It takes two to whisper quietly

di nadya94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Meeting ***
Capitolo 2: *** Thoughts ***
Capitolo 3: *** Black holes and revelations ***
Capitolo 4: *** What about me and you? ***
Capitolo 5: *** Wanna stay with you ***
Capitolo 6: *** Show me the happiness ***
Capitolo 7: *** Visite ***
Capitolo 8: *** Our favorite song ***



Capitolo 1
*** Meeting ***


Salve a tutti! Questa è la mia prima fan fiction, per cui siate sincere: considero le critiche costruttive! Inoltre volevo ringraziare due mie amiche: senza di loro non avrei scritto nulla! Buona lettura! 

"Nulla due volte accade
 nè accadrà. Per tal ragione
 si nasce senza esperienza,
 si muore senza assuefazione"
 W. Szymborska


“Kris ! svegliati, è tardi ! “ urlò mia madre dal piano di sotto.
“Oh, no ! ti prego, non mi va “ pensai, mezza insonnolita. Non mi andava di alzarmi ed andare a scuola. Non perché non mi piacesse studiare, anzi, andavo piuttosto bene in ogni materia, ma … mi sentivo a disagio lì. Era un luogo popolato da persone a me estranee e non contava nulla il tempo in cui ci sarei stata : sarebbe stato sempre lo stesso, Certo, conoscevo gente, avevo degli psudo-amici, ma niente a che vedere con legami forti e “duraturi” che credevo di aver istaurato un tempo, quando ero una semplice adolescente senza pensieri. “ Alt ! Kristen, non pensare a queste cose, ti rovini solo la giornata “ pensai e a mio malgrado costrinsi il mio corpo ad alzarsi dal caldo letto. Mio Dio, faceva un freddo cane lì fuori : vedevo dalla finestra la solita nebbia londinese nascondere tutto il paesaggio circostante la mia casa. Vivevo in centro, con mia madre, in una piccola casa a due piani, ma ciò che amavo di più era il giardino circostante : era stata una fortuna trovare una casa nel centro di Londra con un giardino circostante ! Andavo lì ogni qualvolta ne avevo la possibilità( ossia ogni volta che riuscivo a liberarmi dalla stretta malefica dei compiti che ci assegnavano a scuola ) e restavo sotto una grossa quercia per ore, distesa all’ombra e rilassata come non lo ero mai stata. Ma anche lì il buio dei miei incubi infestava la mia tranquillità. Dopo un po’, riprendevo a pensare al passato, a ciò che avevo fatto, a ciò che ne era conseguito : prendevo la testa tra le mie mani, non volevo pensarci, volevo solo dimenticare. Era chiedere troppo ?! si, forse si. Forse era quello il modo x scontare la pena..
No, decisi, quella mattina non sarei andata a scuola. Non mi andava, non ce la facevo a sopportare quei visi assenti e indecifrabili, che non facevano altro che pensare ai loro stupidi problemi adolescenziali.
Uscìì da casa in fretta, con addosso solo una vecchia felpa nera, mi alzai il cappuccio e camminai per le strade del centro, Strano pensarlo, ma mi faceva sentire a mio agio stare in mezzo alla folla, camminare indifferente di tutti e indifferente a tutti. Era quello che mi serviva : odiavo le persone che cercavano di sapere tutto di me e del mio passato perché mi facevano ricordare cose che non VOLEVO ricordare.
Camminavo senza sapere dove andavo, lasciavo che i miei pensieri mi guidassero, mentre il mio cervello camminava verso tutt’altri luoghi. Ad un tratto, mi ritrovai davanti una biblioteca, “ Wow, andiamo a vedere un po’ che c’è di bello ! “ pensai. Ecco ciò che ci voleva, un bel libro !
Amavo la lettura pazzamente : amavo sfogliare le pagine con i polpastrelli delle dita, sentire il profumo di esse non appena comprato, ma soprattutto amavo catapultarmi in un luogo sconosciuto, in un mondo diviso da quello in cui vivevo. Era un’utopia, una fuga dalla realtà e me ne rendevo conto, ma era ciò che volevo, ciò che riusciva ad allontanarmi dal baratro in cui rischiavo di cadere.
Mi sentivo come una bambina, felice di essere in un luogo a me così caro, e non pensavo a nulla, solo alla prossima storia che avrei letto.
A scuola ci avevano assegnato come lettura “ Orgoglio e pregiudizio “ di Jane Austen, perciò, dato che non l’avevo mai letto fino ad allora, decisi che era arrivato il momento di leggerlo. Non mi andava di chiedere a qualche assistente di cercarlo, dunque mi misi alla ricerca e mi addentrai nella sezione “ Classici “.
Non c’era nessuno, a parte un giovane ragazzo. Ad occhio e croce, doveva avere la mia stessa età. Era di spalle, molto più alto di me, con una chioma disordinata e spettinata, dal colore castano tendente al biondo.
Passai oltre e vidi che il libro che cercavo era proprio di fronte a me. Feci per prenderlo, ma le miei dita non sfiorarono la copertina, bensì un’altra mano sconosciuta. Mi voltai di scatto e … rimasi folgorata dal suo viso. Era il ragazzo di prima, ma di spalle non mi era sembrato così .. come dire, bello. Aveva degli occhi colore ghiaccio, stupendi e freddi allo stesso tempo, e profonde occhiaie circoncidevano i suoi occhi. Sembrava provenisse da una notte passata insonne.
“ Sc.. scusa “ balbettai, in cerca di una risposta meno cretina ed ovvia di quella che avevo dato.
“ No, scusami tu, non mi ero accorto che stavi prendendo lo stesso libro ! “ sorrise, ed il sorriso riuscì per un attimo a riscaldare quegli occhi glaciali.
“ Ummm, non ti preoccupare, posso prendere la copia che c’è dietro, nessun problema ! “ ok, stavo facendo la figura della scema. Che diavolo stava succedendo ? Non mi ero mai sentita così stupida.
“  Okay ! Anche tu sei scappata da scuola?Di nuovo quel sorriso.
“Ehm, si..non avevo nulla da fare” risposi impacciata, chiedendomi dove volesse arrivare.
“ Neanche io. E’ una bella coincidenza. Ma scusa, non volevo impicciarmi degli affari tuoi” replicò, notando la mia espressione piuttosto distaccata.
“no no, non pensarci neanche! E’ che..non sono molto espansiva”, sorrisi, per cercare di eliminare quella stupida sensazione di panico.
“Già, capisco. Bhè, io vado nella sala letture ed inizio a leggerlo” disse, indicandomi la sua copia del libro. “Se vuoi ci vediamo lì!”
“ C-c-certo!” Respira Kris, respira. Non hai ancora fatto nessuna figurella. Si, ma a chi la davo a bere? Che idiota! Non sono molto espansiva?! pensai scimmiottando me stessa. non restava altro che cercare di salvare il salvabile. Mi armai di forza e coraggio e a passi lenti ma decisi lo seguii, evitando di guardarlo. Lui si sedette ad un tavolo e mi invitò a sedermi di fronte a lui.
“ Che idiota! Non mi sono neanche presentato! Io sono Robert, piacere di conoscerti” disse, un po’ imbarazzato, tendendomi la mano.
“Kristen” risposi sorridendo e stringendogli la mano delicatamente.
Stranamente, mi rilassai e sospirai, sorpresa di me stessa. Di solito non mi sentivo a mio agio con qualcuno facilmente, o almeno non dopo quello che era successo. Era forse il contesto? Già forse si, o almeno lo speravo. Iniziai a leggere, sentendomi subito meglio. Ogni tanto guardavo dall’altra parte del tavolo dove sapevo che c’era lui e a volte lo beccavo a fissarmi. Arrossivo inconsapevolmente e mi sorrideva abbassando subito lo sguardo.
Dopo un’ora, mi alzai, certa che non sarei riuscita a sopportare di fare altre figuracce e poi non potevo ritornare a casa tardi, altrimenti mia madre mi avrebbe uccisa, di sicuro!
"Io devo scappare, mia madre mi scuoia viva se scopre che sono qui" dissi, interrompendo il silenzio che si era creato.
"Mi ha fatto piacere incontrarti. Spero di rivederti presto qui" rispose, un pò impacciato.
"Certo.." Non essere così idiota, urli silenziosamente a me stessa.
Agitò la mano, mimando un saluto, subito seguito a ruota da me. Me ne andai cercando di non inciampare in nulla e con il ricordo dei suoi occhi fissi su di me.
 

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Capitolo 2
*** Thoughts ***


Rieccomi con il secondo capitolo! E' un pò breve, am prometto di rifarmi con il terzo! Volevo cogliere l'occasione per fare ancora tantissimi auguri a una delle mie migliori amiche, Lalla ! E voglio anche rinfìgraziare mia sorella: senza di te, non riuscirei a superare il blocco da pagina bianca! Love you so much! Buona lettura! 


“The mind is its own place and itself
 can make a heav’n of hell, a hell of heav’n”

  J. Milton

 



“Dai, non ci posso credere amico! Hai una faccia da pesce lesso!”
“Uffa Tom, lo sapevo che non dovevo dirti nulla, sei un’idiota” gli sussurrai maligno.
Eravamo in classe, a lezione di Inglese e la professoressa si era accorta del nostro battibecco e mi guardava fissa per zittirmi. Decisi che avrei rimandato la “rissa” a fine ora.
Non appena suonò la campanella, diedi a Tom un sonoro schiaffo sulla testa.  “Ahi! MI hai fatto male!”
“Ti sta bene! Non prendermi più in giro, altrimenti non ti dico più nulla”
“Eh, come faresti senza i miei consigli? Diventeresti uno zitello convinto!” e cominciò a ridere a crepapelle. Lo guardai, all’inizio, senza ricambiare la sua risata, ma era troppo contagiosa, così finii per ridere anch’io fino a sentirmi mancare il fiato. Attraversammo il corridoio fino ad arrivare alla nostra prossima lezione: Chimica. “O mio Dio, odio questa materia” pensai malinconico. Bhè, avrei potuto avere più tempo per pensare, fin troppo. Un’ora passa così lentamente…Strano, ma quell’ora fu la più veloce della mia vita: la impegnai a pensare alla ragazza incontrata in biblioteca. “
“Tempo passato magnificamente” sogghignai tra me e me. Mi aveva colpito tutto di lei: aveva capelli lunghi, castani, leggermente mossi alle punte, semplicemente stupendi. E gli occhi..non ne avevo mai visti di così splendenti e variegati, dal colore verde sfavillante. Aveva un fisico longilineo, dalla statura media, un po’ più bassa di me. Ma oltre tutto ciò (che sì, lo ammisi, mi aveva colpito fin dall’inizio) ciò che mi aveva stupito era la facilità con cui mi ero lasciato andare. Diamine, io con le ragazze ero una frana! Balbettavo, non connettevo i pensieri, aprivo la bocca ogni quarto d’ora. “In realtà, non è che hai parlato molto con lei” puntualizzai tra me e me. Subito dopo diedi una risposta coerente a mio pensiero: avevamo parlato più che con le labbra con gli occhi. Erano occhi profondi, i suoi. Si muovevano vigili e circospetti per la maggior parte del tempo, quasi timorosi, a volte impazienti di fuggire.
Volevo sciogliere quella paura.
Volevo trasmetterle sicurezza, provarle che di me poeva fidarsi.
“I want to reconcile the violence in your heart” ricordai le parole di una delle canzoni che più mi poacevano dei Muse, The undisclosed desires, e pensai che era perfetta per quel momento.
Ma dove trovarla? In fin dei conti, sapevo solo il suo nome.” Ma perché mi interessa tanto? L’ho vista una sola volta e non so nulla del suo carattere, nulla di nulla”: ragionamento con il cervello.
“Devo trovarla”:ragionamento con il cuore. “Un equilibrio no, eh?” pensai, un po’ stressato.
Decisi che sarei ritornato in biblioteca per cercare di conoscerla meglio quello stesso pomeriggio.
Infilai le cuffie nelle orecchie e mi estraniai da tutto e tutti.
 
Pov.Kristen
Che sonno! Non riuscivo a reggermi in piedi, tanto dalla stanchezza che provavo. Un’altra notte così e mi sarei svegliata con occhiaie grosse quanto quelle di un panda.
Un altro incubo, come al solito.
Una mano che mi cercava disperatamente.
Un urlo che squarciava il silenzio assoluto.
Una richiesta d’aiuto implorante.
“Non pensarci, Kris”, reazione automatica del mio cervello. Mi ero abituata ormai, era una reazione spontanea. L’unica cosa non scabrosa a cui potevo pensare era lui, il ragazzo della biblioteca. Come al solito mi facevo il mio solito viaggio mentale in mezzo alle mie fantasie. In realtà non dovevo pensarci, non dovevo legarmi se non volevo soffrire. Ma anche così correvo troppo: chi aveva parlato di legami? Ci avevo scambiato solo due o tre parole. Mah! “Sono un’idiota anche nei miei pensieri”, pensai.
Mi strinsi con le braccia: faceva freddo e sentivo dalla finestra il vento ululare. Addosso, avevo la mia solita felpa e, ai piedi, le mie solite All Star. Ok, forse non era il massino per farmi strare al caldo, anzi sicuramente non lo era, ma mi piacevano e non volevo rinunciarci, neanche con un metro di neve a terra. Testarda? Esatto.
“Ma come la mettiamo con la biblioteca? Ci rivai si o no?” pensò la parte razionale del mio subconscio.
“Bhè, d’altronde devo finire di leggere il libro, quindi DEVO” sottolineando il fatto che era un dovere, non un piacere. “Sicura?”
Uffa, basta con i ragionamenti mentali!

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Capitolo 3
*** Black holes and revelations ***


Eccomi di nuovo! Bhè, volevo solo dire grazie per le molte visualizzazioni e dirvi che mi farebbe tantissimo piacere se lasciaste qualche commento, almeno per farmi un'idea, se vi piace, se non vi piace..Mi sembra di parlare da sola! Comunque voglio ringraziare come al solito Fede e Lalla, che continuano a riporre in me una fiducia che forse non merito! Vi voglio bene! Detto questo..Fatemi sapere!!  “Cause i cannot speak
   i lost my voice
   I’m speechless and redundant
   cause “I love you” is not enough
   I’m lost for words”

  Green Day- Redundant
 

Pov Robert

Ero alla biblioteca, seduto ad un bancone che si trovava vicino ad una finestra. In mano avevo il libro di Jane Austen ed ero arrivato al punto in cui Darcy chiede ad Elizabeth di concedergli un ballo.
“Stavo riflettendo sul diletto che possono offrire due begli occhi sul volto di una donna leggiadra” diceva Darcy. Bhè, riflettevo anch’io riguardo a ciò! A quanto due occhi verdi potessero essere rimasti impressi nella mia memoria così in profondità da non riuscire più a dimenticarli. Era destino? No, non credevo in quelle cazzate. Il mondo è un totale caos, in cui non c’è alcuna regola divina che punisce o premia: l’uomo è artefice del proprio destino, è questa la dura verità. Era stato un caso, ma di certo il più bel caso della mia vita, questo era sicuro. Mi immersi completamente nella lettura, tanto da non sentire passi incerti e frettolosi avvicinarsi a me.
Alzai lo sguardo, fulmineo, e mi ritrovai davanti Kristen: era venuta proprio quando cominciavo a perdervi le speranze.
“Ciao” la salutai, caloroso ed allo stesso tempo in ansia.
“Ciao Rob!” ricambiò.
Volevo conoscerla di più, perciò, prima che si gettasse a capofitto nella lettura e nascondesse alla mia vista i suoi occhi meravigliosi, cercai disperatamente un argomento di conversazione che non sembrasse tremendamente banale.
“Come mai leggi un libro della Austen?” okay, questo si che era banale!
“E’ per un compito a scuola, ma in realtà comincia a piacermi. Trovo che scriva in un modo mai scontato, sempre nuovo e avvincente. E’ una continua sopresa: ogni pagina ti lascia col fiato sospeso” disse sorridendomi.
“Lo penso anch’io! E dove vai a scuola?” chiesi incuriosito.
“Qui, è a pochi isolati da qui, di fronte alla stazione di St Pancras”.
“Ma..anche io vado lì! Come mai non ti ho mai vista?”. Ero sbalordito!
“Bhè, te l’ho detto che non sono molto espansiva ricordi? No, scherzo! Mi sono trasferita da qualche mese e ancora non sono riuscita ad abituarmi ai ritmi londinesi né a farmi delle amicizie, per cui..non conosco quasi nessuno” replicò, abbassando lo sguardo per nascondermi chissà quale emozione. Diamine, era così bella..
“Allora hai trovato un amico! Non hai fatto un bell’acquisto però!”scherzai, prendendomi gioco di me stesso e impaziente di vedere la sua reazione.
Arrossì come l’avevo vista fare un paio di volte e mi sorrise.
“Grazie”rispose.
“E di che! Come mia ti sei trasferita? Impaziente di mettere felpa e cappotto?”
“No affatto! Ecco, io..” Non riusciva ad emettere suono e capii che non voleva affrontare l’argomento.
“Ops, sono troppo invadente. Comunque io sono arrivato qui” dissi, indicandole il punto in cui ero arrivato a leggere. Era una scusa per cambiare discorso, non volevo dì farla star male a causa della mia maledetta curiosità.
“Io un po’ più avanti, quando Jane si ammala ed Elizabeth corre in suo soccorso” replicò, ringraziandomi con uno sguardo grato.
“Visto che siamo così avanti..che ne dici di fare una passeggiata? Oggi stranamente c’è il sole e saremmo degli stupidi a lasciarci scappare quest’occasione!”
La vidi tentennare, indecisa sul da farsi. Probabilmente neanche lei voleva rinunciare a quell’opportunità, perché alla fine accettò. Non sapevo cosa dire o cosa chiederle: temevo di nuovo la sua reazione e così me ne stavo con le mani sprofondate nelle tasche, non sapendo come rompere il ghiaccio, mentre attraversavamo le strade del centro. Le luci erano accese e la gente camminava veloce, forse indaffarata e ansiosa di tornare a casa. Io, invece, ero di tutt’altra opinione.
“Certo che è impossibile non averti visto finora” irruppe lei, prendendomi alla sprovvista.
“Infatti..almeno qualche lezione dovremmo condividerla” pensai ad alta voce, dandole ragione.
“Aspetta, forse quella di Spagnolo!” esclamò, e nel farlo le si illuminarono gli occhi. “Si, adesso mi ricordo di te” disse ancora.
“Che strano, io sono sicuro di averti mai vista prima, altrimenti mi sarei di sicuro ricordtao di te” risposi, ma subito mi resi conto della mia ennesima gaffe e provavo il profondo desiderio di tagliarmi la mia maledetta linguaccia.
“Non abbiamo mai parlato, forse è per questo” replicò calma. Non aveva sentito? O forse aveva deciso di sorvolare?
Intanto eravamo giunti ad un parco che si trovava nei pressi della scuola e ci inoltrammo tra gli alberi. Non so perché, ma ho sempre invidiato la natura. Da piccolo, avrei voluto essere un albero: è strano, lo so. Ma invidiavo la natura per il fatto che sembrava sempre in pace con se stessa: mi sembrava l’unico luogo in cui si potesse vivere per come si è e non per come la convenzione detta di essere. Mi bastava pensare al Paradiso terrestre: quale altro luogo, se non la natura, avrebbe potuto essere un paradiso migliore per l’uomo?
“ Che ne dici se ci sediamo qui?” le chiesi, indicando le radici di un faggio.
“Si, certo” e sorrise, illuminando i miei pensieri. Ci sedemmo lì sotto e rimasi incantato nel vedere come la luce che rifletteva tra le foglie ancora ricche di rugiada formasse strani giochi di luce e colore sulla sua pelle.
“Sai, io sono sempre cresciuto qui, a Londra, e ti assicuro che è un posto affascinante. Se vuoi, ti faccio da guida..Okay, non sono il migliore in circolazione, ma ti assicuro che conosco i migliori posti per la cioccolata calda!”
Rise di gusto: forse pensava che fossi spiritoso?
“ E poi sono gratis quindi approfittane!” scherzai ancora. Vidi il suo sorriso illuminare di nuovo il suo incarnato e mi sentii estasiato.
“Ci penserò!”
“Se accetterai mi farai un favore in realtà” dissi mesto. Non sapevo come, ma le parola uscivano senza freni. Non sentivo il bisogno di nasconderle la verità, perché sapevo, seppur inconsciamente, che sarebbe riuscita a capirmi. Negli occhi sembrava avere la stessa scintilla di dolore che c’era nei miei.
“Perché?” mi chese.
“Non sei l’unica che hai segreti” sorrisi, cercando di attenuare la mia frase brusca. Non le lasciai il tempo di controbattere.
“Mio padre è morto. Due mesi fa. In un incidente automobilistico. Stava tornando a casa e…era notte ed è uscito fuori dalla carreggiata. Ecco..mia madre non l’ha presa bene. Bhè, come pensare altrimenti? Piange ogni giorno, non riesce ad andare avanti. Ho cercato di aiutarla all’inizio ma..è difficile anche per me”. Avevo gli occhi lucidi e non me ne vergognavo. Era la verità, nient’altro che la verità e non mi sfogavo con nessuno da troppo tempo. Nemmeno Tom aveva mai cercato di farmi parlare di ciò.
Kris, inaspettatamente mi prese la mano. Era calda, piccola ma rassicurante. Il solo contatto mi mandò il cuore a mille. Subito dopo mi abbracciò.
Non sapevo che fare, avevo la testa fra le nuvole, non ragionavo lucidamente.
Dopo un millesimo di secondo, l’abbracciai anch’io, stringendola forte al mio petto. La sua presenza era la miglior cura per lenire le mie sofferenze.
Abbassai lo sguardo, attento a non rompere quell’attimo perfetto.
Nello stesso istante, lei alzò il suo viso fino a guardarmi negli occhi.
Erano così profondi: sentivo sentivo che sarei stato capace di perdermi in essi, percepivo che nei loro abissi giaceva una pena immane e volevo rassicurarla e dar sollievo alle sue sofferenze così come lei aveva fatto prima con me.
Stavo per avvicinarmi alle sue labbra, attratto dal suo profumo intenso…
“Devo andare” disse, sollevandosi velocemente e prendendo in mano la sua felpa.
“Quando ci rivedremo?” chiesi, avevo paura che adesso sarebbe scappata a gambe levate da me.
Non si girò, ma mi giunsero chiare le sue parole.
“Domani abbiamo Spagnolo insieme, ricordi?”
Sorrisi, felice.
 
Pov Kristen
Era notte, una notte senza stelle. Non riuscivo a dormire e continuavo a tenere gli occhi fissi al pezzo di cielo che riuscivo a intravedere dalla finestra della mia camera.
Pioveva. Amavo la pioggia: adoravo stramene a casa, incappucciata da una coperta e con un libro in mano. Ma quella sera era diverso, la pioggia batteva incessante e non mi aiutava di certo a pensare ad altro se non a ciò che era successo quel giorno. Mi ero lasciata andare, ero stata quasi sul punto di.. no, meno male che mi ero scansata subito. Ciò che era accaduto era stato solo frutto di un dejà-vu. Mentre lui raccontava del suo dramma, di ciò che gli causava dolore, io mi ero lasciata trasportare dai ricordi, avevo quasi dimenticato dov’ero e mi ero lasciata prendere dall’istinto.
Avevo provato una pena immensa quando avevo visto i suoi occhi lucidi. Era come se il ghiaccio che sembrava costituirli si fosse sciolto davanti ai miei stessi occhi. Aveva messo a nudo la sua anima, l’aveva deposta tra le mie mani chiedendomi tacitamente di averne cura..E io non avevo resistito ad una richiesta così dolce. Ma era insensato. Non Potevo. Dovevo allontanarlo. Fargli capire che non potevo né volevo essere qualcosa di più che una semplice conoscenza.
Il mio cuore sobbalzò.
“Che bugiarda” sembrava ripetere.
No, il mio cuore era tutt’altro che d’accordo.
 

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Capitolo 4
*** What about me and you? ***


Et voilà, ecco il quarrto capitolo! Non vi anticipo nulla, ma devo dirvi che mi ha dato molte soddisfazioni! Vabbè NO SPOILER! :) Un grazie megagalattico a Fede, Lalla, Alex e a Marty, che ha scritto la prima recensione!!! Grazie per avermi appggiato fin dall'inizio!!  


“Cercheremo un’armonia,
sorridenti, fra le braccia,
anche se siamo diversi
come due gocce d’acqua”
W. Szymborska



Pov Kristen

Ero agitata, presa da un timore freddo ed insolito. Come se aspettassi qualcosa ed allo stesso tempo volessi sfuggirne. Sapevo precisamente di chi era la colpa. Sbuffai, impensierita e scocciata: ma perché doveva essere tutto così difficile? Perché dovevo lasciare che invadesse il mio mondo e ne sconvolgesse quella che io volevo sembrasse tranquillità?
Ma i suoi occhi erano così..cercavo di trovare una parola, un aggettivo in grado di qualificarli, ma sembrava una missione impossibile.
“Allora, che ne dici di un cambio di posto?” irruppe lui, il soggetto dei miei pensieri, catapultandomi improvvisamente nella realtà. Indossava jeans comodi e una camicetta nera, su cui aveva abbinato una delle sue felpone. Bhè, una cosa almeno l’avevamo in comune!
E adesso? Potevo mai inventarmi una scusa? La mia compagna di banco, Ashley, si era già seduta al posto di Robert e non potevo semplicemente dirgli di trovarsi un altro posto, perciò, a malincuore, gli risposi con un gesto automatico del capo. Sembrava impacciato, forse non doveva sentirsi molto a suo agio. Mi sentii colpevole.
 “Cavolo Kris, è l’unica persona con cui non ti senti male, sai che soffre anche lui, quindi non essere così cinica!”
“Sono contenta di rivederti” sorrisi e mi rispose di rimando con un sorrisone che avrei definito “eye to eye” e che mi fece letteralmente infiammare le guance.
“Anche io. Non sai quanto. Allora, come vai a Spagnolo? Perché devo confessarti che sono una vera frana! Dovrai sopportare ogni cretinata che dirò!”
“Ah, mi dispiace deluderti ma non sono proprio quel che si suol dire una cima!  Piuttosto mi limito a seguire la lezione in classe, o almeno quando riesco a non distrarmi”
“Per la faccia della prof? Non ti sembra molto simile a quella di un topo?”
“Già! Pensavo esattamente la stessa cosa! Un topo invecchiato!”
Scoppiammo entrambi in fragorose risate e sembravamo non poter essare più in grado di smettere. Era bello sentire il suono della mia risata, non l1ascoltavo da tempo. Era la prima volta che la consideravo giusta enon inopportuna, sbagliata. Era una sensazione straordinaria. Non so come facesse, ma riusciva a risvegliare parti di me che credevo ormai assopite per sempre, nascoste dalla foschia netta ed asfissiante del dolore.
Doveva avere qualche potere magico, sospettai.
Intanto, dopo averci richiamati all’ordine, la prof iniziò spedita la sua lezione, mentre noi ridevamo silenziosi per le buffe espressioni che ricorrevano sul suo volto. L’ora passò in un baleno ed era anche l’ultima della giornata, per cui mi alzai al suono della campanella e feci per prendere lo zaino ed andarmene a casa, ma..Mentre pensavo a ciò, mi prese la mano deliberatamente. I miei pensieri si fermarono per qualche secondo. Aveva mani calde, delicate al tocco, che avvolgevano le mie in una presa rassicurante e forte, ma allo stesso tempo  non tanto forte da impedire che io mi allontanassi da quel contatto. Temeva la mia reazione e non voleva obbligarmi ad un gesto che io non volevo compiere.
In realtà, non so perché, la mia mano rimase nella sua per molti secondi, poi, spaventata per il fatto che non me ne fossi quasi resa conto, la ritrassi, ma ormai era troppo tardi. La mia pelle, quella che era stata a contatto con la sua, sembrava bruciare. Lui, fingendo di non aver visto nulla, mi chiese: “Posso accompagnarti a casa?”
“E’ lontano da qui, Rob”risposi secca.
“Non è un problema, mi piace camminare e non poi non voglio tornare subito a casa, quindi permettimi di accompagnarti, per favore” e mi lanciò uno sguardo così dolce da spezzarmi il fiato. Come potevo dire di no?!
“Okay, se proprio ci tieni”
Ci avviammo lungo la strada, mantenendo le distanze di sicurezza. Era silenzioso ed alquanto pensieroso, tanto che pensai che forse si era offeso per la risposta secca che gli avevo rivolto prima. Così, ero indecisa tra due opzioni: Chiedergli scusa o far finta di nulla? Optai per la prima scelta e mi ritrovai alla ricerca di una scusa plausibile per il mio comportamento distaccato nei suoi confronti. Ma cosa avrei potuto dire? Che non era mia intenzione? Che non sarebbe ricapitato? Che mi dispiaceva?
“Ho notato che ami stare in disparte o mi sbaglio?” chiese, affrontando la questione a viso aperto.
“Ehm, no, non sbagli di molto”   Ti prego, sorvoliamo, pensai, pregando che sapesse leggere il pensiero.
“Bhè, mi sembra strano sai? Sei una delle persone più simpatiche che conosco e dovresti avere una sfilza di amici. Amici veri, non conoscenti” puntualizzò, eliminando un possibile appiglio su cui di solito facevo conto.
“Prima li avevo. Ora non è che non posso averli, non voglio”. Sperai che captasse che non volevo parlarne e che per me la questione era chiusa, ma probabilmente le mie erano solo vane speranze.
“E..non sei intenzionata a parlarne. Però a me farebbe piacere sapere cosa ti turba, anche perché io mi sento molto meglio da quando mi sono confidato con te. Vorrei che anche tu ti sentissi meglio quando stai con me”
“Io..forse un giorno. Non me la sento adesso, niente di personale”. Sperai ancora che non scorgesse i miei occhi lucidi, ma qualcosa dalla sua espressione mi fece capire che li aveva visti e fin troppo bene.
“Mi dispiace, sono uno stupido. Non volevo ferirti, scusa. Va tutto bene. Puoi fidarti di me”.
Mi fermò e mi strinse in un altro dei suoi magnifici abbracci. Era così rilassante stare accanto a lui, poter appoggiare il capo sul suo petto ed ascoltare i battiti frenetici del suo cuore, frenetici come il mio. Era così semplice, in questo modo, fingere di essre una persona normale, con problemi normali, pensieri normali. Fu per questo che non mi allontanai, non feci nulle per indietreggiare. Semplicemente lasciai che il suo calore pervadesse il gelo che albergava in me e mi riscaldasse l’anima.
All’improvviso mi sollevò il mento con un dito e sentii le sue labbra posarsi sulle mie. Era delicato, mi stava dando la possibilità di ritrarmi, magari di dargli anche un ceffone per essere stato così insolente. Valutai la possibilità di un tale gesto, am non riuscivo a ragionare lucidamente, non quando le sue mani esploravano il mio visi, trepidanti e in attesa, avvolgendolo in modo protettivo e rassicurante. Mi abbandonai completamente alle mie sensazioni: Il bacio si fece via via sempre più appassionato, le nostre lingue si intersecavano tra di loro creando un labirinto di emozioni che non avevo mai provato prima, mentre le sue mani scendevano ad accarezzare dolcemente la schiena.
Sentii che non avrei resistito a lungo.
“Devo andare!” quasi gli urlai addosso e mi allontanai di scatto, sgusciando via dalle sue braccia.

 
Pov Robert

Erano passati giorni da quando l’avevo baciata.Baciata…non riuscivo a crederci: ogni volta che ci pensavo sentivo una fitta allo stomaco, una sensazione che mi faceva sorridere senza un motivo logico, sensato. Era stato stupendo, dolce e soprattutto ina spettato. Mai avrei immaginato cosa sarebbe stato baciare le sue carezzevoli labbra, mai mi sarei aspettato che il mio cuore qvesse potuto battere ad una simile velocità. Sembrava che stesse per prendere il volo all’interno del mio petto. Le avevo accarezzato piano il viso, esplorandolo come un cieco che riesce dopo molto a vedere la luce. In realtà mi sembrava di essere proprio così: lei era diventata la mia luce, aveva rischiarato le mie buie giornate aveva dato un senso ad esse. Non sarei più riuscito a sentrmi così completo se non accanto a lei. Sapevo però che reo atato troppo affrettato: lei era scappata da me, come se avesse avuto paura. Diamine, se ci pensavo mi veniva un groppo in gola; ero stato insensibile, non volevo che si allontanasse da me. Volevo conoscerla a fondo ed allo stesso tempo farmi conoscere da lei: non aveva senso aver paura di ciò che si stava creando tra noi, perché era la cosa più splendida che fosse accaduta nella mia vita. Dopo la morte di mio padre, tutto era andato a rotoli. Avevo una famiglia felice,amavo i miei genitori profondamente, ma a partire dall’incidente tutto cambiò. Mia madre iniziò ad evitarmi: non perché non volesse vedermi, ma per non rendermi visibile il suo dolore. Ma come avrei potuto non vederlo? Nei suoi occhi si rifletteva lo stesso dolore che rifulgeva nei miei. Mi consideravo un’incapace, perché non riuscivo mai a trovare una parola adatta, una semplice carezza, per farle capire che poteva appoggiarsi ame, che avevo le spalle forti per entrambi. Ma non ci riuscivo. Non mi sarei lasciato scappare la possibilità di essere felice, non questa volta.
Il problema adesso era un altro: dal venerdi in cui avevo baciato Kris, non ero più riuscito a vederla. Era scomparsa: all’inizio avevo pensato che non avevo fatto caso a lei, dato che non avevamo gli stessi corsi. L’aspettavo ogni giorno fuori, all’uscita della scuola, ma di lei nessuna traccia. Incominciai a preoccuparmi: non poteva assentarsi per un’intera settimana solo per evitarmi! No, c’era qualcosa sotto. Era malata? E se era grave? Magari avrei dovuto andare a casa sua. Mi arrovellavo il cervello, in cerca di una soluzione: che fare? Non volevo essere precipitoso di nuovo, avrei rischiato di allontanarla ancora di più. Decisi di aspettare fino al venerdi successivo: se fosse venuta le avrei chiesto scusa seduta stante, altrimenti sarei andato a cercarla. Finalmente, dopo una settimana passata a rodermi dall’ansia, giunse l’ora di spagnolo. Aspettavo impaziente e guardavo fisso la porta, in attesa del suo arrivo da un momento all’altro. Mi immaginavo il suo viso, la sua espressione nel vedermi, il rossore sulle sue gote…
Ma tutto ciò rimase solo nella mia immaginazione: non venne.
Mi alzai di scatto al suono della campanella e mi diressi verso la compagna di banco di Kristen, quella a cui avevo chiesto di spostarsi al mio banco il venerdi precedente e di cui non ricordavo più il nome.
“Ciao, scusa, posso chiederti un favore?”
“Dimmi” disse, sorpresa dalla domanda.
“Sai per caso l’indirizzo di Kristen? La ragazza che si siede vicino a te?” precsai infine, notando la sua espressione disorientata.
“Ah, si ricordo! Bhè, mi sembra che debba abitare in centro, non lontano da qui. Riconosci la casa perché è l’unica ad avere un giardino sul retro. Mi dispiace di non esserti di maggiore aiuto, ma l’indirizzo proprio non lo ricordo!”.
“Grazie lo stesso” risposi sorridendo, ma dentro il mio cervello era già all’azione. Una casa con giardino sul retro, aveva detto.
Avrei setacciato l’intero centro palmo su palmo finchè non l’avrei trovata.

 

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Capitolo 5
*** Wanna stay with you ***


Mi scuso infinitamente per il tremendo ritardo, ma la scuola ormai sta letteralmente monopolizzando la mia attenzione! Vi ringarzio moltissimo per le vostre recenzione e che per chi mi ha aggiunto tra le seguite! Questa volta vorrei ringraziare un mi carissimo amico d'infanzia e ricordargli che.. SONO LA MAGA PIU' FORTE! xD
 


  
 

“La vita di ciascuno di noi non è un tentativo di amare,
è l’unico concreto esperimento d’amore”
Paul Quignard


Pov Kristen
 
Era così semplice fingermi malata con mia madre. Si preoccupava sempre molto per me, a volte eccessivamente, e non aveva pensato che questa volta stessi fingendo, proprio a lei che più di tutti mi era stata vicina nel momento più brutto della mia vita. Riponeva molta fiducia in me, così aveva subito acconsentito a che io restassi a casa per qualche giorno. Era una bella donna, mia madre, anche senza trucco. Una di quelle bellezze profonde, che lasciano un segno indelebile non solo per la loro esteriorità ma anche per la loro interiorità. Era un’esperienza fantastica sentirla parlare: non era un tipo logorroico e neanche esibizionista, ma aveva un modo tutto suo di affrontare le questioni, tanto da farti inquadrare ogni sfaccettatura da un’angolazione diversa. Era proprio per questa sua caratteristica che aveva deciso di diventare avvocato ed era anche per questo che la consideravo una delle poche persone esistenti sulla faccia della Terra a stimare profondamente il proprio lavoro.

All’università aveva incontrato mio padre: alto, biondo, il tipico ragazzo che sembra dolce e sensibile, il tipico ragazzo in grado di farti cambiare, di guardarti sotto una luce diversa, il tipico ragazzo che ti fa sentire amata, protetta,felice. L’aveva conquistata a tal punto che subito dopo la laurea decisero di sposarsi: sembrava andare tutto a gonfie vele. Vivevano in una bella casetta, in un quartiere rispettabile di Los Angeles, avevano vicini simpatici. Ma non è questo che rende felice una coppia.
I problemi iniziarono quando nacqui io: ero piccola, avevo bisogno di cure costanti e questo non fece che incrementare quei già esistenti litigi che avrebbero pian piano portato la mia famiglia allo scatafascio. Alla fine, mia madre non riuscì più a sopportare tale situazione e decise di chiedere il divorzio. Da quel momento in poi, non seppi più nulla di mio padre, s4e non che si trovava in qualche paesino lontano dell’America Latina e che si era risposato con una donna del posto.

Non aveva mai tentato di instaurare un rapporto con me, a parte i biglietti d’auguri che mi spediva ogni anno in occasione del mio compleanno. Tra l’altro, non aveva nemmeno molta fantasia, dato che scriveva su ogni bigliettino sempre la solita frase: “Tanti auguri mia piccola Kristen, con tutto il mio amore, tuo padre”. Quello che si definisce un rapporto idilliaco, pensai sarcasticamente. Il sarcasmo era sempre stata la mia armatura, la mia difesa migliore contro gli attacchi della vita, attacchi che sembravano ripercuotersi solo su di me. A volte pensavo: ma ci sono tanti miliardi di persone, perché succede tutto a me? C’è davvero un fine ultimo? Tutto quello che soffrivo serviva a qualcosa? Serviva ad un futuro migliore? Non riuscivo a rispondermi. O meglio, non c’era davvero risposta a domande del genere. Potevo solo barricarmi di difese, costruirmi un piccolo spazio in cui nessuno sarebbe mai entrato, perché difeso da mura troppo alte e spesse per poterle valicare. Fino ad allora quella tattica aveva funzionato: nessuno si era avvicinato quel tanto da far sì che il muro si sbriciolasse e che il mio io nascosto sbocciasse e vedesse per la prima volta la luce del sole. Solo pochi anni prima, avevo pensato che Lui ci era riuscito..Ormai cercavo di non pensare più al suo nome. Non volevo dimenticarlo, ma al tempo stesso non potevo ricordare: Soffrivo troppo al solo pensiero. Ma anche lui se n’era andato, veloce come era entrato nella mia vita. E quale soluzione mi restava, se non richiudermi di nuovo in me stessa, sapendo che era tutta colpa mia??

Ora però quelle barricate avevano dato un segno di cedimento, per la prima volte erano state scosse da un terremoto sotterraneo che le aveva messe in pericolo. Si erano salvate solo per fortuna, solo perché il cervello era ritornato presente a se stesso, solo perché i ricordi avevano di nuovo perso il sopravvento.

Ecco perché me ne stavo rintanata a casa: continuavo a nascondermi dietro una bugia, perché in realtà non avevo il coraggio di uscire fuori, affrontare la realtà e con essa le mie paure ed indecisioni. Pensare che fuori poteva esserci Robert mi turbava. No, mi sbagliavo, non era Robert il problema: il problema ero io, era ciò che sentivo quando stavo con lui, quando le nostre anime, differenti eppure simili, si incontravano. Sentivo che pian piano mi si era insinuato sotto pelle e non volevo arrendermi davanti all’evidenza. Non potevo credere che in così pochi giorni fosse riuscito a sconvolgermi così tanto la vita.

Come potevo uscire fuori? Come avrei fatto a guardarlo? Ad evitarlo? Era meglio la fuga, allora. Mi convinsi che anche per lui sarebbe stato lo stesso. Una settimana sarebbe bastata per fargli capire che non c’era la minima possibilità tra me e lui. Si sarebbe accorto che non ero abbastanza per lui, perché che se ne faceva di un cuore spezzato, di una Kristen a metà? Cercavo dunque di non pensare a lui e  tentavo di occupare ogni momento, ogni singolo attimo della giornata.

Mi accorgevo solo di tanto in tanto degli sguardi incuriositi ed indagatori di mia madre; ma lei non mi faceva domande, così io non ero obbligata a darle delle risposte. Alla fine di ogni giornata mi mettevo sotto le coperte e, spenta la luce, solo allora mi permettevo il lusso di divagare tra i ricordi e pensare al suo viso. Cos’, mi addormentavo serena, ma sentendomi allo stesso tempo colpevole per quella debolezza. Il dubbio era diventata la mia certezza, in una dicotomia ormai indissolubile.

Era giunto sabato, la fine della mia settimana a casa. Non sapevo che fare: cosa varei detto a mia madre? Che non ero pronta ad affrontare ciò che mi aspettava? Sospirai, pensando che avevo ancora un giorno di tempo per dirglielo. Intanto, aiutavo mia madre a cucinare per quella sera: era bello condividere quel momento con lei, era da tempo che non ci concedevamo la possibilità di condividere realmente qualcosa. Fino a quel momento eravamo troppo preoccupate l’una delle reazione dell’altra, ma quel pomeriggio sembrava che le preoccupazioni ci fossero scivolate addosso, come per magia.

“Allora, mi spieghi il motivo per cui non stai andando a scuola?” disse e non mi stava accusando, me ne accorsi dal suo sorriso dolce e rassicurante.
“Non mi sento molto bene, te l’ho detto” risposi, cercando di trattenere il tremito nella mia voce.
“E questo malessere è causato da un bel ragazzo spettinato?” scherzò, molto divertita.
“Ma..cosa..cosa stai dicendo?!” riuscii infine a balbettare, non sicura di riuscire ad essre comprensibile. Ma come faceva a saperlo?!
“Dico che ogni pomeriggio, quando torno da lavoro, lo vedo sul marciapiedi davanti casa”
“Che cosa?! O mio Dio! E cosa diavolo ci fa lì?”
“Bhè, penso che cerchi l’occasione adatta per parlarti, ma non ne ha il coraggio”
“No..Non ci posso credere, non può essere vero” e crollai su una sedia, senza parole, riuscendo solo a boccheggiare.
“Sembra tenerci a te” disse lei, tranquilla e con un tono giovale nella voce.
“Non ti piace?” rincarò la dose, cercando di capire il mio turbamento.
“Ecco..io..scusa, ho bisogno di un po’ d’aria” e così dicendo mi gettai la porta alle spalle e scappai in giardino. Respirai quanto più ossigeno possibile, finchè mi sentii pienamente nelle mie facoltà mentali. Ero..felice, felice che anche per lui quella settimana fosse stata interminabile, ma allo stesso tempo ero arrabbiata con me stessa e con lui, che sembrava avere come missione di vita quella di rendere la mia più difficile.  Il nostro rapporto assomigliava ad una molla: la forza elastica quella che mi fragava! L’unico modo per spezzarla era tagliare quella molla, di netto. Avrei dovuto dirgli chiaramente che non mi piaceva: era una bugia, una grandissima bugia, ma era necessario.

Mi ritrovai di fronte alla buca della posta. Che strano, mia madre aveva ritirato la posta quella mattina, ma lì c’era ancora una lettera. La presi e mi accorsi che non aveva nessun mittente, se non una piccola intestazione.
“Per Kristen” lessi e, incuriosita, mi sedetti sotto la grande quercia e l’aprii.
 
“Cara Kristen,
questa è la centesima volta che provo a scriverti e sembra che nessuna vada bene. Avrei tantissime cose da dirti, ma il mio cervello non riesce a ragionare tranquillamente, così ho deciso di lasciarmi trascinare dall’istinto. Perché mi eviti?
Penso di sapere già la risposta. Ho rovinato tutto con quel bacio, lo so. Sono stato un’insensibile, un maleducato, un insolente e chi più ne ha più ne metta. Ma..l’ho sentito così giusto in quel momento. D’altronde ciò che ho sentito non conta di fronte a ciò che ho fatto: ho rovinato la fiducia che stavi incominciare a darmi e questo non riesco a perdonarmelo.
Ho aspetto, trepidante, per tutta la settimana, in attesa del momento in cui avrei potuto dirti che mi dispiaceva e chiederti perdono, perfino in ginocchio.
Così, visto che ciò non succedeva, mi sono risolto a scriverti (e devo confessare che mi sento un idiota in questo momento). Voglio chiederti solo questo: sarai in grado di perdonarmi? Non sai quanto io lo desideri! Sento che sei l’unica che riesce a capirmi, che riesce a comprendere realmente ciò che provo e non ciò che fingo di provare.
E non voglio perderti per le mie azioni stupide e insensate. Sarò quello che vuoi che io sia, purchè possa starti accanto, se lo vuoi”
 
Robert

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Capitolo 6
*** Show me the happiness ***


Ma ciao! Eccomi di nuovo qui e come al solito con un ritardo tremendo!
Diciamo che questo capitolo è un pò diverso dal solito, ma capirete meglio leggendo :D
Grazie mille per chi mi legge, chi mi segue, chi mi scrive recensioni... Love U so much <3



 “Don’t waste your time on me,
You’re already the voice inside my head”
I miss you- Blink 182

 
Pov.Robert                                                            
 
“Allora, spiegami un po’..cosa hai fatto??!” mi chiese Tom, con due occhi sgranati e l’espressione sul viso che la diceva lunga.
“Ecco…le ho scritto una lettera” ammisi, a disagio. Incominciavo a pensare di aver fatto una grandissima cazzata. Ma cosa diavolo mi era venuto in mente? E a rincarare la dose ora ci pensava il mio migliore amico!
“Ma lo sai che la società si è evoluta? Che ormai la gente normale è da secoli che non si scrive più lettere?!”
“Certo, certo” risposi, più per zittirlo che per ammettere che forse aveva ragione.
In quel momento mi sembrò che ciò che avevo fatto fosse un’azione degna di Darcy: lui aveva scritto una lettera ad Elizabeth per spiegarle che non era quel genere di persona che lei credeva, ma, allo stesso tempo, non l’aveva obbligata ad accettare un amore che lei non provava. Aveva accettato la sua decisione e proprio dal diniego di lei che era cominciata la sua ascesi morale, che lo aveva portato a diventare degno della sua stima, degno di poter rispecchiare i suoi occhi in quelli di Elizabeth.
In preda ad uno slancio istintivo, dovuto alla preoccupazione accumulata in un’intera settimana, avevo preso in mano una penna e, armato di questa, avevo buttato di getto parole a volte crude, a volte dolci, senza mai esserne soddisfatto. Alla fine, mi ero arreso e avevo messo a nudo tutto ciò che sentivo, risultando forse troppo sincero, troppo indifeso, abbattendo le barriere che impedivano al mio essere di rifulgere in tutta la sua essenza.

Ma ora mi sentivo uno stupido e a buona ragione: non avevo saputo nulla da lei e non sapevo come comportarmi. Sarebbe venuta? Mi avrebbe parlato? Come mi avrebbe guardato dopo quello che era successo? Avevo voglia di prendermi la testa tra le mani e azzittire tutte quelle voci all’istante. Ormai non sentivo neanche più la voce dei professori; mi spingevo nelle diverse aule come un automa, senza rendermi conto della direzione che prendevo di volta in volta, inconsapevolmente. Tom parlava, blaterava, gesticolava, forse sperando, con un vano tentativo, di riuscire a catturare la mia attenzione.
La campanella suonò: fine della giornata, che liberazione. Non vedevo l’ora di tornare a casa, chiudere la porta della mi a stanza, infilare le cuffie del mio MP3 ed estraniar,mi dai problemi.

“… e poi le ho chiesto di uscire e lei non si è nemmeno degnata di rispondermi, sai come sono le ragazze… ehi c’è Kristen!!”
Il nome risuonò da lontano e fu in grado di spezzare quell’atonia.
“Lì, davanti all’ingresso! Và a parlarle, muoviti!” mi incitò Tom.
Corsi, cercando di spostare le persone che trovavo davanti, senza curarmi delle loro proteste: avevo di meglio da fare e di cui preoccuparmi.
“Kristen” la chiamai; ormai l’avevo raggiunta e per farle girare le avevo posato le mani sulle spalle. Lei sussultò, si girò all’istante e sembrò sorpresa di vedermi.

“Robert, ciao” mi rispose, impacciata più del solito, ma con un dolce sorriso sulle labbra. Sarei stato capace di gettarmi da un dirupo solo per vederlo di nuovo risplendere sul suo volto.
“Senti, io volevo..”
“… parlarti di una cosa”
Entrambi ci ritrovammo a dire la stessa frase: scoppiammo a ridere così, senza un motivo davvero razionale. Mi resi conto che adesso l’aria era meno elettrica, si era affievolita.
“Okay, mi ero preparato un discorsetto, ma credo che di questo passo non riuscirei a finirne nemmeno mezza parola!” dissi io, per sdrammatizzare.
Lei sembrò rendersi solo in quel momento conto che aspettavo una risposta da lei: era esitante, boccheggiava senza che le parole riuscissero ad uscire.
Dopo qualche secondo, disse: “Amici?”
“S-si certo che si!” Cavolo, non mi aveva snobbato o addirittura considerato uno stupido! Era pur sempre un inizio!
“Va bene..Allora ci vediamo in giro, io vado” mi disse, salutandomi con un gesto della mano.
“Asp..”
Niente da fare, era già scappata via, incuneandosi tra le centinaia di persone che uscivano da scuola e che non vedevano l’ora di tornare a casa. In realt, forse era stato meglio così: non sapevo neppure io cosa avrei voluto dirle. Il mio era stato un semplice tentativo di trattenerla, di respirare ancora quel suo profumo che mi inebriava i sensi. Forse in quel momento assomigliavo ad un eroinomane in astinenza. Già mi mancava la sua presenza: e dire che se n’era andata da non più di cinque minuti!
“Allora? Cosa ha detto?” la voce di Tom mi riportò alla realtà e sentii una presa sulle spalle.
“Niente, ha detto: amici” risposi, con un sorriso smagliante.
“Bhè, sempre meglio di niente! Ma non metterti strane idee in testa. Lei non è la solita ragazza: è difficile capirla o semplicemente cercare di parlarle. Sembra sempre in fuga da qualcosa” pensò ad alta voce, meditabondo, assumendo l’espressione pensierosa che aveva sempre quando parlava di ragazze.

Si riteneva un grande esperto: ne aveva avute a dozzine da quando aveva raggiunto i tredici anni e ormai la sapeva lunga… Il suo unico ( e io direi anche grandissimo) problema era il fatto che non sapeva mantenere una relazione per più di una settimana. Secondo me, era perché si sceglieva ragazze disinibite, snob e con la puzza sotto il naso, le quali, dopo un po’, lo stancavano e lui, semplicemente, decideva di scaricarle.

“Neanche io sono il solito ragazzo, Tom” puntualizzai.
No, non lo ero e non lo dicevo per distinguermi dagli altri, per essere diverso, come ormai tutti gli a adolescenti della mia età facevano. Era la pura e semplice verità. Mi sentivo a disagio in quel mondo, come se non avessi ancora trovato la mia strada, come se da qualche parte, in qualche angolo recondito, qualcuno mi stesse aspettando per condividere quella stessa sensazione con me, per andare avanti e, mano nella mano, intraprendere la strada che ci avrebbe portato alla felicità. Ma forse tutto ciò era solo un’utopia, una bellissima e impossibile utopia.
“Si, hai ragione, non lo sei. La prova inconfutabile è che non solo ti piacciono le ragazze impossibili, ma cerchi anche di conquistarle con maniere da galantuomo! cos’è. la prossima volta chiederai la sua mano al padre?”
“Dai, non fare il cretino! Comunque… ci penserò, grazie del consiglio!” scherzai divertito all’idea.
“Non dirlo neanche per scherzo! Quella ragazza ti ha mandato in tilt gli ultimi neuroni che ti rimanevano!”.
E non aveva neanche idea di quanto avesse ragione.
 
 
Tornai a casa, fradicio e gelato perché non avevo portato con me l’ombrello ( grazie alla mia grandissima memoria) e mi misi a cercare le chiavi di casa all’interno dello zaino. Le portavo sempre con me, ma quel maledetto zaino sembrava essere un pozzo buoi. Come minimo ci avrei messo tre quarti d’ora per trovarle.
Ma… mentre le cercavo, il mio sguardo si posò casualmente sulla porta: era socchiusa.
Perché? Mia madre era a lavoro, forse era ritornata per la pausa pranzo: ma no, impossibile, non lo faceva mai. Forse aveva dimenticato qualcosa: possibile. Con un sospiro di sollievo, abbassai la maniglia e spinsi la porta verso l’interno.

“Mamma, sei qui?” gridai, pronto a gettare lo zaino sul divano.
Silenzio.
Iniziavo a preoccuparmi: c’era qualcuno..
Non feci nemmeno in tempo a terminare il mio pensiero che sentii un colpo secco alla nuca, improvviso.
Riuscii solo a vedere il buio, scuro e macchiato di rosso sangue.
Poi, più nulla.
 
 
Bip…Bip…Bip..
Iniziava a darmi un fastidio tremendo quel suono: sembrava si ripetesse all’infinito. Avrei voluto dire a qualcuno di farlo smettere, ma ero troppo debole, troppo. La mia mente era cosciente, ma non riuscivo a trasformare i pensieri in azioni. Ragionavo lucidamente, o almeno credevo.
Secondi, minuti, ore, giorni…
Avevo perso la cognizione del tempo. Cosa aveva ora importanza, in quel buio ovattato in cui mi sentivo imprigionato?
No, non mi sarei arreso. Sapevo che c’era qualcosa là fuori. Qualcosa per cui valeva la pena combattere, qualcosa per cui valeva la pena attraversare le fiamme dell’inferno.
Si, ma cosa?!
La memoria ritornò a poco a poco, a scatti fotografici. Come se stessi vedendo un album, ricordo dopo ricordo.
Vedevo me piangere dopo la morte di mio padre, me cercare di rimettere a posto i pezzi distrutti della mia vita, me non riuscirci.
Infine, occhi verdi che mi guardavano, braccia che avvolgevano il mio corpo, mani che toccavano il mio viso, labbra che baciavano teneramente le mie…
Ecco cosa cercavo, ecco per cosa valeva la pena non arrendersi.
 
 
“Robert!” una voce ansiosa e preoccupata riecheggiò nella mia mente.
Mi resi improvvisamente conto che non era frutto della mia fantasia, riuscivo davvero a sentirla. Fu come una goccia che fece traboccare il vaso
Piano, iniziai a stiracchiare le dita, falange per falange. Esultai dentro di me. Ancora più lentamente, aprii le palpebre.
Luce, troppa luce.I miei occhi si chiusero di nuovo, di scatto.
Li risprii e questa volta andò meglio, mi stavo lentamente abituando. All’inizio, non riuscivo bene a mettere a fuoco l’ambiente che mi circondava.
Ma dov’ero?
Le pareti che circondavano la stanza erano azzurrine, alla finestra riuscivo a vedere tende dello stesso colore, leggermente impolverate. Tastai il letto su cui ero disteso: le lenzuola, bianche, emanavano un fresco odore di pulito. Ma, mentre mi concentravo sui particolari intorno a me, avevo dimenticato la questione più importante, la voce.
“Oh, Robert, sono stata così preoccupata!” disse ancora la voce e i miei occhi saettarono verso la persona da cui proveniva il suono di quelle parole.
“Mamma!”
Mi spaventai: la mia voce non era mai stata così roca.
“Perdonami, tesoro, perdonami”, incominciò a piangere e calde lacrime caddero dal suo viso angelico.
“Di cosa dovrei perdonarti?” sorrisi, accarezzandole il viso con una mano e asciugando con il pollice le sue lacrime.
“Sono stata così lontana da te. Non..dopo che..Dopo l’incidente, io non ce la facevo. Non ce la faccio più a vivere come se niente fosse. Ti ho fatto soffrire e mi sento così in colpa!”
“Ma mma, non dirlo neanche per scherzo. Non hai nulla da farti perdonare, nulla. Non ne parliamo più, ti prego. Piuttosto..dove siamo?” chiesi curioso.
“In ospedale, sei stato colpito alla nuca e hai ripreso conoscenza solo adesso” mi disse.
Sgranai gli occhi: Cos’era successo?!
Non ebbi bisogno di formulare la domanda: mia madre si accorse della mia espressione sbalordita e rispose alla mia domanda silenziosa.
“Due giorni fa ricordi di essere tornato a casa e di aver trovato la porta aperta?”
“Si, ma..”
“Sono stata chiamata da Elisa, la signora che abita di fronte a noi. Aveva visto due uomini in passamontagna correre fuori dalla nostra casa, era entrata da noi per controllare se era tutto al suo posto. Invece ha trovato te in un lago di sangue, disteso a terra. Ho temuto che fossi…morto…Eri così p-p-pallido”.
Le si spezzò la voce. Tremava, era sconquassata da forti tremiti.
“Mamma, non fare così, ti prego. Sono qui adesso. Non me ne andrò, mai” le dissi, anch’io con le lacrime agli occhi.
Ci abbracciammo, stretti, incuranti di tutti quegli aggeggi fissati al mio corpo.
Un pezzo della mia anima ritornò a posto, al luogo che gli apparteneva ed a cui era stato strappato.


P.S: Okay, si lo so forse è un pò smieloso? Umm..rileggendolo forse si!
        Voi comunque non mancate di farmi sapere cosa ne pensate! Al prossimo capitolo, che giuro cercherò    di postare in tempo ;D

 
 
 

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Capitolo 7
*** Visite ***


  Lo so, altro che in tempo! Ma sono  stata impegnatissima con la scuola e tutto il resto! Chiedo perdono! ;D
 Ad ogni modo, questo capitolo ha una particolarità: un flashback! Dovrebbe farvi venire in mente qualcosa!!!!
 Come sempre, non siate timidi e fatemi sapere quello che ne pensate, perchè siete voi che leggete la mia storia e la commente a darmi  coraggio e ispirazione! :) Un Bacio!



“Tutto ciò che viene fatto per amore accade al di là del bene e del male”
Friederich Nietzsche

 
 
Mia madre se n’era andata: il lavoro la richiamava ed io stavo abbastanza bene, quindi pensò che non avrei sentito molto la sua mancanza.
 
“Sei sicuro? Se vuoi resto qui”
 
“No, mamma, sto bene, non ti preoccupare per me. Piuttosto, quando mi dimettono?” domandai ansioso.
 
“Di preciso non saprei, ma il dottore mi ha detto che devono fare solo degli accertamenti: penso che per domani sarai già a casa!”
 
“Finalmente” bofonchiai. Non sopportavo più l’immobilità a cui mi costringevano tutti quegli aghi e tubicini di plastica. Avrei avuto voglia di strapparmeli di dosso con ferocia.
 
“Va bene, allora io vado. Torno stasera e ti porto qualche film Horror da vedere, che ne dici?” disse, facendomi l’occhiolino.
 
“Evvai! Così faremo scappare tutti i dottori”Non vedo l’ora!”.
 
Quel posto iniziava a darmi decisamente sui nervi.
 
“Ok, messaggio ricevuto! Mi raccomando, non fare cavolate e non stressarti troppo, lo sai che ti fa male” disse e mi salutò con un bacio sulla fronte. Aprì la porta e mi salutò ancora con la mano, per poi richiuderla e lasciarmi tutto solo a rigirarmi i pollici.
 
E adesso che faccio?! pensai tra me e me.
 
Presi in mano il telecomando del televisore che, a quanto sembrava, doveva aver visto giorni migliori per quanto era retrograda, e l’accesi. Alla fine, mi ritrovai a cambiare canale ad ogni millesimo di secondo: possibile mai che in TV mandassero in onda sempre le solite cazzate?! Non riuscivo davvero a capire come facessero quello stuolo di teenagers (che in comune con me dovevano avere solo l’età) a stare ore ed ore incollate allo schermo della TV a guardare quelle fiction smielose e prive di denso etico o pratico. Non si rendevano conto che la vita è diversa? Che non sono tutte rose e fiori, che la gente non è sempre pronta ad aiutarti…Che l’amore non è a portata di mano, non è mai scontato né banale. Non è mai come pensi che sia: ti prende e ti sconvolge la vita, come un uragano, illuminando ogni altro pensiero e stabilendosi nel tuo cervello per sempre.E non ci sono vie di scampo, scappatoie tramite le quali trovare un rifugio da quell’imperversare di emozioni. E’ tutta lì la sua forza: è una guerra interna tra razionalità e sensibilità, tra cervello e cuore. E potete scommetterci che il cuore non si arrenderà facilmente.
 
Preso dalle mie riflessioni e più nervoso che mai, spensi di botto quel dannato aggeggio infernale, non senza lanciare un paio di imprecazioni.
Diamine, ma che cavolo mi prende?!

Intanto, non avevo minimamente sentito che la porta della mia stanza si era aperta e che era entrato qualcuno. Me ne accorsi dal rumore di passi leggeri che si stavano pian piano avvicinando al mio letto. Credendo che fosse una delle solite infermiere, non mi girai e tenni fisso il viso alla finestra della stanza.
“C’è qualche problema?” dissi, mantenendo un tono di voce freddo e distaccato, sperando che capisse che non avevo voglia di fare conversazione con lei.
“Forse è meglio se ritorno un altro giorno, non mi sembri dell’umore giusto”
Ma…c’era qualcosa di strano in quella voce: non era di un’infermiera, no, affatto.
Mi riecheggiava ancora nella mente, la ricordavo, desideravo risentirla ancora. Diamine, era Kristen! Non feci in tempo a girarmi che lei già aveva messo le mani sulla maniglia della porta. col chiaro intento di andarsene. No, non andartene!
“Kris, fermati!” Okay, avevo quasi urlato come un assatanato, non so se rendo l’idea!
Si girò all’istante e si voltò a guardarmi.
“Sicuro che non disturbo?”e accennò ad un piccolo sorriso.
“Ma no, figurati… Ero un po’ nervoso, credevo che fossi una delle infermiere. Scusa per come mi sono comportato prima”
“Non ti preoccupare. ma si può sapere cosa diavolo ti è successo?”. Cercava di mantenere un aspetto rilassato, ma una piccola rughetta le si era formata sulla fronte.

Era preoccupata? Per me?

“Ehm, non mi ricordo molto in realtà. Sono tornato a casa dopo averti parlato e…” e mentre dicci ciò avrei giurato che fosse arrossita alle mie ultime parole “ho trovato la porta aperta: sono entrato e mi hanno aggredito alle spalle, per poi lasciarmi a terra, dove mi ha ritrovato mia madre. E adesso mi trovo qui ad annoiarmi a morte!”
“Mio Dio, non sai quanto mi dispiace” e sapevo che non era solo una di quelle tipiche frasi convenzionali, sfornate al momento e adatte a quella situazione. Sembrava davvero preoccupata…per me.
Dovevo ammetterlo, il buon umore stava ritornando a tutta velocità!
“E pensare che dovevo farti da giuda” sospirai sconsolato.
“Vero! Me n’ero dimenticata. Bhè, per quello si può sempre rimediare. Londra non scappa da nessuna parte!” scherzò.
“Magari quando mi dimettono, il che penso sarà domani”. Mi si illuminarono gli occhi all’idea di portarla nei miei luoghi preferiti, mostrarle dove passavo il tempo, a quali ricordi quei luoghi erano legati.
“Meno male! penso che l’aria che si respira qui non ti faccia tanto bene. Per quel poco che ti conosco, non pensavo che potessi diventare così elettrico!”
Arrossii da capo a piedi per quell’affermazione.
“Sc-scusa. Forse hai ragione, non mi fa bene. E’ che è stressante essere costretto all’immobilità e sapere che in realtà sto bene e potrei benissimamente muovermi senza difficoltà se non  fosse per questi aggeggi. E poi..”
“E poi?” mi chiese, aspettando che terminassi la frase.

E poi pensavo che tu non saresti venuta e non sai quanto sono felice di vederti, quanto vorrei stringerti tra le mie braccia e baciarti dolcemente.

“E poi odio ciò che si mangia in questo posto” scherzai. Che cretino!

E la frase che hai pensato dove è andata a finire? Perché non gliel’hai detta?

Perché ero così felice che fosse venuta che non volevo rischiare di rovinare quel momento, ecco perché.
Da quando mi ero svegliato, tutto quello a cui avevo pensato era stato al suo viso e ora me lo ritrovavo davanti: ero l’uomo più fortunato della terra. Fortunato e sfortunato al tempo stesso: fortunato perché è raro trovare una persona che sappia farti battere il cuore così velocemente, sfortunato perché mi stavo ormai convincendo che forse lei non ricambiava ciò che provavo per lei. Si, era venuta, si era preoccupata per me, ma tutto questo non lo fa anche una buona amica? E poi c’era ancora la questione irrisolta del suo passato: perché non voleva parlarmene? Perché continuava a tenersi chiusa a riccio?

“E se ordinassimo una pizza?” suggerì lei.
“Yep! E’ da anni che non ne mangio una! Certo che si!”
“Mmm, gusto preferito?”
“La mitica ortolana! Si, lo so, non è quella che si dice la più salutare, ma mi viene l’acquolina in bocca solo a pensarci. La tua?”
“Sembra inquietante ma..è anche la mia preferita!”
“Allora ordiniamo!”

Prese il cellulare dalla tasca dei jeans, che le fasciavano le gambe lunghe e snelle. Mi ritrovai a fare pensieri abbastanza censurabili su di lei: al solo pensiero arrossii improvvisamente e saprai solo che non se ne fosse accorta. Dopo una breve telefonata, disse che la pizza sarebbe arrivata una mezzora dopo.

“Che ne dici di una passeggiata fuori? Almeno non respiri più quest’aria pesante. Non so come fai a sopportarla”
Vidi le sue mani tremare e mi chiesi perché, all’improvviso, fosse diventata così ansiosa di uscire.
“Sei mai stata in un ospedale prima’” le chiesi.
“Si, da piccola per accertamenti: ogni mese avevo sempre qualcosa che non andava. Credo di essere stata la bambina più problematica della storia! E poi l’ultima volta un anno fa…”
“Ci sei stata per molto tempo?”
“Bhè, quasi un mese”
“Allora era grave”
“Ehm…più o meno…Allora ti va?” e con un gesto del capo mi indicò la porta.
“Ecco, c’è un piccolo problema” puntualizzai, rendendomi conto che sarei sembrato davvero ridicolo.
“Quale? Scusa, magari possiamo restare qui se non ti va di andare fuori”
“No, non è per questo. E’ che…sono in pigiama!”
“Ah, non ci avevo nemmeno pensato!” e detto questo scoppiò in una risata così argentina che mi era impossibile non seguirla a ruota.

Era ammaliante, non potevo esprimere il contrario neppure fingendo. Ma in fin dei conti, lei mi riteneva un amico e io non potevo cambiare la situazione, sarebbe stata una mancanza di rispetto nei suoi confronti. La capivo: mi era capitato un paio di volte di essere nella stessa situazione. per fare un esempio, pochi mesi prima avevo istaurato una conoscenza con una ragazza, Tanya, che viveva con alcuni miei parenti in Canada. Passavo sempre le vacanze estive lì e le visite si erano intensificate dopo la morte di mio padre: E lei… bhè, lei era stata un sollievo per me, mi aveva aiutato a scrollarmi almeno in parte delle zavorre che tentavano di farmi ricadere in basso, verso quel non-luogo privo di emozioni e vitalità e che costituiva l’oblio dei miei incubi. Passavamo giornate insieme, parlando del più e del meno, passeggiando tra i boschi di conifere e sempreverdi che attorniavano la piccola casa in montagna di mio zio, che aveva adottato Tanya quando era ancora piccola. Erano stati momenti preziosi per me, momenti in cui avevo avuto la possibilità di riscoprire me stesso: lo devo ammettere, il merito era tutto suo. Anche lei si era aperta con me. Mi aveva raccontato della sua infanzia travagliata; i genitori appartenevano entrambi ad una classe sociale medio-bassa, ma non era questo quello che costituiva un problema: erano tossicomani. Provavo ancora dei brividi lungo la schiena quando ripensavo a quel giorno in cui mi aveva raccontato tutto.
Ci trovavamo sulla collina situata proprio di fronte alla casetta e da lì potevamo assistere ad un tramonto stupendo, che accarezzava i nostri volti, quasi a testimoniarci che, anche se ci sentivamo dei derelitti a cui tutto era stato tolto, persino le lacrime, non eravamo soli, avevamo ancora una speranza.
“Avevo sei anni quando la mia vita si distrusse” esordì, senza che io le chiedessi nulla.
“Stavo giocando con una bambola di pezza che mio padre mi aveva regalato in uno dei suoi momenti sobri e, all’improvviso, le si ruppe un braccio. Incominciai a piangere, sperando di attirare l’attenzione dei miei genitori, ma sentivo solo silenzio. Corsi per tutta la casa, fino a quando non raggiunsi la loro camera da letto. Sembrava… sembrava che dormissero. Avevano entrambi una siringa appoggiata sul letto: ero abituata a vederle, ormai pensavo che fosse una cosa normale, una routine quotidiana. Quello che non riuscivo a capire era perché il loro petto non si alzasse e si abbassasse, come di solito facevano sotto il ritmo del loro cuore. Ma non lo facevano, non respiravano più, capisci?”

Si girò a guardarmi, gli occhi pieni di lacrime. Ero colpito, colpito dal suo racconto, dalla sua forza d’animo, dal suo coraggio che l’aveva portata ad andare avanti, a non arrendersi sotto i colpi infertele dal destino. Il resto della storia mi era noto grazie a ciò che mi aveva spiegato mio zio: era finita in un orfanotrofio ed era proprio lì che lui l’aveva trovata. Aveva deciso di prenderla con sé perché quella luce nei suoi occhi, quello scintillio di speranza era sempre stato presente in lei, nonostante tutto.
Col passare del tempo, però, sentivo che lei si stava avvicinando sempre di più ed io iniziavo a chiedermi se fosse giusto assecondare il sentimento che iniziava a provare, se fosse quello che davvero sentivo di fare. Ma più scavavo al mio interno, più capivo ciò che desideravo realmente, più mi rendevo conto che per me Tanya era una sorella; avrei fatto di tutto per renderla felice, non avrei mai voluto essere la causa di una sua lacrima, mai. Così, avevo preparato le valigie e, con una scusa abbastanza plausibile, l’avevo salutata sotto la pioggia, cercando di non far trasparire il mio tumulto interiore, di essere allegro e spensierato, così da lasciarle un lieto ricordo di me. Era il minimo che potessi fare.

Ma adesso? Se Kristen provava lo stesso sentimento che io stesso avevo provato per Tanya, cosa avrei mai potuto fare? Ci sarebbe mai stato un modo per riuscire a dimenticarla?

Intanto, arrivarono le pizze e, felici come bambini, l’addentammo con golosità, fino a quando scoppiammo entrambi a ridere per la nostra voracità. Ad un certo punto, mi imbambolai guardando le sue labbra: erano piccole e… perfette, non c’era altro modo per descriverle. Carnose, ma non troppo, semplicemente invidiabili. Mi ritenevo fortunato, dato che ero riuscito a carpirle ed accarezzarle almeno una volta: peccato che, una volta provate, non riuscivo più a farne a meno. Non so quanto tempo rimasi a fissarle, o meglio non mi resi conto di essermi imbambolato fino a quando lei, forse a disagio, mi chiese:
“Ho qualcosa tra i denti?”
Tipico di Kristen: invece di pensare di essere la più bella sulla faccia dell’universo, metteva in risalto solo quelli che a lei sembravano difetti, in realtà INESISTENTI. Quella che si dice” autostima zero”.
“No no, certo che no!”
“E perché mi fissavi?”
“No, non ti fissavo, stavo semplicemente pensando”
“A cosa?”
“Bhè, che sono felice di averti conosciuta ed eternamente grato a Jane Austen” dissi io, cercando di scherzare, ma cosa vieta che colui che scherza dica il vero?(cit. Orazio)
“Cavolo, la Austen! Oh no, non ho ancora finito di leggere il libro e domani ho il test! Mi sa che mi toccherà fare la notte”
“Ma no, ti aiuto io! Hai davanti a te la persona giusta al momento giusto: si dà il caso che io l’abbia letto tutto ( modestia uccidimi!) e che sono disposto a raccontarti come va a finire…ad una sola condizione”
“Quale?” chiese, incuriosita e titubante.
“Ci scambiamo i numeri di cellulare, altrimenti come posso farti sapere il giorno in cui avrai l’onore di avermi come guida a spasso per Londra?” Potevi inventarti una scusa migliore Robert!
“Ecco… non saprei… e va bene, affare fatto” sbottò, fingendo un’aria sostenuta.
Non le avevo neanche dato il tempo di accettare la mia proposta che già avevo afferrato al volo un post-it ed una penna e le avevo scritto il mio numero.
“tieni, questo è il mio numero. Magari poi mi mandi un messaggio per farmi sapere il tuo” le dissi, porgendole il foglietto.
“Certo. Ma ora che ho scontato il debito, tocca a te fare la parte dell’insegnante!”
“Non mi metta fretta, signorina Stewart. Allora, a che punto è arrivata  nella sua lettura?” replicai, entrando completamente nella parte dell’insegnante.
“Fammi pensare… Ah, giusto, ora ricordo: Lidya, la sorella di Elizabeth, era scappata e tutta la sua famiglia era preoccupata. Direi che sia una parte un po’ noiosa”
“No, invece è importantissima! Alla fine si scopre che Lidya è scappata con Wickham”
“Wickham?! Ma cosa diavolo le è preso?”
“Questa è quasi la stessa reazione che ho avuto io quando lo lessi. Era tipo TROLL FACE”
“Ah ah! Non l’avrei mai immaginato!”
“Si, e si sposano anche. Ma secondo te chi è che riesce a portare tutto alla normalità? Chi è che…ama così tanto una donna da cambiare per lei e far di tutto affinché sia felice?” dissi l’ultima parte così velocemente che temevo che non avesse sentito.
“Darcy..”
“Yep! Ed è lì che credo che Elizabeth si accorga di amarlo profondamente. Ma lo ammette a se stessa solo quando Lady Catherine le fa visita”
“Proprio quella! Non la sopporto: ammanta la sua ignoranza con una patina di superbia dovuta solo al suo titolo e non alla sua vera personalità”
“Già, ma la odierai di meno adesso: era andata a chiedere ad Elizabeth di lasciare stare Darcy perché lui era promesso sposo di sua figlia. Però, in realtà, in questo modo Elizabeth capisce che non può far nulla contro la parte di lei che la spinge contro Darcy. Perché l’amore è più forte di noi, più forte di qualunque altra passione. Alla fine Darcy ritorna dai Bennet e le chiede di nuovo di sposarlo: stavolta Elizabeth accetta ed entrambe le sorelle, Elizabeth e Jane, vivono insieme alle persone che amano”
“Che dire, è una bella storia; peccato che nella realtà sia tutto molto più difficile”
“Si, è vero. Però se in questa dannata vita c’è qualcosa che desideriamo, qualcosa a cui non vogliamo dire addio, dobbiamo cercare di raggiungerla. E chi ti dice che un giorno non ci riusciremo?”
“La fai troppo semplice. In questadannata vita quello che desideriamo scappa via. E’ il destino crudele di chi nella vita ama, cerca, spera. Il suo destino è quello di vedere frantumarsi tutte le sue speranze”
“No, non è sempre così. Le speranze non vanno in frantumi, non se non smetti di amare, credere, sperare

Stava per replicare, quando la porta si aprì ed entrò mia madre, sorpresa di vedere una ragazza davanti a me.
“C-ciao mamma, questa è una mia compagna di classe” dissi, sperando di non sembrare un ebete con manifesti problemi di sanità mentale.
“Piacere di conoscerti!”
“Il piacere è tutto mio… Robert, io dovrei andare adesso. Sono contenta che adesso stai meglio: ci vediamo a scuola”
“Si, certo! E..Grazie”
Si girò, lasciandomi in dono uno dei suoi splendidi sorrisi e poi si dileguò come era venuta. Aveva una propensione a scappare unica nell’universo.Era per colpa mia?
Intanto mia madre, dopo avermi raccontato le solite cose riguardo al lavoro in ufficio, iniziò a farmi domande incalzanti, del tipo:Ma quanti anni ha? Com’è la sua famiglia? Che lavoro fanno i suoi genitori?
Domande a cui non sapevo rispondere: non ne sapevo niente e me ne rendevo conto solo in quel momento; non potevo far altro che rispondere a monosillabi e mezze parole.
Mentre mia madre si perdeva nei meandri di non so quale discorso, sentii il mio cellulare vibrare sul mobiletto vicino al letto. Allungai stancamente una mano, convinto che fosse uno di quei soliti messaggi promozionali.
Era un numero che non conoscevo.
Battiti, forti, sempre più veloci, i miei.
Lessi avidamente.
 
 
Anche io sono felice di averti conosciuto,
Kris
 
In quel momento, sarei andato all’inferno solo per poterla rivedere ancora.

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Capitolo 8
*** Our favorite song ***



Ciao a tutti! Questo è il mio nuovo capitolo e, lo so, ci ho messo proprio tanto per scriverlo. Ma oltre al semplice fatto che la scuola mi sta ancora letteralmente sfinendo, devo essere sincera con me stessa e con voi che avete la pazienza di leggermi! In realtà, ho pensato a lungo se la mia storia valesse davvero la pena di essere scritta e mi sentivo molto giù di tono anche perchè non mi riusciva di scrivere nemmeno qualcosa di sensato!
Poi, un giorno alla radio hanno trasmesso due canzoni che mi hanno fatto tornare la voglia di scrivere e la mia penna è volata sul foglio quasi come guidata da quelle note.
Se volete, potete accompagnare la lettura con "Vanilla Twilight" dei Owl City e poi con "The only hope for me is you" dei My Chemical Romance!
Vi aspetto giù! 



 “When violet eyes get brighter
and heavy wings grow lighter,
I’ll taste the sky and feel alive again.
And I’ll forget the world that I knew,
but I swear I won’t forget you,
oh if my voice could reach back through the past
I’d whisper in your ear
Oh darling I wish you were here.
 
Owl City-Vanilla Twilight

 
 
 
 
E’ il destino crudele di chi nella vita ama, cerca, spera. Il suo destino è quello di vedere frantumarsi tutte le sue speranze”
“No, non è sempre così. Le speranze non vanno in frantumi, non se non smetti di amare, credere, sperare”
 
Parole impresse a fuoco sulla mia pelle.
Non volevo crederci, no, facevo di tutto per non lasciarmi prendere da quella frase.
Cosa ne sapeva lui? Cosa sapeva della vita, della vera vita, dei veri problemi?
 
Ma chi volevo darla a bere?
Sapevo benissimo che Robert era l’unico che poteva realmente capirmi, ma io non potevo lasciarmi prendere da questa futile speranza.
In fondo, a cosa sarebbe valso pretendere che lui capisse quello che mi ribolliva dentro? Quello che cercavo in tutti modi di tenere nascosto anche a me stessa?
No, era un’assoluzione troppo semplice per la mia anima colpevole, troppo facile lasciarsi prendere dall’inutile voglia di ottenere perdono, di lavare la mia coscienza da una macchia che ormai si stava espandendo come un cancro mortale. Era un morbo che cresceva dentro di me, la cui forza consisteva nel dolore, nel mio autocolpevolizzarmi, nella mia passata immaturità, nel mio nascondermi dietro la verità, nonostante tutto.
 
La verità?
 
La verità era che Robert era l’unico lenitivo possibile per la mia sofferenza, ma niente e nessuno avrebbe mai potuto sradicare in me il senso di colpevolezza strisciante nel mio io. Era per questo che mi trovavo davanti ad un bivio, indecisa se scegliere se lasciarmi guidare dall’istinto o semplicemente tagliarmi fuori dalla realtà, come avevo fatto da quasi un anno a quella parte.
 
Istinto
Ragione
A chi dare ascolto?
 
Mi incamminai verso il primo piano, convinta che una rilassante doccia mi avrebbe allontanato da quei dilemmi esistenziali, ma…
All’improvviso, tutto intorno a me si fece scuro, tutto iniziò vorticosamente a girare e io, presa da quel tumulto di sensazioni, mi abbandonai a quello stato di semi-coscienza che mi stava ormai travolgendo.
 
Era… strano.
 
Ero svenuta, ma ero allo stesso tempo cosciente, sapevo che mi trovavo in un luogo recondito che preferivo non visitare mai, la mia memoria.
 
Non avevo corpo, né mani, né viso; non sentivo nulla, se non che la mia mente era sulla difensiva. Ero convinta che sarebbe successo qualcosa, che avrei visto qualcuno. Qualcuno che apparteneva al mio passato.
D’un tratto il silenzio ovattato che mi circondava si riempì di sussurri inarticolati.
All’inizio incomprensibili, poi sempre più chiari.
 
Una voce, calda, dolce, la sua.
 
“Sii felice, ti prego”
 
Mi riscossi all’improvviso e mi accorsi che ero appoggiata con la guancia sinistra sul freddo pavimento della mia stanza.
Gli occhi, anche senza volerlo, mi si riempirono di calde lacrime, che scivolarono lente sul mio viso fino a cadere sul pavimento.
Non feci nulla per asciugarle: era da tanto che le reprimevo, da tanto evitavo alle mie sensazioni di uscire fuori dal guscio protettivo costruito intorno a me. Ora, quel gesto, seppure semplice, mi calmò, mi rese in qualche modo meno pesante.
Ma una zavorra mi trascinava sempre a quella maledetta sera in cui avevo deciso di rovinare non solo la mia vita, ma anche la sua.
Non avrei mai potuto perdonarmi per un gesto così.
Proprio per questo , da quel giorno, non avevo cercato l’assoluzione nemmeno dall’alto, dove si dice risieda nostro Padre, che tutto comprende e tutto ama.
 
Mi avrebbe mai perdonato?
 
Strano a dirsi, ma in quel momento sentii un tremendo bisogno che lì, vicino a me, ci fosse Robert.
Un bisogno fisico, mentale, a tutti i livelli della mia coscienza: anche solo sapere che l’indomani l’avrei rivisto era diventata per me fonte di… serenità.
Non potevo mentire, fingere a me stessa che quello che provavo per lui fosse solo una pura e semplice amicizia. Non avevo mai provato nulla del genere prima di allora, mai avrei neppure sperato che il mio cuore avesse potuto provare simili sensazioni.
 
Io… cosa provavo per lui?
 
Il respiro mi si bloccò, per un attimo il mio cuore perse un battito.
Ero in attesa di una risposta che forse non avevo il coraggio di dare neanche a me stessa.
 
“Okay”dissi a me stessa“ magari questa domanda è meglio tralasciarla, no?”
 
Si, forse è meglio.
 
Mi rialzai di scatto dal pavimento, in preda ad un’energia su cui avevo appena rinunciato ad indagare. Dovevo fare qualcosa, qualsiasi cosa che mi impegnasse anima e corpo.
Il mio sguardo si posò sugli scaffali che sovrastavano le pareti della mia stanza. Non ero una persona particolarmente ordinata, anzi si potrebbe benissimo dire che non lo ero affatto. Tuttavia, tendevo a sistemare libri, CD e tutto ciò che mi interessava in ordine caotico, per associazioni di idee o semplicemente per contrasti cromatici.
 
Un colore, diverso dagli altri, attirò la mia attenzione: rosso cupo, stonava su quello scaffale in cui i colori che predominavano erano le tonalità dell’azzurro.
Mi avvicinai, per un attimo le mie dita tremarono.
 
Ma certo, ora ricordavo.
Era il mio album da disegno: un regalo di mia madre, un residuo del mio passato relegato ai margini della mia mente.
Lo sfilai dallo scaffale e, con un soffio, sollevai la polvere che ne ricopriva la sommità e che finì per creare sottili effetti luminosi al contatto con la luce solare. Con la punta delle dita, girai la copertina: ad aspettarmi c’erano tentativi di disegnare paesaggi, case, città, gente sconosciuta in preda alla follia del tempo, immortalata per un istante eterno da una mano armata di matita. Con il passare delle pagine, si esplicava sempre di più la mia antica passione: il ritratto. All’epoca, era il modo attraverso il quale esprimevo le mie impressioni, il mio modo di vedere gli altri, il loro modo di vedere me.
 
Tra i ritratti che più mi piacevano c’era, ovviamente, quello di mia madre. Attraverso il suo sguardo liquido, avevo cercato di far rifulgere tutta la sua dolcezza, la sua disponibilità in qualsiasi istante, il suo difendermi a spada tratta nelle occasioni della vita.
 
L’ultima pagina erta solo uno schizzo, una bozza raffigurante un ragazzo, giovane e dai tratti allegri, la cui espressione era ancora da definire.
 
Sapevo che quel ritratto non avrei mai potuto terminarlo.
Non sarei più stata in grado di riprodurre la sua vitalità, perché di vitalità in lui ormai… non c’era più nulla.
 
Come si fa a riprodurre la sostanza dei ricordi?
Come si fa a dare vita ad un sogno?
 
Rimisi a posto l’album, di nuovo con gli occhi colmi di pianto.
 
Basta piangere.
REAGISCI.
VIVI.
 
Si, avrei cercato dal quel momento in poi di godermi ogni piccolo attimo di quello che mi avrebbe riservato la vita.
 
 
Pov. Robert
 
 
Finalmente a casa.
Non vedevo l’ora di uscire e sgranchirmi un po’ le gambe: ero stanco di quell’aria uggiosa che si respirava in ospedale. Inoltre, ero liberi anche dai compiti che mi assegnavano a scuola perché ormai due giorni dopo sarebbero iniziate le vacanze estive e mai come quell’anno avrei voluto che arrivassero più lentamente: non avrei avuto più una scusa plausibile per aspettarla fuori dalla scuola, giusto per vedere il suo sorriso.
E poi le vacanze erano un po’ noiose per me, così come lo erano state quelle di Pasqua. Ciò mi portava a pensare al mio rapporto con la religione, o meglio al mio non-rapporto.
In famiglia erano tutti cattolici osservanti: lo era stato mio padre e lo era tuttora mia madre, ma la sua fede era più una sorte di consolazione, un appiglio, che uno slancio volontario. E con  questo non voglio dire che non credesse in Dio, piuttosto che si era avvicinata maggiormente alla religione dopo tutto quello che era successo.
Quanto a me, beh, la situazione era più complessa: non sapevo se credere o meno.
E poi, cosa significa credere?
Cercare un qualcuno che non esiste e che è una mera creazione dell’uomo o è uno slancio verso l’infinito, verso l’ignoto, quasi un desideri irrazionale verso ciò che non si conosce?
Questo dubbio mi perseguitava da anni, forse perché non avevo mai avuto il coraggio di guardarmi dentro e cercare la mia strada.
 
Perché il non conoscere a volte è la migliore protezione.
Perché così gli anni scorrono lasciandoti illeso.
Lasciandoti privo di illusioni.
 
 
“Domani cosa hai intenzione di fare?” mi chiese mia madre mentre appoggiava la busta della spesa sul grande tavolo della cucina.
“Ecco, domani ci sarebbe un concerto dei My Chemical Romance in centro. Tom ha già comprato i biglietti, andrò con lui e degli amici”
“Un concerto dei My Chemical-che??!”
“Dai, mamma, come fai a non conoscerli? E’ un gruppo che suona musica punk-rock fenomenale!”
“Grazie per l’informazione, adesso si che mi si sono schiarite le idee!” replicò con un sorrisetto sarcastico.
“E comunque, anche se non mi hai chiesto il permesse di andarci, la mia risposta è NO” aggiunse, spiazzandomi.
“Che cosa?! Ma lo sai che non mi si ripresenterà mai più un’occasione del genere! Devo andarci, ti prego!” e così dicendo mi misi teatralmente in ginocchio, assumendo un’espressione a metà tra un cane bastonato e un gattino con gli occhi dolci (per darvi un’idea, gli occhi del Gatto con gli stivali di Shreck! ).
“Non se ne parla! Sei stato appena dimesso, non puoi correre il rischio che ti accada qualcosa”
“Dai, ti prego! E’ importante per me, davvero. Ci tengo tantissimo ad andarci …”
“E va bene! Ma, tra parentesi, non mi fido tanto di quel tuo amico, Tom. Ha un’aria un po’… direi da farfallone! Perché non inviti quella ragazza che ti è venuta a salutare ieri? Si chiama Kristen, se non mi sbaglio. Si, mi sembra una tipa a posto”.
“Ehm… Non so se è il suo genere di musica” risposi imbarazzato, voltandomi per non farle vedere lo stupido rossore che improvvisamente sentii infiammarmi le gote.
“Guarda che è inutile che ti giri. Me ne sono accorta: ti piace e anche molto. Non sai quanto è stato buffo vederti boccheggiare quando hai tentato di presentarmela! Ah ah!” e scoppiò a ridere, provocando in me ancora più imbarazzo9.
“Pensi che… beh si… che mi consideri uno stupido?” riuscii infine a dire, temendo una risposta affermativa.
“Oh no, secondo me no. Anche se mi sono accorta che è molto rigida quando ti parla, quasi come se cercasse di frenarsi. In ogni caso, gli occhi parlano da sé”
 
Magari fossi stato anche io così ottimista.
 
Mugugnai, cercando di non lasciarmi scappare nient’altro: era davvero difficile tenere a bada la curiosità femminile!
“Comunque invitala! E non è un’offerta: se lei non viene con te, tu non vai da nessuna parte!”
“Uffa, come vuoi. Tanto devo accettare per forza, giusto?”
“Giusto!”
“Alla faccia della democrazia!” scherzai.
“In realtà, vedila dalla mia prospettiva: è una democrazia guidata, cioè sei libero di fare quello che dico io” puntualizzò satiricamente.
“Ah ah le illusioni aiutano a  vivere!” replicai, schioccandole un bacio sulla guancia prima di salire al piano superiore e dirigermi in camera.
 
Mi gettai di peso sul mio comodo letto a due piazze e mezzo. Da qui, avevo un’ampia visuale della mia stanza.
Ricordi su ricordi: in tre parole la descrizione completa della mia stanza. Tutte le pareti erano tappezzate di foto che mi ricordavano chi ero, da dove venivo, passato, presente, futuro.
A partire dal mio primo giorno di vita, quelle foto raccontavano di me, della mia vita, di ciò che avevo perso, di ciò che avevo ottenuto.
Come in una climax ascendente, la storia si dispiegava pian piano, mostrando ogni cambiamento che avveniva in me.
L’ultima foto si trovava proprio affianco al mio letto; non smettevo mai di guardarla, tanto che mi ero abituato a dormire da quel lato e a toccarla con la punta delle dita prima di scivolare nel sonno.
Mi girai di fianco per poterla guardare meglio: era un’esplosione di felicità, ecco cosa rappresentava. Dovevo avere circa cinque anni quando era stata scattata nel giardino di casa.
Ero sulle spalle di mio padre e con i piedi che ciondolavano ed il sole che, accarezzando i miei capelli biondi, irradiava raggi bellissimi che andavano a rispecchiarsi nei dolci occhi azzurri di mio padre.
Era uno dei ricordi più belli che possedevo di lui e quella foto riusciva a lasciarmi impresso quel momento, unico perché irripetibile, e non lasciava che lo dimenticassi.
In realtà, non avrei mai potuto dimenticarlo, neppure volendo.
 
 
 
Pov. Kristen
 
Do you feel cought in lost and desperation?
(…)
Rimember all the sadness and frustration
and let it go, let it go
 
La musica mi stordiva le orecchie, ma era un bene, perché mi permetteva di allontanare i miei pensieri dalla testa caotica che mi ritrovavo a gestire e al tempo stesso mi lasciava pensare a qualcosa che fosse completamente estraneo dalla mia usuale realtà.
Ero in giardino, sotto la grande quercia che dominava lo spazio circostante, immagine di imponenza e protezione per le migliaia di specie di giunchiglie e margherite che ospitava alle sue radici.
In mano, il mio cellulare con cui stancamente stavo cambiando canzone, fino a quando non trovai quella giusta. Ma quella… beh quella canzone era davvero importante per me: sapeva di nostalgia, di rimpianto, ma anche di liberazione.
 
Proprio quella che io cercavo.
 
Ed era bello volare sulle ali della fantasia, librarmi sulle nuvole che mollemente passeggiavano nel cielo sereno di quel giorno di inizio estate, ignare delle vicende umane, ignare del dolore e delle gioie, così come delle forti passioni che tingevano l’animo umano a volte di colori accesi, brillanti, altre volte di tinte fosche, oscure.
 
 
Vento che soffia tra i miei capelli arruffati, ma non me ne curo: sono con lui, ancora un ricordo del passato.
“Guarda, cosa ti sembra quella nuvola?”
“Mmm, sembra una grossa montagna di cioccolato fuso e …”
“Ma come diavolo fai a vederla?! Mi sa che non ci vedi più dalla fame, Kris!”
“Può darsi! Quando sto con te perdo la cognizione del tempo … Ecco, guarda quella, lì in fondo. Cosa ti sembra?”
“Non ne ho idea, ma non è bella come te”
Labbra che toccarono le sue.
Dolcezza infinita.
 
 
Un rumore improvviso mi ridestò dal torpore mentale in cui ero caduta: era il mio cellulare, che per alcuni istanti aveva preso a vibrare.
 
Era un messaggio da parte di Robert.
 
“Ehi, ciao! Come va?”
“Ciao Rob. Bene! Sei tornato?”
“Si, per fortuna … Senti, vorrei chiederti una cosa”
“ … Dimmi”
“Ecco … domani ci sarebbe un concerto nel parco del centro, è dei My Chemical Romance. Vorresti venirci con me?”
 
Ci pensai per cinque minuti, indecisa sul da farsi.
Sarebbe stato grandioso andare ad un loro concerto, ero una loro fan da anni, ma …
 
“Ci penserò”
“Ok, Se vuoi, ci vediamo a casa mia alle 6.30 p.m. Ah, non ti preoccupare per i biglietti, già fatto!”
“Ti faccio sapere allora ;) A domani”
“A domani Kris”
 
 
Pov. Robert
 
Aprii piano i miei occhi, stiracchiandomi lentamente sotto le coperte. E no, non mi andava proprio di alzarmi: adoravo il contatto delle mie mani con le calde coperte e stare lì, in silenzio, a guardare al di fuori della mia finestra era la parte migliore del mattino. La luce entrava a poco a poco, quasi una tenera madre che volesse darmi il buongiorno. I miei occhi si abituarono ad essa e la salutarono felici, perché quel giorno sarebbe stato speciale.
Perché quel giorno avrei aperto gli occhi e l’avrei incontrata.
Perché avrei rivisto i suoi occhi.
Perché ormai non sapevo più fare a meno di lei.
 
Dopo un sonoro sbadiglio, scostai, purtroppo, le coperte e appoggiai i piedi a terra. Mentre con una mano mi passavo le dite tra i capelli, cercando di sistemarli come meglio potevo, avvicinai l’altra al comodino, dove, come al solito, avevo posto il mio cellulare.
Lo so, è stupido a dirsi, ma speravo davvero che mi avesse già mandato un messaggio, per dirmi di si magari.
E invece … niente, nessun messaggio.
Per evitare di rendermi conto che ero stato preso da una subitanea delusione, mi alzai il più in fretta possibile e mi recai in bagno: ci voleva una doccia fredda per non pensare a nulla.
Subito dopo, stavo ancora pensando alla stessa cosa: ero un caso disperato, davvero.
Ad un tratto, un soffio al cuore, la perdita di un battito: il mio cellulare vibrò e io lo guardai, inebetito per una manciata di secondi, non sapendo che fare.
Ma quel giorno sembrava che tutte le mie speranze fossero destinate ad essere deluse: era Tom, che mi pregava di recarmi a casa sua perché voleva dei consigli, ma non mi spiegò precisamente quali consigli.
 
“Muovi quelle chiappe e vieni subito a casa mia!!!”
“Ok ok calma amico!”
 
Tanto non avevo nulla da fare e girarmi i pollici non era una buona opzione, per cui mi decisi per il male minore. Attraversai a piedi la Londra incasinata che da qualche tempo aveva riacquistato tutti i suoi colori. Sembra strano quanto una sola persona possa cambiarti non solo dentro, ma trasformi con la sua sola presenza tutto ciò che ti circonda. Tutto riacquista colore, senso, bellezza. E non puoi farci niente se ti senti felice, se ti senti librare in aria senza un motivo logico, razionale. E non puoi niente se invece, quando quella persona ti manca, non puoi sopportare che il mondo ritorni al suo stato originario.
 
Quando hai sperimentato l’ebbrezza della vita, non apprezzerai mai abbastanza la sterile stasi quotidiana.
 
Arrivato a destinazione, suonai il citofono e sentii i passi veloci di Tom che venivano ad aprirmi.
 
“Cazzo, ce ne hai messo di tempo!”
“Ma se sono venuto in un nanosecondo! Ci sono i tuoi in casa?” I suoi genitori mi facevano sentire sempre un po’ a disagio, forse perché erano sempre tutti agghindati in cravatta e tailleur e li vedevo così distanti.
“No, per fortuna sono andati ad un convegno o roba del genere”
“E allora? Mi vuoi dire perché tutta questa fretta?”
“Ehm … Okay, è meglio se prima ti siedi sul divano. Vuoi qualcosa?”
 
A cosa era dovuta tutta quella gentilezza?
 
“Si, una Coca, grazie”
Lo sentii andare in cucina e aprire il frigo, per poi tornare e sedersi di fronte a ma, su una poltroncina. Era strano, era una delle poche volte che lo vedevo così a disagio.
“Okay, lo so che sarà una sorpresa per te, ma …”
“Ma? Dai mi stai facendo letteralmente rotolare tra le spine!”
“Mi … mi sono …”
“Ti sei?!”
“Ecco, mi sono innamorato!” gettò tutto d’un fiato.
Quasi non gli sputai in faccia la Coca-cola che avevo in bocca per la sorpresa. Lui? Innamorato? Noo mi stava prendendo in giro, non ci credevo.
 
“Ma va! Okay dove vuoi andare a parare? Perché lo sai che non ci  credo nemmeno se mi paghi vero?” e al pensiero di lui che faceva gli occhi dolci a qualcuno scoppiai a ridere fino alle lacrime.
“Guarda che non c’è niente da ridere! Piuttosto, c’è da piangere!”
“E allora chi sarebbe la fortunata?!”
“Ehm … okay adesso non ridere, giura!”
“Va bene, basta che la fai finita”
“La conosci. E’ Eleonor Shakes, quella son cui hai parlato tre settimane fa”
“Tre settimane fa?! Ma che è, ti sei segnato i giorni in cui la vedi e i giorni in cui non la vedi?”
 
Lo vidi arrossire ed allo stesso tempo negare pedissequamente. No, non potevo credere ai miei occhi: non lo avevo mai visto così. Lui era il tipo da una botta e via, non  si fermava a giocare con i sentimenti. Era il tipico ragazzo che in superficie mostrava di essere il figo della scuola: le ragazze prive di cervello gli sbavavano dietro ad ogni suo passo e lui non doveva far altro che schioccare le dita, o quasi.
Cosa gli mancava, allora?
Lo sapevo cosa gli mancava, perché la differenza tra il suo stato ed il mio l’avevo sentita sulla mia pelle, ed era una grande differenza.
Mi soffermai a pensare a Eleonor. Con un piccolo esercizio di memoria, riuscii a ricordare chi fosse. Ah già, avevo frequentato lo stesso corso di Fisica l’anno precedente e l’avevo conosciuta lì.
Lei era, come dire, totalmente DIVERSA da Tom. Aveva occhi di un azzurro limpido, che quasi sfidavano il cielo a imitare il loro colore; capelli castano mogano le coronavano il volto, ma, quasi inconsapevole della loro bellezza, li portava sempre racchiusi in uno stretto chignon.
Era la tipica ragazza liceale insicura: lo si vedeva dai suoi atteggiamenti.
La prima volta che le rivolsi la parola fu quando decisi di sedermi accanto a lei. Non so perché scelsi proprio quel posto, ma mi resi conto di aver fatto una buona scelta. Quando la salutai, mi rivolse un timido saluto e le sue dita erano corse al viso, a sistemare una fantomatica ciocca che lei immaginava le fosse caduta sul viso. Capii che era una ragazza molto insicura anche da come si poneva con gli altri, quasi temesse di venire “sbranata”.
Pian piano facemmo amicizia e scoprii che la sua intelligenza era davvero al di sopra della media. La sua non era concorrenza con gli altri: non le interessavano per niente i voti che prendeva, né tanto meno quelli degli altri.
Il suo era desiderio puro di conoscenza.
Era una ragazza unica per la sua innocenza, per il modo fiducioso con cui vedeva il mondo.
Mi dispiaceva non frequentarla più come una volta.
 
“Ti rendi conto che lei è diversa da quelle che di solito ti fai?” gli dissi, sincero.
“E’ proprio per questo che mi piace! Riesci a crederci?”
“No, sinceramente no. Ma non voglio assolutamente che tu la prenda in giro o cose simili. Ti faccio nero se hai intenzione di fare una cosa del genere”
“Ma che dici?! No, no è l’ultima cosa che voglio fare! Io vorrei solo che la smettesse di pensare a me come un ragazzo superficiale, di cui lei non può fidarsi”
“E cosa potrebbe mai pensare? Tu ti sei sempre comportato così con le ragazze, è inutile negarlo”
“Si, ma sono cambiato e tutto questo per lei. Lei è straordinaria e io vorrei che mi desse la possibilità di dimostrarle che posso essere alla sua altezza”
“E io in tutto questo cosa doveri fare?”
“Dovresti aiutare il tuo migliore amico! Mettere una buona parola per me quando parli con lei, o giù di lì”
 
Stavo per rispondergli che non mi sarei immischiato nei fatti suoi, ma mi resi conto che sarei stato un tremendo ingrato. Lui era sempre stato con me quando avevo avuto bisogno di aiuto e non si era mai tirato indietro. Così decisi di accettare.
Mi abbracciò strettissimo, al settimo cielo per la felicità.
“Grazie amico, lo sapevo di poter contare su di te!”
 
No, grazie a te, Tom. senza di te non ce l’avrei mai fatta.
 
 
 
Ore 6:45 p.m. : il mio telefono ormai era quasi andato in tilt per tutte le volte che avevo controllato la schermata, con la speranza di trovare un suo messaggio.
Ma niente, niente di niente.
 
Non c’è nulla da fare Rob, rassegnati.
 
E una grande tristezza mi invase il cuore. Era come se si fosse appesantito, come se battesse solo perché era un suo dovere, solo perché la vita è più forte e va avanti nonostante le delusioni. E allora decisi che tanto valeva che mi godessi la serata, se di godere si poteva parlare.
Non volevo pensare che non si era degnata nemmeno di farmi sapere che non veniva.
Se ne fregava altamente di me, altrimenti avrebbe avuto almeno il buon gusto di dirmi che non sarebbe potuta venire.
Invece, niente.
 
Mi incamminai al parco in centro, dove i suoni del concerto iniziavano a farsi sentire: ma la mia allegria era totalmente scomparsa.
Chissà perché.
In lontananza, sentivo le chitarre elettriche fatte suonare da mani esperte, che le accarezzavano a volte dolcemente a volte con rabbia, a seconda delle emozioni che quelle stesse mani volevano trasmettere. E vidi un mare di mani, che si sollevavano a ritmo delle canzoni, come mosse da una leggera brezza marina, che le gettava prima da una parte, poi dall’altra.
E, infine, sentii dei suoni familiari. Ma di quale canzone?
 
Where, where will we stand
when all the lights go out across the city streets?

 
 
Perfetto, la canzone ideale  per risollevarmi il morale. Le note, però, stavano pian piano penetrando nelle mie vene, sciogliendo il ghiaccio che vi si era a poco a poco insinuato. La delusione di quella sera si sciolse come neve al sole, senza lasciare alcuna traccia dietro di sé. La musica mi aveva sempre fatto questo effetto. Mi cullava, mi trascinava con sè verso mondi sconosciuti, eppure così vicini a me.
 
If there’s a person I could be,
Then I’d be another memory

 
“Can I be the only hope for you?” domandai silenziosamente, rivolgendo lo sguardo alle stelle, che quella sera brillavano intense nel cielo londinese.
“Because you’re the only hope for me” mi rispose una voce, stringendomi la mano ed intrecciando le sue dita tra le mie.
Mi voltai di scatto, impossibile resistere alla tentazione di credere che lei fosse lì.
Ma lei era lì, per davvero!
 
“Scusa per il ritardo” esordì.
Non so perché, ma tutto ad un tratto mi sentii pieno di rabbia, di delusione, di scoraggiamento.
“Mi dici solo un semplice scusa?!”
“Beh … ecco … ho avuto degli imprevisti” mi disse, distogliendo lo sguardo e ritirando le dita dalle mie.
“Che sarebbero?”
Ancora una volta, non ebbe il coraggio di guardarmi in viso, all’improvviso consapevole del poco valore delle sue scuse, che non facevano altro che allontanarci sempre di più.
“Va bene, ho capito” e feci per andarmene, stanco ormai di tutto quel disagio che a quanto pareva lei provava nell’esternare i suoi sentimenti.
Ormai, mi sembrava anche inutile pretendere di poterle essere amico, se poi non si decideva nemmeno a darmi una spiegazione plausibile alle sue azioni.
 
“No, aspetta, ti prego” e di nuovo mi prese il braccio, stringendo le sue dita tra le mie: sembravano fatte apposta per essere intrecciate le une alle altre.
Si avvicinò a me che stavo appoggiato alla dura corteccia di un albero dell’immenso giardino e si alzò in punta di piedi per avvicinare il suo viso al mio.
Temevo che il battito del mio cuore potesse rimbombare al di sopra dell’assordante musica che ci circondava.
Le sue labbra sfiorarono il mio orecchio.
Brividi. 
Come una carezza, mormorò a ritmo di musica:
 
“And if we can find where we belong
we’ll have to make it on your own,
face all the pain and take it on,
because the only hope for me is you alone”

 
 
Non resistetti: allungai una mano sul suo fianco, per poi risalire, con leggerezza, sul suo collo morbido e delicato.
Lei spostò il viso per guardarmi negli occhi.
Non so cosa lei vi lesse o cosa io riuscii ad esprimere silenziosamente, ma vidi i suoi dolci occhi verdi come smeraldi palpitare, come incatenati ai miei senza possibilità di uscita.
Ma non l’avrei mai obbligata a fare nulla che non volesse. Per questo, rimasi così, immobile al pensiero di commettere lo stesso errore della prima volta.
Ma vi fu una cosa che mi spiazzò totalmente.
Fu lei ad accostare le sue labbra morbide alle mie e… fu l’estasi per me. Una miriade di indefinibili emozioni mi travolse e susseguirono le une alle altre, mentre le nostre lingue si esploravano, si ritrovavano, si riconoscevano.
Le sue dita si infilarono nei miei capelli, provocandomi brividi di piacere a cui non avrei mai più saputo rinunciare.
Mentre la tenevo stretta a me, con le labbra che lentamente scoprivano le sue, mi resi conto che era magnifico  sentirla accanto a me, respirare il suo stesso respiro ed unificarmi in un unico essere con lei.
Stavolta, il bacio non fu interrotto da nessun ripensamento.
Quando ci staccammo, la strinsi forte a me e lei appoggiò la sua testa sul mio petto.
Le baciai la fronte delicatamente, felice e appagato.
“Non ti lascerò andare via questa volta” le mormorai all’orecchio.


Allora, che cosa ve ne pare? ;)
Eh si, finale romantico per i nostri due piccioncini!
Ad ogni modo, volevo mettervi a parte di un mio dubbio: vi piace il titolo della storia? Perchè io avrei pensato ad un titolo alternativo, e cioè "
It takes two to whisper quietly".
Che ne pensate? Commentate numerose e fatemi sapere quale dei due titoli vi piace di più!



 

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