Ombre sui muri

di Sarinne
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Ombre ***
Capitolo 2: *** Capitolo I. Specchio ***
Capitolo 3: *** Capitolo II. Sogno ***
Capitolo 4: *** Capitolo III. Lettera ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV. Gola ***



Capitolo 1
*** Prologo: Ombre ***


Prologo
Ombre










Gli occhi di Catherine erano spalancati nel vuoto, le unghie affondate nelle coperte, il petto che si alzava fin troppo velocemente sotto la vestaglia da notte ricamata, boccheggiava dalle labbra secche come se l’avessero appena liberata da due mani che la stavano strangolando.
Deglutì rumorosamente e subito dopo tossì stringendosi il petto, strozzata dalla sua stessa saliva.
La finestra era spalancata, le tende si muovevano al soffio della brezza estiva creando giochi di ombre sul muro alle sue spalle, come lussuosi vestiti da sera di ballerine danzanti nell’aria.
Un fruscio sulla pelle sudata le fece penetrare una lama di ghiaccio nel basso ventre, la sentì roteare nella carne mentre il cuore pompava sangue a ritmi accelerati, come un matto che batte la testa contro un muro fino a farla sanguinare.
Un altro fruscio, la sensazione di un respiro estraneo sulla pelle marmorea della sua guancia.
Silenzio.
Respiro bloccato. Arti bloccati. Cuore improvvisamente silenzioso, come se avesse paura di far rumore.
Pioggia gelida nella carne, che strisciava fin all’interno delle sue membra trasformando le ossa in fragile e pesante gesso, che scricchiola ad ogni movimento.
Solo la luna, come spinta a pietà, illuminava la sua camera creando ombre che agli occhi di una bambina spaventata sarebbero sembrati orribili mostri.
Lo sembravano anche per Catherine
Le iridi scure vagarono lentamente per la stanza, i suoi amati mobili lussuosi, d’avorio lucido e legno di ciliegio diventarono ombre di sudiciume dense come fango col calare della notte, il suo alto armadio uno squallido teatrino per marionette rotte, la sua specchiera rifletteva le ombre danzanti della tenta come orribili streghe nere nella notte.
Quelle ombre
Lei era lì.
Nascosta in quelle ombre. Nascosta dietro i muri dalle classiche decorazioni aristocratiche. Nel soffitto bianco. Nello specchio.
Lei era dappertutto.
Avvertiva la sua presenza nell’oscurità della stanza. Si nascondeva, forse strisciava nel pavimento come un verme, le sfiorava i piedi. Avvertiva il suo respiro, leggero e gelido sulla pelle. Costantemente a ricordarle che lei c’era ancora. Che non se ne sarebbe mai andata.
Catherine chiuse gli occhi, due calde lacrime le colarono lungo le guance, le rimasero sulla pelle, come cera sciolta di una candela.
Si alzò lentamente, pregando di non produrre alcun rumore, ma il fruscio della coperte ed i suoi piedi che atterravano sul pavimento gelido gli fecero pentire di essersi alzata.
Sentì il contatto morbido delle tende sotto i polpastrelli, dalle labbra secche fuoriuscì un sospiro di sollievo per essere ancora in camera sua e non a qualche parte a bruciare nel sangue bollente dell’inferno.
Non voleva aprire gli occhi.
Temeva che si sarebbe ritrovata il suo viso davanti, il suo sorriso sottile, le sue mani che le accarezzavano la guancia, la sua bocca che si posava delicatamente sulla fronte, lasciando solo la traccia di un bacio leggero come il vento di primavera, destinato a scomparire in un battito di ciglia.
Apri gli occhi.
Catherine strinse i pugni, le unghie bruciarono nel palmo sudato.
Sollevò di scatto le palpebre, la bocca dischiuda in un respiro pesante.
Niente.
Solo i suoi giardini lucidi di luna che brillavano d’un aura antica nella notte.
Chiuse la finestra delicatamente, fece scorrere le tende e si sedette sul letto, le palpebre pesanti calate, le mani composte sulla vestaglia, la schiena dritta, rigida, i capelli sciolti gettati all’indietro.
Emise un respiro leggero: Era tutto a posto.
La consapevolezza che in quella camera non c’era nessuno oltre a lei la fece sentire leggera come se al posto del suo corpo ci fosse solo la vestaglia di raso estiva.
Si umettò le labbra ed i suoi denti candidi brillarono in un sorriso di sollievo, uno di quei sorrisi di primavera che mischiati ai sui occhi e capelli color ebano la rendevano un affascinante e graziosa creatura da ammirare ad ogni ballo estivo.
Tirò lentamente su le lunghe ciglia scure, rassicurata dal fatto che davanti a lei non avrebbe trovato niente che non fosse stata la famigliare finestra lucida coperta dalle tende statiche e candide quasi quanto la sua pelle.
Si sentì una sciocca, come si era sentita le notti ed i giorni prima quando l’isteria e la paura si impossessavano di lei per ragioni del tutto irrazionali.
Sorrise, fiera del suo coraggio, d’aver vinto la patina gelida che le bloccava gli arti, chiudendo la finestra dopo essersi guardata intorno con coraggio.
Si umettò le labbra, il sonno, con sua deliziosa sorpresa, era sceso su di lei rendendola meno lucida e più goffa del solito. Si trascinò stancamente alla specchiera. Osservò il suo viso, illuminato solo in parte dalla luna, l’altra metà nascosta da una fitta ombra nera che graziava solo uno spicchio di luce alla punta del nasino sottile, sbarazzino e leggermente all’insù, il nero dei suoi occhi pareva fondersi con la stessa oscurità che contrastava con la marmorea tonalità della pelle, un difetto che faceva risaltare le labbra rosa chiaro più di quanto una pelle più scura avrebbe fatto.
Catherine non era alta, o slanciata o florida, o con forme perfette al posto giusto. L’unica cosa di cui poteva vantarsi erano i suoi lineamenti così graziosi da renderla un eterna ragazzina che nonostante i suoi vent’anni ne dimostrava a malapena sedici, ed il suo fisico così minuto, come una delicata e splendida farfalla che al minimo tocco si sarebbe spezzata contribuiva a bollarla come fragile bambina delicata come un fiore.
Impugnò il freddo manico della spazzola in legno laccato bianco, si portò i capelli davanti, fece scorrere le setole folte per tutta la loro lunghezza, fino alla punta scura e sottile che cadeva al lato della poltrona, all’altezza della vita, diede uno sguardo al collo latteo, non era mai stato slanciato nemmeno quello, poi il suo sguardo si bloccò. Le pupille parvero restringersi con lo spalancarsi degli occhi, il respiro mozzato gli gelò il petto, colando come acqua gelida fino al bassoventre e miscelandosi nelle viscere mentre la mano che teneva la spazzola a mezz’aria iniziò a tremare fino a farla cadere con un tonfo sul legno del pavimento, rimbalzò sul tappeto e rotolò con tonfi secchi fino a nascondersi sotto l’oscurità del letto.
Le ombre.
Le ombre riflesse nello specchio. Si muovevano.
Era impossibile…
<< no…>> un sussurrò quasi impercettibile mentre scuoteva la testa scura, l’immagine sconvolta del suo viso non riusciva a coprire l’angolo riflesso in cui figure scure danzavano come ventagli nelle abili mani di una geisha.
Era la tenda che proiettava quelle ombre.
Lanciò un rapido sguardo alla finestra: era chiusa, le tende era immobili.
Si girò di scatto verso le figure sul muro.
<< che cosa vuoi da me?! >>
Un urlo sconvolto, pieno di rabbia e disperazione, troppo forte per essere fuoriuscito da quelle flebili e sottili labbra.
Si alzò di scatto. La poltrona cadde all’indietro, lo schienale penetrò a fondo nella specchiera spaccandola con un rumore cristallino, i frammenti aguzzi luccicarono mentre si infrangevano al suolo, rimbalzando sul legno lucido illuminato dalla luna.
<< va VIA! >> urlò tutta la sua rabbia, la sua disperazione, la sua preghiera, la sua supplica in quelle semplici parole.
Silenzio.
Il busto teso in avanti, i pugni serrati, la bocca spalancata, il petto che si alzava ed abbassava, le lacrime che le colavano incessanti sulle guance sudate.
Presto Gwenda sarebbe corsa da lei, avrebbe spalancato la porta, l’avrebbe vista sconvolta e l’avrebbe stretta tra le braccia e rassicurata finché non sarebbe riuscita a calmarsi e poi l’avrebbe vegliata tutta la notte stringendole la mano. Com’era sempre successo.
Ma quella volta non fu così. Gwenda non venne da lei.
 
Nell’oscurità della notte, la lussuosa dimora appariva come un imponente edificio classico di un bianco lucido che brillava con la luna, attorno ad esso uno sconfinato giardino. Sul retro un labirinto di siepi scure. Fu quello il centro di un urlo agghiacciante, straziante e lacerante come una lama penetrata in profondità nella carne, salì fino alla luna e si spense senza un lamento come se fosse stato tranciato improvvisamente, senza un ottava in più













Questa è la mia primissima storia quindi supplico in ginocchio  accetto  qualunque tipo di critica e consiglio da scrittori e lettori più esperti. 
Un grazie a chiunque abbia letto il prologo.

Sarinne

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Capitolo 2
*** Capitolo I. Specchio ***


Capitolo I 
Specchio











Edith prese a mescolare il latte ed il thè nella piccola tazzina Wedgwood* decorata in minuscoli fiorellini blu, come se qualcuno avesse spruzzato la tempera del pennello in modo da formare una deliziosa decorazione floreale.
Il latte iniziò a fondersi lentamente con il the creando un profumato liquido mielastro.
Miss Earleen tossicchiò richiamando allattenzione il suo sguardo perso nella tazzina. Edith la fissò interrogativa senza che il polso smettesse di miscelare.
<< Sarebbe ora di parlare di>> la nobildonna si sistemò meglio sulla poltroncina producendo rumori goffi quasi quanto i suoi movimenti
Troppe vesti, corpetto troppo stretto, acconciatura troppo alta
Si ritrovò razionalmente a pensare la giovane sistemata comodamente nei suoi abiti maschili.
Miss Earleen riuscì, finalmente, a trovare una posizione comoda tra le braccia ed i cuscinetti di velluto rosso stritolante di quella che sembrava più un ammasso di stoffe imbottite preziose che un semplice oggetto su cui la signora avrebbe dovuto posare il suo sedere reale.
Dalle labbra tinte di rosso della donna fuoriuscì un sospiro esausto mentre si rassettava le pieghe della gonna verdastra. Gli occhi verdi fissarono la figlia severi e risoluti, brillavano della consapevolezza di un leone che sa che la sua preda non potrà sfuggirgliquella volta.
<< Matrimonio >>
Silenzio.
Il tintinnio vivace del cucchiaino dargento contro la pregiata ceramica della tazzina coprì i loro respiri regolari.
Earleen la guardava severamente aspettando la risposta tanto agognata in lunghi mesi in cui aveva cercato di incastrare la figlia in quel discorso così importante quanto frettoloso.
Edith, dal canto suo, la osservava con un sopracciglio alzato, la classica espressione che rivolgeva a sua madre quando le diceva cose del tipo "acconciati i capelli" "va a quel ballo" "trova un ricco nobile da sposare" eccetera, eccetera (ecceteraeccetera ed ancora eccetera).
<< Matrimonio? >> la giovane non riuscì a coprire il sarcasmo che impregnava la sua lingua
La madre annuì decisa, la schiena ritta e le mani composte in grembo.
<< Matrimonio >> calcò in modo del tutto superfluo ogni sillaba di quella parola letale.
Edith roteò esageratamente le iridi cristalline.
<< E vestiti come una signora ogni tanto! >> il tono isterico lasciava trapelare il nervosismo che in quei giorni Earleen aveva dovuto soffocare davanti agli ospiti. Quando quei nobiluomini e nobildonne (con figli in età da matrimonio ricchi almeno quanto loro) venivano a farle visita trovavano sua figlia in vesti da uomo sporca di fango o acconciata come una semplice donnaccia di terza classe. E quellinchino da saltimbanco regale, che mostrava agli ospiti sgomentati dal suo abbigliamento era irritante almeno quanto il sorriso beffardo che rivolgeva ai presenti, soffermandosi sui suoi occhi di fuoco e sui pugni stretti convulsamente attorno alla veste e poi quella frase, che ripeteva ogni santissima volta per non far in modo che lei mentisse tranquillizzando gli ospiti con la buona notizia che quella ragazza era soltanto una sguattera e non sua figlia , ho.. buongiorno madre!. Erano quegli gli attimi in cui odiava sua figlia in modo quasi mortale.
Era la rabbia che gli schiumava nelle vene, che le colpiva a fondo il petto e le rodeva il viso rendendolo paonazzo, la stessa rabbia generata costantemente da quella figlia indisciplinata che non avrebbe mai seguito il buon esempio della sorella maggiore, la stessa rabbia che la faceva vomitare sul retro del giardino con una scusa ogni volta che qualche Milady le faceva battute sarcastiche sulla casa piccola per una del suo rango, sui vestiti troppo sobri e lacconciatura troppo bassa.
Si, quella rabbia un giorno lavrebbe uccisa, avrebbe solcato pesanti rughe sul suo volto un tempo perfetto ed avrebbe fatto colare verso il basso ogni sua forma un tempo generosa.
siete troppo sensibile madre la frase che le ripeteva sempre quella figlia screanzata che col passare degli anni aveva finito per cancellare lamore materno nel suo ventre e sostituirlo con rabbia e vergogna per il suo stesso essere, carne della sua carne.
<< Non guardatemi così, mia principessa >>  La supplicarono in tono melodrammatico le labbra struccate della ragazza.
Guardò il viso di sua figlia. La sua copia. Il suo specchio degli anni migliori in cui la sua bellezza così chiara e lucente faceva brillare le corti del palazzo. Ma quella luce si era spenta con il passare del tempo: gli splendidi e setosi capelli biondi nascondevano fili bianchi come cotone, gli occhi azzurri e splendenti come stelle nella notte più buia non erano altro, ormai,  che pietre grigie e tristi.
<< Non mi sposerò, non lo avete ancora capito? >> sospirò esausta accasciandosi scompostamente sulla sedia.
<< Visto che siamo in tema damore >> Earleen la indicò severamente << Mi direte anche perché
mentre la mia cara amica Abigayl percorreva in carrozza quellorrenda via popolani piena di locande di barbari vi ha vista uscire in compagnia di due bei giovani di terza classe?! Hai idea di quanto io mi sia vergognata? >>
<< Amore? >> Edith tirò le labbra carnose in un sorriso malizioso, le parole piene di sottintesi che uscirono dalla sua bocca furono come coltellate penetrate a fondo nel cranio << A me interessa solo la parte divertente dellamore >>
Earleen rimase un attimo con la bocca dischiusa a mezzaria, sbigottita dalla sfacciataggine della figlia. Poi la rabbia esplose. Si alzò di scatto, le pieghe della gonna frusciarono come le catene di un prigioniero, indicò la figlia come si indica il colpevole di un cruento reato.
<< Avrei dovuto credere a vostra nonna ed impiccarvi allalbero sul retro appena nata, i vostri sono i capelli del diavolo! >> gli occhi le bruciavano dira repressa, erano lo specchio della miscela di disperazione, frustrazione, vergogna e rabbia che schiumava nelle sue viscere << Il diavolo risiede nel vostro corpo! >>
<< Mi sembra daver affrontato già il discorso il diavolo è dentro di te >> la calma beffarda con cui Edith le rispose le fece venir voglia di schiaffeggiarla fino a farle uscire il sangue dalle guance, dal naso, dalle orecchie, dagli occhi, e quando avrebbe avuto le mani piene del sangue della sua creatura si sarebbe sentita calma e rilassata. Ma sua figlia era troppo forte, abbastanza forte da tener testa ad un uomo, avrebbe osato dire.
<< Ricordate madre? Avevo quindici anni e voi mi sventolaste con mani tremanti un crocifisso sotto il naso mentre urlavate che i capelli rossi sono i capelli del diavolo e che sarei bruciata allinferno >> sottolineò le ultime parole con un sarcasmo dobbligo per quellaffermazione tanto assurda.
<< Eravate nella mia camera, nel mio letto a rotolarvi tra le mie coperte con il figlio del cocchiere!>>
<< Lo spaventaste a morte >> le ricordò ridacchiando sfacciatamente << Il poveretto sgattaiolò via dalla finestra spaventato dalla vostra collera >>
Si alzò sgranchendosi le braccia sotto gli occhi attoniti della madre ed i suoi respiri affannati
<< Ironia della sorte madre: Satana sembravate voi in quellistante >> sorrise.
Earleen non ricambiò il sorriso, di conseguenza anche il sorriso di Edith scomparve
<< Ho bhe>> fece spallucce << Io ci ho provatoqualche volta sorrideteops! >> si portò teatralmente una mano sulla fronte << Avete paura che vi vengano le rughe per caso? >> si avvicinò al viso della madre, i loro nasi si sfiorarono, gli occhi azzurri della rossa divennero due fessure cristalline, sollevò lindice e lo puntò allangolo delle labbra sottili della donna << Ho guardate! Ce nè una qui >>
La superò dopo averle dato una pacca di consolazione sulla spalla nuda.
Non ebbe il coraggio di girarsi e urlare contro che lei non stava invecchiando perché le dita gelide e tremanti salirono verso la pelle indicata dal diavolo.
Fece scivolare la mano costringendola a non sfiorare quel punto.
Edith scherzava probabilmente. Come succedeva sempre, del resto.
Le pupille cercarono meccanicamente lo specchio
Ho! Dannazione
Era allangolo del grande salone e la superficie rotonda non riusciva a riflettere la sua immagine.
Sarebbe bastato avvicinarsi, scrutare il suo viso per un attimo e constatare se il diavolo diceva il falso o (nel peggiore dei casi) la semplice verità.
Qualche passosolo qualche passo
NO!
Scosse il capo energicamente, negli occhi brillò una lingua argentata di testardaggine: non doveva cedere alla tentazione! Doveva dimostrare dessere forte, una donna determinata che sa imporsi dei limiti. Erano finiti i giorni in cui passava mattinate intere a fissare il suo magnifico riflesso nello specchio o a pettinarsi centinaia di volte la chioma sbiadita.
Erano finiti per sempre.
Le sue buone intenzioni svanirono nel vuoto quando i polpastrelli sfiorarono langolo della sua bocca sentendo qualcosa che non doveva esserci. Corse allo specchio, rischiando di finirci dentro quando si inginocchiò davanti alla superficie illuminata dal sole. Esaminò attentamente il centimetro quadrato di pelle marmorea incriminato.
Una ruga
Una minuscola, piccola ruga ma che a lei sembrò un solco profondo miglia.
Vomitò sul pavimento lucido, appena lavato dalla cameriera, ai piedi dello specchio.
Si rialzò asciugandosi le labbra sporche e gli occhi dai capillari rotti, ricolmi di sangue.
Ansimò reggendosi alla cornice di marmo bianco di quelloggetto infernale.
Specchio.
Sarebbe stato il suo peggior nemico.
 
* storica fabbrica inglese di ceramiche pregiatissime ed estremamente costose. 







In teoria dovrei aggiornare una volta a settimana tutti i Venerdì, ma ho deciso di fare un piccolo strappo alla regola e farvi leggere il capitolo prima, non solo perchè non pensavo che qualcuno avrebbe lasciato una recensione (GRAZIE GRAZIE GRAZIE!!!) ma anche perchè questo è un capitolo senza molta azione o Horror, solo per conoscere quelle che saranno le due protagoniste. 
Non ho voluto che il loro rapporto fosse perfetto e ne che loro lo fossero, bhe...non sono certo il massimo della simpatia, ma spero che vi piacciano.
Vi ringrazio tantissimo per le recensioni, non credevo davvero che avrei avuto qualche parere positivo!


Sarinne



Avviso: purtroppo questo venerdí non riusciró ad aggiornare causa rottura pc (mi sto colegando con il cellulare) confido nel riuscire a postare domani e per farmi perdonare del ritardo la settimana prossima metteró due capitoli.
Spero che non me ne vogliate.
Sarinne

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Capitolo 3
*** Capitolo II. Sogno ***


Capitolo II
 Sogno

 

 
 
 
 
Piedi nudi su un prato scuro.
Notte.
Vento tra le foglie allungate degli alberi. Vento tra i capelli. Vento nelle fessure dellingombrante vestito da sera. Vento che frusciava tra le balze di raso. Vento tra i merletti. Vento tra i ricami.
Sangue.
Sangue che gocciola dai capelli, gocce che scivolano sulla stoffa fino a colare a picco sui piedi diventando chiazze rosse sulla candida pelle.
Una lieve torsione del busto, un ultimo tratto e il suo viso sarà visibile, illuminato dalla luna.
Giratevi, vi supplico
Il vestito roteò con il fluido movimento della donna, le pieghe schizzarono il sangue tra gli steli dellerba.
La luna si proiettò sul suo viso come la luce di una candela.
Visonon aveva un viso.
Al suo posto un abbozzo di pelle liscia, come una dama di un dipinto incompleto in cui il pittore aveva soltanto passato una pennellata color carne in un ovale poco realistico che doveva fungere da raffinata faccia.
    Edith era sicura che ridesse. Il suono della sua risata era invisibile nellaria. Le labbra della donna inesistenti. Ma nel petto sentiva le sue risa di scherno. Risa folli e sguaiate, come fuoriuscite da una maschera impazzita. Le sentiva rimbombare nel cranio, precipitare nello stomaco e mescolarsi con il the inglese che aveva bevuto prima daddormentarsi ( come la sua cattiva abitudine prevedeva).
Stava ridendo. Ridendo di lei.
 
Un raggio di sole birichino, scampato alle austere tende marroni andò ad illuminare il viso di Edith.
Gli occhi di cristallo si spalancarono di scatto e si strizzarono un attimo dopo, feriti dalla lama di luce che li aveva trafitti.
Edith pensò che quel sogno era proprio strano, perché di solito nei suoi mondi notturni non si aggiravano nobildonne sanguinanti ma giovani con un bel corpo e pochi vestiti addosso.
Fatto stava che quando un gracile e malaticcio individuo si presentò alla sua porta con una lettera dalla lontana città di Soux non la collegò per niente allo strano sogno che aveva fatto la notte scorsa.
La lettera le diceva, gentilmente, di recarsi il più presto possibile a WhitheVille, la residenza di sua cugina Catherine, con i saluti cordiali di un certo Malcom Ghilbert.
Ad Edith sembrò uno scherzo di cattivo gusto quando le ultime righe della pagina le riferirono che era una cosa urgente e di estrema importanza e di portare un bagaglio grande perché sarebbe dovuta rimanere lì per almeno una settimana, e per di più accompagnata dallamabile madre.
Per un attimo la tentazione di non mostrare mai quel foglietto ad Earleen gli fece comparire sulle labbra un sorriso furbo: sarebbe stato semplice, ci sarebbe andata da sola, dopotutto era solita sparire spesso senza avvertire. Ma il suo piano venne brutalmente spezzato da una candida e delicata mano che afferrò la busta da dietro la sua spalla.
Gli occhi grigi di Miss Earleen rotolarono per ogni riga della pagina finchè non si alzarono perplessi sulla figlia
<< Non sarà successo qualcosa a Catherine? >>
Un sorriso amaro si materializzò sulle labbra di Edith << Non penso che vi importi molto, non siete mai riuscita a sopportare Irina e neanche sua figlia >>
Gli occhi della donna si infiammarono << Le cattiverie che escono dalla vostra bocca sono>>
<< Si lo so>> sospirò laconica Edith, con un gesto teatrale si portò sconsolata le mani al petto e con tono melodrammatico completò la frase rimasta in sospeso della madre << Le cattiverie che escono dalla mia bocca sono dettate dal diavolo che risiede in me  >> si aggrappò al muro recitando la parte di una triste e disperata donzella << Ho come farò?! Come farò a sopravvivere alla presenza maligna che alberga nel mio corpo? >> indicò con un ampio gesto la finestra aperta davanti a se, si avvicinò al davanzale, aprì con fluidità esagerata le tende decorate con orrendi fiorellini marroni     << Dovrò gettarmi dal davanzale per sottrarmi al mio sfortunato destino! >>
Earleen le mostrò un sorriso mesto << Mi farebbe molto piacere, mia cara >>
La rossa si girò verso la madre, la stretta veste semplice si gonfiò per il rapido movimento
<< Mi ferite, cara madre >>
<< Non andrete da vostra cugina >> tagliò corto la donna.
Edith sorrise << Persuadetemi >>
La donna le puntò il dito contro il petto facendola arretrare di un passo << Quanto è vero che il mio nome è Earleen Ginevre Laurelaine OConrad voi non andrete da nessuna parte Miss Edith. Da nessuna parte. >>
 
La carrozza avanzava nel bel mezzo di un serale temporale estivo.
Edith osservò sua madre che ronfava con la faccia schiacciata contro il finestrino gelido, notò con esasperazione che aveva lo stesso cipiglio triste e disperato da anima in pena che le si appiccicava sul viso quandera sveglia.
Sarebbero arrivate a WhiteVille in tempo per il the del pomeriggio. Si trattava dattraversare due quarti dellInghilterra, ed il nome ridicolo che avevano stampato a quella grande residenza non le rendeva il viaggio più piacevo (bhe, se era per questo neanche il ronfare nasale di sua madre gli metteva il massimo dellallegria).
WhiteVille
Villa bianca
Infatti, da ciò che ricordava lintera residenza esterna era bianca e anche gli interni non è che avessero tanto colore. Ci giocava da bambina, lei e sua cugina Catherine, una volta aveva perfino celebrato la messa sposandola con un bambino che giocava spesso con loro. Non aveva notizie della ragazza da almeno dieci anni, doveva avere qualche anno più di lei, forse diciannove o venti.
Il motivo della loro separazione era stata naturalmente quella nobile viziata di sua madre: lei e la sorella non si erano mai potute sopportare più di tanto e poi un giorno Puff, dopo una litigata  lennesima  con Irina sua madre aveva deciso che non avrebbero più trascorso lestate da loro e così fu, per dieci lunghi anni.
Un brivido deccitazione linvadeva, finalmente aveva il pretesto per andare a trovare finalmente sua cugina, per parlare con lei e per vedere se era cresciuta o era rimasta lo scricciolo a cui andavano larghi tutti i vestiti. Per tanti anni, non era mai riuscita a farsi dire dove si trovava la villa, ne a noleggiare qualche carrozza o cavallo perché a quanto pareva sua madre si era messa parecchio dimpegno per non farle mai più rivedere sua cugina.
Un brivido le oltrepassò la schiena. I temporali estivi portavano con loro un vento freddo e quella notte di pioggia gelida, fitta come nebbia era nera come gli occhi di Catherine. Fuori dal finestrino riusciva a scorgere limmensa oscurità che avvolgeva la carrozza, sbiadita solo dalla lampada ad olio che il cocchiere teneva protetta sotto il mantello, almeno per dare un po di luce ai cavalli.
Era stato snervante convincere quel vecchio baffuto a continuare il percorso, affermava che in notti così buie muoversi era pericoloso, e non solo per loscurità, ma per ciò vi si nascondeva dentro.
Edith schiaccio il naso contro il finestrino, gli occhi divenuti due fessure dacqua, cercava di scorgere qualcosa di anomalo nella sera piovosa.
Il ticchettio della pioggia non riuscì più a coprire il poco regale ronfare di sua madre, le gocce diminuirono riducendosi ad un mormorio confuso sul tetto della carrozza. Alcune rotolarono giù dal vetro, come lacrime su una guancia.
Una strana sensazione le percorreva la schiena e si fermava nelle costole per poi espandersi nel torace simile ad una melma gelida e densa.
Qualcosa le diceva di non guardare.
Nelle viscere del suo essere sentiva che cera veramente qualcosa là fuori. Qualcosa di anomalo e vomitevole.
Nelloscurità della notte le sue orecchie udirono un ringhiare, basso ed iroso, simile a quello di un cane.
Ma non era il ringhio di un cane quello che le agitava il sangue nelle vene interne. Sembrava quasi umano.
Il suo respiro, dun tratto veloce e pesante, annebbiò il finestrino, si ritrasse da quella superficie gelida come scottata, le mani scivolarono via sulle sue gambe lasciando due segni di sudore lungo la superficie liscia del vetro.
Le sudavano le mani.
Boccheggiò sembrava che dun tratto le avessero tolto lossigeno dal corpo, annaspò senza riuscire a far entrare laria nei polmoni come se due mani invisibili la stessero strozzando facendo penetrare le unghie nella carne.
Con un ultima boccata daria il suo petto si alzò per poi abbassarsi dolcemente.
Strinse le mani. Chiuse gli occhi. Aprì gli occhi. Guardò fuori dal finestrino.
Niente.
Non cera assolutamente ed inconfutabilmente niente.
Si lasciò andare con la schiena sul sedile di velluto e le mani scomposte accarezzando il braccio rigonfio di piume doca.
      La pioggia cessò come se dun tratto qualcuno avesse asciugato tutte le lacrime del cielo.
Presto le nubi che stagnavano allorizzonte sarebbero scomparse ed avrebbero dato aria alle stelle ed alla luna che avrebbero reso la notte più luminosa e romantica.
Ma fino ad allora non avrebbe guardato fuori dal finestrino.
Sapendo che qualcosa le avrebbe osservate nel buio più fitto di una notte senza luci.
Ed eccomi qui ad aggiornare con un giorno di ritardo da quanto avvertito nel capitolo precendente.







Come vi ho promesso per farmi perdonare di non aver aggiornato Venerdì (Causa rottura PC: adesso sto postando dal computer di un'amica)  La settimana prossima metterò due capitoli: Uno Martedì e l'altro Venerdì.
Grazie a tutte dell'entusiasmo con cui continuate a seguire "Ombre sui muri"

Sarinne





















 

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Capitolo 4
*** Capitolo III. Lettera ***


Inizio con lo scusarmi per il tremendo ritardo. Ma il mio computer era morto e sepolto e solo adesso è riuscito a resuscitare dall'oltretompa.
Da oggi aggiornerò due volte a settimana: Lunedì e Venerdì sera. Purtroppo sono gli unici giorni in cui sono libera e quindi non posso fare di più (e mi sento piuttosto in colpa)
Vogliate perdonarmi tutti!
PS: Adesso risponderò anche alle recensioni 


Sarinne





Capitolo III
 Lettera.

 
 
 
Arrivarono a WhiteVille in tempo per l’ora del the. Come previsto.
Edith scese dalla carrozza, porse la mano alla madre con un gesto da perfetto gentiluomo, Earleen, suo malgrado, intrecciò le dita con quelle della figlia e scese goffamente i tre gradini della carrozza, impettita dal sontuoso vestito col corpetto a fiorellini verdi che lei si ostinava a definire “da viaggio”.
La rossa roteò esageratamente le iridi cerulee quando la nobildonna iniziò a rassettarsi ogni singolo accessorio e merletto che comprendeva il suo abito.
Sbuffò sonoramente quando la donna prese a pettinarsi i capelli lasciati – incredibilmente – sciolti.
Edith ed il cocchiere si scambiarono uno sguardo esausto quando Miss Earleen iniziò ad incipriarsi il nasino per poi passare, metodicamente alle guance, al collo, alla fronte. Strusciava  quel pennello da cipria con una velocità ed una maestria che solo anni di impegno e dedizione potevano rendere tale.
Quando la nobildonna ebbe finito di sistemarsi il rossetto e gli occhi allora si scomodò a guardarsi in torno, per scoprire - con sua grande sorpresa – che non erano davanti al cancello della villa.
Si girò risoluta verso l’ometto con i baffi, con passo regale e mento alto gli chiese come mai non le aveva accompagnate fino al cancello.
L’uomo fece colare un sorriso giallo sulla barba ispida ed umida.
<< Da qui si continua a piedi, Milady >>
Earleen rimase un attimo sbigottita di quell’affermazione, con la solita bocca dischiusa a mezz’aria di quando era disgustata e sorpresa di qualcosa allo stesso tempo.
<< Mi sembra d’aver pagato per farmi portare fino al cancello! >> le parole della donna risultarono isteriche e fastidiose alle orecchie di Edith.
<< E’ un sentiero stretto ed i cavalli sono stanchi, Milady >>
Earleen non sapeva cosa rispondere. Serrò le labbra stringendo i pugni con le braccia tese, si girò in un movimento regale ed alzò il mento con uno sguardo pieno di superbia ed ostinazione
<< Forza Edith, andiamo – gettò un occhiataccia tagliente al cocchiere – A piedi >>
L’uomo di conseguenza le augurò una buona passeggiata e se ne andò via fischiettando tra il rumore dei cavalli e delle ruote.
 
<< Un villano – Earleen alzò di più la gonna prima di oltrepassare a labbra arricciate una pozzanghera di fango nel terreno a ciottoli – un barbaro! Ecco cos’è! >>
La voce di sua madre era terribilmente acuta.
Era una delle tante cose che odiava di lei.
<< Un plebeo! – la sentiva ansimare tra le urla, affaticata dai cento metri di cammino in un sentiero di terra fangosa che avevano percorso – Un…un emerito cialtrone! >>
<< Fate silenzio >> Edith si fermò di colpo, la testa rivolta verso l’alto, i suoi occhi si illuminarono ed un sorriso le comparve sulle labbra << Cathy…>>
La dimora si stagliava marmorea davanti a lei, illuminata dal sole estivo.
C’era una ragazza di spalle, davanti al cancello, intenta a districarsi tra le aste in ferro battuto, chinata, come se cercasse di afferrare qualcosa caduta dall’altro lato, vestito color panna, grezzo e semplice.
La felicità l’invase. Sua cugina! Finalmente avrebbe rivisto sua cugina!
Corse verso la ragazza lasciando la madre alle sue lamentele << Catherine! >>
La delusione quando essa si girò le fece piombare un enorme macigno di tristezza nello stomaco.
La donna scosse il capo.
No, non era di certo Cathy quella signora sulla cinquantina.
<< Dov’è Catherine? >>
Per un attimo la donna fu sul punto di piangere, osservò gli occhi verdi, solcati da pesanti occhiaie, diventare lucidi di pianto. Edith non ebbe il tempo di chiedere spiegazioni che una mano guantata le si posò sulla spalla.
<< Lei dev’ essere Miss O’Conrad >>
Edith si girò << E lei Malcom Ghilbert >>
Era un ragazzo, forse anche più piccolo di lei, occhi scuri, capelli neri, lineamenti regolari che rendevano il suo viso molto più che semplicemente interessante.
Edith notò nei sui occhi una scintilla di pietà, gonfiò in petto facendo entrare aria nei polmoni, chiuse gli occhi irritata, cercando di non far cadere le lacrime che avevano iniziato a bruciare inumidendole le palpebre << Cos’è successo a mia cugina? >>
 
<< L’hanno trovata qui >> l’uomo indicò la terra battuta in corrispondenza del terzo piano, neanche la pioggia era riuscita a sbiadire la macchia di sangue che era penetrata nel terreno fino alle viscere.
Edith immaginò la cugina riversa lì per terra in un lago di sangue, lo sguardo nero sbiadito, spirato nell’istante in cui era caduta, il corpo scomposto, la vestaglia da notte strappata.
Gli occhi di ghiaccio osservarono quel pezzo di terra.
Una rabbia cieca iniziò a farle tremare le mani, saliva dall’interno e scoppiava schiumando dentro il suo torace, dove batteva il cuore. Lo sguardo vibrava, fisso e ristretto dalla furia che non riusciva a contenere. Ogni rumore si fece sbiadito: Il ragazzo che spiegava cosa, secondo le sue teorie, era accaduto (senza il minimo tatto), i passi di sua madre accompagnata dalla donna del cancello, gli uccelli che cinguettavano, il lieve vento che frusciava.
Intorno a lei quei colori lampanti diventarono grigi e gelidi, come un inverno mai finito.
A riportarla all’allegra realtà di quella giornata di sole furono le mani del ragazzo
<< Mi…mi scusi – le dita le annodarono con precisione il fiocco rosa che portava al polso, passarono a rimetterle a posto il nastro che indossava al collo e le portarono una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio – Mi scusi è…è solo che…- fece qualche passo indietro e la squadrò dall’alto in basso lentamente, come a scovare qualche altro difetto – Benissimo, ora è perfetta – sorrise - …Stavamo dicendo? >>
Edith lo guardò un attimo in silenzio, se le rabbia, in quel momento,  non la stesse accecando sarebbe riuscita a notare la perfezione metodica di quell’uomo, non solo nei lineamenti del suo viso, ma in tutto, in qualsiasi cosa del suo essere tutto pareva essere perfetto: polsini tirati in fuori al millimetro, vestito lavato e pulito fino a sbiadirlo, mani scorticare da troppo tenerle sotto l’acqua fresca per levare ogni piccolo germe.
Un sopracciglio chiaro della donna si inarcò << Lei che centra nell’omicidio di mia cugina? >> calcò sulla parola “omicidio” con tutta l’ira repressa che aveva in corpo, i denti stretti da cui fuoriuscirono quelle parole fecero arretrare il ragazzo di qualche passo.
<< Mi ha chiamato Sir Lorence, il suo futuro sposo - Rispose con semplicità e naturalezza - Per cercare le cause del suo suicidio, vedete la mia specializzazione e lo studio scientifico della mente: io…>>
<< Suicidio? – i pugni di Edith si serrarono mentre pronunciava quella parola disgustosa ed inadeguata in quel contesto –Questo – indicò con dito tremante d’ira il punto in cui sua cugina era caduta – Non può essere un suicidio! >>
<< Ciò che affermante  è tutto da vedere >>
<< E mi avete chiamato per questo?! Mi avete fatto venire all’altro capo dell’Inghilterra, con la speranza di rivedere mia cugina dopo dieci anni solo per dirmi che è morta?! >> ansimò, non aveva mai urlato così tanto in vita sua. << Perché non me l’avete detto nella lettera?! >>
Il ragazzo alzò un dito << Credevo che stesse per contestare la mia giovane età ed invece...- Sorrise tra se e sé, convinto di sembrare più grande dei suoi vent’anni – Comunque, le ragioni per cui abbiamo chiamato lei e sua madre qui è che credevamo vi avrebbe fatto…- si posò una mano sul mento indeciso su quale termine usare - …Piacere assistere al funerale, vedete, Sir Lorence ha pagato un Pastore per far celebrare di nuovo le memorie della sua futura sposa, questo perché ne voi ne lui erano presenti il giorno della morte ed il corpo non poteva essere seppellito dopo tre giorni…capite? Iniziava ad andare in putrefazione e…. >>
Edith rimase a bocca aperta.
<< E comunque siete qui anche per scoprire qualcosa di più della mente di vostra cugina, ma da quanto ho capito voi non la conoscevate bene, insomma…dieci anni sono una gran lunga assenza dalla sua vita, Sir Lorence mi aveva assicurato che era molto legata a voi, parlava spesso di lei Milady, non credeva non vi sentiste da tanti anni >>
<< Il poco tatto con cui pronunziate queste parole è riprovevole – sua madre era spuntata all’improvviso con gli occhi lucidi ed il dito accusatorio puntato contro il giovane – Dovreste vergognarvi! >>
<< Per Dio! – esclamò il giovane massaggiandosi le orecchie – Avete una voce così acuta,     Milady! >>
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso: dopo un viaggio di ore, un cocchiere per niente gentiluomo ed un percorso insidioso in un sentiero brulicante di fango e vermi  Earleen si sentì quasi giustificata quando scoppiò in lacrime. La governante le posò uno scialle sulle spalle (chissà a cosa poteva servire) gli strofinò il braccio e l’accompagnò dentro lanciando un occhiata di rimprovero al ragazzo.
<< Ah…- rovistò nella tasca del vestito, come se si fosse appena ricordato una cosa importante – I guanti bianchi ne estrassero una lettera che invano aveva cercato di rendere meno spiegazzata, gliela mise tra le mani – Sir Lorence mi ha pregato di consegnarvela, egli arriverà tra quattro giorni. E’ di vostra cugina, gliel’ha fatta custodire in attesa del giorno in cui sareste venuta qui. >>
Edith l’afferrò come un affamato afferra un pezzo di pane. Non aspettò di essere chiusa nelle sue stanze per leggerla, l’aprì brutalmente, stracciando la carta.
 
Edith, se state leggendo questa lettera vuol dire che la mia fine è ormai giunta.
Non disperate, probabilmente vi avrà chiamato Lorence oppure la mia governante Gwenda.
Ora io vi supplico, mia cara cugina, di andarvene immediatamente via.
Questo non è più il luogo sicuro in cui giocavamo da bambine.
Una presenza striscia per queste stanze, stagna nell’aria, si nasconde nei muri.
È Lei la causa della mia morte. Mentre scrivo queste parole riesco a sentire il suo respiro nella carne, le sue mani sulle mie guance, le unghie che si frenano dal penetrare la sottile pelle del collo.
Lei vi ucciderà cugina.
Lei vi farà impazzire come sta facendo con me!
Lasciate questa casa. Lasciate questo posto!. Non abbiate voglia di vendicare la mia morte perché nessuno riuscirà a vendicarla.
Questa dimora  dovrà bruciare, questo è il mio volere. E con la casa bruceranno anche le Sue membra gelide, nascoste nei muri.
Queste parole vi suoneranno strane, mi crederete pazza. Credetelo. Credetelo vi supplico!
Realizzate le ultime suppliche di una povera pazza, quindi e Andate via!
Andate via!
Andate via!
Andate via!

 
La calligrafia era spezzata, grossi tratti di lettere cancellati con l’inchiostro, la penna a piuma d’oca aveva bucato il foglio, la carta era ispida di lacrime e la sfilza di “andate via” continuava per tutta l’altra pagina.
Edith si accorse solo allora d’aver trattenuto il respiro mentre scorreva quelle righe, i polmoni si dilatarono e le labbra secche annasparono di colpo l’aria calda di quel pomeriggio.
Alzò lo sguardo sul ragazzo, la stava fissando con una scintilla di curiosità nelle iridi scure
<< L’avete letta? >> la voce di Edith fuoriuscì debole e distorta. Le parole troppo veloci
Il giovane scosse la testa scura.
La ragazza gliela porse tremando, una scintilla di testardaggine brillava ancora negli occhi chiari   << Leggetela e ditemi se è stato un suicidio >>

 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo IV. Gola ***


Capitolo IV
Gola

 
 
 
<< Questa lettera non cambia assolutamente niente – neanche Malcom riusciva a credere alle sue stesse parole – E’ palese che sua cugina fosse mentalmente instabile >> quando il ragazzo alzò lo sguardo dal foglio ruvido che teneva tra le mani realizzò che non avrebbe dovuto pronunciare quelle parole. Gli occhi furenti di Edith O’Conrad lo fissavano, i pugni sudati della ragazza si staccarono dal vestito e per un attimo ebbe la certezza che gli avrebbe tirato uno schiaffo in pieno viso.
Sarebbe stata la reazione esagerata di una fine nobildonna Inglese, o come minimo, avrebbe gettato un urlo acuto trillando qualcosa del tipo “Lei è un barbaro privo di sensibilità”.
Ma Edith O’Conrad non fece nessuna delle due cose.
Gli gettò le dita calde al collo ringhiando come una belva feroce.
Dopo che il dolore alla spina dorsale l’ebbe fatto urlare Malcom si rese conto di essere finito sulla terra battuta con la leggiadra signorina sopra di lui in una posa del tutto sconveniente, sarebbe stata parecchio volgare se in quel momento non gli stesse facendo penetrare le dita nella pelle sottile del collo ed i suoi occhi non bruciassero proprio di “desiderio”.
La prima cosa che il ragazzo fece fu parlare con voce strozzata priva di fiato dicendo che potevano chiarire tutto e che niente si risolve con la violenza.
Ma i lineamenti della fanciulla, contorti e deformi per l’ira, non erano esattamente il ritratto della pace e del perdono.
Ciò che Malcom temeva accadde: La ragazza sollevò un pugno mentre con l’altra mano lo teneva fermo per la gola. Fu inutile dibattersi e sferrare calci e manate sulla schiena della donna, sembrava non sentire il minimo dolore nonostante Malcom fosse un uomo di forza media.
<< Mia cugina >> pugno << Non era >> pugno << Una pazza! >> pugno.
<< Certo che no >> ansimò il ragazzo << Certo che no >> ripeté più lentamente sperando ce il tono lento e controllato (nonostante gli stesse togliendo il fiato) servisse a calmare la donna.
Stranamentefunzionò.
La ragazza lasciò lentamente la presa e rotolò delicatamente al suo fianco, i lineamenti ritornarono rilassati e perfetti, il petto, stritolato dal corpetto grigio, si alzava ed abbassava profondamente.
Le ginocchia, avvolte in una gonna color prugna sbiadita gli sfioravano il viso, notò che i capelli rossi erano irreparabilmente fuori posto ed annaspava con contegno aria dalla bocca dischiusa mentre il sudore rendeva lucida la sua fronte.
Solo allora il giovane sembrò accorgersi che tutti i pugni erano andati a vuoto e non ad infrangersi sul suo prezioso naso sottile ed avevano scavato solchi nel terreno battuto ai lati della sua testa.
E solo allora parve ricordare il dolore alla gola ed il fatto che non stesse respirando. Si gettò a sedere di scatto, come una molla tenuta troppo tempo all’indietro, tossì annaspando aria mentre le mani guantate si posavano sulla gola massacrata. Era come se quel demonio gli avesse conficcato un sasso della grandezza del suo pugno nella carotide.
La osservò con la coda dell’occhio fissarlo incolore mentre tossiva alla disperata ricerca di aiuto. Possibile che nessuno all’interno della casa accorresse in suo soccorso?!
Quando la tosse si fu calmata un altro bisogno impellente gli fece formicolare le mani e stritolare il petto, quasi più del peso della ragazza sul suo corpo bloccato – eppure sembrava così leggera quella donna  si, era alta quasi più di lui (non che lui fosse poi tanto alto, ammettendolo) ma come aveva fatto a resistere al suo divincolarsi? La rabbia doveva averla davvero accecata.
Lasciò perdere: c’era qualcosa di più importante da fare.
Si tirò i guanti più su che poteva per poi lasciarli ricadere all’altezza del polso, come un chirurgo prima dell’operazione.
Le dita riportarono delicatamente a posto i capelli della donna dietro l’orecchio. La suddetta signorina, di conseguenza, proiettò sulla sua figura uno sguardo che avrebbe fatto gelare di paura il Re in persona.
In silenzio le lisciò le pieghe del vestito ed a quel punto lo sguardo omicida della ragazza si trasformò in un espressione di puro sbigottimento.
Le legò meglio il fiocco chiaro che aveva alla gola. Le prese delicatamente la mano e la tirò su.
Come immaginava la ragazza lo superava di mezza spalla, sarebbe potuta essere anche un metro ed ottanta per quanto gli riguardava…O, molto probabilmente uno e settantacinque visto che, nonostante sua madre glielo ripetesse sempre da bambino, non era diventato altissimo.
Lasciò scivolare la mano della donna lungo il fianco. Rimase in silenzio qualche istante a contemplare la sua opera.
Poi chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro.
<< Ma cosa diavolo LE E’ SALTATO IN MENTE?! >>
La ragazza socchiuse lo sguardo alzando il mento come a fargli capire che quell’urlo di puro disgusto (misto a qualche spruzzata di collera assassina) non gli aveva fatto gelare il sangue nelle vene come il gentiluomo si augurava.
Tra loro scese il silenzio, riuscivano a sentire gli uccellini cinguettare allegri, i loro respiri regolari ed austeri e Malcom lanciò uno sguardo di ghiaccio ad una farfalla bianca che svolazzò tra loro.
Fu Edith a parlare per prima.
<< Mia cugina, Catherine Annaelise Harling, non si è gettata di sua spontanea volontà da quel balcone, come conferma la lettera, qualcuno che abitava con lei tramava il suo omicidio e l’ha uccisa >>
Malcom non riuscì a trattenersi dal far comparire sul volto un piccolo sorriso di scherno
<< Credo che la “presenza” a cui si riferisce…>> Malcom frenò la lingua ricordandosi che ormai la bella Catherine era in avanzato stato di putrefazione in una tomba << a cui si riferiva vostra cugina non sia di origine umana >>
<< Cathy doveva essere sconvolta. Avete parlato con la governante? Avete parlato con il maggiordomo e le cameriere? >>
Silenzio.
Malcom concentrò la sua attenzione sulle punte delle scarpe lucidate alla perfezione, qualche granello di terra ci era finito sopra, doveva eliminarlo al più presto!
Edith alzò un sopracciglio chiaro
<< No? >>
Malcom non risposte, continuava a sfregarsi le mani nervosamente << Devo andare a farmi un bagno >> l’avvertì, il suo tono era di un ottava più basso.
I canini di Edith fecero bella vista nei denti serrati ed il giovane ebbe paura che tra qualche secondo gli sarebbe saltata al collo con l’agilità di un puma ed avrebbe preso a  dissanguarlo senza pietà.
<< Voi – puntò un dito accusatore contro il suo petto, così a fondo da farlo arretrare – Neanche per un secondo avete dato credito all’idea che Miss Harling potesse essere stata assassinata >>
Malcom alzò le mani in segno di resa << Non sono un investigatore Milady, risolvo i misteri della mente non i delitti >>
<< Allora cosa diavolo ci fate qui?! >>
<< Vi ripeto – parlò molto lentamente, scandendo bene ogni sillaba, come si fa quando bisogna insegnare una parola difficile ad un bambino molto piccolo e tardo – Che Sir Lorence mi ha interpellato per capire cosa affliggeva – quella volta si sforzò di non usare il presente – Il cuore e la mente di vostra cugina per scegliere una via di fuga così malata e contorta come il suicidio! >> si accorse solo allora di star urlando.
Calò di nuovo il silenzio, gli uccelli cinguettavano ancora allegramente ma la farfalla bianca ebbe il buon senso di non ripresentarsi sulla loro strada.
<< Interrogate tutti – Edith aveva le palpebre calate, Malcom pensò che stesse trattenendo le lacrime – Interrogateli tutti, torchiateli finchè non cadranno con la faccia sul tavolo per il sonno, la stanchezza e la disperazione: voglio che troviate l’assassino di Cathy e lo voglio ai miei piedi al più presto >> il tono freddo e distaccato con cui pronunciò quelle parole aveva una nota di minaccia nelle ultime sillabe. Malcom si morse l’interno della guancia per evitare di chiedere con tono di sfida che cosa sarebbe successo se non avesse trovato il colpevole (sempre ce ne fosse stato uno), onde evitare di essere strangolato per la seconda volta.
 

 
 
Anche questo è un semplice capitolo di transizione che mette in gioco un nuovo personaggio: Malcom Ghilbert (che avrà anche lui un ruolo fondamentale nella storia)
In realtà doveva essere un capitolo intero di sei pagine e passa, ma ho ideato un metodo contorto per abbreviarlo:
il resto del capitolo non è il V ma il VI. Ho deciso di dedicare il V capitolo alla nostra dolce e defunta Catherine, solo ed esclusivamente per lei, vorrei scrivere l’agonia che ha provato e ciò che ha visto quindi sarà totalmente Horror (Visto che è dal primo capitolo che non accade qualcosa di inquietante…a parte forse il sogno di Edith)
Quindi spero non me ne vogliate, se è un capitolo piuttosto misero (A malapena due pagine e mezzo, mentre gli altri erano sulla media delle 3 – 4 pagine.
Grazie ancora per tutto il sostegno che mi date, le vostre parole sono impagabili.
 
Sarinne. 

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