Parental Advisory: The static age di Eryca (/viewuser.php?uid=137266)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Can you hear the sound of the static noise? ***
Capitolo 3: *** He's the Jesus of Suburbia ***
Capitolo 4: *** Born and raised by the hypocrites ***
Capitolo 5: *** Inside your restless soul your heart is dying ***
Capitolo 6: *** So give me novacaine ***
Capitolo 7: *** Ashes to ashes of our youth ***
Capitolo 8: *** There is no place like home, when you got no place to go. ***
Capitolo 9: *** I walk alone the road. ? ***
Capitolo 10: *** I don't care if you don't. ***
Capitolo 11: *** Lost children with dirty faces today. ***
Capitolo 12: *** I wish someone out there will find me ***
Capitolo 13: *** A kiss we'll share ***
Capitolo 14: *** It makes me lose control ***
Capitolo 15: *** The son of rage and love ***
Capitolo 16: *** Run away from the river to the street ***
Capitolo 17: *** I hope you had the Time of your life ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Parental Advisory: The Static Age
PROLOGO
Il mio unico e vero amico si chiamava Bruto.
Era il mio cane. Un boxer per l’esattezza.
Il nome che gli avevo dato non era per niente azzeccato, poiché il mio cagnolino era dolce e non si lamentava mai. Bastava che gli dessi una bella ciotola di crocchette, un osso e qualche coccola.
Avrei tanto voluto essere come lui.
Invece, ero io.
E le persone pretendevano sempre il meglio da me. Non potevo permettermi di sbagliare.
Ma in fondo che problema c’era? Io facevo sempre la cosa giusta.
Fin da piccola, ero sempre stata una bambina mite e gentile. Dicevo raramente di “No”, e quando lo facevo era solo perché dovevo mantenere il mio equilibrio vitale.
Mio padre, un uomo alto e robusto, era un giudice rinomato.
Era un brav’uomo. Anzi, probabilmente prima di coniare il termine “brav’uomo” avevano conosciuto mio papà, Steven.
Mio padre erano una persona abitudinaria, che non amava i cambiamenti e doveva avere le sue sicurezze.
Tutte le mattine si alzava alle 7:00, si lavava i denti, si faceva la barba e scendeva in cucina, dove mia madre lo aspettava con la sua tipica colazione: caffè con due cucchiaini di zucchero, un tazza di latte e due fette biscottate con marmellata di albicocche. Poi andava in Tribunale.
Steven aveva sempre voluto il meglio per me.
Mi aveva iscritta nella migliore accademia di danza classica della città, all’età di tre anni.
Ancora in quel periodo ballavo, ed ero anche parecchio brava.
Amavo la sensazione di completezza assoluta che avevo mentre mi alzavo sulle punte, per formare una posizione eretta, o per fare una presa con il mio partner.
Ero la ballerina più brava del mio corso, naturalmente.
Frequentavo il più prestigioso Liceo, ed ero anche brava a scuola.
Ero la figlia perfetta, nonché la tipica brava ragazza. Non disobbedivo, facevo i compiti, ballavo, avevo diversi interessi. E facevo ogni cosa i miei genitori mi chiedessero. Non andavo mai loro contro.
Mio padre voleva che diventassi un avvocatessa, mia mamma invece sperava di vedermi in teatro come prima ballerina della Julliard. Io ovviamente mi impegnavo al massimo per realizzare questi sogni..
I loro sogni.
Non mi ero mai chiesta se ciò che volevo fare era veramente quello per cui continuavo a dare il cento per cento di me stessa. Era semplicemente così.
Non avevo termini di paragone.
Anche la mia cerchia di amici era sana, e approvata da mio padre in particolar modo.
Andavamo al cinema a vedere film d’amore, oppure a vedere concerti al teatro, prenderci un caffè nel nostro bar abituale, o ci trovavamo a casa per stare insieme.
Eravamo tutti assolutamente dei bravi ragazzi.
E io ero contenta della mia vita.
Credevo davvero in ciò che facevo. Non mi ero mai posta il problema di chiedermi che cosa veramente avrei voluto fare.
Sapevo che quello che sarebbe stato giusto fare era continuare ad essere così com’ero.
Non avevo altri problemi, non avevo alternative.
Uscivo solo con dei ragazzi per bene, possibilmente di famiglia benestante ed educati.
I miei genitori mi avevano insegnato certi principi: essere educata, accondiscendente, sicura, sobria.
Tutto ciò comprendeva il fare quello che volevano loro.
In teoria non mi proibivano di fare ciò che volevo, perché io trovavo piacere nella mia vita.
Mi avevano sempre fatto credere che la vita fosse giusta così, e che non ci fossero altri modi di viverla.
Quindi per me era giusto, era splendido, era perfetto.
Vivevo chiusa nella mia bolla di sapone eterea, e la amavo alla follia.
Anche esteriormente ero perfetta, come volevano tutti; ero abbastanza alta, avevo capelli lunghi, biondi e lisci, degli splendidi occhi azzurri e un fisico snello.
Mi vestivo in modo sobrio ed elegante, senza troppe pretese.
Insomma, ero la tipica ragazza di alto borgo.
Ma la cosa terrificante era che non sapevo di esserlo.
Per me il mondo era fatto di gente simile a me, che meritava la mia parola, e tutto il resto era qualcosa di lontano e irraggiungibile.
La fame nel mondo, la povertà, le guerre, le rivoluzioni.. erano tutte cose che conoscevo, ma che non mi toccavano particolarmente.
In tutta la vita avevano solo meccanicamente svolto delle attività, e fatto cose che mi erano state consigliate.
Ma non mi ero mai fermata un attimo a pensare.
Non c’è n’era bisogno.
Solo quando guardavo nei grandi occhi nocciola di Bruto, sentivo che qualcosa mi sfuggiva.
Era come se il cane stesse cercando di farmi aprire gli occhi sul mondo.
Si, mi stava dicendo di smetterla di essere inconsapevolmente egoista e superficiale.
Sapevo che mi mancava qualcosa, perché anche se andavo avanti giorno dopo giorno con il sorriso sul viso, sentivo che c’era qualcosa che non afferravo.
Mi sentivo stranamente insoddisfatta.
Ma come poteva essere? Avevo tutto ciò che una persona doveva avere.
Ero Amy Murray, la dolce figlia del grande giudice Murray. Che cosa c’era che non andava?
Solo Bruto capiva, solo lui sapeva.
Avevo 17 anni.
Avevo 17 anni quando un ciclone improvviso fece il suo ingresso nella mia vita, e mi stravolse ogni piano e ogni certezza.
Avevo 17 anni quando finalmente capii che c’era un’alternativa.
Avevo 17 anni quando mi resi conto che potevo scegliere.
***************
Angolo Snap:
Grazie alla mia beta reader, che mi sostiene e mi aiuta sempre, Vi, sei speciale.
Qua è Snap95 che vi parla, beniamini.
Allora tanto per iniziare questa è la prima fanfic che scrivo sui Green Day, però ne ho lette parecchie per poter dire qualcosa a riguardo.
Di solito nella storie in cui è inserito un Nuovo Personaggio, si ha una protagonista che vive nella periferia, che non ha speranze, che sfoga il suo malessere nella trasgressione, e che ha una famiglia terribile.
Ne ho lette parecchie, e ne ho anche apprezzate diverse, ma credo che dopo un po’ sia banale.
Quindi ho deciso di aggiungere un personaggio assolutamente perfetto, che ha una vita fantastica e che non ha alcun problema.
Ha tutto, ma in realtà non ha nulla.
Come seconda cosa, in questa storia ho deciso che i Green Day non saranno ancora famosi, ma dei semplici ragazzini con l’amore per la musica.
E nonostante la scelta, il batterista che ho inserito è il mio amatissimo Tré Cool, e non John l’ex batterista ai tempi in cui erano giovani.
Per ora non ho ancora specificato la città ma credo che sarà Rodeo.
Ora, questo solo il prologo –cortissimo- per far capire più o meno l’andamento della ff.
Ditemi cosa ne pensate, siate sinceri.
Se secondo voi è il caso di continuarla, oppure se non avrà un futuro.
Accolgo senza troppi problemi critiche, quindi non fatevi problemi.
Spero comunque che vi piaccia, e che lo leggiate in tanti.
Per ora direi che è tutto,
Bye,
Snap. :3
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Capitolo 2 *** Can you hear the sound of the static noise? ***
Parental Advisory: The static age
Capitolo Primo
Can you hear the sound of the static noise?
America, Americaa..
Una voce meccanica e stridula che cantava l’inno americano, mi trapanò le orecchie facendomele fischiare in maniera assolutamente esagerata.
Aprì gli occhi cercando di ripararmi dalla luce del sole che filtrava dalle grosse vetrate.
Le palpebre erano pesanti e sembravano non avere alcuna voglia di restare aperte, segno dell’ennesima notte insonne, trascorsa a studiare Letteratura.
Certo, non potevo fare altrimenti vista l’imminente interrogazione in programma. Quella sarebbe stata una lunga mattinata di scuola.
Per quanto fossi una brava studentessa, non amavo alzarmi presto la mattina, eppure era la mia routine.
La mia vita in generale era basata sulla quotidianità.
Come diavolo era successo che io stessi pensando a quelle cose appena svegliata?
Diavolo.
Strattonai le coperte, che mi avevano rinchiuso in una morsa da cobra, e sbuffai infastidita.
Sembrava che quella giornata fosse iniziata con il piede sbagliato.
Mi accertai di essere in orario, per poi alzarmi definitivamente con amarezza.
Non potevo fuggire ai miei doveri. Quella era la mia vita.
Il sole mi accecò, e per qualche minuto, ovunque guardassi, vedevo puntini luminescenti che oscuravano tutto il resto.
La mia stanza era esattamente quella di una ragazza impeccabile: il letto, in quel momento disfatto, era posizionato al fondo dello spazio, e aveva quasi l’aria di essere un trono.
Il soffitto era in pregiato legno di mogano, come l’abbaino e le vetrate, che regalavano un’atmosfera di accogliente calore famigliare.
Il pavimento era in parquet, e mi resi conto che probabilmente il giorno prima, Carmela,l’inserviente, aveva passato la cera, poiché quel mattino era più lucido del solito.
A differenziarla dalle camere delle normali adolescenti della mia età, la mia stanza non aveva poster raffiguranti facce di bell’imbusti attaccati alle pareti.
Sopra il letto, c’era solo un grande manifesto della Royal Ballet, una delle più grandi compagnie di danza classica dell’Inghilterra.
La scrivania stava sul lato sinistro della stanza; sopra di essa erano posizionati, in modo ordinato, libri di scuola, penne e quaderni.
Non avevo altre cose che potevano far intendere qualche mie passione, o anche solo la mia personalità.
Perché?
Perché la mia personalità era stata sfrattata dalla mia mente. Era come se, alla nascita, tutti avessero deciso come doveva essere il mio carattere. Non avevo mai fatto vedere a nessuno chi ero in realtà.
Lo ignoravo io stessa.
Scacciando di mente le fantasticherie sul mio possibile futuro di ballerina, mi infilai le pantofole e mi fiondai in bagno.
Lo specchio mi mostrò il riflesso del mio viso: occhi azzurri, capelli biondi e sorrisino dolce.
Certo, era difficile poter dire che mostrava una qualsiasi emozione, perché sembravo più che altro una bellissima, glaciale bambola di porcellana.
Una bellezza fredda e distante.
Mi guardai e per un attimo solo pensai che forse sarebbe stato carino cambiare il modo di truccarmi, solo per quella giornata... non sarebbe stato una grave trasgressione.
Ma a mio padre non piacevano i cambiamenti, e in fondo il mio mascara nero non era poi così male.
Sei proprio carina, mi dissi sistemandomi i capelli in un elegante chignon.
Tornai in camera per indossare un paio di jeans comunissimi, un pullover verde acido e una polo bianca.
Beh, il classico abbigliamento di una classica brava ragazza.
Che cosa potevo saperne io che quel look era davvero un pugno nell’occhio? Ancora non me ne rendevo conto, e, gioiosa, mi compravo cardigan color canarino.
Soddisfatta del mio aspetto consueto, mi precipitai in cucina, dove trovai, come tutte le mattine, mio madre alle prese con il caffè.
Mio padre se ne stava seduto sulla sedia, a leggere il giornale in modo severo.
Quando assumeva quell’espressione voleva dire che c’era un’importante causa in Tribunale, e che stava già impersonando la parte del Giudice Murray.
-Toh! Sentite qua!- fece scandalizzato, e prese a leggere un articolo di prima pagina.
ASSALTO ALLA STATUA IN PIAZZA GRANDE.
Ieri nel tardo pomeriggio, la polizia di Rodeo (ha potuto tristemente accorgersi) si è accorta con tristezza che la statua del nostro ex-presidente Abraham Lincoln, posizionata nella piazza principale, è stata saccheggiata e rovinata.
Questo atto di rude vandalismo non può che essere un segno della degradazione del nostro paese, e anche triste prova del disprezzo che i giovani hanno acquisito, nei confronti della storia.
Per ora non si può attribuire a nessuno questo reato, ma la polizia sta lavorando e cercando i teppisti, artefici del crimine.
“Vi assicuro che la polizia di Rodeo non si darà per vinta”, assicura il Capitano Keyman, “Troveremo i colpevoli e faremo scontare loro giusta punizione.”
Ci affidiamo, quindi, completamente alla polizia, sperando calorosamente di poter svelare questo rude mistero.
Rimasi senza parole.
Chi diavolo aveva potuto fare un simile oltraggio? Non capivo veramente il senso di quel gesto vandalico, che sembrava non avere un fine. Era sicuramente opera di alcuni teppisti annoiati, senza scopi nella vita.
-I ragazzi di oggi non hanno principi!- esclamò mio padre inorridito.
Una domanda mi ronzava nel cervello come una mosca: Che diavolo aveva fatto loro Abraham Lincoln per meritare un simile trattamento?
-è una cosa terribile- convenne mia madre non troppo interessata –Tesoro, siediti, c’è il caffè caldo- disse poi rivolgendosi a me.
A volte mi chiedevo come faceva mia madre a sorridere sempre.
-No, mamma, sono in ritardo per scuola e l’autobus passa tra cinque minuti. Devo proprio uscire.-
Le scoccai un lieve bacio sulla guancia, in segno di congedo.
-Ciao gioia- mi salutò mio padre, alzando leggermente gli occhi dal quotidiano.
Con un groppo in gola, causato dalla brutta notizia sul giornale, mi avviai per la Rodeo High School.
-“Romeo and Juliet” è una tra le più celebri tragedie di William Shakespeare. Qualcuno di voi ne ha già sentito parlare?-
La voce roca del professor J. rimbombava nelle mie orecchie. Non riuscivo a capire come un uomo piccolo come lui, potesse avere una voce tanto forte.
Il Signor J. non dava fastidio a nessuno. Era una persona mite e tranquilla, ma qualche volta riusciva davvero ad arrabbiarsi. Le sue spiegazioni, però, erano talmente interessanti che tutta la classe ne era partecipe, interagendo e facendo domande.
Wesley Picock, un lentigginoso ragazzo della mi età, alzò la mano in segno di affermazione.
-Bene, Mister Picock. Che cosa sai riguardo questo dramma?-
La voce timida e flebile di Wesley si fece spazio tra i bisbigli del resto della classe. –Romeo e Giulietta erano innamorati, ma muoiono entrambi.-
-Si, è corretto. Ma sai dirci il perché?-
-No, non credo.-
Il Signor J. si massaggiò le mani, segno che stava per iniziare una lunga spiegazione.
-La storia si svolge nella città italiana di Verona. Romeo apparteneva alla casta dei Montecchi, mentre Giulietta era figlia del Signor Capuleti. Le due famiglie, rinomate in tutta la città, provavano un odio reciproco, ed erano sempre state in cattivi rapporti.-
Conoscevo bene la storia di Romeo e Giulietta, e ne ero sempre stata innamorata.
Forse era meglio dire.. Affascinata. Amavo il modo in cui i due protagonisti si infischiavano delle regole e dell’etica, per saziare il loro amore affamato.
Era molto melodrammatico, ma assolutamente di un romanticismo puro come le rose di primavera.
Non c’era tragedia che potesse anche solo essere paragonata a quella.
-Qualcuno di voi sa dirmi come finisce la storia?- disse il professor J. riportandomi alla realtà.
Alzai la mano, annuendo.
-Bene, Miss Murray, illuminaci.-
-Giulietta beve un sedativo che la rende apparentemente morta, in modo da farsi seppellire per poi essere liberata dal suo Romeo. Le cose purtroppo non vanno proprio così, poiché il giovane Montecchi crede davvero che la sua amata sia deceduta, così si uccide. Al suo risveglio, Giulietta, distrutta dal dolore, segue Romeo nell’oltretomba.-
Che tristezza.
Non mi piaceva il finale tragico, eppure, senza di esso non sarebbe stata la stessa storia.
Non avrebbe avuto lo stesso splendido significato.
-Esattamente, Miss Murray. L’atto finale sta con la pace tra i Montecchi e i Capuleti, illuminati dalla scomparsa drammatica dei propri eredi.-
Non sapevo perché, ma mi sentivo stranamente attratta da quella storia. Era sempre stato così.
Probabilmente era solo perché anche io, come il novantanove per cento delle ragazzine del mondo, sognavo il principe azzurro.
Lo sognavo davvero, con tanto di capelli svolazzanti e occhi cristallini. Erano ingenua.
Per tutto il resto dell’ora di lezione, rimasi persa nel mio mondo, fantasticando su un possibile futuro da principessa. Immaginai un dolce uomo che mi aiutasse a cucinare, e mi dicesse che ero bellissima.
Immaginavo un perfetto, classicissimo principe azzurro.
Ma le favole non esistevano.
Presto me ne sarei accorta.
Driiin.
-Ok, ragazzi per domani studiate la vita di Shakespeare a pagina 134. Arrivederci.-
Appuntai velocemente i compiti, per poi essere travolta da uno stormo di ragazzi in preda all’adrenalina di fine lezione.
Il mio prossimo passo sarebbe stato l’armadietto: infilai i libri nello spazio ristretto, e mi precipitai in mensa, dove mi aspettavano i miei cosiddetti amici.
Al solito tavolo stavano un gruppetto di liceali annoiati; tutti in tenuta studentesca.
A tenere banco stava Jake, il capitano della squadra di football scolastica, nonché mio ragazzo.
Certo, io ero la capitana cheerleader, ma non ero particolarmente indisponente.
Mi avvicinai, schioccando un breve bacio sulle labbra a Jake, che mi sorrise dolcemente.
-Ciao Amy!- mi resi conto che la persona che mi aveva appena salutato era Maggie Stuart, una mia compagna di corso. Era decisamente scarsa, ma come cheerleader se la cavava.
-Ciao Maggie!- sorrisi come ero abituata a fare, non perché ne avessi voglia.
Mi girai verso il mio ragazzo, i miei amici, e il resto della mensa.
Sbuffai.
Un’altra noiosissima giornata alla Rodeo High School.
Fantastico Amy, sei già in ritardo.
Erano le 19:38, e mia madre sicuramente era già preoccupata, così tirai fuori il cellulare per inviarle un messaggio di scuse.
Dopo scuola mi ero fiondata a lezione di danza, e avevo faticato per due ore consecutive, provando il balletto per il saggio di fine anno, un evento mondano di quelli cui mezza Rodeo veniva ad assistere. Era quindi importantissimo che fosse semplicemente perfetto.
E io mi facevo in quattro perché lo fosse.
Ma aspettate, non era tutto.
La cosa peggiore era successa proprio durante le prove del “Lago dei Cigni”..
Io– con il ruolo di protagonista – e il mio partner eravamo in procinto di fare una presa, stavo per fare lo stacco che mi avrebbe permesso di darmi lo slancio per saltare... Sentivo che quella era la mia grande occasione per far vedere all’insegnante che ero in grado di interpretare l'opera in maniera prefetta e invece...
Una storta. Avevo preso una storta, cadendo a terra.
Rovinosamente, per essere puntigliosi.
Dov’ero in quel momento?
Beh, in ospedale. Mi ci avevano portato, per poi abbandonarmi in sala d’attesa come un cane. Non potevano di certo fermare le prove per colpa mia.
Come avevo potuto essere così sbadata?
La caviglia mi faceva un male tremendo, ed era anche parecchio gonfia. Quella sarebbe stata la fine della mia carriera, non avrei mai potuto ballare al saggio, e..
No, calmiamoci, Amy. Non essere sciocca.
Che cosa poteva mai essere una storta? Probabilmente con un po’ di crema e un impacco, entro qualche giorno sarei stata come nuova.
Doveva per forza essere così.
Mi picchiai il palmo della mano sulla fronte, maledicendo l’accaduto con tutta me stessa.
-Dannazione!- esclamai sottovoce.
Presi il cellulare per controllare se mia madre mi aveva risposto al messaggio.
No.
Benissimo, sembrava davvero non importare a nessuno che la mia carriera di ballerina fosse appena crollata come una frana.
Non avrei mai più indossato un tutù, né le mie amatissime punte.
La mia insegnante mi avrebbe odiata per il resto della mia vita, maledicendosi per aver assegnato il ruolo principale ad una completa imbranata.
Come avevo potuto fare un simile errore? Era da principianti.
E io non potevo permettermi di sbagliare.
D’un tratto, nella sala d’attesa si diffuse in gran frastuono. Tutti i presenti iniziarono a bisbigliare, come solo i pettegoli di paese riuscivano a fare.
Entrarono due poliziotti in tenuta: divisa blu, fondina ascellare con tanto di pistola, e berretto indistinguibile.
Oddio, quella giornata era iniziata male e sarebbe finita anche peggio.
Prima quella dannata sveglia, poi il disastroso evento a danza e ora.. La polizia?!
Ok, Amy, mantieni la calma. Sei o non sei la figlia del giudice Murray? Un po’ di contegno!
Mi spolverai il pullover, e rivolsi il più incantevole dei sorrisi ad una signora anziana, seduta accanto a me. Cercai di darmi una sistemata, e tornare ad essere la splendida ragazza impeccabile che ero realmente.
Poi, con ben poco stupore, notai che insieme ai poliziotti era presente un’altra mingherlina figura.
I due agenti lo portavano di peso, il malcapitato era ammanettato.
Beh, allora non doveva poi essere così “malcapitato”.
Era un ragazzo giovane, forse di qualche anno più grande di me; era davvero in uno stato pietoso.
La faccia era completamente tumefatta e livida, con tanto di sangue che gli usciva dalla bocca.
O era stato pestato, oppure si era fracassato in qualche losco modo.
Mi avvicinai ad un giornalista che scattava fotografie al giovane, che sembrava non accorgersi neanche del luogo in cui si trovava.
-Mi scusi signore- dissi con la mia voce di miele.
L’uomo non si girò neanche a guardarmi. –Che vuoi?-
Cafone! –Posso sapere che cosa sta accadendo?-
-Non lo sai ancora? Questo ragazzo è uno dei teppisti che hanno distrutto la statua del presidente Abraham Lincoln!-
Oddio. Quello non era per niente un poveretto.
Era un criminale, che aveva fatto un reato orribile. D’un tratto non compatii più quel ragazzo, anzi, mi fece ribrezzo. Avrei voluto dirgliene quattro.
Come si era permesso di rovinare un opera pubblica in quel modo?
E per cosa, oltretutto? Era solo un banalissimo, stupidissimo vandalo. Uno di quei ragazzi che non avevano etica, futuro e assolutamente menefreghisti nei confronti del mondo.
Uno di quei ragazzi che mio padre detestava con tutto se stesso.
Il criminale tirò su la testa, con uno sforzo che sembrò essere esagerato.
Aveva due folgoranti occhi color verde smeraldo.
***************
Angolo Snap:
*Vorrei precisare che non so se a Rodeo c’è una piazza in cui è posizionata una statua di Lincoln, è un elemento puramente inventato! E nello stesso modo il nome del Liceo.
Ecco qua per voi il Primo Capitolo!
Allora, l’ho cambiato e corretto almeno una decina di volte, senza scherzi! Quindi ho optato per questo inizio.
Tutte le altre ipotesi mi sembravano banali, e forse lo è anche un po’ questa…
Ma io credo di no, almeno non troppo. Insomma, di sicuro Amy non morirà per quella storta, e il “ragazzo dagli occhi verdi” non ha fatto di sicuro una bella impressione su di lei.
È questo che voglio mettere in chiaro: Amy non è rimasta scioccata da lui solo perché ha due begli occhi verdi, anzi, lo detesta con tutta sé stessa.
Lo odia.
Spero che non sia stato noioso, ma vi abbia fatto incuriosire.. Perché la parte della lezione del Signor J. che spiega Romeo e Giulietta non è casuale, ma servirà poi nel corso della storia.
Bene, per ora direi che è tutto.
Spero davvero vi sia piaciuto, fatemi sapere, e datemi consigli se ne avete!
Un grandissimo saluto,
Snap. :3
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Capitolo 3 *** He's the Jesus of Suburbia ***
Parental Advisory: The static age
Capitolo Secondo
He’s the Jesus of Suburbia
Esistevano vari tipi di occhi.
Quelli con un colore splendido, altri invece con delle sfumature un po’ opache.
Poi c’erano quelli con un colore accesso ma vuoti, privi di qualsiasi emozione; e quelli spenti di tinta, ma colmi di sentimenti e significati nascosti.
Ma non potevano esistere degli occhi come quelli che stavo guardando.
Di un colore così verde che non sembravano neanche umani, e pieni.
Sembrava quasi che i segreti, nascosti nelle iridi, dovessero traboccare da un momento all’altro.
Erano davvero verdi.
Erano accecanti.
Non avevo mai visto occhi come quelli, così drammaticamente espressivi.
-Signorina Murray, sono lieto di vederla!-
Il Signor Keyman, capo della polizia di Rodeo, mi riportò alla realtà dei fatti con la sua cordialità.
Il proprietario di quei magnifici bulbi oculari era un criminale.
Un vero e proprio delinquente dei bassifondi.
Poteva anche avere gli occhi più belli di tutto l’universo, ma la persona in sé era ridotta in uno stato pietoso, per non parlare dello stato d’animo che sembrava spazzare il pavimento.
Un vero e proprio gentleman, già.
-Buongiorno Signor Keyman!- esclamai sorridente come al solito.
Sembrava che il ragazzo, serrato dalle manette e dalle forti braccia dell’agente, non avesse fatto troppo caso alla mia persona.
Era piuttosto occupato a sputare sangue sul pavimento, sotto lo sguardo inflessibile dell’infermiera.
Indossava dei .. vestiti?
No, erano più che altro classificabile nella categoria degli stracci che mia madre usava per pulire la cucina.
Il colore della maglietta mi era ignoto, poiché coperto dal sangue che continuava a scendere a fiotti dal naso. Uno spettacolo penoso.
Certo, non era stato sconcertante per me scoprire che l’artefice di un atto osceno come quello di demolire la statua di Lincoln, fosse un giovane senza speranze come quello che avevo davanti.
Quanti anni avrà avuto? Non più di venti sicuramente.
E la sua vita sembrava già aver toccato il fondo.
Mi faceva davvero ribrezzo. Come ci si poteva ridurre in quello stato?
Mi sarebbe tanto piaciuto dirgli quattro parole, ma non era il caso. Che cosa avrebbe pensato tutta quella gente se mi avesse vista parlare con un tizio del genere?
Guai a mai.
-Ha letto i giornali? Beh, cosa lo chiedo a fare?! Certamente si, vostro padre è il Giudice Murray!-
-Certo, ho saputo della statua del presidente.. è una così orribile notizia!-
Keyman sorrise soddisfatto. –Ma come può vedere ho acciuffato uno dei furboni che hanno commesso il reato.- poi si avvicinò alla testa ciondolante del ragazzo –Hai capito? Perché questo è un reato!- disse in tono severo, cercando di fargli recepire il messaggio.
Il ragazzo, in tutta risposta, assunse un’aria arrogante che proprio non si addiceva al suo stato.
Ma che razza di persona era? Si permetteva di fare il presuntuoso nonostante fosse in pienotorto!
E come poteva anche solo pensare di contraddire la parola di un pubblico ufficiale?
Non mi avrebbe maineanche lontanamente sfiorato un pensiero simile.
Ciò che la legge diceva era giusto.
Mio padre era la legge.
-Si, Signor Keyman, lo vedo.-
Il teppista si girò verso di me, come se d’un tratto si fosse reso conto che il poliziotto non era schizofrenico e non stava parlando da solo, ma bensì con qualcuno.
I suoi occhi luminescenti si puntarono nei miei.
Aveva una tale intensità che per me era quasi difficile sostenere quello sguardo.
No, ora ne ero certa: non avevo mai visto occhi così.
Di certo non mi stava rivolgendo uno sguardo di cordiale complicità, anzi, sembrava quasi volermi vaporizzare con le pupille.
Per fortuna non aveva strani poteri.
Non riuscivo a distogliere lo sguardo, nonostante mi sentissi bruciare dall’interno, come se quel verde mi stesse davvero avvelenando, facendomi contorcere dal dolore.
Alla fine cedetti, e vinse lui.
Non potevo continuare a tenere gli occhi puntati nei suoi, erano troppo per me.
-Chi cazzo sei, barbie?-
La voce roca e dura che avevo sentito proveniva proprio dalla bocca del criminale, che sembrava guardarmi con lo stesso disprezzo con cui io osservavo lui.
Amore a prima vista, ironizzai mentalmente.
Come diavolo si permetteva di parlarmi a quel modo?
E poi che cosa voleva insinuare con quello stupido nomignolo che mi aveva affibbiato? Barbie?
Presi parola,stizzita. –Chi ti ha dato il permesso di parlarmi in questo modo? Oltre che delinquente sei pure maleducato!-
-Non ci faccia caso, Miss Murray, che cosa si aspetta da un tipo come lui?-
Un tipo come lui.
Allora non mi resi conto di quanto quella frase fosse inappropriata. Non avevo mai trovato qualcuno anche solo lontanamente simile a lui.
-Beh, se tu fai domande del cazzo su di me, io ti parlo!- esclamò spuntando sangue.
Ma chi gli aveva insegnato l’educazione a quel tipo?
-Finiscila di dire parolacce!- esclamai sbottando.
-Oddio! Siamo in presenza di Suor Claretta!-
-Non mi chiamo Claretta, imbecille!-
-Taci bisbetica!- ringhiò il delinquente rivolgendosi a me.
-Ma come diavolo ti permet..-
Una voce autoritaria si intromise, frenando il nostro battibecco.
-Basta. Sarà meglio che tu, ragazzo, non faccia tanto il furbo. Non aggravare la tua situazione.- fece Keyman puntando un dito contro il petto del teppista.
Che mi aveva insultata.
Barbie, bisbetica!Ma chi gli aveva dato tanta confidenza?
Ero sconcertata. Non potevo pensare che esistessero persona tanto maleducate! Lo guardai lanciandogli un’occhiataccia. Probabilmente quelle erano state le conseguenze della mia intromissione nella faccenda.
In fondo io non c’entravo nulla, e non erano affari miei..
Ma come potevo resistere all’idea di sapere qualche novità inedita del caso? Mio padre ne sarebbe stato euforico! E in realtà anche io.
-Amy Murray- esclamò un’infermiera che teneva in mano una cartella clinica.
Finalmente era arrivato il mio turno. Mi girai verso Keyman, e mi congedai, senza prima controllare le condizioni del ragazzo dagli occhi verdi.
Ora si era accasciato con la testa ciondolante sul petto; gli agenti sembravano non fare caso alla sua pessima salute: era solo uno dei tanti ragazzi di strada.
Probabilmente dopo averlo condannato lo avrebbero rilasciato e rigettato in periferia.
Non era un gran bel modo di fare giustizia.. Questo mio padre non lo tollerava.
Seguii la bella infermiera tra i lunghi corridoi dell’ospedale; le pareti erano di uno scadente color verde acqua, che dava proprio l’aria di malattia, e non aiutava a sentirti meglio. Le luci erano i soliti lampadari comprati in quantità da una rivendita economica.
Non c’era niente di diverso in quell’ospedale, era un comunissimo edificio sanitario come tutti gli altri.
Eppure, quella sera, sembrava esserci qualcosa di strambo.
Forse era solo tutta quella situazione ad essere assurda: come avevo potuto sbagliare il balletto?
Imprecando mentalmente entrai in un affollatissimo stanzone del pronto soccorso. Era una camerata da quattro letti, tutti rigorosamente occupati da bambini strillanti e madri disperate.
Mi piacevano i pargoletti, ma quando iniziavano a frignare erano assordanti.
Ma non era troppo difficile farli calmare, se si aveva un po’ di mano.
-Come ti sei fatta questa brutta caviglia gonfia?- chiese la donna spalmandomi una soluzione sopra.
-Stavo ballando..- dissi cercando di non far sentire che mi tremava la voce al ricordo.
Mentre la signora mi stava per rispondere, una fastidiosissima voce la interruppe, sovrastandola.
-Ti sei fatta la bua mentre ballavi con il Ken, Barbie?-
Una tenda separatoria si scostò mostrando un ghignante volto tumefatto.
Quel petulante teppista non aveva niente di meglio da fare?
-Taci, imbecille! Guarda come sei ridotto tu, Freddy Kruger in confronto è un adone!- esplosi seccata.
Sentii l’infermiera ridacchiare, mentre mi fasciava la caviglia.
-Ehi! Questa era pesante, Barbie!-
-Finiscila di chiamarmi Barbie, deficiente!-
Lo vidi scoppiare a ridere, tenendosi la pancia.
In quel momento trovai l’aggettivo che gli si addiceva alla perfezione: irritante.
Quel tizio era davvero tanto irritante.
Keyman entrò nella mia visuale. –Finiscila, Armstrong! Non ti bastano i guai che hai già?-
Armstrong.
Doveva essere il suo cognome.
-Certo Signor Keyman, come desidera- disse facendogli vedere il dito medio. Al che il poliziotto gli tirò un pugno in pancia, inducendolo a gemere di dolore.
-Adesso fai ancora lo spiritoso Billie Elliot?- disse ridacchiando.
Ero un po’ contraddettadaquella situazione.
Keyman era sempre stato un brav’uomo, e io lo sapevo; la domenica, talvolta, veniva a mangiare pranzo da noi, mia mamma cucinava il pollo arrosto, e ridevamo insieme.
Ma quell’azione.
Non sapevo come considerarla. In fondo, il ragazzo era un ribelle, e un agente che cosa avrebbe dovuto fare? Era stato giusto da parte sua usare le mani? Non riuscivo davvero a darmi una spiegazionepertutto quello.
Che cos’era successo al mondo? Mi ero persa qualche pezzo.
-No, Signore! Non Billie Elliot..Il mio nome è Billie-Joe Armstrong, il Gesù dei Sobborghi.-
Billie- Joe Armstrong.
Che razza di nome era? Probabilmente solo uno stupido soprannome!
Non poteva esistere qualcuno che si chiamava Billie-Joe?
Magari William Joseph, abbreviato. Era davvero un nome idiota!
-Bene, Gesù dei Sobborghi, taci perché ti devo fare la punturina- disse una squadrata infermiera, avvicinandosi al ragazzo con una siringa.
-Come va, Barbie? Ahi! Cazzo fai attenzione!- disse all’infermiera, per poi tornare a me -Per caso stavi ballando “Lo schiaccianoci” quando ti sei fatta male?-
Era davvero logorroico, e non si dava per vinto nonostante fosse ridotto ad uno straccio.
Come poteva una persona essere irritante a tal punto? E badate che io ero una persona tranquilla e paziente, che non si innervosiva facilmente.
Sembrava non capire che doveva tacere.
Forse non si rendeva conto di quanto fosse in bilico la sua situazione! Giocava con il fuoco.
-E tu per caso stavi cercando di sembrare più duro e fico, quando hai demolito Lincoln?-
Ci fu un silenzio generale.
Oh, oh. Forse non avrei dovuto dirlo, ma mi aveva proprio fatta alterare, e io non ero..
-Quel tipo era noioso, e non mi piace! Non mi è mai piaciuto! Ho pensato che se avessi distrutto quel fottutissimo Abraham Lincoln dei miei coglioni, magari avrebbero eretto una statua in onore di Joey Ramone,cazzo!- esclamò eccitato solo all’idea.
Ma che diavolo andava farneticando?
E chi cavolo era Joey Ramone? Forse ero io che ero stupida, ma capivo meno della metà delle cose che quel tizio diceva.
Billie-Joe aveva uno strambo modo di parlare, soprattutto perché ogni parola era accompagnata da una parolaccia.
Certo, era un bel tipo.
In tutti i sensi: aveva un caratterino non indifferente, e nonostante la faccia tumefatta, non potevo far finta di non essere rimasta accecata da quegli splendidi occhi verdi.
Non era da tutti.
-Che cos’è Joey Ramone?- esclamai confusa
-Eretica! Eretica! La Barbie non conosce Joey Ramone! È come dire.. Beh, che non sai chi è GC!-*
A quel punto ero davvero molto confusa, e non capivo una parola di quello che Billie-Joe diceva.
-Oh Dio! Ma chi è GC?- chiesi esasperata
-GC. Gesù Cristo, barbie. Ma sei tonta o lo fai apposta? Davvero non conosci Gesù?-
Ma che diavolo.. ?
-Oh, si che conosco Gesù! Ma come faccio a capire se tu, idiota, lo rinomini GC?-
Billie stava per ribattere, quando nella stanza entrò un ragazzo trafelato e dai capelli ramati.
Jake.
-Amy, tesoro!- esclamò vedendomi seduta sul lettino –Sono venuto non appena ho potuto..-
-Ok, Jake. Rilassati e datti una calmata, per favore.-
Il mio ragazzo era proprio bello.
Bello nel senso stretto della parola: era perfetto. Non aveva un neo fuori posto, nulla che stonasse con il suo volto da ragazzo dei quartieri alti, il classico giocatore di football.
Nonostante tutto ciò, però, non aveva nulla di particolarmente affascinante.
Non c’era una caratteristica del suo fisico che ti portasse a dire “è unico, è raro, è splendido”.
Era solo bello. Punto e basta.
E allora perché ci stavo insieme? Non lo sapevo.
Perché così doveva essere, presupponevo.
-Oh! Che gioia! Visto, Barbie? È arrivato Ken! Non sei felice?-
-E questo chi cavolo è?- chiese irritato Jake.
-Io sono il Gesù dei Sobborghi, e tu mi devi succhiare il cazzo!-
Ok, Billie-Joe Armstrong, davvero notevole.
-Oh,Dio! Non posso credere che abbia detto una cosa simile! Che cafone!-
La voce inorridita di mia madre sovrastò le lamentele di Jake nei confronti del ragazzo della statua.
Quel Billie-Joe.
Eravamo a tavola, e stavamo cenando a base di carne. Il mio ragazzo non aveva smesso neanche per un secondo di parlare di quanto fosse stato maleducato e volgare Billie-Joe (che secondo me si chiamava William Joseph).
Anche a mio avviso era stato davvero senza ritegno, ma non mi sembrava una così grande tragedia.
E poi gli avevo risposto per le rime. O almeno così credevo, anche se alla fine Willie-Josh o come cavolo si chiamava, era scoppiato a ridere.
Non sapevo di essere mai stata divertente, ma evidentemente mi sbagliavo.
Grandioso, adesso avevo una carriera come comica.
Da quando in qua fai dell’ironia Amy Murray?
Certo, parlavo anche con la mia irrazionale coscienza.
-Si, Signor Murray, è assolutamente uno schifo! Spero che questa cosa non passi liscia..-
Certo, Jake era furbo. Indovinate qual era il giudice che si sarebbe occupato del caso “Statua di Lincoln”?
Il Giudice Murray.
Mio padre avrebbe dovuto dare la sentenza per quel cretino dell’ospedale.
D’un tratto mi guardai intorno, confusa. Prima puntai lo sguardo su mio padre, poi su mia madre, e infine su Jake. Scoppiai a ridere.
Letteralmente.
Sputacchiai anche come uno scaricatore di porto, e divenni rossa in viso da quanto ridevo.
Non avevo mai riso tanto in tutta la mia vita.
Perché?
Solo un idiota avrebbe potuto affibbiare un nomignolo come GC a Gesù Cristo.
La stessa persona che mi stava inducendo a ridere come una ragazzetta davanti alla mia famiglia.
Billie-Joe Armstrong, il demolitore di statue.
************
Angolo Snap:
*La faccenda di “GC = Gesù Cristo” non è inventata da me, ma bensì è una delle battute, a mio parere, più divertenti di Mike Dirnt.
Non so dirvi quando l’abbia detta, né in quale situazione, ma so che è la seguente:
Mike disse : “Non vado d’accordo con GC, ma lui è fico comunque.”
Bene, io l’ho rielaborata con il testo, e l’ho attribuita a BJ. Ho voluto specificarlo solo per dare a Cesare quel che è di Cesare. E poi ho stimato Mike per questa battuta, degna di lui xD
Passando al capitolo:
Grazie alla mia beta reader, che crede in me ogni volta, e fa un lavoro di correzione davvero straordinario: Vi <3
Bene, eccolo qua il Secondo Capitoletto!
In pratica è basato solo su una situazione principale: quella dell’ospedale. Ho voluto allungarla così tanto perché secondo me il primo incontro è molto importante, e poi volevo dargli una nota di comicità, anche se non so se ci sono riuscita xD
Comunque sia, ho voluto creare l’idea di un Billie divertente, offensivo e ribelle! In pratica un po’ come il nostro vero BJ!
E quando dice “Io sono Billie-Joe Armstrong, il Gesù dei Sobborghi”, era per citare e dar peso a Jesus of Suburbia, ma credo l’aveste già capito.
Spero vi sia piaciuto! Beh, per quanto riguarda il finale del capitolo..
L’ho cambiato circa centocinquantemilamilioni di volte, perché volevo fosse un po’ d’effetto..
Spero di esserci riuscita, ma a voi i commenti e i pareri!
Mi farebbe piacere se mi commentaste..
Scusate per le chilometriche note, ma mi fa piacere interagire con voi!
Ps. Aspetto la tua benedizione __Misa__, e spero sinceramente che sia positiva!
A tutti un gran saluto e un abbraccio,
Let’s Rock!
Snap. :3
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Capitolo 4 *** Born and raised by the hypocrites ***
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Capitolo Terzo
Born and raised by the hypocrites
Quel giorno faceva maledettamente caldo.
Avete presente una di quelle tipiche giornate di fine scuola?
I fiori bianchissimi che cadevano dai rami, ricoprivano le aiuole decorative, dando alla Rodeo High School un’aria molto spettrale.
Eravamo in California, quindi non c’era da stupirsi se il sole era alto e l’afa ti opprimeva.
Era tutto nella normalità dei fatti.
Indossavo un paio di shorts di jeans, e una canotta color rosso amore. Ero appoggiata ad un muretto fuori scuola, mentre aspettavo l’arrivo di Jake; io e lui ci davamo ogni giorno appuntamento in quel punto, in modo da poter entrare a scuola insieme.
Quella mattina, però, non ero molto entusiasta del mio netto anticipo.
Sfilai l’i-Pod dalla tasca, e infilai le cuffiette nelle orecchie. Quando non avevo nulla da fare ascoltavo la musica.
E non un qualsiasi genere musicale, ma bensì musica classica.
Di solito facevo partire la sinfonia che ballavo per il saggio, chiudendo gli occhi e lasciandomi trasportare dall’armonia, immaginandomi nella testa i passi. Era così rilassante che quasi mi irritavo quando qualcuno mi riportava alla realtà.
La sera prima, avevo attirato sguardi sgomenti quando ero scoppiata in una risata fragorosa, a cena.
Beh, certo, non era stata del tutto colpa mia.
Ok, mi ero lasciata trasportare come una bambinetta di dodici anni da un’idiozia che quel William Joseph aveva detto all’ospedale. Però ancora in quel momento, se ci pensavo, non potevo fare a meno di ridacchiare da sola.
Come diavolo si fa a soprannominare Gesù Cristo “GC”?
Sentì picchiettare sulla mia spalla, e alzando lo sguardo da terra, scorsi un bel viso familiare.
-Scusa, non ti avevo sentito- sorrisi dolcemente al mio ragazzo, che mi baciò le labbra.
I baci in pubblico erano sempre, rigorosamente casti.
Era successo qualche volta, quando ci trovavamo a casa di uno o dell’altro, che eravamo finiti su un letto avvinghiati, affannati e .. mezzi nudi.
Ma non avevamo mai fatto sesso, anche se ci eravamo andati molto vicini. Strano, ma vero. Di solito le ragazze della mia età avevano perso la verginità da almeno tre o quattro anni, ma io non ero una comune ragazzina.
In ogni caso mi sentivo rilassata all’idea di possedere ancora la mia verginità. Ne andavo fiera.
-Come stai?- chiese mentre mi stringeva la mano nella sua.
Ci avviammo verso l’entrata dell’edificio, brulicante di ragazzini di quasi tutte le età.
Data la splendida giornata, quasi tutte le persone erano vestite in modo leggero; lo stesso Jake indossava dei pantaloncini e una maglietta.
Alla mia sinistra, un gruppetto di skater sfrecciava tra i marciapiedi e mi tagliava la strada. I soliti incapaci.
-Bene, sto bene. Te?- mi ricordai di rispondere alla domanda di Jake.
In fondo non mi potevo ritenere sfortunata: era un bravo ragazzo.
Proprio ciò che andava a genio a mio padre.
Non lo avrei mai deluso, di quello ne ero sicura. Io facevo sempre le scelte giuste.
-Mh, tutto bene.- liquidò la conversazione.
In realtà io e Jake non facevamo mai grandi chiacchierate o cose del genere. Non avevamo troppe cose da dirci, se non le solite banalissime conversazioni fatte.
Ma andavano bene, giusto?
Non appena misi piede nel liceo, notai che sembrava essere più pieno del solito. Forse era solo una mia stupida illusione.
-Beh, io vado a lezione.- Le labbra di Jake si posarono gentilmente sulla mie, premendo leggermente.
A volte avrei voluto che mi avesse presa e baciata davanti a tutti. Ma era un irrazionale pensiero di un’adolescente con gli ormoni in subbuglio. Quella parte di me che dovevo assolutamente reprimere e nascondere. Ne andava della mia reputazione.
Lisciandomi la maglietta mi incamminai verso l’aula di Laboratorio. Non mi dispiacevano i laboratori, però come prima ora erano un po’ pesanti.
I corridoi erano ormai vuoti, siccome la campanella era già suonata da qualche minuto. Ma io dovevo andare al piano superiore, quindi potevo permettermi un minimo ritardo.
E poi la professoressa mi adorava, non mi avrebbe mai sgridata.
Stump, Domb, pata.. crack!
Un fracasso infernale arrivò alle mie orecchie, allarmandomi.
Che diavolo era stato? Sembrava un rumore di qualcosa che cadeva e si rompeva.
Affrettai il passo cercando di capire da dove veniva quel chiasso. Dovevo controllare che nessuno si fosse fatto male.
Intravidi che la porta dello Sgabuzzino degli inservienti era aperta, e un manico di scopa ne usciva fuori.
Era Bart, il bidello, che si era fatto male?
-Bart? Sei tu? Tutto bene?-
Nessuna risposta.
Non potevo entrare nelle stanze del personale, ergo non potevo vedere se Bart stava bene. Che diavolo! Non avevo mai trasgredito una regola in vita mia, quella non doveva essere la prima..
Ma se davvero il bidello si era ferito?
Sporsi colpevolmente la testa.
Una lampadina di pessima qualità penzolava sul soffitto, illuminando precariamente la stanzetta.
Un ammasso di scope, ramazze, spazzoloni e quant’altro, era rovesciato a terra creando un caos terribile.
Un piede spuntava da sotto quella confusione.
-Bart, oh Cielo! Lascia che ti aiuti! Vieni fuori di lì! Vado a chiamare qualcuno,così..-
Non feci in tempo a finire la frase che una fastidiosissima voce roca mi interruppe.
-Non ci pensare neanche, Barbie!-
Dalla montagna di utensili spuntò fuori una testa di un giallo canarino, con tanto di volgarissima ricrescita.
Due occhi verdi mi fissavano con aria di sfida, mentre un secchiello rosso penzolava sulla sua testa.
Armstrong.
-Mi chiamo Amy Murray, non barbie, idiota!- sbottai seccata.
Che diamine ci faceva lui lì?Guarda un po’ se me lo dovevo beccare pure a scuola.
Non si poteva neanche studiare in santa pace in quel posto.
-E io mi chiamo Billie-Joe Armstrong, non idiota.-
-Bene, allora credo che questo punto sia chiarito.- risposi incrociando le braccia con aria sufficiente. Notai che continuava a fissarmi in modo strano, inarcando un sopracciglio.
Ad un certo punto lo vidi sbuffare.
-Che vuoi?- sbottai.
-Hai intenzione di rimanere lì impalata a guardare il soffitto, oppure mi dai una mano ad uscire da questo cumulo di merda?-
Sempre elegantemente fine, Billie-Joe.
Quel ragazzo non si smentiva mai. E quella tinta era probabilmente uno di quei barattoli scadenti che vendevano nei discount.
Afferrai la sua mano e lo aiutai ad alzarsi, controvoglia.
Appena fu in piedi si spolverò i vestiti. Cosa a mio avviso inutile, dato lo squallore di quei quattro stracci neri. Davvero una pena.
Si scompigliò in capelli, in un gesto del tutto naturale, a differenza di quello di Jake, che lo faceva solo per attirare gli sguardi delle primine innamorate di lui.
Patetico, lo sapevo anche io.
-Allora?- chiesi impaziente.
-Allora, che?-
-Sai, le persone normali mi avrebbero ringraziata per averti fatto uscire da quel bordello.-
Lo vidi sogghignare. –Non ti ringrazierò, quindi potresti anche sgommare.-
Ma come diavolo si permetteva?
Io lo aiutavo ad uscire da una situazione come quella, offrendogli il mio aiuto nonostante mi avesse insultata il giorno prima, e lui..
Non mi ringraziava neanche?
Oh, diavolo! Quello era troppo anche per me!
-Lo sai che sei proprio un cafone arrogante? Spero davvero che mio padre ti dia una punizione adeguata, così magari sarà la volta buona che impari un po’ di disciplina!-
Lo dissi tutto d’un fiato, senza pensarci su due volte. Nessuna persona era mai riuscita a farmi incavolare in quel modo. Io, Amy Murray, non avevo mai alzato la voce in vita mia.
E ora un completo idiota si permetteva di farmi sembrare una pazza isterica.
Favoloso, Amy. Davvero favoloso.
Poi fece la cosa più irritante che un uomo potrebbe mai fare.
Scoppiò a ridere.
E anche rumorosamente.
Come può una persona ridere di te, povera scema, che lo hai insultato?
Mi sentii pervadere da un senso di odio profondo nei suoi confronti. Era un’umiliazione che io non potevo sopportare, nessuno si era mai permesso di comportarsi in quel modo con me!
Era una cosa che io non riuscivo a concepire!
-Ooh, barbie, sei davvero divertente.-
-Ma vai a quel paese!- sbottai.
-Ehi, guarda che la mammina non vuole che usi certi vocaboli scurrili!-
Mi prendeva pure in giro.
Ok, fantastico. Avevo davvero fatto colpo.
-Già, almeno io non finirò dentro uno sgabuzzino ricoperta di scope!-
I suoi occhi si strinsero in due fessure, e poi, scrollando le spalle sfoderò un sorriso sghembo.
-Beh, tuo padre mi ha spedito qua, quindi discutine con lui, barbie-
Mio padre che.. ?–Ma che diavolo stai farneticando?-
-Il tuo dolce paparino ha deciso che la giusta punizione per un “delinquente di strada” come me, sarebbe stato un volontariato forzato alle scuole superiore. Quindi, Welcome to Rodeo High School, Billie-Joe!-
No, mio padre non aveva potuto fare una cosa del genere.
Davvero lo aveva mandato a lavare i nostri corridoi? Speravo che lo mandasse a fare volontariato nelle prigioni.. O perché no, in un gulag!
Ovunque ma lontano da me.
Non nella mia stessa scuola.
-Ma tu non vai a scuola?- chiesi con fare stizzito.
-In teoria sono iscritto proprio in questo schifo di liceo.. Ma sarà qualche mese che non vengo..-
-E perché mai?- chiesi attonita.
-Non me ne frega un cazzo di stare qui a scaldare una sedia, ascoltando le stronzate che hanno da dire dei frustrati di cinquant’anni che passano le serate a farsi le seghe davanti ai porno!-
Rimasi assolutamente senza parole.
Come poteva una persona pensare cose simili nei riguardi di professori laureati e intelligenti?
Che cosa ne sapeva quel ragazzino della vita?
Come si permetteva di dare sentenze sul sistema scolastico quando non ne faceva neanche parte?
-Sai cosa ti dico, Billie-Joe Armstrong? Che sei proprio un imbecille! Guardati intorno, ma chi sei tu per sputare giudizi affrettati sugli insegnanti? Chi ti ha dato l’autorità di dire che tutto questo per cui i nostri padri hanno lavorato fa schifo? Ti credi superiore solo perché sei un ribelle, e pensi di non avere bisogno dell’istruzione. Ma ti sbagli.-
Ci fissavamo.
Occhi negli occhi.
E per una volta notai che non avevamo nulla di differente. Anche io provavo odio come lo provava lui.
Quel verde era troppo intenso per i miei gusti, non capivo come una persona poteva avere degli occhi così espressivi. Se guardavi negli occhi di Billie-Joe potevi leggerci la vita.
Solo che dovevi osservarli, non vederli.
-E a te chi te lo dice che è come pensi te? Apri gli occhi, barbie. Il mondo non è fatto solo di quello che tu vuoi vedere. Questa merda di scuola non ti farà diventare più furba di me, solo più ottusa. La vita non è tutta rose e fiori. La vita è dura.-
Bum. Bum.
Bum. Bum.
Sentivo il mio cuore battere all’impazzata. Non tanto per il nervoso, quanto per lo stupore.
Nessuno mi aveva mai detto certe cose, nessuno si era mai permesso di parlarmi così.
Se non mio padre.
E ora quel Billie-Joe arrivava e pretendeva di avere ragione su un argomento che io conoscevo alla perfezione?
Perché era così, vero? Io avevo ragione, giusto?
Come poteva essere altrimenti?
-Scusami William Joseph, ma devo proprio andare in classe io. Buon lavoro.-
Girai sui tacchi, e sull’orlo del cedimento presi a camminare in modo troppo veloce.
Non dovevo piangere.
Non dovevo dare peso a quelle sue insulse parole sboccate. Non avevano un senso.
Come lui d’altronde.
-Il mio nome è Billie-Joe, non William Joseph. Ricordatelo, barbie.-
Oh, non lo avrei dimenticato mai più.
Ore più tardi..
Tempo.
Solo tempo.
Uno, due, tre. Salto. Quatt-ro, e cin-que, se-i.
Solo il mio respiro. Dovevo dar retta solo al mio respiro.
Io e il mio respiro.
Uno, due. Uno, due. Un, due, tre.
Mi lasciai trasportare dallo splendore del Lago dei Cigni *, facendomi accuratamente sollevare dal mio partner.
Io non ero Amy Murray. Ero Odette.
E il mio compagno era Siegfried.
Nulla aveva più un senso. Lo spazio, il tempo, la vita.. Non importavano. Non più.
Perché io danzavo tra le acque del lago, abbracciata a Siegfried il mio amore eterno.
Mi sentivo libera da ogni preoccupazione.
Nulla mi dava un’analoga sensazione. Solo io e la danza. Un amore che non poteva finire.
-Che cazzo di posto è mai questo! Cazzo!-
Una voce scurrile come poche mi destò dal mio sogno irreale, e mi riportò alla realtà.
Ero sul palco che provavo per il saggio, e la mia insegnante guardava verso il fondo del teatro.
Avevano interrotto il balletto.
Tre ragazzi se ne stavano appollaiati sulle sedie, guardando verso di noi.
Uno era alto e magro, sembrava uno stuzzichino. Aveva degli orribili capelli ossigenati.
Un altro era piuttosto grassoccio e buffo, con quei capelli color arancio sbiadito misto a marron schifo.
Una ragazza dai capelli fucsia e l’aria annoiata li accompagnava.
Avevano interrotto il mio ballo.
Quel giorno sembrava non avere fine.
Guardai Tom, il mio partner, e sbuffai sapendo che condivideva il mio stato d’animo.
-Scusate signori, ma queste sono prove a porte chiuse. Non vi è concesso di restare qua dentro.-
La mia insegnante, Natalja Strakowskji, aveva una voce dura e severa, esattamente come la sua persona.
Personalmente mi inquietava con quello chignon impeccabile, e i suoi modi raffinati.
Allora non lo capivo, ma ora so che avevo paura di assomigliarle.
-Mi scusi signora, ma volevo chiederle un’informazione-
Oddio, non ci potevo credere! Il tipo buzzurro con i capelli arancioni e l’aria da ragazzo di strada aveva appena parlato in modo assolutamente educato alla mia insegnante.
Aveva acquistato dei punti.
-Si, mi dica signore.-
Il tizio, allora, si guardò intorno con fare sospetto. Poi parlò.
-Ma qua vendete per caso marijuana?-
Come non detto.
*************
*Ci tenevo a precisare che il balleto de “Il Lago dei Cigni” è molto bello, e i nomi di Odette e Siegfried che ho aggiunto nel testo sono quelli della vera trama.
Vi riporto qua un link, in cui potrete trovare le informazioni sul balletto se vi interessa.
http://it.wikipedia.org/wiki/Il_lago_dei_cigni#Trama
Angolo Snap:
Grazie a Virgy <3
Ed ecco per voi il Terzo Capitolo!
Bene, come tutti gli altri capitoli, anche questo è stato corretto e cambiato millemila volte. L’indecisione è una brutta bestia, oh già.
Comunque sia.. Volevo precisare un po’ di cose (giusto per rompervi u.u)
Volevo solo che fosse un capitolo abbastanza di peso, per il fatto dello scambio di battute tra Billie e Amy.
Difatti gli ho donato un capitolo intero, in pratica.
Credo sia stato importante il fatto che Billie la ponesse davanti ad un dilemma davvero importante, e farle capire che forse lei non ha sempre e comunque ragione.
E nello stesso tempo lei gli sputasse in faccia che lui non può fare ciò che vuole in qualsiasi caso.
Credo che sia chiaro a tutti chi sono i ragazzi che interrompono la lezioni di danza di Amy xD
Come al solito vi chiedo di lasciare un commentino se leggete,
e se avete consigli o cose da farmi notare, ben venga! Io sono qua per voi!
Ancora tanti saluti,
Snap. :3
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Capitolo 5 *** Inside your restless soul your heart is dying ***
Parental Advisory: The static age
Capitolo Quarto
Inside your restless soul your heart is dying
Idioti.
Non c’era altro modo per descrivere quei tre tizi che mi stavano dinanzi.
Come diavolo si poteva entrare in una rinomatissima scuola di danza e interrompere la lezione per..
Chiedere se vendevamo marijuana.
Il fatto che Rosso Malpelo lo avesse chiesto con gentilezza non cambiava le cose. E adesso sarebbero stati tutti affari loro.
Natalja Strakowskji era divenuta rossa in viso, e probabilmente era sul punto di scoppiare; potevo vedere le vene del suo collo ingrossare di secondo in secondo.
Dannazione! Adesso ve la dovrete vedere con lei!
Mi girai verso Tom, che era sconcertato quasi quanto me; per un ballerino la droga e il fumo erano un concetto talmente estraneo, che non rientravano neanche nei suoi parametri mentali.
E adesso quei due imbecilli si presentavano come se niente fosse a domandare se spacciavamo.
Se ne stavano in piedi come statuette squilibrate, tra le molteplici file di sedie che il teatro offriva.
Al fondo, il grosso portone in battenti, era chiuso.
-Delinquenti! Andatevene! Fuori di qui!- urlò la mia insegnante sbottando.
Probabilmente non ci avrebbe più fatto continuare la lezione.
Succedeva sempre così: quando qualcosa faceva infuriare Miss Natalja, non era più in grado di portare avanti il corso, così ci faceva andare a casa sconsolati.
Quella volta sarebbe andata bene se ci avesse fatti andare il giorno dopo.
Tutto per colpa di Rosso Malpelo. Davvero geniale.
I tre individui sembravano già in condizioni pessime, con quel sorrisino ebete stampato in viso e il look decisamente lercio. Uno spettacolo per niente invitante, già.
La tizia dai capelli fucsia aveva tutta l’aria di essere ubriaca fradicia, o ancora peggio fatta; lo si poteva notare dagli occhi arrossati e dal fatto che non si reggeva in piedi. Forse Mister Biondo Platino tra i tre era il più normale, anche se con quell’aria da duro mi faceva un po’ paura. Ma di certo meglio della Strafatta dai Capelli Agghiaccianti.
Rosso Malpelo si girò verso Mister Platino con aria abbastanza arrabbiata, anche se non era credibile con quella faccia rotonda e buffa come quella di un orsacchiotto.
-Ma che cazzo ci ha detto quel coglione di Billie,allora?-
Bam.
Quel nome mi colpì comeuna porta in faccia, spiazzandomi del tutto.
Non potevano parlare di quel Billie. In fondo era un nome comune, per non parlare del fatto che tutti lo adottavano come soprannome.
A Rodeo potevano esserci altre decina di Billie.
Non poteva essere lui.
Il cuore prese a battermi ai cento allora, non perché fossi emozionata, ma perché ero in ansia.
Dio, Amy! Calmati, non sei un adolescente stupida!
-Non starete mica parlando di quell’idiota di Armstrong?-
Ok, lo avevo detto davvero.
Adesso Rosso Malpelo e Biondo Platino mi fissavano increduli; probabilmente si stavano chiedendo come io potevo conoscere una persona come quel cretino.
E se non fosse stato lui?
-Ehi, Mike! Raperonzolo conosce Billie-Joe!-
Perché l’intero universo sembrava interessato ad appiopparmi del soprannomi da imbecille?
Raperonzolo?
Perché negli ultimi giorni mi erano successe le cose più impensabili di tutta la mia vita? Tutto ciò era capitato soloperché avevo sbagliato a fare il balletto, e per mia disgrazia ero finita all’ospedale, dove un deficiente dai capelli ossigenati mi aveva importunata.
Perché (mi) ritrovavo Armstrong in ogni posto in cui andassi?
Natalja mi fulminò con lo sguardo incalzandomi a fare qualcosa per risolvere la situazione imbarazzante.
-Purtroppo ho avuto l’onore di conoscere Armstrong, ma questo non c’entra. Ve ne dovete andare da qua. Subito.- sfoderai il tono più impettito che sapessi usare.
Sapevo essere più acerba di un limone maturo.
La ragazza dai capelli fucsia si fece strada ancheggiando esageratamente. Non era una donna particolarmente bella, ma non era nemmeno classificabile come brutta. Nonostante portasse un’acconciatura decisamente appariscente, non aveva niente di speciale.
Se non la faccia tosta.
-Abbassa i toni, ragazzina. Non sei nessuno. E Billie è il mio fidanzato.-
Cosa, cosa, cosa, cosa?
Billie-Joe alias Bidello era impegnato in una relazione con la Damigella dai Capelli Fucsia?
Era talmente esilarante che mi ritrovai a ridere come una scema; strana come reazione, ma non si poteva non essere divertiti dal fatto che quella sgualdrina fosse la ragazza diArmstrong.
Mi soffermai a guardarla un po’ di più.
Quell’idiota di William Joseph era decisamente più bello di lei, anche se le assomigliava molto nello stile: anche lui indossava vestiti sudici e aveva dei capelli da film horror.
Però aveva due occhi senza paragoni.
E un viso perfettamente sbagliato; con i suoi lineamenti marcati e la pelle non curata, aveva la tipica da aria da ragazzo cattivo che tanto piaceva alle adolescenti della mia età.
Ma come poteva stare con Strafatta dai Capelli Agghiaccianti?
-Che diavolo ti ridi, stronzetta?!- schizzò allora la ragazza.
Stronzetta a me? –Questa è una lezione a porte chiuse e, a meno che voi non siate iscritti, non avete nessun diritto di stare qua dentro e di insultarmi. Quindi, come ha detto la mia insegnante, siete pregati di uscire.-
Mi sentivo sempre soddisfatta quando riuscivo a sembrare assolutamente distaccata e glaciale, mi sentivo letale ed indistruttibile. Un’arma che mi aveva insegnato mio padre.
Lui la usava spesso nei processi più gravi ed impegnativi.
Vidi Natalja sorridere compiaciuta, e Tom ghignare sotto i baffi.
-Andiamocene ragazzi, Billie ci ha dato un pacco.- sbottò allora Mister Biondo Platino, che sembrava essere il più ragionevole tra i tre, con il suo fare da finto intellettuale.
Rosso Malpelo con i suoi modidivertiti, del tutto inappropriati alla situazione, sembrava essere o molto scemo, o in alternativa molto fatto.
Optai per la seconda opzione.
Miss Capelli Fucsia mi riservò ancora un’occhiata infuocata, prima di girare i tacchi, ancheggiando sulle scarpe esasperatamente alte.
Dio Billie, come fai a stare con una vipera del genere?
Ma che cosa ci si poteva aspettare da un ragazzo che demolisce la statua di Lincoln? Erasolo un teppista, uno sbandato, un Nulla.
Non avrebbe fatto nulla nella sua vita, come quei suoi amici drogati.
Che cosa avrebbe potuto concludere in quella sua amara esistenza?
Forse mio padre aveva pensato al suo futuro quando aveva stabilito la sua punizione. Il bidello era l’unica cosa che avrebbe potuto fare.
E anche decisamente male.
Come previsto Natalja non ci fece continuare la lezione pomeridiana, cosìsmettemmodi provare il balletto per il saggio.
Il panico si stava impadronendo del mio corpo: non potevo non provare, se avessi sbagliato?
Non potevo sbagliare.
Ero seduta su una delle tante panchine che erano presenti nel camerino, disposte in file orizzontali ai lati delle pareti; non era una stanza eccessivamente spaziosa, ma avevi il giusto spazio per cambiarti, farti la doccia e asciugarti.
Avevo appena finito di spazzolarmi i capelli color oro e , imbronciata come pochi, mi stavo infilandola felpa rossa.
Davvero non riuscivo a credere che tre imbecilli avessero fatto saltare la mia lezione.
Era inconcepibile.
Mi girai a fissare il grande manifesto che era appeso sulla porta dello spogliatoio; raffigurava un uomo e una donna in procinto di fare una presa.
Lei, con il suo tutù bianco e le punte color carne, sembrava uscita dal Paradiso. Quanto mi sarebbe piaciuto poter essere al suo posto, splendida edelegantissima.
L’uomo invece rappresentava l’essenza di un ballerino: l’eleganza e la finezza femminile, ma una maestosità e potenza degna solo di un vero maschio.
La scritta che sorgeva ai piedi dei due ragazzi diceva:
Royal Ballet di Londra.
Un sogno che si avvera.
Il mio sogno.
Il sogno di mio padre.
E adesso tre idioti arrivavano durante l’orario della mia lezione e pretendevano di mandare a monte tutti i miei piani futuri? Solo perché erano dei drogati senza meta?
Non riuscivo a capire perché me la prendevo così tanto, in fondo era solo una stupida prova; eppure c’era qualcosa nel modo in cui avevano interrotto il corso che mi mandava in bestia.
Quando avevano fatto irruzione nel teatro non si erano preoccupati di poter essere cacciati, o ancor peggio sgridati dalla mia insegnante...
Erano entrati e basta.
Perché non gliene importava di niente e di nessuno.
Perché erano liberi.
Non dovevano sottostare agli ordini impliciti di un padre ossessivo.
Da dove mi era uscito quel pensiero senza ritegno? Non poteva essermi passato per la mente una tale considerazione!
Mio padre era sempre stato un padre buono e giusto; mi aveva allevata come Dio comandava, dandomi una casa, dei vestiti, del cibo. Mi aveva insegnato l’educazione, il rispetto, la moralità profonda che mi portavo dietro. Aveva creduto in me, mi aveva incoraggiata nella danza e nella scuola.
Mi aveva resa quella che ero.
Ma chi ero veramente?
Una domanda che rimase irrisolta, che soffiò via tra le pieghe della mia mente, nello stesso modo in cui un pezzo di carta si alza in volo con il vento: semplicemente sfuggì, e io non potei farci nulla.
Solo quando sarebbe stata realmente la mia ora lo avrei capito.
Rimasi ferma, seduta su quella maledetta panchina, a fissare il manifesto della Royal Ballet.
Non riuscivo a staccare gli occhi dal poster, che sembrava aver preso realmente vita. Potevo vedere la donna volare in aria e prendere a danzare tra le nuvole notturne, mentre il suo compagno piroettava sullo stesso punto, con gli occhi fissi su di lei.
Che diavolo mi stava accadendo?
Perché tutto d’un tratto salivano allamiamente pensieri che non riuscivo a domare?
-Amy, tutto bene?-
La voce di Sarah, una mia compagna di corso, mi riportò alla realtà dello spogliatoio. La ragazza, dolce come poche, mi sorrideva gentilmente cercando di capire cosa mi stesse passando per la testa. I capelli ricci e bruni sembravano inappropriati alla sua persona, ma nello stesso tempo le donava un’aria un po’ aggressiva, che compensava con la tanta dolcezza del suo carattere.
-Si, certo.- risposi riprendendomi.
Non avrei dovuto fare certi pensieri mai più.
Non era da me.
Sarah mi sorrise docilmente, per poi ritirarsi nelle vaste docce sulla sinistra.
Me ne dovevo andare da quel maledetto posto, mi sentivo soffocare.
Avevo bisogno di aria.
Mi infilai le scarpe frettolosamente, e senza guardare in faccia nessuno, filai fuori dall’edificio.
Non appena spalancai le porte d’entrata, sentii l’aria invadere i polmoni.
Oh, sì.
La sensazione di purezza che potevi sentirementre inalavi unaboccata d’aria era spesso sottovalutata.
Non c’era niente di meglio.
La strada, di fronte a me, non era particolarmente trafficata, c’erano solo qualche macchina qua e là, e poche persone prese dalle discussioni.
La solita vita mondana.
Certe volte mi sentivo oppressa dalla routine. Avrei voluto mollare tuttoed iniziare una vita nuova, con nuovi amici… Ma per poter diventare una brava persona, dovevo fare certi sacrifici.
-Pensare in quel modo ossessivo non ti farà diventare più brava, Barbie.-
Alzai la testa di scatto non appena udii quella voce, ormai così familiare.
Billie-Joe Armstrong.
Se ne stava appollaiato sul tetto del teatro in cui studiavo ballo.
Con una birra in una mano, e una sigaretta nell’altra.
Ma la cosa più sconcertante era che stava abbracciando una ragazza.
La sua ragazza.
La Strafatta dai Capelli Agghiaccianti.
Dannazione!
*************************************
Angolo Snap:
Hallo meine Liebe!
Allora questo è il Quarto Capitolo, tutto per voi.
Adesso vi spiego le scelte che ho fatto scrivendo questo Kapitel.
Come avrete notato è quasi tutto incentrato sullo stato d’animo interiore di Amy, che si trova davanti a parecchie confusioni e dilemmi: e soprattutto ha fatto il suo primo pensiero negativo nei confronti del padre. Voglio sottolineare questo cosa che è essenziale!
Capite? È stato per colpa di Billie (e poi anche di Tré, Mike e Strafatta) che lei ha formulato quel pensiero.
Quindi è un passo avanti, oppure un passo indietro.. Questo lo vedremo nel corso della storia.
In questo capitolo Amy è in panico totale, non è più sicura di niente della sua vita, nemmeno sul suo futuro! Quindi è molto, molto importante. Per questo gli ho dedicato un intero capitolo.
Spero che non sia stato noioso, ma che vi abbia fatti ragionare, e magari anche un po’ emozionare.
Ma forse chiedo troppo, non sono così brava xD
Comunque sia adesso ci tocca Billie in compagnia di Strafatta (ho fatto apposta a non scrivere ancora il suo nome) xD
Fatemi sapere cosa ne pensate, e se avete qualcosa da suggerire .. Sono qui per voi.
Anyway, I love you so much!
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Capitolo 6 *** So give me novacaine ***
Parental
Advisory: The static age
Capitolo Quinto
So give me novacaine
La mia mente prese a bombardarsi di domande riguardanti la coppia che
mi stava dinanzi.
Billie-Joe e la Strafatta.
Non potevano che essere come quei
tanti fidanzatini destinati a scoppiare.
E se Billie fosse stato realmente
innamorato della Strafatta?
Eh, dai, Amy. Non essere sciocca.
Sicuramente il signor Armstrong
aveva bisogno di una ragazza per soddisfare i suoi depravati istinti
sessuali. Ma perché certi pensieri mi stavano balenando il cervello?
Quelli non erano miei problemi, o comunque non mi sarebbero dovuti
interessare.
E poi, era praticamente scontato
che Armstrong uscisse con una ragazza così volgare.
Mi strinsi ancora di più nel
cappotto, e attesi che la fresca brezza serale mi donasse una
sensazione di conforto. La mia testa minacciava di esplodere.
Alzai la testa e trovai un
Billie-Joe penzoloni sul tetto, che mi osservava con lo sguardo più
strafottente che avessi mai visto in tutta la mia vita.
Quel ragazzo era davvero
inafferrabile.
-Guarda chi c’è, amore mio! È la
ballerina!- esclamò Miss Capelli Agghiaccianti quando si accorse della
mia presenza.
“Amore mio”?
Quell’ochetta dai capelli tinti
aveva chiamato Billie, “amore mio” ? Davvero pensava che Armstrong
fosse il suo amore?
Non riuscivo a capire perché me la
prendevo tanto per gente del genere. Non avevo niente a che vedere con
loro.
Allora perché mi infastidiva il
fatto che la Strafatta fosse la ragazza di Billie?
Lanciai un’occhiataccia nella loro
direzione, per poi alzare la mano in cerca di un taxi. Avevo il
disperato bisogno di andare a casa e rinchiudermi in camera mia, in
compagnia di una buona tazza di cioccolata calda.
Non avevo voglia di sentire la voce
stridula di quella sgualdrina a perforarmi le orecchie.
Indossavo un paio di scarpe con un
poco di tacco, che mi slanciavano, rendendomi elegante senza essere
volgare come la Strafatta dai Capelli Agghiaccianti.
Sentii un tonfo, come se qualcuno
fosse appena atterrato da un’altezza.
Fa che non sia…
-Ehi, Barbie! Da quando in qua non
si saluta più?-
Appunto.
Mi ritrovai faccia a faccia con due
occhi verde smeraldo, che mi osservavano con fare divertito.
Come diavolo faceva ad essere così…
intrigante?
Forse erano solo le sensazioni
stupide di una ragazzina sognatrice, ma Armstrong aveva qualcosa di
profondamente affascinante in lui. Qualcosa che la Strafatta dai
Capelli Agghiaccianti sicuramente non riusciva ad afferrare.
Con i suoi jeans sbiaditi e
strappati un po’ ovunque, Billie sembrava essere più ribelle del
solito. O forse era solo la mia mente ottusa che, notando i suoi
capelli arruffati e tinti, elaborava strani pensieri. I miei occhi
presero a seguire il contorno del suo viso, memorizzando ogni piccolo
particolare nel mio cervello. Ma perché diavolo stavo facendo una cosa
simile?
-Ciao, Armstrong.- dissi con un
tono seccato.
Lo schivai allungando il braccio
alla ricerca di un tassista interessato ad una cliente.
Sembrava che nessuno a Rodeo avesse
voglia di venire in mio soccorso.
Grandioso!
-è una mia impressione, oppure oggi
sei più acida del solito?-
Mi girai verso di lui con le iridi
infiammate.
-è una mia impressione, oppure oggi
sei più petulante del solito?-
Senza stupore, notai che
Billie era scoppiato a ridere di buon gusto.
Il fatto che ogni volta che lo
insultassi lui si mettesse a ridere era assolutamente irritante, ergo
degno di Armstrong. Ormai decisa ad andarmene, gli scoccai un’occhiata
infuocata, per poi scansarlo ed incamminarmi per le strade di Rodeo.
Se nessuno aveva voglia di darmi un
passaggio a casa, allora me ne sarei andata a piedi.
Tutto pur di fuggire via da
quell’idiota.
Tirai fuori dalla tasca il
cellulare e notai che nessuno mi aveva cercata.
Fantastico. A nessuno interessava
della mia vita.
Oh, Amy! Non fare la melodrammatica!
Sicuramente mio padre era in
tribunale e non aveva il tempo di preoccuparsi di me. Era una cosa più
che comprensibile, e non gliene potevo fare una colpa.
Ma mia madre?
Oh, quel giorno era alla riunione
del Club di Lettura. Come avevo potuto non pensarci prima?
Ma Jake?
Piscina, giusto.
Sembrava esserci stata una
coalizione di impegni contro di me. Ma in fondo nessuno si stava
preoccupando per me poiché a quell’ora dovevo essere nel bel mezzo
della lezione di danza.
Ma per colpa di qualcuno stavo
arrancando verso casa.
Maledizione!
Di nuovo Billie-Joe era riuscito a
farmi andare su tutte le furie. Non ero mai stata una persona
irascibile, e ora quel completo idiota mi faceva impazzire. Sarebbe
riuscito a far innervosire anche Gandhi, probabilmente.
Vidi che un Billie saltellante mi
stava affiancando, con un fastidiosissimo sorriso stampato in viso.
-Che diavolo stai facendo?- chiesi
sbottando.
Lo vidi rovistare nelle tasche dei
logori jeans, per poi tirare fuori un pacchetto di sigarette.
Se ne accese una, intossicandosi i
polmoni e l’aria che ci circondava.
Oltre che delinquente, idiota e
fastidioso, era anche un fumatore.
Hai fatto il pieno, Amrstrong!
-Ti sto accompagnando, non credo
sia una buona idea andartene in giro da sola per le strade di una città
brulicante di criminali come Rodeo.-
Mi scappò una risata. Quello era
davvero il colmo.
-L’unico malvivente che vedo nei
paraggi sei tu.-
Si finse stupito e offeso,
portandosi il palmo della mano alla bocca: una scena raccapricciante.
-Così mi ferisci nel profondo,
Barbie.-
Oh, certo.
Il cielo andava annuvolandosi, e
oltretutto si stava anche facendo buio; doveva essere praticamente ora
di cena. Non potevo arrivare in ritardo a casa.
D’un tratto mi resi conto che una
figura sgambettante ci stava rincorrendo.
Una figura dotata di una folta
chioma color fucsia.
Oh, no. Non ancora lei.
-Billieee, amore! Che stai
facendo?!-
Soffocai una risata, alla vista di
un Billie-Joe sbuffante. Quella ragazza sembrava seccarlo. Si girò
verso di me con occhi speranzosi, ma non avevo nessuna intenzione di
aiutarlo.
-Celine, vattene.-
Oh, beh. Finalmente si scopriva il
nome della Strafatta, che non era per niente scontato.
Ma la cosa non mi interessava più
di tanto, perché ero rapita dall’espressione dura di Billie, che
sembrava voler mandare via quella ragazza a tutti i costi.
Diavolo! Un comportamento degno di
lui. Probabilmente si portava a letto Celine quando non aveva nulla da
fare, per poi scaricarla quando non gli serviva più.
In quel momento provai compassione
per quella ragazzetta. Chissà che diavolo aveva in testa.
Gli occhi di Celine si riempirono
di lacrime.
Se non fosse stata una punk
strafottente che mi aveva appena insultata, le avrei anche offerto il
mio aiuto. Sembrava così affranta. Come poteva Armstrong essere così
insensibile?
Dove diavolo lo teneva il cuore
quel ragazzaccio?
-Ma Billie... Tu hai detto... Hai
detto che io e te stiamo insieme... Che ci...- vidi la delusione
dipingersi sul suo volto, coprendole i lineamenti come una maschera
d’ombra. Non riuscivo a distogliere gli occhi dal suo viso dolorante.
-Io non ho mai detto che io e te
siamo fidanzati, Celine.-
Il volto di Armstrong era
impassibile come quello della mia professoressa di Arte durante le
interrogazioni.
Non traspariva alcuna emozione dai
suoi occhi, che di solito ne erano colmi.
In quel momento Billie era vuoto;
si era nascosto dietro un muro di fortificazione, che gli avrebbe
impedito di sentirsi in colpa per Celine, che gli avrebbe evitato i
dolori.
Ecco qual era il segreto di
Armstrong: una dannatissima maschera.
Solo così riusciva ad andare avanti.
-Me ne devo andare, vero, Billie?-
domandò come un cucciolo obbediente.
Come poteva sottomettersi a lui in
quel modo?
Come poteva essere così dipendente
da un completo idiota che l’aveva appena umiliata davanti a tutti?
Qual era il suo problema?
Mi sentii così arrabbiata con lei,
avrei voluto prenderla a schiaffi ed imporle di svegliarsi, di farsi
una vita. Come poteva una ragazza della sua età ridursi in quel modo?
Grazie a Dio ho mio padre.
-Si, Celine, torna a casa.-
Questa volta il tono di Billie
risultò quasi dolce e apprensivo. Le stava quasi consigliando
docilmente di andarsene via, perché sarebbe stato meglio per lei.
Ma a me non piaceva l’idea di
rimanere sola con Armstrong.
Celine diede un ultimo sguardo
furtivo, per poi girare sui tacchi e allontanarsi barcollando.
Sicuramente aveva dei seri problemi
fisici, oltre che psicologici; lo si poteva notare dalla corporatura
minuta e troppo esile per una ragazza della sua età. Quando alzava le
braccia si potevano notare le ossa.
Di certo non era in salute.
Il marciapiede su cui transitavamo,
posto sulla sinistra della strada, era abbastanza largo e in
ciottolato, e Celine sembrava trovarsi in difficoltà con gli altissimi
tacchi.
-Non dovresti aiutarla? Sembra
malata.- osservai dimenticando per qualche secondo dell’astio tra me e
Billie.
Quest’ultimo si rigirò tra le dita
la sigaretta con fare pensieroso. Billie-Joe sembrava realmente
confuso, mentre perso nelle pieghe della sua mente, scrutava il nulla.
Certe volte appariva profondamente intoccabile, come se dentro di lui
si nascondessero chissà quali segreti e verità.
Era un mistero.
-La sua malattia non è curabile con
dei farmaci.-
Che diavolo stava farneticando?
Qualsiasi tipo di malanno poteva essere sconfitto con dei medicinali.
-Di che cosa stai parlando?- chiesi
sempre più confusa.
Si girò verso di me con uno sguardo
carico di dolore, che mi fece tremare le gambe.
Per quanto poco conoscessi
Billie-Joe Armstrong, non lo avevo mai visto con un’espressione così
addolorata. Sembrava così vecchio in quel momento..
Mi sorrise amaramente cercando di
placare i miei timori, eppure mi fece ancora più preoccupare.
-La malattia di Celine si chiama
eroina.-
Ci fu un istantaneo blocco totale
del mio cervello.
Non poteva essere.
Ok, aveva tutta l’aria di essere
una ragazza senza speranze con le sue occhiaie nere e le braccia magre,
ma non poteva essere malmessa fino a quel punto.
Avevo pensato che magari si fumava
qualche spinello, o magari anche qualcosa di più pesante, ma..
Eroina.
Come poteva davvero essere una
tossicodipendente fatta e finita?
Non riuscivo ad elaborare pensieri
sensati, o almeno un poco coerenti.
La droga era sempre stato uno degli
argomenti più gettonati nel corso di Attualità, e ne sapevo parecchio
sull’argomento... Ma ora che avevo visto come un drogato era ridotto mi
sembrava di non averne mai sentito parlare.
Era così lontano dal mio mondo, che
fu uno sconvolgimento totale per me.
Probabilmente impallidii perché
Billie, inarcò un sopracciglio, osservandomi, per poi battermi su una
spalla.
-Barbie, ti senti bene?-
Ma vai a quel paese, Armstrong!
–Io.. Si, sto bene.-
Cercai di darmi una calmata e di
acquisire un portamento degno della mia persona, ma probabilmente i
risultati furono scarsi.
E comunque ero troppo sconvolta per
preoccuparmene realmente.
-Celine è un eroinomane?- chiesi,
speranzosa di una negazione da parte sua. Lo vidi solamente annuire,
aspirando un grosso tiro dalla sigaretta. Non era nel mio mondo in quel
momento, si stava nascondendo dalla vita.
-Non ci posso credere, è
sconvolgente...- farfugliai più rivolta a me stessa.
-Questa è la vita di noi giovani di
periferia, Barbie. Il mondo non è tutto rose e fiori. Quello è solo il
tuo.-
Altro colpo basso, dritto nello
stomaco.
Quel giorno sembrava non dover
finire mai. E la colpa era solo esclusivamente di Armstrong.
Sembrava essere entrato nella mia
vita per sconvolgerla. Non risposi alla sua provocazione, ormai priva
di ogni voglia di controbattere, e mi accasciai al muretto.
Dio Santo, povera Celine..
-Ti va di fare due passi?-
L’invito suonò strambo alle mie
orecchie. Billie non chiedeva qualcosa, lui te la imponeva in modo
sgarbato. Cercai l’astio nelle sue parole, eppure non lo trovai.
Possibile che volesse solo fare
quattro passi in mia compagnia?
Puntai i miei occhi nei suoi, e mi
persi nel verde.
Abbozzai un sorriso.
-Andiamo.-
Il fiume che stava dinanzi a me era
di piccola portata, eppure aveva un qualcosa di veramente affascinante.
La radura circostante era
rigogliosa e colorata, quasi come se solo il ruscello avesse il potere
di renderla così bella e lussureggiante.
Gli alberi erano alti e colmi di
foglie verdi, segno che erano in salute. Il terreno era interamente
ricoperto di aghi di pino, che gli donavano un’aria stranamente magica.
Ero seduta su un grosso masso,
mentre Billie era in piedi poco distante da me, intento a lanciare
sassolini nell’acqua. C’era un’atmosfera di accogliente intimità.
-Quando eravamo piccoli, io e
Celine, venivamo spesso qui a lanciare pietre nel fiume. Lei si
arrabbiava sempre perché sosteneva che io prendessi massi più grandi
solo per schizzarla.-
La voce di Billie era distante di
anni, e perso nel suo racconto passato sembrava una persona differente
a quella che avevo conosciuto nei giorni precedenti.
Sembrava quasi fragile.
-Beh, sarebbe stato proprio un
comportamento degno della tua persona.- cercai di sdrammatizzare.
Sfoderò un sorriso sghembo, che mi
fece stare ancora peggio. Cercava di sorridere per non sembrare troppo
debole. Ma allora perché si stava aprendo a me?
Nessuno glielo aveva chiesto, era
stato lui ad invitarmi per una passeggiata.
Che diavolo aveva nella testa
Billie-Joe?
-Touché.- sogghignò tornando il
Billie che avevo conosciuto.
-Come mai ho accettato di fare un
giro insieme a te?- chiesi con un tono scherzoso.
Avevo voglia di accantonare la
rivalità che si era creata tra me e Billie; non sapevo perché, ma
sentivo che avrei dovuto ascoltarlo almeno un po’.
C’era qualcosa in lui che mi
affascinava più di ogni altra persona.
-Perché non puoi resistere al
fascino di Billie-Joe.- ammiccò nella mia direzione.
-Se per fascino intendi jeans
sudici e capelli color canarino, allora si.-
Lo vidi scoppiare a ridere, e il
suo viso si illuminò trasmettendomi reale felicità.
Non mi sentivo così da... Mai?
Quel ragazzo avevo qualche dote
nascosta, davvero.
-Questo era un colpo basso,
Barbie.-
Guardai i suoi lineamenti resi più
dolci dal sorriso, che aveva la sua sorgente negli occhi.
Riusciva ad ravvivare qualsiasi
cosa con il suo splendido riso.
Come avevo potuto non accorgermene
prima?
Alzò le mani in segno di resa, e si
accomodò sull’erba accendendosi una sigaretta.
Aveva dei seri problemi con il
fumo, dannazione! Si accendeva una sigaretta dopo l’altra.
-Fumare fa male, Armstrong.-
Lui si girò nella mia direzione
sputando una nuvoletta di fumo dalla bocca, con fare molto strafottente.
Degno di Billie-Joe, certo.
-Anche fare tutto ciò che dice
“paparino” fa male.-
Bam.
Ennesimo colpo basso della giornata.
Come cavolo faceva Armstrong a
sapere che facevo tutto ciò che voleva mio padre? In fondo non mi
conosceva, non avevamo avuto nessun tipo di rapporto. Erano passati
solo pochi giorni da quando avevamo avuto l’onore di fare conoscenza.
Come poteva leggermi dentro in quel
modo?
-Non faccio tutto quello che vuole
mio padre.-
Lui inarcò un sopracciglio con fare
scrutatore, poi buttò fuori il fumo dal naso sistemandosi meglio
sull’erba, accanto a me.
Trattenni il respiro a quella
vicinanza. Non sapevo realmente perché ma mi erano venuti tutti i
brividi lungo la schiena, e avevo una strana sensazione in tutto il
corpo.
Volevo che Billie si avvicinasse di
più.
Finiscila, Amy!
-Conosco le ragazze come te,
Barbie.- tirò una boccata dalla sigaretta –Voi siete le studentesse
modelle che fanno parte del Comitato Studentesco e sono Rappresentanti
di Classe. Frequentate la scuola di danza più prestigiosa della città,
e siete fidanzate con il capo della squadra di Football. Fate tutto ciò
che è meglio.-
Non riuscivo a dire una parola. Ero
assolutamente spiazzata.
Mi guardò dritta negli occhi
fulminandomi con le sue iridi verdi.
-Ma vi dimenticate di voi stesse.-
concluse portando lo sguardo verso l’orizzonte.
Oh, Dio.
Le aveva azzeccate tutte.
Aveva appena fatto la dettagliata
descrizione della mia persona, e dei miei impegni. Eppure nello stesso
tempo mi sentivo offesa e minimizzata. Quelle erano state della
considerazioni spudorate, aveva generalizzato su una categoria.
Io non era una “ragazza come
quelle”.
-Hai dei pregiudizi, Armstrong.-
dissi seccata.
Lui rise di gusto. –Senti chi
parla.-
Bloccai il mio sguardo con il suo.
Occhi negli occhi.
-Bene, io sono molto più di quello
che tu hai appena detto.-
Lo vidi diventare serio in un
secondo, senza troppe storie.
-E io sono molto più del classico
ragazzaccio di strada.-
Bene, Armstrong.
Con quelle dichiarazioni avevamo,
inconsciamente, appena deciso di approfondire la nostra conoscenza.
Quello fu l’inizio vero e proprio
del mio rapporto con Billie-Joe.
***********************
Angolo Snap:
Hola, chicos! ¿Que tal?
Ecco per voi il Quinto Capitolo ^^
Allora, non devo fare particolari precisazioni o cose varie.
Solo ci tengo a farvi sapere che questo è il capitolo –come scritto
alla fine del capitolo- in cui Billie e Amy mettono da parte l’astio
reciproco, e anche se continueranno a punzecchiarsi e a detestarsi, in
fondo al loro cuore le cose saranno cambiate.
Questo è molto importante.
Celine è un personaggio puramente inventato dalla mia immaginazione, no
ha nulla a che fare con il passato di Billie-Joe, ci tenevo a
precisarlo.
E comunque è un personaggio molto importante, un po’ distrutto, che
apparirà ancora nella storia.
Per chi si aspettava l’arrivo in scena di Tré e Mike, in questo
capitolo, sarà rimasto un po’ deluso. Ma arriveranno e saranno potenti
come al loro solito, non vi preoccupate.
Non li dimentico, stiamo scherzando? xD
Se avete bisogno di chiarimenti, se avete dubbi o consigli, o cose
varie, fatemi sapere.
Mi farebbe piacere se recensiste, per farmi sapere il vostro parere!
Adios!
Snap.
|
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Capitolo 7 *** Ashes to ashes of our youth ***
afg
Parental Advisory: The static age
Capitolo Sesto
Ashes
to ashes of our youth
La
luce che entrava
dalle finestre illuminava tutta la Sala Congressi.
Il
sole mi impediva di
distinguere bene le figure che stavano sul piccolo palchetto, ma ciò
nonostante,
sapevo benissimo di chi si trattava.
L’Anfiteatro
della
scuola, pensato per le assemblee, gli spettacoli e le riunioni
studentesche,
era abbastanza grande da contenere tutti gli studenti dell’istituto.
Le
grandi porte, con
le maniglie antipanico, erano aperte e solo le tende di velluto rosso
dividevano lo spazio dal resto dell’edificio.
Le
poltroncine erano
disposte in file ordinate, tutte rivolte verso il palco al fondo della
stanza.
Vicino
a me sedeva
Maggie Stuart, che sembrava essere poco interessata allo spettacolo e
più che
altro persa nel suo universo personale; certo, era strana come ragazza.
-Di
che cosa parla di
preciso questa commedia?- mi chiese infine sbadigliando.
Erano
circa tre quarti
d’ora che la scenetta andava avanti, e lei sembrava non aver capito
ancora
perché si trovava in Sala Congressi.
Era
possibile essere
più tonti di Maggie?
-Racconta
la storia di
alcuni giovani ragazzi di strada che tentano di sfondare nel mondo
della
musica.-
-Uhm,
che noia. Chi è
che ha inscenato questa schifezza?-
Maggie,
diavolo!
Le
scoccai un’occhiata
di rimprovero. –La professoressa Collie, con i ragazzi di teatro.
Maggie, è
dall’inizio dell’anno che lavorano a questo spettacolo!-
Lei sembrò non essere
particolarmente colpita dall’informazione appena ricevuta, per tanto si accomodò sulla poltrona e posò la
testa di lato,
chiudendo gli occhi.
-Bene,
allora sono
proprio negati. Fa pena. Credo che schiaccerò un pisolino.-
Alzai
gli occhi al
cielo, trattenendo a stento un sorrisino.
Per
quanto Maggie
potesse essere disinteressata alla cultura e alla scuola, aveva un che
di interessante, sembrava non importarle di ciò che pensava la gente:
le
piaceva essere nella squadra delle cheerleader e lo aveva fatto senza
troppi
problemi, ma nello stesso tempo bazzicava con quel branco di idioti
hippie che
giravano nella nostra scuola.
E
nello stesso tempo
usciva con noi.
Aveva
la dote di
riuscire a farsi accettare da tutti, semplicemente perché era se
stessa.
Per
questo, nonostante
la rimproverassi ogni qualvolta lo ritenevo opportuno, mi piaceva.
Era
un personaggio affascinante,
non si poteva non rimanerne ammaliati.
C’era
un’altra cosa
che Maggie era in grado di fare: tante volte, quando passeggiavamo
insieme, mi
faceva dire cose che non mi sarei mai sognata di dire, e poi ne
ridevamo
insieme; il fatto interessante era che non ne rimaneva scandalizzata o
cos’altro, per lei era la normalità.
Tutto
ciò mi induceva
a tenere una certa distanza da lei, ma nello stesso momento ad
avvicinarmi.
Un
fatto alquanto
strano.
Gli
attori, tra cui
c’era anche Jake, stavano parlottando tra di loro, inscenando una gang
di
strada.
Forse
Maggie non aveva
del tutto torto: non era un granché come spettacolo.
Ma
non avrei potuto
dirlo, altrimenti Jake si sarebbe offeso, siccome ci aveva lavorato
sopra
duramente. Contava anche l’impegno che ci avevano messo, ed era
notevole.
Non
avrebbero sfondato
a Broadway, quello era sicuro.
Mi
persi per qualche
minuto nei miei pensieri, tenendo a mente gli impegni del pomeriggio e
i corsi
a cui dovevo partecipare dopo la fine dello spettacolo. La mia mente
vagò per
qualche istante, finché non si imbatté nel ricordo di Celine.
Quella
gambe
scheletriche e quelle braccia stracolme di piccoli lividi all’altezza
delle
giunture, erano rimaste impresse nel mio cervello come un tatuaggio
indelebile.
Come
poteva una
ragazza di quell’età ridursi ad avere già un piede nella fossa?
Tutto quel dolore, quell’autodistruzione, per cosa?
Per
una sensazione di
libertà assoluta? Per il brivido che solo la droga poteva darti?
Non
ne valeva la pena.
Neanche
un po’.
Subito
dopo, con un
salto spazio-temporale non indifferente, mi ritrovai a pensare a Billie.
Il
giorno prima si era
comportato in un modo più strano del solito.
Non
ne avevo parlato
con nessuno, ovviamente, e non appena tornata a casa mi ero rintanata
in camera
mia con la scusante dei compiti in arretrato.
Jake
era venuto a
trovarmi la sera, e non avevo fatto parola dell’accaduto nemmeno con
lui, che
probabilmente era la persona che mi era più vicina.
Dopo
mio padre, certo.
Non
avevo una vera e
propria ragione per tenere segreto l’incontro tra me e Billie,
semplicemente la
mia reputazione ne avrebbe risentito. E poi cos’avrebbe pensato Jake?
E
mio padre?
Non era consigliabile andarsene in giro con un tizio come Billie,
tantomeno se
è in compagnia di un’eroinomane. Ma che cosa mi era passato per la
testa? Come
avevo potuto accettare il suo invito? Non avrei mai più dovuto farmi
incastrare
nei suoi contorti tranelli.
O
forse ero solo
paranoica?
Abbandonai
l’argomento,
dopo aver constato che mi stavo facendo scoppiare il cervello per nulla.
A
chi diavolo
importava di quel teppista squattrinato?
Notai
che lo
spettacolo era terminato, e che Jake stava venendo verso di me
sorridente come
non mai.
Eliminiamo
la giornata
di ieri dalla mia mente.
Non
è mai esistita.
Quando
arrivai in
classe, notai con mio stupore di essere in netto ritardo.
Non
era da me, per cui
probabilmente avvampai. Gli sguardi di tutti erano puntati verso di me,
che continuavo
a restare imbambolata sullo stipite della porta.
Ero
dovuta andare in
Segreteria per chiedere dove fosse l’aula di quel nuovo corso a cui
dovevo
partecipare e, con libri e foglietti di ogni genere in mano, avevo
fatto una
corsa contro il tempo per arrivare in orario in classe. Cosa che non
era
successa.
Avrai
sicuramente
fatto una splendida impressione, Amy.
L’insegnante
del corso
di Attualità, aveva i suoi occhietti vispi puntati su di me, un po’
oscurati
dalle spesse lenti degli occhiali da vista.
Aveva
tutta l’aria di
chi ha qualcosa di importante da dire, ma che sta aspettando il momento
giusto
per farlo.
-Signorina..-
-Murray.-
Si
sistemò gli
occhialetti sul naso. –Signorina Murray, le sembra questa l’ora di
arrivare?-
Fantastico.
Come
prima lezione
stavo facendo davvero un ottima impressione. Non mi sarei potuta
sentire più in
imbarazzo di così.
-Mi
scusi.- risposi
con la testa rivolto verso il pavimento.
Dannazione,
come avevo
potuto fare un errore del genere?
Puntai
lo sguardo
sulla classe, in cerca di un banco vuoto, o almeno di un viso amico...
Ma
ciò che vidi non fu
esattamente amichevole.
Non
poteva essere.
Era
diventata una
coalizione, un complotto contro di me per cercare di rendermi la vita
un
Inferno!
Non
poteva essere
vero, come potevo...
-Ehi,
Mike! Hai visto?
C’è la ballerina!-
Pel
di carota.
Quell’imbecille
dai
capelli arancioni che aveva interrotto la mia lezione di danza, mi
stava
indicando con un’espressione completamente bacata.
Potevano
esistere ebeti
peggiori di quell’individuo?
Cercai
di evitare
commenti sarcastici, e mi limitai ad alzare gli occhi al cielo,
prendendo posto
nell’unico banco vuoto, in un’ultima fila.
Non
avevo alcuna
voglia di attirare ulteriormente l’attenzione su di me, dopo la gaffe
del
ritardo, così non risposi a Rosso Malpelo e tirai invece fuori dalla
borsa
carta e penna, per prendere appunti.
Quella
giornata, che
era iniziata relativamente bene, si era trasformata in un disastro
totale.
Possibile
che negli
ultimi tempi capitassero tutte a me?
Dovevo
ritrovare la
concentrazione, mi stavo facendo trovare impreparata dagli imprevisti.
-Benvenuti
al corso di
Attualità. Io sono la vostra professoressa, Mrs. Danfort, e vi
accompagnerò per
il resto dell’anno…-
Smisi
di seguire la
solita ennesima presentazione, e presi a disegnare nuvolette sul mio
quaderno
degli appunti; di solito ero una brava studentessa e seguivo le
lezioni, ma
quel giorno la mia testa non ne voleva sapere di ascoltare l’insegnante.
Quindi
decisi di
assecondare la mia pigrizia.
Sentii
dei bisbigli
provenire dal mio vicino di banco, e dopo fastidiosissimi rumori di
sedie
spostate, mi ritrovai Rosso Malpelo come compagno di banco.
Oh,
Gesù…
-Che
diavolo ci fai tu
qui? Dov’è finito il tizio che era qui trenta secondi fa?-
-Non
mi stava
simpatico. Gli ho chiesto se gentilmente poteva lasciarmi il suo posto.-
Inarcai
le
sopracciglia, in attesa della verità.
-Ok,
ok… L’ho
minacciato e se l’è svignata al mio banco.-
Grandioso.
–Senti,
non mi interessa
chi tu sia o che cosa diavolo tu voglia dalla mia vita, ma lasciami in
pace.
Hai già fatto abbastanza danni, ieri.-
Lo
vidi trattenere una
risata, per non farsi beccare dalla professoressa, che sembrava intenta
in
un’interessante lezione.
Rosso
Malpelo aveva
due splendidi occhi azzurri, che non ci azzeccavano niente con il suo
viso
rotondetto e buffo come quello di un pagliaccio. Nonostante fosse
irritante,
aveva un qualcosa di divertente, che lo rendeva quasi ingenuo.
Mi
ricordai che era
amico di Billie-Joe.
-Beh,
non è stata
colpa nostra. È Billie che è un fottuto cazzone.-
Su
quel punto non
c’erano dubbi.
-Che
cosa c’entra
Billie?-
-Quella
testa di cazzo
di Armstrong ci aveva dato appuntamento a teatro, dicendoci che lì
avremmo
trovato dell’erba veramente speciale.-
Che
brutto pezzo di
merda.
Avevo
capito il suo
gioco, bastardo. L’aveva fatto apposta per farmi un dispetto.
Sapevo
che frequentavo
una scuola di danza, e a Rodeo c’era un solo teatro in cui si
svolgevano le
attività sportive. Non doveva
averci messo troppo a fare due più due.
E mi aveva mandato quei
tre
imbecilli ad interrompere la mia lezione.
Come poteva essere così
subdolo?
-Bastardo…-
sibilai a
denti stretti.
-Si,
Armstrong è un
fottuto stronzo. Ma ormai lo conosco da troppo tempo per stupirmi, ci
fa spesso
scherzetti del genere. Sembra che lo divertano parecchio.-
Certo,
fare cose del
genere era tipicamente da Billie-Joe; non dovevo esserne troppo stupita.
Eppure
mi sentivo
ferita nel profondo.
Ma
d’altronde ero io
la prima ad avere un senso di ripugnanza nei suoi confronti. Anche se
il
pomeriggio precedente avevamo dimenticato per un attimo i conflitti non
significava che eravamo diventati migliori amici. Eravamo totalmente
differenti, e io non provavo che vergogna e rabbia nei confronti di
Armstrong.
-Comunque
io sono Trè,
non come il numero, ma Trè Cool.-
Ma
che diavolo andava
farneticando?
Strano
che un
energumeno come lui sapesse anche solo dell’esistenza di una lingua
chiamata
francese. Davvero notevole.
Di
certo non poteva
avere un nome più ridicolo di quello, però.
-Trè
Coglion, vorresti
dire.-
Mi
girai verso la voce
tagliente che espresse quel rozzo parere, e mi ritrovai faccia a faccia
con
Testa Biondo Platino.
Ma
cos’era? Una
coalizione contro di me? Il destino si stava impegnando caldamente (a) per
rovinarmi
l’esistenza?
Alzai
gli occhi al
cielo, ormai rassegnata all’evidenza del fatto che non avrei ascoltato
una
parola della spiegazione della professoressa, che non sembrava
accorgersi
minimamente del nostro insistente chiacchiericcio.
-Buongiorno,
ballerina.- disse sfoderando un sorriso degno del pagliaccio di It.
Armstrong
si
circondava solamente di persone assolutamente strane?
-Ah,
c’è anche il
Biondo Platino.. Fantastico.-
Trè,
anche conosciuto
come Rosso Malpelo, scoppiò a ridere in una maniera decisamente
teatrale,
inducendo tutta la classe a girarsi verso di noi.
Ergo,
anche la
professoressa.
Che
mi guardava con
occhietti decisamente maligni. Non era mai successo, in tutta la mia
carriera
di studentessa, che una prof mi scoccasse un’occhiataccia.
E
adesso per colpa di
quei due esserini retrocessi mi stava succedendo.
Me
l’avrebbero pagata.
Oh, dannazione, se ne sarebbero pentiti.
-Mrs.
Murray, Mr.
Wright e Mr. Pritchard, sono sicura che troverete l’Aula di Detenzione
molto
più interessante della mia lezione. Che ne dite, eh? Un’ora, dopo le
lezioni
pomeridiane. Portatemi i vostri libretti scolastici.-
Oh,
Maledizione!
Mi
sedetti, esausta,
sul muretto fuori da scuola.
Sbuffai,
seriamente
seccata da quella giornata che non aveva fatto altro che portarmi guai.
Com’era
stato possibile? Io ero finita in Detenzione.
Io,
Amy Murray, prima
della classe, migliori voti, cheerleader, amata da ogni professore..
Avevo
dovuto subire un
trattamento degno di una mezza delinquente.
E
tutto per colpa di
quei due deficienti che mi stavano intossicando con il fumo delle loro
sigarette.
-Eh
dai, ballerina,
non fare quella faccia triste. E che sarà mai un po’ di detenzione?-
-Taci,
Very!-
Rosso
Malpelo inarcò
un sopracciglio. –Very, che?-
-Ma
si, non è quel tuo
nome stupido? Very qualcosa... O come diavolo era.-
Vidi
Biondo Platino,
che avevo scoperto si chiamasse Mike, scoppiare a ridere
fragorosamente, quasi
strozzandosi con una nuvoletta di fumo.
Pel
di Carota gli tirò
un calcio negli stinchi, evidentemente offeso.
-Ma
che cos’è Very?
Ragazzina, impara il mio nome, lo sentirai ancora in futuro. Trè
Cool.-
Oh,
ma si, certo. Trè
Cool.
Beh,
non era poi così
differente da “Very”… Insomma, il senso era poi sempre quello.
Sinceramente
non che
mi interessasse in alcun modo, ma ero bloccata ad aspettare Jake, che
come al
solito si faceva aspettare.
-Si,
si. Trè Cool, non
me lo dimenticherò.- risposi disinteressata.
Ma
dove diavolo si era
cacciato Jake?
L’ansia
incominciò a
prendere il controllo del mio corpo: come avrei fatto a dire a mio
padre che
doveva firmare il mio libretto scolastico, e non per un bel voto, ma
per un’ora
di Detenzione?
Oh,
Dio.
-Ehi,
ballerina, tutto
bene? Sei un po’ pallida! Non è che ti sei fumata qualcosa che ti ha
fatto
male?-
-Taci,
Pel di Carota!
Finiscila di dire idiozie!- sbottai, aggressiva come una tigre.
Ma,
Trè non sembrò
stupirsi più di tanto, alzò le spalle e prese a rollarsi una sigaretta.
Dannazione,
ma come
poteva essere così bruciato?
Mike
sembrava perso in
un universo parallelo; la sua espressione era così solenne e
concentrata che mi
sarebbe dispiaciuto svegliarlo da quel sonno ad occhi aperti. Sembrava
in
trance.
Ovviamente
Trè non la
pensava come me.
-Ehi,
Mike! Che cazzo
fai? Guarda che a te la canne ti fanno uno strano effetto!-
In
tutta risposta,
Biondo Platino lo spinse via, facendolo barcollare.
-Mi
spieghi perché
ogni cosa che succede, per te deve avere a che fare con la marijuana?-
Trè
prese a sbattere
le palpebre, quasi incredulo.
-Beh,
perché senza di
lei non succederebbe nulla di divertente.-
Oh,
Signore!
Quel
ragazzo aveva dei
seri problemi con la droga, e forse non se ne rendeva neanche conto. Il
fumo
portava dipendenza, e lui era un caso perso. La mia mente mi riportò
per un
attimo a Celine.
In
quello stesso
istante vidi arrivare Jake.
Sia
lodato!
Non
appena arrivò fece
una smorfia di contraddizione, rivolta ai due tizi che mi stavano
tenendo
compagnia dall’ora di Attualità.
Non
riuscii bene a
capire il perché, ma quel suo modo di fare mi diede sui nervi, avrei
voluto che
sorridesse a Mike e Trè, come faceva con tutte le persone. Ovviamente
sapevo
che aveva ragione a comportarsi in quel modo, quei due erano dei mezzi
delinquenti…
Ma
qualcosa nel mio
profondo ne rimase quasi ferito.
-Ciao.-
mi disse
baciandomi velocemente le labbra.
-Ehy,
la ballerina ha
il fidanzato!- esclamò Pel di Carota.
Gli
tirai un pugno nella pancia,
per poi allontanarmi con il mio ragazzo, trattenendo una risata che
insisteva
per uscire. Come si poteva non ridere di fronte ad un elemento come Trè?
Che
strana giornata.
Una
voce in lontananza
urlò: -Cerca di non fumare troppe canne, ballerina.-
Ecco,
appunto.
Mi
girai verso Jake, e
notai la sua espressione severa.
Mi
venne un groppo
allo stomaco.
A
quel punto avrei
dovuto affrontare l’ira del Giudice Murray.
***********
Angolo
Snap:
Grazie
alla mia beta
reader.
Grazie
a chi legge, a
chi recensisce, a chi ha aggiunto la storia tra le Preferite, Seguite o
Ricordate.
Mi
state veramente
dando delle soddisfazioni,
e
io non me le merito.
Ho
voluto dare
importanza a Mike e Trè, in questo capitolo.
Il
prossimo sarà il
capitolo di svolta, quello che darà inizio veramente a tutto.
Preparatevi
al
peggio.. O al meglio, dipende.
|
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Capitolo 8 *** There is no place like home, when you got no place to go. ***
q
Parental Advisory: The static age
Capitolo Settimo
There
is no place like home, when you got no place to go.
Il
mio cuore palpitava
veloce.
Sentivo
il cervello
scoppiarmi a causa del mal di testa venutomi per lo stress, e le gambe
minacciavano di cedermi.
Me
ne stavo in piedi
davanti al grosso portone in legno di cedro di casa mia, in balia della
sorte.
Il
cielo del
crepuscolo donava all’atmosfera un’immagine non troppo rassicurante,
impedendomi di rilassarmi.
Come avrei potuto dire a
mio padre
che ero rimasta a scuola in Detenzione?
E perlopiù, che vi ero
finita perché avevo disturbato la
lezione in compagnia di due perfetti
delinquenti?
No,
non ero in grado
di farlo.
Su,
Amy, puoi farcela.
Mi
resi conto che le
mani mi tremavano mentre prendevo le chiavi di casa dalla tasca del
cappotto.
Avevo
il terrore di
mio padre.
Mi
immaginavo il suo
sguardo severo che mi fulminava, e le sue guance arrossate dalla
pressione.
Oddio, come avrei potuto affrontare tutto quello?
Finalmente
aprii la
porta di casa.
Lo
stretto e lungo
corridoio d’entrata mi accolse, facendomi notare che le luci erano
accese;
quindi la casa non era vuota, nonostante
ovunque il silenzio regnasse.
Appesi
il cappotto
sull’appendiabiti e posai la borsa sulle scale che portavano al piano
superiore.
La
mia mente era
stracolma di pensieri negativi e lugubri. Ciò mi impediva di assumere
un’aria
neutra.
Dannazione,
Amy!
Ero
sempre stata abituata a fare la brava marionetta, la bambola di cera
senza un
capello fuori posto..
Ma
se la cera si fosse
sciolta?
Mi
fermai davanti alla
porta della cucina.
Mio
padre e mia madre
erano seduti attorno al tavolo rotondo, che fungeva da punto di ritrovo
per
tutta la famiglia. Il centrino e il vaso di fiori rossi, che decoravano
la
bella tavola di mogano, avevano d’un tratto assunto un’aria del tutto
inquietante.
Non
appena notò la mia
presenza, mia mamma si sistemò i capelli e prese a giocherellare con
alcune
ciocche, chiaro sintomo della sua irrequietudine.
Mio
padre non mi degnò
neanche di uno sguardo, continuò imperterrito a fissare il legno
pregiato del
mobile.
Era
peggio di quanto
mi aspettassi.
Una
sola volta era
successo che avevo disobbedito ad un ordine di mio padre, ero piccola e
non
avevo alcuna idea di quanto il carattere di Steven fosse duro; era una
bella
giornata e mia madre mi aveva raccomandato di non sporcare il bel
vestito nuovo
che mi avevano comprato, ma io, piccola bimba, ero andata a giocare nel
fango.
Mi
ricordavo ancora
alla perfezione l’espressione di pura ira che si era dipinta sul volto
di mio
padre, e di come la punizione mi aveva fatta star male: mi aveva chiusa
in
camera per tre giorni, facendomi uscire solo per i pasti e la doccia.
Da
quel giorno in poi
non avevo osato mai più disobbedire ad un ordine di mio padre.
Fino
a quel momento.
-Ci
hanno chiamati da
scuola, Amy.-
Mia
madre non mi
chiamava mai con il mio nome; usava appellativi ridicoli o affettuosi.
Solo
quando le cose si mettevano davvero per il peggio usava il mio nome di
battesimo.
Abbassai
lo sguardo
sul pavimento.
-Non
ci sono parole
per descrivere la delusione che provo. Sono così amareggiata, Amy.-
Dannazione!
Perché
diavolo dovevano fare una scenata del genere? Non era mai successo che
disobbedissi, che li deludessi..
Non
avevo forse
anche io il fottuto diritto di sbagliare?
La
voce di mio padre,
forte e decisa come mai prima d’allora, si fece spazio tra il silenzio
teso, e
prese il comando della situazione: -Ho sempre pensato che mi avresti
reso fiero
di te. Saresti diventata un’avvocatessa degna di me, e magari avresti
anche
fatto carriera nel ballo. Sai, ci credevo davvero.
E
invece tu cosa vai a
fare?-
I
suoi occhi si fecero
piccoli e cattivi, la rabbia fuoriusciva dall’iride.
Avevo
paura.
Quando
mio padre si
arrabbiava, scatenava tutta la sua furia repressa.
Una
volta aveva alzato
le mani su mia madre, che si era dimenticata di preparare il latte per
colazione.
Avevo
sempre avuto una
bellissima considerazione di mio padre, lui diceva il vero. Il vero e
basta.
Ma
quando si
arrabbiava dimenticavo quanto fosse semplicemente fantastico, perché
riuscivo a
vedere solo un uomo iracondo che mi incuteva paura.
Mio
padre suscitava in
me una serie di sensazioni assolutamente incoerenti: lo amavo
incondizionatamente, ma nello stesso tempo lo odiavo con tutta me
stessa; mi
faceva sentire protetta, ma mi terrorizzava tanto da farmi venire i
brividi.
Tutto
ciò non aveva un
senso logico, per questo avevo sempre represso tali emozioni.
Ma
in quel
momento, con papà furioso
davanti ai miei occhi, non potevo
fingere di non
avere paura di lui, e di non volergli sputare addosso le mie sensazioni.
Il
fatto strano era
che mi dispiaceva.
Sapevo
che una parte
remota della mia mente detestava mio papà e avrebbe voluto ribellarsi a
lui, ma
l’altro spicchio di cervello mi sussurrava che la colpa era mia, che
ero io
quella che lo aveva deluso.
Non
aveva forse tutte
le ragioni per infuriarsi?
-Tu
te la fai con due
perfetti delinquenti!-
Lo
vidi diventare
paonazzo in volto e avvicinarsi a grandi passi a me.
Il
panico si impadronì
del mio corpo, così girai i tacchi e feci per uscire dalla cucina.
Purtroppo,
però, egli mi prese per i capelli, quasi strappandomeli.
Non
riuscivo a
respirare, urlai di rabbia e dolore.
È
impazzito, aiuto! È
pazzo!
La
mia mente in piena
crisi di panico prese a elaborare centinaia di pensieri in
contrapposizione, e
nello stesso tempo a cercare una via di fuga.
Stavo
provando terrore
allo stato puro.
-Steven,
ti prego,
lasciala!- esclamò mia madre con le mani sulla bocca.
-Taci!-
le ringhiò
addosso.
Mi
sentivo la cute
sfaldarsi lentamente, come se qualcuno mi stesse staccando con estrema
cura la
pelle. Non c’erano parole per descrivere ciò che stavo provando.
Avrei
voluto
ucciderlo.
Prenderlo
a calci,
riempirlo di botte. Vedere il suo lurido corpo spegnersi lentamente,
come una
candela che scioglie sotto il fuoco.
No,
il terrore aveva
annientato la parte razionale del mio cervello; l’odio per mio padre
aveva
preso il controllo delle mie considerazioni.
–
Adesso
mi devi
ascoltare per bene, Amy. Io ho dato la mia vita per te, ho speso tutto
il
denaro che avevo in possesso per darti una casa solida, dei sani
principi e un
futuro. Io non ti lascerò buttare via la tua promettente carriera. Hai
capito?
–
Il
mio cuore batteva
all’impazzata.
Sentivo
il mio stomaco
contorcersi, minacciando di espellere il poco cibo ingerito.
Stavo
per vomitare.
La
presa di mio padre
era salda come il ferro, e sembrava non avere alcuna intenzione di
lasciarmi
andare.
Dovevo
liberarmi, non
potevo sopportare quella situazione ancora per molto.
Sentii
le lacrime
scorrere lungo la mia guancia, solcando il mio viso come una lama
d’acciaio.
Come
il sangue.
Non
sapevo di preciso
per cosa stessi piangendo, se più per la rabbia, la frustrazione o per
aver
deluso quell’essere abominevole che stentavo a riconoscere come mio
padre.
Non
avevo mai provato
un tale dolore in tutta la mia vita; forse il problema era il fatto che
Steven
aveva sempre cercato di proteggermi dal mondo, estraniandomi
completamente da
qualsiasi cosa potesse nuocermi … Senza rendersi conto che l’unico
pericolo era
lui stesso.
Mi
sentivo così
contraddetta e amareggiata che non riuscivo a muovermi, a formulare un
pensiero
che avesse un nesso logico.
Sentivo
il dolore
impossessarsi del mio corpo, strappandomi dalla perfetta vita che avevo
sempre
condotto, e catapultandomi in un Universo che non era mio, che non
riconoscevo.
Come
potevo provare una
tale sofferenza?
Mi
resi conto che se
non mi fossi liberata dalla stretta di mio padre, probabilmente non
sarebbe
finita bene.
Cercai
di scacciare
dalla mia mente ogni pensiero e di concentrarmi, per qualche istante,
solo alla
mia salute fisica, che era a grave rischio.
Vidi
mia madre
piangere con le mani sulla bocca, e mi ritrovai a disprezzarla come mai
avevo
fatto prima d’allora: come poteva stare ferma a piangersi addosso,
mentre suo
marito si comportava in quel modo?
Quella
non poteva
essere la mia famiglia.
Doveva
essere solo un
orrendo incubo.
Cercai
la forza
nascosta dentro di me, e iniziai a prendere dei grossi respiri.
Su,
Amy, puoi farcela.
Dannazione!
Urlai
con tutto il
fiato che avevo in gola, sentendomi come un’antica vichinga alle prese
con la
sua prima grossa battaglia.
Tirai
un calcio nello
stinco a mio padre, che lasciò la presa per imprecare dolorosamente.
È
il momento.
Non
mi girai due volte
per assicurarmi di non aver fatto troppo male a Steven, e mi fiondai in
camera
mia.
Avevo
il fiato corto,
e non sapevo se la scelta di andare nella mia stanza fosse stata
giusta, ma
dovevo prendere la borsa e qualche altro oggetto personale.
Con
il panico in corpo
gettai nella borsa a scacchi le prime cose che pensai potessero essermi
utili,
per poi correre giù dalle scale
con il terrore di incontrare papà.
Quando
arrivai al
piano di sotto vidi mio padre venirmi incontro con l’aria più demoniaca
che
avessi mai visto in tutta la mia inutile esistenza.
Con
mio grande stupore
notai che mia madre stava cercando –con scarsi risultati- di
trattenerlo per
una spalla.
Non
potevo perdere
altro tempo.
Diedi
un ultimo
sguardo a quella donna dai capelli scarmigliati e gli occhi colmi di un
dolore
inafferrabile, e mi resi conto che non aveva nulla che potesse
appartenere
anche solo lontanamente alla Signora Murray.
Tutto
a un tratto ci
fu un cambiamento radicale nella situazione: vidi la furia di mio padre
placarsi e trasformarsi in un’amarezza assoluta; i suoi occhi si
colmarono di
lacrime e li vidi inondarsi di sofferenza allo stato puro.
La
mia mano era
serrata sulla maniglia della porta d’ingresso, e gli occhi di mio padre
erano
fissi su di essa.
I
suoi occhi mi
stavano implorando di non andare, di rimanere con lui, che sapeva di
aver
sbagliato.
Rividi
il vecchio,
dolce ma autorevole Steven Murray.
Ma
come potevo
rimanere?
Aprii
la porta, ed
uscii a grandi passi.
Senza
voltarmi
indietro.
La
notte era così buia
che sembrava quasi opprimermi; probabilmente era una normalissima
nottata, ma
il mio umore mi impediva di vederla in quel modo.
Mi
aggiravo tra le
strade di Rodeo senza una meta precisa, la mia borsa in spalla e il
cappotto
stretto attorno al mio corpo infreddolito.
Dove
sarei potuta
andare?
Non
avevo un posto in
cui dormire, e sicuramente non sarei andata a bussare alla porta di
qualche mio
compagno di scuola, né tantomeno a Jake, che avrebbe dato sicuramente
ragione a
mio padre e mi avrebbe rispedita a tempo zero a casa.
E
io non volevo tornarci.
Sentii
le lacrime
bagnarmi il viso, mentre, impaurita come mai lo ero stata prima
d’allora,
cercavo un posto al riparo in tutto quel deserto d’asfalto.
Tutto
il mio focolare
di calda sicurezza era stato distrutto dagli eventi. Dovevo essermi
persa qualche
incastro, non era possibile che d’un tratto tutto fosse cambiato così,
semplicemente.
Non
poteva essere
successo veramente.
Non
sapevo dire
lucidamente perché me n’ero andata di casa, semplicemente me lo aveva
suggerito
l’istinto.
Cosa
ne sarebbe stato
dei miei progetti per il futuro?
Cos’era
successo a mio
padre?
Avevo
vissuto tutti
quegli anni nella più totale inconsapevolezza? Che cosa non riuscivo ad
afferrare? Sentivo che qualcosa mi stava nettamente sfuggendo, non
riuscivo a
comprendere.
Mi
fermai nel bel
mezzo della strada.
Vicino
a me, gli
edifici sembravano non avere più un’identità; anche gli alberi, ben
disposti in
file, non aveva più la stessa immagine.
Tutto
il mondo
sembrava cambiato.
Era
successo qualcosa
di veramente importante, e io non riuscivo a cogliere del tutto il
senso.
Che
diavolo stava
succedendo?
Un
folle pensiero si
impadronì del mio cervello, facendomi sussultare.
No,
Amy, non puoi
farlo.
Repressi
quella
razionalissima vocina mentale, e mi lasciai sopraffare dall’unico
piccolo
barlume di speranza.
Mi
misi a correre per
le strade di Rodeo, diretta nell’unico posto in cui non sarei dovuta
andare.
Ma
che altro potevo
fare?
Nulla aveva più un senso, la confusione si era impadronita del mio
cervello, e
anche i pensieri razionali sembravano infine privi di ogni logica.
La
coerenza era d’un
tratto scappata da me, lasciandomi sola e in balia della sorte.
Non
appartenevo più a
niente, a nessuno. Non avevo più delle certezze, dei sogni.
Dov’era
finita la Amy
che si era svegliata quella mattina?
Svoltai
per un piccolo
viottolo, noncurante del fatto che mi stavo addentrando nella zona più
malfamata di tutta Rodeo.
Sapevo
dove stavo
andando, conoscevo la mia destinazione.
Il
puzzo di immondizia
e pipì invase le mie narici, costringendomi a coprirmi il naso con il
cappotto.
Tutto ciò che stavo facendo era fuori da ogni limite.
Ma
ormai che
importanza aveva?
Il vicolo era illuminato da una piccola insegna al neon, bruciata e
rovinata
dagli anni; tutto il resto aveva l’aria di sporco e maltenuto, compreso
un
povero cane che gironzolava nei paraggi, in evidente ricerca di cibo.
Dovevo
assolutamente trovarlo.
Il
pub si presentava
decisamente male, ed era tutt’altro che invitante.. Ma era la mia unica
scelta.
Presi
un grosso
respiro, sopprimendo ogni stupida paura. Era la cosa giusta da fare.
Aprii
la pesante porta
di legno, e l’odore di fumo mi entrò nei polmoni, facendomi tossire
come una
camionista.
Fantastico.
Mi
strinsi di più nel
cappotto, cercando di rendermi il meno visibile possibile; nonostante
tutto non
mi andava che qualcuno mi vedesse in quel postaccio.. Avevo ancora una
schifezza di reputazione.
Se
mio padre avesse
saputo che ero uscita di casa come una furia per nascondermi in un
postaccio
come quello, probabilmente sarebbe impazzito.
Non
potei fare a meno
di rabbrividire all’idea di Steven infuriato, ne avevo avuto abbastanza
per
quella sera, non volevo pensarci più.
Scesi
le scale, e non
appena arrivai nel piano sottoterra, mi resi conto che quel posto
meritava in
tutto e per tutto l’appellativo di bettola.
Lo
spazio era
decisamente piccolo e angusto, le luci erano poche e mal funzionanti,
per non
parlare della televisione dell’anteguerra appoggiata sul bancone;
quest’ultimo
era posizionato al fondo della sala, era di legno massiccio e rovinato
dagli
scalfi, probabilmente fatti con dei coltellini.
I
pochi uomini
presenti nel locale erano seduti su alti sgabelli, e tenevano in mano
delle
grosse pinte di birra; non erano di certo i tipici uomini
raccomandabili, anzi.
Forse
avevo sbagliato
posto, forse lì non avrei trovato ciò che stavo cercando.
Dannazione,
Amy!
-Vuoi
qualcosa?-
La
voce scorbutica
apparteneva ad uno sdentatissimo cameriere, intento ad asciugare
bicchieri. Era
tozzo e basso, ma aveva l’aria buona, nonostante fosse burbero.
Perché
mi trovavo in
quel posto?
Assunsi
un’aria
abbastanza dignitosa, e cercai di sorridere gentilmente.
-No,
grazie. Cercavo
un mio amico, ma ho sbagliato posto.-
L’uomo
allora rise
beffardo, quasi prendendosi gioco di me.
-Lo
credo anche io.-
concluse squadrandomi da capo a piedi.
Nello
stesso istante,
una figura magrolina e malconcia uscii da una porticina sul retro del
bancone.
I
suoi capelli
ossigenati e pieni di ricrescita erano decisamente scompigliati.
Non
appena mi vide
serrò la mascella, assottigliando i suoi penetranti occhi verdi,
visibilmente
stupiti dalla mia improvvisa apparizione.
-Che
diavolo ci fai tu
qui, Barbie?-
Grazie,
grazie,
grazie!
Ero
riuscita a trovare
l’unica persona che forse mi avrebbe potuta aiutare in quella
situazione.
Billie-Joe.
*
Angolo
Snap:
Grazie
alla Vi!
Sono
tornata tutta per
voi, miei carissimi lettori ^^
Quindi
commenterò un
po’ questo Settimo Capitolo, così capirete un po’ la motivazione di
alcune mie
scelte.
Direi
che questo
Kapitel è decisamente drastico per la nostra Amy, che vede tutte le sue
certezze smontarsi in una sera. Sono stata forse troppo cattiva?
Assolutamente
no,
questa è la storia, è deve andare così. xD
Steven
non è questo
stinco di santo, ma noi già lo sapevamo (o almeno lo sospettavamo xD).
Adesso
Amy è confusa,
e dentro di sé ha un sacco di emozioni nuove e tristi.. Per questo nel
testo
troverete molto incoerenza: è fatto apposta, perché lo stato d’animo
della
protagonista è esattamente così; si contraddice da sola.
Detto
questo.. Scappa
da Billie. xD
Spero
vi sia piaciuto,
come
sempre vi chiedo
di lasciare un commento se avete qualcosa da farmi sapere!
Un
caloroso abbraccio,
Un
ultima cosa: qua sotto vi linko una one-shot che
si è classificata seconda ad un contest sul forum di Efp; mi farebbe
piacere
sentire i vostri pareri. Vi ringrazio.
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=869230&i=1
La vostra Snap.
|
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Capitolo 9 *** I walk alone the road. ? ***
CAPITOLO 8-PARENTAL ADVISORY
Parental Advisory: The static age
# Capitolo Ottavo
I walk alone the road.
?
Mi
ritrovai faccia a
faccia con un Billie decisamente sconvolto.
I
suoi grandi occhi
verdi esprimevano il più totale stupore; e come non si poteva dargli
torto?
Vedere la figlia del giudice Murray in una bettola a quell’ora di
notte(,) non
era una cosa normale.
Billie
indossava i
suoi soliti jeans sbiaditi, che avevano tutta l’aria di essere luridi;
la sua
maglietta nera era coperta da un grembiule verdognolo coperto da
macchie.
-Ciao
Billie.-
riuscii a dire, cercando di
reprimere le lacrime.
Il
mio stato d’animo
era quello di una persona sotto choc e, mentre guardavo i suoi occhi
verdi
colmi di emozioni nascoste,
non potei fare a meno di sentirmi esplodere.
Non riuscivo a capire
perché d’un
tratto l’unica persona che
mi sembrasse
essere rimasta immutata sulla
faccia della Terra
fosse Billie-Joe.
Il
cameriere tozzo
prese di nuovo a squadrarmi, mentre lanciava ad Armstrong un’occhiata
di
disappunto, e il ragazzo si passò una mano tra i capelli ossigenati,
spettinandoseli
ancora più di quanto non lo fossero già.
Alla
fine parlò: -Che
cazzo ci fai qui a quest’ora di sera, Signorina
Io-Non-Frequento-Certi-Posti?-
Aspettarmi
gentilezza
da parte di Armstrong era troppo anche per me, e poi mi ero quasi
abituata alla
sua antipatia cronica.
Mi
ritrovai incapace
di rispondere a quella domanda.
Così
semplice ma così
difficile.
-Billie..-
il suono
della mia voce uscì più strozzato del dovuto.
Vidi
gli occhi verdi
di Armstrong assottigliarsi, e farsi d’un tratto indagatori. Che stesse
abbassando le sue barriere difensive? Non poteva essere.
Il
cameriere dall’aria
lurida smise di passare lo strofinaccio sul bancone, e mi guardò con
occhi
straniti. I pochi cristiani che erano presenti nel locale non si
curavano
troppo della mia presenza, ma le occhiate dei due baristi erano rivolte
a me.
Non
riuscivo a
smettere di fissare Billie.
Sembrava
l’unica
persona sincera, che anche se mi insultava e mi odiava, mi diceva la
verità e
non si preoccupava di farmi del male.
Era il mio unico appiglio
a quella
normalità che mi era stata
strappata via in pochi
istanti.
Armstrong
si girò
verso il suo collega: -Tra quanto finisce il mio turno, Mac?-
L’uomo,
che da quello
che avevo capito doveva chiamarsi Mac, diede una veloce sbirciatina al
suo
orologio da polso, per poi tornare a fissare Billie-Joe.
-Billie,
tu non hai un
fottutissimo turno da rispettare. Decido io quand’è ora che porti il
tuo
luridissimo culo fuori da qui. Ricordi?-
Come
diavolo si
permetteva di usare quel tono con Armstrong? Quel verme viscido doveva
essere
qualcosa come il suo datore di lavoro, visto come si atteggiava.
Mi sconvolse notare come
il ragazzo
dagli occhi verdi non si fosse scomposto di un millimetro, doveva
essere
abituato a quei toni, e a quegli insulti.
Un
brivido mi
attraversò la schiena mentre mi immaginavo cosa Billie dovesse subire
ogni
giorno.
Sembrava
che quella
notte un gesto d’affetto fosse troppo.
Il
destino, Dio,
Allah, Buddha, o cosa
diavolo vi fosse lassù, aveva
deciso che per me non
doveva esserci una carezza, uno sguardo amichevole, una rassicurazione,
non
quella notte, no.
Capitano
a tutti
giorni in cui il mondo sembra accanirsi
contro di te, giorni in cui le cose
non fanno che
andare male, ma io non ero abituata ad averne. Non ero pronta per tutto
quello,
nessuno mi aveva mai detto che la mia condizione apparentemente
perfetta era in
realtà precaria.
Quella
notte il filo della
mia vita, già tirato al
massimo, si era spezzato.
Si era spezzato lasciando
tutto il
resto in sospeso, facendo un
frastuono così forte
da sovrastare gli anni di risate e gioia.
Ora
non c’era più
nulla.
Puntai
gli occhi su
Billie, che rimaneva in piedi con il suo grembiule sgualcito e la
pacatezza
negli occhi, segno che stava nascondendo delle forti emozioni.
-Allora
riformulo la
domanda- disse trattenendo l’astio –A che ora devo portare il mio
luridissimo
culo fuori di qui?- disse sfoderano il suo ghigno di sfida.
Armstrong
sapeva
affrontare con una strepitosa faccia da culo i problemi, lo aveva
appena
dimostrato.
Avevo
fatto
dannatamente bene a correre da lui.
Nonostante
tutto.
Le
stelle, quella
sera, erano alte e luminose; brillavano come piccole lucciole una
accanto
all’altra.
Non
era la nottata
ideale per soffermarsi sul romanticismo degli astri, anzi, la loro
presenza
sembravano quasi volermi sfottere.
Me
ne stavo seduta su
una gradinata di un grosso palazzo, probabilmente non ci sarei neanche
potuta
stare, ma cosa m’importava?
Mi girai verso l’insegna sbiadita del pub cercando, per l’ennesima
volta, gli
occhi verdi di Billie.
Nessuna
traccia.
Era
quasi un’ora che
lo stavo aspettando su quelle dannate scalinate, e lui non sembrava
avere
nessuna voglia di farsi vivo; probabilmente quel lurido di Mac non lo
lasciava uscire.
Sbuffai,
pensando a
quanto la vita fosse strana.
L’immagine di mio padre
con le mani
nei miei capelli tornò dolorosa, facendomi
sussultare dall’ansia: avevo realmente paura che potesse arrivare e
riportarmi
a casa.
D’altronde
ero sua
figlia e avrebbe potuto fare ciò che voleva, nei limiti della legge.
Era forse
illegale il modo in cui si era comportato qualche ora prima?
Di certo non sapevo darmi una risposta.
Se
fossi stata una
fumatrice, quello sarebbe stato il momento giusto per accendermi una
sigaretta,
ma per mia fortuna – o sfortuna, a seconda dei punti di vista- il solo
odore di
fumo mi disgustava.
Nonostante
tutto
quello che era
successo
rimanevo pur sempre Amy Murray, ed Amy Murray
aveva ancora un piccolo
straccio di dignità da portare su
un piatto d’argento.
-Dannazione!-
esclamai, esausta.
Mi
abbandonai alle
lacrime, che fremevano da tutta la sera per scendere: non avevo la
forza fisica
per impormi al loro volere.
Che
diavolo ne sarebbe
stato di me?
Non
avevo un posto in
cui poter andare, non avevo più delle certezze, non sapevo più
distinguere tra
giusto e sbagliato, concetti elementari che si imparano quando si hanno
tre o
quattro anni. Eppure quella sera sembravano essermi del tutto
sconosciuti.
Che
cosa stava succedendo
alla mia realtà?
-Non
serve imprecare, Barbie.-
Mi
voltai di
soprassalto, con il cuore in gola per lo spavento causato
dall’improvvisa
apparizione di Billie.
Come
ogni volta
riusciva a comparire nel momento meno appropriato.
Come
diavolo ci
riusciva?
Mi
asciugai gli occhi
con la manica del cappotto, e cercai di ricompormi, nonostante fosse
chiaro
come il sole che Billie sapesse che stavo piangendo.
-Tu
lo fai sempre,
Armstrong.- ribattei acida.
Lo
vidi mettere la
mano nel giubbotto di pelle sgualcito e tirarne fuori un pacchetto di
sigarette; la fiamma debole dell’accendino gli illuminò il volto,
rendendo
visibili i suoi splendidi occhi.
Tirò
una boccata dalla
sigaretta, e lo vidi acquisire un’espressione di soddisfazione, quasi
che la
sigaretta fosse la sua aria pulita.
-Touché,
Barbie.-
rispose, disinteressato al mio aspro commento. Quella notte non aveva
voglia di
battibeccare, sapevo che voleva arrivare a farmi sputare il rospo.
D’altronde che cosa mi
aspettavo?
Che mi potessi presentare da lui in quello stato senza che mi chiedesse
nulla
come spiegazione?
Tutto
sommato era
comprensibile, glielo dovevo concedere.
-Ti
vedo un po’
sconvolta, vuoi una sigaretta? Magari ti farebbe bene.-
Guardai
lui, poi la
sigaretta abbandonata tra le sue labbra.
-Non
fumo, dovresti
saperlo.-
Lo
vidi sospirare,
alzare le spalle e sedersi accanto a me sulle gradinate.
A
quel punto sarebbe
arrivata la ramanzina, o le solite domande indiscrete per estrapolare
informazioni. Dannazione, non avevo nessuna fottutissima voglia di
parlare
dell’accaduto.
Volevo
solo qualcuno
che potesse darmi un po’ di comprensione, e Billie era l’unica persona
che
conoscevo che fosse finito in situazioni peggiori della mia.
Da
chi altro sarei
potuta andare? Non di certo da Jake, che mi avrebbe rispedita a casa
senza
contare fino a tre.
-Billie-
iniziai,
vedendo che non parlava.
Puntò
gli occhi verso
di me, folgorandomi. Non riuscivo ancora a rendermi conto di come una
persona
potesse avere degli occhi come i suoi. Dannazione, erano magnifici.
Mi
soffermai sui suoi
capelli sbiaditi e anche un po’ sporchi, poi girai la testa verso la
strada.
-Ho
bisogno di un
posto in cui dormire.- sputai tutto d’un fiato.
Non
ebbi il coraggio
di voltarmi per vedere l’espressione del suo volto. Lo sentivo
respirare, e
qualche volta tirare boccate dalla sigaretta.
Il
mio cuore
minacciava di esplodere per l’ansia.
-Si,
l’avevo intuito,
Barbie. E scommetto che riponi in me le tue speranze di un posto in cui
passare
la notte, giusto?-
Cazzo,
cazzo, cazzo. –Hai
fatto centro.-
-E
cosa ti fa pensare
che io abbia un posto letto per te? E, inoltre, se c’è l’avessi, cosa
ti fa
sperare che io possa essere così gentile da ospitarti?-
Maledizione!
Armstrong
non
cambiava, stronzo era e stronzo sarebbe rimasto. Cosa diavolo mi era
passato
per il
cervello quando
avevo deciso di andare fino a lì
per chiedergli di
ospitarmi?
Mi
alzai dalle scale e
mi scrollai la polvere dal cappotto.
-Per
una volta hai
ragione. Chi cazzo me l’ha fatto fare di venire qui?-
Mi
voltai senza dire
un’altra parola, e presi a camminare per il vicolo buio.
Certo,
c’era da
aspettarselo da Billie, ma per una volta avevo sperato che mettesse da
parte
l’astio nei miei confronti, proprio come aveva fatto quel giorno sulle
sponde
del fiume.
Invece probabilmente gli
avevo chiesto troppo.
-Il
mio problema è che
non ho un posto che possa godere dell’appellativo “casa”.-
La
voce di Billie
riecheggiò nel silenzio del vicoletto, e mi colpì come un pugno nello
stomaco.
Mi
fermai su due
piedi, senza osare fare un altro passo.
-Che
vuol dire?-
urlai, nella sua direzione.
Lo vidi alzarsi dalla
scalinata e
venirmi incontro con un passo stanco e annoiato. Certo, quella commedia
non lo stava divertendo. E neanche me.
Avrei solo voluto tornare
indietro
nel tempo e trovarmi a casa mia, con le mie sicurezze, invece che
bloccata in
un vialetto di periferia, in compagnia di Armstrong.
-Lo vuoi ancora un posto
in cui
stare questa notte?- chiese, ormai accanto a me.
Lo vidi gettare la
sigaretta,
arrivata al filtro, e continuare a fissarmi, sostenendo il mio sguardo
senza
problemi.
Sospirai, senza altre
speranze.
–Certo che lo voglio.-
Annuì, con fare risoluto.
–Allora
scoprirai cosa intendo con l’affermare che la mia non è un posto degno
di
essere chiamato casa.-
-Casa
dolce casa.-
introdusse Billie, aprendo la porticina in acciaio sgangherato.
Il
posto era situato
in una delle tante traverse della periferia di Rodeo, dove anche le
case più
belle erano fatiscenti e puzzolenti.
Avevamo
percorso tutto
il tratto di strada rimanendo in silenzio, senza spiccicare neanche una
parola,
qualche volta
con le boccate che Billie
prendeva dalle svariate sigarette che aveva acceso, smorzavano un po’
l’atmosfera cupa, ricordandomi che non ero sola per le vie notturne.
Il
luogo in cui
entrammo si rivelò essere un vero schifo; Billie aveva totalmente
ragione
riguardo al non poterla chiamare casa.
Una piccola lampadina
penzolante dal
soffitto illuminava fiocamente lo spazio. I
pavimenti erano in cemento armato, privi di qualsiasi tipo di
piastrelle e
l’unica cosa che gli dava un minimo di copertura erano alcuni tappeti
stesi per
tutto il perimetro della stanza.
La
maggior parte dello
spazio disponibile era occupato da una serie di strumenti musicali: era
una
vera e propria sala prove. La batteria, che aveva tutta l’aria di
averne subite
più di un veterano di guerra, troneggiava sul resto dell’attrezzatura,
al fondo
della stanza; un po’ più avanti di essa si trovava un microfono, che
probabilmente si teneva in piedi per pura grazia divina. Appoggiate al
muro,
affianco alla batteria, c’erano due chitarre, una delle quali aveva un
manico
più lungo e le corde più spesse dell’altra.
L’arredamento
era
pressoché inesistente, fatta eccezione di un piccolo frigobar firmato
Coca
Cola, un materasso e delle vecchie coperte.
-Ma
fa proprio
schifo!- mi ritrovai ad esclamare.
-E
io che ti dicevo,
Barbie?- rispose Billie aprendo il piccolo frigorifero e estraendo una
lattina
di birra.
L’ultima
cosa che mi
stavo aspettando era che mi chiedesse se ne volevo una anche io, non
era una
cosa da Billie-Joe, non avrebbe mai fatto un simile gesto di gentilezza.
E
infatti lui si
sedette tranquillamente sul tappeto, accendendosi l’ennesima sigaretta
della
nottata.
-Se
continuerai a
fumare così tanto probabilmente ti verrà un cancro.-
Lo
vidi sbuffare,
tossicchiando nuvolette di fumo dalla bocca. Non riuscivo a capire se
stava
ridendo o imprecando. Forse entrambe le cose.
Si
lasciò andare,
sistemandosi meglio sulla finta moquette di tappeti, e appoggiando la
schiena
al polveroso muro di cemento.
Quel
posto doveva
essere una sottospecie di garage, o scantinato inusato. Era un vero
incubo.
-Cancro
o meno, non
credo di avere nessuna voglia di smettere.- sentenziò, con il suo fare
da duro.
Quella
notte non avevo
alcuna voglia di portare avanti i nostri soliti battibecchi, così
decisi di dargliela
vinta.
Ero così stanca che mi
sarei potuta
addormentare anche lì, in piedi. Consapevole del fatto che Billie non
mi
avrebbe mai invitata a sedermi, come in teoria i buoni padroni di casa
dovrebbero fare, presi da sola l’iniziativa, accoccolandomi su uno dei grossi tappeti.
I
miei occhi si
posarono nuovamente sulla chitarra nera e bianca; non ne avevo mai
vista una
simile, era diversa dalle solite chitarre classiche, aveva qualcosa che
la
faceva emergere.
-Quella
chitarra-
dissi indicandola –Non è come le altre-
Vidi
che gli occhi
verdi di Armstrong si fecero attenti e precisi, mentre il fumo usciva
teatralmente dalle sue labbra.
-Certo,
è una chitarra
basso.-
Oh,
si, grazie
Armstrong. Mi sei molto d’aiuto. –Ovvero?-
Lo
vidi inarcare le
sopracciglia. –Davvero non sai cos’è un basso?-
-Ti
sembro una che sta
scherzando?-
Billie
si alzò dal
pavimento con un movimento fluido, e si avvicinò al basso con passi
lenti. La
prese in mano con fare da esperto e la indossò senza alcun timore poi,
la
collegò con un piccolo amplificatore.
Sembrava
veramente essere
sicuro di ciò che stava
facendo.
Tirò
una corda, e il
suono che ne uscì fuori fu qualcosa di assolutamente nuovo per le mie
orecchie.
Non
avevo mai sentito
nulla di così particolare: era un suono forte, profondo, paragonabile
alla voce
di un vecchio uomo saggio che racconta delle storie attorno al fuoco.
Iniziò
a strimpellare
con quella chitarra, accovacciandosi sul pavimento.
Armstrong
era totalmente
perso in un altro
universo. Si era dimenticato della mia presenza, o non gliene
importava, perso
com'era tra le note dello
splendido strumento che
continuava a tuonare.
Una
ciocca di capelli
ossigenati gli ricadde su un occhio, conferendogli un’aria del tutto
ambigua e
Billie lo era, un personaggio ambiguo, misterioso. Non sapevi mai cosa
avresti
potuto aspettarti da lui, un vero e proprio enigma.
-Ha
un bel suono- mi
ritrovai a dire, quando posò di nuovo lo strumento accanto al muro.
Sfoderò
un sorriso
storto, degno di lui. –Lo so, è una figata.-
-Che
posto è questo,
Billie?- domandai infine, rendendomi conto che ero in un posto che non
comprendevo fino in fondo. C’era qualcosa che mi stava sfuggendo.
Quella
notte stavano
accadendo troppe cose una sull’altra, e la mia testa minacciava di
esplodere.
Avevo
bisogno di
riposarmi, di dormire. Avrei voluto svegliarmi nel mio letto, scendere
in
cucina e trovare mia madre a preparare la colazione, e mio padre.
Avrei
voluto vedere
papà seduto a tavola con un giornale, e non la bestia furiosa che avevo
conosciuto quel giorno.
Mi
alzai e mi lasciai
scivolare accanto a Billie, seduta con il sedere appiccicato al muro.
Se
qualcuno fosse
entrato in quel momento e ci avesse visti, probabilmente avrebbe
pensato che
fossimo proprio messi male. E in effetti non avrebbe avuto così torto.
Ero
messa davvero
male.
-Questa
è la sala
prove dove io e il mio gruppo musicale proviamo.- esordì infine,
passandosi una
mano tra i capelli.
Non
sapevo perché ma
quella notizia non mi arrivò poi così sconvolgente; avevo sempre
pensato che
Billie fosse un musicista, e non sapevo perché. Mi sembrava solo
evidente.
Ce
lo aveva stampato
in fronte.
Mi
resi conto che
Armstrong non si era sprecato a farmi domande sul perché non fossi a
casa mia,
perché volessi un posto per dormire, perché mi fossi precipitata da lui
nel
cuore della notte.
Non
aveva fatto
domande e gliene ero grata.
Non
sarei stata in
grado di rispondere, non avevo voglia di parlare.
-Non
so perché ma
immagino che in questa faccenda ci siano coinvolti anche Pel di Carota
e
Spilungone dai Capelli Biondi.- commentai un po’ scherzando, un po’
aspramente.
Mi
guardò con
un’espressione convinta.
-Puoi
dirlo forte,
Barbie. Noi siamo i Green Day.-
*******
Angolo Snap:
Come al solito, grazie
alla mia beta reader, che con pazienza corregge tutte le mie
sgrammaticalizzazioni. xD
Sono tornata (Alleluia!)
Spero di non avervi
fatto aspettare troppo, faccio quello che posso per trovare il tempo,
tra tutti
i svariati impegni (quali scuola, lezioni di canto e musica, e beh,
anche una
vita sociale), per scrivere qualcosa che sia degno di voi cari lettori.
Ci sono un paio di
cose che ci tengo a precisare:
Non so se nella sua
vita reale Billie-Joe all’età che ha nella mia storia (19-20) viva
ancora a
casa con sua madre, sia già in giro con i Green Day, oppure cosa stia
facendo;
ovviamente la mia è una fan fiction quindi ho scritto quello che il mio
intuito
mi diceva: volevo che Billie non avesse una fissa dimora e vivesse un
po’ dove
lo portava il vento, in questo caso nella sala prove.
Quindi scusatemi se ho
scritto delle cavolate, ma l’ho fatto perché volevo fosse così. \
In secondo luogo, non
so se a quell’epoca i Green Day fossero ancora Sweet Children o già
passati al
loro famosissimo nome, però io volevo mantenere quello che tutti
conosciamo e
amiamo.
Per il resto, Amy è
confusa, fuori di casa, non sa più che senso ha la sua vita. Capitolo
transitivo? Forse si.
Comunque sia è
importante per l’inizio della relazione tra Billie e Amy.
Il prossimo capitolo
sarà qualcosa di speciale (buahahah, non vi dico cosa.)
Grazie a tutti voi che
continuate a seguirmi,
sono senza parole.
~ La vostra Snap.
|
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Capitolo 10 *** I don't care if you don't. ***
Parental Advisory: The
static age
# Capitolo Nono
I don’t care if you don’t.
Deun. Deun. Deun, deun, deun.
Un
rumore nettamente fastidioso prese a torturare il mio sonno agitato.
Sembrava
quasi il seccante suono che emettono gli altoparlanti delle vecchie
stazioni
prima di comunicare un annuncio.
Che
diavolo poteva essere?
La
luce era pressoché inesistente, e il buio regnava nello spazio poco
invitante.
Mi
accorsi che il mio sedere era dolorante, come tutto il resto dei
muscoli e
articolazioni del corpo. La motivazione era tutt’altro che anormale:
Billie
aveva generosamente deciso che non mi avrebbe ceduto la squallida
brandina per
dormire, così ero stata costretta a poltrire sul pavimento ricoperto di
tappeti.
Una
mossa alla Armstrong, quindi non ne ero neanche troppo scandalizzata.
Cercai
di mettermi in piedi senza far soffrire il mio corpo – missione ardua
visto lo
stato in cui si
trovava – e mi concentrai
nuovamente sullo strano
rumore.
–
Billie, sei tu? – chiamai, cercando di far sentire la mia voce in quel
frastuono.
Silenzio.
Ma
dove diavolo si era cacciato quell’imbecille cronico?
Senza
che potessi formulare due volte il pensiero, la fievole luce dell’unica
lampadina presente illuminò lo spazio, inducendomi a coprirmi gli
occhi.
-Era
quasi ora che ti svegliassi, cazzo! Suonare al buio non è proprio il
massimo,
sai?-
Buongiorno
anche a te, Armstrong.
La
sua figura magrolina se ne stava in piedi, guardandomi con un finto
astio che
nascondeva una sincera risata. I suoi fantastici occhi verdi mi
lasciarono
senza parole ancora una volta.
Mi
resi conto che era domenica mattina, e che la sera prima ero scappata
di casa.
Quello
non era di certo un bel modo per iniziare la giornata.
-Dovresti
chiudere il becco, dato che ho dormito per terra.-
Lo
vidi passarsi una mano tra i capelli mentre con l’altra teneva una
chitarra
elettrica: ecco la fonte di tutto quel
frastuono.
La
mia pancia produsse un rumore tutt’altro che femminile, cosa che mi
fece capire
che avevo una fame da lupi. E non avevo cibo.
-Dobbiamo
mangiare.- sentenziai
Gli
occhi di Billie mi guardarono con stupore, per poi rimanere fissi come
se non
stesse capendo del tutto quello che gli stavo dicendo. Certe volte
sembrava
davvero tonto.
-Billie,
yuh, uh- dissi passandogli la mano davanti alla faccia –Io volere
mangiare.
Cibo. Gnam, gnam.-
Da
quando avevo sviluppato un simile senso dell’umorismo?
In
tutta risposta, Armstrong tirò fuori
dalla tasca dei jeans un pacchetto di
sigarette; mi stupii nel notare come anche mentre faceva un gesto
volgare come
l’accendersi una sigaretta, riuscisse ad avere quell’aria affascinante che non lo abbandonava
mai.
-In
quel frigorifero- disse indicando il
piccolo apparecchio scarcassato –Non troverai niente di commestibile. A
meno
che tu non voglia mangiare cacche di topo.-
Fantastico.
Mi
trovai a rimpiangere le splendide colazioni che mia madre preparava la
domenica: pancake ai frutti di bosco, ciambelle, crêpes e cibarie
varie; al
solo pensiero il mio stomaco iniziava a crogiolarsi.
Chissà
cosa stava succedendo a casa mia.
Casa
mia.
Casa
non
doveva essere il posto in cui fuggivi per
rintanarti nel tuo mondo, dove ti sentivi protetto?
Casa
non
doveva significare amore, gioia e convivenza?
Casa
non
doveva essere un sinonimo di famiglia?
Come
potevo considerare casa un posto in
cui ero stata maltrattata e umiliata? Un posto in cui la tolleranza era
vietata, e l’amore era un sentimento estraneo?
Come
potevo chiamare casa un luogo da cui
ero fuggita?
Le
strade della periferie sembravano meno malfamate quel giorno.
Il
sole era alto e mi scaldava il viso, donandomi quel poco di serenità
che
credevo di meritare.
Non
era stata una bella nottata e non si prospettava neanche una splendida
giornata, viste le mie condizioni; era circa mezz’ora che io e Billie
girovagavamo in cerca di un’economica colazione.
Sia
io che lui eravamo a corto di soldi; certo, se avessi voluto sarei
potuta
andare a casa e avrei avuto tutto il denaro che desideravo, ma non
avevo alcuna
intenzione di tornare in quello squallido luogo.
Per
quanto riguardava Billie, non c’era bisogno di chiederglielo, di fare
domande
stupide e magari anche offensive: i soldi per lui erano un lusso.
Passeggiavamo
per un piccolo parco malconcio quando intravidi un chiosco sul bordo
strada.
-Ho
trovato la colazione!- esultai più che contenta.
Billie
inarcò un sopracciglio con il suo fare spavaldo, per poi scrollare le
spalle e
dirigersi verso il luogo che avevo appena indicato.
Quel
ragazzo era davvero un mistero per me, stentavo a capirlo anche quando
parlava.
Avrei tanto voluto sapere cosa gli passava per la mente, quando i suoi
occhi
verdi si colmavano di una malinconia distante anni luce da me.
Il
chiosco risultò essere un furgoncino bianco sistemato alla bell’è
meglio. Il
venditore era un uomo di mezza età con tanto di baffi e barba, intento
a
cucinare qualche strana cibaria.
-Che
roba è?- sentii la voce di Billie domandare aspramente al commerciante.
Quella
era l’ennesima dimostrazione che per Armstrong usare dei toni gentili
ed
educati era impossibile, e ancor di più salutare; non avrebbe mai
imparato.
L’uomo,
però, non si scompose di un centimetro: doveva essere abituato ad
elementi come
Billie, dopotutto lavorava in periferia.
-Sono
frittelle di mele, all’italiana.- rispose senza neanche alzare lo
sguardo dalla
padella.
Ok,
la simpatia non era un ingrediente di quelle parti.
E
se mio padre fosse arrivato e mi avesse vista? L’ansia prese a crescere
nel mio
stomaco togliendomi di colpo tutta la fame che avevo accumulato.
Calma,
Amy. Come può arrivare Steven? Lui non
bazzica in periferia.
Nonostante
cercassi di convincermi che lì ero al sicuro, il mio inconscio
continuava a
scalpitare per la paura.
Ero
stata tranquilla fino ad allora, perché iniziavo ad avere il panico
addosso?
-Smettila
di guardarti intorno come se dovessero arrivare gli sbirri da un
momento
all’altro, mi metti l’ansia.-
Di
certo Armstrong non mi era d’aiuto con quella sua aria tranquilla e
spavalda,
come se il mondo non fosse affar suo. Come poteva essere sempre così
menefreghista?
Certe
volte lo invidiavo, avrei voluto essere noncurante come lui.
-Prendimi
una frittella e taci.- risposi in malo modo dandogli in mano una
banconota da
un dollaro.
Mi
guardò con aria un po’ stupita, come se ci fosse qualcosa che gli
sfuggiva.
Non
lo avevo ancora informato della mia attuale situazione, era uno
sbaglio? Avrei
dovuto dirglielo?
Dopotutto
mi aveva dato un posto in cui dormire –omettendo il fatto che non mi
aveva
ceduto la brandina- e non mi aveva ancora cacciata via.
Notevole
per Armstrong.
Lo
vidi pagare e venire via con due tovaglioli zuppi di olio; dannazione,
se
sporcavo la maglia che indossavo ero fottuta, dovevo tenerla addosso
per almeno
qualche altro giorno, avevo un cambio ristretto.
Ci
sedemmo su una panchina, mentre Billie addentava con foga la sua
colazione.
-Mmh-
mugolò con fare estasiato –è deliscioscia- biascicò, mentre continuava
ad
ingurgitare cibo.
Si,
non era male. Era una buona frittella.
Mi
persi a guardare il cielo azzurro, che sembrava volersi prendere gioco
di me.
Se fossi stata in un film, in quel momento, sarebbe piovuto e tutto
sarebbe
sembrato depresso quanto me.
Invece,
la realtà era ben diversa: c’era un gran bel sole, e il cielo era
limpido come
non mai.
La
sfiga mi perseguitava e mi sfotteva anche.
-Era
fottutamente paradisiaca- sentenziò il mio compagno, dopo essersi
pulito il
viso con la maglia ed essersi acceso l’ennesima sigaretta della
mattinata.
-Era
buona.-
Sputò
fuori una nuvoletta di fumo, e mi squadrò mentre in viso si formava un
sorriso
sghembo.
-Non
essere sempre così critica, Barbie. Non ti fa bene alla salute.-
Risi
aspramente. –Invece scommetto che quelle sigarette ti aiutano molto.-
Probabilmente
Armstrong non si rendeva conto dei mille controsensi che alloggiavano
nella sua
persona.
Ma
d’altronde come potevo parlare? Ero la prima che in una notte aveva
cambiato
opinione di suo padre.
Era
davvero reale?
Ero
davvero fuggita di casa? Davvero pensavo che mio padre fosse una specie
di
mostro?
-Ehi,
Armstrong, razza di cane bastardo! Ecco dov’eri finito!-
Due
sagome traballanti fecero il loro ingresso nel mio campo visivo;
camminavano
sul piccolo marciapiede del parco, venendo verso di noi.
E
subito mi resi conto di chi si trattava.
-Pel
di Carota. Smilzo dai Capelli Biondi.- salutai con sarcasmo non appena
Mike e
Trè furono davanti a noi.
Il
Rosso aveva tutta l’aria di essersi appena fumato un camion a rimorchio
di
erba, mentre il suo amico aveva la solita aria tranquilla e pacata.
Quella
giornata sarebbe stata veramente molto lunga.
-Ti
stavamo aspettando! A casa di Maggie c’è una festa coi fiocchi!-
Certo,
adesso ci saremmo ritrovati a casa di qualche sconosciu..
Cosa?
Maggie?
Mi
alzai di scatto e presi Trè per il colletto della lurida camicia,
scuotendolo
come un sacco di patate.
Me
lo stava permettendo solo perché era troppo fatto per accorgersi di
quello che
stava succedendo intorno a lui.
-Hai
detto Maggie? Maggie Stuart?- esclamai colma di speranze.
Il
Rosso si scrollò dalla mia presa e si lasciò cadere sulla panchina.
Come
poteva essere in quella stato già di prima mattina? Di certo Trè aveva
un
problema con la dipendenza da marijuana.
Billie
assunse la sua aria da investigatore, e mi squadrò assottigliando gli
occhi
come un cacciatore.
Mi
chiedevo come riusciva ad avere delle espressioni così buffe ma
spontanee.
Quel
ragazzo era un mistero in tutto e per tutto.
-Conosci
The Strange?-
The
Strange?
–Che diavolo vuol
dire?-
Il
ragazzo fece un tiro dalla sigaretta, per poi concentrarsi di nuovo su
di me.
-Tutti
chiamano Maggie così, in fondo un po’ strana la è.-
Dannazione,
anche la mia amica era finita in quel giro di poco di buono; d’altronde
Maggie
era tutto meno che una ragazza con la testa sulle spalle.
Le
piaceva sognare e pensare che la vita fosse facile, che ogni cosa
sarebbe
andata come doveva andare.
Si
era addirittura tatuata sul braccio la scritta “Let it be”,
ovvero “Lascia che sia”, in onore di uno dei suoi
gruppi preferiti, i Beatles.
Certo
non era una ragazza regolare. Era singolare.
-Si,
la conosco. Potrei dire che siamo quasi amiche.-
Trè
scoppiò a ridere come un deficiente, forse a causa della droga in
circolo, o
magari per qualcosa che avevo detto.
Billie
sfoderò lo sguardo di chi sta per fare qualcosa di fottutamente
pericoloso.
Avevo la netta sensazione che stavo per ficcarmi in un gran casino.
Ma
ormai c’ero dentro fino al collo.
-Barbie
cara, quando c’è una casa, una festa e dell’alcol.. Siamo tutti amici.-
Bingo.
-Oh,
mio Dio! Non ci posso credere, Amy, sei qui!-
Davanti
a me, sul ciglio della porta, stava una Maggie radiosa come il sole, e
carina
come sempre.
Certo,
io non era allegra, non volevo essere in quel posto e se avessi potuto
avrei
picchiato Billie.
Avevo
cercato in tutti i modi di convincerlo a non andare a quella dannata
festa,
avevo puntato i piedi a terra, scalpitato e fatto i capricci come una
bambina
di due anni.
Ovviamente
non era servito a nulla, perché Armstrong mi aveva caricata sulle
spalle come
un sacco della spazzatura.
Ma
cosa potevo aspettarmi da lui?
Sarebbe
stato troppo carino se mi avesse abbracciata e sussurrato parole dolci
e
comprensive, dicendomi che avrebbe fatto solo ciò che desideravo io.
E
come se non bastasse non si era neanche ancora minimamente interessato
ai miei problemi!
Forse per lui era normale bussare a casa di un “amico” chiedendo un
posto per
dormire, ma non per me.
Avevo
solo bisogno di qualcuno con cui parlare.
E
Billie continuava ad interpretare la parte del muro di ghiaccio,
isolandosi da
me.
Cercai
il suo sguardo ma non lo trovai; come al solito fumava, appoggiato al
muro di
fianco alla porta, con un’aria del tutto disinteressata.
Come
poteva essere così freddo in ogni occasione?
Rivolsi
la mia attenzione a Maggie cercando di sfoderare il sorriso più
sincero.
Dall’interno
della casa proveniva un forte frastuono, una specie di musica
martellante e
insistente, accompagnata da un vociare ad alto volume.
-Ciao
The Strange- la salutò Trè prima di oltrepassarla ed entrare
nell’abitazione
con passo strascicato.
L’educazione,
ovviamente, non faceva parte del curriculum di Pel di Carota.
Ma
se Maggie li aveva invitati, probabilmente sapeva chi erano e cosa
facevano,
quindi non era un problema mio.
Biondo
Platino la guardò con aria maliziosa, per poi schioccarle un veloce
bacio sulla
guancia prima di fare il suo ingresso nell’ormai stracolma residenza.
Non
sapevo come comportarmi, aspettavo solo un cenno di Billie, anche se
lui
continuava a fumare la sua sigaretta con lo sguardo fisso nel vuoto.
Maggie
continuava a tenere la porta aperta, cosciente del fatto che la
situazione si
stava facendo tesa.
Dovevo
mantenere la calma.
Io
ero la calma fatta a persona.
D’un
tratto, senza dire nulla, Armstrong si riscosse dal suo stato di
semi-incoscienza e mi passò davanti, quasi tirandomi una spallata.
Oh,
diavolo!
Quello era troppo
anche per me.
-Fermati
subito lì, cazzo!- esclamai prima che Billie sparisse all’interno
dell’abitazione.
La
mia compagna di scuola sussultò, forse stupita nel sentire Amy Murray
urlare ed
imprecare come una camionista. Ma le cose erano cambiate, era ora che
anche
Maggie lo sapesse.
E
anche Armstrong.
-Beh,
io vado a vedere se quei vandali hanno fatto casini- cercò di scusarsi
Maggie
–Con permesso..-
La
vidi sgattaiolare e urlare qualcosa di indistinto a Trè, che si stava
scolando
una bottiglia di alcolico.
La
tensione era diventata palpabile, e non riuscivo più a sopportare tutto
quel
casino.
Mi
stava per scoppiare il cervello, avevo bisogno di dire a qualcuno come
stavo.
-Mi
sono presentata di notte al pub in cui lavori con in mano solo una
borsa, ti ho
chiesto un posto in cui dormire, e mi hai vista piangere sulle
scalinate di una
vecchia casa. E tu non hai detto nulla. All’inizio te ne sono stata
grata,
perché non avevo voglia di aprire la bocca. Ma ora vorrei solo qualcuno
che mi
ascoltasse, cazzo! E tu cosa fai? Mi porti in una fottutissima festa di
merda e
non ti degni neanche di chiedermi se voglio entrare, se mi fa piacere!-
Probabilmente
urlai parecchio, perché dopo aver finito il mio monologo mi resi conto
di avere
la gola secca.
-Mio
padre mi ha picchiata come un vero mostro, mi ha umiliata. E mia madre
non ha
fatto nulla per impedirglielo. Le persone che credevo fossero le uniche
che mi
avrebbero sempre amata mi hanno tradita, cazzo!-
Armstrong
continuava a darmi la schiena, senza dare un cenno di vita, senza
smuoversi dal
suo posto.
Come
poteva essere così insensibile?
Come
poteva non rendersi conto di quello che stavo passando?
-Certe
volte non c’è bisogno di parlare. Cos’avrei dovuto dire? “Oh, piccola
Amy,
quanto mi dispiace.” E a cosa sarebbe servito? A niente. Non voglio
compatire
nessuno, e soprattutto non ti devo niente. Tu non sei nessuno per me,
sei solo
una delle tante persone di questa feccia di mondo. Non sono la tua
balia, e
tantomeno il tuo psicologo. Ti ho già fatto un gran favore a non
lasciarti per
strada di notte. Adesso cosa pretendi da me?-
Gli
occhi iniziarono a bruciare, e il cuore a palpitare conscio del fatto
che stavo
per piangere.
Le
parole di Armstrong mi arrivarono come un pugno in faccia, forti e
tremendamente dolorose.
Finalmente
si girò a guardarmi negli occhi.
-In
questa vita puoi contare solo su te stessa. Ricordatelo.-
Così
dicendo tornò indietro e mi chiuse la porta in faccia.
Rimasi
sola.
Per
le strade di Rodeo.
******
Angolo
Snap:
Grazie
mille a Vi, come sempre.
Ben
trovati, miei cari lettori!
Tanto
per iniziare: Auguro a tutti un
favolosissimo 2012, sperando che vi riempia di soddisfazioni!
Eccomi
qua con il Nono Capitolo, fatto e
finito, pronto per l’anno nuovo! Sono stata un pochino più veloce?
Tanto
per iniziare spero vi sia piaciuto,
poi passo alle piccole precisazioni:
Ho
voluto che Billie risultasse molto
cinico e distaccato, un freddo muro di ghiaccio, perché così
dev’essere: in
fondo BJ (nel mio racconto) è menefreghista e pensa solo a sé stesso,
quindi
non può cambiare nel giro di una notte, solo perché Amy si sente sola e
ha
bisogno di lui. Le cose devono avere il loro tempo, e per ora Billie è
un
fottuto stronzo.
Se
ci sono imprecisioni o correzioni, non
esitate a farle!
Come
sempre un grande ringraziamento,
~
La vostra Snap.
|
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Capitolo 11 *** Lost children with dirty faces today. ***
Parental Advisory: The static age
# Capitolo
Decimo
Lost
children with dirty faces today
Ghiaccio.
Mi
sentivo
composta da mille ghiaccioli, piccoli e appuntiti, che oltre a farmi
congelare
mi trafiggevano la pelle come mille affilatissime lame.
È
così anche
io ero arrivata al capolinea, a provare la sensazione del mondo che ti
crolla
addosso.
Tutte
le
cose che mi circondavano sembravano aver improvvisamente rallentato i
loro
movimenti: una bambina e sua madre camminavano così lente che avrei
potuto
contare ogni secondo che ci mettevano per fare un dannatissimo passo.
Non
riuscivo
a capire perché non mi fossi mai resa conto di certe cose, ma ora
spuntavano
alcuni dettagli che non avevo mai ritenuto importanti.
Me ne
stavo
seduta su quella maledetta panchina a guardare la gente sfilarmi
davanti e mi
immaginavo fossero dei modelli e io il loro giudice.
Dannazione,
come avevo fatto a ridurmi così?
Forse
quello
era il fondo del vaso, forse adesso non sarei mai più riuscita ad
uscirne
fuori. La mia vita racchiusa in una notte, gettata in un fiume e
lasciata a
marcire tra i luridi argini.
Ogni
mio
singolo battito di ciglia diventava uno sforzo incredibile.
Avevo
perso
ogni singola speranza, ogni singolo bagliore di luce. Ero sprofondata.
“In questa vita puoi contare solo su te
stessa. Ricordatelo.”
Quelle
parole mi rimbombavano nella mente come una bomba atomica, come un
razzo in
fase di sganciamento. Erano dolorose, schiette.
Cos’avrei
fatto ora?
Avevo
perso
tutto. Avevo messo in gioco la mia vita sicura che lui mi
avrebbe aiutata.
Ma mi
sbagliavo.
Sospirai,
rendendomi conto che erano parecchi secondi che non respiravo. Ma non
era
importante, non era essenziale. A chi sarebbe importato se avessi
smesso di
vivere, in fondo?
Quella splendida giornata di sole era diventata il mio incubo, il mio
limbo.
Non
riuscivo
a smettere di pensare che la mia vita era finita, che tutto aveva perso
il suo
senso.
Non
avevo un
posto in cui andare. Ero sola.
Avevo
sentito dire che quando una persona perde tutto non deve lasciarsi
andare alla
depressione, ma deve tirarsi su le maniche e prendere le redini della
sua vita.
Stronzate!
Come
puoi
darti da fare per riprenderti la dignità quando questa è stata
schiacciata,
torturata, triturata?
Come
puoi
cercare di uscire dall’abisso quando esso ti inghiotte sempre di più?
Come
puoi
farlo quando sei solo?
Dov’erano
ora tutto quelle persona che mi avevano sempre acclamata e lodata?
Dov’erano
finite?
Non
c’erano
mai state, solo allora me ne resi conto; non avevo mai avuto nessuno:
solo
riflessi di amicizie e ombre di persone che mi ronzava attorno
malvagie, come
il gramo.
Ero
sempre
stata sola.
La
differenza era che ora me ne rendevo finalmente conto.
-Hai
intenzione di mettere la muffa su quella panchina?-
Non
mi
sembrò vero di sentire quella voce. Come poteva essere lì?
Mi
girai di
scatto, con l’anima piena di gioia: non mi aveva lasciata sola.
Il
sorriso
sincero dipinto sul volto di Maggie mi fece intuire che avevo tutte le
intenzioni di consolarmi.
Ero
contenta
di vederla lì, di sapere che qualcuno mi aveva pensata e non mi aveva
semplicemente abbandonata per qualche stupida ragione etica.
Nonostante
il mio cuore fosse un po’ deluso -poiché aspettava l’arrivo di Billie e
non
quello di The Strange- le ricambiai il bel sorriso.
-Stavo
valutando se fosse più doloroso morire di freddo oppure di fame.-
Ridemmo
entrambe.
Sembrava
una cosa sciocca, eppure ridere mi fece sentire, per qualche secondo,
meglio,
donandomi un barlume di speranza e di normalità.
Non
avevo né
la voglia, né il coraggio di dirlo a Maggie, ma le ero infinitamente
grata per
il fatto di essere seduta su quella stramaledetta panchina con me.
Nessuno
si
era preso la briga di preoccuparsi per una “dell’alto borgo”.
Tranne
Maggie.
-Non
sapevo
conoscessi Armstrong.- disse con fare indifferente, ma era evidente che
stesse
cercando di indagare, senza mettere troppo il coltello nella piaga.
Non
avevo
alcuna intenzione di mettermi a parlare di quel pezzo di merda di
Billie, così
feci spallucce tirando un calcio ad un sassolino.
La
vidi
imbarazzata, ma non aveva l’espressione di chi si era rassegnata.
Sarebbe
tornata all’attacco, e prima o poi avrei dovuto rispondere alle sue
domande.
-Come
mai
non sei alla festa? Dopotutto è casa tua, quei delinquenti te la
staranno
distruggendo.- sottolineai scettica e anche un po’ scorbutica.
Amy, non mi sembra il caso di essere
scortese con l’unica persona che ha avuto la decenza di venirti a
cercare.
-Me
la
distruggerebbero con o senza la mia presenza, quindi non cambia un
granché. Ti
ho vista andare via dalla finestra, così ho pensato di venirti a
chiedere se ti
va di tornare.. Sai, ci sono le birre, le sigarette, e scommetto che
Trè ha
portato la marijuana, quindi..-
Non
la
lasciai finire. –Non ci penso neanche a tornare lì. Mi dispiace,
Maggie. Ti
ringrazio, ma no.-
La
vidi
sospirare rassegnata, e spolverarsi i pantaloni rovinati con il tempo.
I
suoi
capelli ricci e folti mi facevano pensare ad un leone selvaggio ed
indomabile,
che nessuno avrebbe mai potuto rinchiudere o domare; e Maggie era
proprio così:
nessuno avrebbe mai potuto imporle qualcosa, lei faceva solo quello che
le
andava.
La
invidiavo
infinitamente per quel suo lato del carattere.
-Tu e
Billie.. Si, insomma.. Andate a letto insieme?-
Involontariamente
saltai sulla panchina; la domanda che Maggie mi aveva appena posto mi
sembrava
così assurda che scoppiai a ridere istericamente.
Forse,
però,
una parte inconsapevole di me aveva già iniziato a sviluppare dei
profondi
sentimenti per Billie, che, nonostante le mie opposizioni, si era
intrufolato
nella mia vita con una velocità fastidiosa.
D’altronde
non potevo negare che quel ragazzo da bassifondi, con i suoi pantaloni
stracciati e i suoi capelli sbiaditi, mi aveva insegnato più cose di
quante non
ne avessi imparate in diciassette anni della mia vita.
Con
quel suo
fare menefreghista e quell’ultima batosta, mi aveva fatto capire molte
cose
riguardanti la vita.
-Assolutamente
no! Piuttosto che andare a letto con quell’idiota dai capelli canarino,
mi
farei suora!-
Maggie
scrollò le spalle con fare disinvolto, poi si accese una sigaretta.
Dannazione, ma c’è qualcuno che non fumi in
questo mondo?
Si, mio padre.
Rimossi
il
pensiero di quell’uomo dalla testa e mi concentrai sulla mia amica, che
ora mi
guardava con fare divertito.
-Litigavate
come una coppietta di novelli sposi, prima.-
Che diavolo … ? –Billie si è solo
assicurato che mi ricordassi quanto è stronzo.-
E,
cavolo,
se era così.
Armstrong
non si era preso la briga di chiedermi se avessi un posto in cui
andare, una
spalla su cui appoggiarsi. No.
Secondo
i
suoi standard lui era già stato troppo disponibile con me, e ora quello
che la
sorte aveva in serbo per me non era un suo problema; semplicemente se
ne era
lavato le mani, e aveva messo a tacere la sua coscienza, in modo da non
avere
futuri sensi di colpa.
Comportarsi
in quel modo era assolutamente più semplice, invece di aiutare, e
Billie lo
sapeva.
Oh,
se lo
sapeva.
-Senti,
Amy,
io non voglio farmi gli affari tuoi, ma.. Vederti così distrutta mi
sembra
davvero strano. Insomma, tu sei sempre stata rigorosa, diligente,
sicura di te
stessa. E ora, vederti senza una meta, e soprattutto vederti in
compagnia di
Armstrong, beh..- La mia amica non finì la frase, ma ovviamente non c’è
n’era
il bisogno. Sapevo benissimo cosa voleva dire: “è sconcertante”, “non è
normale”.
E,
ovviamente, non potevo darle torto. Vedere Amy Murray per le strade di
periferia, assieme a Billie e la sua banda non era una cosa da tutti i
giorni.
Ma
ormai mi
sarei dovuta abituare a quello stile di vita, solitario e triste.
Non
sapevo in
che modo risponderle. Cosa diavolo avrei dovuto dire? Che mio padre mi
aveva
trattata come una delinquente, solamente perché ero stata mandata in
Detenzione, per la prima volta nella mia vita? Che la cara, vecchia Amy
Murray
non esisteva più, perché ogni suo principio morale era stato calpestato
come un
foglio di carta straccia?
Cosa potevo dire in una situazione del genere?
Ora
iniziavo
a capire perché Billie-Joe si era comportato in quel modo con me.
Aveva
fatto
finta che non fosse successo nulla, che io stessi bene e non avessi
alcun tipo
di problema. Non mi aveva parlato, né fatto alcun tipo di domanda.
Perché
ci
saremmo ritrovati in quella situazione imbarazzante, e io non avrei
saputo cosa
dire, come dirlo, e forse non ne avrei avuto neanche la dannatissima
voglia di
aprire bocca; e lui si sarebbe comportato come una delle tante persone
che mi
avevano fottuta per tutta la vita, mi avrebbe consolata donandomi la
sua
compassione con inutili “Mi dispiace”.
In
quel
preciso momento capii perché quel fottutissimo Armstrong non mi voleva
dare
aiuto: perché altrimenti io mi sarei convinta di averne bisogno, e
avrei
continuato a dipendere da qualcuno, fino a che quel qualcuno mi avrebbe
nuovamente tradita.
E
saremmo
tornati al punto di partenza.
Quel
pezzo
di merda di Billie mi aveva appena dato una lezione di vita.
E io
l’avevo
finalmente compresa.
Tornare
a
casa di Maggie mi era sembrata l’idea più sensata, in fondo non potevo
restare
tutta la giornata su quella stramaledetta panchina.
Ma
mentre me
ne stavo seduta sul divano, al fianco di The Strange, capii che quella
non era
una festa, ma una gabbia di matti.
Prima
di
incamminarci verso casa, avevo cercato di spiegare a Maggie la
situazione in
cui mi trovavo, senza sembrare troppo sconvolta, e soprattutto senza
farne una
tragedia greca; lei era stata molto comprensiva e non aveva fatto
commenti
stupidi, si era limitata a dirmi che se avevo bisogno di un posto in
cui stare
potevo contare su di lei.
E
gliene ero
grata.
Di
fianco a
me, un ragazzo e una ragazza stavano pomiciando in maniera molto
esplicita,
senza farsi alcun tipo di scrupolo. Ma non avevano un po’ di pudore?
Tutto lo spazio era invaso da un odore insopportabile di fumo che mi
rendeva
quasi impossibile respirare; al fondo
della stanza, inginocchiata sotto al davanzale della finestra, una
ragazza
stava vomitando in modo assolutamente disgustoso.
La
musica
era così potente che le mie orecchie presero a fischiare, e in tutte le
stanze
si potevano vedere persone con sguardi assenti e espressioni distrutte:
come si
poteva arrivare ad un tale livello di degrado?
Non
riuscivo
a trovare una sola persona che avesse una vera personalità, sembravano
tutte
vecchie immagini stampate e scolorite, squarci opachi di un’essenza
ormai
fuggita.
Fantasmi
di
se stessi.
Dio,
mi
sentivo così fuori luogo, e per una volta ero contenta che fosse così:
non
volevo essere una di loro.
Un
ragazzo
dai capelli rossi e una cresta degna di un gallo cedrone mi passò
davanti,
lanciandomi un’occhiata interrogativa, quasi mi stesse domanda “Ma che
ci fa
una come te in questo posto?”
Quello
era
il mondo di Billie.
Quello
era
ciò che era, che faceva.
Eppure
non
era come loro, no. Billie aveva conservato, sotto tutti gli strati di
armatura
che si era creato, la sua personalità, la sua energia vitale.
In
Armstrong
c’era una scintilla, e io riuscivo a vederla splendere come un raggio
di luce.
-Fiesta,
fiesta, fie-sta!-
La
voce di
Trè mi arrivò alle orecchie, fastidiosa come ogni volta, per poi essere
accompagnata dall’entrata del suo proprietario dai capelli arancio.
Rosso
Malpelo stava improvvisando un balletto ridicolo, con tanto di birra
che
fuoriusciva bagnando ogni cosa fosse vicino ad essa.
Il
pavimento
era ormai pieno di liquidi non definiti e altre strane sostanze che
emanavano
un odore orrendo.
Diamine, Amy, ma chi te l’ha fatto di venire
qui?
-Mi sembrava di averti fatto capire che non eri la benvenuta qui.-
Gelo.
La
voce di
Billie suonò così gelida che avrebbe potuto ibernare una fiammella.
Il
mio cuore
prese a palpitare all’impazzata, consapevole del fatto che non era un
comportamento stabile.
Ma
come
potevo rimanere impassibile a Billie-Joe dopo la sfuriata che avevamo
avuto
poco tempo prima?
Mi girai incontrando i suoi splendidi occhi verdi, ridotti in uno stato
indecente: erano arrossati e le palpebre cadevano in un modo che le
rendeva visibilmente
pesanti.
Era
strafatto.
-Mi
ha
invitata Maggie, la casa è sua.-
Mi
stupii di
quanto il mio tono di voce riuscisse ad essere fermo, nonostante dentro
di me
stesse avendo atto una guerra tra istinto e ragione.
Non
riuscivo
a capire cosa stava succedendo al mio animo, ma l’unica cosa di cui ero
certa
era che avevo bisogno della presenza di Billie.
Non
potevo
pensare di rimanere a dormire da Maggie, la mia amica, perché sentivo
solo di
avere il bisogno fisico e psicologico di quella testa di cazzo di
Armstrong.
Come
fosse
possibile quella cosa era un quesito, ed era anche una sensazione
strettamente
irrazionale, che non aveva né un capo né una fine.
Billie
si
sedette sul divano, accanto a me, lasciandosi scivolare come un peso
morto.
-In
questo
caso puoi restare.-
In questo caso puoi restare? Ma
chi diavolo era lui per dirmi cosa potevo
fare?
-Ti
ricordo
che sei stato tu il primo a dirmi che devo contare solo su me stessa,
quindi
non accetto ordini da te, ne tantomeno da altri.-
Il
silenzio
che si era creato tra di noi non si poteva udire, poiché coperto dal
suono
insistente del Punk che usciva dalle enormi casse, posizionate in un
angolo
della stanza.
-Questo
non
è il posto per te, non va bene. Non lo vedi? Sono tutti ubriachi e
fatti. Qui
non si sentono i discorsi che sei solita fare con i tuoi amici, non si
balla la
musica classica e non si progetta il futuro. In questo dannato luogo
non esiste
il futuro.-
Ma che discorso toccante Armstrong,
complimenti.
Quello
che
aveva appena detto era vero, ma non mi aveva fatto un grande effetto:
ci ero
già arrivata da sola, quindi se voleva sconvolgermi non era riuscito
nel suo
intento.
-E
dove
dovrei andare? A casa mia, a farmi mettere le mani addosso da quel
pazzo di mio
padre? A continuare ad essere un nulla, un’ombra di me stessa? Non sono
poi
tanto diversa dalla gente che c’è qui, anche io sono sempre stata un
fantasma
del mio vero essere.-
I
suoi occhi
ebbero un piccolo guizzo, inafferrabile da chi non conosceva Armstrong.
E io
lo
conoscevo meglio di tutti.
Ero
sicura
di questa cosa, ora più che mai. Nonostante fosse poco tempo che
sapessi della
sua esistenza, avevo capito che dentro di lui si nascondeva un cuore
vero, e
non di metallo.
La
sua
espressione si ammorbidì, e le rughe che si erano formate vicino agli
occhi si
distesero.
Si
passò una
mano tra i capelli, scompigliandoseli proprio come mi piaceva vederlo
fare.
Lo
vidi
sospirare pesantemente, per poi voltarsi verso di me.
-Andiamocene
a casa, Barbie.-
Andiamocene a casa, Armstrong.
Insieme.
******
Angolo Snap:
Un grazie alla mia beta-reader.
Sono tornata con un nuovo capitolo, miei
cari lettori.
Spero che stiate passando delle belle
giornate, e che siate soddisfatti di questo mio nuovo parto xD
Passando al capitolo: Ho voluto
incentrare questo capitolo sui sentimenti di Amy nei confronti di
Billie, che
stanno crescendo sempre più, e sul loro rapporto travagliato.
La battuta finale che Billie rivolge ad
Amy è un segno evidente del fatto che il ragazzo stia comprendendo che
Amy è
completamente sola e confusa, e, soprattutto, che quella ragazzina per
bene sta
diventando importante per lui.
Altra cosa molto importante è la
degradazione dell’ambiente in cui Billie vive, elemento che da anche il
titolo
al capitolo.
Come al solito, se avete domande o dubbi
non esitate a scrivere.
Un abbraccio,
Snap.
|
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Capitolo 12 *** I wish someone out there will find me ***
Parental Advisory: The static age
# Capitolo
Undicesimo
I wish someone out there will find
me
La
musica che mi arrivò alle orecchie mi scosse dallo stato di
semi-incoscienza in
cui mi ero rintanata.
Era una
melodia particolarmente calma e aveva un che di rilassante; sembrava
nascondere
dentro di sé la giusta quantità di stranezza per portarti a creare
mille storie
fantastiche nella tua testa.
Era una
cosa nuova, che non avevo mai sentito.
Mi misi
a sedere sul letto di Billie, e mi tirai su le coperte: si, Armstrong
mi aveva
ceduto il materasso, e aveva dormito sui tappeti al posto mio.
Probabilmente
non lo aveva fatto per qualche strano gesto di galanteria, ma solo
perché la
mattina presto si sarebbe svegliato e avrebbe iniziato a suonare la
chitarra.
Ma non
era Billie che stava strimpellando quella musica: era una
registrazione, forse
un disco. Mi alzai ormai del tutto sveglia e mi resi conto che di
Billie-Joe
non c’era traccia. Dove diavolo era andato a ficcarsi?
La sera
prima, dopo essere tornati dalla festa a casa di Maggie, era calato il
silenzio
tra noi due, una cosa strana perché di solito avevamo sempre qualcosa
da dirci;
ma d’altronde era comprensibile, avevamo discusso per tutta la
giornata,
eravamo stanchi.
Tornare
in quel garage logoro, sudicio e schifoso era stata davvero una grazia
per me,
nonostante fosse scomodo, poco igienico e distante dal centro città.
Strano a
dirsi, ma non avrei sopportato di rimanere sola con Maggie; avevo uno
strambo e
inconcepibile bisogno che Billie fosse al mio fianco. Probabilmente era
dovuto
dal fatto che fosse l’unico che aveva vissuto una situazione analoga
alla mia,
o che comunque sapeva cos’era la miseria.
Dio,
quali strani pensieri affollavano la mia mente!
La
musica rimbombava e si faceva più forte, entrando nelle mie vene come
un
farmaco forte e stordente. La porta dello scantinato si aprì ed entrò
un Billie
completamente zuppo di acqua. I suoi capelli colorati erano schiacciati
sul
viso poiché bagnati, e sulle guance gli era colata un po’ di quella
matita nera
che insisteva a mettere sugli occhi.
-Fanculo!-
imprecò levandosi il giubbotto completamente fradicio.
Buongiorno
anche a te, Armstrong.
-Piove?-
domandai stropicciandomi gli occhi ancora assonnati.
Il
ragazzo si girò verso di me inarcando un sopracciglio. –Da cosa l’hai
dedotto?-
Tagliente.
La
giornata era iniziata male e il mio coinquilino non era di certo
dell’umore
adatto per bere un caffè discorrendo di Baudelaire. Beh, non l’avrebbe
fatto
neanche se fosse stato di buon umore.
Ma d’altronde
avevo mai visto un Armstrong felice e sereno?
Guardai
il cellulare: erano le 07.12 di mattina.
-Che ci
facevi fuori a quest’ora?- domandai scoprendo che la musica proveniva
da un
piccolo stereo sconquassato, che sembrava essere uscito dalla guerra di
trincea.
La
tecnologia non era affare per Billie, sicuramente.
I suoi
occhi non si girarono per incontrare i miei, semplicemente mi
evitarono. C’era
qualcosa, quella mattina, nei comportamenti di Billie che non andava;
sembrava
preoccupato, ansioso e si muoveva a scatti.
Di
solito Armstrong era sicuro di sé, lento a fare tutto e relativamente
rilassato.
-Nulla,
dovevo fare delle commissioni.-
Commissioni?
Alle otto di mattina?
Ma poi
da quando in qua il ragazzaccio punk si era messo a fare la spesa come
le
vecchie casalinghe disperate? No, non era decisamente credibile, stava
cercando
a tutti i costi di tenermi segreto qualcosa.
Lo vidi
levarsi la felpa e la t-shirt per poi rimanere a torso nudo: certo, non
era il
tipico fisico da nuotatore con tanto di addominali, linea d’alba ben
definita e
pettorali, ma non potei fare a meno di avvampare e sentire il calore
salirmi in
tutto il corpo.
Possibile
che avessi una reazione del genere?
Insomma
Amy, non sei un’adolescente vogliosa!
Il suo
torace pallido e magrolino mi faceva quasi tenerezza, sembrava quasi
avesse
bisogno di un abbraccio di consolazione.
Tutti i
miei pensieri vennero stroncati da una maglietta pulita, che Armstrong
si
infilò, ritornando in me non appena sentii la musica interrompersi per
mano del
mio intrattabile coinquilino.
Avrei
voluto fare qualcosa per capire cos’aveva nella testa, ma d’altronde
quando io
avevo avuto dei problemi lui non aveva fatto alcuna domanda, quindi mi
sorgeva
il dubbio che non avesse voglia di essere disturbato. Dopotutto era
sempre di
Armstrong che stavo parlando.
Il fatto
era che non l’avevo mai visto così scosso; i suoi occhi erano ridotti a
due
fessure ed erano molto arrossati, segno che era passato da Trè, e il
viso era
corrucciato da un’espressione severa e incazzata, che lo rendeva meno
bello di
quanto fosse.
-Perché
hai zittito la radio?-
Billie,
senza neanche degnarmi di uno sguardo, prese a massacrarsi le dita con
le corde
della chitarra elettrica; il fatto era che era troppo incazzato per
suonare
qualcosa di decente, per cui dallo strumento uscirono solo dei rumori
sordi e
striduli.
-Te ne
fregava forse qualcosa di quella musica?- rispose stizzito.
Più
indisponente del solito. Un record.
Non
avevo ancora conosciuto una persona più stramba e con un caratteraccio
peggiori
di quelli di Armstrong, che deteneva ancora il primato.
-Era
rilassante e particolare. Non era male.- risposi con una scrollata di
spalle.
Il
ragazzo puntò gli occhi strafatti su di me, mentre si accendeva una
sigaretta
con la dimestichezza di un circense; sputò il fumo per poi lasciarsi
andare
contro il muro.
-E così
ti piacciono i Doors-
Doveva
essere il nome del gruppo che suonava i brani che fino a qualche minuto
prima
stavo ascoltando.
-Non ho
detto che mi piacciono. Ho detto che non sono male.-
Lo vidi
lasciarsi andare ad una risata amara, che si trasformò ben presto in
ghigni
aspri e amareggiati.
C’era
davvero qualcosa che non andava quella mattina in Armstrong, e io non
avevo la
minima idea di come aiutarlo. Possibile che fossi così imbranata?
Decisi di girare intorno al discorso. –Possibile che esitano
commissioni così
importanti da farti uscire la mattina presto?-
Ok, che
domanda del cazzo.
Non ero
in grado ad affrontare dei problemi, nessuno aveva mai avuto bisogno
del mio aiuto,
e anche se Billie non l’avrebbe mai ammesso lui adesso aveva bisogno di
me,
ne ero consapevole.
-Se vuoi
sapere dove cazzo ero basta dirlo.-
Sgamata.
In
effetti era abbastanza palese la mia curiosità, perché ero troppo
rintronata
per non farmi beccare da Armstrong, che dei sotterfugi ne era il
maestro.
L’imbarazzo mi rese impossibile non arrossire, e mi sentii avvampare in
tutto il viso, come da copione.
-Allora
posso sapere “dove cazzo eri”?-
Mentre
si accendeva un’altra sigaretta, si scompigliò i capelli, già
spettinati di
loro, chiaro segno del suo nervosismo.
Poi,
d’un tratto, sospirò rassegnato al dover ammettere qualcosa che lo
attanagliava, e la sua espressione cambiò, come se il muro di ghiaccio
che si
era costruito con tanta cura fosse crollato.
I suoi
occhi inaciditi divennero malinconici, e sì, tristi.
Il mio
stomaco si chiuse, ormai conscio del fatto che Billie stava per dire
qualcosa
che non sarebbe stato né bello né semplice da affrontare.
-Sono
andato a cercare Celine.-
Sono
andato a cercare Celine.
Quelle
parole mi arrivarono addosso come il potente schiaffo di mio padre:
furono una
dichiarazione, un segno esplicito della realtà dei fatti, della
condizione di
Billie; quei cinque semplici vocaboli mi ricordarono qual era il mondo
di
Armstrong, quali erano i problemi con cui lui doveva convivere, e
soprattutto
l’immensità di spazio che divideva i nostri mondi.
Ma qual
era il mio posto?
-Era
qualche tempo che non la vedevo e nelle condizioni in cui è sarebbe
potuta
essere già anche morta, in effetti. Ma l’ho trovata vicino alla
stazione, nei
vicoli lerci in cui si fanno marchette, come ogni volta.-
Il tono
piatto e calmo con cui Billie parlò mi fece capire quanto stesse
soffrendo:
stava visibilmente cercando di non lasciar trapelare alcuna emozione,
d’altronde era pur sempre Armstrong l’elemento in questione.
Sapevo
che esistevano dei tossicomani a Rodeo, e sapevo anche che “facevano
marchette”, ovvero si prostituivano, per aver i soldi per comprare la
droga; ma
mi era sempre sembrato infinitamente distante da me, come qualcosa che
non mi
avrebbe mai riguardata né toccata. E invece ora mi trovavo in uno
schifoso
scantinato, in compagnia di un punk vagabondo che mi stava raccontando
la vita
quotidiana della sua amica tossicodipendente.
Non era
più un fatto sfumato e opaco: era diventato fottutamente reale e vivo.
Come si
può fuggire dalla realtà?
-Come ..
sta?- furono le uniche parole che riuscii a dire, adesso che mi ero
resa conto
che tutto il resto non sarebbe servito, almeno non con Billie.
-Oh, era
abbastanza felice, si era appena fatta un buco.-
Un altro
pugno dritto nello stomaco.
Mi
chiedevo come fosse possibile per Armstrong parlarne in quel modo, come
se
fosse la normalità; “Che cosa hai fatto oggi?”
“Oh, niente di particolare,
mi sono data via a un vecchio lurido e mi sono comprata la dose per
poter
evitare la crisi d’astinenza.”
No,
dannazione!
Non era
normale, non era così che sarebbe dovuta andare!
Come
poteva Billie stare fermo lì e far nulla? Come poteva andare a
trovarla,
scoprire che si era appena bucata e tornare a casa come se nulla fosse
accaduto?
Come
diavolo poteva comportarsi in quel modo?
-E l’hai lasciata là?- chiesi inorridita
Tirò
fuori un risolino amareggiato, per poi parlare: -Che altro avrei potuto
fare? È
troppo tempo che lotto contro la sua debolezza, l’unica cosa che posso
fare è
assicurarmi che sia ancora viva, così quando morirà almeno lo saprò.-
Dio
santissimo.
Aveva
perso ogni minimo barlume di speranza.
Si era
semplicemente rassegnato alla dipendenza di Celine, appioppandole la
colpa di
debolezza e, magari, facendola sentire come un parassita della società.
Ma come
poteva comportarsi in quel modo, proprio lui, che non era di certo uno
stinco
di santo? In fondo Billie stesso aveva dei rapporti intimi con le
droghe e ne
abusava.
-Avresti
potuto portarla qui!- esclamai alzando drasticamente il tono di voce.
Si
infilò una felpa nera sgualcita con un agile movimento della braccia e
con fare
visibilmente irritato; non era pronto per uno scontro del genere, ma
non potevo
stare zitta.
-E poi
cos’avrei fatto? Eh? Dimmelo tu, buon samaritana! Avrei aspettato che
andasse
in rotta completa e tenerle la testa mentre vomitava? E poi?- il suo
volto era
diventato paonazzo per la rabbia, e nel tono di voce si poteva intuire
il
rammarico e la sofferenza.
Lo vidi
sospirare rassegnato, con un sorriso amaro nascosto sotto i baffi.
-Poi
sarebbe tornata alla malavita, avrebbe ritrovato i vecchi tossicomani e
si
sarebbe rimessa a fare marchette per guadagnarsi la sua tanto amata
eroina.-
Cristo.
-No,
Amy, non posso più fare nulla per lei.-
Così
dicendo aprì la porta del garage e, tirandosi su il cappuccio,
scomparve nella
pioggia.
I frusti
banchi della Rodeo High School erano diventati stretti per me.
Si, ero
di nuovo finita in quella dannata scuola; dopo che Billie se n’era
andato dalla
sala prove mi ero sentita spiazzata e sola, così dopo svariati minuti
passati a
pensare, mi ero ricordata che era un tiepido Lunedì e che le lezioni
sarebbero
iniziate puntualmente alle otto del mattino.
Mentre
prendevo appunti di Letteratura, il mio animo era un po’ scosso, ma
soprattutto
ero preoccupata che in qualche modo mio padre avesse avvisato la scuola
della
mia fuga e, ora, lo avrebbero avvisato della mia presenza a scuola. Non
volevo
tornare con lui.
Avevo
fatto del mio meglio per evitare le sue numerose chiamate telefoniche,
i suoi
messaggi minatori o anche solo il suo ricordo, quindi non avevo alcuna
voglia
di essere riportata in quel luogo che avevo sempre osato definire casa.
Come se
non bastasse, il ricordo delle rivelazioni che Billie aveva fatto
quella
mattina affollava i miei pensieri insistentemente.
Vicino a
me, Jake, era ignaro della situazione, e mi domandavo come poteva
essere così;
avevo pensato che mio padre si sarebbe subito rivolto al mio ragazzo
per
accertarsi che non fossi lì, invece non lo aveva fatto.
Ma
perché? Qual era la spiegazione di questo strano fatto?
La
risposta mi balenò nella mente come una piccola illuminazione: forse si
vergognava.
In fondo
sarebbe stato sconveniente far sapere alla gente che la figlia del
giudice
Murray era scappata di casa, chissà cos’avrebbero pensato. Avrebbero
potuto
insinuare che la famiglia Murray non era poi così perfetta come
sembrava.
Ed era
vero.
-Me lo
dica lei, Miss Murray!-
D’un
tratto la voce del Signor J. mi riportò alla realtà, facendomi rendere
conto di
essere in aula e che il professore mi aveva appena interpellato su di
un
discorso di cui io non sapevo assolutamente nulla.
Non
sapevo cosa rispondere, così aprii la bocca senza emettere alcun suono.
-Amy,
sapresti dirmi di che cosa stavamo parlando?-
Cristo. –Io.. Non lo so, mi
dispiace.-
I volti
di tutti gli studenti erano rivolti verso di me: com’era possibile che
Amy
Murray non fosse attenta?
Certo,
era scandaloso. Io avevo sempre la risposta giusta per ogni domanda, e
non sbagliavo
mai.
Ma le
cose erano cambiate, anche se ero l’unica a saperlo in quella classe, e
mi
sentivo così tremendamente frustata e imbarazzata da quella figuraccia
che
avrei voluto sprofondare.
Era
tutto così sbagliato.
E io non
sapevo più cosa farci.
Driin.
Il suono
della campanella non mi era mai sembrato più splendido! Ero salva!
-Bene,
Miss Murray, la prossima lezione ti voglio più attenta. Arrivederci a
tutti.-
Mentre
sistemavo i libri dentro la zaino, mi resi conto che avrei dovuto
prendere una
decisione nella mia vita: non potevo continuare a nascondermi da mio
padre, dormendo
in un luogo provvisorio in compagnia di un ragazzo che non mi voleva
tra i
piedi. Dove sarei arrivata?
Avrei
dovuto tirare fuori, sotto le macerie delle mie sofferenze, quella
determinazione e perseveranza che era sempre stata tipica di me. Mi
sarei
rimessa in carreggiata, ne ero certa. Se avessi continuato a piangermi
addosso
e a dirmi quanto la mia vita facesse schifo, allora sì che avrei perso
del
tempo.
Non
potevo permettere al giudice Murray di rovinarmi l’esistenza, lo aveva
già
fatto per diciassette anni.
Era ora
di scegliere, di cambiare.
-Ti
accompagno a casa? È un po’ che non ci vediamo, ti ho provata a
chiamare ma non
rispondevi. Dove diavolo ti eri cacciata questo fine settimana? Sono
venuto a
chiamarti a casa, ma tuo padre mi ha detto che eri a portare a spasso
Bruto.-
A portare
a spasso Bruto.
Non
sapevo che mio padre avesse questo tipo di risorse, ma evidentemente mi
sbagliavo: era anche un buon bugiardo. Ma in fondo ero contenta che
Jake non
fosse venuto a conoscenza di quella tremenda situazione, non sarebbe
stato un
bene per nessuno.
Ma ora
che cosa gli avrei detto? Non potevo rifiutare un’altra sua proposta,
oppure
gli sarebbero venuti dei sospetti, ma non potevo neanche permettergli
di
accompagnarmi a casa.
Lampadina!
-Che ne
dici di andarci a
mangiare qualcosa solo io e te?-
Grazie
al cielo era ora di pranzo e quel giorno non avevo corsi pomeridiani.
Lo vidi
sorridere compiaciuto. –Mi sembra un’ottima idea.-
Ricambiai
il sorriso per poi lasciare che mi prendesse la mano e mi scortasse
fuori dalla
classe. Non fui stupita nel rendermi conto che nel corridoio c’era
sempre il
solito trambusto: gente che usciva, gente che entrava, ragazzi con
zainetti,
altri che pomiciavano e altri ancora che chiacchieravano accanto agli
armadietti. Un liceo a tutti gli effetti.
Non ero
mancata neanche un giorno da scuola, eppure mi sembrava così distante
dalla mia
attuale condizione che mi pareva di esservi stata lontana per mesi.
Era
estremamente difficile fingere che tutto andasse bene.
Uscimmo
dall’edificio e, come ogni santo giorno, il piazzale era stracolmo di
macchine,
motorini, biciclette e skateboard; al solito posto, sostava lo
scuolabus.
Sentivo
che Jake mi stava parlando della squadra di football e di come gli
allenamenti
fossero stancanti in vista dei campionati studenteschi, ma non stavo
realmente
ascoltando ciò che mi diceva.
I miei
pensieri erano rivolti a Billie; era strano non avere la puzza del suo
fumo
addosso, e sentivo l’assenza delle sue frecciatine sarcastiche.
Poi
rimasi completamente paralizzata nel vedere il SUV nero della mia
famiglia
accostato al marciapiede, e mio padre appoggiato ad essa. Era lì, con
la sua
enorme stazza e una faccia per niente solare, e mi avrebbe riportata a
casa.
Mi
avrebbe riempita di botte finché non sarei tornata ad essere quel clone
di me
stessa, quella che ero sempre stata. Il panico si impadronì di me e
presi a
respirare affannosamente.
Non
appena mio padre mi vide assunse un’espressione severa e mi venne
incontro con
fare spavaldo.
-C’è tuo
padre che ci viene incontro.- disse con fare piatto Jake, ignaro della
situazione.
Il mio
cuore prese a palpitare a mille, ricordandosi del brutto scontro avuto
qualche
giorno prima.
Dannazione,
come potevo dimenticare?
Mio
padre si fermò esattamente davanti a me e i suoi occhi puntarono i
miei; erano
così colmi di rabbia e di odio che mi misero quasi in soggezione.
-Buongiorno
Signor Murray!- esclamò sorridente Jake.
-Ciao
Jake, ti dispiace se prendo Amy? Avevo in programma un pranzo di
famiglia, tutti insieme.- le ultime parole le
pronunciò come un’ammonizione, e mi fece venire i brividi lungo la
schiena.
Dio, non
ci volevo neanche pensare. Avevo perso.
Avevo
perso davvero, e non potevo farci niente. Mi aveva fregata.
-No,
nessun problema.- poi si rivolse a me –Ci vediamo stasera, ti va?-
Non
riuscivo a parlare, così annuii impercettibilmente, come se fosse
l’unica cosa
che sapessi fare. Il mio ragazzo si allontanò salutandoci con un
cordiale gesto
della mano.
Avrei
voluto urlargli di non lasciarmi sola con quel mostro, di tornare
indietro. Ma
come potevo?
-Adesso
tu vieni con me, sgualdrinella che non
sei altro.-
Oh, no.
Avrei
voluto dimenarmi, piangere, urlare e dibattermi, non volevo andare via,
non
volevo tornare da quel lurido schifoso, da quell’essere immondo e
odioso.
Mi
sentivo sola e persa, senza alcuna speranza. Iniziai a pensare a tutte
le botte
che mi sarei presa, ai lavaggi del cervello e alle ramanzine che mi
sarei
subita finché non sarei diventata ciò che voleva lui.
Non
potevo combattere contro di lui.
Avevo il
terrore puro di mio padre.
-Lei non
va da nessuna parte. Almeno non con lei.-
Mi girai
di colpo e mi trovai faccia a faccia con un Billie munito di due hot
dog e due
coca-cola.
I suoi
occhi verdi erano incolleriti e fissi sulla persona di mio padre.
Grazie a
Dio, ci sei tu, fottutissimo Armstrong.
**********
Angolo
Snap:
Grazie
alla mia beta-reader, Vi.
Come
prima cosa voglio scusarmi con voi lettori
per l’enorme ritardo che ho avuto, ma sono stata una settimana in gita
scolastica a Madrid, quindi mi ci è voluto più tempo per scrivere un
capitolo
degno di voi.
In
secondo luogo, parliamo del capitolo.
Voglio
precisare che la scena finale di Billie che
spunta dal nulla, non è proprio così, e sarà specificato nel prossimo
Kapitel;
lo so che fa molto film visto e stravisto il fatto che lui arrivi nella
situazione del bisogno ecc, però la spiegazione c’è ed è un puro caso
che lui
si trovasse lì.
Quindi,
vi chiedo scusa se pensate sia poco
originale, ma lo scontro tra Billie e Papà-Mostro doveva esserci per
forza,
perché era in programma così.
Celine:
brutta situazione, non finirà qui la questione,
perché questo personaggio tornerà più volte nella storia, è importante.
Un grande abbraccio,
Snap.
|
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Capitolo 13 *** A kiss we'll share ***
Parental
Advisory: The static age
# Capitolo
Dodicesimo
A kiss
we’ll share
Billie.
Papà.
Papà.
Billie.
Incontrai
i foschi verdi di Billie, che sembravano del tutto inespressivi,
conferma del
fatto che il ragazzo era seriamente di umore nero.
Non
potevo credere che fosse davvero lì davanti a me, con quel suo fare
spavaldo e
la voce ferma; non avevo neanche minimamente pensato che avrebbe potuto
mai
affrontare mio padre, e invece ora se ne stava lì, impalato, guardando
in
faccia Steven Murray.
Ma che
diavolo credeva di fare? Billie non aveva idea di chi avesse di fronte:
mio
padre, da bravo giudice, non si sarebbe mai arreso e avrebbe calpestato
quel
ragazzetto punk.
Armstrong
non aveva speranza contro di lui, e io non potevo fare nulla per
aiutarlo
perché ero bloccata dal terrore, che sembrava rendermi impossibile
spiccicare
parola.
Come
potevo essere così codarda? Come potevo non riuscire ad affrontare mio
padre?
Avrei
voluto prendermi a pugni per indurmi a svegliarmi, ma non sarebbe stato
utile
in quella situazione; dovevo prendere coraggio, tirare fuori i
cosiddetti e far
vedere a tutti che anche Amy aveva un po’ di carattere.
-Il
demolitore di statue! Ti avevo condannato al volontariato, giusto?-
sbottò mio
padre, alzando le mani esasperato, come se tutta quella situazione
l’avesse
portato al culmine della sopportazione.
Armstrong
continuò a non muoversi; se ne stava lì impalato sul marciapiede
davanti alla
mia scuola, tra le occhiate stranite degli alunni per bene della Rodeo
High
School e le macchine che gli sfrecciavano accanto.
Non
sembrava curarsi di nulla, se non della figura di mio padre.
Avrei
voluto urlargli di fare qualcosa, di prendere in mano la situazione
perché io
ero troppo succube del mio genitore per potermi far valere.
Finalmente
Billie parlò: -Si, e ho proprio fatto questo: volontariato.
Sua figlia aveva bisogno del mio aiuto.-
Mio
padre lo guardò con aria minacciosa, come se tentasse di dirgli che era
ancora
in tempo per andarsene, altrimenti si sarebbe messo contro il giudice
Murray.
Ma
Billie non aveva paura di mettersi contro di lui, io lo sapevo;
ormai era
dentro a quella situazione fino al collo e non se ne sarebbe tirato
fuori.
Anche se cercava di far credere a tutti che era una carogna, io sapevo
che era
leale e buono di cuore.
Un po’
mi sentii commossa dalle parole di Armstrong, che aveva finalmente
ammesso di
avermi aiutata per il mio bene; e soprattutto mi sentii grata del fatto
che non
mi stesse abbandonando, a differenza del resto del mondo, che mi aveva
voltato
le spalle.
-Amy non
ha bisogno di persone come te, che le traviano la mente e la portano
sulla
cattiva strada; non le serve il tuo stupido e inutile aiuto.- poi si
rivolse a
me, penetrandomi con quei gelidi occhi –Vero, cara? Devi tornare a casa
e
diventare un avvocato.-
Mi
sentivo quello sguardo opprimente addosso, come mille spilli infuocati
che m
attraversavano la pelle.
Non
riuscivo a proferire parola e mi sentivo immensamente codarda e
inutile; non
ero cambiata, ero rimasta quella Amy che si faceva dire cosa doveva
fare e non
aveva neanche un po’ di fermezza per farsi valere.
Ma non
volevo più sottostare alle ferree regole di mio padre, ai suoi sbalzi
di umore,
al suo essere così ottuso e tradizionalista; non volevo crescere in un
ambiente
dove la tolleranza e l’amore erano banditi.
Avrei
voluto imparare a vivere.
-Ti
sbagli, Steven.- intervenni io, spaccando il silenzio come un lampo nel
cielo
notturno.
-Sono
stufa del mondo che ti sei costruito. Sono stanca delle menzogne, del
futuro
già sicuro e delle scelte che tu fai per me. Sono davvero esausta di
avere di
fianco a me delle persone che non mi amano, ma cercano solo di farmi
divenire
una marionetta.-
Le
parole uscirono dalle mie labbra con una solennità che avrebbe potuto
eguagliare uno di quei film strappalacrime.
L’espressione
di mio padre, quando parlai, cambiò del tutto; ora sembrava stupito,
come se
d’un tratto avessero tirato a lui uno schiaffo e si fosse accorto che
la sua
piccola bambina si era svegliata e non si faceva più trattare come una
bambola
di porcellana da sfoggiare quando gli andava.
Mi
sentii così piena di emozioni e di orgoglio che mi sarei messa a
saltellare, a
fare stupidi gridolini di gioia.
Forse
avrei anche abbracciato Armstrong.
Forse.
Mi girai
verso Billie, che teneva le braccia incrociate e le gambe larghe, come
una
giovane guardia del corpo; le labbra erano leggermente increspate a
formare un
sorriso quasi impercettibile, ma che significava moltissimo per me:
stava a
dire che avevo fatto centro.
Probabilmente
quello sarebbe stato il momento giusto per andarmene con Armstrong, ma
non
avrei risolto la questione. Ci sarebbe stato un altro giorno in cui mio
padre
mi avrebbe trovata e mi avrebbe riportato a casa, e se non lo avessi
seguito
avrebbe chiamato la polizia o i servizi sociali: io ero ancora
minorenne.
Armstrong
mi osservava con sguardo impaziente: probabilmente lui aveva solo
pensato al
fatto che potevamo squagliarcela.
Mi voltai
ancora verso mio padre, che mi osservava con quei suoi occhi vuoti, e
gli
rivolsi un cenno con la testa. Sembrava sfinito, come se gli avessero
momentaneamente levato le batterie.
-Quindi
è questa la tua scelta, Amy? Credi davvero che lui si prenderà cura di
te o che
ti potrà dare un piatto pieno in cui mangiare? Pensi che non ti caccerà
mai?-
Steven
aveva appena toccato un tasto dolente, ciò che mi aveva sempre
preoccupata e
che continuava a farlo.
Armstrong
avrebbe potuto cacciarmi via anche quello stesso giorno, con il
caratterino che
si ritrovava, e io lo sapevo. Mi aveva già cacciata una volta,
lasciandomi sola
e senza speranze, anche se poi si era ricreduto e mi aveva rivoluta con
lui.
Forse
erano solo mie stupide convinzioni, forse aveva ragione mio padre.
Probabilmente
Armstrong mi stava solo facendo un favore e contava sul fatto che mi
sarei
trovata presto una sistemazione alternativa.
-Probabilmente
la caccerò via, come ho già fatto. Ma poi andrei a cercarla e le direi
di
tornare a casa, perché sono stronzo, ma non fino al punto di lasciarla
per
strada da sola. E non le posso di certo augurare che si troverà sempre
il cibo
in tavola e un letto caldo. Ma lei questo già lo sa.-
Non mi
rendevo conto di come fosse possibile che ogni volta che Billie parlava
e
diceva qualcosa di buono nei miei confronti mi sentissi pervasa da un
senso di
adeguatezza e felicità.
Ma,
dentro di me, sentivo che se Armstrong mi voleva con sé allora tutto il
resto
del mondo andava alla perfezione, e non ci sarebbero stati altri
problemi.
Ovviamente mi sbagliavo, avrei affrontato altre mille avversità.
Mi
trovai addosso gli sguardi di Billie e di mio padre, come se mi
stessero
chiedendo qual era la mia scelta.
Dovevo decidere
cosa avrei fatto della mia vita, era quello il punto di non ritorno.
Rimanere o
andare.
Cadere o
rinascere.
Galleggiare
o cambiare.
Mi
avvicinai ad Armstrong, con il passo più lungo che avessi mai fatto e
gli presi
la mano, guardandolo dritto in quegli immensi occhi verdi.
Il mio
cuore sapeva che quella era la decisione più drastica che avessi mai
preso in
tutta la mia vita.
Ho scelto
te, idiota. Vedi di non farmene pentire.
Abbandonai
rumorosamente la mia borsa sul pavimento.
Quella
era stata la giornata più lunga di tutta la mia esistenza, e ora avevo
solo
voglia di rilassarmi e lasciarmi andare. Avrei voluto, per un solo
lungo attimo
della mia vita, staccare la mente e non pensare a nulla. Mi sarebbe
piaciuto
fluttuare in un nulla spumoso e voluttuoso, che mi accarezzasse il
cervello con
mani dolci e materne.
Mia madre.
Ogni
cosa mi riportava alla realtà; semplicemente non ero capace di spegnere
le
trasmissioni per qualche minuto.
Mi stesi
a terra, tra l’odore di polvere e di fumo, chiudendo gli occhi e
rendendomi
conto che non mi ero mai sentita così stravolta come in quel momento.
Che
cos’avrei fatto ora? La scuola l’avrei continuata a frequentare, certo,
ma non
sarebbe stato semplice con mio padre alle calcagna e dalla parte della
legge.
Non
sarebbe stato per nulla facile trovare una soluzione legale; avrei
dovuto forse
contattare i servizi sociali? Probabilmente se avessi spiegato loro la
situazione
mi avrebbero aiutata.
Ma non
volevo finire in una nuova famiglia, volevo solo rimanere lì con
Armstrong e
mandare a quel paese tutto il resto. Ovviamente mi rendevo conto che
quelli
erano solo stupidi sogni infantili che non si sarebbe mai potuti
avverare,
anche perché non mi avrebbero di certo aiutata per un futuro migliore.
Io e
Armstrong eravamo ancora completamente differenti, ma ora c’era un
qualche
strano legame che ci univa e ci rendeva impossibile dividerci; sapevo
che era
così anche per lui, proprio perché non mi aveva lasciata andare via con
Steven.
Dal
debole rumore che sentivo, potevo dedurre che Billie era entrato dopo
di me e
probabilmente aveva chiuso la porta del vecchio scantinato.
Se
avesse seguito la solita routine, ora sarebbe stato alle prese con la
sua
chitarra. Aprii gli occhi e mi tirai su a sedere, notando che le mie
previsioni
erano corrette.
Il mio
coinquilino se ne stava seduto sopra un tappeto, poco distante a me, e
teneva
in mano la sua amata chitarra blu, che aveva un’aria decisamente
vissuta.
Non lo
avevo mai visto impugnare un’altra chitarra, probabilmente doveva avere
un
forte amore nei confronti di quel vecchio strumento musicale pieno di
scritte.
-Sembra
consumata dagli anni- osservai, sperando di scoprirne di più.
Non alzò
la testa, e continuò a suonare a basso volume, concentrato e
bellissimo.
-La
possiedo da così tanti anni, che ormai è divenuta un’appendice del mio
braccio.-
Parlava
della sua chitarra come se fosse una persona, e si poteva notare un
malinconico
sorriso trattenuto sulla sua faccia, come se con quell’oggetto ne
avesse
passate di cotte e di crude.
Ero un
po’ invidiosa di quella sua sensibilità nei confronti della musica, che
io come
ballerina avrei dovuto percepire ma che invece non sentivo.
-Ne
comprerai mai una nuova?- chiesi, prendendomi gioco di lui.
Si mise
a ridacchiare, rendendosi conto che lo stavo prendendo in giro, ma non
preoccupandosene affatto.
Strano
ma vero.
Alzò le
spalle. –Chissà. Forse. Non lo so. Non ne sento il bisogno, per ora. Blue funziona alla grande.-
È così
il nome che gli aveva appioppato era Blue.
Mi resi
conto che quando arrivava sera, ed io e Billie rimanevamo soli in quel
garage,
calava una strana atmosfera di intimità e confidenza tra di noi, che ci
rendeva
possibile abbassare i muri di astio che ci eravamo costruiti.
Mi
domandai quale fosse la ragione e non trovai una risposta degna di
essere
chiamata in quel modo.
-Come
fai ad essere così legato ad una chitarra?- domandai a bruciapelo.
Probabilmente
avevo toccato un tasto dolente, perché il ragazzo non rispose subito e
assunse
un’espressione un po’ contraddetta. Forse non avevo fatto una grande
mossa con
quella domanda, ma ormai non potevo tornare indietro.
-Me l’ha
regalata mio padre, poco prima di morire.-
Hai
ufficialmente vinto il premio per l’idiota
dell’anno, Amy. Congratulazioni.
Ora si
spiegava il legame tra Armstrong e la sua chitarra e, soprattutto,
iniziava ad
essere più chiara l’incognita della famiglia e del passato del ragazzo.
Cosa
avrei dovuto dire in quel momento?
Se fosse
stata una persona normale probabilmente avrei espresso il mio
dispiacere, ma
siccome si trattava di quel ragazzo strambo e incomprensibile, anche
solo
un’affermazione poteva fargli cambiare umore tutto d’un tratto. Ormai
l’avevo
capito bene: bisognava essere cauti con Armstrong.
-Sembra
essere una bella chitarra.- decisi alla fine di dire.
Lo vidi
scrollare le spalle, chiaro segno del fatto che non intendeva portare
avanti
quella conversazione e che non gli andava neanche un po’ di raccontarmi
della
morte di suo padre.
A volte
avrei solo voluto che Billie si aprisse un po’ a me, invece di
chiudersi a
guscio, e che mi parlasse di qualsiasi stupida cosa. E invece non lo
faceva.
-Che
cosa mangiamo?- mi chiese cambiando ufficialmente argomento.
-Mmh..
Ho voglia di pizza!- esclamai entusiasta.
Mi
fulminò con lo sguardo, prima di rivolgere la sua attenzione nuovamente
a Blue.
Non
capivo dove stava il problema, a quel punto.
-E dove
li trovi i soldi per due pizze, Barbie? Meglio il cinese, è meno caro.-
Dannazione,
i soldi.
Quello
si che era un gran bel problema; avevo ancora un po’ dei miei risparmi
da
parte, ma non avrei potuto sprecarli per le pizze, così decisi che il
cinese
andava bene.
Mi sarei
dovuta trovare un lavoro dopo scuola, perché non potevamo campare
ancora per
molto in quel modo. E soprattutto non avevo nessuna intenzione di
dipendere da
Billie, che stentava a mantenere se stesso.
Ma come
li guadagnava i soldi quel ragazzo?
-Si,
vada per il cinese.- dissi rassegnata ad alta voce.
I suoi
occhi si puntarono sui miei, in un modo in cui non era mai successo e
mi
metteva in soggezione.
Non
riuscivo a sostenere quel verde smeraldo così intenso e pieno, e mi
sentivo
stupida per tutte quelle sensazioni estranee a me stessa.
Sapevo
che Armstrong stava probabilmente pensando che ero una stupida
ragazzina
ingenua, ma non potevo smettere di sentire qualcosa di profondo mentre
mi
guardava.
-Vieni
qua, voglio farti sentire una cosa.- mi disse con un tono docile che
non gli
avevo mai sentito.
Mi
alzai, con le gambe che non reggevano l’emozione, e mi sedetti accanto
a lui.
Così
vicina a lui potevo sentire il suo profumo e il suo calore arrivare
fino a me,
come un profumo.
Non
riuscivo a smettere di pensare a quelle stupide cose che non facevano
parte
della mia persona; che diavolo mi stava succedendo?
Io non
avevo mai perso la testa per un ragazzo, ero sempre rimasta con i piedi
per
terra e la testa sulla spalle, conscia del fatto che dovevo assicurarmi
il mio
futuro. Ma d’altronde era cambiato tutto dopo l’entrata in scena di
Billie nella
mia vita, e ovviamente non poteva rimanere immutato quel lato del mio
carattere.
-Ascolta-
Le sue
dita sfiorarono delicatamente le corde, quasi le volesse accarezzare.
Non lo
avevo mai visto così premuroso come lo era con i suoi strumenti
musicali.
Quando
suonava, Billie, sembrava essere catapultato su un altro mondo, e
vederlo perso
nel suo stesso suono era uno spettacolo vero e proprio.
Pizzicò
le corde, e il suono che ne uscì fuori non era stridulo come quello che
emetteva di solito la mattina per svegliarmi; era una melodia
tranquilla e
malinconica, che non aveva nulla a che fare con la musica che gli avevo
sentito
fare qualche volta.
Era un
vero e proprio incanto per le orecchie.
Teneva
gli occhi chiusi, segno che conosceva la sua chitarra alla perfezione,
e le
labbra serrate in un piccola linea orizzontale.
Non era
mai stato così bello.
Tese
l’ultima corda e potei sentire il suono della nota protrarsi nell’aria
per
ancora qualche secondo, come un soffio di vento gelido e nello stesso
tempo
caldo.
Rimase
il silenzio in contrasto al dolce suono che c’era stato fino a pochi
istanti
prima, e mi dovetti sforzare per abituarmi alla quiete.
Finalmente
Armstrong alzò la testa, e, con gli occhi ancora pieni di musica, mi
guardò
dritta nelle pupille.
Tra di noi
era calato uno stato di condivisione assoluta, come se la melodia ci
avesse
reso possibile capire che i falsi muri che avevamo innalzato erano
inutili, e
tutto ciò che ci impediva ancora di avere un buon rapporto non aveva un
senso.
D’un
tratto, Billie si spostò con un movimento che neanche riuscii ad
identificare,
e premette le sue labbra contro le mie.
Rimasi
scioccata dall’impetuosità di quel contatto, a tal punto che non
risposi subito
al bacio, ma solo dopo che prese a muovere le labbra, mi resi conto di
ciò che
stava succedendo; schiusi la bocca, e sentii la sua lingua entrare
dentro di me
come una fiammata ardente.
Ora,
Billie stava di inginocchiato di fronte a me e mi baciava con una
passione che
avrebbe potuto travolgere anche la più casta delle donne.
Inarcai
la schiena verso di lui, che mi passò una mano attorno ai fianchi,
stringendomi
con decisione; misi le mie mani nei suoi capelli e presi ad
accarezzarglieli
con convinzione.
Non
riuscivo a formulare un pensiero che fosse razionale, se non che stavo
baciando
Amrstrong.
Stai
baciando quella testa di cazzo di Armstrong.
E il
fatto sconvolgente era che mi piaceva in modo particolare, forse anche
a causa
di tutta la lussuria che Billie riusciva a tirare fuori dalle parti più
nascoste della mia anima; ad esempio, in quell’istante, prese a
massaggiarmi i
fianchi con trasporto.
Non
riuscivo a capire se ciò che stavo facendo era giusto o sbagliato, e
non avevo
neanche alcuna voglia di pormi quella domanda: diavolo, era così
piacevole!
Non
potevo credere di poter posare finalmente le mani sulle spalle di
Billie-Joe, e
poter sentire la sua pelle sotto le mie dita; per troppo tempo avevo
sognato
quel momento, nonostante avessi sempre mentito a me stessa.
Lasciai
che Billie mi attirasse a sé, e sentii il mio corpo aderire al suo,
rendendo
ogni cosa meno chiara.
Quando
sentii che Armstrong stava inserendo la sua mano nel davanti dei miei
pantaloni, il panico si impadronì della mia mente, impossibilitandomi a
continuare ciò che stavamo facendo.
Per lui
ero solo una delle tante puttane che si portava a letto?
Non
avevo nessuna intenzione di concedermi a lui tanto facilmente, né
tantomeno
passare per la ragazza sconvolta che si faceva aprire le gambe
facilmente.
Diedi
uno spintone a Billie, che ricadde all’indietro, con il viso stupito di
chi non
si aspettava una reazione del genere: probabilmente era convinto che
non avrei
esitato un istante nel concedermi a lui.
Beh,
dannazione, si sbagliava.
Mi alzai
e mi allontanai da lui, raggomitolandomi in un piccolo angolo, tra i
grossi
tappeti che fungevano da moquette per la stanza; mi adagiai sulle gambe
la
piccola coperta che Armstrong mi aveva ceduto e chiusi gli occhi,
immergendomi
nei miei pensieri.
Quando
tirai su il viso notai che Armstrong si era dato una regolata e si
stava
sistemando nella squallida brandina, che riteneva letto.
Non
avevo alcuna intenzione di pronunciare una di quelle frasi
cinematografiche, del
tipo “Domattina c’è scuola, devo riposare.”, oppure “Buonanotte,
Armstrong.”
Rimasi
zitta, al buio, ad ascoltare il mio solo respiro, e qualche volta un
fruscio di
lenzuola, segno che Billie non stava dormendo.
Che cosa
sarebbe successo ora?
Ma non
potevo pensare ad un altro problema, non quel giorno.
Lo avrei
affrontato il giorno dopo.
*******
Angolo
Snap:
Sono
tornata miei cari lettori e lettrici! ^^
Lo so
che sono stata assente per molto tempo, e
chiedo scusa a tutti voi, ma tra la scuola, il fatto che tra pochi
giorni
arriverà una tedesca da me (che si fermerà per tre mesi) e altri
impegni vari,
non ho avuto un attimo di tempo per respirare!
Per
quanto riguarda il capitolo posso dire che ci
sono state delle svolte assolutamente fatali: la scelta di Amy di
abbandonare
definitivamente casa, e il bacio tra i due protagonisti.
Voglio
sottolineare la parte –importantissima- di
Billie che suona, perché ho cercato di descrivere ciò che credo sia il
rapporto
tra BJ e Blue. Spero di aver reso l’idea.
Se ci
sono imprecisioni o critiche da fare,
lasciatemi una recensione oppure un messaggio personale.
Colgo l’occasione per
ringraziare tutti i miei
lettori, che seguono la storia, e tutte quelle persone che recensiscono
costantemente, o che hanno recensito anche solo per una volta; esprimo
la mia
gratitudine anche a tutti quelli che hanno inserito la storia tra le
Preferite,
le Seguite o le Ricordate.
E
grazie infinitamente anche a chi legge,
semplicemente.
Ps.
Credo abbiate notato che ogni titolo dei miei capitoli è preso da frasi
inserite nelle canzoni dei nostri GD. In questo caso, è tratto da “1000
Hours”,
splendida canzone d’amore (album “1039/smoothed out slappy hour”).
Un
abbraccio,
Snap-
|
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Capitolo 14 *** It makes me lose control ***
Parental Advisory: The static age
# Capitolo Tredicesimo
It makes me lose control
Una bolla.
Ero
come
chiusa in una grande bolla di sapone, allo stesso tempo forte e
fragile; avevo
paura che potesse scoppiare da un momento all’altro rovinando quegli
attimi
incantevoli.
Che
cosa
stava succedendo?
Era La Musica.
La
musica
che entrava in modo soffice ma solido nella mia mente, invadendo ogni
piccolo
spazio; era potente e debole, dolce e amara.
Sensazionale.
Non
riuscivo
bene a farmi un’idea su ciò che stavo ascoltando, ma era un sound che
non
poteva uscirti dalla testa: ci rimaneva come un tatuaggio indelebile
sulla
pelle.
Me ne
stavo
seduta a gambe incrociate sopra uno dei grossi tappeti in lana, che
ricoprivano
tutto il pavimento della sala prove.
Maggie
era
di fianco a me che ballava e emetteva gridolini entusiasti, quasi fosse
una fan
sfegata di quei tre mocciosi che stavano suonando in quel modo divino.
Mike, Trè e Billie-Joe.
I Green Day.
Erano
passate
due settimane dalla sera in cui io e Billie ci eravamo scambiati quel
bacio
seducente, e se chiudevo gli occhi sentivo ancora la passione pompare
dentro di
me. Ancora stentavo a rendermi conto di ciò che era successo, eppure
sapevo che
non era un sogno.
Io e
Armstrong ci eravamo baciati.
Ed era
stato
immensamente diverso dai baci che mi ero sempre scambiati con Jake,
casti e
freddi; era stata un’esplosione di sentimenti, quali adrenalina,
lussuria e
stupore.
Non
avevamo
più minimante toccato l’argomento ed entrambi avevamo fatto finta che
nulla
fosse accaduto, continuando a svolgere le nostre quasi-normali vite.
Avevo
ripreso ad andare regolarmente a scuola e la sera mi ritrovavo a
studiare in
quel garage, che era diventato ormai familiare: iniziavo ad
ambientarmi.
Billie
non
aveva più accennato a cacciarmi da “casa” sua, ma sembrava aver
accettato il
fatto che ormai gli ero tra i piedi. Meglio per me.
Doposcuola
mi fiondavo al “Sun of Sunday Café” dove
prendevo servizio come cameriera, per mettere da parte qualche
spicciolo, in
modo da potermi mantenere.
Ad
Armstrong
era parsa un’idea sensata e mi aveva imitato, trovandosi un lavoro come
apprendista idraulico, in una piccola officina del posto.
Insomma,
eravamo diventati una vera squadra operativa, che si faceva in quattro
per
procurarsi del denaro.
Anche
la
convivenza era un po’ migliorata; i battibecchi erano sempre presenti
in modo
molto frequente, ma ora sembrava quasi un modo per stuzzicarci o ridere
un po’.
Sapevamo
entrambi che, nonostante ci ostinassimo a non ammetterlo, avevamo
abbandonato
l’astio.
In
fondo
eravamo coinquilini.
Maggie
fece
per passarmi la birra, ma rifiutai cortesemente alzando il mio
bicchiere di
Coca-Cola: alcune cose non sarebbero mai cambiate, in fondo.
In
settimana
ero passata a casa mia per prendere qualche vestito e altri effetti
personali;
mio padre per fortuna non era in casa, e mia madre si era limitata a
chiedermi
se stavo bene e se ero felice: le avevo detto di si, ed era la verità.
Mia
mamma mi
aveva chiesto di portare via Bruto, il mio cane, che ora stava con me e
Billie,
nonostante il ragazzo avesse tentato in tutti i modi di imporsi; avevo
avuto la
meglio ed ora il mio cagnone guardava con aria infastidita le chitarre
elettriche, che emettevano tutto quel frastuono.
Tornare
a
casa era stato difficile e doloroso, nonostante avessi tentato in tutti
i modi
di farmela sembrare una cosa da poco conto.
Avevo
provato un po’ di nostalgia nell’entrare in quegli ambienti così
familiari, in
cui avevo passato gran parte della mia vita; ma non potevo restare e lo
sapevo
bene.
Guardai
Armstrong
e notai che mentre cantava faceva delle smorfie davvero buffe: sarebbe
stato il
pretesto per prenderlo in giro, quando avrebbe finito di suonare.
La mia
vita
ora si svolgeva con quella routine, che non mi dispiaceva affatto.
Avevo
Billie.
E avevo
anche Maggie, Trè, Mike e il mio fedele Bruto, che era tornato dalla
sua
padrona.
Forse
non ero
più così sola.
Tutti
applaudirono al breve spettacolino che Trè aveva inscenato per farci
ridere;
riusciva sempre in qualche strano modo a far alleggerire l’atmosfera e
far
divenire ogni minima situazione esilarante.
Era una
dote
che gli invidiavo e molte volte mi domandavo come potesse aver sempre
voglia di
sorridere.
Pel di
Carota gironzolava per la sala prove con un vestito da donna a pois e
una
parrucca bionda ossigenata, che tutti volevano sapere dove avesse
trovato.
Era
sera e,
nel piccolo spazio dove io e Armstrong dormivano, erano presenti una
decina di
persone, venute per una piccola festicciola che avevamo deciso di dare.
Anzi,
che aveva deciso di dare.
Ovviamente
io non avevo avuto voce in capitolo e avevamo avuto una discussione a
riguardo,
come se fosse una novità. Comunque non mi sembrava un’idea così cattiva
avere
un po’ di compagnia, anche perché il giorno seguente non ci sarebbero
state
lezioni a scuola, poiché domenica.
Vicino
a me
sedeva l’ormai onnipresente Maggie Stuart, con cui avevo instaurato un
bel
rapporto amichevole; avevo imparato a conoscere le sue stranezze, che
qualche
volta mi divertivano.
Sicuramente
ora riuscivo ad apprezzarla quanto prima non ero riuscita a fare.
L’ambiente
era carico di fumo, che come al solito non mancava, e le bottiglie
vuote di
birra erano sparse un po’ ovunque: il giorno dopo avrei avuto un gran
lavoro da
fare.
Un
tizio
dalla cresta rossa stava vomitando accanto alle casse acustiche. Cristo.
Mi
voltai
per evitare di finire nel suo stesso modo, e subito mi rammaricai di
averlo
fatto.
Di
fronte a
me stava Billie-Joe intento a palpare, in ogni piccolo angolo del suo
corpo,
una lurida ragazzetta dai lunghi capelli bruni.
Subito
mi
sentii ferita nel profondo, come se Armstrong mi avesse appena tradita,
ma poi
mi resi conto che era una reazione stupida perché io e lui non stavamo
insieme.
Eppure
mi
aveva baciata, quindi, in un certo senso, la mia gelosia era
comprensibile.
Come
poteva
fare una cosa simile? Come poteva farlo davanti
a me?
Avevo sempre avuto ragione: Billie era un fottuto pezzo di merda e
sempre
lo sarebbe stato.
Non mi
ero
mai trovata in una situazione simile, quindi non sapevo come diavolo
comportarmi: dovevo andarmene? Dovevo restare?
Come
potevo
uscire di scena a testa alta?
Trovato.
L’idea
che
mi balenava nella testa non era una gran cosa e non sapevo neanche se
avrebbe funzionato;
avevo smesso di chiedermi se le azioni che facevo erano giuste o
sbagliate,
perché avevo capito che quel quesito mi mandava solo fuori di testa.
Il
fatto era
che non avevo alcuna idea di ciò che stavo per fare.
Oh, dannazione! Smettila di domandarti se
fai bene: fallo e basta.
Quella
vocina del cervello iniziava a darmi realmente sui nervi.
Mi
alzai dal
tappeto e adocchiai ciò che stavo cercando: un ragazzo carino e solo,
che
sembrava seriamente interessato a trovare compagnia, quella sera.
Oh, si.
Ciò
che volevo era proprio comportarmi nello stesso identico modo di
Armstrong.
Senza
rimpianti.
Senza
rimorsi.
Non ero
mai
stata una ragazzetta facile, quindi non avevo la più pallida idea di
come si
rimorchiasse o come potessi attirare l’attenzione di un uomo. Se fossi
parsa ridicola?
Mi
voltai
verso Billie e notai che stava pomiciando amabilmente con quella
sgualdrina,
che sembrava molto vogliosa: esattamente ciò di cui il mio coinquilino
aveva
bisogno.
Volevo
davvero vendicarmi in quello stupido modo?
Fissai
le
mani di Armstrong scendere a palpare il sedere della ragazza, e la
risposta
arrivò senza alcun dubbio: Si.
Non
avevo
tempo di pensare, dovevo solamente agire, al diavolo tutti i timori di
fare una
figuraccia.
Il tipo
con
cui avevo intenzione di provarci se ne stava per i fatti suoi, non
troppo
lontano da Billie, per cui non sarebbe stato difficile farmi notare da
lui.
Diedi
un’occhiata a Maggie, che sembrava tutta presa da Mike. Che tra i due
ci fosse
qualcosa?
Accantonai
quel pensiero che non mi riguardava e presi ad ancheggiare,
avvicinandomi al
ragazzo, che non tardò ad accorgersi della mia presenza. Certo, i miei
vestiti
non erano esattamente accattivanti quanto quelli della sgualdrina con
cui se la
faceva Billie, però sapevo di potercela fare comunque.
La mia
preda
aveva i capelli bruni e alle spalle e due grandi occhi color nocciola:
non era
un brutto ragazzo, ma aveva un grosso naso che rovinava il suo bel
viso.
Indossava un maglione sgualcito e un vecchio paio di jeans marroncini;
diciamo
che la moda non era il suo forte.
Ma
andava
bene per il mio scopo.
Subito
si
avvicinò, mettendomi le mani sui fianchi. Aveva abboccato. Ora non
sarebbe
stato difficile baciarlo, anzi, probabilmente il ragazzo voleva
solamente
quello.
Mi
girai
verso Armstrong e notai che non mi stava degnando di uno sguardo.
Dovevo
spostarmi di fianco a lui, e non mi ci volle tanto: presi per mano il
mio
compagno, che si lasciò trasportare senza problemi.
-Sei
sexy-
mi sussurrò all’orecchio, con voce che probabilmente doveva essere
seducente.
Cercai
di
trattenere il voltastomaco, concentrandomi su Billie, che ora mi lanciò
un’occhiata contraddetta.
Finalmente
si era accorto di me.
Non
riuscivo
a credere che stavo facendo tutto quello, solo perché ero gelosa.
Ero
davvero
gelosa di quella sgualdrinella. Com’era possibile? Com’ero arrivata a
quel
punto?
Misi da parte quegli inutili pensieri e circondai il collo al mio nuovo
amico,
sorridendogli esageratamente.
Probabilmente
doveva pensare di essere davvero un bravo latin lover, ma non sapeva
quanto
fosse in errore.
Quel
tizio
senza nome mi baciò con trasporto forzato, come se dovesse dimostrarmi
di essere
un vero uomo; trattenni l’istinto di scostarmi, spingerlo e scappare,
perché
sapevo che Armstrong stava assistendo alla scena.
Quando
finalmente si staccò dalla mia bocca mi girai per vedere l’espressione
sgomento
di Billie; assaporavo già il gusto della mia storia.
Ma,
quando
cercai la piccola figura esile, trovai solo il vuoto. Armstrong e la
ragazzetta
dalla minigonna corta erano spariti.
D’un
tratto
mi sentii immensamente stupida ed ingenua.
-Questa
testa di cazzo di Armstrong ha fatto scintille, questa sera!-
Le
parole di
Trè risuonarono nella mia mente come potenti pugni che sembravano farmi
tremare
la testa, causandomi un forte mal di testa; o forse era solo a causa di
tutta
la musica che avevo ascoltato.
Il
punto era
che Pel di Carota aveva appena detto ad alta voce ciò che non avrei mai
voluto
sentire, ovvero che Billie era andato a letto con quella sgualdrina
dalla
minigonna cortissima.
Applicando
un ragionamento logico all’accaduto, il mio comportamento non aveva
alcun
senso, poiché Armstrong aveva tutti i diritti di fare quel che gli
pareva,
anche perché ero consapevole che avrebbe sempre fatto ciò che gli
andava senza
chiedere il consenso a nessuno.
Ma
c’era una
parte irrazionale dentro di me che stava scalciando e urlando come una
forsennata per farsi sentire; non potevo negare a me stessa la realtà
dei
fatti: ero gelosa.
Il mio
stomaco si contorceva e le viscere sembravano annodarsi tra di loro.
Perché lei e non me?
La
risposta
mi arrivò cristallina: la mia rivale aveva aperto le gambe al mio
coinquilino,
che non aveva tardato ad accettare. Io lo avevo respinto.
Semplice,
conciso, liscio come l’olio. Non c’era null’altro da dire, e tutto ciò
mi
deprimeva perché avevo sempre sperato che Billie fosse diverso; lui era realmente differente, ma non in quel
campo.
La
piccola
sala prove, ora, era completamente incasinata: bottiglie di birra erano
sparse
qua e là, alcune avevano addirittura macchiato la moquette di tappeti,
carcasse
di spinelli e cartine bruciate facevano da cornice al panorama, mentre
sul muro
erano comparse nuove scritte in pennarello indelebile.
Le
amicizie
di Armstrong non era di certo delle più rispettose.
Eravamo
rimasti solamente io, Maggie, Trè, Mike e Armstrong per pulire, o
meglio, io pulivo mentre loro vagabondavano
per la stanzetta come delle anime in pena.
Per
fortuna
gli strumenti musicali, posizionati al fondo della sala, non erano stati toccati o danneggiati; mi
ritrovai a formulare un pensiero realmente cattivo: avrei goduto se
avessero
rotto Blue.
Subito,
però, mi pentii di aver pensato una simile cosa sapendo quanto
quell’oggetto
fosse importante per Billie; nonostante fossi arrabbiata con lui, non
riuscivo
a sperare realmente che gli capitasse qualcosa di male. Ero forse
troppo buona
o credevo solo di esserlo?
D’un
tratto
Armstrong, che ne stava accucciato vicino alla batteria, si alzò
sfoderando la
sua espressione più bastarda, ergo stava per succedere qualcosa di non
troppo
carino.
-Ok,
stronzi, è ora di smammare. Andatevene a cazzeggiare da qualche altra
parte,
voglio un po’ di tranquillità.-
Ma che diavolo..?
Nonostante
avessi imparato abbastanza a conoscere Billie, i suoi cambi d’umore
improvvisi
rimanevano ancora un arcano per me. Mi chiedevo come fosse possibile
che una
persona sbottasse così di colpo.
probabilmente
c’erano ancora molte cose che dovevo scoprire riguardanti il
distruttore di
statue.
-Fanculo,
cazzo! Dove dovrei andare?- si impose subito Pel di Carota.
Sapevo
benissimo che discutere con Billie erano inutile, perché quando si
metteva
qualcosa in testa era difficile schiodarlo da quel punto. Quindi tutti
i
tentativi di Trè erano vani.
-Non
fare
storie Trè, hai capito l’antifona: Billie non ci vuole più tra i
coglioni.
Muovi il culo.- intervenne Mike, che sembrava avere una crisi di
saggezza
causata dall’esagerato uso di cannabis.
Maggie
si
aggregò al gruppo senza fare storie, ma prima di uscire dal garage
saltellò
verso di me e mi stampò un lieve bacio sulla guancia, sussurrandomi:
-Non
prendertela troppo per la scopata di Billie con quella là.- così
dicendo, girò
sui tacchi prendendo sotto braccetto Mike.
Come
diavolo
faceva sempre ad accorgersi di tutto, quella ragazza?
Ora
capivo
il nomignolo che nel giro punk le avevano affibbiato: era davvero
“strange”; ma
in qualche modo riusciva ad essere sempre a suo agio e, come in quel
caso, ad
avere sempre le parole giuste al momento giusto. Una dote da non
sottovalutare.
Rimanemmo
soli nel nostro piccolo tugurio, come ogni sera in cui riuscivamo a
scambiarci
delle parole intime; proteggevo quegli attimi con tutto il coraggio che
possedevo in corpo, poiché erano gli unici attimi in cui tra me e
Billie si
instaurava una sorte di calda confidenza, quasi mistica.
Erano
dei
momenti magici che amavo con tutta me stessa.
Ma
quella
sera non ci sarebbero state brevi frasi affettuose ad aspettarmi, solo
gelidi
monosillabi che avrebbero accompagnato un silenzio tagliente.
Mi
sedetti
vicino al piccolo rifugio di coperte e cuscini che mi ero creata per le
mie
notti e cercai di non sembrare troppo a disagio, mentre con la coda
dell’occhio
osservavo un Armstrong visibilmente nervoso, che passeggiava su e giù
per la
piccola stanzetta.
Si
fermò un
momento prima di sbuffare teatralmente e venire ad accucciarsi vicino a
me. Il
mio cuore aveva smesso di battere per l’ansia. Billie sapeva che mi
sentivo
tradita a causa della sua scopata con quella sgualdrina. Lo sapeva,
glielo
potevo leggere in quei grossi occhi verdi. Forse era così evidente che
non ero
riuscita a tenerlo nascosto neanche al diretto interessato.
Ma
sapevo
anche che non avrebbe proferito una sola parola a riguardo e si sarebbe
rintanato in qualche stupida conversazione senza alcun rilievo.
Si girò
verso di me, puntando quei suoi enormi occhi color smeraldo nei miei,
quasi
accecandomi per l’intensità con cui mi osservava. Aprì la bocca per
dire qualcosa,
ma poi la richiuse come se si fosse appena accorto che sarebbe stato
stupido
parlare in quel momento.
Così si
sporse verso di me e appoggiò le labbra sulle mie, in modo immensamente
diverso
dalla volta precedente; ora la sua lingua si muoveva dolcemente
segnandomi il
profilo delle labbra, quasi volesse sondare ogni minima parte della mia
bocca.
Ero
sconcertata. Non sapevo se mettermi a piangere per il nervoso - sapevo
che mi
stava usando, che per lui non valevo nulla, che ero solo uno dei suoi
tanti
divertimenti- o ridere di gioia, perché
il mio cuore minacciava di esplodere da un momento all’altro per
l’emozione.
Come
potevo
essere così confusa?
Come
potevo
non saperlo spingere via, anche in quel momento, che mi stava infilando
le mani
nel retro dei pantaloni con trasporto.
Lo
sentivo
ansimare forte, si staccava dalla mia bocca per respirare.
Sentivo
un
desiderio nascere in mezzo alle gambe e salire su fino al cuore, dove
sembrava
quasi scoppiare in un fuoco incontenibile.
Mi mise
le
mani sul sedere e con forza mi tirò su, portandomi a cavalcioni sopra
di lui,
facendomi sentire estremamente sensuale. Come potevo un uomo far
scaturire in
me reazioni così contrastanti?
Sentii
le
sue mani insinuarsi sotto la mia maglietta, toccare la mia pelle nuda
facendo
rabbrividire e afferrare i lembi della t-shirt, sfilandomela dalla
testa.
Gli
stavo
davvero permettendo di fare una cosa simile? Volevo davvero essere
etichettata
come una delle tante ragazze che Billie-Joe Armstrong si era portato a
letto?
Persi
di
mente quel pensiero quando mi sbottonò i pantaloni sul davanti e prese
a
sfilarmeli con sensualità, mentre i suoi occhi erano puntati nei miei,
quasi a
stipulare un patto di fedeltà.
Ma
sapevo di
non poter contare troppo su di lui.
Ora
qualsiasi pensiero razionale mi era estraneo, poiché sostituito
dall’eros che
sorgeva in me come una cascata impetuosa. Probabilmente stavo ansimando
poiché
sentivo il respiro pesante e il fiato corto.
Lo vidi
sfilarsi la maglietta sgualcita e i jeans strappati, mettendo in mostra
il suo
corpo perfetto. Non potevo resistere a tutto quello.
Non
potevo
resistere a Billie.
Mi
lasciai
togliere anche la biancheria intima e cercai di reprimere il disagio
quando
rimasi nuda davanti a quello splendido ragazzo, che aveva un’esperienza
degna
di un gigolò in ambito di ragazze. Se avesse pensato che ero ridicola,
brutta o
grassa?
Mi
fissò
avidamente, per poi levarsi sensualmente i boxer neri. Rimasi sdraiata
sui
tappeti a contemplare il fisico perfetto di Armstrong, vedendolo
spoglio da
ogni maschera, proprio com’era per davvero.
Avevo
la
sensazione che oltre ad essersi tolto i vestiti, Billie si fosse tolto
anche
tutti gli scudi che lo separavano da me.
Si
distese
sopra di me puntellandosi con le braccia, per poi fermarsi esattamente
in
quella posizione.
Sentivo
il
suo respiro sulla mia bocca e le sue labbra erano così vicine che se mi
fossi
sporta di poco avrei potuto baciarlo.
In quel
momento l’unico desiderio che ardeva in me era quello di sentire Billie
dentro
di me; volevo averlo in me solo per un attimo, così avrei potuto sapere
cosa si
provava ad avere Armstrong tutto per sé, anche se era solo per qualche
istante.
Anche se non era ricambiato, non importava.
Chiusi
gli
occhi, perdendomi nell’estasi, mentre Billie scivolava gentilmente
dentro di
me.
Avrei voluto che quel momento durasse per
l’eternità.
******
Angolo Snap:
Scusate per i tempi lunghi, ma ho avuto
un bel po’ di imprevisti!
Chiedo venia se ho scritto un sacco di
fandonie riguardanti al fatto di Billie e Amy che fanno l’amore, ma non
sono
brava a scrivere questo genere di cose, quindi ho cercato di fare il
meglio di
me, anche se so che non è proprio il massimo.
Spero mi possiate perdonare, comunque.
Direi un capitolo pieno di svolte!
Per qualsiasi chiarimento o dubbio
lasciate una recensione!
Al prossimo capitolo,
Snap.
|
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Capitolo 15 *** The son of rage and love ***
Parental Advisory: The static
age
# Capitolo Quattordicesimo
The son of rage and love
-Aaaaaaaaaaah!-
Doveva
essere
un sogno.
Si,
probabilmente stavo proprio sognando, perché non era possibile che una
persona
umana riuscisse ad emettere un urlo in una tonalità così alta.
E
poi chi
diavolo si sarebbe messo ad urlare in quella mattinata in cui io e
Billie
eravamo reduci da…
Oh, Santo Ippolito.
Io e Billie eravamo reduci da una nottata di
sesso.
Quello
mi
sconvolse ancora di più rispetto al grido strozzato che avevo appena
sentito;
forse stavo solo andando fuori di testa e mi stavo immaginando
Billie-Joe con
la testa tra le mie gambe, intento a risvegliare in me quel piacere
nascosto.
Eppure ero quasi certa che quelli fossero vividissimi ricordi.
Ok, ok. Calma Amy. Mente locale.
Come
prima
cosa dovevo cercare di capire in che situazione mi trovavo, poi il
resto
sarebbe venuto da sé. Non era così che i protagonisti di una commedia
facevano
quando si ritrovavano in quelle circostanze?
Certo,
ma io
non ero la bella Julia Roberts in Pretty Woman e quel malcapitato di
Armstrong
non assomigliava neanche lontanamente a Richard.
Aprii
gli
occhi cercando di prendere coscienza dello spazio che mi circondava e,
soprattutto, cercando di capire da dove proveniva quell’urlo scioccato.
Mi
resi conto
di essere stesa sulla squallida brandina del sottoscala, con le coperte
raggruppate sul mio corpo a coprirmi quasi per intera, a parte una
gamba che era
sfuggita alle grinfie di quel serpente di cotone.
La
seconda
cosa che arrivò limpida alla mia mente era il fatto che non indossavo
alcun
indumento: ero nuda; ma la cosa non avrebbe dovuta sconvolgermi più di
tanto,
in fondo avevo appena fatto l’amore con Billie.
Avevo
davvero
perso la mia verginità con un elemento come Billie-Joe Armstrong?
La risposta me la donò la macchiolina di sangue che si era formata sul
copriletto, segno evidente che per me era stata la prima volta e che
Billie
aveva violato la mia intimità.
Chiusi
gli
occhi mentre il ricordo delle nostre gambe che si intrecciavano, i
corpi che si
univano in un unico punto, fondendosi come se fossero stati una sola
cosa
riaffiorava.
Era stato qualcosa di indescrivibile.
Probabilmente
non esisteva un aggettivo umano per poter dire a parole ciò che avevo
provato
quella notte magica, ma di certo si avvicinava di più al soprannaturale
che a
quel mondo terreno.
Come
potevo
cercare di non ripensare a tutti gli sguardi che c’erano stati tra di
noi? Le
mani che si intrecciavano, la pelle contro la pelle, i suoi capelli sul
mio
viso, le sue labbra sul mio collo.
Le
sue
braccia attorno al mio bacino.
Un
brivido mi
percorse tutta la schiena, terminando proprio al centro del mio petto,
dove
stava il cuore che batteva all’impazzata, incapace di rilassarsi.
Ma
un nuovo
suono di voci indistinte mi convinsero una volta per tutte a
riaffiorare da
quello stato di semi-coscienza e
iniziare quella fatidica giornata.
Dapprima
non
riuscii a distinguere bene le figure che mi stavano dinanzi, ma dopo
alcuni
minuti i miei occhi si abituarono alla luce e misero a fuoco le
immagini del
mondo; mi trovavo, come pensavo, nel piccolo scantinato che era la Sala
Prove
dei Green Day, che sembrava esattamente uguale all’ultima volta in cui
l’avevo
vista.
Mi
pareva che
tutto il mondo fosse cambiato, quando invece ero solo io quella che era
stata
sottoposta al trattamento?
-Oh,
Signore
santissimo. È sveglia.-
Finalmente
riuscii a capire a chi apparteneva la fastidiosissima voce che mi aveva
svegliata dal mio sonno beato con un odioso grido; la donna che avevo
dinanzi
portava una vecchia gonna nera, un paio di scarpette a punta con un
accenno di
tacco e una camicetta a fiori blu. Il gusto nel vestire non era di
certo il suo
punto di forza, si poteva intuire subito.
Aveva
un viso
che mi ricordava stranamente qualcuno di conosciuto,
e i capelli raccolti in una crocchia erano di un castano abbastanza
scuro; ma
ciò che più colpiva di quella signora erano i suoi occhi stanchi, che
sembravano chiedere pietà ai dolori che la vita aveva loro riserbato.
Una
fitta mi
colpì allo stomaco, facendomi intendere che quella non sarebbe stata
una bella
giornata.
Da
dietro un
angolo spuntò finalmente Armstrong, che indossava solo un vecchio paio
di
jeans, mentre il torace era nudo; non mi ricordavo che si fosse alzato
dal letto
e infilato i pantaloni, sicuramente non l’avevo sentito.
Il
primo
impulso fu quello di corrergli incontro e abbracciarlo, per poi
riempirlo di
baci seducenti e riportarlo lentamente al letto, dove avremmo ripreso
il
discorso che avevamo lasciato in sospeso la notte appena trascorsa. Poi
mi resi
conto che non eravamo soli nella stanza, che ero coperta solo da un
sottile
lenzuolo in cotone– tutti avrebbero potuto vedere la mia intimità se
avessi
fatto un movimento sbagliato – e
che
probabilmente per Billie la nostra era stata solo una delle tante notti
prive
di significato in compagnia di una donna.
Il
mondo
sembrò spiattellarmi in faccia tutta la sua realtà, con un sorrisetto
canzonatorio.
Buongiorno, Amy.
Gli
occhi di
Armstrong incontrarono i miei, catturandomi con il loro verde smeraldo:
quella
mattina sembrava un po’ più opaco del solito, come il cielo quando è
coperto da
un sottile strato di nubi. Sicuramente c’era qualcosa che non andava, e
avevo
il presentimento che quell’anziana signora fosse la causa della
tempesta negli
occhi del mio coinquilino.
-Amy,
questa
è mia madre.- Il
fiato mi si mozzò in
gola in un solo istante e mi ritrovai a sgranare gli occhi come
unabambina piccola
che ha appena sognato l’uomo nero.
Me
ne stavo davvero
nuda su quella dannata brandina, di fronte alla madre di Armstrong, la
quale
aveva sicuramente capito che io e Billie eravamo stati a letto insieme?
Ma
come
diavolo avevo fatto a ridurmi così tanto in basso? Tutte quelle
sensazioni di
libertà che avevo provato da quando avevo lasciato casa mi sembravano
d’un
tratto sciocche sensazioni adolescenziali, che mi avevano portata fino
a
quello: avevo toccato il fondo.
Non
potevo
continuare a vivere in quel modo, dovevo davvero fermarmi per qualche
secondo e
chiedermi che cosa avrei voluto fare dalla mia vita. Di certo vivere
come avevo
sempre fatto prima di incontrare Billie non era ciò che volevo, ormai
ero
consapevole di chi ero, ma non avevo neanche alcuna intenzione di
trascorrere
la mia esistenza in quei sobborghi, facendomi scopare da Armstrong e
rendendomi
una sgualdrina agli occhi di un adulto.
Quella
non
ero io e Billie non se n’era reso conto; mi aveva fraintesa e non mi aveva compresa,
non quella volta.
Mi
portai il
lenzuolo ancora più sopra ai seni, cercando di stringerlo come se fosse
il mio
unico appiglio alla salvezza, ed ebbi almeno la decenza di arrossire,
sentendomi in completo imbarazzo.
La
madre di
Armstrong mi guardò con un’espressione di disgusto, che mi fece sentire
ancora
più insignificante e sudicia, per poi rivolgere lo sguardo a suo
figlio, che
sembrava aver indossato la sua tanto amata maschera di strafottenza.
-Ero
rimasta
al fatto che nessuna delle tue puttanelle si fermasse a dormire qui. Mi
hai
sempre detto che non vuoi che nessuna di loro invada il tuo territorio.
Hai
cambiato regole, bambino mio?-
Non
riuscii a
stare troppo male per l’implicito insulto che mamma Armstrong mi aveva
appena
riservato, perché rimasi sconvolta dal tono in cui pronuncio le parole
“bambino
mio”: sembrava quasi volerglielo sputare in faccia, come se odiasse il
fatto
che Billie fosse suo figlio.
Si
sentiva l'astio
che quella donna provava per la vita sregolata del mio coinquilino,
concentrato
in quelle due parole che avrebbero dovuto essere le più affettuose che
una
madre potesse rivolgere al proprio figlio. Ma mi stavo rendendo conto
che tra i
due correva sangue amaro e che probabilmente quella era una delle
ragioni per
cui Billie si era creato uno scudo di protezione da ogni affetto.
Ecco
perché
detestava i legami di sangue e qualsiasi cosa che avesse a che fare con
loro.
Ecco
dove
stava uno dei tanti punti deboli che il ragazzo si ostinava a
nascondere al
mondo, per evitare di rimanere nuovamente ferito.
Armstrong
sfoderò
un sorriso divertito, che celava un’amarezza indescrivibile, ma che
ormai avevo
imparato a leggere nei suo grandi occhi verdi.
Tirò
fuori
dalla tasca dei jeans un pacchetto di sigarette e se ne accese una,
sputando in
faccia a sua madre il fumo, come evidente segno di sfida; sembrava
volerle dire
“Non mi fai paura, mamma”.
-Lei-
disse
indicandomi, cosa che mi fece trasalire, conscia del fatto che stavo
entrando a
far parte della discussione –Si chiama Amy e non è una delle mie
puttanelle. È
la mia coinquilina.-
Sapevo
che
non avrei dovuto essere felice di quelle parole, perché non erano nulla
di
speciale, aveva solo portato a galla i fatti: ero la sua coinquilina.
Non aveva
di certo fatto una dichiarazione d’amore o detto che ero la sua
ragazza, il suo
unico amore o chissà cos’altro.
Aveva
solo
detto che ero la sua coinquilina. Nulla di strano.
Allora
perché
il mio cuore sembrava fare le capriole
per la
gioia?
Stupida ragazzetta. Ecco cos’ero:
una
stupida ragazzetta con gli ormoni in subbuglio.
Billie
sembrò
d’un tratto ricordarsi che ero senza vestiti, ed ebbe la decenza di
passarmi le
mutande e il reggiseno, cosa che mi fece avvampare, rendendomi conto
che sua
madre stava assistendo a tutta la scena.
Hai fatto proprio centro, Amy. Un grande
applauso per la tua furbizia, davvero.
Infilarmi
la
biancheria intima senza scoprirmi fu un’impresa ardua, ma alla fine ce
la feci
e passai allo stadio successivo: indossare t-shirt e jeans nello stesso
modo.
Quando ebbi finito e fui di nuovo vestita, mi sentii decisamente più a
mio
agio; strano l’effetto che della stoffa è in grado di fare all’animo
umano.
-Da
quando
hai una coinquilina?- sussurrò convoce da serpe la donna.
-Da
quando
hai la faccia tosta di presentarti qui?- ringhiò finalmente Armstrong,
abbandonando la finta calma che aveva cercato di mantenere fino a quel
momento.
Dio, avevo il brutto presagio che sarebbe scoppiata una grossa lite
familiare.
La
donna
sospirò amaramente, come se si fosse resa conto fin dall’inizio che la
situazione sarebbe degenerata e sarebbero arrivati a prendersi per i
capelli.
Ora,
il viso
di Billie non aveva nulla di dolce e calmo, sembrava una maschera di
cattiveria, rancore e odio.
C’erano
troppe cose che io non sapevo, e sicuramente non potevo capire perché
Billie e
sua madre erano carichi di tutta quella rabbia, che sembrava non poter
più
rimanere chiusa dentro di loro.
-Perché
sei
venuta qui? Per deridermi? Per umiliarmi? Per farmi sentire ancora una
volta
misero e insignificante? Sei venuta forse per rinfacciarmi per
l’ennesima volta
la morte di papà? Per farmi di
nuovo
subire le tue lamentele o per farmi sentire in colpa per avervi
abbandonati?-
la sua voce era piena di ira e sembrava incline al pianto, ma sapevo
che non si
sarebbe mai abbandonato alle lacrime –Eh? È per questo che sei venuta?
Che
cazzo vuoi ancora da me?-
La
donna si
coprì il viso con le mani e si lasciò andare ai singhiozzi.
Billie
aveva
appena detto che la donna gli aveva sempre rinfacciato la morte di suo
padre,
non era di certo una cosa di cui la donna poteva andare fiera.
Non
sapevo
nulla di quella storia –non sapevo nulla di Armstrong- ma non anche se
fosse
stato responsabile, in parte, di ciò di cui lei lo accusava, ero certa
che non
era stato intenzionale; e sua madre non aveva alcun motivo per far star
male
suo figlio in quell’orrido modo.
C’erano
parecchie cose che dovevo ancora scoprire riguardo al ragazzo ma ora,
mentre lo
vedevo fissare con disprezzo sua madre, mi resi conto che doveva aver
sofferto
come un disperato nella sua vita, e che per questo era diventato così
schivo,
così diffidente nei confronti dell’amore.
Ecco
perché
era diventato Armstrong, seppellendo il Billie che c’era in lui.
-Smettila
di
piangere!- sbottò il ragazzo togliendole con rabbia le mani dal volto,
che le
ricaddero lungo i fianchi, accompagnati da singhiozzi di paura.
-Non
voglio
vedere più le tue lacrime finte, piene di giochi subdoli e inganni.
Lasciami
stare. Esci dalla mia vita una volta per tutte. Ma non lo capisci che ti odio?-
Billie
sembrava sul punto di cedere, lo vedevo dalla sua gambe che non
smettevano di
tremare, dalle sue labbra che non la smettevano di contorcersi in
smorfie di
dolore, nei suoi occhi colmi di tanto dolore quanto mai ne avevo visto
a
nessuno.
In
quel
momento mi fece così tanta tenerezza che avrei voluto stringerlo e
sussurrargli
che sarebbe andato tutto bene, che la vita non era così brutta come
credeva; ma
come potevo dire una cosa del genere ad una persona che aveva sempre e
solo
sofferto?
Era
normale
che avesse perso le speranze, che non gliene importasse più niente di
condurre
un’esistenza degna di quel nome, perché sapeva che gli avrebbe
riservato solo
dolore e tristezza.
Ora
mi resi
conto che Billie credeva di non essere degno di una vita felice,
credeva di
essere una persona sporca e sudicia, che non meritava di ridere ed
essere
amato.
Come
potevo
aver sempre e solo pensato al mio dolore, essermi sempre e solo
lamentata di
mio padre, della mia situazione e non rendermi conto che Armstrong
viveva in
una disperazione silenziosa?
Come
potevo
essere stata così egoista da non capire che la persona che mi stava a
fianco
ogni giorno era sommersa da una montagna di merda?
Mi
sentii
d’un tratto immensamente stupida, infantile, immatura, come una bambina
capricciosa che piange per aver perso il suo pupazzo, ma non vede che
ci sono
altri ragazzini che di pupazzi non ne hanno mai posseduti, ma hanno
solo
aspirato ad averne.
-Sei
solo un
demonio, Billie!- urlò improvvisamente la madre, come fosse posseduta
–Sei
sempre stato un bambino cattivo, degenere. Sei un verme, non ti vedi?
Non ti
rendi conto di quanto fai schifo? Hai fatto morire tuo padre!-
schiamazzò per
poi cominciare a prendere a pugni il petto di Billie, come se volesse
cercare
di distruggerlo, di ucciderlo.
Rimasi
sconvolta dall’odio che fuoriusciva dagli occhi della madre di Billie;
quella
donna pensava davvero che suo figlio fosse cattivo e che non meritasse
di
vivere.
D’un
tratto
mi svegliai da quello stato di coma e mi alzai dal letto, in direzione
della
madre di Billie, che continuava a tempestarlo di pugni, senza che il
ragazzo
opponesse alcuna resistenza.
Mi
scagliai
sulla donna e le presi le mani, per poi trascinarla lontano dal mio
coinquilino, lontano dalla debolezza che il ragazzo stava facendo
uscire.
Quando
fu
abbastanza distante da lui, la misi con le spalle alla porta e tirai
fuori
tutta la determinazione che era racchiusa dentro di me. Dovevo farcela
per
Billie.
Glielo
dovevo.
-Se
ne vada.-
dissi con la voce ferma. –Se ne vada subito. Esca fuori dalla vita di
Billie,
lo lasci stare. La smetta di rimproverarlo, di riempirgli la testa con
le sue
folli idee. Lasci che suo figlio viva una vita serena, come si
meriterebbe. Se
ne vada e non torni più.-
Mi
stupii di
quanto fossi riuscita ad apparire forte e decisa, come se fossi del
tutto
consapevole di ciò che stessi facendo e conoscessi alla perfezione la
storia
del passato di Armstrong. Non era così, ma l’importante era che quella
donna
uscisse dal nostro scantinato e dalla vita del mio coinquilino, che
sembrava
corroso dalle parole della madre.
Gli
occhi
della signora si posarono sui miei e potei vedere quanto fossero
inespressivi,
assolutamente vuoti. Quella donna era priva di sentimenti, era
semplicemente
una persona schifosa e cattiva che aveva sempre e solo fatto del male a
Billie
e avrebbe continuato a fargliene, se qualcuno non l’avesse fermata.
Ed
era ora
che qualcuno le facesse capire che doveva andarsene per sempre.
-Ha
capito si
o no? Cosa ci fa ancora qui dentro? Se ne vada! Nessuno la vuole qui!-
urlai
ora, piena di rabbia nei confronti di quella persona spregevole.
Mi
guardò
ancora una volta, come se non capisse come una ragazzina di diciassette
anni
potesse sbatterla fuori di casa e allontanarla una volta per tutte da
suo
figlio. Avrei voluto prenderla a
schiaffi e farle subire un po’ del male che aveva sempre dovuto
sopportare suo
figlio, ma sapevo che non sarebbe servito a nulla.
Quindi
la
osservai, mentre apriva con forza il portone uscendo senza guardarsi
indietro
due volte.
Rimasi
un
attimo in piedi di fronte alla porta, cercando di assimilare il fatto
che
quella tremenda donna se n’era davvero andata, e che ora avevo un
attimo di
pace per riprendermi.
Ma
poi mi
voltai e trovai Billie in piedi, con gli occhi sbarrati fissi nel
vuoto, tipici
di chi ha appena subito un trauma difficile da superare. Ma il suo era
solo
stato riportato a galla, quello shock c’era sempre stato e sarebbe
sempre
rimasto dentro di lui, come le ferite cicatrizzate.
Solo
che ora
era ancora aperta.
Mi
misi di
fronte a lui, senza che sembrasse dare segno di avermi vista o
comunque, che
gliene importasse qualcosa della mia presenza; così appoggiai
delicatamente una
mano sulla sua guancia e lo vidi sussultare, come se gli avessi appena
tirato
uno schiaffo.
Puntò
gli
occhi su di me, ma non si tolse dal contatto, anzi, posò la sua mano
sopra la
mia, intrecciandola.
Non
dissi
nulla perché non c’era nulla da dire, le nostre mani unite stavano già
parlando
per noi e io non avrei mai potuto eguagliare quel conforto con delle
parole,
quindi tacqui.
Tacqui
proprio come aveva fatto Billie quando ne avevo bisogno io.
Ora
era il
mio turno, toccava a me stargli accanto e fargli capire che su di me
poteva
contare.
Non
so per
quanto tempo rimanemmo così, ma mi ricordo che quello fu uno dei
momenti in cui
io e Armstrong fummo più vicini e in cui condividemmo tutte le sue
nostre
sfortune, i nostri guai, i nostri dolori.
Ora,
ripensandoci, posso essere sicura che quello fu uno degli istanti in
cui Billie
abbandonò le sua barriere e mi concesse di vedere un po’ dentro di lui,
senza
poi pentirsene.
Quello
fu uno
degli attimi in cui il silenzio parlò ed espresse tutto l’amore che si
era
creato tra noi due.
******
Angolo Snap:
Lo splendido banner che vedete ad inizio
capitolo è stato creato appositamente per Parental Advisory: The static
age, dalla grandiosa Aniasolary,
che è anche una qualificatissima scrittrice. Un grazie di cuore.
Mi scuso per il ritardo del capitolo, che
è davvero abbastanza, ma ho avuto dei problemi con questa parte di
storia,
perché non riuscivo a descriverla come avrei voluto; avevo scritto già
diverse
pagine su Word, ma poi una mattina mi sono alzata e mi sono resa conto
che
facevano schifo e, con l’ispirazione, ho cancellato tutto il lavoro per
scrivere ciò che sentivo dentro.
Questo capitolo è pieno di emozioni e
giuro di averlo vissuto mentre lo scrivevo, mi sono emozionata e
commossa
mentre toccavo i tasti del computer, perché mi sembrava di essere
dentro la
storia.
È stato uno dei capitoli in cui mi sono
sentita più coinvolta, mi sono immedesimata nei personaggi e le mie
dita pigiavano
i tasti da sole. L’ho scritto in una mattina sola, tutto d’un fiato
perché non
riuscivo a fermarmi.
È davvero uno step importante per questo
racconto, quindi spero che nel testo si riescano a leggere tutte le
sensazioni
che ho provato e che provano Billie ed Amy.
Un abbraccio,
Snap-
|
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Capitolo 16 *** Run away from the river to the street ***
Parental
Advisory: The static age
Capitolo
Quindicesimo
Run
away from the river to the street
La
folta
siepe verde che mi stava dinanzi mi copriva quasi completamente, in
modo da
rendermi invisibile alle persone, ma allo stesso tempo lasciandomi
vedere ciò
che avevo di fronte.
Quella
sera
non c’era molto vento, solo una leggere brezza che dava una sensazione
di
benessere, come quando si è al mare e ci si lascia scompigliare i
capelli
dell’aria.
Ma
il mio
umore non era esattamente sereno e libero, piuttosto mi sentivo agitata
e
instabile, mentre con gli occhi osservavo l’edificio in mattoni
dall’altro lato
della strada.
Quella
casa
non aveva niente di diverso dalle altre del quartiere: tetto in pietre
grigie,
un bel giardino curato, una porta d’ingresso in legno e un colore
neutro.
Ma,
per me,
aveva un significato affettivo.
Casa Murray.
Un’innocua
villetta a schiera in uno dei quartieri più a modo di Rodeo, nel quale
erano
avvenute molto strani fatti, nell’ultimo periodo.
Ancora
ricordavo alla perfezione quando, ormai quasi più di un mese prima, ero
uscita
da quell’abitazione a notte fonda dirigendomi verso Billie Joe.
Billie
Joe
con il quale sembravo avere una relazione quasi stabile, anche se
nessuno dei
due aveva mai toccato l’argomento o si era comportato come se fosse in
una
coppia; semplicemente vivevamo insieme, facevamo la spesa insieme,
tornavamo a
casa e facevamo l’amore tutta la notte.
Ormai
andava
avanti così dal giorno in cui la madre del ragazzo era arrivata nello
scantinato e aveva scombussolato la nostra vita semi-serena. Io e
Billie non
stavamo insieme nel senso stretto della parola ma, in fatto, i
sentimenti che
si erano creati tra di noi erano più profondi rispetto a quelli di
molte coppie
della mia scuola.
C’era
un
legame strano tra noi che non ero in grado di spiegare a nessuno,
tantomeno a
me stessa e, inoltre, non sentivo il bisogno di dover essere certa che
Billie
fosse il mio ragazzo, perché andava alla grande così com’era.
Be’,
quella
sera ero uscita dicendogli che sarei andata a fare due passi e, invece,
mi ero
ritrovata proprio di fronte a quella casa e mi ero nascosta dietro a
quell’odioso cespuglio.
Che
cosa
voleva dire tutto ciò?
La
mia vita
andava bene: lavoravo guadagnandomi da vivere, avevo un coinquilino
bizzarro e
divertente, la scuola non mi creava problemi e avevo più amici di
quanti non ne
avessi mai avuti.
E
allora
perché diavolo ero finita in quello stramaledetto quartiere?
Abbassai
lo
sguardo e incontrai gli occhi del mio caro Bruto che sembrava morire
dalla
voglia di essere slegato dal guinzaglio per mettersi alla ricerca di
qualche
strambo insetto. I suoi occhi luccicanti sembravano pieni di felicità,
mentre
mi supplicava scodinzolando in maniera esagerata.
Le
luci
della cucina erano accese, segno che probabilmente mia madre stava
sparecchiando la tavola e mettendo a posto le stoviglie; le loro
abitudini non
erano di certo cambiate, nonostante la loro unica figlia fosse fuggita
di casa.
Non vedevo mio padre da quel drastico giorno a scuola, quando aveva
cercato di
riportarmi a casa con la forza, unico modo che aveva di comunicare con
me.
Nonostante
tutto andasse a meraviglia avevo sentito il bisogno di tornare in
quella via
per dare uno sguardo a quella che era stata la mia vita tranquilla
prima
dell’arrivo di Billie Joe.
Che
cosa
significavano quelle sensazioni?
Appartenenza.
Forse
sentivo ancora che quella era casa mia, anche se il termine non si
addiceva,
anche se mio padre mi aveva mostruosamente maltratto, anche se non ero
mai
riuscita a far uscire il mio vero essere, anche se non ero mai stata
realmente
felice.
Non
potevo
nascondere di sentirmi triste nel pensare a tutto ciò che era successo,
al
fatto di aver davvero abbandonato mia madre e aver perso le mie radici.
Mi
girai
verso Bruto, in cerca di un aiuto che sicuramente non sarebbe arrivato.
-Ti
va di
andare a salutare la mamma, bello?-
Il
cane
prese a scodinzolare nuovamente guardandomi con aspettativa; doveva
essere
immensamente semplice essere un cane.
Presi
un
grosso respiro, dicendomi che stavo per fare la cosa giusta in fondo,
che
avevano il diritto di vedere come stava la loro figlia, nonostante non
si
fossero fatti più sentire; cercai di mentire a me stessa, inventandomi
mille
scuse per non ammettere che avevo il disperato bisogno di vedere i miei
genitori.
Come
potevo
davvero voler incontrare due persone così?
Accantonai
quegli inutili pensieri, uscendo dal cespuglio per attraversare la
strada e
ritrovarmi di fronte alla porta di Casa Murray.
Premetti
dolcemente il dito sul campanello: una parte di me sperava con tutto il
suo
cuore che non avessero sentito il trillo, mentre l’altra metà stava
agognando
perché le rispondessero.
Ero
in lotta
con me stessa.
La
porta si
spalancò e vidi il volto di mia madre impallidire alla mia vista, come
se
avesse di fronte un fantasma, una persona che non poteva realmente
essere lì.
Dannazione,
come potevo far scaturire una tale reazione nella donna che mi aveva
messa al
mondo?
Gli
occhi
della Signora Murray si riempirono di lacrime, che a stento trattenne,
per poi
sorridermi in un modo che non le vedevo fare da… be’, da mai.
Non
sembrava
possibile vedere il volto severo di mia madre addolcirsi fino a quel
punto,
spogliandosi dalla sua tanto amata maschera di severità e compostezza.
Cos’era
successo?
-A-amy…-
disse in un sussurro, per poi riprendersi aprendo ancora di più la
porta
invitandomi ad entrare.
Sembrava
una
realtà parallela il dover vedere mia madre che mi faceva entrare in
casa come
era uso fare con gli ospiti di passaggio, che si vedevano una volta
all’anno.
Un
sogno
davvero bizzarro.
Misi
piede
in casa, lasciandomi inebriare dal familiare odore di detergente alle
rose, che
mia mamma si ostinava a comprare da quando ero piccola; una volta avevo
provato
a farle acquistare un deodorante per ambienti all’arancia, ma si era
opposta
dicendomi che ormai la nostra casa era caratterizzata dal profumo di
rosa.
Quanto era vero.
Quell’abitazione
non avrebbe mai potuto avere un altro odore.
-Vieni,
accomodati. Preparo una tazza di tè! Ho comprato le paste di meliga,
quelle che
ti piacciono tanto e…- poi si fermò, come se gli fosse venuto un triste
dubbio
–Cioè, sempre che tu abbia intenzione di fermarti…- mormorò a disagio.
Ero
davvero
arrivata al punto da mettere quell’orrido distacco tra me e mia mamma?
Mi
sforzai
di sfoderare un sorriso sincero, che non apparisse troppo formale e
vidi il
volto della donna rilassarsi, come se le avessi appena pronunciato un
discorso
strappalacrime.
-Certo.
Il
tè e i biscotti vanno benissimo, mamma.-
Vidi
i suoi
occhi diventare lucidi nel sentirsi chiamare con quell’appellativo
tanto
confidenziale e mi sentii improvvisamente in colpa per tutto quel tempo
di
silenzio e distacco.
Forse
le mie
decisioni erano state un po’ troppo drastiche, ma d’altronde cos’altro
avrei
potuto fare? Mio padre si era comportato come un pazzo maniaco e io non
sarei
potuta rimanere in una situazione del genere. Lo sapeva anche lei.
Mi
fece
strada fino alla cucina, dove mi fece sedere attorno al tavolo su cui
stava un
elegante centrotavola in pizzo e un mazzo di fiori rossi: tipico di mia
madre.
I
fornelli
erano accuratamente lavati e nel lavandino non c’era l’ombra di un
piatto
sporco; mi ritrovai a fare il confronto con il vecchio scantinato in
cui io e
Billie alloggiavamo, perennemente stracolmo di cartoni di pizza vuoti e
lattina
di birra sparse sul pavimento.
Certo,
non
poteva essere altrimenti con Billie, pensai sorridendo tra me e me.
Mia
mamma
prese a trafficare per la piccola stanza, aprendo cassetti e armadi,
posando
sulla tavola una gran quantità di cibarie e bevande; la situazione era
strana,
perché ero abituata ad aiutare mia madre in quei lavori e stare seduta
lì a
farmi servire non mi sembrava possibile.
Ma
le cose
erano cambiate, era inutile ripeterselo ogni volta.
-Papà
è in
casa?-
A
quella
domanda vidi mia madre sussultare rovesciandosi l’acqua bollente
addosso;
subito mi alzai per aiutarla e presto ci ritrovammo in silenzio a
pulire la sua
camicetta bianca.
Non
mi ero
mai trovata in una simile situazione in compagnia di mia madre che,
nonostante
tutto, era sempre stata gentile con me e non mi aveva mai fatta sentire
a
disagio; sentii piangermi il cuore nel vedere che la donna che mi stava
vicino
sembrava invecchiata di almeno diversi anni, con la sua crocchia di
argento,
stranamente non impeccabile come il suo solito.
Come
poteva
essersi creato un simile varco tra il mio mondo e il suo?
In quello stesso momento un
uomo grosso e
severo entrò nel mio campo visivo, oscurando tutto il resto, come se
fosse un
gigante di un libro fantastico che viene a prendere la bambina cattiva.
Era
mio
padre.
Mio
padre
che ora mi guardava con un’espressione indecifrabile e, come al suo
solito, non
sembrava avere la minima intenzione di far trasparire ciò che stava
provando
nel suo profondo. Il divario tra noi due era stato anche scaturito
dalla sua
troppa freddezza, il suo non volermi dimostrare mai il bene che mi
voleva, se
non con un invito a cena dai Price o un’iscrizione al College più
prestigioso
degli Stati Uniti.
Eppure,
nonostante la mia testardaggine, qualcosa dei suoi sani principi si era
conservato in me, perché avevo continuato a frequentare le lezioni di
danza
classica, che rimaneva indiscutibilmente la mia passione; il sogno di
divenire
una ballerina non era morto, ma bensì si era rafforzato, consapevole
come non
mai di ciò che avrei voluto fare della mia vita.
-Siediti,
papà.-
La
mia voce
parve incerta e tremolante persino a me, ma mio padre non si scompose e
eseguì
il mio ordine senza replicare; per la prima volta nella sua vita non
contestava
un’imposizione, ma bensì la accoglieva senza troppe discussioni.
Notevole.
Tornai
anch’io a prendere posto sulla sedia vicino al termosifone che mia
madre aveva
tanto insistito per far dipingere di rosa opaco, nonostante il dissenso
di mio
padre, che lo trovava troppo pacchiano.
Mia
mamma
smise passarsi la spugna sulla camicia e, senza dire una parola, si
sedette al
mio fianco, quasi fosse volesse finalmente far capire a mio padre che
stava
dalla mia parte.
Ma
era
davvero così oppure erano tutti giochi fantasiosi della mia mente?
-Come
va la
scuola, Amy?- domandò mio padre con un tono piatto, proprio come se
fosse una
normale conversazione di una normale famiglia americana; Steven era
sempre
stato un asso nel fingere che le cose andassero nel migliore dei modi
anche quando
in realtà erano un vero e proprio disastro.
Bevvi
un
sorso di tè dalla mia elegantissima tazzina decorata con fiori gialli.
–Potrebbe andare meglio, ma non mi lamento. Sono ancora una delle
migliori
studentesse della scuola.- ammisi con un tono soddisfatto.
Nonostante
mi fossi allontanata da quelli che erano gli ideali e le certezze di
mio padre,
non potevo negare il fatto che l’istruzione e la danza erano punti
fondamentali
per la mia vita e la mia persona; non aveva rinunciato alla cultura
solo perché
vivevo con un ragazzo a cui la scuola appariva come una specie di
carcere
corrotto dallo Stato.
Questo
era
ciò che Steven doveva ancora capire: sapevo
scegliere ciò che era meglio per me senza farmi condizionare da chi mi
stava
intorno.
Guardai
mio
padre e mi resi conto che conoscevo l’espressione che era apparsa sul
suo
volto: fronte tirata, labbra serrate e denti stretti, segno che stava
per dire
qualcosa di realmente importante.
L’ansia
prese a salirmi in corpo, quasi fossi un termometro che d’un tratto
inizia a
divenire rosso fino ad implodere per il troppo calore.
Sapevo
che
dovevo aspettarmi delle parole dure e pesanti.
Parole
che,
forse, mi avrebbero sconvolta.
-Speravo
venissi a farci visita prima, ma sono comunque contento tu l’abbia
fatto, anche
se solo dopo tutto questo tempo. Avevi bisogno di tempo e noi abbiamo
deciso di
dartene, forse perché ci siamo resi conti che non sei più una bambina,
ma una donna.-
Avevo
pensato che mi avrebbe smontata con sentenze inappropriate, magari
dandomi
della poco di buono o della ragazza facile e iettandomi una vita triste
e senza
soddisfazioni. Avevo pensato che mi avrebbe cacciata fuori di casa,
solo dopo
essersi assicurato che non sarei più tornata e magari anche
diseredandomi.
Avevo
pensato tante, tantissime cose.
Ma
mai mi
sarei immaginata che avrebbe pronunciato le parole che disse, tutto
d’un fiato.
-Perdonami, Amy.-
Il
mio cuore
ebbe un sussulto e dovetti smettere per un secondo di pensare per
potermi
rendere conto di ciò che Steven Murray aveva appena detto a me, sua figlia.
Stavo
forse
impazzendo? Delirando? Sognando?
Faceva
tutto
parte di uno strano piano subdolo per incastrarmi e costringermi a
tornare a
casa, sotto il suo vigile controllo; non poteva davvero aver implorato
il mio
perdono, quasi fosse ad una confessione in chiesa e chiedesse
l’assoluzione dai
peccati.
Era
davvero
ciò che credevo?
Cercai
la
voce. –Papà, io…-
Alzò
la mano
prima di farmi continuare, per prendere la parola e continuare il suo
discorso
che sembrava non avere una fine.
-Non
ti
chiedo di tornare a casa e fare finta che nulla di tutto ciò sia
successo. Mi
sono comportato come un pazzo, me ne rendo conto, ma grazia a tua madre
sono
andato in terapia da uno psicologo che mi ha aiutato a superare,
finalmente,
alcuni miei traumi infantili e ora posso dirmi un uomo nuovo. Ciò non
toglie il
fatto che io ti abbia ferita e che sia stato un mostro con te.-
La
voce di
mio padre suonava immensamente pentita e spezzata, quasi si stesse
trattenendo
per non scoppiare il lacrime; non avevo mai sentito, in tutta la mia
vita,
Steven parlare con un simile tono di voce.
Che
cosa
significava tutto ciò?
E
poi… terapia dallo psicologo?
Superare traumi infantili?
Di
che
diavolo di eventi stava parlando? Perché io non ero mai venuta a
conoscenza che
mio padre era rimasto traumatizzato da qualcosa?
Forse
era
una delle tante muraglie che papà aveva alzato a me, impossibilitandomi
a
conoscerlo meglio, a capire chi fosse davvero l’uomo che mi aveva
sempre
cresciuta.
-Ho
pensato
molto a come risolvere questa situazione e sono giunto ad una
conclusione che
potrebbe rivelarsi sensata..-
Ormai
non
riuscivo a smettere di ascoltare ciò che aveva da dirmi, perché ero
decisamente
catturata da quel discorso ricco di emozioni e razionalità, cosa che
mio padre
tendeva spesso a perdere nelle situazioni come quella.
In
fondo non
mi ero dimenticata tutto ciò che mi aveva fatto passare e le scenate a
cui
avevo dovuto assistere, quella drastica notte in cui ero fuggita e
davanti al
Liceo.
Steven
Murray parlò e, come sempre, ciò che disse fu allo stesso tempo tragico
e
saggio.
-The
Juilliard School of Drama, Dance and Music.-
-The
Juilliard School of… che?-
Billie
Joe
parve quasi ringhiare quella domanda, che non ero neanche sicura
potesse
considerarsi davvero come tale.
Il
sudicio
garage nel quale vivevamo, quella sera sembrava ancora più sporco e
fatiscente
del solito, forse anche a causa dell’atmosfera che non era delle più
gioiose;
ero tornata da casa dei miei genitori e avevo appena comunicato a
Billie la
decisione che io, mio padre e mia madre avevamo preso.
Avrei
frequentato la Juilliard, la famosa e prestigiosa scuola di danza.
L’anno
precedente avevo fatto i provini per tentare di essere ammessa
nell’accademia
e, solo qualche giorno prima della mia visita a Casa Murray, erano
arrivati i
risultati; ovviamente sapevo che la lettera avrebbe impiegato tutto
quel tempo
per arrivare, me lo aveva assicurato la segretaria della scuola, ma non
avevo
più pensato alla possibilità.
E
invece il
giudizio era stato decisamente positivo e la giuria mi aveva dato il
benvenuto
nell’accademia con delle fredde e vuote parole stampate a computer su
un foglio
bianco.
Sembrava
la
prospettiva perfetta per il mio futuro, nonché la soluzione ai miei
problemi:
non avrei dovuto vivere sotto lo stesso tetto di mio padre che,
nonostante mi
avesse dimostrato di avere tutte le intenzioni di cambiare, ancora non
mi
convinceva del tutto; avrei potuto studiare per diventare una
ballerina, il
sogno di tutta la mia vita e, nello stesso tempo, mi sarei potuta
dedicare
anche ad altre attività e avrei potuto fare nuove, interessanti
conoscenza.
Sembrava
davvero perfetto.
Sembrava.
Sembrava, perché c’era un particolare
che non rientrava in tutti i miei gloriosi progetti per il futuro, un
dettaglio
che poteva sembrare insignificante ma che, per me, stava alla base di
tutto.
Armstrong.
Billie
Joe
Armstrong non mi avrebbe seguita fino a New York solo per potermi
permettere di
realizzare il mio sogno e non avrebbe neanche aspettato che fossi
tornata
trionfante e felice; avrebbe semplicemente fatto come sempre: sarebbe
andato al
lavoro, avrebbe aspettato la sera per suonare con Trè e Mike,
sbronzarsi e fare
sesso.
La
vita di
Billie sarebbe continuata sulla stessa piatta linea d’onda, lo sapevo
benissimo, perché non sarebbe mai cambiata.
Lui non sarebbe mai cambiato e io non
potevo rimanere bloccata a Rodeo per abitare in uno scantinato e vivere
alla
giornata, senza pensieri e senza soddisfazioni.
Non
potevo
farlo, nonostante il mio cuore stesse implorando di non andarmene da
lì, perché
lui era nelle mani di Billie,
ormai.
Lasciai
che
la lacrime scendessero e mi sedetti sul letto, abbracciandomi le
braccia con le
mani, conscia del fatto che sarebbe stata una delle ultime volte in cui
avrei
potuto sentire lo scomodo materasso sotto il mio corpo.
Sarei
dovuta
partire una settimana dopo, per la preparazione che ogni matricola
doveva fare
prima dell’inizio della sua carriera studentesca nel collegio.
Armstrong
se
ne stava in piedi con le braccia aperte, il viso ancora contorto dalla
rabbia e
i capelli scompigliati, che probabilmente non pettinava da mesi; erano
così che
avrei voluto ricordarlo nella mia mente: bello, vizioso, trasgressivo,
ribelle.
Il
Billie
che tutti conoscevano, ma che solo io avevo realmente avuto l’onore di
conoscere.
Il
ragazzo
cambiò espressione, abbandonando quell’aria arrabbiata e acquistando un
fare
comprensivo, che non avrei mai pensato di poter vedere sul suo volto.
Quante
altre
cose avrei dovuto scoprire in quel giorno che sembrava non dover finire
mai?
Si
sedette
sul letto proprio vicino a me e potei sentire il rumore del suo
respiro, che
ascoltavo ogni mattina e ogni notte, prima di addormentarmi, e
conoscevo ormai
meglio del mio.
Come
avrei
potuto sopravvivere senza il punto di riferimento che mi aveva salvata
dalla
mia ignoranza?
Billie
mi
aveva reso una persona nuova, migliore ed ora io gli stavo dicendo che
me ne
sarei andata, senza voltarmi due volte indietro; lo stavo abbandonando.
Sentii
le
sue braccia appoggiarsi sui miei fianchi, stringermi forte e farmi
voltare
parzialmente, solo per riuscire ad abbracciarmi; appoggiai la testa sul
suo
petto, lasciando che le lacrime bagnassero la sua maglietta di un
qualche
gruppo musicale a me ignoto.
Lo
sentii
accarezzarmi i capelli, proprio come fa un padre con sua figlia quando
di notte
lo sveglia perché ha paura dell’uomo nero che si nasconde sotto il suo
letto.
Mi
lasciai
inebriare dall’odore di Billie, che per me era come una droga: non
potevo più
farne a meno, ma nello stesso tempo non potevo viverci insieme.
Catturai
i
suoi occhi ed essi non cercarono di scappare via, ma rimasero fissi nei
miei,
quasi a volermi penetrare, a volermi possedere, come faceva tutte le
notti, da
un po’ di tempo a questa parte.
Sentii
due
semplici paroline premere per uscire, erano lì, annidiate nella mia
gola che
scalpitavano perché io le pronunciassi.
-Ti amo, Billie.-
Forse
scelsi
il momento meno giusto per dire ciò che fremeva per essere detto da
troppo
tempo ormai; forse sbagliai decisamente a rendere vocale ciò che
sentivo così
profondamente.
Forse
quello
fu uno degli sbagli più grossi della mia vita, ma non me lo domandai
troppo,
non ci pensai su qualche minuto in più, perché sentivo che doveva
essere così.
Doveva
essere detto, perché l’amore che provavo nei confronti di quello strano
ragazzo
punk sembrava non avere un inizio e nemmeno una fine; era un qualcosa
di
inspiegabile, sentivo solamente che non avrei potuto tenermelo dentro
per un
solo minuto di più.
Il
mio
coinquilino mi guardò con occhi estremamente tristi, quasi si stesse
trattenendo per non urlare o scalpitare di non andarmene, perché sapevo
che
Billie non mi avrebbe mai trattenuta se non era ciò che volevo fare.
Mi
avrebbe
lasciata andare.
Sentii
la
sua voce uscire in un sussurro così debole, che se non fossimo stati in
completo silenzio probabilmente neanche avrei sentito ciò che mi disse.
̶ Idem.
*****
Angolo Eryca:
Avviso
importante a
tutti i lettori: Il mio Nickname è cambiato da Snap95 a Eryca.
Torno dopo un lungo periodo di assenza e
mi sento in dovere di chiedere scusa per la troppa attesa che vi ho
imposto.
Ma, come potete vedere, questo è un
capitolo decisamente drastico e difficile e non potevo permettermi di
scriverlo
in modi diversi da come lo avevo impresso nella mia mente.
Si, Amy se ne va, miei cari; era
prefissato così fin dall’inizio, sapevo già come avrei terminato la
storia e,
beh, devo farvi sapere che questo è l’ultimo
capitolo effettivo.
Scriverò e pubblicherò un ultimo
capitolo, che sarà l’Epilogo della storia, ma non aspettatevi decisioni
improvvise o cambiamenti all’ultimo minuto, perché non avverranno.
Questo è ciò che accadrà.
È triste, lo so, spero non mi odierete e
sono fiduciosa che voi possiate capire la mia scelta: Amy e Billie non
hanno
futuro insieme, nonostante tutto.
Spero abbiate apprezzato il capitolo e il
suo contenuto, in fondo si sono dichiarati amore.
Un grosso abbraccio,
la vostra Eryca, ex Snap95-
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Capitolo 17 *** I hope you had the Time of your life ***
Parental
Advisory: The static age
Epilogo
I
hope you had the Time of your life
Una settimana dopo presi l’aereo che mi
avrebbe portata a New York.
Mi ricordo ancora la sensazione che mi
strinse lo stomaco, impedendomi di respirare, quando feci il check-in e
guardai
Billie, consapevole del fatto che non avrebbe potuto seguirmi.
Non
lo avrei rivisto mai più.
Non dimenticherò mai quei suoi occhi
verdi, colmi di dolore, che mi fissavano da distante, le sue mani
poggiate
sulle transenne, quasi volessero spaccarle per potermi raggiungere;
devo
ammettere che per un qualche istante sperai disperatamente che saltasse
le
sbarre e venisse a prendermi, per riportarmi nella nostra piccola tana
felice,
lo scantinato dei Green Day.
Quando fui sull’aereo scoppiai in lacrime
e non smisi di piangere per tutta la tratta; non posso fare a meno di
farmi
scappare un sorriso al ricordo dell’hostess impacciata che non sapeva
come
essermi d’aiuto.
Certo, non fu semplice lasciare Billie Joe
e tutto ciò che lui aveva rappresentato per me: il cambio della mia
vita, la
presa di coscienza della mia condizione; mi aveva aperto gli occhi alla
realtà,
obbligandomi a prendere le redini della mia esistenza.
Grazie a lui avevo capito chi
volevo diventare.
La Juillard si era rivelata fin da subito
la scelta migliore per la mia vita; avevo iniziato ad impegnarmi con
tutta me
stessa nella danza, studiando, sudando, combattendo,
tenendo a mente tutto ciò che Armstrong mi aveva insegnato.
Ricordo che dopo qualche mese che mi
trovavo a New York ricevetti una chiamata: era Billie Joe; non ci
sentivamo da
settimane e fu traumatico per me udire la sua voce, rendendomi conto
che
suonava ancora immensamente familiare.
Mi disse che Celine era morta di overdose
la sera precedente. L’aveva trovata lui stesso in una delle sue ronde
notturne,
il corpo accasciato in un bagno pubblico, la siringa ancora piantata
nel
braccio.
Fu un duro colpo per me e pensai anche di
tornare a Rodeo per assistere ai funerali, ma Billie mi disse che non
ci
sarebbe stata una funzione galante, semplicemente una piccola sepoltura
a cui,
probabilmente, avrebbero assistito lui, Mike, Trè e Maggie.
Mi informò anche del fatto che, ora, Mike
e The Strange formavano una bizzarra coppia, notizia che mi fece
sorridere.
La mia vita era ormai distante da Rodeo,
da Billie e i Green Day; a volte sentivo la mancanza del calore di
Armstrong,
delle sue battute taglienti, della sua musica fastidiosa che mi
svegliava
all’alba, dei suoi penetranti occhi verdi, ma poi rivolgevo
l’attenzione alle mie
scarpette da ballo appoggiate sul letto della mia stanza e mi rendevo
conto che
il mio posto era proprio dove mi trovavo in quel momento.
Quel periodo fu triste, difficoltoso e lo
passai in completa solitudine, concentrata al massimo su ciò che era il
mio
obiettivo: diventare una ballerina.
****
Sono passati diversi anni dal giorno in
cui lasciai Billie all’aeroporto di Rodeo e, a causa di ciò che mi sta
davanti,
mi sono ritrovata a fare un salto nel passato, rivivendo tutti quegli
eventi
che mi hanno cambiato la vita, rendendomi una persona nuova.
Il frastuono al di fuori del mio camerino
mi irrita, mi rende impossibile concentrarmi e immergermi nella parte
che ho
sempre desiderato interpretare: Il Lago
dei Cigni.
Sorrido, rendendomi conto che diversi anni
prima, nel teatro comunale di Rodeo mi esercitavo per lo stesso
spettacolo,
anche se a livelli meno professionali.
Ho
raggiunto il mio sogno, mi
dico mentre ritocco il fondotinta sulle guance pallide.
Sono diventata la Prima Ballerina del
Balletto di New York, proprio come ho sempre sognato, fin da quando ero
una
piccola bimba che danzava sulle note dello Schiaccianoci.
Questa sarà la mia serata, è la Prima e il
teatro sarà pieno di persone, sarò davanti ad un pubblico raffinato,
abituato a
performance perfette.
“Tattoos
of memories
And
dead skin on trial
For
what it’s worth? It was worth all the
while.
It’s
something unpredictable, but in the end
it’s right
I
hope you had the time of your life”
Sento quelle parole toccanti cantate da
una voce che conosco bene.
Rivolgo la mia attenzione alla televisione
e vedo che stanno facendo un primo piano ad un uomo decisamente basso
dai
capelli neri che indossa un paio di pantaloni sgualciti, tiene una
chitarra in
mano e ora si dimena come se fosse del tutto impazzito.
Non lo riconoscerei se non fosse per un
particolare che non potrei dimenticare per nessuna ragione: due occhi
verdi
come lo smeraldo.
Occhi negli occhi.
La voce dello speaker che commenta il
concerto suona alta in tutta la piccola stanza che è il mio spogliatoio.
̶ Adesso partono con When
I Come Around, gente! Vi ricordiamo che stiamo seguendo in
diretta il concerto della band di fama mondiale, i favolosi Green Day!
̶
Sorrido, pensando che non sono stata
l’unica ragazza di Rodeo che ha avuto successo, realizzando tutti i
suoi sogni:
anche tre squattrinati ragazzi punk di periferia si sono dimostrati
degni di
fama.
Rido nel vedere la folla di ragazzine
innamorate e scatenate che urlano al cantante dichiarazioni di tutti i
tipi,
rendendosi anche un po’ ridicole.
Buona
fortuna per il tuo concerto, Billie Joe Armstrong, penso, mentre esco dal camerino per salire
sul mio palco in contemporanea con i Green Day.
Fine.
Angolo Eryca:
Spero con tutto
il mio cuore che questa
storia abbia lasciato dentro di voi qualcosa, vi abbia fatti emozionare
e vi
sia davvero piaciuta.
Io ci ho messo
l’anima, realmente.
Voglio
ringraziare tutti i miei lettori,
tutti colori che
mi hanno seguito
dall’inizio fino alla fine, chi ha sempre recensito, chi ha inserito la
storia
tra le Preferite, le Seguite o le Ricordate.
O, anche più
semplicemente, chi ha solo
letto.
Ma il grazie più
sincero di tutti va alla
mia mamma, che ha letto tutti i capitoli della storia, dal primo
all’ultimo,
sostenendomi anche quando ero giù di morale.
Grazie a tutti
voi, che siete la ragione
della mia scrittura,
Vostra,
Eryca.
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