Here I Go Again

di Marguerite Tyreen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***



Capitolo 1
*** I. ***


Buonsalve, popolo di EFP!
Avrei tipo 284058219 mila storie da aggiornare e mi perdo a scrivere cose assolutamente scollegate da quello che sto portando avanti. Ok, però dopo mesi che non buttavo giù una riga, non posso essere troppo severa con la Musa per avermi mandato questa creaturina bruttina e spelacchiata. Ma, come si dice, ogni scarrafone è bello a mamma sua, quindi eccola qui.
Non so, potrei dire che è troppo personale per risultare qualcosa di davvero decente e che nulla di quello che sta qui dentro è scelto a caso, a partire dal titolo, dalla canzone, dai nomi dei personaggi. Potrei dire anche che l'ho scritta più per me stessa che per altro, ma mi dispiaceva lasciarla prendere polvere in una cartella di word. Soprattutto perchè se riuscisse a trasmettervi un'emozione o farvi trascorrere un momento piacevole, per me sarebbe una cosa meravigliosa **
Sono consapevole che non ci sia niente di realistico, in questa storia, ma prendetela per quella che dovrebbe essere: una metafora ^^'
Grazie mille a tutti, anche solo per essere passati di qui, e un bacione!
Marguerite.

P.S.  Dovrebbe essere una one-shot, anche se lunghetta, ma divido in due capitoli per comodità (vostra e mia) ^^
 

Credits: Le canzoni citate nel testo non sono roba mia, purtroppo! xD I was made for lovin' you e Here I go again appartengono rispettivamente ai Kiss e ai Whitesnake.

 

 

Ad A.
Per una cosa splendida che mi ha detto,
per essere la mia nuova, inconsapevole, fonte di ispirazione.
Perché i sogni contano sempre, indipendentemente dal loro esito.

A S.
per l'aiuto e il sostegno e per quello che sappiamo noi.
E per molte altre cose.
E perché le dovevo un personaggio “cazzuto” come quello di Jenny.

 

 

Tho' I keep searching for an answer
I never seem to find what I'm looking for
Oh Lord, I pray you give me strength to carry on
'cos I know what it means to walk along the lonely street of dreams.

(Whitesnake, Here I go again)



 

 

Here I Go Again
 


 

I.

 

Sacramento (California), maggio 1984
 

-Un altro pub pidocchioso, Mickey?- chiese Al, carezzando distrattamente la custodia del basso, quando il cantante parcheggiò il furgoncino davanti all'entrata posteriore del Black Jack.
-Sei mai riuscito a procurarci ingaggi migliori? Dovresti baciarti i gomiti che ci pensa Mickey, altrimenti saremmo tutti a spasso. - Jenny chiuse la portiera con un sospiro lieve che, per un istante, contrastò con la sua figura decisa. Liberò i capelli bruni dall'elastico, scrollando la testa.
-Grazie, bambola. Fortuna che ci sei tu!
-Beh, ti ringrazio per la considerazione, Mickey. - il chitarrista, una sorta di lungo serpente boa in letargo con gli occhiali da sole tondi e la chioma fluente scarmigliata, fino ad un attimo prima era rimasto acciambellato sul sedile posteriore. Ora si era degnato di scendere, ma solo per guardare con aria pigra Al che scaricava gli strumenti.
-Bell'aiuto che dai sempre! Hai dormito per tutto il viaggio, Frank.
-Ho riposato, Jenny. Riposato. Devo esserlo, prima di un'esibizione. Altrimenti poi faccio cilecca.
-Come con le donne. - scherzò Mickey.
-Coglione! Poi non dire che non te li cerchi, questi epiteti.
L'interno del Black Jack era deserto, eccezion fatta per il gestore che sgomberava dai tavoli i resti della serata precedente.
-Fuori dalle palle: è chiuso.
Aveva la voce di chi aveva ingoiato un rospo.
-Alla faccia dell'accoglienza, signori! Ad averlo saputo, lasciavamo gli strumenti sul furgone e giravamo i tacchi.
Al si mise a sedere su uno degli sgabelli.
-Ma lascia perdere, Al! Senta, siamo i Wild Boys.
-I … chi? - il tizio sbatté il canovaccio a scacchi sul bancone e guardò storto Mickey.
-I Wild Boys, quelli che devono suonare stasera.
-Ah, siete voi.
-Sì, abbiamo trovato l'ingaggio tramite...
-Va bene, va bene, non mi interessa... basta che ci sia qualcuno a strimpellare e a tener sveglia la gente sennò qui è un cimitero. Questo non è certo Woodstock e voi siete più o meno quello che posso permettermi abitualmente: cioè degli amatori. Quindi, poche pippe e lavorare!
Mickey si scacciò una ciocca di capelli biondi dagli occhi: -Guardi che siamo professionisti. Lo facciamo di mestiere. Chieda in giro di noi, in quanti locali abbiamo suonato: San Francisco, Buffalo, Dallas... - gli porse la mano – Mi chiamo Michael Bonnett. E loro sono Jennifer Hutton, alla tastiera, Albert Douglas, al basso, e il nostro chitarrista Frank Custer.
Frank intercalò le parole dell'amico con uno sbadiglio discreto.
-Ok, ok, bello. La paga vi sta bene, sì? Perché se tutta questa lagna è per un aumento sappi che non sborso un centesimo di più. Quello è il palco, quelle sono le casse e le luci. Vedete di sistemarvi come meglio credete. Di arrangiarvi e di non rompere le scatole a me.

 

***


-E questo lui lo chiama palco? Queste sono quattro assi inchiodate. - sbuffò Al.
Con un altoparlante tra le braccia, vagava senza sapere bene dove piazzare le attrezzature.
-Stai sempre a lamentarti, Al! Dovresti prendere esempio da Frank e vederla in modo più ottimista: per lui le quattro assi sarebbero perfette per schiacciarci un pisolino.
Il chitarrista, ancora appollaiato sullo sgabello, li guardava con un sopracciglio alzato, senza sprecare energie per intromettersi nella conversazione.
-Tu taci, donna!- Al cercò di rimanere serio, ma non riuscì a trattenere un sorriso – E passami quel cavo elettrico.
-Al, non trattare male la bambina, eh!
Mickey si era tolto la giacca di pelle nera per armeggiare con la scenografia e darle una parvenza di dignità.
-Ehi, Mickey... te la sei vista quella? - Frank gli tirò una gomitata di nascosto.
Il locale si stava affollando. Per lo più erano lavoratori venuti a farsi incartare un panino in fretta o gente di passaggio, in sosta per il pranzo, che sarebbe presto ripartita chissà per dove.
Mickey guardò nella direzione indicatagli dall'amico. Al bancone sedeva una ragazza appariscente, con le forme inguainate in una salopette di jeans e i capelli lasciati sciolti e selvaggi in una cascata di ricci bruni lungo la schiena. Nel tavolino poco distante, invece, un'altra dall'aria più dimessa si portava alternativamente alle labbra l'orlo di una tazza di caffè e la biro con cui annotava parole su un taccuino.
-Quale?
-Quella, la bambola al bancone.
-Anche l'altra non è male. - tornò a districare il filo del microfono.
-Beh, insomma... Senti, Mickey, e se ci provo? La invito qui per stasera.
-E a me lo chiedi? Sei grande e vaccinato, non hai mica bisogno della balia, no? Ma levami una curiosità, ti svegli solo quando ci sono delle donne in cir... Frank?
Si appoggiò al muro con le spalle: voleva proprio godersela, la scena dell'amico che era partito in quarta e con fare dinoccolato si era avvicinato alla bellezza in salopette.
Frank si era piazzato gli occhiali da sole sulla testa e, appoggiato al bancone con un gomito, certamente doveva essersene uscito con una di quelle sue solite freddure che lasciavano indifferenti, se non imbarazzati, gli interlocutori e facevano scoppiare a ridere solo lui, scoprendo una dentatura equina.
Ma aveva avuto ben poco tempo per ridere, giusto quello che era servito all'armadio calvo e tatuato di uscire dal bagno e frapporsi tra lui e la ragazza.
-Mary, che vuole questo tizio? Ehi, amico, è la mia fidanzata, questa.
-La sua... ehm... la sua fidanzata? Eh, certo, l'immaginavo. Buona giornata, signori. Mi sono improvvisamente ricordato di avere... beh, una cosa importante da fare. Arrivederci, eh!
I due erano poi spariti a bordo di una Harley, un attimo prima che Frank tornasse alla sua chitarra.
-Adesso mi spieghi che diavolo hai da ridere, Mickey.
-Avresti dovuto vedere la tua faccia, Frankie, quando quel tipo... - cercò di respirare, scrollando la chioma bionda – Oh mio Dio! È stato troppo divertente. Era una spanna più alto di te.
-E quaranta chili più di me. Per la miseria, Mickey, avrei voluto vedere te.
-A me non capitano queste cose, semplicemente perché non vado ad insidiare fidanzate altrui.
Vedi, se tu fossi andato a sederti gentilmente al tavolo di quella signorina, ordinando un caffè e mettendoti a chiacchierare con molta educazione, stasera avresti potuto trovare un'ammiratrice in più ad applaudirti.
-Perché non ci vai tu, allora? Visto che sembri così bravo.
-Perché non mi gira. Lo sai che da quando mi ha piantato Hanna, non...
-Ti farà le ragnatele, ragazzo mio.
-Cazzo, Frank, sei sempre un signore!
-Oh, senti: è vero!
-Il fatto che non mi sia legato a nessun'altra, non vuol dire che gli faccio fare le ragnatele. Quanto a te, se invece di perdere tempo con le ragazze dei centauri andassi ad aiutare Jenny, sono convinto che le faresti anche piacere.
-Dici?
-Sono tre anni che ti sbava dietro, per favore! Cavolo! Adesso te l'ho detto e trai le tue conclusioni, così lei smetterà di piangere che tu non la fili e tu smetterai di fare fiasco con le altre.
-E tu?
-E io vado a fare compagnia alla signorina.
-Quale signorina?
-Quella del caffè.
Lei, la signorina al tavolino non li aveva degnati di un'occhiata. Continuava a scrivere in silenzio, adesso più velocemente di prima, con aria assorta.
Mickey ordinò una tazza di caffè, prima di scostare la sedia.
-Scusa, posso?
Lei annuì, senza dir nulla, limitandosi a trarre verso di sé la propria consumazione e la propria agenda.
-Fa un caldo maledetto.
-Come? - gli chiese, distrattamente. Non sembrava avere davvero voglia di cominciare una conversazione.
-Dicevo, fa un gran caldo, oggi. Sempre così, da queste parti?
-Sì, direi di sì. Non sei di qua?
-No, sono di San Francisco.
-Beh, poca differenza ci passa da San Francisco a Sacramento. Almeno credo. Non l'ho mai vista, San Francisco.
Mickey si strinse nelle spalle: -Non è un granché. Non se ci sei nato, almeno.
-Si finisce sempre per essere più critici per la città dove si nasce. Certo che qui è un mortorio, soprattutto a quest'ora.
-Non mi sembrava.
-E' una periferia, alla fine. Non ci si può aspettare molto.
Lui prese una sorsata di caffè: -Lavori qui?
-Sì, nello stabile qui dietro.
-E cosa fai? Se posso chiederlo.
-C'è una ditta di import-export. Tengo la contabilità. Una noia, credimi.
-Ah, ti avrei detta una maestra.
La ragazza si sistemò gli occhiali sul naso, una montatura spessa color tartaruga, appena troppo grande per il suo viso. Notò che aveva occhi altrettanto grandi, di un comune castano, contornati da un trucco leggero. E capelli dello stesso castano ordinario, lisci, tagliati corti in un carré senza fronzoli, che lasciava scoperto il collo. O, meglio, quella parte di collo che non era costretta nel colletto della camicia a sottili righe verdi.
-Una maestra? - posò lo sguardo sui propri appunti – No, no. Non sono compiti degli studenti. - rise, discretamente, un po' timida.
-Conteggi, allora?
-Nemmeno. - chiuse il taccuino, riponendolo nella borsa.
-Scusa, non volevo essere invadente.
-Non fa nulla. E tu? Voglio dire, sei qui per affari, per vacanza, per...
-Per lavoro, sì. Io sono... beh, puoi ridere, ma faccio il cantante in una band.
Alzò un sopracciglio e prese ad osservarlo con attenzione, dagli occhi azzurri e acuti alla massa bionda di capelli portati lunghi e mossi fino alle spalle, alla t-shirt nera in cui avrebbe voluto sprofondare, per quello sguardo onesto e indagatore che si era improvvisamente trovato addosso.
Sembrava dovesse fargli un ritratto.
-Qualcosa non va?
-Oh no, no, niente. Stavo cercando di trovare i segni dell'artista.
-I “segni dell'artista”?
-Sì, qualcosa che mi facesse capire che sei un artista, no?
-Non credevo esistessero segni esteriori.
Lei si era soffermata sulle sue mani, strette attorno alla tazza, adesso.
-A volte sì. Sai, quando passi tanto tempo qui, a questo tavolino, ad osservare la gente e a raccontare delle persone, spesso ti accorgi di conoscerle un po', anche se non le hai mai viste prima.
-Capisco. - mentì.
-Che genere fate? Io non mi intendo di musica, purtroppo. Quello che so, l'ho imparato stando qua dentro.
-Hard rock, principalmente.
-Le canzoni sono vostre?
-Qualcosa sì. Poi il nostro paroliere ci ha lasciato.
-Peccato.
-Era la mia fidanzata. Ha lasciato me e ha lasciato il gruppo. E adesso ci ritroviamo a fare cover, più che altro. È per questo che non saremo mai famosi. Ma nemmeno con Hanna lo saremmo stati, temo. Comunque, eccoli là, i gloriosi musicisti dei Wild Boys. A proposito, - le tese la mano – Michael Bonnett. Mickey.
-Margareth Wilboury. Marg.
-Margareth come la Margareth di This sporting life.
Lei rise di nuovo.
-Il film di Anderson, l'avrai visto, no?
-Sì sì. È che di solito dicono: Margareth come la Thatcher.
-No, no, ci mancherebbe!
-Ti piace il cinema, allora.
-Scherzi! È una vita che mi piace il cinema. Non come la musica, magari, ma diciamo che me ne intendo.
-Oh, bene. Anch'io. Però a me piace il cinema europeo. Sai, Bergman, le cose francesi, Carnè, Delvaux, quelli lì.
-Perché escludi che a me piaccia Bergman?
-Bah, non so. Come si riesce a far convivere Bergman con l'hard rock?
-Si fa convivere molto di peggio. - le sorrise.
-Su questo hai ragione. - si alzò, lasciando gli spiccioli sul tavolo – Adesso devo proprio andare.
-Proprio quando si cominciava a parlare di Bergman? Peccato.
Margareth si lasciò guardare, mentre si sistemava la cinghia della borsetta.
-Già, peccato.
Mickey si sporse sulla sedia: -Ti accompagno.
-Come?
-Ti accompagno al lavoro. - la raggiunse.
-Ma io non sto andando al lavoro.
-Ti accompagno comunque.
-Ma qui? Dovrai... non so... provare, suppongo.
-Le canzoni le so a memoria! - si gettò la giacca sulla spalla – Se la caveranno senza di me, sono in gamba, loro.

 

***
 

-E allora, cos'altro ti piace?
Il pomeriggio era caldo, forse in modo eccessivo per risultare gradevole. Senza contare che l'asfalto della strada si perdeva verso l'orizzonte in una nuvola di umidità dai bordi tremanti. Lei aveva le gambe troppo lunghe e il passo troppo veloce per starle dietro senza un lieve affanno. Ma era graziosa, nei gesti timidi eppure franchi con cui gli si rivolgeva.
-Voglio dire, non solo il cinema di Bergman, immagino.
-La pittura. Ma non dipingo.
-Eppoi?
-La scrittura, soprattutto.
-Ma non scrivi.
-Al contrario. Scrivo. È che... beh, nemmeno io sono famosa. Non ho mai pubblicato niente. Sai, sempre le solite scuse degli editori: c'è più gente che scrive di quello che riescono effettivamente a vendere. Un modo carino per dire che non vali nulla. E allora finisci per restartene qui, a sognare Parigi, mentre tieni la contabilità per una ditta qualsiasi.
-Così sei un'artista anche tu.
-Oh, artista è una parola grossa. Non sprecarla per me. - Margareth si tormentò le mani.
-Figurati! Se scrivi sei un'artista. Punto. Alcuni hanno successo, altri no. Ma se sei un'artista dentro di te, nessuno può permettersi di farti credere il contrario. E tu avrai successo, te lo auguro.
-Speriamo. Sembri uno convinto.
-No, al contrario. Mi sono parecchio rassegnato. Sai, a trent'anni passati, finisci per sentire la differenza tra quelle che erano le tue ambizioni e quello che fai per guadagnarti il pane.
-Decisamente. Io lo sento anche se i trenta non li ho nemmeno sfiorati. È parecchio dura. Voglio dire, riuscire a trovare le energie per fare entrambe le cose: per lavorare e per inseguire le ambizioni artistiche. Infatti, mi sa che la seconda cosa l'ho parecchio trascurata.
-Scrivere a un tavolino di un pub non è trascurare. Ciò non toglie che sia davvero difficile, sì.

So cosa significa camminare solo lungo la strada solitaria dei sogni”, tanto per citare i...
Margareth lo guardò, scrollando la testa e scoppiando a ridere.
-Oh, ma sei davvero un disastro! I Whitesnake! Here I go again, l'hai mai sentita?
-Macché...
-Sei una causa persa, ragazza.
-Lo so.
-Vieni al Black Jack, stasera. La canterò per te.
-Ma figurati. - arrossì di colpo – Io di sera non esco quasi mai.
-Fai un'eccezione. Non capita tutti i giorni di avere la fortuna di veder esibirsi i Wild Boys.
-L'immagino.
-Allora dai, che ti costa? A meno che tu non abbia già un altro impegno...
-No, non ho altri impegni. E ho detto una bugia: al Black Jack ci vado tutte le sere a scrivere.
-Perché? Ti ispira?
-Sì. C'è sempre un gran via vai di gente interessante. È tutta una vita che faccio la spettatrice. E che aspetto qualcuno che non arriverà.
-Un uomo? Beh, scusa, devo essere stato parecchio indiscreto.
-Un uomo, sì. E pur accorgendomi che è un illusione, continuo ad aspettarlo. Forse, perché amo più le idee che le persone. Forse perché l'illusione mi fa meno paura della realtà. Devo sembrarti tutta matta.
-No, mi sembri a posto. Ti capisco benissimo. Ma non hai l'impressione di star gettando via del tempo?
-Per quello che ho da fare... in cos'altro potrei impiegarlo, dopotutto? La mia vita è talmente noiosa. Non è difficile, a quel punto, diventare scrittori e perdersi nell'esistenza degli altri. Ma non intristiamoci! A che ora suonate?
-Alle otto.
-Bene. Io sono arrivata. Alle otto, Mickey Bonnett. Sei sicuro di saper trovare la strada?
-Al massimo mi perdo.
-Ottima filosofia. A stasera!
Sparì dietro un portone.
A stasera, Margareth.

 

[Continua]

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Capitolo 2
*** II. ***


Here I Go Again

 




II.


-Prepariamo Here I go again.
Mickey prese il microfono, picchiettandoci sopra le dita per assicurarsi che fosse acceso.
-Ma non c'è posto in scaletta. - protestò Al.
-E a me non viene mai il riff iniziale, non c'è verso.
-Insomma, Frank, come viene viene. Dobbiamo assolutamente farla.
-Cos'è questo improvvisa passione per Here I go again, Mickey? - in un angolo del palco, Jenny si lisciava la punta dei capelli, pensierosa.
-Ho conosciuto una persona che l'apprezzerebbe. E che sarà qui stasera.
-Non mi dire che è la tipa del caffè.
-Proprio lei, Frank. L'avresti mai detto: è una scrittrice.
-E che scrive? Lettere?
-Romanzi, suppongo, racconti... cosa vuoi che ne sappia! Ma è sensibile, gradevole: era da quando Hanna se n'è andata che non pensavo di...
-Colpo di fulmine, Mickey? E dire che la carrozzeria non prometteva granché.
-Lascia perdere, Frank. Il tuo gusto in fatto di donne è alquanto discutibile, dal momento che ti lasci scappare Jenny.
-Che? - esplose lei, mettendosi in piedi – Tu sei tutto matto.
-Si vede lontano un miglio, bambina E adesso basta, mettiamoci al lavoro, altrimenti non concludiamo un accidente.
-Certo che sei strano, Mickey. Ma che diavolo ti è successo? - Frank continuava a guardarlo storto – Ti sei preso una brutta cotta in nemmeno un paio d'ore?
-Macché. - fece uno svolazzo con la mano – E' solo che lei mi ha ricordato me qualche anno fa. Quando avevo ancora parecchi sogni per la testa e quando... beh, sì, quando non pensavo di passare tutta la vita in questi pub pidocchiosi per un centinaio di dollari.
-Se è questo che vale per te, il nostro gruppo!
-Non sto dicendo questo, Frank!
-No, ma lo pensi. Ma chi ti credi di essere? Freddie Mercury? Senti, Mickey, è già buona che stiamo facendo della musica quando potremmo essere a pulire cessi.
-Musica! Musica d'altri, Frank. Di nostro non abbiamo niente. Non abbiamo mai creato nulla, non abbiamo dato nulla.
-Cosa credi, che a me non piacerebbe essere in testa alle hit parade? Ma questo è quanto, rassegnati! Hai trentacinque anni, cazzo!
Mickey gli sbatté il microfono in mano: - Provate voi. Io non ne ho voglia.
Uscì dal locale. L'umidità e l'aria viziata avevano cominciato a dargli il mal di testa, tanto da costringerlo a sedersi su una delle latte di birra vuote, lasciate nel patio.
Jenny gli arrivò alle spalle, passandogli affettuosamente la mano tra i capelli: -Ehi, ehi... è sempre filato tutto liscio. Cosa c'è che non va, adesso?
-Non lo so, Jenny. È come se tutto questo, se i Wild Boys non mi bastassero più.
-Già... Ma a questa conclusione sei arrivato nel pomeriggio?
-No, no. Diciamo che ci pensavo da un po'. E che quella ragazza mi ha fatto riflettere. Non si può passare tutta la vita a fare gli spettatori, no? E, anche se sostiene di averlo fatto, per certi versi, c'è qualcosa in lei che si vuole ribellare a questa rassegnazione.
-Che strano! Intendo che è strano capire tutto questo di una persona che si conosce appena.
-Magari me lo sono inventato.
-Magari.
-E tu cosa dici?
-Cosa dico io? Di te o di Frank.
-Di tutti e due.
-Di Frank, che ho intenzione di lasciar perdere, se continua a disinteressarsi di me. In fin dei conti, l'ho aspettato per un bel po'. Non si può mica continuare a farlo, anche per una questione di orgoglio. Farà come crede. Di te... beh, di te, ho da dirti che non mi sembra che tu non abbia fatto mai nulla, Mickey. Hai viaggiato, hai fatto passare delle belle serate alle persone. Poco male se la musica non è tua, se non hai avuto successo.
-Non è il successo in quanto tale. È che... che... non so, è difficile spiegarlo. Ci riuscirò una volta o l'altra.
-Una volta o l'altra... Sai una cosa? Forse avresti bisogno di innamorarti di nuovo. Di una brava ragazza che ti voglia bene.
-Fosse tutto così semplice.
-Non dico che troverai quella perfetta, magari non esiste nemmeno. Ma, almeno, una che ci vada vicino e che ti restituisca un minimo di quello che hai dato.
-Se la trovi, fammi un fischio. Per adesso, sarebbe già molto mettere a posto le cose col gruppo.
-Oh, animo, Mickey. Noi siamo i Wild Boys! Non ci ferma nessuno, a noi!
-Che donna cazzuta, che sei, Jenny.
-Devo esserlo, altrimenti chi li tiene a bada tre uomini? Senti, andiamo dentro e vediamo di provare qualcosa. La vuoi fare questa canzone o no? Non vorrai steccare proprio in sua presenza.
-Agli ordini, comandante.
-Ecco, così dovreste rispondermi. Sempre.

 

***

 

Tonight I wanna give it all to you.
In the darkness.
There's so much I wanna do.
And tonight I wanna lay it at your feet.
'Cause girl, I was made for you.
And girl, you were made for me.

Dietro le luci azzurrastre che lo abbagliavano, era riuscito a vederla. Seduta sempre allo stesso tavolino, ma questa volta con una birra davanti, anziché un caffè, teneva il tempo di I was made for lovin' you, tamburellando le dita sulla superficie di metallo.

Tonight I wanna see it in your eyes.
Feel the magic.
There's something that drives me wild.
And tonight I wanna make it all come true.
'Cause girl, you were made for me.
And girl I was made for you.

Indossava gli stessi jeans del pomeriggio; tuttavia, dal top nero di seta lucida che intravvedeva, poteva intuire che avesse tentato di sistemarsi in modo più elegante. Poteva scommetterci, aveva certo messo più trucco sugli occhi, anche se la distanza gli impediva di accertarsene.
Sollevò l'asta del microfono, durante l'acuto, facendo scoppiare i presenti in un applauso appassionato. Anche lei aveva applaudito e aveva sorriso, accennando ad un saluto.
Quando la canzone terminò, poté tornare a respirare e a schermarsi gli occhi con la mano per assicurarsi che Margareth fosse sempre là.
-Il pezzo precedente... - dovette interrompersi diverse volte, per il chiasso del pubblico e per il fiato che gli mancava – Scusate... il pezzo precedente era dedicato a due miei amici. - Frank e Jenny si erano rivolti un'occhiata sospettosa a quelle parole - Sono nati l'uno per l'altra, ma hanno la testa talmente dura che non lo capiscono. E basterebbe proprio poco. Ma il prossimo brano, che per questa sera sarà anche l'ultimo, voglio dedicarlo a tutti i sognatori che ci sono tra di voi. E, in particolare, a quella ragazza lì, che si chiama Margareth, anche se voi non lo sapete. Sì, sì, proprio quella lì. Ricordatevi del suo nome e del suo faccino, perché diventerà una grande scrittrice, un giorno o l'altro.

I don't know where I'm goin
But I sure know where I've been
Hanging on the promises in songs of yesterday.
An' I've made up my mind, I ain't wasting no more time
But here I go again, here I go again.

Il riff gli era anche riuscito benino, a Frank. Meglio così.
Lui, invece, doveva aver davvero esagerato. Povera Margareth! Si era ritrovata addosso qualche cinquantina di paia di occhi, dopo quell'uscita. Ma lei, magari era anche merito della birra, non sembrava nemmeno tanto sconvolta.

Tho' I keep searching for an answer
I never seem to find what I'm looking for.
Oh Lord, I pray you give me strength to carry on
'Cause I know what it means to walk along the lonely street of dreams.


Sentiva le parole, le sentiva dentro e cercava di fare in modo che le arrivassero. Nonostante quella cortina di fumo di sigarette, di luci e di brusio, doveva capire che in fondo non erano poi tanto diversi loro due. E nemmeno tanto diversi dalla storia raccontata nella canzone. Se avessero avuto più tempo, avrebbe potuto dirglielo di persona, ma cominciava a credere di possedere solo quei tre, quattro minuti. Poi, alla fine della serata, lei sarebbe scomparsa e lui sarebbe ripartito, con un'illusione in meno e una delusione in più.

Here I go again on my own
Goin' down the only road I've ever known.
Like a drifter I was born to walk alone.
An' I've made up my mind, I ain't wasting no more time
But here I go again, here I go again.

Lasciò cadere anche le ultime note, prima di scendere dal palco. Doveva fermarla, impedire che se ne andasse, che svanisse nel buio di quella notte californiana. Ma Margareth continuava a restarsene seduta, il bicchiere ancora mezzo pieno e un sorriso appena accennato.
-Devi proprio esserti messo in testa di farmi commuovere, tu, anche se ci conosciamo da poco più di un paio d'ore.
Attese che il barista gli sbattesse con malagrazia la birra sul bancone, prima di sedersi.
-Io non ho fatto un bel niente. Se ti commuovi, è perché senti la canzone come tua, no?
-Immedesimazione, dici? Non so se nella musica funziona come nel cinema.
-Penso proprio di sì. Alla fine credo proprio sia la mia storia. Sai, uno che ha vagato tutta una vita, soltanto con un bagaglio di vecchie canzoni, cercando qualcosa, cercando delle risposte che forse non ha mai trovato nemmeno in quello che fa. Non è così che sono andate anche per te le cose?
-Io non mi sono mai mossa di qui. Ma, in fondo, cercare risposte nei libri, cambiando punto di vista e cercarle nella scrittura, annullandosi per i propri personaggi è la stessa cosa... anche se non ho viaggiato, anche se non ho fatto che guardare le stesse quattro persone all'interno di queste quattro vie di Sacramento.
-Constatazione amara.
-Eh già. Bisognerebbe trovare il coraggio e l'orgoglio di dire: here I go again, sono ancora qui. Ancora qui a percorrere la strada solitaria dei sogni.
-Non so cosa faccia più male, Margareth. Se l'illusione dei sogni o se il dover per forza inseguirli da soli.
-La seconda, temo. È che siamo soli, irrimediabilmente soli. Se non per qualche istante. - gli posò una mano sulla sua – Per qualche istante in cui crediamo che le anime si possano incontrare. Altrimenti si finisce per inseguire donne ormai lontane o uomini che non si potranno mai avere soltanto per non ammettere con noi stessi questa verità. E soltanto per avere una scusa, abbastanza tormentata, che ci permetta di cantare, di scrivere e di vivere, con quel poco di passione che ci rimane.
-Che spreco, Margareth!
-Che cosa è uno spreco?
-Pensarti qui, in questa periferia, a consumare i tuoi giorni. Sei più sensibile della maggior parte delle persone che conosco. Eh, sì, sei un'artista.
Con la mano libera, tamburellò le dita su quelle della ragazza, come avesse fretta di interrompere il contatto. Bevve l'ultimo sorso di birra.
-Facciamo due passi?
-Perché no? È una bella serata, fuori.
-Hai fretta di rientrare?
-Non mi aspetta nessuno.
-Bene. Sai, il tempo di un paio di parole.
Lontano dalle luci artificiali del pub e di quelle distanti della città, la luna batteva argentea e indifferente sul profilo perfetto di Mickey, disegnando una trama di ombre e bagliori tra i suoi capelli.
-Sembri uscito anche tu da un film di Bergman, in questo momento. Un vecchio film in bianco e nero. Non so perché, ma ogni volta che penserò a te, penserò a te senza colori.
-E' già insolito che penserai a me. Domani ripartiamo.
-Io penso a tutti quelli che ho incontrato, anche solo una volta. Mi affeziono presto alle persone.
-Ed è un errore, perché le persone se ne vanno sempre, prima o poi.
-Però, senza quel calore, cosa rimarrebbe di noi? Ho come l'impressione che i sogni non siano sufficienti, a volte, per scaldare il cuore.
-Margareth, tu devi farmi una promessa. - si voltò per guardarla negli occhi. A lei pareva che davvero una lente in bianco e nero li stesse sovrastando.
-Se scrivi come racconti a me queste cose, non importa quante porte ti chiuderanno in faccia, ma continua a mandare i tuoi manoscritti agli editori, ti prego.
Annuì con convinzione: - Lo farò. E i Wild Boys?
-I Wild Boys si ritroveranno in un altro pidocchioso pub, come dice sempre Al, eppoi in un altro e in un altro ancora, finchè non ci stancheremo o arriveremo ad essere troppo vecchi per risultare credibili in questi giubbotti di pelle e con questi capelli lunghi.
-E tu? - Margareth gli posò una mano sulla spalla, cercando di ignorare il brivido che sentì attraversarlo sotto il cotone della maglietta.
-E io continuerò a fare quello che ho fatto, credo. A malincuore. Non so cosa sia che mi trattenga davvero. Forse perché sento la responsabilità di quei tre: li ho
trascinati io in questa avventura, promettendo chissà cosa e, adesso, devo almeno dar loro la possibilità di sbarcare il lunario. Sai, io sognavo il successo per chissà quale ideale, per l'arte, per segnare una pagina fondamentale nella musica.
-Dovresti provarci di nuovo. Se devo farlo io, non vedo perché non potresti farlo tu.
-Perché tu sei giovane. Quanti anni hai?
-Ventiquattro.
-Ecco, appunto. Al, invece, sognava il successo per la fama e Frank per avere abbastanza denaro da riposarsi per il resto della sua vita.
-E la ragazza che sta con voi?
-Jenny? Oh, Jenny è in gamba. Prende dalla vita quello che vuole. Ha del coraggio ed è intelligente. Frank non la merita: è un cretino, al suo confronto, e la fa solo soffrire. Si stanno un po' distruggendo anche loro, col passare del tempo e con tutte le disillusioni che hanno affrontato. A volte ho pensato che, se me ne andassi, anche loro potrebbero finalmente prendere la loro strada senza sentirsi legati a me. Magari non sarebbe nemmeno più quella della musica, ma anche così si stanno solo logorando. E forse Al potrebbe avere la sua fama in qualche altro modo. E forse Frank potrebbe finalmente accorgersi di Jenny e mettersi con lei. E Jenny potrebbe pure essere felice.
-A ciascuno la sua strada. E quale sarebbe la tua? Sempre quella solitaria dei sogni?
-Sì, tutto sommato, penso che se la imboccassi di nuovo, ritroverei la forza di percorrerla. Margareth?
-Sì?
-Posso prenderti le mani?
-Penso... penso di sì.
Lasciò che la sfiorasse, restando a guardarlo. Poi, vincendo la timidezza che la frenava, lo abbracciò di slancio.
-Promettimi che anche tu li seguirai i tuoi sogni, Mickey. Posso prendermi una cotta per te?
-No, Margareth. Non resterò, domani.
Stava sentendo il suo respiro sul proprio viso. Adesso riusciva a vedere il trucco più pesante sui suoi occhi e a percepire l'odore lieve del profumo che si era messa addosso.
Avrebbe avuto voglia di baciarla, se solo avesse trovato il coraggio.
-Non importa. Voglio qualcuno a cui pensare, Mickey. Qualcuno a cui augurare ogni bene, qualcuno da seguire con la mente in ogni luogo che visiterà. Qualcuno che sia un ricordo, un'illusione, un sogno così distante dalla realtà: perché la realtà sporca tutto, distrugge tutti i nostri progetti.
-Eppure, è l'unico modo in cui ci è dato di vivere, Marg.
Le chiuse le labbra con le proprie, perdendosi in quel momento.
-Ma questa notte resterai, non è vero?
-Questa notte sì. È troppo tardi per ripartire: quel buco di pub affitta anche le camere, di sopra e... Ma non voglio che tu ci stia male.
-Non lo farò. - Margareth intrecciò le dita alle sue – Voglio solo restare con te, finchè sarai qui.
Rientrarono al Black Jack allacciati, la testa di lei posata sulla spalla di Mickey.
In un angolo del locale, tra gli strumenti, le casse e i cavi, Frank baciava Jenny, tenendosela stretta.
-Frank, ripartiamo domattina. - li avvisò con tutta la discrezione di cui fu capace.
-Ah, davvero?
-Sì, domattina.
Il chitarrista annuì, mentre Jenny sorrideva ai due che salivano le scale e non potevano più vederla.
La stanza era spoglia. Niente di diverso da quello che Mickey aveva trovato abitualmente negli altri luoghi in cui aveva dormito. Una sedia, uno scrittoio, un letto, un'idea di armadio.
-E' chiusa la porta? - gli chiese lei, prima di posare una mano sull'interruttore per impedirgli di accendere la luce.
-Sì. - sorrise appena, contro la sua pelle.
Riprese a baciarla, mentre la rovesciava sul materasso, dolcemente. Le sfiorò i capelli a lungo, con calma quasi contemplativa.
-Scrivimi una canzone. - le sussurrò all'orecchio, all'improvviso
-Che cosa? Io... io non ho mai...
-Non importa. Scrivimi una canzone, questa notte, mentre dormo. Lasciami il foglio sulla scrivania. Lo porterò con me ovunque andrò, Margareth.
-Lo farò. Adesso stringimi.

 

***

 

La luce che filtrava dalle imposte era tutto quanto le permetteva di vedere, quando sedette alla scrivania. Staccò un foglio dall'agenda e tolse il tappo alla biro, riflettendo.
Lui, abbandonato nel letto e coperto a mezzo dal lenzuolo, dormiva, respirando piano. Lo guardò come si guarderebbe un miracolo, con una tenerezza lontana.
Imbrattando la pagina di inchiostro, combatté a lungo contro la tentazione di annotarvi a margine il proprio numero o il proprio indirizzo. Ripose la penna: non avrebbe avuto senso. Quello che aveva, quello che avevano, quel poco, sarebbe svanito all'alba.
La strada dei sogni continuava ad essere solitaria. E lui aveva diritto ad andare, a percorrerla, finchè ne avrebbe avuto la forza. E lei avrebbe atteso un cambiamento, avrebbe continuato a modo suo, continuato a scrivere sciocchezze su quel taccuino, con la nuova consapevolezza che non sarebbero state più sciocchezze, indipendentemente dal giudizio degli editori. Avrebbe tenuto duro, forse, sarebbe stata di nuovo lì, al crocevia in cui si incontrano la strada dei sogni e quella della realtà.
Ma, per quella notte, anche le domande, anche i dubbi avevano perso di significato. Si insinuò sotto le lenzuola, cercando il calore del corpo di Mickey, rifugiandosi nelle sue braccia e addormentandosi con il viso contro il suo petto.

 

***


Quando si svegliò, Mickey non c'era più. Il posto accanto a lei era vuoto e il foglio, sulla scrivania, era sparito.
Si vestì senza premura. Sentiva che, anche affrettandosi, non avrebbe cambiato le cose. Lui era partito molto prima che potesse rendersene conto, molto prima di poter essere inseguito.
Dopo aver bussato alla porta della stanza di fronte, si ritrovò sulla soglia Jenny avvolta nella camicia di Frank, con i lunghi capelli spettinati davanti al viso. Li scacciò con un gesto pigro.
-Ehi, ragazza, che succede?
-Mickey è andato via. - si morse le labbra per non lasciarsi sfuggire una lacrima.
-Che diavolo significa che Mickey è andato via? - commentò Frank dall'interno.
-Significa che è partito, no? - Jenny aveva l'aria di chi aveva già compreso. Di chi, forse, l'aveva fatto da lungo tempo. Chiuse l'uscio dietro di sé.
-Me l'aspettavo. - commentò la musicista, passando un braccio attorno alle spalle della ragazza – Me lo sentivo da... beh, da un bel po'. Sai, lui è sempre stato un gradino più su di noi. Più ambizioni... no, non era questione di ambizioni: più chimere, meglio. La musica e la libertà andavano di pari passo, assieme alla ribellione. Immagino che si sentisse soffocare a dover usare l'arte per fare i conti a fine mese. E, ormai, ci sentivamo soffocare anche noi. Per qualche verso, se gli vogliamo bene, è meglio così.
-Lo so, lo so.
-Non ti avrà illuso, vero?
-No. - scrollò la testa – Sapevo come sarebbe finita. È solo che è... triste, non averlo salutato.
-Lo è anche per me, sai.
-E adesso cosa farete? Intendo, tu e il resto della band.
-Chissà, vedremo. E tu?
-Io? Quello che ho sempre fatto. E quello che mi ha detto di fare Mickey: continuerò a crederci.
-Brava ragazza. In bocca al lupo.
-Anche a voi. Sii felice, Jenny.
Margareth uscì dal pub. L'aria del mattino era fresca, anche se irrespirabile per colpa della polvere. Il sole illuminava frontalmente la strada diretta ad est. Per un attimo, credette di vederlo, nel suo giubbotto di pelle nera, mentre faceva l'autostop alla prima macchina che passava. Ma comprese subito che era tutta illusione o, forse, quello che era successo all'alba.

Just another heart in need of rescue
waiting on love's sweet charity
an' I'm gonna hold on for the rest of my days
'cos I know what it means to walk along the lonely street of dreams.

Le parole di quella canzone continuavano a rimbombarle nella testa, sovrapponendosi al ricordo del giorno avanti. La foschia si stava dissolvendo all'orizzonte e lei aveva stretto i pugni nelle tasche.
Lo immaginò di nuovo, forse su una decapottabile a noleggio, con la radio ad alto volume che suonava le sue canzoni, la giacca di pelle e i capelli al vento. E attorno a lui, soltanto la polvere. E davanti a lui soltanto la strada. La strada solitaria dei sogni.
Anche lei ne aveva una. Era ancora lì.
Io sono ancora qui.
Respirò forte e si avviò a passo lento verso casa.
Grazie per tutto, Mickey. E buona fortuna.



 

Fine

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