Tra ex e marito, mai mettere il dito

di Columbrina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La rivolta degli ex! ***
Capitolo 2: *** Eclisse totale del cuore... E non è una romanza! ***
Capitolo 3: *** Punto focale ***
Capitolo 4: *** Errori di fonetica o un semplice purè alle mutande? ***
Capitolo 5: *** Karma ***



Capitolo 1
*** La rivolta degli ex! ***


 Mercoledì pomeriggio. Un altro giorno feriale.
Mi piace svegliarmi e pensare che il tempo non esista; che sia scandito da circostanze inattese, che di solito ti portano alla deriva o all’esaurimento totale della monotonia che affligge l’adulto e responsabile padre di cinque figli più uno acquisito. Mi piace svegliarmi ai lati delle strade, sotto un lampione, scoprendomi circondato solo da grattacieli, i più alti del mondo. Mi piace svegliarmi e sentire l’inebriante odore del caffè che viene su. O più semplicemente, mi piace assaporare ogni singolo attimo delle mie azioni quotidiane, a iniziare dai corpuscoli di mascara punteggiati sul viso di mia moglie la mattina, bearmi delle coccole e delle urla dei miei figli fino a respirare la frescura delle lenzuola. Mi definisco un autore di pagine di vita.
In questo bel pomeriggio primaverile, il sole non da pace alla crisalide cittadina, impregnata nelle ore nere della giornata. Nere per il traffico, s’intende.
Io ho la fortuna di bearmi della frescura degli abeti che si stagliano ai fianchi della strada immacolata che da dritta al campo di calcio di mio figlio maggiore. Alcuni raggi attraversano il terso vetro dei finestrini, mentre uno stridio asmatico precede la sosta dei pneumatici sull’asfalto. Lo stereo è spento. Quando sono fermo in un auto, nella trepida attesa del mio figliolo di otto anni, cercando di celarmi nell’anonimato e per di più, nella desolazione assoluta il minimo che posso fare è salutare il bidello che, puntualmente, sosta accanto al cancello dell’ingresso del campo, poi bearmi dei miei pensieri e armandomi di molta pazienza. Certe volte diventa fastidioso ascoltare me stesso, specialmente quanto più ricordi sovraffollano e si affastellano cercando di ottenere considerazione. Quindi penso…
Niente.
Fantastico. Non ho pensieri che mi tartassano. Sempre lo stesso. Lei. Da quattro dannati anni, l’ultima volta che ho sentito la sua voce al telefono, scrutato quei caratteri un po’ tondi delle sue lettere che a Natale che sovraffollavano la cassetta della posta e quando uno stillo bollente rigava una mia guancia perché mi mancava. Noi autori abbiamo l’emotività nel sangue e pulsa forte la notte, quando mi capita di inumidire il cuscino con le lacrime e invento la scusa del cane che ci ha fatto i bisognini mentre dormivo.
L’attesa si stava prolungando. Ogni mio gesto meccanico era scandito dal picchiettio febbrile delle mie nocche sul cruscotto, sguardi veloci al cancello, poi all’orologio, poi alla camicia della divisa da lavoro che mi stava stretta a causa del lavaggio di mia moglie Mar. Poi, ecco che intravedo lo sguardo felice di mio figlio, la zazzera castana indocile e visibilmente sudato mentre mi fa un cenno affettuoso di saluto e apre la portiera per salire.
E’ palesemente felice. Lo trasuda anche quando adagia dolcemente il borsone sulle sue gambe e prende il posto di fianco a me. Mi mostra il suo sorriso che mi infonde una sensazione di benessere illogica e provo una profonda tenerezza dalla dentatura priva del sesto dente da latte.
“Come è andata?” chiedo, ingranando la prima.
Li abbiamo distrutti! Schiacciati come una lucertola al sole! E il mister ha detto che mi fa titolare alla prossima partita perché ho fatto tre reti su quattro!”
“Bravo il mio Pedro!”

Friziono la testa del mio primogenito di otto anni che mi sorride nuovamente, con rinnovato orgoglio della sua piccola vittoria calcistica.
Pedro è mio figlio di otto anni, avuto da Kika, la mia prima moglie; spedisce puntualmente recapiti e retribuzioni per contribuire al mantenimento e alla retta della scuola del bambino, come accordato. Ieri ci ha spedito una foto di lei e mia sorella Alelì dalle Canarie. Quelle due sono proprio della stessa pasta.
Fare il papà barra casalingo è l’aspirazione migliore a cui si possa ambire. E, per mia fortuna, ne ho cinque di figli più uno acquisito.
“Papà, ci fermiamo alla gelateria?” mi prega, con i suoi occhi di puerile innocenza ambendo a intenerirmi, pur sapendo bene che abbiamo altre quattro persone da portar via.
“Oggi no, Pedro. Dobbiamo andare a prendere i tuoi fratelli in piscina, poi andare all’accademia di danza dove stanno tua sorella e tua cugina”
Pedro cancellò dal volto l’espressione di compiacimento che ostentava qualche istante fa, tiro in dentro le guancie, si abbandonò al sedile e mise le braccia conserte in segno di disappunto.
“Uffa, che pizza!” protestò, ma limitandosi a questo.
Ciò mi fece sorridere ancora una volta, facendomi assaporare un altro splendido lato della paternità e dei capricci odierni che, però, detti da un bimbo di otto anni risultavano talmente adorabili.
Svoltai a destra. Parcheggiai di fronte a una costruzione poco imponente, quasi anonima, ma che emergeva grazie al delfino luminescente in bella vista, a mo d’insegna. Dalla porta distinsi due figure bionde, alterate dal doppio vetro. Poi riconobbi i miei due gemelli che facevano a gara e la mia auto era il traguardo. Vidi anche lo sguardo di Pedro mutare dal triste al felice di rivedere i suoi fratelli conterranei, in una frazione di secondo. Appena entrarono si innescò un tramestio, scandito da pochi termini certi, proteste e insinuazioni di gioco sporco. Non intervenni. Mi piace assaporare anche le diatribe dei miei gemelli.
“Ragazzi… Ehi…”
“Ciao, papà!”
gridarono in coro Romeo e Santiago, rispettivamente nati a due minuti di distanza, circa sei anni fa. Sono figli miei e di Mar, ma Pedro li ha accolti nel migliore dei modi. Forse perché aveva solo due anni.
“Oggi ho fatto più vasche di Romeo!” esultò la voce cristallina di Santiago, iniziando a saltellare sul sedile all’estremità destra. E di lì, iniziarono subito le proteste del gemello sul quanto, però, fosse lento nell’atletica.
Ovviamente, prima che un’anziana signora ci facesse il malocchio, li intimai di smetterla e che tra poco sarebbero salite delle signorine, quindi dovevano comportarsi da educati cavalier serventi. Romeo emise una pernacchia.
“Quelle non sono signorine” disse caustico
“Sono delle cornacchie che non fanno altro che starnazzare!” aggiunse Santiago
“E sgridarci se tiriamo i capelli!” fu il secondo intervento di Romeo
“Ma sono pur sempre le vostre sorelle… Anzi vostra cugina e vostra sorella!”
“Si, ma per colpa loro non posso andare in gelateria!”
protestò Pedro, mettendo nuovamente le braccia conserte.
Non li biasimo ai miei ometti. Ma devo confessare di avere un piccolo favoritismo per le mie principesse, dato che sono in minoranza numerica e devono accontentarsi delle biciclette nere o blu, invece che rosa con il cestino per la bambola.
“Eccoci qui!”
Svoltai a destra e vidi la mia piccola principessa Beatriz, in tutù rosa e due codini disfatti, mentre si dirigeva verso la macchina con Greta, la figlia di mia sorella e unica compagna di giochi della mia unica figlia femmina.
Romeo si scostò sul sedile centrale per permettere alle due di entrare. Tra i due gemelli, lui è di sicuro il più galante. Degno del suo nome, d’altronde.
Ciao, papà!” esordì la voce argentina e chiara della mia principessa di quattro anni, mentre si protendeva in avanti per darmi un bacio sulla guancia. D’altro canto, anch’io mi protesi verso di lei.
“Ciao, amore. Ciao, Greta!”
“Ciao, zio! Oggi ci hanno dato nuove scarpette!”
annunciò trionfante la mia adorata nipotina che, ora, era divenuta parte integrante del nostro folle nucleo familiare. Tra figli acquisiti, altri che sbucano dal nulla come funghi e nuovi in arrivo, figuriamoci quanto sia tediosa la vita quotidiana.
Davvero? E sono rosa come i vostri tutù?”
“Quelle di Bea sì, le mie sono bianche perché sono più grande”

Ed ecco che iniziano a beccarsi anche loro due; il duo assodato contro l’invasione dei maschietti. Per quanto possano trarre in inganno i loro riccioli castani e quegli occhi furbi, le due piccole principesse sono a dir poco tremende e il loro affetto è alimentato da una competizione reciproca e sana tra cugine di primo grado.
E, così, sconquassato dopo una giornata lavorativa, l’afa precoce e rintronato dai battibecchi dei miei figli, mi rendo sempre più conto che questa è una giornata a dir poco meravigliosa.
 

 

 
Quella sera a cena, per la fortuna di tutti, ho cucinato io sebbene la mia adorata mogliettina si sia dilettata in ricette casalinghe, trovate per caso mentre trafficava in Internet, ma che avevano conferito a un risultato a dir poco mediocre. Ho finto che le ricette teleinformatiche sono poco attendibili, quindi le ho proposto di rilassarsi sul divano, leggere una bella rivista mentre io preparavo la cena. Poverina, aveva anche fatto la spesa! E mi sono ritrovato il frigo traboccante di cibo nuovo.
Per il suo impegno, le ho risparmiato un bel sermone sull’ordine casalingo.
La cena filò in men che non si dica, scandita da qualche borbottio di Mar, dai litigi dei gemelli, dei racconti entusiasti di Bruno (il figlio di Mar e Thiago), Pedro e le due femmine di casa Ordonez – Rinaldi [ecc.]. Un mercoledì sera come gli altri. Fino a quando…
“Se avete finito di mangiare, bambini, andate in camera vostra a dormire!” fu l’ordine perentorio di Mar che, quella sera, non voleva ascoltare contestazioni.
Salutò i bimbi con rapidi baci sulle guancie, prima di iniziare a trafficare con i piatti e le stoviglie. Quella sera appariva visibilmente tesa.
“Ehi…” esordii, approcciando a una conversazione che, mi sarebbe servito da espediente, per scoprire il motivo di tale spossatezza. Mar non era mai stata pratica nel celare le emozioni, figuriamoci a mentirmi.
“Si” mi disse, senza incrociare il mio sguardo
Perché tanta fretta nel mandare i bimbi a letto? Guarda che...” mi alzai dal posto e le cinsi la vita dolcemente “Non ci dobbiamo vergognare”
Mar rimase con un piatto a mezz’aria, in bilico sul da farsi. Poi si divincolò rapidamente, liquidandomi con un Non è per questo.
Iniziai a percepire un fievole formicolio.
“Allora, cos’è?”
Il tintinnio delle stoviglie fungeva da mediatore nella conversazione, quasi a giustificare la codardia di Mar nel rivelare a suo marito ciò che la turbava. Forse quella cenetta pronta che ha preparato lei appena siamo tornati (E che abbiamo scampato, ringraziando il Cielo!) era un pretesto per dirmi qualcosa o nascondermi ciò che stava accadendo deliberatamente. Il mio pensiero andò dritto a Valeria.
“Ti ha chiamato Valeria?”
“Che c’entra ora Valeria? Pensi ancora a lei?”
“No, solo che… Non la sentiamo da una vita e magari ti ha turbato una sua telefonata o una sua lettera, non so…”

In cuor mio speravo fosse così perché in tal caso avrei dimenticato ciò in men che non si dica. O meglio, sarebbe stato il giorno più bello della mia vita finora.
“No, non riguarda Valeria”
Riempì il lavello con acqua e un’eccessiva dose di detersivo per stoviglie. Poi gettò lo strofinaccio per terra e rapidi lacrime iniziarono a rigare le sue guancie. Come primo impulso, l’abbracciai.
Calmati… Dimmi che succede…”
La feci sedere sulla poltrona. Era sconvolta in modo palese.
“Non so se posso…”
“Riguarda Alelì? O uno dei bambini?”
“No”

Esplose in un pianto a dirotto.
“E allora, cosa?” la incalzai
Riguarda Thiago”
Quella rivelazione mi lasciò sinceramente devastato. Thiago. Però, che notizia. Sin da quando Mar e lui avevano troncato la loro relazione, non si è fatto mai più vedere, se non in occasione dei compleanni di Bruno o quando a Natale lo portava a sciare con i figli di Nacho e Caridad. In cuor mio, poi, avevo vivo il timore che mia moglie fosse ancora innamorata di lui. L’ho sempre saputo. Mai parole di quel mi risultarono più forzate da parte di mia moglie.
Mi misi a sedere anch’io dinanzi a lei, nel tentativo di non imprecare o scardinare come avrei voluto.
Andiamo, non c’è bisogno di piangere…”
“Non mi chiama da sette dannati anni, capisci? Ai compleanni di Bruno neanche aveva il pudore di guardarmi!”

Ebbi un subitaneo e chiaro flashback dei tempi andati, quando ogni volta consolavo Mar a causa delle sofferenze che le infliggeva Thiago. Mi sentivo perennemente scomodo nel ruolo dell’amico.
Vorrà riallacciare i rapporti!” la consolai, carezzandole le guancie rosee e spruzzate di gocce salate
“Non è così facile. Ha detto che vuole vedere me e Bruno domenica. Usciamo a pranzo tutti e tre”
Tentai di mostrarmi compiaciuto o almeno invogliarla ad accettare l’invito. D’altronde Bruno è figlio legittimo di Thiago. Ha tutti i diritti di vederlo quando vuole.
“E Bruno?”
“Non lo so”

Di lì in poi ricordo solo che la confusione appannò la mia mente, tanto da congedarmi da lei con un tenero bacio a fior di labbra. La frescura delle lenzuola mi rinvigorì un po’, ma non riuscì a togliermi dalla testa il ruolo di mediocre capro sfogatoio per colei che aveva deciso di vivere il resto della sua vita con me.
 

 

 
Quel mattino, ero io l’incaricato ad accompagnare i bambini a scuola, ma Mar mi agevolò il lavoro affidandomi solo la piccola Bea. Probabilmente un espediente per farsi perdonare; ma io non ero furioso con lei. Anzi, quel mattino non mi sembrò diverso dagli altri.
Io e Bea stavamo cantando in macchina. Era il  CD di Nino Bravo, il suo preferito. Ricordo che feci conoscere quel cantante a Valeria, quando arrivò alla Casa Magica ed era ancora quel diamante grezzo che tanto mi boicottava. Ero proprio masochista. Ma proprio non potevo resistere a quel suo amabile sorriso, ai suoi capelli biondi, al suo incarnato roseo…
E, ora, eccomi, a cantare la colonna sonora del mio vero amore adolescenziale con mia figlia, bruna e il viso spruzzato da tenue e tenere efelidi, con indosso un adorabile e vaporoso grembiule rosa a quadretti. Aveva anche una melodiosa voce bianca. Degna figlia di suo padre!
Papà, prometti che oggi mi porti al parco?”
“Oggi non hai danza?”
“Eddai! Una lezione in più… Una lezione in meno…”
“Sei proprio una piccola faina, tu!”

Beatriz rise teneramente.
“Ti prego, papino…”
Non fatevi ingannare. Non ha usato il trucco del labbruccio.
“Ma non dirlo ai tuoi fratelli”
“D’accordo. Lo prometto!”
“Siamo arrivati!”
annunciai.
Aprii la portiera e la feci scendere, proprio come fa un cocchiere con una principessa.
Prego principessa”
Bea mi abbracciò teneramente.
“Quando mi farò grande voglio sposarti, papà!”
“Andiamo, papà è solo un vecchio ranocchio grinzoso!”
“Facciamo solo un ranocchio”

Mi finsi offeso e iniziai a solleticarle i fianchi, poi il collo e le braccia destandole singulti e risate a per di fiato. Mi implorava di smetterla, mentre io mi univo alle sue risa, assaporando quel tenero momento tra il padre e una figlia.
“Accidenti!” gridò la voce di una donna, preceduta da uno schianto e la deflagrazione in un antifurto.
Alzai gli occhi e smisi di torturare di solletico la mia bambina e vidi che il soggetto dell’imprecazione della suddetta signora era la mia auto! Nuova, per giunta!
Dal portabagagli saliva fumo come da una ciminiera ed era sgualcito come una scartoffia macchiata d’inchiostro, futile. Il motivo del disastro era stato una svista di quella signora, ceca come una talpa, a quanto pare. Adiacente, quasi pigiata, alla mia auto, v’era il portabagagli anteriore di un’altra vettura, di un colore rosso vivo.
“Oh, no!” esclamai
“Papà, che succede?” mi chiese Bea, palesemente inquieta
Niente, amore. Vai dentro” sentenziai, inascoltato tanto per cambiare
Rimasi lì, a contemplare il disastro apocalittico in un effimero ideale materialista. Attendevo solo che l’artefice di quella carneficina si facesse coraggio e mi affrontasse a quattr’occhi.
Dall’auto rosso vivo, scesero una donna e una bambina dai bellissimi riccioli biondi. Sebbene l’abbigliamento distinto, la donna dimostrava un viso fresco e incontaminato dalle usure dell’età che poteva avere.
“Che disastro!” imprecò nuovamente la donna, torturandosi i capelli, scarmigliandoli un po’.
“Mamma, e ora?” esordì la bambina, rimasta fortunatamente illesa dopo lo schianto. Ma in quel momento, poco mi importava.
Rose, vai in classe, chiaro?”
Emisi uno sbuffo, sperando di richiamare la sua attenzione.
Signora, mi scusi… Signora…”
La presi per un braccio, nel modo più educato possibile, ma lei si divincolò, destando per un momento l’attenzione a me piuttosto che alla sua ferraglia. E solo in quel momento non volevo trovarmi lì.
Non ci credo” esordì lei, dopo un breve intervallo silenzioso
“Figuriamoci io!”
“Ciao, Rose, come va?”

Udii la voce di mia figlia parlare a quella bimba.
Bene. Tu, Beatriz?”
E mia figlia rispose, in tono colloquiale, amichevole, come se la conoscesse. Come fossero amiche.
 
“Non mi dire che è tua figlia, Ordonez!”
“Invece sì! E quella è tua figlia, vero Gutierrez?”






Saria
Nuova storia tutta Rameria con qualche slancio Ramella, per la gioia delle mie amiche.
L'avevo mostrato in anteprima alla mia cara amica rihal, incerta se pubblicarlo e grazie a lei ce l'ho fatta!
Spero sia di vostro gradimento ^.^

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Capitolo 2
*** Eclisse totale del cuore... E non è una romanza! ***


 Dopo l’accidentale contrattempo, io e Valeria ci siamo dilettati in brodo di giuggiole, crogiolandosi nei ricordi, nelle prospettive per il futuro e la nostra vita dopo i sereni anni insieme alla Casa Magica. Per l’intera durata della conversazione mi sentivo come un adolescente innamorato e, per una bislacca e a me ignota ragione, non riuscivo a disfarmi di quel patetico sorriso a trentadue denti; mi sentivo talmente imbarazzato che il fumo spirava dalle orecchie, rosse come cocomeri.
Tornai a casa che mi sentivo sotto anestesia, quasi come se aleggiasse una strana sostanza afrodisiaca che intorbidava il senno.
“Che sorriso! Che hai fatto?” mi chiede Mar, con cadenza sardonica
“Vorresti dire ‘chi mi ha fatto cosa’!” replico io, inebetito come non mai, lasciandomi abbandonare sullo schienale della poltrona a righe arancioni. Uno scempio al buongusto, ribadisce sempre mia cognata Tefi ogni santa volta che viene a pranzo da noi ogni dannata domenica.
“Cosa?”
Per un attimo, un baleno di lucidità si illumina sul mio viso, ristabilendo un contatto quasi perfetto con le sinapsi del cervello.
“Lasciamo perdere. Dopo ti spiego…”
Rimugino per qualche istante, in modo da attraccare un argomento di conversazione tra coniugi degno di nota
“Hai avuto notizie su Thiago?”
Lo strofinio dei piatti che finora aveva troneggiato nella stanza, cessò subitamente e i muscoli di Mar entrarono in un perenne stato di tensione, dal quale, temevo, non ne sarebbe uscita facilmente. Forse non dovevo sfiorare un tasto così dolente, a giudicare dalla violenza con la quale gettò lo strofinaccio sul pavimento o di come i suoi denti stridessero. Notai anche qualche piccola imperfezione a zampa di gallina che solcava la fronte. Ebbi l’impulso di emettere una risata (Non che la situazione mi facesse ridere, ma la circostanza mi faceva sbellicare); la mia mogliettina era più simile a un incrocio malriuscito di Marge Simpson con uno dei fratelli di Georgie.
“Purtroppo niente”
“Meglio così” dissi sardonico
Sapevo che non era finita.
“Mi ha attaccato il telefono in faccia, capisci? Hai la benché minima idea con quanta spudoratezza ha osato liquidarmi?”
Smisi di contemplare la pianta, ormai sfiorita, che stanziava al centro del basso tavolino di vetro che completava alla perfezione lo scenario di quel salotto \ cucina; mi voltai verso mia moglie che aveva iniziato a frizionare febbrilmente una povera posata. Non mi avvicinai perché temevo per la mia vita.
“Sai com’è fatto Thiago… E’ un po’ timido…”
Mar emise una risata tuonante.
“Orgoglioso, vorrai dire”
“Forse lo era. Poi è imbarazzato dalla situazione”
“Codardo! Un emerito codardo!” contestò lei
“Giusto anche questo. Però è il padre di Bruno”
“Si, solo perché una sottospecie di lombrico è penetrato dentro un uovo, ciò non vuol dire che gode di esclusivi diritti su di me e il bambino!”
L’andirivieni di contestazioni andò avanti per una buona mezz’ora fino a quando non squillò il telefono. Facemmo a gara per rispondere (Prima un sasso – carta – forbici, poi una corsa spietata fino al telefono). Vinse il sottoscritto, ovviamente.
“Pronto?”
“Cognatino! Sono Tefi”
“Ciao, Tefi! Che piacere sentirti!”
“Ma che carino! Senti, ho tre notizie. Una bella, una brutta e una orribile. Quale vuoi per prima?”
Come se non bastasse la risposta a scelta multipla!
“Fai tu”
“Inizio con quella bella. Io e Luca veniamo a cena da voi stasera”
Io l’avrei classificata come ‘brutta’, però viviamo alla giornata.
“Quella brutta?”
Feci un po’ di fatica nel continuare la conversazione dato che Mar non faceva altro che saltarmi addosso, stringersi con tutta sé stessa come la cozza allo scoglio e frizionarmi la testa.
“Mi è cresciuta un enorme verruca su…”
“Questa me la puoi risparmiare, cognata”
Brividi da stadio.
“Il solito indisponente. E quella orribile è che Thiago e tua moglie torneranno insieme domenica”
Quanto corrono svelte le voci di corridoio. Mi doveva capitare anche la cognata pettegola. Non mi stupirei se tra qualche anno, lei e la sua amica Melody, da brave zitelle, mettessero su un sito di curiosità piccanti tra la gente del vicinato o di stretta parentela. Riattaccai subito, sebbene gli strepiti di Tefi dall’altro lato del telefono.
Intimai Mar di scendere dalla mia schiena, intimorendola di gettarla subito sul divano, afferrando le gambe che stritolavano il mio torace in una morsa a dir poco sconcia.
“Non scendo se non mi dici che ti ha detto quella cornacchia di mia sorella!”
E meno male che erano amiche.
La gettai dolcemente sul divano, come la merce da un container.
“Stasera vengono a cena lei e Luca”
Per ripicca del mio dispetto a tradimento, mi gettò un cuscino in pieno stomaco. Mi piegai in due e finsi un malore, recitato con troppa enfasi.
“Lo sapevo già. Poi?”
“Mi ha anticipato un prossimo divorzio”
Mar strabuzzò gli occhi, visibilmente sconvolta.
“Lei e Luca si separano?”
“No. Diciamo che mi ha fornito un pronostico della tua uscita domenicale con Thiago”
Mia moglie si portò una mano alla tempia e iniziò borbottare imprecazioni contro la lingua lunga di sua sorella. Sapevo che era scomoda questa situazione, ma in faccia alla realtà si doveva pur guardare. Non nego che temevo il presagio di un secondo divorzio, ma gli astri erano tutti favorevoli alla mia disfatta.
“Sai che Tefi è una stupida e dice cose senza senso!”
“Aveva senso quando prediceva un agguato imminente di Juan Cruz”
La mia replica stravolse l’ultimo briciolo di auto – convinzione di mia moglie, la quale cancellò dal suo volto la luce sprizzante di vitalità che aveva sempre portato con sé.
“Era un’altra cosa”
“Mar. Io ti amo. Sei mia moglie, ma guardiamo in faccia alla realtà… Dimenticarti di Thiago è come costringerti a mangiare dolci. Dopo un po’ è un fardello troppo oneroso, non credi?”
Evitò di incrociare il mio volto e alzò gli occhi al soffitto. Scompigliò un po’ i capelli, portandosi il ciuffetto dalla destra alla sinistra, conferendo un non so che di trasandato al suo volto ancora fresco e privo di trucco. Le nostre iridi si specchiarono in un triste tete – a – tete con la signora realtà.
“Non nego che Thiago sia stato importante per me, anzi lo sarà sempre e lo sai. Abbiamo imparato a conviverci. Così come io con il fantasma di Valeria che ancora si aggira nelle parti più remote della tua mente”
Anch’io venni afflitto da un colpo peggiore della morte. In me svanì il desiderio di raccontarle il mio incontro con Valeria e di quando questo abbia plagiato sui miei fantasmi, più vividi che mai come sensazioni concrete.
“Valeria è un’altra faccenda” dissi io, spropositatamente alterato
“D’accordo. Però devi darmi tempo per metabolizzare il tutto e fare ordine dei miei sentimenti”
“Hai avuto sette anni di tempo. Ora affronta la realtà”
Mi alzai, consapevole del suo chiaro segnale di confusione sentimentale. E si sa, confusione è sinonimo di fine definitiva. Non mi piace provare rancore, quindi apprezzai la sua fine sincerità e le concessi un bacio sulla fronte.
“Dove vai?” mi chiese, con subitaneo slancio inquieto
“A prendere Rose”
E in quel momento, mi faceva ribrezzo persino il pensiero di aver toccato il cielo con un dito al solo pensiero di poter riallacciare i rapporti con Valeria. E mi fece sentire terribilmente colpevole.
 
 
Dinanzi all’ingresso, volevo avere le capacità mimetiche del geco in modo da passare inosservato da Valeria che si dirigeva nella mia direzione, mostrando il suo famoso sorriso. Ho sempre considerato il sorriso di Valeria come il più fresco e bello tra tutte le ragazze.
Vagliando il suo abbigliamento distinto di quel giorno, facevo fatica a ricordarmela con le felpe larghe e lise, i bermuda mascolini e i biondi capelli scarmigliati al vento.
“Perché quel muso lungo?” Problemi in casa?”
“Hai centrato il punto”
“Andiamo, non ci credo! Con un tale casalingo disperato, qualsiasi donna si sentirebbe in Paradiso anche solo al vederti in tanga mentre pulisci la cucina”
“Non sarebbe una bella vista!”
Ridemmo, compiacendoci reciprocamente della nostra auto – ironia. Lei, così disinvolta al dire ciò che le passa per quella mente allogena e intrisa di follia.
“Andiamo, non ti sei arrugginito così tanto!”
Mi diede una pacca talmente sonora che echeggiò per l’intero parco giochi e mi segò in due la clavicola. Non ricordavo tali slanci affettivi.
“Come non detto, che ne pensi?”
“Penso che tu abbia detto la cosa giusta!” disse lei sardonica
Ostentai un piglio astruso, a metà strada dall’offeso e il sarcastico.
“Ma sentitela, la signorina!”
Rise nuovamente, innescando in me una percezione di benessere di cui potevo solo bearmi, senza assaporarla fino in fondo.
“Non credere che sia comodo. Queste gonne prudono in modo allucinante!”
Si portò una mano all’altezza (o a metà strada) dall’inguine, infondendomi un particolare disagio nell’intravedere per metà le parti intime. Voltai lo sguardo e dissimulai più o meno bene dinanzi alle altre mamme che ci facevano il malocchio. Poi, notai con la coda dell’occhio, la smorfia sardonica di lei mentre scrutava il mio evidente rossore in volto.
“Sei sempre il solito!”
“Ma dico, non conosci la parola pudore?”
“In questi otto anni di matrimonio con Simon? Direi che la conosco piuttosto bene”
Valeria si era sposata otto anni fa con Simon, a due mesi di distanza da quello di Mar e Thiago. Ricordo che quel giorno, in chiesa, mi sentii spappolare la milza da una lancia affilata, stregato dalla sua bianca veste che aderiva perfettamente al suo incarnato e al colore dei suoi capelli. E per poco, lo sposo non mi prese a pugni a causa di un incidente con la sposa nei bagni in comune del ristorante.
“Certo. Come ho fatto a non pensarci…”
La conversazione stava prendendo una piega che incanalava le energie nel disagio tra ex fidanzati ritrovatasi per caso dopo un incidente, scoprendo che le rispettive figlie sono amiche e frequentano lo stesso asilo. Per dirlo tutto d’un fiato, non basterà nemmeno una trasfusione di corticosteroidi.
Tra noi due, per ora, vigeva una breve pausa, dovuta non tanto al disagio, ma alla siccità in gola dovuta alle nostre chiacchiere instancabili; mi aveva anche notificato che Gabo, ora, faceva il pediatra e gestiva una clinica psichiatra per giovani borsaioli e taccheggiatori. E’ proprio vero che nasci da incendiario e muori da pompiere.
Appena il sordo scampanellio della campana dell’asilo trillò, io e Valeria ci alzammo e ci facemmo strada per acciuffare le nostre figlie; la chioma bionda della pargola di Valeria non passa certo inosservata, ma direi che i capelli castani siano una gran voga tra i giovani di oggi!
Ci dirigemmo verso le auto (o quello che ne rimaneva), scambiandoci un sorriso laconico.
“Ho il presagio che ci vedremo tutti i giorni” dissi io con un fil di voce
“Lo penso anch’io. E voglio conoscere la tua gloriosa prole”
Una folle idea mi balenò in mente: Invitarla a cena da noi con Simon e i suoi figli. Ma poi ho pensato che ciò avrebbe contribuito ad aggiungere carne al fuoco. Mi congedai con un saluto e una risata sommessa.
“Non dovresti essere così timido” esordisce mia figlia di quattro anni che mi rivolge un eloquente sorriso
“Sarà meglio che faccia un discorsetto a tua madre prima di portarti al parco”
I bambini di oggi crescono così precocemente. E poi, lei che ne sa dell’amo… Dell’affetto? Che si sia presa una cotta? Eh, no! Non permetterò mai a nessuno di mettere le mani sulle mie principesse!
 
 
Quella sera, prima della cena, avevo cucinato nuovamente io. Mar mi aveva pregato di aiutarmi, anche solo aggiungere le spezie o regolare i gradi del forno o, più miseramente, passarmi le presine. I bambini avrebbero dormito a casa dei felici coniugi Morales, i nostri carissimi amici Jazmin e Tacho; un’ottima occasione per Santiago e Romeo di rimbeccarsi la povera Alai Morales. I miei due gemelli, però, hanno approcci dissimili con le ragazze, nonché un’età troppo precoce per pensare al sesso opposto. Che abbiano contagiato anche l’animo candido della mia piccola Bea?
“Posso fare qualcos’altro per te, amore?”
Mi chiedeva assiduamente Mar. Alla fine cedetti alle sue richieste subliminali, permettendole di preparare un’insalata. Quanto deve essere difficile? E’ un po’ come preparare il latte con i cereali… Basta che lavi le foglie di lattuga prima.
Sorrisi nel vederla trafficare con l’acqua, le verdure e le scodelle, quasi come se cancellasse dai miei pensieri ogni timore di esitazione con quel suo sorriso, o la sua adorabile noncuranza dei disastri che combinava. Quasi mi scordai della colpa che provavo nel non averle ancora rivelato il mio incontro con Valeria.
“Oggi dovevi dirmi una cosa” esordì lei, fomentando subitamente le mie mancanze “Che cos’era?”
“Niente. Cose di scuola dei ragazzi”
Nessun commento.
“Sai a che ora arriva tua sorella?” chiesi io, sfilandomi le presine e adagiandole sul bancone
“No, ma se non fosse per Luca saremmo diventati vecchi” ironizzò lei, posando la scodella d’insalata al centro del tavolo, a mo di centrotavola tra due candele fumanti.
“E Paloma?”
“Va a dormire a casa di Nacho e Caridad, così può giocare un po’ con Martina”
Per la cronaca: Martina è la figlia di Nacho e Caridad nonché sorellastra di Paloma, a causa di quei tre bei gemelli frignanti che Nacho e mia cognata hanno generato dopo una notte di ebbrezza e passione qualche mese fa. L’occasione fa l’uomo ladro e il mio amico non ha perso certo tempo.
Ero sdegnato da quella situazione così menefreghista nei confronti dei rispettivi compagni.
“Ancora con questa storia, Rama?” bofonchiò mia moglie, dopo aver udito uno dei miei sermoni sulla fedeltà nel matrimonio “Io che credevo che il fondo lo avesse toccato Nacho, ma Thiago rimane il peggiore di tutti”
“Hai sempre Thiago in agguato sulle labbra, tu! Per una sera… Calmati e pensiamo a questa serena, tranquilla e lauda cena…”
Il trillo del campanello si frappose nel nostro momento d’affetto, quasi sfociante in un bacio. Andai ad aprire e mi ritrovai una plebaglia di persone che gridava ai quattro venti ‘Sorpresa!’.
“Ma che…”
“Ciao, cognatino! Felice di vederci… Ho portato un po’ di amici… Grazie per la comprensione, sapevo che non ti sarebbe dispiaciuto” mi liquidò Tefi, filando in cucina per salutare la sorella
“Chiudi la bocca o ti entreranno le mosche” esordì la voce di Teo, simpatica da dermatite parassitaria. Teo è il marito di Melody che, frattanto, mi aveva scambiato per un fattorino sgravando un indigeribile cabarè di leccornie dopo – pasto.
“Che buon gusto avete nell’arredamento voi due”
Non ha altro da dirmi?
“Non hai dimenticato qualcosa, Melody?”
“Forse le buone maniere” disse sardonico Luca, riservandomi una bella pacca sulla spalla. Uno scialbo tentativo di consolazione, dato che le gambe mi tremavano come asticelle al vento.
“Sono finiti gli ospiti!”
“Non ancora, cognatino. Aspetta e vedrai… Eccoli stanno entrando”
Temevo stesse facendo sul serio e vidi il mondo crollarmi addosso, nel distinguere una bionda capigliatura raccolta in un elegante coda di cavallo, vestiario distinto, una leggera vela di fondotinta e un profumo afrodisiaco fruttato. Al suo fianco un cavallo con la faccia impiastrata di cerone. Lei sorrideva, visibilmente felice sebbene un velo di sorpresa palese. Ormai avevo imparato a studiarla bene.
“Valeria…”
Fu l’unica cosa che riuscii a dire prima di gettare il vassoio casalingo di Melody che lussò il piede romano del povero Luca che gemette dolorante, seguito da ingiurie di Tefi contro il suo attentatore.
“Visto che non sei riuscito a farmi fuori, vuoi uccidere gli ossi sesamoidi del mio povero marito?”
Ignorai del tutto Tefi, mentre copiose lacrime di coccodrillo rigavano il suo viso, metabolizzando un po’ la situazione. Per quale porca miseria ci facevano quei due lì, sulla soglia della porta a sorridere come due ebeti?
“Bella casa, Rama!” disse Simon, destando i primi sintomi dell’angioedema. Mi limitai a sorridere, bramando un suo decesso all’istante.
“Prego entrate”
E stufo di quei pensieri casti, mi rivolsi a Valeria borbottando un prepotente Che caspita ci fai qui?
“Lo sapevo che ti infuriavi!”
“No! Ma che ci fa LUI qui?!”
“E’ mio marito, ricordi?”
“Dettagli sconsiderati!”
“Sei il solito! Non cambi mai, perché sei così indisponente?”
“Andiamo! Solo per fare scena, Vale!”
“Si, come no…”
La presi per un braccio e stavo per condurla impetuosamente di sopra per parlarle a quattr’occhi, riscontrando ovviamente la sua resistenza e un certo slancio di veemente gelosia che mi mangiava le interiora. E sembrava che l’allegra rimpatriata stesse per decollare e prendere la via del ritorno il prima possibile fino a quando non è entrato l’ex – marito della mia attuale moglie barra madre dei miei figli.
 
“Che diavolo ci fa qui quell’energumeno?” la sentii sbraitare, mentre gli altri accoglievano con silenzio glaciale Thiago.
 
 
Né Thiago né Simon avrebbero intralciato la mia serata che non si prospettava una semplice cena di famiglia alla luce del focolare domestico.
 





Saria
Ho aggiornato più in fretta del previsto! Non vi ringrazierò mai abbastanza per il vostro sostegno sia da parte di coloro che mi hanno imparato a conoscere sia dalle novelle scrittrici amatoriali di questa sezione.
Con questa storia ho consacrato il mio cuore Rameria e prometto che nel prossimo capitolo, Rama si godrà appieno la sua vendetta e il ritorno di fiamma con Vale!
Vi ringrazierò nei giorni prossimi. Per ora, un bacio forte da Saria :)

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Capitolo 3
*** Punto focale ***


 “Bella serata, no?”
Nella semidesertica sala da pranzo, esordì uno stridore che per poco non fece esplodere la cavità acustica, ovviamente identificato nella voce di Tefi che trangugiava la seconda porzione d’insalata. Sarebbe stata una bella serata se un decesso cardiaco avesse colpito uno dei diretti interessati dei miei folgoranti improperi che scagliavo contro loro come una telecinesi.
Il proposito originario della serata era una tranquilla cena familiare, ma che si era tramutato in un manicomio per gatti randagi, crogiolati nei loro grilli esistenziali mentre ingurgitavano il cibo preparato da un altro. I pochi momenti degni d’interesse erano le coccole di Luca a sua moglie (e i suoi eccitanti momenti di frenesia), le ispezioni orali di Simon alla bocca di Valeria o, anche, i borbottii sommessi di Mar verso Thiago.
“Stavo pensando…”
Trucidai mia cognata, prima che potesse emettere un nuovo e rinnovato stridio; Tefi assunse un’espressione che andava ben oltre il limite della sottomissione. Mar mi ammonì con una dolce bussata al gomito.
“Dai, sii più carino con mia sorella” mi mormorò
“Mar, non te la prendere. Rama è sempre stato un po’…”
Luca fece un gesto eloquente con la mano e il suo sguardo era inequivocabile: Rissoso come un mandriano in uno di quei pub desolati nel Sol Levante.
“Luca!”
“Scusa, cognata”
Non occorreva aggiungere cenere al fuoco anche alla brace di Mar, fumante perché Thiago, seduto a un palmo di naso di lei, teneva gli occhi bassi sul piatto colmo di foglie di lattuga. Mia moglie tirò in dentro le guancie, indignata che non gradisse il piatto preparato di suo pugno.
“Thiago, non sei molto loquace stasera” dissi io. Pessima mossa.
Nella sala da pranzo si installò un silenzio di tomba, che quasi mi fece accapponare ogni follicolo che non fosse contagiato dal sangue fermentante della vendetta contro il suddetto adescatore. Persino Tefi aveva preferito concentrarsi sulla cena che sul mio sforzo di attaccare bottone che, per la cronaca, risultò vano dato che Thiago si strinse nelle spalle, sfoderando un anonimo sorriso di cortesia.
“Abbi almeno la decenza di risponderlo!” sbraitò quel puma dirompente che ho la fortuna di aver sposato. Sorrisi, sentendomi vincitore.
“Accidenti, stiamo calmi!” Fu il calzante intervento della giraffa.
Il purosangue e la consorte, per la durata della disputa, non avevano ancora esposto i loro animi a tale agonismo latente sebbene il loro palese spirito di competizione, specialmente quando l’occasione di azzannarsi si presentava su un piatto d’argento.
Invogliai  con piglio truce, anche solo a chiedere di andare in bagno, Valeria ad aprire quelle dannate labbra che stavano lì, statiche e rigate da un filo di rossetto rosso, a istigarmi le fantasie più stuzzicanti. Se non fosse stata presente tutta questa marmaglia, non so se avrei risposto ai miei istinti primordiali.
Le prime due portate erano filate via in un battito di ciglia, scandite solo da qualche sbirciata avversiva verso Valeria che, per tutta la durata della cena, non mi aveva defecato affatto. Neanche fossi un estraneo, nonostante sia stato io a privarla del voto di castità in quella baita sperduta. Ora mancava solo il dolce e, per fortuna, il cabarè di pasticcini di Melody era ancora integro.
“Chi va a prendere il dolce?” esordì Mar, affrontando l’apice della cena col più assoluto menefreghismo.
“Vado io se volete”
Valeria si era offerta volontaria. Un barlume divino si era spianato sulla mia casa, graziandomi con questo intervento provvidenziale. Non avrei impiegato nessun arco di scienza per trovare una scusa plausibile per sviare in cucina, dove si stava dirigendo seduta stante.
Tossii subitamente.
“Amore, che succede?” mi chiese mia moglie, carezzandomi la nuca.
“Niente, vado a prendere un bicchiere d’acqua in cucina…”
Feci per alzarmi, quando quel differito mentale di Teo notificò animatamente che ce n’era una caraffa piena proprio al centro del tavolo. Mi risedetti, crogiolando nella mia vena drammatica e meditando le più macabre vendette contro quel procrastinatore dei miei stivali, lì, col suo sguardo statico a carezzare i capelli di sua moglie senza alcuna rivelazione emotiva.
Sbocconcellammo i dolci in silenzio, almeno le suddette cariatidi da sarcofago (Io, Mar, Thiago e Teo), mentre gli altri si dilettavano in aneddoti futili come la validità di una mazza da polo per mancini.
“Io propongo di andare. E’ stata una serata stupenda, sorellina! E tu, cognatino, sei un cuoco da manuale!”
Da quando avevamo interrato la falce dal guerra, Tefi era divenuta svenevolmente sgradevole con quei nomignoli da due soldi che mi facevano traballare la zona occipitale.
“Già, proprio una cena da paura!” fu il commento sardonico di Teo che prese sua moglie per mano e la trascinò fuori all’ingresso, senza nemmeno avere la decenza di salutarci
“Teo non è mai stato particolarmente loquace, dovete perdonarlo…” ci notificò Tefi, a mo di scusante del marito della sua migliore amica. In realtà non era nei miei interessi aggiungerlo alla cerchia delle mie amicizie.
“Meglio così” dissi laconico io, lanciando l’ennesimo sguardo fugace a Valeria, la quale, stavolta, ricambiò con una latente improvvisata
“Bene, sorellina, stai attenta a non farti mangiare dallo squalo, eh!” mormorò Tefi a mia moglie, nel tentativo di improvvisare uno di quei codici inintelligibili, ma che risultarono come un patetico approccio a una richiesta di divorzio immediata
“Ora andiamo, amore. Ciao a tutti!”
Luca trainò letteralmente sua moglie per uno stinco in modo da cessare le sue ciarle da uccello del malaugurio. E rimasero in cinque. Non per molto, dato che Thiago diede quasi subito le spalle a Mar e si diresse oltre la soglia; fece un debole cenno e salì sulla sua insipida (pluriricercata) auto.
E rimasero in quattro. Numero concomitante ai lati di un pericoloso quadrilatero.
“Sembra arrivata l’ora X!” fu il saluto di Simon
“Ciao! Vale, un giorno di questi dobbiamo riunire le amiche!”
“Ci sto!”
Accidenti, si stanno dirigendo verso la soglia! Provvidenza mia, dimmi che è tutto un macabro incubo del mio inconscio.
“Ah” Valeria ha un’esitazione “Ho scordato il soprabito di sopra. Vado a prenderlo e torno…”
Non potevo attendere oltre. Sparai al caso una scusa su un imminente bisogno primordiale della vescica ed ero a un palmo di naso dai suoi capelli mentre percorrevamo i gradini delle scale. La scortai in camera, dove a inizio serata aveva posto il soprabito sul letto matrimoniale. Un luogo calzante.
“Bella serata, vero?” disse lei, in tentativo di attaccar bottone con me, dopo una serata di sconquassante asocialità.
“Dici a me?”
Valeria rise.
“Si, non c’è più nessuno oltre a noi due, stupido!”
Il modo in cui mi riprendeva azzerava le mie facoltà di poter collaudare l’immediato contatto con la ragione. Era lungi da me ogni bramosia di saltarle addosso, ma quelle labbra stuzzicanti risuonavano in me come un inequivocabile atto provocatorio che estraeva ogni pensiero in me casto.
“Hai ragione” farfugliai come un giradischi messo in ceppi “Ti aiuto a… Mettere il soprabito?”
Quella concitazione cronica mangiava ogni mia parola di senso compiuto, sebbene Valeria era riuscita a raccattare qualche brandello per rispondere affermativamente.
Presi il trench bianco latte e passai la manica per tutto il braccio sinistro; un contatto visibilmente palpabile e disagevole, a giudicare dalle sensazioni che permeavano fino ai pori della sua pelle perlacea o al respiro incerto. Il punto focale era non mordere di baci quell’attizzante collo nudo e cingerle la vita nella morsa più passionale che ci sia, istintivo, non reclamato come la nostra prima volta. La aiutai anche col secondo ed esile braccio, fino a rimanere impalato come uno stoccafisso, contemplando i suoi gesti ambigui sfocianti in un’inaspettata repressione. Ma lì, il principio azione – reazione è andato a farsi la benedizione nel Giordano.
“Eri visibilmente agitato. Che ti prende, hai paura di me?”
Volevo risponderle, in modo abbastanza coinciso, che mi eccitava in un modo a dir poco scandaloso, ma detta così alla buona penso che, come minimo, mi avrebbe allascato una sberla da paura.
“Più o meno” risposi vago
“Andiamo…” si avvicinava, lo sentivo dal picchiettio preciso dei suoi tacchi “Mica ti faccio del male”
Frizionò la sua esile mano sulla mia testa bionda, scarmigliandola alla buona. Quei gesti ambigui mi attizzavano più di quelle labbra che reclamavano pietà.
“Vale… Vale… Che stai facendo?”
“Ti sto salutando” A me non pareva tanto, sai?
Schioccò un rapido bacio sulla mia guancia e lanciò un sorriso fugace nella mia direzione, prima che il rumore dei tacchi si perdesse nella profondità della cucina. Rimasi a contemplare per un po’ la stanza dalla fioca luce aranciata, tastai con la mano il punto in cui aveva suggellato la prova inconfutabile del suo passaggio e notai che la traccia era ancora lì, fresca e palpabile.

***

 
 
Una volta collaudato che, alle tre di notte, in preda a una crisi depressiva il cioccolato andava per la maggiore come toccasana per alleviare le accozzaglie morali, mi misi a sfogliare qualche album, alla flebile luce di un lume pagato profumatamente a un mercatino di mobili usati. La felicità statica di quelle foto toglie credito alla realtà, lontana anni luce dai sorrisi di quel giorno. O dal primo bagnetto dei gemelli o la loro rappresentazione teatrale scolastica a Natale. Il primo Carnevale di Bea… Tutto scorreva dinanzi a me, permeando in sensazioni tangibili di cui io non potevo bearmi. Purtroppo, non avevo abbastanza fegato di sfogliare le foto degli anni alla Casa Magica, nonostante le manie di conservatorismo di mia moglie. In qualche meandro sperduto della soffitta, però, custodivo gelosamente i sorrisi miei e di Valeria, durante una sera, lontani da tutti, in una baita, rinnovati dalla frescura del nostro amore. Ricominciai a sorridere come un ritardato e mormorare parole di una canzone d’amore che facevo sempre ascoltare a Bea prima di farla addormentare.
Scacciai per un istante quell’ appagamento istantaneo perché trillo il campanello. Alle tre di notte? Ma quale ritardato picchierebbe alla porta di uno sconosciuto nell’apice della dormiveglia? Un ladro, forse impaziente di tornare in gattabuia?
Arraffai istintivamente una mazza, raccattata dal portaombrelli, e incanalai ogni mia energia vitale in modo da risultare perfettamente ponderato. Ma non mi sentivo così sudato dal mio primo matrimonio!
Apri gli occhi, Rama! Avanti…
Girai la maniglia, lo scatto della serratura fu il nulla osta focale. Con fervore sproporzionato partì una stangata, smorzata da un cappello, ma il tonfo finale fu necessario. Il presunto assassino era a metà strada tra la soglia e lo zerbino del pianerottolo, quindi o mi toglievo questo peso gettandolo in una cisterna o chiamavo la polizia. Ispezionai il cadavere; aveva il volto celato da un berretto e lo scostai di qualche centimetro. Che la Provvidenza mi perdoni per aver detto quella parola.
“Che diavolo ci fai qui, Lleca?!!!”
Avrei scardinato a furia tutte le porte della casa pur di sfogare il fervore che fermentava dentro di me a fuoco lento, meditando sulle possibili scorciatoie per un omicidio a sangue freddo.
Avevo fatto sedere Lleca sul divano e tamponato il bitorzolo sulla fronte con del ghiaccio. La prima parola che riuscì a proferire fu ‘Così si salutano gli amici, Ramita?’ con quel suo tono di tracotante compiacenza nel vedere che lo accoglievo a braccia aperte. Per ora, la mia aspirazione vitalizia era vederlo in fin di vita sul ciglio della strada dopo quello che ha fatto a mia sorella.
“Tienitelo per un po’…” dissi, con tono singolarmente sgradevole, gettando lo strofinaccio nel lavello.
Mi risultò quasi spontaneo chiedermi che diavolo ci faceva in città, dopo quello sconfinato anno sabbatico sotto mentite spoglie di un trasferimento in America e per di più a Las Vegas, dove aveva sperperato i suoi averi nei peggiori casinò della città. Ci sarebbe mancato un matrimonio lampo con una turista straniera per completare il quadro.
“Lleca…” dissi io, rompendo il disagevole silenzio che si era andato a creare dopo il mio subitaneo slancio di attentare alla sua vita
“Si”
“Posso farti una domanda?”
“Chiedi pure!” disse lui, sfoderando un molesto sorriso a trentadue denti
Lo intimorii ulteriormente, trucidandolo col mio cipiglio inarcato, le pieghe distese, le guancie tirate e gli occhi sporgenti dalle orbite.
“Hai sposato una turista straniera per caso?”
“No, solo un paio di giorni” disse, senza il benché minimo briciolo di pudore nel disperdere con tale tracotanza le sue disfatte amorose. Che nervoso, accidenti!
“Un paio di… Diamine, Lleca…”
Iniziai a imprecare concitatamente, mentre Lleca trafficava con una tazzina d’antiquariato adagiata sul tavolo.
“Lleca e dimmi, perché hai abbandonato il Paese e sterminato moralmente il cuore di mia sorella?” chiesi, rinvenendo dal mio transitorio stato di trance rabbiosa
“Ecco… Non me la sentivo di addossare sulle mie spalle un peso come quello di un figlio…”
Quell’insofferenza sul volto venne marchiata a fuoco nella mia testa, mentre identificavo la sua regale faccia d’angelo come bersaglio focale del mio destro.
“E pensi che Greta sia un peso?”
Sentii avvampare mentre mi rendevo conto che i miei strepiti non servivano ad ammortizzare il menefreghismo di Lleca, interessato dai motivi floreali di una tazzina.
“Però bella casa! Devono pagarti profumatamente per mantenere questo gioiellino!”
Ma sparati un bel calcio nel sedile posteriore!
“Lleca, mi ascolti? Hai abbandonato tua figlia! Hai un po’ di etica morale in quella testa di piombo?”
E se non risponde, gli ficco una scopa nel sedere!
“Si, infatti sono qui per rimediare, ma prima di tutto mi servono soldi…”
“Per cosa?”
Un regalo per la bambina, forse? O, un’uscita al cinema in due? O, forse, era un opportunista con le mani bucate.
“Ecco, ho avuto dei problemini legali in America e ora sono ricercato dalla polizia”
Non ci credo. Non ci credo. Sturatemi le cavità acustiche e ditemi che è tutta una fandonia per posticipare il primo Aprile. Un latitante, vi dico. Non bastava la fedina adolescenziale sporca, ci si intrometteva anche la burocrazia americana!
“Lleca, hai solo un briciolo di coscienza nel renderti conto che sei un latitante?”
“Si e per questo tu mi aiuterai…”
Oggi i problemi fioccavano in casa mia, nemmeno l’invocazione delle dieci piaghe avrebbe smorzato le tremende stangate di quella giornata.
“E perché dovrei aiutarti, sentiamo…”
“Perché sei mio cognato e mi vuoi bene”
Pinzai le estremità dei suoi lobi con la medesima facilità con cui lui aveva comprato un dannato biglietto aereo, rintracciato il mio indirizzo e fatto capolino in casa mia. Le sue urla erano un vero godimento per quell’effimero piacere perverso che permeava nelle mie carni sempre più in profondità.
“No, scusami… Perché sarebbe un incentivo per farmi accettare da Greta. Insomma, chi mai vorrebbe un padre ricercato?”
Allentai la morsa, scostandomi un po’ da lui, devastato in positivo dalle sue parole, più o meno sincere.
“E se volessi liberarti su cauzione?”
“In questo caso, dovresti sborsare tipo… Cinquecento pesos più gli interessi. Sai la gente è taccagna in questi tempi”
Avendo la mente madida di problemi, il minimo che potevo fare è promettere vitto e alloggio qui in casa mia, sperando di redimerlo e renderlo più vicino a sua figlia.
Mi ringraziò con un forte abbraccio che, per un istante, ripristinò ogni istinto omicida verso quel farfallone dei miei stivali, ma che rimaneva ugualmente il mio Lleca di sempre.

***

 
 
Quel venerdì, fu di nuovo il turno di papà Ordonez di accompagnare la principessa Bea all’asilo con l’auspicio di rivedere Valeria, fede permettendo.
Per quanto riguarda la storia di Lleca… Ho spiegato ai bambini che era un cugino di campagna, appartenente al ramo fatiscente della famiglia, mentre Mar era testimone solo oculare della situazione.
“Papà, sai che il cugino Lleca ha gli occhi come quelli di Greta?”
Ma cosa mettono nei cereali per bambini al giorno d’oggi?
“Non ci ho fatto caso, sai…” risposi laconico, parcheggiando con perizia dinanzi al viottolo che accedeva allo stabile, gremito di grembiuli azzurri e rosa
“Dovresti tenere gli occhi aperti, allora, papà”
La fronte era imperlata di sudore, proprio come la mia schiena e sono certo che non era dovuto allo sfogo della sera precedente.
Perché, amore mio?”
“C’è la tua amica”
Indicò due figure in prossimità delle altalene e distinsi Valeria mentre lisciava con l’esile mano i riccioli indocili della sua bambina, ricoprendola di carezze e coccole prima che affrontasse il duro mondo dell’asilo materno. Mi rivolse un cenno che ricambiai con un sorriso inebetito.
“Bea, dimmi una cosa” le chiesi con la massima discrezione “Tu e quella bambina, Rose, andate d’accordo?”
“No”
Di bene in meglio. Ma che mi investa un tram a questo punto!
“Perché?” continuai, porgendole la cartella
“Tutti i bambini la guardano e tutte le bambine vogliono giocare con lei”
Mi destava tenerezza la precoce gelosia della mia bambina, casualmente verso la figlia di colei che avevo intensamente amato. Era un altro demenziale tiro mancino che il destino, in qualche modo, mi stava giocando.
“Ma, è la figlia dell’amica di mamma e papà”
“E allora? Mica è amica mia?”
Stava acuminando la lingua giorno dopo giorno quella piccola peste del mio sangue. Solleticai per un po’ il suo ventre panciuto, riservandole i peggiori martiri e beandomi della sua risata, così pura e tersa da qualunque alterazione. Poi le schioccai un rapido e affettuoso bacio sulla guancia.
“Ciao, amore”
“Ciao, papà”
Scesi dall’auto e raggiunsi Valeria, che aveva appena salutato sua figlia Rose. Secondo il mio parere, Bea non aveva nulla da invidiare a quella bambina, se non quei bellissimi riccioli tremendamente familiari a quelli di sua madre. Schioccai un veloce bacio sulla guancia, il consueto saluto tra genitori all’ingresso di una scuola.
“A quanto pare tua figlia non rientra nelle grazie di Bea”
Bel modo di iniziare una conversazione.
“Si, Rose mi aveva accennato qualcosa…” disse lei, visibilmente divertita
“Ti sembra divertente?”
“E pensa che tra qualche anno litigheranno per i ragazzi…”
Eh, già, i ragazzi. Un punto dolente.
“Come minimo, Bea guarderà un ragazzo dopo i diciotto anni”
“Ma che pesante che sei, paparino!”
Mi sentii avvampare, in quell’ esuberante scambio di sfogliate reciproche e irrisioni che lasciavano ostentare in modo gratuito le mie apprensioni di padre. Valeria rise nuovamente.
“Dai non te la prendere!” disse, con un tono che doveva fungere da scusante; quando aumentò ulteriormente il mio colorito con quel rapido bacio sulla guancia. Mi sentivo come il burro su una griglia rovente.
“Guarda!” esclamò subitamente “Un carretto dei gelati! Andiamo a prenderne uno”
Nemmeno mi ero accorto della presenza di quel gelataio ambulante, che ci scrutava con discrezione da dietro un cono ricolmo di cioccolato. Stavo per oppormi perentoriamente, ma Valeria aveva un forte ascendente su di me, specialmente quando mi trainava per il braccio come una banderuola.
“Vale, non mi sembra il caso…”
“Dai, ti prego!”
Mi sentivo a dir poco ridicolo, come fossi un genitore che doveva sorbirsi i capricci della propria bambina. Ed essendo testimone effettivo di ciò che si provava, cedetti a quel suo slancio di stramberia.
“Due coni al cioccolato”
Il suo preferito.
“Te lo ricordi?” mi chiese subitamente, con sguardo intriso di premura, presumo
“Mai dimenticato” risposi affabile. Ci fu uno scambio di sorrisi eloquenti fino a quando il gelataio non schermò dinanzi a noi i gelati, raschiando quella piacevole metastasi.
“Ecco a voi”
“Grazie!” dicemmo all’unisono
“Siete fidanzati?” Classica domanda del classico ciarlone
“No!” intervenni io, eccedendo di impeto
“Una volta…” aggiunse lei, sorridendo. E solo lì, notai le sue labbra, ancora velate di quel leggero drappo rosso che risaltava lo splendido color diafano della sua pelle.
C’est la primavere!” disse, ostentando un francese maccheronico, che mi fece dubitare sulla discrezione dei segreti professionali, non so se mi spiego.
Ci sedemmo su un muretto di cinta, adiacente al cancello del cortile, più desolato che mai sebbene i tramestii dei bambini giungessero alle nostre orecchie. Contemplai per qualche istante il sapore amaro del mio gelato, per poi essere allettato dalle sue labbra, dalla sua lingua che gustava piacevolmente il cono. Mi allettava quel complesso movimento circolare intorno alla spirale al sapor di cioccolato e, poi, quasi baciandola, si beava di quella frescura sotto il palato per poi riprendere il ciclo, stavolta ancora più sensuale, quasi fatto apposta per eccitarmi come sta succedendo ora.
Un momento… Fermi tutti… Da quando provo eccitazione per Valeria?
“Che ti prende?” mi chiede, subitamente, per poi riprendere a trangugiare con sensualità e perizia quel gelato, quel peccato. Ecco, mi costringe a congetturare  fantasie sconce anche sui gelati!
“Niente” dico laconico.
Trangugiai febbrilmente una quantità generosa di gelato, stendendolo sul contorno del labbro superiore e oltre.
Tutta colpa della sua impudicizia insita, caspiterina!
“Hai la faccia tutta sporca…”
“Grazie per la constatazione!” replico sardonico, frizionando febbrilmente il tovagliolo sul viso. Ovviamente non diede l’effetto desiderato. Ma che diamine lo danno a fare se poi non serve a un’ emerita cretinata?
“Aspetta, ci penso io…”
Sacrificò il suo fazzoletto e stava per adagiarlo sul labbro, accavallando sensualmente le caviglie da antilope, imprigionate crudelmente in un paio di calze color carne.
No, non poteva farlo! O la circoncisione sarebbe stata palese e il mio incaglio svelato ancor di più di quando potesse farlo il mio colorito rosso vivo. Ansimai, come incentivo per le connessioni del cervello. L’unico incitamento istintivo fu sottrarlo dalle mani di Valeria.
“Grazie…” farfugliai incerto, la fronte e le mani madide di sudore e il mio animo intriso di auto-commiserazione.
Riprese a mangiare il gelato. Mi ripromisi di non cedere alla tentazione di fantasticare su di lei. Perciò, con assoluta discrezione, caddi dal muretto come uno stoccafisso.
“Stai bene?” mi chiede lei, proiettandosi dinanzi al mio campo visivo, i cespugliosi capelli biondi agitati a suon di vento e gli occhi da tigre intimorita
“Vedo le stelle… E’ normale?”
“Dai, ti aiuto…”
Mi porse la mano, quella esile… Diamine sto ricominciando! Ma che diavolo! Da quando ho visto quel suo collo nudo ieri in camera mia, sono cominciate le fantasie da paraninfo.
“No, faccio da solo!”
Mi alzai, raschiando via i rimasugli di terriccio e asfalto dal pantalone.
“Tutto bene?”
“Si…”
Venni troncato sul nascere di una frase di senso compiuto, dal trillo di un cellulare. Il suo, presumo.
“Simon”
Parli del diavolo…
“Adesso? No, dai… D’accordo, sto arrivando…”
E spuntano le corna.
“Che succede?” le chiesi, con l’apprensione di un amico
“Simon” rispose coincisa, riponendo il cellulare nella borsa
Speravo andasse avanti col racconto perché ero avido di dettagli.
“Devo andare a un pranzo di lavoro con lui e alcuni suoi lascivi colleghi e le loro intrattabili mogli. Che noia, il solito andirivieni! Dovrò lasciare Gas e Rose a Cielo!”
Presumo che Gas fosse il nome del secondogenito di Valeria e Simon.
“E non vorresti distenderti per un po’?”
“In che senso?”
Un baleno di lucidità suprema mi illuminò prima che potessi sparare altre sentenze a caso.
“No, nulla. Allora, ci vediamo domani?”
Ritornò a sorridere.
“Si”
Mi schioccò un dolce bacio sulla guancia che attizzò ancor di più i fuochi ardenti del mio corpo.
“E grazie per il gelato!”
E, già, dallo stridio dei pneumatici della sua auto, mi parve di percepire, chiaro e discernibile, il suo profumo penetrare nei pori delle mie carni, il contatto della sua pelle sulla mia e quelle iridi così chiare. Tutto ciò mi lasciò come un povero scemo in balia di uno sconfinato soniloquio per quella sobillatrice.

***

 
 
Il ritorno a casa fu a dir poco strambo.
Mar era andata a pranzo con Jazmin e mi sono ritrovato un Lleca pantofolaio, stravaccato sul divano in bermuda, trangugiando patatine e dilettandosi nel canto di quei marsupiali animati che insegnavano a usare il vasino. Frattanto contemplai il disordine disseminato nella stanza, scandito da briciole di patatine, buste vuote, carta di giornale e alcuni depliant di agenzie di viaggi. Un albergo a cinque stelle per porci, per farla breve.
Gettai le buste della spesa sul tavolo, sperando di aver spronato il suo interesse verso il mio disappunto. Rumoreggiai con dei gargarismi con un bicchiere d’acqua e innescai un tintinnio di stoviglie.
E andiamo, girati!
Forse era troppo intontito dal crocchio di quei croccantini di mais. Aprii un’anta delle credenze e tutto gli spuntini che avevo conservato per i bambini era scomparso, presumibilmente finito nella cavità intestinale di Lleca.
“Io avrei bisogno di una mano con le pulizie…”
“Puoi chiederlo a scopa, aspirapolvere e secchio. Sono tutti nel ripostiglio”
A meno che non abbia trangugiato anche quelli.
“Almeno hai visto qualche annuncio per un lavoro?”
“Si” rispose, ma il suo tono vago non avrebbe convinto neanche lo scemo del villaggio.
Mi rimboccai le maniche, prendendo scopa e paletta, raccattando il sudiciume e il pattume disseminato sul pavimento. Scorsi addirittura le mie patatine preferite, che mi dilettavo a trangugiare durante un bel film in famiglia. Poi lessi, da una scartoffia di giornale, l’annuncio per un lavoro di animatore pagato profumatamente. O l’accompagnatore per signore. Anzi no.
“E’ arrivata anche la posta, dovresti leggerla”
“Perché non la leggi tu!” replicai io, comprensibilmente sgarbato, gettando nel pattume i rifiuti raccattati
“Perché mi taglierei le dita. E non essere così ozioso!”
Da che pulpito arriva la predica.
Lasciai per un po’ il giro di pulizie domestiche, per dedicarmi al solito paternale di bollette e suo seguito. Scorsi un paio di buste bianche e una arancione adagiate sul bancone della cucina, l’una sopra l’altra. L’unica traccia di compostezza in quella stanza.
“Bollette…” Spazzatura
“Bollette” Spazzatura
“Bollette” Spazzatura
“Pubblicità di un corso di cucina…”
Fermi un attimo!
Ecco il capro espiatorio perfetto per la distensione pomeridiana. Niente di meglio di un bel piatto cucinato bene per stirare il tedio di una giornata feriale. Per noi due, poi, sarebbe perfetto per rinnovare il nostro rapporto.
“Lleca, secondo te, un corso di cucina fortifica il rapporto?”
“Si. Niente di meglio che stare insieme per un’ora in una sala con un perfetto sconosciuto con un maccheronico accento francese!”
Fidandomi del consiglio di Lleca, l’unica perla di saggezza della sua vita per la cronaca, avviai le congetture su un prossimo rapporto fortificato fino al midollo, in modo che tra noi non ci fossero più barricate futili. La vicinanza nobilita il rapporto, no?
Digitai velocemente il numero sul telefono di casa, sperando non fosse già nel bel mezzo del pranzo…
“Pronto…” dissi
“Ti disturbo?” Incrociai le dita, invocando tutti i Santi dell’Infinito e oltre
“Bene, Valeria, ho una proposta fresca per te!”
Mi compiacqui da solo per quell’ottima trovata! E poi le donne vanno prese per la gola, si sa.


Saria
Fanciulle, grazie per le splendide recensioni che mi rendono partecipe della gioia nello scrivere e nel leggere questa fiction che, giorno dopo giorno, mi prende sempre di più.
Ringrazio in particolar modo la splendida Fra e la mia carissima amica Anna che, da mio idolo focale su questo sito, è diventata persino una delle mie compagne di menage - a - trois. Un ringraziamento speciale va anche a Marciu. Ovviamente ringraziamenti speciali vanno anche a voi, ragazze mie!
Siete favolose!

Hasta la savusilakka! :)


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Capitolo 4
*** Errori di fonetica o un semplice purè alle mutande? ***


“Ciao, papà!”
Di sera, non c’era niente di meglio che bearsi con le voci serene e le coccole della propria prole, poi ritornare a leggere il quotidiano seduto su una comoda poltrona, contemplare la prodiga moglie che si diletta nelle pulizie casalinghe, poi deliziarsi con un riepilogo della perfetta famiglia borghese.
Però, quando sei in casa mia, le cose non potrebbero essere più lungi da questo idilliaco scenario.
“Romeo! Santiago, scendete subito dal tavolo!” continuava a strepitare Mar, brandendo uno straccio da cucina e il suo più truce cipiglio. Avrebbe ricorso alle maniere meno ingentilite pur di non cadere nella subordinazione di quelle piccole pesti da giardino zoologico
“Prendi questo, brutto infame!”
Santiago colpì con una pallottola di mollica di pane l’occhio del gemello, incuranti entrambi del passo di carica sfidato della madre. Romeo, dal canto suo, dissipò tanti soldi di argenteria guadagnati col sudore della fronte.
“Bravi, così si fa!”
Disse una voce, occupando palesemente l’intero campo acustico con i suoi incitamenti da stadio. Inutile dire che è stato Lleca a indorare quella rivolta spartana. A malincuore, mi alzai, mi diressi a passo di carica vero quel confusionario e sfoderai il mio sorriso più serafico
“Ti piacciono i miei figli, vero Lleca?”
“Oh, eccome! Sono dei cavalli da rodeo eccezionali!”
Ora stavo davvero perdendo le staffe. Ho tollerato abbastanza la sua intrusione, il suo disordine e ora la sedizione dei tre moschettieri.
“Bene, visto che li hai tanto in simpatia, che ne diresti di farli scendere dal tavolo?!”
Urlai talmente forte che scattò subitamente l’allarme antincendio. Greta e Pedro fecero capolino in cucina, visibilmente spaventati; ma li consolai quasi subito.
“D’accordo, Boss. Ho afferrato” rispose lui serafico, sfoderando quel beffardo sorriso d’ insofferenza.  Fece un fischio in direzione del tavolo, Romeo e Santiago cessarono lo sprint in un battito di ciglia.
“Ehi, voi due, andate a mangiare patatine di là davanti ai cartoni animati. Poi vostro padre rimetterà a posto il vostro disastro”
Rimasi lì a boccheggiare per qualche istante; anche perché i miei figli erano allettati ed entusiasti dell’idea. Lleca batté la mano sulla mia spalla, rudemente.
“Non c’è di che!” disse, come se mi avesse fatto un favore.
Avevo il volto inciso nello stucco per l’ascendenza di Lleca sui miei gemelli. Se solo avessero il buonsenso dei più grandi e delle femminucce. Mar, scornata e frastornata in parti uguali, si congedò con un’imprecazione verso l’assordante trillo dell’allarme antincendio.
“E’ una cosa inaudita!” sbraitò, gettando lo strofinaccio sul pavimento, per poi dileguarsi nella profonda oscurità delle scale.
Perfetto. Uno smacco in più da mandar giù.
Mi sbrigai a raccattare gli scarti di pane e altri cibi non meglio identificati, rinfrancato dal pensiero che tra poco avrei potuto bearmi della frescura delle lenzuola, dai laudi pomeriggi insieme a Valeria, dal prossimo nulla osta per la prigione di Lleca e  dal fatto che ogni briciolo di perversione mi aveva definitivamente abbandonato.
Gettai una prima dose nel pattume, canticchiando come la povera Cenerentola. Rama Cenerentolo. Non suona tanto male. Mai quanto le botte che suonerò a Lleca una volta che avrò finito qui.
Neanche mia moglie mi aiutava. Da quando aveva ricevuto quell’invito a pranzo con Thiago e il bambino, ogni centrismo sulla nostra famiglia si era discostato di molte misure, direi.
Pulire. Pattume. Pulire. Pattume.
Continuai con questo andirivieni per un quarto d’ora o due, prima di stravaccarmi completamente sulla mia soffice poltrona e constatare, purtroppo, che c’era un messaggio in segreteria. Una fatica vale l’altra, quindi pigiai l’indice sul led lampeggiante e ascoltai, nel torpore di una dormiveglia.
“ Ciao, Rama, sono Valeria”
“Oh, merda!”
Sobbalzai subitamente, discostando dal comodino la cornetta del telefono, innescando un tumulto collettivo.
“Ehi, qui c’è gente che dorme!” gridò Lleca dal salone barra la sua nuova camera da letto
Stavo per consigliargli amabilmente di tirarsi un calcio in quel posto, ma ho constatato che sarebbe stato poco carino insegnare questi termini scurrili a una fascia d’età che va dai quattro agli otto anni. Perciò respirai affondo, sistemai il telefono e ripresi ad ascoltare.
“Ciao, Rama, sono Valeria. Non voglio mettermi nei guai e sai perché, però questo corso di cucina mi alletta. Simon dice sempre che sono una banderuola in cucina, ma lui ha voluto assumere lo chef thailandese e se il suo tè è addolcito con il curcuma non ci posso fare nulla. Poi sarebbe una buona occasione per uscire da questa monotonia che mi assilla, ti giuro. E poi… Voglio recuperare il rapporto di una volta… Come amici, intendo. Ci vediamo domenica per la prima lezione…”
Non come il sorriso stampato sul mio viso che conferisce al sottoscritto l’aria di un emerito tonto. Il fatto è che la voce di Valeria era un toccasana per il mio animo smantellato dai doveri domestici, una moglie assente e un cognato putativo latitante.
Riascoltai una decina di buone volte il messaggio, fermo sempre allo stesso punto. Voglio recuperare il rapporto di una volta.
L’adulterio reciproco non penso sia un reato.
Mi abbandonai completamente alla sua voce per l’undicesima volta, impregnato in una condizione di beatitudine insita ed effimera, a causa degli ombrosi rumori di passi che man mano si facevano sempre più nitidi.
“Amore che fai ancora lì sul divano?” chiede la voce cristallina di Mar, rivolta al suddetto adultero – ovviamente, tutto dettato dal mio istinto rudimentale.
Mi volto per risponderle e noto su di lei un sorriso di stampo inebetito, quasi quanto il mio.
 “Niente… Ho appena finito di pulire”
“Povero tesoro. Ora vai a letto, dai!”
Facciamo il punto della situazione. Mai, in quattro anni di matrimonio, mi aveva esortato così apertamente di distendermi e coccolarmi, almeno fino a quando la nostra vita sessuale ha iniziato a calare a picco, raggiungendo i vertici del pH. Che ci sia lo zampino di un certo Bedoya di mia conoscenza?
“E tu, perché sei scesa?”
Iniziò a trafficare con una marmaglia di stoviglie e tazze, destando un tintinnio infernale, dico a quest’ora della notte.
“Volevo bermi un caffellatte” rispose vaga.
“Tu detesti il caffè” le feci notare io, enfatizzando ancor di più sulla mia sfiducia riguardo la conclusione della storia col suo ex – marito
“Non con il latte” rispose netta, evitando di incrociare il mio cruccio adirato che stava assumendo una piega sempre più profonda.
Il tintinnio cessò e si voltò a sorridermi.
“Levati quella smorfia dalla faccia che sembri un Buddha!”
Cercò di baciarmi, ma la scansai. Facendo il punto della situazione, però, mi resi conto che il nostro rapporto stava assumendo una piega perfettamente neutrale, sfociando nella monotonia, senza che ci fosse una reale affinità reciproca. Amavo Mar, questo era innegabile, ma il mio sentimento per lei dondolava su un equilibrio precario, il che aveva un peso abbastanza oneroso da parte mia. Basta un alito di vento per far volare una nuvola.
“Sono stanco, vado a dormire” dissi laconico, dirigendomi di sopra.
Nemmeno l’aroma refrigerante del detergente sul pigiama pulito e la frescura delle lenzuola bastarono a domare la baraonda di pensieri affastellati nelle carni, come bubboni della peste che pian piano ti logorano del tutto, riducendoti a un trascurabile resto di vita.

 
 
I giorni che seguirono, io e Mar sembrammo aver raggiunto una pace neutrale, scandita da poche effusioni d’affetto come il bacio del buongiorno o quello della buonanotte; qualche parola scambiata durante il pranzo o a letto, mentre io leggevo un libro e lei sfogliava una rivista, all’estremità antistante a me.
Il finesettimana giunse veloce. Sabato lo trascorsi in maniera caotica, a causa del licenziamento immediato di Lleca dal suo novello impiego da fattorino.
“Quel buffone mi ha provocato dandomi del poveraccioera stata la sua plausibile giustificazione, tollerata solo dopo un esplosione di ormoni e grida sconquassanti
“Quel buffone, come lo chiami tu, era il tuo capo, cervello di gallina!” sbottai io, ansimando dopo lo sfogo rabbioso
“Comunque sia, non voglio un capo impertinente, quindi mi sono licenziato”
E la situazione non è migliorata quando è stato mandato via, dopo neanche un paio d’ore, dal suo lavoro di segretario in uno studio dentistico dopo aver smantellato a pieni voti l’auto nuova del direttore odontoiatrico.
“Non l’ho vista! E poi pensavo che la mia patente fosse illegale solo in America!”
Di bene in meglio fu il mio commento.
Quindi, Lleca trascorrerà la domenica, svolgendo l’impiego in cui riesce meglio: Fare e rifare tanta ricotta. O il dolce far niente, come si suol dire.
Quella determinata data sul calendario mi allettava e disperava al medesimo trasporto: Era, sì, il mio primo vero godimento e allettante desiderio, ma a sfregiare la mia visione rosea di quella domenica era il fatto che Mar e Bruno erano usciti da ben due ore e ancora nessuna chiamato.
Trascorsi il pomeriggio a giocare con i bambini, stravaccarmi sul divano a sfoltire il sonno con un insulso programma per bambini, sbafarmi di budini al cioccolato per il malumore e ritornare a rimuginare sui possibili modi in cui Mar avrebbe sfasciato il nostro matrimonio.
“Boss, non hai da essere geloso!”
La voce di Lleca arriva come uno stridore di pneumatici, diradando la coltre di pensieri affastellata nella mia mente, con una rapida lettura radiografica.
“Hai rubato una sofisticata macchina radiografica, per caso?” dissi io, disgustosamente sardonico come una vecchia ciabattaia
“Divertente, boss. Ma dicevo sul serio” Saltando come una lepre, lo ritrovo accanto a me, subito dopo un tonfo sul divano “Questo è il cosiddetto ‘distacco dal sesso’ che genera in te svariate paranoie mischiate a subitanee voglie di…”
Lleca fece un eloquente gesto con la mano chiusa a pugno, cosa che mi fece fremere dalla rabbia ancor di più, dato che il sesso è l’ultimo pensiero del mio povero animo cagionevole.
“Sei una sottospecie di sessuologo, ora?”
“Diciamo che ho qualche esperienza” rispose laconico, senza cogliere la vena acida della mia domanda retorica
“Non mi dire che hai lasciato mia sorella per mancanza di estrogeni”
“Diciamo che Alelì era il caso opposto a quello di Mar”
Mi sentii avvampare fino alla punta dei capelli; le mie gote divennero un tutt’uno col marsupiale che stava cantando una canzone stonata su come le cicogne portano i bambini. D’istinto, raggomitolai il giornale adagiato sul tavolino in vetro e lo pestai sul capo di Lleca, che emise uno stridulo acuto.
“Volevo sdrammatizzare!” fu la sua giustificazione, frattanto che massaggiava dolcemente il punto dolente, scaturendo in me una sadica compiacenza di ripicca
“Potevi farne anche a meno. E poi non devi sbandierarmi i tuoi problemi sessuali o quelli di mia sorella!”
D’altronde, ero più che consapevole dell’ incontrollata ninfomania di mia sorella.
“E tu potevi risparmiarti questo colpo basso! Mi verrà un bernoccolo e non potrò lavorare”
“Dai, stupido, metti del ghiaccio!” dissi, addolcendo un po’ i toni e posando il giornale al suo luogo d’origine.
Mi abbandonai completamente allo schienale, fugando ogni pensiero o notifica sull’imminente appuntamento con Valeria al corso. L’unica cosa che mi veniva in mente erano le grida sconquassanti di Pedro e Greta, all’altro capo del salotto.
“Smettetela, ragazzi!” gridai, senza ricevere appello o, tantomeno, ascolto. Mi massaggiai le tempie con le dita, tenendole bene pressate tra pollice e indice in modo da perforarmi uno strato di carne.
“Pedro, posa quegli affari! Non è carino prendere le cose di zia Mar dal bagno!” gridò Greta, probabilmente divincolandosi dalla stretta dei due gemelli.
E fu lì che una folle idea balenò in testa, rammendandomi anche dell’appuntamento. Nella disperazione del momento, constatando che erano le sei spaccate, mi rivolsi a Lleca come babysitter solo per quell’ora, massimo due.
“Avrò un compenso per questo favore al mio cognatino?” chiese Lleca, con il consueto tono da vecchio volpone e scroccone, tra l’altro
“In via eccezionale, sì”
Ed essendo io d’animo magnanimo gli concessi un anticipo, garantendogli la morte immediata se non avesse adempiuto ai patti. Mi vestii rapidamente, presi le chiavi dell’auto e diedi un’ultima occhiata alla situazione. Greta e Pedro non si sentivano più e neanche i gemelli; quindi presumo che la sua strategia ha dato i suoi frutti. Per la prima volta da quando era ricomparso Lleca nella mia vita, potevo finalmente sorridere e riabbracciare la serenità.
 
 
A quanto pare, Valeria detesta i ritardatari, sebbene non sia esule da precedenti per quanto riguarda il salvacondotto dell’orario lecito. Non fui l’unico a procrastinare la lezione, bensì la classe era ancora un guscio d’uovo quando io e un’adirata Valeria varcammo la soglia dello stabile alla periferia  di un centro commerciale.
Una coppia di sposini sfaccendata, un cino-giapponese dai modi sbrigativi e una gravida agli sgoccioli del sesto mese sarebbero stati i nostri compagni di corso.
Una classe magra a giudicare dalle dimensioni della classe, fornita dei migliori robot da cucina europei.
Il nostro chef era un uomo mingherlino, dallo sguardo affabile e un paio di baffi neri che lambivano le gote; non diverso dai classici stereotipi del perfetto uomo francese sebbene l’insolito colore grigiazzurro degli occhi. Si fregiava così tanto nell’ostentare quell’artificioso accento del sud della Francia, che destò in me una repulsione patologica di trovarmi in quel posto, accanto a Valeria e degli psicopatici di cui neanche sapevo l’esistenza.
“Je suis le chef Emiliè!”
Risi senza ritegno, accompagnato dal nerboruto sposino, subito ammonito dalla moglie, altrettanto poderosa sebbene la corporatura mingherlina. Alle mie risa, si unì una riluttante Valeria.
“Che sce da videve?”
“Un maschio con un nome da femmina!” disse Valeria, trattenendo a stento le lacrime e poggiandosi a me per non accasciarsi a terra per le risate, che stavano letteralmente invadendo ogni centimetro del nostro corpo con formicolii irrefrenabili
“Per lo meno non mi chiamo Sabine, come mio fratello. E comunque Emiliè è il mio cognome, il mio nome è Houdini!”
Detonammo nuovamente una risata grossolana, all’unisono stavolta, apostrofando in modo poco educato la somiglianza fonetica Emiliè \ Houdini, mentre gli altri ci facevano il malocchio.
Trascorse un minuto buono prima che io e Valeria ritornassimo nei cardini ed evitassimo di ridere, anche solo guardandoci negli occhi.
“E’ più divertente del previsto, sai?” mi mormorò a un orecchio, per poi spostare la mano sulla lama di un coltello, sproporzionato ai classici che uso io in cucina. Un fremito attraversò rapido la mia schiena, confondendo le reali intenzioni di Valeria sulla voglia di vedermi vivo “Però, glielo infilzerei volentieri…”
“Valeria!” la ammonii, prima che potesse dire qualcosa di cui si sarebbe potuta pentire
“Nell’occhio, che avevi capito?”
Mi sentii avvampare, sebbene sapessi alla perfezione che Valeria non è una martire santa e potrebbe congetturare pensieri poco casti nel battito di un ciglio. Frattanto io promisi a me stesso di non troncare la lezione con un fastidioso cicaleccio di sottofondo insieme alla mia compagna di corso.
“Bene, coppiette mie…”
Un momento. Iniziamo già ad eccedere di confidenza.
“Inizieremo con la prima ricetta del mio modesto repertorio, che trova radici nella natia generatrice dell’alta cucina, nel raffinato palato di noi perenni buongustai…”
La tiritera andò avanti per metà del tempo stabilito, bruciando al vento i soldi sprecati per il pagamento e uno straordinario per lo chef, di cui tutti noi sapevamo la radicata origine francese.
“Chef, allora questa ricetta?” esordì Valeria, in modo a dir poco grossolano che scaturì in me l’istinto di ammonirla con una gomitata.
Houdini sbuffò, alzando la piega dei lunghi e folti baffi.
“E va bene! Il piatto di oggi è poulet à la moutarde e non osate prendervi gioco della pronuncia!” ci ammonì, palesemente rivolto a me e Valeria, già sull’orlo di una ricaduta. Se ci fosse stata Bea, mi avrebbe certamente detto “Papà, ma è buono questo purè alle mutande?”
Mentre lo chef spiegava in modo schematico le procedure da seguire, ascoltavo svogliatamente qualche brandello di conversazione fino a perdermi nella più totale contemplazione della mia vicina, sorridente e visibilmente felice. Quel giorno aveva i capelli sciolti, come li portava a sedici anni, sebbene un po’ più sfoltiti in modo da rendere meno accidioso il suo viso, punteggiato da due radiosi occhi chiari, d’un colore indefinito. E subito, ricominciai a sudare freddo mentre i sintomi dell’eccitazione si facevano sentire. Rammento, che la mia non è una voglia ninfomane, bensì una semplice attrazione patologica che si manifesta col respirare a stento e profondamente, un progressivo acceleramento che presagiva un prossimo infarto, a cui è aggiunta la diaforesi di mani, piedi e fronte.
“Stai bene?”
“La ricetta è troppo impegnativa” buttai lì, affidandomi al caso
“Allora, iniziamo?”
Respirai per ristabilire serenità nel corpo, quando in realtà avrei avuto bisogno di una bella trasfusione di serotonina. “Si, avanti”
Per fortuna Valeria aveva trascritto la ricetta su un foglio di carta, raccattato casualmente dalla borsa. Sebbene la calligrafia distratta, riuscii a cogliere la maggior parte dei termini quali Tagliare i pezzi di pollo a fettine accanto al numero uno.
“Forza, in coppia! Iniziate!”
 “Condisci con sale e pepe” leggevo io, per poi correggerla della dose esagerata di pepe sul pollo. E Valeria sapeva perfettamente come mandarmi in bestia, dato che rammentava quanto io fossi petulante e perfezionista.
“Smettila di correggermi!” ribadiva, per poi costringermi a farmi fare tutto, dato che avevo molta più esperienza ai fornelli. Ovviamente finivamo nell’occhio del mirino a ogni nostro alterco.
“Visto, ci guardano tutti! Sei proprio imbarazzante!”
Per quella frase abbandonai ogni tentativo di ripicca, dato che rimasi come un ebete a boccheggiare a mezz’aria. A ogni nostro momento di pacatezza, distoglievano lo sguardo accidioso.
Lo chef si sedette a una cattedra a leggere distrattamente il giornale, sebbene ognuno di noi lo chiamasse ogni santo minuto per chiedere chiarimenti. Era una vera scuola, quella.
Per me e Valeria non c’era alcun problema, dato che con la mia perizia – e sottolineo mia – riuscimmo a impiegare una buona parte di tempo a chiacchierare nell’attesa che il forno finisse di scaldarsi.
“L’aveva detto quello! Forno preriscaldato!” ringhiò la mia compagna, martoriando quel povero foglio e innescando un tramestio di carta sgualcita echeggiante nella stanza. La tranquillizzai, adagiandole la testa sulla spalla e carezzandole i capelli.
“Dai, calmati…” Furono le uniche parole che riuscii a proferire, prima che mi rendessi conto di avere la mia ex praticamente sul petto, quasi vicino al torace, sentendo il suo respiro caldo trapelare sotto la maglietta.
Sebbene l’istinto mi invogliasse ad allontanarla, non ci riuscivo. Ma subitamente avvertii uno strappo all’ombelico che mi costrinse a urlare.
“Devi metterti a dieta, caro mio”
E iniziò a ridere di gusto, senza lasciar trapelare il minimo disagio o fastidio nell’essersi trovata in quella circostanza, corpo a corpo, viso su torace, respiro sotto la maglietta.
“Ah, sì. Ora vediamo” dissi, con tono teatralmente offeso. Raccattai dal recipiente una generosa dose di farina bianca che subito si proiettò sul viso e qualche ciocca di capelli di Valeria.
“Chi è il pupazzo di neve più bello del mondo?”
“Tu”
Non ebbi neanche il tempo di formulare protesta che sentii in bocca un gusto amaro e la vista ottenebrata da una coltre bianca adagiata sul viso. Non ascoltavamo nemmeno i brontolamenti del maestro che iniziò una progressiva battaglia di condimento, a partire dalla noce moscata macchiettata su una ciocca bionda del suoi capelli e i miei starnuti cronici a causa del pepe. Non erano i brontolii ripetitivi dello chef a coprire i miei pensieri, bensì le risate univoche mie e di Valeria.
“E’ stato divertente, no?” diceva lei, mentre varcavamo la soglia d’ingresso \ uscita e abbracciare i segni della brezza serale. Io imbracciavo un’ingombrante pirofila avvolta nella carta stagnola, barcollando un po’ per le scale.
“Si, specialmente quando ha avuto quell’attacco d’isteria!”
“Ma l’hai visto! Era più rosso del pollo che stava cuocendo in forno”
Ridemmo, tanto per cambiare.
“Rifacciamolo!”
“Saremo costretti… Abbiamo pagato per tre mesi laudi”
“Andiamo, Rama, non rovinare questi momenti”
Ci fu una piccola pausa, giusto il tempo di raggiungere le nostre auto, parcheggiate frontalmente all’altra.
“Con che ceni stasera?” chiesi io, al posto dei consueti saluti
“Pollo alle mandorle del ristorante cinese!”
“Penso che cenerai con qualche altro tipo di pollo. Tieni”
Le consegnai la pirofila con ancora il pollo fumante. Rimase per una buona mezz’ora a guardare il dono, stupita, per poi rivolgermi un sorriso come ringraziamento.
“E tu?”
“Pizza. Ma non dire ai bambini che è purè alle mutande!”
Ridemmo nuovamente, per poi congedarci con un rapido bacio sulle guancie. Mi sentii avvampare nuovamente, quando, per una fatalità casuale ci sfiorammo le labbra.
“Sei imbarazzato, Ordonez?” mi chiese lei. Accidenti alla circoncisione!
“No, Gutierrez. Perché tu sì?”
Roteò gli occhi e si congedò, salutandomi con la mano dal finestrino aperto.
Cavoli, mi sentivo come un’adolescente!
Appena rientrai in casa, mi ritrovai la faccia da pesce lesso di Lleca deformata in una smorfia sconvolta, il muso arrivante al pavimento e gli occhi spalancanti. E aveva la cornetta del telefono in mano.
“Tutto bene?” chiesi.
“Ha chiamato tua sorella” rispose laconico ed esterrefatto.

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Capitolo 5
*** Karma ***


 Non ricordo esattamente quello che è accaduto nel lasso in tempo in cui tutto ha iniziato a divenire soffuso come le luci delle lampare, e un’enorme confusione mi aveva inflitto il colpo di grazia finale eliminando ogni cellula di lucidità latente che mi restava.  Fatto sta, che forse non ero veramente svenuto.
Però a un certo punto, mi sono sentito come un cavallo imbizzarrito imbrigliato in possenti briglie, proprio per non fargli sfogare i bollenti spettri della rabbia matta e disperatissima che aveva preso il sopravvento.
Ripetimi … Esattamente … Cosa ha detto …” biascicavo, intanto, convinto che le parole fossero come quel tabacco fresco che una volta in bocca consuma il suo aroma
Misi a fuoco lo sguardo di Lleca, spianato di ogni retorica vena d’irriverenza.
“Ehm … Innanzi tutto, calmati. Non mi pare che hai una bella cera …”
“Io sono tranquillissimo. Coraggio, parla pure”
E, in effetti, usavo quella tranquillità latente come capro espiatorio per dare in escandescenze una volta che avesse sputato il rospo con scorta di pesanti novità al seguito. Come si deve alla più commercialissima freddura di tutti i tempi. Lleca mi scruta attentamente, come colpito da qualcosa di convincente o meno nel mio sguardo, annaspando tra le contorsioni del mio veritiero pensiero con un piglio esagerato, come un lobotomico cane da tartufo e io, per contro, me ne stavo beatamente sulle mie, improvvisando una canzone per non dare sfoggio del mio reale pensiero.
Oh, certo, il mio reale pensiero era sempre per Valeria, naturalmente, e quasi non biasimai più Lleca per essere stato infedele a mia sorella.
L’uomo è carne debole, ma la donna è carnefice.
Si decise a parlare solo quando fu veramente convinto e al sicuro da ogni mio eventuale raptus, così prese fiato e abbassò gli occhi, incalzando ancor di più una viva curiosità. Anche se Alelì è assai più prevedibile di quanto si pensi…
“Beh, per cominciare, le devo dei soldi”
Sindacalista. E taccagno. Ma glielo concedo. Un altro conto da addebitare all’espiazione.
“Mmm …”
“Poi ha gridato per circa un’ora, definendomi un disgraziato, uno scansafatiche …”
“Come minimo” commentai, costernato
“E che altro … Non ricordo … Ah, che devo cercarmi un lavoro”
Alelì aveva la capacità cognitiva di un bradipo.
Mi massaggiai le tempie con movimenti circolari delle dita, solcando le latenti grinze della pelle che si spingevano fino a una cavità dura, che mi destò un certo sollievo. Tra i mugugni senza capo né coda di Lleca e l’immagine di Valeria vestita solo del suo mancato pudore, mi era salito un pensiero che tamburellava la testa e traduceva il dolore in visioni ancora più confuse. Ebbi anche l’impulso di vomitare.
Intimai Lleca di lasciarmi solo, in modo da mettere in chiaro ogni mia necessità primaria, ma lui insistette a restare a poltrire ancora un po’ sul divano, con un’ascendenza tale che sembrò quasi deliberata e approfittatrice di questo mio momento di defibrillazione assistita. Acconsentii e lo guardai per un po’.
Alla bocca dello stomaco si innestò un moto di ribrezzo latente dinanzi all’ambizione che stava per conseguire; una vita a metà, spezzata dal pendolarismo tra la sua condizione cognitiva e quella di padre assente; anzi non era ribrezzo, era solo un’impellente necessità di sistemare le cose. Ma come posso io fare la predica se provo istinti sessuali verso un’altra donna.
Inutile rimuginarci sopra, penso che voi, posteri, abbiate capito da un po’ che le mie frequenti erezioni sono dovute a quella donna che non mi lascia pace.
Come se stessi attraversando una seconda pubertà. E lo stesso valeva per Lleca, quindi dovevo rimetterlo sulla buona strada, almeno a lui. Così mi parai dinanzi a lui, ai suoi occhi agnostici e afflitti da una condizione quasi infernale di sciattezza, e mi rividi come se fosse un riflesso incondizionato, a dir poco angosciante, perché era come se stessi ammettendo le mie colpe e non potessi fare niente, malgrado la consapevolezza.
“Senti” esordii, come se stessi impedendo di lasciarlo – o meglio di lasciarci – morire crogiolati in una condizione disinteressata di vita morta “Gli istinti sono vividi, ma fugaci. Questo lo sai e d’accordo. La cosa più penosa è che tu ti sia lasciato condizionare da loro, senza il minimo ritegno verso i tuoi principi”
“Rama, l’unica cosa che voglio in questo momento è riallacciare i rapporti con mia figlia”
Quella rivelazione mi spiazzò piacevolmente e mi sentii accalorato da una caldana indicibile, perché era esattamente quello che volevo sentirmi dire. Non mi importava che avesse tradito Alelì, insomma, questa fase l’attraversano un po’ tutti, uomini o donne che siano, perché in questo campo siamo tutti il sesso debole e ciò non è determinato dalla carenza d’affetto, ma da quanto siamo, poi, forti ad attingere il minimo indispensabile dai nostri errori e ripararli. Sorrisi, ascoltandolo apertamente.
“Forse non lo do a vedere perché sono davvero un disgraziato, ma non puoi immaginare quanto mi roda il fatto di non poter andare da Greta e dirle, senza troppi indugi, ‘Ehi, piccola, andiamo a mangiare un gelato?’ come fanno i padri e le figlie normali”
“Proprio per questo… Tu non sei normale, Lleca”
Ridemmo, consapevoli della nostra reciproca inettitudine. O meglio di essere, per una volta, noi i deboli. Però lui ci stava provando e io non potevo far altro che imparare da lui, paradossalmente. Gli diedi una pacca sulla spalla e gli sorrisi di nuovo.
“Prova a conoscerla meglio”
Fece un cenno d’assenso, che accese in me un nuovo senso di sollievo che, per quanto fugace, mi rese davvero felice, perché si stava aprendo qualcosa in quel guscio d’agnostica spensieratezza mal manovrata. E ora toccava a me mettermi in gioco. E questo venne da lui, pulpito di repressa esperienza di vita. Sorrisi grato a Lleca e guardai l’orologio di scialba fattura – e attrattiva, a dire il vero – che tamburellava le sue lancette puntualmente.
Mar non sarebbe tornata prima dell’orario di cena.
Guardai per un’ultima volta Lleca, che mi rivolse un’espressione eloquente come non mai.
“Puoi badare tu ai bambini mentre non ci sono?”
“Ovvio”
Sorrise e mi rivolse un occhiolino, che gli deturpò per una frazione quel faccino sardonico e volitivo. Feci per andarmene, quando un esagerato sospiro d’aria pesante che provenne da Lleca mi fece rinsavire dalla mia risoluzione subitanea.
Mi spaventai anche.
“Che c’è?!”
“Dimenticavo di dirti che Alelì tornerà tra un paio di giorni”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 
 
Stronzo. Stronzo. Stronzo.
Gli faccio il paternale, dopato di una qualche cognizione ciceronesca, e quello se ne esce con una freddura del genere.
Sarà meglio che non si faccia evirare prima di aver comprato almeno un giocattolo a quella povera bambina.
Misi su un disco, giusto per aggregarlo alla giusta atmosfera che si era creata, satura di un qualche malocchio che avevano lanciato su di me giusto per farmi impazzire. Perché mi risultava facile a me.
Stavo guidando da una decina di minuti da casa e imprecando da quando ero uscito, e solo dopo appurai che il mio conto delle indulgenze era talmente saturo che San Pietro mi avrebbe dato un biglietto di sola andata nel girone dei dannati. Forse Valeria sarebbe venuta con me … I nuovi Paolo e Francesca.
E se non fosse venuta, l’avrei trascinata io con la persuasione dell’amante.
Ma che cazzo sto dicendo?
Anche gli angeli hanno le seghe mentali ogni tanto.
Comunque la strada si stagliava lastricata d’anonimato dinanzi a me, come se fosse alle pendici del menefreghismo, giusto sul ciglio di qualche città fantasma che si racconta nelle leggende metropolitane. Non ci facevo molto caso, comunque. La solitudine era un toccasana in quel momento.
Per giunta, Mar mi inviò un messaggio per avvertirmi che non sarebbe tornata prima dello spaccare del coprifuoco dei bambini, quindi in definitiva … Sarebbe tornata per le dieci.
Che strano. Quasi non discutiamo da giorni, come se avessi il tempo necessario di vederla.
Beh, non che mi aspettassi così tanto da questo matrimonio, in realtà.
Thiago è troppo radicato in lei e non l’avrebbe potuto espellere dalla sua vita come se nulla fosse con un soffio casuale, instaurando una fugace promessa con la prima spalla su cui piangere. Fu una cerimonia sobria, fortemente voluta da entrambi, perché eravamo reciprocamente coscienti che tale sarebbe stato il nostro matrimonio, costellato di un reticente amore che piano piano avrebbe preso gli odori, i sapori e i colori della monotonia impellente, che tutto consuma, crogiola, rosola nella quotidianità infelice.
Poi arrivarono i gemelli, di punto in bianco, inaspettati, come se fossero il campanello d’allarme per avvertirci della forzatura.
E poi Bea che, non vi dico, fu una tale gioia dato che era la principessina di casa. E già allora, quando confidai a Tacho di volerla chiamare Valeria, avrei dovuto capire che una serpe si stava insinuando sempre più radicalmente in me come in lei. Ebbi il mio attimo per constatare la situazione, quando andai all’anagrafe per registrarla e Mar era ancora in convalescenza, essendo reduce anche da una gravidanza difficile, e dissi che si sarebbe chiamata – volontariamente o no, non ricordo – Beatriz Valeria Ordonez, con la virgola in modo da non dover affibbiarle quell’affare obbligato.
Ecco il piccolo peccato di Ramiro Ordonez.
Nessuno lo sa.
Tranne voi ed io.
Come nessuno sa quello che sarebbe accaduto tra pochi istanti …
Il giro di ronda era quasi terminato e appurai che fosse meglio tornare a casa appena avrei imboccato la fine della strada. Il crepuscolo si stagliava nitido, come la striscia di terra che divide il mare e il bagnasciuga, quel lembo impeccabile che è a metà strada tra forza e armonia, vero e falso, verità e logica.
Avevo gli occhi stanchi e i pensieri pesanti, ma non demordevo.
E venni attirato dalla sua snella figura bionda e appassita che sembrava rivolgersi a me come una calamità imminente che avrebbe portato una nuova razione di folli pensieri infelici. La notai che anche lei era attraversata da segni di spossatezza che le attanagliavano il viso e aveva una postura quasi catatonica e moscia nei suoi gesti che mi venne da chiedere se fosse veramente lei. L’avevo lasciata con un purè alle mutande e ora la vedevo errare su cigli di strade buie.
Teneva per mano la piccola Rose e un bimbo di pochi anni in meno a lei, bruno, che portava il vessillo orgoglioso degli equini Arrechavaleta, quasi da non sembrare suo fratello. Cercava di mostrarsi forte, ma i segni che forse aveva pianto erano evidenti.
Sterzai e smorzai quasi d’istinto, perché non potei resistere alla camicia di forza che aveva mozzato ogni mia condizione, cognizione o contraddizione che sia. Fatto sta che era successo qualcosa a Valeria e la sorte stava giocando per entrambi.
“Ma cosa …”
Ci incrociammo e una patina lucida si adagiò dolcemente sui suoi occhi intrisi dei colori del tempo che tutto porta via, e le parve di essere anche lei alle soglie della pubertà, quanto era sconvolta. I bambini mi guardarono, troppo ignari per sapere cosa c’era dietro.
“Tu non dovresti vedermi così”
Si sforzò di sorridere, immane come notai dalla sofferenza con cui elargì quella piega agli angoli della bocca, come se fosse impregnata nello stucco. Le feci segno di non mentire con me, perché la conoscevo a memoria.
“Vieni a casa e dimmi cosa è successo”
Sorrise e cedette subito, senza opporre alcuna resistenza, perché sapeva che non ne valeva minimamente la pena. Sussurrò qualcosa ai bambini, che annuirono senza pensarci, anzi mi parve di intravedere un qualche sorriso sul volto della piccola Rose. E di nuovo mise i miei occhi su di me, forse non si era accorta che avevo messo i miei sui suoi.
Fece salire i bambini in macchina, per poi sedersi accanto a me, lo sguardo meno sostenuto e intriso di un’emotività che aspettava solo di venire fuori, come sfogo plausibile, ma non l’avrebbe mai fatto davanti a me.
Le strinsi la mano, incoraggiandola silenziosamente, perché mi sentivo in dovere di mettere da parte i miei egoistici propositi  e sperare che anche Mar fosse di quell’avviso.
“Dove ti piacerebbe andare?”
“Ovunque, ma lontano da qui” disse lei, con voce sostenuta “E poi ci sei tu, naturalmente”
“Chi altri, sennò?”
 

 

 

 
Non c’è molto da dire sulla serata.
Li portai in un locale attrezzato per i marmocchi sotto i dodici anni e sotto la supervisione da eventuali crisi ormonali, giusto per far divertire i bambini ed entrare nelle loro grazie, se così si può dire.
Dopo aver acquisito familiarità, la piccola Rose è diventata più loquace, come se avesse scoperto nel lupo cattivo, l’animo di un vero principe, se non pecco di modestia.
La piccola fotocopia Arrechavaleta non era dello stesso avviso, anche perché a stento biascicava qualche parola. Riusciva ad articolare solo singulti ed era questo che contraddistingueva il suo vocabolario.
I bambini stavano giocando nell’area attrezzata. Io e Valeria eravamo vicini e parlavamo fitti, in modo da non attirare l’attenzione.
“Sei pronta a dirmi cosa ti è successo?”
Non aveva ancora osato cedere all’emotività, cocciuta del suo orgoglio, perciò nascose il viso tra le mani e fece scendere sì e no qualche stralcio di comprensione verso sé stessa prima di prendere fiato e incrociare finalmente il mio sguardo, mentre le tenevo la mano.
“No”
Lo immaginavo e non la biasimai, perché non avevo bisogno di un movente per sentirla mia o di caricarmi addosso il peso del mondo solo per lei. Intanto, la piccola Rose rideva felice, le iridi vivide della madre.
E si fece ancora più chiaro il motivo per cui non aveva ancora osato cedere a sé stessa.
“Vuoi restare per un po’ a casa nostra?”
Sorrise.
“No. Prenderò una stanza d’albergo”
“Scordatelo”
“Rama, non è una tua responsabilità …”
“Ma tu lo sei… Per me”
Smise di guardarmi, crogiolandosi in un pesante disagio carico di una tensione che si addiceva perfettamente alla nostra condizione, perché stesso io non mi capacitavo del mio spirito d’iniziativa. Ma diventavo così quando si trattava di lei. Non le dissi neanche i miei sospetti sul fatto che Simon se ne fosse andato di punto in bianco, probabilmente. Ciò che mi sfuggiva era il perché.
“Scusami” esordii io, con reticente condiscendenza, che certo non sfuggì a lei, dato che mi prese la mano in una stretta comprensiva
“Hai già fatto tanto”
“Lasciami fare di più”
A quel punto si abbandonò sullo schienale della sedia, alzando gli occhi al cielo, consapevole di certo che non avrei ceduto nemmeno sotto le pressioni delle sue continue reticenze di convenienza. Non attaccavano con me, quindi non doveva procrastinare più di tanto.
Mi alzai, pagai il conto e presi le chiavi della macchina.
“Prendi i bambini. Venite a casa con me. “ sentenziai, col tono perentorio di chi non lasciava scampo ai compromessi “Poi a Bea farà sicuramente piacere”
 
 

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