Amoressia.

di Demolition Prison_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue. ***
Capitolo 2: *** Chapter one: Vite parallele. ***
Capitolo 3: *** Chapter two: Misantropia. ***



Capitolo 1
*** Prologue. ***


  *Angolo scrittrici* DLIN DLON.
Saaalve gentaglia! Come butta?
Allooora, questa fan fiction è nata da due menti completamente traviate LOL: quella di 
Rory Gilmore e quella di Hey_Ashes.
Da come avrete ben capito, quindi, questa fan fiction è scritta a quattro mani e due cervelli :) 
Non abbiamo intenzione di dirvi nulla, nè sulla trama nè su ciò che riguarderà il continuo. Vi possiamo solo dire che abbiamo in mente delle cose askdjhfwrhjqwh, e che non potete assolutamente perderle. 
Quindi, leggete e basta. Siamo sicure che con questo capitolo non capirete nulla. Meglio così. Vi verrà la voglia di leggere il seguito *^*
ENJOY YOURSELF!

 
 
 

                                                              Amoressia
 



                                                                                                                                                                          Prologue.


Una delle poche cose che sapevo, anzi forse l'unica, era questa:  che mi chiamavo Frank Iero. 
La mia vita era sempre stata un gigantesco punto interrogativo per me: vivevo da sempre con mia madre a Belleville, i miei genitori si erano separati quando io avevo poco più di otto anni e a mio padre non interessava poi così tanto di me.
A dire il vero, nemmeno a me interessava di lui.
L'unica nota positiva che mi aveva trasmesso era la sua passione per la musica.
Lui era un batterista. Uno di quei musicisti falliti, che hanno bisogno di due lavori per vivere. 
Ma a me piaceva la sua musica. Ricordo ancora l'odore di alcool nei pub in cui mi portava per farmi assistere ai suoi concerti. Le sue braccia forti che mi posavano sul bancone di legno, colmo di bicchieri mezzi vuoti. I sorrisi che mi regalava mentre suonava la maestosa batteria.
Quei tempi erano belli. 
Poi, però, tutto ad un tratto la magia familiare svanì, ed insieme anche il rapporto tra me e mio padre.
Inizialmente lo vedevo nei week end, ma quando mi accorsi che lui si stava creando una nuova famiglia, decisi semplicemente di togliermi di mezzo. E lui non si lamentò, nè mi chiese mai di rivederci. 
Mi chiamava solo il giorno del mio compleanno e, quando si ricordava, a Natale.
Quindi, crebbi con mia madre, con il suo amore, con le sue mille preoccupazioni, con le sue manie, le sue abitudini.  Tutto in me ricordava lei.
Avevamo un rapporto morboso, quasi maniacale, a volte.
Forse era proprio per questo che non fui mai capace di legarmi a nessun'altra persona che non fosse lei.
Finchè, non incontrai lui
Lui e le sue mani. Lui ed i suoi occhi. Lui e i suoi difetti dannatamente perfetti. Lui così debole, ma allo stesso tempo così forte da dare un senso alla mia monotona vita. Lui che mi ha reso quello che sono oggi.
Lui, semplicemente lui.
 
                                                                                      ***
 
Una delle poche cose che sapevo della mia vita è che probabilmente non sapevo niente.
L'unica cosa di cui ero e sono certo era la mia arte. L'arte che fin da bambino mi aveva portato a sognare di vedere i miei dipinti esposti in una qualche galleria dal nome all'avanguardia di una qualche famosa città europea.
Ho sempre percepito i colori, i pennelli, l'odore pungente del solvente per vernici, come l'unico modo per esprirmermi, l'unica via che mi avrebbe portato alla possibilità di essere qualcuno agli occhi del mondo.
Mia madre non è mai stata troppo contenta. Voleva che facessi l'imprenditore come mio padre, che diventassi uno di quegli ometti piccoli piccoli, fasciati in giacca e cravatta che si affannavano per arrivare in tempo in unfficio il Lunedì mattina. Non era decisamente la vita che faceva per me.
Smise di rivolgermi la parola quando, finito il liceo, mi iscrissi alla scuola d'Arte di New York, e con lei anche mio padre. L'unico che continuò a credere in me fu mio fratello, persona che ancora oggi mi sostiene e mi incoraggia quando il lavoro non va bene, e la creatività va giù.
Ma apparte lui, in quegli anni fui sempre solo. Vivevo da solo, dormivo da solo, mangiavo da solo. A volte parlavo anche, da solo.
Vissi nel rifiuto di me stesso e di ciò che ero diventato per inseguire il mio sogno, scaricando la rabbia e la frustrazione sulle tele.
Non ho mai avuto un bel rapporto con me e la mia persona, e ciò in cui mi ero trasformato col passare del tempo e la solitudine lo confermava.
Non avevo amici, non socializzavo coi colleghi, non sentivo più le vecchie compagnie che avevano camminato con me fino a quegli anni di silenzio, avvolti dalla gelida pioggia di Londra, lontano da tutti.
Le giornate scivolavano lente e tutte uguali, finchè anche io non ebbi la mia botta di fortuna, e da brutto anatroccolo mi trasformai nello stereotipo del pittore bello e dannato, di fama internazionale.
“Il nuovo Van Gogh”, dicevano. Il nuovo principe della disperazione su tela. Quanti bei complimenti.
Ma infondo era ciò che volevo. E nonostante i falsi amici, le nuove compagnie, eravamo sempre io e la mia arte.
La mia arte che mi ha portato ad incrocare i suoi occhi e la sua innocenza, le sue labbra estranee alla condizione di peccato in cui io invece mi trovavo, i suoi sorrisi timidi ed il suo essere così bambino ma allo stesso tempo estremamente uomo.
Lui, Frank. Quello che forse dovrei chiamare il mio primo, vero amore.

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Capitolo 2
*** Chapter one: Vite parallele. ***


                                                               Chapter One: Vite parallele.
 


L'estate dei diciotto anni, quella che ogni ragazzo sogna. 
L'estate dopo la maturità, che ti fa sentire libero e adulto. 
Quell'estate non fu come me l'ero sempre immaginata. 
Due giorni dopo aver preso il diploma, mia madre decise semplicemente che era arrivato il momento in cui avrei dovuto prendere in mano le redini della mia vita.
Inizialmente non capii bene  cosa intendesse dire. Ma con i fatti si spiegò più che egregiamente.
'Alzati, Frank!'
'mmmh?' mugolai, con la bocca impastata dal sonno.
Stavo ancora dormendo profondamente. Assaporando le sensazioni e gli odori della vita dopo il liceo.
Mia madre era arrivata nella mia stanza con i suoi passi leggeri e decisi, spalancando le finestre e togliendomi non proprio delicatamente da sotto la testa il mio bellissimo cuscino con Iron Man.
'Mamma!' mi lamentai.
'Frank, dobbiamo parlare'
Guai
Quando esclamava quella frase non c'era mai nulla per cui essere felici.
Mi misi eretto con il busto, pur rimanendo seduto sul mio letto. Alzai gli occhi al cielo, sottolineando il fatto che avrei solo voluto dormire quel giorno e non ascoltare lei e i suoi inutili discorsi.
Ma a mia madre non sembrò interessare poi così tanto.
'Cucciolo, ascolta...'
'Mamma, hai intenzione di metterci tanto? No, perché vorrei solo svenire sul letto e dormire per il resto dell'estate'
'Ecco, è proprio questo il punto, tesoro.' 
Aggrottai le sopracciglia.
'Spiegati' 
'So quanto tu sia affezionato a me e alla nostra città, e non immagini quanto io ti voglia bene Frank, ma...andrai a Parigi. Due settimane.'
'Co-cosa?' chiesi terrorizzato.
No. Non sarebbe dovuta essere così l'estate dei miei diciotto anni. 
'Frank, tuo padre ha voluto farti questo regalo, e sinceramente per la prima volta mi trovo d'accordo con lui... ti serve una vacanza da solo. Hai diciotto anni e fino adesso non sei mai andato oltre il New Jersey. E soprattutto non sei mai andato da nessuna parte senza di me. Frank, tesoro, è un'opportunità d'oro questa. Vedrai che queste due settimane ti faranno maturare.'
Non riuscii ad evitare di abbassare lo sguardo, imbarazzato.
Era vero. Non ero mai andato all'estero, nè mi ero mai allontanato molto da mia madre. 
Avevo sempre vissuto dentro le quattro mura della mia città. Al massimo, andavo alle feste dei miei compagni di scuola e alle gite. 
Ma non ero mai stato uno da 'lascio tutto e me ne vado'.
Ero affezionato alle mie cose, alla mia vita, alla mia routine. 
E soprattutto non volevo che i miei genitori decidessero al posto mio dove avrei dovuto trascorrere le mie vacanze.
Quindi, decisi di utilizzare una controffensiva, non potendo attaccare. 
'Mamma...ti ricordo che a settembre ho il test di ammissione all'università e...'
Mia madre sorrise amorevolmente. In realtà, sapevo che mi stava deridendo. 
'Amore, te l'ho detto, starai solo due settimane a Parigi. Due. Okay?'
Annuii, arrendendomi di fronte alla sconfitta. 
'Quando devo partire?'
'Dopodomani'
Strabuzzai gli occhi fino a quando ebbi la sensazione che le pupille stessero per uscire dalla cornea. 
'Dopo-che?' urlicchiai.
'Dopodomani. Ed ora alza quel bel deretano e inizia a prepararti per il viaggio, non vorrai dimenticarti qualcosa.'
La donna che mi aveva partorito mi accarerezzò una guancia, dandomi un bacio sulla fronte. 
'Vedrai, ti divertirai. Ne sono certa. E poi...Parigi è la città dell'amore, magari incontrerai finalmente qualcuno che ti farà battere questo cuoricino così gelido' mi sussurrò, andando a posare la sua mano sul mio petto.
Poi si diresse verso la porta, sempre con il suo sorriso amabilmente sarcastico, ed uscì.
Mi catapultai di nuovo con la testa sul cuscino e decisi di fare mente locale, prima che il mio cervello iniziasse a percepire i primi sintomi della pazzia.
Sarei dovuto andare a Parigi. Per due settimane. Da solo.
Io, che non sapevo nemmeno cucinarmi un piatto di pasta, avrei dovuto vivere da solo in chissà quale albergo, incontrando chissà quali persone strane. 
E poi...perché proprio Parigi?
Tra tante città, Parigi era l'ultima che avrei voluto visitare.
La città degli innamorati. Stronzate.
Chi si sarebbe mai innamorato in quella città? 
Arrivai alla semplice conclusione che quelle due settimane sarebbero state terribili: un diciottenne a Parigi. 
Sembrava il titolo di un film da quattro soldi.
Ne ero certo: avrei odiato Parigi, i Parigini e chiunque mi avesse detto che quella era la città dell'amore.
Per me, era un invito bello e buono ad entrare nell'Inferno.
 
                                                                                                                                          * * *

Non è mai bello essere svegliati dal trillare assordante del telefono.
La sera precedente mi ero dimenticato di staccarlo, buona abitudine che avevo preso per evitare le chiamate mattutine almeno fino alle undici.
Rotolai giù dal letto grugnendo leggermente e mi trascinai fino all'apparecchio che sembrava voler scatenare l'inferno a partire dalla scrivania della mia stanza.
Gettai un'occhiata veloce alla radiosveglia: i caratteri di un bel verde fluorescente annunciavano le otto e ventisei del mattino. Orario improponibile, dal momento che avevo dipinto fino a notte inoltrata.
-Pronto?- Mi portai una mano ai capelli, scompigliandoli leggermente al passaggio delle mie dita
-Il signor Way?- 
Che domanda idiota, l'elenco telefonico indica distintamente il mio nome e cognome, via e numero di residenza. Chi altro può essere?
-In ossa e pennelli.- 
Sorrisi compiaciuto in un attimo di narcisismo estremo, cosa che non mi capita di rado: il ruolo del bel pittore dannato mi si addice più di quanto sembri.
-Chiamo per la mostra d'arte che si terrà a Parigi tra due settimane. Ci scusiamo per lo scarso anticipo, ma visto il suo recente successo saremmo lieti di averla con noi.-
Spiegazzai alcuni fogli bianchi sulla scrivania, come a sfogliare un'inesistente agenda zeppa d'impegni, canticchiando serenamente.
-Mh si- Commentai vagamente annoiato -Immagino di potervi tenere compagnia per qualche giorno.-
-Oh, bene. Alloggerà all'hotel Excelsior così come gli altri artisti invitati alla mostra, non molto lontano dal luogo dell'evento. Ovviamente, tutte le spese sono a nostro carico.-
Mi piaceva quel tizio: dritto al sodo, poche chiacchere. Dovevo ricordarmi di fargli avere una mancia extra per il poco tempo che mi stava facendo perdere.
-Tutto ciò mi rallegra alquanto.- Scarabocchiai distrattamente una saetta sul palmo della mia mano, incastrando la cornetta tra l'orecchio e la spalla
-La mostra avrà inizio appunto tra due settimane, la preghiamo di selezionare uno stock di massimo 10 opere che gradirebbe sottoporre all'attenzione del pubblico, così che possiamo collocarla all'interno della galleria.-
-Posta prioritaria, piccione viaggiatore o navicella spaziale?-
Il tizio rimase interdetto. Ridacchiai: adoro far impazzire questa gente.
-Temo di non aver capito, signore.- Mormorò mortificato
-Non si preoccupi, umorismo inglese. Vi farò avere i quadri entro breve, grazie per la proposta.- Lasciai cadere la penna sulla scrivania
-Grazie a lei per aver accettato. Buona giornata.-
-Anche a lei.- Sorrisi come se avesse potuto vedermi e attaccai
 
Il fondale di Londra completamente avvolta da una cortina di nuvole e pioggia dietro la finestra non mi turbò più di tanto: ero talmente abituato al tempaccio di quella meravigliosa città, che mi stupivo se c'era il sole.
Misi il caffè sul fuoco e mi avviai in bagno, strascicando i piedi sul pavimento totalmente ingombro di materiale per il disegno, vestiti e reperti vari. Sorrisi: la perfetta casa dell'artista.
Mi lavai distrattamente i denti, esaminando il viso in cerca di eventuali imperfezioni allo stesso tempo. Mi spogliai della canotta e dei pantaloncini che usavo come pigiama, lasciandoli cadere a terra. Una volta in boxer, tirai fuori con il piede la bilancia che dormiva nascosta sotto il termosifone, applicandovi una lieve pressione perchè il sensore si attivasse.
Attesi il 5 secondi che l'apparecchio impiegava per calcolare la mia massa corporea fissandomi nello specchio intero che avevo sistemato lì apposta per lo scopo. Controllai di quanto realmente le ossa del bacino sporgessero, ritenendomi abbastanza soddisfatto. Abbassai lo sguardo:
45kg.
Merda
Aprii il getto freddo della doccia e mi ci cacciai sotto, rabbrividendo violentemente. Me lo meritavo.
Rimasi immobile sotto quella pioggia di aghi gelidi per dieci minuti, lasciando che l'acqua mi scivolasse addosso congelandomi i neuroni e provocandomi un forte mal di testa che si sarebbe accentuato col caffè più tardi.
“E' tutto quello che si meritano le persone come te, Gerard.” Pensai rinfilandomi i vestiti sulla pelle ancora bagnata. Conficcai le unghie nei palmi delle mani, lasciandovi due lunette leggermente sanguinanti. 
“E' questo che si meritano le persone grasse.”


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Beh, beh, beh? Insomma, che ne pensate? Personalmente, io adoro questo capitolo LOL (è Rory che parla u.u)
Fatevi sentire, gente! I vostri commenti ci danno la forza e la voglia per continuare a scrivere. 
Speriamo che l'idea vi piaccia, con questo capitolo si è capito già un po' la psicologia dei personaggi, ma ancora c'è taaaaanto da scoprire!
Ma io sono crudele e se volete scoprirlo, dovrete continuare a seguire le nostre menti malvage MUAHAHAHAHAH. 
Un grazie speciale alle sei persone che hanno recensito, e a quelle che hanno inserito questa Fic tra i preferiti, seguite, ecc. 
We love you. 

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Capitolo 3
*** Chapter two: Misantropia. ***


                                                                      Chapter two: Misantropia.                                                                                                                                  

 
Non sono mai stato un grande fan dei viaggi in aereo. Preferivo di gran lunga il treno, o al limite, il bus. Ma se di mezzo c'è un canale discretamente grande, comunemente chiamato Manica, non puoi farne a meno, temo.
La cosa che mi dava più fastidio degli aerei erano le hostess. Sì non era tanto il check-in e le varie puttanate burocratiche, erano le hostess che cercavano di tentarti col cibo durante il volo che mi innervosivano. Voglio dire, se avessi voluto mangiare qualcosa durante il viaggio lo avrei comprato dopo i controlli, no? 
Mi ero appena accomodato al mio posto (fortunatamente ero anche vicino all'oblò), in compagnia di un buon libro che avevo già letto milioni di volte, quando una di queste tipe tutte in tiro dentro al loro tubino blu si avvicinò piazzandomi il suo carrello di metallo pieno di schifezze ipercaloriche davanti agli occhi.
“Prenderò qualcosa da bere, sì Una Cocacola. Light. Giusto perchè ho la gola secca.”
-Una Cocacola, grazie.- Mormorai tendendo gli occhi incollati sul libro -Light.- Precisai poi sforzandomi di staccare lo sguardo dalle pagine per sorriderle
Me la piazzò davanti.
“Solo un bicchiere però. Anzi, metà. Sì, perchè le bibite gassate gonfiano.”
Versai una piccola quantità di bibita nel bicchiere e la sorseggiai in tutta calma, guardando di sottecchi il mio vicino: un uomo sulla quarantina in giacca e cravatta, intento a studiare un qualche dossier su una di quelle cose noiose da impiegati.
Spinsi la lattina sul bordo del piccolo vassoio che pendeva dal sedile difronte, e tornai ad immergermi nelle pagine ingiallite del Faust di Goethe. Avevo una passione malsana per quel libro: un uomo che vende l'anima al diavolo in cambio di favoreggiamenti, aiuti e promesse di una vita migliore.
Un ragazzo che vende la sua anima all'arte in cambio di fama, gloria e grandezza che hanno tardato molto ad arrivare.
Digrignai i denti amareggiato: non riuscivo a cogliere la differenza tra le due situazioni.
 
Non faticai molto a trovare l'hotel in cui avrei dovuto alloggiare: era praticamente a pochi passi dalla stazione dove ero giunto prendendo un treno dall'areoporto.
Dopo i doverosi (ed odiosi) convenevoli mi installai nella mia camera senza prendermi neanche la briga di sistemare le mie cose. Una volta sdraiato sul letto alzai la cornetta ed ordinai un thè verde, e rimasi immobile fino all'arrivo del servizio in camera.
 
Uscito dalla doccia mi parve doveroso controllare se il bagno della stanza fosse dotato di una bilancia o di qualsiasi altro strumento in grado di calcolare peso. Ovviamente no.
Rimasi a metà tra l'interdetto e l'isterico quando venni a conoscenza della dura verità, perciò mi limitai a spendere qualche minuto contandomi le costole difronte allo specchio, carezzandone delicatamente la superficie con i polpastrelli e crogiolandomi nell'autocommiserazione.
Un ragazzo francese col nasino all'insù venne a bussare alla mia porta, invitandomi ad una cena con gli altri artisti della mostra. Decisi di accettare solo perchè aveva un naso carino, anche se -ovviamente- sarebbe stata una tortura psicologica.
Arrivai al ristorante qualche minuto (ma pur sempre elegantemente) in ritardo, e presi posto tra due pittori americani. Almeno avrei avuto qualcuno con cui parlare per distrarmi.
Mi sforzai di buttar giù qualcosa, sempre senza superare il minimo indispensabile: dell'insalata, un quadratino di formaggio e sbocconcellai persino un po' di pane, che era la mia nemesi. Giustificai il mio poco appetito con un ipotetico disturbo allo stomaco di qualche giorno prima.
Non mi sforzai molto di essere socievole: tutti parevano essere affascinati dalla mia poca loquacità e dal mio evidente interesse per il cibo spappolato sul fondo del mio piatto. Dovevo essere probabilmente il più giovane, e mi sentii alla stregua del bambino di una coppia che fa parte di un gruppo di amiconi che ha deciso di andare a mangiare una pizza in comitiva il sabato sera. Avevo dei begli occhi, un colore di capelli interessante, un naso particolare, una personalità affascinante, lo sguardo penetrante...tutti si lasciarono andare in piccoli apprezzamenti, specialmente le donne. Mi sforzai di sorridere e di essere realmente amabile come dicevano, fin quando qualcuno non azzardò un commento su quanto fossi magro.
“Non sono magro per niente.”
Mi irrigidii saltando sulla sedia, incupendomi di colpo.
Accennai un diniego veloce con la testa quando mi chiesero se ci fosse qualcosa che non andava e mi affrettai ad alzarmi dal mio posto, scusandomi del fatto che avevo un appuntamento con un amico che non vedevo da tanto tempo. Lasciai 50 euro sul bancone della cassa ed uscii nell'aria fresca di Parigi.
Mentre camminavo mi assalirono i sensi di colpa.
“Non avresti dovuto mangiare. Non così tanto.”
Mi passai una mano sul viso.
“Sei un debole, Gerard. Tutti quegli sforzi per cosa? Non sarai mai perfetto, resterai sempre così. Grasso.”
Era vero: non sapevo trattenermi. Non ero in grado di controllare il mio corpo.
 
Prima di arrivare all'hotel mi nascosi in un vicolo e lasciai che l'inconscio guidasse due dita in un gesto ormai ripetuto milioni di volte.
 
                                               * * *
 
Se fosse esistita realmente un'allergia al mondo, io ero certo di esserne affetto.
Odiavo gli aerei e,soprattutto, gli affollamenti di persone che mi facevano mancare l'aria dalla testa ai piedi.
Forse era proprio per questo motivo che ero solito rimanere a casa mia, o comunque nel mio paese, senza viaggiare molto.
Era una tortura per me tutto ciò. 
E la parte più esilarante era che i miei genitori credevano che pagandomi questo viaggio mi avrebbero dimostrato il loro bene.
In realtà, non sapevano che se c'era una cosa che erano riusciti a realizzare con questa stupida vacanza era farsi odiare da me.
Ma, purtroppo, mi conoscevo fin troppo bene, l'odio non aveva mai fatto parte della mia persona e,alla fine, sarei tornato a casa senza alcun rancore nei loro confronti.
 
Entrai nel tubo che mi avrebbe condotto dritto nell'aereo, e già sentii mancare il respiro per l'odore di chiuso e di...persone.
Camminavo strascicando i piedi, come ero solito fare. Portando sulla spalla il mio zaino, così pesante da farmi quasi curvare in avanti.
Il capitano e le due hostess mi sorrisero raggianti non appena arrivai all'entrata.
'Buongiorno! I tuoi genitori sono già dentro?'
Ecco. Perfetto. 
Già iniziava bene la vacanza. Come sempre ero stato scambiato per un ragazzino.
'Ahm...no, io...veramente ho diciotto anni, e ne devo compiere diciannove.'
Vidi l'hostess abbassare lo sguardo imbarazzata farfugliando delle inutili scuse che comunque non avrebbero aiutato la mia autostima a risalire.
Con la coda dell'occhio, però, notai anche che il pilota se la stava ridendo di sottecchi con l'altra ragazza.
Bene. Neanche ero uscito dall'America ed ero già mira di prese in giro gratuite. L'Europa, di certo, non avrebbe migliorato la mia condizione di sfigato cronico.
 
Notai che mio padre aveva avuto la gentilezza di prenotarmi in prima classe, e quando vidi il mio posto, libero al lato, sospirai di sollievo. 
Non volevo condividere il mio spazio con qualche estraneo.
Posi il mio zaino sul porta bagagli in alto, e mi sedetti chiudendo gli occhi e cercando di rilassarmi.
Ma il karma, per l'ennesima volta, mi ricordò di non essere dalla mia parte, e sentii qualcuno che si sedette nel posto accanto al mio.
Sospirai di nuovo, cercando di non andare in iperventilazione, e poi aprii gli occhi. 
L'uomo che era accanto a me mi guardava con fare curioso, sorridendomi.
Aveva più o meno sessant'anni, dei grandi baffi che gli coprivano quasi tutto il labbro superiore ed un cappello strano appoggiato sul capo. 
Ci manvaca solo Sherlock Holmes dei poveri. Pensai. Ma non dissi.
'ehmmm...sì?'  chiesi. Volendo solamente che quell'estraneo distogliesse i suoi occhi da me.
constatai che non aveva chiuso le palpebre, nemmeno per un secondo, e che continuava imperterrito a fissarmi.
Si riscosse dalla trance in cui era caduto e mi porse la mano.
'Piacere, ragazzo, il mio nome è Richard Kirkland.' 
Ebbi l'impulso di rispondere che non mi interessava assolutamente nulla di chi fosse, e che avrei solo voluto dormire per le otto ore di viaggio in aereo, per poi andarmene in albergo e rimanerci per il resto delle due settimane.
Non dissi nemmeno questo. Nè, gli strinsi la mano, lasciando che lui la ritirasse sempre con lo stesso sorriso sulle labbra.
Non mi sembrava proprio il caso di raccontare la mia vita a quello sconosciuto.
Fu lui, però, a raccontarmela. La mia vita, intendo.
Si portò al labro il suo sigaro, ovviamente senza accenderlo, e iniziò a ciancigarlo.
Mi domandai se quell'uomo pensasse ancora di vivere negli inizi del novecento.
Forse sì. Però scoprii, con mia grande sorpresa, di pensare che sarebbe stato bello poter immaginare di vivere in un'altra epoca. Come probabilmente stava facendo... Richard.
Le hostess annunciarono che l'aereo era pronto per decollare e che quindi avremmo dovuto allacciare le cinture di sicurezza.
Ovviamente, sbuffai. Odiavo metterle. Ma non avevo il coraggio di toglierle per tutto il viaggio.
La mia paura di volare era molto più potente di ogni altra mia paura.
Ma io non avevo solo paura di volare sugli aerei. Io avevo paura di volare anche metaforicamente.
Non mi ero mai sentito felice fino a volare. Nè, ero riuscito a realizzare mai i miei sogni.
Non mi avevano tarpato le ali. Io ero nato, senza ali. 
 
L'aereo decollò velocemente, e il solito farfallio mi attanagliò lo stomaco in una morsa d'accaio. 
E a tutto ciò, si aggiunse anche il mio coinquilino del posto accanto a farmi crescere l'ansia.
'Tu sei qui. Ma non vorresti esserlo.'
Mi girai a guardarlo come se fosse un fantasma.
Non era per il fatto che mi avesse detto quella frase; dalla mia espressione frustrata tutti avrebbero potuto constatare che non ero felice di trovarmi lì.
Ciò che mi sconvolse fu il fatto che la sua non era una domanda, ma un'affermazione.
Sussurrai un semplice 'sì', e lui sorrise continuando a tenere in bocca il suo sigaro.
Era un uomo strano e inquietante. Eppure aveva un non so che di affascinante. 
Avrei voluto sapere di più di lui.
'Io mi chiamo Frank. Frank Iero.'
Gli porsi la mano, e lui non sembrò sorpreso del mio gesto e me la strinse, nonostante prima, maledutacamente, io non avessi risposto al suo gesto.
'Ciao Frank. Sai...ho tante cose da raccontarti su di te.'
'Su...su di me?'
L'inquietudine cresceva, ma con essa anche la curiosità.
'Già. Hai preso la decisione giusta...intendo, ad andare a Parigi. Sai, Parigi ti cambia la vita, amico'
Niente di nuovo. Già l'avevo sentita questa frase. 
'Sì, è esattamente quello che mi ha detto anche mia madre. Ma io...sai, non ci credo molto' 
Lui sorrise, di un sorriso sincero, senza prese in giro.
'Sì, anche io la pensavo come te Frank. Ma poi, quando sono andato a Parigi, per la prima volta, ho capito che era vero. Che Parigi ti cambia la vita. Ehi, non ti sto dicendo che te la cambia in meglio. Potrebbe anche cambiartela in peggio...'
Feci un verso col naso. Richard non capì.
'Come?'
'No, è che pensavo...peggio di così la mia vita non potrebbe essere, quindi...forse hai ragione. Ho fatto bene a decidere di partire'
Lui mi guardò con un sopracciglio alzato -non sapevo come era riuscito a farlo, sinceramente.- e mi rispose con un 'Forse?'.
Scoppiammo a ridere insieme. Non so per cosa. Nè lo volli sapere. 
Sapevo solo che quella era la prima volta che mi aprivo con una persona. 
Con una persona che nemmeno conoscevo.
 
'Dammi la mano. Voglio leggertela.'
Erano circa quaranta minuti che non aprivamo bocca. 
'Come?' Lo guardai confuso.
'Sì, beh, vedi io leggo le mani. Penso che lì ci sia scritta ogni cosa. Non sei curioso di sapere cosa ti succederà a Parigi?'
'Nah, mi piacciono le sorprese.'
In realtà, non era vero. Solo che credevo fosse semplicemente una stronzata il fatto di leggere le mani. Non credevo alle streghe, ai maghi. Non credevo nemmeno in Dio, figuriamoci.
'Hai paura di sapere la verità?'
Altra domanda che a me sembrò più un'affermazione.
'no!' Cercai di giustificarmi, per non sembrare un bambino.
Decisi che per non fare la figura patetica del ragazzino era meglio acconsentire alla sua richiesta.
Tanto io non credevo a quelle cose. Era solo un gioco.
'Okay, leggi' lo presi in giro, senza mai mancargli di rispetto.
Lui sorrise e si tolse dalla bocca il sigaro.
Mi prese la mano sinistra e iniziò a guardarla con attenzione. 
Sembrava che ci credesse davvero in quello che stava facendo, tanto da farmi venire il rimorso per averglielo concesso.
Avevo seriamente paura di quello che mi avrebbe detto.
Cercai di sciogliermi.
Non era possibile.
Avevo paura della mia stessa vita.
Tra le tante paure che avevo, questa era la più assurda.
Alzò lo sguardo per incrociare i suoi occhi con i miei.
Mi lasciò andare la mano e si rimise tra le labbra il sigaro.
Volevo sapere. Dovevo sapere. Ma lui rimase in silenzio.
'B-beh?' chiesi, incerto.
Richard chiuse gli occhi e si appoggiò sullo schienale.
Dopo due interminabili minuti, finalmente, parlò.
'Stasera, ci sarà una mostra di arte moderna al museo Fondation Cartier, si trova a 261 Boulevard Raspail. Ci devi andare.'
'Cos-com- eh?'
Mi stava confondendo ancora di più. 
'Frank, senti, ho letto la tua mano, e stasera devi andare lì. So solo che ti cambierà la vita.'
'Quel posto mi cambierà la vita?' 
'No. Non quel posto, Frank. Chi incontrerai in quel posto.'
'E se incontrassi il mio assassino?'
Solo dopo averlo detto mi resi conto di quanto questa frase risultasse così...idiota.
'Frank, non incontrerai nessun assassino. Stai tranquillo. Ma devi andare in quel museo. Anche se non credi alla magia, a me, alla tua vita. Vai lì, Frank.'
Queste parole furono le ultime che sentii uscire dalle sue labbra. 
Dopo di ciò Richard chiuse gli occhi e dormì per il tutto il resto del viaggio.
Io non riuscii a farlo. 
Restai per le restanti sette ore a guardare lo schienale di fronte a me, con il cuore che non smetteva di martellarmi nelle orecchie e con il cervello che mi spinse a scrivere il nome e la via di quel museo sulla mia mano. La mia mano sinistra.


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Tre recensioni? 
Siete davvero crudeli ç.ç 
La furia di Richard Kirkland si scaglierà su di voi u.u
No, sono seria. SVEGLIAAAAAAAA! 
Vogliamo vedervi attivi!
Vi dico solo che al prossimo capitolo ci sarà L'INCONTRO. 
Fate voi u.u
Comunque grazie alle persone che hanno recensito :3
ENJOY! E buon due giugno :D

We love you. 

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