Tell me the difference between Love and Death

di Evazick
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Caduta. ***
Capitolo 2: *** Vita da casa di piacere (o, più semplicemente, da bordello). ***
Capitolo 3: *** Fuga notturna. ***
Capitolo 4: *** Uno strano ragazzo. ***
Capitolo 5: *** Benvenuta a Trancy Mansion. ***
Capitolo 6: *** Solo un pedone sulla scacchiera e una luce nei tuoi occhi. ***
Capitolo 7: *** Di cattedrali e di motoseghe. ***
Capitolo 8: *** Perchè tu, Lena? Perchè non io? ***
Capitolo 9: *** Io, tu, il letto, le parole, l'ombra. ***
Capitolo 10: *** Quel qualcuno che non vorresti rivedere mai più. ***
Capitolo 11: *** Soddisfazioni e tradimenti. ***
Capitolo 12: *** C'è una tempesta in arrivo, la senti l'elettricità? ***
Capitolo 13: *** Scatole da tè, cantine e vestaglie. ***
Capitolo 14: *** Un'altra festa, un altro maggiordomo. ***
Capitolo 15: *** La curiosità uccide il gatto? ***
Capitolo 16: *** Messaggio (non proprio) in bottiglia. ***
Capitolo 17: *** Traditrice, spia, bugiardo. ***
Capitolo 18: *** Intrappolata. ***
Capitolo 19: *** La verità è che avrei solo voluto salvarti. ***
Capitolo 20: *** Epilogo - Futuro. ***



Capitolo 1
*** Caduta. ***


Buonasera e buona Pasqua a tutti! [Forse è un pò tardi per dirlo, ma è il pensiero che conta, no?]
Questa storia è la mia prima fanfiction dopo un sacco di tempo passato a dedicarmi solo ad originali, ed è anche la prima su Kuroshitsuji che abbia mai scritto. Il terrore di addentrarmi nel territorio probito dell'OOC mi tormenta, ma credo di star facendo un buon lavoro per adesso e spero che sarà così anche in futuro. Sono molto regolare con gli aggiornamenti, cercherò di farvi trovare un nuovo capitolo ogni tre giorni [per le mie vecchie lettrici: sì, ho aumentato il tempo di aggiornamento perchè quello vecchio mi uccideva]. Recensioni positive e negative, critiche, qualunque cosa sarà ben accettata. Sono quelle che mi motivano ad andare avanti, lasciare tre paroline in croce non vi costa niente e rende felice una scrittrice a tempo perso!
Tengo molto al personaggio originale che appare nella fanfiction, ma non perchè sia il mio alter ego, anzi, siamo due tipi abbastanza diversi. E' diversa da tutti gli altri personaggi femminili che abbia mai creato e ci sto mettendo tutto il mio impegno per non farla diventare la classica Mary Sue che si innamora e si fa un personaggio del manga. Incrociamo le dita e tutta a dritta!
Bè, che altro? Buona lettura e lasciate una recensione se avete tempo!

xoxo
Eva


I. Caduta.
 

 
Cadere non è mai una bella sensazione quando non si ha un paio d’ali o qualcuno che ci sostiene, figuriamoci poi quando si cade perché si è perso l’equilibrio.
Persino adesso, mentre attraversava l’aria in linea retta, ricordava con inquietante chiarezza il momento in cui aveva fatto un passo indietro e non aveva più sentito la terra sotto il proprio piede. Prima c’era stata la sorpresa, poi la paura, un inutile tentativo di riprendere l’equilibrio e infine lo sbilanciamento totale e la caduta all’indietro verso il basso, verso il suolo, diversi metri più sotto. Qualcuno la chiamò, ma lei non riuscì a rispondergli e continuò ad urlare e spalancare gli occhi, terrorizzata. Non sapeva se poteva morire per una caduta come quella, ma sicuramente si sarebbe fatta male, molto male. Provava abbastanza dolore già adesso, con i rami degli alberi che la sferzavano durante la caduta, non osava nemmeno immaginare cosa sarebbe successo una volta atterrata sul suolo pochi metri più sotto.
A metà del suo viaggio degli oggetti le sfuggirono dalle mani, inutili zavorre che non avrebbero potuto impedire il suo impatto con il terreno. Li sentì cadere nei cespugli sotto di lei con un tonfo attutito, e si chiese se il suo atterraggio sarebbe stato altrettanto morbido ed indolore. Non ebbe il tempo di scoprirlo, perché cadde in un punto in cui il suolo formava bruscamente una discesa polverosa e affiancata da alberi ed altri cespugli. Iniziò a scendere su un fianco lungo la discesa, sentendo la sua pelle che si feriva a contatto con minuscoli sassi appuntiti e con gli occhi che le bruciavano per la polvere che stava sollevando. Non cercò di proteggere il suo corpo dagli oggetti che potevano ferirla, e l’unica cosa che circondò con le mani fu la collana che portava al collo. La strinse più forte che poteva, pregando che non si rompesse e che rimanesse intatta per tutto il resto del tragitto. Le spine le graffiavano il volto, la polvere le stava facendo diventare bianchi i lunghi capelli neri, ma non si curò di tutto questo: doveva proteggere la sua unica possibilità di salvezza, a qualunque costo. Era l’unico modo che gli altri avessero per ritrovarla, e l’unico mezzo che lei avesse per poter tornare a casa.
La sua discesa si interruppe velocemente così come era iniziata, e rotolò ancora un paio di volte sul suolo per inerzia, ritrovandosi al bordo di un sentiero nel bosco. Una volta che il mondo ebbe smesso di girarle intorno come una trottola impazzita, si alzò lentamente in piedi tossendo ed imprecando. Quando finalmente fu in piedi, alzò lo sguardo in alto e osservò il punto da cui era caduta. Per poco non le prese un infarto quando vide che non c’era più alcun segno degli altri. Sembravano spariti tutti nel nulla durante la sua caduta, dissoltisi come nebbia al mattino. Forse stanno cercando un modo per scendere e cercarmi, si disse per non farsi prendere dal panico. Li chiamò un paio di volte, ma l’unica risposta che ricevette fu il gracchiare di un corvo poco lontano. Continuando a tenere stretta la collana con una mano, fece un passo in avanti, ma si mosse troppo bruscamente per le sue condizioni fisiche. Iniziò a barcollare avanti e indietro, tentando di ritrovare l’equilibrio che sembrava aver perduto del tutto, ma la forza di gravità fu più forte di lei ancora una volta. Cadde all’indietro con uno strillo spaventato, e la sua nuca colpì con forza il suolo. Potè appena mormorare una parola di stupore prima che le tenebre calassero su di lei e inghiottissero il suo mondo.
 

***

 
Voci. Troppe voci maschili intorno a lei durante il suo lento risveglio, ognuna più spaventosa e rozza dell’altra. Non riusciva a sentire con precisione cosa stavano dicendo, ma le bastava il tono delle loro parole per capire che per lei le cose non si sarebbero messe bene. Uno degli uomini rise cattivo, e sentì i brividi scenderle lungo la schiena, come se la temperatura esterna si fosse improvvisamente abbassata. Strinse gli occhi più forte che poteva, sperando che la credessero ancora svenuta o addirittura morta e la lasciassero in pace. Un piccolo oggetto freddo era posato sul suo petto, ma non riusciva a capire cosa fosse e perché si trovasse lì. Le voci si acquietarono per un attimo e lei pensò di essere nuovamente sola, ma improvvisamente una mano le toccò la gamba nuda. Questo era addirittura troppo, e la rabbia si fece strada nel suo corpo.
“Questa qui ci farà fare un sacco di soldi!” esclamò il ragazzo che si era inginocchiato e l’aveva toccata. Non potè aggiungere altro: il pugno lo colpì in pieno viso, centrandogli il naso con una forza impensabile per una ragazzina minuta come quella e spaccandoglielo con uno schiocco che giunse anche alle orecchie degli altri. Ci fu un ultimo secondo di silenzio, poi il ragazzo si portò una mano al volto e cadde per terra, tenendosi la parte colpita per cercare di fermare l’emorragia e urlando come se stesse per morire. La ragazza si sbrigò a mettersi a sedere e strisciò indietro velocemente, spaventata. “Prendete quella puttanella prima che scappi!” sbraitò il ferito mentre cercava di tornare in piedi.
Lei si alzò in fretta, senza curarsi delle foglie e dei sassi sotto i piedi nudi, ma le furono addosso in quattro prima ancora che potesse fare un solo passo. Riuscì a sferrare un altro pugno all’uomo più vicino, ma era impossibile riuscire a tenerli a bada tutti insieme. Iniziò a dare calci, gomitate e morsi a qualunque arto non fosse suo, e quasi godette nel sentire le urla di dolore dei suoi assalitori e il sapore metallico del sangue fresco nella sua bocca. La sua rabbia da animale in trappola, tuttavia, non servì molto contro la superiorità numerica e ben presto si ritrovò di nuovo sdraiata sulla terra battuta del sentiero, circondata e sovrastata da facce che non conosceva e pugni e calci che la colpivano. Una ginocchiata le colpì il labbro inferiore, spaccandolo, e il sangue iniziò a colare dalla ferita e dal mento. Si fermarono solo quando furono sicuri che non avrebbe più opposto resistenza; due di loro le afferrarono un braccio ciascuno e la costrinsero ad alzarsi in piedi, sorreggendola per non farla cadere di nuovo. Lei tenne lo sguardo basso, osservando attentamente con la coda dell’occhio il primo ragazzo: era riuscito ad alzarsi in piedi e una striscia di stoffa bianca, sporca di sangue nel punto in cui c’era il naso, gli attraversava il volto per proteggere la ferita. Le uniche cose rimaste visibili nel suo volto erano gli occhi castani, la bocca, le lentiggini quasi infantili sulla pelle visibile delle guance e la barba nera di un paio di giorni: doveva avere non più di vent’anni. Sorrise cattivo mentre le si avvicinava. “Che caratterino focoso,” commentò in tono ironico. Si passò la lingua sulle labbra in un modo che le fece venire voglia di vomitare. “Chissà se sei così energica anche a letto.”
Snudò i denti e provò a ringhiare, ma non aveva nemmeno la voce per farlo. Si sentiva sfinita, fisicamente e moralmente, e una nebbia pesante le avvolgeva la mente. Il ragazzo si accorse del suo tentativo e rise, ma non sembrò più così divertito quando lei trovò la forza per sputargli sui piedi. Le si avvicinò con passi pesanti e le afferrò il mento con una mano. La ragazza provò a sfuggire a quella presa ferrea, ma lui era più forte e la costrinse a puntare il suo sguardo nei suoi occhi. “Adesso apri bene le orecchie, puttanella,” ringhiò mentre si tratteneva dal farle del male. “Non so perché e come tu sia finita qui, e sinceramente nemmeno m’importa. So solo che non siamo stati gli unici a farti visita, e dovresti ringraziare Dio che non ti sia ancora successo niente di spiacevole.
Pronunciò l’ultima parola con un sorriso cattivo sulle labbra e lasciando sottintendere molte cose che la fecero rabbrividire al solo pensiero. Quando si rese conto di cosa le aveva detto, si sbrigò ad abbassare lo sguardo sul resto del suo corpo: fino a quel momento non ci aveva fatto caso, ma le sue gambe erano completamente nude, così come i piedi. Gli unici indumenti che indossava erano un paio di mutande e una camicia bianca che sembrava starle troppo larga. Rischiò di cadere nuovamente per lo shock, ma i ragazzi che la trattenevano riuscirono a tenerla in piedi. Mentre la riportavano in posizione eretta, lei sentì qualcosa sbatterle contro il petto, qualcosa di tondo e freddo che però non riusciva a riconoscere. Non se ne preoccupò troppo e tornò a guardare spaventata il ragazzo con gli occhi castani, che non aveva mai distolto il suo sguardo da lei. Sogghignò nuovamente. “Come ti chiami, ragazzina?”
Aprì la bocca per rispondergli, ma la richiuse quasi subito. Cercò disperatamente di scavare più a fondo dentro di lei, ma nella sua mente non c’erano altro che buio e vaghi brandelli di ricordi, troppo frammentati per avere un senso logico e poterla aiutare. Si concentrò e si sforzò più che poteva, ma niente di tutto questo la aiutò a ricordare il suo nome. Se per questo, non si ricordava nemmeno quanti anni avesse, da dove venisse, come fosse finita lì. Aveva la vaga sensazione di essere caduta da qualche parte, di essere stata in compagnia di ‘altri’, ma tutto finiva lì, non c’era altro nella sua memoria. Era tutto sparito, svanito, cancellato come un segno di gesso su una lavagna.
Il ragazzo fece un passo verso di lei e le diede un pizzicotto sul braccio, riscuotendola dai suoi pensieri. “Mi hai sentito, o sei anche sorda? Ti ho chiesto come ti chiami,” le disse spazientito.
Boccheggiò un paio di volte, incapace di decidere se mentire e dire la verità. “I-io…” balbettò, sentendo per la prima volta da quando si era svegliata il suono della sua voce. Si morse il labbro inferiore, ignorando il dolore della ferita, prima di continuare: “Io n-non me lo ricordo.”
Il silenzio cadde per un attimo nel gruppo, poi il ragazzo rise, imitato velocemente dagli altri. “Ottima scusa, piccolina, ma questo non è il momento giusto per scherzare,” l’ammonì, facendo ancora un passo verso di lei. Ormai la distanza tra i loro volti si era ridotta a pochi centimetri. “Te lo chiederò solo un’ultima volta. È così semplice, no?” Il suo tono di voce si inasprì, e tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un coltello. “Dimmi il tuo nome, o giuro su Dio stesso che lascerò due lunghe cicatrici su questo tuo bel visino.”
L’ansia e la paura la assalirono contemporaneamente, e non riuscì a frenare le lacrime che premevano per uscire dai suoi occhi. Crollò in ginocchio sul sentiero ricoperto dalle foglie secche, cogliendo di sorpresa i ragazzi che la tenevano ferma, e scoppiò a piangere senza nemmeno provare a contenersi. “Non lo so!” urlò disperata, sfogando tutte le emozioni che aveva provato nei pochi minuti passati dal suo risveglio. Le lacrime le cadevano dai chiari occhi verdi e atterravano sulle foglie e sulla terra battuta come gocce di pioggia o rugiada. “Non riesco a ricordarmelo, non ricordo niente! Vi prego, per favore, lasciatemi andare!
Tutti furono sorpresi da quello sfogo improvviso, e rimasero in silenzio a guardarla anche dopo che aveva smesso di urlare e iniziato a singhiozzare sommessamente. Dopo qualche minuto, il ragazzo che le teneva il braccio destro alzò lo sguardo da lei e si rivolse a quello con gli occhi castani, probabilmente il capo della banda. “Che facciamo con lei, Andrè?”
Lui scosse la testa, indeciso, e sospirò mentre rinfoderava il coltello. Si passò una mano tra i capelli e si grattò la benda nel punto in cui si trovava il suo naso. Gemette piano, poi la ragazza lo sentì dire: “Potrebbe essere anche la nipote della Regina Vittoria, ma non me ne importa nulla. Lady Nancy non avrà problemi nel prenderla con sé, anche se dice di non ricordarsi niente. Mi ha dato solamente un giorno di proroga per portarle una nuova ragazza, e non rischierò la mia vita preoccupandomi per l’identità di una puttanella come questa.” Fece un cenno ai due che la tenevano ferma. “Legatele mani e piedi e montatela su un cavallo. Dobbiamo arrivare in città prima che faccia buio.”
Così fu. La trascinarono verso i cinque cavalli che lei non aveva notato prima e che erano legati ad un albero poco distante. Il ragazzo che aveva chiamato il capo ‘Andrè’ si avvicinò ad un grande cavallo baio ed aprì una delle sporte sistemate sui suoi fianchi, tirandone fuori due lunghi pezzi di corda. Insieme ad uno dei suoi compagni legò polsi e caviglie della ragazza, mentre un terzo la minacciava con un coltello meno affilato ma altrettanto pericoloso di quello di Andrè. Non le toglieva gli occhi di dosso, osservando le curve sinuose del suo corpo in pieno sviluppo e controllando che non facesse passi falsi e provasse a scappare ancora una volta, ma lei non accennò il minimo segno di ribellione: era completamente inerte, quasi come se fosse immersa in una trance o persa in un altro mondo, e lasciò che quegli sconosciuti finissero di legarla e la issassero sul cavallo baio. Sentiva la corda ruvida sfregarle contro la pelle e ben presto delle piccole ferite si aprirono sulle caviglie e sui polsi, facendole versare altro sangue. Non se ne curò e non si mosse nemmeno quando il ragazzo salì sul cavallo proprio dietro di lei, le loro pelli che si toccavano e si sfregavano mentre lui afferrava le redini. Le tirò, e l’animale nitrì e fece un paio di passi indietro, poi uno avanti, pronto a cavalcare verso casa.
Il resto del gruppo era già montato in sella, e la ragazza lanciò un’occhiata ad Andrè, in testa alla fila su un’imponente cavalla nera e con un sorriso in volto, nonostante la benda. “Spronate i vostri cavalli al massimo, signori!” urlò prima di lanciarsi al galoppo sul sentiero. “Londra ci aspetta!”
 

***

 
Giunsero in città due ore più tardi, quando il tramonto aveva già iniziato a tingere persone ed animali di un rosso spettrale. La ragazza non si sentiva più il fondoschiena: non era abituata a cavalcare così a lungo (se mai aveva cavalcato prima di quel giorno), e inoltre le caviglie e i polsi continuavano a sanguinarle, lasciandola sempre più debole e stanca. Fu quasi un sollievo per lei entrare dentro la città che Andrè aveva chiamato Londra: intuiva che il destino a cui stava andando incontro non sarebbe stato piacevole, ma probabilmente avrebbe potuto riposarsi dopo essere smontata da cavallo. Qualunque cosa poteva essere migliore di un supplizio del genere, perfino spazzare la merda in qualche vicolo nascosto e poco frequentato.
Mentre si dirigevano verso la loro meta, lei non smise per un solo istante di guardarsi intorno, affascinata e allo stesso tempo spaventata dagli alti palazzoni neri ricoperti di fuliggine e dalle persone che passeggiavano sui marciapiedi. Le strade erano percorse dagli operai e dai londinesi più poveri, quelli che si erano trasferiti dalle campagne in cerca di fortuna ma che non avevano trovato altro che l’Inferno. Adocchiò due ragazze nobili poco più grandi di lei che bisbigliavano incessantemente tra di loro dentro i loro vestiti di seta azzurra, persone ben strane da trovare in una zona come quella, e si chiese perché fossero lì. Quando il rumore degli zoccoli dei cavalli riecheggiò nell’intera strada si voltarono verso quella strana comitiva, e i loro sguardi stupiti incontrarono quello della silenziosa ragazza legata e che indossava nient’altro che una camicia strappata in più punti, macchiata di sangue e troppo grande per lei. Per la prima volta dal suo risveglio abbozzò un sorriso, ma le scomparve dal volto non appena i sguardi delle due giovani dame diventarono disgustati e loro li distolsero, svoltando in fretta l’angolo come se volessero fuggire da quella scena e dimenticare quello che avevano visto. Il ragazzo dietro di lei si era accorto di tutto e rise di scherno. “Non cercare di attirare l’attenzione di ragazze come quelle, non sono minimamente interessate a te. Per loro non sei altro che un ratto uscito dalla fogna più vicina.”
Lei non replicò, lasciando che la delusione la ferisse nel profondo e le lasciasse due pomelli rossi sulle guance. Non provò ad attirare l’attenzione di nessun altro passante, limitandosi a fissare i palazzi che, mano a mano che procedevano, si facevano sempre più grigi e fatiscenti. Quando svoltarono l’ennesimo angolo, si accorse che la cavalla davanti a loro, quella di Andrè, si stava fermando davanti a un edificio meno cadente degli altri e con un portone marrone che sembrava essere stato verniciato da poco. Una volta che l’animale si fu fermato del tutto, il suo cavaliere smontò e le accarezzò delicatamente il volto, sorridendo dolce. La ragazza si chiese come potesse essere così gentile con la sua cavalla e trattare lei come se non fosse stata un essere umano. I suoi pensieri vennero interrotti quando lui si avvicinò al cavallo su cui si trovava lei e fece cenno di scendere al ragazzo che l’aveva tenuta d’occhio fino a quel momento. Lui fece come gli era stato detto, aiutando anche lei a smontare. Mentre atterrava con i piedi nudi sulle fredde pietre della strada, sentì Andrè dire agli altri uomini: “Voi rimanete qui con i cavalli. Io e Thomas portiamo la ragazzina da Lady Nancy e concludiamo questo affare una volta per tutte.”
Annuirono tutti, come se fossero abituati ad istruzioni del genere. Non deve essere la prima volta che questa Lady affida loro un lavoro del genere, riuscì a pensare la ragazza prima che Thomas – il ragazzo che si era preso di gioco di lei e delle due dame – la afferrasse bruscamente per un braccio e la trascinasse verso il portone dipinto di fresco, dove Andrè li stava già aspettando. Senza rivolgere un’occhiata a nessuno dei due, quest’ultimo chiuse una mano a pugno e bussò per tre volte sul legno. Mentre aspettavano che qualcuno li facesse entrare, la ragazza alzò lo sguardo verso l’insegna che sbatteva, scossa dal vento, poco sopra la porta. Gli ultimi raggi di sole illuminavano a fatica la scritta dipinta sopra di essa, ma riuscì lo stesso a decifrare le parole Casa di piacere prima che la porta si spalancasse e lei venisse spinta dentro l’edificio.
L’ingresso in cui si ritrovarono era grande, probabilmente tre metri per lato, se non di più. Era illuminato da due candelabri appesi alle pareti, e le candele al loro interno diffondevano una luce soffusa nella stanza. Nel punto in cui avrebbe dovuto trovarsi la parete opposta alla porta d’ingresso c’era una spessa tenda di velluto amaranto, lo stesso colore delle pareti e dei tappeti stesi sul pavimento. Accanto ad essa c’era un piccolo scrittoio di legno, dietro il quale si trovava una ragazza sui trent’anni vistosamente truccata e con i capelli ricci legati in un alto chignon. La scollatura del suo vestito rosso lasciava scoperta buona parte dei suoi seni, ma lei sembrava non preoccuparsene, come se fosse normale per lei lavorare vestita in quel modo e con le labbra tinte di un colore così acceso. Probabilmente era stata lei a farli entrare, ma chiese comunque ad Andrè: “Cosa posso fare per voi?”
Il giovane si chiuse la porta alle spalle e sorrise maliziosamente alla ragazza. “Siamo venuti per sbrigare uno dei nostri piccoli affari con Lady Nancy. Dille pure che abbiamo sistemato quella faccenda di qualche giorno fa.” Mentre diceva queste ultime parole, diede un buffetto alla sua prigioniera, che gli avrebbe sputato addosso per il ribrezzo se solo la situazione fosse stata in suo favore.
L’altra ragazza si limitò ad annuire senza fare una piega, poi sparì dietro la tenda. I tre nuovi arrivati rimasero in attesa nell’atrio per qualche minuto, ascoltando i rumori che provenivano dalle altre stanze. C’era della musica da qualche parte dietro la tenda, e quelle non erano forse risate femminili? La cosa che preoccupava di più la ragazza erano gli strani gemiti di piacere e cigolii di materassi che provenivano dal piano di sopra. Nella sua mente si formò una vaga idea su cosa potessero essere e su quale sarebbe stato il suo destino, ma si costrinse a non formulare direttamente quest’ultimo pensiero: non si sentiva ancora pronta per una cosa del genere, proprio no. Sarebbe potuta svenire sul serio, se glielo avessero detto.
Poco lontano una voce femminile parlò a voce bassa ma tonante, come se fosse arrabbiata per qualcosa, ed improvvisamente la tenda davanti a loro si spalancò ed apparve una donna con vent’anni di più della prima ragazza, ma altrettanto truccata, con una scollatura probabilmente più ampia e dei seni non ancora del tutto rovinati dall’età. Si ravviò una ciocca ribelle dei capelli biondi e guardò sarcastica Andrè mentre faceva un passo in avanti e richiudeva la tenda. “Bene, bene, bene. Guarda un po’ chi si fa rivedere nella mia modesta casa,” disse ironica, senza staccare i suoi occhi azzurri dal giovane. “Stavo proprio a pensando a quel maledetto francese, quand’ecco che arriva una delle mie ragazze a dirmi che mi sta aspettando nell’ingresso con una sorpresa per me. Strana la vita, eh?”
Andrè sorrise umilmente. “Lady Nancy…”
“Piantala di fare il leccaculo, vediamo di concludere questo affare prima che io cambi idea,” lo interruppe bruscamente. Squadrò la ragazzina che Thomas tratteneva per un braccio e la indicò con un cenno del mento. “È lei?”
Il giovane sembrò ritrovare la sua parlantina svelta e aprì bocca per parlare, ma la donna lo interruppe nuovamente. “È stata lei a ferirti in quel modo?” gli chiese, indicando la benda che gli attraversava il volto. Scoppiò a ridere sguaiatamente. “Ha un bel caratterino se riesce a tenere testa perfino a te, ma sei sicuro che non possa fare del male ai miei clienti?”
“Niente affatto!” si affrettò a rispondere Andrè, spaventato dalla prospettiva di perdere un affare come quello. “Ha fatto solamente un po’ di resistenza quando l’abbiamo trovata, ma si è comportata come un angioletto per tutto il resto del tempo.”
Lady Nancy sembrò indecisa se credergli o meno, poi si avvicinò con passi decisi alla ragazza. Guardò schifata la camicia insanguinata e il sangue che le colava da polsi e caviglie, poi, improvvisamente, le afferrò il mento con le dita sottili e le alzò il volto, esaminandolo da ogni angolazione. Quando glielo lasciò andare, si voltò verso Andrè e gli disse: “È molto più giovane delle ragazze che porti di solito. Quanti anni ha? Quattordici, quindici?”
“Ecco…” Adesso sembrava davvero a disagio. Si costrinse a fare un respiro profondo prima di confessare: “L’abbiamo trovato nella foresta poco fuori città. Dice di non ricordarsi niente, nemmeno come si chiama. Figurati se si ricorda la sua età.”
Buttò lì l’ultima frase per alleggerire l’atmosfera, ma non fece altro che appesantirla. Gli occhi della donna brillarono feroci prima che lei sbottasse: “Non si ricorda niente? Lo sai cosa diavolo significa, Andrè?! Potrebbe essere chiunque, anche la figlia di uno di quei bastardi che mi alitano sul collo per farmi chiudere questo posto! Sai cosa succede se inizia a lavorare qui e poi scopro che è la figlia di un potente? Chiudono questo posto e ci sbattono fuori, me e le mie ragazze! Scordati che io la prenda con me!”
Il colorito del ragazzo si fece pallido, ma lui cercò di mantenere un tono di voce fermo mentre replicava: “Non possiamo esserne sicuri, Lady Nancy. Forse non è nessuno, forse non è nemmeno di Londra. Non è detto che la stiano cercando, e se anche fosse così questo sarebbe uno degli ultimi posti in cui la cercherebbero.” Deglutì, in attesa di una replica.
Lady Nancy rimase in silenzio a pensare per qualche secondo, poi sospirò. “E va bene. Ma lo faccio solamente perché sei tu, maledetto francese. Ricordati, però, che se dovesse succedere qualcosa verrò a cercarti insieme a un paio di persone che sarebbero felici di spaccarti le ossa.”
Il sorriso che si formò sulle sue labbra non avrebbe potuto essere più luminoso. “Affare fatto!” esclamò. Fece un passo verso la donna e le mormorò: “Per quanto riguarda il pagamento… se Sarah fosse disponibile…”
“È già impegnata stasera,” fu la brusca risposta. Il tono della voce le si addolcì quando aggiunse: “Ma domani probabilmente sarà libera. Vieni all’ora che preferisci, sai che siamo aperte tutta la notte.”
Il sorriso di Andrè si allargò ulteriormente. Strinse la mano con forza a Lady Nancy e tagliò lui stesso le corde che legavano i polsi e le caviglie della ragazza. Rivolse un ultimo cenno alla donna prima che lui e Thomas se ne andassero nella notte appena cominciata. Non appena si furono chiusi la porta alle spalle, la donna afferrò il polso ferito della ragazza e iniziò a trascinarla verso il fondo della stanza. “Sbrigati, non ho tempo da perdere con te,” le disse brusca mentre sparivano dietro la tenda amaranto.

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Capitolo 2
*** Vita da casa di piacere (o, più semplicemente, da bordello). ***


II. Vita da casa di piacere (o, più semplicemente, da bordello).

 
Lady Nancy camminava a passi veloci e sicuri, senza allentare la sua presa sul polso della ragazza e conducendola attraverso un lungo corridoio con tre porte per lato. Spaventata dai modi di quella donna e del tutto spaesata, la nuova arrivata sbirciò dentro le stanze che scorrevano davanti ai suoi occhi e deglutì alla vista di tutte quelle ragazze che indossavano vestiti che coprivano ben poco le loro nudità e che si truccavano in modo a dir poco appariscente. Che ci faccio qui, io? si chiese, anche se la risposta brillava chiaramente nella sua mente. Era stata semplicemente venduta da quel ‘maledetto francese’ – chissà cosa voleva dire ‘francese’? – di Andrè solamente per passare un po’ di tempo con una di quelle ragazze – per fare cosa, non lo voleva nemmeno sapere. Il solo avvicinarsi a quel pensiero la faceva stare male, e la sensazione di essere sul punto di vomitare raddoppiava se solamente provava a dirsi che ben presto lei sarebbe diventata come tutte quelle altre ragazze. Doveva essere molto giovane rispetto a loro, dato il tono di voce che Lady Nancy aveva usato con Andrè quando gli aveva chiesto la sua età, forse c’era ancora una speranza per lei. Forse non avrebbe lavorato come le altre, forse l’avrebbero spedita a fare i lavori più umili. Era una misera speranza, nient’altro che un filo di ragnatela a cui aggrapparsi, ma che avrebbe potuto tirarla fuori dall’abisso in cui era caduta.
Le sue speranze rimasero intatte mentre la donna svoltava a destra in fondo al corridoio, iniziando a salire una buia rampa di scale. Sbucarono in un altro corridoio al piano di sopra, meno illuminato, meno caotico e più silenzioso di quello sottostante. O almeno, questo fu quello che la ragazza pensò finchè non sentì un urlo di piacere uscire da una delle stanze che si trovava nella parte destra del corridoio. Il fiato le si mozzò in gola e sarebbe rimasta lì impalata se Lady Nancy non le avesse dato uno strattone, trascinandola nell’altra metà del corridoio. Arrivate davanti alla terza porta, la donna tirò fuori da una minuscola tasca nel vestito un mazzo di chiavi, ne infilò una nella serratura e la girò, spalancando poi la porta. Spinse la ragazza dentro la stanza buia, ed accese velocemente un candelabro che si trovava sul mobile più vicino. “Rimani qui finchè non arriva qualcuno a spiegarti come funzionano le cose qui, capito?” le disse bruscamente. Prima ancora che l’altra potesse replicare, chiuse la porta e, tanto per essere sicuri, fece girare nuovamente la chiave nella serratura prima di tornare ai suoi affari. La ragazza aspettò che i suoi passi fossero svaniti nel nulla e che il corridoio fosse tornato silenzioso, poi osservò meglio la stanza in cui si trovava.
La luce delle candele non illuminava molto, ma abbastanza da permetterle di intravedere le sagome dei mobili. Doveva trovarsi in una camera da letto, a giudicare dal grande letto a baldacchino e dall’armadio che dominava la parete a sinistra. Gli unici altri mobili presenti, oltre al comodino su cui si trovava il candelabro, erano una toeletta di legno bianco a destra del letto e un piccolo sgabello dello stesso colore e foderato di stoffa a strisce rosse e gialle. La ragazza rimase per lunghi minuti impalata davanti alla porta, indecisa su come muoversi e cercando di ignorare i rumori provenienti dalle altre stanze, poi si decise ad afferrare il candelabro con una mano tremante. Sentì una fitta di dolore provenirle dal polso quando le sue dita si chiusero attorno al candelabro, ma strinse i denti e raggiunse con passi lenti e calcolati la toeletta. Poggiò la sua unica fonte di luce sul piano del mobile, cercando di trovare spazio tra i vari portagioie e vasetti di ceramica. Stando attenta a non bruciarsi i capelli, si avvicinò lentamente allo specchio e vide il suo stesso riflesso scrutarla. Osservò le ciocche nere che le cadevano sul volto in modo scomposto, gli occhi verdi più scuri al centro e più chiari sul bordo, il labbro che Andrè le aveva così gentilmente rotto. Alzò una mano per pulirsi una macchia di sangue dal mento e non le sfuggirono i segni della corda sul suo polso. Cercò di trattenersi, ma non ce la fece.
La sua mano iniziò a tremare sempre più violentemente, come se avesse volontà propria, poi le gambe la imitarono e ben presto lei si ritrovò seduta in modo scomposto sul pavimento freddo. Le lacrime iniziarono a scenderle nuovamente dagli occhi, e lei non fece niente per fermarle, limitandosi a portarsi le gambe al petto e ad abbracciarle con le braccia. Cercò di non singhiozzare ad alta voce per paura che qualcuno potesse sentirla e venisse a vedere cosa stava succedendo, e per farlo affondò il volto nel suo stesso petto e morse la stoffa della camicia per limitare i suoi singhiozzi. Quando riuscì a calmarsi un poco, lunghi minuti dopo, fece un respiro profondo e si aiutò con lo sgabello per tornare in piedi. Diede un’ultima occhiata al suo riflesso, convinta che nulla nel suo aspetto fosse cambiato tranne gli occhi arrossati, ma uno strano baluginio bluastro dentro la sua camicia le fece cambiare idea. Aggrottò le sopracciglia, incuriosita, e vi infilò dentro una mano. La sua mano toccò un oggetto rotondo e fresco al tatto, e lo tirò fuori per vedere di cosa si trattasse. Quando lo vide, quasi rimase a bocca spalancata e per la sorpresa lo lasciò cadere dalla sua mano, facendolo sbattere contro il suo petto.
Era la collana più grossa e strana che avesse mai visto, niente in confronto a quelle che indossavano le altre ragazze della casa. Il filo era spesso e di uno strano colore verdastro, e il ciondolo era una grande pietra rotonda blu con piccole macchie azzurre. Non era molto spessa, ma il suo peso si faceva sentire sopra il suo collo. La cosa che la sorprendeva più di tutte, però, era la lettera che vi era incisa sopra, una grossa L che si notava a malapena nella fioca luce delle candele. Si chiese subito a cosa potesse riferirsi: che fosse l’iniziale di qualcosa? Un oggetto? Un luogo? Una città? Un nome, forse proprio il suo?
Sfiorò con le dita la fredda superficie della pietra, ma nessun ricordo le attraversò la mente. Non così tanto delusa da quel patetico tentativo, si sfregò gli occhi per nascondere il rossore senza però riuscirvi, lasciò il candelabro sulla toeletta e si diresse verso il letto. Non si curò nemmeno di togliersi la camicia insanguinata e si sdraiò lentamente tra le lenzuola morbide. Erano fredde come il ghiaccio, ma probabilmente si sarebbero scaldate durante la notte. Si promise di rimanere sveglia per controllare che nessuno entrasse nella stanza, ma dopo pochi minuti era già sprofondata nel mondo dei sogni, stanca e distrutta fisicamente e moralmente.
 

***

 
Un rumore forte, secco. Passi che risuonavano dentro la stanza. Una breve esclamazione di stupore, un respiro mozzato. Si accorse di tutto questo solo vagamente, immersa ancora nel dormiveglia e in un sogno che non avrebbe mai ricordato una volta sveglia. Probabilmente avrebbe solamente ricordato uno scintillio dorato e due cerchi di un azzurro ipnotizzante, molto più chiaro del ciondolo della sua collana. Fece in tempo ad osservarli un’ultima volta, poi qualcuno le toccò delicatamente la spalla. Si svegliò subito e si mise a sedere di scatto, voltandosi poi a sinistra: davanti a lei, illuminata dalla luce lunare proveniente da una grande finestra che non aveva notato al suo arrivo, c’era un’altra ragazza, molto più grande di lei, che la guardava a bocca socchiusa e con gli occhi castani spalancati per la sorpresa. Tolse rapidamente la sua mano dalla spalla della sconosciuta e si affrettò a dire: “Tranquilla, non volevo farti nulla. Lady Nancy mi aveva avvertita della tua presenza, ma non mi aspettavo di vederti addormentata così profondamente.” Rise dolce. “Diavolo, è un giorno intero che dormi! Cosa ti è successo per stancarti così tanto?”
Indietreggiò sotto le coperte, con il cuore che continuava a batterle all’impazzata. “Chi sei?” le chiese in un mormorio, ignorando la sua domanda.
Rise nuovamente, stavolta più forte. “Io? Bè, sarei quella che abita in questa stanza, ma credo che tu non intenda questo, vero?” Le sorrise e le tese una delle piccole mani. L’altra ragazza la osservò meglio: i lisci capelli biondi erano legati in una treccia che le cadeva sulla spalla, e il suo sorriso amichevole voleva essere una garanzia delle sue buone intenzioni. Aveva il trucco quasi completamente sfatto, soprattutto quello sulle labbra, come se avesse continuato ad usarle per tutto quel tempo per baciare qualcuno incessantemente. Esitò un attimo, poi tese anche lei la mano. L’altra gliela strinse con energia e la lasciò andare quasi subito. “Io mi chiamo Sarah, comunque. E tu?”
Quel nome le fece ricordare il discorso tra Andrè e Lady Nancy, ma si costrinse a far passare quel pensiero in secondo piano e si limitò a mormorare: “Non lo so. Non riesco a ricordare niente di me stessa.”
Sarah la guardò per un attimo stranita, poi i suoi occhi ripresero la solita vivacità. “Ah, già, Lady Nancy mi aveva accenato qualcosa in proposito. Stai tranquilla, sono sicura che prima o poi ricorderai qualcosa. Ora vieni con me, devo darti una sistemata e siamo già in ritardo!” Dicendo così le afferrò entrambe le mani e la fece alzare dal letto. Una volta in piedi, la condusse alla toeletta poco più in là e la fece sedere sul piccolo sgabello, senza mai staccare le mani dalle sue spalle. Alla ragazza dava noia che l’altra la toccasse così spontaneamente e così bruscamente: non aveva ancora superato del tutto i tocchi pieni di violenza dei compagni di Andrè, e ad ogni passo che faceva le caviglie le dolevano come se stessero andando in fiamme. Tuttavia rimase in silenzio ed osservò Sarah aprire uno dei cassetti della toeletta e tirarne fuori una spazzola. Spostò il candelabro in modo da poter vedere lo specchio, e sorrise al riflesso dell’altra. “Se ti faccio male o ti tiro i capelli dimmelo, va bene?”
Lei annuì, a disagio. La bionda iniziò a spazzolarle lentamente i capelli, facendo attenzione alle ciocche più nodose e a non passare la spazzola sul suo collo costellato da piccoli lividi. Per fortuna non ne ha nessuno in volto, altrimenti non sarei riuscita a coprirli, pensò sollevata. Mentre proseguiva col suo lavoro non distoglieva mai lo sguardo dallo specchio davanti a lei, e ben presto notò la collana che l’altra ragazza portava al collo. Le risultava difficile credere che fosse veramente sua, e si aspettava già in parte la risposta quando le chiese: “È tua, quella collana?”
Lei rimase interdetta per un attimo, poi abbassò lo sguardo sulla pietra blu e la strinse con forza, come se volesse proteggerla. Sentiva di aver già fatto un gesto del genere, ma quando? “Sì. Credo di sì,” rispose sicura. Quella era l’unica cosa di cui era certa: quella collana le apparteneva ed era importante. Ancora non sapeva perché, ma qualcosa le diceva che non avrebbe mai dovuto perderla.
Sarah annuì, cercando di nascondere la sua sorpresa, diede un ultimo colpo ai lunghi capelli neri della nuova arrivata e posò la spazzola sul piano della toeletta. Diede una veloce occhiata al volto dell’altra ragazza e tirò fuori da un altro cassetto un fazzoletto, con cui iniziò a pulire il sangue raggrumato sul suo mento. Nessuna delle due parlò per lunghi secondi, poi la bionda disse: “Credo di avere qualcosa nella tua misura nell’armadio, ma non ne sono sicura. Ma sono sicura che potrai resistere per qualche giorno con dei vestiti più grandi.” Gli occhi le brillarono maliziosi. “Non che ti serviranno a molto, comunque.”
A quelle parole, sentì l’intero mondo crollarle addosso, e dovette affondare le unghie nel legno dello sgabello per non urlare. Gli occhi le si riempirono di paura senza che Sarah se ne accorgesse, e i pensieri che aveva ricacciato indietro la sera precedente esplosero ancora più potenti nella sua testa, facendole vedere cose che non avrebbe mai immaginato nemmeno nei propri incubi peggiori. Si costrinse a rimanere calma mentre l’altra ragazza continuava: “Vedrai, ti troverai bene qui, siamo come una grande famiglia. Non sei la più piccola, ci sono un paio di ragazze che hanno un anno meno di te e che non si trovano male. I clienti sono quel che sono, ma mi hanno detto che nei bordelli dall’altra parte della città capita la peggiore feccia londinese. Sono fortunata ad essere finita qui, anche per la presenza di Andrè.” Rise, e l’altra tremò sotto la camicia. “È un ragazzo così gentile, nonostante sia francese. Una volta gli ho chiesto com’è finito qui in Inghilterra, penso di non aver mai sentito una storia così strana e avventurosa! Certo, deve averla gonfiata un po’, ma gli si può perdonare questa mancanza. Si può perdonare tutto a uno bravo a letto come lui.” Disse quest’ultima frase con nonchalance, poi posò il fazzoletto sul piano della toeletta e si avviò a grandi passi verso l’armadio dall’altra parte della stanza, trascinando con sé la nuova arrivata. La lasciò andare per aprire le due ante, e iniziò a rovistare tra i vestiti al suo interno mormorando tra sé e sé. Quando ne trovò uno di suo gradimento, lo prese e lo mise tra le braccia dell’altra ragazza, che quasi soffocò sotto gli strati di stoffa pesante. Le fece l’occhiolino, complice. “Ti lascio da sola mentre ti vesti, va bene? Io ho una cosa da fare, ma tornerò tra pochi minuti. Non scappare mentre sono via!”
Lo disse in tono scherzoso, ma non appena ebbe lasciato la camera e chiuso la porta l’altra ragazza si ritrovò a pensare seriamente a quell’alternativa. Lasciò cadere il vestito sul pavimento e si mise a sedere sul letto a testa bassa, dondolando le gambe nude e pensando velocemente. Scappare? Sì, poteva provarci, se voleva uscire da quel posto. Sapeva che era rischioso – non aveva paura di essere catturata nuovamente da Andrè, ne era letteralmente terrorizzata – ma non voleva concedersi come Sarah per il resto dei suoi giorni. La sua perdita di memoria giocava a suo sfavore, ma contava sul fatto che un giorno o l’altro l’avrebbe recuperata in qualche modo. Ma non se la sentiva di aspettare quel momento rinchiusa lì dentro, a toccare e baciare corpi che non conosceva e che avrebbe visto e conosciuto solamente per il tempo di una notte.
Cercando di farsi coraggio, si alzò in piedi e si avvicinò all’armadio, rovistando al suo interno e cercando dei vestiti che non la facessero sembrare scappata da un ‘bordello’, come lo aveva chiamato Sarah. Alla fine, quando ormai aveva abbandonato ogni speranza di trovarli, adocchiò dei pantaloni neri e una camicia bianca, ma quando li indossò scoprì che erano troppo grandi per lei. Forse erano appartenuti a qualche uomo o a una ragazza prosperosa, non lo voleva sapere e non le importava, erano ciò di cui aveva bisogno e tanto le bastava. Cercò anche qualcosa da infilarsi ai piedi, ma non trovò nulla. In compenso, scovò un pesante cappotto nero e un cappello a coppola sporco di polvere nera che sembrava fuliggine. Se li infilò entrambi per coprire il suo volto il più possibile, poi si avvicinò alla finestra. Quando fu sul punto di aprirla dei passi risuonarono nel corridoio, e il suo cuore iniziò a battere più velocemente; sentì il sudore freddo colarle lungo la schiena, ma tirò un sospiro di sollievo quando i passi tirarono a dritto, senza nemmeno fermarsi davanti alla porta. Fece un respiro profondo e, dopo una lunga lotta con la maniglia, riuscì ad aprire la finestra. Si affacciò, dando un’occhiata in basso, e deglutì: l’altezza da cui sarebbe dovuta saltare era di circa tre metri e sotto la finestra non c’era niente che potesse attutire la sua caduta, si sarebbe rotta come minimo una gamba e non avrebbe avuto alcuna speranza di fuggire velocemente come si era immaginata. Doveva rendere più morbido il suo atterraggio.
Le bastò lanciare un’occhiata al letto, e un’idea le balzò subito in mente.
Facendo più in fretta che poteva, afferrò il vestito che le aveva dato Sarah e le lenzuola e trascinò tutto verso la finestra. Si affacciò, controllò che nel vicolo sottostante non stesse passando nessuno e poi lanciò di sotto a fatica tutto quell’ammasso di stoffa. Il terrore che al piano di sotto qualcuno si potesse accorgere di cosa stava succedendo la colse quando vestito e lenzuola erano già a metà del loro viaggio, ma si rese conto che aveva oltrepassato il punto di non ritorno: ora doveva solo saltare, o tutto sarebbe stato inutile. Diede un’ultima occhiata al mucchietto di stoffa nella strada illuminata dalla luna, poi si avvicinò nuovamente all’armadio e afferrò altri tre vestiti, quelli che a occhio le sembrarono i più grandi e morbidi. Sperava che bastassero, e che anche i vestiti che indossava la aiutassero a non farsi troppo male. Gettò anche gli ultimi vestiti sul mucchio in strada, poi salì sul davanzale esterno e guardò in giù con le mani attaccate ai lati della finestra. Cercò di darsi la spinta, ma era paralizzata dalla paura. E se fosse atterrata male? E se si fosse spaccata qualcosa? E se Lady Nancy o, ancora peggio, Andrè l’avessero vista cadere dal primo piano e si fossero precipitati ad inseguirla? Cosa avrebbe potuto fare una volta tornata lì dentro?
Ci pensò un altro rumore di passi a farla saltare. Le bastò lasciare andare la sua presa sulla finestra e mettere un piede nel vuoto, poi le venne quasi istintivo lasciarsi cadere sul mucchio di stoffa nel vicolo. Vi sprofondò dentro e ne venne fuori pochi secondi più tardi, accorgendosi solamente dopo di essere finita sotto una finestra illuminata. Impallidì ed uscì dal mucchio più silenziosamente che poteva, ma ben presto si accorse che gli occupanti della stanza non avrebbero sentito nemmeno l’arrivo di un temporale o di un uragano. Perfino in strada si riuscivano a sentire i cigolii del vecchio materasso, i brevi strilli di piacere di una voce che somigliava troppo a quella di Sarah per non essere la sua e una voce maschile, più profonda, che urlava cose in un’altra lingua, parole che somigliavano a ‘Mon Dieu!’ o qualcosa del genere. Non aveva tempo per accertarsi che l’uomo fosse Andrè, adesso doveva andarsene in silenzio e correre con tutta la velocità che i suoi piedi nudi e le sue gambe le consentivano.
Rimase per qualche istante al centro del vicolo, lontana dalla luce che proveniva dalla finestra, e abbottonò tutti i bottoni del cappotto, sperando che questo potesse aiutarla a nascondere ulteriormente il suo volto. Una volta finito, ci pensò su e infine decise di calcarsi il cappello più che poteva sulla fronte, abbassandolo così tanto che vedeva a malapena davanti a sé. Soddisfatta del risultato, respirò profondamente per darsi coraggio e si voltò per dirigersi verso l’imbocco dello stretto vicolo. Dopo un breve attimo di indecisione decise di lasciare il mucchio di stoffa lì dove lo aveva lanciato: se tutto andava secondo i suoi piani, non avrebbero scoperto la sua fuga prima del mattino successivo, e per allora lei doveva già essere fuori dalla città, il più lontano possibile da tutto e da tutti. Annuì tra sé e sé, soddisfatta del suo piano e fiduciosa nel fatto che tutto sarebbe andato come voleva.
Era così presa dai suoi pensieri che non si accorse del rumore di una porta spalancata al primo piano e di una voce che mormorava qualcosa in tono allarmato. Capì che qualcosa non andava solamente quando sentì uno strillo alle sue spalle, e quando si voltò vide con terrore una familiare figura femminile affacciata alla finestra dalla quale si era gettata da pochi minuti. Fece un passo indietro, cercando di non fare alcun rumore e di sfuggire alla luce lunare, ma la donna si era già accorta di lei e le aveva puntato un dito accusatore contro. I brividi le scesero lungo la schiena e non potè fare altro che seguire l’istinto, voltandosi e iniziando a correre a piedi nudi sul selciato del vicolo, mentre alle sue spalle la voce stridula di Lady Nancy continuava ad urlare nell’aria notturna di Londra.
“Sta scappando! La nuova arrivata sta scappando! Andrè, maledetto francese, lascia stare la tua puttana e inseguila prima che ci sfugga!”













Eccovi il secondo capitolo, in perfetto orario come vi avevo promesso. La nostra smemorata è riuscita a scappare, ma cosa l'attende tra i vicoli di Londra? Quali strani e oscuri personaggi incontrerà? *dan-dan-dan-daaaan*
Fate finta di non aver letto nulla .-.
Ringrazio molto chi ha recensito e messo la mia storia tra le seguite e le preferite, spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto! ^_^
LudusVenenum: la raygun? E questa da dove l'hai tirata fuori? XD Comunque, bentornata tra i miei recensori! :)
MadLucy: non puoi immaginare il piacere che mi ha fatto ricevere la tua recensione, e soprattutto sono contenta che la trama ti interessi :) Solitamente i personaggi inventati non mi dispiacciono, ma quasi sempre alla fine sono le solite Barbie che dici tu, per questo faccio fatica e ho quasi paura a inserirle nelle mie fanfiction. [Unica nota dolente: dovrai aspettare ancora qualche capitolo per Alois...]
Lulu_Rouges: ehilà, chi si rivede! Da quanto tempo, anche tu mi eri mancata! Il tuo famoso intuito stavolta ha fatto cilecca, perchè nè Andrè nè Lady Nancy sono quello che credi (perchè lui ti ricorda Duncan? Perchè? ç_ç)

xoxo
Eva

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Capitolo 3
*** Fuga notturna. ***


III. Fuga notturna.

 

 
La porta del bordello si aprì quando la ragazza aveva appena svoltato l’angolo ed era entrata nella strada in cui si trovava l’ingresso dell’edificio. Da esso, illuminata dalla luce lunare, uscì un’ombra maschile che iniziò a strepitare ordini che lei non riusciva a capire. Forse si stava rivolgendo a lei, dicendole di fermarsi, o forse parlava con i suoi uomini, ordinando loro di inseguirla e catturarla; non lo sapeva ed averne la certezza non rientrava tra le sue priorità. Per adesso, se voleva davvero salvarsi la pelle, doveva continuare a correre ed uscire da quella maledetta città. Il pensiero di non sapere cosa avrebbe fatto in seguito la spaventava persino di più delle ombre scure che circondavano strade ed edifici e facevano apparire tutto più nascosto e cattivo. Doveva assolutamente andarsene da lì, ma dopo cosa avrebbe fatto? Dove poteva andare senza memoria, e come avrebbe fatto a ritrovarla?
Mentre correva e pensava, il ciondolo della collana le sbatteva insistentemente contro il petto, come se volesse richiamare la sua attenzione. Svoltando l’angolo della strada in cui aveva incontrato le due giovani lady, infilò una mano dentro il cappotto e tirò fuori il gioiello, dando una lunga occhiata alla pietra che brillava nella luce notturna e alla lettera incisa sulla sua superficie. Ancora una volta, sentì che quella collana era importante per lei e che non avrebbe mai dovuto perderla. È l’unica cosa che può portarmi a casa, pensò senza capire cosa significasse. Era una frase che aveva già sentito da qualche parte, ma non si ricordava dove e quando.
Circa un quarto d’ora dopo svoltò l’ennesimo angolo e si ritrovò nella stessa strada da cui era entrata il giorno prima in città. Riconobbe gli stessi palazzi fatiscenti che si diradavano mano a mano che la strada finiva per fare spazio alla campagna e sentì il peso sul suo petto sollevarsi di poco. Sospirò di sollievo e iniziò a correre in quella direzione, ma non appena fu arrivata a metà strada due braccia sbucarono dal vicolo vicino e la afferrarono per le spalle, trascinandola nella stradina buia nella quale si trovava il loro proprietario. La ragazza si lasciò scappare un urletto per la sorpresa e, temendo che fosse uno scagnozzo di Andrè, spalancò la bocca per urlare e chiamare aiuto, ma una mano gliela tappò subito, facendola quasi soffocare. Cercò di divincolarsi dalla presa dal suo aggressore, ma la sua forza era superiore a quella di lei e lui non ci mise molto a impedirle definitivamente di muoversi e ad iniziare a trascinarla velocemente verso l’altra parte del vicolo, lontana dalla sua unica possibilità di salvezza. Borbottò qualcosa dentro alla mano che le tappava la bocca, ma lui la zittì. “Ssh, zitta!” le sibilò, parlando per la prima volta con una voce maschile e giovane. Lei riuscì ad intravedere una ciocca di capelli biondi illuminata dalla luce della luna prima che lui continuasse: “Se urli ti sentiranno e ti riporteranno lì dentro. Voglio solamente aiutarti, niente di più.”
E allora perché mi tratti in questo modo? gli chiese dentro di sé. Provò a formulare la sua domanda, ma dalla bocca non le uscì altro che un mugolio inudibile. Smise di dimenarsi e finse di rilassarsi e rinunciare alla fuga, sperando che il suo nuovo aggressore decidesse di fidarsi di lei e abbassasse la guardia. Non dovette aspettare molto prima che questo accadesse: una volta arrivati dall’altra parte del vicolo, il ragazzo lasciò andare la sua presa su di lei e le liberò la bocca. Lei colse l’occasione al volo e, con una velocità e una forza che non pensava di avere, si voltò verso di lui e gli lanciò un calcio a piedi nudi nello stomaco con tutta la forza che aveva, sperando di ottenere qualcosa. L’effetto del colpo non tardò ad arrivare, e dopo pochi secondi il ragazzo biondo era in ginocchio sul selciato della strada, sofferente con le mani sulla parte colpita. Imprecò qualcosa tra sé e sé ed allungò una mano per afferrare un oggetto rimasto fino a quel momento nascosto nel buio del vicolo. Non appena la ragazza vide qualcosa luccicare a pochi centimetri dalla mano di lui, si voltò con le gambe che le tremavano e si mise a correre in una direzione a caso, allontanandosi dal suo aggressore ma anche dalla sua via di fuga. Mentre svoltava in un’altra strada, sentì un’altra voce provenire dal vicolo: era più pacata e autoritaria di quella del ragazzo, e anche se non riusciva a distinguere quello che stava dicendo percepiva ugualmente la durezza con cui parlava. L’ultima cosa che sentì prima di immergersi nuovamente nel silenzio della città addormentata fu nuovamente la voce del primo ragazzo, che disse, in tono scocciato e quasi insolente: “Ehi, guarda che ho fatto il meglio che potevo! Non è colpa mia se mi ha attaccato quando meno me l’aspettavo!”
Fu sollevata quando non riuscì più a sentire le due voci, ma il terrore si impossessò nuovamente di lei quando si accorse di non avere la più pallida idea di dove si trovasse. Lanciò veloci occhiate a destra e a sinistra, cercando una luce o qualcosa che le fosse familiare, ma intorno a lei non c’era altro che il buio. Iniziò ad ansimare pesantemente, non solo per la lunga corsa, e si costrinse a calmarsi prima di svenire sulla strada. Mise le mani sulle cosce e abbassò la testa, facendo lunghi e profondi respiri per rilassarsi. “Va tutto bene, va tutto bene,” iniziò a ripetere come un mantra per farsi coraggio. Deglutì, e una goccia di sudore le colò dalla guancia per poi atterrare sul selciato grigio. Fece un ultimo respiro e si mise nuovamente in posizione eretta. Guardò la strada meno buia che si srotolava alla sua sinistra e decise di percorrere quella, sperando di raggiungere nuovamente la strada che aveva visto pochi minuti prima. “Va tutto bene,” mormorò un’ultima volta prima di riprendere a correre.
Vagò tra gli edifici e le strade per quelle che le sembrarono ore intere e senza mai smettere di correre. Aveva diminuito la velocità che aveva mantenuto per tutto quel tempo, e i piedi stavano iniziando a gelarle. Sembrava che le strade si fossero ricoperte di minuscole spine che continuavano a ferirle la pelle nuda, ed ogni passo in più era un’agonia tremenda. Andava avanti solamente perché aveva tutto da perdere e sapeva che sarebbe stato meglio morire libera per le strade che dentro una casa come quella in cui abitava Sarah. Quando svoltò l’angolo e si ritrovò in una strada simile a quella che aveva abbandonato tempo prima sentì un sorriso farsi largo sulle sue labbra, ma non appena si accorse che davanti ad una delle ultime case c’era una figura terribilmente familiare a quella di Andrè fu costretta a frenare la sua corsa così bruscamente da cadere per terra. Il tonfo con cui atterrò sul selciato risuonò in tutta la strada, ma per fortuna il ragazzo e gli uomini che erano con lui non sembrarono accorgersene, impegnati a dividersi le direzioni in cui cercarla, e lei ne approfittò per strisciare nell’ombra accanto a un cumulo puzzolente di stracci. Anche se era lontana, sentì il francese dire: “Voi due proseguite verso River Street, e voi venite con me a battere la zona del parco. Lady Nancy aveva grandi aspettative per quella piccola puttanella, non dobbiamo lasciarcela scappare per nessun motivo.”
Gli uomini annuirono e dopo poco si separarono, dandosi appuntamento all’alba nello stesso luogo. Non appena tutti si furono allontanati dalla casa, la ragazza si alzò lentamente in piedi, sperando che non si fossero accorti di lei e che non fosse tutta una trappola per catturarla definitivamente. Fece un passo in avanti per raggiungere il punto in cui la città finiva, ma in quel momento il cumulo di stracci si mosse e da esso sbucò una mano pelosa e ruvida che le afferrò la caviglia. Si voltò, spaventata, e la mano diede uno strattone, facendole perdere l’equilibrio e facendola cadere sul selciato. In breve tempo il cumulo si mise a sedere a cavalcioni su di lei e si trasformò in un uomo con una barba di qualche giorno e due occhietti grigi da topo che la scrutavano bramosi. Lei cercò di divincolarsi per fuggire, ma lui si limitò a ridere e le tolse il cappello, gettandolo lontano ed osservando il suo volto. Rise ancora una volta e senza apparentemente accorgersi degli insistenti tentativi della ragazzina di liberarsi dalla sua presa. “Buona, buona, piccolina, non ti farò niente di male,” la rassicurò in un tono falsamente gentile che le fece rizzare i peli delle braccia. Iniziò a slacciarsi la cintura dei pantaloni, e la ragazza notò con orrore che qualcosa si stava gonfiando poco sotto di essa. “Lascia che zietto si diverta per un pochino, stanotte.”
Disse quest’ultima frase mentre si slacciava completamente la cintura, lasciandola cadere sul selciato. Si portò nuovamente la mano ai pantaloni, ma prima che potesse andare avanti si bloccò a mezz’aria con gli occhi vitrei, come se qualcuno avesse bloccato il tempo. La ragazza lo guardò con occhi spaventati e confusi allo stesso tempo, poi il corpo dell’uomo le cadde addosso pesantemente, togliendole l’aria dai polmoni. Tossì un paio di volte, cercando di togliersi quel peso dal corpo per non soffocare, ma le sue forze erano allo stremo e non riuscì a spostarlo nemmeno di un centimetro. Quando si diede per vinta, dei piccoli rumori simili a scatti giunsero da sopra di lei, e dopo poco qualcosa si conficcò nel cadavere puzzolente. Quest’ultimo oscillò per un attimo, poi venne trascinato verso sinistra, lontano dalla ragazza. Quando i loro corpi smisero persino di sfiorarsi, la cosa che si era conficcata nel cadavere lo lasciò andare e la ragazza riuscì a capire cosa fosse: era una specie di arma simile a una lancia, ma molto più lunga, e adesso si stava ritirando verso l’alto con la stessa serie di scatti metallici che avevano preceduto il suo arrivo. Seguì la strana arma con lo sguardo fino al tetto, dove si trovava una figura umana in piedi, completamente immobile e con l’altra estremità dell’arma in mano. Una volta che la lancia fu tornata della sua lunghezza consueta, la figura aprì il voluminoso libro che teneva nell’altra mano e iniziò a leggere ad alta voce, il tutto sotto lo sguardo meravigliato della ragazza. “James Ellis, figlio di Richard Ellis e Mary Jane Taylor. Nato il 23 febbraio 1835, deceduto il 14 aprile 1889 in seguito ad un infarto. Nessuna nota,” disse in tono piatto, come se ripetesse le stesse cose ogni singolo giorno. Chiuse il libro con un gesto secco del polso e continuò a fissare la copertina. “Fine procedura.” Alzò lo sguardo e finalmente parve accorgersi della presenza di una spettatrice. Non poteva esserne certa, ma le sembrava che stesse guardando proprio nella sua direzione e stesse scrutando i luoghi più nascosti della sua anima, mentre lei vedeva a malapena lo scintillio degli occhiali sul suo volto. “Adesso, credo che sia arrivato il momento di occuparsi di te.”
Non fu tanto il suo tono calmo a spaventarla, ma le parole che pronunciò. Si alzò in piedi velocemente e si diresse a tutta birra verso il punto in cui Londra cedeva spazio alla campagna, senza controllare se il nuovo arrivato la stesse seguendo o meno. Percepì uno spostamento nell’aria, ma decise di ignorarlo e oltrepassò le ultime due case cittadine senza mai voltarsi indietro. Soltanto quando ebbe percorso qualche metro sul sentiero sterrato che portava in città sentì una voce provenire da dietro di sè. “Eccola, è laggiù! Thomas, Hector, con me, presto!” gridò la voce di Andrè, e in breve tempo alla sua si aggiunsero altre due voci concitate. Forse l’avevano veramente tenuta d’occhio fino a quel momento, oppure avevano avuto solo fortuna, chissà. Ormai in preda al panico, la ragazza aumentò la velocità della sua corsa nonostante le gambe le facessero male e i suoi piedi sanguinassero. Iniziava a sentire caldo in tutto il corpo e decise di togliersi il cappotto: ormai l’avevano riconosciuta, era inutile continuare a nascondersi sotto gli abiti rubati nella camera di Sarah. Iniziò a slacciare il primo bottone mentre continuava a correre, e si accorse solamente dopo aver finito di slacciarlo che il sentiero su cui stava correndo, fino a poco prima in aperta campagna, adesso si addentrava dentro un bosco buio da cui provenivano rumori strani e versi di animali. Rallentò, indecisa su cosa fare, ma le urla di Andrè e degli altri uomini le diedero la spinta necessaria a continuare per quella strada. Confidando nel fatto che il buio l’avrebbe protetta, entrò dentro il bosco senza mai voltarsi indietro.
Una volta al suo interno, si accorse che non era così buio come si era immaginata in precedenza. Era vero, non c’era molta luce, ma la luna riusciva a far passare qualcuno dei suoi raggi attraverso i rami degli alberi più alti, e tanto bastava ad illuminarle il sentiero. Continuò per qualche altro minuto su quella strada, poi i passi che la inseguivano si fecero più concitati e affrettati e qualcuno accese una torcia, diminuendo l’oscurità e i luoghi in cui lei poteva nascondersi. Dopo un attimo di indecisione, decise di abbandonare il sentiero e di addentrarsi tra gli alberi per seminare i suoi inseguitori. Era una decisione rischiosa – non sapeva cosa avrebbe potuto trovare fuori dal sentiero – ma era l’unica soluzione possibile al momento. Non appena trovò una zona d’ombra si gettò tra gli alberi con un fruscio e lì si fermò, cercando rifugio in un cespuglio ed aspettando che i suoi inseguitori oltrepassassero il punto in cui si trovava. Osservò la luce della torcia avvicinarsi sempre di più, e trattenne il respiro quando si fermò proprio davanti al cespuglio in cui si stava nascondendo. Cercò di indietreggiare, ma si accorse che avrebbe fatto solamente più rumore se avesse provato ad andarsene in quel momento. Non potè fare altro che rimanere immobile, in attesa.
Andrè fu il primo a parlare, visibilmente sorpreso. “Dove diavolo è finita la ragazza? Non sento più i suoi passi davanti a noi, dove si è nascosta?!” gridò ai suoi due compagni, che ne sapevano quanto lui.
“Forse ha abbandonato il sentiero,” suggerì una voce che la fuggitiva non conosceva e che doveva appartenere all’uomo chiamato Hector.
Il francese rise. “Allora è più stupida di quanto pensassi. Potrebbe perdersi nel bosco o incontrare qualche animale notturno particolarmente affamato. Non credo che sia questo quello che voglia.”
Animale notturno? Deglutì, preoccupata, e si preoccupò ulteriormente quando la voce di Thomas aggiunse: “Non credo sia stata così stupida. Secondo me si è nascosta da queste parti e sta aspettando che noi ce ne andiamo prima di scappare da qualche altra parte.”
Le mancò l’aria per un attimo, e cercò di rimanere il più immobile e in silenzio possibile.
“Ah, sì?” Andrè fece un passo avanti verso il cespuglio e urlò: “È così, ragazzina? Sei da queste parti?” Rise cattivo. “Se vieni fuori adesso non ti faremo del male. Almeno, non tutto quello che ti meriteresti,” continuò in un tono simile a quello dell’uomo morto che l’aveva aggredita. Rabbrividì, sperando che non si accorgessero della sua presenza.
Per lunghi e tesi secondi nel bosco non si sentì altro che il silenzio. La ragazza cercò di trattenere il respiro, e quando non ce la fece più iniziò a respirare più silenziosamente che poteva. Pensava che l’avrebbero scoperta in poco tempo, ma alla fine Andrè si stufò di aspettare un rumore o un segno della sua presenza e sbuffò. I suoi occhi indugiarono un attimo di troppo sul cespuglio in cui si nascondeva, ma quasi subito si allontanò e disse: “Va bene, non può essere qui. Proseguiamo ancora un po’ sul sentiero, e stavolta correte più veloci. Se è andata avanti ci ha distanziati di molto, dobbiamo raggiungerla e ritrovarla il più presto possibile.”
Gli altri due uomini annuirono, e i tre ripresero a correre lungo il sentiero, addentrandosi nel bosco. Quando la luce della torcia fu completamente scomparsa dalla sua vista, la ragazza fece un respiro profondo e uscì lentamente dal cespuglio, ritrovandosi tra il folto degli alberi. Valutò per un attimo la possibilità di ritornare sul sentiero, ma a cosa sarebbe servito? Era impossibile per lei tornare in città, e se avesse proseguito nella stessa direzione di Andrè prima o poi si sarebbero incontrati. No, la cosa migliore da fare era continuare la sua fuga tra gli alberi, sperando di uscire al più presto dal bosco. Si voltò, dando le spalle al sentiero, e iniziò a camminare con calma tra gli alberi, facendo attenzione ad ogni singolo rumore notturno e cercando ogni uscita possibile da quel labirinto naturale. Le ultime foglie secche scricchiolavano sotto i suoi piedi con un crepitio quasi confortante, e i rami le sfioravano la stoffa del cappotto, strappandola in alcuni punti. Cercò di camminare più che poteva, ma i suoi occhi stavano iniziando a chiudersi e le gambe le facevano così male che ogni singolo passo era un doloroso martirio. Quando non ce la fece più, raggiunse un grande albero alla sua sinistra e si accoccolò nello spazio tra due delle sue enormi radici. Si tolse il cappotto, lo appallottolò e se lo mise dietro la testa a mo’ di cuscino, sperando che potesse rendere più comodo il suo riposo. Sbadigliò e si rannicchiò su sé stessa come un gatto, ma continuò a tendere un orecchio per sentire eventuali voci umane. Solo cinque minuti, si disse mentre la sua mente sprofondava nel nero. Solo cinque minuti, poi mi rimetto in cammino.
L’ultima parola le rimase intrappolata sulle labbra e la mormorò senza accorgersene prima di cadere tra le braccia di Morfeo.
 

***

 
Si svegliò all’improvviso ore dopo – o almeno, così le sembrò; il suo senso del tempo sembrava essere diventato parecchio confuso. Spalancò gli occhi nel buio, sentendo sulla schiena lo stesso sguardo fisso che l’aveva svegliata. La sua espressione si fece impaurita e cercò di non muoversi, sperando che l’altra persona se ne andasse e la lasciasse in pace, ma un tuono improvviso la fece sussultare. Chiunque ci fosse insieme a lei rise. “Smettila di fingere, vedo benissimo che sei sveglia.”
Riconobbe la voce ancora prima che finisse di parlare. Spaventata, si voltò di scatto e alzò lo sguardo in alto, da dove era provenuta la voce. Sull’albero davanti a lei, seduto su uno dei rami più alti con le gambe penzoloni e illuminato dalla poca luce lunare che filtrava attraverso le foglie, c’era il ragazzo biondo che l’aveva aggredita per primo durante la sua fuga dentro la città. Lo riconobbe solamente grazie ai suoi capelli, altrimenti per lei sarebbe stato un perfetto sconosciuto: era vestito troppo elegantemente per poter passare inosservato, con giacca e pantaloni neri, camicia bianca, scarpe nere, cravatta nera e guanti sempre neri. Continuava a sorridere come se tutta quella scena lo divertisse, e la luce della luna faceva brillare i suoi occhiali da vista dalla spessa montatura scura. Accanto a lui c’era un grande oggetto che luccicava, ma lei non riuscì a capire cosa fosse. Si alzò velocemente in piedi, pronta a fuggire ancora una volta nonostante il brusco risveglio, ma lui le parlò di nuovo. “Ehi, ehi, ehi, hai tutta questa fretta di scappare? Non sei stanca di farlo?” Rise nuovamente, poi il suo sorriso si fece più gentile, ma con una punta di furbizia. “Voglio solamente aiutarti.”
La ragazza si portò istintivamente la mano alla collana e la strinse nel suo pugno. “Allora perché mi hai aggredita mentre stavo fuggendo?” gli chiese senza mai distogliere lo sguardo da lui.
“Stavo solamente cercando di impedire che quel francese e i suoi degni compari ti ritrovassero e ti riportassero dentro quel bordello. Non penso che tu sia così impaziente di tornarci, no?” Senza aspettare una risposta, continuò, indicando la collana di lei: “Ah, vedo che non te ne sei scordata. Immagino che quella collana sia importante per te, no?”
Lo guardò sbalordita. “Come fai…”
“A saperlo?” Il suo sorriso si allargò. “Ti conosco perfino meglio di te stessa, ragazzina. So che hai perso la memoria, e guarda caso io so chi sei veramente. Ti voglio aiutare a ricordare la tua identità, ma penso che questo non sia il luogo ideale in cui parlare.” Le tese una mano, nonostante la differenza di altezza. “Allora, ci stai?”
Lei guardò la mano tesa con un misto di speranza e apprensione. Fece rimbalzare un paio di volte il suo sguardo da essa al volto del ragazzo, e alla fine si soffermò di nuovo sulla prima. La collana si fece improvvisamente più calda dentro la sua mano, come se la stesse spronando a fare la sua scelta. Deglutì, indecisa: quel ragazzo sembrava essere stato sincero nei suoi confronti, ma se fosse stato solamente uno degli altri scagnozzi di Andrè? E anche se non lo fosse stato, poteva fidarsi di un tizio in giacca e cravatta dentro un bosco nel bel mezzo della notte? La tentazione di accettare l’accordo era forte e per un attimo vi cedette, ignorando il sorriso quasi feroce sulle labbra di lui, ma le bastò sentire altre voci umane familiari e concitate per indietreggiare, ritrovandosi spalle contro il tronco dell’albero. “Andrè,” mormorò spaventata mentre voci, passi e una luce si avvicinavano verso il punto in cui si trovava. Forse avevano capito che lei si stava nascondendo dentro il cespuglio ed avevano fatto finta di andarsene, rimanendo nei paraggi per trovarla quando avesse abbassato la guardia. Dovevano aver riconosciuto la sua voce quando aveva parlato con il biondo, e si diede della stupida per essere stata così sprovveduta.
Il ragazzo si voltò verso i rumori, curioso ma non preoccupato. Più che altro, pareva infastidito da quei nuovi arrivi inaspettati. “Oh, oh, sta arrivando la cavalleria,” mormorò in tono allegro. Si rivolse nuovamente a lei, stavolta in tono più sbrigativo. “Allora? Vieni con me o no?”
Fu decisamente troppo per lei. Indecisa su quale fosse la scelta giusta, riuscì a fare l’unica cosa che faceva ormai da una notte intera: prese fiato e iniziò nuovamente a correre, lasciando il suo cappotto e il ragazzo nei pressi dell’albero sotto cui aveva dormito. Lo sentì lanciare un’esclamazione di sorpresa e urlare “Ehi, torna indietro! Non puoi scapparmi ancora una volta!”, ma lo ignorò e continuò a correre tra gli alberi. Non aveva la più pallida idea di dove stesse andando, ma qualunque posto le sarebbe andato bene, bastava che fosse lontano da Andrè e dal suo nuovo inseguitore. Dalle sue spalle giungevano rumori di passi, voci e uno strano rumore metallico che le metteva i brividi, ma continuò a correre senza mai voltarsi indietro.
Continuò a correre per lunghi minuti senza mai incontrare ostacoli o vie d’uscita dal bosco, mentre dal cielo sopra di lei i tuoni iniziavano a rombare. Quando davanti ai suoi occhi si parò un muro di alberi sentì il cuore salirle in gola, pronto ad essere vomitato sul tappeto di foglie secche. Iniziò a cercare freneticamente un appiglio per salirvi sopra ed oltrepassarlo, ma trovò qualcosa di meglio: le bastò spostare un paio di fronde per ritrovarsi davanti una stretta fessura tra due alberi, abbastanza grande per farla passare. Contorcendo il suo corpo in modi che non avrebbe mai creduto possibili, riuscì a far passare prima le gambe e poi il resto del suo corpo. Una volta dall’altra parte, perse l’equilibrio e si aggrappò a un ramo per non cadere, ma perse la presa e un altro ramo le graffiò la pelle, lasciandole una lunga ferita sulla guancia destra. Urlò di dolore e cadde sul terreno, scoprendo che non era così duro come si era immaginata. Si alzò in piedi barcollando e si guardò intorno, meravigliata: davanti a lei si stendeva un enorme prato che sembrava continuare fino all’orizzonte. Il sentiero usciva dal bosco e curvava a destra, accompagnato da alberi sporadici. La ragazza seguì con lo sguardo la strada, che proseguiva per circa una ventina di metri, e la vide sparire dentro un’altra parte di bosco. A quel punto alzò lo sguardo verso l’orizzonte, e i suoi occhi brillarono di speranza e felicità quando vide una grande villa signorile sbucare oltre la seconda parte di foresta. Era troppo buio e troppo lontana per esserne sicura, ma le sembrava che ci fossero un paio di luci accese dentro la casa, nonostante fosse ormai notte fonda. Diede un’occhiata al cielo grigio carico di pioggia e poi di nuovo alla villa: se avesse corso velocemente avrebbe potuto raggiungerla prima che si scatenasse il diluvio.
Fermati, puttana!” La voce di Andrè sovrastò persino i tuoni, e la ragazza sentì i brividi correrle lungo la schiena. Ignorando il dolore alle gambe e chiamando a sé le ultime forze che le erano rimaste iniziò nuovamente a correre, stavolta sulla superficie bagnata e scivolosa del prato. Sapeva di essere facilmente visibile, e infatti era appena arrivata all’inizio della seconda parte di bosco quando sentì la voce trionfante del francese urlare, mentre la pioggia iniziava a cadere: “Trovata, puttanella! Ora non ci sfuggi!
“Va’ al diavolo,” mormorò senza voltarsi indietro. Si portò una mano alla ferita sulla guancia per cercare di rallentare l’afflusso di sangue, ma l’emorragia non diede segno di volersi fermare, tingendole il palmo di rosso. Sentì altre voci che la chiamavano e le urlavano cose che non avrebbe mai voluto sentire, ma niente di tutto questo la distolse dal suo unico pensiero. Teneva lo sguardo sempre dritto davanti a sé, senza mai distoglierlo dalle luci che provenivano dalla villa. A un certo punto scivolò sull’erba e pensò di essere spacciata, ma riprese l’equilibrio in fretta, nonostante i vestiti bagnati che si erano fatti pesanti, la pioggia e il vento che le sferzavano contro. Non appena ne ebbe la possibilità, si addentrò nella nuova parte di bosco e raggiunse il sentiero, sperando di trovare un po’ di riparo dalla pioggia. Si rese subito conto di aver fatto uno sbaglio: il terreno era sconnesso e pieno di buche che rallentavano la sua corsa, ormai non più così veloce a causa della stanchezza e del dolore alle gambe. Andrè e i suoi compagni, invece, erano più resistenti e sentivano meno la stanchezza, e riuscirono a ridurre la distanza tra loro e lei a cinque metri quando la ragazza era quasi arrivata in fondo al sentiero. Non appena vide di essere quasi arrivata alla sua salvezza, si costrinse a correre più velocemente. Si tolse la mano dalla ferita per darsi più slancio con entrambe le braccia, e il suo sangue iniziò a mescolarsi con la pioggia sul suo volto. Forza, un ultimo sforzo!
Ti prendiamo, maledetta ragazzina!
La pioggia aveva iniziato a cadere più forte, offuscandole la vista e impedendole di vedere con chiarezza davanti a lei. Intuì dalle forme che vedeva tra le gocce che aveva superato un cancello aperto (perché era aperto a notte fonda?) e che adesso si trovava in un giardino, ma non riusciva a capire né la sua forma né le cose al suo interno. In lontananza c’era qualcosa che assomigliava vagamente a una scacchiera, ma gli scacchi erano troppo grandi. Sentiva la ghiaia scricchiolarle sotto i piedi e ferirle ulteriormente la pelle, ma strinse i denti e andò avanti finchè non giunse a un paio di metri dal portone principale. Si aspettava che un paio di mani la afferrassero per le spalle da un momento all’altro, ma un rumore improvviso giunse dalle sue spalle e i passi che la inseguivano si fermarono. Sentì Andrè strepitare: “Non dovete aiutarmi, idioti! Raggiungetela prima che arrivi a quella maledetta porta!
Nel sentire quelle parole fece gli ultimi metri che la separavano dalla salvezza in volata, cercando di non scivolare a sua volta. Una volta arrivata alla porta, vi si appoggiò con un tonfo e iniziò a dare colpi frenetici al legno con tutta la forza che le era rimasta, sperando che qualcuno fosse ancora sveglio e riuscisse a sentirla. Notò solamente con la coda dell’occhio la ragnatela e il suo inquilino nell’angolo destro esterno della porta. “Aiuto!” urlò continuando a bussare. “Aiuto, vi prego, aiutatemi! Apritemi, mi stanno inseguendo!
I passi alle sue spalle erano più vicini che mai, e il terrore si impossessò di lei come un demone. “AIUTATEMI!” strillò, senza mai smettere di bussare e con le gambe che si stavano lentamente piegando sotto il peso del suo corpo stanco.
Quando pensò che ormai nessuno l’avrebbe aiutata, la serratura della porta scattò e quest’ultima si aprì lentamente. La ragazza riuscì a intravedere un candelabro davanti ai suoi occhi e a mormorare un flebile ‘Grazie’ prima di cadere sul pavimento duro e freddo e svenire per la stanchezza.















Il titolo alternativo del capitolo potrebbe essere Shinigami out of fucking nowhere.
Ma usarlo non sarebbe stata una buona idea, ho ancora quel poco di reputazione rimasta da difendere.
Questo capitolo è il mio preferito e il più lungo, almeno di quelli che ho scritto finora. Sarà perchè mi piacciono le scene adrenaliniche e veloci, ma la mia parte preferita è l'ultima parte dell'inseguimento, quello da quando la ragazza si ritrova nel prato e vede la villa. Sono soddisfatta del modo in cui è scritta, ci ho messo tutto il mio impegno :)
Lulu_Rouges: ammettilo, il tuo sesto senso se ne sta andando in pensione XD "Perché non si è accorta prima di tenere un oggetto che, come hai detto te, fa sentire abbastanza il proprio peso sul collo?" Bè, penso che in tutta la confusione del momento il peso sul suo collo sia stato l'ultimo dei suoi problemi, o così credo .__. Andrè (strano ma vero) sta simpatico anche a me. A parte la mia risaputa passione per i cattivi, adoro il suo nome :3
MadLucy: "Il tuo stile è fantastico, davvero, è già quello di una scrittrice di libri a mio parere. Il testo è compatto, scorrevole, non manca di nessun dettaglio: niente affatto dilettantesco, ma proprio da professionista. Inoltre, il fatto che non abbia trovato un solo errore di grammatica -nemmeno un'inezia- ha contribuito a farmi avere quest'opinione. Come un romanzo, scena dopo scena la storia procede perfettamente, impeccabile. Sei bravissima. Riesco ad immaginarmi ogni particolare, insomma." Grazie mille per tutti questi complimenti, sono contenta che il mio stile sia migliorato così tanto e che ti piaccia! Effettivamente non avrebbe avuto senso far entrare Alois nel secondo o nel terzo capitolo, meglio far cuocere i lettori a fuoco lento in attesa (#nonsonosadicaèunameraimpressione). "Per ora è un 9. In seguito piazzaci Alois e il 10 non te lo toglie nessuno!" *infarto* IL BIONDO! DOV'E' IL BIONDO QUANDO SERVE?

xoxo
Eva

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Capitolo 4
*** Uno strano ragazzo. ***


IV. Uno strano ragazzo.
 

 

Alla fine Andrè la prese. Non riuscì a raggiungere il portone della villa, due mani la afferrarono per le spalle a poco meno di un metro dalla sua salvezza. La sua prima reazione fu lanciare uno strillo spaventato, poi iniziò a dibattersi per cercare di scappare da quella presa ferrea che la teneva immobile, così vicina alla sua meta e allo stesso tempo così lontana. La pioggia aumentò d’intensità e iniziò a caderle addosso pesante come pietra, facendola quasi crollare a terra.
“Presa!” La voce del francese ora era trionfante, e se la ragazza si fosse voltata avrebbe visto un inquietante sorriso da predatore sulle sue labbra. Fortunatamente per lei non lo fece, e continuò a dibattersi e lanciare urla di aiuto, sperando che qualcuno la stesse ascoltando e si affacciasse ad una delle tante finestre per vedere cosa stesse succedendo. Ma nessuna delle tende al di là dei vetri si scostò, nessuno vide le due persone avvinghiate in un abbraccio ben poco romantico sotto la pioggia e tantomeno le venne in aiuto.
Andrè rise cattivo e avvicinò la sua bocca alla guancia ferita di lei. Prima ancora che la ragazza potesse protestare o urlare nuovamente leccò il sangue sulla sua pelle, facendola rabbrividire di terrore, piacere e vergogna allo stesso tempo. Cercò di allontanare il suo volto dalle labbra di lui, ma la presa del ragazzo era passata sui suoi polsi ed era diventata ancora più salda di prima. Il francese le afferrò il mento con due dita e la costrinse a voltarsi verso di lui. Osservò i suoi occhi verdi terrorizzati e rise nuovamente con la bocca insanguinata. “Non c’è nessuno a cui chiedere aiuto, puttanella. Nessuno ti può salvare,” le sussurrò come se le stesse rivelando un segreto. Le voltò la testa così bruscamente che rischiò di spezzarle il collo, e fece in modo che lei riuscisse a vedere la villa. “Lo vedi? Il fuoco se li è portati via tutti,” continuò mentre il calore li investiva entrambi.
Scioccata, la ragazza non riuscì a distogliere lo sguardo dall’edificio in fiamme davanti ai suoi occhi. I vetri di alcune finestre al primo piano si erano infranti, e buona parte del tetto era ormai divorata dal fuoco. Il fumo saliva in volute nere e pesanti verso il cielo grigio che continuava a piangere gocce di pioggia che non riuscivano a spengere l’incendio. Guardò il portone bruciare e, anche se Andrè non le permetteva di voltare la testa, sapeva che anche il giardino e la scacchiera che aveva visto durante la sua corsa stavano bruciando. Voleva chiudere gli occhi, ma era incantata dalle fiamme che danzavano, distruggendo tutto quello che intralciava la loro danza. La consapevolezza che la sua fuga era stata del tutto inutile la colpì come un macigno e lei fece per urlare nuovamente, stavolta di disperazione, ma un nuovo particolare raccapricciante la lasciò a bocca aperta, incapace di muoversi e di emettere il più flebile dei suoni.
Una moltitudine di ragni stava iniziando ad uscire dalle finestre rotte, dalle fessure nei muri, dalle tegole spezzate del tetto. Erano tanti, troppi, un tappeto nero che si stava radunando e si muoveva come se fosse una cosa sola. Lei era incapace di muoversi e di scappare, tenuta ferma dalla presa salda di Andrè, che non appariva per niente preoccupato o spaventato. Al contrario, rise e si preoccupò solo di immobilizzarla ulteriormente, in modo che non potesse andarsene da lì. Sentì il panico impossessarsi di lei quando i ragni si avvicinarono e iniziarono a salirle sui piedi per poi arrampicarsi sulle gambe e sul busto, inarrestabili. Sembravano essere concentrati solamente su di lei, perché non osavano nemmeno sfiorare la pelle del francese. Quando raggiunsero la sua faccia si sentì soffocare e pungere da tutti quei minuscoli insetti che volevano entrare dentro di lei; voleva urlare, spalancare la bocca per prendere aria, ma non ce la faceva. Li sentì raggiungere i suoi occhi e entrare nella sua testa, attraversare la sua pelle come se fosse aria per raggiungere le parti più nascoste di sé stessa, e lei rimase completamente immobile, paralizzata e senza poter far nulla per fermare quell’incubo. La parte peggiore, pensò quando divenne cieca e non riuscì più a sentire il crepitio dell’incendio, era sapere che nessuno l’avrebbe salvata.
Da qualche parte in lontananza un corvo gracchiò.
 

***

 
Si svegliò improvvisamente trattenendo un urlo e si tirò su a sedere ancora prima di aprire gli occhi. Le ci volle qualche altro secondo prima di spalancarli, e quando lo fece la luce del tardo pomeriggio glieli ferì, facendoglieli richiudere in tutta fretta. Si portò le mani alle palpebre chiuse, si lasciò ricadere sul letto con un tonfo attutito e si tirò le lenzuola fin sopra alla testa, in modo che le coprissero tutto il corpo come un sudario. Anche imbacuccata in quel modo e ad occhi chiusi riusciva a percepire la luce del sole che inondava completamente la stanza in cui si trovava e che filtrava persino sotto le lenzuola. Gemette, si sdraiò sul fianco sinistro e si portò le gambe al petto, rannicchiandosi su sé stessa. Rimase in quella strana posizione per qualche minuto, poi tolse lentamente le mani dagli occhi e si costrinse ad aprirli poco alla volta per farli abituare alla luce. Quando riuscì nuovamente a vedere, si ritrovò circondata dal bianco accecante delle lenzuola sopra e sotto di lei, e tutto quel bagliore quasi la spaventò. Le venne in mente in quel momento che non avrebbe dovuto trovarsi in un letto, e aggrottò le sopracciglia mentre cercava di capire perché si trovasse in un posto come quello. Ricordava vagamente di aver raggiunto la villa che aveva visto dal bosco e di aver bussato a lungo… ma alla fine qualcuno le aveva aperto, disturbato dalle sue urla e dalla sua insistenza? Oppure Andrè – rabbrividì nel pensare quel nome – l’aveva presa e l’aveva riportata da Lady Nancy? Aveva la sensazione di essere caduta su una superficie dura, ma era stato solo un sogno oppure era successo veramente?
Mentre cercava di dare delle risposte alle sue domande si portò la mano al collo, sperando che la sua collana potesse aiutarla a calmarsi e a riordinare i suoi pensieri, ma si sentì mancare l’aria quando non sentì la pietra fredda sotto le sue dita. Iniziò a tastare freneticamente tutta la zona intorno al suo collo, poi passò al suo petto e alle lenzuola. Una volta sicura che non fosse da nessuna parte nelle vicinanze si mise nuovamente a sedere, togliendo le lenzuola dal suo corpo, e decise di cercare nella stanza in cui trovava: forse gliel’avevano tolta quando l’avevano messa a letto, o forse – e sperava che non fosse andata così – l’aveva persa durante la sua corsa. I suoi propositi vennero però interrotti dalla sorpresa che la colpì quando osservò meglio la stanza in cui si trovava.
Non avrebbe mai pensato che la villa potesse essere così bella all’interno. La camera in cui aveva dormito fino a poco prima era immensa, molto più grande di quella di Sarah. Le pareti erano di un intenso blu mare e decorate da stucchi dorati negli angoli e nelle cornici della porta e della finestra. Il letto di legno scuro aveva un alto baldacchino e le tende aperte, ed era talmente largo che avrebbero potuto dormirci due persone una di fianco all’altra. Sulla parete di fronte al letto c’erano un grosso camino che sembrava essere inutilizzato da tempo, a giudicare dalle ragnatele nei suoi angoli, e un grande specchio incorniciato in una cornice dorata e inclinato in modo da farle vedere i mobili davanti al camino: un piccolo tavolino tondo, un paio di sedie, un tappeto e una cassapanca. Alla sua destra vide una grande portafinestra che conduceva a un piccolo balcone che dava a sua volta sul giardino che aveva visto quella notte stessa, adesso illuminato dalla luce del giorno. Le spesse tende, di un blu appena più chiaro di quello delle pareti, erano aperte e fermate alla parete da piccole corde dorate. Alla sua sinistra, invece, c’era la porta. Eppure, nonostante l’abbondanza di mobili ed oggetti, la sola cosa che mancava era l’unica che le interessava veramente.
Si passò una mano tra i capelli, ansiosa e incuriosita da quella situazione, e quando toccò la sua guancia destra si stupì di non sentire la ferita sotto le sue dita, che invece incontrarono la superficie più morbida e piacevole al tatto di una benda. Sorpresa, notò che anche i suoi polsi erano bendati, nascondendo così le cicatrici che le corde di Andrè le avevano inferto. Probabilmente avrebbe controllato anche le sue caviglie e i suoi piedi, ma uno scintillio bluastro alla sua sinistra la distolse dal pensiero delle sue ferite. Si voltò bruscamente in quella direzione, e vide un comodino in legno che non aveva notato in precedenza. Sopra di esso c’era un candelabro a tre braccia con tre candele quasi completamente consumate, come se avessero bruciato per tutta la notte, e, poco più in là, la sua collana brillava per richiamare la sua attenzione. Il blu della pietra si era fatto più intenso, e la lettera L incisa sulla sua superficie sembrava risaltare più che mai. Quasi ipnotizzata dai bagliori che emanava, la ragazza allungò un braccio per prenderla, ma venne distratta dal rumore della porta che si spalancava. Colta di sorpresa, lasciò perdere la collana per osservare il nuovo arrivato, che intanto si era voltato per chiudere la porta con un tonfo fragoroso.
Doveva avere la sua età, più o meno, ma non avrebbe potuto dirlo con certezza. Indossava una camicia bianca, un gilet verde scuro e un paio di pantaloncini neri talmente corti da mostrare parte delle gambe pallide, coperte per il resto da lunghe calze nere. Quando si voltò nuovamente verso di lei, i tacchi degli stivali ticchettarono un paio di volte, e la ragazza notò che un grande fiocco nero teneva fermo il colletto rialzato della camicia. Si tolse dal volto una ciocca dei corti capelli biondi, sbuffando, poi sembrò vederla veramente e la osservò con due limpidi occhi azzurri. Prima ancora che lei potesse aprire bocca, le sorrise felice ed esclamò: “Finalmente sei sveglia! Pensavo che non ti saresti svegliata mai più!”
Non erano esattamente le parole che si aspettava di sentire, ma era troppo confusa dal suo arrivo per poter protestare o dire qualcosa: i suoi occhi così chiari la affascinavano, e una punta di qualcosa simile alla cattiveria nel suo sorriso la inquietava. Aveva ancora il braccio sospeso a mezz’aria in direzione della sua collana, e quando vide che lui stava osservando il gioiello sul comodino si affrettò a tirare indietro il braccio, nascondendolo sotto le lenzuola. Fa’ che non se ne sia accorto, pensò disperata. Fa’ che non pensi che stavo per prendere la collana.
“È tua, quella?” Si avvicinò a passi veloci al comodino con i tacchi che ticchettavano ed afferrò il gioiello prima che la ragazza potesse fermarlo. Alzò la pietra davanti ai suoi occhi, osservandola da tutte le angolazioni possibili, poi si avvicinò alla finestra e osservò meglio il ciondolo alla luce del sole. Notò la L incisa sulla superficie blu della pietra e iniziò a tempestare la ragazza di domande, una di seguito all’altra in un fiume incessante: “Dove l’hai presa? Te l’hanno regalata? Perché c’è incisa una lettera sopra? È l’iniziale del tuo nome? È…”
“Ridammela.”
Si voltò nuovamente verso di lei, gli occhi azzurri spalancati in un’espressione sorpresa. Continuò a tenere la collana davanti a sé, lasciando che il sole facesse brillare la pietra blu come un diamante. “Cosa?”
Il braccio della ragazza era nuovamente steso, ma stavolta verso il biondo. Teneva la testa bassa e ripetè in un flebile mormorio: “Ridammela.”
Il suo tono era tutto tranne che autoritario, anzi, era quasi implorante, come se stesse pregando in ginocchio il ragazzo. Lui continuò ad osservarla incuriosito per qualche istante, poi il sorriso sulle sue labbra si trasformò in una smorfia di cattiveria e divertimento. “È davvero così importante per te?” Senza aspettare alcuna risposta lanciò la collana per aria, facendo trattenere il fiato alla ragazza, ma la riafferrò al volo pochi secondi prima che cadesse sul pavimento. Continuò a giocarci passandosela da una mano all’altra e ridendo, un bambino emozionato e divertito dal suo nuovo passatempo. La lanciò in aria altre due volte, riprendendola sempre poco prima che cadesse per terra, il tutto sotto lo sguardo ansioso della ragazza. Il suo cuore era stretto in una morsa soffocante al pensiero che la collana potesse rompersi e sentiva la mancanza del suo peso sul suo collo, ormai così familiare che le sembrava strano non sentire il gelo della pietra a contatto con la sua pelle. Aveva bisogno di quella collana, e doveva averla di nuovo tra le sue mani prima che quella sensazione di soffocamento la facesse impazzire.
“Ti prego, ridammela,” mormorò ancora una volta, odiando il tono implorante e quasi spezzato della sua voce.
A quelle parole, il ragazzo sembrò darle retta sul serio: fece passare per un’ultima volta la collana dalla mano destra alla sinistra, poi la guardò senza più divertimento sul suo volto. Si diresse verso il letto e si sedette con delicatezza sul bordo. Alzò la collana davanti agli occhi di lei e iniziò a farla oscillare lentamente. “Prendila pure. È tutta tua,” le disse in tono piatto come se si fosse già stufato del suo nuovo gioco.
Un bagliore grato le brillò negli occhi e lei alzò il braccio per afferrare il gioiello, ma l’espressione del biondo tornò quella di poco prima e lui allontanò nuovamente l’oggetto dalla sua portata. Rise cattivo mentre l’espressione della ragazza passava da grata a stupita prima e delusa poi. Aveva ancora il braccio inutilmente steso davanti a sé in un ultimo disperato tentativo di recuperare la collana e stava per riportarlo al suo fianco, quando il ragazzo le mise delicatamente in mano il gioiello. La sua espressione era cambiata ancora una volta e la cattiveria aveva lasciato spazio alla comprensione. “Adesso è tutta tua sul serio. Se ci tieni veramente così tanto non te la prenderò più,” le disse serio.
Lei lo fissò confusa, indecisa se credergli o meno, poi decise di rischiare e dare fiducia a quegli occhi azzurri. “Va bene. Grazie,” lo ringraziò mentre indossava la collana e lasciava che la pietra gelida venisse a contatto con la sua pelle. Una volta che tutto fu tornato al suo posto la strana sensazione di soffocamento che l’aveva assalita se ne andò, e sospirò di sollievo. Incrociò le gambe sotto le lenzuola e una fitta di dolore le attraversò la caviglia sinistra, ma inghiottì il gemito che si era formato nella sua gola e riportò il suo sguardo sul ragazzo. Lui si lasciò cadere sul letto nel punto in cui fino a poco prima si trovavano le gambe di lei e si portò le mani dietro la testa. Non staccò mai il suo sguardo dal soffitto. “E perché? Ognuno di noi ha un oggetto importante da cui non si può mai separare, nemmeno se lo volesse.” Tolse le sue mani da dietro la testa e le sollevò davanti a sé con i gomiti puntati sul letto. La ragazza lo osservò mentre iniziava a giocherellare con l’anello infilato all’indice della mano sinistra: era dorato e tempestato di piccole pietre argentee, e al centro spiccava un grande rubino rosso che scintillava nella luce che inondava la stanza. “Nemmeno se quell’oggetto simboleggiasse qualcosa che non si potrà mai scordare o da cui non si può scappare in alcun modo,” continuò, lo sguardo perso in altri luoghi, in altri tempi. La ragazza rimase in silenzio senza sapere cosa dire, ma ci pensò nuovamente lui a riprendere la conversazione, alzandosi di scatto a sedere e voltandosi nuovamente verso di lei con gli occhi scintillanti di curiosità. “Chi erano quegli uomini che ti stavano inseguendo ieri notte?”
Rimase un attimo spiazzata da quella domanda. “Hai visto tutto?”
Sorrise furbo. “Non riuscivo a dormire. Sai, per colpa del temporale e tutto il resto. Mi sono avvicinato alla finestra e ho visto qualcuno che correva in giardino. Piuttosto strano, visto che nessuno viene qui in piena notte e senza essere invitato.” I suoi occhi adesso scintillavano di eccitazione. “Volevo vedere quanto saresti riuscita a resistere con un tempo del genere e inseguita, ma quando loro si sono fermati perché un uomo era scivolato sul bagnato – rise al ricordo – ho capito che avresti vinto il gioco comunque e che ormai potevo anche darti una mano. Quando hai iniziato a bussare al portone ho detto a Claude di farti entrare e di prepararti una camera per la notte.” Il suo sorriso si allargò. “Non vedevo l’ora di conoscerti da quando sei entrata nel giardino.”
Le certezze della ragazza crollarono in pochi secondi come castelli di carte. Per un istante aveva creduto che lui l’avesse aiutata per puro altruismo, ma in realtà voleva solamente conoscere meglio la pedina del suo gioco notturno. Quel viso angelico e innocente l’aveva ingannata ancora una volta, come se recitare fosse nella sua natura così come i suoi repentini cambi d’umore. Però le aveva offerto rifugio e aveva fatto medicare le sue ferite, che si stesse sbagliando almeno in parte sul suo salvatore?
“Allora?” la incalzò lui, distraendola dai suoi pensieri. Avvicinò il suo volto a quello di lei con una curiosità famelica, pronto a sapere tutto. “Chi erano?”
“Io…” Ci pensò su per un attimo, poi decise che mentire era la via più facile. Cosa avrebbe pensato il biondo se avesse saputo che era scappata da un bordello? “Non lo so. Ero appena arrivata in città quando mi sono venuti incontro ed hanno iniziato ad inseguirmi. Mi sono rifugiata per un po’ in una casa abbandonata, ma mi hanno ritrovata e sono dovuta scappare in campagna. Forse erano ladri, non so…” Deglutì, sperando disperatamente che lui le credesse. Il ragazzo, però, sembrava essere ben poco interessato al suo racconto.
“Non sei di queste parti?”
“No.” Almeno, non credo.
Il suo voltò si illuminò. “E allora da dove vieni?” le chiese ancora. La sua espressione si fece per un attimo triste e lui sorrise malinconico, lo sguardo perso oltre la finestra, oltre l’orizzonte. “Non mi sono mai mosso da qui, e a volte questo palazzo è così noioso e vuoto. Darei qualsiasi cosa per poter vedere il resto del mondo.”
Esitò un attimo prima di confessare: “Non so da dove vengo.”
Riportò il suo sguardo su di lei e aggrottò le sopracciglia. “Come sarebbe a dire?”
Deglutì. “Non so niente di me stessa. Da dove vengo, come sono arrivata nel bosco in cui mi sono svegliata due giorni fa, come mi chiamo. Non riesco a ricordare niente, è come se non avessi più ricordi.” Gli occhi le si riempirono di lacrime, ma le rispedì indietro: non sarebbe scoppiata a piangere, non adesso e certamente non davanti a lui.
Il ragazzo rimase in silenzio per qualche istante, poi nei suoi occhi apparve un sentimento che lei non fu in grado di decifrare. Quando fu sul punto di dargli un nome era già scomparso, e l’espressione del biondo era tornata la solita di sempre. Allungò una mano e afferrò delicatamente la pietra della collana, tirandola leggermente a sé forse con troppa violenza e osservando la lettera incisa sulla sua superficie. “Questa non potrebbe essere l’iniziale del tuo nome?” le chiese. “L come Laura? Leslie? Linda?”
Scrollò le spalle come per dire Credi che io lo sappia?
“E se ti dessi io un nome?”
Lo guardò confusa senza capire bene cosa intendesse. “Potrei sceglierti un nuovo nome finchè non ricordi il tuo,” continuò lui in tono esuberante e con gli occhi che gli brillavano.
Rimase un attimo interdetta, poi annuì lievemente. Lui sorrise felice e osservò ancora più attentamente la L incisa, come se questo potesse aiutarlo a fargli venire in mente qualche buona idea. Lei rimase immobile in silenzio ad osservare le dita del ragazzo sulla sua collana e che di tanto in tanto sfioravano accidentalmente la sua pelle. Passarono lunghi minuti prima che il biondo iniziasse a parlare di nuovo. “Ho letto un libro, qualche tempo fa… non ricordo molto della storia, ma quando ho letto il nome della protagonista sapevo che era troppo bello per potermene scordare.” Alzò il suo sguardo dalla collana e lo puntò negli occhi verdi della ragazza. “Cosa ne dici di Lena?”
Lena. Insolito ma bello. Le piaceva il suono di quelle quattro lettere una di seguito all’altra, e più lo ripeteva dentro di sé e più era sicura che fosse quello giusto. Abbozzò il primo vero sorriso da quando si era risvegliata due giorni prima senza più memoria. “Mi piace. Mi piace un sacco.”
Il ragazzo rispose al suo sorriso e fece per aggiungere qualcosa, ma da dietro la porta chiusa giunse una voce ovattata che urlava qualcosa in lontananza. Qualcosa sembrò scattare in lui: in poco tempo si alzò in piedi e si diresse di corsa verso la porta chiusa, spinto dall’impazienza di aprirla e raggiungere la voce che continuava incessantemente a chiamarlo. Si ricordò della ragazza solamente dopo aver afferrato la maniglia e si voltò verso di lei. “Claude mi sta chiamando, non posso farlo aspettare a lungo. Tu rimani pure qui, ci vediamo più tardi.” Si voltò verso la porta per aprirla e uscire dalla stanza, ma la voce di lei lo costrinse a guardare nuovamente il letto.
“Aspetta!” esclamò in fretta. Quando i loro sguardi si incrociarono di nuovo continuò: “Non mi hai ancora detto qual è il tuo nome.”
Sorrise lievemente. “Alois Trancy. Ma per te è solamente Alois.” E prima che lei potesse replicare spalancò la porta e uscì in fretta dalla stanza, richiudendosi poi la porta alle spalle. La ragazza ascoltò i suoi passi allontanarsi sempre di più nel corridoio fino a sparire del tutto.














Dopo un pomeriggio passato a studiare Socrate, Platone e il decimo canto della Divina Commedia avrei voluto solamente prendere una pistola e mettere fine al mio mal di testa. Poi ho pensato "Ehi, stasera devo aggiornare e entra in scena il pervertito biondo! Non posso non pubblicare un capitolo del genere!"
*la pistola vola fuori dalla finestra*
Scleri a parte, spero che il conte abbia fatto una buona entrata ("Olè!"). Credo di non essere sfociata nell'OOC (no, non credo proprio ò_ò) e spero che non succeda nei capitoli successivi. I guai sono arrivati, e non faranno che peggiorare!
Piccola precisazione: IL BIONDO DELLO SCORSO CAPITOLO NON ERA ALOIS. Era Ronald. Avrei potuto nascondere la sua identità, ma una di voi si è accorta di chi era e non c'era niente di male a dirlo anche alle altre ù_ù
BeaLovesOscarinobello: (no, non sono io il Danna-sama pervertito XD) Benvenuta nella ciurma! Sono contenta che ti piaccia la mia storia anche se i suoi personaggi non sono i tuoi preferiti :D So che ho usato, come dire, dei "clichè" delle fanfiction o delle originali, ma il tema della perdita di memoria mi ha sempre affascinata e volevo scrivere qualcosa di completamente diverso dall'ultima sul tema che ho scritto (riletta a distanza di mesi non mi sembrava granchè .-.) Senza farti spoiler, posso dirti che gli Shinigami appariranno di nuovo, e non solo i due che sono apparsi nell'ultimo capitolo...
MadLucy: i guai che avevi previsto sono finalmente (?) arrivati, e con loro il pervertito XD A me invece piacciono un sacco le scene d'azione, sia leggerle che scriverle, e gli inseguimenti o le fughe in generale esercitano un fascino del tutto particolare su me. Mi piacciono la sensazione di libertà di una corsa e l'adrenalina di un inseguimento. Will aveva un ottimo motivo per fare quello che ha fatto, sappilo *sadica*
Lulu_Rouges: più che un problema per Alois, penso che sarà un problema per la nostra eroina dover convivere con lui. Amore per lui a parte, io lo manderei affanculo dopo due giorni D:
LudusVenenum: le tue domande troveranno una risposta... in un futuro lontano... *sparisce stile pinguino di Madagascar*

xoxo
Eva

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Capitolo 5
*** Benvenuta a Trancy Mansion. ***


V. Benvenuta a Trancy Mansion.


 

 
La ragazza rimase a lungo ferma seduta sul letto, lasciando che i suoi pensieri vagassero liberi tra le quattro mura della camera e fissando un punto impreciso dentro la bocca del camino. Quando si riscosse, si voltò verso la finestra da cui si vedeva il giardino e decise di dare un’occhiata fuori. Facendo una smorfia di dolore si sedette sul bordo del letto, afferrò una delle colonne del baldacchino e si alzò in piedi senza mai lasciarla andare. Fece un paio di brevi passi per vedere se ce la faceva a camminare, poi lasciò andare il suo sostegno e si diresse a passi lenti e incerti verso la portafinestra. La aprì con forse troppo impeto e quasi cadde sul balcone, ma riuscì a recuperare l’equilibrio ed uscì fuori, sentendo sotto i suoi piedi il marmo freddo, così diverso dal legno del pavimento della stanza, e osservando il paesaggio davanti a lei. La primavera doveva essere appena sbocciata ed era arrivata nel giardino della villa in perfetto orario: le siepi disposte a formare un labirinto perfettamente simmetrico erano piene di fiori colorati, e persino le foglie degli alberi del bosco vicino brillavano come nuove nella luce. Tutto sembrava così diverso dalla notte precedente, come se il giardino rispecchiasse il doppio carattere di Alois, a volte gioioso, a volte crudele. Un refolo di vento si sollevò in quel momento e la ragazza rabbrividì nella camicia da notte. Diede un’ultima occhiata al giardino e ritornò dentro la camera, chiudendo la portafinestra; avrebbe avuto tutto il tempo di esplorare il giardino, dubitava che sarebbe rimasta lì per poco tempo.
E dove potrei andare, altrimenti? pensò mentre tornava verso il letto. Non aveva nessun posto in cui rifugiarsi fino al momento in cui avrebbe recuperato la sua memoria, e nessuno le avrebbe dato una mano tranne, strano a dirsi, quel ragazzo che l’aveva accolta in casa sua solo perché era stata la sua pedina in un gioco mortale. Ripensò al loro breve incontro senza sapere ancora bene cosa pensare di lui: era incredibilmente volubile, capace di cambiare umore da un momento all’altro senza motivo, le aveva detto chiaramente che non l’aveva aiutata per altruismo, ma in qualche modo gli importava qualcosa di lei. Era impossibile definirlo con una parola sola, era come cercare di afferrare una nuvola o una voluta di fumo. E lui era esattamente come loro, in costante cambiamento, senza mai mostrare lo stesso aspetto di sé per più di pochi secondi o minuti.
Mentre tornava verso il letto inciampò col piede in una piega del tappeto e si ritrovò catapultata in avanti, e si afferrò ad un’altra colonna del baldacchino prima che fosse troppo tardi. Si lasciò scappare un sospiro di sollievo, poi alzò lo sguardo verso lo specchio sopra il camino ed osservò il suo riflesso con curiosità. Vide una ragazza con lunghi capelli neri in disordine, due occhi verdi impauriti ma fiduciosi, piccole cicatrici quasi invisibili su tutto il volto e una benda a forma di X che le copriva parte della guancia destra. Quella era lei, quello era il suo volto e niente avrebbe potuto cambiarlo, nemmeno la sua amnesia. Sorrise nuovamente, come se questa certezza bastasse a renderla felice. “Lena,” disse ad alta voce senza staccare lo sguardo dagli occhi del suo riflesso. Quando cadde di nuovo il silenzio lo ripetè, stavolta con più impeto. “Lena!
Nessuno le rispose o smentì quello che aveva appena confermato, e chi avrebbe potuto farlo? Quel nome era suo e soltanto suo, chi poteva dire il contrario? Avere un nome la faceva stare bene, e sentiva che avrebbe potuto sconfiggere tutte le sue paure e insicurezze. A questo pensiero si lasciò andare a una risata contagiosa, e non riuscì a smettere finchè una fitta alla caviglia sinistra non la fece gemere. Abbassò lo sguardo verso le bende che le circondavano le caviglie, e notò che la sinistra stava diventando rossa come il sangue di una ferita appena riaperta.
“Accidenti!” sibilò tra sé e sé, e ignorando il dolore più che poteva si sedette sulla sedia davanti al camino. Si abbassò e si tolse la benda sporca, facendo una smorfia di disgusto e dolore quando vide le condizioni in cui era la caviglia: sembrava che qualcuno le avesse inferto nuovamente tutte quelle ferite, e la pelle era completamente macchiata di sangue rappreso e fresco. Per la sorpresa si alzò di scatto e urtò con la spalla il tavolino; la caraffa lì sopra iniziò ad ondeggiare sempre più velocemente, schizzando acqua da tutte le parti. ‘Lena’ cercò di afferrarla prima che fosse troppo tardi, ma non appena la sfiorò quella cadde giù sul tavolino e si infranse con un tonfo secco sul tappeto, bagnandolo e disseminando per tutta la stanza i cocci affilati di porcellana.
Imprecò nuovamente tra sé e sé, stavolta sudando freddo. Lasciò perdere la caviglia e si inginocchiò sulla parte di tappeto ancora asciutta per raccogliere il risultato di quel disastro ma, non appena ebbe afferrato il primo coccio, un dolore acuto le attraversò il palmo della mano sinistra. Lasciò cadere il frammento di porcellana, ora insanguinato, ed osservò il taglio che le attraversava in diagonale il palmo e il liquido scarlatto che colava sul pavimento. Rimase immobile a fissare il suo stesso sangue, senza sapere bene cosa fare. Non sarebbe certamente morta dissanguata in quella stanza, ma i rumori di qualcuno che bussava e della porta che si spalancava di nuovo furono provvidenziali. Alzò lo sguardo, convinta di incontrare gli occhi azzurri di Alois, ma le sue speranze non furono soddisfatte.
La donna che entrò nella camera aveva gli occhi più scuri di quelli del biondo, di un colore molto vicino al verde acqua. I capelli argentei erano legati in una lunga treccia che le arrivava ben oltre la schiena, e tutto in lei, perfino la carnagione scura e lo sguardo d’umiltà e sottomissione, dava una tale idea di regalità che Lena si accorse che era una cameriera solo grazie alla cuffietta bianca che aveva in testa e al grembiule che indossava sopra il vestito blu e viola. La donna si avvicinò con passi silenziosi alla ragazza seduta sul tappeto e ancora sorpresa da quell’arrivo inaspettato e le si inginocchiò davanti continuando a tenere lo sguardo basso. Diede una veloce occhiata alla caviglia nuovamente insanguinata, poi concentrò la sua attenzione sul taglio sul palmo della più giovane, che continuava a spillare sangue senza accennare a voler smettere. Dopo averlo osservato per qualche secondo infilò una mano nella tasca del grembiule e ne tirò fuori un rotolo di bende bianche; con molta calma e delicatezza fasciò il palmo ferito e la caviglia nuovamente insanguinata, poi pulì il sangue sulla pelle di Lena con un fazzoletto che tirò fuori dalla stessa tasca. Probabilmente era stata lei a fasciarle anche il resto delle ferite. Quando ebbe finito ripose bende e fazzoletto nuovamente dentro la tasca, afferrò con delicatezza il polso della ragazza e si alzò in piedi, strattonandole lievemente il braccio per farla alzare dal pavimento. Lei oppose resistenza, intimorita da quella sconosciuta che voleva farla uscire dall’unico posto in cui si sentiva al sicuro. In quel momento i loro sguardi si incontrarono per la prima volta, e Lena riuscì a leggere negli occhi dell’altra un dolore e una tristezza pesanti e grigi come nuvole cariche di pioggia. Durò solamente qualche istante, perché poi la donna parlò, distogliendo la sua attenzione dall’espressione dei suoi occhi. “Vi prego, signorina, non fate così. Potete fidarvi di me, è stato il danna-sama a dirmi di prendermi cura di voi.”
Danna-sama? Rimase perplessa davanti a quella parola. A chi si riferiva, chi poteva preoccuparsi così tanto di lei da ordinare a una cameriera di prendersi cura di lei? Le venne in mente quello che Alois le aveva detto durante il loro incontro, che aveva ordinato a un certo Claude (chi fosse, ancora doveva scoprirlo) di prepararle un camera. Non le aveva parlato dei suoi genitori o di altri parenti, quindi, per quanto fosse assurdo, doveva essere lui il padrone della villa. “Vuoi dire Alois?” chiese alla donna per trovare una risposta alle sue domande.
Il lampo di sorpresa nei suoi occhi, come se pronunciare quel nome fosse un tabù, e il suo quasi impercettibile cenno di assenso con la testa le diedero la risposta che cercava. Un po’ confortata dal fatto che dietro a tutto questo ci fosse il biondo, si alzò in piedi e si lasciò condurre fuori dalla camera, sempre con la mano della donna sul suo polso. Una volta fuori, si ritrovarono in un lungo corridoio costellato di porte e candelabri appesi alle pareti; la cameriera si diresse a sinistra e Lena la seguì, senza mai smettere di guardarsi intorno e osservare le zone d’ombra tra un candelabro e l’altro. Di tanto in tanto lanciava occhiate preoccupate alla donna davanti a lei, ma alla fine decise di smetterla di essere così paranoica e di provare a fidarsi di lei: insomma, non poteva di certo avere una spada o qualche altra arma nascosta sotto il grembiule o il vestito!
Il loro percorso non era molto lungo, e la donna si fermò davanti a una porta sulla parete opposta del corridoio e distante circa tre metri dalla camera. Afferrò la maniglia con la mano libera, la abbassò e spalancò la porta, svelando un’altra camera da letto, grande come quella in cui si era svegliata Lena ma con un grande armadio accanto al camino. Finalmente lasciò andare il polso della ragazza, che se lo massaggiò facendo attenzione a non sfiorare le ferite nascoste sotto le bende. Intanto la donna chiuse la porta quasi senza far rumore e si diresse verso l’armadio con quei suoi passi silenziosi e lenti. Spalancò le due ante, rivelando all’interno del mobile vestiti dalle fogge e dai colori più disparati, ognuno diverso dall’altro e tutti ugualmente splendidi. In confronto a loro, quelli della povera Sarah sembravano comuni canarini messi a confronto con uccelli esotici con piumaggi azzurri, rossi e verdi. Lena li fissava senza parole con la bocca spalancata, e ancora una volta toccò alla voce della donna riportarla alla realtà. “Scegliete quello che preferite, vi darò una mano ad indossarlo.”
Ci mise qualche secondo a capire cosa le era stato detto, e quando se ne rese veramente conto fu costretta a lottare contro l’impulso di sorridere fino a strapparsi i muscoli. Cercando di recuperare un minimo di contegno si avvicinò all’armadio mentre la cameriera faceva un passo indietro per farle vedere meglio i vestiti. La ragazza li osservò ancora tutti per un’ultima volta, poi sfiorò il primo alla sua sinistra. La stoffa era piacevole al tatto, liscia e di un intenso verde chiaro, e per un attimo Lena fu tentata di scegliere quello. Prima che potesse decidere, però, un lampo azzurro la distrasse e si ritrovò davanti agli occhi un vestito ancora più elegante del precedente. La sua nuova decisione fu interrotta da un ennesimo abito, stavolta viola e nero. Continuò così a lungo: ogni volta che faceva la sua scelta definitiva veniva distratta da un vestito ancora più bello, ed erano così tanti che era impossibile scegliere quale fosse il migliore. Alla fine, dopo aver scovato una vestaglia rossa di seta tenuta chiusa da un laccio nero, scelse uno degli ultimi vestiti che aveva visto, rosso e con alcuni fiocchetti sulla gonna. Ne afferrò un lembo, lo tirò fuori dall’armadio e rivolse uno sguardo alla donna, che non si era mossa di un solo millimetro. Le parole furono inutili, e la cameriera fece un cenno d’assenso e si avvicinò per aiutarla ad indossare l’abito.
Fu una procedura lunga e complicata. Lena non immaginava che indossare solamente il corsetto avrebbe richiesto tempo e una discreta quantità d’aria nei polmoni, strizzati come due spugne dentro quella specie di strumento di tortura. Per non pensarci si diede un’occhiata intorno, posando il suo sguardo prima sullo specchio a figura intera davanti a sé e poi sulla mensola sopra il camino. Sopra essa c’era un unico oggetto, una piccola cornice dorata con all’interno una foto di famiglia: una famiglia normale, con un padre, una madre e un neonato talmente biondo che avrebbe potuto essere solamente Alois. Quasi si lasciò scappare un sorriso alla vista di quella fotografia, ma l’ennesimo strattone della cameriera per stringere ulteriormente il corsetto la fece gemere e distrarre la sua attenzione dalla cornice dorata. Quando la donna ebbe finito di aiutarla ad indossare il vestito e le scarpe e di spazzolarle i capelli fece un passo indietro, lasciando che Lena osservasse il suo riflesso, sbalordita dal cambiamento che era avvenuto in lei: non sembrava essere rimasto niente della ragazzina impaurita del bosco, tranne che le sue ferite bendate e le cicatrici sul suo volto. Sfiorò la benda che le attraversava la guancia destra e si chiese quanto in fretta le sue ferite sarebbero guarite, e se il tempo avrebbe cancellato altrettanto velocemente la sua paura di Andrè e Lady Nancy. La pietra blu brillò per un istante nella scollatura del vestito, dando una risposta incomprensibile alle sue domande.
Senza proferire parola e tenendo basso quel suo sguardo malinconico e pieno di dolore, la donna condusse nuovamente Lena in camera sua, dove sul tavolino era apparso apparentemente dal nulla un vassoio con sopra una tazza, una teiera e cinque fette di torte diverse. Lo stomaco della ragazza sembrò risvegliarsi in quel momento da un lungo letargo e borbottò qualcosa sotto il corsetto, reclamando per sé quei dolci. Lena sentì le guance diventarle dello stesso rosso del vestito e fece finta di non aver sentito niente, sperando che la cameriera non si fosse accorta di nulla. Per fortuna lei sembrava non essersene accorta veramente, e afferrò la maniglia della porta per chiuderla. “Se avete bisogno di qualcosa mi potete trovare al piano di sotto,” le disse, e con un breve inchino chiuse la porta e lasciò la ragazza da sola. Lei rimase per qualche istante immobile in mezzo alla stanza, poi si diresse verso il tavolino e notò che i cocci erano stati tolti e che accanto al vassoio una nuova caraffa sostituiva quella distrutta. Ne fu stupita ma non gli diede molta importanza, sperava solo di non rompere qualcos’altro, visto che aveva già collezionato abbastanza ferite e cicatrici per il resto della sua vita. Ma chissà, forse era solamente colpa della sua perdita di memoria; forse in realtà era una persona estremamente attenta che quando camminava per la strada stava attenta perfino alla più piccola crepa o fessura per non inciamparvi. Mentre pensava, cambiò direzione e si diresse verso la finestra tra le proteste del suo stomaco, che cercava invano di riportare la sua attenzione sui dolci del vassoio. Si sedette sul bordo del letto, quasi rimbalzando sugli strati di stoffa della gonna, e osservò il sole che tramontava e illuminava il giardino di un arancione sanguigno. Persino l’acqua della fontana aveva cambiato colore, passando dall’azzurro del cielo al rosso del sangue versato che le mura di quella villa avevano visto e avrebbero dovuto ancora vedere. Ma Lena non conosceva ancora né il passato né il futuro, e rimase ad osservare in silenzio il tramonto mentre pensava al presente: non voleva rimanere nella sua stanza, quelle quattro mura stavano iniziando a soffocarla come quelle di una cella e il mondo fuori dalla porta la chiamava, ma dove poteva andare? Aveva paura di perdersi dentro gli innumerevoli corridoi e stanze della villa o di incontrare qualcuno che non conosceva. Sapeva che sarebbe stata talmente in imbarazzo da non osare nemmeno pronunciare una mezza parola, era meglio rimanere in camera sua e aspettare che qualcuno la venisse a cercare. Dopotutto, Alois le aveva detto che sarebbe tornato a trovarla, era meglio aspettarlo dove l’aveva trovata la prima volta, no?
Prese la sua decisione con un sorriso nervoso sulle labbra e si sedette più comodamente sul bordo del letto, senza mai distogliere lo sguardo dal sole che calava.
 

***

 
Rimase da sola più a lungo di quanto si aspettava e, quando finalmente qualcuno bussò alla porta della camera, il tramonto era finito già da tempo. Lena si era sdraiata con il busto sul bordo del letto senza mai distogliere lo sguardo dal giardino, ma non appena sentì i colpi alla porta si drizzò a sedere, un fascio di nervi vivente. Si voltò nell’esatto momento in cui la porta si spalancava e la forte luce delle candele si apriva un varco nell’oscurità della stanza. Reggeva il candelabro un uomo che indossava una livrea da maggiordomo; la ragazza riusciva a vedere solamente qualche ciuffo dei capelli neri, che si confondevano con le ombre, ma non le sfuggirono i due occhi che la fissavano da dietro le lenti degli occhiali: erano di un giallo inquietante e sembravano scrutare le parti più profonde e nascoste della sua anima. Non dubitò per nemmeno un secondo e seppe subito, senza che nessuno glielo avesse detto, che lui era quel Claude che Alois aveva menzionato un paio di volte. A primo impatto decise che non le piaceva, o almeno, non nel senso stretto del termine: c’era qualcosa nella maschera impenetrabile del suo viso che la inquietava e che le dava una brutta sensazione. Non ne aveva paura, ma sentiva che più si sarebbe tenuta lontana da lui e meglio sarebbe stato.
L’uomo non sembrò accorgersi dei suoi occhi pieni di pensieri e parole non dette, e si limitò a continuare a fissare la ragazza in quel modo che le dava i brividi. La sua espressione non cambiò mentre diceva: “La cena è pronta, signorina. Il danna-sama vi sta già aspettando nella sala da pranzo.” Senza aspettare alcuna risposta posò il candelabro sul comodino, si voltò e uscì nuovamente nel corridoio, distogliendo finalmente il suo sguardo da quello di lei. Lena sospirò di sollievo senza farsi sentire e lo raggiunse, aspettando nel corridoio più illuminato mentre lui chiudeva la porta della camera e le faceva cenno di dirigersi dalla parte di corridoio opposta a quella che aveva percorso poche ore prima. Titubante, lo seguì attraverso il corridoio costellato di porte fino ad arrivare alla fine, dove una grande doppia scalinata conduceva all’atrio principale. Rivedere l’imponente portone di legno le ricordò il suo arrivo improvviso della notte precedente, ma si costrinse a non pensarci e osservò il lampadario di cristallo che illuminava l’atrio con una luce soffusa. In seguito non si sarebbe ricordata il percorso per arrivare alla sala da pranzo, ma avrebbe conservato per sempre nella sua memoria il ricordo delle stanze e dei corridoi che attraversarono in silenzio, illuminati da lampade e candele e pieni di oggetti strani e meravigliosi. Non smise per un solo secondo di guardarsi intorno meravigliata, e tornò alla realtà solo quando sentì una voce familiare alle sue spalle – l’unica che avrebbe saputo riconoscere, a dir la verità.
Lena!” La voce la chiamò da un corridoio alla sua sinistra, e quando si voltò non fu affatto sorpresa di sentire un familiare ticchettio di tacchi e di vedere Alois correre nella sua direzione. Pensava che si sarebbe fermato prima di raggiungerla, ma lui la sorprese ancora una volta e l’abbracciò di slancio, quasi lasciandola senz’aria nei polmoni. Lena si accorse solamente in quel momento di essere contenta di vederlo e di non aver aspettato altro che quel momento per tutte quelle ore. Era l’unico ragazzo della sua età che conoscesse e, nonostante il suo strano carattere, sentiva che poteva fidarsi di lui. Sperò di non essersi sbagliata per l’ennesima volta, ma scacciò via i suoi dubbi quando Alois si staccò da lei, sgranò gli occhi e le chiese: “Stai meglio?”
Accarezzò distrattamente la fascia che le avvolgeva il palmo sinistro e abbozzò un sorriso. Notò che lui stava fissando la nuova benda e si affrettò a dire: “Non è niente, mi sono solo graffiata. Non è niente di grave, sto bene.”
Lui sembrava averla ascoltata distrattamente, e quasi coprì le sue ultime parole quando continuò: “Ti hanno trattata bene, vero? Voglio dire…” Un lampo di crudeltà attraversò i suoi occhi. “Hannah. Si è comportata bene con te, no?”
I suoi modi di fare sbrigativi le ricordarono per un istante quelli del ragazzo nel bosco - Allora? Vieni con me o no? – poi riuscì a collegare il nome agli occhi tristi e pieni di dolore della cameriera che l’aveva aiutata a vestirsi poche ore prima. Non capiva perché Alois ce l’avesse con lei, ma decise che in quel momento non era importante: si sentiva protettiva nei confronti di quella donna, per motivi che probabilmente non avrebbe mai capito. “Sì. È stata molto gentile con me.”
Per un breve istante le sembrò di intravedere un’espressione delusa sul volto del ragazzo, come se si aspettasse la risposta opposta, ma fu questione di un secondo; in poco tempo sorrideva di nuovo in quel modo ambiguo e le afferrò con delicatezza il polso destro, dirigendosi verso il portone ora spalancato in fondo al corridoio. Mentre entravano nel salone Lena rimase a bocca aperta di fronte all’immensità e alla ricchezza della stanza, e quasi andò a sbattere contro il tavolo, impegnata com’era a guardarsi intorno meravigliata e ad osservare le balconate che si affacciavano sul salone. Alois rise quando notò l’espressione di lei. “Sembra che tu non abbia mai visto un salone come questo in vita tua,” le disse.
Anche se l’avessi visto non me lo potrei ricordare, pensò con una punta di amarezza. Il ragazzo la condusse fino ai due unici posti apparecchiati su tutto il lungo tavolo, e prima ancora che lei potesse sfiorare la sedia qualcuno l’aveva già allontanata dal tavolo, aspettando che la ragazza si sedesse. Lena alzò lo sguardo, confusa, e incontrò due occhi di un rosso così acceso da spaventarla. Il loro proprietario continuò a fissarla impassibile, come se non si fosse accorto del suo sussulto, poi aspettò che si fosse seduta per avvicinare la sedia al tavolo. Quando la ragazza si voltò verso Alois, notò che vicino a lui c’era un altro ragazzo uguale al primo, e che in fondo alla sala ce n’era addirittura un terzo in attesa di ordini. Era stupefatta e allo stesso tempo intimorita di vedere tre persone identiche nello stesso luogo, come se la stessa persona si fosse divisa in tre. Alois sembrò non notare il suo turbamento – dopotutto per lui quella doveva essere la norma – e si limitò ad incrociare le dita davanti al volto senza mai smettere di fissare la sua ospite. “La cucina di Claude è fantastica, spero che tu abbia fame,” le disse mentre faceva oscillare le gambe sotto il tavolo. Lena pensò che non fosse carino dirgli che non aveva mai toccato cibo da quando si era risvegliata senza memoria, e il suo stomaco brontolò come per protestare contro quell’ingiustizia. Il rossore le avvampò nuovamente le guance, mentre il biondo non potè fare a meno di ridere di scherno. Lei, per tutta risposta, tenne lo sguardo basso fingendo di essere concentrata sull’argenteria e sull’ardua decisione riguardo a quale posata fosse la prima da usare. Quasi sospirò di sollievo quando davanti ai suoi occhi comparve una scodella di zuppa il cui odore servì a calmare i bollenti spiriti del suo stomaco; afferrò il cucchiaio più grosso che vide davanti a sé e si voltò verso Alois per vedere se aveva fatto la scelta giusta – chissà, magari i nobili avevano la strana mania di mangiare la zuppa con la forchetta. Il ragazzo però continuava a fissarla e a parlare come se non vedesse il piatto davanti a lui. “Qui ti piacerà un sacco, vedrai. La villa è così grande che non l’ho mai vista tutta, e il giardino è veramente enorme! Ci sono anche dei posti nei dintorni che voglio farti vedere, e possiamo andare a Londra quando vuoi.” Fece una pausa e le sorrise. “Ci divertiremo un sacco, noi due.”
Lena abbassò lo sguardo e osservò il suo riflesso nel bicchiere, forse cercando una replica adeguata.














Titolo alternativo del capitolo -> Le strane avventure di Lena e del suo stomaco brontolante.
Non fateci caso, sono le dieci e un quarto di sera e non vedo l'ora di andare a finire di scrivere il prossimo capitolo.
Prima di rispondere alle recensioni credo sia giusto dare una comunicazione di servizio *dling dlong!*: provo un forte odio che a volte si trova in una quasi specie di amore per Claude. E' un rapporto complicato, il nostro. Dico solo che mentre guardavo il nono episodio della seconda serie ho iniziato a lanciare palline di carta per tutta la stanza. Sono disposta a fare parte di una terapia di gruppo, se vi interessa.
MadLucy: [l'odio ci unisce, mia cara *risata malvagia*] Credo di aver capito quale sia quel "non-so-che" che manca. Probabilmente ho descritto Alois meno schizzato e allegro di quanto sia in realtà, ma se è vero quello che dici te allora non ci metterò molto a mettermi nei suoi panni XD
BeaLovesOscarinobello: bè, il crossover ci poteva stare tutto XD Non fraintendermi, a me filosofia e la Divina Commedia piacciono, ma il mio professore di filosofia riuscirebbe ad annoiarti anche se parlasse di Harry Potter, e per di più spiega in maniera incomprensibile D:

xoxo
Eva
 

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Capitolo 6
*** Solo un pedone sulla scacchiera e una luce nei tuoi occhi. ***


VI. Solo un pedone sulla scacchiera e una luce nei tuoi occhi.
 

 


I giorni seguenti passarono uno dopo l’altro in fretta e senza avvenimenti importanti, e quando arrivò il giorno che in seguito sarebbe stato ricordato solamente come il ‘giorno della cattedrale’ Lena fece fatica a credere che fosse passata solo una settimana dal suo risveglio senza ricordi. La sua vita era completamente cambiata, passando dallo squallore del bordello e di Londra al lusso sfrenato della villa, dalla crudeltà ostentata di Andrè a quella più sottile ma tuttavia presente di Alois, che comunque era molto più gentile nei suoi confronti. Questo però non le bastava per poter dimenticare il ragazzo francese e quello che significava per lei: gli incubi continuavano a tormentarla, e il sogno dell’incendio e dei ragni che aveva avuto la notte della sua fuga tornava a farle visita ogni notte, lasciandola ogni volta sveglia tra le lenzuola e la camicia da notte impregnate di sudore e con un grido in gola che lei soffocava con il cuscino o con una mano chiusa a pugno. Sembrava che le sue notti non avrebbero mai più potuto essere tranquille come un tempo, se mai lo erano state.
Le sue ferite, per fortuna, stavano guarendo. Lentamente, come se non volessero abbandonare veramente la sua pelle, ma giorno dopo giorno le caviglie e i polsi le facevano sempre meno male e riusciva anche a correre (il più delle volte trascinata da Alois) senza avere l’impressione di avere dei chiodi sotto i piedi. L’unica ferita che non voleva saperne di andarsene era quella che le decorava la guancia destra; quando aveva tolto la benda per cambiarla, il giorno dopo il suo arrivo, aveva visto che risplendeva ancora di un rosso scarlatto, come se volesse sfidarla a scacciarla. Nonostante fosse guarita Lena continuava ancora a coprirla con le bende, forse per vergogna, forse per nascondere l’ultima traccia di un’avventura che voleva solamente dimenticare. Ormai tutta la servitù si era abituata a vedere quella croce bianca sulla sua guancia e non le lanciava più occhiate con la coda dell’occhio come le prime volte, ma Alois non si era dato per vinto e provava nei modi più disparati a scoprire cosa ci fosse sotto quella benda: irrompeva all’improvviso nella camera di Lena, sperando di coglierla nel momento in cui si cambiava la fasciatura, tentava di guardarci attraverso ogni volta che era illuminata in modo diverso dal solito, provava a toglierla quando la ragazza era distratta o addirittura dormiva. Un paio di volte si era svegliata nel cuore della notte con la sensazione di essere osservata, e voltandosi si era ritrovata davanti il biondo. Lui si era limitato a sorridere senza nemmeno un briciolo di vergogna, senza provare a scusarsi, ed era uscito dalla stanza silenziosamente come era entrato. In entrambe le occasioni lei era rimasta sveglia per qualche minuto, preoccupata che il ragazzo potesse tornare, poi si era riaddormentata con la guancia destra appoggiata sul cuscino.
Il rapporto tra Lena e Alois non avrebbe potuto essere più complicato di quanto già fosse. Lei era timida e riservata tanto quanto lui era lunatico e irrequieto: i suoi sbalzi d’umore erano all’ordine del giorno, e quando decideva di fare qualcosa niente poteva distoglierlo dal suo proposito. Più di una volta lui e la sua ospite si erano ritrovati in qualche ala inesplorata della villa o in punto nascosto del giardino senza la più pallida idea di come tornare indietro. Probabilmente sarebbero rimasti lì a lungo se non fosse stato per Claude e il suo innato sesto senso nel ritrovare il suo imprevedibile danna-sama, ma questo non scoraggiava il ragazzo, anzi, forse continuava a cacciarsi nei guai proprio perché sapeva che il suo maggiordomo l’avrebbe trovato perfino in mezzo a un labirinto. “E se una volta non riuscisse a trovarti? Come penseresti di cavartela?” gli chiese una volta Lena mentre si addentravano in una cantina polverosa inutilizzata da decenni.
Lui rise e la guardò con uno scintillio furbo negli occhi. “Non può farlo. Non può disobbedire a un mio ordine, non può non rispondere quando lo chiamo. Il contratto glielo impedisce, siamo legati a doppio filo fino alla fine.” Mentre parlava una scintilla feroce gli brillava negli occhi, ma la ragazza non poteva immaginare e tantomeno sapere quanto profondo e maledetto fosse il rapporto tra il biondo e il maggiordomo, e si limitò ad ascoltare le sue parole senza coglierne il vero significato. Fecero ancora pochi passi prima che il ragazzo si fermasse di botto e si voltasse verso di lei, esclamando: “Mi sa che ci siamo persi di nuovo!”
Le uniche cose su cui Alois non si sbottonava troppo erano la sua famiglia e il suo passato in generale, come se per lui non fossero mai esistiti o non fossero importanti. Tormentava Lena per cercare di farle recuperare la memoria, considerando l’intera faccenda come un gioco, ma ogni volta che lei gli chiedeva qualcosa sui suoi genitori o sulla sua infanzia si chiudeva a riccio in uno dei suoi famosi sbalzi d’umore o cambiava argomento con una veemenza tale da rasentare la rabbia. La ragazza non capiva il perché del suo comportamento, ma la curiosità la rodeva e ogni volta che poteva faceva qualche domanda discreta al biondo, sperando di avere più fortuna della volta precedente. Presto, però, si rese conto che la porta che le veniva continuamente sbattuta davanti non si sarebbe mai aperta per mostrarle le cose dietro di essa, e rinunciò a cercare di scoprire qualcosa. L’ultima volta che ci provò fu il giorno prima della loro visita alla cattedrale, e la silenziosa risposta che ricevette bastò a calmare la sua curiosità.
Non ricordava com’erano finiti nella stanza dell’armadio che ormai Lena considerava come suo: ricordava solamente che quando erano entrati lei si era diretta verso il camino, mentre Alois era rimasto quasi sulla soglia della porta, parlando di qualcosa che lei ascoltava distrattamente. Smise di parlare quando la ragazza sfiorò la cornice dorata sopra la mensola, e lei sembrò notare qualcosa di insolito nel suo silenzio. Quando si voltò verso di lui, però, la sua espressione era la solita e non sembrava tradire nessun’emozione particolare; l’unica cosa cambiata rispetto a poco prima erano le mani, ora nascoste dietro la schiena. Lena seguì con il dito le volute contorte della cornice e sorrise dolce. “Sei così fortunato, Alois,” mormorò senza distogliere gli occhi dal neonato nella fotografia. “Anche se i tuoi genitori non ci sono più ti ricordi sempre di loro, di com’erano, delle loro voci. Io non ho niente di tutto questo, non so nemmeno se sono vivi o morti o se ho qualche fratello o sorella che mi aspetta da qualche parte. Darei qualsiasi cosa per prendere il tuo posto.” Si voltò di nuovo verso il ragazzo, e stavolta notò il sorriso forzato sulle sue labbra e la rabbia e la tristezza nei suoi occhi. Fu questione di un solo attimo, come sempre, poi la sua espressione tornò come prima: solo il suo sorriso rimase vagamente rigido, come se i muscoli della faccia si fossero mossi di propria volontà. Lena fece finta di niente, tentata dalla possibilità di trovare una risposta alle sue domande, e gli chiese: “I tuoi genitori erano gentili con te?”
“Molto,” disse in fretta, come se volesse cambiare discorso. Prima che la ragazza potesse aggiungere qualcosa, però, il suo sorriso si distese lievemente e lui continuò: “Devo andare adesso, ho da fare. Cose da conte, sai com’è.” Non si fermò a vedere il sorriso divertito sulle labbra di Lena e si voltò per uscire dalla stanza. Fu solo allora che lei notò i segni a forma di mezzaluna lasciati dalle unghie sulle sue mani, talmente rossi e profondi che avrebbero potuto iniziare a sanguinare da un momento all’altro.
Soddisfatta della risposta, Lena?
 

***

 
Lena ripensò all’episodio della cornice la mattina successiva, mentre usciva dal salottino in cui faceva colazione di solito. Aveva mangiato da sola, in silenzio, con Hannah e i tre gemelli come unica compagnia, se così si potevano definire. Era raro che incrociasse Alois di mattina: da quando si svegliava fino all’ora di pranzo era impegnato a studiare o a sistemare altre faccende sotto lo sguardo freddo e impassibile di Claude. Da quel che aveva capito prima del suo arrivo improvviso era costretto a studiare anche il pomeriggio, ma con la scusa di stare dietro alla sua ospite era riuscito a concentrare tutti i suoi impegni nelle prime ore della giornata. Lena non sapeva se lui avesse fatto così per stare veramente insieme a lei o per essere più libero, ma in fondo non era importante saperlo. Ormai aveva capito che c’erano cose che forse non avrebbe mai capito e su cui era meglio non indagare per non ritrovarsi invischiata in ragnatele che non l’avrebbero lasciata andare tanto facilmente. Come il passato di Alois, per esempio.
Pensava ancora al suo strano comportamento quando raggiunse l’atrio, illuminato dalla luce solare. Aveva intuito che era successo qualcosa di terribile anni prima, forse quando i suoi genitori erano ancora vivi, ma non riusciva a capire cosa. Che fossero morti all’improvviso o in una situazione tragica, se non addirittura assassinati? O forse era successo qualcos’altro, qualcosa che aveva scosso la famiglia Trancy fino nel profondo, rendendo Alois quello che era adesso? Scosse la testa, rinunciando a cercare di capirlo da sola, si voltò verso la finestra più vicina e osservò il giardino in piena fioritura: non era mai riuscita a vederlo tutto, e quando il biondo la trascinava con sé nelle sue esplorazioni non le permetteva di fermarsi a vedere qualcosa in particolare, preso com’era dalla frenesia. Sorrise tra sé e sé, contenta di aver trovato un modo per sconfiggere la noia che l’assaliva durante la mattina, e si avvicinò al portone d’ingresso. Afferrò la maniglia, la buttò giù e tirò con tutta la forza che aveva, sperando di non fare troppo rumore. Le sue speranze furono vane, perché quando il portone si aprì ci fu un rumore che riecheggiò in tutto il piano inferiore, e Lena arrossì in fretta, pregando di non aver disturbato nessuno. Per rimediare uscì in fretta dalla villa e si chiuse il portone alle spalle, facendo addirittura più rumore della prima volta. Sospirò e fece un passo in avanti, poi alzò lo sguardo verso l’angolo della porta: la ragnatela e il suo inquilino erano ancora lì, immobili, due statue quasi fuse con la parete della villa. Una volta aveva chiesto ad Alois come mai ci fossero così tanti ragni e ragnatele dentro e fuori la villa, e lui le aveva risposto che erano il simbolo del casato Trancy, e che quindi andavano lasciati lì dov’erano, ‘Tanto non fanno nulla a nessuno’, aveva concluso il ragazzo. Lena non era molto d’accordo su questo: non poteva dimenticare il modo in cui i ragni entravano dentro il suo corpo nei suoi incubi, e tanto le bastava per tenersi il più possibile alla larga da loro. Si allontanò dalla porta a passi veloci senza mai distogliere lo sguardo dalla ragnatela, come se il suo inquilino potesse muoversi e saltarle addosso da un momento all’altro.
Raggiunse il giardino poco dopo ma, mentre si dirigeva verso il labirinto di siepi in cui veniva trascinata spesso da Alois, la sua attenzione venne catturata dalle statue che aveva notato la notte del suo arrivo, quegli scacchi giganti che dominavano l’intero parco e che sembravano osservare tutto in silenzio. Cambiò direzione e si diresse verso di loro sotto il sole della prima mattina, il silenzio rotto solo dalla ghiaia che scricchiolava sotto i suoi piedi e da qualche uccello nelle vicinanze. Era più lontano di quanto pensasse, ma quando arrivò rimase sorpresa dall’immensità delle statue, così alte che aveva paura che le cadessero addosso da un momento all’altro. La pedana rialzata su cui si trovavano era divisa in quadrati bianchi e neri, uguali a quelli della scacchiera più piccola che aveva visto in uno dei tanti salotti della villa. Non aveva mai giocato a quel gioco, ma una volta Alois gliel’aveva spiegato in poche parole, e lei era rimasta affascinata da quanto importanti fossero quelle pedine di legno per un giocatore. Ognuna di loro aveva un compito preciso per far sì che il proprio re vincesse la partita e faceva parte di una strategia precisa, in cui niente si muoveva per caso e di propria volontà.
Salì sulla pedana, ritrovandosi su una casella bianca. L’ampia gonna del vestito la ricopriva quasi interamente, impedendole di vedere il quadrato su cui si trovava, e la alzò un pochino per potersi muovere meglio sulla scacchiera. Dopo un attimo di indecisione, passò con un salto alla casella bianca alla sua destra, ma la caviglia le cedette per un attimo e dovette appoggiarsi al cavallo nero lì vicino per non perdere l’equilibrio. Aspettò a occhi chiusi che il dolore fosse passato, poi li riaprì e saltò sulla casella bianca a sinistra. Fece altri due o tre saltelli in quel modo, ridendo come una bambina, poi si mosse a L come il cavallo e infine tornò a saltare da un quadrato bianco all’altro per arrivare dall’altra parte della scacchiera. Aveva la sensazione di aver già saltato in quel modo anni prima in un altro luogo, quando era ancora una bambina: le sembrava quasi di sentire le sue risate confondersi con quelle di altri bambini e le parole di una filastrocca ormai dimenticata sulle sue labbra. Era così immersa in quei brandelli di ricordi che non sentì i passi alle sue spalle, e quando due braccia la afferrarono per la vita sussultò e urlò.
Presa!” Poteva sentire nella voce del suo aggressore il sorriso crudele che si era dipinto sulle sue labbra, e per un attimo le sembrò di sentire il crepitio delle fiamme di un incendio e le zampe dei ragni sulla sua pelle. Si dibatté dentro quella presa gemendo per lo sforzo mentre l’altro rideva. Era una risata familiare che avrebbe riconosciuto dovunque, ma era talmente presa dal terrore che si aspettava di sentire una voce con un leggero accento francese. Quando un dito le sfiorò la benda della guancia ne ebbe abbastanza e decise di mettere fine a quella storia una volta per tutte, e anche se non avesse funzionato ci avrebbe provato.
Lasciami andare!” Il suo aggressore allentò la presa, stupito dall’urlo della sua preda, e Lena ne approfittò per dare uno strattone più forte. Riuscì a liberarsi e nella fretta di allontanarsi diede una gomitata nel petto all’altra persona, che gemette di dolore. Questo è per quello che hai fatto a me, stronzo, pensò con odio e un sorriso cattivo sulle sue labbra. Fece un paio di passi in avanti e poi si voltò, pregustando la soddisfazione di vedere il suo nemico ferito, ma il sorriso e l’odio scomparvero dal suo volto non appena si rese conto che il ragazzo che l’aveva assalita non era Andrè, come invece si era immaginata. Arrossì per la seconda volta in poco tempo e quasi volle sparire sottoterra quando vide l’espressione sofferente sul volto di Alois. “I-Io…” balbettò, incapace di decidere se fosse meglio stare zitta o inventare una scusa plausibile entro i prossimi cinque secondi. Alla fine optò per un mormorio quasi incomprensibile. “Scusa, non pensavo che fossi tu, credevo che…”
“Che fosse qualcuno che voleva farti del male?” Sorrise mentre cercava di tornare in posizione eretta. “Un po’ improbabile in pieno giorno e in un punto così in vista, no?” Non le disse che l’aveva perdonata, ma dal modo in cui si sedette all’ombra di un pedone bianco e le fece cenno di sedersi accanto a lui Lena intuì che non l’avrebbe cacciata via per quello. Non voleva ammetterlo nemmeno a sé stessa, ma la sua paura più grande era essere mandata via dalla villa e dalla vita stabile che per ora aveva. Temeva che un passo falso e il carattere lunatico di Alois potessero innescare una reazione esplosiva impossibile da contenere o da ritardare, e sapeva che non avrebbe avuto un altro posto in cui andare. Un giorno se ne sarebbe andata, lo aveva sempre saputo fin dal suo arrivo, ma quel momento sarebbe arrivato solo dopo che lei avesse recuperato tutti i suoi ricordi e la sua identità; fino ad allora, nessun posto oltre alla villa era sicuro per lei. Chiunque avrebbe potuto approfittarsi di lei e trattarla perfino peggio di Andrè, e forse non avrebbe incontrato nessun altro disposto ad ospitarla. Il mondo là fuori la spaventava quando ripensava alla notte nel bosco e al ragazzo biondo con gli occhiali: sembrava conoscerla, ma quanto poteva fidarsi davvero di lui? E se avesse deciso di ritrovarlo, da dove avrebbe potuto cominciare?
Quando si accorse che la ragazza seduta accanto a lui aveva lo sguardo perso nel vuoto, Alois le diede un pizzicotto sul braccio per farla ritornare alla realtà, forse usando più forza del dovuto. Aspettò che i suoi occhi verdi lo guardassero di nuovo, poi le chiese: “A cosa stavi pensando?”
Ormai era una battuta tipica del suo copione: ogni volta che Lena si perdeva nei suoi pensieri, il biondo la riportava alla realtà e voleva sapere a tutti i costi cosa l’aveva distratta da quello che stava facendo. Sembrava ossessionato dal voler conoscere ogni singola cosa che accadeva sotto i suoi occhi, persino i pensieri di chiunque, ma ormai lei ci aveva fatto l’abitudine e di solito gli rispondeva sinceramente; quel giorno, però, esitò mentre decideva quale scusa inventarsi. Raccontargli i suoi veri pensieri voleva dire riportare alla luce quello che era successo la notte di una settimana prima, e con quello anche le persone di cui Alois voleva disperatamente conoscere l’identità e che Lena voleva chiudere a chiave nella parte più nascosta della sua memoria. Non poteva permettere che il ragazzo scoprisse da dove veniva veramente, almeno non adesso: aveva paura della sua reazione e non se la sentiva di correre un rischio del genere. Forse più in là, ma chissà se ce l’avrebbe mai fatta. La verità era che Alois la spaventava, con i suoi cambiamenti d’umore improvvisi e la luce sempre diversa nei suoi occhi, le emozioni che sfilavano una dietro l’altra senza mai rimanere a lungo. Aveva assistito a un paio dei suoi attacchi d’ira, ed entrambe le volte aveva sperato di svanire nel nulla per ricomparire una volta tornata la normalità. Ma la cosa che la terrorizzava maggiormente erano quei momenti in cui il ragazzo era gentile fino all’inverosimile con lei e si comportava quasi normalmente, senza mai arrabbiarsi, senza mai cambiare umore all’improvviso. Quelli erano i momenti in cui era più facile che accadesse qualcosa, e Lena si ritrovava paradossalmente a sentire la mancanza del suo vecchio comportamento.
“Niente di che, davvero,” mormorò mentre stirava una piega sulla stoffa della gonna.
Alois rise, come se non credesse a una sola delle sue parole. “E invece secondo me era qualcosa d’interessante.” Iniziò a fissarla con insistenza come se potesse vedere e leggere i pensieri nella sua mente. All’inizio la ragazza fece finta di niente, ma quando non ce la fece più a vedere con la coda dell’occhio quegli occhi azzurri che la fissavano si voltò per dirgliene quattro. Il biondo la battè sul tempo, aggiungendo all’improvviso: “Erano gli uomini che ti inseguivano una settimana fa, vero?”
Si bloccò, spaventata e sorpresa dal suo intuito. Le mancava l’aria, e non si sentì meglio nel vedere che negli occhi del ragazzo non c’era comprensione ma solo divertimento. Boccheggiò un’ultima volta, poi, prima che lui potesse dirle qualcos’altro, si affrettò a chiedergli: “Perché sei qui? Pensavo che tu la mattina fossi sempre impegnato.”
Alois le rivolse uno sguardo duro, come per farla sentire colpevole di aver cambiato argomento, e una luce in fondo all’azzurro le ricordò che il loro discorso non era finito lì. Sospirò e incrociò le gambe senza mai staccare il suo sguardo da lei. “È così, infatti. Ma stamattina devo andare a far visita al prete di una cattedrale qua vicino e ho finito di studiare prima.” Sorrise, e Lena non si fidava molto di quel sorriso. “E tu verrai con me e Claude.”
Le ci volle qualche secondo prima di realizzare cosa aveva detto, e quando se ne rese conto tutto quello che riuscì a dire fu: “Aspetta, cosa?”
“Ti ho detto che ti avrei fatto vedere i posti qui nei dintorni, no? Non credo che avremo molte altre possibilità di allontanarci dalla villa. La carrozza dovrebbe essere pronta a momenti, sono venuto qui per avvisarti della nostra partenza.”
Era chiaro che riteneva ovvio che lei sarebbe venuta, probabilmente non aveva nemmeno pensato a chiederle la sua opinione prima di decidere. Ma ormai era fatta, anche se la prospettiva di un lungo viaggio in compagnia dell’inquietante maggiordomo non l’allettava per niente. Non aveva la più pallida idea di cosa fossero un prete o una cattedrale, ma non perse tempo a chiederlo ad Alois, la sua capacità di spiegare le cose era pari al suo senso dell’orientamento. Si limitò ad annuire lentamente e a voltare il suo sguardo a destra quando il biondo le indicò un edificio su una collina poco lontana: si stagliava imponente contro il cielo, e le guglie del tetto si innalzavano come a voler raggiungere le nuvole. Il ragazzo fece per aggiungere qualcosa, ma tutto quello che uscì dalla sua bocca fu solo un gemito. Lena si voltò preoccupata verso di lui e vide che si stava tenendo la parte di petto colpita dalla sua gomitata di pochi minuti prima. “Ti fa ancora male?” gli chiese.
Annuì a fatica con gli occhi chiusi.
Esitò un attimo prima di continuare imbarazzata: “Mi dispiace, ti ho già detto che non credevo che fossi tu. Farei qualunque cosa per farmi perdonare.”
Disse l’ultima frase quasi con ironia per sdrammatizzare la situazione, ma Alois colse l’occasione al volo. Aprì di scatto gli occhi e si tolse la mano dal petto, come se improvvisamente non sentisse più alcun dolore. Si voltò verso la ragazza e le mise le mani su entrambe le spalle, sfiorando poi con un dito la benda sulla sua guancia. I suoi occhi brillavano di una luce feroce come il suo sorriso. “Sì, c’è qualcosa che puoi fare per farti perdonare,” le sussurrò in un tono che le fece correre dei brividi lungo la schiena.
“Alois…” lo chiamò, sperando che tornasse in sé stesso e la smettesse di guardarla con quei due occhi completamente diversi da poco prima, ma lui si inginocchiò davanti a lei e alzò la mano verso la sua guancia destra. Lei gli bloccò il polso con la mano prima che le loro pelli potessero sfiorarsi, ma sapeva che non avrebbe potuto trattenerlo a lungo. “Ti prego, non lo fare,” gli disse, cercando disperatamente di assumere un tono autoritario senza però riuscirci.
“Non ti farò del male, tranquilla. Devi solo lasciare che ti tolga questa benda e tutto sarà finito,” cercò di tranquillizzarla lui, ma il suo sorriso sadico le impediva di rilassarsi e lasciargli vedere la sua ferita. Era orribile, era il suo ultimo legame fisico con Andrè e nessuno doveva vederla, nemmeno il suo salvatore. Continuò a tenere lontano il braccio di Alois, e dopo pochi secondi lui sembrò rinunciare al suo proposito e allontanò di spontanea volontà il braccio. Lena abbassò la guardia e lasciò andare il suo polso, ma il sorriso sul volto del biondo si allargò ancora di più e, prima che lei potesse difendersi di nuovo, le diede una spinta, facendola cadere schiena a terra sulla scacchiera. Il dolore le tolse l’aria per un attimo e cercò di tornare a sedere, ma il ragazzo le salì sopra a cavalcioni e avvicinò nuovamente le sue mani al volto di lei. “Non volevi che io ti perdonassi per aver sbagliato, Lena? Non avevi detto di essere disposta a fare qualsiasi cosa?” le chiese mentre lei cercava di tenerlo lontano dalla croce bianca sulla sua guancia. “È questo quello che voglio da te. Voglio sapere tutto di te, i tuoi pensieri, i tuoi ricordi, le tue ferite. Non puoi pretendere di nascondermi qualcosa sotto gli occhi e aspettarti che io non me ne accorga!”
Lena non fece molto caso alle sue parole, concentrata com’era a difendersi, ma non le sfuggì la nuova luce che illuminava gli occhi azzurri di Alois. Era la stessa che aveva visto il giorno del suo arrivo, quell’emozione indecifrabile a cui non aveva saputo dare un nome e che le sfuggiva anche adesso. Era l’unica luce che riuscisse a terrorizzarla, perché sentiva che il ragazzo in quei momenti avrebbe potuto farle del male sul serio. Mentre lottava il suo sguardo le cadde sul pedone bianco che si stagliava contro il cielo in controluce, e si chiese se l’intera scena non fosse stata fin dall’inizio una complicata strategia per costringerla a mettere in mostra la sua ferita, se ogni singola parola e azione di entrambi non fosse stata altro che una pedina sulla scacchiera della mente di Alois. Rifletté un momento di troppo e abbassò nuovamente la guardia quel tanto che bastò al ragazzo per immobilizzarle i polsi con una mano. Lena si rese conto troppo tardi di aver sbagliato e ansimò mentre il biondo avvicinava l’altra mano alla sua guancia, pronto a svelare quel segreto una volta per tutte. Si dibatté un paio di volte, ma ben presto sentì le dita del ragazzo afferrare un lembo della benda e il terrore si impossessò di lei.
Alois, no!
Il suo urlo fu inutile, e la stoffa bianca le sfiorò la pelle come una piuma mentre cadeva sulla scacchiera con un lieve fruscio. Adesso si sentiva nuda, indifesa, senza più alcuna protezione e rabbrividì quando Alois percorse con le dita la lunga linea della cicatrice. Non sembrava per niente sorpreso, come se si aspettasse una cosa del genere, e il suo sorriso era ancora sulle sue labbra. “Te l’hanno fatta loro? Ti hanno segnata a vita come fecero con me anni fa?” le chiese in un sussurro senza notare che tremava, spaventata dalla luce di piacere che brillava nei suoi occhi azzurri. Era contento che lei si sentisse così in quel momento? Come faceva ad essere lui lo stesso ragazzo con cui aveva vissuto per tutta la settimana? Come riusciva ad essere gentile il momento prima e sadico quello successivo?
“Non so di chi tu stia…” mormorò, ma lui la interruppe e le accarezzò meno gentilmente la guancia, come se volesse scavare un solco nella sua pelle. Il suo comportamento le ricordò l’incubo che la perseguitava ogni notte, e in quel momento le sembrò che il cielo fosse diventato nero e che l’aria si fosse riscaldata, mentre un incendio distruggeva la scacchiera sulla quale si trovavano.
“Non c’è nessuno a cui chiedere aiuto, puttanella. Nessuno ti può salvare.”
Lasciami andare!
Facendo uno sforzo e con una forza che non pensava di avere, Lena riuscì a liberare le sue mani dalla stretta del biondo e gli diede uno spintone, facendolo cascare sulle caselle bianche e nere. Non aspettò che lui si rialzasse e si alzò in piedi velocemente, iniziando poi a correre per scappare dal giardino. Lasciò il ragazzo da solo con la benda che le aveva tolto, scese dalla scacchiera con un salto e si diresse a tutta velocità verso la villa come se avesse le ali ai piedi. Fu sollevata e allo stesso tempo delusa di non sentire la voce di Alois che la chiamava, ma quel pensiero scomparve non appena aprì il portone e si ritrovò nell’atrio. Nessuno era in vista, ma non le importava, adesso voleva solo nascondersi da qualche parte, innalzare di nuovo le sue barriere, ricostruire le sue difese. Corse al piano di sopra facendo attenzione a non inciampare nei tacchi degli stivaletti e, una volta arrivata nel lungo corridoio, si infilò nel bagno vicino alla sua camera e si chiuse la porta alle spalle. Si appoggiò con la schiena al legno e, una volta ripreso fiato, girò la chiave nella serratura tre volte. Le gambe le cedettero poco dopo, e si ritrovò seduta sugli strati della gonna senza quasi rendersene conto. Ansimò un’ultima volta, poi inclinò la testa all’indietro finchè non sentì il toc sordo del suo cranio contro il legno della porta, e soltanto allora sospirò.
Alois… iniziò, poi scacciò il pensiero dalla sua testa con un gesto rabbioso della mano. Non voleva pensare a lui, non dopo essersi sentita violata in quel modo. Appoggiandosi alla parete si alzò in piedi e si diresse a passi lenti ma decisi verso il lavandino e lo specchio. Quando guardò il suo riflesso le sue labbra si incresparono in una smorfia disgustata: la cicatrice non era per niente migliorata, anzi, sembrava essere peggiorata dall’ultima volta che l’aveva vista. Sfiorò con un dito tremante la crosta e le tornò in mente il ricordo dell’albero che graffiava la sua pelle, con il sangue che si mescolava insieme alla pioggia. Tolse in fretta il dito e aprì il cassetto di un mobiletto lì vicino in cui teneva tutto il necessario per cambiarsi la fasciatura. Le prime volte si faceva aiutare da Hannah, ma adesso preferiva fare tutto da sola: era il suo segreto e lei doveva esserne l’unica custode. Anzi, ormai non sarebbe più stata l’unica.
Cercò di pensare a qualcosa, qualunque cosa non riguardasse Alois, mentre afferrava il rotolo di bende e ne tagliava due pezzi con un paio di forbici, ma era inutile: per quanto sforzi facesse per concentrarsi su altri pensieri o sulla sua ferita, nella sua mente affiorava sempre l’immagine di quegli occhi azzurri come il cielo e della luce inquietante che li illuminava. Non le sfuggì il tremito delle sue mani mentre finiva di sistemare la benda, ma invece di calmarsi la sua rabbia esplose; afferrò le forbici che aveva lasciato sul piano del lavandino, le sollevò nel suo pugno e, con un rumore secco, le scaraventò di nuovo sul piano, senza mai aprire la sua mano. Soltanto dopo si sarebbe ricordata che le lame avrebbero potuto aprirle nuove ferite nella pelle, ma in quel momento l’unica cosa che le interessava era quella palla di fuoco che le bruciava nel petto e le impediva di pensare con chiarezza. Fece un respiro profondo e si impose di calmarsi, e dopo pochi minuti la sua rabbia si era trasformata in un sordo dolore che non le avrebbe dato più fastidio, almeno per quel giorno. Ripose benda e forbici nel loro cassetto e, dopo averlo richiuso, sfiorò con un dito la superficie ruvida della fasciatura sulla sua guancia. Le immagini dello scontro di poco prima risalirono in superficie come bolle d’aria, ma le ricacciò indietro con forza. Sospirò e si passò una mano tra i capelli, ancora sconvolti dopo la lotta e la corsa, e pensò di nascondersi in camera sua finchè non fosse passato tutto, ma in quel momento bussarono alla porta. Lena si bloccò con le dita ancora tra i capelli, sorpresa, e si voltò lentamente verso la porta, aspettando che si aprisse.
“Signorina Lena?” La voce di Claude risuonò nella stanza da dietro la porta chiusa, probabilmente l’uomo non aveva voluto aprirla per dare almeno un minimo di privacy alla ragazza. “Il danna-sama vi sta aspettando al piano di sotto. La carrozza è pronta, tra poco dovremo partire.”
Dì al tuo danna-sama che per me può andare all’Inferno, pensò la ragazza con una punta d’ira, ma si limitò a prendere fiato e a dire: “Arrivo subito.”
Non ci fu nessuna risposta dall’altra parte della porta, e un rumore di passi le fece capire che il maggiordomo se n’era andato. Tirò un sospiro di sollievo, come faceva sempre dopo che Claude si era allontanato da lei, poi diede un’ultima occhiata al suo riflesso prima di uscire dal bagno, controllando che Alois non fosse nei paraggi. Avrebbe dovuto vederlo comunque di nuovo di lì a poco, ma sapere che la stava aspettando al piano di sotto era sempre meglio di vederselo sbucare davanti all’improvviso. Percorse il corridoio e la scalinata in silenzio, e l’unica persona che incontrò prima di uscire dal portone fu uno dei tre gemelli, che l’aspettava nell’atrio con in mano un cappotto rosso leggero, adatto ai primi tepori primaverili non ancora del tutto caldi. Lena lasciò che l’aiutasse ad indossarlo, sperando che facesse il più lentamente possibile, ma pochi secondi dopo era già fuori dalla villa, di nuovo sotto il sole inglese. La carrozza era proprio a pochi metri da lei: lo sportello era spalancato e la ragazza riusciva a vedere le poltrone all’interno, e notò subito che su una delle due panche era seduto Alois, che la stava fissando in modo terribilmente inquietante e con uno dei suoi strani sorrisi sulle labbra. La sua rabbia si dissolse all’improvviso, trasformandosi in una vaga sensazione di sgomento, ed entrò dentro la vettura aiutata da Claude. Inciampò nell’ultimo gradino e pensò che si sarebbe sfracellata sullo stretto pavimento, ma due mani la afferrarono per il petto prima che fosse troppo tardi. Si rialzò in fretta e fece per sedersi sull’altra panca, ma la presa che l’aveva salvata si spostò su uno dei suoi bracci e il biondo la fece sedere accanto a lui con uno strattone. Avrebbe potuto essere un gesto del tutto accidentale, ma Lena leggeva nei suoi occhi che non era stato così. Quando anche il maggiordomo entrò, chiudendo lo sportello, e la carrozza partì, la ragazza ebbe la sensazione di trovarsi in trappola, senza alcuna via di fuga. Alois non sembrò accorgersi del suo disagio e si limitò a togliere le sue mani dai polsi di lei. Lo sguardo gli cadde sulla nuova fasciatura e la sfiorò così leggermente con le dita che Lena parve di essersi immaginata quel contatto fisico. Il ragazzo non disse niente e si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio mentre la ragazza lo fissava, cercando di nascondere il suo stupore: il biondo non aveva accennato in alcun modo alla loro lotta, ma qualcosa nella sua espressione le diceva che lui non le avrebbe chiesto scusa per il suo comportamento, né ora né mai. Era come se ogni cosa gli fosse dovuta, come se potesse fare tutto quello che voleva, come se non provasse rimorso per quello che faceva. La consapevolezza di tutto questo la colpì duramente, come un pugno in mezzo al petto, e Alois dovette accorgersene, perché il suo sorriso si allargò. Tuttavia continuò a non accennare al loro scontro e disse solamente: “Sei contenta di uscire dalla villa, Lena? Forse cambiare aria per un po’ ti farà bene.”
Lui lo sa, pensò la ragazza senza ombra di dubbio. Lui sapeva che non era gioia quella che stava provando in quel momento, ma solamente un’atroce e acuta delusione.














Diciassette anni non si compiono tutti i giorni, però stavolta sono io che faccio un regalo a voi. Vi è piaciuto questo capitolo lunghissimo? :) *tanti auguri a te...*
Inizialmente Lena non avrebbe dovuto reagire in quel modo, poi mi sono detta che dopo una settimana a sopportare Alois potevo anche farla sfogare. Probabilmente io avrei fatto la stessa cosa XD
Alois mi dà l'idea di essere una persona che si perde facilmente. Forse ci riuscirebbe anche in camera mia, che è quasi un buco .-.
LadyGrave: benvenuta da queste parti! Sono felice che la mia storia e il mio stile ti piacciano, in un fandom inserire personaggi originali e farli piacere è sempre difficile. Sugli Shinigami scopriremo qualcosa in più nel prossimo capitolo, basta solo aspettare ;)
MadLucy: [certo che puoi chiamarmi Eva ;)] *scoppia a piangere* *si dà un contegno* Scusa, è che sentirmi dire cose del genere da una delle mie scrittrici preferite mi commuove  :') Allora anche Claude serve a qualcosa! (non è vero, è inutile di natura .____.)

xoxo
Eva

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Capitolo 7
*** Di cattedrali e di motoseghe. ***


VII. Di cattedrali e di motoseghe.


 

 
Sfortunatamente per Lena, il viaggio fu più lungo di quanto avesse immaginato. La collina su cui si trovava la cattedrale sembrava poco distante dalla villa, ma la strada per arrivarci era tortuosa e attraversava l’intero bosco invece di aggirarlo. In un altro momento sarebbe stata contenta di avere così tanto tempo per osservare i giochi di luce tra le foglie degli alberi e lasciare liberi i suoi pensieri come cavalli al galoppo, ma adesso si sentiva soffocare, chiusa in quella stretta cabina insieme ad Alois e al suo maggiordomo. Il secondo non distoglieva mai il suo sguardo da lei, spaventandola con quegli occhi dorati totalmente inespressivi, e l’unico modo che lei aveva per ignorarlo – non che ci riuscisse molto – era guardare fuori dalla carrozza e cercare di concentrarsi sul paesaggio primaverile che sfilava davanti ai suoi occhi. Il torcicollo era ormai diventato insopportabile, ma non distolse mai lo sguardo per paura di incontrare quello sguardo freddo che l’aveva spaventata fin dal suo primo giorno alla villa. Anche così non riusciva a distrarsi, però, perché ogni pochi secondi Alois le afferrava una ciocca di capelli e se l’arrotolava intorno al dito, le toccava la mano, le sfiorava la benda sulla guancia in un modo che le faceva venire voglia di urlare. Eppure tutta la rabbia che aveva provato fino a poco prima era scomparsa, lasciandola in preda alla paura: non osava reagire dopo che aveva visto cos’era capace di fare il biondo per ottenere quello che voleva, e avere Claude a pochi centimetri di distanza non la spronava certo a ribellarsi. Così rimase immobile, sperando che lui si stancasse, anche se dentro di sé sapeva che non sarebbe mai successo.
Finalmente uscirono dal bosco, e il sole inondò la cabina della carrozza. Lena chiuse un attimo gli occhi per la luce improvvisa, poi, quando li riaprì, vide che la strada si era fatta più ripida e che la cattedrale non appariva più così lontana. Tirò un sospiro di sollievo dentro di sé, e sobbalzò quando due mani le si posarono sulle spalle all’improvviso. Non si voltò nemmeno per vedere di chi si trattasse e lasciò fare Alois, che avvicinò la bocca al suo orecchio e le sussurrò, mentre guardava fuori dalla carrozza insieme a lei: “Si dice che abbiano ucciso un prete in quella chiesa e che il suo fantasma vaghi ancora da quelle parti. Eccitante, no?”
Annuì velocemente, senza mai distogliere lo sguardo dalla cattedrale che si avvicinava lentamente. Non ci misero molto ad arrivare in cima alla collina e, quando fu scesa dalla carrozza, la ragazza osservò ad occhi sgranati l’edificio, stupita dalla sua imponenza: le pareti di pietra marrone chiaro si alzavano verso il cielo con leggerezza insieme alle guglie di bronzo verde, come se tutta la chiesa potesse sollevarsi e prendere il volo da un momento all’altro. Il suo sguardo vagò sulle decorazioni e i bassorilievi che abbellivano l’esterno e non si accorse di essere rimasta immobile e a bocca spalancata finchè Alois non le afferrò il polso e iniziò a trascinarla verso il portone principale, aperto e imponente come il resto della cattedrale. Prima di entrare all’interno, però, il ragazzo si voltò e si rivolse a Claude, rimasto accanto alla carrozza: “Aspettaci qua fuori, non ci metteremo molto.”
L’uomo accennò un inchino e Lena sentì che il suo braccio veniva strattonato ancora una volta, stavolta in direzione della bocca nera che portava all’interno dell’edificio. La prima cosa che la colpì una volta entrati fu il freddo, nonostante fosse primavera e lei indossasse il suo cappotto rosso: niente sembrava scaldare quelle pietre gelide, nemmeno il sole che entrava dalle vetrate creando giochi di colore impossibili da descrivere e bellissimi da vedere. La luce, invece, passava dalle finestre con prepotenza e inondava l’enorme sala in cui si trovavano, alternando spazi di penombra a zone completamente illuminate. Era tutto così strano e irreale che le sembrava di essere finita in un altro dei suoi sogni, uno di quelli che non la svegliavano nel bel mezzo della notte sudata e senza fiato. Era talmente incuriosita dal luogo in cui si trovavano che notò solo dopo le lunghe panche che riempivano la sala, i quadri con persone e creature con ali bianche e l’enorme statua appesa al soffitto in fondo alla cattedrale. Lena ne era attratta e infastidita allo stesso tempo, ma non riusciva a smettere di fissarla e osservarla fin nei minimi particolari: l’espressione di sofferenza sul volto dell’uomo appeso alla croce di legno era fin troppo reale, e il sangue che usciva dalle sue mani e dalla sua fronte sembrava scorrere veramente, tanto che si aspettava di sentire il rumore delle gocce che cadevano sul pavimento. Si chiese chi potesse essere così crudele da torturare un uomo in quel modo, ma sapeva che chiedere una cosa del genere ad Alois sarebbe stato inutile. Perciò si limitò a rimanere in silenzio e ad aspettare insieme al ragazzo, che aveva lasciato andare il suo polso e che stranamente non aveva ancora aperto bocca da quando erano entrati. Non dovettero aspettare molto: dopo pochi minuti il biondo le sfiorò la mano con le dita per richiamare la sua attenzione e le mormorò, indicandole qualcosa davanti a loro con il mento: “È lui.”
Si voltò verso il punto che le era stato indicato e vide un uomo uscire da una porta seminascosta vicino al tavolo sotto la croce. Quando si voltò verso di loro, Lena vide che indossava una lunga tonaca nera che quasi lo mimetizzava con le ombre accanto a lui; l’unica cosa che risaltava con prepotenza sulla stoffa scura era la striscia bianca intorno al suo collo. Sollevò le sopracciglia, come se fosse sorpreso di vederli lì, e si diresse verso di loro a passi lenti che risuonavano nel silenzio della cattedrale. Il biondo fece un passo avanti per raggiungerlo, e la ragazza fece lo stesso, ma lui le disse: “Aspettami qui. Non ho la più pallida idea di cosa voglia, ma da come ti guarda si aspettava che venissi da solo.” Colse la sua titubanza, e le sorrise senza alcuna ombra sul suo volto. “Non ci metterò molto, stai tranquilla.”
Lei annuì, lacerata all’interno: voleva stare da sola per poter mettere in ordine i suoi pensieri, ma allo stesso tempo la prospettiva di rimanere in quella sala fredda e vuota senza nessun’altro non era allettante. Tuttavia non fece niente per fermare il ragazzo, e lo osservò andarsene e raggiungere il prete a metà del corridoio tra le due file di panche; si scambiarono i soliti convenevoli, a voce così bassa che lei non riuscì ad afferrare nessuna delle loro parole, poi l’uomo le rivolse un’ultima occhiata e tornò insieme al biondo verso la porta da cui era uscito. La ragazza rimase immobile finchè non sentì il tonfo della porta che si chiudeva, e solo allora osò fare qualche passo per sedersi sulla panca più vicina. Per i primi minuti si limitò a darsi un’occhiata intorno, osservando i quadri alle pareti fin nei minimi dettagli, poi un rumore alle sue spalle la fece voltare. Sulla soglia della chiesa era apparsa una donna vestita completamente di nero e con un velo leggero dello stesso colore sui capelli. Si accorse della ragazza solo per un istante, poi riportò il suo sguardo sul pavimento e si diresse verso una panca della fila opposta. Non si mise a sedere, come Lena immaginava, ma si inginocchiò sull’asse di legno davanti alla panca e, una volta tirata fuori da una tasca del vestito una collana fatta di palline di legno e con un pendaglio a forma di croce, iniziò a mormorare tra sé e sé mentre rigirava la collana tra le sue dita. Lena riuscì a capire solo qualcuna di quelle parole, pronunciate con una voce disperata e rotta dal dolore, e dal modo in cui la donna guardava l’uomo in croce era ovvio che credeva disperatamente che lui potesse risolvere tutti i suoi problemi. Dopo poco si piegò ancora di più sulle sue ginocchia, schiacciata da una speranza così grande. Funzionerebbe anche con me? Recupererei la memoria se glielo chiedessi? si chiese la ragazza, spostando nuovamente il suo sguardo sulla statua. Fissò a lungo quel volto sofferente e sanguinante, poi scosse la testa: come avrebbe potuto aiutarla, se non era nemmeno riuscito a salvare sé stesso? Eppure quella donna ci credeva con così tanta speranza che faceva male vederla pregare in un modo così disperato. Forse lei non ci aveva mai creduto, nemmeno prima di ritrovarsi nel bosco, altrimenti quel volto contratto in un’espressione di puro dolore le sarebbe rimasto impresso per sempre nella mente, ne era sicura. Rimase a lungo in silenzio a fissare la statua, nonostante la vista di quel sangue verosimile la turbasse, e continuò a farsi domande su quell’uomo: chi era davvero? Perché l’avevano condannato a una simile tortura? Non c’era nessuno che poteva salvarlo?
I suoi pensieri vennero interrotti da un rumore brusco e secco. Fece un salto sulla panca, colta alla sprovvista, si voltò nella direzione da cui era provenuto il rumore e non si stupì di vedere Alois venire verso di lei, ma l’espressione sul suo volto non le faceva presagire buone notizie. Il ticchettio dei tacchi dei suoi stivali rompeva il silenzio innaturale della cattedrale come mille aghi, e la donna alzò finalmente lo sguardo dalle sue ginocchia per scoccargli un’occhiata che avrebbe potuto incenerirlo. Il ragazzo però non la notò e tirò a dritto, fermandosi solo quando fu accanto alla panca su cui era seduta Lena. Lei lo guardò preoccupata, cercando di capire quale fosse il modo più adatto per chiedergli cosa fosse successo senza farsi sbranare viva. Doveva essere successo qualcosa, lo capiva dalla luce nei suoi occhi azzurri, simile a un fuoco nel ghiaccio, e dal modo in cui i suoi lineamenti di solito dolci si erano trasformati in una maschera di rabbia. Sta arrivando una tempesta. “Cos’è successo?” gli chiese in un mormorio, temendo la sua reazione.
Il biondo non le rispose subito, impegnato a respirare profondamente per cercare di calmarsi, e quando sembrò essersi ripreso la porta in fondo alla cattedrale si aprì di nuovo e ne uscì l’uomo con la tunica nera. Anche da lontano, si vedeva benissimo la sua espressione sorpresa e agitata. “Conte Trancy!” urlò, rompendo ancora una volta il silenzio e guadagnandosi un’occhiata ancora più piena di odio dalla donna che pregava.
“Andiamo.” Alois afferrò il braccio di Lena e lo strattonò per poi dirigersi a passi veloci verso il portone della chiesa. La ragazza incespicò mentre si alzava in piedi e fece fatica a tenere il passo serrato del biondo, che voleva uscire dall’edificio il prima possibile. Rischiò di inciampare nei suoi stessi piedi per un’ultima volta, poi trovò il coraggio di chiedergli ancora: “Cos’è successo? Cosa ti ha detto?”
La presa sul suo braccio si strinse per un secondo, e lei temette che lui l’avrebbe colpita per farla stare zitta – anche se non aveva mai osato sfiorarla per farle del male, tranne che per toglierle la benda – ma alla fine lo sentì mormorare: “Quel vecchio schifoso, lui e i suoi maledetti dubbi. Se non fosse per lui adesso non mi ritroverei in questa situazione. Che vada all’Inferno, maledizione!”
Lena aprì la bocca per provare un’ultima volta a soddisfare la sua curiosità, ma alla fine rinunciò: era meglio lasciarlo sbollire la rabbia e non seccarlo con altre domande, probabilmente le avrebbe raccontato tutto una volta tornato calmo. Non ne era molto sicura, ma non voleva indagare oltre in quel momento, così rimase in silenzio mentre Alois continuava a mormorare imprecazioni e maledizioni tra sé e sé. Una volta fuori il ragazzo si diede un’occhiata intorno, ma si accorse con stupore che non c’erano più né la carrozza né Claude. Rimase per un attimo confuso e con un’espressione talmente sbigottita in volto che Lena pensò che la sua rabbia se ne fosse andata, scacciata da una nuova emozione, ma poco dopo lui le lasciò andare il braccio bruscamente e urlò: “Dove diavolo è andato? Gli avevo ordinato di aspettarmi qui!
Non vorrei essere Claude in questo momento, pensò la ragazza con un briciolo di cattiveria, e dovette soffocare le sue risate e nascondere il suo sorriso per non provocare ulteriormente Alois. La sua felicità sparì di colpo non appena ebbe l’inquietante sensazione di essere osservata nello stesso modo che l’aveva svegliata nel bosco durante la sua notte di fuga. Il volto del ragazzo biondo con gli occhiali le attraversò la mente, ma la voce che parlò in quel momento non somigliava alla sua: era simile a quella di una donna, nonostante appartenesse palesemente ad un uomo, anche se nel tono c’era quella stessa nota divertita che l’aveva spaventata una settimana prima. “Uhm… Sbaglio o quella è la nostra piccola fuggitiva che cerchiamo da una settimana?”
Sentì i brividi correrle lungo la schiena, e sia lei che Alois si voltarono verso un albero lì vicino. Rimasero entrambi stupiti da chi videro: seduto su uno dei rami più alti c’era un uomo con una folta e lunga chioma di capelli rossi, lo stesso colore della sua giacca e dei suoi stivaletti. Perfino la montatura degli occhiali era del colore delle fiamme, e da dietro le lenti due occhi verdi e gialli la fissavano interessati, mentre la bocca era spalancata in un sorriso che mostrava una serie di denti affilati. Accanto a lui c’era un oggetto che Lena non riusciva a riconoscere: era rosso anch’esso, e aveva una lama dentellata che brillava nella luce del giorno. Non ebbe molto tempo per osservarlo con attenzione, perché l’uomo lo afferrò e lo accese; la lama iniziò a muoversi e ad emettere un rumore assordante e tagliente quanto l’arma stessa. Prima ancora che uno dei due ragazzi potesse gridare o dire qualcosa, il nuovo arrivato si alzò in piedi e saltò verso di loro con la lama puntata nella loro direzione. Alois rimase immobile senza il coraggio di fare un solo passo, e Lena gli saltò addosso per spostarlo dalla traiettoria dell’arma. Entrambi finirono sul terreno polveroso, l’una sopra all’altro, e si alzarono in piedi nel momento in cui l’uomo calava la sua arma nel punto dove si trovavano poco prima, ormai vuoto. Il suo sorriso divenne irritato quando si accorse che le sue prede erano sfuggite, e non appena vide che la lama era rimasta conficcata nel terreno gemette frustrato, provando poi a liberarla in tutti i modi possibili e mormorando tra sé e sé. Sarebbe stata una scena divertente se non fosse stato che quel tizio aveva appena provato ad ammazzarli.
Dove sono finiti tutti? si chiese Lena preoccupata, pensando al prete della cattedrale, alla donna e sì, anche a Claude, che aveva abbandonato il suo danna-sama nel momento meno opportuno. Tuttavia, non appena vide che l’uomo era quasi riuscito a liberare la lama, la sua mente si svuotò, lasciando come unico pensiero e sensazione quell’istinto di sopravvivenza che si era risvegliato con lei. Istintivamente afferrò la mano di Alois e iniziò a correre, dirigendosi verso il bosco che ricopriva i fianchi della collina. “Non ti servirà niente a scappare, ragazzina! Con quel cappotto rosso saprei ritrovarti anche di notte!” le urlò l’uomo prima che lei e il biondo entrassero dentro il fitto del bosco.
“Da che parte andiamo?” le chiese il ragazzo mentre ansimava. Lena sapeva che non gli mancava il fiato per la corsa, ma non poteva fargli da balia e calmarlo dicendogli che presto Claude li avrebbe trovati. Adesso doveva solo pensare a portare in salvo entrambi, avessero dovuto tornare alla villa a corsa. Si diede un’occhiata intorno, disorientata dal paesaggio sempre uguale, poi si diresse verso la parte più scoscesa del bosco, sperando che li portasse a valle più in fretta.
Continuò a correre in quella direzione stando attenta a non scivolare e inciampare, senza mai lasciare andare la mano del ragazzo. Lui la seguiva in silenzio e tremando di paura, mentre lei era diventata impassibile fuori e spaventata dentro di sé, spinta ad andare avanti solo da quell’istinto che l’aveva portata in salvo una settimana prima. Provava addirittura le stesse sensazioni di quella notte e, se non fosse stato per la luce del giorno e i vestiti che indossava, avrebbe potuto addirittura pensare che stava rivivendo tutto, immersa in uno dei suoi incubi. Fu il rumore metallico alle sue spalle a dirle che non stava sognando, ed accelerò il passo per non farsi raggiungere dal loro inseguitore. Alois cercò di allungare il passo, ma il tacco di una sua scarpa e la radice di un albero stroncarono il suo tentativo sul nascere e gli fecero perdere l’equilibrio. Lui non osò lasciare andare la mano di Lena ed entrambi rovinarono malamente sul tappeto di foglie, terra e radici. La ragazza sentì le caviglie mandarle una fitta di dolore ed ebbe la sensazione di aver strappato la stoffa del cappotto, ma non appena si sentì meglio afferrò anche l’altra mano del biondo, più ferito nell’orgoglio che sulla pelle, e cercò di aiutarlo a tornare in piedi.
Tana per i due ragazzini!” Entrambi sbarrarono gli occhi nel sentire quella voce e si guardarono spaventati. Erano ancora seduti per terra quando dal folto degli alberi uscì l’uomo coi capelli rossi. La sua arma continuava ad emettere quel rumore metallico, ma loro non l’avevano notato nel silenzio del bosco, impegnati com’erano a scappare. Sorridendo con quei denti affilati, l’uomo calò nuovamente la lama, stavolta in mezzo ai due fuggitivi. In un breve momento di lucidità Lena capì che non ce l’avrebbe fatta a gettarsi addosso ad Alois come aveva fatto in precedenza, e quando si ritrovò la lama a pochi centimetri dal viso si rannicchiò su sé stessa e rotolò di lato per non essere colpita. Quando fece per fermarsi, però, si accorse troppo tardi di essere finita sul bordo di un’altra discesa; spaventata, cercò di afferrare qualcosa per non cadere, ma prima ancora di trovare un appiglio iniziò a scivolare verso il basso. Continuò a guardarsi intorno, ma non trovò niente da poter afferrare e la sua discesa accelerò.
Lena!” la chiamò Alois preoccupato, ancora sdraiato per terra. Lei avrebbe voluto rispondergli, ma la situazione non giocava a suo favore. Quando dopo qualche secondo riuscì ad alzare lo sguardo notò con sollievo che l’uomo se n’era andato, ma poi vide con orrore che nemmeno il ragazzo era più lì. Provò a chiamarlo, ma la terra le entrava in bocca e le impediva di parlare. Una volta che si fu fermata, qualche metro più in basso, sputò la terra che aveva ancora in bocca ed ebbe una vaga sensazione di dejavù, ma prima che potesse ricordarsi dove aveva già vissuto una scena simile una mano la afferrò per il cappotto e la costrinse a voltarsi sulla schiena. Lena alzò lo sguardo, e le mancò il fiato nel vedere che l’uomo dai capelli rossi la sovrastava in controluce, l’arma ancora in mano sporca di terra e con la lama immobile. I suoi capelli formavano un cerchio rosso attorno alla sua testa, dandogli un’aria sovrannaturale che la spaventava. Indietreggiò col cuore in gola, ma si ricordò che dietro di lei c’era solo una lunga salita; non aveva via di fuga, era da sola con l’uomo che aveva provato ad ucciderla e che probabilmente l’avrebbe ammazzata in quel momento.
Il suo sorriso si fece ancora più largo. “Bene, ecco qui la nostra ragazzina. Non ti facevo così agguerrita e decisa, sai?”
“Dov’è Alois?” gli chiese lei con quel poco di coraggio che le rimaneva.
Il sorriso dell’uomo si trasformò in una smorfia infastidita. “E cosa vuoi che ne sappia io? Non sono mica la sua balia. Devo raccogliere le anime, non crescerle e prendermene cura come un maledetto angelo custode. E invece di pensare a lui dovresti guardare me!” Si passò una mano tra i capelli e sbuffò frustrato. “Guarda in che stato ho i capelli per colpa della tua maledettissima fuga! Mi ci vorranno ore per farli tornare come prima!”
La parte del cervello di Lena ancora lucida si chiese perché diavolo quel tizio stesse sproloquiando sulle anime e sui suoi capelli e le desse la colpa del suo aspetto rovinato, come se fosse stata lei ad inseguirlo per tutta la collina per ucciderlo. Ebbe la sensazione di essere finita in una scena surreale, ma sparì non appena l’uomo le afferrò un braccio e la strattonò per farla alzare da terra. “Ma prima devo riportarti a casa, non trovi?”
No!” Fece il possibile per lottare e rimanere dov’era, ma le sue forze erano ormai allo stremo e l’altro era più forte di lei. Alla fine lui riuscì a sollevare la ragazza tra i suoi tentativi di resistenza e le sue urla, e lei si vide spacciata. Prima che uno dei due potesse fare qualcos’altro, però, Lena si sentì spingere e cadde nuovamente sulla discesa da cui era caduta. L’uomo in rosso fece qualche passo indietro, sorpreso dall’arrivo di una nuova persona, poi sorrise e la lama della sua arma iniziò nuovamente a muoversi e ronzare. La ragazza intuì quello che stava per succedere, adocchiò un cespuglio vicino e, maledicendo sé stessa per la sua codardia, ci si rifugiò dentro, lasciando che Claude se la vedesse da solo con il suo inseguitore. Una volta al sicuro, si portò le gambe al petto e le abbracciò, rannicchiandosi su sé stessa per proteggersi da tutto il resto. Sentiva i rumori della lotta e qualcuno che parlava, ma non capì chi fosse e sinceramente non le interessava: voleva solo che tutto finisse al più presto, voleva tornare alla villa, dimenticare che qualcuno la stava cercando ed era disposto a fare di tutto pur di ritrovarla. Rimase immobile per lunghi ed eterni minuti, ascoltando preoccupata i rumori che provenivano dall’esterno del cespuglio, poi sentì un ultimo urlo e nient’altro, solo il silenzio rotto dal verso di qualche animale. Trattenne il fiato, poi dei passi si diressero verso il suo nascondiglio e si fermarono proprio davanti a lei.
“Signorina Lena?” Trasalì quando sentì la voce di Claude e non quella dell’altro uomo: per quanto avesse chiesto aiuto e sperato che qualcuno la aiutasse, adesso si rendeva conto che avrebbe preferito essere portata via dal pazzo in rosso piuttosto che rimanere da sola con l’inquietante maggiordomo di Alois. Non disse una parola per fargli capire che era ancora lì e che stava bene, e continuò ad abbracciare le sue gambe con fare protettivo.
“Signorina Lena?” ripetè l’uomo. Ancora una volta gli rispose il silenzio, e la ragazza lo sentì sospirare. Poco dopo le foglie del cespuglio si mossero e davanti a lei apparve una mano tesa coperta da un guanto bianco. La fissò per lunghi istanti, poi Claude continuò: “È tutto finito, signorina. Non c’è più nessuno che possa disturbarvi.”
Lena spalancò gli occhi verdi in un’espressione di pura sorpresa. Come diavolo ha fatto a far scappare quel pazzo armato? si chiese stupita, e forse fu quello il primo momento in cui ebbe dei dubbi sulla natura umana del maggiordomo. Afferrò titubante la mano tesa e si lasciò tirare fuori dal cespuglio. Tolse le foglie rimaste impigliate tra i suoi capelli e diede un’occhiata al suo corpo: il cappotto era ormai rovinato, coperto da uno strato marrone-verde di terra e foglie e strappato in più punti. Vestiti a parte non si era fatta niente, e solo le caviglie ogni tanto le mandavano una fitta di dolore sopportabile. Lanciò un’occhiata a Claude e riuscì solamente a dire “Alois…” prima che lui la interrompesse.
“È al sicuro, adesso. Se ci sbrighiamo a tornare alla cattedrale saremo da lui tra poco.” Le indicò un sentiero poco più in là che portava in alto, più o meno nel punto da cui era caduta. Il maggiordomo squadrò la ragazza con un’occhiata di sufficienza e le chiese impassibile: “Volete che vi dia una mano a risalire?”
“No! Ce la faccio benissimo da sola!” rispose lei sull’orlo dell’isterismo: ne aveva già abbastanza di quella giornata, tornare da Alois in braccio a Claude era l’ultima cosa di cui aveva bisogno. Per dimostrare la sua salute di ferro si diresse per prima verso il sentiero, e l’uomo la seguì in silenzio.
















Titolo alternativo del capitolo -> Shinigami out of fucking nowhere II: la vendetta della checca.
Ve l'ho già detto di non prendermi sul serio, no?
La cattedrale che ho descritto nel capitolo esiste veramente. Si trova in Inghilterra (ma va'? ._.) tra Londra e Worthing, paesino di poche anime in cui ho passato una delle settimane più belle della mia vita. Appena l'ho vista le ho fatto una foto e ho deciso di inserirla in questa storia. Cercherò di pubblicare la foto al prossimo aggiornamento ;)
Avrei voluto rendere Grell totalmente serio, ma il suo lato femminile è sbucato fuori mentre scrivevo, non sono riuscita a rispedirlo da dov'era venuto. E Claude che è riuscito a rendersi utile? Sono stupita e schifata da me stessa, lo ammetto .-.
Il prossimo capitolo sarà molto difficile da scrivere. Vi basta sapere che buona parte della fanfiction, soprattutto il rapporto tra Lena e Alois, si basa su QUEL capitolo e su UNA scena sola. Se sbaglio quella posso anche appendere penna e carta al muro. *incrocia le dita*
MadLucy: mi è piaciuta molto la tua analisi di Lena, direi che l'hai centrata quasi completamente :) Come ho già detto all'inizio, ho voluto creare un personaggio diverso dagli altri due (sempre femminili) delle mie storie precedenti. Volevo una ragazza timida, sperduta, quasi sottomessa, completamente diversa rispetto alle sue 'sorelle', che avrebbero già mandato affanculo Alois dal quarto capitolo. Il tuo paragone sulla farfalla (hai visto come alla fine ritorni sempre?) mi ricorda un pò "L'intento del ragno"; chissà, potrei sviluppare qualcosa da questa idea... *pensa* "Sbaglio, nel chiederti se forse Alois non si riveda -o voglia rivedersi- nella ragazza, se in qualche modo veda un legame fra le loro storie e sorti? " Nì. E' complicato da spiegare, come solo la mente del biondo può essere, e spiegherò tutto debitamente verso la fine. Abbi pazienza e capirai tutto. [Il titolo del capitolo piace un sacco anche a me :3]

xoxo
Eva

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Capitolo 8
*** Perchè tu, Lena? Perchè non io? ***


VIII. Perché tu, Lena? Perché non io?


 

 
La superficie dell’acqua era immobile e liscia come uno specchio, e rifletteva il soffitto e la luce delle candele con precisione sovrannaturale. Di tanto in tanto un’onda la increspava in seguito a un brusco movimento del corpo immerso, ma subito si immergeva nuovamente sott’acqua come se non volesse disturbare il silenzio e la tranquillità che la circondavano. Ci fu un sospiro che riecheggiò nella stanza vuota, poi la superficie si increspò e due mani uscirono dalla vasca, sollevando con loro acqua, schiuma e bolle di sapone che si dispersero subito nell’aria. Una delle mani si alzò di scatto e fece per afferrarne una, ma quella le sfuggì tra le dita, andando a scoppiare qualche centimetro più in là con un pop! soddisfatto. Provò a prenderne un’altra, ma si mosse troppo velocemente e bucò la superficie liquida della bolla, che quasi le scoppiò in viso.
Lena sospirò e rinunciò alla sua caccia, lasciando che le altre fuggitive si allontanassero dalla vasca per scoppiare nel luogo che più piaceva loro. Alcune sfiorarono una candela accesa, altre si avvicinarono troppo alle pareti della stanza e altre ancora decisero di scoppiare non lontano dall’acqua, come pesci che non riuscivano a vivere fuori dal proprio elemento. Quando anche l’ultima si fu dissolta in minuscole gocce invisibili, la ragazza appoggiò la testa sul bordo della vasca per guardare il soffitto e perdersi tra i giochi di luce e ombra. I lunghi capelli erano simili ad acqua nera e risaltavano con forza sul metallo grigiastro, e le sue braccia penzolavano oltre il bordo oscillando lentamente come pendoli. La benda a forma di croce sulla sua guancia non c’era più: se l’era tolta per paura di bagnarla, e aveva tutto il necessario per farne un’altra su un mobiletto lì accanto. Sperava che Alois non la raggiungesse in quel momento – sarebbe stato imbarazzante farsi trovare nuda e senza benda – ma era convinta che avrebbe sentito i suoi tacchi prima di lui, e questo le avrebbe dato un minimo di vantaggio per non farsi cogliere impreparata. Fuori dalla stanza da bagno – era lei a chiamarla in quel modo, nonostante l’unica cosa che avesse in comune con un bagno vero fosse solo la vasca – non si sentiva alcun rumore o voce, come se tutti fossero stati inghiottiti dal buio della sera. Lena guardò per un istante con la coda dell’occhio fuori dalla finestra, cogliendo un frammento del giardino notturno, e non le fu difficile immaginare l’oscurità impegnata a circondare chiunque incontrasse per poi trascinarlo via e farlo sparire nel nulla. Riportò il suo sguardo sul soffitto e si perse nei ricordi di quella mattina.
Il ritorno verso la cattedrale era stato molto più difficile di quanto si fosse immaginata. Se all’inizio aveva pensato di potercela fare da sola, la strada in salita, la stanchezza e le fitte di dolore che provenivano dalle caviglie le avevano fatto cambiare idea. Tuttavia non aveva aperto bocca nemmeno per emettere il più flebile dei gemiti, figurarsi per chiedere aiuto a Claude; aveva continuato ad andare avanti sopportando stoicamente il dolore, sempre con la presenza silenziosa dell’uomo alle sue spalle, e dopo pochi minuti erano tornati sulla sommità della collina. Lena si era data un’occhiata intorno, preoccupata che il pazzo in rosso potesse sbucare da qualche parte, ma alla fine si era convinta di essere davvero al sicuro, nonostante non si fidasse ciecamente di Claude come faceva Alois. E a proposito del ragazzo eccolo là, seduto dentro la carrozza magicamente riapparsa davanti alla cattedrale e con un’espressione scura in volto che lei aveva attribuito alla brutta notizia che gli aveva dato il prete, qualunque cosa fosse. La ragazza si era seduta titubante accanto a lui, temendo che desse in escandescenze da un momento all’altro, ma quando la vettura era partita si era accorta che lui aveva già sfogato la sua rabbia, e più precisamente sulla guancia del suo amato maggiordomo. Vedendo il segno rosso che attraversava il suo volto impassibile, le era stato difficile trattenere un sorriso e si era morsa il pugno per non ridere, sentendosi una merda subito dopo. All’uomo però non era sfuggito niente e, mentre Alois non guardava, le aveva scoccato con quei suoi occhi dorati un’occhiata fulminante che l’aveva costretta a concentrare la sua attenzione sul paesaggio fuori dalla carrozza.
Col senno di poi Lena sarebbe stata sicura di aver firmato in quel momento il patto d’odio tra lei e Claude Faustus; un’ipotesi a cui pensò persino adesso, immersa nell’acqua e nella schiuma. Per fortuna non sono da sola con lui qui, altrimenti mi sarei lasciata prendere dall’uomo in rosso, pensò. Provava un misto di odio e paura nei suoi confronti, con i suoi occhi dorati, i suoi lunghi silenzi, il suo volto impassibile e freddo e lo sguardo di sufficienza con cui guardava tutti, perfino Alois stesso. E, per quanto una parte di sé stessa cercasse disperatamente di convincerla del contrario, era certa che gli sguardi che le rivolgeva fossero pieni d’odio e rabbia repressa, come se non riuscisse a sopportare la sua presenza alla villa e il modo in cui era entrata all’improvviso nella vita di tutti loro. Il motivo di tutto questo ancora le sfuggiva, e non sapeva nemmeno se sarebbe stata in grado di scoprirlo o meno. Per ora le bastava tenersi il più lontana possibile dall’inquietante maggiordomo: l’istinto le diceva di non fidarsi di lui, altrimenti le conseguenze sarebbero state inimmaginabili.
Che stupidata! esclamò la Lena razionale, ma quella sopravvissuta grazie ad esso sapeva che non erano solamente fantasie e che avrebbe dovuto tenere gli occhi aperti. Alzò un braccio e lo sollevò, poi iniziò a tracciare con un dito cerchi e altre figure serpeggianti sulla superficie dell’acqua, rilassandosi mentre ascoltava il suo sciabordio. Si tirò su a sedere, facendo uscire all’aria i seni ancora piccoli, prese un respiro profondo e immerse la testa sott’acqua, bagnando il viso e i capelli. Non osò spalancare gli occhi mentre era immersa, ma li aprì quel tanto che bastava per far passare una lama di luce al loro interno. Riemerse quando i suoi polmoni stavano per scoppiare e si sdraiò nuovamente contro la parete della vasca, riportando il suo sguardo sul soffitto. Devo tenere gli occhi aperti, ripetè a sé stessa, ma le fu difficile continuare a farlo e presto li chiuse, addormentandosi dentro l’acqua calda e iniziando a sognare.
 

***

 
C’era qualcosa che scendeva dal cielo. Era bianco e simile alla pioggia, ma le gocce erano più grosse e cadevano più lentamente, come se non avessero fretta. Lena tese davanti a sé una mano coperta da un guanto marrone di lana pesante pieno di buchi e vide quella cosa bianca sciogliersi in pochi secondi, bagnando il guanto e formando una chiazza scura al centro del suo palmo. Tirò fuori la lingua e lasciò che le gocce vi cadessero sopra; rimase stupefatta quando si accorse che era fredda e che non sapeva di niente, esattamente come l’acqua.
“Sorellona!” La voce la chiamò da poco lontano, e lei si voltò verso quella direzione: poco più in là c’era dei bambini che giocavano e correvano tra due file di case grigie e dai cui camini uscivano sottili volute di fumo nero. Sia le case che la strada erano ricoperti da quel bianco che scendeva dal cielo – neve, ecco, ora ricordava il suo nome. Uno dei bambini era immobile vicino a un cancello chiuso con un cerchio e una bacchetta di legno in mano, e stava guardando verso di lei. Il suo volto era immerso nella nebbia e le impediva di vedere quale fosse il suo aspetto, ma non le sfuggì il suo sorriso speranzoso. “Sorellona? Posso rimanere fuori a giocare ancora un po’?”
Una bambina inciampò nella neve e cadde per terra con un tonfo attutito. Il ragazzino che la rincorreva le afferrò una ciocca di capelli, facendola strillare con una voce acuta. Anche loro due non avevano volto.
“No. Sta per fare buio, dobbiamo tornare a casa prima del tramonto,” gli rispose brusca, senza nemmeno sapere perché dovessero farlo. Il bambino si imbronciò e le rivolse uno sguardo pieno d’odio da sotto una ciocca di capelli neri. Lei sbuffò, tolse della neve dalla cassa su cui era seduta e si appoggiò con la schiena al muro della casa alle sue spalle.
La scena cambiò all’improvviso: l’istante prima era seduta sulla cassa, cercando inutilmente di scaldarsi le mani, quello successivo era in mezzo al gruppo di bambini e bambine, volti immersi nella nebbia che la fissavano ad occhi sgranati mentre lei afferrava bruscamente per un braccio il bambino che l’aveva chiamata. La sua bacchetta cadde nella neve, e lei l’afferrò e la fece sparire nella tasca del suo cappotto sgualcito mentre il ragazzino urlava: “LASCIAMI ANDARE, LASCIAMI ANDARE! MI STAI FACENDO MALE!”
Lei replicò con parole che non riuscì a sentire e che non sembravano essere uscite dalla sua bocca. Era come se stesse vedendo la scena sia dal suo punto di vista che dall’esterno, incapace di controllare la situazione. Il bambino si dimenò per un’ultima volta, poi riuscì a sfuggire alla sua presa e corse via, fermandosi nel centro della strada innevata. Lena imprecò e fece un passo avanti, urlando minacce e promesse di punizioni che avrebbe ricevuto una volta rimasto da solo con lei, ma le parole le morirono in gola quando un’enorme sagoma scura svoltò l’angolo e si diresse a tutta velocità verso il ragazzino. Lui se ne accorse troppo tardi e non riuscì a spostarsi, scioccato. La ragazza urlò qualcos’altro, stavolta in tono preoccupato, e corse verso di lui. Ci furono altre urla, un nitrito e un tonfo attutito, poi nient’altro che il buio.
 

***

 
Con il corpo immerso nella vasca da bagno e l’anima lontana mille miglia da lì, Lena si mosse bruscamente, causando un maremoto e bagnando parte del pavimento della stanza. I lineamenti del suo volto si deformarono in un’espressione di sofferenza, e le dita tremanti della mano destra afferrarono con forza il bordo della vasca. Mormorò qualcosa di incomprensibile tra sé e sé, forse un nome, forse una preghiera, ma il suo nuovo incubo era appena a metà e c’era ancora tempo per vedere le altre meraviglie che lo spettacolo offriva.
 

***

 
L’oscurità si rischiarò all’improvviso, in quel modo rapido e improvviso che può avvenire solo nei sogni. Stavolta non erano solo i volti delle persone accanto a lei ad essere coperti dalla nebbia, ma anche il paesaggio e il cielo. Non erano più nella strada ricoperta dalla neve, di questo ne era sicura, e non c’era più traccia dei bambini e dei loro strilli felici. Oltre a lei, c’erano solamente altre due persone che le erano del tutto sconosciute: una in piedi accanto a lei e una distesa per terra con una pozza rossa sotto il suo corpo. Provò un colpo al cuore nel vedere il cadavere e il sangue che lo ricopriva, e fece un passo indietro ansimando. “No,” mormorò mentre tremava. “No, questo no.”
L’altra persona – quella che era sicuramente viva – le disse qualcosa, ma lei non capì né le parole né il tono della voce. Lo shock l’aveva resa sorda, incapace di parlare e di reagire. Riuscì solo a fare un altro passo indietro, poi un altro ancora, finchè non sentì la terra mancarla letteralmente sotto i piedi. I suoi occhi si riempirono di stupore e la persona vicina a lei cercò di raggiungerla prima che accadesse l’irreparabile, ma arrivò troppo tardi: prima che potesse afferrarle la mano Lena era già caduta, volteggiando nell’aria come una farfalla sballottata dal vento. Una voce urlò qualcosa, ma lei non poteva sentirla, era già sprofondata nella nebbia che si stava trasformando lentamente in una nuova oscurità. La ragazza urlava, incapace di trovare un appiglio che la potesse salvare, e smise solo quando finalmente atterrò su qualcosa di sottile e morbido. Provò a mettersi a sedere, ma si accorse che non riusciva a muoversi, intrappolata negli stessi fili che l’avevano salvata. Si diede un’occhiata intorno per cercare aiuto, ma notò con orrore che si trovava invischiata in un’enorme ragnatela che si stendeva a perdita d’occhio. Pensò di essere sola, poi vide che c’era qualcuno immobile all’altro capo di quella trappola. Quando lo riconobbe lo chiamò, e quando vide che non le rispondeva lo chiamò ancora, e continuò a chiamarlo a lungo nonostante lui le apparisse sempre più lontano e irraggiungibile. Lo chiamò finchè non sentì un leggero ticchettio e il padrone della ragnatela iniziò a farsi strada nell’oscurità. Mentre le si avvicinava, Lena seppe con inquietante chiarezza che era spacciata, che nessuno sarebbe corso in suo aiuto, nemmeno, oh, nemmeno il suo tanto amato e tanto temuto Alois, prigioniero volontario in quella trappola mortale. Sentì una zampa sfiorarle la guancia ferita, ma in quel momento la ragnatela si spalancò sotto di lei, salvandola dalle grinfie del ragno ma facendola cadere di nuovo nell’oscurità, e stavolta sapeva che non ci sarebbero stati altri salvataggi improvvisi.
 

***

 
La sua caduta si interruppe bruscamente quando i suoi occhi si spalancarono, facendola tornare alla realtà. Mentre ansimava per tornare a respirare normalmente, si tirò su a sedere nella vasca con un movimento brusco che sparse altra acqua sul pavimento con uno scroscio simile a quello della pioggia. Lena quasi non se ne accorse, impegnata ad espirare ed inspirare profondamente con lo sguardo fisso dentro la vasca. Gocce di acqua e sudore le correvano lungo il volto e la schiena e le impregnavano i capelli, e le sue dita stringevano il bordo della vasca con così tanta forza che erano impallidite. Quando si fu calmata si mise le mani tra i capelli e continuò a tenere lo sguardo basso, cercando di rimettere in riga i suoi pensieri, che svolazzavano come farfalle impazzite dentro il suo cervello. Non si accorse del rumore di passi nel corridoio, e quando li sentì fermarsi davanti alla porta era già troppo tardi: fece appena in tempo ad immergersi nuovamente nella vasca fin sopra ai seni prima che Alois entrasse nella stanza e si richiudesse la porta alle spalle senza dire una parola. Lena lo osservò dirigersi verso di lei, ma quando calpestò una delle tante pozzanghere si fermò e guardò il lago che era spuntato fuori dal nulla sul pavimento. Rimase immobile per qualche secondo, poi guardò di nuovo la ragazza e le chiese, sorridendo: “C’è stato un maremoto da queste parti?”
Lei sorrise, sentendo la tensione presente nell’aria fino a quel momento svanire di colpo. “Solo qualche onda, capitano, ma adesso è tornato tutto come prima.”
Il biondo rise e si avvicinò alla vasca, ignorando le pozzanghere che gli stavano bagnando le suole degli stivali. Si rimboccò le maniche della camicia e si abbassò sulle gambe finchè i suoi occhi non furono sullo stesso piano di quelli di Lena. Rimasero immobili a fissarsi a lungo, azzurro dentro verde, cielo dentro terra, poi il ragazzo immerse una mano nell’acqua e schizzò l’altra sul volto. La sorpresa la assalì per un attimo mentre Alois rideva, poi passò al contrattacco e colpì in pieno i suoi capelli biondi. Seguirono lunghi minuti di lotta furiosa che contribuirono a bagnare ulteriormente il pavimento e a far dimenticare alla ragazza i suoi incubi, sostituiti da una sensazione di pura felicità che non aveva mai provato. Era bello potersi divertire e ridere senza doversi preoccupare di niente e poter riempire di schiuma i capelli del biondo senza che lui desse in escandescenze. Tutta la sua rabbia della mattina era scomparsa, e quando la lotta si concluse con un giusto pareggio Lena tornò alla carica con la stessa domanda che gli aveva fatto dentro la cattedrale. “Cosa ti ha detto stamattina l’uomo della cattedrale? Quando sei uscito da quella porta sembravi…” Esitò. Adirato? Arrabbiato? Incazzato? “… turbato.”
Alois afferrò uno degli asciugamani della pila dietro di lui e si asciugò velocemente i capelli, spettinandoli come se lo avesse investito un uragano. Cercò di domarli con una mano, riuscendoci solo in parte, poi scrollò le spalle e disse: “Oh, quello. Niente d’importante, è solo che qualcuno non riesce a stare zitto come invece dovrebbe fare.” La sua stretta sull’asciugamano aumentò e la ragazza temette per un attimo il peggio, ma quando sul viso del biondo apparve un sorriso d’incoraggiamento si tranquillizzò. “Devo sistemare questa faccenda al più presto, ma non ci vorrà molto. Quel prete e quest’altra persona verranno a trovarmi il prima possibile per risolvere tutto e poi basta, la cosa sarà finita lì. Andrà tutto bene, ne sono certo,” continuò, ma l’ultima frase sembrava essere stata detta per incoraggiare sé stesso più che la sua ospite. Lena annuì e abbassò lo sguardo sulla schiuma dentro la vasca, ma si irrigidì quando Alois percorse con un dito la lunga cicatrice sulla sua guancia. Si ricordò solo in quel momento di non avere la benda, ma ormai era troppo tardi, in tutti i sensi: non aveva senso coprire la ferita adesso, e inoltre il ragazzo aveva già svelato cosa c’era dietro la benda bianca, perché avrebbe dovuto nascondergliela di nuovo?
“Adesso tocca a me farti una domanda, Lena,” le disse il biondo con un sorriso e una luce nei suoi occhi azzurri che non presagivano nulla di buono. Il suo dito continuava a percorrere la lunga cicatrice su e giù, su e giù, facendo rabbrividire la ragazza di paura. Tuttavia lei annuì, perché sapeva che resistergli non sarebbe stata la mossa migliore da fare. Doveva lasciarlo fare, e alle conseguenze ci avrebbe pensato dopo. Se mi chiederà come mi sono fatta questa cicatrice gli dirò tutto, giurò a sé stessa. Gli racconterò tutto dall’inizio, da quando Andrè mi ha trovata fino a quando sono scappata via da Lady Nancy. Non gli nasconderò più nulla, nemmeno il più piccolo particolare. Si accorse solo in quel momento che iniziava ad avere fiducia in Alois, anche se lui a volte continuava a spaventarla con i suoi sbalzi d’umore e i suoi attacchi d’ira. Sentiva di potergli confessare tutto e di poter essere capita, anche se probabilmente lui, nato e cresciuto nel lusso e nella tranquillità della villa, non aveva mai vissuto niente del genere.
Quello che successe dopo, tuttavia, non sarebbe mai riuscita ad immaginarselo.
Il ragazzo si alzò in piedi e Lena pensò che se ne stesse andando, come se avesse cambiato idea sulla sua domanda, poi lo vide fermarsi proprio dietro di lei. La sua ombra era proiettata dalla luce delle candele sulla schiuma della vasca, che diventò nera come il cielo fuori dalla finestra. La ragazza rimase immobile, in attesa, e poco dopo sentì due braccia abbracciarle la parte di petto che non era sott’acqua. Aggrottò le sopracciglia senza capire bene cosa stesse succedendo, ma l’improvviso dolore poco sotto le sue spalle le diede un’idea. “Alois, cosa…”
“Perché, Lena?” Le dita del ragazzo affondarono ulteriormente dentro le sue braccia, lasciando dei segni che presto sarebbero diventati lividi. La sua voce tremava, sul punto di rompersi, mentre le sussurrava quelle parole all’orecchio, ma il biondo si stava sforzando di trattenersi; a Lena, però, non sfuggì il tremito delle sue braccia. “Dammi una risposta una volta per tutte. Perché tu e non io, Lena? Perché?
Aprì bocca per rispondergli che non lo sapeva, che non sapeva niente di quello che le stava chiedendo, ma tutto quello che riuscì ad emettere fu un gemito sommesso. Nel sentire quel suono disperato Alois sciolse il suo doloroso abbraccio e fece un passo indietro, ma Lena non riuscì a vedere l’espressione sul suo volto, ancora scossa dal dolore che le attraversava le braccia. Com’era immaginabile lui non le chiese scusa, non le chiese se le avesse fatto male, ma uscì dalla stanza il più velocemente possibile, sbattendosi la porta alle spalle. La ragazza rimase immobile con le mani a coprirle i futuri lividi, ma quando il corridoio fuori dalla stanza tornò silenzioso come prima le lacrime sgorgarono con forza dai suoi occhi per poi cadere nell’acqua della vasca. Rimase a lungo così, immobile, dandosi della stupida per essersi fidata di Alois e giurando che no, non ci sarebbe ricaduta ancora, che quella sarebbe stata l’ultima volta e che non si sarebbe più fatta trattare come un giocattolo. Ma dentro di sé sapeva che non ce l’avrebbe mai fatta, che non avrebbe mai reagito, perchè lei e il ragazzo che l’aveva salvata erano legati a doppio filo indissolubilmente.













E' venuta più piccola di quanto mi aspettassi D: Comunque, questa è la cattedrale del capitolo scorso. Favolosa, non è vero? Tornerei in Inghilterra solo per vederla di nuovo.
Altri nuovi incubi per Lena, in tutti i sensi. Come se non bastassero gli incubi veri, perfino Alois impazzisce. Perchè mi diverto a maltrattare i miei personaggi? Non posso essere umana, c'è qualcosa che non va in me, diavolo!
Avevo grandi aspettative per questo capitolo, ma non so cosa pensarne. A voi è piaciuto? Le vostre opinioni sono importantissime per me, potete anche dirmi 'è una cagata', mica mi offendo! (Purchè me lo diciate senza linciarmi ò_ò)
MadLucy: è vero, avevi ragione, col passare dei capitoli mi immedesimo in Alois con molta più facilità. (Con Claude un pò meno. Quel demone rimarrà sempre un mistero per me...)

xoxo
Eva

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Capitolo 9
*** Io, tu, il letto, le parole, l'ombra. ***


IX. Io, tu, il letto, le parole, l’ombra.
 

 
Passò circa mezz’ora prima che altri passi risuonassero nel lungo corridoio del primo piano, diretti anch’essi verso la stanza da bagno. Al contrario di quelli di Alois, quelli di Hannah erano silenziosi, i passi di una persona abituata a far notare il meno possibile la propria presenza. Era sola nel corridoio, e le candele accese nei candelabri proiettavano la sua ombra sul pavimento e sulle pareti. Una volta arrivata davanti alla porta della stanza si fermò, e si stupì di non sentire nessun rumore dietro di essa, nemmeno lo sciacquio dell’acqua nella vasca. Si chiese se la signorina Lena non se ne fosse andata per scappare da quel luogo una volta per tutte, e sperò che fosse quella la causa di quel silenzio. Fin dal loro primo incontro non le era sfuggita l’espressione perenne di smarrimento, allarme e tristezza negli occhi verdi di quella ragazzina apparsa dal nulla, e aveva sempre saputo che per lei sarebbe stato difficile vivere dentro la villa. Era capitata nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma ormai era troppo tardi per poter fare qualcosa: il piano del danna-sama era già stato messo in moto e ciò che lui avrebbe continuato a desiderare fino alla morte si trovava proprio lì, qualche metro sottoterra, nascosto dagli occhi di tutti in una scatola. Era stato innescato qualcosa di inarrestabile e la ragazza con la cicatrice si era ritrovata al suo interno senza volerlo, diventando una pedina inconsapevole su una scacchiera mortale.
E poi c’era Claude. Hannah aveva un’opinione abbastanza alta di Lena per immaginare che lei non si fosse lasciata sfuggire gli sguardi pieni d’odio che il maggiordomo le rivolgeva ogni volta che si incontravano. Era stato lui ad accorgersi per primo della vera natura della ragazza, una natura di cui adesso tutti erano a conoscenza tranne la diretta interessata e Alois, e pensava che la sua presenza alla villa avrebbe attirato guai e Shinigami che avrebbero compromesso, se non addirittura rovinato, la ragnatela che stava tessendo da mesi. Avrebbe voluto scacciarla il più lontano possibile, forse persino in un altro continente, o addirittura ucciderla, ma aveva dovuto rinunciare ai suoi propositi non appena aveva visto quanto il danna-sama si fosse attaccato a quella maledetta ragazzina. Adesso era costretto a rimanere in disparte senza poter fare nulla se non ribollire di rabbia e odio. Non che avesse parlato direttamente con Hannah di tutto questo, affatto; ma l’espressione nei suoi occhi dorati quando passava accanto a Lena era inequivocabile, e la cameriera non ci aveva messo molto a fare due più due. Nonostante tutta quella faccenda non la riguardasse, però, non poteva fare a meno di provare un sentimento umano simile alla pietà – o forse alla compassione – nei confronti di quella ragazzina sfortunata e inconsapevole della spada che pendeva sopra la sua testa. Com’era che la chiamavano gli esseri umani? ‘Solidarietà femminile’?
Si riscosse dai suoi pensieri e bussò alla porta senza esitazioni. Dalla stanza non giunse nessun rumore, ma il demone percepì lo stupore della ragazza al suo interno. La chiamò un paio di volte prima di abbassare la maniglia ed entrare dentro la stanza. Si chiuse la porta alle spalle con delicatezza mentre si guardava intorno: come si aspettava, il pavimento era ricoperto da pozzanghere più o meno grandi e la ragazzina era ancora immersa dentro la vasca, ma il lieve tremito della sua schiena non sembrava affatto causato dal freddo. Hannah afferrò un asciugamano da una pila lì vicino e si avvicinò con passi leggeri alla vasca, soffermandosi per un attimo con lo sguardo sulla lunga cicatrice sulla guancia della ragazza prima di dirle: “Signorina Lena, è ora di andare a letto. Siete rimasta dentro la vasca per un’ora e mezza, adesso dovete uscire.”
Gli occhi verdi e arrossati di Lena erano ancora fissi nel vuoto, e le sue mani continuavano a coprirle parte delle braccia. Si risvegliò pochi secondi dopo, come se la voce della donna le fosse arrivata alle orecchie in ritardo, e la osservò stendere un tappetino per terra che subito si bagnò. La cameriera sembrò non curarsene e spalancò l’asciugamano che teneva in mano, aspettando poi che la ragazza uscisse. Lei provò ad alzarsi in piedi senza mai staccare le mani dalle sue braccia, ma alla fine dovette rinunciare e si appoggiò ai bordi della vasca, lasciando che Hannah vedesse i segni scuri che le segnavano la pelle in più punti. Non le spiegò come se li fosse fatti e tenne la testa bassa come se si vergognasse, senza alzarla nemmeno quando i lividi furono coperti dall’asciugamano. La donna riusciva ad immaginare chi le avesse fatto del male, ma non disse niente e condusse la ragazza ancora avvolta nell’asciugamano fuori dalla stanza, verso la sua camera. L’unico rumore udibile era quello della collana di Lena che, dondolando, le colpiva il petto: non se l’era tolta nemmeno per fare il bagno, non aveva alcuna fretta di riprovare quella sensazione di soffocamento che aveva provato il giorno del suo arrivo. I suoi piedi lasciavano orme d’acqua sul pavimento che si asciugavano quasi subito, come cancellate da un servo invisibile che la seguiva in silenzio.
Una volta arrivate dentro la camera entrambe continuarono a rimanere in silenzio, e Hannah non disse niente nemmeno quando si accorse che la ragazza sussultava ogni volta che qualcosa sfiorava i lividi sulle sue braccia: vedeva la vergogna nei suoi occhi e capiva che stava rimproverando sé stessa per essersi fidata troppo dell’unica persona che aveva iniziato a considerare vicina a lei. Tuttavia sapeva anche che non avrebbe mai confessato a nessuno il suo errore, e non era una buona idea riportare in superficie quello che stava cercando in tutti i modi di nascondere e ignorare. Così rimase in silenzio mentre la aiutava a rivestirsi e a infilarsi la camicia da notte, stando sempre attenta a non sfiorare quella collana che non si toglieva mai, e l’unica cosa che le disse dopo che la ragazza si fu infilata nel letto e lei le ebbe rimboccato le coperte fu un sommesso “Buonanotte, signorina.” Detto questo, lanciò un’ultima occhiata impietosita a quella figura nascosta sotto le coperte prima di andarsene dalla stanza, lasciandola da sola con i suoi pensieri.
Lena non era stanca, e anche se lo fosse stata non sarebbe riuscita a dormire facilmente: i suoi pensieri svolazzavano nella sua mente senza mai fermarsi, e lei li osservava uno dietro l’altro vedendo cose che avrebbe voluto dimenticare. La domanda di Alois risuonava nella sua testa come un’eco, chiedendole una risposta a qualcosa di cui non capiva nemmeno il significato, e il modo in cui le aveva fatto volontariamente del male la spaventava: adesso aveva la certezza che lui potesse farle qualunque cosa, e questo certo non la tranquillizzava. Al contrario, la inquietava come la sua domanda. Cos’aveva lei che il ragazzo desiderava così tanto? La sua collana? No, non poteva essere quella, altrimenti gliel’avrebbe rubata il giorno del suo arrivo. Aveva tutto quello che desiderava, cosa poteva volere da lei, che non aveva niente, nemmeno il più piccolo ricordo?
E, passando ad un altro argomento, cosa volevano dire quelle cose che aveva sognato? Era abbastanza sicura che fossero entrambi suoi ricordi, ma era difficile dirlo con i volti delle persone coperti da quella specie di nebbia. Le tornò in mente la voce del bambino che l’aveva chiamata ‘sorellona’ e sorrise con affetto, ma quasi subito il sorriso le si gelò sulle labbra: la fine di quella scena la spaventava e le dava la certezza che il ragazzino fosse morto, travolto dalla massa scura che aveva percorso la strada e lasciandola da sola al mondo. La seconda parte dell’incubo, poi, le faceva venire la pelle d’oca: era dal suo arrivo che continuava a sognare ragni, ma cosa diavolo significava? Li aveva sempre interpretati come un pericolo imminente, e il sogno di poco prima ne era una conferma, ma non una certezza. E poi, chi poteva farle del male? Andrè? Claude? Il pazzo in rosso? Il ragazzo del bosco? Qualcun altro che ancora non aveva incontrato? E perché il pazzo e il ragazzo del bosco sembravano conoscere la sua vera identità? Che ruolo avevano in quell’enigma, quanto volevano aiutarla e quanto ucciderla?
Troppe domande per una persona sola, pensò massaggiandosi le tempie. Si voltò sull’altro fianco sotto le coperte, nascondendo dentro il cuscino la guancia ferita, poi ebbe appena il tempo di sbadigliare prima che il sonno la portasse via da lì, in un luogo in cui per una notte non ci sarebbero stati sogni, ma solo pensieri che si rincorrevano incessantemente nella sua testa.
 

 

***

 
La mattina successiva un raggio di sole fece capolino dalla fessura tra le tende, colpendo in pieno il volto di Lena. Lei aggrottò la fronte e gemette, infastidita da un risveglio così brusco, poi si costrinse ad aprire lentamente gli occhi per affrontare un’altra giornata. Sbadigliò e con un gesto veloce della mano si tolse le lenzuola di dosso, aspettando che qualcuno venisse a chiamarla. Durante l’attesa abbassò lo sguardo e osservò senza fare una piega le tre mani che si trovavano davanti a lei. Sbadigliò di nuovo e osservò senza curiosità le tende tirate, ma quando il suo cervello elaborò più attentamente la scena di poco prima la ragazza sbarrò gli occhi e abbassò di nuovo lo sguardo. Non si era sbagliata, davanti a lei c’erano non due, ma tre mani, di cui una – quella che non era la sua – chiusa a pugno e vicina al suo petto. Sbalordita, si accorse solo in quel momento del braccio sopra il suo fianco e del calore emanato da un altro corpo vicino al suo. Ma che diavolo…
Temendo di conoscere l’identità della persona con cui condivideva il letto, voltò lentamente la testa per non svegliarla e quasi gemette quando si ritrovò davanti agli occhi le palpebre chiuse e i capelli biondi di Alois, ancora profondamente immerso nel mondo dei sogni. Aggrottò la fronte, ancora mezza intontita dal sonno, e si strofinò gli occhi per essere sicura di non essersi sognata tutto. E lui come c’è finito nel mio letto? si chiese in un breve istante di lucidità. Fino alla sera prima era stata sicura di averle viste tutte, ma il ragazzo era riuscita a sorprenderla ancora una volta.
Chiedendosi perché capitassero tutte a lei, gli afferrò il braccio e lo spostò nello stretto spazio tra i loro corpi, stando attenta a non svegliarlo. Quando ebbe finito si voltò sull’altro fianco e osservò il volto del biondo senza dover storcere il collo in modi strani; mentre dormiva il suo volto era tranquillo, come se durante il sonno pure i suoi sbalzi d’umore si riposassero. Lo osservò in silenzio per qualche minuto, osservando il suo petto che si alzava e si abbassava lentamente, poi fece per scendere dal letto, ma in quel momento Alois sbatté le palpebre e fece vedere al mondo i suoi inquietanti occhi azzurri, che di prima mattina erano calmi e sereni. Le sorrise mentre si metteva a sedere e si stirava le braccia. “Buongiorno. Hai dormito bene?”
“Abbastanza.” Per fortuna. Deglutì prima di continuare: “Non per essere indiscreta, ma tu cosa ci fai nel mio letto?”
La domanda sembrò coglierlo di sorpresa. Ci fu un attimo di silenzio imbarazzato, poi lui le rispose, guardando un punto invisibile davanti a sé: “Non riuscivo a dormire e sono andato a fare due passi lungo il corridoio. Devo aver sbagliato porta quando sono tornato indietro.” Era palese che stava mentendo, le loro camere non erano così vicine da poter essere confuse, ma Lena decise di passarci sopra ed aspettare che fosse il ragazzo stesso a dirle perché si fosse infilato nella sua camera da letto in piena notte e si fosse messo a dormire nel suo stesso letto. Ma era davvero sicura di volerlo sapere?
Annuì senza molta convinzione e si mise a sedere anche lei, cercando di tenersi lontana da Alois. Non era così stupida da essersi già dimenticata quello che era successo la sera prima e non voleva che, avvicinandosi troppo a lui, succedesse qualcosa di simile. Ma il ragazzo sembrava essersi già scordato tutto: le parlava tranquillo, come se dormisse insieme a lei da sempre, giocherellava con una ciocca dei suoi capelli neri spettinati dal continuo rigirarsi notturno, ogni tanto le dava dei leggeri pizzicotti per richiamare la sua attenzione; insomma, una normale mattina come tante altre. Lena si rilassò senza però abbassare la guardia e aspettò l’arrivo della solita domanda mattutina di Alois, che infatti non tardò ad arrivare. “Stanotte non hai ricordato niente? Nemmeno qualcosa che ti è successo prima di arrivare a Londra?”
La ragazza fece per fare cenno di no, poi si bloccò. Più di una volta aveva preso in considerazione l’idea di mentirgli, di inventare un ricordo solo per farlo felice, ma ogni volta si era frenata, incapace di mentire così spudoratamente. Guardò gli occhi del biondo che brillavano di speranza come due stelle, e non ci pensò due volte prima di rispondere: “Stanotte no, ma ieri sera sì, mentre facevo il bagno.” Esitò per un attimo, ma quando vide che il ragazzo non reagiva alle ultime parole si lasciò andare a un sorriso felice. “È una buona notizia, no?”
Gli occhi di Alois si riempirono di un sentimento del tutto impensabile in quel momento, e Lena fece appena in tempo a rendersi conto che era rabbia prima che venisse sostituita da una luce calma e serena. Lui sorrise, pieno di curiosità e con gli occhi che gli scintillavano. “Davvero? Dimmi tutto!” esclamò sedendosi davanti a lei per non perdere nemmeno una sua parola.
“Bè…” iniziò lei, ma in quel momento la porta si spalancò e apparve Claude, che li osservò senza alcuna sorpresa, come se si aspettasse di trovarli insieme. Soffermò il suo sguardo per un attimo di troppo sulla ragazza, poi s rivolse al biondo: “Quando sono venuto a svegliarvi ho trovato la vostra camera vuota e il vostro letto sfatto. Dovevo immaginarlo che eravate con la signorina Lena.”
Non è come pensi! urlò dentro di sé la chiamata in causa. Sentì il volto andarle in fiamme e arrossì ulteriormente quando provò a nascondere il rossore che le incendiava le guance, ma Alois non fece una piega; anzi, sulle sue labbra aleggiava persino l’ombra di un sorriso divertito. Scese dal letto senza tanti complimenti e si diresse verso la porta, voltandosi solo sulla soglia per dire alla ragazza: “Continueremo il nostro discorso più tardi, va bene?” Le fece un cenno di saluto con le dita della mano. “A dopo.”
Lena rimase immobile sul letto col volto in fiamme finché la porta non si fu richiusa, e solo allora sentì il sangue defluirle dalle guance e tornare nel resto del suo corpo. Si lasciò cadere sul cuscino con un tonfo sordo e si coprì il volto con le mani. Quel ragazzo mi distruggerà, pensò rassegnata mentre bussavano di nuovo alla porta e Hannah entrava dentro la stanza per darle una mano a prepararsi ad un’altra giornata.
 

 

***

 
La porta sembrava massiccia a prima vista e difficile da aprire, ma non appena Lena abbassò la maniglia si spalancò, rivelando dietro di sé una stanza enorme e illuminata dalla luce del sole. La ragazza entrò dentro in silenzio e si richiuse la porta alle spalle mentre continuava a guardarsi intorno meravigliata. Si sarebbe potuto organizzare un ballo per dieci persone lì dentro, e una scala portava ad una balconata da cui si aveva una visuale dell’intera stanza. Ma non era quella la cosa incredibile, bensì la quantità di libri e librerie che coprivano le pareti e si stendevano a vista d’occhio. Alcuni volumi erano sgualciti dal tempo e dalle mani che li avevano letti avidamente più e più volte, altri erano così lucidi e nuovi che sembravano non essere mai stati aperti; alcuni avevano copertine dai toni scuri e pesanti, altri erano rilegati in colori più allegri e luminosi; alcuni erano spessi come mattoni, altri sottili come quaderni; ma nessuno di loro era indegno di essere letto, tutti attiravano Lena in modi diversi. Non c’era che l’imbarazzo della scelta per iniziare a leggere e lei non vedeva l’ora di tuffarsi dentro quelle pagine piene di storie, forse anche per cercare la sua.
Si mise a sedere davanti alla libreria alla sinistra della porta, mettendosi comoda sugli strati della gonna, e sbirciò i titoli a caratteri dorati sulle costole dei libri. Ne afferrò un paio che rimise a posto subito dopo, poi ne trovò uno che attirò la sua attenzione. Lo sfogliò a lungo, guardando senza interesse i segni neri che le scorrevano davanti agli occhi, poi si fermò ad una pagina a caso e iniziò a leggere. La sua voce rimbombava nel silenzio della biblioteca, raggiungendo persino gli angoli più nascosti in cui nessuno metteva piede da anni. Aveva una voce timida, Lena, proprio come lei, e le parole le uscivano dalla bocca lentamente, come se non volessero disturbare nessuno. Se qualcuno fosse stato in ascolto, avrebbe potuto sentirla raccontare una storia di cui non conosceva l’inizio, la fine, l’autore o i personaggi, ma era bello anche solo sentire la sua voce cambiare a seconda di chi stava parlando e aumentare o abbassare d’intensità in base all’atmosfera del racconto. Leggeva veloce, seguendo i personaggi nella loro avventura in mezzo alle pagine, ascoltando i loro pensieri e spiando i loro momenti intimi.
“Psst! Ehi, Lena!”
La ragazza smise di leggere e drizzò le orecchie, sicura di non essersi immaginata quella voce. Rimase in silenzio a lungo, poi mise a malincuore il libro al suo posto e si alzò in piedi. Si diede un’occhiata intorno e si stupì di vedere una mano con tanto di anello sbucare da dietro la porta. La spalancò e si ritrovò davanti il volto sorridente del padrone di casa. “Alois, ma che…”
“Ssh!” Si portò l’indice alle labbra e le indicò di fare silenzio, continuando a sorridere e facendole addirittura l’occhiolino. Le afferrò il polso mentre con l’altra mano chiudeva la porta della biblioteca senza fare rumore, poi si avviò a passi veloci lungo il corridoio, diretto verso la scalinata dell’atrio. Se voleva passare inosservato aveva di sicuro scelto il metodo sbagliato: i tacchi dei suoi stivali ticchettavano senza controllo, ma lui sembrava non curarsene e continuò a camminare trascinandosi dietro la sua ospite. Arrivarono al primo piano senza incontrare nessuno e a quel punto il biondo si mise a correre, quasi slogando il braccio alla povera Lena, che non riusciva ancora a capire quale fosse la loro meta. Solo quando si fermarono davanti a una porta in fondo al corridoio e il ragazzo la aprì lei capì che stava per entrare per la prima volta nella camera di Alois. La osservò con attenzione mentre lui le lasciava andare il polso e chiudeva la porta: non era molto diversa dalla sua, tranne che per le pareti di un viola chiaro. “Ti piace?” le chiese il ragazzo, di nuovo accanto a lei.
Annuì, poi si voltò verso di lui. “Pensavo che la tua mattina fosse piena di impegni.”
“E non ti sbagliavi. Ma, vedi, penso che ogni tanto faccia bene scappare dalla routine e rifugiarsi da qualche altra parte.” Si avvicinò al letto e vi si lasciò cadere sopra con una risata. Fece cenno a Lena di sedersi accanto a lui, e lei fece come le era stato detto. Gli occhi azzurri del biondo notarono i lividi che spuntavano dalle maniche corte del vestito di lei, ma lui non accennò all’incidente – se così si poteva chiamare – della sera prima e si limitò a dire: “Volevo continuare il nostro discorso il prima possibile. I miei impegni possono anche aspettare.”
“Non credo che saranno molto pazienti.”
Scrollò le spalle. “Dovrebbero imparare ad esserlo di più.” Sorrise. “Allora? Cosa sei riuscita a ricordare?”
Esitò, poi lasciò che le parole scorressero da sole. “Ero in una strada piena di neve, e stava nevicando anche in quel momento. C’erano dei bambini che giocavano poco lontano e uno di loro mi ha chiesto se poteva rimanere a giocare ancora un po’, ma io gli ho detto che dovevamo rientrare prima che facesse buio. Non ho visto cos’è successo dopo, ma a un certo punto lo stavo tenendo per un braccio e gli dicevo che se non la smetteva di comportarsi così l’avrei punito… e lui…” Le mancò per un attimo il fiato, poi trovò la forza di continuare a testa bassa: “È corso via e si è fermato in mezzo alla strada, e in quel momento è arrivata una sagoma nera. Stava per investirlo e lui non si spostava, allora l’ho chiamato, ma quella… cosa, qualunque cosa fosse, l’ha colpito.” Alzò lo sguardo verso Alois, che adesso si era messo a sedere e l’ascoltava rapito, e sorrise triste. “E sai qual è la cosa peggiore, Alois? La prima volta che mi ha parlato mi ha chiamata ‘sorellona’. Capisci?” Rise nervosa, come una pazza, un riso simile in modo inquietante a un pianto. “Ho visto mio fratello morire e non ho potuto fare niente per aiutarlo.”
Decise di non parlargli della seconda parte del sogno, e anche se avesse voluto farlo l’espressione sul volto del ragazzo le avrebbe fatto cambiare idea: era impallidito e i suoi occhi erano attraversati da ombre che non lo avrebbero mai lasciato in pace. “Un fratello,” mormorò, e prima che potesse trattenersi aggiunse: “Anch’io avevo un fratello, un tempo.”
“Davvero?” La sorpresa di Lena era sincera: era la prima volta che Alois accennava al suo passato in modo così spontaneo e senza che lei gli avesse chiesto qualcosa. “È per questo che non c’è nella foto nella stanza vicina alla mia? È morto?”
Si passò una mano tra i capelli, nervoso, e il suo respiro si fece più pesante. La ragazza, preoccupata, allungò una mano per sfiorargli la guancia e calmarlo, ma non appena gliela sfiorò lui scattò in piedi, lontano da lei. La fissava pieno d’odio e con una tristezza profonda come un abisso senza fondo che la fece sentire in colpa. “Alois, io non…”
Lui la interruppe, iniziando a mormorare parole che lei non fu in grado di capire. Se avesse potuto sentirle, le si sarebbe gelato il sangue nelle vene. “Gliela farò pagare, Lena, oh, gli farò pagare tutto quello che ha fatto. Gli toglierò l’unica cosa che vuole e farò in modo che la perda per il resto dell’eternità. Lo colpirò dove gli farà più male, come fece lui anni fa con me.”
“Alois…” lo chiamò ancora Lena, ma lui se n’era già andato via, rimanendo da solo con il suo odio e il suo passato e lasciando la sua ospite da sola con nuove domande a cui non avrebbe trovato una risposta ancora per molto tempo.














Colonna sonora di questo capitolo -> http://www.youtube.com/watch?v=VI04um2LDp8&ob=av2n
Non è il genere di musica che ascolto di solito, ma la sua voce mi ha conquistata in maniera incredibile. Questa canzone, poi, è inquietante al punto giusto!
MadLucy: "E Alois che entra tranquillo in bagno? Epico. XD Neanche un problema, come direbbe il mio prof di matematica. Poco importa che ci sia una ragazza nuda dentro, vero? Ma ceeeerto, ovvio. Lui è troppo Alois per bussare, e troppo Alois per non avere reazioni violente ed improvvise e far prendere un infarto a quella poveraccia... E così, tanti saluti al "raccontiamogli tutto, dài!" che diventa più un "ma che pazzo schizofrenico abita in 'sta casa?!"" Tu riesci a tirarmi su il morale perfino alle dieci di sera con queste recensioni, non mi è difficile immaginare Lena che pensa alla razza di posto in cui è finita XD La domanda di Alois è il pezzo forse più importante del suo rapporto con Lena, ma tutto verrà fuori al momento opportuno, don't worry ^-^ Sappi che tengo molto spesso sulle spine i miei lettori, è una cosa che adoro e chi mi conosce fin dal mio ingresso su EFP può confermartelo *bwahahahah*
LudusVenenum: bentornata! *hug* Finalmente ce l'hai fatta a recensire! Tranquilla, capisco i tuoi problemi, non ti lincio se salti un capitolo ;) Ragionamenti un pò confusi (come al solito, no? XD), ma ti dico una sola cosa: rivedi le tue certezze. Ormai lo sai come funziona con me, vero?
BeaLovesOscarinobello: effettivamente sì, tra pochi capitoli la storia entrerà nella seconda stagione dell'anime, ovviamente con qualche piccolo cambiamento. Il motivo per cui Claude non ha un "gran rapporto" con Lena l'ho provato a spiegare in questo capitolo, spero che la spiegazione sia soddisfacente...

xoxo
Eva

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Capitolo 10
*** Quel qualcuno che non vorresti rivedere mai più. ***


X. Quel qualcuno che non vorresti rivedere mai più.
 

 
Mi chiamo Lena, e l’unico nome che sento mio è l’unico che non avrò mai.
Alzò la penna dal foglio su cui stava scrivendo e osservò a lungo quella frase. L’inchiostro era nero come il cielo fuori dalla stanza e non si era ancora asciutto, e quelle parole le risuonavano nella testa mentre lei sorrideva amaramente alla luce del candelabro davanti a lei. Intinse la penna nel calamaio e rifletté per un attimo prima di iniziare di nuovo a buttare giù i suoi pensieri.
È stata una fortuna aver trovato questo quaderno e tutto il resto in uno dei cassetti della stanza qui accanto. La mia testa non ce la fa più a contenere tutte le mie domande e quello che ho visto in questi giorni, e scoppierà da un momento all’altro se non trascrivo tutto qui sopra. Ci sono così tante cose che dovrei dire, così tante cose che dovrei appuntare per non dimenticarle – bella battuta, Lena, come no – ma devo procedere con calma se non voglio confondermi.
Devo partire dall’inizio, come ogni storia che si deve.
Qual è il mio vero nome? Non ne ho idea. Quanti anni ho? Quattordici o quindici, secondo una vecchia puttana di Londra. Mi sono risvegliata otto giorni fa in un bosco, senza più memoria e con una collana con una pietra blu su cui è incisa la lettera L come unico indizio sulla mia vera identità. Sono entrata a Londra come, bè, merce di Andrè, tale francese aiutante – no, servo di Lady Nancy, padrona di un bordello di periferia. Voleva farmi lavorare per lei, ma sono riuscita a scappare dalla città e ho trovato rifugio in questa villa. Forse mi cercano ancora, o forse no: so solo che gli incubi su quella notte di fuga mi continuano a perseguitare.
Se sono caduta dalla padella alla brace? Chi può dirlo. Il mio salvatore è il mio personale carceriere, gioca con me e i miei sentimenti come se non fossi altro che un pupazzo. Un momento è gentile con me e quello dopo mi ferisce e fa riaffiorare ricordi che voglio nascondere per sempre. Ma non posso andarmene da qui, no, sarebbe avventato e non avrei altro posto dove andare. E poi, per quanto strano e assurdo possa suonare, Alois è l’unica persona di cui mi possa fidare. È l’unico amico che ho. Ma probabilmente il suo maggiordomo preferirebbe farmi a pezzi e farmi sparire nel nulla piuttosto che continuare a vedermi qui.
Per non parlare del fatto che ci sono altre persone che vogliono uccidermi. Mi seguono fin dalla notte della mia fuga – sempre che si conoscano tra di loro, ma credo di sì – e finora hanno provato a farmi fuori con una specie di lancia e con un’altra cosa troppo complicata per poter essere spiegata senza l’aiuto di un disegno. Dicono di conoscermi, di volermi riportare a casa, ma posso fidarmi di loro? Perché tutti sanno chi sono io, tranne io stessa? E se mi conoscono così bene, perché cercano di ammazzarmi ogni volta che mi vedono?
A proposito di morire. L’unica cosa che riesco a ricordare del mio passato è la morte di mio fratello, sempre che quel bambino lo fosse. Non ho più avuto una visione del genere da ieri sera, ma questa mi è rimasta così impressa nella mente che ogni volta che chiudo gli occhi mi sembra di rivivere la scena e di sentire ancora le mie urla e quel tonfo che svanisce nell’oscurità. Mi sento responsabile di quello che è successo, ma non sono una persona cattiva, perché avrei dovuto far del male a un bambino, specialmente a mio fratello? Come posso essere diventata in così poco tempo un’altra persona rispetto a quella che ero? Cosa vuole Alois da me, cos’ho io che a lui manca? Perché non mi parla mai del suo passato e della sua famiglia? Cos’è successo a suo fratello, e perché quando me ne ha parlato ha cambiato improvvisamente umore? Perché se n’è andato quando ho voluto saperne di più? Cosa mi nasconde?
Da dove diavolo sono spuntata fuori insieme alle mie domande infinite? Dal cielo sopra di noi o dall’Inferno di fuoco dei demoni e degli spiriti?
Smise di scrivere con foga non appena ebbe terminato di disegnare l’ultimo punto interrogativo. Aveva impugnato la penna con così tanta forza che il polso le faceva male, ed aveva scritto così in fretta che la sua calligrafia si era storta sempre di più, arrivando quasi allo stesso piano delle righe del foglio nelle ultime frasi. Appoggiò la penna sul tavolo continuando ad osservare le sue parole e domandandosi per l’ennesima volta per quale strano motivo, nonostante la sua amnesia, sapesse ancora leggere e scrivere. Scrollò le spalle, accantonando la domanda in un angolo del suo cervello: era un mistero minore in confronto a tutti gli altri, come dimostravano le frasi scritte sul quaderno. Non si sentiva affatto più leggera e liberata da un peso, ma trovarsi faccia a faccia con le sue domande in concreto era tutta un’altra cosa rispetto a quando doveva affrontarle nei luoghi più oscuri della sua testa; era come trovarsi davanti a un nemico degno di sé stessa, qualcuno con cui poteva battersi senza temere di perdere o soccombere.
Bussarono alla porta della camera mentre Lena chiudeva il quaderno dopo aver controllato che l’inchiostro si fosse asciutto. Si alzò dalla sedia mentre Hannah entrava per aiutarla a prepararsi per la notte e non proferì parola per tutto il tempo in cui la donna fu dentro la stanza, mormorando un flebile ‘Buonanotte’ mentre se ne andava. Il pensiero di aver finalmente trovato qualcosa con cui poter sfogarsi liberamente le dava un’enorme sensazione di felicità, e ancora non immaginava che negli anni a venire la scrittura sarebbe stata la sua unica compagna di vita ed amica. La solitudine l’attendeva dietro l’angolo, aspettando con ansia il momento in cui la ragazza si sarebbe svegliata dal suo sogno per scoprire di essere finita in un atroce e tremendo incubo.
 

 

***

 
Non fu una voce che la chiamava a svegliarla la mattina dopo, e nemmeno un raggio di sole che filtrava tra le tende. Lena rimase ancora a lungo nel dormiveglia, con un piede nel mondo nei sogni e uno nella realtà, prima di accorgersi dei rumori attorno a lei, come se qualcuno stesse facendo qualcosa nella stanza e cercasse senza riuscirci di non svegliarla. Gemette, infastidita da quel brandello di sogno che le sembrava maledettamente reale, e si voltò sull’altro fianco sotto le coperte, tirandosi le lenzuola fino agli occhi per cercare di dormire ancora un po’.
“Mi chiamo Lena, e l’unico nome che sento mio è l’unico che non avrò mai.”
Furono le stesse parole che aveva scritto la sera prima a svegliarla del tutto, e uscì dal sudario delle coperte per inginocchiarsi sul letto con una velocità impensabile per una persona appena sveglia. Guardò ad occhi sgranati un Alois in camicia da notte intento a leggere dal quaderno che aveva trovato da poco, e il sangue nelle sue vene si gelò non appena si ricordò cos’aveva scritto nelle prime righe del suo sfogo notturno. Il ragazzo alzò il suo sguardo verso di lei, che stringeva le coperte nei suoi pugni, e le sorrise per un istante prima di tornare a leggere a voce più bassa, come se non volesse farsi sentire. “‘È stata una fortuna aver trovato questo quaderno e tutto il resto in uno dei cassetti della stanza qui accanto. La mia testa non ce la fa più a contenere tutte le mie domande e quello che ho visto in questi giorni, e scoppierà da un momento all’altro se non trascrivo tutto qui sopra. Ci sono così tante cose che dovrei dire, così tante cose che dovrei appuntare per non dimenticarle…’” Mentre leggeva, il suo sorriso era ancora sulle sue labbra, come se tutta la faccenda fosse molto divertente per lui.
I pugni di Lena ebbero uno spasmo di rabbia e afferrarono con ancora più forza le lenzuola stropicciate. Quel quaderno era il luogo in cui aveva e avrebbe riversato i suoi pensieri più confusi, ed era stato scoperto prima ancora che potesse iniziare a considerarlo suo, un segreto di cui lei sarebbe stata l’unica custode. Le avevano tolto tutto, il passato, la dignità, la famiglia, non si sarebbe lasciata portare via l’altra unica cosa oltre alla sua collana che era preziosa per lei. Allungò una mano verso Alois proprio come aveva fatto il giorno del suo arrivo, ma adesso non c’era disperazione in quel gesto, solo semplice e pura rabbia da animale in gabbia. “Dammelo, Alois,” gli sibilò con gli occhi che mandavano lampi e scintillavano come fuochi verdi.
Il ragazzo interruppe la sua lettura e la guardò di nuovo, stavolta sorridendo più ampiamente. “Ma dai, proprio adesso che le cose si stavano facendo interessanti.”
In seguito Lena avrebbe avuto solo un vago ricordo del modo in cui lei e il biondo erano finiti distesi sul pavimento: si sarebbe ricordata di essergli saltata addosso in preda alla rabbia e dei suoi occhi azzurri che la guardavano preoccupati e forse impauriti. Fatto sta che, pochi secondi dopo, lui lasciò andare il quaderno, facendolo cascare poco più in là sul pavimento, e si ritrovò a fronteggiare quella strana ragazzina che lo sovrastava e lo colpiva alla cieca, senza sapere bene cosa fare se non sfogare la sua rabbia. Era facile per lui tenerla a bada – non era così forte da sopraffarlo – ma la sua ira era incontrollabile, spinta dalla sensazione di essere stata derubata ancora una volta e dalla vergogna per essere stata così stupida da scrivere la sua storia su un pezzo di carta, dove chiunque avrebbe potuto leggerla; colpendo Alois voleva in realtà punire sé stessa e la sua stupidità in un modo così duro e drastico che non aveva mai usato prima d’ora. Tuttavia, quando ferì con un’unghia il dito su cui il ragazzo portava l’anello qualcosa scattò dentro di lei e le fiamme nei suoi occhi si spensero, lasciando spazio alla sorpresa e all’imbarazzo. Scese dal corpo del biondo ad occhi sgranati, e lo osservò mettersi di nuovo a sedere ed osservare il suo graffio con curiosità. Si preparò a uno dei suoi scoppi d’ira, ma rimase sorpresa quando lui le rivolse solo un sorriso cattivo. “Era ora. Mi chiedevo quando saresti arrivata a questo punto.”
Non sapeva se fingesse o facesse sul serio, ma decise che in fondo non le importava saperlo. Quello che le interessava davvero era ben altra cosa. “Cos’hai letto sul mio quaderno?” gli chiese con voce flebile e ansimante, temendo la risposta.
“Poco. Sono arrivato solo al punto in cui scopro che mi hai mentito su quello che ti è successo prima di arrivare qui.” Sorrise soddisfatto nel vedere l’espressione scioccata e impaurita di lei. “Non ti caccerò via dalla villa per questo, stai tranquilla. Chi sono io per dirtelo, dopo tutte le bugie che ho detto?” La sua voce era calma, ma la luce nei suoi occhi sembrava indemoniata e diceva a Lena che questo non doveva farla sentire al sicuro, che ci sarebbero state sorprese poco piacevoli in futuro per il suo comportamento. Nonostante quello sguardo tutt’altro che rassicurante la ragazza tirò un sospiro di sollievo: Alois non aveva letto la parte successiva alla sua storia, e non poteva essere che un bene. Non osava nemmeno immaginare la reazione che avrebbe potuto innescare quello che aveva scritto su di lui.
Il biondo si stirò le braccia, chiudendo per un attimo gli occhi, poi si alzò in piedi e si diresse verso la porta, probabilmente per tornare in camera sua. Non degnò la sua ospite di uno sguardo ma, non appena arrivò alla porta, qualcosa gli attraversò la mente e lo fece voltare verso di lei con la stessa luce e lo stesso sorriso che l’avevano sempre spaventata. Evidentemente aveva trovato il modo in cui punirla. “Mi sono quasi scordato di dirti che mi hanno invitato a una festa che si terrà stasera a Londra. Sarebbe poco carino da parte mia lasciarti da sola alla villa, no?”
Le bastò sentire il nome della città per riportare alla mente i ricordi di quell’infinita notte di fuga. Sentì ancora una volta il suo respiro affannato, vide i suoi piedi nudi che correvano sulla strada sporca e le ombre che circondavano ogni cosa. Fece per alzarsi in piedi, ma qualcosa le diceva che le sue gambe non l’avrebbero sostenuta e decise di rimanere seduta sul pavimento mentre continuava a fissare il ragazzo ad occhi sbarrati. Deglutì. “Londra?”
Fece un cenno col capo. “Londra.”
“Io…” Fece una pausa. “Io non posso venire, Alois, e se adesso conosci la mia storia dovresti saperlo.”
Rise cattivo. “Credo che tu possa gestire una situazione del genere. Dov’è finita la grinta che avevi fino a poco fa?” le chiese ironico. Prima che Lena potesse replicare se n’era già andato, lasciandola da sola. Lei rimase per qualche minuto immobile, provando ad assimilare la notizia che aveva appena ricevuto, poi, non appena fu in grado di muoversi di nuovo, gattonò sul pavimento e riprese tra le sue mani il quaderno stropicciato. Lo sfogliò velocemente per controllare i danni, poi si avvicinò al letto e lo nascose sotto il materasso; forse avrebbero scoperto quel nascondiglio quasi subito, ma non poteva permettersi di lasciare in giro i suoi segreti come aveva fatto quella notte. Riuscì a mettersi a sedere sul bordo del letto e si mise le mani tra i capelli, disperata. Una parte di sé stessa provò a convincerla che quella sera non avrebbe incontrato Andrè o Lady Nancy alla festa, cosa avevano loro da spartire con un gruppo di nobili?, ma un’altra le gridava che invece li avrebbe visti entrambi e che l’avrebbero riconosciuta perfino tra altre mille persone. Avrebbe voluto appallottolarsi su sé stessa come una bambina e scoppiare a piangere, ma sapeva che non sarebbero servito a nulla: il mondo non si sarebbe certo commosso per le lacrime di una piccola smemorata.
 

 

***

 
Alois sospirò e tolse un filo di stoffa dalla manica del cappotto per poi lasciarlo cadere sul pavimento della carrozza. “Non vengo molto spesso a Londra, è troppo caotica e piena di persone per i miei gusti. Ma ogni tanto fa bene distrarsi per una sera, no?” Diede un buffetto sulla guancia non ferita di Lena, che si limitò ad annuire mentre guardava fuori dal finestrino. Ogni casa della periferia le era familiare, ogni strada che percorrevano per arrivare nel centro della città le sembrava una di quelle che aveva percorso giorni prima, in un tempo così lontano e allo stesso tempo così vicino. Quando gli edifici iniziarono a farsi più lussuosi e le strade più illuminate si sentì sollevata, ma la sua paura più grande l’attendeva alla loro meta, in attesa di essere confermata o meno.
Arrivarono a una town house non molto lontana da Piccadilly Circus e si fermarono davanti al cancello spalancato insieme ad altre due carrozze. Lena osservò le persone che scendevano da esse e si sentì improvvisamente a disagio e inadeguata in quella situazione, con il suo carattere non meno instabile di quello del ragazzo insieme a lei e quella benda che le copriva buona parte della guancia destra. Sarebbe rimasta volentieri dentro la vettura per il resto della serata, ma non appena Alois scese il pensiero che sarebbe stata costretta a rimanere da sola con Claude la spinse di corsa a raggiungere il biondo. Lui l’aspettava proprio in fondo agli scalini della carrozza e aveva una mano tesa verso di lei. Sorrise, e non c’era alcuna trappola in quel sorriso. “Vogliamo andare?”
Esitò un istante, poi abbozzò un sorriso e afferrò la sua mano, lasciandosi aiutare a scendere dalla vettura. Lo sportello alle sue spalle si chiuse dopo poco e la carrozza se ne andò, portando via con sé il maggiordomo e dandole una sensazione ineguagliabile di sollievo. Il ragazzo le offrì un braccio ed entrambi si diressero a braccetto verso l’edificio; Lena si sentiva in imbarazzo a stare così vicina ad Alois, ma era bello sapere di avere un’ancora in mezzo a quel mare di facce sconosciute e voci stridule. Si sentiva così al sicuro da tutti quegli sguardi indiscreti che la scrutavano e quelle voci che sussurravano cose sul suo conto che, una volta arrivati dentro l’atrio, le dispiacque staccarsi dal biondo per consegnare i loro cappotti al maggiordomo accanto a loro. Aveva due normalissimi occhi castani e un sorriso amichevole che – Per fortuna, pensò la ragazza – non assomigliavano per niente agli occhi dorati e all’espressione impassibile e inquietante di Claude. Lei gli rivolse un sorriso timido e fece per rivolgergli la parola, ma Alois la afferrò gentilmente per la mano e la condusse lontano dall’atrio per dirigersi verso il salone in cui si svolgeva la vera festa. Non passavano certo inosservati, vestiti entrambi di un rosso brillante che il ragazzo aveva scelto di persona, e sembrava che buona parte delle persone osservasse in modo ostentatamente il giovane conte e la nuova arrivata. Lui non se ne curò e aiutò Lena ad arrivare sana e salva nel salone, grande la metà della sala da pranzo alla villa. La ragazza si diede una veloce occhiata intorno, preoccupata, ma a prima vista non vide nessuno di familiare. Il suo cuore si mise per un attimo in pace, ma poi il suo sguardo incontrò quello di quattro ragazze che avevano più o meno la sua età e che la stavano osservando in modo per niente discreto. Riconobbe con sorpresa due di loro: erano le stesse che aveva incontrato quando era giunta a Londra la prima volta, quelle che avevano degnato a malapena di uno sguardo quella ragazzina dagli occhi verdi e con una camicia troppo grande per lei prima di andarsene. Non l’avrebbero riconosciuta – era così cambiata da quel giorno! – ma notò che una delle altre ragazze stava tracciando col proprio dito una linea sulla sua guancia mentre parlava, facendo ridere tutte le altre. Si irrigidì per un attimo, cercando di trattenere la sua rabbia.
“Va tutto bene?” le chiese Alois, vedendola così vicina ad esplodere.
Deglutì. “Alla perfezione.” Eppure non riusciva a distogliere il suo sguardo dalle quattro ragazze, che adesso ricambiavano l’occhiata con aria di sfida per vedere di che pasta fosse fatta la nuova arrivata con quella collana che luccicava con forza e quella benda bianca che le copriva parte della guancia.
Il ragazzo guardò in quella stessa direzione senza farsi vedere da Lena e annuì tra sé e sé, sorridendo soddisfatto quando le ragazzine lo guardarono in un modo malizioso che lo incitava ad approfittarsi di loro. Mentre l’orchestra iniziava a suonare e le persone prendevano posto per iniziare a ballare, Alois condusse la ragazza verso la parete più vicina e la fece sedere su una sedia. “Mettiti qui prima che qualcuno ti investi mentre balla. Torno a riprenderti tra poco, va bene?” Le sorrise e, prima che lei potesse replicare, si immerse nella folla di persone, lasciandosene inghiottire come un naufrago tra le onde del mare.
Ma dove va? pensò con curiosità e un pizzico di tristezza per essere stata abbandonata in quel modo. Allungò il collo in tutte le direzioni per cercare di ritrovarlo, ma lui sembrava essere scomparso nel nulla. A un certo punto ci rinunciò e si mise a guardare ammirata le coppie che ballavano nella sala: sembravano così leggere mentre si muovevano seguendo il ritmo della musica, come se non avessero problemi a cui pensare, come se la loro vita fosse sempre così, una notte infinita di chiacchiere e balli. Sorrise malinconica, ma il sorriso le sparì dal volto non appena una breccia nella folla le mostrò uno spettacolo che non avrebbe mai voluto vedere: vicino alla parete alla sua sinistra c’erano Alois e le quattro ragazze che avevano riso della sua benda, e lui stava chiacchierando amabilmente con loro come se le conoscesse da sempre. Una di loro, una rossa con due sfavillanti occhi azzurri, scoppiò a ridere di gusto, spezzando qualcosa dentro Lena. Lei non ebbe nemmeno la forza di arrabbiarsi quando il ragazzo prese per mano la rossa e la trascinò in mezzo al salone con la stessa allegria che aveva quando trascinava lei: qualcosa le diceva che era giusto così, che si divertisse con persone più normali e nobili di lei che probabilmente un giorno avrebbe sposato, mentre lei sarebbe scomparsa dalla sua memoria, un fiocco di neve in mezzo alla tormenta dei ricordi. Non era gelosa, non era invidiosa, non provava niente: solo, il pensiero che un giorno sarebbe stata dimenticata l’aveva colpita con forza. Sapeva che lei non sarebbe mai riuscita a scordare Alois, che l’aveva salvata e trattata bene nonostante il suo carattere lunatico, e faceva male sapere che in futuro non sarebbe stata più niente per lui. Guardava la coppia ballare e il ragazzo avvicinare la bocca all’orecchio della sua compagna per sussurrarle qualcosa, e dentro di lei il suo cuore si incrinava sempre di più come se fosse fatto di cristallo.
“Vi sentite bene?”
La voce alla sua destra la riscosse dai suoi pensieri e le fece distogliere lo sguardo dalla coppia felice, perdendosi la vista dell’espressione adesso inorridita della rossa. Accanto a lei c’era un ragazzo poco più grande di lei che la guardava preoccupato con due grandi occhi color del miele. Era vestito elegantemente, e i capelli corvini gli ricadevano in ciocche morbide simili a piume sulla fronte. Lo squadrò sbigottita. “State parlando con me?”
Rise calorosamente. “Bè, non ci sono molte altre ragazze come voi nei paraggi, no? Io sono Michael Keel, figlio del padrone di casa,” si presentò con un breve inchino. I suoi occhi sfavillavano come due soli. “Cosa ci fa una ragazza come voi tutta sola in un angolo mentre gli altri stanno ballando?”
“Ecco…” Esitò un attimo. “Diciamo che il mio accompagnatore mi ha momentaneamente abbandonata.”
“E chi sarebbe questa persona così poco gentile?”
“Alois Trancy.”
Lo sguardo del giovane Keel cambiò, trasformandosi in quello di una persona che la sa lunga. Diede una veloce occhiata alla pista da ballo, individuando il ragazzo che cercava, poi riportò il suo sguardo sulla nuova ragazza dagli occhi verdi. “Aah, il conte Trancy.” Sorrise imbarazzato. “Dicono che sia un tremendo dongiovanni, ma non vedo perché dovrebbe lasciare una persona come voi in un angolo mentre si diverte.”
Ci sta provando con me? Represse l’imbarazzo e le risa e mise le mani avanti. “Non preoccupatevi, sono sicura che tornerà tra poco. Di solito è molto gentile con me.”
“Sembra che lo conosciate da molto tempo.”
Circa dieci giorni. “Abbastanza per sapere in anticipo quello che farà.”
Rise di nuovo. “Risposta arguta, signorina…?”
“Lena. Solo Lena.”
Sorrise. “Signorina Lena, non dubito che conosciate il conte Trancy come le vostre tasche, ma non ha senso sprecare il vostro tempo ad aspettarlo qui e a guardarlo mentre si diverte quando potreste divertirvi voi stessa.” Tese una mano verso di lei continuando a sorridere. “Mi concedete l’onore di questo ballo?”
In che diavolo di situazione mi sono cacciata?! Deglutì prima di replicare: “È molto gentile da parte vostra, Lord Keel, ma non penso che sia la cosa più giusta da…”
“Insisto.” Le afferrò la mano con forza e la costrinse ad alzarsi in piedi. “Siete una persona così sfuggente, Lena, così diversa dalle altre ragazze a questo noiosissimo ballo. Potremmo conoscerci meglio mentre balliamo, non credete?” le sussurrò a voce bassissima.
Non credo sia un’ottima idea era quello che voleva dirgli, ma in quel momento qualcuno picchiettò sulla spalla del giovane Keel. Il ragazzo si voltò, pronto a fare una sfuriata a chiunque avesse interrotto la sua conversazione, ma si gelò non appena vide due occhi azzurri fissarlo calmi da sotto una ciocca di capelli biondi. Lasciò andare il polso della ragazza e sorrise imbarazzato. “Ah, conte Trancy. Io e la signorina Lena stavamo giusto parlando di voi.”
“Ma guarda. E io che pensavo che voi la steste corteggiando,” replicò l’altro con un sorriso cattivo.
Le guance del giovane Lord si infiammarono e lui cercò di riprendere il controllo di sé stesso. “La stavo solo invitando a ballare, visto che voi preferite intrattenervi con altre ragazze.”
Alois rimase un attimo in silenzio, poi disse: “Sbaglio o voi avete una fidanzata, Lord Keel? Non credo che sarebbe contenta di sapere che avete chiesto a un’altra ragazza di ballare, così come vostro padre non sarebbe fiero di voi se sapesse dei vostri piccoli, come dire… ‘vizietti’.” Il suo sorriso si allargò. “A voi piacciono le donne mature, non è vero?”
Il giovane si ritrovò completamente spiazzato e con un’espressione sbigottita in faccia che Lena trovò incredibilmente divertente. Il biondo la afferrò gentilmente per la mano e prima di trascinarla verso il centro del salone mormorò ancora all’altro: “C’è un motivo per cui mi chiamano il Ragno della Regina, Lord Keel. Potrei raccontarvi i più infidi segreti di ogni singola persona presente in questa stanza, persino dei vostri genitori e dei vostri amici più fidati. Prendetevela con qualcuno della vostra taglia la prossima volta che vi sentite in vena di litigare.” Detto questo se ne andò insieme alla sua ospite, lasciando da solo un Michael Keel alquanto sbigottito. Non appena furono abbastanza lontani si voltò verso la ragazza e le sorrise calmo. “Non devo mai perderti di vista, a quanto pare. Ti lascio da sola per poco e ti ritrovo appiccicato addosso il primo Lord che passa da quelle parti.”
Fece una smorfia, evitando di ricordargli che era tutta colpa sua, poi mormorò un flebile: “Grazie.”
“Grazie?” Si fermò bruscamente nel centro del salone in mezzo alle coppie che ballavano e le afferrò il viso con entrambe le mani, costringendola a guardarlo negli occhi. “Non devi ringraziarmi per questo, Lena. Tu sei solo mia, sono io che ti ho salvato la vita, nessun’altro può pretendere di volere il tuo affetto. E nessuno può permettersi di parlare male di una mia ospite senza fare i conti con me. Le è andata bene che non fossimo da soli.”
All’inizio non capì di chi stesse parlando, ma con la coda dell’occhio notò che la ragazza coi capelli rossi con cui Alois aveva ballato fino a poco prima adesso stava piangendo a calde lacrime, mentre le sue amiche la circondavano come una barriera e cercavano di consolarla. L’ha fatto per me?
“Tu mi devi la vita e mi appartieni, Lena,” concluse in tono grave.
Aprì bocca per parlare, ma un lampo nero catturò la sua attenzione e si voltò nella sua direzione non appena il ragazzo le tolse le mani dal volto. Spalancò gli occhi, sorpresa, e provò a convincersi che quello era solo un altro dei suoi maledetti incubi, ma la musica e tutte quelle voci erano reali, realissime come il suo cuore che batteva come un tamburo impazzito. Il mondo iniziò a girarle intorno, e sarebbe caduta sul pavimento se Alois non l’avesse sostenuta. “Che c’è adesso?”
Riuscì a malapena ad alzare un dito per indicare le due persone in piedi accanto alla finestra. La benda sul volto di lui era sparita, il suo naso sembrava essere tornato normale e le faceva uno strano effetto vederlo vestito elegantemente. La scollatura del vestito di lei era ampia come al solito e i suoi occhi azzurri, che vagavano per la stanza fino a poco prima, incontrarono quelli verdi della ragazza. Li sbarrò e diede una gomitata al giovane accanto a lei, che si voltò verso di Lena e la fissò a lungo. Il suo sguardo era sorpreso e incredulo, ma il suo sorriso era quello di un predatore.
Sono loro.
Andrè e Lady Nancy.
Alla fine erano riusciti a trovarla.















Non penso che questo capitolo sia uno dei miei migliori. Scarsa autostima o semplicemente stanchezza? E chi lo sa. Però scrivere la parte di Keel mi ha dato una notevole soddisfazione XD
MadLucy: l'identità di Lena... brutto affare. C'è da aspettare ancora tanto. Ma veramente TANTO. Ti farò soffire fino alla fine *risata malvagia da genio del male*. "Piantala di farti filmini strani in testa! Non ti pago per immaginare, Claude!" "Danna-sama, voi non mi pagate proprio..." [Quella scrittrice, cazzate da undici di sera .__.] Non per fare il pallone gonfiato (propriono), ma me lo chiedono in molti come faccio a scrivere capitoli così lunghi in poco tempo, e la mia risposta è sempre la stessa: non lo so. Voglio che i miei capitoli siano lunghi almeno quattro/cinque pagine e di solito scrivo per un'ora tutte le sere, ma questo è tutto. Nessuna ricetta miracolosa.

xoxo
Eva

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Capitolo 11
*** Soddisfazioni e tradimenti. ***


XI. Soddisfazioni e tradimenti.
 

 


È un incubo. È solo uno stramaledettissimo incubo. Mi sveglierò tra poco tra le lenzuola piene di sudore, ne sono sicura.
Evidentemente le sue certezze erano da rivedere, perché dopo pochi secondi era ancora lì, a fissare le persone da cui era scappata per tutti quei giorni. Lena si sentiva estremamente debole e non si reggeva più sulle sue gambe, e se non fosse stato per il braccio di Alois a cui si aggrappava con disperata forza si sarebbe lasciata cadere sul pavimento come i vestiti che aveva gettato fuori dalla finestra del bordello. Cercò di farsi forza, ma il modo in cui Andrè la guardava la spaventava, e nemmeno il più bello dei ricordi avrebbe potuto sostituire quello della luce da predatore nei suoi occhi.
Alois stava insolitamente zitto, impegnato ad osservare il suo momento di debolezza. Si aspettava che le chiedesse chi fossero quei due e perché vederli l’avesse sconvolta così tanto, ma non andò così. La aiutò in modo brusco ad alzarsi decentemente in piedi, visto che le sue ginocchia quasi toccavano il pavimento, e poi la lasciò andare, privandola del suo sostegno. La ragazza oscillò per un attimo e quasi cadde, ma lui la afferrò e la riportò nuovamente in posizione eretta. “Non mostrarti così maledettamente debole, o ti saranno addosso prima che tu possa riprenderti,” le sibilò all’orecchio senza che nessun’altro potesse sentirlo. Le persone intorno a loro avevano smesso di ballare da poco e aspettavano con impazienza che la musica iniziasse di nuovo; solo Andrè e Lady Nancy non erano interessati a divertirsi, e borbottavano tra di loro senza mai perdere di vista la loro puttanella. Alois voltò Lena in modo che desse le spalle ai due e disse in modo deciso: “Va bene. Adesso lasciamo perdere tutto per un momento e balliamo.”
Lei lo guardò ad occhi sgranati, e prima che potesse dire qualcosa lui continuò: “Dammi retta, farà bene a tutti e due. Abbiamo bisogno di distrarci e di riorganizzare i nostri pensieri, no?”
“Alois, ma…” balbettò lei. “Ma io non so ballare!”
Sorrise cattivo. “Allora questo renderà tutto molto più interessante.”
La ragazza non ebbe nemmeno il tempo di opporsi, perché il biondo le afferrò la mano destra e la sollevò, cingendole poi con l’altro braccio la vita. Quel contatto fisico così ravvicinato la faceva sentire in imbarazzo, e il peggio arrivò quando l’orchestra attaccò un nuovo pezzo. La musica era veloce e prima che lei potesse capire il ritmo il ragazzo era già partito, trascinandola con aria divertita tra le altre coppie. I passi le sembravano dannatamente complicati, ma per fortuna le bastò qualche sbirciata tra le gonne delle altre dame per capire all’incirca come muoversi. Confortata, si lasciò andare al ritmo della musica e si sentì più leggera, come se ballare potesse farla volare; perfino il contatto con il suo cavaliere era diventato quasi piacevole e familiare, e in quel momento sperò che la notte non finisse mai, che la musica continuasse all’infinito, intrappolandola in un ballo eterno e dannato che non avrebbe mai fermato di propria volontà. Quando l’orchestra si fermò i suoi sogni si spezzarono in mille pezzi, e non si ripararono nemmeno quando i musicisti attaccarono un nuovo ballo, stavolta più lento. Alois la guardò con un sorriso divertito, iniziando a muoversi più lentamente. “Pensavo che ti saresti mossa in modo molto meno grazioso.”
Sorrise in risposta, sorvolando sulla sua battuta ironica. Pensò di essersi lasciata i suoi problemi alle spalle per un po’, ma quelli ritornarono a bussare alla porta della sua mente non appena il ragazzo le chiese: “Come conosci quelle due persone accanto alla finestra?”
Le mancò l’aria nei polmoni e improvvisamente non si sentì più così leggera, ma ancorata a terra con catene di ferro. Deglutì e dovette prendere il coraggio a due mani prima di rispondere: “Te ne ho già parlato. O meglio, lo ha fatto il quaderno che hai trovato in camera mia.” Fece una pausa prima di continuare: “Lui era l’uomo che mi inseguiva la notte in cui sono arrivata alla villa.”
Gli occhi di Alois si accesero di una luce strana che sparì quasi subito. “Ah,” fu tutto quello che disse, riportando il suo sguardo su Andrè e Lady Nancy. “Avevo una mezza idea che fossero loro, ma averne la conferma fa tutto un altro effetto.”
“Li conosci?” gli chiese stupita.
Deglutì a disagio. “Ci ho avuto a che fare in un’altra vita.” Strinse con forza la mano di Lena senza volerlo, e nella sua mente passarono immagini così orribili e violente che, se la ragazza avesse potuto vederle, l’avrebbero spaventata a tal punto da farla scappare.
“Cosa ci fanno qui, Alois? Sono venuti…” Deglutì, spaventata. “… per me?”
La domanda lo strappò dai suoi ricordi e lo fece tornare alla realtà. “No. Il padrone di casa non è un frequentatore di bordelli meno assiduo di suo figlio, non deve essere stato difficile per lui far passare lei e il suo fedele cagnolino per una coppia di nobili di qualche altra città. Non credo che ti abbiano seguita e osservata per tutto questo tempo, altrimenti Claude se ne sarebbe accorto e me l’avrebbe detto.”
Lena non era del tutto sicura che il maggiordomo l’avrebbe fatto, ma non disse niente. Il ballò terminò e l’orchestra decise di prendersi qualche minuto di riposo prima di attaccare di nuovo a suonare. Il ragazzo le tolse il braccio dalla vita ma non allentò la presa delle loro mani, e iniziò a farsi largo tra la folla per raggiungere la finestra del salone. Il sangue nelle vene di lei si gelò non appena vide in che direzione si stavano dirigendo e puntò i piedi per terra, decisa a non farsi trascinare verso la bocca del lupo. Alois si fermò, si voltò verso di lei e la guardò con aria interrogativa. “Cosa stai facendo, Lena?” le chiese in tono di rimprovero.
“Non portarmi da loro, Alois,” lo implorò lei. La sua voce aveva lo stesso tono di quando gli aveva chiesto di restituirle la collana, e ancora una volta si odiò per la sua debolezza. “Ti prego, farò tutto quello che vuoi, ma non andare da loro, ti scongiuro.”
Sorrise divertito. “Adesso smettila di fare i capricci, piccola Lena. Non ti succederà niente, fidati di me.”
No!” Sentiva le lacrime premere per uscire, ma non voleva scoppiare a piangere lì, davanti a tutti, e soprattutto non davanti al ragazzo. “Non puoi farmi questo, ti prego!”
Il suo sguardo azzurro si fece duro, e lui afferrò con la mano libera il volto della ragazza. “Adesso ascoltami bene prima che le cose diventino irreparabili,” le sibilò senza più ombra di un sorriso. “Non mi interessa cosa vuoi fare. Datti una calmata e vieni con me, altrimenti mostrerò il piccolo segreto sotto la tua benda a tutta la sala, e sai che sono capace di farlo. Capito?”
Lena tremava con le lacrime agli occhi, ma non potè fare altro che annuire. I lineamenti del ragazzo si rilassarono e lui la lasciò andare, sorridendole come se non fosse successo niente. “Perfetto. Allora andiamo?”
Lei non replicò e si lasciò trascinare verso Andrè e Lady Nancy con il cuore che stava per scoppiarle nel petto. Ogni passo in più l’avvicinava all’orlo del baratro, e la sensazione che Alois stesse per tradirla in qualche modo era più forte che mai. Quando furono più vicini, il francese e la puttana si voltarono verso di loro, e sul volto della donna apparve un’espressione di sorpresa e orrore non appena i suoi occhi si posarono sul volto del conte, come se un fantasma fosse tornato dal suo passato per darle la caccia. Perfino il sorriso di Andrè era scomparso, e la situazione non migliorò quando il biondo si fermò proprio davanti a loro, senza mai lasciar andare la mano della sua accompagnatrice. Fece un cenno di saluto con la testa ad entrambi e si rivolse alla donna con un sorriso cordiale e spaventoso, mentre Lena si nascondeva dietro di lui come un animaletto spaventato. “Buonasera, Lady Nancy. Non mi aspettavo di rivedervi qui dopo così tanto tempo.” Una luce rossa gli brillò nell’iride chiara. “Non vi siete scordata di me, immagino.”
La donna era sempre più pallida e apriva e chiudeva la bocca senza poter articolare un solo suono. Certo che si ricordava di lui, per quanto volesse negarlo con tutte le sue forze: avrebbe per sempre ricordato quei due occhi azzurri, anche se la prima volta che li aveva visti, nei pressi di un villaggio ridotto in cenere e abitato da morti, erano pieni di una tristezza profonda; niente a che vedere con la luce cattiva che adesso scintillava al loro interno. Rabbrividì, e non a causa dell’ampia scollatura: se quel ragazzino era riuscito ad uccidere il vecchio Ragno – come pensava fin dal giorno in cui era stata annunciata la sua morte – per prenderne il posto, cos’avrebbe potuto fare a lei e ad Andrè, che l’avevano condotto al suo tragico destino? Si sforzò di deglutire e sorridere, nonostante perfino il suo sorriso tremasse dalla paura. “Certo che no. Persone come voi non s’incontrano tutti i giorni, conte Trancy.”
Alois parve soddisfatto di quella risposta, o forse della paura che adesso lei provava, e il suo sorriso si allargò. Lena, dal canto suo, non sarebbe riuscita a sorridere nemmeno sotto tortura: Andrè non aveva occhi che per lei, e il modo in cui la guardava le faceva venire voglia di scappare lontano da lì, scappare dai suoi incubi senza mai affrontarli direttamente. Fece un passo indietro e per sbaglio diede uno strattone al braccio del suo accompagnatore, che si accorse del suo piccolo movimento e con un altro strattone la fece tornare al proprio posto. Anzi, approfittò della situazione per portarla al suo fianco, separando le loro mani e circondandole le spalle con un braccio come se fossero molto intimi. “Temo di non avervi ancora presentato la mia accompagnatrice, Lena.”
“Molto piacere,” mormorò lei a sguardo basso. Si sentiva sul punto di svenire, e odiò il momento in cui Alois la costrinse con un pizzicotto ad alzare la testa come una vera nobile.
“La signorina Lena è momentaneamente ospite nella mia villa da poco più di una settimana,” continuò il ragazzo come se nessuno di loro ne fosse a conoscenza. “Non sono abituato a dare asilo agli sconosciuti, ma non potevo non aiutarla dopo tutto quello che i suoi genitori hanno fatto per me.”
Gli altri lo guardarono sorpresi da quell’improvvisa rivelazione. Andrè e Lady Nancy sembravano pietrificati, e la ragazza lo guardava senza capire cosa volesse fare con quella bugia. Che diavolo sta dicendo?
“Quando è arrivata alla villa non ricordava nemmeno il suo nome – poverina, deve aver subito uno shock molto grave – ma io l’ho riconosciuta grazie a una sua foto da bambina che conservavo in un vecchio album. I nostri genitori erano amici di lunga data e i suoi mi hanno dato una mano dopo… dopo la morte di mio padre.” La voce gli si incrinò per un attimo e Lena ebbe appena il tempo di pensare Ma sono lacrime, quelle? prima che lui riprendesse, cercando di controllare il tremito nella sua voce: “Ho saputo che erano fuori dall’Inghilterra, convinti che la loro unica figlia fosse finita in Francia con qualche nave, ma ho mandato loro una lettera per spiegare la situazione e tra poco torneranno a riprenderla. Sta anche iniziando a recuperare la memoria, anche se lentamente.” Le sorrise come se tutto andasse bene. “Non è vero, Lena?”
Esitò un attimo, poi tentò di sembrare rilassata e a proprio agio. “Assolutamente.”
Lady Nancy guardava entrambi a bocca spalancata: sapeva che quel maledetto ragazzino stava mentendo su suo padre, ma per quanto riguardava tutto il resto non ne era certa, non poteva accusarlo senza alcuna prova in mano. Si costrinse a sorridere e disse: “È una bellissima notizia, signorina Lena. Conte Trancy, se non sono scortese, potrei sapere chi sono i suoi genitori?”
“Nobili di altissimo lignaggio, così mi hanno detto. A quanto pare sono molto vicini alla Regina.”
La donna ondeggiò in preda al panico. “Vicini alla Regina, avete detto?”
“Vicinissimi,” confermò lui. Diede una veloce occhiata all’orologio su una delle pareti e sospirò. “Vogliate scusarci, signori, ma è arrivato il momento di andarcene. Arrivederci, dunque?” E, senza nemmeno aspettare la risposta, se ne andò via insieme a Lena, circondandole sempre le spalle. La ragazza non resistette e si diede un’occhiata alle spalle, osservando con un sorriso lo spettacolo di Lady Nancy che sbraitava ad Andrè ‘Te l’avevo detto, idiota di un francese! Lo sapevo che quella ragazzina ci avrebbe ficcato in un mucchio di guai!’. Ridacchiò tra sé e sé, e le sue risate non sfuggirono ad Alois. “Perché stai ridendo?”
“Niente,” gli rispose asciugandosi un occhio. In un breve momento di lucidità capì che il ragazzo l’aveva costretta ad andare da quei due per far sì che li affrontasse e risolvesse il problema una volta per tutte. Da quella sera buona parte dei suoi incubi se ne sarebbe andata, ma ne rimanevano sempre degli altri che, se possibile, erano peggiore di quelli in cui appariva il francese.
“Non pensare che l’abbia fatto solo per te,” le disse lui mentre avanzavano tra la folla verso una parte più calma del salone. “Avevo anch’io un conto da regolare da anni con quei due.”
Lena si voltò verso di lui: i suoi occhi non erano più pieni di lacrime e persino la sua voce aveva perso improvvisamente quel tremito, come se poco prima avesse solamente recitato. E forse era stato proprio così, conoscendolo non sarebbe stato un comportamento strano. Ma perché avrebbe dovuto mentire su suo padre? Perché Lady Nancy lo aveva guardato con paura ed entrambi avevano caricato le loro frasi con significati nascosti? Quali ombre si nascondevano ancora dentro quei limpidi occhi azzurri?
 

***

 
Alla fine non se ne andarono via subito come Alois aveva annunciato a Lady Nancy, ma rimasero dentro la town house finchè non fu ora di andarsene per tutti. Ogni tanto si concedettero qualche ballo per passare inosservati (e anche perché il biondo adorava vedere la sua ospite in difficoltà con le scarpe, la gonna e i passi con cui muoversi a ritmo di musica) ma passarono la maggior parte del tempo seduti in un angolo, con Lena che ascoltava il ragazzo svelarle i segreti più intimi e raccapriccianti di ogni persona presente nella sala. Tre o quattro volte delle ragazze si avvicinarono per chiedergli di ballare, e lui accettò tutte le volte con piacere, lasciando la sua accompagnatrice con il gelo nel cuore; ma, ogni volta che tornava, le raccontava le debolezze e gli scandali della sua nuova vittima, e ogni volta a lei fioriva un sorriso sulle labbra che scioglieva il ghiaccio. Era davvero un dongiovanni, proprio come aveva detto Michael Keel, ma dal modo in cui parlava di tutte quelle ragazze sembrava che le corteggiasse e stesse al loro gioco solo per prenderle in giro e scoprire quanto, in realtà, fossero tutte patetiche e maledettamente noiose. Lena si chiese più di una volta se per caso non stesse ingannando anche lei, ma era l’unica delle sue domande a cui non voleva trovare una risposta.
Uscirono dal salone insieme a tutti gli altri invitati e raggiunsero l’atrio l’uno accanto all’altra senza mai perdersi di vista. Il maggiordomo gentile li aiutò ad indossare i loro cappotti e augurò loro buona serata, e la ragazza gli rivolse un caldo sorriso prima di uscire nel freddo della notte. Il sentiero che portava al cancello era scarsamente illuminato, lasciando buio il prato che circondava la casa, e Lena sentì un brivido percorrerle la schiena quando si accorse che Alois era già arrivato in fondo senza nemmeno aspettarla. Si fece forza e si addentrò nella poca luce insieme ad altri pochi ritardatari, ma tutti la superarono velocemente, impazienti di tornare al caldo delle loro case. Rimase indietro da sola e sperò che non le accadesse niente, ma una volta arrivata a pochi passi dal cancello una mano le afferrò il braccio e la trascinò nel buio senza farsi notare da nessuno. La ragazza fece per urlare, ma un’altra mano le tappò la bocca e una voce le sibilò: “Attenta a cosa fai, signorina, o renderò il tuo bel vestitino ancora più rosso.”
Annuì e rimase in totale silenzio col cuore che le batteva mentre Andrè continuava, con gli occhi che la guardavano ardenti: “Non so se il tuo protettore ci ha detto la verità o meno, ma non me ne importa niente. Il messaggio che voglio darti è un altro, e apri bene le orecchie perché te lo dirò una volta sola. Puoi continuare a correre e a scappare da me, puoi rifugiarti perfino in capo al mondo se vuoi, ma sappi che ti terrò d’occhio per il resto della mia vita, e il giorno in cui metterai piede fuori da quella maledetta villa da sola ti prenderò e farò di te quello che voglio. Est-ce que tu as compris?
Annuì ancora, poi la mano di Andrè le liberò improvvisamente la bocca. Il francese cadde con un tonfo attutito sull’erba, tenendosi il naso rotto per la seconda volta in pochi giorni, e alzò lo sguardo per mettersi a litigare con chiunque avesse osato colpirlo, ma rinunciò ai suoi propositi non appena incontrò due occhi dorati che scintillavano senza pietà nel buio. Distolse lo sguardo, intuendo che era il momento di battersi in ritirata, e mentre si alzava si rivolse un’ultima volta alla ragazza. “Ricordati quello che ti ho detto, puttanella,” le ricordò, e un secondo pugno, stavolta nel petto, lo spedì di nuovo a terra qualche metro più in là, trasformandolo in un’ombra che si contorceva dal dolore nell’oscurità. Lena si voltò verso Claude, sorpresa, e i suoi dubbi si dissiparono non appena vide la sua solita espressione imperturbabile, senza nemmeno un briciolo di rabbia negli occhi: non aveva allontanato Andrè di spontanea volontà, ma doveva essere stato solo uno dei tanti ordini di Alois, probabilmente preoccupato di non vederla arrivare.
L’uomo si voltò verso di lei e, come se le avesse letto nel pensiero, le disse: “Il danna-sama mi ha ordinato di proteggervi ad ogni costo nello stesso modo in cui farei con lui.” La frase che si leggeva chiaramente tra le righe era Non osare nemmeno pensare che lo faccia volentieri, per me la tua vita non vale assolutamente nulla. La ragazza rabbrividì davanti a quell’ennesima dimostrazione d’odio, ma Claude non fece una piega. “La carrozza è pronta, stiamo aspettando solo voi per partire.”
 

***

 
Lena dormì profondamente per buona parte della notte, ma verso le quattro si svegliò, convinta che qualcuno la stesse osservando da dietro le tende. Impaurita, si sdraiò sul fianco destro per controllare se fosse da sola o in compagnia, ma tutto era immobile e silenzioso. Confortata ma ancora in allerta, si tirò le coperte fino al mento e chiuse di nuovo gli occhi, ma dei passi riecheggiarono nel corridoio e si fermarono proprio davanti alla porta della camera. La ragazza e l’altra persona rimasero a lungo immobili nel silenzio della villa, come se ognuno dei due aspettasse che l’altro facesse la prima mossa, poi la porta si aprì lentamente e si richiuse nello stesso modo. L’intruso sospirò, si diresse verso il letto e si infilò sotto le coperte mentre Lena rimaneva immobile come una statua in attesa del resto. Non dovette attendere molto, e dopo poco un dito le afferrò delicatamente una ciocca di capelli neri e iniziò a giocarci in un modo così familiare che la ragazza dovette trattenere un sorriso. Non gli fece capire di essere sveglia, decisa a godersi al meglio quel momento di intimità improvvisa.
“Oh, Lena,” sussurrò Alois a bassa voce per non svegliarla, senza nemmeno immaginare che lei lo stesse ascoltando attentamente. “Chissà se anche tu stai facendo uno dei tuoi incubi, e se ti tengono sveglia la notte come fanno i miei. Non immagini nemmeno quanto vorrei poter scambiare i nostri sogni.”
Rimase stupita davanti a una frase del genere, e il suo cuore iniziò a battere più forte, un motore a pieno regime. Solo dopo qualche mese, dopo aver conosciuto in ogni particolare la storia del ragazzo, avrebbe capito che non c’era stata alcuna dolcezza in quell’ultima frase, che lui avrebbe scambiato i suoi sogni con lei solo per trascorrere notti meno burrascose, lasciando lei in balia di incubi ancora più spaventosi. Ma al momento lei non conosceva ancora il suo passato, e si crogiolava nell’idea di essere finalmente qualcosa d’importante per lui. Lo lasciò giochicchiare con i suoi capelli ancora qualche minuto, poi sentì il suo respiro farsi più profondo e lento e il suo dito allentare la presa sulle ciocche. Gli augurò mentalmente buonanotte e riuscì a pensare Forse è venuto a dormire qui anche ieri notte per lo stesso motivo prima di riaddormentarsi.
 

***

 
La prima cosa che avvertì la mattina dopo fu la mancanza di un altro corpo caldo accanto a lei. Lena corrugò la fronte, sorpresa e ancora mezza addormentata, e quando si voltò vide che la parte di letto in cui aveva dormito Alois era vuota e sfatta, segno che il ragazzo se n’era già andato. Si strofinò gli occhi e si mise a sedere sul bordo del letto, sbadigliando prima di poggiare i piedi sul pavimento. Aspettò a lungo che qualcuno venisse a chiamarla, poi, quando dopo pochi minuti non arrivò nessuno, decise che non aveva voglia di aspettare e che poteva scendere al piano di sotto anche in camicia da notte: senza un aiuto non avrebbe saputo infilarsi nemmeno il più semplice dei vestiti e tecnicamente non era nuda, quindi che male c’era?
Scese dal letto dandosi una spinta e per i primi secondi ondeggiò mentre si dirigeva la porta. Riprese l’equilibrio in fretta e diede un’occhiata alle pantofole vicino al letto per poi decidere che non era importante mettersele: preferiva andare in giro a piedi nudi, e odiava indossare un paio di scarpe quando non era necessario. Aprì la porta e uscì nel corridoio, stupita del fatto che non ci fosse nessuno in vista e nemmeno rumori provenienti da altre stanze. Fece spallucce e si diresse verso la scalinata che portava al pianterreno, rabbrividendo quando la pelle nuda incontrò il gelo del marmo. Scese le scale più in fretta che poteva per non congelarsi i piedi e, sbagliando strada un paio di volte e tornando indietro sui suoi passi, riuscì a raggiungere il corridoio in cui si trovava il salottino dove faceva colazione. Di solito era Hannah ad accompagnarla, guidandola attraverso quei corridoi labirintici, ma quella mattina perfino lei sembrava scomparsa nel nulla. Il pensiero abbandonò la sua mente in fretta, sostituito da uno più piacevole mentre raggiungeva la porta del salotto: dopo quello che era successo alla festa e quella notte la sua fiducia in Alois si era rafforzata, come se aspettasse solo un’occasione del genere per farlo. Lui aveva i suoi momenti di rabbia, oh, lei lo sapeva bene, ma era stato così gentile nei suoi confronti che la ragazza si rifiutava di credere che lui potesse farle ancora del male. Forse le aveva fatto quei lividi solo perché non si conoscevano ancora bene, ed era sicura che un incidente del genere non sarebbe più successo in futuro. A due passi dalla porta era certa di aver ragione e si sentiva felice e leggera, ma in quel momento dal salottino giunsero il rumore di un bicchiere che si spaccava, la voce di Alois che chiamava Hannah, un urlo, una risata cattiva, delle parole che Lena non riuscì a capire e, poco dopo, un gemito soffocato che le fece correre i brividi lungo la schiena. Si avvicinò alla porta socchiusa in preda al panico, e quel che vide le fece spalancare gli occhi in un’espressione di puro stupore e paura.
Hannah era inginocchiata accanto alla sedia su cui era seduto Alois e tremava mentre lui, con un’espressione di pura follia in volta, le teneva ferma la testa con una mano e con due dita insanguinate dell’altra le faceva qualcosa al volto. C’erano frammenti di vetro disseminati su tutto il pavimento macchiato di sangue, che continuava a gocciolare dal volto della donna, macchiandole anche il vestito blu. “Claude non ti ha detto che non devi mai guardare il tuo padrone negli occhi?” le chiese ironico il ragazzo con aria cattiva e – Lena se ne accorse solo in quel momento e sentì le sue gambe sul punto di cedere – divertita. Dopo poco la sua espressione si trasformò in quella di un bambino triste e imbronciato e mormorò alla cameriera: “Mi dispiace di doverti fare questo, ma Claude si arrabbierà con me se non ti punisco.” Detto questo la lasciò andare di colpo, e Hannah si raggomitolò ancora di più su sé stessa tenendosi la parte ferita del volto sotto lo sguardo dei tre gemelli, che iniziarono a sussurrarsi cose all’orecchio tra di loro senza emettere un suono. Lo sguardo di Alois era impassibile, e non sembrava prestare molta attenzione al sangue sulle sue dita e a quello che continuava a cadere copiosamente dal volto della donna.
Questo fu decisamente troppo per Lena. Fece un passo indietro, tremante e ancora incapace di credere a quello che aveva appena visto, poi riuscì a liberarsi dall’incantesimo che le aveva impedito di distogliere lo sguardo fino a quel momento e scappò via lungo il corridoio nella direzione opposta a quella da cui stava arrivando il maggiordomo. Riuscì a salire fino al primo piano, incespicando ogni tanto sui gradini, e si chiuse nel bagno un secondo prima che i conati prendessero il controllo del suo corpo. Raggiunse il lavandino appena in tempo, e in pochi secondi il primo fiotto giallo-verdastro le uscì dalla bocca, sporcando il bianco immacolato del marmo. Tossì un paio di volte e riprese a vomitare, continuando ad avere conati ogni volta che la vista di tutto quel sangue e quella crudeltà le tornava in mente. Fu incapace di pensare qualcosa di coerente finchè non ebbe smesso di vomitare, e solo allora si lasciò cadere di colpo sul pavimento. Le dighe nei suoi occhi si ruppero e iniziò a piangere copiosamente, arrabbiata più con sé stessa che con Alois: sembrava che, ogni volta che decideva di dare fiducia al ragazzo, la parte oscura di lui uscisse all’esterno e facesse crollare i suoi castelli di certezze. E lei era così stupida, faceva sempre lo stesso errore, ma non riusciva a smettere di sbagliare. Era più forte di lei, voleva disperatamente credere che lui fosse migliore di quanto non fosse in realtà. Era stupido, ma lui era così dannatamente importante per lei, si rifiutava di credere che potesse compiere gesti simili.
Una volta finito di piangere, si alzò in piedi e aprì il rubinetto del lavandino, lasciando che l’acqua portasse via il vomito, ma non il suo odore – probabilmente il bagno avrebbe continuato a puzzare per giorni, ma sinceramente non le importava. Alzò lo sguardo verso lo specchio e osservò il suo riflesso: era più pallida del solito, aveva gli occhi arrossati e una scia di vomito le stava colando dal mento. Se l’asciugò in fretta e osservò la benda che le copriva la guancia e le maniche sotto cui si nascondevano i lividi. Abbassò la testa e si infilò le mani tra i capelli, disperata, mentre nella sua testa le immagini di poco prima scorrevano in veloce successione.
Per la seconda volta da quando era arrivata, Lena si sentì soffocare tra le pareti di quella villa come in una prigione. 














Domani. Esame di certificazione di tedesco. Sarei dovuta andare a letto presto, ma manca dieci alle undici e sono ancora qua, quindi sarà meglio che mi sbrighi o mi addormenterò davanti alla commissione. [Capitolo un pò fortino, eh? D:]
MadLucy: credo di aver trovato il giusto equilibrio per Alois, e la cosa mi soddisfa molto \o/
yako_chan: ciao, è un piacere vedere un nuovo recensore da queste parti! :D Come ho già detto per svelare il passato di Lena ci vorrà ancora tempo (#sonoconsapevolediesseresadica), ma almeno abbiamo avuto la soddisfazione di cantarle ad Andrè e Lady Nancy XD

xoxo
Eva

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Capitolo 12
*** C'è una tempesta in arrivo, la senti l'elettricità? ***


XII. C’è una tempesta in arrivo, la senti l’elettricità?
 

 


I colpi alla porta la riportarono bruscamente alla realtà, facendola sobbalzare e alzare la testa di scatto.
“Lena, sei qui dentro?” La ragazza trattenne il respiro quando sentì la voce di Alois e fece un passo indietro, ma con il braccio sfiorò per sbaglio una bottiglia di vetro che si trovava sul lavandino, rischiando di farla cadere. La afferrò al volo prima che si schiantasse sul pavimento, mandando a monte il suo tentativo di fare silenzio. Il ragazzo sentì quel baccano e continuò: “Ti senti bene? Dev’essere più di mezz’ora che sei richiusa qua dentro.”
Soltanto mezz’ora? pensò lei stupefatta. Le sembrava di essere rimasta a testa bassa per ore, mentre la scena di poco prima continuava a vorticarle nel cervello come una trottola impazzita. Ormai era stata scoperta e non c’era più alcun motivo di rimanere in silenzio, tanto valeva rispondergli. Deglutì e disse: “Non mi sono sentita molto bene stanotte.”
La voce attutita al di là della porta mormorò qualcosa come ‘Oh, capisco’, poi il pomello iniziò a muoversi, scosso da una mano dall’altra parte. Lena fece ancora un passo indietro, spaventata: non voleva vedere Alois in quel momento, non dopo aver assistito a quella scena. Il ricordo di tutto quel sangue le fece salire in gola un nuovo conato, ma riuscì a trattenerlo e a ributtarlo giù con un grande sforzo mentre il biondo continuava: “Stai così male da esserti chiusa a chiave dentro?” Rise senza alcuna traccia di cattiveria. “Avanti, apri, abbiamo un sacco di cose da fare!”
Lei esitò per un attimo, poi decise di assecondarlo e di affrontarlo una volta per tutte: non poteva continuare a nascondersi dietro un pezzo di legno per tutto il giorno, prima o poi sarebbe dovuta uscire e guardarlo di nuovo negli occhi. Si avvicinò alla porta con passi tremanti e fece girare la chiave un paio di volte nella serratura. Prima di afferrare il pomello fece un respiro profondo e poi spalancò la porta, ritrovandosi davanti la solita espressione felice di Alois e il suo sorriso di sempre sulle labbra. Non c’era più alcuna traccia di pazzia nei suoi occhi, solo splendente luce azzurra. La ragazza abbassò lo sguardo sulle sue dita e fu sollevata quando non vide più alcuna traccia di sangue sulla sua pelle, ma rimase ancora una volta scioccata davanti ai suoi repentini cambi d’umore.
“Sicura di sentirti bene? Sei pallida come un fantasma!” esclamò il ragazzo, continuando a sorridere.
Annuì, non più del tutto sicura che assecondarlo fosse la cosa giusta da fare. Ma non ebbe tempo per ripensarci, perché lui la afferrò per il polso e si diresse in direzione verso la fine del corridoio senza mai smettere di parlare. Raccontava cose e aneddoti così velocemente che lei riuscì a capirne a malapena la metà e, non trovandovi alcun nesso logico, lo interruppe chiedendogli: “Non dovresti avere da fare a quest’ora?”
Lui le rispose senza nemmeno voltarsi. “Non oggi. Abbiamo ospiti a pranzo, non posso perdere tempo con le lezioni o cose del genere.”
“Aspetta un attimo!” Si fermarono entrambi e il ragazzo si voltò verso un’alquanto scioccata Lena. “Hai appena detto ‘ospiti’?” gli chiese lei, incapace di credere alle proprie parole.
L’espressione di Alois rimase impassibile, poi un sorriso gli si dipinse sulle labbra. “Niente di cui tu ti debba preoccupare. Devo solo finire di sistemare quella faccenda per cui siamo andati alla cattedrale, ricordi?”
Sì, aveva dei vaghi ricordi di quella tremenda giornata, soprattutto della parte in cui erano scappati nel bosco per nascondersi da un pazzo armato. Ironia a parte, ricordava perfettamente la rabbia e le parole che il ragazzo aveva pronunciato mentre uscivano dalla cattedrale, e la sua curiosità era rimasta vivida come quel giorno. Fu sul punto di chiedergli chiarimenti, ma l’istinto la fermò e le suggerì di aspettare che fosse lui a vuotare il sacco; forse avrebbe dovuto aspettare a lungo, ma era sempre meglio di affrontare il suo comportamento imprevedibile. Fece un cenno d’assenso con la testa e lasciò che il biondo la trascinasse verso la stanza in cui si trovava il suo armadio. Quando entrarono dentro sul letto era già disteso un vestito dello stesso blu della sua collana con corte maniche a sbuffo. Il gioiello, forse sentendosi chiamato in causa, lanciò un bagliore da sotto la camicia da notte, ma fu talmente rapido che nessuno dei due ragazzi se ne accorse. “I nostri ospiti non arriveranno prima di mezzogiorno, abbiamo tutto il tempo per prepararti,” disse Alois mentre si dirigeva a passo sicuro verso il letto e sollevava il vestito in alto, facendo rilucere la stoffa lucida alla luce che proveniva dalla finestra.
Prepararmi? “Cosa vorresti dire?” gli chiese, temendo in parte la risposta.
Lui si voltò sorridente verso di lei. “Dai, spogliati, ti do una mano a mettertelo.”
Un campanello d’allarme le risuonò nella sua testa e le guance le si colorarono di un rosso acceso in contrasto con la pelle pallida. Fece un passo indietro verso la porta ancora aperta e disse la prima scusa che le venne in mente al momento dopo aver lanciato un’occhiata all’orologio sulla mensola del caminetto. “M-Ma sono solo le nove e mezza, è prestissimo!”
“Perfetto, così avremo tutto il tempo di rimediare se qualcosa andrà storto.” Si diresse verso la porta col vestito su una spalla e la chiuse, tirando poi un lembo della manica della camicia da notte della ragazza. “Forza, prima iniziamo e prima finiamo.”
Avrebbe potuto dirgli di no. Avrebbe potuto rifiutarsi con tutte le sue forze, mettersi a urlare, cercare di scappare dalla stanza. Avrebbe potuto fare mille cose, se solo ne avesse avuto il coraggio. Invece l’unica cosa che riuscì a fare fu mormorare come ultima timida difesa: “Di solito mi dà una mano Hannah con i vestiti.”
Nel sentire quel nome gli occhi di Alois non risplendettero di alcuna luce particolare, come se lui si fosse già dimenticato quello che era successo nel salottino. “Al momento ha altre cose da fare, non ce la farebbe ad occuparsi anche di te. Non ti fidi di me?” concluse ridendo.
Non avrebbe potuto farle una domanda più difficile. Era la stessa che lei si era fatta più di una volta, quando si chiedeva se valeva davvero la pena dare fiducia a quello strano ragazzo lunatico a cui doveva la vita, e ogni volta la risposta era sempre la stessa, nonostante tutto. Annuì lentamente e poi, velocemente per farlo essere meno indolore, si tolse la camicia da notte, rimanendo solo in mutande. Si sentiva indifesa e senza alcuna protezione, tuttavia rimase a testa alta e con l’espressione più naturale che aveva, come se per lei non fosse alcun problema essere quasi completamente nuda davanti ad Alois. Lui non fece una piega, lasciandosi sfuggire solo un’occhiata e un sorriso più maliziosi del solito, poi i due si avvicinarono allo specchio e iniziarono a darsi da fare.
All’inizio tutto procedette abbastanza bene – per quanto le cose potessero andare bene con un maschio impegnato in un lavoro femminile – ma i problemi vennero fuori solo al momento di allacciare il corsetto. Il ragazzo era un totale imbranato con i fili per chiuderlo, e ogni volta che li tirava per stringerlo rimaneva stupito quando Lena gli diceva di stringerlo ancora di più. Glielo disse quattro o cinque volte, poi lui si fermò ed esclamò: “Sei sicura che debba essere ancora più stretto? Sembra che tu stia per soffocare!”
“Sto bene,” mormorò lei, mentendo solo in parte. L’aria non era un problema, ormai aveva imparato a respirare con i polmoni strizzati come due spugne, ma i conati non le erano passati ancora del tutto, e quel maledetto corsetto non l’aiutava certo a sentirsi meglio. Gemette senza farsi sentire da Alois e continuò: “Ancora un poco.”
La tirata successiva le tolse definitivamente la poca aria che le era rimasta nei polmoni. Annaspò in cerca di ossigeno e tossì un paio di volte, sentendosi rinchiusa in un busto di ferro troppo stretto per lei. Crollò in ginocchio cercando di respirare, e il ragazzo si affrettò ad inginocchiarsi accanto a lei e ad allentare il corsetto. Tanto bastò a farla sentire un poco meglio, e riuscì di nuovo a respirare senza sentire dei pugnali che le si conficcavano nel petto. Ringraziò a bassa voce il suo salvatore e fece per alzarsi di nuovo in piedi, ma lui le sfiorò con un dito uno dei lividi sul suo braccio destro, facendole provare un brivido di dolore. “Dovresti fare qualcosa per questi lividi, potrebbero peggiorare se non li curi,” le sussurrò all’orecchio, e nella sua voce c’era il ricordo di quella sera nella stanza da bagno. La ragazza rabbrividì e fece per dirgli qualcosa, qualunque cosa, ma in quel momento la porta si spalancò e Hannah entrò, chiamata dai rumori e dalle voci che provenivano dalla stanza o forse avvertita dal suo sesto senso. Osservò i due ragazzi inginocchiati sul pavimento senza fare una piega, ma ebbe un lieve sussulto quando vide Alois. Lena si voltò verso di lei in quel momento e notò con un brivido la fascia che le copriva l’occhio sinistro e scompariva sotto le ciocche argentate, così simile a quella che lei aveva sulla sua guancia. Il conte si voltò e lanciò uno sguardo pieno d’odio e rabbia alla donna, e le sue labbra si contrassero in una smorfia. Si alzò in piedi di scatto, la sua allegria già scomparsa nel nulla, e si diresse verso la porta, dando una spinta alla cameriera per uscire dalla stanza. I suoi passi risuonarono con un’eco pesante nel corridoio deserto, e solo quando furono scomparsi nel nulla Hannah si diresse verso la ragazza ancora inginocchiata sul pavimento. Le diede una mano ad alzarsi in piedi e la mise di nuovo davanti allo specchio, finendo poi di stringerle il corsetto con gesti abili che non avevano niente a che vedere con quelli più imbranati e meno delicati del biondo. Lena approfittò dello sguardo basso della donna per lanciare un’altra occhiata senza farsi vedere alla benda sul suo volto, e rabbrividì al ricordo delle dita di Alois e del pavimento macchiati di sangue. Si chiese come facesse lei a rimanere sempre così nonostante tutto quello che le succedeva, sempre in silenzio, sempre a testa bassa, senza mai esprimere all’esterno un’emozione differente da quella tristezza perenne. Non la conosceva per niente, ma non poteva fare a meno di provare qualcosa per lei, l’unica altra persona con cui riusciva a trovarsi a suo agio. Forse fu quella specie di affetto – se così si poteva chiamare – a farle dire in un sussurro quasi inudibile rivolto verso i loro riflessi: “Mi dispiace.”
Hannah si stupì nel sentire quelle parole e si fermò, e nei suoi occhi si accese una scintilla di sorpresa. Si costrinse a riprendersi in fretta e tornò a sistemare il corsetto, ma le sue mani erano scosse da lievi tremiti. Era passato molto tempo da quando un altro essere umano le aveva rivolto una frase così gentile e innocente; ricordava ancora l’espressione serena di quei due occhi castani e il ‘Grazie’ che Luka Macken le aveva mormorato con le ultime forze in punto di morte. Lui e Lena non si conoscevano e non si sarebbero mai potuti incontrare, ma negli occhi verdi di lei il demone vedeva la stessa scintilla che un tempo aveva brillato negli occhi del bambino, una luce di pura innocenza e sincerità. Non sapeva se dipendesse dalla sua perdita di memoria o dalla sua vera natura, ma era qualcosa che avrebbe portato sempre con sé, perfino nell’ora più buia, e che neppure quello che stava per iniziare avrebbe cancellato. L’espressione del suo viso rimase imperturbabile, ma dentro di sé Hannah abbozzò un sorriso amaro. Non dovete preoccuparvi per me, signorina, ci sono cose ben più peggiori di un occhio e del sangue.
 

***

 
Contrariamente a quanto si aspettava da sé stessa, Lena riuscì a resistere per tutto il pomeriggio, sorridendo quando doveva e rispondendo debitamente alle domande che le venivano fatte, anche se non vedeva l’ora che tutto tornasse alla normalità. Gli ospiti, i primi altri esseri umani che arrivavano alla villa dopo di lei, arrivarono in carrozza a mezzogiorno spaccato, e insieme al prete della cattedrale c’erano altri due uomini: uno di loro, il più robusto, si presentò come lo zio di Alois e l’altro, con due occhi azzurri e lunghi capelli biondi, disse di essere il visconte Druitt, un tipo persino più schizofrenico del padrone di casa, cosa che la ragazza riteneva impossibile. Tuttavia tenne eventuali commenti per sé, sicura che prima o poi Alois le avrebbe chiesto qualcosa, e fece del suo meglio per cercare di sopravvivere a quella giornata. Perfino il pranzo filò liscio, con suo grande sollievo, e l’unico momento in cui temette il peggio fu quando le chiesero come mai si trovasse ospite in quella villa. Venne assalita dai sudori freddi, ma Alois la salvò dicendo semplicemente: “Ha perso i suoi genitori una settimana fa e ha chiesto se poteva rimanere qui qualche tempo, niente di più.” Le diede un calcio leggero da sotto il tavolo, e lei si affrettò ad annuire sotto lo sguardo estasiato del visconte.
Si era aspettata che qualcuno parlasse davanti a tutti della ‘faccenda’ da risolvere così da poter capire cosa fosse veramente, ma tutti ne accennarono poco o niente, limitandosi a sottintendere altre frasi sotto le loro parole e a lanciarsi occhiate da un capo all’altro del tavolo, lasciandola più confusa che mai. Continuò a non capire niente per il resto del pomeriggio, anche se non lo diede mai a vedere, e capì ancora meno quando, dopo aver accompagnato gli ospiti alla porta, Alois l’afferrò per un polso e la trascinò al piano di sopra, correndo lungo il corridoio a una velocità impensabile per gli stivali che indossava. Lena provò a chiedergli un paio di volte dove stessero andando, ma lui non le rispose e si limitò a portarla in camera sua. Era diversa dall’ultima volta che c’era stata: la portafinestra era spalancata, facendo entrare il vento della sera appena scesa che scuoteva le tende, e sul letto c’erano una risma di fogli scritti fittamente e timbrati. Il ragazzo rise, pregustandosi il divertimento in anticipo, poi afferrò parte della risma e la diede alla sua ospite, afferrando la parte rimasta e dirigendosi sul balcone. Lei lo seguì, si mise al suo fianco senza capire bene cosa fare e lanciò un’occhiata alla parte di giardino sterrata, dove la carrozza si stava preparando a tornare a Londra o dovunque fosse diretta; lo zio di Alois era ancora là, e stava osservando la villa con disprezzo, un sentimento che lei non gli aveva mai visto in faccia durante tutta la giornata.
“Guardalo, quello schifoso che si sente il padrone di casa mia,” le disse il ragazzo, lasciandosi scappare una risata subito dopo. “Adesso sì che ci divertiamo. Ehi, zio Arnold!” urlò, facendo alzare lo sguardo dell’uomo verso il balcone. Rise ancora e iniziò a lanciare i fogli che teneva in mano di sotto, e Lena li osservò svolazzare come foglie morte nell’aria buia.
“Avanti, prendi pure tutta questa roba, a me non serve!” Alois afferrò la risma che la ragazza teneva in mano e gettò di sotto anche quella, continuando a ridere istericamente mentre osservava l’uomo che cercava di raccoglierli avidamente. Stava continuando a ridere persino quando si voltò verso di lei e le disse: “Guardalo, Lena, sembra che balli! Non è divertente?”
Osservò meglio la scena e si lasciò sfuggire involontariamente una risata: aveva ragione, per quanto potesse sembrare crudele per certi versi era davvero divertente vederlo affaccendarsi per raccogliere pezzi di carta senza valore. Risero insieme finchè la carrozza non fu uscita dalla villa e scomparsa nel buio, poi Lena sentì qualcosa di piccolo bagnarle il naso all’improvviso. Smise di ridere e alzò lo sguardo verso il cielo, nero e grigio non più solo per la sera, ma anche per le nubi scure che si stavano ammassando all’orizzonte e avanzavano verso di loro velocemente. Nell’oscurità ci fu una luce improvvisa, poi un brontolio sommesso di tuono. “Sta arrivando una tempesta,” mormorò, affascinata dalle nuvole piene di pioggia.
Ma quella non sarebbe stata l’unica tempesta in arrivo nel suo rifugio.
 

***

 
La tempesta naturale arrivò a Trancy Manor mentre Alois e Lena stavano cenando in sala da pranzo. Un fulmine entrò con prepotenza nella stanza attraverso le finestre, e la sua luce fece apparire quella delle candele una copia pallida di quel fuoco veloce. Poco dopo la pioggia iniziò a cadere, ticchettando contro i vetri con un ritmo diseguale e ipnotico che fece sbadigliare la ragazza come se non dormisse da giorni. L’altro la guardò e rise senza traccia di scherno, facendo qualche battuta sulla sua stanchezza senza volerla stuzzicare sul serio. Lei si limitò a sorridergli, accarezzando e infine accettando l’idea di andare a letto non appena fosse uscita dalla sala. Si congedò dal ragazzo e tornò al piano di sopra insieme a Hannah, che le diede una mano a svestirsi e a mettersi la camicia da notte prima di tornarsene al pianterreno. Lena aspettò che i suoi passi fossero svaniti, poi tirò fuori da sotto il materasso il suo quaderno e ci scrisse sopra qualche appunto sulla giornata appena passata e sulla festa della sera prima. Pensava di nasconderlo nuovamente sotto il materasso, ma si addormentò sul tavolino alla fine di una frase e non sentì i colpi al portone e i movimenti al piano di sotto quando, quasi nel bel mezzo della notte, arrivò uno strano visitatore che portava con sé una tempesta di ben altro tipo.
Dormì profondamente per un paio d’ore che le sembrarono una manciata di minuti, e si svegliò di colpo quando ci furono dei rumori improvvisi da qualche parte della villa. Alzò di scatto il busto e drizzò le orecchie per cercare di sentire altri rumori, e improvvisamente ci furono altri rumori, passi e la voce di Alois che urlava: “Prendilo, Claude! Prendilo, ma non ucciderlo!
Lena si alzò di scatto in piedi, allarmata da quelle parole, e spalancò la porta della camera giusto in tempo per vedere due figure nere saettarle davanti così velocemente che quasi si convinse di essersele sognate. Quando furono scomparse uscì nel corridoio e iniziò a correre verso la scalinata per cercare di capire cosa stava succedendo, e fu in quel momento che notò la figura nera in piedi sopra il lampadario e con una valigia in mano. Sto sognando? si chiese incredula, ma fu sicura di essere sveglia non appena la figura disse, rivolta a qualcuno più in basso: “Ora, lascia che affoghi l’oro… nel nero.”
Le candele nel corridoio e del lampadario si spensero tutte insieme contemporaneamente, e così fu per il resto delle luci nella villa. La ragazza si fermò a metà del corridoio e raggelò quando sentì l’urlo di Alois; avrebbe voluto raggiungerlo, ma aveva paura di cascare dalle scale con tutto quel buio. Poco dopo, per fortuna, qualcuno accese delle candele al piano di sotto, anche se la loro luce non riusciva ad illuminare anche il corridoio del piano superiore. Lena sospirò di sollievo e fece per scendere al pianterreno, ma il rumore di una finestra infranta la bloccò di nuovo in mezzo al corridoio, lasciandola confusa e con una scarica di adrenalina in corpo. Sentì Alois gridare altri ordini con la voce spaventata ma autoritaria, lo sentì invocare Claude di non abbandonarlo, di restare con lui, di non lasciarlo da solo. Aveva una voce talmente implorante e rotta che la ragazza quasi si rifiutò di credere che fosse la sua, perché mai si sarebbe immaginata di vedere Alois Trancy piangere. La voce del maggiordomo rispose a quella del suo danna-sama con parole che lei non riuscì a capire, ma comprese subito che lei non avrebbe migliorato la situazione scendendo, perché il ragazzo non aveva bisogno di lei. Tentennò per un attimo, incerta sul da farsi, poi si voltò e tornò a tentoni in camera sua, nascondendo il quaderno sotto il materasso prima di infilarsi sotto le coperte e cercare di dormire. Si rigirò dentro il letto per qualche minuto, piena di mille altre domande, poi finalmente riuscì ad addormentarsi.
Quella notte i suoi incubi la lasciarono in pace, facendole sognare soltanto stormi di corvi.

















Capitolo di passaggio più corto del solito, perdonatemi, sono le undici e mezzo e domattina ho scuola. Perchè non posso dormire? ç^ç
MadLucy: certo che ti esprimi in maniera esauriente, le tue recensioni sono quelle di cui mi fido di più ^-^ Ciel entrerà in scena tra un paio di capitoli, e ad essere sincera non vedo l'ora di scrivere quella scena. Ci sarà Sebastian. SOPRATTUTTO Sebastian.
BeaLovesOscarinobello: sono davvero contenta che questi ultimi due capitoli ti siano piaciuti :D "quella stupenda scena con cui è stato apero l'anime e che ci voleva far odiare Alois a tutti i costi..." In effetti la mia prima reazione è stata un pò disgustata, se fossi una persona di stomaco facile avrei vomitato persino io D:

xoxo
Eva

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Capitolo 13
*** Scatole da tè, cantine e vestaglie. ***


XIII. Scatole da tè, cantine e vestaglie.
 

 



Un tonfo secco e attutito in una stanza poco lontana. Un altro tonfo poco dopo, quello di un corpo che cadeva sul pavimento. La voce arrabbiata di Alois che urlava senza che lei potesse distinguere le sue parole.
Lena ascoltò per un po’ le sue urla, poi si rannicchiò nella poltrona e fece scomparire di nuovo il suo sguardo dentro il libro, cercando di lasciare i rumori fuori dalla biblioteca e dalla sua testa. Riuscì a leggere solo un paio di frasi, poi chiuse il volume sospirando e si mise ad aspettare che il ragazzo smettesse di urlare come un forsennato. Il suo umore già piuttosto precario era peggiorato da una settimana, da quella notte in cui la ragazza si era ritrovata nel corridoio buio ad ascoltare il rumore di una finestra che si infrangeva. Lui si era rifiutato di dirle cosa fosse successo esattamente, o forse non ci aveva nemmeno pensato, ma a giudicare da quello che urlava a Claude quando aveva uno dei suoi scoppi d’ira sembrava che fosse crollato il mondo, come se gli avessero portato via qualcosa di molto prezioso. Lena aveva pensato a lungo a cosa avessero potuto rubargli, ma non le veniva in mente nulla di così prezioso da farlo arrabbiare così ferocemente. La sua curiosità quasi le ordinava di provare a scoprire cosa fosse, ma l’idea di avventurarsi da sola per i corridoi della villa in cerca di un oggetto sconosciuto non la allettava molto. Meglio rimanere in un angolo ad aspettare che la tempesta fosse passata, e forse il resto sarebbe venuto da sé.
Finalmente le urla smisero di riecheggiare nel corridoio fuori dalla biblioteca, e la ragazza potè riaprire il suo libro per godersi qualche ora di calma prima che Alois finisse i suoi impegni e venisse a cercarla. Di solito aspettava con impazienza quel momento, ma da una settimana lo temeva: quando erano insieme lui era intrattabile e più suscettibile che mai, e bastava veramente poco per farlo scoppiare come una polveriera in fiamme. Era difficile anche scegliere come parlargli e comportarsi con lui, perché la stessa cosa poteva farlo reagire in modi diversi a seconda della situazione. Lena rabbrividì quando ripensò al pizzicotto più forte del solito che lui le aveva dato quando era rimasta in silenzio troppo a lungo, persa in pensieri che lui non avrebbe mai potuto vedere e conoscere. La sera non era rimasta sorpresa nel vedere che un nuovo livido si era aggiunto alla collezione sulle sue braccia. C’era da dire che lui non si arrabbiava mai con lei, o almeno, non come faceva con la servitù: non le urlava contro, non la picchiava, non le tirava oggetti addosso. Persino nell’impeto della rabbia e della pazzia sembrava ricordarsi che lei non doveva essere punita per quello che era successo (qualunque cosa fosse) e quindi cercava di contenersi quando era insieme a lei.
Provò a concentrarsi di nuovo sulla trama del romanzo e si costrinse a tornare al fianco del protagonista, ma dopo poco la sua mente vagava di nuovo su altri pensieri, lasciando il ragazzo di parole da solo al suo destino. Chiuse il libro con uno scatto e lo rimise a posto sullo scaffale, alzandosi poi dalla sedia e scendendo dal soppalco della biblioteca. Ormai quella stanza era diventato il suo rifugio durante la mattina, in quelle lunghe ore che doveva trascorrere da sola: non vi entrava quasi mai nessuno tranne lei, e il silenzio dei libri non era pesante come quello che aleggiava nel resto della villa. Fece un giro della biblioteca, sbirciando i titoli tra gli scaffali in cerca di qualcosa di nuovo e cercando di distrarsi, ma la sua mente tornò nuovamente a quella notte; se era stato rubato qualcosa probabilmente il ladro era quella figura nera in piedi sopra il lampadario, quella con in mano la valigia. Che avesse preso qualcosa di così grosso da aver bisogno di una borsa tanto grande per trasportarla? E come aveva fatto un bagaglio così grande e pesante a non intralciare la sua fuga? Ma soprattutto, chi era quella figura e cosa voleva da Alois?
Sospirò e diede un’occhiata fuori dalla finestra: nonostante la tempesta di pochi giorni prima il giardino era in piena primavera e rigoglioso come non mai. Ogni tanto le capitava di andare a fare una passeggiata con il ragazzo durante i loro pomeriggi insieme, ma lui non la trascinava più da una parte all’altra per poi perdersi: adesso tutto per lui ruotava attorno a quel maledetto furto, e sembrava aver perso interesse nel far sperdere la sua ospite in luoghi ogni volta diversi. Lena pensò con rimpianto a quei giorni, poi un’idea le venne in mente all’improvviso: e se lei avesse cercato quell’oggetto? E se fosse persino riuscita a trovarlo, avrebbe riavuto di nuovo l’attenzione di Alois e tutto sarebbe tornato come prima?
Qualcosa dentro di lei le disse che stava andando troppo veloce, che se era stato rubato non l’avrebbe mai trovato dentro la villa, ma lei non le diede ascolto e si diresse a passi veloci verso la porta della biblioteca. L’aprì lentamente, facendo attenzione a non fare rumore, e sgattaiolò nel corridoio deserto in silenzio. Guardò a destra e a sinistra senza saper bene che direzione prendere, poi, quasi involontariamente, abbassò il suo sguardo sulla collana come se si aspettasse di trovare un indizio o un’indicazione. Dovette strofinarsi gli occhi un paio di volte prima di rendersi conto che non si stava immaginando quella macchia più chiara che sembrava risplendere sul bordo destro della pietra. La guardò stupita ancora una volta, poi si voltò in quella direzione e s’incamminò lungo il corridoio senza sapere dove stesse andando. Ogni tanto abbassava lo sguardo sul ciondolo e notava una nuova macchia che le indicava una nuova direzione; si diceva sempre più spesso che forse si stava inventando tutto e stava seguendo degli indizi inesistenti, ma seguiva ogni nuova indicazione come se avesse una pianta precisa della villa davanti ai suoi occhi.
Raggiunse l’ultima tappa del suo viaggio qualche minuto dopo nella cucina vuota, quando la collana le ‘indicò’ la porta sulla parete opposta a quella da cui era entrata. Camminò lentamente verso di essa e l’aprì piano, ritrovandosi poi in cima a delle scale che scomparivano nel buio assoluto della cantina, simile a una bocca pronta a divorarla. Spaventata, Lena abbassò lo sguardo ancora una volta sulla collana, ma stavolta nessuna macchia le arrivò in aiuto: erano scomparse tutte quante non appena avevano portato a termine il loro compito, adesso toccava a lei andare avanti per trovare il premio di quella caccia al tesoro. Il suo cuore iniziò a battere più veloce in preda al panico, ma lei provò a mantenere la calma e si mise a cercare qualcosa con cui fare luce nell’oscurità; trovò un candelabro nel corridoio fuori dalla cucina, accese le due candele e, dopo aver fatto un respiro profondo, mise il piede sul primo gradino. Si aspettava di veder uscire dal buio le creature e gli incubi più disparati, ma tutto quello che vide fu solamente il gradino successivo. Si richiuse la porta alle spalle per non lasciare tracce del suo passaggio e scese lentamente gli altri scalini, con l’eco dei suoi passi che rimbombava nella stanza. Mentre scendeva osservò meglio la cantina: non era niente di particolare, solo una stanza sottoterra piena di scaffali e mobili su cui era riposto tutto quello che serviva in cucina. Niente di misterioso, niente di eccitante, niente di niente. Eppure qualcosa le diceva che stava andando nella direzione giusta, e fu solo per questo che continuò a scendere, lasciandosi avvolgere sempre di più dall’oscurità.
Una volta in fondo alle scale si fermò, dandosi un’occhiata intorno. La luce delle candele illuminava buona parte della stanza, mostrandole che non c’era niente di strano o insolito. Con un sospiro fece per voltarsi e tornare su, ma un luccichio attirò la sua attenzione. Si voltò in quella direzione, incuriosita, e si incamminò a passi lenti verso le scatolette di metallo che riflettevano le fiammelle delle candele. Ne afferrò una, sentendo il peso di qualcosa al suo interno, e osservò il disegno che raffigurava una donna a sedere sopra una falce di luna. Lesse il nome del tipo di tè che contenevano ma non riuscì a collegarlo a niente di familiare, eppure qualcosa continuava a dirle di essere nel posto giusto. Per un attimo la pietra della collana brillò di una luce intensa, per poi spengersi, e Lena fu finalmente certa di essere sulla pista giusta; qualunque cosa fosse stata rubata una settimana prima un tempo si trovava lì, in fondo a quella cantina buia. Ma perché conservare qualcosa di così prezioso in un posto simile, alla portata di tutti? Cosa le stava sfuggendo?
“Cosa state facendo qui?”
Lasciò andare di colpo la sua presa sulla scatola, facendola cadere sul pavimento con un tonfo metallico che riecheggiò nella cantina, e si voltò di scatto verso le scale: la porta era di nuovo aperta, e sulla soglia si stagliava in controluce la figura di Claude. La sua espressione era impassibile come al solito, ma i suoi occhi dorati sembravano brillare nel buio e la osservavano da dietro le lenti degli occhiali. Lena sentì dei brividi di puro terrore scenderle lungo la schiena, e fece involontariamente un passo indietro con il candelabro che le tremava in mano. “Stavo… ah… stavo…” riuscì a balbettare, incapace di distogliere lo sguardo da quei due occhi dorati. Aveva così tanta paura che si sentiva sul punto di farsela addosso e non riusciva a pensare a niente, nemmeno alla scusa più idiota e assurda. Si costrinse a non far tremare la voce e improvvisò: “Mi sono persa. Stavo passando da queste parti e mi sono ritrovata prima in cucina e poi qui sotto.”
“E stavate passeggiando per la villa in pieno giorno con un candelabro acceso in mano?”
Imprecò dentro di sé. “Non potevo scendere qui con questo buio,” gli rispose con un sorriso che tremava persino più delle fiammelle delle candele. L’uomo non replicò, continuando a fissarla dal primo gradino, immobile, l’unico ostacolo verso la luce. La ragazza provò a fare un altro passo indietro, ma il suo piede colpì qualcosa di metallico; stupita, abbassò lo sguardo, sfuggendo a quei due occhi dorati, e mormorò un’imprecazione tra sé e sé quando vide che la scatoletta di poco prima aveva rovesciato tutto il suo contenuto per terra. Si inginocchiò su un ginocchio sul pavimento, appoggiò il candelabro per terra e cercò di rimettere tutto a posto, ma era difficile vedere le foglie di tè con quella poca luce. Come rimedio a questo casino? Come diavolo…
“Lasciate, ci penso io.” Alzò lo sguardo, sorpresa da quella voce così vicina a lei, e quasi cadde a sedere quando si ritrovò il volto di Claude a pochi centimetri dal suo. L’istinto le urlò di alzarsi in piedi e correre via, ma lei rimase lì, paralizzata dal terrore, mentre osservava il maggiordomo che cercava di riparare al suo danno. Era in cima alle scale poco fa, come ha fatto a scendere così in fretta? Perché non ho sentito i suoi passi? si chiese urlando le sue domande in un modo che non poteva fare all’esterno. Fissava con insistenza e paura l’uomo, che alzò lo sguardo verso di lei soltanto dopo, freddo e impassibile. “Il danna-sama non riusciva a trovarvi da nessuna parte e mi ha mandato a cercarvi. Credo che fareste meglio a raggiungerlo.”
Annuì lentamente, pensando con un barlume di lucidità che non sarebbe stata mai più così d’accordo con Claude, e si alzò in piedi senza mai distogliere lo sguardo da lui. Si avviò a passi lenti verso le scale, ma non le sfuggì l’ultima occhiata piena di odio puro che lui le rivolse e che le fece scorrere altri brividi lungo la schiena. Salì i gradini uno alla volta, senza mai voltarsi indietro, senza mai accelerare il passo, lasciando la porta della cantina aperta e uscendo dalla cucina in silenzio. Una volta da sola non si diede nemmeno il tempo di riprendere fiato e cominciò nel corridoio per andarsene il più lontano possibile dalla cantina, dal segreto che aveva custodito fino a poco tempo prima e da quell’inquietante maggiordomo. Corse svoltando ad ogni angolo senza avere idea della sua meta, e finì tra le braccia di Alois per puro caso. Entrambi rimasero sorpresi da quel contatto improvviso e inaspettato e Lena sentì le sue guance andare a fuoco mentre si staccava dal corpo del ragazzo per cercare di darsi un contegno. Lui non fece alcuna battuta, limitandosi a guardarla severo. “Si può sapere dov’eri finita? Ti ho cercata dappertutto ma non riuscivo a trovarti, ho persino mandato Claude a cercarti!”
“Mi dispiace,” mormorò lei a testa bassa. “Scusa, non volevo farti preoccupare.”
Una scintilla strana brillò negli occhi nel biondo per un attimo, ma la ragazza vide lo stesso che lui era soddisfatto di quelle scuse in modo tremendamente crudele. Le rivolse un sorriso stanco e non molto amichevole e la prese per mano. “Non importa. Dai, andiamo a divertirci.”
 

***

 
Alla fine Alois gliel’aveva detto. Per quanto le sembrasse impossibile la verità era venuta a galla ed era stato proprio lui a vuotare il sacco senza tanti giri di parole.
Lena ripensò a quel momento quella sera stessa, sdraiata sul suo letto in camicia da letto con il suo quaderno davanti a lei sul cuscino. Hannah era venuta ad aiutarla a sistemarsi per la notte da circa mezz’ora abbondante, ma lei era ancora sveglia per mettere in ordine i suoi pensieri confusi prima di immergersi nei suoi incubi. Aveva chiesto alla cameriera di lasciare sul comodino il candelabro con le candele accese – la scusa era stata ‘Per non ritrovarmi nel buio se mi dovessi svegliare di notte’ – e adesso approfittava di quella luce per scrivere alcuni appunti e ripensare a quel pomeriggio.
Erano sdraiati sul letto in camera di Alois quando lui gliel’aveva detto. Erano in silenzio da parecchio tempo, dall’ultima volta in cui lui aveva aperto bocca, e la ragazza stava aspettando che lui iniziasse di nuovo a parlare; non voleva essere lei a dire qualcosa per prima, aveva paura della reazione del ragazzo e i brividi di paura che la seguivano dalla cantina non l’avevano ancora abbandonata del tutto. Non aveva dovuto aspettare a lungo, per fortuna, perché dopo pochi minuti lui le aveva detto, senza abbassare lo sguardo dal soffitto: “È strano che tu non mi abbia ancora chiesto perché mio zio sia venuto a trovarci un po’ di giorni fa. Di solito mi sommergi di domande quando non sai qualcosa.”
Lena aveva evitato di ricordargli che glielo aveva chiesto più e più volte senza mai ricevere una risposta, e si era limitata a scrollare le spalle come se nemmeno lei sapesse il perché del suo strano comportamento. “C’entra qualcosa con i tuoi genitori?” gli aveva chiesto.
“Più o meno.” Si era tolto l’anello ed aveva iniziato a passarselo da una mano all’altra. “Quel vecchio schifoso crede che io non sia veramente loro figlio. Ha persino chiamato un prete e quell’imbecille di Druitt per dimostrare che aveva ragione.” La rabbia nella sua voce era aumentata e lui aveva fatto per scagliare l’anello contro la porta, poi si era trattenuto. La ragazza si era messa a sedere e l’aveva guardato con gli occhi verdi spalancati, chiedendosi se avesse sentito bene o no. Lui si era accorto della sua reazione e aveva abbozzato un sorriso. “Mi hanno rapito poco dopo la mia nascita e mi hanno portato in un villaggio sperduto nel nulla, lontano da Londra. Mia madre è morta di dolore poco tempo dopo e mio padre mi ha ritrovato poco prima di morire anche lui. Non c’è alcun bisogno di vere prove, io so chi sono.” Aveva riso quando aveva visto l’espressione scettica della sua ospite, e l’aveva guardata come se avesse potuto vedere dentro la sua anima. “Tu mi credi, Lena?”
Non gli aveva risposto, concedendogli il beneficio del dubbio. Le sue parole erano state troppo fredde, sembrava quasi che le ripetesse da anni senza mai cambiarle, e nei suoi occhi non era apparsa alcuna traccia di lacrime. Ma non era stato solo quello a farla rimanere in silenzio, scioccata, perché, mentre Alois rideva, aveva notato qualcosa dentro la sua bocca, sulla sua lingua, che in teoria non avrebbe dovuto esserci. Qualcosa che non aveva mai visto prima d’ora ma che le aveva fatto correre dei brividi lungo la schiena, gli stessi che aveva sentito poche ore prima in cantina.
Quando riemerse dai suoi pensieri, Lena si accorse di aver disegnato involontariamente il simbolo che aveva visto sulla lingua del ragazzo, una stella rovesciata a cinque punte inscritta dentro un cerchio perfetto. Rabbrividì ancora quando lo rivide, e si chiese cosa significasse e perché si trovasse sulla sua lingua; guardò il disegno per un’ultima volta e poi iniziò a cancellarlo finchè sulla pagina non rimase altro che una grande macchia nera d’inchiostro. Chiuse di scatto il quaderno senza aspettare che l’inchiostro asciugasse e uscì dalla stanza portando con sé il candelabro: voleva dimenticarsi per un attimo di quel simbolo e delle mille domande che le vagavano per la testa, voleva solo distrarsi per qualche minuto. Si chiuse la porta alle spalle e si diresse senza far rumore verso la camera attigua, quella dove c’era il suo armadio; ci sgusciò dentro e appoggiò il candelabro sulla mensola del caminetto, aprendo poi le ante del mobile per osservare i vestiti al suo interno. Non era una persona vanitosa, ma le piaceva sentire la stoffa che le frusciava tra le dita e che le dava una sensazione di caldo avvolgente. Sorrise mentre sfiorava i vestiti uno ad uno, poi la sua mano indugiò sulla vestaglia relegata nell’angolo destro, il più nascosto e dimenticato. Lena la tirò fuori con un fruscio di seta e la osservò meglio alla luce delle candele: era di un rosso sgargiante, con le maniche larghe, una fascia di stoffa alta e più chiara per chiuderla e dei ricami di farfalle e ragni. La osservò a lungo, chiedendosi perché un vestito così bello dovesse rimanere nascosto, poi, prima che facesse in tempo a rendersi conto di quello che stava facendo, si tolse in fretta la camicia da notte e indossò la vestaglia. Quando si guardò allo specchio si accorse che le stava grande, ma non se la tolse, continuando ad osservare il suo riflesso. Non sentì i passi nel corridoio e fece un salto quando la porta della stanza si aprì, lasciando entrare un Alois ancora vestito da giorno. “Allora è qui che ti sei nascosta,” le disse in tono cattivo, pronto a cominciare un ultimo gioco prima di dormire. “Cosa stavi facendo…”
Non riuscì nemmeno a terminare la frase quando vide cosa stava indossando Lena, e se non ci fosse stata la porta probabilmente sarebbe caduto per terra. Il suo cuore iniziò a battere più forte come se fosse sul punto di scoppiare da un momento all’altro, e si sentiva sull’orlo di un precipizio, pronto a cadere giù al minimo alito di vento. L’espressione spaventata della ragazza alla luce delle candele alimentò la sua impressione di essere finito in un tremendo flashback che non stava accadendo nella sua testa ma nella realtà, e l’unica cosa che riuscì a fare fu mormorare con rabbia per nascondere lo stupore e la tristezza: “Toglitela, Lena. Ora.”
Lei sembrava confusa, non capiva cosa stesse succedendo e aveva paura che il ragazzo potesse dare in escandescenze in quel momento. Cosa aveva sbagliato stavolta? “Alois…”
Toglitela!” Il suo urlo disperato risuonò in tutta la villa, e Lena non potè fare altro che quello che le era stato detto. Slegò la fascia con le mani che le tremavano e lasciò cadere la vestaglia sul pavimento, rimanendo completamente nuda e tremante davanti ad Alois. Il suo corpo sembrava scosso dai singhiozzi ma lei non stava piangendo, anzi, stava facendo del suo meglio per trattenersi, per non farsi vedere debole. Ma non poteva immaginare che l’altra persona nella stanza fosse persino più debole di lei in quel momento, mentre tutte le sue difese e i suoi castelli di bugie crollavano, lasciando spazio solo ai ricordi spaventosi che quel corpo nudo e nel buio gli riportava alla mente. Scappò via dalla stanza con i tacchi che ticchettavano, senza però poter fuggire dal suo passato, e lasciò Lena da sola in preda ai tremiti nella stanza di nuovo vuota.

















Boh. Stasera non ho molto da dire, se non che la scena della vestaglia me la immaginavo da parecchio tempo. Aspettavo il momento buono per poterla inserire da qualche parte.
Oh-oh, e il prossimo capitolo sarà fantastico. Almeno, nella mia testa è così, ma credo che lo sarà anche nella realtà *-*
MadLucy: c'è un motivo se lo chiamano il Danna-sama pervertito ù_ù Sinceramente la prima volta che ho visto la scena dell'occhio sono rimasta un pò sorpresa e schifata, ma è anche vero che a quei tempi odiavo Alois... adesso amo anch'io la sua follia, i personaggi folli sono quelli più difficili da gestire ma con la psicologia più meravigliosa! E' un peccato che sia morto troppo presto (bruciaall'InfernoClaude), sarebbe stato un ottimo personaggio da sviluppare maggiormente.

xoxo
Eva

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Capitolo 14
*** Un'altra festa, un altro maggiordomo. ***


XIV. Un’altra festa, un altro maggiordomo.


 

 
“Domani sera ci sarà un ballo qui da noi.”
Lena sentì il tè fermarsi da qualche parte nella sua gola per la sorpresa e iniziò a tossire senza riuscire a fermarsi, rompendo definitivamente il silenzio che regnava nel salottino. Fu costretta a posare la tazza che teneva in mano per cercare di calmarsi mentre Alois la guardava impassibile e continuava a bere il suo tè senza fare una piega. Tornò a respirare normalmente dopo poco, e si voltò verso di lui con aria sorpresa. “Scusa?”
“Ho spedito gli inviti un paio di giorni fa, ma ho voluto avvisarti solo quando sono stato sicuro che sarebbero venuti tutti,” le spiegò mentre posava la tazza sul suo piattino. Si voltò finalmente verso di lei e rise nel vedere la sua espressione scioccata. “È per questo che non ho voluto dirti niente in anticipo. Mi avresti proibito di fare quello che volevo.”
La ragazza aprì bocca per negare tutto, ma ci rinunciò quando si rese conto che aveva ragione. La sola idea di ritrovarsi gente sconosciuta nel suo rifugio la faceva stare male, come se stessero violando il suo spazio privato. Lei non era nemmeno un tipo da feste, non riusciva a relazionarsi con persone che non aveva mai incontrato in vita sua: ci aveva messo molto per riuscire ad avere un rapporto più o meno ‘normale’ con Alois, non sapeva come avrebbe potuto sopravvivere a una serata in cui avrebbe conosciuto persone che non avrebbe mai più rivisto. Si sfregò un braccio con una mano per riscaldarsi, e non era il leggero vento primaverile che entrava dalla finestra aperta a farla rabbrividire. Non voleva vedere nessuno, non voleva conoscere nessuno, solo rimanere nascosta dentro la villa finchè non avesse recuperato la memoria, che bisogno c’era di fare vita di società con il rischio – e rabbrividì di nuovo – di fare incontri spiacevoli come quello di poco più di una settimana prima a Londra?
Valutò per un istante la possibilità di dire al ragazzo di disdire tutto all’ultimo momento, poi ci rinunciò: non aveva la più pallida idea di quale sarebbe stata la sua reazione, e la situazione adesso era così delicata che un passo falso era l’ultima cosa da fare. Erano passati quattro giorni dalla sera in cui Alois l’aveva sorpresa in vestaglia, ma lui sembrava essersi già scordato tutto, perfino la sua reazione improvvisa e inaspettata. Lena però non l’aveva dimenticata, e spesso, quando si trovava nel dormiveglia che anticipava il sonno vero e proprio, lo vedeva urlare ancora ‘Toglitela!’ in quel modo autoritario e disperato. Si dava la colpa per averlo fatto stare male con quel suo gesto per lei innocuo, e a quanto pare anche lui la pensava nello stesso modo: anche se la sua espressione e la sua felicità costante erano sempre le solite, non mancava mai di rifilarle qualche pizzicotto più doloroso del solito o di farle altri piccoli scherzi sadici che lui riteneva incredibilmente divertenti. Eppure c’erano anche i momenti in cui era gentile con lei, la trattava bene, la faceva sentire al sicuro dal resto del mondo. Sarebbe stato sicuramente più facile ritrovare la memoria che cercare di comprendere a fondo i meandri della sua mente, ma alla ragazza non importava di sapere in anticipo le sue mosse o i suoi comportamenti: voleva solo un luogo dove sentirsi al sicuro, qualcuno di cui potersi fidare, e Alois, per quanto fosse lunatico e contraddittorio, era l’unico che potesse darle quello di cui aveva bisogno.
Finirono di fare colazione in silenzio, poi uscirono dal salotto sotto gli sguardi impassibili di Hannah e dei tre gemelli. Lena era riuscita ad abituarsi a fatica alla fascia che copriva l’occhio della donna, ma certe volte, soprattutto quando si trovava nel salottino, le veniva un conato di vomito quando pensava a quel pavimento cosparso di sangue e allo sguardo folle del biondo. Scacciò quel pensiero in uno degli angoli più nascosti della sua mente e lasciò che il ragazzo la portasse dove voleva; era domenica, lui non aveva nessuno impegno e di solito si dedicava completamente a lei. Quella mattina non fece eccezione e, con gran stupore della ragazza, uscì dalla villa e si diresse verso il giardino, in cui nessuno dei due metteva piede da giorni. Sembrava che durante la loro assenza la primavera fosse esplosa, vestendosi dei colori e dei profumi dei primi giorni di maggio: perfino le siepi erano rigogliose e c’erano diverse farfalle che volavano da un fiore all’altro, splendide nei loro colori brillanti. Lena guardava tutto questo meravigliata: non ricordava nemmeno una primavera della sua vita, e tutti quei colori, suoni e odori erano straordinari e totalmente nuovi per lei. La forza di tutta quella vita che ricresceva dopo un lungo inverno la commuoveva, e se non fosse stato per Alois che le tirava il braccio sarebbe rimasta a riempirsi gli occhi dei colori sgargianti dei fiori. Si sedettero su una panchina all’ombra di un albero e rimasero in silenzio a lungo ad ascoltare il silenzio. Il ragazzo incrociò le gambe sulla panchina e la sua ospite iniziò a dondolare le gambe nell’aria senza mai distogliere lo sguardo dalle siepi. Sorrise timida. “È bellissimo.”
Lui non le rispose e continuò a guardare un punto invisibile davanti a sé. All’improvviso un fiore cadde in mezzo alle sue gambe da un ramo dell’albero, e sia lui che Lena si voltarono a guardarlo: era piccolo e di viola accecante, simile a quello della giacca che il ragazzo indossava di solito. Lui lo prese delicatamente tra le dita, lo osservò a lungo e poi lo lasciò cadere sui capelli della ragazza, lasciandosi scappare una risatina che contagiò anche lei. “L’idea di una festa non ti alletta molto, eh?” le chiese quando ebbero finito di ridere.
Abbassò lo sguardo, imbarazzata, e si mise a giocherellare con il filo della sua collana, attorcigliandolo intorno alle sue dita. “Non sono molto brava a saper intrattenere le persone,” fu l’unica cosa che disse. Il resto, tutto superfluo.
Alois schioccò la lingua, come se fosse tutto semplice. “Devi solo dire loro quello che vogliono sentirsi dire, anche se non è quello che pensi veramente. Nessuno presterà mai veramente attenzione alle tue parole, sono solo una massa di ipocriti.” Fece una pausa e aggiunse: “E non devi preoccuparti per Lady Nancy. Non riuscirebbe ad infiltrarsi a una mia festa, e non lo farebbe mai di sua volontà.”
“Sembri conoscerla bene.”
“Te l’ho già detto, ci ho avuto a che fare in un’altra vita.” Il suo tono secco era inequivocabile. Quello che voleva dire veramente era Non mi sbottonerò più di così, rinuncia a fare altre domande. Lei prese quel consiglio alla lettera e fece per cambiare argomento, ma lui fu più veloce. “Questa festa è importante per me. Se vuoi chiederò il tuo parere prima di organizzarne altre, ma questa deve essere fatta in ogni modo.” Sorrise cattivo, e nei suoi occhi brillò una luce feroce. “Diciamo che a questa festa ci saranno due… anzi, una persona importante per me.”
Dal tono in cui lo disse e dal suo sorriso Lena intuì che c’era qualcosa che non andava, e provò compassione per quello sconosciuto che avrebbe dovuto affrontare il sadismo del ragazzo. Una scarica di brividi freddi le percorse la schiena, e ancora una volta non era colpa del vento. Decise di cambiare argomento per non lasciarsi impadronire da quella sensazione fredda e soffocante. “So che non è il momento giusto per dirtelo, ma mi dispiace. Per quello che è successo qualche sera fa.”
La scintilla cattiva nei suoi occhi sparì di colpo e Alois sembrò metterci un po’ per capire di cosa stesse parlando. Alla fine si voltò verso di lei e le disse: “Non preoccuparti. Non l’hai fatto apposta.”
“Dici davvero, Alois? E se io ti dicessi che invece ero completamente lucida e consapevole di quello che stavo facendo? Se ti dicessi che, dopo averci pensato su, quella vestaglia mi è sembrata una vendetta perfetta per tutte le tue parole dure, i tuoi scherzi e quella scintilla che a volte compare nei tuoi occhi quando mi guardi? Penseresti ancora la stessa cosa?”
Si limitò solo a pensare questo discorso nella sua testa. Nella realtà annuì e chiuse lì l’argomento, riportando il suo sguardo sulle siepi poco lontane.
 

***

 
Il corsetto! Il corsetto! Diavolo, FA MALE!
Afferrò con una mano la mensola del caminetto e strinse la presa per non spaccare qualcosa o ferirsi. Gocce di sudore le colavano lungo il volto e aveva il respiro affannato, ma Hannah fece finta di non essersi accorta di niente e strinse ancora il corsetto, togliendo dai polmoni della ragazza quella poca aria che era rimasta. Lena pensò di poter morire o svenire in quell’esatto momento, e persino la vista le si annebbiò per poi mettersi di nuovo a fuoco dopo qualche secondo: era abituata alle torture del corsetto, ma non ne aveva mai avuto uno così stretto. Le ragazze inglesi devono aver imparato a non respirare, pensò sarcastica mentre la donna legava i fili che stringevano il corsetto in un fiocco. Si sentì sollevata quando si accorse che la tortura era finita, e lasciò che la cameriera le spazzolasse i capelli e finisse di prepararla. Dal piano di sotto giungevano di già i primi chiacchiericci degli invitati, e la ragazza impallidì al pensiero che di lì a breve sarebbe dovuta scendere per affrontarli tutti. Cercò di distrarsi pensando a qualcos’altro, ma alla fine i suoi pensieri ritornavano sempre allo stesso, e non si sentì meglio quando fu finalmente pronta; significava soltanto che il momento che temeva tanto era più vicino che mai. Era sul punto di raggomitolarsi sotto il letto e gridare che non ne sarebbe uscita per niente al mondo, ma in quel momento la porta della camera si aprì e Alois entrò dentro, pronto e con un sorriso cattivo in faccia. La sua espressione si incupì non appena vide Hannah, ma lei lasciò in tutta fretta la stanza prima ancora di incrociare il suo sguardo con quello del danna-sama. Non appena la porta fu nuovamente chiusa, il ragazzo si avvicinò a Lena, la abbracciò da dietro e le accarezzò la benda sulla guancia, facendola rabbrividire. “Nervosa?”
Annuì in fretta, facendolo ridere. “Andrà tutto bene, stai tranquilla. Non ti succederà nulla di male,” le disse giocherellando con il filo della sua collana e senza tranquillizzarla per niente. Lei rabbrividì ancora una volta e osservò il loro riflesso nello specchio: era vestiti tutti e due di viola, e i loro vestiti erano così simili che quasi non si capiva dove finisse l’uno e iniziasse l’altro. Lei aveva i lunghi capelli sciolti che le ricadevano morbidi sulle spalle scoperte e la collana che brillava nello scollo del vestito, mentre il ragazzo aveva in testa uno strano cappellino viola con ali nere da pipistrello, ma qualcosa nel loro riflesso li faceva assomigliare come fratello e sorella. Non erano gli occhi, non erano i capelli, non era la pelle: era qualcosa estremamente radicato dentro loro stessi, qualcosa che niente e nessuno avrebbe mai potuto estirpare e cancellare. Lena sfiorò la sua guancia, il suo segreto nascosto sotto gli occhi di tutti, e si chiese se anche Alois avesse una ferita del genere, invisibile ma in un punto dove chiunque avrebbe potuto vederla.
Il ragazzo le afferrò una mano e la alzò come se fossero sul punto di ballare. “È ora di andare. La festa sta aspettando solo noi,” le disse, e uscirono dalla stanza senza mai separare le loro mani. La ragazza si aspettava di incontrare qualcuno nel loro tragitto fino alla sala da ballo, ma nessuno era in vista nelle altre stanze, nemmeno nell’atrio. Scesero di corsa la scalinata in marmo e si fermarono solo davanti al portone chiuso della sala; qui il biondo si voltò verso di lei e le diede un buffetto sulla guancia non ferita. “Non mostrare mai le tue debolezze, sorridi e tutto andrà bene. Va bene?” Sorrise, come per sottolineare il concetto.
Sorrise anche lei, meno convinta. “Va bene.”
In quel momento la porta davanti a loro si spalancò, rivelando una folla di gente nascosta dietro di essa. Lena vacillò per un attimo, poi ritrovò l’equilibrio e si fece strada tra le persone al fianco di Alois, senza mai allontanarsi da lui. Si sentiva nuda in un oceano sconosciuto, e aggrapparsi alla sua sola ancora era l’unico modo che avesse per non sentirsi del tutto persa dentro la sala. Rimase con il padrone di casa mentre lui faceva un giro per salutare gli invitati e si disse che sarebbe andato tutto bene, ma in quel momento un uomo passò in mezzo ai due, separando le loro mani. La ragazza accettò le sue scuse con un cenno veloce del capo e si voltò quasi immediatamente, ma ormai Alois non era più lì, inghiottito dalla folla. Non riusciva a vedere nemmeno il suo cappello, e il terrore si impadronì di lei. Con gli occhi verdi spalancati e il cuore che le batteva all’impazzata iniziò a farsi largo tra gli invitati, mormorando una scusa qui e evitando una persona là, ma quando arrivò in un punto più vuoto non vide il ragazzo davanti a lei e i due si scontrarono, rischiando di cadere entrambi sul pavimento. Lena si allontanò subito da lui, imbarazzata, e mormorò un veloce: “Scusate, non vi avevo visto.”
“Non preoccupatevi, non è successo niente,” replicò l’altro freddamente. Sembrò approfittare del silenzio imbarazzato caduto tra loro due per osservarla meglio, e lei fece altrettanto con lui: doveva avere più o meno la sua età, ma l’espressione seria e fredda del suo volto non era quella che ci si sarebbe aspettata da un ragazzino appena entrato nell’adolescenza. Era vestito dello stesso blu dei suoi capelli e dell’unico occhio visibile; l’altro era nascosto sotto una benda nera che gli copriva anche parte del volto. Si toccò involontariamente la benda sulla guancia, chiedendosi se anche a lui fosse successo qualcosa come a lei. “Cercavate qualcuno in particolare? È da un po’ che girate per la sala e vi guardate intorno,” le chiese il ragazzo con un sorriso altrettanto gelido.
“Cercavo A… volevo dire, il conte Trancy. L’avete per caso visto?”
Il sorriso scomparve in fretta dalle sue labbra, lasciando posto solo a una rabbia fredda. “No, non l’ho visto,” replicò lui, e si allontanò prima che Lena potesse aggiungere qualcosa. Spiazzata, lo osservò allontanarsi per poi sparire tra la folla come il biondo pochi minuti prima. Rimase ferma nel centro della sala come un’idiota per qualche minuto, ancora stupita dalla freddezza e l’impassibilità di quel ragazzo: dopo tre settimane passate a convivere con l’allegria forzata di Alois, si era quasi scordata che le persone potevano essere anche simili a blocchi di ghiaccio e trattarla in modo distaccato. Cercò di riprendersi dallo stupore e riprese la sua ricerca ma, quando tempo dopo si mise in un angolo ad osservare le persone che avevano iniziato a ballare, non aveva ancora trovato il ragazzo: sembrava essere scomparso nel nulla, come se si fosse dissolto nell’aria da un momento all’altro. Senza di lui non si sentiva così sperduta come si era immaginata, ma nemmeno del tutto a suo agio.
“Va tutto bene, signorina?”
Sobbalzò nel sentire una voce parlarle accanto a lei, e si voltò con ben chiaro in mente il ricordo della festa a Londra e di Michael Keel. Gli occhi che incontrò, però, erano rossi come il sangue e sotto di loro c’era un sorriso gentile. La ragazza ignorò quei brividi familiari che le percorsero la schiena e cercò di rispondere con lo stesso sorriso. “Perfettamente.”
“Sicura?” Il suo sorriso si allargò. “Dovreste essere a divertirvi invece di rimanere qui a fare, se permettete, da tappezzeria.”
Non le piacque la piega che il discorso stava prendendo e fece per cambiare argomento, ma l’uomo la interruppe. “Non sono venuto qui per darvi fastidio, se è quello che state pensando,” le disse come se potesse leggere nella sua mente. “Volevo solo portarvi le scuse del conte Phantomhive. Si è reso conto di essere stato alquanto maleducato nei vostri confronti, ma non sapeva come scusarsi e ha mandato me al suo posto. Spero che la cosa non vi dispiaccia.”
“No, io…” Si interruppe, senza avere idea di come andare avanti. Chi era e cosa le aveva fatto questo fantomatico conte per porgerle le sue scuse? Si diede un’occhiata intorno e ben presto notò che il ragazzo con cui si era scontrata poco prima si trovava in un altro angolo e osservava la sua conversazione con l’uomo accanto a lei. Si voltò di nuovo verso di lui e continuò: “Potete dirgli che accetto le sue scuse. E voi siete…”
“Sebastian Michaelis, maggiordomo del casato Phantomhive.” Accennò un inchino e la guardò di nuovo con quei suoi occhi innaturali. “Temo che mi sia sfuggito il vostro nome.”
Era galante oltre i limiti del possibile, c’era da riconoscerglielo. Niente a che vedere con la fredda impassibilità di Claude, nonostante i due si somigliassero un poco. “Lena. Solo Lena.”
Lui annuì, visibilmente interessato. “Se devo essere sincero, signorina Lena, non mi sembrate esattamente il tipo da feste.”
La ragazza rise, divertita. “Avete ragione. Sono qui solamente perché sono ospite del conte Trancy, altrimenti non sarei mai venuta.”
“Abitate qui?”
In altre occasioni si sarebbe sentita in imbarazzo da tutte quelle domande nei suoi confronti, ma qualcosa la spingeva a fidarsi del maggiordomo. Non riusciva a capire cosa fosse, ma parlare con qualcuno la faceva stare bene e meno sola. “Sì. Ma è una storia troppo complicata per poterla spiegare adesso.”
L’uomo annuì ancora una volta, poi si voltò velocemente e riportò il suo sguardo su Lena altrettanto in fretta. “Sono desolato di dovervi lasciare così in fretta, ma penso che il signorino mi stia chiamando. Mi ha fatto piacere conoscervi, comunque.”
Lena accennò un altro timido sorriso e lo osservò andarsene, muovendosi tra la folla con movimenti fluidi e aggraziati. Rimase a lungo a fissare la sua schiena, e improvvisamente il gelo le riempì le vene quando ripensò alla figura nera in piedi sul lampadario dell’atrio in quella notte di tempesta. Non poteva esserne certa – poteva essersi sbagliata, certo, era buio e non vedeva molto bene – ma ebbe lo stesso una brutta sensazione, come se qualcosa stesse per accadere da un momento all’altro. Come se avesse sentito di nuovo i suoi pensieri, il maggiordomo si voltò e le sorrise, ma stavolta il suo sorriso era più raggelante e sembrava quasi che le stesse dicendo di tenere quello che aveva scoperto per sé. Si portò il dito indice alla bocca e le fece l’occhiolino per sottolineare il concetto, poi si tuffò di nuovo tra la folla e sparì tra le coppie che ballavano, lasciandola sconvolta e con il gelo che scorreva insieme al sangue nelle sue vene.
“A quanto pare hai conosciuto gli ospiti speciali di stasera.” Lena non sobbalzò nemmeno, troppo scioccata per rendersi conto che la voce di Alois era comparsa dal nulla vicino al suo orecchio. “Ciel Phantomhive e Sebastian Michaelis.” Pronunciò il secondo nome come se le sue lettere fossero velenose. Si voltò verso di lei con una luce strana negli occhi. “Cosa pensi di loro due?”
Ci mise un po’ prima di rispondere. “Sono…” Fece una pausa, incapace di trovare le parole giuste. “Sono strani. Quel ragazzo è… freddo.”
Lui si limitò a ridere. “Ma questo rende tutto più divertente, non credi?” L’afferrò per la mano mentre l’orchestra attaccava un nuovo ballo. “Mi concedi questo ballo?”
 

***

 
Sebastian lanciò un’ultima occhiata alla ragazza col vestito viola e alla sua collana, poi si voltò e si diresse in silenzio verso la parete davanti a lui, avanzando tra le coppie danzanti come se stesse ballando pure lui. Il signorino lo stava osservando pensieroso e impassibile, in attesa. La prima cosa che disse non appena il suo maggiordomo fu davanti a lui fu: “Ci hai messo troppo.”
Il demone sorrise. “Ho cercato solo di conoscerla meglio prima di riferirvi tutto.”
L’espressione di Ciel si fece sdegnata e si mise a guardare le coppie che ballavano in mezzo alla sala. Tra di loro c’erano anche Alois Trancy e la ragazza col vestito viola e i lunghi capelli neri. Sembrava fidarsi di lui come se fosse l’unica cosa al mondo che contasse per lei, e il ragazzo si chiese come facesse a stare così vicina a una persona così fastidiosa.
“Si chiama Lena e a quanto mi ha detto abita qui nella villa, ma si è rifiutata di spiegarmi il perché. Credo che abbia circa la vostra età, ma non ho approfondito più di così.” Sebastian fece un pausa prima di aggiungere: “Ho notato un’altra cosa mentre parlavo con lei, signorino, ma non so se...”
“Dimmelo,” fu la replica secca.
Il maggiordomo si voltò verso la pista: la ragazza era ancora lì che ballava, e mentre sorrideva la sua collana scintillava alla luce delle candele. Si rivolse di nuovo a Ciel: “Quella ragazza… non è del tutto umana.”















Lo so, lo so, la scena della festa è diversa da quella dell'anime, ma il succo sarà più o meno lo stesso. Lo vedrete nel prossimo capitolo.
Rivelazione shock su Lena! Cosa ne dite? Quanto siete incuriosite? *risata malefica*
Sebastian. Sebastian, Sebastian, Sebastian. Dio solo sa quando spazio in più avrei voluto dedicargli. E invece... ç___ç
MadLucy: a scrivere la scena con Claude è venuta la strizza anche a me, sai? D: Mi sono sentita un pò una stronza a scrivere la scena della vestaglia, ma... boh. Era perfetta. Ci stava benissimo.

xoxo
Eva

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Capitolo 15
*** La curiosità uccide il gatto? ***


XV. La curiosità uccide il gatto?
 

 


Era una sensazione strana, ballare. Scivolava sul pavimento come se non avesse mai fatto nient’altro in tutta la sua vita, quando in realtà… bè, non lo sapeva. Poteva essere così, ma non aveva nessuna certezza.
Per Alois quel discorso non valeva: si muoveva in modo disinvolto sulla pista, come se ballare per lui fosse naturale, e la trascinava su e giù seguendo il ritmo della musica. All’inizio Lena pensò che avrebbe preferito rimanere in un angolo per non rendersi ridicola, ma dopo un po’ le era iniziato a venire naturale stare al centro dell’attenzione, nonostante non si sentisse a suo agio. Era divertente osservare tutte le persone che ricambiavano le sue occhiate mentre il ragazzo le mormorava all’orecchio i loro segreti più intimi ridendo – di o con lei, non le importava, era uno dei suoi rari momenti di pura felicità e nessun pensiero del genere l’avrebbe rovinato. Con la coda dell’occhio notò un’ombra azzurra sulla parete più vicina, e quando si voltò in quella direzione vide che il ragazzo con la benda sull’occhio la stava osservando insistentemente. Accanto a lui c’era l’uomo con cui lei aveva parlato poco prima e che adesso gli stava dicendo qualcosa in tono calmo. Provò a leggere il suo labiale, ma non era abbastanza vicino e le uniche parole che riuscì a capire erano irrilevanti e inutili. Rivolse un’ultima occhiata al giovane conte prima che il suo cavaliere ridesse lievemente. “Non riesci proprio a staccargli gli occhi di dosso, eh?”
Casomai è il contrario, pensò senza lasciar trapelare nulla sul suo volto e riportando il suo sguardo su Alois. Mentre ballavano i suoi pensieri correvano liberi a briglia sciolta nella sua mente, aggiungendo tessere ad un enigma che si faceva sempre più grande: ormai era certa che quel Sebastian fosse il misterioso ladro di qualche notte prima – altrimenti perché le avrebbe fatto cenno di rimanere in silenzio? – ma non capiva che ruolo avesse quel ragazzino in tutta quella faccenda. Era stato lui il committente del furto? A prima vista non sembrava, non aveva esattamente l’aria di un criminale, ma dopo giorni passati a convivere con Alois aveva imparato che le apparenze ingannavano più di quanto si credesse. Dietro la sua benda nera si dovevano nascondere segreti inquietanti e raccapriccianti come i brividi che le erano scesi lungo la schiena quando il maggiordomo le aveva sorriso per l’ultima volta. “Perché hai detto che sono ospiti speciali?” chiese al ragazzo.
Lui ridacchiò. “Bè, non sono decisamente come le altre persone in sala, no?” La sua espressione si fece improvvisamente seria e lui mormorò in un tono che le fece venire la pelle d’oca: “Lui mi ha portato via qualcosa, anni fa, e io sto per fare la stessa cosa. Vedremo se anche quelli della sua specie riescono a provare dolore.” Strinse con forza la mano della ragazza, incanalando tutta la sua rabbia in quel gesto.
Lena sentì un brivido risalirle lungo la nuca, ma si costrinse a controllare i tremiti e il dolore della sua mano che pulsava e gli chiese: “Parli di quel ragazzo? Di…” Si interruppe per ricordare il suo nome. “Ciel Phantomhive?”
Il ragazzo la guardò confuso, come se non capisse di cosa stesse parlando, poi sulle sue labbra si disegnò una smorfia sadica e cattiva che lei gli aveva visto in faccia poche volte. “Fuochino.” Avvicinò la sua bocca all’orecchio di lei e le sussurrò, senza che nessun altro potesse sentirlo: “Non fidarti mai di loro due, Lena, mai. È il peggiore errore che potresti fare.”
Lei non capì fino in fondo quelle parole e fu sul punto di tornare alla carica con un’altra domanda, ma in quel momento la musica finì e loro due si fermarono nel centro della sala, pochi centimetri l’uno dall’altra, di nuovo separati. Non rimaneva più niente di quel contatto che avevano avuto mentre ballavano e Lena avrebbe dato il mondo intero pur di ritrovarsi di nuovo tra le braccia dell’unica persona di cui si fidava; quando fece un passo avanti mentre l’orchestra si preparava per un nuovo ballo, però, qualcuno li raggiunse e chiese ad Alois in tono forzatamente gentile: “Conte Trancy, potrei rubare la vostra dama per un ballo?”
Il biondo si voltò verso il nuovo arrivato e, non appena lo riconobbe, sorrise di nuovo in quel modo sadico e fece un passo indietro teatralmente. “È tutta vostra. Non pensate di tenerla per voi per tutta la sera, vado a sistemare una cosa e torno subito. Trattatela bene, mi raccomando.” Alla ragazza non sfuggirono le parole nascoste sotto quelle frasi e lo sguardo inquietante che il ragazzo lanciò all’altro, ma lui non si accorse che lei li aveva notati. Si limitò a guardarla e a sorridere furbo, poi si fece largo tra la folla diretto all’altro capo della sala, lasciandola da sola con il conte Phantomhive. La ragazza si sentiva in imbarazzo ad essere sul punto di ballare con uno sconosciuto – se così si poteva chiamare, dopo tutto quello che Alois le aveva detto di lui – ma lui non sembrava più il ragazzo scontroso di poco prima: c’era ancora un’ombra nera e fredda nel suo occhio, ma sul suo volto aleggiava un sorriso divertito e la sua espressione era più tranquilla. Le tese una mano, che lei afferrò titubante, e, mentre i musicisti imbracciavano di nuovo gli strumenti, le confidò: “Non sono un grande ballerino, signorina, accontentatevi di quello che so fare.”
Lei ridacchiò imbarazzata. “Potrei dire la stessa cosa, conte Phantomhive.”
Il suo volto si congelò di nuovo. “Immagino che il vostro cavaliere vi abbia già parlato di me, se conoscete il mio nome,” disse freddo mentre iniziavano a ballare. Non gli sfuggì l’occhiata che la ragazza lanciò verso la parete vicino a cui si trovava Sebastian poco prima, e si affrettò a dire: “Ah, giusto, dovevo immaginarlo. Avete conosciuto il mio maggiordomo dopo il nostro incontro.”
‘Scontro’ sarebbe più appropriato. “Già. E se non ve lo avesse detto, sappiate che ho accettato le vostre scuse.”
“Sì, me l’ha detto, ma non è quello il motivo per cui vi ho rubato al conte Trancy.” Fece una smorfia impercettibile quando pronunciò il suo nome e Lena non se la lasciò scappare, ma doveva avere un’espressione strana sul suo volto in quel momento, perché Ciel continuò: “Non voglio corteggiarvi o infastidirvi in alcun modo, signorina Lena. Sono già fidanzato e non ho tempo di fare il cascamorto con altre ragazze alle feste.”
La ragazza rimase spiazzata per un momento, poi si riprese e replicò: “E allora cosa ci fate qui?”
“Se vi riferite alla festa sono stato solamente invitato, ma se invece parlate della mia presenza davanti a voi… bè, non è altro che mera curiosità. Non vi siete sbottonata molto col mio maggiordomo e volevo conoscervi meglio.”
C’era qualcosa che le sfuggiva, qualcosa che il conte Phantomhive non le aveva detto. Non le aveva mentito, no: aveva semplicemente omesso qualcosa, il suo secondo fine. Si rifiutava di credere che avesse chiesto il permesso di ballare con lei solo per poterla ‘conoscere meglio’, tuttavia decise di stare al gioco e rischiare come un funambolo su una corda sospesa. “Fantastico!” esclamò cercando di nascondere il suo nervosismo. Forse quella conversazione poteva aiutarla a scoprire perché Alois considerasse ‘speciale’ quel ragazzo? “Chiedete pure, sono a vostra disposizione.”
Il gioco era iniziato, ed entrambi lo sapevano.
Fu Ciel il primo ad iniziare con una domanda apparentemente casuale. “Vivete qui? Dentro la villa, intendo.”
“Sì. E… ah.” Fece un cenno noncurante con la testa, mostrando una sicurezza che non aveva. “È una storia lunga e complicata, non riuscirei a raccontarvela tutta in poco tempo.”
“Almeno il motivo?”
Sapeva ottenere quello che voleva senza essere invadente, doveva concederglielo. Con il cuore che le batteva a mille sotto il corsetto che iniziava a soffocarla, sul confine tra verità e bugia, alla fine rispose: “Il conte Trancy mi ha aiutata molto in questi giorni. Vorrei potervi dire di più, ma non posso.” Come avrebbe potuto spiegargli tutto quello che le era successo, una valanga di avvenimenti che oscillavano tra il sogno e la realtà?
Il ragazzo aggrottò la fronte, insoddisfatto di quella risposta, ma quando aprì bocca per continuare con le sue domande la musica si interruppe, e con essa il tempo che gli era stato concesso. Imprecò tra sé e sé e si voltò verso la parete dietro di lui, cercando Sebastian con lo sguardo, ma sia lui che il maggiordomo Trancy erano spariti. Si chiese dove fosse andato quel maledetto demone, senza nemmeno avvisarlo, ma prima che potesse pensare a un motivo valido un ticchettio di tacchi raggiunse lui e Lena insieme a un sorriso smagliante. “Ho fatto abbastanza in fretta? Spero di non aver interrotto nulla,” disse Alois continuando a sorridere, senza nemmeno preoccuparsi della sparizione del suo maggiordomo. Ciel capì che lui aveva a che fare in qualche modo con l’improvvisa scomparsa di Sebastian, ma non poteva fare nulla: doveva stare al suo gioco, vedere cosa voleva veramente da lui, aspettare. Non era un tipo paziente, ma a mali estremi estremi rimedi.
Il conte Trancy si avvicinò a Lena e le sfiorò la benda sulla sua guancia, come se volesse sottolineare il fatto che lei era di sua proprietà. Davanti agli occhi dell’altro ragazzo la sicurezza che lei aveva mostrato fino a quel momento crollò, lasciando spazio a una ragazzina spaventata e confusa; Alois aveva più potere su di lei di quanto Ciel aveva immaginato in precedenza, e si chiese quanto potesse manipolarla e se potesse usarla per fargli del male. Aveva una brutta sensazione da quando aveva ricevuto l’invito per quella festa, una nube nera carica di pioggia e fulmini pronta ad esplodere da un momento all’altro, e teneva gli occhi aperti da ore in attesa dell’inevitabile. Ma a quanto pare i suoi sforzi non dovevano essere bastati, perché l’inevitabile l’aveva scovato proprio nel momento in cui era più solo e vulnerabile; non era ancora sotto scacco matto, ma aveva un’unica pedina da giocare con attenzione e da muovere una casella alla volta.
Alois sospirò annoiato e si passò una mano tra i capelli, rimanendo sempre vicino a Lena. “Questa festa sta diventando un mortorio, sto iniziando ad annoiarmi.” Lanciò uno sguardo pieno di sottintesi al conte Phantomhive. “Stasera siete un mio ospite di riguardo, non voglio che vi annoiate come tutti gli altri. Avete voglia di unirvi a me per fare qualcosa di più divertente?”
Merda. Non ancora scacco matto, ma ci andava vicino. Rispondere di no sarebbe stato scortese, rispondere di sì un pericolo. Si diede un’altra occhiata in giro, ma Sebastian era ancora scomparso nel nulla, non aveva nessuno che potesse proteggerlo se le cose avessero preso una brutta piega. Tuttavia decise di stare a quel gioco e rispose a denti stretti: “Mi sembra una buona idea.”
L’altro ragazzo sorrise cattivo, poi si rivolse a Lena. “Vieni anche tu, non mi fido a lasciarti qui tutta da sola,” le disse, sfiorandole di nuovo la benda e facendola rabbrividire. Ciel la osservò meglio e vide che era impallidita e il suo respiro era irregolare; si ritrovò a sperare che svenisse, almeno avrebbe avuto il tempo necessario per scappare in un posto deserto e chiamare Sebastian, ma lei sembrò resistere e lasciò che il padrone di casa la guidasse insieme all’altro ragazzo verso la porta del salone.
 

***

 
“Da questa parte.”
L’oscurità dei corridoi del pianterreno era rotta solo da alcuni candelabri appesi alle pareti e da quello che Alois portava in mano per rischiarare il buio davanti a loro. Dava le spalle agli altri due, e nessuno di loro potè notare il sorriso sadico e soddisfatto sul suo volto. Ancora non riusciva a credere di avercela fatta, di essere così vicino al compimento della sua vendetta, a quello che aspettava da anni e che lo aveva costretto a dannare la sua anima per l’eternità. Lanciò una veloce occhiata con la coda dell’occhio al conte Phantomhive, pochi passi dietro di lui, e il suo sorriso si allargò al pensiero di quello che avrebbe fatto con lui. Aspettava quel momento da troppo tempo, adesso voleva giocare con il suo nuovo pupazzo il più a lungo possibile.
Sentì dei passi incespicare dietro di lui, si voltò per un istante e vide Lena inciampare nel bordo di un tappeto e ritrovare l’equilibrio un istante prima di cadere sul pavimento. Notò che lui la stava osservando e distolse i suoi occhi verdi dal suo volto, imbarazzata. Il ragazzo sorrise ancora e riportò il suo sguardo sul corridoio davanti a loro mentre continuava a pensare: quella ragazza lo interessava quasi più dell’altro ospite, con il suo passato immerso nella nebbia e il suo carattere debole. L’aveva affascinato fin da quando l’aveva vista la prima volta, mentre correva sotto la pioggia nel giardino, e la sua amnesia lo stuzzicava in modo quasi malato: voleva sapere tutto di lei, era per quello che continuava ancora ad abitare insieme a lui. Tuttavia… eh, un tuttavia c’era. Non sapeva ancora quali fossero i suoi sentimenti verso di lei, o meglio, non tutti: c’erano quelli che doveva tenere a freno sempre più spesso per impedirsi di farle del male, di far scorrere il suo sangue per qualcosa di cui non aveva colpa, e poi c’era quella cosa che gli faceva desiderare la sua compagnia ogni volta che era da solo. Non era di certo amore – che sciocchezza! – ma forse qualcosa di più simile all’affetto, anche se non ne era sicuro. Erano anni che il suo cuore si era chiuso a sentimenti così estremi e si era scordato come provarli, e il fatto di non riuscire a capire cosa la ragazza gli stesse facendo lo rendeva furioso. Provava sentimenti contrastanti verso Lena, come se lei riuscisse a far uscire allo scoperto sia la sua parte più visibile che quella che cercava di tenere nascosto nel suo animo.
Mentre pensava, raggiunsero la porta della biblioteca, immersa nel buio semitotale come il resto del corridoio. Alois afferrò la maniglia e aprì la porta, facendo entrare i suoi ospiti nella stanza. Posò il candelabro e il suo cappello su un tavolino e si voltò di nuovo verso la soglia della stanza, e fu stupito di vedere Lena ancora lì, più pallida che mai e col respiro affannato; non aveva l’aria di sentirsi molto bene, nonostante cercasse di tornare a respirare normalmente. Il suo sguardo incontrò quello del ragazzo e mormorò un quasi inudibile “Devo andare” prima di sparire di nuovo nel corridoio. I due conti rimasero un attimo immobili, poi anche Ciel si avviò verso la porta, ma l’altro fu più veloce e la chiuse prima che potesse raggiungerla, intrappolandolo insieme a lui nella stanza. Il conte Phantomhive gli lanciò uno sguardo di sfida e rabbia, ma Alois fece finta di non notarlo e si limitò a sorridere cattivo. “Direi che è ora di smetterla di trattarci formalmente e di iniziare a darci del tu, non trovi?”
Non sembrò molto attratto da quella prospettiva. “Fammi uscire da qui,” gli ringhiò contro con l’occhio blu che gli brillava.
“Così presto? No, no, io ti ho portato qui per parlare, non ti lascerò andare così facilmente.”
L’espressione di Ciel si indurì: voleva che quel gioco terminasse in quel momento, ma il suo avversario sembrava avere tutte altre intenzioni. Mosse la sua pedina con cautela una casella avanti. “Cosa vuoi da me?”
Il suo sorriso si allargò. “Te stesso. Ti sto cercando da anni e finalmente sei mio, Ciel Phantomhive!” La scintilla che brillava nei suoi occhi era inquietante, e l’altro ragazzo fece un passo indietro per tenersi a distanza da lui. Il biondo però riuscì a intrappolarlo tra il suo corpo e la porta senza mai togliergli gli occhi di dosso. Allungò una mano e l’avvicinò alla sua benda, seguendo il filo con il dito fino a trovare il nodo dietro la sua testa. Ciel cercò di allontanarlo, ma fu tutto inutile e presto la sua benda cadde per terra tra loro due, rivelando il suo occhio viola con il contratto. Alois sorrise soddisfatto e gli tolse una ciocca di capelli dal volto per osservare meglio la stella a cinque punte. “Non siamo poi così diversi, allora.” Prima che l’altro ragazzo potesse capire a cosa si stesse riferendo, aprì la bocca e tirò fuori la lingua, mostrandogli la stella gialla a cinque punte inscritta in un cerchio, la stessa che Lena aveva disegnato sul suo quaderno per poi cancellarla. Lentamente, avvicinò la sua bocca al lobo del conte Phantomhive e glielo leccò con fare complice senza mai smettere di sorridere.
Questo fu decisamente troppo per Ciel. Approfittando di un attimo di distrazione di Alois, lo spinse lontano da lui con tutta la forza che aveva, facendolo rovinare sorpreso sul pavimento. Non perse nemmeno un attimo di tempo, spalancò la porta e iniziò a correre lungo il corridoio nella prima direzione che vide, mentre l’altro ragazzo gli urlava: “Non puoi scapparmi per sempre, Ciel! Prima o poi riuscirò a prenderti, e allora sarai mio!”
Continuò a correre cercando di non ripensare alle parole dell’altro conte, ma la sua vista andava e veniva, in preda ad allucinazioni che non sapeva da dove venissero, e corse finchè non trovò una porta e si catapultò fuori, nel giardino. Riprese fiato per un attimo, indeciso sul da farsi, e non si accorse nemmeno di essere passato davanti alla stanza in cui si era nascosta Lena pochi minuti prima, spaventata e col cuore che le batteva a mille nel petto.
 

***

 
Lena scappò via dalla biblioteca mentre la sua vista iniziava ad annebbiarsi e il suo respiro a farsi ancora più affannato. Cercò a tentoni il nodo dietro la sua schiena che le chiudeva il corsetto, ma non riuscì a trovarlo finchè non raggiunse l’angolo in fondo al corridoio. Si inginocchiò sfinita davanti al muro e provò a sfare il nodo che la stava uccidendo e le impediva di respirare; ci riuscì molti tentativi dopo, quando ormai pensava che sarebbe svenuta in mezzo all’oscurità, e gemette di sollievo quando la presa che le stringeva i polmoni si allentò. Ritornò finalmente a respirare normalmente da quando aveva iniziato a ballare, dicendosi ancora una volta che quell’aggeggio infernale l’avrebbe uccisa in breve tempo. Rimase immobile per qualche minuto, il tempo necessario per riprendersi del tutto, poi si alzò in piedi e pronta a tornare da Alois. Si incamminò lungo il corridoio e il pensiero che si sarebbe presentata davanti ai due ragazzi con il corsetto mezzo aperto le attraversò la testa solo a metà del suo tragitto, ma in quel momento la sua attenzione era già stata attirata da una porta semichiusa da cui filtravano due voci familiari e una luce soffusa. Rimase ferma in mezzo al corridoio, cercando di riconoscere chi stesse parlando, e il cuore le si gelò quando si rese conto che le persone a pochi metri da lei erano Claude e Sebastian, il maggiordomo del conte Phantomhive. Incuriosita, si avvicinò in silenzio alla porta e sbirciò dalla fessura quello che stava succedendo. In seguito si sarebbe detta che tutto quello che era successo in seguito era partito proprio da lì, da quello che aveva visto dietro quella porta e che le aveva gelato il sangue nelle vene.
Sentire le parole che i due maggiordomi si stavano scambiando sarebbe bastato a far venire i brividi a chiunque. Lena li sentì parlare in tono solenne di anime, di vendette e di altre cose che per lei non avevano senso ma che la spaventavano. Si disse più di una volta di andarsene da lì, ma i suoi piedi sembravano incollati al pavimento ed era come ipnotizzata da quello che stava vedendo. Pensava che sarebbe riuscita a resistere fino alla fine del loro colloquio, o almeno, fu quello che pensò finchè entrambi non si tolsero il guanto destro, mostrandole quello che avevano tatuato sulla loro pelle. La ragazza osservò incuriosita le loro stelle a cinque punte, cercando di capire a cosa servissero e perché fossero lì. Il simbolo del maggiordomo Phantomhive era viola e molto dettagliata, mentre quella di Claude…
Il mondo intorno a lei si disintegrò in migliaia di frammenti non appena vide il suo simbolo. Si portò una mano alla bocca per non iniziare a urlare, ma questo non le impedì di continuare a vedere quella stella dorata, la stessa che aveva visto sulla lingua di Alois qualche giorno prima e che l’aveva spaventata. Subito dopo notò anche che gli occhi di entrambi i maggiordomi avevano cambiato colore ed erano diventati di un fucsia intenso, e che le loro pupille si erano trasformate in due fessure nere come pozzi senza fondo. Fece un passo indietro mentre alcune tessere di quel mistero si incastravano l’una con l’altra per formare un’immagine spaventosa, ma nella fretta urtò un tavolino lì vicino, facendo oscillare il vaso che si trovava lì sopra. L’oggetto per fortuna non cadde, ma le due persone dentro la stanza sentirono il rumore e la ragazza trattenne il respiro, sperando che non uscissero e la trovassero. Li sentì scambiare qualche parola tra loro, poi andarono avanti con quello che stavano facendo senza uscire dalla stanza. Lena sospirò di sollievo, poi fece un altro passo indietro e si allontanò lungo il corridoio in punta di piedi in direzione della biblioteca. Una volta svoltato l’angolo, però, entrò nella prima stanza vuota che trovò e si chiuse la porta alle spalle, sedendosi poi con la schiena contro di essa come se non volesse far entrare nessuno. Si portò le gambe al petto, spaventata a morte, e urlò a lungo negli strati di stoffa della gonna per attutire l’orrore e la paura che provava. Non pianse una sola lacrima mentre tutti i tasselli finivano al loro posto.
Ecco perché Alois era così legato a Claude. Ecco perché il maggiordomo le faceva correre i brividi lungo la schiena ogni volta che si incontravano e riusciva a muoversi velocemente come nessun altro. Ecco spiegato cosa intendeva Alois quando aveva detto che Claude non poteva rompere il contratto che c’era tra loro due. Ecco spiegato il simbolo sulla lingua del ragazzo e la benda sull’occhio di Ciel Phantomhive. Era impossibile, incredibile, spaventoso, ma era la verità.
Rimase a lungo immobile, incapace di formulare un pensiero corretto e lineare, e non si accorse dei passi affrettati che passarono davanti alla porta della stanza in cui era nascosta. Riuscì a reagire solo qualche minuto dopo, guardando la sua collana come in cerca di qualche risposta, senza però trovarne. Dove sono finita?
 

***

 
Trascorsero altre due lunghe ore prima che la festa finisse e gli invitati se ne andassero. Lena le trascorse seduta in un angolo per tutto il tempo, osservando la folla che ballava senza vederla veramente, persa nei suoi pensieri e nei ricordi di quello che aveva visto. Quando vide Claude rientrare nel salone non disse niente, ma ebbe una contrazione simile a un tremito trattenuto. Lui le rivolse un’occhiata veloce prima di tornare a fissare la folla.
Né Sebastian Michaelis né Ciel Phantomhive erano ricomparsi, ma Alois non sembrava preoccuparsene più di tanto. Aveva un’aria abbastanza soddisfatta e passò il resto della serata accanto alla ragazza, parlandole di tutto quello che gli passava per la testa, ma senza mai riuscire a farla reagire. A lui non sembrava importare di quello che faceva lei, però, parlava solo per sfogare la rabbia e in parte anche la gioia dentro di lui. La costrinse ad alzarsi solo quando fu il momento di salutare gli ospiti, e lei lo seguì docile, ancora incapace di credere a quello che aveva visto: aveva la sensazione che le brutte notizie non fossero finite, e che da quella sera tutto sarebbe solo peggiorato. L’istinto le diceva che quello che era avvenuto in quella stanza avrebbe portato solo guai, finendo per travolgere anche lei in una tempesta in cui non avrebbe dovuto trovarsi. Voleva avvisare Alois in qualche modo, voleva dirgli di non fidarsi troppo di Claude, ma lui era troppo impegnato a congedare i suoi ospiti per poterla ascoltare. L’occasione giusta si presentò quando loro due rimasero da soli nell’atrio vuoto insieme al maggiordomo. Il ragazzo stirò le braccia e sbadigliò. “Sarà ora che vada a letto, o domattina non riuscirò nemmeno ad alzarmi. Buonanotte, Lena,” le disse, voltandole poi le spalle e dirigendosi verso la scalinata di marmo, seguito da Claude. La ragazza fece un passo avanti per dirgli di fermarsi per potergli parlare, ma il maggiordomo si voltò verso di lei senza che il biondo se ne accorgesse e le lanciò un lungo sguardo. Lena sentì i brividi scenderle lungo la schiena quando i suoi occhi dorati diventarono del loro vero colore per poi tornare normali pochi secondi dopo. Rimase immobile in mezzo all’atrio, spaventata, e realizzò quanto fosse nei guai non appena i due furono spariti al piano di sopra.
Alois non era più l’unico ad essere in pericolo, ora. Claude sapeva che lei sapeva, e quello sguardo era un avvertimento anche troppo chiaro: Parla di quello che hai visto e vedrai quanto dolore posso farti provare.


















Innanzitutto voglio esprimere tutto il mio sostegno verso le famiglie sfollate del terremoto e quelle dei ragazzi del liceo di Brindisi. Spero che il colpevole venga trovato il più presto possibile e abbia una morte lunga e dolorosa.
La fangirl che c'è in me ha iniziato a buttare sangue dal naso non appena ho iniziato a scrivere la scena tra Alois e Ciel. La vista della mia OTP completamente da sola ha rischiato di farmi trasformare questo capitolo in uno yaoi, ma alla fine mi sono trattenuta. Per quello ho un'altra fanfiction in cantiere ù_ù
Se vi può interessare, la colonna sonora di questo capitolo è "Hysteria" dei Muse. Non so perchè, ma la trovo particolarmente adatta per Alois. Sarà per quel "Give me your heart and your soul" *pensieri sulla propria OTP*
MadLucy: tranquilla, ti capisco, in questo periodo la scuola sta distruggendo pure me. Quando arriverà l'estate? D: (Beninteso, io amo l'estate solo per la grande libertà che ho e per fare il bagno in mare. Per il resto, odio prendere il sole e stare in spiaggia). Aah, l'identità di Lena... dovrai aspettare gli ultimi (ultimi... ç^ç) capitoli di questa storia per capirci qualcosa. Sì, adoro far star male i miei lettori. Certi capitoli di altre mie storie sono finiti anche peggio.

xoxo
Eva

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Capitolo 16
*** Messaggio (non proprio) in bottiglia. ***


XVI. Messaggio (non proprio) in bottiglia.


 

 
Sono passati due giorni dalla festa qui alla villa ma, per quanto strano possa suonare, non vedo Alois da quella sera.
No, aspettate – chiunque mi stia ascoltando o leggendo questi miei appunti in futuro – mi sono espressa male. Non posso certo non averlo visto, dato che ogni volta che non ha nulla da fare corre a cercarmi e mi trascina da qualche parte. Il problema è proprio questo: sembra che in quarantotto ore si sia riempito di impegni, appuntamenti e lezioni pomeridiane che non può saltare per nessun motivo; gli unici momenti in cui ci vediamo sono i pasti, e perfino in quel poco tempo che passiamo insieme siamo sotto gli occhi di qualcuno, soprattutto Claude. Specialmente Claude. Non dovrei trarre conclusioni affrettate visto che tra noi due non corre affatto buon sangue, ma ho l’impressione che questo improvviso affollamento di impegni e questa stretta sorveglianza siano dei tentativi ben riusciti di impedirmi di essere da sola con Alois. Sa che non mi limiterei a parlare con lui delle solite cose, no, sa che alla prima occasione gli parlerei di quello che ho visto la notte della festa, quando sono scappata via dalla biblioteca. Per certi versi la sua preoccupazione è comprensibile, ma per me non lo è.
Ricordo molto vagamente quello che ho visto, in realtà. Forse il mio cervello ha voluto cancellare tutto per via dello shock – come deve aver fatto più di tre settimane fa – ma ci sono delle cose che non potrò mai scordare. Parte di quello che si sono detti. I simboli sulle loro mani. I loro occhi. La strana sensazione che mi perseguita come una tempesta pronta a scoppiare. No, non è il paragone giusto: la tempesta è già scoppiata, quello che avverto è un uragano pronto a travolgerci tutti, me compresa. Non avrei dovuto essere in quel corridoio quella sera, non avrei dovuto vedere quello che ho visto, non avrei dovuto, non avrei dovuto. Se continuassi così alla fine non avrei mai dovuto trovare rifugio in questa villa ma, per quanto possa cercare di immaginare un passato diverso, sento che alla fine mi sarei ritrovata comunque qui. Per altre strade, in altri modi, forse, ma pur sempre qui, intrappolata nella stessa ragnatela che mi ha salvata, come quella che talvolta vedo nei miei incubi.
Comunque, divagazioni a parte. Una delle poche cose che riesco a ricordare senza fare sforzi è “Alois Trancy diventerà il nuovo termine della vendetta di Ciel Phantomhive”. È una frase che riesce a farmi venire i brividi solo scrivendola nero su bianco e leggendola. Ho capito alcune cose, ma altre totalmente nuove mi sfuggono del tutto: vendetta contro chi? Contro cosa? Perché c’è bisogno di un nuovo termine? Chi o cosa sono in realtà Claude e quel Sebastian Michaelis? Una parte di me l’ha già capito, ma l’altra si rifiuta totalmente di accettarlo, non lo ritiene possibile. Ma deve, altrimenti non riuscirà mai a spiegarsi l’atmosfera che riempie questa villa, il simbolo sulla lingua di Alois e il suo rapporto con Claude. Deve accettare quello che sembra menzogna per trovare la verità.
Devo trovare il modo di parlare con Alois. Devo dirgli tutto quello che ho visto, tutto quello che ho sentito, il modo in cui sento che succederà qualcosa che lo travolgerà e lo colpirà come mai prima d’ora. E soprattutto, devo dirgli che non si deve fidare di Claude. Mai. Non m’importa se penserà che sono impazzita, deve aprire gli occhi e credermi, deve vedere quella rosa nera che il suo maggiordomo porta all’occhiello da due giorni. Deve vedere e capire tutto questo, dovessi spalancargli gli occhi a forza.
Non so se qualcuno leggerà mai questo quaderno o se lo stia leggendo già adesso nei momenti in cui la mia stanza e vuota, ma non m’importa. Ho già preso la mia decisione. Cercherò un modo per dire ad Alois che voglio parlargli il prima possibile. La cosa che temo di più è che qualcuno mi scopra e vada a dirlo a Claude, ma devo mettere le mie paure da parte e farmi coraggio, non mi farò fermare da nessuno. Ho un debito nei confronti di chi mi ha salvato la vita, e questo è il momento giusto per saldarlo. Spero solo che questa non sia l’ultima volta che scriverò su questo quaderno, ma qualcosa, forse l’istinto, mi dice che per ora tutto andrà bene. In futuro, chi può dirlo.
Alois, se tu stai leggendo queste parole mentre io sono da qualche altra parte, ti prego, ascoltami. Non sto delirando, sto solo cercando di
Claude non è quello che sembra, lui

Io ti
 
Lena guardò sbigottita le ultime due parole che aveva scritto, come se non riuscisse a credere che fosse stata lei a scriverle, come se qualcuno o qualcosa si fosse impossessato della sua mano per forzarla a tracciare quelle quattro semplici lettere separate da uno spazio. Le osservò ancora un attimo ad occhi sgranati, poi vi tracciò sopra l’ennesima linea. Ci pensò su e poi iniziò a cancellarle del tutto come aveva fatto con il simbolo disegnato nella pagina accanto, chiudendo infine il quaderno senza aspettare che l’inchiostro si asciugasse. Nascose il diario nel suo nascondiglio sotto il materasso e si voltò verso la finestra, lasciando che il sole le inondasse la faccia mentre pensava: erano appena le dieci di mattina e non sarebbero venuti a cercarla prima dell’una, quindi aveva tre ore libere per far sì che Alois ricevesse il suo messaggio. Essere libera non significava essere indisturbata, però: doveva essere il più discreta possibile se non voleva farsi scoprire da qualcuno, il che al momento si trovava all’ultimo posto nella lista delle sue priorità. Aveva paura, ma doveva farlo.
Si concesse un bel respiro profondo prima di iniziare a slacciarsi e togliersi gli stivali, rimanendo a piedi nudi per fare meno rumore. Sorrise amara quando sentì il tappeto ruvido sotto i suoi piedi, e le ritornarono in mente i ricordi dei suoi primi giorni alla villa, quando anche il più piccolo passo le infilzava dei chiodi nella pelle, e di quella lunga notte passata a correre fino a farsi sanguinare i piedi. Si riscosse dai suoi pensieri e afferrò la strisciolina di carta che sporgeva dal bordo del quaderno. Rilesse un’ultima volta quello che aveva scritto, poi ripiegò il messaggio in quattro e lo nascose nel pugno nel modo più naturale possibile. Mentre si alzava in piedi e si dirigeva verso la porta si disse ancora una volta che era l’idea più stupida che potesse venirle in mente, che l’avrebbero scoperta in breve tempo, ma lasciò perdere le voci che le affollavano la testa e spalancò la porta, ritrovandosi nel corridoio vuoto e silenzioso. Uscì dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle in silenzio con il respiro che le si era fatto più affannato, come se avesse un peso sopra i polmoni che le impediva di respirare nel modo giusto. Si costrinse a calmarsi e si diresse a passi lenti verso la camera di Alois, quasi in fondo al corridoio.
Quando spalancò la porta si aspettava che qualcuno sbucasse fuori dal nulla per coglierla sul fatto, ma nessuno si fece vivo e niente ruppe il silenzio che la circondava. Non sapeva se sentirsi al sicuro o meno, ma ormai era fatta, non poteva tornare indietro. Entrò nella stanza e si chiuse la porta alle spalle, senza mai smettere di guardarsi intorno e pensare a dove poter nascondere il suo minuscolo messaggio. Sotto il cuscino? Troppo ovvio. Nel cassetto del comodino? Avrebbe potuto rimanere lì per anni.
Incastrarlo in uno degli intagli delle colonne del baldacchino?
Ma seriamente, Lena?
Sospirò, d’accordo di malavoglia con la vocina che aveva sovrastato tutte le altre. Non c’era alcun posto in cui poteva nascondere quel maledetto foglietto, tutti erano troppo in vista o troppo nascosti, non c’era nessuna via di mezzo. È stata un’idea stupida, ammise mentre lanciava un’ultima occhiata alla stanza prima di andarsene. Quando si voltò verso la porta, però, vide un lampo blu scuro con la coda dell’occhio e si voltò in quella direzione, incuriosita, ritrovandosi davanti agli occhi un cubo di stoffa blu che doveva contenere qualche gioiello, probabilmente l’anello che Alois portava sempre. Un’idea si fece strada nella sua mente e, con un sorriso accennato, si avvicinò al comodino e osservò meglio la scatola da più angolazioni, finchè non trovò quella che le serviva. Afferrò il cubo lentamente e lo sollevò di pochi centimetri, quel tanto che le bastava per posare il suo messaggio sul comodino, poi mise la scatola al suo posto lasciando sporgere solo un minuscolo triangolino bianco del foglietto, visibile solamente da una persona sdraiata o seduta sul bordo del letto. Non sapeva se Alois sarebbe riuscito a trattenersi dallo scoprire cosa fosse quella punta bianca finchè non fosse rimasto da solo, ma non poteva fare altro che sperare e confidare nella propria fortuna. Uscì dalla camera e ritornò nella sua in silenzio, sospirando di sollievo non appena ebbe chiuso la porta. Si lasciò crollare sul letto sulla schiena e con le braccia spalancate come se avesse fatto un enorme sforzo, e in un certo senso si sentiva davvero così stanca. Chiuse gli occhi per cercare di rilassarsi e calmarsi, ma una voce le sussurrò all’orecchio che col suo messaggio aveva solamente innescato qualcos altro; non le disse cosa, ma Lena immaginava che sarebbe stata solo questione di tempo prima di vedere un risultato.
 

***

 
Nel corso della giornata la temperatura si abbassò sempre di più finchè, con l’arrivo della sera, l’aria si fece talmente fredda da costringere la servitù ad accendere di nuovo i camini, nonostante fossero i primi giorni di maggio. Lena non aveva mai visto un vero fuoco, se si escludeva l’incendio che la perseguitava nei suoi incubi, e rimase così ipnotizzata dal modo in cui si muoveva e disegnava figure al suo interno che, durante la cena, Alois dovette riportarla alla realtà con un paio di pizzicotti. Completamente persa in altri pensieri, si voltò verso di lui con la speranza che volesse dirle in qualche modo che aveva ricevuto il suo messaggio, ma nel suo sguardo stanco non c’era traccia di quel segreto che avrebbero dovuto condividere. Delusa, si scusò a voce bassa e tornò a concentrarsi sul piatto davanti a lei, chiedendosi perché ci mettesse tanto a farle un cenno, dirle qualcosa che soltanto lei poteva capire e che le facesse intendere che il ragazzo voleva sentire quello che aveva da dirgli.
Il tempo volò e l’ora di arrivare a letto arrivò più presto di quanto Lena si aspettasse: in un battito di ciglia era di nuovo in camera sua, con addosso la camicia da notte e il fuoco acceso nel camino di nuovo in funzione dopo anni di inattività. Si rigirò un paio di volte nel letto, incapace di prendere sonno e chiedendosi perché Alois non le avesse detto niente, poi, vinta dalla disperazione, uscì da sotto le coperte e si diresse verso il bagno, più per il bisogno di fare una passeggiata e sfogare la sua ansia che per altro. Alla fine tutto quello che fece fu solamente gettarsi dell’acqua fredda sul volto, sperando di non svegliarsi completamente per poi passare una notte insonne. Diede un’ultima occhiata al suo riflesso consumato dall’attesa e tornò indietro sui suoi passi, notando solo a metà del tragitto che aveva lasciato la porta della sua stanza spalancata. Scrollò le spalle per liquidare quel dettaglio, ma, non appena si ritrovò sulla soglia della porta, il sangue le si gelò nelle vene, senza darle la possibilità di liquidare la vista di Claude inginocchiato davanti al fuoco.
Non pensò neppure per un istante di trovarsi in un sogno: sudava per il calore delle fiamme e i brividi che le scendevano lungo la schiena erano troppo reali per poter essere una mera replica onirica. Il primo pensiero che le attraversò la testa fu che l’uomo fosse entrato per leggere il suo quaderno e scoprire i suoi progetti, ma l’istinto le disse che si sbagliava, che lui si trovava nella sua stanza per un altro motivo. Afferrò la pietra blu della collana con una mano e la strinse forte nel suo pugno per impedirsi di urlare e svegliare il resto della villa.
Il maggiordomo terminò quello che stava facendo e rivolse un’ultima occhiata all’interno del camino prima di alzarsi in piedi e voltarsi impassibile verso la ragazza, come se avesse sempre saputo che lei era lì e lo stava osservando. “Ero venuto a controllare che ci fosse abbastanza legna per stanotte. Scusatemi per essere entrato nella vostra camera all’improvviso, vi lascio al vostro riposo. Buonanotte, signorina.”
“Buonanotte,” mormorò lei in risposta cercando di controllare il tremito nella sua voce. Fece un passo avanti, titubante, e Claude le passò accanto per uscire dalla camera, chiudendo poi la porta alle spalle di Lena. Lei rimase ferma finchè non sentì i suoi passi sparire, poi allentò la sua presa sulla collana, osservando distaccata le dita rosse e indolenzite per la forza che aveva usato. Lanciò un’occhiata al fuoco nel camino: non ne era più attratta, ora tra quelle fiamme vedeva solo stelle a cinque punte e occhi diabolici che non smettevano di fissarla. Si avvicinò al fuoco senza nemmeno sapere quello che stava cercando al suo interno, se qualcosa c’era. No, doveva esserci qualcosa, non credeva che Claude si fosse scomodato soltanto per un po’ di legna, almeno, non in quella situazione. Si inginocchiò davanti alla bocca del camino con la testa protesa verso le fiamme, quasi in stato di trance, ed ebbe un sussulto quando vide una strisciolina bianca adagiata con cura sopra un ciocco di legno in mezzo al fuoco. Riuscì appena a leggere nella sua stessa calligrafia le parole stanotte e parlarti prima che la carta si annerisse, si accartocciasse e tornasse cenere.
Se se lo aspettasse? Sì.
Ma vederlo davanti ai propri occhi? Tutta un’altra cosa.
 

***

 
Lena rimase sveglia buona parte della notte, mentre i suoi pensieri le vorticavano nella testa a velocità incredibile, uno dietro l’altro in un fiume continuo e inarrestabile. Il fuoco non riusciva a scaldare il freddo che sentiva nelle sue vene, e le ombre che le fiamme proiettavano sulle tende aperte e sulle pareti sembravano creature uscite dai suoi incubi. Non c’era niente che riuscisse a calmarla, nessun ricordo felice che potesse aiutarla ad addormentarsi. Claude aveva scoperto il suo misero tentativo, e poteva stare certa che non avrebbe mai più avuto occasioni di stare da sola con sé stessa. Sarebbe stata sorvegliata in continuazione senza nemmeno il tempo per respirare, e sapeva che la situazione sarebbe peggiorata finchè le mura della villa non le sarebbero andate strette come quelle di una prigione costringendola a fuggire via. Al diavolo le minacce di Andrè, c’era qualcosa peggiore da cui doveva fuggire. Però…
Non poteva lasciare Alois da solo. Non poteva abbandonarlo nel mezzo della tempesta dopo tutto quello che aveva fatto per lei. Doveva convincerlo che le cose stavano per peggiorare, che niente era a suo favore e nessuno dalla sua parte, che la cosa migliore era fuggire e andarsene. Ci pensò su, poi scosse la testa sconsolata: no, non l’avrebbe mai fatto, non avrebbe mai lasciato la sua casa e tantomeno Claude. Aveva solo una vaga idea del rapporto tra i due, ma quel poco le bastava per rendersi conto che il ragazzo si fidava ciecamente del suo maggiordomo e che gli avrebbe affidato la sua stessa vita come aveva fatto con la sua anima. Non ci sarebbe stato modo di convincerlo a scappare, e se lui fosse rimasto allora sarebbe rimasta anche lei. Avrebbe provato ad arginare la situazione dall’interno, anche se una smemorata come lei poteva fare ben poco contro qualunque cosa fosse in realtà il maggiordomo. Ma Alois l’aveva salvata, la sua vita gli apparteneva, e aveva un debito nei suoi confronti troppo grande per non essere saldato. Così, mentre un corvo fuori dalla finestra gracchiava, Lena prese la sua decisione.
Due colpi leggeri alla porta la fecero sobbalzare e mettere a sedere di scatto sul letto col cuore in gola. La porta si aprì lentamente e la ragazza si aspettò di trovarsi davanti da un momento all’altro Claude, ma al suo posto apparvero due familiari occhi azzurri e una massa di capelli biondi spettinati dal cuscino. Lo guardò confusa e mormorò con voce impastata: “Alois, cosa stai…”
Lui si portò un dito alla bocca per dirle di fare silenzio e le fece cenno di raggiungerlo. Lena fece come le era stato detto e per un attimo pensò che il ragazzo ce l’avesse fatta a leggere il suo messaggio prima che Claude lo trovasse, ma quando fece per chiederglielo lui le tappò la bocca con una mano, le afferrò un polso e la trascinò lungo il corridoio, cercando di fare meno rumore possibile. Scesero al pianterreno e uscirono dalla villa per una porta di servizio, la stessa da cui era scappato Ciel Phantomhive un paio di sere prima. La ragazza continuò a rimanere in silenzio mentre Alois entrava in un boschetto poco lontano e la conduceva in un punto in cui gli alberi erano meno fitti e l’erba più spessa. Lasciò andare il suo polso solo in quel momento e si sdraiò sul prato con un tonfo, facendole poi segno di sdraiarsi accanto a lui. Rimasero immobili a fissare il cielo in silenzio per lunghi minuti, due fantasmi distesi su un prato, poi Lena gli chiese, cercando di nascondere la speranza nella sua voce: “Perché sei venuto a cercarmi a quest’ora di notte?”
Lui fece spallucce. “Sai, a volte questo posto mi sta stretto. Mi sento soffocare tra quelle mura, come se fossi in prigione. Troppi ricordi, capisci?, troppe cose che voglio dimenticare e che invece ogni singolo angolo di questa villa mi riporta in mente.” Sospirò. “Vorrei vedere il mondo, conoscere altri posti, ma a questo punto credo che morirò tra queste quattro mura senza alcuna via di fuga.”
La sua speranza cadde come un castello di carte, ma le parole che uscirono dalla bocca di Alois la spaventarono più di ogni altra cosa. Quel pensiero era rimasto nascosto nella sua mente a lungo e finalmente era riuscito a uscire allo scoperto: lui non sarebbe mai uscito vivo da quella tempesta, ne sarebbe stato travolto e schiacciato. Non era solo un pensiero, era una certezza tremendamente reale. Cancellò dalla sua mente tutto quello che aveva voluto dirgli, spiegargli, e passò alla domanda che vagava nella sua testa da quella sera. “Se tu potessi andartene da qui, lo faresti davvero?”
Ci fu un attimo di silenzio, poi lui sussurrò in tono spezzato: “Vorrei, ma non posso.”
Ma tu puoi! urlò Lena dentro di sé, ma sapeva che stava solo mentendo. Per colpa del simbolo che portava sulla lingua non avrebbe mai potuto essere libero, Claude lo avrebbe ritrovato dovunque, perfino nel nascondiglio più perfetto e invisibile che potesse esistere. Cercò spontaneamente la mano del ragazzo e gli disse: “Ti prometto che quando me ne andrò via di qui verrai anche tu con me.”
Un silenzio pesante cadde tra di loro, e sembrò che fossero passate ore prima che Alois le chiedesse, incredulo: “Cosa?”
Un sorriso le illuminò la faccia. “Sì, verrai anche tu! Ce ne andremo da qui, vedremo altri posti, saremo…”
“Non questo.” La sua voce era glaciale, e la sua stretta sulla mano di lei si strinse. “L’altra cosa che hai detto.”
Lena deglutì, impaurita. “Quando… me ne andrò da qui.”
Ci fu un altro minuto di silenzio, poi il ragazzo si alzò di scatto a sedere e trascinò Lena con sé, afferrandole la faccia con le mani e costringendola a guardarlo nei suoi occhi azzurri, dove brillava di nuovo quella scintilla spaventosa di follia. “Tu andrai via?” le chiese come se avesse capito male.
“M-Ma solo quando avrò recuperato i miei ricordi, non prima, altrimenti non saprei dove andare.” Cercò di farlo ragionare. “Alois, capiscimi. Devo andare a cercare la mia famiglia.”
No, non puoi!” Le sue urla erano un misto di rabbia e paura, e la ragazza ebbe ancora una volta paura che lui potesse farle del male quando vide una scintilla familiare brillare in quell’azzurro. “Tu non puoi andartene, Lena! Tu mi appartieni, sono io che ti ho salvata, la tua vita è mia, devi rimanere con me! E non recupererai mai più i tuoi ricordi, non ricorderai mai più niente di te stessa così come a me non è stata data questa possibilità, capisci? È una maledizione a cui siamo legati a doppio filo!” Prese fiato per un attimo, poi mormorò a voce bassa: “Non puoi abbandonarmi anche te, Lena.”
Sbarrò gli occhi mentre altre tessere dell’enigma tornavano al loro posto. Allungò una mano per sfiorare la guancia di Alois, ma lui si tirò indietro a quel contatto e, con tutta la rabbia di cui era capace, strappò via la benda dalla sua guancia e la lasciò cadere sul prato, mettendo in bella mostra la sua lunga cicatrice. Lena rimase interdetta, come se non riuscisse a credere che lui avesse svelato il suo segreto ancora una volta, e rabbrividì quando il ragazzo percorse per l’ennesima volta la sua ferita con il dito tremante. “Perché tu, Lena? Perché non io?” le chiese con la voce spezzata. Una lacrima gli corse lungo la guancia, ma prima che la ragazza potesse asciugargliela o consolarlo era già scappato via, verso la villa. Lena lo guardò allontanarsi mentre capiva.
Sì, adesso capiva. Capiva cosa significava lo sguardo che le aveva lanciato il primo giorno che si erano conosciuti, capiva cosa c’era dietro ai suoi comportamenti sadici, ai suoi pizzicotti, alla domanda che le aveva rivolto giorni prima e che le aveva fatto nuovamente e a cui lei non sapeva dare una risposta.
C’era un solo sentimento che Alois provava nei suoi confronti in quel momento, e forse era sempre stato così.
 
Invidia.


















Stasera sarò breve (è tardi, è tardiiii D:). Ho scritto questo capitolo abbastanza in fretta, se trovate qualche errore sappiate che è per la stanchezza. La parte finale non è venuta come mi aspettavo, ma vabbè.
E un'ultima cosa: PREPARATEVI AL PROSSIMO CAPITOLO.
MadLucy: mannaggia, alla fine mi hai scoperta! *si toglie le lenti a contatto colorate e lo smalto nero* Non ti preoccupare per la tua recensione, nemmeno la mia risposta è granchè. Questi ultimi giorni mi uccideranno ._____. (Libertà, dove sei? ç____ç)

xoxo
Eva

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Capitolo 17
*** Traditrice, spia, bugiardo. ***


 XVII. Traditrice, spia, bugiardo.


 

 
L’ondata di freddo che aveva colpito l’Inghilterra passò in pochi giorni, e la primavera esplose con la stessa intensità di prima, nonostante gli occasionali temporali che di tanto in tanto si scatenavano. La natura sembrava desiderosa di volersi svegliare e rinascere, ma Lena non era decisamente di quell’umore. Avrebbe preferito di gran lunga trovare un posto in cui nascondersi e dormire il più a lungo possibile, scappando da tutto e da tutti per non affrontare la nuova situazione e aspettare che la tempesta fosse passata.
Era seduta su una panchina nel giardino e osservava senza alcuna emozione i colori dei fiori e il modo in cui tutto sembrava brillare più del solito. Sulla panchina di pietra, accanto a lei, c’erano gli stivali che portava di solito, adagiati lì sopra con noncuranza e in fretta; era sempre più difficile per lei indossarli, le sembrava che i suoi piedi fossero incatenati, e la situazione era già abbastanza soffocante di suo. Così aveva iniziato a toglierseli sempre più spesso quando era da sola e aveva preso l’abitudine di camminare a piedi nudi per la sua stanza o per il corridoio del primo piano quando nessuno era in vista. Le sembrava di essere tornata a quei lontani giorni in cui era appena arrivata alla villa: oltre alla faccenda delle scarpe, adesso non si toglieva la benda nemmeno quando si lavava, chiudeva a chiave la porta della sua camera quando doveva cambiarsela, e aveva iniziato di nuovo ad evitare tutti e a trascorrere più tempo da sola nella sua camera. La ragazza sperduta e senza memoria era tornata a farsi viva con insistenza, e Lena si chiedeva spesso quando sarebbero tornate ad essere una cosa e la vecchia lei l’avrebbe costretta a fuggire dalla villa verso una destinazione sconosciuta. Non era più importante recuperare i suoi ricordi, adesso la prerogativa era fuggire.
Le cose erano precipitate a una velocità incredibile e così rapida che la ragazza a volte credeva di essere finita in un sogno da cui non riusciva a svegliarsi. Da quella notte nel giardino Alois le parlava solo il minimo indispensabile e non l’aveva più cercata nei suoi rari momenti di tempo libero, lasciandola da sola per l’intera giornata. Non sapeva dire se fosse arrabbiato, offeso o triste, ma non le importava saperlo, voleva solo che tra loro tutto tornasse come prima. Avrebbe sopportato i suoi sbalzi d’umore per l’eternità pur di trascorrere di nuovo un po’ di tempo con lui, anche solo per sentirlo farneticare di cose senza senso; ma questo per ora non sarebbe successo, e quindi doveva trovare altri modi per trascorrere le sue giornate vuote. Ogni tanto faceva ancora qualche capatina in biblioteca, ma non riusciva a leggere più di qualche pagina: i protagonisti di quelle storie le sembravano irreali come le loro vicende, non le interessava più sapere cosa sarebbe successo loro. Non poteva più nemmeno girovagare per la villa ed esplorare stanze sconosciute, perché, non appena si ritrovava dove non avrebbe dovuto essere, Claude o uno dei tre gemelli sbucava dal nulla e le metteva addosso una paura tale da farla chiudere nella sua camera per lunghe ore. L’unica persona che sembrava curarsi di lei era Hannah, ma anche il rapporto tra loro due era cambiato: il silenzio che le circondava nei rari momenti in cui erano sole non era più rilassato, ma teso e carico di domande non fatte e risposte non rivelabili, ed entrambe sapevano o avevano la sensazione che il peggio stava per arrivare e che non avrebbe lasciato superstiti. Ma loro non potevano fare niente per cambiare il corso degli eventi, non erano che delle semplici pedine su quella scacchiera letale, e non potevano fare altro che stringere i soffocanti corsetti dei vestiti di Lena.
Alois non scherzava quando aveva detto che la vita della ragazza gli apparteneva, e lei se ne rese conto solo in quel momento: senza di lui lei non poteva fare niente, non sentiva niente, non era niente. Lui le aveva donato una vita e dei ricordi meravigliosi ed orribili, e lei non avrebbe mai potuto aiutarlo nello stesso modo, nemmeno se avesse voluto. L’unica cosa che poteva e voleva fare per lui era impossibile, anche se desiderava con tutte le sue forze il contrario.
Abbassò per un attimo lo sguardo sulle sue gambe che dondolavano e sui suoi piedi nudi, poi tese una mano verso il cespuglio più vicino e colse un fiore, strappandolo con uno schiocco secco dal suo stelo. Lo fissò a lungo senza vederlo veramente mentre ci giocherellava e continuava a pensare. I suoi pensieri le fecero venire in mente un episodio accaduto qualche tempo prima, uno dei primi giorni dopo il suo arrivo. Alois aveva trovato nel bosco lì vicino una farfalla intrappolata in una ragnatela, l’aveva liberata e, sotto lo sguardo inorridito di Lena, le aveva strappato un’ala per impedirle di scappare. L’aveva tenuta nella sua camera finchè non era morta e, quando aveva provato a cremarla, aveva quasi mandato a fuoco anche la stanza. La ragazza si sentiva come quella farfalla: aveva lasciato che il ragazzo la salvasse, si era fidata di lui e di quello che aveva fatto per lei, e alla fine lui le aveva tolto la possibilità di andarsene; lei non avrebbe mai osato fuggire dopo quello che le aveva urlato quella notte, nonostante la situazione oppressiva e la paura che non se ne andava mai. In un breve momento di lucidità si chiese se Alois non riconoscesse sé stesso in quella farfalla, salvato e senza alcuna via di scampo. Almeno lei aveva una scelta, ma lui non aveva nemmeno quella.
Continuò a rigirarsi il fiore tra le dita, facendo brillare alla luce del sole il giallo accecante dei suoi petali. “È quasi un mese che sono qui,” disse senza rivolgersi a nessuno in particolare. Era difficile crederlo, ma era così. Erano successe così tante cose in così poco tempo che il tempo sembrava essersi dilatato e ristretto per confonderla e disorientarla ulteriormente. Poteva essere davvero trascorso un solo mese da quando si era risvegliata in quel bosco senza più alcun ricordo? Si era davvero affezionata così tanto ad Alois in così poco tempo da impedirsi di fuggire via dalla villa per scoprire la sua vera identità? Provò ad immaginarsi la sua famiglia, i suoi genitori spersi in qualche villaggio lontano da Londra, con un figlio morto e una figlia sparita nel nulla di cui non avevano più notizie da settimane. Le si strinse il cuore al pensiero di quei due completi sconosciuti che la aspettavano, e si chiedeva quale sarebbe stata la loro reazione nel vedere che lei non si ricordava chi fossero. Sarebbe stata dura, ma avrebbero potuto ricominciare da capo, lei avrebbe potuto cominciare una nuova vita ancora una volta.
Sarebbe stato bellissimo, se non fosse stato per quello che la teneva legata alla villa.
Lasciò andare la sua presa sul fiore e lo osservò cadere lentamente prima che si posasse sul terreno. Rimase a fissarlo a lungo senza alcuna espressione in volto, e si riscosse solo quando sentì dei passi avvicinarsi. Quei tacchi familiari ticchettavano perfino in mezzo al giardino e li avrebbe riconosciuti tra mille, e sentì il sudore colarle freddo lungo la schiena quando lui si sedette accanto a lei sulla panchina, posando per terra gli stivali. Nessuno dei due parlò per lungo tempo, ognuno perso nei propri pensieri e concentrato su cosa dire, poi il ragazzo le disse: “Finalmente siamo da soli.”
Avremmo potuto esserlo da tempo, pensò lei mentre annuiva senza alzare lo sguardo. Un lampo azzurro catturò la sua attenzione e la fece voltare verso la sua spalla sinistra, su cui si era adagiata una farfalla dalle ali turchese. La osservò mentre sbatteva lentamente le sue ali e decideva la nuova direzione da prendere, poi l’insetto si alzò in volo e Lena lo seguì con lo sguardo finchè non fu scomparso dalla sua vista. A quel punto fu quasi costretta a voltarsi verso Alois e i suoi occhi dello stesso colore delle ali della farfalla. “Già.”
Lui rimase in silenzio per qualche istante prima di continuare, andando dritto al punto: “Sono sempre stato invidioso di te fin dall’inizio. Non sei stupida, penso che tu l’abbia capito già da un po’. Ma, vedi… quando mi hai detto che non ricordavi niente di te stessa del tuo passato, mi sono chiesto perché fosse successo a te e non a me.” Strinse i pugni per contenere la rabbia. “Non capivo perché tu avessi avuto questa possibilità e non io. Ho visto e subito cose che nessuno dovrebbe mai provare, e per quanto voglia dimenticarle sono ancora tutte qui, nella mia testa, e non basteranno mille patti col Diavolo per cancellarle.” Rise amaro. “Strano, no? Tu invidi me perché ho tutto, e io invidio te perché non hai niente. Se potessi scambierei le nostre vite in un batter d’occhio.”
L’aveva già intuito, ma sentirselo dire faceva tutto un altro effetto. Adesso quella domanda così enigmatica era comprensibile, così come la sua riluttanza a parlare del suo passato. Tutto era chiaro, ma una nuova e spaventosa domanda si affacciò nella mente di Lena, facendola tremare in tutto il corpo. Dovette raccogliere tutto il suo coraggio per chiedere ad Alois in un sussurro flebile: “Tu mi odi?”
Il ragazzo non le rispose subito, come se dovesse pensarci su a lungo. Il cuore di lei iniziò a battere più veloce: non era sicura di riuscire a sopportare la verità, soprattutto se lui le avesse detto che sì, la odiava, che tutto quello che aveva fatto per lei l’aveva fatto solo per avere un nuovo giocattolino con cui divertirsi. Aveva fatto male a lasciare che lui iniziasse a parlarle, avrebbe dovuto sapere che non avrebbe retto il confronto. Fece per andarsene, ma in quel momento lui le rispose: “Dovrei, ma non lo so.” Sorrise, stavolta un po’ più sinceramente. “Sei così complicata che non riesco nemmeno a capire cosa provo nei tuoi confronti.”
Lena voleva ribattere che non era lei quella difficile, ma quel momento di riavvicinamento era troppo bello e desiderato troppo a lungo per rovinarlo con una battuta sarcastica. Sorrise lentamente e si ritrovò a dare ancora una possibilità ad Alois, a cancellare quello che si erano detti e ripartire da zero di nuovo. Forse fu allora che si accorse di essere diventata succube del ragazzo, ma non le importava: lui le aveva donato una nuova vita e lei gli sarebbe stata fedele fino alla morte. Lo avrebbe salvato e lo avrebbe portato lontano da lì, dal suo passato e da quella tempesta. Abbassò lo sguardo, nuovamente imbarazzata, e mormorò: “A proposito di quello che ci siamo detti l’altra sera… ho cambiato idea. Non partirò più, nemmeno quando avrò recuperato la memoria.”
Lui sorrise luminoso e feroce. “E la tua casa? La tua famiglia?” le chiese in tono ironico, come se la stesse prendendo in giro per la sua bizzarra idea di abbandonarlo per ritrovare i suoi genitori. Che idea stupida, piccola Lena, non capisci che non li incontrerai mai più?
Aprì bocca per rispondergli, ma si accorse che ciò che voleva dirgli non sarebbe mai dovuto uscire dalle sue labbra. Si limitò a sorridere in modo misterioso e a ripensare a quell’unica frase – Tu sei la mia casa. Lui ridacchiò e le mollò un pizzicotto sulla mano senza farle troppo male. “Allora mi perdoni?” gli chiese lei, anche se non era compito suo chiedere scusa; ma ormai aveva fatto il callo a queste colpe ingiuste che non ci faceva più nemmeno caso. Ordinaria amministrazione, ecco.
Alois le sorrise in un modo che poteva essere considerato una risposta affermativa. Lena non seppe mai perché lui l’aveva perdonata, anche se pensava fosse perché anche a lui mancava la sua compagnia, cosa che non avrebbe mai ammesso nemmeno sotto tortura. O forse sì? I suoi pensieri erano contorti e difficili come il suo bisogno d’affetto, non c’erano schemi che potevano aiutarti a capirlo, dovevi solo lasciare che gli eventi si sviluppassero uno dietro l’altro. La ragazza l’aveva capito da tempo e per questo lasciò che lui, dopo che si fu infilata di nuovo gli stivali, le afferrasse il polso e la trascinasse in qualche posto nascosto come facevano un tempo. Non appena lasciarono la panchina, però, qualcosa attirò la sua attenzione verso un cespuglio, e dovette trattenere il fiato quando vide la ciocca viola a malapena visibile tra le foglie. Cercò di metterla a fuoco, ma prima che potesse farlo era già scomparsa come un brandello di sogno nella luce dell’alba. Spalancò gli occhi, stupita, e riportò il suo sguardo su Alois mentre rimuginava: allora le sue intuizioni non erano sbagliate, l’avevano sempre tenuta d’occhio dovunque andasse. L’avevano spiata per tutto il tempo dopo il suo scherzetto del messaggio, e probabilmente le cose sarebbero solo peggiorate quando Claude fosse venuto a sapere del riavvicinamento tra lei e Alois. Era spaventata dalle conseguenze, certo, ma al tempo stesso sapeva che avrebbe dovuto affrontarle con tutto il suo coraggio: aveva fatto una promessa a sé stessa e l’avrebbe mantenuta, costasse quel che costasse. Aveva un debito da saldare, e nessuno glielo avrebbe impedito.
Quando raggiunsero il portone principale della villa, Lena alzò lo sguardo per abitudine verso la ragnatela nell’angolo, e le si gelò il sangue nelle vene quando vide la stessa farfalla di prima invischiata in quella trappola. Il ragno si era nascosto in un angolo buio per non farsi vedere, e stava aspettando con trepidante eccitazione che la sua preda fosse stanca a sufficienza prima di saltarle addosso e strapparle le ali azzurre dal corpo. Era una scena così simile ai suoi incubi che dovette costringersi a non svenire o urlare una volta dentro l’atrio.
Avvertimento o meno, poteva dire di essersi spaventata abbastanza.
 

***

 
La cantina era immersa completamente nel buio e nel silenzio notturno quando la porta si aprì, rivelando una figura bianca in piedi sulla soglia con in mano un candelabro con tre candele accese. Guardò il buio sotto di lei con paura come la prima volta in cui era scesa lì sotto e, forse per il fatto che era notte fonda e incredibilmente buio, fu sicura che nell’oscurità i suoi incubi la stessero aspettando per trascinarla nel loro mondo malato e contorto per sempre. Respirò profondamente e scese il primo scalino, chiudendosi la porta alle spalle, e mentre continuava a scendere si costrinse a pensare a qualcos altro, qualunque cosa non riguardasse le ombre che circondavano lei e la sua misera luce. Quella giornata, per esempio. Doveva pensare a quello che era successo quel pomeriggio.
Tutto sembrava essere tornato come ai vecchi tempi, quando trascorrevano insieme interi pomeriggi parlando e spostandosi da una stanza all’altra della vecchia villa. Lena si era sentita felice come non lo era da giorni, e aveva sopportato perfino quei due o tre momenti in cui Alois aveva avuto uno dei suoi cambi d’umore improvvisi. Lo aveva ascoltato parlare ininterrottamente per ore, saltando da un argomento a un altro, e si era stupita quando lui aveva menzionato di sua spontanea volontà Ciel Phantomhive. Le aveva detto che a breve sarebbe tornato alla villa –mentre parlava gli occhi gli brillavano – per una piccola sfida, una Danse Macabre, niente di che. “Cos’è, esattamente?” gli aveva chiesto lei incuriosita.
Lui le aveva sorriso in un modo che le aveva fatto venire i brividi. “Niente di cui tu debba preoccuparti, Lena,” l’aveva tranquillizzata accarezzandole i capelli, ma l’unico effetto che quella risposta le aveva fatto era stato quello di accentuare la sua preoccupazione apparsa quando era saltato fuori il nome di quella ‘piccola sfida’. Era un nome che prometteva guai, ed era per quello che adesso si trovava di nuovo sui freddi scalini della cantina, in cerca di un oggetto sconosciuto: tutto era partito da lì, ne era sicura, quindi quale luogo migliore in cui trovare le risposte alle sue domande?
Una volta in fondo alle scale, si diresse subito verso lo stesso scaffale della volta precedente: lo avrebbe controllato meglio in cerca del più piccolo indizio, non doveva farsi sfuggire nulla. Non aveva nemmeno paura che qualcuno potesse interrompere il suo lavoro: era scesa fin lì nel silenzio più totale, mettendoci mezz’ora per non svegliare o allarmare qualcuno, ed aveva acceso le candele solo quando era arrivata in cucina. Aveva fatto un lavoro perfetto, ma era questo il momento in cui doveva impegnarsi il doppio.
Appoggiò il candelabro su un punto vuoto dello scaffale e si scrocchiò le dita prima di iniziare a controllare ogni scatola di tè con precisione quasi maniacale. Le aprì tutte, rovistando tra le foglie al loro interno in cerca di qualche oggetto, ma quando arrivò all’ultima non aveva trovato niente di insolito o strano. Sbuffò frustrata e avvicinò la testa al punto in cui aveva appoggiato il candelabro, avvicinandovi involontariamente anche la sua collana. Non appena la pietra sfiorò il legno, l’azzurro del ciondolo si fece più brillante quanto la luce delle candele e la L incisa sulla sua superficie risaltò ancora di più. Sotto lo sguardo sorpreso e spaventato di Lena, la pietra iniziò ad emettere qualcosa: non erano suoni, bensì vibrazioni che non facevano tremare gli oggetti, ma udibili ad orecchio umano e che si propagavano anche fuori dalla stanza. La ragazza fece un veloce passo indietro e le vibrazioni finirono, ma qualcosa le diceva che era già troppo tardi. Si sbrigò a spengere le candele mentre dei passi risuonavano sopra di lei, e si appiattì contro la parete un attimo prima che la porta si spalancasse. Tutto era immerso nell’oscurità, ma la figura sulla soglia le era maledettamente familiare, e il fatto di trovarsi da sola con lui in quel posto a notte fonda non la aiutava a calmarsi.
“È inutile che vi nascondiate, signorina, lo so che siete qui.” Gli occhi dorati di Claude scintillavano perfino nel buio, e Lena trattenne il fiato quando lui scese il primo gradino, diminuendo la distanza tra loro due. “Immaginavo che sareste tornata qui, prima o poi, ma quando ho sentito che la vostra… collana aveva trovato qualcosa ho capito che eravate di nuovo qua sotto per cercare qualcosa.” Secondo gradino. “Avrei potuto ignorarvi se non vi foste intromessa, ma avete visto e sapete troppo per non essermi d’intralcio.” Terzo gradino. “Niente di personale,” concluse in un tono che lasciava intendere l’esatto contrario.
Gli attimi successivi furono confusi e si succedettero così velocemente che la ragazza si ritrovò incastrata tra la parete e il maggiordomo prima che potesse rendersene conto. Il cuore le batteva come impazzito nel petto e il sudore le incollava i capelli alla fronte. Non era mai stata così terrorizzata prima d’ora, e quei due occhi dorati esattamente davanti ai suoi la facevano sentire ancora più impaurita e indifesa. Il coraggio la abbandonò poco a poco, e si ritrovò a pensare quasi inconsciamente Ti prego, non farmi del male!
Come se avesse sentito i suoi pensieri – e forse l’aveva fatto davvero – un guizzo divertito attraversò quegli occhi innaturali. Prima che lei potesse aggiungere qualcosa o provare inutilmente a difendersi, Claude le afferrò il polso in una morsa così stretta che lei avrebbe giurato che volesse attraversarle la pelle; immersa com’era nel dolore e nella sorpresa, si accorse che lui l’aveva portata via dalla cantina soltanto quando si ritrovò nel corridoio mal illuminato fuori dalla cucina. Provò un paio di volte a liberarsi, nonostante sapesse che era inutile, poi ricorse all’unica arma che le era rimasta: spalancò la bocca e iniziò a urlare come non aveva mai fatto prima di quel giorno, come se volesse sfogare tutta la sua paura e liberare le urla che aveva trattenuto in tutto quel tempo. Non si aspettava che qualcuno riuscisse a sentirla e la aiutasse – perché avrebbero dovuto? Nessuno era dalla sua parte – ma si ricredette quando arrivarono nell’atrio e in cima alla scalinata, appena svegliato e confuso, apparve Alois in camicia da notte. Lena smise di urlare e fece per dirgli qualcosa, felice di vederlo lì, ma lui guardò sorpreso la scena davanti ai suoi occhi e chiese allarmato: “Cosa sta succedendo, Claude?”
La ragazza fece per rispondergli, ma una mano le tappò velocemente la bocca prima che potesse farlo. Si divincolò nella presa ferrea che la stringeva senza riuscire a liberarsi, ma non si arrese, continuando a dibattersi come un’ossessa. “Sono spiacente di dovervelo dire, danna-sama, ma poco fa ho sorpreso la signorina Lena mentre scriveva una lettera a Ciel Phantomhive. Credo che sia stata una sua spia fin dal primo momento in cui è entrata dentro la villa.”
Il silenzio crollò pesantemente nell’atrio. Lena smise di divincolarsi per spalancare gli occhi, stupita, mentre Alois sembrava addirittura più stupito e colpito di lei. Aveva gli occhi azzurri completamente sbarrati, come se non riuscisse a credere a quello che aveva appena sentito, e fece un passo indietro mentre tremava nella camicia da notte. “Cosa?” mormorò.
“Ho la lettera qui con me in tasca, se non mi credete,” aggiunse il maggiordomo, come se non sapesse che il ragazzo avrebbe preso qualunque sua bugia per verità.
Lena era completamente scioccata: si era aspettata di tutto, dalla tortura a una fuga improvvisa e costretta, ma quella situazione era talmente irreale che andava oltre ogni sua immaginazione. Lo sguardo sorpreso e tradito di Alois la faceva stare male, e approfittò del momento in cui la sua bocca fu liberata - per errore o per aggiungere drammaticità alla scena – per urlare: “Non è vero, Alois, non devi credergli! Io non ho mai visto quel ragazzo prima della festa, lo sai benissimo!”
“Potrebbe avervi mentito anche sulla sua amnesia per guadagnarsi la vostra fiducia.”
No!” Guardò il ragazzo disperata, aggrappandosi alla più sottile speranza. “Ti ho mentito solo sul modo in cui sono arrivata qui, ma ti giuro che tutto il resto è vero! Non ricordo niente del mio passato, non so davvero chi sono!” Una sola lacrima le solcò la guancia, ma nessuno, nemmeno lei, la notò. “Non so dirti perché ero sveglia a notte fonda, ma non l’ho scritta io quella lettera! Ti prego, devi credermi!”
Alois non disse niente, limitandosi a fissarla impassibile. Lei non staccò mai il suo sguardo da lui, sperando che lui potesse leggerle negli occhi tutto quello che non poteva dirgli. Sta mentendo, Alois, non devi credergli. Lo sta facendo solo perché sono un ostacolo, sono d’intralcio a quello che vuole farti. L’ha scritta lui quella lettera, non io. Credimi, Alois, anche tu sai che non sono una spia. Io voglio solo aiutarti. Io voglio solo salvarti. Io ti…
“Cosa devo farne di lei, danna-sama?”
Aiutami.
Il ragazzo rimase a lungo ancora in silenzio, e quando finalmente parlò la sua voce era fredda e tagliente come il ghiaccio: “Fai quello che vuoi, non m’importa niente di quello che le succede. Non la voglio vedere mai più.”
Il suo cuore si spezzò in migliaia di minuscoli frammenti con uno schianto fragoroso, e Lena sentì a malapena Claude che replicava ‘Yes, your Highness’. Si risvegliò solo quando Alois si voltò per tornare in camera sua e urlò: “Alois, ti prego, aiutami! Non mi lasciare da sola!
Lui non la ascoltò e scomparve nel corridoio senza dire altro. La ragazza si sentiva completamente svuotata, esausta e tradita; sì, tradita, esattamente come doveva sentirsi il biondo in quel momento. Era talmente confusa e scioccata che si lasciò condurre docile dal maggiordomo al primo piano, e così rimase finchè lui la fece entrare nella sua camera: le finestre e la portafinestra erano sbarrate da inferriate che non aveva mai visto e che trasformavano quella stanza così accogliente in una prigione. Solo quando pronunciò quella parola nella sua testa capì di essere finita nei guai più di quanto immaginava. Si voltò velocemente verso la porta, sperando di riuscire a scappare prima che si richiudesse, ma Claude le aveva lasciato andare velocemente il polso e aveva chiuso la porta dopo essere uscito nel corridoio, facendo sbattere Lena contro una barriera impenetrabile di legno. La chiave girò nella serratura per tre volte e, mentre la ragazza appoggiava la fronte alla porta e ascoltava i passi che si allontanavano nel corridoio, una voce che non era la sua le entrò in testa e le disse: Nero in oro. Alleata in spia. Menzogna in verità. Questo è un maggiordomo Trancy.
Emise un urlo furioso e colpì la porta con tutta la forza che aveva nel pugno destro.













Ecco, ora potete linciarmi.
Che tristezza, pensare che questa storia sia quasi alla fine. Ad occhio e croce dovrebbero mancare ancora tre capitoli, e poi tutto sarà finito. E' orribile pensarci ç_ç
Bè, l'unica soddisfazione che questo capitolo mi ha dato è stata pensare "Tranquillo, Claude, tanto ti faremo ricacare tutto quello che hai fatto."
MadLucy: mi piace il modo in cui descrivi il rapporto tra Alois e Lena, è proprio quello che avevo pensato io all'inizio. (Risposta brevissima, ma manca venti a mezzanotte e dormo ritta. Perdonami D:)

xoxo
Eva

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Capitolo 18
*** Intrappolata. ***


XVIII. Intrappolata.


 

 
Al primo colpo ne seguirono molti altri, ognuno più violento e disperato del precedente. La porta tremava come durante un terremoto e dava l’impressione di poter cedere da un momento all’altro, ma in realtà resistette come se fosse di pietra. Lena non si diede per vinta, continuando a lanciare brevi urla di rabbia e a colpire la porta coi pugni finchè le dita non iniziarono a sanguinarle. Non si fermò nemmeno quando il sangue le colò fino al polso, e continuò anche quando le gambe iniziarono a tremarle violentemente sotto il peso degli avvenimenti. Non smise mai di provare a uscire dalla stanza, ma a un certo punto le sue urla si fecero più fioche e i suoi colpi più fiacchi, come se tutta la sua energia si fosse consumata. Colpì la porta un’ultima volta, poi le sue gambe cedettero e la fecero cadere in ginocchio sul pavimento, con la fronte ancora incollata alla porta. Se ne allontanò e si portò le mani al volto senza nemmeno cercare di calmare i tremiti che le scuotevano il corpo. Si impose di non piangere, ma dopo poco le lacrime scorrevano insieme al sangue nei suoi palmi.
Era difficile esprimere in una sola parola come si sentiva, dentro di lei c’erano così tante emozioni che era impossibile sceglierne una sola. La rabbia le sovrastava tutte, certo, ma al suo fianco c’erano la tristezza, il rimprovero verso sé stessa e, ultima ma non meno importante, quella lama chiamata tradimento affondata nel suo fianco che faceva male come una ferita vera. Era svuotata e sfinita, ma quell’acuta sensazione di essere stata tradita e abbandonata non voleva saperne di andarsene, e probabilmente sarebbe rimasta lì dov’era per il resto della sua vita. Dentro di sé si era immaginata che Alois si fidasse più di Claude che di lei, ma essere rifiutata e abbandonata così velocemente e freddamente l’aveva sconvolta più di quanto credesse. Ricordava ancora lo sguardo tagliente del ragazzo e le sue parole fredde come il ghiaccio, e si chiese se non fosse intrappolata in uno dei suoi incubi, uno più lungo e spaventosamente reale del solito. Tirando su col naso, diede un pizzicotto al suo braccio già pieno di lividi, e non si spaventò quando si accorse di essere sempre nella sua camera, sempre inginocchiata davanti alla porta, sempre prigioniera lì dentro. Non capiva ancora perchè era stata rinchiusa nella sua camera invece di essere scacciata per finire dritta nelle braccia di Andrè, ma pensare a tutte le possibilità che le si spalancavano davanti era troppo per lei. Guardò impassibile le immagini che le si formavano nella mente, cercando di controllarsi e di rispedirle da dove erano venute, ma prima che potesse riuscirci erano passati diversi minuti e la sua paura non era affatto diminuita. Anzi, se possibile era aumentata.
Si asciugò velocemente gli occhi e le guance con un lembo della camicia da notte e si alzò in piedi tremante, dirigendosi poi verso il letto sfatto che aveva lasciato quella che le sembrava un’eternità prima; era successo tutto così in fretta che sembrava che fossero successe altre cose che lei non riusciva a ricordare. Si infilò sotto le coperte, imbacuccandosi per bene per riscaldarsi, poi, dopo un breve attimo di riflessione, tirò le lenzuola fin sopra alla sua testa, avvolgendosi nella stoffa come in un macabro sudario. Si sdraiò su un fianco, si portò le ginocchia al petto e se le abbracciò, spaventata come una bambina. Chiuse gli occhi per cercare di addormentarsi, ma sapeva che sarebbe stato impossibile e che, se ci fosse riuscita, non avrebbe fatto altro che vedere la stessa scena di poco prima per tutta la notte. Scivolò piano nel sonno quasi senza accorgersene, e quando finalmente si addormentò sogno cose che al risveglio, fortunatamente, non avrebbe mai ricordato.
 

***

 
La mattina dopo, svegliandosi quando il sole già abbastanza alto entrò dalle finestre, Lena si accorse degli strani disegni a scacchi di luce e ombra sopra le lenzuola bianche. Si voltò verso le finestre con un piede ancora nel mondo dei sogni, e si svegliò del tutto quando vide le inferriate al di là del vetro e si ricordò perché si trovava lì. Si sdraiò sull’altro fianco, nonostante le ombre delle sbarre le ricordassero costantemente quello che non voleva vedere, e fissò un punto invisibile nel vuoto senza pensare a niente in particolare. I suoi pensieri vagavano leggeri per la sua testa senza un filo logico, e forse fu la sensazione che ci fosse qualcosa sotto il materasso a impedirle di impazzire del tutto. Si tirò su a sedere e alzò il materasso quel tanto che bastava per intravedere il suo quaderno; non appena lo vide lo afferrò e sfogliò velocemente le sue pagine, sentendo l’odore dell’inchiostro penetrarle a fondo nelle narici. Averlo tra le sue mani la faceva stare meglio, almeno avrebbe potuto sfogarsi in qualche modo durante la sua ‘reclusione forzata’ mentre attendeva il peggio. Scosse la testa con decisione come se volesse cancellare quelle ultime parole. No, non devi pensarlo. Pensa a qualcos altro, qualunque altra cosa. Pensa a come uscire da qui, piuttosto.
Uscire da lì? Le venne da ridere a quel pensiero. Era abituata a fuggire, lo faceva fin dal primo giorno in cui si era risvegliata, ma stavolta preparare una fuga non sarebbe servito. Sentiva che, anche se se ne fosse andata mille chilometri lontana dalla villa per non tornarvi mai più, avrebbero continuato a cercarla finchè non l’avessero trovata: aveva visto troppo, sapeva troppo, da viva sarebbe stata solo un intralcio. Tentare di fuggire equivaleva a un suicidio e a una dichiarazione di guerra di cui non poteva affrontare le conseguenze, rimanere lì era più sicuro, se quello era il termine giusto da usare.
Allora rimarrai qui senza fare niente?
No. Avrebbe solo aspettato il momento migliore per fare qualcosa.
Si tirò su a sedere spaventata e nascose il quaderno sotto le lenzuola non appena sentì il rumore della chiave che girava nella serratura, temendo che il peggio stesse già arrivando, ma si rilassò quando la porta si aprì e nella stanza entrò Hannah, da sola e reggendo il vassoio della colazione tra le mani. La porta si chiuse lentamente alle sue spalle e lei si diresse a testa bassa e a passi lenti verso il tavolino. Lena si toccò inconsciamente la benda quando vide la fascia che copriva l’occhio della donna, e subito dopo, mentre l’altra non le prestava attenzione, si voltò di scatto verso la porta, chiedendosi se fosse in grado di raggiungerla in fretta. Sì, forse con qualche passo veloce avrebbe potuto farcela senza farsi prendere, poi avrebbe imboccato il corridoio e se ne sarebbe andata, sarebbe fuggita ancora una volta, al diavolo tutto e tutti. Il suo corpo scattò in avanti, ma lei stessa si bloccò, rimanendo ferma a sedere: anche se la porta era chiusa, sentiva che c’era qualcuno in corridoio che stava aspettando che Hannah uscisse, e avrebbe potuto mettere la mano sul fuoco da tanto era sicura di sapere chi fosse. Se era davvero lui allora avrebbe dovuto rimandare i suoi progetti, da sola non sarebbe riuscita ad arrivare nemmeno in fondo al corridoio. Aveva bisogno che qualcuno la aiutasse a fuggire.
“Hannah,” sussurrò con voce flebile guardandola. La donna si voltò verso di lei, stupita che l’avesse chiamata in tono così disperato, e le si avvicinò, in attesa che le dicesse qualcosa. Rimase ancora più sorpresa quando la ragazza si inginocchiò sul letto e le abbracciò la vita, nascondendo poi la sua testa nel grembiule. Quell’abbraccio improvviso la lasciò a bocca aperta e con una scintilla di stupore negli occhi. “Signorina…”
“Fammi uscire da qui,” la interruppe l’altra. Il suo corpo tremava e le sue dita le penetravano a fondo nella stoffa del vestito come per cercare un appiglio. “Ti prego, fammi uscire e aiutami a scappare. Ci deve essere un modo. C’è, non è vero?”
Hannah continuò a fissare in silenzio i capelli neri di quella ragazzina disperata e intrappolata senza alcuna via di fuga. Non sapeva perché Claude avesse voluto rinchiuderla nella sua stanza -  per divertimento personale, immaginava – ma era convinta che la cosa migliore per lei fosse scappare lontano da lì per non tornare mai più. Voleva davvero aiutarla, perché esisteva un modo, l’unico, per farla uscire da lì, ma non osava fare un contratto mentre l’altro demone la stava aspettando fuori dalla stanza. E poi quella ragazza era sotto la protezione degli Shinigami, se l’avessero ritrovata con un contratto in qualche punto del corpo si sarebbe scatenata una guerra che avrebbe potuto influire perfino sulla vita degli stessi umani. Quel contratto non le avrebbe dato alcun vantaggio e, per quanto volesse aiutarla, il gioco non valeva la candela. Dovette usare tutta la sua volontà per sciogliere il loro abbraccio, immaginando di dover lottare, ma Lena cedette subito e tornò seduta sul letto come se non fosse successo niente. La donna le rivolse un ultimo sguardo prima di uscire dalla stanza, come se già sapesse che non l’avrebbe vista mai più.
La ragazza ascoltò impassibile la chiave che girava di nuovo nella serratura e i passi che si allontanavano lungo il corridoio, e si alzò in piedi solo quando tornò il completo silenzio. Si avvicinò al tavolino e si sedette sulla sedia, osservando il vassoio che aveva portato Hannah: almeno per adesso non sarebbe morta di fame o di sete, e quel pensiero la consolò almeno in parte. Fece colazione lentamente e in silenzio, senza mai smettere di pensare a quello che le sarebbe successo in seguito: sarebbe rimasta lì per tutta la vita o l’avrebbero lasciata andare, prima o poi? Perché Claude non l’aveva mandata via subito? Aveva così tanta paura che lei potesse spifferare in giro quello che aveva visto da volerla tenere sempre sotto i suoi occhi come un uccellino in gabbia?
Sentì degli altri passi risalire il corridoio nella direzione della scalinata; in un primo momento non se ne curò molto, nonostante fosse ancora un fascio di nervi, ma il cuore iniziò a batterle più forte quando potè udirli meglio e si accorse del leggero ticchettio che producevano. Si alzò di scatto dalla sedia e raggiunse la porta nel momento in cui stavano per oltrepassarla. Schiacciò un orecchio e i palmi delle mani contro la porta e gridò: “Alois! Alois, ti prego, fermati per un momento!
I ticchettii continuarono ad avanzare, poi si interruppero bruscamente pochi passi più in là della stanza. Deglutì, contenta solo in parte che lui le avesse dato retta, poi continuò: “Dammi solo una possibilità di spiegarti tutto, ti prego, non ti chiedo molto. Il punto è che…” Fece una pausa. Come avrebbe dovuto continuare? “Non ho scritto io quella lettera, Alois, non sono mai stata la spia di Ciel Phantomhive. Te lo ricordi anche tu, non sapevo nemmeno chi fosse quando l’ho incontrato alla festa, come potevo essere dalla sua parte?” Quando sono sempre stata dalla tua. “Stanotte stavo vagando per la villa, è vero, ma sono solamente andata in cantina. È successo qualcosa lì, non è vero? È lì che tenevi quello che ti ha rubato quella sagoma nera parecchie notti fa. Sono scesa solo per vedere se riuscivo a capire cosa fosse, perché…” Volevo aiutarti. “Bè, credo che sia stata semplice curiosità, ecco. Ma dalla prima volta che sono scesa là sotto ho visto cose che ti faranno del male se non te ne vai via da qui. Se sono scesa là sotto è solo perché volevo…” Salvarti come tu hai fatto con me.
Dall’altra parte della porta continuò ad esserci silenzio ancora per qualche minuto, poi la voce di Alois rispose fredda: “Claude mi sta cercando, non devo farlo aspettare. Vai a raccontare le tue bugie a qualcun altro.”
Il sangue le si ghiacciò nelle vene. “No! Alois, non devi fidarti di lui! Non è quello che sembra, vuole soltanto…”
Il ragazzo colpì la porta con forza, facendo sobbalzare Lena. “Tu menti! Tu non eri con me durante quei giorni, tu non sai cos’ha fatto per me! Non può tradirmi, rimarrà con me per sempre!
Avrebbe voluto replicare, urlargli che era lui che si sbagliava e stava mentendo a sé stesso, ma quando fu sul punto di farlo il rumore dei suoi tacchi se ne stava già andando, allontanandosi il più velocemente possibile da lei e dalle sue bugie. Lo chiamò un paio di volte in tono disperato, poi colpì la porta a sua volta e imprecò. La sua espressione si intristì e lei tornò a sedersi sul letto a testa bassa, odiandosi per non essere riuscita ad avvisare Alois come voleva. Lo sguardo le cadde sul lembo del quaderno che faceva capolino da sotto le coperte; lo afferrò e ne sfogliò distrattamente le pagine, osservando distaccata i suoi appunti. In un raptus di rabbia e tristezza, afferrò tutte le pagine che aveva scritto e le strappò via, appallottolandole e gettandole nel camino spento. Osservò la nuova pagina bianca davanti a sé e seppe subito cosa doveva farne.
Aprì il cassetto del comodino e ne tirò fuori la penna e il calamaio, appoggiando entrambi sul mobiletto. Intinse la penna nell’inchiostro e iniziò a scrivere seduta sul letto, fermandosi soltanto per intingere la penna in quel liquido scuro e denso come sangue. Scrisse come non aveva mai fatto in quei giorni, una lunga lettera indirizzata ad una sola persona, la stessa che l’aveva prima salvata e poi gettata in quella prigione. Si confidò e si aprì in quelle pagine come non aveva mai fatto davanti a lui, dicendogli tutto quello che non aveva mai avuto il coraggio di dirgli in faccia. Lasciò che le sue parole assumessero significati rabbiosi, tristi, rassegnati, felici, in modo che esprimessero tutto quello che provava nei confronti di Alois. Fu lì che scrisse per la prima volta quello che non aveva mai ammesso nemmeno a sé stessa, per paura di un rifiuto o di mostrarsi debole ancora una volta. Continuò a scrivere per ore intere, fermandosi di tanto in tanto solo per far asciugare l’inchiostro, scrivendo di getto per non far divagare di nuovo i suoi pensieri, che adesso erano ordinati e logici come non erano mai stati prima di quel momento. Quando finì, tracciando le lettere che componevano il suo nome dentro l’ultima riga della lettera, si sentì più leggera, come se il peso che aveva sostenuto per tutti quei giorni fosse scomparso. Non rilesse quello che aveva scritto per paura di cancellare tutto e nascose di nuovo il quaderno sotto il materasso, accarezzando la copertina un’ultima volta prima di lasciare quella lettera al suo destino.
I lunghi sguardi che Claude le lanciò quando entrò nella stanza con prima il pranzo e poi la cena – evidentemente doveva essere venuto a sapere di quello che era successo con Hannah, perché lei non si fece più viva – le fecero capire che in qualche modo lui era a conoscenza dell’esistenza del suo quaderno e della lettera che aveva scritto. Erano dei sguardi che le mettevano i brividi, ma entrambe le volte sostenne con coraggio la vista di quegli occhi dorati, come se non avesse paura di nulla. In realtà il terrore si era impadronito di lei, e il maggiordomo lo sapeva bene.
Non fu un caso se scelse quella notte stessa per agire.
 

***

 
Lena sentì il primo lieve ticchettio a notte fonda, quando ormai tutta la villa era addormentata e persino lei era crollata nel mondo dei sogni. Aprì leggermente gli occhi e li richiuse quasi subito, convinta di essersi sognata tutto, ma cambiò idea quando lo sentì di nuovo, stavolta più vicino e rumoroso. Si mise a sedere di scatto sotto le coperte e rimase immobile, aspettando di sentire altri rumori. Rimase a lungo in quella posizione senza notare nient’altro di strano, ma, quando fu sul punto di sdraiarsi di nuovo per riaddormentarsi, il ticchettio si spostò da qualche parte sopra di lei. Alzò lo sguardo ma non vide niente, e notò qualcosa di insolito solo quando spostò il suo sguardo sul camino spento: in quel momento qualcosa di piccolo e leggero come una piuma le cadde sulla spalla, iniziando poi a muoversi sulla stoffa. La ragazza si voltò e vide disgustata un piccolo ragno che si stava dirigendo velocemente verso la sua mano; troppo spaventata per poterlo schiacciare, lo scacciò via con un pizzicotto, facendogli fare un lungo volo per poi farlo atterrare sul pavimento poco più in là. Ebbe la strana sensazione che uno dei suoi incubi fosse diventato realtà, e quando alzò nuovamente lo sguardo ne ebbe l’inquietante conferma.
Il tetto del baldacchino adesso era illuminato dalla luce della luna che riusciva a passare attraverso le inferriate, e sulla superficie del legno c’era una moltitudine di ragni che si muovevano come se fossero una cosa sola. Lena dovette soffocare a fatica un urlo e scese lentamente dal letto senza mai distogliere lo sguardo dai ragni e dalle ragnatele che avevano già iniziato a tessere negli angoli. Indietreggiò verso la porta con il cuore sul punto di esplodere, e in un solo momento tutti gli incubi di quel lungo mese le affollarono la testa, sovrapponendosi in una macabra accozzaglia di immagini spaventose che l’avevano sempre svegliata nel cuore della notte con i sudori freddi. Pensò che avrebbe potuto anche resistere per una notte, ma cambiò drasticamente idea quando si accorse che il baldacchino non era l’unica cosa ad essere infestata.
Erano dappertutto. Tra le pieghe delle tende, negli angoli del soffitto, sul tavolino, sul tappeto, dentro il camino – non c’era centimetro che non fosse invaso. Alcuni si erano addirittura arrampicati sullo specchio, aggiungendo un loro gemello alla già vasta folla, e altri fecero capolino dalle coperte in cui Lena aveva dormito fino a poco prima. Dovette farsi forza per non vomitare o urlare, ma il suo corpo tremava in preda al terrore. Si terrorizzò ancora di più quando notò che tutti i ragni, nessuno escluso, si stavano dirigendo verso di lei, esattamente come avevano fatto nel suo primo incubo, quello che aveva sognato la notte in cui era arrivata alla villa. Poteva già sentirli entrare dentro di lei per divorarla dall’interno e non lasciare niente del suo corpo, come se non fosse mai esistita, e a quel pensiero le gambe le cedettero, facendola cadere sul pavimento con un tonfo. Non trovava nemmeno la forza di piangere tanto era sconvolta, e il suo ultimo pensiero razionale fu Se aveva intenzione di farmi morire d’infarto, ha scelto il modo giusto per farlo.
I ragni erano a pochi centimetri dai suoi piedi, e lei non riusciva a muoversi, paralizzata dall’orrore. Sentiva che sarebbe morta in quella stanza senza alcuna possibilità di difendersi, ma improvvisamente ci fu un rumore sul balcone. I ragni non si fermarono, ma Lena riuscì a ricordare nel delirio di aver già sentito quello strano rumore assordante e tagliente. Quando i primi aracnidi le salirono sui piedi le furono chiari il dove e il quando: era stato forse un paio di settimane prima davanti ad una cattedrale, e un sorriso affilato le tornò alla mente insieme alla fonte di quel rumore. Sbarrò gli occhi, incredula, poi la portafinestra si spalancò, finalmente libera dalle inferriate, e due figure familiari entrarono dentro la stanza, calpestando involontariamente i ragni. La persona sulla sinistra lanciò un urletto schifato. “Odio i ragni, odio i ragni! Ronald, prendi la ragazza prima che queste bestiacce ci salgano addosso!”
I minuti successivi furono piuttosto confusi, e Lena avrebbe ricordato soltanto che l’altra figura aveva annuito con convinzione prima di attraversare la stanza insieme a un altro strano oggetto e di afferrarle la mano per sollevarla dal pavimento. Non avrebbe mai ricordato con precisione come avevano fatto a riattraversare la stanza, ma dopo poco erano di nuovo sul balcone a respirare l’aria notturna. Il ragazzo chiamato Ronald le disse con una voce familiare di tenersi stretta al suo collo e di non urlare, poi si gettò di sotto seguito dal suo compagno, mentre Lena nascondeva il suo volto nella spalla di lui per non mettersi a piangere, urlare, vomitare o fare tutte e tre le cose contemporaneamente. Nascose il suo volto per tutto il tempo che corsero a una velocità folle, poi, quando si fermarono, fu Ronald stesso a staccarla dal suo collo e a lasciarla cadere sull’erba. La ragazza si mise a sedere e si guardò intorno, sorpresa di ritrovarsi in una radura nel bosco in cui si era rifugiata la notte della sua fuga, poi alzò lo sguardo sui suoi salvatori e indietreggiò non appena li riconobbe. Erano loro, senza ombra di dubbio, li avrebbe riconosciuti perfino in una stanza affollata.
L’uomo con i lunghi capelli rossi alla sua destra le sorrise, mettendo in mostra ancora una volta i suoi denti affilati. Teneva la sua strana arma in spalla con aria soddisfatta mentre la lama tornava di nuovo ferma. “Finalmente ti sei lasciata prendere, ragazzina. Pensavo che ti avremmo dovuta rincorrere per il resto dell’eternità.”
Lei non replicò, troppo scioccata da tutto quello che era successo nell’ultimo quarto d’ora. Il suo sguardo saltò ancora una volta dal rosso al biondo e viceversa, poi disse lentamente: “Io vi ho già visti. Siete quelli che ho incontrato mentre fuggivo da Londra e quel giorno alla cattedrale.”
Ronald, il ragazzo biondo che aveva incontrato quasi un mese prima nel bosco, sorrise ironico. “Vedo che riesci a ricordarti qualcosa, allora. Pensavamo che la tua memoria se ne fosse andata del tutto.”
Fece per dire È così, ma qualcosa le diceva che loro lo sapevano di già. La sua collana si fece di un blu più chiaro e lei la afferrò: anche se erano passati giorni da quella notte, sapeva che doveva proteggere quel ciondolo anche a costo della sua vita. È l’unico modo che ho per poter tornare a casa, pensò ancora una volta senza sapere cosa significasse. Indietreggiò ancora e lanciò uno sguardo di sfida ai due uomini. “Non ti fidi di noi?” le chiese Ronald.
“Avete cercato di uccidermi più di una volta,” sibilò fingendo una sicurezza che non aveva. “Perché dovrei fidarmi di voi?”
I due si lanciarono un’occhiata perplessa, poi l’uomo coi capelli rossi scoppiò a ridere, mentre l’altro si limitò a un sorriso divertito senza mai toglierle gli occhi di dosso. Il rosso si asciugò gli occhi sotto lo sguardo stupito di Lena e, dopo un’ultima risata, sorrise di nuovo con quei suoi denti affilati e le disse: “Ucciderti? Mia cara, perché dovremmo uccidere qualcuno che è già morto?”


















Indovinate un pò? Anche stasera sono un cencio, come diciamo qui in Toscana D: Tra scuola, ultimi compiti, allenamenti e prove per l'imminente spettacolo di teatro è un miracolo se la sera riesco a sedermi davanti al computer per scrivere. Dico tutte le volte la stessa cosa, ma è così. Già già.
E dopo essermi resa insieme a Claude una grandissima stronza nello scorso capitolo, torno all'attacco più sadica che mai! Adoro tenere i miei lettori col fiato sospeso, si vede tanto? *LOL*
Ormai mancano solo altri due capitoli alla fine. Che tristezza ç___ç
MadLucy: ho voluto infilarci a tutti i costi "L'intento del ragno". Giuro che non ho mai visto un OAV che mi ha ucciso più di quello. 10 minuti di puro e solo dolore, indescrivibile.
AnnyChan: benvenuta nella mia scassata ciurma! Sono contenta che la mia storia e il mio OC ti piacciano, è difficile far entrare un personaggio originale in un fandom dove quasi tutti gli altri OC sono Mary Sue insopportabili .-. Grazie mille per aver messo la mia storia tra le preferite! *inchino profondo*

xoxo
Eva

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Capitolo 19
*** La verità è che avrei solo voluto salvarti. ***


XIX. La verità è che avrei solo voluto salvarti.
 

 
Perché dovremmo uccidere qualcuno che è già morto?
Sembrava che nella sua testa non ci fosse spazio per altre parole, era come se quelle otto si fossero ingrandite a dismisura senza lasciare nemmeno un centimetro libero. Indietreggiò ancora, impaurita e tremante non solo per il freddo, senza mai distogliere lo sguardo dai due uomini davanti a lei, incapace di credere alle loro parole. Morta, lei? No, non era possibile, dovevano sicuramente sbagliarsi con qualcun’altra, lei non si era mai sentita così viva come in quei giorni. Non era morta, i morti non sentono il freddo o il caldo, e lei adesso stava tremando con il ghiaccio nelle vene. I morti non provano paura, non provano alcun sentimento, e la lunga lettera che aveva scritto dimostrava il contrario. I morti non sanguinano e non soffrono, e la cicatrice sulla sua guancia le ricordava in continuazione tutto il dolore che aveva attraversato. E allora, se credeva di essere viva, perché era convinta che ci fosse della verità in quella frase?
L’uomo coi capelli rossi sospirò, lasciò cadere la sua arma sull’erba e si tolse la giacca rossa, avvicinandosi poi a Lena. Lei fece per indietreggiare ancora, temendo che potesse farle del male, e si sorprese quando lui si limitò a gettarle la giacca sulle spalle per riscaldarla. Lo guardò stupita con gli occhi verdi spalancati, e lui ricambiò con uno sguardo inespressivo. “Credo che riuscirai a stare più attenta se non tremi, no?” Scambiò una veloce occhiata con Ronald, che teneva i gomiti appoggiati sopra il manico della sua strana arma, poi si rivolse di nuovo alla ragazza. “A questo punto immagino che tu non sappia nemmeno chi siamo.”
Annuì decisa.
“Deve aver preso una bella botta quando è caduta nel bosco, uh?” commentò l’altro con una risatina.
Il rosso lo mise a tacere con un gesto stizzito della mano e continuò: “Quando una persona sta per morire, la sua vita e la sua anima vengono giudicate per decidere se possa continuare ancora a vivere o se debba morire. Penso che siano stati graziati solo in pochi, ma non è questo il punto.” Fece un altro gesto con la mano, come se volesse interrompere le sue stesse divagazioni. “Gli Shinigami sono coloro a cui è stato affidato questo compito, e noi siamo due di loro. Le nostre armi possono tagliare qualunque cosa e grazie ad esse possiamo esaminare i ricordi delle persone per giudicarle.” Sospirò. “Ma per quanto stiamo attenti a lavorare nel modo giusto… bè, diciamo che a volte ci scappa il morto. Letteralmente. Ci ritroviamo tra i piedi anime di persone che sono morte per sbaglio al posto di qualcun altro e di cui non sappiamo cosa farcene. Se non si può rimediare in nessun modo, se non possiamo riportare in vita questi morti, allora prendiamo le loro anime con noi per assisterci nel nostro lavoro fino al giorno della loro vera morte. Restituiamo loro il loro corpo dopo averlo reso di nuovo presentabile, ma non potranno mai tornare umani, perché dentro di loro, dentro i Numbers, il sottile filo che lega anima, corpo e vita si è spezzato per sempre. Possono provare sentimenti e comportarsi come normali esseri umani, ma è come se fossero morti viventi.” Sorrise a trentadue denti in modo inquietante. “E tu, ragazzina, sei una di loro.”
Il mondo le si sgretolò in migliaia di frammenti davanti agli occhi. La vista le si fece confusa e la testa iniziò a girarle, ma per quanto cercasse di calmarsi sapeva che non ci sarebbe mai riuscita. Sembrava tutto maledettamente plausibile, ma lei si sentiva viva, non poteva essere morta. Lei non era uno di questi ‘Numbers’, era una persona come tutte le altre con una forte amnesia. Strinse la collana con ancora più forza nel suo pugno e mormorò, sul punto di crollare: “No, vi sbagliate. Vi state sbagliando, io sono viva, questa collana può dimostrarlo. C’è incisa l’iniziale del mio nome, io…”
“Al contrario, ragazzina, la tua collana è l’unica prova certa che tu abbia di essere morta,” la interruppe Ronald. “Ad ogni Number viene assegnato un numero che diventerà anche il suo nuovo nome, e per far sì che non se lo scordi mai gli diamo una collana come la tua con il suo numero inciso sopra.” Indicò il gioiello con un dito. “Quella L non è l’iniziale del tuo nome, ma il numero cinquanta in cifre romane. Tu sei Fifty, il Number numero cinquanta.”
Mentite!” urlò, prendendosi la testa tra le mani e rannicchiandosi su sé stessa come se volesse proteggersi da quella verità. “Io ho una famiglia che mi aspetta da qualche parte! Ho visto mio fratello nei miei sogni, lui è ancora vivo e mi sta aspettando!”
“Tuo fratello?” chiese l’uomo coi capelli rossi senza smettere di sorridere. “Vuoi dire… Oliver?”
Non appena sentì quel nome qualcosa scattò nel suo cervello, una serratura rimasta chiusa troppo a lungo che finalmente si apriva. Gli occhi le si spalancarono e lei cadde nel buio, inghiottita dai ricordi.
 

 

***

 
Aveva nevicato un sacco in quei giorni. La tormenta era durata tre o quattro giorni e, quando si era placata, aveva lasciato uno spesso e soffice manto bianco sui tetti e sulle strade di tutto il paese. Non appena spuntò un timido raggio di sole tra le nuvole, tutti i bambini si precipitarono fuori dalle case e si riversarono nelle strade, perlopiù da soli o accompagnati da qualche fratello o sorella più grande. Oliver era tra uno di questi, e Lena si era seduta su delle casse accatastate poco lontano per tenerlo d’occhio. Osservò la scena con più chiarezza di quando l’aveva vista dentro la vasca da bagno: i volti dei bambini erano ben visibili, e riusciva perfino a riconoscerne qualcuno. C’era il figlio della loro vicina di casa, la bambina per cui Oliver aveva una piccola cotta, i due gemelli di sette anni che preferivano giocare da soli in un angolo più appartato della strada. Non avrebbe saputo dire i loro nomi, ma sapere chi erano era già un passo avanti per la sua amnesia.
La neve ricominciò a cadere con meno intensità delle volte precedenti, come se avesse già disturbato troppo la quiete e volesse essere più discreta e silenziosa. Lena tese il palmo e osservò i fiocchi caderle sopra il guanto mentre i bambini continuavano a giocare come se niente fosse. Tirò fuori la lingua e lasciò che la neve ci cadesse sopra, facendola rabbrividire e allo stesso tempo sorridere. Riportò il suo sguardo sulla folla di bambini che giocavano davanti al cancello chiuso dall’altra parte della via, e trovò quasi subito la massa di folti capelli neri di Oliver, che stava giocando con il suo cerchio insieme ad un altro bambino. In quel momento stava ridendo, e i suoi occhi verdi, uguali a quelli della sorella e del padre, erano illuminati da una luce di vera e profonda felicità. La ragazza non potè fare a meno di sorridere a sua volta, provando un sincero affetto per quel bambino di cui possedeva soltanto quel ricordo, e rimase in silenzio finchè lui non si voltò verso di lei e le urlò con un sorriso speranzoso: “Sorellona? Posso rimanere fuori a giocare ancora un po’?”
Voleva rispondergli che poteva, ma il ricordo seguì il sentiero già segnato nelle pieghe del passato e Lena sentì la sua stessa voce dire in tono brusco: “No. Sta per fare buio, dobbiamo tornare a casa prima del tramonto.”
Oliver le rivolse uno sguardo pieno d’odio e tornò a giocare con i suoi compagni, probabilmente maledicendo tra sé e sé sua sorella. Lei sbuffò e si appoggiò con la schiena alla parete dietro di lei, chiedendosi perché gli avesse risposto in maniera così poco gentile. Poi, improvvisamente, lo seppe senza ombra di dubbio: d’inverno loro due avevano un coprifuoco per tornare a casa prima che il sole calasse del tutto e loro potessero perdersi tra le strade buie. Era stata la loro madre a imporlo, preoccupata che qualcosa potesse succedere a uno dei due, e ogni volta che tornavano a casa più tardi del solito era Lena a pagarne le conseguenze, la più grande, quella che doveva occuparsi del fratellino. Era una seccatura essere punita solo perché quel mocciosetto non le dava retta, ma in fondo gli voleva bene e per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa.
Trascorsero altre due ore prima che il sole iniziasse a calare e la neve cessasse di cadere. Quasi tutti i bambini erano tornati al caldo delle proprie case, e le uniche persone ancora fuori in strada erano Lena, Oliver e altri cinque bambini che abitavano nelle vicinanze. Ormai spazientita dalla lunga attesa e dai continui richiami inascoltati, la ragazza chiamò un’ultima volta il fratello, ma lui fece finta di non averla sentita e continuò a giocare con il suo cerchio ridendo. La pazienza di Lena raggiunse il proprio limite, e lei scese velocemente dalla cassa, dirigendosi poi a passi pesanti verso il gruppo di bambini. Tutti si fecero da parte vedendola con quell’espressione scura in volto, tutti tranne il diretto interessato, che cacciò un urlo quando una mano lo afferrò bruscamente per un braccio e lo strattonò indietro, rischiando di farlo cadere nella neve fresca. La bacchetta con cui aveva giocato fino a quel momento cadde per terra, e Lena lo raccolse e se lo mise in tasca mentre Oliver urlava: “LASCIAMI ANDARE, LASCIAMI ANDARE! MI STAI FACENDO MALE!”
“Non osare alzare la voce quando parli con me!” replicò rabbiosa la ragazza. Lo strattonò ancora una volta. “Dobbiamo andare a casa prima che faccia buio, o stavolta verremo puniti tutti e due! Prendi il tuo maledetto cerchio e vieni con me!”
“NO!” Il bambino riuscì con un’agile mossa a sfuggire dalla presa della sorella, poi scappò via, lontano da lei, fino a fermarsi nel centro della strada innevata. Una volta lì si fermò, si voltò e fece una linguaccia alla sorella, urlando: “NON CI TORNO A CASA! VACCI TU SE HAI PAURA DI MAMMA!”
Lena fece un passo avanti, sentendosi provocata. “Sarà meglio che tu mi dia retta, Oliver, o giuro che ti trascinerò per le gambe fino a casa finchè non riuscirai più a sederti per una settimana! Dico a mamma che è tutta colpa tua se…”
Non fu in grado di finire la frase, sorpresa dall’improvviso rumore che proveniva da dietro l’angolo della via. Il tempo iniziò a muoversi al rallentatore quando nella strada apparve l’enorme figura nera di una carrozza a tutta velocità che si stava dirigendo verso Oliver. Il bambino osservò i cavalli che incombevano su di lui e che non davano alcun segno di volersi fermare, e Lena sentì il suo cuore perdere un colpo mentre vedeva suo fratello immobile, quasi ipnotizzato, incapace di spostarsi per evitare la vettura.
“OLIVER!” Senza pensarci due volte, percorse con due balzi la distanza che ancora li separava e, con una forte spinta, spostò il fratello dal percorso della carrozza, facendolo cadere su un mucchio di neve a bordo strada. Sospirò di sollievo e sorrise, felice di averlo salvato, ma si ricordò solo in quel momento di essere ancora in mezzo alla strada, a pochi metri dalla vettura. Si voltò nella direzione del veicolo con gli occhi verdi sbarrati, e dopo poco i cavalli la colpirono in pieno, calpestandola con i loro zoccoli. Dopo arrivarono le ruote della carrozza, e il dolore non accennò a diminuire: perdeva sangue dalle tante ferite che le erano state inflitte, e doveva essersi rotta più o meno tutte le ossa. C’erano delle schegge che le stavano penetrando dentro il cuore e i polmoni ad ogni respiro, uccidendola lentamente e dolorosamente. Le ultime cose che vide furono la carrozza che svoltava l’angolo in fondo alla strada senza nemmeno rallentare la sua corsa e la scia rossa che le sue ruote e gli zoccoli dei cavalli avevano lasciato sulla neve immacolata. Potè osservare tutto per un’ultima volta prima che il suo cuore la abbandonasse, facendola cadere nell’oscurità.
 

 

***

 
“Oh, mio Dio,” sussurrò a voce bassa, incapace di credere ai propri ricordi. Si rannicchiò ancora più sé stessa. “Oh, mio Dio. Mio Dio, no!
Prima ancora che potesse riprendersi, un altro incubo si fece largo con prepotenza nella sua testa, facendole ricordare qualcosa di ancora peggiore.
 

 

***

 
Quanto tempo era passato dal giorno della sua morte, da quanto era diventata una Number, sospesa tra vita e morte? Sinceramente non lo sapeva, aveva smesso di tenere il conto; ormai il tempo era una cosa relativa per lei, le cui leggi non la sfioravano e non la riguardavano più. Sarebbe potuta crescere mentalmente, pensare in modo più adulto, ma il suo corpo sarebbe rimasto quello di una quattordicenne. Non che la cosa le dispiacesse: a dir la verità, non sapeva come reagire a quella situazione così strana.
Si riscosse dai suoi pensieri non appena l’uomo ai suoi piedi immerso in una pozza di sangue esalava l’ultimo respiro. Il suo Cinematic Record si dissolse nell’aria dopo pochi minuti, lasciando Lena di nuovo da sola nel bosco insieme a Ronald Knox, lo Shinigami a cui era stata affidata sin dal primo giorno. Era una persona esuberante, Ronald, completamente un altro tipo rispetto a quegli Shinigami così arcigni, ligi al loro dovere e talmente gelosi del loro compito da non volere alcun Number al loro fianco. Si passò una mano tra i capelli, spettinandoli, poi si appoggiò al manico della sua Death Scythe imbrattata di sangue e si rivolse alla ragazza sorridendole. “Giornata piena di lavoro questa, eh, Fifty?”
Lena ricordò sé stessa dire qualcosa che fece ridere entrambi, poi abbassò lo sguardo sulla lista che aveva in mano chiedendosi perché non si ricordasse il suo vero nome, quello che le avevano dato i suoi genitori: quella era una porta ancora chiusa a chiave per lei, e chissà se avrebbe mai avuto l’occasione giusta per aprirla. Mentre rifletteva, agendo all’interno del ricordo e allo stesso momento osservando sé stessa dall’esterno, agitava la penna nell’aria mentre cercava il nuovo nome da depennare. Quando lo trovò fece per cancellarlo, ma non appena lesse la data di nascita del morto ai suoi piedi il cuore le balzò in gola. Deglutendo, lesse più avanti fino a trovare il nome del cadavere, e si sentì mancare quando lo riconobbe. Fece saltare il suo sguardo dalla lista all’uomo morto, incapace di credere a quello che stava vedendo, e dovette impallidire ulteriormente, perché Ronald le chiese, vagamente preoccupato e con la fronte aggrottata: “Fifty? Va tutto bene?”
Non può essere lui. Perché no? Il nome era lo stesso, la data di nascita coincideva, e perfino quegli occhi verdi che adesso fissavano il vuoto erano quelli che conosceva da sempre, quelli dello stesso colore dei suoi. I capelli neri si erano fatti grigiastri, ma i suoi occhi non erano cambiati e lui aveva ancora l’espressione innocente e un po’ monella di quando era bambino e giocava per strada in mezzo alla neve. Fece un passo indietro, sconvolta, mentre leggeva la data di morte, 13 aprile 1889: davvero erano passati così tanti anni? Era morta già da più di quarant’anni e non se ne era mai accorta? Ed aveva davvero assistito alla morte di suo fratello per infarto pochi minuti prima? Si voltò verso Ronald con un misto di rabbia, tristezza e stupore. “No, questo no,” mormorò tra sé e sé prima di chiedergli: “Tu sapevi chi era?”
Scrollò le spalle. “Avevo solo una vaga idea, ma non pensavo che foste imparentati davvero.”
“Hai giudicato l’anima di mio fratello davanti ai miei occhi senza dirmi niente!” urlò Lena, più per esserne certa che per sfogare la sua rabbia. Davanti all’espressione impassibile dello Shinigami, fece altri due passi indietro, scordandosi che dietro di lei c’era un dislivello. Sentì il vuoto sotto i suoi piedi e potè solo spalancare gli occhi, sorpresa, prima di iniziare a cadere. Ronald la chiamò e cercò di afferrarle la mano, ma non riuscì nemmeno a sfiorarla e la ragazza cadde nel vuoto. Cadde tra i rami degli alberi e i cespugli, lasciando la sua presa sulla lista e sulla penna, ma proteggendo sempre la sua collana, l’unica cosa che avrebbe potuto aiutarla a ritrovare il ragazzo. Quando riuscì a rialzarsi in piedi dopo la caduta, però, vacillò per un istante e cadde di nuovo, sbattendo la testa contro un sasso e lasciandosi inghiottire dalle tenebre.
Il resto lo sapeva di già, non c’era bisogno di aggiungere altro.
 

 

***

 
“Oh, mio Dio. Oh, mio Dio. Oh, mio…”
Non stava piangendo e sentiva che non l’avrebbe fatto, era troppo sconvolta anche solo per poter mormorare qualcos’altro. La giacca rossa dello Shinigami la proteggeva dal freddo della notte, ma non poteva fare niente per quel gelo che le scorreva nelle vene. Non riuscì a ricordare nient’altro per il momento, quello che aveva visto era stato sufficiente a lasciarla in un profondo stato di shock.
“Non appena ti ho persa di vista sono andato a cercare aiuto, ma quando sono tornato nel bosco avevamo già perso le tue tracce,” le spiegò Ronald, senza curarsi dello stato d’animo della ragazza. “Ti abbiamo ritrovata solo quando sei scappata dal bordello, ed è stato allora che abbiamo notato che sembravi aver perso del tutto la memoria. Abbiamo provato a fermarti per riportarti al quartier generale, ma tu sembravi impazzita, correvi e ci attaccavi con la forza e la rabbia di un animale braccato. Ti avevo quasi presa nel bosco, ma sei scappata prima che io potessi fare qualcosa e ti sei rifugiata nella villa di quel moccioso di Trancy. Avremmo potuto acchiapparti lo stesso, ma sarebbe stato troppo pericoloso per tutti.” Fece una pausa, riflettendo sulle sue ultime parole. “Non erano quel francese e i suoi uomini a preoccuparci, se è questo quello che pensi. Non potevamo avvicinarci al territorio di un demone senza usare la forza e senza gravi conseguenze.”
Qualcosa scattò nella testa di Lena, facendosi strada tra la nebbia dello shock. Alzò lo sguardo verso i due Shinigami e parlò con grande fatica, come se non avesse più voce: “Voi avete sempre saputo dove ero e non siete venuti a prendermi solo perché c’era…” Deglutì, e i suoi pugni si strinsero. “Claude?”
Lo Shinigami dai capelli rossi schioccò le dita. “Esatto!” Sorrise sornione. “Con tutte le anime che dobbiamo giudicare ogni giorno non avevamo tempo per andare a recuperare una Number qualsiasi. Abbiamo aspettato che la situazione peggiorasse, poi abbiamo deciso di agire nel modo più rapido possibile.”
Che la situazione peggiorasse. Quindi, se Claude non l’avesse rinchiusa nella sua camera, avrebbero continuato ad aspettare che il peggio arrivasse, magari che qualcuno le facesse seriamente del male o la uccidesse una seconda volta, se era possibile per quelli come lei. Ricordò in un breve momento cosa facevano i demoni con le anime, e rabbrividì ancora di più: come avevano potuto gli Shinigami lasciarla in una situazione del genere sapendo quello che poteva accaderle?
Una Number qualsiasi. Quindi lei era questo per loro, nient’altro che un’anima in più in attesa della sua vera morte. Niente di più, niente di meno, niente di speciale, una fra tante altre. Non riusciva a ricordarsi nessuno che, nella sua nuova vita, le avesse voluto bene o l’avesse considerata veramente importante. L’avevano usata tutti quanti per i loro sporchi traffici, a partire da Andrè a Lady Nancy, per poi passare a Michael Keel e agli Shinigami stessi. Era un peso incredibilmente pesante per le sue spalle, e le sentì curvarsi sotto quella verità di pietra. Lei non era niente per nessuno, nessuno l’aveva e l’avrebbe mai aiutata davvero.
Il viso di Alois le comparve in un flash davanti agli occhi. Ricordò con estrema precisione il loro primo incontro, quel crudele gioco notturno di cui era stata una pedina inconsapevole. Le tornarono in mente tutti i pizzicotti, i lividi, la curiosità morbosa nei confronti della sua ferita, le domande poste con insistenza a cui lei non sapeva trovare una risposta, i bruschi cambi d’umore, quel tradimento finale che bruciava più di ogni altra cosa. Insieme a tutto questo ricordò anche quei pomeriggi passati insieme a ridere, i balli, le giornate trascorse da soli nel giardino, quel momento in cui lui aveva scacciato Michael Keel e le aveva fatto affrontare una volta per tutte i suoi inseguitori, il modo in cui l’aveva aiutata sempre e le aveva salvato la vita senza forse saperlo. Era stato lui l’unico a considerarla speciale; lui, la persona più lunatica, instabile e sadica l’aveva salvata dall’inevitabile e le aveva dato la cosa più simile all’affetto che potesse offrirle. Lui era stato tutto per lei, e adesso era il suo momento di ricambiare il favore, non importava quanto pericoloso fosse tornare alla villa in quel momento. Si alzò in piedi di scatto e, cogliendo di sorpresa i due Shinigami, iniziò a correre in direzione dell’edificio non molto lontano, facendo cadere la giacca dalle sue spalle. Si aspettava che la inseguissero, ma non lo fecero e la lasciarono andare, intuendo forse che c’era una faccenda lasciata in sospeso che doveva essere conclusa a tutti i costi. Correre dentro il bosco sotto il cielo notturno le dava una profonda sensazione di dejà-vu, come se si trovasse dentro il ricordo di quella notte di quasi un mese prima, ma stavolta le cose sarebbero andate diversamente: adesso non era lei che doveva essere salvata, ma qualcun altro. I loro ruoli si erano invertiti nell’ultima azione di quel gioco mortale, quella che avrebbe deciso il vincitore della partita.
Entrò nel giardino senza rallentare e stupendosi del fatto che nessuno fosse in vista, senza sapere se esserne sollevata o intimorita. Giunse in breve tempo sotto il balcone della sua vecchia camera e si fermò mentre osservava la portafinestra spalancata, i frammenti di vetro e delle inferriate e le tende che svolazzavano all’esterno. Affidandosi all’istinto, si avvicinò ad un albero vicino e iniziò ad arrampicarvisi senza ripensamenti, come se non avesse più paura di farsi del male o di morire: forse era merito della rivelazione di poco prima, forse del compito che doveva portare a termine. Fatto sta che raggiunse uno dei rami più alti con la camicia da notte strappata in più punti e le gambe e le braccia ricoperte da graffi che non sanguinavano, e da lì, un attimo dopo aver respirato profondamente, saltò sul balcone a un metro di distanza. Atterrò proprio in mezzo ai frammenti di vetro, rischiando di tagliarsi, ma si alzò in piedi quasi subito senza ferirsi. Fece un paio di passi verso la stanza e diede un’occhiata all’interno: i frammenti erano sparsi dappertutto e la sedia era caduta per terra, ma non c’era più alcuna traccia dei ragni. Tirò un sospiro di sollievo, ma il respiro le si mozzò in gola non appena vide che, distesa sul letto sfatto, c’era una figura che indossava una camicia da notte simile alla sua. La riconobbe non appena la luce della luna illuminò i suoi capelli biondi e fece un passo avanti per raggiungerla in silenzio, ma qualcosa scricchiolò sotto il suo piede, allarmando il ragazzo sdraiato sul letto, che si alzò e si voltò di scatto verso la portafinestra. Lena ebbe solo una frazione di secondo per chiedersi cosa ci facesse lì, poi lui le disse in tono brusco: “Sei tornata, alla fine.”
La ragazza si ritrovò improvvisamente senza più alcuna voce in gola e con il corpo che le tremava: la sua presenza la confondeva come aveva sempre fatto e le impediva di fare la cosa giusta. Si costrinse a fare ancora un passo avanti e a dire: “Alois, lascia che ti spieghi…”
“Cosa? Perché mi hai mentito fin dall’inizio?” la interruppe lui. Si alzò in piedi, rimanendo distante da lei, e la sua espressione divenne un misto di rabbia e tristezza. “È questo quello che le persone sanno fare meglio, no? Mentire, raccontare bugie a sé stessi e agli altri per poi abbandonarli. Forse quelli che ti hanno aiutata a scappare ti hanno detto chi sei veramente, e così adesso è tutto finito. Tu te ne andrai, tornerai dalla tua famiglia e vivrai felice e contenta per il resto dei tuoi giorni, immersa nella tua bella fiaba, mentre io…” Fece una pausa e poi mormorò: “Tutti mi abbandonano alla fine, tutti tranne Claude. Avrei dovuto ascoltarlo quando mi diceva di non fidarmi di te.” Si voltò e si diresse verso la porta, ma la voce di Lena lo fermò.
“Non vuoi nemmeno sapere perché sono tornata qui quando avrei potuto andarmene subito?”
Scrollò le spalle. “Che importanza ha ormai? Questa storia finisce qui, tu mi hai mentito e io sono cascato nella tua ragnatela. Non c’è altro da aggiungere.” Fece ancora un passo avanti, ma un rumore alle sue spalle lo fece fermare di nuovo. Dei passi lo raggiunsero velocemente, e dopo poco la ragazza lo abbracciò da dietro, affondandogli il volto nella spalla. Alois rimase sorpreso da quel gesto affettuoso e disperato così improvviso, e potè solamente mormorare: “Lena…”
“Io non ti ho mai mentito, Alois, e l’unica volta che l’ho fatto era solo perché non volevo che tu mi cacciassi,” mormorò lei in tono rotto e abbracciandolo ancora più forte. “Tu mi hai salvata e mi hai dato un nome e una vita che pensavo di non poter avere mai più, il minimo che posso fare per ripagare il mio debito è salvarti a mia volta. Non voglio che ti succeda niente di male. Vieni via con me, ti prego.” Un singhiozzo le sfuggì dalla bocca e le lacrime iniziarono a sgorgarle dagli occhi verdi, rompendo la promessa che aveva fatto a sé stessa. E quindi eccola lì, a mostrare la sua debolezza all’unica persona davanti a cui non aveva mai voluto piangere. “Io voglio solo salvarti come hai fatto tu con me.”
Il silenzio regnò nella stanza per qualche minuto, poi Alois, combattuto tra due persone e due verità, si voltò verso di lei e le sorrise triste. “Per me è già troppo tardi, Lena. Nessuno mi può salvare.” La sua espressione cambiò all’improvviso e lui allontanò la ragazza con uno spintone. “Nemmeno tu puoi farlo!” urlò con rabbia e gli occhi azzurri che scintillavano.
Lena si sentì respinta una volta per tutte e finalmente capì che lei era totalmente impotente, non avrebbe mai potuto salvarlo, la sua anima era già condannata da tempo. Quando il ragazzo si voltò, dandole di nuovo le spalle, deglutì e mormorò: “Sotto il materasso c’è una lettera per te. Leggila dopo che me ne sono andata.” Addio, disse muovendo solamente le labbra mentre dentro di lei qualcosa si spezzava del tutto.
Alois non replicò, ma sembrò annuire lentamente. La ragazza fece un respiro profondo, ormai certa di trovarsi davanti alla fine, e camminò all’indietro fino a ritornare sul balcone. I frammenti di vetro scricchiolarono sotto i suoi piedi, ma l’unica cosa di cui lei si accorgeva era la figura del ragazzo a pochi metri di distanza da lei. Avrebbe voluto salvarlo, ma lui non voleva il suo aiuto e anche lei aveva finalmente capito che non poteva fare niente, nonostante tutta la sua buona volontà. Lo osservò per un’ultima volta, chiedendosi se l’avrebbe mai rivisto in un altro tempo o in un’altra vita, poi sussurrò “Addio” prima di saltare giù dal balcone come avevano fatto gli Shinigami poco tempo prima. Ronald e il suo compagno erano davanti alla villa in attesa, e quando la videro arrivare con gli occhi arrossati e un’espressione disperata in volto non le fecero domande e le loro espressioni rimasero impassibili. Lo Shinigami dai capelli rossi le afferrò una mano e fece quel suo strano sorriso affilato. “Pronta a tornare a casa, Fifty?”
Lena si limitò ad annuire con aria assente senza mai staccare lo sguardo dalla finestra della sua vecchia camera. Il pensiero di non aver visto in giro nemmeno uno dei servi della villa le attraversò la mente solo per un breve istante, poi tutto iniziò a farsi più bianco e a svanire in una luce accecante. La ragazza non distolse mai lo sguardo dalla finestra e, nel momento in cui anch’essa iniziò a sparire, un’ultima parola le sfuggì dalle labbra, riecheggiando nell’aria notturna ed arrivando persino alle orecchie di Alois, ancora dentro la stanza semidistrutta.
Grazie.
















Sono in ritardo con l'aggiornamento, me dispiaciuta moltissimo! E' solo che sono stata tutto il giorno e la sera fuori, non ho fatto in tempo nè a finire il capitolo nè a pubblicarlo. Mi dispiace veramente tanto D:
Comunque, questo capitolo è abbastanza emo alquanto triste. Non che a me piaccia scrivere solo storie tristi, eh. E' solo che hanno un fascino particolare. E sinceramente, non potevo far finire bene questa storia - non con Alois come protagonista. Avrei dovuto stravolgere un'intera serie e rischiare di ricevere minacce di OOC.
Il prossimo capitolo sarà l'ultimo, una specie di epilogo. Mi dispiace un sacco essere giunta alla fine, ma alla fine è giusto. Per i discorsi strappalacrime però c'è ancora tempo, non vi pare? :)
MadLucy: Ronald è il mio Shinigami preferito, è... boh, lo amo, punto. E' un tipo fantastico, e la sua Death Scythe è qualcosa di *-* La parte di Hannah è stata molto interessante da scrivere, mi sarei voluta soffermare di più su questo personaggio che non mi andava granchè a genio fino a un paio di mesi fa. [Una SOLA settimana. Voglio scoppiare a piangere dalla felicità! \o/]
AnnyChan: se la scena dello scorso capitolo ti è sembrata strappalacrime, quella di questo dovrebbe essere ancora peggio XD

xoxo
Eva

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Capitolo 20
*** Epilogo - Futuro. ***


XX. Epilogo – Futuro.


 

 5 novembre 1889 

Non avrei mai pensato di riprendere in mano un quaderno e una penna per buttare giù i miei pensieri. Credevo di aver lasciato perdere la scrittura sei mesi fa, ma la solitudine si fa sentire sempre più spesso in un modo così forte che l’inchiostro è l’unico amico e compagno di sfoghi che ho e a cui posso confidare tutto.
In parte è colpa mia, lo ammetto. La mia amnesia mi ha resa diffidente verso qualunque persona, persino verso quelle che conoscevo bene in quella vita che non riesco a ricordare. Dicono tutti che avevo un forte legame con Ronald, che ero attaccata a lui come nessun altro Number al proprio Shinigami, ma a me sembra impossibile che stiano parlando veramente di me. Forse è stato quello che è successo nel bosco a cancellare e a cambiare il nostro rapporto, oppure tutto dipende dalla mia nuova percezione del mondo. Non è facile ritrovarsi in una realtà che dovrebbe risultare familiare ma che poi non lo è per niente, e per questo mi sono chiusa sempre di più in me stessa, l’unica persona di cui mi posso fidare e che conosco veramente. I primi tempi alcuni degli altri Number hanno provato a parlare con me per fare di nuovo amicizia, ma si sono arresi quando hanno finalmente capito che io non volevo parlare con loro. Il ragazzo chiamato Twenty-Nine ha insistito più degli altri e continuava a dire che io e lui eravamo davvero amici, ma alla fine ha rinunciato anche lui. Non ho bisogno di nessuno, non voglio nessuno, me stessa e la mia amnesia sono un peso già abbastanza grande da sopportare che non posso dividere con altri.
I medici del quartier generale mi visitano così tante volte e così spesso che ormai ho perso il conto delle visite e l’ambulatorio è diventato la mia seconda casa. Non riescono a capire come mai io non abbia ancora recuperato la memoria: alcuni dicono che la botta che ho preso in testa abbia cancellato tutti i miei ricordi e che io non abbia più alcuna possibilità di recuperarli, altri che vedere la morte di mio fratello mi abbia scioccata a tal punto da farmi dimenticare tutto, altri ancora che io abbia subito qualche shock durante il mese che ho trascorso come semplice umana. Mi fanno domande in continuazione per cercare di capire cosa c’è di sbagliato nella mia testa e per vedere se riesco a ricordare qualcosa di nuovo, ma ogni volta è un nuovo buco nell’acqua. Le uniche cose che ricordo della mia vecchia vita sono la mia morte e quella di mio fratello, nient’altro. Non ho più avuto rivelazioni improvvise o flashback momentanei, niente di niente. È come se la mia memoria fosse una lavagna e qualcuno avesse cancellato tutto quello che c’era scritto sopra con un colpo di spugna: dentro non c’è più niente, zero, il vuoto più totale. L’unica cosa che i medici credono di poter controllare e curare è la cicatrice che mi attraversa la guancia, ma non riescono a fare molto nemmeno per quella: da quanto mi hanno detto, è troppo profonda per potersi rimarginare spontaneamente, se voglio farla sparire del tutto devono operarmi. Io ho rifiutato non molto cortesemente: ho finalmente smesso di coprirla con una benda e lascio che tutti la vedano e che mi indichino per quella strana ferita. C’è chi dice che la sfoggio come se fosse una medaglia o qualcosa del genere, ma non è così. Nasconderla sarebbe come scordarmi tutto quello che mi è successo sei mesi fa, e io non voglio dimenticarlo; è per questo che ogni mattina, davanti allo specchio, seguo con un dito quella lunga linea rossa che un tempo mi spaventava.
 
Lena sentì un rumore provenire dal vicolo poco distante e alzò lo sguardo dalla pagina nello stesso istante in cui Ronald usciva dalla stradina con la Death Scythe chiazzata di rosso. C’erano un paio di macchie anche sulla sua giacca, ma sembrava che non gli importasse molto e continuò a sorridere leggermente mentre si avvicinava alla sua Number. “Un’anima piuttosto tenace?” gli chiese lei mentre tirava fuori dalla tasca dei pantaloni neri una lista spiegazzata e l’apriva.
“Non più del solito,” replicò il ragazzo, togliendosi una ciocca di capelli dal volto. Osservò la ragazza vestita come lui che intingeva la penna nell’inchiostro e le disse: “Bridget Reely, nata ad Edimburgo il 7 agosto 1854, morta a Londra il 5 novembre 1889 per un aborto spontaneo e conseguente emorragia. Nessuna nota.”
Lena cercò il nome corrispondente sulla lista che aveva appoggiato sulle gambe, poi, una volta finito, guardò Ronald dall’alto della spalletta lungo il Tamigi su cui era seduta. Lui continuò a sorridere e, all’improvviso, allungò una mano verso di lei per tirarle uno degli angoli della bocca in un sorriso forzato. Lei rimase un attimo bloccata dalla sorpresa, poi allontanò lentamente ma con fermezza la sua mano e tornò a studiare la lista. Sentì lo Shinigami ridere. “Dovresti sorridere più spesso, Scar Number, altrimenti nessuno vorrà più avvicinarsi a te.”
C’erano molti e molti motivi per cui Lena aveva smesso di sorridere quasi del tutto, e probabilmente lui non li avrebbe mai capiti. Era inutile iniziare una discussione, e quindi si limitò a scrollare le spalle e a cambiare discorso. “Sai che non mi piace quel soprannome.”
Rise ancora. “Bè, è inevitabile che ti chiamino così se continui ad esibire la tua cicatrice come un trofeo di guerra.” Si zittì e tese le orecchie, probabilmente sentendo che c’era bisogno di lui da qualche parte nei dintorni. “Tu resta qui,” disse con voce insolitamente autoritaria alla Number prima di addentrarsi in un altro vicolo. La ragazza aspettò che fosse sparito del tutto dalla sua vista, poi riprese a scrivere sul quaderno che aveva trovato un giorno sotto il suo letto.
 
Scar Number, la ragazza con la cicatrice sulla guancia. È così che adesso mi chiamano tutti, sia Number che Shinigami. Non più Fifty, non più il nome che non ricordo, mai Lena. Penso che nessuno sappia di quest’ultimo nome e, anche se lo conoscesse, forse non lo userebbe mai. Per gli Shinigami è un nome che non ha alcun significato, ma per me è il contrario. Ne ha molto, più di quanto potrebbero comprendere. È per questo che odio quello stupido soprannome, non lo sento mio, non ha alcun maledetto senso per me. Fifty potrebbe averlo, ma Scar Number? È solo un modo come un altro per deridermi a causa di quel marchio che non potrò mai cancellare, al contrario dei lividi sulle mie braccia: ormai sono spariti quasi tutti, ne rimangono solo un paio nascosti vicino alle ascelle. Eppure, nonostante non li veda quasi più, ogni volta che guardo i punti in cui erano ricordo ancora quella stanza da bagno e la domanda a cui non ho saputo rispondere per troppo tempo.
Oggi sarebbe stato il quindicesimo compleanno di Alois. Ricordo che me lo disse durante uno dei nostri pomeriggi trascorsi a perderci dentro la villa o nel giardino, e mi è tornato in mente quando mi sono intrufolata nell’archivio per cercare qualche informazione in più su di lui. Ne ho trovate così tante che tutti i tasselli dell’enigma sono andati al loro posto velocemente, e ho avuto diversi incubi per almeno una settimana. Adesso capisco perché non ha mai voluto parlarmi del suo passato e ha condannato la sua anima per sempre; avrei dovuto capirlo prima per poterlo aiutare davvero, ma ormai è tutto finito. Il passato è già accaduto, non posso tornare indietro per cancellare tutto e ripartire da zero.
Alois è morto poco tempo dopo che me ne sono andata, tradito da Claude, l’unico di cui sui fidava ciecamente. Non ne sono rimasta granchè sorpresa: credo di averlo sempre saputo, in fondo, e forse anche lui lo sapeva, ma era rimasto troppo invischiato nelle sue stesse bugie per poterlo ammettere. Ho chiesto a William se potevo andare io a recuperare la sua anima, ma lui credeva che sarei stata troppo sconvolta psicologicamente per affrontare una cosa del genere. Le cose sono poi precipitate, e il resoconto di quello che è successo in seguito mi ha messo dei brividi spaventosi addosso e ha aggiunto altri incubi allo spettacolo delle mie notti insonni. Dopo qualche tempo mi hanno offerto di andare ad occuparmi di Claude, ma quella volta sono stata io a rifiutare. Non credo che quelli come lui abbiano un’anima e, anche se avessi dovuto ammettere il contrario, non avrei resistito alla tentazione di vendicare me stessa e Alois. Sarebbe stato un comportamento poco professionale, anche se la cosa mi allettava molto – e tuttora continua a farlo.
 
Si voltò per un istante alla sua sinistra, distraendosi, e vide un ragazzo e una ragazza intenti ad amoreggiare vicino al London Bridge, mentre la nebbia si alzava dal fiume e dava all’intera città addormentata una nuova faccia, più inquietante di quella che mostrava alla luce del sole. Lena non potè fare a meno di osservarli a lungo e con curiosità e interesse: le bocche di entrambi, quando non erano impegnate a scambiarsi qualche bacio fugace, erano sempre distese in sorrisi divertiti e sinceri, e le loro dita erano intrecciate e combaciavano perfettamente le une con le altre, come se fossero nate per stare insieme. Non si accorsero mai della ragazza con lunghi capelli neri e vestita come un uomo che li osservava da poco lontano, persi com’erano nel loro amore. Lei li guardò ancora per un istante con un’espressione malinconica in volto, poi ritornò al suo quaderno. Una lieve musica di organetto si diffuse lungo la strada, suonando una vecchia filastrocca per bambini sul Ponte di Londra che cadeva.
 
Tutti credono che la mia vita sia migliorata in questi ultimi sei mesi, ma io sono l’unica a pensare il contrario. Insomma, io e gli altri Number stiamo solamente aspettando che la nostra ora arrivi, non siamo immortali, non abbiamo alcuna immunità da quelle Death Scythes che un giorno prenderanno anche le nostre anime, come possiamo considerarci fortunati? Questa non è una vita, è solamente un’anticamera dell’Aldilà, se esiste qualcosa del genere. Forse sono il mio pessimismo e la mia tristezza a farmi dire questo, ma la verità è che a nessuno importa di noi, e tantomeno di me. Gli altri Number potranno anche essere amiconi degli Shinigami, anche se per loro non sono altro che lo scantinato sotto l’ultimo gradino della scala gerarchica, ma per me il discorso è diverso. Mi sono chiusa in me stessa, non parlo con nessuno, non sorrido più, e stavolta non lo faccio per disorientamento o timidezza: riportandomi qui hanno strappato quella parte di me che credeva di essere ancora viva, lasciandola nel giardino della villa in cui avrei potuto trovare la morte, certo, ma in cui ho sicuramente trovato una nuova vita, un nome, dei ricordi. E tutto questo lo devo ad Alois, l’unico per cui io sia mai stata qualcuno di speciale, anche se suona decisamente strano, conoscendo il suo carattere e le ombre che si nascondevano nella sua mente.
Non ho mai saputo cosa provasse nei miei confronti, e ad essere sincera non so nemmeno cosa provavo io  – e continuo a provare – verso di lui. Credo che lui provasse una specie di affetto per me, ma come faccio ad averne la certezza? E io… bè, dire che era il centro del mio mondo è un po’ esagerato, ma le cose stanno veramente così. Se non fosse stato per lui a quest’ora sarei una persona completamente diversa, cresciuta nel bordello di Lady Nancy e una delle vittime preferite di Andrè. Provo un’immensa gratitudine nei suoi confronti, ma sento che c’è anche qualcos’altro: non è affetto, è qualcosa di ancora più grande. Forse è quello che i vivi chiamano ‘amore’, ma l’idea di baciarlo o di comportarmi come sta facendo quella ragazza laggiù non mi ha mai attraversato la testa. Se è amore, è contorto come era il nostro rapporto, difficile da capire e talvolta doloroso e malato, ma allo stesso tempo bello.
Quanto tempo mi rimane come Number? Se i miei conti non sbagliano adesso dovrei avere cinquantaquattro anni: un sacco, e ancora non so quanti me ne rimangono da scontare come assistente di Ronald. Nella lista che adesso ho in tasca il mio nome non c’è ancora, ma questo non vuol dire niente, magari hanno deciso di non scriverlo per evitare che mi prenda un colpo o qualcosa del genere. Chissà se morire di nuovo, stavolta per sempre, sarà doloroso. Chissà se esiste qualcosa dopo la vita. Chissà se incontrerò Oliver, il fratello che mi sembra di non aver mai conosciuto, e se scoprirò qualcosa in più su chi ero.
Chissà se ci sarà Alois, al di là, e se vorrà di nuovo vedermi.
Domande strane a cui non troverò una risposta per ancora non so quanto e che a volte mi tengono sveglia tutta la notte insieme ai miei incubi. Non sono ancora spariti del tutto, anche se all’inizio pensavo il contrario. Rivedo ancora le braccia di Andrè che mi bloccano, la villa in fiamme, i ragni che entrano dentro di me, e a tutto questo si aggiungono anche alcuni sprazzi del passato di Alois e di quello che è successo dopo la mia partenza. Forse cesseranno solo quando sarò morta del tutto; una bella prospettiva, no?
Io credo veramente che ritroverò Alois, da qualche parte oltre questa vita. Prendetela come un desiderio stupido o irrealizzabile, ma è l’unica speranza a cui mi sto aggrappando. Ho la sensazione che ci rivedremo, prima o poi, e che tutto sarà diverso. Lui riuscirà a capire quello che ho voluto dirgli negli ultimi tempi e quello che ho scritto nella lunga lettera dentro il mio quaderno, e io potrò spiegargli chi e cosa sono veramente. Continueremo ad avere quattordici anni entrambi e avremo tutto il tempo del mondo per parlare e chiarire le cose tra noi due.
Se la morte mi spaventa? Dovrebbe, ma essendo già morta una volta so che è doloroso solo per un momento, poi passa tutto. Un po’ come quando avvicini troppo la mano a un fuoco e ti scotti: accade tutto nel giro di un istante, quello dopo tutto è già tornato alla normalità. Tuttavia certe notti la prospettiva del mio futuro mi toglie il respiro, e inizio a pensare: e se fosse più doloroso? E se non ci fosse nessun maledetto Aldilà? E se avessi perso ogni occasione per spiegarmi con Alois? E se invece fosse a lui a non volermi parlare?
Poi penso: ehi, calmati. Il futuro deve ancora arrivare.
 
Lena scribacchiò ancora un paio di frasi che aveva letto qualche giorno prima su un foglio appeso a un muro, poi chiuse di scatto il quaderno e se lo infilò nella tasca interna della giacca, riponendovi anche la penna e la boccetta d’inchiostro. Saltò giù dalla spalletta mentre Ronald usciva dal vicolo con un’espressione corrucciata in volto e trascinandosi dietro la Death Scythe come se fosse un peso inutile. “Andata male?” gli chiese.
Sbuffò. “A quanto pare, quel Michaelis e il conte Phantomhive non se ne sono andati dall’Inghilterra. L’anima dell’uomo in quel vicolo è scomparsa nel nulla, e ci posso scommettere gli occhiali che l’hanno presa quei due.” Fece una smorfia indignata. “Maledetti demoni. Odio quando si mettono nel mezzo. Adesso dovrò scrivere qualche stramaledetta relazione perché non sono stato abbastanza veloce, e William non ne sarà contento. Come al solito.”
La ragazza sorrise lievemente, forse il primo sorriso da sei mesi a quella parte. Probabilmente era merito dello sfogo sul suo quaderno, ma adesso si sentiva più ottimista. Era come se, dentro di lei, ci fosse la certezza che avrebbe rivisto Alois molto presto, in un altro luogo. Non sapeva ancora tra quanto tempo, ma ormai la pazienza era diventata una sua virtù. “Abbiamo finito per stanotte, allora?”
“Sì, Eric dovrebbe essere già montato in servizio. Andiamo, prima che qualcuno ci veda da queste parti.”
Lena lo seguì mentre si dirigeva verso il vicolo da cui era sbucato poco prima, e prima di entrarvi dentro lanciò un’ultima occhiata al punto in cui fino a quel momento si trovavano i due giovani amanti: non c’era più alcuna traccia di loro, sembravano essere stati inghiottiti dalla nebbia e dalla musica dell’organetto che ancora non era cessata. Lei sorrise, augurando loro tutta la felicità che lei non aveva ancora ricevuto, poi entrò nel vicolo ripensando alle ultime parole che aveva scritto sul suo quaderno.
Tell me the difference between Love and Death / You fear them both as they take your breath.

 
 
 

The End.











È finita? Di già? ç___ç *pianto disperato*
Faccio la stessa scena alla fine di ogni mia storia, faccio una fatica del Diavolo a staccarmi dai personaggi di cui ho narrato le avventure e le disavventure così a lungo. Penso che non mi ci abituerò mai.
Piccola premessa: non odio le storie con un lieto fine. È solo che quelle tristi hanno un fascino particolare, e poi... bè, non si può far finire bene una storia con Alois Trancy come coprotagonista.
Come mio primo esperimento su Kuroshitsuji devo dire che sono abbastanza soddisfatta. Non ho ricevuto molte recensioni, ma quello è veramente il minimo: sono contenta soprattutto che a quei pochi recensori la mia storia sia piaciuta davvero, nonostante la presenza di un OC. Passando ai ringraziamenti, grazie a chiunque abbia messo questa fanfiction tra le seguite, le preferite o le ricordate; grazie a chi l'ha letta soltanto; grazie ai Sum 41, se non avessero scritto "Jessica Kill" (da cui è stata tratta l'ultima frase del capitolo) non sarebbero nate questa storia e il suo titolo; grazie a tutti gli altri musicisti che hanno contribuito alla colonna sonora (Muse, Lacuna Coil, Florence + The Machine, Skillet, Linkin Park, The Used, 30 Seconds To Mars);e infine, un enorme GRAZIE a tutti quelli che hanno recensito: LudusVenenum, Lulu_Rouges, BeaLovesOscarinobello, AnnyChan, LadyGrave, yako_chan, AraneaOxymoron e, ultima ma non ultima, MadLucy, che recensendo mi ha resa enormemente felice. Ancora grazie a tutti quanti *-*
Probabilmente tornerò presto in questo fandom, forse con una long yaoi. Chi può dirlo, ho anche un altro paio di storie in cantiere: non credetevi di esservi liberate di me, però! XD
Alla prossima! *profondo inchino*

xoxo
Eva

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