Profumi di menta e vaniglia. di BlueCinnamon15 (/viewuser.php?uid=87278)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
capitolo 1
Benissimo gentaglia,
innanzitutto buongiorno, o forse è meglio dire BUONASERA!
Eccomi qua con una nuova storia, non mi ricordo neanche come mi sia
venuta inmente, so solo che un pomeriggio sono corsa a casa da scuola
con le mani che fremevano perchè avevo una nuova idea e
volevo
scrivere.
Spero non sia un fiasco totale, ci sto davvero mettendo l'anima e mi
farebbe piacere ricevere dei pareri, giusto per sapere se vale la pena
continuare o no.
*faccina-con-occhi-come-quelli-del-gatto-con-gli-stivali*
Ah, e non preoccupatevi, so che è un capitolo un po' da
suicidio
perchè è piuttosto malinconico, ma vi prometto
che le
acque si smuoveranno.
Un grazie a tutti
Buona lettura
Capitolo 1
Lo scroscio degli applausi
riempì il teatro quando Kurt terminò il suo
ultimo assolo. Fu talmente forte e
pieno che ne fece tremare le pareti, gli rimbombò nelle
orecchie e arrivò
dritto al cuore, facendolo pulsare più forte.
Le guance gli si colorarono
di rosso acceso e gli occhi brillarono riempiendosi di lacrime
malcelate di
felicità e soddisfazione, di fronte a quell’ aspettato successo.
Kurt amava paragonare come
si sentiva sul palco all’ innamorarsi, il cuore che batte
più forte, la
sensazione di galleggiare nell’ aria, gli occhi lucidi e
l’emozione che rimane
intrappolata nella gola, impendendone il respiro.
Amava pensare ciò
perché
forse lo aiutava a sentirsi un po’ meno solo, un
po’ meno triste, e lo illudeva
che la sua vita fosse un successo in tutti i campi, non solo sul
palcoscenico.
Kurt era veramente
innamorato, era innamorato delle travi di legno scuro del teatro di
Broadway,
del pesante tessuto rosso del sipario, del sottile filo di luce che si
intravedeva tra i due lembi accostati, quando lo spettacolo non era
ancora
iniziato e la sala iniziava a riempirsi, amava i profumi delle donne di
alta
classe che si sedevano nei divanetti sventolando un ventaglio
ostentandone gli
intarsi di diamanti, e i minuscoli grani di polvere che intravedeva
nell’ aria
quando cercava di distrarsi per non cadere nel panico.
Ma soprattutto amava il
credersi innamorato. Perché se non si fosse creduto tale
probabilmente sarebbe
affondato, scivolato su una di quelle belle travi marroni o inciampato
nel
tessuto rosso cadendo dal palcoscenico rimanendo fermo, immobile.
Perché solo quando recitava e cantava riusciva a vivere, gli
applausi erano il
suo ossigeno, il resto, la sua vita al di fuori dei musicals, era solo
una mera
successione di eventi di poca importanza, così come le
numerose donne che aveva
avuto. Non contavano niente.
Era questo che aveva deciso
di amare tempo addietro. Aveva potuto scegliere, e aveva scelto.
Si sentì raggiungere dai
suoi colleghi che lo circondarono e, stringendosi le mani e portandole
in aria,
si inchinarono al pubblico che applaudiva.
Poi, in un rituale
consolidato di spettacolo in spettacolo, lo sospinsero in avanti,
permettendogli di raggiungere il centro del palco.
Senza vergogna fece una
piroetta su sé stesso e si inchinò più
profondamente, sentendo con
compiacimento il rimbombo degli applausi aumentare vertiginosamente.
Poteva
addirittura sentire le mani degli spettatori arrossarsi per lo forza
con cui lo
applaudivano.
Indietreggiò tornando
dagli
altri e, dopo un ultimo inchino, il sipario si chiuse.
Era
ormai da due anni che lavorava a Broadway.
Due anni pieni, si disse Kurt
mentre,
nel suo camerino, si toglieva il costume di scena.
Pose la calzamaglia sulla
sedia accanto, e passò una buona quantità di
salviettine struccanti sul viso, cercando
di togliere il pesante strato di cipria che era costretto a mettere
ogni spettacolo.
Era il momento più
difficile
della giornata, quello. Lo svestirsi segnava in modo definitivo il suo
ritorno
alla vita reale, sempre che per Kurt fosse più reale la vita
fuori che dentro
il teatro.
Ormai neanche lo sapeva
più.
Vivere era diventato
meccanico, come se dormire e magiare e camminare fossero solo una
cornice non
degna di grande attenzione.
Quando, nei momenti di
maggiore sconforto, si ritrovava a pensare alla sua vita, a quello che
aveva
passato, si portava istintivamente le mani alla bocca, chiudeva gli
occhi e
canticchiava qualcosa per cancellare le immagini che riaffioravano
dolorosamente alla memoria.
Cantare lo distraeva. Lo
aveva sempre fatto e sempre lo avrebbe continuato a fare. Ne era sicuro.
Quando finì di rimuovere
il
trucco dal viso, indossò i suoi jeans da mille dollari a
gamba e una delle sue
ormai infinite magliette: se c’era qualcosa di cui almeno non
si doveva
preoccupare erano i soldi. Lavorare a Broadway fruttava bene, e almeno
quello
contribuiva a rendergli la vita più facile: non sarebbe mai
rimasto senza soldi
per la sua mania compulsiva di comprare vestiti firmati. No, quello non
sarebbe
decisamente mai stato un problema.
I soldi erano uno dei
ragionamenti cinici che si costringeva a fare ogni giorno: lo
distraevano. E
non desiderava altro.
Non
aveva mai desiderato altro.
Almeno non da quando si
costringeva a ricordare.
Si
stava mangiando le unghie dal nervoso.
Dannazione!
Pensò quando se ne accorse,
Non le mie unghie, non le mie unghie
così
perfettamente e amorevolmente curate.
Così
si costrinse ad allontanarle dai denti che continuarono a
sbattere, non trovando però niente con il quale soddisfare
la loro
frustrazione.
E’ un’ ora che
sono seduto
qui, un’ ora! Quando si decideranno a venire a dirmi
qualcosa, è una questione
così difficile da decidere?
Poi si
diede mentalmente dello stupido perché, sì, era
una questione
difficile, difficile quanto importante, avrebbe determinato il suo
futuro, nel
bene o nel male.
Il
ragazzo al suo fianco fece un sorriso tirato, si vedeva che anche
lui era nervoso, anche se cercava di non sembrarlo,
d’altronde era lì per
sostenere il suo ragazzo, non per renderlo ancora più
spaventato.
Lentamente
lasciò scivolare lo sguardo su di Kurt. Lo vide corrugare le
sopracciglia in un’ espressione eccessivamente affranta nel
notare le unghie
ormai rovinate, lo vide cercare di rilassarsi prendendo due respiri
profondi, e
chiudere gli occhi canticchiando un motivetto per calmarsi.
Poi
vide sé stesso allungare la mano prendere quella del
compagno, e
gli sorrise, mettendo in quel sorriso tutta la fiducia ed il calore che
gli riuscì.
L’altro ragazzo aprì gli occhi, smise di cantare e
sorrise in risposta, facendogli
capire che apprezzava il tentativo, ma che neanche lui sarebbe mai
riuscito a
calmarlo in una situazione simile.
Improvvisamente
la porta di legno scuro intagliato si aprì, ed il
direttore del teatro, un uomo sulla settantina con una folta barba
bianca ed un
cipiglio fin troppo severo, ne uscì
chiamando il nome di Kurt. Quest’ultimo
saltò in piedi in una frazione
di secondo, inciampando su se stesso e rischiando di cadere a terra, se
non
fosse stato per il ragazzo a fianco che, conoscendo la sua
scoordinazione unita
all’eccitazione del momento, aveva avuto il presentimento di
ciò che stava per
accadere e l’aveva afferrato saldamente fermando la caduta.
Aveva
poi allargato le labbra nel più grande sorriso che aveva
potuto, e,
stringendo Kurt in un caloroso abbraccio, aveva poggiato
la faccia sul suo cappotto blu scuro,
inspirandone il fresco profumo di menta e vaniglia.
L’uomo,
ancora fermo vicino a loro ,si era quindi schiarito la gola con
un’ espressione scocciata picchiettando con la punta della
scarpa sul
pavimento.
“Buona
fortuna Kurt” gli sussurrò quindi dolcemente
l’altro ragazzo.
“Grazie,
Blaine”
E
staccandosi da lui si diresse velocemente verso la porta seguendo il
direttore del teatro.
Blaine.
Quel nome ancora gli
lasciava l’amaro in bocca, quelle poche volte che si
permetteva il lusso di
pensarlo. Il che non succedeva spesso. Anzi, quasi mai.
Indossò il cappotto blu
scuro, il suo preferito, e, chiudendo la porta dietro di sé,
s’incammino fuori
dal teatro.
Declinò cortesemente le
proposte dei suoi colleghi di uscire insieme a bere qualcosa e, non
appena
fuori, respirò a fondo l’aria fresca di New York.
New York che ormai era casa
sua, New York che gli ricordava che i sogni si possono avverare,
credendoci. Ma
New York che gli ricordava anche che il suo, di sogno, non si era
avverato per
davvero, non interamente, almeno. New York che stava diventando una
prigione
sicura.
“Blaine.”
Pronunciò lentamente quel nome, assaporandone il retrogusto
dolciastro.
Quando però si accorse
di
cosa aveva fatto si insultò mentalmente, non doveva
lasciarsi andare in un modo
così esagerato, non doveva permettersi di lasciare che la
sua mente vagasse così
liberamente.
Quando
Kurt attraversò la porta seguendo il direttore del teatro
sentì
il freddo invadergli le membra per aver lasciato Blaine nella sala
d’aspetto,
ma si impose di non pensarci, c’era già il
nervosismo a renderlo incapace di
ragionare razionalmente.
Il
direttore lo condusse attraverso un dedalo di porte e corridoi verso
il suo ufficio e lo fece accomodare su una sedia di fronte ad
un’ elegante
scrivania, mentre lui prendeva posto dall’ altro lato,
sedendosi su una poltrona
imponente.
“Bene”
iniziò toccandosi la barba con fare pensoso e ordinando un
plico
di fogli sull’ angolo della scrivania “Kurt Hummel,
giusto?”
Kurt
annuì in preda all’ agitazione. Le mani che si
muovevano
torturandosi a vicenda, i denti che battevano, il sangue che gli
pulsava nelle
orecchie, il respiro che saliva a fatica.
“Ha
passato le selezioni.”
Oh.
Si era
preparato talmente tanto a ricevere un rifiuto, aveva immaginato
talmente tante volte il momento in cui gli avrebbero comunicato che non
aveva
passato la selezione che non aveva minimante pianificato a come reagire
in caso
contrario.
Forse
fu per quello che non appena lo sentì gli sembrò
che il cuore si fosse
fermato per un impercettibile secondo, che il suo stomaco gli fosse
arrivato in
gola insieme ai suoi polmoni.
Non era
pronto, non era assolutamente pronto.
Una
lacrima si affacciò agli occhi ormai rossi ma Kurt si
affrettò ad
asciugarla.
Non
sapeva cosa dire, non aveva parole, boccheggiò per qualche
secondo
ma le nessun suono gli uscì di bocca.
Era il
sogno di una vita. Che si avverava.
Quando
vide che il ragazzo non accennava a parlare il direttore,
comprendendone l’emozione, aggiunse che le prove per il
musical sarebbero
iniziate il giorno successivo e che avrebbe dovuto presentarsi un
attimo prima
dell’ orario prestabilito per prendere familiarità
con i colleghi e con la
troupe.
Kurt
annuì ancora senza fiato e, dopo aver stretto la mano al
direttore
ed averlo ringraziato in tutti i modi possibili, si fiondò
fuori dalla porta,
tra le braccia di Blaine il quale capì, con una sola
occhiata, che ce l’aveva
fatta, che era andato tutto bene.
Kurt spalancò le braccia
per
attirare l’attenzione di un qualche tassista, e, con sua
enorme fortuna, uno si
fermò subito vicino al marciapiede.
Dopo esserci salito, gli
disse l’indirizzo del suo appartamento, poi si
appoggiò sul sedile e chiuse gli
occhi, massaggiandosi le tempie e cercando di non pensare a niente.
Le luci di New York
saettavano veloci fuori dai finestrini dell’ auto, spettacolo
suggestivo per un
turista, ma non di grande rilevanza per Kurt, che ormai era abituato.
Quando il tassista
annunciò
che era giunto a destinazione prese una manciata di soldi dal
portafoglio e
glieli porse, dicendo che il resto lo avrebbe potuto tenere, quindi si
affrettò
ad uscire dal taxi, non sopportando l’odore di muffa ed usato
che ne impregnava
i tessuti.
Cercò le chiavi nella
sua
borsa in ecopelle preferita e velocemente aprì la porta del
suo loft, poggiò le
chiavi sul comodino, appese il cappotto all’ appendiabiti
vicino alla porta e
si sdraiò sul divano rifugiandosi nella quiete.
Odiava quella quiete,
perché
lo faceva pensare. Aveva paura della notte, di quando si ritrovava da
solo,
perché i pensieri sarebbero inevitabilmente riaffiorati, e
così ai ricordi.
Ed era per quello che quando
poteva si circondava di persone, perché lo distraevano.
Si maledisse mentalmente per
non aver accettato l’invito dei suoi colleghi. Tanto
l’importante sarebbe stato
fare presenza, intervenire due o tre volte nella conversazione, e poi
ascoltare
i loro discorsi lunghi ed inutili. Quello sì, che sarebbe
stato utile. Avrebbe
avuto la testa troppo impegnata a chiedersi come mai esistessero ancora
stupide
persone che credevano che il leopardato andasse di moda, per pensare al
passato.
Invece si trovava sul
divano, inerme, e quel giorno la sua mente sembrava molto
più propensa del
solito a lasciarsi andare, e quello non aiutava di certo.
Improvvisamente sentì il
rumore del chiavistello girare e la porta sbattere. Non aprì
gli occhi.
Probabilmente era una ragazza. Bene. Significava distrazione.
Il tocco delicato di due
mani lo raggiunse pochi attimi dopo attraverso la stoffa sottile della
camicia,
e, tra le ciglia semichiuse, intravide un viso famigliare.
Neanche se ne ricordava il
nome, probabilmente era qualcosa di simile a Danielle o Michelle. Poco
importava.
La ragazza iniziò a
sbottonargli lentamente il colletto della camicia, i sui capelli che
gli
solleticavano il mento.
Non disse niente. Non diceva
mai niente, perché gli unici sentimenti che provava erano
disgusto e
solitudine. Infinita, profonda, amara, cara, intima solitudine.
Con un sospiro si
preparò a
mentire un’altra volta, prima alla ragazza che si stava
strofinando contro di
lui ed infine a sé stesso.
Blaine si aggiustò il
colletto della camicia guardandosi allo specchio e si
annodò, con patologica
lentezza, il suo papillon rosso.
Se c’era una cosa che
adorava nell’ insegnare alla Dalton era che finalmente poteva
vestirsi come
voleva e rinunciare a quell’ orribile cravatta che sempre
aveva odiato.
Guardò
l’orologio e si
accorse che il suo amore per il fiocco annodato con precisione
millimetrica gli
aveva fatto perdere un’ enorme quantità di tempo,
e che ormai sarebbe arrivato
inesorabilmente in ritardo alla lezione.
Poco male, i suoi studenti
lo adoravano anche per i pochi minuti che guadagnavano dopo il suono
della
campanella. Ormai conoscevano tanto bene il loro professore da sapere
che la
sua seconda malattia, oltre ai ridicoli fiocchettini con cui adorava
strozzarsi
il collo, era il ritardo.
Blaine era un ritardatario,
cronico. Senza speranza di redenzione.
Quest’ultimo si
affrettò
quindi, maledicendosi mentalmente, a prendere la sua tracolla con i
libri,
chiudere la porta del suo alloggio nella scuola e correre come un
forsennato
per raggiungere la sua aula.
Giunto davanti alla porta
prese un respiro profondo, giusto per non avere l’espressione
addormentata di
un bradipo e si passò una mano nei capelli per sistemarseli.
Quando però si accorse
che
erano privi del consueto strato di gel quasi imprecò ad alta
voce.
Se n’era scordato. Bene,
quella giornata iniziava male, molto.
Appena mise piede nella classe
gli alunni corsero ai loro posti, fingendo di esserci sempre stati, e
non di
essere appena stati beccati a chiacchierare con un compagno dalla parte
opposta
dell’ aula, ad essere appoggiati alla finestra a raccontarsi
gli ultimi
pettegolezzi o, ultimo ma non per importanza, a ballare la macarena
facendo
girare la cravatta sulla testa saltellando da un banco all’
altro. E con
saltellando da un banco all’ altro si intende sopra
il banco.
Blaine raggiunse la cattedra
con studiata lentezza e assunse il cipiglio più severo che
aveva nel suo
repertorio, anche se dentro di sé ridacchiava e ricordava
con nostalgia i
momenti in cui anche lui era stato un alunno spensierato come i ragazzi
in
quella stanza.
Gli
mancavano quei tempi. Dannazione se gli mancavano.
Costringendosi a cambiare la
direzione dei suoi pensieri e vedendo che la classe continuava a
parlare e non
accennava a smettere si schiarì la voce attirando la loro
attenzione.
“Buongiorno
ragazzi” disse
quindi.
Un mugugno indistinto si
levò tra le file. Il professor Blaine Anderson,
dall’ alto dei suoi venticinque
anni, poteva anche essere il professore più simpatico e
disponibile di tutta la
scuola, ma perdeva di sicuro mille punti per il solo fatto che
insegnasse
storia.
Già, quello decisamente
non
lo aiutava ad essere apprezzato dai suoi studenti che ogni volta che
leggevano
sui loro orari la parola storia
venivano presi dal panico.
L’ora passò in
fretta.
Almeno, per lui molto in fretta, per gli studenti scommetteva che era
stata una
vera a propria tortura. Ben sessanta minuti sulla guerra di secessione.
Da
suicidio.
Fortunatamente per loro
Blaine aveva deciso che la prossima lezione l’avrebbe
dedicata a guardare un
film sull’ argomento.
Quando la campanella
suonò
si diresse verso la caffetteria.
Ricambiò il saluto di
qualche studente che si affrettava in ritardo verso la sua classe e non
appena
entro nel piccolo locale sentì subito la fragranza di
caffè invadergli le
narici. Ah, il suo amato caffè. Non avrebbe mai resistito
senza.
Seduto da solo ad uno dei
tavolini del bar si perse a guardare i disegni del vapore che saliva
dalla
tazza di caffè fumante, divertendosi a soffiarci sopra per
dissolverli.
Il
giorno dopo l’audizione Kurt si era svegliato prestissimo. Se
lo
ricordava benissimo perché, essendo che dormivano nello
stesso letto, non
appena era balzato a sedere per il suono della sveglia il materasso si
era
alzato di colpo, infliggendo a Blaine un doloroso colpo alla spina
dorsale.
Ricordava
se stesso insultare ad alta voce il compagno e poi girarsi e
tentare di tornare a dormire.
Fatica
sprecata perché Kurt gli si era letteralmente gettato
addosso
urlandogli che era il gran giorno, che non gli avrebbe più
parlato se, citando
letteralmente, non avesse mosso quelle chiappe dal letto e non si fosse
fatto
trovare pronto per accompagnarlo a teatro, in cinque
minuti.
Temendo
le ire del suo ragazzo Blaine aveva fatto esattamente come
richiesto. Si era fiondato giù dal letto e aveva occupato il
bagno, sapendo
ormai bene che se Kurt ci fosse entrato prima di lui sarebbe stata la
fine.
Ricordava
poco di quello che era successo poi, solo sprazzi dai colori
confusi. Ricordava di aver bevuto tre caffè bollenti tutti
di fila, per cercare
di restare sveglio e di aver raggiunto il teatro con un taxi
maleodorante.
Si
ricordava che Kurt gli aveva stretto la mano talmente forte che
credeva gliel’avrebbe distrutta.
Si
ricordava stringerlo in un abbraccio soffocante prima di lasciarlo
entrare in teatro, e di avergli sussurrato che l’amava e che
era fiero di lui,
che se lo meritava e che avrebbe fatto venire i brividi a tutti.
Quella
era l’ultima volta che aveva avuto un contatto del genere con
Kurt.
E tutto
cio che successe dopo se lo ricorava bene, purtroppo.
“E’ libero,
qui?” una voce
lo risvegliò dai suoi pensieri, sollevò
velocemente lo sguardo e vide un uomo,
probabilmente della sua stessa età, rivolgergli un timido
sorriso.
Si guardò un attimo
intorno
notando che tutti i posti nella caffetteria erano occupati, quindi
rivolse lo
sguardo al suo interlocutore e, sorridendo a sua volta, ripose
affermativamente.
L’uomo prese posto nella
sedia davanti a lui e gli porse la mano.
“Steve Dover, sono un
nuovo
insegnante” si presentò.
“Blaine Anderson,
confinato
in questo posto sin dal liceo” sorrise in tutta risposta il
moro stringendogli
la mano mentre per un secondo si concedeva il lusso di osservare il
nuovo
arrivato: alto, muscoloso, capelli castani e due grandi occhi verdi.
Poteva non aver avuto una
relazione con un altro uomo da tanto ma Blaine sapeva riconoscere
quando una
persona era bella. E lui era bello. Dannatamente bello, e con un fare
leggermente impacciato che lo rendeva ancora più
interessante.
Rendendosi conto di dove
erano andati a finire i suoi pensieri arrossì
improvvisamente e si aggrappò al
primo argomento che gli veniva in mente per fare un po’ di
conversazione.
“Allora, ehm,
Steve” si
schiarì la voce in imbarazzo “Come mai qui alla
Dalton?”
Cretino
si
insultò tra sé e sé,
se è un
insegnante sarà qui per insegnare, no?
Quello non sembrò
accorgersi
dell’ ingenuità della domanda “Insegno
letteratura, sono qui in sostituzione al
professor Phillips,
che è appena stato
trasferito. Tu, Blaine, che cosa insegni?”
Blaine.
Era bello il suo nome
pronunciato da lui, così consapevole.
Non si sentiva così da
tanto. Non sentiva quel leggero battere del cuore nel petto da due anni
ormai.
Forse non era esattamente la
stessa cosa di quando stava con Kurt, con lui il cuore martellava quasi
volesse
uscire dal petto, ma quel battito leggermente velocizzato era comunque
un buon
inizio.
“Kurt.”
Sussultò quando si
accorse
di quello che la sua mente aveva appena formulato, di quello che si era
imposto
come termine tabù, e che invece aveva appena pronunciato, a
bassa voce, senza
neanche rendersene conto.
Steve sembrò
accorgersene
perché chiese se andasse tutto bene, e Blaine, riacquistando
il sorriso di
sempre, disse che si era semplicemente distratto un momento e si
affrettò a
rispondere alla domanda.
“Mi hanno affibbiato
storia,
perché evidentemente direttore del coro della scuola non
è valido come lavoro”
“Direttore del
coro?” chiese
Steve stupito “Avete un coro, in una scuola di soli
ragazzi?”
Blaine annuì compiaciuto
“Sì, e sono anche bravi. Questa Domenica si
esibiscono per gareggiare alle
Provinciali contro latri licei della zona, puoi venire a vederli se
vuoi”
StupidoStupidoStupidoStupidoTroppoAvventatoTroppoAvventanto.
“Volentieri”
disse invece
Steve, sorprendendolo.
Oh. Questo cambiava le cose.
“Perfetto”
disse allora
Blaine cercando di darsi un po’ di contegno e di non mostrare
quanto la sua
risposta lo avesse sorpreso e destabilizzato.
Non era più abituato a
parlare con un bel ragazzo. No davvero.
“Ora devo
andare” disse il
moro ricordandosi che aveva un appuntamento per pranzo “Mi
raccomando. Ti
aspettiamo Domenica alle nove di sera all’ auditorium del
McKinley.”
“Non mancherò
per nulla al
mondo”
Blaine era pronto a giurare
che gli avesse appena fatto l’occhiolino.
Entrò nel ristorante
italiano in ritardo di venti minuti, tanto per cambiare.
Non appena adocchiò
Rachel
Finn Brittany e Santana si affrettò a raggiungerli.
“Ehi” li
salutò appena
arrivato.
“Ti stavamo dando per
disperso, gnomo” lo salutò amorevolmente Santana,
ricevendosi una gomitata da
Brittany che la guardò con fare ammonitrice, obbligandola a
chiedere scusa,
cosa che le sembrò costare un enorme sforzo.
Rachel e Finn si limitarono
a sorridergli teneramente.
Grazie al cielo aveva ancora
loro ad aiutarlo ed a fargli dimenticare qualsiasi motivo per essere
triste.
“Allora Blaine, come va
la
vita alla Dalton?” Chiese Rachel mentre il moro prendeva
posto al tavolo con
loro.
“Come al solito, studenti
che saltano dalla gioia quando annuncio che non interrogherò
e che si mettono
a recitare il padre nostro quando invece c’è una
verifica, l’unica cosa che
rende felici tutti rimangono ancora le lezioni con gli Warblers, quelle
vanno
decisamente bene.” Guardò Rachel con un sorriso di
sfida e aggiunse:
“Quest’anno il tuo Glee Club non
riuscirà a battermi, Rachel, te lo puoi
sognare.”
La ragazza non sembrò
minimamente toccata. “Abbassa
la cresta
Blaine, non sarà così facile sconfiggermi, un
altro anno le Nuove Direzioni
passeranno le selezioni. Non so se te lo ricordi ma stai parlando con
la più
richiesta allenatrice di Glee Clubs di tutto l’Ohio”
Blaine sorrise al tono
combattivo della ragazza ed alzò le mani in segno di resa.
Il pranzo passò
velocemente,
tra chiacchiere sulla squadra di Cheerleaders che Santana e Brittany
allenavano, i racconti delle numerose vittorie di Finn nella nazionale
di
football, e gli infiniti sproloqui di Rachel su quanto sia difficile
girare per
tutto l’Ohio essendo enormemente richiesta da tutti i
maggiori cori di canto
coreografato.
Blaine adorava quei momenti,
quando tutti si riunivano e parlavano delle loro vite. Certo, non
accadeva
spesso. Erano rari i momenti in cui si trovavano tutti a Lima, ma
quando
capitava non potevano di certo mancare i loro ritrovi.
La porta del ristorante
sbatté di colpo facendo voltare i cinque amici
contemporaneamente.
“Mercedes!” un
urlo di
sorpresa si levò da loro alla vista della ragazza che era
appena entrata.
“Sorpresa”
disse in tutta
risposta quella prendendo una sedia e sedendosi vicino a loro.
Blaine fu il primo a
risvegliarsi dallo shock in cui tutti erano caduti dopo il suo arrivo,
dopo averla guardata con la bocca spalancata per una
quantità di tempo infinita.
“Ma.. Ma.. Che ci fai
qui?
Non ti aspettavamo! Credevo- Credevo fossi a New York!”
Mercedes sorrise agli amici
e mandò uno sguardo complice a Rachel, con la quale aveva
segretamente
organizzato il suo arrivo.
“Diciamo che avevo
bisogno
di una pausa” sorrise “e poi” aggiunse
con una faccia esageratamente affranta
“essere una cantante famosa è stancante, davvero,
non ve lo augurerei mai!”
Tutti risero e iniziarono a
tempestarla di domande su come fosse la vita a New York, su dove avesse
trovato
casa, su come fosse essere la cantante blues più richiesta
in tutti i locali
più in, quelli
frequentati da VIP del
calibro di Brad Pitt, per intenderci.
“…E poi
dovreste vedere
Starbucks, ogni volta che ci entro è una gioia per i miei
occhi e per il mio
palato,e ah la statua della
libertà!
Ogni volta che la vedo mi emoziono, è così..
così.. così grande!”
Tutti risero, gli occhi
spalancati per l’invidia e luccicanti per il desiderio di
essere nei panni
della fortunata Mercedes.
“Ma la cosa
più bella”
aggiunse poi con gli occhi spalancati per l’emozione
“e’ Broadway. Davvero
ragazzi, ho appena visto una replica del Moulin Rouge che mi ha fatto piangere! Sul serio!”
Tutti la ascoltarono rapita
raccontare di quanto fosse bello l’attore principale, di come
la ragazza che
cantava avesse la faccia da spocchiosa, di come le scenografie fossero
grandiose, e, soprattutto, di come fossero comode le poltroncine in
prima fila
Forse fu per quello che
quando Brittany, molto ingenuamente, pose la domanda, il suo effetto fu
così
accentuato.
Perché non ci stavano
proprio pensando, a quello. E, Dio,
ci stavano riuscendo, per una volta ci stavano riuscendo.
“Ma Kurt non lavora a
Broadway?”
Quella
mattina Blaine aveva deciso di andare a fare una passeggiata in
giro per negozi, gli serviva assolutamente un papillon verde da
abbinare ai
pantaloni che aveva appena comprato, e decise quindi di sfruttare il
tempo
durante il quale Kurt faceva le prove a teatro.
Passeggiò
dunque nel centro di New York entrando in ogni negozio strano
che adocchiava per cercare quel maledetto papillon che nessuno sembrava
avere.
Ma
insomma come si poteva vendere un papillon verde pino, verde
sottobosco umido, verde limone, verde acqua di lago, verde acqua di
mare, verde
acqua di stagno, verde vomito, verde erba in primavera, verde erba in
estate,
verde erba quando un gatto ci ha urinato sopra e mille altre
tonalità
improponibili di verde e non un semplice e dannatissimo verde?
Blaine
era così uscito distrutto da una sessione di shopping che
non
gli aveva fruttato niente ed era tornato al teatro per aspettare Kurt,
sapendo
che il solo vederlo gli avrebbe illuminato la giornata.
Non si
aspettava sicuramente però di non trovarlo fuori ad
aspettarlo.
Guardando
confuso l’orologio si
era domandato perché mai non ci fosse, illudendosi poi che
le prove si fossero
protratte più a lungo del dovuto. Quindi si era seduto su un
panchina ad
aspettare tranquillamente. Quando però un’ ora era
ormai passata si era deciso
a farsi coraggio, alzarsi ed entrare a cercarlo nel teatro.
Tutto
ciò che aveva trovato erano degli inservienti che si
occupavano
di pulire i pavimenti e che, con espressione scocciata, gli avevano
detto che
gli attori se
n’erano andati già da un
paio d’ore e che lì non avrebbe trovato nessuno.
Finn spalancò gli occhi
e
boccheggiò.
Santana guardò la sua
ragazza e le diede uno scappellotto sulla nuca guardandola con
un’ occhiata
ammonitrice.
Brittany, dal canto suo, si
guardò in giro spaesata chiedendosi che cosa avesse detto di
male.
Rachel iniziò a
ridacchiare
nervosamente.
Mercedes cercò di
rimediare
fingendo che non fosse successo niente e cercò
disperatamente un argomento,
anche il più stupido, a cui aggrapparsi per deviare il
discorso, ma la sua
mente era andata completamente in blackout.
Blaine rimase semplicemente
bloccato.
La mascella si contrasse e
le mani afferrarono convulsamente i bordi del tavolo facendo diventare
le
nocche bianche per la pressione.
Abbassò lo sguardo
cercando
di mascherare il fatto che, se lo sentiva, il colore avesse
repentinamente
abbandonato le sue guance e che gli occhi fossero diventati lucidi.
Riprenditi.
Non è successo niente. Ci stavi riuscendo così
bene,
Blaine. Non rovinare tutti i progressi che hai fatto.
Sentì una mano delicata
prendere le sue e stringerle, per comunicargli che non era solo, che ci
sarebbe
sempre stato qualcuno con lui, e si lasciò andare ad un
gemito sconsolato e liberatorio,
che gli fece tremare la colonna vertebrale.
Alzò gli occhi e
incontrò
quelli di Mercedes, che d’istinto strinse le mani ancora
più forte.
Sì
si disse non sei solo Blaine.
Evitò però di
pensare a
quando la notte si svegliava, gli occhi lucidi e le mani tremanti,
cercando
invano nel letto un corpo caldo che, puntualmente, non trovava.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Capitolo 2
Ok, buongiorno popolo di EFP!
Stare la mattina casa da scuola è veramente
supermegafoxyawesomehot!
Comunque, ieri sera, complice la
casa libera perchè i mei non c'erano, ho finito il secondo
capitolo (E ne ho sentite su una marea quando sono tornati a casa e si
sono accorti che ancora stavo scrivendo, sigh)
Quindi oggi aggiorno, non vedevo
l'ora, davvero, non riuscivo ad aspettare e quindi, anche se mi ero
ripromessa di aspettare, eccomi qui a pubblicare!
Ringrazio per i consensi ricevuti, davvero, e prometto che non appena
pubblico rispondo anche alle recensioni, che ringrazio infinitamente.
(Vi amo)
Vi prometto che questo sarà l'ultimo capitolo depresso della
storia, dal prossimo in poi le cose si smuoveranno! E ci saranno anche incontri intereressanti.
Sembrerò una mendicante
che implora recensioni, e probabilmente è quello che sono
quindi, ci prego, fatemi sapere che cosa ne pensate! Anche in negativo,
mi farebbe molto piacere.
Un abbraccio
Spero che il capitolo vi piaccia
BluCannella
Capitolo 2
Kurt quella
mattina si svegliò
più tardi del solito.
Allungò
le braccia sopra la testa
e si stiracchiò, sentendo tutte le giunture del suo corpo
che scricchiolavano.
Decisamente
non una bella
sensazione.
Si
girò lentamente sui fianchi
per poi notare che il letto era vuoto. Poco male, non gli importava
granché che
la ragazza restasse, anzi non gliene importava proprio niente.
Pensò
che ancora non se ne
ricordava il nome. Aveva smesso di curarsi dei nomi da tempo ormai,
rendevano
solo più facile il ricordarsi di ciò che era
costretto a fare, e lo rendevano
più reale. Dannatamente
reale.
Svogliatamente
uscì dalle
lenzuola e posò i piedi sul pavimento del suo appartamento.
Freddo.
Rabbrividì
ed istantaneamente
contorse i piedi affrettandosi a cercare le sue ciabatte.
Se le
infilò in fretta e subito
dopo indossò una tuta sgualcita.
Sorrise tra
sé pensando a quello
che i suoi vecchi amici avrebbero detto riguardo a quell’
inusuale scelta di vestiti.
Lui, Kurt Hummel, con una tuta? Non era possibile. O almeno, non per il
vecchio
Kurt.
Quello nuovo
ne aveva
maledettamente bisogno, invece, aveva bisogno di riposarsi, di non
dover
preoccuparsi di come apparisse al mondo, come era costretto a fare ogni
volta
che aveva un’ intervista o che qualcuno lo fermava per strada.
E Kurt era
stanco di fingere.
Stanco di fingere che andasse tutto bene, che tutto ciò che
stava passando non
gli pesasse, che la sua vita non
gli
pesasse.
Perché
era proprio così che
andavano le cose.
Kurt non
sopportava più se
stesso, quello che era stato costretto a diventare.
No, si
corresse, quello che aveva
scelto, di diventare.
Si
trascinò i cucina dopo aver
fatto tappa in bagno per sistemare quel disastro che era la sua faccia
di prima
mattina.
Preparò
un caffè caldo fumante e
mentre aspettava che si riscaldasse indossò un cappotto per
ripararsi dal
freddo ed uscì dall’appartamento per prendere la
posta della mattina.
Scese di
fretta le scale ed aprì
la cassetta della posta, trovandoci dentro una copia di Vogue,
un’ ossessione
che non aveva mai perso, e due lettere a cui non diede molto peso.
Tornato
nell’ appartamento si
sedette sul divano, la tazza di caffè in una mano ed il
giornale poggiato sulle
ginocchia, non curandosi delle due buste che erano state poggiate
malamente sul
tavolo in cucina.
Neanche
sperando che una di
quelle avrebbe potuto cambiargli la vita.
Semplicemente
aveva smesso di
sperare che esistesse qualcosa che potesse farlo.
“Ehi
bella ragazza!” Ululò un
uomo che camminava in gruppo, in mano una bottiglia di birra di dubbia
qualità
“Che ne dici di farti un giro con il vecchio Tom,
eh?”
Uno scoppio
di risate accompagnò
quell’ esclamazione, ma la ragazza non volse lo sguardo verso
la fonte di
quelle urla; aveva ormai imparato ad ignorare i commenti volgari degli
ubriachi
che affollavano le strade di New York il Sabato sera.
Camminò
più svelta stringendo le
mani l’una nell’ altra, come gesto istantaneo di
protezione, e quando vide l’insegna
dell’ Anonymus si
lasciò sfuggire un
sospiro che la aiutò a scaricare la tensione.
Notò
la coda della gente che
aspettava davanti all’ entrata e John, il buttafuori, che
cercava di contenere
le persone che avevano appena giurato di aver visto Anne Hathaway
entrare
accompagnata da un collega.
Cosa che
probabilmente era vera.
Mercedes
fece un cenno di saluto
a John, che subito la riconobbe e le permise di superare la coda.
“Ciao
bellezza” ammiccò lui sorridendo
sornione.
Lei in tutta
risposta gli
schioccò un sonoro bacio sulla guancia e si diresse verso
l’interno dell’
edificio.
Mercedes
faceva ancora fatica a
credere che quella che stava vivendo fosse davvero la sua vita.
Neanche
nelle sue più rosee
fantasie si era mai immaginata di avere la possibilità di
andare a vivere a New
York, la sua amata New York, e di trovare lavoro come cantante in uno
dei
locali più in della
città.
E invece era
successo, e lei ne
era ancora stordita.
Aveva ormai
perso il conto delle
volte che si era data dei forti pizzicotti per verificare che non fosse
tutto
solo un sogno, che tutto ciò che stava vivendo fosse vero.
“Mercedes
tra cinque minuti vai
in scena, muovi quelle chiappe e sbrigati a prepararti!”
“Ann
tranquilla, in cinque minuti
faccio in tempo a vestirmi e truccarmi potendomi pure permettere di
indugiare
sulla scelta del vestito” rispose tranquillamente Mercedes
alla ragazza che le
si parò di fronte. Le sopracciglia accigliate e la faccia
pervasa da
preoccupazione.
La prima
volta che aveva
incontrato Ann e che aveva scoperto che era colei che si occupava di
tutto ciò
che riguardasse musica ed esibizioni dal vivo nel locale,
l’unica cosa che era
riuscita a pensare era che quella ragazza fosse la più
isterica che avesse mai
conosciuto in tutta la sua vita.
E se
superava Rachel Berry allora
voleva dire che doveva essere davvero
isterica.
Invece, dopo
aver superato a
fatica i primi giorni, che, a detta di Ann, erano i più
difficili, in quanto
bisognava organizzare tutto, prepararle i vestiti di scena e permettere
che lei
prendesse famigliarità col palco, aveva scoperto che passare
del tempo con lei
non era poi così male, e che fuori dal lavoro riusciva anche
ad essere
divertente.
Sorridendole
si precipitò nel
camerino per prepararsi perché, lo doveva ammettere, il
tempo era davvero poco
e lei non poteva davvero permettersi di sprecarne.
I truccatori
si apprestarono a
sistemarle il viso mentre lei si infilava nel vestito preparato per
quella
sera.
Rosso
brillante.
Adorava il
rosso, la faceva
sentire una donna, una donna desiderabile.
Sentì
la voce di Ann che saliva
sul palco del locale e che annunciava la sua entrata, per poi
allontanarsi con
un inchino.
Il pianista
attaccò la musica e
gli archi lo seguirono.
Ecco il
vantaggio di suonare in
un locale famoso: disponeva di un’ intera orchestra ad
accompagnarla.
Mentre sulle
travi del palco si
diffondeva un sottile strato di vapore, abile trucco degli
sceneggiatori per
creare un effetto scenico, e le luci diventavano di un blu scuro,
Mercedes
entrò in scena lentamente, e si posizionò di
fronte al microfono, sorridendo al
pubblico ed iniziando a cantare.
Lasciò
vagare lo sguardo,
compiaciuta, sulla folla della gente che era lì solo per
ascoltarla, ed era
quasi sicura di aver riconosciuto più di un vip di fama
internazionale.
Di sicuro
quello con lo strano
pizzetto non poteva che essere Johnny Deep, e quello che gli sedeva
accanto e
che rideva animatamente per un battuta aveva l’aria
estremamente famigliare. Lo
doveva aver visto in un film o in qualche programma televisivo.
Sì,
sicuramente.
Quando la
canzone finì la sala fu
riempita dagli applausi e Mercedes si permise di fare un leggero
inchino, prima
dell’ inizio della canzone che seguiva.
Si stava
giusto lasciando trasportare
dalla melodia quando notò qualcosa.
O forse
è meglio dire qualcuno.
E no, non
poteva essere.
Perché
ormai non lo considerava neanche
più come qualcosa di realizzabile.
Ma vederlo
lì, seduto da solo in
un angolo della sala, tra le mani un bicchiere di qualche bibita
probabilmente
scelta accuratamente perché non avesse neanche uno zucchero
di troppo, le
ricordò che niente era irrealizzabile, che niente era
impossibile.
E lei
semplicemente non ci
credeva, dopo tanto tempo che desiderava vederlo, ascoltare la sua voce
mentre
si lamentava di un capo di moda che ormai di moda non era
più, abbracciarlo e
sentirlo vicino, non ci credeva che finalmente lui fosse lì,
tanto vicino ed a
portata di mano.
Una fitta le
trafisse lo stomaco
nell’ accorgersi di quanto effettivamente le fosse mancato
avere Kurt Hummel al
suo fianco.
Quando
l’esibizione terminò ed il
locale si approssimava alla chiusura, Mercedes corse letteralmente
giù dal
palco, talmente velocemente che a momenti sarebbe inciampata nel
vestito e
caduta irrimediabilmente a terra, rompendolo.
Non
poteva lasciarlo andare.
Fiondatasi
nel camerino si
spogliò il più in fretta che riuscì e
si infilò i suoi vestiti non curandosi di
sistemarseli bene o di togliersi il trucco.
Uscì
dal locale e per un attimo
temette di averlo perso.
Si
alzò sulle punte dei piedi per
vedere oltre la folla e fece scorrere con gli occhi la gente che la
circondava
Maledizione,
ci aveva messo
troppo tempo.
Il cuore le
balzò in gola quando
però vide, con sua enorme felicità, che il
ragazzo era esattamente dall’altro
lato della strada, riconoscendolo per la sua chioma sempre e
rigorosamente
laccata per aria.
“Kurt!”
urlò, non pensando sul
momento che se si fosse accorto che lei lo stava seguendo magari
avrebbe
tentato di scappare. D’altronde era lui che se
n’era andato dal locale senza
neanche fermarsi a parlare, era lui che l’aveva evitata per
tutto quel tempo.
Era lui che aveva evitato tutti.
Il ragazzo,
non appena sentita la
voce che chiamava il suo nome si girò.
L’espressione rassegnata di chi sapeva
che prima o poi ci avrebbe avuto a che fare, con quello da cui fuggiva.
Ma non si
mosse. Non un solo
passo.
Non diede
segni di ripensamento,
non si mise a correre né fece finta di non essere se stesso
ignorando i
richiami della ragazza.
Semplicemente
rimase lì.
Gli occhi
azzurri fissi nel
vuoto.
Qualcosa si
ruppe dentro di Kurt
nel momento in cui vide Mercedes cantare sul palco.
E sapeva
anche benissimo cosa.
Era
ciò che si era impegnato a
costruire durante quegli anni.
Ciò
che gli aveva costato tanta
fatica, e che ogni sue lacrima e sofferenza avevano temprato.
Era la sua
corazza, la sua
protezione.
E lui non ci
credeva, non ci
poteva credere che si potesse essere rotta così, in neanche
un secondo.
Perché
ci aveva messo così tanto,
a costruirla, e non poteva bastare una voce, un’immagine del
suo passato, ad
intaccarla.
Non poteva
essere.
Era per
quello che non aveva più
voluto avere contatti con nessuno, nessuno che gli ricordasse la sua
vecchia
scuola, o il Glee club.
Se voleva
sopravvivere ne aveva
bisogno, di quella corazza.
Ma tuttavia
non riuscì a
muoversi. Non riuscì a compiere un passo per allontanarsi,
quando fuori dal
locale lei lo chiamò.
Semplicemente
perché non lo
voleva neanche più.
Era stufo,
stanco e spossato.
E forse, se
esisteva qualcuno
lassù, gli stava dando un’ altra
possibilità.
La
possibilità di raccogliere i
cocci della sua vita ed incollarli insieme. Di fare qualcosa di buono,
di
riacquistare quella luce negli occhi che sapeva si era spenta.
E Mercedes
poteva aiutarlo, ne
era sicuro.
“Mercedes…”
sussurrò più a se
stesso che a qualcun altro.
“Mercedes…”
ripeté quasi
singhiozzando, mentre le lacrime iniziavano a rigargli le guance.
Quando la
ragazza lo raggiunse senza
bisogno di parole si strinsero in un abbraccio bisognoso.
“Sono
qui Kurt, sono qui”
Pochi minuti
dopo Kurt stava
armeggiano con le chiavi di casa con Mercedes dietro di lui, che, non
appena
aprì la porta, riuscì a stento a trattenere un
sospiro di ammirazione, estasiata
dal super attico dove Kurt alloggiava, chiedendosi quanto dovesse
guadagnare
l’amico per potersi permettere un posto del genere.
Non avevano
detto una parola dopo
l’incontro.
Semplicemente
avevano bisogno di
stare l’uno vicino all’altro.
Così
Kurt aveva iniziato a
camminare e Mercedes l’aveva seguito, senza preoccuparsi di
quale fosse la
meta. Affidandosi completamente a Kurt.
Mentre
quest’ ultimo le chiedeva
gentilmente il cappotto per appenderlo dietro la porta lei si
guardò in giro e,
adocchiando il divano, si buttò sopra di esso, terribilmente
stanca.
Iniziare il
discorso non fu
facile. C’erano troppi argomenti tabù, troppe
domandi irrisolte sepolte nell’
interno di loro stessi, che non potevano essere fatte, troppa
curiosità, troppa
paura.
Ma come
inizio andava bene.
Qualche domanda circostanziale, informazioni sulla loro vita, sul loro
lavoro.
Kurt non
chiedeva di più, né
Mercedes voleva di più, che la vicinanza dell’
altro.
La mattina
dopo Kurt si svegliò
meno triste degli altri giorni.
Mercedes era
tornata a casa
quella notte, ma si erano scambiati gli indirizzi ed i rispettivi
numeri di
telefono. Si sarebbero rivisti, ne erano certi entrambi.
Dopo aver
attuato la sua routine
mattutina Kurt si diresse in cucina, notando solo in quel momento le
lettere
del giorno prima che non aveva degnato di uno sguardo.
Vide che una
era la bolletta
della luce, e di malavoglia la spostò da parte.
Fu
l’altra ad incuriosirlo.
C’era
scritto solo Kurt Hummel,
nessun indizio che fosse di qualche società, o che fosse la
pubblicità di
qualche nuovo elettrodomestico di ultima generazione.
Curiosò
la aprì, e vide che al
suo interno c’era un foglio bianco accecante,
ripiegato in tre.
Si
affrettò ad aprirlo, e lesse
velocemente la testata.
45°
edizione del concorso regionale di canto coreografato per Glee Clubs
Kurt
sbattè un attimo le
palpebre, credendo di aver letto male.
Non poteva
essere.
Febbrilmente
fece scorrere gli occhi
saltando tutta l’introduzione che spiegava le regole e che
cosa di preciso
fosse quell’ evento che Kurt conosceva bene.
Improvvisamente
tra le righe
scorse il suo nome. Si fermò. Inspirò
profondamente. E lesse quello che, che ci
credesse o no, gli
avrebbe per sempre
cambiato la vita.
Con
la presente per l’edizione di quest’anno vorremo
chiedere al sig, Kurt Hummel,
nota star di Broadway con palese conoscenza del mondo del canto e del
balletto,
di presenziare come giudice alla competizione,che quest’anno
si terrà al lice
McKinley (Lima - Ohio), sperando che la sua esperienza in campo ci
permetta di
portare il livello della competizione ad un grado di serietà
e credibilità più
alto, senza togliere il fatto che una figura di riferimento come la sua
potrebbe
essere da stimolo per i ragazzi che inseguono il suo stesso sogno.
Le
chiediamo conferma della sue presenza, e la preghiamo di prendere
seriamente in
considerazione la richiesta
Cogliamo
l’occasione per porgerLe i più cordiali saluti
Mark
Smith
Barbara
Nott
Michael
Gordon
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Beh,
che dire, questo capitolo è stato davvero un parto.
Avevo
paura di non riuscire a rendere bene un momento così
importante nella storia.
Perchè
già, qui finalmente potremo vedere Blaine e Kurt che..
Ehehe,
lo scoprirete solo leggendo!
Ci
vediamo a fine capitolo, donzelle :)
Capitolo 3
“Kurt,
tesoro non stare lì impalato. Ti va già bene che
ti aiuti, ma non
posso portare giù tutto il tuo guardaroba condensato in
trenta valigie. Perché
dev’essere per forza tutto il tuo guardaroba, insomma, trenta valigie, Kurt, tren-“
“Va
bene Mercedes, arrivo, tranquilla” interruppe Kurt con un
tono
esasperato la ragazza che stava scendendo le scale del suo appartamento
trascinando con sé tre valige enormi.
“Tranquilla?
Tranquilla dici? Kurt è tre ore che trascino le tue valige fuori dal tuo
appartamento mentre tu trovi sempre
una scusa per non fare niente!” Sbottò la ragazza
distrutta “Potrei anche
capire il cercare il Taxi, anche se è inutile dato che hai
ancora, o meglio ho ancora,
ventimila valigie da portare
giù e ci metterò la vita se qualcuno
non mi aiuta, capisco il controllare che nessuno le rubi, anche se a
rigor di
logica sarebbe compito mio visto che le valigie sono tue e tu dovresti
fare i
lavori più pesanti, ma il controllare che non cadano schitte
su di loro no, eh!
Cosa vuoi fare? Se ne vedi una cadere ti tuffi sulle valigie per sacrificarti al posto loro? E’
così
grande il tuo amore Hummel?”
In tutta
risposta il soprano sbuffò, alzò gli occhi al
cielo, e si mise
pazientemente a spiegare come un set di trenta valigie Gucci non
potesse essere
rovinato, in quanto senza la trentesima non avrebbe avuto assolutamente
senso e
avrebbe dovuto buttarlo, aggiungendoci anche che, essendo un attore di
Broadway
di fama mondiale, le sue mani non avrebbero dovuto rovinarsi con dei
calli per
aver trascinato valigie su e giù per le scale.
Cosa che
Mercedes accolse con uno sbuffo piuttosto cinico, dato che non
capiva come delle mani un poco rovinate potessero influire su una
performance
musicale, ma tenne i suoi pensieri per sé sapendo che tutto
ciò che avrebbe
potuto ricevere sarebbe stata un’ occhiataccia ed un commento
sarcastico su
come non potesse capire la vita difficile di una star.
Era passato un
mese da quella volta che si erano incontrati fuori dall’
Anonymus, un mese da quando erano ritornati a parlare, un mese da
quando Kurt
si era aperto di nuovo a qualcuno, un mese fatto di risate, momenti di
malinconia, parole tabù e ricordi non troppo difficili da
sopportare,
sussurrati perché dirli ad alta voce avrebbe fatto troppo
male.
Un mese da
quella lettera.
Tutto
ciò che Kurt si ricordava del momento in cui
l’aveva aperta erano le
sue mani.
Mani tremanti.
Mani che si
agitavano.
Mani che prima
stringevano convulsamente il foglio e che poi lo lasciavano
cadere a terra, come se fosse una maledizione da cui scappare.
E piedi.
Piedi che la
calpestavano.
Piedi che si
calpestavano a vicenda.
Piedi che
correvano disordinati a prendere il cappotto blu e scendevano di
corsa le scale per precipitarsi dall’ unica persona che,
nonostante l’avesse
ritrovata da poco, avrebbe potuto aiutarlo, consolarlo, dirgli che non
c’era
niente di cui preoccuparsi, che andava tutto bene.
Mercedes.
E Mercedes
l’aveva accolto, non appena l’aveva visto varcare
il locale dove
si stava esibendo, aveva chiesto il giorno libero e l’aveva
abbracciato.
Perché
Kurt era lì, sconvolto, bianco come uno straccio e tremante
come una
foglia, e mai gli era sembrato così fragile, mai gli era
sembrato così
distruggibile, come se fosse stato pronto a spezzarsi per colpa di un
misero
alito di vento.
Aveva chiamato
un taxi e l’aveva accompagnato a casa sua, l’aveva
fatto
stendere sul divano, aveva adagiato su di lui una coperta di lana
pesante e
aveva preparato una tazza enorme di cioccolata calda, fregandosene dei
farfugliamenti di Kurt riguardo a quanti grassi contenesse e a quanti
giri del
parco sotto casa avrebbe dovuto fare per smaltirli.
E poi Mercedes
aveva aspettato.
La coperta di
lana pizzicava
sulla pelle lasciata scoperta dalla maglia a mezze maniche di Kurt, ma
per la
prima volta il soprano non si ritrovò ad elencare nella sua
mente tutti i
problemi che ne sarebbe conseguiti sulla sua pelle così
delicata ed amata.
Si era solo
rannicchiato su sé
stesso, cingendosi le ginocchia con le braccia e poggiandoci sopra la
testa.
Mercedes era
seduta su una sedia
davanti a lui.
Sembrava
tranquilla, ma in realtà
Kurt sapeva che stava aspettando che lui le raccontasse ciò
che era successo.
“Mi-Mi-“
iniziò con voce rotta,
poi, accorgendosi che parlare era fuori dalle sue capacità,
le porse la lettera
semi-distrutta che si era premurato di raccogliere prima di uscire di
casa.
“Ecco”
Mercedes si
accigliò, poi prese
la lettera e fece scorrere velocemente gli occhi su ciò che
era scritto.
Possibile che
Kurt sapesse? Lei
si era premurata di non dirglielo e credeva che lui non avesse avuto
relazioni
con nessuno dei componenti del Glee negli ultimi anni.
E allora
perché aveva quell’
espressione spaventata? Blaine era diventato insegnante della Dalton da
poco, e
da ancora meno direttore degli Warblers. Kurt non poteva immaginarsi
che ci
sarebbe anche lui, alla gara di canto.
Doveva essere
per forza
spaventato da altro, di sicuro.
“io-“Kurt interruppe esitante i
pensieri di Mercedes
“Ho paura,’ Cedes, ho paura di rivederli, insomma
mi-“ si fermò per asciugarsi
una lacrima sfuggita “Non gli parlo da una vita, sono stato
uno stronzo, li ho evitati! Mi odieranno!”
Mercedes,
vedendolo in quello
stato, lo abbracciò subito, e Kurt, avvolto nella sicurezza
e nel calore che
quel paio di braccia potevano dargli, si sfogò.
Disse di come
avesse paura di
essere odiato, che i ragazzi del Glee non volessero più
avere a che fare con
lui.
Disse di come
avesse paura che
Rachel, la sua compagna di sogni e aspirazioni, non gli rivolgesse più la parola,
che Santana e Brittany lo
guardassero come un perdente, che si era arreso a come il mondo lo
voleva, che
Finn non gli parlasse, che la sua famiglia non lo volesse
più.
E disse anche
che ringraziava il
cielo che non ci fosse lui.
Per la prima
volta parlò con
Mercedes di lui.
E Mercedes
decise che non gli
avrebbe detto che invece Blaine ci sarebbe stato.
Prese quella
decisione di fretta,
senza pensarci veramente. Perché sapeva che Kurt era tornato
un combattente.
E che avrebbe
combattuto, e
avrebbe vinto.
Bastava dargli
l’occasione
giusta.
L’aeroplano
sarebbe partito entro poche ore.
Kurt non sapeva
se ringraziare o odiare che gli avessero concesso due
settimane libere per fare da giudice.
Il suo agente ne
era estremamente felice, credeva che quell’ occasione
sarebbe stata un’ enorme pubblicità.
E
così si ritrovava in aeroporto con tutte le sue valige che,
lo sapeva,
gli sarebbero costate una fortuna, e con Mercedes che lo salutava
felice,
promettendogli che lo avrebbe raggiunto la sera successiva per
accompagnarlo a
fare da giudice alla gara.
Dopo aver
trascinato i suoi bagagli per tutto l’aeroporto e completate
tutte le procedure burocratiche si poté finalmente imbarcare
sull’ aereo.
Sistemò
il suo bagaglio a mano, che consisteva in una tracolla firmata Marc
Jacobs dalla quale non si sarebbe mai diviso, poi si sedette sul suo
sedile,
che fu felice di sapere essere vicino al finestrino, e si
lasciò andare ad un
lungo, enorme e potente sospiro, per scaricare la tensione e prepararsi
psicologicamente a quello che sarebbe stato costretto ad andare
incontro.
Era il giorno
prima della gara.
Era il giorno
prima della gara.
Era il giorno
prima della gara, cazzo.
Blaine si stava
letteralmente distruggendo le mani
dal nervoso.
Senza contare
che era anche il giorno prima del suo
appuntamento con Steve.
Beh, forse non
proprio appuntamento, era più un
incontro, ma era Blaine quello che lo aveva proposto quindi si sentiva
ragionevolmente in ansia. Nervoso. Agitato. Pronto ad uccidere qualcuno.
Fece un grande
respiro di preparazione ed entrò nella sala prove degli
Warblers.
Forse sei ancora
in tempo a
scappare Blaine, un passo indietro, due-
“Mr.
Anderson!”
Merda.
“Mr.
Anderson, abbiamo un problema! I costumi non sono pronti!”
Un ragazzo con
una zazzera di capelli rossi si precipitò da lui e per poco
non gli ruzzolò addosso, gli occhi spalancati in
un’espressione di orrore.
“Calmati
Derek, indossiamo le divise, non abbiamo costumi di scena,
ricordi?”
“Oh”
disse lui con un espressione confusa “Giusto.”
“Mr.
Anderson!”
Blaine si
girò dalla parte opposta, maledicendo le sue gambe corte che
non
gli avevano permesso di scappare prima.
“Mr.
Anderson!” Un ragazzo correva verso di lui, il fiato corto ed
i
capelli in disordine per la corsa.
“Ehm,
sì Jonathan?”
“Mark
dice che se non accettiamo che il suo gatto si esibisca con noi non
si esibirà neanche lui!”
Il moro si lasciò
sfuggire un gemito di
sofferenza e frustrazione e, prima che qualcun altro potesse aggiungere
qualcosa e fermando un altro paio di Mr.
Anderson calmò quella massa di ragazzini a cui
voleva tanto bene e si
posizionò in mezzo all’ aula.
Inforcò
la sua chitarra fece un cenno al ragazzo al piano e decise di fare
l’unica cosa che poteva aiutarlo a calmarsi ed a calmare loro.
Cantare.
I've
paid my dues
Time
after time
I've
done my sentence
But
committed no crime
And
bad mistakes
I've
made a few
I've
had my share of sand
Kicked
in my face
But
I've come through
Blaine sperava
che quella canzone riuscisse a tranquillizzare l’atmosfera
pre
- regionali che caratterizzava gli Warblers.
Aveva scelto un
classico, giusto per incoraggiarli, e per incoraggiare sé
stesso.
Strimpellò
allegramente la chitarra mentre i suoi studenti lo assecondavano
cantando con la loro solita armonia, che caratterizzava gli Warblers.
And
we mean to go on and on and on
and on
We
are
the champions - my friends
And we'll keep on fighting
Till the end
We are the champions
We are the champions
No time for losers
'Cause we are the champions of the World
Al ritornello
gli Warblers si scatenarono come adoravano fare e mentre uno
di loro prendeva un plico di fogli e li gettava al vento, in
un’ inconsapevole
imitazione del suo insegnante quando era lui che si esibiva tra le mura
della
Dalton, gli altri erano saliti sul tavolo ridendo come dei matti e
dandosi le
mani, portandole in alto e ridendo come matti.
Blaine quasi si
commosse per quanto fossero uniti quei ragazzi, e dopo aver
strimpellato le ultime strofe si fermò, fece un bel sorriso
e si disse che sì, nessuno
avrebbe vinto contro gli Warblers, non se c’era Blaine
Anderson.
Era arrivato.
Era arrivato,
aveva appena messo i piedi sul terreno dell’ aeroporto e
già
si sentiva mancare l’aria ed il fiato.
Da una parte
c’era l’emozione di vedere suo padre, che gli
mancava più di
tutti, Carole e, perché no, anche il suo fratellastro Finn.
Dall’
altra la paura, una maledettissima paura.
Si tolse il
cappotto, investito dal calore del giorno. Non si ricordava che
quel posto fosse così soffocante.
Perché
faceva così caldo?
Si
affrettò a prendere le sue valige, alla fine aveva optato
per lasciarne
a casa la metà, e con fatica uscì.
Il primo che
vide fu Burt, le gambe gli diventarono molli, e sul sorriso
gli si stampò un sorriso enorme.
Dio quanto gli
era mancato suo padre.
Non lo vedeva da
mesi.
La
verità era che non tornava a Lima da quel fatidico giorno.
Due
lunghissimi anni.
Suo padre, per
le festività, lo raggiungeva a New York, insieme a Carole e,
raramente, a Finn, e non gli aveva mai chiesto niente. Non gli aveva
mai
chiesto il perché di quella telefonata, due anni prima,
della sua voce rotta
dal pianto e del fatto che non volesse più mettere piede a
Lima.
Ed era
per quello che era rimasto il figlio, gli aveva detto, due settimane
prima, che sarebbe stato da lui per due settimane.
Due intere
settimane.
Quasi si era
messo a piangere per la felicità quando lo aveva sentito.
Ed ora su figlio
era lì, il suo adorato figlio era lì, sommerso
dalle
valige, adorabilmente curato, con i capelli scrupolosamente laccati ed
un
cappotto che teneva elegantemente appeso ad un braccio.
Dio quanto gli
era mancato.
Non appena lo
vide gli corse incontro, emozionato, stringendolo tra le sue
braccia.
Kurt si
beò di quel contatto che tanto gli era mancato, e quando
venne
raggiunto anche da Carole che gli si aggrappò addosso
felice, e da un timido
Finn che rimaneva in disparte, sorridendogli, si accorse di quanto
fosse stato
difficile per lui rimanere lontano da casa per tutto quel tempo.
Nonostante
odiasse Lima, la chiusura mentale della gente in quel posto, la
malignità delle persone, il fatto che fosse in mezzo al
nulla, era pur sempre
lì che era cresciuto.
“Oh
Kurt, che bello averti qui con noi!” sospirò
Carole sciogliendo
l’abbraccio.
Burt
annuì convinto e Finn, dopo averlo abbracciato un
po’ impacciato si
offrì di aiutarlo con le valige, cosa che fece molto piacere
a Kurt, che già
iniziava a preoccuparsi per le sue amate mani.
Raggiunsero a
fatica la macchina mentre Carole, per la gioia di tutti,
riempiva i silenzi parlando di cosa avesse preparato per pranzo e di
come si
sentisse la mancanza di un cuoco come lui in casa, dato che Burt e Finn
erano
dei disastri in cucina.
Kurt rise e
promise che per due intere settimane non avrebbe più dovuto
preoccuparsi.
Perché
ci sarebbe stato lui.
Dopo un
po’ di imbarazzo iniziale Kurt si era completamente sciolto.
Aveva
iniziato a scherzare con Carole, a raccontare del lavoro a Burt e di
parlare di
Mercedes con Finn.
Quando era
entrato in casa si era commosso come poche volte in vita sua e, notando
che la sua vecchia camera era esattamente come l’aveva
lasciata, si era
lasciato andare in un pianto liberatorio.
Scrisse un
messaggio a Mercedes per dirle che il viaggio era andato bene e
che si trovava a casa, poi si infilò in doccia per darsi una
lavata ed
indossare una tuta comoda, ed aveva declinato gentilmente
l’invito di Finn ad
uscire con lui ed i ragazzi a mangiare qualcosa.
“Io-“
aveva detto dopo aver sentito la domanda “Ehm, Finn,
preferirei
andare con calma, davvero. Magari un’ altra volta, va
bene?”
Finn aveva
annuito, non comprendendo fino a fondo il problema del fratello,
ma felice che gli avesse detto che prima o poi sarebbe andato con lui.
Quindi si era
diretto a passo spedito in cucina, aveva spostato gentilmente
Carole dei fornelli ed aveva iniziato a cucinare lui.
Quella sera,
dopo aver mangiato con Burt e Carole, riso e scherzato come
non faceva da tempo, raccontando della sua vita a New York e di come
fosse
bello cantare su un palco di Broadway, mentre si stendeva nel letto
tirando su
le coperte, si addormentò con un sorriso in volto.
“Bene
ragazzi, oggi è il gran giorno. Date il meglio di voi, sono
sicuro
che questa volta vinceremo. Siamo forti, siamo bravi, ma soprattutto
siamo
uniti, e nessuno ci potrà sconfiggere, mai!”
Blaine pronunciò quel discorso di
incoraggiamento più per se stesso che per i suoi alunni, che
per il nervoso si
muovevano frenetici in sala prove, dove stavano sistemando per
l’ultima volta
il loro numero.
Mancavano due
ore, poi sarebbero dovuti salire sul pullmino della Dalton,
raggiungere il McKinley, ed esibirsi sul palco davanti a tantissime
persone.
Ed il peso della
loro sconfitta o della loro vittoria gravava tutto sulle
spalle di Blaine.
Fantastico.
Era
così nervoso che neanche si accorse che la porta in sala
prove si fosse
aperta, e che Steve fosse entrato chiedendo di Blaine Anderson.
Quando si
accorse del silenzio carico di aspettativa che si era creato
nella sala e che tutti stavano guardando proprio lui, si
risvegliò dallo stato
di trance in cui era caduto e mise a fuoco la figura di Steve che lo
stava
fissando con un enorme sorriso.
La sua
omosessualità non -era un segreto alla Dalton, e forse era
per quello
che i suoi studenti, quando lo videro arrossire e balbettare qualche
frase
senza senso per scusarsi, iniziarono a darsi delle gomitate ed emettere
dei
risolini.
A volta stare in
una scuola maschile era peggio che avere a che fare con
milioni di donne pettegole messe assieme.
Quindi prese
Steve per un braccio e lo trascinò fuori dall’
aula.
“Scusali,
è il nervosismo pre-spettacolo” si
scusò passandosi una mano tra
i capelli.
“Traquillo,
anch’io sono nervoso
quando mi trovo davanti a molte persone, probabilmente se fossi al
posto loro
mi sarei già chiuso in un qualche sgabuzzino per nascondere
eventuali attacchi
di panico.” Sorrise l’altro.
Blaine lo
trovò decisamente adorabile.
“Comunque”
riprese Steve “Volevo solo chiedere una conferma sullo
spettacolo di stasera, è alle otto, giusto?”
“Sì
perfetto” annuì Blaine “Quindi
verrai?” non potè fare a meno di
chiedere con ansia.
“Non
me lo perderei per niente al mondo, Blaine” e dopo avergli
sorriso gli
diede un leggero bacio sulla guancia che lo fece sussultare, per poi
andarsene.
Mercedes lo
aveva raggiunto esattamente due ore prima del grande evento.
Quel giorno Kurt
si era svegliato tardi, come non si concedeva il lusso di
fare da tempo, dopo aver fatto un sonno pesante e privo di sogni.
Aveva
bighellonato per casa tutta la mattina e poi preparato una torta al
cioccolato che sapeva Finn e Burt avrebbero adorato.
Il pomeriggio
invece lo aveva passato a disperarsi per la scelta dei
vestiti che avrebbe indossato quella sera, gettando tutti i suoi
completi sul
letto e distruggendo la sua amata pettinatura a forza di passarsi le
mani nei
capelli per la disperazione.
Dire che era
nervoso era poco.
Ci sarebbe di
sicuro stata Rachel, e Santana e Brittany avrebbero di sicuro
assistito all’ esibizione, dato che lavoravano in quella
scuola.
Quando il
campanello suonò e si accorse che Mercedes era
già arrivata a
prenderlo optò per un completo informale, un paio di
pantaloni neri stetti ed
una camicia azzurra arrotolata ai gomiti e scese di corsa mentre si
abbottonava
l’indumento.
La ragazza lo
stava aspettando sulla porta con un’ espressione
indecifrabile, quasi impaurita.
Kurt decise di
non farci caso, prese il suo cappotto, la sua tracolla e,
dopo aver salutato di fretta Burt e Carole che gli urlarono buona
fortuna,
corse in macchina e seguì quella di Mercedes fino al
McKinley.
Blaine era
seduto in prima fila.
I suoi ragazzi
lo circondavano ridendo e scherzando. Chissà come il
più
nervoso lì fosse lui.
Steve era
arrivato e si era seduto qualche fila più in là,
dato che non
poteva stare nell’ area riservata ai cori ed ai giudici, dopo
averlo salutato e
auguratogli buona fortuna.
Mancavano cinque
minuti.
Cinque
maledettissimi minuti poi le luci si sarebbero spente, il sipario
sarebbe stato alzato, ed il presentatore avrebbe annunciato
l’inizio delle
esibizioni.
Kurt non aveva
ancora incontrato nessuno che conoscesse, Mercedes lo aveva
letteralmente scortato dentro l’ auditorium e successivamente
si erano divisi,
lui per entrare in una saletta dove si doveva incontrare con i giudici,
e
Mercedes per andare a prendere posto nell’ auditorium.
Si
ritrovò quindi a parlare con gli altri due colleghi, un
atleta che
prendeva di sicuro steroidi e il cui cervello, se esisteva, doveva
essere
intasato dai chili di frullati energetici che sicuramente ingurgitava,
e con
una nonna che aveva partecipato alla seconda, Kurt sospettava che,
dall’
aspetto, fosse non fosse la seconda ma la prima, guerra mondiale
vantandosi di
aver fatto lo scalpo a tutti quelli che aveva ucciso con una semplice
mossa di
karate.
E quando Kurt si
mise a ridere per l’impossibilità di quella storia
e si
ritrovò la nonnina indignata sopra di lui che gli girava un
braccio sulla schiena,
decise che forse l’avrebbe dovuta prendere un po’
più sul serio.
Mai ridere
davanti ad una nonnina
che dice di aver partecipato ad una guerra mondiale.
Si
appuntò quindi in testa rialzandosi e massaggiandosi il
braccio.
Si incontrarono
quindi con il presentatore che spiegò loro quello che
avrebbero dovuto fare, e, subito dopo, si diressero nell’
auditorium dato che
entro pochi minuti sarebbe iniziata la gara.
Le luci si erano
finalmente spente, Blaine finì di mangiarsi
l’ultima
unghia delle mani e, quando se ne accorse, decise di dedicarsi alle
pellicine.
Il sipario si
aprì ed il presentatore fece il canonico discorso di
benvenuto, nominò le squadre in gara ed iniziò a
parlare dell’ importanza della
musica nel mondo dei giovani.
Daidaidaidai.
Blaine era
nervosissimo, aveva visto Rachel poco prima e l’aveva visto
così
sicura di sé che ne era uscito spaurito e sconfortato.
I suoi ragazzi
erano già dietro le quinte a prepararsi, la loro esibizione
era la prima e quindi in quel momento stavano sicuramente facendo
casino, che
poi era il loro modo di scaricare la tensione.
“Bene,
ora presentiamo i giudici in gara!” disse il presentatore.
Oh, santo cielo,
ma quanto dura?
Pensò
esasperato Blaine. Non ne poteva più.
“Direttamente
dallo spot dei cerali più famosi d’America, ecco a
voi Bruce
Hogan!”
Blaine non si
prese neanche la briga di guardare verso il tavolo dei
giudici, in quel momento era troppo preoccupato a scovare tutte le
pellicine
possibili da morsicare per scaricare la tensione.
Dissero il nome
di un’ altra donna che doveva avere a che fare con una
delle due guerre mondiali, ma non ci fece molto caso.
“Ed
infine, il nostro ultimo giudice, direttamente da-“
Il cellulare di
Blaine iniziò a suonare.
Maledizione.
Imprecò tra sé e sé Blaine,
guardò lo schermo del telefono e, notando che
era sua madre, uscì da una porta secondaria dell’
auditorium per rispondere.
Al diavolo sua
madre ed il suo tempismo.
Quando Kurt
venne presentato capì che era la fine, tutti i suoi amici
che
erano lì lo dovevano di sicuro aver visto, era impossibile
che non lo avessero
fatto.
Si sedette
già pensando a come potesse giustificarsi quando il
presentatore
annunciò che il coro della Dalton stava per esibirsi.
Kurt
provò una fitta enorme a rivedere quei ragazzi in divisa,
che gli
ricordavano tanto Blaine.
Provò
a non pensarci e si concentrò sull’ esibizione.
Ne rimase
sbalordito. Erano veramente bravi, cantavano con una precisione
ed armonia che non si ricordava.
Soddisfatto si
lasciò trasportare dalla musica.
Non si accorse
neanche che avevano già cantato tre canzoni diversi, era
così preso dalla canzone che quando finirono
sentì un moto di tristezza
pervaderlo.
Gli piacevano,
gli facevano ricordare del bel periodo nel Glee.
Quindi non si
stupì quando, alla fine di tutte le esibizioni, vennero
decretati vincitori.
Se
l’erano meritato, quel trofeo.
Poi, dopo che
alcuni di loro saltarono, altri si abbracciarono ed altri si
misero ad improvvisare balletti strani, tutto contornato da urla di
gioia e
stupore, uno dei ragazzi chiese in un orecchio al presentatore il
permesso di
fare una cosa, che evidentemente lui gli concesse perché
annui con un gran
sorriso.
Quindi prese il
microfono e disse, con un enorme sorriso in faccia: “Vorremmo
ringraziare il nostro professore che ci ha fatto arrivare fin
qui.” Si fermò
soddisfatto ed annuì a qualcuno giù dal palco
“Quindi può smetterla di
mangiarsi le unghie per il nervoso, Mr. Anderson e salire sul
palco!”
A Kurt mancava
l’aria. Iniziò a boccheggiare.
Le orecchie che
pulsavano.
Le mani che
stringevano convulsamente i bordi del tavolo.
I fogli dei
punteggi caduti.
Nessun rumore.
Niente.
Non era
più niente.
Perché
non era possibile.
Non era
possibile cazzo con tutti
i lavori che esistevano al mondo che lui facesse proprio quello,
che fosse proprio lì.
Si sentiva
bruciare tutto.
La testa
pulsava, gli occhi bruciavano.
No.
Ed invece lui
era lì. Davanti a Kurt.
E gli fece male
al cuore vederlo. Perché gli mancava, dannazione, gli
mancava come l’ossigeno.
Aveva sperato di
non vederlo più, dopo quella volta, perché
sapeva, sapeva
che se l’avesse fatto non avrebbe retto.
E la
dimostrazione che avesse ragione era la fitta al cuore quando lo aveva
visto.
Un ragazzo, un
uomo, leggermente impacciato davanti a tutta quella gente,
con un ammasso di riccioli perfetti in testa, un sorriso che illuminava
il
mondo, le guance rosse per l’emozione e due occhi che non si
sarebbe mai
scordato.
Quelli che lo
tormentavano ogni notte, ricordandosi che era tutto
sbagliato, che era sbagliato svegliarsi e non essere abbracciato da
lui, che
era sbagliato cucinare solo per se stesso e non dover nascondergli le
ghiottonerie per on fargliele mangiate tutte, era sbagliato tornare a
casa e
non trovare nessuno ad aspettarlo, era maledettamente
sbagliato.
E quando quegli
occhi, ancora spalancati per la felicità, si volsero
distrattamente verso al tribuna dei giudici, quando si soffermarono su
un
volto, un volto famigliare, quando incontrarono gli occhi di Kurt, che
lo
fissava attonito. Distrutto. Kurt capì che non aveva mai
smesso di farlo.
Che poteva
averci provato, poteva aver vissuto nell’ illusione di
avercela
fatta, poteva aver nascosto a se stesso le fitte che provava ogni volta
che
pensava a lui, ma non aveva mai smesso di amare Blaine Anderson.
“Vorremmo
ringraziare il nostro
professore che ci ha fatto arrivare fin qui. Quindi può
smetterla di mangiarsi
le unghie per il nervoso, Mr. Anderson, e salire sul palco!
Blaine era
felice. Gli Warblers erano stati fantastici. Ed avevano vinto. Avevano
superato il Glee club di Rachel Berry! Glielo avrebbe rinfacciato a
vita.
Salì
sul palco un attimo a disagio ma quando venne abbracciato dai suoi
ragazzi non potè che sentirsi bene, a casa.
Fece vagare
distrattamente lo sguardo sul pubblico, e, un po’ curioso di
vedere la vecchietta che aveva combattuto la seconda, dall’
aspetto avrebbe
detto prima, guerra mondiale, volse lo sguardo in direzione della
tribuna dei
giudici.
Ma non fu la
vecchietta che attirò la sua attenzione, né
l’atleta pieno di
steroidi, furono un paio di occhi azzurri, limpidi come
l’oceano che lo stava
inghiottendo in quel preciso istante.
BluCannella
Allora,
che ne dite?
Si sono incontrati, alla fine!
Dio
spero sul serio che non sia stato troppo lungo, il fatto è
che continuavo a dirmi "Ora lo finisco" e poi mi veniva in mente
qualcos' altro da scrivere! Davvero, è stata una faticata.
In
compenso ho pronto un altro capitolo, dove finalmente si parleranno, e
non vedo l'ora di sapere che ne pensate, risponderò subito
alle recensioni!
Già
sono uno schifo, è che sono stata così presa a
scrivere che me ne sono scordata!
Ah, e
poi ho scoperto che l'ora di Greco può essere fantastica se
passo tutto il tempo a scrivere, davvero, potrei amarla quell'ora!
Ok,
ehm, sto divagando, lo so..
Mi
farebbe molto piacere sapere che ne pensate,
Un
abbraccione
BluCannella
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
cap 4
Dedico
questo capitolo ai genitali
di Ryan Murphy quando verrano da me stessa schiacciati
e
ridotti in politglia, perchè NO,
non è possibile che Kurt non entri alla NYADA.
No.
Capitolo
4
Molte
persone
si chiesero perché all’inizio della competizione
ci fossero tre giudici, ed
alla fine solo due si fossero presentati per consegnare il premio sul
palco.
Rachel
Berry
non se ne stupì.
Un
po’ forse
perché era ancora sotto shock per essersi fatta rubare il
trofeo sotto gli
occhi da quegli imbellettati degli Warblers, un po’
perché aveva già capito
cosa sarebbe successo quando aveva sentito il nome di Kurt pronunciato
dal
presentatore, un po’ perché aveva passato tutta la
serata a pensare a come
avrebbero reagito se loro due si fossero visti ed un po’
perché aveva visto la
paura, la consapevolezza, il dolore, e la rabbia
negli occhi di Blaine quando lui aveva rivolto lo sguardo
verso il tavolo
dei giudici.
E,
dopo che
tutti erano scesi dal palco, dopo aver visto Blaine correre via da
tutto e da
tutti, evitare di guardare nella direzione di un uomo che sembrava
essersi
avvicinato per fargli dei complimenti con un ampio sorriso sul viso,
aprire con
forza la porta secondaria del teatro, e scaraventarsi fuori al freddo,
senza
neanche prendere un cappotto ed immergersi nell’ aria
pungente della sera,
Rachel lo prese lei, il cappotto, e congedandosi da Finn, che cercava
preoccupato il fratellastro tra la folla, intimando a Santana di non
fare
niente di avventato come suo solito, e annuendo a Mercedes che si
guardava in
giro con espressione colpevole, si diresse fuori per cercare
l’amico.
Tra
lei e
Blaine era nata una bellissima amicizia. Probabilmente nessuno lo
avrebbe mai
detto: il ragazzo iperattivo e la ragazza piena di sé, in
competizione l’uno
contro l’altro perché dirigevano due Glee clubs
diversi.
Ed
invece,
contro le aspettative di tutti, si erano trovati ed andavano
estremamente
d’accordo.
Era
lei che,
quella lontana sera di due anni fa, quando l’aveva visto
camminare da solo,
sotto la pioggia, per quella strada che portava dall’
aeroporto verso il nulla,
verso Lima, lo aveva fermato, lo aveva abbracciato e, senza avergli
chiesto
niente, lo aveva portato a casa sua, con una coperta ed il calore di
una
abbraccio a riscaldarlo.
Gli
inservienti non potevano aver mentito.
Blaine
sperava tanto di sì, lo sperava con tutto il
cuore, perchè Kurt non se n’era semplicemente
potuto andare, non poteva
semplicemente averlo lasciato lì, da solo.
Non
dopo aver coronato il sogno di una vita. Della loro
vita. Insieme.
Si
convinse che era solo tornato nel loro appartamento
per preparargli una sorpresa, doveva essere così.
Si
avviò il più velocemente possibile sul ciglio
della
strada e si mosse freneticamente le braccia, rischiando quasi di essere
investito, per chiamare un taxi.
Non
appena salito farfugliò il loro indirizzo e
iniziò a
tormentarsi le mani per in nervoso.
Il
viaggio che seguì gli sembrò il più
lungo di tutta la
sua vita, ogni secondo che passava gli sembrava un’
eternità, tanto che quando
scese dal taxi quasi si dimenticò di pagare.
Corse
velocemente incespicando più volte nei piedi
finché
non raggiunse le porte del palazzo.
Salì
le scale e, nella foga di cercare le chiavi nel
cappotto le fece cadere a terra un paio di volte.
Imprecando
le infilò nella toppa con mani tremanti.
Dannazione,
stava davvero esagerando, avrebbe varcato
quella porta ed avrebbe trovato Kurt, sorridente, con un grembiule
sporco di
cioccolato, che stava preparando una torta per festeggiare il suo primo
giorno
a Broadway.
E
allora lo avrebbe baciato, e gli avrebbe detto che lo
amava, e che era fiero di lui, che lo sapeva che ce l’avrebbe
fatta perché se
lo meritava.
E
riuscì veramente a convincersene, riuscì
veramente a
crederci in quel sogno così dolce, che sapeva di casa, di
affetto e di amore.
Ci
riuscì così tanto che quando entrò e
si accorse che
sbagliava niente impedì al suo cuore di fermarsi, e poi di
frantumarsi in tanti
piccoli pezzi che cadevano sul pavimento senza nessun rumore.
O
forse era lui che non l’aveva sentito, quel rumore,
troppo preso a guardare la sagoma del suo ragazzo che, in lacrime e
scosso da violenti
singhiozzi, stava raccogliendo tutto ciò che gli apparteneva
e lo stava
mettendo in dei borsoni scaraventati in giro per la casa.
Rachel
intravide la sagoma dell’ amico nel buio, illuminata solo da
un lampione
solitario che emetteva una luce debole accompagnata da un basso ronzio
fastidioso.
Mosse
qualche
passo verso di lui, ma si ritirò quasi scottata quando vide
le sue spalle
scosse da un forte tremito.
Dio,
ci erano riusciti, a fare in modo che tutta la sofferenza si
allontanasse
dalla loro vita.
Ci
avevano
messo così tanto impegno.
Blaine,
ci aveva messo così tanto impegno. E non si meritava
che tutto il lavoro che aveva fatto andasse in frantumi.
Non
dopo che
si era rialzato ed era ritornato a sorridere.
Si
avvicinò fino a che non fu
dietro di lui, e, delicatamente, senza pronunciare una parola,
poggiò il
cappotto sulle spalle del ragazzo e gliele accarezzò
dolcemente.
“Shht”
sussurò
“Calmati, ci sono io”
In
tutta
risposta l’altro emise un singhiozzo più forte e
si girò verso l’amica
accasciandosi tra le sue braccia, lasciandosi andare ad un pianto
liberatorio.
Finn
non
trovava Kurt da nessuna parte.
Non
sapeva
neanche perché sentisse di doverlo cercare.
Sapeva
solo
che quel ragazzo ne aveva passate troppe, e che, nonostante le sue
scelte non
fossero sempre state le migliori, aveva bisogno di qualcuno vicino.
Corse
fuori
dall’ auditorium ed esplorò tutto il parcheggio ed
il tratto di strada
circostante.
Passò
per i
campi da football e per la palestra, e continuò a correre,
fino a che,
stremato, non si gettò su una panchina.
Dove
sei Kurt? Dove sei scappato?
Fu
proprio lì
che gli venne l’illuminazione.
Sapeva
dove
trovare Kurt.
E
si
meravigliava di non esserci arrivato prima.
La
sala del
Glee club non era cambiata di molto.
Era
rimasta
quella più piccola di tutta la scuola, perché
ancora non si erano trovati
abbastanza studenti da convincere il preside Figgins a donare
più soldi per
ristrutturarla, c’erano alcuni strumenti, il pianoforte nel
centro della sala,
e quelle stupide e scomode sedie tutte ammassate sul fondo.
Finn
corse
verso di essa come un forsennato, e non si meravigliò di
aver indovinato.
Kurt
era lì,
seduto al pianoforte, gli occhi chiusi, le mani che si muovevano sui
tasti
creando una melodia a lui sconosciuta.
Struggente.
Era tutto quello che riusciva a pensare.
Mosse
un passo
all’ interno della stanza e Kurt, accorgendosi che qualcuno
era entrato, si
fermò di scatto.
“No
ti prego”
sussurrò Finn ”Continua”
Kurt
non se lo
fece ripetere due volte.
Non
aveva
bisogno di parlare, con Finn.
Bastava
sentire la presenza di suo fratello lì accanto a lui, per
calmarsi.
E
per Kurt non
esisteva niente di meglio che il canto, per esternare quello che
provava.
Quindi
iniziò
a cantare.
Mercedes,
Brittany, Santana, insieme a Mike Puck e Tina che li avevano raggiunti
dopo,
sedevano ad un tavolo del Bel Grissino chiacchierando allegramente.
La
cena per
quella sera era già programmata da parecchio tempo, e per
niente al mondo si
sarebbero sognati di disdirla.
Anche
se
dovevano ammettere la situazione non era delle migliori.
In
effetti non
chiacchieravano proprio allegramente.
Era
più una
chiacchierata forzata, il ricercare un ottimismo che sembrava essere
andato perso.
Santana
si
stava trattenendo dal correre fuori, cercare Kurt e scuotergli
violentemente le
spalle chiedendogli perché diavolo si fosse comportato
così.
Invece
se ne
stava seduta lì, con un mano stretta in quella di Brittany,
cercando di non
pensare a quello che era successo, e quando Blaine entrò,
accompagnato da
Rachel, l’espressione sul suo viso non era certamente quella
che ci si sarebbe
aspettati.
I
lineamenti
erano rilassati, la bocca stirata in un leggero sorriso, e gli occhi
concentrati, in un’ espressione fiera e sicura, quasi fosse
l’unica cosa a cui
aggrapparsi, quella sua maschera.
La
verità era
che Blaine aveva deciso. Aveva deciso che si sarebbe rialzato, anzi,
che
semplicemente non sarebbe caduto, quella volta.
Perché
era già
stato buttato a terra come un giocattolo mal funzionante una volta,
senza una
sola spiegazione, e non avrebbe permesso che succedesse di nuovo.
Tutto
ciò non
impedì però, al momento del suo arrivo, che il
tavolo cadesse in un profondo
silenzio.
Rachel
si
destreggiò sicura tra i tavoli del ristorante fino ad
arrivare a quello dei
suoi amici, immediatamente seguita da Blaine.
Entrambi
occuparono i posti liberi.
Nessuno
parlò,
finchè Brittany non fece un enorme sorriso.
“Lord
Tubbington ne sarà felice” asserì
sicura “scusa Rachel ma tifava per Blaine”
Si
sentì un
sospiro generale.
Rachel
si
scurì subito in volto farfugliando che avevano solo avuto
fortuna, Blaine, dal
canto suo, si illuminò un poco iniziando a tessere le lodi
degli Warblers.
Gli
Warblers
Gli
Warblers
santo cielo! Li aveva lasciati da soli, ed erano lì con il
pullman della scuola
che guidava Blaine!
Fu colto da un enorme attacco di panico.
Era
sua
responsabilità, e lui era stato così sciocco che
se n’era completamente
scordato.
Si
alzò
velocemente dalla sedia e, dopo aver spiegato agli amici la situazione,
si diresse
correndo verso la scuola.
Neanche
pensò,
passando per il parcheggio, di guardare se ci fosse ancora
l’autobus,
semplicemente era troppo occupato a darsi mentalmente dell’
idiota per curarsene.
Entrò
subito
nell’ auditorium tagliando per la porta secondaria, e quando
sentì solo il rumore
dei suoi passi rimbombare per l’edificio vuoto
crollò su una poltroncina.
Maledizione!
Stava già iniziando a pensare al peggio, quando si
accorse di qualcosa che vibrava nella tasca interna del suo cappotto.
Il
cellulare.
Fachesianolorofachesianoloro
Aggrappandosi
a quell’ultima speranza estrasse il telefono che continuava a
vibrare.
Numero
sconosciuto.
Non
perdendosi
d’animo cliccò sul tasto verde e mentalmente
pregò per sentire buone notizie.
“Pronto?”
“Ehm…
Blaine?”
una voce esitante che non riconobbe subito rispose al cellulare.
“Sono Steve”
Dio,
Steve non era esattamente la persona con cui voleva
parlare in quel momento.
“Oh,
ciao
Steve- Senti- Vorrei tanto parlare con te ma sono un idiota e non sono
stato
tanto bene ed i ragazzi ora-“
“Blaine
Blaine
respira! I ragazzi sono qui con me!”
“Com-chi-?
Oh!
Grazie a Dio!”
Blaine
si
accasciò sulla sedia lasciandosi andare ad un sospiro
rilassato. Steve doveva
aver portato a casa i ragazzi: non si era mai sentito meglio in vita
sua.
Si
scusò con
l’amico per come fosse scappato senza parlargli, a fine
serata, e lo ringraziò
infinitamente per il favore che gli aveva fatto.
Promise
che
avrebbe rimediato con un caffè, comunque, e
l’altro accettò allegramente.
Quando
chiuse
la conversazione era notevolmente
più
rilassato.
Si
stava
quindi concedendo un momento di solitudine in cui allontanare tutti i
pensieri
della giornata quando la sentì.
Finn
era
uscito dalla stanza.
Kurt,
ad occhi
chiusi, lo aveva sentito, e lo aveva mentalmente ringraziato
perché l’unica
cosa che desiderava in quel momento era di essere lasciato solo.
Mentre
le dita
scorrevano sul piano la sua voce si spezzò per un secondo al
ricordo di cosa lo
aveva ridotto così.
Kurt
non aveva aspettato che Blaine lo venisse a prendere
quella sera a teatro.
Si
sentiva vuoto.
E
sapeva che quel vuoto che provava non si sarebbe
riempito velocemente. Forse mai più.
Prese
il primo taxi che si fermò, entrò nel loro
appartamento il più in fretta possibile ed iniziò
a fare le valigie.
Non
avrebbe pianto.
Non
voleva piangere.
Pianse.
Non
c’era
stato giorno, non un minuto, non un secondo della sua vita a partire da
quel
giorno in cui non si fosse sentito sbagliato.
E
sotto quella
sua maschera sicura, spigliata ed un po’ arrogante, il
ragazzino spaurito che
tremava ogni volta che riceveva una granita in faccia, soffriva come
non aveva
mai fatto.
Perché
Kurt
Hummel, in quel momento, mentre suonava il piano e cantava con voce
spezzata,
non era il Kurt Hummel che tutti erano abituati a vedere sul palco, non
era chi
si era tanto impegnato a fare credere che fosse, era solo un uomo
ferito,
ferito da sé stesso.
Perso
nei suo
pensieri non si accorse che qualcuno era entrato nella stanza fino a
che non
sentì il rumore dei passi che si avvicinavano lentamente,
Non
c’era
bisogno di voltarsi per capire chi fosse: Kurt avrebbe potuto
riconoscere
quella camminata leggermente saltellante e, a tratti, un po’
goffa, tra mille.
E
provò una
fitta di dolore quando si accorse che ancora ci riusciva.
“Devi
scegliere ragazzo.”
Devi
scegliere.
Scegliere.
Scegliere.
“O
lui o Broadway.”
O
lui o Broadway.
Lui.
Mille
volte lui.
“Broadway”
Doveva
vomitare.
Lo
stomaco gli
si contorse.
Non
ce la
poteva fare.
Si
alzò dallo
sgabello e corse più in fretta che poteva verso il bagno, le
braccia strette in
un abbraccio che voleva essere di protezione.
Di
protezione da cosa?
Kurt
si
accasciò abbracciando la tavolozza del gabinetto.
Vomitò
l’anima, e sperò ardentemente anche i ricordi.
Era
scosso da
violenti tremiti, e ringraziò il cielo che fosse seduto,
perché sicuramente le
sue gambe non lo avrebbero retto.
Sentì
la porta
aprirsi, si piegò su sé stesso contorcendosi per
il dolore, lacrime calde che
gli rigavano la pelle di porcellana.
Un
corpo caldo
si accostò a lui, ed una mano bagnata si
posizionò sul suo collo, provocandogli
una piacevole sensazione di sollievo.
Casa.
Dopo
due
lunghi anni si sentiva finalmente a casa.
Fu
tutto quello
che riuscì a pensare.
Quando
Kurt
riaprì gli occhi notò per prima cosa il freddo
delle mattonelle del bagno
attraversagli la stoffa dei vestiti ed insediarglisi dentro le ossa.
La
seconda
cosa che notò, invece, fu un corpo caldo seduto vicino a lui.
“Non
eri
costretto a farlo” disse con voce neutra, piantando lo
sguardo a terra
concentrandosi sugli intarsi delle mattonelle.
“Volevo”
fu
quello che rispose l’altro.
“Non
dovresti,
volerlo.”
“Lo
so.”
Blaine
si alzò
, e Kurt soffrì istantaneamente dell’ improvvisa
mancanza di contatto.
“Dovremmo
andare, gli altri mi aspettano” disse quindi il ricciolo
“chiamo Finn e gli
dico che sei qui. Ti porterà a casa.” Aggiunse
secco.
“No”
si
lamentò Kurt accartocciandosi su è stesso.
“Voglio vederli, voglio vedere i
miei ami-“ esitò, non sapendo se gli era
più concesso usare quel termine “Il
glee club”
Blaine
annuì
solo, lo aiutò ad alzarsi e gli poggiò il suo
cappotto sulle spalle, guidandolo
fuori dalla scuola, al freddo.
Kurt
non
sapeva cosa stava facendo.
Davvero
non lo
sapeva.
Sentiva
come
se fosse tutto sbagliato, come se mancasse qualcosa di importante.
Aspettava
solo
il momento in cui Blaine gli avrebbe urlato, lo avrebbe insultato e lo
avrebbe
distrutto, perché, in fondo, sapeva di meritarselo, e tanto
valeva che
succedesse subito, no?
Via
il dente
via il dolore.
Ma Blaine era stranamente
calmo, e per tutto il
viaggio fino al Bel Grissino non disse niente, gli unici rumori erano
le rare
macchine che passavano per strada, ed i loro piedi che sfregavano
sull’
acciottolato.
Quando
entrarono, nel ristorante calò il silenzio.
Blaine
si
avviò diretto verso il tavolo, prendendo una sedia e
sedendosi con gli amici.
Kurt
rimase
fermo.
E
si maledì
perché quel giorno aveva pianto più di quanto
avesse fatto in tutta la su vita,
ma vedere i suoi amici, coloro con cui era cresciuto, che lo avevano
aiutato
nel trovare sé stesso e nell’ accettarsi, era
semplicemente qualcosa che non
riuscì a sopportare.
Non
ci riuscì
perché l’unica cosa a cui che gli veniva in mente
era come avesse mandato a
monte tutto, come fosse stato orribile a lasciarli come aveva fatto due
anni
prima.
Le
lacrime gli
colmarono gli occhi, impedendogli di vedere, e quando sentì
le mani, le
braccia, i corpi confortevoli dei cuoi amici abbracciarlo e dirgli che
andava
tutto bene, quasi lo urlò, quel “mi
dispiace” che si era tenuto dentro per
tutto quel tempo.
Si
risedettero
tutti insieme al tavolo, Kurt ancora un po’ frastornato da
quello che era
appena successo.
“Ehi
amico!”
gli disse Puck dandogli una forte pacca sulla spalla “devi
raccontarci un po’
com’è essere la star di Broadway!”
Kurt
sorrise
insicuro. “Non così emozionante come
sembra”
“Oh
ma dai!”
esclamò Rachel “Non fare il finto modesto,
è quello che hai sempre voluto fare,
per forza deve essere fantastico!”
“Si
beh”
iniziò esitando il soprano, muovendosi a disagio sulla sedia
“E’ diverso da
come me lo ero immaginato” ed i suoi occhi guizzarono
involontariamente sulla
figura di Blaine, che teneva lo sguardo fisso su un punto sopra la
testa di
Kurt.
Mercedes
capì
subito lo sconforto dell’amico, e s’intromise
subito facendo qualche domanda
innocente su come fosse il suo appartamento (nonostante lei lo sapesse
già) ed
altri dettagli insignificanti.
L’atmosfera
la
tavolo si rilassò notevolmente quando Kurt iniziò
a raccontare aneddoti sulla
sua vita in teatro, riuscendo a far ridere la tavolata, ed addirittura
sé
stesso.
Era
bello,
pensò, poter essere liberi di parlare così.
Certo, era anche strano, ma Kurt
non si era certo aspettato che tutto fosse rose e fiori, erano passati
due anni
d’altronde.
E
tutto stava
andando meglio di quanto si era aspettato.
Fu
proprio
quando stava raccontando di quella volta in cui un piccione aveva
rovinato uno
dei costumi di scena due minuti prima dello spettacolo e la compagnia
aveva
dovuto aggiungere delle righe al copione per giustificare
l’enorme macchia sul
vestito, che Blaine si alzò di scatto dalla sedia e si
affrettò fuori dal
ristorante.
Tutti
si
guardarono stupiti, poi i loro sguardi si posarono tutti su di Kurt.
Fu
con
studiata lentezza quindi che quello si alzò, prese il
cappotto, e uscì dal
ristorante.
Dentro
di sé
sperava che Blaine se ne fosse già andato, non aveva le
forze di affrontare
quello che era sicuro sarebbe successo.
Sapeva
che sarebbe
dovuto accadere, ma il solo pensiero gli faceva stringere nuovamente lo
stomaco.
Il
ricciolo
era in piedi sull’ orlo della strada, le mani in tasca e la
testa bassa, gli
occhi piantati sull’asfalto.
Kurt
gi si
avvicinò, piano, posandogli una mano tremante sulla spalla.
Quando
Blaine
si voltò di scatto guardarlo,
il soprano
non si era di certo
aspettato le lacrime
che trovò negli occhi dell’ altro.
“Blaine-“
iniziò esitante.
Ma
il ragazzo
si scostò bruscamente dal soprano, la cui mano gli ricadde
in mobile sul
fianco.
“Potevi
dirmelo sai” urlò Blaine.
Eccolo,
quello
che si era tenuto dentro per tutta la serata.
“Potevi
avvisarmi, ti sarebbe costato un fottuto singolo minuto della tua perfetta e felice
vita!” sputò le parole con disgusto. “E
invece no! Non un messaggio, non una chiamata, niente!
Ti sei presentato come se non fosse successo un dannatissimo niente!”
“Blaine
non lo
sapevo!” si riprese Kurt, lo sguardo supplicante un perdono
che sapeva non
sarebbe mai arrivato “Se solo avessi saputo che tu insegnavi
alla Dalton io-“
“Io
cosa,
Kurt, io cosa!?” lo interruppe l’altro, le lacrime
che ormai gli inondavano il
viso “Sai quante cose non sapevo io? Sai cosa mi sarebbe
piaciuto sapere? Per esempio il
perché quello che si
supponeva fosse il giorno più bello della nostra
vita io sono tornato a casa e ho trovato il mio ragazzo che senza un
spiegazione mi sbatte la porta in faccia, o
per esempio perché in due anni non si è
mai degnato di farmi sapere perché!
Sai quanto ha fatto male, Kurt? Sai cosa vuol dire svegliarsi ogni
fottutissimo
giorno e trovare il letto vuoto?”
“Dannazione
certo che lo so, Blaine! Cosa credi che abbia provato io, eh?
Cosa-“
“Di
sicuro non
stavi poi così male se sei uscito con tutte quelle troiette
in minigonna, Kurt.
Cos’è? Una nuova moda di Broadway? Giochiamo a chi
si nasconde meglio? A
chi finge meglio di essere qualcuno che non
è?”
“Io-
loro
erano” Kurt era stato preso in contropiede, sapeva che i
giornali lo avrebbero
fotografato con le ragazze con cui era uscito, in verità
quello era il suo
scopo, ma non aveva mai pensato a come avrebbe reagito Blaine se avesse
visto
le foto.
“Cosa,
Kurt,
cosa?! Dov’è finito il Kurt che conoscevo?
Dov’è finito il ragazzo orgoglioso
che non aveva paura di essere sé stesso?”
“Blaine-“
“Tu non sai più chi sei, Kurt, tu-“
“BLAINE!
Credi
che sia stato facile non correre indietro? Credi che non abbia pensato
mai a
come sarebbe stata la mia vita se non avessi fatto quello che ho fatto?
Ma non
posso, dannazione, non posso!”
“Il
problema è
che non mi hai mai detto perché! Una spiegazione, Kurt
è tutto quello che ti ho
sempre chiesto!”
“Era il mio sogno, Blaine, non potevo lasciarlo, tu mi hai
sempre detto di
inseguire i miei sogni-“
“Beh,
sai che
ti dico Kurt? Vaffanculo! Perché indovina un po’
qual’era il mio sogno Kurt?
Tu.”
E
detto questo
si girò e corse via, infilandosi velocemente in macchina e
lasciando un Kurt
tanto distrutto quanto non si era mai sentito in tutta la sua vita.
.BluCannella
Vorrei iniziare scusandomi con tutti, davvero, per il ritardo.
Lo so che sembrerò una bambinetta capricciosa, ma ci sto
davvero mettendo l'anima per questa storia, e quando ho all' inizio
pubblicato i nuovi capitolo ero un po' giù di morale per il
poco successo, le poche recensioni.. e non riuscio a trovare un motivo
per andare avanti.
Scusate davvero, e ringrazio le fantastiche persone che per MP mi hanno
fatto capire che ci tengono a questa storia, mi avete commosso,!
Ecco qui un altro capitolo, ora la smetto di scrivere Angst (Lo sto
scrivendo? Davvero non ho ancora capito bene che cosa sia :P), dal
prossimo capitolo le cose diventeranno più tranquille, ma
non posso risolvere ciò che è successo ai nostri
due poveri eroi in così poco tempo, ergo: l'Angst mi si
scrive da solo!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, vi ringrazio infinitamente per
le recensioni ricevute, davvero, mi illuminate la giornata!
Spero di non avervi deluso (ammetto di odiarlo, questo capitolo)
Fatemi sapere che ne pensate, basta poco e mi rendereste davvero felice
:)
Alla prossima
BluCannella
P.s. IO. UCCIDO. RYAN. MURPHY.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=1001856
|