Quella mattina aveva di certo ben altro in programma.
Giusto un paio di calci al vento, flessioni in una gravità spropositata e qualche sorseggio a una dolce bevanda all’arancia.
Lo avrebbe fatto, ne era sicuro, se quel dannato soffio all’orecchio non l’avesse slealmente corrotto, costringendolo a restare inarcato sul rigido materasso con il vano tentativo di coprirsi il viso imbarazzato con un palmo.
« Rimani, Vegeta. »
Inutile le innumerevoli promesse fatte nel cercare di non cascarci più, si era ormai accorto di passare più tempo tra quelle sudate lenzuola che nella camera gravitazionale a testare l’aumento della sua potenza.
Non appena questo allora si rendeva materiale e impetuoso nella sua mente, si infuriava scagliando qualche pugno vago su chi serafico sedeva al suo fianco, irritato soprattutto dalla consapevolezza che forse, in fondo, stava meglio così.




 

Da quando Kakaroth lentamente si era inserito nella sua ombrosa vita, come un lampo di luce in un cielo che di luminoso ben nulla aveva, Vegeta provava la strana sensazione di ripresa, quasi la stessa prodotta dal liquido denso dell’elevata macchina di riabilitazione Saiyan.
Le sue ferite a contatto con la calda pelle del reietto sortivano l’inconsueto effetto di bruciore, quello odioso e insostenibile provocato dal puro ossigeno contro carne viva e infetta.
Ciò che dunque lo infastidiva  non era solo il notare come esso producesse attimi di piacere e sollevazione, ma come, nonostante il suo solido corpo fosse privo di graffi e tagli, ogni sua rosea parte si irrigidisse quasi scottata e inebriata allo stesso tempo dal lieve tocco di colui che ancora si ostinava a reputare nemico.