Where The Sun Dies di candycotton (/viewuser.php?uid=57157)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Questa è una storia scritta a quattro mani con flyingangel.
Speriamo che possa venire letta e apprezzata. Buona lettura!
Where the Sun dies
-
1 -
Il
pentolino fischiò e Ben Strawers spense la manopola del gas,
versando l’acqua calda in una tazza, dove c’era già
una bustina di tè. Poi, prese un
pacchetto di biscotti secchi e trotterellò fino alla sua
amata poltrona, davanti alla televisione accesa.
Si
lasciò cadere sul morbido cuscino e iniziò ad
inzuppare i biscotti nel tè caldo.
Mentre i suoi occhi inseguivano le luci e le immagini che trasmetteva
la televisione, un rumore alle sue spalle colse la sua attenzione.
Ben alzò lo sguardo, in ascolto. Le sue sopracciglia
s’incresparono.
Poi,
di nuovo un rumore. Anzi, di più. Erano strilla umane.
Ben si alzò e si avvicinò alla finestra.
Scostò lentamente la tendina color indaco e il suo occhio
scrutò fuori.
In
mezzo alle piante, c’era qualcuno. Ben aguzzò la
vista, ma l’età non era a suo favore.
Grugnì, poi si scostò un momento per prendere gli
occhiali sul comodino accanto alla finestra. Li inforcò e
tornò a guardare oltre il vetro.
Questa
volta, scorse qualche ombra nell’oscurità. Non
aveva dubbi che ci fosse qualcuno, tutto stava nel capire chi.
Pareva
che quella fosse la sua serata fortunata. Le figure si stavano facendo
più vicine. Già, stavano inseguendo qualcuno.
Ecco perché gli sembrava che corressero verso casa sua.
Ben fece uno scatto, quando in un secondo gli parve di poter essere
visto. Poi scostò di nuovo la tenda di pochissimi
centimetri, e tornò a guardare.
Ora,
le figure erano molto più vicine, e ferme. Avevano catturato
la loro preda, e ora quest'ultima stava urlando. Ma le sue grida
disperate furono presto soffocate, sotto l’occhio di Ben.
Si staccò dalla finestra, come se avesse finalmente scoperto
quello di cui aveva bisogno. Raggiunse il telefono, digitò
in fretta un numero e si accostò il ricevitore
all’orecchio.
La
voce di una ragazza che masticava una cicca gli rispose
dall’altro capo. «Polizia di Port Wing».
E il suo tono suonava come una domanda.
Strawers
era tornato a sbirciare oltre lo spiraglio della tenda.
Cercò di dare un tono di affanno alla sua voce.
«Ho sentito degli strani rumori vicino casa mia…
credo ci siano dei ladri… per favore mandi qualcuno a
controllare…», disse ansimando.
La
ragazza parve restare piuttosto tranquilla. Continuò a
parlare con la voce strascicata. «Dove si trova?».
Ben
le disse il nome della via e il numero civico. Lui abitava in una zona
ai limiti di Port Wing, al limitare del bosco.
«Va
bene, stia tranquillo, tra breve arriverà
qualcuno».
Ben
Strawers la ringraziò e chiuse la chiamata.
L’angolo delle sue labbra si piegò
all’insù.
«Albert!
Che diavolo stai facendo?», sbraitò una ragazza
dai capelli rossi, dall'aria civettuola e affascinante.
Un
altro ragazzo, dai capelli biondo oro, spostò gli occhi su
di lei. «Che vuoi?», rispose, secco.
«Ti
pare il modo? Lasciane un po' anche a noi!»,
continuò lei, spostandosi verso Albert.
«Felicia»,
lui affilò lo sguardo in quello di lei, «smettila
di gridare».
Felicia
gli lanciò un'occhiataccia, affilata e aggressiva.
«Grey, Vincent se non alzate le chiappe Albert si
mangerà tutto questo... adorabile essere
umano...», disse lei, sfiorando il mento dell'uomo accasciato
a terra.
Lui
parlò in quel momento. «Vi prego, lasciatemi
andare», mormorò, sfinito. Evidentemente, non
riusciva a muoversi. I suoi occhi erano pieni di pietà, e
paura. Stava delirando.
Felicia
digrignò i denti. «Taci».
Un
altro ragazzo, si mosse verso l'uomo, finendo in ginocchio sopra di
lui. «Paura?», fece schioccare la lingua contro di
lui.
«Vi
prego! Non cibatevi di me, vi prego! Vi darò tutto il sangue
che volete!», blaterò l'uomo, in confusione.
Felicia
rise di gusto, e accanto a lei figurò un altro ragazzo, alto
e dai capelli castani. Le rivolse un'occhiata di sbieco.
«Vincent,
non è ora di fare il bravo ragazzo»,
mugugnò lei, guardandolo.
Albert
appoggiò una mano sulla schiena del ragazzo in ginocchio.
«Grey, che ne diresti di dividere la parte
sinistra?», si leccò le labbra avide.
Grey
gli lanciò un'occhiata di intesa, sorridendo.
«Sentite...
vi prego...», ricominciò l'uomo a terra, in tono
che implorava pietà. Cercò di muoversi, ma
inutilmente.
«Smettila...
di... parlare!», urlò Felicia, aggredendolo. Si
avventò su di lui, affondando le unghie sulle vene del suo
collo. Quest'ultimo gridò ferocemente per l'ultima volta.
Poi non si sentì più nulla provenire da lui.
«Ora
sì che sto meglio», Felicia si leccò il
sangue luccicante dalle labbra, rialzandosi in piedi.
In
un secondo, Albert, Grey e Vincent bevvero a loro volta dall'uomo,
succhiandone altro sangue.
Felicia
rise avidamente, le mani sui fianchi.
Un
rumore improvviso sopraggiunse alle sue spalle, facendola voltare.
Felicia fece una smorfia, sgranando gli occhi. Vide un ragazzo biondo
fissare i tre vampiri a terra che si cibavano dell'uomo. Poi,
guardò lei, sorpreso.
«Ragazzi,
andiamocene!», urlò Felicia, frettolosamente,
lanciando uno sguardo a terra, che venne ricambiato. I tre si alzarono,
notando il ragazzo.
«É
un licantropo», sussurrò Vincent all'orecchio di
Grey. Quest'ultimo annuì, irritato.
Il
ragazzo fissò il cadavere e poi puntò lo sguardo
su di loro, alzando le sopracciglia. «L'avete appena
ucciso?», mormorò, guardandoli con disgusto, ad
uno ad uno.
«Non
credo siano affari tuoi, licantropo», disse Albert, a denti
stretti.
«Mi
chiamo Darren», rispose scocciato il licantropo, lanciando
loro un'occhiata. «Arriverà la polizia,
allora».
Felicia
si voltò indietro, in quel momento, avvertendo la sirena
dell'auto della Polizia avvicinarsi alla zona. Poi, affondò
gli occhi in quelli dei suoi compagni. Spostò la testa di
lato. «Andiamocene».
Darren
li scrutò, mentre si mossero appena e in un secondo erano
già spariti. La sirena si fece
più vicina. Darren si girò, avvertendo alcune
voci. Dovevano essere i poliziotti. Poi scappò velocemente
anche lui.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
-
2 -
Quando
scesero dall’auto, l’aria fresca di Port Wing
sferzò i loro
visi. Erano
appena arrivati in quella cittadina sperduta nel Wisconsin e
già
sembrava a loro troppo piccola.
Era
finalmente arrivato il giorno in cui Kosari Iendo e suo figlio Ville
si trasferirono in America. Era già da parecchi anni che
cambiavano
casa, dal Giappone all’America, per poi tornare di nuovo in
Giappone. Ora
erano di nuovo lì. E Ville era felice di esserci. Finalmente
avrebbe
potuto rincontrare i suoi amici.
Suo
padre aveva comprato un locale, all’ingresso
dell’autostrada: il
Velvet. Ma
Ville sapeva che suo padre non era salito su un aereo soltanto per
incrementare i suoi affari: ma anche per qualche faccenda del suo
passato, che riteneva irrisolta, e che aveva intenzione di riportare
alla luce.
Ville
non si era mai sentito troppo legato a Kosari. Non parlavano quasi
mai, loro due. Da
quando erano scesi dall’auto, Kosari pareva eccessivamente
contento
e sorridente, cosa che Ville non vedeva da tanto tempo. O che
probabilmente non aveva mai visto per davvero.
Alzò
lo sguardo al cielo e poi sul grande edificio che gli si stagliava
davanti. Era
una villa immensa, e di eccellente architettura.
«Figliolo,
siamo arrivati», annunciò suo padre
orgogliosamente, respirando a
pieni polmoni l’aria pulita e avviandosi lungo il sentiero di
ghiaia.
Ville
sospirò e lo guardò allontanarsi: camminava
dritto e fiero come un
re che va a sedersi sul proprio trono. Un altro sospiro e raggiunse
suo padre.
Quella
sera non era delle migliori. Il lavoro, al Velvet Diner, era notevole
e tutti dovevano darsi da fare per non rischiare di rimanere
indietro.
Un
ragazzo, con un bel viso e gli occhi chiari come il ghiaccio,
indossò
la retina bianca, racchiudendoci dentro una chioma di capelli
biondissimi, quasi bianchi che gli arrivava di poco fin sotto le
spalle. Rosiel uscì dalla cucina, dove l’odore di
carne e spezie
impregnava l’aria.
Si
affrettò al bancone, e si sistemò dietro ad un
monitor, pronto a
prendere le ordinazioni.
Subito
una famiglia composta da quattro persone si fece avanti. Il padre
iniziò a parlare, mentre le sue due figlie, di non
più di una
decina d’anni, fissavano curiose Rosiel. Lui rispose con un
mezzo
sorriso, mentre premeva sul monitor le ordinazioni.
«Diciotto
dollari e settanta», dichiarò.
Il
padre pagò immediatamente, il denaro già pronto
in mano.
Rosiel
incassò i soldi. «Arrivano subito»,
concluse, sorridendo ancora
alle bambine che lo guardavano e chiacchieravano con le loro vocine
squillanti.
Diede
loro le spalle e si affacciò allo scorcio che dava alla
cucina, poi
rimase in attesa, fino a quando le scatoline contenenti gli hamburger
arrivarono. Rosiel appoggiò tutto su due vassoi, infine
aggiunse le
patatine fritte e due bicchieri di Coca-Cola.
La
famiglia si allontanò verso un tavolo, in fondo alla sala.
E
una è andata pensò Rosiel. Non era
entrato da molto tempo in
quella tavola calda, ma dopotutto doveva pur accontentarsi. Non era
un lavoro così brutto, se lo si prendeva con lo spirito
giusto. E
anche la paga non era niente male, almeno per un ragazzo di
diciassette anni. Rosiel lavorava solo di sera e non tutti i giorni,
e comunque andasse il lavoro, cercava di farselo piacere.
Servì
altri quattro o cinque clienti. Con gioia notò che la gente
andava
diminuendo; buttò un’occhiata
all’orario: le nove. Per molti era
ora di tornare a casa.
La
porta si aprì nuovamente.
«Rosiel!»,
una voce familiare lo raggiunse. Si voltò, incontrando i
volti
familiari dei suoi amici, sulla soglia della porta.
Chris,
apparentemente tranquillo come spesso si mostrava, portava i suoi
capelli rossi in disordine, lunghi fin sotto le orecchie. Con gli
occhi vagò sulle persone sedute, fino ad arrivare su Rosiel.
La
prima era Virginia, che quella sera sembrava euforica. Era stata lei
a chiamarlo. Si appoggiò al bancone. Passò una
mano tra i suoi
capelli neri e fissò Rosiel.
Dietro
di lei si trovava Angelina. Aveva il viso infantile, e i capelli
biondo chiaro la rendevano riconoscibile tra la folla. Si
appoggiò a
sua volta sul bancone.
«Rosiel,
cinque minuti», lo avvertì un ragazzo, che si
occupava sia della
cucina che delle ordinazioni. Era uno più grande di loro, e
quello
era il suo lavoro fisso. Lanciò una breve occhiata e un
impercettibile cenno del capo ai tre appena entrati, poi riprese a
lavorare, rivolgendo la sua attenzione ad un cliente.
Rosiel
si volse agli altri con un enorme sorriso.
«Ciao
ragazzi», li salutò.
«Come
va stasera?», chiese Virginia, ricambiando il sorriso.
«Siamo
pieni, c’è un po’ da
fare…», si allontanò dalla postazione
di lavoro, dirigendosi in un angolo della sala. Volse uno sguardo
vago ai tavoli, e si levò la retina che gli aveva
schiacciato i
capelli.
Chris
lanciò un’occhiata attorno.
«Infatti».
«Vi
fermate a mangiare qualcosa?», chiese Rosiel, osservandoli ad
uno ad
uno.
Loro
si guardarono per un secondo, poi Virginia annuì e Rosiel
fece lo
stesso.
«Vi
raggiungo subito».
I
tre ragazzi si allontanarono verso un tavolo, mentre Rosiel
tornò in
cucina alla ricerca del supervisore. Si levò il grembiule
rosso e lo
sistemò insieme alla retina sopra ad un tavolo.
«Ehi,
Jonas… pausa», gli disse quando lo
trovò.
«Okay,
Rosiel. Ma non più di venti minuti», lo
avvertì Jonas, con
l’espressione sempre seria e la voce ferma.
Rosiel
si avvicinò al tavolo dei suoi amici, notando Angelina e
Virginia
appoggiare due vassoi sul tavolo. Chris era già seduto.
Rosiel
si sedette a sua volta. Chris prese a mangiare le sue patatine quasi
meccanicamente, una dopo l’altra. Angelina e Virginia
tirarono
fuori gli hamburger dalle loro scatole.
«Quindi,
Angie… ci sarebbe quel compito per
domani…», fece Rosiel,
prendendo una patatina dal sacchetto di Chris.
Angelina
lo guardò confusa.
«Sai,
il tema di letteratura…».
«Angie,
lascia perdere, non aiutarlo», intervenne Virginia,
sospirando e
scrollando il capo.
Rosiel
si voltò verso di lei. «Come non aiutarlo? Devo
lavorare e non
riesco a farlo per domani».
Lei
aprì la bocca per dire qualcosa. «Be’
devi imparare ad
arrangiarti, se non ci fosse Angelina come faresti?».
«Dai
Virgi… Rosiel te lo passo domani appena ci
vediamo», disse
Angelina.
«Oh,
grazie».
Virginia
scrollò il capo un’altra volta, poi
alzò gli occhi sulla sala. In
quel momento sentì lo sguardo di qualcuno addosso.
Corrugò le
sopracciglia, e si voltò fino ad incontrare gli occhi del
ragazzo
che aveva preso le loro ordinazioni.
Era
dietro al monitor e puntava dritto a lei. Imbarazzata
abbassò subito
lo sguardo, e riprese a mangiare, più agitata di prima.
Al
suo fianco, la risata di Rosiel si affievolì in
quell’istante. Lui
e Angelina si scambiarono ancora qualche battuta. Virginia
notò sul
volto di Chris solo l’ombra di un sorriso.
«Ehi,
Chris, tutto okay?», chiese Rosiel.
Chris
alzò gli occhi, con aria sperduta. «Sì,
tutto bene», disse
semplicemente, guardando Rosiel un po’ confuso.
Rosiel
si spostò con gli occhi su Angelina, che alzò le
spalle, perplessa.
Era
già da qualche giorno che Chris aveva uno strano umore. Il
più
delle volte se ne stava in silenzio e durante le ore di scuola
chiedeva più volte al professore di turno di poter uscire.
Era
inevitabile che loro fossero preoccupati, anche se, per quanto diceva
lui, tutto andava bene.
Virginia
si alzò dalla sua sedia, facendo del rumore non desiderato.
«Vado
un attimo al bagno», mormorò. Lasciò
l’hamburger dentro la
scatola e si allontanò.
Aprì
la porta della toilette femminile. Si sporse sul lavandino e si
lavò
la faccia. Sciacquò velocemente le mani e uscì di
nuovo nella sala.
Appena aprì la porta, si trovò davanti il ragazzo
delle
ordinazioni, intento a pulire un tavolo, appena davanti alla porta
del bagno. Lui alzò lo sguardo e le sorrise brevemente, con
aria
professionale.
Virginia
lo scrutò un poco. Non era americano: aveva
l’aspetto di un
giapponese. La chioma spettinata sulla testa, nera, il viso scarno e
le guance leggermente pronunciate, con gli occhi piccoli.
Virginia
avanzò, diretta al suo tavolo. Quando gli passò
accanto, lui la
urtò, sospingendola contro il separè a muretto.
Si
voltò di scatto e la prese per un braccio. «Oh,
scusa», mugugnò.
Virginia
scosse la testa e camminò oltre.
Tornò
al tavolo e si sedette al suo posto. Rivolse una breve occhiata agli
altri e riprese a mangiare il suo cibo. Cercò di
reintrodursi nella
loro conversazione.
«A
che ora finisci?», domandò Angelina.
«Penso
alle dieci e mezza o forse più tardi», rispose
Rosiel, calmo.
Mangiò una patatina, acchiappandola dal pacchetto di Chris.
Lei
annuì, e si guardò un attimo in giro.
«Ma che cavolo ha quello da
fissare?», esclamò a bassa voce, indignata.
Virginia
si voltò quel poco che bastava per notare il ragazzo di
prima
affaccendato a sistemare un altro tavolo, questa volta situato dietro
al loro. Chris alzò lo sguardo.
«È
qui da poco. Non lo conosco molto bene, ma per quello che ho visto
non mi pare abbia molta voglia di lavorare. Si mette spesso a
guardarsi in giro. Fissa le persone, è
fastidioso», illustrò
Rosiel a bassa voce.
«Ce
l’ha con te, per caso?», domandò Chris,
con voce roca.
Rosiel
alzò le sopracciglia. «Non penso. O almeno, io non
gli ho fatto
niente», fece, non del tutto sicuro. In realtà non
ci aveva mai
pensato, perché mai quel ragazzo avrebbe dovuto avercela
proprio con
lui? «Mah», sbuffò alla fine.
«Ah,
Angie, poi hai fatto matematica per domani?», chiese Virginia.
Rosiel
le rivolse un’occhiataccia, ma lei lo ignorò.
«Ci
ho provato, ma non credo vada bene», rispose Angelina.
Virginia
alzò le spalle. «È lo stesso, mi
faresti dare un’occhiata
domattina?».
Angelina
annuì e bevve un sorso di Coca-Cola dalla cannuccia.
Rosiel
appoggiò il gomito sul tavolo e si rivolse a Virginia.
«Come,
vorresti copiare?», chiese ironicamente.
Virginia
gli lanciò un’occhiata di sbieco.
«Guarda che anche tu lo fai»,
precisò convinta.
«Ti
metti a prendere esempio da me, ora?».
Lei
scrollò il capo e alzò gli occhi al cielo.
«Comunque,
Angie, faresti copiare anche me?», proseguì.
«Pure
matematica?», attaccò Virginia.
«Sì,
non c’è problema», rispose Angelina,
interrompendo il loro
scambio di battute.
«Rosiel,
se proprio non sai farlo, fattelo spiegare dal professore.
Così
almeno magari impari come si fa», intervenne Chris, con la
voce
bassa e flebile.
Rosiel
gli rivolse un’occhiata perplessa. Fu sul punto di ribattere,
quando il ragazzo di prima si presentò accanto a lui, in
piedi.
«Ti
vuole Jonas», bisbigliò.
Rosiel
alzò lo sguardo su di lui. Annuì, si
alzò e si allontanò, dopo
aver fatto un breve cenno agli altri.
Virginia
bisbigliò qualcosa ad Angelina, sottovoce, mentre Chris
ripose le
patatine e abbassò lo sguardo. Un attimo dopo, il ragazzo
andò
oltre e si fermò al tavolo successivo dove c’erano
vassoi da
ripulire.
«Rosiel,
sai dov’è Ville?», domandò
più tardi Jonas, passando dal
bancone, dove Rosiel era intento a pulire, mentre non entravano
clienti.
«Non
l’ho visto».
«Accidenti,
fa sempre quel che vuole lui!». Jonas appariva piuttosto
alterato,
quella sera. Sparì nel retro.
Rosiel
si avvicinò al tavolo dove erano seduti i suoi amici che
chiacchieravano. Si sedette e ci si accasciò sopra.
«Tutto
a posto?», domandò Angelina.
«Ville,
il ragazzo di cui vi parlavo prima, è introvabile. Jonas sta
impazzendo».
«Ma
dove può mai essere andato?», chiese Virginia.
«Che
ne so», le parole si spensero, quando lui ributtò
la testa sul
tavolo, esausto.
«Ragazzi,
forse è meglio se io torno a casa, non mi sento molto
bene»,
mormorò Chris, lanciando una breve occhiata agli altri, che
seppure
preoccupati, annuirono.
«Se
te ne vai, veniamo anche noi», affermò Virginia.
Rivolse uno
sguardo a Rosiel. «Siamo in macchina insieme»,
disse alla fine.
«Okay,
allora ci vediamo», li salutò Rosiel.
Tutti
e tre si alzarono. Angelina prese Chris per il braccio e lo tenne
stretto fino a che non furono fuori. Lei bisbigliò qualcosa
a bassa
voce, standogli accanto.
Rosiel
li guardò mentre si allontanavano, e tornò al
lavoro.
«Ehi»,
la voce di Jonas lo accolse, quando entrò in cucina.
«Mi aiuti a
cercarlo?».
Rosiel
annuì, senza entusiasmo. «Vado a veder
fuori», disse
tranquillamente. Uscì dalla porta sul retro, mentre
l’aria fredda
notturna lo avvolgeva.
Una
figura stava in piedi accanto a uno dei bidoni della spazzatura, una
colonna di fumo saliva verso l’alto. Rosiel si
avvicinò.
«Che
stai facendo?».
Ville
si voltò di scatto, abbassando la mano che reggeva la
sigaretta.
Rosiel
scese velocemente con lo sguardo fino alla mano, poi risalì.
«Jonas
ti sta cercando…», accennò,
fulminandolo con i suoi occhi
glaciali.
«Ah,
Rosiel», fece Ville, ignorando totalmente le sue parole.
«Senti,
penso che sia meglio se torni dentro. C’è Jonas
che…».
«Che
mi sta cercando, sì ho capito».
Rosiel
lo guardò stranito. «Non hai intenzione di
rientrare?», domandò,
scrutandolo.
«Aspetto
di averla conclusa», alzò la sigaretta.
Rosiel
fece un cenno con il capo. «Non penso tu abbia chiesto una
pausa,
altrimenti Jonas non ti starebbe cercando
così…».
«Non
ho chiesto nessuna pausa, infatti», fece Ville, con un
sorrisetto.
«Forza,
rientriamo», tagliò corto Rosiel.
«Ti
ho detto di aspettare…».
«Guarda
che se vuoi tenerti questo lavoro, la fumi in un altro posto la
sigaretta».
Ville
sospirò e alzò gli occhi al cielo.
«È
mio padre il proprietario del Velvet, non mi succederà
proprio un
bel niente».
Rosiel
fu sorpreso. Non sapeva che il padre di Ville fosse un personaggio di
rilievo. Ma magari Jonas avrebbe potuto informare suo padre del suo
comportamento, sempre che a suo padre fosse importato qualcosa.
«Ah,
quindi è tuo padre che ti ha messo a lavorare
qui?».
Ville
fece di sì con il capo, in un gesto piuttosto teatrale.
«Secondo
lui la scuola non mi tiene abbastanza impegnato…».
Tirò dalla
sigaretta e lo guardò.
Rosiel
non lo riusciva a capire. Fino a poco tempo prima gli pareva un
po’
tonto e impedito, ma ora, d’un tratto era diventato
più serio.
Ville
lanciò il mozzicone di sigaretta a terra, pestandola con la
punta
della scarpa.
«Okay,
ora possiamo tornare dentro», disse.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
- 3 -
«Allora,
ragazzi. Qualcuno sa come si risolve questo problema?», la
voce
della signorina Miller, l’insegnante di matematica, era come
un
getto d’acqua gelida in faccia quando si è ancora
insonnoliti.
Era
una ragazza giovane e dinamica, bassa ma sottile. Sembrava ancora una
bambina delle elementari, eppure insegnava alle superiori. Molti si
chiedevano chi avesse corrotto per farsi assumere. Aveva ventisei
anni, quindi non era solita rivolgersi agli studenti troppo
formalmente. Dopotutto, nemmeno gli studenti si sognavano di
prenderla troppo sul serio. Ma era comunque piacevole.
«Nessuno?»,
continuò guardando con un’espressione assorta tra
gli studenti.
Uno
alzò la mano, sovrastando gli altri.
«Ah»,
fece la signorina Miller con un sorriso che trasmetteva che non era
del tutto concentrata su quella lezione.
«Prego,
vieni… tu sei…?», continuò
con lo stesso sorriso.
«Ville
Iendo», si alzò in piedi e si diresse alla
lavagna. Il suo metro e
novanta, accanto al metro e cinquanta scarso della Miller, provocava
un certo contrasto.
«Prego
Ville», gli sorrise un ultima volta la Miller, porgendogli il
gessetto.
Ville
iniziò a risolvere il problema, molto abilmente; non si
fermava
quasi mai ed era riuscito ad arrivare alla soluzione, tra
l’altro
anche esatta, in pochissimo tempo.
La
faccia della Miller si aprì in un’espressione
esterrefatta, con
tanto di bocca semi aperta.
«Molto
bene. Molto bene davvero Ville. Grazie mille, ora puoi
sederti», ed
indicò gentilmente con la mano il corridoio tra i banchi.
Ville
tornò a posto, seguito da alcuni sguardi stupiti e alcuni
invidiosi.
La
cosa che Rosiel sentiva maggiormente era la stanchezza. Non riusciva
mai a dormire quanto voleva e alla fine aveva sempre un gran sonno.
Si accasciò sul banco senza far rumore, adagiò la
testa tra le
braccia unite e chiuse gli occhi.
Chris,
sedutogli accanto, lo tastò più volte sul
braccio, per svegliarlo,
ma Rosiel non si mosse.
La
signorina Miller continuò con la sua lezione, con una
leggera punta
di entusiasmo in più dopo la riuscita esecuzione di Ville.
Come se
le avesse dato la speranza che anche gli altri potessero farcela.
Scrisse
il testo di un altro problema, poi procedette con la spiegazione per
arrivare alla soluzione. Ville era attentissimo. Non staccava gli
occhi dalla lavagna e dalla Miller. Anche lei lo guardava spesso,
evidentemente si era aggiudicato il posto di suo preferito.
Virginia
e Angelina, sedute in terza fila, non erano poi molto attente alla
lezione. Prendevano appunti sui loro quaderni, ma la matematica era
sempre una cosa impossibile, che stessero ad ascoltare o meno.
A
fine spiegazione, la signorina Miller cancellò ancora una
volta la
lavagna e scrisse il testo di un altro problema, copiandolo da un
voluminoso libro che riportava sulla copertina un titolo che avrebbe
fatto allontanare qualsiasi studente: “Alla scoperta
dell’algebra”.
Quando
ebbe finito la copiatura, si voltò verso la classe, diede in
fretta
un’occhiata ai visi dei presenti e si soffermò su
quello di
Rosiel, o meglio sulla massa di capelli che stava al suo posto.
Scorse
con gli occhi il registro di classe, adagiato sulla cattedra e
arrivata al nome che cercava lo gridò ad alta voce.
«Black!».
Rosiel
si destò un poco; alzò lentamente la testa e si
guardò attorno.
«Alla
lavagna», concluse risolutiva la Miller.
Rosiel
si alzò, facendo rumore con la sedia e raggiunse la
signorina. Si
guardarono per un po’, perché lui non dava segni
di voler prendere
in mano il gessetto.
«Vuoi
risolvere il problema?».
Non
ne aveva voglia, ma dopotutto ne aveva ancora meno di litigare con la
professoressa di matematica, con cui già non era in buoni
rapporti.
Così si limitò a prendere il gessetto e ad
accostarsi alla lavagna.
Rimase immobile guardando la scrittura arrotondata e inclinata della
Miller.
Aveva
dormito per tutto il tempo e non aveva seguito la spiegazione per
risolvere il nuovo tipo di problemi.
«Non
so come farlo», disse con calma, restituendo il gessetto alla
Miller, che non lo prese.
«Ho
appena spiegato come si fa. Tu dov’eri? Sulle
nuvole?».
Si
guardarono ancora a lungo. Rosiel non disse niente, ma sostenne lo
sguardo misto tra arrabbiato e incredulo della Miller.
«Qualcuno
sa risolverlo?», chiese lei voltandosi verso la classe.
Ancora
una volta, come una scena che si ripete, Ville alzò la mano,
e
raggiunse la lavagna. Lanciò un mezzo sorrisetto a Rosiel,
mentre
gli prendeva il gesso dalle mani. Eseguì il problema
magistralmente
e infine si rivolse alla professoressa. Lei lo guardò solare
e
visibilmente contenta. Ci mancava poco che gli applaudisse.
Rosiel
tornò a posto senza che nessuno glielo avesse chiesto: tanto
la
Miller era troppo concentrata su Ville per interessarsi agli altri.
Finalmente
la campanella suonò la fine di quella noiosa e infinita ora
di
matematica. Rosiel si affrettò verso la porta, non voleva
che alla
signorina Miller venisse in mente di fermarlo per parlargli dei suoi
insuccessi a scuola.
Chris
era uscito insieme a lui, e furono presto raggiunti dalle due
ragazze.
«Complimenti,
Rosiel», scherzò Virginia.
Lui
la guardò male, con espressione afflitta. E lei gli sorrise,
provando a tirarlo su.
Angelina
stava sistemando i fogli degli appunti dentro la sua borsa, quando
dalla stanza uscì Ville, che si soffermò a
scrutarli ad uno ad uno.
Virginia gli lanciò un’occhiata perplessa.
«Ehi,
Rosiel», vociò.
Rosiel,
che non era molto in vena, si limitò ad un accennato sorriso
e ad
alzare la mano in segno di saluto.
Ville
si fermò accanto a lui. «Ciao, ragazzi».
Virginia
aveva incrociato le braccia sul petto, Angelina aveva terminato di
sistemare la sua borsa e l’aveva chiusa. Chris era in piedi
accanto
a Rosiel e guardava da un’altra parte, dando di tanto in
tanto
qualche occhiata alla situazione.
«Posso
presentarmi?», continuò Ville, alzando le
sopracciglia. Nessuno
rispose, così lui proseguì, «sono Ville
Iendo, lavoro con Rosiel
al Velvet».
«Ah,
piacere. Io sono Angelina», sorrise gentilmente.
«E
loro sono Virginia e Chris», concluse Rosiel, in tono
sbrigativo,
notando che gli interessati non accennavano ad aprir bocca.
Ville
mosse la testa su e giù più volte e sorrise.
«Okay, allora ci
vediamo in giro, è stato un piacere».
Fece
qualche passo, ma tornò indietro, con un esclamazione.
«Ah, Rosiel.
Volevo lasciarti questo…», gli porse un foglio
piegato in quattro.
Buttò un ultimo sguardo agli altri e si allontanò.
Rosiel
aprì il foglio. Era la mappa per raggiungere una casa. E a
lato
qualche indicazione. In alto c’era scritto qualcosa riguardo
ad una
festa. Una festa che Ville avrebbe dato quel sabato a casa sua.
Rosiel lo porse agli altri.
«Non
vuole proprio perdere tempo», commentò.
«Dà
una festa perché si è appena trasferito e vuole
conoscere più
persone», fece Angelina, riportando quello che
c’era scritto sul
biglietto. «E pare ti abbia invitato»,
alzò gli occhi su Rosiel.
«Lavoriamo
insieme, l’avrà fatto solo per quello, cosa credi.
Nemmeno gli sto
così tanto simpatico».
«Pensi
di andarci?», intervenne Virginia, fissando Rosiel con
sguardo
assente.
Lui
inclinò il capo a sinistra e poi a destra, indeciso.
«Ci ha
invitati tutti, perché non ci andiamo insieme?».
«Mah,
io non so se posso venire…», disse dubbiosa
Angelina.
«Io
ci sono se vuoi, Rosiel», intervenne Chris, che fino ad
allora non
si era molto inserito nella conversazione.
Rosiel
gli sorrise e passò lo sguardo su Virginia, interrogativo.
«Non
saprei…», mugugnò lei.
«Okay,
ci penseremo», concluse Rosiel, piegando nuovamente
l’invito e
mettendoselo in tasca.
Era
quasi ora di pranzo, lì a scuola. C’era abbastanza
confusione,
ragazzi che avevano concluso la loro ultima lezione e si affrettavano
verso la mensa, altri che girovagavano per i corridoi fino a
raggiungere i propri amici; tutti che chiacchieravano, che
schiamazzavano.
Lui
non faceva niente di tutto questo. Lui semplicemente cercava il posto
più condensato di persone, dove poter mimetizzarsi,
nascondersi.
Si
buttò giù il cappuccio dalla testa, rendendosi
conto che avrebbe
attirato l’attenzione di non poche persone, con
quell’aria da
ricercato.
Provò
ad alleggerire i muscoli facciali, contratti in
un’espressione dura
e tetra.
In
mezzo a tutta quella calca, non riusciva nemmeno più a
capire dove
fosse e quanto mancava per arrivare alla mensa. Non riusciva a
muovere qualche passo senza sbattere le spalle contro qualcuno, senza
doversi assottigliare il più possibile per poter passare tra
due o
più studenti.
Finalmente,
la porta della mensa.
Aumentò
il passò ed entrò.
Chris
addentò la mela che aveva sul vassoio.
La
mensa si stava riempiendo, ma per fortuna lui e Rosiel erano arrivati
prima, riuscendo ad occupare un tavolo da quattro.
Rosiel,
sedutogli accanto, condiva l’insalata.
«Guarda
che confusione», biascicò Chris.
Rosiel
alzò gli occhi. La porta semi aperta della mensa mostrava un
via vai
impazzito nel corridoio. C’era parecchio scompiglio, quel
giorno.
Entrò
in quel momento un gruppetto di quattro ragazze. La prima era Abigail
Watson, con un ghigno stampato in faccia. Abigail era piuttosto
vanitosa, la classica ragazza smorfiosa, che voleva sempre tutto
perfetto. Abigail era spesso accompagnata dalle sue amiche, Becky,
Kimberly e Rachyl. Si vedevano tante volte insieme nel corridoio, a
chiacchierare vivacemente tra di loro, oppure nel bagno delle
ragazze, costantemente attaccate agli specchi.
Raggiunsero
un tavolo circolare, e iniziarono a parlottare a bassa voce. Poi
Becky si alzò e arrivò fino al bancone. Si
rivolse alla donna al di
là di quello e ordinò da mangiare per tutte.
Quando
Becky tornò al suo tavolo, c’era Lucas Foster in
piedi accanto ad
Abigail, che in quel momento appoggiò la mano aperta sul
piano,
piegandosi su di lei.
Becky
prese posto e allungò un vassoio alle altre, cercando di non
fare
caso a Lucas.
Abigail
era molto affascinata, lusingata. Sorrideva e riservava solo pochi
sguardi a Lucas, che dal canto suo, faceva di tutto per poterne avere
il più possibile.
«Andiamo
da qualche parte, dopo?», Lucas parlava a voce bassa,
alquanto
strano per lui.
Abigail
si sprecava di oh strascicati, trattandosi come se
fosse una
principessa. «Non so, ragazze, dobbiamo andare da qualche
parte,
dopo?», lanciò un’occhiata complice alle
altre, che ovviamente
sapevano cosa rispondere. Scrollarono tutte e tre il capo, con aria
disinteressata.
Abigail
mostrò un sorriso mellifluo, adorava fare la difficile.
«Okay,
allora posso venire», confermò a Lucas, fingendo
noncuranza.
Lui
alzò le sopracciglia. «Ottimo»,
esclamò. Si allontanò
caracollando fino ad un altro tavolo. Si lasciò andare sulla
sedia,
e stravaccò le gambe. I suoi compagni, tutti affamati
giocatori di
football, gli rivolsero un’occhiata interrogativa. Lui
ghignò
entusiasta e fece di sì con la testa.
Ci fu
un gran boato, e a turno gli batterono il cinque su entrambe le mani.
Quei giocatori erano spesso un po’ chiassosi. Essere un
giocatore
di football in una squadra scolastica apriva molte porte. Oltre alla
fama e alla stima, si susseguiva anche l’invidia dei
più deboli e
riservati. Inoltre erano ben visti dalla maggior parte dei
professori, che seguivano con ardore le partite.
«Che
chiasso che fanno», si lamentò una ragazza, seduta
ad uno dei
tavoli in fondo alla sala. Si passò una mano tra i capelli
rosso
fuoco, e aggrottò le sopracciglia.
«Che
strazio», il ragazzo che le stava affianco si
abbandonò sul tavolo,
nascondendo il viso tra le braccia.
«Mi
sta venendo fame», borbottò un
altro ragazzo, coi capelli
neri, di fronte agli altri due.
«Possiamo
organizzare una caccia, stasera», suggerì
l’ultimo membro del
gruppetto, seduto accanto al ragazzo dai capelli neri.
Il
ragazzo accasciato sul tavolo si tirò su
all’istante, con gli
occhi tra l’azzurro e l’oro accesi di una luce
particolare. «Hai
detto caccia?».
«Sì,
Albert», lo ammonì il ragazzo moro, alzando gli
occhi al cielo.
«Qualunque
posto è okay per me. Decidi tu Grey, oppure
Vincent…», concluse
Albert con un sorrisetto.
La
ragazza rossa sbuffò e incrociò le braccia sul
petto. Aveva lo
sguardo rivolto alle loro spalle, concentrato sull’entrata
della
mensa.
«Che
c’è, Felicia?», domandò Grey,
il ragazzo moro.
Lei
lo fissò un istante, poi scosse il capo.
Grey
si voltò nella direzione in cui guardava lei, fino ad
incontrare con
lo sguardo un’altra ragazza. Era alta e magrissima, con i
capelli
corti e chiarissimi. Indossava una minigonna, con le calze a rete
strappate in più punti. Il giubbotto di pelle e gli anfibi
ai piedi.
Era piuttosto bella, e come sempre c’era qualcuno che si era
voltato al suo passaggio, ma lei non ci aveva fatto caso.
«Nina»,
la salutò Vincent, con enfasi nella voce.
Lei
accennò un sorriso. Sembrava piuttosto contenta, al
contrario di
come la vedevano loro il più delle volte. Si sedette accanto
a
Vincent, lanciando un’occhiata a Felicia, che la scrutava in
malo
modo, di sottecchi.
«Stiamo
organizzando una caccia per stasera. Tu ci sei?», le chiese
Grey.
Lei
annuì, senza pensarci troppo. Vagò con gli occhi
per la stanza,
fino a raggiungere un gruppetto di ragazzi in piedi accanto alla
porta d’entrata. Le venne da ridere, così distolse
immediatamente
lo sguardo.
Uno
di loro, dai capelli biondi e piuttosto attraente, le aveva lanciato
un’occhiata di sbieco, con un sorriso da bambino.
«Ehi,
Lowell, sei distratto», gli fece notare un altro.
Lowell
fissò l’amico con espressione sorpresa e
innocente.
Il
ragazzo fulvo fischiò e Lowell gli rivolse
un’occhiataccia. Stava
guardando nella direzione di Nina.
«Ora
capisco perché sei distratto», ghignò.
A
Lowell venne da ridere, ma cercò di nascondersi con la mano.
«Wow,
sta diventando tutto rosso», lo canzonò ancora il
ragazzo fulvo,
allungandogli una pacca sul braccio.
«Smettila,
Drew», fece Lowell, faticando a tornare serio.
Drew
non disse più nulla, ma la sua espressione maliziosa parlava
da sé.
L’altro
ragazzo accanto a loro era rimasto fermo con le braccia incrociate
sul petto, piuttosto sulle sue. Si chiamava Claud, ed era una specie
di idolo per le ragazze. Claud era campione di nuoto; aveva vinto
parecchie medaglie e aveva viaggiato per l’America, in giro a
far
gare.
«Ehilà»,
una voce nuova si aggiunse a quel gruppetto.
«Oh,
Larry», lo accolse Drew, togliendosi una mano dalla tasca dei
pantaloni per alzarla in segno di saluto. «Dov’eri
sparito?».
«Sono
stato intrattenuto», rispose vago Larry, grattandosi con un
dito la
testa di ricci castani.
Drew
si fece curioso, e alzò le sopracciglia. «Sento
odore di ragazze»,
mormorò, con un sorrisetto furbo, guardando anche Lowell.
«Sarebbe
ora che te la cercassi anche per te, la ragazza», lo
ammonì Larry.
Drew
si incupì e non nascose di essersi offeso.
Ville
entrò in mensa, e senza divagare troppo con lo sguardo,
andò a
sedersi ad un tavolo già occupato da un altro tizio. Costui
stava
piegato su sé stesso; indossava un maglione grigio scuro con
il
cappuccio. Sembrava piuttosto ansioso e irrequieto. Ville gli si
sedette di fronte e disse qualcosa a bassa voce. L’altro
rispose,
muovendo semplicemente il capo su e giù, lentamente.
Rosiel
li scrutava stringendo gli occhi, incuriosito.
Era
una scena molto strana, parlottavano tra loro come se avessero
qualcosa di terribile da nascondere. Ma cosa poteva mai essere, per
due ragazzi delle superiori?
Scrollò
il capo, cercando di lasciarsi dietro quei pensieri e distolse lo
sguardo da quei due individui.
La
porta della mensa si aprì con un tonfo sordo; entrarono
Angelina e
Virginia. Erano piuttosto agitate. Si affrettarono verso il tavolo di
Rosiel e Chris e anziché sedersi, rivolsero entrambe sguardi
preoccupati a Rosiel. Lui ricambiò con altrettanta
espressione.
«Vieni
a vedere», disse Virginia in un bisbiglio.
Entrambi
si alzarono e si scambiarono uno sguardo dubbioso, poi seguirono le
due ragazze fino in cortile.
La
parte bassa della parete della palestra era interamente ricoperta da
un murale gigantesco. Recitava:
Miller
mangiamerda
R.
Black
La
parete di mattoni era ricoperta da colori che provocavano un
contrasto evidente. Le parole risaltavano come fossero in rilievo. La
firma, al contrario, aveva un effetto incassato nella parete e
contrastava ancora più della scritta colorata.
Rosiel
era senza parole. Non aveva idea di cosa fosse e di chi fosse stato,
ma non era colpa sua. Sentiva tutti gli sguardi su di sé; la
gente
non si faceva mai i fatti suoi.
Per
completare l’opera uscì dall’edificio un
piccolo gruppetto di
professori, accompagnati dal preside. Rosiel non riusciva ancora a
capire cosa fosse realmente successo. Vedeva la scena scorrergli
davanti e anche se cercava di fermarla, per cogliere qualcosa che lo
aiutasse a comprendere, non ci riusciva.
Eppure
c’era il suo cognome sul muro della scuola. Ma
perché?
Volse
il capo al gruppo di professori, notando le loro espressioni
allarmate.
La
Miller per poco non si prese un accidente quando vide il murale.
Sussultò e si portò la mano alla bocca. Il
professore di ginnastica
le mise una mano sulla spalla come per rassicurarla, gesto che
risultò piuttosto inutile.
Tutto
il corpo docenti si recò di nuovo dentro, il preside in
testa.
Rosiel
era ancora immobile dove si trovava, incapace di esprimere qualsiasi
cosa.
«Siamo
uscite dalla palestra e l’abbiamo trovato…
lì…», disse
Virginia, indicando vagamente il muro. «Come può
essere accaduto?
Chi può essere stato?», si voltò di
scatto verso Rosiel, cercando
qualche risposta.
Lui
inghiottì la saliva, rendendosi conto che l’aveva
trattenuta fino
quasi a soffocare.
«Non
ne ho idea».
«Ma
c’è pure il tuo cognome! Chi
può…», Virginia si interruppe,
notando che Rosiel si stava allontanando.
Virginia
rivolse uno sguardo angosciato sia a Chris che ad Angelina, che le
risposero alla stessa maniera. Poi seguirono Rosiel.
La
folla di studenti che si era radunata in cortile si disperse in breve
tempo, subito dopo aver inquadrato la situazione. Parecchi
conversavano e borbottavano, chi con più interesse, chi
semplicemente per il fatto che qualcosa in quella
scuola era
finalmente successo.
Tornati
dentro, i quattro ragazzi si fermarono nel corridoio, intricato
esattamente come lo era stato fino a poco prima: bisognava fare la
fila per entrare in mensa.
La
Essbotton, l’insegnante di storia, si faceva strada tra la
calca di
studenti a forza di gomitate. Prima che Rosiel si fu allontanato, lo
picchiettò sulla spalla invitandolo a voltarsi.
Rosiel
pareva tranquillo; non era una sorpresa che chiamassero proprio lui,
a quel punto.
«Signor
Black, venga con me, per favore», disse, con
autorità.
Rosiel
abbassò lo sguardo e sospirò, diede una breve
occhiata agli altri
tre e si allontanò con l’insegnante.
«Questo
è grave. E anche parecchio…»,
esclamò. Il tono da superiore e
quella leggera ma percettibile punta di arroganza l’avevano
resa la
persona più odiata di tutto il corpo insegnanti. Ma a Rosiel
non
faceva né caldo né freddo.
Arrivarono
in poco tempo fino alla presidenza.
Nicolas
Howen era comodamente seduto alla sua scrivania, teneva le dita delle
mani congiunte davanti a sé, appoggiate sul tavolo. I
capelli
brizzolati cercavano di uscire dalla tinta ormai da ripetere di un
caldo biondo scuro. Il viso severo e adulto era inclinato in una
smorfia di dissenso. Era un movimento quasi impercettibile, ma
Rosiel, che era acuto ad osservare le persone, l’aveva colto.
Il
preside faceva ripetutamente di no con la testa e abbassava la
palpebre, non velocemente come un battito di ciglia, ma più
lentamente e stancamente. Era logico ed evidente che provava un
profondo scetticismo nei suoi confronti. Questo certo non gli era
d’aiuto.
A
lato della scrivania stava in piedi la signorina Miller, che teneva
un braccio piegato sul torace e l’altro come appoggio per la
testa,
leggermente piegata in avanti. L’espressione era feroce e
arrabbiata. Non riusciva ancora a tollerare che qualcuno,
all’interno
di quella scuola, si fosse permesso di offenderla in quel modo. Aveva
sempre pensato di essere la professoressa preferita da tutti, ma dopo
quel colpo basso, aveva dovuto ricredersi. E questo non le andava
giù. Avrebbe fatto qualsiasi cosa a quel ragazzo in quel
momento.
«Signor
Black. Buongiorno», iniziò il preside quando
Rosiel fu dentro, dopo
che la Essbotton chiuse la porta alle loro spalle. Si alzò
in piedi
e fronteggiò Rosiel, porgendogli la mano.
Lui
restò immobile, fissando l’uomo negli occhi.
«So
che questa non è la situazione migliore, e di certo lo
saprà anche
lei, ma la prego di prenderla», e accennò con gli
occhi alla mano
sospesa in aria.
Rosiel
la prese con malavoglia e la strinse con altrettanta.
Non
fare il ragazzo cattivo, gli ripeteva una voce nella testa,
questi signori non lo accetteranno. Gli
sembrava la
voce di sua nonna, quando lui era ancora piccolo. Che strano sentire
quella sensazione. Cosa c’entrava sua nonna e
perché gli parlava
nella mente? Forse se lo immaginava soltanto. Forse perché
avrebbe
voluto che ci fosse stato qualcuno in grado di difenderlo e di
prendersi cura di lui, una volta tanto. Invece non c’era
nessuno.
Era solo, come lo era sempre stato.
Il
preside si ricompose e andò nuovamente a sedersi.
«Credo
che lei ci voglia dare una spiegazione per quanto successo poco fa in
cortile…».
Rosiel
continuava a pensare a quella cosa che aveva in testa. E non rispose.
«È
strano che qualcuno faccia un murale di quel tipo e si firmi
addirittura, ma certe volte accade anche, quando il colpevole ha
voglia di essere riconosciuto, magari pensando di essere
così
ammirato per il coraggio, o qualcosa del genere», fece
accompagnare
una risatina che fu imitata dalla Essbotton. La Miller e Rosiel
rimasero in silenzio.
«Quindi
non ha niente da dire?», proseguì il preside Howen.
«Non
è stata colpa mia. Io non c’entro niente. Sono
sempre stato a
lezione oggi, potete controllare o chiederlo ai professori. Ero in
classe con la Miller alla prima ora», si volse un istante
verso la
professoressa.
«Il
murale è stato fatto poco prima della pausa pranzo. Ancora
tutti gli
studenti erano in classe, e il cortile era deserto».
«Sono
stato uno dei primi a raggiungere la mensa, poi si è creata
una gran
confusione nel corridoio. Ma io sono rimasto dentro per tutto il
tempo. Non avrei motivo di mentirle».
«Vorrebbe
dire che si tratta di uno spiacevole scherzo?».
Rosiel
si limitò ad annuire.
«Potrebbe
anche essere… in quanti la conoscono per nome e
cognome?».
Rosiel
ci pensò qualche secondo, ma non riusciva a farselo venire
in mente.
«Non saprei… ma non conosco molte persone di
questa scuola»,
affermò, sinceramente.
«L’ipotesi
meno comune è che qualcuno abbia fatto delle ricerche su lei
in
particolare. Magari qualcuno a cui aveva fatto un torto e che si sia
voluto vendicare. Potrebbe trattarsi di questo?».
«Non
credo… non so», fece Rosiel incerto.
«Allora,
mi dispiace ma dobbiamo prendere provvedimenti su di lei».
«Ma
ho detto che non c’entro niente. Non potete fare quello che
vi pare
solo perché c’erano le mie iniziali, là
sopra. Non è giusto».
«Bisogna
dire che non ha incassato molti successi durante questi anni di
scuola. E molte volte si è parlato di situazioni analoghe a
questa…
o sbaglio?».
«Non
ho mai scritto parolacce verso un professore sui muri della
scuola»,
rispose Rosiel serio.
«Ho
detto analoghe, signor Black».
Il
preside lo fissò per qualche istante, come se gli sguardi
arrabbiati
e scontrosi delle altre due professoresse non bastassero.
«Tanto
per fare degli esempi: evasione dall’edificio in orario
scolastico,
mancata presenza a numerose lezioni, liti nei corridoi, incidenti
verso gli altri studenti durante le ore di educazione
fisica…».
Rosiel
non si scompose.
«Devo
continuare…?», aggiunse Howen con fare altezzoso.
Rosiel
rimase zitto. Non era il momento adatto per mettere altra carne al
fuoco e rischiare una punizione peggiore di quella che già
gli
sarebbe spettata.
«Okay.
Allora volete punirmi ora per i miei insuccessi passati… va
bene,
tanto prima o poi avrei dovuto aspettarmelo, no?».
«Non
mi piace il tono che sta assumendo», il preside
diventò serio,
iniziando a tamburellare le dita sul tavolo, ritmicamente.
Rosiel
sostenne il suo sguardo, con occhi gelidi, di ghiaccio.
Howen
prese a compilare un foglio, e parlò mentre scriveva.
«Sappia
comunque che se ci sono problemi con dei professori, è bene
discuterne con la persona interessata, in privato, non rendere
pubblica la propria opinione, è chiaro?».
«Non
dovrebbe dirlo a me questo».
Il
preside lo fulminò con lo sguardo.
«Lo
so. Quando saprò chi è stato a scrivere quella
cosa, provvederò ad
informare anche lui, ne stia certo», rimediò
Rosiel, con una punta
di sarcasmo nella voce.
Il
preside accennò un lieve sorriso, che però
scomparve
immediatamente. Dalla sua espressione, si percepì che quasi
si era
pentito di averlo fatto. Si mise a sfogliare un fascicoletto e poi
rivolse un altro sguardo a Rosiel.
«Data
la sua situazione familiare, non credo di poter parlare con nessun
parente, dico bene?».
Come
se ci fosse anche il bisogno di domandarlo, pensò
Rosiel. Fu
costretto ad annuire, controvoglia.
Forse
il preside pensava che con quel tono di voce quasi dolce e quei
gesti, potesse manifestare il dolore che provava per lui. Tutte
balle, di certo non gliene importava un accidente della sua famiglia
disastrata.
«È
sospeso per tre giorni, questo è quanto. Informeremo sua
nonna con
una lettera».
Mia
nonna è cieca, testone, pensò
nuovamente Rosiel. Sembrava che
il preside lo provocasse apposta, ma lui riusciva a rimanere calmo.
Rosiel
fece per andarsene, ma la voce del preside lo fermò ancora.
«Non
ho finito… al termine delle lezioni, esigo che sia qui per
ripulire
il murale. Puntuale».
Rosiel
fu sul punto di ribattere, ma alla fine lasciò perdere. Non
c’era
più niente da fare.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
-
4 -
Il
Passato di Rosiel Black
Sabato
undici maggio, 1991.
«Ehi
Lou! Vieni qui, c’è bisogno di te!».
Lou
Black bevve un altro sorso dal suo calice, lo
appoggiò sul tavolo basso davanti al divano sul quale era
seduto e baciò la
ragazza che le stava accanto, tra i capelli. Teneva Lily Elliot stretta
contro
di sé, mentre guardavano insieme gli altri ragazzi, dalla
loro comoda
postazione sul divano. Iniziò a ridere quando
sentì che lo chiamavano e levò il
braccio da sopra le spalle di Lily.
«Torno
subito», sussurrò al suo orecchio e si
alzò,
mentre lei trangugiava un altro po’ di alcool.
Lily
seguì il suo ragazzo con lo sguardo mentre stava
raggiungendo un gruppetto in cucina, indaffarato attorno a qualcosa che
non
riuscì a cogliere.
Si
sentiva così felice in quel momento. La vita
universitaria era un vero sballo.
Poco
dopo una ragazza si buttò sul divano accanto a
lei. «Lily! Ti stai divertendo?». Era evidente che
la ragazza fosse un po’
brilla. Aveva la faccia paonazza e la risatina facile.
Lily,
con la sua solita semplicità, le sorrise e annuì,
scatenando in Claire un’altra risata argentina.
In
quel momento riapparve Lou, che si sedette sul
bracciolo del divano accanto a Lily e si sporse verso di lei, fino a
incontrare
le sue labbra in un lungo bacio. Claire si alzò e se ne
andò, trotterellando
verso la prossima persona sulla sua strada con cui scambiare qualche
parola.
«Vuoi
venire di là, amore mio?», mormorò Lou,
rimanendo
appiccicato al viso di Lily.
«Perché,
che succede?».
«Fanno
il brindisi a Michael», rispose ancora lui,
strusciando il viso contro quello della sua innamorata, lievemente.
Lily
chiuse gli occhi qualche istante, sentendolo
contro la sua pelle. Poi decise di alzarsi, lo fece improvvisamente,
lasciandolo imbambolato.
Lou
le rivolse uno sguardo contrariato, ma lei gli
sorrise ugualmente e gli prese il viso tra le mani. Quando
parlò, lo fece ad un
nulla dalle sue labbra.
«Andiamo
a brindare a Michael, okay», si alzò e si
diresse verso la cucina, mentre Lou grugnì qualcosa e la
seguì, quasi
correndole dietro.
In
cucina, si erano pressoché riuniti tutti attorno al
tavolo sul quale stavano, una torta alla panna, alcune bottiglie e
calici di
vetro. Quando Lily e Lou arrivarono furono accolti da alcuni che li
avvisarono
su cosa sarebbe successo.
«Tra
poco arriverà Michael che ovviamente non sospetta
di niente. Mi raccomando gridiamo forte e facciamo tintinnare questi
bicchieri!».
Lou
scoppiò a ridere e guardò Lily al suo fianco che
faceva lo stesso. Le cinse le spalle con un braccio e la
baciò ancora tra i
capelli. Adorava tenere Lily stretta a sé. Era
così minuta, era semplicemente
perfetta ai suoi occhi. E quei capelli. Lou amava baciarla in mezzo ai
capelli,
così soffici e profumati.
In
quel momento entrarono Michael, il ragazzo che
quella mattina si era laureato, insieme a Janna, una delle ragazze
più
apprezzate del campus. Lui era indaffarato a parlare, così
preso dalla sua
accompagnatrice che non si rese conto di tutti i suoi amici radunati
lì. Quando
scattarono le grida e scoppiarono le stelle filanti, Michael rimase di
stucco,
totalmente sorpreso. Iniziò a ridere quando due ragazzi lo
abbracciarono e
quando la folla si accalcò su di lui. Uno di loro
portò il tocco, il classico
cappello da laureato e glielo fece indossare. Poi Michael
imitò il gesto che
aveva fatto quella stessa mattina davanti ad una gran folla di persone,
e con
grande gioia sul volto spostò il pennacchio sul lato opposto
del tocco. Scattò
l’applauso, mentre lui gridava cose del tipo: “Ce
l’ho fatta!”, “stanotte
brucerò tutti i libri!”, e, “grazie
ragazzi, siete unici”.
Si
accerchiarono tutti attorno al tavolo e riempirono i
bicchieri con lo champagne. Lo sbattere dei calici l’uno
contro l’altro divenne
presto assordante e riempì la stanza senza lasciare spazio a
nient’altro.
Una
ragazza, che al campus faceva parte del giornale
scolastico, si offrì di tagliare la torta e fu affiancata da
qualche sua amica.
Nel frattempo molta gente si era allontanata per i fatti propri, alcuni
erano
in salotto, altri attorno al tavolo degli alcolici, altri avevano
raggiunto
l’esterno e si erano messi a fumare sulla terrazza.
Lou
appoggiò le mani attorno alla vita di Lily e la
abbracciò con impulso. Lei rise e cercò di
allontanarlo. Erano un tantino in
mezzo, dato che si trovavano presso la porta attraverso cui la gente
usciva ed
entrava.
Lily
cercò di spingerlo via, e il risultato fu che lui
sbatté contro la parete della cucina e continuò
tuttavia a starle avvinghiato.
«Lou!»,
ridacchiò lei.
Lui
la liberò e la prese per mano, con un sorrisetto
febbricitante sul viso.
La
trasportò fino al corridoio dove la gente era meno
accalcata e si andò a sedere sui primi gradini della scala
che portava al piano
di sopra. Lily gli sedette accanto e non fece in tempo a dire qualcosa
che Lou
le fu addosso, baciandola con intensità e bramosia.
Lily
questa volta non lo allontanò, non ne aveva
voglia. Quello che desiderava era solo stare ancora con lui, sempre
più tempo
con lui. Impazziva per lui, lo amava con tutta sé stessa.
Passò
le mani tra i suoi capelli disordinati di quel
biondo così chiaro che la mandava in delirio. E sentiva che
lui faceva lo
stesso, risalendo con la mano la sua schiena, e toccandole i capelli,
fino al
collo e al profilo del viso.
«Ehm
ehm».
Si
sciolsero all’istante. Alcune ragazze erano in piedi
davanti a loro con facce più o meno imbarazzate.
«Scusate, dovremmo andare in
bagno», proferì una di loro, alzando le
sopracciglia e fissando i due ragazzi
con un sorrisetto inopportuno.
«Ah…»,
fece Lily, non riuscendo a trattenere una
risata. Si alzò e fece spazio alle ragazze per passare. Lou
rimase seduto, con
una mano tra i capelli, evidentemente seccato.
Le
tre passarono oltre, accelerando il passo sulle
scale.
Lou
sospirò, quando lo scalpiccio non fu più udibile.
«Che seccatura, queste stupide», si
lamentò.
«Dai,
non prenderla male. Non è colpa loro se devono
andare in bagno», fece Lily in tono pacato e leggermente
divertito.
«Ma
è colpa loro se siamo stati interrotti. E a me
stanno sulle palle quelli che m’interrompono quando sono
impegnato con te».
Lily
scoppiò a ridere. «Dai, andiamo di
là».
Si
girò, ma Lou la prese per un braccio, costringendola
a voltarsi. «Dai!», lo incitò lei.
Lou
mugugnò, in tono scocciato. «Torna qui»,
la tirò
ancora più verso di sé, e Lily non
riuscì più a porgli resistenza; cadde sulle
sue ginocchia.
«Torniamo
in cucina, ora avranno tagliato la torta, e
ci aspetta il nostro pezzo».
«Chi
se ne frega della torta».
Lou
la baciò di nuovo e Lily rispose spingendolo
leggermente indietro, contro il profilo dello scalino. Lui
mugugnò quando la
sua schiena incontrò lo spigolo, ma non lasciò le
labbra di Lily, fino a quando
non lo fece lei.
«Alzati
da qui», gli alitò contro.
«Sei
troppo bella perché io possa resisterti», rispose
Lou, sporgendosi sempre di più verso Lily che gli si stava
allontanando a poco
a poco.
Alla
fine riuscirono a tornare in cucina, ma un attimo
prima videro scendere le tre ragazze di prima dalle scale. Lou le
guardò subito
male, dall’uscio della porta. In tre in bagno in
così poco tempo? Gli pareva
strano e stava pensando se non lo avessero fatto apposta solo per il
gusto di
infastidirli. Comunque non ci diede più importanza e
seguì Lily al tavolo.
La
torta era squisita, alla panna, frutti di bosco e
limone, decorata con zuccherini colorati.
Si
erano appartati in un angolo a consumare la loro
fetta di torta, quando Michael li raggiunse.
«Ehi,
ragazzi!», diede una pacca a Lou e guardò Lily,
«come ve la passate? Vi piace la festa?», Lily
notò subito che anche lui aveva
preso il volo per il pianeta alcool.
«Tutto
bene, la festa è stupenda. E complimenti per la
laurea, Michael!», fece Lily, entusiasta.
Michael
grugnì una risata. «Grazie Lily! E anche a te
Lou!», diede un’altra pacca a
quest’ultimo e si allontanò incespicando.
«Torno
subito», disse Lou, lasciando il suo piatto in
mano a Lily.
Lei
lo osservò mentre si faceva spazio tra alcuni
ragazzi, poi lo perse di vista.
Lily
continuava a guardare in quella direzione, ma Lou
non tornava. Divenne irrequieta in quell’attesa. Non le
piaceva che Lou la
lasciasse sola. Lo vide tornare un po’ dopo con qualcosa in
mano. La raggiunse,
si riprese il suo piatto e le porse una bottiglia di birra.
Un’altra, quella
sarà stata la quarta della serata.
Lou
le sorrise. Per un attimo Lily restò frastornata
mentre la guardava. E si rendeva sempre più contro di quanto
le piacesse quando
lui sorrideva. Quando lo faceva per lei.
Lou
aveva appoggiato il piatto su un tavolino, accanto
ad una foto incorniciata e disposta sopra ad un centrino. Bevve un
sorso dalla
bottiglia, che aveva già stappato personalmente.
Lily
bevve a sua volta. Si accorse che Lou aveva in
mano anche un pacchetto di sigarette. Lo stava aprendo e ne stava
estraendo
una. Poi un’altra, quella per lei.
Gliela
porse e la prese per mano. Lily non riuscì a
capire cosa stesse succedendo: all’improvviso si sentiva
più intontita e non
sapeva bene il perché. Semplicemente si lasciò
trasportare da Lou. Quando fu in
grado di percepire meglio ciò che aveva attorno,
capì che lui girava per la
casa alla ricerca di qualcuno che avesse da accendere. Alla fine
aprì l’anta
della porta finestra e accedette al terrazzo, con Lily dietro. Due tizi
erano
concentrati in lunghe tirate dirette alla luna e alle stelle.
Quel
terrazzo non era eccessivamente grande, o almeno
era tanto grande quanto un normale terrazzo lo può essere.
Lou porse la
sigaretta e uno dei due ragazzi prese l’accendino dalla tasca
dei pantaloni, e
con flemma gliela accese.
Lily
mostrò a sua volta la sua e il tizio eseguì lo
stesso gesto anche con lei. Lou cinse Lily per le spalle e la
trascinò verso un
angolo della terrazza. Gli altri due si strinsero sul lato opposto.
Lou
diede una lunga tirata, fino a che la punta della
sigaretta si illuminò così tanto da diventare una
lucciola nella notte e poi se
la tolse di bocca e lasciò uscire il fumo.
Lily
sentiva la testa girarle. Temeva di cadere di
sotto. E non le pareva nemmeno sciocco pensarlo. Si appoggiò
al petto di Lou e
affondò il viso contro di lui, che le rivolse
un’occhiata incerta, dubbiosa, ma
le coprì le spalle con il braccio e le accarezzò
dolcemente i capelli.
Lou
aveva quasi finito la sigaretta quando i due
ragazzi sul terrazzino rientrarono in casa, con fugaci e indecifrabili
mormorii.
Scostò
Lily da sé e la prese per le spalle. «Piccola,
stai bene?».
Lily
mosse un po’ il capo su e giù.
«Non
ti va di fumare?».
«Non
ora… scusa».
Lui
la guardò corrucciato. «Ma che scusa. Non ti
costringo mica, amore mio», le diede un leggero bacio sulle
labbra, chinandosi
verso di lei.
Lily
si staccò e grugnì. «Hai puzzo di
fumo», gemette.
Lou
scoppiò a ridere e guardò il cielo cupo della
notte
sopra di loro.
Parecchie
sigarette, un po’ di birre e qualche alcolico
dopo, Lou si era completamente steso sul divano; teneva un braccio
giù e uno in
alto, appoggiato contro lo schienale. Aveva gli occhi chiusi e il volto
arrossato, qualche volta apriva bocca per gemere qualcosa di
incomprensibile.
Lily
era in stato migliore del suo, aveva bevuto e
fumato di meno, o comunque lei riusciva a sopportare di più.
Se ne stava con la
schiena contro lo stipite della porta, e teneva lo sguardo triste fisso
su Lou.
«Lily»,
la chiamò qualcuno.
Lei
si voltò e sorrise debolmente a Claire, in piedi
lì
accanto.
«Tutto
bene?», domandò quest’ultima.
Lily
annuì. «Tu ti sei ripresa da prima,
vedo»,
accennò.
Claire
scoppiò a ridere. «Ora mi sento un po’
meglio,
ma davvero ero così stupida?».
Anche
Lily rise. Si voltò ancora verso Lou, disteso e
lamentevole e le ritornò per qualche istante quel maledetto
sguardo assente.
A
Claire non sfuggì. Le bastò seguire la
traiettoria
degli occhi di Lily per capire qual’era il problema.
«È
ancora ubriaco, eh?».
Lily
annuì.
«Ti
spaventa?».
«Ho
paura per lui, per la sua salute. Non dovrebbe
esagerare in questa maniera, ma non c’e modo per farglielo
capire».
Claire
le sfiorò un braccio. «Da che lo conosco io,
è
sempre stato così e non ha mai ceduto. È forte,
una vera roccia».
Lily
sorrise stancamente. Poi Lou si alzò, e Lily ebbe
un sussulto. Barcollò, ma alla fine riuscì a
mettersi in piedi. Ciondolò fino a
raggiungerla e le cadde addosso, buttandole un braccio attorno alle
spalle.
Claire
sorrise sebbene la sua espressione fosse
preoccupata. «Ehm, ciao Lou».
«Claire»,
la salutò semplicemente lui, con un cenno del
capo.
«Scusate,
vado un attimo…», le ultime parole si persero
o forse Claire non le disse nemmeno. Si allontanò verso il
piano superiore
buttandosi qualche occhiata fugace alle spalle.
«Di
che parlavate?», chiese Lou, fissando Lily negli
occhi da quella distanza ristretta.
Lei
gli sorrise un poco. «Di questo e di quello»,
rispose vagamente.
«E
chi sarebbero questi tizi?», fece lui sarcastico,
mentre le ultime parole si spegnevano sulle labbra di lei. Lou la
baciò
delicatamente, stringendola con forza verso di sé.
«Ma
quanto sei ubriaco?», fece Lily.
«Molto.
A meno che tu non abbia due occhi in più»,
disse lui, ridendo.
Lily
rimase immobile e gli rivolse un’occhiata sconcertata.
«Scherzo»,
mormorò lui in tutta risposta, stando con il
profilo attaccato al suo. Lily sorrise appena, ma senza guardarlo in
faccia.
«Cosa
vuoi fare?», riprese Lou.
Lily
alzò le spalle.
«Ma
che ore sono?», si voltò alla ricerca di un
orologio, ma senza abbandonare la ragazza dalla sua stretta. Ne
incrociò uno
con lo sguardo: indicava le tre di notte passate.
Lou
fischiò e si voltò di nuovo verso Lily.
«Sono le
tre e un quarto!», esclamò, euforico.
«Cosa?
Accidenti, ma domani dobbiamo andare dai tuoi
genitori!».
Lou
si corrucciò. «Che dici? Sul serio? È
domani?».
«È
già oggi».
«No,
dannazione!».
«Non
pensavo che avremmo fatto così tardi alla festa.
Che facciamo, andiamo?».
Lou
sorrise. «Scherzi? Io voglio restare, voglio
divertirmi ancora con te».
«Ma
Lou! Se faremo tardi non avremo il tempo per
riposarci e arriveremo a casa dei tuoi come due zombie!»,
esclamò Lily con
enfasi.
Lou
fece una smorfia. «Dobbiamo andarcene, allora.
Cerchiamo Michael».
Lo
trovarono poco dopo, intento a sbaciucchiarsi nel sottoscala
con Janna. Lou si chinò quel poco che bastava per
intravederli nella penombra.
Si schiarì la voce rumorosamente e ottenne la loro
attenzione. Entrambi gli
rivolsero occhiate interrogative, cercando di capire per quale motivo
lui e
Lily li avevano interrotti.
Lou
si grattò con un dito la testa. «Michael, noi
dobbiamo andare. Non possiamo tardare più di
così…».
Michael
cercò di mettersi in piedi, e sebbene con
qualche difficoltà, ci riuscì.
«Ah,
ve ne andate, ragazzi?», chiese. Pareva piuttosto
intontito. E di sicuro non c’entrava solo la ragazza.
«Purtroppo
sì. Abbiamo un impegno più tardi, dobbiamo
arrivare al campus e recuperare un po’ di sonno perduto,
percui…».
«Capisco.
Allora ci sentiamo. Io lascio il campus, ma
ho intenzione di rimanere in contatto con certi amici»,
Michael sorrise.
«Perfetto»,
intervenne Lily, entusiasta.
«Comunque
ancora complimenti e grazie per la bella
nottata», fece Lou.
Michael
fece un gesto con la mano. «Grazie a voi per
essere venuti».
Li
abbracciò entrambi e quando si furono allontanati,
ritornò a sedersi accanto a Janna.
Lou
e Lily fecero un breve giro a salutare quelli che
riuscivano ad incontrare. Poi uscirono all’aperto e si
diressero alla loro
auto.
Lily
corse verso il suo sportello, ma Lou la raggiunse
e la bloccò contro quello. Lei lo fissò sorpresa,
anche se le stava comparendo
un sorriso esaltato.
«Cosa
fai?», chiese.
«Lasciami
concludere in bellezza questa notte», gli
sussurrò lui all’orecchio.
Le
baciò i capelli e scese lungo il profilo del collo.
Lily sentì un brivido correrle lungo la schiena. Lou scese
fino alla spalla,
allargandole la maglietta per sfiorarle la pelle. Lily lo
abbracciò,
appoggiandogli le braccia sulle spalle e poi gli toccò i
capelli e lo spinse
contro di sé. Lo tenne stretto, e nascose il viso contro la
sua spalla. Lou
rimase stupito. Era quasi pigiato verso la carrozzeria
dell’auto, così abbassò
il capo sul collo di lei e la strinse per la vita. Rimasero avvinghiati
per
qualche momento, poi lei si staccò e lo allontanò
quel poco per guardargli il
viso.
«È
tutto okay?», chiese lui, leggermente preoccupato.
«Torniamo
al campus», mormorò Lily. Lo baciò
un’ultima
volta, poi lo spinse via e si infilò in auto, mentre anche
lui raggiungeva il
suo posto.
Lou
aveva la vista appannata. Forse non aveva poi tanto
esagerato prima, quando aveva detto a Lily di vederla con quattro
occhi, due
sopra e due sotto. Si sfregò un’altra volta il
viso con la mano, ma non
cambiava poi molto. E poi la testa. Gli girava come una giostra per
bambini e
gli bruciava. Era insopportabile.
«Vai
più piano», mugugnò Lily, buttando
un’occhiata al
contatore sul cruscotto, che indicava i centodieci.
Ma
la strada era deserta e Lou non riusciva a mollare
il pedale. Un’ampia curva lo fece frenare quasi di colpo; la
prese piuttosto
male e una volta superata ritornò alla velocità
precedente.
«Hai
una sigaretta?», domandò Lily.
«Ehm…
dovrebbero essere lì, da qualche parte»,
indicò
uno scompartimento sotto alla radio, spenta.
Lily
ci frugò e trovò una sigaretta e
l’accendino.
L’accese, tirò e aprì il finestrino,
sporgendo fuori la mano. Lily non aveva
fumato quasi per niente quella sera, e ora gli era venuta voglia. O
semplicemente aveva trovato qualcosa di diversivo da fare che fissare
la strada
buia.
«Me
la passi un attimo?», chiese Lou, buttandole fugaci
occhiate.
Lily
lo guardò accigliata.
«Ti
prego, amore. Solo una volta», supplicò lui.
Lily
sospirò e gliela allungò. Lou fece illuminare la
punta di rosso acceso e, dopo che lei gliela tolse, buttò
fuori il fumo, che
fece capriole per l’abitacolo fino a trovare la via
d’uscita dal finestrino.
Lou
sbuffò annoiato e spinse sull’acceleratore.
«Non
andare così veloce», lo ammonì Lily.
Lou
fu sul punto di rispondere, ma in quel momento
tutto si svolse molto rapidamente.
Lou
abbassò per un istante gli occhi al cruscotto, per
tenere d’occhio la situazione, quando dalla selva ai lati
della strada,
improvviso e inaspettato uscì fuori un animale; con molta
probabilità si
trattava di un cervo. Era notte ed era scuro; in quella strada di
campagna non
c’erano luci artificiali ad illuminarla. Solo i fari della
macchina.
Lily
aveva lo sguardo impegnato fuori dal finestrino, e
solo nel momento in cui lo spostò sulla via si accorse del
pericolo. Cacciò un
urlo che fece sobbalzare Lou. Lui frenò di colpo, il cervo
si buttò contro
l’auto che sbandò e si diresse dritta in mezzo
alla selva, contro un albero.
L’urlo
di Lily si affievolì in quell’attimo.
L’urto fu
terribile. Lou fu sbalzato contro il finestrino e si ferì la
testa. Poi rimase
inerte contro il sedile. Lily fu scaraventata verso Lou,
sentì la testa
mancargli, e perse conoscenza.
Quando
il campanello suonò, Cordelia aprì gli occhi, in
seguito ad un sussulto. Impiegò qualche secondo per
focalizzare l’ambiente
circostante. Era mattina: dalle imposte semichiuse filtrava qualche
debole
raggio di sole, ma non abbastanza da illuminare profondamente la
stanza. Sbatté
gli occhi e si alzò dal letto, guardandosi intorno.
François
riposava dall’altra parte del letto,
tranquillo.
Cordelia
si strinse nella camicia da notte e lasciò la
stanza ancora assonnata, chiedendosi chi potesse essere stato a suonare
a
quell’ora.
Scese
le scale e notò l’ombra di una sagoma alta al di
là della porta. Arrivò e
l’aprì.
Dall’altra
parte c’era un poliziotto, con la divisa blu
scuro. Le rivolse una breve occhiata, e non fece tanto caso alla
camicia da
notte e all’aria stordita.
Semplicemente
si tolse il cappello, tenendolo stretto
tra le mani.
Cordelia
non riusciva a capire, non riusciva a
immaginare per quale motivo quel signore potesse essere lì,
davanti alla porta
di casa a quell’ora. E soprattutto perché non
diceva niente, perché non si
spiegava?
«Sì?»,
domandò alla fine lei, impaziente.
«Salve,
signora. È lei la madre di Lou Black?».
Cordelia
si corrugò, ma annuì.
«Mi
dispiace dirglielo, ma suo figlio e una ragazza,
identificata come Lily Elliot, sono stati trovati sulla
quarantasettesima,
dentro un’auto finita contro un albero».
Cordelia
si immobilizzò e la sua espressione si fece
inquieta, angosciata.
«Mi
dispiace, ma non ce l’hanno fatta».
Cordelia
sentì come se il cuore le si fosse fermato nel
petto. Che diavolo diceva quel tizio? Era forse uno scherzo?
Dov’erano suo
figlio e Lily realmente? Possibile che fosse tutto falso? Possibile che
quell’agente fosse venuto fin lì per dirle una
sciocchezza, una sciocchezza
così pesante? Ma come poteva essere tutto vero? Aveva
sentito suo figlio per
telefono qualche giorno prima, e gli aveva parlato
dell’università che andava
tutto bene, e di Lily di cui era innamorato pazzamente. E Cordelia era
stata
felice per lui, lo aveva incoraggiato e aveva sorriso più
volte alla cornetta,
desiderando di vedere il suo viso mentre gli riferiva i suoi successi.
E
ora?
Come
era potuto succedere? Come potevano dirle una cosa
del genere? Non lo avrebbe mai più rivisto, non avrebbe mai
più sentito la sua
voce. Non lo avrebbe mai più visto così felice
come lui le diceva di essere.
Il
poliziotto continuava a parlare, ma a Cordelia
parevano tutte parole perse, lontane. Non le ascoltava, non ci
riusciva. Come
se qualcuno le avesse introdotto un batuffolo di ovatta nella testa, e
non
riuscisse più a comprendere niente.
Sentì
qualcuno sfiorarle la schiena. Si voltò quel poco
che bastava per incontrare François, che l’aveva
raggiunta e guardava stranito
l’agente di polizia.
L’uomo
rivolse anche a lui uno sguardo afflitto e
triste.
Cordelia
sentì il viso bagnato, umido di lacrime. Il
poliziotto fece un piccolo inchino con il capo, e si congedò
da loro, con
un’espressione che sapeva di mestizia.
François
chiuse la porta e prese Cordelia tra le sue
braccia, mentre lei piangeva senza controllo. La strinse contro il suo
petto,
mentre lei si era nascosta il volto tra le mani, disperata.
Più la stringeva e
la accarezzava, più sentiva la malinconia salirgli, un grave
senso di
tristezza. Un terribile vuoto di stomaco si impadronì di
lui. Fece un smorfia, ma
anche per lui, le lacrime avevano avuto il via libera. Era sul limitare
delle
scale, quando aveva udito le parole dell’agente.
Ma
davvero non sarebbe più tornato? Ma davvero non lo
avrebbe mai più rivisto? Eppure aveva solo
ventitré anni, come poteva essere
possibile abbandonare il mondo a soli ventitré anni? E Lily,
quella ragazza che
gli era piaciuta così tanto dal primo momento? Come era
possibile che non li
avrebbe mai più visti, nessuno dei due?
Il
pianto di un bambino soggiunse dal piano superiore.
Doveva essere stato svegliato dai loro lamenti e dal loro pianto.
Cordelia
si staccò da suo marito, e provò ad asciugarsi
le lacrime con la manica della vestaglia. François le
toccò una spalla, come
per infonderle forza.
Il
pianto del bambino era sempre più forte, pareva
tanto disperato quanto lo era stato il loro.
Salirono
le scale, entrambi tenendosi stretti alla
spalliera, per non cedere.
Arrivarono
alla stanza di Rosiel; Cordelia lo prese in
braccio e lo tenne stretto contro il suo petto, cullandolo avanti e
indietro. E
nel frattempo piangeva. François
l’abbracciò di nuovo, stringendo anche Rosiel
in mezzo a loro.
E
quando fu circondato dai suoi nonni, il bambino si
tranquillizzò e alla fine, sorrise.
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