Quelle cose che passa il giorno di AhiUnPoDiLui (/viewuser.php?uid=30197)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Concerto ***
Capitolo 2: *** Coincidenze ***
Capitolo 3: *** Giochi di ruolo ***
Capitolo 4: *** Silenzio ***
Capitolo 1 *** Concerto ***
Concerto
Uno
saltò che pareva volare,
l’altro menava la chioma col ghigno di satana, la
voce ululava alle stelle, gorgheggiando, strepitando, era un
pianto di gioia, e dietro i fusti quelle due bacchette, vive
d’una vita
propria, fremevano d’una carica elettrica che s’era
spanta dilagando anche tra
le mani alzate, le bocche dischiuse e gli occhi luccicanti del
pubblico. Quel
momento parve allungarsi, s’allungò; crebbe
un’attesa febbrile, e le luci
sconvolte impazzivano sugli assi del palco, follia incandescente
d’arcobaleno;
la chitarra piegandosi saettava riflessi arancioni, discendendo da
nuvole di
porpora; pugni s’alzavano, tendendosi verso il cielo, e si
scatenò infine
l’esplosione: i piatti vibrarono, le corde tremarono, un
lampo attraversò dai
fari l’intero parco, e calò un sipario
d’ombre. Seguì uno scroscio d’applausi,
temporale estivo, breve, intenso.
<<
Fotonico! >> esclamò Gigi, stringendo ancora
tra le unghie il microfono.
Gli altri si davano pacche sulle spalle, e strette di mano, con tutto
quel
sudore. Max ripose il sassofono, carezzandolo quasi un trofeo. Michele
lanciò
nella bruna marea di volti sorridenti il plettro, compiacendosi di
suscitare
un’onda schiamazzante sulla riva. Alberto riponeva tutto
mogio il quattrocorde
nella custodia. Sorrideva di tanto in tanto, quando uno dei compari
veniva a
complimentarsi, ma subito si rabbuiava.
<<
E ora tutti a bere! >> gridò Gigi. Tutti
fecero << sì! >>,
già gli veniva da brindare, ancora prima di avere un
bicchiere in mano. Si
lanciarono giù per le scalette del palco, e percorsero in
fretta il backstage,
portando il carnevale agli organizzatori del festival. Alberto li
seguiva da
dietro.
<<
Grandi, ragazzi! >> esclamò Robbie, che in
ogni festival che si rispetti
dev’esserci un Robbie. << Era da tempo che non
assistevo ad uno spettacolo
così! Grandi, davvero! Avete già incontrato
Francesca? Chiedete a lei per il
bere e per il mangiare! >>
<<
Proprio per questo siamo qua! >> gridò Max,
lanciando attorno lo sguardo.
<< Dov’è questa Francesca?
>>
<< Al
bancone delle ordinazioni >> fece Robbie, sorseggiando
dal suo bicchiere.
Lo ringraziarono, e partirono verso il banco delle ordinazioni,
godendosi i
complimenti, le moine, gli scherzi che raccimolarono per via. Alberto
veniva
per ultimo.
Francesca
era una gaia ragazza col dono del sorriso, e veniva da domandarsi se
più della
birra e della salsiccia fosse lei il motivo di tante ordinazioni; li
accolse a
braccia aperte, sfarfallando occhiate luccicanti, di quelle giocose che
sembrano coriandoli, e intanto si teneva un ricciolo tra le dita,
facendolo
saltellare come un pupazzo.
Max
com’era costume ordinò per primo, e ci cascasse il
mondo se non gliene veniva
anche della senape come Dio comanda; poi toccò a Gigi, che
prima di un concerto
gli si chiude sempre lo stomaco, e subito dopo si mangerebbe un
coccodrillo con
tutta la coda; Michele, che tra l’altro non aveva di simili
problemi e prima di
montare sul palco aveva mangiato peggio d’un affamato del
deserto, decise di
fare compagnia agli amici, poiché prima di tutto ci va
l’educazione, componendo
all’istante un panino meglio d’una sinfonia in la
minore. Alberto non si vedeva.
Allora si misero a chiamarlo, ma di lui proprio nessuna traccia.
<<
Quando lo trovate mandatemelo >> fece Francesca, e si
occupò di quelli
che attendevano in fila.
Cercarono
un tavolo, vagheggiando ancora le sensazioni del tripudio, e certo non
dimenticando nemmeno di tessere le dovute lodi alla gaiezza femminile.
Seduti
ad un tavolo un po’ in disparte, ricomparve ad un tratto
dalle brume della
marea la zazzara sudaticcia e floscia di Alberto, con un’aria
torva da far
paura, non si capiva dov’era stato. Pareva avere un limone in
bocca, tanto
amaro era il suo sorriso, e Michele gli domandò se era un
periodo di
stitichezza, che si teneva tutto dentro. Alberto aprì bocca,
ma Gigi era ancora
fuori di sé, e non l’avrebbe trattenuto nemmeno il
cipiglio serio di sua madre,
e ne sparava una dietro l’altra.
<<
Eccezionale! Eccezionale! >> sbraitava di continuo,
<< meglio
ancora di Maiolica! >>
<<
Beh, anche a Maiolica abbiamo fatto la nostra porca figura!
>> gridò più
forte Michele, e bisognava aspettarselo, lui che non aveva mai critiche
per nessuno,
tanto meno per se stesso.
<<
Sì, ma qui, oggi!, è stata una bomba!
>> riprese Gigi. << Eravamo
uniti, forse addirittura più del solito, più
vicini, ed è per questo che
abbiamo fatto uno spettacolo così bello! >>
<<
Vero! >> commentò Max. << E poi
c’era una resa collettiva da far
paura! Credo che non abbiamo mai avuto una qualità di gruppo
tanto elevata!
>> E tutti erano d’accordo. Alberto annuiva
meccanicamente ad ogni
affermazione, come un tic dell’orologio, e quando Michele gli
domandò lui cosa
ne pensasse veramente, cominciò: << Beh
>> si teneva le mani in
tasca, un piede sopra l’altro, << a Maiolica io
ho suonato meglio … qui
non sentivo niente, maledetto fonico, e non riuscivo a venirne fuori
… !
>>, ma fu interrotto, era arrivata Francesca, la potevi
indovinare anche
dietro quell’esercito ondeggiante di bicchieri messi in fila.
Posò il vassoio
sul tavolo, sorridendo alle spavalderie di Gigi, che la voleva
assolutamente
vedere sotto il palco << del 15 >>;
avrebbero suonato le canzoni di
quella sera più altre, e magari gliene avrebbero dedicata
addirittura una,
certo però doveva venire, le dediche non si fanno mica a
distanza. La Francesca
frizzò una risatina delle sue, e prima d’andarsene
fece un occhiolino
malizioso, da languirci sopra.
<<
Par chiaro >> sentenziò allora Max,
<< che quel sorriso era tutto
per me! >> Gli altri scoppiarono a ridere, prendendolo in
giro: erano per
certo tutte là ad aspettare lui, e fargli la maliarda!
Proposero un brindisi
<< al meraviglioso concerto >>, e stavano
già per risuonare i
soliti rintocchi vetrati, quando s’accorsero che Alberto non
aveva ancora
ordinato nulla per sé.
<<
Cosa aspetti? Richiamiamo la Francesca, Alberto deve ordinare!
>> urlò
Max, e si propose addirittura di tornare lui stesso al bancone, con
tutta
quella strada, per fare l’ordinazione dalla Francesca. Ma
Alberto non aveva
sete.
<<
Che dici? Massù, bisogna brindare tutti! >>
<<
No … sono apposto così, grazie. >>
<<
Dai! Ladro! Spia! >>
<<
Chiamami pure così … >>
Le
tentarono tutte; ma dopo un po’ dovettero accettare che quel
muro era troppo duro
per poterlo abbattere. Se ne dispiacquero molto, soprattutto Gigi, a
queste
cose ci teneva. Sollevarono i bicchieri, e tornarono a chiacchierare.
Qualcosa
però s’era spento. Parlarono un po’ di
questo, un po’ di quello; raccontarono
qualche vecchio aneddoto, tanto per andare sul sicuro;
fioccò qualche vecchia
barzelletta impolverata, che aveva il gusto delle cose stantie;
improvvisamente
si ritrovarono a tacere; si guardavano attorno, un po’ qui,
un po’ lì;
sorseggiavano dai bicchieri, con l’aria di soffocarci.
Gigi
udì alcune parole che si dicevano due amiche al tavolo
vicino al loro.
<<
In verità >> diceva una, << non
ho lasciato Marco perché non fosse
una bella persona, o perché non mi piacesse più
… Del resto, l’ho così tanto
amato … È solo che, sai, la nostra
intimità non era più … intima. Egli
era bravo, per carità,
scusami
l’espressione, ma per quanto s’impegnasse a darmi
tutto il piacere del mondo,
lo sentivo distante, non mio, come se fossimo stati su due mondi
diversi. Lui
amava vedermi totalmente coinvolta in quello che faceva, ma io mi
sentivo messa
da parte … Preferivo Massimo. Nessuno mi ha mai fatto
sentire tanto amata,
tanto amata che non importava affatto d’esser bravi.
>>
|
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Capitolo 2 *** Coincidenze ***
Coincidenze
Non
v’era molta logica, ma va così,
che decidono di fare a modo loro, secondo chissà quali
principi, e bisogna
accontentarsi, tanto non t’ascolterebbero. <<
Almeno Fabrizio c’aspetta
>> ripeteva la Nadia, tremando per l’alzheimer,
perché in effetti
Fabrizio li aveva sempre aspettati, e almeno il martedì e il
giovedì si poteva
star sicuri di arrivare a casa secondo l’orario.
Un
tempo chi andava a Rovigo, partendo da Padova, ne aveva una ogni ora,
di
corriera, e certi giorni pure ogni trenta, o quaranta minuti, e in ogni
fascia
oraria. S’eri studente, che il cartellino non l’hai
da timbrare, potevi
prendere ed andare in stazione in qualsiasi momento, e senza nemmeno
controllare l’orologio. Un quarto d’ora, massimo
mezzora quando ci si mette la
sfiga, ed eccola comparire da dietro il solito angolo, tutta blu, coi
riflessi
luccicanti del sole, e quel Rovigo
arancione lampeggiante sulla fronte, la corriera. Forse è
vero che ce n’erano
sin troppe, neanche a Rovigo ci fosse qualcosa da fare …
Colla nuova
sistemazione però era proprio uno schifo: dalle tre di
pomeriggio alle otto di
sera avevano abolito ogni corsa diretta per Rovigo; se un tempo avevi
voglia di
tornare a casa per le quattro, quattro e mezza, e chi te lo impediva?,
mentre adesso
bisognava infilarsi nell’altra linea, e cioè
aspettare di vedere un Montagnana
arancione venir fuori da
quell’angolo, salirci, arrivare a Monselice, pregare il
Signore che la
coincidenza per Rovigo vi fosse anche oggi, e prenderla al volo, quasi
di corsa.
Del traffico non si tiene mai conto, maledetti matematici, quando si
fanno
simili conti, e quell’autista che t’aspetta a
Monselice per scarrozzarti a
Rovigo non può mica star lì delle mezzore di
ritardo, con le vecchiette che son
montate a Monselice che ti cacciano fuori un putiferio, anche loro
hanno pagato
il biglietto, e si vuole partire in orario. E allora capita di dover
girarsi i
pollici per intere mezzore, là a Monselice, tanto che la
Nadia ha ricominciato
a fumare, ma a scrocco, sennò fa male.
<<
Almeno Fabrizio c’aspetta. >> Fabrizio! Coi
baffoni, e la panciotta! Col
sorriso paterno, anzi no, da zio, perché il padre ha da
insegnare, lo zio vuol
solo far ridere! Con quegli occhietti da topone, e il capello
brizzolato, che
se fosse stato magro ne veniva fuori un George Clooney nostrano, ma
tanto a lui
non gliene importa. Lui sì ch’era una buona anima,
ad aspettare sempre sino
all’ultimo, anche a dispetto delle vecchie di Monselice, che
avranno pure
pagato il biglietto, ma l’han pagato pure gli altri, quelli
che arrivano da
Padova, e in culo a tutti. C’era stato anche
l’episodio della Francesca,
un’altra che prendeva sempre la corriera assieme alla Nadia;
se Fabrizio non avesse
aspettato che arrivasse la loro Montagnana,
che quel giorno era parecchio in ritardo, ella avrebbe dovuto attendere
una
buona oretta a Monselice prima di un’altra Rovigo,
sarebbe arrivata tardi a casa, troppo tardi avrebbe visto quei piedacci
della
suocera spuntare da dietro il divano, dov’era caduta come un
sacco di pere, e i
soccorsi non l’avrebbero certo tenuta in vita per i capelli.
Francesca poi,
commovendosi, gli aveva portato su un vino dalla cantina del marito, a
Fabrizio, che l’autista ci s’era leccato i baffi,
visto che lei, come gli
altri, lo sapeva bene il vizietto del personaggio,
quell’unico che si concedeva.
E tutti quand’era lui a portarli in giro si sedevano nei
sedili davanti, vicino
la sua poltrona, a farsi compagnia, mentre in genere stavano
sparpagliati, con
gli altri autisti, ciascuno colle proprie fisime, un po’ qua,
un po’ là, ad
ascoltare la canzone sputata fuori dal cellulare del solito marocchino,
o le
chiacchiere sibilanti delle adolescenti che sparlacciano delle amiche.
<<
Tanto Fabrizio c’aspetta sempre, quella buona anima
>>, e lì erano tutti
amici, perché c’era quella buona anima di Fabrizio.
Quel
giorno la signora Nadia, la Francesca, e tutti i soliti,
cioè quello grasso che
non parla mai, Michele e Giulio, salirono come di consueto sulla Montagnana delle sedici e trenta, a
Padova. L’estate era sprizzata fuori da tutte le parti, e la
campagna
ondeggiava lussuriosa ai baci del vento, e i fianchi dei Colli Euganei
discendevano spandendo tronchi e chiome per la pianura. Là
nel bus era come
stare in forno, perché a quanto pare nel biglietto non
è inclusa l’aria
climatizzata, e in effetti qualcuno lanciava occhiatacce
all’autista, come se
anche lui non ne soffrisse. Ma presto, rispetto il solito, furono
coperti
dall’ombra del piccolo colle, sopra cui tondeggiava la Rocca
di Monselice. La
Nadia si stiracchiò, senza esagerare mi raccomando che ti
spezzi la schiena, e
la Francesca tentava di infilare in quella borsetta che pare un
portafoglio
l’ultimo romanzetto di segretarie e bei capi che
s’era comprata. La corriera
ondeggiò come un ubriaco balordo, e le porte si
spalancarono, con un soffio
elettronico. Discesi, e col sole in faccia, prima ancora che potessero
indovinare quello che stava succedendo, videro una corriera muoversi,
accennando i primi movimenti. Che caldo, che afa, e
dov’è Rovigo?
Non sarà mica quella? No, non può essere, oggi
c’è
Fabrizio. Così rimasero a guardare mentre la loro corriera
se ne andava senza
di loro.
Il
primo a capirci qualcosa fu Giulio, che si mise a correrle dietro,
mentre
Fabrizio fuggiva come un dannato diavolo. L’autista doveva
avere qualcosa che
gli faceva prurito sul collo: volle il caso che si voltasse verso il
finestrino
per grattarsi meglio, e vedesse gli occhi tutti esplosi per di fuori,
le
braccia protese verso di lui e le gambe galoppanti dello stremato
Giulio. Fermarsi
in curva e lontano dalla fermata era da galera, ma non c’era
nessuno nei
paraggi, né quelli erano i giorni dei controlli. Dalla
stazione, quegli altri
tirarono un sospiro di sollievo quando videro la freccia lampeggiare
sul fianco
della corriera.
Salirono
col muso lungo, e Fabrizio sorrideva. La Nadia si mise in terza fila,
nel
sedile vicino al finestrino, la Francesca aveva una bocchetta stitica,
e non
diceva nulla. Giulio montò per ultimo, lui sì era
un galante. Aveva una faccia
da funerale, e Fabrizio strabuzzò gli occhi.
<<
Giulio! >> disse. << Cosa … ?
>>
<<
Non si aspettano nemmeno dieci minuti … ? >>
mormorò Giulio, che
ribolliva di santa indignazione, e per di dietro le altre annuivano.
Fabrizio
sbiancò.
<<
Nemmeno … ? >>
<<
No, dico, va beh, sarà che dovete far così
… sarà politica aziendale! >>
borbottava Giulio, andandosi a sedere. Fabrizio non pigiava ancora
sull’acceleratore.
<<
C’è stato uno sbaglio … !
>> cominciò.
<<
Hanno fretta, Giulio >> diceva intanto la Francesca,
<< sono lavoratori,
non hanno mica tempo da perdere, questi autisti …
>>
<<
Lavoro anch’io! >> fece Giulio.
<<
Vi ripeto >> riprese l’autista,
<< che c’è stato uno sbaglio
… Non
è stata certo colpa mia se di là …
>>
<<
Siamo dei perdigiorno, noi >> aggiunse Giulio, scrollando
il capo, che
c’aveva pure le sue motivazioni. Fabrizio avvampò.
<<
Allora! >> e pigiò di foga il pulsante con cui
si chiudono le porte,
<< mica è colpa mia s’è
arrivata con trenta minuti di ritardo la corriera
per Montagnana che avrebbe dovuto arrivare prima della vostra
… ! >> La
Nadia schioccò la lingua, perché li conosci
questi tipi qua come sono. La
Francesca aveva sempre quella bocchetta là. <<
Cosa volete! >>
continuò Fabrizio, << io so che la vostra
arriva circa per le cinque e un
quarto, e m’arriva un Montagnana
alle
cinque e dieci … Ho pensato: sarà in anticipo!
Come facevo a sapere ch’era la
corriera prima, con trenta minuti di ritardo, e non la vostra? Ho
pensato che
c’eravamo, non avevo più nulla
d’aspettare, e si poteva partire! >>
<<
Ah, beh … ! >> fece Giulio, <<
ah, beh … ! >>
<<
Capite? Sarà in anticipo, ho pensato! >>
Ripresero a muoversi.
<<
Eh, se è così … >>
mormorava la Francesca, scuotendo il capo di qua e di
là. Fabrizio li guardava dallo specchietto colla bocca
spalancata. Presto cadde
un silenzio da cimitero. Fuori dal finestrino cominciavano ad
indovinarsi i
primi colori del tramonto. Dalle bocchette veniva fuori una gradevole
frescura
climatizzata.
<<
Va bene, dai >> disse Giulio dopo un po’,
<< l’importante è che non
succeda più. >>
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Capitolo 3 *** Giochi di ruolo ***
Giochi
di ruolo
Era
poca cosa, ma gli eroi non
fanno forse di queste pazzie? Avventurarsi nella palude delle mani
morte con
solo una fionda, sfidare i fantasmi col fucile a pompa, cavare la testa
agli
zombie con le mani, e ciucciarsi pure quel sanguaccio nero come il
carbone,
tanto per lo sfizio di chi sta a guardare. Se poi si deve affrontare
pure quel
cane rabbioso del Signor Male, bisogna farlo, sia pure con un semplice
arco di
criptonite messo di tracolla sul petto, e una faretrina di poche ma
implacabili
frecce al plutonio costruite da Lucius, l'uomofolgore – ah, i
quindici euri
delle figurine! –, dovere, sacrosanto dovere. L'uomoragno
aveva quella dote di
sparare ragnatele e di potersi dondolare tra i palazzi come Tarzan, e
si sa che
grandi poteri chiamano grosse responsabilità.
Così pure lui c'aveva le sue
responsabilità, proprio come l'uomoragno, incompreso come
lui tra l'altro,
addirittura preso in giro dai familiari, costretto alla doppia vita; ed
era
pure come Tarzan, circondato da scimmie, scimmiette e scimmioni,
perché i suoi
cugini avevano quel bel muso da cita dei Polato, andiamone fieri!, e
sua zia
Carla si grattava le ascelle con fare primitivo; ma l'eroe sta nel far
del bene
senza pudore, di qua, di là, a destra, a sinistra, egli non
salva solo Federica
Lucchiari bionda biondina che c'è da mangiarsi le mani;
salva pure la Barbara,
poveraccia, e pure la maestra, con quei baffetti da Hitler, e pure la
zia
Carla, basta che non si gratti le ascelle. Poi è la Federica
Lucchiari a
venirgli dietro, perché è stato onesto, intrepido
e eroico, non si fa mica
fatica quando si è eroi.
Questo
giorno c'era una luce mica buona, segno di guai. Non girava nessuno per
la
strada, e gli alberi si muovevano proprio come nei film, quelli quando
sta per
succedere la malefatta. Bisognava controllare tutti gli angoli,
perché è li che
si nasconde il Signor Male, con quegl'occhiacci da cane nero. E le
siepi, non
ci stanno mica solo le api. Forse anche in quel momento quegli occhi lo
fissavano,
nascosti chissà dove, tutti rossi e diabolici, e allora
bisognava trovare un
nascondiglio – ecco, il muricciolo dei Canazza!, toh voglio
vedere se qui mi
vedono, salve signor Andrea, no, va tutto bene. Nell'aria si sentivano
dei
rumorini di quelli terribili che spaventerebbero un Enrico Maffizzoli,
e pure i
suoi amici sbruffoni. Ma quell'arietta malefica sul suo collo non
faceva altro
che tirargli fuori risatine, li sentisse pure il Signor Male,
là dietro il suo
nascondiglio come un guardone.
Avanzava
dietro il muricciolo tutto basso, per sorprenderlo, il cialtrone,
perché lui
sapeva bene come si faceva quella caccia, cogli insegnamenti che aveva
ricevuto
da Taù-Agaup, il ninja indiano, che gli spiriti dei suoi avi
lo proteggano
sempre per la misericordia. Allora prese in mano il suo arco alla
criptonite,
facendo a vuoto un tiro di prova, che i professionisti non si fanno mai
trovare
impreparati. Tirò fuori una freccia, reggendola con cautela,
perché Lucius
l'aveva avvertito che avrebbero potuto esplodere quegli arnesi, e
bisognava
stare attenti, rischiavano d'alterare il cosospaziotempo. Lui d'altro
canto
aveva un'agilità tutta giapponese, che nemmeno Goku. Prese
in mano quella
freccia come la maestra aveva preso la farfallina sul davanzale, gli
sarebbe
caduta soltanto se il Signor Male fosse venuto colle sue manacce avide
per di
dietro a fargli: << Toh! >>, per questo si
voltò d'improvviso, a
costo che gli cascasse, per scongiurare l'eventualità. Il
praticello dei
Canazza era quieto ed immobile, né sull'asfalto grigioperla
si muoveva nulla,
c'erano solo i richiami degli uccellini, che nemmeno lui poteva
credere, come
quel sospettoso di Lucius, che fossero spie del Signor Male. A
proposito,
dov'era egli quel giorno, che non si faceva vedere? Avrebbe dovuto
esserci pure
lui. Passava il tempo, intanto, e col tramonto in arrivo s'avvicinava
pure il
momento in cui la Grande Dea Madre l'avrebbe richiamato ai suoi doveri
– non si
può nemmeno permettersi un minuto di ritardo, lei!
S'avvicinò dunque al giardinetto
vicino la casa dei Canazza, preparandosi al riconoscimento vocale,
perché il
laboratorio di Lucius era un fornaio di progresso metallico
metallurgico, una
bolgia di cavi, fili, tecnologie futuristiche.
Suonò
il campanello – no, signora, voglio Marco, ecco,
sì, grazie – e subito si sentì
la voce metallica del riconoscimento.
<<
Chi importuna le fatiche di Lucius, l'uomofolgore? >>
Ecco,
quella bisognava farla bene, altrimenti il portone di metallo si
sarebbe
chiuso, non lasciandolo più entrare per ventimila anni,
assurdità da
scienziati.
<<
Bucci Luci Cucci Bucci Ciucci! >>
Come
al solito non si sentì altro che un rumore di scariche
elettriche, perché i
computer stavano elaborando tutta quella cosa, ma presto, dopo che
ebbero
elaborato, s'aprì il portone di metallo, e una figura,
confusa nell'oscurità e
tutta bluargentata, emerse come da un calderone puzzolente.
<<
Avete chiamato il Grande Scienziato! >>
pronunciò una voce maestosa,
<< ed eccolo qua per voi! Ciao Luca! >>
<<
Lucius, il Signor Male è qui vicino. Lo sento.
>> Lucius estrasse
qualcosa dal mantello – era un odorasniffo, uno degli ultimi
brevetti dello
scienziato: una lucina blu si sarebbe illuminata sul pannello qualora
in giro
c'era qualcosa di malvagio, e, magia dell'ultimo aggiornamento, una
lucina
rossa avrebbe invece segnalato la presenza particolare del Signor Male,
che
aveva un suo odoraccio tutto suo, e lo potevi sentire già
senza l'odorasniffo
se era nei paraggi, sempre che ti avesse lasciato il tempo d'annusarlo,
mica
tutti c'hanno un arco alla criptonite per difendersi, e voglio dire.
Comunque,
manco a dirlo: la lucina che faceva luce non era mica quella blu. I due
si
guardarono, limitandosi a far sì colla testa, come Bruss
Willis. Si misero
d'accordo su alcune faccende preliminari – perché
a una certa ora si deve pur
andare a mangiare, pure i supereroi lo fanno, e fanno pure i compiti
–, e
infine si mossero, seguendo il punto viola che brillava sul vetro del
radarduepuntozeroics, ch'era proprio una meraviglia. Stavano bassi,
perché lo
sapevano che il Signor Male avrebbe colpito senza un minimo di
pietà, quasi a
tradimento, quel minchione, con quegl'occhiacci neri come il peccato.
Fecero
parecchia strada, non c'era nessuno, l'aria cattiva aveva cacciato ogni
forma
di vita, e restavano soltanto loro – loro, perché
qualcuno li dovrà pur fare i
lavori sporchi! E loro, nell'ombra, accontentandosi di non ricevere
nemmeno una
piccola gratificazione, e di combattere per la Federica Lucchiari, ma
anche per
la Barbara e la maestra, si prendevano ben volentieri sulle spalle il
peso
dell'umanità – ma ecco, il radarduepuntozeroics
prese a squillare, e a vibrare
tutto, e se Lucius non l'avesse spento gli sarebbe esploso in mano. Si
guardarono, annuendo come sanno fare loro.
<<
Il momento è arrivato >> cominciò
Lucius, << il nostro momento.
>> Si guardò intorno, come se dovesse salutare
per sempre quei luoghi a
loro cari. Ma a lui non gli piacevano le scene sentimentali, e le
avrebbe
barattate volentieri per qualche bomba in più. Prese allora
l'iniziativa, e
avanzò oltre l'angolo, dove il radar aveva segnato che c'era
il Signor Male.
Che ansia, cristoddio, pareva d'essere alla finale di campionato!
Ma
là dietro non c'era niente e nessuno.
<<
Gli apparecchi devono essere andati in tilt per l'aura di
malvagità che c'è in
questa zona. Ma lui dev'essere qui, senz'altro. Cerchiamolo.
>> Lucius la
sapeva lunga, di quegli aggeggi.
<<
Magari è a fare una passeggiata con Toni >>
propose a bassa voce lui.
Lucius si mise pensieroso.
<<
Può darsi... >>, ma giusto in quel momento,
emerse una figura diabolica
da dietro la siepe, che c'era sicuramente andato a fare le sue
malefatte, il
cane!
Il
Signor Male li guardò con quell'aria truce che avrebbe
spaventato ogni Enrico
Maffizzoli di questo pianeta, ma che a loro gli lasciava impassibili
come
mummie. Fece uno di quei versi che faceva lui, quasi un latrato, e
Lucius, che
da scienziato era fatto più per la teoria che per la
pratica, fece un passo
indietro, il fiataccio del nemico gli aveva tirato indietro tutti i
capelli, e
gli aveva impiastricciato tutta la faccia.
<<
L'arco, usa l'arco! >> si mise a gridare, come sempre,
non c'era più
tempo per giocare. E allora egli incoccò la freccia, tese
l'arco, socchiuse gli
occhi, prese la mira e...
Oddio,
m'è scappata la corda!
Si
voltò, Marco aveva due occhi che pareva un paguro, che era
successo? Sentiva
dei versi striduli, come dei guaiti. Dalla parte dov'era andata la
freccia
c'era qualcosa per terra. Marco non riusciva a muoversi, come se la
colla del
suo vestitino di cartapesta gli immobilizzava anche le braccia. In
tutto il
quartiere c'erano movimenti, stavano per venire a metterli in prigione,
dove
nemmeno sua madre – sua madre, sua madre, sua madre!
Bisognava scappare, non
erano stati loro. Poi le frecce le aveva fatte quel paguro di Marco,
che si
vestiva pure da idiota per far quella cosa. E lui che c'entrava? Era
stato
sfortunato, mica che non può succedere...? Anche suo padre
tirava le frecce,
quand'era giovane, che gliel'aveva fatto praticamente lui quell'arco, e
lui se
n'era stato a guardare. Ma perché, perché,
perché...? Era poi giusto che gli
capitassero quelle cose? E tu levami quegli occhi di dosso, che c'entri
pure
tu! E se ne scapparono, ciascuno per la sua via, che ci verranno a
scoprire
senz'altro, e quell'arco bisognava buttarlo via subito, maledetto
stupido arco!
Nel
giardinetto, il povero Signor Male muoveva ancora la zampetta, guaendo
ogni
tanto come un vecchio brontolone. Ad un certo punto mise il capo per
terra, con
quegli occhioni, e le orecchie che gli ricadevano come lingue sulla
guancia, e
fece per addormentarsi.
<<
Tobia! Ma che t'è successo? Chi t'ha piantato quella freccia
nello stomaco?!
>>
Per
i lettori sensibili, meglio chiarire: sopravvisse.
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Capitolo 4 *** Silenzio ***
Silenzio
La
strada che procede verso Feste,
passando per Sant’Olena, è di quelle spesso
trafficate, abbastanza larghe, che
permettono che vi si viaggi abbastanza velocemente. Venendo dal centro
di Altarino
si deve passare per via degli Alpini, se si va verso la
città festense, dove
sulla sinistra della strada l’occasionale guidatore avrebbe
la breve visione di
una piccola e graziosa chiesina (il piccolo santuario
dell’Assunta), sempre
chiusa e silenziosa, che solo i riflessi più incantati della
primavera e quelli
più trasognati dell’inverno sanno addobbare di
magnifico.
Un
giorno fu visto un uomo, che procedeva a piedi carico di borse, zaini e
valigie, fermarsi davanti l’esile figura del santo edificio.
Tentennava come
davanti l’abisso di un’importante decisione, ma
infine, avvicinandosi alla
porta sempre chiusa a chiave, prese a bussarvi con una certa timidezza
– una
timidezza che non avrebbero colto i passeggeri delle sfreccianti
automobili che
correvano per la strada. Aveva l’aria di un bambino castigato
quando,
rinunciando all’idea che la porta si aprisse, si
levò dalla schiena la
chiocciola dei suoi zaini e delle sue borse, e si abbandonò
su una panchina lì
vicino, rivolta verso il piccolo edificio. Nell’eco
dell’asfalto strisciato
dalle gomme e di un latrare lontano sembrò che si assopisse,
quasi che una
farfalla si fosse posata sulla sua fronte, coprendo con un grazioso
movimento
delle ali i suoi occhi.
Al
negozio di alimentari di Piero entravano gli ultimi clienti. Il
campanellino
posto sulla sommità della porta aveva preso a suonare sempre
meno, sempre più
il tempo passava, e gli sbadigli della moglie del bottegaio avrebbero
svegliato
chi si fosse già addormentato. A quelle ore
all’alimentari si respirava una
certa atmosfera di desolazione, si percepiva un vuoto proibito, che era
meglio
non indagare. Vi era un senso particolare di attesa, ma
un’attesa misera, che
si sapeva incapace di produrre alcunché. Eppure il silenzio
aveva un che di
cosmico, e nel ronzio ininterrotto dei frigoriferi si percepiva il
mistero di
un significato superiore. Lo scampanellio educato della porta che
veniva aperta
destò Piero dalle sue meditazioni.
<<
‘Sera! >> salutò l’ometto
che era appena entrato. La moglie di Piero lo
accolse con un sorriso illucidato delle lacrime del sonno.
<< E allora?
>> chiese l’ometto alla bambina che tentava di
nascondersi dietro la sua
mole. << Non saluti Piero e la Patrizia? >>
Tutti si lasciarono
sfuggire sospiri deliziati quando la piccola tolse da dietro la schiena
una
manina paffutella e l’agitò davanti al viso in un
inconfondibile saluto
bambinesco. << Sono qua per poco >> disse
l’ometto, passandosi una
mano sul capo, dove compariva, tra due catene di radi riccioli, una
chiarissima
pelata.
Piero
fece spallucce, come a dire che poteva restarsene lì quanto
voleva. <<
Cosa ti do? >> chiese Patrizia, pulendo gli occhiali con
un fazzoletto. <<
Siamo qua per un po’ di gelato, non è vero?
>> chiese l’ometto, ottenendo
come risposta che la piccola bambina si illuminasse tutta nello sguardo
e si
facesse più spavalda, muovendo qualche passo verso il
bancone. << Come
vai a scuola? >> chiese Piero, mentre Patrizia, con un
sorriso di tra le
labbra, ciabattava verso il frigorifero dei gelati. La bambina non
disse nulla,
si limitò ad una espressione vagamente terrorizzata, che
scatenò una confusa
accozzaglia di risate.
<<
Eh beh, >> disse Piero << vedrai che
crescendo incontrerai i seri,
veri problemi della vita. >> Da fuori venne il rauco e
lontano abbaiare
di un cane. Patrizia tornò presto. Dopo che il conto fu
pagato, e l’entrata fu
nuovamente sigillata dalla scampanellio della porta, uscì
dalla bottega,
dicendo che si sarebbe fatta una doccia. Piero rimase il tempo
necessario per
chiudere le luci e sistemare alcuni prodotti che erano stati riposti
disordinatamente sugli scaffali.
La
luce diafana della luna lo bloccò, dov’era,
davanti le vetrine che davano sulla
strada. Sotto l’ombra minacciosa del piccolo santuario
dell’Assunta notò una
sorta di strano fagotto, che giaceva su una panchina del piccolo
piazzale. Lì rimase,
immobile, a contemplare il suo vago, rarefatto riflesso sul vetro della
bottega, senza osar muovere lo sguardo verso il piazzale della chiesa.
Poi,
qualcosa, un movimento. Dalla panchina scivolò qualcosa, a
peso morto, sembrava
un grande sacco.
No,
era un uomo.
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