarla fin nella sua stanza e ad adagiarla sul futon, ignorando le occhiate incredule della corte e angosciate dei ningen e di Rin.

 

Yaone era arrivata quasi subito, e aveva costretto i presenti a uscire in corridoio, reclutando Kagome come infermiera con Homoe e permettendo di restare solo al Principe e ad Inuyasha, che si era rifiutato di farsi anche solo medicare se prima non gli avessero dato informazioni sulle condizioni di Alessandra. Yaone aveva tagliato la rozza fasciatura con cui l’hanyou aveva cercato di bendarla, mettendo a nudo la ferita e il seno di Alessandra. L’aveva girata sul fianco sinistro e aveva iniziato a pulire la ferita, conscia che gli occhi del Principe era fissi su Alessandra. Sesshomaru non riusciva a distogliere lo sguardo. Suo fratello era arrossito e aveva voltato la testa di lato, ostinandosi a fissare le nervature del legno, quando era stato scoperto il seno della ragazza, ma lui niente. Aveva continuato a guardarla impassibile. Incurante nei mormorii contrari e delle esortazioni a voltarsi della miko. Sesshomaru aveva continuato a guardare il corpo nudo di Alessandra. I seni rovinati da piccoli graffi e contusioni per la caduta, l’addome macchiato del sangue che era colato dalla ferita lungo la schiena e sui fianchi. Le braccia abbandonate sul materasso, e la testa reclinata inerte di lato. Con i capelli sciolti e attorcigliati dal vento e dal fango.

 

Aveva visto Yaone rimetterla supina e posare l’orecchio nell’incavo dei seni. Sesshomaru aveva aperto e chiuse le mani in un gesto automatico, quasi cercando di cogliere una sensazione smarrita. Aveva sentito sotto gli artigli la morbidezza delle forme della ragazza. Aveva accarezzato la sua pelle, sfiorato il suo copro; aveva stuzzicato la carne con malizia ed era stato solo per poco che non le aveva strappato il kimono di dosso, per meglio assaporare il piacere della pelle che si tocca, che si riscalda, che si sfiora. Per pochissimo, non l’aveva avuta nuda fra le braccia. Si era ripromesso mentalmente, quando era uscito dai suoi appartamenti, che vinto quello scontro sarebbe tornato per portarla da qualche parte. Subito. Non le avrebbe permesso di prendere nemmeno un fagotto che l’avrebbe portata via da palazzo. Loro due. Solo loro due. Rin si sarebbe opposta, ma non gli avrebbe disubbidito. Forse gli avrebbe tenuto il broncio per un po’, ma lui non avrebbe ceduto. Non quella volta. Voleva Alessandra, solo lei. E l’avrebbe avuta lontana dalle regole della corte.

 

Era tornato a palazzo. E Alessandra era nuda davanti a lui. Le labbra secche, la bocca socchiusa, i capelli scarmigliati e il corpo abbandonato sul letto fra abiti e lenzuola sfatte. Il respiro pesante e la pelle disegnata dal bronzo delle candele. Sudata e cosparsa da un tremito leggero. Sesshomaru aveva stretto i pugni fino a graffiarsi i palmi e contratto i denti. Non l’avrebbe voluta vedere così; non era così che voleva la sua nudità, il suo abbandono, il respiro e la pelle sudata. Non c’era nulla di eccitante, nulla di seducente. Solo una strana morsa che gli chiudeva lo stomaco, che lo avrebbe fatto urlare volentieri. Aveva sentito in lui qualcosa di nuovo, di sconosciuto: una consapevolezza sottile farsi strada nella sua mente, serpeggiare lenta e indefinibile, ma pronta a morderlo da un momento all’altro.

 

Aveva ricacciato indietro quel vago disagio che aveva iniziato a pervaderlo. Non era quello il momento di concedersi elucubrazioni mentali. Aveva sentito il corpo farsi sempre più pesante; lentamente le forze residue avevano iniziato ad abbandonarlo, assieme al sangue che scorreva dalle ferite che gli segnavano il corpo. Inuyasha, alla fine, stremato, si era accasciato accanto a lui, il respiro pesante e faticoso. Una macchia scura si era allargata sui tatami, e l’odore del sangue aveva infastidito l’olfatto del demone. Sangue youkai, hanyou e umano. Il sangue di Alessandra. Aveva gettato uno sguardo distratto ai suoi artigli, incrostati di grumi rappresi e terra. Avevano toccato il sangue della ragazza. Non era dissimili da quelli di altri demoni che ne avrebbero lacerato la pelle senza riguardo, senza preoccupazione. Eppure lei si era fatta sfiorare da quelle mani letali, aveva lasciato che il demone toccasse il suo corpo, gli aveva concesso il suo respiro, le sue labbra. Liberamente.

 

Sesshomaru aveva provato l’impulso di inginocchiarsi accanto al corpo della ragazza e stringerlo a sè, amarlo come per trasmettergli la sua forza vitale, il suo potere rigenerativo. Avrebbe voluto leccare la sua ferita, asciugare il suo sudore contro la sua pelle, perderla in un piacere che le avrebbe offuscato la mente, le avrebbe fatto dimenticare il dolore. Avrebbe voluto anche solo semplicemente toccarla, sfiorare il viso pallido e bagnato di sudore, frenare i tremiti violenti che la scuotevano quando Yaone interveniva sul suo corpo. Invece, era rimasto in piedi, immobile. Atteggiando il volto e la postura a superiore indifferenza. Era sembrato stesse osservando quasi con noia l’affaccendarsi delle yasha attorno ad Alessandra. Inuyasha gli aveva anche ringhiato qualcosa contro, sottovoce, ma lui non lo aveva ascoltato. Si era limitato a catalogare quelle parole come un disturbo per la sua mente, e quindi le aveva eliminate.

 

Alla fine, Yaone aveva rialzato sul Principe uno sguardo indecifrabile: rassegnazione, dolore, impotenza, frustrazione. C’erano mille emozioni e sentimenti contrastanti in quegli occhi verdi. Si era alzata per inginocchiarsi di fronte a lui. Consuetudine. Una donna non può rivolgersi ad un uomo restandogli alla pari. In quel momento, Sesshomaru aveva odiato profondamente i rigidi cerimoniali del suo mondo, che gli impedivano di ricevere subito una risposta che gli premeva. Eppure, era riuscito nuovamente a dominarsi, a razionalizzare che doveva continuare a mantenere la maschera di indifferenza che da sempre gli era propria. Anche in quella circostanza; soprattutto in quella circostanza. Aveva ascoltato le parole di Yaone senza batter ciglio, corrugando appena la linea sottile delle sopracciglia. Coperto di sangue e sporco di sudore e terra, il viso del Principe, sempre distaccato e superiore, appariva come una maschera terribile e disumana. Forzatamente innaturale. Aveva appena sollevato il capo per abbracciare la stanza con lo sguardo, le reazioni attonite e angosciate della hime di Kita, della miko, perfino del suo fratellastro. E poi, lei. Alessandra. Si era concesso di indugiare sul suo copro appena velato dallo yukata, sulla floridezza di un seno che era scivolato oltre i lembi dell’abito. La linea sinuosa del collo, salendo fino al viso provato, con i capelli scarmigliati. La bocca socchiusa in modo quasi innaturale.

 

Aveva appena annuito e si era voltato con passo lento, per impedire alle poche forze rimastegli di tradirlo. Aveva voluto uscire da quella stanza, cancellare il gorgoglio di quel respiro che gli aveva perforato l’udito. Il Principe aveva richiuso dietro di sè la fusuma, erano risuonate le domande di chi aspettava fuori dalla stanza, un chiacchiericcio veloce, che non aveva ottenuto alcuno risposta. Sesshomaru si era ritirato nei suoi appartamenti, e nessuno lo aveva più visto.

 

Yaone sospirò. Dopo aver applicato ad Alessandra una cannula per drenare la ferita, si era risolta a comunicare la situazione anche a chi attendeva fuori dalla stanza. Osservò distratta Homoe che sostituiva le bende e risistemava la cannuccia d’argento. Con stizza dovette ammettere a se stessa che non era servita a molto. La ferita non si era infettata, ma nonostante il drenaggio la parte alta della schiena della ragazza e il petto si erano gonfiati. E con loro la febbre era salita ancora di più. Nessun cambiamento, nessuna differenza.

 

Alessandra giaceva nello stesso stato in cui l’avevano vista, tre giorni, prima, i suoi amici, quando Yaone aveva permesso loro di entrare, subito dopo che il Principe era uscito. Erano scivolati in silenzio nella stanza, ancora reduci dalla battaglia e affaticati. Necessitavano tutti di cure, più o meno impegnative, e di molto riposo. Soprattutto Inuyasha aveva faticato molto a restare cosciente e a seguire il discorso della yasha. Lo aveva sentito anche pochi istanti prima, ma riascoltarlo gli era stato necessario: ancora non gli sembrava possibile.

 

“Purtroppo, la ferita di Alessandra non è come le altre”.

 

Yaone si era tormentata le mani, sfregando fra loro i palmi in un innaturale disagio. Non era certo la prima volta che comunicava diagnosi preoccupanti, eppure, quella volta, ogni parola le bruciava sulla lingua. Con quell’inizio era decisamente riuscita a catturare l’attenzione di tutti, anche se avrebbe preferito poterli rassicurare e mandarli tutti a riposare, invece di dover continuare quel maledetto colloquio.

 

“La punta della naginata deve averle leso un polmone. Sento gorgogliare il sangue ad ogni respiro” Prendere tempo. Aveva disperatamente cercato di prendere tempo. Per non dover esprimere la sua inadeguatezza, la dolorosa impotenza che sapeva avrebbe dovuto affrontare davanti a quella ferita in un corpo umano.

 

“Cosa significa?”

 

Nel silenzio pesante della notte, il tremore di quella domanda aveva fatto correre un brivido lungo la schiena dei presenti. Miroku, tuttavia, aveva trovato la forza, forse la disperata follia, di porla, quella domanda. Perchè quella spiegazione non era completa. Ne era certo. Mancava qualcosa, qualcosa di molto importante, che Yaone sembrava non riuscire a formulare, non sembrava essere in grado di concretizzare.

 

“Cosa significa?” aveva ripetuto in un piccolo grido che si era distorto fino ad assomigliare allo squittio di un topolino. Si era appoggiato a Sango più pesantemente, aggrappandosi all’ultimo barlume di energia che gli restava per afferrare una spiegazione che Yaone doveva dar loro. Accidenti a lei: doveva parlare!

In quel momento, Alessandra aveva emesso un rantolo e la saliva le era uscita dalla bocca mista a sangue, spandendo una larga chiazza rossa sul cuscino.

 

“Significa che Alessandra potrebbe morire”

 

Inuyasha aveva stretto maggiormente il saya della sua spada mentre le parole gli erano uscite in un soffio roco e impalpabile. Dannazione, dannazione, dannazione! Colpa sua! Era tutta colpa sua! Perchè non le aveva impedito di montare su quel maledetto cervo; perchè non aveva avuto la forza di trattenerla al sicuro sull’altura; perchè non si era minimamente accorto che Hakudoshi le era apparso alle spalle e aveva scagliato quella dannata naginata. Se solo fosse stato un po’ più attento, si era continuamente rimproverato, Alessandra non avrebbe subito alcuna ferita. Aveva abbassato la testa e affondato i canini nelle labbra fino a farle sanguinare. Aveva cercato, inutilmente, di soffocare nel dolore fisico quello che sentiva che gli stava rodendo l’anima. Insopportabile.

 

Si era ridestato solo quando Kagome lo aveva scosso per una spalla, invitandolo a lasciare la stanza. Anche lui necessitava di cure e poi, purtroppo, loro non potevano far nulla per aiutare la ragazza. Alessandra avrebbe dovuto contare su se stessa per guarire, anche se non significava che loro l’avrebbero abbandonata.

 

Yaone si alzò per socchiudere la shoji. Una coltre di nebbiolina leggera ovattava i contorni del giardino, mentre una pioggerellina sottile continuava a cadere e appesantire l’aria umida e greve. Sospirò. Già in condizioni normali la stagione delle piogge risultava sgradevole anche per loro demoni, ma per Alessandra, in quelle condizioni, doveva essere una vera tortura. Il caldo era soffocante e opprimente e servivano davvero a poco anche le stuoie di bambù. Le avevano fatto indossare un yogi estivo per cercare di controllare la sudorazione troppo abbondante e per agevolarla nel respirare. Con scarsi risultati, purtroppo. Il respiro era un rantolo sofferente e profondo che non poteva far ben sperare. Al contrario, più il tempo passava, più si assottigliavano le speranze che Alessandra potesse guarire.

 

Yaone si appoggiò stancamente all’intelaiatura delle porte. Era stupido pensarlo, ma non accettava che la sua capacità medica venisse messa in dubbio da un corpo umano. Non lo sopportava. Si concesse un sorrisino ironico. Il Principe l’avrebbe uccisa immediatamente se avesse anche solo immaginato che lei viveva quel caso clinico come una sfida verso se stessa e le sue capacità. Alessandra poteva benissimo esser equiparata ad una cavia su cui testare rimedi e possibili soluzioni. Scosse la testa rialzando un ciuffo di capelli sfuggito alla complicata acconciatura. Era la sua parte demoniaca a formulare quei pensieri, non l’interesse che aveva di curare Alessandra. E consciamente sapeva di non potersi permettere di sbagliare.

 

Si voltò verso l’interno della stanza, indugiando sul basso tavolino ingombro di piccoli pesi e bilance, erbe mediche, dosatori, alambicchi e altri strumenti medici e testi. Sembrava quasi che si aspettasse che da un momento all’altro la risposta emergesse dal nulla che le avvolgeva la mente, chiara e limpida. Banale. Per salvare la ragazza e chiudere la ferita al polmone. Eppure, sapeva benissimo che non avrebbe avuto nessuna illuminazione divina, nè alcun aiuto da altri. Avrebbe potuto consultarsi con gli altri guaritori a palazzo, ma un po’ per orgoglio un po’ perchè li riteneva totalmente incapaci di fornirle qualche elemento utile, aveva preferito rinunciare.

 

“Cosa pensate di fare, Yaone-san?”

 

Homoe continuava a frizionare la fronte e le labbra della ragazza con un panno umido, nel tentativo, pressochè vano, di recarle un po’ di sollievo almeno dal caldo e dalla febbre che la divorava. Era rimasta al capezzale di Alessandra per delle ore, in quei giorni, mentre Yaone dosava e preparava mille ritrovati a poca distanza dal futon. La stanza della ragazza assomigliava di più ad un laboratorio officinale che a una camera da letto, ma Yaone aveva optato per quella soluzione, disdegnando la maggior tranquillità dello studio che avrebbe avuto a disposizione, pur di essere costantemente presente e poter intervenire con tempestività in caso di bisogno.

 

La hime di Kita l’aveva vista tentare molteplici combinazioni, interrogare più volte Kagome e Sango in rapporto al corpo umano, ricorrere a quei pochi farmaci che erano sopravvissuti a quei mesi, saccheggiando le cassette mediche di Alessandra e della stessa Kagome, che ne aveva dovuto spiegare effetti e controindicazioni alla meno peggio. Purtroppo, nemmeno i calmanti per la febbre avevano effetti soddisfacenti, e soprattutto erano di durata molto limitata. Ed erano ormai tre giorni che la ragazza non riprendeva conoscenza.

 

Homoe temeva davvero che nemmeno le tanto decantate arti mediche di Yaone avrebbero potuto aver effetto, anche perchè finora la yasha si era limitata a piccolissimi interventi, piuttosto mirati a evitare che la ferita si infettasse e la situazione si complicasse ulteriormente, che a somministrare veri e propri ritrovati o rimedi. Era palese, quindi, che nemmeno Yaone sapeva cosa fare, o forse non si arrischiava a far nulla di troppo pericoloso. Una possibile soluzione sarebbe stata quella di inserire una canula direttamente nel polmone di Alessandra attraverso la ferita, per poi aspirare il sangue, almeno fino alla completa suturazione della piaga. Tuttavia, Homoe ne era consapevole, quel gesto sarebbe stato davvero un tentativo estremo, cui ricorrere se la situazione fosse degenerata senza possibilità di ritorno. Al momento, invece, il corpo di Alessandra reagiva ancora agli stimoli, e il respiro, benchè pesante e frammisto al sangue che risaliva la gola, era costante. Era probabile ipotizzare, quindi, che la ferita avesse sì leso il polmone, ma non in modo da compromettere del tutto la respirazione e da far soffocare la ragazza. Si poteva invece supporre che la lama della naginata si fosse spinta nei bronchi solo per pochissimi centimetri, e che quindi sarebbe bastato il tempo a risolvere la situazione. Concesso che il fisico di Alessandra avesse resistito abbastanza.

 

Tuttavia, il rilucere sul tavolino della canula d’argento e la bacinella di ceramica necessaria ad aspirare il sangue dai polmoni non permettevano a Homoe di sperare per un decorso relativamente tranquillo e naturale. Sembrava che Yaone stesse solo aspettando il momento adatto per impugnare quegli strumenti, far rovesciare di lato il corpo della ragazza e invaderlo con il metallo. La yasha sentì un brivido pervaderle il corpo al pensiero della difficoltà che l’operazione comportava e al conseguente rischio, altissimo, di fallimento.

 

“Se sarà necessario, Homoe-san. Solo se sarà necessario”

 

Yaone aveva colto la scintilla di trepidazione nello sguardo della hime e aveva capito benissimo il senso della sua domanda. No. Non era intenzionata ad arrendersi, nè voleva tentare quell’operazione, almeno finchè avesse nutrito anche solo una remota possibilità che il corpo di Alessandra riuscisse a superare da solo il forte trauma. Aveva fatto parola solo con Homoe di quell’estrema soluzione, che le si era formulata nella mente appena aveva realizzato l’entità del danno subito dalla ragazza. Tuttavia, accantonarlo e ignorarlo, concentrandosi invece su altri possibili espedienti, le era sembrata la soluzione migliore per non cedere ad un pessimismo che avrebbe potuto rivelarsi anche controproducente. Invece, assieme alle ore, scemavano anche le speranze e la fiducia, e quella canula mandava un bagliore quasi spettrale agli occhi della yasha.

 

Yaone si lasciò scivolare lungo lo stipite, reclinando appena di lato la testa. Accidenti a lui, che l’aveva lasciato sola ad affrontare un compito così gravoso. Ecco: se ci fosse stato lui, probabilmente Alessandra sarebbe già stata guarita. Si mordicchiò un dito, con uno strano sorriso sulle labbra. Inutile recriminare. Non poteva permettersi rimpianti in quel momento. E nemmeno concessioni mentali che la distraessero dal suo compito.

 

Eppure...vorrei che fossi qui...Ashitaka...

 

 

*****

 

 

“Sei qui cagnolino?”

 

Il mugugno che ricevette in risposta convinse Koga ad entrare nella stanza. C’era un odore di chiuso e di sangue vecchio che gli dava la nausea. Raggiunse le shoji imprecando quando inciampava in qualcosa di non definito e duro e le spalancò. La luce del primo pomeriggio riempì la stanza occupata da Inuyasha e Miroku, e Koga potè concedersi un profondo respiro. L’aria umida non gli dispiaceva affatto. Quando era cucciolo, si divertiva molto a correre nei boschi in quella stagione, quando l’odore di resina e corteggia era così intenso che sembrava di poterlo gustare solo mordendo l’aria. E aveva sempre amato anche la sensazione di ovata che ti circonda le membra se cammini in quella nebbiolina fine. Ti sembra quasi di nuotare in un mare invisibile, con l’aria pensate sulla pelle e i capelli che si fanno lucidi e umidi. Sensazioni che gli sono sempre state care. Ricordi di un’infanzia lontana, quando non era un principe, ma solo un cucciolo di lupo. Storse la bocca. Il tempo non aveva cambiato troppo le cose, dovette ammettere a se stesso.

 

Koga aveva preso il posto di suo padre a capo del clan degli Yoro, ma la sua vita non aveva subito un grande cambiamento. Restava il giovane youkai arrogante e sicuro si sè di sempre. Fin troppo sicuro, aveva dovuto ammettere alcune volte a se stesso di malavoglia. Eppure, se in certe situazioni non ci fosse stato Inuyasha a tirarlo fuori dai guai, probabilmente non se la sarebbe cavata. Avrebbe dovuto ringraziarlo, se non fosse per il fatto che proprio non sopportava l’idea di abbassarsi ad ammettere di dovergli qualcosa. Diamine! Il cagnolino si sarebbe montato la testa, e lui non lo avrebbe proprio sopportato.

 

Si passò una mano fra i capelli, sospirando pesantemente. Non avrebbe mai creduto che reggere l’esercito degli ookami potesse essere un compito così gravoso. Suo padre non gli aveva mai detto nulla di particolare al riguardo e, a voler esser sinceri, lui non era mai stato un tipo portato alla strategia militare e alla tattica. Combatteva seguendo il semplice istinto, abbandonandosi agli stimoli che gli venivano trasmessi dai suoi sensi sviluppati, lasciando che la parte più ferina e selvaggia del suo sangue si impadronisse della sua mente. Non era il semplice gusto della battaglia e della morte a entusiasmarlo. Era la caccia ad eccitarlo. L’idea di dover braccare l’avversario, stringerlo in una morsa angosciante dopo avergli dato magari l’illusione della salvezza. Rincorrere la sua preda per potergli leggere il terrore e la furia disperata negli occhi, sparire dalla sua visuale per sentirlo respirare di sollievo e poi ghermirlo alle spalle, affondando gli artigli o i canini nella carne. Koga non disdegnava di azzannare un avversario. Al contrario, in alcune circostanze, le sue zanne erano l’arma più efficacie di cui disponesse, acuminate e forti tanto da poter stritolare il braccio di un hanyou.

 

Giocherellò distrattamente con l’hanaba obi del suo iromuji. Se ci pensava, il suo modo di combattere era l’opposto di quello di Sesshomaru. Lo aveva visto per la prima volta combattere veramente solo alcuni giorni prima, in quella maledetta battaglia che poteva ancora avere un epilogo tragico. Doveva ammettere a se stesso che la freddezza del Principe era stata capace di lasciarlo sconcertato. Conosceva bene il modo di combattere di Inuyasha, avventato e impulsivo come il suo quasi, e si era aspettato una tecnica simile da parte anche del fratello, soprattutto ricordando l’esito disastroso dello scontro fra i due fratelli mesi prima, che quasi avevano demolito il dojo. Invece, Sesshomaru aveva sfoggiato una tecnica di spada magistrale e un’abilità nel calcolare mosse, schierare le file dell’esercito e avanzare con la sicurezza delle spalle coperte per una eventuale, anche se improbabile ritirata. Koga ne era rimasto travolto, quasi affascinato. Fra loro la differenza di età poteva esser considerata minima, appena cento anni, eppure, l’inuyoukai si era mostrato un condottiero perfetto. Poco importava che, alla fine, avesse lasciato il campo senza nemmeno curarsi della sorte dei suoi uomini e del destino del suo avversario. Aveva delegato loro il

compito di chiudere la partita il più in fretta possibile e ricondurre l’esercito a palazzo.

 

Scosse la testa. Non era certo quello il momento migliore per perdersi in riflessioni riguardo la differenza che intercorreva fra lui e Sesshomaru. In definitiva, poteva accettare che il Principe vantasse maggior esperienza in campo logistico, ma nel resto si equivalevano e lui non gli sarebbe mai stato inferiore. Sesshomaru poteva anche esser a capo del Consiglio, ma in conclusione detenevano, nelle rispettive Famiglie, la medesima posizione. Con un sospiro e un sorrisetto che assomigliava a un ghigno si risolse infine a voltarsi. Non era certo per disquisire mentalmente che si era recato nella stanza del cagnolino. Il fatto era che, anche se l’idea gli andava di traverso, doveva ammettere che era u po’ preoccupato per lui. Insomma: era da quando era uscito dalla camera di Alessandra che non si muoveva dalla sua stanza. E la pazienza e l’immobilità non erano certo caratteristiche dell’hanyou.

 

Si avvicinò al futon e si sedette pesantemente a terra, soppesando il volto con un mano. Inuyasha non si mosso minimamente. Continuava a ignorarlo e fissare il soffitto, sdraiato sul suo futon e con un braccio dietro la testa. Koga non potè esimersi dal notare che il braccio che si era ferito in battaglia restava disteso lungo il fianco. Tuttavia, non riusciva a credere che ancora la ferita non fosse guarita. In fondo, Inuyasha aveva sempre mostrato un’ottima capacità di guarigione, che spesso aveva sorpreso anche lui, un demone completo. Eppure, lo vedeva con i suoi occhi: la manica del nagajuban era chiazzata di un tenue alone rossastro. L’odore di sangue che gli aveva dato fastidio quando era entrato. Eppure, era certo che Kagome fosse riuscita a fargli togliere il suo kariginu per lavarlo. Quindi, dal momento che l’hanyou lo reindossava, quel sangue non poteva esser vecchio, ma solo fresco.

 

Koga era stizzito dal comportamento di Inuyasha. Non rispondeva alle provocazioni, non si degnava di ascoltarlo, non gli prestava la benchè minima attenzione. E la cosa gli dava davvero sui nervi. In modo insopportabile. Alla fine, gli afferrò il braccio sinistro, stringendo lì dove c’era il segno del sangue, ottenendo in risposta un rantolo soffocato, qualche imprecazione e un’artigliata che gli strappò alcuni capelli dalla frangia, ma che in definitiva evitò senza problemi allontanandosi con un salto.

 

“Chikuso, Koga no baka!”

 

“Ma allora ce l’hai ancora la lingua, cuccioletto!”

 

Inuyasha fermò il suo sproloquio e le sue ingiurie, fissando basito l’espressione a metà fra lo strafottente e il contento dell’ookami. Quel maledetto! Ma non poteva trovare un metodo meno drastico se proprio voleva la sua attenzione?! Gli aveva fatto un male tremendo! E adesso la ferita aveva ripreso a sanguinare, dopo che finalmente sembrava avviarsi a cicatrizzarsi. Inuyasha sbuffò constatando di avere la mano impegnata di sangue, che sentiva nuovamente percorrergli il braccio. Adesso, avrebbe dovuto cambiare di nuovo la fasciatura, rimetterci quell’estratto d’erbe che gli aveva preparato Kagome e sperare che facesse effetto in fretta. Non ne poteva più di avere un braccio quasi inutilizzabile.

 

Masticando amaro per imporsi di non assassinare immediatamente Koga, si liberò del nagajuban e strappò con un gesto secco la fasciatura. Storse la bocca in una smorfia. Assieme alla stoffa, si erano lacerati anche alcuni brandelli di carne appena rimarginata. L’impacco aveva fatto presa, incollando la benda alle labbra della ferita, e il suo gesto brusco non aveva certo contribuito a fermare il sangue. Assottiglio gli occhi e fissò quasi con disgusto la piaga sul bicipite. L’osso non era più visibile, ma i fasci muscolari si stavano riformando con estrema lentezza, e adesso sanguinavano. Poco, per fortuna. Doveva aver rotto qualche capillare e basta, ma comunque gli bruciava terribilmente. Sentiva un odore rivoltante mescolarsi al suo sangue, facendogli assumere una tonalità leggermente più scura. Storse la bocca. Il veleno che quel maledetto youkai gli aveva iniettato in corpo stava iniziando a perdere il suo effetto. All’inizio, il sangue usciva nero e maleodorante. Infetto. Adesso, anche se la youki avversaria rallentava di molto il processo di autoguarigione, almeno stava perdendo forza. Ancora pochi giorni, e il veleno sarebbe scomparso del tutto; poi, in capo a un giorno se non a poche ore sarebbe stato di nuovo in forma.

 

Spalmò come meglio potè l’estratto che Kagome gli aveva preparato e cercò di fermare un lembo della fascia per poi avvolgerla. Strinse le labbra. Non era affatto semplice bendare il braccio con l’ausilio di una sola mano. Alla fine stava per rassegnarsi e mandare al diavolo bende e ferite quando, con sua sorpresa, Koga gli strappò di mano la benda e iniziò a medicarlo. Senza risparmiagli frecciatine, certo, ma Inuyasha, stranamente, si sentì contento, e mentre gli rispondeva a tono si ritrovò a sorridere. Litigare con Koga era un ottimo sistema per scacciare la tensione e ritrovare una complicità e un’antipatia di facciata che lo faceva sentire accettato e non commiserato.

 

Fissò l’ookami che finiva di fasciargli il braccio. Era davvero inusuale vederlo senza la sua corazza e le pellicce. Salvo restando gli artigli, Koga avrebbe anche potuto passare per un essere umano, a distanza. E il kimono che indossava contribuiva a rendere l’illusione. D’altro canto, la sua corazza era stata mezza distrutta dopo che lui e Sesshomaru avevano lasciato il campo di battaglia, e Koga aveva riportato sul petto una serie di ferite che dovevano avergli reso penoso indossare un qualcosa che non fosse morbido. Anche se ormai il principe degli Yoro era quasi guarito gli era stata assolutamente preclusa la sua armatura per evitare abrasioni che avrebbero potuto far riaprire le cicatrici ancora fresche. Aveva protestato per un po’, ma alla fine si era fatto piccolo-piccolo davanti alla rabbia esasperata di Kagome. Koga, in quel moneto, aveva capito la tensione che la ragazza aveva vissuto in quelle ore e che continuava a sentire su se stessa. Lei era uscita incolume dagli scontri perchè tutti si erano affacendati per tenerla al sicuro con Rin. Inoltre, Kagome si rimproverava di non esser riuscita a trattenere Alessandra a palazzo. Se era stata ferita e adesso era in fin di vita era anche colpa sua, che non aveva fatto quasi nulla per impedirle di andare.

 

Si era arrabbiata con Koga solo perchè era stato lui l’ultimo con cui aveva avuto da discutere. Sango, Miroku, Ayame, Kumamoto, Koga stesso...Sembrava che tutti provassero gusto a volerla assolutamente tranquillizzare e a minimizzare le loro ferite. Persino Inuyasha, nonostante il braccio inutilizzabile e la stanchezza che lo avvolgeva quando era rientrato a palazzo con Sesshomaru, aveva avuto la forza di fare il gradasso e asserire che aveva solo qualche graffio. E lei non lo sopportava proprio quando faceva così. Aveva rimpianto per un istante il fatto di avergli tolto il rosario. Avrebbe voluto sbatterlo a terra mille volte, per fargli capire che era preoccupata e che non c’era nulla di male nel fatto che fosse ferito. Invece, aveva pestato i piedi per terra e se ne era andata dalla stanza dove l’aveva aiutato a trascinarsi appena Yaone aveva comunicato loro le condizioni di Alessandra.

 

Inuyasha non aveva quasi più lasciato la sua camera. Si era limitato, qualche volta, a trascinarsi fino a quella di Alessandra passando per l’engawa per evitare di incrociare qualcuno. Sperava in una notizia positiva, ma Yaone poteva solo scuotere la testa alla sua muta domanda. Allora, ritornava indietro o si spingeva fino alla camera di Kagome e Sango. Non entrava mai, ma restava seduto accanto alle colonne di legno anche per tutta la notte. Aveva fatto pace con Kagome in fretta, quando lei era tornata ancora offesa e preoccupata a medicarlo, ma poi non aveva avuto molte occasioni di passare un po’ di tempo da solo con lei. Kagome aiutava Homoe all’ospedale da campo, anche se ormai la maggior parte dei demoni si era rimessa o era stata curata. Erano loro ningen a essere lenti nel riprendersi, o chi aveva subito ferite piuttosto gravi o fastidiose come lui e Koga.

 

Anche Sesshomaru era ferito

 

Una consapevolezza che gli aveva attraversato più volte la mente, in quei giorni. Quando sedeva sull’engawa, a volte rivolgeva l’attenzione alle stanze di suo fratello. Nessuno lo aveva più visto da quando era rientrato a palazzo, ed era Jacken a tenere le direttive a corte, dal momento che Kumamoto era rimasto ferito e per un po’ avrebbe necessitato di riposo. Inuyasha storse la bocca. In fondo, anche il galoppino di suo fratello poteva rivelarsi utile in certe occasioni. La situazione del palazzo era di certo l’ultimo pensiero del Principe in quel momento. Tuttavia, Inuyasha non era certo di quale fosse il primo dei pensieri di suo fratello. Va bene non compromettere le apparenze, ma almeno una visita di tanto in tanto, giusto a scopo informativo, avrebbe anche potuto farla ad Alessandra. Di notte, poi, non ci avrebbe messo niente a scavalcare la finestra e raggiungere la stanza della ragazza. Lo aveva già fatto, Inuyasha lo sapeva, glielo aveva raccontato la stessa Alessandra.

 

Niente, invece. E la cosa gli dava un maledetto fastidio. Gli faceva rabbia. Se al posto di Alessandra ci fosse stata Kagome, lui non si sarebbe mosso di un millimetro dal suo fianco. E si sarebbe dannato mille volte l’anima per non esser stato in grado di proteggerla. E Sesshomaru, invece, cosa ha fatto? Niente. Assolutamente niente! Continua a restare rinchiuso in quella sua maledetta stanza. Se solo avesse già ripreso un po’ di forza, Inuyasha sarebbe andato di persona a trascinarcelo fuori. Al diavolo anche le apparenze e la corte! Alessandra stava soffrendo molto, e assieme ai giorni passavano anche le speranze che guarisse. Restava appesa alla vita quasi con disperazione. E suo fratello non si degna nemmeno di informarsi delle sue condizioni.

 

Strinse i denti fin quasi a far scricchiolare la mascella. Gli faceva una tale rabbia. Possibile che davvero gli importassero di più la sua reputazione e il suo orgoglio della vita della donna che amava? Un sussulto. Sesshomaru...suo fratello amava davvero Alessandra? Inuyasha era certo dei sentimenti della ragazza perchè lei stessa glieli aveva confessati, ma, se ci rifletteva bene, non aveva nessun elemento concreto che avvallasse l’ipotesi di un possibile sentimento di amore in suo fratello. Storse la bocca risistemandosi il kariginu. Sesshomaru avrebbe preferito farsi uccidere piuttosto che pronunciare una simile confessione, e comunque riuscire a comprenderlo dai suoi atteggiamenti o dall’espressione era partita persa. Lui lo sapeva bene. Il Principe non concedeva mai nulla che facesse realmente intuire il suo pensiero.

 

Però l’ha portata via dal campo di battaglia

 

Inuyasha si era aspettato che Sesshomaru lo raggelasse con una delle sue occhiate di sufficienza e gli ordinasse di portare al palazzo Alessandra. Non è dell’inuyoukai l’abitudine di abbandonare il campo a battaglia iniziata; soprattutto se il rischio è una sconfitta. Sesshomaru era capace di dar fondo a tutto se stesso pur di non uscire mai battuto da uno scontro. Soprattutto se l’avversario poteva considerarsi al suo livello come si presentava Morigawa, oltre al fatto che era un demone paragonabile a loro padre. Tuttavia, suo fratello aveva ricusato lo scontro e se ne era andato. Con la sua consueta eleganza e con abbastanza lucidità da lasciare ai suoi sottoposti e alleati direttive abbastanza esaurienti perchè la sua assenza non compromettesse l’esito dello scontro. Inuyasha sospirò. Se fosse stato al suo posto, lui si sarebbe completamente dimenticato di tutto, avrebbe preso Kagome e avrebbe solo iniziato a correre verso una qualsiasi fonte di salvezza: Jinenji, Kaede-baba o...Accidenti! Verso chiunque! Purchè potesse aiutarlo. Sesshomaru, invece, gli aveva di nuovo, forse davvero inconsapevolmente, sbattuto in faccia le differenze che intercorrevano fra loro: la passionalità del suo sangue misto contro la glacialità del sangue puro. Suo fratello, almeno esteriormente, non perdeva mai la calma e non si lasciava mai travolgere dagli avvenimenti. Anche se coinvolto in prima persona, era capace di discernere ogni pensiero e mantenere la mente lucida. Razionale. Fredda.

 

Si lasciò cadere con un rumoroso sospiro sul futon. La mente di Naraku era davvero contorta, e più di una volta i suoi cervellotici piani li avevano depistati e tratti in inganno, ma anche cercare di comprendere un po’ la mente di suo fratello era impresa che in certi momenti gli sembrava disperata. Non che se ne fosse mai interessato particolarmente, per carità; tuttavia, quando se lo trovava davanti su un campo di battaglia, Inuyasha doveva ammettere a se stesso di provare una strana soggezione verso di lui. Da piccolo, quando lo aveva visto per quella prima e unica volta, aveva provato il desiderio di essere come lui, di diventare come quel fratello apparso all’improvviso e poi scomparso. Nella sua piccola mente affamata di sicurezza, di affetto, di un qualsiasi punto fermo, Sesshomaru si era trasfigurato nel modello da eguagliare, in tutto e per tutto. Era stato lo spazio di un respiro, il tempo di uno sguardo veloce, e l’unica cosa che davvero era riuscito a catturare era stata l’immagine di un ragazzino bianco ammantato di luce e con occhi gelidi, eppure tanto gli era bastato per eleggere, inconsciamente, quel fratello mai realmente conosciuto a sostituto del padre, a eroe da eguagliare.

 

Non lo avrebbe confessato nemmeno sotto tortura, e con il tempo quella visione ideale e trasfigurata aveva assunto una concretezza tagliente e spietata, ma Inuyasha doveva ammettere a se stesso che, in un modo o nell’altro, Sesshomaru era stato ed era ancora il suo termine di paragone. Quasi la sua ossessione. Però...però non riusciva a capire un accidente di quella testa dura! Alessandra lo ama; Alessandra è andata da lui in mezzo ad uno scontro e adesso è davvero in condizioni disperate. E lui? Lui se ne disinteressa! Le dice che è importante e poi non si degna nemmeno di apprendere qualcosa sulla sua salute. La ignora! Si dimentica di lei! Inuyasha continuava a rimuginare su quell’assurdo comportamento, ma l’unico cosa che otteneva era un fastidiosissimo mal di testa. Sapeva perfettamente che arrovellarsi il cervello per cercare di capire suo fratello era un’inutile perdita di tempo, ma se non faceva qualcosa rischiava che quell’attesa lo facesse impazzire.

 

“Ma si può sapere cos’hai?! Non ti riconosco più!”

 

Inuyasha storse la bocca mentre portava una mano alla testa contusa. Pensare non era proprio il suo forte se lo portava addirittura dimenticarsi della presenza di Koga, che però provvedeva con la sua consueta delicatezza a ricordargli che non era solo. L’ookami iniziava sinceramente a preoccuparsi. Solitamente, quando loro due erano a così stretto contatto, tempo due minuti e rischiavano di venire alle mani per chiarire le divergenti opinioni. Inuyasha, invece, non si era mosso per tutto il tempo che aveva impiegato a fasciargli il braccio e lo aveva completamente dimenticato, almeno a giudicare dalla sua espressione. Non gli piaceva. Proprio no. Si trovava quasi a disagio davanti quel botolo fin troppo taciturno e riflessivo. Sbirciò la porta. Se almeno fosse entrata Kagome avrebbe potuto farle un po’ di corte, così tanto per smuovere un po’ la situazione apatica. Ridacchiò fra sè e sè. Appena Ayame lo fosse venuta a sapere, gli avrebbe fatto una di quelle scenate di gelosia da mettere in imbarazzo anche il più menefreghista degli uomini. Si umettò le labbra concedendosi un ghigno. Forse non gli sarebbe del tutto dispiaciuto sentirla inveirgli contro per potersi chinare su di lei e sussurrarle all’orecchio qualcosa sulla loro notte d’amore. La sua yasha avrebbe perso subito la sua baldanza, sarebbe arrossita e poi, ancor più arrabbiata, avrebbe preso a rincorrerlo per il castello. Sì. Ottima strategia per riportarla alla sua tenda, nel suo letto.

 

Sospirò scostando la frangia. Doveva tagliare un po’ quei dannati capelli. Gli finivano sempre negli occhi. Tuttavia, Koga doveva ammettere che, se non fosse stato per i suoi capelli, Ayame si sarebbe accorta del suo sguardo disperato quando l’aveva vista cadere a terra ferita da un soldato nemico. Koga non ricordava bene cosa fosse successo: odore di sangue di lupo, quello di Ayame; lei che striscia per terra premendosi il fianco; e il nemico che si avvicina a lei. Troppo vicino. Koga aveva lasciato che il suo sangue demoniaco esplodesse e lo trascinasse contro il suo avversario, squartandone il corpo con gli artigli e le zanne e bevendone il sangue. Sembrava una belva ferita e il suo viso imbrattato di sangue e sudore, con gli occhi quasi del tutto dorati. Si concesse un sorriso. Vedere ayame in pericolo lo aveva quasi spinto a trasformarsi, ad abbandonare le sembianze umane come poche volte si permetteva. Suo padre gli aveva insegnato le diverse forze che coabitano in un demone superiore come loro: la potenza ferina della forma animale e una forza mutevole della forma umana. Se, trasformato, fra lui e Sesshomaru non intercorreva differenza alcuna di istintività e feroce comportamento, sotto l’aspetto umano erano davvero agli antipodi: tanto controllato e distaccato l’inuyoukai quanto lui era passionale e impulsivo. Koga sapeva benissimo che non erano certo quelle le caratteristiche più adatte ad un principe, tuttavia non aveva mai dato peso a rigidi cerimoniali e il consenso nel suo popolo lo aveva ottenuto proprio grazie al suo temperamento schietto e a tratti rozzo. La corte inuyoukai, così controllata e composta, era per lui una vera e propria tortura.

 

Sbuffò. Le ferite al petto si erano rimarginate quasi completamente e in capo a uno o due giorni avrebbe potuto reindossare una corazza. Un ringhio si formò nella sua gola mentre la sua mente tornava velocemente preda dell’irritazione che l’aveva attraversata quando un demone aveva avuto l’ardire di strappargli la corazza a unghiate. Aveva fatto una brutta fine il suo nemico, ma lui ci aveva rimesso l’armatura di suo padre. Doveva ricordarsi di chiedere a Inuyasha se conoscesse un buon fabbro capace di riparargliela. Ci era affezionato, in definitiva. Ci sarebbe andato appena lasciato il palazzo. Stava davvero raggiungendo il limite e se ancora era rimasto era stato solo per permettere ad Ayame di recuperare del tutto le forze.

 

Bugiardo

 

Si massaggiò il collo. Non era proprio una bugia, ma nemmeno tutta la verità. Ayame avrebbe impiegato ancora un po’ di giorni a rimettersi completamente dalle ferite e dalle contusioni, soprattutto considerando il fatto che quella battaglia era stata il suo battesimo delle armi. Lui aveva cercato in tutti i modi di tenerla nelle retrovie, di proteggerla, ma la yasha era ribelle, orgogliosa e non aveva accettato le rudi e imbarazzate premure dell’ookami. Lo aveva seguito in prima linea per combattere con lui; per dimostrargli che non era una bambolina di porcellana ma che sarebbe stata degna, un giorno, di essere davvero riconosciuta come sua compagna. Koga incassò leggermente la testa mugugnando qualcosa. Per sua fortuna, Inuyasha era ancora troppo smarrito nei suoi ragionamenti per prestar attenzione al suo rossore. Ma lui non ci poteva far nulla: ricordare il corpo nudo della yasha, le sensazioni che quella notte gli avevano trasmesso lo mandavano in confusione, tanto che, ne era sicuro, se avesse aperto bocca avrebbe balbettato.

 

Quella era la seconda ragione per cui non si era ancora deciso a lasciare il palazzo: voleva poter restare ancora un po’ con Ayame. Riportarla da suo nonno significava ricostruire il distacco e l’indifferenza che avrebbe dovuto mantenere fino alla morte di Naraku. Ne aveva parlato anche con lei, in quei giorni, e Ayame in principio si era rifiutata di ascoltarlo: se davvero la considerava sua compagna, se davvero quel morso che si erano scambiati era la prova del loro sposalizio, perchè lei non poteva indossare le pelli del clan di Yoro e accompagnarsi a lui? Perchè doveva ancora rivolgerglisi come ad un amico o al proprio principe e non come all’uomo che amava? Koga aveva maledetto se stesso per quel discorso che l’aveva intristita, ma era necessario che lei sapesse: era la sua compagna,e questo nessuno avrebbe potuto cambiarlo; tuttavia, lui aveva una promessa da rispettare e fino allo scioglimento di quel voto, avrebbero dovuto continuare a tenere nascosto il loro legame. Per prudenza. Koga non avrebbe mai sopportato l’idea che Ayame fosse in pericolo per averlo seguito e perchè era legata a lui. restare al sicuro con il patriarca sulla montagna era l’unica soluzione possibile per proteggere la yasha e permettere a lui di rincorrere la sua vendetta con la sicurezza che, quando fosse tornato, lei sarebbe stata lì ad aspettarlo. Perchè, adesso, era certo di voler tornare.

 

In definitiva, però, c’era anche una terza ragione per cui risiedeva ancora a palazzo: Alessandra. Curiosità, interesse, compassione, coinvolgimento. Per molte ragioni che non aveva nè la pazienza nè la voglia di indagare, l’ookami era rimasto. E tutte quelle motivazioni confluivano nella ragazza. Voleva sapere se si sarebbe salvata; rivedere Inuyasha con la sua espressione che lo faceva tanto arrabbiare e Kagome mettersi fra di loro per separarli. Sapeva benissimo che, con quello che era successo e con la vita in comune che aveva trascorso in quei mesi, qualcosa era cambiato in modo irreversibile. Tuttavia, benchè la sottile consapevolezza di aver passato un limite lo attraversasse ogni volta che vedeva Inuyasha e Kagome insieme, anche se solo stavano parlando, lui non riusciva ancora ad accettare quella situazione. Quel cambiamento.

 

E poi c’è Nijiya

 

Koga poggiò stancamente una braccio sulla gamba tesa, sbirciando nel giardino. Il sole iniziava a calare e con lui anche il caldo soffocante del primo pomeriggio. In serata, si sarebbe potuto sperare in un leggero venticello. Nijiya. Non era stato pronto a trovarselo davanti. Non in quel modo. Disteso addormentato su un futon e pieno di bende. Lo aveva cercato per tutto il campo di battaglia. Era stato ben deciso ad affrontarlo e capire finalmente se quello che aveva davanti era suo fratello o un demone che gli somigliava soltanto. Strinse gli occhi. La cicatrice doveva essere una prova sufficiente, ma lui non si voleva del tutto convincere. Aveva avuto troppa paura di illudersi e poi vedersi sgretolare fra le mani quell’illusione. Ci era dovuto andare a sbattere contro per esser certo che il terzo principe del Kansai era in realtà quel fratello scomparso secoli prima.

 

Kyoko-sama gli aveva spiegato vagamente che Nijiya era stato portato sul Continente da Takakuni, un loro inviato, dopo che lo aveva soccorso in una foresta. Aveva riportato un’amnesia che gli aveva fatto dimenticare la sua origine e il suo passato e d era cresciuto con i principi del Kansai come uno di loro. Era stato il loro incontro a far scattare qualcosa nella mente dell’ookami, fino a costringerlo a riportare alla luce tutti i ricordi seppelliti da secoli. Adesso, spettava a loro decidere se considerarsi nemici o cercare di ricostruire un rapporto smarrito nel tempo. Koga, in principio, dovette ammettere a se stesso di esser geloso di suo fratello: trattava lui, un suo consanguineo, come un estraneo, e riservava le sue attenzioni ai principi del Kansai. Tuttavia, aveva cercato di dominare quel moto violento che lo prendeva ogni volta che vedeva Shin e Nijiya assieme. Si era ripreso quasi del tutto, e ormai anche lui non aveva più scusa da accampare per rinviare una conversazione che era, come minimo, dovuta a entrambi.

 

“Come pensi di fare con Koji?”

 

Koga trasalì. Ma che diavolo stava succedendo? Inuyasha non era certo mai stato delicato nel porre le sue domande, ma addirittura colpire al primo attacco a parole era un vero miracolo. La vicinanza del monaco iniziava ad avere effetti benefici anche sul cervello dell’hanyou, ipotizzò Koga. Sbuffò. No. Si era sbagliato. Lo sguardo di Inuyasha era troppo ingenuo perchè celasse doppi intenti. Semplicemente, doveva aver rinunciato a consumarsi la testa su qualsiasi cosa lo stesso facendo impazzire.

 

Koji. Lo chiamavano tutti così. Il nome che gli era stato dato dagli inuyoukai del Kansai. Un nome diverso da quello deciso per lui da loro padre. Si passò una mano nei capelli. Come avrebbe dovuto chiamarlo lui? Scrollò le spalle. Ci avrebbe pensato al momento adatto. Appena in grado di montare, lo avrebbe invitato a seguirlo fuori da quel palazzo claustrofobico. Se davvero doveva, voleva, parlare con suo fratello allora preferiva farlo all’esterno, fra i boschi in cui era cresciuto, dove loro erano cresciuti per un po’.

 

“E tu con Sesshomaru?”

 

Koga sorrise mostrando i canini appuntiti. Gli piaceva provocare Inuyasha e lo divertiva la faccia crucciata dell’amico. L’hanyou non sopportava che gli si rispondesse con un’altra domanda, e lui lo sapeva bene. Tuttavia, non riteneva ancora il tempo di chiarire le sue intenzioni. Il come e il quando avrebbe cercato di chiarire le cose con suo fratello riguardava solo lui, anche perchè significava esser abbastanza forti da sentirsi dire di non voler più tornare, da doverlo disconoscere. Allora, molto più facile provocare, affondando nella stessa piaga. Inuyasha, in definitiva, non era messo meglio di lui in quanto a rapporti fraterni e lui stava seriamente disperando che sarebbe mai riuscito a far parlare quei due in modo civile. Se restavano da soli per più di cinque minuti c’era il rischio che mettessero mano alle spade e in presenza di terzi non avrebbe mai parlato di se stessi. Koga incrociò le mani dietro la testa. Situazione persa. Forse, in definitiva, l’unico modo per farli parlare sarebbe stato proprio un duello, ma Kagome non lo avrebbe mai permesso. E poi, non era certo il caso di mettersi a litigare in quel frangente, mentre Alessandra era in fin di vita.

 

Koga non sapeva esattamente se la ragazza fosse semplicemente uno strumento per il Principe dell’Ovest, ma di certo le aveva riservato uno strano trattamento. A ben pensarci, era stato davvero inusuale il fatto che avesse delegato a lui e Kumamoto la fine dello scontro e se ne fosse andato dal campo di battaglia. Era ferito, d’accordo, ma rimuginando su come gli era sempre stato descritto il principe degli inuyoukai si sarebbe aspettato piuttosto di vederlo gettarsi nella mischia pur di riscattare il so onore e annientare un avversario che lo aveva, volente o nolente, tenuto in scacco per dei mesi. La vittoria che avevano conseguito aveva bel largamente riabilitato il prestigio di Sesshomaru che, presente o meno sul campo di battaglia, ne assumeva comunque tutti i meriti, ma non lo aveva visto impegnato nello scontro con Morigawa. E benchè, probabilmente, lo youkai mostrasse apparente indifferenza per quel confronto mancato, la corte non poteva esimersi dal commentare con acidità e stupore la scelta del loro signore di affidare ad altri la battaglia decisiva per salvare una semplice ningen.

 

“Quello è un caso disperato. E io non ho voglia di farmi ammazzare!”

 

Inuyasha ricambiò il ghigno. Parlare con suo fratello era pressochè impossibile in condizioni normali; sarebbe stato un suicidio provare ad avvicinarsi a lui in quel momento, quando nessuno era in grado di capire cosa gli passasse per la testa. Anche se Inuyasha si era accorto di avere una voglia matta di andare a tirarlo fuori dalla sua torre d’avorio e trascinarlo nella stanza di Alessandra. Sentì un brivido lungo la schiena al solo immaginare la reazione di Sesshomaru ad una sua intrusione. Se al momento non gli aveva ancora detto nulla per la libertà con cui aveva assunto il controllo della guarnigione a palazzo, forzare troppo la mano sarebbe stato come gettarsi nelle fauci del lupo. Sesshomaru non lo avrebbe mai perdonato. Però...però non gli piaceva. Ecco. Lo aveva ripetuto mille volte, e ogni volta la rabbia gli montava al cervello.

 

Raggiunse Koga sull’engawa e si lasciò cadere a terra. Quella situazione gli metteva addosso una tensione quasi insopportabile. Soppesò il volto con una mano e sbirciò gli appartamenti di suo fratello. Immobili. Irreali. Come se non appartenessero a quella realtà. Come se fossero la porta su un altro mondo. Inuyasha sbattè le palpebre come per schiarirsi la vista. Cosa aveva pensato? Un altro mondo? Quello degli youkai? Quello che aveva sempre rifiutato lui? Si massaggiò la testa. Non riusciva bene a definire la sensazione che gli aveva attraversato il cervello. Suo fratello che appartiene ad un altro mondo. Non fisicamente, ma in qualche altro modo. Quel distacco, quella superiore indifferenza e l’inespressività del suo sguardo come cifre di paragone di un diverso modo di vivere e, forse, percepire. Se si concentrava, le poche reminescenze che riusciva ad afferrare delle sue trasformazioni in demone completo gli riportavano alla mente sensazioni strane, qualcosa che gli faceva deformare la realtà che lo circondava. Non avrebbe saputo, però, nè come nè perchè. Erano solo frammenti veloci ed estremamente complicati da definire.

 

Si sdraiò sul legno dell’engawa caldo di sole. Non ci aveva mai pensato, ma cosa lo differenziava davvero dagli youkai? Non era una semplice questione di forza. Benchè fosse un hanyou era riuscito più volte a sconfiggere avversari più potenti e che erano demoni completi; era riuscito, anche se con difficoltà, a tener testa anche a Sesshomaru. Suo fratello disprezzava di lui soprattutto i sentimenti e a ben pensarci anche Naraku sembrava far di tutto pur di liberarsi della sua parte umana. Quella soggetta ai moti dell’animo. Però, anche se disprezzava i sentimenti, Sesshomaru doveva esser mosso da qualcosa. Tutti sono mossi da qualcosa: rabbia, desiderio, odio, orgoglio, amore. Cosa muoveva suo fratello? Un sentimento, certo, ma quale? Era rabbia quella che aveva sempre riversato su di lui, eppure non era quella furia cieca che può prendere un ningen. Aveva avuto più volte l’occasione di finirlo, trovandolo scoperto o preda del suo sangue demoniaco. Non ne aveva mai approfittato. In un certo senso, lo aveva invece aiutato. Quasi lo sbattergli in faccia la differenza che intercorre fra loro fosse il solo modo che Sesshomaru conoscesse per spronarlo. Per trasformarlo in quell’avversario realmente degno di lui.

 

Si arruffò la frangia in un gesto esasperato. Decisamente, faceva meglio a mandare al diavolo tutti quei ragionamenti contorti. Rischiava di trasfigurare la realtà. Suo fratello lo odia perchè è un hanyou. Punto. Discorso chiuso. Lui un avversario degno del Principe? Eresia. Pura eresia. Se Sesshomaru avesse solo sospettato quel pensiero in lui, avrebbe fatto meglio a tenere d’occhio gli artigli del fratello se si fosse avvicinato. Però, se un demone non prova sentimenti, perchè mai suo padre aveva rischiato la vita per lui e sua madre? In nome di cosa? Del suo orgoglio? No. Non avrebbe avuto senso. E poi, l’odio e il rancore di suo fratello nei suoi confronti non erano forse sentimenti? O lui li vedeva come tali e in realtà erano qualcos’altro, qualcosa che nè la natura umana nè la sua natura ibrida potevano discernere? In quel caso, forse suo fratello non era innamorato di Alessandra; forse teneva a lei come un ningen tiene ad un oggetto di sua proprietà. In definitiva, per quello che ne sapeva lui, Sesshomaru le aveva solo detto che era importante. Ma una persona che si ama non è solo importante; importante lo è un oggetto, un’arma, una proprietà. Non una persona. Non in quel senso.

 

“Ehi, lupo spelacchiato”

 

Koga gli grugnì qualcosa prima di rivolgergli l’attenzione. Inuyasha sentì il suo viso arrossarsi e abbassò lo sguardo. Non gli piaceva proprio tirar fuori quell’argomento, ma dei chiarimenti li poteva chiedere solo all’ookami. Che altri demoni conosceva ed era abbastanza in confidenza per avviare un simile discorso? Se davvero voleva provare ad aiutare Alessandra e proteggerla dalla corte, in primo luogo doveva provare a capire la mentalità di un demone. Arricciò il naso. In tanti secoli, proprio in quel momento doveva accorgersi che davvero esistevano differenze abissali fra lui e la razza di suo padre. Non era demone perchè conosceva i sentimenti umani; non era ningen perchè riusciva a capire la brama di confronto che anima gli youkai. Non aveva un posto. Di nuovo, desolatamente, si rese conto che sarebbe sempre stato da solo. Anche fra gli amici, anche fra chi lo aveva accettato. Scosse la testa. Niente autocommiserazione. Non era il momento. Koga lo avrebbe preso per uno stupido se avesse ancora rimandato di rivolgergli la parola. E al diavolo anche l’espressione incredula dell’ookami e il suo stupore. Per una volta, Koga gli sarebbe stato, purtroppo, davvero necessario.

 

“Un demone può amare?”

 

 

*****

 

 

La lama del kaiken diminuì la pressione. Lentamente, si allontanò dalla pelle della gola, scoprendo una leggera incisione rosata. Forza calibrata perfettamente: abbastanza da incidere la pelle, ma non sufficiente da lacerarla veramente. Mano decisa e veloce nell’estrarla e salda nel premerla contro la gola dell’avversario. Fulminea. Immediata.

 

Miroku si passò una mano sul leggero solco che gli segnava la gola. Sorrise a metà fra l’imbarazzato e il preoccupato. Promemoria mentale: mai, assolutamente mai, avvicinarsi a Sango per farle uno scherzo. Si rischia la vita. Però, a ben pensarci, quella collana che si era rimediato era un buon scambio, visto che aveva ottenuto il corpo della tajiya praticamente disteso sul suo. E gli era piaciuto molto, doveva ammetterlo. Sentire il peso della ragazza premere contro il suo petto, il respiro sfiorargli il viso, i capelli solleticargli la pelle. E poi, il suo sguardo, che da determinato era diventato stupito e poi imbarazzato. Assieme al viso che lentamente aveva cambiato tonalità. Bellissima. Davvero bellissima. Se non fosse stato per la lama che gli premeva la carotide avrebbe allungato le mani più che volentieri. Però, constatò, forse non lo aveva fatto solo per istinto di sopravvivenza. Sango poteva essere pericolosa, molto pericolosa e se, in un certo senso, con lui ci era sempre andata leggera, era altrettanto vero che non aveva mai avuto una lama in mano. Non che temesse realmente per la sua vita, ma aveva preferito evitare una punizione o un gesto avventato della ragazza che potessero compromettere per sempre il suo fascino.

 

Si rimise seduto lisciando il jimbaori scuro che portava sopra il kimono. Si sentiva un po’ a disagio con quegli abiti. Prima gli avevano fatto indossare una corazza, e adesso semplici kimoni da cortigiano. Rimpiangeva amaramente il suo ami-e con il gojo-gesa e gli habaki. Si sentiva più sicuro e disinvolto che con tutta quella stoffa addosso. Il cambio obbligato degli abiti, però, poteva avere un suo lato positivo. Come lui, anche Sango era stata costretta a cambiarsi, e davvero l'homongi panna con ricamate acqua e piccole trote le donava molto. Stentava quasi a riconoscere in quella ragazza vestita in modo quasi formale la sua abituale compagna di viaggio. Miroku stiracchiò un sorriso. Sango doveva esser cresciuta con un’educazione molto più simile a quella riservata ad un ragazzo che ad una ragazza, soprattutto considerando la sua abilità con katana e veleni. Era un’ottima guerriera, e per questo spesso si dimenticava che Sango era anche una donna. Soprattutto lei sembrava volerlo scordare. Eppure, c’erano momenti, come quello o quando era gelosa, in cui il lato femminile della sterminatrice emergeva prepotente. Eppure, nonostante il kanzashi hana a salice che le fermava i capelli le conferisse un aspetto elegante e altero insieme, Sango aveva avuto l’accortezza di nascondere nelle maniche del kimono un’arma offensiva. Non dimenticava di certo che, in definitiva, si trovavano fra demoni.

 

Sospirò sedendosi dietro di lei. Era un vero peccato. Il gesto brusco e improvviso aveva rovinato la sua bella acconciatura. Miroku sentì un brivido corrergli lungo la schiena al pensiero che, in realtà, il vero dispiacere era dato dal fatto che non sarebbe stato mai lui, probabilmente, a sciogliere una sua acconciatura. La sentì trattenere il fiato mentre si chinava a raccoglierle dalle mani l’hanagushi. Soffocò un sorrisino divertito. La grande sterminatrice aveva sviato il suo sguardo, fissando l’attenzione su alcuni, di certo interessantissimi, sassi del laghetto. Miroku non riuscì a trattenersi. Strinse la sua mano su quella della ragazza, così fredda e tremante. Spaventata. Le sfiorò la tempia con le labbra e scese a mordicchiarle piano il lobo di un orecchio.

 

Sango strinse la mano dell’houshi per riflesso. Miroku riusciva sempre a metterla in imbarazzo, e non le piaceva proprio la sensazione che le davano le sue labbra sul suo orecchio. Le facevano battere il cuore in modo doloroso. Doveva riprendersi e mollargli un ceffone. Allontanarlo e sbraitargli contro qualcosa. Tutto come al solito. Lui poi si sarebbe massaggiato la parte lesa con il suo solito sorrisino ebete e lei si sarebbe calmata. Di nuovo pace, e la possibilità di tornare a litigare all’occasione successiva. Tutto nella norma. Tutta regolare. Sango, invece, non riusciva a dirgli di smetterla, di allontanarsi da lei. E intanto Miroku scendeva lungo il suo collo sfiorandola appena, mentre una mano era corsa a massaggiarle la nuca. In modo eccitante, coinvolgente. Sango socchiuse gli occhi e dischiuse le labbra. Qualunque cosa facesse o volesse fare il monaco, l’unica cosa che sapeva era che non le avrebbe mai fatto del male.

 

Il respiro che si allontana velocemente e le mani che lasciano con frenesia i suoi capelli e la sua pelle la costrinsero a voltarsi. Non si era mossa, e forse Miroku aveva interpretato la sua rigidità come un rifiuto, un modo di opporsi alle sue attenzioni. Non che si volesse concedere subito e in quel modo, ma in quel momento le attenzioni di Miroku erano per lei un balsamo alla solitudine e al rimorso di non esser, di nuovo, riuscita a strappare suo fratello a Naraku. Kohaku era apparso e scomparso dal campo di battaglia in modo così veloce e repentino che Sango non aveva neppure la certezza di averlo visto davvero. Poteva benissimo esser stata la sua mente a elaborate la figura del fratellino, nello spasmodico e autolesivo tentativo di fornirsi una nuova occasione di azione. Kohaku non aveva partecipato all’attacco dei demoni al palazzo, tuttavia doveva esserci qualcuno a coordinarne i movimenti, e poteva benissimo esser suo fratello. Il fatto che non lo avesse visto combattere non significava che non ci fosse. Solo che, probabilmente, non era stato schierato in prima linea. Il precipitare della situazione, l’aiuto inaspettato del principe di Yezo, la frenesia che aveva attraversato tutti al pensiero di una trappola imminente su quanti erano a combattere Morigawa l’aveva trascinata in un vortice in cui la sua mente aveva assorbito il pensiero del fratello. Non vederlo era equivalso a non pensare a lui.

 

In seguito, appena ripristinata un po’ di tranquillità a palazzo, Sango non aveva potuto esimersi dal rimproverarsi di non essersi gettata all’inseguimento dei demoni che fuggivano. Seguirli l’avrebbero di certo portata da Naraku, e accanto a lui, sicuramente, avrebbe trovato Kohaku. Invece, era rimasta a palazzo ad aiutare a curare i feriti. Una sterminatrice che si prodiga per salvare la vita di demoni. Grottesco. Assurdo. Irreale. I mesi trascorsi a combattere con i soldati di Sesshomaru per difendere le mura erano stati stranianti, ma riscoprirsi a medicare e disinfettare ferite su corpi secolari, su pelli, scaglie, squame che solitamente aveva sempre e solo considerato come componenti di possibili armi, l’avevano fatta tremare dentro. Era stato come se, in un istante, avesse tradito tutto quello che suo padre le aveva insegnato, tutto quello per cui era sempre vissuta. Eppure, non poteva dimenticarlo, fra quei feriti c’erano demoni che avevano rischiato con lei la vita per proteggere il palazzo. Che avevano rischiato la vita per lei, per proteggerla e sottrarla agli avversari quando il numero minacciava di prevaricare le sue forze. Veterani soprattutto. Demoni che, se aveva ben compreso, avevano militato sotto il padre di Inuyasha e che le si erano sempre rivolti con fredda cortesia. Quasi un implicito riconoscimento del suo valore e della sua forza. Una sorta di omaggio, secondo consuetudini che lei probabilmente non riusciva a discernere. Era stata addestrata a combattere e uccidere i demoni, non a cercare di sondare le loro abitudini e la loro mentalità.

 

Scosse la testa e la liberò dal kanzashi. Kagome aveva insistito tanto per vederla abbigliata come si conveniva alla sua età, ma lei non sopportava tutti quegli orpelli. Quando era una bambina, per l’hina matsuri dei suoi sette anni, i suoi genitori le avevano regalato una serie di fermagli raffinati e molto particolari: kanzashi con grandi capocchie di giada, perle e legni rari, vere e proprie armi letali che aveva imparato a maneggiare egregiamente e che le avevano conferito dita sottili e polsi saldi. Quelli erano gli unici abbellimenti che aveva portato con orgoglio; bruciati con tutto il suo mondo. Da quando la sua gente era stata sterminata, Sango si era sempre ribellata all’idea di reindossare simili accessori. Le sembrava quasi di tradire la sua famiglia. Aveva ceduto solo dietro le pressanti preghiere di Kagome. Solo per farla contenta, si era detta. Li avrebbe tolti subito. Il tempo di una passeggiata in giardino. Sinceramente, non avrebbe mai voluto che uno dei suoi amici la vedessero abbigliata in quel modo. Soprattutto Miroku. Desiderio inesaudito. Il monaco l’aveva presa alle spalle, e se lei non lo avesse riconosciuto subito gli avrebbe tagliato la gola senza tante cerimonie. Stupida! Stupida! Si era così smarrita nelle sue riflessioni da non sentirlo avvicinarsi.

 

Sospirò pesantemente. Il pensiero di Miroku seduto dietro di lei, a pochissimi centimetri di distanza, non era di certo il miglior calmante. Soprattutto al pensiero di quanto avvenuto poco prima della partenza dell’houshi per il campo di battaglia. Si sfiorò le labbra in un gesto inconscio. Le era piaciuto quel bacio. Si era sempre ripetuta che, se solo Miroku ci avesse provato, lo avrebbe rimesso al suo posto con una serie di schiaffi da togliergli dalla testa l’idea di riprovarci. Invece, non aveva provato nessun desiderio di sottrarsi a quel bacio inaspettato, a quell’intimità improvvisa e violenta. Violenta, sì. Perchè tutto si era svolto in pochi secondi, dopo un abbraccio che aveva ben poco di cameratesco, ma che poteva non equivalere a nulla.

 

Strinse il pettine che stava rigirando fra le mani. Teneva a Miroku, era un suo compagno di viaggio, un amico che si era dimostrato capace di accettarla con le sue debolezze e cercava di non farle mai pesare lo sconforto che a volte l’assaliva. A modo suo, tentava sempre di sdrammatizzare i suoi pensieri cupi e malinconici. Certe volte Sango ammetteva a se stessa che avrebbe preferito un altro tipo di approccio, ma razionalizzando capiva benissimo che l’indole stessa del monaco gli comportavano certi atteggiamenti. Inoltre, a riprova del fatto che, innegabilmente, fra loro era nata una specie di alchimia, Sango doveva considerare un particolare non trascurabile: Miroku sapeva sempre quando frenare i suoi istinti e limitarsi a parole o ad una carezza di puro conforto. Sfiorarsi leggero e senza alcuna malizia, solo per farle capire che non era sola ad affrontare il peso che si era caricata sulle spalle. Che, voltandosi, lo avrebbe sempre visto dietro di sè, pronta a sostenerla e spronarla, a tenderle la mano se fosse caduta e a spingerla avanti se le gambe tremavano. Presente. Come una cosa ovvia. Naturale. Come era stato naturale il bacio che le aveva dato.

 

Le si era chiuso lo stomaco quando lo aveva visto rientrare a palazzo senza armatura e cavalcando il lupo di Koga. Esausto e coperto di sangue. Sembrava che solo un recondito istinto le tenesse in sella, ma ad ogni passo della fiera ondeggiava pericolosamente. Le era praticamente caduto fra le braccia appena si gi si era avvicinata. Pallidissimo e sudato. Sapeva di sangue, morte, sudore. Il profumo d’incenso che aveva sempre addosso era svanito. Sango, per un momento, si era chiesta se era davvero Miroku il ragazzo che le respirava pesantemente in grembo. Con i capelli sciolti e il kimono da battaglia assomigliava di più a un essere umano qualsiasi. Eppure, le era bastato gettare uno sguardo alla sua mano per cogliere le perle del rosario. No. Miroku, finchè Naraku fosse rimasto in vita, non sarebbe mai stato un ragazzo normale. Nemmeno nei sogni.

 

Voltò la testa. Eccolo lì, il suo monaco. Così allegro e vivace in apparenza, ma bastava che nessuno gli prestasse attenzione e la maschera di ilarità e determinazione si scioglieva, lasciando il posto ad un viso troppo giovane per la tristezza e la disillusione che lo segnavano. Il foro del vento. L’ossessione di Miroku. La condanno. Se fosse dipeso da lei, sango avrebbe seguito Miroku in battaglia per impedirgli di commettere qualche sciocchezza. Nonostante la promessa che Inuyasha gli aveva strappato, Miroku era portato, a volte, a rischiare il tutto per tutto e quello scontro, in definitiva, poteva ben rappresentare l’occasione per mettere fine alla sua vita. Sango rabbrividì e si strinse nelle spalle. Poteva fingere di non saperlo, poteva continuare a pensare che l’houshi cercasse in tutti i modi di combattere contro il suo destino di morte, ma sapeva benissimo che, spesso, per Miroku lo sconforto era tanto profondo da portarlo a desiderare di annullare di colpo il tempo che gli restava. Pur di non dover più vivere con le orecchie tese al suono della sua mano; pur di non dover sussultare al minimo soffio di vento, al minimo dolore che gli attraversava la carne.

 

Soprattutto in quei mesi, Sango lo aveva visto fissarsi la mano maledetta in modo strano. Con un sorrisino di autocommiserazione che le faceva sempre male. Si sentiva impotente davanti al suo rassegnato sconforto e non sapeva mai cosa replicare quando lui, dopo averla colta in fallo a fissarlo, le rivolgeva quello sguardo strano. Gli occhi tristi e un sorriso quasi di gratitudine. Ma per cosa? Lei non riusciva a fare mai niente per aiutarlo, per confortarlo. Lo aveva lasciato andare in battaglia da solo; non aveva avuto la forza di seguirlo. Razionalmente sapeva benissimo che non le sarebbe mai stato permesso, ma non aveva nemmeno cercato di opporsi a quella decisione di Sesshomaru. Inuyasha aveva maledetto e imprecato come un indemoniato e solo dopo una strenua resistenza si era rassegnato a non seguirli sul campo, ma lei, semplicemente, aveva chinato la testa, si era sistemata meglio hiraikotsu sulla spalle e se ne era andata. Obbedisco. In un gesto automatico, come se quell’ordine non fosse provenuto da un demone ma da suo padre. Scosse le spalle. Sapeva benissimo che se ne era andata solo per non dover ascoltare il compito riservato a Miroku. L’idea di conoscere perfettamente ogni fase e i pericoli cui sarebbe stato esposto, ne era certa, l’avrebbero portata ad un’azione scriteriata. A qualcosa di cui poi, sicuramente, avrebbe avuto da pentirsi.

 

La promessa che Inuyasha aveva strappato all’houshi era stata per lei un balsamo. Tuttavia, quando lo aveva dovuto medicare dalle ferite, si era chiesta se veramente Miroku vi avesse tenuto fede. Il corpo del monaco era ricoperto di abrasioni, tagli, contusioni. Doveva essersi trovato molte volte con le zanni di un qualche avversario a pochi centimetri dalla pelle. Non che lei fosse in condizioni migliori, visto che aveva riportato a sua volta innumerevoli ferite, ma si trattava perlopiù di ferite superficiali che orai si erano quasi rimarginate del tutto. Il corpo era ancora un po’ indolenzito per la pressione e gli sforzi cui l’aveva sottoposto, ma non avrebbe impiegato ancora molto per riprendersi.

 

Appoggiò la testa alla spalla del monaco e chiuse gli occhi. Miroku inclinò appena la testa. Non era usuale che Sango gli concedesse una simile vicinanza. Doveva essersi davvero preoccupata molto. Fece scivolare il braccio lungo la vita della ragazza e la strinse a sè. Se non fosse stato per i lupi di Koga e Ayame, ad un certo punto era stato davvero pronto ad infrangere la sua promessa e aprire il vortice. Dannazione! Circondato e sfinito non aveva visto altre possibilità. Invece, gli ookami avevano rotto con furia selvaggia il cerchio che lo stringeva e lui si era anche guadagnato un pugno dal principe degli Yoro. Si sfiorò un guancia. Koga non ci era di certo andato leggero, e il livido era ancora ben visibile sotto l’occhio destro.

 

Sospirò concedendosi un sorrisino. L’ookami aveva borbottato qualcosa e poi era tornato a combattere, lasciando alcuni suoi lupi a dargli aiuto nello scontro. Miroku appoggiò la testa a quella di Sango. La sospensione in cui trascorrevano quelle giornate era straniante e angosciante assieme. Cercavano di non realizzare la situazione pesante che li circondava, ma erano davvero rari i momenti in cui riuscivano a concedersi una piccola parentesi mentale. Kagome almeno aveva una carica propositiva con cui cercava di incoraggiarli e spronarli. Ingenuamente, certo. Ma almeno tentava d smuoverli dal limbo in cui si stavano lasciando cadere. Inuyasha, invece, era l’esatto opposto, e per lui che divideva la stanza con l’hanyou vederlo languire nel futon, smarrito in sensi di colpa e rimorsi non era certo un buon incentivo. Miroku si massaggiò distrattamente una spalla. Alessandra. Era il pensiero fisso di tutti loro. Assieme al sospetto di non aver fatto abbastanza per tenerla lontano dalle macchinazioni di Naraku. Dal loro punto di vista, Alessandra non aveva nulla a che fare con la loro vendetta e la Sfera dei quattro spiriti. Era, in un modo o nell’altro, legata a Sesshomaru, ma non sembrava un motivo sufficiente a giustificare il pericolo in cui si era trovata. Inuyasha, assieme a Kagome e Sango, si rimproverava di non averla costretta a restare a palazzo, e lui si malediceva per non essersi accorto in tempo della comparsa di Hakudoshi. Sarebbero bastati una manciata di secondi, e forse la naginata non l’avrebbe mai colpita. Il monaco si sentiva ancora ribollire il sangue per la rabbia davanti all’espressione soddisfatta del bambino. Avrebbe voluto cancellarlo immediatamente dalla faccia della terra. Liquidarlo. Annientarlo. Sbuffò appena. Recriminare non serve mai. A nulla. Quella era la situazione, e loro dovevano rassegnasi a consumare i giorni nell’attesa.

 

“State pensando a lei, houshi-sama?”

 

Miroku annuì con un sorriso. Houshi-sama. Sango non riusciva a smettere quel titolo formale. Quando erano con gli altri lo usava quasi sovente, e anche da soli lo impiegava più del suo semplice nome. Con naturalezza. Senza reale volontà di mantenere le distanze. Un tono così diverso da quello con cui si erano abituati a rivolgersi a Sesshomaru. Fatta eccezione per Inuyasha, che piuttosto di esprimere formalmente rispetto verso suo fratello si sarebbe fatto uccidere, loro avevano imparato in fretta ad aggiungere il suffisso onorifico al nome del demone. Non per reale deferenza, ma per semplice calcolo: non era il caso di esasperare la corte e incrementare ulteriormente astio e istinti bellicosi. Tanto più che le occasioni di rivolgersi all’inuyoukai erano rarissime e, quindi, quel piccolo sacrificio non pesava nemmeno tanto.

 

Sollevò lo sguardo alla mole del palazzo. Sopra il muro interno di conta, svettavano i padiglioni di legno e il corpo principale. Miroku seguì le linee sinuose dei tetti, spaziando per l’intero profilo che gli si concedeva. Fra i rami di una magnolia si poteva intravedere la sagoma della torre degli appartamenti di Sesshomaru. Storse le labbra per il disappunto. Il fatto che il Principe si fosse ritirato nei suoi alloggio e non si fosse più mostrato aveva avuta una serie di reazioni contrastanti: la corte era in subbuglio e probabilmente solo la paura che nutriva verso il proprio signore le impediva di chiedere direttamente spiegazioni; Inuyasha non l’aveva presa bene, quella ritirata di suo fratello, benchè non avesse mai detto niente. Miroku, però, lo aveva scoperto più di una volta, di notte, masticare imprecazioni contro la torre. Per quanto riguardava loro, invece, il comportamento del Principe non pesava molto: Sesshomaru era semplicemente un demone che avevano aiutato perchè così aiutavano in qualche modo Inuyasha. Nulla di più. Il discorso cambiava, invece, in rapporto ad Alessandra. Il pensiero delle condizioni della ragazza era una spina nel cuore per tutti loro. Insopportabile. Vederla agonizzare a letto e fissarsi le mani, consci di non poter far nulla per lei. Solo aspettare.

 

“Promettimi una cosa, Sango”

 

Miroku strinse forte la mano. Aveva sbagliato a darle quel bacio, anche se in quel momento gli era sembrato il modo più dolce per dirle che a lei teneva molto. Però, uno sbaglio resta uno sbaglio. Non avrebbe mai dovuto darle l’illusione del suo affetto. Sango era speciale per lui, e per questo aveva sempre cercato di vederla prima di tutto come sterminatrice che come donna. Sapeva benissimo che la più grande paura della ragazza era quella di ritrovarsi di nuovo sola, e non voleva raggirarla con false speranze. Se non avessero ucciso Naraku, lui era condannato ad esser risucchiato dalla sua maledizione. E l’avrebbe lasciata. Non poteva sopportare l’idea che Sango si caricasse anche il rimorso per non esser riuscita ad aiutarlo. Nonostante il suo comportamento, non passava giorno che Miroku non pensasse al tempo che ancora gli restava. Anni, mesi, forse solo pochi giorni.

 

Storse la bocca. Che amante strana, la morte. Ti sta sempre accanto, silenziosa e paziente. Aspetta che tu abbia la tua vita, le tue avventure. Aspetta. Pazientemente. E poi, ti prende, con violenza o dolcezza. Ma ti prende. E allora sei finito. Lei resterà la tua sola amante. Fredda e solitaria. Quando era piccolo, non capiva l’atteggiamento di suo padre. Adesso, che era diventato anche il suo, lo comprendeva. Vivere. Vivere alla giornata, ogni momento, ogni attimo fugace. Pur di poter provare ad assaporare la normalità. Suo padre voleva vivere con tutte le sue forze. Disperatamente. Eppure, il vortice se lo era portato via. Senza lasciargli nulla. Solo lo stesso destino.

 

Miroku stinse a sè Sango. Non voleva che, un giorno, potesse assistere alla sua morte. Lui aveva visto suo padre sparire lentamente, assieme a vento, foglie e polvere. La sua figura diventare sempre più piccola, sprofondare nella terra e nel nulla. Aveva testo le mani disperatamente. Urlando un nome che si perdeva nel vento. Assieme alle urla di suo padre. C’era solo il rumore del vento. Forte. Ossessivo. Devastante. Sango non avrebbe mai dovuto vederlo in quello stato. Nonostante avesse visto più volte la morte in faccia, continuava ad averne paura. E nemmeno il pensiero che, prima o poi, lo avrebbe preso riusciva davvero a farlo rassegnare. Tuttavia, quello era un peso che doveva, voleva, portare da solo.

 

Sango lo fissava a metà fra il curioso e il perplesso. La mano sulla spalla le premeva leggermente un ematoma, ma c’era qualcosa di strano in quella stretta. Nervosa. Troppo nervosa per essere riconosciuta come quella di Miroku. Le sue mani, di solito, sono languide, veloci nello sfiorare e nel ritrarsi. On si soffermano quasi mai in un solo punto. Esplorano la pelle e la stoffa. Invece, Sango sente quella mano serrarsi sulla sua spalla. Innaturale. Qualcosa urla dentro di lei, la mette in guardia. Sta per esserci qualcosa di spiacevole. Qualcosa che non vorresti sentire. La promessa che ti costringerà a fargli, tu non vorresti mantenerla, un giorno. Lo sai. Lo senti. Qualcosa che ti farà perdere lui.

 

Miroku si umettò le labbra e aprì la bocca. Un respiro inchiodato fra i denti. Sango aveva un’espressione così infantile. Timorosa e attenta. Le sorrise e le sfiorò la fronte con le labbra. Pazienza. Glielo avrebbe chiesto un’altra volta. Le avrebbe fatto promettere di continuare a combattere e, quando fosse giunto il momento, dargli un bacio prima di andarsene. Le avrebbe fatto promettere che non lo avrebbe visto morire per la sua maledizione. In nessun caso.

 

 

*****

 

 

Apatia.

Stanchezza. Vuoto. Annullamento completo. Nessuna forza, nessuna voglia di reagire, di muoversi. Annientamento. Totale. Disarmante. Sconosciuto. Irritante. Non era la solita spossatezza che può cogliere dopo un duello degno di questo nome. Non il languore per una tranquillità che si ripete uguale da secoli. Una tranquillità rossa di sangue. La sua esistenza. Scandita da un ritmo che lui conosceva. Un tempo non umano. Quasi divino. Non aveva la minima voglia di reagire, di smuoversi da quell’annichilimento che lo pervadeva. Continuamente. Senza riuscire nemmeno a capire il perchè.

 

Stagnava. Semplicemente. Di corpo e di mente. Qualsiasi pensiero provasse a formulare, subito lo lasciava decadere. Razionalizzare, riflettere, pensare. Ogni movimento intellettivo era stroncato sul nascere. Per non rischiare di focalizzare l’attenzione sulla realtà. Per non dover afferrare quel qualcosa che gli aveva fatto esplodere dentro un sentimento mai provato. Angoscia, terrore, sgomento. Qualcosa che non conosceva, che non aveva mai avvertito e non riusciva a discernere chiaramente. Che non voleva assolutamente mettere a fuoco. La sua razionalità, la forza della sua ragione sempre lucida e tagliente, pronta in ogni istante a discernere soluzioni e a soppesare ogni azione era sparita, inghiottita in una voragine scura mai conosciuta. E adesso restava solo un sottile filo che a malapena gli permetteva di discernere il lento avvicendarsi del tempo.

 

Non aveva più incontrato nessuno. Da quando aveva lasciato la stanza di Alessandra si era chiuso nei suoi appartamenti, dimenticandosi di ogni altro suono e sensazione che non fosse il sussurro della sua mente. Si sentiva in gabbia, chiuso e braccato da un’ossessione che non aveva nome. Non riusciva a focalizzare l’attenzione su altro che non fosse Alessandra, e quel pensiero bastava a fargli ribollire il sangue e digrignare i denti. Rabbia. Rabbia. Rabbia. Frustrazione. Impotenza. Malessere. Un male che non ricordava di aver provato nemmeno quando si era accorto che suo padre era morto; nulla di paragonabile al vuoto lasciato dalla perdita di sua madre o dall’umiliazione di aver scoperto l’esistenza di un fratellastro mezzo sangue.

 

Qualcuno era venuto per parlare con lui; qualcuno doveva anche aver bussato per farsi aprire. Gli era sembrato di sentire gli strepiti di suo fratello e la voce di una donna chiamarlo. Non si era mosso. Era rimasto seduto alla finestra della sua stanza, gli occhi chiusi e la testa reclinata di lato. Non aveva voluto ascoltare, non aveva avuto voglia di alzarsi e ricevere qualcuno. Chiunque fosse. Voltò il viso socchiudendo gli occhi. La stanza infuocata e calda. Un tramonto rosso. Come il sangue. Sollevò stancamente una mano, muovendola lentamente sugli hakama strappati e sporchi. Sangue rappreso. Gli incrostava gli artigli, confondendosi con la terra e la polvere. Rame antico. All’improvviso, si accorse di indossare ancora il kimono di quel giorno. Gli abiti stacciati e sporchi di sangue e sudore. Non aveva permesso a nessuno di avvicinarsi alla sua persona, nemmeno alla sua nuova archiatra. Si era dimenticato anche delle ferite che gli segnavano il corpo e della piaga che gli divorava la spalla. Fece scivolare quello che restava della manica della nagajuban a scoprire un tampone improvvisato. Già. L’unico rudimentale tentativo di arginare un po’ il sangue lo aveva permesso a suo fratello. Scosse la testa. Doveva essere completamente impazzito per averlo lasciato fare.

 

Strappò con un gesto secco il brandello di stoffa. Rosso spento. Sembrava che ogni cosa che vedesse avesse quel maledetto colore. Il colore del fuoco, del sangue, della morte. Il colore degli occhi di Naraku. Dei suoi occhi quando si trasformava. Dei capelli di Alessandra. Tastò la pelle vicino alla clavicola. L’osso era di nuovo intatto, e anche i fasci muscolari si erano riformati. La pelle nuova tirava leggermente, ma nulla di realmente fastidioso. Non era ancora guarito del tutto. Storse le labbra. Aveva perso molto sangue, in quella battaglia, e il suo corpo, benchè demoniaco, ne era uscito in un qualche senso provato. Non gli aveva giovato lo sforzo cui lo aveva sottoposto per arrivare in fratta a palazzo. Mentre correva, si era lentamente reso conto della lentissima, eppure così sgradevole, perdita di velocità. Aveva dovuto dar fondo a tutte le sue ultime energie per riuscire a rientrare, malfermo sulle gambe, pallidissimo e in un bagno di sudore. Sapeva benissimo di essersi lasciato alle spalle una scia di sangue, che era colata lungo la schiena, gli aveva appesantito il kimono e alla fine era caduta a terra. Aveva ignorato tutto. E continuava a farlo.

 

Sesshomaru sollevò stancamente i capelli che gli ricadevano disordinati sul volto e sulle spalle. Sembrava un relitto. Dov’era finita la sua altera compostezza, l’eleganza innata di ogni suo movimento? Ridotto in quello stato dopo uno scontro. Si stropicciò gli occhi con una mano. No. Non era stato lo scontro a provarlo a quel modo. A svuotarlo di ogni energia, ad addormentare ogni sua reazione. Era qualcos’altro, quel pensiero che continuava a ronzargli nella testa e non riusciva ad afferrare concretamente. E quella situazione lo stava facendo arrabbiare. Lentamente. Inesorabilmente. Non accettava che attorno a lui, in lui, si verificasse un qualsiasi cambiamento che esulasse dalla sua comprensione, che lui non fosse in grado di vivisezionare freddamente fino a raggiungerne l’esatto significato. Ad attribuirli valore e spessore appropriati.

 

Egoistico da parte sua. Molto. Alessandra poteva esser morta, e lui si preoccupava di riprendere potere sul suo pensiero, sulla sua mente. Chiuse gli occhi. Non era sbagliato il suo atteggiamento. Continuava a ripeterselo. Era il modo di agire di loro demoni. La freddezza prima di tutto; fredda capacità di analisi e totale controllo sul proprio io. Calma. Calma esasperante in ogni azione, anche nella furia più cieca. Era quella la distinzione che intercorreva fra il suo sangue puro e quello del suo fratellastro. Il privilegio di conservare sempre inalterata la sua capacità razionale. Il suo ego. E Mentre lui ingaggiava quella lotta contro se stesso, con il solo obiettivo di riottenere la sua consueta indifferenza, Alessandra consumava lentamente la vita. Sdraiata in un futon. Agonizzante. Oppure poteva essere...poteva già essere...Strinse la stoffa fino a lacerarla e a conficcarsi gli artigli nella carne. Non riusciva nemmeno a formulare il pensiero. Eppure, benchè sapesse benissimo che era una possibilità da tenere in considerazione, quasi un’ovvietà, lui continuava a restare inchiodato lì, seduto contro il davanzale della mado.

 

Si sfiorò con la lingua le labbra. Secche. Sentiva il sapore metallico del sangue, la polvere e piccole screpolature che le intaccavano. Si sorprese a desiderare dell’acqua. Per lavarsi da quello sgradevole sapore e rinfrescarsi la gola. La bocca impastata con la lingua pesante. Masticò piano, cercando di risvegliare il gusto: l’amaro del sangue, l’arido della sabbia, il fresco dell’aria, il dolce. La voglia di bere continuava a crescere. Reclinò indietro la testa e schiuse le labbra. Non aveva nessuna intenzione di cedere a quel capriccio del suo corpo, di trascinarsi in piedi e scendere nello studio. Per scoprire poi che non c’era nulla da bere ed esser costretto a uscire o chiamare qualcuno. Poteva benissimo ignorare quel debole desiderio. Patetico. Umano.

 

Acqua che scorre sulla pelle, che bagna e rimane intrappolata sulle labbra, in piccole fossette ai lati di un sorriso. Una mano bagnata finge di asciugare quella bocca, sale fra i capelli e li ravviva. Alessandra gli sorride; il viso, fresco e gocciolante nell’intimità delle candele, appena sollevato dal catino, mentre afferra un asciugamano e poi inizia a schizzarlo senza preavviso, bagnando i tatami, il futon; bagnando lui che si limita a voltare la testa. Sesshomaru batté le palpebre. Una, due, tre volte. La mano corse automaticamente al viso, per asciugare delle goccioline inesistenti. Alessandra non era con lui, in quel momento, e quello era solo un ricordo. Un maledetto ricordo.

 

Lasciò cadere la mano. Sbattè contro qualcosa di duro, metallico. Gli artigli vibrarono appena. Concesse a se stesso la curiosità. Il saya di magnolia con kurigata di corno. Strappò i ritagli di seta del sageo. Non ricordava nemmeno di averlo strappato per liberarsi della spada. Tenseiga. Riposava tranquilla la suo fianco. Placida. Aveva smesso di pulsare, e lui non se ne era nemmeno accorto. Aveva smarrito la cognizione del tempo, per quanto non l’abbia mai ritenuta davvero importante. Quanti giorni erano trascorsi da quando si era rinchiuso in se stesso, da quando aveva permesso al suo corpo e alla sua mente di rallentare ogni loro funzione, fin quasi alla catalessi. Quanti giorni erano passati da quando aveva visto Alessandra rotolare a terra, contorcersi e urlare nella sua presa graffiandogli e mordendogli le spalle, da quando l’aveva vista nuda in quel futon, sudata e ansimante? Perchè ha la sicurezza, irritante, che sono giorni quelli che ha consumato in quella stanza, senza pensare, senza reagire, senza muoversi. Limitandosi a cercare di ricostruire la sua bella maschera di ghiaccio, la sua freddezza. Senza indagare cosa realmente lo avesse colpito, cosa veramente lo avesse gettato nel...panico. Sì. Forse era quella la parola più adatta. Non lo stesso sentimento che prende i ningen davanti al pericolo, non quell’isterismo che cancella ogni ragione e fa muovere in modo febbrile e sconclusionato. Un panico diverso, quasi impalpabile. Eppure, se ci rifletteva, ne riconosceva ogni sintomo: il rifiuto di lasciarsi avvicinare, di poter mostrare un momento di debolezza, di smarrimento; l’indifferenza a ogni cosa fuorchè a se stessi; un egoismo innato e autoprotettivo per continuare a preservare la propria esistenza e il proprio ruolo; il rifiuto di soffermarsi su ogni pensiero per evitare di riaccendere la scintilla di angoscia. Rimandare. Per affrontare tutto dopo. A mente lucida e perfettamente cosciente, e non sotto la spinta di una razionalità puramente istintiva.

 

Sospirò. Non poteva continuare a rimandare e languire in quello stato. Non era degno di lui. Non si confaceva al principe dei demoni lasciarsi vincere da un irritante atteggiamento mentale. Alessandra. Quello era l’unico punto fermo dei suoi pensieri. Se cercava di pensare a lei, la mente si ribellava e svicolava verso altri pensieri. Diametralmente opposti. Totalmente demoniaci ed estranei alla ragazza. Mai toccati da lei. Era come se, inconsciamente, la sua testa cercasse di evitargli di prendere coscienza di qualcosa. Di appuntare l’attenzione su un particolare e al tempo stesso continuasse a sottolineargli quel fantomatico elemento. Forse per contrasto, ipotizzò. C’era qualcosa che lo preoccupava, in Alessandra. Qualcosa che era emerso quando lei era rimasta ferita, ma che forse non aveva necessariamente un legame con le sue attuali condizioni. Per quante volte anche Rin avesse corso rischi e si fosse trovata alla mercè dei suoi avversari, Sesshomaru sapeva perfettamente di non aver provato mai la medesima sensazione. Quel sottile pensiero che gli serpeggiava continuamente nel cervello.

 

La morte. Prima ipotesi. Era irritato dal fatto che Alessandra potesse morire a causa di quel maledetto hanyou. Logico, comunque. Coerente da parte di Naraku cercare di colpirlo indirettamente. Ucciderlo sarebbe equivalso a privarsi di una possibile fonte appetibile di youki e sconfiggerlo era impensabile per un bastardo del suo livello. L’unica cosa che Naraku potesse colpire per cercare di indebolirlo era il suo seguito. Era già ricorso a quell’espediente, rapendo Rin, per assicurarsi una via di fuga; poteva benissimo aver ordito l’assassinio della ragazza con la convinzione di gettarlo nel furore e renderlo quindi preda più facile. L’idea di esser al centro di un simile piano, preda di un insulso mezzo-demone che traeva la sua maggior forza da cervellotiche macchinazioni gli fece stringere i denti, mentre un ringhio basso si formava nella sua gola. Odiava esser cacciato e non cacciatore; gli era insopportabile l’idea che qualcuno arrivasse a concepire la possibilità di mancargli di rispetto e riuscire a sottrarsi a lui. Ai suoi artigli.

 

La sua avversione per Naraku, in definitiva, si riduceva a quello: vendetta per un’offesa che aveva ricevuto. Futile, se paragonata alle motivazioni che spingevano suo fratello e i componenti del suo gruppo o il principe degli Yoro. Futile e quasi insignificante, ma per lui era basilare. L’orgoglio della sua stirpe e della sua superiorità costituiva il nerbo di ogni suo ragionamento, di ogni sua azione. Venir raggirato, beffeggiato e non ottenere risarcimento per l’umiliazione, anche minima, cui era stato sottoposto bastava a scatenare la sua collera. Spietata e letale. Naraku gli aveva mancato di rispetto varie volte, disconoscendo la sua superiorità e arrivando ad avere la presunzione di rivolgersi a lui come un suo pari. Impensabile e stupida boria che, presto o tardi, lo avrebbe portato sotto i suoi artigli.

 

Rialzò con una mano la frangia, scoprendo la mezzaluna che gli segnava la fronte, e socchiuse gli occhi. Scartare la morte. Non era sufficiente il timore che Alessandra morisse ad avergli procurato un simile stato d’animo. Carezzò distrattamente Tenseiga. Sarebbe bastato un solo fendente, e la ragazza sarebbe tornata alla vita. E così ogni volta che la situazione si fosse ripresentata. Non avrebbe mai rischiato di perderla solo perchè gli inferi ne reclamavano l’anima. Avrebbe continuato a richiamarla indietro. Ogni volta. Era inutile, quindi, preoccuparsi dell’eventualità che potesse morire. Sesshomaru sapeva che, comunque, avrebbe potuto riportarla indietro. Storse le labbra. Quella era l’unica capacità della sua spada e, per una volta, dovette ammettere che gli sarebbe stata davvero utile.

 

Debolezza. Di non riuscire a difenderla. Scosse la testa. Possibilità da ignorare. Immediatamente. In ogni circostanza sarebbe riuscito a mantenere la sua autorità su di lei, scoraggiando chiunque concepisse l’idea di colpirlo approfittando della ragazza. Naraku era un caso particolare, la classica eccezione che conferma la regola. Fra loro youkai, chiunque avesse cercato di approfittarsi di Alessandra sapeva benissimo a cosa andava in contro. Non importava che fosse l’archiatra, l’amante, la concubina, la schiava del Principe. Era nel seguito di Sesshomaru, e tanto bastava a porla sotto la sua protezione. A prescindere dal possibile rapporto che, eventualmente, fosse intercorso fra loro. Accessorio. Da non considerare nemmeno. Sui suoi subordinati, solo lui deteneva potere di vita e di morte, e Alessandra rientrava in quel novero. Si concesse di increspare le labbra. Se la ragazza gli avesse sentito pronunciare quelle parole avrebbe iniziato a ribellarsi immediatamente.

 

Sesshomaru sapeva bene che la perfezione che cercava di ostentare la ragazza era solo una maschera dettata dalla necessità di non mostrasi debole. Il loro mondo si basava molto sull’apparenza, sul sorriso che contraddistingue anche la più accesa delle discussioni, su una calma e un calibrare ogni azione per armonizzare tutto. In loro youkai la tensione spasmodica all’armonia che i ningen ricercavano era innata. Ogni loro gesto, dal più pianificato a quello più impulsivo trasmetteva un ordine e una compostezza che un uomo non avrebbe mai potuto raggiungere nell’arco della sua vita. Troppo breve. La vita umana si riduceva alla frustrante tensione a quella perfezione tanto ricercata, e solo sfiorata. Disciplina, controllo, obbedienza, equilibrio. Le caratteristiche cardine di loro taiyoukai erano, in qualche modo, venute in possesso dei ningen, che le avevano composte in una ferrea regola per tentare, vanamente, di raggiungere la perfezione.

 

É un essere umano

 

Quattro parole. Quattro semplicissime parole. Gli esplosero all’improvviso nella testa, costringendolo a smettere di respirare. Come se fosse stato colpito da qualcosa e i suoi polmoni svuotati dall’aria. Si sbilanciò e fu costretto a reggersi ad una mano per non cadere a terra. Inaudito. Non aveva mai permesso a nessun pensiero di provocargli una simile reazione. Una mano corse alla gola. La carotide pulsava come impazzita per effetto del sangue. Boccheggiava. E ancora non riusciva ad afferrare il reale valore di quelle parole.

 

Gliele aveva dette qualcuno. Suo fratello, forse. No. Qualcun’altro. Qualcuno che lo aveva chiamato con il suffisso onorifico. Un ningen. Ricordava lentamente il suo odore: sangue, sudore, carne umana. Incenso. Appena percettibile, ma presente. Incenso e sandalo. Un monaco. Quello che viaggiava con suo fratello. Perfetto. Primo tassello. Ma quando gliele aveva dette, e perchè? Si ricompose contro lo stipite. Non riusciva a ricordare chiaramente, e non gli piaceva. Non sopportava di poter dimenticare qualcosa senza rendersene conto. Voleva sempre avere sotto controllo ogni cosa, fin nei recessi del suo pensiero. Presuntuoso, ma in un certo senso era una priorità di loro demoni. Dimenticare solo quello che realmente si desidera. Meglio, rinchiudere in un cassetto della memoria ogni ricordo che si ritiene inutile, accessorio, insignificante. Lasciarlo ammuffire senza rimorso. Quello, però, non poteva essere un elemento inutile. Altrimenti, perchè quelle parole lo avrebbero costretto ad una simile reazione? Irritante, quasi umana.

 

Quando aveva parlato con il monaco? Le occasioni erano state pochissime, poteva contarle sulla punta delle dita. E avevano sempre scambiato pochissime parole. Era quasi un affronto, per lui, dover rivolgere la parole ad un ningen. Siccome, però, era certo che fosse del monaco quella frase, doveva assolutamente ricordare quando gliele aveva rivolte. Non al castello. Di questo era certo. Non era mai avvenuto dopo uno degli scontri che vedevano Miroku impegnato a reggere una barriera mistica. Sapeva di sangue e sudore. Nemmeno durante la marcia per raggiungere la piana dello scontro con Morigawa. Certissimo. Aveva cavalcato Ah-Un in testa al suo esercito, e il monaco non gli si era mai avvicinato se non alla fine. E quella non era certamente una situazione adatta per parlare, visto che subito si era verificato l’assalto delle truppe di Morigawa. Quando, allora? Quando?

 

La sensazione di un corpo contro il suo, un respiro sempre più pesante e brividi lungo la schiena. Sesshomaru si rivide inginocchiato accanto al corpo di Alessandra, su quel campo di battaglia. Svuotato e incapace di razionalizzare davvero. Risentì il fragore dello scontro, il sangue ribellarsi per tornare in campo e quelle parole scivolare lentamente nel suo cervello: Alessandra non avrebbe retto a lungo; il suo fisico era allo stremo. Alessandra è un...essere umano.

 

Ecco. Il monaco gli aveva detto quelle parole e lui si era deciso a lasciare la battaglia. Con suo fratello alle spalle e il corpo della ragazza fra le braccia. Che stupidaggine! Perchè mai doveva provocargli una simile reazione quella frase? Alessandra era una ningen, lo sapeva benissimo. Lo aveva sempre saputo. Perchè all’improvviso doveva esser divenuto un problema, essersi tramutato in un qualcosa di nuovo e sconosciuto? Eppure, era l’unico elemento che era stato capace di provocare una reazione nel suo corpo. Una reazione forse davvero eccessiva per un qualcosa di già provato.

 

Ne ero davvero...cosciente?

 

Sesshomaru socchiuse gli occhi. Alessandra come essere umano. Come uno di quei ningen che lo disgustavano, che considerava alla stregua di carne debole e facile da ferire. Alessandra soggetta al tempo, ad un ritmo diverso dal suo, ad un consumarsi veloce in un’esistenza effimera e priva di possibili, vere, aspirazioni. L’aveva mai vista come una ningen? Lo sapeva, ma davvero ne aveva preso coscienza? A cosa pensava quando l’aveva baciata, quando si era scoperto a sfiorare la sua pelle, a desiderare il suo calore e il suo corpo, quando l’aveva osservata, sfacciatamente, nuda e agonizzante nel futon, quando aveva desiderato averla nel letto? Alessandra. Aveva pensato solo al suo nome, a lei come essere autonomo, estranio da ogni altro elemento. Lei e basta. Senza definizione e razza di appartenenza.

 

Una donna. Una donna mortale. Alessandra era un essere umano. Sesshomaru realizzò per la prima volta che, anche vincendo la corte, anche con la possibilità di riportarla in vita ogni volta che se ne fosse andata, Alessandra era diversa da lui. E prima o poi lui l’avrebbe persa per sempre. Una donna umana. Mortale. Una debole donna che avrebbe sempre dovuto tenere al sicuro, chiusa al castello, con il costante pensiero che chiunque avrebbe potuto metter fine alla sua vita con irrisoria facilità. Quanto tempo sarebbe ancora trascorso prima che iniziasse a vederla invecchiare, prima che i suoi capelli si tingessero di bianco, la sua pelle si disseminasse di rughe e lei iniziasse a corrompersi, lentamente? Avrebbe potuto, in un certo senso, darle una vita pressochè eterna con Tenseiga, ma non l’eterna giovinezza, non la cristallizzazione del suo aspetto. Potevano ancora trascorrere vari anni, ma prima o dopo avrebbe dovuto raffrontarsi con quel realtà: Alessandra sarebbe invecchiata sotto i suoi occhi, e lui non avrebbe subito alcun mutamento.

 

A quel punto, cosa avrebbe fatto? Si sarebbe stancato di lei e l’avrebbe cacciata, rimandata nel suo mondo perchè ormai non era più in grado di compiacerlo e gli procurava invece ribrezzo guardarla o l’avrebbe comunque tenuta con sè, relegandola lontano da tutto e da tutti. L’avrebbe avuta al suo fianco per degli anni, ma poi, quando la corte avesse iniziato a premere perchè desse alla sua stirpe un erede degno del suo sangue puro, come si sarebbe comportato? Alessandra era troppo importante per abbassarla al ruolo di amante, e non si sarebbe mai umiliato ad accompagnarsi a lei solo per istinto carnale. Però non aveva nemmeno valutato il fatto che, comunque, da lei non avrebbe mai potuto avere un erede degno e puro. Volente o nolente, avrebbe dovuto acconsentire a condividere il letto con una demone, anche solo per il tempo necessario a che lei concepisse.

 

Suo padre aveva avuto solo una moglie, sua madre, e la relazione con la madre di Inuyasha non poteva nemmeno esser considerata adulterio. Suo padre era vedovo, e comunque sarebbe stato nel suo pieno diritto avere altre donne. Vari sovrani di altri clan avevano più di una consorte, e una regina che aveva dato loro l’erede designato. Non necessariamente la donna favorita. Non avrebbe dovuto costituire reale problema il fatto che lui tenesse come favorita Alessandra, e designasse come possibile erede il figlio avuto da una yasha. Non gli faceva ribrezzo, quel pensiero. Era assolutamente normale. Tuttavia, non poteva permettersi di dimenticare che, a quel punto, Alessandra sarebbe divenuta davvero semplicemente un’amante. L’avrebbe persa. Se non fisicamente, spiritualmente.

 

Essere umano. Essere umano. Essere umano. Morte. Sofferenza. Dolore. Malattia. Fra loro ci sarebbe stato per sempre un abisso; il loro rapporto non poteva evolversi più dello stadio cui era giunto. Lui non avrebbe mai capito certi suoi atteggiamenti, e Alessandra non poteva smettere di tremare davanti ai suoi artigli scarlatti, alla leggerezza ovvia con cui uccideva chi lo infastidiva senza provare rimorso. Se poi, malauguratamente, la ragazza avesse concepito un figlio da lui? Un mezzo-demone come suo fratello, un bastardo che avrebbe ulteriormente sminuito la loro potenza. Non avrebbe mai acconsentito di aver ripetuto l’errore di suo padre: un figlio illegittimo e ibrido. Un disonore da debellare. Non gli sarebbe mancato di certo il coraggio di ucciderlo appena fosse nato, ma Alessandra non glielo avrebbe mai perdonato. Per le donne un figlio è una ragione di vita. Inuyasha lo era stato per sua madre, e anche fra le yasha la situazione era simile. Lui stesso era stato un sostegno per sua madre. In modo diverso da come lo può essere un ningen per una donna umana, perchè comunque sua madre era una yasha potente e autonoma, che aveva potuto vivere accanto a suo padre in indipendenza e senza un rischio troppo grande, ma era comunque stato un punto fermo per lei. A modo suo, lo aveva amato e si era preoccupata per lui. Senza eccessive effusioni, ma senza lesinarle del tutto.

 

No. Lui non avrebbe mai accettato di poter ulteriormente inquinare la sua stirpe, e Alessandra non gli avrebbe mai perdonato di uccidere quello che lui avrebbe ritenuto un abominio da distruggere. Ma allora perchè aveva permesso a quella ragazza e a se stesso di incrinare la sua protezione di ghiaccio? Era successo qualcosa che gli aveva impedito di focalizzare appieno, prima di allora, la realtà della natura della ragazza. Essere umano. Essere mortale. Essere diverso. Diverso da lui nel corpo, nel tempo, nella forza, nell’essenza, nel modo di pensare e concepire il mondo. Diverso. Inconciliabile. Sbagliato. Un rapporto sbagliato, e di cui, paradossalmente, irrazionalmente, sentiva di non voler fare a meno. Sarebbe bastato così poco per troncare tutto: lasciarla morire o, se si fosse ripresa, rispedirla nel suo mondo. Estirpare quello che sentiva, il desiderio che aveva di stringerla fra le braccia, di vederla nuda nel suo letto. Finalmente remissiva e domata, pronta ad assecondarlo. Debellare la voglia di liberarla dal kimono e scoprire lentamente la sua pelle, di sentirla fremere eccitata e vederla bagnarsi leggermente di sudore. Finalmente sua. Finalmente a gemere contro la sua spalla, sulle sue labbra, e questa volta non per soffocare il dolore. Nessuno spasmo per ferite e sangue. Nessuna nudità inframmezzata di rosso.

 

Sesshomaru spalancò la mado. La notte era calda. Indugiò sul primo spicchio di luna. Una falce sottilissima, appena arcuata. Percorse i contorni massicci dei tetti dei suoi appartamenti. Dalle shoji di Alessandra filtrava una debole luminescenza. Come se lo stesse aspettando. Come lui, mesi prima, aveva preso l’abitudine di mettere una candela sul davanzale. Per chiamarla, per parlarle quando il tempo e la guerra, invece, non lo permetteva. Alla fine, gli era risultato naturale entrare nella camera e trovarsela nel letto. Senza nessun intento malizioso. Alessandra si era ancorata a lui come alla salvezza. Aveva raccolto la sfida che le aveva lanciato al tempo che si erano visti per le prime volte: vediamo quanto resisterai a me, ad un demone, tu che sei solo un essere umano che non sembra spaventato dalla morte. In quei primi momenti, Sesshomaru era rimasto leggermente colpito dal fatto che quella ningen non provasse timore dei suoi artigli, che li avesse lasciati sfiorarle la pelle della gola come aspettando solo che la lacerassero. Quasi con disperato desiderio di sentirsi uccidere. Alessandra aveva perso la sfida, gli era ceduta, ma neppure lui poteva affermare di esserne uscito vincitore. In un certo senso, si era aggrappato a lei quando aveva scoperto di essere divenuto cieco.

 

Alessandra gli era rimasta accanto in ogni momento. Fisicamente finchè erano giunti a palazzo e poi soprattutto con una discrezione che gli permetteva di avvertire la sua presenza ma non gliela faceva pesare. Senza saperlo, Sesshomaru l’aveva costretta ad un autocontrollo esasperato che aveva soffocato ogni sua caratteristica e aveva impedito al demone di focalizzare realmente l’attenzione sul fatto che lei fosse umana. Si erano ingannati a vicenda, e adesso Sesshomaru avvertiva opprimente il peso di quella ovvia e improvvisa consapevolezza. E non sapeva, forse davvero per la prima volta nella sua vita, come comportarsi. Troppo sconvolto, combattutto, smarrito. Eppure, doveva decidere. Alessandra continuava a sopravvivere, a languire in quel letto anche se lui non le era stato accanto nell’agonia, anche se l’aveva lasciata sola ad affrontare quella sfida. A prescindere da quello che sarebbe successo dopo, a come avrebbe deciso di comportarsi, Sesshomaru sapeva che aveva sbagliato. Comunque, le doveva qualcosa di indefinito, e avrebbe dovuto cercare di ricambiarla.

 

Si alzò con rinnovata eleganza. Si liberò degli abiti che ormai portava da troppo tempo e indossò un kimono nuovo, soppesandosi al fianco la sola Tenseiga e scavalcando agilmente la finestra. Atterrò sul muro di conta interno, appiattendosi leggermente all’ombra di un albero secolare. Le zanne di svelarono per un istante. Sembrava un ladro tanta era la circospezione con cui si muoveva, ma non voleva esser scoperto. Sarebbe andato da Alessandra, questa era la sua certezza. Ma non prima di aver deciso come comportarsi in futuro. Se avrebbe messo a tacere gli istinti o si sarebbe deciso ad assecondarli, fregandosene del fatto che fosse umana e che, prima o dopo, l’avrebbe persa. Per prima cosa, doveva realizzare se sarebbe stato in grado di accettare di separarsi da lei. Per il resto, il futuro, il figlio che un giorno avrebbe dovuto generare, il ruolo di moglie e amante, l’insopportabile possibilità di una discendenza bastarda...tutto il resto avrebbe aspettato.

 

Voglio capire. Me stesso prima di tutto

 

 

*****

 

 

Non era sicuro di aver capito cosa fosse successo. Anzi, non ci capiva assolutamente nulla. Ma se, in fin dei conti, qualsiasi cosa fosse successo serviva a salvargli la vita, allora poteva anche ignorare qualsiasi altra cosa. L’unica cosa importante era che, se succedeva qualcosa, lui non ne fosse coinvolto. Certamente non così semplice come appare, visto che, da quando era rientrato, il suo signore si era disinteressato ad ogni incombenza di corte, che di conseguenza erano ricadute sulle sue spalle. Già non era stato facile cercare di sedare gli animi dei cortigiani adirati perchè Sesshomaru-sama aveva evitato di cogliere la vittoria della battaglia delegando le ultime fasi a dei semplici subordinati ed era rientrato a palazzo per un essere umano, ma Jacken davvero aveva sudato freddo nel ritrovarsi a gestire i complicati rapporti che si erano venuti a creare. Sesshomaru-sama gli aveva lasciato un incarico che non era sicuro di poter assolvere, soprattutto contando il fatto che non aveva ricevuto non precise direttive, ma nemmeno uno straccio di indicazioni. E muoversi alla cieca, con il rischio di causare qualche incidente o trarre degli accordi che poi non avrebbero incontrato l’approvazione del suo padrone non era effettivamente un pensiero incoraggiante. Se fosse stato possibile, avrebbe pregato Kumamoto-sama di intercedere per lui, o almeno di parlare con il Principe per richiamarlo ai suoi compiti. Lui non osava nemmeno avvicinarsi ai suoi appartamenti dal momento che l’inuyoukai non rispondeva nemmeno a Yaone quando cercava di comunicargli le condizioni di Alessandra.

 

Come se non bastasse, poi si era inserito il problema di Rin. E quello veramente avrebbe potuto costargli la testa. Jacken sapeva che la lunga lontananza dal suo signore rattristava la bimba, ma negli ultimi mesi l’esser circondata sempre da almeno una persona, ningen o youkai, sembrava renderle meno pesanti le separazioni, e anche la presenza di kiba avrebbe dovuto attenuare molto la sua solitudine. Invece, da quando aveva visto Sesshomaru-sama rientrare a palazzo con Alessandra ferita, Rin si era chiusa in un ostinato mutismo. Aveva rifiutato il cibo, e restava semplicemente rannicchiata nella sua stanza o nella sala da pranzo. Anche il suo lupacchiotto si era rassegnato a smuoverla e si limitava ad accucciarsi vicino alla sua padroncina e posarli la testolina in grembo. Rin, al massimo, lo accarezza un po’, ma sembrava che anche quel semplice gesto le privasse di ogni piccola forza. Jacken le aveva sbraitato contro qualche volta, ma alla fine si era rassegnato a lasciala stare. Se la bimba non voleva mangiare, peggio per lei. Lui non aveva nessuna colpa, ecco. Sesshomaru-sama non poteva prendersela con lui; non aveva fatto nulla di male. Rin, semplicemente, non aveva più fame.

 

Bofonchiò qualcosa a mezza bocca mentre gettava un’occhiata distratta all’interno della stanza. Adesso, dopo quasi una settimana, la bimba era tornata a mangiare se non proprio di gusto a sufficienza per non rischiare di ammalarsi. Scosse la testa. Al suo signore non sarebbe piaciuto quando avrebbe scoperto cosa era successo. No. Decisamente sarebbe stato pericoloso essergli vicino in quel momento. Jacken lo sapeva bene, e aveva pianificato con cura ogni suo spostamento, in modo che non si sarebbe mai dovuto trovare, almeno per sua volontà, coinvolto in un confronto fra i due fratelli.

 

“Kiba! Guarda cosa mi ha dato Inuyasha-kun!”

 

Il lupacchiotto sollevò la testa con quiescenza, rivolgendo un’occhiata annoiata al grosso pezzo di sushi che Rin gli sventolava davanti al musetto. Annusò pigramente l’aria, sbadigliò e tornò a crogiolarsi nel sole del mezzogiorno. Non gli piaceva molto che quell’hanyou riscuotesse le simpatie della sua padroncina, ma se era riuscito a farla mangiare non poteva di certo ringhiargli contro apertamente. Il suo principe era stato chiaro: se teneva alla sua padroncina, doveva mostrarsi comprensivo verso i cagnolini. Hanyou o youkai che fossero.

 

Kiba si rigirò sull’engawa. Non si sarebbe mai sognato di opporsi a Sesshomaru-sama. Benchè fosse ancora un cucciolo, si era reso conto per istinto che quel demone poteva essere molto pericoloso se osteggiato; inoltre, quella era la sua casa ed era a lui che doveva il permesso di restare con la sua padroncina. I ningen, in definitiva, non lo dispiacevano più di tanto: le ragazze gli regalavano sempre qualche carezza e anche l’uomo gli passava dei prelibati pezzi di carne. Sopportarli era uno scambio decisamente vantaggioso. C’era anche un’altra ningen che aveva imparato a rispettare, a non concepire nemmeno di poter ferire, oltre alla bambina. Non la vedeva da molto, ma sentiva sempre il suo odore nell’aria. Quella ragazza aveva convinto Sesshomaru-sama ad accettarlo accanto a Rin e lo riempiva di complimenti: lo aveva eletto guardia personale della bimba, facendogli gonfiare il petto e alzare il musetto con orgoglio. Abbassò le orecchiette. Aveva fatto uno scivolone terribile camminando a testa alta. Ruzzolato dalle scale. Frustò l’aria con la coda. Quella ragazza meritava l suo piccolo rispetto, anche perchè aveva l’odore di Sesshomaru-sama.

 

Con l’hanyou, invece, era diverso. Antipatia a pelle. Istintiva. E anche il suo principe aveva dei rapporti burrascosi con lui. Però, lo avrebbe sopportato se questo significava vedere la piccola sorridente. Rin gattonò fino a lui, sventolandogli davanti agli occhietti assonnati il pesce. Sembrava decisa a farglielo assaggiare. Con un ringhio di disappunto, Kiba acconsentì a farsi imboccare, mentre Rin sorrideva e poi trotterellava di nuovo al suo posto, accanto ad Inuyasha. Mangiava di gusto, sorridendo e scambiando qualche parola con Sango e Kagome. Ma sopratutto, Rin aveva scoperto di trovare molto simpatico il monaco. Rideva quando la sterminatrice lo rincorreva per prenderlo a pugni, ma soprattutto le piaceva quando lo convinceva a raccontarle delle storie. Era un ottimo diversivo per non pensare alla lontananza di Sesshomaru-sama e al fatto che Ale-chan stava male. In verità, Rin avrebbe voluto poterla vedere, ma Yaone-san e Homoe-chan le aveva detto che non era possibile.

 

Rin ridacchiò. La giornata era bella, e forse sarebbe riuscita a estorcere la fine della storia Miroku. Bastava fargli gli occhi dolci e qualche moina completa di elogio. Il monaco avrebbe sospirato rassegnato e avrebbe acconsentito. Forse avrebbe anche cercato di prenderla in spalla, e allora lei avrebbe riso e sarebbe corsa a rifugiarsi dietro alle gambe di Inuyasha. Alzò gli occhi all’hanyou che le sedeva accanto. Sesshomaru-sama non aveva mai mangiato con lei o con Ale-chan. Chissà perchè. I demoni forse non amano il cibo dei ningen, ma Jacken si adattava e mangiava con lei durante i loro spostamenti.

 

Il cibo degli esseri umani non è di mio gradimento

 

Sospirò. Glielo aveva detto alcuni anni prima, quando si affacendava a procurargli viveri e acqua, reverente ma non impaurita. Non aveva mai accettato il suo cibo, ma era stato il primo a non trattarla veramente male. Le aveva anche chiesto come si fosse procurata i suoi lividi. E lei, in risposta, aveva sorriso. Allora non voleva ancora parlare. Sussultò quando avvertì degli artigli sfiorarle una guancia e il viso di Inuyasha chinato su di lei.

 

“Sei tutta sporca di riso...”

 

Sorrise. Il suo signore non si sarebbe mai concesso un simile gesto, ma in fondo anche lui, a modo suo, si preoccupava per lei. Senza preavviso, si alzò ad abbracciare un imbarazzatissimo Inuyasha, stringendosi forte al suo collo e ridacchiando dei commenti che sentiva dagli altri presenti. Sango e Kagome potevano essere simpatiche e gentili e Miroku-kun era capace di incantarla con i suoi racconti, ma il suo preferito restava Inuyasha-kun. Strofinò la testolina contro il suo petto. Sapeva che non sarebbe passato molto tempro prima di avvertire la mano dell’hanyou sulla sua testolina. Le avrebbe fatto una carezza arruffata e le avrebbe detto qualcosa, per poi chiederle sgarbatamente di scrollarsi di dosso, e di non prendersi certe confidenze. Rin sorrise: aveva imparato a riconoscere la maschera di finta indifferenza del fratello del suo signore, e sapeva che sarebbe bastato fargli vedere gli occhioni tristi e un faccino vicino alle lacrime per farlo sentire in colpa e iniziare a gesticolare nel tentativo di scusarsi.

 

Inuyasha la vide sedersi di nuovo al suo posto contenta e riprendere a mangiare. Si grattò la nuca: se suo fratello era pressochè impossibile da capire, quella bambina non era da meno. Passava dalle lacrime al sorriso con una velocità disarmante, come alternava la paura all’euforia con una naturalezza che, in un adulto, sarebbe stata quasi sospetta. Rin, invece, semplicemente, sembrava vivere tutto come una specie di gioco, di realtà fantastica in cui esisteva il dolore, ma che poteva sparire velocemente. Forse, da piccolo, anche lui si era comportato in modo simile. Quando gli altri ragazzi che abitavano al palazzo di sofu lo schernivano e deridevano, Inuyasha ricordava che andava a rifugiarsi in uno degli angoli più nascosti del giardino e si immaginava che arrivava qualcuno a fargli forza. Non suo padre, che viveva nella sua mente come un fantasma lontano e indefinito, ma un fratello. Avrebbe tanto voluto un fratello più grande; sarebbe arrivato dal cielo e lo avrebbe consolato e portato via. Lui e sua madre. In un altro posto. Dove nessuno gli avrebbe mai detto hanyou, dove nessuno gli avrebbe più voluto fare del male e sua madre non sarebbe stata costretta a subire l’umiliazione di esser indicata come una sgualdrina, come la colpevole di un’infamia. Da piccolo, gli bastava immaginare quel fratello per ritornare a sorridere nonostante le lacrime trattenute; spesso fantasticava di averlo al fianco, e che gli correggesse gli errori mentre provava ad esercitare la sua forza demoniaca.

 

Sospirò. I bambini non sono sempre in grado di distinguere la realtà dalle fantasie che si costruiscono per sopravvivere. Spesso le abbandonano presto, dopo i primi anni dell’infanzia; lui se le era viste strappare all’improvviso. Rin, probabilmente, le aveva ricostruite per una qualche ragione. E aveva fatto di Sesshomaru il loro centro. Come l’immagine di un niisan era stata per lui il centro del suo sogno di cucciolo. Kagome gli aveva detto che, probabilmente, Rin non capiva bene cosa fosse successo, e spiegarglielo in termini troppo drastici avrebbe solo fatto acuire il suo stato di smarrimento. Inoltre, il fatto che da alcuni giorni si mostrasse spensierata non voleva dire che non risentisse della mancanza di Sesshomaru e della tensione che percorreva il palazzo, ma probabilmente cercava di esorcizzare la sua ansia non pensandoci. Per i bimbi è facile costruirsi un mondo di fuga fantastico.

 

Inuyasha soppesò la mano al pugno. Rin sembrava l’opposto della bimba apatica e triste di alcuni giorni prima. Quando finalmente si era deciso a smettere di languire nella sua stanza e di cercare di fare qualcosa che lo tenesse occupato, non avrebbe mai immaginato che si sarebbe ritrovato ad occuparsi di quel cucciolo umano. Era entrato discutendo animatamente con Koga nella sala da pranzo, ma aveva ben presto dovuto, suo malgrado, prestare attenzione alle lamentele isteriche di Jacken. Il demonietto si disperava per la, a suo dire, imminente fine della sua vita: la corte non gli dava tregua, Sesshomaru-sama lo aveva lasciato a gestire demoni con tutt’altre intenzioni che quella di prestargli ascolto, e come se non bastasse adesso ci si metteva anche Rin a fare i capricci. Testarda ragazzina! Ma lo sapeva che se non mangiava non poteva sopravvivere!

 

Inuyasha non aveva capito bene cosa fosse successo; sapeva solo che, d’improvviso, si era sentito stringere spasmodicamente una gamba e si era trovato la bimba artigliata ai suoi hakama. Ben risoluta a non lasciare minimamente la presa e a non farlo andare via. Nonostante le sue minacce e le sue lamentele. Alla fine, aveva dovuto rassegnarsi, e da quel momento Rin aveva iniziato a seguirlo come un’ombra, senza mai separarsi da lui, se non per una distanza pressochè minima. Come se temesse che si volatilizzasse davanti ai suoi occhi. Inuyasha e i suoi amici, in un primo momento, avevano pensato fosse solo un modo per sfuggire alla logorrea di Jacken, e quindi, appena il demonietto se ne era andato, lui stesso aveva mostrato l’intenzione di lasciare la stanza ed era uscito in giardino.

 

Si ravvivò la frangia. Rin gli era corsa dietro con un terrore smisurato negli occhi e appena lo aveva raggiunto si era aggrappata di nuovo si suoi abiti. Non aveva finto nulla. Sembrava davvero terrorizzata all’idea di trovarsi di nuovo da sola. O meglio, sembrava spaventarla il pensiero che lui si allontanasse. Rin gli diede un bacino e sgambettò fuori dalla stanza con Kiba per tornare ai suoi giochi nel giardino. L’occhiataccia che lanciò a miroku fermò la lingua pungente del monaco. Era capace di metterlo ancora più in imbarazzo, il che era proprio l’ultima cosa che volesse. Però, Inuyasha doveva ammettere a se stesso che preferiva quegli imbarazzi alla malinconia della bimba. Rin gli si era affezionata davvero moltissimo, ma forse Kagome aveva ragione: preferiva lui fra tutti perchè gli ricordava Sesshomaru. Rin era, nei suoi confronti, espansiva proprio come se si fosse trovata di fronte suo fratello e più di una volta, nel chiamarlo, si era interrotta come a riflettere su che nome esattamente dovesse pronunciare.

 

“Qualche novità Yaone-san?”

 

“Ha passato la notte. Altro non posso dire”

 

Voce roca e stanca. La yasha si sedette accanto a Sango ravvivandosi con una mano i capelli. Era trascorsa una settimana da quando Alessandra era stata ferita, e le sue condizioni sembravano precipitare verso un lento ed inevitabile epilogo. Il petto si era gonfiato nonostante il drenaggio che Yaone aveva applicato, la febbre era sempre altissima, il respiro mozzo e rantolante; colorito terreo e occhiaie nere e infossate. Yaone disperava davvero di poter trovare un rimedio, e temeva che tutto si aggravasse da un momento all’altro. Non permetteva a nessuno di vederla in quelle condizioni, per non aumentare ulteriormente lo sconforto che già dilagava. Gli appartamenti del Principe, che da quando era rientrata Rin ed erano arrivati i ningen erano solitamente pieni di frastuono, erano immersi in un silenzio irreale, che nemmeno le risate della bimba riuscivano a dissipare.

 

Yaone accettò con un sorriso stanco il thè che Kagome le offriva. Quella notte era stata la peggiore di tutte: la febbre era salita ulteriormente e il respiro si era fatto sempre più faticoso e sofferente. Alessandra sembrava davvero esser prossima alla morte. Yaone aveva approntato il necessario per tentare un’ ultima, disperata possibilità, ma alla fine aveva desistito. Troppo rischioso. Avrebbe proceduto solo con il permesso di Sesshomaru-sama, ma come al solito il demone non aveva risposto alla sua chiamata. Si era ritrovata a battere i pugni sullo stipite della fusuma, incapace di risolversi ad entrare. Sapeva di essere pressochè inutile per la ragazza e non lo sopportava, soprattutto al pensiero che, se Ashitaka fosse stato vivo, Alessandra sarebbe stata salva già da molto.

 

“Non è ancora morta”

 

Voce rauca per stanchezza, o forse anche per la difficoltà di inghiottire lacrime. Yaone si era trovata accanto Inuyasha e i suoi amici. Le sue grida li avevano svegliati ed erano accorsi per accertarsi di cosa fosse successo. In un primo istante, inuyasha aveva stretto i pugni in modo rabbioso, e tutti avrebbero giurato che era pronto a sfondare la porta delle stanze di Sesshomaru e trascinarlo fuori di peso. Invece, l’hanyou si era limitato ad una smorfia contrariata e se ne era andato furioso e amareggiato. Li aveva aspettati accanto alla fusuma della stanza di Alessandra e aveva obbligato la yasha a farlo entrare. Sapeva benissimo di non poter far nulla per aiutare concretamente, tuttavia voleva illudersi che Alessandra potesse sentire la sua presenza e capisse di non esser sola.

 

Loro cercavano di trascorrere il tempo il più normalmente possibile, ma sapevano benissimo che tutta quella situazione era ormai al limite. La loro permanenza a palazzo non aveva più uno scopo, se mai lo aveva avuto, e potevano benissimo esser cacciati da un momento all’altro. Guerra finita; meglio eliminare anche il bastardo che reco disonore alla casata. Ritardare ancora la partenza era un rischio che tutti loro sapevano, e volevano, correre. Inoltre, se davvero doveva andarsene, Inuyasha pretendeva che fosse Sesshomaru a dirglielo, e anche in quel caso lo avrebbe costretto a buttarlo fuori di peso. Non che gli importasse qualcosa di abitare nella casa paterna, ma proprio non riusciva a trovare il coraggio e la voglia di andarsene senza prima la certezza che Alessandra fosse definitivamente fuori pericolo. Le condizioni della ragazza, in definitiva, erano il motivo per cui anche Koga e Ayame non erano ancora partiti, benchè il Principe degli Yoro scalpitasse ad esser costretto fra le mura del palazzo. Gli eserciti, regolare e alleati, erano stati congedati da Jacken e il palazzo sembrava aver ripreso la sua solita vita. I signori del Kansai restavano confinati in un ala dell’edificio come prigionieri, e la loro sorte si sarebbe dovuta discutere prima o dopo, ma erano nelle mani di Sesshomaru. Senza di lui, o senza un suo ordine preciso, tutto restava immobile.

 

Baka!

 

Inuyasha masticò imprecazioni, e i discorsi dei suoi amici non contribuivano a migliorare il suo umore. Appena c’era occasione, si arrovellavano il cervello nel tentativo, vano, di cercar di capire cosa passasse per la testa dell’inuyoukai. Il fatto che non si fosse più fatto vedere, che si fosse completamente disinteressato delle condizioni della ragazza dopo che l’aveva riportata a palazzo e che si ostinasse a farsi negare aveva fatto cadere ogni romantica previsione di Kagome, che adesso non risparmiava rabbia e sdegno verso il demone. Sango e Miroku ridacchiavano. La loro amica sarebbe stata capace di ripetere pedissequamente lo sproloquio in faccia all’inuyoukai senza batter ciglio e tralasciando l’ovvia e naturale razione, molto pericolosa, che avrebbe provocato. Sesshomaru aveva ucciso per molto meno di una giusta, almeno da parte umana, ramanzina. Inuyasha sobbalzò quando Kagome battè con rabbia la propria scodella sul tavolo e gli chiedeva perchè se ne stava zitto e fermo, invece di andare a dirne quattro a quel testone del fratello.

 

“Perchè, perchè! Quello ha la testa più dura della pietra! Ancora mi chiedo come abbia fatto Alessandra ad innamorarsi di lui!”

 

Si bloccò appena realizzò cosa si era lasciato sfuggire. Richiuse la bocca e la riaprì subito dopo, senza emettere alcun suono. Bravo! Bravissimo! Un danno peggiore non lo poteva proprio fare. Si maledisse mille volte per la sua abitudine a sbraitare al vento senza mai pensare. Adesso, aveva gli occhi di tutti puntati addosso. Curiosi, ansiosi, interrogativi. Sbuffò incrociando le braccia. Non gli avrebbero cavato altro di bocca. Non poteva rimangiarsi quello che aveva detto, ma non avrebbe aggiunto una sillaba. Benchè lo sguardo di Kagome promettesse pene indicibili se non si fosse sbrigato a vuotare il sacco. Aveva stuzzicato la loro curiosità, accidenti a lui. Adesso non poteva certo dire che era solo una supposizione la sua. Non gli avrebbero mai creduto: troppo sicuro.

 

Kagome gattonò verso di lui fino e gli afferrò il viso fra le mani obbligandolo a guardarla. Troppo calma. Inuyasha deglutì rumorosamente e sentì un brivido attraversargli tutta la schiena. Quando Kagome lo guardava così o era preoccupata per lui, ipotesi da scartare al momento, o era furiosa. Abbassò istintivamente le orecchiette. Ammissione di colpevolezza. Era condannato.

 

“Yaone-san! Yaone-san!”

 

Homoe spalancò trafelata la fusuma e si precipitò dalla yasha. Sembrava sconvolto e in preda all’angoscia. Istintivamente, Inuyasha strinse il saya e si concentrò sulle parole veloci e sussurrate. Homoe pronunciò pochissime frasi, di cui l’hanyou riuscì a cogliere solo mozziconi, ma vide distintamente, come i suoi amici, l’archiatra farsi sempre più pallida e scattare in piedi appena la yasha ebbe finito. Si precipitarono fuori senza dare una spiegazione e solo a quel punto Kagome si accorse che Inuyasha l’aveva abbracciata e stava premendo la testa contro la sua schiena. Sembrava che stesse raccogliendo le forze. Come prima di uno scontro importante.

 

...male...all’improvviso...peggiorata...tossiva sangue...

 

Non capiva niente di medicina, ma non ci voleva un guaritore per tirare le conclusioni: Alessandra era peggiorata e a giudicare dall’agitazione di Yaone la situazione era davvero grave. Rubò un bacio a Kagome e si alzò in piedi. Avrebbe tirato fuori suo fratello dalle sue stanze a costo di trascinarlo di peso e di rischiare una lite violenta. Ghignò quasi compiaciuto. Erano mesi che loro non litigavano più sul serio, e l’idea di mollare qualche pugno per costringere Sesshomaru alla ragione non gli era per nulla antipatica.

 

Adesso vedremo chi è il più testardo di noi due!

 

 

*****

 

 

Un miracolo. Un ningen certamente lo avrebbe definito così. Un vero e proprio miracolo. Una grazia concessa da un kami: O-Kuni-Nushi forse o il Buddha della misericordia. Scosse la testa. Non le interessava molto sapere chi o cosa avesse permesso quel piccolo prodigio; l’unica cosa che veramente era importante era che, forse, finalmente, si poteva iniziare a riaccendere la speranza che Alessandra guarisse.

 

Yaone ritrasse la mano dalla fronte della ragazza permettendo a un piccolo sorriso di smuoverle le labbra. La febbre persisteva, ma si era notevolmente abbassata. Anche il respiro andava regolarizzandosi e, salvo ancora alcuni piccoli casi isolati, Alessandra non tossiva più sangue. Buon segno. Aveva fatto tirare un sospiro di sollievo a tutti. Niente sangue significava che la ferita al polmone era meno grave del previsto e si era suppurata naturalmente senza conseguenze. Denudò il petto constatando che, nonostante persistesse un leggero gonfiore, ematomi e lividi era pressochè spariti. La auscultò e di nuovo le sembrò incredibile non sentire il cupo gorgoglio del sangue.

 

Tre giorni. Alessandra aveva ripreso conoscenza da tre giorni, e la cappa di latente sconforto che avvolgeva gli appartamenti del Principe si era assottigliata di molto. Le condizioni restavano ancora gravissime e i miglioramenti erano pressochè inesistenti, ma per chi aveva trascorso una settimana in attesa anche solo di un fremito, ancorandosi al semplice respiro, il fatto che la ragazza riuscisse a restare sveglia anche solo per pochi minuti al giorno era stata una conquista immensa. Ci sarebbe voluto come minimo un mese perchè Alessandra riuscisse solo a sedersi contro i cuscini e forse altrettanto perchè potesse nutrirsi con qualcosa di vagamente solido invece del brodo che le facevano sorbire, ma Yaone on riusciva ad essere totalmente pessimista. Se non intervenivano complicazioni e lasciavano alla ragazza tutto il tempo per riprendersi senza sottoporre il suo corpo a sollecitazioni e sforzi prima del dovuto, le possibilità che si ristabilisse completamente erano molto alte.

 

Quadro clinico chiaro e preciso. L’unica arma che aveva in mano per frenare le pressioni di Kagome che più volte aveva cercato di convincerla a lasciarla portare Alessandra nel loro mondo. Nel tempo della miko la medicina doveva essere progredita notevolmente e, per quello che lei era riuscita a capire, una ferita simile sarebbe stata curata senza pericoli. Kagome le aveva offerto quell’alternativa già la notte in cui Alessandra era stata ricondotta a palazzo da Sesshomaru, e lei aveva fermamente declinato la possibilità. Costringere il corpo della ragazza ad uno spostamento anche limitato nel tempo, nelle sue condizioni, significava condannarla a morte certa. La proposta era stata lasciata cadere, e di nuovo Yaone era pronta a rifiutarla. Storse la bocca: forse era il suo orgoglio di guaritrice a farla ragionare, a voler tenere la sua paziente sotto la sua giurisdizione e non delegare a nessuno la possibilità di guarirla e prendersene il merito, ma anche eludendo da egoistiche motivazioni personali i rischi conseguenti ad uno spostamento, per quanto confortevole potesse esser approntato, erano troppo alti.

 

Yaone si alzò per socchiudere le shoji e si concesse di indugiare sul cielo che andava infiammandosi. Tramonto. Il terzo da quando Alessandra si era svegliata, da quando, entrando in quella stanza per cambiarle le fasciature e il drenaggio, aveva sentito una voce fievole. Nel silenzio dell’alba, i monosillabi della ragazza erano sembrati assordanti. Yaone si era voltata di scatto sbarrando gli occhi. Nella luce incerta dell’andon aveva potuto distinguere gli occhi azzurri di Alessandra. Incredibile. Inconcepibile. Solo il giorno prima aveva dovuto precipitarsi al suo capezzale per fermare una crisi. L’emorragia sembrava essersi riaperta e dalla bocca della ragazza il sangue continuava a uscire, scuro e denso. Yaone era stata costretta a inserirle in gola una canula per impedirle di soffocare e aveva vegliato con Homoe tutta la notte. Si era allontanata solo per pochi minuti verso l’alba, per ordinare di portarle acqua calda e un braciere. Doveva sterilizzare gli strumenti che aveva usato ed esser pronta nel caso fosse stato necessario intervenire di nuovo. Invece, con sua grande sorpresa, il rientro nella stanza le aveva riservato quell’inaspettata sorpresa.

 

Si era chinata sulla ragazza per assicurasi di non esser stata preda di un’allucinazione dovuta alla stanchezza, per poi spalancare la fusuma della stanza e chiamare Homoe. Aveva letteralmente buttato giù dal letto tutti i ningen che occupavano gli appartamenti del Principe, che erano accorsi messi svestiti e angosciati. Se Yaone perdeva la propria pacatezza in quel modo indecoroso doveva esser successo qualcosa di grave.

 

Miroku era arrivato per primo, subito seguito da Sango e Kagome, ma nessuno aveva avuto il coraggio di chiedere nulla, soprattutto di fronte alle occhiate che le due yasha si scambiavano. Solo alla fine il sorrise dell’archiatra fece tirare un sospiro di sollievo e sciogliere in lacrime Kagome. Avrebbero voluto vederla, tutti, subito, parlare, sapere come si sentiva. Yaone sorrise. non era stato semplice calmare quei tre esaltati, ma era riuscita a rimetterli in riga promettendo che, appena possibile, li avrebbe fatti entrare. Ma non in quel momento: aveva altro cui pensare. I ningen non sono come i demoni, hanno bisogno di nutrirsi regolarmente per vivere, e Alessandra era pressochè a digiuno da una settimana. Era allo stremo, e se il suo organismo non avesse ricevuto nutrimento non avrebbe auto le forze per rimettersi. Non poteva fidarsi delle yasha a servizio a palazzo, e quindi aveva optato per la cucina di Kagome e Sango: brodo. Di qualsiasi animale, ma solo brodo e senza nessun condimento o spezia. Sarebbe stato insipido, ma lo stomaco della ragazza avrebbe dovuto riabituarsi lentamente alla consistenza del cibo. Nutrirla. Quella era la cosa prioritaria. Nell’unico modo possibile: inzuppando un panno nella scodella e facendoglielo succhiare.

 

Alessandra aveva provato a parlare, a chiedere qualcosa, ma non aveva avuto la forza di articolare suoni che andassero oltre ad aspirate e suoni gutturali. Aveva dovuto rinunciare nella speranza di vedere Sesshomaru comparire nella sua stanza o di riceverne notizie da suoi amici. Invece, nulla. L’ignoranza più nera. Yaone aveva ringraziato i kami che la ragazza fosse tanto debole da non poter rendersi conto del tempo che trascorreva. Per lei, dal suo risveglio, potevano esser trascorsi pochi minuti come anni interi. Non sapere equivaleva a non angustiarsi con domande che avrebbero potuto minare il suo stato d’animo. Per questo nessuno aveva mai fatto accenno al fatto che Sesshomaru non si era ancora presentato nella stanza, e che anche Inuyasha mancava all’appello. Durante le loro brevissime visite, Kagome, Sango e Miroku si erano limitati a poche incoraggianti parole,  rincuorarla e farle forza. Il più delle volte, però, l’avevano trovata addormentata e forse, avevano convenuto, era un bene che non sapesse che, al momento, Sesshomaru non era a palazzo.

 

Yaone si ravvivò i capelli e attraversò con passo scocciato la stanza. Aveva raccomandato a tutti, Rin in primis, di limitare al massimo i rumori e di evitare situazioni di agitazione inutile. Invece, in quel momento, un irritante frastuono si andava avvicinando sempre di più alla stanza. Prima ancora di aprire le porte, riconobbe la voce gracchiante di Jacken che implorava qualcosa e le urla di Rin. Istintivamente assottigliò gli occhi: qualcosa non andava. Non sentiva l’odore di Sesshomaru-sama nell’aria e le grida della bimba non era di gioia per il ritorno del suo signore.

 

“Cosa sta succedendo?”

 

Fissò guardinga il corridoio. Odore di demoni. Molti demoni. Inuyoukai. Sospetto. Forte sospetto. E una sgradevole sensazione alla bocca dello stomaco. Pericolo. Gettò un’occhiata ad Alessandra che dormiva nel futon. Tranquilla. Controllò con lo sguardo ogni anfratto della camera. Tutto normale. Aveva anche richiuso le sohji perchè aveva sentito l’odore elettrico dell’aria. Temporale in avvicinamento. Pericolo. Ancora quella sensazione. Fastidiosa. Storse le labbra in un ghigno e si sistemò il kimono. Futile come gesto, constatò. Tuttavia, se non teneva occupate le mani, rischiava di perdere il controllo da un istante all’altro. Non le piaceva dover aspettare per capire le cose. E il rumore di quei passi, la voce del demonietto e le lamentele della bimba erano qualcosa che doveva essere chiarito. Subito.

 

“Yaone-san”

 

L’houshi e la tagijia. Con le loro armi. Anche loro avevano fiutato il pericolo ed erano un fascio di nervi. Perfino il Principe degli Yoro faceva scricchiolare gli artigli in modo pericoloso, frapponendosi fra la miko e la direttiva da cui proveniva la confusione. Koga fiutò l’aria e storse la bocca. Demoni-cane. Molti anche. Non riusciva proprio a capire cosa potessero volere. Sesshomaru non era a palazzo e anche il cuccioletto era sparito. Non riuscivano proprio a capire cosa potessero volere. Jacken continuava a strepitare minacce e che, appena fosse tornato, Sesshomaru-sama avrebbe fatto pagar loro quella mancanza di rispetto. Non buono. Quelle parole non prometteva proprio nulla di buono. E la corte inuyoukai era conosciuta fra i demoni per la grande fedeltà al loro signore. Se Jacken minacciava a quel modo, anche se inascoltato, il peso della minaccia doveva non essere indifferente.

 

Un guaito ruppe il parlottare fitto e i mormorii e Kiba rotolò malamente sul legno del corridoio, fino ad andare a sbattere contro l’intelaiatura di una porta. Il cucciolo si lamentò appena, ma cercò comunque di rimettersi faticosamente in piedi, offrendo le zanne tenere e il muso ringhiante ad un gruppo di demoni. Miroku, Sango e Koga assunsero istintivamente una posizione di guardia. Dieci, forse dodici inuyoukai. Quelli più estremisti e intransigenti della corte. Koga gli aveva riconosciuti subito: fra loro c’erano anche quelli che avevano storto il naso e deriso il suo arrivo mesi prima; uno doveva essere quello che aveva zittito con un pugno nella sala del consiglio perchè lasciasse parlare Shin. E tutti, naturalmente, li aveva sentiti lamentarsi del fatto che Sesshomaru-sama avesse preferito delegare a dei semplici subordinati la soluzione di quella che doveva essere la battaglia del riscatto. E tutto per cosa? Per riportare indietro una stupida ningen, buona solo a scaldare un letto e a divertire un demone con il suo terrore. E il loro signore aveva anche ordinato loro di trattarla con il rispetto che comportava la carica di archiatra che ricopriva. Per quella ragazzina, uno di loro, un generale, era morto nel duello rituale. Accusato di averle tentato violenza. Ma da quando il desiderio di una donna umana, anche contro la sua volontà, costituiva un reato alla corte dei demoni dell’Ovest? Nessuno si era mai azzardato a porre quel veto che andava contro il pensiero di loro youkai. Nemmeno Inutaisho si era spinto a tanto nelle sue idee innovatrici, e adesso suo figlio sembrava avvicinarsi ai ningen molto di più di quanto non avesse fatto suo padre.

 

Non era tollerabile. Se avevano sopportate fino ad allora era perchè Morigawa costituiva una minaccia di maggior rilievo rispetto ad una questione interna. Perdersi in dispute fra membri della stessa corte e con il proprio Principe sarebbe stato un grave errore, poiché si rischiava di minare l’unità e la forza del loro esercito. Tanto più che la ragazza non aveva mai fatto nulla che potesse sollevare, almeno apertamente, delle fondate lamentele. Nemmeno fosse stata colta in flagrante nel letto di Sesshomaru si sarebbe potuto procedere in qualche modo. Se il loro Principe avesse avuto desiderio di un’amante umana prima di pensare alla sua discendenza, nessuno avrebbe potuto impedirglielo. Il fatto però che Sesshomaru-sama avesse abbandonato il campo prima della fine della battaglia e che fosse sparito da più di una settimana dava alla corte il permesso di agire. In assenza del Principe e di precisi ordini espressi direttamente dalla sua persona, i membri anziani della corte assumevano la reggenza e avevano pieni poteri. E adesso si erano decisi ad usarli.

 

“Apri la stanza della ningen, yasha”

 

Yaone sollevò il mento con orgoglio. Nessuno si poteva permette un simile tono con lei. Rinnegata, bandita, umiliata. Aveva da scontare molte colpe e molti errori, e avrebbe accettato il peso della vita che Ashitaka le aveva fatto giurare di non sprecare, ma non si sarebbe mai abbassata alla stregua di quei demoni che adesso le stavano davanti. Pavoni ornati di stoffe e corazze, accecati da sproloqui e vaneggiamenti su razze e purezza, interessati solo al proprio interesse e alla propria posizione. Gli occhi le scintillarono sinistramente, mandando soffusi bagliori i smeraldo. In quell’istante, rimpianse il potere sulla vita e la morte dei suoi avversari che aveva perso tornando alla vita normale. Le restavano le sue capacità di yasha, ma in quel momento freddare all’istante, senza muovere un muscolo, uno o due di quei dannati youkai sarebbe stato un ottimo detrattore per chi avesse di nuovo avuto la brillante i idea di mettersi a capo del palazzo dell’Ovest.

 

“Pensateci bene...”

 

Spostandosi leggermente di lato, il demone svelò il corpo di Rin in ostaggio. La bimba tremava in preda al panico e alla consapevolezza, annichilente, che questa volta il suo signore non sarebbe intervenuto ad aiutarla. Sesshomaru-sama era lontano. Sesshomaru-sama non era lì a proteggerla da quei demoni cattivi. Soffocò un nuovo singhiozzo quando sentì le unghie dello youkai che la imprigionava premerle maggiormente la pelle della gola. Faticava a respirare. Non sapeva se era una sua impressione, la paura e l’agitazione o se davvero quegli artigli la stavano soffocando lentamente. Sapeva solo che voleva piangere, e correre a rifugiarsi nelle braccia di Kagome, o di qualsiasi altro dei ragazzi che la stavano fissando. Indecisi. Impotenti. Frustrati.

 

Miroku fu il primo a mostrarsi conciliante, abbassando seppur con stizza il shakujo e guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Koga. L’ookami non era per nulla propenso ad abbassare le difese davanti ad un gruppo di cagnolini che abbaiavano. Tuttavia, la pressione sul suo braccio da parte di Kagome lo convinse a rilassare i muscoli. In definitiva, non gli andava che a rimetterci potesse essere il cucciolo umano. Anche Sango rilassò il braccio, ma si tenne comunque all’erta, pronta ad estrarre un qualche possibile diversivo se avesse colto una falla nell’attenzione dei suoi avversari, approfittando della sua posizione leggermente defilata ed in ombra e della protezione che le offriva Kirara, che non aveva accennato a voler riassumere le sue miti sembianze di gattina, benchè il fatto non sembrasse impensierire gli youkai.

 

Alla fine, anche Yaone acconsentì ad affievolire la sua youki. Il monaco non aveva torto: in un simile ambiente ristretto e in numero nettamente inferiore ribellarsi sarebbe equivalso a farsi massacrare. Ma non aveva la minima intenzione di lasciar entrare nessuno nella camera di Alessandra. Non perchè temesse una possibile vendetta di Sesshomaru alla notizia che non aveva mosso un dito per impedire quella violazione, ma perchè, per istinto, per intuizione prettamente femminile, avvertiva che, se avesse acconsentito, sarebbe successo qualcosa di brutto. Di molto brutto.

 

Continuò a fissare negli occhi il demone a capo del piccolo gruppo anche quando la scansò malamente facendola finire a terra e aprì la fusuma. Yaone sentì il ringhio represso di Koga e avvertì l’energia spirituale di Kagome e Miroku, ma si avvide anche dell’occhiata divertita del demone verso il compagno che imprigionava Rin. Una ulteriore leggera pressione sulla pelle, e piccoli segni rossastri si delinearono sulla gola della bimba. Alla prossima mossa avventata, gli artigli si sarebbero macchiati di sangue.

 

“Sai cosa fare”

 

Un demone che indossava la veste dei guaritori del palazzo si staccò dal gruppo ed entrò nella stanza socchiudendo la fusuma. Kagome e gli altri avevano provato un brivido nel vedere il sorrisino sadico che gli aleggiava sulle labbra e al pensiero di Alessandra, debole e ferita, da sola con lui in quella stanza.

 

Per alcuni minuti, Sango, Miroku e Kagome non riuscirono più ad udire nulla. Silenzio. Silenzio e basta. Qualche parola sussurrata, ma a voce troppo bassa perchè si potesse capire. Rumore di stoffa. Le coperte, probabilmente.

 

Kagome si ricordò come all’improvviso che, probabilmente, Koga e Yaone riuscivano a percepire meglio quello che stava succedendo e si voltò verso l’ookami. Ansiosa. Le parole le morirono in bocca e il suo cervello riuscì solo a sfiorare le possibilità di quello che stava succedendo nella stanza. Però, il volto di Koga non prometteva nulla di buono: la mascella contratta, con le zanne che premevano le labbra e la testa voltava verso il basso. Un fremito di frustrazione e rabbia repressa a fatica percorreva il corpo del demone-lupo che si costringeva disperatamente all’immobilità per non far degenerare la situazione. Sentì Kagome aggrapparsi al suo braccio e premere il viso bagnato contro la sua pelle. La ragazza non sentiva come il suo udito gli permetteva, ma doveva aver intuito qualcosa osservando lui e Yaone. Le strinse una mano, ma si ostinò nel negarle il conforto dei suoi occhi. non era certo di riuscire a mascherare quello che gli passava nell’animo.

 

Silenzio. Ancora silenzio. Respiri un po’ più violenti. Qualche parola. Qualche suono che sembrava assomigliare vagamente ad un no. Il silenzio che riempiva il corridoio permetteva a Miroku di concentrarsi per provare a capire cosa stesse esattamente succedendo nella stanza. Anche se il sorrido compiaciuto sul volto dell’inuyoukai non prometteva nulla di buono e benchè lui stesso sapesse benissimo che, se lo scopo di quell’azione era ferire Alessandra più di quanto la naginata avesse fatto, c’era un solo modo per umiliare una donna. Scosse debolmente la testa. Inuyasha era stato pronto a minacciarlo quando aveva cercato di allungare maliziosamente le mani su Alessandra. Sesshomaru non si sarebbe di certo limitato alle minacce, e aveva chiaramente diffidato chiunque dal solo pensare di sfiorare la ragazza. Non era possibile, quindi, che quei demoni che, anche se a modo loro, onoravano Sesshomaru, avessero improvvisamente deciso di rischiare la testa solo per togliersi un desiderio carnale. Una semplice voglia che avrebbero potuto benissimo soddisfare diversamente e altrove.

 

Un gemito più forte. Udibile perfettamente anche da loro. E il sorriso del demone che aveva di fronte si accentuava di più. Miroku strinse convulsamente il bastone, gettando un’occhiata a Yoane e Koga. Erano tesi, frementi. L’ookami, probabilmente, avrebbe volentieri azzannato qui maledetti bastardi se non fosse stato per Rin. Si tormentò nervosamente il rosario al braccio. Maledizione. Maledizione! Non era certo di poter calcolare esattamente il tempo necessario ad aprire il foro, richiuderlo per impedire che la bimba venisse risucchiata e riaprirlo immediatamente. E anche fosse stato in grado di farlo, c’era comunque il rischio che qualcosa gli impedisse di sigillare il foro e Rin potesse esserne assorbita. Nemmeno da considerare, quindi. Ipotesi da scartare. Intanto il tempo passava, assieme a quei suoni imprecisi fra cui a volte si poteva cogliere un rantolo, un respiro più intenso, un gemito.

 

“La femmina non sembra gravida”

 

Il guaritore riaprì la fusuma rigirando le mani in un asciugamano. Sembrava compiaciuto, e il sorriso appagato che gli storceva le labbra fece correre un brivido lungo la schiena di Koga, Miroku, Sango e Yaone, mentre Kagome premette di più il viso contro la spalla del demone. Aveva pregato che quell’inuyoukai uscisse presto, che quel silenzio pesante rotto da suoni che non facevano che ingigantire la sua ansia scivolasse via in fretta. Aveva desiderato tapparsi le orecchie per non sentire quel frastuono inesistente, per mettere a tacere il fragore dei suoi pensieri. Aveva cercato di convincersi, di illudersi, che prima che quei demoni potessero fare qualcosa, qualsiasi cosa, Inuyasha sarebbe tornato a palazzo. Aveva desiderato aprire gli occhi e intravedere sopra la spalla di Koga la figura di Sesshomaru. I suoi artigli che spazzano l’aria, il sangue che sprizza e imbratta il legno, la carta di riso, il kimono bianco, il veleno corrodere carne e ossa, l’indifferenza del Principe e la superiorità che da sempre lo caratterizzava. Avrebbe massacrato quei demoni che si erano ribellati al suo comando. Kagome non amava il sangue, benchè in quella guerra fosse stata costretta a prendere coscienza della violenza che caratterizzava quell’epoca. Morte. Morte. Morte. Non l’avrebbe mai augurata a nessuno, ma si era scoperta a desiderarla per quelli che, per lei, non erano più nè demoni nè esseri viventi. Solo delle bestie che approfittavano di un ostaggio e della debolezza di Alessandra per fare di lei quello che volevano. E loro non potevano muoversi, non potevano tentare nulla. Nemmeno i suoi poteri di miko sarebbero serviti a qualcosa. Rin sarebbe stata uccisa prima che il colpo andasse a segno.

 

E adesso, quella frase che le aveva fatto chiudere lo stomaco. Femmina. Gravida. Come se stessero parlando di un animale. Come se il guaritore non avesse appena infierito su un essere umano, su una ragazza come era lei stessa. Kagome affondò senza accorgersene le unghie nella spalla di Koga. Sgomento, nausea, rabbia, impotenza. Dolore. Erano bastate quelle sole parole a renderle palese la considerazione in cui loro ningen erano tenuti dei demoni: alla stregua di animali, forse ancora più in basso. Sentì le lacrime premere e deglutì più volte per ricacciarle indietro. Voleva piangere dalla rabbia, dalla voglia che aveva di urlare e prendere a schiaffi quegli youkai. Per la prima volta, si accorse che avrebbe desiderato esser libera di muoversi per attaccare e uccidere con i suoi poteri da miko. Uccidere non per difendersi, ma per vendicare.

 

Una mano che si sovrappone alla sua. Una stretta nervosa e calda. Koga aveva sentito il corpo contro la sua schiena venir attraversato da piccoli fremiti e le unghie di Kagome conficcarsi nella sua carne. Poteva provare a immaginare che quella frustrata volontà di ribellione fosse dovuta alle parole del guaritore e, anche se non ne afferrava completamente il motivo, sapeva che avevano dato molto fastidio a Kagome. Per quanto lo riguardava, la voglia che aveva di sbranare quei demoni aumentava sempre di più davanti ai loro stupidi giochetti. Erano ricorsi ad un guaritore; lo avevano fatto entrare nella stanza di Alessandra e solo i kami sapevano cosa esattamente le avesse fatto, anche se il suo udito gli aveva permesso di seguire quasi ogni azione, trasformando i suoni in immagini che lo avevano riempito di rabbia e disgusto. E adesso accampavano la scusa di voler accertarsi che Alessandra non fosse incinta per nascondere la violenza. Strinse i denti fino a farli scricchiolare e istintivamente arricciò le labbra in un ringhio basso e gutturale. Non provassero a prenderlo in giro. I ningen potevano anche crederci, ma lui non ci sarebbe caduto di certo. Come non sapesse che a loro demoni è sufficiente il fiuto per accorgersi se una donna è ancora vergine o meno. Come le yasha sarebbe stato più problematico, perchè l’odore non mutava, semplicemente si sarebbe unito a quello del compagno, ma Alessandra era un essere umano e per quanto su di lei si potesse sentire l’odore del Principe, era altrettanto percepibile l’odore di donna intatta.

 

“Procedi comunque”

 

Il sogghignò che i due demoni si scambiarono costrinse tutti a riaversi dallo stato di sospensione in cui l’affermazione spregevole del guaritore li aveva gettato. Istintivamente, Sango si avvicinò alla porta sbarrando il passo al guaritore. Cos’altro volevano? Non bastava loro aver umiliato Alessandra? Non era ancora sufficiente essersi divertiti con lei e aver costretto loro ad assistere impotenti a quella violenza? Perchè lei ne era certa: quel guaritore non si era certo intrattenuto in una pacata conversazione con un paziente. Sango aprì la bocca, ma non riuscì a parlare. Emise solo un suono roco, un respiro strozzato e affaticato e dovette ringraziare la sua abitudine ad affrontare i demoni, perchè altrimenti sarebbe scoppiata a piangere per dar sfogo alla marea di emozioni che le rodevano l’animo. Non riuscì a opporre resistenza quando un demone l’allontanò di peso spingendola in malo modo verso i compagni. Riuscì appena a fare qualche passo e ad appoggiarsi al braccio che Miroku le aveva prontamente porto, altrimenti sarebbe caduta a terra. Stravolta. Prosciugata. Sommersa da emozioni violente che doveva continuare a reprimere.

 

“Cosa volete ancora?”

 

Voce bassa, un sussurro frustrato e rabbioso. Miroku strinse i denti. Non era certo di volerla conoscere, la risposta, ma sapeva benissimo che ignorare e fingere che non sarebbe accaduto nulla sarebbe stato un errore. Un grave errore. Qualunque cosa quei demoni avessero fatto volessero fare ad Alessandra, poi loro avrebbero dovuto mostrare alla ragazza abbastanza forza d’animo per chiederle perdono di non esser intervenuti e aiutarla a superare la violenza subita. Prospettiva non facile, soprattutto visto che Alessandra poteva assumere un atteggiamento di protezione che l’avrebbe portata a chiudersi a riccio. Era già difficile riuscire a strapparle un fugace contatto fisico, quando proprio non lo evitava abilmente; sotto l’influsso di un trauma, forzarla sarebbe anche potuto essere più controproducente del normale. Il monaco ricordò la guancia arrossata di Inuyasha una notte di non molti giorni prima. L’hanyou aveva liquidato la faccenda semplicemente avvertendolo di non allungare le mani sulla ragazza se non voleva ricevere anche lui un bello schiaffo. Alessandra non era certo in grado di opporre una qualche resistenza in quelle condizioni, e forse questo era il nervo della questione. Sentirsi scoperta e debole doveva essere per lei più angosciante e frustrante di molte alte cose.

 

“Semplici precauzioni. Non vogliamo correre il rischio che la nostra stirpe sia di nuovo contaminata con un bastardo”. Sogghignò. “É solo un infuso di aconito”

 

“Non potete darglielo adesso! É troppo debole!”

 

Yaone. Aveva cercato di dominarsi, di formulare nella mente una reazione per ogni azione che poteva venir commessa. Esser pronta a tutto, a qualsiasi cosa si fosse trovata di fronte appena le avessero permesso di entrare di nuovo nella stanza era il solo modo che avesse per non trovarsi impreparata e poter agire tempestivamente. Se non sullo spirito, almeno sul corpo. C’era un leggero odore di sangue nell’aria. Sangue umano. Sangue di Alessandra. Sapeva che anche koga se ne era accorto. Glielo aveva letto nel pallore che d’improvviso si era impadronito di lui. sconvolto. Disgustato. E adesso, volevano somministrale quel farmaco. Troppo forte per un organismo debilitato come quello della ragazza. Forse sarebbe andato tutto bene, ma avrebbe anche potuto provocarle delle convulsioni e degli sforzi di vomito tanto violenti da riaprire le ferite appena rimarginate. Per non prendere in considerazione le conseguenze debilitanti che avrebbe comunque avuto in generale sull’organismo di Alessandra. No. L’aconito era pericoloso per una donna in ottime condizioni fisiche; farlo ingerire alla ragazza in quello stato era un rischio enorme.

 

L’inuyoukai occhiegghiò verso Rin, la cui gola era ormai segnata da piccoli graffi sanguigni. Yaone si morse a sangue il labbro inferiore. Avrebbe potuto aggredire immediatamente il guaritore e ucciderlo, ma sarebbe costato la vita della bimba. D’altra parte, se non si fosse mossa, Alessandra sarebbe stata costretta a ingerire quel farmaco. Maledizione, maledizione, maledizione! Non sapeva più cosa fare. Cosa decidere. Avrebbe voluto salvarle tutte e due, e non poteva. Strinse le mani fino a conficcarsi gli artigli nella carne.

 

“Maledetto lupo!”

 

L’imprecazione e un guaito straziante riportò l’attenzione di tutti a Rin e al demone che la teneva in ostaggio. Kiba, approfittando della momentanea distrazione del demone, gli si era avvicinato con cautela, per poi aggredirgli il braccio nella speranza di indurlo a mollare la presa sulla sua padroncina. In effetti, l’inuyoukai era stato costretto a lasciare temporaneamente la bimba, ma prima che Rin potesse portarsi a distanza di sicurezza, il demone si era sbarazzato del lupachiotto e aveva ripreso la fuggiasca. Rin aveva urlato mentre Kiba era rotolato fino a Koga disegnando una sottile scia di sangue nella sua caduta. Il cucciolo cercò di rialzarsi, ma riuscì solamente a sollevarsi sulle zampe anteriori soffiando sangue e aria dalle narici e digrignando i denti arrossati per il sangue che colava dalla ferita al muso. Dalla radice del naso fin quasi alla base del muso, sfiorando di pochissimo l’occhio destro. Se non lo aveva perso era stato un miracolo.

 

“Provate un altro scherzo del genere, e la bambina è morta” minacciò il capo della delegazione, mentre di nuovo gli artigli premevano nella carne tenera della gola per sottolineare maggiormente la minaccia. In contemporanea, il guaritore scivolò nella stanza. Miroku tese istintivamente la mano, chiudendola ad afferrare aria. Non potevano rischiare la vita di Rin. E non riuscivano a sopportare l’idea di essere tenuti in scacco. Loro. Ad un passo da quella stanza. Con davanti agli occhi la fusuma aperta e la tenue luminescenza dell’andon. Con la consapevolezza che avrebbero fatto del male ad Alessandra senza che loro potessero far nulla. Assolutamente nulla.

 

Trattennero il fiato nel sentire i deboli gemiti della ragazza. Di certo avrebbe voluto ribellarsi. Avrebbe voluto gridare aiuto, invocare i loro nomi. Forse, in quei rantoli spezzati c’erano anche, i loro nomi. Credevano di riconoscerli, confusi con il respiro pesante e le deboli rimostranze. Parole, gemini, nomi. Diversi. Quando probabilmente era uno quello che Alessandra avrebbe voluto poter chiamare. Un nome a salirle alle labbra e venir prepotentemente ricacciato indietro. Kagome si lasciò scivolare a terra, raccogliendo fra le braccia il corpicino di Kiba e sentendosi investire da qualcosa di caldo. Il lupacchiotto guaì piano. Rin. L’avevano lasciata andare. Si sentivano al sicuro, e ormai avevano raggiunto lo scopo che si erano prefissati. Uccidere la bimba sarebbe stato un grave errore: se potevano giustificare tranquillamente il loro comportamento davanti a Sesshomaru indicandolo come conforme alla loro legge, uccidere la bimba sarebbe stato controproducente. Rin era sotto la protezione del Principe, e chi le recava offesa la recava di riflesso al demone. Con la ningen era diverso: era solo l’archiatra, anzi la precedente archiatra. Sesshomaru-sama non aveva provveduto in nessun caso a chiarire meglio la sua posizione e se anche si fosse trattato dell’amante del Principe, salvo una sua conferma ufficiale, restava sempre una ningen fuori dalla sua protezione. Soprattutto in quel contesto.

 

Kagome strinse al petto Rin che singhiozzava spaventata e terrorizzata all’idea di quello che era successo a Kiba e di quello che avevano potuto fare ad Ale-chan. Non sapeva cosa fosse accaduto, ma sapeva che era una cosa brutta. Aveva tanto desiderato che arrivasse Sesshomaru-sama a salvarla. Niente. E adesso si stringeva convulsamente al petto di Kagome, piangendo e singhiozzando. Ansimando per lo sforzo e ritrovandosi a tossire per recuperare il fiato. Strofinando il visino contro Kiba che cercava di confortarla leccandola piano. La sua padroncina stava bene. la sua padroncina era viva. La sua padroncina non era stata ferita.

 

Nessuno si accorse, o preferì semplicemente ignorare, gli sguardi di sprezzante e patetica commiserazione che gli inuyoukai rivolgevano loro. L’avrebbero pagata cara. Se avevano fatto del male ad Alessandra, Sesshomaru d’accordo oppure no, Koga e Miroku avevano giurato a se stessi che quei demoni avrebbero dovuto render loro vendetta. Ignorarono le risatine di scherno e le battute sarcastiche, forse triviali, che i demoni si scambiarono. Kagome si accorse che erano rimasti soli nel corridoio quando sentì Sango premerle una spalla e vide Miroku regalarle un’occhiata di incoraggiamento. Passò Rin,esausta per il pianto, alla sterminatrice e si alzò in piedi. Sopra la spalla di Yaone poteva distinguere chiaramente la fusuma aperta. Doveva andare a vedere. Doveva entrare e abbracciare Alessandra. Forse l’avrebbe allontanata, forse avrebbe voluto ribellarsi, ma lei non si sarebbe lasciata commuovere. L’avrebbe abbracciata e l’avrebbe fatta sfogare. Doveva farla piangere.

 

Scosse appena la testa. Kagome si era ricordata solo in quel momento di non aver mai visto Alessandra piangere. L’aveva vista esausta, con gli occhi infossati e rossi. L’aveva vista arrabbiata e delusa. Disincantata, triste, sorridente, fiduciosa, tremante e impaurita. L’aveva vista sotto molti aspetti, sempre più umani, sempre più lontani dalla fredda compostezza con cui le si era presentata a Musashi. Ma non l’aveva mai vista piangere. Sbattè gli occhi. Stupidaggini. Era stato solo un caso.

Avanzò di un passo. Yaone non si mosse. Restò a fronteggiarla. Sguardo fisso che sembrava volerla trapassare. Non la vedeva. Sbuffò. Non sarebbe stata lei a impedirle di entrare. L’aggirò. Si sentì afferrare il polso e trattenere. Provò a strattonare, ma la presa era salda. Si voltò stizzita. Esasperata. Adesso che potevano aiutarla, confortarla, le impedivano di vederla. Perchè? Perchè?

 

Koga scosse la testa ma sviò gli occhi della ragazza. Non riusciva a guardarla. Non era sicuro che non le avrebbe fatto capire quello che sentiva dentro, annodato alla bocca dello stomaco, se l’avesse guardata. Sentì Kagome tentare di liberarsi e strinse di più la presa. Sorrise amaro. Voleva sapere perchè la tratteneva lì. Perchè non la lasciasse andare.

 

“Sta piangendo”

 

 

*****

 

 

Disgusto. Nausea.

Mani che la sfioravano, premendo la pelle, indugiando sul suo corpo senza che lei potesse ribellarsi, senza aver la forza di allontanarsi. Inerme. Impotente. Debole. Maledettamente debole. Impossibilitata a scappare, a fuggire, a colpire. Scoperta. Indifesa. Nemmeno gridare.

 

Trattenne un gemito quando il demone torse di più il braccio. La clavicola mandava uno scricchiolio poco promettente. L’osso era stato scheggiato ed era ancora fresca la recente cicatrice. Un brivido. Involontario. Di paura e piacere. Terrore. Non era possibile. Non voleva. Non poteva permetterlo. Ma non era in grado di controllare il suo corpo, le sue reazioni. No. Doveva convincersi che era solo disgusto. Solo disgusto e paura. La lingua continuava a disegnarle i tendini del collo. Lenta. Troppo lenta. Voluttuosa. Maledetta.

 

Capelli tirati e la testa rovesciata contro un corpo. Un corpo sconosciuto. Bocca aperta alla ricerca di aria. Aria per respirare. Per trovare la forza di gridare, di maledire. Anche solo di offendere. Per non subire passivamente. Per non esser toccata. Non vuole esser toccata. Non le piace. Non lo permette mai a nessuno. E non lo permetterebbe mai in quel modo. Con quella voglia sfacciatamente ostentata, con quel tocco violento e irrispettoso. Sadico. Scosse la testa. Scalciò piano. Le coperte frusciarono. Niente. Troppo debole. Maledettamente debole. Se almeno fosse svenuta, se non fosse stata costretta vedere, a sentire. Gli artigli che saggiavano la pelle, la lingua sempre più bassa sulla giugulare, lungo la spalla. Nuda. Quand’era stato che le aveva tolto lo yogi? Quanto tempo era passato da quando si era ritrovata seduta contro quel corpo? Contro quel demone che aveva iniziato a premere sul kimono da notte, a esplorare il suo corpo senza preoccuparsi dei suoi deboli, patetici tentativi di opporsi.

 

Non si era resa subito conto di cosa stesse succedendo. Nel dormiveglia, anestetizzata e intontita dalla debolezza, in un primo momento aveva creduto di essere nelle stanze del Principe. Prima della battaglia, o forse dopo. Lui era tornato a palazzo e lei...lei era mai uscita dal palazzo? Sì. Sul campo di battaglia; la spalla e poi qualcos’altro. Non ricordava. Non era riuscita subito a focalizzare , ma non aveva importanza. Era convinta che fossero sue, le braccia che la sollevavano a sedere, che la stringevano, che la esploravano. Sue. Sesshomaru.

 

Respiro caldo all’orecchio, viso che affonda nei suoi capelli sciolti. Quando li aveva sciolti? Non lo ricordava. E intanto quelle mani continuavano a toccarla, vogliose, sfrontate, impudenti. Non poteva essere Sesshomaru. La stingeva con violenza, fino a farle male, incurante dei gemiti che le procurava, della possibilità di riaprire la ferita. La voce. Quel respiro che sibilava al suo orecchio. Antipatico, schermitore, offensivo. Non si era accorta subito che erano parole, frasi, offese. Il suo cervello non aveva raccolto immediatamente le allusioni che le venivano sussurrate.

 

“Ti sei divertita, nel letto del Principe? É bravo, vero?”

 

Aveva aperto la bocca per replicare, e si era trovata priva di forze per rispondere, con la gola che bruciava e il desiderio di piangere. Un nodo allo stomaco, assieme al disgusto per quelle parole, per quello che stava subendo. Passiva. La stava trattando come una prostituta, come la più infima delle yotaka. Le sfuggì un singhiozzo. In definitiva, era solo una ningen. E un demone non potrebbe vedere in lei nulla oltre ad un semplice diversivo. Carne a disposizione, per soddisfare ogni istinto. Solo corpo, e null’altro. Forse nemmeno reale piacere, ma godimento di forza, di violenza, di sopraffazione.

 

Le parole continuavano. Pesanti, accusatorie, maliziose. Alessandra aveva sentito la stoffa dello yogi lacerarsi. Pelle nuda. E labbra, lingua, mani toccarla di nuovo. Indugiando sugli ematomi. Scendendo sempre più in basso, scoprendo sempre di più. Stinse le mani cercando di trovare la forza per allontanarsi, per difendersi. Picchiare, graffiare, mordere. Qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa che le permettesse di allontanarsi da quel demone, da quelle mani, da quella violenza. Sesshomaru non era così. Con lui era diverso. Era uno youkai, ma non l’aveva trattata come un oggetto. Era un demone, ma non l’aveva violata. Aveva messo a tacere la sua forza, la sua superiorità fisica. L’aveva rispettata. Era diverso. Era diverso.

 

Aveva fatto forza con la schiena, riuscendo appena a illudersi di potersi allontanare, di non dover di nuovo sentire quel calore contro la schiena, quel respiro umido sul collo, le mani sulla pelle, e il demone le aveva afferrato il braccio, torcendoglielo dietro la schiena. La ferita appena cicatrizzata aveva ripresa a sanguinare. E adesso, si trovava di nuovo fra le braccia di uno sconosciuto, di un demone che non si sarebbe fermato solo per gli ordini che il Principe aveva dato. Adesso che l’aveva ben salda fra le mani, affannata e sudata, debole e prossima alle lacrime, non si sarebbe fermato. Alessandra sentì un artiglio indugiare sulle bende, giocare con la pelle solleticandogliela ora piano ora con violenza. Graffi e carezze. Mentre le labbra masticavano il suo orecchio. Stingendo la carne fra i canini appuntiti.

 

Piangere. Avrebbe voluto piangere e gridare. Ma la voce non usciva, e non aveva forza di urlare e sfogarsi. Troppo debole. Troppo provata ancora. Il respiro accelerò quando la mano del demone scivolò sul suo petto, insinuandosi sopra le bende che la fasciavano. La punta del dito incideva leggermente l’incavo fra i seni. Un crepitio lentissimo. Esasperante. La stoffa si lacerava lentamente. Rivelando la pelle. Alessandra strinse gli occhi e cercò di nuovo di allontanarsi. Inutile. Il demone rafforzò la stretta sul braccio.

 

Adesso, era a seno nudo. Fra le braccia di un demone, di un maschio. Scosse la testa, tentò di nuovo di muoversi e scalciare, di gridare. Non voleva quelle mani a sfiorarle il seno, le mani a stringerli; non sopportava gli artigli sulla pelle, la lingua che leccava avida il sangue e la ferita sulla spalla. E soprattutto non sopportava se stessa. I gemiti che non riusciva a frenare, che disperatamente soffocava in gola; i brividi che la attraversavano, che la facevano tramare. Quelle sensazioni intense. Come quando Sesshomaru l’aveva stretta, sfiorata, desiderata. Con passione, voglia, affanno. Sollevò stancamente una mano. Non era lui. Non c’era lui a stringerla, a sfiorarla, a strapparle brividi e gemiti. Non era Sesshomaru a liberarla dalla stoffa, a lacerare le bende, a far scivolare le mani sul suo corpo. Sempre più un in basso. Premendo sull’addome, disegnando l’arcata epigastrica.

 

Stoffa strappata. Completamente nuda fino alla vita. Così come nemmeno lui l’aveva mai vista, come non gli aveva mai permesso di vederla, di toccarla. Approfittò del momento in cui il demone si sporse di più per cercare di morderlo. Stinse la carne. Al braccio, forse ala viso. Stinse forse, affondando i denti. deboli. Troppo deboli. Si sentì strappare e una risata di scherno soffiarle all’orecchio. Respiro sempre più vicino. Labbra sornione e compiaciute alitarle quasi in bocca. Storse la testa. Sesshomaru l’aveva baciata in inverno. Al riparo di una quercia secolare. Sfiorandole appena le labbra. Quasi insicuro. Spaventato. Un bacio. Il primo. Nulla di fantastico, di travolgente, di passionale. Solo un contatto leggere. Quasi banale. Ma le era piaciuto. Per quello che significava. Per quello che poteva far nascere. Un bacio che si era evoluto, che si era fatto sempre più profondo, più intenso, esperto. Come la mani, avevano preso a muoversi con maggior sicurezza, indugiando maggiormente invece di limitarsi a sfiorare soltanto.

 

Il demone continuava a respirale sulle labbra. L’aveva costretta di nuovo sdraiata. Il peso del suo corpo a premerla sul materasso del futon. Le braccia bloccate sopra la testa. Provò a costringere la testa a scattare per mordere. Per dimenarsi. Fu costretta a sentire labbra violente morderle e succhiarle la gola, scendere sempre più in basso. Senza potersi ribellare. Singhiozzò più forte quando una mano s’insinuò nello spacco del kimono. Risalendo lungo la coscia. Si mosse affondando le unghie nel kariginu del demone che la premeva a terra. Stupida illusa. Faticava a restare cosciente, a respirare e muovere la testa. Cosa sperava di fare? Allontanarlo?

 

...Sesshomaru...

 

Perchè non c’era? Perchè non era accanto a lei? Perchè non era lui a toccala, a violarla? Perchè quelle mani erano diverse, violente, irrispettose? Mani che graffiavano la pelle, che premevano, insinuandosi sempre di più, osando troppo. Troppo per lei, troppo per quanto avesse mai concesso anche a chi amava.

 

Urlò, credette di urlare, quando il demone la spogliò completamente. Le sfuggì solo un singulto e un suono roco gutturale. La caricatura di un urlo. Il demone storse la bocca. Ma in fondo era meglio così. Non potevano rischiare di opporsi troppo apertamente alla volontà di Sesshomaru-sama. Accertarsi che non fosse gravida era una possibilità che esulava dagli ordini del Principe, e che avrebbe potuto semplicemente appurare ricorrendo al fiuto. Quella ragazza era vergine, e tale avrebbe dovuto rimanere per impedire che Sesshomaru-sama si sentisse offeso e defraudato. Tuttavia, nulla toglieva che si potesse divertire con lei, farle capire un po’ con chi avesse a che fare.

 

Le corsero al ventre, premendo senza riguardi sulla pelle, fino a farla gemere dal dolore. Alessandra tremò quando avvertì gli artigli strofinare la stoffa del fundoshi, infilarsi appena sotto il bordo per premere e incidere. Il respiro fermo in gola, gli occhi dilatati e brucianti. Si immaginava di sentire da un momento all’altro il rumore della stoffa che si lacerava, le mani che si insinuano prepotenti, che la costringono. Il peso era sempre maggiore, opprimente. Il corpo di quel demone la soffocava. Non sapeva più da quanto tempo fosse in sua balia, non riusciva a ricordare. Non aveva inizio, non aveva fine. C’era solo quel peso che le toglieva il fiato, quelle mani che continuavano a scivolare violente sul suo corpo nudo, insinuandosi, graffiando, picchiando, tirando e strappando. Labbra che assaggiano, che leccano, che assaporano. Respiro caldo, violento. Eccitato.

 

Estraneo. Tutto diverso. Tutto violento. Tutto costretto. E non riusciva a piangere, non poteva urlare, non aveva forza di ribellarsi. Prima sopra, poi sotto. Forse semplicemente era la sua mente a vorticare. Incapace di distinguere ancora la consistenza della realtà. Premere, spingere, strattonare. La spalla. Gli artigli graffiavano la cicatrice, rialzavano i capelli. Ancora. Ancora. Ogni particella del corpo rabbrividisce, e un picare strano, mischiato all’adrenalina e alla paura. Violento. Troppo violento. Spasimi. Grida. Gemiti soffocati che vorrebbero essere urla. Invocazioni di aiuto. Bocca aperta. Tossì. Saliva che scendeva a imbrattare la pelle calda e leggermente sudata. Non riusciva a inghiottire. La mano chiusa alla gola. Quasi a soffocarla. O forse era lei che avrebbe voluto soffocare. Chiudere gli occhi e sparire. Tutto, purchè quella violenza finisse. In fretta. Senza pensieri. Senza più doverci pensare. Chiudere gli occhi e non sentire. Nulla. Nè dolore nè piacere.

 

Alessandra si sentì rovesciare di lato, libera improvvisamente da quel corpo che sembrava volersi fondere con il suo. Pesante, opprimente. Riuscì a riprendere fiato. Lentamente. Brividi per l’aria fredda che s’insinuava dalla fusuma aperta. Un’ombra nera nel rettangolo della porta. Si strinse le braccia al seno a fatica, cercando di raggomitolarsi. Di smettere di tremare. Su quel letto sfatto. Fra le coperte e il suo yogi strappato. Un rigurgito in gola. Violento. Acido in bocca, sulle labbra. Saliva che bagna il materasso, il lenzuolo sgualcito e imbrattato di sangue. Nuovo conato.

 

Avrebbe voluto andarsene. Le sohji erano lì. Davanti agli occhi. avrebbe voluto aprirle, percorrere l’engawa. L’angolo e poi il corridoio. Al coperto. Lo ha percorso infinite volte. A testa alta e guardinga. In pieno sole e alla luce delle tenebre. Le stanze di Sesshomaru. Rifugiarsi lì. Fra quelle pareti, nel suo letto. Nelle sue braccia. Rifugiarsi da lui. poterlo chiamare, invocare. Urlare il suo nome e vederlo accorrere. Sentirsi stringere e baciare. Il suo calore sulla pelle, i suo capelli a velarla. Nascondersi, andarsene, sparire. Lui. Lui. Lui.

 

Sesshomaru, però, non era venuto. Non era andato da lei, non c’era al suo fianco. Non aveva potuto proteggerla. Nel suo letto. C’era entrata, vero. Aveva dormito con lui. E basta. Nulla di più. Non gli aveva permesso molto di più. Bacia intensi e uno sfiorarsi discreto. Strinse appena le mani. Quanto tempo era passato da quando lo aveva provocato nei suoi appartamenti? Prima della battaglia con Morigawa. Avrebbe voluto che l’amasse. Avrebbe voluto che restasse con lei. Lontana. Andarsene da quel palazzo, da quella vita che impediva loro di guardarsi, di soffermarsi su se stessi. Lontano da obblighi e rigido controllo. Via da titoli onorifici e inchini costanti. Loro due. Nei boschi.

 

Rabbrividì ancora. Sentiva freddo. Tanto freddo. Veniva da dentro. Dal pensiero che, forse, Sesshomaru non l’avrebbe più voluta. Che l’avrebbe guardata con disgusto. Di nuovo sola. Sola. Sola. Tese la mano. La testa pesante. Tanto pesante. Le faceva male da impazzire. Non riusciva ad articolare un pensiero coerente. Faticava a respirare. Rumori. Le orecchie ronzavano. Parole. Qualcuno stava parlando. Urlando forse. Lontano. Troppo lontano.

 

Si sentì sollevare a forza. La clavicola scricchiolò ancora quando le braccia le furono piegate dietro la schiena. In ginocchio. Nuda davanti a demoni che non avrebbero avuto il minimo rispetto di lei. Umiliata. Annullata. Non l’avevano violentata ancora fisicamente. Avevano giocato con lei, con il suo corpo incapace di reagire, esasperando la sua paura e approfittando della sua completa debolezza. Non avrebbe mai potuto reagire davvero. Non avrebbe mai avuto la presunzione di potersi realmente opporre. Ma almeno tentare. Provarci. Cercare di resistere. Mordere, graffiare, scalciare, urlare. Niente. Invece, niente.

 

Storse la bocca in un gemito quando le sollevarono la testa tirandole violentemente i capelli. Lo vide in viso. Per la prima volta, vide il viso di chi si era divertito con lei. Una macchia scura scolpita dalla luce del corridoio. Con un ghigno davvero poco rassicurante. Raggelante. Fissò ipnotizzata la mano che si avvicinava sempre di più, riprendendo a scendere lungo la gola, ampliandosi sulla clavicola e poi giù, lungo la curva dei seni.

 

“Il tuo compenso, yotaka”

 

Il demone le aprì a forza la bocca e le infilò fra le labbra una scodella. Amaro. Disgustoso. Nauseante. Un liquido che scendeva in gola. Facendole rinascere il desiderio di vomitare, di sputare in faccia a quel demone. Avrebbe voluto ribellarsi, impedirsi di inghiottire. Ma non poteva. Il demone le aveva tappato il naso e poteva solo inghiottire per evitare di soffocare. Respirò a fondo quando si ritrovò libera, reclinando la testa sul petto. Non sapeva cosa le avessero dato. Forse un veleno, forse una droga per potersi meglio divertire con lei. senza ricordi, senza testimoni. Sarebbe stata la loro parola contro quella di una ningen con ricordi offuscati. Smarrita.

 

Si accorse di trovarsi nuovamente sdraiata sul futon. Se ne erano andati. Non sapeva perchè, non sapeva se sarebbero tornati. Solo, era sola in quel momento. Sola. Le si appannò la vista. Le bruciava la bocca, lo stomaco, e avrebbe voluto vomitare. Lentamente, le lacrime iniziarono a disegnarle il viso, scendendo fino alle labbra screpolate. Con l’ultimo barlume di coscienza, le sembrò di cogliere delle voci. Voci conosciute, anche se non identificate. Amiche. Aprì la bocca per chiamare, per invocare qualcosa. Qualsiasi cosa. Riuscì a emettere solo un rantolo spezzato. I morse le labbra tentò di risollevarsi. Inutilmente. Rimase distesa sul futon. Arrotolata fra le lenzuola strappate e macchiate di sangue. Nuda. In lacrime. Sola.

 

...Sesshomaru...

 

 

 

 

 

 

 

 

Nota conclusiva

 

 

Come consuetudine, ho aggiornato anche il dizionarietto con i termini che nuovi che compaiono in questo capitolo. Se non è di troppa presunzione, inserisco ancora in nota alcuni particolari che lascio impliciti nella storia e che, al momento, non so esattamente come inserire nel dizionarietto.

 

  1. Il fatto che Sesshomaru consideri di poter donare ad Alessandra una vita pressochè eterna grazie alla possibilità di richiamarla in vita con la Tenseiga ogni volta che muoia, sembrerebbe in contraddizione con quanto rivelato nel 59 volume del manga dalla madre del demone. Tenseiga, infatti, può ridare la vita una sola volta, ma questa prima parte della storia si colloca prima di quell’incontro del manga (che comunque, nella mia rielaborazione, avverrà in modo diverso, quasi onirico, dal momento che Sesshomaru è orfano di madre fin dalla tenera età), in un momento, quindi, in cui il Demone ancora suppone di non aver limiti nel restituire la vita.

 

  1. Nell’ultimo paragrafo, quando il demone spoglia completamente Alessandra, si mostra stizzito dal fatto che la ragazza indossi un fundoshi. Questo perchè, secondo la consuetudine giapponese, le donne sotto il kimono non portavano biancheria intima, fatta eccezione, talvolta, per un bustino che schiacciava il seno, secondo l’idea che il corpo della donna è come un perno su cui va esposta l’opera d’arte che è l’abito indossato, motivo per cui si tendeva a far assumere al corpo una forma il più tubolare possibile.

 

  1. L’aconito è una pianta velenosa le cui bacche possono però esser impiegate in medicina. L’uso contraccettivo o abortivo del frutto e delle foglie è attestato fin dalla Grecia antica, benchè, naturalmente, i rischi non fossero pochi e avesse una qualche possibile funzionalità solo in tempi estremamente brevi, salvo evitare, in stadi di gravidanza avanzata, complicazioni gravi.

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Capitolo 46
*** 46. PORTAMI VIA ***


CAPITOLO 45

Vi ho fatto aspettare. Più di sei mesi prima di riuscire a completare e postare questo capitolo.

Per molti motivi. Uno, l’odio e l’insoddisfazione che mi era nata nei riguardi di Alessandra. E allora, piuttosto che ucciderla, torturarla o altro, ho preferito per un po’ abbandonare la storia. Dedicarmi ad altro; altre fan fiction.

Adesso, ho ripreso in mano questo capitolo che sonnecchiava da troppo tempo nel mio computer. Completato, limato, rifinito e pronto.

Per essere letto da chi, nonostante tutte queste dilatazioni e sbalzi temporali, ha ancora la voglia di seguire questa storia.

 

Grazie infinite, fin da adesso, a tutti coloro che lo leggeranno, e soprattutto a chi mi segue da tanto, fingendo di ignorare questi miei sbalzi e il poco tempo che ho per scrivere. Posso rassicurare su una cosa, però: passassero davvero altri sei mesi dal prossimo capitolo (speriamo di no^^), ho la ferma intenzione di concludere la storia. Nella sua trilogia.

 

Grazie infinite a Lete89, per esserci e per essere la mia prima lettrice. Per strami accanto e farmi sorridere con le tue pazzie e le tue storie piene di ironia.

 

E grazie anche a Celina, Lilika, Lucy6, Hypnotic Poison, Kaimy_11, Miriel67, KaDe e Daniela.

 

 

 

Vi lascio al capitolo adesso e mi permetto di informarmi che, come di consueto, ho aggiornato anche il dizionarietto, soprattutto vista la presenza di vai termini nuovi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 45

PORTAMI VIA

 

 

Pazienza. Comprensione.

Glielo aveva ripetuto almeno mille volte, prima che lasciasse il palazzo. Non doveva aggredirlo. Per nessun motivo. Altrimenti, lo sapevano benissimo entrambi come si sarebbe concluso quel possibile, quasi fantomatico, dialogo: insulti e mani. Una rissa, che non avrebbe portato a nulla, aumentando acredine e tensione. Inconcludente. Un capriccio da bambini, soprattutto in quella situazione.

 

Glielo aveva ripetuto mentre si era legato al fianco la katana, un istante prima che iniziasse a fiutare l’aria nella speranza di cogliere almeno una traccia, un minimo indizio che gli permettesse di scegliere la direzione da prendere senza doversi affidare completamente alla fortuna. Dannazione! Non aveva la minima idea di dove si potesse esser cacciato, e sapeva benissimo che il suo era un esasperato e quasi disperato tentativo. Ritrovarlo o anche imbattersi in lui o nel suo odore per pura fortuna era una possibilità con minime percentuali di riuscita.

 

Parlare, parlare…Kagome era stata chiara: doveva cercare di farlo ragionare. Possibilmente evitando di lasciarci anche la pelle. Se si era allontanato da palazzo, Sesshomaru doveva avere le sue motivazioni. Soprattutto per defilarsi in un momento critico come quello, con Alessandra che ancora versava in condizioni disperate e la realtà bellica da concludere. In definitiva, però, ciò che aveva maggiormente destato sconcerto era il fatto che lo youkai se ne fosse andato in sordina, senza avvertire nessuno, senza armatura e seguito. Nemmeno quel ridotto gruppo che da sempre lo accompagnava. Sembrava davvero una fuga. Lucida, calcolata nei dettagli, attuata con consapevolezza. Ma pur sempre una fuga. Stonata. Soprattutto se associata a lui. Al Principe.

 

Inuyasha imprecò fra i denti, tuffando la testa sotto la piccola cascata. Era quasi allo stremo delle forze. Tre giorni passati a correre, con i sensi tesi al massimo per captare ogni più piccolo elemento, avrebbero provato anche un demone. Si passò svogliatamente una mano sulla ferita al braccio. Restava una tenue striscia rosata che andava pian piano svanendo. Non credeva che il veleno di quel tirapiedi di Naraku lo avrebbe provato fino a quel punto; in definitiva si era sempre vantato di esser riuscito a sviluppare una forza non inferiore a quella di uno youkai, compresa la resistenza al veleno. Scosse la testa e la tuffò di nuovo nell’acqua. Non erano stati il veleno, la battaglia, tutta la tensione accumulata a sfiancarlo, lo sapeva benissimo. Il motivo della sua debolezza, dell’apatia di cui era stato preda nei giorni passati aveva una spiegazione maledettamente semplice, e dannatamente umana: era preoccupato, e si sentiva impotente. Incapace. Inutile. Se chiudeva gli occhi, rivedeva la piana disseminata di cadaveri e drappelli di uomini ancora intenti a scontrarsi. E poi, loro. Alessandra e Sesshomaru. Lui che la stringe a sé, lui che sembra paralizzato da un qualcosa di sconosciuto, lui che gli lancia quell’occhiata strana, quasi di supplica. Alessandra nuda fra le braccia di suo fratello, le sue urla nelle orecchie, lacrime e sangue. Sesshomaru che abbandona la battaglia, che la riporta indietro, a palazzo, al sicuro. Ci aveva creduto: suo fratello sembrava aver abbandonato la rigidità di sempre. Aveva dato fondo a tutte le sue energie per tenere il suo stesso passo ed essere con lui, al suo fianco, quando avrebbe varcato l’entrata del palazzo. Senza un vero motivo. Di protezione il Principe non abbisognava di certo, nemmeno se esausto e ferito. Eppure, lui aveva sentito il bisogno di esserci. Dietro di lui, un passo dietro di lui; ma presente. A coprirgli le spalle. A rassicurarlo che nessuno lo avrebbe attaccato a tradimento mentre percorreva la piazza d’armi, perché lui lo avrebbe impedito. Ad ogni costo.

 

Sfregò l’acqua fredda sul corpo sudato e accaldato. Un brivido gli fece incurvare le labbra: puro piacere. Non ce la faceva più: la calura estiva era davvero insopportabile, una cappa pesante e opprimenti che rendeva gravoso il respiro, quasi un rantolo strascicato fra le labbra. Riempì le mani e bevve avidamente. Tre, quattro, cinque volte. La gola bruciava in modo fastidioso e lo stomaco si contorceva. Strizzò gli occhi e si sfregò nuovamente la faccia. Pazienza. Aveva troppa sete e troppo poco tempo per aspettare; al diavolo anche la congestione. Un po’ di crampi allo stomaco non gli avrebbero di certo impedito di correr dietro a suo fratello. E quella pausa era solo una piccolissima concessione. Dopo tre giorni che correva, fiutava, ansimava senza concedersi una sosta il tanfo del sudore gli aveva dato il voltastomaco. Aveva sentito il bisogno quasi viscerale di liberarsi del kariginu e della nagajuban e avvertire l’acqua fredda sul suo corpo. Annullare ogni pensiero, naufragare nell’acqua, sentirla scendere lungo i muscoli, invadere la bocca, la gola, allargarsi nello stomaco.

 

Ci stava mettendo troppo. Troppo tempo. E, in quella situazione, anche pochi minuti potevano essere determinanti. Troppo. Troppo. Troppo. A recuperare completamente le forze; a decidersi di staccarsi da quella polla d’acqua; a trovare quel maledetto testardo. Sparito chissà dove. Inuyasha arricciò le labbra a scoprire i canini appuntiti. Se ci pensava gli veniva una rabbia! Rabbia e ancora rabbia. Parlare. Kagome glielo aveva raccomandato in mille modi: appena avesse trovato Sesshomaru doveva parlargli. Farlo ragionare.

 

Scosse la testa. Certo che ci avrebbe parlato, ma non prima di avergli assestato un bel pungo per smuovere almeno un po’ l’indifferenza del fratello. Non la sopportava proprio, la sua espressione di sufficienza, di sprezzante alterigia. Con lui se l’era sempre permessa, quasi naturale, e alla fine Inuyasha si era rassegnato a scorgergli sempre sulle labbra quel sorrisetto di commiserazione. Un angolo inclinato appena, a lasciar intravvedere le zanne pericolose. Sì: gli avrebbe rifilato un pugno, a costo di dover affrontare un altro estenuante duello con lui e dimenticarsi anche il motivo per cui si era messo sulle sue tracce. Alla fine, Inuyasha non credeva che avrebbe comunque potuto risolvere la questione pacificamente: un faccia a faccia fra loro si concludeva quasi sempre, inevitabilmente, con le spade che cozzano e le loro auree che si scontrano.

 

Sospirò. Sesshomaru non si era mai abbassato ad ascoltare le sue richieste e le sue domande; in passato, lo aveva anche schernito del fatto che ignorasse come fosse morto loro padre e che ruolo avesse avuto un ningen in tutta la vicenda. Imprecò, schiaffeggiandosi furiosamente le braccia. Voleva esser certo di lavarsi completamente il sudore, la polvere e il caldo.

 

Si passò una mano sul viso, rialzando la frangia disordinata e fradicia. Cielo azzurro; abbagliante. Socchiuse gli occhi. Quando aveva lasciato il palazzo, albeggiava appena e l’aria sapeva di pioggia ed erbe messe a macerare. Una decisione improvvisa, ma in definitiva ogni sua azione era dettata dall’istinto più che dalla fredda razionalità. Stiracchiò le labbra. Decisamente, non era la guida migliore per un esercito; né per un regno. Kumamoto gli aveva raccontato di come il suo carattere somigliasse a quello di Inutaisho, ma Inuyasha ancora non riusciva a capacitarsene. Per detenere il potere a capo del Clan e della Famiglia erano necessarie astuzia, razionalità esasperante, autocontrollo, disciplina. Tutta una serie di caratteristiche che, volente o nolente, l’hanyou era costretto a riconoscere in Sesshomaru. Ma lui no. Lui non le aveva, quelle qualità. Non che ne avesse mai sentito la mancanza o se ne fosse mai interessato; tuttavia, i mesi trascorsi a palazzo, a stretto contatto con il fratello, in una vicinanza e intimità altrimenti sconosciute, benché sempre centellinate, gli avevano sottolineato differenze che ai suoi occhi erano, ormai, quasi insormontabili.

 

E non da ultimo, il fiuto. Arricciò il naso contrariato. In passato, il suo naso gli aveva permesso di individuare la sua preda anche a distanza. Spesso vi si era affidato per cercare una traccia di Naraku, per incappare nel fetore di Koga o individuare nel vento l’odore di Sesshomaru. Adesso, invece, niente. Suo fratello aveva scelto il momento migliore per dileguarsi: poco prima di un violento temporale, che aveva assorbito ogni possibile traccia. L’unica possibilità che gli rimaneva era quella: continuare a muoversi nella speranza di cogliere il suo odore, di imbattersi in un indizio, in un qualcosa che gli facesse capire che era sulla buona strada. Ringhiò di disappunto e tuffò la testa sott’acqua, permettendo alla piccola corrente di rinfrescargli il viso, insinuandosi nelle pieghe della pelle, nei capelli scarmigliati. Aveva agito d’impulso, come suo solito. E se ne era andato da palazzo senza considerare il vantaggio che Sesshomaru aveva su di lui. Tre giorni. Tre giorni possono essere incolmabili, soprattutto per lui. Risollevò il viso e si stropicciò la faccia; il kaiginu galleggiava pigramente in una piccola pozza a poca distanza, e se non fosse stato per il fatto che doveva decidersi a lasciare quel refrigerio e rimettersi in caccia, Inuyasha si sarebbe volentieri concesso un lungo, lunghissimo bagno. Scosse la testa. Avrebbe avuto tempo. Tempo per un bagno, tempo per distendersi sotto le fronde di un albero e assaporare l’aria un po’ pensate dell’estate. Tempo per incrociare le braccia dietro la testa e osservare con sguardo annoiato i ningen affannarsi nelle risaie sotto quel sole che martella la testa e solleva una nebbiolina umida e malsana. Tempo per trascinare Kagome al piccolo torrente e divertirsi con lei; tempo per gustarsi il suo corpo lontano da occhi indiscreti, mentre lei restava sdraiata al sole con quello strano abito che la copriva appena. Si concesse un sorrisetto a metà fra imbarazzo e malizia. Adorava quando d’estate la portava in spalla; i vestiti di Kagome erano sempre corti e leggeri, e lui poteva accarezzarle le gambe con finta noncuranza, in un gesto apparentemente casuale e necessario per impedirle di cadere. Non che i kimono che aveva indossato nell’ultimo periodo o il costume da miko non le stessero bene, ma era diversa. Era una Kagome diversa.

 

Sì. Avrebbe avuto tempo per litigare con Miroku che cercava di sbirciare Sango e Kagome alle terme, tempo di mangiare una fetta d’anguria lasciata a mollo fino a sera e di preparare lunghe strisce di carta per quella festa che i ningen celebrano in estate. Avrebbe costruito anche lui una piccola lanterna di legno e carta di riso, e alla sera sarebbe andata sul lago con i suoi amici. E l’avrebbe vista allontanarsi nel buio, cullata dalla corrente. Non gli importava cosa volesse dire, non lo sapeva e non gli interessava saperlo; gli bastava la mano di Kagome della sua, il suo respiro a solleticargli l’orecchio con spiegazioni che non ascoltava. Sì; la sua estate era quella. E non aveva alcuna voglia di rinunciarci per correr dietro alle trovate strampalate di suo fratello.

Si massaggiò lo stomaco e si diresse verso la riva. Gli hakama gonfi d’acqua gli rallentavano i movimenti, e anche la casacca sarebbe stata dannatamente pesante, ma non aveva il tempo di aspettare che i vestiti si asciugassero, e poi, in fondo, tenendoli addosso l’acqua che evaporava gli avrebbe dato un po’ di refrigerio. Strizzò gli occhi e cercò di ignorare lo stomaco che brontolava. Erano tre giorni che non si fermava un attimo, nemmeno per mangiare qualcosa. Gli premeva solo ritrovare Sesshomaru, e trascinarlo di nuovo a palazzo. Da Alessandra. Che lui lo volesse o no. In quel momento, non gli interessava minimamente cosa potesse passare per la testa di suo fratello. Sapeva solo che Alessandra era in un futon, allo stramo delle forze, forse davvero al limite della sua resistenza. Da sola. Strinse gli artigli attorno alla stoffa. Non sopportava l’idea che Alessandra potesse non farcela, che sarebbe potuto tornare a palazzo e vederla composta nel futon, con il kimono bianco e le mani intrecciate in grembo. Non si permetteva di soffermarsi su quel pensiero, ma la testa continuava a soffiargli all’orecchio quella possibilità. Quella maledetta, ovvia, semplice possibilità. Perché non c’era nulla di più facile che morire per una ferita riportata in battaglia; perché la morte per una semplice malattia era la quotidianità del suo mondo; perché a volte nemmeno i poteri degli youkai erano in grado di curate certe ferite e i ningen, prima o dopo, comunque, sono destinati ad andarsene.

 

Inuyasha respirò pesantemente. Anche sua madre era morta, e lui non aveva potuto far nulla per impedirlo. Solo restarsene lì, a fissare il suo volto immobile e la luce tenue della candela che tremava nella sua mano. Era stata l’ultima volta che l’aveva vista, con il kimono bianco profumato di ortensia e i capelli con qualche striatura d’argento attorno al viso ancora giovane. Se ne era andata senza nemmeno salutarlo, senza lasciargli un sorriso, una lacrima, un abbraccio troppo debole. Se ne era andata e lui non era seduto accanto al suo futon; lui era da qualche parte. Forse al fiume, forse solo oltre le shoji a sonnecchiare o rincorrere una palla. Se ne era andata in un pomeriggio un po’ nuvoloso, di quelli che portano pioggia e l’odore del mare oltre le colline. Strinse i pugni; appena sua madre era morta, suo nonno aveva provveduto a sbarrargli l’accesso del palazzo e a organizzare il funerale. Veloce e furtivo come se si stesse per seppellire un eretico, un assassino. Ma sua madre non era né assassina né eretica. Aveva fatto solo uno sbaglio in vita sua: permettere a Inutaisho di amarla e tenere lui. Lui che l’aveva costretta a vivere segregata in casa; lui che le aveva tolto la possibilità di un matrimonio onorato, il decoro di una donna consorte di un feudatario potente, la stima di gente, conoscenti e parenti. Lui che le aveva tolto l’affetto di suo padre e l’appoggio della sua famiglia. Izayoi aveva trascorso la vita nella casa paterna, sorridendo alle sorelle che se ne andavano spose di nobili signori, abbassando gli occhi davanti alla bellezza del fratello e inghiottendo lacrime ai suoi severi rimproveri. Nessuno l’aveva mai perdonata. Avrebbero potuto anche capire se si fosse concessa ad un uomo. Sarebbe stato difficile accettare, ma non impossibile. Bene o male, anche una donna svergognata, che si è concessa prima del matrimonio, può ancora sperare di ottenere onore per sé e la propria stirpe. Il figlio bastardo? Non è un problema nemmeno quello. Si può far sparire; venderlo come servo e semplicemente dimenticarsi della sua esistenza. A discapito del marito e in base all’abilità della donna riuscire a farlo entrare nella nuova famiglia.

Sarebbe stato tutto molto più difficile, se si fosse innamorata di un uomo, sposato e scapolo, di un brigante, di un contadino, ma non impossibile. Ma non si può perdonare chi si è concesso a un demone. Chi ha ceduto alle lusinghe di un piacere che è divino, e malvagio. Si possono amare gli dei, ma non si devono amare i demoni. Questo il credo, il dovere. Questa la legge. Izayoi aveva sbagliato. Aveva amato il più potente dei demoni, il signore del mondo, e gli aveva partorito un figlio. Bastardo, sporco, sbagliato, ibrido, ma pur sempre un figlio.

Un bimbo che correva rapido per le sale del palazzo del nonno, che mostrava la superiorità di un sangue diverso, ferino e pericoloso. Un bimbo che aveva i tratti spaventosi di qualcosa di proibito, che era facile riconoscere e additare come diverso; chiamare hanyou.

 

Inuyasha finì di sistemare il karigiru e riformò il nodo degli hakama. Erano fradici, ma non importava. Al massimo due ore, e avrebbe rimpianto la sensazione dell’acqua fredda sulla pelle. Concesse un ultimo sguardo all’acqua e all’ombra, tese i muscoli e saltò. I cespugli di sakaki frusciavano appena al suo passaggio. Non sapeva esattamente dove dirigersi, ma l’importante era non tornare indietro, di quello ne era certo. Sesshomaru non avrebbe mai ripreso la direzione dell’ovest con il rischio di esser fiutato; e nemmeno a sud era possibile. C’era ancora l’esercito di Shin-sama accampato nei territori del Kansai. Se suo fratello voleva passare inosservato, come era ovvio, non si sarebbe mai diretto verso meridione. No. L’istinto gli diceva di continuare verso Est. Solo verso Est. Non sapeva perché, ma qualcosa dentro, nel cuore, nella testa, o in qualunque cosa avesse, gli diceva di correre verso Est. Solo in quel modo avrebbe potuto ritrovarlo.

Per istinto. Come era stato l’istinto a spingerlo nella stanza di sua madre senza sapere esattamente perché. Prima che altri gli dicessero qualcosa; prima che quelli che aveva chiamato zii lo cacciassero e cercassero di ucciderlo. Prima che quello che era stato suo nonno lo afferrasse per i capelli e gli facesse luccicare davanti agli occhi una katana; chiamandolo bastardo, chiamandolo figlio dei demoni.

 

Inuyasha contrasse la mascella in un ringhio sordo in gola. Era stata la prima volta. La prima volta che i suoi artigli aveva ferito; la prima volta che aveva sentito una forza selvaggia, calda, invaderlo, i rumori trasmettersi nitidi ai suoi sensi, gli occhi vedere le lame, le mani, i pugni una frazione di secondo prima di sentirli sulla pelle. La prima volta che i suoi movimenti si erano fatti veloci e precisi, quasi felini; mentre gli occhi terrorizzati continuavano a fissare quell’uomo che aveva chiamato nonno. Quell’uomo a terra che si contorceva dal dolore stringendosi un polso e cercando di arginare il sangue. La prima volta che aveva sentito l’odore del sangue, del sangue di un suo parente, bagnargli la pelle, imprimersi negli artigli e nel cervello, assieme alla sensazione spaventosa, un misto di paura, gioia, terrore e compiacimento, nell’avvertire la pelle lacerarsi, l’osso spezzarsi con un schiocco secco e l’ostacolo che gli impediva di fuggire venir infranto con rabbia cieca.

 

Imprecò fra i denti e si flettè le ginocchia. Avrebbe fatto prima saltando di ramo in ramo; la foresta era troppo fitta, e lui non aveva tempo da perdere nel cercare di aprirsi un varco. Non sapeva esattamente dove fosse; non si era preoccupato di annotare mentalmente la direzione che prendeva, di incidere un qualche segno per ritrovare la strada. Il fiuto lo avrebbe riportato sempre a Musashi, e da lì non sarebbe stato un problema ritornare a palazzo. Da solo ci avrebbe messo al massimo due giorni. Coprire quella distanza non era affatto impossibile per lui, se tagliava diritto e non si faceva distrarre. Ma non era quello che voleva. Tornare, certo. Ma non da solo. Tornare con lui, anche per esser costretto subito dopo ad andarsene. Il tempo era scaduto, lo sapeva bene. La guerra aveva ancora qualche strascico, ma ormai non poteva più considera in corso; Sesshomaru aveva miracolosamente recuperato la vista, e anche se nessuna riusciva a trovare una spiegazione logica per quanto avvenuto, era palese che a quel punto la sua presenza a palazzo era totalmente inutile. Spezzò un ramo basso che gli aveva strisciato il volto. Non gli interessava restare nella casa di suo padre; lo sapeva fin dall’inizio, fin da quando aveva accettato di seguire Alessandra, che sarebbe stata solo una situazione temporanea. Labile. Si era adagiato in quella realtà instabile e indefinita, lasciandosi cullare dalle sensazioni nuove che ne aveva ricevuto. La vicinanza con demoni che non lo disprezzavano per ciò che era, come Koga e soprattutto Kumamoto; gli squarci sul passato di suo padre, sul suo temperamento acceso e ironico, capace di infiammarsi per una sciocchezza e altrettanto abile nel mantenere la freddezza lucida e analitica di un sovrano. Il cozzare di convinzioni certe e di dubbi insinuati e lasciati lì, a maturare. Senza spiegazioni esaurienti. La consapevolezza di non esser più, davvero, solo, di aver trovato amici che sono pronti a sfidarti perché ti vogliono bene. In quei mesi aveva scoperto una realtà diversa da quella che aveva sempre visto o che si era rifiutato di vedere.

 

E poi, c’erano loro. Il legame con Alessandra; nato lentamente in una tenda da campo, sbirciando un volto umano troppo serio e controllato per essere vero. Scoprire una ragazza fragile e insicura, costretta a reggere le occhiate accusatrici e maliziose della corte; obbligata a frenare e calibrare ogni gesto per evitare dicerie e tensioni. Si era chiesto mille volte perché. Perché una ragazza dello stesso mondo di Kagome, una ragazza che di certo era abituata a un’altra vita, ad altre regole, che non era per nulla abituata alla scarsa considerazione di cui erano oggetto le donne nella sua epoca, accettasse tutto quello. Perché piegasse la testa e soffocasse i singhiozzi quando i guaritori la schernivano con malcelata ironia. Offese pesanti, a volte. Molto pesanti. E Alessandra si limitava a un sorriso leggero, strano, quasi inquietante. Un sorriso troppo tranquillo per esser naturale e spontaneo. L’aveva trovata più volte nella zona del grande padiglione che le era riservata, mentre di affaccendava inutilmente attorno al suo tavolo. Senza riuscire a concludere nulla; provette rovesciate e mani tremanti. Di rabbia o di tristezza. E lui fermo dietro il paravento improvvisato, a sbirciarla mentre sbatteva i pungi sul tavolo, mentre le spalle si stringevano e incurvavano prima di tornare dritte e ferme. Falsamente sicure e composte. Fermo a spiarla per cogliere delle lacrime che non ha mai visto, confuse con l’acqua con cui si lavava il viso per cancellare i segni della rabbia, della frustrazione e dell’umiliazione.

 

Aveva imparato a conoscere Alessandra e soprattutto a riconoscere la sua maschera di perfezione. Bugiarda, ma perfetta. Capace di gettare fumo negli occhi alla corte youkai, troppo inesperta di comportamenti umani e troppo assuefatta alla sua superiorità per riuscire a concepire che un ningen fosse qualcos’altro oltre a istinto animale. Inuyasha si concesse un sorriso quasi divertito. Anche gli youkai sono mossi dall’istinto; eppure accusano i ningen di esserne schiavi. Certi ragionamenti non riusciva a seguirli del tutto, forse in virtù del fatto che possedeva entrambe le nature, anche se incomplete. Conosceva per esperienza diretta l’istinto irrazionale e violento dei ningen: ti travolge come un fiume in piena, sottraendo qualsiasi capacità di discernimento, portando gli uomini a seguire una pulsione anche improvvisa senza soppesare le azioni e soprattutto le conseguenze. Per gli youkai è diverso: loro sono istinto al grado più alto. Pulsione irrazionale controllata dall’abitudine a calibrare ogni più piccola azione. Non tutti, certamente. Alcuni oni e soprattutto i demoni di infimo livello sono preda delle pulsioni al pari dei ningen. Ma youkai maggiori, come suo padre e suo fratello, loro sono capaci di frenare razionalmente l’istinto trasformandolo in qualcosa che è insieme passione violenta e lucida razionalità. Qualcosa che non si può nemmeno pretendere di capire, almeno di non provarla a propria volta. E Inuyasha ricordava quelle sensazioni, anche se distorte. Quando il suo sangue demoniaco prendeva il sopravvento, c’era un momento, un brevissimo, labile, inconsistente momento, in cui non era più un hanyou e non era ancora un mostro senza intelletto. Soltanto uno youkai. Perfetto, puro, completo. Con le strisce viola regolari, i canini appena più pronunciati del normale, i sensi più fini e i capelli serici e lucenti. Con gli artigli leggermente più acuminati senza esser ancora complete. In quei brevissimi secondi, avvertiva qualcosa. Qualcosa che non sapeva e non avrebbe mai saputo definire, ma che c’era. Una altro modo di percepire, di sentire. E non solo il mondo, non la semplice realtà che lo circondava. La percezione di se stesso, della sua essenza. Era quella che mutava. Totalmente. Strinse gli occhi. Era sempre stato tutto troppo maledettamente veloce. Non era mai riuscito a controllare quelle emozioni; il primo pensiero, poi, era sempre stato quello di dominare il sangue, riprendere il controllo e tornare indietro. Prima di trasformarsi, prima di perdere il proprio ego. Prima.

 

Si fermò su un ramo pulendosi con il dorso della mano il sudore che colava dal viso. Voltandosi indietro. Da qualche parte, a Ovest, oltre la foresta che stava attraversando, verso il contorno azzurrognolo delle montagne, c’era il palazzo. E nel palazzo i suoi amici, Kagome e Alessandra. Strinse il pugno contro la corteccia dell’albero. Se ne era andato appena avuta la conferma che Alessandra aveva ripreso conoscenza e che era fuori pericolo. Pochi minuti di veglia, in un’alba uguale alle altre, e che si era trasformata in un momento capace di render loro di nuovo il respiro. Yaone gli aveva confermato con quel sorriso orgoglioso che era fuori pericolo; il decorso sarebbe stato ancora lungo, ma la ferita era ormai cicatrizzata all’interno. Alessandra sarebbe sopravvissuto. Alessandra sarebbe tornata a vivere.

Inuyasha imprecò fra i denti, alzando una mano per ripararsi dal sole troppo forte. Non si era accorto di aver attraversato tutta la foresta. Si accucciò automaticamente fra i cespugli al limitare del cerchio d’ombra e spiò la vallata che gli si apriva davanti. Sembrava tranquilla, quasi monotona. In lontananza, credeva di scorgere il cratere grigio viola del Fuji; era quasi arrivato a Musashi. Procedendo ancora verso Est, nel giro di un giorno e mezzo al massimo sarebbe arrivato al villaggio. Si alzò e chiuse gli occhi, respirando lentamente l’aria pesante. Cercava una traccia, un odore anche solo appena accennato. Il fatto che l’erba non fosse piegata, ma compatta non significava niente. Suo fratello poteva esser passato da giorni, o semplicemente aver volato. Per spostarsi velocemente, Sesshomaru disponeva di varie risorse. Inuyasha si concesse un sorrisino storto. Benchè fosse un demone puro e potente, anche Sesshomaru aveva riportato gravi ferite durante la battaglia e per quanto il suo corpo demoniaco impiegasse poco tempo a rimarginarle, non poteva bastargli poco più di una settimana a restituirgli tutto le forze che la fatica, l’adrenalina e il sangue gli avevano sottratto. Anche se fosse stato in grado di ricorrere appieno a tutte le sue capacità, non avrebbe potuto reggere ancora una sforzo eccessivo. Ne era certo. Voleva esserne certo. Era l’ultimo brandello di speranza che gli restava; l’unica possibilità cui aggrapparsi per convincersi di poterlo ritrovare.

 

Schiaffeggiò la gamba in un gesto esasperato. Non lo sentiva. Non riusciva a sentirlo. Il vento non portava nessun odore, nessuna traccia. In quel momento, rimpianse di essersi messo a litigare con Koga per impedirgli di seguirlo. Se l’ookami lo avesse accompagnato, avrebbero potuto battere un territorio più vasto e nel dubbio dividersi per non escludere alcuna possibilità. No, invece. Aveva sbraitato e insultato in ogni modo pur di convincerlo a rimanere a palazzo; tirando fuori le scuse più assurde e cadendo e ricadendo nelle sue stesse parole. Per fortuna che Koga non ci aveva fatto troppa attenzione, preso anche lui dalla foga del discorso. Mosse istintivamente le orecchiette. Aveva sentito qualcosa. Qualcosa di poco chiaro. Tese i muscoli e fece scivolare la mano verso l’elsa della katana. Ancora nessun odore.

 

Se non fosse stato per l’intervento di Ayame, Inuyasha sapeva che avrebbe perso ancora mezza giornata a discutere. Dannazione! Anche Koga aveva le sue ragioni a volerlo seguire: restare a palazzo era una vera tortura per lui, ma non era quella l’occasione per evadere. Inuyasha era fermamente determinato a ritrovare suo fratello e a trascinarlo indietro. Questo era certo. E per farlo doveva esser solo. Doveva decidersi a parlar chiaro con lui come aveva parlato ad Alessandra. Tentennare e cincischiare era inutile, controproducente, dannoso e soprattutto non era da lui. Ma ammetteva che era spaventato. Non tanto da suo fratello; erano anni che aveva imparato a non temere Sesshomaru. A obbligarsi a non doverlo temere. Per dimostragli, senza un vero perché, che non aveva tutti i diritti di disprezzarlo solo per il suo sangue misto. Non temeva un discorso con lui; che si fosse risolto in una semplice conversazione o in un vero e proprio scontro. Temeva l’argomento da affrontare: Alessandra.

 

Fletté le ginocchia e fece scattare gli artigli. C’era qualcuno. C’era davvero qualcuno. E scivolava fra l’erba alta smuovendola appena. Un demone forse, o più semplicemente un serpente. Fiutò l’aria e rilassò i muscoli. Il musetto tremante di un leprotto si affacciò fra l’erba. Occhi grandi e orecchie in continuo movimento. Inuyasha distese la mano per colpire. Mangiare carne cruda non lo entusiasmava, ma non aveva tempo di accendere un fuoco e cucinare quella preda in modo decente. Pazienza. Si sarebbe accontentato di mettere qualcosa nello stomaco.

Il leprotto di acquattò fra le graminacee e continuava a fissarlo. Indeciso se scappare o restare. Inuyasha incurvò appena le dita e ruotò leggermente l’avambraccio. Tre, due, uno…Il vento gli solleticò il naso, e lo fece voltare verso nord-est di scatto. Odore di demone. Di inuyoukai. Cercò di afferrare meglio la sensazione, ma era stata troppo veloce. E troppo fievole. Rilassò la mano e scrollò le spalle, rimettendosi a correre. Lo stomaco avrebbe aspettato. Non era certo che potesse trattarsi di Sesshomaru, ma il suo naso non poteva sbagliarsi: odore di inuyoukai.

 

Inuyasha forzò l’andatura, realizzando con un brivido che si stava dirigendo proprio verso Musashi. Iniziava a riconoscere alcune pietre; il vecchio mulino abbandonato a un giorno di cammino dal villaggio. Allungò il collo respirando con urgenza. Niente. Non c’era odore di sangue nell’aria. Il villaggio non era stato attaccato. Masticò l’interno della guancia e saltò oltre il piccolo torrente. Non era normale. Sesshomaru evitava accuratamente il contatto con i ningen. Non aveva senso che si dirigesse verso un villaggio, ammesso che non avesse un motivo più che valido. Eppure, in quel momento, Inuyasha non riusciva a trovare una spiegazione logica al possibile agire di suo fratello.

Inghiottì saliva e gli balenò per la mente il sospetto che, se se lo fosse ritrovato davanti, non avrebbe saputo esattamente cosa dirgli. Come fare a convincerlo a tornare. Kami! Motivi ne aveva finchè ne voleva, ma in quel momento, mentre imprecava contro le gambe che ormai stavano iniziando a rallentare contro sua volontà, si domandò se Sesshomaru lo avrebbe ascoltato e soprattutto se lui sarebbe riuscito a convincerlo. Ridotto in quello stato, grondante sudore e con il fiato corto, ingaggiare un duello era una condanna a morte.

 

Scosse la testa. Energicamente. Anche quando aveva abbattuto le shoji degli appartamenti del fratello non era al massimo della forma, ma l’adrenalina e la rabbia erano state tali da fargli dimenticare ogni altra cosa. Alessandra stava male, era peggiorata all’improvviso, il sangue le impediva di respirare e davvero quella volta, avrebbe potuto rischiare di non superare la notte. E Sesshomaru se ne stava comodamente seduto nelle sue stanza. Inuyasha era giunto al limite della sopportazione e se ne era fregato che suo fratello avrebbe potuto sfoderare la spada, che le guardie a palazzo avrebbero potuto soverchiarlo facilmente. Se ne era fregato di tutto e aveva iniziato a picchiare sul telaio delle porte e a urlare. Fino a prendere le shoji a spallate e scardinarle; precipitarsi lungo le scale e spalancare la fusuma della camera da letto di Sesshomaru. E trovare il vuoto. Il futon ripiegato in un angolo, quello che avanzava della corazza di suo fratello disseminato sul tatami e le vesti lacere e insanguinate che aveva indossato il giorno della battaglia abbandonate davanti al fukurodana. Tokijin riposava tranquillamente al suo posto sul katanakake.

 

Nessuno si era accorto che il Principe aveva lasciato i suoi appartamenti; nessuno sapeva da quanto e perché. Inuyasha era rimasto lì per tutta la notte, seduto accanto alla mado a fissare le shoji della stanza di Alessandra. La tremula fiammella che definiva appena le ombre di Yaone e Homoe. Era da quella finestra che era saltato all’alba, con il cuore in gola e un sudore freddo a bagnargli la fronte. Spalancando le shoji e lasciandosi cadere a terra lungo il telaio mentre le parole di Yaone rimbombavano nella sua testa: Alessandra aveva passato al notte e anche se per poco aveva ripreso conoscenza. Poteva farcela. Poteva ancora farcela.

E Sesshomaru non c’era. Inuyasha imprecò e si protesse il viso con le braccia; si lasciò rotolare malamente lungo il pendio, sbattere contro i sassi che affiorano dal terreno e finire nel torrente. Disteso per metà sul greto sassoso e con la faccia al cielo che va arrossandosi. Il respiro pesante e affaticato e il corpo pressoché inesistente. Le gambe avevano ceduto all’improvviso dopo l’ennesimo balzo, facendogli perdere l’equilibrio e lasciandolo rotolare sull’erba alta e leggermente bagnata, scivolosa. E adesso era lì: faccia al cielo e mormorio dell’acqua nelle orecchie. Incapace di capire quale parte del corpo fosse per terra e quale in acqua. Se avesse qualche osso rotto o solo un po’ di ammaccature ed ematomi.

 

Aveva deciso di andare a cercare suo fratello; così. Quella mattina, vedendo il volto pallido di Alessandra e la speranza che guarisse riaprigli il cuore, aveva deciso che Sesshomaru sarebbe stato lì, quando la ragazza si sarebbe alzata da quel futon. Sarebbe stato lì che lo volesse o no. Anche solo per un’occhiata indifferente. Anche solo per un insulto rivolto a lui e un sopracciglio alzato verso la debolezza umana della ragazza. Per qualsiasi cosa, ma sarebbe stato lì. Non si aspettava che le prendesse la mano e le restasse accanto, ma nemmeno che se ne disinteressasse in quel modo. Era in collera con lei perché gli aveva disobbedito e aveva lasciato il palazzo? Era arrabbiato con se stesso perché non aveva potuto battere Morigawa? Benissimo! Per qualsiasi stramaledetto motivo fosse arrabbiato, Inuyasha aveva deciso che primo lo avrebbe fatto sfogare, e poi lo avrebbe trascinato indietro volente o nolente. E non ci pensasse nemmeno a far la predica ad Alessandra. Lei aveva agito in modo avventato, poteva concederlo, ma la colpa era anche di Sesshomaru e sua. Sua che non aveva saputo proteggerla, e di suo fratello che si era messo in una situazione tale per cui era normale che la donna che ti ama sia in preda al panico e all’angoscia.

Voleva proprio rimproverarla? Libero di farlo. Ma dopo. Quando Alessandra fosse stata bene; quando si fosse accorta che lui era lì al suo fianco e lei non rischiava più di tossire sangue. Dopo. Dopo avrebbe potuto dirle tutto quello che gli passava per la testa. E comunque avrebbe dovuto stare attento a non esagerare. Inuyasha sapeva che suo fratello era capace di ferire con la lingua in modo più preciso e doloroso che con la spada. E se lui era ormai avvezzo a quel comportamento, Alessandra avrebbe potuto reagire male. Troppo male.

 

Fece forza sui gomiti e riuscì a sedersi. La testa gli girava un po’ e aveva una fortissima nausea. Riguadagnò con fatica la posizione eretta e barcollò un po’ prima di trovarsi piegato sulle ginocchia. Una mano alla bocca a reprimere un conato. Immerse la testa nell’acqua per scacciare tutte le fastidiose lucine che gli appannavano la vista. Lo stomaco gorgogliava e continuava a mandargli crampi affamati. Maledizione, maledizione, maledizione! In quella settimana si era nutrito poco, e adesso aveva chiesto al suo corpo uno sforzo eccessivo e troppo prolungato. E pensare che poteva essere a pochi passi da suo fratello. Pensare che avrebbe potuto vederlo, avvolto dal tenue alone luminoso che lo contraddistingue, che lo lascia scorgere anche nel buio della notte. Cercò di nuovo di alzarsi in piedi, ma riuscì solo a mettersi seduto. Le forze stavano lentamente scivolando via; la testa sempre più pesante e la bocca secca. Strinse il saya. Se fosse svenuto, la barriere della spada lo avrebbe protetto per un po’. Ma gli faceva rabbia l’idea di esser bloccato lì, sul greto di quel torrente, troppo stanco per muovere anche solo un passo.

Un fruscio arrivò appena al suo udito. Assieme al riverbero rosso di una fiaccola. Strinse i denti e cercò di appiattirsi contro una roccia. Se erano ningen, forse non lo avrebbero visto e se ne sarebbero andati. Probabilmente c’era un villaggio nelle vicinanze.

Demoni era poco probabile, e soprattutto non era Sesshomaru.

Si tolse lentamente il kariginu e vi avvolse una pietra. Avrebbe creato un diversivo e avrebbe colto alle spalle chiunque fosse. Non aveva né la forza né la voglia di doverli uccidere; sarebbe bastato spaventarli un po’. Fino all’alba si sarebbero tenuti a debita distanza e lui avrebbe potuto riposare tranquillamente.

Fece scattare gli artigli e concentrò le ultimissime energie rimastegli per saltare. Un bello spavento e via, non ci avrebbe più pensato. Scattò.

 

“Inuyasha!”

 

 

 

*****

 

 

 

Non credeva che sarebbe arrivato fin lì.

Quando aveva lasciato il palazzo, l’unico pensiero che gli aveva attraversato la mente era stato quello di mettere più distanza possibile fra lui e quelle maledette mura. Fra lui e Alessandra. Era sgattaiolato oltre il muro di cinta guardingo e silenzioso, affidandosi all’innata leggerezza nei movimenti e confidando nella perfetta conoscenza di ogni centimetro di quel luogo. Era stato estremamente facile eludere le sentinelle di ronda, attraversare la cerchia interna, quello che restava dei giardini nascondendosi nell’ombra delle nuvole che si ammassavano dense e nere in cielo, scavalcare la recinzione esterna con un balzo agile e poi correre. Correre senza pensare alla direzione e a calibrare lo sforzo. Correre e basta. Per sentire l’aria insinuarsi nel kimono, sferzare il volto e sollevare i capelli. Sentire i muscoli protestare leggermente per la lunga inattività cui li aveva costretti, i tendini tirare quasi in modo impercettibile, ma costante. Fastidioso. Le gambe molli rafforzarsi sempre di più, per ostinato desiderio di non fermarsi, di vincere quell’ombra di sforzo che per un attimo, all’inizio, gli aveva inumidito la fronte. I passi attutiti appena dall’erba e il ritmico, cadenzato tintinnio di Tenseiga al fianco. Correre nella notte che si andava sempre più scurendo, infilandosi in banchi di nuvole basse e scure e uscirne appena inumidito. Correre mentre l’acqua si rovesciava sul suo corpo, cancellando ogni traccia del suo odore e il segno del suo passaggio. Inoltrarsi nelle foreste di bambù con un fruscio leggerissimo di vento, compiacendosi del silenzio naturale che non si interrompeva al suo passaggio veloce. Senza pensare al sole che acceca e fa assottigliare gli occhi, che appesantisce il giorno e rende gravoso il respiro. Solo correre. Correre. Correre.

 

E finalmente fermarsi senza il coraggio di voltarsi. Senza la forza e la voglia di afferrare la consapevolezza di dover tornare. Eppure, resta lì. Racchiusa in un nodo alla gola che non va né su né giù. Attorcigliata a mille altri pensieri che si riversano di nuovo violenti. Riprendere il cammino con passo sicuro e calibrato; un piede davanti all’altro nell’aria immobile e arroventata dell’estate, tenendosi ai margini di ogni possibile centro abitato, evitando qualsiasi contatto anche solo lontanamente visivo o olfattivo con i ningen. Permettendo al debole riflesso della sua youki di avvolgerlo nella notte, rendendolo affascinante e terribile. Un ignoto bagliore che si irradia nel buio, monito a chiunque.

Fermarsi e accorgersi che non è cambiato nulla. Che è come esser chiusi in quella stanza. Con gli occhi fissi sull’engawa poco distante. Fissi su shoji appena rischiarate dal tremore di una candela o spalancate per permettere all’aria di rinfrescare quella stanza e portarsi via l’odore di medicinali ed erbe. Gli occhi fissi su quel futon; sulla ragazza in quel futon. E risentirne il respiro strozzato nelle orecchie, i colpi di tosse e il sangue che gorgoglia nel respiro. Riavvertire il suo corpo sotto le mani, la pelle scivolare viscida per il sangue e il sudore; capelli attorcigliarsi in nodi attorno alle dita, impigliarsi crespi e disordinati agli artigli. E poi l’odore. Odore di ningen, di donna, di essere umano. Di carne che si sta abbandonando, di carne che pulsa sangue e si bagna di sudore. Odore appena amarognolo, di eccitazione e di paura. Mescolato a quello dell’acqua. A un odore che lui si ostinava a identificare con l’acqua. Quella fredda delle sorgenti più alte, quella che scorre dai ghiacciai delle montagne.

 

Correre per scoprire di essere ancora lì. Con gli stessi pensieri e la stessa confusione. E la sensazione di non potersi fermare. Di non avere risposte e non sapere dove cercarle. Se davvero si vuole cercarle. O se sarebbe meglio ignorare ogni cosa. Soffocare qualsiasi cosa sia iniziata, quello che lui ha permesso iniziasse. Strappare quella maschera di falsa perfezione e scoprire le carte. Accettare davvero quello che è e comportarsi di conseguenza. Disinteressandosene. Ascoltare la ragione lucida e razionale, ascoltare il suo cervello ripetergli che non può compromettersi, non deve farlo. Soffocare l’umiliazione di essersi già esposto troppo per una umana. Per una semplice, patetica, insignificante ningen. Accettare, archiviare, dimenticare. Cancellare. Cancellare il suo volto, la sua voce, il suo odore. Le sue mani che accarezzano il suo corpo, la bocca seducente gonfia e tumida, assetata di un qualcosa che non ha un nome preciso. Lussuria o desiderio. Desiderio di carne, e di provare un piacere che è degenerante. Di soffocare quella sensazione irritante che gli brucia nel petto, nel ventre, nel corpo. Che infiamma ogni frammento della sua pelle e gli sembra farlo impazzire. Incendiare ogni atomo del suo essere freddo con una scarica violenta e sbagliata. Maledettamente sbagliata.

 

È un demone.

E i demoni non sanno amare. Non conoscono i sentimenti. Non i sentimenti umani. Sono altri i sentimenti che li muovono. Diversa la rabbia, il furore, la gioia, il desiderio. Diverso anche il modo di amare, di recepire l’amore. Sempre se poteva usare quella parola. I ningen hanno bisogno di parole per spiegarsi. Lui no. I ningen necessitano sempre di avere chiarezze, di etichettare ogni cosa in modo chiaro. Lui no. Lui conosce perfettamente il suo essere, la completezza totale e perfetta che gli è propria. Non gli servono parole o etichette per definire i suoi pensieri. Un flusso continuo e perfettamente lucido, mosso da un istinto che è insieme selvaggia ferinità e totale autocontrollo. Onnipresente dominio del proprio io. Consapevolezza di ogni più piccolo centro nervoso come della totalità della propria essenza. Non servono le parole per comunicare una consapevolezza che fra gli youkai è innata. Capaci di leggerla nell’odore, nell’inclinazione della testa, nell’intensità dello sguardo, nel baluginare delle zanne.

 

Uno youkai non può amare. Almeno non può amare come un ningen. Anche se non sa cosa significhi. Sa solo che è diverso. Profondamente, totalmente, necessariamente diverso. L’uomo tradisce. Anche in amore. Non riesce a essere chiaro nemmeno in quello. Brama, desidera, possiede mascherandosi dietro parole false e promesse fugaci. Illudendosi di vincere la forza del tempo partorendo una progenie che tramandi una memoria. Una effimera, labile, inutile memoria. Secondo un ragionamento degno di uno stupido. Di un essere inferiore che non ha percepito nemmeno un barlume dell’essenza del mondo e dell’infinito. Un essere che pretende di governare e soggiogare ed ignora gli infiniti, atavici, immensi equilibri che reggono la sua stessa vita. Lui no. Lui li conosce. Ad uno ad uno. Ha imparato con il tempo a discernerne i fili invisibili, le trame di una tela che si limita a tessersi attorno a lui. Senza coinvolgerlo. Senza il diritto di toccarlo e coinvolgerlo. Demoni e ningen condividono lo stesso piano d’azione; solo quello. Non sono uguali. Nemmeno per come calcano la terra. Lui percepisce il respiro antico della terra; conosce la voce degli alberi e i silenzi del cielo; lui appartiene a quella schiatta che ha popolato la terra agli albori della sua origine, quando gli uomini ancora non erano e gli dei più non si curavano del mondo da loro creato. Lui e la sua stirpe pura, fedeli a se stessi, pari alle divinità. Divinità a propria volta. Loro. Gli unici fra i demoni a poter ambire a quella condizione assoluta. Di perfezione totale, ancora più completa ed esaustiva di quella che già è loro propria.

 

Sesshomaru socchiuse appena gli occhi reclinando la testa. Era perfettamente conscio di tutto quello. Ogni sillaba di quel ragionamento era prodotto della sua mente; lucido e razionale calcolo della sua essenza e della sua stessa natura. La consapevolezza di esser mosso da un insieme di elementi che i ningen forse avrebbero chiamato sentimenti, con una parola che lo inorridiva. Lui non provava sentimenti; lo aveva sperimentato e glielo avevano insegnato. Era diverso. Né migliore né peggiore. Solo diverso. Sarebbe stato impossibile da spiegare; lui stesso ne aveva consapevolezza, ma non avrebbe mai potuto mutarla in parole. Se ne era drammaticamente accorto. Non riusciva a concretizzare in nulla quel rimescolio che piano piano era cresciuto dentro di lui. Verso Alessandra. Il massimo cui era riuscito a spingersi era stata quella parola: importante.

 

All’inizio aveva pensato che fosse l’orgoglio, la sua atavica abitudine a rifiutare tutto ciò che è anche vagamente umano a spingerlo a non soffermarsi su quel pensiero. A ignorare Alessandra e il legame che si stava a poco a poco formando. Forte o debole che possa essere. Aveva accampato la scusa della guerra, degli impegni militari e la priorità di trovarsi con le spalle coperte prima di affrontare quel discorso. Con lei e con se stesso. E invece, erano tutte scuse. Tutte solo grandissime menzogne che accatastava le une sulle altre. Con inconscia necessità e una consapevolezza che volutamente ignorava. Perché il difficile non era analizzare quelle sensazioni, ma doverle tradurre in forma umana. Dover dare loro un nome. Sospirò e si sedette lentamente contro il tronco del salice. Aveva un nome quello che stava provando? Se lo era chiesto continuamente e, alla fine, si era adagiato nell’indefinito. Aveva usato ogni possibile mezzo per non dover cercare di concretizzare i suoi pensieri. E Alessandra aveva contribuito, pur se inconsciamente, a rafforzare quella situazione di indefinitezza.

 

Sesshomaru accarezzò la stoffa degli hakama, allargò gli artigli lungo la coscia e abbandonò mollemente la mano sul vertice del ginocchio. Quattro giorni di corsa ininterrotta lo avevano sfinito più di quanto volesse ammettere. Precisando meglio, quattro giorni di corsa ininterrotta continuando a pensare e rimuginare lo avevano sfinito. Assieme a quella parola che continuava a rimbombare nella testa: umana. Umana. Umana. Accompagnata ossessivamente dalla solita domanda: perché? Perché non se ne era accorto prima? Perché non aveva afferrato prima il vero, autentico significato della condizione della ragazza? Lo aveva volutamente ignorato per un motivo che non riusciva più a discernere o semplicemente non lo aveva mai concretizzato?

Il vento leggero del tardo pomeriggio increspò le acqua del laghetto. Sesshomaru si lasciò lambire appena da alcuni rami del salice. Sarebbe bastato poco per avere una risposta; sarebbe bastato ricorrere a quell’antico potere. Chiedere per ottenere, per sapere. Troppo facile, però. Abbassarsi a chiedere spiegazioni non appartiene al Principe. Soprattutto se le spiegazioni incidono sulla sua razionalità.

 

Tastò in un gesto inconscio la spalla destra. La ferita era completamente rimarginata e quei quattro giorni di sforzo fisico avevano contribuito a restituire al suo corpo elasticità e forza. Arricciò appena le labbra percependo il suo stesso odore. Mischiato a quello ferino che gli era proprio ce n’era un altro, totalmente estraneo. Diverso. Odore di sangue e sudore. Odore di umano. Di Alessandra.

Aveva cambiato il kimono ma quell’odore era ancora lì. Sulla sua pelle, nei suoi capelli. Assieme al sangue che doveva imbrattargli la pelle candida. Sangue suo e di altri: di Morigawa, di demoni, di Alessandra.

 

Poggiò distrattamente Tenseiga al tronco e si liberò con un gesto secco dell’obi e del kimono. Quasi con urgenza. Come avvertendo la necessità di liberare il suo corpo da ogni altro odore che non fosse il suo proprio. Si immerse nel laghetto finchè l’acqua non gli abbracciò i fianchi. Doveva essere fresca, eppure il suo corpo non percepiva nulla. Appena un formicolio fastidioso. Si immerse completamente prendendo un lungo respiro. Lasciando che il copro affondasse e i sensi venissero ovattati dalla pressione dell’acqua. Aveva bisogno di azzerare ogni pensiero e ricominciare. Riformulare ogni istante, ripercorrere passo passo il cammino che lo aveva portato a desiderare Alessandra nel letto. Senza quasi accorgersene. Ripetere tutto. Con mente fredda e lucida. Senza lasciarsi andare a quei rimescolii interiori che erano solo controproducenti seccature. Aveva bisogno di capire veramente, perfettamente, cosa rappresentava per lui quella ragazza. Perché il saperla fra la vita e la morte, lo scoprirla veramente umana gli avesse provocato una simile reazione. Cosa bramasse il suo corpo e se davvero era solo un semplice desiderio della carne o c’era altro. Non negava a se stesso che avrebbe potuto andare oltre. Oltre ad un interesse puramente fisico che prima non aveva mai provato.

 

Alessandra avrebbe potuto essere solo la scintilla. Il pretesto per il suo cervello di risvegliare il desiderio del suo corpo, di ricordargli la necessità di unirsi ad una femmina e generare un erede. Un desiderio puramente istintivo, di sopravvivenza. Esploso così, per ancestrale abitudine. Sesshomaru aveva imparato a convivere con il suo corpo, a conoscerne ogni più piccolo particolare, dalla forza potente e innata al letale veleno che scorre nelle vene. La forza ferina della sua forma animale e la devastazione della sua furia cieca lasciata libera. Aveva imparato a far convergere corpo e mente nella medesima direzione, unendoli in un unico intento di…sì, avrebbe potuto chiamarlo spirito. Un armonizzarsi perfetto di mente e azione, per controllare ancora giovanissimo ogni stimolo e ogni istinto. Ma aveva anche imparato che, a volte, era il suo corpo ad avvertirlo di un cambiamento. Era stata una strana eccitazione ad attraversargli le vene, sottile e serpeggiante sotto la pelle, quando si era trasformato per la prima volta. Il suo corpo lo aveva avvertito di essere pronto. Che finalmente sarebbe riuscito a mutarsi nella sua forma completa. Ed era sempre stato il suo corpo a ricalibrare ogni sua caratteristica quando aveva perso il braccio sinistro. In un automatico, endemico sforzo di autoprotezione e conservazione. Sesshomaru era conscio della precisione istintiva, demoniaca, della sua mente; ma altrettanto era consapevole che il suo corpo segnava le fasi della sua esistenza. Per quanto lui cercasse di dominarlo, c’erano sensazioni e pulsioni che non poteva ignorare e sopprimere. E il desiderio di Alessandra, con suo immenso sconcerto, era uno di quelle.

 

Riemerse ormai da parecchi secondi in carenza d’ossigeno, le labbra leggermente esangui e un fremito impercettibile nel corpo. Si sentiva strano. Appoggiò il palmo della mano al pelo dell’acqua, sfiorando appena la superficie. Una carezza lentissima e sensuale. Come se avesse sotto gli artigli la pelle di una yasha o di una donna. Si reimmerse fino a quando l’acqua gli sfiorò le labbra, delicatamente e costantemente. Se socchiudeva la bocca, un labbro era immerso e l’altro accarezzato dall’aria. Lisciò con la lingua i denti acuminati e le labbra. Lentamente, come a ricercare una sensazione precisa. Il ricordo di un sapore capace di inebriargli il cervello e farlo fremere. Eppure, per quanto concentrasse la sua memoria, nemmeno il ricordo del sangue che macchia la pelle e la sua lingua che se ne nutre era capace di trasmettergli quell’eccitazione del corpo di Alessandra contro il suo, del calore delle sue forme e del solletico dei suoi capelli.

 

Pericoloso.

 

Non poteva continuare a girarci attorno: non avrebbe mai concluso nulla. Prese un respiro e getto indietro la testa. Va bene: il suo copro desiderava unirsi con una donna. Forse voleva semplicemente dirgli che era tempo che pensasse alla sua discendenza; forse erano solo le avvisaglie di un viscerale bisogno di assicurare la continuità alla sua stirpe. Probabilmente, così come era nato, si sarebbe estinto non appena appagato. Un semplice, futile, fastidioso bisogno di unirsi ad un corpo complementare al suo, di affidare il suo seme a qualcuno che lo avrebbe fatto crescere e avrebbe assicurato vita a loro inuyoukai. Una spiegazione logica: perfetta per motivare perché quel desiderio fosse esploso all’improvviso, prepotente e bruciante. La guerra lo aveva messo di fronte all’eventualità di poter morire, e con la morte era apparsa l’ombra di un vuoto. Sesshomaru realizzò con un fremito di angoscia e dolore di essere l’ultimo. L’ultimo erede della sua stirpe, l’ultimo discendente dei Signori dell’Ovest. Se lui fosse morto, tutto sarebbe morto. Consumato senza possibilità di ritorno, e il loro sangue puro e orgoglioso smarrito per sempre. Increspò le labbra in un sorriso che non era un sorriso. Suo padre avrebbe fatto bene a considera di più le conseguenze delle sue azioni. E invece, non solo non si era preoccupato di assicurare totalmente la discendenza con un altro figlio, ma quello che aveva generato era anche un bastardo. Un ibrido indegno del sangue che gli scorreva nelle vene, un essere che avrebbe dovuto solo strisciare per terra e invocare pietà, invece di fissarlo caparbiamente negli occhi e restituirgli colpo su colpo parole e offese.

 

Inuyasha.

 

Arricciò le labbra in un ringhio roco che si fermò in gola. Lo rivedeva zoppicare sull’engawa fino alla porta di Alessandra, sedersi lì e aspettare. Lo rivedeva cercare di domare Sounga con disperata caparbietà, impazzire e attaccare senza possibilità di controllo. Risentiva la sua voce chiamarlo con rabbia, con astio, con un fremito che non gli era proprio. Lo rivedeva nella tomba di loro padre vincere la barriera di Tessaiga, sottrargli la spada del guerriero, l’eredità che lui rivendicava per sé. Risentiva il suo urlo umano ed eccitato mentre la lama gli tagliava il braccio, la determinazione folle di quando gli aveva offerto la schiena pur di permettere al monaco e alla ragazza di mettersi al sicuro. Risentiva lo sconcerto avvertito nel percepire il suo sangue mutare, avvicinarsi all’odore del suo perdendo la sfumatura umana. Per un attimo, essere come il suo e poi diventare altro. Qualcosa che non è totalmente demoniaco, qualcosa che è troppo simile, e non è perfetto.

 

Serrò il pungo in un gesto frustrato. Se Inuyasha non fosse mai esistito. Se suo padre non avesse coltivato l’insana idea di salvare la sua amante umana e quel figlio bastardo. Se lui avesse fatto qualcosa per fermarlo, invece di voltare semplicemente le spalle. Per Inuyasha. Suo padre era morto per un lurido bastardo; aveva ignorato per anni lui e si era concentrato per pochi mesi su una donna umana e sul bambino che portava in grembo. In quei mesi, Sesshomaru aveva visto suo padre cambiare totalmente. Ridere con Kumamoto e improvvisare una battuta di caccia; diradare impegni e incombenze e sgattaiolare da palazzo o dall’accampamento come un ladro. Lo aveva sentito fantasticare di una famiglia con un cucciolo che ruzzola per casa, di urla che lo avrebbero svegliato nella notte e di lezioni di vita da impartire. Lo aveva sentito, e si era sentito abbandonato. Suo padre parlava di Inuyasha come di un figlio già vivo, aprendo e chiudendo le mani quasi lo avesse davvero in braccio. E ignorava lui. Si disinteressava della sua educazione, della sua crescita; dei progressi o delle difficoltà incontrate.

 

Se solo tu non fossi nato, Inuyasha.

 

Eppure, Sesshomaru si sorprese di altri ricordi. Si scoprì a ricercare quella sensazione strana, di tranquillità e sicurezza che lo aveva attraversato in quei mesi a palazzo; l’abitudine quasi necessaria degli scontri nel dojo fra una frecciata si scherno e la risata strana di suo fratello. Il bisogno di sapere dove fosse, cosa stesse facendo in ogni momento. La rabbia esplosa con la consapevolezza che lui fosse l’unico a potergli prestare aiuto durante la cecità. La schiettezza con cui lo trattava, con quel tono un po’ rozzo e sbrigativo, ma capace di incidere più della retorica inutile della corte. E poi, il vederlo lì, su quel campo di battaglia, esausto e allo stremo, ma con la spada ancora stretta in mano, alzata a difendere. Alessandra, e lui. Assieme alla consapevolezza di avergli accordato fiducia. Per istinto e necessità. Di avergli lasciato toccare Alessandra ed estrarre quell’arma. Di non averlo fermato nonostante gli spasimi della ragazza, fidandosi di lui, accettando lui e la sua presenza. Sempre. Accettando che corresse a due passi da lui mentre stringeva Alessandra fra le bracci in quella disperata ritirata; accondiscendendo quasi con sollievo a saperlo alle sue spalle mentre attraversava la piazza d’armi del palazzo.

 

Scosse debolmente la testa e si sdraiò sull’erba. Il cielo iniziava appena a sfumare in nero verso oriente. Stirò le braccia e si concesse quell’attimo di totale abbandono, con l’odore umido della terra nella testa: muschio, acqua, corteccia ed erba. Rilassò i muscoli e distese il collo; permise ai sensi di vagare e affievolirsi. Non c’era pericolo: nessun odore sospetto nell’aria né una qualche aura nelle vicinanze. Poteva ignorare per un istante il mondo circostante e concentrarsi solo sul suo respiro. Sulla sensazione di vertigine che il cuore e l’aria che appena lo lambiva gli davano. Come se cercasse di strappare la sua anima al corpo e liberarla in volo. Assaporò il fruscio tenue delle fronde e l’incresparsi silenzioso delle acqua. La calura si era attenuata e aprendo gli occhi si immerse nel cielo ormai scuro e pieno di stelle. Non avvertiva più il corpo nudo disteso sulla terra; non avvertiva più i pensieri assillargli la mente. Vedeva solo quel cielo e provava con tutto il suo essere a catapultarcisi dentro. A vincere la pesantezza che lo incatenava al suolo e salire fino a quelle stelle. Per comprendere meglio se stesso. Per discernere ancora di più le profondità della sua essenza.

 

In definitiva, la sua vita si consumava fra quei due poli: la ricerca costante del potere e della consapevolezza piena di sé. E più riusciva a cogliere la sua essenza autentica e divina, più la sua forza aumentava e la sua sicurezza rasentava l’assoluta cognizione degli dei. Non gli bastava mai; la consapevolezza della propria superiorità; l’indifferenza quasi annoiata con cui trattava chiunque non fosse alla sua altezza; lo sguardo sprezzante che riservava a chi, pateticamente, pretendeva troppo da se stesso pur non avendone le capacità: tutto quello non lo domava, non lo appagava appieno.

Sfiorò il viso, disegnando inconsciamente lo spicchio di luna in fronte. Qualcosa era cambiato. Ed era stato l’incontro con Alessandra a farlo mutare. Né maturare né indebolirsi. Solo mutare. Accorgersi che anche il suo corpo divino può desiderare qualcosa che non è solo potere; qualcosa che riesce a fargli infiammare il sangue nelle vene e disorientare la sua mente.

Eppure, Alessandra era solo una femmina umana. Una semplice e inutile femmine umana. Ma era arrivata dentro di lui. Così in profondità da ottenebrargli il cervello e riuscire a stimolare quella parte biologica e istintiva che credeva di aver dominato completamente.

 

C’era stata una volta. Una sola volta in cui aveva condiviso il suo letto. Seguendo un capriccio improvviso e privo di senso. Sfidando se stesso: provare, si era detto. Provare a vedere fino a che punto le arti di una yasha sono capaci di affascinarlo, fino a quando la sua razionalità sarebbe stata in grado di controllare l’istinto. Era bella, quella demone. Pelle ambrata, seni turgidi, ventre morbido. Bella e maliziosa mentre si sfilava il kimono nella luce prepotente del tardo pomeriggio e ancheggiava sinuosa e felina fino a lui. Bella e pericolosa. Con una bocca rossa e lucida che saggiava la sua pelle svelandola a poco a poco. Infilando le mani fra le pieghe della veste e assaggiando il suo petto, la sua muscolatura ancora giovane.

L’aveva amata. L’aveva amata in quel pomeriggio che andava declinando, fissando un elaborato ricamo del suo haori abbandonato per terra; ignorando il corpo che gemeva e si dimenava sotto di lui; ritornando con la mente alla strada percorsa fino a quel momento e chiedendosi ancora quanta dovesse frane. L’aveva amata senza degnarla di una parola, di uno sguardo, di un gemito; per lasciarla ansimante e nuda sul tatami di quella stanza. Una stanza che non ha pareti, suppellettili, mobili o altro nella sua mente. Una stanza che affacciava su un giardino con un maggiociondolo fiorito. Non era più andato. L’aveva dimenticata e aveva, in seguito, evitato qualsiasi contatto femminile. Non gli interessava. Non gli suscitava niente: attrazione o repulsione che potesse essere.

 

Ho baciato te per prima.

 

Sesshomaru sfiorò le labbra in un movimento fugace. Quasi con stizza e disappunto. Per poi tornare a definire con gli artigli il contorno. Labbra sottili e fredde. Tutto il suo corpo era freddo. E anche in quello era diverso da Alessandra. Il corpo della ragazza si gela nel vento o nella neve, rattrappisce a contatto con l’acqua. Ha visto le sue mani arrossarsi bagnate dalla neve, e poi diventare sempre più pallide. Bianche e gonfie. L’ha vista sfregarle con forza l’una sull’altra e soffiarci sopra. I corpi morti per gelo sono lividi. Con quella colorazione che diventa sempre più scura, attorno alla bocca, lungo le braccia, e poi prende il corpo. Tutto il corpo. Le yuki-onna hanno quel colore. Quella sfumatura intensa e mortale di azzurro. Negli occhi. La pelle bianchissima e gli occhi quasi cerulei mentre abbracciano la loro preda, il loro sventurato amante. Occhi azzurri che diventano sempre più scuri, sempre più vuoti e profondi. Il corpo di quegli spiriti è di gelo. Neve cristallizzata in una figura di seduzione mortale, esca allettante per gli istinti dei ningen. Senza attrattiva per un demone come lui. Una volta una yuki-onna credette di poterlo ammaliare, e si dissolse nel vento della bufera senza un gemito, avvolta solo da un tenue bagliore verde.

 

No. Il suo corpo non è gelido come quello degli spiriti della neve, ma ugualmente non è in grado di generare quel calore che ha il corpo di un ningen. Il corpo di Alessandra quando riposa abbracciata a lui; il rossore che le imporpora il viso quando è imbarazzata o accaldata. Sesshomaru è perfettamente cosciente di quella differenza: per quanto lui resti immerso nell’acqua gelida o vicino al calore di un fuoco, la sua pelle muta appena il suo calore. Rimane sostanzialmente fredda, appena appena tiepida al massimo. Quasi una promessa di quel gelo che può dare semplicemente socchiudendo gli occhi, per noia o capriccio. Per fastidio o disgusto. Eppure. Eppure Alessandra lo cercava. Cercava quel debolissimo tepore che può emanare; non si ritraeva quando le sue mani diverse la sfioravano. Non se ne stupiva o preoccupava. Lasciava che la toccasse, che la esplorasse. Sempre più intensamente, sempre più a fondo.

 

Alessandra.

Ha baciato lei per prima. La prima e unica donna cui ha concesso le sue labbra. Seguendo quell’istinto che credeva di saper domare; accettando di non cercare una risposta razionale a quel gesto. E scoprire che non la spaventava il suo respiro troppo freddo, le sue labbra pallide e senza calore. Scoprire il piacere strano di un calore che ti sfiora appena, che entra umido dentro di te. Assaporare quel respiro così diverso. Estraneo e pericoloso. Caldo. Che lo avvolge e si fonde con il suo. Incapace di vincerne il freddo; e allora accondiscendente ad avvolgerlo, a inglobarlo e lasciarsene affondare.

Ha baciato lei per prima. In una notte d’inverno, con la guancia arrossata per uno schiaffo e un formicolio leggero che non era nemmeno fastidio. Baciata senza poterla guardare, avvertendo il sapore delle lacrime sulle labbra, e poi quello della carne appena tremante e poi sempre più turgida e gonfia. Cercando di ritrovare nella mente il ricordo di un sapore simile, di un qualcosa di già assaporato. Si era ricordato l’odore zuccherino e aspro di un giorno lontano di primavera; l’odore delle fragoline di bosco che Rin aveva raccolto e che mangiava sorridendo in sella ad Ah-Un, schiacciando con meticolosa lentezza la polpa sul palato per rabbrividire di piacere per il sapore un po’ amarognolo. Ecco. Aveva ricordato quell’odore, e lo aveva ritrovato sulle labbra, nella bocca di Alessandra. Socchiuse gli occhi liberando un respiro impercettibile.

La sua mente aveva sentito la necessità di costruirgli quella via di fuga; il pensiero falso e fugace di un qualcosa di conosciuto e provato. Sperimentato. Per dire che no, non stava commettendo un errore; no, non rischiava di lasciarsi avvincere da qualcosa di estraneo e irrazionale. Sfuggente e impossibile da definire anche per lui, per la sua razionalità analitica e spietata. Qualcosa che si conosce e si può lasciare. Senza rimpianto e senza pensiero. Un sapore conosciuto, già assaggiato. Inutile.

 

Invece. Invece con il tempo aveva dimenticato di cercare un termine di paragone. Si era concentrato solo su quel sapore nuovo. Su quel gusto che lo sfiorava, lo inebriava in modo sbagliato. Maledettamente sbagliato. Ma che non gli interessava. Con il tempo, non aveva più pensato al gusto delle fragole, al viso di Rin. Con il tempo, quel sapore era diventato Alessandra. Solo lei. Il suo odore, il suo gusto, quello che la differenziava, che gliela faceva riconoscere in mezzo a mille altre percezioni. Suo e di nessun altro. Proprio. Impossibile da attribuire o confondere. E si era sorpreso a desiderarlo sempre di più; sempre più approfonditamente e in modo completo. Volere l’odore umano di Alessandra sul corpo e non averne disgusto; cercare quel sottile profumo di donna aleggiare nelle sue stanza, disperdersi nell’aria dei suoi appartamenti. Come una cosa naturale; come una ovvietà sempre esistita.

Sesshomaru premette una mano sugli occhi. Alessandra era entrata lentamente nella sua vita, insinuandosi prima con l’odore, poi con il corpo. E infine; infine con quel qualcosa che non riusciva bene a definire. Che lo aveva preso e non lo lasciava andare. La causa di quell’improvviso, intollerabile sbandamento. Di quell’irrazionale istinto che lo aveva portato ad abbandonare una battaglia già vinta; spinto a scappare dal suo orgoglio, dal suo trionfo, solo per non lasciar morire una femmina umana.

 

Che avrei potuto tranquillamente riportare in vita.

 

Si soffermò sulla pietra che si lasciava intuire poco distante, fra le ombre della notte e il muschio. Gli dava una sensazione strana; un misto di rimpianto, sollievo e…E non riusciva a definirlo nemmeno lui. Non provava paura, eppure non riusciva a scacciare l’idea e la sensazione di essere come spaventato. All’apatia del ritorno a palazzo era seguita la smania della fuga, meglio della tranquillità. E adesso, nonostante avesse elaborato e scartato mille pensieri, mille considerazioni, era subentrata quella sottile e irritante, illogica, trepidazione. La sua mente si rifiutava di afferrare una realtà che il suo corpo aveva tradito più e più volte. Lo sapeva e non riusciva ad accettarlo razionalmente. Non riusciva a capacitarsi del perché desiderasse una donna, una femmina umana.

 

Poteva accettare di provare desiderio per una donna. Poteva accondiscendere al fatto che il suo corpo fosse ancora giovane, e che potesse risvegliare in lui istinti che lo disgustavano, ma che non poteva totalmente ignorare. Almeno nell’ottica di dare un erede al Clan. Va bene. Poteva provare ad accettarlo razionalmente. Anche suo padre si era unito a sua madre; per necessità certo, per dare un principe alla stirpe. Poco importa se poi i rapporti fra i suoi genitori si erano colorati di qualcosa di strano, di sospetto agli occhi della corte. Lui allora non se ne era accorto; troppo piccolo per prestarci attenzione. Era stato dopo. Era stato quando sua madre era morta e i precettori si erano fatti più assillanti che aveva sentito per la prima volta i discorsi dei cortigiani. Ascoltati e non capiti fino ad un certo punto. Non ricordava né quando né perché. Sapeva solo che ad un certo punto, nella sua mente, si era delineata chiara la consapevolezza di un qualcosa di sbagliato. Di anormale. A palazzo esistevano ancora le camere dei suoi genitori; i gabinetti separati e la stanza matrimoniale comune. Lui aveva sempre rifiutato l’idea di prendervi dimora, benché la consuetudine volesse che il nuovo Principe lasciasse le stanze della fanciullezza per abitare quelle dei suoi predecessori. Lui no. Per un recondito motivo, aveva sempre rifiutato di entrare in quelle che erano state le stanze di suo padre. Chiuse. Le aveva fatte chiudere come quelle della madre. Dimenticate. Cancellate. Assieme a un tempo trascorso e perduto. Lontano. Troppo e irrimediabilmente lontano.

 

Sospirò. Va bene: il suo corpo desiderava piacere; un godimento diverso da quello della youki nelle vene e dell’adrenalina che scorre durante un duello. Un piacere che è solo lascivia e lussuria, solo carne; un desiderio disgustosamente simile a quello umano. Irritante, ma accettabile. Glielo avevano detto, lo avevano avvertito che ad un certo punto della sua vita sarebbe potuto succedere: anche il sangue di un demone può esser attratto dal corpo femminile; anche il corpo di uno youkai può bramare qualcosa che è semplicemente istinto. Nulla di strano, semplicemente doveva assecondare e approfittare per generare un discendente. Quella vampa calda che poteva bruciare la mente e infiammare il corpo era tanto improvvisa nel comparire quanto nello svanire. Gli sarebbe convenuto approfittare, per sperimentare un piacere diverso da quello della battaglia. Se si fosse lasciato sfuggire l’opportunità, in seguito l’impegno della discendenza sarebbe stata solo un’incombenza senza nessuna prospettiva di piacere.

 

Scrollò le spalle. Fino ad alcuni mesi prima, non concepiva nemmeno l’idea di unirsi con una yasha, se escludeva quel capriccio che aveva affrontato e accettato con razionalità, senza assecondare l’istinto, decidendo con la testa di concedersi, di permettere ad una yasha di toccarlo e di amarlo. Ecco, quello era il punto: una yasha.

Desiderare una yasha era normale; unirsi a lei e trarne piacere. Ma non una ningen. Non bramare un corpo così diverso dal suo, un’essenza limitata e corruttibile, lontana dal suo mondo, dal suo modo di percepire, di sentire e accettare la realtà. Incapace di cogliere il dilatarsi del tempo nei suoi occhi, di percepire il lento accartocciarsi di una foglia e l’indifferente scorrere dell’acqua. Impossibilitata a respirare con il vento, a fondersi con la vegetazione. Una donna umana che sa di desiderio, carne, sangue e sudore; che ansima dopo una corsa e si congela con il freddo e si riscalda davanti a un fuoco. E piange, ride, si dispera e si sopravvaluta.

 

Eppure. Eppure Alessandra aveva risvegliato il suo corpo. Aveva destato da uno strano torpore la parte più ferina e incontrollata del suo essere. Quella che più pericolosamente si avvicinava a quella umana; quella che avrebbe volentieri estirpato dalla sua anima. Lo aveva fatto; lui le aveva permesso di farlo. Senza remore o castelli mentali. Semplicemente assecondando i suoi movimenti leggeri, la confidenza che cercava e il contatto sempre più intenso e necessario. Averla accanto era diventata un’abitudine; sentirla respira nel sonno contro la sua pelle, rubarle un bacio a tradimento per assaporare il suo stupore e l’imbarazzo, crogiolarsi nel fastidio di averla davanti, di parlarle e non poterla toccare. Toccare, sfiorare, stringere.

 

Aprì e chiuse le mani lentamente. Non aveva permesso a nessuno, per moltissimo tempo, di toccarlo. Il contatto fisico gli provocava noia, fastidio. Era inutile. Nemmeno suo padre si era mai arrischiato ad andare oltre una semplice mano sulla spalla, una carezza fugace e sbrigativa, appena accennata. Prima. Prima era diverso; quando sua madre era ancora viva. Ma ormai non aveva senso pensarci; non sarebbe cambiato nulla. Non gli interessava ricordare perché una volta si lasciasse abbracciare e poi fosse cambiato, avesse iniziato a detestare le mani che cercavano di toccarlo, di sfiorarlo. Era successo e basta. E fino ad Alessandra non aveva permesso a nessuno di avvicinarsi a lui; nemmeno a livello fisico. Nemmeno Rin si era mai esposta nel toccarlo. Gli correva incontro, sorrideva e scherzava con lui con naturalezza, ma non lo toccava mai. Al massimo poteva accadere che fosse lui, per necessità, a doverlo fare. Ma null’altro: solo necessità. Poi, Rin sembrava aver capito. Aver capito che qualcosa era cambiato e si era spinta a cercare da lui di più. Qualcosa che non fosse solo una mano impalpabile e veloce sulla testa o un’occhiata appena accennata. Aveva iniziato a cercare la sua presenza fisica, le sue mani, le sue gambe. Fino a dargli quel bacio nello studio nero; il bacio di una bimba impaurita e tramante, dal profumo di terra e sale.

 

Dopo Alessandra. Era cambiato tutto dopo di lei.

Quella ragazza che lo aveva guardato negli occhi senza tremare; che gli aveva offerto la gola con uno sguardo vuoto. Sesshomaru sospirò: quella volta, gli sarebbe bastata una pressione leggerissima della mano, e la testa di Alessandra avrebbe ciondolato sul collo rotto. Quella volta, avrebbe potuto averla senza preoccuparsi dei suoi pensieri e di quello che avrebbe provato lei; ma il suo corpo non aveva reagito, non gli aveva trasmesso nulla. Solo un rimasuglio appena accennato di stupore. Per la piega quasi ironica delle labbra, per quel sorrisetto che era una smorfia di inconscio stupore, e che lui non sopportava. Non riusciva a sopportare. Come era fastidioso il tono della sua voce. L’ostinarsi a mancargli di rispetto e a pretendere di essere ascoltata. Come se una donna avesse diritto di parlare al cospetto di un uomo; come se una donna potesse ardire a restare in piedi davanti a un uomo, davanti a lui.

 

Alessandra lo aveva fatto. E lui ormai aveva capito che era stato quello uno dei motivi per cui non l’aveva uccisa subito. Per divertirsi, per vedere fino a quando avrebbe resistito. Aveva ignorato il suo atteggiamento per giocare con lei come il gatto con il topo; fino a intrappolarla in un angolo e poi ucciderla. E allora, si era detto, avrebbe visto la paura nei suoi occhi mentre gli artigli si avvicinavano letali. Allora l’avrebbe vista aprire la bocca per gridare e ritrovarsi senza voce, con gli occhi spalancati e vuoti. E tutto sarebbe tornato normale; lui indifferente agli umani, loro atterriti anche solo dal tenue riverbero del suo potere. Tutto regolare, tutto normale.

 

Ma Alessandra aveva mandato in fumo quel progetto. Lo aveva sradicato fin nel profondo. E lui si era ritrovato a desiderarla al suo fianco; si era abbassato a difenderla e a venir ferito per lei. Aveva accettato la cecità che lei gli aveva procurato senza dolersi della perdita più di tanto. La rabbia e la frustrazione latenti e pronte a esplodere ma mai verso di lei. L’aveva fatta avvicinare ancor prima di razionalizzare il suo comportamento; e poi ritrovarsi irritato dal fatto che si inginocchiasse davanti a lui per parlargli, che aggiungesse il suffisso onorifico e si inchinasse. Irritato dalla sua voce controllata e lontana; dal distacco con cui lo trattava nelle sale pubbliche del palazzo; dall’arrendevolezza fremente con cui accettava le sue decisioni.

 

Sesshomaru sorrise fra sé: Alessandra era riuscita a nascondere il suo carattere, la fragilità e le debolezze umane dietro una efficientissima maschera di freddezza e perfezione. Si era adattata alla vita di corte, così parca di parole e di contatti, così affettata e abituata a elargire offese con un sorriso cordiale, così teatrale che lui aveva dimenticato chi fosse. Aveva scordato cosa significasse l’avere al fianco una femmina umana, e soprattutto che fosse umana. Diversa.

 

Si passò una mano sul petto. Alessandra era stata capace di eccitarlo, di portarlo a dimenticare il desiderio della battaglia pur di giacere con lei. Non lo aveva fatto; si era dominato, ma aveva promesso a se stesso di averla appena la guerra fosse finita. E adesso si rendeva conto di non sapere perché. Non riuscire a capire per quale motivo il suo corpo la desiderasse: semplice brama, lussuria o forse qualcos’altro. Doveva esserci un motivo, perché altrimenti non si sarebbe fermato. Tutte le volte che la ragazza era fra le sue braccia, tutte le volte che gli sarebbe bastato stringere un po’ di più la presa sui suoi polsi, premere appena il suo corpo sul futon per imprigionarla, forzare le gambe per averla…tutte le volte si era fermato. Trattenuto da qualcosa che non era semplicemente rifiuto di una ningen. No; non la rifiutava, ma non riusciva a decidersi ad averla. Non riusciva a immaginarla piangere e urlare sotto il suo corpo mentre lui prendeva semplicemente quello che desiderava. Non riusciva a sopportare l’idea del suo odio e del terrore nei suoi occhi se l’avesse violentata. Eppure, sarebbe stata la cosa più semplice e naturale del mondo. Costringerla perché inferiore, perché debole e umana. Senza remore o pensieri. Per togliersi una voglia, un piacere passeggero che lo stava facendo impazzire solo perché non si decideva a soddisfarlo.

 

Sesshomaru scosse la testa e si alzò. Camminare gli serviva per ordinare i pensieri; per riprendere il controllo della mente che formulava considerazioni e ripercorreva avvenimenti creando false conclusioni. Non aveva amato Alessandra perché non lo aveva voluto. Lo avrebbe potuto, ma non lo aveva voluto. Di questo era certo. Ma non riusciva a configurare nella testa cosa sarebbe successo se lo avesse fatto o se la battaglia finale contro Morigawa si fosse conclusa diversamente. Se lui fosse rientrato a palazzo, come si sarebbe comportato? Davvero era disposto ad amarla, davvero era disposto a portarla via e finalmente mettere a tacere quel desiderio che non era solo lussuria? Se Alessandra gli si fosse davvero offerta, in quell’alba prima dello scontro, se gli avesse chiesto di amarla, con i vestiti discinti e i capelli scarmigliati, in preda alla paura di perderlo e al disorientamento per il precipitare degli avvenimenti, l’avrebbe amata? Anche sapendo che probabilmente Alessandra non lo desiderava davvero, ma cercava solo di esorcizzare le sue paure?

 

Se. Se. Se. Frustò l’aria in un gesto stanco. Era inutile arrovellarsi il cervello con i se. Avrebbe continuato a farsi domande, senza decidersi ad affrontare la situazione. Comodo, ma controproducente. Maledettamente controproducente. Fatti. Doveva attenersi solo ai fatti. Rigidi, certi, sicuri.

Ed erano quelli: Alessandra non gli era indifferente. Non sapeva ancora se solo per desiderio giovanile o se per qualcos’altro. Tuttavia, era consapevole che non l’avrebbe comunque trattata come una yotaka. Se fosse sopravvissuta. Ecco. Questo era un punto decisamente spinoso. La ragazza era in un futon agonizzante, e lui si trovava placidamente seduto in riva ad un laghetto. Senza l’intenzione di correre di nuovo a palazzo e verificare le sue condizioni. È preoccupato, ma preferisce non pensarci. Ignorare che potrebbe essere morta, e che Tenseiga al suo fianco sarebbe stata la sola carta da giocare. Dimenticare il suo corpo nudo, il suo odore di carne, sangue e sudore. Dimenticare per non dover accettare quella ovvia consapevolezza. Alessandra umana. Umana. Umana. Una realtà scomoda e detestabile. Perché non accettava di poter rifare l’errore di suo padre. Non razionalizzava il pensiero di essersi lasciato irretire da lei. Anche se sapeva benissimo che la ragazza non aveva fatto nulla per attrarlo a sé. Assolutamente nulla.

 

La guerra, il destino dei prigionieri, le conseguenze della morte di Morigawa e del suo avversario. Tutto quello passava in secondo piano. L’unica pensiero fisso nella sua mente era lei: Alessandra. Cosa fare, come comportarsi, cosa accettare, cosa dover realizzare di aver accettato, e perché. Averla baciata; va bene. Volerla amare. Va di nuovo bene. Sapere che non potrà mai essere la sua compagna, che prima o dopo la perderà con la morte. Va sempre bene. Ma non capire perché non la vedeva come amante, non accettasse l’idea che dovesse esserci una yasha al suo fianco, e che lei gli avrebbe dato un erede. Quello non riusciva ad andare bene. Anche se un ringhio roco gli saliva alla gola all’idea che un figlio da Alessandra sarebbe stato naturalmente un bastardo. Un hanyou che lo avrebbe solo disgustato. E che avrebbe ucciso. Senza pensieri. Senza preoccupazioni.

 

Premette la mano sulla fronte e si concesse un sospiro lungo e pesante. Per la prima volta, la sua natura demoniaca gli impediva una soluzione. Perché era nel suo sangue essere troppo rigido e non accettare compromessi. Era proprio della sua natura ricercare l’assoluto, e di conseguenza assolutizzare anche ogni sensazione. I suoi sentimenti, quelli che probabilmente i ningen avrebbero chiamato sentimenti, altro non erano che l’essenza stessa, autentica e al massimo livello di ciò che l’uomo può solo percepire distorto e abbruttire e corrompere con la carne. Odio, amore, rabbia, gelosia, paura, gioia. Non li provava perché li viveva nella loro espressione più alta. Non li avvertiva perché erano fusi con il suo essere, con la capacità che aveva di recepire l’assoluto e di farne parte. L’orgoglio per la stirpe non è puerile desiderio di supremazia e potere; ma consapevolezza della propria condizione diversa e inarrivabile. Precisione di caratteristiche e di possibilità. Sesshomaru non era umile di ciò che possedeva e non ricercava ciò che per innato istinto sapeva di non poter avere. Il cielo lo lasciava agli dei; le profondità oscure della morte agli spiriti. Lui era youkai puro, e il suo regno era la terra. La terra con i suoi spiriti e i ningen. E lui vi passava attraverso, fuso con essa senza farne parte. Attraverso il tempo, le distanze e gli spazi. Per questo Alessandra non doveva essere; per questo non capiva perché fosse.

 

Cosa provo davvero per te?

 

 

 

*****

 

 

 

Si raggomitolò sul fianco e chiuse gli occhi.

Respiro sempre più leggero, regolare. Dilatando l’aria il più possibile, rallentando il cuore che batteva veloce, troppo veloce. E le faceva male. Un nodo di impotenza, rabbia e delusione. Mentre ogni fibra del suo essere ero una semplice e lontana sensazione. La consapevolezza di qualcosa che la preme su quel materasso, che la tiene bloccata lì. Adesso. Adesso non avverte quasi il peso della trapunta, la stoffa bagnata sotto la guancia, il sudore che appiccica la pelle. Adesso. Non sente le labbra secche e i crampi continui come piccole scosse.

Le mani raggomitolate accanto alla testa. Le fissava quasi stranita. Le sue mani. Pallide e un po’ gonfie. Con segni violacei attorno al polso. Le sue mani. Eppure non le sentiva. Il cervello non riusciva a dar loro un comando, a far sollevare nemmeno un dito. Erano lì, a pochi centimetri da lei, ed era come se non le appartenessero. Come se non fossero sue.

 

“…Ale-chan…”

 

Percepì il corpicino di Rin accostarsi appena al futon, premere leggermente sulle coperte per sporgersi verso il suo volto. Una manina doveva essersi appoggiata alla sua spalla, o forse al fianco. Stava aspettando se le avesse risposto. Aspettava sempre che le rispondesse. Ogni giorno. Ogni maledetto giorno da quella sera. Quanto tempo era passato? Un mese, un anno, poche ore, qualche minuto? Quanto tempo era trascorso da quando quei demoni…quei demoni…Strinse appena gli occhi. Mentre il cervello continuava a ripeterle: non pensarci, non pensarci. E’ stato solo un incubo, un brutto sogno. Uno di quei sogni che non sai perché fai, che ti lasciano con un misto di agitazione e angoscia, che restano fissi lì, nella testa, perché sembrano veri, maledettamente veri. E non lo sono. Sono solo una fantasia; forse un film troppo violento, una notizia letta sul giornale, la pagina di un libro dell’orrore. Solo uno stupido, insensato sogno. Ci pensi per un po’, e poi se ne va. Ti dimentichi anche di averlo fatto, quel sogno.

 

Alessandra si morse l’interno della guancia per soffocare un singhiozzo. Non era stato un sogno. Per quanto cercasse di convincersene, non aveva sognato nulla. Gli stimoli che il suo corpo le mandava, i lividi che la ricoprivano, sulle braccia, l’alone che le gonfiava il viso, gli ematomi sul ventre. Non era stato un sogno, un incubo. E di notte, nel silenzio profondo della camera, quei demoni tornavano. Di nuovo. E di nuovo la spogliavano, le percorrevano il corpo con mani affamate e violente; strappando lo yogi, stringendo e graffiando il seno, alitandole sulla pelle e poi sempre più in basso. Mentre lei si dibatteva e ansimava. Raschiando la gola con urla che non uscivano, con grida che diventavano gemiti. Orribili e disgustosi. Mentre la testa faceva male, sempre più male, e il suo corpo rispondeva. Maledizione! Rispondeva! Sentiva un piacere diverso, violento, caldo invaderla, attraversarle le vene serpeggiando sotto la pelle, facendola gemere e sudare, dimenare con quella forza troppo debole, troppo spenta.

E loro continuavano. Sempre più pressanti, sempre più violenti. Scendevano lungo il seno, sul ventre; risalivano le gambe e…e…Si ritrovava a fissare il soffitto. Con il respiro pesante e affannato e gli occhi sbarrati. Asciutti e terrorizzati. Si risvegliava inchiodata a quel letto diverso e maledettamente uguale. Uguali le pareti, uguale la stanza e quel silenzio rotto solo dal suo respiro. Con la stessa voglia di scappare, di gridare, per accorgersi solo del cuore che pulsa selvaggio in gola e del senso di nausea e vertigine che ti tiene inchiodata lì, ferma e impotente.

 

Lo sognava quasi ogni notte. E ogni notte sperava di svegliarsi e trovare lui. Aprire gli occhi e vedere il suo viso; allungare una mano e incontrare quel corpo appena tenue, respirare il suo respiro freddo. Ogni notte, si illudeva delle sue braccia a stringerla, delle sue labbra a soffiargli all’orecchio suoni che non sono parole, ma che bastano a tranquillizzarla. Ogni notte sperava che lui arrivasse nei suoi incubi, che la liberasse da quei corpi che la schiacciavano sul futon, che la spogliavano e la facevano gemere, che volevano violarla. Ogni notte. E ogni notte apriva gli occhi e lui non c’era. Non c’era mai stato. Lo sapeva. Lo sapeva senza chiedersi il perché. Era come se lo avesse sempre saputo; come se lo aspettasse da sempre.

 

Sesshomaru non era al suo fianco, e probabilmente non lo era stato nemmeno quando era incosciente. L’ultima cosa che ricordava era un campo di battaglia e lui in ginocchio; il respiro pesante per la corsa e la milza che sembra scoppiare per lo sforzo. Poi un dolore lancinante toglierle il fiato e il mondo muoversi. Continuare a muoversi. Dopo, i ricordi si facevano confusi, si riducevano a sensazioni violente e lancinanti, ma prive di articolazione. Dolore, dolore, dolore. E qualcos’altro che non aveva definito. Non aveva senso, tempo e possibilità di definirlo. Il buio e quel leggero strato di coscienza in un alba che non sapeva nemmeno quanto fosse vicina o lontana. Parole che sono movimenti su labbra appena sbiadite, gesti che non hanno volti e aria pesante e calda. Assieme a un panno che le rinfresca la fronte, il seno, il corpo.

Ha sognato di alzarsi e uscire. Ha sognato di avere la forza di arrivare fino al lago che si insinua sotto il padiglione privato laterale. Liberarsi degli abiti e tuffarsi in acqua, ignorando i brividi di gelo e il senso si vertigine. Ha sognato di lavare la pelle da quelle sensazioni orribili, di cancellare, sfregare, arrossare il suo corpo contro rami, foglie, sassi. Raschiare con rabbia fino a scorticarsi, fino a sentire il sangue bruciare con l’acqua e le labbra stringersi per non gemere. E continuare. Continuare ancora. Togliere la pelle e i ricordi di quelle sensazioni, togliere lo sporco, il ribrezzo e il desiderio sbagliato che quei demoni le avevano lasciato addosso. Lo ha sognato tanto. Lo ha desiderato tanto. Per restare invece confinata in quel letto, lucida per poche ore al giorno e sperare solo di esser troppo stanca per sognare qualcosa; augurarsi di addormentarsi con un buco nero in testa e continuare a vedere quello. Solo un buco nero profondo e senza fine. Lasciarsi avvolgere e non dover pensare a nient’altro. Non dover pensare più a niente.

 

“…Ale-chan…”

 

Rin cantilenava ancora il suo nome. Lo faceva ogni giorno. Ogni volta che entrava nella sua stanza. Si sporgeva sul futon e la chiamava; con la voce sempre più debole e un’ombra roca di lacrime inghiottite. Sfiorando appena le coperte; senza cercare di toccarla. Rin non la toccava più. Da quando l’aveva allontanata isterica, Rin aveva quasi paura ad avvicinarsi a lei. Eppure non demordeva. Continuava; insisteva; perseverava. Le sarebbe bastato anche solo che la guardasse. Che le rivolgesse un’occhiata qualsiasi. Invece, Ale-chan dormiva sempre. Non faceva altro che dormire. E Rin orami aveva capito che non era vero. Ale-chan non voleva parlare con nessuno e allora fingeva di dormire.

Accarezzò Kiba accucciato accanto a lei. Il solco rosso che gli attraversava il musetto e le orecchiette leggermente piegate. Kiba non la lasciava da sola un solo minuto. Da quando Inuyasha-kun e Sesshomaru-sama se ne erano andati, il lupacchiotto era diventato ancora più protettivo. Rin si sfiorò la gola, ricalcando con il dito i segni rossi che gli artigli di quel demone le avevano lasciato. Forse sarebbe rimasta una piccola cicatrice. Sospirò e arruffò un po’ il pelo di Kiba, prima di uscire silenziosa dalla stanza.

 

Alessandra liberò un leggero respiro. Impedirsi di lasciarsi cogliere da una specie di nervosismo e di agitazione quando avvertiva la presenza attorno a sé di persone era uno sforzo che le prosciugava le poche forze recuperate. Eppure, il solo pensiero di essere osservata, di qualcuno che fissa il suo corpo sotto le coperte, che può allungare una mano e sfiorarla, la rendeva tesa e la riempiva di angoscia. E la reazione era incontrollata. Pericolosa, doveva ammettere a se stessa. Come con Rin. Come quando la bimba era sgattaiolata nella sua stanza senza il permesso di Yaone. Il giorno dopo quella dannata sera. Solo per vedere come stava; solo per abbracciarla. Alessandra, invece, appena aveva avvertito le mani della bimba, aveva iniziato a dimenarsi e urlare con tutta la forza che aveva. Anche dopo aver riconosciuto Rin. Tremava e singhiozzava. Tartagliava parole mescolate a suoni gutturali e disarticolati. Non voleva che la toccasse, che si avvicinasse. Si era raggomitolata su se stessa, scuotendo furiosamente la testa e cercando disperatamente di zittire le voci che sentiva con il respiro pesante e le urla sempre più acute e stridule. Mentre la gola bruciava per lo sforzo della voce e i colpi di tosse che la squassavano. Cercando disperatamente di liberarsi delle mani che tentavano di tranquillizzarla, di riportarla sdraiata nel futon. Per la seconda volta. Era stata la seconda volta che aveva avuto una reazione simile, violenta e incontrollabile.

 

Rin aveva continuato a fissare sconvolta il corpo di Ale-chan dimenarsi sotto la presa di Miroku e Koga, la voce della ragazza affievolirsi sempre di più, i gesti perdere la poca forza che li aveva caratterizzati e alla fine abbandonarsi con il respiro pesante e gli occhi sbarrati. Sconvolta, scarmigliata, terrorizzata e impotente. Incapace di riconoscere i volti dei suoi amici, imprigionata in quei momenti di abbruttimento e impotenza totali. Si era drammaticamente accorta che l’unica cosa che funzionasse egregiamente era il suo cervello. Per poco, ma riusciva a pensare con lucidità profonda. Uno sforzo che la lasciava vuota e in stato semicomatoso. Le permetteva di sentire il corpo abbandonato e indifferente; il respiro fermarsi in gola anche solo ad un piccolo refolo di vento. Terrorizzata. Sconvolta. Disperata.

 

E alle crisi isteriche delle prima ore, era seguita l’apatia. Totale. Assoluta. Alessandra si era racchiusa dentro se stessa, ignorando qualsiasi stimolo provenisse dall’esterno; dormendo o fingendo di dormire per limitare al massimo qualsiasi contatto. Detestava le visite dei suoi amici; detestava le mani leggere di Yaone che le medicavano il corpo; odiava la sensazione che il suo stesso odore le dava. E mordeva a sangue le labbra per non piangere; per mostrasi forte. Anche se ormai non aveva importanza. Non aveva più alcuna importanza. Non piangeva semplicemente perché non aveva la forza per farlo. Oppure, le lacrime scorrevano indifferenti sul suo viso, senza che lei ne avesse reale coscienza; sia che fosse sveglia sia che dormisse. La sua mente era una cosa; il corpo ormai era lontano. Diverso. Estraneo. Detestabile.

 

Detestava lividi e graffi; detestava la pesantezza e i crampi che avvertiva. Odiava quel malessere diffuso che le aveva impedito di ribellarsi, di provarci almeno. Il ricordo di un corpo a schiacciarla; delle insinuazioni volgari ed esplicite. I conati che l’avevano scossa dopo. Dopo che si era ritrovata sola nella stanza, in quel futon sfatto, imbrattato di sangue, sudore e …e…Strinse gli occhi raggomitolandosi di più. Aveva freddo. Tanto freddo. Nonostante fosse piena estate e il sole inondasse l’engawa. Le veneziane di bambù disegnavano un reticolato abbagliante, lasciando filtrare solo un po’ d’aria pesante e afosa. Non le importava. Tremava. Solo quello. Tremava e batteva i denti.

 

Avrebbe voluto Sesshomaru. Lì accanto a lei. Sdraiato contro la sua schiena; le braccia a stringerle la vita; il viso nell’incavo del collo, mentre le labbra la sfioravano piano. La sensazione del suo corpo freddo che si riscalda leggermente attingendo calore da lei. Il desiderio dei suoi occhi. Quegli occhi indifferenti accendersi di una luce strana, selvaggia e ferina. Simile al lampo che li illuminava nell’orgoglio e nell’eccitazione del duello. Avrebbe voluto Sesshomaru accanto a sé. Il suo silenzio rilassato; il respiro tranquillo a vegliare sul suo sonno. Avrebbe voluto che la stringesse e la portasse via. Via da quella corte che non l’aveva accettata e non lo avrebbe mai fatto. Via da quel mondo che è solo falsità, perfezione, rigore. Lontana da una vita trascorsa nel sangue, da giorni consumati con il cuore in gola, il terrore di perderlo e la logorroica necessità di fingere. Di controllare ogni più piccolo moto del volto, ogni piega incerta della pelle.

 

Strinse forte un lembo del lenzuolo. Lo avrebbe voluto lì. Per cosa? Per mettersi a urlare se solo avesse tentato di avvicinarsi? Per implorarlo di non toccarla, di non sfiorarla, di non guardarla? Perché dovrebbe essere lì? Le apparenze prima di tutto. E lei non era niente. Per il Principe, lei era solo l’archiatra. Si concesse un sorriso amaro. Nemmeno quello: Yaone vestiva quei panni, ormai. Molto meglio di quanto lei avrebbe mai potuto fare, Alessandra ne era certa. Lei aveva perso la sua carica, ed era tornata ad essere solo una ningen. Una stupida, inutile, sciocca ningen. E il Principe non ha nulla da spartire con una come lei. Per il Principe, non è nulla.

 

E per te, Sesshomaru?

 

Cosa provava Sesshomaru per lei? Cosa avrebbe provato adesso? Quando avrebbe sentito sulla sua pelle l’odore di quei demoni, quando lei lo avrebbe allontanato, gli avrebbe premuto le mani sul corpo e cercato disperatamente di cacciarlo, di fuggire dal suo sguardo freddo, indifferente? Se lo sentiva addosso. Sempre. Sempre. Quell’odore ferino e selvaggio che le aveva dato la nausea; l’odore di quel demone che aveva approfittato di lei. Assieme al ricordo degli spasimi del suo corpo; di quel piacere sbagliato e maledettamente doloroso. Ma sempre piacere. E negarlo non serviva a nulla. Non avrebbe cambiato la realtà.

Non l’avevano violata fisicamente; non del tutto almeno. Alessandra ci sperava, benché non ne fosse pienamente certa. Ricordava di essersi ritrovata completamente nuda nel futon, singhiozzando e premendosi lo stomaco contratto dai crampi. Nuda. Eppure, non avrebbe saputo dire quando le avessero strappato il fundoshi. Forse mentre le unghie le tastavano il ventre avevano anche lacerato la stoffa; forse era stato dopo, quando l’avevano lasciata ricadere sul letto, o mentre la obbligavano a bere quel liquido disgustoso. Non lo sapeva; non lo ricordava. E allora, poteva benissimo esser diventata il divertimento di un demone. Anche solo per pochi minuti.

 

Raggomitolò con fatica le mani contro il petto. Il seno pieno e sodo. Fece scorrere lentamente le dita lungo i fianchi, segnando sulla stoffa la forma arrotondata. Chiuse gli occhi e represse un singhiozzo. Il suo corpo. Il suo corpo pieno e dalle curve segnate, sempre più femminile, sempre più simile a quello di una donna. Un corpo così diverso da quello delle donne del Giappone medievale. Corpi minuti e pallidi, con seni piccoli schiacciati da fasce e fianchi appena accennati, ideali stampelle per abiti meravigliosi. Su di lei, i kimono erano più simili ad una vestaglia abbondante e complessa. Segnavano i fianchi e fasciavano il seno. In quel momento, Alessandra provò ribrezzo della sua stessa immagine mentale. Doveva esser sempre apparsa sciatta, orribile, volgare agli occhi della corte. Nonostante tentasse in tutti i modi di ammorbidire le pieghe del kimono, comunque la stoffa la fasciava. In un modo o nell’altro, le segnava le curve.

 

Non le era mai importato, ma all’improvviso un senso di soffocamento le prese la gola. Sesshomaru poteva anche non provare attrazione per le grazie di una donna, ma non dovevano essergli sconosciuti i corpi femminili. Corpi così perfettamente diversi dal suo. Come avrebbe reagito nel vederla nuda, con i seni troppo pieni e i fianchi troppo larghi? Come avrebbe reagito a riconoscere una costituzione diversa da quella che da sempre poteva conoscere? Non solo umana, ma anche lontanissima dai canoni della bellezza orientale. Scosse la testa. Era ridicolo pensarci in quel momento. La stanchezza, la delusione, la paura e la disillusione la stavano gettando in uno stato depressivo che la portava a ragionamenti sconclusionati e insensati. Passava da un pensiero all’altro senza soluzione di continuità; accostamenti mentali che seguivano la ragione per sprofondare poi all’improvviso nell’incoscienza di un sonno agitato e riprendere come se niente fosse. Pensieri che le affollavano la mente senza darle tregua, insieme a immagini, mani, parole, voce. E il desiderio di scomparire, di annullarsi e non sentire più niente. La voglia insaziabile di vedere Sesshomaru, di sentire i suoi occhi addosso, e la consapevolezza della vergogna e del dolore che ne avrebbe provato. La lucidità delirante di una sola sicurezza: non gli avrebbe permesso di avvicinarsi, di toccarla.

 

Di nuovo.

 

Di nuovo. Di nuovo tenere tutti a distanza. Tremare se solo qualcuno accennava il gesto di sfiorarla; tremare e prepararsi mentalmente a difendersi, a cercare di ritrarsi. Mordere le labbra e soffocare l’affanno mentre Yaone la visitava, ringraziando il cielo che il suo corpo fosse ancora troppo debole per provare a reagire. Mentre le lacrime continuavano a scendere senza mai un vero perché; senza cercare una spiegazione. Ringraziando Dio di essere allo stremo e maledicendolo per averle lasciato la sensibilità. Per averle fatto provare quelle dannate, false, sbagliate emozioni quella notte, sotto mani che non voleva, fra fremiti e sussurri che non avrebbe mai voluto sentire, sotto schiaffi, graffi, esplorazioni che ancora la facevano fremere e la nauseavano. E che non sarebbero scomparse mai. Immagini, fotogrammi di sensazioni che sarebbero rimasti sempre nella sua testa. Indelebili. Forse il tempo li avrebbe un po’ sbiaditi, ma sarebbe bastato un colpo di vento per sollevare la polvere della memoria, un odore particolare, un gioco di luci, e Alessandra sapeva che sarebbero tornati. Di nuovo e di nuovo. Ancora e ancora. Sempre. Come i frammenti della notte di quattro anni prima. Come la confusione quasi onirica della notte dell’incidente. Accettata, digerita, ma sempre presente. Pronta a ritornare all’improvviso fra le pieghe di un sogno; pronta a sbatterle di nuovo in faccia quel terrore e quel senso di vuoto.

 

Sola.

Si sentiva drammaticamente sola. E non permetteva a nessuno di avvicinarsi. Lo sapeva bene. Se tralasciava Yaone che si prendeva cura di lei e Rin che non demordeva e ogni giorno si recava a farle visita, benché non ottenesse mai risposta, nessun altro si azzardava più ad avvicinarla. Non dopo le sue reazioni spropositate e incontrollate di quasi una settimana prima; quel dimenarsi selvaggio e irrazionale, che l’aveva portata a ferirsi con gli artigli di Koga, che le aveva riaperto la sutura appena rimarginata alla spalla, che l’aveva fatta sanguinare da piccoli tagli procurati contro i cocci di alcune scodelle. Rotte chissà come. Forse mentre cercava di allontanare i suoi amici tirando loro oggetti; forse mentre Miroku e Koga cercavano di immobilizzarla per terra prima che si facesse davvero male.

 

Era stata la prima volta. La prima volta in cui Alessandra era riuscita a muoversi decentemente. Mentre l’adrenalina le attraversava il corpo e le annebbiava la testa. Un guizzo di disperata vitalità, che l’aveva portata a esplodere violenta e l’aveva prosciugata di ogni piccola forza. Dieci minuti, forse meno, in cui l’unico suo pensiero era stato quello di scappare. Scappare dai suoi incubi, dalle mani che continuava a sentire su di sé, dagli occhi sprezzanti di Sesshomaru che non smettevano di fissarla, di accusarla.

Perché non poteva mentire: il suo corpo aveva goduto di quelle carezze. Sotto mani estranee. Il suo corpo aveva goduto, e poco importava che lei fosse consenziente o meno. Le piaceva. Con nausea e disgusto, Alessandra aveva dovuto razionalizzare che alla sua parte corporea era piaciuta quella violenza. Strinse gli occhi e lasciò sfuggire alcune lacrime. Era un controsenso, un qualcosa che non riusciva a spiegare; forse non ci sarebbe mai realmente riuscita. Ma Sesshomaru lo avrebbe capito. Lo avrebbe intuito. E allora cosa avrebbe pensato?

 

Le mani fredde del demone sulla pelle; le labbra che scendono sempre più audaci lungo la gola. Il suo respiro che le raffredda la nuca, mentre i canini giocano con le pieghe della pelle. No. Non ci sarebbe più riuscita. Non sarebbe più riuscita a farlo avvicinare, a lasciarsi toccare da lui. Non doveva più toccarla nessuno. Il suo corpo era sporco. Sbagliato, maledetto, traditore. Il suo corpo doveva avere ancora addosso l’odore di quella notte; e nessun bagno, balsamo o profumo lo avrebbe tolto. E Sesshomaru lo avrebbe sempre percepito; lo avrebbe annusato da ogni poro della sua pelle. Piegando le labbra in una smorfia appena accennata di disgusto. Di giusto, naturale, doloroso disgusto. Non importava che lei avesse pianto, avesse provato a ribellarsi. Non ha mai importanza; e soprattutto non ne ha lì. In un mondo dove una donna conta poco o niente; soprattutto una donna umana. Sesshomaru avrebbe potuto avere tutte le donne che voleva. La poligamia era una pratica diffusa nella realtà nipponica medievale. Complessa, ma diffusa. Difficile che un Principe ci rinunci per capriccio. Difficile e sciocco. Perché mai privarsi di possibili, importanti, preziosi contratti matrimoniali? E del piacere che ne si poteva trarre, soprattutto?

 

Sesshomaru è youkai.

 

Alessandra sospirò stancamente. Cosa voleva dire essere youkai? Cosa li differenziava dai ningen? L’essenza, certo. Lo aveva visto. Eppure, aveva ritrovato in quel palazzo quel poco che sapeva della civiltà medievale giapponese. Le pratiche, il formalismo esasperato, il controllo e l’autocontrollo, lo spirito di gruppo e l’ostilità verso il nuovo, verso il diverso. Probabilmente loro non lo sapevano, ma fra i ningen vigevano gli stessi atteggiamenti. E una donna svergognata non avrà mai un avvenire.

Premette una mano sugli occhi. Stava esagerando. Forse non era vero che l’avevano violentata; forse era solo la sua paura a farglielo credere. Avrebbe potuto chiedere; facile e veloce. E troppo maledettamente pericoloso. Perché se quel sottile sospetto che fluttuava nella sua testa avesse assunto nome definito e corpo, fosse stato reale, allora avrebbe perso tutto. Tutto quel poco, quel nulla che ancora, inconsciamente, cercava di tenere vivo. La tenue, tacita speranza che Sesshomaru non la disprezzasse per esser stata incapace di sottrarsi; che non la compatisse e non provasse repulsione per lei, per quel corpo che altri prima di lui avevano toccato, assaggiato, svelato.

 

Alessandra-san. Posso entrare?”

 

Ayame. Era da molto che non la vedeva. E quello non era certamente il momento migliore per intrattenersi in una conversazione. Non voleva vedere nessuno. Non voleva esser costretta a parlare, in quel poco tempo che la debolezza le concedeva, mentre era obbligata ad una veglia più simile al delirio, ad un lento e rovinoso lacerarsi interiore, insensato e fluttuante insieme a domande che erano quasi esclusivamente proiezioni di una mente sconvolta e incapace di razionalizzare. Di riprendere anche solo un minimo di lucidità; ed insieme erano di una precisione allucinante.

Ayame. Non avrebbe voluto saperla lì. Non avrebbe voluto che qualcuno entrasse nella sua stanza. Nemmeno lui. Per quanto lo desiderasse; per quanto si chiedesse se fosse mai stato seduto accanto a lei in tutto quel tempo. Anche solo per pochi minuti; anche solo fermo sulla soglia, a fissarla con indifferenza. Sapere che non si era dimenticato di lei. Che forse sarebbe cambiato tutto, ma che non l’avrebbe gettata via come un oggetto.

 

Socchiuse gli occhi. La luce del sole era accecante, nonostante la protezione delle shoji e del tetto dell’engawa. Ayame aveva socchiuso una shoji, permettendo al lupo che l’accompagnava di uscire all’esterno e accoccolarsi sulla veranda di legno, accanto agli altri. Due, o forse tre. Quando si svegliava, ne vedeva l’ombra muoversi lentamente contro la carta di riso. Non le davano fastidio. Restavano fuori. Sentinelle presenti e continue. Inutili, purtroppo. Ormai inutili.

Era stato Koga a ordinar loro di restare lì. Lo aveva sentito, mentre discuteva con Miroku e Yaone. Aveva continuato a tenere gli occhi chiusi, ma le loro voci si sentivano bene nonostante la fusuma socchiusa. Il principe degli Yoro aveva sbraitati e imprecato, ma Alessandra non era riuscita a capire con chi fosse arrabbiato. Inizialmente aveva immaginato Inuyasha, e si aspettava di sentire l’immediata risposta dell’hanyou; invece era arrivata la voce stranamente pacata e bassa di Miroku. Poi altre parole, altre frasi pronunciate troppo a bassa voce perché non fossero che un bisbiglio quasi fastidioso. E infine i lupi. La sua guardia personale. Koga li aveva trattenuti a palazzo nonostante il resto del branco fosse stato rimandato alle rispettive tane. Per quel poco che sapeva lei, degli ookami restavano a palazzo solo i due principi e alcuni lupi di scorta. Ma in fondo, che importava?

Non è di una donna la politica. A lei compete solo il letto. E lo stava imparando troppo bene. Troppo dolorosamente bene. Soffocò a fatica un singhiozzo, ricordandosi troppo tardi di non esser più sola nella camera.

 

Alessandra-san. Volete parlare? Vi farebbe bene”

 

Ayame ritrasse la mano. Stava tremando. Alessandra stava tremando. Probabilmente era la sola reazione che il suo corpo le permettesse in quel momento. Tremare. Tremare per far capire l’ansia, la paura e anche la vergogna che sentiva. Il rifiuto di essere avvicinata. Era bastata solo la leggera pressione della mano della yasha e quelle parole, quel tentativo di avvicinarsi, e Alessandra aveva sentito come se il respiro fosse tagliato di netto e stesse soffocando. L’angoscia divorare la gola e portare il corpo a reagire. In un modo qualsiasi, ma reagire.

 

La yasha sospirò attorcigliandosi un ricciolo. Lei, Kagome e Sango speravano solo che servisse tempo. Alessandra aveva bisogno prima di tutto di recuperare le forze; quell’intruglio che le avevano fatto bere l’aveva prima indotta a vomitare, e poi le aveva tolto completamente l’appetito. Era quasi una settimana che il poco brodo che mangiava glielo facevano sorbire praticamente a forza. Se ancora non erano passate a maniere meno delicate era solo perché Yaone-san era stata categorica: non si doveva assolutamente sforzarla nel mangiare; sarebbe stato completamente inutile e anzi dannoso. Lo stomaco della ragazza era troppo assuefatto al poco cibo, e riempirlo troppo velocemente avrebbe provocato una reazione di rigetto anche violenta. L’unica era continuare a piccoli passi. Ma intanto, Alessandra dimagriva. Sempre di più. Già in quei mesi di assedio la tensione e il nervosismo, l’esasperato autocontrollo cui non era abituata e che si era imposta l’avevano provata molto anche a livello fisico; aggiungendo la settimana di coma trascorsa, il corpo della ragazza era debilitato in modo preoccupante, e se non si trovava una soluzione soddisfacente, Alessandra non avrebbe recuperato le forze in modo corretto. Tuttavia, anche se fossero riusciti a farla mangiare di più, era soprattutto lo stato psicologico a preoccupare.

 

Nessuno di loro aveva mai visto Alessandra prima di incontrarla a palazzo. Basandosi su quello che Kagome ricordava di aver scoperto mesi prima, Yaone aveva supposto che Alessandra avesse già attraversato una fase di rigetto simile. Rin-chan aveva detto che una volta, quando ancora non c’era stata la guerra, Ale-chan non si lasciava toccare da nessuno. Aveva anche smesso di parlare e dormiva pochissimo. Non ne sapeva molto di più; era anche comprensibile, visto che una bambina non può cogliere certi sintomi, e soprattutto non si fa tante domande. Rin però aveva detto anche che ad un certo punto si era accorta che Ale-chan stava bene, e che Sesshomaru-sama e la ragazza parlavano spesso. Non sapeva di cosa, però.

 

Ayame scosse la testa. Inuyasha non era ancora tornato, ed erano già passati sei giorni. Sei giorni da quando aveva lasciato il palazzo sotto la minaccia di dense nuvole nere. Koga aveva provato a mandare ai confini del territorio alcuni lupi, ma erano tornati senza un nulla di fatto. Inuyasha aveva fatto perdere le sue tracce, come Sesshomaru prima di lui. E intanto che quei due giocavano a rimpiattino, i membri più influenti della corte si stavano organizzando per riprendere le redini del regno dell’Ovest. Non che Sesshomaru dispiacesse come Principe. Efferato e freddo come deve essere uno youkai, era però troppo giovane ancora. Una sbandata per una donna umana la si poteva perdonare; tenersela come amante era accettabile, ma avrebbe dovuto anche pensare alla discendenza. Ed era meglio affiancargli una compagna in quel momento, mentre era ancora un ragazzo. Una yasha loro fedele e ben istruita, che nell’alcova avrebbe potuto esercitare una tacita, indiretta, sibillina influenza sul compagno. Piegare Sesshomaru alla volontà della corte significava avere come alleato la yasha che gli sarebbe stata al fianco. Le donne, anche se demoni, non hanno mai vita politica, ma sono esperte seduttrici, e hanno occhi e orecchie dovunque. La compagna del Principe sarebbe stata per prima cosa l’asso nella manica della corte; e la pedina per tendere e stringere i fili attorno al figlio di Inutaisho, per controllarlo come non era stato possibile con il padre. In definitiva, qualsiasi faccenda politica, alla fine, diventa sempre una faccenda di letto.

 

Ayame aggirò il futon e uscì sull’engawa. Era inutile chiamare qualcuno. Alessandra si sarebbe calmata da sola e solo se lasciata tranquilla. Far accorre più gente sarebbe stato maledettamente controproducente; lo avevano scoperto a loro spese. Sospirò e raggiunse Koga che accarezzava uno dei lupi di guardia. La sera prima avevano avuto una violenta discussione, ma sembrava che ormai non avesse più importanza. Fin quando Sesshomaru non fosse tornato e Alessandra non fosse stata visibilmente, se non rimessa, ormai sulla via della completa guarigione, i due principi avevano concordato di restare a palazzo. Anche perché erano solo loro, con i loro lupi, a poter garantire un minimo di tranquillità non solo ad Alessandra, ma anche a Kagome e agli altri ningen. E anche ai signori del Kansai. Fosse dipeso dalla corte, il nuovo principe avrebbe già incontrato la morte, Kumamoto favorevole o meno. Ma almeno il vecchio generale era riuscito a imporre la sua autorità su quella questione: Kyoko, Shin e i suoi fratelli erano prede di Sesshomaru. A lui solo spettava decidere la loro sorte, e anche se a malincuore la corte aveva dovuto ammettere che era meglio cedere su quello che inimicarsi il Principe.

 

“Come sta?”

 

Ayame scosse la testa e poggiò il viso sulla spalla di Koga. Non c’era nessuno nei giardini del Principe, e lei aveva bisogno della presenza del suo compagno. In definitiva, quelli erano gli ultimi giorni che avrebbero potuto trascorrere assieme. Poi, sistemate le questioni militari e logistiche, Koga l’avrebbe riportata sulla montagna, da suo nonno, e avrebbe ripreso la caccia a Naraku. Mentre lei si sarebbe consumata nell’attesa, nella speranza di vederlo tornare. Aspettando. Aspettando di vederlo correre lungo il sentiero montano. Aspettando di poter raccontare a suo nonno il segreto che le marchiava la pelle e di poter mutare la sua pelliccia da bianca in marrone.

 

“Credi che Inuyasha lo troverà?”

 

Koga le passò una mano attorno alle spalle. C’era un’altra questione da risolvere: Nijiya. Ma non era quello il momento di pensarci. In quel momento, la cosa importante era restare concentrati e preparati. Non si sarebbe fatto fregare di nuovo da un branco di stupidi cagnolini boriosi. E soprattutto non avrebbe accettato di sentirsi rimbeccare dal botolo. Storse la bocca in una smorfia. Detestava doverlo ammettere, ma se qualcuno poteva ritrovare Sesshomaru, quello era solo Inuaysha.

 

Devi trovarlo. Devi!

Prima che perda la pazienza e faccia fuori questi cagnacci rognosi. E perché Alessandra-san ha bisogno di lui.

 

 

 

*****

 

 

 

“Sei preoccupata per Inyasha?”

 

Kagome scrollò le spalle. Era preoccupata, certo; soprattutto ripensando ai pochi giorni che lo speravano dal suigetsu e al fatto che, in quel momento, poteva trovarsi faccia a faccia con Sesshomaru e lei non era con lui a frenarne il carattere troppo impulsivo e collerico. Arricciò le labbra. Chi voleva prendere in giro? Probabilmente, se si fosse trovata davanti Sesshomaru si sarebbe lanciata in una ramanzina infervorata, una sfuriata di quelle che di solito fanno abbassare le orecchie e la testa dell’hanyou e lo fanno raggomitolare guaendo. E non gliene sarebbe importato nulla del fatto che avesse davanti il Principe dei demoni, l’erede del dominatore del mondo, l’ultimo di una stirpe potente e pericolosa, uno youkai che avrebbe potuto ucciderla anche solo per essersi soffermata troppo con lo sguardo su di lui. Non le sarebbe importate. E continuava a non importarle. Aveva raccomandato ad Inyasha di cercare di mantenere la calma, di parlare con suo fratello e riportarlo a palazzo, evitando il più possibile di ricorrere alle mani. Ma appena Sesshomaru fosse rientrato, gli avrebbe concesso giusto il tempo di recarsi in visita da Alessandra e poi era bene decisa a fargli un bel discorsetto. Uno dei suoi. E se ancora si rifiutava di visitare la ragazza, allora…allora avrebbe inventato qualcosa.

 

Prese a giocherellare nervosamente con il rosario che portava al polso. Da quando Inuyasha aveva lasciato il palazzo lo indossava. Le dava sicurezza; le trasmetteva la sensazione della vicinanza dell’hanyou. Si era abituata a vederlo senza rosario mistico, ormai; non rimpiangeva affatto la scelta che aveva fatto di toglierglielo. Era accaduto più di una volta che sulla lingua le bruciasse quella parola; era accaduto che la sussurrasse, che la urlasse anche, per vedere Inuyasha irrigidirsi e incassare automaticamente la testa nelle spalle. E restarsene lì, ritto davanti a lei; occhi stretti e una smorfia contratta. Era accaduto, e in un certo senso Kagome era stizzita del fatto di non aver pieno controllo del ragazzo. Adesso, poteva sgusciarle fra le mani senza che lei avesse la forza di fermarlo. Però, doveva ammettere a se stessa, Inuyasha sembrava essere maturato molto in quei mesi. Non si faceva molte illusioni: finita quella parentesi, sarebbe tornato il solito arrogante e scorbutico. Ma qualcosa sarebbe rimasto. Forse l’ombra sottile nei suoi occhi; forse quel modo di inclinare la testa di lato e incrociare le braccia. Forse semplicemente la maggior abitudine a tendere i sensi in mezzo alla gente, ad una vita costantemente condotta in allarme, pronto a scattare ad ogni più piccolo accenno di pericolo. O forse, più semplicemente, l’innato desiderio di mostrare a suo fratello chi fosse, le possibilità di cui anche lui disponeva. Per non farlo vergognare. Per provare, se non a renderlo orgoglioso, almeno a farsi accettare. Un po’. Solo un po’.

 

Sesshomaru. Il Principe restava un’incognita. Ma in quel momento Kagome non ci voleva pensare. Era già furente perché se ne era andato, indispettita e delusa per quanto successo alcuni giorni prima, amareggiata e arrabbiata con se stessa per aver assistito a quella violenza e non aver mosso un muscolo. Non aver potuto muovere un muscolo. Se solo fosse stata un po’ più forte; se solo avesse mantenuto la necessaria lucidità. Kikyo non si sarebbe fatta sorprendere in un modo così sciocco. Kikyo avrebbe mantenuto il distacco e avrebbe eretto una barriera. Una potente barriera; non molto grande, ma sufficiente a racchiudere loro e Alessandra. Già; avrebbe potuto farlo. Ma non aveva avuto la freddezza per aggirare le emozioni che l’avevano invasa, stordita, annullata. E poi, c’era Rin. In mano ai demoni;

 

Sollevò una mano a riparare gli occhi. Rin era affacciata sul piccolo laghetto del giardino. Una manina in acqua e un piccolo sorriso. Kiba accucciato di lato e Miroku accanto, a muovere le mani in modo ipnotico, irreale. Se chiudeva gli occhi, Kagome rivedeva il terrore negli occhi della bambina; la consapevolezza che Sesshomaru-sama non c’era per aiutarla. Rivedeva il suo labbro tremare quasi impercettibilmente, mentre gli artigli premevano. Sempre di più. Sempre più nella pelle. Incidendo la gola. Kagome si sfiorò il collo in un gesto inconscio. Rin avrebbe conservato quelle cicatrici; semplici aloni che con il tempo si sarebbero sbiaditi, ma sarebbero rimaste.

Era cambiata, la piccola Rin. Sembrava che si stesse rendendo veramente conto del mondo diverso, lontano, in cui aveva iniziato a vivere. Forse era solo un rimasuglio di paura; forse era banalmente la lontananza di Sesshomaru a renderla più schiva ed evasiva. Tuttavia, Kagome si chiedeva come vivesse la bimba a palazzo. In un mondo completamente diverso, lontano, strano. Un mondo dove anche il tempo sembra scorrere diversamente. Te lo senti addosso come una brezza; un’aria di cristallo pressoché immobile. Sa di stantio, di stagnante. Ecco. C’è un clima stagnante, logoro a palazzo. Eppure, non è rivoltante. Non è l’odore del marcio di uno stagno; non è la percezione della decadenza. Se pensava a qualcosa che si consuma, Kagome ricordava il rametto di momo che suo padre le aveva regalato durante un momo no sekku. Lo aveva messo in un vasetto in camera. Era bello, profumato; poi, piano piano il rosa dei petali era diventato giallino chiaro, marroncino, marrone e poi erano caduti. Uno dopo l’altro. Mentre le foglie raggrinzivano e si accartocciavano. E l’odore. Il buon profumo del pesco a confondersi con qualcosa di nauseante e fastidioso.

Ecco. La sensazione che provava in quel momento era diversa. Simile ad una bolla di vetro. Come se il mondo degli youkai avesse un altro ritmo. Come se, nonostante il susseguirsi dei giorni, degli avvenimenti, non mutasse nulla. E forse era davvero così.

 

Kagome sospirò e si stropicciò gli occhi. Dormiva poco la notte. Nonostante Kirara restasse sempre vigile e attenta e la presenza di Sango in assetto da battaglia fosse rassicurante, non riusciva a dormire. Si concedeva solo quelle poche ore di sonno strettamente necessarie. Trascorrendo le giornate vagando per i corridoi dell’edificio privato del Principe. Ogni tanto si intratteneva con i lupi di Koga; ogni tanto raccontava a Rin qualcosa del suo mondo o prendeva arco e frecce e si esercitava. Dannatamente inutile, ormai. Ma almeno le svuotava la testa. Non poteva fare altro, purtroppo. E vedere quelle shoji socchiuse in fondo al padiglione le faceva ribollire il sangue e contorcere lo stomaco.

 

Alessandra non voleva vedere nessuno. E lo aveva detto chiaramente. Non con le parole, non con la calma quasi innaturale, fasulla che le aveva conosciuto. Lo aveva urlato con voce roca per lo sforzo e la prolungata afonia. Lo aveva urlato con gli occhi spiritati, con la pupilla troppo dilatata e la bocca che perdeva saliva. Lo aveva urlato cercando di sottrarsi alle mani di Koga e Miroku; rifiutando il contatto con qualsiasi persona. Nei gesti scordinati e violenti; nell’isterismo di urla che si riducevano a singhiozzi quasi impercettibili. Nel dimenare selvaggiamente la testa e cercare di mordere. Mordere. Mordere. Qualsiasi cosa che si avvicinasse; che cercasse di sfiorarla. Diventando sempre più pallida e sudata; lo yogi scomposto e scivolato lungo una spalla a mostrare i rimasugli di ematomi e lividi; la pelle arrossata da escoriazioni e graffi. L’alone disgustoso di sudore e umori sulla stoffa. E l’odore. Quell’odore rivoltante di sudore, urina, marciume.

 

Kagome chiuse gli occhi. Rivedeva Alessandra in quella sera d’inverno, quando si era presentata a Musashi con la sua affettata sicurezza e la sua folle richiesta. La rivedeva raccontare con distacco e indifferenza la discussione avuta con Sesshomaru quando lei e Inuyasha erano arrivati a palazzo. Risentiva la sua voce pacata e sicura; lo sfuggire rapido degli occhi; i gesti appena accennati e troncati quasi temendo di osare troppo, di prendesi confidenze sbagliate. Il piegarsi rigida e innaturale davanti al Principe; quel modo che aveva di fissare Sesshomaru, con sfrontatezza e quasi adorazione. Come se stesse studiando, valutando esattamente cosa approvare nel demone, cosa accettare. L’attorcigliare i capelli alle dita mentre era nervosa e il mordere a metà il labbro inferiore, stringendo gli occhi. Le risate discrete e l’intervenire sporadico nelle conversazioni, con un’ironia un po’ sottile e mai volgare. Quel giocare con le parole che Kagome aveva sentito solo da Alessandra. Anche Miroku ne era rimasto affascinato: il calibrare perfettamente termini, sinonimi e assonanze. Quel coniugare in modo quasi sospetto l’abitudine giapponese tradizionale all’essenziale con una esuberanza, una spontaneità che era tutta del paese d’origine della ragazza.

 

Alessandra era chiusa, introversa, riservata. Si presentava inavvicinabile e quasi odiosa. Poteva farsi odiare; con quell’aria di superiorità che era solo una maschera. Kagome l’aveva vista arrabbiarsi, intristirsi, abbattersi e stringere i denti per non cedere. Aveva assistito al lento sfaldarsi della sua maschera. Come cera. Molliccia, gocciolante. Un cerone che si era staccato pezzo a pezzo, rivelando loro la ragazza fragile, attanagliata dai dubbi e insieme risoluta una volta presa la sua decisione. Alessandra si era lasciata avvicinare da loro, e aveva mostrato le sue incertezze. Gli occhi che vagano nella tenda alla ricerca di un cenno di assenso, di presenza. Il terrore di uno sbaglio e del peso di una responsabilità troppo grande per lei, per un archiatra che appena conosceva le prime pratiche di pronto soccorso. I grumi di saliva ingoiati quando, per protocollo, doveva piegarsi e mordersi la lingua davanti a dignitari e generali. L’umiliazione trattenuta con orgoglio o forse disperazione al sussurro di insinuazioni e allusioni.

 

Kagome aveva imparato a vedere Alessandra sotto molti aspetti. Ma non in quello stato. Quando, finalmente, dopo ore, Yaone aveva preso il coraggio di aprire la fusuma della stanza, lo spettacolo che si era presentato loro li aveva raggelati. Alessandra giaceva in un angolo della stanza, raggomitolata su se stessa; capelli scarmigliati, occhi gonfi e arrossati, sguardo stralunato. Dalla bocca, assieme a un rivolo di saliva mischiato a sangue, usciva un respiro pesante e affaticato. Stringeva al petto le braccia, cercando inconsciamente di coprirsi con i brandelli dello yogi, mentre le bende che le fasciavano il busto penzolavano sinistre macchiate di sangue. Fissava senza nemmeno vederlo il futon; le coperte ammassate in modo informe e macchie indefinite a imbrattarlo e ammorbare l’aria.

 

Accanto a Kagome, Koga aveva stretto gli artigli e ringhiato, mentre le vene del collo gli si gonfiavano per la furia. Era stato un attimo, il tempo che Yaone provasse ad avvicinarsi, che Alessandra si era girata verso di loro, fissandoli con occhi terrorizzati e quasi senza iride, rannicchiarsi ancora di più su se stessa, che aveva iniziato a urlare e dimenarsi. Lamenti sempre più acuti, che scoppiavano improvvisamente in grida rauche e poi si spegnevano in un lungo singhiozzo ansimante. Parlava in una lingua che loro non capivano. Continuando a ripetere quelle che, dal tono, sembravano suppliche. Miroku aveva provato ad avvicinarsi lentamente, ma appena si era inginocchiato, Alessandra lo aveva aggredito gettandogli contro una delle scodelle sparse sul tatami. C’era voluta la forza demoniaca di Koga per riuscire a stenderla e immobilizzarla, farle aprire a forza la bocca e costringerla a inghiottire un calmante preparato da Homoe. E ancora Alessandra aveva scalciato e urlato, graffiato, morso e costretto Miroku a intervenire a sua volta, per evitare che la ragazza si ferisse troppo seriamente sotto gli artigli dell’ookami. Sembrava che desiderasse il dolore; sembrava che facesse di tutto per sentire il sangue colare dai tagli, premendo le braccia, le spalle, il busto, le gambe contro le mani che disperatamente cercavano di tranquillizzarla, di contenerla, rivelando un’energia che era solo disperazione, costringendo il suo corpo debilitato e provato a uno sforzo che avrebbe anche potuto esserle fatale. Alla fine, mentre il farmaco faceva effetto, mentre Alessandra si accorgeva che le forze e la coscienza stavano per abbandonarla e il pensiero di essere di nuovo inerme le attraversava confusamente la testa, due grosse lacrime erano scivolate sul suo viso, occhi dilatati, spalancati, fissi al soffitto, e le braccia che si abbandonano, che smettono di stringere convulsamente pelle, stoffa, metallo, capelli.

 

Kagome si lasciò scivolare dall’irikawa sul gradino di pietra, accucciandosi accanto a Kirara che le strofinò il muso contro una spalla. Non riusciva a togliersi quelle immagini dalla testa. La voglia di chiudere gli occhi e scoprire di non avere la forza di farlo; il ritrovarsi seduta per terra senza nemmeno sapere come possa esser successo, e sentire la gola chiusa e non chiedersi come ancora non si sia morti soffocati. Trovare le forze, inconsce, assuefatte, per rispondere alle indicazioni di Yaone e Homoe; aiutare Sango a liberare la ragazza dei rimasugli della stoffa e scoprire un corpo quasi scheletrito, con le costole basse ben delineate sotto la pelle, i seni deformemente gonfi e quasi stonati contro le braccia e le gambe secche; il ventre segnato da graffi ed ematomi violacei che già stavano virando ad un verde-giallino rivoltante. E di nuovo rivederla con abiti troppo larghi, con i kimono portati un po’ ribelle e i colori scuri a smussare le forme occidentali, il seno prosperoso e i fianchi larghi. Spariti, svaniti, dissolti. Kagome e Sango avevano avuto il terrore che potesse frantumarsi un osso alla semplice pressione delle mani. L’avevano lavata e ricomposta; avevano sostituito il futon e gli abiti, bruciando poi tutto il resto. Koga aveva congedato il suo clan, affidandolo a Ginta e Hakaku, e aveva trattenuto a palazzo solo una dozzina di lupi, giovani di forze, ma non inesperti. Presidiavano costantemente il padiglione di Sesshomaru, vegliando sui ningen e sulla loro hime. Koga aveva preso posto nella stanza di Miroku, infatti, e aveva obbligato Ayame a lasciare la sua tenda per dividere la camera con Sango e Kagome. Ma, soprattutto, i lupi controllavano la stanza di Alessandra, impedendo l’accesso a chiunque il loro Principe non avesse accordato il permesso.

 

“Smettila di pensarci, Kagome. È inutile”

 

Sango scrollò le spalle. Cercava di dimostrarsi risoluta e battagliera, ma entrambe sapevano che quanto successo le aveva profondamente colpite. Sarebbe passato molto tempo prima che riuscissero di nuovo a guardare Alessandra senza rivederla in quello stato, senza risentirne le grida disperate e le invocazioni flebili martellare loro nella testa. Inoltre, la situazione in generale non era rassicurante. Nonostante le precauzioni prese, se gli inuyoukai avessero deciso di tentare qualcosa, nessuno di loro era certo di riuscire a fermarli. L’autorità di Sesshomaru aleggiava su di loro, ma avevano avuto la prova drammaticamente tangibile di come alcuni membri della corte arrogassero a sé certi diritti di comando in assenza del Principe. Forse non avrebbero tirato ancora la corta, ma in fondo il danno maggiore che potessero fare lo avevano già perpetrato. Sango, tuttavia, non rinunciava ormai più alla sua divisa di sterminatrice, e se non aveva sempre accanto hiraikotsu, non si esimeva dal portare con sé anche un semplice ventaglio da guerra. E soprattutto, nessuno di loro si azzardava a lasciare il padiglione del Principe. Alle loro necessità provvedevano Koga o Jaken, oppure Yaone e Homoe. Loro demoni potevano muoversi con tranquillità anche negli altri corpi del palazzo, ma se i ningen si fossero avventurati, non era certo che non sarebbe successo nulla. Secondo Homoe, e Sango condivideva l’opinione, era sospetto che i membri della corte non avessero più tentato nulla. Ormai era palese che non interessava loro il fatto che Alessandra e i ningen fossero protetti del loro Principe. Spintisi a quel punto, era già di per sé incredibile che non avessero concretamente violentato Alessandra. Un gesto che lasciava Sango alquanto perplessa. Dopo essersi divertiti con la ragazza psicologicamente, per quale motivo non distruggerla completamente anche a livello fisico? Non era una sciocca; sapeva perfettamente come andassero certe cose. Sebbene Miroku fosse un pervertito, un donnaiolo, era innocuo, non si sarebbe mai permesso di forzare una donna ai suoi desideri; ma Sango sapeva bene che, se non doveva temere concretamente Miroku, al tempo stesso esistevano uomini che non si sarebbero fatti nessun problema a sbattere per terra una donna e godere di lei. Ne aveva anche viste, di donne violentate durante un saccheggio. Al suo villaggio, quando lei era bambina, uno sterminatore era rientrato assieme ad una donna sconvolta. Nove mesi dopo, quella donna aveva partorito un figlio. Allora lei era troppo piccola per capire, per sapere. Ma poi. Poi aveva compreso. Poi aveva capito perché il pianto di quel bambino, una notte, era smesso improvvisamente, e si era sentito un altro pianto. Completamente diverso. E lo aveva visto: il corpo del neonato a terra, e la madre in piedi. Con l’espressione di una pazza sulla faccia e le braccia ancora aperte. Spalancate.

 

Sango sospirò e si passò una mano fra i capelli. L’unica cosa che sembrava voler esser risparmiata ad Alessandra era proprio quella: il vedere il proprio ventre crescere, aumentare e sapere che dentro c’è una vita. Un bambino non voluto, nato dalla violenza, dalla costrizione. E odiarlo. Odiarlo con tutta te stessa. Fino a lasciartelo cadere dalle braccia. Fino a volerlo zittire completamente; per sempre. Cancellare la fisionomia di un uomo che non avresti mai voluto vedere, che non smetterai mai di vedere. Nei tuoi incubi, nelle tue notti agitate.

Quello no. Quello era l’unica preoccupazione degli inyoukai: Alessandra non doveva assolutamente concepire un figlio. Per il resto…Sango sapeva benissimo quanto valesse la vita della ragazza e la loro per i demoni. O almeno per i demoni che formavano la corte dell’Ovest.

 

Era curioso come, in quei mesi, avesse imparato ad accettare al suo fianco, in combattimento youkai che solitamente aveva sempre combattuto. Con Inuyasha non si era posto il problema. Lui era un hanyou, e quindi potenzialmente umano. Possedeva una parte umana che glielo aveva resto più vicino, più simile. A Inuyasha mancava completamente quella logica diversa, imperscrutabile che muove i demoni. Lui agiva d’impulso, secondo le passioni, secondo pulsioni chiaramente umane. Eppure, in quei mesi si era trovata costretta a conoscere demoni. Koga e Kumamoto; Homoe e Yaone. E per quanto non riuscisse a discernere certi loro atteggiamenti, aveva dovuto ammettere a se stessa di riuscire a fidarsi di loro.

 

Seguì il movimento lento di Kagome che rientrava nelle loro stanze; concesse un fuggevole sguardo a Koga e Ayame dall’altro lato dell’engawa, indugiando sulle shoji socchiuse della stanza di Alessandra. Yaone sarebbe arrivata più tardi, insieme a Homoe. Per provare a far mangiare la ragazza. Alessandra riusciva a fatica a ingerire qualcosa; e un po’ per la debilitazione un po’ per gli effetti che l’aconito aveva dato, sconvolgendole lo stomaco più di quanto non fosse già provato, quel poco che riusciva a mangiare era quasi inevitabilmente vomitato. Se Yaone non trovava una soluzione più che soddisfacente, Alessandra rischiava di morire d’inedia, oltre che per i postumi della ferita. Accarezzò Kirara e fissò il muro di cinta. Si sentiva inutile, impotente, svuotata. Le parole dell’archiatra facevano male, ma, purtroppo, erano l’unica drammatica, sfibrante certezza.

 

“Possiamo solo aspettare. E sperare che Alessandra-san abbia ancora un po’ di forza

 

 

*****

 

 

Il ventre della trota era argentato. Un brillio sommesso a pelo d’acqua; fra le canne e il basso fondale fangoso. Il ventre bianco, lucido, che lentamente si stava facendo livido. Partendo dall’esterno, dalle pinne pettorali; e gli occhi fissi. Bianchi e immobili. Con la pupilla opaca a fissare il vuoto. Galleggiava pigramente fra il liquame della riva; la pinna codale leggermente falcata semitrasparente. Si sarebbe consumata presto. La cartilagine sarebbe diventata sottile e poi dissoltasi. Il corpo sarebbe affondato nel fango; mangiato da batteri e ridotto a lisca. Una piccola lisca bianca. Invisibile. E di quegli occhi fissi, quasi beffardi, sarebbe rimasta un’orbita nera e vuota.

 

Nulla di interessante. Un già visto. Un già conosciuto che lo infastidiva appena; assieme all’odore di marcio che saliva dalla piccola insenatura semistagnante; con l’acqua oleosa e leggermente muffita. Quel pesce aveva la gola squarciata; e le labbra del taglio ormai nere e putrefatte. Un corpo marcio; definitivamente destinato a perdersi. Seguendo una legge naturale e ovvia. Banale. Seguendo un tempo che segna l’alzarsi e l’abbassarsi del sole, l’avvicendarsi sui rami delle gemme tenere e nuove; il ciclico ritorno delle piogge prima di quel calore pesante e malsano. Infido per i ningen.

 

Sesshomaru continuava a fissare quel pesce. Senza una reale motivazione. Lo guardava come avrebbe guardato un insetto fastidioso, come avrebbe guardato un massacro umano. Senza interesse; senza cercare nulla. Semplicemente osservare. Per sottolineare a se stesso la differenza. Le molte, palesi, molteplici differenze. Quel pesce; una preda di caccia; un ningen. Erano la stessa cosa: nulla. Polvere. Carne destinata a diventare polvere. Sangue, pulsioni, istinti, umori che non avrebbero avuto nemmeno il tempo, il reale tempo, di capire cosa succedesse attorno a loro. Cosa fossero.

Allungò impercettibilmente gli artigli. Lui poteva rendere cenere la carne. Lui poteva disfare in sangue un corpo. Quel sottile benessere degli artigli vischiosi e caldi; il rumore secco e improvviso di sciocco, ossa frantumate sotto la pressione della sua mano. Una pressione leggerissima e lenta. Sentendo le vene della vittima pulsare impazzite sotto la pelle.

 

Non gli interessavano i ningen. Indegni anche solo della sua più piccola attenzione. Semplice cibo, in condizione di estrema necessità. Si lisciò lentamente le labbra. Quanto era trascorso dall’ultima volta? Quanto era passato da quando aveva assaggiato la carne di un ningen? Strappandola con i denti da un corpo straziato dai suoi artigli. Perché? Non lo ricordava. Non avrebbe saputo dire perché si fosse accanito con precisa, lucida ferocia su…cos’era? Un bambino? No; non era un bambino. Sapeva di dolce. Sì; un sapore leggermente zuccherino. Ed era morbido. Una donna. Una donna gravida. Sì. Adesso lo ricordava. Una contadina. Il kosode marrone si era aperto mentre il corpo cadeva a terra, rivelando il ventre leggermente gonfio; il collo innaturalmente piegato spruzzato di sangue e del nero dei capelli fuggito al katsura tsutsumi. Perché l’aveva uccisa? Era stato per capriccio, per godersi i suoi occhi sbarrati? O forse proprio perché gravida, perché portava in grembo quel cucciolo umano.

 

Sposò lentamente lo sguardo. La trota continuava a galleggiare pigramente. E il cielo si stava coprendo a sprazzi di nubi scure e fuligginose. Si ritrovò sotto una pioggia sottile e leggera, finissima, che si insinuava fra i raggi del sole. L’aveva uccisa perché gravida. Quella femmina. Quella maledetta femmina con quell’odore dolciastro e fastidioso. L’odore che suo padre aveva addosso quando tornava dopo esser stato da lei, da quella donna. Un odore sbagliato, incoerente, ingiusto. Non aveva potuto uccidere la donna che aveva ucciso suo padre; e allora aveva ucciso quella contadina. Solo perché aveva lo stesso odore. Lo stesso maledetto odore di latte e sangue nuovo.

 

Non era riuscito a ucciderla. Quella volta, la prima e l’ultima in cui l’aveva incontrata. Nel padiglione femminile di un palazzo, ormai distrutto dal tempo e dalle guerre. Sola. Mentre allattava quel figlio indegno, quel figlio eretico. Inuyasha. Un pomeriggio di metà primavera, con l’odore del glicine e del ciliegio nell’aria. Era arrivato senza alcuno sforzo fino alle sue stanze; invisibile. Ma lei no. Lei si era accorta di qualcosa. Era come se lo avesse percepito, benché Sesshomaru sapesse che era impossibile. Sarebbe stato facile; immediato. Allungare gli artigli e aprire quella gola sottile, bianca; troppo bianca. Tutto in quella donna era troppo. Troppo luminosi i suoi occhi mentre guardava l’hanyou; troppo neri i suoi capelli; troppo rosse le labbra; troppo forte l’odore di suo padre su di lei. Sesshomaru aveva sentito una vampata calda invadergli la testa, salirgli lungo il corpo e concentrarsi negli artigli, nella volontà di dilaniare, lacerare, fare a pezzi. Ma non si era mosso. Era stata lei a vederlo; e lui a lasciarsi guardare. Voleva che lo guardasse, che sapesse chi era e capisse perché. Perché doveva morire. Desiderava la sua bocca socchiusa, con il labbro inferiore che lentamente inizia a tremare, assieme al movimento impercettibile del mento. Le mani che stringono al seno ancora nudo il figlio, che premono leggermente e poi comprimono, stringendo quasi convulsamente la stoffa della leggera coperta.

 

Sesshomaru si era avvicinato lentamente, preparando gli artigli e gustando intimamente quegli occhi grigi allargarsi, la pupilla dilatarsi fino a inghiottire l’iride e restare così, fermi su di lui, instabili e acquosi. Non riusciva a parlare. Probabilmente non sapeva nemmeno chi avesse di fronte; lo poteva intuire, ma certamente non conosceva il suo nome. Sesshomaru si era inginocchiato, piegando appena il viso di lato. Fissandola. Cercando di capire cosa avesse trovato suo padre in lei. Cosa gli avesse dato per riuscire a farlo morire per lei, a stregarlo fino a ucciderlo. Aveva lasciato scivolare la mano fino alla stoffa dello junihitoe, risalendo sfiorandolo appena. Aveva superato ignorandolo il corpicino stretto fra le braccia, aveva sentito sotto gli artigli la pelle sudata e fredda del seno, il brivido che la sua mano gelida aveva strappato. La gola. L’aveva avvolta con calcolata lentezza, mentre la donna continuava a guardarlo. Sconvolta. Terrorizzata. Sì: i suoi occhi erano terrorizzati. Perché aveva capito. Aveva capito che li avrebbe uccisi; aveva capito chi fosse e perché fosse venuto. E sapeva che non lo avrebbe fermato, che non sarebbero bastate le suppliche che cercava di balbettare e le lacrime che scendevano fino alla sua mano a fermarlo. Aveva stretto un po’ la presa e la donna aveva sussultato. Aveva continuato a premere incrementando la forza millimetro per millimetro. Di solito, non gli interessava dare una morte lenta e dolorosa ai suoi avversari o ucciderli immediatamente. Di solito, bastava che morissero. Ma lei no. Lei non doveva solo morire. Lei doveva capire. Doveva sentire l’aria andarsene, bloccarsi nei polmoni, nella gola. Doveva sentire i suoi artigli premere fino a entrare nella carne, il suo respiro regolare e i suoi occhi indifferenti. Occhi capaci di guardarla morire senza provare pietà, rammarico, rabbia, disgusto o compassione. Solo guardarla morire. Eliminarla.

 

Aveva sterro ancora. Le labbra pallide e il viso leggermente cianotico. La donna aveva lasciato cadere il bambino; suo fratello piangeva disperato. Fastidioso e irritante. Avrebbe ucciso anche lui. Prima la donna, poi lui. Ancora un altro po’; ancor una leggera pressione e la carotide si sarebbe spezzata. Aveva soppesato gli occhi velati per la dispnea, sempre più pallidi e vitrei. Rovesciarsi lentamente all’indietro, mostrare sempre di più il bulbo bianco e le sottili striature rosate dei capillari. Le mani che stringevano la manica del suo kimono e il polso allentarsi e ricadere svuotate. Ancora un po’. Un altro po’. E tutto sarebbe passato. Tutto finito.

Aveva rilassato i muscoli e la donna si era accasciata tossendo in debito d’ossigeno. Aveva rilassato i muscoli e ritratto la mano; mentre continuava a fissare il fondo della stanza, il rotolo appeso nel tokonoma. Si era alzato lentamente, e si era voltato incamminandosi. Mentre la donna cullava il figlio e piangeva. Piangeva tanto.

 

Non era riuscito a ucciderla. Ma non aveva importanza. Era giovane, quando aveva provato. Troppo giovane. E il risentire su di lei l’odore di suo padre, l’avvertire come la sua presenza alle spalle, gli occhi fissi sulla schiena, lo avevano fermato. E poi, ucciderla sarebbe stato inutile. Suo padre non sarebbe tornato in vita; e vendicarsi su una donna non gli avrebbe portato nulla. Sarebbe comunque morta. Con il tempo, sarebbe morta. Ma il bambino no. Il bambino aveva anche sangue youkai nelle vene. Il suo stesso sangue. Lui sarebbe sopravvissuto; lui avrebbe continuato a vivere. E su di lui Sesshomaru avrebbe preso la sua vendetta, avrebbe riscattato l’onore suo, di suo padre e della sua stirpe.

 

Reclinò leggermente il volto, socchiudendo gli occhi. La pioggia assomigliava ad una nebbiolina vaporizzata. Inumidiva le vesti, lisciava la pelle e i capelli. Sollevo la mano sinistra. Per una donna aveva perso il braccio; per una donna lo aveva riavuto. Non aveva molto senso, ma era così: se non ci fosse stata la miko, suo fratello non sarebbe mai riuscito a risvegliare il potere di Tessaiga; se non ci fosse stata Alessandra, il Sensei non gli avrebbe mai ridato il braccio.

Alessandra. Umana. Umana come la madre di suo fratello. Umana come l’affronto che la sua carne, la sua imperfezione, portava con sé. Eppure…eppure la voleva. Come suo padre aveva voluto quella donna. La voleva senza chiedersi il perché. Senza riuscire a capire il perché.

 

Non aveva ucciso la madre di Inuyasha, molti anni prima. Non aveva ucciso quella ragazza in un’alba di mesi passati. Eppure, non gli sarebbe costato nulla. Né sforzo né piacere. Farlo solo perché va fatto. Perché un ningen non deve osare con lui. Farlo e basta. Evitare l’errore.

Aveva sbagliato. Continuava a sbagliare.

 

Perché non lo credo inutile?

 

Non voltò nemmeno il capo quando sentì l’odore. Rimase a fissare i piccolissimi cerchi che l’acqua disegnava sulla superficie del laghetto. Inuyasha era a pochi metri di lui, lo sapeva bene. Ma non gli interessava. Non aveva senso chiedere perché fosse lì, perché avesse lasciato il palazzo. Non aveva senso né motivazione.

E allora, meglio ignorarlo. Meglio evitare una qualsiasi discussione. Non ne ha voglia; non ha tempo. Deve capire ancora molte cose; tante cose.

 

Inuyasha si era fermato. Non aveva sentito l’odore di Sesshomaru nell’umidità della pioggia; e soprattutto non si sarebbe mai aspettato di imbattersi in lui così, in quel luogo. Eppure, non gli interessava. In quei giorni, mentre lo cercava disperatamente, si era sempre immaginato che appena gli fosse capitato a tiro gli sarebbe quasi saltato addosso, pur di costringerlo a ritornare a palazzo. Aveva immaginato di aggredirlo, la rabbia e la frustrazione invaderlo e doversi costringere alla calma, doversi sforzare per evitare che la mano scivoli a Tessaiga e ingaggi un duello. Sforzarsi, fermarsi, trattenersi. E ringhiare fra i denti per ingoiare la sufficienza e l’indifferenza che Sesshomaru gli avrebbe riservato. Quello sguardo maledetto, impassibile e lontano. Si era immaginato il sollievo per la fine della caccia e una specie di eccitazione pervaderlo al pensiero della discussione che sarebbe seguita. Aveva visto e rivisto quella scena centinaia di volte nella sua testa, costruendola e demolendola continuamente; immaginando i più violenti sproloqui e i più impossibili tentativi di restare calmo. Si era immaginato molte possibilità: suo fratello che reagisce, che lo deride, che disprezza, che ignora e volta le spalle. E le sue reazioni: le urla e i probabili insulti; le risposte troppo affrettate e il male di affermazioni che avrebbe ingoiato solo per quella volta.

 

Si era preparato a tante possibili situazioni. Ma quella non l’avrebbe mai immaginata; nemmeno nei suoi più lontani pensieri. Disinteresse. Totale indifferenza verso Sesshomaru. Il ritrovarselo lì, sotto quella pioggia sottile, a pochi metri da quella lapide, lo aveva forse sorpreso, ma non gli aveva provocato quella scarica di reazioni che aveva sempre immaginato. Inuyasha inclinò appena la testa e scrollò le spalle. In quel momento, si sentiva incredibilmente calmo. Quasi indifferente alla presenza del fratello. Tutta l’angoscia, la trepidazione, la furia dei giorni passati era scomparsa, lasciando il posto a quella sensazione di quieta tranquillità. Non aveva fretta; non aveva alcuna fretta.

 

Raggiunse lentamente la lapide e si inginocchiò. I fiori che aveva raccolto sarebbero appassiti in breve tempo, ma non importava. Strizzò fra gli artigli i rametti rinsecchiti e i vecchi petali simili a carta. Non aveva portato incenso. Non lo portava mai. Sopportava a fatica l’odore del nioi-bukuro che Miroku aveva sempre addosso; bruciare e respirare quel fumo etereo e leggermente amarognolo gli seccava la gola e lo faceva tossire infastidito. Ma non importava. Sua madre non si sarebbe arrabbiato per quello; sua madre non si arrabbiava mai. Grattò con l’unghia i caratteri irregolari incisi nella pietra: il muschio stava rovinando il nome, i kanji scritti in fretta, con una pietra aguzza, e gettati lì quasi con distrazione. Non ricordava chi fosse stato a farli. Forse suo zio; forse quell’uomo che sua madre chiamava oniisan. Non importava. Quei kanji adesso erano suoi. Tutto quello che gli restava di sua madre: la sua veste e quella lapide.

 

Chiuse gli occhi. Una volta, aveva chiesto a Miroku cosa dicesse quando si inginocchiava davanti ad una tomba e univa le mani. E l’houshi aveva risposto con una parola: norito. Inuyasha scosse appena la testa. Non conosceva norito, mantra o altre diavolerie inventate dai ningen per rivolgersi ai loro defunti. Li aveva sempre visti inginocchiarsi e pregare, biascicando qualcosa fra le labbra, ma non sapeva assolutamente cosa e non gli interessava scoprirlo. Anche sua madre pregava. Quando era piccolo, ogni mattina la vedeva inginocchiata davanti al butsudan, con il profumo dolciastro dell’incenso e il tintinnio della campana sacra nell’aria. Ogni mattina, sua madre offriva una ciotola di riso a quella ihai scura e lucida. C’era un nome inciso; il nome di suo padre. Non quello con cui lo chiamavano i demoni, non quello che aveva in vita.

 

Si rialzò la frangia leggermente inumidita. Non ricordava quel nome; il nome che sua madre pregava. Lui era troppo piccolo per saperlo leggere e sua madre non lo usava mai. E dopo, quando sua madre era morta, quel nome era morto con lei. Bruciato con lei. Ma in fondo che importanza aveva? Lui non pregava. Non sapeva cosa volesse dire pregare. Non come pregano i ningen almeno. E forse nemmeno come pregano i demoni, sebbene una simile parola potesse suonare strana. Sta iniziando a capire; sta provando a tracciare una sottile linea di divisione. Fra quello che lo compone: cosa è umano e cosa demoniaco. Imparare a riconoscere i sentimenti che lo muovono, quelli dettati dal sangue umano violento e irrazionale, istintivo; e quegli altri. Quegli che non credeva nemmeno esistessero, che non riesce a cogliere: sentimenti demoniaci. Stiracchia un sorriso. Sua madre doveva averlo capito. Sua madre glielo avrebbe potuto spiegare. Dirgli cosa l’aveva attratta in suo padre, in un demone capace di uccidere per un motivo vivo solo nella sua testa.

 

I sentimenti che muovono i demoni.

Inuyasha sbirciò suo fratello. Non lo degnava della più piccola considerazione; fissava il cielo macchiato di nuvole. Non indossava l’armatura, e la sua figura era terribile. Dovette ammettere a se stesso quel brivido gelido lungo la schiena. Faceva un certo effetto incontrarlo fuori da palazzo così, con il semplice kariginu e i sashinuki hakama indaco con intrecciati all’ordito fili d’argento finissimi che trasmettevano una quieta luminescenza. Faceva uno strano effetto, ma era sempre terribile. Più terribile del guerriero con la consueta corazza, il kimono bianco e le spade al fianco. Più affascinante, e pericoloso.

 

Si sfiorò le orecchie. Non sarebbe mai riuscito a eguagliarlo nel portamento, nel modo che aveva di inclinare appena la testa quando ascoltava, nel suo alzare orgogliosamente il mento davanti ad una sfida o ad un affronto, nell’assottigliare appena gli occhi, reprimendo la pupilla fino a ridurla ad una leggerissima striscia verticale che calamita nell’ambra dell’iride. Inuyasha si era come rassegnato: in quei mesi aveva studiato suo fratello per necessità e curiosità, e aveva trovato differenze. Molte differenze. Non che questo gli importasse; era e restava orgoglioso di quella sua natura duplice, della forza che aveva comunque saputo sviluppare. Non gli bastava, certo. Ma da vario tempo aveva iniziato a chiedersi cosa avrebbe scelto se avesse avuto la sfera dei quattro spiriti in mano. All’inizio la desiderava per diventare un demone completo, per vendicare il suo essere da sempre umiliato. Poi, però, c’era stata Kikyo; e con lei l’ipotesi di diventare umano. E adesso? Adesso cosa avrebbe scelto? Demone o uomo? Non lo sapeva: lo youkai avrebbe risolto il problema delle trasformazioni in modo definitivo, ma aveva paura. Paura di perdere la coscienza di sé e diventare solo un mostro; paura di rimanere comunque uno youkai incompleto senza intelletto. Dall’altra però, da umano, non avrebbe potuto difendere Kagome.

 

Scosse la testa. A sua madre sarebbe piaciuta Kagome. Probabilmente più di Kikyo. Kagome che lo accetta per quello che è; che gli propone di non cambiare: né uomo né demone, solo se stesso. Con tutte le sue imperfezioni e le sue mancanze. Kagome che gli mostra l’egoismo dei ningen e la strana forza che ne deriva; Kagome che lo tratta con naturalezza, senza temere i suoi artigli e le sue zanne. Kagome che gli è al fianco in battaglia, che lo fa preoccupare e si preoccupa per lui. Kagome con le vesti sacerdotali; simile a Kikyo eppure così diversa. Così profondamente diversa in quello che si ostina a dare, a difendere, a fargli capire.

Sì. Sua madre avrebbe approvato la sua scelta.

 

Okaan wa Inutaisho wo suki deshita1

 

Lo sussurrò appena, con un sorriso un po’ stanco e una nuova, lenta consapevolezza che stava prendendo forma nella sua testa. Una verità che non sapeva se scomoda, fastidiosa o solo ovvia. Naturale. Spiegazioni che aveva compreso appena; che forse non avrebbe mai capito. Scrollò appena le spalle e sistemò meglio un fiore nel mazzo. La prossima volta avrebbe portato anche l’incenso. Sì; l’incenso e Kagome. Lei non doveva aver mai visto la tomba di sua madre, e Inuyasha sentiva crescere dentro il desiderio che loro si potessero incontrare, in qualche modo. Anche solo attraverso una preghiere. Chissà. Forse Kagome gli avrebbe insegnato a pregare; forse gli avrebbe spiegato cosa si deve dire mentre le mani battono e si uniscono, quando gli occhi si chiudono e resti lì, inginocchiato in silenzio, quasi in estasi mistica.

 

“Lui no”

 

“Lo so. Adesso inizio a capirlo”

 

Inuyasha stiracchiò un sorriso e voltò appena la testa. Non si aspettava che rispondesse; non si aspettava che ascoltasse le sue parole, quel sussurro strappato al vento un po’ umido del primo pomeriggio. Come non si sarebbe mai aspettato di trovare Sesshomaru a pochi passi dalla tomba di sua madre.

Gli aveva risposto, ma continuava a osservare il disperdersi dei cerchi nell’acqua. Inuyasha si ritrovò a chiedersi a cosa pensasse quando fissava un punto in quel modo; quando gli occhi di suo fratello erano concentrati e insieme distanti. Si chiese cosa vedesse, cosa cercasse di vedere, mentre si ostinava a guardare il centro di minuscole increspature. Si alzò sfiorando con l’artiglio la lapide e si accucciò accanto a Sesshomaru. Cosa vedeva? Cosa vedeva nel nero di quelle acqua appena smosse? L’abisso dell’universo, conoscenza, l’essenza stessa della natura, della vita che palpitava in quella realtà che li circondava e di cui gli youkai sono terribile manifestazione? Cosa vedeva suo fratello? Se stesso? La propria eterna, perfetta, immutabile essenza? Quella superiorità che non aveva nulla da spartire con kami e ningen, che era solo diversa? Diversa nel percepire, nel sentire, nel provare.

 

Sospirò e premette il mento sulle braccia. Sesshomaru aveva detto una cosa vera: suo padre, Inutaisho, non aveva mai amato sua madre. Non come lo amava lei; non con lo stesso nome che usava lei. Se suo fratello si fosse azzardato a dirgli una cosa simile solo pochi mesi prima, Inuyasha sapeva che in quel momento lo starebbe coprendo di insulti cercando di respingere la pressione della sua spada. Oppure starebbe imprecando contro il mezzo sorriso irritante che gli avrebbe rivolto. Prima lo avrebbe fatto; prima. Adesso invece non era offeso. Perché offendersi della verità? Di quella che non era menzogna costruita ad arte? In passato, Inuyasha non aveva mai creduto a quelle parole di suo fratello. Ogni volta che Sesshomaru sottolineava come suo padre non avesse amato Izayoi, Inuyasha sentiva il sangue salirgli alla testa e la voglia di chiudere la bocca di suo fratello muovere le sue mani.

 

Adesso era diverso. Izayoi aveva amato con tutta se stessa quel demone che le era apparso in un tramonto rosso di sangue; quel demone che aveva fatto strage di banditi e guardie della scorta senza preoccupazione, senza curarsi di comprendere chi fosse assalito e chi assalitore. Attaccati per eliminarli, per liberarsi il cammino. Izayoi lo aveva visto così, la prima volta, attraverso il velo lacero e spruzzato di sangue del mushi no teraginu, gli occhi iniettati di sangue, la bocca sporca di saliva, sangue vecchio e nero, il viso incrostato di rosso. Capelli lunghi scarmigliati dal vento e dei combattimenti e vesti annerite da sporcizia e sudore. Una demonio uscito dall’inferno, uno spirito impuro risalito da Yomo.

 

Izayoi lo aveva visto spezzare ossa, maciullare uomini e animali con l’indifferenza di chi schiaccia un insetto fastidioso; lo aveva visto affondare le zanne nella carne ancora calda e …mangiare. Mangiare carne umana; strappare con i denti e gli artigli la pelle in lunghe strisce sanguinolente o in grumi nauseanti di visceri e sostanze spugnose. Lo aveva visto così la prima volta: la selvaggia, incontrollata potenza della sua natura demoniaca.

Lo aveva visto e se ne era ritratta terrorizzata e tremante. Incapace di distogliere gli occhi da lui, dalla sua forza brutale e da quella bellezza diversa. Diversa da quella dei soldati di suo padre; diversa da quella del giovane che aveva avanzato la richiesta della sua mano a suo padre. Takemaru Setsuna. Bello, colto, valoroso. Non aveva un avvenire nella casa paterna, ma Izayoi sapeva che suo padre caldeggiava quel matrimonio ed era disposto anche ad adottare il genero. Sì; Takematu era bello; ma era una bellezza diversa quella che la stava costringendo a tremare con la gola chiusa in una morsa quasi dolorosa.

 

Izayoi lo aveva visto, e lui si era accorto della donna seminascosata dai rottami della portantina. Si era sentito addosso i suoi occhi disgustati, affascinati, terrorizzati. L’aveva cercata nella luce sanguigna del sole; aveva cercato il suo sguardo folle di sorpresa e terrore. Aveva cercato il suo odore nell’aria ammorbata dal fetore di cadaveri e sangue. L’aveva cercata e l’aveva trovata. Restando a osservare le sue mani strette convulsamente ad un pezzo di legno lavorato, il largo copricapo lacerato e il velo sbrindellato. Si era limitato a fissarla pulendosi appena il mento con il dorso della mano.

 

Izayoi non avrebbe saputo dire come. Un attimo prima era a diversi metri da lei, scolpito dal rosso del sole e inginocchiato sulla sua ultima vittima; la mano ancora nelle viscere e il movimento lento della mandibola. Un istante prima era lontano, e un istante dopo si era ritrovata la sua bocca sulla sua. Si era ritrovata premuta contro quello che restava della sua portantina. Labbra fredde ad assaggiare le sue, zanne a morderle la pelle, a stuzzicare, esplorare, violare. E le mani. Le mani del demone strette sulle spalle; risalire fino ai capelli e torturali in modo doloroso ed eccitante. L’unghia affilata percorrere il profilo della scapola e lacerare uchie e kake-obi, scendere sul seno parzialmente denudato. E lei che piangeva mentre sentiva il suo corpo disobbedirle e lasciarsi andare, stendersi sotto di lui e allargare le gambe. Cercarlo. Volerlo. Desiderarlo. Volere quel corpo freddo, troppo freddo nonostante lo sforzo di uccidere; quel corpo che sapeva di buono invece che di sudore e sporco. Mandorle. Aveva il sapore strano delle mandorle triturate.

 

Accorgersi delle mani che risalgono il suo petto protetto da una strana corazza; insinuarsi nei capelli fino a sciogliere il nastro che li trattiene e sentirsene avvolgere. Sentire quei fili quasi impalpabili ricoprirle il viso, sfiorare il corpo nelle parti nude. La mani disegnare quel volto sbagliato, le inusuali strisce che lo scurivano e le labbra pallide ancora sporche di sangue. E gli occhi. Quegli occhi d’ambra brillare di desiderio, di piacere, di voglia. Un luccichio strano, inquietante e spaventoso; eppure non terribile. Non…non volgare. Non era lo sguardo del ningen che vuole divertirsi con la yotaka di turno; non era lo sguardo del brigante che afferra una donna per i capelli e la sbatte per terra per divertirsi con lei, per godere della sua resistenza, delle sue urla di supplica, delle lacrima confuse con i gemiti di piacere.

Lo sguardo di quel demone era diverso. Era un abisso di luce. Meraviglioso e profondo. Senza confini. Affascinante e oscuro. Per quanto Izayoi sapesse che l’ambra non può essere scura; per quanto si accorgesse che era stupido pensare a un sole nero per quegli occhi. Eppure, non riusciva a toglierselo dalla testa. E mentre la bocca del demone scendeva lungo il suo corpo, mentre le mani assaggiavano pelle e tremiti, Izayoi si era accorta di non volerlo allontanare. Di non riuscire a desidera che la lasciasse o la uccidesse piuttosto che la violentasse. Le sarebbe bastato solo un istante. Un movimento leggerissimo, anche solo fingere di assecondare il demone per raggiungere il kaiken nascosto nelle pieghe dell’obi; estrarlo e tagliarsi la gola. Jigai. Per salvare l’onore; della famiglia e suo. Non riusciva a desideralo. Non cercava di scappare, ribellarsi o sottrarsi. Voleva quel sole nero fissarla, guardarla, bramarla.

 

Poi, quel richiamo. Quel lungo, cupo, prolungato ululato nella notte appena iniziata. E il demone che aveva alzato la testa, annusato l’aria e se ne era andato. Senza degnarla di uno sguardo. Senza ucciderla o portarla via. Scomparso con la velocità con cui se lo era ritrovato davanti. E Izayoi si era accorta della notte fredda di fine estate per i brividi sulla pelle accaldata e nuda; si era accorta di respirare e vivere per il pianto silenzioso che le scorreva sulle guance.

 

Inuyasha si strofinò il viso bagnato. La pioggia non era fastidiosa, ma lasciava una scia umida sul viso, fra i capelli. Mosse le orecchia a distinguere il canto di una allodola. Gli era sempre piaciuto il silenzio di quel luogo, e sembrava che anche suo fratello lo apprezzasse. Per quanto un demone può apprezzare quella sensazione. Scosse la testa. Era difficile. Maledettamente difficile. Non sapeva più nemmeno come pensare. Credeva di poter provare almeno a intuire il diverso modo di sentire dei demoni, ma non riusciva minimamente a immaginare cosa fosse ovvio, normale, e cosa anormale. Forse il respiro della terra era abituale; forse il rumore della pioggia contro la superficie dell’acqua era una consapevolezza innata. Forse. Forse. Forse.

 

Si massaggiò la nuca. Sua madre non gli aveva mai detto che Inutaisho l’avesse amata. Non usava mai quella parola: amore. Da piccolo non ci aveva mai fatto caso. Per lui, l’amore era l’abbraccio di sua madre, il suo sorriso rosso sul volto pallido, la fragranza delle sue vesti e i denti neri che brillavano dietro il ventaglio. Per lui, l’amore era non sentire la parole hanyou sbattutagli in faccia.

L’amore che gli raccontava sua madre era un altro. Era quello che aveva scoperto dopo. Quello provato con Kikyo; e poi con Kagome. Forse solo quello per Kagome. Non che non avesse amato la miko, ma probabilmente era un amore diverso. Quello che si nutre prima di tutto di sogni, di illusioni; quello delle attese fra i rami di un albero e del rossore causato da uno sguardo troppo lungo, da uno sfiorarsi troppo inaspettato. Aveva iniziato ad amare con Kikyo, ma Inuyasha iniziava a convincersi che solo con Kagome il sentimento fosse diventato quello più profondo. Un sentimento che è assieme carne e spirito; senza imbarazzo e pudore. Senza vergogna di provare desiderio e sapendosi accontentare anche di poco.

 

Ripensò all’imbarazzo di Alessandra la sera che gli aveva confessato di essersi innamorata del Principe. Ricordò i suoi occhi incapaci di restare fermi, le mani tormentare gli abiti e intrecciare nervose i capelli. Ricordò il sorriso trasognato e quasi incredulo dipingerle le labbra. Alessandra aveva usato la stessa parola di sua madre: innamorata.

Il problema era un altro, però. Inuyasha soppesò il viso alla mano; Sesshomaru continuava a guardare davanti a sé, incurante della sua presenza. Ecco, quello era il problema: Sesshomaru. O meglio, i sentimenti del Principe per la ningen. Inuyasha arricciò il naso. Koga era stato abbastanza chiaro nelle sue spiegazioni: un demone può amare, ma non come i ningen. Sono sentimenti diversi. Aveva precisato che molto dipende dalla razza cui gli youkai appartengono, ma la base del concetto non cambiava. Uno youkai di infimo livello, incapace di assumere sembianze antropomorfe, restava istinto animale; senziente e vagamente pensante, ma estremamente simile agli animali. La differenza la facevano loro, gli youkai capaci di trasformarsi. E qui Inuyasha aveva faticato a seguire le spiegazioni altalenanti dell’ookami. Aveva parlato di clan che dividono gli youkai, di abitudini diverse, di maggiore o minore legame con la forma animale, di differenza di sentire in base all’aspetto assunto, con controllo ed ego che virava da quello demoniaco in forma umana a quello demoniaco in forma animale, fra ragione istintiva e istinto razionale. Inuyasha si era perso a metà discorso. Aveva archiviato una marea di informazioni che assomigliavano ad una matassa di lana da cardare. Col tempo, si era detto. Con il tempo ci sarebbe venuto a capo. Lentamente. E la cosa non lo entusiasmava affatto.

 

Strinse un labbro. Di tutto quel discorso, una cosa l’aveva ben chiara, però: gli inuyoukai sono diversi. Per loro è tutto più difficile. Koga gli aveva cercato di spiegare che solo la stirpe di suo padre e di suo fratello potevano, fra i demoni, aspirare a diventare kami. Solo loro fra tutti. E questo significava molto. Anche nei sentimenti. Loro inuyoukai erano pura essenza demoniaca, pura razionalità fattasi tangibile. Potevano amare, ma la percezione che avevano dell’amore era un qualcosa che Koga non era riuscito a spiegargli. Glielo aveva detto in un’altra lingua, che lui non conosceva. Gliene aveva parlato in una lingua che suonava come lo stormire delle fronde, lo sciacquio dell’acqua, il rombo del tuono, e il silenzio degli abissi. Gliene aveva parlato in una lingua che era movimento di labbra e parole impossibili da ripetere. La lingua di loro youkai. Quella nata con loro e che usavano solo di rado. Koga non aveva potuto fare diversamente; era ricorso a quella lingua nella speranza che la parte demoniaca di Inuyasha la riconoscesse e gli permettesse almeno di intuirne vagamente il significato.

 

Inuyasha sfiorò Tessaiga al fianco. Se avesse chiesto a suo fratello, cosa gli avrebbe risposto? Gli avrebbe ripetuto le parole di Koga o si sarebbe limitato a schermire la sua curiosità? O forse avrebbe saputo tradurre in modo più chiaro quella lingua che aveva usato l’ookami? Quei suoni che gli erano scesi dentro, e lo avevano fatto sentire privo di corpo; era come se ogni sua fibra si allargasse all’infinito ed entrasse in risonanza con qualcosa. Qualcosa che aveva come trasmesso mille scariche di sensazione al suo cervello, investendolo fin quasi a farlo impazzire. Conservava quel ricordo da quell’esperienza: la sensazione di fusione totale. Forse era quello che significava per un demone amare. Entrare in contatto con quel qualcosa e fondersi completamente con esso. Un qualcosa di totalizzante, assoluto, annichilente.

Sbuffò e si massaggiò le tempie. Gli stava venendo mal di testa. Tutti quei ragionamenti non facevano per lui. Punto primo: riportare Sesshomaru a palazzo. Da Alessandra. Al dopo ci avrebbe pensato.

 

Cosa vuoi fare, Sesshomaru?

Alessandra-chan ti sta aspettando”

 

Il Principe piegò appena la testa verso il fratellastro. Rimaneva tranquillamente seduto accanto a lui, le mani dietro la schiena a reggere il peso e gli occhi fissi sul lago. Lo stava provocando? Sapeva benissimo che gli sarebbe bastato un attimo per afferrargli il collo e stringere. Stringere fino a far penzolare la testa in modo innaturale sulle vertebre spezzate. Lo stava provocando? No. Inuyasha non aveva nulla di provocatorio, di irrispettoso. Sesshomaru si accorse quasi con sorpresa che stava semplicemente cercando di parlare, di creare quello che i ningen chiamano dialogo. Un inutile e futile spreco di fiato e tempo. Inutile dare una risposta; era stupido e superfluo. E poi, le sue decisioni non dovevano interessare Inuyasha.

 

“Solo perché tu lo sappia, Alessandra-chan ha ripreso conoscenza

 

Ecco. Adesso lo stava provocando. Con quel leggero sorriso di scherno sulle labbra; quel sorriso odioso di trionfo per il misto di stupore, sorpresa e rabbia che per un istante aveva lasciato trapelare. Sì; anche rabbia. Alessandra aveva ripreso conoscenza, e lui non c’era. Alessandra aveva ripreso conoscenza, e lui non le era seduto accanto. Non lo avrebbe comunque mai fatto, ma il pensiero degli occhi stanchi della ragazza cercarlo, aspettarlo, desiderarlo, gli perforò la mente. Certe notti, Alessandra si portava a sedere sul futon con un grido rauco e il viso inondato di lacrime e sudore; tremare e stringersi spasmodicamente a lui, premere il suo corpo contro il suo torace nudo, baciarlo e lasciarsi tranquillizzare. In quelle notti, Sesshomaru aveva maledetto la cecità che gli impediva di vedere il viso della ragazza, di cercare d’intuire cosa la traumatizzasse, cosa la terrorizzasse. Quelle notti le consumavano giocando all’amore. Alessandra provocava, incendiava, stuzzicava e si lasciava toccare, baciare, accarezzare con sfrontatezza, con desiderio e senza quasi pudore. Forse una volta era arrivata a denudarsi il seno e premerlo sul suo corpo, a costringere le sue mani a sfiorarle il petto. E lui si era allontanato. Era uscito dal futon quasi…avrebbe potuto dire spaventato. Del repentino cambio di atteggiamento, del bisogno disperato che la ragazza sembrava mostrare di farsi amare. Lei. Lei che lo aveva schiaffeggiato solo perché le aveva stretto una spalla, che aveva tremato impaurita e terrorizzata quando le aveva afferrato un polso. Lei che singhiozzava isterica nel letto, coperte a nascondere il seno e la sorpresa mescolata allo sconcerto per quello che non era riuscita a razionalizzare, per quello che aveva pensato di voler fare. Era accaduto. Una, due volte al massimo. Ma era accaduto. Assieme a quelle notti spezzate dalle sue grida e da lacrime poi sempre più silenziose.

 

“Che sei venuto a fare qui?”

 

Cosa gli ripeteva sempre Miroku? Se fai centro con le tue domande, non insistere. Riuscire a parlare è un po’ come giocare a shogi: ci vuole strategia e pazienza. E lui non ne ha mai molta di pazienza. Tuttavia, Inuyasha si sorprese a non avere alcuna fretta. Sapeva perfettamente che era un azzardo sprecare tempo così, in pensieri e nel tentativo forse vano di intavolare una conversazione, mentre Alessandra poteva aver avuto un’altra crisi, essere agonizzante o peggio. Sapeva che era da stupidi restare lì seduti, con gli abiti sempre più umidi e pesanti e piccole gocce di pioggia scendere sul viso; restare tranquilli a fissare uno specchio d’acqua invece di afferrare Sesshomaru e dargli una bella scrollata. Invece di mettersi a sbraitare e urlare e cercare di farsi seguire. Era stupido. Maledettamente stupido. E non se ne pentiva. Non riusciva a pentirsene. Inuyasha strappò una cannuccia di bambù e iniziò a smuovere appena la superficie dell’acqua. Come un bambino.

 

Sesshomaru si concesse di osservare la mano del fratello e il movimento quasi ipnotico dell’acqua. Non aveva mai considerato seriamente la possibilità di trovarselo davanti e non cercare di ucciderlo, non interessarsi alla sua presenza. Anche quando era intervenuto per fermarlo e riportarlo alla ragione dopo la trasformazione in demone, non lo aveva fatto di certo per improvviso spirito fraterno. Voleva ucciderlo. E voleva che ne fosse consapevole, che tremasse davanti a lui e capisse la differenza che li separava. Lo voleva morto; ma non gli bastava che morisse. Voleva ucciderlo lealmente, in duello. Mosse la mano sinistra a solleticarsi il palmo con gli artigli, formicolio leggero. Non gli portava rancore per quel braccio amputato. Lo aveva fatto fissandolo negli occhi. No. Non gli portava quel rancore. E forse non era nemmeno rabbia e rancore a muoverlo. Quando Inuyasha gli era davanti, sentiva come il risucchio del magna di un vulcano. Sentiva il fremito della terra e il rimbombo del cielo. E i suoi ringhi erano offese in una lingua che l’hanyou non conosceva, che suonava come semplice ruggito trattenuto.

 

Voltò appena la testa e socchiuse gli occhi. Cosa cercava davvero in quel posto? Avrebbe potuto dirgli che ci era capitato per caso o non dirgli nulla. Ma la menzogna non è di un demone. L’astuzia, ma non l’inganno. E Sesshomaru sapeva perfettamente che, anche se non ci aveva creduto fino in fondo, si era recato a quella tomba di proposito. Per trovare qualcosa. Qualcosa che non aveva un nome preciso. Forse per provare a capire i pensieri e le azioni di suo padre. Per provare a capire cosa lo avesse spinto a trattare quella femmina diversamente dalle altre, a non ucciderla e non limitarsi a divertirsi con lei. Ad accettare la morte per lei. Non la amava. Non dell’amore dei ningen. Di quel patetico, sciocco sentimento che è solo egoismo. Puro e semplice egoismo. I suoi genitori si amavano. I suoi genitori si erano legati con un vincolo che superava le parole e il tempo. Eppure, suo padre aveva accettato anche quella donna. Forse sarebbe stato diverso se sua madre fosse stata viva. Forse. Non gli interessava saperlo. Non poteva comunque avvenire.

Cosa cercava? La speranza che il suo rapporto complicato con Alessandra fosse diverso, che non si sarebbe lasciato irretire da lei e non si sarebbe sacrificato? La certezza di non ricalcare le orme paterne anche in quell’errore?

Si accorse degli occhi di suo fratello. Occhi d’ambra grandi ed espressivi. Gli stavano chiedendo a cosa pensasse, cosa cercasse, cosa lo rendesse…inquieto. Gli occhi di Inuyasha non erano cambiati negli anni. Più adulti, più malinconici, ma sempre grandi, sempre incapaci di intuire il pericolo di fronte al nuovo.

 

Sesshomaru assottigliò lo sguardo. Ricordava un cucciolo fissarlo in quel modo, nell’azzurrino della nebbia invernale. Ricordava due occhi lucidi allargarsi leggermente e fissarlo con stupore, le orecchiette muoversi veloci sulla testa e il respiro attento di chi annusa l’aria. Suo fratello doveva avere circa tre anni la prima volta che lo aveva incontrato. Un giorni di inizio inverno, con una nebbia che non si scioglieva e un sole malato nascosto dietro a nuvole troppo basse e grigie. Era tornato a quel palazzo. Forse per controllare; forse per vedere se la donna era morta. Ma non era andato oltre. Non era entrato nelle stanze femminili; non quella volta. Si era fermato fra i bambù, davanti ad un esserino che aveva l’odore suo e di suo padre e di quella maledetta donna. Un cucciolo di hanyou che si era asciugato il visino bagnato e sporco di fango, che aveva allungato la manina con gli artigli ancora teneri cercando di afferrare quella strana apparizione e che l’aveva vista svanire nella nebbia senza emettere suono. Quel ragazzo con gli occhi come i suoi e un odore simile al suo.

Aveva pensato di sognare, di esserselo immaginato, ma sua madre aveva dato corpo e nome a quell’apparizione fra la nebbia. Gli aveva detto di avere un fratello maggiore, il figlio di suo padre e della yasha che era la sua compagna.

E Sesshomaru aveva sentito il proprio nome su quella bocca indegna, su quelle labbra troppo accese. Suo padre le aveva parlato di lui. Di lui! E di sua madre.

Se ne era andato senza più tornare. Aveva saputo dopo molto tempo che la ningen era morta e il bastardo scappato e costretto a vivere alla macchia. Aveva atteso anni, impiegando il tempo nella ricerca dell’eredità di suo padre che reclamava per sé. E quando lo aveva incontrato, Inuyasha aveva circa la sua età quando era morto Inutaisho. Un ragazzino ancora, ma con gli stessi odiosi occhi grandi di un bambino.

Gli stessi che lo continuavano a fissare.

 

“Risposte”

 

“E le hai trovate?”

 

Stiracchiò un mezzo sorriso. Forse. Forse aveva capito. Capito cosa provasse, cosa volesse. Senza preoccuparsi di regole, parole e nomi. Il difficile sarebbe stato dirlo, tradurlo in parole comprensibili ad una ningen. E accettare di doversi spiegare, di doversi abbassare a farsi capire e avere la pazienza di continuare a parlare. Di sacrificare silenzi a chiacchiere e giri di parole. Arricciò inconsciamente il labbro a lasciar intravvedere una zanna, fissando quasi con sfida la lapide. Non avrebbe risposto a suo fratello. Non a quella domanda.

 

Inuyasha scrollò le spalle al suo prolungato silenzio. Ci era avvezzo ormai. Si rialzò sistemandosi gli abiti e scarmigliando i capelli umidi sotto l’occhio indifferente di Sesshomaru. Controllò Tessaiga al fianco e recuperò Tenseiga abbandonata contro il tronco del salice. Non gli era capitato spesso di sfiorare la katana del fratello, e si sorprese di non percepire nulla: né youki né una barriera. E soprattutto si sorprese che quella fosse l’unica arma che Sesshomaru aveva portato con sé; fra tutte quelle fra cui poteva scegliere, aveva preso Tenseiga.

Gliela porse. Sesshomaru fissò prima la spada, poi Inuyasha e infine di nuovo la katana, strappandogliela con un mezzo sospiro dalle mani e riallacciandola con eleganza al sigeo. E gli occhi di suo fratello addosso, con il suo ghigno sbruffone e le braccia provocatoriamente incrociate sul petto.

 

“Credo sia ora di piantarla di andarcene in giro

 

 

*****

 

 

Chikuso!”

 

Bocca piena di terra. Sapore orribile. Inuyasha imprecò cercando di schiarirsi la vista; gli occhi bruciavano terribilmente. Ma in cosa diavolo era inciampato? E soprattutto, come aveva fatto a inciampare? Respirò pesantemente; faceva fatica a rimettersi in piedi. Anzi, gli faceva male anche solo il pensiero di doverlo fare. Era stanchissimo. Nelle ultime ore si era chiesto come ancora riuscisse a correre, visto che non sentiva nemmeno più le gambe e il sudore continuava a bagnargli fastidioso la fronte e a cadere negli occhi.

Strinse un ciuffo d’erba e cercò di portarsi almeno in ginocchio. Piano. I muscoli tremavano vergognosamente nello sforzo di risollevarlo. Quel ritmo era troppo per lui; era da quasi un giorno intero che correva spremendo al massimo le sue forze; voleva arrivare in fretta, era ovvio. Ma lui non ce l’avrebbe fatta ancora per molto. Anzi: se non si fermava a prendere fiato, altro che semplice errore di valutazione nel darsi lo slancio. Si sarebbe ritrovato steso per terra senza fiato e con la testa prima pesantissima e improvvisamente leggera, quasi svuotata.

 

Non che adesso ci sia molto lontano

 

Borbottò qualcosa di incomprensibile e masticò un’altra imprecazione. Adesso, avrebbe dovuto faticare il doppio per recuperare il vantaggio di Sesshomaru. Maledizione! Suo fratello non aveva certo di quei problemi, poteva correre senza un attimo di sosta per giorni interi, fermarsi cinque minuti e riprendere con lo stesso ritmo e la stessa energia. Per lui era diverso. Maledettamente, fastidiosamente diverso. Inuyasha era capace di ritrovare forza ed energia in duello, bastava che i suoi amici o Kagome fossero in pericolo. Ma quella era una caratteristica della sua parte umana, la resistenza disperata che riusciva ad avere in situazioni estreme. Un comportamento molto diverso da quello di suo fratello, da quello di uno youkai.

 

Sesshomaru dava tutto se stesso in ogni momento, senza sbalzi e con costanza; calibrava la forza per non restarne mai privo e perché le energie non fossero mai ridotte al lumicino. Poteva accadere, certo. Anche un demone può ritrovarsi con il fiato corto e la fronte imperlata di sudore. Il punto è un altro: non se ne accorge, non gli dà un eccessivo peso. Inuyasha lo aveva visto con i suoi occhi. Durante la battaglia contro Morigawa suo fratello aveva ricominciato a battersi con naturalezza e precisa velocità come se fosse appena sceso in campo. L’unica cosa che sembrava disturbarlo era il dolore alla testa e agli occhi. Passato quello, Sesshomaru era tornato pienamente padrone della sua forza e del suo corpo. Tanto da riuscire a lasciare il campo correndo come di consueto nonostante le ore passate in combattimento e il sangue che fluiva continuo dalle ferite. E ancora mascherare il passo malfermo mentre attraversava la piazza d’armi.

 

Inuyasha si sfregò la faccia con un mezzo sorriso. Sesshomaru lo doveva aver distanziato parecchio, ormai; sarebbe arrivato a palazzo per primo e lui si sarebbe dovuto accontentare dei racconti di Kagome sul suo comportamento. E se solo provava a deviare per il corridoio e rifugiarsi di nuovo nelle sue stanze, questa volta Inuyasha giurò a se stesso che lo avrebbe preso di peso e trascinato da Alessandra. Al diavolo anche i consigli di Kagome: con suo fratello ci vogliono le maniere spicce, non la retorica. Si concesse una breve risata. Quello in riva al lago non era stato un vero e proprio dialogo, ma non poteva evitare di ammettere a se stesso che, comunque, la situazione creatasi era alquanto particolare. Lui e Sesshomaru che scambiano due parole senza cadere nelle offese e nelle provocazioni. Suo fratello che accetta la spada da lui, che la soppesa al fianco e si volta iniziando a correre. Senza dargli soddisfazione, senza rispondere alla sua battuta, ma anche risparmiando i soliti sguardi di sufficienza, di rabbia mal repressa.

Bene. Da quel momento in poi, Inuyasha sapeva che avrebbe dovuto imparare a capire gli atteggiamenti di suo fratello. Cercare di decifrare la freddezza e il controllo che gli erano proprio, e ritrovare nella sua testa la chiave di lettura di quei sentimenti diversi. Di quel modo di percepire, provare, amare, odiare, interessare, disprezzare che è degli youkai.

 

Dopo. In futuro, però. Magari finendo come sempre a ringhiargli contro più esasperato che arrabbiato, più colpevole che indignato, ma almeno ci avrebbe provato. A modo suo. Dopo. Adesso, la priorità era recuperare il fiato e far smettere la testa di girare. Alzarsi e sperare di avere la forza, se non di correre, almeno di trascinare i piedi fino a palazzo. Aveva promesso di ritornare. Aveva i suoi amici e Kagome ad aspettarlo. Quando l’anziana Kaede e gli uomini del villaggio lo avevano trovato esausto sul greto del torrente, aveva solo rassicurato tutti che stavano bene. Ma in quel momento aveva desiderato aver accanto Kagome, poter entrare a Musashi, dover litigare con lei perché voleva andarsene a studiare oltre il pozzo. Ecco, altra questione da risolvere: Kagome doveva tornare a casa. Erano mesi che non vedeva la sua famiglia, e chissà cosa avevano pensato in tutto quel tempo. Da parte sua, Inuyasha era fermamente intenzionato ad accompagnarla e a chiedere scusa per quanto successo. Un atteggiamento che non gli era proprio di certo, ma se il rischio era che non gli lasciassero più avvicinare la ragazza, allora era disposto anche a inginocchiarsi e implorare perdono.

 

Scosse la testa. Ci avrebbe pensato; con Kagome avrebbero elaborato una buona scusa o avrebbero deciso se raccontare la verità; forse tralasciando qualche particolare e indorando un po’ la situazione. Sesshomaru, palazzo, correre: erano quelle le priorità del momento. Ringhiò fra i denti al pensiero dello sforzo che ancora lo aspettava. Una volta arrivato, si sarebbe sdraiato sul futon e minimo due giorni non si sarebbe più mosso. Neanche crollasse il palazzo.

Sollevò lentamente la testa e si dimenticò di richiudere la bocca.

 

Sesshomaru era di spalle a pochi metri da lui. Immobile. In attesa.

Inuyasha si era aspettato il vuoto e il buio del sentiero; mai avrebbe immaginato di vedere la schiena di suo fratello. Anzi, di vedere che suo fratello era lì. Per quale motivo, poi? Non aveva alcun bisogno di una guida per ritrovare la strada del palazzo, del suo palazzo. E anche gli fosse stata necessaria, non si sarebbe mai abbassato a chiedere a lui. Sesshomaru non si abbassa mai a chiedere. Eppure, sentì una strana sensazione invadergli il petto. Come se il sangue rifluisse veloce al cuore, mentre un abbozzo di sorriso incredulo gli piegava le labbra. Adesso avrebbe anche potuto mandarlo al diavolo e ricominciare a correre. Adesso avrebbe anche potuto offenderlo e insultarlo. A Inuyasha non sarebbe importato. Perché si era fermato. Perché era lì a pochi passi da lui che lo…stava aspettando? Era davvero possibile che Sesshomaru aspettasse lui, un bastardo, un hanyou?

 

Gli dava la schiena. Inuyasha realizzò in un brivido che suo fratello gli aveva sempre dato la schiena. E che per quanto lui si sforzasse di guardare avanti, era la schiena di suo fratello che gli riempiva gli occhi. Come se…come se avesse sempre cercato di guidarlo, di insegnargli qualcosa. Anche solo per poterlo uccidere in un duello che valesse davvero quel nome. Incrociò le gambe e cercò di regolarizzare il respiro. Sesshomaru continuava a tacere e dargli le spalle. Senza mettergli fretta e senza fargli pesare quel piccolo cedimento. Lo aspettava e basta. Lo spronava ad alzarsi. A modo suo, senza parole di incoraggiamento o insulti. Continuando a mostrargli la schiena.

 

Una volta Miroku gli aveva detto che per i ningen esiste un proverbio che dice che gli uomini crescono guardando la schiena del padre. O qualcosa del genere. Lui non aveva mai visto suo padre; lui non aveva nessun esempio da seguire e un racconto, per quanto bello e avvincente, non può diventare un modello. Eppure, si rese conto in quel momento, era cresciuto inseguendo una schiena. Quella che aveva visto dileguarsi nella nebbia tantissimi anni prima; quella cui sua madre aveva dato un nome; quella che lo aveva protetto e allontanato da un attacco di Sounga; quella che se ne era andata, molte volte, senza mai dargli il colpo di grazia, infiammandogli il cervello di rabbia e amarezza. La schiena di suo fratello.

 

Inuyasha sapeva che non si sarebbe voltato per aiutarlo. Sapeva che non gli avrebbe mai offerto la mano. Era capace piuttosto di restare a fissarlo per ore; inchiodarlo a terra con quel suo sguardo indifferente e sfacciato. Costringerlo a sentirsi inferiore, umiliato, arrabbiato, voglioso di dimostrargli il contrario. Sesshomaru non si sarebbe mai voltato; ma lo avrebbe aspettato. Continuava ad aspettarlo e forse lo aveva sempre fatto. Si era sostituito al padre per quel fratello che disdegnava, che aveva provocato la morte di Inutaisho. Se ne rendeva perfettamente conto, e non trovava una vera spiegazione. Una spiegazione soddisfacente.

 

Inuyasha era inginocchiato alle sue spalle. Il respiro ancora troppo pesante perché potesse riprendere a correre. E invece di andarsene e lasciarlo lì, di liberarsi della sua presenza, cosa aveva fatto? Si era fermato. Si era fermato ad aspettarlo. Come se il rientrare a palazzo con lui fosse una necessità, fosse un qualcosa di quasi naturale.

Sesshomaru lo sbirciò con la coda dell’occhio rimettersi in piedi appoggiandosi alla spada. Sudava ed era sporco di terra. I capelli aggrovigliati e le orecchiette leggermente abbassate. Come non avvertisse la necessità di restare all’erta; come volesse urlare di sentirsi al sicuro. Possibile? Possibile che Inuyasha avesse abbassato la guardia in sua presenza, pur sapendo che sarebbe bastato un attimo per sentirsi gli artigli sulla pelle della gola e accorgersi in un drammatico istante che era troppo tardi? Troppo tardi per provare a reagire, per sfoderare la spada, per artigliare o ringhiare. Troppo tardi per urlare, parlare, anche solo respirare. Una pressione leggera, e la fine di tutto.

Eppure, sembrava che tutto il suo essere fosse concentrato unicamente nel tentativo di recuperare un equilibrio bastevole a riprendere a correre.

 

Sesshomaru socchiuse gli occhi e si concesse un impercettibile respiro.

Quando avvertì suo fratello avvicinarsi, tendere i muscoli pronto a ricominciare a rincorrerlo, mosse un passo. E poi un secondo, e un terzo. Lasciandosi alle spalle quasi divertito la faccia confusa e sbigottita di Inuyasha. Sesshomaru stava…stava semplicemente camminando. Invece di riprendere subito la corsa, aveva iniziato a procedere lentamente, con passo regolare ma sostenibile anche da lui. Inuyasha scosse la testa e si azzardò a incrociare le braccia dietro la nuca. Se avessero camminato così, tempo un quarto d’ora e le forse gli sarebbero tornate. Mezz’ora al massimo per ripristinare in modo soddisfacente le energie e permettergli di coprire le ultime distanze.

 

“Sei tutto matto”

 

Sesshomaru increspò appena le labbra. Sembrava un complimento. In effetti, il suo comportamento poteva esser tutto fuorchè normale. Ma in fondo in quegli ultimi mesi nulla era stato normale. Era rimasto lo spietato Principe, capace di scendere in battaglia e uccidere senza alcuna esitazione o possibile rimorso, e al tempo stesso aveva iniziato a tenere presso di sé un’altra femmina umana. Una protetta; molto diversa da Rin. Alessandra godeva della stessa protezione della bimba, eppure il rapporto era diverso. Con lei, il demone aveva sentito un desiderio, una volontà istintiva di carne, di corporeo, di materiale, che aveva represso con disperata fatica. Sapeva cosa provava. Quel sentimento che sentiva avvolgerlo in ogni fibra. Ma non sapeva come dirlo. Non poteva dirlo. Trasformarlo in parole comprensibili ai ningen. Non aveva nemmeno idea di come fare; era già difficile per lui accettare quel suono nella sua lingua, in quella parola che era insieme razionalità e natura.

 

“Forse”

 

Sussurrò appena, muovendo le labbra in modo impercettibile. Inuyasha continuava a camminare accanto a lui, un passo dietro di lui. Non lo aveva affiancato, per quanto fosse in grado di farlo. Forse per una sorta di innato rispetto; forse per non tirare ulteriormente una corda già estremamente sottile e al suo limite ormai. Eppure, Sesshomaru si stupì di non provare quel ribrezzo che si sarebbe aspettato. Era una sensazione diversa. Un senso di estraneità più che di rifiuto. Con Naraku era profondamente diverso. Sufficienza, certo rifiuto. Con suo fratello non avvertiva quel senso di nausea correre sotto la pelle, in un brivido sottile e fastidioso. Non lo accettava, ma doveva rendersene conto. Per quanto potesse odiarlo, detestarlo, volerlo morto, poterlo uccidere, Sesshomaru si accorse improvvisamente che verso Inuyasha il suo comportamento era sempre stato inconsistente. Da ragazzo lo odiava, ma non lo aveva ucciso. Aveva risparmiato sua madre e lui in fasce, lui bambino in una giornata di nebbia. Da adulto, per quanto si fossero scontrati e spesso fosse stato suo fratello ad andare al terreno, lui non aveva mai affondato il colpo. Esitazione? Sbirciò il viso rilassato di Inuyasha, con gli occhi al cielo. No. Nessuna esitazione. Non avrebbe mai esitato a uccidere. Né avrebbe risparmiato qualcuno per pietà o compassione. Quelle erano sensazioni praticamente sconosciute. No. Non aveva mai ucciso suo fratello perché non era mai arrivato il momento per farlo. Inuyasha era ancora troppo inesperto, troppo ingenuo. Al suo confronto, sarebbe stato sempre un ignorante, su di lui, sulla sua stessa natura e sul mondo di loro youkai. E uccidere chi non sa nemmeno chi è sarebbe stato completamente inutile. Prima doveva istruirlo, renderlo consapevole. Prima doveva guidarlo. A modo suo, certo. Ma solo allora lo avrebbe sfidato per ucciderlo. Per chiudere quella partita, e scoprire cosa suo padre volesse dirgli lasciandogli Tenseiga. Ucciderlo, per prenderne l’eredità ingiustamente avuta e vedere nei suoi occhi la consapevolezza della sua inferiorità. Ucciderlo, per poter davvero affermare di aver superato suo padre.

 

Forse.

 

 

*****

 

 

Innaturale. Sospetto.

La tenue luminescenza che trapelava dal corpo centrale del palazzo risultava stranamente sospetta. Quasi sgradita. Era inusuale una simile illuminazione nelle ore precedenti l’alba. Nemmeno durante i mesi di assedio il palazzo aveva mantenuto una simile configurazione. E il fatto che più che una condizione di allerta assomigliasse ad una ricorrenza o ad una assemblea risultava completamente spiazzante e fuori luogo. Il Principe non era a Palazzo, e nulla aveva fatto presagire la necessità di convocare un’udienza per decidere qualcosa di imminente.

Anche se i principi del Kansai avessero tentato la fuga, spettava a Sesshomaru decidere della loro sorte. I cortigiani a palazzo potevano al massimo formulare possibili ipotesi, soluzioni temporanee per scongiurare eventuali nuovi tentativi di fuga. Non avrebbero mai potuto ardire di reclamare delle teste e delle vite su cui solo il Principe poteva avere diritti.

 

Eppure, qualcosa non era normale. Sesshomaru ne era stranamente certo. Fin da quando aveva posato lo sguardo sulle mura del palazzo, una strana sensazione gli era corsa sotto la pelle. Come di avvertimento; quel brivido che in battaglia lo aveva salvato tante e tante volte. L’abitudine secolare al combattimento trasformata e cristallizzata in un sesto senso attento e intuitivo, abile nel percepire il cambiamento, l’anormale. E nessuno lo avrebbe persuaso che a palazzo la situazione era normale. Soppesò attentamente ogni contorno. La posizione sopraelevata che aveva, sul colmo di quel piccolo rialzo del terreno, gli permetteva di dominare tutta la mole del palazzo e di scandagliarne i recessi che andavano via via schiarendosi alla luce del giorno. I giardini innaturalmente vuoti, benché ricordasse che quando se ne era andato erano ancora ingombri delle tende dell’accampamento degli ookami. Strinse gli occhi. Il principe degli Yoro non era certo conosciuto per la sua pazienza, ma contravvenire così ad un’alleanza, per quanto quasi esclusivamente di facciata, poteva scatenare la sua furia, e Koga doveva saperlo. Tuttavia, Sesshomaru scoprì di non desiderare altro che andarsene dal palazzo, prendere Rin e Alessandra e tornare ai suoi boschi. E se passar sopra una possibile offesa, o meglio alla foga di un giovane principe, avvicinava il momento della sua partenza, avrebbe accolto senza dar segni di fastidio la notizia che gli ookami si erano congedati senza prestargli il consueto e dovuto saluto.

 

Annusò l’aria fresca dell’alba. Strano. C’era ancora odore di lupo nel palazzo; odore fresco, recente. Inuyasha al suo fianco strizzò infastidito gli occhi e arricciò il naso. No. Decisamente ookami e inuyoukai convivevano con molta difficoltà. E l’idea che in quei giorni Koga avesse potuto sfarfallonare impunemente attorno alla sua Kagome gli mandava il sangue alla testa. Se solo le si era avvicinato troppo, a costo di demolire il palazzo, Inuyasha gliela avrebbe fatta pagare. Sfiorò Tessaiga al fianco. Aveva smesso di pulsare da qualche tempo, e lui non se ne era nemmeno accorto. Troppo preso da tutti gli avvenimenti che erano precipitati in modo repentino. Anche la katana di suo fratello riposava tranquilla nel saya, senza dar segni di pericolo.

Alzò le spalle e incrociò le braccia. Gli sarebbe piaciuto chiedergli per quale motivo fosse scappato da palazzo senza preoccuparsi di indossare l’armatura e di prendere Tokijin. Gli sarebbe piaciuta sapere se davvero era fuggito impaurito da qualcosa o se semplicemente avesse avuto bisogno di pensare, lontano dagli assilli cui la corte lo avrebbe costretto se solo fosse uscito dalle sue stanze. La situazione di Sesshomaru e Alessandra doveva esser frustrante, e se la ragazza, in quei momenti, non la viveva a causa del suo stato semicomatoso, Sesshomaru ne era pienamente investito. Inuyasha era sicuro che, se si fosse trovato al posto del fratello, avrebbe mandato al diavolo regole e apparenze, si sarebbe seduto accanto a Kagome e non lo avrebbero smosso di un centimetro finchè la ragazza non si fosse ripresa. Ma da Sesshomaru era difficile aspettarsi un atteggiamento simile. Il suo modo di ragionare, adesso la stava imparando, era quello di uno youkai. Né peggiore né migliore probabilmente di quello dei ningen. Solo diverso.

E una cosa che credeva di aver intuito era l’assenza di egoismo insita nella natura demoniaca. Se un ningen può voler accanto una persona esclusivamente per il proprio tornaconto, un demone è capace di allontanare da sé anche chi ama se questo significa una condizione migliore. Sbuffò massaggiandosi la testa. Detto così, sembra un guazzabuglio di idee mal articolate. Ma meglio non riusciva a spiegarselo, e sapeva perfettamente che sarebbe stata partita persa cercare di farlo capire ai suoi amici.

 

“Allora? Che stai aspettando?”

 

Sesshomaru si voltò lentamente verso di lui e Inuyasha provò un brivido davanti a quello sguardo troppo intenso. Era come se un presagio gli avesse attraversato la testa. Inghiottì a vuoto e imitò il volto del fratello che tornava a fissare il palazzo. Adesso lo vedeva anche lui: l’edificio innaturalmente illuminato per l’ora, gli uomini di guardia sul passatoio troppo all’erta e troppi, semplicemente. Soprattutto in quel momento, quando teoricamente Morigawa non costituiva più una minaccia né avrebbe dovuto esserci qualcosa a causare allarme. Strinse i denti in un ringhio. Che Naraku aveva escogitato qualcosa? Morigawa era tornato dall’inferno? Cosa diavolo poteva esser successo per giustificare uno spiegamento di forze e un’attenzione simile?

Masticò un’imprecazione e grugnì non troppo convinto. Sesshomaru, intanto, non si era mosso né aveva lasciato trapelare l’ombra del sospetto che gli si era formato nel cervello. Il palazzo mobilitato, a quell’ora, senza la sua presenza, poteva significare solo due cose: il pericolo di un attacco o un tentativo del consiglio di estrometterlo. La prima era un’ipotesi da scartare, visto che l’unico che in quel momento avrebbe potuto tentare qualcosa, tralasciando i principi del Kansai, era Naraku. Ma non avrebbe avuto senso che rischiasse una nuova sconfitta solo per vendicare un alleato di cui, in sostanza, si era servito per cercar di raggiungere i suoi obiettivi. Naraku non era uno sciocco, Sesshomaru glielo doveva riconoscere; usava il cervello, e aveva dimostrato più di una volta di far affidamento proprio sulla sua ottima capacità intellettuale. Un atteggiamento ben poco demoniaco, più legato alla parte umana che lo componeva e che ne teneva assieme le parti eterogenee, ma comunque da non sottovalutare. Loro youkai agivano e pensavano in concomitanza, affrontando con la forza e la ragione i problemi mano a mano che si presentavano. Non era loro abituale l’elaborazione di una strategia a lunga scadenza. Per questo, l’assedio era un pratica poco usata, proprio per l’impossibilità di risolvere nell’immediato lo scontro e trovarsi incapaci di prevedere l’evolversi dei fatti.

La seconda ipotesi, per quanto gli risultasse fastidiosa e impossibile, tuttavia non era da scartare a priori. La sua corte gli era fedele, come lo era stata a suo padre. Eppure, Sesshomaru non poteva dimenticare che era stata proprio quella stessa corte a insinuare in lui il sospetto che suo padre avesse un’amante umana, a muovere i fili di una congiura che non era riuscita solo perché lui, subodorando la cosa, si era allontanato. Tuttavia, Sesshomaru era cosciente che certi giochi di potere non erano nuovi per l’entourage di cui di circondava. Il matrimonio stesso fra suo padre e sua madre era legato ad una trovata di Inutaisho, che lo aveva portato a sfidare il padre. Di conseguenza, se lui non avesse più soddisfatto le aspettative, sarebbe stato possibile ventilare l’ipotesi che i nobili più anziani, poggiansi probabilmente sui generali che in quell’ultima guerra avevano fatto una magra figura, tramassero per riuscire a imporre un periodo di reggenza. Era certo che non avrebbero offerto il trono ad altri, visto anche il fatto che, tralasciando Inuyasha che era un bastardo, lui era l’ultimo erede del Clan, l’ultimo discendente diretto, e uccidere lui, oltre ad altamente improbabile, era un azzardo perché sarebbe equivalso alla rottura definitiva di una stirpe che poteva risalire al tempo della formazione della terra e di conseguenza alla perdita di potere e prestigio all’interno del Consiglio e fra le altre Famiglie.

La soluzione era la reggenza, con lui in qualche modo costretto ad approvare le loro decisioni. Un Principe burattino quasi, tenuto in vita fino a che non avesse procreato un erede. E allora, solo da uccidere.

 

Sesshomaru strinse il pugno, avvertendo la propria youki pervadergli le vene. Doveva assolutamente scoprire cosa stessero progettando, e il modo migliore era sgattaiolare all’interno del palazzo senza rivelare immediatamente la propria presenza. Coglierli di sorpresa e costringerli a confessare. E mostrare chiaramente come certe teorie non dovessero mai nemmeno affacciarsi nel loro cervello.

 

 

 

*****

 

 

Rigido. Altero. Con gli occhi assottigliati come un predatore che studia la preda, pregustando l’attimo dello scatto, i tendini distendersi e conferirgli rapidità e mortale velocità, le zanne farsi strada fra le labbra, gustare l’aria e un attimo dopo affondare. Nella carne tenera del collo, nella gola pulsante e il sangue invadere la bocca, scendere lungo l’esofago e, caldo, disegnare il volto, macchiare la pelle, i vestiti. Artigli a cercare, a scavare con rabbia attraverso ossa e viscere; risalire al cuore e chiuderlo in un’ultima affettata mossa. Lasciare che la youki si disperda nelle membra avversarie, corrodendo e liquefacendo, mentre un tanfo nauseante di carne bruciata, di acido, riempie la gola e costringe a socchiudere ancora gli occhi.

 

Sesshomaru carezzò inconsciamente i palmi delle mani. Sentiva fremere ogni più piccola particella del suo corpo, di indignazione e furore. Il respiro troppo regolare, e il sangue che lentamente cresceva in velocità, trascinando con sé la forza demoniaca che si irradiava nel suo corpo. Senza eccedere, senza lasciar trapelare subito tutta la sua potenza e quindi la sua presenza. Rivelarsi sarebbe stato un errore; lasciarsi andare alla rabbia, alla voglia di vendicare l’offesa una mossa azzardata e controproducente. No. Doveva dominare l’impulso di attraversare di corsa le sukiwatadono e i , irrompere nel shinden trovandosi di fronte la sua corte preparata, con le katana in pugno e gli artigli sfoderati. Agguerriti, pericolosi e soprattutto consapevoli. Del fatto che lui non avrebbe risparmiato nessuno che fosse capitato sotto i suoi artigli, che non avrebbe centellinato forza e crudeltà. Ma metterli in allerta sarebbe stato stupido, un giocarsi l’effetto sorpresa e permettere ai più pavidi di trovare una via di fuga.

 

Jaken avrebbe impiegato ancora un po’ di tempo prima di riuscire a far circondare tutto il corpo centrale e chiudere le verande che davano sui giardini e i corridoi di collegamento con i padiglioni privati interni. Gli aveva ordinato di recuperare le spesse porte di legno da applicare all’engawa e ricollocarle al loro posto, come d’inverno. Nel più profondo silenzio possibile. Lasciare solo quei pochi spiragli che permettessero di non rivelare il trucco, e poi, appena lui fosse entrato, chiudere. Chiudere tutto e sprangare ogni ingresso, collocando due guardie ad ogni porta. Aveva ordinato di lasciare aperta solo la porta laterale che affacciava sui giardini; l’engawa aperta e la fusuma solo accostata. Non avrebbero avuto il tempo di controllare tutto. Lui non avrebbe lasciato loro il tempo.

 

Passo dopo passo, raggiunse l’ingresso della sala centrale del shinden. Jaken comparì deferente dall’hisashi racchiuso fra pannelli di legno e gli comunicò che era tutto pronto. Annuì distrattamente e fissò l’elegante motivo dipinto sulla fusuma d’ingresso: un gigantesco cane bianco dagli occhi infiammati mostrare le fauci ad un drago del cielo. La battaglia di un suo antenato. Forse il capostipite della sua stirpe, quella che aveva consegnato loro il dominio su quelle terre. Non ricordava, in quel momento. Trapassò con gli occhi lo spicchio di luna che macchiava quasi sfacciato la parte alta della zampa del cane. Sulla spalla. Come la portava suo padre.

Portò distrattamente la mano alla fronte, scostando appena la frangia. Lui aveva ereditato la posizione di quel simbolo dalla madre. Già, sua madre. Avrebbe dovuto risolversi a riprendere quelle ricerche; avrebbe dovuto decidere di affrontare quel passato lontano e renderle la vendetta che doveva. Ma dopo. Una questione alla volta: prima di tutto, doveva ripristinare il suo orgoglio sbeffeggiato e l’autorità che i suoi subordinati sembravano aver dimenticato.

 

Accanto a lui, Inuyasha spostava nervosamente il peso del corpo da un piede all’altro. Fremendo di rabbia e della voglia di saltare al collo a quei maledetti bastardi. L’espressione di Sesshomaru, inoltre, apparentemente composta e indifferente, non contribuiva certamente a raffreddare la sua collera; anzi, se possibile, lo infiammava ancora di più. Non sapeva esattamente cosa stesse passando nella testa di suo fratello, ma prevedeva qualcosa di davvero terribile. Mille volte più terribile del più cruento eccidio. Sesshomaru era un fascio di nervi e di istinto razionalmente controllato. Pericolo allo stato puro, con la youki che sfrigolava nelle ultime ombre del crepuscolo e gli occhi infiammati da un sinistro bagliore rossastro. La sclera assottigliata e la pupilla ridotta ad una letale striscia nera in mezzo all’ambra che sfumava pericolosamente all’azzurro verso l’esterno dell’iride e il bulbo che assumeva tratti di rosso vivo. Eppure, non gli era uscito un gemito, un lamento. Si era limitato a corrugare la fronte e serrare maggiormente la mascella.

 

Inuyasha arricciò il naso stizzito, mentre suo fratello scambiava a bassissima voce poche parole con Kumamoto e gli consegnava Tenseiga. Maledetto testardo! Benchè Jacken, in sua vece, avesse fatto revocare il permesso di potersi aggirare armati per il palazzo, non c’era alcuna sicurezza che i demoni e le yasha radunati nella moya non nascondessero nelle pieghe dei kimono pugnali o qualche altra diavoleria. E Sesshomaru cosa decideva? Di entrare disarmato nella bocca della tigre! Strinse maggiormente il saya di Tessaiga. Era impossibile pensarlo, ma se Sesshomaru gli avesse permesso di seguirlo, Inuyasha non avrebbe avuto la minima intenzione di separarsi dalla spada. E per due ovvie ragioni, anche: la prima era che non aveva alcuna sicurezza di riuscire a dominare l’impeto demoniaco che lo avrebbe invaso, ne era sicuro, davanti a quei maledetti bastardi; la seconda era la consapevolezza dell’inferiorità dei suoi artigli e della sua forza fisica, soprattutto in quel momento, di fronte a un’intera corte e ai generali inuyoukai.

 

“Ehi! Cosa hai detto a Kumamoto-sama?”

 

Inuyasha era sobbalzato leggermente nel sentire la mano del generale sfiorargli la spalla, prima di uscire dal corridoio assieme a Jacken e sprangare la porta dietro di sé. Adesso, erano rimasti solo loro due. Sesshomaru scostò con naturalezza un ciuffo un po’ ribelle; sembrava pronto a tutto fuorchè ad uno scontro. Che volesse parlare? Il pensiero accarezzò la mente dell’hanyou per un brevissimo istante: Sesshomaru era troppo controllato, troppo composto, troppo attento ad ogni più piccola ombra proiettata sulla fusuma. Stava studiando il suo avversario, quasi mangiando l’impazienza e l’adrenalina che salivano lentamente nel corpo, che lasciva crescere sempre di più. Parlare? No. Sesshomaru non si sarebbe mai abbassato a parlare con demoni come quelli che sedevano nella moya. Quelli erano youkai che non meritavano nemmeno la parola; era già un grande onore quello che concedeva loro di esser uccisi da lui, dal loro Principe. Avrebbe potuto far irrompere i suoi uomini, e godersi tranquillamente la loro agonia. Avrebbe potuto. Ma non gli sarebbe bastato; non avrebbe trovato quel piacere, quella soddisfazione che invece sentiva bramare con tutto se stesso, fin nei recessi più profondi della sua anima.

 

Raddrizzò le spalle e con la coda dell’occhio vide Inuyasha imitare inconsciamente il suo gesto, quasi presagisse l’effetto che avrebbe provocato il loro ingresso nella sala principale. Insieme. Il Principe e il cadetto. Maledettamente simili in aspetto, pericolosi, e soprattutto assetati di vendetta. Non avrebbe saputo spiegarsi perché non lo avesse congedato. Sarebbe stato più saggio allontanare Inuyasha e incaricare invece Kumamoto di guardargli le spalle. Precauzione inutile, ma meglio evitare anche il più piccolo rischio. Oltre a controllare la situazione e avvertirlo in caso di bisogno, Inuyasha avrebbe avuto anche il compito di evitare che qualcuno potesse fuggire attraverso la fusuma che aveva ordinato di non sbarrare. Quella sarebbe stata la sua posizione: dietro di lui, vicino alla parete, abbastanza lontano dalla porta per non indicarla apertamente come unica via di scampo e al contempo sufficientemente vicino da esser libero di agguantare senza sforzo e senza possibilità di errore l’eventuale fuggiasco.

 

Inuyasha ghignò mostrando le zanne. Non aveva capito il perché avesse scelto proprio lui, ma non gli interessava. Doveva lasciargli il duello, ma sperò che qualcuno sfuggisse al fratello per dargli di persona la meritata lezione. Ci avrebbero pensato bene, prima di azzardarsi ad alzare ancora le mani su Alessandra. Scosse la testa e frustò con la mano l’aria; Sesshomaru stava spegnendo il braciere, sciogliendoci un composto friabile che mandava un odore nauseante. Jaken lo aveva portato al suo signore poco prima, e, incredibilmente, Sesshomaru spiegò al fratello la necessità di coprire ancora per un po’ il loro odore. Doveva esser certo di prendere i traditori di sorpresa e, soprattutto, che Kumamoto riuscisse a raggiungere la sua posizione al padiglione a sud senza destare nessun allarmismo. Di lì a poco, tutto il palazzo sarebbe stato svegliato ed era di vitale importanza che agli altri membri della corte e ai fedeli dei demoni impegnati in quella stanza fosse impedito di intervenie. Sesshomaru voleva vendetta, non una strage, per quanto il pensiero gli avesse solleticato il cervello.

 

“Starai di guardia. Loro sono miei

 

Calcò in modo innaturale l’ultima parola, con un sorriso che era più un ghigno e gli occhi troppo sicuri, troppo violenti nei loro colori. Inuyasha ebbe appena il tempo di sentire un brivido al sussurro del fratello, una goccia di sudore gelido percorrergli la schiena e la bocca secca inghiottire a vuoto nel tentativo di schiodare la lingua dal palato e rispondere qualcosa, qualsiasi cosa. Sesshomaru spalancò la fusuma e il silenzio piombò all’improvviso nella stanza.

Un silenzio violento e innaturale, dovuto alle parole improvvisamente troncate, alla musica che era solo un’eco nell’aria, alle ceramiche ferme nel gesto di esser portate alla bocca. Occhi increduli spalancati, dilatati sempre di più mano a mano che prendevano realmente consapevolezza di chi li avesse interrotti, di chi fosse la figura d’argento e indaco ritta contro il buio della fusuma, avvolta da un odore ferino e dolciastro, simile all’incenso, e al contempo nauseante.

 

Sesshomaru li fissò ad uno ad uno. Gli youkai che avevano osato ribellarsi alla sua autorità, che avevano sfidato lui e la sua collera, la sua parola, profittando della sua assenza per divertirsi con la sua protetta. Con Alessandra.

Un ringhio sordo si formò nella gola dello youkai mentre muoveva un passo sul pregiato tatami, ignorando la polvere e lo sporco che inzaccherava i suoi stivaletti. Li vide allargare la bocca alla ricerca di aria, iniziare a tremare impercettibilmente mentre la consapevolezza di quello che li aspettava, la pena per quanto compiuto, serpeggiava lentamente fino al loro cervello, accompagnata dal frusciare lieve della seta della veste del Principe, dal movimento quasi ipnotico della sua mano che si sollevava facendo allungare gli artigli in una tenue luminescenza argentata, rendendo più vivide e nitide le strisce rosate che gli segnavano il polso. La mano destra di Sesshomaru brillava leggermente avvolta dal veleno e dalla youki. L’unica mano con cui potesse esercitare il suo dokkasu. La sinistra, per quanto in grado di lacerare in modo minuzioso, non possedeva più veleno né youki. Ma non sarebbe stato un problema. Aveva imparato a combattere senza un braccio; doversi basare solo sul veleno di una mano e assieme poter contare sugli artigli della sinistra era un ottimo punto di partenza. Scoprì leggermente le zanne in un ghigno soddisfatto.

 

Alle sue spalle, aveva distintamente avvertito il fruscio della fusuma che si richiudeva. Simile all’eco di un tuono nel silenzio del cielo. Inuyasha era ancora dietro di lui, braccia contratte e pugni chiusi, pronto allo scatto, ad aggredire. Non lo avrebbe fatto, Sesshomaru lo sapeva bene. Come era consapevole dell’effetto di sconcerto e sbandamento che aveva provocato. Vedere i due principi l’uno accanto all’altro, l’uno che riconosce l’altro secondo le gerarchie, e capire che sono arrivati alla fine, che non c’è via di scampo. Accorgersi del buio innaturale per l’ora, dell’aria pesante e tesa, dei respiri che restano lì, annodati in gola, un magone e una terrore che non va né su né giù. Inchiodato allo sterno, cementando la lingua, dilatando gli occhi. Il Principe che inclina appena le labbra, che alza la mano e permette appena un sussurro d’aria a intercorrere fra la calma rilassata e indifferente che mostra e la furia violenta e precisa. Quel guizzo sinistro nell’oro, la sclera assottigliarsi e virare lungo il bordo, striarsi di argento e azzurro attorno all’iride sempre più longilineo e sottile. Le strisce rosate virare verso un colore vinaccia e sbozzarsi leggermente, perdendo la consueta linea armoniosa per sostituirvi piccoli, terribili spigoli aguzzi.

 

Sesshomaru coprì in una frazione di secondo la distanza fra la fusuma e il primo cortigiano; afferrò il collo e lo sollevò di peso. Artigli che affondavano senza esitazione nella gola, sempre più stretti e vicini alla carotide. Gli occhi del demone dilatati e lentamente più pallidi, quasi vitrei per la carenza d’ossigeno. Le scuse balbettate senza riuscire a far loro assumere suono distinto e la saliva iniziare a colare dai lati della bocca, assieme a un piccolo rivolo di sangue. Strinse ancora. Gli artigli della sua vittima attorno alla sua manica premere in modo spasmodico, cercare di contorcere stoffa e pelle, rinsecchirsi un istante nell’immobilità completa e poi scivolare scomposti. Mentre la testa rotolava indietro con lo sciocco secco delle vertebre. Mentre gli occhi si fissavano su un soffitto pieni di terrore.

 

Il cadavere cadde a terra con un tonfo sordo e Sesshomaru lo scavalcò con un passo. Il primo era morto in fretta; forse troppo in fretta. Il primo era stato facile da uccidere, giocando sulla sorpresa e sul momentaneo stato confusionale. Il primo era solo l’antipasto, l’assaggio dei suoi artigli ancora bianchi. Il primo lo aveva ucciso senza spandere una goccia di sangue. Ma gli altri. Gli altri avrebbero sentito la carne lacerarsi e sciogliersi per il suo veleno. Avrebbero sentito il sangue sgorgare dalle proprie ferite e sarebbero stati costretti a lasciare la spada per raccogliere nelle mani le proprie stesse viscere. Gli altri li avrebbe sgozzati come animali al macello, tranciando gole e aprendo petti, ma non affondando completamente. Non subito. Gustandosi le loro espressioni contratte, le smorfie, la consapevolezza di aver osato troppo farsi strada nella mente. Non avrebbe risparmiato nessuno: né i demoni né le yasha. Nemmeno le oiran che si appiattivano in fondo alla sala, nascondendo il volto traumatizzato fra le pieghe dell’obi o cercando di risistemare il kimono per nascondere il seno. Non avrebbe risparmiato neanche loro. Per essersi concesse a chi lo aveva sfidato, per essersi accompagnate a dei traditori della sua persona; era come se loro stesse avessero tradito, avessero profanato Alessandra.

 

Alessandra.

 

Il nome gli perforò la mente con la violenza di una pugnalata. Arricciò le labbra in un ringhio quasi animale, molto distante da quel rumore gutturale che gli era consono. La vide: inerme fra le braccia di quei demoni, muovere lentamente le braccia nel disperato, futile, vano tentativo di ribellarsi, di allontanarli. Sentì il rumore della stoffa degli abiti strappata, il respiro farsi irregolare e i singhiozzi soffocati in gemiti di piacere e disgusto. I brividi attraversarle il corpo, mentre altre mani, altri artigli, altre bocche la toccavano, la scoprivano, la violavano. E lei piangere e invocare il suo nome. Pregare probabilmente. Pregare quel dio diverso dai kami, quel dio di cui gli aveva parlato. Pregare quel dio, e sperare che lui arrivasse, che lui la aiutasse. Fissare con occhi annacquati la fusuma o le shoji, cercando di ignorare il tocco sempre più sfrontato, la lingua più ardente e ruvida.

 

Sesshomaru piegò leggermente le ginocchia e spazzò l’aria alla sua destra. I demoni che avevano osato avvicinarsi si trovarono straziati da profonde ferite, mentre con un urlo cercavano di riguadagnare una distanza di sicurezza. Afferrò la mano che aveva cercato di puntare un tanto al suo volto, torse muscolo e osso con uno scricchiolio sinistro, finchè con un grido la mano penzolò innaturale sul braccio, mentre il Principe conficcava con maestria l’arma bianca nell’addome del suo avversario, trapassandolo e lasciandone intuire la punta luccicante fra le pieghe lorde della veste.

 

Non ci aveva creduto subito. Quando era entrato a palazzo eludendo la sorveglianza, percorrendo i tsuridono e i che affacciano sul lago, non aveva calcolato la possibilità di imbattersi in Jacken. E appena il demonietto aveva riconosciuto il suo signore, fra la felicità, la paura e le scuse gli aveva balbettato qualcosa relativo ad Alessandra. Qualcosa di poco chiaro, e al tempo stesso estremamente spiacevole. Sesshomaru lo aveva afferrato con mala grazia per la ho e lo avrebbe anche soffocato se Kumamoto non fosse intervenuto a placarne la rabbia e la crescente, funesta, allarmata necessità di sapere.

 

Affondò maggiormente la mano nel corpo che gli si era gettato contro. Quel demone era piuttosto coriaceo, dovette ammetterlo. Stava tentando di strozzarlo. Finse uno spasmo e lascio diminuire la pressione degli artigli attorno agli organi interni; reclinò leggermente la testa sul petto, trattenendo il respiro. La presa si allentò impercettibilmente, ma in modo sufficiente. Scattò. Le zanne affondarono nella gola dell’avversario, mentre la mano si torse cambiando direzione e cercando di risalire dall’intestino verso il cuore. Perforò stomaco e polmoni e stappò il cuore. Sesshomaru liberò le zanne e il corpo ricadde indietro con la testa staccata quasi del tutta dal collo, mentre altri cortigiani si avventavano sul Principe, che grondava sangue e sudore, ma non sembrava aver perso la calma, la lucidità e soprattutto la forza di reagire e combattere.

 

Kumamoto.

Era stato grazie alle parole del Principe di Kita che Inuyasha e Sesshomaru erano venuti a conoscenza di quanto avvenuto appena tre giorni dopo che loro se ne erano andati. Il ricatto cui i ningen e anche gli altri erano stati costretti a piegarsi, il fatto che il generale fosse nell’altro padiglione, ignaro, assieme ai signori del Kansai e di Yezo; le minacce, le suppliche i lamenti vani e quasi patetici di Jacken. Un racconto anche alquanto veloce, stringato, senza molti particolari e con evidente imbarazzo. Non erano argomenti per un vecchio generale, quelli. E soprattutto non era un argomento che avrebbe voluto dover riferire al suo piccolo principe. Poche parole con la voce strozzata in gola e la mente che vagava dietro ad una notte d’autunno, quando era piombato a palazzo con il fiato corto, ansimante e sudato, per vedere gli occhi dilatati e spaventati di Inutaisho supplicarlo. Di un qualcosa che non aveva ancora nome. Lo stesso sguardo di Sesshomaru mentre prendeva sempre più coscienza del valore delle sue parole. E poi, la rabbia, i muscoli contrarsi, il passo farsi da leggermente barcollante, insicuro e stabile. La mente velocissima ad elaborare una strategia, la possibilità di vendicarsi subito, prima ancora di sapere esattamente cosa fosse successo, prima di accertarsi di come stesse Alessandra. Prima di Alessandra.

 

Sesshomaru ruotò su se stesso, alzando al soffitto gli artigli e squartando il demone che aveva tentato di coglierlo di sorpresa. Tagliato in due mentre ancora era intento nel balzo che avrebbe dovuto portarlo addosso al Principe. Il sangue piovve sul tatami, sulle mense, sui cibi. Con i tukurri e i sakazuki che rotolano a terra, spandendo sake freddo e allungando il sangue in macchie scure e scivolose. Se ne lasciò investire, ricoprire da capo a piedi, screziare i capelli e macchiare il kimono intrecciato d’argento. Ne aveva eliminati sette; di demoni ne restavano ancora otto o nove, e poi le yasha. Nessuno di loro sarebbe uscito vivo da quella sala. Solo lui. Solo lui e la sua vendetta.

 

Scattò inchiodando con la pressione degli artigli un nuovo cortigiano alla parete. La mano premette contro il legamento fra la clavicola e il braccio, liquefacendo la carne e le ossa con il veleno. Sentì distrattamente artigli afferrargli la gola, premere per spezzare le vene che pulsavano selvaggiamente. Affondò, strinse, torse. E il corpo piombò sul pavimento assieme alle urla strazianti, davanti agli occhi una disgustosa macchia sanguigna a colorare di scuro la carta washi. Gettò lontano l’arto che aveva amputato e artigliò il petto del demone ai suoi piedi. Il sangue schizzò sul viso di Sesshomaru mescolandosi a quello vecchio, colando in piccoli rigagnoli inquietante. Lambì la bocca e si insinuò nell’incavo delle labbra. Sesshomaru lo assaporò lentamente con la lingua, rivelando le zanne intarsiate di sangue. Immaginò il collo aperto a mostrare la carotide grondante. Poi, scese con la mano sul petto, trapassando il cuore all’istante.

 

Un sibilo e un richiamo. Girò la testa sopra la spalla e la bilanciò leggermente all’indietro. Il tanto gli sfiorò la guancia tranciandolgli qualche capello e provocando un sottile graffio. La mano si alzò lentamente fino alla ferita che già andava rimarginandosi, per poi afferrare il pugnale conficcato nel legno. Il demone che lo aveva lanciato, protetto dai compagni, si ritrovò solo davanti al suo signore. Tremante e incapace di muovere un passo. Inciampò nel kamishimo e cercò di strisciare lontano. Sesshomaru avanzava lentamente nella luce sanguigna delle ultima candele che ne proiettavano sul fondo l’ombra deformandola. Sentì l’urlo formarsi nella gola del demone, e la lama affondare nella sua bocca, gli occhi ruotare e gli spasimi percorrerne il corpo. Non lo aveva ucciso a mani nude, ma era lo stesso.

 

Morire. Dovevano morire tutti. Per aver osato disobbedire alla sua autorità, sfidare la sua persona, desiderare quello che non avevano alcun diritto di guardare. Morire. Per offrire a se stesso la giusta vendetta, per lavare l’onta del disonore, del sospetto che non fosse degno del titolo che portava. Morire e bruciare in un fuoco di purificazione. Sì. Avrebbe fatto appiccare il fuoco a quella sala, distruggendo cadaveri e legno, tatami, vasellame, pietre; incendiare tutto e poi ricostruire. Purificando le ceneri con l’acqua, per mondare quello sporco, quel sudiciume che si era insinuato fin nel suo padiglione privato, fin dentro le sue stanze.

 

Per te, Alessandra.

 

Si voltò concedendosi uno sguardo fuggevole a Inuyasha. Era ormai in fondo alla sala, quasi addossato alla parete. Pallido, cadaverico. E con la sorpresa mescolata all’orrore negli occhi. Bene: sarebbe stato motivo di monito anche per lui. Quello che accade a provocarlo, a voler sfidare la sua collera. Non aveva concesso una parola a quei miserabili, non aveva permesso loro di aprire bocca, e se anche lo avevano fatto non vi aveva badato. Non erano nemmeno degni di ascoltare dalla bocca del loro signore la loro stessa condanna.

 

“Perché Sesshomaru-sama?

Per una puttana umana?”

 

La mano trapassò d’istinto il ventre della yasha e il cuore dello youkai che la usava come scudo. Il demone cadde all’indietro in una pozza di sangue e urina. La yasha, invece, si accasciò sul braccio che la attraversava. I capelli disfatti e l’elegante acconciatura ormai lontana. Una oiran. Dal seno piccolo e sodo, la pelle pallida e le labbra sfacciatamente rosse. Si aggrappò alle spalle del Principe alzando debolmente la testa. Non era infuriata, arrabbiata, rattristata. Sul suo viso c’era invece una smorfia di scherno, quasi di sarcastica compassione. Lo baciò per poi scivolare lungo il volto di Sesshomaru con la lingua, fino al suo orecchio mordendolo leggermente. Lui affondò di più la mano, avvertendo il corpo abbandonarsi in singulti. Non riuscì a distinguere le parole che la yasha gli sussurrò. Forse una maledizione, forse una profezia.

 

Panico. Urla sempre più acute e isteriche. Corpi che si attorcigliano cercando di sfuggire, di allontanarsi; mani che battono, che implorano pietà. Lacrime, bava, sangue. L’odore del terrore ammorbare l’aria, appesantire il respiro ubriacando la mente con le esalazioni dolciastre del sake. I movimenti sempre più precisi e fulminei. Corpi fatti a pezzi; volti ridotti a maschere grottesche e deformate. E sangue. Su ogni cosa, su ogni corpo, su ogni oggetto, sulle pareti e sul soffitto, sul tatami ormai viscido. E su di lui. Su Sesshomaru. Sui capelli d’argento, sul viso affilato, lungo il collo che pulsava impercettibilmente, sul kimono scurito da macchie color ruggine, sulle mani gocciolanti. Negli occhi. Nel tenue alone rossastro del bulbo; fisso. Ieratico. Incapace di accendersi, incapace di disperdersi. Un precario equilibrio fra ragione e pazzia; la pazzia di uno youkai. Un misto di razionalità che fluisce violenta e improvvisa, sfuggendo all’articolazione mentale e diventando solo istinto. Folle, puro, perfetto istinto omicida. Per sopravvivere. Per proteggere se stessi e chi attorno.

 

Inuyasha strinse gli occhi e voltò la testa con una smorfia di disgusto.

Non lo aveva capito. Quando era entrato in quella stanza, non aveva capito esattamente cosa Sesshomaru volesse fare. Vendicarsi, quello era naturale. Ma aveva pensato a minacce, alla sua voce tagliente, al suo sguardo di sprezzante sufficienza. Aveva pensato ad una collera furiosa che prendeva corpo in offese, insulti, forse anche urla. Forse avrebbe sentito per la prima volta la voce di suo fratello deformarsi in un suono gutturale e di petto, alzarsi fin quasi a perdere la nota incolore e a strozzare le parole. Si era immaginato i cortigiani supplicarlo inginocchiati a terra; aveva sentito nelle orecchie le scuse e le motivazioni che avrebbero formulato. Le conosceva già, in fondo. E gli artigli gli avevano carezzato pericolosamente la pelle. Quelle stupide, inutile, futili motivazioni: Alessandra è una ningen, un oggetto; bisogna preservare la stirpe; il Principe è stato fin troppo evasivo e la corte era preoccupata; si è solo voluto verificare, accertare.

 

Inuyasha li avrebbe disprezzati, avrebbe volentieri sputato loro in faccia, li avrebbe pestati a sangue fino a ridurne le ossa in frantumi minuscoli, fino a lasciargli agonizzanti sul pavimento. E rimpiangere la possibilità di non poterli uccidere. Perché sono membri della corte, perché sono fra i demoni più influenti presenti a palazzo.

Inuyasha aveva immaginato molte soluzioni, ma non quella. Non l’eccidio che suo fratello stava perpetrando sotto i suoi occhi. Con la naturalezza del predatore. Con la furia dell’animale ferito, circondato, spalle al muro, e che gioca il tutto per tutto. Non aveva mai visto la collera di suo fratello. Se ne accorse in quel solo, drammatico, eterno frangente: Sesshomaru non aveva mai rivolto a lui quella furia ferina e annullatrice. Non aveva pronunciato una parola; non aveva concesso un respiro. E straziava, affondava, mordeva, artigliava. Addentava con le zanne e strappava carne sanguinolenta e palpitante; inghiottiva sangue e …Inuyasha represse un conato. Non era una certezza, ma il solo pensiero lo nauseava; tuttavia, sapeva possibile che Sesshomaru ingoiasse carne di demone. Forse per un qualche recondito motivo, forse per rendere ancora più terribile la sua figura ricoperta di sangue, il viso cosparso dei piccoli grumi spumeggianti e il colare lento del sangue lungo il mento, sul collo, allargandosi sul date-eri.

 

Si appoggiò di peso alla parete retrostante, incapace di trovare la forza di staccare gli occhi, di chiudere anche solo le palpebre. Il corpo cosparso dai tremiti di un eccitato terrore. Sesshomaru era lontano da lui; era completamente diverso da lui. E Inuyasha si accorse con un brivido freddo che quella era la furia che lo prendeva quando si trasformava; quella era l’irrazionalità che gli attraversava il cervello facendolo cadere in un delirio profondo e impossibile da vincere. Quella era la differenza. Sesshomaru sarebbe stato in grado in qualsiasi momento di riprendere la normalità, di riguadagnare la postura elegante e altera; lui no. Lui sarebbe rimasto succube, con la coscienza confinata in un angolo recondito della mente.

 

Barcollò fino alla fusuma lasciata aperta, appiattendo disperatamente le orecchiette sulla testa. Per non sentire le urla isteriche delle donne, il rumore della carne che si apre, i flotti di sangue cadere e i corpi accasciarsi. Aprì. L’aria leggermente pesante della mattina lo investì, assieme all’odore disgustoso che trapelava da quella stanza. Il sunoko leggermente riscaldato dal sole sotto le mani e il corpo piegato in avanti. La gola che brucia e i crampi allo stomaco. Inuyasha si ritrovò ad ansimare, la bocca impastata e il mento gocciolante saliva e lacrime. Le grida si erano fatte più acute, quasi stridule. Si premette una mano sulla bocca, stringendo forte. Non aveva mai vomitato per una strage; non era mai successo che un orrore simile lo nauseasse fino a quel punto.

 

“Inuyasha!”

 

Alzò debolmente la testa. Si sentiva svuotato e faticava a mettere a fuoco le immagini. Chiazze sfumate, quasi fumo e nebbia. La voce arrivava ovattata, lontanissima. La voce di Kagome. Possibile che fosse lei, che quella macchia fosse la sua Kagome? Strinse gli occhi e scosse alcune volte la testa. Le urla nella stanza continuavano.

Doveva portarla via; doveva evitare che vedesse quello scempio. Si alzò quasi con prepotenza in piedi, barcollando instabile e accettando di lasciarsi aiutare nel recuperare una postura leggermente eretta. Il corpo quasi abbandonato contro Kagome, un braccio sulle spalle e l’altro lasciato ciondolare. Un passo; e poi un altro. Verso la porta poco distante. Lontano da quella stanza maledetta.

 

“Continua a camminare”

 

Abbassò la testa e strinse un braccio della ragazza, troncandole il movimento. Non doveva voltarsi, non doveva rischiare di vedere attraverso la fusuma che aveva lasciato aperta. Bastavano le grida; bastavano le parole deformate in suoni rauchi a riempire il silenzio. La sbirciò stringere gli occhi e contrarre la bocca. Combattuta dal desiderio di scappare e la voglia di non lasciarlo lì. Il cuore che aumentava velocemente i battiti, che martellava violento nel petto.

Poi, il silenzio.

 

Inuyasha e Kagome si fermarono. Incapaci di razionalizzare esattamente cosa significasse, cosa volesse dire quell’improvvisa assenza, quella mancanza di suono. Il fruscio della fusuma e un passo lento e leggermente pesante: Sesshomaru. Sesshomaru era dietro di loro.

Inuyasha inghiottì a vuoto, rivedendo il fratello fradicio di sangue mentre colpiva. Ancora e ancora.

Ne respirò l’odore ferino e violento, mescolato a sake, sudore e sangue. E al tanfo di cadaveri che già si stava allargando nell’aria.

Kagome sussurrò appena al suo orecchio, con la voce ridotta ad un pigolio quasi impercettibile e un tremito attraversarle il corpo senza che potesse fermarlo. Perché aveva capito cosa fosse successo; perché sentiva l’aria alle sue spalle ancora elettrizzata dalla youki del Principe.

 

“Avete saputo?”

 

“…hai…”

 

Saputo. Raccontato. Affrontato.

Sesshomaru aveva avuto quello che voleva. Adesso, doveva pensare ad Alessandra. Constatare di persona cosa fosse concretamente successo; cosa quei maledetti avessero provocato. Adesso, aveva voglia di vederla, voglia di baciarla, di fare l’amore con lei. Adesso, voleva le sue azioni a rassicurarla, a dirle che non l’aveva abbandonata, che non era stato lui a volere tutto quello. Anche se ne era stato la causa. Anche se era stato lui a permetterlo.

 

Sesshomaru-sama

 

Rin. Affacciata appena attraverso il pannello di legno socchiuso. Con gli occhi sgranati a fissare il suo signore; a metà fra felicità e paura. Rin aveva visto molte volte il suo signore dopo un combattimento; lo aveva visto uccidere davanti a lei, artigliare e squarciare. Ma non lo aveva mai visto in quello stato: dopo una pioggia di sangue. Sesshomaru era ricoperto di sangue.

La bimba gli si avvicinò un po’ titubante, le mani strette al petto e un piccolo tremito di spavento lungo le membra; testa reclinata sul petto. Sesshomaru si inginocchiò lentamente, e le sfiorò il mento con gli artigli incrostati di sangue. La costrinse a sollevare il viso bagnato e Rin vide i suoi occhi lampeggiare di rosso e azzurro, la bocca serrarsi in un movimento rigido e trattenere a stento un ringhio in gola. La mano scivolare sul collo, sfiorare i sottili graffi che segnavano la gola. Ombre chiare o velatamente rosate.

 

Strinse la mano e si rialzò, incamminandosi verso le sue stanze private. Alle sue spalle, Kumamtoto fece appiccare il fuoco al corpo centrale, per distruggerlo completamente.

 

 

*****

 

 

Ah-Un scrollò le teste e raspò impaziente la terra.

Jacken lo aveva fatto strigliare e sellare, gli aveva messo sul dorso delle bisacce e serrato le bocche con il morso. Lo aveva portato nei giardini del Principe e adesso lo teneva per la cavazza, continuando a rigirasi per le mani il bastone ninto e a borbottare mezze parole. C’erano anche i ningen, in quel giardino, e i Principi degli ookami.

Sollevò una testa annusando l’aria. Fumo. E legno che brucia. Una densa nube alzarsi dal corpo centrale del palazzo. Strattonò appena le briglie e tornò a raspare il terreno.

 

Sesshomaru-sama sarebbe arrivato presto. Sesshomaru-sama aveva stranamente dato l’ordine di farlo preparare. In fretta. Senza alcun preavviso. Di solito, era il Principe stesso che se ne occupava. Ah-Un era la cavalcatura che Inutasiho aveva regalato al figlio quando aveva compiuto sette anni. Un dragone del Continente, un guardiano perfetto. Fedele, docile con il padrone, spietato con gli avversari. Glielo aveva donato che era appena uscito dal suo uovo e ancora caracollava sulle tozze zampette. Sesshomaru non lo aveva mai trattato come lo trattava la bimba umana, ma nemmeno come trattava Jacken. Gli affidava spesso la piccola ningen, e benché non lo avesse mai accarezzato né gli avesse mostrato se lo apprezzasse, Ah-Un sapeva di avere la fiducia del suo padrone. E quella era una prova ulteriore. Sesshomaru-sama aveva fatto preparare lui, non un’altra cavalcatura.

 

Sesshomaru-sama! Vi prego!”

 

“Sei completamente rimbambito?! Vuoi ucciderla?”

 

Ah-Un rialzò la testa e scrollò il collo possente, soffiando. Sull’engawa, Sesshomaru teneva in braccio il corpo abbandonato e privo di sensi di Alessandra. Aveva ancora in dosso il kariginu imbrattato di sangue; aveva ancora i capelli e il volto screziati di rosso. E ignorava. Ignorava le parole di Yaone e Homoe e gli strepiti di suo fratello. Ignorava l’odore fastidioso del fumo che aveva invaso le stanze e i corridoi del palazzo. Ignorava le occhiate sbigottite, sospette, apprensive che il principe degli Yoro e i ningen gli rivolgevano.

 

Andare via. Portare Alessandra lontano da quel palazzo, dal male che lui avevano permesso che le facessero. Strinse leggermente a sé il corpo che trasportava. Non si era preoccupato della reazione che avrebbe potuto scatenare. Non aveva pensato ai suoi abiti, alle sue mani, al suo viso imbrattato di sangue. Aveva spalancato la fusuma della stanza di Alessandra mettendo a tacere ogni parola, ogni tentativo di Yaone e Homoe di impedirgli di entrare in quelle condizioni.

Aveva aperto la fusuma, ed era rimasto fermo sulla soglia.

 

Alessandra.

 

Il corpo magro abbandonato nel futon, occhi dilatati e vuoti che si erano posati distrattamente su di lui, per poi ritornare a osservare lo spiraglio di luce che filtrava dalle shoji. Si era avvicinato lentamente, cercando di reprimere il bisogno disperato di premere il suo corpo contro quello della ragazza, la voglia di baciarla, di strappare coperte e yogi e vederla. Vedere quello che le avevano fatto, vedere il suo corpo umiliato e desiderarlo ancora. Ancora e ancora di più. Agognare la sua pelle, il suo respiro, le gambe attorno ai fianchi e la risata imbarazzata. I silenzi rilassati fra loro e le chiacchierate essenziali. Le labbra di Alessandra piegarsi in una smorfia per la voglia di parlare e la consapevolezza che lui odia le chiacchiere futili. Le mani che tormentano i capelli e il broncio leggero mentre non riusciva a risolvere qualcosa.

 

Sesshomaru si era fermato. La mano appena abbozzata in un gesto. Incapace di piegarsi e dire anche solo una parola. Mentre lacrime sottili annacquavano gli occhi di Alessandra e la bocca si muoveva in parole mute, in un respiro strozzato in gola dalla voce roca per le urla e l’abitudine al mutismo.

 

“Portami via

 

Aveva annuito e si era inchinato per sollevarla fra le braccia. Senza incontrare resistenza. Mascherando lo stupore della fragilità di quel corpo magro. Troppo magro. Poteva quasi sentire il contorno di ogni osso, le scapole premere contro la carne del braccio, la rotula leggermente sferica e i fianchi con un accenno spigoloso per le ossa del bacino. L’aveva presa in braccio premendola al kimono sporco, macchiando leggermente lo yogi e il viso della ragazza. Non vi aveva prestato attenzione. Era solo sangue. E avrebbe potuto lavarlo in qualsiasi momento.

 

Era uscito dalla stanza senza prestare orecchio agli strepiti di suo fratello e al tentativo delle yasha di dissuaderlo. Ah-Un lo aspettava fuori, in giardino. Bardato e pronto a partire. Lo aveva già fatto preparare. Aveva già deciso di portare via la ragazza. Ma non si era aspettato di trovarla in quello stato; di scoprire quello che era accaduto.

 

È passato.

 

Passato. Finito. Archiviato.

Scambiò una lunga occhiata con Kumamoto, finchè il generale non gli cedette il passo, sorridendo di sbieco e ignorando i richiami della figlia. Ah-Un si liberò con uno strattone di Jaken e si accucciò a pochi passi dal demone, offrendogli il dorso.

Sesshomaru monto stringendo a sé il corpo di Alessandra e cercando di fargli assumere una posizione più comoda possibile. La circondò con un braccio e afferrò le briglia premendo i talloni nei fianchi. Ah-Un si risollevò muovendo qualche passo per abituarsi al nuovo peso. Ma non si mosse più di tanto. Non era ancora il momento.

 

“Siete proprio deciso, Sesshomaru-sama?”

 

Annuì appena e Yaone sbuffò alzando le mani al cielo. Inutile insistere. Il Principe era irremovibile; inutile tentare ancora. Si inchinò velocemente e rientrò a palazzo a grandi passi, stizzita, arrabbiata e sollevata insieme. Sesshomaru la lasciò andare. Non capiva il motivo della sua reazione, ma non gli interessava nemmeno. Strattonò leggermente le briglie, intrecciandole alle dita. Ancora un attimo. Aveva ancora un cosa da sistemare. Indugiò su Rin che singhiozzava stretta alla gamba di Kagome, un ditino in bocca. Non aveva cercato di fermarlo, non aveva cercato di andare con lui. Piangeva e basta. Con il suo lupacchiotto che le sfregava la testolina sul fianco.

Avvertì un leggero rumore metallico e le mani di Kumamoto fissare alla sella le sue katana. Non gli disse nulla. Il generale aveva un’espressione strana, di sollievo e malinconia. Avrebbe indagato, in seguito. Avrebbe indagato. Si sentì battere una mano sulla spalla e gli artigli sfiorare in un atteggiamento paterno Alessandra fra le sue braccia. Lo lasciò fare. Quasi tranquillizzato.

 

“Padrone”

 

La voce gracchiante di Jacken lo riportò al presente. A quelle parole che aveva deciso di dire. Attorcigliò le briglie al polso e strattonò leggermente, costringendo Ah-Un a sollevare le teste e prepararsi. Jacken continuava a fissarlo fra il terrorizzato e il rassegnato.

 

Non questa volta.

 

Si voltò verso suo fratello, le mani stretta in petto e una smorfia sulla bocca. Koga e Kumamoto poco distanti. Perfetto. Testimoni presenti. Storse appena le labbra. Se la sarebbe legata al dito, ne era certo. Ma non gli interessava. Aveva deciso così; e così sarebbe stato. Un’idea folle, insensata, senza capo né coda. Il concretizzarsi del suo incubo. Una paura che stranamente lo lasciava tranquillo, quasi indifferente.

Lo chiamò. E si gustò le sua sorpresa fargli sgranare gli occhi e spalancare la bocca. Le labbra tremare leggermente per un sorriso che non si formava. Si gustò il respirò che si spezzava e fulminò con un’occhiata Jacken che balbettava qualcosa di incomprensibile.

 

“Inuyasha.

Cerca di non combinare troppi guai come reggente

 

Strinse la mano e conficcò i talloni nel ventre di Ah-Un. Il drago si alzò in volò fluido e delicato, quasi consapevole di chi stesse portando. E mentre le sagome di youkai e ningen diventavano sempre più piccole, Sesshomaru fissò ancora sua fratello, e strinse a sé Alessandra. Con un miscuglio di sicurezza e incertezza nell’animo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

 

 

  1. Mamma amava Inutaisho. In giapponese, il termine haha indica la madre da parte di chi parla. In età medievale, stessa funzione aveva la parola okaasan, oggi impegata invece per indicare la madre altrui. Letteralmente, si traduce come “Signora madre”. Il verbo impiegato, invece, è desu, essere, e la traduzione letterale risulta quindi esser innamorato. La scelta è legata la fatto che l’altro verbo giapponese più frequente per indicare l’amore, aishiteru, è una forma letteraria raramente impiegata nel linguaggio orale, oltre al fatto di essere sostanzialmente neutrale. La forma suki desu, al contrario, è impiegata proprio per sottolineare il forte coinvolgimento emotivo del soggetto nel rapporto.
  2. Il ruolo della donna nella realtà medievale giapponese è estremamente vario e complesso, oltre a legarsi all’evolversi temporale. In periodo Heian, la donna non aveva alcun ruolo attivo e, a corte, viveva separata dagli uomini, in appositi padiglioni.
  3. I denti neri di Iazyoi rispondono ad un uso di bellezza delle donne della corte Heian, secondo cui il meck-up tradizionale prevedeva capelli lisci e lunghi, volto pallido con il belletto o la cipria, con le sopracciglia rasate e ridisegnate più in alto, labbra rosse disegnate a bocciolo e, appunto, i denti tinti di nero.
  4. In caso di assenza di discendenti maschi in una famiglia, o per maggiormente stipulare un legame matrimoniale, è tutt’ora possibile, da parte della famiglia della sposa, previo consenso del padre della ragazza, adottare il genero per tramandare il cognome.
  5. La collera di Sesshomaru e il suo desiderio di vendetta può sembrare strano se si considera il fatto che il demone parla di offesa soprattutto verso se stesso, preoccupandosi prima di ripristinare il suo prestigio e la sua autorità, piuttosto che delle condizioni di Alessandra. Il motivo è da ricercare nell’impostazione da me data al Principe, sulla scia del codice del bushido cui, in età medievale, si attenevano i samurai (un codice diverso da quello scritto e fissato nel Hagakure, “All’ombra delle foglie” durante il periodo Tokugawa). Secondo tale codice comportamentale, il samurai è padrone della sua stessa compagna, che vive in dipendenza del marito per prestigio, per quanto istruita maggiormente delle moglie e delle figlie dei damnyo, e anche capace, in caso di necessità, di combattere. Se quindi la donna subisce offesa, l’oltraggio investe anche e principalmente il marito, che ha il compito di proteggerla e farne rispettare il decoro. Di contro, la donna è “tutelata” dal fatto che nemmeno il marito, per quanto sia in suo potere picchiarla, non può assolutamente ferirla.

 

 

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Capitolo 47
*** 47. RESA ***


Finalmente, diranno molti di voi

Finalmente, diranno molti di voi.

Dopo diciassette mesi, dopo almeno dieci riscritture, dopo impegni lavorativi e universitari, finalmente riesco ad aggiornare. Un soffio di vita-Giorni d’inverno, con questo capitolo, si avvia definitivamente alla sua conclusione. E lo fa con calma; molta, moltissima calma.

Per essere precisi, e per frustrare un po’ di aspettative, in questo capitolo non compariranno affatto Alessandra e Sesshomaru, se non nelle parole e nei ricordi di altri personaggi. Di contro, il prossimo, Lucciole, sarà interamente dedicato a loro, e al loro rapporto. Alla sua evoluzione (o involuzione?).

Quarantasettesimo capitolo, dunque. Neutro, sotto un certo aspetto. Perché non aggiunge, ne sono consapevole io per prima, molti elementi allo sviluppo immediato della trama. Al contrario, sembra gettare ancora più interrogativi e non dissipa alcune zone d’ombra. Al contempo, però, è un capitolo fondamentale. Perché riprende il tema delle diversità che intercorrono fra youkai e ningen e soprattutto getta le prime basi per la seconda parte della storia e anche per la terza. Elementi che, adesso, sono più che altri accessori, ma che in futuro avranno la loro giusta, importante, collocazione. Capitolo di aggiunta, anche. Perché, forse per la prima volta in modo significativo, si affaccia la realtà mitologica e culturale cinese. Shin è cresciuto con i suoi fratelli in Cina; ne ha respirato l’essenza, ne ha percepito la distanza con il Giappone. Nelle future due parti, la Cina non sarà più solo una terra lontana in cui i principi del Kansai sono cresciuti, ma un mondo concreto e tangibile, di scambio.

Capitolo sui personaggi “secondari”, in un certo qual modo. E, come accennato, si toccano alcune questioni che non ho ancora voluto risolvere del tutto. Si parla del passato di Kumamoto; della situazione di Koga e Koji/Najiya; delle decisioni di Shin. E di Naraku.

L’ultimo paragrafo, confesso, è stato tremendo da scrivere. E ancora non ne sono persuasa. Perché è l’ultima comparsa che Naraku avrà nella mia storia, almeno in modo diretto. La seconda parte, Un soffio di vita - Fiori di lycoris (così vi ho svelato anche il titolo^^), sarà ambientata vari anni dopo la sconfitta di Naraku, che di conseguenza tornerà solo a livello mnemonico. Però. Però Naraku è un personaggio splendido, e lasciarlo mi è stato davvero difficile. Per mia abitudine a non stravolgere troppo le trame dei manga di partenza, la storia di Naraku prosegue così come l’ha descritta Rumiko Takahshi nel manga. Non posso ancora assicurare di non apportare alcune varianti (soprattutto alla luce del finale di Inuyasha che mi ha lasciato delusa proprio nei confronti di Naraku). Comunque, in questo ultimo paragrafo, ho tentato (tentato, va bene? Non so se posso sperare non di esserci riuscita appieno, ma almeno di aver lasciato intravvedere l’intenzione) di renderne la complessità, la tensione fra parte umana e demoniaca.

Vedremo.

Intanto, il prossimo capito è già in lavorazione, e a buon punto. Non posso garantire una imminente e svelta pubblicazione, soprattutto a causa di scadenze universitarie da rispettare. Tuttavia, e questo capitolo ne è in sostanza la prova, ribadisco che è mia ferma intenzione concludere Un soffio di vita. Nella sua trilogia.

Come di consueto, ho aggiornato il dizionarietto; e infine ringrazio infinitamente tutti coloro che continuano a seguirmi e aspettare e che hanno la gentilezza di recensirmi.

Grazie a Lete89, Lara, Flavia e Francesca per il sostegno che mi avete dato in tutto durante questi mesi.

Grazie a Celina, Eiby, KaDe, Yoi, Kaimi_11 per le splendide parole che mi usate e per la gentilezza che mi mostrate. Infine, grazie ad Achiko, e scusami per il lunghissimo silenzio.

 

Grazie. Davvero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 47

RESA

 

 

“La devo ringraziare, Kumamoto-san”

 

Kyoko abbassò appena la testa e strinse le mani in grembo. Il giardino del kyuden dell’Ovest è da sempre un piccolo capolavoro di armonia. Lo sfondo montano si armonizza con i cipressi e i cedri. Il verde delle magnolie e il violaceo del pyrus si specchiano nelle acque, e in fondo il lago, con il rì rivestito di lacche, madreperla e foglie d’oro che sembra galleggiare prima di aprirsi nel tsuridono. L’equilibrio di alberi e arbusti, bambù e sempreverdi sembrava non esser mai stato scalfito. In poco più di un mese, le tracce della guerra, la desolazione lasciata dopo che l’esercito era stato congedato erano sparite. E il tempo era tornato a scorrere in quel modo immobile che è proprio di loro youkai e dei luoghi che appartengono loro.

Non era cambiata, nel tempo. La residenza dei Principi di Nishi emanava la stessa solennità e rarefazione del passato. Kyoko si concesse di indugiare sulle pietre leggermente sollevate che segnavano i sentieri fra l’erba bassa e la ghiaia. Li aveva percorsi molte volte: spaesata dopo aver lasciato Yezo; stringendosi il ventre leggermente gonfio quando aspettava Shin; scalpitando per l’ostinazione di suo marito di precluderle gli scontri e le battaglie. Le lasciava il governo del Kansai, ma non la voleva come compagna in campo. In quelle occasioni, invidiava…Come le avevano detto che era stata chiamata? Saiyuri. Sì, Saiyuri.

 

Inutaisho aveva deciso così. Quando sua moglie è morta, ha deciso quel nome. L’altro, quello che aveva in vita, quello che faceva tremare demoni potenti ed era pronunciato con reverenza e timore, quel nome era solo un pallido ricordo. Forse il Principe non lo rammentava nemmeno. Kyoko non se ne sarebbe stupita. Doveva essere molto piccolo quando sua madre era morta. Già: morta. Non lo sapeva. Sul Continente quella voce non era mai giunta. L’ultima volta, l’aveva vista su un molo, prima dell’esilio. Appoggiata al braccio del marito e con il kimono che nascondeva a fatica la sua gravidanza orami alla fine. L’erede dell’Ovest sarebbe nato di lì a pochi mesi. E lei non era stata presente.

 

Sesshomaru-sama assomigliava molto alla madre. Kyoko dovette riconoscere a se stessa di essere rimasta colpita dal giovane Principe. Lo aveva visto solo di sfuggita, e non aveva avuto occasione di presentarsi come vorrebbe l’etichetta. Eppure, quella sera che era rientrato a palazzo grondante sangue e sudore, con la ningen fra le braccia, Kyoko aveva scorto nei suoi occhi quella luce fiera e determinata che velava sempre lo sguardo di Saiyuri. La fisionomia richiamava quella del padre, certo. Ma Kyoko non si poteva far trarre in inganno. La postura altera e al contempo fluida ed elegante; il mento che si alza leggermente in concomitanza ad una sfida, al proprio prestigio da affermare; la linea dritta del naso e le sopracciglia sottili, le dita lunghe e affusolate delle mani. E poi lo spicchio di luna che si fa intravvedere fra i ciuffi della frangia, il rosso pallido delle striature sul viso. Kyoko non era riuscita a vederlo bene, ma nei giorni della sua convalescenza, quando si aggirava nel padiglione che era stato riservato a lei e ai suoi figli, aveva consumato ore davanti ad un ritratto in tecnica sumi-e del Principe. Sesshomaru dimostrava circa vent’anni; armatura e pelliccia adagiata sul braccio; al fianco due katana e poi gli occhi. Sfuggenti verso l’infinito. Lo aveva studiato attentamente, in quel ritratto. Conforntandolo con il bambino di setto otto anni dagli occhi ancora grandi e un po’ lattiginosi. Un bimbo in kariginu, con i capelli tagliati alle spalle e senza alcuna arma. Doveva risalire circa al periodo in cui era morta sua madre. Poco prima di perdere del tutto la fanciullezza.

 

Kyoko stiracchiò un sorriso e sistemò una piccola ciocca sfuggita al kanzashi. Kumamoto continuava a fissare le increspature dell’acqua oltre il piccolo declivio della collina. In quelle settimane, il tempo sembrava aver iniziato a scorrere al contrario per loro; probabilmente erano solo i capelli striati di bianco del generale e il viso stanco e affaticato a ricordar loro che gli anni, inesorabili, erano trascorsi. Non ne portavano segni evidenti, ma c’erano; e per quanto loro youkai avessero un altro tempo, un altro modo di percepire l’evolversi della vita, per quanto le stagioni si avvicendassero davanti ai loro occhi in un eterno ciclo e riciclo che si annullava in un solo frammento di stagnante presente, nonostante tutto questo, qualcosa era cambiato. E il solo cambiamento bastava a scandire un prima e un dopo.

 

Adesso è dopo.

Dopo la battaglia; dopo la morte di Morigawa e del Sensei; dopo la prigionia dei signori del Kansai. Dopo; dopo; dopo. Kyoko dilatava quella percezione facendola risalire agli anni trascorsi nel Continente; allargava il tempo avvolgendo il miscuglio di rimpianto e risentimenti, la delusione e l’abbandono cui non si era opposta. Suo marito l’aveva estromessa a poco a poco, ma in modo inesorabile. Passo dopo passo; gesto dopo gesto. Una oiran nuova nelle stanze private; un kimono intravisto nella scatola e subito smarrito fra corridoi sempre più ostili, sempre più differenti. Aveva il suo prestigio, la sua forza orgogliosa che le imponeva di non supplicare, di non chiedere. Restava la kogo del Principe del Kansai, la madre dell’erede, del futuro della stirpe. Ed era solo quello. Solo e unicamente quello.

C’erano giorni trascorsi nell’apatia, rimescolando nello stomaco emozioni ormai lontane, smarrite totalmente. Perché l’amore di un demone è talmente avvolgente, talmente estraneo da coinvolgimenti secondari, che è assieme pieno e devastante. E il tradimento. Il tradimento non è gelosia, rabbia, sconforto. Semplicemente il cristallizzarsi dell’amore, e poi il crepitio del vetro che si crepa. Kyoko non era stata gelosa del marito. Aveva smesso semplicemente di amarlo; e dentro le era rimasto il vuoto. E il male. Un male che si era chiesta infinite volte quanto assomigliasse a quello delle ningen. Anche loro erano tradite, anche loro erano costrette ad accettare. E poi ordinavo, tramavano, progettavano. Lei no. Lei era rimasta al suo posto, orgogliosa comunque di un compagno che ormai era solo un nome sbiadito nella mente; un’ombra di anni lontanissimi, su un campo da combattimento, con la sua bocca contro la sua.

 

Il tradimento. Lo conosceva e lo aveva esercitato con grande abilità. Era una yasha, e per quanto forte il suo corpo prima o dopo avrebbe potuto tradirla in duello. Allora. Allora si era affinata nell’intelletto, nell’ingegno. Aveva plasmato il suo modo di pensare secondo le regole del governo. Un governo ben diverso da quello dei ningen, una tipologia di potere che era esercizio di autorità e forza. Spietata forza. Efferatezza. E assieme era altro. Consapevolezza della loro grandezza, coscienza di sé, della propria vita infinita e assieme transitoria. L’indifferenza con cui sfiorano i mutamenti soggetti al tempo. In quel cerchio che inizia in un fagotto e lentamente cresce con la consapevolezza di essere altro; di appartenere ad un mondo diverso rispetto a quello in cui sono immersi, e che conoscono nel profondo. Fino in fondo.

 

Morigawa l’aveva amata. Kyoko poteva conservare questa consapevolezza. Perché un demone comunque non può mentire. Stiracchiò un sorriso e lisciò le pieghe dello yukata. L’ofuro sarebbe stato libero a breve, ma la voglia di un bagno rilassante era lentamente scemata. Socchiuse gli occhi: la nebbia lattiginosa e quel calore umido sulla pelle quasi insensibile. Chissà perché. Il piacere provato dalla consapevolezza di fondersi con l’acqua, di percepire il corpo dilatarsi e scorrere in ogni particella d’acqua, in ogni goccia che scivola oltre il bordo, che scende lentamente verso la canaletta di scolo; rotolare e aprirsi nella terra. Ascoltare una parte di sé smaterializzarsi in vapore e una parte penetrare nella terra molle. Né calda né fredda. Solo molle. E nel buio. O salire nel sole e poi tornare. Pioggia, tempesta o neve. Era brava in quello; come tutti loro youkai. Alienazione le aveva detto una volta un onmyoji che si era rifugiato nelle loro terre, a Yezo. I ningen impiegano anni e anni, e spesso falliscono, per raggiungere quella condizione che permette loro di estraniarsi dal loro corpo. E seguire semplicemente il loro sentire con il pensiero. Kyoko non aveva compreso, allora. Non aveva compreso la difficoltà, non aveva concepito la possibilità per un ningen di fondersi con il mondo come loro stessi facevano. Non aveva capito.

E poi aveva visto. Con i suoi occhi; durante i secoli di esilio sul continente. Yogin li chiamavano. Uomini che avevano valicato le montagne bianche dell’interno. Lì dove dimorano gli spiriti di quella terra che aveva, volente o nolente, accettato come sua nuova dimora. Yogin si facevano chiamare; magri e scheletrici nel corpo, ma aveva sentito provenire da loro il pieno controllo della mente. Una conoscenza così diversa da quella demoniaca, ma che era riuscita a suscitare il suo interesse, a smuovere la sua difficile curiosità. Il prana che risiede nel corpo e su cui si fa leva, e al suo interno pensiero, intelligenza e fede. Kyoko aveva avvertito l’anima dello yogin fluttuarle accanto, mentre il suo corpo si immobilizzava e sembrava rinsecchire sulle sue stesse ossa; occhi vuoti arrovesciati all’indietro a mostrare il bulbo bianco e una litania echeggiare ovunque, senza provenienza. Lo aveva seguito nella sua esplorazione, nel suo peregrinare metafisico. E al contempo era rimasta a studiare la rigidità del suo corpo; l’odore di morte che lentamente aleggiava. Diverso da quella che lei stessa sapeva dare, eppure dettato dalla stessa sottile, latente consapevolezza. L’odore di quel terrore che attraversa la mente un istante prima di dissolvere il pensiero. Il dubbio, il terrore, o forse l’angosciante consapevolezza di non poter tornare.

 

Lo aveva scoperto; o forse semplicemente intuito. La differenza con i ningen. Loro devono comunque morire; in un modo o nell’altro, definitivamente o solo per un breve periodo, loro muoiono. E diventano solo pensiero, solo proiezione indefinita. Se ne distruggi il corpo, è la fine completa. Loro youkai no. Loro sono nel petalo che scorre su un letto d’acqua, nel vento che attraversa gli aceri sulle montagne e ridiscende lungo le vallate, nel refolo che accarezza le betulle e s’insinua fra i bambù prima di precipitare fra i ciuffi secchi della spiaggia e poi nel mare. Sono nella pioggia che cade, si infrange nella terra o si immerge nell’assoluto dell’acqua; sono nella danza ipnotica della neve. E sono anche nel luogo del loro corpo, con i sensi tesi a fondersi e a captare il movimento. Rilassati e assieme pronti allo scatto. Addormentati e vigili. Perché il loro riposo è la fusione e la natura stessa vibra d’istinto davanti al pericolo. Senza spezzare l’equilibrio, senza smettere di seguire le increspature dell’acqua.

 

Avrebbe voluto parlarne con Saiyuri. Avrebbe voluto insegnarle un altro modo di disprezzare. Non approvava i ningen, Saiyuri. Non li avrebbe mai approvati, Kyoko lo sapeva bene. Forse nemmeno per compiacere suo figlio. Era orgogliosa, Saiyuri. Lo stesso orgoglio di Sesshomaru-sama. La freddezza che non si liquefà se non nel buio, nell’oscuro. E quel leggero sorriso che accompagnava l’inclinazione della testa; un cenno di quieta apparente accondiscendenza. Mentre risistemava con eleganza la pelliccia bianca o fermava una ciocca di platino. Era altera, Saiyuri, e consapevole di chi fosse. Del ruolo che avesse. E che avrebbe avuto suo figlio.

 

“A Sesshomaru-sama manca. Anche se non lo sa”

 

Kumamoto si sedette di nuovo sullo zabuton. Quella conversazione non era stata delle più piacevoli, ma non gli era pesata nemmeno quanto si era immaginato. Quando Kyoko-sama gli aveva chiesto se potesse prendere un tè con lei, il vecchio generale aveva subito percepito la stranezza. Negli anni prima dell’esilio aveva avuto modo di conoscere Kyoko e soprattutto di apprezzare la sua abilità. Sviava i demoni. Inganno lo avrebbero definito i ningen, crede. Ma non lo è. Per loro demoni, se cadi in una trappola non è stato l’avversario ad ingannarti, ma tu a non prestare attenzione alle sue mosse, alla tattica cui voleva ricorrere per allentare la tua concentrazione. E Kyoko era maestra nello sviare la mente. Gli anni di esperienza a capo di Yezo, reggendo le sorti del loro regno con suo fratello, le avevano conferito l’intelligenza fine e la velocità di ragionamento per cui eccelleva fra le yasha.

Aveva capito che voleva qualcosa, nonostante la pacatezza quasi remissiva della richiesta. Aveva immaginato ragguagli sulla battaglia; aveva ipotizzato la storia della morte di suo marito o forse delucidazioni riguardo il destino suo e dei suoi figli. Alle prime due possibilità, Kumamoto avrebbe saputo rispondere tranquillamente. Le immagini di quel giorno erano stampate vivide nella sua mente. Assieme a quelle della prima volta che era sceso in campo con Inutaisho e Morigawa. Si era sfiorato in un gesto automatico l’occhio cieco. Lo aveva perso per proteggere Inutaisho e non se ne era mai pentito. Quella folle spedizione di loto tre, per risolvere una situazione che avrebbe altrimenti costretto il vecchio Principe a scendere in campo, e non era in condizioni per farlo. Avevano vinto, quella volta, ma Inutaisho c’era andato vicino. Troppo vicino dall’essere ucciso in battaglia. Aveva squarciato la tigre appena in tempo; veloce abbastanza da impedirle di sgozzare Inutaisho, ma non a sufficienza per evitare la zampata che gli aveva maciullato il volto e strappato il bulbo. Kumamoto non ricorda nemmeno il dolore. Solo l’urgenza di uccidere quel maledetto gattaccio e portare via Inutaisho. Dal Sensei. Erano andati da lui, perché le ferite del demone erano gravi. Molto gravi. Inutaisho aveva impiegato due mesi a recuperare le forze; pochissimo considerando che a quel tempo era ancora un ragazzino. E nello stesso tempo, Kumamoto si era accorto che il suo viso ritornava normale: restava solo l’orbita vuota e la cicatrice profonda, un segno che nemmeno la sua youki ancora giovane poteva rimarginare.

 

Aveva immaginato che Kyoko gli avrebbe chiesto del Sensei; di come si fosse presentato all’improvviso sul campo di battaglia. In forma canina, gli occhi grigi brillanti di youki. Il modo in cui aveva azzannato alla gola Morigawa un istante prima che potesse chiudere le fauci su Sesshomaru. E rotolare verso il fondo della piana, auree a scontrarsi e furia che era più istinto cieco e ferino che razionalità demoniaca. La forma animale concede a loro youkai il pieno potere della loro natura, ma può stravolgere il modo di percepire il mondo. Può annullare la razionalità selvaggia e trasformarla in puro istinto. È la fusione totale del loro essere con l’essenza stessa della natura. E può essere devastante. Soprattutto per loro taiyoukai. Non è la perdita del loro io, non sono hanyou che si lasciano sopraffare dal sangue demoniaco; è diverso. È profondamente diverso. Il loro io al massimo grado, in un controllo assoluto e insieme istintivo. Sono pienamente se stessi e bramano la perfezione assoluta che nemmeno loro possiedono: la perfezione dei Kamigami.

Aveva immaginato di dover parlare di quello. E invece Kyoko lo aveva sorpreso chiedendogli della Signora, della moglie di Inutaisho. Saiyuri. La poteva chiamare solo così, ormai. Il nome che Inutaisho aveva scelto per lei; forse il nome che avrebbe sempre voluto rivolgerle. Se ne era andata presto, Saiyuri. Troppo presto. Presto per Inutaisho; presto per Sesshomaru. Assomigliava alla sua prima moglie. Composta e fiera. Orgogliosa. Ma in fondo era l’erede delle terre di Higashi.

 

E forse non avrebbe mai accettato Alessandra-san. Kumamoto si sorprese del leggero sorriso che gli attraversò le labbra. Le rivalità fra yasha non erano mai state di suo interesse, ma l’idea di come avrebbe giocato Sesshomaru quella partita lo divertiva. La Signora non era remissiva; per nulla. Ma amava suo figlio. Di un amore quasi impalpabile e che si poteva intuire solo per chi la conoscesse bene. Veramente bene. Anche in compagnia di Inutaisho Saiyuri rasentava una distaccata e composta indifferenza. Eppure. Eppure Kumamoto sapeva benissimo che il legame che li aveva uniti era stato particolare. Molto particolare. Inutaisho aveva rischiato il trono e la vita, per lei. Aveva accettato il disonore e il ripudio, per lei. Era stato pronto ad esser privato del titolo di Principe, di mettersi contro il Clan, la Famiglia, perfino il Consiglio, pur di avere lei. Ripartire da zero, senza titoli e con la condanna del rinnegato a pesare sulle spalle. Inutaisho lo avrebbe fatto; in un certo senso lo aveva fatto. E Saiyuri al suo fianco. Ma Sesshomaru? Sesshomaru sarebbe mai stato capace di superare le regole e le convinzioni che gli erano state inculcate fin da ragazzo? Forse con il tempo; forse con tempo e pazienza e fatica.

 

Assaporò il maccha in tre piccoli sorsi, socchiudendo gli occhi. Avrebbe preferito del sake, ma era molto tempo che non aveva qualcuno con cui berlo. Il suo primogenito era morto da almeno un secolo, e con lui anche gli altri figli. Gli restava solo Homoe. Avrebbe preferito il sake, ma non è decoroso invitare una donna, anche una yasha, a berlo. Forse una sera lo avrebbe proposto a Inuyasha. Ruotò lentamente la chawan; un sottile strato di polvere verdina galleggiava pigramente. Lo avrebbe visto verso sera. Inuyasha si stava impegnando al meglio delle sue possibilità per non deludere Sesshomaru e mantenere una situazione di equilibrio a corte, ma non era facile. Non era affatto facile; soprattutto per lui che non aveva ricevuto alcuna educazione in campo governativo. Kumamoto si sorprese a seguire il profilo di Kyoko. I capelli dorati elegantemente raccolti e gli occhi viola socchiusi. Osservava il vuoto. Come solo loro youkai sanno fare. Il silenzio che si allarga in un manto invisibile; il vuoto che è solo assenza di movimento o movimento perfettamente armonico e compito. Perfezione assoluta. Come nel piccolo tonfo della rana che si tuffa; quel suono profondo che si annulla nell’espandersi dei cerchi concentrici, che dilatano il silenzio. E non c’è più la rana o lo stagno; solo il senso del silenzio. Euiko non lo aveva mai capito. La donna che aveva amato si era sforzata; aveva cercato di penetrare, di cogliere anche solo un piccolo barlume di quello che lui percepiva, ma non ci era mai riuscita. Arrivava appena a sfiorare la consapevolezza che il tempo scorre diversamente fra di loro. Una sottile linea che li teneva comunque divisi.

Era riuscito a farla accettare a Kita; era riuscito a riconoscere il figlio che gli aveva dato. Euiko era la sua chugu e se ci era riuscito lo doveva a Inutaisho. Alla fermezza con cui si era imposto nella Famiglia e nel Consiglio; all’appoggio incondizionato che gli aveva dato. E c’era anche Morigawa, a quel tempo. Era ancora con loro. Sounga era un nome sfumato quanto una leggenda; e loro erano quattro. Quattro demoni che stavano lentamente imparando la loro natura; le diversità fra Kami, ningen e youkai. La forza e l’indifferenza che i ningen chiamano misericordia.

 

Cosa vorreste, Kyoko-sama?”

 

Era da più di un mese che voleva porle quella domanda, sapere cosa desiderasse. Kyoko si limitò a stringere compostamente le mani in grembo. Cosa voleva? Era un quesito che martellava la sua testa da quando aveva razionalizzato di essere nel Palazzo dell’Ovest. Da quando aveva saputo che Sesshomaru se ne era andato con una ningen e aveva affidato la reggenza ad un hanyou, al suo fratellastro. Avrebbe potuto approfittarne; un ragazzino inesperto, in balia di se stesso, non sarebbe stato difficile da raggirare e fargli preparare un accordo pienamente vantaggioso per lei, per i suoi figli e per il Kansai. Ma era davvero il Kansai che voleva? O bramava piuttosto la nuova casa, sul Continente, oppure riavvertire il pizzicorio leggero dell’aria gelida di Yezo? Hidesuke andava a trovarla due volte al giorno e stava cercando di convincerla. Le dipingeva davanti il ritorno al passato. Quando era la hime di Yezo, una delle yasha più importanti e influenti. Una yasha indipendente. Kyoko sorrideva dei progetti di suo fratello, scuoteva elegantemente il capo e gli stingeva una mano. Una mano grande e un po’ imbarazzata. Hidesuke non si era mai abituato alle attenzioni della sorella; finchè era un cucciolo le trovava piacevoli, ma crescendo aveva iniziato a trovarle costringenti. In più, non è molto piacevole avere addosso gli occhi dell’intera corte e il sorriso di quieta accondiscendenza. Kyoko lo aveva viziato in un certo senso; come sorella maggiore e con la sua abilità diplomatica oltre che bellica era riuscita a ritardare fino all’ultimo la sua successione. Alla corte di Yezo si era mormorato anche che Kyoko-hime progettasse l’assassinio del legittimo Principe, per essere lei la sola, la prima yasha a succedere al comando di un Clan inuyoukai. Hidesuke conosceva le voci e ne sorrideva quasi compiaciuto. Lo lusingava l’idea che gli youkai temessero sua sorella, in quanto era il metro con cui si poteva misurare il suo prestigio e assieme l’influenza che sapeva esercitare. Per quanto riguardava la veridicità di quelle chiacchiere, non ci prestava la minima attenzione. C’era un tacito patto, fra lui e sua sorella. Kyoko avrebbe retto il regno finchè fosse stato suo desiderio e lui non si fosse sentito pronto a sfidarla nella prova di successione. Doveva guadagnarselo, il diritto di controllare gli inuyoukai di Yezo. Poi. Poi c’era stata la sua vittoria, il matrimonio e Morigawa alla corte di Yezo. E Kyoko aveva lasciato le sue terre.

 

Adesso, Hidesuke le proponeva di tornare. Miwako avrebbe potuto imparare molto da lei, e poi lo aggradava molto l’idea che sua sorella lo potesse consigliare per l’istruzione di Eisaku. Desiderava molto che suo figlio crescesse con lo stesso orgoglio suo e della sua stirpe, che non accadesse mai che si sentisse secondo rispetto a Shin e Yashi. Ma Kyoko non rispondeva mai ai suoi inviti. Si limitava a ricordargli la condizione sua e dei suoi figli, di come loro fossero semplicemente gli sconfitti. E poco importava, alla fine, che Morigawa fosse stato l’unico artefice di tutto. Poco importava che lei, Yashi e Koji fossero stati imprigionati e torturati; che Shin avesse deciso spontaneamente di collaborare con Sesshomaru. Le loro regole erano precise: i signori del Kansai dovevano rimettersi al volere di Nishi. Kyoko non osava farsi illusioni; Sesshomaru poteva chiedere anche le loro vite.

 

Ma se avesse davvero potuto scegliere. Se avesse potuto farlo, Kyoko si accorse all’improvviso di non avere una risposta. Perché niente sarebbe più stato come prima. Il tempo, quel tempo che per loro scorre quasi indifferente, per la prima volta aveva assunto una consistenza corporea e pesante; una cappa che la schiacciava a terra, rimbombandole nelle orecchie con la violenza di uno tsunami. Passato; passato; passato. Con o senza Morigawa, Kyoko aveva perso. Perso qualcosa che aveva costruito nel tempo, con una consapevolezza lasciata altrimenti fluttuare leggera e inconsistente. Perdere un figlio in battaglia sarebbe stato normale. Era preparata a quella possibilità con la consapevolezza della sua natura. Uno youkai è eterno; non è immortale. Sarebbe stato naturale. Nulla di più. E avrebbe sorpassato il lutto senza lasciarsene piegare. Un dolore profondo che l’avrebbe avvolta, ma non annullata. I ningen si lasciano consumare dal dolore. Non gli youkai. Lo avvertono nella sua massima espressione, in quell’interezza che trascina nelle ombre della terra. Un frantumarsi continuo vorticoso. Ma lo vivono accettandolo. Il dolore, come la gioia, la sofferenza e l’amore sono sentiti nella loro espressione più alta e semplicemente lasciati scorrere sulla pelle. Sono nell’armonia stessa di cui loro sono espressione. Non ha motivo d’esserci rimpianto, per un demone. Non il rimpianto umano. E nemmeno malinconia.

 

Ma se avesse potuto scegliere. Cosa avrebbe fatto, allora? Sarebbe tornata a casa, certo. Ma dov’era, la sua casa? Le vette ghiacciate di Yezo o quel palazzo che Morigawa aveva fatto ricostruire, pezzo dopo pezzo, nel delicato Kansai. Oppure il Continente. Kyoko socchiuse gli occhi. Forse era ridicolo pensarci, non era facilmente prevedibile che il Principe lasciasse loro quella scelta, la libertà della scelta. Ma immaginare, ipotizzare, era un gioco cui si era sempre prestata volentieri. Elaborare ogni possibile situazione e avere sempre pronta la risposta, la soluzione. Precisa e inesorabile come un fendente dei suoi lunghi artigli. Kyoko aveva fatto della voce la più letale delle sue armi, ma zanne e unghie non erano meno pericolose; benché capitasse che i suoi avversari se ne dimenticassero, avvolti dalla sua garbata e arguta dialettica.

 

Tuttavia, Kyoko dovette arrendersi alla consapevolezza che serpeggiava nella sua mente: non aveva risposte. Se avesse potuto scegliere, non sapeva cosa decidere. Perché comunque, in un modo o nell’altro, avrebbe perso qualcosa. Shin era stato categorico e irriducibile al dialogo come poche volte. Se Sesshomaru glielo avesse concesso, sarebbe tornato nel Continente. In esilio e per sua scelta, l’importante era tornare. Glielo aveva detto pochi giorni dopo che era bruciato lo shinden del corpo principale. In una afosa giornata, con il sole che filtrava pesante fra le listelle di bambù e il frinire assordante delle cicale. Si era rimesso in fretta, il suo primogenito. Nonostante l’imprudenza commessa scendendo in campo senza tener presente le sue ancora instabili condizioni fisiche, le ferite si erano ormai rimarginate. Il passo era ancora un po’ claudicante, ma aveva ripreso l’andatura fiera ed eretta che gli era propria. Quando lo aveva visto sfinito e coperto di sangue sul campo di battaglia, all’interno delle mura del palazzo dell’Ovest aveva temuto in uno strano scherzo dovuto alla stanchezza e ad una verità dura da accettare anche per una yasha. Ma poi. Poi Shin le si era avvicinato; tendendo quasi senza accorgersene la mano e sorreggendosi alla spada. E Kyoko aveva rivisto un cucciolo muovere incerto i primi passi su un tatami orlato d’ocra; sollevarsi fra le gambe del padre e gattonare. Puntare i teneri artigli e sollevare le gambette alla ricerca di un precario equilibrio. Era ruzzolato per terra due volte, ma alla terza aveva guadagnato una precaria stabilità. I primi passi verso l’engawa dove lei sedeva; prima incerti e poi mutare, in una goffa e spensierata corsa che Shin aveva conclusa ridendo fra le sue braccia, prima di voltarsi verso il padre con un ditino in bocca. Inconsapevole di cosa esattamente significasse quel suo naturale crescere. Morigawa aveva sorriso. Una delle ultime volte che suo marito avesse sorriso. E su quella piazza d’armi ingombra di cadaveri Kyoko aveva ricercato per forza d’abitudine il compagno. Era stato un attimo, ma non aveva potuto impedire ai suoi occhi di spaziare lungo le mura, sui ballatoi, fino al corpo centrale alla ricerca di uno sguardo che ormai, lo sapeva lei per prima, sarebbe naufragato nella sua memoria.

 

Le forze avevano abbandonato Shin a pochi passi da lei e suo figlio aveva semplicemente chiuso gli occhi, troppo stanco anche solo per tentare di fermare la propria caduta. Kyoko lo aveva visto scendere verso terra al rallentatore e benché impartisse ai suoi muscoli l’ordine di muoversi, restava immobile. E intanto Shin cadeva. Shin. Shin vivo davanti a lei; Shin che zoppica verso di lei e poi si abbandona alla spossatezza. Suo figlio che accetta le mani di una yasha per ritrovare l’equilibrio, il corpo poggiato sul suo petto e il respiro affannoso regolarizzarsi lentamente verso un sonno esausto. Homoe che sembra cullarlo come se fosse un cucciolo, in gesti innati e quasi malinconici. E poi alzare gli occhi a fissarla; senza astio o felicità. Semplicemente rassicurandola, benché gli occhi della yasha non dicessero nulla. O forse solo una parola: realtà. Kyoko si rivide inginocchiarsi all’improvviso nella terra lorda di sangue, gattonare con il respiro fermo in gola verso quelle figure unite, quasi abbracciate. Gli artigli incerti e quasi spaventati allungarsi a sfiorare un viso pallido e scavato, con occhiaie profonde e una sottile ferita che tagliava la fronte; la pelle di Shin era fredda, quasi livida ai suoi occhi e sapeva di sudore, stanchezza e sangue. Aveva raccolto il viso fra le mani quasi studiandolo, come se la sua mente non potesse razionalizzare che era davvero suo figlio, quello che si era accorta all’improvviso di stringere al seno, quello che aveva debolmente portato le braccia attorno alla sua vita e che cercava disperatamente di sussurrare qualche parola.

Lo stesso figlio che aveva creduto perso e che si era ritrovato inginocchiato compitamente nelle stanze assegnatele. Sfuggente e quasi colpevole mentre le comunicava la sua ferma intenzione, se fosse stata presentata l’occasione, di lasciare il trono a Yashi e ritornare sul Continente. E la preghiera aggiungersi a quelle poche parole; le uniche, aveva sottolineato, che le chiedeva di accettare non come richiesta di un figlio, ma volere del suo Principe. E il soffio che aveva aggiunto: tacere con Yashi e Koji, nascondere loro la verità di quella scelta quasi utopica. Prima scoprire cosa esattamente possano volere.

 

“Quando tornerà Sesshomaru-sama?”

 

Sapeva che non era un suo diritto chiedere; ma il generale, il Principe di Kita che le sedeva di fronte non l’aveva mai trattata come una prigioniera e benché si esimesse dal formulare promesse o elargire speranze che potevano risolversi in uno sbuffo di fumo nero, Kumamoto restava pur sempre un suo vecchio amico. Un demone con cui aveva condiviso parte della vita, di quella vita lunga e precipitata così, all’improvviso. Sapeva che non aveva diritto di chiedere, ma l’ignoranza cui l’attesa la costringeva era sfibrante. Inuyasha non aveva fatto loro sapere nulla, e non le avevano nemmeno detto se era intenzionato a parlare con loro. Poteva supporre che fosse bendisposto nei loro confronti, almeno a giudicare degli alloggi loro riservati e dal fatto che la stessa archiatra di corte fosse stata incaricata di provvedere a che i Signori del Kansai si rimettessero al meglio. Eppure, finchè non avesse saputo esattamente cosa li attendeva, non sarebbe stata tranquilla. O forse, semplicemente, non si sarebbe rassegnata. Hidesuke era ancora a palazzo, ma nonostante le lunghe conversazioni in cui si intrattenevano, suo fratello non si lasciava sfuggire una mezza parola in più del lecito. Aveva imparato troppo bene la sua arte oratoria, aveva dovuto ammettere Kyoko, raccogliendo leggermente una manica per versare un’altra tazza di tè al suo ospite e poi servire se stessa. Non aveva risposto alla domanda.

 

Kumamoto l’aveva sentita chiara e precisa, nonostante il tono usato fosse stato di poco superiore ad un fruscio. Ma la risposta. Quella era un arcano; un semplice e naturale arcano. Si massaggiò di riflesso il ginocchio. Dopo la battaglia aveva ricominciato a dolergli e nemmeno il rimedio di Alessandra-san aveva più effetto. Ma in fondo si era quasi abituato all’idea di quella lama che penetrava la cerne al minimo spostamento. Un buon monito, nulla da dire: i draghi sono pericolosi. Era stato quasi sicuro che avrebbe perso la gamba quando si era sentito azzannare alla coscia. Invece, per un motivo che non ricordava in modo nitido, i denti avevano rosicchiato e liquefatto solo attorno al piatto tibiale e poi erano stati costretti a mollare la presa. Il suo ginocchio era stato ridotto ad un osso incrinato e scheggiato in più punti che biancheggiava in uno squarcio maleodorante e sanguinolento. Erano stati necessari mesi prima che il muscolo e la pelle si riformasse e tornasse intatta, ma per l’acido che era riuscito a intaccare i legamenti non c’era stato rimedio e Kumamoto si era semplicemente rassegnato a convivere con quel ginocchio traditore.

 

Quando sarebbe tornato Sesshomaru. In verità, più del quando, lui era stuzzicato dal pensiero del come. Non si concedeva l’ipotesi che rientrasse a palazzo da solo, non dopo che lui stesso aveva portato via Alessandra-san e dato precise istruzioni su chi dovesse sostituirlo durante la sua assenza. Tuttavia, quantificare il tempo, soprattutto accostandolo a Sesshomaru, rasentava un calcolo impossibile. Un ciclo lunare, forse due. O anche di più. Il tempo necessario, forse sarebbe stata la risposta adatta. Necessario per qualunque cosa il Principe volesse fare o scoprire. Ma non poteva darla, quella risposta. Nemmeno a Kyoko. Perché poteva significare il pericolo di voci che serpeggiavano nella corte e che sarebbero potute andare a ravvivare il fuoco del malcontento e dell’insoddisfazione che già aleggiava a palazzo.

 

Non erano piaciute le decisioni Sesshomaru. Dai commenti che aveva raccolto e dalle conversazioni che, più o meno involontariamente, aveva ascoltato sembrava palese che la strage compiuta da Sesshomaru per ripristinare la sua autorità fosse stata accettata quasi con compiacimento. Un Principe che non si fa intimidire dai legami di palazzo ed è capace di punire per il mancato rispetto è certamente capace di tenere a freno la Famiglia e di presiedere il Consiglio. Ma il motivo non aggradava, così come il fatto che si fosse nuovamente allontanato da palazzo in compagnia della ningen e avesse delegato il governo all’hanyou. Meglio un solito inetto leccapiedi come Jacken che la prova vivente dell’infamia che il loro Clan portava. Tuttavia, Kumamoto si era compiaciuto che nessuno avesse reagito quando avevano comunicato la notizia. Le lingue di fuoco che ancora rosseggiavano sullo sfondo erano un’eloquente promessa della sorte che aspettava chi non avesse rispettato il volere di Sesshomaru-sama. Da parte sua, cercava di guidare le mosse del giovane hanyou senza fargliele pesare. Inuyasha aveva l’orgoglio indisponente di Inutaisho, cui si doveva sommare un’endemica abitudine alla diffidenza. Aveva imparato a non fidarsi mai, di nessuno. Forse nemmeno degli amici, e questo era un bene. Ma rischiava di confondere la prudenza con la paura, e questo non era affatto un bene. Ma d’altra parte, doveva sentirsi profondamente spaesato ad aggirarsi per stanze che avrebbe dovuto conoscere e che invece gli risultavano estranee se non ostili. Inutaisho era scrupoloso nelle sue mansioni e Sesshomaru aveva fatto convergere in sé la precisione del padre e il rigore della madre. Inuyasha, invece, era insofferente. S’impegnava, ma erano più gli ostacoli che le riuscite e il conseguente peso di inadeguatezza diventava giorno dopo giorno più pesante. L’houshi e Koga cercavano di aiutarlo, come potevano, ma il più delle volte erano solo il mezzo per alleggerire la tensione. Miroku-sama, per quanto istruito, non conosceva nulla del loro mondo, e Koga assomigliava troppo a suo padre Hidoshi nella consueta allergia a tutto ciò che avesse a che fare con le scartoffie. Con una spada in mano o semplicemente gli artigli e le zanne era capace di smuovere mezzo Nihon, ma i trattati e gli accordi li demandava più che volentieri.

 

Kumamoto rigirò lentamente la tazzina da tè. Vedere Sesshomaru montare Ah-Un con Alessandra fra le braccia, vedergli quello sguardo sicuro, determinato anche nella consapevolezza della pazzia, dell’errore, se proprio voleva chiamarlo così, che stava per commettere, assicurargli le katana alla sella e sfiorargli una spalla. Una sensazione già provata, assieme ad un grumo di saliva fermo in gola. Perché per un istante si era ritrovato in un crepuscolo di molti secoli prima, ai limiti dell’jinmaku mentre cercava di far ragionare Inutaisho. Lui, Hisdoshi e Morigawa. Impotenti davanti alla ferma volontà del Principe dell’Ovest, a quella sicurezza che a volte paventava un’arroganza che era esasperata copertura. C’era una donna fra le braccia di Inutaisho. Una yasha che cercava di nascondere il proprio aspetto in un’anonima corazza da soldato. C’era la bellezza pura di Saiyuri, con Inutaisho. Quando quel nome ancora non esisteva; quando quel nome non era ancora stato necessario. La foga di Inutaisho nelle sue argomentazioni; quella foga che non era solo esuberanza giovanile, ma ferma convinzione di essere nel giusto. Che fosse giusto scappare con lei; rinnegare se stesso e il suo nome, se fosse stato necessario. Ero costato molto, quel suo colpo di testa. Ma la cosa che più aveva sorpreso era stato che Saiyuri accettasse. Per un motivo forse un po’ strano, ma pur sempre per il suo motivo.

E in Sesshomaru aveva rivisto la stessa determinazione oscurata da un’ombra di timore. Inespresso e insieme presente. La consapevolezza di sapere cosa si vuole fare, cosa si sta facendo, e non volersi fermare a chiedere perché. Chissà se Sesshomaru conosceva i retroscena dell’unione dei suoi genitori. Forse gli sarebbe servito, o forse ne era già al corrente e si limitava ad ignorarla.

 

Quando sarebbe tornato. Picchiettò con l’artiglio la ceramica sobria. Non aveva certezze per dirlo, ma prevedeva non prima dell’autunno. E lui ormai si era rassegnato all’idea di restare a Nishi ancora per dei mesi. Avrebbe mandato Homoe nel loro palazzo di Kita appena possibile. Se ne sarebbe separato con un po’ di rimprovero, ma era la soluzione ideale. I Signori del Kansai, e Shin in particolare, sarebbero stati costretti a rimanere ancora a lungo. E la situazione poteva diventare pericolosa. E spiacevole. Soprattutto spiacevole. C’era una strana complicità fra l’erede del Kanasi e sua figlia. Una complicità che poteva rabbuiarlo; anche se a malincuore.

Vagò distrattamente per i contorni del giardino e si lasciò catturare dalle sagome in lontananza. Homoe e Shin, probabilmente; o forse l’houshi e la taijya.

 

Homoe-hime-san è davvero una goccia d’ambra. Dovete esserne fiero, Kumamoto-sama”

 

Kumamoto inclinò appena la testa. Homoe gli ricordava in modo doloroso e assieme piacevole Tansho; il viso pallido e gli occhi d’acciaio. Gli ricordava quello che aveva perso per una sua stupida lontananza. Homoe era tutto quello che gli restava. Oltre a Sesshomaru; oltre al suo piccolo principe. Al figlio del suo più caro amico; quel demone che, lo aveva promesso, avrebbe visto crescere e cercato di aiutare come meglio era in suo potere. Homoe invece era il suo orgoglio; un orgoglio pieno e insieme velato di dispiacere. Perché adesso non poteva più lasciarla libera; perché doveva proteggerla e impedire che qualcos’altro le facesse del male. Soprattutto doveva impedire di essere lui a farle del male.

 

“Shin-san mi ha parlato di lei. Con entusiasmo. Non pensate…”

 

“No, Kyoko-sama.

Non fatemi pensare a quello che voglio e non posso

 

Kyoko si morse forte il labbro. C’era rassegnazione, quasi dispiacere, nella voce di Kumamoto. E gli occhi si erano chiusi in un gesto impotente. Adesso, osservava di nuovo, la testa appena piegata, le figure scure contro la luce che andava intensificandosi. Homoe e Shin. Sarebbe stato bello; molto bello. Sarebbe stata quasi una speranza mai realmente calibrata. Quando Morigawa non aveva ancora tradito. Allora, con Shin che appena gattonava, in una notte di tarda primavera, si era abbandonato a quelle sciocche fantasticherie. Il suo primogenito aspettava solo il battesimo delle armi, e lui cercava una nuova compagna. Senza realmente metterci molto impegno, ma nemmeno disdegnando l’idea. Sorrideva al pensiero di un altro cucciolo a riempire il silenzio del palazzo di Kita. Atshushi non sembrava contrario all’idea di una nuova madre e la possibilità di avere fratelli, anche maschi, che forse avrebbero potuto rivendicare a il titolo non lo sfiorava minimamente. Tansho era riuscita a catturare la sua attenzione, a interessarlo, e soprattutto era riuscita a non distruggere il ricordo della madre dalla mente di Atshushi. Gli aveva dato due figli: Homoe e Yosen. E con la yasha si era riaffacciato il desiderio che forse, un giorno, il Clan di Kita e quello del Kansai sarebbero stati uniti. Un giorno naufragato in una battaglia contro un amico.

 

Adesso. Adesso forse si potrebbe riprendere quel progetto. Kyoko era rimasta sul vago, ma lui stesso ne aveva sentore. Shin apprezzava Homoe; l’apprezzava forse molto più di quanto dicesse o mostrasse. Eppure. Eppure Kumamoto sapeva quasi con rassegnazione che nulla era più così semplice. Non si preuccupava del fatto che i Principi del Kansai in quel momento fossero semplici prigionieri di Sesshomaru-sama. Una questione facile da risolvere, soprattutto dal momento che l’artefice dell’offesa, Morigawa, era morto. Non avrebbe avuto senso accanirsi sugli altri membri del Clan che gli si erano dimostrati, a sorpresa, se non fedeli, almeno favorevoli. Shin, non lo si poteva dimenticare, aveva anche combattuto con Inuyasha e gli altri youkai a difesa del palazzo. Un palazzo di cui avrebbe potuto volere e facilitare la caduta. Nella confusione creatasi, approfittando dei pochi uomini a difesa, confidando nella conoscenza forse generale ma anche passabile e sufficiente della pianta dell’edificio avrebbe potuto spalancare la porta con una certa facilità. Avrebbe; ma aveva preferito la battaglia, aveva preferito mettere a repentaglio la sua vita ancora debole e fidare in un corpo ancora in via di guarigione che tradire. Ecco: tradire. Era il termine migliore. Forse una fiducia che Sesshomaru gli aveva accordato quasi senza consapevolezza; forse semplicemente la gentilezza mostratagli da Alessandra, Yaone e Homoe. Soprattutto Homoe. Kumamoto socchiuse gli occhi. Sua figlia era sempre stata ribelle, soprattutto per la compagnia vivace e vitale dei fratelli. Non si era stupito molto quando era entrata con Shin nella sala del consiglio; un passo dietro di lui, ma gli occhi, i suoi occhi d’acciaio, alzati a sfidare i presenti: ci provassero, a metterla alla porta perché yasha. Anche lei aveva artigli e zanne; e sapeva usarli.

 

Kumamoto era stato quasi sollevato che tutti si concentrassero sul Principe del Kansai e ignorassero lei. Non era sicuro che si sarebbe piegata ai suoi richiami e forse sarebbe arrivata a sfidare anche l’autorità di Sesshomaru-sama. Però il vederla lì, il riconoscere il modo deciso di atteggiare la testa, le labbra appena inclinate in un mezzo sorriso; tutto il suo aspetto lo avevano catapultato a molti anni prima, quando Homoe gli aveva chiesto con decisione irremovibile di scegliere: accettare o cacciarli. C’era un altro uomo, quella volta, al fianco di Homoe. Un uomo diverso da Shin, per molte cose. C’era un ningen, quella volta, con Homoe. Un semplice ningen che aveva imparato a non tremare davanti a loro youkai, che aveva scoperto che la convivenza con i demoni può essere piacevole, piena, intensa. Certamente diversa. Diversi i ritmi cui adattarsi, diverso il modo di scandire l’esistenza, diverse le priorità. Era un semplice soldato, quel ningen. Un ragazzo neanche diciottenne, senza molta istruzione e con un’ingenuità quasi infantile. A Kumamoto non era importato molto cosa fosse quel ningen, non gli era interessato nemmeno che fosse un ningen. Homoe era felice con lui, di quella felicità discreta e totale che si percepiva attraverso i suoi gesti.

 

Non si era ribellato, opposto e non aveva cercato di sabotare nulla. Il ningen era diventato il compagno di sua figlia e aveva sempre saputo rispettare loro e conservare il suo posto. Era disponibile, ma non si arrischiava a intervenire nelle questioni di palazzo senza essere direttamente interpellato. Essere il compagno di Homoe non gli aveva mai fatto dimenticare che erano diversi, profondamente diversi. Kumamoto si lisciò il mento. Suo genero usava spesso quei termini: consorte, sposo, marito. Lui non li capiva. Fra loro demoni non esistevano formule simili. C’era il possesso, la consapevolezza di essersi legati a un compagno, ma nulla di più. C’era un rito anche fra loro youkai, ma cambiava per stirpe e Clan. Ed era solo il modo apparente di comunicare un qualcosa che poteva esistere da tantissimo tempo; semplicemente una tappa, un passaggio nemmeno necessario. Nessuno obbligava un Principe a comunicare ufficialmente le proprie nozze; gli si chiedeva di presentare l’erede con la compagna. Solo quello. E solo i Principi. Solo per loro valeva la scomoda, e per fortuna ovviabile, incombenza del rito. Gli altri demoni niente. Erano legami che costruivano senza preoccupazione e l’unico elemento distintivo era l’odore nella compagna che virava leggermente. Nulla di particolare, in definitiva.

 

Sospirò e si passò una mano sull’occhi cieco. Non era andato come aveva previsto; molte cose non erano andate come aveva immaginato e sperato. Inutaisho era stato più bravo di lui, in quello. Aveva sistemato tutto come se già sapesse che sarebbe potuto morire. Così, da un giorno all’altro. E quando Inuyasha stava per nascere aveva già stabilito tutto. Le sue solite soluzioni a metà fra lo scherzo e il cervellotico; qualcosa che avrebbe comportato molto e avrebbe segnato l’equilibrio fra i due fratelli, già molto incerto, ma che Inutaisho riteneva necessario. Un suo personalissimo modo di riparare alla sua assenza negli anni. Soprattutto verso Sesshomaru.

 

Jacken barcollava in fondo alla piccola altura, cercando di correre e agitando il bastone Ninto. Doveva essere preoccupato a giudicare dal modo in cui si dimenava. Da quando Sesshomaru-sama aveva lasciato la reggenza a Inuyasha, il demonietto passava le ore a girare in tondo sudando freddo e continuava a guardare il cielo nella direzione in cui il suo signore era scomparso. Sperava sempre di vederlo tornare; e imprecava e malediva sottovoce la sua decisione. L’hanyou non era pratico di faccende di palazzo e rischiava di combinare un danno dietro l’altro. E lui già si sentiva sulla pelle le unghie del suo signore e le parole sibilare leggere a incolpare lui di tutti i problemi venutisi a creare. Avrebbe potuto cercare di controllare meglio la situazione, ma Inuyasha era una testa calda, e per quanto si mostrasse disposto a farsi insegnare, non accettava minimamente che a farlo fosse lui.

 

Kumamoto si alzò con un gesto stanco. Le chiacchiere stridule di Jacken gli strapparono un sorriso. Elencava catastrofi e disperava per la sua imminente morte, ma probabilmente tutto si sarebbe risolto nel solito sbuffo di fumo. Accennò un saluto a Kyoko e si diresse verso il palazzo. Una sottile sensazione di piacere nel corpo, all’idea di poter dimostrare a Sesshomaru che suo padre non aveva fatto un errore e che Inuyasha era capace di meritarsi la sua piena fiducia.

 

 

 

*****

 

 

 

Lo aveva trascurato.

In quell’ultimo periodo lo aveva lasciato languire in un angolo della stanza. Non se ne era dimenticata; non avrebbe mai potuto dimenticarsene. Ogni giorno si riprometteva di trovare il tempo, il giusto tempo, da riservare anche a lui. Come era giusto che facesse. Ogni sera preparava tutto l’occorrente e si addormentava pregustando il piacere che avrebbe avuto nell’occuparsi di lui. Pochi minuti o anche ore, se fossero necessarie. Dipendeva da quello che voleva fare. A volte bastava poco, una lisciatina o qualche accorgimento veloce; altre era necessario togliere tutto, accarezzare ogni parte e poi rivestire. Certe volte ci volevano molte ore. Ore bellissime, piacere liquido e puro. E non le interessava la fatica che ci voleva; non le interessava il sudore che le scivolava sulla pelle accaldata e le labbra che diventavano secche. Se era sicura che nessuno sarebbe venuto a disturbare, a volte osava togliere lo yukata e offrire il seno protetto da una fascia al refolo di vento che spirava negli appartamenti del Principe. Le stanze di Sesshomaru dove erano all’alloggiati erano a Nord-Est, e verso sera c’era sempre un sottile filo d’aria che serpeggiava malizioso fra le listelle di bambù e le shoji socchiuse.

 

C’era silenzio, nelle prime ore della sera, in quelle stanze. Un silenzio pieno che ti invade la testa e ti inviterebbe a lasciarti scivolare sull’engawa calda e socchiudere gli occhi, lo yukata mollemente allacciato e la pelle rilassata aspettare con placida impazienza quel sottile filo d’aria correre lungo le gambe, risalire fino al ventre, dentro e sotto la stoffe e uscire sul volto, dal basso, spezzandosi appena sulla linea del mento. Magari con lui accanto; per darti sicurezza. Basta allungare la mano e lo puoi toccare; risalire lungo il contorno ancora un po’ caldo e bagnato, scivolare nell’incavo e alzare la mano fino a sprofondarla nel morbido.

 

Lo ha immaginato tante volte. E ogni volta si riprometteva di farlo. Prenderlo fra le braccia e stringerselo al seno. Se ci riflette, è un po’ innaturale l’idea di averlo di fronte. Di solito è alle sue spalle, e scende spesso a carezzarle i fianchi, in uno sfiorarsi più o meno discreto. In base alla situazione. Ormai ci ha fatto l’abitudine; non cerca nemmeno più di allontanarlo. Sarà infantile e stupido, ma le comunica un senso di protezione. Di naturalezza. Sono anni che è alle sue spalle; costante. Protettivo. Rassicurante.

 

Ma quegli ultimi mesi erano stati davvero pieni, e lei si era vista costretta a diradare le attenzioni che gli rivolgeva. Averlo sempre accanto non era sufficiente. Anche un buon amante si stanca, se non gli presti le dovute attenzioni. E per questo si sentiva in colpa. Prima lo costringe a continue battaglie contro nemici che nemmeno conosce e che con lei non hanno nulla da spartire. Sono demoni, va bene. E lei è stata cresciuta per combatterli. Ma con altri uomini, con altri ningen. Non ha mai ipotizzato di trovarsi coinvolta in una guerra fra youkai, con regole che non conosceva, abitudini, percezioni, situazioni contingenti che la spiazzavano e la mettevano in agitazione. Lui c’era sempre; alle sue spalle o al suo fianco. Pronto. Servizievole.

Ma non basta a restituire la normalità. Qualcosa è cambiato. Sango lo percepiva chiaramente. Uno sterminatore non dovrebbe interessarsi troppo a chi uccide. Si finisce per lasciarsi attrarre da quello che si caccia, si rischia di restare imprigionati nei meandri di un mondo alieno e affascinante: lo stesso mondo attraverso occhi diversi.

 

Forse è semplicemente una scusa. Perché non è stata la guerra condotta sotto Sesshomaru a costringerla a riflettere. L’ha solo obbligata a fermarsi a pensare seriamente. L’unica certezza che ha. Non è stato con Sesshomaru che ha iniziato a vedere i demoni sotto una luce diversa; e stato prima. Quando ha conosciuto Inuyasha. Morse l’interno della guancia e soffocò uno sbuffo quasi divertito. Una sterminatrice e un demone, un mezzo demone, che se ne vanno a braccetto per Nihon. Inuyasha che scherza con lei, che la protegge, che le urla contro quando è arrabbiato e che raggela delle sue occhiatacce. Lei che si lascia andare, che accetta quella compagnia innaturale, dimenticando le armi che porta nascoste nel kimono, dimenticando gli insegnamenti che ha ricevuto. Sistemò una ciocca di capelli. Gli insegnamenti di suo padre sono una faccenda complicata. Sono ben saldi nella sua mente, e scorrono veloci in ogni duello; ogni arguzia, ogni strategia, ogni soluzione. Tutto ben ordinato e pronto ad essere messo in pratica, a correre in aiuto suo e dei suoi amici. Ma fra gli insegnamenti di suo padre non c’era anche quello di non fidarsi dei demoni? Sango sospirò. Sì; c’era. Ed era il primo che avesse mai ricevuto. Non fidarsi dei demoni, a prescindere dalla loro natura. Un demone è subdolo, un demone può ingannare. E un ningen è solo un pasto di carne prelibata, una preda forse nemmeno più difficile di un cinghiale o di un cervo. Diffidate dagli youkai, ripeteva sempre suo padre; soprattutto dai taiyoukai. Perché ci sono vari livelli demoniaci, anche se le varie ripartizioni non sono chiare nemmeno a loro sterminatori. C’è solo la coscienza che gli youkai con sembianze antropomorfe sono i più potenti e i più pericolosi.

 

Prima di incontrare Inuyasha, non aveva mai visto un demone in forma umana. Ne aveva sentito parlare nei racconti al villaggio: creature meravigliose, di una bellezza che ammalia, selvaggia e distaccata insieme. Hanno dita che terminano in artigli, orecchie appuntite e segni del loro potere, della loro appartenenza ad un’altra realtà sul corpo; e per questo sono letali. Perché racchiudono in sé una sostanza, un’appartenenza che l’uomo non è destinato a conoscere, che non gli appartiene. Quando era bambina, Sango ascoltava quelle storie e non capiva. Suo padre e gli altri uomini del villaggio cacciavano i demoni; e allora perché nelle voci che raccontavano di loro, di quegli youkai superiori, c’era qualcosa che sembrava rispetto più che folle terrore? Negli altri villaggi il solo nominare gli youkai scatenava il panico e la disperata ricerca di un’arma per difendersi durante la fuga. Nel loro no. Al villaggio degli sterminatori era diverso. E da bambina non capiva come un demone che ha aspetto umano può far paura.

 

Lo aveva capito. Con il tempo lo aveva capito. Il terrore le era precipitato addosso all’improvviso, in una giornata uguale alle altre; e aveva l’aspetto di un Kami sceso in terra. Si asciugò il sudore che colava dalla fronte; il pomeriggio era afoso e pesante, assieme al rimbombo delle cicale. Sfilò con un gesto secco e stizzito la parte alta del kimono e stiracchiò le braccia. Non c’era nessuno negli appartamenti del Principe e prima che gli altri rientrassero avrebbe finito quel servizio che stava rimandando da troppo tempo. Arricciò le labbra compiaciuta e distese le mani, sfiorando appena la stoffa. Piacevole, come sempre. Raccolse i capelli in un nodo scomposto e improvvisato, mentre un brivido le correva lungo la spina dorsale. Lo aveva fra le sue braccia; abbandonato. Bello e pericoloso.

 

Inclinò appena la testa. Anche Sesshomaru, ammise a sé stessa con un leggero rossore, era bello. Molto bello e altrettanto pericoloso. Quando lo aveva visto apparire davanti al loro piccolo gruppo, all’improvviso, con l’aria che crepitava per metri elettrizzata dalla sua youki, aveva sentito le gambe tremare e si era chiesta cosa ancora la tenesse in piedi. L’abitudine, si era risposta. L’abitudine e l’istinto di sopravvivenza. Perché se quel demone avesse attaccato l’unica possibilità, minima e recondita, di salvezza risiedeva nella fuga; e nel fatto che avesse più prede a disposizione. Un pensiero orribile, che l’aveva sorpresa e trafitto la testa in modo doloroso, ma pur sempre un pensiero umano. Davanti a quel demone che li fissava con ostinato disgusto e indifferenza, Sango si era ricordata qualcosa, mentre era incapace di abbassare gli occhi da quel volto troppo pallido, dai capelli bianchi e dalla forza che sembrava emanare. Devastante. La sua memoria aveva vorticato e trillato come un campanello d’allarme. C’era qualcosa che non doveva fare. C’era qualcosa che non si doveva assolutamente fare se un taiyoukai appare minaccioso, se lo incontri. E lei non lo ricordava. Non riusciva a ricordarlo. Restava immobile mentre gli altri parlavano, mentre Inuyasha sbraitava e vomitava insulti. Non ricordava nemmeno per cosa avessero iniziato a battersi. C’entrava Tessaiga, ma quella era più una consapevolezza dovuta all’abitudine del pensiero che altro. No; c’era qualcosa che la sua testa non ricordava. Ed era importante. Dannatamente importante.

 

Se ne era ricordata all’improvviso. Nell’istante stesso in cui Sesshomaru aveva alzato i suoi occhi su di loro. Occhi spaventosi: l’iride d’oro che sembrava risplendere attorno alla pupilla affilata. Occhi da predatore, occhi ferini aveva pensato. E aveva subito distolto lo sguardo concentrandosi sullo spicchio di luna sulla sua fronte. Perché un demone non va mai fissato negli occhi; perché se lo guardi in quelle iridi divine sei perduto. Ti trascinano in un mondo che ti annulla, ti fanno impazzire. Sango aveva avvertito il brivido di terrore scuoterla prima ancora di realizzare che stava per fissarlo negli occhi. Lo aveva avvertito e si era tramutato in una scarica quando lo aveva sfiorato. Una scarica che l’aveva voluta far fuggire, che l’aveva supplicata di scuotere il suo corpo e fuggire. Era rimasta, invece. Era rimasta e aveva evitato in ogni modo di guardarlo negli occhi. Perché rivedeva il vecchio che abitava in una capanna a ridosso della palizzata del suo villaggio. Era stato uno dei migliori sterminatori della loro storia, e poi era impazzito. Era uscito per una missione, una missione semplice, ed era tornato così: invecchiato di trent’anni, con i capelli bianchi e gli occhi sbarrati. Aveva uno sguardo fisso che ti faceva compassione e terrore. Perché sembrava rincorrere con disperato bisogno un qualcosa che lo terrorizzava. Restava ore ed ore seduto immobile, mentre il tempo passava sulla sua pelle e si depositava in rughe sempre più pesanti e profonde. La pelle raggrinziva e virava al grigio e lui diventava fragile come una foglia secca. Sango lo osservava ogni tanto dall’angolo di una casa. Lo vedeva muovere la bocca, ma non pronunciava nulla. Però ricordava di aver sentito il fruscio del vento e il rimbombo del temporale in giornate immobili; lo sciabordio dell’acqua che precipita dall’alto e un silenzio che le mozzava il fiato anche se era circondata da persone. E il vecchio continuava a muovere le labbra e a fissare il vuoto. Aveva gli occhi bianchi, senza pupilla o iride. Sembrava che il bulbo oculare si fosse rovesciato come quando si sviene e non sapesse più come raddrizzarsi. Gli uomini al villaggio dicevano che era cieco, ma lei non ci credeva. Perché anche quando restava lontana, nascosta dall’ombra della casa, il vecchio girava la testa ed era come se la fissasse. Come se potesse vederla. No. Sango non credeva che fosse cieco. Solo non vedeva più come lei. Non vedeva più come fanno i ningen.

 

Aveva parlato col vecchio, una volta. Una delle rare volte in cui la sua bocca non era solo aperta ma emetteva davvero un suono e le labbra non masticavano aria. In una giornata d’inverno, con il cielo nero e basso e una pioggia fredda che scendeva lungo tutto il corpo. E il vecchio restava lì, sotto quel gelo, con addosso solo un fundoshi e la pelle quasi trasparente e livida. E non tremava. Sango si era seduta davanti a lui e aveva ascoltato la storia. Una storia che solo dopo aver incontrato Sesshomaru aveva saputo vera. Il vecchio sterminatore non aveva nemmeno trent’anni e aveva visto uno youkai. Negli occhi. Ed era successo qualcosa; si era sentito risucchiare, esplodere in mille particelle con un dolore straziante e al contempo avvertiva il corpo premere sempre di più a terra. E gli occhi del demone erano due fessure che lo fissavano; giganteschi. Sempre più grandi in un mondo, in un cielo che vorticava troppo veloce. E c’era luce. Tantissima luce. Una luce che ti fa tremare e ti ispira il desiderio della fuga. Era inquietante, quella luce. Perché non aveva ombre; nemmeno la più piccola ombra. Se alzavi la mano non riuscivi a schermarti il viso; se chiudevi gli occhi non se ne andava. Restava ovunque. Ed era terribile.

 

Sango aveva pensato ad un discorso sconclusionato, al delirio di un uomo reso folle da un qualcosa di terribile. Incontrare uno youkai, un demone superiore, non è cosa da poco, e probabilmente adesso il giovane-vecchio sterminatore scontava quel prezzo. Eppure. Eppure quando aveva incontrato Sesshomaru per la prima volta, aveva sentito il desiderio di fissarlo negli occhi, di esserne risucchiata e provare. Vedere se davvero il vecchio del suo villaggio era pazzo o aveva visto qualcosa che lo aveva reso diverso. Né pazzo né saggio ma solo diverso. Si era fermata in tempo. Qualcosa nella sua testa l’aveva costretta a fermarsi. Istinto di conservazione si era detta. Ma c’era la curiosità. C’era quel rimasuglio di voglia di sapere, di scrutare occhi alieni e diversi e scoprire se si può provare a capire cosa sono i demoni.

 

Sorrise a se stessa e strappò la stoffa che aveva incontrato. Era fastidiosa e non serviva più. L’avrebbe sostituita dopo. Adesso voleva vederlo perfettamente nudo. E gustarsi le linee arrotondate del suo contorno. Sesshomaru; e i suoi occhi. Gli occhi di un demone. Con il tempo, era divenuta un’ossessione. Desiderava sapere se davvero fissare uno youkai porta la follia; cosa c’è dietro le pupille sottili e l’iride innaturale. Ma c’era anche la paura; la consapevolezza che, se davvero si impazzisce, non lo avrebbe mai saputo. Sarebbe passata dalla lucidità alla follia nello spazio di un respiro, e il ritorno, se mai avesse avuto coscienza di dover tornare da qualche parte, si sarebbe perso. Chiuso senza alcuna possibilità. No, si era detta. Era solo un capriccio; uno stupido capriccio troppo pericoloso. Come era pericoloso il desiderio di poter fissare la mano destra di Miroku. Si passò uno fazzoletto umido sul viso. Stava sudando; un po’ troppo forse. Lisciò le labbra e reclinò la testa. Era nuvoloso, quel giorno. Sbuffi grigio-bianchi si rincorrevano pigramente e qua e là qualche sprazzo di azzurro abbagliante.

 

Sua madre le ripeteva sempre che non è bene per una sterminatrice la curiosità. Può farti diventare avventata, e in combattimento ci vuole autocontrollo, non sconsideratezza. È pericolosa la curiosità, ma è estremamente piacevole. Un brivido caldo che ti afferra la pancia e preme. Sembra un pungo. Un pungo che ti fa un male strano, che sale lentamente nel petto come un formicolio e si scarica nelle braccia che si contraggono appena e nelle gambe assieme instabili e pronte. È bella, la curiosità. Ed è dolorosa. Sango lo sapeva bene. Dietro la curiosità c’è la voglia di conoscere, e sapere troppo fa male. Può fare molto male. Si coprì gli occhi e massaggiò un po’ le palpebre. Naraku le aveva offerto una verità fasulla, di comodo. Una verità che sapeva di subdola carità. Lo aveva avuto davanti agli occhi per ore, e non era riuscita a pensare ad altro che al modo di trattenere le forze che scivolavano via. Se solo quella pelliccia l’avesse incuriosita; se solo si fosse chiesta il perché di un brivido improvviso. In seguito, aveva provato a capire per quale motivo non ci fosse stato niente a metterla in guardia da Naraku. Perché non ci fosse stato un sospetto, un presentimento, un qualcosa che la facesse dubitare. Si era fidata di lui con un’ingenuità disarmante; soprattutto per una sterminatrice. Si era fidata, e tutto le si era sgretolato fra le dita. E la curiosità, la sua onnipresente curiosità, era finita in un angolino della sua testa. Realistica, si ripeteva. Doveva essere realistica.

 

I mesi trascorsi fra i demoni, al palazzo dell’Ovest, però, avevano aperto una falla. Una piccolissima falla, ma sufficiente a lasciar passare di nuovo la curiosità. Le domande, la voglia di parlare, di chiedere, di sapere. Da piccola era curiosa, quasi invadente. Poi, crescendo, era riuscita a mettere un freno alla lingua impudente. Colpa dell’addestramento, si diceva. Aveva imparato così bene a combattere che a volte si dimenticava di essere una donna e che, nonostante fosse una sterminatrice, doveva restare al suo posto, sotto l’uomo. Non era da ribellarsi o accettare. Era così e basta, e Sango semplicemente aveva imparato a giostrare i due lati del suo carattere. Donna quando indossava il kimono; uomo quando combatteva. O almeno doveva essere così nei suoi progetti.

La fascia al seno era un po’ troppo stretta. Era arrabbiata, quella mattina, mentre la stringeva. Arrabbiata, amareggiata e preoccupata. Soprattutto preoccupata. Sesshomaru se ne era andato da palazzo con Alessandra da quasi un mese, e non aveva fatto pervenire alcuna notizia. Non che sperasse che informasse delle condizioni di salute loro ningen, ma almeno una lettera, anche solo poche parole, avrebbe potuto scriverle. Inuyasha però non aveva mai ricevuto niente e davvero sembrava che il demone avesse volutamente tagliato qualsiasi contatto.

 

Rialzò i capelli e s’inumidì il collo sudato. Non le piaceva l’idea che Alessandra fosse sola con lui. Non le piaceva proprio. Aveva paura degli occhi di Sesshomaru, benché, doveva ammettere a se stessa, in quei mesi non aveva avuto mai sentore del fatto che la ragazza corresse pericolo con lo youkai. Erano stati i cortigiani a palazzo a costituire una minaccia continua che era esplosa dolorosa e violenta e le avevano sbattuto in faccia il fatto che lì, a Nishi, lei e i suoi amici erano pressoché impotenti. Strinse forte le fasce che aveva in mano. Si erano divertiti con Alessandra, in un modo che Sango si rifiutava di immaginare. Yaone-san aveva detto che non l’avevano violata. Aveva detto che il suo odore non era cambiato, e quindi era ancora vergine. Per un qualche motivo, si erano limitati ad una tortura psicologica. Non meno dolorosa e facilmente superabile, ma almeno qualcosa li aveva fermati. Si sfiorò il ventre e un brivido le corse lungo la schiena. Un brivido gelido. Dopo la strage che Sesshomaru aveva compiuto, la maggior parte dei demoni evitavano di avvicinarsi a loro o di infastidirli. Sango non si sentiva ugualmente tranquilla e non si muoveva dagli alloggi del Principe né dormiva senza avere accanto un’arma, ma si era accorta della situazione di momentanea tregua che si era andata creando. Con i soldati, aveva scoperto con sua immensa sorpresa, si era ambientata in modo soddisfacente. Alcuni demoni si erano offerti di allenarsi con lei con la katana e si erano rivelati anche disponibili in varie occasioni. E lei rischiava di impazzire per la marea di situazioni diverse che le si stavano accavallando nella testa.

Aveva pensato, in principio, che stessero cercando di ingannarla. Gli youkai in forma umana sono i demoni più pericolosi. La voce di suo padre echeggiava ossessiva nella testa. Ma i demoni non sanno mentire, le aveva detto Kumamoto. Con quel suo modo di fare un po’ sbrigativo e rozzo che le ricordava l’imbarazzo di suo padre dopo che lei era diventata donna. Aveva dodici anni, quando sua madre aveva preso il suo futon e l’aveva portato in una capanna un po’ isolata del villaggio. Sango si era chiesta perché. E perché sanguinasse senza esser stata ferita. Era rimasta in quella capanna quattro giorni. Con l’ordine tassativo di non avvicinarsi agli uomini del villaggio; solo sua madre o alcune donne anziane andavano a farle visita per i pasti. E lei non faceva domande, mai. Per pudore e per vergogna. Il quinto giorno, l’avevano spogliata e l’avevano costretta a farsi un bagno. Era inverno; la neve era alta e l’acqua del torrente gelida. E lei era rimasta immersa per un tempo che le era sembrato infinito, perdendo forza e calore, lasciando che uno strano torpore la invadesse lentamente, assieme al violaceo che risaliva lungo il corpo. Il kimono che aveva indossato e il futon erano stati bruciati. Poi era rientrata a casa come se nulla fosse cambiato, anche se, da quel giorno, suo padre aveva iniziato ad affidarle delle missioni da sola. Dapprima piccoli incarichi, giusto per metterla alla prova; ma via via sempre più impegnativi per affinarne la tecnica. E aveva anche iniziato a parlare di uomini. In modo discreto, come solo suo padre sapeva fare. Un invito a cena, e la raccomandazione implicita di osservare dalle fessure dei paraventi. Ragazzi con cui era cresciuta, con cui continuava ad allenarsi e che suo padre voleva, all’improvviso, che diventassero altro. Adesso sapeva che le stava cercando marito e che l’aveva promessa ad un giovane morto quando lei aveva quattordici anni. E allora aveva fatto un patto con suo padre: doveva lasciarla diventare abile e perfettamente addestrata, e solo allora lei avrebbe accettato un marito. Sango scosse la testa e premette con forza le mani sulle cosce. Ogni progetto era morto con suo padre e il suo villaggio e nel tempo che era seguito aveva cercato solo una cosa: vendetta. Di matrimonio e figli non si preoccupava, anche se ormai era quasi al limite dell’età tradizionale. Se fossero ancora vive, le compagne che avevano al villaggio sarebbero madri già da alcuni anni. La ragazza che viveva accanto alla sua casa; aveva partorito il suo secondo figlio quando lei e suo padre erano usciti per la loro ultima missione. Il secondo figlio, e aveva due anni in più di lei.

 

Si morsicchiò il labbro inferiore, cercando di disfare il nodo che aveva creato senza accorgersene. I demoni non sanno ingannare le aveva detto Kumamoto-sama; e lei non capiva come fosse possibile. Aveva chiesto se non era forse un inganno quello che Morigawa aveva perpetrato verso di loro, se non era un inganno quello che Naraku aveva ordito nei riguardi di Inuyasha e Kikyo, nei loro, nei suoi confronti. Kumamoto le aveva sorriso bonariamente e Sango si era accorta di fissarlo negli occhi. La foga l’aveva tradita e l’avrebbe portata alla pazzia. Si era aspettata da un momento all’altro di sentirsi risucchiare in un incubo e di perdere la percezione della realtà. La stanza sparire e diventare un inferno nero, bianco, grigio. Aveva abbassato la testa e stretto gli occhi; aveva paura, ma non sapeva come nasconderla e come riuscire a dominarla. Aveva sbagliato, ed era pronta a pagare per la sua imprudenza, ma non poteva, dovette ammetterlo, impedirsi di tremare.

 

“Sango-san. State bene? Avete freddo?”

 

La mano che sfiora appena la spalla, con imbarazzo. Artigli che la toccano, che la scuotono dal suo leggero torpore. E gli occhi. Gli occhi (l’occhio) di Kumamoto fissarla con una punta di ironia. Come se avesse intuito, sapesse, il motivo dell’improvviso tremore e volesse costringerla a rivelarglielo in modo chiaro e preciso. Arricciò le labbra. Si era lasciata andare ad un pianto irrefrenabile, davanti a quel demone. Se suo padre lo avesse saputo, avrebbe avuto mille motivi per rimproverarla: mostrarsi così deboli e vulnerabili, soprattutto davanti ad un nemico, anche solo potenziale. Che stupida, era stata. Una vera stupida. Eppure, non aveva sentito alcun imbarazzo o istinto di pericolo mentre piangeva con il viso nascosto dalla mano. Un pianto silenzioso e composto, ma pur sempre un pianto. E le parole che ruzzolano fra i denti, inciampando nei singhiozzi e in piccoli colpi di tosse.

Gli aveva raccontato la sua storia; sua e di suo fratello e del villaggio. Gli aveva raccontato il suo desiderio di uccidere Naraku e la disperazione che l’assaliva ogni volta che si avvicinava la possibilità di recuperare la sfera. Perché avere la sfera significa doverla completare e quindi, di conseguenza, uccidere Kohaku.

Gli aveva raccontato anche del vecchio sterminatore dagli occhi bianchi e delle raccomandazioni di suo padre, del rispetto che aleggiava nel suo villaggio verso gli youkai, i taiyoukai, senza che nessuno ne avesse mai incontrato uno. E Kumamoto aveva annuito assente, con le labbra che appena accennavano un sorriso. Di chi sa, di chi conosce qualcosa e prova una punta di piacere nel torturare il suo interlocutore. Nel non svelarli subito la verità, tutta la verità.

 

Le aveva alzato il viso e l’aveva costretta a fissarlo. A lungo. In quegli occhi dalla pupilla allungata che guizzavano vivi nel sottile reticolato di rughe. Aveva sorriso, Kumamoto. E Sango si era ritrovata calamitata dalla strana luminescenza che invadeva l’iride, partendo dal centro, dalla pupilla, allargandosi in rivoli sottili prima bianchi, poi azzurri e infine verdi. E aveva visto. Un mondo distorto e deformato; era stato come essere immersa nell’acqua e guardare su, verso l’alto, la luce che si infrange in chiazze. Bruciano, scappano, si disperdono. E restano comunque. Anche sott’acqua si può vedere; e Sango riusciva a vedere attraverso quello strano, inquietante velo che le aveva ricoperto gli occhi. Vedeva le stanze del palazzo; vedeva se stessa, houshi-sama, Inuyasha e Kagome. Li vedeva e vedeva qualcosa che non afferrava, ma che le scorreva nel corpo. Brividi nello scorgere il viso di Miroku o la sensazione di un respiro a pieni polmoni davanti a Kagome. Poi. Le mura e la piana della battaglia. Così nitida che avrebbe potuto dire sì, ero anche io là, ho combattuto anch’io contro gli youkai di Morigawa. Una sensazione piena, assoluta; ma nella mente di Sango il grido era un no lungo e ripetuto, una cantilena lenta lenta che cresceva di intensità con il tempo, con il ricordo sempre più spesso di non averci mai messo piede, in quella pianura. Poi. Poi Naraku, e il respiro si spezza. Dall’odio, dal rancore, dalla rabbia. Dal terrore. Perché sotto la corazza, Sango distingue corpi fusi in una massa palpitante e sanguigna; intuisce la sfera e la ignora; prosegue verso un punto, un lumicino, che le sorride quasi per schernirla. E in fondo trova il buio. E la sensazione di molle e pesante e opprimente e soffocante. Come sprofondare nel fango; come essere immersi nelle risaie e muovere e tendere i muscoli con dolore e disperazione per smuovere i piedi nudi da un fondo che non si sente, che sfugge ad ogni contatto. Rimane solo la sensazione di viscido e di appiccicoso, di infido.

Poi. Una nuova consapevolezza ad investirla. Un pensiero mai espresso, mentre il fango diventa mani e lacci e lingue e capelli che aggrovigliano e stringono e bloccano. Sì, bloccano. Lasciandoti lì, fermo. Senza poterti muovere, senza poter fuggire. Ma anche senza trascinarti, senza distruggerti. Semplicemente, ti fanno dibattere come una preda. Una falena dalle ali bruciate dall’andon; una farfalla nella tela del ragno.

 

Sango si era ritrova inginocchiata a terra, a fissare incredula le sue mani sconvolte da spasimi, a ripescare il ricordo di quelle stesse mani che correvano su tutto il suo corpo per togliere ombre della mente. Nient’altro che un pensiero inesistente, un’illusione. Ma i miraggi non ti restano addosso in quel modo; di un sogno ricordi poco, quasi nulla; e non ti piantano nella testa un pensiero, una consapevolezza. I sogni ti spaventano, ma farti conoscere qualcosa, quello no. Le miko possono avvertire qualcosa nel sonno; possono scorgere avvisaglie del futuro o i Kami-gami possono inviare loro segni di ammonimento o di guida. Ma lei. Sango non era una miko, non aveva alcun potere particolare. Sango era solo una taijia; esperta, temprata, ma normale. E allora da dove veniva quel dolore sordo e profondo, quella fissazione ossessiva che le martellava la testa? L’idea che Naraku fosse altro. Fosse qualcosa da non sottovalutare. Sì, certo, lo aveva già pensato; ci aveva pensato più volte, in verità, mentre parlava con Miroku. Ma quella sensazione era altro. Era un seme, piantatole dentro a viva forza e che stava iniziando a mettere radici. Sango sentiva quasi le sottili fibre vegetali farsi largo dentro di lei, mangiare un pezzettino alla volta la sua carne per costruirsi una nicchia in cui crescere protetto. Prima vengono le radici; poi sarebbero venute le foglioline verdi e tenere, quelle più fragili. Bisogna proteggerle, quelle foglioline. Sono delicate, molto delicate. Quando era piccola, sua madre metteva le pianticelle di riso nella stalla, accanto alla paglia secca. Diceva che la stalla è sempre calda, e che il riso cresce bene e diventa forte; così, quando sarebbe arrivata la stagione, sua madre avrebbe legato i capelli nel tabane-gani, avrebbe indossato shitagi, kosode e habaki e, con il cesto intrecciato e le pianticelle di riso, sarebbe andata alla risaia. E il riso sarebbe cresciuto forte e nemmeno il gelo improvviso lo avrebbe fatto morire.

 

Ma in quel momento, Sango aveva desiderato poterla strappare, quella pianticella che le cresceva nella testa. E già la vedeva albero e si sentiva schiacciare a terra da quel peso estraneo, sconosciuto e assieme troppo grande, troppo intenso per essere sopportato.

Aveva alzato su Kumamoto uno sguardo vacuo, pieno di angoscia, terrore e di un velo di lacrime che restavano lì, incapaci di essere lasciate cadere. Kumamoto si era limitato a socchiudere gli occhi e a lasciare che un fugace sorriso gli attraversasse le labbra. Si era seduto per terra accanto a lei, sull’engawa pesante nel sole del primo pomeriggio di Rokugatsu. C’era un pizzico di malinconia e di attesa, nella sua espressione. Kumamoto aveva intuito il pensiero di Sango, il suo terrore nel distogliere gli occhi in fretta. Troppo in fretta. In quel modo particolare; non per timore fine a se stesso né per rispetto reverenziale. Gli occhi guizzavano sotto le palpebre socchiuse, aveva potuto intuirne il movimenti frenetico e irregolare, lo sforzo di bloccare la curiosità e il desiderio folle, quasi eretico, di tornare a fissarlo. Dritto in faccia, nell’occhio sano che la scrutava con placida attesa. Non si era sorpreso. Sapeva che la ningen era una cacciatrice, e forse solo i cacciatori di demoni conoscevano alcuni accenni ai loro arcani.

 

“Adesso…diventerò cieca?”

 

Sango masticava il labbro, stringendo forte le mani chiuse in grembo. Il panorama aveva ritrovato un suo equilibrio e riusciva a prendere fiato senza che conati di vomito le salissero alla gola. Aveva capito cosa fosse successo, lo aveva capito fin troppo bene, e aveva paura del dopo, di quello che sarebbe venuto. Kumamoto-sama l’aveva costretta a fissarlo negli occhi e aveva fatto qualcosa. Come se fosse entrato nella sua mente, quasi l’avesse violentata inserendosi a viva forza, sradicando un sentire limitato e parziale per sostituirvi il suo, insinuandolo negli spazi che lasciava dietro di se passando. Vedere il mondo attraverso quel filtro innaturale, attraverso la superficie dell’acqua. Sango non era riuscita a reprimere il brivido violento che le aveva attraversato il corpo madido. Si era sorpresa ad avere freddo, in quell’afoso pomeriggio di giugno. Freddo e desiderio di una coperta calda o anche semplicemente del sole sulla pelle rattrappita.

 

Kumamoto aveva riso della sua infantile paura. Del suo modo di sfuggirlo senza realmente andarsene. Sango era curiosa; anche del pericolo. Una caratteristica che avrebbe potuto metterla in situazioni insicure, incerte; ma che, in quel momento, ricordava al generale Euriko e le sue domande discrete. Il modo che aveva di sbirciarlo dai byobu decorati, ritraendosi nell’ombra d’istinto, anche nella consapevolezza di non scomparire, di poter essere fiutata. Euriko era affascinata da lui, dal suo modo diverso di essere. E lo temeva. Ne aveva un timore folle e assieme reverenziale. Lo aveva amato, come un essere umano, una ningen di diciotto anni può amare un uomo, un demone, di età imprecisata. Senza riuscire a capire, limitandosi a obbedire a quello che le diceva. Lo aveva amato; e lo aveva temuto fino alla fine. E aveva temuto Tansho, ben consapevole della differenza che intercorre fra uomini e youkai.

La piccola Euriko. Sango gliela richiamava nell’aspetto giovane e negli occhi grandi, quasi sfacciati in confronto ai loro, sottili e allungati. Era stata la sua terza moglie, Euriko; e gli aveva dato un figlio, un hanyou. Kumamoto si era concesso un respiro e tempo. Doveva rispondere alle domande, tante e silenziose, della taijiya, ma voleva prendere un istante. Lasciare che la mente di allargasse nel passato, ritrovasse il suono di un vagito e lo scalpiccio sul legno. Gli era rimasta solo Homoe, dei suoi quattro figli. E Hoshi era morto che appena riusciva a traballare sulle gambette paffute. Non aveva nemmeno avuto il tempo di capire cosa vuol dire, vivere. Cosa significa essere sospeso fra due realtà. Lo aveva trovato avvolto nelle vesti di Tansho, con il corpicino aperto e un fiotto di sangue rappreso ad imbrattare il solco sulla testa, dove prima si agitava sempre un’orecchietta. E Tansho poco distante, il corpo contro le fusuma frantumate coperto di lividi e ferite. Nudo e discinto, con un buco grande grande nel ventre e la testa spiccata chiusa in una smorfia di orgoglio e furore. Di accusa. Avevo cercato di difendere Hoshi, come una bestia braccata che ormai si sente in trappola. Lo aveva difeso anche se non era stata lei a partorirlo, ma una moglie umana. Tansho aveva odiato Euriko, di quell’odio assoluto e pieno che solo una yasha può sentire. Non è gelosia, frustrazione o dubbio della propria bellezza. E consapevolezza piena e assoluta di non possedere qualcosa. Qualcosa che non si riesce nemmeno a concretizzare, e che esiste. E che Euriko aveva.

 

“Kumamoto-sama”

 

Sango avrebbe voluto urlare.

Perché il silenzio dello youkai sembrava promettere qualcosa di brutto, di pesante e pericoloso. Si era aspettata una risposta immediata, e poi si era ritrovata a scrutare con agitazione crescente il volto del demone, a cogliere il fremito degli occhi sotto le palpebre, a cercare di intuire la modulazione delle labbra quando le avrebbe detto che sì, sarebbe diventata cieca. Perché la curiosità è come una malattia, e alla fine ti lascia debole e incerta. La curiosità si paga, come l’aveva pagato lo sterminatore dagli occhi bianchi. E adesso anche lei sarebbe cambiata. In un qualche modo che non sapeva, osava congetturare. Sperava solo che il dolore svanisse in fretta. Perché una punizione può essere solo dolorosa e Sango sapeva di poter resistere al dolore fisico, ma a quello più profondo, quello che si pianta nella tua testa, nella tua anima e continua a divorarti lentamente, a quello non avrebbe saputo resistere. E si sarebbe ritrovata a urlare con la bocca chiusa e a vedere la sua psiche venir fatta a pezzi mentre il corpo non le rispondeva più.

 

Avrebbe voluto urlare, ma la voce era uscita sottile e gutturale, roca. Mentre la mano aveva avuto una spasmo nell’infruttuoso tentativo di alzarsi in preghiera. Forse pregare uno youkai sarebbe stato stupido, ma se fosse servito a rendere tutto più veloce, più immediato, Sango lo avrebbe fatto.

Kumamoto, invece, le aveva sorriso e le aveva chiesto cosa avesse visto. Una domanda tanto semplice da gettarla nel panico e da farle salire in bocca un sapore amaro di disgusto e rigetto. Cosa aveva visto? Lo sapeva bene: un mondo diverso, un Naraku diverso. Non peggiore o migliore, solo diverso, più profondo. Completo, forse. Forse solo completo era la parola che avrebbe potuto usare. Ma non ci riusciva. Non poteva dirglielo, non trovava voce e forza.

 

“Hai intuito.

Solo questo. Hai intuito per un istante cosa può vedere un demone

 

Quello che può vedere un demone. Sango aveva deglutito a vuoto. E Kumamoto le aveva spiegato che uno youkai non vede come un essere umano. Non sempre. Può cogliere altro, quello che c’è dietro l’apparenza, nel profondo dell’essere. Un demone conosce guardando; non ha bisogno di studio, fatica e di testi. La storia della loro terra i demoni l’apprendono solo vivendo sulla terra, ascoltando voci che nessun ningen riesce più a distinguere. Il canto di gioia della pioggia, il lamento del temporale; il sorriso della neve e l’urlo della tempesta. La saggezza del legno e il tempo sussurrato nella sabbia. Basta che osservino e ascoltino e sanno. Non tutto. Non sono onniscienti. Ma più imparano a scrutare fra i suoni, a distinguerli e differenziarli; più apprendono a spezzare i legami che formano i corpi, le cortecce, le onde del mare, più riescono a penetrare nell’essenza. Un demone sente con i suoi sensi. Solo con quelli. Ascolta. Fondendo tutto in un’unica mareggiata di elementi che diventano subito informazioni. Non sensazioni, non sentimento: conoscenza.

Un demone ha due occhi, come i ningen. Ma ha molti modi di vedere. Può vedere come gli uomini, ma non solo. Ma se vuole che un ningen lo guardi deve osservarlo con occhi di ningen. Occhi simili a quelli di un ningen, non uguali. Perché comunque il sentire è differente.

Altrimenti. Se un ningen incrociasse gli occhi di un demone, gli occhi veri di un demone, acquisirebbe il pensiero stesso dello youkai, quel modo di percepire che è assoluto. Ma resterebbe bloccato in un corpo incapace di reggere il cambiamento. E lo spirito muterebbe, mentre la carne invecchierebbe in fretta, molto in fretta, logorata dal tentativo di ristabilire un equilibrio smarrito.

 

Sango aveva annuito per riflesso. Non era riuscita a comprendere appieno lo spiegazione, ma Kumamoto stesso le aveva detto che non doveva pretenderlo. Per quanto si fosse sforzato di rendere chiaro quel pensiero, non avrebbe mai potuto fare in modo che lo padroneggiasse appieno. Ningen e youkai possono parlare, possono tentare di comprendersi, ma ci sono degli abissi che non si possono colmare. Da parte dei ningen per la loro stessa essenza, per il modo diverso che hanno di concepire; da parte dei demoni per l’assenza di stadi intermedi, per il loro avvertire tutto all’assoluto, senza riuscire a cogliere l’incompleto: o il tutto o il nulla. Il dubbio esiste; ma non è imperfezione. Semplicemente, è l’incastrarsi disarmonico di qualcosa.

 

“Sesshomaru-sama può…ha mai…”

 

Kumamoto aveva solo annuito. Non dipende dal rango del demone; tutti partecipano del medesimo sentire. Loro taiyoukai in modo perfetto e assoluto; e Sesshomaru, nonostante la giovane età, non smetteva di conoscere, di osservare e sentire il respiro antico del mondo. Il suo grido nell’evolversi ciclico che andava scolorando. C’era un monito, in quelle parole incomprensibili. Un avvertimento urlato da secoli ormai: un giorno qualcosa sarebbe cambiato. La loro stirpe non sarebbe mai morta, non si sarebbe mai estinta. Ma non sarebbe stata comunque. Sesshomaru, ma anche suo padre, Kumamoto, Hidoshi e altri demoni avevano sentito e continuavano a sentire quel singhiozzo lento e prolungato, che non aveva origine e si spegneva nell’eco del vento, nell’afa dell’estate, nello scricchiolio dell’autunno.

I demoni non sarebbero morti, ma non sarebbero comunque stati. Ma nessuno, ancora, era riuscito a comprendere davvero quella cantilena continua.

Sesshomaru, da cucciolo, cercava spesso di vedere, di conoscere. Kumamoto lo aveva sorpreso più volte seduto a fissare l’orizzonte, il cerchio dell’acqua che si allarga e scompare, il movimento impercettibile di una foglia. Lo faceva ancora; in ogni istante possibile. Viveva assorbito in quel mondo primigenio; per anni non aveva smesso quel modo di fissare la terra e i ningen. Gettando in loro terrore e sgomento prima di ucciderli. Per assaggiare la voce del loro sangue, per trovare una risposta a tormenti e insicurezze. Nel confronto con un qualcosa di sicuramente diverso Sesshomaru ricercava la consapevolezza della sua essenza, di quel suo essere youkai e detenere l’orgoglio di quella stirpe antica.

 

Sango lisciò l’ultima piega e strinse forte il nodo. Aveva impiegato tutto il pomeriggio, era sudata e stanca, ma adesso poteva di nuovo assaporare sotto le dita la linea curva e appuntita dell’hiraikotsu. Le nappe e le fasce di stoffa sostituite invitavano ad essere strette e adoperate. Non aveva potuto eliminare la piccola ammaccatura vicino al bordo inferiore; non se ne preoccupò più di tanto. Appena ne avesse avuto la possibilità, sarebbe ritornata al villaggio. E avrebbe ripetuto i gesti che per tutta l’infanzia aveva visto compiere a sua madre. I minerali pestati nel mortaio mentre il ventaglio ravviva il fuoco e cenere e lapilli invadono la fucina sempre più calda. Avrebbe raccolto i capelli e stretto le maniche con il sigeo; i piedi nudi sul terriccio umido e freddo, anche vicino alle pietre incandescenti. Avrebbe sentito il sudore formarsi sulla pelle, nel respiro pesante e gravato dalla cenere sottile; gli occhi bruciare per l’intensità del calore e del brillio delle fiamme, mentre il kimono si scioglie e rivela la fasciatura al seno. Avrebbe aggiustato l’osso e poi, madida e spossata, si sarebbe rovesciata addosso un secchio di acqua gelida, alzando la testa in alto e godendo del tremore intenso e del gemito soffocato nella gola.

Sarebbe stato bello. Molto bello.

 

Ma prima.

Prima doveva tornare Sesshomaru. Prima dovevano esser sicuri che Alessandra stesse bene e accertassi di quello che avrebbe voluto fare. Kagome tornava spesso nel suo mondo; aveva la sua vita, la sua famiglia in quel tempo diverso. E anche Alessandra.

Sango non era certa che la ragazza avrebbe potuto fare come la miko. Kagome aveva poteri da sacerdotessa; grandi poteri che le permettevano di attraversare la barriera temporale. Alessandra era una ningen come lei. Senza alcuna particolare capacità. E amava un demone; uno fra i più pericolosi ancora viventi.

Sospirò e stiracchiò le braccia. Non spettava a lei elaborare strategia di conquista, come le chiamava Kagome, per scoprire cosa provasse il Principe. Sua madre le aveva insegnato una cosa importante: sei una donna, e devi aver rispetto e pudore. Ma la curiosità era di Sango e quindi, volente o nolente, con mezz’orecchio le farneticazioni di Kagome le ascoltava lo stesso. Parlava di dichiarazioni, di anelli, di nozze. E a volte Sango non capiva più se stesse fantasticando e progettando per se stessa o per Sesshomaru e Alessandra. Ma non importava. Era anche piacevole ascoltarla, quando le raccontava delle usanze diverse, nuove, di un Giappone distante cinquecento anni. Era come avventurarsi in un mondo sconosciuto, più affascinante e fiabesco di quelli che si era creata da bambina.

 

“Disturbo?”

 

Il grido si strozzò in gola e Sango avvertì un tremito nuovo, eccitante, correrle lungo la clavicola, lì dove le labbra di Miroku continuavano, impertinenti, a soffiare sulla pelle accaldata. Era entrato senza far rumore o, più probabilmente, Sango realizzò di non aver prestato attenzione al mutare anche lieve dei suoni che la circondavano. E si ritrovava con il petto dell’houshi sulla schiena nuda, mentre una sensazione quasi liquida le risaliva dal ventre. Eppure. Eppure non provava pudore o imbarazzo; sentiva una sfacciata sicurezza correrle sotto la pelle, facendole assecondare gli inviti leggeri, il gioco sottile di Miroku.

Miroku. Gli occhi dilatati nella sera rossa, con quell’ombra conturbante di indecisione e sorpresa. Perché non è di Sango quel sorriso accennato sulle labbra rosse e gonfie e lucide; non è di Sango lo sguardo che non fugge, che resta lì, a fissarti, a chiederti qualcosa che non sei sicuro di capire, di intuire. Sango si arrabbia, quando Miroku tenta un goffo approccio; il suo volto si arrossa e inizia a balbettare. E lui è preso in contropiede e incespica nelle parole e travisa i termini e sbaglia e la fa arrabbiare.

Eppure, in quel momento Sango gli stava offrendo la bocca, gli permetteva di scivolare lungo la mandibola piccola e un po’ sfuggente vicino al mento, lì dove la curva del viso declina nella gola. Si lasciava baciare sul collo, contro pelle calda e dentro, Miroku lo sentiva, il sangue correva e correva e il respiro accelerava.

 

“Ho paura”

 

Due parole. Due semplici, stupide parole soffiata fra i capelli, con quel sorriso irritante e gli occhi acquosi di una bambina piccola. Bella. Miroku non riuscì a pensare altro: bella e maledetta. Perché glielo diceva così, un attimo prima di lasciarsi andare, mentre il fruscio della seta lasciava intuire la carne celata e il bianco del ginocchio si scuriva, si declinava nelle ombre sfumate della sera. Glielo diceva così, e sapeva. Sapeva che Miroku avrebbe capito; e allora le mani sarebbero scivolate attorno al suo corpo e l’avrebbero stretta forte, quasi volessero inglobarla. Miroku avrebbe capito, e Sango gli avrebbe nascosto il viso nella spalla e avrebbe pianto e riso e…E non lo riusciva bene a comprendere nemmeno lei. Ma quelle mani, Kami! Quelle mani dovevano restare lì, sul suo corpo, su di lei. E stringere fin quasi a farle male; stringere sempre di più.

 

“È giusto”

 

Giusto. Nessuna sicurezza, nessun appiglio. Voleva consolarla, ma non era riuscito a mentirle. Miroku premette la fronte nell’incavo fra i seni. Sarebbe stato facile dirle che sarebbe andato tutto bene; sarebbe stato bello costruire insieme un progetto, immaginarsi un futuro tranquillo e sereno; con Kohaku magari; e dei bambini. Perché Miroku ne avrebbe voluti tanti, di bambini. Da lei. Sarebbe stato così bello; e così facile. Ma non ci era riuscito. Per quanto, infatti, il fischio del foro del vento fosse ancora solo un incubo che lo svegliava di notte, all’improvviso, dopo incubi che si riducevano a immagini confuse e ad un angosciante nodo alla gola, Miroku non poteva dimenticarsi di non avere futuro, nonostante lo desiderasse; non poteva ignorare Sango e le promesse che non avrebbe potuto mantenere. E poi. Poi c’era Naraku. La vendetta rincorsa contro di lui, il desiderio bruciante, folle, di perdere tutto ma riuscire a fargliela sentire, almeno una volta, tutta la rabbia che covava dentro. Anche nel rischio di inquinare di più la sfera dei quattro spiriti. Farglielo sentire, quell’odio, e vederlo sorpreso, e forse un po’, anche solo un po’, vacillare.

 

Giusto.

Miroku ricompose con lentezza esasperante il kimono, lisciando le pieghe una ad una e sfiorando i motivi decorativi fino a risalire alla gola, e ancora più su, aggirando le labbra. La fossetta sotto il naso piccolo e diritto, le ciglia sottili e arcuate, quasi una linea di matita. E ancora. Il lobo pieno, rotondo di Sango, e il collo. Scoprire la nuca sotto una cortina scura, e premere le labbra forte, mordicchiando la pelle tesa e stanca, aspirando lentamente quasi stesse mangiando un frutto carnoso. Pensava che Sango lo avrebbe allontanato; pensava che lo avrebbe schiaffeggiato. Invece, sentì le mani insinuarsi sotto la tunica, sfiorare incerte e audaci la pelle nuda e stringerlo, premerlo contro le forme piene e invitanti di Sango.

Giusto. Giusto non illuderla, non offrirle false speranze. Giusto accettare la sua paura e farle capire che aver paura è normale. Giusto.

Miroku la imprigionò sotto di sé; non l’avrebbe amata, non ancora. E non avrebbe cercato di rassicurarla, di scacciare quel terrore che vedeva dietro il desiderio e la punta di ingenuità. Ma una cosa Miroku voleva che Sango la sapesse; e gliela avrebbe mostrata. Forse non sarebbe stato per molto, forse sarebbe stato uno sbaglio, ma finchè il tempo e la kazaana glielo avrebbero permesso, Miroku voleva che Sango sapesse che poteva piangere e tremare e spaventarsi ancora e ancora. Perché lui ci sarebbe sempre stato a consolarla, a stringerla fra le braccia e sussurrarle all’orecchio.

 

“Ancora.

Abbiamo ancora tempo”.

 

 

 

*****

 

 

 

Non hai pazienza.

Se lo era sentito ripetere spesso, mentre cresceva. Troppo impulsivo, dicevano. Guarda tuo fratello, invece. Tuo fratello è controllato; tuo fratello sa come mantenere il sangue freddo. Prendi esempio da lui; perché non provi a crescere un po’? Spesso ci fai vergognare; spesso sei un disonore. Cosa succederebbe se fossi tu l’erede? Cosa combineresti?

Kami! Era un mantra. Una litania che gli attraversava il cervello. Nelle sale, nel silenzio, fra il vociare dei cortigiani. Parole. Parole. Tante parole che sussurravano all’orecchio. Le sentiva sempre; non era necessario che le pronunciassero davvero. Bastava un’occhiata. Una di quelle occhiate un po’ pallide e un po’ di scherno; una di quelle occhiate che non vorresti mai sentirti addosso. Perché sono occhiate che ti spiano, ti comparano, di vivisezionano. E ti fanno male. Un male forte forte dentro, nel petto, o ancora più giù. Perché non le vorresti sentire, quelle parole. E gli occhi. Hai voglia di strapparli, gli occhi di quei cortigiani. Anche se sei piccolo. Anche se ti dici: ignora. Perché di quello che pensano loro a te non importa nulla, vero? Non hai bisogno della loro pietà, della loro approvazione, giusto?

A tuo fratello va bene così. Non ti ha mai detto niente. Ti dice: migliorerai. Sei piccolo. Prima cresci, poi preoccupati. Perché finchè sei piccolo non ne devi avere, di preoccupazioni. Anche se sei un principe; anche se sei uno youkai. Le preoccupazioni sono per gli altri, vero? Tu devi solo crescere. E ai guai che combini ci penserà qualcun altro. Ci penserà tuo fratello.

 

“Non ti sei stancato di farmi da balia?”

 

La pedina girava e girava fra gli artigli. Una piccola pedina di avorio, lucida e levigata. Non ha pazienza Yashi; e il go è un gioco di pazienza. Ma meglio di niente. Meglio che restare a marcire nel futon e consumarsi gli occhi nel fissare il soffitto. Perché gli occhi ce li ha ancora, anche se non se ne capacita del tutto. Pensava che Shin glieli avrebbe strappati, quando la avrebbe visto. Perché a quel guaio nemmeno Shin avrebbe saputo mettere rimedio.

Yashi si passò distrattamente una mano fra i capelli. Erano ancora corti e irregolari, come appena recisi. E risente la lama del pugnale scorrere sulla pelle sensibile, tagliare ogni capello e la coda stretta in mano afflosciarsi istante dopo istante. Non ci aveva pensato; lo aveva fatto e basta. E si era sentito orgoglioso. Per la prima volta in vita sua, quel gesto sbagliato lo aveva riempito di orgoglio. E le voci e le chiacchiere e i mormorii erano piacere. Perché per la prima volta lo aveva cercato lui, il paragone con Shin. Lo aveva cercato, voluto, sottolineato. E sentire i capelli solleticargli la gola, sorridere di scherno davanti alle facce allibite e costernate, vedere la rabbia negli occhi di suo padre e ricordarsi così, all’improvviso, di aver sempre cercato l’approvazione di altri occhi, la fiducia di un altro sguardo, lo aveva reso euforico e temerario. Troppo temerario.

Ma Shin era appena morto; lo credeva morto. E il dolore era forte, e la voglia di piangere grande e una responsabilità non voluta premeva sulle spalle. E poi c’era Koji. Koji e la sua realtà diversa; il bisogno sviscerale di proteggerlo, di farlo restare al sicuro, di non esporlo.

Yashi si era sentito schiacciato da un pensiero. Da una consapevolezza che lo premeva a terra, giù, sempre più giù, e alzare appena la testa e fissare qualcosa oltre la polvere era difficile. Stramaledettamente difficile.

Ma Shin lo aveva sempre fatto. Shin aveva sempre camminato con la testa alta e la sicurezza. Anche con i capelli corti. Anche quando, negli ultimi giorni passati al loro accampamento, nessuno sapeva più come comportarsi con lui.

Ma Shin non si arrende mai, Yashi lo sa. E adesso, vederselo di fronte, i capelli irregolari che giocano con i riflessi bruciati dell’haori, la posa informale e quel sorriso rilassato, quasi irreale, assomiglia ai sogni che faceva i primi giorni dopo che Naraku aveva riferito la notizia della sua morte.

 

Non ci voleva credere, all’inizio. Quando, ripresa conoscenza, se lo era trovato accanto al futon, la testa reclinata e un panno in mano. Era notte. E Shin era accanto a lui; come quando erano piccoli, nel palazzo sul Continente. Come quando uno yaoguai lo aveva avvelenato ed era rimasto incosciente e arso dalla febbre per tre giorni. Shin non c’era quella volta, al suo capezzale. Ma era la stessa cosa: Shin c’era, anche se non era lì con il suo corpo. Shin c’era sempre stato. Perché i guai di Yashi era Shin a doverli sistemare. Era rientrato due giorni dopo che la febbre era scesa e Yashi stava già riprendendo le forze. Pallido, il kimono a brandelli e senza cavalcatura. E uno sguardo spento. Non gli aveva mai chiesto niente. Forse per paura di un rimprovero; forse per paura di venir allontanato, disprezzato. Forse. Forse. Forse. Ne aveva molti, di forse e di domande nella testa. E Shin adesso era davanti a lui, la pedina nera che ondeggiava sulla scacchiera, prima di cadere a destra o a sinistra. E Yashi si accorse che a Shin il nero non stava bene. Lo aveva visto spesso, con gli abiti scuri. Lo aveva visto spesso vestire l’armatura brunita dei loro antenati. E aveva sempre pensato: bello. Shin era nato per quello, e lui ci sarebbe sempre stato per sorreggerlo. Al suo fianco, il suo braccio destro; il suo elemento di disturbo; perché ogni tanto bisogna ricordarlo, a un Principe, che anche la vita di loro youkai può finire e sprecarla a preservare un equilibrio, a cercare di comprendere un’armonia senza concedersi tregue e distrazioni non va bene. Yashi ne era sempre stato convinto. Ma era anche sempre stato persuaso dell’idea che sarebbe tornato nel Kansai un giorno; e avrebbe visto con i suoi occhi il palazzo dove suo fratello era nato, e lo avrebbe visto sedersi su quel trono antico e rivendicare a sé i diritti e la vendetta.

E Shin sarebbe stato nero; nero nell’armatura; nero nelle vesti; nero nei capelli.

E adesso no, Yashi si era accorto che quell’immagine, quel Principe, non gli piaceva. Forse, in verità, non gli era mai piaciuto. E l’unica cosa che volesse davvero per suo fratello, per quel fratello che gli era stato accanto come un padre, che gli aveva fatto da padre quando Morigawa era ormai perso nel suo delirio, era un haori, una scacchiera di go e una tazza di tè.

E non voleva sminuire Shin.

Ma c’era qualcosa, nella figura elegante di suo fratello che gli impediva di vederlo di nuovo vestire un’armatura. E no, non era la fasciatura che si lasciava intravvedere fra le pieghe della stoffa; non era il movimento ancora rigido della spalla quando si alzava o il passo appena claudicante che ancora si concedeva. Yashi lo sapeva bene: sarebbe bastata un’avvisaglia, un sentore di pericolo, e Shin avrebbe soppesato di nuovo la katana al fianco e celato il viso dietro l’ho-ate. Shin non è mai stato pacifico; ma non ha mai cercato lo scontro diretto, il confronto.

 

Yashi si lasciò ricadere sul futon. Restare seduto gli costava ancora un discreto sforzo, anche se le cure di Yaone-sama e di Homoe-san si stavano rivelando prodigiose. Il suo fisico, benchè demoniaco, era ormai allo stremo quando era arrivato al palazzo di Sesshomaru e se non fosse stato per l’aiuto medico che gli era stato fornito sarebbe ancora sospeso in un limbo irritante e capace solo di consumagli le energie giorno dopo giorno. Non ricordava quanto fosse stato svenuto, come non aveva pienamente coscienza di cosa fosse esattamente successo dopo che quella yasha aveva offerto loro l’acqua. Ma era lontano, si accorse Yashi. Erano ancora prigionieri e feriti e stanchi. Lui era stanco. E con addosso la consapevolezza che ogni tortura inflitta fiaccava la sua resistenza senza possibilità di ripresa. L’angoscia. L’angoscia che montava assieme alla consapevolezza di poter cedere da un momento all’altro e di lasciare Koji e sua madre esposti, soli. E di deludere Shin.

Poca importanza il fatto che lo credesse ancora morto.

 

“Ho avuto paura. Di perderti”

 

Il movimento rapido della testa e il ringhio che si strozza in gola. Shin si concesse un sorriso; Yashi ha sempre avuto quel pessimo, istintivo vizio, fin da cucciolo. Ringhia. Se qualcosa lo infastidisce, lo irrita, lo preoccupa. E dirgli: smettila non è mai servito a nulla. Perché Yashi è istinto demoniaco puro, e la violenza e l’impulsività selvaggia fresca e non arginata, non controllata, non piegata. Yashi è tutto quello che Shin non ha mai potuto e non si è mai permesso di essere.

Ma è anche l’avventatezza e l’ingenuità disarmante che solo un bambino può avere. Quella irritante e sciocca abilità di mettersi nei guai. Come con la Bai Gu Jing.

Shin la ricorda bene, quella notte di fine primavera. Trascorsa alla finestra della sua stanza, un libro e un tokkuri di sake. Ad aspettare, mentre il cielo si fa chiaro e scolora e l’aria, nel crepuscolo, punge la pelle e gli artigli premono sempre un po’ di più nella carne. Perché non è da Yashi non avvertirlo e passare fuori la notte. E soprattutto non è da Koji assecondare il fratello fino a quel punto. Shin lo ricorda, quel sottile strato di agitazione serpeggiare sotto la pelle. Come un campanello di allarme. E gettare il libro sul futon, indossare i koshi-ate, prendere la katana, legare i capelli in un nodo veloce e sellare il suo cervo. Senza un reale motivo, senza che l’aria fremesse o un corvo avesse gracchiato. Spronare e dirigersi verso il profilo delle montagne; perché per cacciare le montagne sono il luogo migliore. E doveva essere solo una battuta di caccia. Una semplice stupida battuta di caccia. Una sfida, l’ennesima, fra Yashi e Koji. Il primo che avesse ucciso un cinghiale e lo avesse riportato a palazzo si sarebbe aggiudicato…Shin non lo ricordava nemmeno, quale fosse il premio in palio. Una spada forse; o il sorriso di una yasha. Non lo ricordava, e non gli interessava ricordarlo. Sapeva solo che doveva durare una giornata, quella caccia; e Koji e Yashi non avevano fatto ancora ritorno a palazzo.

 

Shin sfiorò con prudenza la fasciatura alla spalla. Homoe-san gli aveva raccomandato di restare tranquillo; se la ferita si fosse riaperta non gliela avrebbe curata più. Lo aveva promesso; una di quelle promesse che Shin ha imparato a riconoscere. Quelle che Homoe snocciola con la bocca corrucciata e la difficoltà evidente di mascherare un sorriso. Shin ha imparato a riconoscerle, quelle promesse. E assapora il pensiero di provocarla e di riaprirsela volontariamente, quella ferita. Per vedere di nuovo Homoe costretta accanto al suo futon. E addormentarsi con la sua mano che gli asciuga la fonte e svegliarsi con il pensiero, la sicurezza, di trovarla coricata acconto a lui, vinta dal sonno e dalla tranquillità della notte.

Ma adesso deve pensare a Yashi. A suo fratello e ai suoi grandi occhi curiosi. Di ascoltare il pezzo di quella storia che non ha mai voluto raccontargli. E poi l’altra storia. Quella del loro arrivo al palazzo di Sesshomaru. Spiegargli che, se il Principe dell’Ovest acconsentirà, il Kansai avrà un nuovo Principe e lui tornerà sul Continente. Forse con Homoe, forse da solo. Forse con loro madre. Ma comunque sul Continente. Perché Nihon non è più la sua terra, Shin lo sente prepotente dentro di sé. Nihon sono le sue origini; e i tasselli di un infanzia che ha finalmente ricostruito. Mettendo in ordine le confuse sensazioni di un bambino e i frammenti di storie e ricordi che suo padre gli aveva fatto balenare davanti agli occhi. Ecco, suo padre. L’altro motivo per cui non se la sente di restarci, sulle isole. Dovrà affrontare anche quella questione, lo sa bene. Ma prima ha bisogno di capire cosa fosse diventato e perché e, soprattutto, cosa contasse per lui. Cosa significasse. Perché fa male il pensiero di non vederlo più e fa rabbia ed è, strano, ma lo è, anche gioia. Quasi liberazione. No, non è paura, sorpresa o sconcerto. Non si sente degenere nella consapevolezza che la morte di suo padre gli fa vibrare il corpo fin nei recessi. La morte è normale. E solo un’altra forma della loro esistenza. Erano essenza della terra prima di diventare youkai; restano parte dell’esistenza da youkai e tornano nell’assoluto nella loro morte. No; non è dolore o rammarico o sconcerto. È solo, di nuovo, voglia di capire, di definire. Per chiudere del tutto con il passato, trarne insegnamento e andare avanti. Migliorare. Superare Morigawa.

 

Ma dopo. Il presente è Yashi. E le sue parole che corrono nel ricordo di una cavalcata fino a trovare due corpi feriti e uno scheletro a trascinarli. Shin tenne gli occhi sulla scacchiera; perché non è sicuro di far bene a dirlo, quel segreto, anche se non c’è nessun vincolo. Ma lo aveva promesso a se stesso: non lo avrebbe mai detto loro. Per non farli sentire in colpa, per non far pesare loro addosso un qualcosa che ha deciso lui.

Ricordare. Koji che riprende piano conoscenza e lo vede. Mentre parla con la Bai Gu Jing. Il corpo di Yashi caldo e sudato contro la pelle fredda; il respiro del cervo e la consapevolezza di non avere tempo, di doverli rimandare a palazzo e far curare Yashi. Perché il sangue che scende dalla ferita è verde e maleodorante e il veleno si diffonde in circolo in fretta, troppo in fretta. Koji che si aggrappa al suo kimono, che cerca di trattenerlo, che lo supplica ti tornare, andare con loro. Shin lo rivede: negli occhi di suo fratello c’era un terrore immenso. Lo smarrimento e la disperazione che aveva visto nello sguardo di Koga quando era rientrato a palazzo dopo la battaglia finale. La paura che si allarga nell’iride e contrae la mascella in un ghigno deforme; contrae i muscoli fino a far mele. Shin lo aveva visto e si era alzato ed era uscito dalla stanza di Koji. Con addosso la consapevolezza che qualcosa era cambiato e il passato, il loro legame, non sarebbe più ritornato. Perché lo aveva scelto lui stesso e un altro fratello, quello vero, avrebbe vegliato il futon di Koji.

 

Ma nella sua memoria, Koji era ancora un cucciolo e stringeva e piangeva. Shin lo aveva fatto montare in sella e gli aveva detto solo: ti affido Yashi. Mi fido solo di te. E li aveva visti correre nella nebbia leggera che saliva dagli stagni, mentre la mano ossuta si allungava sulla sua spalla. Aveva mantenuto gli occhi all’orizzonte, e il sigeo scivolava con la katana e il kimono si apriva sul petto a mostrare i contorni di una muscolatura viva. Viva. Le dita lunghe e sottili allungarsi sul suo corpo erano ancora un brivido di disgusto. Ma non si era ritratto; aveva dato la sua parola e avrebbe mantenuto.

Quella mattina, benché fosse uno youkai, Shin si sorprese a pregare i Kamigami di far arrivare Yashi in tempo al castello e che Bai Gu Jing mantenesse la sua parola. Voleva rivedere suo fratello, quando fosse tornato. Voleva rivederlo e potergli dire baka! E sentirlo scusarsi e nascondere un singhiozzo e stringerlo forte e pensare che, in fondo, Yashi gli sbagli e gli errori doveva farli. Anche per lui. E non doveva preoccuparsene perché glieli avrebbe rimessi a posto lui.

 

“Perché lo hai fatto? Shin!

Perché ci sei sempre?”

 

Yashi non ha pazienza; glielo ha sempre detto. Ma è intelligente; e ha buona memoria. E la lezione di Takakumi la ricorda anche lui. Per placare uno yaouguai ci sono solo due modi: o lo uccidi o lo assecondi. E Shin aveva solo potuto assecondarlo. Perché uno scambio è uno scambio, e lui aveva accettato: il suo corpo, la sua forza giovane, per i suoi fratelli; perchè voleva esser sicuro che Yashi si sarebbe alzato dal futon con le sue gambe e avrebbe di nuovo camminato al suo fianco.

Yashi non è sciocco e Shin si limitò a piegare la testa e stringere la pedina del go. Mentre la mano correva alla spalla e si contorceva. Perché il ricordo faceva male, faceva rabbia; anche se era passato tanto tempo. La Bai Gu Jing che lo prende per mano e lo porta con sé; nella nebbia pensante e cattiva. Il corpo di donna avvenente che si decompone e si stacca pezzo per pezzo, mentre gli percorre la pelle alla ricerca disperata del suo calore, della sua essenza vitale. La forza, il vigore svanire dalle membra istante dopo istante e scoprire di non poter nemmeno alzare un braccio e tentare di allontanarla. Scoprire di non riuscire più a pensare. Perché uno youkai adulto può vincerlo facilmente uno yaouguai, ma Shin era poco più che un cucciolo e per quanto abile e adulto aveva la forza di un ragazzino. Ma avverte chiaro lo sbaglio, l’umiliazione di essere costretto a concedersi, ad assecondare un rifiuto, un grumo di risentimento e disperazione che, quasi per scherzo, viene chiamato Kami.

Ma c’è Yashi; e c’era anche Koji. Loro sono importanti, sono più importanti. Altrimenti. Altrimenti non avrebbe esitazioni. Li immagina: gli artigli allungarsi e scivolare attorno al collo pallido, con le vene che sono un reticolato rivoltante. Posarsi lì, alla base della nuca, e iniziare a premere. La pelle chiazzarsi di nero in fretta, e distinguere le ossa del collo. Tre, quattro, cinque. Avrebbe potuto contarle. Avrebbe potuto dire di ognuna posizione e spessore e fiacca resistenza. Continuare a premere, fino a costringere la testa a torcersi indietro, con la gola semitrasparente offerta alle zanne. E la mano, l’altra, quella che era costretta ai seni avvizziti e cadenti, scivolare sul plesso solare, ricercare l’eco di un battito, e penetrare. Spingersi a fondo, nel molle e nel viscido, e accorgersi del sangue che gocciola e della smorfia di irritazione e sconfitta.

Se solo non avesse dato parola.

Le zanne avrebbero schernito, con lo sguardo fisso su un volto che va disfacendosi, mostrando orbite vuote e carne e ossa che si liquefanno con uno sfrigolio assordante. Le zanne. Non avrebbe dovuto conficcarle nelle labbra, per impedirsi di reagire e allontanare quella nudità volgare e ostentata. Avrebbe potuto mordere.

Invece. Il conato represso con fatica, mentre un sapore di liquame e marciume gli invadeva la bocca; la sensazione di sporco e polveroso sulla pelle, nella pelle, dentro, nel corpo. E le forze scendevano lentamente e la schiena nuda sulla terra preme e preme e preme. Era volgare, la Bai Gu Jing; nel suo muoversi sconnesso ed eccitato, nell’assaporare la sua forza, la sua vitalità, il suo corpo. Era volgare, con l’hanfu sempre più largo, scivolare a denudare il seno avvizzito e cadente; allargarsi nel mostrare un corpo smunto e macilento. Vederlo muoversi frenetico, sconnesso sopra il suo, fra respiri sempre più pesanti e gemiti che ricordano singhiozzi. Un leggero strato di sudore e la sensazione di un piacere intenso crescere sempre di più; partire dal basso, dal ventre, e disperdersi nel corpo, costringerlo a reagire e assecondare movimenti e spinte. Shin aveva scelto. E aveva subito. Separando il corpo e la mente; osservando il corpo sopra di lui muoversi e muoversi e muoversi. La carne grigiastra e flaccida tendersi e riacquistare tono ed elasticità; il seno ritornare pieno e turgido, provocante; mani scheletriche ingentilire il tocco e scivolare sul suo corpo senza graffiare, senza la fastidiosa spigolosità delle ossa appena offuscate da un sottile strato di pelle. La Bai Gu Jing lo stava amando, e gli stava rubando forza vitale. Per riavere un volto pallido dall’ovale perfetto; per poter ridisegnare di rosso il labbro inferiore e tracciare una linea sottile in alto, sulla fronte spaziosa. E accennare maliziosa dietro al ventaglio allo stolto che si lascia irretire da lei e la segue. La Bai Gu Jing si concede volentieri; è il solo mezzo che conosce, che ricorda, per restare affascinante e catturare l’attenzione. E per un istante, un singolo istante, riassaporare la sensazione del corpo nel suo pieno vigore.

 

Shin aveva lasciato che godesse di lui, dimenticandosi del suo onore e del suo orgoglio di demone. Le aveva concesso il suo corpo, la sua forza vitale, più intensa e soddisfacente di quella umana, capace di renderle le forze e la vigoria per molto, molto tempo. Quando la Bai Gu Jing lo aveva lasciato libero, Shin si era dovuto concedere tempo. Tempo per lasciar rifluire il sangue e regolarizzare il respiro; tempo perché il suo corpo demoniaco riequilibrasse la forza sottratta con quella rimasta e fosse in grado di sostenere anche solo lo sforzo di assumere una posizione più decorosa. Era riuscito a reindossare i ku, quasi vergognandosi della propria nudità. Era strano. La Bai Gu Jing non era la prima yasha con cui si intratteneva, ma era stato diverso. Aveva scelto di concedersi, nonostante la rabbia e il disprezzo che gli chiudevano lo stomaco. Unirsi a una creatura che è solo desiderio per lui, per il suo modo di percepire l’esistenza, era solo frustrante e umiliante. Le pochissime amanti che aveva avuto fino a quel momento erano state più un obbligo che una volontà. Un modo come un altro, forse più indolore di altri, per ingraziarsi gli altri demoni presenti. Spiriti forse inferiori a loro inuyoukai per potere, ma dotati di una saggezza e di una conoscenza millenaria di quella terra troppo nuova e diversa e quindi utili, necessari, anche se contro voglia. Suo padre non aveva mai disdegnato chi gli si era offerto, e Shin si era ritrovato costretto a fare altrettanto. Giacere con il Principe Morigawa era un onore, ma era Shin ad attrarre di più. Per la bellezza giovane e provocante; per l’austerità che mostrava e il ruolo che avrebbe giocato nella successione al padre.

La Bai Gu Jing no. La Bai Gu Jing lo aveva voluto solo perché lo desiderava. Aveva voluto il suo corpo, e non chiedeva altro. Non chiedeva mai altro. Solo passione e sfrenatezza e lussuria. Solo quell’attimo, quell’istante in cui, rigida e scossa da un piacere intenso, scende sul compagno occasionale e gli carpisce anche l’ultimo alito di vita con un bacio. Così diverso da quello della vecchia; da quello nauseante di una donna in disfacimento.

Ma la Bai Gu Jing non aveva baciato Shin; gli aveva sottratto forza vitale, ma non la vita stessa. Non avrebbe nemmeno potuto contenerla tutta nel suo corpo, l’energia di Shin, di uno inuyoukai. Si era appagata, e adesso osservava il suo giovane amante ricomporsi e legare ben saldo l’inrou al sigeo. Lo aveva osservato mentre soppesava le katana al fianco e le voltava incerto le spalle, per tornare al castello.

 

Shin chiuse gli occhi. La mano diversa della Bai Gu Jing che si era stratta nella sua era stata una sorpresa. C’era qualcosa di diverso nello yaouguai; il suo sguardo forse, di nuovo vivo e giovane. Il volto liscio, o forse solo le forme che ammiccavano dal hanfu gettato in fretta sulle spalle. Shin non sapeva ancora dire cosa gli avesse impedito di far scattare gli artigli e stringerle la gola; perché le avesse permesso di nuovo di toccarlo e non avvertisse la medesima repulsione provata la prima volta. Né compassione né accondiscendenza. Semplice curiosità, si era detto. O forse il gusto per il proibito. Non lo sapeva. Non lo aveva mai capito. E aveva continuato a guardarla anche quando lei gli aveva voltato le spalle e si era incamminata nella nebbia che saliva dalla terra calda. Aveva continuato a fissare il punto indistinto che l’aveva inghiottita, prima di avvertire in mano le forme levigate di un pei.

 

Ce l’hai ancora? Il pei, intendo”

 

Shin socchiuse gli occhi. Il pei: un cerchietto di giada levigata e perfetta nelle forme, con incisi a sbalzo ideogrammi così simili ai suoi e ancora così diversi. Il pei. Sì; lo aveva conservato, ben protetto e nascosto nella himitsu bako. Si era chiesto spesso, in passato, perché non l’avesse buttato. Si tengono i doni delle amanti; non le ricompense di un’incontro che si vorrebbe solo dimenticare. Eppure, per qualche motivo, il pei restava ancora al suo posto, al sicuro nel mosaico di legno e incastri. Shin sospirò e si passò una mano sul collo. Restava l’altra questione, adesso. La Bai Gu Jin era stato un buon pretesto per rompere il ghiaccio; ma a Shin premeva maggiormente l’altro argomento. E la partita era stata una scusa; un modo come un altro per prendere tempo e trovare il modo migliore di intavolare una discussione. Lo sapeva bene; e lo sapeva anche Yashi. E lo aveva assecondato; lo aveva sempre assecondato e doveva averlo capito subito, fin da quando era entrato con la scacchiera e quel sorriso forzato che quello sarebbe stato un giorno difficile. Un brutto giorno difficile, di quelli in cui vorresti solo girarti nel futon e restartene in pace. Senza pensieri, senza preoccupazioni. Ma i discorsi, soprattutto un discorso come quello, vanno affrontati. Senza fretta, ma vanno affrontati. E Shin sapeva che ormai non ci poteva più girare intorno.

 

“Ti lascio il Kansai.

Io torno nel Continente”

 

Ecco. Lo aveva detto. Facendo ruzzolare le parole con troppa velocità; quasi con il timore di sentire la bocca muoversi e la voce spegnersi senza esser riuscito a finire la frase. Lo aveva detto; e Yashi lo fissava con la bocca socchiusa e il respiro che non voleva saperne di andarsene né su né giù. Non poteva aver capito bene. Si stava sbagliando, giusto? Suo fratello non aveva davvero intenzione di andarsene; non poteva mollarlo lì e tornarsene a casa. Non aveva senso, ecco. Era uno scherzo, vero? Shin stava solo scherzando. Di certo. Voleva metterlo alla prova; voleva vedere come avrebbe reagito; voleva solo vedere se era un po’ cresciuto o se lo avrebbe preso il panico come quando era cucciolo e suo fratello doveva uscire con l’esercito. Certo; ovvio. Era solo una prova. Yashi cercava di convincersene disperatamente. Era solo una prova: adesso gli avrebbe detto che era stato uno stupido, a fare quella faccia; gli avrebbe detto che appena Sesshomaru-sama fosse rientrato a palazzo sarebbe andato a parlare con lui. Inuyasha-san aveva portato loro, in via informale, una prima proposta delle condizioni di resa ed erano state più che soddisfacenti. Mancava solo l’approvazione di Sesshomaru-sama e tutto sarebbe andato a posto. Avrebbero riavuto il Kansai; avrebbero riavuto la loro libertà e la posizione che detenevano prima dell’esilio. L’unica condizione era riconoscere la supremazia di Sesshomaru-sama, la sua autorità, e sottoscrivere un trattato di alleanza. Sì; ottime condizioni. Shin avrebbe firmato e avrebbe ottenuto il trono; il suo trono. Doveva andare così, Yashi ne era certo.

Suo fratello a capo del loro clan e lui gli avrebbe dato tutto il suo appoggio. Su quello non si discuteva. Era sempre stato quello, l’accordo. Perché cambiare le carte in tavola? No, non aveva senso. Shin stava giocando. Un gioco brutto, va bene, ma poteva concederglielo. Non si sarebbe messo a pestare i piedi per terra come quando era cucciolo; non si sarebbe messo a piangere e urlare e stringere il kimono di suo fratello solo per trattenerlo o per convincerlo a portarlo con lui. No; avrebbe sorriso, magari abbozzato un piccolo applauso, perché, doveva ammetterlo, era riuscito davvero a sorprenderlo. Ma in fondo era solo uno scherzo, giusto? Solo uno…

 

“Non sto scherzando Yashi-kun”

 

Shin si appoggiò stancamente al bracciolo. Lo sapeva; lo aveva previsto: Yashi non gli credeva; aveva pensato ad uno scherzo, ad una trovata sfuggita per allentare la tensione. Forse ad una prova; ad una specie di iniziazione per confermare se sarebbe stato un valido aiuto o se una notizia simile, sbattuta in faccia senza preavviso, lo avrebbe destabilizzato. Doveva aver pensato a molte cose; ma non gli aveva creduto. E adesso se ne stava lì, a rigirare sul piatto di bambù gli onigiri, senza decidersi a portarli alla bocca e mordere. E Shin era sicuro che quello smarrimento, quella calma placida e irreale fosse solo un momento di pausa. L’attimo che, lo sapeva bene, precedeva l’esplosione, la rabbia, la frustrazione, la tensione che si libera e diventa parole, urla, ringhi. Gesti anche, se solo Yashi avesse avuto la forza di muoversi a suo piacimento. Ecco: quello giocava a suo favore. Suo fratello non era ancora capace di sopportare uno sforzo fisico prolungato, e questo avrebbe di certo evitato un confronto diretto. Verbale era inevitabile, ma almeno non si sarebbe trovato costretto a premere Yashi contro il tatami, a fermarne le mani che correvano a premere e stringere e afferrare. Forse avrebbe fatto più fatica; perché sapeva per esperienza che Yashi è più propenso ad ascoltare e ragionare solo dopo che si è sfogato. Ma non aveva tempo per andare tanto per il sottile. Due possibilità: o affrontare subito la questione, con suo fratello costretto in un modo o nell’altro ad ascoltarlo, o rimandare e dare a Yashi il tempo di rimettersi e reagire e dover, allora, intavolare un confronto sfibrante e lungo. Maledettamente lungo. Shin aveva optato per la prima ipotesi. Non se la sentiva di trascinare ancora quel pensiero che andava rimuginando da troppo tempo. Nelle ore passate al capezzale di suo fratello, ma anche prima, durante la sua stessa convalescenza a palazzo, Shin aveva avuto occasione di pensare. E aveva scoperto di desiderare unicamente il Continente. Una consapevolezza che non gli aveva attraversato la mente all’improvviso; quasi la quieta e naturale accondiscendenza ad una realtà sempre saputa, sempre agognata, e ignorata e repressa per dovere e per non alimentare illusioni.

Con Morigawa vivo, il posto di Shin era a fianco di suo padre. Dovunque lui volesse andare: Continente, Nihon, o anche altrove. In pace o in guerra. Ma Morigawa era il passato. Morigawa era un qualcosa che Shin desidera lasciarsi alle spalle; quell’eredità che non riusciva, in nessun modo, ad accettare. Poteva rassegnarsi al ruolo che la sua nascita gli imponeva; poteva rassegnarsi a non essere libero, senza vincoli; poteva accettare il ruolo e l’equilibrio che doveva preservare. Ma il regno del Kansai no. Per quanto si sforzasse, non riusciva a formulare un’immagine diversa da Yashi seduto sul trono. Lo avrebbe voluto di nuovo con lui, certo. Sul Continente, lo sapeva già, prima o dopo lo avrebbe preso la nostalgia, il rimpianto di trovarsi solo ad affrontare gli abituali problemi e nella testa la sibillina consapevolezza che la fusuma non si sarebbe più aperta con troppa irruenza e che Yashi non avrebbe più fatto irruzione. Con la sua carica ribelle, con quell’esuberanza che gli permetteva, lo obbligava, a distrarsi e lasciare il palazzo.

Yashi sarebbe diventato principe del Kansai, con l’approvazione di Sesshomaru-sama. Shin era pronto a tutto pur di ottenere il riconoscimento di suo fratello; con Inuyasha-san l’argomento era stato toccato svariate volte, di sfuggita o direttamente. Avevano posto condizioni, elaborato ipotesi e scartato scelte, parole, atteggiamenti controproducenti. Avevano anche ipotizzato la somma di un possibile riscatto; avevano ipotizzato uno scambio di natura indefinita: il regno del Kansai e il riconoscimento di Yashi per…Cosa avrebbe potuto destare l’interesse di Sesshomaru-sama? Ricchezze ne possedeva e non lo affascinavano; possedeva una spada temibile, e offrigliene un’altra così, per quanto potente e affilata, era un rischio non calcolabile: avrebbe potuto accettare, ma avrebbe anche potuto sentirsene offeso. Una spada la conquisti sul campo; ci dev’essere un legame speciale, con la katana. La si doma; e la si ama. Come una donna.

No. Shin era sicuro che una katana sarebbe stato l’omaggio sbagliato; e anche una yasha o una donna. Conosceva la nomea di Sesshomaru; e le informazioni che nel tempo suo padre aveva raccolto sul Principe dell’Ovest si erano rivelate sempre attendibili. Forse un po’ imprecise e frammentarie in alcuni punti, ma attendibili. E nessuno aveva mai riportato un particolare interesse di Sesshomaru per il gentil sesso. Shin aveva dovuto ammettere a se stesso la sorpresa che lo aveva attraversato nello scoprire la presenza, a palazzo, di Alessandra-sama. Ne avevano parlato molto, con suo padre e Narku, durante i consigli di guerra; avevano anche ipotizzato una possibile irruzione a palazzo per rapirla e usarla quale merce di scambia. Un’idea dell’hanyou, ad esser precisi. Forse solo per controllare quanto effettivamente Sesshomaru fosse legato a lei.

 

Cosa dovrei dirti, Shin-oniisama?

Arigato gosai?”

 

Sarcasmo. Amaro; molto amaro. Shin non credeva che avrebbe sentito ancora quella sfumatura, nella voce di suo fratello. Era il tono che usava quando era un cucciolo, e voleva provocare. Lo usava con Morigawa, con gli youkai più grandi della corte. Lo aveva usato anche con lui, qualche volta. Gli occhi bassi e i pugni stretti e percorsi da piccoli brividi, fra la frustrazione e la rabbia, sull’orlo di lacrime che non voleva farsi sfuggire e stavano lì e premevano e pizzicavano e lo irritavano ancora di più. Perché quando Shin lo estraniava da un progetto, da un qualcosa, Yashi gli rispondeva così. Con quella voce che sembra un singhiozzo ed esce quasi a fatica; la testa inclinata di lato e un mezzo irritante sorriso di sfida. Uno di quei sorrisetti che sono un piccolo ghigno e sembrano volerti dire sei contento? Hai fatto di testa tua, ma io non ci sto. Prova a cacciarmi. Prova a lasciarmi fuori. Non te la perdono. Non ce la fari.

Crescendo, Yashi si era accorto che gli atteggiamenti infantili non facevano più presa sui demoni che lo circondavano e allora aveva semplicemente cambiato strategia. E quando si sentiva vulnerabile, quando lo attaccavo e, per un qualche motivo, non poteva rispondere sul piano fisico, rispondeva con la voce tagliente e quel pesante sarcasmo. Disarmante a volte; capace di ferire quasi sempre. Forse più dei suoi artigli. Perché era spiazzante vederlo mutare all’improvviso, e la solarità dirompente che lo caratterizzava virare, trasformarsi in un qualcosa di irriconoscibile e pericoloso. In quei momenti, gli occhi di Yashi sfumavano in un colore vinaccia e la sclera si assottigliava in modo pericoloso; era l’avvertimento, il segno tangibile di non stuzzicarlo ulteriormente, di fare attenzione. L’impulsività di Yashi poteva essere pericolosa, soprattutto quando era nella sua forma animale. Pericolosa; e letale.

Ma, in quel momento, Shin si accorse con dolore che Yashi non voleva essere né sarcastico né provocatorio. Era solo amareggiato. Profondamente abbattuto. E se ne stava rannicchiato sul futon, incapace di decidersi a voltarsi e affrontare quella conversazione come un demone adulto. Perché, di tutto quello che Shin gli aveva detto e continuava a dirgli, nel tentativo di spiegarsi, Yashi aveva afferrato solo una cosa. Fondamentale. Shin se ne andava. Shin tornava a casa, sul Continente; e non lo voleva con sé. Shin non lo voleva più al suo fianco. Se ne sarebbe andato, magari assieme alla yasha con cui lo aveva visto intrattenersi più volte sull’engawa. La figlia di Kumamtoto-sama; Homore-hime-san gli sembra di ricordare. Suo fratello l’avrebbe presa con sé, e avrebbe lasciato lui a Nihon. Lui e il regno.

Già; il Kansai. Sarebbe andato a lui. Yashi, Principe del Kansai. Ma cosa se ne faceva, del regno, se non c’era Shin? Poteva anche accettare l’idea di salirci, su quel trono, e che suo fratello non se la sentisse e abdicasse. Ma restare da solo; restare da solo in una terra che, in fondo, anche se era la sua patria d’origine, era solo terra straniera. Con la sua impulsività; con la sua precipitazione che, ne era certo, avrebbe solo portato ad attriti e risentimenti con altre famiglie.

No. Yashi non era ancora pronto. Non se la sentiva di lasciar andare Shin e mettersi a camminare da solo. Poteva essere egoista, era di certo un ragionamento egoista, ma in fondo non era ancora un cucciolo? E Shin non era sempre stato il suo aniue? No; non voleva lasciarlo andare. Non poteva lasciarlo andare. Ma, mentre lo osservava di sfuggita rimescolare il tè e starsene zitto e cercare quelle parole che avrebbero potuto se non persuaderlo almeno inclinarlo al dialogo, Yashi si accorse di non avere la forza di trattenerlo. E che, in qualche modo, qualcosa era successo e aveva perso Shin. Perso; smarrito; fuggito. Shin era in quella stanza; era attento ai suoi movimenti, ai suoi sospiri; lo studiava con una punta di apparente noia e indifferenza, ma bastava scivolare lungo i nervi del collo per accorgersi della tensione che li attraversava, facendoli vibrare a piccoli scatti. Quand’era stata l’ultima volta che lo aveva visto così…Insicuro. Sì; insicuro. E fragile e addolorato e diverso. Yashi non la ricordava, una volta in cui suo fratello aveva avuto paura a sostenere una conversazione. Nemmeno davanti a loro padre, nemmeno quando era in ginocchio e i capelli cadevano e cadevano al taglio netto del tanto.

 

Yashi sospirò e si lasciò ricadere sul futon. Il frinire delle cicale e quel silenzio pesante. Yashi avvertiva la stanza pesargli addosso, contorcersi e rimpicciolirsi a volerlo inghiottire. E non ce l’aveva, la forza, per alzarsi o solo mettersi seduto, puntare le mani e urlare forte, molto forte, che non gli bastava un ho deciso così, come risposta. Non avrebbe mai potuto trattenerlo, e sentiva un ringhio roco e fondo montare in gola a quel pensiero; ma l’idea di lasciarlo andare così era ancora più insopportabile. E, si sorprese a pensare, non accettava che suo fratello potesse preferire una yasha a lui. Si coprì gli occhi col braccio. Shin lo avrebbe lasciato rimuginare tranquillo; avrebbe aspettato anche tutta la notte, seduto sull’engawa. Aspettato.

Se suo fratello rinunciava anche a poter vedere Homoe-hime doveva davvero tenerci, a quel loro colloquio. Yashi arricciò il naso. Homoe-hime; Homoe-sama; Homoe-san. Homoe. Homoe. Homoe. Non lo sopportava più, quel nome. Non ne sopportava il suono; non tollerava la presenza ingombrante e minacciosa che evocava sempre. Riusciva a guastargli l’umore in un attimo. E, soprattutto, non gli piaceva come lo pronunciava suo fratello. Shin aveva scosso le spalle, quando glielo aveva fatto notare. Vedi cose che non esistono aveva detto. Ma Yashi no; Yashi era sicuro di essere troppo impulsivo e poco propenso all’attesa, ma nessuno lo avrebbe convinto di essere stupido. E di aver iniziato a sognarsi le cose. Soprattutto se il qualcosa riguardava Shin. Ed erano anni che non sentiva aniue pronunciare il nome di una yasha in quel modo; quasi assaggiando ogni suono e abbassando il tono di voce. Di poco, vero. Un’inflessione impercettibile, perlopiù. Nessuno se ne sarebbe mai accorto. Ma Yashi non era nessuno. E la voce di Shin-oniisama la conosceva bene. E quando parlava di Homoe-hime Shin era contento. E Yashi non riusciva a digerirlo.

 

Soffocò un verso a metà fra un singhiozzo e una risata. Possibile? Avrebbe davvero potuto…Ma no! Che assurdità! Insomma: non era un bambino; e Homoe-sama non sarebbe stata la prima. Cosa c’era di diverso? Non era la prima per Shin; e nemmeno lui non era estraneo ad un simile interesse. Perché mai avrebbe dovuto essere…Yashi inghiottì rumorosamente. Non riusciva nemmeno a pensarla, quella parola. Era semplicemente impossibile. E Shin, allora, come avrebbe dovuto reagire quando lo trovava fra le braccia di una yasha? Cosa avrebbe dovuto fare? No. Non era possibile. Si stava sbagliando. Non voleva che Shin andasse; e basta. Con o senza Homoe-san Yashi non voleva che suo fratello lo lasciasse. Era quello; solo quello.

Perché. Perché…Yashi lasciò scivolare la mano attorno al collo. Il sangue martellava nella giugulare, rimbombava nelle tempio. Correva veloce, il sangue. Troppo veloce. Yashi si scoprì in agitazione, si accorse delle mani sudate e attraversate da un tremito leggero; quasi la debolezza di una malattia che serpeggia nella carne e si irradia, con sadica lenta studiata lentezza. Cercò di riprendere padronanza di sé; un respiro, due, tre. Con calma: inspirare; trattenere il fiato; espirare. Va bene. Daccapo. Inspira di nuovo. E ripensa.

Shin vuole andarsene. Va bene. Shin vuole lasciarlo a Nihon, come principe. Va bene. Lui non vuole. È una certezza. Perché. Perché non si sente pronto, ecco. Perché è egoista. E perché…

 

“Vuoi portare Homoe-san con te, vero?

Adesso che c’è lei, io sono di peso, giusto? Ti vuoi disfare di me. Ma io…”

 

“Homoe-san non verrà con me”

 

Il labbro si increspò appena, in un sorriso a metà fra il sarcasmo e l’autocommiserazione. Shin avvertiva la sorpresa che attraversava suo fratello; lo vedeva: la bocca socchiusa, mentre le parole si spegnevano e diventavano respiro sempre più lento e trattenuto; le mani bloccarsi, fermarsi nel gesto frenetico che sempre accompagna Yashi quando parla. Una gestualità forte, accesa che doveva essersi pietrificata; e le mani e le braccia, ferme, fanno male, sono pesanti. Ecco: adesso le aveva fatte ricadere e le teneva inermi lungo il corpo. Ci avrebbe messo ancora qualche istante ad assorbire quelle parole. Perché, Shin ne è consapevole, non è da lui rispondere in quel modo. Non è da lui affrontare un argomento delicato come quello; se Yashi in passato gli chiedeva delle sue amanti, Shin taceva o sviava il discorso. Era consapevole che suo fratello sapesse, ma non confermava né smentiva. Era una delle regole per Shin: riservatezza, chiunque fosse stata la compagna.

Non era da Shin una presa di posizione precisa, un’ammissione che, Yashi se ne accorse, non era stata gettata lì solo per troncare il suo sproloquio. Shin-oniisama non parla oltre il necessario; non concede mai più di quello che vuole. E voleva che lui sapesse quello: Homoe-san non andrà nel Continente. Per il momento, almeno.

Yashi si stropicciò gli occhi. Aveva imparato con gli anni a leggere dietro le semplici parole di suo fratello; una sola frase di Shin poteva contenere più di un significato, e talvolta il messaggio vero non era quello che appariva più lampante. Quindi: Shin non sarebbe partito con Homoe-san. E i motivi potevano essere due: Homoe-san lo aveva rifiutato o Shin-oniisama non glielo aveva chiesto. Non ancora, almeno. Yashi sperava nella prima, ma razionalmente era più propenso a scegliere la seconda ipotesi. Il punto, però, restava: Shin se ne andava, e lo lasciava lì. E Yashi non riusciva a capire perché.

 

“Perché, oniisama? Per una volta, dimmi perché”

 

Shin sospirò e ruotò sulla posizione seiza; aveva un’aria così formale e compita, un’austerità antica e capace di soggiogare anche in quelle vesti semplici e quotidiane che Yashi avvertì l’impulso di assumere un atteggiamento più formale e di abbassare gli occhi. Ma non lo fece; aveva sempre guardato suo fratello in faccia, e avrebbe continuato a farlo. Il rispetto lo aveva sempre dimostrato in altri modi, e Shin lo sapeva. Era inutile, era ipocrita, cambiare così, all’improvviso. Solo per la stupida idea di impedirgli così di parlare e poterlo, in qualche modo, fermare. Incatenare. Come se il non pronunciare la sua decisione la vanificasse, l’annullasse. Yashi sospirò e cercò comunque di incrociare le gambe e ottenere una maggiore stabilità. Va bene: era pronto a parare il colpo.

 

“Sai cos’è un principe, ototo?”

 

Yashi strinse gli occhi. Che razzo di domanda gli faceva, adesso? Certo che sapeva cosa fosse un principe. Shin era un principe; e anche Sesshomaru-sama. E lui sarebbe diventato principe se Shin gli lasciava il Kansai. Certo che sapeva cosa fosse un principe: era il vertice del clan, il membro primo della stirpe, l’erede di una dinastia pura e antica. Il discendente diretto degli youkai che avevano abitato la terra appena l’ultima goccia d’acqua cadde dalla lancia di Izanagi. Era il perno attorno cui rotavano loro inoyoukai, il fulcro, il modello. L’essenza.

Yashi arricciò le labbra in un ringhio di insofferenza. Non aveva né la voglia né la forza di reggere uno degli estenuanti ragionamenti cervellotici e contorti di suo fratello. Gli aveva chiesto una cosa, e una sola, e voleva una risposta chiara, precisa. Concisa. E invece, Shin stava sorridendo della sua impazienza, delle sue parole snocciolate con noia, ripetendo una nenia, una cantilena insegnata fino allo sfinimento.

 

“Devi ancora crescere, ototo.

Ma sono sicuro che imparerai cosa significa essere un oujisama

 

 

*****

 

 

Era una sensazione strana; quasi malinconia.

I fianchi stretti contro il pelo lungo e soffice; il ritmo del cuore e del respiro che palpita sotto le mani, strette al garrese; e il vento. La sensazione di libertà e fresco e istinto che si mescolava nell’aria sbattutagli in faccia, assieme ad un odore pungente, quasi selvaggio. E poi…Cos’altro c’era, di diverso? C’era il suo cuore. Il ritmo innaturale e prolungato; il battito cadenzato e l’affanno; la sorpresa della bocca socchiusa nel cercare di regolarizzare il respiro, di calibrare energia e sforzo, di equilibrare l’opposizione del corpo all’aria e l’appiattirsi sul dorso del lupo.

 

Koji socchiuse gli occhi.

Era diverso. Completamente diverso. Sentiva ogni fibra del suo essere palpitare e fremere e vivere. Sì, vivere. Come se riconoscesse le sensazioni, come se riuscisse a percepire, nonostante il movimento veloce e frenetico, ogni atomo della vegetazione che scorreva in fretta, quasi macchia indistinta. Eppure. Eppure erano anni che non montava un lupo, sempre che lo avesse mai fatto, da cucciolo. Era avvezzo a cavalcare gli stambecchi e i cervi. Sul Continente, una volta, aveva tentato di domare anche un kirin, senza molto successo. Ma un lupo. Un lupo no, non aveva mai immaginato di poterlo, volerlo, cavalcare.

Eppure era stato tutto così naturale; istintivo. La mano che si allunga al naso umido e fremente; la sensazione di attesa e fremito che si era irradiata in tutto il suo corpo mentre il lupo lo annusava e lo valutava. E Koji si era scoperto in trepidazione, ansioso di conoscerne il giudizio e improvvisamente impaurito di un possibile rifiuto. Il lupo però aveva solo soffiato forte, scosso la testa grande e squadrata e si era limitato ad offrirgli il dorso, mansueto, quasi avrebbe detto onorato. Salirgli in groppa, appiattirsi sul suo dorso, scendere con una mano ad accarezzargli il collo forte e i muscoli attraversati dal desiderio di correre era stato un tutt’uno, immediato e istintivo.

 

Con i cervi e gli stambecchi è diverso. La schiena, in primo luogo. La schiena la devi tenere eretta, ma le spalle vanno rilassate; stringi le gambe e lasci che il busto assecondi il corpo della cavalcatura. La testa, infine. La testa dritta e gli occhi ben fissi in avanti. Mai guardare in basso; mai scappare dalla strada: si guarda solo avanti. E senti il fremito dei muscoli che scattano; avverti il loro contrarsi nello sforzo e il respiro si trasmette nelle briglie e nel morso. Devi imparare a essere dentro il cervo o lo stambecco, e allora saprai cavalcarlo. Saprai domarlo.

Con quel lupo era stato diverso. La schiena che si curva e la simbiosi quasi naturale, immediata. Koji si accorse di sapere cosa dire per incitarlo, che parole (ma erano davvero parole?) usare per impartigli ordini, come tranquillizzarlo e trasmettergli la sua euforia. E più il tempo passava, più la corsa proseguiva, più la sensazione di completezza e di pienezza si irradiava nel suo corpo, saliva dallo stomaco e stringeva i polmoni pieni d’ossigeno.

 

Koga sorrise, mentre stringeva i fianchi del suo lupo e lo incitava a raggiungere il compagno. Chiuse gli occhi e respirò a pieni polmoni l’aria fresca e umida della foresta di bambù. Nelle ultime settimane, restare confinato a palazzo era stato estenuante. Scalpita e desiderava più di ogni altra cosa trovare una scusa per evadere e mettersi in caccia. Non gli interessava cosa potesse essere la preda. Un cervo, un cinghiale, andava bene anche un coniglio. Ma voleva l’odore della terra nel respiro, gli artigli sentire ogni più piccolo filo d’erba piegarsi al suo passaggio, i sensi tesi allo spasimo a captare il minimo movimento e quel rivolo di sudore scendere sulla pelle accaldata e immobile in un brivido intenso di piacere. Le zanne schiudersi in un ghigno e scattare e afferrare e affondare. Il sangue riempire violento e caldo la bocca, scendere a grattare la gola e colare lungo il mento. La carne offrire debole resistenza e cedere; lo strappo netto dei fasci muscolari ripetersi ancora e ancora nel silenzio della caccia, mentre assapora la preda, la sua preda.

 

Se lo era immaginato tante volte; il degno coronamento di quella piccola fuga che, lo sapeva, prima o dopo avrebbe fatto. Adesso, invece, non gli interessava nulla di caccia, prede e adrenalina che sale nell’attesa e nell’agguato. Adesso Koga aveva solo la figura di suo fratello a riempirgli la testa: il corpo che assecondava i movimenti possenti e armoniosi della sua cavalcatura e gli ordini diventare sempre più sicuri, in un suono basso e gutturale, quasi roco, che gli riempiva il petto di orgoglio. Probabilmente non se ne accorgeva, ma Koji stava lentamente ricordando la sua lingua originaria. I ringhi sommessi si facevano via via più sicuri e fermi; gli ordini scanditi con sempre maggior autorità e fermezza. Koji stava ricordando, stava riacquistando la sua identità di ookami. Ma, Koga lo sapeva, era un processo che richiedeva ancora tempo. Molto tempo. Appena si fossero fermati, Koji avrebbe ripreso a esprimersi normalmente, senza nemmeno ricordarsi di aver usato un’altra lingua, un’altra impostazione vocale.

 

Non importava.

Per una volta, per suo fratello, Koga era disposto a imparare cosa fosse la pazienza. Era rassegnato ad ascoltarlo raccontare della sua vita sul Continente, di ricordi che non avrebbe mai voluto conoscere e di una vita diversa e lontana, molto lontana. Era disposto anche a parlare con quegli inuyoukai che lo avevano allevato e che Najiya chiamava fratelli.

Koga strinse con stizza il pelo del suo lupo, digrignando i denti in una smorfia frustrata. Si era sentito ribollire il sangue nelle vene quando aveva trovato al capezzale di Najiya Shin-san. Forse era stata solo la stanchezza a impedirgli di reagire con veemenza e lo aveva costretto solo a ringhiare un vattene disperato e perentorio. E Shin-san aveva piegato la testa, indugiato sul volto pallido di Koji e se ne era andato. Senza dirgli una parola; senza disprezzo o alterigia. E Koga aveva sentito tutta la rabbia e l’adrenalina scendere davanti a quella ritirata dignitosa e così austera.

 

Aveva immaginato di dover combattere, per riavere suo fratello. Aveva pensato alle discussioni, agli scontri non solo verbali, alle urla che, lo sapeva, ci sarebbero state. Aveva immaginato di dover far valere a forza la sua autorità, forse anche a dover ricorrere al titolo e alla posizione che gli erano proprio. Mai, nemmeno nelle sue previsioni meno accese, aveva mai pensato di ritrovarsi semplicemente seduto accanto al capezzale di suo fratello, lì dove fino a pochi istanti prima sedeva un altro demone, un altro youkai che Najiya aveva a lungo chiamato aniue.

 

Invece. Invece tutto era avvenuto in modo naturale, quasi necessario.

Homoe-san che gli si avvicina appena rientrato dalla battaglia; le veloci parole scambiate con Ayame e la certezza di lasciarla in mani sicure perché fosse medicata. Era cresciuta, la sua piccola Ayame. Koga l’aveva guardata allontanarsi, il passo un po’ claudicante e una mano a comprimere la ferita al seno; aveva visto il braccio spazzare l’aria e allontanare chiunque cercasse di offrirle appoggio e il mento alzarsi altero e irriverente, il viso accennare di lato e indugiare su di lui, con gli occhi languidi attraversati da orgoglio e stanchezza. La sua piccola Ayame.

No, non era più la piccola Ayame. Koga se ne era accorto in quell’istante: mentre i capelli scarmigliati e sporchi di terra e sangue assecondavano il movimento elegante della testa e lasciavano scoperta, per un istante, la nuca flessuosa. Lì dove l’aveva morsa; lì dove le aveva impresso il suo marchio. E Ayame non era stata più la bambina, non era stata più il cucciolo con cui scherzare, con cui giocare a rincorrersi. Ayame era diventata altro: e Koga aveva avvertito prepotente il desiderio di stringerla lì, nella piazza d’armi, davanti a tutti. Stringerla, baciarla e recidere i pochi lacci che ancora supportavano la sua corazza lacera.

L’avrebbe spogliata lì, davanti a tutti, strappando ornamenti e pelliccia bianca. E poi. Poi l’avrebbe avvolta nel suo mantello, nei colori del suo clan. E Ayame non sarebbe più stata la bambina; Ayame sarebbe stata la yasha. La sua compagna.

 

Era stato il capogiro violento e il sangue che era rifluito improvviso al cuore a impedirgli di muovere un solo passo e a costringerlo a guardarla allontanarsi verso uno dei palazzi di Sesshomaru-sama. Forse sarebbe anche stato costretto a piegare un ginocchio a terra, tanto le forze fluivano veloci dal corpo assieme al sangue e all’eccitazione che scemava. Aveva vinto, ma non era stata una battaglia facile. Dopo che Sesshomaru-sama aveva lasciato il campo di battaglia, lo scontro si era protratto ancora per ore e solo alle prime luci della sera i suoi lupi erano riusciti ad avere la meglio dell’ultimo drappello che resisteva.

Koga si lisciò le labbra e strinse gli occhi. Gli sembrava di risentire in bocca il gusto del sangue; la terra secca e la polvere invadergli la gola e rendergli fastidioso il respiro. E la ferocia e la follia montare al cervello quando, proprio all’ultimo, un kamaitachi era scivolato fulmineo oltre la cerchia di lupi e aveva aggredito Ayame. La sorpresa invadere il viso della yasha mentre scivolava a terra, i koshi-ate spezzati e il sangue che sprizzava copioso da una ferita profonda e sottile come il taglio della katana. Era stato un attimo: la distrazione e la sorpresa di un istante e il kamaitachi aveva sollevato il vento e puntato alla gola, incontrando invece il braccio che Ayame aveva alzato a riparo per istinto. Gli artigli graffiare e stridere sulla corazza, infrangerla e affondare nella carne tenera del seno, mentre i denti premevano e stringevano attorno all’osso che andava incrinandosi.

Il vento acquietarsi un istante in un silenzio innaturale, i piccoli occhi neri del kamaitachi assottigliarsi per l’improvviso silenzio e poi aprirsi nell’improvvisa consapevolezza del pericolo; il corpo scattare trascinando gli artigli nella carne viva del petto e nell’urlo di Ayame che aveva riempito le orecchie di Koga. Il kamaitachi aveva avuto forse il tempo di scorgere l’iride di Koga virare all’oro prima che gli artigli dell’ookami affondassero nella gola e tranciassero di netto la testa.

 

Aveva pagato; quel demone aveva pagato con la sua vita l’offesa e il sangue di Ayame. Koga aprì e chiuse la mano, accarezzandosi il palmo con il artigli. Era stata una sensazione strana: non era certo la prima volta che uccideva, ma dilaniare quel kamaitachi era stato assieme liberatorio e frustrante. E più strappava e avvertiva pelle e viscere impigliarsi nelle mani e poi subito sfuggire, più la testa gli urlava, continua, non smettere, non perdonare. Erano state le braccia di Ayame e la sua voce contro la schiena a risvegliarlo da quello stato catatonico, ritrovandosi inginocchiato nella terra ormai rossa di sangue e cosparsa di resti di carme e ossa. Uccidere va bene; uccidere è normale per uno youkai, ma Koga si era fissato gli artigli e si era accorto di tremare e della gola che bruciava per lo sforzo, le grida e i ringhi continui. Koga si era accorto, e la sensazione era ancora viva e pulsante nel suo corpo, cosa volesse dire avere davvero paura. E non quel timore che ti può prendere quando affronti un avversario e ti accorgi all’improvviso, per un movimento, per un accenno di sorriso, per un guizzo negli occhi, che sei con le spalle al muro e basta un errore, un minimo movimento sbagliato, e sarai morto. Non è la stessa sensazione: non ti senti braccato, bloccato in un angolo e non combatti con la testa la paura e l’agitazione che ti montano nel petto e sono pericolose perché ti portano ad agire senza pensare, di portano ad un passo dagli artigli dell’avversario. Non è la stessa sensazione, eppure il respiro se ne resta lì, annodato nella gola e il sangue rimbomba e corre e offusca i sensi e nella testa c’è solo una parola: pericolo. E sussurra e urla e ringhia e piange. E ti accorgi che devi fare qualcosa e sai esattamente cosa fare, anche se è disperato pensarlo, anche se è insensato tentarlo. Lo fai e basta, perché non ce la fai a testare fermo e pensare e valutare e quella parola, pericolo, che martella in testa fa male, è fastidiosa, e vuoi solo metterla a tacere.

 

Koga non aveva pensato, e del kamaitachi erano rimasti solo alcuni grumi pulsanti e caldi di carne; non aveva pensato, mentre aveva stretto Ayame fra le braccia, l’aveva fatta montare con sé sul suo lupo e lasciava con passo solenne il campo di battaglia. Non aveva pensato ed era rientrato a testa alta nel palazzo di Sesshomaru-sama, aveva affidato Ayame a Homoe-san e solo quando era stato certo che la yasha era ormai stata medicata e riposava nella loro tenda aveva permesso a Yaone di slacciargli la corazza e tamponare l’emorragia al fianco e ricucire il largo squarcio che gli percorreva il torace. Per l’occhio non c’era stato molto da fare e Koga si era dovuto rassegnare: non ne avrebbe perso l’uso, Yaone era stata rassicurante, ma avrebbe dovuto imparare a convivere con una vista ridotta di almeno la metà per l’occhio destro.

Scrollò le spalle e si sfiorò la benda che gli fasciava la testa e scendeva sul volto. Aveva smesso di portarla dopo nemmeno una settimana, ma Ayame lo aveva costretto a rindossarla almeno per il tempo della sua piccola fuga: l’occhio non era ancora del tutto guarito e affaticarlo e costringerlo a sopportare il vento e la polvere non gli avrebbe per nulla giovato.

 

In verità, Koga sapeva bene di essersi interessato poco o niente alla sua salute in quei mesi. Appena aveva avuto le forze per reggersi in piedi e restare cosciente, si era precipitato nelle stanze che Jacken aveva riservato ai principi del Kansai. E si era maledetto mille e mille volte per essersi dimenticato, ad un certo punto, preso dalla foga della battaglia, di suo fratello. Era rientrato a palazzo con la convinzione che si fosse ritirato insieme ai pochi demoni sopravvissuti, o che al massimo fosse stato catturato. Ma non avrebbe mai immaginato che Najiya si trovasse a palazzo, ferito e febbricitante, e che vi fosse arrivato su una barella assieme a Yashi e a Kyoko-sama.

Suo fratello. Dopo che Shin si era ritirato, Koga non aveva più lasciato il futon di Koji se non per poche ore, il minimo per sapere come si evolvessero le condizioni di Alessandra e per sincerarsi di quelle di Ayame, Inuyasha e degli altri. Aveva affidato Koji ai suoi lupi quando, dopo la fuga di Sesshomaru e la partenza di Inuyasha, i demoni della corte avevano usato violenza ad Alessandra e lui aveva solo potuto restare immobile in mezzo al corridoio, gli artigli conficcati nella carne e il labbro stretto fra i denti per tentare di dominare la voglia di saltare alla gola di quegli inuyoukai. Ma c’era la bambina: Rin con un artiglio premuto alla gola e terrore e suppliche negli occhioni dilatati.

 

L’aveva tenuta un po’ con sé, dopo quel giorno terribile. La prendeva per mano e si faceva accompagnare nella stanza di Najiya. Diceva che era per distrarla, ma in realtà Koga ammetteva a se stesso che la presenza di Rin era un espediente comodo e sicuro per non restare troppo da solo con suo fratello. Koji aveva ripreso conoscenza, e lentamente stava anche recuperando le forze. Le sue ferite si erano rivelate meno gravi del previsto e la debilitazione cui il suo corpo era stato preda andava pian piano scomparendo.

Koga strinse con forza il pelo della sua cavalcatura e la spronò lungo il pendio erboso, nella nebbia leggera e pesante che saliva dalle risaie deserte. Restare con Koji significava o parlare o restare in silenzio, ed entrambe erano soluzioni che Koga non si sentiva pronto ad affrontare. Parlare voleva dire essere disposti a mettersi in gioco, ad ascoltare parole che, lo sapeva, gli avrebbero fatto male, e il silenzio sarebbe stato un logorio forse peggiore. Con Rin, invece, era come se cercasse di riabituarsi alla voce di suo fratello. Najiya era affabile con la piccola ningen, l’ascoltava parlare e parlare e rispondeva alla sua curiosità, ma c’era sempre quello sguardo che scappava, che si rifiutava di fermarsi sull’ookami e preferiva fissare cocciuto le venature dei ramma. Non accadeva spesso che Rin si allontanasse, ma quando succedeva Koga si era accorto del crepitare dell’aria e della sensazione di attesa che riempiva la stanza. Sapeva di dover esser lui a fare il primo passo, a cercare di intavolare una discussione; sarebbe stata sufficiente anche solo una domanda neutra, così, per avviare il discorso e cercare di entrare un po’ in confidenza. Le poche volte che Najiya era stato costretto a rivolgergli la parola lo aveva sempre chiamato Koga-ouji-sama; ma quando Shin compariva discreto nella stanza per sincerarsi dei suoi miglioramenti e portargli informazioni di Yashi, Koga aveva visto il viso di suo fratello abbandonare la rigidità dell’imbarazzo e del sospetto e allargarsi in un sorriso o indugiare in una complicità intensa e familiare che lo aveva ferito. Con Shin, Najiya rideva; con Shin, Najiya ascoltava e discuteva e parlava e si fidava; con Shin, Najiya usava oniisama e quando l’inuyoukai si allontanava allungava una mano quasi a volerlo trattenere.

 

Koga strinse gli occhi e arricciò il naso. Gli dava fastidio; un maledetto fastidio. Non riusciva a sopportare quella confidenza, quell’atteggiamento di complicità e sicurezza che si veniva a creare quando era presente l’inuyoukai. Si sentiva escluso, relegato in un angolino e dimenticato. Era come se, in quei momenti, una gigantesca bolla lo avvolgesse e per quanto picchiasse, urlasse e si dimenasse la sua voce non fosse altro che un sussurro, doveva e poteva solo guardare suo fratello riprendere vigore e rimettersi e sentire sulla pelle, in bocca, nella testa, esplodere la consapevolezza che era con Shin che Najiya voleva stare; era la visita di Shin quella che aspettava, sbirciando le shoji e trasalendo al più piccolo movimento, alla più fugace ombra che si proiettasse sulla carta di riso. Non era scontroso, Koga doveva riconoscerlo. Ma c’era quel muro. Quel muro invisibile che non riusciva a scavalcare, in nessun modo. Aveva deciso di non avere fretta; sapeva che sarebbe stato da sciocchi pretendere che Najiya capisse e accettasse tutti i cambiamenti e le verità da un giorno all’altro. Avrebbe avuto pazienza, si era ripromesso; e si stava impegnando. Ma c’erano giorni in cui era stato costretto a lasciare la stanza di suo fratello per non urlare; scappare come un codardo, entrare nello studio di Sesshomaru, afferrare Inuyasha per un braccio e costringerlo a battersi. Costringere se stesso a sfogare la rabbia e la frustrazione in qualcosa che non fossero parole taglienti o strepiti. E, Koga se ne era accorto, Inuyasha sapeva e non protestava. Era diventato un rituale; o qualcosa di molto simile. Quando il non detto e le questioni in sospeso diventavano troppo pesanti e rischiavano di soffocarlo, Koga aveva preso l’abitudine di affacciarsi allo studio; Inuyasha lo vedeva, lo aspettava probabilmente, lasciava carte e scartoffie a Jacken e lo raggiungeva. Non combattevano sempre; c’erano state volte in cui semplicemente aveva camminato fianco a fianco nei giardini del palazzo, senza parlare. Koga era cosciente che non si sarebbe mai lasciato andare a plateali manifestazioni di dolore e sofferenza, ma andava bene lo stesso. C’era un tacito accordo fra loro, un modo nuovo e che cresceva piano piano di sostenersi e farsi forza a vicenda. C’erano occhiate complici e mezzi sorrisi; un pugno mimato e una battuta pungente per risollevare il morale e alleggerire la tensione. C’erano le loro litigate, le zuffe davanti ad una scodella di riso che si concludevano con i rimproveri di Kagome e Ayame e la voglia di scoppiare a ridere perché, in fondo, era un modo per dire: non siamo cambiati.

 

C’era complicità fra loro; un rapporto cresciuto col tempo e fatto maturare. Koga aveva imparato a mantenere nei confronti di Inuyasha un’avversione che era solo di facciata, quasi una corazza dietro cui trincerarsi per non esporsi e ferirsi, per conservare quel rapporto fatto di pugni e di sicurezza reciproca. Sospirò e si lasciò scivolare a terra, incrociando le braccia dietro la nuca. Il suo lupo gli si era accucciato accanto e gli offriva il fianco come appoggio, mentre Najiya accarezzava la sua cavalcatura e sembrava studiarne gli artigli e le zanne e confrontarli con i propri.

Complicità. Koga lo avrebbe voluto davvero, un rapporto di complicità con suo fratello. Recuperare la sensazione di sicurezza che ti attraversa la pelle; il sorriso che increspa le labbra nell’accorgerti che i passi che senti sono certi e conosciuti; il brivido che coglie i muscoli nella consapevolezza, in battaglia, di avere le spalle coperte. E allora, non devi più tendere i sensi al massimo, non devi più spaziare il campo di battaglia in ogni direzione ed essere pronto a scattare, perché non sai da dove potrebbe arrivare l’attacco. Allora sai semplicemente che devi guardare davanti a te, perché alle spalle hai qualcuno che ti protegge.

 

Complicità. Quando erano cuccioli, Koga ricordava il modo in cui Najiya si appoggiava a lui; c’era poca differenza d’età fra loro, ma Koga lo aveva sempre visto come un lupacchiotto spaurito. Eppure. Eppure qualcosa era successo. Qualcosa che gli aveva permesso di vedere di nuovo Najiya come un fratello, come il cucciolo che gli ruzzolava alle spalle durante le corse nei boschi, e che lo aveva spinto a proporgli quella cavalcata fuori dal palazzo. Koga raccolse un filo d’erba e iniziò a masticarlo lentamente.

Non era stata solo la sua immaginazione, ne era sicuro. Quello che era successo. Era stato istinto, certo. Qualcosa di istintivo, che ti prende lo stomaco e non ti lascia più andare. Il fremito nella pelle, i sensi tendersi e i muscoli prepararsi a scattare; l’indugio di un istante, gli occhi che fuggono indietro, oltre la spalla. Uno sguardo, forse solo un cenno, il riflesso di un movimento, e sapere che andava bene e potersi allontanare. Quasi…quasi rassicurato.

Era stato tutto così improvviso: il silenzio innaturale che aveva percepito nel dormiveglia, e poi le urla ovattate esplodergli in testa. Koga aveva riacquistato piena lucidità nello spazio di un istante e anche Najiya aveva cercato di assumere una posizione di guardia nel futon. Le shoji spalancate e gli occhi che corrono al padiglione centrale del castello, mentre la notte inizia a schiarire. E poi, quando ormai le grida sono sfumate e nella testa resta solo un’eco d’incomprensione, il fumo salire denso e nero, le fiamme lambire i tetti e frustrare l’aria con un sibilo assordante. Koga ricordava di aver percepito l’odore di Sesshomaru e Inuyasha mischiarsi a quello del fuoco e del sangue; ricordava di aver spinto indietro Najiya, di avergli ringhiato un resta qui, guai a te se ti muovi e di essersi fermato un istante a cercare una conferma: il viso di Najiya indurirsi ed un cenno affermativo.

 

Koji sospirò e si lasciò cadere accanto a Koga. Non sapeva nemmeno lui perché, mentre il palazzo centrale era avvolto dalle fiamme, mentre lo divorava il desiderio di alzarsi e mettersi a correre, aveva semplicemente annuito all’occhiata sfuggente che il Principe degli Yoro gli aveva rivolto. Un gesto di complicità che gli aveva fatto correre un brivido sulla pelle e lo aveva proiettato indietro, su un campo di battaglia sul Continente, accanto ai suoi fratelli mentre fronteggiavano un bashe. La tensione che sale, il respiro corpo e quel modo che Shin e Yashi avevano di inclinare la testa e storcere la bocca. Perché era ancora giovani e un serpente di quelle dimensioni lo potevano uccidere solo attaccandolo assieme. Koji aveva ricordato il lampo negli occhi di Shin: la katana scattare in avanti, rimbalzare sulle squame e il corpo subire il contraccolpo mentre Yashi puntava alla testa e veniva inforcato dalle corna del serpente e sbalzato indietro. E infine, la gola: coperta, molle, perfetta. Koji lasciò scorrere una mano lungo le vene del collo. Quella volta, in quella prima importante battaglia, aveva affondato i canini appuntiti senza pietà o compassione: ricordava il cuore che pulsava e pulsava e sembrava scoppiare, lo scatto dettato solo dall’istinto e dalla lucida innata consapevolezza di cosa avrebbero fatto Shin e Yashi. Era stato come se si fossero limitati a riprodurre una combinazione strategica abusata. L’attacco frontale di Shin, l’elemento di distrazione di Yashi e infine il colpo di grazia, dato da lui: Koji.

Sarebbe stato un loro cavallo di battaglia negli scontri, un loro elemento di forza: la capacità di assecondarsi in modo fluido sul campo di battaglia, di ingaggiare con naturalezza scontri singoli ma, all’occorrenza, riuscire a muoversi con la velocità e la precisione necessarie come fossero un corpo solo. Non era sempre stato lui a portare l’affondo finale, ma spesso accadeva. Shin sapeva perfettamente che suo fratello era portato per lo scatto e la corsa veloce, di natura. E aveva riconosciuto in lui da subito una propensione alla collaborazione, quasi l’abitudine istintiva di cercare e fidarsi dei compagni. Probabilmente, Koji realizzò in quel momento, Shin lo aveva sempre saputo: la sua natura di ookami non poteva essersi dissimulata in un istante e per quanto tempo Takakumi avesse impiegato per portarlo da Nihon sul Continente, doveva essere arrivato al palazzo di Morigawa con ancora evidenti i segni della sua origine.

 

Eppure. Eppure lo aveva accolto e cresciuto; lo avevano posto sullo stesso piano di Shin e Yashi; per gli youkai sotto il controllo di Morigawa, lui era il terzo principe. Più discreto di Yashi, meno portato per il comando di Shin, ma un principe, un possibile erede nel caso fosse successo qualcosa ai suoi fratelli. Koji sospirò stancamente. Se fosse successo qualcosa. Se fossero restati sul continente, se Morigawa non avesse progettato quella folle vendetta che li aveva riportati a Nihon e li aveva gettati in una guerra per una supremazia di cui Koji ancora non riusciva a cogliere appieno il peso e il significato. Se. Se. Se. Cosa sarebbe successo? Avrebbe continuato a ignorare la sua origine e sarebbe rimasto al seguito dei suoi fratelli? Oppure, prima o dopo, la sua natura di ookami si sarebbe ridestata? E, in quel caso, cosa avrebbe fatto? Sarebbe riuscito a reggere il dissidio che lo avrebbe attraversato o forse, forse…No; si sarebbe allontanato da palazzo, era ovvio. Forse non vi avrebbe più fatto ritrono e avrebbe consumato l’esistenza vagando nel Continente. È una terra così vasta e differente, con i deserti fertili di bei, gli sterminati campi di riso di nàn, il mare brulicante di dong e le vette innevate dell’xi; una terra che aveva imparato a conoscere e amare, così diversa dal piccolo Nihon, una collana di isole che salgono dal mare. Gli sembrava piccola, la sua terra d’origine, in paragone ai ricordi del continente. Piccola e finita e stupido, forse insensato, rimanerci e sperare di trovare un posto, un luogo definito.

 

Koji stiracchiò le braccia, con cautela. La spalla lussata era tornata a funzionare perfettamente e anche il gonfiore era sparito in poco tempo; nonostante le torture e gli stenti cui era stato sottoposto, doveva ammettere a se stesso di esserne uscito meno malconcio rispetto a Yashi. L’elemento più preoccupante e fastidioso era stata la febbre che non accennava a diminuire, complice anche il caldo umido e pesante di quei mesi, e che lo aveva tormentato per giorni, e le fitte di dolore che ancora gli attraversavano a sorpresa la gola ustionata, costringendolo a smettere di parlare o affievolendogli la voce fino a poco più di un sussurro. Yaone non era stata troppo rassicurante al riguardo: i tessuti muscolari si era riformati in gola già durante la prigionia, ma i continui sforzi cui le corde vocali erano state sottoposte li avevano notevolmente indeboliti. Prova ne era il fatto che, anche dopo il suo arrivo a palazzo, Koji era stato costretto più volte a vomitare sangue, tanto i tessuti interni della gola erano fragili e soggetti a rompersi alla minima sollecitazione. Con il tempo e molto riposo Yaone era fiduciosa che la youki di Koji avrebbe permesso una guarigione quasi, se non del tutto, perfetta. Per il momento, però, doveva accettare il fatto di esser costretto a limitare notevolmente la sua capacità discorsiva; e non era certo un elemento che Koji aveva accettato con sollievo. C’erano molte questioni di cui avrebbe voluto parlare, molte domande da fare e cose da raccontare. C’era da rassicurare Yashi e convincerlo a restarsene tranquillo nel futon anche se scalpitava e si dimenava all’idea di essere il solo, fra loro tre, ad essere ancora costretto ad una rigida convalescenza; c’era Kyoko, cui Koji avvertiva pressante la necessità di rivolgere domande e dubbi, possibilmente all’ombra degli aceri, nella calma dei giardini o delle sue stanze, intrecciando le mani in grembo e lasciandosi distrarre dalle ombre della sera che ne avrebbero definito il profilo sottile e austero.

 

Kyoko. Sua madre. La yasha che per tanti anni gli aveva fatto da madre.

Ecco. Quella era un’altra questione da affrontare. Un pungolo continuo nella mente, e che aveva l’aspetto fastidioso dell’ookami che, quella mattina, aveva aperto la fusuma della sua stanza senza cerimonie, lo aveva afferrato per un braccio sbraitando qualcosa che non era riuscito a capire verso Shin e lo aveva fatto montare a viva forza su un lupo, costringendolo a quella folle corsa fra boscaglia, bambù e pianura. All’inizio, Koji doveva ammettere a se stesso il sottile panico che lo aveva attraversato nel non riuscire a domare la cavalcatura; le mani che si stringevano spasmodicamente al pelo e il tentativo di appiattirsi contro il corpo dell’animale per offrire meno presa al vento e quindi alla possibilità di essere sbalzato di sella. Con il trascorrere dei minuti, però, si era accorto di sapere cosa dire e come fare; aveva percepito le sue mani muoversi con sempre maggiore sicurezza sulla pelliccia folta e la sensazione di sapere cosa fare e quando ancor prima che il cervello elaborasse l’ordine.

E Koga al suo fianco. L’ookami aveva cavalcato accanto a lui per tutti il tempo; finchè non aveva avuto la certezza che non corresse pericoli e riuscisse a mantenersi saldo, se non proprio a controllare completamente il lupo. Solo allora Koga aveva inclinato appena la testa con un mezzo sorriso e lo aveva superato, quasi invitandolo a seguirlo e imitarlo.

 

Si era lasciato andare. Avvolto dal tepore del corpo del lupo, dall’odore ferino e istintivo della sua cavalcatura e dall’aria piena di terra ed erba, Koji aveva spronato il lupo, e si era ritrovato a sorridere entusiasta e…Sì; avrebbe potuto dire felice. Appagato.

Ma il problema rimaneva. E Koji sapeva che quell’uscita non era stata dettata al principe degli Yoro solo dal desiderio di respirare un’aria diversa da quella del palazzo; un’aria che non sapeva di viziato e malumore. Se fosse stato solo per quello, Koga avrebbe potuto scegliere chiunque altro come compagno; Ayame-san o Inuyasha-sama. Avrebbe anche potuto preferire la solitudine alla compagnia; di certo, non avrebbe scelto lui solo per il piacere di trascinarselo dietro e vederlo montare un lupo. C’erano una sottile tensione e agitazione nell’aria, molto diverse dal brivido di piacere che scorre sulla pelle e scende giù, lungo la spina dorsale, al momento di uno scontro. C’era qualcos’altro, un sentimento di insicurezza misto a imbarazzo che entrambi avevano solo ritegno a definire come paura. Quella paura che ti coglie quando sai di doverti confrontare, ma sei altrettanto cosciente del fatto che zanne e artigli e abitudine al combattimento in quel frangente non ti saranno d’aiuto. Puoi solo aspettare, o deciderti ad aprire quella bocca diventata improvvisamente troppo secca e pesante e ricordarti che l’aria può diventare voce, deve diventare voce, e che le domande e i perché hai diritto di porli e di sapere. Basta anche iniziare con una battuta; forse un insulto blando, per alleggerire un po’ la tensione. Basta poco, in fondo; l’importante è evitare di guardarsi. Ecco: concentrarsi su quelle nuvole oppure sul solletico che scorre sul braccio al soffio del vento.

Non ci vuole niente, nero? È facile; è maledettamente facile.

 

“Ricordi il tuo nome?”

 

“Najiya”

 

Strascicato, quasi doloroso, sentire quel suono sfuggire dalle labbra e rimbalzare nel silenzio del paesaggio. Un nome. Un nome così diverso; estraneo. Fa male, pronunciare quel nome; fa molto male. Perché Koji lo sente lontano, lo sente nemico e forte, nel petto, il cuore batte e supplica di non togliergli anche quello, di continuare ad essere chiamato solo Koji. Come lo ha chiamato Kyoko-sama; come lo chiamano Shin e Yashi.

Koji; solo Koji.

E assieme non può ignorare: la fitta inconscia alla testa e la consapevolezza del qualcosa, di quel passato, che scivola assieme a quel nome. Ricordi confusi che col tempo riesce a riallineare; prima e dopo, giusto e sbagliato. Koji socchiuse gli occhi. Quanto ricordava esattamente del suo passato prima di arrivare sul Continente? Doveva avere circa…In anni umani sarebbero stati quattro, al massimo cinque anni.

Ricordare. Un cucciolo che caracolla incerto, rincorre un bambino di poco più grande; le mani strette al pelo di cuccioli di lupo, le risate e le cadute. Mani che lo stringono e risate infantili. Il calore di una schiena con il vento fresco sul viso e una voce adulta con una punta di ironia.

Sospirò. Strano. Ricordava qualcosa di Koga e riusciva, seppur a fatica, a intravvedere il viso di suo padre nelle pieghe luminose della sua testa. Ma. Ma sua madre? C’era solo Kyoko-sama nella sua mente, un accostamento divenuto abitudine. Ma la sua vera madre? Non riusciva a ricordare nulla; il calore del suo seno o la sua voce. Assolutamente nulla.

Strinse le ginocchia al petto. Koga continuava a suonare il filo d’erba, gustandosi il tempo che si dilatava nelle ore del primo pomeriggio, pesanti sotto quel cielo troppo azzurro. Azzurro. Come gli occhi di Hidoshi; come gli occhi di Koga; come i suoi occhi. Koji mordicchiò il labbro; sua madre aveva occhi azzurri? Non ricordava. E – e fu un pensiero improvviso- soprattutto era ancora viva? Sapeva che suo padre era morto; quando Naraku aveva riferito a Morigawa la notizia che anche un principe degli ookami combatteva al fianco di Sesshomaru-sama, sua padre non aveva avuto difficoltà dalla descrizione a riconoscere in Koga il figlio di Hidoshi. E Koji ricordava ancora nitido il giorno in cui, ancora cucciolo, era arrivata al palazzo la notizia della morte di Hidoshi-ookami-ooujisama. Ricordava il viso di Morigawa cementarsi in un’espressione furiosa per poi rilassarsi improvviso e abbandonarsi ad una risata che, Koji lo aveva sentito per istinto, era pericolosa e cattiva. Una risata che gravava nelle volte e si rifletteva negli occhi entusiasti e folli d suo padre.

Hidoshi era morto; e Koji aveva appreso la notizia per un capriccio della sorte, con la leggerezza con cui avrebbe reagito se gli avessero parlato di una guerra sui confini occidentali. Hidoshi era solo un nome, alle sue orecchie di cucciolo. Un nome rubato per caso e lasciato passare nella mente senza danno. Anche se. Anche se, a ripensarci, l’occhiata che Morigawa gli aveva ricolto dopo, con le zanne scoperte in un’espressione assieme terribile e grottesca, forse avrebbero potuto metterlo in guardia. Perché, in quello sguardo, c’era un guizzo di soddisfazione e trionfo. Perché forse Morigawa aveva sempre saputo che lui era un figlio di Hidoshi; e crescerlo e accudirlo doveva essere solo un modo per prendere una vendetta anche sul clan degli Yoro.

Forse. Forse. Forse. Morigawa non avrebbe più potuto rispondere, e Koji non voleva porre certe domande alla yasha che lo aveva cresciuto. Il passato è passato, si ripeteva. Inutile cercare; inutile sperare; inutile farsi del male. Quello che Morigawa poteva sapere, se non intuire, quello che forse sperava e progettava era meglio lasciarlo sepolto, dimenticarlo. Non sarebbe servito, Koji ne era cosciente. Poteva portare solo maggior confusione e lacerazione.

 

Lacerazione.

Non era bella, quella sensazione che gli stringeva lo stomaco da quando si era svegliato. E Koga era accanto a lui. Koga era quasi sempre con lui. E se all’inizio la gola lesa era stato un ottimo espediente per mantenere il silenzio, col tempo era diventata una costrizione snervante. Col tempo, avrebbe preferito qualsiasi parola al mutismo che li caratterizzava quando erano soli in stanza. Quella sospensione carica di attese e aspettative che veniva semplicemente abbandonata a metà strada fra di loro, dove nessuno voleva arrivare e dove entrambi speravano che l’altro lo avrebbe trascinato.

Koji accarezzo il muso del suo lupo e si concesse un respiro profondo. Koga aveva fatto il primo passo. Incerto e vacillante; ma era pur sempre un primo passo. Lo aveva trascinato fuori dal palazzo e aveva provato a intavolare un qualche dialogo. Sembrava imbarazzato e teso quanto lui, Koji ne era consapevole. Ma ci aveva provato lo stesso; e adesso toccava a lui fare un gesto, una mossa, anche solo un cenno che superasse quel nome strascicato, masticato e quasi sputato a fatica che si era lasciato sfuggire.

 

“Come devo chiamarti?”

 

Koga sentì quella domanda bruciare sulla lingua, ma ignorò il senso di nausea e soffocamento che gli avevano dato. Se voleva parlare a suo fratello, doveva trovare il modo di farlo. Se voleva stare con suo fratello, doveva poterlo fare. E se riaverlo indietro, riuscire ad avvicinarsi, significava dover sacrificare un nome, il nome che loro padre aveva scelto, Koga non riteneva che fosse una perdita troppo pesante da sopportare. Un nome si può perdere e riprendere. Un legame no. Un legame lo si deve ricostruire, e se fai un passo falso, se sbagli una mossa, puoi anche rovinare tutto.

 

“Non lo so. Ancora non lo so”

 

Koji strinse forte le braccia. Scegliere? Doveva davvero scegliere? Non poteva restare semplicemente Koji e Najiya insieme? In definitiva, quello che era diventato aveva davvero bisogno di un nome? Era sempre lo stesso, sia come Koji sia come Najiya. Non cambiava nulla, no? Poteva chiamarlo come voleva. Era solo un nome; uno stupido nome dato per convenzione. Lui restava lui. Najiya era l’ookami; Koji era l’ookami cresciuto come inuyoukai. E lo youkai che era diventato, che aveva pienamente scoperto di essere, non poteva restringersi ad uno solo dei suoi aspetti. Restare solo ookami significava tradire e perdere tutti gli anni trascorsi sul Continente; i ricordi dell’infanzia e la crescita difficile e insieme spensierata con Yashi, sotto lo sguardo di Shin. Dall’altra parte, Koji era consapevole che non poteva più essere un principe del Kansai. Shin non avrebbe obiettato; Yashi non avrebbe smesso di arrabbiarsi con lui. Ma Koji sentiva che sarebbe stato lui per primo a non riuscire più a trovare un equilibrio in quell’universo. Perché sarebbe bastato un odore diverso, un atteggiamento scivolato quasi con noncuranza, lo scatto durante una caccia o il naso che, fino, reagisce più veloce di quello dei fratelli per ricordargli che anche vivendo con loro, anche vestendosi e comportandosi come loro, per quanto si potesse inchinare e chiamarli niisama, la sua stirpe d’origine era diversa. Lui era diverso. E nulla lo avrebbe cambiato.

 

“Hidoshi-sama”

 

“Otosama”

 

Koji ingoiò a vuoto e, istintivamente, annuì. Otosama. Hidoshi otosama. Sì, suonava bene; poteva accettarlo, in fondo. Non faceva così male, non faceva affatto male. Morigawa era stato un buon padre all’inizio. Quando era ancora un cucciolo che correva per il palazzo, Morigawa aveva sempre avuto con lui lo stesso atteggiamento che con Shin e Yashi. Non voleva, non poteva, immaginare che tutto, fin dall’inizio, fosse stata solo una messa in scena per avvicinarlo a sé e poterlo usare in seguito. Manipolato, raggirato e poi ridotto a merce di scambio, ad asso nella manica. No; non era possibile. Non era vero: le mani che lo avevano sollevato quando era caduto; gli insegnamenti impartiti con serietà e leggerezza, tenendolo sulle ginocchia mentre Shin ridacchia e Yashi strepita perché non è giusto, proprio no, che sia sempre Koji a finire sulle ginocchia di otosama.

Koji morse il polso, con forza. Faceva male. Faceva maledettamente male. E i ricordi cozzavano e andavano in frantumi. Eppure. Eppure lo ricordava troppo bene: il sorriso ferino di Morigawa che si piegava su di lui, nella sua tenda; la mano che gli afferra i capelli e strattona indietro la testa. Koji si era sentito impotente e perduto, in confronto alla potenza che sentiva aleggiare attorno a Morigawa. E aveva aspettato di sentire solo le zanne conficcarsi nella giugulare, il respiro diventare rantolo e il corpo un formicolio lontano. Perché Morigawa lo voleva uccidere; perché Morigawa lo avrebbe ucciso. E loro erano stati degli stupidi a precipitarsi nella sua tenda senza pensare, senza farsi seguire da alcuni soldati, senza valutare le conseguenze. Ma era Shin lo stratega, fra di loro; loro sono quelli che agiscono e basta. Tanto c’è Shin a coprire loro le spalle; c’è Shin, e gli sbagli e le azioni troppo avventate lui le sa correggere e anche una fase di crisi la rovescia in un attimo in vittoria.

Ma Shin quella volta non era alle loro spalle, non avrebbe protetto la loro fuga. Quella volta, la tenda si era chiusa e, Koji lo ricordava, lui e Yashi avevano solo pensato a sottrarre Kyoko-sama a Morigawa. Quando avevano sentito le urla e le youki non avevano più pensato; si erano solo slanciati fuori dalla loro tenda e avevano fatto irruzione in quella del padre. Kyoko era lì a terra, scarmigliata e con le vesti strappate e ringhiava e graffiava e, anche se stordita, cercava di allontanare in tutti i modi l’inuyoukai che la picchiava e picchiava e ruggiva e premeva e strappava e pretendeva.

 

Koji ricordava il respiro che si ferma, la vista traballare e per un istante, un solo maledetto istante, tutto farsi grigio e poi nero e poi rosso. Ricorda la youki invadere il suo corpo con violenza selvaggia, i muscoli tendersi in tensione e le gambe scivolare indietro nello slancio, mentre le zanne di allungano e per istinto cercano di colpire un punto scoperto. In quel momento, mentre il corpo di Kyoko sussultava alle percosse di Morigawa, Koji era scattato e, in una frazione di secondo, aveva avuto la consapevolezza di muoversi non come gli era stato insegnato, non come per anni si era mosso, ma come un ookami. E l’istinto lo guidava: avanzava, cercando di colpire, di ferire, e subito scartava di lato, lontano dal pericolo, cambiandolo angolazione e non fermandosi mai, non lasciando a Morigawa il tempo per anticipare le sue mosse. Era istinto. Puro e semplice istinto, fuso con la sua proverbiale velocità. Scartava, graffiava, azzannava, scartava di nuovo. Sembrava combattere alla cieca, ma attacco dopo attacco era riuscito a costringere Morigawa ad arretrare e lasciare la presa sul corpo di Kyoko, di poco, ma sufficiente a permettere a Yashi di allontanare la madre.

Perché, in fondo, quello che premeva loro più di ogni altra cosa non era la vittoria, il trono o lo scontro; in quel momento, l’unica cosa che aveva importanza era l’incolumità di loro madre. Ripensandoci a mentre fredda, Koji sapeva perfettamente che quel suo modo di attaccare, quel serrare l’avversario e impedirgli di reagire prontamente era qualcosa che aveva solo sentito di dover fare, che era giusto fare, e che era la strategia migliore da applicare per permettere a Yashi di agire. Finchè c’era stato istinto, era andato tutto bene. Ma quando, con la coda dell’occhio, aveva visto Kyoko al sicuro, la distrazione e la tensione che si allentava erano stati fatali. Si era ritrovato gli artigli di Morigawa nella spalla e la pressione di tutto il peso del demone schiacciarlo a terra. Non ricordava esattamente cosa fosse successo: Yashi doveva essere intervenuto. E poi. Poi anche lui doveva aver reagito, in qualche modo. Non ricordava bene; troppo veloce; troppo istintivo.

Ma alla fine il risultato erano stati sua madre e suo fratello catturati dai demoni di Naraku che, Koji non ricordava quando, era apparso nella tenda, e il suo volto di fronte a quello del padre. E quelle parole, prima di sentirsi scaraventare lontano e perdere conoscenza. Quelle parole che gli erano bruciate dentro come fuoco; perché Morigawa sapeva chi fosse, sapeva di chi era figlio e, glielo aveva detto: lo aveva allevato solo per vederlo combattere contro suo padre e la sua stessa razza. Per diletto. Per vendetta. E quella consapevolezza, quella verità sbattuta in faccia con quel sorriso pieno e tronfio gli aveva fatto ribollire il sangue e pregare i Kami di avere ancora la forza per un ultimo attacco. Non gli era interessato cosa potesse accadergli dopo; l’unica cosa che gli premeva era colpire. Colpire e ancora colpire. Non era sciocco, ed era perfettamente cosciente della disparità di forze; eppure, nella sua testa, l’unica cosa che si ripeteva, ossessiva, era: tradito.

 

Koji sospirò e la mano si concesse di indugiare sugli occhi chiusi. Sì, poteva iniziare da lì; poteva chiedere di Hidoshi-sama, di suo padre, a Koga-san. Un passo alla volta, prendendo il discorso da lontano, distinguendo le sensazioni e iniziando ad aggiungere elementi. Un passo alla volta, risistemare le cose: il nome di suo padre, il viso di sua madre, il rapporto con suo fratello. Un passo alla volta, riesumare il passato e cercare di trovare un equilibrio con il presente. Perché rinnegare Morigawa era possibile; rinnegare un padre fasullo che ti ha allevato per divertimento è facile. Fa male, ma ce la puoi fare. Ma il resto. Tutto il resto. Tutte le certezze, i ricordi, le sicurezze. Koji non era affatto sicuro di volerli perdere o cambiare o modificare. In fondo, lo sapeva, non poteva fare altro, in quel momento, che ascoltare. Ascoltare la voce di Koga che gli raccontava della loro infanzia, che indugiava nei particolari. La luce che si infrangeva sulla roccia quando, da cuccioli, nella caverna, si svegliavano; la linea sinuosa delle labbra della madre; il portamento eretto e l’atteggiamento scanzonato di Hidoshi. L’aria che ti entra nei polmoni durante una corsa e la sensazione di dominarla, quella terra antica, mentre gli artigli si rinforzano nel tempo e impari a riconoscere dal fruscio dell’erba la preda.

 

“Assomigli a okasama, ototo”

 

La mano si era fermata sullo zigomo; Koga non sapeva esattamente cosa fare. Non sapeva nemmeno perché si fosse avvicinato a quel modo. Parlare era possibile; parlare era necessario. Instaurare un dialogo, un rapporto verbale di qualche natura. Parlare. Ma un contatto fisico. Come avrebbe reagito Najiya ad un contatto fisico? In quelle settimane, nonostante il tempo trascorso insieme, non si era mai azzardato a sfiorarlo nemmeno per sbaglio, nemmeno con una scusa. Perché…Perché. Perché aveva paura; una maledetta paura. Che reagisse male; che scappasse; che andasse in pezzi. Sì, anche che suo fratello potesse sentirsi minacciato e non reggesse alla pressione, fosse anche solo uno sfiorarsi lieve o la pressione della mano. Come in quel momento.

Eppure. Eppure non ce l’aveva fatta, a fermarla, quella mano; era risalita al viso e aveva disegnato nell’aria il profilo che sfuggiva verso il mento, il naso dritto e il contorno alto delle sopracciglia. Si era accorto di sfiorare realmente la pelle quasi per scherzo. Nella sensazione di pizzicorio e calore che aveva avvertito sotto i polpastrelli; assieme al fremito nel realizzare cosa esattamente stesse facendo; fin dove esattamente si fosse spinto.

Era stato precipitoso, va bene. Ma adesso cosa doveva fare? Restarsene lì fermo o ritirare la mano? E Najiya? Come avrebbe interpretato il suo gesto? Rifiuto, invadenza, costrizione, nostalgia…Ce ne erano troppe, di possibilità. Maledizione a lui e al suo modo di fare! Rischiava di rovinare tutto. Tutto.

 

Forse, se si fosse mosso piano, lasciando scivolare lentamente le dita; ecco, adesso abbassi gli occhi. Anzi, no; gli fai fuggire. Perché te ne vergogni, vero, di quello che hai fatto? È stupido e insensato, ma te ne vergogni. O almeno lo fingi; fingi che ti dispiaccia, che sei rammaricato. Fingilo solo, perché in realtà è stato bello, non è vero? È stato bello risentire quella pelle e dentro, nel petto, la voglia di afferrare e stringere e premere in un abbraccio montare e doversi sforzare per ricacciarla indietro e non cedere anche a quello. Anche se lo vorresti.

Va bene; fai scivolare la mani, abbassa lo sguardo. La bocca, ora. Devi aprirla, lo sai vero? Devi aprirla e dire: scusa. Va bene anche se la voce non esce. Va bene anche se non lo sente davvero. Basta il movimento delle labbra. Basta che glielo dici, che glielo fai capire. È facile Koga. È davvero facile. Devi solo provarci. Perché Najiya non si muove; e i suoi occhi sono spaventati. Perché Najiya non si muove; e tu non riesci a capire se hai davvero sbagliato tutto o se è lui che non vuole accettarlo. Ti sei ripromesso pazienza, Koga. Non venir meno all’inizio; non subito. Imparerai anche tu: i tempi di tuo fratello, i gesti che lo calmano, la rabbia che sale, la voce che cambia. Imparerai. Con il tempo.

 

“Koga-san.

Com’era okasama?”

 

 

*****

 

 

È stato interessante.

Non ha ottenuto tutti i risultati sperati, ma non può dirsi deluso. Proprio no. È riuscito ad acquisire nuove informazioni, e nonostante il tempo in cui ha dovuto assecondare le follie di quello youkai, ridendo della sua egocentrica forza, è riuscito comunque a sfruttare la situazione, rigirandola con maestria. Lo ha usato, in definitiva. E gli è piaciuto; molto. Una piccola vendetta, un assaggio di quello che, presto, potrà ottenere. Quella sensazione piena e appagante di completezza, di dominio, di potenza. È stato anche frustrante, in certi momenti. Avere quel potere lì, davanti agli occhi; vederselo sbattere in faccia di continuo e sentire, forte, premere il desiderio di allungare la mano e prenderlo. Così; con leggerezza. Con noncuranza. Perché sarebbe stato facile, stringere la corda attorno al collo. Perché sarebbe bastato un attimo, per rovesciare la partita e fare il predatore preda. Sarebbe stato facile. E non avrebbe funzionato. Per inconscia consapevolezza, non avrebbe funzionato. Perché non è facile vincere uno youkai; neanche uno youkai ormai smarrito e perduto com’era Morigawa.

 

Il labbro si sollevò malizioso, in un mezzo sorriso. Era divertito. Forse quasi sorpreso. Di come avesse avuto sotto il suo diretto controllo un esercito di taiyoukai e li avesse poi, semplicemente, fatti scivolare dalle mani. Era un esercito potente, migliore di qualsiasi altro che fosse riuscito a organizzare. Ben addestrato, assoggettato; abituato a eseguire gli ordini con negli occhi un fremito di indipendenza e servilismo. Era diverso dal suo esercito; i demoni che da sempre usava negli scontri erano pedine di poco contro, pezzi sacrificabili e che poteva sostituire con irrisoria facilità. Carne da mandare al macello; non allo sbando, certo. Anche farli uccidere doveva sempre avere uno scopo. Per quanto una pedina possa essere insignificante, meglio che si distrugga per un qualche motivo. Per un suo vantaggio.

 

Naraku rigirò la Sfera. Era quasi completa; pochi frammenti ancora, e finalmente. Finalmente avrebbe ottenuto quella completezza, quella conoscenza, quella forza che era stato costretto a riverire per mesi sotto Morigawa. Mai più si era ripromesso anni prima. Mai più si sarebbe piegato; avrebbe permesso a qualcuno, uomo o demone, di fargli chinare la testa. Mai più. Dalla sua nascita. Da quando il fuoco aveva mangiato brandello dopo brandello la sua carne umana e corrotta; da quando, immobile, non faceva altro che aspettare nella caverna umida e buia, mentre il corpo marciva e le bende e le piaghe erano fetore e ogni nervo si ribellava e la voce restata chiusa in gola, nonostante le urla rimbombassero forte, troppo forte, nella sua mente; nella caverna era morto. Ed era nato. Rinato. E aveva detto: mai più.

Perché sono i ningen che devono piegare la testa; sono i ningen ad essere sciocchi e a non capire. Sono i ningen che desiderano, e non conoscono nemmeno l’essenza del loro desiderio. I ningen non conoscono e, riflettendoci, Naraku li considerava come youkai. Perché, in fondo, entrambi sono mossi da istinti: bassi, volgari, immediati i ningen; perfetti, eterei, assoluti gli youkai. Ma è sempre e solo istinto: quella sensazione che ti scorre dentro al fremito di una foglia; il calore che ti invade nell’ira; la brama di una donna solo per continuare, per mantenere la propria vita; il desiderio di conoscere e comprendere. Sì; ningen e youkai sono uguali. Creature che anelano.

 

Naraku scostò l’eri dello yukata. Lo squarcio si stava ricomponendo, anche se ci sarebbe voluto ancora del tempo prima di recuperare completamente le forze. Ma andava bene anche così. Aveva tempo. Aveva bisogno di tempo: per riflettere. Doveva pianificare bene le sue prossime mosse; doveva individuare il nascondiglio di quello youkai di cui aveva sentito parlare da Morigawa. E poi. Poi doveva in un certo senso rielaborare tutte le nuove informazioni che aveva acquisito in quei mesi.

Perché, in definitiva, non poteva ritener sprecati quei dodici cicli lunari che aveva dedicato a Morigawa. I fucili erano andati perduti, e anche quel particolare filtro che Yaone gli aveva mostrato era ormai considerato un progetto da scartare. Doveva essergli rimasta ancora qualche fiala della mistura modificata che aveva causato la cecità a Sesshomaru, ma era comunque troppo poco per essere di reale aiuto e lui non aveva le capacità di riprodurlo. Strinse la mano e risistemò il kimono. Non era piacevole dover ammettere le proprie debolezze, le proprie mancanze, ma Naraku non era sciocco e sapeva bene che, se voleva battere i demoni, se voleva diventare uno youkai, anzi, più potente di uno youkai, una cosa che doveva imparare era riconoscere i propri limiti. Solo se fosse stato perfettamente conscio di se stesso, senza elogio e senza svilimento, avrebbe sempre potuto avere sotto controllo ogni situazione; capire fin dove spingersi, quanto osare e percepire l’istante più propizio in cui ritirarsi, in cui cedere e andarsene, senza infamia, con la consapevolezza di esser comunque riuscito a infliggere delle ferite e di aver guadagnato qualcosa: un frammento in più; una soddisfazione in più; il cogliere il sottile divario che ancora lo separa dalla piena coscienza di uno youkai e sapere perfettamente quale sarà la prossima mossa.

 

Se avesse potuto. Se fosse riuscito.

Ci anelava. Anelava quella perfezione, quella compiutezza da quando aveva riaperto gli occhi e la grotta era fuoco e l’aria era sulla pelle, fresca, con odore di cenere; da quando si era accorto che le mani erano di nuovo sue, che ogni fibra del suo corpo era stata rigenerata ed era diventata nuova, qualcosa d’altro, qualcosa di sconosciuto e appagante. All’inizio. All’inizio la parte umana, Onigumo, era ancora forte. E sentiva e percepiva e avvertiva. I sensi per prima cosa: il mondo come attraverso l’acqua, o nelle sfaccettature del quarzo. Percepiva. Sì; si era accorto di percepire in modo diverso. E c’erano suoni o forse erano voci. La prima volta, non aveva capito. La prima volta, era stato dolore e sgomento e confusione. Rumori. Tanti; troppi. Si riversavano caotici nella testa, nella bocca, nel petto. Entravano nel corpo e risuonavano, rimbombavano. Erano echi, sussurri, grida, pianti. E non serviva tapparsi le orecchie, gridare, pensare. Non serviva nulla. Quelle voci continuavano, rimbombavano, ossessionavano. Erano diventate un’ossessione, esplosa all’improvviso, dopo esser rinato. Non subito, no. C’era voluto del tempo. Forse erano solo minuti, forse erano stati giorni interi. Naraku non lo ricordava e non gli interessava ricordarlo. Gli bastava la sensazione di soffocamento, di costrizione che ne era derivata. C’era voluto tempo. Tempo per capire; tempo per imparare a filtrare e discernere i suoni. Tempo per riconoscere i suoni e scoprire che il fulmine è l’urlo del cielo, il vento il pianto degli alberi, i frutti il sorriso della terra. C’era voluto tempo, ma aveva imparato. E i suoni non erano più stati solo suoni. Erano diventati voci, parole, frasi ben articolate. Erano diventati altro, e non più un rumore continuo di sottofondo che lo aveva quasi fatto impazzire, che lo aveva costretto a piegarsi a terra, le mani strette alla testa e la bocca aperta e asciutta, senza forza per urlare ancora, senza voce per provarci. C’era voluto tempo, per abituarsi al nuovo corpo, per percepire di nuovo le distante e dare volume a quello che vedeva. Prima macchie indistinte e imprecise; poi figure deformate. Poi era stato il contorno, nitido e percorso da una specie di fluorescenza. Imparare le diverse tonalità; riconoscere il pericolo prima di vederlo; riuscire a prevedere mosse e azioni solamente facendo affidamento sulla propria intelligenza. Con la sicurezza, perfetta, di non sbagliare.

 

Ecco. Naraku non sopporta l’errore. Naraku non sopporta di non riuscire a prevedere. Non riuscire a prevedere l’atteggiamento degli youkai. Alcuni sono elementari; così immediati da plasmare e attirare che anche un cucciolo di ningen al confronto è più istintivo davanti al pericolo. Sono deludenti, ma sono utili. Per distrarre, per attirare l’attenzione, per difendere. Per ricreare il suo copro. Naraku respirò a fondo l’aria pesante della notte: Satsuki era finito da molto. Non sapeva esattamente quanto tempo fosse passato dalla battaglia con Sesshomaru e dalla morte di Morigawa. E dalla sua fuga. Ma la stagione delle piogge era passata; era venuto il caldo e l’odore pesante del riso a mollo nelle risaie. E anche l’aria ormai stava diventando più fresca. Strinse la ceramica e il guinomi gli si frantumò fra le dita, mentre il sakè gocciolava sul tatami. Era fuggito. Non era stata una ritirata strategica; non era stato un volger le spalle calcolato e ponderato, con la sicurezza di aver ottenuto qualcosa e la consapevolezza di lasciarsi dietro rabbia e frustrazione negli avversari.

Quella volta, Naraku dovette ammettere a se stesso di aver riavvertito un brivido corre nel corpo, come quando era ancora un ningen. La sottile avvisaglia di un pericolo, di una consapevolezza evidente e che non accetti subito, cui non ti rassegni nell’immediato. Nonostante il suo cuore fosse al sicuro; nonostante fosse perfettamente conscio che, per quanto venisse dilaniato, smembrato, fatto a pezzi, sarebbe stato necessario solo tempo per ricostruire il corpo.

Eppure. Eppure la testa aveva iniziato a ronzare e, dentro, ogni fibra urlava e premeva e diceva solo: scappa. Perché se ti affronta, muori. Perché lui non è come gli altri demoni, lui è diverso. Lui è qualcosa che non hai mai visto: osservalo, ma a distanza; studialo, ma al sicuro. Non hai mai incontrato qualcosa di simile. Non hai mai immaginato che esistesse qualcosa di simile. Sesshomaru. Sesshomaru era il modello: il demone da eguagliare, da osservare, studiare, e superare, mettere in scacco e dimostrargli, affondargli nella carne, la superiorità, la tua essenza completa.

Il brivido però lo aveva avvertito; ancora e ancora. Crescere fino a diventare fremito irragionevole nelle membra, fino ad accorgersi con stupore del tremore delle proprie mani e del sudore freddo e della bocca socchiusa e asciutta. Come quando aveva incontrato Sesshomaru per la prima volta. Il fremito da reprimere sotto la pelliccia, nel disagio di quegli occhi che guardano. E sapere e percepire cosa esattamente vedono, assieme alla consapevolezza di non poter ingannare uno youkai. Di non poter mentire. E allora. Allora la strategia deve cambiare. Perché raggirare un ningen è facile; ingannare uno youkai è impossibile. Allora. Allora Naraku aveva imparato: come uno schermo nei suoi pensieri. Aggirare le intenzioni incasellando azione dopo azione; imparare la velocità del ragionamento, l’abilità nel formulare e nello scartare ogni possibilità, ogni mossa, senza concedersi un’esitazione, un tentennamento. Non sotto gli occhi di uno youkai; non sotto gli occhi di Sesshomaru.

 

Quella volta.

Quella volta, invece. Se li era sentiti addosso, degli occhi. Diversi da quelli di Sesshomaru; e altrettanto pericoloso. Ma non era la stessa sensazione; non era il disagio creato dal pensiero di essere spiato, scrutato, studiato. Era come una mano. Un mano con artigli che prima volteggiava, sadica, divertita. E poi, all’improvviso, Naraku l’aveva sentita affondare nelle carni, quella mano. E scavare e scavare e sentire il sangue gorgogliare dentro il corpo e il calore andarsene dalle mani e dalle gambe. Un formicolio fastidioso serpeggiare nel corpo, e intanto quella mano scavava e scavava. O forse non era una mano; ecco: un serpente. La sentiva: la testa che spinge e spinge per farsi spazio fra i fasci muscolari e i vasi sanguigni. Ecco: adesso era nei polmoni; dentro i polmoni. E saliva ancora. In gola. No. Nel collo; da qualche parte, nel collo. Dentro il collo. Mirare alla testa. Cercare qualcosa nella testa. E il sibilo della lingua era una risata. E nelle viscere un gorgoglio fondo e il sangue uscire. Uscire anche se, lo sapeva, non aveva ferite, non aveva nulla e la pelle, sotto la corazza lucida, era intatta. E non era a terra; non si stava dimenando in preda agli spasmi e al dolore; non si stava liquefacendo. Lo sapeva. Si vedeva: era ancora in piedi, ne era certo. E guardava nella pianura.

 

Il puntino bianco alla sua destra, accerchiato. Sesshomaru probabilmente. Gli ululati e il nero di una pelliccia saettare fra il lucore delle armi. Koga degli Yoro mieteva; ovunque passava, si lasciava dietro brandelli di carne e un terreno scivoloso per il sangue. E poi. Poi c’erano loro: quei due immensi cani che si azzuffavano ad una distanza irrisoria; li poteva vedere bene.

Morigawa grondava sangue da un occhio, il muso solcato da una profonda artigliata schiumava per il veleno; sembrava come esitare e non semplicemente riequilibrare il fiato prima di un nuovo assalto. Era successo… Sì; Morigawa, se non si sbagliava, stava per conficcare le zanne nel corpo di Sesshomaru, inerme sotto i suoi artigli. Le fauci che si schiudono, la lingua che accarezza la bocca e la soddisfazione e il trionfo negli occhi. Naraku aveva assunto inconsciamente una posizione di attacco, mentre la mano lentamente si trasformava in artiglio e la bocca si socchiudeva quasi pregustasse il piacere di affondare nella carne tenera, fredda e altera di quello youkai. Aveva inghiottito a vuoto, la testa si era appena alzata tendendo al limite i muscoli, pronta a scendere in sincronia perfetta.

Morigawa era scattato. E il corpo che rotolava lontano; il guaito roco e frustrato assieme ad un rumore quasi elettrico, come quello del fulmine che si schianta a terra; o come una pioggia di sassolini rimbombare sul fondo di un secchio vuoto. Morigawa era stato sbalzato via, e Naraku si era accorto della tensione delle membra, e che sarebbe bastato un respiro a coprire la distanza che lo separava da Sesshomaru ed essere lui, proprio lui, con le sue mani, con quelle mani che Sesshomaru aveva sempre guardato con un accenno di divertita compassione, ad affondare nel petto, o nello squarcio alla spalla, e strappare quel cuore troppo altezzoso. O forse era meglio partire dagli occhi. Naraku si era passato la lingua sulle labbra, flettendo appena le ginocchia. Strappare gli occhi a Sesshomaru; sentire le sue grida, mentre l’artiglio penetra il bulbo e si stringe sul molle e tira e i centri nervosi sono recisi in modo perfetto. Lo pregustava; con una soddisfazione lenta che risaliva in tutto il corpo. Sarebbe bastato un istante. Un singolo istante.

 

Invece. Invece si era ritrovato bloccato, con quella sensazione di essere stato trapassato e di aver quella mano, quel serpente, quel…quel qualcosa a scavargli dentro. Ma lo sapeva che non c’era niente. Si vedeva: ritto, esterrefatto, tremante. Il sudore formarsi in goccioline ai lati delle tempie, sopra il labbro, nell’incavo leggero del mento. Crescere: da sensazione a corpo che scivola lungo la pelle asciutta, troppo asciutta forse, e fredda. Come non ricorda di averla mai sentita. Nemmeno quando Sesshomaru aveva fatto accuratamente a brandelli il suo corpo; nemmeno sull’Hakurei, mentre sceglieva, scartava, provava fra mucchi di carne palpitante. Nemmeno da ningen. Quella sensazione, quel corpo che è pesante e non riesci a muoverlo e lo senti tremare ma è lontano, non è nemmeno più il tuo corpo e ti aspetti solo di sentirti cadere e ti odi perché lo farai e ti detesti perché non vuoi, ma sai che non riesci a fermarti, a bloccare le ginocchia che si piegano sempre di più, l’equilibrio che ti abbandona e quel maledetto terreno farsi vicino, sempre più vicino.

Gli era rimasto solo quello: aspettare il momento. Rincorrendo un brandello di consapevolezza, di necessaria conoscenza. Scoprire perché, cosa lo rendesse così, all’improvviso…Vulnerabile? Sì; vulnerabile. Indifeso. Più di un bambino. Lui. Lui che non si era piegato nemmeno ai grandi Kami; lui che aveva creato, frammento dopo frammento, la sua strada e il suo riscatto. Oh, ci sarebbe arrivato, un giorno, al riscatto. E allora. Allora sarebbero stati gli youkai. Sarebbero stati loro a guardare alla sua essenza; alla sua perfezione. Un giorno.

Ma prima ci sarebbe stata la caduta. E Naraku aveva odiato se stesso per non aver la forza per impedirla.

 

Ma alla fine il suolo era rimasto suolo; e il corpo era rimasto corpo eretto e Naraku non era caduto. Perché quella mano che scavava e scavava, dentro, nella sua testa, e rimescolava i suoi pensieri e le sue percezioni, quella mano era sparita. Plop. L’aveva sentita: staccatasi con un rumore sordo e secco. Plop. Quando un sasso si tuffa nell’acqua. Plop. Quando schiacci la pelle secca di una cicala. Plop. Anche la sua testa aveva fatto plop. Ed era tornato a respirare, senza nemmeno sapere se davvero avesse trattenuto il fiato fino a quel momento o se anche quella fosse l’ennesima percezione conficcata a forza nella sua testa.

Plop. E Naraku si era lentamente riappropriato delle sue facoltà, mentre nella pianura i due inuyoukai lottavano e mordevano e graffiavano e i ringhi era profondi e i latrati salivano a riempire il cielo pesante. Naraku aveva respirato, a lungo; con gli occhi socchiusi e i nervi tesi. Ascoltava: il respiro sempre più pesante di Morigawa; l’aria fendersi veloce al passaggio dell’altro demone. Gli artigli strappare la carte come corteccia di betulla; i denti: nella carne e nel sangue, conficcati; e stringere e lacerare. Ascoltava: gli ululati dei lupi e i ringhi e la frustrazione dei demoni; il silenzio attorno a Sesshomaru; il sibilare del veleno nell’aria e lo schiocco della frusta nell’impatto.

Ascoltava.

Hakudoshi materializzarsi vicino all’altura; la naginata scivolare nell’aria. Il tempo. Ecco: che suono ha il tempo? Naraku lo sentiva. L’incresparsi dell’acqua. Il tremito della foglia. Il tempo ha un suono così preciso. Lo avverti nella pelle come una carezza. La mano di una donna: malefica e suadente. Il tempo seduce. Con eleganza e leggerezza; ma ti prende e ti costringe. Non puoi scappare al tempo. È come la vittoria. Sono amanti esigenti. Quando ti prendono, non ti lasciano più andare. Ti tradiscono; ti amano. Ma non ti sono fedeli. Basta un istante, e le perdi.

 

Naraku odiava il tempo. Da ningen odiava scorgere i cambiamenti del suo corpo. Le cicatrici segnare una pelle che piano piano sarebbe diventata grigia e coperta di macchie. Il viso smagrirsi negli stenti e i solchi sempre più profondi ai lati della bocca. Quelle fossette che la yotaka che una volta lo aspettava nel futon amava sfiorare, baciare, tormentare.

Naraku odiava il tempo. E nemmeno da youkai avrebbe potuto sfuggire. Lo odiava; ma aveva imparato a sedurlo. Ad assecondarlo. Perché puoi odiare quello che vuoi, ma è stupido odiare e basta. Odia, ma impara. Odia, ma manovra. Odia, e utilizza. Odia e riconosci.

E nel suono di quel tempo, nel respiro della terra e nella risata della youki, Naraku aveva ascoltato altro: lo stupore. Ed era stato come la detonazione di un fucile; come un urlo che aveva riempito il cielo ed era rimbombato per ogni anfratto. Ancora e ancora. Rimbalzato, amplificato; fastidioso. Sì; tanto fastidioso e snervante che si era deciso ad aprire gli occhi. Per vedere una ningen – no, quella ningen- rotolare a terra scomposta, Sesshomaru scattare e poi. Poi niente.

 

Perché quella mano era ritornata. E adesso aveva occhi. E lo guardava. Occhi sottili dalla pupilla affilata e tagliente nell’iride dorato. E no, non era un bel colore, quello. Non era un luccichio che si deve seguire. Anche se attrae. Come l’oro.

Naraku aveva avvertito come un rimasuglio di coscienza umana agitarsi da qualche parte, in fondo, nel suo corpo. E il brivido di interesse serpeggiare nelle mani e l’idea, folle, pazza, insensata, di allungare le braccia e cercare di prenderli, quegli occhi che sembravano due pezzi d’oro. E lasciarseli scappare era da pazzi, giusto? Anche se sapevi che qualcosa di sbagliato c’era. Perché a te, adesso, dell’oro non interessa più; perché adesso, su un campo di battaglia, di oro non dovrebbe starci nemmeno il riflesso. Eppure. Eppure quel cerchio era giallo e ti chiamava. Vieni, ti diceva. E Naraku si era accorto con orrore di volerlo seguire; e che il suo corpo era pronto a muovere ogni muscolo se solo l’ultimo spiraglio di consapevolezza si fosse zittita e fosse riuscito a relegarla in un angolino profondo e impenetrabile della sua mente. Perché quel giallo, quell’occhio, era dannazione.

Gli occhi di Sesshomaru sono gialli; la luce che, da ningen, scorgeva, accecante, fra il fogliame era gialla; le fiamme erano gialle. Le fiamme che lo hanno mangiato. E Naraku aveva avvertito il desiderio premere e spingere e la mano allungarsi e dentro, nella testa, rimbombare una voce flebile: scappa. E poi. Poi qualcosa. E si era ritrovato senza respiro e con il cielo a fissarlo. Mentre sangue, youki, vita se ne stavano andando. Mentre l’armatura crepitava e si frantumava pezzettino per pezzettino, lasciandogli sentire contro la pelle ustionata del torace ogni piccola crepa allargarsi: partire lì, dalla spalla, da dove c’era la spalla, e scendere lente, colare quasi, sull’addome. E il buco. Il buco che aveva avvertito nello stomaco. Il serpente, la mano. Quella cosa. Quella cosa era ancora lì; di nuovo. E adesso non era più solo la sensazione; adesso non era più solo la mente. Lo sentiva, netto, un peso contro il corpo. Un altro corpo; anche se, lassù, il cielo continuava a restare azzurro e attorno a lui non c’era nessuno. Ma era lo stesso. Qualcosa c’era; e premeva e alitava sul suo viso e scendeva con uno stridio sulla corazza e sulla pelle; affondava nella carne delle gambe, dentro fino a ricordargli la fragilità delle ossa che si sbriciolavano. E c’era, se n’era accorto quasi per capriccio, quell’odore nauseante, di carne che si liquefà. Prima era lontano; prima era diverso. Umano.

 

Era riuscito a far scivolare la testa di lato; nella pianura, aveva distinto il karigiru di Inuyasha, la figura bianca di Sesshomaru e la sicurezza di una terza figura, stretta fra di loro. Aveva sorriso; quasi. Perché l’aria fremeva, lo percepiva anche se i suoi sensi si rifiutavano di rispondergli correttamente; anche se la voce restava un ricordo e il corpo (lo aveva ancora, un corpo?) era solo assenza. Aveva sorriso; perché qualcosa doveva esser riuscito, in quella folle stupida insensata strategia. Qualcosa che, bene o male, prima o dopo, Naraku sapeva che avrebbe potuto usare a suo vantaggio. Doveva solo riuscire a capire cosa fosse esattamente; scoprire perché Sesshomaru se ne stesse andando, mentre, lo aveva sentito chiaramente, la battaglia ancora infuriava. Andarsene; mentre Morigawa latrava e il suo ringhio frustrato percorreva l’aria. Andarsene; rinunciando (possibile?) alla vittoria. Rinunciare a lui. Perché Sesshomaru lo sapeva che era presente anche lui, su quel campo di battaglia. Perché era stato un istante: prima che Morigawa schioccasse le nocche e arricciasse compiaciuto le labbra; prima che Morigawa scendesse in campo e la vittoria, seduttrice, gli concedesse l’ombra del successo. Era stato solo un momento; lo spazio fra il respiro che scende nei polmoni e quella sottile increspatura che attraversa le labbra. Era stato un niente; ma Naraku era persuaso che in quel niente Sesshomaru lo avesse visto, e gli avesse, di nuovo, promesso una cosa: morte.

 

Sesshomaru è fatto così, Naraku lo conosce bene.

Gli affronti non può dimenticarli; solo eliminarli. E lui, la sua esistenza, la sua irrita tante sfacciata melliflua prepotenza è un affronto. Perché gli hanyou non possono aspirare; non possono desiderare. Gli hanyou sono come i ningen; sono peggio dei ningen. E devono solo trascinare la loro esistenza senza concedersi il lusso di un pensiero, di un riscatto.

Un hanyou è un irritante fastidioso pensiero che ronza in fondo alla testa. Come il sangue che ti resta addosso dopo che la mano scivola dalla ferita; come il filo di incenso che s’insinua nella brezza calda di metà estate; come la cenere che affonda, irriverente, nel manto nevoso. Una semplice contrazione degli occhi; una macchia da sorpassare senza prestarci tanta attenzione.

 

Naraku era stato una macchia, lo ricorda bene.

Da ningen. Da Onigumo. Una macchia scura e grande nella testa della gente. Si era acquistato una discreta fama, da ningen. E quello che gli interessava lo prendeva; con la forza. Ridacchiò nel frinire assordante delle cicale. Era strano concedersi simili rievocazioni. Ma in fondo aveva tempo, no? Per una volta, non era lui a dover soppesare le mosse. Per una volta, Naraku aveva superato Sesshomaru. E il piano, il suo progetto, procedeva e si formava sempre più nitido: Mimisenri. Quando Kagura fosse riuscita a localizzarne il nascondiglio, tutti i tasselli sarebbero tornati al loro posto; e l’ultimo frammento della sfera tanto vicino da dover solo decidere quando allungare la mano e premere. Lo avrebbe stretto, forte forte; con i bordi scheggiati a conficcarsi nella carne e la sensazione del sangue che si raggruma contro la pietra. Trovarsi a fissare il taglio sul palmo, e compiacersi della sensazione di fastidio che avrebbe percorso il corpo. Sì; avrebbe goduto appieno di quell’ultimo preziosissimo frammento.

 

E intanto.

Intanto avrebbe aspettato. Perchè, se c’era una cosa che la sua rinascita come demone gli aveva insegnato, era la pazienza. Affrettarsi è inutile; e pericoloso. Da ningen si affrettava; da ningen sentiva sempre il tempo graffiargli la pelle, lì sulla nuca. Scivolare nell’ebbrezza del sake e stravolgere anche le notti più spensierate. C’erano notti, in cui cacciava la yotaka, si rivestiva in fretta e se ne andava. Ed era sobrio. Ma quelle notti, quando la gola gli si chiudeva, quando dentro qualcosa premeva e premeva e sembrava solo voler uscire e squarciava il petto e la testa; quelle notti, Onigumo le passava da solo, a fissare la luna irriverente e il cielo maledetto. Perché il tempo passava, e con lui la consapevolezza che qualcosa andava semplicemente svanendo. Naraku socchiuse gli occhi; non aveva eliminato completamente la sua memoria umana. Nonostante il suo corpo fosse stato ricostruito più e più volte, non era mai stata toccata la scatola cranica. Quasi avesse paura di dimenticare quella parte umana che tanto odiava e che aveva imparato, istante per istante, pezzettino per pezzettino, a riconoscere e che aveva estirpato con minuzia.

 

Ma la memoria restava. E c’era un demone, in quei ricordi.

Una futakuchi-onna. Ed era bella; di quella bellezza pericolosa e attraente che sa adescare gli uomini sorridendo con un lieve rossore da dietro una finestra socchiusa. Era bella, la futakuchi-onna; ed era affamata. Naraku lo sentiva ancora, il suo respiro caldo e umido, con un accenno di zolfo, scendergli in bocca e stordirlo; i capelli, troppo lunghi, troppo neri, avvolgerlo e stringere sempre di più. C’era una bocca, fra quei capelli. Una piccola linea rosata, quasi una cicatrice. Si era divertito ad accarezzarla, a ricalcarne con l’indice il contorno preciso e sottile. Quando la donna era ancora una donna; quando gli occhi erano neri e liquidi e promettevano solo piacere. Quegli occhi. Erano diventati rossi, nella sera; e lui aveva pensato ad uno strano riflesso del sole che infuocava la stanza. Li aveva trovati belli, quegli occhi rossi che si allargavano e dilatavano, con la pupilla sempre più piccola e distante. Li aveva trovati belli, e aveva riso. Perché quegli occhi erano una bocca e lo stavano assaggiando, entrando nella pelle, nel respiro, nel profondo. Occhi rossi. Naraku rise senza allegria. La sua memoria umana non era sempre spiacevole. C’erano momenti, pochi, ma c’erano, in cui il segmento che faceva capolino nelle sue elucubrazioni era accolto con sollievo. Con compiacimento, quasi. Perché era curioso osservare i ningen attraverso se stesso; e accorgersi dei progressi e dei mutamenti fatti. Ricordare. E fissare il cielo o le venature di un tronco e adesso, adesso, sapere. Percepirne il respiro e gli eterni discorsi che intessevano l’aria. Sentirli dentro di sé, con la fuggevolezza ossessiva di una cometa.

 

Erano un’ossessione, i ricordi.

Un’ossessione piacevole cui concedeva tempo. E il ricordo della futakuchi-onna era il più prezioso. Perché era stato il primo. Il primo demone che avesse davvero incontrato. Onigumo non ci aveva mai creduto davvero, agli youkai. Nei santuari ci entrava solo per rubare e di demoni ne conosceva molti, ma erano tutti di carne e di sangue e si arrabbiavano quando li provocavi e chiedevano pietà se la katana premeva loro la gola. Di demoni ne aveva conosciuti tanti, Onigumo. Ashura che un tempo chiamavano ningen, e che avevano venduto (forse davvero forse erano solo voci) l’anima a Enma.

Gli youkai. Non ci aveva mai creduto; eppure. Eppure le dita affilate della futakuchi-onna le ricordava. Premevano la gola; incidevano e lasciavano segni lividi sulla pelle, mentre le labbra diventavano cianotiche per la mancanza d’ossigeno. La stanza era diventata tutta luce; tanta e tanta luce che gli dava fastidio. E dentro lo sapeva che era stupidaggine, perché era il tramonto e il sole era già sceso dietro la costa della montagna. Era una stupidaggine. Ma quella luce lo abbagliava ancora, nei suoi ricordi (o forse sono sogni?). E c’erano occhi rossi, in fondo a quella luce. Tanti occhi rossi. E no, non era più la futakuchi-onna. Non era solo lei. C’era stato qualcos’ altro; doveva esserci stato qualcos’ altro. Perché la presa era sparita senza una ragione; perché il corpo che lo premeva a terra e la lingua si erano dissolti. Perché il tatami sapeva si chiuso e di polvere. E polvere, strana, trasparente, Onigumo se ne era ritrovato addosso tanta. Troppa perché fosse stata solo trasportata dal vento. Gli aveva fatto paura, quella polvere; negli ultimi frammenti di luce, gli era sembrato di vedere tante bocche. Labbra sottili allargarsi in sorrisi troppo piacevoli per essere inoffensivi. Ridevano. Quella polvere. Rideva. Di lui. Di qualcosa che lui non sapeva.

 

Era fastidiosa, quella sensazione. E, ripensandoci, era la stessa del campo di battaglia. Quella mano che ti penetra dentro e scava e cerca e smuove e non ti lascia finchè non è soddisfatta, finchè non ha trovato. Cosa, lo vorresti sapere anche tu. Ma Naraku, quando era Onigumo, aveva sentito solo dolore. Le viscere contrarsi e la gola bruciare e il respiro (respirava ancora?) diventare ricordo. E poi. La bocca aperta e le mani strette convulse alla fusuma, tossendo e rincorrendo il respiro irregolare, mentre il cuore batteva e batteva e non li sembrava quasi più di avere un corpo. Solo il cuore. Tu-tum; tu-tum. In gola, nella testa, nelle braccia. Perfino negli occhi, tanto faceva male tenerli aperti e fissare la macchia scura e nauseante vicino al gradino di pietra. Con addosso quella sensazione strana e il sospetto, forte, che se fosse riuscito a girarsi, se invece di lasciarsi cadere nudo sull’engawa fosse riuscito a far scivolare la testa di lato, anche solo a smuoverla un po’, ci sarebbero stati occhi rossi a fissarlo. Tanti occhi rossi.

 

Col tempo. Con il tempo aveva imparato anche a discernere i ricordi che conservava. Quelli umani da quelli degli youkai che avevano formato il suo primo corpo. Col tempo, quegli occhi rossi erano tornati. E lo fissavano beffardo e ridevano di lui e gli ricordavano che, in fondo, quello che era diventato lo doveva ad una pulsione troppo umana per non disprezzarla. Voleva Kikyo e un nuovo corpo. Voleva un corpo per avere Kikyo. Perché, anche se Onigumo non era uno sciocco, cosa significasse poter diventare altro, essere altro, che esistesse davvero qualcosa d’altro non lo capiva. Dopo la futakuchi-onna ai demoni ci credeva, ma non gli erano mai interessati. Fino a quella notte. Fino a quando il dolore per le ferite e l’impotenza, al costrizione e la frustrazione non erano diventate un miscuglio pesante e soffocante e non si erano fusi con la sua stessa carne martoriata. Quella notte, nel silenzio umido, Onigumo aveva desiderato qualcos’altro per la prima volta. Aveva desiderato un corpo che non invecchiasse; aveva anelato ad una forza che non si esaurisse nella vita di un ningen; aveva immaginato cosa potesse significare percepire più di un ningen. Mentre l’occhio sano vagava affamato sotto le bende chiazzate, l’aveva sentito. Di nuovo. Quello sguardo. Quella mano che ti prende e di schiaccia a terra. E la sensazione era diventata corpo e occhi rossi e zampe lunghe e pelose e odore. Un odore pungente e ferino che si mescolava a quello del sangue marcio, del miso freddo e della polvere. Lo aveva nauseato e lo aveva amato. Perché era una promessa e lui aveva capito; e si era accorto di aver sempre aspettato. Da quando la futakuchi-onna era diventata polvere, lui aveva aspettato. Di risentire quegli occhi trapassargli la pelle e poterli fissare. Sei occhi rossi e lucidi; grandi come la caverna, come il cielo, come ogni pensiero che gli riempiva il cervello. C’erano stati solo quegli occhi nella sua testa, per tanta e tanto tempo. E una voce senza bocca che rideva e chiedeva cosa desiderasse.

 

Perché lo tsuchigumo è scaltro, ma con Naraku non aveva più potuto giocare. Perché la risposta la vedeva e la sapeva: la leggeva nel desiderio e nella lussuria che tendeva le bende sul viso ustionato, nel fremito violento che percorreva i fasci muscolari scoperti. Naraku ricordava un sorriso. Non lo aveva visto, ma era certo che lo tsuchigumo avesse sorriso. Il sorriso di un ragazzino, di un ningen in quell’età sospesa fra l’infanzia e la maturità, quando i corpi sono sottili e acerbi e il rossore infiamma il viso e gli occhi si chinano per pudore e vergogna. Un sorriso semplice, che lo aveva fatto rabbrividire, mentre la tela che da sempre lo aveva avvolto si stringeva e gli cadeva addosso, nel suo groviglio luccicante di seta e bava calda. E lui, imprigionato in quella morsa che incideva e graffiava e sfrigolava, aveva riso. La bocca senza labbra aperta e una tosse isterica e cadenzata a confondersi con le parole. Perché aveva capito che forse si può tornare indietro; perché aveva capito che c’era ancora qualcosa che poteva fare, con quel corpo morto. Perché lo tsuchigumo lo fissava e sorrideva e prometteva vittoria. E Onigumo aveva detto hai. Mentre la carne spariva pezzo per pezzo; mentre le ossa si spezzavano in bocce grandi e affamate; mentre la voce diventava urla e la risata era un singhiozzo. E il fuoco cresceva e mangiava il sangue e distruggeva la tela e gli occhi rossi dello tsuchigumo lo fissavano e ridevano.

 

Naraku si massaggiò la fronte, prima di abbandonare la testa contro lo stipite. Lo tsuchigumo. Lo aveva raggirato con maestria. E aveva fatto in modo che lui, Naraku, non dimenticasse mai cosa fosse; a chi dovesse la sua nascita. Rigirò la sakazuki e il sake rimandò un’ombra rossa. Un cenno sulle labbra e il sapore dolciastro in bocca. I suoi occhi. I suoi occhi erano rossi. Gentile omaggio. Gentile ricordo. Li odiava, quegli occhi. Ma per quanto cambiasse il suo corpo, per quanto braccia, gambe, organi, sangue cambiassero e fossero restituiti, c’erano due cose che non era mai riuscito a eliminare: la cicatrice sulla schiena e quei maledetti occhi rossi.

Ma in definitiva sarebbero stati il suo riscatto: fissare Sesshomaru agonizzante ai suoi piedi, la sua superbia imprigionata nei lineamenti eleganti deformati dal dolore e dalla rabbia, dallo sconcerto della sconfitta. Fissarlo con quegli occhi, gli occhi che erano di un ningen e che adesso sono di uno youkai. Occhi diversi e così uguali. Perché potevano vedere le medesime cose, percepire il fremito dei riflessi nell’acqua che si increspa; la luce che si spezza in ogni singola goccia di pioggia; l’ombra che si allunga nei fiori che crescono lentamente.

 

Naraku sorrise, mentre la Sfera di smaterializzava.

Aveva perso il vantaggio acquisito con Morigawa; aveva perso un filtro capace di uccidere Sesshomaru e i fucili; aveva perso contro quella mano che lo aveva bloccato a terra su quel maledetto campo di battaglia. Aveva perso anche contro Sesshomaru. Perché il demone non aveva raccolto la sua provocazione e gli aveva semplicemente voltato le spalle, come se fosse un insetto senza importanza, di cui non preoccuparsi minimamente. Aveva perso, doveva ammetterlo a se stesso. E si sorprese della soddisfazione che sentiva crescere in fondo al petto. Perché adesso sapeva come rintracciare l’ultimo frammento della sfera; perché adesso le mosse erano ben delineate nella sua mente e, passo dopo passo, le sue mani si stringevano attorno al collo di Sesshomaru. Perché sarebbe stato presto. E Sesshomaru non si sarebbe mai più preso la libertà di ignorarlo; non avrebbe più potuto concedergli solo un annoiato cenno. Presto. Presto sarebbe diventato un’ossessione, per Sesshomaru. La prova, tangibile, concreta, sfacciata, delle sue mancanze, dei suoi limiti.

 

Cambiamento.

I demoni non conosco il cambiamento, e Naraku sapeva di poter giocare con quella mancanza. Gli youkai percepiscono l’assoluto; e l’assoluto è completezza. Perfino l’avvicendarsi delle stagioni non è altro che lo scorrere di un tempo inesistente, rannicchiato su se stesso. Avvertono il fluire del tempo, certo. Ma non dicono cambiamento. Non esiste il cambiamento. Le cose mutano, ma non cambiano. Naraku arrotolò alla mano il sigeo. Era strano. Nonostante fosse uno youkai; nonostante si fosse esercitato per anni nel sondare i ragionamenti dei demoni, ne avesse studiato le mosse e le inclinazioni, c’erano ancora delle cose che gli sfuggivano. E quella distinzione fra cambiamento e mutamento lo irritava più di altre. Perché significava, nonostante tutti gli sforzi fatti, essere ancora legato alla parte umana, ad Onigumo. Sbuffò. Per quanto estirpasse carne e cervello, per quanto cambiasse e sostituisse parti del suo corpo; per quanti scarti intrisi di parti umane espellesse, qualcosa riusciva sempre a sfuggirli e restava lì, annidata come un parassita dentro di lui. E lo fermava. Perché permetteva che il divario rimanesse; e lo schiacciava giù. Lo relegava più in basso degli youkai. Migliore dei ningen; ancora inadatto agli youkai.

 

Andava bene lo stesso.

Aveva tempo; e avrebbe imparato anche a impiegare al meglio quelle irritanti limitazioni che la parte umana gli imponeva. Se ne sarebbe liberato, prima o dopo. Lo sapeva. Sarebbe diventato come Sesshomaru e Morigawa. Anzi: migliore di loro; perché il suo cervello avrebbe continuato a cercare, a lavorare a fremere. Sarebbe stato. Sì; sarebbe stato come quel demone che lo aveva vinto sul campo di battaglia; mentre era impegnato in uno scontro era riuscito ad abbattere anche lui, con l’irrisoria facilità con cui si rompe un rametto secco. Ecco: sarebbe diventato come quel demone. Capace di elevarsi sopra tutto il resto; e avrebbe sorriso beffardo. Perché, in fondo, quello che desiderava era il desiderio stesso. Quello stupido irritante desiderio di migliorare se stesso che era diventato il centro, il fulcro unico, della sua esistenza.

 

Vendetta? Che parola irrisoria. Quella lezione l’aveva imparata dai demoni; da Sesshomaru. È sciocco cercare la vendetta; soprattutto in rapporto all’eternità che ti senti scivolare addosso. C’è l’orgoglio, da difendere. Il petto che si gonfia e la testa, altera, alzarsi a sfidare. C’è la consapevolezza da salvaguardare. E allora gli artigli si allungano; la lingua sfiora, compiaciuta, le zanne e dentro il cuore pompa risoluzione e youki. C’è la consapevolezza; non la vendetta. E uno youkai attacca per ripristinare un equilibrio incrinato, per riaffermare se stesso. Nell’istante; nella sua completezza.

 

Frustò l’aria in un gesto di stizza. Era ancora presto, ma fremeva. Perché razionalmente riusciva a percepire le differenze; le ripercorreva, precise, nella mente, le classificava e le elencava. Razionalmente, avrebbe saputo sempre cosa di lui era mutato e cosa era rimasto. Ma nell’immediato. Nell’istante in cui agiva, la linea di confine spariva e tutto ritornava confuso; troppo confuso. E l’istinto umano si mescolava alla razionalità demoniaca. Lo sapeva; e lo irritava. Perché, quando si trovava in difficoltà, la testa ragionava in fretta e i pensieri erano ancora pensieri da ningen. Mentre la sensazione di trappola si stringeva alla gola, Naraku odiava la sua testa che ripeteva e urlava: sopravvivi. Perché gli youkai non pensano sopravvivi; gli youkai pensano solo vinci. Perché di morire non se ne curano, gli youkai. Perché conosco se stessi e la propria potenza.

 

Naraku della morte aveva paura. Come un ningen.

Perché sarebbe stata la sconfitta definitiva; perché avrebbe significato dar ragione a Sesshomaru e al suo irritante sorriso di scherno. A Naraku la morte non piace; perché non la puoi ingannare. E sapeva che, non fosse stato per Morigawa e la sua rabbia feroce, o forse solo per semplice fortuna, quel demone lo avrebbe ucciso. E non avrebbe visto le spalle di Sesshomaru né i latrati singhiozzare come una risata.

Ma adesso. Adesso stava imparando. E quei cicli lunari avrebbero fruttato più di quanto si fosse mai aspettato. Era ad un passo dal vincere, adesso. E avrebbe vinto. Aveva raccolto i pezzi; aveva pianificato le mosse. Mancava poco. Così poco.

L’ultimo frammento. Ancora un frammento, e poi. Poi. Pregustava già la luce della sfera aumentare d’intensità e irradiarsi nel suo corpo. Quel calore colargli nelle membra e rinvigorire e cambiare e sconvolgere e rinascere. Forse non avrebbe più avuto quella cicatrice sulla schiena; forse anche gli occhi non sarebbero stati rossi.

Sarebbe nato. Completo, questa volta. E Sesshomaru lo avrebbe visto piegato; premuto a terra e costretto a strisciare, a riconoscerlo come un suo pari.

 

Mancava poco, ormai. Molto poco.

Naraku sorrise allo spicchio di luna. Aveva imparo che la vittoria si assapora lentamente, restituendo pezzettino per pezzettino gli smacchi subiti. Aveva imparto la pazienza.

 

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Capitolo 48
*** 48. LUCCIOLE ***


Sono migliorata, no

Sono migliorata, no?

Sette mesi contro i diciassette dell’altra volta. Sì: direi che può andar bene. É il capitolo più lungo che abbia scritto finora; e quello che – ne sono sicura – molti di voi aspettavano. Da tanto. E ho cercato di evitare cerchi, onde e scioglimenti (e sì, parlo di quello).

Ringrazio infinitamente chi mi segue, con pazienza e comprensione.

Grezie a Lete89, prima lettrice e prima critica (spietata).

Grazie a Rosencrantz Miriel e Blackvirgo. Per esserci e per quello che siete.

Grazie a Lein87, _Christine_, Eiby, Celina, Elenasame per le bellissime parole che mi avete usato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 48

LUCCIOLE

 

 

Prima c’era stato il silenzio.

Pesante; profondo; strano. Prima: silenzio. Poi, l’ossessione della pioggia. Sempre; sempre. O forse era il sangue. Il sangue che scorreva e scorreva, mentre il suo cuore tentava di mantenere un ritmo, un barlume di normalità anche quando il respiro era un rantolo e nei polmoni, nella bocca, il sangue c’era e grattava e soffocava. Perché di sangue, in bocca, ce n’era stato tanto, e non riusciva a mandarlo via. Prima, nel silenzio, il sangue era l’unico ossessivo fastidioso rumore. Poi. Poi anche il sangue era sparito. Ed era rimasto solo quell’abbandono, quel nulla che rimbombava e risuonava e sembrava prenderle la testa e schiacciarla e appesantirla e comprimerla per distruggerla.

 

Il silenzio. Quanto poteva essere profondo e fasullo e irreale e snervante, il silenzio? Era. Era una prigione. Assieme al buio. Provava a urlare; apriva la bocca e gettava fuori aria. Aria rabbia terrore sconforto. O almeno credeva di urlare. Ma la bocca restava aperta, e il silenzio restava silenzio e il buio era buio. Nel buio, si era accorta di non riconoscere se stessa, di non avvertire il suo corpo. Sapeva che c’era; si convinceva che era solo uno sbaglio, solo stanchezza. Il suo corpo. Era un formicolio lontano; una sensazione quasi estranea e poco allettante. Rifiutava di pensarci, al suo corpo. Rifiutava di immaginarlo. Ma, nel buio, anche il rifiuto prende forma e il corpo, il suo corpo, lo vedeva: lì, davanti a lei. E chiudere gli occhi e scuotere la testa e gridare – provarci – e voltarsi e scappare non era possibile. E il suo corpo diventava doppio, triplo. Si rivedeva riflessa in ogni ombra: e la pelle chiara era nera; e gli arti apparivano e sparivano; mani che si tendevano sporche di terra e sudore e sangue. E ventri, schiene, seni, gambe, ginocchia. Nel buio, quel corpo che percepiva lontano la stringeva e la stringeva; le si gettava addosso, assieme all’odore di marcio e sudore che le prendeva…Le prendeva…La prendeva. E basta. Perché non sapeva nemmeno lei se lì, in quel nulla, in quel silenzio, fosse qualcosa. Potesse essere ancora qualcosa. E non osava abbassare gli occhi; non si permetteva di sollevare una mano davanti al viso. Per cosa poi? Per scoprire un arto scheletrico, con brandelli grigiastri di carne? Per vedere la pelle nera e chiedersi, in fondo, che differenza ci fosse, se ci fosse differenza, fra il suo corpo e quel…quel…quel qualunque cosa fosse il luogo dove si trovava. Era come se fosse mente. Solo mente. Pensiero alla deriva. Senza possibilità di tornare; senza una strada da percorrere. Forse non aveva nemmeno il desiderio di tornare. Aprire gli occhi e vedere…Cosa avrebbe visto? La stanza che le era stata assegnata a palazzo? Delle membra distese in un futon e coperte di sangue o avvolto nello yogi o…O forse avrebbe visto ancora buio e l’odore della terra e della polvere secca che scende in bocca assieme al respiro inghiottito a fatica. Forse era ancora in quella piana, su quel campo di battaglia che si era costretta a vedere, che aveva imposto a se stessa di raggiungere. Forse. Forse era come i corpi di quei demoni che aveva visto: arti e membra dilaniate; ossa liquefatte e viscere molli e gocciolanti. Forse. Forse non vedeva nulla perché, in fondo, non c’era più nulla da vedere e il suo copro se lo stavano contendendo gli youkai o i corvi. Ce n’erano molti, di corvi, sulla collina dove Inuyasha aveva costretto il loro cervo a fermarsi: neri e lucidi, con il loro gracchiare simile ad una risata gutturale e quel becco. Quel becco opaco che rifletteva in tralice il sole e deformava le ombre in un sorriso da scheletro. Aveva pensato ad uno scheletro; uno scheletro con le ali che aspetta solo il silenzio e il vuoto per calare su membra e sangue e cercare e mangiare e strappare e affondare il becco degli occhi, negli squarci coperti da una fanghiglia mista di sangue e polvere secca.

 

Forse non sentiva nulla, non vedeva nulla, perché, semplicemente, il suo corpo non c’era più. Tranciato in tanti e tanti pezzi, portato in trionfo e masticato e spezzato. E quel buio, quel vuoto era…Cos’era? La morte? L’aldilà? Non le interessava. C’era solo il silenzio e quella sensazione lontana di formicolio che avvertiva ogni tanto. Forse era il dolore. Forse era l’eco dei suoi nervi torturati e tranciati; forse era lo schiocco secco delle articolazioni che vanno in frantumi e lo strappo della pelle e dei tessuti nervosi. La pelle. Che rumore ha la pelle che si strappa? Forse era; era come la sensazione che la percorreva a sorpresa, quasi il rimasuglio di una privazione.

Prima c’era stato il silenzio; e l’abbandono. Senza pretesa di reagire; senza volontà di arrendersi. Era stata strana, quella sensazione. Una rassegnazione che non era una resa. Come se qualcosa, da qualche parte, dentro di lei, attorno a lei, nel silenzio e negli echi distorti di percezioni che credeva di cogliere, le stesse sussurrando di aspettare. Solo aspettare. Senza farsi domande e senza pretendere nulla. Aspettare. Richiudendosi di più, arrotolandosi in se stessa quando lo smarrimento diventava afasia e asfissia; espandendosi e fondendosi con quella coltre che non capiva se fosse altro da sé o il suo nuovo stesso corpo, la sua nuova essenza. C’erano momenti in cui le sembrava di possedere ancora delle mani e di tenderle e di stringere qualcosa che poteva essere un avambraccio, una spalla, un seno. C’erano momenti in cui era convinta di star scavando, di sprofondare in una sabbia densa e nera e liquida e di continuare a scavare e scavare e scavare forse per non lasciarsi seppellire forse perché, da qualche parte, dentro la sua testa, sapeva che era la sola cosa da fare e che forse, in fondo, le mani, quelle cose che erano nel molle, nel buio, avrebbero fatto male e le avrebbe viste colorarsi di rosso. Le avrebbe sollevate: le unghie spezzate e le dita sporche piene di tagli ed escoriazioni che bruciavano e tremavano e, ne era certa, avrebbe riso e avrebbe pianto e le avrebbe affondate di nuovo in quel nero fino a doverle raccogliere a fatica contro il petto e tossire per recuperare un po’ di ossigeno.

 

Prima c’era stato il silenzio. Poi la pioggia.

Uno scroscio continuo e lento, molto lento, quasi una litania. Non ricordava come. Era solo consapevolezza. La percezione di un cambiamento che c’era stato. In quel buio, in quel niente si era insinuato un sibilo sempre più acuto, sempre più penetrante; ed era diventato eco e pesantezza e bagnato e brividi sulla pelle e rimbombo nelle orecchie e arsura nella gola e respiro pesante e umido. La pioggia era stata la strada. Una strada senza linee o pietre; una strada di suoni che affondavano ancora e ancora in quel buio e in quel nulla. Non era cambiato, il buio. Non era cambiata la deriva che viveva, sempre che fosse ancora viva, e cui si abbandonava come in un bozzolo, in attesa. In spasmodica nervosa attesa, con la frustrazione della debolezza e dell’incomprensione pronte a risvegliarsi ad ogni accenno, ad ogni minimo immoto movimento, pensiero di movimento. Non era cambiato nulla. Neppure il silenzio. C’era ancora silenzio. Era solo un diverso silenzio: l’ossessione della pioggia.

E. E si era chiesta se fosse davvero pioggia; se fosse davvero lo scroscio dell’acqua quel suono che fischiava e scendeva fin nei recessi, come un serpente, girando e rigirando in spire eleganti e lunghe e lisce. Si era chiesta se fosse davvero acqua, o non piuttosto il gocciolare ritmico del sangue da membra abbandonate; il gorgoglio del respiro che si colora di rosso ed esce schiumante dalla bocca. Il sangue; e la bocca. Era; era un qualcosa di conosciuto. Assieme al ricordo di un risucchio. Sì; proprio il verso strozzato dell’acqua che mulinella e scende e scende e sparisce. Un risucchio. Come se da qualche parte, qualcosa o forse qualcuno la stessero succhiando. E non avrebbe saputo dire se era solo una sensazione, la consapevolezza o forse la paura di un qualcosa non meglio definito o se, semplicemente, quel vortice era lì, nella sua testa, nei suoi occhi ciechi, ed era solo il rumore dell’acqua che cadeva goccia a goccia.

 

Le era anche sembrato di poterle contare, tutte quelle gocce. Una, due, dieci, ventimila, sette miliardi. Tutte. Le sentiva tutte. Rimbalzare nel nulla; perforare il nulla. Era stato come se avessero penetrato la sua stessa pelle; come aghi sottili che scendevano sempre di più in quel corpo che non aveva o non riconosceva.

La pioggia era stata la follia. L’ossessione che si era fatta densa e pesante; l’ossessione e basta. Negli spasmi e nelle torsioni che laceravano e comprimevano ed erano solo pensiero che non riusciva, non poteva, liberare. La pioggia. Diventava grida; diventava lacrime e risate e urla e schiaffi e carezze e dolore e…piacere. Sì; c’era stato piacere. In un certo momento, assieme alla pioggia, assieme ad un silenzio che era ovatta e sapeva, lo sentiva, era falso e irreale e distante, lo ricordava, c’era stato piacere. E orrore.

 

La pioggia; il piacere; l’orrore.

Per. Per. Non lo riusciva a definire; non con esattezza. Ricordava. Ricordava che il nero era diventato grigio. O forse era colore. Sì; tanti colori precisi, tanti colori che avrebbe dovuto rimettere al loro posto. Forse dei visi; forse degli abiti. E delle voci. Voci come colori: e il rosso era lussuria, il giallo sgomento, il blu livore, il verde ingenuità, il nero durezza e il bianco…il bianco era terrore. Ed era la sua voce; nella pioggia. O nel silenzio.

I ricordi e le sensazioni si accavallavano, si sommavano; un viso, una parola, una mano, una bocca. Denti, zanne, artigli, stoffa, occhi, acqua, aria, morbido, duro. Rabbia, dolore, paura, tristezza. Consapevolezza. Di qualcosa. Di qualcosa che faceva male, maledettamente male. E che non riusciva, o forse solo non voleva, realizzare, recuperare e affrontare. Non subito; non ancora.

Prima il silenzio; poi la pioggia. E infine il sole.

 

Il rumore del sole.

Il tintinnio di un furin; il fruscio di un ventaglio; il singhiozzo cupo del sozu; lo sfrigolio del kayaributa. Ha un rumore strano, il sole. Mille piccoli suoni che si rincorrono ed esplodono nella testa. Era diverso dalla pioggia. Ed era stato come se tutto avesse riacquistato un equilibrio. Il nero restava nero; il corpo restava formicolio lontano. Ma c’era quel barlume di diverso che piano piano cresceva e metteva radici e si apriva. C’erano momenti in cui credeva di poterlo vedere, anche, il sole. In quel nero, c’erano macchie che diventavano ancora più scure e tremavano e si intensificavano e poi, piano piano, quasi con dolcezza, ritornavano indistinte e immobili. Restavano i suoni, e un rimbombo come nel cristallo. C’era qualcosa di confortante in quel miscuglio che non avrebbe neppure saputo dire se sentiva davvero o solo immaginava. Come la pioggia; come il silenzio.

 

Forse era solo una stupida illusione; forse erano le mille percezioni del suo corpo ormai smembrato: e il sole erano le ossa abbandonate; e la pioggia erano denti e zanne e saliva; e il silenzio e il buio erano le viscere di un demone o l’umido della terra. Quello che, quasi con paura, aveva realizzato di non avvertire era il dolore. C’erano, a volte, piccole scosse, come lo sfilacciarsi di una stoffa, ma erano lontane, quasi estranee. C’erano momenti in cui le mancava l’aria o qualunque cosa stesse o credesse di respirare. E si sentiva comprimere e schiacciare prima di ritrovarsi con i polmoni pieni d’ossigeno e il desiderio di tossire per liberarsi della troppa aria. Ma non c’era dolore. O forse era tutto dolore; e ne era talmente assuefatta, quasi anestetizzata, da non distinguere quello nuovo dal vecchio, da sommare semplicemente ogni retaggio di percezione e abbandonarvisi quasi con necessità. Ogni fremito, ogni minima eco, ogni barlume di possibile consapevolezza era un miraggio cui arpionarsi per coltivare, cullare, il desiderio, il limite della speranza, di poter tornare indietro; di poter , prima o dopo, riaprire gli occhi e il sole sarebbe stato sole e la pioggia pioggia e il silenzio si sarebbe dileguato in una girandola di suoni confusi e quasi fastidiosi. Sparire. E ritornare. Fosse anche per ritrovarsi in piedi nel padiglione medico, in quell’ospedale improvvisato in cui si era costretta a trascorrere gli ultimi mesi. Sarebbe andato bene anche l’odore di sake caldo, di sangue marcio e vecchio, il fetore di corpi madidi sotto una volta che bruciava e la nausea che ti prende e preme e attorciglia lo stomaco, mentre una mano corre alla bocca e inghiotti acido e disgusto e cerchi e inventi ed elabori una scusa, una stupida sciocca facile scusa per allontanarti e non mostrare lo sconvolgimento che, nonostante l’abitudine, nonostante il tempo trascorso, non se ne vuole andare, e ti costringe a digiunare e rigettare quel poco che sei riuscita a mangiare e ti lascia addosso un velo che si deposita e ti avvolge e prende forma e corpo e consistenza in sogni o forse incubi fatti di sensazioni, di violenze che esplodono e ti lasciano con il respiro rotto e la voce annodata in gola.

 

Prima c’era stato il silenzio; poi la pioggia. Infine il rumore del sole.

E un soffitto di legno grezzo e grigio. Non sapeva quando, ma quel soffitto aveva riempito i suoi occhi con una naturalezza quasi disarmante. Come se ci fosse sempre stato, come se il buio, il silenzio e ogni percezione non fossero stati altro che quello stesso soffitto. Non lo ricordava; non ricordava di averlo mai visto prima. Se ancora poteva parlare di prima. Quel soffitto era diventato un buco, un universo che si allargava e scendeva come catrame ad avvolgerla. Mentre le ore passavano; mentre i riflessi diventavano bianchi, poi gialli, rossi e neri e argento. La luce. Non esisteva nemmeno il pensiero della luce. C’era solo quel soffitto, in ogni istante, in ogni millesimo di respiro. Il soffitto e i suoi colori; inquietanti. Era stato inquietante. Perché c’era stato un passaggio, ne era cosciente. Prima era il silenzio; dopo il soffitto.

Ma non sapeva cosa fosse più confortante. Il corpo restava un ricordo lontano; e gli occhi, sempre che fossero concreti e reali, restavano fissi lì, in alto. Sarebbe bastato così poco; inclinare appena lo sguardo, oppure muovere la testa o qualsiasi cosa avesse al suo posto. Abbassare gli occhi. Ecco: la trave smussata e grezza si incunea sotto alla volta; c’è il muro lì in fondo. Un muro di paglia e fango essiccato; o forse è legno. Legno lucido come acqua, dalle nervature scure e oblunghe, con qualche nodo che ti guarda. Come un occhio. Un occhio grande e rugoso in una faccia senza contorni.

 

Sarebbe bastato così poco. Seguire il profilo irregolare della trave e scendere. Il muro; o forse una porta. Una porta nel muro. E fuori. Fuori. Scoprire dov’era; scoprire che il refolo che sente – o crede di sentire – è uno sbuffo d’aria; vedere il cielo; vedere la luce.

Sarebbe bastato così poco.

Ma la testa, gli occhi, restavano lì, a quel soffitto. Non voleva, non poteva muoverli. Aveva paura. Paura di girarsi e scoprire il nero, e il silenzio. Paura di muovere gli occhi e non vedere; o vedere troppo. Mani, bocche, gambe, seni. Paura di risentire quell’invasione, quella violenza scivolarle lungo quello che, forse, era il suo corpo. Paura di scoprire le pareti molli e umide di uno stomaco, anche se, ragionando, si dava della stupida. Se sei in uno stomaco sei morto; e un morto non vede. O forse sì? No. Meglio non pensarci; meglio restare alle venature della trave.

C’è una ragnatela, sulla trave. Un filo sottile e lucente. Non lo vedi sempre; ogni tanto, quando quella luce lo colpisce, manda come un barbaglio, e nella polvere sottile d’oro sembra una stella. Una stella bianca in un cielo giallo. Le faceva paura, quella ragnatela. Stava lassù, in alto, e sembrava ridere e ridere ad ogni luccichio. Sembrava sapesse tutto, e la guardasse e la compatisse e ci godesse nel vederla lì, dovunque fosse, dibattersi e annaspare senza nemmeno sapere più per cosa; per andare dove.

 

Il soffitto di legno era stata la normalità. Per tanto e tanto tempo.

Poi, con lentezza, il soffitto era diventato un tetto; e i colori avevano iniziato a rompersi. E il silenzio; nel silenzio c’era stato rumore. Lontano e confuso, ma rumore. Diverso dai rimbombi della sua mente, dagli echi dei suoi ricordi. Quei suoni non li poteva controllare; non dipendevano da lei. Se ne era accorta una mattina, aprendo gli occhi. O lasciando riemergere la trave dal buio. Si era accorta che era stanca. Pesante, e che qualcosa, in modo confuso ma continuo, le sussurrava di muoversi. Anche solo di poco, ma muoversi. E c’era quel formicolio e quella sensazione di gonfio, di grande e fastidioso e. E. Gonfio. Come quando immergi un panno in un secchio e lo chiudi: c’è aria e la stoffa si tende e tira e sotto vedi le sacche che galleggiano e premi e premi e ti accorgi che lì, l’aria e l’acqua, sono gonfie. E lei si sentiva come una bolla: gonfia. E stanca; e pesante.

Assieme al soffitto e alle luci, il gonfiore era diventato una compagnia. Non era stato più nemmeno fastidio, quasi piuttosto sicurezza. Se si sentiva gonfia, forse voleva dire qualcosa. Il corpo può essere gonfio, giusto? Il corpo. I corpi si gonfiano. Si gonfiano quando…quando. No. No. Non così; non doveva ragionare così. Da capo; ricomincia: trave. Ecco: la trave. La vede; o comunque vede qualcosa. Brava, prosegui. Vai avanti. Trave e dopo? Trave e poi…Poi il muro. Certo. Il muro. A destra e a sinistra. Un muro o un soffitto. E poi il gonfiore. C’era anche il gonfiore; e non è una sensazione mentale. Ne è sicura. È concreto. È vero.

Deve solo avere pazienza, ecco. Deve ricordarsi di cosa sia la pazienza. E il gonfiore se ne andrà; piano piano, ma se ne andrà. Certo. È naturale. E allora potrà. Potrà. Potrà qualcosa. Alzarsi? Forse. Guardare? Certo: guardare. E il muro scenderà e laggiù ci sarà una porta e fuori dalla porta. Fuori dalla porta. Cosa vorrebbe ci fosse, fuori dalla porta?

 

Leone.

Sì; vorrebbe ci fosse Leone. E la casa dei nonni, fra le montagne. Vorrebbe avere la febbre, la febbre alta. E fissare la finestra; la finestra della sua camera, quella che affaccia sul gruppo del Brenta. E aspettare. Perché il nonno ha chiamato Leone, e Leone arriverà presto. Leone è sempre venuto quando si ammalava. O le telefonava. Il cellulare squillava e squillava e quando lei diceva Pronto? Leone rispondeva: sarò lì presto.

Leone è sempre venuto, quando era ammalata. E le portava un regalo. Perché Milano è bella e lontana e piena di cose strane. Leone le portava sempre un regalo. Un gioco quando era piccola, una maglietta un po’ ricercata, un gioiello etnico. Poi, libri.

Leone.

Vorrebbe che ci fosse Leone, da qualche parte, fuori dalla porta. O sulla porta. Che ride e ride e le dice che è la solita, che sa combinare solo guai. Perché non è un guaio, forse, ammalarsi in estate, quando non c’è scuola e il caldo è fastidioso e lui ha prenotato per due settimane di mare e adesso deve disdire tutto e lavorare anche in vacanza? Leone avrebbe riso, ne era certa. Avrebbe riso e le avrebbe detto che, in fondo, era lo stesso. Che il mare non se ne va da nessuna parte e con un ombrello aperto e qualche asciugamano il mare potevano vederlo lo stesso.

Aveva…Sì, nove anni. Nove anni la prima volta che Leone era piombato in camera sua e aveva appeso al soffitto un lenzuolo blu con tanti pesci di carta e una grande lampada ricoperta di carta velina e due asciugamani e un boccaglio e…E il proiettore. Le aveva detto: ti insegno a fare le immersioni. E erano rimasti nella stanza semibuia, nel caldo, a fissare i riflessi strani di una lampadina contro la carta velina. Le era sembrato bello; bello e incredibile. E si era convinta che suo fratello fosse un mago: perché le aveva portato il mare e i delfini e i granchi in camera.

Aveva diciannove anni Leone, quella volta. E avrebbe potuto andarsene al mare da solo, con qualche amico o con la sua ragazza. E invece era rimasto con lei, era rimasto per lei.

Leone non viveva più con lei e i nonni da qualche anno, ma non se ne era mai accorta veramente. Perché quando serviva Leone veniva. E stava con lei.

Venivano anche mamma e papà, ed era contenta. Ma lei voleva Leone.

E lo avrebbe voluto ancora: fermo sulla porta, un bicchiere di aranciata e un libro. Si sarebbe seduto sul letto; e avrebbero riso e giocato e scherzato.

Avrebbe voluto Leone.

E non un soffitto con una ragnatela grande e cattiva e un corpo che non è nemmeno un corpo ma una cosa gonfia che tira e sembra pronta a esplodere. E fa male. Fa molto male. Soprattutto alla spalla e al petto. Mentre respira, quando la bocca si apre e l’aria scende. È come se raschiasse qualcosa; come se la gola non ce la facesse più. E c’era un sapore indefinito, un sapore fastidioso. Miele e qualcos’altro; qualcosa di amaro.

 

C’era voluto tempo.

Prima che le luci non fossero solo luci; prima che il soffitto diventasse un soffitto vero, e la trave diventasse una trave vera, di quelle che reggono qualcosa, un qualcosa che non sia solo una speranza di normalità. C’era voluto tempo, prima di trovare il coraggio di muoverla, la testa, e farla scivolare di lato, i capelli a offuscare gli occhi, e ritrovarsi a fissare un rettangolo male illuminato nel riverbero serale del sole e di un fuoco che sonnecchiava. C’era voluto tempo, prima che i frammenti si ricompattassero e da sprezzi ed emozioni e sensazioni riemergesse la percezione nel corpo. Lentamente. Prima la punta delle dita; i polpastrelli sorpresi di avvertire qualcosa di morbido oppure di liscio. Prima i polpastrelli; poi il gonfiore e la sensatezza si erano dilatati in gambe e mani e piedi e fianchi e collo e torace. Lentamente, le sensazioni si sommavano, e accanto all’abitudine emergeva il nuovo, il meglio definito. Aveva realizzato di essere sdraiata, sdraiata supina. In un futon probabilmente; un futon su un tatami. C’era odore di cenere e di pruno bianco. Era rilassante, come una nenia sussurrata.

La cenere, il pruno bianco e riflessi opalescenti.

 

C’era voluto tempo.

Prima che i riflessi non fossero solo riflessi. E Alessandra si era ritrovata a fissare un viso semitrasparente dai contorni sfumati. Un viso da donna, con un accenno più scuro di cavità oculari e i tratti che si delineavano senza volontà di definirsi nettamente.

Era rimasta a guardarla.

La guardava mentre si avvicinava, impalpabile ed eterea. Sapeva di pruno bianco e di acqua. Sapeva di tranquillità, ed era bella. Troppo bella. E Alessandra desiderò di trovare la forza di allontanarsi; desiderò poter controllare il suo corpo e scappare. Perché quella creatura era troppo bella, e faceva paura. Tanta paura.

Tremò mentre le sedeva accanto; tremò mentre quelle mani impalpabili e fatte come di luce le percorrevano i contorni del kimono e scivolavano sulla seta. Tremò; e anche se quel contatto era leggero, simile ad un soffio di vento, sentì altre mani afferrarla e stringerla e strappare e toccare e costringere e, e, e. E.

Alessandra chiuse gli occhi e tentò di ricacciare in gola il nodo e la saliva che se ne stavano lì, in fondo alla bocca, incastrati e fermi, in un gorgoglio fastidioso ad ogni respiro. Mentre le mani restavano lì, sul suo corpo. Sul suo corpo inerme.

Sul suo corpo inerme che veniva svestito senza chiederle permessi o altro. La seta che scivola sulla pelle e la sensazione di pensante e umido dell’aria calda; le mani che sfiorano e ascoltano e tastano e controllano.

E non c’era più una sola donna. C’era tante donne.

Tutte uguali. Tutte madreperlacee e senza volto, o con un volto che non riusciva a definire. E la toccavano. La toccavano e la spogliavano e la sollevavano.

 

Era stato un momento: un violento capogiro e lo spazio di scorgere una fusuma alle sue spalle e luce. Tanta luce. E poi un cuscino sotto la testa e negli occhi tutte le lacrime che avrebbe voluto piangere mentre era in quel silenzio assordante. Il cuscino e le mani fredde (erano davvero fredde?) a toccarla e la porta laggiù, lontana, con il suo intreccio di bambù immobile nel frinire assordante delle cicale. Era stato un momento, dilatatosi all’infinito. E assieme alle percezioni confuse, violento, era riemerso qualcosa di brutto, qualcosa che le aveva stretto la bocca dello stomaco e premuto e contratto fino a darle, inaspettata, la forza di sollevarsi a sedere annaspando e respirando a pieni polmoni, una mano sulla bocca e una stretta artigliata allo stomaco.

Era stato un momento; un ricordo indefinito che le aveva invaso la testa e i respiri profondi e la calma che si era imposta erano svaniti in un conato di vomito violento e prolungato. Un momento, e si era ritrovata con la bocca impastata e amara, e quel brivido che ti scivola nelle ossa, mentre senti la stomaco ribellarsi ancora e ancora e stringi gli occhi con la gola che si chiude e di dilata con un ritmo che non sopporti e non puoi controllare.

Non ricordava quanto.

Non ricordava quante volte mani estranee avessero dovuto sostenerla, tergerle sudore e saliva e riaccompagnarla mentre il suo corpo debilitato scivolava in basso. Velocemente; molto velocemente.

Non ricordava; ma sapeva. Sapeva che era successo. Due volte; tante volte. E sapeva che non c’era mai stata una parola. Un commento, un rimprovero, un incoraggiamento. C’erano solo mani; in ogni momento. In ogni dannato momento.

Anche negli incubi. E avevano occhi, quelle mani. E bocche e denti e lingue. La afferravano, la stringevano, la mordevano, la leccavano. Sul viso, sul petto, sul seno e giù, ancora più giù. Avrebbe voluto urlare; forse, di notte, urlava davvero. Ma quando riapriva gli occhi il soffitto era il soffitto e quelle donne eteree erano sempre lì, accanto a lei. Silenziose e inquietanti.

 

Una volta aveva avuto l’impulso di afferrarle.

Aveva teso spasmodica la mano verso un braccio, verso una luminescenza semitrasparente. Aveva paura, quella volta. Molta paura. Perché gli incubi erano sempre più chiari e definiti; perché nel sonno i ricordi e la realtà si sommavano alle paure e ai pensieri. Perché, per quanto ignorasse il tempo trascorso, lo avvertiva lento nel ritmo costante della natura. Non le era rimasta altro che la natura, in quel mondo diverso e sconosciuto. E nelle lunghe notti trascorse insonni nella sua stanza, a palazzo, quando nemmeno gli infusi e i decotti bastavano a cancellare gli orrori di corpi smembrati e l’odore di carne bruciata e sanguinante che si sentiva addosso, fin dentro le ossa; in quelle lunghe notti consumate da sola, alla luce tremula di una candela per non tremare, o convincersi a non farlo, delle ombre strane disegnate sulle nervature della carta di riso; in quelle ore, aveva iniziato ad ascoltare.

Il palazzo prima.

Con rumori così simili il giorno e la notte, come non esistesse soluzione di continuità. Come se un sussurro o una nenia continua serpeggiassero nei corridoi in ogni istante. Non era fastidio; e non era sicurezza. Quasi una presenza necessaria e ineluttabile, un velo impalpabile tessuto fra legni e lacche per tenerli uniti e impedire che qualcosa, qualcosa di non definito, di fumoso, andasse in pezzi.

Prima aveva ascoltato il palazzo.

E poi il fuori. I ringhi e i richiami di demoni diversi, riunitisi lì, in quel palazzo. Forse per paura; forse per fedeltà. Tanti demoni. Con aspetto diverso e voci diverse; mille voci. E a volte aveva sentito solo rumore e nessuna parola. A volte, nel padiglione dell’ospedale, nella cacofonia che rimbombava e ti penetrava nelle orecchie fino a stordirti; a volte, le era sembrato che non ci fossero rumori, ma rombi di temporali, eco del vento, il rimbombo di una grotta, il tintinnio delle foglie. Rumori; suoni. E natura. Non ci aveva mai pensato seriamente, ma anche durante le battaglie e gli scontri gli echi che si allargavano sul palazzo non erano suoni precisi. Sembrava piuttosto l’infuriare del vento su un mare in tempesta; o lo stormire frenetico e secco dei rami in mezzo ad un fortunale.

O forse era una stupidaggine che la sua testa aveva inventato per sopportare ogni cosa; una valvola di sfogo che le permettesse di ascoltare e al tempo stesso non sentire. Come con i ricordi. Come con i ricordi e le sensazioni di quel giorno. E allora la nausea rimontava e quelle donne eteree la dovevano sorreggere e stringere e premerle a forza in gola qualcosa di caldo e amaro. Premerle la scodella sulla bocca e tapparle il naso. E lei poteva solo inghiottire. Aveva potuto solo inghiottire; anche quella volta. E le mani erano rudi; e il corpo era nudo; e la gola bruciava e faceva male mentre le urla scendevano giù, con quello che le avevano fatto bere a forza.

Adesso le mani erano gentili; adesso la costrizione era attenta. Ma non era cambiato nulla. E quando perdeva il controllo; quando quelle mani tornavano, luride e lussuriose, a toccarla, nei sogni o negli incubi ad occhi aperti; quando si risentiva forzare e le sembrava di vederli ancora, chiari, violacei, i lividi che quelle mani, quegli artigli, le avevano lasciato sul corpo. Quando riusciva a trovare la forza e lo sfogo non si concentrava sullo stomaco che si annoda e si ribella, allora quelle donne riapparivano. Ed erano tante.

E le prendevano le mani che graffiavano e cercavano di togliere pelle e sensazioni sgradevoli che forse non se ne sarebbero mai andate. Le prendevano le mani e cercavano di fermarne i tremiti convulsi e le urla isteriche.

Era pietosa. Lo sapeva. Pietosa e isterica. E non le interessava.

Alessandra sapeva solo che se non avesse fatto qualcosa, anche solo qualcosa di insensato e umiliante, sarebbe impazzita. E sapeva che la pelle non la si può cambiare; sapeva che con il tempo i lividi si erano riassorbiti e i vestiti erano altri vestiti e quelle donne l’avevano lavata e lavata mille volte. Ma non importava.

E c’era male e c’era un sollievo insensato e doloroso mentre cercava di premere le unghie nella carne e graffiare e farsi sanguinare. Mentre cancellava sotto ad accanimento e rabbia lividi che solo lei vedeva; mentre scacciava mani e lingue e artigli che non c’erano più ed erano sempre lì. Nella sua testa; sul suo corpo.

 

C’era voluto tempo.

Prima che riuscisse di nuovo a fissare una parte del suo corpo senza che i conati di vomito o un brivido isterico l’attraversassero. C’era voluto tempo. E pazienza.

Sua; e di quelle figure evanescenti.

Non le avevano rivolto la parola per molto tempo. O forse, in realtà, era poco. Il tempo. Era diventato così insignificante; un avvicendarsi di momenti che volevano solo dire: presente e passato. E quello che era successo Alessandra voleva, doveva, diventare passato.

C’era voluto tempo. Prima che riuscisse di nuovo a emergere da un bozzolo in cui esisteva solo lei e il suo corpo umiliato. Tempo prima che la testa si muovesse con cautela e vedesse davvero la stanza dove si trovava. Diversa dalla sua stanza a palazzo; diversa dal palazzo. Il rumore era diverso. Un silenzio sussurrato e tranquillo che all’inizio le aveva fatto paura. Si era abituata al mormorio continuo e alla tensione sottile che la attraversava in ogni istante, in ogni gesto. Si era abituata a sentirsi addosso occhi e disgusto; a stringere e ingoiare parole e reazioni che, lo sapeva, sarebbero state solo controproducenti. Si era abituata a mentire; a tutti e soprattutto a se stessa. E se l’indifferenza e la maschera di freddezza che aveva indossato alla morte dei suoi genitori era stata un’accusa, una muta inquietante lunga accusa, solo in quel futon, nuda e senza più difese, stanca; solo in quel futon si era accorta della nuova maschera, così simili a quella vecchia e così maledettamente diversa. E la aveva indossata per. Per cosa? Per farsi accettare? Lo voleva davvero, essere accettata da quei demoni? Era davvero…importante?

 

Importante.

Importante per cosa? Per chi? Importante. Cos’era davvero importante? Per lei. Importante. Leone era importante; e lo aveva perso. E aveva perso tante altre cose; per sua scelta, per sua decisione. Ma le aveva perse. Ed erano importanti.

Cos’era importante? La stanza dove si trovava? No. Quella non era importante. Quella era solo una stanza che sussurra e respira. Come quella a palazzo; come mille altre stanze. Ma era così rassicurante. Con il tempo, era diventata conforto e protezione: aprire gli occhi e poter riconoscere la piccola crepa nell’intonaco, la nervatura che sembra una bocca sulla trave a destra, mezza nascosta dalle ombre. Non arriva mai il sole, lassù in alto, a destra; solo alla sera. Solo la sera, quando il sole entra obliquo dalla shoji alle sue spalle; solo la sera quella bocca di legno si allarga in un sorriso da bambino. E sembra dirti: ricordati di ridere. Ricordati che le cose possono andare bene.

 

Bambini.

C’erano anche bambini in quella noka. Li aveva intravisti una mattina, nella luce incerta del crepuscolo, mentre facevano capolino fra le canne di bambù. Li aveva osservati, senza pronunciare una parola o fare un gesto. Solo osservati. Li aveva visti una mattina; e poi erano spariti. Ed era comparso quel suono, come di nacchere d’osso o di pietra. C’era stato quel rumore ritmico e indefinito per giorni, e voci confuse e sottili. E i bambini.

Erano riapparsi un pomeriggio di pioggia, filtrando attraverso le pareti come piccoli fantasmi. Ma non erano fantasmi, di questo Alessandra era stata certa quando un bambino le aveva teso le braccia e si era ritratto ridendo quando aveva allungato la mano. L’avevano toccata e si era lasciata toccare. E quando arrivavano c’era profumo di resina.

Non erano fantasmi; e non erano pericolosi. Le donne che l’accudivano li ignoravano e li lasciavano avvicinare. No, non erano pericolosi. Erano solo bambini strani, di tre o quattro anni, con la pelle scura o verde e abiti di foglie e corteccia. Ma era bello vederli scrutare attenti il suo viso; era bello tendere la mani e osservarli mentre la esploravano.

Non parlavano. Non parlavano mai con lei. Ma ridevano e di domande ne facevano; suoni che sembravano lo stormio delle fronde. Le vedeva, le bocce piccole e sottili, aprirsi e chiudersi e modulare parole che non avevano suono. E lei scuoteva la testa e rispondeva no, non ho capito. E i bambini ridevano e battevano le mani e sembrava che avesse detto loro la cosa più gentile che potesse.

A volte c’erano solo i bambini; a volte c’erano delle piccole ombre indefinite. Un sasso grigio perlaceo con piccole cavità immobili che la fissavano scuotendo ritmicamente la testa. Erano loro le nacchere d’osso; erano loro il suono continuo che percepiva al tramonto. Ne aveva preso in mano uno, una volta; così piccolo da poter essere chiuso nel palmo e sembrava di stringere fumo e nebbia.

Kodama. Si chiamavano kodama: gli spiriti degli alberi.

Già. Kodama. E Kinoko.

E poi c’era lui.

 

Lui.

Dieci o forse mille anni. La leggerezza di un sorriso un po’ impertinente e la serietà di un’età non dimostrata. Era diverso; molto diverso. L’aveva studiata a lungo, le aveva detto. Da lontano. Studiata per curiosità e noia. E l’aveva interessata. Adesso, voleva sapere se le sarebbe piaciuta.

Era strano: un bambino in eleganti abiti di seta e raso, i capelli corti e l’odore dell’acqua. Già: l’acqua. Che sciocchezza! Alessandra se lo era ripetuta mille volte: l’acqua non ha odore; è solo acqua. Ma ogni volta che Ryoshi si sedeva accanto a lei; ogni volta che la sua mano la toccava, le sembrava di immergersi in un lago, di venire avvolta dall’acqua e galleggiare. Quando la toccava, avvertiva l’istinto di ripassare la mano sulla parte sfiorata, con la convinzione che l’avrebbe ritirata bagnata. Ryoshi sembrava acqua; acqua concentrata. E forse acqua lo era davvero, perché la pioggia gli scivolava addosso e non lo bagnava; perché disegnava nella scodella piccoli segni e pesci e cavalli e uccelli iniziavano a prendere forma e si muovevano per la stanza, in una piccola scia di goccioline rinfrescanti.

 

Era bello con Ryoshi.

Le aveva insegnato a riconoscere kinoko e kodama; le aveva insegnato cosa fossero kinoko e kodama. Parlava molto, Ryoshi; come un bambino costretto per molto, molto tempo, al rigore del silenzio. Parlava molto, ma era sempre attento; e se la vedeva stanca o persa nei suoi pensieri restava in silenzio.

Le aveva detto che si trovava al sicuro, in una noka. Le aveva detto di non pensare a nulla; le donne si sarebbero prese cura di lei per tutto il tempo necessario, e anche dopo se lo avesse voluto. Era al sicuro; non c’era nulla di cui preoccuparsi.

 

Al sicuro.

Alessandra lo aveva toccato per la prima volta dopo giorni. Quando finalmente era gattonato fino a lei e i riflessi che il sole strappava dalla sua figura erano spariti. Ryoshi era corpo e sostanza, ma contro il sole sembrava un cristallo. La luce si rifrangeva creando mille piccole ombre e linee azzurrine; o in giorni particolari o al tramonto, si spezzava in infiniti arcobaleni.

Ryoshi si era avvicinato e aveva lasciato che gli accarezzasse la testa, i corti capelli neri sempre un po’ umidi e lucenti. Era rimasto in silenzio a lungo, quella volta, Ryoshi. Mentre Alessandra piangeva per l’ennesimo incubo; mentre Alessandra piangeva e si mordeva a sangue un labbro nella paura, folle, grande, che di nuovo la sua bocca avrebbe urlato, che di nuovo quelle donne sarebbero accorse per fermarla e tenerla ferma. C’era solo Ryoshi, quel giorno. Gli altri, i kinoko e i kodama li aveva fatti scappare, con le sue grida che si strozzavano in un singhiozzo. C’era solo Ryoshi, e una benda sul suo polso, lì dove aveva morso forte per sentire male e sentire la pelle tremare e il sapore del sangue in bocca e trovare la forza, di nuovo, di vomitare. Per il disgusto che provava; per il sapore che le riempiva la bocca all’improvviso, senza un motivo. Lo riconosceva sempre, quel sapore: il gusto amaro di quell’intruglio che le avevano fatto bere.

Perché.

Perché. Già. Perché. Ricordava anche quello, adesso. Perché abortisse. Perché non ci fosse il pericolo che un bambino crescesse nel suo grembo. Perché lei era una ningen, e non aveva valore. Perché un hanyou sarebbe stato solo un disonore.

Perché sarebbe stato figlio suo.

 

“Devi smetterla di pensarci”

 

Ryoshi.

Ryoshi sapeva; in qualche modo, sapeva. Forse glielo leggeva nella mente; forse glielo avevano raccontato le donne. Forse. O forse non sapeva nulla; forse sapeva solo che stava male e qualunque cosa fosse la soluzione migliore era dimenticare. Accettare e cancellare. E andare avanti. Forse. Ma in fondo non le importava se Ryoshi sapesse o ignorasse. Perché era lì; e le bastava. Era lì e rideva, la bocca piena del riso degli onigiri e le gambe sempre in movimento, a scalciare in aria, quando si era sollevata a sedere da sola la prima volta. Era lì, mentre ricacciava le vertigini e la nausea e con lentezza ritrovava la forza per alzarsi in piedi e provare di nuovo a camminare, sorretta da quelle donne. Era stato come ricominciare; come se avesse dimenticato tutto e anche il semplice susseguirsi dei passi fosse una cosa da scoprire, da riapprendere. Non era stato facile; proprio no. Era caduta; aveva sentito le gambe tremare e abbandonarla. Aveva sentito la debolezza invaderla e la nausea assalirla. Era stato faticoso, e lungo. Ma quando, per la prima volta, era riuscita dal futon a raggiungere la cucina in muratura; quando si era voltata, la fronte madida di sudore, il respiro corto per l’eccitazione e lo sforzo, scarmigliata e bella nella sua piccola semplice conquista; quando si era girata, Ryoshi era lì, e la fissava con la bocca a metà fra un sorriso e un grido di gioia. La fissava e le braccia e il corpo fremevano come reprimesse l’istinto di correre da lei e abbracciarla. La fissava e poi, alla gioia del bambino, si era sostituito l’orgoglio di un adulto; e la testa aveva concesso un cenno più eloquente di molti discordi e parole.

 

Quella sera, mentre la pioggia cadeva ritmica, mentre Alessandra respirava e sorrideva, Ryoshi era andato a trovarla, e aveva l’aspetto di un ragazzo. Le si era seduto distante, composto e imbarazzato; e forse un po’ intimorito. Alessandra-sama era stata violentata, almeno psicologicamente. Alessandra-sama era abituata a vedere attorno a sé donne etere e youkai bambini; ed era abituata ad un altro aspetto della sua persona. Ma Ryoshi non amava mentire, e ad Alessandra-sama aveva deciso di dire la verità, di fargliela vedere. E le aveva raccontato.

 

Le aveva detto di essere un mizuchi, uno spirito dell’acqua. Uno youkai o forse un kami. Non sapeva nemmeno lui se esistesse davvero la differenza; se fosse importante, una differenza. E che non aveva un suo vero aspetto, ma mille forme, mutevoli e cangianti come lo è l’acqua. Perché il bambino? Se voleva ingannarla? No, non voleva ingannarla. Voleva conoscerla, glielo disse candidamente, accomodandosi contro lo stipite della shoji. Voleva conoscerla e parlare con lei. E aveva scelto la forma di un bambino. Perché kodama e kinoko sono come bambini; perché un bambino è rassicurante. Perché. Perché. In fondo, non c’era nemmeno un vero perché. Doveva scegliere una forma e l’aveva scelta con naturalezza, per istinto.

Ma di dirle bugie no, non voleva. Perché Alessandra-sama non le meritava, le bugie. Perché con Alessandra-sama era bello parlare e ridere e restare in silenzio ad ascoltare la pioggia o il sole o il canto dei kodama nel tramonto. Non le meritava le bugie, Alessandra-sama, Ryoshi ne era certo. E aveva deciso di farglielo vedere, davvero, che il suo aspetto di bambino era solo uno dei molti aspetti. Ma la sostanza. La sostanza non cambiava. Ryoshi era Ryoshi, come l’acqua è acqua che sia ghiaccio o nuvole.

 

Ryoshi è Ryoshi.

E voleva solo avere la sua compagnia; in qualunque forma lo volesse accanto. Aveva paura del ragazzo? Sarebbe tornato bambino. Non si fidava più del bambino, sarebbe diventato pesce, o anatra o ghiaccio o pioggia o nuvola. Sarebbe diventato qualsiasi cosa volesse, qualsiasi cosa la rassicurasse. E se ne sarebbe andato, se Alessandra-sama non lo volesse più vedere. Se ne sarebbe andato e basta, ma Alessandra-sama doveva promettergli che si sarebbe alzata ancora e che, la prossima volta, non si sarebbe fermata alla cucina in muratura. Doveva promettergli che la prossima volta sarebbe andata alla porta, e avrebbe sollevato la cortina di bambù. Doveva prometterli che sarebbe uscita; perché è bello, il posto dove si trova e non è solo una noka rassicurante. Perché i kodama e i kinoko gli avevano confidato che avrebbero voluto farle vedere il bosco; perché l’acqua è tiepida e c’è sole e non è giusto restarsene sempre chiusi nella noka.

 

Ryoshi aveva un tono di voce tranquillo e adulto, con un timbro un po’ più profondo della voce di quando era bambino. Una voce non ancora formata, ma che già lascia percepire la seduzione di cui sarà capace. Le aveva parlato a distanza, ma era come se fili d’acqua avessero serpeggiato attorno a loro per tutto il tempo, a costruire una cortina che, adesso, Alessandra poteva semplicemente infrangere e avrebbe visto sparire in uno scroscio di perle. Qualunque cosa decidesse, Ryoshi le aveva detto: non smetterò di guardarti.

E Alessandra aveva detto sì. Alessandra aveva detto sì, che restasse. E ritornasse il bambino che l’aveva salutata a testa in giù la prima volta. Un giorno, forse. Un giorno forse avrebbe detto: fammi vedere il ragazzo. Ma non ancora; non era ancora pronta per il ragazzo. Il bambino andava bene; e non avrebbe dovuto smettere di parlare. E avevano parlato tanto, quella notte. Sussurrando.

Avevano parlato tanto, quella notte. Finchè una delle donne che la accudivano non aveva detto a Ryoshi: vai. Continuerete domani.

 

“Vi state rimettendo. Ne sarà informato”

 

E nella piega delle labbra Alessandra aveva avvertito sgomento e dubbio; negli occhi che si abbandonavano al sonno, la donna aveva scorto un guizzo di paura, di sorpresa. Nel non riuscire ad afferrare il significato delle parole; nel naufragare alla ricerca di un senso preciso che sfuggiva. Informare. Informare chi? Ryoshi se ne era appena andato; e Leone non c’era più. Chi? Chi andava informato? Aveva sentito le labbra muoversi, ma non ricordava di aver pronunciato suono. O forse la sua testa ronzava troppo per distinguere un suono. Ma chi? Chi? Chi doveva sapere che stava meglio? Chi?

Forse lo aveva chiesto davvero; forse la yasha lo aveva letto sulle sue labbra mute o solo intuito dal suo disorientamento. E inclinando la testa di lato le aveva risposto, con un nome che Alessandra, con paura, si accorse di non aver mai pensato.

 

Sesshomaru-sama

 

 

 

*****

 

 

 

Sesshomaru.

Era strano; molto strano. Ma non ci aveva pensato. Mai. Da quando. Da quando. Forse semplicemente da quando aveva perso conoscenza dopo quel giorno. O lo aveva chiamato, pensato, invocato? Non lo ricordava.

Sesshomaru.

Il suo nome. Perché adesso le suonava così…distante. Era davvero distante? Da quando? Quando si era creata, quella distanza? O c’era sempre stata e lei, ingenua e sciocca, non l’aveva mai voluta vedere?

Sesshomaru.

Sesshomaru non c’era. E quella era la sola sicurezza che aveva. Non c’era quando stava male, nel delirio della febbre che la consumava; non c’era mentre quei demoni, i demoni del suo palazzo, della sua corte, contravvenivano agli ordini, ai suoi ordini, e la violavano. Non c’era quando il respiro diventava rantolo e la gola faceva male per le urla e il pianto; non c’era durante i giorni passati nell’incoscienza, a macerare sensazioni e paure. Non c’era quando aveva riaperto gli occhi e la prima cosa che aveva visto era stato un soffitto sconosciuto. Non c’era per calmarla, non c’era quando si era sollevata a sedere e, dopo mesi, era riuscita a mangiare di nuovo qualcosa di solido; da sola. Non era suo il braccio che l’aveva sostenuta mentre provava i primi passi: c’erano altre mani, effimere e distanti, che si tendevano dal doma. C’erano altre parole, un’altra voce che la incoraggiava e la spronava. E c’era stato un altro sorriso e un altro lampo d’orgoglio quando si era alzata in piedi e da sola era riuscita a raggiungere la porta, un passo incerto accanto all’altro. Per dire: ancora. Posso farcela ancora. Sto migliorando.

 

Sesshomaru.

Sesshomaru non c’era. E di lui, del suo viso, l’ultimo ricordo che aveva e andava sfumando in contorni cristallizzati ed eterei, era di un viso schizzato di sangue, sporco di polvere e sudore, in mezzo ad un campo di battaglia. La sua voce che diventava sempre più lontana e le sue mani che scomparivano. E poi. Ah sì! Il sapore del suo sangue. Lo aveva morso; gli aveva morso una spalla. O forse era stato il collo o il polso o. Non ricordava. Ma lo aveva morso, sì. Mentre. Mentre Inuyasha faceva forza contro la sua schiena e cercava di estrarle la naginata. Già: la naginata.

Il dolore e il respiro che sparisce d’un tratto dai polmoni. Le era rimasto solo quello: frammenti confusi di sensazioni. Troppo confusi per riarticolarli e dar loro una consequenzialità logica. Però la naginata era stato il prima, l’inizio. E poi c’era stata la terra, il corpo che non risponde e. E bianco. O forse era nero o rosso o. Non importa; non importa. Non ha senso pensarci. Non serve; a niente.

Il palazzo, dopo. Sì; il palazzo. Sesshomaru l’aveva riportata a palazzo. E l’aveva lasciata a palazzo.

Per giorni, settimane. Forse anche mesi. Non lo sapeva. Non aveva ancora avuto il coraggio di chiedere quanto tempo fosse realmente trascorso; quanto lunga fosse stata la sua incoscienza e poi la convalescenza.

 

Il palazzo.

E poi, ne era sicura, si era svegliata. Ed era a palazzo. E aveva visto gli altri: Inuyasha, Miroku, Koga. E Yaone e Homoe e Rin e Ayame. Sì: li aveva visti. E li aveva ignorati. Ma era stato dopo; dopo che il suo corpo era stato spogliato e toccato e violato. Dopo che mani e artigli avevano stretto i suoi seni e il suo ventre fino a farle male, fino a farla piangere e singhiozzare, confondendo parole e colpi di tosse con la frustrazione della debolezza. Era stato dopo; quando non sopportava che qualcuno la guardasse, che qualcuno la toccasse. E poi.

Poi.

Sesshomaru.

Sì: Sesshomaru. Come sul campo di battaglia: il viso schizzato di sangue e l’odore ferino della battaglia. Era stato davvero lui a prenderla in braccio? Era stato davvero suo il petto contro cui aveva reclinato la testa e si era lasciata andare? Ricordava voci; voci confuse e lontane e come una carezza un po’ rude e un po’ imbarazzata. Ricordava. Erano davvero ricordi? O forse erano illusioni. Stupide sicurezze che si era costruita per ignorare, di nuovo, qualcosa che non sopportava, che non voleva vedere. Forse lo erano davvero, delle illusioni. Forse la noka era solo un’altra stanza del palazzo; forse il silenzio che avvertiva era il silenzio dopo che accampamento e assedio erano stati tolti. Il silenzio del palazzo.

 

Non lo conosceva, si accorse. Conosceva il palazzo pieno di demoni; conosceva il serpeggiare continuo della tensione nelle membra in ogni istante, la perfezione di gesti ricercati e ripetuti all’infinito con la naturalezza dell’azione immediata. Conosceva il palazzo durante la guerra; ma non lo aveva mai visto in tempo di pace.

Pace. La pace.

Esiste la pace, per un demone? Esiste lo scorrere pigro dei giorni in piccoli sciocchi quotidiani rituali? O forse uno youkai ha altri rituali, altre quotidianità. E quella che ai suoi occhi è guerra per loro è normalità; e quella che ai suoi occhi è pace è morte.

Forse. Forse Sesshomaru l’aveva davvero portata via. Via dal palazzo; via dalla violenza. Via da tutto. Glielo aveva detto, alcune volte, prima che andasse. Glielo aveva detto anche quella notte, quella trascorsa nella stanza di sua madre: andare via. Di nuovo. Di nuovo lontani dal palazzo. Di nuovo lontani da maschere e cerimoniali. Andare via; senza pensarci. Andarsene e basta.

Sesshomaru glielo aveva promesso: ritornerò. Glielo aveva detto; e poi la voce si era affievolita ancora, meno del sussurro che le aveva concesso. E gli occhi, ancora ciechi, ancora opachi, erano scivolati oltre il rettangolo della finestra ed erano rimasti lì, senza parlare, senza definire cosa potesse significare, quel dopo nel ritorno.

 

Sesshomaru era tornato, certo.

Con lei fra le braccia; e se ne era andato di nuovo. Con lei. E adesso? Adesso dov’era? Forse di nuovo a palazzo? O forse, alla fine, aveva realizzato che quel qualcosa che era nato fra loro non valeva tutta la tensione e i rischi e l’aveva semplicemente lasciata andare. In fondo, non c’era nulla che le potesse dare la certezza che il ritorno dello youkai significasse davvero un qualcosa. Semplicemente, poteva significare una parola: fine.

Fine di tutto; fine di quel poco che si era creato piano piano; fine di quel precario equilibrio raggiunto con sforzo e sacrifici. E maschere reindossate.

Maschere, già. Perché aveva reindossato una maschera, a palazzo? Per proteggersi? O forse. Forse lo aveva fatto per lui, perché il dubbio dell’errore non lo sfiorasse. Alessandra sospirò, rigirando il tè. No: la maschera l’aveva indossata perché voleva, perché si sentiva protetta; e perché Sesshomaru doveva essere tranquillo e sicuro di lei. L’aveva indossata per sua scelta, per studiato calcolo. E aveva lasciato che si stratificasse sempre di più, cerone e trucco e di nuovo cerone. Senza mai toglierla per far respirare la pelle e aggiustare le piccole crepe. Troppa fatica; troppo pericolo. L’aveva indossata e l’aveva mantenuta. Correggendola senza modificarla; lasciandosela asciugare addosso ancora fresca di umiliazione e rabbia. Sì: aveva scelto lei di indossarla; e Sesshomaru non aveva fatto nulla per togliergliela.

 

Era strano.

Strano come solo dopo mesi, solo dopo tanta incoscienza, mentre riusciva a restare seduta sull’engawa e gustarsi il declinare del sole autunnale, realizzasse l’assenza. Con naturalezza. Come era diventato naturale sdraiarsi nel futon di Sesshomaru e aspettarlo; come era diventato naturale il gesto del suo collo quando si piegava per baciarla. Non si era mai accorta di piccoli gesti ripetuti sempre, e sfumati con la medesima naturalezza con cui si erano creati. Adesso naturale era svegliarsi da sola; adesso la quotidianità era la notte spiata dalle shoji socchiuse e le parole sussurrate nello stormire dei grilli. Adesso la costante era Ryoshi.

E Sesshomaru. Sesshomaru era rientrato nei suoi pensieri con l’eleganza che gli era propria. Quasi con sfacciata irriverenza. E restava lì, a ossessionarla, a costringerla ad analizzare ed analizzarsi. Sempre; sempre. Anche se la risposta era facile; dannatamente facile. Sarebbe bastato fare un cenno e subito l’avrebbe avuta, quella risposta. Le donne gliel’avrebbero data; o Ryoshi.

Ma il problema non era la risposta, Alessandra ne era consapevole. Il problema era la domanda.

 

La domanda.

Cosa chiedere? Dove fosse? Forse nemmeno loro lo sapevano. Se l’avesse abbandonata? Non glielo avrebbero mai detto, anche se lo avessero saputo. E Alessandra dubitava che qualcuno sapesse esattamente cosa Sesshomaru volesse o pensasse. Se sapessero quando tornava, ecco. Quella sarebbe stata una buona domanda; un’eccellente domanda. Ma farla. Farla era difficile. Perché ogni volta che apriva la bocca; ogni volta che prendeva un respiro e la formulava nella testa, immediata risuonava un diniego che non era certa di voler sentire davvero. Perché in fondo significava realizzare davvero che l’aveva lasciata; e che qualcosa era cambiato. Qualcosa che forse non avrebbe mai saputo, che non gli avrebbe mai sentito pronunciare. E che era così definito e facile da farla ridere; quasi.

 

Se ne era accorto.

Se ne era davvero accorto. E anche lei. A mente fredda, approfittando della pace della convalescenza, dei ritmi tranquilli che le erano stati imposti, Alessandra aveva potuto pensare. E la conclusione più lucida che aveva articolato era stata disarmante: ningen e youkai.

La differenza. Una differenza reale.

Aveva sempre pensato alla razza; aveva sempre pensato che essere ningen e youkai significasse un po’ essere europei e asiatici. Solo una differenza etnica; solo uno stupido pregiudizio che l’abitudine e il dialogo può appianare, può insegnare a equilibrare. Stupida. Era stata una stupida. E le bastava fissarsi le mani ancora pallide e smagrite per averne la prova tangibile: il suo corpo, la sua mente, la sua essenza. Tutto di lei gridava alla pazienza e alla tranquillità. Era stata colpita; era rimasta ferita e aveva passato giorni in stato d’incoscienza, divorata dalla febbre e incapace di mantenere a lungo la lucidità. Quando si era risvegliata, la mente debilitata non era stata capace di sorreggere l’ondata mnemonica ed emozionale che l’aveva invasa all’improvviso, violenta. E adesso c’era la convalescenza, lunga e difficile, un riapprendere tutto da zero, quasi fino nel ritmo del respiro.

Da quando aveva camminato la prima volta, da sola, sul dome e fino alla piccola cucina in pietra, doveva essere trascorso più di un mese. Un mese; probabilmente ormai era la metà di ottobre. E quindi facevano quattro mesi: quattro mesi da quando era stata ferita, ai primi di giugno, o forse era la fine di maggio. Presto cinque, probabilmente. E a fatica riusciva a percorrere piccoli tratti senza che il respiro divenisse affanno e il corpo tremasse. Ryoshi le aveva detto che la pazienza era necessaria; che sarebbe tornata a camminare e correre normalmente. Era stata ferita a un polmone; il sangue e l’aria si erano mescolati e il respiro era divento saliva rossa. Considerando l’epoca in cui si trovava, Alessandra realizzò con un brivido che poteva ritenersi fortunata ad essere sopravvissuta.

 

Quasi cinque mesi. Per riuscire a malapena a restare in piedi e camminare senza bisogno costante di un sostegno. Cinque mesi. Quando gli youkai che curava dopo le battaglie, nel volgere di due giorni, erano in grado di ritornare sul campo. I più gravi potevano impiegare al massimo una settimana. E avevano corpi mutilati che si riformavano; avevano volti cianotici e ustionati che ritornavano eterei e madreperlacei senza segni o intaccature. Lo sapeva: aveva visto il viso di Sesshomaru cancellare le ustioni di quell’acido o qualunque cosa Naraku gli avesse gettato addosso in pochissimo tempo; lo aveva visto abituarsi alla cecità con la facilità con cui ci si adatta ad un abito nuovo. Lo sapeva. Ma non lo aveva mai voluto considerare seriamente. Sottigliezze, si era detta. E aveva sbagliato. Adesso lo sapeva; adesso lo sapeva davvero.

Era una consapevolezza che non riusciva a spiegare. E forse non si poteva nemmeno chiamare consapevolezza. In definitiva, i tasselli li aveva sempre avuti davanti agli occhi, ma solo alla fine era riuscita a decidersi a comporre il mosaico. Perché. Perché significava realizzare davvero che, per quanto si legasse a lui, non sarebbe mai stata capace di comprendere davvero Sesshomaru. E, Alessandra lo sapeva, quella zona d’ombra che ci sarebbe sempre stata non era certa né di riuscire a definirla né di poterla accettare. Era stata la paura, in fondo, a frenarla; la paura l’aveva sempre frenata; su molte cose. Ma adesso aveva davvero senso, quel ragionamento? Sesshomaru non era con lei; e forse non ci sarebbe stato mai più. Forse, quando si fosse rimessa completamente, le yasha le avrebbero dato alcune provviste e indicato una direzione. Una a caso o già concordata con Sesshomaru. Non avrebbe avuto importanza; si sarebbe ritrovata di nuovo sola, in quel mondo diverso e, adesso ne era pienamente consapevole, pericoloso. Chissà. Forse avrebbe potuto stabilirsi lì; forse Sesshomaru voleva che si stabilisse lì. Con Ryoshi. Sì; con Ryoshi sarebbe stato possibile ritrovare un equilibrio. Ma non c’erano garanzie; non c’era nulla. Ryoshi era uno youkai o un kami; era comunque diverso da lei. E di nuovo avrebbe potuto svanire, evaporare come una goccia d’acqua.

 

Lo voleva davvero? Voleva davvero legare se stessa a qualcosa che non poteva capire e che non avrebbe mai capito? Forse sarebbe stato più semplice cercare di ritornare al villaggio di Kagome e Inuyasha; ritornare e cercare un modo per rientrare nel suo mondo, nella sua quotidianità. Nella peggiore delle ipotesi, avrebbe potuto ricrearsi una vita a Musashi. Fra ningen come lei; fra persone con cui aveva condiviso qualcosa di importante.

Sì. Era una possibilità.

Ma.

Già; c’era quel ma. Sesshomaru.

Sesshomaru e il loro rapporto indefinito. Davvero così fragile? Davvero per uno youkai i sentimenti non esistono? Davvero si era limitato a un diversivo, con lei? No. Alessandra non voleva crederlo; non accettava di crederlo. Però. Però non era lì. E anche questa era una realtà innegabile. Ma forse. Forse non era lì perché non poteva esserci. Forse la battaglia non era stata decisiva come tutti loro avevano sperato e attorno al palazzo si combatteva ancora. E Sesshomaru è necessario, sul campo di battaglia.

Informarlo, è vero. Le avevano detto che lo avrebbero informato. Forse. Forse stava solo aspettando il momento migliore per tornare. Per tornare a prenderla. O forse no.

Sospirò pesantemente.

Erano giorni che rimuginava e inseguiva teorie e ipotesi, senza risultato. In fondo, per quanto pensasse e immaginasse, l’unica soluzione per ottenere risposte sarebbe stato chiedere. Chiedere e rassegnarsi ad accettare qualsiasi cosa le fosse detta.

 

Sesshomaru.

Aveva voglia di parlargli. Aveva voglia di vederlo e. Forse voleva davvero solo vederlo. E cercare di capire se realmente qualcosa fosse cambiato, e soprattutto in che modo. Capire cosa esattamente fosse successo e perché, per cosa, tutto fosse semplicemente diventato passato, scivolato dalle dita come sabbia. Una ragione. Doveva esserci una ragione. Una sciocca stupida inutile insensata ragione. Ma sentirla. Avesse potuto sentirla: dalla sua bocca, dai suoi occhi. Forse avrebbe ribattuto; o forse avrebbe chinato la testa e accettato e basta. Forse. Non lo sapeva; non ci voleva pensare. Ma vederlo, quello sì. Scoprire con che occhi l’avrebbe guardata adesso. Scoprire se l’avrebbe ancora guardata. Senza sentire su di lei, sul suo corpo, l’odore di altri demoni, le mani e la lussuria di altri youkai.

 

Era per quello? Era stato per quello che l’aveva lasciata? Lasciata. Alessandra strinse le mani, forte. Che pensiero sciocco. Lasciarla. Sesshomaru non l’aveva lasciata. Non c’era nessun rapporto ufficiale fra di loro. Non c’era nulla di definito, fra di loro. Già: proprio una sciocca. Aveva rifiutato in ogni modo di essere una oiran e si era ritrovata a ricoprire un ruolo simile ad una yotaka. In fondo, qual era la differenza? Le notti clandestine, i baci strappati negli angoli bui dei corridoi, la rigidità compassata impostasi e i gesti spezzati. La distanza. La distanza che si era scavata fra loro giorno dopo giorno, mentre i loro corpi di avvicinavano, si toccavano, imparavano a riconoscersi. Se. Se avesse fatto l’amore con lui. Se quella notte, l’ultima trascorsa assieme, Sesshomaru non si fosse fermato, lei non gli avesse permesso di fermarsi sarebbe cambiato qualcosa?

Rise piano, quasi un singhiozzo. Stupida. Stupida ragazzina innamorata. Lo sei ancora, innamorata? O era dipendenza?

 

Cos’era?

Cos’era il rapporto che ti legava a lui? Sai descrivertelo, sai spiegartelo? No. Non sai farlo. Perché sei sempre stata più impegnata a cancellare e mascherare e ignorare piuttosto che assaporare e scoprire. Perché faceva paura, quel crampo che ti prendeva lo stomaco e scendeva caldo. Perché faceva paura stare bene; e ti sentivi in colpa, mentre youkai combattevano e morivano, alla sera sorridere nel suo abbraccio, riposare vicino al suo petto. È esistito davvero, quel rapporto? O sei stata solo tu a costruire pensieri e speranze false? Non glielo hai mai chiesto: mi ami? E non glielo hai mai detto. E adesso? Se lo avessi davanti, cosa faresti? Glielo diresti?

No; non glielo diresti. Perché non lo sai più, se lo ami. Non sai se saresti capace, di amarlo. O forse sì; forse glielo diresti perché, in fondo, sapere ed essere capaci sono due pensieri troppo razionali. E non si può dire ti amo con leggerezza. Non si può dire ti amo e basta, ma lo devi dimostrare, lo devi imparare. Passo dopo passo; errore dopo errore. No. Non glielo diresti. Non glielo diresti con le parole.

Lo guarderesti.

 

Lo guardi.

Perché Sesshomaru ti sta fissando, nel rosso del tramonto autunnale. E il tempo sembra dilatarsi, fluttuando assieme alle foglie di ginko, spezzandosi nelle ombre che si allungano placide e sornione. Ti sta guardando, e tu te ne resti seduta sull’engawa, senza forza per alzarti e senza la sicurezza che non sia solo un abbaglio della mente. Lo volevi così tanto. Guardarlo: il viso elegante, dal profilo definito, con al mandibola che va delineando sempre di più un viso maschile. È cambiato. Nella separazione, è cambiato. Come cresciuto. Alessandra lo vede; ed è come se fossero passati anni. Inghiotte a vuoto e si accorge di avere la bocca socchiusa e mille domande ferme in gola. Paura. Già; la sua solita sciocca inutile paura. Di farlo andar via, di allontanarlo. Sesshomaru le ricorda un lupo o una volpe argentata. Le ricorda la lince che ha visto una volta nei boschi, da bambina, con Leone. Aggraziata e fiera; bellissima e inquietante. L’aveva intravista quasi per scherzo, mentre sonnecchiava fra le felci e il muschio. L’aveva vista e aveva trattenuto il respiro e il grido di entusiasmo si era strozzato in gola e allargato in un sorriso muto. Leone l’aveva abbracciata e a quel movimento, per quanto minimo, Alessandra ricordava le orecchie della lince scattare attente e il corpo flessuoso scivolare nell’ombra.

Era la stessa sensazione. La stessa trepidazione e timore. Restare immobile, le labbra socchiuse e il respiro quasi dimenticato, perché non se ne andasse. Per non vedere il marrone e l’ocra della seta guizzare e la sua schiena allontanarsi.

 

Si lasciava guardare, e Alessandra riconobbe quasi con intimo sollievo la testa inclinarsi leggermente di lato. Un gesto abituale, rilassato. Aspettava. Cosa esattamente Alessandra non lo avrebbe saputo dire: forse che lo raggiungesse; forse che gli rivolgesse la parola. Forse, semplicemente, che il tempo scorresse.

Stava bene. Fiero, eretto, rilassato. Adulto, realizzò all’improvviso. Aveva ancora davanti agli occhi un ragazzo, e le sembrava di vedere un uomo. Qualcosa. Qualcosa stava cambiando, lì, sotto i suoi occhi. Qualcosa che non era sicura di voler vedere, di saper affrontare. Crescere. Cosa significa crescere, per uno youkai? Cosa comporta?

 

Strinse gli hakama. No. Non doveva pensarci; non aveva senso pensarci in quel momento. Sesshomaru era davanti a lei; e non era un’illusione. La mano. Le sarebbe bastato sollevare la mano e fare un cenno d’invito. O aprire la bocca e parlare; anche a raffica. Anche dicendo mille piccole sciocce cose che, lo sapeva, gli sarebbero scivolate addosso senza toccarlo. Qualcosa. Le sarebbe stato sufficiente anche un cenno leggero. E Sesshomaru si sarebbe avvicinato. Forse; o forse era lei a dover trovare la forza di alzarsi e raggiungerlo. Forse. Invece il corpo restava lì, abbandonato sull’engawa. La forza; trovare la forza di alzarsi in piedi e mantenere l’equilibrio; passo dopo passo, avvicinarsi. Avrebbe barcollato; forse sarebbe anche caduta. Sarebbe stata goffa; goffa e stupida nel suo ondeggiare da ubriaca; e non le sarebbe importato. In confronto a lui, sarebbe sempre stata goffa e impacciata. Ma andare. Andare e sentire di nuovo le sue braccia sorreggerla e stringerla.

Le sue braccia. L’avrebbe abbracciata ancora?

Avvicinarsi.

Alessandra si morse il labbro. Non le piaceva affatto il pensiero che la sua mente stava elaborando, contro la sua volontà. Avvicinarsi. Chi aveva fatto la prima mossa, qualcuno aveva fatto davvero un passo in più? Sesshomaru si era lasciato accostare con il sospetto e l’indulgenza sottile di un predatore curioso. Si era lasciato avvicinare e l’aveva studiata. La stava ancora studiando, nel vento colorato d’oro e polvere secca. Continuava a studiarla. E quegli occhi. Quegli occhi non erano cambiati dalla prima volta che si erano incontrati. E allora cosa? Cosa voleva dire, avvicinarsi?

 

Avrebbe potuto; sì, avrebbe potuto provare. Ma. Ma forse era vero che qualcosa era cambiato. Dopo che la naginata l’aveva precipitata nell’incoscienza; mentre il tempo e i mesi passavano. I mesi. Cinque mesi. Cosa sono, davvero, cinque mesi? Cos’era successo, in quei cinque mesi?

Cinque mesi. Sono solo due parole; a pronunciarle sono meno di un respiro. Cinque mesi. Ma sono tempo; tempo trascorso e modificato. Per lei; e forse anche per lui. Perché qualcosa. Qualcosa era davvero cambiato. O forse no. Forse era lei ad essere ancora troppo confusa e stanca per affrontare tutto e semplicemente si rifiutava di pensare. Pensare. Aveva pensato tanto, in quelle settimane. E adesso. Adesso che avrebbe potuto avere risposte, si accorse di non volerle. Si accorse della paura che restava lì, in gola, in un nodo che la soffocava. Paura. Aveva paura. O era solo consapevolezza? Di quello che avrebbe potuto ascoltare, di quello che sapeva avrebbe sentito. No. Semplicemente non le interessava; non le interessava più sapere qualcosa.

 

Sesshomaru era di fronte a lei.

Le sembrava quasi di poter distinguere il lieve pulsare della vena sotto il mento; quella piccola vena che affiora leggera quando piega la testa di lato. Le sembrava di distinguere il movimento impercettibile del petto che respira. Il petto. C’era del sangue, sul suo petto, l’ultima volta che lo aveva visto. Sangue di demoni e di umani. E c’era. C’era un taglio, forse un morso, profondo che lasciava intravvedere il bianco dell’osso e il suono fastidioso di uno sfrigolio assieme all’odore penetrante di sudore, adrenalina e marcio. Era. Era ferito, sì. Ferito e bello. Scosse la testa; o avrebbe voluto scuoterla, portarsi una mano alla tempia e massaggiare piano. Per ricacciare indietro quel pensiero…quel pensiero…Disdicevole, ecco. Quel pensiero assolutamente disdicevole e fuori luogo. Era; era solo curiosità. No: preoccupazione. Ecco: preoccupazione. Altrimenti; altrimenti non avrebbe avuto motivo di avvertire il desiderio di spogliarlo. No, nessun motivo. Solo sincerarsi che si fosse realmente rimesso. Curiosità, certo. Solo curiosità. Era una brutta ferita; forse gli era rimasta la cicatrice; forse. O forse la pelle era tornata perfetta. La pelle. No! Basta. Basta. Doveva smetterla. Non aveva senso; non aveva assolutamente senso.

 

Sesshomaru.

Sesshomaru era scomparso. Dalla sua mente, dai suoi pensieri. Nell’incoscienza, nel delirio, nella convalescenza. Ecco: quella era la certezza. Non lo aveva pensato; non lo aveva chiamato. O non aveva avuto il coraggio, di farlo? Perché avrebbe fatto male, urlare e invocare e aprire gli occhi e accorgersi che lui non c’era; che non c’era mai stato. Avrebbe fatto male; molto male. Allora. Allora meglio lasciar cadere anche la speranza; meglio aggrapparsi al rassicurante.

Sesshomaru.

Sesshomaru non era rassicurante? Era una presenza; una presenza cui si era abituata. L’aveva calmata; l’aveva sorretta. L’aveva rassicurata? Le aveva dato certezze? Non lo sapeva. Come non capiva cosa significasse quell’incontro, quel guardarsi senza accennare a nulla, come attraverso un velo invisibile.

 

Piangere. Aveva creduto che avrebbe pianto, quando lo avesse visto rientrare a palazzo. Piangere e ignorare le occhiate di compassione e malizia degli youkai. Piangere e abbracciarlo forte, nella sicurezza delle loro stanze. Piangere e sorridere sulla sua bocca, mentre lo baciava, mentre non cercava di capacitarsi che era tornato. Davvero tornato. Da lei.

Piangere.

Aveva pensato davvero che avrebbe pianto, quando lo avrebbe rivisto. E invece. Invece le lacrime non c’erano; e di sollievo e felicità non c’era che un vago sentore, aggrovigliato a mille altre emozioni contorte e confuse. No; non era paura. Non lo era. Era solo…Non lo sapeva. Non lo capiva. Ma Sesshomaru la guardava, e sembrava brillare, esser circondato da quella debole luminescenza che gli era propria in certi momento. Alessandra non lo aveva mai capito. Non aveva mai nemmeno voluto capire se quell’alone fluorescente che a volte lo circondava fosse reale o solo un’allucinazione di occhi stanchi o un gioco di luci con l’armatura e il kimono bianco. Però. Però in quel momento il kimono era scuro, e di armature e metallo non c’era nulla. Eppure. Eppure Sesshomaru sembrava irradiare qualcosa.

 

Il sole.

Certo, era il sole. Un gioco di luci. Eppure. Eppure il sole non si riflette sulla carne, non risplende sul corpo. Cos’era? Era davvero qualcosa? No. Non era importante. Non era assolutamente importante. Non ci doveva pensare. Sesshomaru. Esatto: doveva pensare a lui, a…A cosa? A come avvicinarlo? Ecco: forse era quello il problema. Forse in realtà non si erano mai realmente avvicinati. C’era una sensazione strana, un formicolio che vibrava; come se ci fosse un vetro, o un foglio sottilissimo di carta di riso. Lo vedeva, e le sembrava così distante. O era lei ad essere distante? Le mani si strinsero di riflesso. Distante. Era davvero distante? O era solo l’imbarazzo e la sorpresa del momento? Poteva. Poteva davvero allungare la mano e chiamarlo. E non lo faceva; la mano restava lì, in grembo, e per quanto la mente elaborasse ordini il corpo non rispondeva.

 

Sarebbe stato così facile, maledettamente facile. Ecco: respirare a fondo, per controllare il tremito un po’ roco della voce. Respirare a fondo e accennare un sorriso, un qualcosa che non fosse l’espressione indefinita che si sentiva addosso in quel momento. Un sorriso, un gesto e un invito. Facile; naturale. Come erano diventati naturali i gesti d’intesa, le intese a distanza. C’era; c’era come un codice fra loro. Una ritualità di sguardi, parole accennate e gesti fluidi che nascondevano sottintesi e discorsi. C’era. E adesso. Adesso non lo ricordava; non riusciva a ripeterlo. I gesti: così semplici, così immediati. Così distanti.

Perché? Perché non ci provava? Perché aveva il sentore che ci fosse qualcosa di strano, che in lei qualcosa si ribellasse al pensiero di avvicinarsi, di lasciarlo avvicinare? Non si sentiva ancora pronta, ecco. La cosa più semplice: il suo corpo non si era ancora ristabilito e anche se i lividi, i graffi e le contusioni, vecchie e nuove, erano ormai svaniti. Lo yogi cadeva largo e abbondante sulla sua persona smagrita; e le mani quasi scomparivano nelle maniche larghe, troppo larghe in troppo poco tempo. Lo sapeva, lo aveva visto: mentre faceva il bagno, avvolta dal vapore, tastava e tastava ogni osso, ripercorreva ogni centimetro della pelle, su contusioni e segni che non c’erano più e ancora vedeva e sentiva bruciare, tanto. Alla fine, le era sembrato anche naturale avere quell’aspetto debilito, era riuscita ad accettarlo con un respiro più profondo e la consapevolezza che solo il tempo avrebbe potuto aiutarla. Il tempo e la discrezione delle bijin-sama che si occupavano di lei.

 

Bijin-sama.

Adesso parlavano; adesso, la sera, trascorreva tranquilla con una tazza di tè e una conversazione pacata. Raccontavano; le raccontavano del loro paese, delle montagne verdi e fresche d’estate e bianche e mortali d’inverno. Le spiegavano: la mutevolezza della loro figura, e la trasparenza cristallina del loro corpo. Spiriti di montagna, le avevano detto. Spiriti di luce e del riflesso del sole sui ghiacci o nei piccoli corsi d’acqua; soffio del vento sull’erba rada e fra i rododendri. Ridevano; e sembrava una pioggia di sassolini sulla roccia. Nelle parole, il ronzio etero e soffuso di un’ape. Era piacevole conversare con loro; era curioso vederle rimpicciolire e smarrire la forma semiumana per ridursi a piccoli globi striati di rosso e blu, in una nube nera che sfavilla come fosse il riflesso del cielo più profondo. Erano così piccoli, quando non avevano forma umana: poco più grandi di una mano. E c’era quel sibilo ininterrotto, quel ronzio che era conforto e quotidianità. Era diventata la sua quotidianità. Rassicurante e calda.

 

Pazienza.

Glielo ripetevano sempre, nei gesti soffusi e delicati che le usavano; nella ciclicità delle giornate uguali a se stesse, scandite dal sole e dai lenti passi nella noka e nel giardino. Non le mettevano fretta; non la rimproveravano quando barcollava e la sostenevano mentre il corpo stanco si rilassava nel futon, nell’acqua della vasca che sapeva di muschio e resina calda. Pazienza. Il corpo si ristabilisce solo nel tempo: l’incarnato sarebbe tornato rosato, le occhiaie e la magrezza si sarebbero dileguati con indulgenza e naturalezza. Non era un male; non era una colpa. Era stata male; molto male. Era stata incosciente per giorni, a pochi passi dalla morte, a pochi passi dalla follia. Non importava; non importava se di sorridere non aveva sempre voglia; non importava se le lacrime fossero scese. Non c’era trucco da conservare; non c’erano maschere da indossare. Non con loro.

Non con lui.

 

Sesshomaru.

Con lui le maschere erano caduto; erano. E adesso. Adesso aveva la sgradevole sensazione che ne avesse reindossata un’altra. Ma più probabilmente era solo l’abitudine: la naturalezza di mostrarsi anche a lui capace di provvedere a se stessa, di sorreggersi. E poi. Poi semplicemente era vergogna e imbarazzo. Perché se ne sarebbe accorto del corpo smagrito, se l’avesse abbracciata. Si sarebbe accorto nei fianchi larghi e del seno un po’ cadente, si sarebbe accorto delle labbra più sottili e della tibia più sottile, rotta anni prima, in quella notte maledetta. Si sarebbe accorto di mille piccoli sciocchi umani particolari; e forse non dopo non avrebbe più voluto toccarla. Forse non lo voleva e basta.

 

Eppure.

Eppure non sarebbe stato necessario toccarsi. Si accorse, in un respiro spezzato, di non desiderarlo, un abbraccio o un bacio. Non in quel momento; non ancora. Sarebbe. Sarebbe anche solo stato sufficiente averlo accanto, seduto sull’engawa con lei. Quella vicinanza da cui era iniziato tutto, quando le mani erano vicine e non si erano ancora toccate, sfiorate. Sarebbe bastato. Ma Sesshomaru non parlava e non si muoveva; e lei. Lei. Alessandra non capiva; non capiva cosa volesse.

Parlare.

Ecco. Parlare.

Semplice. Immediato. Invitarlo e farlo sedere; aspettare le libellule rosse d’autunno e chiedere. Chiedere come si fosse conclusa la battaglia; chiedere cosa fosse successo dopo. Dopo che lei era rimasta ferita e svenuta fra le sue braccia; dopo che l’aveva riportata a palazzo, nel tempo della sua incoscienza. Sapere. Sapere se ci fosse mai stato, accanto al suo futon. Anche solo per un istante, anche solo guardandola da uno spiraglio della fusuma. Non. Non importava se non si fosse fermato a lungo. Lo sapeva: era impegnato. Molto impegnato. Era; Era naturale. Ma. Ma uno sguardo.

Ecco: uno sguardo.

Sapere come avesse fatto; come fosse possibile che adesso vedesse. Di nuovo. Se, si corresse, davvero vedeva di nuovo. Aveva un ricordo confuso dei suoi occhi che sfumavano fra le lacrime e il sangue; un ricordo liquido e tremolante. Eppure. Eppure c’era qualcosa di diverso, lo aveva…percepito? No. Forse solo sperato. Sperato, illuso: mentre l’eco delle grida si allargavano di nuovo nella sua mente; mentre lo rivedeva accasciarsi a terra, le mani correre a stringere la testa, a premere gli occhi. Sensazioni. Solo sensazioni; speranze che forse potevano di nuovo naufragare in un tremito leggero delle ciglia e rivelare di nuovo iridi spente. Come prima; come sempre. Come una nuova pesante normalità.

 

Chiedere.

Chiedere dove fosse, esattamente. E perché. Perché portarla via da palazzo in quelle condizioni. Perché mantenere un proposito detto quasi per scherzo, per costruire una progetto e non lasciar naufragare nell’incertezza il domani. Non ci avevano mai creduto veramente; nessuno di loro. Entrambi avevano detto: andiamo via. Ed entrambi, lo sapevano, lo avevano detto per convincersene, per rassicurarsi che quello che era sarebbe stato. Sia prima sia dopo; e che la guerra non avrebbe cambiato niente; assolutamente niente. Non fra loro. Lasciando quel vago sentore di non detto e di indefinito palpabile nell’aria aleggiare senza volontà di concretizzarlo. Che necessità c’era, di concretizzarlo? Si sarebbero fatti solo del male; troppo male. No; meglio lasciare tutto indefinito, con i contorni sfumati.

Così…così…Così.

E il risultato. Il risultato era svanito fra le lacrime, il sangue e le grida di una giornata su un campo di battaglia. Naufragato in quell’abbraccio, forse l’ultimo abbraccio, che Alessandra avrebbe ricevuto da lui.

 

Parlare.

E chiederli. Chiedergli cosa volesse fare, a quel punto. Chiedere cosa volesse fare di lei. Riportarla a palazzo? Forse. Forse sarebbe tornata a palazzo; e imparare a muoversi e mantenere la testa alta e l’equilibrio con l’obi legato davanti a impacciarle i movimento. Perché. Perché se fosse tornata, ormai, poteva solo sperare quello: un obi allacciato sul ventre e l’attesa di lui nelle sue stanze.

Era. Era quello che voleva?

O forse. Forse avrebbe ripreso a viaggiare senza meta, e le avrebbe detto di seguirla. Con Rin, per Rin. Seguirlo come un rurouni; e scoprire quella terra antica e il respiro innaturale di un mondo sospeso fra umano e divino; intrecciato fra umano e divino. Seguirlo. Forse lo avrebbe seguito di nuovo.

Oppure. Oppure. Cosa avrebbe risposto, se gli avesse detto: puoi scegliere. Se gli avesse detto: scegli. Come mesi prima; come quando aveva deciso di restare con lui. Per curarlo. Ma allora. Allora la scelta le era sembrata così ovvia e naturale: Sesshomaru era ferito; si era ferito per proteggere lei. Andarsene; andarsene non era possibile. E poi. Poi era rimasta con lui. Di sua volontà. O forse. Forse. Il sospetto si insinuò rapido: forse era rimasta con lui perché non aveva avuto altra soluzione, una volta a palazzo. Forse lo aveva seguito per provare, e alla fine si era trovata imprigionata. E lui. Lui era rimasto l’unico punto fermo di quel dilagare, di quel cambiamento radicale.

 

Respirò a fondo.

Stava boccheggiando. Stava. Stava rincorrendo aria; con l’affanno e un sudore freddo e sottile a coprirle la fronte. E Sesshomaru era davanti a lei, immobile. Sembrava trapassarla con lo sguardo, ignorare la mano che era corsa ai lembi della veste e che stringeva convulsamente la stoffa.

Non si sarebbe avvicinato: Alessandra lo capì in quell’istante. Sesshomaru non si sarebbe avvicinato. Né di sua volontà né se lo avesse invitato. Sarebbe rimasto a guardarla e basta; guardarla da lontano. Con la curiosa indifferenza che aveva sempre riservato a un ningen, a un qualcosa che gli si presentava davanti e non era necessario eliminare. Non ancora, almeno.

Lo realizzo, e il respiro si smorzo in un rantolo e in un grido che non voleva uscire. Lo realizzò; mentre guardava l’haori alzarsi in un’onda di stoffa; mentre guardava l’oro del ginko e l’argento dei capelli si Sesshomaru fondersi e allontanarsi.

 

Se ne stava andando.

Sesshomaru.

Le spalle sempre più lontane; la regalità della sua figura sempre più lontana. Andando. Se ne stava ancorando. Sarebbe tornato; forse. Sarebbe tornato. Ma non l’avrebbe più toccata; non l’avrebbe più stretta e baciata.

Non. Sarebbe. Tornato.

Non davvero. Perché qualcosa. Qualcosa era cambiato,e anche se lei non sapeva cosa fosse, il risultato adesso era chiaro, palese. E faceva male; un maledetto male: Sesshomaru. Da solo. Lontano da lei.

E forse. Forse era quello che sarebbe dovuto essere da sempre. Forse davvero Sesshomaru l’aveva sempre imprigionata. Legata con catene silenziose e impalpabili del supporto, di una sicurezza imposta e ricostruita con un sostegno che, appena lasciato, l’avrebbe fatta cadere di nuovo a terra, mentre a fatica avrebbe alzato la testa e lo avrebbe visto continuare a camminare.

Lontano da lei. Senza di lei.

 

“Tornerà presto”

 

Tornare. Alessandra annuì; per riflesso. Ma dentro. Dentro sentiva che no, non sarebbe tornato. Non sarebbe tornato mai più. Aveva perso qualcosa; e quel qualcosa non si poteva recuperare. E adesso le sembrava stupido e inutile chiedere cosa fosse successo; cosa fosse cambiato. Perché. Perché ormai era cambiato, e Sesshomaru aveva preso una sua decisione. E, lo sapeva, non gliel’avrebbe mai spiegata. Che senso avrebbe avuto, spiegargliela.

Sì; sarebbe tornato.

Ma solo con il corpo. Solo come presenza fisica, distante e irraggiungibile. Di nuovo irraggiungibile; o forse lo era sempre stato ed era lei la stupida che si era illusa di un qualcosa che non poteva restare. Perché. Perché non fosse mai esistito niente; perché tutto fosse solo un crudele gioco della sua mente no, non poteva crederlo. Non voleva. Non lo avrebbe sopportato.

Sarebbe tornato; e forse le avrebbe detto addio davvero.

E lei. Lei sarebbe rimasta seduta sull’engawa a guardare di nuovo la sua schiena allontanarsi nel vento e nell’oro e a chiedersi se ci sarebbe stata, una prossima volta. Se sarebbe rimasta sempre, su quell’engawa, ad aspettare il delinearsi del suo viso nei riflessi del giorno. O se semplicemente avrebbe chiuso gli occhi e si sarebbe incamminata a sua volta; dall’altra parte.

Sì; Sesshomaru sarebbe tornato.

Nella sua mente; nei suoi ricordi. Ma forse. Forse bijin-sama voleva solo regalarle un ultimo sprazzo di illusoria tranquillità. Forse era l’ennesima bugia. E allora ci avrebbe creduto: che lo avrebbe rivisto. Lì, mentre sedeva su quell’engawa. O nel riflesso del mare o nelle ombre lattiginose della nebbia.

Rivederlo. Da qualche parte.

Anche solo per restare di nuovo a guardarsi senza parole. Prima di allontanarsi.

Forse per l’ultima volta.

 

 

 

*****

 

 

 

“Non l’hai toccata. Perché?”

 

Fastidiosa.

Quella voce, con una punta di serietà e sorriso che non riesci a capire se scherza o se parla sul serio. È fastidiosa; e insinua. Insinua domande e dubbi di cui la sa già, la risposta. O di cui, in fondo, la risposta non gli interessa. Ha continuato a irritarlo, quella voce. Da quando è arrivato; da quando l’ha sentita per la prima volta. Ti resta intrappolata nelle orecchie, nella testa, in modo impalpabile. Come un’eco; come il ricordo di un suono ritmico e costante. Come la pioggia; o lo sciabordio del mare.

Fastidiosa. Molto fastidiosa. Perché non può metterla a tacere; perché si ripresenta sempre, per stuzzicare e provocare. Provocare. Come se bastasse una frase, una parola detta con leggerezza, a provocarlo. No; non è quello. Non è la domanda. O forse; forse sì.

Ma la voce; quel soffio irriverente e sottile accanto all’orecchio. Il sorriso che svanisce nel riflesso del sole, mentre le spalle si alzano annoiate al suo rifiuto. Al suo mutismo abituale. Perché non le deve a lui, delle spiegazioni. Non le deve a nessuno.

 

Sesshomaru respirò a fondo. C’era odore di terra; di terra, di resina e di pruno. Era presto, ancora. Dovevano passare alcuni cicli lunari, prima che i fiori bianchi del susino punteggiassero l’inverno. Forse. Forse sarebbe stato ancora in quel luogo, per la fioritura dell’albero. O forse no. Non aveva mai fatto un progetto simile; non si era mai soffermato a considerare dove si sarebbe trovato il giorno successivo, il mese, la stagione. Andava bene; andava bene trascorrere il tempo attimo dopo attimo, in quel fluire eterno e costante che si assottigliava fin quasi all’immobilità. Andava bene; senza supposizioni o progetti. Fino a quel momento. Adesso. Adesso invece qualcosa era cambiato. E si era ritrovato a considerare il tempo trascorso dopo la fine dell’assedio. Il tempo a palazzo; il tempo che aveva trascorso lontano da palazzo. Il tempo con Alessandra. Il tempo con lei in quel luogo: così vicino da poter sempre esser raggiunto e informato di progressi o cadute; così lontano da non essersi mai avvicinato a lei, al suo corpo. Nemmeno quando, ne era certo, non se ne sarebbe accorta, troppo stordita da farmaci e infusi, ancora abbandonata all’incoscienza.

Non se lo era permesso; in nessun momento.

 

E il tempo.

Il tempo era passato. L’aveva portata via da palazzo che la pioggia mitigava appena l’afa estiva che stava avanzando. L’aveva potata via dopo aver sterminato gli youkai che si erano ribellati alla sua autorità. E in quel momento, mentre si era chinato su di lei e l’aveva sollevata stringendosela al petto; il quel momento tutto si era fermato e aveva vorticato. Come se i giorni passati lontani si fossero annullati. E Alessandra era di nuovo coperta di sangue; di nuovo il respiro era pesante e affannoso, il volto sudato e pallido, troppo pallido per una ningen. Di nuovo il futon: e il corpo non era più da sollevare ma da adagiare; e le forme abbandonate si svelavano fra parole secche e ordini e indicazioni precise. La voce di Yaone. La voce di Yaone era sempre presente; e ripeteva e ripeteva parole che non voleva ascoltare: andarsene, restare, lasciarla, salvarla, ucciderla.

Si era confuso tutto. Mentre percorreva i corridoi nell’odore acre del fumo e nel serpeggiare del tanfo della carne bruciata; mentre montava Ah-Un e se ne andava senza voltarsi indietro; mentre avvertiva il sangue rattrappirsi e seccarsi sulle mani e sul volto, e come scricchiolare ad ogni piccolo movimento delle briglie; mentre il respiro sembrava profondo e calibrato per reggere come uno sforzo che non esisteva.

L’aveva portata via. Dal palazzo. Ed era stato come quando si era risollevato sul campo di battaglia e se ne era andato. Senza guardarsi indietro.

 

E poi.

Poi era stata la noka, fra i ginko e i melograni in fiore. Era stata l’estate consumata nel refolo caldo e al suono di uno shinobue. Era stata l’attesa: che Alessandra si risvegliasse, prima; che si risollevasse dopo. Il tempo aveva preso altri ritmi, che eran scivolati davanti ai suoi occhi, precisi e affilati come una lama. Era stata la noka silenziosa e l’estate; e sarebbe stato l’autunno fremente e la resina. E ci sarebbe ancora voluto tempo. Sì; lo aveva capito. Lo aveva visto: i ritmi dei ningen era diversi, profondamente diversi da quelli di uno youkai. E la ferita; la ferita che Alessandra aveva alla spalla ancora si apriva, ancora sanguinava in alcuni punti, anche se per la maggior parte si era ridotta ad una lunga e sottile cicatrice che le attraversava la spalla. E poi; poi c’era l’altra ferita. Quella che non si vedeva; quella che, ancora, a tradimento, la costringeva a tossire sangue quando lo sforzo si prolungava troppo. La ferita che avrebbe potuto ucciderla.

Aprì e chiuse la mano; gli artigli mandarono un tenue riverbero di youki e sole. I suoi artigli; i suoi artigli avrebbero potuto. Si accarezzò il palmo, attento; bastava così poco: appena un formicolio lieve e avrebbe avvertito la pelle lacerarsi in un taglio sottile. Il rivolo di sangue definirsi sempre più preciso contro la pelle diafana e scivolare lento lungo il palmo, fino al polso, confondendosi con le striature violacee. Bastava così poco; e anche i suoi artigli avrebbero potuto ferire Alessandra. E ucciderla.

Come la naginata.

 

La rivedeva: la lama ricurva stretta nelle mani di Inuyasha, con quel riflesso sinistro di metallo sporco. Un attimo, e il rumore sordo e lontano del ferro che cade a terra, prima che l’odore della carne bruciata lo colpisse e le mani, spasmodiche, stringessero il corpo che si era abbandonato contro di lui. Di quella naginata era rimasta solo la cicatrice sulla spalla di Alessandra. E la ferita al polmone. La ferita che aveva dato a Yaone la forza e il coraggio di rincorrerlo fin nelle sue stanze; prima che salisse nella camera da letto e si estraniasse dal mondo. Prima che mille pensieri e voci e rumori irrompessero con violenza nella sua mente, accavallandosi in modo frenetico e confuso. Era stata quasi brusca, Yaone. E, ripensandoci, Sesshomaru aveva rivisto in lei la sicurezza irriverente e sfacciata del Sensei; la determinazione provocante con cui le si era presentata davanti mesi prima, con la sufficienza nel viso e un ciuffo annoiato a velarle l’occhio nero. Era stata diretta, Yaone; e realistica: poteva morire. Alessandra poteva davvero morire. E anche se fosse sopravvissuta; anche se le ferite si fossero rimarginate e non fossero subentrate complicazioni, probabilmente qualcosa sarebbe rimasto. Qualcosa che l’avrebbe segnata per sempre.

 

Il polmone. Il polmone si sarebbe rimarginato; ma era debole. Troppo debole. E il sangue si sarebbe mescolato al respiro e alla saliva per molto tempo, ancora. Forse sempre; forse avrebbe smesso appena il corpo si fosse ristabilito completamente. Forse nel suo mondo; forse nel mondo da dove proveniva Kagome avrebbero potuto curarla completamente. Forse, quando fosse stata in forze…

Forse.

Già: forse. Non aveva più voluto ripensare a quel breve dialogo, alle poche parole scambiate ascoltate nella penombra della sua stanza, fissando le nervature del basso tavolino e i disegni molli della cera di una vecchia candela. Mentre Yaone parlava, il michiyuki ancora sporco di sangue e i capelli sfatti sul viso teso e contratto. L’aveva ascoltata; e non aveva prestato attenzione a quello che aveva detto. Troppi pensieri nella testa; troppe consapevolezze sbattute in faccia all’improvviso, emerse da un recondito angolino della sua mente; troppe cose ignorate e accantonate esplose all’improvviso.

 

E adesso? Come stava, adesso, Alessandra?

Bijin-sama avevano detto che la ferita alla spalla si era rimarginata; avevano detto che, con il riposo e la tranquillità, il polmone si era riformato senza incidenti. E il respiro adesso era calmo e regolare; solo ogni tanto qualche macchiolina di sangue poteva ancora comparire. Troppo poche e troppo piccole per allarmare; ma c’erano ancora. E volevano dire solo una cosa: tempo. Ci voleva ancora tempo. E Sesshomaru ormai era consapevole di non avere fretta.

Lo scorrere delle stagioni non aveva mai provocato in lui acuto interesse; si era sempre limitato a vederle sfilare davanti ai suoi occhi nel mutamento dell’aria e dei colori. Si era limitato a contemplarlo senza calcolarlo. Adesso: adesso era prima e dopo. E il dopo era Alessandra. Alessandra e quella nicchia fragile e sospesa che aveva ricercato.

 

Sesshomaru chiuse gli occhi. Era diventata un’abitudine: il flauto a confondersi con lo stormire dell’aria e l’eco del pensiero. Aveva reimparato la solitudine dei boschi, la libertà ferina e selvaggia cui i mesi costretto a palazzo lo avevano allontanato. Era stato strano: quel luogo, con l’incombere austero delle sue montagne e l’odore di zolfo che si spandeva nell’aria, non era cambiato, in nulla. Quasi il tempo passato fosse equivalso al semplice accenno di un respiro. Quel luogo. Erano trascorsi anni, da quando lo aveva visto per la prima volta, sul finire dell’inverno; o in tarda primavera.

Sesshomaru increspò appena le labbra: Ryoshi aveva la sgradevole abitudine di sedere in alto, su un ramo dell’albero cui soleva appoggiarsi. E suonava. Quando capiva che le domande e le parole non avevano effetto, suonava. Stava suonando anche la prima volta che lo aveva visto: un bambino di poco più grande di lui, il kinu e gli hakama verdi e bianchi e i lunghi capelli neri legati nel mizura. Suonava il flauto, lassù, sul ramo di una magnolia; e sua madre aveva sorriso e aspettato. Poi, la musica era finita e Ryoshi aveva concesso un sorriso impertinente e quasi indulgente. Lo ricordava come materializzarsi davanti a lui, in un soffio umido di pioggia; lo ricordava sollevargli divertito il viso e sorridere all’espressione seria e compita che si era imposto. Lo ricordava trasfigurare fino all’aspetto di un ragazzo, di un giovane uomo. E mentre il corpo di Ryoshi mutava e cresceva, Sesshomaru aveva avvertito la sua diversità e tutto il suo essere ancora piccolo e infantile. Si era lasciato prendere in braccio senza nemmeno averne coscienza, e quando aveva realizzato che la terra era sparita e le mani, i suoi piccoli artigli, stringevano forte il kinu, Ryoshi lo aveva trascinato con sé. Dove esattamente non lo avrebbe mai saputo dire: un mondo liquido e inconsistente, in cui fluttuavano gemme e squame e il viscido e l’umido ti entravano nella pelle con un disgusto che diventava abitudine nel tempo. Si era stretto a un corpo che non definiva, gli occhi socchiusi e i sensi tesi per captare quel furore che si mescolava ad una pace sicura. Come in un fortunale o nell’occhio di un tornato. E a un certo punto, quando Ryoshi aveva detto: apri gli occhi, Sesshomaru ricordava solo la sensazione di inconsistenza del suo corpo e la violenza di una natura che si scatenava intono a lui senza sfiorarlo. Era durato un istante; forse realmente non si era mai allontanato da sua madre e Ryoshi aveva sempre continuato a sorridergli in quel modo strano, a metà fra ironia e consapevolezza.

 

Non ricordava bene cosa avesse visto, ma ricordava il volto di Ryoshi divenire indefinito mentre lo riposava a terra e si sfilava una collana di acquamarine e zanne di drago. Gliela aveva messa al collo in un tintinnio come scroscio d’acqua; gliela aveva messa al collo e gli aveva detto: torna. Quando ne sentirai il bisogno, torna. Ed era tornato. Con Alessandra.

Mentre Ah-Un si levava in volo, mentre il palazzo diventava piccolo e sfumava oltre i sensi e il fumo che si levava dal padiglione centrale; mentre ancora cercava di realizzare esattamente il perché di quella scelta un po’ folle un po’ pericolosa e nel rimettere ordine coerente alle idee, nel lasciar svanire l’istinto e la ferinità che lo aveva attraversato sin da quando aveva rimesso piede nel palazzo, e poi durante tutto lo scontro, il Kano si era srotolato nella sua mente come un nastro lucido, assieme al rimbombo della sua cascata. Poi, era stato naturale risalirne il corso con la mente, immergendosi nel silenzio rarefatto della vallata fino alle pendici del Daruma; risalire il costone in un respiro, fino a dominare con uno sguardo assieme indifferente e assoluto il Fuji e il riverbero quasi accecante del mare di Suruga. E Ryoshi e i vapori caldi alle pendici del Katsuragi gli si erano materializzati nella mente con l’inconsistenza di un miraggio, assieme a quella parola, torna, che fluttuava indefinita. Tornare.

 

Non sapeva esattamente cosa lo avesse persuaso che sì, quello era il luogo ideale per Alessandra. Fra i colori e il silenzio delle montagne, al centro di una lingua di terra antica, forse più antica del suo stesso mondo, sotto la protezione di uno youkai nato dall’acqua e dalla terra stessa, uno youkai che, Sesshomaru ne era consapevole, era profondamente diverso da lui e dalla sua razza. In fondo, non era nemmeno corretto definire Ryoshi come uno youkai, o come un Kami: era l’essenza stessa dell’acqua che impregnava ogni particella di quel luogo. Eterno ed etereo come lui; non immortale, come lui, eppure destinato ad un altro tempo, ad un ciclo ancora diverso. Reclinò appena la testa; lo shinobue continuava nel suo fischio acuto e sottile, come il cadere continuo di una goccia in una caverna o su una pietra cava.

Quel luogo. Vi era arrivato con una naturalezza quasi illogica, considerando che vi si era recato solo una volta, da cucciolo. Ma da quando aveva scelto, da quando aveva deciso dove andare, la strada da percorrere si era definita chiara nella sua mente, facendogli guidare le briglie senza la minima esitazione. Era come se la terra stessa, l’acqua, lo avessero guidato; come se il suono del flauto gli avesse riempito la testa con discrezione, in un crescendo sempre più acuto e penetrante, fino a confondersi con lo scrosciare dell’acqua stessa che circondava tutto. Aveva scelto, e Ryoshi lo aveva aspettato su una grande pietra, il viso in una mano e la leggerezza di un bambino; nella stessa posa in cui lo aveva visto l’ultima volta, quando si era concesso di sbirciare alle sue spalle mentre seguiva sua madre. Eppure. Eppure sembrava che lo avesse sempre saputo; sembrava che non si fosse mosso per tutto quel tempo, quasi cristallizzatosi.

 

Sesshomaru-kun.

Non mi hai risposto: perché non l’hai toccata?

 

A volte preferiva lo shinobue.

Non chiedeva; non faceva domande fastidiose, e non si aspettava risposte che conosceva bene. A volte, lo shinobue era quasi piacevole, quasi rassicurante; quasi. Perché c’era sempre una punta si risata, quando Ryoshi suonava ed era vicino a lui. La musica si modulava in piccolissime variazioni, quasi impercettibili, ma c’erano: e la melodia che Ryoshi suonava quando era con lui era così diversa da quella per Alessandra. C’era sempre quella punta di provocazione, di insinuazione che, per quanto cercasse di ignorare, gli penetrava nella testa fino a irritarlo. Sembrava quasi che Ryoshi volesse irritarlo; e costringerlo a parlare. Costringerlo a dire apertamente e chiaramente i perché, le motivazioni di ogni sua azione.

Soltanto una volta si era limitato al silenzio: Sesshomaru aveva consegnato Alessandra a bijin-sama e aveva ordinato loro di assumere un aspetto umano vagamente femminile; e Ryoshi aveva annuito e gli aveva fatto un gesto ampio con la testa piccola e infantile. E Sesshomaru aveva seguito il bambino con una calma quasi innaturale. Lo aveva seguito fino ad una delle piccole polle d’acqua termale e lo aveva visto entrarvi camminando sul pelo dell’acqua, leggero come una libellula. Lo aveva seguito, mentre la stoffa si gonfiava e appesantiva e il sangue secco e rappreso diventava nero; mentre sul kimono macchie e schizzi si stemperavano in arabeschi imprecisi. Lo aveva seguito e, con disappunto, era stato costretto a reclinare la testa per continuare a guardarlo negli occhi, mentre il corpo di Ryoshi mutava e diventava adulto.

 

Si erano solo guardati, a lungo. Nel vapore lieve che saliva dall’acqua, mentre un sottile strato di bagnato ricopriva lo youkai, rilucendo a contatto col barbaglio della sua youki. Si erano guardati, mentre la sgradevole sensazione di un discorso muto si allargava fra loro, penetrava dentro Sesshomaru e rimbombava forte, troppo forte. Assieme al fastidio per parole non comprese; per suoni che restavano cacofonia indistinta e imprecisa. Eppure. Eppure era la sua stessa lingua, la lingua atavica della sua gente, della sua essenza. Eppure. Eppure era come se Ryoshi gli parlasse in un’altra lingua, forse ancora più antica, forse completamente dimenticata anche da loro: la lingua stessa di quella terra com’era alle sue origini, com’era nell’istante stesso in cui dall’acqua del mare e dal ferro nacque la terra. Già: la terra. Nihon è terra generata dall’acqua; e l’acqua, Ryoshi, è Nihon nella sua completezza.

 

Si erano guardati, fino a quando la mano di Ryoshi si era sollevata e Sesshomaru l’aveva sentita su di sé, sul suo viso, come un filo d’acqua impertinente. E non si era mosso; non era riuscito a muoversi, in quell’acqua calda improvvisamente pesante; in quell’acqua calda che stringeva e afferrava e risaliva il suo corpo con mille mani umide e dal suono metallico, come scaglie di drago. Non aveva potuto muoversi, e Ryoshi gli aveva stretto il mento e costretto a fissarlo, forse con ancora più intensità di quanto non avessero fatto fino a quel momento. Sesshomaru aveva avvertito, forte, la voglia di liberarsi e colpire; gli artigli affilarsi in un riflesso istintivo e l’odore pungente del veleno iniziare a serpeggiare, mentre un ringhio sordo e basso nasceva in gola. Non gli piaceva sentirsi impotente, non gli piaceva esser costretto in quel modo, essere obbligato a dire qualcosa che non ammetteva nemmeno a se stesso, nel pensiero. E Ryoshi. Ryoshi voleva qualcosa a parole; voleva il perché avesse portato proprio lì quella donna; una donna umana. Una donna di quella razza che, Ryoshi lo sapeva, Sesshomaru-kun disprezzava e trattava con mera sufficienza. Eppure. Eppure l’aveva portata da lui. E quando era sceso dalla sua cavalcatura, con lei esanime fra le braccia, gli aveva solo detto: sono tornato senza usare parole.

 

Già: Sesshomaru-kun non usa mai parole.

Ma sembrava un ordine, nel modo che aveva di tenere ferma e ritta la testa, nella posa autoritaria e inappellabile del suo corpo. E lui? Ryoshi si schiarì la gola e riaccostò lo shinobue alle labbra: nuova melodia.

Lui aveva annuito e lo aveva condotto alla noka; lo aveva aspettato sulla porta e lo aveva portato alla sorgente. E lo aveva provocato, in modo diverso da quando era bambino, e assieme così simile. Lo aveva provocato come si gioca con un uomo troppo sicuro di sé. Ma Sesshomaru-kun non è un ningen, e la sua provocazione si era risolta nel fremito di membra abituate al combattimento e nello scatto ferino ed esasperato della mano quando la presa d’acqua si era dissolta. Sesshomaru non ricordava di aver mai provato una sensazione simile: nella sicurezza di dilaniare carne e consistenza, aveva avvertito gli artigli penetrare in qualcosa di bagnato, senza la minima resistenza. Aveva sentito il corpo di Ryoshi assecondare il movimento fluido e violento dell’artigliata ed esplodere in una pioggia infinita d’acqua e vapore. Si era semplicemente frammentato, scivolando nell’acqua con uno scroscio. E lui si era ritrovato con la bocca socchiusa e un disdicevole senso di fastidio, mentre avvertiva Ryoshi riprendere consistenza corporea dietro di sé. Ed era stato umiliante accorgersi che, per quanto fosse veloce, per quanto precisi e affilati potessero essere i suoi colpi, non sarebbe mai riuscito a ferirlo e tantomeno a ucciderlo. Poteva solo voltarsi e rassegnarsi a quegli occhi impertinenti che ripetevano domande sempre più fastidiose.

 

Domande; già.

Come quella che stava evitando in quel momento; e che si ripeteva come una nenia assieme al suono del flauto. Perché Ryoshi è così: sonnecchia tranquillo nel suo elemento, placido come l’acqua stagnante; ma se anche la superficie è tranquilla, sotto è agitazione e furore e trepidazione, e quando qualcuno cade nelle sue spire, quando qualcuno entra nella sua acqua, nel suo elemento, Ryoshi non lo lascia andare, per quanto si dibatta e si dimeni. Non lo lascia prima di essere pienamente soddisfatto, prima di aver ottenuto qualsiasi cosa voglia. E da lui, Sesshomaru lo sapeva bene, voleva una risposta: perché non avesse toccato Alessandra.

Anche se. Anche se era così facile, da capire; maledettamente facile. Ma Ryoshi no. A Ryoshi non era sufficiente ciò che è facile; Ryoshi non vuole l’evidente, non vuole quello che è sotto gli occhi di tutti. No; Ryoshi vuole quello che è nella sua mente; vuole le sue parole e le sue motivazioni, per quanto possano essere naturali e razionali, anche.

 

Non ha toccato Alessandra. E forse non la toccherà ancora per molto tempo; forse non la toccherà più, nonostante tutto il suo corpo frema nel desiderio di farlo. Vorrebbe. Vorrebbe, e non riesce ancora a capacitarsene pur accettandolo, quel corpo nudo davanti agli occhi: accertarsi che non è rimasto né segno né livido; percorrere la cicatrice che le resterà per sempre sulla spalla; ricoprire e ripetere i gesti di quelli youkai che hanno violato i suoi ordini per cancellarli e sostituire ricordo a ricordo, piacere a terrore.

Vorrebbe. Ma non lo farà. Non lo farà finchè non avrà la certezza che sia quello che realmente è giusto fare; e forse non lo saprà mai, esattamente, cosa sarebbe giusto fare. Però. Però l’ha vista, la paura, nello sguardo di Alessandra. L’ha visto, il suo corpo che lentamente ritrova equilibrio e armonia, tremare e sussultare. E non era sorpresa, no.

All’inizio. Quando le si era presentato fra i ginko poteva essere sorpresa; poteva essere lo stupore della sua apparizione silenziosa. Ma dopo. Dopo le mani si erano strette in grembo e Alessandra aveva continuato a guardarlo, senza pronunciare parola, senza un cenno. Mentre il corpo. Il corpo tremava e sembrava cercare di raccogliere le forze per mettersi al sicuro, per scappare se il pericolo che, d’istinto, avvertiva serpeggiare si fosse concretizzato in minaccia reale e tangibile.

 

Due consapevolezze: Sesshomaru ne era stato investito con una lucidità quasi disarmante. Alessandra aveva paura di lui, per prima cosa. Paura di quello che era, che rappresentava. Paura del suo essere maschio prima ancora che youkai, e della forza superiore, schiacciante, che possedeva e che avrebbe potuto costringerla semplicemente come fosse stata una volontà, un capriccio. E poi. Poi probabilmente c’era il fatto che Alessandra stessa non realizzasse appieno quella paura, quel rifiuto che le avrebbe stretto lo stomaco e fatta irrigidire prima di provare a divincolarsi, ad allontanarsi. No, ne era certo: non ne era consapevole. Non a livello mentale. Ma il suo corpo; il suo corpo parlava e Sesshomaru aveva imparato negli anni, da predatore, a riconoscere la differenza di un brivido.

E il tremore di Alessandra era paura. Paura della propria naturale debolezza; paura di sensazioni e ricordi ed emozioni che avrebbero potuto riemergere improvvise e soffocare.

Paura. Semplice paura. Forse la stessa che l’aveva attraversata mesi prima, la prima volta che si erano incontrati. Ma allora la mano di Sesshomaru le premeva la gola; allora i loro corpi si respingevano e Alessandra gli offriva sfacciata e disinteressata la carne tenera da recidere. Anche quella volta il corpo di Alessandra aveva tremato, mentre gli artigli premevano sulla pelle e l’eco del sangue rimbombava e si ripeteva all’infinito. Anche quella volta Alessandra aveva tremato, nel suo corpo. Solo nel corpo. Come se la sua mente rifiutasse di cedere, rifiutasse la paura; rifiutasse e basta. Quella volta rifiutava lui.

 

E adesso?

Cosa sarebbe successo, se si fosse avvicinato? Cosa sarebbe successo se, invece di fermarsi fra i ginko, avesse assecondato un impulso che, prepotente, aveva sentito farsi strada dentro di lui assieme al tempo che scorreva, mentre si costringeva all’immobilità. Cosa sarebbe successo se semplicemente non avesse pensato, e le fosse comparso alle spalle, nel silenzio dei movimenti che gli è proprio. Sorprenderla e vederla trasalire, forse arretrare. Sorprenderla e fermare il suo corpo che si sarebbe ritratto, costringere la testa, la bocca, a sé; afferrare braccia e gambe che avrebbero scalciato, senza nemmeno capire esattamente perché, per quale paura. Afferrarla e basta; e scoprirla a forza, ricercando nella mente i lividi e gli ematomi intravisti in una stanza affollata, su un corpo pallido coperto di sangue e sudore. Richiamare dalla memoria il corpo di Alessandra che si mostrava a lui, fra la stoffa sgualcita e sporca. Rivedere la sua nudità e sapere che, questa volta, ne avrebbe avuto coscienza, che sarebbe stato qualcosa di diverso. Ricordare; e percorrere con la mano la pelle ad assicurarsi della sua integrità. E dopo. Dopo.

 

Cosa sarebbe successo, dopo? Si sarebbe fermato? Davvero gli sarebbe bastata la sicurezza del corpo in via di guarigione, con le sue forme che tornavano normali e la magrezza e il pallore che sparivano? Davvero si sarebbe fermato, adagiandole l’haori sulle spalle nude prima di voltarle le spalle e andarsene. Lasciandola come? Insoddisfatta, disperata, sollevata?

Era strano. Il desiderio e l’appagamento fisico erano sempre state sensazioni vacue e remote. Si era concesso un’amante per curiosità e necessità. Si era concesso di condividere il letto con yasha per calcolo; e si era ritratto con una smorfia insoddisfatta prima di finire. Calcolo; solo calcolo. Perchè se avesse dimostrato alla corte che, benché in tempi lunghi, era interessato a procreare un erede, il giogo che a quel tempo sentiva sempre troppo stretto e pesante si sarebbe allentato. E il giogo era sparito: consumato con una yasha senza volto; avvolto da coperte e corpi che lo provocavano e lasciava insoddisfatti. Il giogo era sparito, ma Sesshomaru sapeva che, presto o tardi, si sarebbe ripresentato. E questa volta non avrebbe potuto sottrarsi facilmente: la corte mormorava, ma presto le voci soffuse e i borbottii sarebbero divenute grida e polemiche. Ben presto, lo sapeva, nuove yasha sarebbero venute a riscaldare il suo letto, e lo avrebbero seguito anche durante i suoi spostamenti: ansiose di mostrargli corpi perfetti modellati dalla battaglia, vogliose di raccogliere la sua discendenza e generargli quell’erede che doveva continuare la stirpe e il suo ruolo.

 

Eppure.

Eppure non provava interesse. Forse nemmeno per Alessandra. E il desiderio che gli stringeva lo stomaco e si allargava caldo e maligno nel ventre era altro. Era un desiderio diverso, e che non aveva mai provato. Ma che gli dava la sicurezza, fastidiosa, ma era pur sempre una certezza, che no, non l’avrebbe lasciata andare, se l’avesse avuta fra le braccia. No, non sarebbe stato capace di frenarsi, se prima non fosse riuscito a strapparle ben più di un bacio. E l’irritazione cresceva assieme alla consapevolezza che quell’incapacità di dominarsi non cozzava con il suo autocontrollo, con il calibrarsi degli istinti

Sapeva di desiderare il corpo di Alessandra, lo aveva realizzato e con il tempo anche accettato. E lo voleva non per capriccio o curiosità. Lo voleva per istinto; per quell’istinto assoluto e pieno che loro youkai provavano nei sentimenti. Sì: voleva Alessandra. E la voleva come forse avrebbe dovuto desiderare la sua compagna, la yasha che avrebbe dovuto dargli un figlio. E forse era quello lo sbaglio: la volontà di avere lei con la stessa intensità che avrebbe dovuto essere riservata alla compagna, alla madre di suo figlio. Eppure. Eppure, per quanto ci ragionasse, Sesshomaru era risoluto nella sua volontà: Alessandra. Per se stessa.

 

Toccarla.

Sarebbe stato così piacevole, toccarla. Come quando erano sdraiati nel futon, a palazzo. Toccarla lentamente, attraverso la seta e giocare lungo i lembi dei kimono, sfiorando la pelle quasi per sbaglio, per scherzo. Ritrarsi e ritornare, con calma e curiosità, scoprendo poco a poco un calore diverso, un modo diverso di rispondere a carezze e sollecitazioni. Un gioco strano, iniziato con naturalezza nelle notti del palazzo, quando il Alessandra si stringeva a lui dopo una battaglia. Forse per paura che scomparisse da un momento all’altro; forse per ricercare calore e protezione nel dormiveglia; forse davvero per imparare il suo corpo. Con il tempo gli aveva permesso sempre un po’ di più: una lembo di pelle sulla spalla, una gamba che si definisce maggiormente e si offre nuda alla sua mano. C’era voluto tempo. Per entrambi. Tempo per superare pudore e ritrosia; tempo per vincere convinzioni e orgoglio. Anche se le mani tradivano, e si muovevano prima della testa, prima delle convenzioni, rincorrendo quelle sensazioni che risvegliavano calore e ansia e trepidazione nel corpo, scendendo giù, nello stomaco e nel ventre.

 

Toccarla.

Sarebbe stato così semplice, toccarla. E così sbagliato; maledettamente sbagliato. Perché la paura, adesso, era un muro eretto e massiccio; perché il corpo di Alessandra lo avrebbe rifiutato. Anche se lei avesse detto sì, anche se si fosse offerta nuda e remissiva, sarebbe stata solo la sua voce a parlare; mentre il suo corpo. Il suo corpo.

Il suo corpo avrebbe urlato e scalciato e graffiato. Il suo corpo si sarebbe rifiutato; e Sesshomaru sapeva che non avrebbe potuto far altro che immobilizzarla perché non si facesse male. Stringere i polsi forte, troppo forte, e restare a guardare lacrime e terrore e grida che lo volevano allontanare, che lo respingevano con la stessa trepidazione con cui Alessandra lo aveva cercato. E ancora l’avrebbe tenuta stretta, aspettando. Che la voce diventasse sibilo rassegnato; che il respiro fosse singhiozzo e della violenza e della rabbia rimanesse solo un tremito delle membra. Allora. Allora l’avrebbe lasciata; per voltarle la schiena e andarsene. L’avrebbe lasciata distesa sul futon o forse sull’engawa, le vesti scomposte e la pelle a tentare e offrirsi inerme e debole. Troppo debole.

 

Perché non l’aveva toccata?

Perché Alessandra non voleva essere toccata. E ogni fibra del suo essere aveva urlato isterica e impaurita quando lo aveva visto. Nel timore che si avvicinasse; nel folle terrore che pretendesse qualcosa, qualcosa che non avrebbe potuto rifiutare, cui non avrebbe potuto opporsi. Non l’aveva toccata, e aveva sentito come un crampo mentre la sua testa valutava ogni azione, ogni più piccolo respiro. Un crampo stringergli lo stomaco e scendere nel ventre; giù lungo le gambe e scomparire nella terra, fermandolo lì, sotto quegli alberi, in quella pioggia d’oro. Incapace di andarsene; incapace di lasciarla ancora. Esitazione? No. Non aveva esitato. Era stato istinto: la sicurezza che, se solo avesse compiuto un gesto, qualcosa sarebbe cambiato, forse spezzato. No; ne era sicuro: non aveva esitato e nessun dubbio gli aveva attraversato la mente. Sapeva esattamente cosa Alessandra provasse, cosa il corpo gli rivelasse.

 

Paura?

Sesshomaru strinse gli occhi, e Ryoshi scrollò le spalle con noncuranza. A volte parlare con Sesshomaru-kun è difficile. Perché prende ogni parola come una sfida; perché vede solo il lato violento e bellico delle parole. Ma la paura ha tante forme; tante e troppo diverse per poterle conoscere tutte. Anche un demone. Anche uno youkai come Sesshomaru-kun può avere paura. E non è il tremito che ti scorre nelle membra sul campo di battaglia, quando ti accorgi che la vittoria ti ha sedotto e ti sta per abbandonare. Non è il formicolio di rabbia e disperazione che provi nell’avvertire qualcosa di più grande, di più potente, sovrastarti e ricordarti, improvviso, che devi ancora crescere, che essere forte non è abbastanza, non è mai abbastanza.

 

Ha tante forme, la paura.

Come quel crampo. Lo ricordi, Sesshomaru? Quando hai sollevato la ningen fra le braccia, sporca di sangue e sudore. Quando l’hai sollevata e ti sei accorto del sangue che scivolava dalle labbra, assieme al respiro. Il crampo che si allargava in ogni muscolo e faceva male, più del veleno che ti stava corrodendo le carni. Lo ricordi? Sì; sì, lo ricordi. E sai cosa vuol dire, vero? Sai cos’è quella paura che ti ha tenuto lontano da lei; che ti ha fatto scappare per la prima volta in vita tua da una battaglia così semplice e così pericolosa. E sai anche che non era paura: solo consapevolezza. Di dover pensare; di aver bisogno di tempo per capire e, soprattutto, per riuscire a riequilibrare sensazioni, impressioni e ovvietà ignorate.

 

Sesshomaru-kun

 

Il flauto si dileguò, con un residuo di musica e uno sbuffo di vapore. Mentre Ryoshi si lasciava scivolare dall’albero e le sembianze infantili mutavano in quelle dell’uomo. Mentre quel…Cos’era Sesshomaru, per lui? Il labbro mordicchiato e una parola che sfugge quasi per ironia: cucciolo. In fondo, non era cambiato molto da quando lo aveva preso in braccio, molti anni prima. Non era cambiato affatto, anche se il corpo era cresciuto; anche se, adesso, lo fissava con uno sguardo più esperto e maturo; anche se gli artigli avevano conosciuto sangue e morte, non era cambiato affatto. Uno youkai non può cambiare; non come intendono il cambiamento i ningen, almeno. O come lo intende lui stesso. Sospirò. Sesshomaru era ancora un cucciolo; e in confronto a lui lo sarebbe stato sempre. Un cucciolo che ti guarda, e mescola timori, orgoglio e risolutezza, e ti sfida a fare qualcosa, a trovare qualcosa che possa attirare la sua attenzione, che possa interessarlo. Non è mai stato facile interessare veramente Sesshomaru, avere la sua completa attenzione e sapere che aspetta, che aspetterà finchè non troverai le parole e le azioni giuste per farti comprendere. Cucciolo impaziente.

 

Ryoshi stuzzicò il mizura: Sesshomaru-kun. Sarebbe stato così semplice; e così pericoloso. Sarebbe bastato semplicemente aprire la mano e lasciare che l’acqua fluttuasse, si condensasse e lisciasse fino a formare uno specchio di cristallo. E poi. Ryoshi lo immagina: il viso di Sesshomaru riflesso tremolare in profondità e sfumare nei contorni, in un vapore che sale che avvolge tutto; il tempo fluttuare e quella sgradevole sensazione di sottrazione, mentre la sua essenza scivola in una debole luminescenza che riflette e scorre. Già: sarebbe stato così facile, e avrebbero potuto vedere: Sesshomaru-kun il suo futuro; Ryoshi la sua eternità. Avrebbe potuto mostrarglielo, perché il tempo è come l’acqua che scorre: dalla sorgente alla foce e trascina con ogni frammento di passato, presente e futuro. Il tempo dei ningen, il tempo degli youkai, il tempo dei kami: non c’è differenza, per l’acqua. Scorre e basta, e Ryoshi sa leggerla, sa plasmare da se stesso quello specchio che è squarcio e finestra, e sa che basterebbe una sua distrazione, una decisione mal ponderata, e il futuro si dissolverebbe in uno sbuffo per riassumere una nuova forma, un nuovo corso, uguale nella sua essenza, ma diverso nella sua manifestazione.

 

Sarebbe facile, e Sesshomaru-kun vedrebbe. Vedrebbe e si rassegnerebbe, senza accettare che il destino è il tempo e acqua, e non c’è nulla di definito ed immutabile, nemmeno nella vita di uno youkai. Ryoshi ridacchiò: Inutaisho lo aveva capito, lo aveva intuito; Saiyuri no. Inutaisho aveva imparato ad accettare il mutamento determinato dalle azioni, in bene e in male; Saiyuri no. Sayuri accettava solo la vittoria, Saiyuri permetteva che si realizzasse solo ciò che aveva previsto, senza intoppi e deviazioni. E Sesshomaru-kun. Sesshomaru-kun si trovava in bilico: diviso fra l’accettazione e la ribellione. Aveva realizzato una ningen, ma non riusciva a rassegnarsi a qualcosa di indefinito e impreciso, ancora. Anche se, Ryoshi se ne era accorto, stava mutando, stava crescendo. Perché il centro, il pensiero, si era allargato, e da se stesso e dalla sua essenza Sesshomaru aveva iniziato a deviare, ad allargare, includendo qualcosa che esulava dalla sua completa comprensione e che stava…Sì: avrebbe potuto dire studiando. Con la circospezione del cacciatore, prima di decidere l’attacco. Perché anche Alessandra era una preda, per Sesshomaru. Una preda diversa da quelle cacciate fino a quel momento, ma pur sempre una preda.

 

Come la paura.

Anche la paura era una preda, da accerchiare e addentare al momento opportuno, nell’attimo di distrazione. E per Sesshomaru-kun non c’era differenza, fra paura e Alessandra. Ryoshi lo aveva capito quel pomeriggio, nascosto nei riflessi del laghetto: lo aveva visto studiare la ragazza, annusare la sua paura e classificare ogni suo più piccolo fremito. Lo aveva visto stringere la mascella per rabbia, esasperazione o forse solo impotenza. E restare fermo, come per dilatare il tempo e fermarlo. Come per dare ad Alessandra la possibilità di riabituarsi al suo viso, alla sua presenza. Alla sua reale essenza. Non era stato facile in passato, e quello che era accaduto non avrebbe giovato: una certezza di cui erano coscienti sia lui che Sesshomaru-kun. E lo youkai aveva scelto la via più difficile, quella che richiedeva maggior pazienza e, forse, una consapevolezza di sé e degli altri che in quel momento Sesshomaru non possedeva, non ancora pienamente, non ancora maturata e definita. Sua padre. Suo padre ci aveva messo anni a raggiungerla; meglio: a sfiorarla. E aveva compreso brandelli di quell’equilibrio e del rapporto che può intercorrere fra ningen e youkai. Solo brandelli.

 

Chissà.

Chissà se Sesshomaru-kun e Alessandra sarebbero stati capaci. Capaci di accettare le differenze fra loro senza farsi schiacciare e soffocare; capace di rimanere nella propria natura senza rifiutare totalmente l’altra. Si erano scelti la via più difficile, e l’unica possibile: scelta nella spasmodica ricerca di un equilibrio inseguito senza consapevolezza. Chiuse gli occhi: era la via più difficile, e l’unica effettivamente percorribile. Alessandra non sarebbe mai divenuta una yasha; e Sesshomaru non avrebbe mai accettato una realtà da ningen. Non era sospesi fra due realtà, nella loro essenza, ma coscienti della loro diversità.

 

No: non avrebbe creato lo specchio, per guardare il futuro (possibile). Non ne aveva bisogno, non lo voleva credere. Sesshomaru-kun e Alessandra-chan stavano tentando: sapere se sarebbero riusciti o se si sarebbero distrutti non aveva importanza. C’era solo una cosa ad aver valore: il tentativo. Anche fatto di inciampi, risate e sofferenze. E forse. Forse davvero avevano trovato l’equilibrio corretto, cercando pur in un processo inconscio di accettarsi senza mutarsi. Già: mutarsi. Ne aveva incontrati, in passato, youkai che volevano fare propri compagni dei ningen e ningen che bramavano youkai per la loro potenza e per il trofeo che avrebbero mostrato. Era un desiderio, un’attrazione che spesso sfociava nell’ossessione, nella ricerca spasmodica e autodistruttiva. Erano morti: youaki o ningen. Erano morti, uccisi dal compagno, uccisi dal loro desiderio. Gli aveva visti, nelle pieghe dell’acqua: gli artigli gocciolanti e le zanne affondate in carne tenera e pulsante; le katana strette in corpi mutilati e assieme perfetti. Era stato male. Era stato fastidio e impotenza e rabbia e rassegnazione e ironia. Immagini che si era avvicendate fin dalle origini, da quando Susanoo aveva desiderato Kushinada-hime. E i confini si erano infranti senza ritrovare un unico equilibrio: kami, youkai e ningen erano entrati in contatto e l’effetto. L’effetto di quella prima unione era stata la discendenza dei mikado.

 

I confini.

È male infrangere i confini; ma forse. Forse imparare a vivere sul limitare era possibile. Forse. Mosse le dita, e una piccola sfera d’acqua si cristallizzò nell’aria, fluttuando davanti al suo viso prima di scivolare verso Sesshomaru. Va bene: gli avrebbe fatto decidere. Avrebbe potuto vedere un futuro, un futuro possibile, dettato dalle sue emozioni, dalle sue speranze e dalle sue paure. Non era né la certezza né la realtà innegabile e immutabile, ma questo avrebbe dovuto capirlo da solo. Se avesse compreso davvero che l’acqua può generare infinite increspature dal semplice tremolio di un soffio, allora avrebbe compreso anche che le possibilità si possono creare e si devono costruire: ningen, youkai o kami che siamo a cercarle. E Sesshomaru-kun aveva le capacità di crearle e mantenerle, se avesse ragionato senza lasciarsi guidare da precetti e orgoglio atavico e fossile. No: sbagliato. Se avesse risvegliato l’orgoglio proprio di un demone che lo porta a un passo dai kami; che lo porta a essere chiamato kami pur non essendolo completamente.

 

Rysohi socchiuse gli occhi e la sfera d’acqua e cristallo iniziò a emettere una debole luminescenza. No: non gli avrebbe più chiesto perché; sarebbe stato sciocco e controproducente continuare quel gioco che aveva per risultato solo il mutismo ostinato e orgoglioso di Sesshomaru-kun. Doveva trattarlo come uno youkai, e non come un cucciolo. E uno youkai non lo stuzzichi; uno youkai lo poni davanti ad una scelta. E lo lasci libero di decidere.

Perché la risposta, Ryoshi lo avvertiva, era conosciuta da entrambi, e dirla o lasciarla intendere da uno sguardo, da un’inclinazione della tesa, non avrebbe modificato nulla, assolutamente nulla. Ma quell’altra domanda; quella che, adesso, gli solleticava la mente e la lingua. Quella era una domanda che necessitava di una risposta. E andava presa con consapevolezza e risoluzione.

 

Gli avrebbe lasciato tempo, certo.

Il tempo di valutare le possibilità e se stesso; il tempo di soppesare ogni cosa. Ma non gli avrebbe permesso di scappare; non avrebbe accettato, in risposta, una scrollata di spalle e la seta che si gonfia nel gesto elegante. Non avrebbe accettato l’indefinito che Sesshomaru lasciava dietro di quando la decisione era un pericolo troppo grande. Non glielo avrebbe permesso; non questa volta. E sì, fa paura. Lo vedeva: Sesshomaru-kun annuiva appena, impercettibile, ma Ryoshi sapeva che si sentiva braccato, in trappola. Sapeva di averlo costretto ad una decisione che avrebbe potuto mutarsi in sollievo o rimpianto. Ma era necessario. Era necessario che l’orgoglio e l’indifferenza ostentati di frantumassero per farlo crescere. Allora. Allora ci sarebbe stato un’altra indifferenza; e un altro orgoglio. Ma doveva scegliere. E imparare il peso dell’azione ignota.

 

Si inginocchiò, la sfera che trasudava essenza e un sottile strato d’acqua a inumidirla. Si inginocchiò e Sesshomaru gli permise di toccargli il viso, ripercorrere le striature rosate e salire lungo il profilo elegante fino allo spicchio di luna in fronte. Gli lascio insinuare la mano nei suoi capelli, senza la minima repulsione o disgusto. E si chiese se fosse realmente quello che voleva o se ci fosse una malia, un potere più antico a controllare e sopire i suoi istinti. Una youki che lo aveva circondato e avvolto, e che incatenava gli artigli scattati per istinto, il ringhio che gli premeva in gola e il desiderio e il disgusto che lo assalivano mentre Ryoshi gli sollevava la frangia e riportava indietro i capelli, mettendogli completamente a nudo il viso e la gola. Lo avvertì con un singulto soffocato soffiare sulla pelle scoperta del collo, all’incrocio del date-eri. Lo sentì risalire in una scia liquida e insinuarsi fra le pieghe della seta fino ad avvolgere completamente il suo corpo, la sua pelle. Ryoshi lo stava possedendo, stava entrando in lui per costringerlo ad ascoltarlo, a capirlo. A decidere. E lo lasciava libero di cacciarlo, ma gli rubava la capacità di reazione. E scivolava sul suo corpo stuzzicandolo e costringendolo senza realmente decidersi a prenderlo completamente.

 

E mentre il respiro diventava affanno, mentre sudore, acqua e nausea si mescolavano; mentre Sesshomaru avvertiva le energie e la youki venir racchiuse in una bolla senza tempo e il suo corpo rifiutare di rispondere al più semplice dei comandi; mentre realizzava la sua incapacità e la sconfitta più irritante, in una lotta in cui la posta in gioco sembrava essere il controllo del suo corpo; mentre quella sensazione di liquido era in ogni cellula del suo essere, dentro e fuori, Sesshomaru avvertì di nuovo la mano di Ryoshi costringere la testa all’immobilità e il viso del mizuchi materializzarsi davanti al suo in una maschera senza età d’acqua e vapore. L’acqua a offuscargli la vista, scendere sulle labbra e ancora più giù, lungo il collo, fino a confondersi con il corpo e con quell’umido che ormai sembrava far parte di lui. Perché Ryoshi, in quel momento, lo possedeva completamente e poteva fare qualsiasi cosa con lui: costringerlo, manovralo, e anche ucciderlo. Lo possedeva, come Sesshomaru non aveva mai permesso a nessuno di averlo, di tenerlo. E con terrore avverti la rabbia e l’indignazione scivolare oltre nella mente, trascinate da quella stessa acqua; avverti i ringhi mutare in gemiti e un languore assieme confortante e irritante farsi strada lungo le membra. E nell’ultimo barlume di coscienza, sulla sua fronte un’altra fronte, o una bocca, un braccio, qualcosa. Qualcosa che premeva e sussurrava con la leggerezza ironica e fastidiosa di Ryoshi.

 

“Puoi scegliere, Sesshomaru-kun

 

 

 

*****

 

 

 

Blu. E poi azzurro e ancora blu.

E bianco. In quella striscia sottile che si insinua fra le scaglie, discende sotto il ventre e risale. Come un arabesco; o un nastro sinuoso, e sembra basti il fremito dell’aria a farlo alzare, allargare e poi ridiscendere. Come un aquilone. Un aquilone che cambia colore senza preavviso, inseguendo un capriccio dettato dal vento o forse da se stesso. E adesso il ventre è giallo e le scaglie diventano macchie rosse in campo bianco. Schizzi di un sangue che non c’è; schizzi di occhi che si allargano e ti fissano, attraverso il velo iridescente e umido. Oppure c’è il nero. Una lucida veste come di un’armatura, che avvolge completamente il corpo e si confonde fra i riflessi più scuri. Come in un gioco, come in un pigro mutamento che non ha ragione di essere se non nel diletto, nell’autocompiacimento.

 

E poi. Poi c’è la roccia, e l’acqua che trasuda e quella luminescenza viva che pulsa e pulsa e ti entra nella mente e ti freme sotto le mani e ti prende. Ti prende e basta. E non riesci ad allontanarti, a distrarti, mentre le mani toccano e toccano e sfregano e scrutano. E l’impressione, forte, ti fa male e vorresti allungare la mano ed entrare: dentro l’acqua, dentro la roccia. Dentro. Dentro qualsiasi cosa sia quella pietra che palpita e riluccica fra i vapori. Dentro. Forse per semplice curiosità; forse perché, in fondo, quel dentro non lo potrai mai comprendere, anche se lo tocchi, anche se ci consumassi i giorni, i mesi e gli anni. Lo potrai sempre avere fra le mani, nelle mani; e se ne resterà lì, davanti a te e lontano da te. Perché è come il nishikigoi che nuota nella pietra: si lascia intravvedere, ma non lo puoi catturare. Non lo puoi nemmeno toccare.

 

Ti parla, il nishikigoi. Parla in una lingua che non ha voce e si condensa in piccole bollicine che scompaiono contro la pietra. Ma parla. E segue il fremito del tempo e di emozioni che si fatica a rincorrere e a distinguere. Parla nei colori mutevoli delle scaglie, nell’arabesco dell’oro e del calico, tessendo discorsi fuggevoli come lo scorrere dell’acqua sulla pietra che lo racchiude. Ti parla, e ti guarda. O credi che possa vederti, mentre resta immobile, i baffetti che fluttuano e quell’ipnotico movimento delle pinne che non porta da nessuna parte e sembra non poter smettere mai.

 

Una clessidra.

La prima volta che Ryoshi le aveva mostrato il nishikigoi Alessandra aveva pensato ad una clessidra, senza un vero perché. Ma quel pesce; quel pesce chiuso in una roccia che trasuda acqua all’infinito; quel pesce che fluttua senza tempo e senza cambiamento, mentre attorno tutto trascolora e diviene; quel pesce che muta colore con la velocità di un pensiero che non si riesce a decifrare, quasi facendosi beffa di chi lo osserva e vorrebbe raggiungere anche un briciolo di comprensione, un frammento di quelle parole che sono acqua nell’acqua. Quel pesce per Alessandra era stata una clessidra che continua a girare su se stessa: una clessidra d’acqua. E con il nishikigoi era riaffiorato il tempo, nel peso e nel significato più strano e inconsueto. Il tempo trascorso, prima di tutto. Il tempo trascorso da quando era arrivata in quel mondo, in quel passato così irreale e devastante. Da quando era arrivata: erano gli inizi di novembre quando aveva accettato di prendere parte all’escursione alle pendici del Fuji e al lago Shojin, e c’era vento e aria calda e umida. Aria da neve, aveva pensato, senza darci troppa importanza. In fondo, erano pochi mesi che era in Giappone e non poteva nutrire l’insensata pretesa di comprendere e conoscere anche le bizzarie del tempo quando aveva difficoltà con il rapporto interpersonale. Ma quell’escursione era stata una proposta allettante: una camminata nella natura, un pomeriggio sui pattini, se il lago fosse stato ghiacciato come si sperava, e la tranquillità del ryokan e delle terme. Sì: un metodo rilassato e indolore per provare a rompere un po’ il ghiaccio e far progredire, seppur di poco, lo scambio culturale che aveva intrapreso.

 

Erano gli inizi di Novembre, allora. E doveva essere la fine di Ottobre in quei giorni, almeno a giudicare dalla natura e dal vento che si faceva più freddo sera dopo sera. Un Ottobre caldo e non rassegnato a cedere all’inverno. Inverno: un anno. Era da circa un anno che viveva in quel mondo. E gli ultimi mesi li aveva trascorsi fra delirio, incoscienza, futon e lenta convalescenza. Li aveva trascorsi da sola, se escludeva la presenza delle bijin-sama, di kodama e kinoko.

E Ryoshi.

Ryoshi che la sveglia al mattino; Ryoshi che conversa con lei nelle lunghe ore di riposo, che le offre il braccio, il braccio di un uomo e non di un bambino, durante le passeggiate per ristabilirsi. Passo dopo passo, sempre un po’ più lontano, sempre un po’ oltre il limite del giorno precedente, fra le montagne che da verdi si facevano d’oro e rosso. I silenzi, le parole o il suono dello shinobue. Il tempo aveva preso a scorrere in quel modo da quando aveva riaperto gli occhi in quella noka. E forse. Forse sarebbe continuano allo stesso modo se.

Già. Se.

 

Se Sesshomaru non le fosse riapparso davanti una sera d’autunno, fra il ginko e il tramonto. Se non l’avesse guardata e fosse rimasto lì, fermo e lontano da lei. E se il suo corpo; il suo corpo, stanco e un po’ traditore, non si fosse rifiutato. Rifiutato di qualcosa che Alessandra non riusciva (o non voleva) realizzare in piena consapevolezza. Perché era facile dare la colpa alle gambe un po’ malferme un po’ disabituate al movimento; perché era facile convincersi che toccava a lui avvicinarsi, toccava a lui concederle un cenno. Perché è giusto così; perché non c’era, quando lei si era svegliata e non c’era stato nei momenti in cui la debolezza e lo sconforto le stringevano lo stomaco e mettere un piede davanti all’altro, restare ferma senza appigli e aiuti ricacciando indietro capogiri e nausea erano torture che la lasciavano esausta e madida di sudore su un futon in una stanza vuota e silenziosa. Troppo silenziosa.

Avrebbe. Sì: lo avrebbe voluto accanto. Fosse stato anche semplicemente una presenza silenziosa. Ma. Ma poter socchiudere gli occhi e intuirne il profilo nella semioscurità o sentirne il respiro calmo nella notte. Poter allungare la mano sul legno freddo e un po’ ruvido, nelle notti a metà fra sonno, stanchezza e paure profonde che non avevano nome o volto ma salivano come mareggiate e rendevano affanno il respiro e lacrime le parole. Poter allungare la mano e toccarlo.

 

La sua mano.

Alessandra ricordava la vaga sensazione di un qualcosa di elegante e sottile che avvolge. E ricordava gli artigli che le sfioravano il palmo ogni volta che Sesshomaru racchiudeva le dita attorno alle sue e stringeva con impaccio e forza controllata. Il tepore appena percettibile che avvertiva quando Sesshomaru cercava la sua mano e la ricopriva con la propria. Era più grande della sua di pochissimo, forse più affilata e quasi diafana. Eppure. Le mani di Leone erano sempre state grandi: grandi quando, da piccola, la stringeva e la teneva ferma sulle sue spalle. Grandi quando le aveva insegnato l’equilibrio dei pattini, mentre le rimboccava le coperte o le tirava una palla di neve. Leone, per Alessandra, aveva sempre avuto mani grandi pronte a sostenerla e proteggerla; pronte a coprire quello che non avrebbe voluto vedere. Amava le mani di suo fratello, e amava quando le accarezzavano la testa, quando si insinuavano nei suoi capelli e le massaggiavano le tempie, dopo le ore di studio. Amava giocarci, con le mani di suo fratello: rincorrere le ombre e studiarne i segni. Erano mani che erano cambiate negli anni: la fossetta all’indice, per la pressione continua sul grilletto; l’anulare e il mignolo che non riuscivano mai a distendersi del tutto; il segno quasi normale del calcio della pistola nel palmo sinistro. La pelle dura del palmo destro per l’utilizzo della spada. E assieme la leggerezza che aveva saputo conservare, come quando catturava una farfalla e gliela mostrava, prima di liberarla senza averla davvero toccata.

Eppure. Eppure le mani di Sesshomaru erano così diverse. Sottili, quasi femminili; con le dita lunghe e gli artigli affilati. Ma c’erano quei particolari; quelle piccole cose che Alessandra aveva imparato a sentire con il tempo: il tendine del polso duro e pronto a scattare alla minima necessità; la fermezza con cui frustava l’aria e raccoglieva la sua mano o il suo viso. C’era voluto tempo, prima di avvicinarlo. Tempo prima che le mani scivolassero l’una nell’altra e anche quando era diventato un gesto naturale, Sesshomaru vi ricorreva raramente e solo nelle sue stanze o con la sicurezza di non esser visti. Ogni gesto, per la precisione, era da Sesshomaru ridotto al minimo, anche nelle sue stanze private. Un filtro che Alessandra aveva dovuto accettare quasi con rassegnazione e obbligo: un po’ per la natura stessa dello youkai un po’ per quello che sembrava essere un innato pudore orientale per qualsivoglia contatto fisico esplicito, di certo in pubblico; e Sesshomaru sembrava centellinarlo anche nel privato.

 

Eppure.

Eppure Alessandra non si era sentita trascurata prima dello scontro e della naginata. Sesshomaru aveva imparato altre movenze, altri modi per mostrarle la sua attenzione. Alcuni fisici, alcuni semplicemente basati sulla sua presenza o su poche parole. Ma quella distanza; la distanza di quella sera era stato qualcosa di nuovo e non decifrabile. O almeno Alessandra non era riuscita a spiegarsi il senso di quella che, in definitiva, poteva considerare solo come un’apparizione quasi onirica. Perché mostrarsi, se non aveva avuto l’intenzione non solo di avvicinarsi, ma nemmeno di parlarle? E, cosa che la sconcertava maggiormente, cos’era stato quel senso di sollievo, quel respiro rilasciato senza essersi nemmeno accorta di averlo trattenuto quando lo aveva visto darle le spalle e scomparire. Perché, inutile continuare a negarlo, aveva avvertito la tensione scemare assieme ad una innaturale spossatezza che l’aveva pervasa, quando era stata certa che non si sarebbe avvicinato, che non l’avrebbe toccata, che non…Già: baciata. Aveva realizzato con sorpresa e perplessità di non desiderare di baciarlo, con l’istinto di ritrarsi e proteggere la bocca, il viso. Tutto. Tutto quello che avrebbe potuto di nuovo farla…Farla cosa? Perché le erano tornate in mente le minuscole e sottili cicatrici al polso? Le cicatrici: gliele aveva fatte lui, con i suoi artigli, una sera o una notte di mesi prima. Per fermarla; per impedirle di scappare da qualcosa. O forse solo per rabbia, per il rispetto che si ostinava a non mostrargli, per quella irrazionale e viscerale necessità che avvertiva di provocarlo. Non era odio o antipatia; e nemmeno attrazione. Cos’era, quel sentimento che si era formato quando lo aveva visto, quando era stata costretta a seguirlo?

 

Non era amore. E non era rabbia. Nemmeno curiosità. Forse. Forse necessità. Necessità e desiderio. Di lui; dei suoi artigli. Degli artigli e delle zanne nella pelle, dentro; nella carne. Aveva immaginato: il sibilo dell’aria e l’eco di uno strappo. Sarebbe stato come strappare qualcosa di un po’ duro e resistente. E si sarebbe accasciata a terra e …. Forse l’avrebbe azzannata alla gola; forse le avrebbe staccato la testa. Non importava: voleva solo che lo facesse. Che attaccasse. Voleva. Voleva davvero morire? O desiderava invece dimostrare a se stessa che…Che cosa? Che avrebbe potuto battere uno youkai? Era ridicolo! Una ridicola assurda arroganza che non aveva mai avuto senso di esistere. Però. Però la gola gliela offriva lo stesso, assieme a sfacciataggine e provocazione.

 

La gola.

Già: gliela aveva sempre offerta, la gola. Prima da azzannare; poi da baciare. E le zanne c’erano state, sulla sua gola. Leggere; ed erano un brivido sottile fra proibito e pericoloso. Ed erano orrore e divertimento: perché erano le stesse zanne che la sfioravano quelle che aveva scoperto, più di una volta, rosse di sangue rappreso. Dopo gli scontri; dopo le sortite. Anche durante quell’ultimo scontro le zanne di Sesshomaru erano rosse; e Alessandra aveva avvertito, nella confusione del dolore e della spossatezza, il disgusto montare assieme a qualcos’altro. Qualcosa che non aveva avuto né forza né volontà di definire. Ma che c’era ed era ancora lì, nascosto da qualche parte. E forse. Forse era solo tornato a galla e Sesshomaru l’aveva visto.

Oppure. Oppure poteva esserci un’altra spiegazione. Una stupida semplice elementare spiegazione che lei non era ancora riuscita a trovare.

 

Respirò piano e si ravvivò i capelli con la mano. Il sentiero si snodava fra felci e muschio, con il grigiore delle pietre che faceva capolino a tratti fra il fogliame marcio, reso lucido dalla poca luce che riusciva a filtrare. La sera e la frescura le scivolavano sulla pelle, assieme alla sensazione di vertigine che la coglieva ogni volta che attraversava la barriera.

La prima volta. La prima volta era stato quasi per scherzo, una passeggiata e qualche esercizio con un traguardo un po’ più lontano, la curiosità stuzzicata di scoprire cosa ci fosse, oltre la macchia di bambù, il lucore che filtrava fra i ginko. E le allusioni sospese di Ryoshi che raccontava lasciando nebbia sulle parole, lasciando i contorni indefiniti come durante un temporale.

E no, non aveva mai percepito nulla, attorno alla noka: suoni, odori, sensazioni. Tutto filtrava attraverso quella cortina molle e invisibile che, da quando era stata portata lì, l’aveva protetta e nascosta all’esterno. Era come trovarsi in una bolla opaca: un kekkai, le avevano detto. Fatto per occultare, per racchiudere e assieme permettere libertà. Perché è dall’esterno che la noka non è visibile; perché è come un ingresso: la porta verso un qualcosa che…Non glielo avevano saputo spiegare: né le bijin-samaRyoshi. O forse era stata lei a non essere in grado capire esattamente cosa significasse entrare in un qualcosa di diverso. Capiva solo una cosa: dentro e fuori. E passare la barriera significava fuori.

 

La prima volta era stato destabilizzante: un’immersione inaspettata e soffocante. E la mano di Ryoshi che diviene adulta nella sua, braccia robuste a sorreggere il suo corpo disorientato e una frescura umida e inconsueta scenderle sul viso pallido e freddo. Mentre la nausea montava, contraeva lo stomaco e si riversava in un conato che l’aveva fatta cadere all’improvviso, una mano a reggere lo stomaco e l’altra forse a proteggersi. Non ricordava bene cosa fosse successo esattamente: forse era stata solo un’impressione forse aveva realmente vomitato, mentre il sapore di caldo e sabbia secca scivolava lontano assieme alla sensazione di mille tentacoli invisibili che si staccavano con schiocchi sordi.

 

La prima volta era stata traumatica, e per del tempo non aveva più voluto superare il perimetro del giardino della noka. Engawa, albero di magnolia, engawa: lì si concentrava, ostinato, il suo mondo. Anche se la vegetazione attorno era invitante; anche se il mormorio di piccoli corsi d’acqua le arrivava a sprazzi nel vento. Dovevano esserci delle cascatelle, non molto lontano; e dei piccoli specchi d’acqua. E Ryoshi parlava e parlava e cercava di convincerla: è normale, aveva detto. Le prime volte la barriera disorienta sempre; ma non è cattiva. È protezione; è normalità. Bastava farci l’abitudine, e avrebbe imparato ad avvertire il passaggio in modo diverso: sarebbe stato come immergersi nella sabbia arroventata dal sole. E al fastidio si sarebbe sostituita una sensazione come di piacere, di ovvietà.

La prima volta era stato brutto; e anche la seconda. E la terza. E anche se, con la reiterazione dei gesti e il respiro sempre più regolare, i conati e le vertigini si erano diradati, le restava l’impressione di una violenza, di uno strappo che si veniva a creare, forse nel kekkai stesso forse in lei. E quando si voltava, nell’aria uguale e fredda rispetto al calore soffocante del passaggio, aveva a volte l’impressione di vedere labbra o bocche che sanguinavano e si contorcevano prima di richiudersi fino a creare una cortina impalpabile, che nascondeva la noka.

 

Alessandra sorrise, mentre la mano correva a cercare sostegno nel tronco più vicino. Aveva riacquistato il suo equilibrio, e ormai anche camminare le risultava di nuovo naturale e semplice. Come se il tempo trascorso fra barcollii e incertezze non fosse mai esistito. Eppure; eppure la consapevolezza scivolava nell’automatismo della mano che si tende alla ricerca di un sostegno, del braccio di Ryoshi o delle bijin-sama quando i geta incespicavano o il sentiero è di poco sconnesso.

 

Si fisso la mano: le leggere escoriazioni che la segnavano, ricordo dell’ultimo tentativo che aveva fatto di allontanarsi da sola. Non le era impedito, come aveva supposto al principio; paradossalmente, le bijin-sama avevano incoraggiato quel suo desiderio di allontanarsi dalla noka, anche senza la presenza di Ryoshi. A volte c’erano i kodama, ma più spesso ne avvertiva solo la presenza nel respiro degli alberi attorno a sé. Non avrebbe saputo spiegarlo; era diventata naturale la sensazione sulla pelle: i gesti seguiti da mille piccoli occhi cavi senza espressione che sembravano ridere nel loro suono di nacchere d’osso ad ogni passo che aveva imparato (ricordato). Nessuno aveva mai tentato di fermarla né di dissuaderla. E con il tempo aveva preso l’abitudine, alla sera, nella luce morente, di superare la barriera e aggirarsi lungo i sentieri. Senza meta e preoccupazione di strada e tempo: un piede avanti all’altro, fino ad una pietra o ad una delle cascatelle che si insinuavano fra le rocce e il muschio. A volte erano davvero pochi passi, e il tempo scorreva nel gioco di luci del crepuscolo, finchè lo shinobue echeggiava e Ryoshi le compariva accanto e con lui rientrava alla noka.

 

La sensazione di umido sulla pelle nuda le provocò assieme repulsione e piacere. Raccolse i geta e riprese a seguire la curva del sentiero che saliva appena lungo il pendio, nella boscaglia di betulle e aceri. Era una piccola follia, si ripeteva. Uno sciocco capriccio che poteva concedersi, anche senza Ryoshi. Non c’era nulla di male, in definitiva: voleva solo vedere di nuovo il pesce nella pietra. Avvertire l’acqua tiepida scivolarle fra le mani e la sensazione di tranquillità e protezione che aveva avvertito la prima volta, quando Ryoshi le aveva bendato gli occhi e guidata. Ricordava. Ricordava la sensazione di scivoloso fra le mani, assieme all’acqua che scorre: toccare Ryoshi era sempre difficile. Aveva paura che evaporasse o si frantumasse in mille piccole goccioline. Eppure. Eppure le sue mani incontravano carne, consistenza; avvertivano un pulsare irreale eppure rassicurante. All’inizio non aveva capito esattamente: non aveva compreso cosa intendesse Ryoshi quando le aveva detto sono un mizuchi; e nemmeno il mostrarle le mille possibilità della sua essenza aveva contribuito. Ma quel giorno, mentre lo seguiva senza vedere, con nell’aria odore di umido acqua e musica intuì qualcosa che non avrebbe mai potuto spiegare a parole. E Ryoshi non era più Ryoshi ma ogni atomo che la circondava, ogni goccia che avvertiva bagnarle il kimono, scorrerle sulla pelle, dentro la pelle. Avvolgerla e prenderla come l’onda del mare; stringere e circondare per poi lasciar andare quasi all’improvviso, assieme a un rombo che sembra un urlo o una risata troppo alta.

 

E Ryoshi l’aveva lasciata andare; e la pietra squadrata e piatta si distendeva sotto il pelo sottile dell’acqua, fra il fumo che sapeva di minerali. Una normale pietra, liscia per il lungo scorrere dell’acqua sulla sua superficie, ma c’era quel debole chiarore che si confondeva con i riflessi del sole e il vapore. E la mano aveva tremato mentre Ryoshi la guidava prima a sfiorare la superficie dell’acqua in una carezza timida che diventava via via più intensa, seguendo le increspature e le minuscole imperfezioni che si avvertivano. Mentre Ryoshi la osservava disteso sulla superficie dell’acqua come su un tatami nero e fumoso; mentre allungava un dito e penetrava la roccia come non fosse esistita e la luminescenza indefinita diveniva luce e i riflessi rivelavano le squame iridescenti di una carpa che si avvolgeva attorno alla mano forse conosciuta, di certo non nemica. Alessandra ricordava il dispiacere e la frustrazione per poter solo guardare, la pietra sotto le mani che rimbomba sorda e resiste alla pressione; la carpa guizzare e mutare i propri colori dall’oro al rosso al blu e poi al nero, prima di discendere verso il fondo e risalire. Sembrava potesse fuggire da un momento all’altro, tanto la pietra si faceva trasparente e cristallina, come uno specchio in fondo ad un pozzo.

Ryoshi le aveva detto che era un kosokosoiwa, uno spirito dell’acqua come lui. E che era un dono per lei, per quello che in quei mesi era riuscita a conquistare: qualcosa che sarebbe stato suo per sempre senza poterlo possedere mai veramente. Ma suo. Suo.

L’aveva riaccompagnata a casa molto tardi, quel giorno. E prima di andarsene le aveva detto: ricorda: è tuo, anche se non lo puoi toccare.

 

E adesso la pietra riaffiorava dal vapore, con l’eco lontano di un colpo ritmico a confondersi con il fruscio della cascatella fra le felci. Sarebbe stato così semplice: stendersi sull’erba umida e allungare la mano nel vapore, ricercando un po’ con la memoria un po’ con l’istinto il punto da cui partire. Ecco: la piccola fossetta, a lato del bordo. Un poco più in alto, adesso; il centro. E adesso sfiorare l’acqua tiepida e ridiscendere in una carezza lungo i bordi arrotondati e lisci. Prima con l’indice, così: lentamente. Aprire il palmo, un dito alla volta, ascoltando la sensazione di formicolio della corrente leggera sulla pelle. Aspettare: bisogna aspettare. Il palmo aperto e sospeso; ancora. Ci vuole ancora un po’, o è già trascorso troppo tempo? No: Ryoshi le ha detto pazienza. Non può esser veloce, o la carpa si spaventa e non si mostra. No. Con calma. Va bene: prova. Piega un po’ il polso, così; ancora un po’. E adesso; adesso devi seguire cerchi come increspature; piccoli centri concentrici che si fanno via via più grandi. Così, con calma. Non bisogna avere fretta; mai fretta. Anche se la terra è pesante e fastidiosa, contro lo stomaco; anche se i vapori ti investono il viso in una cortina umida che si appiccica alla pelle e rende lucidi e scomposti i capelli.

 

Potrebbe. Sì: potrebbe sollevare il kimono e legarlo all’obi. Appena sopra il ginocchio e poi lasciarsi scivolare in acqua: c’è un base rocciosa poco profonda, vicino alla pietra, l’ha vista; e poi la polla discende velocemente. Ma quel bordo c’è, e basta fare un po’ di attenzione per non scivolare. Ecco: i lembi raccolti e annodati in vita, fermati dal sageo. E il calore intenso risalire sulla pelle con uno sbuffo di vapore, mentre scende in acqua e allunga le mani sulla superficie del kosokosoiwa. E i movimenti si rilassano, si adeguano allo scroscio dell’acqua e all’eco di quel tonfo: toc toc toc. Ecco: la luminescenza si intensifica, avvolge il polso e risale assieme all’umidità e all’acqua. È un fremito caldo, come una garza bagnata d’acqua calda. E la pietra: la pietra sta scolorando: al centro, sotto le mani che continuano a carezzare, come un foro che si va allargando, centimetro per centimetro, mentre il corpo flessuoso della carpa assume spessore e consistenza, si riesce a definire in modo sempre più preciso. É…è bianca. Bianca screziata di azzurro. E vuol dire…vuol dire…Alessandra sorrise, le spalle in un sussulto divertito: non lo ricorda. Forse Ryoshi non gliel’ha detto; o forse non lo ascoltava e basta. Troppo interessata ai riflessi e ai guizzi che alle parole.

 

Pluch.

Guizzi. L’altra volta c’era stato l’eco di un guizzo, prima. E la carpa si era mostrata arrotolata su se stessa, in movimento. Ma adesso. Adesso la carpa non sta nuotando. Resta così: ferma sotto le sue mani. E la guarda. Guarda attraverso la pietra lucida come cristallo; mentre l’acqua. L’acqua si è come alzata e abbassata in un onda. Un onda o un movimento. Pluch. L’acqua non fa pluch L’acqua fa…Fa…Qualsiasi cosa faccia, non fa pluch. Non in una pozza d’acqua; non a ridosso di uno zampillo e nel mormorio sottile di piccole onde. Onde. Non ci sono onde, in una pozza. Non ci sono onde in una piccola pozza immobile, avvolta nel vapore.

Non. Ci. Sono. Onde.

 

Eppure. Eppure l’acqua sta tremando, e c’è quel rumore. Lo scroscio dell’acqua che si tuffa; dall’alto, da molto in alto e senza pietra o roccia ad accompagnarla. Come quando rovesci una bacinella nel secchio: e l’eco è un gorgoglio cupo e uno scroscio sordo. Molto sordo.

Forse. Forse è una scimmia. Sì: una scimmia. Ryoshi dovrebbe avergliene accennato, se non ricorda male. Ci sono alcune scimmie, su quelle montagne. E quando l’aria si fa più fredda e l’autunno inizia a declinare, alla sera, non è inusitato scorgere il loro muso rosso acceso far capolino fra i vapori di una sorgente termale. Non fanno niente, le aveva detto; basta non stuzzicarle o cercare di scacciarle. Si può condividere la stessa sorgente senza preoccupazioni.

Ecco: certo. Si tratta di una scimmia, forse due. E l’acqua che cade. L’acqua che cade è solo acqua sollevata e gettata. È solo impressione. Va bene. Va tutto bene.

Adesso. Adesso basta voltarsi, e vedrà due occhi curioso che la fissano fra il fumo. Potrebbe. Potrebbe prendere un bel respiro; e non deve urlare. Perché, in fondo? Sono solo scimmie. Non c’è nulla di strano; nulla di preoccupante. La koi non si sarebbe mostrata, altrimenti, giusto? La koi non si mostra, se ha paura. Ma è lì, sotto la sua mano. Ferma.

Ferma. No: assurdo. È ferma perché la vuole guardare. Perché è curiosa. O forse ha sbagliato qualcosa, nei suoi gesti. E la koi ha percepito il diverso, il movimento preoccupato del suo corpo; è abituata a Ryoshi, la koi, non al suo richiamo. È abituata alla mano che scende a carezzarla.

Va bene. Non c’è nulla: anche l’acqua è ferma adesso. Non era niente. Assolutamente niente.

Basta voltarsi e c’è solo vapore. Solo vapore. Vapore.

Bianco.

 

Bianco.

C’è solo bianco. E poi. Poi. Quell’ombra; quell’ombra più scura che si condensa nel vapore, mentre l’acqua ha ripreso a sciabordare e Alessandra la sente risalire fino al ginocchio e ritrarsi. E la pietra. La pietra è all’improvviso scivolosa, troppo scivolosa, e i geta lontani, mentre la mano scorre sulla stoffa in un gesto automatico e si nasconde nel nodo dell’obi. Il tanto. Deve allentare la chiusura di sicurezza e stringere l’impugnatura; si estrae facilmente: una piccola torsione del polso ed è fatta. Ecco: dovrebbe…Dovrebbe essere nel terzo risvolto; lo mette sempre nel terzo risvolto. Abbastanza imbottito da non essere notato; abbastanza agevole da non essere frenato nell’estrazione. Lo ha sempre messo lì, prima di uscire. Il palazzo non è sicuro; il palazzo è pericolo, per lei. Il palazzo.

 

Già: il palazzo. Il palazzo è altrove. E lo è anche lei.

Da quando non si preoccupa più di infilare il tanto nell’obi? Da quando la sensazione di guardia si è affievolita fino a scomparire del tutto? Da quando avverte solo protezione? Alessandra prese un respiro a metà fra un singhiozzo e un colpo di tosse: pericolo. C’era qualcosa, in quell’ombra che si condensava sempre più che le faceva ripetere, urlare, nella testa: pericolo.

E quella sensazione sgradevole divenne crampo e vertigine e desiderio. Desiderio di scappare, di allontanare, di fuggire; desiderio di restare, di capire, di ritornare indietro mescolati all’adrenalina e a un senso di colpa e di repulsione. Illogico. Perché non aveva motivo di esistere; perché non aveva nulla di cui….vergognarsi? Giusto? Mentre sentiva i muscoli tendersi fino a far male; mentre l’eco dell’acqua e di colpi invisibili si rincorrevano e diventavano gong giganteschi che la frastornavano, assieme al calore che saliva in volute di vapore, attorno a lei, dentro di lei. Mentre Sesshomaru le sfiorava la pelle umida con la bocca e scendeva lungo la gola, fino alla base del collo per poi risalire, la lingua che seguiva la scia di minuscole goccioline. Ancora più su, al lobo dell’orecchio stretto fra i denti, morso e rilasciato.

 

L’acqua tiepida era quasi un’offesa attraverso la stoffa, attorno alla testa. E Alessandra avvertì i suoni attenuarsi come attraverso un filtro, mentre l’acqua le lambiva le tempie e le scorreva sotto la schiena, nella schiena, nelle pieghe del kimono che si gonfiava d’aria e d’acqua, allargandosi più di quanto avrebbe dovuto. Realizzò in un gemito di aver perso l’appiglio e che adesso i suoi piedi, le sue gambe, galleggiavano oltre il bordo del kosokosoiwa; e che era sdraiata. Sdraiata su una pietra liscia e calda, mentre un uomo, uno youkai…Mentre Sesshomaru.

Sesshomaru.

 

La mano che risaliva lungo la coscia, dentro l’acqua, dentro la stoffa. Risaliva e le premeva il fianco nella pietra, come se potesse immergervelo, mentre la seta awase iniziava a pesare e bloccare i movimenti, le contrazioni dei muscoli e del respiro. E poi. Poi c’era la bocca; da qualche parte, lungo il suo corpo. Lungo il suo corpo nudo fra il vapore, la parte alta del kimono aperta e lasciata galleggiare pigra, intrecciata ai capelli, avvolta fra braccia imprigionate e libere. La bocca di Sesshomaru. Sul corpo. Sul suo corpo. Sul suo corpo nudo. La lingua; e le mani e poi di nuovo le labbra. La fronte premuta sull’addome, mentre le mani risalivano di nuovo i fianchi, li stringevano, li abbracciavano. E il corpo la chiudeva, scendeva su di lei e si allontanava per concentrarsi su altro, per stuzzicare, esplorare, sfiorare altro. I seni nudi; e un male simile ad un pizzicorio continuo che va intensificandosi, fino a diventare una piccola morsa. Per l’aria, certo. Per l’aria fredda sulla sua pelle calda, sulla pelle bagnata di vapore e sudore. O forse era…Era…La pressione delle zanne appena sotto la clavicola, la pelle che freme stretta e morsicchiata. E poi di nuovo. Di nuovo la vertigine che l’avvolge, assieme alla nausea e alla voglia di scappare, di andarsene. E Sesshomaru stringe i polsi, li solleva e li accarezza. Stringe, bacia, morde. Ed è nudo sopra di lei; e la stoffa è un ricordo che si apre attorno ai loro corpi. E il vapore è respiro e affanno e labbra gonfie e lucide e acqua che si condensa sul corpo, in pizzicorii che si confondono con gesti, che invitano ai gesti, a continuare, a scoprire. Ad andare oltre.

 

Sesshomaru si costrinse a restare immobile, la fronte contro i seni di Alessandra e le braccia strette ai suoi fianchi. Si costrinse ad accettare il fremito che avvertiva nel corpo sotto di sé, i brividi e gli spasimi che si succedevano sempre più intensi, mentre il respiro diventava singhiozzo. Non reagiva realmente; non lo allontanava, non urlava, non si dibatteva. Restava semplicemente inerme. Era rimasta inerme mentre la toccava, mentre la spogliava; non si era difesa, ma lo aveva guardato. E Sesshomaru si era accorto che Alessandra andava oltre il suo viso, oltre il suo corpo; si era accorto che fissava lui come avrebbe fissato il vuoto e i riccioli di vapore. Lo aveva guardato mentre arretrava fino a restare imprigionata fra il kosokosoiwa e il suo corpo; lo aveva guardato quando l’aveva costretta a sedersi e le aveva fatto inarcare la schiena fino a farla sdraiare. E poi. Poi aveva continuato a tenere gli occhi aperti, senza un’espressione soddisfacente.

 

Sesshomaru aveva imparato con il tempo che i ningen mostrano la loro emozionalità nel volto, nel corpo, nella voce. Aveva intuito la contraddizione di certi atteggiamenti, la pericolosità dell’ira che esplode senza preavviso, l’egoismo che si nasconde sotto atteggiamenti ambigui e troppo complessi da discernere velocemente. Aveva conosciuto l’odore della preda prima che morisse; l’eccitazione di un guerriero alla prospettiva di uno scontro; la lascivia e l’orgoglio che traspariva dalle yasha che lo volevano. E sapeva che le sue stesse emozioni, per quanto abituato a dominarle, potevano sfuggire al suo controllo e concretizzarsi in un fremito anche appena percettibile, nel movimento involontario degli occhi che si stringono, nella flessione inconscia degli artigli o nel ringhio che sentiva premere in gola. Ma le espressioni dei ningen gli erano sempre risultate arcane e insignificanti, patetiche, in balia di contorti processi che non si era mai preoccupato di considerare.

 

Eppure.

Eppure quello che Alessandra provasse lo aveva capito fin da quando l’aveva vista fra l’oro dei ginko, fin da quando aveva deciso che un passo nella sua direzione, quella sera, era pericolo. Di qualcosa che non aveva nome, ma pericolo. E l’aveva riavvertito violento invaderlo di nuovo quando le si era avvicinato, l’acqua che sciabordava al suo passaggio e al vapore mescolarsi un odore che aveva imparato a distinguere da subito: paura. L’aveva percepito chiaro, mentre gli scendeva nei polmoni, e aveva deciso di ignorarlo. Aveva deciso di continuare a camminare, di abbracciare il corpo che emergeva dal vapore, che scivolava e si concretizzava in pelle e tentazione fra la stoffa pesante del kimono.

 

Era stato diverso.

Diverso da quella volta che si era concesso a quella yasha; diverso il fremito che aveva percepito e che continuava. E aveva deciso: andare avanti. Per poter zittire una sensazione, un istinto che aveva iniziato a prendere forma nella sua mente quando aveva colto lo sgomento negli occhi di Alessandra al suo emergere dal vapore. Non lo aveva mai guardato così, nemmeno mentre le stringeva la gola fra gli artigli. Non lo aveva mai guardato in quel modo, con la pupilla dilatata simile alla follia e un luccichio che, testardo, aveva attribuito solo all’umidità della polla. Non lo aveva mai guardato in quel modo, e Sesshomaru realizzò in un singulto che non lo stava realmente guardando, che aveva smesso di guardare lui, di sentire il suo respiro e il suo corpo nel momento stesso in cui l’aveva toccata. E le mani che l’avevano accarezzata erano state altre mani, e altre bocche e lingue e respiri. Anche se gli accarezzava il viso, anche se gli aveva stretto il viso fra le mani e lo stava ripercorrendo nei suoi contorni. Come se toccarlo potesse cambiare qualcosa, ormai.

 

Le labbra che si muovevano rincorrendo un nome che diventava un singhiozzo muto; e quel tremore continuo che non si placava, che veniva da dentro e faceva male e nausea e disgusto. Alessandra ripercorse il profilo di Sesshomaru, infilò le dita nei capelli lucidi e bagnati, e si chiese perché. Perché, benché lo avesse lì, benché si fosse lasciata spogliare e no, non ne fosse pentita, non provasse vergogna, l’unica parola che le risuonava nella mente era: scappa. Perché il volto di Sesshomaru le fosse così estraneo, così distante. Perché tremasse e desiderasse che se ne andasse, come aveva desiderato che la smettesse di toccarla, di spogliarla, di amarla, e assieme avvertiva l’orrore al pensiero di quel corpo che si allontanava, il disorientamento di esser lasciata su quel sasso, nuda e sola come un oggetto senza valore, come il kimono che si allargava nell’acqua.

 

Si accorse delle lacrime e dei singhiozzi, del respiro irregolare e della bocca impastata di pianto solo quando avvertì artigli sfiorarle il viso e Sesshomaru fissarla con un misto di consapevolezza e…cos’era? Dolore? Sorpresa? O forse era accettazione. Di un qualcosa che non riusciva a capire e che, sentiva, poteva solo spaventarla. Il corpo di Sesshomaru scivolare sul suo, riprendendo posizione eretta; assecondarlo mentre la riportava seduta, l’acqua a lambirle la vita e il petto offerto all’aria e al vapore. E al suo sguardo. E Sesshomaru la guardò, percorse la linea del collo, scese fra i seni stringendo le mani, nel buio dell’acqua, per frenare il desiderio di toccarla ancora, di ignorare quello che, chiaro, palese, vedeva nelle membra frementi e negli occhi dilatati, nella scia silenziosa di lacrime che Alessandra non riusciva ancora a realizzare di star versando.

Si soffermò sul ventre e sui fianchi ancora un po’ magri, sbirciò i polsi sottili e ricordò per distrazione com’erano prima, flessuosi ma con i nervi e le ossa che scomparivano nella carne. Intuì a memoria le cicatrici che le segnavano un polso e si soffermò sulle labbra socchiuse. Quando la baciava, era solito trattenere fra i denti il labbro inferiore, quasi compiacendosi del sorriso che percepiva. Stringere e mordere prima di rilasciare, per sfiorarlo subito con un dito e scoprirlo tumido e caldo.

La guardò.

E realizzò di volerla vedere ancora così, scarmigliata, con i capelli che gocciolavano sul corpo e la pelle completamente offerta. Realizzò di volerla, e che sarebbe bastato un gesto, un movimento irrisorio per lui, e l’avrebbe avuto di nuovo sotto di sé, l’avrebbe avuto davvero. E Alessandra. Alessandra non si sarebbe opposta. Lo realizzò con un moto che potè associare solo al terrore pur nella calma totale che lo stava pervadendo, pur nell’insensatezza di quella sensazione. Ma il terrore di uno youkai è così diverso da quello che ha scorto infinite volte negli occhi dei ningen al semplice sentore della sua presenza. Il terrore di uno youkai è molto più profondo, e si allarga a tutto il suo essere; è la sensazione di qualcosa di cambiato, di un elemento stabile che rovina e trascina con sé. Non getta del panico, il terrore di uno youkai. Ma fa male.

 

Sesshomaru era terrorizzato.

E Alessandra davanti a lui non smetteva quel pianto silenzioso che sembrava una preghiera, mentre le labbra mormoravano senza voce forse un nome forse una nenia o una preghiera. Era come nel delirio: cosciente di quello che stava succedendo, e assieme incapace di realizzarlo. E Sesshomaru era Sesshomaru ed era altri youkai; e le sue mani erano state mani estranee e bramose e la bocca e le labbra, la lingua il corpo. Tutto. Tutto era Sesshomaru ed era altro. Erano quei demoni. E non capiva perché; si ripeteva che non c’era un perché.

Sesshomaru era lì, e non la costringeva. Sesshomaru era lì, e Alessandra sentiva il suo desiderio e la volontà che lottava per frenarlo, il controllo che imponeva a se stesso. Non si chiese il perché; l’unica cosa che sapeva era che non aveva senso. Perché Sesshomaru era Sesshomaru; e gli youkai erano altri youkai.

Eppure.

Eppure il suo corpo tremava e urlava e piangeva e rifiutava. Rifiutava lui.

 

“Hai paura.

Di me.”

 

Non gli fece male.

Non lo spaventò come si era immaginato fino a pochi istanti prima, con quel groviglio di tensione e desiderio che gli premeva nel ventre. Non gli fece niente: come una qualsiasi altra frase gettata per caso nel silenzio; come se fosse stato solo silenzio. Sesshomaru si riscoprì calmo e cosciente di se stesso, e accettò con indifferenza il disorientamento che vide chiaro in Alessandra: il labbro tremare lucido, incrinarsi e sparire in bocca, stretto fra i denti in un tentativo infantile e sciocco di controllarsi, di non piangere; mani sollevate a tremare convulsamente, scivolare lungo il corpo e stringersi al petto, nascondendo una nudità di cui, adesso, Alessandra provava solo vergogna e disgusto. Contrasse la mascella e gli sembrò di sentirlo, il lacerarsi della carne del braccio, del seno, lì dove Alessandra premeva le unghie per farsi male, deliberatamente male, e non sentire quelle parole echeggiare e ripetersi nella sua testa.

 

Paura.

Paura; paura; paura. Di lui. Di lui. Paura. Di. Lui.

No. Non era vero. Non poteva essere vero; non doveva essere vero. Lui; Sesshomaru. Lei. Lei non aveva paura. Perché avrebbe dovuto aver paura? Non le aveva mai fatto nulla; nulla. Aveva cercato di proteggerla; aveva cercato di aiutarla. Aveva. Aveva davvero? O erano state le circostanze, gli eventi costruitisi in un modo quasi ironico a creare tutto? Va bene; poteva. Poteva essere tutto. Ma la paura. La paura no.

Perché? Perché aver paura di lui? Di lui che la desidera, anche in quel momento, e si limita a guardarla. Perché doveva aver paura di Sesshomaru, della sua mano che scivolava lenta sulla superficie dell’acqua e si stringeva sulla stoffa del kimono. Alessandra seguì ipnotizzata la stoffa che veniva risollevata, l’invito silenzioso a lasciarsi rivestire, senza mai sfiorarla. Il date-eri risistemato e il kimono stretto nei lembi a celare nuovamente, a conservare. Avrebbe. Avrebbe potuto strappare il kimono; avrebbe potuto godere di lei quando avesse desiderato; avrebbe potuto averla solo pochi attimi prima.

 

Prima.

Già: prima. Prima la stava amando. Prima Sesshomaru era sopra di lei, e la stava amando. E l’unica cosa che riusciva a ricordare nitidamente era il desiderio di andarsene, di scappare. Inghiottì a vuoto. Paura. Era davvero paura? Non poteva essere sorpresa? Trepidazione? Sarebbe stata…Sarebbe stata la prima volta. Sarebbe stato normale, in fondo. E invece. Invece no. Lo sapeva; lo sapeva senza capire come o perché: non era di quella paura che Sesshomaru parlava. Non era quella l’ansia e la trepidazione che sarebbero stati naturali. Era qualcos’altro; qualcosa di diverso. Qualcosa di semplice e devastante. E Sesshomaru l’aveva capito e lo conosceva. Avrebbe potuto chiedergli perché? Avrebbe potuto pretendere che le spiegasse il ragionamento della sua mente? Perché aver paura di lui? Perché?

 

“Perché?”

 

Sesshomaru socchiuse le labbra, sfiorò con le zanne con la lingua, in un gesto distratto, e richiuse la bocca. Alessandra lo guardava fra i capelli spettinati e la mano aperta sul viso. Sì: aveva paura. Paura di lui; di sentirsi dire esattamente cosa temesse; paura di ricordare cosa avesse scatenato tutto. Paura di rivedere quella violenza senza filtri, nella sua disarmante brutalità. E scoprire che davvero non c’era molta differenza fra gli youkai e lui stesso. Sesshomaru si lisciò le labbra; il vapore gli sembrava una sensazione sgradevole di appiccicoso sulla pelle e desiderò un lago freddo e le sue acque profonde. Desiderò non aver mai preso l’abitudine di lavarsi ogni sera in quella polla; desiderò di non essersi lasciato trascinare dalla parte più atavica del suo istinto quando si era accorto della presenza di Alessandra a pochi metri da lui. Desiderò.

Desiderò averla di nuovo fra le braccia; baciarla e amarla davvero, appieno. Guardarla in viso e vedere che era a lui che pensava, era lui che guardava. Guardarla e sapere che vedeva lui e non altri demoni, altro desiderio, altra violenza.

 

Perché.

Che domanda sciocca. Così sciocca che, in un'altra situazione, se ne sarebbe sentito offeso. Perché: perché era uno youkai. Solo per quello. E lo erano anche i demoni che le avevano usato violenza. Era solo per quello: per un parallelismo che Alessandra doveva aver realizzato solo in quel drammatico frangente. C’era stato qualcosa. Qualcosa che le aveva fatto intuire più di quanto avesse capito fino a quel momento. Sesshomaru era consapevole di non poter discernere cosa fosse; ed era altrettanto certo che nemmeno Alessandra avrebbe mai potuto metterlo a fuoco.

Forse era semplicemente la differenza naturale fra loro;oppure un qualche modo di percepire, di vivere. La razionalità, o le reazioni. Socchiuse gli occhi: era inutile cercare di capirlo. Era successo, e non si poteva cambiare. Alessandra, a prescindere dalla causa scatenante, aveva imparato ad aver paura di lui. E adesso l’avrebbe avuta sempre.

Però. Però poteva dirglielo? Poteva recidere di netto i mesi trascorsi assieme, fra incomprensioni e complicità? Poteva lasciarla da sola, dopo quelle parole? Non la capiva; non avrebbe mai potuto capire quello che provava, il modo che aveva di ragionare, di reagire. Per quanto si sforzasse, l’intuizione che aveva della sfera connessa ai ningen era limitata dalla sua stessa natura di youkai. E per quanto potessero essere simili le reazioni, la presa stessa che esercitavano sul singolo era diverse; come era diverso il modo di reagire.

No. Non l’avrebbe mai capita; e forse era stata presunzione da parte sua il pensiero di poterla in qualche modo aiutare, se mai il tenerla con lui fosse stato mosso da quell’intento. Però. Però c’era una cosa, che come youkai non sapeva fare: mentire.

 

“Perché sono uno youkai.

E lo erano anche quelli

 

Quelli.

Sesshomaru li chiamò solo quelli. E Alessandra sentì il respiro premere in gola per diventare pianto isterico, mentre volti che erano ghigni riaffioravano dalla mente assieme a lingue, mani, bocche, parole, sensazioni. Gli incubi; l’agitazione; il rifiuto. Tutto. Tutto dovuto a quelli. A quegli youkai che l’avevano…l’avevano…Strinse gli occhi; e il diniego di Sesshomaru al suo pigolio non fu né sollievo né soddisfazione. Perché in fondo. In fondo non cambiava nulla. E adesso. Adesso Sesshomaru era youkai. Senza un motivo logico; senza che capisse il perché. Ma era accaduto. E quelli e lui erano diventati la stessa cosa. Erano…erano davvero la stessa cosa?

 

Alessandra scosse la testa, i singhiozzi forti fra il vapore. Era ridicola, patetica, infantile. Ma non le importava. Non voleva nulla che non fosse piangere e ripetere: no. Perché non poteva essere; perché li rivedeva, i volti lascivi di quei demoni. Li ricordava uno ad uno, abbruttiti dal desiderio e da un qualcosa che non aveva nome per lei. Li vedeva; li riconosceva. E Sesshomaru non c’era. Non c’era nulla di Sesshomaru in quelle ombre, in quelle zanne, in quegli artigli. C’era solo quella parola: youkai. Ma cosa vuol dire, in fondo, youkai? Non importava. Non aveva nessuna importanza. Sesshomaru era Sesshomaru. E basta.

Basta.

Non poteva aver paura di lui; non c’era motivo che avesse paura di lui.

 

Il grido che avvertì le fece male, assieme alla rassegnata consapevolezza sul viso di Sesshomaru. E con orrore realizzò la sua bocca ancora aperta nel rilasciare aria; realizzò la lontananza che aveva creato fra loro, il corpo raccolto a proteggersi e le braccia raccolte sul viso. E riavvertì il corpo di Sesshomaru accostarsi al suo che dondolava e ripeteva come una nenia quel no. Le mani avvicinarsi per sfiorarla e il senso di terrore invaderla e farla gridare, dandole la forza, nella confusione, di allontanarsi, di scappare. Come si scappa da…Alessandra cercò di inghiottire: come si scappa da un pericolo.

 

Sesshomaru rilassò le braccia lungo i fianchi.

Forse ci aveva sperato. Aveva sperato che si sarebbe rifugiata contro di lui; che avrebbe pianto stretta a lui. Sarebbe andata bene anche se fosse rimasta rigida e immobile nelle sue braccia; sarebbe andato bene lo stesso. E invece era scappata, senza nemmeno dargli il tempo di toccarla realmente, senza nemmeno farlo di nuovo avvicinare. Prima. Prima era stata la sorpresa; prima era stata la disattenzione e il rilassamento. Altrimenti. Altrimenti non sarebbe mai riuscito a farla stendere docile su quella pietra. E forse. Forse sarebbe stato meglio. Forse sarebbe stato meglio che se ne fosse andato; e le avesse lasciato il tempo di realizzare. Sospirò: no. Quella era una certezza: anche se faceva male, quella situazione era l’unica possibile. L’unica che potesse spezzare quella sospensione che aveva imprigionato entrambi, da quando Sesshomaru si era rimostrato a lei fra i ginko. L’aveva creata lui quella situazione, e lui aveva dovuto infrangerla. Ed era pronto a sostenerne il peso. Mentre Alessandra.

Alessandra avrebbe avuto Ryoshi, lo realizzò in quel momento. E realizzò anche perché avesse scelto proprio quel luogo, per la convalescenza. Quel qualcosa che gli era balenato nella mente e non era riuscito ad afferrare, una consapevolezza esplosa all’improvviso, in quel momento: per quello. Aveva scelto quel luogo solo perché c’era Ryoshi. E Alessandra aveva bisogno di Ryoshi. Le avrebbe dato quell’aiuto che, Sesshomaru lo accettò con rabbia e frustrazione, lui non avrebbe mai potuto darle.

 

“Hai paura. Di me.

Devi accettarlo”

 

E anch’io.

 

 

 

*****

 

 

 

“È sbagliato…?”

 

La mano si fermò sulle labbra, e Alessandra avvertì il respiro freddo sulla pelle del collo, in un soffio un po’ sorriso un po’ sospiro. La ragnatela era ancora lassù, all’incrocio delle travi del soffitto; la vedeva chiaramente, anche se tutto era notte e luce soffusa e bianca. Poteva vederla lo stesso, con i fili sottili che si tendevano e mandavano quel riverbero iridescente quando il sole li colpiva quasi per sbaglio. Non l’aveva tolta; e si era scoperta a cercarla ogni mattina, come si cerca una presenza certa e rassicurante. Quella ragnatela; la seta che la componeva. Non c’entrava nulla; in quel momento non significava nulla. Ma la cercava; come la cercava in un gesto automatico quando si alzava e quando si coricava. Forse era solo per distrarsi; per non pesare alla risposta che, in fondo, aspettava.

 

Non era nemmeno riuscita a concludere la frase. Il respiro si era assottigliato in uno sbuffo e le parole erano scivolate senza suono, in un’apnea che si fondeva con un piacere strano e pericoloso. Maledettamente pericoloso, mentre sentiva la testa invitava a reclinarsi e mostrare la gola, scoprire la zona sensibile della nuca. Concludere la frase. Per dire cosa? Paura? È davvero sbagliato provare paura? Di lui? No. Forse non è questione di giusto o sbagliato. Forse semplicemente ha paura che quella distanza che c’è sempre stata e adesso avverte incombere, densa e pesante come nebbia, come inchiostro che cola; quella distanza diventi qualcos’altro; diventi lontananza, solitudine, impossibilità. Diventi addio. E la paura di lui sia paura di perdere lui. Paura di dover accettare qualcosa che non si può capire, che non si può realmente comprendere e assorbire. C’erano i compromessi, prima; c’erano le illusioni, le stupide fantasie di quella ragazzina, disarmata e alle prime armi con qualcosa che non conosceva bene e vagheggiava in considerazioni e favole. Era iniziato come un gioco all’amore, ed era diventato qualcosa di più. E in quel più i compromessi facili e l’ottimismo illusorio della semplificazione, dell’appaiamento senza ferite e senza rinunce si era sgretolato irrimediabilmente.

Non esistevano più i compromessi; non esisteva più il dialogo, la possibilità, sciocca stupida e infantile di cambiare se stessa, di cambiare soprattutto lui. C’era altro, adesso. C’era la consapevolezza. E la distanza era diventata abisso e il legame era un filo di seta, sottile come una ragnatela. E se chiudeva gli occhi Alessandra vedeva se stessa, su quel filo, le braccia distese nell’aria alla ricerca di un equilibrio di poco più saldo; la mani distese e il tremito e la fatica che sentiva nei muscoli, nei nervi, a mantenere la posizione, a resistere a un’oscillare forse dovuto al vento, forse solo all’altalena delle sue emozioni. Se chiudeva gli occhi; vedeva se stessa, il filo e due sponde di un abisso. E Sesshomaru.

 

Sesshomaru davanti a lei. Sesshomaru che cammina su quel confine con la naturalezza dell’abitudine; e invidiava le sue braccia rilassate contro i fianchi, invidiava la sicurezza dei suoi passi e l’indifferenza con cui si lasciava sferzare da un vento di fuliggine e ansie. E odiava il modo in cui i suoi occhi la guardavano, fra il nero delle nuvole e l’argento dei capelli. C’era. C’era scherno, nei suoi occhi? O forse era compassione? E sentiva la bocca farsi secca e pesante; sentiva il desiderio di fare un passo oltre il filo e giù. Lasciarsi andare e smetterla, con quella snervante sospensione, con quel dondolio che ti preme e ti preme e ti lascia con quella nausea e quel fastidio alla bocca dello stomaco e la sicurezza, dilaniante, che puoi solo respirare per un istante, prima che tutto ricominci, si ripeta uguale a se stesso. Cosa c’era, negli occhi di Sesshomaru, nella sue mente, nelle sue aspettative? Cosa voleva davvero?

Socchiuse gli occhi, mente l’artiglio le premeva leggermente sul labbro, lì, al centro. Spingeva lentamente verso il basso e poi di nuovo verso l’interno, verso i denti che sfiorava appena per ritrarsi subito. L’artiglio; e il respiro sulla nuca. Non c’era altro; non avvertiva altro. Le mani. Dov’erano le mani di Sesshomaru? E le sue? E...Era ancora seduta? O era sdraiata? Non lo capiva; non le interessava capirlo. Voleva. Voleva ...Cosa voleva? La risposta? La voleva davvero, quella maledetta risposta? E dopo. Cosa sarebbe successo, dopo? Se avesse detto . Se avesse detto sì, che era sbagliato: sbagliato aver paura di lui, sbagliato averlo allontanato, sbagliato averlo amato, aver costruito quel rapporto. Se avesse detto sì, cosa sarebbe successo? Lo avrebbe fermato? O forse. Forse. In fondo, non importava cosa pensasse lui, giusto? In fondo, l’unica cosa importante era cosa decidesse lei. E per lei...Alessandra inghiottì un grumo di saliva ed eccitazione. C’era qualcosa di eccitante e sbagliato (forse) in quell’attesa, nel lento movimento della bocca di Sesshomaru sul suo collo, nella carezza ipnotica sulle labbra. C’era qualcosa che non doveva esserci; e serpeggiava sulla sua pelle, maledetto e tentatore. Inadatto; inappropriato. Desiderato.

 

Lei. Cosa pensava veramente? Cosa significava, veramente, aver paura di lui? Cosa comportava? Ci aveva pensato così tanto, in quei giorni. Dopo che Sesshomaru se ne era andato e l’aveva lasciata sola, fra il vapore e la notte che saliva, il kimono fradicio e la sensazione di uno squarcio sulla pelle, di una mancanza. E la paura e la rabbia e le lacrime mescolarsi nelle membra che tremavano e tremavano e diventavano sempre più rosse e poi bianche e livide per l’aria fredda che aveva iniziato a soffiare, cancellando il vapore e mettendo a nudo l’acqua. Solo acqua. Era rimasta...Non ricordava esattamente quanto tempo fosse rimasta lì, le gambe immerse nella pozza e il kimono offerto al vento freddo di Novembre. Non ricordava cosa esattamente avesse provato, pensato, desiderato, mentre il suo respiro diventava rantolo e singhiozzo basso e isterico. Mentre una debole luminescenza l’avvolgeva e la riportava alla noka. L’acqua bollente sulla pelle e la morbidezza del futon erano arrivati a sprazzi, come se emergessero da ricordi lontani e confusi. E quando una mano era scesa su di lei, le urla e il pianto e i gesti frenetici e inarticolati solo per andarsene, solo per sottrarsi. E la presa sgarbata sulle spalle, il corpo imprigionato sul futon da un altro corpo e la bocca. La bocca chiusa da qualcosa; qualcosa che era sbagliato, che non voleva. L’istinto reagire prima del pensiero, i denti stringere e mordere e non lasciare, non cedere fin ad avere in bocca un sapore strano, come di acqua, sale, erba e fango mescolati assieme.

 

“Calmati”

 

Il viso di Ryoshi.

Il viso adulto di Ryoshi sul suo; e il corpo di un uomo e non di un bambino a imprigionarla, a cercare di contenere quella reazione che era solo paura. Paura. Paura. Paura. Di mani lontane nella memoria; di artigli, bocche, violenza. Il viso di Ryoshi nella penombra della candela; le sbavature azzurre sulla bocca, scendere scolorite sul mento e sulla manica del kinu premuto sull’angolo del labbro. E la consapevolezza esplodere come una mareggiata, assieme a sconcerto, paura e rabbia. Assieme a un miscuglio emozionale che faceva male. E il sussurro. La voce di Ryoshi nella testa, in una cantilena sommessa e continua. Ancora e ancora. Calmati; calmati; calmati. C’era voluto tempo, prima che il respiro ritornasse regolare, prima che Ryoshi la liberasse senza paura di un gesto, di uno scatto nervoso e istintivo. C’era voluto tempo, e la testa sul petto del ragazzo, nei singhiozzi profondi e senza un vero perchè, nella confusione che non faceva che aumentare e aumentare nella testa. Nella paura. Forse. Forse la pazzia; forse l’isterismo. In quei momenti, con le braccia di Ryoshi strette strette, con la sua bocca nei capelli in una cantilena senza parole, Alessandra si era chiesta perchè non si può tornare indietro. Perchè non avesse mai avuto la sensazione di qualcosa che sta per precipitare; non per cambiarlo, solo per poter accettare il colpo, per non doverci pensare e rassegnarsi. Rassegnarsi e basta. Tornare indietro: e dire ai suoi genitori che voleva loro bene, che andava bene lo stesso se non potevano trascorrere molto tempo assieme; dire a Leone che sì, in fondo, è gelosa della sua fidanzata e che di farle da damigella al matrimonio non ne ha voglia. Dirgli che, va bene, sarà infantile, ma lo vorrebbe ancora per , vorrebbe che non cambiasse nulla; e fargli sapere che va bene lo stesso, che si lamenterà e sbufferà ma andrà bene lo stesso. Perchè lo sa che Leone le vuole bene e di lei non si dimenticherà; e che Miriam, in fondo, non è così antipatica. É solo un po’ gelosa; solo un po’.

 

Tornare indietro.

E. E cosa? Cosa cambierebbe? Perderebbe di nuovo Leone e i suoi genitori; e quei demoni ci sarebbero ancora, nella sua testa, sul suo corpo. Loro ci sarebbero, e Sesshomaru no. No. Non cambierebbe niente; non può cambiare niente. E ripeterlo e ripeterlo e volerlo e desiderarlo non serve a niente. A niente. Ma gli incubi, e la paura, e quel cancro che le sembra crescere dentro di lei, un morso alla volta nella sua carne, in un qualcosa che è dentro e le fa male e sa che non ha corpo; ma fa male lo stesso. Quel cancro. Quel male: mandarlo via. Si può mandarlo via? O forse. Forse è quello che deve essere; quello che sarà la normalità: negli incubi, nei ricordi, nella paura. Paura. Ha davvero paura? Di Sesshomaru? Era stato difficile; difficile e lungo. Ricordare e sforzarsi di piangere senza scappare. Aspettare di cogliere le similitudini, le differenze: ricordare le mani di quella notte; ricordare le mani di Sesshomaru. Le parole lascive degli youkai e i sussurri di Sesshomaru. Ricordare; confrontare; accettare. Accettare che ci sono cose che non può cambiare; realizzare artigli che sono artigli; zanne che sono zanne; e pelle e mani e gesti che sono uguali. Dannatamente uguali.

 

La paura.

Una sorpresa sottile che si irradia nel cervello, come nel realizzare che Ryoshi l’aveva baciata. Nel risentire il sapore di acqua e fango e terra del suo sangue e ricordare di avere risposto e poi morso. Ricordare. L’indifferenza di Sesshomaru attraverso le lacrime, il modo in cui la fissava, dall’engawa, mentre piangeva e si nascondeva contro Ryoshi. D’istinto. La sensazione di sbagliato, di diverso che le era passata sulla pelle quando lo aveva visto semplicemente andarsene, senza una parola, senza un gesto di gelosia, rabbia o delusione. L’aveva guardata: ed era fra le braccia di un altro demone; aveva appena baciata un altro demone e lo cercava, si aggrappava a lui come un bambino spaventato. E nei singhiozzi piano piano più bassi il fremito della consapevolezza: cercava Ryoshi e non Sesshomaru. Mentre nella sua mente lo youkai sfumava in contorni indefiniti e pericolosi, e gli occhi si tingevano di rosso e gli artigli erano ombre lunghe che si allungavano e tagliavano e facevano male e. E. E.

 

La paura.

Già: aveva paura. Paura di vederlo cambiare; paura che diventasse, che fosse, come gli youkai dei suoi incubi. Come quelli. E con la paura, si era accorta, era arrivata la tranquillità. Non la sicurezza, non la rassegnazione: solo la tranquillità. Come se tutto, adesso, potesse ritrovare un suo equilibrio, come se ogni tassello potesse riprendere il suo posto e quella sospensione che l’aveva circondata si fosse infranta. Puff! Andare avanti. Un avanti qualsiasi, ma avanti. Con la paura, con una punta di preoccupazione nel fondo della testa che era...Era strana. Poteva...era davvero possibile che avesse paura di Sesshomaru e...e non volesse scappare? Era giusto, aver paura di lui? Lo era? O sarebbe stato un altro muro, un altra barriera fra loro e la loro diversità, fra quella differenza che non è solo di razze ma, con il tempo Alessandra ne stava prendendo sempre maggior coscienza, era più complessa e profonda. Impossibile da abbattere, piegare o modificare. Forse. Forse era davvero solo accettazione. E riequilibrare tutto; giorno dopo giorno.

 

É sbagliato aver paura di Sesshomaru? No. Poteva pensare di no. Ma il pensiero non bastava; non bastava più. Aveva pensato che fosse un ragazzo; e non lo era. Aveva pensato di poterlo capire; e non poteva. Aveva pensato che ci fosse orgoglio ed istruzione dietro ad ogni suo comportamento, e non c’era, non solo. Aveva pensato. E aveva cercato di capirlo, di segmentarlo con un metro troppo lontano, un metro umano che classificava fra bene e male, giusto e sbagliato. E la paura è male e la fiducia è bene. Eppure. Eppure Alessandra aveva paura di Sesshomaru e si fidava di lui: cos’era, allora? Bene o male? Ed era davvero importante deciderlo? Era davvero essenziale?

É sbagliato aver paura di Sesshomaru?

 

“Va bene.

Sei hai paura, va bene”

 

Va bene.

Era così strano poterlo dire, poterlo sentire. Era così strano sapere che non cambiava nulla, che sarebbe rimasto uguale. Va. Bene. Aver paura va bene; è normale; è...è giusto. Sì; giusto. E Sesshomaru. Sesshomaru non si era ritratto; Sesshomaru era ancora lì, la bocca sulla nuca e le braccia strette strette alla vita. C’era. C’era. Questa volta, c’era. Qualsiasi cosa volesse dire; qualsiasi cosa significassero per lui le mani che si rincorrono, lo sfiorarsi lo stringersi forte delle dita. Avrebbe voluto vederlo; vedere il suo viso mentre sussurrava, vedere la sua espressione compassata. Che effetto gli aveva fatto, dirglielo? Aveva fatto effetto o semplicemente era stata una constatazione, una conferma che sembrava quasi una liberazione. Avrebbe voluto vederlo; senza una vera ragione. Ma la notte era nera e la luna d’autunno troppo pallida e lontana. C’erano le ombre; e il corpo di Sesshomaru. Il suo corpo, contro la schiena; le mani scivolare sullo yogi, e la bocca. Mentre. Mentre...Alessandra ansimò, fra sorpresa, piacere e vergogna.

 

Sesshomaru leccò la base della nuca. Era strano. Era tutto così strano. Non lo aveva pensato; non lo aveva pianificato. Era successo; stava succedendo e basta. E questa volta non era sicuro di volersi fermare; non era sicuro che ci fosse un giusto o sbagliato in quello che faceva. Era successo; e basta. Quando l’aveva vista fra le braccia di Ryoshi; quando aveva visto il mizuchi baciarla; quando era stato sulla sua pelle, fra i vapori dell’acqua: da quel momento qualcosa gli aveva fatto pensare che la volesse e non avrebbe mai potuto averla; averla davvero. Non l’avrebbe mai capita; non l’avrebbe mai amata come Alessandra voleva essere amata, come vuole essere amata una ningen. Non sapeva cosa volesse dire, amarla come una ningen. C’era stato qualcosa, negli occhi di Alessandra quando era nelle braccia di Ryoshi; qualcosa che lui non aveva capito: delusione o paura o forse...forse dispiacere. Per qualcosa che non aveva fatto; per qualcosa che non faceva o non mostrava. Ma cosa c’era di sbagliato, nel corpo di Ryoshi che avvolgeva Alessandra? Cosa c’era di sbagliato? Lo aveva voluto lui; era stato lui a spingerlo, a creare quella situazione. Lo sapeva: lui no; ma Ryoshi. Ryoshi avrebbe saputo calmarla, aiutarla; avrebbe saputo capirla. Mizushi e youkai sono diversi; sono molto diversi. E Alessandra aveva bisogno di...di vicinanza. Sì: vicinanza.

 

Eppure.

Eppure era tornato. Era tornato alla noka; e adesso la stringeva fra le braccia. Adesso le baciava il collo e le sfiorava le labbra, la bocca. Era stato istinto, misurato e calmo, ma istinto. Scorgerla dalle shoji lasciate aperte nel riverbero della luna che calava a occidente; scorgerla senza colori, mentre gli dava le spalle nel futon, forse appena sveglia forse ancora incapace di dormire. Scivolare sui tatami e sedersi dietro di lei; sentire il respiro trattenuto e la mano, la sua mano, risalire a sfiorare le ciocche corte e ribelli sulla nuca. Dai capelli passare al collo, sfiorare la pelle con l’attenzione che usa quando saggia il filo della katana. Taglia, aveva pensato. Può tagliare; cosa, non gli interessava. Taglia. E basta. Anche se Alessandra non è una katana; anche se Alessandra è più simile al fodero che alla katana. Eppure. Eppure era stato naturale: la bocca muoversi fra i capelli e lo scollo dello yogi, lasciandole il tempo di abituarsi, di rilassarsi. Forse aveva pensato che l’avrebbe respinto; forse si era aspettato di avvertire l’aria sulla bocca e di vederla stringere forte la stoffa e piangere. O solo fissarlo: fissarlo con gli occhi grandi ancora più aperti, mentre il respiro prima si ferma e poi accelera, sale dal petto e diventa ansimo.

 

Lo aveva immaginato. E non aveva voluto prevedere la sua risposta; non sapeva cosa avrebbe risposto. Forse si sarebbe alzato e l’avrebbe lasciata di nuovo sola, come alla fonte termale; o forse avrebbe ignorato tutto e l’avrebbe amata, anche se avesse pianto e urlato e scalciato. Forse. O forse l’avrebbe solo guardata, prima di. Prima di qualsiasi altra cosa. Non lo aveva voluto pensare. Perchè ogni pensiero poteva, era, suo; era da demone. E ogni cosa che avesse fatto non l’avrebbe comunque capita; non sarebbe riuscito a capire cosa esattamente lei volesse; cosa si aspettasse; cosa cercasse. Toccarla era stato un capriccio; era stato un gioco. Bisogno. Bisogno di farle capire qualcosa che lui per primo si era rassegnato ad accettare per il semplice fatto che esisteva. Senza cercare nomi, motivazioni, ragioni. C’era. Ed ignorarla, ormai, era inutile, completamente inutile.

 

Toccarla.

E nel corpo che si rilassa e si adegua; nel respiro che si fa basso e un po’ affrettato, sentire le parole sussurrate e sospese; sentire Alessandra cercare qualcosa che le permetta di andare avanti, di ritornare accanto a lui, qualunque cosa possa significare, qualunque cosa significhi quello che deve realizzare. É giusto avere paura di lui? Sì. Sì; è giusto. É normale. La paura è percezione: della differenza; della diversità che intercorre fra loro. Forse era quello lo sbaglio: l’assenza di paura. Come l’aveva visto, fino a quel momento? Come un ningen? Anche se lo sapeva che era youkai, non lo aveva mai realizzato davvero. Come lui non aveva mai pensato davvero alla sua natura umana. Avevano sbagliato; tutti e due. E tutto si era infranto troppo in fretta; tutto era precipitato senza che fossero preparati, senza che fossero pronti. Caduto e basta. E avevano dovuto imparare ad alzarsi. Avevano dovuto imparare che per loro non c’era un insieme, ma solo accanto. Accettare la distanza e la diversità; razionalizzare che pur nell’incomprensione potevo restare assieme, non erano costretti a rifiutarsi.

Sì; va bene.

Se Alessandra aveva paura di lui, andava bene. Perchè significava che sapeva cos’era; che sapeva chi era. Andava bene.

 

Sesshomaru strinse gli occhi. Bianca; vedere la nuca di Alessandra nel rettangolo di carne fra la cipria bianca sarebbe stato bello. Molto bello. Sarebbe stato...Lisciò le labbra. Non importava. Andava bene lo stesso. Andava bene il brivido sulla pelle, fra eccitazione e freddo, mentre faceva scivolare lo yogi sulla spalla, giù fino a scoprire la cicatrice che le deturpava la pelle. Si era rimarginata del tutto, ormai. Una striscia rosa, lunga e un po’ sporgente, con ancora l’accenno della seta che ne aveva stretto le labbra. Premette l’indice all’inizio della ferita, ripercorrendola con attenzione, concentrato. Non sarebbe andata via; una ferita del genere non sarebbe andata più via. E ancora si chiedeva perchè. Perchè Hakudoshi avesse mirato a lei; se davvero avesse mirato a lei o fosse stato solo un incidente, un ostacolo inaspettato sulla traiettoria della naginata. Perchè. Non aveva importanza chiederselo, ormai. La cicatrice sarebbe rimasta. E Alessandra avrebbe continuato a vivere.

 

Alessandra sussultò quando avvertì il ruvido della lingua di Sesshomaru ripassare sulla ferita; sentì l’aria chiudersi in gola e una sensazione di calore e vergogna e piacere invaderle il corpo, risalire fino al viso. E l’istinto di mordere e succhiare fu istante, appena le dita di Sesshomaru le sfiorarono le labbra e le scivolarono in bocca. Gli artigli. Poteva sentire gli artigli scorrere sull’interno delle guance; solleticarle la lingua e pungerla con discrezione. Ed era...era piacevole, sì. Era una sensazione bella, anche con il respiro che singhiozzava e il pensiero vago, lontano, di quello che significava davvero. Stinse le labbra e gli impedì di allontanare le dita, seguendo l’istinto, inclinando appena la testa, con la sicurezza che la bocca di Sesshomaru avesse accennato un sorriso sulla sua pelle.

 

Un sorriso. Già: non se l’era aspettato. Aveva pensato che avrebbe solo assecondato il suo movimento, e invece. Invece aveva iniziato a sedurlo anche lei, con piccole proteste, con piccoli accorgimenti senza pudore o vergogna. C’era qualcosa, in Alessandra. Qualcosa che gliela faceva percepire sicura nonostante fosse inesperta. Respirò piano, risalendo lungo il collo. Vergine. Lo sentiva chiaro: l’odore di acqua che aveva percepito fin dalla prima volta. Quell’odore che aveva creduto come un profumo ed era solo l’odore della pelle di Alessandra. Il suo odore. Aveva imparato a riconoscerlo anche mischiata al sangue, al sudore, alle lacrime. Aveva imparato a riconoscerlo e adesso lo sentiva crescere, farsi più intenso più la cercava, più la coinvolgeva. Vergine. Chissà come sarebbe cambiato dopo l’odore di Alessandra. Chissà se avrebbe avuto ancora quella sfumatura che ricorda l’acqua.

 

Sesshomaru inclinò la testa e soffiò sulla pelle leggermente accaldata. Bianca. Quasi fastidioso, adesso, quel bianco. Morse il collo all’altezza della spalla, e lasciò scivolare una mano fino ai lembi dello yogi, gustandosi il corpo che si ritraeva d’istinto prima di rilassarsi. Lo yogi; le pieghe fra la seta; la pelle. Il seno. Lasciar scivolare la manica e metterle a nudo un seno, gustandosi il singulto e una protesta debole di un corpo che preme contro il suo in una ribellione che è gioco, che è ricerca di abitudine, di...Alessandra strinse le gambe e scrollò le spalle. Era...era così strano. Vergogna, piacere, eccitazione. Era. Non lo sapeva. E non voleva pensare a cosa significasse. Sesshomaru; la sua mano; un seno. Era diverso, ecco. Diverso. Non era come quelli. Loro. Loro facevano male; loro stringevano e sentivi gli artigli nella carne e umido e disgusto e...No. Basta. Basta pensarci. Alessandra strinse gli occhi, forte. Era stupido. Assolutamente stupido mettersi a piangere. Perchè? Perchè altri l’avevano toccata? Perchè altri l’avevano vista nuda senza che lei potesse difendersi? Era passato. Era il passato. Non doveva pensarci; superare. Solo superare. Anche se...Sesshomaru. La mano di Sesshomaru. Concentrarsi. Ecco: stringe appena, gli artigli sono quasi delicati, raccolti. Ha come un suo ritmo, un sondare continuo e moderato. Dalla base del seno alla punta; fermarsi, insistere fino quasi a far male, a strappare un singulto, e poi rilasciare, tornare a una carezza più discreta.

 

Diverso.

Il seno di Alessandra è diverso. Non è piccolo e alto come quello della yasha che lo ha amato; non è liscio e freddo come quello delle demoni che gli si sono offerte. É caldo; trema e si contrare sotto gli artigli. Duro. Prima era morbido, quasi abbandonato. Adesso è duro. Carne. É carne piena; soda. É diverso. Non se ne era mai accorto; non ci aveva mai pensato. Il seno di Alessandra. Quando dormiva accanto a lui; quando la stringeva; quando l’aveva visto, sporco di sangue e sudore fra la stoffa e la frenesia del ritorno dal campo di battaglia. Quando lo aveva sentito umido di vapore alla pozza. Non ci aveva pensato. Non aveva mai veramente voluto pensarci. Il seno di Alessandra; il suo corpo. Il suo corpo umano; il suo corpo diverso. Lo stava scoprendo; lo stava percependo; lo intravvedeva nella debole luminescenza della notte, al bagliore morente delle braci. Il. Corpo. Di. Alessandra.

 

Così. Così diverso.

I seni caldi, molto caldi; assieme al tremito soffuso, forse di piacere forse per l’aria fredda della notte che entrava dall’engawa. Gli piaceva. Gli piaceva quella sensazione nuova. Afferrare carne e... e assaporarla. La mano ricercare i gangli nervosi, premere e rilassarsi mentre il respiro di Alessandra diventava ansimo, basso e roco; mentre sentiva la seta frusciare in piccoli scatti scomposti e il collo pulsare sotto le labbra. Risalì al mento, definendolo con calma, la lingua che scivolava sul contorno ovale del viso. E la mano che era passata a massaggiargli la nuca, inaspettata e piacevole come il corpo che premeva contro il suo, come la testa di Alessandra che si inclinava sempre un po’ di più, soffiandogli sotto il mento, respirando sulla sua gola. Era diverso. Con la yasha era stato diverso. Diversa la pelle sotto gli artigli; diversi il respiro e i movimenti; diverso il calore e l’eccitazione che sentiva crescere nel ventre.

 

Alessandra ripassò la lingua sulle labbra. Sete. Era stupido, ma aveva sete. Disidratata; come se non bevesse da giorni. E le labbra le sentiva screpolate e gonfie e calde. Le labbra. Avrebbe voluto baciarlo. Sì: voltare la testa e baciarlo. Non le erano bastate le dita; non le erano bastate le carezze e il solletico sulle labbra, sulla lingua, nella bocca. Avevano solo risvegliato la voglia di baciarlo, cominciando dall’angolo della bocca; scendere sul labbro inferiore e stringerlo fra i denti. Aveva imparato come Sesshomaru volesse essere baciato: con lentezza, con una calma che a tratti era esasperazione, che ti lasciava con l’impazienza e il fiato ridotto a un sibilo, mentre stringi la carne sottile e tiepida. Tumide. Avrebbe voluto vederle, sentire le labbra di Sesshomaru gonfiarsi e arrossarsi sotto le sue, nelle sue. Avrebbe voluto vederlo socchiudere la bocca e...La mano risalire sul collo, giocando con alcune ciocche sfuggite sul petto. Risalire al viso e stringergli appena il mento, deliziandosi del piccolo disorientamento che, forse, gli aveva provocato. Mentre il corpo si inclina appena di lato e la seta del kariginu sfiora i seni nudi; mentre i capelli ricadono scomposti sul viso e sulla schiena nuda e lui resta fermo, aspettando che il dito decida se risalire alle labbra o scivolare di nuovo verso la gola. Aspettare. E il pensiero diventare impudenza, mentre gli fa socchiudere le labbra e sfiora i canini, in un brivido proibito e nuovo, il respiro freddo e più profondo, quasi il tentativo disperato di un ansimo represso.

 

Sesshomaru socchiuse gli occhi. Mentre la lingua scivolava attorno al dito di Alessandra e le labbra e i denti si stringevano appena per impedirle di ritrarsi. Poteva sentire la carne; poteva sentire le ossa contro le zanne e il sangue che pulsava nei capillari. Poteva sentire i denti affondare istante per istante e sapere benissimo quando fermarsi, come modulare la forza per trattenerla e non per ferirla. Calmare il respiro che vorrebbe correre troppo; imporsi lentezza e piacere. C’era tempo. C’era tutto il tempo che volesse: dilatare. Dilatare quegli istanti, ancora e ancora. Liberarle le dita e stringerle la mano, piegandosi fino a soffiarle il respiro sul viso, sulla bocca. Sfiorare, provocare e scendere sul collo senza toccarla, senza appagarla. Nascondere il sorriso al sospiro di disappunto e piacere; e premere corpo contro corpo, trascinandola indietro, facendole perdere l’equilibrio e costringendola sdraiata, la schiena nuda sotto le labbra e i seni sulla seta.

 

Alessandra si concesse un respiro che sembrava un gemito, mentre la coperta del futon le avvolgeva la testa e le attutiva i sensi; mentre la seta del lenzuolo era freddo sulla pelle calda ed eccitata, sui seni turgidi e stuzzicati. E ritrovarsi prona, la schiena nuda e la bocca di Sesshomaru a scendere lungo la spina dorsale, le mani percorrere il profilo fino ai fianchi e stringere, insinuarsi fra la stoffa, lungo lo yogi e chiudersi sul ventre, sotto di lei. Restarsene lì, in un abbraccio che è possesso, incapace di capire esattamente cosa facesse. Sentirlo sul fianco, poi sulla nuca e sulla spalla, ridiscendere alle scapole. Le labbra e poi la lingua e di nuovo la bocca e le dita segnare il contorno delle ossa soffiando al passaggio, sfiorandola con il naso e il solletico dei capelli ribelli. La mano insinuarsi dalla nuca, risalire in un massaggio e stringere un ciuffo senza far male. A sottolineare quel momento, quel gioco che è andato oltre, che è diventato qualcos’altro. Qualcosa di più grande, di adulto. Per entrambi.

 

Il singulto e la risata soffocata dalla coperta; le mani percorrere il ventre, risalire fra la seta ai seni, sollevarli e proseguire alle spalle, scivolare da sotto il corpo per scomparire e riapparire sui fianchi, allargandosi sulla schiena. Alessandra poteva sentire chiaramente le dita, le palme asciutte e fresche mentre le percorrevano la schiena; e alla seta del lenzuolo la seta del kimono di Sesshomaru che si sdraiava su di lei, le labbra baciare la cicatrice e accomodarsi sul costato sinistro, all’altezza del cuore, con le mani che la costringevano ad allargare le braccia e si allungavano sulla sua pelle, fino ad intrecciare le dita. Non pesava. Non pesava come avrebbe creduto. Il corpo di Sesshomaru sul suo era una sensazione piacevole; l’orecchio premuto sul suo cuore e le braccia e il kimono e tutto il suo essere a coprirla. Non stava facendo nulla; ma nel respiro regolare e profondo; nell’aria che sentiva sulla pelle; nel corpo che la premeva e avvertiva certo, presente, concreto, ad ogni respiro c’era qualcosa. Qualcosa di più eccitante e seduttivo che nelle carezze, nei baci, nelle mani che svelano ed esplorano. E avvertire piccole scosse nei muscoli; un fremito percorrere la pelle e un calore piacevole e naturale nel ventre.

 

Sesshomaru chiuse gli occhi.

L’odore di Alessandra si faceva più intenso; sempre più forte. Assieme al suo. C’era. C’era qualcosa di primitivo anche nei ningen, di istintivo. C’era qualcosa che non rispondeva alla ragione ma ad un istinto che Sesshomaru poteva illudersi fosse simile, fosse quasi comune al suo. Respirava piano, quasi impercettibile, mentre il cuore di Alessandra batteva. Batteva. E il suo corpo avvertiva il calore della pelle nuda, l’odore intensificarsi e i muscoli contrarsi in piccoli movimenti involontari, di aspettativa, di attesa. Era strano. Il corpo di Alessandra lo sosteneva; non le pesava addosso, ma non riusciva ad avvolgerlo completamente: anche se si fosse sdraiato diversamente, comunque non l’avrebbe potuta nascondere del tutto. Il corpo di Alessandra: grande come il suo; così diverso dal suo. Così diverso da quello delle yasha. Aveva i fianchi pronunciati, e il seno pieno che rigonfiava il kimono e la costringeva a tenere l’obi ripiegato e abbassato sulla vita, che curvava leggermente in fuori. Non era il corpo ad adattarsi al kimono, ma il kimono al corpo. Era sempre stato così. Sesshomaru ricordò altri abiti, abiti che non conosceva: hakama stretti a segnare le gambe e kariginu senza nappe, dai colori scuri dell’ocra e del marrone. Ricordò in modo distratto come la fasciassero, come lasciassero intravvedere le forme quasi a volerle sottolineare. In un sorriso, ricordò anche un altro vestito fra i vapori di una pozza termale: un vestito che gli aveva permesso di guardarla, di soffermarsi sul suo seno e sulla pelle scoperta. Quanto era passato? Quanto tempo era trascorso da quando...Da quando l’istinto gli aveva detto: uccidi. Non calcolava il tempo; non lo calcolava come i ningen. Forse. Forse Alessandra lo avrebbe saputo: era autunno allora; e adesso un altro inverno, lontano dal palazzo, senza assedio, senza guerra. Forse. Forse se glielo avesse...Ma perchè? Perchè parlare?

 

Il corpo sollevarsi per assecondare il movimento di Alessandra; le braccia tendersi a sorreggere il peso mentre lei gli offriva il seno nudo e il sorriso nella luce incerta dell’ultimo spicchio di luna. Poteva vederla; sapeva che poteva vederla. Sdraiata sotto di lui, fra la coperta e la seta; sdraiata sotto di lui, coperta dal suo corpo, dai capelli che scivolavano sul futon. Poteva immaginarla; poteva osservarla. Vederla. Vedere come nessuno di loro aveva più sperato che potesse fare; vederla come non aveva fatto quella volta lontana nella memoria, fra la neve e l’imbarazzo di una caduta inappropriata. Vederla; e indugiare sul collo in ombra, scendere lungo il raggio di luce che si insinua fra i seni, che sfiora l’ombelico ed è inghiottito dall’ombra. Vederla, mentre la mano risale lungo l’avambraccio contratto, dentro la manica. Pelle sulla pelle; la sensazione di diverso al contatto. La pelle di Sesshomaru è liscia; così liscia da sembrare cristallo; e sotto avvertire il sangue che scorre e la tensione dei tendini e dei muscoli mentre lo sorreggono. Asciutto; freddo. Così diverso da lei: senza calore, senza sudore. Allargare lo scollo del kimono, mentre la mano massaggia la base della gola, si allarga seguendo ombre sfuggenti. Risalire con il respiro, il corpo sostenuto dal gomito. Respiragli sulla pelle, aspettando un fremito, un respiro. Baciarlo. Baciare l’incavo fra la spalla e il collo, risalire e costringerlo a indietreggiare, a farsi trascinare seduta. Indugiare sul capillare sotto al mento, leccandolo con insistenza, mentre le mani allargano il kimono e liberano il petto. E costringere ancora, la schiena piegata e il futon ad accoglierlo. Guardarlo. Seduta su di lui, il seno nudo nella luna che va declinando. Guardarlo e prendergli una mano, la palma aperta sul ventre, in un movimento lento. Guardarlo e stringere le gambe attorno ai suoi fianchi, costringerlo a desiderarla ancora, il corpo ondeggiare e ritrarsi appena Sesshomaru accenna un movimento, un contatto che va oltre la mano sul ventre e le gambe attorno ai fianchi. E piegarsi con un sorriso e fargli sentire la seta sulla pelle, e il respiro alitargli all’orecchio, sollevare i capelli, mentre i denti stuzzicano un lobo. Alessandra l’ha scoperto col tempo: Sesshomaru è molto sensibile alle orecchie. E sorridere, seminascosta dalla mascella che le ombre fanno apparire più dura, più maschile e adulta. Sorridere degli occhi chiusi e delle labbra socchiuse; sorridere del fremito delle palpebre quando si sposta e resta ferma sopradi lui, sdraiata su di lui. E sfiorargli le labbra quasi con pudore, assaporando l’attesa, assaporando il taglio sottile e la facilità con cui la lascia giocare.

 

Trovarsi il respiro in bocca, il collo in tensione e gli occhi di Sesshomaru a irrisoria distanza. E accorgersi di un pensiero stupido. Ricordarsi di un particolare che era abitudine, di un qualcosa che era stato sempre. E adesso è diverso. Ricordarsi: il viso avvicinarsi, con le labbra socchiudersi con studiata lentezza; vederlo e poi solo sentirlo, nel respiro sulla bocca, nella bocca. Sentirlo e basta. Perchè non l’aveva mai guardata. Quando la baciava, comunque la baciasse, non la guardava mai: le palpebre socchiuse o le mani a chiuderle gli occhi. Non la guardava, quando era cieco. Adesso. Adesso invece Alessandra poteva vedere l’occhio sinistro, nel riverbero morente della luna. La striscia argentata zigzagare in un fondo più scuro, quasi nero. E sapere che è ambra, ricordare le sfumature attorno all’iride e desiderare la luce dell’andon o il sole, per poterlo baciare ancora così e vederle bene e non solo immaginarle, quelle sfumature, quella leggera policromia.

E lasciarsi trascinare distesa e poi rotolare, l’ansimare che gonfia il petto e scoprire che è piacevole, la sensazione della pelle di Sesshomaru sulla propria, i seni contratti che fanno male e il sottile disappunto di faticare sempre di più a distinguere il suo profilo nella notte che avanza. É bello. É bello sentire la sua bocca, il suo corpo. É bello sentire la pelle e la seta mescolarsi e stringerlo forte e respirare piane per calmare il cuore e le vertigini. Respirare; piano. Così: trattenerlo sul petto, la testa fra i seni senza vergogna, e aspettare. Aspettare; senza fretta, senza paura di perdere qualcosa, di rompere qualcosa. É bello. Ed è così strano. Alessandra sorride, il viso fra i capelli di Sesshomaru. Non è la prima volta; non è la prima volta che vede il suo corpo, che tocca il suo petto. Non è la prima volta che lo tocca ed è tutto così diverso. Troppo diverso. Una carezza quasi distratta sulle spalle, mentre cerca di ricordare dove fossero ferite, quanto potessero essere profonde. Ma la pelle è liscia; liscia e glabra. Fredda. Cercare; ricordare: il kimono intriso di sangue e l’odore forte del corpo dello youkai. Un odore quasi selvaggio, ferino, confuso fra le urla e il sangue. Le mani che la stringevano, sì. L’avevano stretta così forte, su quel campo di battaglia. Le avevano strappato gli abiti e l’avevano stretta. Come in quel momento; come la stavano stringendo in quel momento, il peso del suo corpo sul suo. Possesso, desiderio, voglia.

 

La voleva.

La desiderava e non gli interessava se fosse giusto, sbagliato; non importava che fosse ningen o youkai. La voleva e basta. E no, non riusciva a trovarlo, un dannato motivo, per cui avrebbe dovuto fermarsi. Era. Era come se qualcosa di nuovo avesse iniziato a formarsi nella sua mente; come se qualcosa che era cresciuto piano piano adesso stesse prendendo contorni sempre più definitivi e precisi. Era ancora presto; troppo presto. Non riusciva a capire; forse non avrebbe mai capito veramente. Eppure. Eppure andava bene. Andava bene lo stesso. Il collo sotto le zanne, i seni fra le mani. Va bene; va bene. Qualcosa. Cambierà qualcosa; cambierà tutto, dopo. Ma va bene. Può affrontarla; può accettare di affrontarla. In quel momento, con i sensi intorpiditi dal desiderio, con Alessandra sotto di lui, il suo respiro caldo e il pensiero della sua bocca socchiusa e tumida, Sesshomaru capì. Capì che preoccupazioni, timori e barriere c’erano; capì che le differenze non se ne sarebbero mai andate; capì che non l’avrebbe mai potuta comprendere, che avrebbe potuto amarla solo come può amare uno youkai. Lo capì; e seppe che nulla ormai li avrebbe più riportati vicini, che qualcosa era cambiato, era tornato al suo posto e adesso Alessandra aveva paura di lui e ne avrebbe sempre avuta. Timore, paura, rispetto; ma anche desiderio, voglia, fiducia. E andava bene. Andava bene lo stesso. Sì: bene. Perchè Alessandra tremava e sussultava, quando le sue zanne la sfioravano; perchè sentiva sotto la sua pelle come un brivido e l’istinto di ritrarsi quando la accarezzava. Ma c’erano le sua mani che lo cercavano; c’era la sua bocca sulla sua, la voglia e il desiderio. C’era un qualcosa di istintivo e irrazionale che li teneva ancora lì, su quel futon, nonostante le differenze e le distanze.

 

Poteva andarsene.

Strapparsi al corpo che spingeva verso il suo; andarsene, il kimono scivolare di nuovo sulle spalle e l’aria fredda dell’inverno sulla pelle. Uscire sull’engawa e chiedersi cosa ci fosse, negli occhi di Alessandra. Cosa ci sarebbe stato nel percepire il suo corpo abbandonarla. Lasciarla. Già: non era per quello che era andato da lei? Per lasciarla libera? Per dirle che poteva fare quello che voleva e tornare nel suo mondo? Il mondo di Alessandra. Sesshomaru cercò la mano della ragazza e strinse forte, mordendole la carne fino a sentirla sussultare. Il mondo di Alessanra; il mondo dei ningen. Un altro mondo; un’altra realtà. Sì: era andato per lasciarla al suo mondo. O voleva convincersi che era per quello, che era stato un motivo logico e razionale a fargli attraversare il kekkai mentre la luna scendeva dietro le montagne. L’engawa e le shoji socchiuse; il silenzio di quell’inverno, rilassato e lontano dal palazzo. Così diverso: senza la tensione palpabile nell’aria; senza il crepitio di youki e gli echi di duelli e allenamenti. Un inverno visto di nuovo; negli spicchi di luce che si andavano ritirando dall’engawa; nella figura che riusciva appena a individuare, seduta nel futon. Era stato naturale: scivolare oltre le porte e sedersi dietro di lei. Sedersi, e le braccia stringere le spalle di Alessandra e restare così, a respirare sulla sua spalla. A respirare contro il suo corpo che si rilassava e imparava di nuovo la vicinanza, si abituava di nuovo a quella sensazione. Percepire le labbra socchiudersi in un respiro che è esitazione e scoprirsi a desiderarle, quelle labbra, quella bocca. La voce premuta sulla stoffa mentre le rispondeva che sì, lo sapeva che Ryoshi l’aveva baciata. Lo sapeva; lo aveva visto. E nella mente premere solo il desiderio di vederle la nuca prima che la luna scompaia del tutto; la voglia dei capelli fra le mani e la pressione della testa nel palmo, mentre la costringe a inclinare un po’ il collo e la bacia. E scoprirsi ad accarezzarla prima di formulare razionalmente il pensiero e no, non voler smettere. Perchè non è sbagliato; perchè è bello.

 

Il respiro.

Era così facile respirare. Dentro; fuori. Dentro; fuori. Inspirare; espirare. Inspirare; espirare. Ancora. É facile, ricordi? Facile; naturale. E allora perchè? Perchè all’improvviso no, non era più sicura di sapere come si facesse, davvero, a respirare? Perchè l’aria se ne restava lì, nella gola, mentre il petto sussultava e si sollevava e cercava. Cercava la bocca di Sesshomaru, le sue mani, la sua lingua. Cercava; e dell’aria e del respiro non gli importava nulla. Si era fermato, prima. Si era fermato, come assopito. Si era fermato e aveva cercato la sua mano. Nel buio totale, l’aveva stretta forte. E Alessandra si era chiesta cosa volesse dirgli, cosa significasse. E sentire il suo corpo desiderare altro, sentirlo in aspettativa e tensione, una frenetica intensa piacevole tensione, mentre Sesshomaru ancora la toccava, ancora e ancora. Sentirsi impaurita e scoprire di non aver davvero paura; sentire la voglia di scappare e la volontà annullarsi assieme. Era così difficile. Era così difficile capire cosa volesse, cosa cercasse. Ma la paura. La paura c’era e non la spaventava. Quando Sesshomaru l’aveva abbracciata; quando aveva iniziato quel gioco, quella seduzione che stava diventando altro, che era già altro. E che nessuno di loro riusciva, voleva fermare. Il corpo rigido accettare, ricordare. Ricordare quando la abbracciava la notte, a palazzo; ricordare quando l’abbracciava e aspettava che incubi e fantasmi scomparissero. Ricordare quando lo sentiva, nella notte, sedersi sull’engawa oltre le shoji chiuse; sedersi e consumare le poche ore di tregua in un qualcosa che lei non capiva. Non capire. E accettare; rassegnarsi.

Come con la paura. Accettare.

Va bene.

 

La mano di Sesshomaru premere sul ginocchio, scivolare sulla seta assieme alla bocca. Le labbra, la lingua sulla pelle, sulla cicatrice che le segnava la rotula. Sentirlo misurarla millimetro per millimetro, l’artiglio a percorrere con minuzia ogni imperfezione. Forse divertendosi e scoprire qualcosa che non si era mai accorto avesse; forse cercando di ricordare se era una ferita recente o vecchia. E sentirlo come sorridere di un pensiero non detto, mentre la seta è un fruscio eccitante nel buio. Nel buio. Alessandra espirò, lentamente; l’eccitazione e il desiderio riscaldarle il corpo, partire in basso, dal ventre, e serpeggiare piacevole sotto la pelle. Desiderio. Sì: lo desiderava; lo voleva. E il gemito nella mano di Sesshomaru che sfiora la coscia, risalendo sotto la seta e allargando lo spacco del kimono. Risalire. Risalire ancora.

 

Il kimono largo sul ventre, e quell’odore. Un odore forte, quasi pungente mescolarsi con il suo. Non è fastidio, non è disgusto. Così diverso da quello di una yasha, così diverso da quello di sua madre. L’odore di una ningen; di Alessandra. Sesshomaru si accorse di avere le labbra socchiuse; sa di desiderare e di volere e sa che l’amerà, anche se poi cambierà tutto. E sa che l’amerà nel solo modo che conosce, in cui può amarla: come un demone, senza porsi domande o cercare di immaginare cosa potrebbe fare un ningen, cosa può provare un ningen. Sarebbe stupido; e inutile. L’amerà per quello che è lei, e per quello che è lui. E potrà essere bello e piacere e potrà essere dolore e ribrezzo. Non importa. Non importa più. Vuole amarla. Mentre la mano accarezza la coscia e risale e allenta il fundoshi; il palmo aperto sul ventre sudato e caldo, troppo caldo. Il nodo del koshihimo premere leggermente sulla pelle, a fermare la stoffa e la sua mano. Non lo scioglierà. Guidare le gambe e scoprire una resistenza che seduzione; sentire i muscoli contrarsi e opporsi e poi rilassarsi e assecondare i suoi gesti. Sentirla sussultare, sentirla cercare qualcosa che ancora non conosce. E non pensare se c’è paura, attesa o stupore.

Non. Pensare. Come non si è mai permesso di fare; come non ha mai permesso che succedesse. É rimasto lucido con la yasha che ha amato per prima; è rimasto lucido con le altre demoni che hanno condiviso il letto con lui, per necessità e bisogno. Restare lucido; e ritrarsi un attimo prima. Ritrarsi come infastidito e andarsene. Perchè non deve dare spiegazioni; perchè è lui che sceglie. E può scegliere che l’amante non lo soddisfa.

 

Alessandra invece.

Alessandra la vuole; e non gli importa se non lo saprà soddisfare come una yasha. Non gli importa se l’amore di una ningen è rozzo, gretto e insignificante; se è infantile e sciocco rispetto a quello di un demone. Rispetto alla completezza, alla profondità diversa, alla percezione diversa di uno youkai. La vuole. Mentre il calore sale dal ventre e il desiderio è pressione e male e voglia. Come fame. Fame. In un formicolio che serpeggia nella pelle, partendo dal basso e risalire lungo le vene, nelle vene con il sangue veloce, sempre più veloce.

Vuole.

Ha.

 

E c’è urgenza; c’è pressione e vertigine. Nel buio. Nel buio Sesshomaru non se ne accorge; non avverte il virare dei suoi occhi, non percepisce il mutare del mondo che li circonda: la noka diventare acqua, mentre la luna, sì, per un istante, si mostra di nuovo fra i rami del salice. Non vede; non ascolta; non pensa. C’è solo il suo corpo; e quello di Alessandra. Il suo essere in Alessandra. E i gemiti e il respiro che è ansito; i movimenti cadenzati, prima lenti poi voraci poi lenti ancora. Seguendo qualcosa che gli dice l’istinto, assecondando le sue risposte, il modo in cui lei lo cerca, in cui lei gli impedisce di andarsene. Non vede. La lingua passare e ripassare sulle labbra, le mani affondare nel futon, cercare coperte seta legno. Non vede il suo viso arrossarsi, la pelle della gola tendersi e invitare, provocante, la sua bocca. Non vede l’ombra sanguinea avvolgere ogni cosa; non si accorge dell’affilarsi delle zanne e degli artigli. Non è lo stesso; non è come trasformarsi, non è come assumere la sua forme animale. Eppure. Eppure c’è forza, dentro al suo corpo. C’è una forza violenta che lo riscalda, che lo fa desiderare.

Desiderare.

 

C’è la seta. Fra di loro. Contro i suoi fianchi caldi e sudati; attorno alle reni di Sesshomaru. C’è la seta, e la pelle che si sfiora quasi per sbaglio, mentre lo sente in lei; mentre lo vuole in lei. E sorprendersi di non pensare a nulla che non sia il piacere e il ritmo strano che le sta imponendo. O è lei a dare un tempo? Non lo sa. Ci sono le gambe a stringergli maggiormente la schiena; c’è il gemito basso e roco salire nella gola, sfuggire senza pudore. Sente se stessa; e sente lui. Il respiro diverso di Sesshomaru sulla pelle. Il suo respiro quasi più caldo; e il gemito sordo e fondo nella gola vibrare, gorgogliare e concedersi quasi in un ringhio. Uno; due; tre volte. Diventare intenso; diventare continuo assieme al respiro più veloce. Sempre più veloce. Di lui. E di lei.

 

E infine il respiro restare lì, nella gola. Restare lì mentre quel calore sale e sale e dal ventre passa allo stomaco, nei polmoni, nel cervello. Quel calore insinuarsi dentro di lei, improvviso; e le mani di Sesshomaru stringersi a lei, stingere la sua carne, il suo corpo. Stringere facendo male e piacere assieme. E c’è quel calore. Quel calore che non è suo, non è solo suo. Saperlo nella confusione dei sensi; saperlo e chiedersi perchè c’è assieme il desiderio di piangere e ridere. Mentre la pelle di Sesshomaru è liscia e asciutta sul suo copro sudato; mentre il suo peso la costringe di nuovo a respirare e lo sente, forte, il suo respiro pesante e sensuale fra l’orecchio e la guancia.

Mentre gli spasmi ancora contraggono muscoli e torturano; mentre, Sesshomaru lo sente, l’odore di Alessandra è cambiato. Lo ha sentito per tutto il tempo: virare in acre e tingersi di qualcosa, qualcosa di simile al sangue; come odore di sangue poi svanito, avvolto dal salire del suo odore. Salire, salire ancora fino a quando c’era solo quello, e dentro Alessandra. Dentro l’odore di Alessandra. E diventare altro. Diventare quell’odore che, lo sa, da adesso sarà suo.

 

E sentirla tremare per l’aria fredda della notte sulla pelle sudata e calda; sentire il suo corpo stringersi al suo e non lasciarlo andare. Non ancora; non così presto. Stringerla e scoprire di non essere ancora soddisfatto, di desiderarla ancora e ancora. Di volerla. Di volere ancora piacere. Piacere da lei.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Piccole annotazioni

 

1. Il luogo della convalescenza di Alessandra esiste realmente e si trova nel centro nella penisola di Izu, famosa per le sue sorgenti termali raccolte fra le montagne scavate da numerosi fiumi come il Kano e ricca di cascate come le famose sette cascate di Kawazu, che hanno ispirato anche il romanzo La ballerina di Izu del premio Nobel Yasunari Kawabata. In particolare, la noka dove vive Alessandra si trova nelle vicinanze di Izu-Nagaoka, oggi rinonama stazione termale ma in epoca Sengoku luogo ancora disabitato, nel centro nord del paese, fra le colline di Genjiyama e il monte Kutsuragi. La panoramica mentale di Sesshomaru prende avvio più a sud, da Yugashima per la precisione, sulle rive del Kano che disegna una valle di magnifico splendore risalendo verso il monte Daruma.

 

2. La figura di Ryoshi (il nome è formato da ryou che significa drago e shi che corrisponde a viola; quindi: drago viola) è liberamente ispirata a quella di Habaek del (personalmente) meravglioso manwha La sposa di Habaek. Riconosco che da parte mia è un azzardo introdurre, a due capitoli dalla fine, un personaggio totalmente nuovo che non ho la possibilità di approfondire ulteriormente in modo particolare. E, a voler esser sinceri, Ryoshi non era previsto, all’inizio. Ma è nato per necessità e ormai ha raggiunto, nell’economia narrativa, un ruolo fondamentale (per il futuro). É anche un piccolo gioco: perchè Ryoshi è legato all’acqua, che per tradizione è elemento femminile. Acqua maschile, quasi. Ma Ryoshi è particolare: è un bambino, è un ragazzo, è un uomo. E non è umano; non è youkai. É un mizuchi, una creatura diversa da Sesshomaru. Per percezione e capacità di comprendere i ningen; ed è –importante- più antico di Sesshomaru e degli youkai stessi.

 

3. Può sembrare un particolare pedante e senza preciso valore, ma ci tenevo a questa precisazione. Nel paragrafo conclusivo Sesshomaru non si spoglia e non spoglia completamente Alessandra. Una sciocchezza, direte. Una scelta. No, in verità. Perchè, mi sono documentata, è nella tradizione orientale la seduzione e l’amore non si esprimono nel nudo. Analizzando le stampe, le ukiyo-e e le immagini erotiche della tradizione nipponica è da rilevare come il nudo non compaia mai. L’erotismo si esprime attraverso l’allusione, il gioco di svelamento-copertura, anche nel rapporto più intimo. La mancata nudità totale di Sesshomaru e Alessandra, di conseguenza, non è un mio vezzo, ma ha un suo preciso perchè, culturale e sessuale.

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Capitolo 49
*** PICCOLO DIZIONARIO ***


PICCOLO DIZIONARIO

PICCOLO DIZIONARIO

 

 

 

Nato dall’unione e dalla rivisitazione del materiale raccolto come documentazione per la fanfic, questo piccolo dizionario, lungi dall’essere esaustivo e completo, vorrebbe offrire un piccolo aiuto interpretativo in relazione all’impiego di termini in giapponese. Senza volontà di offendere chi già possiede una solida base di conoscenze di tali termini, ha invece lo scopo di dissipare eventuali dubbi a chi per la prima volta s’imbattesse in parole dal significato oscuro.

 

 

AVVERTENZA

Per i nomi di persona o di luogo in lingua giapponese, trascritti secondo il sistema Hepburn, le vocali si pronunciano come in italiano e le consonanti come in inglese. In proposito si noti che:

ch è un’affricata come la c dell’italiano "cesto" (p.e. "Chica-chan" va letto "Cicacian")

g è velare come nell’italiano "gatto" (p.e. "Akagi" va letto "Acaghi")

h è sempre aspirata, come nell’inglese “hotel”

j è un’affricata come la g di "gioco"

s è sorda come nell’italiano “sasso”

sh è una fricativa come sc nell’italiano "scelta" (p.e. "sashimi" va letto "sascimi")

w va pronunciata come una u molto rapida

y è consonantico e va letto come la i italiana di “ieri”

z è dolce come nell’italiano “rosa” o “smetto”, o come in “zona” se iniziale o dopo n

La lingua giapponese non conosce i generi maschile e femminile e quindi si è liberi di assegnare il genere in base alle regole italiane: si dirà pertanto "la katana", "il tanto". La trascrizione in caratteri europei rende abbastanza fedelmente il suono delle parole giapponesi. In giapponese non esiste quasi l’accento tonico e perciò ogni sillaba ha lo stesso valore; non si deve, quindi, pronunziare katàna o katanà, ma kà-tà-nà, senza troppo accentuare l’ultima sillaba poiché, in tal caso, l’orecchio, per sua impostazione, sentirebbe il tutto come se fosse stato detto katana!

 

 

 

A

Aki: autunno, comprendeva i mesi di Agosto, Settembre e Ottobre.

Ami-e: nome del kimono che forma la tradizionale veste del monaco buddista errante, formata anche da gojo-gesa e habaki.

Andon: lampada costituita da un telaio di bambù, legno o metallo su cui viene teso un foglio di carta di riso per proteggere la fiamma dal vento. Il combustibile, conservato in un recipiente di pietra o ceramica con uno stoppino di cotone, è solitamente costituito da olio di colza o dal più economico olio di sarde. In certi casi sono usate anche candele ma il loro prezzo elevato ne ha ridotto la diffusione. Particolarmente diffuso durante il Periodo Edo, ne esistevano varie versioni, spesso differenziate l'una dall'altra esclusivamente per l'utilizzo che se ne faceva. L' okiandon era la comune versione da interni e solitamente presentava un piccolo piedistallo per la luce e in alcuni casi un cassettino alla base, per facilitare il rabbocco di olio combustibile e l'accensione della fiamma. Inoltre, sul lato superiore presentava una maniglia che consentiva di trasportarlo comodamente. Un'altra versione era l'Enshū andon, sembra risalente al tardo Periodo Azuchi-Momoyama, aveva forma di tubo con un'apertura al posto del cassettino. Ariake andon era invece chiamata la versione "da comodino", mentre il kakeandon era la versione da esterno usata sotto le tettoie dei negozi e recante su disegnata il nome del proprietario e quindi molto comune nelle città. Infine, il bonbori,è una versione di andon piccola a sezione esagonale.

Aniue: fratello maggiore; termine usato per designare i fratelli più grandi nelle famiglie nobili e soprattutto reali

Arigato gosai: grazie infinite

Ashura: presso la religione e la mitologia induista, sono un gruppo di deità alla ricerca di potere, a cui spesso ci si riferisce come demoni. Generalmente rappresentano la materializzazione dei vizi e dei difetti dell'animo umano; infatti, gli Ashura non vanno visti come parte del macrocosmo attorno a noi più di quanto siano parte del microcosmo della nostra anima. Ashura significa letteralmente "senza Sole". Essendo il Sole da sempre il simbolo divino assoluto, la parola Ashura identifica tutto ciò che si oppone a Dio, tutte le forze e le entità che fanno parte del male. Vengono invocati con mantra malefici da coloro che richiamano energie negative per pratiche e rituali di magia nera. Gli antichi conoscevano molto bene queste entità, tanto che in alcuni testi (quasi tutti tolti dal commercio) venivano elencate le varie categorie di demoni con le descrizioni delle caratteristiche e le pratiche (mantra) per evocarli. Gli Ashura influenzano la percezione ed il comportamento di tutti gli uomini, alimentando le tendenze negative allontanano l'uomo dalla fonte divina della realizzazione spirituale.

Awase: indica un tessuto foderato molto pesante, impiegato per tutto il periodo invernale e autunnale, variando la destinazione dell’indumento foderato con il procedere verso la stagione calda. (vd. Kimono)

 

B

Baba: suffisso affettivo usato per una persona anziana

Bai Gu Jing: yaoguai presente nel libro Viaggio in Occidente. Letteralmente spirito dalle ossa bianche, è uno spirito che è solito manifestarsi ai viaggiatori sotto le spoglie di una bella e fragile ragazza bisognosa di aiuto. Avutane la fiducia, li uccide per divorarli e assorbirne quindi la forza vitale necessaria a sopravvivere.

Baka: sciocco, stupido

Bashe: creatura immaginaria della mitologia cinese, si tratta di un serpente gigantesco in grado di ingoiare interi elefanti. Il nome bashe deriva dall'unione di ba (può significare "punta", "coda", "crosta", "aggrappare", "essere vicino") e she (significa "serpente"). Il carattere cinese che sta per ba è reso graficamente con un pittogramma che rappresenta un serpente con una lunga coda. Nell'antichità - per la precisione nell'epoca della dinastia Zhou (1122 a.C.-256 a.C.) - questo carattere faceva spesso riferimento allo Stato di Ba, posizionato a est dell'attuale provincia di Sichuan.  Bashe non è solo il nome del mitico rettile gigante, ma è anche il nome che i cinesi danno a ran (o mang) - il pitone tipico del sud asiatico - al boa sudamericano e al mamba africano. Nelle letteratura, bashe è spesso indicato con un pittogramma di quattro caratteri che suona come bashetuxiang, traducibile come "ba-il serpente che mangia un elefante".

Bei: nord in cinese

Bijin-sama: manifestazione degli spiriti di montagna, appare con l’aspetto di un globo striato di blu e rosso, avvolto in una strana nube nera e caratterizzato dall’emettere un sibilo ininterrotto. Non è particolarmente grande e può essere racchiuso in una mano per le dimensioni.

Butsudan: piccolo altare buddista presente nelle case dei fedeli; si presenta come un armadietto con ante contenente principalmente la statua di Buddha e le tavolette funerarie dei defunti.

Byobu: strutture pieghevoli e mobili composte da più ante o pannelli di carta o seta dipinta, tese e sorrette da un’intelaiatura leggera in legno. I byobu nascono, già dal VII secolo, con la funzione di dividere gli spazi interni delle abitazioni giapponesi; non erano disposti a soffietto come nell’uso moderno, né venivano completamente aperti su uno stesso piano: a seconda delle esigenze venivano piegati semplicemente in due per delimitare uno spazio più intimo all’interno della stanza o del giardino o collocati in coppia, uno di fronte all’altro. Nonostante la loro bellezza decorativa, si teneva conto più della loro funzione pratica che della lettura completa dei soggetti dipinti, spesso continui e trasversali ai pannelli. I paraventi più antichi erano pesanti e poco maneggevoli. Ciascun pannello era incorniciato da una fascia di broccato di seta ed era legato agli altri da corde di pelle o seta che passavano in fori rinforzati da rondelle in legno di forma analoga alle monete giapponesi, e per questo dette costruzioni zenigata (a forma di moneta). Le dimensioni dei byobu variavano da uno a due metri in altezza e da uno a cinque metri in larghezza e potevano essere costituiti da un minimo di 2 fino ad un massimo di 8 ante, anche se i più diffusi furono i paraventi a 6 ante. L’utilizzo del byobu si modifica nel corso dei secoli. Da attraente arredo di varie dimensioni nato per creare privacy all’interno degli ambienti e per appendere i vestiti, diventa strumento e supporto di virtuosismo artistico – forse uno dei pochi dell’arredo giapponese – e un oggetto destinato alla pura contemplazione visiva per lo spettatore.

 

C

Chan: suffisso, che si aggiunge al nome di una persona per indicare un linguaggio familiare, usato soprattutto per le ragazze o per gli animali piccoli.

Chawan: tazza da thè giapponese

Chawan mushi: crema a base di uova e brodo dashi (brodo leggero di pesce), guarnita con verdure, foglie di spinaci o funghi, pollo, gamberi o altro. Si prepara nelle apposite tazzine con coperchio e si cuoce a bagnomaria come la nostra creme caramel. Si serve caldissimo e si mangia con un cucchiaino. È piacevole come intermezzo o antipasto.

Chihaya: costume tradizionale, o veste, di una miko consiste di un hakama rosso, colore della verginità, che può essere sia in foggia di pantaloni che di gonna, della tunica bianca del kimono con grandi maniche, spesso orlate di rosso ed è associato ai tipici calzari giapponesi, i tabi.

Chikuso: maledizione

Chugu: titolo riservato in età storica ad una moglie dell’imperatore del Giappone. La realtà poligamica della corte imperiale rendeva necessaria una precisa terminologia che distinguesse in modo inequivocabile la posizione sociale di ogni membro nell’universo della corte. La chugu è una delle mogli dell’imperatore, e ne indica la favorita, pur non trattandosi di necessità della sposa ufficiale o altrimenti riconosciuta come imperatrice, che prendeva nome di kogo.

 

D

Daimyo: carica più importante in Giappone fra il XII e il XiX secolo. Signori feudali del Giappone premoderno. Durante l'epoca Kamakura i capi militari locali ottennero dallo shogun i diritti di proprietà (daimyo) su grandi estensioni di terra. Nei secoli successivi i daimyo accrebbero ulteriormente il proprio potere politico nei confronti dei vassalli e quello economico a danno dei contadini attraverso l'imposizione fiscale. Successivamente, le guerre feudali che caratterizzarono l'epoca Ashikaga ne selezionarono i più potenti e nel corso del XVI secolo tre di essi, prima Oda Nobunaga, quindi Toyotomi Hideyoshi e infine Tokugawa Ieyasu, si imposero su tutti costruendo uno stato feudale accentrato. I daimyo (circa 270 famiglie con feudi di varie dimensioni) accettarono un governo centrale ed ebbero riconosciuta la propria autorità a livello locale, ma nell'ambito di norme quadro e di rigide regole di comportamento. Con lo sviluppo di una dinamica economia mercantile urbana molti daimyo si trovarono in gravi difficoltà finanziarie sin dalla fine del XVII secolo e seguirono il declino economico e politico del bakufu. In seguito alla restaurazione Meiji del 1868, vennero dapprima trasformati in governatori dei loro ex feudi, per poi essere sostituiti, a partire dal 1871, da una nuova burocrazia centralizzata.

Daruma: monte (982 m) nella prefettura di Darumayama nella penisola di Izo, nella regione di Shizuoka. La sua vetta è raggiungibile a piedi in circa un’ora e in mezz’ora con l’autobus dalla stazione di Shizenji e offra uno splendido panorama del monte Fuji a Nord e della baia di Suruga a Ovest.

Date-eri: accessorio impiegato per simulare che ci sia un secondo kimono portato sotto, cosa che un tempo era molto usata, specie in inverno, quando sovrapporre più strati di seta aiutava a tenere lontano in freddo. Si tratta di una striscia di tessuto raddoppiato, che viene cucito all'interno dello scollo del kimono in modo che sporga un poco con un colore contrastante, spesso coordinato a quello dell'obiage.

Dojo: palestra con pavimento in legno, considerata luogo sacro e adibita solitamente alla pratica delle arti marziali.

Dong: est in cinese

E

Engawa: veranda esterna di legno, coperta da un tetto spiovente che solitamente da sul giardino e corre attorno alla casa. Può essere chiusa da pesanti porte di legno o lasciata aperta, e costituisce l’ingresso principale per i visitatori, che sono tenuti a togliersi le scarpe sul gradino di pietra prospicente.

Enma: nome giapponese di Yen-lo-wang, dio cinese d'origine buddista, associato al bodhitsattva Dizangwang, guardiano e giudice dell'inferno.

F

Fuda: talismani distribuiti dai templi shintoisti; sono realizzati scrivendo il nome di un kami, di un tempio o di un rappresentante del kami su un pezzo di carta, legno, stoffa o metallo. Si crede che un o-fuda abbia il potere di infondere la protezione del dio, e viene generalmente apposto su una porta, una colonna o sul soffitto per proteggere la casa e i suoi abitanti. Può anche essere apposto in posti specifici, ad esempio in una cucina per prevenire dagli incendi. Inoltre può essere posto all'interno dell'altare privato (kamidana), nelle dimore che ne hanno uno. Nelle opere contemporanee, soprattutto manga e anime, gli o-fuda compaiono come delle pergamene magiche, destinate non tanto alla protezione, quanto alla lotta contro spiriti malvagi (tipicamente yōkai); è generalmente un attributo di miko e maghi, per quanto occasionalmente compaiono nelle mani di monaci buddhisti, e in tal caso ad esservi scritto sopra è il testo di un sutra o di un mantra. Possono essere utilizzati per respingere demoni o per sigillarli in luoghi chiusi, ma l'esatta interpretazione varia a seconda dell'autore.

Fuji: monte simbolo del Giappone situato nella regione centrale di Honshu, con i suoi 3776 metri è la vetta più alta del paese e il suo perfetto cono vulcanico, grigio-viola in estate e bianco di neve in inverno, si staglia fra nuvole e colline. Inattivo dal 1707, fino all’’800 il monte fuji (o Fuji-san) era considerato sacro e poteva essere scalato solo da religiosi e pellegrini, mentre le donne furono ammesse solo dopo il 1872. oggi è accessibile a tutti, con le vie al monte aperte però solo in Luglio e Agosto. La cima, una corona percorribile in un’ora, è raggiungibile mediante cinque sentieri (Kawaguchi-ko, Yoshida, Subashiri, Gotenba, Fujimomiya), variabili per tempo di percorrenza e lunghezza, divisi in dieci tappe. Solitamente, gli escursionisti partono dalla tappa cinque, alle endici del monte, mettendosi in marcia nel tardo pomeriggio per godere del tramonto e sfuggire alla canicola e pernottando nei rifugi delle tappe sette od otto, per poi raggiungere la vetta verso le sedici del giorno successivo. Sulla cima si trova, inoltre, un santuario Sengan, dedicato alla divinità della montagna. In tutta la zona sorgono santuari del medesimo tipo, attorniati da vecchie locante e cascate o sorgenti termali per purificarsi prima di ascendere al monte, come per esempio quelle a Fuji-Yoshida, base per escursioni e pellegrinaggi. La zona ai piedi del vulcano, caratterizzata a Nord-Ovest dalla presenza della Aokigahara Jukai (“Il mare di alberi), una foresta primordiale in cui è facile perdersi, e da un intricato sistema di caverne e grotte, come quella del vento Fugaki e del ghiaccio Narasawa, prende il nome di regione dei Cinque laghi per la presenza di altrettanti specchi d’acqua: Lago Motosu. Lago Shojin, Lago Sai, Lago Kawaguchi e Lago Yamanaka.

L’escursione cui prende parte Alessandra, articolata di necessità in più giorni, si svolge fra la fine Ottobre e i primi di Novembre, quando già parte dei laghi può essere ghiacciata, e non prevede l’effettiva scalata fino alla corona del vulcano, dal momento che i sentieri sono chiusi e inagibili per la neve. Per raggiungere il Lago Shojin, dove avrebbero pattinato, Alessandra e i suoi compagni scendono dal treno (l’autobus percorre il medesimo tragitto solo d’estate) a Fuji-Yoshida, per poi costeggiare la Aokigahara Jukai, in cui Alessandra si smarrisce dopo esser scivolata in un piccolo crepaccio. Il progetto iniziale prevedeva il pernottamento in uno dei rifugi, locande o ryokan, che sono numerosi in tutte le zone di montagna, spesso vicino a sorgenti termali. La presenza del costume da bagno, che può sembrare strana, è dovuta al fatto che per un occidentale può esser imbarazzante un bagno, magari anche all’aperto (non così strano neanche in inverno, anche con la neve) con persone sconosciute e anche di sesso misto (benché solitamente le piscine termali siano distinte per uomini e donne, ma ad esempio la notte il bagno misto è più accettato).

Fukurodana: armadio a muro

Fundoshi: biancheria intima maschile costituita da una lunga striscia di stoffa avvolta attorno ai fianchi e all’inguine

Furin: formato da fu che significa vento e rin che indica la campanella, è una campanella di vetro o ceramica con piccolissimo batacchio con una laminetta sottilissima. Il suono prodotto varia in base alla struttura e al materiale del furin stesso, con una sensazione di freschezza. I furi vengono attaccati alle grondaie o alle finestre delle case principalmente d’estate e, giocando con il vento, riescono quasi a fargli assumere una forma nel suono. Originario della tradizione cinese, il furin è impiegato in Giappone da secoli, tanto da assolvere funzione apotropaica. Si pensava, infatti, che il suo suono tenesse lontano dalle case gli spiriti maligni ed era ritenuto tanto importante che il monaco buddista Honen (1133-1212) di Kamakura lo definì un tesoro nazionale.

Fusuma: porta scorrevole da interni formata da un’intelaiatura in legno su cui sono montati pannelli in carta di riso decorati nelle parti “a vista”, scivola sul pavimento mediante delle cabalette disposte in alto e in basso.

Futakuchi-onna: creatura soprannaturale della mitologia giapponese. Come suggerisce il nome (donna dalle due bocche) è caratterizzata dalla presenza, oltre a quella "normale", di una seconda bocca nascosta tra i capelli della nuca, dove il cranio della donna si apre, presentando labbra, denti e una lingua. Come se questo non bastasse, la bocca posteriore borbotta e sputacchia, continuando a chiedere cibo e, se non viene adeguatamente sfamata, inizia a strillare in modo osceno e a provocare alla donna un tremendo dolore. Addirittura, in una particolare versione del mito, anche i capelli della donna si animano e, muovendosi come serpenti, iniziano a portare cibo alla vorace bocca. Nella mitologia e nel folklore giapponesi, le futakuchi-onna appartengono allo stesso tipo di miti delle rokurokubi, delle kuchisake-onna e delle yamanba: donne trasformate in yōkai da maledizioni o malattie soprannaturali. In questi racconti, la natura soprannaturale delle donne rimane solitamente nascosta fino all'ultimo minuto, quando la verità viene rivelata. Nella tradizione mitica la futakuchi-onna era una matrigna che, non amando il figlio di primo letto del marito, sfamò solo i propri figli, lasciando invece morire di fame il figliastro. Qualche tempo dopo, mentre un taglialegna spaccava la legna in giardino, accidentalmente ruppe la propria ascia che andò a ferire la cattiva matrigna alla nuca. Lo spirito del figliastro trascurato, allora, entrò nel corpo della donna impedendo per vendetta alla ferita di rimarginarsi. Col tempo la ferita sanguinante si trasformò in una bocca che cominciò a chiedere continuamente cibo alla donna e a ripeterle instancabilmente di chiedere perdono per ciò che aveva fatto. Secondo un altro racconto popolare molto famoso invece, la futakuchi-onna era una donna che non mangiava mai e che per questo fu presa in moglie da un uomo molto avaro. Poco tempo dopo però l'uomo si accorse che, nonostante la donna non toccasse cibo, le scorte continuavano a diminuire. Spiandola, infatti, scoprì che quando era sola i suoi capelli si animavano e portavano in continuazione decine di polpette di riso ad una seconda bocca posta sulla nuca della sua testa. Sembra che quella seconda bocca fosse "nata" dal desiderio di cibo che la donna reprimeva costantemente in pubblico.

Futon: materasso tradizionale giapponese (il suo nome significa "materasso che si arrotola") è costituito da falde di cotone disposte a strati e ricoperte da una fodera di cotone trapuntata a mano. Si stende solo di notte e, di giorno, viene riposto in appositi armadi a muro. La storia del futon è molto antica: si ritiene che il futon derivi dal goza, la stuoia usata in periodo Heian per dormire e che sia nato per il fatto che in Giappone esiste da sempre l’usanza di togliersi le scarpe all’interno della stanza.

G

Geisha: tradizionali artiste e intrattenitrici giapponesi. Fin da piccole e durante quasi tutta la loro vita, le geisha prendono lezioni di numerose arti. Le case dove le geisha apprendono hanno talvolta accettato ragazze di famiglie povere e hanno iniziato a crescerle e ad educarle. Durante la loro infanzia, le apprendiste (maiko) devono lavorare dapprima come serve (o domestiche) e solo in seguito diventano assistenti delle geisha più anziane. È questo il percorso col quale una geisha diventa una professionista. La maggior parte delle geisha studia danza sin dall'infanzia. Molte geisha non entrano fino ad un'età adulta nelle scuole per geisha e alcune fortunate vi entrano dopo avere finito l'istituto superiore. Le arti che studiano sono molte e varie, come: lo shamisen, il flauto, le percussioni, il canto, la danza giapponese classica, la cerimonia del tè, la letteratura e la poesia. Guardando le geisha più anziane, le studentesse diventano esperte anche nelle tradizioni complesse, nell'utilizzo del kimono e nell'intrattenimento dei clienti. La parola geisha è stata spesso confusa con il significato di prostituta e in Cina è tradotta con una parola che in cinese significa proprio prostituta. Tale confusione deriverebbe dal periodo dell'occupazione americana del Giappone, durante il quale le geisha si sono vendute per denaro ai soldati americani in cerca di sesso. Questi motivi ed il concetto di mizuage hanno causato confusione al di sopra della vera intenzione della professione della geisha.

Gojo-gesa: tipica veste sacerdotale buddista in uso nel periodo Heian composta da un kimono e da una protezione che si avvolgeva al corpo e si fermava su una spalla con un nodo e passando i capi in un anello di legno o metallo.

Guinomi: tazza grande per bere il sake.

H

Habaki: pantaloni molto stretti e aderenti, lunghi fino alla caviglia se non meno, indossati solitamente dai monaci buddisti del periodo Heian sopra la tradizionale veste sacerdotale.

Haiku: componimento poetico di tre versi caratterizzati da cinque, sette e ancora cinque sillabe. È una poesia dai toni semplici che elimina i fronzoli lessicali e le congiunzioni e trae la sua forza dalle suggestioni della natura e le sue stagioni. Lo haiku fu creato in Giappone nel secolo XVII e deriva dal tanka, componimento poetico di 31 sillabe che risale già al IV secolo. Il tanka formato da 5 versi con una quantità precisa di sillabe per ogni verso: 5-7-5-7-7. Eliminando gli ultimi due versi si è formato l'haiku. Per l'estrema brevità richiede una grande sintesi di pensiero e d'immagine. Tradizionalmente l'ultimo verso è il cosiddetto riferimento stagionale o kigo, cioè un accenno alla stagione che definisce il momento dell'anno in cui viene composta o al quale è dedicata. Soggetto dell'haiku sono scene rapide ed intense che rappresentano, in genere, la natura e le emozioni che esse lasciano nell'animo dell'haijin (il poeta). La mancanza di nessi evidenti tra i versi lascia spazio ad un vuoto ricco di suggestioni.

Hakama: pantalone largo e a pieghe (sette pieghe, di cui cinque davanti e due dietro), munito di un supporto rigido (koshi ito). Era tradizionalmente indossata dai nobili nel Giappone durante il medioevo e in particolare dai samurai. Ha acquisito la sua forma attuale durante il periodo Edo. Sia uomini che donne possono indossare la hakama. Alcuni affermano che il ruolo dell'hakama sia di nascondere i movimenti dei piedi, per soprendere meglio l'avversario, sebbene questa spiegazione non è accettata da tutti: in effetti, i samurai portano delle schiniere che racchiudono l hakama, i piedi sono quindi ben visibili. Per alcuni, siccome non si trattava di un'armatura ma si preparava ad un combattimento, i samurai, tiravano su l'hakama a livello della cintura, la stessa alla quale attaccava le maniche del kimono tramite una striscia di tessuto, la tasuki. Era infatti solamente un pantalone di cavalleria. Le cinque pieghe frontali rappresentano la via dei cinque principi: lealtà (signore - vassallo), pietà filiale (genitore - figlio), armonia (marito - moglie), affetto (amore - indulgenza) e fiducia. O ancora: fedeltà, cortesia, intelletto, compassione, fiducia (fede). Infine, considerando le pieghe frontali e posteriori, jin (benevolenza), rei (etichetta e gentilezza), gi (giustizia), chi (saggezza), shin (sincerità), koh (pietà) e chu ( lealtà ). La piega posteriore rappresenta la via della sincerità (assenza di doppiezza). Questo significa che indossando la nostra hakama, noi dovremmo iscrivere questi valori nel nostro cuore.

Hachiwari: sorta di stiletto a sezione triangolare e a lama smussata usato nel Giappone feudale. Lungo circa 30-35cm (alcune versioni più lunghe raggiungevano i 45cm), era incurvato ed aveva un uncino sul dorso vicino alla base dell'impugnatura. In certi casi la fattura dell'hachiwari era così simile a quella di un tantō da considerarli veri e propri coltelli piuttosto che randelli smussati. Si ritiene venisse usato in modo del tutto simile al jitte: portato al fianco come fosse un pugnale, in combattimento veniva solitamente usato insieme alla spada, impugnata nella mano destra, tenendolo nella mano sinistra e usandolo per parare i colpi dell'arma avversaria tentando, se possibile, di spezzarne la lama con l'uncino. In alternativa poteva essere usato per sfondare l'elmo o, come appare più probabile, per penetrare di punta negli interstizi dell'armatura dell'avversario.

Hadajuban: in un pezzo unico o in due pezzi, è una veste (hadaji = camiciola più susoyoke = gonna a portafoglio), in cotone bianco, serve ad assorbire il sudore ed impedire che il nagajuban si sporchi.

Hai: sì

Hakurei: montagna sacra dall’intensa e pura aura spiritica, circondata da una barriera prodotta dal monaco Hakushin, è il riparo di Naraku dopo la sconfitta subita da parte di Inuyasha e Sesshomaru. Secondo la leggenda, la purezza del luogo è tale da purificare qualsiasi aura maligna o peccato, tanto da permettere di raggiungere la beatitudine anche ai criminali più incalliti. Inoltre nega l’accesso alle sue pendici a demoni e uomini dai pensieri impuri. Il monte crollerà in seguito alla distruzione della barriera mistica e alla liberazione dei demoni usati da Naraku per costruirsi un nuovo corpo.

Hanagushi: particolare kanzashi a forma di pettine arrotondato realizzato con legno laccato e guscio di tartaruga, spesso impreziosito con decorazioni in madreperla e foglia d’oro e decorato con fiori di stoffa o lamina d’argento, impiegati soprattutto per donne di alto rango.

Hama: solitamente impiegata con il termine freccia (Hama no ha), la parola significa “sacro” e designa le frecce intrise di potere spirituale usate da monaci e sacerdotesse per sconfiggere demoni ed essere maligni. La pericolosità della freccia è direttamente proporzionale al potere spirituale di chi la scaglia.

In “Inuyasha” sia Kagome sia Kikyo combattono con frecce hama, come anche l’anziana Kaede. Lo stesso Inuyasha è stato sigillato a Goshinboku per mezzo di una freccia sacra.

Han-eri: sopracollo in tinta unita o ricamato applicato al collo del nagajuban, che ha scopo sia decorativo che pratico perché una volta sporco può essere staccato e sostituito facilmente.

Hanfu: costume tradizionale del popolo cinese (Han) nel corso di gran parte della loro storia, ed in particolar modo prima della dinastia di Quing.

Hanhaba obi: l'obi più informale di tutti, alto solo 15 cm e lungo 360, viene utilizzato per la yukata e per i kimono decisamente informali.

Haniwa: letteralmente "cilindri d’argilla", erano statuette in argilla raffiguranti genericamente oggetti (entō haniwa) o animali e poi persone (keishō haniwa). I secondi dovevano svolgere una funzione religiosa, seppure non chiarissima: forse testimoniavano la credenza in una reincarnazione o resurrezione, o forse avevano la funzione di proteggere il defunto. O, piuttosto, sostituivano simbolicamente - secondo l'usanza cinese - la famiglia di servitori che doveva seguire il sovrano. Con il progredire della civiltà, infatti, erano queste ad essere seppellite insieme ai signori alla loro morte, al posto dei loro servitori.

Hanyou: secondo la tradizione del Giappone, sono il frutto dell'unione tra uno youkai e un umano, spesso guardati con disprezzo dagli youkai e con timore dagli umani.

Haori: accessorio del kimono, è un soprabito che giunge fino all'anca o alla coscia, che aggiunge ulteriore formalità all’abito. Riservato agli uomini fino alla fine del periodo Meiji, quando col cambio delle mode è entrato nell'uso anche per le donne; i modelli da donna tendono ad essere più lunghi. Lo haori si porta quindi sopra il kimono, senza chiudere i lembi. Un cordoncino attaccato ai due lati dell'apertura viene annodato con un nodo codificato (diverso per haori maschili e femminili), ma lo haori ha comunque una certa ampiezza per "accomodare" il fiocco dell'obi, sulla schiena. I motivi decorativi dello haori vanno da tutte le possibili delizie dello shibori a motivi dipinti con tecnica Yuzen, e possono ricoprire tutta la superficie, parte di essa con una disposizione asimmetrica o concentrarsi sulla schiena. Il colore classico ed elegante è il nero, magari con motivi tipo urushi, ma non mancano certo esempi di colori brillanti.

Hashi: bastoncini più corti e delicati di quelli cinesi, sostituiscono le posate all’occidentale. Quando non vengono usati, durante il pasto, vanno riposti sull’apposito sostegno (hashi-oki).

Higashi: letteralmente, Est.

Nella storia, Higashi costituisce uno dei cinque regni di Honshu, posto sotto il controllo di Sesshomaru, che lo deriva in eredità dalla madre, che era Signora dell’Est e lo portò in dote a Inutaisho. racchiude in sè anche i territori di Musashi. (vd. Honshu)

Hime: principessa

Himitsu bako: letteralmente scatola segreta, da himitsu che significa segreto e bako scatola. In apparenza è un cubo di legno liscio caratterizzato da vari motivi spesso a carattere geometrico; facendo più attenzione alla superficie, è possibile notare delle sottilissime giunture, che ne delineano i pezzi che compongono la scatola, la cui apertura è soggetta ad una combinazione che viene fatta scattare muovendo le parti che compongono la scatola stessa secondo una serie di passi predefiniti per accedere allo scomparto segreto.

Hina matsuri: Hina significa ‘uccellino’,pulcino’; per estensione e contiguità semantica con il concetto di ‘piccolo’, passò ad indicare anche i giochi delle bambine con le bamboline e altre miniature di pupazzi (hinagata ‘piccola forma’) dalle fattezze umane, usati nello hina asobi (gioco delle bambole). Nella lingua moderna dunque hinadori significa pulcino, ma hina ningyou significa bambola, rappresentazione in miniatura di creature dalle sembianze umane. La Festa delle Bambine è comunque una ricorrenza molto sentita dalle famiglie giapponesi che celebrano le figlie femmine pregando per la loro salute e prosperità futura. Lo Hinamatsuri è celebrato esponendo le hina ningyou, offrendo hishimochi (mochi composti in graziosissime losanghe di colore rosa, bianco e verde, spesso decorati con fiori di pesco) e bevendo lo shirazake (sake bianco, dolce). Talvolta questi dolci di riso a 3 o 5 piani sono esposti insieme con le bambole su apposite raffinatissime scaffalature, che restano in esposizione nelle case per circa un mese. L’esposizione delle hina-ningyou inizia ai primi di Febbraio, che nel calendario lunare già segna l’inizio della primavera;.ma si è poi soliti riporre le bambole quasi subito dopo il 3 di Marzo o al massimo entro il 15 Marzo, perché si ritiene che lasciare le hina ningyou troppo a lungo in esposizione, potrebbe ritardare il matrimonio delle ragazze. Le bambole del periodo Heian, citate anche nel famoso romanzo Genji monogatari, erano molto semplici: i bambini vi giocavano semplicemente cambiandole di abito; mentre fra le famiglie nobili si diffondeva l’abitudine di esporre le bambole più belle per la festività del Joumi. Fu solo a partire dal periodo Edo che il governo proclamò il 3 Marzo come festa nazionale. Durante lo shogunato di Tokugawa Iemitsu (1623-1651), era prassi offrire come regalo un set di hina ningyou a tutte le neonate femmine, nate a palazzo. L’usanza sorse quando i membri del governo shogunale decisero di offrire un set di hina ningyou a Chiyohime, la figlia più grande dello shougun Iemitsu, il 1 Marzo 1644 per festeggiare il suo settimo compleanno. Essendo ‘regalo di corte’, l’artigianato delle bambole cominciò a fiorire, creando hina ningyou sempre più lussuose e importanti, elaborate nelle vesti e negli accessori che imitavano la vita a palazzo. Inizialmente questa pratica avveniva per di più nelle città e nelle ricche famiglie dei mercanti, ma con il periodo Meiji (1868-1912) l’usanza di celebrare lo hinamatsuri si estese a tutto il paese, facendo fiorire commerci di hina ningyou sempre più elaborate e di alto valore artistico. Le bambole del periodo Heian erano bambole rappresentate in posizione eretta, nel periodo Muromachi (1338-1573) comparvero le prime hina ningyou sedute, fino all’attuale parata di bambole dalle diverse posture e dai diversi significati. Inoltre, le bambole (hina ningyou) vengono poste su stand a 3, 5 o 7 ripiani coperti da velluto rosso e nel preciso rispetto di una gerarchia stabilita e codificata.

Hisashi: nome generale del corridoio che circonda, nel shinden, cioè nella parte principale del palazzo di periodo Heian, la stanza fulcro o moya, separandola dal sunoko. Il nome cambia in base ai punti cardinali, per cui l’hisashi nord, sud, est e ovest saranno rispettivamente chiamati kitabisashi, minabisaschi, higaschibisaschi e nischibisashi. L’hisashi, inoltre, può esser suddiviso, in caso di necessità, in varie stanze mediante l’ausilio di particolare paraventi e tatami mobili.

Hitoyogiri: tipo di shakuhachi (flauto) introdotto in Giappone dalla Cina durante il periodo Muromachi. Era lungo 33 cm ed aveva cinque fori (quattro anteriori ed uno posteriore). Il suo nome significa letteralmente "tagliato con un nodo solo" ed allude al fatto che, per la sua lunghezza limitata, il suo corpo comprende generalmente un solo nodo del fusto del bambù. Inizialmente usato da mendicanti per la questua, fu poi utilizzato anche nella musica d'arte; ebbe una fioritura soprattutto durante l'era Genroku (1688 - 1703) ma in seguito fu soppiantato dal fuke shakuhachi.

Ho: letteralmente veste, è la parte superiore del kimono quotidiano dei cortigiani a corte nel periodo Heian, indossato assieme a particolari hakama chiamati sashinuki. Il vestito nel suo complesso prende nome di ikan, ed era usato spesso dai cortigiani in tribunale o durante le riunioni

Ho-ate: maschera dell’armatura

Hokora: piccolo tempio shintoista

Homongi: kimono semi-formale per consuetudine usato per andare in visita o ricevere ospiti. La caratteristica è di avere il motivo disposto asimmetricamente, e che copre buona parte della superficie, più che nello tsukesage. Il motivo inoltre è eba-moyou, cioè passa sopra le cuciture, e questo richiede che la stoffa sia tagliata ed imbastita per disegnare i contorni, prima di tingerla, per essere sicuri che il disegno combaci una volta cucito definitivamente il kimono. A seconda del grado di formalità un homongi può avere tre kamon o un solo kamon, solitamente ricamato (nui kamon), che è il tipo meno formale, ma talvolta anche dipinto, in questo caso può essere del tipo nakakage mon, cioè mon semidelineato. Con l’homongi il nagajuban può essere di seta colorata o disegnata, per dare un tono più elegante si usa un date-eri in colore contrastante, fukuro obi e obiage ed obijime colorati.

Honshu l'isola più grande del Giappone. Honshū in giapponese vuol dire appunto Provincia principale. Nello Honshū sono ubicate, oltre la capitale Tokyo, alcune fra le città più grandi e famose del paese: Hiroshima, Kawasaki, Kobe, Kyoto, Nagoya, Nara, Osaka, Sendai, Yokohama. Una catena montuosa altamente vulcanica attraversa l'isola per il lungo. La cima più alta è quella del Monte Fuji (3778m), seguita da alcune cime delle Alpi giapponesi. L’isola è divisa in tre zone, ognuna delle quali è a sua volta divisa in altre regioni: Honshu settentrionale con la regione de Tohoku, con sei prefetture (Aomori, Akita, Iwate, Yamagata, Miyagi, Fukushima); Honshu centrale, con le regioni di Kanto, dotata di sette prefetture (Tochigi, Ibaraki, Saitama, Tokyo, Chiba, Kanagawa, Gunma), e di Chibu, con nove prefetture (Niigata, Toyama, Ishikawa,  Fukui, Nagano, Yamanashi, Shizuoka, Aichi, Gifu); Honshu occidentale, con le regioni di Kansai o Kinki, con sette prefetture (Hyogo, Kyoto, Shiga, Osaka, Nara, Mie, Wakayama) e di Chogoku,  con cinque prefetture (Tottori, Okayama, Stimane, Hiroshima, Yamaguchi).

Nella fanfiction, la divisione dell’isola differisce un po’, in quanto il territorio viene nominato secondo una topografia demoniaca e non umana. Di conseguenza, l’isola di Honshu è divisa, teoricamente, in cinque regni, corrispondenti alle cinque regioni storiche dell’isola. Partendo da Nord, il regno di Kita, governato da Kumamoto, corrisponde alla regione di Tohoku; il regno di Sesshomaru sarebbe propriamente Nishi, corrispondente alla regione storica di Chibu, ma comprende anche il regno di Higashi, dove si trova Musashi, portato in dote dalla madre di Sesshomaru a Inutaisho. A Sud, infine, due regni: il regno del Kansai, sotto il controllo di Morigawa, e il regno di Minami. A questi cinque regni, si devono aggiungere i tre situati nelle restanti isole, in corrispondenza biunivoca con il nome storico: il regno di Yezo, a Nord, sotto il dominio di Hidesuke; i regni di Shikoku e Kyushu a Sud.

Horagai: strumento musicale della famiglia della tromba ricavato da una grossa conchiglia (Charonia tritonis) in cui è praticato un foro e aggiunto un bocchino di legno laccato (o, in tempi recenti, di metallo). Si tratta di uno strumento di origini antichissime, che in forme diverse è diffuso non solo in tutto il Pacifico ma anche in Asia, Africa ed America. In Giappone lo horagai è documentato a partire dal periodo Heian ed è stato utilizzato sia come strumento militare (come segnale sui campi di battaglia), sia come strumento rituale nei templi buddhisti o tra i seguaci dello Shugendô. È in grado di emettere una sola nota: a volte segnali particolari vengono prodotti usando più strumenti con intonazioni diverse.

Houshi: monaco buddista, solitamente cieco, ma non necessariamente.

Hoozuki: ciliegio giapponese dai fiori arancio, che sbocciano in inverno.

I

Ihai: tavolette funerarie presenti all’interno del butsudan; esposte quarantanove giorni dopo la morte del defunto, ne commemorano la persona e il nome, benché questo non corrisponda a quello usato dal morto in vita, ma sia invece quello scelto per la sua anima dopo la morte stessa da un sacerdote buddista e venga consacrato in un tempio.

Inrou: porta medicine solitamente ligneo di forma cilindrica, formato da due pezzi montati su una cordicella da appendere al collo che permette lo scorrimento del pezzo superiore rivelando l’incavo per contenere i rimedi.

Irikawa : spazio che intercorre fra la veranda e la stanza

Iromuji: kimono maschile di un solo colore, come testimonia anche il suo stesso nome (iro in giapponese significa colore), con però l’eccezione del nero e del bianco impiegati preferibilmente in occasioni particolari. Può essere sia formale sia informale, in base alla presenza e al numero dei kamon (stemmi)

Izanagi: nome di una divinità shintoista il cui nome significa "Colui che invita", fratello e compagno della dea Izanami ("Colei che invita"). Nella mitologia giapponese è il dio creatore, padre di tutti i kami. Nel Kojiki ("Memorie degli eventi antichi"), si narra che il primo gesto di Izanagi ed Izanami fu quello di far sorgere le terre dall'oceano e mescolarle con una lancia chiamata Ame-Nu-Hoko. Con il fango che si ammassò colando dalla lancia ebbe origine la prima isola: Onogaro-Shima (il Regno Terreno). In seguito gli dei crearono altre otto grandi isole che divennero la terra di Yamato, il Giappone. Le due divinità abbandonarono il Regno del Cielo e stabilirono la loro nuova dimora sulla Terra. Dalla loro unione nacquero il dio del mare O-Wara-Tsu-Mi, il dio delle montagne O-Yama-Tsu-Mi, il dio degli alberi Kuku-no-chi e il dio del vento Shina-Tsu-Hiko. La nascita dell'ultimo dio, quello del fuoco Kagu-tsuchi, costò la vita ad Izanami. Izanagi, adirato, uccise il figlio e scese all'inferno (Yomi-Tsu-Kumi) con l'intento di condurre nuovamente la sua compagna nell'Onogaro-shima; al suo arrivo, il dio scoprì che la sua sposa si era nutrita con il cibo infernale ed era diventata un demone malvagio. Izanagi fuggì in superficie ed Izanami restò nello Yomi-Tsu-Kumi divenendone la terribile regina. Ritornato sulla Terra, Izanagi volle lavarsi dal sudiciume che lo aveva ricoperto ed eseguì un rito di purificazione. Si tuffò in un fiume e soffiandosi il naso originò il dio Susanoo (Susa-no-wo), signore della tempesta; dal suo occhio destro nacque Tsukuyomi, divinità della luna, e da quello sinistro Amaterasu, dea del sole.

J

Jigai: suicidio rituale femminile, corrispondente al seppuku maschile. Veniva compiuto dalle donne che rischiavano di venir disonorate. A differenza del suicidio rituale maschile, quello femminile non prevedeva un compagno e avveniva mediante il taglio della carotide con un coltello con lama che variava fra i quindici e i trenta centimetri. Per rispondere alla consueta esigenza di compostezza anche nella morte, le donne che praticavano il jigai erno solite legarsi le ginocchia, perché il corpo restasse in posizione consona e decorosa anche dopo le convulsioni della morte.

Jimbaori: particolare soprabito senza maniche, comunemente indossato dai samurai di rango elevato sopra le armature per aumentare l’effetto spaventoso e incutere maggior paura.

Jinja: termine giapponese che sta ad indicare un tempio shintoista, generalmente costituito da una serie di edifici e l'area naturale circostante ed è il luogo dove i fedeli shintoisti possono recarsi per la venerazione degli dèi (kami). Si crede che originariamente i jinja fossero solo templi temporanei, allestiti in occasione di una festività (matsuri) in luoghi considerati sacri come caverne o montagne. Questo per il fatto che nella fede shintoista i kami sono in un certo senso «onnipresenti», avendo la facoltà di essere dove vogliono quando vogliono, e che dunque non possano essere confinato in uno spazio sacro ben definito. Comunque, in epoche più recenti, dopo la costruzione di questi templi temporanei chiamati shaden si diffuse la credenza secondo cui un kami venerato in un tempio farebbe di quest'ultimo la sua dimora sacra. Nacquero così i primi templi stabili, i jinja, a partire da preesistenti shaden. Molti credono che le tecniche di costruzione degli shaden derivino dal Buddhismo, difatti, parecchi jinja antichi non hanno tracce di shaden, ma solamente luoghi di preghiera affacciati su ambienti sacri a cui è solitamente vietato l'accesso. Un tempio shintoista è costituito da parecchi locali ed edifici, inclusi un honden e un haiden . L'honden è il Sancta Sanctorum, la stanza o l'edificio contenente il goshintai ,letteralmente, "il Sacro Corpo del kami". Di queste stanze, solo l’haiden è aperto ai laici. L'honden è collocato dietro l'haiden, è più piccolo ed è privo di decorazioni. Altre zone particolari di un tempio shintoista sono l'area del torii, l'ingresso sacro al tempio; il chōzuya l'area delle abluzioni di mani e bocca, e il shamusho .

Junihitoe: kimono a dodici strati indossato nell'antichità dalle donne di corte. Oggi usato solo nelle occasioni più formali a corte (matrimoni imperiali, incoronazioni) e visibile nei musei.

Jyuzu: rosario buddista, formato da 108 grani o sfere, corrispondenti alle passioni a ai vizi che l’uomo deve esorcizzare per riuscire a elevarsi spiritualmente e a raggiungere l’illuminazione divina o Nirvana.

 

K

Kabuto: elmo

Kaiken: arma da taglio quasi esclusivamente femminile, usata per gli scontri ravvicinati e facile da nascondersi fra le vesti o nelle tasche dei kimono, in modo da poter cogliere l’avversario di sorpresa.

Kake-obi: particolare obi del nushi no tareginu (vd.); consiste in una fascia che corre davanti al seno, per poi aggirare la spalla e fissarsi sul petto della donna, tenendo fermo il grande cappello di paglia con velame di canapa.

Kake soba: "soba in brodo" consistente di tagliatelle di soba, sottili tagliatelle di grano saraceno, bollite e servite in una tazza di brodo caldo chiamato tsuyu e fatto con dashi, mirin e salsa di soia, guarnito con fettine di negi (cipolletta) e solitamente mangiata con i bastoncini.

Kaji: spadaio

Kamaitachi: creatura soprannaturale della mitologia giapponese, tradizionalmente associata al vento e diffusa in varie zone del Giappone, soprattutto montuose e, appunto, ventose. Di questo spirito esistono molte versioni, in parte differenti per aspetto e caratteristiche a seconda della zona d'avvistamento, ma in generale si tratta di un velocissimo essere dall'aspetto di donnola (per tradizione considerato un animale maligno), che si muove cavalcando folate di vento e che è munito di artigli affilati come rasoi coi quali ferisce alle gambe i malcapitati passanti per poi dileguarsi immediatamente. L'azione è così rapida che spesso le vittime non si accorgono nemmeno dell'attacco, anche perché, altra caratteristica peculiare del kamaitachi, le ferite inferte non provocano dolore ma solo sanguinamento, a volte anche copioso. Secondo alcune versioni, invece, accadrebbe l'esatto contrario e cioè che le ferite non sanguinerebbero quasi per nulla ma causerebbero grande dolore e in taluni casi sarebbero fatali. La versione più famosa del kamaitachi ha origine nelle montagne delle regioni di Mino e Hida (oggi accorpate nella prefettura di Gifu), dove sembra che apparisse come un terzetto di donnole di cui la prima faceva inciampare la vittima, la seconda le tagliava la pelle delle gambe e la terza le curava la ferita con una medicina in grado di eliminare il dolore. Questa interpretazione sembra sia da ricondurre a Toriyama Sekien, che fu probabilmente anche il primo ad associare l'apparizione alla donnola; egli eseguì, infatti, un tipico gioco di parole, alterando leggermente uno dei nomi più popolari della creatura, kamaetachi, per trasformarlo appunto in kamaitachi (donnola con le falci). Nella prefettura di Niigata, invece, il kamaitachi era uno spirito singolo ma molto più aggressivo, tanto che le sue vittime non riuscivano più a liberarsene.

Kami: parola giapponese indicante gli oggetti di venerazione nella fede Shintoista. Sebbene la parola sia talvolta tradotta con "dio" o "divinità", i teologi shintoisti specificano che tale tipo di traduzione può causare una grave fraintesa del termine. In alcune circostanze, come Izanagi e Izanami, i kami sono identificati come vere e proprie divinità, simili agli dei dell'antica Grecia o Roma. In altri casi invece, come il fenomeno della crescita, gli oggetti naturali, gli spiriti che dimorano alberi, o forze della natura, tradurre "kami" con "dio" o "divinità" sarebbe una cattiva interpretazione. Limitatamente all'uso nello Shintoismo, la parola è un'onorificenza per spiriti nobili e sacri, che implica un senso di rispetto o adorazione per la loro virtù e autorità. Dal momento che tutti gli esseri (viventi e non) hanno tali spiriti, gli esseri umani (come d'altra parte ogni altro essere) potrebbe essere considerato un kami o un kami potenziale. Poiché il giapponese normalmente non distingue il numero (singolare/plurale/duale) nei nomi, non è talora chiaro se kami si riferisce ad una singola entità o ad entità multiple. Quando è assolutamente necessario un concetto di pluralità, viene usato il termine kami-gami che è una ripetizione della stessa parola (kami diventa gami per eufonia). A volte ci si riferisce a kami "femminili" col termine megami. Si dice poi spesso che ci sono Yaoyorozu-no-kami ,ossia "otto-milioni-di-kami"; in giapponese, questo numero spesso porta con sé il concetto di infinito.

Kami-gami: forma plurale del nome Kami, quando è assolutamente necessario esprimere un concetto di pluralità. Si basa su una ripetizione della parola stessa kami, che per eufonia muta in gami. (vd. Kami)

Kamishimo: abbigliamento formale indossato dai samurai in uso durante il periodo Heian ed Edo, letteralmente la parola significa kami (alto) e shimo (basso) forse ad indicare che copriva sia la parte superiore che quella inferiore del corpo. Era indossato anche nelle cerimonie ufficiali o per svolgere compiti all'interno di strutture dove risiedevano personaggi altolocati (ad esempio castelli) e riportava il kamon o simbolo della casata di appartenenza.

Kano: fiume nella penisola di Izu.

Kansai: regione giapponese, anche conosciuta come Kinki , si trova nella zona centrale dell'isola principale del Giappone, Honshu. Il termine Ki, in Kinki, può anche esser letto miyako, che significa città o capitale. Questo deriva dal fatto che nel Periodo Edo, la capitale del Giappone era situata in questa regione. Il Kansai include le prefetture di Nara, Wakayama, Mie, Kyōto, Ōsaka, Hyogo, e Shiga.

Nella storia, il Kansai è uno dei cinque regni demoniaci dell’isola di Honshu, posto sotto il controllo del Clan di Morigawa e Shin. (vd. Honshu)

Kanzashi: ornamenti per i capelli in forma di fiori di seta, pettini di legno, forcine di giada, di metallo, di tartaruga o di resine o ancora di legno laccato; la varietà è infinita, e quelle per geisha spesso hanno una piccola molla che fa oscillare delicatamente la decorazione.

Kanzashi hana: particolare tipo di ornamento per i capelli, con un fiore lungo ondeggiante. Sono creati dagli artigiani giapponesi da dei quadrati di seta da una tecnica un conosciuta come tsumami. Ogni quadrato è piegato con l'aiuto di pinzette e col tagliato, formando un singolo petalo. Questi sono poi attaccati al supporto di metallo per creare i fiori interi, o attaccati a dei fili di seta per creare le cordicelle del bocciolo. Anche simboli come farfalle e uccelli sono comuni. Alcuni dettagli del fiore, come lo stame, possono essere creati con elementi propri dell'arte del mizuhiki, ovvero delle stringhe ottenute dalla carta washi. I colori e i motivi variano in base alle stagioni, solitamente bianco e argento o comunque colori pastello per la stagione estiva e guscio di tartaruga o corallo per la stagione invernale.

Kappa: creatura leggendaria, è uno spirito del folklore e della mitologia giapponese che abita in laghi, fiumi e stagni. La maggior parte delle descrizioni descrive i kappa come umanoidi delle dimensioni di bambini, sebbene i loro corpi siano più simili a quelli delle scimmie o a quelli delle rane piuttosto che a quelli degli esseri umani. Alcune descrizioni dicono che le loro facce sono gorillesche, mentre secondo altre hanno un viso con un becco simile a quello delle tartarughe. Generalmente i disegni mostrano i kappa con spessi gusci simili a quelli di una tartaruga e con la pelle scagliosa in colori nell'intervallo che va dal verde, al giallo o al blu. I kappa abitano i laghi e i fiumi del Giappone e sono dotati di diverse caratteristiche che li aiutano in questo ambiente, come mani e piedi palmati. Si dice alle volte che puzzino di pesce e certamente sanno nuotare bene. L'espressione kappa no kawa nagare ("un kappa che affoga") significa che anche gli esperti possono sbagliare. La caratteristica principale del kappa è comunque la depressione piena d'acqua in cima alla testa. Questa cavità è circondata da ispidi e corti capelli, che hanno dato nome al taglio di capelli okappa atama. Il kappa deriva la sua forza incredibile da questo foro pieno d'acqua e chiunque ne affronti uno può sfruttare questa debolezza semplicemente facendo in modo che il kappa rovesci l'acqua dalla sua testa.

Karakami: pannello scorrevole fra due stanze. Letteralmente carta cinese

Kariginu: abito di corte e di guerrieri di alto rango attestato per la prima volta nel periodo Heian. Era costituito da hakama (pantaloni larghi) e particolari giacche con le maniche tagliate (il termine significa proprio “manica tagliata”).

L’abito di Inuyasha è a tutti gli effetti un kariginu, ma la sua composizione di pelle di topi demoniaci (pelle di Hinezumi) lo rende un vestito demoniaco, capace di proteggere dal fuoco e resistente quanto un’armatura.

Kasane: stradi di vesti sovrapposte con i colori coordinati secondo accostamenti codificati che portavano il nome di fiori o uccelli stagionali. In numero anche di cinque, cui si aggiungevano le sottovesti e le sopravvesti, erano usate principalmente dalle dame del periodo Heian.

Katana: spada lunga giapponese, anche se molti giapponesi usano questa parola genericamente per intendere una spada Katana (o più precisamente uchigatana) si riferisce ad una specifica spada a lama curva e a taglio singolo usata dai samurai. Veniva usata principalmente per colpire con dei fendenti, nonostante permetta tranquillamente di stoccare, e può essere impugnata ad una o due mani. Quest'ultima diventò la maniera più comune, ma nel Libro dei Cinque Anelli, Musashi Miyamoto raccomanda la tecnica a due spade, e quindi una per mano. Veniva portata con la parte concava della lama verso il basso, in modo da poterla sguainare più velocemente con dei sapienti movimenti. L'arma era portata di solito dai membri della classe guerriera insieme al wakizashi, o spada corta. Le due spade insieme erano chiamate daisho, e rappresentavano il potere o classe sociale e l'onore dei samurai, i guerrieri che obbedivano al daimyō (feudatario). In particolare la combinazione daishō era costituita fino al XVII secolo da tachi e tanto, in seguito da katana e wakizashi.

Katanakake: supporto ligneo a due o più piani per le spade giapponesi. Solitamente, presenta una forma leggermente trapezoidale, con il supporto inferiore destinato alla katana e quello superiore al corpo pugnale che forma il dashi.

Katsuragi: montagna nella penisola di Izu, alle cui pendici esistono sono presenti numerose sorgenti termali e la collina Genjiyama.

Katsura tsutsumi: lungo panno bianco solitamente legato attorno alla testa per portare pesi dalle contadine di Katsura, nelle periferia occidentale di Kyoto.

Kayaributa: zampirone giapponese usato soprattutto in estate.

Kimono: abito tradizionale giapponese. In origine il termine 'kimono' veniva usato in origine per ogni tipo di abito; in seguito è passato ad indicare specificamente l'abito lungo portato ancor oggi da persone di entrambi i sessi e di tutte le età. È veste a forma di T, dalle linee dritte, che arriva fino alle caviglie, con colletto e maniche lunghe. Le maniche solitamente sono molto ampie all'altezza dei polsi, fino a mezzo metro. Avvolto attorno al corpo, sempre con il lembo sinistro sopra quello destro, è fissato da un'ampia cintura annodata sul retro chiamata obi. Esistono diversi stili di kimono per le varie occasioni, dalle più formali alle più familiari. Il livello di formalità di un kimono da donna è dato dalla sua forma (principalmente la lunghezza delle maniche), dal disegno, dal tessuto e anche dal colore. I kimono da uomo si presentano invece generalmente in un'unica forma e sono di colori spenti. Il loro grado di formalità è dato dal colore degli accessori, dal tipo di tessuto e dal numero (o dall'assenza) di mon (cimiero di famiglia). La seta è la stoffa più ricercata e più formale, il cotone è più familiare. oggi sono disponibili anche kimono in poliestere, considerati ancora più informali.

Kinoko: creatura misteriosa di montagna dall’aspetto indefinito, ma spesso rappresentato come un bambino di tre o quattro anni. È spesso immaginato vestito di foglie d’albero, da cui appunto il suo nome: kinoko significa infatti bambino (ko) dell’albero (kino).

Kinu: giacca del (vd.) kinubakama.

Kinubakama: abito tradizionale dei clan più potenti dell’epoca Yamato. Può esser considerato il primo tentativo nella realtà giapponese di distinguere il vestiario in base al rango di appartenenza. Tale abbigliamento, per gli uomini, era costituito da una giacca chiamata kinu fermata da dei lacci poco sotto il gomito e stretta in vita da una cintura chiamata shizuri, e da un primitivo tipo di hakama stretti sotto al ginocchio da dei lacci. Per le donne l’abbigliamento era costituito dal kinu, mentre gli hakama erano sostituiti da una lunga donna anche a pieghe chiamata mo. Comune a entrambi i sessi era l’uso di collane e bracciali in pietre preziose semilavorate, ossa e zanne di animali come lupi o cinghiali.

Kirin: creatura mitologica di origine cinese simile ad una chimera. È spesso rappresentato come un mostro il cui corpo è completamente circondato da fiamme. Animale fantastico, è dotato di testa di drago, corpo di cervo e a volte e descritto come in possesso di ali. Secondo la leggenda nasce dall'unione di un drago con una mucca, e appare solo ogni mille anni circa, quando nel mondo sta per avvenire un cambiamento epocale o quando nasce un personaggio di importanza straordinaria. Fin dai tempi antichi, quando in Cina qualcuno avvistava o catturava un Kirin la notizia era accolta come un fausto evento, tanto che si decideva di cambiare perfino il nome dell'epoca storica. In Giappone la leggenda del Kirin è stata tramandata fin dai tempi antichi, ma non esiste praticamente nessun racconto in cui qualcuno dichiara di averlo visto realmente. Nel nono anno dell'era dell'imperatore Tenmu furono ritrovate ossa di un Kirin nei pressi del monte Katsuragi, anche se secondo molti erano semplicemente le ossa di un cervo di dimensioni enormi, o qualcosa di simile. Anche nel libro intitolato Engishiki il Kirin è descritto come un animale foriero di buona sorte. Successivamente fu un animale realmente esistente a essere chiamato Kirin, ovvero la giraffa, probabilmente perchè il suo aspetto ricorda molto le descrizioni della creatura mitologica. Comunque sia, pare proprio che questa bestia misteriosa non proliferasse in Giappone.

Kita: letteralmente, Nord

Nella storia, è il più settentrionale dei cinque regni inuyoukai di Honshu, posto sotto il controllo del Clan di Kumamoto, (vd. Honshu)

Kizashi: scala di legno di circa cinque-sei gradini con altri corrimani.

Kodama: letteralmente, il kodama è l’amina di un albero molto antico , spesso oggetto di venerazione e la cui custodia è tramandata di padre in figlio.

Kogo:titolo dell’imperatrice. Vd. chugu

Komon: letteralmente "bel motivo", è un kimono con un piccolo motivo decorativo ripetuto su tutta la superficie dell'abito e abbastanza informale.

Koshi-ate: gambali

Koshihimo: cintura di mussolina o seta impiegata per stringere nagajuban e kimono, nel qual caso sono necessari in numero che varia da tre a cinque.

Kosode: prima forma di kimono impiegata in Giappone, nato essenzialmente come un capo d'abbigliamento indossato sotto gli abiti, ed era largamente diffuso tra gli strati inferiori della società del periodo Ahikaga (1932-1568).  Gradualmente sarà adottato anche dai ceti più elevati, ma come indumento esterno e nel tardo XVI sec, diverrà il vestito d'uso quotidiano, sia maschile che femminile.

Kote: maniche e spallacci

Ku: pantaloni stretti e lunghi fono alle caviglie, solitamente di seta, che compongono la parte inferiore di un hanfu cinese maschile.

Kugutsu: simulacro utilizzato da Naraku per muoversi e attaccare senza rischiare nulla.

Kun: uno dei suffissi più diffusi, utilizzato tra ragazzi e amici per indicare una certa forma di rispetto, o da un adulto verso una persona molto più giovane come segno di confidenza. Può essere rivolto da un ragazzo anche alle ragazze ma questo caso è più raro. È utilizzato anche in ambito lavorativo.

Kurigata: asola di corno o di metallo, raramente di legno, della katana disposta sul lato esterno (omote; quello posteriore, verso il corpo di chi porta l'arma, si chiama "ura") della guaina, entro cui passa il sageo

Kuroinuyoukai: letterlamente, demone cane (inuyoukai) nero (kuro).

Nella storia, i Clan di inuyoukai si distinguono per il colore della pelliccia una volta trasformati: nero (kuro) per il Clan di Shin e Morigawa; argento (ginka) per il Clan di Sesshomaru; oro (kinka) per quello di Yezo; rosso (aka) per il Clan di Kumamoto.

Kuroshoin: letteralmente “studio” (shoin) “nero” (kuro), nome derivato dalle lacche scure che decorano le pareti della stanza. Uno dei più famosi gabinetti giapponesi con questo nome è quello del castello di Nijo, una delle poche fortificazioni del Giappone. É inoltre famoso per i suoi caratteristici “pavimenti dell’usignolo” tatami creati con speciali morsetti canori ideati per riprodurre il suono del canto di un uccello nel momento in cui vengono calpestati.

Kusarigama: arma derivata dal falcetto utilizzato dai contadini per mietere il grano. L’impiego come arma era noto già dall'antichità ma dal XV secolo fu consolidato l'utilizzo di una forma modificata aggiungendo, ad un estremo del manico in legno, una lunga catena con un peso di piombo ad un estremo. La lama divenne a due tagli per rendere il tutto più efficace. L'utilizzo di un'arma siffatta è alquanto vario: la lama doppiamente affilata può essere usata di taglio o di punta, il manico ed il peso per stordire, la catena per bloccare o sbilanciare. Tale varietà di utilizzo poteva essere afficace contro qualsiasi altra arma ma, per ovvi motivi, il kusarigama rimase sempre un'arma individuale, estranea alle dotazione degli eserciti.

Kushinada-hime: moglie umana del dio Susanoo dopo che questi fu scacciato dal cielo. Ultima di tre sorelle, è condannata ad essere sacrificata al drago a otto testo Yamata-no-Orochi. Susanoo la incontra mentre si sta recando al sacrificio e, impietosito dalla sua sorte e colpito dalla sua bellezza, di offre di salvarla in cambio della sua mano. Trasformatala dunque in un pettine che tiene sempre con sè, Susanoo fa costruire davanti alla casa di Kushinada-hime un recinto con otto porte, e davanti ad ogni porta fa collocare un tavolo con una botte di sake. Il drago Yamata-no-Orochi, venuto a reclamare la sua vittima, viene attratto dal sake e Susanoo approfitta dello stodimento del drago per affrontarlo in una dura battaglia che colora di rosso le acque del fiume Hi. Alla fine, Susanoo riesce a uccidere il drago e a impadronirsi della spada Ama-no-Murakumo-no-Tsurugi che dona alla sorella Amaterasu con il nome di spada Kusanagi.

Kyuden: castello

Kyusu: teiera

L

 

M

Maccha: tè verde facente parte della produzione dei tè verde che viene fatta in Giappone, dove vengono coltivati tè verdi di altissima qualità. Basti ricordare che i tè verdi giapponesi hanno caratteristiche uniche come favorire la digestione, essere ricchi di vitamina C e avere effetti tonificanti. Nella grande categoria dei tè verdi giapponesi, il maccha fa parte di quei tè detti ‘tè d’ombra, tè che i coltivatori giapponesi fanno crescere appunto nell’oscurità (metodo ‘kabuse’). I tè così coltivati saranno più ricchi di vitamine, clorofilla e sali minerali, e assumeranno un profumo e un sapore erbaceo, note caratteristiche proprio del maccha. Per realizzare il maccha le foglie del tè vengono essiccate e poi schiacciate con uno stampo di pietra fino a ridurle in una polvere finissima. Questo è il tè che viene usato per la cerimonia del tè, rito religioso che risale al XII secolo, dove la polvere del tè maccha viene mescolata all’acqua calda con una piccola frusta di bambù, dando origine ad una bevanda dove la polvere di tè è sospesa nell’acqua, e non infusa.

Mado: finestra

Mantra: deriva dalla combinazione delle due parole sanscrite manas (mente) e trayati (liberare). Il mantra si può quindi considerare come un suono in grado di liberare la mente dai pensieri. Sostanzialmente consiste in una formula (una o più sillabe, o lettere o frasi), generalmente in Sanscrito, che vengono ripetute per un certo numero di volte al fine di ottenere un determinato effetto, principalmente a livello mentale, ma anche, seppur in maniera ridotta, a livello fisico ed energetico. Esistono moltissimi mantra per gli scopi più diversi; la maggior parte sono in sanscrito, ma ne esistono anche in altre lingue. Il loro uso varia a seconda delle scuole spirituali o delle filosofie. Vengono principalmente utilizzati come amplificatori spirituali, parole e vibrazioni che inducono nei devoti una graduale concentrazione. I mantra vengono utilizzati anche per accumulare ricchezza, evitare pericoli, o eliminare nemici. I mantra sono considerati come suoni vibrazionali, a causa della grande enfasi che si pone alla loro corretta pronuncia ( grazie allo sviluppo della scienza fonetica, in India, migliaia di anni fa ). Il loro scopo è liberare la mente dalla realtà illusoria e dalle inclinazioni materiali. Il processo di ripetizione di un Mantra è definito cantilena.

Menuki: piccoli scudetti di metallo con figure in rilievo fissati sul samegawa (rivestimento di pelle di razza dell’elsa della katana) sotto la nastratura di nastro di seta (tsukamaki) che fascia l’impugnatura di legno (di solito magnolia) della spada.

Michiyuki: particolare tipo di haori, differisce da quest’ultima per la maggior lunghezza e la chiusura del collo squadrata, effettuata con appositi lacci. Utilizzato soprattutto dalle donne, è indossata sopra il kimono anche da medici e farmacisti come primitivo camice.

Miko: giovani donne che lavorano presso i templi shintoisti. Erano spesso le figlie dei sacerdoti incaricati di prendersi cura di uno dei templi. I ruoli della miko includevano l'esibizione in danze cerimoniali (miko-mai) e l'assistere i sacerdoti in varie funzioni, soprattutto nei matrimoni. É piuttosto difficile dare una definizione precisa dell'equivalente occidentale alla parola giapponese "miko", comunque "Vergini dell'altare" è quella usata più di frequente. Altri termini sono stati usati come succedanei, quali profetesse, medium, sacerdotesse, suore, streghe. C'è da sottolineare che, malgrado lo scintoismo comprenda sacerdoti donna, esse non sono miko. É anche importante notare che le miko non hanno lo stesso grado di autorità di un sacerdote, per quanto possano ricoprire gli incarichi di un chierico anziano se non c'è disponibile alcun sacerdote. Le uniche eccezioni a questa norma avvenivano in antichità, quando le profezie rivelate dalle miko erano considerate come ispirate dalla stessa voce del kami (la divinità). Teoricamente, requisito iniziale per essere miko era quello di essere vergine, però storicamente vennero fatte eccezioni a questa regola, in favore di donne dotate di grande carattere. É probabilmente vero che, quando una donna che stava servendo ad un tempio si sposava, abbandonava il suo ruolo di miko per occuparsi del marito e della nuova famiglia. Questa regola è stata pressoché completamente rimossa nei tempi moderni, anche se la maggior parte delle miko ancora oggi, quando si sposa, lascia il servizio al tempio o il corso di apprendimento per diventare sacerdotessa. Il costume tradizionale, o veste, di una miko è chiamato chihaya e consiste di un hakama rosso, che può essere sia in foggia di pantaloni che di gonna, della tunica bianca del kimono con grandi maniche, spesso orlate di rosso ed è associato ai tipici calzari giapponesi, i tabi. Per le miko è anche comune portare nastri e fiocchi ai capelli, o altri ornamenti, comunque colorati di rosso o di bianco.

Miso: condimento derivato dai semi della soia gialla, di origine giapponese, cui spesso vengono aggiunti altri cereali come orzo (Mugi Miso) o riso (Kome Miso). Ha un gusto molto deciso e molto salato, che può comunque variare a seconda della stagionatura, della composizione e, ovviamente, della qualità del prodotto

Mizuchi: divinità giapponese delle acque in forma di dragone. Raffigurato come un essere serprentiforme con corna, quattro zampe e un veleno mortale per l’uomo, è uno spirito dell’acqua come denota il suo stesso nome formato da mizu che significa acqua e chi che indica uno spirito acquatico. Inoltre, la leggenda vuole che nel caso in cui possa nutrirsi di iris, il mizuchi sia capace di creare miraggi estremamente verosimili che emana dalla bocca.

Mizura: tradizionale acconciatura maschile del periodo Yamato, consisteva in due nodi di capelli ai lati delle tempie.

Momo: pesco

Momo no sekku: letteralmente festa del pesco, è il periodo di fioritura dell’albero che va dal tre di marzo, in concomitanza con l’hima metsuri. Indica il periodo in cui tradizionalmente si raccoglievano erbe medicinali nei campi con lo scopo di purificare l’anima e proteggersi dai mali.

Moya: stanza interna del shinden, solitamente adibita a stanza d’udienza o di ritrovo, o ancora ad appartamento privato del signore del castello. Può essere divisa in due parti, moya e moya nurigome, che presenta la struttura in pietra anzicchè in legno e non ha aperture verso l’esterno.

Mushi no tareginu: designa un particolare abbigliamento femminile in uso nel periodo Heian durante spostamenti brevi o lunghi. Consiste in un particolare kimono hitoe protetto da una veste uchie ; tutta la persona, poi, è nascosta dietro un lungo velo di canapa di un largo cappello di paglia, fissato al corpo con un particolare obi che ne impedisce la perdita.

 

N

Nagajuban: sottoveste di seta o di lana che si indossa sotto il kimono. Non viene ripiegato in vita come il kimono ed è legato con un koshihimo (cintura).

Naginata: sorta di alabarda costituita da un'asta in legno, soliamente laccata, lunga circa 150 cm, su cui è innestata una lama ricurva, di forma analoga al wakizashi ma più spessa e con una forte curvatura verso la punta. Altra sorta di alabarda fu il nagamaki, in cui le proporazioni fra lama e asta erano, rispetto al naginata, circa uguali. Queste armi furono utilizzate ampiamente soprattutto prima dell'avvento delle armi da fuoco, sia da cavallo che a piedi (frequentissimo è trovarle rappresentate, ad esempio, in stampe raffiguranti episodi di battaglie nel periodo delle guerre con i mongoli). In particolare, se utilizzate da un fante potevano essere utili contro un cavaliere avvalendosi sia della lunghezza sia della possibilità di atterrare il nemico tagliando le gambe del cavallo che lo sosteneva. Il naginata utilizza la lama prevalentemente di taglio mentre l'asta può essere utilizzata per colpire (frequente era l'adozione di un pomolo di metallo all'estremità dell'asta per rafforzare il colpo). La lunghezza dell'arma e l'impugnatura lunga consentono una potenza non indifferente soprattutto se il guerriero era dotato di fluidità e destrezza nei movimenti. Per tale motivo il naginata divenne con il tempo l'arma dedicata alle donne appartenenti alle famiglie samurai. Il progressivo abbandono del naginata nel periodo Tokugawa ne fece strumento di educazione per le nobili guerriere più che arma di offesa.

Nàn: sud in cinese

Natto: soia fermentata.

Nee-san: sorella maggiore. Un altro termine corrispondente è aneki, “nobile sorella maggiore”. É molto importante ricordarsi che in Giappone, fin dall’antichità, l’età è stato un forte fattore sociale, tanto che ogni grado di parentela assume kanji differenti in base a chi lo pronuncia.

Nekomata: creatura soprannaturale della mitologia giapponese evolutasi da un gatto e caratterizzata dalla presenza di una coda biforcuta o addirittura di una seconda coda e dalla capacità di camminare sulle zampe posteriori. Come per il "cugino" bakeneko e la kitsune, la trasformazione avviene solitamente quando il gatto raggiunge un'età avanzata (10 anni, secondo alcuni racconti), per questo motivo, fino al XVII secolo ai gatti spesso veniva mozzata la coda, secondo la credenza che questo avrebbe impedito la loro trasformazione in nekomata, tale pratica potrebbe col tempo aver contribuito alla nascita del bobtail giapponese, una razza di gatti privi di coda.

In Inuyasha, il personaggio di Kirara è un tipico esempio di nekomata, anche se privato dei suoi tratti negativi.

Nigatsu: febbraio

La storia parte, a livello cronologico, a fine Ottobre. Alessandra trascorre circa due mesi con Rin,Jacken e Sesshomaru, o solo con il demone, lontana dal palazzo, e poi devono passare altri due mesi circa prima che Inuyasha arrivi al castello del fratello, dove trascorrerà un mese. Ormai, siamo a fine Febbraio,alcune settimane dopo il capitolo “Principe”.

Nihon: nome originale nipponico del Giappone, formato d due ideogrammi, di cui il primo, ni, significa Sole, e il secondo, hon, origine, cosicché letteralmente il termine significa origine del sole, per poi esser tradotto con “Paese del Sol levante”, come è conosciuto anche in Occidente.

Calcolando approssimativamente l’età di Sesshomaru attorno ai quattrocento anni, suo padre, stando al terzo film, poteva già fregiarsi del titolo di Dominatore del mondo nel periodo Heian (794-1185), quando cioè era all’acme del suo potere. Benché in tale periodo il governo giapponese costituisse un sistema di ispirazione cinese e testimonianze di rapporti con l’impero Celeste risalgano addirittura al 239, a lungo il Giappone si chiuse agli stranieri, considerando il suo arcipelago come l’unica realtà esistente. Di conseguenza, la definizione di “Dominatore del mondo” va intesa in modo relativo, restringendo il termine “mondo” al solo Giappone , altrimenti detto, Inutaisho dominava tutti i demoni del Giappone.

Niisan: fratello maggiore, dalla lettura del kanji corrispondente che rappresenta la raffigurazione stilizzata di una persona con una testa molto grande.

Nikko: situata sul fiume Daiya nell’isola di Honshu, al confine con la regione centrale e quella settentrionale di cui fa parte, è un rinnovato centro buddista-schintoista, dal momento che, oltre 1200 anni fa, il venerabile sacerdote buddhista Shodo Shonin, in cammino per il monte Nantai, vi fondò il primo tempio della città. Secoli più tardi Tokugawa Ieyasu lo scelse come luogo del proprio mausoleo. Con questo santuario, eretto nel 1634 e detto Tosho-gu, il clan Tokugawa voleva mostrare ai rivale la propria ricchezza e il proprio potere. Da allora Nikko, che significa “i raggi del sole”, è diventato sinonimo giapponese di speldore.

Ningen: essere umano

Nioi-bukuro: sacchettimi d’incenso preparati con ingredienti naturali, come le polveri di legno al naturale, non lavorate tali sacchettini, preziosamente decorati, sono utilizzati per profumare la casa, i vestiti, per essere portati addosso, anche nelle maniche del kimono.

Nishi: letteralmente, Ovest.

Nella storia, costituisce uno e il più vasto dei regni di Honshu, dominato da Sesshomaru, che lo ha ricevuto in eredità da suo padre. (vd. Honshu)

Nishikigoi: specifica varietà giapponese di carpe, caratterizzate da una colorazione brillante e policroma.

Noka: tradizionale casa rurale giapponese in opposizione al minka, formata da un solo ambiente regolare comprensivo di cucina in muratura nel domo ed engawa e da un ambiente più piccolo dotato di rudimentale vasca da bagno in legno.

Norito: preghiere prefissate da pronunciarsi in diverse e particolari occasioni

O

Obi: equivalente giapponese della fusciacca o della cintura, usata per il kimono o per la yukata. Sono generalmente usati in modi differenti a seconda dell'occasione e i modelli da donna sono generalmente più intricati. Di vario materiale e lunghezza, come per il kimono, variano nel loro utilizzo in base all’occasione in cui vanno indossati, spesso con lo scopo di creare un piacevole contrasto con il kimono stesso. Esistono centinaia di modi diversi di annodare l'obi, alcuni molto complessi e vistosi. In linea generale il fiocco più diffuso è il Taiko-musubi, o fiocco a tamburo. Il suo nome deriva dal Taiko-bashi, o Ponte a tamburo, un famoso ponte di Kyoto che fu inaugurato nel XIX secolo. Le geishe invitate ad assistere all'occasione inventarono questo tipo di fiocco, che ricorda la forma bombata del ponte, da cui il nome... Il Taiko musubi è dunque il tipo più usato per il kitsuke "di tutti i giorni", e praticamente è il fiocco usato dalle donne sposate in qualsiasi occasione. Le ragazze nubili invece possono sbizzarrirsi, nelle occasioni speciali, con fiocchi "a rosa" (bara no hana), "ad anatra mandarina" (oshidori), "a fenice" (Houoh), "a crisantemo" (itogiku), "ad ali d'aquila" (washikusa) e via dicendo...

Oden: sorta di spezzatino, consiste in una ciotola calda di crocchette fritte di pesce e verdure varie

Ofuro: bagna caldissimo che si fa in vasche di legno di hinoki, cipresso giapponese.

Oiran: cortigiana di rango più elevato, ben diversa dalla yotaka (“falco della notte”), prostituta d’infimo ordine. Loro caratteristica sono i geta con la suola divisa in tre parti, portati sempre, in qualsiasi stagione, senza tabi, e l’obi annodato sul petto, come è consuetudine per tutte le prostitute.

O-Kuni-Nushi: divinità shintoista della stregoneria e della medicina

Oni: creature mitologiche del folklore giapponese, simili ai demoni e agli orchi occidentali. I ritratti degli oni variano notevolmente tra loro, ma normalmente li ritraggono come creature giganti e mostruose, con artigli taglienti, capelli selvaggi e due lunghe corna che crescono dalla loro testa. Sono fondamentalmente umanoidi, ma occasionalmente sono ritratti con caratteristiche innaturali, come molti occhi o dita delle mani e dei piedi extra. La loro pelle può essere di colori diversi, ma quelli più comuni sono il rosso, blu, nero, rosa e verde. Il loro aspetto feroce viene spesso accentuato dalla pelle di tigre che tendono ad indossare e dalla mazza ferrata da loro favorita, detta kanabō. Nelle prime leggende gli oni come per esempio la ragazza del pozzo erano creature benevolenti ritenute capaci di tenere alla larga spiriti maligni malvagi e malevoli e di punire i malfattori. Durante l'era Heian il Buddhismo giapponese, che aveva già importato una parte della demonologia indiana (rappresentata da figure come i kuhanda, gaki e altri) incorporò queste credenze chiamando queste creature aka-oni ("oni rosso") e ao-oni ("oni blu") e facendone i guardiani dell'inferno o torturatori delle anime dannate. Alcune di queste creature erano riconosciute come incarnazioni di spiriti shinto. Con il passare del tempo la forte associazione degli oni con il male contagiò il modo in cui venivano percepite queste creature e vennero ad essere considerate come portatori o agenti delle calamità. I racconti popolari e teatrali iniziarono a descriverli come bruti stupidi e sadici, felici di distruggere. Si disse che gli stranieri ed i barbari fossero oni. Oggigiorno sono variamente descritti come spiriti dei morti, della terra, degli antenati, della vendetta, della pestilenza o della carestia. Non importa quale sia la loro essenza, gli oni odierni sono qualcosa da evitare e da tenere a bada.

Onigiri: involtini a base di riso e alghe crude, solitamente di forma triangolare. Possono essere di solo riso oppure ripieni di pesce o carne. Molto diffusa e' la versione con all'interno l'umeboshi una tipica prugna giapponese seccata con il sale, dal sapore aspro.

Oniisan: letteralmente, signor fratello maggiore, indicando una particolare forma di rispetto e assieme affetto.

Onmyoji: una delle classificazioni dei funzionari appartenenti all'Ufficio di presidenza del sistema antico del Giappone. Le persone con questo titolo sono stati i professionisti del onmyōdō. La loro responsabilità giudice variava da compiti come tenere traccia del calendario ai doveri mistica, come la divinazione e la protezione del capitale da spiriti malvagi. Potevano divina influenze di buon auspicio, o nociva in terra, e sono stati fondamentali per lo spostamento di capitali.. Si dice che uno Onmyoji potrebbe anche convocare e controllo shikigami. Onmyoji famosi includono Kamo no Yasunori e Abe Seimei (921-1005). Dopo la morte di Seimei è l’imperatore aveva un santuario eretto nella sua casa di Kyoto. Onmyoji aveva peso politico durante il periodo Heian, ma in tempi più tardi, quando la corte imperiale cadde in declino, il loro patrocinio era stato perso completamente. In tempi moderni Onmyoji Giappone sono definiti come una sorta di sacerdote shintoista e anche se ci sono molti che affermano di essere medium e spiritisti, i Onmyoji continua ad essere una figura occulta Hallmark.

Ookami: youkai animale che può assumere sembianze umane corrisponde al lupo del Giappone, ora estinto.

Oribenishiki: dolcetto fatto con marmellata di soia e pasta di castagne, rivestito di zucchero di canna non raffinato.

Oshiire: porte scorrevoli degli armadi a muro.

Okasama: letteralmente signora madre, nel giapponese antico è la formula tradizionale di deferenza con cui ci si rivolge al proprio genitore. Nel giapponese moderno, invece, designa la madre altrui.

Otosama: letteralmente signor padre, nel giapponese antico è la formula tradizionale di deferenza con cui ci si rivolge al proprio genitore. Nel giapponese moderno, invece, designa il padre altrui.

Ototo: fratello minore

Oujisama: termine che designa la carica di principe

Oyakata-sama: termine che significa "potente signore", utilizzato dai soldati per rivolgersi al loro comandante.

 

P

Pei: ornamento solitamente di giada applicato alla cintura e alla vita degli hanfu cinesi.

Prana: termine sanscrito che significa letteralmente soffio vitale, respiro o energia cosmica. Secondo la fisiologia induista, tutti gli esseri viventi attraverso la respirazione creano un interscambio tra il mondo esterno e quello interno, individuale. Tale comunicazione, che avviene attraverso il prāṇa, è una comunione tra un essere e l'ambiente che lo circonda: grazie alla respirazione si assimila energia vitale. Per alcune culture asiatiche il respiro assume un ruolo fondamentale: respirare in modo adeguato, potenzia gli effetti terapeutici e armonizzanti dell'energia cosmica contenuta nell'aria. Il prāṇa raccolto all'atto del respiro, viene assimilato dai chakra, attraverso i canali di scorrimento delle energie detti nadi.

 

 

Q

R

Ramen: Zuppa con carne, spaghetti di grano, uova e alghe crude. Tutti vengono serviti in brodo ed è buona norma sorbirli in maniera rumorosa per dimostrare gradimento. I Ramen sono spaghetti cinesi all'uovo e oltre che in brodo si servono asciutti conditi con verdure.

Ramma: decorazione a traforo posta sopra i pannelli scorrevoli che sostituiscono le pareti divisorie della casa.

: ali del palazzo, formate da corridoi coperti e talvolta costeggianti delle stanze secondarie.

Rokugatsu:

Ryo: antica moneta d’oro

Ryokan: tradizionale albergo giapponese

 

S

Sageo: lungo nastro utilizzato per fissare l’arma alla cintura. Intrecciato anticamente con fili di cotone o di seta, nel qual caso era più pregiato, il sageo riceveva una colorazione naturale monocormatica i bicromatica, con talvolta un colore dominante, ricami laterali e anche frangiature, e variava la sua lunghezza in dipendenza dal tipo di lama che accompagnava, cioé il tanto (90 cm), il wakizashi (110 cm), la katana (180 cm) e il tachi (220 cm). Inoltre, il sageo, oltre a fissare l’arma all’obi, veniva anche impiegato per ripiegare le maniche dei kimono, tradizionalmente molto ampie e che potevano ostacolare i movimenti durante le attività quotidiane, nei duelli e nelle arti marziali.

Saimyosho: letteralmente il nome significa "vittoria assoluta". Sono le api infernali utilizzate da Naraku, dotate di un potente veleno.

Sakazuki: nome delle tazzine usate per servire e gustare il sake

Sake: nome di un liquore incolore, con una gradazione alcolica dai 15 ai 17 gradi. Nelle antichissime cronache del Giappone veniva indicato come “la bevanda degli dei”. Si ottiene mescolando riso cotto al vapore con una muffa simile al lievito; si lascia riposare e poi si raffina. Esistono due tipi di sakè: quello dolce e quello secco, comunque entrambi, secondo la tradizione, vendono serviti caldi.

Sama: suffisso che indica reverenza e rispetto

San: suffisso onorifico d’uso comune, equivalente a “signore”, “signorino”

Sashinuki hakama: tipo di hakama che viene indossata in un modo tale da risultare gonfia sulla gamba ed esporre il piede. Per ottenere questo effetto questo tipo di hakama è più lunga e vengono fissate e strette delle corde negli orli delle caviglie; ciò crea un effetto a palloncino. Questo tipo di hakama era molto popolare nel periodo Heian.

Satsuki: letteralmente mese dei germogli di riso, è l’antico nome nel calendario lunare giapponese di Gogatsu, che corrisponde circa al maggio occidentale.

Saya: termine giapponese che indica il fodero della katana o della wakizashi. Tradizionalmente è costruito in legno di magnolia giapponese ed è verniciato con lacca Urushi, una lacca di origine naturale. La laccatura del saya spesso include decorazioni particolari con polveri d'oro, mica, abalone, same o altri materiali applicati a strati o inclusi nella lacca che formano disegni in rilievo di rara eleganza (makie). Lo shira - saya, (letteralmente "fodero bianco"), è invece realizzato senza decorazioni, il legno è lasciato al naturale. Lo Shirasaya ha lo scopo di preservare e custodire la lama, non viene usato nell'utilizzo pratico della spada. L'imboccatura del saya si chiama koiguchi, (letteralmente bocca di carpa), mentre la parte terminale è chiamata kojiri. L'anello dove viene legato il sageo invece viene denominato Kurigata. Tali finiture, nella montatura di tipo Buke-zukuri, sono tradizionalmente costruite in corno o ebano, più raramente in metallo. Il saya può avere delle tasche laterali per contenere il kogatana (piccolo coltellino tuttofare) o il kogai (piccolo attrezzo per sistemare l'acconciatura da samurai), o essere munito di un piccolo gancio (sakazuno) utilizzato soprattutto nei wakizashi per trattenere il fodero nell'obi. Tale necessità era dovuta al fatto di dover estrarre il wakizashi spesso e volentieri con un unica mano poiché la prima spada ad essere estratta era la katana e la mano destra era quindi occupata da quest'ultima.

Seiza: posizione formale di seduta. Per mettersi correttamente in questa posizione bisogna prima piegare la gamba sinistra ruotando leggermente a destra col busto, quindi seguire con la gamba destra; gli alluci restano a contatto o si incrociano mentre i talloni, rivolti verso l'esterno, formano un incavo in cui ci si siede; la schiena è dritta e la testa eretta, le spalle sono rilassate e le mani sono appoggiate sulle cosce coi palmi in basso e le dita rivolte verso l'interno, le ginocchia sono aperte in modo naturale - generalmente distanziate da due pugni - e determinano la stabilità della postura. Il praticante deve tenere la colonna vertebrale diritta per potere respirare in modo corretto.

Sengoku Jidai: periodo storico che comprese quasi tutto il sedicesimo secolo, caratterizzato da accese lotte tra i samurai per la gestione del potere. In quell’era il Giappone era diviso in tanti piccoli regni in perenne contrasto fra loro.

Verso la metà del 1400, il Giappone si trovava a fronteggiare la più grande crisi politica della sua storia. Fino ad allora, il Giappone era stato facilmente amministrato dallo Shogun (il generale più forte, consigliere supremo dell'imperatore, ma spesso anche più potente di quest'ultimo), che a sua volta delegava a circa 260 Daimyo (signorotti locali), il controllo regionale dello stato. I Daimyo possedevano un proprio esercito, spesso formato da migliaia di uomini, per la maggior parte contadini reclutati nelle campagne. Con l'inizio della guerra di Onin (1467-1477), ebbe inizio quella che in Giappone, è comunemente chiamata "Era Sengoku", o "periodo degli stati combattenti". Durante questo periodo, le continue rivolte dei Daimyo minarono il potere amministrativo del Giappone, fino allora detenuto dallo Shogunato Ashikaga e ogni Daimyo fondò un proprio stato, in guerra con quelli confinanti.

La guerra di Onin (1467-1477)

Originariamente, la guerra di Onin non era altro che un conflitto locale tra i due più potenti Daimyo, gli Hosokawa e gli Yamana. Ben presto però, il conflitto si estese anche alle regioni circostanti, quando lo Shogun Ashikaga Yoshimasa, d’accordo con Hosokawa, decise di cedere il potere al proprio figlio minore, Yoshimi. Gli Yamana però, d’accordo con la moglie di Yoshimasa, volevano invece che il potere passasse nelle mani del fratello di Yoshimasa, Yoshihisa. Contemporaneamente, Hosokawa cercava di interferire nel conflitto tra due membri della famiglia Hatakeyama, e Yamana chiese allo Shogun il permesso di punire la famiglia Hosokawa. Lo Shogun, rigettò la proposta, e Hosokawa prese il figlio Yoshimi, e si barricò nel palazzo dello Shogun, situato a Kyoto, la capitale dell'impero. Lo Shogun Yoshimasa capì subito che una guerra nella capitale avrebbe paralizzato il suo controllo sul resto dell'impero, lasciandolo senza potere nelle regioni più esterne, ma non potè farci nulla. La guerra scoppiò nel 1467 e nel giro di pochi mesi devastò la città di Kyoto, facendo estendere la guerra civile anche nella periferia della città. Nel settembre 1467, Yamana si alleò con un altro potente Daimyo, Ouchi Masahiro, allargando il conflitto. Alla fine del 1467, non c'era ancora un chiaro vincitore, e le due fazioni stavano ancora combattendosi. Nei primi mesi del 1468 Yoshimi tradì Hosokawa e si alleò con Yamana (che invece supportava Yoshihisa). Lo Shogun dichiarò allora Yoshimi un ribelle, e la guerra si trasformò in un conflitto tra lo Shogun (supportato da Hosokawa), e suo fratello (supportato da Yamana). Nel 1473 sia Hosokawa, quarantatreenne, che Yamana, settantenne, morirono, e il conflitto andò rapidamente spegnendosi, poichè Yoshimasa riuscì a riprendere il controllo delle province che si erano ribellate. Nel 1477 anche Ouchi Masahiro ritornò agli ordini di Yoshimasa. Il conflitto produsse migliaia di morti; in un attacco di Ouchi ad Hosokawa, fortificato nel monastero Shokokuji, viene riportato che Ouchi collezionò oltre 8 carri di teste mozzate ai nemici. Il conflitto lasciò inoltre devastata la città di Kyoto.

Gli stati combattenti

Dopo la guerra di Onin, gli Ashikaga persero rapidamente il loro potere, diventanto burattini agli ordini della famiglia Hosokawa. Quando il figlio di Yoshimi, Yoshitane, divenne Shogun nel 1490, il reggente della famiglia Hosokawa lo fece deporre nel giro di soli 3 anni, e dichiarò Shogun un altro Ashikaga, Yoshizumi, iniziando un nuovo conflitto. Nel 1499 Yoshitane arrivò a Yamagichi, dove risiedevano gli Ouchi, e ne ottenne il supporto militare. Nel 1507, il reggente degli Hosokawa, Matsumoto, venne assassinato, e nel 1508 Yoshizuni fu costretto alla fuga. Gli Ouchi restituirono allora lo Shogunato a Yoshitane. Con la morte di Matsumoto, i suoi due figli adottivi, Takakuni e Sumimoto iniziarono una guerra interna per la successione, e la famiglia perse lentamente il proprio potere. Durante i successivi 50 anni, molti dei Daimyo, tra i quali i gli Shimazu, i Takeda, Imagawa, e i Mori approfittarono del periodo di crisi, per stabilire dei propri domini indipendenti o consolidarli. Le guerre si moltiplicarono, e alla fine del 1550, dei circa 260 Daimyo, solo una dozzina erano ancora al potere. Tra le centinaia di piccole guerre che si combatterono, si ricordano principalmente la guerra tra gli Ouchi e i Mori, conclusa nel 1551 con la vittoria di questi ultimi, quella tra il clan Takeda e quello Uesugi, quelle Yeyasu Tokugawa, che unificò sotto il suo dominio la parte ovest del Giappone, e le guerre di Oda Nobunaga.

Oda Nobunaga (1534-1582)

Nato nel 1534 nella piccola provincia di Owari, nel 1560 consolidò sotto il suo dominio tutti i piccoli clan della regione. In questo periodo si alleò con Yeyasu Tokugawa, e Toyotomi Hideyoshi che lo serviranno fedelmente fino alla morte. Vincendo nel 1567 la decisiva battaglia di Okehazama, in cui sconfisse un esercito 10 volte superiore al suo, potè estendere i suoi domini oltre la regione di Owari. Nel 1568 marciò su Kyoto e la conquistò, facendo eleggere come Shogun Ashikaga Yoshiaki, in realtà un burattino nelle sue mani. Nel 1571-72 assoggettò le regioni dominate dai clan Asai e Asakura, nel 1574 quelle dei Nagashimi, e nel periodo 1575-1580 quelle dei Takeda. Dal 1575 al 1582 fu impegnato in feroci battaglie con i Mori. Nel 1582, quando ormai sembrava vicina anche la fine dei Mori, fu assassinato da uno dei suoi generali. Nobunaga, che insieme a Yeyasu Tokugawa e Toyotomi Hideyoshi è tra gli eroi più famosi del Giappone, è passato alla storia per la sua incredibile abilità militare, per le sue aperture agli occidentali (in particolare al Cristianesimo), ma anche per la sua grande ferocia e mancanza di pietà.

La fine dell'era Sengoku

Dopo la morte di Nobunaga, Tokugawa e Hideyoshi si spartirono le regioni che Oda aveva unificato, ingaggiando una nuova guerra civile. Nel 1590 i due strinsero un accordo di pace e sconfissero insieme le orde di invasori provenienti dalla Korea (nella battaglia di Odawara). La pace tra le due fazioni permise a Tokugawa di diventare Shogun nel 1603. Morì nel 1613. Grazie al decisivo contributo di Hideyoshi (morto nel 1598 e autore di alcune leggi innovative), il suo shogunato fu uno dei più profilici e pacifici, permettendo al suo clan di restare al potere fino al 1868.

Nel manga non viene mai indicato un anno preciso, ma leggendo alcuni capitoli, si intuisce che Inuyasha dovrebbe essere ambientato all'incirca nel 1500 e il 1550 (quando cioè Nobunaga inizia a diventare un generale famoso e cominciano a comparire le prime armi da fuoco, importate dai portoghesi)

Sensei: termine giapponese che significa "maestro". Oltre a indicare i docenti scolastici, viene adoperato anche all'interno delle arti e tecniche tradizionali, dove il maestro spesso non viene visto come il semplice insegnante di nozioni, ma anche come un individuo dotato di autorità ed esperienza, ovvero un "maestro di vita". Il termine è adoperato anche per quelle personalità che, in ambito artistico, hanno raggiunto un notevole livello di eccellenza e popolarità: grandi registi, scrittori, artisti o fumettisti vengono quindi chiamati sensei.

Shikigami: tipo di spiriti (kami) che possono essere evocati da un onmyōji, similmente agli spiriti familiari della stregoneria occidentale. Gli shikigami sono invisibili alla maggioranza delle persone, ma secondo gli onmyōji dell'epoca Heian di cui si dice fossero in grado di utilizzarli, avrebbero in genere l'aspetto di piccoli oni. Sebbene invisibili, gli shikigami potrebbero, su ordine dell'onmyōji, assumere forme umane o animali, possedere o stregare le persone, e anche causare dolore fisico o morte.

In “Inuyasha” uno shikigami in forma di serpente è usato dalla sacerdotessa nera Tsubaki per cercare di uccidere Kikyo prima e Kagome poi. Kikyo stessa crea tre shikigami quando viene avvelenata e ha bisogno di guadagnare tempo per rimettersi; due di essi, Kochō e Asuka, sono sufficientemente potenti da creare barriere, mentre il terzo, Hijiri ha le sembianze della sacerdotessa e parte del suo potere. Inoltre, Kururugi, personaggio del videogioco Inuyasha: The Cursed Mask li usa come armi, per curarlo e per difenderlo.

Shinigami: personificazione della morte nella mitologia giapponese, l'equivalente al "mietitore di anime" (psicopompo) occidentale. La mitologia degli shinigami è piuttosto recente, in quanto non sembra esistesse prima dell'epoca Meiji; molto probabilmente si tratta di un mito importato dall'Europa. La figura fu adottata molto rapidamente in Giappone, e compare ad esempio nell'opera rakugo Shinigami (probabilmente basato sull'opera italiana Crispino e la Comare, a sua volta basata sul racconto Der Gevatter Tod dei fratelli Grimm) e nel Ehon Hyaku Monogatari (Libro di immagini di cento storie) di Shunsen Takehara. Secondo altri però il mito potrebbe essere stato importato dalla Cina; secondo il critico letterario Masao Azuma, «In origine non c'era alcun culto della morte in Giappone. In Cina, ci sono figure simili al mietitore di anime, chiamate "Somujo" o "Koshinin", il cui compito è portare gli spiriti al "Meifu" (la Terra dei Morti)». Con shinigami non si indica solo la divinità principale della morte ma anche quelle secondarie.

Shakujo: bastone che portano i monaci buddisti erranti, caratterizzato da degli anelli sulla sommità. Era usato come arma di difesa personale e per gli esorcismi, si diceva, infatti, che il tintinnare degli anelli allontanasse i demoni.

Shihandai: istruttore e maestro di bonzi combattenti, dotati di potente energia spirituale

Shingetsu: novilunio. È la notte in cui Inuyasha perde la sua aura demoniaca e diviene un semplice essere umano.

Shinden: corpo centrale del palazzo Heian, costruito con la presenza anche di elementi in muratura.

Shinobue: tradizionale fluato traverso giapponese ricavato dal bambù con sette fori, caratterizzato da un suono dal tono alto.

Shitagi: sottokimono da lavoro femminile impiegato dal periodo Kamakura al periodo Azuchi-Momoyama.

Shogun: supremo capo politico-militare, teoricamente sottomesso all'imperatore, ma praticamente indipendente e investito di pieni poteri. Il termine è l'abbreviazione di Sei-I-Tai-Shogun, che significa letteralmente generalissimo inviato contro i barbari e indica coloro che in origine dirigevano le operazioni contro gli Ainu, abitanti del nord dell’Honshu, e che solo più tardi designò i dittatori militari che governarono il paese dal 1192 al 1868. Nell’Epoca Heinan (Heinan Jidai – 794-1185) la dignità di Shogun veniva attribuita all’imperatore. Nel 1192 il generale Yoritomo Minamoto, però, si fregiò di tal titolo, assicurandolo a tutta la sua discendenza. Da allora gli Shogun non seguirono più il volere dell’imperatore, che assunse soltanto una carica pressoché divina e religiosa. Questi dittatori feudali avevano in mano tutto il potere politico del paese e divennero persino più potenti dell’imperatore stesso. Prima della loro caduta, nel 1868 con l’avvento del governo Meiji, si susseguirono ben tre dinastie di Shogun: i Minamoto, gli Ashikaga ed i Tokugawa, i più duraturi.

Shogi: scacchi giapponesi

Shoji: porta scorrevole che separa l’interno dall’esterno della casa, costituita da un graticcio di legno rivestito con carta di riso.

Sofu: nonno, composto di so che significa antenato e fu che significa padre.

Sozu: canna di bambù basculante, collegata attraverso un perno ad un paletto piantato nel terreno. Raccoglie un getto d'acqua proveniente dall'alto fino a riempirsi e per il peso ruota verso il basso, gettando l'acqua appena introdotta in una pozza sottostante, per poi tornare nuovamente ad accumularne altra producendo un suono secco ripetendo l'azione

Sukiwatadono: piccoli ponti che nei palezzi di età Heian costituivano il collegamento più diffuso fra il shinden e i padiglioni privati.

Sukiyaki: piatto della cucina giapponese nello stile nabemono ("una-una pentola"). Consiste di sottili fettine di manzo, tofu, ito konnyaku (una specie di spaghetti), negi (cippolletta), cavolo cinese, e funghi enoki tra gli altri ingredienti. Generalmente viene preparato nei giorni più freddi dell'anno ed è un piatto comune per le feste di capodanno (bonenkai). Gli ingredienti sono lentamente bolliti in una bassa pentola di ferro, in una miscela di salsa di soia, zucchero e mirin. Prima di essere mangiati vengono immersi in una piccola ciotola di uova sbattute.

Sumi-e: stile pittorico monocromatico dell'Estremo Oriente che utilizza solo inchiostro nero, il sumi, in varie concentrazioni. Questa tecnica nacque in Cina durante la dinastia Tang (618-907), consolidandosi con la dinastia Song (960-1279). Fu introdotta in Giappone a metà del XIV secolo da alcuni monaci buddisti zen, crescendo in popolarità fino al suo periodo di massimo splendore, nell'era Muromachi (1338-1573). Come nell'arte della calligrafia, l'artista prepara il proprio inchiostro (il sumi) polverizzando delle barrette contro un'apposita pietra (suzuri), oppure può utilizzarne di pronti. I pennelli sono simili a quelli per la calligrafia, fatti di bambù con peli di capra, bue, cavallo, pecora, coniglio, martora, tasso, cervo, cinghiale o lupo. La punta del pennello è assottigliata, caratteristica indispensabile allo stile sumi-e. Ogni pennello produce degli effetti diversi: quelli piccoli di peli di lupo possono fare linee sottili, quasi come quelle delle biro; quelli di pecora, del tipo chiamato grande nuvola, assorbono acqua ed inchiostro in grande quantità, lasciando sulla carta una traccia di inchiostro con una miriade di sfumature che vanno, gradualmente, dal grigio al nero. Le linee tracciate non possono più essere cancellate o modificate: questa tecnica infatti richiede concentrazione, pratica e un grande talento. Il sumi-e predilige la raffigurazione dei Quattro Nobili (detti anche i Quattro Amici), che comprendono quattro specie di piante, rappresentanti ognuna una stagione: le orchidee , la primavera; l'ume, cioè il pruno asiatico, per l'estate; i crisantemi, l'autunno; il bambù, l'inverno. Queste piante rappresentano inoltre le virtù del junzi confuciano, cioè l'uomo ideale. Infine, il sumi-e era utilizzato anche per decorare paraventi, ventagli e accessori di ogni tipo, per illustrare poesie, storie a rotoli e come tecnica pittorica vera e propria.

Sune-ate: schinieri

Sunoko: veranda all’aperto di un palazzo, con i corrimani posizionati fuori del hisash. Veniva impiegata per passeggiate passaggio e inoltre poteva venir trasformata in una stanza di ricezione disponendo in modo appropriato gli schermi della carta o del bambù. Forniva, inoltre, un posto conveniente da cui guardare le cerimonie che avvenivano nel giardino.

Suruga: insenatura dell'Oceano Pacifico nella costa meridionale dell'isola di Honshu, limitata a est dalla penisola di Izu.

T

Tabane-gani: acconciatura femminile di carattere popolare diffusa fra il periodo Kamakura e il periodo Azuchi-Momoyama; consiste in un nodo di capelli fermato sulla nuca con un nastro, per facilitare lo svolgimento di lavori manuali.

Taijiya: sterminatore di demoni (tai indica un demone di grande potere)

Taiyoukai: demone superiore.

Tamago-yaki: frittata di uova sottile e rettangolare, tagliata a fette e servita dapprima sul piatto da portata comune.

Tamarinoma: anticamera

Tansu: significa (approssimativamente) "scatola", quasi a cogliere l'essenza di un cassettone/credenza/armadio: accogliere in se delle cose e separarle dall'esterno. Lo stile dei Tansu giapponesi è immutato da molti secoli ed è caratterizzato da alcuni elementi: realizzazione in tutto artigianale (anche le parti metalliche), legni pregiati ma leggeri per facilitare il trasporto, linee essenziali ma "movimentate" dalla metalleria quasi decorativa, in ferro brunito, dall'assenza di gambe (che inoltre rovinerebbero i tatami), dalle maniglie ai lati per il trasporto e dal gran numero di cassetti, sportelli.Inoltre spesso sono modulari. Ve ne sono vari tipi, tra i quali: chopa/choba tansu, cassettone da viaggio usato spesso fai mercanti per trasportare i documenti e oggetti preziosi (spesso avevano anche dei piccoli scompartimenti segreti); kaidan tansu, il tipico mobile-scala, utilizzato appunto sia come mobile a scomparti e cassetti che come scala (alquanto ingegnosamente nella assoluta semplicità); isho tansu per riporre i vestiti e quindi con ampi cassetti spesso sono molto decorati nella parte esterna; todana, grandi tansu per riporre i futon

Tatami: una tradizionale pavimentazione giapponese composta da pannelli rettangolari affiancati fatti con paglia di riso intrecciata e pressata. Puo' anche avere diversi spessori che mediamente raggiungono i 6 cm. Le dimensioni non sono fisse variando da zona a zona. Orientativamente il tatami è lo spazio occupato da una persona sdraiata. Le misure più frequenti sono 90 cm. x 180 cm. oppure 85 cm. x 180 cm. Vi sono anche i mezzi tatami di 90x90 oppure 85x85. La stanza con pavimento di questo tipo viene designata washitsu, mentre quando si parla di una stanza all'occidentale si usa la parola yoshitsu. Il tatami è utilizzato come unità di misura degli ambienti, così se si dice che una stanza e di dieci tatami, o di quattro, l'interlocutore ha ben chiara la dimensione. I margini sono squadrati e i due lati più lunghi sono orlati con una fettuccia larga di lino nero o cotone; quelli delle case nobiliari hanno, intessuti nella fettuccia, dei motivi ornamentali in bianco e nero. In Giappone il tatami accompagna tutta la vita familiare: il sonno, i pasti, l'amore e anche la morte. Sul tatami è doveroso camminare senza suole (scarpe, zoori, zoccoli, ciabatte, ecc) ma solo con calze o a piedi nudi. La calza tradizionale da usare sul tatami si chiama tabi, ha la particolarità di essere di colore bianco e con l'infradito, così da consentire, usciti dalla stanza, l'uso di sandali di tale foggia.

Tessan: un ventaglio da combattimento giapponesi. Lungo tipicamente circa 35 cm, ne esistono di due tipi: menhari-gata, di seta o di washi (una carta molto resistente), decorato, a volte anche con lamine di oro o argento, o trattato con petrolio. Ha le stecche fatte o rinforzate con ferro (a volte tutte, in genere 8 o 10, a volte solo quelle esterne); tenarashi-gata, oggetti completamente in ferro a forma di ventaglio chiuso. I tenarashi-gata erano i più popolari tra i samurai, i quali li usavano anche contro gli avversari di rango inferiore, perché usare la spada contro questi era considerato disdicevole. L'etichetta del tempo vietava di portare armi all'interno di abitazioni e castelli, per cui i tessen venivano indossati dai samurai come parte dell'abbigliamento, come era usanza fare con i ventagli normali, che avevano un ruolo nell'etichetta giapponese. Venivano portati sia infilati nell'obi (la cintura) o tenuti in mano e potevano essere utilizzati come difesa improvvisata. I tessen venivano costruiti principalmente con la forma di altri tre tipi di ventaglio: sensu-gata, il ventaglio comune; maiohgi-gata, i tradizionali ventagli degli spettacoli giapponesi; bessen-gata, i ventagli usati per dirigere le truppe militari in guerra.

Tokkuri: nome della particolare bottiglietta in ceramica impiegata per riscaldare, raffreddare e servire il sake.

Tokonoma: significa letteralmente spazio e tempo (ma) del (no) giaciglio (toko), un concetto di spazio temporalità vago, che riposa su se stesso. “Toko” significa altresì un piccola area verde destinata alla semina, alla coltivazione. Se si considera che l’antenato del tokonoma era l’altare buddista (butsudan), formato da un rotolo appeso davanti al quale, su un ripiano di legno sopraelevato,venivano posti un braciere per l’incenso e un’offerta floreale, si comprende come il tokonoma possa essere considerato anche il luogo della coltivazione di sé, uno spazio “consacrato” dove non è permesso camminare o sedere. Spazio caratteristico dell’architettura giapponese, senza uguali in altri paesi. Si tratta di una nicchia, di un’alcova, ricavata in una parete della stanza principale della casa, di dimensioni varie a seconda degli stili; generalmente è profonda mezzo metro e larga 180 cm, le dimensioni di un tatami. Vi viene appeso un rotolo con un dipinto, generalmente legato alla stagione, o una calligrafia, e vi è collocata una composizione di ikebana o un bonsai, talvolta un oggetto di particolare bellezza o valore. Il pavimento del tokonoma (jodan) è rialzato rispetto al pavimento della stanza, per permettere una giusta visione dello spazio e di ciò che vi è contenuto a chi sia seduto nella tradizionale posizione giapponese (seiza) sui tatami della stanza stessa. La soglia può essere grezza o rifinita con cura, ma anche quando è ben squadrata può conservare qualche superficie naturale nelle curvature del tronco da cui è stata sbozzata e che era stato scelto proprio per questa caratteristica. Il pavimento del tokonoma è quasi sempre lucido; spesso se è spazioso viene ricoperto da un tatami, orlato in genere da una fettuccia bianca. Nelle case dei notabili i tatami erano orlati di fettuccia nera. Il pilastro della parete di sinistra è un tronco d’albero, semplicemente scortecciato, detto tokobashira. E’ quasi sempre un ramo d’albero al naturale o privato solo della corteccia ed è molto più apprezzato se è contorto o con venature elaborate, o se presenta nodi o protuberanze. Nel punto in cui la trave superiore si unisce al tokobashira sono usati chiodi con la capocchia ornamentale, spesso in metallo minuziosamente cesellato in varie forme tratte dal mondo naturale o dal repertorio tradizionale. Talvolta di fianco al tokonoma si può trovare un’altra nicchia detta chigaidana che contiene uno o più ripiani alternati e generalmente sormontati da un ripiano continuo chiuso da sportelli scorrevoli. Spesso il tramezzo che separa i due spazi ha un’apertura ornamentale che si presenta come una finestrella, chiusa o meno da una grata, spesso di bambù. La nascita e l’ evoluzione del tokonoma sono strettamente correlate all’uso di esporre un rotolo dipinto o una calligrafia, che a differenza di quanto avveniva in Cina, in Giappone erano montati su tessuti pregiati secondo una precisa tecnica detta hyo-so o hyo-gu. A sottolineare l’intimo legame estetico e funzionale tra lo spazio e l’opera appesa è significativo un dettaglio costruttivo La parte superiore del tokonoma, a 50 cm. circa dal soffitto, è attraversata da una trave ben rifinita, che nasconde agli occhi di chi è seduto il chiodo cui è appeso il rotolo.

Torii: tradizionale cancello di ingresso giapponese che porta ad un jinja (santuario o tempio shintoista). É formato da due colonne di supporto verticali e due pali orizzontali sulla cima e frequentemente viene dipinto in colore vermiglio. Su alcuni Torii viene piazzata una tavoletta con delle scritte sui pali orizzontali. Tradizionalmente sono fatti di pietra o legno. In tempi recenti i costruttori hanno iniziato ad usare anche l'acciaio o l'acciaio inossidabile. Come suggerito dai kanji (che significano: tori = "uccello", i = luogo), un torii è progettato perché gli uccelli vi si posino per riposare. Questo perché lo shintoismo considera gli uccelli come messaggeri degli dei.

Tsuchigumo: creatura leggendaria della mitologia giapponese, descritto come un ragno intelligente e dalle dimensioni enormi. Sembra che gli tsuchigumo mitologici siano basati su un'antica popolazione dalle abitudini cavernicole che abitò in passato alcune regioni montuose del Giappone; dal punto di vista dei giapponesi i loro arti erano sproporzionatamente lunghi rispetto al corpo e il loro carattere violento, suggerendo l'associazione mitica con i ragni. Questa interpretazione tradizionale è però contestata da alcuni studiosi. Il mito più noto che ha per protagonista uno tsuchigumo è quello associato all'eroe epico Minamoto no Yorimitsu, meglio conosciuto come Minamoto no Raikō. Del mito esistono più versioni: in alcune il demone si presenta con le sembianze di una splendida donna che seduce l'eroe, in altre come un ragazzo che entra al suo servizio, in altre come un monaco buddhista. In ogni caso, l'eroe non si accorge della vera natura della creatura, mentre la sua salute peggiora sempre più rapidamente; divenuto ormai sospettoso dell'ospite, lo attacca all'improvviso, e mentre la creatura fugge le illusioni da lei create si dissolvono, rivelando una tela di ragno intorno a Raikō, che con l'aiuto dei suoi uomini si libera e parte all'inseguimento. La scia di sangue della creatura ferita li conduce ad una grotta. Secondo alcune versioni gli uomini trovano il ragno già morto a causa del colpo infertogli da Raikō, secondo altre nella tana della creatura ha luogo un'ultima battaglia che vede l'eroe e i suoi compagni emergere vittoriosi. L'associazione tradizionale degli tsuchigumo con una popolazione realmente esistita ha condotto alcuni a speculare che il demone del mito possa rappresentare un gruppo di banditi che l'eroe avrebbe affrontato e sconfitto.

Tsukesage: tipo di kimono molto popolare perché estremamente versatile: può adattarsi ad una cerimonia del tè, ad una riunione informale, ad una festa elegante, ad una passeggiata. Basta cambiare gli accessori, cioè l'obi, obiage ed obijime, e magari aggiungere un date-eri.Iil motivo nello tsukesage "tende" verso l'alto (spesso sono fiori a stelo lungo, comunque con un andamento di linee più verticale), per incontrarsi a livello delle spalle, anzi della spalla destra per l'esattezza, ed ha una distribuzione grosso modo diagonale, ma (almeno in teoria) non "passa" sopra le cuciture. Talvolta un piccolo motivo è disegnato anche sulla manica sinistra, ma più spesso è solo a destra.

Tsuridono: padiglioni aperti, solitamente collocati sui lati sud del palazzo, ad una delle estremità dei rì e dotati di particolari palafitte che permettono loro di affacciarsi direttamente sull’acqua di un lago.

U

Uchie: kimono di protezione utilizzato durante i viaggi specialmente assieme al nushi no tareginu

Usumono: indica un tessuto sfoderato leggero e trasparente, o in lino e canapa, impiegato dal 10 di Giugno fino a fine Settembre, con il kimono che diventa usumono solo per luglio e Agosto. (vd. Kimono)

 

V

 

W

Wagashi: dolci giapponesi a base di farina di riso, cereali e crema di fagioli rossi di soia. La forma varia in base alla stagione, così come i colori, e sono veramente belli da vedere. Vengono serviti insieme al tè verde per smorzarne il sapore molto dolciastro e vengono considerati come un dono di lusso. Ne esistono molte varianti, sia per ingredienti usati che per le miriadi di forme che vengono scelte per confezionare questi splendidi dolcetti.

Washi: particolare tipo di carta trattata con molta attenzione e impiegata ancora oggi, in Giappone, in svariato modo, dall’origami, alle lampade ai pannelli per le porte e le fusume, a semplice carta da regalo o incarto.

X

Xi: ovest in cinese

Y

Yaouguai: termine cinese che significa in genere "demone". Spiriti animali Yaoguai sono per lo più malevoli che hanno acquisito poteri magici attraverso la pratica del Taoismo. I demoni sono solitamente denominati guai (letteralmente, "freak") o mo (letteralmente, "demone") in cinese. Il loro obiettivo più grande è raggiungere l'immortalità e quindi deificazione. In giapponese, yaoguai sono conosciuti come youkai (in realtà, il termine è un prestito linguistico dal cinese).

Yari: arma d'asta tipica della fanteria, era costituito da una lama diritta con punta e due tagli innestata su un'asta in legno tramite un codolo della lama. La lunghezza di lama e asta variavano in base al modello ed all'utilizzo (dai due metri fino ad oltre tre metri e più). Una tale arma, in cui la lama non risultava particolarmente costosa nella fabbricazione (comparata al costo di una spada) ha consentito una produzione di massa di lance ad uso di eserciti di fanti. Tale opportunità ha fatto sì che la lancia sia stata adottata come arma principale della fanteria e drappelli di lancieri continuarono ad esistere anche dopo l'avvento delle armi da fuoco (mai diffuse, nel Giappone medievale, in modo massiccio come in occidente). L'arte del combattere con lo yari (sojutsu) è presente in diverse scuole fin dal 1400. La lancia (mai scagliata verso il nemico come erano soliti fare gli eserciti antichi occidentali) colpisce prevalentemente di punta; il guerriero si esercitava ad eseguire attacchi ripetuti in cui la lancia, tenuta saldamente con la mano destra (arretrata rispetto la sinistra), scorre all'interno della mano sinistra a produrre un affondo di temibile efficacia. Alcune variazioni nella forma della lama prevedono l'adozione di appendici laterali, anch'esse affilate, atte a tagliare, o, in caso di utilizzo contro un nemico a cavallo, afferrare e sbilanciare il cavaliere. Nello stesso esercito potevano essere utilizzate lance di lunghezza differente in relazione alla posizione ed ai compiti del fante.

Yasha: temine sanscrito che definisce uno spirito divino appartenente alla mitologia indiana. Normalmente, viene utilizzato per indicare gli youkai femmine, in opposizione a youko, che invece designa il demone maschio.

Yezo: antico nome dell’isola di Hokkaido, la più settentrionale dell’arcipelago giapponese. Abitata fin da circa 20.000 anni fa, dopo il XII sec. l’isola costituiva la sola patria della popolazione indigena locale, gli Ainu. I giapponesi la scoprirono nel 659, ma la considerarono troppo lontana, inospitale e fredda. Per secoli l’isola fu abitata solo da Ainu, da rifugiati politici e da criminali in fuga dal Giappone. Alla fine del 1860, tuttavia, il nuovo governo Meiji decise di annettere ufficialmente l’isola all’impero con il nome di Hokkaido, “strada marittima del Nord”.

Nella storia Yezo è soggetta al clan di inuyoukai cui appartengono Kyoko e suo fratello Hidesuke. Con i regni di Shikoku e Kyushu a Sud costituisce la triade di regni demoniaci della Famiglia inuyoukai esterni ad Honshu. (vd. Honshu).

Yogi: largo kimono di cotone, imbottito in inverno per ottenere maggior calore, utilizzato da uomini e donne per dormire come pigiama; sovente faceva parte del corredo nuziale, nel qual caso veniva decorato con tecnica tsutsugaki in indaco.

Yogin: colui che pratica il cammino dello yoga.

Yoroi: pettorale dell’armatura.

Yotaka: letteralmente falco della notte, indica la prostituta di infimo livello.

Youkai: letteralmente "apparizione", "spirito", o "demone", sono una classe di obake o obakemono, creature della mitologia giapponese. Ci sono molte tipologie di youkai: si va dal malvagio oni  alle ingannatrici kitsune e la signora della neve yuki-onna; alcuni posseggono parti animali e parti umane, ad esempio il kappa e il tengu. Gli youkai spesso hanno poteri soprannaturali; sono quasi sempre considerati pericolosi per gli esseri umani, e le loro azioni hanno ragioni oscure. Alcune storie moderne raccontano di youkai che si mescolano agli esseri umani, generando gli hanyou; nella tradizione solo le kitsune ne erano capaci. Alcuni youkai semplicemente evitano gli esseri umani, e abitano aree selvagge molto lontano dagli insediamenti umani; altri invece scelgono di vivere vicino ad essi, attratti dal calore delle case o dai fuochi. Gli youkai sono tradizionalmente associati al fuoco, la direzione nord-est, e l'estate, quando il mondo degli spiriti è vicino a quello umano. Youkai, come gli altri obake, sono spesso rappresentati con tratti tra il grottesco e il terrificante. C'è un'ampia varietà di nella mitologia giapponese: youkai è un termine vago che può arrivare a comprendere virtualmente tutti i mostri e gli esseri sovrannaturali, perfino creature della mitologia occidentale. Molti youkai erano inzialmente esseri umani, trasformati in qualcosa di grottesco e orrendo spesso da qualche stato emotivo.

Youki: energia spirituale che scaturisce dagli youkai.

Yukata: kimono informale foderato generalmente in cotone, lino o canapa. Gli yukata sono indossati in occasioni all'aperto da uomini e donne di ogni età. Sono inoltre indossati alle terme, dove spesso vengono anche offerti agli ospiti degli stabilimenti termali.

Z

Zabuton: cuscino che si usa al posto delle sedie.

Zafu: è un cuscino che viene usato da secoli nella meditazione zen; il termine tradotto alla lettera dal giapponese significa "sedile cucito". E' tondo e compatto, imbottito di pula di grano saraceno conferisce la consistenza necessaria che permette di sedere sollevati per poggiare le ginocchia a terra e raddrizzare la colonna vertebrale, inoltre questo materiale ha spiccate proprietà antinfiammatorie facilitano la circolazione e l’attenuazione delle tensioni muscolari.

 

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