Il blues del tassista

di N3trosis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Taxi, denti e camicie di seta. ***
Capitolo 2: *** Un caffè per un dente. ***
Capitolo 3: *** IA mancanti e smerigliatori nerboruti. ***
Capitolo 4: *** Incubi e dermi. ***
Capitolo 5: *** L'officina a Chandigarh ***



Capitolo 1
*** Taxi, denti e camicie di seta. ***


Una luce accecante mi fa riprendere i sensi.

Un lampada alogena puntata dritta in faccia, come se mi fossi sdraiato su un lettino abbronzante. Peccato che quella fosse una sala per gli interrogatori, e non un centro bellezza.

 

Ed eccolo li, il mio simpatico carceriere.

Mi fissa da un angolo della sala, sorridente. Mi stupisco di quanto sia ben vestito: camicia a prima vista di seta, giacca sgargiante e cravatta. Non è facile, nell'agglomerato, procurarsi dei vestiti di quella qualità.

Gli sorrido indietro, cercando di apparire sicuro di me.

Mi hanno beccato sotto casa, come si fa con i criminali e i terroristi. Io guido un taxi, e per arrotondare spaccio droga ai miei clienti.

Mentre l'uomo si avvicina, arrotolandosi le maniche della camicia fin sopra i gomiti, mi domando chi sia stato a tradirmi. Ho sempre tenuto un basso profilo, e non sono esattamente un boss della droga. Anzi.

 

Il primo schiaffo è così forte che mi salta un dente. Poco male, era uno di quelli otturati e che già da un pezzo mi ballava in bocca.

Poi arrivano le domande.

Mi sono immaginato questa scena così tante volte che ormai potrei dirigerla io.

Da chi hai preso la droga? Chi ti ha veduto la licenza del taxi? Il taxi stesso da dove viene? Perchè risulta rubato?

 

E io rispondo come posso. Mentendo, ovviamente.

La droga? Quale droga? Non è colpa mia se qualche cliente è un tossico del cazzo che mi riempie il veicolo di roba. Io? Mai presa. Controllate pure.

La licenza? L'ho acquistata regolarmente. Controllate anche quello, lavoro presso la Transport Orizon. Il mezzo me lo hanno dato loro.

 

Tutto segue il copione. Lui domanda, io rispondo, lui colpisce. Ma piano, le risposte sembrano piacergli. Alla fine è tutta una recita. A lui non gliene frega un cazzo se sono uno spacciatore, un tassista o la fottuta regina d'Inghilterra. Al dunque ci arriva alla fine, quando si siede davanti a me e finalmente sposta quella lampada dalla mia faccia.

Finalmente lo vedo in volto. Un volto anonimo, potrebbe essere chiunque. So che me ne dimenticherò non appena sarò uscito da quella sala. Ed è meglio così in fondo.

 

Lui si siede davanti a me, dicevo, e mi dice che potrebbe aiutarmi.. .che gli sembro una persona onesta e che mi crede. Ma che anche io devo aiutare lui...

Gli passo il codice del mio chip di credito, in modo che lui possa prelevare dal mio conto l'importo mensile del mio stipendio. Uno stipendio da fame... ma come io arrotondo con la droga, lui arrotonda con le mazzette.

Mi accompagna fuori e sono libero.

 

Ah, la giustizia... che bella cosa.

Una volta non era così facile. Una volta, quando la polizia era statale e non privata, per uno come me uscirne così pulito sarebbe stato più complicato. Non di molto, ma sicuramente più complicato.

Ma ormai sono secoli che all'agglomerato non si vede una forza di polizia statale. No, la sicurezza dei cittadini è garantita da una manciata di agenzie private, finanziate dalle multinazionali che, grazie a questo, possono fare il bello e il cattivo tempo.

 

Proprio l'altro giorno, per prendere un hacker che si stava portando via una bella fetta di soldi, una multinazionale asiatica aveva fatto scendere in campo un piccolo esercito. Il poveretto ora è collegato a un computer, il cervello quasi azzerato. Lo usano come “risorsa”. Ora non è altro che un programma. Lo conoscevo, tra l'altro. Un mio ex cliente, uno di quelli che mi faceva arrotondare... Jimi si chiamava.

Ma lasciamo perdere.

 

Una volta fuori Deb è li ad attendermi.

“Allora, Al... di nuovo libero?”

Al sarei io. In realtà mi chiamo Mike, ma le prime due lettere del codice di riconoscimento del taxi sono “AL”. Quindi sono anche Al.

 

Deb è il programma di navigazione del mio taxi. Anche lei è riconoscibile attraverso una stringa di codice lunga diversi centimetri, ma Deb è più facile da ricordare, anche se non ho idea del perché si ostini a farsi chiamare così. L'immagine olografica e la voce sintetizzata sono quelle di una ragazza sui vent'anni. Nessun colore, solo una sagoma bidimensionale bianca azzurra.

 

Il precedente “Al” doveva essere un hacker di quelli seri... un angelo forse, di quelli che si lanciano nel web con i caschi a realtà virtuale e si introducono come gatti nei server privati per derubarli. Comunque, l'IA di Deb è largamente modificata, tanto da avere quasi una personalità tutta sua. Doveva essere davvero bravo, quello... non ho mai visto niente di simile, e ovviamente evito di sbandierarlo in giro.

E poi è di compagnia.

“Al diavolo Deb. Mi hanno fatto saltare un dente quei bastardi. Vedi se riesci a contattare Joystick, devo far bloccare un chip di credito.”

 

Joystick è il mio hacker di fiducia, un ex angelo che si è fritto gli occhi in un server troppo protetto. Ora usa delle microcamere impiantate nella cavità oculare, ma ha giurato di non volare più, e lo capisco.

“Ci stavo parlando prima, è impegnato in un lavoro grosso. Dovrai cavartela da solo Al.”

Impreco e torno a casa. Il sole artificiale sta per sorgere, e voglio concedermi almeno un ora di sonno prima di tuffarmi al lavoro.

 

Il vecchio taxi si mette in moto rombando e scalcagnando, mentre il telaio vibra e le placche rinforzate che ne costituiscono il corpo hanno un sussulto. Finalmente, il veicolo giallo rigato di nero sui fianchi si muove, lasciando dietro di se una scia densa e maleodorante. Maledetti scarichi difettosi, penso, maledicendomi nuovamente per aver saltato l'ultima revisione.

Guido per quel tanto che basta per rilassarmi e dimenticarmi la giornata passata, allungando il tragitto usando le vie secondarie e non la superstrada sopraelevata. Mi piace godermi la freschezza della notte, ed è anche per questo che faccio il turno notturno.

 

Si rischia di fare brutti incontri, questo è vero, ma per strada non c'è quasi mai nessuno, ed è bello girare con i finestrini abbassati senza dover rischiare un tumore per l'inalazione di monossido di carbonio.

Di giorno invece... è tutta un altra cosa.

Ci sono giorni in cui lo smog raggiunge livelli tali che respirare a pieni polmoni equivale a garantirsi un intossicazione di secondo livello. Ma questo, ovviamente, solo nei giorni buoni. In quelli cattivi, nelle ore di punta, se circoli a piedi sei costretto a infilarti dei filtri su per la narice.

 

Raggiungo il mio quartiere, “dirty” boulevard.

Un tempo, il Boulevard era la strada più bella di tutto il quartiere. Esibiva il suo spartitraffico alberato con l'orgoglio di un cadetto spaziale che sfoggia la sua prima mostrina.

Ora, nemmeno quarant'anni dopo, lo spartitraffico c'è ancora, ma gli alberi sono tutti avvizziti, secchi, morti. Arresi all'inquinamento, all'abbandono... al “progresso”.

E con loro, tutto il quartiere.

Ora non è altro che l'ennesima zona dormitorio dell'Agglomerato nord.

 

Finalmente parcheggio davanti al palazzo dove abito.

Il palazzo dei loculi lo chiamo io, per via delle mastodontiche dimensioni degli appartamenti.

Ma non ho da lamentarmi, certa gente se lo sogno un appartamento e un lavoro. Certa gente, per mangiare la sera, deve fare cose ben peggiori che scarrozzare gente avanti e indietro e vendere qualche porcheria a qualche passeggero annoiato.

 

Dodicesimo piano, stanza 23-B.

 

Mi butto dentro il mio loculo e mi scaravento sul letto, ignorando il segnale luminoso della segreteria telefonica e la sveglia digitale. Non sono nelle condizioni mentali per rendermi conto di quanto sia tardi.

“Notte Al” biascico al cuscino.

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Capitolo 2
*** Un caffè per un dente. ***


Il sonno scorre veloce, quasi privo di sogni.

Quasi, perché un sogno alla fine lo faccio sempre. Sogno spesso di un mondo grigio, dove nuvole nere hanno oscurato il cielo e il sole, dove le stelle sono un mito da film di serie B.

Sogno di persone squallide, dai lavori più spauriti, uno più squallido dell'altro.

Il cacciatore d'organi, lo spacciatore, il molestatore...l'avvocato, l'agente delle imposte, il dirigente

Quello che più mi fa paura è il dirigente, pieno di guardie private vestiti con camicie di seta e cravatta. Mi sveglio di colpo, mentre il suono della radiosveglia lacera il silenzio stuprandomi le orecchie.

“Buongiorno, Agglomerato Nord! Partiamo subito con il bollettino di guerra: dopo i disordini a Bombay City...”

Zittisco l'apparecchio con una manata.

Ma quale buongiorno...

In bagno mi accoglie una figura maschile, sui quaranta. Rasato, tarchiato, gli occhi scuri e qualche cicatrice qua e la. Sulla spalla un complesso tatuaggio maori, fatto in gioventù più per ignoranza che per altro. Gli manca un dente, un incisivo, e ha due borse grosse quanto un elefante sotto gli occhi.

Lo maledico, e l'immagine nello specchio che sto osservando fa lo stesso.

Mi lavo i denti, sputando sangue quando le setole passano sulla gengiva ancora aperta, mi do una sciacquata alla faccia e, vedendo che il risultato non migliora, mi decido a buttarmi sotto la doccia.

Poi mi vesto con le prime cose che trovo nell'armadio a muro, per poi scaraventarmi in strada, ignorando nuovamente -e volutamente- il lampeggiare isterico della segreteria telefonica. Oggi non ho voglia di sentirmi dire da i “i nostri tossici preferiti” quanto hanno bisogno di me.

Deb mi accoglie con un sorriso olografico rassicurante.

Lo ignoro e, bestemmiando, metto in moto il taxi, scarrozzando via dal parcheggio all'aperto.

“Ehy musone! Hai pestato una merda scendendo dal letto sta mattina?” mi apostrofa subito l'IA, mettendo il muso. E' ovviamente una simulazione, almeno credo, quindi non me la prendo troppo.

“Dai Deb, lasciami in pace. Ho un buco in bocca e mi fa male, cazzo.”

Per poco non tiro sotto un pedone, decido di darmi una calmata. Almeno per oggi, mi dico, voglio essere professionale. Solo per un giorno.

Oggi, qualsiasi cosa accada, mi farò piacere questo dannato lavoro, e bacerò il terreno che attraverso rendendo grazie per la possibilità di poter lavorare.

Respiro profondo e regolo l'acceleratore del trabicolo, decidendo se è il caso di fermarmi anche a bere un caffè alla tavola calda. Non è il caso di affrontare la giornata a stomaco vuoto, e in fondo non ho ricevuto nessuna chiam...

Il volto di Deb si illumina e diventa viola, così come il pannello in vetroresina che copre il monitor interattivo del veicolo. Un computer innestato nel veicolo... anche un vecchio modello come questo può permetterselo. Comunque: messaggio in arrivo.

“Dai Deb... mettiamoci al lavoro.” commento, imprecando fra me e me.

Ma Deb non sorride, ne mi punzecchia.

“Al... è l'agenzia. E' il canale dell'agenzia, non una chiamata da una cabina.”

Impallidisco.

Forse non avrei dovuto ignorare la segreteria telefonica, ieri notte.

Metto la freccia e svolto in un parcheggio, dove mi arresto. Meglio non guidare mentre si è al telefono... sopratutto se è il capo a chiamarti.

Prima di rispondere ragiono. Cosa potrebbe essere?

Escludo che possano avermi eletto dipendente dell'anno.

Se andava bene avevano scoperto che non avevo rinnovato la revisione del veicolo, e mi attendeva una enorme lavata di capo.

Se mi andava male …

Il pannello diventa rosso acceso. Mi avevano bloccato il motore, quel veicolo non si sarebbe più mosso fino a che non lo avessero deciso loro.

Sfioro il pannello e l'intero parabrezza si colora aprendo una video-chiamata.

E' proprio lui, il direttore della Transport Orizon. Un maledettissimo muso giallo dagli occhiali spessi e i denti sporgenti, come si vedono solo nei cartoni animati razzisti. Prima ancora di parlare sventola davanti all'obbiettivo -e quindi davanti a me- una bustina trasparente.

“Sai cos'è questo, Mike-san?”

Dio, quanto odio quella voce. Mi prudono le mani, ma resisto all'impulso di chiudere la chiamata e mandarlo a fare in culo. Invece, aguzzo la vista, finché l'immagine sgranata della bustina non mi è chiara.

Cazzo.

“Un... dente?”

Il mio incisivo.

Quel figlio di puttana non si era accontentato di avermi prosciugato il chip di credito, mi aveva anche denunciato. E si era premurato, evidentemente, di riconsegnare la mia otturazione al mio datore di lavoro.

“Non un dente, Mike-san... il suo dente! E' arrivata una comunicazione dall'agenzia della sicurezza del distretto dodici, che dice molto chiaramente che lei è stato preso in custodia per accertamenti e poi rilasciato per mancanza di prove. Ho parlato con l'agente che lo ha preso in custodia, una persona dall'impeccabile gusto e raffinatezza.”

Il figlio di puttana con la camicia di seta... anche leccaculo, ora.

“... per vendita di sostanze illegali! Il fatto che non vi sia nessuna prova concreta non la scagiona dai sospettati, e per il buon nome dell'agenzia...”

...e il buon direttore va avanti. All'inizio tento di balbettare una scusa, una motivazione, un insulto. Poi lo lascio parlare, ormai ho capito dove vuole arrivare.

“...pertanto la invitiamo a lasciare il veicolo di nostra proprietà e ogni nostro bene che le è stato concesso perchè lei potesse svolgere il suo lavoro. Sappia che se il mezzo verrà ritrovato vandalizzato verrà addebitato tutto sul suo conto. Buona giornata Mike-san. E venga a riprendersi il suo dente.”

Licenziato. Licenza revocata, contratto stracciato, veicolo ritirato.

Mi lascio andare mollemente sul sedile di guida, esasperato. Poi mi metto a ridere, fissando la lucetta rossa sul parabrezza che mi impedisce di guidare.

“...Al?”

la vocetta titubante di Deb mi riporta alla realtà. E' un espressione preoccupata quella sul suo volto, e se non sapessi che è artificiale, direi che è davvero dispiaciuta per me.

“Non c'è più nessun Al, tesoro... ora sono solo Mike.” commento piatto, aprendo la portiera per scende da quel pezzo di vita che per tanto mi ha sostentato.

La portiera si rifiuta di aprirsi.

Non gli bastava avermi tolto il lavoro? Ora sarei dovuto restare dentro quel taxi, imprigionato?

“Fanculo, Al. Non mi va di passare ad un altro guidatore.”

Mi volto a fissare l'ologramma, ma questo non è più materializzato al posto del passeggero.

Poi lo schermo del terminale emette un “bip” avuto, e il parabrezza torna trasparente. Il motore si riaccende, invitante.

“Muoviti vecchio rottame, è tempo di risistemarti un po.” mormora la voce di Deb, che fuoriesce ora dagli altoparlanti della radio.

Poi il taxi si muove di colpo, io picchio la testa sullo sterzo e tutto di fa maledettamente buio.

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Capitolo 3
*** IA mancanti e smerigliatori nerboruti. ***


Mi sveglio urlando.

E' una cosa che ho sempre odiato, fin da bambino. Però, che ci posso fare: ho il sonno leggero e sopratutto agitato.

Un altra cosa che ho sempre odiato è dormire in auto mentre qualcun altro è alla guida. Deformazione professionale forse, ma su un veicolo in movimento non mi fido se non sono io ad avere il controllo. Figurarsi dormire!

“Non sai mai se al risveglio sei a destinazione o all'inferno.” ripetevo sempre.

A questa difficoltà mi aveva aiutato molto il karma, facendomi crescere forte, sano e solo.

Di amici, ne avevo pochi. Amici fidati, si intende. Nessuno di questi faceva parte della sfera legale della mia vita.


Di amici finti, invece... tutti i miei clienti... extra. Tutti amiconi. Ancora mi stavo chiedendo chi era stato a vendermi. Comunque, nemmeno loro, per forza di cose, facevano parte della sfera legale della mia vita.

 

Comunque, questa condizione mi aveva senza dubbio facilitato l'accesso al lavoro, oltre che a ovviare questo piccolo problema dei trasporti.

Lavoro?

 

In un lampo mi tornò in mente quello che era successo poche ore (o forse secoli?) prima.

Ma quale lavoro. Lo avevo perso il lavoro, e con lui la licenza e il taxi.

E un fottuto dente, la gengiva mi faceva ancora male.

Poi... cosa era accaduto? Deb parlava di rimettere a posto il catorcio, e poi era diventato tutto buio.

 

Di buono c'era da dire che non mi ero mosso di un centimetro: ero ancora sul taxi.

Ah già! Non ero riuscito ad uscire perchè la chiusura automatica si era bloccata.

Il fatto strano era che il taxi non era più nel parcheggio dove avevo posteggiato. Non era nemmeno all'aperto, a dire il vero.

“Deb?” chiamo, invano. Qualsiasi cosa stia facendo la mia intelligenza artificiale preferita, è qualcosa di talmente importante da non degnarmi di una risposta. E' strano come il sedile del passeggero mi sembri vuoto, senza il suo ologramma.

Dopo aver dato due manate al cruscotto, dove stava il suo processore, rinuncio. Cosa diavolo stava succedendo? Quelli della Orizon avevano forse ritirato il taxi e avevano già formattato tutto? Possibile non si fossero accorti che ero rimasto dentro?

Il suono della maniglia manuale della portiera risuona a vuoto diverse volte. La chiusura di sicurezza, che dovrebbe salvarti la vita in diverse occasioni, in quel momento mi stava impedendo di accedere al mondo esterno. Almeno teneva le mie imprecazioni all'interno dell'abitacolo, cosa per cui sicuramente il mondo terreno sarà grato.

 

Non mi rimane altro da fare che sprofondare nel sedile del conducente. Solo allora noto una piccola macchia di sangue sullo sterzo. Il dolore diffuso alla testa ora si concentra sulla fronte. Evidentemente avevo dato una zuccata parecchio forte, e quel coso di metallo aveva perso la propria fodera imbottita eoni fa.

 

Per quanto possibile, mi rilasso e penso. L'idea di essere stato trasportato fin dentro i magazzini della Orizon era alquanto improbabile. D'altro canto, erano gli unici con i mezzi per farlo.

Per prelevare i loro veicoli non sprecano nemmeno un corriere, per paura che scappi con tutto il mezzo. No, loro bloccano tutto, sistemi di guida, di sicurezza, qualsiasi cosa, e poi mandano un drone. Un incrocio fra un camion della nettezza urbana e un elicottero, che aggancia magneticamente il veicolo e lo riporta all'ovile per la revisione e il reset di tutti gli imprinting che lo rendono pilotabile solo e soltanto da il guidatore designato e pochi altri.

 

Tuttavia sapevo benissimo che quei droni di recupero sono proprio come i camion della nettezza urbana: sono equipaggiati con dei sensori terminaci a doppio spettro. In parole povere, se cè qualcosa che emana abbastanza calore da essere vivo e a grandezza d'uomo, il drone (o lo scaricarifiuti) non può agganciare il veicolo (o il cassonetto). Le vite di innumerevoli barboni sono state salvate da questo comodo e pratico aggeggio.

 

Quindi, o ero morto e non emanavo più calore, oppure ero arrivato li per altre vie.

 

Un brivido mi guizza lungo la colonna vertebrale. Esistono modi molto più comodi per far sparire un auto, magari con sopra un povero uomo timorato di dio.

Basta tagliare i giunti delle ruote magnetiche, che tengono la macchina in frenata, e farla scivolare dolcemente dentro un camion abbastanza grande.

 

Certo, se era andata così, la cosa era ben più seria.

Cacciatori d'organi è la primissima cosa che mi venne in mente. Di solito ti fermano, ti fanno scendere dall'auto e ti mettono in un frigorifero. Poi le storie si fanno divergenti, di sicuro nessuno che ci è entrato ha poi raccontato cosa accade dopo.

 

Il traffico di organi era ormai comune quanto lo spaccio di eroina, anche se era più facile trovarli nei pressi di Bombay City piuttosto che nel centro di Madison Heaven, dove aveva parcheggiato.

Però...

 

Inizio ad agitarmi sul sedile.

“Deb! Dove cazzo sei finita?!”

Se erano davvero dei cacciatori d'organi, o qualsiasi altra cosa, di sicuro poco gli importava di una IA mal funzionante. Perchè disattivarla?

 

Una lucina sul monitor del terminale impiantato nel cruscotto cattura la mia attenzione. E' il filtro esterno, che mi comunica che l'ora di punta serale di inquinamento è terminata, e che sarebbe bene aprire i finestrini.

Serale? Per quanto avevo dormito?

 

Grazie a dio la Oryzon prendeva molto sul serio il benessere della clientela, e per cose del genere erano anche capaci di commettere l'imprudenza di escludere i finestrini dalla chiusura automatica. Infatti, premendo l'apposita leva, il vetro semi rinforzato del veicolo slittò con un rumoraccio meccanico dentro la portiera.

I rumori esterni esplodono nell'abitacolo, ormai non più insonorizzato. Sei i vetri, oscurati dal blocco, mi avevano fatto capire che non ero all'esterno ma all'interno di qualche struttura, il rumore assordante di lamiere tagliate e di flessibili in opera mi confermarono il fatto che sono dentro un officina... un officina abusiva, per l'esattezza. Probabilmente era il laboratorio di modifica per veicoli illegali, sperso da qualche parte nei livelli più bassi dell'agglomerato.

 

Dove diavolo sono finito?

 

Mi sporgo fuori dall'abitacolo, ma non riesco a vedere nessuna forma di vita. Chiunque stia facendo tutto quel casino, non è nel mio campo visivo. Tanto meglio.

 

“Fanculo. Io me ne vado.” Continuo a sporgermi fuori dall'abitacolo, fino a raggiungere con le mani un appiglio sul tettuccio: una depressione nella lamiera che, originariamente, doveva ospitare una barra magnetizzata per l'utilizzo delle sopraelevate.

La prima cosa che avevo perso a poker: ora quella depressione mi serviva da appiglio per potermi issare e uscire da li senza cappottarmi. Tirandomi su con le braccia mi misi a sedere sul finestrino, con ormai solo le gambe nell'abitacolo. Prego che l'ora d'aria che permetteva l'apertura dei finestrini non finisse in quel momento: tutti i veicoli erano progettarsi per sigillarsi non appena lo smog raggiungeva livelli critici. Il che voleva dire trovarsi con le gambe amputate da una ghigliottina ascendente di vetro rinforzato. Evviva la sicurezza!

 

Con un colpo di reni salto finalmente fuori dal veicolo. Ora ero libero di correre veloce come il vento fuori da quel posto del cazzo, magari trovare un agente e tornare in forze per rompere le gambe a chi mi aveva voluto giocare questo scherzetto.

Eppure... la curiosità era troppa. E sopratutto, non ero sicuro di volermi affidare a uno di quegli stessi agenti che mi avevano appena fatto perdere il lavoro e, di fatto, messo in quella condizione.

No, niente camice di seta, almeno oggi.

Sopratutto, dovevo trovare chi aveva disattivato Deb e costringerlo a manate a riattivarla.

 

Faccio il giro della vettura, notando con orrore come la parte anteriore fosse completamente sventrata.

 

Il mio taxi non era un gioiello di tecnologia. Anzi, era un vecchio modello 40, un poco modificato da me nel tempo libero, ma proprio a tempo perso. Lo scheletro interno è simile a quello di tutte le auto, le placche che ne costituiscono la carrozzeria sono rinforzate e testate antiurto, ovviamente gialle rigate di nero come ogni taxi dell'universo. Impiantato nel muso arrotondato stava il mainframe collegato alla Orizon, i miei ex datori di lavoro... che grazie a quello mantenevano il contatto con il veicolo. Non solo, attraverso quel processore, io potevo accedere a telefonate, dati, mappature... il tutto veniva elaborato da Deb.

L'intelligenza artificiale, invece, aveva sede in uno dei comparti posteriori, vicino al motore termico. Nei taxi normai non prendeva nemmeno dieci centimetri di spazio, in fondo doveva funzionare come navigatore e stop.

Il mio riempiva praticamente l'intero bagagliaio, grazie al mio predecessore che si era divertito allegramente ad espandere i banchi di memoria di Deb. Una pratica comune, intendiamoci. Non era quello a renderla speciale.

 

Comunque, l'intero mainframe era scomparso. Rimaneva soltanto un enorme spazio vuoto, con qualche cavo scollegato penzolante che scompariva all'interno della vettura.

Mi immaginavo la faccia del muso giallo che imprecava, bestemmiandomi dietro mentre immaginava chissà cosa potessi mai aver fatto al suo veicolo. Il contatto fra veicolo e compagnia, infatti, era continuo, 24 ore su 24. Il contatto non si interrompeva nemmeno se mi schiantavo contro un muro. Semplicemente, mandava un input al qg dicendo che l'auto era danneggiata. Del guidatore non importava niente a nessuno, evidentemente.

 

Perso come sono nei miei pensieri, non mi accorgo che il forte rumore dello smerigliatore ha smesso da un po. Con la coda dell'occhio vedo un movimento alle mie spalle. Mi giro e un tizio in tuta da lavoro con tanto di maschera protettiva mi scruta, con espressione indecifrabile. (Aveva, appunto, la maschera. Che spirito di osservazione!)

 

“Hey bell'addormentato!” saluta, la voce distorta dal filtro dell'aria, mettendo mano allo smerigliatore che reggeva.

Mi lancio verso di lui.

Prima di fare il tassista avevo lavorato al Servizio Maniaci, per un paio di anni. Non ero un pugile, non avevo il fisico e se mai lo avevo avuto lo avevo perso da anni, ma sapevo ancora come assestare qualche colpo.

 

Lo colpisco forte all'addome: è chiaro che non se lo aspetta, e mentre si piega reggendosi la pancia per il dolore, gli tiro una ginocchiata sulla faccia, facendogli volare via la maschera.

“Al! Che minchia fai!”

La voce digitale di Deb mi fa voltare istantaneamente, come se avesse premuto un interruttore.

“Deb?” domando, mentre vedo l'ologramma in piedi davanti a me, con le braccia incrociate e il volto corruciato.

 

“E vaffanculo!” Ulula il mio avversario, mentre mi colpisce con rabbia sulla nuca con una chiave inglese.

Di nuovo, tutto si fa nero.

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Capitolo 4
*** Incubi e dermi. ***


La prima cosa che avverto è il buio.
Credetemi, il buio è come il freddo che ti si insinua nelle ossa, è come l'acqua gelida che ti si gela nelle vene.
Non è solo assenza di luce... è palpabile.
Sono in mezzo a una strada, una lunga strada asfaltata lastricata di lampioni distrutti.
E' strano, se alzo lo sguardo, al posto del cielo nuvoloso, vedo solo un ampio tetto che ricopre tutto.

 

Motori.
Suoni.
Grida, dolore!

“Ti ho preso, palle lisce!”

Uno sparo, un urlo straziato coperto da un seguito di risate.

In principio era buio... ma allo schiocco di dita del Creatore, la Luce invase il mondo, mettendoci a confronto con la nostra deformità.

Mi ritrovo in un edificio in fiamme.
La luce è troppo intensa, il calore troppo alto.
Se avessi i capelli, sarebbero in fiamme.

So che è un sogno.
Lo so.
Ma non riesco a svegliarmi.
E lei è li, con gli occhi sbarrati, che mi fissa. In un lago di sangue, suo, mio e dell'animale che l'ha conciata così.
Con quello sguardo giovane, maledettamente troppo giovane e maledettamente troppo accusatorio.

 

Mi sveglio urlando, per la seconda volta in una giornata.
Sudato, come se avessi corso per ore, mi guardo attorno e strizzo gli occhi per cacciar via quei sogni, quei ricordi.

Dove diavolo sono?

La prima cosa che avverto è il puzzo di olio per motori e plasma raffermo.
Evidentemente mi trovo ancora nell'officina... ma qualcuno deve essersi dimenticato di pagare la bolletta della luce, perché non vedo assolutamente niente all'infuori del mio naso.
E forse è meglio così, perchè solo quel susseguirsi di pensieri e considerazioni mi provoca un dolore feroce che mi aggredisce la nuca.
Una mano, cauta, va a tastare il centro di tutto quel male, trovando inaspettatamente un bozzo anomalo.
Vedo le stelle e bestemmio almeno in tre lingue diverse.

Cerco di ignorare quelle stilettate di dolore e strizzo più volte gli occhi. Dal buio iniziano ad emergere le prime sagome, i primi profili di quello che evidentemente è l'arredamento della mia suite presidenziale.

Sono seduto su quello che penso sia un letto, o per lo meno una branda. Mi alzo barcollando, cercando di rimettere in ordine le idee e sopratutto di ricacciare nell'oblio le immagini riviste in sogno.

Stordito arranco fino a sbattere contro la parete (altre bestemmie), combattendo il giramento di testa che minaccia di rimettermi fuori gioco. Raggiungo quello che sembra un interruttore, e pregando di non aver trovato l'autodistruzione della stanza, lo premo.

Il ronzio delle lampade alogene che si scaldano riempie la stanza, rassicurante.

Si, rassicurante un paio di balle.
Un secondo dopo l'equivalente di un sole mi esplode in faccia.

“Ma che caz...”

Il mal di testa detona come una cannonata, mentre cado all'indietro accecato contro la parete.
Devo ammetterlo: la scena è parecchio patetica.
Messo ko dalle luminarie. Grasse risate.

Riapro gli occhi e boccheggio. Il mondo riacquista la giusta gradazione di luminosità solo qualche minuto dopo, almeno dopo la decima imprecazione.
“Sono vecchio ormai, cazzo.”

Finalmente posso vedere la stanza dove mi sono svegliato.
Sembra un vecchio magazzino, di quelli ausiliari alle autofficine.
Avevo ragione, non mi ero poi mosso di molto.
La cosa strana è che il magazzino, di magazzino, ha davvero poco.
Quello dove ero steso è un piccolo letto a due piazze, poco più che due brande attaccate assieme, affiancato da un armadio – valigia da viaggio e da una pila non indifferente di libri.

Libri cartacei.
Qualcuno era un amante del vintage.

Su uno scaffale trovo una foto, anch'essa cartacea.
In posa trovo una coppia: un uomo sulla trentina avanzata, scuro di capelli e con un espressione seria, adornata un bel paio di baffi neri, basette e pizzetto.
Quell'armadio è accompagnato da una ragazza minuta dallo sguardo sveglio e intelligente come pochi il tassista abbia avuto il privilegio di vedere. Fluenti capelli castani sono liberi sulle spalle, mentre viene ritratta praticamente appoggiata alla figura dell'uomo, vestita da un abito da sera piuttosto sobrio ma elegante.

“Oh! Ti sei svegliato finalmente!”

Mi riscuoto dai miei pensieri, mentre mi volto in direzione di quella voce sicuramente inaspettata.
L'abito da sera è sostituito da una tuta da lavoro blu, e i capelli sono raccolti in una coda più pratica, ma quella è sicuramente la stessa tipa della foto.
E' entrata nella stanza da una porta posta sulla parete di fondo, che evidentemente era sfuggita al mio primo sopralluogo. Ma quanto male mi faceva quella maledetta testa?
Regge, fra le mani, un vassoio di plastica, anch'esso blu, di quelli che ti danno in ospedale per il cibo.

“Chi diavolo siete?”

La prima cosa che mi viene in mente. Non la più intelligente, pare.
Lei infatti sorride.

“Ma non sei tu ad essere venuto da noi?” commenta, divertita, posando il vassoio su una cassa di legno e scrollando le spalle.
“Mangia va. Avrai fame, sono ore che te ne stai li a poltrire.”

Faccio per fermarla, per farle qualche altra domanda, ma lei è già fuori dalla stanza, e a me gira ancora troppo la testa per cercare di rincorrerla e bloccare la porta.

Do invece un occhiata al vassoio.
Una ciotola di riso, un bicchiere d'acqua e due dermi di un bell'azzurro cielo.
Dio, evidentemente, esiste.
Ignoro il cibo e afferro i due dermi. Azzurro significa analgesico.
Li infilo subito al polso, entrambi, e premo con forza il cinturino, mentre gli aghi mi penetrano il polso e subito la testa si intorpidisce, calmandosi.

Dio benedica quella ragazza... nonostante mi tenga rinchiuso in questo museo dell'anteguerra.
Mi passo una mano sul cranio rasato, mentre mi siedo su quel surrogato di letto e mi gusto l'effetto dei dermi.
Velocemente rielaboro la situazione.
Ero in un capannone industriale, prigioniero in uno sgabuzzino.
I cattivoni del momento sono un tipo con una maschera da smerigliatore e una ragazza carina in tuta da lavoro.

E... mi hanno rapito per sventrare il mio Taxi.

Hum.

Mi ero forse perso qualcosa?
L'unica cosa che più o meno poteva rappresentare qualche valore poteva essere Deb...

Un momento, non era Deb quella che avevo visto prima di essere colpito?

 

Si, mi ero decisamente perso qualcosa.

 

Bhe, una cosa era certa: dovevo uscire da li.
Nuovamente ignoro il cibo offerto, avvicinandomi invece alla porta usata dalla tipa.
E' una vecchia porta tagliafuoco. Vecchia scuola: maniglia, serratura meccanica, cardini.
Cardini per Dio!
Nessuno faceva più dei cardini da... troppo.

Al diavolo...

Prendo la rincorsa e do una spallata alla porta, sul lato della maniglia, pregando che il punteruolo che la tiene chiusa non sia resistente come sembri e sopratutto di non lussarmi la spalla.
E...

…e ovviamente la porta non è chiusa a chiave. Questa si spalanca al primo tocco, facendomi rovinare sul pavimento dell'officina.

Tre facce si voltano a guardarmi.
Anzi, una faccia, una maschera e un ologramma.

“Questo è fuori.” commenta la maschera, voltandosi tornando a fare quello che stava facendo.

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Capitolo 5
*** L'officina a Chandigarh ***


Il tizio con la maschera fa di nome Mike.
Mal comune.
La sua stretta di mano mi ricorda quanto sia risentito per la ginocchiata incassata poche ore prima.
Mentre tento di riacquisire la sensibilità delle dita, faccio conoscenza con il resto del gruppo. Oltre alla ragazza in tuta da lavoro (Eveline) abbiamo un nero alto due pertiche con degli elaborati tatuaggi al neon verde acido impiantati sottopelle e un paio di mutati.

Il nero viene da Bombay City, uno dei distretti più bassi dell’agglomerato. Dai tatuaggi immagino sia un Rastafariano. I due mutati son meno loquaci: stanno tentando si rimontare al meglio un vecchio rottame a benzina quindi non mi degnano di molte parole. Vengono dall’Inferno, ovviamente, ma grazie a Mike e alla sua officina abusiva hanno trovato una via d’uscita.
L’inferno sono le rovine dalla vecchia città, sotto l’agglomerato. Alti edifici fantasma, strade sgretolate, fogne a cielo aperto… tutto sepolto sotto le strade dell’Agglomerato.
E io che mi lamento del Dirty.
Non è la prima volta che ho a che fare con i mutati.

Non sono esattamente “umani”, ma delle creature create in laboratorio il secolo scorso come operai per lavori pesanti in condizioni estreme.
Pallidi, le iridi nere, a seconda del settore dove dovevano operare presentano delle modifiche morfologiche più o meno ampie. Braccia più lunghe, muscolatura sviluppata, occhi sensibili agli infrarossi… e così via.
Un esercito di schiavi, pronti all’uso per qualsiasi occasione.
 Crearli in laboratorio divenne illegale dopo la prima decade, visto che non si riusciva a sterilizzarli e loro continuavano a riprodursi nel modo “classico”.
Dopo trenta si creò il primo sindacato di mutati, che chiedeva a gran voce diritti umani anche per quegli operai che ogni giorno lavoravano in condizioni inumane.
Fu la loro disgrazia: improvvisamente non furono più convenienti.  Non quando un droide poteva fare la stessa cosa senza lamentarsi, o richiedere uno stipendio.
Vennero promulgate delle vere e proprie leggi discriminatorie, che impedivano ai mutati senza lavoro di vivere ai livelli dell’Agglomerato, confinandoli tutti di fatto nell’inferno, sotto le strade degli ultimi livelli.
Dopo quasi un secolo le cose non erano cambiate, e se erano cambiate erano cambiate in peggio.

I due mutati ostentano indifferenza, guardandomi con sospetto.
Io monto la faccia severa, incassando quel poco di collo che ho e facendo gli occhi scuri. I due mutati commentano qualcosa che non capisco e riprendono a lavorare sulla carcassa,  strappandomi la promessa di bere qualcosa assieme la sera stessa.

In un mondo che ti discrimina, chi fa l’amicone è il primo che vuole incularti, e loro lo sanno bene.
Lascio perdere e mi avvicino a quel che resta del mio taxi.
Ormai hanno tirato fuori quasi tutto: le portiere e i pneumatici magnetici sono ammucchiati in un angolo, mentre l’albero portante dell’esoscheletro è appoggiato all’intelaiatura: il numero di serie raschiato con l’acido.
Noto con piacere che le prime due lettere sono sopravvissute al lavaggio, e mi chiedo se sia un caso o se Deb l’abbia chiesto espressamente.

Il Rastafariano sta smanettando con i banchi di memoria e con l’Osaka del veicolo, con un cavo che gli parte dal cranio e scompare nelle macchine, le mani che volano sul Deck.
Deb è al suo fianco, a guidarlo nel suo volo.
Mike e la sua ragazza stanno discutendo di qualcosa che non capisco e non mi interessa.

Tutti lavorano.
Nessuno spiega.
Cazzo.
 
Mi stacco il derma esaurito dal polso, lo lancio in un angolo e esco all’esterno: mi manca l’aria.
Un porta mi conduce ad una scala antincendio, che uso per salire di un piano e accedere al tetto del palazzo dove l’officina si trova.
Mi viene offerta una stupenda visuale di Chandigarh, il quartiere orientale dell’agglomerato, uno dei livelli medio-bassi, come il dirty boulevard.  Siamo in alto, almeno trenta piani d un palazzo scalcagnato, con le finestre infrante o coperte da assi di legno.

Chandigarh, trenta piani più in basso, è rumorosa e fumosa come sempre. In lontananza, una parete schermo che occupa l’intera facciata di un palazzo sponsorizza pillole dimagranti miracolose, mentre un dirigibile si fa strada pigramente fra le nubi scure che coprono il cielo.

Mi appoggio alla ringhiera e lascio vagare lo sguardo sulla città. Ho bisogno di fare mente locale.
Non avevo capito un cazzo, come al solito.
Deb aveva preso il controllo del veicolo eliminando il blocco della Orizon e aveva guidato fino a Chandigarh, dove Mike la aspettava per smontare il mezzo.
Lo scopo di questo era accedere all’Osaka e resettare i programmi, facendo tra le altre cose credere alla Orizon che il loro mezzo fosse stato ritirato e sigillato in archivio.
Deb mi aveva accennato al fatto che non voleva essere resettata, come invece la procedura avrebbe previsto, e che aveva delle cose da fare.  Assieme a me ovviamente.
Deb… avevo sentito parlare di questo virus. Donava alle IA l’autocoscienza, facendole diventare instabili e imprevedibili.
Potevo fidarmi di un programma impazzito?
Certo, questo risolveva un bel po’ di problemi.

Alla fine avrei conservato il mezzo, e con quello potevo fare richiesta per una licenza privata.
Se mi giocavo bene (ma molto bene) le mie carte, avrei potuto continuare a fare quello che facevo privatamente.
Non era il massimo: zero copertura assicurativa e tutte le spese a mio carico. Ma meglio di niente.

Il lavoro, all’Agglomerato, è vita. Senza un lavoro ti ritrovi sulla strada, e sulla strada si tende a scomparire, a quei livelli.
Un cigolio mi fa voltare: qualcuno sta salendo le scale.

“Ehi stronzo. Scendi, dobbiamo parlare di pagamenti.”
‘Mascherina’- Mike, simpatico come un raggio di sole, fa capolino dall’antincendio, mostrando quella sua bellissima faccina coperta.
Per la prima volta mi chiedo il perché di quel travestimento.

“Siamo fuori dall’officina capo. Che ti serve la maschera?”
Si irrigidisce per un attimo, lo vedo chiaramente. Ho fatto una cazzata  a chiedergli?
 Per qualche istante sento i suoi occhi indagare su di me, poi un pigolio ci sorprende entrambi.
L’indicatore di smog che entrambi portiamo al braccio squilla, informandoci che i livelli di tossicità nell’aria stanno salendo.

“Muoviti. Ti stanno aspettando anche gli altri.” commenta, prima di ridiscendere le scale.
Sospiro, nuovamente da solo.
Ho bisogno di qualche minuto ancora, prima di tornare la dentro.
E si che sta mattina volevo lavorare tranquillo….
Guardami adesso, cazzo.
L’indicatore nel bracciale continua a pigolare: do un ultimo sguardo a Chandigarh che vive sotto di me e mi decido a rientrare, prima di guadagnarmi un bel cancro ai polmoni.
Mentre rientro, gocce nere cominciano a piovere dal cielo.

Mi affretto giù dalle scale, bestemmiando quando una goccia di petrolio mi colpisce l'occhio.
Ma quando arrivo alla porta della balconata che da sull'Officina, la trovo chiusa.

"Cosa cazzo? Hey non è divertente!" 
ma la porta non si apre.

Il ticchettio dell'indicatore di inquinamento si fa oscenamente invadente, lo zittisco con una manata e pesco dalla tasca interna del giaccone due filtri usati, due cilindretti bianchi, e me li caccio su per la narice. 
Perchè cazzo mi avevano chiuso fuori?
Scendo la scala antincendio, arrivando al piano di sotto. Li ad aspettarmi c'è uno dei due mutati.

"Ci sono problemi, ti conviene sparire per un po."

Cosa?
Non mi è mai piaciuta la parola "problemi". Nel mio dizionario dei sinonimi la trovi accanto a "merda".
Davanti alla mia faccia perplessa, il mutato mi informa della situazione, con un irritante tono scocciato.

Pare che nell'officina di Mascherina-Mike sia in corso un ispezione.
E per ispezione si intende un gruppo più o meno folto di guardie armate che ribaltano tutto l'edificio in cerca di una scusa per mandare in galera tutti.
Merda, appunto.
"Non puoi restare qui. Scendi in strada, chiuditi in un bar, fatti i cazzi tuoi e aspetta che ci facciamo vivi noi."

"Cosa? No, non se ne parla."

Mi ignora ovviamente, e rientra nell'edificio, chiudendo a chiave dietro di se.
Merda.
Tutti e trenta i piani si riempiranno in breve di stronzi poco simpatici... devo andarmene. 
Merda... scendere per strada.

A Chandigarh.

Merda merda merda "Merda!"

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