And the winner is

di heles_allgood
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Track #1 ***
Capitolo 2: *** Track #2 ***
Capitolo 3: *** Track #3 ***
Capitolo 4: *** Track #4 ***
Capitolo 5: *** Pubblicità ***
Capitolo 6: *** Track # 5 ***
Capitolo 7: *** Track # 6 ***



Capitolo 1
*** Track #1 ***


 
 
 
 
 
 
This is a public service anouncement, this is only a test.
Green Day
 
 
 
 
 
God bless us everyone
We are broken people living under a loaded gun
Linkin Park
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Track # 1
 
Ci siamo.
È la mia serata.
Sono pronta.
Sono al top.
Mi sento bene.
Mi sento davvero bene.
Un piccolo aiutino dalla magica polvere degli angeli ha fatto sparire ogni dubbio. Ora non ho più paura. Posso uscire e affrontare il pubblico senza problemi.
Posso affrontare anche lei. Nulla può più fermarmi. Non adesso.
Adel, la mia truccatrice personale, arriva con gli ultimi colpi di pennello. Chiudo gli occhi di mala voglia. Sono stanca. Mi ha truccato per quasi due ore. Ora ho la pelle che ha lo stesso colore delicato di una pesca ed è liscia come il culo di un bambino.
Non ricordo se i miei figli avessero il culo così quando erano piccoli, se proprio devo essere sincera. Non gli ho mai cambiato un solo pannolino in vita mia. Non ci ho mai nemmeno pensato, a essere onesti.
Forza, non scherziamo.
Avete idea di quanto puzzi la merda di bambino? Io si. alla perfezione.
Ci ho provato solo una volta, giovane e incosciente. E anche un po’ fatta. Ok, mi avete scoperto. E allora? Nessuno è perfetto.
Comunque.
La puzza era così tanta che ho quasi vomitato il mio Cosmo.
Connague è rimasto senza pannolino fino alla mattina successiva, quando la prima cosa che ho fatto è stata compilare un assegno a nome Mrs Amelie Polignac. Ha origini francesi da parte di nonni materni. Il suo cognome è lo stesso di un’antica contessa, amante del Re Sole. Così almeno dice lei. Secondo me se lo è inventato, perché credo sia più americana del quattro luglio e del pollo fritto messi insieme. Ma non importa. Deve badare a Connague e Leon. E poi sa un po’ di francese. Spero veramente che lo insegni ai bambini. Così quando saranno più grandi mi porteranno in giro per negozi a Parigi, e non potranno più fregarmi con la loro lingua di merda.
Vedo arrivare anche Andrè, il mio parrucchiere personale.
Andrè. Un amore, il nostro, che ormai va avanti da tre anni.
Mi ha seguito praticamente ovunque. Abbiamo girato il mondo insieme. Abbiamo visto tinte in piena notte e capelli che sono durati fino a dodici ore in piega perfetta grazie all’improponibile quantità di lacca spruzzata.
Ci soffiamo addosso a vicenda, di solito, ma la nostra è solo una finta, che serve per camuffare le apparenze.
Dopo aver passato tre ore sotto alle sue mani, lo guardo, ovviamente, con occhi infuocati. Ricambia senza problemi il mio sguardo, aprendo le braccia in un gesto più che plateale mentre strabuzza gli occhi, ad indicare che non è colpa sua se mi si è scomposto un capello, nonostante il nostro più che degno contributo all’apertura nel buco dell’ozono a colpi di spray. Sbuffo di nuovo ma lo lascio fare. Anche perché so perfettamente che se anche mi metto a questionare sul fatto che il capello fuori posto lo vede solo lui, alla fine trova comunque il sistema per mettermi le mani in testa, e io mi sento una cretina perché mi rendo conto di aver solo perso del tempo. Quindi glielo lascio fare, anche se sbuffo.
Consapevole che, dopo di lui, sarà il turno di Didì e Steven, che mi sistemeranno il vestito.
Di nuovo.
Ho un cambio di abito per ogni entrata, il che significa ben nove cambi di abito nella serata. Nove vestiti uno più assurdo dell’altro. Ma se dobbiamo far concorrenza alla concorrenza va bene anche questo.
Sono io la star.
Non lei.
Questo è bene che il pubblico lo capisca in modo chiaro. Ed è bene che lo capisca anche lei. Se non fossi esistita io non sarebbe mai esistita nemmeno lei. Così come non sarebbero esistite tutte le altre. Sono io la regina. Non quella stupida oca che cerca di imitarmi.
Ecco Didì.
Fantastico. Non vedevo l’ora.
Steven non so dove sia, mi dice. Meglio così. Steven di solito mi fa girare la testa a forza di controllare che ogni singolo lustrino sia al suo posto. Molto probabilmente è a controllare gli altri vestiti. Didì prende una bomboletta di lacca spray, mi solleva il retro del costume e mi spruzza la lacca sulla pelle, incollandomi il costume alle natiche. Come se prima non ne avesse già spruzzata abbastanza. È per essere sicuri, mi dice.
“Non voglio che il tuo vestito di apertura venga ricordato come quello che ti ha lasciato col culo per aria” sospira.
Neanche fosse la prima volta che il pubblico mi vede il culo. Girano i miei filmini porno in rete. Dovevano essere privati, ma a quanto pare. Perciò figuriamoci se mi spaventa la possibilità che la gente possa vedere il mio culo. Mi mordo la lingua in ogni caso. Gli amici vanno accontentati in ogni modo. Quindi sopportiamo di buon grado il freddo appiccicoso che dalle chiappe mi scende lungo le gambe.
Didì mi tampona la pelle con un kleenex. Sembra che me la sia fatta sotto.
Scuoto la testa, cercando di non pensarci.
“Voglio una sigaretta”.
Sembra che parli nel deserto del Gobi.
Se avessi chiesto l’ora probabilmente avrei suscitato reazioni più partecipi.
“Voglio una sigaretta” provo di nuovo. Forse il mio tono di voce non era sufficientemente alto. “Voglio una sigaretta” urlo. “Voglio una sigaretta. Voglio una sigaretta. Vogliounasigarettavogliounasigarettavogliounasigarettavogliouna”.
Finalmente qualcuno si accorge di nuovo che esisto.
Un cameraman mi allunga uno sgangherato pacchetto di Pall Mall.
Le odio, ma siccome non vedo nessuno scapicollarsi per darmi una sigaretta, vedrò di accontentarmi.
Adel mi guarda, terrorizzata per il rossetto. Le faccio il sorriso più cattivo che mi riesca.
A fanculo lei e il suo rossetto.
Scuote la testa, rassegnata, e comincia a cercare tra le sue mille cianfrusaglie il pennello per la bocca e il rossetto giusto, quello color ciliegia numero 609, e non il ciliegia 614, che risulta ideale per fare le labbra rosso sangue.
Stasera voglio sì un’immagine più aggressiva, ma non vicina a quella di un vampiro. Devo riabilitarmi. Devo ristabilire la mia immagine. Non far sembrare questa cosa come una carnevalata.
O peggio ancora, come  il canto del cigno.
È la mia serata, e me la voglio godere tanto.
Anche se in questo momento sto facendo altro. Non mi sto esattamente divertendo.
Attorno a me è un viavai continuo di gente.
Mi hanno già urtato, nell’ordine, due cameraman, un ballerino, il cantante dei Fighter Club che non mi ha nemmeno salutato, figuriamoci chiedere scusa, il regista della serata che inseguiva il cantante dei Fighter Club, due donne della sartoria il cui nome non è particolarmente importante, e un carpentiere con tanto di casco giallo.
Il prossimo che si avvicina a meno di tre metri da me sarà rinchiuso nel mio camerino in compagnia di…di…non lo so di cosa. Ma qualsiasi cosa che gli faccia male sarà perfetta.
Manca poco alla diretta. E manca poco anche alla mia apertura. Sarò la star dello show. Sarà tutto perfetto. Ritornerò a calcare le scene e dimostrerò a lei che il mio nome conta ancora qualcosa.
Anzi.
Più di qualcosa.
Il mio nome è ancora una garanzia.
Di quelle con la g maiuscola.
Il cazzo. Io mica sono arrivata ieri come le sgallettate che saranno sicuramente sedute in prima fila. Io ho studiato, mi sono impegnata e ho fatto tanti sacrifici.
Brian, il mio coreografo, ha preparato tre uscite studiate appositamente per me. Sono spettacolari, estremamente scenografiche, con tanto di elementi acrobatici e fiamme. Meravigliose. Ci saranno persino i fuochi d’artificio in chiusura.
Andrà bene.
Lo so.
Lo sento.
Devo solo rilassarmi. E respirare ancora un po’ di polvere degli angeli. Mi fa vedere le cose più chiare di solito.
Afferro la croce che ho al collo. Nessuno lo direbbe mai che è un contenitore di polvere magica. La parte più corta del braccio verticale, infatti, si sfila dal resto. Ad esso è collegato un microscopico cucchiaino. Me lo porto vicino al naso e via.
Tutti pensano che io abbia ritrovato la fede.
Un po’ è così, in effetti. Ho ritrovato la fede.
E credetemi. È purissima.
Vedo Steven in lontananza che si avvicina con un sorriso da avvoltoio.
Pessimo segno.
Steven che sorride di solito è presagio di sciagura, perché gli è venuta in mente una variazione vitale dell’ultimo minuto, che sicuramente prevede qualcosa che io non vorrei fare nemmeno nel corpo di un altro.
Ma posso sopportare anche questo. Devo solo convincermene. Posso farcela.
Quando è a portata di profumo, mi fa girare come se fossi la ballerina di un vecchio carillon. In effetti un po’ lo sembro. Anche se non esattamente così elegante e politically correct.
Ho un body nero aderente senza maniche, fatto di pizzo, praticamente trasparente. Sotto indosso reggiseno e slip in pelle, attorno ai fianchi una complessa struttura di filo di ferro a gabbia, che le donne del settecento usavano come impalcatura per i loro mastodontici vestiti, Solo che questa, invece che essere un semplice supporto per un pezzo di stoffa, è la mia gonna. I fili di ferro sono ricoperti di raso nero, con rose nere di seta nei punti di congiuntura. Sulle mie gambe calze a rete larga strappate in diversi punti, con tronchetti alla caviglia con tacco quindici, ricoperti di piccole borchie. I capelli sono così biondi che sembrano quasi bianchi, e sono acconciati in mille ricciolini sottili sparati in aria, raccolti in due codini ai lati della testa.
Niente male, lo so.
Non sono molto felice della scelta del trucco. È azzurro, molto vistoso e molto luccicante, e col nero fa decisamente a pugni, ma in realtà fa a pugni anche col resto. Solo che non ho ovviamente tempo per truccarmi tra un cambio e l’altro, dal momento che per mettere su questo mi ci sono volute due ore.
Io lo volevo nero, cos’ da mettere in risalto i miei occhi verdi, ma Tanja mi ha fatto desistere, ricordandomi che è la serata della mia riabilitazione. Addirittura lei lo voleva rosa.
Figuriamoci.
Mi ci sono opposta con tutte le mie forze. Del trucco rosa non se ne parla proprio. Quindi ombretto azzurro cielo, matita dello stesso colore, mascara blu, tanti glitter, attorno agli occhi e anche sul viso, e la bocca a forma di cuore, disegnata alla perfezione col rossetto.
L’azzurro è un colore neutro e passepartout. È chiaro, mette in luce il mio viso e in risalto i miei occhi e lo posso mettere con tutti i vestiti.
Resto del parere che sia una pessima scelta.
Ma non ho più tempo per sacramentare al momento. Ormai è andata, e mi tengo questo.
Amen.
So come far fronte agli imprevisti.
Sono una star e non ho nulla da invidiare a lei.
Sono una star e non ho nulla da invidiare a nessuno.
Steven continua a dare piccoli colpi all’impalcatura della gonna per sistemare le rose o non so che altro. Mi lascio scappare il piede e gli pesto una mano.
Ops.
“Oh. Scusa Steven. Sai, questi tacchi così alti, non sono esattamente una passeggiata da portare” gli dico col mio miglior sorriso.
Mi guarda storto, ma io mantengo la mia espressione di sfida. Non ci pensare nemmeno, cocchino. Stasera la prima donna puoi andarla a fare sull’autostrada, per quel che mi riguarda. Faresti sicuramente un successo maggiore. Soffia dal naso, imbestialito, eppure, alla fine, è il primo ad abbassare lo sguardo.
Un’altra piccola vittoria per la sottoscritta.
Cinque minuti, dice la voce del regista diffusa dall’altoparlante.
Ho persino il tempo per una telefonata a casa.

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Capitolo 2
*** Track #2 ***


“Casa Memphis” risponde la mia governante tata tuttofare Angie.
La adoro.
Ha un tono di voce così profondo, che al telefono può tranquillamente essere scambiata per un uomo.
A volte lo fa.
Quando magari c’è qualche giornalista un po’ troppo insistente, o qualche altro rompicoglioni della stessa razza. Ci divertiamo un casino. Con le che si spaccia per un uomo e minaccia di prendere il malcapitato dall’altra parte della cornetta a calci nel culo se non la smette di chiamare.
Di solito funziona. Almeno per un paio di giorni.
Senza perdermi troppo in chiacchiere, le chiedo se è arrivata la mia specchiera Luigi XV, comprata direttamente dalla Francia. La aspetto ormai da dieci giorni, e mi avevano assicurato, no meglio, mi avevano garantito che sarebbe arrivata in meno di una settimana, con un carico privato. Ancora non ho visto nulla. Tranne la sparizione dei miei 105 mila dollari, tasse escluse.
Questa cosa sta cominciando a darmi pesantemente sui nervi. La risposta di Angie è, ancora una volta, negativa.
Cazzo.
Non ci posso credere. La mia specchiera con intarsi floreali fatti a mano appartenuta prima alla regina Maria Antonietta e poi a una delle amanti di Napoleone, con tanto di garanzia di autenticità, deve ancora prendere il volo da quella cazzo di Europa. Potrei decidere di aver sopportato abbastanza e di aver pazientato a sufficienza, e prendere un aereo per la fottutissima Francia subito dopo la fine di questo stupido show.
Cazzo.
Le informazioni di servizio sono servite solo per peggiorare di una tacca il mio umore. Prima che io possa riattaccare e cercare di nuovo il conforto della fede, Angie contribuisce ad aggravare di un’altra tacca il mio umore, con altre informazioni di servizio dai contorni pessimi.
Leon, il più piccolo dei miei figli, ha vomitato sul mio tappeto zebrato del salotto. Quella zebra è stata appositamente scelta da me durante un giro in Africa, in mezzo a un branco di un centinaio di zebre, proprio per finire come tappeto per il mio salotto. Adoro quel tappeto. E ora quel piccolo mostro ci ha vomitato su.
Angie mi assicura che con bicarbonato e succo di limone verrà via senza problemi. Me lo auguro per lei o si ritroverà un tappeto macchiato e un figlio come liquidazione per il suo onesto e onorato servizio a casa Memphis.
Le dico che per quando sarò a casa non dovrà esserci più traccia del ricordino di quel piccolo insolente sul tappeto del mio salotto. Riattacco e cerco di nuovo il tizio di prima. Quello che mi ha dato la Pall Mall. Solo che stavolta ho meno fortuna.
E anche se urlo e strepito che voglio una sigaretta, la voce del regista che urla che manca un minuto alla diretta, copre la mia che urla a pieni polmoni.
È ora di salire sul palco
Un’ultima preghiera alla mia croce e si parte.
Se inciampo o cado o mi dimentico le parole posso anche abbandonare la serata. Specie se lo faccio alla prima canzone. Deve essere tutto spettacolare. Non ci sono margini di errore.
Cinquanta secondi.
Corro con i piedi intrappolati in queste dannate scarpe, dall’improbabile tacco a forma di pin up anni ’50, verso la pedana che mi farà salire sul palco vero e proprio. I miei ballerini mi seguono. Sono più in forma di me, soprattutto le ragazze, che, come noto con una punta di disgusto, sono prive del benché minimo segno di cellulite o della più piccola smagliatura.
Trentasei secondi.
Salgo sulla pedana rotonda che mi eleverà ancora una volta di fronte al mio pubblico, i piedi proprio sopra la x disegnata con nastro adesivo argentato.
L’idea è quella dell’ascesa. Dopo la calata negli inferi, rappresentati da droga, rehab e filmini porno, ecco il ritorno verso l’antico splendore, ecco il rientro nella luce della gloria e nel calore della fama. La salita, che è sempre faticosa e impervia, ma che non per questo non da soddisfazioni. Eccomi di nuovo di fronte a voi, pronti a urlare per me e cantare con me e adorare ogni mio singolo gesto.
Trenta secondi.
Ultimo accessorio prima che la mia riabilitazione abbia inizio. Un mantello di raso nero, lungo fino ai piedi, circondato da un colletto alto poco meno di mezzo metro, rigido come cemento armato e tempestato di Swarovski, che ricorda molto Dracula, cappello a cilindro e bastone da passeggio con un pomolo bianco al posto dell’impugnatura.
Diciassette secondi. 
Solo alla prima esibizione perderò pezzi come un serpente durante la muta.
Tredici secondi.
Io e i miei ballerini urliamo forte tre volte merda, e ci fermiamo, ciascuno al proprio posto, fermi come statue.
Sette secondi.
Le luci si spengono. Il mio momento sta per arrivare. Il pubblico sarà solo per me. Ultima sistemata al microfono. Presa salda sul bastone da passeggio, sguardo basso, il mantello copre ogni singolo centimetro di vestito, Didì lo sistema l’ultima volta e io lo caccio con un sibilo, così sparisce.
Due secondi.
La pedana comincia a vibrare, il macchinario si è acceso.
Ci siamo.
Un boato di fuochi d’artificio annuncia che lo show sta per iniziare. Sento le urla sovraeccitate dei fan e gli applausi di cortesia del pubblico in sala. Vip invidiosi e i loro amici imbucati. La solita fauna offerta dallo show biz. Nulla di che.
Ci muoviamo verso l’alto. Vedo il pavimento del palco che scorre davanti ai miei occhi. Si intravede la platea in mezzo al fumo profumato di borotalco. Vedo degli striscioni ma non capisco cosa ci sia scritto. Devo concentrarmi sulla mia esibizione e sulle parole della canzone. Non canto in playback stasera. Quindi non posso stonare e non posso nemmeno dimenticare le parole. Ho provato per tre mesi ogni singolo passo, ogni singola nota, ogni singola espressione facciale di questo cazzo di spettacolo. Questo è il mio rientro e deve essere fatto in grande stile. Non posso permettere alla nuova arrivata di usurpare il mio posto come se nulla fosse. Deve capire che la regina del pop si è solo presa una vacanza dai suoi sudditi, ma non ha mai lasciato la sua corona.
La pedana si ferma sotto i miei piedi.
Parte la base musicale.
Conto le battute e inizio a cantare.  
Ho i riflettori puntati su di me. Sono avvolta dal fumo. Non vedo il pubblico delle prime file. Vedo solo i fan sulle gradinate alte che sovrastano il parterre. Vedo molti striscioni col mio nome. Sento urlare Brit da ogni direzione. Ma so che lei c’è. So che è li. Davanti a me. A pochi centimetri ormai da me. Lo so. Lo sento. La sento.
E la odio.
Rabbia e odio. E mesi e mesi di dieta e prove e studio e preparazione. Non fallirò. Non stasera. Non davanti a lei. Non me lo posso permettere.
Ho faticato per essere di nuovo qui. Tanto. Non posso permettere a una stupida ragazzina a malapena maggiorenne di portarmi via la scena.
È la mia serata. Non la sua.
Che ci entri lei in una cazzo di clinica di rehab dove non ti fanno nemmeno bere il caffè e non ti permettono quasi di fumare, prima di provare a portarmi via il posto.
Che si schianti lei con una macchina nuova appena uscita dal concessionario contro il camion dei rifiuti per sfuggire ai paparazzi che vogliono vedere come ti sei bruciata i capelli prima di provare a portarmi via il posto.
Che si sottoponga lei a cicli di sanguisughe e urino-terapia per migliorare il colore della pelle e l’afflusso sanguigno e far sparire qualche ruga di troppo prima di provare a portarmi via il posto.
È la mia serata.
Conosco i passi. Conosco le coreografie. So dove vanno le braccia in qualsiasi movimento. So come deve essere l’espressione del mio viso a ogni singola sillaba. So come deve stare la mia gola a ogni singola nota. So tutto. Sono pronta.
E mi muovo. Lungo il palco, tra i miei ballerini, tra le sedie e le altalene di scena. Mi sposto. Salto. Mi siedo. Muovo gambe e braccia. Sorrido.
Il cilindro è il primo che vola via. Va lanciato in mezzo alla folla.
La prendo di mira di proposito, ma non riesco a colpirla. Il cilindro plana elegantemente ai suoi piedi, come il bouquet della sposa a un matrimonio.
Credimi, cocca. Non sarai tu la prossima. Non in questa vita almeno.
Due ballerini si avvicinano, e mi sfilano il mantello tempestato di Swarovski. Quello ovviamente non lo posso lanciare perché costa la bellezza di 250 mila dollari. Se lo metto all’asta verrà venduto ad almeno tre volte il suo prezzo. Così forse, finalmente, potrei comprarmi quell’isoletta nell’arcipelago delle Fiji che voglio da un paio di settimane.
Il pubblico è in delirio quando vede il mio vestito. Non se lo aspettava, lo so. Si aspettavano il solito costume ridottissimo e striminzito. Non questa cosa ricercata e molto, molto chic.
Ammetto che Steven e Didì stavolta hanno fatto un ottimo lavoro.
Le odio quelle due maledette checche, ma quando ci si mettono sono davvero due geni.
La folla è in delirio. Urlano tutti per me. Cantano con me. Applaudono per me. È  semplicemente stupendo.
Io non sbaglio una sola nota.
Continuo a muovermi, a ballare, a seguire i passi. Controllo il fiato, l’intonazione, l’espressione del viso. Poi mi lancio in un fuori programma. Durante il bridge della mia canzone, scendo le scale che portano in platea, abbandonando coreografia, ballerini e mimica facciale, per dirigermi verso di lei.
La folla impazzisce. Ormai non sento nemmeno più la mia voce. Neanche attraverso gli auricolari.
Il pubblico vuole qualcosa che faccia scalpore. Il pubblico vuole sempre qualcosa che faccia scalpore. Qualcosa che faccia scandalo. Qualcosa di cui parlare. Qualcosa di cui parlare per non parlare delle proprie disgrazie quotidiane. Lo so bene. Lo facevo anche io.
Io, invece, voglio qualcosa che venga ricordato come uno dei momenti più spettacolari di questa premiazione. E di tutte quelle che la seguiranno.
Un occhio di bue mi acceca dalle spalle in su. Non mi interessa.
Vedo gli sguardi attoniti e curiosi dei vicini di posto. Posso immaginare il mio manager che trattiene il fiato fino a diventare blu. Posso sentire i battiti del cuore dei miei fan.
Il padrino di “The Godfather” sarebbe fiera di me.
Mi avvicino a lei, appoggio entrambe le mani sui braccioli della poltrona in cui è seduta, con un vestito al limite del pacchiano e dello stile, posso vedere il suo sguardo vacuo da mucca al macello, la vedo mentre trattiene il fiato, gira appena la testa quasi in cerca di aiuto dai vicini, socchiude di poco le labbra ricoperte da un improbabile colore viola, in tinta con il suo vestito, trasgredendo ancora una volta a ogni regola dello show biz, le sorrido nel modo più glaciale che mi riesca di produrre e poi la bacio.
Silenzio.
Il tempo sospende il suo corso per una frazione di secondo.
In questo momento se un ago cadesse dalle mani di una delle sarte ne sentirei l’eco, senza dubbio.
Vedo i suoi occhi spalancarsi per lo stupore. Posso distinguere nettamente il contorno delle sue lenti a contatto e la pupilla che si restringe.
Questo si chiama “il bacio della morte”.
Questo viene dato a chi è condannato dalla mafia.
E credimi, cocca. I tuoi giorni sono ormai contanti. La regina del pop è tornata.
Il boato che esplode intorno a noi ha la potenza di una bomba nucleare. È semplicemente incredibile. Non ho mai sentito un frastuono simile. È talmente forte che mi sembra di stare in una bolla di silenzio.
Mi rialzo. Percorro il mio pubblico con lo sguardo. Sorrido e faccio un piccolo inchino. Poi torno velocemente sul palco e riprendo a cantare. Sono rimasti solo gli ultimi due ritornelli.
La polvere degli angeli mi scorre nelle vene a velocità supersonica, ogni cosa mi arriva amplificata, i suoni, le luci, i dettagli dei visi, dei vestiti, sta andando tutto come dovrebbe. Non posso sbagliare ora.
Non è contemplato.
Riprendo anche la coreografia, rientrando alla perfezione al passo coi miei ballerini. Ho di nuovo il controllo delle espressioni del mio viso. Ci sono. Ormai ce l’ho fatta.
Canto le ultime parole del ritornello, faccio gli ultimi due passi, e chiudo la coreografia in una posa plastica, da mantenere per cinque secondi, mentre la folla tuona e l’occhio di bue resta fisso su di me.
Ho il fiato corto, e respiro con la bocca. Sento il sudore che mi scorre lungo la schiena. Le gambe che tremano leggermente per lo sforzo. E il pubblico in delirio solo per me.
Questo si chiama “ritorno in grande stile”.
Questo viene concesso alle grandi star.
Abbandono la posa plastica. Ho ancora il fiatone e ho ancora il sudore che mi cala lungo la schiena. Ma facendo un rapido bilancio della situazione direi che non sarebbe mai potuta andare meglio di così.
Non ci sono state cadute, non ci sono state fuoriuscite di parti corporee non previste, non ci sono state rotture nel vestito, non ci sono state stecche o mancanze di fiato.
Non posso fare altro che guardare il pubblico e sollevare le braccia al cielo in segno di vittoria, sorridendo e godendomi la mia standing ovation. Sono tutti in piedi. Solo per me. Un applauso che somiglia a un fiume in piena che straripa.
Sorrido mentre il respiro ritorna piano piano alla normalità, e percorro il pubblico con lo sguardo. Li guardo tutti, uno per uno. Li guardo a lungo. Tanto loro non smettono di applaudire e io non ho nessuna intenzione di fermarli. Me lo merito questo applauso. Me lo merito tutto, fino all’ultimo clap clap.
Sorridono tutti. Così io sorrido a loro. Mentre il cuore pompa con la forza di un uragano. Sorride anche lei. Con i suoi capelli finto biondi e quegli occhi azzurri che non possono essere suoi. Ha sicuramente delle lenti a contatto colorate. Sembra veramente la mia brutta copia. Solo io ho occhi del genere. Non esiste nessun altro al mondo che abbia occhi di quel colore.
Mi viene portato il microfono da uno dei miei ballerini, ora di salutare il pubblico come si deve, ringraziarlo per l’affetto e la fiducia che ancora sanno donarmi, ringraziarli per essere presenti alla serata e garantirgli che sarà il miglior spettacolo a cui abbiano mai assistito in vita loro. È ora di cominciare la serata.

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Capitolo 3
*** Track #3 ***


“Non voglio commuovermi, ma sono veramente felice di essere qui, con tutti voi, questa sera. Non immaginate nemmeno quale possa essere la mia gioia nel ritrovarvi tutti qui, nell’avervi di nuovo di fronte a me, in un’occasione tanto importante come quella che stiamo per celebrare.
“Questa è una notte magica, alla fine della quale niente sarà più uguale a prima. Ve lo prometto. Quindi diamo il via alle danze, o meglio, ai video, e passiamo subito alla prima categoria. È uno dei premi più importanti di tutta la serata, quello che celebra la miglior canzone dell’ultimo anno. È un premio prestigioso, che ha consacrato grandi celebrità del passato, come i Queen, i Depeche Mode e gli Oasis. E anni dopo questi nomi brillano ancora nel firmamento delle celebrità indiscusse del panorama musicale.”
Il monitor del gobbo elettronico è posizionato proprio sotto la telecamera che mi inquadra. In questo modo sembra che io stia guardando verso il basso verso il pubblico. Ma in realtà sto leggendo quello che mi hanno scritto gli autori. Non potevo di certo impararmi a memoria una tale sequela di stronzate. E di sicuro non mi metto a girare con una cartellina in mano. Non sono una cazzo di valletta della tivù.
Ho quindi optato per qualcosa di più pratico, comodo, e quasi completamente invisibile. La seconda legge dello spettacolo è che ciò che non si vede non esiste.
La prima, ovviamente, è che l’immagine è la sola cosa che conta.
Il primo che inquadra o fotografa quell’affare simile a uno schermo, giuro che si ritroverà a farci il bagno assieme, in una vasca piena di acqua bollente.
Non mi si può rovinare il mio ritorno in grande stile. Non esiste.
Ho ancora il fiatone, e all’inizio mentre parlo si sente. Ma basta poco affinché io mi riprenda. Un paio di respiri più lunghi. Una pausa ad hoc. Un applauso provvidenziale. Tutto fa comodo.
Stasera sono carica. Voglio stupire. Voglio sconvolgere. Voglio essere al centro dell’attenzione e allontanare i riflettori da quella patetica creatura di Miss Valentine. Stasera devo assolutamente convincermi che lei non esiste.
Il trucco è sorriderle tanto e dimostrarsi sempre e comunque superiori a lei. Il trucco sta nel guardarle la ridicola frangetta che ha sulla fronte dando però l’impressione di guardarla dritto negli occhi. Il trucco consiste nel far finta che lei non esista proprio e che tutti siano qui solo per me.
“Ci saranno numerosi ospiti questa sera, sul palco insieme a me. Non so se lo sapete, ma nelle prossime tre ore mi faranno compagnia Mr Estrada
pausa urlo
gli Special K
pausa urlo
i The Endogamy
pausa lunga urlo
gli Andromeda
pausa lunga urlo
Miss Valentine
pausa boato
gli Horror Love
pausa lunga urlo
i Fighter Club
pausa lunga urlo
e special guest i Waisting Days
pausa boato
ovviamente, ultimo ma non meno importante, ci sarò io. Ma mi vedete già qui, perciò mi sembrava inutile sottolineare la mia presenza.”
Risata collettiva.
Mi piace farli ridere. Mi piace quando qualcuno ride con me. E non di me, come succedeva sempre quando facevo il liceo. Per fortuna l’ho abbandonato piuttosto in fretta. Ma ricordo bene il primo semestre, quando tutti mi prendevano in giro perché avevo vestiti di seconda mano, e spesso li scambiavo con mia sorella. È stato un periodo orribile. Orribile.
Questo si chiama “passare un brutto momento”.
Questo viene concesso a chi vive in una roulotte.
Quando oltrepassavo il portone con le grosse maniglie verdi antipanico e dovevo dirigermi prima verso il mio armadietto e poi verso la mia classe, l’intero corridoio si ammutoliva per osservarmi. Come se fossi una specie di fenomeno da baraccone. Come ho intitolato il mio terzo album. Si. L’ho chiamato proprio così. “The freaky freak show”. In onore a tutti quei miei compagni di scuola che mi hanno preso in giro fino a che non li ho presi in giro io e sono diventata la star del pop internazionale.
Ok, glielo concedo. Forse un po’ di ragione ce l’avevano a quell’epoca, visto che avevo i denti storti, i capelli lunghi e unti, vestiti informi e macchiati di seconda mano. Ma di certo non lo avevo chiesto io di vivere in quel modo. Così come non avevo chiesto io di abitare in una roulotte, dormire in una sottospecie di loculo imbottito, o avere una madre appassionata di sermoni religiosi e un padre con una Bud al posto del cuore.
Ho odiato loro, ho odiato mia sorella maggiore, e ho odiato me stessa. Fino al giorno in cui.
Fino al giorno in cui mi sono presentata a un provino per giovani VJ in tv. Non so cosa mi abbia spinto ad andarci. Ricordo che ero in compagnia del mio fidanzato dell’epoca. Brent Lockhart. Un teppista di quattro anni più vecchio di me, che ancora faceva il primo anno di liceo. Era stato bocciato tre volte alle elementari. In prima liceo era l’unico che veniva già a scuola con la propria macchina.
Brent mi ha insegnato veramente un sacco di cose. Compreso il modo per abbandonare una figlia appena nata a favore della carriera.
“Ci siamo gente! Siete caldi?”
chiedo
“Si!”
al
“Siete pronti?”
mio
“Si!”
pubblico
“Cosa avete detto?”
che
“Si!”
urla
“Di nuovo!”
palesemente
“Si!”
in
“Più forte!”
estatico
“SI!”
delirio
“Allora un bell’applauso per Mr Estrada!”
Accogliamo tutti questo rapper del cazzo con i suoi pantaloni dal cavallo basso e le sue volgari catene dorate. Lo abbraccio e continuo a sorridere. Sento la sua puzza di sudore che mi avvolge come una nuvola di ovatta e cerco di reprimere una smorfia. Cazzo, ma non potevano riempirlo di profumo almeno stasera? Cerco di concentrarmi all’istante su un’immagine positiva, come un negozio di Gucci o la mia isola alle Fiji.
La seconda è davvero d’aiuto. Riesco a stringere i denti e non fare smorfie strane.
Questo si chiama “effetto straniamento”.
Questo viene insegnato in tutte le scuole di sopravvivenza.
Mi fa i complimenti per il vestito, e fa finta di chinarsi per guardarmi sotto la gonna. Io a mia volta sto al gioco e faccio finta di coprirmi con le mani. Cosa ci sia da coprire lo sa solo il cielo. Ma questo ed altro questa sera. Questo ed altro per il successo del mio ritorno.
Mr Estrada è un ciccione nero sudato, che puzza di rancido e acqua di colonia scadente e ricorda la brutta copia di un pastore metodista con il gel sui capelli e gli incisivi d’oro. Ricordo quando mi è arrivata la proposta di duettare con lui. Per fortuna ero in rehab, così avevo una scusa per ignorarlo, sperando che si dimenticasse di me il prima possibile. Ma lui non ha desistito, e il mio prossimo singolo sarà registrato proprio con lui. Se allunga una mano giuro che gli ficco la testa nella consolle del mixer e gli faccio passare la voglia di usare il gel per i capelli. Ma soprattutto, farò mettere nel contratto che dovrà farsi una doccia ogni volta che dovrà mettere piede in studio, o io non ci sto nello stesso cubicolo di ‘sto stronzo.
Che cazzo. Anche se spruzzo un intero flacone di deodorante per ambienti non cancello il suo tanfo. Odio la gente che puzza. La trovo profondamente irrispettosa nei confronti del prossimo.
Meglio che non ci pensi ora. Devo stare concentrata sulla serata.
Il ciccione puzzone ha in mano una busta dorata con il nome del vincitore della prima categoria della serata. Di solito queste cose sono pilotate dalle case discografiche, che fanno scelte esclusivamente in base alle vendite. Se il tuo cd non sta vendendo, ti fanno vincere quantità industriali di premi, così da poterlo pubblicizzare al traino della manifestazione. Se la gente vede che il tuo album ha ricevuto molti premi si convince che sei bravo e che valga la pena ascoltare la tua musica.
Di solito, se vinci molti premi, è perché fai schifo.
Raramente hai milioni di fan disposti a spendere cifre astronomiche per votarti e farti pubblicità. Ammetto che succede anche questo. Ma appunto è un caso raro.
A me ovviamente è successo.
Ma io sono io.
Il rapper bifolco legge le nomination dal gobbo.
Ha una pronuncia nasale semplicemente orrenda. Ma il segreto sta nel sorridere e annuire lentamente. Ridere quando ride lui. E non dire nulla che potrebbe essere letto come qualcosa di sconveniente o offensivo.
Potrei rischiare di pestare calli troppo grossi ad ogni singolo passo sbagliato che muovo. Quindi torniamo alla nostra premiazione.
Le cinque migliori canzoni di quest’anno sono.
Everybody’s girl, di Miss Valentine. Già il titolo è tutto un programma. Non me ne stupisco che la canti lei. E non mi stupirei di sapere che è una nota biografica.
Freacky Girl, di Brittany Memphis. Non ci provate nemmeno a pensare che ho copiato da lei, perché la mia è uscita ben due giorni prima della sua. In questo campo il tempo è quello che fa la differenza.
Second chance, di Shanyia. Da quando si è messa a fare la solista e si è fidanzata con quello stupido rapper, Shanyia ha cambiato completamente genere, anche se non posso dire in meglio.
Playing with the gun, dei Wasting Days. Sono tre cazzoni vestiti di nero e pelle e borchie, che  fanno punk da almeno una quindicina di anni. Non è ancora ora che se ne vadano in pensione? Sono vecchi.
Race wars di Miami. Miami letto esattamente come è scritto. Non come la capitale della Florida. Perché poi lo sa solo lui. Canzone hip hop, orrenda. Non è nemmeno ballabile. E non si può nemmeno pensare a una cover in chiave pop.
Il panorama quest’anno forniva tanti sputi interessanti, ma sono state scelte alcune delle canzoni peggiori di tutti i tempi. Questo dovrebbe in qualche modo favorirmi, in ogni caso. Ovvio, la cosa non può che farmi piacere. Quindi sorrido, in attesa di sentire il mio nome.
Perché la mia casa discografica mi ha garantito, in modo più che certo, che su quattro delle nomination per cui concorro, tre premi sono miei. Ovviamente conto nei tre più importanti, cioè best song, best pop e ovviamente best video. Sono io la star. Mi sono impegnata fino alla morte. Mi sono bruciata le narici a forza di polvere degli angeli. Quindi me lo merito.
Voglio sentire il mio nome.
Questo si chiama “lavorare sodo”.
Questo viene tributato all’impegno.
Il negro puzzolente strappa la busta con il nome del vincitore. Spero che non rompa a metà il cartoncino su cui è stato scritto. Non sarebbe una grande pubblicità per lui. Anche se quasi ci spero. Sarebbe un’ottima pubblicità per l’evento, perché il video passerebbe all’infinito su YouTube e sui social network. Sarebbe fantastico. La mia faccia un po’ imbarazzata ma comunque sorridente verrebbe vista milioni di volte.
Il cartoncino resta intatto.
Cerco di sbirciare il nome che c’è stampato sopra, ma il bestione senza cervello se lo nasconde contro il petto.
Non sei leale, gli dico, cercando di mettere insieme una risata che non sembri troppo finta e che al tempo stesso non appaia sguaiata o volgare. Non c’è nulla di peggio di una risata stridula o troppo nasale.
Ovviamente fa un po’ di scena. Sta dicendo delle cose senza senso che non mi prendo nemmeno il disturbo di ascoltare. Credo stia facendo i complimenti a tutti i nominati. Quando poi li fa a me e pronuncia il mio nome, mi prende per la vita e mi stringe con il suo braccio lardoso e sudato.
L’impalcatura di filo di ferro che mi fa da gonna però funge da ottimo respingente per fortuna, altrimenti sparirei in mezzo ai suoi rotoli di ciccia.
Allora si che si parlerebbe di me.
Anche quella non sarebbe poi una cattiva pubblicità in fin dei conti. Sarei la prima cantante risucchiata nel lardo umano.
Il ciccione continua a parlare a vanvera. So che dobbiamo allungare la suspense, ma mi sta uccidendo con le sue cazzate. Quindi o si muove a dirmi che ho vinto, oppure gli salto addosso e lo azzanno alla giugulare.
Sembra quasi captare i miei istinti omicidi, perché dice le fatidiche parole.
“And the winner is… Miss Valentine con “Everybody’s girl”!”
Le telecamere vanno immediatamente a staccare su di lei. Lo so perché quella che inquadra me non ha più la lucina rossa di trasmissione accesa.
Le rivolgo il mio sguardo più carico di odio e digrigno i denti. Strappo il cartellino con il nome del vincitore al ciccione di fianco a me, per essere sicura che abbia letto bene. È un mezzo analfabeta che firma con una croce. Chissà che cazzo ha visto. Mi guarda stranito, ma in questo momento me ne frego. Il mondo perde i pezzi. Non mi interessa come mi guarda chi mi sta intorno.
E leggo tre volte il nome di Miss Valentine, scritto in un elegante carattere Arial bold 36, tutto maiuscolo.
Lo appallottolo subito, stringendolo forte nel mio pugno. Una nomination chiave che va a lei. Non ci posso credere.
Le telecamere continuano a indugiare sulla sua figura, seduta in prima fila, che si copre il viso con le mani.
Smetti di fare la santarellina, cocca. Si vede benissimo che ti ride anche il buco del culo. Quindi muovi quegli stuzzicadenti che hai al posto delle gambe e quella prugna secca che hai al posto delle chiappe e vieni su questo maledetto palco a ritirare il tuo stupido premio.
Abbraccia il tizio che le sta di fianco. È Brent Michaels, il suo manager. Non so da dove sia spuntato fuori quello stronzo, ma è il suo manager dall’inzio, e le ha fatto fare una carriera favolosa. Si dice anche che l’abbia adottata in orfanotrofio per scommessa, e che lei crescendo sia diventata anche la sua amante oltre che la sua testa di serie. Lo stronzo, infatti, ha anche una sua casa di produzione discografia, dove coltiva giovani talenti. Molto probabilmente l’ha aperta con i soldi di lei. Raggirandola in qualche modo subdolo e viscido. E lei ci ha creduto. Poverina. Non farà molta strada in questo modo. Ma le sta bene.
Se non sa distinguere le sanguisughe dalla gelatina non è affare mio. Mi farebbe solo un favore.
I tempi delle grandi rivalità storiche come Beatles- Rolling Stones e Oasis- Blur sono passati da un pezzo. Siamo nell’era dell’individualismo.
Finalmente si alza, nel suo ridicolo e quanto mai poco adatto vestito viola. Sarebbe come andare in chiesa in costume da bagno il giorno di Natale. Decisamente inappropriato.
Non ha delle scarpe, ma dei trampoli, che non fanno altro che far somigliare ancora di più le sue gambe a quelle di uno spaventapasseri, avvolte da questi orrendi stivali zebrati in bianco e lilla che le arrivano sopra al ginocchio, tutti tempestati di brillantini di infima categoria. Calze lilla rotte in diversi punti le fasciano le cosce bianche, facendola sembrare la vittima cianotica di un annegamento, un corsetto completo di stecche di balena stile Impero, rubato molto probabilmente dalla tomba di Maria Antonietta, pieno di fiocchi e nastri, sopra una gonnellina di tulle lilla, tipo il tutù di una ballerina, e in testa questa orrenda parrucca bionda quasi bianca, fatta da una complessa crocchia cotonata e due boccoli che le scendono ai lati della faccia suina che i ritrova. Credo che anche quella sia stata rubata dalla tomba di Maria Antonietta, anche se credo che venga con maggiori probabilità da quella del decapitato e altrettanto defunto marito.
Non parliamo poi della faccia. Ombretto viola scuro fino alle sopracciglia e rossetto viola scuro su fondotinta bianco. Sembra veramente la vittima di un annegamento.
Il fatto che ancora cammini però non mi fa sperare in bene.
Incrocio le dita perché almeno inciampi nei suoi stupidi trampoli mentre fa le scale.
Non mi va bene nemmeno questa volta. Stasera la fortuna non è dalla mia parte a quanto pare. Ci si impiccasse con la sua parrucca.
Sale sul palco lentamente, e le viene portato il microfono mentre a Mr Estrada viene allungato il premio. Una piramide con sopra una palla a rappresentare il sole e sotto la scritta “Video Music Awards 2012”. Qualcosa di semplicemente orrendo.
Ovviamente dobbiamo abbracciarla e baciarla, come da tradizione. Le ficcherei più volentieri le dita negli occhi, ma credo che questo, oltre che a far parlare di me, mi porterebbe dritto in galera. Di sicuro non è quello che voglio. Non stasera quanto meno.
Quindi sorrido, anche se potrei lanciare fiamme dagli occhi, la abbraccio a malapena e aspetto che dica le solite quattro parole preconfezionate.
Non si smentisce.
“Voglio ringraziare tutti voi, i fan che mi hanno votato per primi, Brent, il mio manager, tutta la casa discografica e tutti quelli che mi sono vicini ogni giorno e che mi hanno aiutato ad arrivare fino a qui. Grazie. Grazie a tutti!”
Solleva il premio in aria, manda baci finti alla platea e se ne va. Spero che inciampi nei suoi stessi piedi. Non succede.
Questo si chiama “cattiva stella”.
Questo viene concesso alle persone che sperano troppo in qualcosa.
L’inquadratura è di nuovo su di lei. Lo vedo dalla solita telecamera. Posso rilassare per un momento i muscoli del viso.
È ora di vedere il suo video.
Dissolvenza in nero.

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Capitolo 4
*** Track #4 ***


BEST SONG
EVERYBODY’S GIRL
 
Miss Valentine
 
Inquadratura panoramica. Un’immensa villa bianca, facciata di marmo, stile Via col vento, con tanto di colonnato che sorregge un terrazzo e delimita il portico. Ampio prato bianco sul davanti. Sentiero in leggera salita ricoperto di ghiaia dorata che conduce fino alla porta di ingresso.
Inquadratura fissa, angolatura quarantacinque gradi destra rispetto alla villa, altezza dal suolo circa un metro.
Delle persone entrano nell’inquadratura. Non si muovono naturalmente, il montaggio è fatto in modo tale che il loro ingresso in casa sia fatto di sequenze brevi a cui vengono tagliati dei pezzi, come se i loro movimenti fossero a scatti come quelli di Frankestin. In testa vediamo una ragazza, parrucca dorata, pelle di orso bianco come pelliccia, la testa striscia a terra, le scarpe sono due trampoli dorati di quindici centimetri. Dietro una sequenza di persone vestite di nero, con mantelli col cappuccio simili a quelli della Morte, una valigetta argentata in mano a ciascuno. Non ne vediamo mai le facce.
Si avvicinano, il percorso reso breve dal montaggio. Li vediamo sparire dentro la casa a gruppi. Prima la ragazza con la pelliccia. Poi due mantelli. Poi tre. Poi altri due. Poi l’ultimo. La porta si chiude.
Prima strofa.
Inquadratura frontale. Lei al centro, un immenso paio di occhiali dorati che le nascondo la faccia, la bocca dorata, la faccia bianca, gli otto incappucciati di fianco a lei, quattro da un lato, quattro dall’altro, i cappucci calcati sugli occhi. Lei in mano ha una statuetta, ne tiene la base con la mano destra e la testa con la sinistra. Assomiglia a un Premio Oscar, ma invece che essere un uomo in piedi con le mani giunte sul davanti, è un uomo carponi con la testa sollevata.
Si rigira il premio tra le mani, in modo da avere il piedistallo nella sinistra e la testa nella destra, il tutto senza mai spostare lo sguardo, alza la mano destra, schiocca le dita. In sincronia perfetta otto braccia si alzano e otto cappucci vengono spinti all’indietro. Scopriamo otto maschere rappresentanti la sua faccia con otto parrucche bionde. Non si capisce se siano uomini, donne o entrambi, i mantelli neri coprono le forme.
Schiocca di nuovo le dita. Gli otto si chiudono intorno a lei come un sipario, e quando tornano a riaprirsi proprio come le tende di un teatro degli orrori lei non ha più gli occhiali da sole, le è stata tolta la pelliccia e le è stato messo in testa un velo da suora. Il vestito che ha sotto ricorda molto quello di una suora: bavero bianco fino alle spalle, tunica nera, velo nero bordato di bianco. Ci sono alcune modifiche rispetto all’originale: scollatura a cuore sul seno, schiena nuda, minigonna che mette in mostra il filo del reggicalze, lattice invece di cotone, una corona sopra il velo.
Seconda strofa.
Le figure mascherate col mantello si muovono. Lei viene fatta sedere su una sedia da regista, dove le viene ritoccato il trucco e le vengono sistemati  i capelli, poi viene accompagnata su un divano di pelle bianca, viene fatta sedere, una figura la sistema, le piega braccia, gambe, testa, le mette il premio in mano, un’altra figura inizia a scattare foto. Vediamo le foto, che si dispongono una sopra l’altra, ogni volta spostandosi di qualche centimetro verso sinistra, in modo da creare una sorta di ventaglio. Polaroid in sequenza, ci danno l’impressione di lei che si muove. Cambia posizione sul divano, mostrando bene il premio, da seduta si mette sdraiata e poi si alza in piedi, il premio alzato al cielo.
Ritornello.
Vediamo lei, uno spazio bianco in cui non ci sono né pareti né soffitto, ma solo il pavimento, otto figure mascherate disposte ai due lati come due ali, impegnati in una complessa coreografia scattante e rabbiosa.
Terza strofa.
Torniamo all’interno della villa. Una breve panoramica ci fa ammirare l’interno minimal ma molto legante. Tavoli, sedie, divani, poltrone, pavimenti, pareti, tutto bianco candido. Complementi d’arredo come cuscini, lampade, paralumi, interruttori, soprammobili, tutto dorato.
La stanza si anima rapidamente. entrano ragazzi e ragazze, tutti vestiti con costumi dorati, e mascherine bianche sugli occhi. Tempo di festeggiare. Schiocco di sita. I festoni dorati a forma di premio si srotolano lungo la casa, i coriandoli bianchi cadono dall’alto, i ragazzi e le ragazze iniziano a stappare champagne e a ballare. Panoramica di 180 gradi da sinistra a destra. Si ferma su un’ampia scalinata che sale a chiocciola verso il piano superiore, presumibilmente quello dove c’è il terrazzo. È di marmo bianco, sia la scala che il corrimano, ricoperta da una folta moquette dorata, sale in una morbida voluta verso l’alto. Alla sua sinistra una riproduzione della statuetta dorata del premio, alta fin quasi al soffitto.
Quarta strofa.
La vincitrice si dirige al piano di sopra, la mano morbidamente appoggiata alla ringhiera, le unghie ricostruite di una lunghezza a dir poco improbabile, sembrano artigli di uccello rapace, bordate di oro e dipinte di bianco. Sale i gradini lentamente, uno a uno, affondando i suoi assurdi trampoli nella soffice moquette bianca. Cambio inquadratura. Un lungo corridoio bianco, con dipinti dalle cornici dorate appesi ai muri, porte che si aprono lungo entrambi i lati, la stessa moquette bianca dal pelo folto stesa come un red carpet fino alla grande porta finestra davanti a noi. Vediamo la sua schiena e lei che cammina in avanti. Si avvicina alle porte a zig zag, una a destra, quella dopo a sinistra, di nuovo quella dopo a destra, procedendo sempre in diagonale. Ogni volta che appoggia la mano su uno stipite, l’inquadratura cambia e noi vediamo ciò che vede lei.  Prima porta una camera da letto, un letto a baldacchino, struttura dorata, tessuti bianchi, una piccola orgia in atto. Seconda porta un bagno, vasca bianca con zampe di leone dorate, rubinetti dorati, due ragazze nella vasca ricoperta di schiuma che si passano una bottiglia di champagne. Terza porta una sala giochi con un tavolo da biliardo ricoperto di panno bianco, un palo montato al centro, una ballerina che fa la lap dance, tanti ragazzi intorno che allungano banconote.
Ritornello.
Apre la porta finestra con una possente spinta di entrambe le mani, le ante si spalancano verso l’esterno, siamo sulla terrazza che abbiamo visto da giù, c’è una piscina piena di acqua trasparente e non azzurra, ragazzi e ragazze intorno. Soliti costumi dorati, solite mascherine bianche a coprire gli occhi. Ballano, bevono, ridono. Anche lei ora ha solo un costume dorato, ma ha un paio di stivali bianchi fon sopra il ginocchio con i quali entra in piscina. L’acqua è bassa, arriva poco sopra l’ombelico. Si avvicina una ragazza ala sua destra, lei si avvicina, si avvicina anche un ragazzo, si mette dietro di lei, lei si gira verso di lui, lui la bacia, la ragazza si appiccica alla sua schiena, lei si gira di nuovo, bacia la ragazza, le passa le braccia intorno al collo, il ragazzo la stringe in vita, lei rovescia la testa all’indietro, la ragazza le bacia la gola e le spalle, il ragazzo la stinge per le braccia. In piscina ci sono solo loro.
Bridge.
Di nuovo la stanza senza pareti né soffitto, di nuovo gli otto ballerini disposti come due ali con le maschere rappresentanti la su afaccia, di nuovo la complessa coreografia scattante e rabbiosa. Lei si blocca con un’espressione stupita.
Pausa.
L’inquadratura è di nuovo in piscina, ma percorre a ritroso il corridoio, le scale e la sala rapidamente, come se stesse camminando all’indietro, mantenendo sempre l’inquadratura frontale. Siamo di fronte alla porta, e lei, di nuovo col vestito da suora in latex apre la porta. Ci troviamo davanti due poliziotti, uno obeso, tarchiato, sudaticcio, con la camicia tesa fin quasi al punto di scoppiare sul ventre rotondo, l’altro alto e magro, i vestiti che gli stanno addosso come a uno spaventapasseri, gli occhi infossati e le mani che si contorcono nervose. Il ciccione parla. Lei non fa una piega. Il ciccione riprende a parlare, lei afferra entrambi per il bavero delle camicie e li tira dentro. Si vedono le iniziali proteste dei due, ma subito sono circondati da donne, gli vengono tolti i manganelli e le pistole, i cappelli da poliziotto sono sostituiti con cappellini dorati di carta con l’elastico sotto al mento e vengono trascinati a ballare.
Ritornello e ritornello finale.
Lei di nuovo in acqua, il ragazzo che era con lei appoggiato al bordo della piscina coi gomiti, la testa rivolta al cielo, la ragazza stesa sul bordo, fuori dall’acqua. Lei ripercorre il corridoio. Nella stanza col biliardo la ballerina è stesa sul tavolo tra due uomini, alcuni sono seduti per terra con le spalle al biliardo, uno è seduto sopra il tavolo appoggiato al palo. Nel bagno le due ragazze dormono mollemente appoggiate ai due lati della vasca, le bottiglie di champagne che pendono dalle loro mani, altre a terra. Nella camera da letto, c’è chi dorme, chi fuma, chi semplicemente guarda il soffitto. Scende le scale. Il premio- totem è stato decapitato, fatto a pezzi e in alcuni punti sta andando a fuoco. Tutte le persone che c’erano prima sono in buona parte sparite, nessuno balla più, sono tutti buttati a terra, sui divani, sulle sedie, sui tavoli, su ogni possibile possa fornire un appoggio. I poliziotti, ormai in canottiera e boxer sono rispettivamente il ciccione appoggiato a una poltrona abbracciato a due ragazze, lo smilzo rannicchiato sul divano appoggiato a una donna che è chiaramente un travestito. Lei recupera la pelliccia di orso bianco e gli occhiali da una sedia, la porta d’ingresso aperta, esce e chiude la porta alle sue spalle. Il suo premio, a sua volta decapitato e appeso per i piedi, è stato appeso dietro la porta e ora, col movimento della stessa, dondola lentamente.
Continua a dondolare.
Fine della musica.
Dissolvenza in nero.

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Capitolo 5
*** Pubblicità ***


pubblicità s. f. [dal fr. publicité, der. di public «pubblico1»]. –
3. L’insieme di tutti i mezzi e modi usati allo scopo di segnalare l’esistenza e far conoscere le caratteristiche di prodotti, servizî, prestazioni di vario genere predisponendo i messaggi ritenuti più idonei per il tipo di mercato verso cui sono indirizzati (Treccani 2012).
 
 
 
 
 
 
 
Spot # 1
 
Un uomo entra in cucina. Ha i boxer che gli svolazzano attorno a gambe ossute dalle ginocchia rientranti, un maglietta consunta corredata da un paio di macchie di unto sul davanti, i capelli scarmigliati e la barba lunga di due giorni. Apre l’anta sopra il lavandino, recupera un pentolino ammaccato e bruciato sul fondo, apre il rubinetto, facendo scorrere un rivolo d’acqua giallognola, fino a che non diventa chiara, ne raccoglie un po’ nel pentolino, si gratta la fessura in mezzo alle natiche mentre aspetta, è a piedi scalzi ma non sembra turbato dal fatto che a terra ci sono pezzi di cibo e piccole pozze trasparenti ricordo del suo setter bastardo di taglia media senza pedigree, al momento senza vita nella sua cuccia. Sbadiglia sonoramente, accende il fuoco, recupera una tazza sbeccata, la appoggia sull’unica superficie libera che trova, tra una catasta di piatti sporchi e i contenitori del take away del cinese sotto casa, apre il pensile davanti alla sua testa, dentro la confezione dello zucchero consumata per metà con la carta accartocciata su se stessa per tenerla chiusa, una serie di barattoli di vetro trasparenti, alcune tazze del “servizio buono” ormai appiccicose per l’inutilizzo, alcuni pacchi di biscotti ancora sigillati, una confezione di biscotti aperti e tenuta chiusa da una molletta da bucato, delle buste di carta appoggiate a un lato, contenenti bollette e fatture e conti in sospeso, il tutto appoggiato su dell’orrenda carta da regalo bianca con un motivo di ciliegie rosse ripetuto fino alla nausea, macchiata in diversi punti da aloni semi circolari scoloriti, vecchi di qualche anno. Vediamo bene il barattolo di caffè solubile, prima davanti ai nostri occhi, poi stretto nella mano del nostro ospite, che lo apre con un gesto distratto, cercando un cucchiaino pulito che non trova, ripiegando alla fine su uno pescato dal lavandino e risciacquato velocemente sotto l’acqua. Versa il caffè solubile nella tazza, chiude il barattolo, ci ripensa, ne aggiunge ancora un po’, richiude il barattolo, lo mette finalmente via, afferra il pacchetto di biscotti chiuso con la molletta, lo porta nel salotto adiacente, unito alla cucina da un arco in pietre a vista, la luce livida che entra da fuori fa pensare a una giornata fredda e grigia, e molto probabilmente è l’alba, il cane nella sua cuccia nell’angolo solleva il muso dalle zampe posteriori, lo osserva un istante, poi torna a dormire, quasi infastidito dalla sua presenza, lui si siede sul divano sfatto, in attesa che l’acqua si metta a bollire, appoggia i biscotti al suo fianco, i piedi sul tavolino davanti alla tv, ingombro di portacenere pieni, pacchetti di sigarette vuoti, diversi controller dei videogiochi, riviste di musica e di auto e diversi dvd masterizzati da titoli improbabili come “Biancaneve e i sette cazzi” o “Le avventure anali di Shanna”. Cerca il telecomando della tv, fa un rapido zapping sui canali satellitari, ma rinuncia rapidamente, e mette sul canale delle notizie non stop, terremoto, alluvione, omicidio, omicidio- suicidio, massacro, frode fiscale. Si alza, versa l’acqua bollente nella tazza, torna a sedersi sul divano, inzuppa pezzi di biscotto in questa brodaglia marrone che sa di calze sporche, ne beve un po’ e controlla l’ora. Ha dieci minuti di tempo per una doccia, farsi la barba, vestirsi, e correre in macchina, da brava scimmia spaziale, per mettersi in coda nel traffico dell’ora di punta assieme ad altri milioni di scimmie spaziali, per rinchiudersi assieme ad altre scimmie spaziali in un loculo di due metri per due fatto di pareti divisorie di materiale plastico ultraleggero e iper resistente, una scrivania in formica, un pc, un portapenne e dieci cartelline di cartone contenenti ciascuna dieci fogli.
 
Nothing’s better than start your morning in the best way ever.
Feel free to drink more.
 
 
 
 
 
 
 
Spot # 2
 
Una luce si accende, c’è un bagno, entra una donna di mezza età, alle sue spalle una doccia con l’anta aperta e dei vestiti ad asciugare appesi a uno stendibiancheria, sul ripiano del lavandino cosmetici, creme, elastici per capelli, spazzole, porta spazzolini, deodoranti, una sveglia, che fa le dieci e venti, una saponetta consumata nel portasapone, una spugna vecchia e un po’ sbattuta, il detersivo per lavare le superfici del bagno, degli assorbenti non ancora usati chiusi nelle loro confezioni viola, la scatola delle pillole, alcuni flaconi di profumo consumati fin quasi all’ultimo, delle confezioni di aspirina vuote. Lei cerca un mollettone e si tira su i capelli biondo tinto, di cui si vedono già spuntare le radici castane, mette un po’ di dentifricio sullo spazzolino, talmente consumato che le setole si sono aperte a far vedere la plastica su cui sono impiantate, viene inquadrato il dentifricio nella mano di lei, e poi di nuovo nel porta spazzolini, si infila lo spazzolino in bocca e comincia a spazzolare prima a destra, poi a sinistra, due bambini entrano in bagno correndo, strattonandole il pigiama talmente vecchio da essere scolorito, con la maglia di un colore e i pantaloni di un altro, lei osserva lo specchio stremata, cerca di ignorarli mentre loro continuano a cercare di attirare la sua attenzione,  lei prosegue spazzolandosi i denti con più energia, la schiuma del dentifricio le fa diventare la bocca bianca, i bambini ricominciano a correre in giro per il bagno e a strattonarle il pigiama, finchè lei non si stanca e gli dice qualcosa, attutito dalla bocca piena. I bambini continuano, lei sputa nel lavandino, la ceramica è macchiata di calcare e ci sono vecchi bozzi rosa del dentifricio alla fragola usato dai bambini, c’è qualche capello biondo lungo dalla radice scura, e qualcuno nero più corto, lei sputa, si sciacqua velocemente la bocca e si gira incattivita verso i suoi figli, che la osservano spaventati per qualche secondo, poi corrono in camera sempre urlando. Sospira e una profonda ruga orizzontale le solca la fronte da una tempia all’altra, guarda il pavimento, afferra un asciugamano, si asciuga prima la bocca, poi lo passa sul pavimento ad asciugare alcune gocce cadute, e lo rimette sul porta asciugamani. Si guarda allo specchio, gli occhi segnati da qualche ruga, la pelle giallognola e piena di impurità, le occhiaie nere e profonde, i denti gialli, gli incisivi accavallati, un molare mancante. Si stacca dallo specchio, butta il mollettone per i capelli sulla mensola, assieme al resto delle cianfrusaglie e si gira verso la porta, spegnendo la luce.
 
Smile makes the difference.
Don’t forget it.
 
 
 
 
 
 
 
Spot # 3
 
Lui. 75 anni suonati, occhiali da vista piuttosto spessi, guida sostanzialmente con i denti, visto che a malapena gli si vede sbucare la testa da sopra il volante. Oltre alle frecce e al cambio, sa dell’esistenza delle luci e dei tergicristallo, ma non sa bene come attivarli. Davanti ha una plancia di comando da missili NASA, tutta plastica luccicante e nuovissima, che probabilmente rimarrà tale fino alla fine dei giorni, dal momento che quella macchina sarà usata forse 20 volte nella sua carriera.
Lei. È la classica moglie seduta al suo fianco, che gli da indicazioni ogni due minuti su come guidare, dicendogli di fare attenzione a mille pericoli visibili, a quanto pare, sempre e solo agli occhi di lei, ma mai a quelli di lui. è una matrona imponente di almeno un centinaio di chilogrammi, con un seno sformato che le tocca la pancia, memoria di tre gravidanze, e un fazzoletto sulla testa a tenere coperti i capelli, come si faceva una volta. Un vizio che non ha mai perso, nemmeno con l’avvento del femminismo. È sempre stata una donna tradizionalista e lo è ancora. Anche se non si può dire che sia un mostro di simpatia.
Al punto che lui, per evitare di ascoltare le sue inutili lamentele e la sua voce stridula e petulante, ha spento l’apparecchio acustico, stampandosi in faccia un sorriso soddisfatto e pacifico e annuendo di tanto in tanto, per darle l’impressione di starla ad ascoltare. Dopo 53 anni di matrimonio, non ce la fa davvero più ad ascoltarla, e quando il medico gli ha detto che aveva la necessità di indossare un apparecchio acustico per sentire, lui l’ha vista come una benedizione. Perché poteva silenziarlo quando voleva.
Quando hanno finalmente raggiunto la strada principale, dopo essere usciti dal paese in cui vivono a passo d’uomo, lui ha inchiodato il contachilometri sulla magica cifra dei 50 all’ora, e da li non schioda. inoltre è piantato proprio nel mezzo della carreggiata, dietro c’è una fila di macchine che cercano disperatamente di sorpassarlo, ma con scarso successo. Purtroppo quella strada è la classica sterrata di campagna, ottima per ammirare il paesaggio, ma terribile per le manovre azzardate. Troppe curve, troppi punti ciechi, il rischio di un incidente frontale è alto. Quindi tutti in coda dietro, come bravi soldatini, maledicendo il momento in cui sono usciti di casa.
Solo quando lui svolta finalmente a destra, vediamo la coda sfrecciare via veloce con una strombazzata collettiva di clacson, nell’inquadratura resta solo la macchina di lui che si allontana su una strada secondaria, facendosi sempre più piccola, ma non senza averci fatto vedere per bene la marca prima.
 
A car doesn’t look at your driving license.
Drive the new.
 
 
 
 
 
 
 
Spot # 4
 
C’è una figura, all’angolo di una strada, tra una banca e un’agenzia immobiliare, che allunga timidamente la mano verso i passanti, che corrono da un punto all’altro della città, inseguendo ciascuno la propria meta per noi sconosciuta.
Non sembra il solito barbone che chiede spicci per un cicchetto, perché lo si vede fumare sigarette costose, ha vestiti di marca, una borsa di cuoio appoggiata dietro le sue gambe. È in disordine, ma non ha l’aria del senzatetto che non vede una doccia da tempo immemore. Anzi.
Ha appena un accenno di barba, quella che si può avere se ci si è rasati il giorno prima per intenderci. La camicia è stropicciata, ma è pulita. I capelli sono in disordine, ma non hanno l’aria di essere sporchi.
Non si capisce allora perché una persona del genere, se appunto non è un barbone, stia chiedendo l’elemosina. Che cosa ci può essere di così inarrivabile per lui da fargli elemosinare qualche spiccio ai passanti?
Possibile che, qualsiasi cosa sia, non se lo possa permettere? Di sicuro se è una cosa molto costosa non paga in contanti, e per qualsiasi altra cosa, i contanti li ha di sicuro. Allora perché?
Flashback. Lo vediamo alzarsi, fare la doccia, mettere la camicia e il completo che ha addosso ora, infilare il palmare e il portatile nella borsa di cuoio che sta alle sue spalle, corre come tutti, va  a prendere la metro, arriva in ufficio, inizia la sua giornata. Ci rendiamo conto del tempo che passa perché prima si toglie la giacca, poi la cravatta, si fa portare un tramezzino che consuma a morsi rapidi e per nulla concentrati verso le cinque del pomeriggio, vediamo i colleghi che lo salutano andando a casa, vediamo la finestra farsi buia e poi di nuovo luminosa, mentre lui è ancora li alla scrivania, i capelli cominciano a essere scompigliati, la camicia sempre più stropicciata, la sua faccia sempre più tirata, per la mancanza di sonno e la stanchezza, vediamo il cestino colmo di lattine vuote e schiacciate, i colleghi tornano al lavoro, lui a malapena si accorge di loro, quando finalmente spegne tutto, perché ha finito, afferra la sua borsa di cuoio, infila la giacca e corre fuori, dove si ferma all’angolo della strada ad elemosinare qualche spiccio ai passanti.
Sembra finalmente aver raggiunto la cifra necessaria, perché, quando una signora anziana dagli occhiali tondi e spessi alta quanto un nano da giardino gli allunga una moneta, il suo viso si illumina di gioia. Raccoglie la sua borsa di cuoio, corre disperato attraverso un paio di strade e finalmente si ferma davanti a un distributore automatico, di quelli che, appunto funzionano a monete.
Prende quanto ha elemosinato, lo infila nell’apposita fessura, schiaccia un bottone e una lattina fa capolino nel buco in basso. La raccoglie, con le mani sempre più tremanti, la apre con dita altrettanto tremanti e vi si attacca come se fosse ossigeno.
 
Smart people drink in a different way.
Be different. Be you.

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Capitolo 6
*** Track # 5 ***


Una cosa a cui mi sono opposta con fermezza è stata proprio questa. La visione dei video. L’ho detto al mio manager. Gli ho imposto di fare assolutamente qualcosa. Ho sottolineato molto bene la parola assolutamente. Con tanto di mano e sguardo assassino.
Ovviamente lui non ha capito un cazzo come al solito, direi. Dal momento che il video di quella cretina vestita di viola sta passando sui maxi schermi alle nostre spalle.
Devo licenziare il mio manager. Questa volta sul serio però.
Da quando l’ho incontrato, credo di averlo licenziato almeno una ventina di volte. Ma lui sembra essermi attaccato come un insetto sulla carta moschicida. Non riesco a liberarmene nella maniera più assoluta.
Stavolta invece devo proprio farlo.
Non tollero certi tipi di affronto.
È già abbastanza umiliante che quella sottospecie di pinguino con la gonna di tulle abbia vinto un premio che spettava a me, cazzo. Spettava a me.
Di diritto.
Sono io la star del pop.
Sono io che merito il titolo di best song.
Sono io che ho lavorato duro per elevarmi dalla roulotte in cui vivevo e fare una bella vita.
Sono io che ho lavorato duro in questi ultimi tre mesi per imparare ogni stupida coreografia e studiare le luci e i vestiti che mi stessero meglio.
Sono io che ho mangiato carote bollite e sedano crudo per perdere i chili di troppo.
Sono io che ho posato per servizi fotografici e rilasciato interviste in ogni angolo del paese per fare pubblicità a questa stronza premiazione.
Non lei.
Non può usurpare la mia serata.
Non dopo tutto quello che ho fatto.
Non dopo tutti i miei sacrifici e i miei sforzi.
Devo calmarmi.
Devo assolutamente calmarmi.
O consumerò la scuola delle scarpe a forza di fare avanti e indietro nel backstage.
Mi serve una sigaretta.
Mi serve un po’ di polvere degli angeli.
Mi serve un po’ di nettare degli dei.
Mi serve Tanja.
E mi serve un cellulare.
Fermo il primo che trovo, lo afferro per il bavero della camicia e gli chiedo il cellulare. Gentilmente si intende.
È un povero operaio sovrappeso e con una ridicola camicia a scacchi rossi e neri da boscaiolo delle foreste. Totale mancanza di buon gusto. Come denota il suo cellulare. Un Blackberry a un operaio. Che deve farci? Far funzionare una sparachiodi  premendo invio? Povero idiota.
Compongo velocemente il numero di Tanja. È la mia assistente personale.
Lo so a memoria perché spesso ho avuto bisogno di lei, soprattutto in rehab.
Non potevo di certo chiedere se mi facevano usare il mio cellulare per farmi portare una bottiglia di whisky, per favore.
Backstage, quasi vicino al palco. Sigarette e alcool. Quello che trovi. Scatta.
Riattacco e tiro il cellulare all’operaio sfigato che ancora mi guarda con tanto d’occhi. Gli rimbalza proprio contro il petto e nonostante i suoi riflessi addormentati, con qualche acrobazia riesce a recuperarlo al volo. Quando mai gi ricapita una cosa del genere?
Su. Vallo a raccontare ai tuoi amici, gli dico, scacciandolo con la mano.
No anzi. Siccome non ti crederanno mai facciamo di meglio.
Gli riprendo il cellulare, cerco la funzione fotocamera, mi abbarbico a lui sfoderando il mio migliore sorriso e acceco i nostri occhi con il flash.
Questo telefono fa veramente schifo.
Ora i tuoi amici ti crederanno, gli dico, sbattendogli il telefono sul petto. Questa volta lo afferra senza contorsioni strane.
Meglio così, non ho tempo da perdere.
Ho quattro minuti di video, due e mezzo di pubblicità e altri quattro di esibizione, prima di dover tornare sul palco.
Ho la bellezza di dieci minuti.
In cui devo anche cambiare abito.
È tutto calcolato e provato al secondo, con i cronometri alla mano.
Qui dietro la gente sembra impazzita. Ci sono coreografi e ballerini che corrono ovunque. Alcune delle celebs che dovranno presentare insieme a me cercano il mio sguardo, alcuni impauriti, altri completamente fregandosene di quello che devono fare o di me. La cosa mi sta benissimo perché il disinteresse al momento è reciproco.
Stephen e Didì arrivano con il nuovo vestito. Il tema della seconda uscita è il circo. Via la gonna di filo di ferro, via il body di pizzo quasi trasparente, via le calze a rete larga strappate in diversi punti, via i tronchetti tempestati di piccole borchie. Sei mani, comprese le mie mi svestono e mi rivestono alla velocità di un fulmine.
Ho bisogno di Tanja.
Quindi prima mi vesto, prima Cip e Ciop riprenderanno la via dei camerini e se ne andranno a discutere di qualche amenità da checche come fanno di solito.
Mentre loro mi infilano dei leggings a righe rosse e gialle, io mi infilo una giacca in stile divisa militare della guerra di Secessione con i bottoni e la passamaneria dorati, che arriva a malapena in vita, con tanto di code che lasciano scoperto il mio culo, di un blu elettrico perfettamente coordinato con i nastrini di raso che legano i leggings lungo i lati esterni delle mie gambe, come una volta si faceva con i corsetti. Mentre io mi infilo dei guanti rossi da motociclista, Cip e Ciop mi fanno infilare i piedi in un paio di stivali di gomma da pioggia, sempre con un micidiale tacco quindici, sempre blu in tinta con i nastrini e la giacca.
Questo si chiama “precorrere i tempi”.
Questo viene fatto da chi è sempre un passo avanti rispetto al resto del mondo.
Arrivano ovviamente anche la parrucchiera e la truccatrice.
In tutto al momento ho usato quattro minuti e diciassette secondi. Il che significa che ho ancora sei minuti e tredici secondi per bere qualcosa e fumare una sigaretta e pregare.
Faccio segno alla truccatrice di non muoversi, ma di seguirmi. Ho visto Tanja.
Ha una bottiglietta in mano con su l’etichetta del the al limone, e dentro qualcosa che sembra the al limone e che ha invece potrebbe dar fuoco alla parrucca della stronza se solo le arrivasse troppo vicino.
Il trucco purtroppo rimarrà lo stesso per tutta la sera, mentre i capelli cambieranno ogni due uscite. Sono tutte parrucche. Ci metto veramente poco a cambiare acconciatura. Per fortuna. Per il trucco, però, non abbiamo potuto farci molto. Mi avevano addirittura proposto di mettere una specie di pellicola adesiva al posto del trucco, così avremmo cambiato solo quella di volta in volta.
La mia risposta è stata che non ci pensassero nemmeno a rendermi la faccia come un colabrodo strappandomi roba adesiva per tutta la sera.
Per il trucco me ne sarei fatta una ragione, a patto che avessero fatto scegliere a me.
Non lo hanno fatto. lo dimostra il fatto che ho uno stupido ombretto azzurro “che si intona con tutto”. Ma vaffanculo, voi e l’azzurro. Manager del cazzo e assistenti ancora più del cazzo. Almeno ho Tanja al mio fianco.
Tanja è la mia assistente personale. Nonché la mia migliore amica. Nonché la mia compagna di classe delle medie. Nonché una mia ex. Nonché una raccatta tutto. Qualsiasi cosa tu chieda a Tanja lei è in grado di procurartela nel giro di ventiquattro ore. Per questo me la tengo sempre ben stretta. Inoltre è bravissima a distrarre il prossimo. Così che, anche in mezzo a una folla come quella che c’è ora, io posso pregare in santa pace.
Quando sei in mezzo alla folla, la cosa migliore che puoi fare per evitare che la gente abbia gli occhi su di te, è far finta che la gente non esista. Se la ignori, e ti mescoli senza problemi in mezzo alla massa, assumendone i comportamenti principali, nessuno farà mai caso a te. Se sei a un concerto devi saltare. Se sei sulla metro all’ora di punta devi guardarti intorno con fare indispettito. Se sei in chiesa devi tenere lo sguardo fisso davanti a te e muovere le labbra. Se sei al ristorante devi mangiare. Devi assumere gli atteggiamenti della folla in cui ti trovi, comportarti come lei, se vuoi passare totalmente inosservato. Quando ti sei mimetizzato con lei, allora puoi fare quello che vuoi, che nessuno ti noterà.
In questo casino per non farmi notare mi muovo in giro in modo nervoso e agitato. Tanja mi segue parlando con la truccatrice, istruendola su come deve sistemarmi il trucco del naso in modo da non farlo apparire come una cipolla matura quando sono in video. Le dice che il rossetto color ciliegia 609 non va bene per me, perché mi fa sembrare le labbra come due prugne sanguinolente in video. E nel frattempo io do le spalle a tutti, e con la scusa di sistemarmi il reggiseno, faccio la mia preghiera propiziatoria per la nuova uscita. Nel casino generale nessuno mi sente tirare su con il naso. E anche se fosse posso sempre dire di avere un po’ di raffreddore.
Eccola la botta.
Eccola.
Eccolaeccolaeccolaeccola.
Fantastico. Sento il cuore che pompa a mille e ogni vena che si spalanca. È come un viaggio veloce lungo una galleria illuminata da neon. È un salto nel vuoto senza paracadute. È un orgasmo moltiplicato cento e ancora ne avanza. È la testa che ti esplode e il corpo che diventa leggero. È la vita che senti dentro e che vuole uscire da te perché è troppa.
Apro gli occhi.
Di nuovo ogni cosa è nitida e cristallina. Meravigliosa. Pura. E perfetta.
Ora va meglio.
Ho sete, dico a Tanja.
Mi passa la bottiglia. Quello che c’è qui dentro sembra the al limone, ha lo stesso colore del the al limone, ma potrei barattarlo con una centrale atomica in Iraq e ci perderei io.
Bevo tre lunghi sorsi nel giro di pochi secondi. Poi allungo di nuovo la mano verso Tanja che mi da un pacchetto ancora intatto di Lucky Strike e un accendino.
Mi restano ancora due minuti e cinquantasei secondi.
Il tempo di fumare mezza sigaretta, farmi ripassare al volo i rossetto e uscire in scena. Ce la posso fare.
Un minuto, chiama il regista.
Sento l’aria diventare elettrica, e la tensione che cresce al punto da diventare palpabile. Cosa cazzo si agitano tutti quanti? Non c’è la loro faccia lassù ma la mia. Quindi non vedo perché si comportano come tante checche isteriche il primo giorno di saldi a metà prezzo da Chanel.
Ora di spegnere la sigaretta, mi dicono. O meglio: me lo fanno capire. La truccatrice me la strappa praticamente dalle dita. Questa patetica balena fasciata in una maglia di nylon nero ha avuto il coraggio di strappare a me la sigaretta dalle dita. È fortunata che io non abbia più l’accendino in mano, altrimenti le avrei dato fuoco alla maglia.
Ovviamente con lei dentro.
Per cena balena arrosto. Sai che spettacolo?
Con il pennello mi ritocca il rossetto, senza aggiungerne altro. In questo modo si smorza un po’ la tonalità intensa da prugna sanguinolenta. Vedremo se Tanja sarà più soddisfatta da questo nuovo tentativo.
Trenta secondi, urla il regista.
Non so se sia più irritante lui o il fatto di dover ogni volta uscire sul palco e trovarmi l’oca vestita di viola davanti alla faccia. Ma ci penserò prossimamente. Ora devo uscire a presentare la prossima categoria.

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Capitolo 7
*** Track # 6 ***


Tema: il circo.
Svolgimento: prendi un domatore, uno degli elementi di scena del circo, mettili insieme e portali sul palco di una premiazione internazionale. L’effetto sarà divertente e molto spettacolare.
Il domatore lo abbiamo. Io.
Il mio vestito infatti è come quello di un domatore del circo, con tanto di giacca con le code e passamaneria dorata e mostrine sulle spalle. L’elemento di scena del circo lo abbiamo, il trapezio. Sarà calato dall’alto, con me sopra, con un occhio di bue che mi inquadrerà per tutto il tempo, fino a che non metto piede a terra. Senza protezioni di nessun tipo. Non ho voluto imbragature o reti. So stare su un’altalena senza cadere.
Salgo sul trapezio, cercando l’equilibrio con entrambe le mani ben salde sulle corde che tengono il seggiolino, accavallo elegantemente le gambe, mentre Tanja nell’auricolare mi dice come spostarmi per farmi meglio inquadrare dalla telecamera. Seguo le sue indicazioni fino a che non mi dice che è ok. Non mi interessa se mancano solo quindici secondi e devono tirare su questo trabiccolo.
Ci siamo.
Prendo il microfono con la mano sinistra, mentre con la destra mi tengo saldamente alle corde. Il trabiccolo si muove e mi solleva. Comincio a salire verso l’alto. Sempre più su.
Non ho mai sofferto di vertigini e spero che la cosa non voglia iniziare a manifestarsi proprio ora.
Sto salendo. Due metri.
La platea osserva estasiata.
Tre metri.
Sento questo affare che trema, ma mi convinco che sia solo suggestione.
Quattro metri e mezzo.
Mi sgranchisco il collo spostando la testa all’indietro.
Sei metri.
Mi sta anche venendo fame.
Sette metri.
Devo dire a Tanja di procurarmi qualcosa da mangiare.
Sette metri e mezzo.
Spero di non svenire per la fame.
Otto metri.
Magari mi faccio portare un hamburger.
Nove metri.
E una pepsi.
Dieci metri.
Si. Doppio cheeseburger e pepsi. Perfetto.
La mia corsa si arresta. Sono a dieci metri da terra.
Sono pur sempre su un’altalena. E su un’altalena che si fa? Ci si dondola.
Quindi mi dondolo un po’ anche io, avanti e indietro. È estremamente piacevole. Dondolarsi a dieci metri da terra. Con il rischio di volare di sotto.
Posso quasi sentire una leggera brezza che mi accarezza, ma di nuovo mi convinco che sia solo suggestione.
Sento Tanja che trattiene il respiro nel mio auricolare.
Non cado, le vorrei urlare con disprezzo.
Lo so, maledetta sanguisuga, che ci tieni alla mia pellaccia perché ti faccio vivere meglio della regina d’Inghilterra. Cosa credi? Che pensi che stai con me sono perché mi ami e siamo amiche da sempre? Sei stata tu ad accompagnarmi in ospedale per abortire, perché un bambino non avrebbe giovato all’inizio della mia carriera, soprattutto perché avevo quindici anni e già cominciavo a farmi un nome. E a te faceva comodo toglierti dalla squallida roulotte in cui vivevamo.
Quindi stai tranquilla. Non cado. Sono perfettamente consapevole di quello che sto facendo.
Mi dondolo piano, la platea ha gli occhi puntati su di me.
Sorrido, anche se so che loro non lo possono vedere.
Li sento trattenere il fiato.
Mancano meno di cinque secondi. Siamo pronti.
Le luci si spengono.
Buio. La platea è completamente silenziosa. I miei sensi sono così all’erta che potrei sentir cadere un ago e dirvi se è atterrato di testa o di punta.
La mia entrata è a un angolo del palco questa volta. Occhio di bue leggermente azzurrato che si accende su di me. Inizia la discesa del trapezio, mentre io comincio a parlare per intrattenere il mio pubblico. Non ho nulla di preparato in scaletta per questo pezzo. Quindi posso dire quello che mi viene in mente. Tanja mi consiglia di dire qualcosa di spiritoso e di parlare di come mi sento a dieci metri dal suolo.
Stare sospesi a dieci metri dal suolo è indescrivibile gente. Da quassù sembrate tutti piccoli e carini sapete? Scherzo, sembrate piccoli anche da vicino.
Il pubblico ride.
Mi piace questa cosa.
Inizio a scendere calata da sopra il trapezio. Ho accavallato le gambe e mi tengo alle funi del trapezio con una mano sola. Con l’altra tengo il microfono nel quale parlo.
Quando arriverò finalmente a terra vi presenterò le nomination per la prossima categoria, che sarà quella di Best singer male.
Il pubblico femminile rumoreggia.
Buone ragazze, buone. Lo so che c’è di che rifarsi gli occhi, ma abbiamo qualche defezione causa matrimonio tra le nomination, sapete? Quindi rifatevi gli occhi ma con moderazione.
Di nuovo ridono.
Anzi, sapete che vi dico? Visto che è l’unica cosa che ci resta, rifacciamoci gli occhi e basta! Tanto non li consumiamo! I cantanti, non gli occhi.
Altra risata seguita da qualche fischio di approvazione.
Grazie. Grazie. Troppo buoni.
Mimo un inchino, per quanto mi sia possibile senza cadere.
Non cado. Ancora non è il mio momento per entrare nel Wall of Fame come celeb morta sul lavoro.
Non ho protezioni di nessun tipo, né corde di sicurezza né imbragature. Se cado sarà il volo più spettacolare della storia.
Questo si chiama “entrare nella leggenda”.
Questo vuol dire diventare delle icone che sopravvivono alla propria morte.
Il trapezio si blocca a circa tre metri dal suolo. Da questa altezza posso rompermi una gamba, ma si aggiusterebbe nel giro di un mese o due.
Oh. Credo si sia inceppato il meccanismo che fa scendere questo affare.
Bugia bella e buona ma il pubblico apprezza a suon di urletti e applausi.
Presenterò quindi da qui le prossime cinque nomination.
Best singer male. The nominees are.
The doc.
Applauso.
Kennedy King.
Applauso comprensivo di urla di approvazione.
Jaz- Tin.
Applauso fragoroso.
TJ.
Applauso.
Scott Hickey dei Juda’s Voice.
Urlo deflagrante.
Quattro rapper neri e un gran figo bianco leader di uno dei gruppi più in vista del momento.
Incrocio le dita sul vincitore. Non ho voglia di un altro stronzo negro e sudaticcio con le mutande in bella vista che mi abbraccia mentre ritira il suo premio.
In qualche modo io devo scendere da qui.
Ovviamente anche questo è stato programmato e provato prima.
Anche se solo due volte con gli Special K, il gruppo di Andy Slater che mi affiancherà in questa premiazione. Le altre volte l’abbiamo fatto coi pompieri. Uno me lo sono anche scopato. Non era male.
Praticamente il compito di questi tre stuzzicadenti in jeans e giacche di pelle è di stendere un telo elasticizzato rosa shocking e tenerlo sotto al trapezio, in modo tale che io possa saltare giù e atterrarvi proprio sopra.
Un po’ come il telone dei pompieri, appunto.
Il principio è sostanzialmente lo stesso.
Solo che i pompieri sono dei bei fustacchioni alti e ben piazzati che potrebbero sollevarmi sul palmo della mano sinistra. Per quello me ne sono fatto uno.
Questi tre potrei sollevarli io con i vestiti addosso. Tutti e tre insieme.
Speriamo che reggano il colpo, o io volo a terra. Posso garantire che non è piacevole. L’ho già fatto una volta durante le prove, quando stavamo calibrando il telone. Ho avuto un orrendo livido viola sul culo per due settimane e quasi non potevo sedermi.
Se mi fanno cadere faccio una delle più colossali figure di merda nella storia della televisione.
E loro sono morti.
Letteralmente.
Quindi sarà meglio per loro che non mi facciano cadere.
Li guardo tutti e tre, per fargli capire le mie intenzioni. Loro stanno srotolando il telone sotto di me. Il copione prevede che salgano sul palco senza degnare la folla di un solo saluto, non si devono fermare a prendere applausi o altro, non devono sorridere, non devono nemmeno considerare l’esistenza delle telecamere. Hanno il telone arrotolato con sé, lo portano in spalla, arrivano sotto il mio trapezio, lo stendono a terra velocemente, lo sollevano, lo tengono bello teso e al mio cenno di intesa a Andy, mi lancio e loro mi prendono.
Questo, sul copione.
Nella realtà.
Gli Special K sono tre froci repressi che non farebbero credere nemmeno a Ray Charles di essere etero, che non appena sentono i primi applausi del pubblico quando entrano da dietro le quinte col telone in spalla, si fermano a salutare e a farsi acclamare come se fossero delle star del cinema e non tre sfigati che a malapena strimpellano e mettono assieme qualche parola a formare una canzone. Per stendere il telone a terra ci mettono all’incirca dieci minuti, troppo presi tra un saluto e un’aggiustata, nemmeno fossero dei geometri. Dovrebbero sollevarlo insieme, lo abbiamo anche provato. Gli altri due, di cui ovviamente non ricordo il nome, ma non importa, dovrebbero guardare Andy, che dovrebbe fare un cenno. A quel punto dovrebbero sollevarlo tutti e tre insieme. Invece sembra uno sketch di Gianni e Pinotto. Due lo tirano su, il terzo lo lascia già. Quando il terzo lo solleva, uno degli altri due lo cala e così via. Mi mordo la lingua per non urlare che sono tre incapaci.
Il pubblico ride, convinto che il loro sia un numero comico appositamente preparato.
Preparato un cazzo.
Sono tre idioti. Non sono nemmeno in grado di sollevare un cazzo di telone. La special K del loro nome mi sa che gli ha veramente bruciato il cervello. Loro e il loro anestetico per cavalli.
E dopo l’ennesimo su e giù del telone, uno dei due di cui non ricordo il nome, che credo sia il batterista, si gira anche verso il pubblico delirante con le braccia al cielo in segno di vittoria o di disperazione, questo non lo so, e si fa acclamare.
Sono senza parole.
Se è possibile rimanere ancora più senza parole di quanto già non fossi prima.
Potrei anche prendere una decisione drastica e buttarmi giù da qui, sperando di atterrare in piedi come i gatti. Solo che se lo faccio, e atterro davvero come i gatti, appena mi rialzo li infilzo tutti e tre su uno dei miei tacchi e gli faccio fare il girarrosto sul fuoco. Sono talmente magri tutti e tre da sembrare degli scheletri. Il tacco di un solo stivale basta e avanza.
Alla fine sembrano decidersi. Credo sia passato un tempo sufficiente per far arrivare una nuova glaciazione.
Se queste sono le premesse, c’è da immaginare il mio animo nel saltare giù. Letteralmente all’apice della gioia. Il pubblico ancora ride, l’attenzione è su di loro. Devo fare qualcosa per riportare l’attenzione di tutti su di me. Sono io la star della serata. Non loro. Non lei. Ma io. Sempre e solo io.
Quindi abbraccio il mio pubblico con lo sguardo, faccio la faccia più comicamente spaventata che mi riesca, non che mi ci voglia molto impegno, bacio la mia speciale croce che porto sempre al collo, mi faccio il segno della croce con la mano che regge il microfono e mi sposto di qualche centimetro in avanti, pronta per il tuffo.
La storia della croce che ho al collo è davvero comica, una di quelle da raccontare ai nipotini.
Quando mi hanno portato in rehab, dopo che le foto di me sbronza e strafatta che improvvisavo una lap dance con un poliziotto e poi gattonavo verso la mia macchina cercando di scappare hanno fatto il giro del mondo, sono rimasta pulita per circa una settimana. Il tempo necessario al mio fisico per disintossicarsi un po’. Il mondo, alla fine della settimana, ha ricominciato a fare schifo come faceva prima e ed essere insopportabile. I tribunali hanno minacciato all’istante di togliermi la custodia dei miei figli. A me non interessava per niente, anzi, l’avrei vista come una benedizione, ma il mio manager ha detto che sarebbe stata una pessima pubblicità. Una madre che si fa togliere i propri figli non è mai una buona pubblicità. Dovevo assolutamente mostrarmi pentita e fare ammenda. Il che significava nuovo look, faccia contrita, lungo rehab, dichiarazioni alla stampa e interviste con lacrime. Tutto studiato nei minimi dettagli. Ho avuto una squadra di pubblicitari ed esperti di marketing e comunicazione al mio servizio 24/7 per due mesi e mezzo. Senza contare i parrucchieri, le truccatrici, le estetiste, i personal trainer, gli insegnanti di yoga e i maestri spirituali.
Una vera e propria squadra, capeggiata ovviamente dal mio manager e da Tanja. Gli unici che potessero ufficialmente portarmi degli oggetti senza che fossero ribaltati da cima a fondo per la perquisizione. In due mesi mi hanno portato una fortuna di oggetti. Molti libri soprattutto, dove la coca era nascosta nella rilegatura della copertina, ma nessuno ovviamente ci ha mai pensato,  ho avuto anche diverse cuffie per il mio ipod, visto che le rompevo a velocità incredibili, ma non avendo altro da fare per tutto il giorno non facevo altro che ascoltare musica, per cui le cuffie si rompevano velocissimamente. Il nascondiglio era l’interno delle cuffiette, o anche il caricabatterie dell’ipod, dove ce ne stava un sacchetto intero. Altre volte erano piccoli album con le foto dei miei figli, di solito degnate di considerazione per meno di venti secondi ma comunque molto sceniche. Di nuovo il posto perfetto era nella rilegatura dell’album. Ogni tanto mi veniva portato un cimelio di famiglia, come un bracciale o una collana col ciondolo. Nessuno ha mai sospettato di nulla. E io non ho masi smesso di volare con gli angeli. Anche se ho imparato a farlo molto meno, tenendo la cosa maggiormente sottocontrollo.
Il ciondolo a forma di croce deriva proprio da qui.
È stata la prima cosa che Tanja mi ha portato.
Ricordo ancora la scena. In piena notte ho corrotto uno degli inservienti del servizio di sorveglianza notturno. Per i turni di notte la clinica si affida a personale esterno, il più delle volte sono ex buttafuori o lottatori di wrestling falliti, a cui non interessa perché siamo qui. A dire il vero non gli interessa nemmeno chi siamo. Sanno solo che non dobbiamo muoverci dalle nostre stanze fino a che non arrivano gli infermieri la mattina alle sette. A suon di pompini mi sono guadagnata il diritto all’uso del telefono nella saletta ricreazione. Quello è l’unico posto in cui puoi ricevere le telefonate, o farle, ma solo di giorno, e sei sempre sotto il controllo stretto di uno degli inservienti della clinica, che ascoltano ogni singola parola che dici, anche quelle del tuo interlocutore. Quindi di giorno da li ho sempre e solo potuto fare telefonate banali e insignificanti, chiedendo dei miei figli, della casa, interessandomi di Amelie, e chiedendo come andava fuori, anche solo in generale.  Le telefonate serie le ho sempre e solo fatte di notte. A Tanja. E me le sono guadagnate, appunto, a suon di pompini, fatti a quel ciccione di nome Benjamin, o Brendon, non ricordo, che mi lasciava telefonare nel cuore della notte.
La prima persona che ho visto dopo una settimana qui dentro è stata Tanja. Stavo malissimo, ero letteralmente uno straccio. Senza trucco, con le occhiaie profonde e le guance scavate per la mancanza di sonno e il rifiuto del cibo, gli occhi di fuori e i capelli simili a quelli di una strega. Pensavo di morire in breve tempo. Sapevo di non poter continuare così molto a lungo. Volevo assolutamente la mia polvere magica. E volevo una sigaretta. E una birra, o della vodka o qualsiasi cos contenesse una minima traccia di alcool, fossero state pure le ciliegie sotto spirito o il disinfettante.
È stata Tanja a venirmi a trovare  non appena le visite sono state concesse. E mi ha portato la croce. Stavo per fargliela ingoiare. Ma lei ha insistito delicatamente.
Mi ha detto che avrei dovuto ritrovare la fede. Che avrei dovuto imparare a pregare, e a credere in Dio e nelle sue potenzialità. Mi ha detto che non sempre le cose sono come sembrano, e che questo periodo, che in quel momento mi sembrava solo una tortura gratuita, presto avrebbe assunto un altro significato. Mi ha detto di aprirmi alla fede, perché lei si sarebbe aperta per me. Poi mi ha fatto memorizzare a memoria il suo numero di cellulare. Me lo ha fatto ripetere come se fosse il rosario. Ancora e ancora e ancora. Finchè non l’ho imparato a memoria.
Solo allora se n’è andata via.
E io sono tornata in camera mia. A riflettere sulle sue parole. Perché Tanja non è mai stata una fanatica dell’ora di religione. A meno che non si trattasse di pregare un uomo in ginocchio. Li è sempre stata piuttosto fedele. E piuttosto appassionata.
Sapevo che voleva dirmi qualcosa. Così ho cominciato a girarmi in mano il crocifisso, alla ricerca di qualcosa. Poteva essere una chiave, o un indizio per qualcos’altro, ma mi pareva sinceramente impossibile. Troppi sceneggiati polizieschi mi avevano fottuto il cervello in una sola settimana.
Girando la croce ho cominciato a sentire qualcosa che si muoveva al suo interno, come se il suo peso si spostasse. C’era qualcosa dentro. E l’unico modo per vedere cosa era smontarlo.
Manco a dirlo che ho tirato troppo forte. E il braccino verticale si è sfilato di colpo. Ho visto volare granellini di minuscola neve nell’aria. Non potevo crederci.
Tanja era un mito.
Questo di chiama “fare di necessità virtù”.
Questo viene visto come l’unico modo per mantenere il cervello sano in casi estremi.
Ci siamo. Ormai non ho più scuse, e ho tutti gli occhi su di me. i tre cazzoni di sotto tengono il telo  sufficientemente teso. E sarà meglio per loro che non mi facciano cadere di sotto. Siamo in diretta. Non sono concessi errori di nessun genere. Se la scena viene male io non posso fermarmi e ripeterla. Se cado giù e mi spezzo una gamba le mia urla di dolore saranno udibili da tutto il pubblico, compreso quello a casa. Se mi spezzo l’osso del collo milioni di telespettatori potranno dire di aver assistito alla mia morte in diretta e di essere gli unici, visto che molto probabilmente sarà censurata e mai più ritrasmessa.
Quindi mi auguro per il mio bene, ma soprattutto per quello dei tre pagliacci qui sotto, che vada tutto come deve andare. Senza errori.
Salto.
Sono tre metri, non è molto, ma è comunque un bel salto.
Sento l’aria che mi sfila sul viso, stringo le chiappe, involontariamente digrigno i denti, le unghie mi si conficcano nel palmo della mano sinistra, sento le forcine che tirano sui miei capelli veri per tenere attaccata la parrucca bionda e riccioluta, vedo il pubblico con le bocche spalancate che osserva il salto, li vedo bene uno per uno, posso sentire i loro cuori battere all’impazzata, nessuno che tiene il ritmo con quello del vicino, è tutto un gran rombare d tamburi e grancasse e pedali, tra un po’ mi esploderanno i timpani lo so, e il vento mi strapperà la pelle del viso, sarò solo un teschio bianchiccio con un orrendo ghigno e le unghie finte che non mollano il microfono con i brillantini.
Poi il tempo si ferma.
Sono a metà strada, sospesa nel vuoto, l’altalena troppo lontana per allungare il braccio e afferrarla, il tappeto che si avvicina troppo rapido ma non abbastanza per farmici atterrare ora. Sono in bilico tra cielo e terra, sto sostanzialmente volando.
Mi sembra di avere di nuovo 15 anni, quando ho partorito nel bagno della scuola con Brent che mi diceva di fare piano per paura che ci scoprisse qualcuno. Per farmi sentire meno il dolore Brent mi aveva dato della chetamina – credo che fosse ketch almeno, ma non sono del tutto sicura. Non ricordo bene. Lui arrivava sempre con qualcosa di nuovo, io chiedevo solo che effetto facesse. E ogni volta lui mi diceva che mi avrebbe fatto volare. E così fu anche quella volta.
Infatti non ricordo una sequenza ben precisa di eventi, ma solo immagini che si susseguono un po’ a spezzoni, come se fossero i fotogrammi di qualche stupido sceneggiato in tv.
Ricordo il calore. Quando mi si sono rotte le acque. Ricordo di avere bagnato i pantaloni. Pensavo di essermela fatta sotto. Visto che avevo la pipì ogni cinque minuti. Ricordo che pensavo di essere davvero nei guai visto che non avevo un paio di pantaloni per cambiarmi. Ricordo che io e Brent eravamo nel cortile sul retro della scuola, nella parte più lontana dell’edificio, dove di solito i ragazzi più grandi andavano a fumare le canne. Noi invece andavamo la a farci di qualsiasi cosa Brent avesse per le mani. Li ci siamo dati il nostro primo bacio, e sempre li gli ho detto di essere incinta.
Quel giorno stavamo di nuovo li a farci. Io avevo male alla pancia, e non capivo perché. Ricordo che ero molto soddisfatta perché la ma pancia non era particolarmente visibile, anzi ero aumentata solo di qualche chilo, ma nessuno si era accorto di nulla visto che indossavo maglie larghe. Nemmeno le sarte si erano rese conto della cosa. Avevo semplicemente detto loro che, visto che era ormai la fine dell’anno e avevo gli esami finali a scuola e il lavoro, ero più nervosa del solito e sgarravo un po’ con i dolci e le patatine. Ci avevano creduto tutti. E mi avevano garantito che avrei finito quell’anno in quel modo, ma che, per quanto riguardava l’anno successivo, avrei avuto un insegnante privato, perché la mia carriera scolastica era ormai finita.
Osservavo le nuvole bianche che rapide scorrevano in cielo. O almeno rapide sembravano a me. Erano belle cicciottelle, sembravano di panna montata. E raccontavo a Brent quello che avevo fatto il giorno prima in studio. Quando all’improvviso sento il calore. Sento il bagnato. Poi sento una fitta. E quando guardo giù vedo che ho i jeans bagnati ed esclamo: “Cazzo me la sono fatta sotto!”.
Brent mi ha accompagnata in bagno, ma sentivo che c’era qualcosa di strano. Sentivo delle strane contrazioni della mia vagina, e non ero in grado di spiegarmele. Quando lo dico a Brent lui mi guarda, tra l’allarmato e il confuso e mi dice: “Non è che per caso stai partorendo?”
Mi sembrava impossibile, visto che secondo i miei conti ero al settimo mese o giù di li. Ma sentivo qualcosa spingere, come se volesse uscire. Sentivo premere. E faceva un po’ male.
Ricordo il corridoio deserto. Ricordo di aver ringraziato chiunque fosse dalla mia parte per aver permesso quel piccolo miracolo. Ricordo che anche il bagno era misericordiosamente vuoto. Io e Brent ci siamo infilati in uno dei gabinetti, e abbiamo cominciato a discutere sul da farsi. Io pensavo solo ad asciugare i pantaloni. Brent a escogitare un modo affinché nessuno mettesse piede li dentro prima che noi potessimo aver finito. Chiuse quindi la porta del bagno con il cestino dei rifiuti, ma prima gli attaccò sopra un cartello scritto a penna “Fuori servizio”. Per qualche minuto potevamo sperare di rimanere tranquilli. Io nel frattempo mi ero tolta i pantaloni per farli asciugare con il getto dell’aria calda con cui di solito ci si asciuga le mani. Ricordo che ho buttato le mutandine nel cestino per gli assorbenti. Potevo vivere anche senza. Ma mentre camminavo a piedi scalzi per il bagno della scuola ho sentito un’altra fitta fortissima alla pancia. E allora Brent è costretto ad avvicinarsi a me, per aiutarmi a raggiungere una qualunque superficie di appoggio. Mi fa sedere sul ripiano dove ci sono i lavandini per lavarsi le mani. Io mi prendo la pancia. Sento delle fitte, ma è come se fossero lontane. Come se appartenessero al corpo di qualcun altro. Come se non fossero nemmeno mie.
Non mi rendo nemmeno conto di quello che sta facendo Brent. Io noto una piccola crepa nel muro di fianco ai lavandini e non faccio altro che osservarla a lungo, soffermandomi ad ammirare quanto sia bella e irregolare. Inclino persino la testa di lato per osservarla meglio, mentre Brent mi parla, ma io non lo sto ad ascoltare. Non ho voglia di sentire le sue parole, non ho voglia di sentire la sua voce. Ma è lui che mi costringe a riportare con prepotenza l’attenzione su di sé.
“C’è qualcosa che non va” mi dice leggermente allarmato. “Sei così larga che potrei farci passare attraverso una mano e tu non la sentiresti nemmeno” mi dice sempre con lo stesso tono.
Già, gli rispondo con disinteresse. Almeno credo di aver parlato. Mi stringo nelle spalle, questo è sicuro, mi mordo il labbro, e continuo a guardare la crepa. Percorre tutto il muro, dal pavimento fino al soffitto, poi si dirama sul soffitto, fino a toccare il condotto di aerazione. La leggenda dice che tante matricole si infilino nei condotti di aerazione per andare a spiare nelle altre classi, o nei bagni. Si dice anche che alcuni non siano mai più tonarti indietro, incastrati in qualche condotto da cui non sono più riusciti a divincolarsi, e sono quindi rimasti per sempre la. Chissà se è possibile trovarci le loro ossa.
Questo si chiama “curiosità morbosa”.
Questo viene di solito spacciato come leggenda ma spesso corrisponde al vero.
Sento Brent da molto lontano. Sta parlando ma non sono esattamente sintonizzata sulla sua lunghezza d’onda.  Dice cose strane come “Ci sono tanti più peli di quanti tu non ne abbia di solito” e “Vedo una faccia tra le tue gambe”. Ma sono parole sconnesse e inutili. Io guardo la crepa nel muro. Guardo il condotto di aerazione. Immagino i ragazzi che si sono infilati lassù chissà quanti anni fa per cercare una via d’uscita da questo posto di merda, per evadere un’ora passando inosservati, ma alla fine sono passati inosservati e basta.  Quasi mi dispiace per loro, ma se devo essere sincera non li ho mai conosciuti, quindi alla fine il mio può essere solo un dispiacere relativo. Come fai a dispiacerti per persone di ci non hai mai visto nemmeno gli occhi? O un sorriso?
Sento qualcosa che spinge. Qualcosa che esce. Caldo. Grande.
E’ come quando Brent usa tutta la mano fino al polso. Ma questa volta non ho l’impressione di qualcosa che  sale, ma di qualcosa che scende.
Sento la voce di Brent sempre più allarmata, ma ancora non ci presto attenzione, fino a che lui, terrorizzato come una donnetta mi dice che c’è del sangue. Che c’è tanto sangue.
“Si vede che non hai mai avuto le mestruazioni” gli rispondo io, perlustrando anche il pavimenti. Chissà se questo posto ha anche delle cantine. O quanto meno dei sotterranei. Magari hanno tentato la fuga anche attraverso i sotterranei e ogni giorno noi camminiamo sulla testa di qualche povero scheletro ignoto.
Qualsiasi cosa mi abbia dato prima Brent era davvero molto buona, e ora mi sento così leggera che ho l’impressione di volare. Anche quei tre o quattro chili che ho preso sembrano essere scomparsi. Mi sento così bene. Mi sento in grado di fluttuare nell’aria come una fata. O un fantasma.
Sorrido e chiudo gli occhi, sospirando profondamente.
Potrei quasi addormentarmi in tanta pace.
Ma si sa che quando le cose sono troppo tranquille deve sempre arrivare qualcosa che va a scompigliare i piani. Un cane che abbaia a un topo. Un’ambulanza che corre al pronto soccorso con un ferito da arma da fuoco. Un bambino che piange per la fame.
Odio i bambini che piangono. Specie quando sono troppo vicini a me. Apro gli occhi, infastidita, pronta a trucidare Brent e qualsiasi cosa si stia mettendo tra me e il mio meritato riposo. E vedo Brent con un fagottino in mano, qualcosa di strano, deforme e che fa un discreto casino.
“Fallo. Smettere. Subito” biascico in direzione di Brent.
Brent mi guarda, quasi al limite del collasso emotivo, e mi dice che è una femmina.
“Non mi interessa. Potrebbe anche essere un trans con le orecchie da alieno e le pinne della Sirenetta per quel che mi riguarda. Tu fallo smettere. Subito. Devo dormire.”
Ricordo altri frammenti. L’acqua del lavandino che scorre, Brent che parla sottovoce al fagottino, il fagottino non più sporco, io che mi siedo sul lavandino e mi lavo tra le gambe, togliendo ogni traccia di sangue dai miei peli pubici, Brent che si sfila la felpa e ci avvolge il fagottino, io che asciugo i miei pantaloni sotto al soffione di aria calda, Brent che culla il fagottino e continua a parlargli, io che osservo il pavimento da vicino per accertarmi che non ci siano crepe o fessure di nessun genere, Brent che mi dice di non preoccuparmi e di aspettarlo li, Brent che esce dal bagno, io che finalmente dormo, seduta in uno dei gabinetti, io che mi sveglio alla fine dell’ultima ora, raccolgo la mia borsa e me ne esco dalla scuola, Brent che sparisce fino al giorno dopo.
Oltre a quell’unica volta, io mia figlia non l’ho mai vista. Brent mi disse che l’aveva lasciata davanti all’ospedale, e aveva atteso finchè non era arrivata un’infermiera a raccoglierla. A quel punto se n’era andato a casa e non ci aveva più pensato. Io nemmeno.
Troppi impegni. Troppe cose da fare. La mia carriera era all’inizio. La mia vita come cantante stava per avere una svolta. Una svolta seria. Non mi potevo di certo permettere distrazioni come quella.
Finchè non sono arrivata qui. A volare giù da un’altalena pregando che tre idioti mi prendano al volo su un telone elastico rosa.
Sono a metà strada, in volo tra il mio ritorno alla popolarità e la mia morte mediatica. È un salto incredibile, e quasi completamente inspiegabile. La mia vita si sta giocando in questi pochi istanti. Che a me sembrano non passare mai. Sono completamente irreali. Non si muovono. E io sono ferma insieme a loro.
Fino a che sento la stoffa del telone sfregarmi contro le cosce nude, sento la ruvidezza del tessuto grattarmi dietro i gomiti. Ce l’ho fatta. Ce l’ho fatta ce l’ho fatta ce l’ho fatta! Ho preso in pieno il telone e i tre idioti sembrano reggere ben- ahia!
Gli idioti non reggono bene il colpo. Perché io sbatto il culo per terra.
Cazzo che male.
Alle telecamere però la cosa passa inosservata, dal momento che sembra che i tre coglioni abbiano accompagnato il movimento per smorzare il contraccolpo. Quindi il fatto che io abbia sbattuto il culo per terra non solo non si è visto, me è addirittura sembrato un enorme gesto di intelligenza da parte di questi tre idioti, che si sono dimostrati dei perfetti pompieri.
A me verrà il culo viola ma loro sembrano eroi. Fantastico. Davvero fantastico.
Il telone viene teso, io scivolo giù, di nuovo in piedi, sorridente, e con le braccia la cielo, il pubblico in delirio.
Abbraccio i ragazzi, come da copione, premurandomi di pizzicare dolorosamente il fianco di Andy, che mi guarda con una smorfia di incomprensione, ma che ritrasforma immediatamente in sorriso non appena vede il mio sguardo assassino. Una sola parola e ti trucido sul palco, maledetta checca inutile.
Gli applausi continuano e i ragazzi mi portano alla ribalta. Ovviamente devo fare la faccia di quella che non vuole starci, e che ha quasi vergogna a prendere tanti complimenti, ma in realtà ci sto benissimo, anche perché me li merito tutti.
“Ok ok ok… gente è il momento di continuare, perché vedo già i maschietti nominati per le prossime nomination scalpitare ai loro posti e fare gesti scaramantici di ogni genere. E non è carino vedere tanta gente che si gratta il pacco contemporaneamente! Sembra di essere gli spettatori della più grande orgia del mondo!” scoppiano tutti a ridere.
“Quindi presentiamo la prossima categoria! Best singer male!”
Scoppia un applauso fragoroso.
Presento per bene i cinque in gara. Non so proprio come abbiano fatto a meritare la nomination a best male, dal momento che sono uno più pietoso dell’altro. Ma tant’è. Non sono io che decido.
Abbiamo: The doc con “Fuck you”, Kennedy King con “Harder & hotter”, Jaz- Tin con “Show time”, TJ con “Lie to me” cantata in coppia con May Donovan che però non ha preso nemmeno una nomination, e per finire Scott Hickey dei Juda’s Voice con “Search me (Where there’s no sunshine)”. Quattro rapper uno peggio dell’altro e un cantante che non si capisce da che parte voglia stare.
Viene portata la busta, consegnata nelle mani di Andy, che fa partire un teatrino stupido e quanto mai assurdo. Ha il microfono in mano, e non riesce ad aprire la busta. Un bambino senza un braccio sarebbe meno handicappato di lui.
Io sorrido di cortesia, anzi in alcuni momenti seguo il pubblico, facendo finta di scompisciarmi dalle risate, ma mi appunto mentalmente di fargli recapitare una bottiglia di champagne piena di lassativo. Basta che chiami Tanja non appena vedremo il video del vincitore. E vedi cosa gli combino.
Dopo tre minuti di assurda e oscena pantomimica, riesce ad aprire questa stramaledetta busta e io sbircio. Non avevo dubbi su chi fosse il vincitore. È anche vero che con simili possibilità di scelta, prendere il meno peggio è praticamente d’obbligo.
“And the winner is…” Andy guarda tutti con la sua faccia da schiaffi e un sorriso che farebbe venire gli incubi all’uomo nero, solleva la busta, dopo aver fatto finta di consultarsi con i suoi compagni di gruppo, e annuncia trionfale “Scott Hickey dei Juda’s Voice!”.
L’applauso parte generale e generalizzato. Le telecamere staccano da noi, mentre inquadrano Scott che abbraccia la sua band, bacia la sua fidanzata e percorre il corridoio tra le poltrone per raggiungerci sul palco. Nel mentre a noi viene consegnato il trofeo. Questa orrenda cosa formata da una specie di torcia con tanto di fiamme, circondata da tre cerchi che si conficcano nella base, incrociati tra di loro e di dimensioni asimmetriche, tutta ricoperta di stupida vernice dorata che molto probabilmente se ne andrà alla prima lucidata, e una targhetta davanti con la personalizzazione. Quindi dobbiamo ogni volta controllare che ci sia stato consegnato il trofeo giusto. Prima che al best singer female consegniamo quello di best group. Allora si che la serata finirebbe in merda.
Quindi controllo la targhetta, faccio le prove di sorriso, e aspetto di vedere di nuovo la luce rossa sulla telecamera fissa su di me.
Il buio scompare di nuovo, mentre Scott Hickey percorre il corridoio tra le poltrone e le scale che lo conducono sul palco, le telecamere lo inquadrano, anche se quella fissa su di me riprende. Nessun errore ora. O sarà comunque visto. Scott sale le scale ed entriamo entrambi nella stessa inquadratura.
Mi abbraccia e lo ricambio, sorridendo e complimentandomi con lui, saluta i tre idioti con generose manate sulle spalle e assurde pacche sulle braccia, poi si gira di nuovo verso di me, prende il premio e lo solleva verso l’alto, visibilmente felice.
Gli piazzo il microfono davanti alla bocca, così da lasciargli il tempo per due parole di ringraziamento.
“Volevo ringraziare la mia band, la mia fidanzata, il mio manager, tutta la mia crew, e soprattutto tutti i nostri fans, senza i quali non sarebbe mai stato possibile ottenere questo premio. Grazie a tutti di cuore!” Si prende il suo applauso e se ne torna a sedere al suo posto, con un sorriso a trentasei denti.
Video.

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