Where The Sun Dies

di candycotton
(/viewuser.php?uid=57157)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Questa è una storia scritta a quattro mani con flyingangel. Speriamo che possa venire letta e apprezzata. Buona lettura!

Where the Sun dies

- 1 - 

 

Il pentolino fischiò e Ben Strawers spense la manopola del gas, versando l’acqua calda in una tazza, dove c’era già una bustina di tè. Poi, prese un pacchetto di biscotti secchi e trotterellò fino alla sua amata poltrona, davanti alla televisione accesa.

Si lasciò cadere sul morbido cuscino e iniziò ad inzuppare i biscotti nel tè caldo. Mentre i suoi occhi inseguivano le luci e le immagini che trasmetteva la televisione, un rumore alle sue spalle colse la sua attenzione. Ben alzò lo sguardo, in ascolto. Le sue sopracciglia s’incresparono. 

Poi, di nuovo un rumore. Anzi, di più. Erano strilla umane. Ben si alzò e si avvicinò alla finestra. Scostò lentamente la tendina color indaco e il suo occhio scrutò fuori.

In mezzo alle piante, c’era qualcuno. Ben aguzzò la vista, ma l’età non era a suo favore. Grugnì, poi si scostò un momento per prendere gli occhiali sul comodino accanto alla finestra. Li inforcò e tornò a guardare oltre il vetro.

Questa volta, scorse qualche ombra nell’oscurità. Non aveva dubbi che ci fosse qualcuno, tutto stava nel capire chi.

Pareva che quella fosse la sua serata fortunata. Le figure si stavano facendo più vicine. Già, stavano inseguendo qualcuno. Ecco perché gli sembrava che corressero verso casa sua. Ben fece uno scatto, quando in un secondo gli parve di poter essere visto. Poi scostò di nuovo la tenda di pochissimi centimetri, e tornò a guardare.

Ora, le figure erano molto più vicine, e ferme. Avevano catturato la loro preda, e ora quest'ultima stava urlando. Ma le sue grida disperate furono presto soffocate, sotto l’occhio di Ben. Si staccò dalla finestra, come se avesse finalmente scoperto quello di cui aveva bisogno. Raggiunse il telefono, digitò in fretta un numero e si accostò il ricevitore all’orecchio.

La voce di una ragazza che masticava una cicca gli rispose dall’altro capo. «Polizia di Port Wing». E il suo tono suonava come una domanda.

Strawers era tornato a sbirciare oltre lo spiraglio della tenda. Cercò di dare un tono di affanno alla sua voce. «Ho sentito degli strani rumori vicino casa mia… credo ci siano dei ladri… per favore mandi qualcuno a controllare…», disse ansimando.

La ragazza parve restare piuttosto tranquilla. Continuò a parlare con la voce strascicata. «Dove si trova?».

Ben le disse il nome della via e il numero civico. Lui abitava in una zona ai limiti di Port Wing, al limitare del bosco.

«Va bene, stia tranquillo, tra breve arriverà qualcuno».

Ben Strawers la ringraziò e chiuse la chiamata. L’angolo delle sue labbra si piegò all’insù.

 

«Albert! Che diavolo stai facendo?», sbraitò una ragazza dai capelli rossi, dall'aria civettuola e affascinante.

Un altro ragazzo, dai capelli biondo oro, spostò gli occhi su di lei. «Che vuoi?», rispose, secco.

«Ti pare il modo? Lasciane un po' anche a noi!», continuò lei, spostandosi verso Albert.

«Felicia», lui affilò lo sguardo in quello di lei, «smettila di gridare».

Felicia gli lanciò un'occhiataccia, affilata e aggressiva. «Grey, Vincent se non alzate le chiappe Albert si mangerà tutto questo... adorabile essere umano...», disse lei, sfiorando il mento dell'uomo accasciato a terra.

Lui parlò in quel momento. «Vi prego, lasciatemi andare», mormorò, sfinito. Evidentemente, non riusciva a muoversi. I suoi occhi erano pieni di pietà, e paura. Stava delirando.

Felicia digrignò i denti. «Taci».

Un altro ragazzo, si mosse verso l'uomo, finendo in ginocchio sopra di lui. «Paura?», fece schioccare la lingua contro di lui.

«Vi prego! Non cibatevi di me, vi prego! Vi darò tutto il sangue che volete!», blaterò l'uomo, in confusione.

Felicia rise di gusto, e accanto a lei figurò un altro ragazzo, alto e dai capelli castani. Le rivolse un'occhiata di sbieco.

«Vincent, non è ora di fare il bravo ragazzo», mugugnò lei, guardandolo.

Albert appoggiò una mano sulla schiena del ragazzo in ginocchio. «Grey, che ne diresti di dividere la parte sinistra?», si leccò le labbra avide.

Grey gli lanciò un'occhiata di intesa, sorridendo.

«Sentite... vi prego...», ricominciò l'uomo a terra, in tono che implorava pietà. Cercò di muoversi, ma inutilmente.

«Smettila... di... parlare!», urlò Felicia, aggredendolo. Si avventò su di lui, affondando le unghie sulle vene del suo collo. Quest'ultimo gridò ferocemente per l'ultima volta. Poi non si sentì più nulla provenire da lui.

«Ora sì che sto meglio», Felicia si leccò il sangue luccicante dalle labbra, rialzandosi in piedi.

In un secondo, Albert, Grey e Vincent bevvero a loro volta dall'uomo, succhiandone altro sangue.

Felicia rise avidamente, le mani sui fianchi.

Un rumore improvviso sopraggiunse alle sue spalle, facendola voltare. Felicia fece una smorfia, sgranando gli occhi. Vide un ragazzo biondo fissare i tre vampiri a terra che si cibavano dell'uomo. Poi, guardò lei, sorpreso.

«Ragazzi, andiamocene!», urlò Felicia, frettolosamente, lanciando uno sguardo a terra, che venne ricambiato. I tre si alzarono, notando il ragazzo.

«É un licantropo», sussurrò Vincent all'orecchio di Grey. Quest'ultimo annuì, irritato.

Il ragazzo fissò il cadavere e poi puntò lo sguardo su di loro, alzando le sopracciglia. «L'avete appena ucciso?», mormorò, guardandoli con disgusto, ad uno ad uno.

«Non credo siano affari tuoi, licantropo», disse Albert, a denti stretti.

«Mi chiamo Darren», rispose scocciato il licantropo, lanciando loro un'occhiata. «Arriverà la polizia, allora».

Felicia si voltò indietro, in quel momento, avvertendo la sirena dell'auto della Polizia avvicinarsi alla zona. Poi, affondò gli occhi in quelli dei suoi compagni. Spostò la testa di lato. «Andiamocene».

Darren li scrutò, mentre si mossero appena e in un secondo erano già spariti. La sirena si fece più vicina. Darren si girò, avvertendo alcune voci. Dovevano essere i poliziotti. Poi scappò velocemente anche lui.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


- 2 -


Quando scesero dall’auto, l’aria fresca di Port Wing sferzò i loro visi. Erano appena arrivati in quella cittadina sperduta nel Wisconsin e già sembrava a loro troppo piccola.

Era finalmente arrivato il giorno in cui Kosari Iendo e suo figlio Ville si trasferirono in America. Era già da parecchi anni che cambiavano casa, dal Giappone all’America, per poi tornare di nuovo in Giappone. Ora erano di nuovo lì. E Ville era felice di esserci. Finalmente avrebbe potuto rincontrare i suoi amici.

Suo padre aveva comprato un locale, all’ingresso dell’autostrada: il Velvet. Ma Ville sapeva che suo padre non era salito su un aereo soltanto per incrementare i suoi affari: ma anche per qualche faccenda del suo passato, che riteneva irrisolta, e che aveva intenzione di riportare alla luce.

Ville non si era mai sentito troppo legato a Kosari. Non parlavano quasi mai, loro due. Da quando erano scesi dall’auto, Kosari pareva eccessivamente contento e sorridente, cosa che Ville non vedeva da tanto tempo. O che probabilmente non aveva mai visto per davvero.

Alzò lo sguardo al cielo e poi sul grande edificio che gli si stagliava davanti. Era una villa immensa, e di eccellente architettura.

«Figliolo, siamo arrivati», annunciò suo padre orgogliosamente, respirando a pieni polmoni l’aria pulita e avviandosi lungo il sentiero di ghiaia.

Ville sospirò e lo guardò allontanarsi: camminava dritto e fiero come un re che va a sedersi sul proprio trono. Un altro sospiro e raggiunse suo padre.


Quella sera non era delle migliori. Il lavoro, al Velvet Diner, era notevole e tutti dovevano darsi da fare per non rischiare di rimanere indietro.

Un ragazzo, con un bel viso e gli occhi chiari come il ghiaccio, indossò la retina bianca, racchiudendoci dentro una chioma di capelli biondissimi, quasi bianchi che gli arrivava di poco fin sotto le spalle. Rosiel uscì dalla cucina, dove l’odore di carne e spezie impregnava l’aria.

Si affrettò al bancone, e si sistemò dietro ad un monitor, pronto a prendere le ordinazioni.

Subito una famiglia composta da quattro persone si fece avanti. Il padre iniziò a parlare, mentre le sue due figlie, di non più di una decina d’anni, fissavano curiose Rosiel. Lui rispose con un mezzo sorriso, mentre premeva sul monitor le ordinazioni.

«Diciotto dollari e settanta», dichiarò.

Il padre pagò immediatamente, il denaro già pronto in mano.

Rosiel incassò i soldi. «Arrivano subito», concluse, sorridendo ancora alle bambine che lo guardavano e chiacchieravano con le loro vocine squillanti.

Diede loro le spalle e si affacciò allo scorcio che dava alla cucina, poi rimase in attesa, fino a quando le scatoline contenenti gli hamburger arrivarono. Rosiel appoggiò tutto su due vassoi, infine aggiunse le patatine fritte e due bicchieri di Coca-Cola.

La famiglia si allontanò verso un tavolo, in fondo alla sala.

E una è andata pensò Rosiel. Non era entrato da molto tempo in quella tavola calda, ma dopotutto doveva pur accontentarsi. Non era un lavoro così brutto, se lo si prendeva con lo spirito giusto. E anche la paga non era niente male, almeno per un ragazzo di diciassette anni. Rosiel lavorava solo di sera e non tutti i giorni, e comunque andasse il lavoro, cercava di farselo piacere.

Servì altri quattro o cinque clienti. Con gioia notò che la gente andava diminuendo; buttò un’occhiata all’orario: le nove. Per molti era ora di tornare a casa.

La porta si aprì nuovamente.

«Rosiel!», una voce familiare lo raggiunse. Si voltò, incontrando i volti familiari dei suoi amici, sulla soglia della porta.

Chris, apparentemente tranquillo come spesso si mostrava, portava i suoi capelli rossi in disordine, lunghi fin sotto le orecchie. Con gli occhi vagò sulle persone sedute, fino ad arrivare su Rosiel.

La prima era Virginia, che quella sera sembrava euforica. Era stata lei a chiamarlo. Si appoggiò al bancone. Passò una mano tra i suoi capelli neri e fissò Rosiel.

Dietro di lei si trovava Angelina. Aveva il viso infantile, e i capelli biondo chiaro la rendevano riconoscibile tra la folla. Si appoggiò a sua volta sul bancone.

«Rosiel, cinque minuti», lo avvertì un ragazzo, che si occupava sia della cucina che delle ordinazioni. Era uno più grande di loro, e quello era il suo lavoro fisso. Lanciò una breve occhiata e un impercettibile cenno del capo ai tre appena entrati, poi riprese a lavorare, rivolgendo la sua attenzione ad un cliente.

Rosiel si volse agli altri con un enorme sorriso.

«Ciao ragazzi», li salutò.

«Come va stasera?», chiese Virginia, ricambiando il sorriso.

«Siamo pieni, c’è un po’ da fare…», si allontanò dalla postazione di lavoro, dirigendosi in un angolo della sala. Volse uno sguardo vago ai tavoli, e si levò la retina che gli aveva schiacciato i capelli.

Chris lanciò un’occhiata attorno. «Infatti».

«Vi fermate a mangiare qualcosa?», chiese Rosiel, osservandoli ad uno ad uno.

Loro si guardarono per un secondo, poi Virginia annuì e Rosiel fece lo stesso.

«Vi raggiungo subito».

I tre ragazzi si allontanarono verso un tavolo, mentre Rosiel tornò in cucina alla ricerca del supervisore. Si levò il grembiule rosso e lo sistemò insieme alla retina sopra ad un tavolo.

«Ehi, Jonas… pausa», gli disse quando lo trovò.

«Okay, Rosiel. Ma non più di venti minuti», lo avvertì Jonas, con l’espressione sempre seria e la voce ferma.


Rosiel si avvicinò al tavolo dei suoi amici, notando Angelina e Virginia appoggiare due vassoi sul tavolo. Chris era già seduto.

Rosiel si sedette a sua volta. Chris prese a mangiare le sue patatine quasi meccanicamente, una dopo l’altra. Angelina e Virginia tirarono fuori gli hamburger dalle loro scatole.

«Quindi, Angie… ci sarebbe quel compito per domani…», fece Rosiel, prendendo una patatina dal sacchetto di Chris.

Angelina lo guardò confusa.

«Sai, il tema di letteratura…».

«Angie, lascia perdere, non aiutarlo», intervenne Virginia, sospirando e scrollando il capo.

Rosiel si voltò verso di lei. «Come non aiutarlo? Devo lavorare e non riesco a farlo per domani».

Lei aprì la bocca per dire qualcosa. «Be’ devi imparare ad arrangiarti, se non ci fosse Angelina come faresti?».

«Dai Virgi… Rosiel te lo passo domani appena ci vediamo», disse Angelina.

«Oh, grazie».

Virginia scrollò il capo un’altra volta, poi alzò gli occhi sulla sala. In quel momento sentì lo sguardo di qualcuno addosso. Corrugò le sopracciglia, e si voltò fino ad incontrare gli occhi del ragazzo che aveva preso le loro ordinazioni.

Era dietro al monitor e puntava dritto a lei. Imbarazzata abbassò subito lo sguardo, e riprese a mangiare, più agitata di prima.

Al suo fianco, la risata di Rosiel si affievolì in quell’istante. Lui e Angelina si scambiarono ancora qualche battuta. Virginia notò sul volto di Chris solo l’ombra di un sorriso.

«Ehi, Chris, tutto okay?», chiese Rosiel.

Chris alzò gli occhi, con aria sperduta. «Sì, tutto bene», disse semplicemente, guardando Rosiel un po’ confuso.

Rosiel si spostò con gli occhi su Angelina, che alzò le spalle, perplessa.

Era già da qualche giorno che Chris aveva uno strano umore. Il più delle volte se ne stava in silenzio e durante le ore di scuola chiedeva più volte al professore di turno di poter uscire. Era inevitabile che loro fossero preoccupati, anche se, per quanto diceva lui, tutto andava bene.

Virginia si alzò dalla sua sedia, facendo del rumore non desiderato. «Vado un attimo al bagno», mormorò. Lasciò l’hamburger dentro la scatola e si allontanò.

Aprì la porta della toilette femminile. Si sporse sul lavandino e si lavò la faccia. Sciacquò velocemente le mani e uscì di nuovo nella sala. Appena aprì la porta, si trovò davanti il ragazzo delle ordinazioni, intento a pulire un tavolo, appena davanti alla porta del bagno. Lui alzò lo sguardo e le sorrise brevemente, con aria professionale.

Virginia lo scrutò un poco. Non era americano: aveva l’aspetto di un giapponese. La chioma spettinata sulla testa, nera, il viso scarno e le guance leggermente pronunciate, con gli occhi piccoli.

Virginia avanzò, diretta al suo tavolo. Quando gli passò accanto, lui la urtò, sospingendola contro il separè a muretto.

Si voltò di scatto e la prese per un braccio. «Oh, scusa», mugugnò.

Virginia scosse la testa e camminò oltre.

Tornò al tavolo e si sedette al suo posto. Rivolse una breve occhiata agli altri e riprese a mangiare il suo cibo. Cercò di reintrodursi nella loro conversazione.

«A che ora finisci?», domandò Angelina.

«Penso alle dieci e mezza o forse più tardi», rispose Rosiel, calmo. Mangiò una patatina, acchiappandola dal pacchetto di Chris.

Lei annuì, e si guardò un attimo in giro. «Ma che cavolo ha quello da fissare?», esclamò a bassa voce, indignata.

Virginia si voltò quel poco che bastava per notare il ragazzo di prima affaccendato a sistemare un altro tavolo, questa volta situato dietro al loro. Chris alzò lo sguardo.

«È qui da poco. Non lo conosco molto bene, ma per quello che ho visto non mi pare abbia molta voglia di lavorare. Si mette spesso a guardarsi in giro. Fissa le persone, è fastidioso», illustrò Rosiel a bassa voce.

«Ce l’ha con te, per caso?», domandò Chris, con voce roca.

Rosiel alzò le sopracciglia. «Non penso. O almeno, io non gli ho fatto niente», fece, non del tutto sicuro. In realtà non ci aveva mai pensato, perché mai quel ragazzo avrebbe dovuto avercela proprio con lui? «Mah», sbuffò alla fine.

«Ah, Angie, poi hai fatto matematica per domani?», chiese Virginia.

Rosiel le rivolse un’occhiataccia, ma lei lo ignorò.

«Ci ho provato, ma non credo vada bene», rispose Angelina.

Virginia alzò le spalle. «È lo stesso, mi faresti dare un’occhiata domattina?».

Angelina annuì e bevve un sorso di Coca-Cola dalla cannuccia.

Rosiel appoggiò il gomito sul tavolo e si rivolse a Virginia. «Come, vorresti copiare?», chiese ironicamente.

Virginia gli lanciò un’occhiata di sbieco. «Guarda che anche tu lo fai», precisò convinta.

«Ti metti a prendere esempio da me, ora?».

Lei scrollò il capo e alzò gli occhi al cielo.

«Comunque, Angie, faresti copiare anche me?», proseguì.

«Pure matematica?», attaccò Virginia.

«Sì, non c’è problema», rispose Angelina, interrompendo il loro scambio di battute.

«Rosiel, se proprio non sai farlo, fattelo spiegare dal professore. Così almeno magari impari come si fa», intervenne Chris, con la voce bassa e flebile.

Rosiel gli rivolse un’occhiata perplessa. Fu sul punto di ribattere, quando il ragazzo di prima si presentò accanto a lui, in piedi.

«Ti vuole Jonas», bisbigliò.

Rosiel alzò lo sguardo su di lui. Annuì, si alzò e si allontanò, dopo aver fatto un breve cenno agli altri.

Virginia bisbigliò qualcosa ad Angelina, sottovoce, mentre Chris ripose le patatine e abbassò lo sguardo. Un attimo dopo, il ragazzo andò oltre e si fermò al tavolo successivo dove c’erano vassoi da ripulire.


«Rosiel, sai dov’è Ville?», domandò più tardi Jonas, passando dal bancone, dove Rosiel era intento a pulire, mentre non entravano clienti.

«Non l’ho visto».

«Accidenti, fa sempre quel che vuole lui!». Jonas appariva piuttosto alterato, quella sera. Sparì nel retro.

Rosiel si avvicinò al tavolo dove erano seduti i suoi amici che chiacchieravano. Si sedette e ci si accasciò sopra.

«Tutto a posto?», domandò Angelina.

«Ville, il ragazzo di cui vi parlavo prima, è introvabile. Jonas sta impazzendo».

«Ma dove può mai essere andato?», chiese Virginia.

«Che ne so», le parole si spensero, quando lui ributtò la testa sul tavolo, esausto.

«Ragazzi, forse è meglio se io torno a casa, non mi sento molto bene», mormorò Chris, lanciando una breve occhiata agli altri, che seppure preoccupati, annuirono.

«Se te ne vai, veniamo anche noi», affermò Virginia. Rivolse uno sguardo a Rosiel. «Siamo in macchina insieme», disse alla fine.

«Okay, allora ci vediamo», li salutò Rosiel.

Tutti e tre si alzarono. Angelina prese Chris per il braccio e lo tenne stretto fino a che non furono fuori. Lei bisbigliò qualcosa a bassa voce, standogli accanto.

Rosiel li guardò mentre si allontanavano, e tornò al lavoro.


«Ehi», la voce di Jonas lo accolse, quando entrò in cucina. «Mi aiuti a cercarlo?».

Rosiel annuì, senza entusiasmo. «Vado a veder fuori», disse tranquillamente. Uscì dalla porta sul retro, mentre l’aria fredda notturna lo avvolgeva.

Una figura stava in piedi accanto a uno dei bidoni della spazzatura, una colonna di fumo saliva verso l’alto. Rosiel si avvicinò.

«Che stai facendo?».

Ville si voltò di scatto, abbassando la mano che reggeva la sigaretta.

Rosiel scese velocemente con lo sguardo fino alla mano, poi risalì. «Jonas ti sta cercando…», accennò, fulminandolo con i suoi occhi glaciali.

«Ah, Rosiel», fece Ville, ignorando totalmente le sue parole.

«Senti, penso che sia meglio se torni dentro. C’è Jonas che…».

«Che mi sta cercando, sì ho capito».

Rosiel lo guardò stranito. «Non hai intenzione di rientrare?», domandò, scrutandolo.

«Aspetto di averla conclusa», alzò la sigaretta.

Rosiel fece un cenno con il capo. «Non penso tu abbia chiesto una pausa, altrimenti Jonas non ti starebbe cercando così…».

«Non ho chiesto nessuna pausa, infatti», fece Ville, con un sorrisetto.

«Forza, rientriamo», tagliò corto Rosiel.

«Ti ho detto di aspettare…».

«Guarda che se vuoi tenerti questo lavoro, la fumi in un altro posto la sigaretta».

Ville sospirò e alzò gli occhi al cielo.

«È mio padre il proprietario del Velvet, non mi succederà proprio un bel niente».

Rosiel fu sorpreso. Non sapeva che il padre di Ville fosse un personaggio di rilievo. Ma magari Jonas avrebbe potuto informare suo padre del suo comportamento, sempre che a suo padre fosse importato qualcosa.

«Ah, quindi è tuo padre che ti ha messo a lavorare qui?».

Ville fece di sì con il capo, in un gesto piuttosto teatrale. «Secondo lui la scuola non mi tiene abbastanza impegnato…». Tirò dalla sigaretta e lo guardò.

Rosiel non lo riusciva a capire. Fino a poco tempo prima gli pareva un po’ tonto e impedito, ma ora, d’un tratto era diventato più serio.

Ville lanciò il mozzicone di sigaretta a terra, pestandola con la punta della scarpa.

«Okay, ora possiamo tornare dentro», disse.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


- 3 -


«Allora, ragazzi. Qualcuno sa come si risolve questo problema?», la voce della signorina Miller, l’insegnante di matematica, era come un getto d’acqua gelida in faccia quando si è ancora insonnoliti.

Era una ragazza giovane e dinamica, bassa ma sottile. Sembrava ancora una bambina delle elementari, eppure insegnava alle superiori. Molti si chiedevano chi avesse corrotto per farsi assumere. Aveva ventisei anni, quindi non era solita rivolgersi agli studenti troppo formalmente. Dopotutto, nemmeno gli studenti si sognavano di prenderla troppo sul serio. Ma era comunque piacevole.

«Nessuno?», continuò guardando con un’espressione assorta tra gli studenti.

Uno alzò la mano, sovrastando gli altri.

«Ah», fece la signorina Miller con un sorriso che trasmetteva che non era del tutto concentrata su quella lezione.

«Prego, vieni… tu sei…?», continuò con lo stesso sorriso.

«Ville Iendo», si alzò in piedi e si diresse alla lavagna. Il suo metro e novanta, accanto al metro e cinquanta scarso della Miller, provocava un certo contrasto.

«Prego Ville», gli sorrise un ultima volta la Miller, porgendogli il gessetto.

Ville iniziò a risolvere il problema, molto abilmente; non si fermava quasi mai ed era riuscito ad arrivare alla soluzione, tra l’altro anche esatta, in pochissimo tempo.

La faccia della Miller si aprì in un’espressione esterrefatta, con tanto di bocca semi aperta.

«Molto bene. Molto bene davvero Ville. Grazie mille, ora puoi sederti», ed indicò gentilmente con la mano il corridoio tra i banchi.

Ville tornò a posto, seguito da alcuni sguardi stupiti e alcuni invidiosi.


La cosa che Rosiel sentiva maggiormente era la stanchezza. Non riusciva mai a dormire quanto voleva e alla fine aveva sempre un gran sonno. Si accasciò sul banco senza far rumore, adagiò la testa tra le braccia unite e chiuse gli occhi.

Chris, sedutogli accanto, lo tastò più volte sul braccio, per svegliarlo, ma Rosiel non si mosse.

La signorina Miller continuò con la sua lezione, con una leggera punta di entusiasmo in più dopo la riuscita esecuzione di Ville. Come se le avesse dato la speranza che anche gli altri potessero farcela.

Scrisse il testo di un altro problema, poi procedette con la spiegazione per arrivare alla soluzione. Ville era attentissimo. Non staccava gli occhi dalla lavagna e dalla Miller. Anche lei lo guardava spesso, evidentemente si era aggiudicato il posto di suo preferito.

Virginia e Angelina, sedute in terza fila, non erano poi molto attente alla lezione. Prendevano appunti sui loro quaderni, ma la matematica era sempre una cosa impossibile, che stessero ad ascoltare o meno.

A fine spiegazione, la signorina Miller cancellò ancora una volta la lavagna e scrisse il testo di un altro problema, copiandolo da un voluminoso libro che riportava sulla copertina un titolo che avrebbe fatto allontanare qualsiasi studente: “Alla scoperta dell’algebra”.

Quando ebbe finito la copiatura, si voltò verso la classe, diede in fretta un’occhiata ai visi dei presenti e si soffermò su quello di Rosiel, o meglio sulla massa di capelli che stava al suo posto.

Scorse con gli occhi il registro di classe, adagiato sulla cattedra e arrivata al nome che cercava lo gridò ad alta voce.

«Black!».

Rosiel si destò un poco; alzò lentamente la testa e si guardò attorno.

«Alla lavagna», concluse risolutiva la Miller.

Rosiel si alzò, facendo rumore con la sedia e raggiunse la signorina. Si guardarono per un po’, perché lui non dava segni di voler prendere in mano il gessetto.

«Vuoi risolvere il problema?».

Non ne aveva voglia, ma dopotutto ne aveva ancora meno di litigare con la professoressa di matematica, con cui già non era in buoni rapporti. Così si limitò a prendere il gessetto e ad accostarsi alla lavagna. Rimase immobile guardando la scrittura arrotondata e inclinata della Miller.

Aveva dormito per tutto il tempo e non aveva seguito la spiegazione per risolvere il nuovo tipo di problemi.

«Non so come farlo», disse con calma, restituendo il gessetto alla Miller, che non lo prese.

«Ho appena spiegato come si fa. Tu dov’eri? Sulle nuvole?».

Si guardarono ancora a lungo. Rosiel non disse niente, ma sostenne lo sguardo misto tra arrabbiato e incredulo della Miller.

«Qualcuno sa risolverlo?», chiese lei voltandosi verso la classe.

Ancora una volta, come una scena che si ripete, Ville alzò la mano, e raggiunse la lavagna. Lanciò un mezzo sorrisetto a Rosiel, mentre gli prendeva il gesso dalle mani. Eseguì il problema magistralmente e infine si rivolse alla professoressa. Lei lo guardò solare e visibilmente contenta. Ci mancava poco che gli applaudisse.

Rosiel tornò a posto senza che nessuno glielo avesse chiesto: tanto la Miller era troppo concentrata su Ville per interessarsi agli altri.

Finalmente la campanella suonò la fine di quella noiosa e infinita ora di matematica. Rosiel si affrettò verso la porta, non voleva che alla signorina Miller venisse in mente di fermarlo per parlargli dei suoi insuccessi a scuola.

Chris era uscito insieme a lui, e furono presto raggiunti dalle due ragazze.

«Complimenti, Rosiel», scherzò Virginia.

Lui la guardò male, con espressione afflitta. E lei gli sorrise, provando a tirarlo su.

Angelina stava sistemando i fogli degli appunti dentro la sua borsa, quando dalla stanza uscì Ville, che si soffermò a scrutarli ad uno ad uno. Virginia gli lanciò un’occhiata perplessa.

«Ehi, Rosiel», vociò.

Rosiel, che non era molto in vena, si limitò ad un accennato sorriso e ad alzare la mano in segno di saluto.

Ville si fermò accanto a lui. «Ciao, ragazzi».

Virginia aveva incrociato le braccia sul petto, Angelina aveva terminato di sistemare la sua borsa e l’aveva chiusa. Chris era in piedi accanto a Rosiel e guardava da un’altra parte, dando di tanto in tanto qualche occhiata alla situazione.

«Posso presentarmi?», continuò Ville, alzando le sopracciglia. Nessuno rispose, così lui proseguì, «sono Ville Iendo, lavoro con Rosiel al Velvet».

«Ah, piacere. Io sono Angelina», sorrise gentilmente.

«E loro sono Virginia e Chris», concluse Rosiel, in tono sbrigativo, notando che gli interessati non accennavano ad aprir bocca.

Ville mosse la testa su e giù più volte e sorrise. «Okay, allora ci vediamo in giro, è stato un piacere».

Fece qualche passo, ma tornò indietro, con un esclamazione. «Ah, Rosiel. Volevo lasciarti questo…», gli porse un foglio piegato in quattro. Buttò un ultimo sguardo agli altri e si allontanò.

Rosiel aprì il foglio. Era la mappa per raggiungere una casa. E a lato qualche indicazione. In alto c’era scritto qualcosa riguardo ad una festa. Una festa che Ville avrebbe dato quel sabato a casa sua. Rosiel lo porse agli altri.

«Non vuole proprio perdere tempo», commentò.

«Dà una festa perché si è appena trasferito e vuole conoscere più persone», fece Angelina, riportando quello che c’era scritto sul biglietto. «E pare ti abbia invitato», alzò gli occhi su Rosiel.

«Lavoriamo insieme, l’avrà fatto solo per quello, cosa credi. Nemmeno gli sto così tanto simpatico».

«Pensi di andarci?», intervenne Virginia, fissando Rosiel con sguardo assente.

Lui inclinò il capo a sinistra e poi a destra, indeciso. «Ci ha invitati tutti, perché non ci andiamo insieme?».

«Mah, io non so se posso venire…», disse dubbiosa Angelina.

«Io ci sono se vuoi, Rosiel», intervenne Chris, che fino ad allora non si era molto inserito nella conversazione.

Rosiel gli sorrise e passò lo sguardo su Virginia, interrogativo.

«Non saprei…», mugugnò lei.

«Okay, ci penseremo», concluse Rosiel, piegando nuovamente l’invito e mettendoselo in tasca.


Era quasi ora di pranzo, lì a scuola. C’era abbastanza confusione, ragazzi che avevano concluso la loro ultima lezione e si affrettavano verso la mensa, altri che girovagavano per i corridoi fino a raggiungere i propri amici; tutti che chiacchieravano, che schiamazzavano.

Lui non faceva niente di tutto questo. Lui semplicemente cercava il posto più condensato di persone, dove poter mimetizzarsi, nascondersi.

Si buttò giù il cappuccio dalla testa, rendendosi conto che avrebbe attirato l’attenzione di non poche persone, con quell’aria da ricercato.

Provò ad alleggerire i muscoli facciali, contratti in un’espressione dura e tetra.

In mezzo a tutta quella calca, non riusciva nemmeno più a capire dove fosse e quanto mancava per arrivare alla mensa. Non riusciva a muovere qualche passo senza sbattere le spalle contro qualcuno, senza doversi assottigliare il più possibile per poter passare tra due o più studenti.

Finalmente, la porta della mensa.

Aumentò il passò ed entrò.


Chris addentò la mela che aveva sul vassoio.

La mensa si stava riempiendo, ma per fortuna lui e Rosiel erano arrivati prima, riuscendo ad occupare un tavolo da quattro.

Rosiel, sedutogli accanto, condiva l’insalata.

«Guarda che confusione», biascicò Chris.

Rosiel alzò gli occhi. La porta semi aperta della mensa mostrava un via vai impazzito nel corridoio. C’era parecchio scompiglio, quel giorno.

Entrò in quel momento un gruppetto di quattro ragazze. La prima era Abigail Watson, con un ghigno stampato in faccia. Abigail era piuttosto vanitosa, la classica ragazza smorfiosa, che voleva sempre tutto perfetto. Abigail era spesso accompagnata dalle sue amiche, Becky, Kimberly e Rachyl. Si vedevano tante volte insieme nel corridoio, a chiacchierare vivacemente tra di loro, oppure nel bagno delle ragazze, costantemente attaccate agli specchi.

Raggiunsero un tavolo circolare, e iniziarono a parlottare a bassa voce. Poi Becky si alzò e arrivò fino al bancone. Si rivolse alla donna al di là di quello e ordinò da mangiare per tutte.

Quando Becky tornò al suo tavolo, c’era Lucas Foster in piedi accanto ad Abigail, che in quel momento appoggiò la mano aperta sul piano, piegandosi su di lei.

Becky prese posto e allungò un vassoio alle altre, cercando di non fare caso a Lucas.

Abigail era molto affascinata, lusingata. Sorrideva e riservava solo pochi sguardi a Lucas, che dal canto suo, faceva di tutto per poterne avere il più possibile.

«Andiamo da qualche parte, dopo?», Lucas parlava a voce bassa, alquanto strano per lui.

Abigail si sprecava di oh strascicati, trattandosi come se fosse una principessa. «Non so, ragazze, dobbiamo andare da qualche parte, dopo?», lanciò un’occhiata complice alle altre, che ovviamente sapevano cosa rispondere. Scrollarono tutte e tre il capo, con aria disinteressata.

Abigail mostrò un sorriso mellifluo, adorava fare la difficile. «Okay, allora posso venire», confermò a Lucas, fingendo noncuranza.

Lui alzò le sopracciglia. «Ottimo», esclamò. Si allontanò caracollando fino ad un altro tavolo. Si lasciò andare sulla sedia, e stravaccò le gambe. I suoi compagni, tutti affamati giocatori di football, gli rivolsero un’occhiata interrogativa. Lui ghignò entusiasta e fece di sì con la testa.

Ci fu un gran boato, e a turno gli batterono il cinque su entrambe le mani. Quei giocatori erano spesso un po’ chiassosi. Essere un giocatore di football in una squadra scolastica apriva molte porte. Oltre alla fama e alla stima, si susseguiva anche l’invidia dei più deboli e riservati. Inoltre erano ben visti dalla maggior parte dei professori, che seguivano con ardore le partite.


«Che chiasso che fanno», si lamentò una ragazza, seduta ad uno dei tavoli in fondo alla sala. Si passò una mano tra i capelli rosso fuoco, e aggrottò le sopracciglia.

«Che strazio», il ragazzo che le stava affianco si abbandonò sul tavolo, nascondendo il viso tra le braccia.

«Mi sta venendo fame», borbottò un altro ragazzo, coi capelli neri, di fronte agli altri due.

«Possiamo organizzare una caccia, stasera», suggerì l’ultimo membro del gruppetto, seduto accanto al ragazzo dai capelli neri.

Il ragazzo accasciato sul tavolo si tirò su all’istante, con gli occhi tra l’azzurro e l’oro accesi di una luce particolare. «Hai detto caccia?».

«Sì, Albert», lo ammonì il ragazzo moro, alzando gli occhi al cielo.

«Qualunque posto è okay per me. Decidi tu Grey, oppure Vincent…», concluse Albert con un sorrisetto.

La ragazza rossa sbuffò e incrociò le braccia sul petto. Aveva lo sguardo rivolto alle loro spalle, concentrato sull’entrata della mensa.

«Che c’è, Felicia?», domandò Grey, il ragazzo moro.

Lei lo fissò un istante, poi scosse il capo.

Grey si voltò nella direzione in cui guardava lei, fino ad incontrare con lo sguardo un’altra ragazza. Era alta e magrissima, con i capelli corti e chiarissimi. Indossava una minigonna, con le calze a rete strappate in più punti. Il giubbotto di pelle e gli anfibi ai piedi. Era piuttosto bella, e come sempre c’era qualcuno che si era voltato al suo passaggio, ma lei non ci aveva fatto caso.

«Nina», la salutò Vincent, con enfasi nella voce.

Lei accennò un sorriso. Sembrava piuttosto contenta, al contrario di come la vedevano loro il più delle volte. Si sedette accanto a Vincent, lanciando un’occhiata a Felicia, che la scrutava in malo modo, di sottecchi.

«Stiamo organizzando una caccia per stasera. Tu ci sei?», le chiese Grey.

Lei annuì, senza pensarci troppo. Vagò con gli occhi per la stanza, fino a raggiungere un gruppetto di ragazzi in piedi accanto alla porta d’entrata. Le venne da ridere, così distolse immediatamente lo sguardo.

Uno di loro, dai capelli biondi e piuttosto attraente, le aveva lanciato un’occhiata di sbieco, con un sorriso da bambino.

«Ehi, Lowell, sei distratto», gli fece notare un altro.

Lowell fissò l’amico con espressione sorpresa e innocente.

Il ragazzo fulvo fischiò e Lowell gli rivolse un’occhiataccia. Stava guardando nella direzione di Nina.

«Ora capisco perché sei distratto», ghignò.

A Lowell venne da ridere, ma cercò di nascondersi con la mano.

«Wow, sta diventando tutto rosso», lo canzonò ancora il ragazzo fulvo, allungandogli una pacca sul braccio.

«Smettila, Drew», fece Lowell, faticando a tornare serio.

Drew non disse più nulla, ma la sua espressione maliziosa parlava da sé.

L’altro ragazzo accanto a loro era rimasto fermo con le braccia incrociate sul petto, piuttosto sulle sue. Si chiamava Claud, ed era una specie di idolo per le ragazze. Claud era campione di nuoto; aveva vinto parecchie medaglie e aveva viaggiato per l’America, in giro a far gare.

«Ehilà», una voce nuova si aggiunse a quel gruppetto.

«Oh, Larry», lo accolse Drew, togliendosi una mano dalla tasca dei pantaloni per alzarla in segno di saluto. «Dov’eri sparito?».

«Sono stato intrattenuto», rispose vago Larry, grattandosi con un dito la testa di ricci castani.

Drew si fece curioso, e alzò le sopracciglia. «Sento odore di ragazze», mormorò, con un sorrisetto furbo, guardando anche Lowell.

«Sarebbe ora che te la cercassi anche per te, la ragazza», lo ammonì Larry.

Drew si incupì e non nascose di essersi offeso.


Ville entrò in mensa, e senza divagare troppo con lo sguardo, andò a sedersi ad un tavolo già occupato da un altro tizio. Costui stava piegato su sé stesso; indossava un maglione grigio scuro con il cappuccio. Sembrava piuttosto ansioso e irrequieto. Ville gli si sedette di fronte e disse qualcosa a bassa voce. L’altro rispose, muovendo semplicemente il capo su e giù, lentamente.

Rosiel li scrutava stringendo gli occhi, incuriosito.

Era una scena molto strana, parlottavano tra loro come se avessero qualcosa di terribile da nascondere. Ma cosa poteva mai essere, per due ragazzi delle superiori?

Scrollò il capo, cercando di lasciarsi dietro quei pensieri e distolse lo sguardo da quei due individui.

La porta della mensa si aprì con un tonfo sordo; entrarono Angelina e Virginia. Erano piuttosto agitate. Si affrettarono verso il tavolo di Rosiel e Chris e anziché sedersi, rivolsero entrambe sguardi preoccupati a Rosiel. Lui ricambiò con altrettanta espressione.

«Vieni a vedere», disse Virginia in un bisbiglio.

Entrambi si alzarono e si scambiarono uno sguardo dubbioso, poi seguirono le due ragazze fino in cortile.

La parte bassa della parete della palestra era interamente ricoperta da un murale gigantesco. Recitava:


Miller mangiamerda

R. Black


La parete di mattoni era ricoperta da colori che provocavano un contrasto evidente. Le parole risaltavano come fossero in rilievo. La firma, al contrario, aveva un effetto incassato nella parete e contrastava ancora più della scritta colorata.

Rosiel era senza parole. Non aveva idea di cosa fosse e di chi fosse stato, ma non era colpa sua. Sentiva tutti gli sguardi su di sé; la gente non si faceva mai i fatti suoi.

Per completare l’opera uscì dall’edificio un piccolo gruppetto di professori, accompagnati dal preside. Rosiel non riusciva ancora a capire cosa fosse realmente successo. Vedeva la scena scorrergli davanti e anche se cercava di fermarla, per cogliere qualcosa che lo aiutasse a comprendere, non ci riusciva.

Eppure c’era il suo cognome sul muro della scuola. Ma perché?

Volse il capo al gruppo di professori, notando le loro espressioni allarmate.

La Miller per poco non si prese un accidente quando vide il murale. Sussultò e si portò la mano alla bocca. Il professore di ginnastica le mise una mano sulla spalla come per rassicurarla, gesto che risultò piuttosto inutile.

Tutto il corpo docenti si recò di nuovo dentro, il preside in testa.

Rosiel era ancora immobile dove si trovava, incapace di esprimere qualsiasi cosa.

«Siamo uscite dalla palestra e l’abbiamo trovato… lì…», disse Virginia, indicando vagamente il muro. «Come può essere accaduto? Chi può essere stato?», si voltò di scatto verso Rosiel, cercando qualche risposta.

Lui inghiottì la saliva, rendendosi conto che l’aveva trattenuta fino quasi a soffocare.

«Non ne ho idea».

«Ma c’è pure il tuo cognome! Chi può…», Virginia si interruppe, notando che Rosiel si stava allontanando.

Virginia rivolse uno sguardo angosciato sia a Chris che ad Angelina, che le risposero alla stessa maniera. Poi seguirono Rosiel.


La folla di studenti che si era radunata in cortile si disperse in breve tempo, subito dopo aver inquadrato la situazione. Parecchi conversavano e borbottavano, chi con più interesse, chi semplicemente per il fatto che qualcosa in quella scuola era finalmente successo.

Tornati dentro, i quattro ragazzi si fermarono nel corridoio, intricato esattamente come lo era stato fino a poco prima: bisognava fare la fila per entrare in mensa.

La Essbotton, l’insegnante di storia, si faceva strada tra la calca di studenti a forza di gomitate. Prima che Rosiel si fu allontanato, lo picchiettò sulla spalla invitandolo a voltarsi.

Rosiel pareva tranquillo; non era una sorpresa che chiamassero proprio lui, a quel punto.

«Signor Black, venga con me, per favore», disse, con autorità.

Rosiel abbassò lo sguardo e sospirò, diede una breve occhiata agli altri tre e si allontanò con l’insegnante.

«Questo è grave. E anche parecchio…», esclamò. Il tono da superiore e quella leggera ma percettibile punta di arroganza l’avevano resa la persona più odiata di tutto il corpo insegnanti. Ma a Rosiel non faceva né caldo né freddo.

Arrivarono in poco tempo fino alla presidenza.

Nicolas Howen era comodamente seduto alla sua scrivania, teneva le dita delle mani congiunte davanti a sé, appoggiate sul tavolo. I capelli brizzolati cercavano di uscire dalla tinta ormai da ripetere di un caldo biondo scuro. Il viso severo e adulto era inclinato in una smorfia di dissenso. Era un movimento quasi impercettibile, ma Rosiel, che era acuto ad osservare le persone, l’aveva colto. Il preside faceva ripetutamente di no con la testa e abbassava la palpebre, non velocemente come un battito di ciglia, ma più lentamente e stancamente. Era logico ed evidente che provava un profondo scetticismo nei suoi confronti. Questo certo non gli era d’aiuto.

A lato della scrivania stava in piedi la signorina Miller, che teneva un braccio piegato sul torace e l’altro come appoggio per la testa, leggermente piegata in avanti. L’espressione era feroce e arrabbiata. Non riusciva ancora a tollerare che qualcuno, all’interno di quella scuola, si fosse permesso di offenderla in quel modo. Aveva sempre pensato di essere la professoressa preferita da tutti, ma dopo quel colpo basso, aveva dovuto ricredersi. E questo non le andava giù. Avrebbe fatto qualsiasi cosa a quel ragazzo in quel momento.

«Signor Black. Buongiorno», iniziò il preside quando Rosiel fu dentro, dopo che la Essbotton chiuse la porta alle loro spalle. Si alzò in piedi e fronteggiò Rosiel, porgendogli la mano.

Lui restò immobile, fissando l’uomo negli occhi.

«So che questa non è la situazione migliore, e di certo lo saprà anche lei, ma la prego di prenderla», e accennò con gli occhi alla mano sospesa in aria.

Rosiel la prese con malavoglia e la strinse con altrettanta.

Non fare il ragazzo cattivo, gli ripeteva una voce nella testa, questi signori non lo accetteranno. Gli sembrava la voce di sua nonna, quando lui era ancora piccolo. Che strano sentire quella sensazione. Cosa c’entrava sua nonna e perché gli parlava nella mente? Forse se lo immaginava soltanto. Forse perché avrebbe voluto che ci fosse stato qualcuno in grado di difenderlo e di prendersi cura di lui, una volta tanto. Invece non c’era nessuno. Era solo, come lo era sempre stato.

Il preside si ricompose e andò nuovamente a sedersi.

«Credo che lei ci voglia dare una spiegazione per quanto successo poco fa in cortile…».

Rosiel continuava a pensare a quella cosa che aveva in testa. E non rispose.

«È strano che qualcuno faccia un murale di quel tipo e si firmi addirittura, ma certe volte accade anche, quando il colpevole ha voglia di essere riconosciuto, magari pensando di essere così ammirato per il coraggio, o qualcosa del genere», fece accompagnare una risatina che fu imitata dalla Essbotton. La Miller e Rosiel rimasero in silenzio.

«Quindi non ha niente da dire?», proseguì il preside Howen.

«Non è stata colpa mia. Io non c’entro niente. Sono sempre stato a lezione oggi, potete controllare o chiederlo ai professori. Ero in classe con la Miller alla prima ora», si volse un istante verso la professoressa.

«Il murale è stato fatto poco prima della pausa pranzo. Ancora tutti gli studenti erano in classe, e il cortile era deserto».

«Sono stato uno dei primi a raggiungere la mensa, poi si è creata una gran confusione nel corridoio. Ma io sono rimasto dentro per tutto il tempo. Non avrei motivo di mentirle».

«Vorrebbe dire che si tratta di uno spiacevole scherzo?».

Rosiel si limitò ad annuire.

«Potrebbe anche essere… in quanti la conoscono per nome e cognome?».

Rosiel ci pensò qualche secondo, ma non riusciva a farselo venire in mente. «Non saprei… ma non conosco molte persone di questa scuola», affermò, sinceramente.

«L’ipotesi meno comune è che qualcuno abbia fatto delle ricerche su lei in particolare. Magari qualcuno a cui aveva fatto un torto e che si sia voluto vendicare. Potrebbe trattarsi di questo?».

«Non credo… non so», fece Rosiel incerto.

«Allora, mi dispiace ma dobbiamo prendere provvedimenti su di lei».

«Ma ho detto che non c’entro niente. Non potete fare quello che vi pare solo perché c’erano le mie iniziali, là sopra. Non è giusto».

«Bisogna dire che non ha incassato molti successi durante questi anni di scuola. E molte volte si è parlato di situazioni analoghe a questa… o sbaglio?».

«Non ho mai scritto parolacce verso un professore sui muri della scuola», rispose Rosiel serio.

«Ho detto analoghe, signor Black».

Il preside lo fissò per qualche istante, come se gli sguardi arrabbiati e scontrosi delle altre due professoresse non bastassero.

«Tanto per fare degli esempi: evasione dall’edificio in orario scolastico, mancata presenza a numerose lezioni, liti nei corridoi, incidenti verso gli altri studenti durante le ore di educazione fisica…».

Rosiel non si scompose.

«Devo continuare…?», aggiunse Howen con fare altezzoso.

Rosiel rimase zitto. Non era il momento adatto per mettere altra carne al fuoco e rischiare una punizione peggiore di quella che già gli sarebbe spettata.

«Okay. Allora volete punirmi ora per i miei insuccessi passati… va bene, tanto prima o poi avrei dovuto aspettarmelo, no?».

«Non mi piace il tono che sta assumendo», il preside diventò serio, iniziando a tamburellare le dita sul tavolo, ritmicamente.

Rosiel sostenne il suo sguardo, con occhi gelidi, di ghiaccio.

Howen prese a compilare un foglio, e parlò mentre scriveva.

«Sappia comunque che se ci sono problemi con dei professori, è bene discuterne con la persona interessata, in privato, non rendere pubblica la propria opinione, è chiaro?».

«Non dovrebbe dirlo a me questo».

Il preside lo fulminò con lo sguardo.

«Lo so. Quando saprò chi è stato a scrivere quella cosa, provvederò ad informare anche lui, ne stia certo», rimediò Rosiel, con una punta di sarcasmo nella voce.

Il preside accennò un lieve sorriso, che però scomparve immediatamente. Dalla sua espressione, si percepì che quasi si era pentito di averlo fatto. Si mise a sfogliare un fascicoletto e poi rivolse un altro sguardo a Rosiel.

«Data la sua situazione familiare, non credo di poter parlare con nessun parente, dico bene?».

Come se ci fosse anche il bisogno di domandarlo, pensò Rosiel. Fu costretto ad annuire, controvoglia.

Forse il preside pensava che con quel tono di voce quasi dolce e quei gesti, potesse manifestare il dolore che provava per lui. Tutte balle, di certo non gliene importava un accidente della sua famiglia disastrata.

«È sospeso per tre giorni, questo è quanto. Informeremo sua nonna con una lettera».

Mia nonna è cieca, testone, pensò nuovamente Rosiel. Sembrava che il preside lo provocasse apposta, ma lui riusciva a rimanere calmo.

Rosiel fece per andarsene, ma la voce del preside lo fermò ancora.

«Non ho finito… al termine delle lezioni, esigo che sia qui per ripulire il murale. Puntuale».

Rosiel fu sul punto di ribattere, ma alla fine lasciò perdere. Non c’era più niente da fare.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


- 4 -

Il Passato di Rosiel Black

Sabato undici maggio, 1991.

 

«Ehi Lou! Vieni qui, c’è bisogno di te!».

Lou Black bevve un altro sorso dal suo calice, lo appoggiò sul tavolo basso davanti al divano sul quale era seduto e baciò la ragazza che le stava accanto, tra i capelli. Teneva Lily Elliot stretta contro di sé, mentre guardavano insieme gli altri ragazzi, dalla loro comoda postazione sul divano. Iniziò a ridere quando sentì che lo chiamavano e levò il braccio da sopra le spalle di Lily.

«Torno subito», sussurrò al suo orecchio e si alzò, mentre lei trangugiava un altro po’ di alcool.

Lily seguì il suo ragazzo con lo sguardo mentre stava raggiungendo un gruppetto in cucina, indaffarato attorno a qualcosa che non riuscì a cogliere.

Si sentiva così felice in quel momento. La vita universitaria era un vero sballo.

Poco dopo una ragazza si buttò sul divano accanto a lei. «Lily! Ti stai divertendo?». Era evidente che la ragazza fosse un po’ brilla. Aveva la faccia paonazza e la risatina facile.

Lily, con la sua solita semplicità, le sorrise e annuì, scatenando in Claire un’altra risata argentina.

In quel momento riapparve Lou, che si sedette sul bracciolo del divano accanto a Lily e si sporse verso di lei, fino a incontrare le sue labbra in un lungo bacio. Claire si alzò e se ne andò, trotterellando verso la prossima persona sulla sua strada con cui scambiare qualche parola.

«Vuoi venire di là, amore mio?», mormorò Lou, rimanendo appiccicato al viso di Lily.

«Perché, che succede?».

«Fanno il brindisi a Michael», rispose ancora lui, strusciando il viso contro quello della sua innamorata, lievemente.

Lily chiuse gli occhi qualche istante, sentendolo contro la sua pelle. Poi decise di alzarsi, lo fece improvvisamente, lasciandolo imbambolato.

Lou le rivolse uno sguardo contrariato, ma lei gli sorrise ugualmente e gli prese il viso tra le mani. Quando parlò, lo fece ad un nulla dalle sue labbra.

«Andiamo a brindare a Michael, okay», si alzò e si diresse verso la cucina, mentre Lou grugnì qualcosa e la seguì, quasi correndole dietro.

In cucina, si erano pressoché riuniti tutti attorno al tavolo sul quale stavano, una torta alla panna, alcune bottiglie e calici di vetro. Quando Lily e Lou arrivarono furono accolti da alcuni che li avvisarono su cosa sarebbe successo.

«Tra poco arriverà Michael che ovviamente non sospetta di niente. Mi raccomando gridiamo forte e facciamo tintinnare questi bicchieri!».

Lou scoppiò a ridere e guardò Lily al suo fianco che faceva lo stesso. Le cinse le spalle con un braccio e la baciò ancora tra i capelli. Adorava tenere Lily stretta a sé. Era così minuta, era semplicemente perfetta ai suoi occhi. E quei capelli. Lou amava baciarla in mezzo ai capelli, così soffici e profumati.

In quel momento entrarono Michael, il ragazzo che quella mattina si era laureato, insieme a Janna, una delle ragazze più apprezzate del campus. Lui era indaffarato a parlare, così preso dalla sua accompagnatrice che non si rese conto di tutti i suoi amici radunati lì. Quando scattarono le grida e scoppiarono le stelle filanti, Michael rimase di stucco, totalmente sorpreso. Iniziò a ridere quando due ragazzi lo abbracciarono e quando la folla si accalcò su di lui. Uno di loro portò il tocco, il classico cappello da laureato e glielo fece indossare. Poi Michael imitò il gesto che aveva fatto quella stessa mattina davanti ad una gran folla di persone, e con grande gioia sul volto spostò il pennacchio sul lato opposto del tocco. Scattò l’applauso, mentre lui gridava cose del tipo: “Ce l’ho fatta!”, “stanotte brucerò tutti i libri!”, e, “grazie ragazzi, siete unici”.

Si accerchiarono tutti attorno al tavolo e riempirono i bicchieri con lo champagne. Lo sbattere dei calici l’uno contro l’altro divenne presto assordante e riempì la stanza senza lasciare spazio a nient’altro.

Una ragazza, che al campus faceva parte del giornale scolastico, si offrì di tagliare la torta e fu affiancata da qualche sua amica. Nel frattempo molta gente si era allontanata per i fatti propri, alcuni erano in salotto, altri attorno al tavolo degli alcolici, altri avevano raggiunto l’esterno e si erano messi a fumare sulla terrazza.

Lou appoggiò le mani attorno alla vita di Lily e la abbracciò con impulso. Lei rise e cercò di allontanarlo. Erano un tantino in mezzo, dato che si trovavano presso la porta attraverso cui la gente usciva ed entrava.

Lily cercò di spingerlo via, e il risultato fu che lui sbatté contro la parete della cucina e continuò tuttavia a starle avvinghiato.

«Lou!», ridacchiò lei.

Lui la liberò e la prese per mano, con un sorrisetto febbricitante sul viso.

La trasportò fino al corridoio dove la gente era meno accalcata e si andò a sedere sui primi gradini della scala che portava al piano di sopra. Lily gli sedette accanto e non fece in tempo a dire qualcosa che Lou le fu addosso, baciandola con intensità e bramosia.

Lily questa volta non lo allontanò, non ne aveva voglia. Quello che desiderava era solo stare ancora con lui, sempre più tempo con lui. Impazziva per lui, lo amava con tutta sé stessa.

Passò le mani tra i suoi capelli disordinati di quel biondo così chiaro che la mandava in delirio. E sentiva che lui faceva lo stesso, risalendo con la mano la sua schiena, e toccandole i capelli, fino al collo e al profilo del viso.

«Ehm ehm».

Si sciolsero all’istante. Alcune ragazze erano in piedi davanti a loro con facce più o meno imbarazzate. «Scusate, dovremmo andare in bagno», proferì una di loro, alzando le sopracciglia e fissando i due ragazzi con un sorrisetto inopportuno.

«Ah…», fece Lily, non riuscendo a trattenere una risata. Si alzò e fece spazio alle ragazze per passare. Lou rimase seduto, con una mano tra i capelli, evidentemente seccato.

Le tre passarono oltre, accelerando il passo sulle scale.

Lou sospirò, quando lo scalpiccio non fu più udibile. «Che seccatura, queste stupide», si lamentò.

«Dai, non prenderla male. Non è colpa loro se devono andare in bagno», fece Lily in tono pacato e leggermente divertito.

«Ma è colpa loro se siamo stati interrotti. E a me stanno sulle palle quelli che m’interrompono quando sono impegnato con te».

Lily scoppiò a ridere. «Dai, andiamo di là».

Si girò, ma Lou la prese per un braccio, costringendola a voltarsi. «Dai!», lo incitò lei.

Lou mugugnò, in tono scocciato. «Torna qui», la tirò ancora più verso di sé, e Lily non riuscì più a porgli resistenza; cadde sulle sue ginocchia.

«Torniamo in cucina, ora avranno tagliato la torta, e ci aspetta il nostro pezzo».

«Chi se ne frega della torta».

Lou la baciò di nuovo e Lily rispose spingendolo leggermente indietro, contro il profilo dello scalino. Lui mugugnò quando la sua schiena incontrò lo spigolo, ma non lasciò le labbra di Lily, fino a quando non lo fece lei.

«Alzati da qui», gli alitò contro.

«Sei troppo bella perché io possa resisterti», rispose Lou, sporgendosi sempre di più verso Lily che gli si stava allontanando a poco a poco.

Alla fine riuscirono a tornare in cucina, ma un attimo prima videro scendere le tre ragazze di prima dalle scale. Lou le guardò subito male, dall’uscio della porta. In tre in bagno in così poco tempo? Gli pareva strano e stava pensando se non lo avessero fatto apposta solo per il gusto di infastidirli. Comunque non ci diede più importanza e seguì Lily al tavolo.

La torta era squisita, alla panna, frutti di bosco e limone, decorata con zuccherini colorati.

Si erano appartati in un angolo a consumare la loro fetta di torta, quando Michael li raggiunse.

«Ehi, ragazzi!», diede una pacca a Lou e guardò Lily, «come ve la passate? Vi piace la festa?», Lily notò subito che anche lui aveva preso il volo per il pianeta alcool.

«Tutto bene, la festa è stupenda. E complimenti per la laurea, Michael!», fece Lily, entusiasta.

Michael grugnì una risata. «Grazie Lily! E anche a te Lou!», diede un’altra pacca a quest’ultimo e si allontanò incespicando.

«Torno subito», disse Lou, lasciando il suo piatto in mano a Lily.

Lei lo osservò mentre si faceva spazio tra alcuni ragazzi, poi lo perse di vista.

Lily continuava a guardare in quella direzione, ma Lou non tornava. Divenne irrequieta in quell’attesa. Non le piaceva che Lou la lasciasse sola. Lo vide tornare un po’ dopo con qualcosa in mano. La raggiunse, si riprese il suo piatto e le porse una bottiglia di birra. Un’altra, quella sarà stata la quarta della serata.

Lou le sorrise. Per un attimo Lily restò frastornata mentre la guardava. E si rendeva sempre più contro di quanto le piacesse quando lui sorrideva. Quando lo faceva per lei.

Lou aveva appoggiato il piatto su un tavolino, accanto ad una foto incorniciata e disposta sopra ad un centrino. Bevve un sorso dalla bottiglia, che aveva già stappato personalmente.

Lily bevve a sua volta. Si accorse che Lou aveva in mano anche un pacchetto di sigarette. Lo stava aprendo e ne stava estraendo una. Poi un’altra, quella per lei.

Gliela porse e la prese per mano. Lily non riuscì a capire cosa stesse succedendo: all’improvviso si sentiva più intontita e non sapeva bene il perché. Semplicemente si lasciò trasportare da Lou. Quando fu in grado di percepire meglio ciò che aveva attorno, capì che lui girava per la casa alla ricerca di qualcuno che avesse da accendere. Alla fine aprì l’anta della porta finestra e accedette al terrazzo, con Lily dietro. Due tizi erano concentrati in lunghe tirate dirette alla luna e alle stelle.

Quel terrazzo non era eccessivamente grande, o almeno era tanto grande quanto un normale terrazzo lo può essere. Lou porse la sigaretta e uno dei due ragazzi prese l’accendino dalla tasca dei pantaloni, e con flemma gliela accese.

Lily mostrò a sua volta la sua e il tizio eseguì lo stesso gesto anche con lei. Lou cinse Lily per le spalle e la trascinò verso un angolo della terrazza. Gli altri due si strinsero sul lato opposto.

Lou diede una lunga tirata, fino a che la punta della sigaretta si illuminò così tanto da diventare una lucciola nella notte e poi se la tolse di bocca e lasciò uscire il fumo.

Lily sentiva la testa girarle. Temeva di cadere di sotto. E non le pareva nemmeno sciocco pensarlo. Si appoggiò al petto di Lou e affondò il viso contro di lui, che le rivolse un’occhiata incerta, dubbiosa, ma le coprì le spalle con il braccio e le accarezzò dolcemente i capelli.

Lou aveva quasi finito la sigaretta quando i due ragazzi sul terrazzino rientrarono in casa, con fugaci e indecifrabili mormorii.

Scostò Lily da sé e la prese per le spalle. «Piccola, stai bene?».

Lily mosse un po’ il capo su e giù.

«Non ti va di fumare?».

«Non ora… scusa».

Lui la guardò corrucciato. «Ma che scusa. Non ti costringo mica, amore mio», le diede un leggero bacio sulle labbra, chinandosi verso di lei.

Lily si staccò e grugnì. «Hai puzzo di fumo», gemette.

Lou scoppiò a ridere e guardò il cielo cupo della notte sopra di loro.

 

Parecchie sigarette, un po’ di birre e qualche alcolico dopo, Lou si era completamente steso sul divano; teneva un braccio giù e uno in alto, appoggiato contro lo schienale. Aveva gli occhi chiusi e il volto arrossato, qualche volta apriva bocca per gemere qualcosa di incomprensibile.

Lily era in stato migliore del suo, aveva bevuto e fumato di meno, o comunque lei riusciva a sopportare di più. Se ne stava con la schiena contro lo stipite della porta, e teneva lo sguardo triste fisso su Lou.

«Lily», la chiamò qualcuno.

Lei si voltò e sorrise debolmente a Claire, in piedi lì accanto.

«Tutto bene?», domandò quest’ultima.

Lily annuì. «Tu ti sei ripresa da prima, vedo», accennò.

Claire scoppiò a ridere. «Ora mi sento un po’ meglio, ma davvero ero così stupida?».

Anche Lily rise. Si voltò ancora verso Lou, disteso e lamentevole e le ritornò per qualche istante quel maledetto sguardo assente.

A Claire non sfuggì. Le bastò seguire la traiettoria degli occhi di Lily per capire qual’era il problema.

«È ancora ubriaco, eh?».

Lily annuì.

«Ti spaventa?».

«Ho paura per lui, per la sua salute. Non dovrebbe esagerare in questa maniera, ma non c’e modo per farglielo capire».

Claire le sfiorò un braccio. «Da che lo conosco io, è sempre stato così e non ha mai ceduto. È forte, una vera roccia».

Lily sorrise stancamente. Poi Lou si alzò, e Lily ebbe un sussulto. Barcollò, ma alla fine riuscì a mettersi in piedi. Ciondolò fino a raggiungerla e le cadde addosso, buttandole un braccio attorno alle spalle.

Claire sorrise sebbene la sua espressione fosse preoccupata. «Ehm, ciao Lou».

«Claire», la salutò semplicemente lui, con un cenno del capo.

«Scusate, vado un attimo…», le ultime parole si persero o forse Claire non le disse nemmeno. Si allontanò verso il piano superiore buttandosi qualche occhiata fugace alle spalle.

«Di che parlavate?», chiese Lou, fissando Lily negli occhi da quella distanza ristretta.

Lei gli sorrise un poco. «Di questo e di quello», rispose vagamente.

«E chi sarebbero questi tizi?», fece lui sarcastico, mentre le ultime parole si spegnevano sulle labbra di lei. Lou la baciò delicatamente, stringendola con forza verso di sé.

«Ma quanto sei ubriaco?», fece Lily.

«Molto. A meno che tu non abbia due occhi in più», disse lui, ridendo.

Lily rimase immobile e gli rivolse un’occhiata sconcertata.

«Scherzo», mormorò lui in tutta risposta, stando con il profilo attaccato al suo. Lily sorrise appena, ma senza guardarlo in faccia.

«Cosa vuoi fare?», riprese Lou.

Lily alzò le spalle.

«Ma che ore sono?», si voltò alla ricerca di un orologio, ma senza abbandonare la ragazza dalla sua stretta. Ne incrociò uno con lo sguardo: indicava le tre di notte passate.

Lou fischiò e si voltò di nuovo verso Lily. «Sono le tre e un quarto!», esclamò, euforico.

«Cosa? Accidenti, ma domani dobbiamo andare dai tuoi genitori!».

Lou si corrucciò. «Che dici? Sul serio? È domani?».

«È già oggi».

«No, dannazione!».

«Non pensavo che avremmo fatto così tardi alla festa. Che facciamo, andiamo?».

Lou sorrise. «Scherzi? Io voglio restare, voglio divertirmi ancora con te».

«Ma Lou! Se faremo tardi non avremo il tempo per riposarci e arriveremo a casa dei tuoi come due zombie!», esclamò Lily con enfasi.

Lou fece una smorfia. «Dobbiamo andarcene, allora. Cerchiamo Michael».

Lo trovarono poco dopo, intento a sbaciucchiarsi nel sottoscala con Janna. Lou si chinò quel poco che bastava per intravederli nella penombra. Si schiarì la voce rumorosamente e ottenne la loro attenzione. Entrambi gli rivolsero occhiate interrogative, cercando di capire per quale motivo lui e Lily li avevano interrotti.

Lou si grattò con un dito la testa. «Michael, noi dobbiamo andare. Non possiamo tardare più di così…».

Michael cercò di mettersi in piedi, e sebbene con qualche difficoltà, ci riuscì.

«Ah, ve ne andate, ragazzi?», chiese. Pareva piuttosto intontito. E di sicuro non c’entrava solo la ragazza.

«Purtroppo sì. Abbiamo un impegno più tardi, dobbiamo arrivare al campus e recuperare un po’ di sonno perduto, percui…».

«Capisco. Allora ci sentiamo. Io lascio il campus, ma ho intenzione di rimanere in contatto con certi amici», Michael sorrise.

«Perfetto», intervenne Lily, entusiasta.

«Comunque ancora complimenti e grazie per la bella nottata», fece Lou.

Michael fece un gesto con la mano. «Grazie a voi per essere venuti».

Li abbracciò entrambi e quando si furono allontanati, ritornò a sedersi accanto a Janna.

Lou e Lily fecero un breve giro a salutare quelli che riuscivano ad incontrare. Poi uscirono all’aperto e si diressero alla loro auto.

Lily corse verso il suo sportello, ma Lou la raggiunse e la bloccò contro quello. Lei lo fissò sorpresa, anche se le stava comparendo un sorriso esaltato.

«Cosa fai?», chiese.

«Lasciami concludere in bellezza questa notte», gli sussurrò lui all’orecchio.

Le baciò i capelli e scese lungo il profilo del collo. Lily sentì un brivido correrle lungo la schiena. Lou scese fino alla spalla, allargandole la maglietta per sfiorarle la pelle. Lily lo abbracciò, appoggiandogli le braccia sulle spalle e poi gli toccò i capelli e lo spinse contro di sé. Lo tenne stretto, e nascose il viso contro la sua spalla. Lou rimase stupito. Era quasi pigiato verso la carrozzeria dell’auto, così abbassò il capo sul collo di lei e la strinse per la vita. Rimasero avvinghiati per qualche momento, poi lei si staccò e lo allontanò quel poco per guardargli il viso.

«È tutto okay?», chiese lui, leggermente preoccupato.

«Torniamo al campus», mormorò Lily. Lo baciò un’ultima volta, poi lo spinse via e si infilò in auto, mentre anche lui raggiungeva il suo posto.

 

Lou aveva la vista appannata. Forse non aveva poi tanto esagerato prima, quando aveva detto a Lily di vederla con quattro occhi, due sopra e due sotto. Si sfregò un’altra volta il viso con la mano, ma non cambiava poi molto. E poi la testa. Gli girava come una giostra per bambini e gli bruciava. Era insopportabile.

«Vai più piano», mugugnò Lily, buttando un’occhiata al contatore sul cruscotto, che indicava i centodieci.

Ma la strada era deserta e Lou non riusciva a mollare il pedale. Un’ampia curva lo fece frenare quasi di colpo; la prese piuttosto male e una volta superata ritornò alla velocità precedente.

«Hai una sigaretta?», domandò Lily.

«Ehm… dovrebbero essere lì, da qualche parte», indicò uno scompartimento sotto alla radio, spenta.

Lily ci frugò e trovò una sigaretta e l’accendino. L’accese, tirò e aprì il finestrino, sporgendo fuori la mano. Lily non aveva fumato quasi per niente quella sera, e ora gli era venuta voglia. O semplicemente aveva trovato qualcosa di diversivo da fare che fissare la strada buia.

«Me la passi un attimo?», chiese Lou, buttandole fugaci occhiate.

Lily lo guardò accigliata.

«Ti prego, amore. Solo una volta», supplicò lui.

Lily sospirò e gliela allungò. Lou fece illuminare la punta di rosso acceso e, dopo che lei gliela tolse, buttò fuori il fumo, che fece capriole per l’abitacolo fino a trovare la via d’uscita dal finestrino.

Lou sbuffò annoiato e spinse sull’acceleratore.

«Non andare così veloce», lo ammonì Lily.

Lou fu sul punto di rispondere, ma in quel momento tutto si svolse molto rapidamente.

Lou abbassò per un istante gli occhi al cruscotto, per tenere d’occhio la situazione, quando dalla selva ai lati della strada, improvviso e inaspettato uscì fuori un animale; con molta probabilità si trattava di un cervo. Era notte ed era scuro; in quella strada di campagna non c’erano luci artificiali ad illuminarla. Solo i fari della macchina.

Lily aveva lo sguardo impegnato fuori dal finestrino, e solo nel momento in cui lo spostò sulla via si accorse del pericolo. Cacciò un urlo che fece sobbalzare Lou. Lui frenò di colpo, il cervo si buttò contro l’auto che sbandò e si diresse dritta in mezzo alla selva, contro un albero.

L’urlo di Lily si affievolì in quell’attimo. L’urto fu terribile. Lou fu sbalzato contro il finestrino e si ferì la testa. Poi rimase inerte contro il sedile. Lily fu scaraventata verso Lou, sentì la testa mancargli, e perse conoscenza.

 

Quando il campanello suonò, Cordelia aprì gli occhi, in seguito ad un sussulto. Impiegò qualche secondo per focalizzare l’ambiente circostante. Era mattina: dalle imposte semichiuse filtrava qualche debole raggio di sole, ma non abbastanza da illuminare profondamente la stanza. Sbatté gli occhi e si alzò dal letto, guardandosi intorno.

François riposava dall’altra parte del letto, tranquillo.

Cordelia si strinse nella camicia da notte e lasciò la stanza ancora assonnata, chiedendosi chi potesse essere stato a suonare a quell’ora.

Scese le scale e notò l’ombra di una sagoma alta al di là della porta. Arrivò e l’aprì.

Dall’altra parte c’era un poliziotto, con la divisa blu scuro. Le rivolse una breve occhiata, e non fece tanto caso alla camicia da notte e all’aria stordita.

Semplicemente si tolse il cappello, tenendolo stretto tra le mani.

Cordelia non riusciva a capire, non riusciva a immaginare per quale motivo quel signore potesse essere lì, davanti alla porta di casa a quell’ora. E soprattutto perché non diceva niente, perché non si spiegava?

«Sì?», domandò alla fine lei, impaziente.

«Salve, signora. È lei la madre di Lou Black?».

Cordelia si corrugò, ma annuì.

«Mi dispiace dirglielo, ma suo figlio e una ragazza, identificata come Lily Elliot, sono stati trovati sulla quarantasettesima, dentro un’auto finita contro un albero».

Cordelia si immobilizzò e la sua espressione si fece inquieta, angosciata.

«Mi dispiace, ma non ce l’hanno fatta».

Cordelia sentì come se il cuore le si fosse fermato nel petto. Che diavolo diceva quel tizio? Era forse uno scherzo? Dov’erano suo figlio e Lily realmente? Possibile che fosse tutto falso? Possibile che quell’agente fosse venuto fin lì per dirle una sciocchezza, una sciocchezza così pesante? Ma come poteva essere tutto vero? Aveva sentito suo figlio per telefono qualche giorno prima, e gli aveva parlato dell’università che andava tutto bene, e di Lily di cui era innamorato pazzamente. E Cordelia era stata felice per lui, lo aveva incoraggiato e aveva sorriso più volte alla cornetta, desiderando di vedere il suo viso mentre gli riferiva i suoi successi.

E ora?

Come era potuto succedere? Come potevano dirle una cosa del genere? Non lo avrebbe mai più rivisto, non avrebbe mai più sentito la sua voce. Non lo avrebbe mai più visto così felice come lui le diceva di essere.

Il poliziotto continuava a parlare, ma a Cordelia parevano tutte parole perse, lontane. Non le ascoltava, non ci riusciva. Come se qualcuno le avesse introdotto un batuffolo di ovatta nella testa, e non riuscisse più a comprendere niente.

Sentì qualcuno sfiorarle la schiena. Si voltò quel poco che bastava per incontrare François, che l’aveva raggiunta e guardava stranito l’agente di polizia.

L’uomo rivolse anche a lui uno sguardo afflitto e triste.

Cordelia sentì il viso bagnato, umido di lacrime. Il poliziotto fece un piccolo inchino con il capo, e si congedò da loro, con un’espressione che sapeva di mestizia.

François chiuse la porta e prese Cordelia tra le sue braccia, mentre lei piangeva senza controllo. La strinse contro il suo petto, mentre lei si era nascosta il volto tra le mani, disperata. Più la stringeva e la accarezzava, più sentiva la malinconia salirgli, un grave senso di tristezza. Un terribile vuoto di stomaco si impadronì di lui. Fece un smorfia, ma anche per lui, le lacrime avevano avuto il via libera. Era sul limitare delle scale, quando aveva udito le parole dell’agente.

Ma davvero non sarebbe più tornato? Ma davvero non lo avrebbe mai più rivisto? Eppure aveva solo ventitré anni, come poteva essere possibile abbandonare il mondo a soli ventitré anni? E Lily, quella ragazza che gli era piaciuta così tanto dal primo momento? Come era possibile che non li avrebbe mai più visti, nessuno dei due?

Il pianto di un bambino soggiunse dal piano superiore. Doveva essere stato svegliato dai loro lamenti e dal loro pianto.

Cordelia si staccò da suo marito, e provò ad asciugarsi le lacrime con la manica della vestaglia. François le toccò una spalla, come per infonderle forza.

Il pianto del bambino era sempre più forte, pareva tanto disperato quanto lo era stato il loro.

Salirono le scale, entrambi tenendosi stretti alla spalliera, per non cedere.

Arrivarono alla stanza di Rosiel; Cordelia lo prese in braccio e lo tenne stretto contro il suo petto, cullandolo avanti e indietro. E nel frattempo piangeva. François l’abbracciò di nuovo, stringendo anche Rosiel in mezzo a loro.

E quando fu circondato dai suoi nonni, il bambino si tranquillizzò e alla fine, sorrise.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1057124