Risveglio incompleto

di HildaGreen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I fiori della mimosa ***
Capitolo 2: *** Dal sud al nord ***



Capitolo 1
*** I fiori della mimosa ***


I fiori della mimosa


 
Le suole delle scarpe strusciavano sul pavimento, battiti fuori tempo, rumori che arrivavano alle orecchie come coperti da ovatta, sempre più spessa e galleggianti nella testa come pigre nuvole nel cielo blu. Sparivano lentamente, li lasciava serpeggiare via e restò indietro, con passi flaccidi, fin quando non si arrese, cadendo a peso morto.
Un tonfo e tutti i rumori cessarono.
 
Tragedia: era giunto il momento del cambio dei posti e lei si trovava tanto bene vicino alla finestra, così poteva guardare il cielo, ma se fosse stata messa più lontana, avrebbe dovuto attraversare la classe con l’imbarazzo addosso. Sembra che i vestiti siano stati inventati per far divertire di più il pudore a metterci a nudo.
Un compagno valeva l’altro, non rivolgeva parola a nessuno e neanche gli altri volevano farlo. È difficile non dire neanche una parola, ma non per lei ed era incredibile pensare che nella sua vecchia scuola passava la ricreazione come una comune ragazza, ma non considerava nessuno come suo vero amico.
Non conosceva neanche il viso dei suoi compagni, ma provò subito antipatia per il viso che le fu accanto, ne aveva intravisto i tratti familiari, ne era sicura, era quello che le aveva parlato vicino alla finestra. Solo per Giulio sentiva un’antipatia a dir poco sprezzante, ma iniziava a sentirla anche ora.
Lui la guardò con un sorriso amichevole. Lei si voltò subito.
Seconda ora, geografia; a Selena piaceva…. per fare scarabocchi, c’erano tutti visi interessanti a cui mettere occhiali, corna e fare sopraccigli uniti. Perfetta era una donna con un sorriso sulle labbra.
«Un apparecchio… originale» commentò il suo compagno.
Lei si limitò a fulminarlo con lo sguardo, tenendo per sé il fatto che quei puntini erano carie. Capiva perfettamente i sentimenti di jigglypuff quando non veniva ascoltato, in quel momento si sentiva proprio una paffuta palla rosa, le salì l’istinto assassino di voler adornare il suo bel visino con dei baffi.
Mentre era tutta assorta a riempire il quaderno con scritte degne di un artista di strada, un trillo le rimbombò nella testa, assieme al rumore delle sedie che strusciavano sul pavimento.
Sollevò la testa, era arrivato il momento di attraversare quel campo minato. Forse avrebbe fatto meglio a restare lì, alla fine della ricreazione avrebbe dovuto tornare al posto, ma, come un soldato il guerra, si fece coraggio e attraversò il campo di battaglia, senza scordare di guardarsi attorno guardinga. Quando fu alla finestra, ogni preoccupazione si dileguò e fissò la monotonia di sempre. Cercò conforto passando le dita sul termosifone ma era spento, non riusciva proprio ad accettare il sole smorto che c’era, voleva la sua città, voleva il caldo. Voleva che i platani lungo le strade diventassero alberi di ibisco, che ogni cosa si disfacesse, divenendo fine sabbia e che la pioggia si riunisse una distesa senza fine.
Si morse le labbra, respirando profondamente, voleva essere fuori, per unire le sue lacrime salate, a quelle insipide della pioggia. La struggeva un grido che sentiva dentro, voleva liberarlo, gridare con tutta la voce che aveva, fino a non averne più, infondo non ne aveva nemmeno bisogno se non c’era nessuno che l’ascoltava.
«Per favore… per favore nebbia, portami con te quando ti dissolverai!» Questo le sembrò di urlare, ma era ancora lì, inerme. «Maledizione.»
Da dove arrivava tutta quella nostalgia. Si pentì subito, rimproverandosi severamente, per aver quasi ceduto alla voglia di piangere, non le era permesso.
«De Luca…»
Rimase impassibile, non voleva voltarsi in quello stato e si strofinò velocemente gli occhi. Costrinse la professoressa ad andare da lei.
«Selena… so che nell’altra scuola avevi buoni voti, anche alti… ora non arrivi neanche alla sufficienza. Qual è il problema? Ti senti esclusa… posso capirti…»
«No che non può» la interruppe gelida, non voleva sentire tutto quell’inutile discorso.
La donna appariva parecchio confusa e le sue labbra tremavano leggermente, con versi indecifrabili, ma in fine, abbassò lo sguardo e tornò a sedersi alla cattedra.
Le stava rompendo le scatole e lei si era difesa, ma aveva anche sentito una stretta al cuore, per quante volte lo facesse, non era abituata a “ferire”, non ci provava gusto. Pensò che quella era tutta rabbia e, quale fosse il modo giusto per estirparla, non le importava.
Al suono della campanella tornò al proprio posto, come una pecora torna nell’ovile. Era proprio come se intorno a lei si vedesse un alone nero e guardandola sembrava che la temperatura scendesse sotto zero, fino al gelo della Siberia.
Ora di religione, era sinonimo di “non far nulla” e giocava a vantaggio di Selena la professoressa che diceva: se volete seguite altrimenti non rompete l’anima a chi vuole seguire.
Il libro sparava solo tante cavolate, specialmente sulla famiglia, tutte balle.
Ma si, dai! Andiamo fino in fondo!è quello che disse un’ingenua quattordicenne, ma non lo pensava realmente, si stava solo autoconvincendo, non poteva tornare indietro quando i suoi genitori lo seppero, erano tradizionali, contro l’aborto.
Era stata la follia di una cotta passeggera, a quell’età si pensa sempre eccolo, finalmente, il vero amore! e quella romanticona non era certo un’eccezione.
Era un pianeta, che girava intorno ad un caldo sole, che la bruciava, la bruciava sempre di più. Girando, è inciampata nella sua orbita e quel raggio era davanti a lei, proteso come una mano e lo afferrò senza alcuna esitazione.
Troppo tardi capì e il frutto del suo errore le avrebbe rovinato la vita, è mia sorella, diceva.
Nel libro ci scrivono sciocchezze, sopratutto quella domanda: per quale motivo sono nata? Già… perché? Perché mia madre ha deciso di andare a letto con un mezzo sconosciuto. Tutto qui.
 
Cambiare a volte non significa farlo in meglio; di errori Selena ne aveva fatti, lo sapeva, ma chi se ne frega la sua vita era inutile, come un’insignificante camelia, tsubaki, il fiore senza profumo.
Era questo che era sempre stata, una camelia e, per un attimo, aveva creduto davvero di essere un bel fiore, i suoi petali avevano quasi raggiunto il cielo. Il freddo dell’asfalto, sembrava salire, come se stesse per imprigionarla, le mancava l’aria, cancellava ogni sensazione, ogni consapevolezza che aveva raggiunto, insieme a quella più intensa di essere viva. Un freddo che congelava ricordi, tempo ed ogni più vivida sensazione.
Alla fine, le scese una lacrima.
Un suono si faceva più distante, fino a scomparire in un cupo silenzio, ma in fine rimbalzò indietro, divenendo un colpo violento, sempre più forte, mentre il buio si dissipava.
«Che ci fai qui?» Chiese, senza lasciare spazio ad un saluto.
«Le ho portato la colazione» rispose la donna.
«A letto… E smettila di darmi del lei, mi irrita!»
«In questi ultimi tempi è molto dimagrita… forse è per colpa dei suoi… tuoi fratelli… non so ti senti oppressa.»
«Quegli idioti non sono miei fratelli…»
«In ogni caso, penso che mangerai meglio qui, da sola.»
La filippina uscì dalla stanza e la ragazza si alzò, contemplando il vassoio sulla scrivania, ma non ci pensò più di tanto, prima di infilare più di metà di quella roba in un tovagliolo. Le doleva lo stomaco per quel che faceva, ma era appagata dall’orgoglio, era davvero felice del suo sacrificio.
Uscire non fu altrettanto facile, in quel castello c’era una vera e propria dittatura, non c’era diritto di parola o altro, e a capo, ovviamente c’era Giulio. Selena era diventata l’ultima della gerarchia, superata dalla filippina e, per stare con bestie come Giulio, l’avrebbero dovuta pagare molto, molto di più, tanto alla madre i soldi non mancavano di sicuro, ma li riservava per inutili abiti firmati, zaini firmati, astucci firmati… Selena vestiva con gli abiti presi da Vale al mercato e le andavano benissimo, non ci trovava nulla di bello in abiti firmati, costavano tanto e non erano nemmeno chissà ché.
Attraversò la strada a grandi passi e fu subito al campetto vicino casa, trovando ad aspettarla, fra gli arbusti di mimosa, Philia.
La salutò con voce allegra, sorridendo, poi si piegò su di lei prendendo il tovagliolo.
«Immagino che metà del mio cibo non basti… Scusami!» Le disse.
Quando si trovava lì era più felice di quanto non lo era stata mai in quello schifo di paese e neanche da quando i genitori si erano separati. Dimenticava tutti quei problemi, quegli occhi scuri erano la porta per tutt’altro mondo.
«Non saprei come fare… se non ci fossi tu» ripeteva e resistendo a quella vita solo per andare da lei.
Stava smettendo di ripetere la sera, prima di indursi al sonno, “Vorrei addormentarmi e non svegliarmi più”. Sarebbe stato completamente indolore, una morte insignificante di una vita insignificante.
Da quando era morto suo padre, aveva deciso di essere più forte e spesso questo significava non lasciar passare alcuna emozione, si era chiusa come uno scrigno e, come una chiave, Philia era riuscito ad aprirlo.
 
Era diventato eccessivo il suo sacrificio ed aveva retto anche troppo glielo ripeteva spesso la domestica, l’ultima volta in giardino.
Era domenica e come sempre, le due pesti mancavano ed entrambe avevano fatto l’abitudine alla presenza dell’altra, poiché, per quanto potesse riuscire a restare impassibile, anche Selena aveva bisogno di qualcuno con cui parlare e tuttavia, non era male quella donna.
La ragazza le aveva chiesto di andare in giardino con lei e si prese la libertà di piantare dei semi, premura che usava solamente con Philia.
«Va bene metterle qui?» Chiese, passando da uno sguardo vivo a quello scorbutico di sempre. «Perché mi guardi così?»
«Ho notato che sei dimagrita ancora… va tutto bene?» Domandò l’altra di rimando.
«Allora? Non è successo nulla!»
«Dovresti avere più cura di te stessa.»
Senza farsi notare, sbruffò alzandosi, diretta al campetto.
Il tempo passava con naturalezza ed era questa la cosa più innaturale, dato che in qualche modo Selena era riuscita a concepire una vita diversa da quella precedente, una vita in cui non c’era al centro solo Vale. Era più di un mese che non chiamava e alla ragazza non poteva importare di meno di quel che faceva, esisteva solo lei, Philia… e anche la filippina.
Accettava tutto così come veniva, avrebbe atteso finché il destino non avrebbe deciso di cambiare il suo corso.
Tuttavia, ancora adesso, ogni volta che chiudeva gli occhi vedeva la pineta arsa e la sabbia fine della spiaggia, sentiva il vento marino soffiarle in viso, odorava sempre un po’ di pesce, ma sapeva solo di casa, di nostalgia e le pizzicavano sempre gli occhi. Le onde erano una sequenza ripetitiva, la schiuma sulle creste, che schizzava sulla riva, quando era piccola, non riusciva a tornare a riva, il mare la trascinava indietro e quella salitella era alta per lei. Preferiva affogare in quel modo che affogarsi ora, con le sue stesse mani.
Focalizzava il faro, dall’altra parte della punta ed il porto dall’altra parte ancora, ripercorreva il Lungomare. Era cambiato ancora? Ma lei ora faceva parte di un altro cambiamento, ma voleva essere ancora partecipe di quel mondo a cui, solo ad ottocento chilometri di distanza scoprì di essere tanto legata.
Per una come lei la mancanza più grande era sicuramente il mare e quando mai, nella sua città, era riuscita a vedere della nebbia. Non aveva mai percorso tante salite e discese, nel luogo a cui apparteneva, era tutto piatto… piatto come il mare quando era calmo.
Rievocava le notti di quando rivolgeva lo sguardo al cielo per guardare le stelle cadenti, magari con una granita, anche quelle le mancavano, persino le pale del vento, guardarle trasmettevano quiete, giravano all’unisono come girandole, alte sulla montagna.
Non dimenticava neanche la Sila, quando c’era stata con Vale e suo padre… eh si, anche di lui sentiva la mancanza.
Tutto questo le aveva stravolto la vita, come se all’improvviso le fosse stato tolto il terreno da sotto i piedi e la risalita fosse ancora parecchio lontana.
 
Philia scodinzolò con la sua coda a frusta, ormai sapeva l’ora il cui aspettarla, come la volpe del Piccolo Principe e divideva con lei il suo cibo e, quell’esile vita si era rinvigorita e l’animale era anche più vispo. Aveva preso quel che era stato tolto alla ragazza, che non aveva neanche più fame, si era abituata alla sensazione di vuoto di quando non si mangia, perché il corpo si adatta facilmente, ma aveva ancora freddo, aveva iniziato a mettere abiti pesanti fin dal primo giorno che si trovava lì.
Chissà com’era il tempo nel meridione…
Le nuvole si addensavano, lottavano per un posto nel cielo… loro ci provavano, lei non lottava per ottenere un posto nel mondo e non si aspettava che qualcuno glielo desse, la sua esistenza era misera ed insignificante.
La mimosa non era fiorita, non lo era certo in inverno, ma giù, nel sud, i fiori iniziavano a comparire già a Natale. Non c’era neanche il fucsia della bouganville, il rosa dell’oleandro e il lilla dell’ibisco.
Philia non aveva nulla a che fare con quel luogo, però, in quegli occhi profondi si perdeva e divagava per le vie strette, fra i muri grigi ed il frastuono del traffico era distante. C’era il porto, il molo, le navi, le stridio dei gabbiano e l’odore di pesce, che non le era sembrato mai così buono, perché soffocato dalla nostalgia.
Le si appannarono gli occhi e nacque una lacrima, con una scia che collegava una semplice emozione al corpo.
L’animale la guardava e piegò la testa di lato, come se non capisse e fece un verso squillante, quasi le chiedesse come stava. Le dita di Selena si erano irrigidite e si decise ad asciugare le lacrime col dorso della mano.
Chiese scusa all’amica con un sorriso forzato, mentre l’altra mise il muso sotto la sua mano e, con la minuscola lingua ispida la leccò.
Poteva percepire un calore non equivalente alla taglia di Philia, ma a quella del suo cuore, lasciava fluire dentro di lei emozioni, scaturiva in lei delle reazioni, come se aprisse una scatola piena. Era bello, anche quella nostalgia era bella, perché la faceva sentire ancora legata alla sua città.
Non era da lei non fare i compiti e prendere brutti voti, qualcuno la chiamava secchiona, ma non aveva mai studiato, era una di quelle a cui bastava sentire –anche se durante la lezione disegnava- l’insegnante per memorizzare.
“Quella” d’italiano poi, sembrava persino aver paura di lei, era quasi come Don Abbondio dei promessi sposi, una volontà debole, era alle prime armi. C’era chi cercava di farla studiare, le metteva note, le faceva noiose prediche, ma non serviva a niente si era sempre dimostrata più testarda di loro, dimostrando quel che era, “capatosta”, tipica della sua regione.
Piazzata nel centro Italia era una calamita messa nel senso sbagliato e respingeva tutti gli altri.
Un ricordo, un colpo, una stilettata dritta al cuore e gravava su ogni passo, sempre più lento, sempre più lento, strusciando sul legno del pavimento. Era una corsa quella, che non aveva mai vinto. Vedeva gli altri distanti, sola, come in deserto, tanta sabbia senza mare… il mare. Il blu, il lilla il fucsia, il giallo della mimosa… la mimosa, non era ancora fiorita.
Di colpo, l’immagine di fiori gialli svanì e il tempo sembrò sospendersi, ogni suono si dissolse nella palestra, gli sguardi erano uniti da un solo punto, mentre il sangue sembrava gelarsi nelle vene.
Il corpo della ragazza si trovava disteso a terra, immobile e non dava segno di vita.
Per la scuola circolarono presto le voci della ragazza morta in palestra, per questo il giorno del suo ritorno tutti gli occhi erano puntati su di lei ma faceva finta di non notarlo, ma quando insistevano troppo li fulminava con lo sguardo, ma c’era anche qualcosa di morto in quell’espressione.
Si può… soffrire di nostalgia?
 
«Mi sento sollevata… mi sono preoccupata veramente» disse Vale.
«Si…» rispose l’altra senza ascoltare.
Si capiva che era stata in ansia… chiamando dopo quattro giorni, ma la figlia non volle dirle nulla, litigare ancora era un colpo in più da subire in quei giorni. Le stavano tutti addosso, chiedendole svariate domande, anche le più idiote.
«Mangia di più, mi hanno detto che è successo perché sei debole…»
“Continua così, crepa, almeno non dovrò vergognarmi di te!” era quello che arrivava a Selena, storpiando ogni parola.
«Si, certo…» rispose premendo il pulsante rosso appena sentì Vale salutarla.
Contaci… pensò gettandosi sul letto a peso morto. Le finestre erano chiuse e le tende aperte, ma la luce arrivava tra le persiane, si disegnava sul muro e la polvere si vedeva a tratti, galleggiare incantata.
C’era qualcosa che le dava da pensare che, per un po’ emarginò le immagini della sua città, un evento proprio di quelle mattine passate fra domande idiote.
«Volete smetterla?!» intervenne giusto in tempo il suo compagno di classe, senza far capire di aver visto gli occhi lucidi della compagna.
Era uno di quelli che tutti rispettano, una specie di capo clan, anche senza il bisogno di essere volgare e strafottente, aveva una specie di “dono”.
Quando si rimise a sedere, tutti si erano allontanati, giusto al suono che segnava la fine della ricreazione.
Gli era davvero grata, per la prima volta nella sua vita, per quel che ricordasse, era la prima volta che si sentiva in debito con qualcuno, ma l’orgoglio è una specie di dittatore e tutto il resto non conta.



Finalmente sono tornata su Efp, questa è la seconda storia che pubblico in quesot fandom
mi scuso con tutti quelli che seguono le mie storie, è tanto che non pubblico nuovi capitoli, non ho ispirazione e sono un pò impegnata.
Ho scritto questa storia l'anno scorso, l'avevo inviata a una casa editrice ma è troppo corta per essere pubblicata ed ora ho deciso di pubblicarla qui
spero che qualcuno la legga... che vi piacerà. Inoltre, è ambientata nella città in cui abito io, perciò è stato facile esprimere il disprezzo di Selena, odio questo posto
Il luogo nella foto è il campetto vicino casa dove la protagonista va di solito, l'ho presa da internet ma le prossime voglio scattarle direttamente io
Al prissimo capitolo
Tsutsu

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Capitolo 2
*** Dal sud al nord ***


Dal sud al nord





 

 

Erano passati solamente quattro mesi, in verità quasi sei e Vale pensava già a rimpiazzare il padre di Selena, anche se quest’ultimo l’aveva tradita da tempo.
La ragazza sentiva che sarebbe arrivato, prima o poi il momento in cui quella bambina di sua madre l’avrebbe scaricata, affidata proprio a colei che odiava di più, la sua matrigna, che in realtà non aveva mai conosciuto, ma si fidava delle fiabe. Di sicuro non avrebbe fatto la fine di Cenerentola, non aveva alcuna intenzione né di ascoltare Vale né la sua nemica, non si faceva mettere i piedi in testa.
Inoltre sarebbe dovuta andare molto, molto lontano: circa ottocento chilometri dalla sua città, attraversando mezza Italia in treno.
Eppure, dopo tutte le sue lamentele, con cui si poteva costruire un perfetto testo argomentativo, sua madre l’abbandonò come un rifiuto, fra tanti altri sacchi di spazzatura, ma lei era un giocattolo ancora nuovo per essere accantonato nella discarica/città.
Non sapeva neanche lei di preciso il motivo per cui non voleva, lasciare Vale non le dispiaceva e neanche di abbandonare la sua casa, probabilmente non voleva cambiare, non le piacevano i cambiamenti, ne aveva paura, ma la sua vita non sarebbe stata costatante, perché l’unica cosa che si può definirsi tale è proprio il cambiamento.
La città dove era stata portata, almeno si adattava una cosa di lei, era grigia, quasi sempre piena di nebbia la mattina, ma forse le sembrava tanta perché dove viveva lei di bruma non ne aveva mai vista.
Infondo, però l’unica cosa che era cambiata era la prigione in cui era confinata e poi mangiava sempre le solite cose confezionate, perché nessuno si curava di darle qualcosa di decente o che avesse almeno un po’ di sapore. Non parlava con nessuno, sebbene ci fossero la matrigna, due fratellastri, uno dei quali figlio di suo padre, ed il nuovo marito, che immaginava avesse anche lui figli sparsi per il mondo. C’era anche una domestica filippina sulla quarantina, non parlava, o almeno non con Selena, girava per la casa/castello come un fantasma, senza far rumore.
Certo, per ora andava bene, si lasciava cullare dal tempo, che trascorreva noioso e spento, senza alcuna preoccupazione, il peggio sarebbe arrivato più avanti.
Solo dopo cinque giorni uscì di casa e, con un sospiro scese dalla macchina. Subito l’aria fredda la investì, sebbene fosse solo settembre, ma al sud non era così freddo. Si bloccò, evitando lo sguardo dei ragazzi, che facevano più trambusto di uno sciame di cicale nella pineta vicino alla spiaggia. Già da subito odiò tutti i presenti in quel luogo e l’edificio dall’altra parte del cancello scorticato. Dei ragazzi continuavano a venire dalle sue spalle e ad entrare nel cancello, ma lei restò immobile e quando si accorse che la campanella suonava con insistenza, abbassò leggermente il capo e, con decisione, si voltò e si allontanò, senza sapere dove andare. Nessuno la obbligava a fare quel che non voleva, neanche Vale, che più che altro sembrava giocare a fare la madre. Selena pensava che avrebbe affatto meglio ad abortire, piuttosto che farla nascere per avere una vita cupa e monotona, purtroppo si era accorta troppo tardi di essere incinta. Dopo che il marito l’aveva lasciata, ma forse anche prima, andava in discoteca, in cui faceva la cameriera –ma forse non solo quello…- e tornava alle sette completamente brilla e mandava fetore di fumo. Non raccontava a nessuno di avere una figlia, il suo compagno lo scopriva quando andava nel suo appartamento. Tutti i suoi compagni venivano dai locali in cui andava -nessuno raccomandabile per qualcuno che avesse del buon senso- qualcuno era anche più giovane di lei, restavano il tempo di una notte e non si facevano più vedere, erano come gli assorbenti, quando le irritavano li “buttava via”, non avevano più valore di una batteria usa e getta. Menomale che Vale era bella, capelli biondi, occhi azzurri e carnagione chiara, dato che era sprovvista anche di un minimo di senno –secondo Selena- se non aveva la bellezza si poteva scordare l’eredità di suo padre, spesa tutta in sigarette e tanto -ma davvero tanto- alcool, ma per fortuna agli altri uomini piacevano quelle come lei, belle e oche.
Non voleva andare a scuola soprattutto per fare un dispetto a Vale, forse così l’avrebbe fatta tornare a casa, almeno lì la prendeva in giro qualcuno che già conosceva e non si sarebbero aggiunti degli sconosciuti. Se non l’avrebbe fatta tornare lei, avrebbe trovato un modo da sola, non le importava nulla di chi la ospitava.
«Oii lella!»
Si voltò e posò lo sguardo su di un ragazzo con una frangia lunghissima che gli copriva un occhio ed era più o meno della sua età, con una felpa nera, uno zaino nuovissimo, jeans strettissimi e delle all star ai piedi, uno di come se ne trovano tanti, quelli che vanno in giro con la roba firmata e che stanno nei gruppi. I ragazzi di solito erano più bassi di lei a questa età, ma lui era più alto e c’era un’altra accezione, Selena non lo guardava con lo stesso sguardo freddo con cui guardava tutti, non era quello che rivolgeva ad un qualsiasi sconosciuto, sembrava molto più irritata. Non era uno qualunque, viveva nella sua stessa abitazione. Era il suo fratellastro, ma non quello con cui aveva in comune il padre, se avesse potuto con lui non avrebbe avuto in comune neanche lo stesso cielo.
Si chiamava Giulio, saltava sempre la scuola ed era ripetente –era uno dei tanti motivi che lo rendevano tanto “figo”-, se ne andava in giro a fare graffiti, aveva fumato per la prima volta a soli undici anni e aveva anche un piercing sopra l’occhio. La madre lo sapeva pure, ma lei lo considerava un bravo figlio, lo avrebbe sempre difeso anche se avesse ucciso qualcuno.
Forse tutto questo era normale e Selena era quella strana, ma comunque non pretendeva che il mondo si adattasse a lei e lei non avrebbe abbassato la testa di fronte a nessuno.
Non rispose e continuò a fissarlo con sguardo di sfida.
«Te va de venì co noi?» Domandò lui.
Questo suo tono amichevole era la cosa che più odiava in lui Selena, che fumasse o facesse graffiti non le importava nulla, erano altre le cose a cui faceva caso.
«Non ne ho alcun interesse» rispose lei cambiando direzione.
Giulio sorrise, il suo modo di parlare era buffo, sembrava una straniera. Tornò al bar dagli amici e lei si fermò ad osservarli, stavano proprio di fronte alla scuola, eppure nessuno se ne curava e per questo le era anche più semplice non seguire le lezioni. Continuò a camminare con imbarazzo, voleva passare il più inosservata possibile. Odiava gli sguardi della gente, ma non solo quello, si faceva prima ad elencare le cose che le piacevano, per esempio i peluche, detestava anche ammetterlo, era una cosa da “femminucce” e per lei questa parola era sinonimo di debolezza.
Era arrivata al parco che aveva visto dal finestrino della macchina, per arrivarci aveva dovuto percorrere una lieve salita, ed in quel posto di pendenze c’e n’erano parecchie, mentre nella sua città vedeva tutto in piano. Un’altra differenza era che qui era pieno di verde: burroni, alberi, fiumi, parchi… Da dove veniva, dei fiumi c’erano solo i letti e ponti attraversavano quei filini d’acqua tra le rocce, e poi c’era qualche spazio verde, ma erano tutti pieni di cicche, così come le strade. La differenza dal sud al nord era assurda in Italia, fin’ora lei aveva vissuto in un altro stato, abbandonato da tutto il resto, ma piuttosto che stare con “la gente del nord” –e lo diceva come se fosse una parolaccia, una parola proibita e sgradevole- preferiva mille volte vivere su una punta sullo Ionio dimenticata dal mondo.
All’una e mezza si fece trovare davanti a scuola, dalla filippina, si mise dietro insieme al fratellastro mentre davanti c’era l’altro, Giulio. Da loro due si teneva ad estrema distanza, era come se fossero dei virus.
La sua matrigna era esattamente come Vale, ma almeno lei aveva un lavoro, ed anche importante, uno di quelli in cui non fai niente e guadagni tanto, ed aveva lasciato ai tre ragazzi qualcosa da riscaldare al microonde, ma piuttosto Selena preferì rinchiudersi nella sua stanza, al Boschetto aveva mangiato una mela e anche se non le bastava per saziarsi, era stanca di mangiare cibi pre-cotti, erano come la sua vita, insipidi.
Restava sdraiata sul letto con lo sguardo spento, immobile come se fosse morta, finirla adesso con la sua vita, sarebbe stato molto meglio, era rimasto tutto invariato per tredici anni, come poteva cambiare ora la situazione.
Nei suoi occhi si accese una luce, quella riflessa del cellulare che squillava con una di quelle suonerie che si trovano già nell’apparecchio. Aveva un modello vecchio, di quelli che avevano lo sfondo tutto di un colore, con i tasti grandi e che avevano una memoria scarsa. Per un po’ lo lasciò suonare, poi allungò il braccio e fissò il numero di chi stava chiamando. Spostò il dito sul pulsante per farlo smettere, ma prima di premerlo, spinse velocemente il tasto centrale e rispose.
«Per quale motivo oggi non sei andata a scuola?!» La attaccò subito Vale.
Non disse nulla e, sebbene non le importasse molto l’opinione di sua madre, sentiva ribollire qualcosa dentro, che saliva e iniziava a scottarla.
«E a te cosa importa?» Chiese la ragazza.
«Non farmi arrabbiare più di quel che sono ora… A me mi fai proprio innervosire…»
«Non si dice “a me mi”…»
«Selena!»
La ragazza staccò il cellulare dall’orecchia e interruppe la chiamata. Lasciandolo cadere a terra, si alzò, andando alla porta accanto e l’aprì senza alcun avvertimento.
«Tu! Sei stato tu a dire a Vale che non sono andata a scuola!», gridò.
«Adesso non se bussa più?» Commentò Giulio fermando la musica assordante.
«Non cambiare argomento!»
Sbatté violentemente la mano sulla scrivania, non importava quanto era doloroso, era uno sfogo, che sicuramente non migliorava la situazione, al contrario…
Giulio si alzò e Selena sentì quella cosa che le bolliva dentro, bruciarla completamente, paralizzarla, e le fece cambiare il ritmo monotono del suo cuore, tramutandolo in un pulpito doloroso. Aveva un una scossa di terremoto dentro di sé era come una frequenza, che dopo una lunga linea orizzontale, diventava improvvisamente sghemba ed agitata, con un suono martellante di allarme.
Prima che se ne accorgesse, lui le aveva afferrato il polso, nonostante avesse capito che era inutile tentare di liberasi, tentò ugualmente, presa da un forte istinto. Era come un animale alle strette, con il quale non si poteva ragionare, trascinato dalla più grande disperazione e paura. L’unica reazione di Giulio fu quella di strattonarla, avvicinandola a lui.
«Non te convié alzà a testa, chi comanna qui so io!» Le sussurrò nell’orecchia, in un modo disgustosamente sgradevole. «Potresti pentirti di quel che fai… a me non dispiacerebbe passà del tempo co te… e ti assicuro di regalatte degli incubi che non dimenticherai facilmente».
La avvicinò ancora a sé, mentre lei non riusciva più a muovere le gambe o a dire qualcosa, rispondeva solo il suo cuore, in un silenzio lugubre.
Con un sorriso maligno la lasciò andare bruscamente, tanto da farle chiudere gli occhi, nonostante cercasse di convincersi che non aveva paura. Giulio lasciò la stanza, chiudendo la porta.
Rimase immobile, ansimando e respirando a tratti. Le gambe non la ressero più e finì contro la parete, scivolando a terra. Non riusciva a non pensare a quel che le era accaduto e questo la faceva rabbrividire. Era chiaro il significato dietro le sue parole, non avrebbe sopportato tanta umiliazione e sapeva che non era il tipo che scherzava, pur dandolo a vedere.
Si mise una mano sul petto, come se volesse cercare di fermare il cuore. Mentre guardava il soffitto, chiuse gli occhi, tentando di calmarsi.
 
Alle dieci e venticinque, la ricreazione non la sollevò affatto, non voleva gente intorno, se la evitavano era pure felice, così, per non fare la figuraccia di una che non sa che fare, si mise davanti alla finestra, ad osservare la strada, la siepe, il bar… e i ragazzi che facevano sega. Oltrepassò quella banale vista, tramutandola in una distesa di sabbia dorata baciata dal sole, ed un blu che si perdeva all’orizzonte. Vi affondò lo sguardo ammaliato e allo stesso tempo malinconico, così come Lobo fissava la prateria, prigioniero di una catena. Era solo il residuo di un ricordo, uno di quei pochi che sembravano schiarire la pietra di cui era fatto il suo cuore, facendola diventare bianca, bianca come le pietre che si trovavano sulla spiaggia.
Fortunatamente o sfortunatamente, nessuno le parlò e subito dopo aver mangiato, gettò lo zaino come un sacco di spazzatura. Si lasciò cadere sul letto scricchiolante e chiuse gli occhi.
 
Dopo soli tre giorni di scuola il suo corpo si era abituato, si era risvegliata alle sette e mezza. Si sotterrò con le coperte, nel letto che maledì spesso non sapendo con chi sfogarsi. Qualcosa le remava contro, sentiva che una parte del suo corpo le imponeva di alzarsi, era insopportabile. Spinse via le coperte, si mise le solite calze antiscivolo, si avviò verso la porta in fondo al corridoio e si liberò da quel tormento. In un modo o nell’altro stava ancora offendendo il luogo in cui si trovava, famoso per la ceramica ed ora lei stava urinando proprio in quella ceramica, anche se è proprio a quello che serviva.
Non assomigliava affatto al minuscolo bagno del suo piccolo appartamento, era spazioso, con una vasca da bagno e un grande specchio. Sembrava la casa di un re.
Tornò indietro, verso la sua stanza, notando la porta avanti e si fermò a guardare all’interno: la domestica era lì. Non aveva fatto nulla di male, ma Selena la detestava comunque, era lei che doveva assicurarsi che andasse a scuola e se la ragazza avesse avuto qualche almeno spicciolo avrebbe cercato di corromperla.
La filippina la guardò e si voltò subito.
«Non c’è nessuno in casa» le parlò, stranamente.
Lei restò immobile; la matrigna non c’era mai a casa, era una di quelle persone sempre super impegnate, meglio non averla a casa. Anche i due impiastri, uscivano sempre con i loro amici e dove infondo? Che posto noioso quello!
«Lei non esce da quella stanza molto spesso, ora che non c’è nessuno ne approfitti e si vada a fare un giretto» le consigliò.
«Non ti stanchi ad essere trattata sempre in modo tirannico?» Chiese la ragazza.
«Se hai bisogno di lavorare ti ci devi abituare per forza…»
Selena tornò nella sua stanza e un quarto d’ora dopo si ritrovò davanti alla porta della taverna, perché non cambiare musica? Aveva ragione la signora e uscire non le avrebbe fatto male, avrebbe respirato qualcosa di diverso dai soliti germi maschili.
Mise la mano sulla maniglia e si decise a far ricadere il peso. Subito la investì la luce, che fece apparire le pareti bianche più luminose.
Prese una strada a caso, mentre davanti ai suoi occhi passavano davanti le case dei “comuni mortali”, erano sempre ville, ma quella della sua matrigna le faceva apparire della baracche.
Era ancora presto, faceva freddo, anche se c’era un sole abbagliante, che faceva apparire di smeraldo le chiome degli alberi.
Arrivò ad un campetto, con una pista ciclabile e un piccolo campo da calcio con erba sintetica, mentre infondo a sinistra c’erano degli scivoli mezzi distrutti.
Andò al centro, nel perimetro del campo da calcio e senza pensarci su, si tolse le scarpe di plastica e le sembrò che i piedi iniziarono a respirare.
Non era un posto poi così bello, l’erba era secca e fra quella sintetica erano cresciute dell’erbacce, ma era grande e spazioso, si apriva violento al cielo azzurro, ed, almeno la mattina, era silenzioso, solo gli uccelli erano attivi, il loro canto vivace era rassicurante.
L’occhio le ricadde fra gli arbusti di mimosa, continuò a fissare a lungo da quella parte, attendendo, ma poi si decise ad avvicinarsi. Arrivò sulla pista ciclabile e si abbassò, vedendo qualcosa che sembrava una palla ai piedi della grande mimosa. Osservò meglio, quella palla si alzava e si abbassava ed appariva soffice e morbida.
Nell’ombra si accesero due bagliori e si mossero leggermente, forse era una sua impressione, ma era troppo reale. Gattonò più in fondo e vide più chiaramente, sentendo un brontolio. Con movimenti lenti, mostrò la mano scoperta e l’avvicinò, mentre le venne incontro un piccolo puntino nero e umido, che si abbassò e poco dopo sentì qualcosa di soffice sfiorarle il palmo, raggiunto dal calore.
Mostrò un sorriso e continuò a passare fra le dita il pelo granuloso di terra. Non badò molto a quel che aveva davanti, era diverso e lei di diversità ci capiva.
Il secondo giorno di scuola qualcuno le aveva parlato finalmente, facendole una domanda: «Sei italiana?» Un idiota che non aveva pensato nemmeno al suo cognome e non fu neanche il solo, anche “un collaboratore scolastico” –un bidello, in sintesi- lo chiese.
La cosa la faceva proprio innervosire, all’inizio non le faceva né caldo né freddo, ma poi anche dei rumeni le fecero quella domanda e anche professori. Non era un’esagerazione, glielo chiedevano in tanti e poi lei non parlava nemmeno dialetto, aveva solo un accento diverso.
Alla sua vecchia scuola qualcuno la chiamava anche “pel di carota”, ma lei stessa ci scherzava, era incredibile immaginarlo ora. Avrebbero iniziato anche qui a darle quel soprannome, ma anche di più cattivi.
Le lunghe orecchie dell’animale la fecero sorridere ancora di più, ma mai avrebbe riso prendendolo in giro.
Somigliava ad un fennec, aveva zampe lunghe e sottili, un corpo snello ed agile e una lunga coda che terminava con un ciuffo di pelo più folto e nero. I suoi occhi erano grandi e scuri, sembrava di tuffarsi in tazze di caffè, erano profondi e le davano la viva sensazione che la scaldassero, proprio come caffè caldo.
Aveva un pelo chiaro, come la sabbia arsa del deserto e dorata come quella del mare ed era soffice, tanto soffice. Intono al collo il pelo era più fitto e chiaro, bianco, ma difficilmente lo si notava.
La ragazza continuò ad accarezzarlo, benché fosse scomoda quella posizione, sarebbe rimasta così anche ore. Ogni volta che alzava il suo pelo, sembrava che irradiasse gratitudine, era felice che lei sapesse essere di compagnia a qualcuno.
L’animaletto le leccò il palmo della mano e a quella sensazione, sembrò quasi sciogliersi e continuò a sorridere.
Il suono della campanella la riportò alla realtà, per tutto il tempo della spiegazione della professoressa era rimasta a fissare il vuoto, sognante. Oggi era diverso dagli altri giorni, sentiva di avere un motivo per voler uscire a scuola, un motivo per sentirsi viva.
Fra l’indifferenza dei compagni, si mise a guardare fuori dalla finestra, si sentiva rilassata e ansiosa, una cosa buona era riuscita a spremerla da quell’insignificante paese.
«Il sole c’è, eppure non si vede» disse qualcuno alle sue spalle, ma lo vide a malapena, fra i ciuffi che le scendevano sugli occhi.
Sembrò quasi offesa e tornò a guardare fuori dalla finestra. Solo adesso penso che stava sorridendo, leggermente, ma stava sorridendo. Fece riemergere quella frase, ma subito dopo la spinse in fondo a forza.
 
 
 
 
 
 
Poco prima che iniziassero le vacenze ho saputo che la nostra scuola ha vinto un concorso di scrittura in cui ho partecipato con questo racconto peccato però che il premio l'ha vinto la scuola... Anche se è una vittoria collettiva, penso di aver contribuito molto alla vittoria avendo letto gli scritti di alcune delle mie compagne...
Non ho nient'altro da aggiungere e concludo ringraziando Willow Gorgon e Darkboi che seguono le mie storie ^^
Alla prossima
Tsutsu

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