Quelle cose che passa il giorno

di AhiUnPoDiLui
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Concerto ***
Capitolo 2: *** Coincidenze ***
Capitolo 3: *** Giochi di ruolo ***
Capitolo 4: *** Silenzio ***



Capitolo 1
*** Concerto ***


Concerto

 

Uno saltò che pareva volare, l’altro menava la chioma col ghigno di satana, la voce ululava alle stelle, gorgheggiando, strepitando, era un pianto di gioia, e dietro i fusti quelle due bacchette, vive d’una vita propria, fremevano d’una carica elettrica che s’era spanta dilagando anche tra le mani alzate, le bocche dischiuse e gli occhi luccicanti del pubblico. Quel momento parve allungarsi, s’allungò; crebbe un’attesa febbrile, e le luci sconvolte impazzivano sugli assi del palco, follia incandescente d’arcobaleno; la chitarra piegandosi saettava riflessi arancioni, discendendo da nuvole di porpora; pugni s’alzavano, tendendosi verso il cielo, e si scatenò infine l’esplosione: i piatti vibrarono, le corde tremarono, un lampo attraversò dai fari l’intero parco, e calò un sipario d’ombre. Seguì uno scroscio d’applausi, temporale estivo, breve, intenso.
         << Fotonico! >> esclamò Gigi, stringendo ancora tra le unghie il microfono. Gli altri si davano pacche sulle spalle, e strette di mano, con tutto quel sudore. Max ripose il sassofono, carezzandolo quasi un trofeo. Michele lanciò nella bruna marea di volti sorridenti il plettro, compiacendosi di suscitare un’onda schiamazzante sulla riva. Alberto riponeva tutto mogio il quattrocorde nella custodia. Sorrideva di tanto in tanto, quando uno dei compari veniva a complimentarsi, ma subito si rabbuiava.
         << E ora tutti a bere! >> gridò Gigi. Tutti fecero << sì! >>, già gli veniva da brindare, ancora prima di avere un bicchiere in mano. Si lanciarono giù per le scalette del palco, e percorsero in fretta il backstage, portando il carnevale agli organizzatori del festival. Alberto li seguiva da dietro.
         << Grandi, ragazzi! >> esclamò Robbie, che in ogni festival che si rispetti dev’esserci un Robbie. << Era da tempo che non assistevo ad uno spettacolo così! Grandi, davvero! Avete già incontrato Francesca? Chiedete a lei per il bere e per il mangiare! >>
         << Proprio per questo siamo qua! >> gridò Max, lanciando attorno lo sguardo. << Dov’è questa Francesca? >>
         << Al bancone delle ordinazioni >> fece Robbie, sorseggiando dal suo bicchiere. Lo ringraziarono, e partirono verso il banco delle ordinazioni, godendosi i complimenti, le moine, gli scherzi che raccimolarono per via. Alberto veniva per ultimo.
         Francesca era una gaia ragazza col dono del sorriso, e veniva da domandarsi se più della birra e della salsiccia fosse lei il motivo di tante ordinazioni; li accolse a braccia aperte, sfarfallando occhiate luccicanti, di quelle giocose che sembrano coriandoli, e intanto si teneva un ricciolo tra le dita, facendolo saltellare come un pupazzo.
         Max com’era costume ordinò per primo, e ci cascasse il mondo se non gliene veniva anche della senape come Dio comanda; poi toccò a Gigi, che prima di un concerto gli si chiude sempre lo stomaco, e subito dopo si mangerebbe un coccodrillo con tutta la coda; Michele, che tra l’altro non aveva di simili problemi e prima di montare sul palco aveva mangiato peggio d’un affamato del deserto, decise di fare compagnia agli amici, poiché prima di tutto ci va l’educazione, componendo all’istante un panino meglio d’una sinfonia in la minore. Alberto non si vedeva. Allora si misero a chiamarlo, ma di lui proprio nessuna traccia.
         << Quando lo trovate mandatemelo >> fece Francesca, e si occupò di quelli che attendevano in fila.
         Cercarono un tavolo, vagheggiando ancora le sensazioni del tripudio, e certo non dimenticando nemmeno di tessere le dovute lodi alla gaiezza femminile. Seduti ad un tavolo un po’ in disparte, ricomparve ad un tratto dalle brume della marea la zazzara sudaticcia e floscia di Alberto, con un’aria torva da far paura, non si capiva dov’era stato. Pareva avere un limone in bocca, tanto amaro era il suo sorriso, e Michele gli domandò se era un periodo di stitichezza, che si teneva tutto dentro. Alberto aprì bocca, ma Gigi era ancora fuori di sé, e non l’avrebbe trattenuto nemmeno il cipiglio serio di sua madre, e ne sparava una dietro l’altra.
         << Eccezionale! Eccezionale! >> sbraitava di continuo, << meglio ancora di Maiolica! >>
         << Beh, anche a Maiolica abbiamo fatto la nostra porca figura! >> gridò più forte Michele, e bisognava aspettarselo, lui che non aveva mai critiche per nessuno, tanto meno per se stesso.
         << Sì, ma qui, oggi!, è stata una bomba! >> riprese Gigi. << Eravamo uniti, forse addirittura più del solito, più vicini, ed è per questo che abbiamo fatto uno spettacolo così bello! >>
         << Vero! >> commentò Max. << E poi c’era una resa collettiva da far paura! Credo che non abbiamo mai avuto una qualità di gruppo tanto elevata! >> E tutti erano d’accordo. Alberto annuiva meccanicamente ad ogni affermazione, come un tic dell’orologio, e quando Michele gli domandò lui cosa ne pensasse veramente, cominciò: << Beh >> si teneva le mani in tasca, un piede sopra l’altro, << a Maiolica io ho suonato meglio … qui non sentivo niente, maledetto fonico, e non riuscivo a venirne fuori … ! >>, ma fu interrotto, era arrivata Francesca, la potevi indovinare anche dietro quell’esercito ondeggiante di bicchieri messi in fila. Posò il vassoio sul tavolo, sorridendo alle spavalderie di Gigi, che la voleva assolutamente vedere sotto il palco << del 15 >>; avrebbero suonato le canzoni di quella sera più altre, e magari gliene avrebbero dedicata addirittura una, certo però doveva venire, le dediche non si fanno mica a distanza. La Francesca frizzò una risatina delle sue, e prima d’andarsene fece un occhiolino malizioso, da languirci sopra.
         << Par chiaro >> sentenziò allora Max, << che quel sorriso era tutto per me! >> Gli altri scoppiarono a ridere, prendendolo in giro: erano per certo tutte là ad aspettare lui, e fargli la maliarda! Proposero un brindisi << al meraviglioso concerto >>, e stavano già per risuonare i soliti rintocchi vetrati, quando s’accorsero che Alberto non aveva ancora ordinato nulla per sé.
         << Cosa aspetti? Richiamiamo la Francesca, Alberto deve ordinare! >> urlò Max, e si propose addirittura di tornare lui stesso al bancone, con tutta quella strada, per fare l’ordinazione dalla Francesca. Ma Alberto non aveva sete.
         << Che dici? Massù, bisogna brindare tutti! >>
         << No … sono apposto così, grazie. >>
         << Dai! Ladro! Spia! >>
         << Chiamami pure così … >>
         Le tentarono tutte; ma dopo un po’ dovettero accettare che quel muro era troppo duro per poterlo abbattere. Se ne dispiacquero molto, soprattutto Gigi, a queste cose ci teneva. Sollevarono i bicchieri, e tornarono a chiacchierare. Qualcosa però s’era spento. Parlarono un po’ di questo, un po’ di quello; raccontarono qualche vecchio aneddoto, tanto per andare sul sicuro; fioccò qualche vecchia barzelletta impolverata, che aveva il gusto delle cose stantie; improvvisamente si ritrovarono a tacere; si guardavano attorno, un po’ qui, un po’ lì; sorseggiavano dai bicchieri, con l’aria di soffocarci.
         Gigi udì alcune parole che si dicevano due amiche al tavolo vicino al loro.
         << In verità >> diceva una, << non ho lasciato Marco perché non fosse una bella persona, o perché non mi piacesse più … Del resto, l’ho così tanto amato … È solo che, sai, la nostra intimità non era più … intima. Egli era bravo, per carità, scusami l’espressione, ma per quanto s’impegnasse a darmi tutto il piacere del mondo, lo sentivo distante, non mio, come se fossimo stati su due mondi diversi. Lui amava vedermi totalmente coinvolta in quello che faceva, ma io mi sentivo messa da parte … Preferivo Massimo. Nessuno mi ha mai fatto sentire tanto amata, tanto amata che non importava affatto d’esser bravi. >>

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Capitolo 2
*** Coincidenze ***


Coincidenze

 

Non v’era molta logica, ma va così, che decidono di fare a modo loro, secondo chissà quali principi, e bisogna accontentarsi, tanto non t’ascolterebbero. << Almeno Fabrizio c’aspetta >> ripeteva la Nadia, tremando per l’alzheimer, perché in effetti Fabrizio li aveva sempre aspettati, e almeno il martedì e il giovedì si poteva star sicuri di arrivare a casa secondo l’orario.
         Un tempo chi andava a Rovigo, partendo da Padova, ne aveva una ogni ora, di corriera, e certi giorni pure ogni trenta, o quaranta minuti, e in ogni fascia oraria. S’eri studente, che il cartellino non l’hai da timbrare, potevi prendere ed andare in stazione in qualsiasi momento, e senza nemmeno controllare l’orologio. Un quarto d’ora, massimo mezzora quando ci si mette la sfiga, ed eccola comparire da dietro il solito angolo, tutta blu, coi riflessi luccicanti del sole, e quel Rovigo arancione lampeggiante sulla fronte, la corriera. Forse è vero che ce n’erano sin troppe, neanche a Rovigo ci fosse qualcosa da fare … Colla nuova sistemazione però era proprio uno schifo: dalle tre di pomeriggio alle otto di sera avevano abolito ogni corsa diretta per Rovigo; se un tempo avevi voglia di tornare a casa per le quattro, quattro e mezza, e chi te lo impediva?, mentre adesso bisognava infilarsi nell’altra linea, e cioè aspettare di vedere un Montagnana arancione venir fuori da quell’angolo, salirci, arrivare a Monselice, pregare il Signore che la coincidenza per Rovigo vi fosse anche oggi, e prenderla al volo, quasi di corsa. Del traffico non si tiene mai conto, maledetti matematici, quando si fanno simili conti, e quell’autista che t’aspetta a Monselice per scarrozzarti a Rovigo non può mica star lì delle mezzore di ritardo, con le vecchiette che son montate a Monselice che ti cacciano fuori un putiferio, anche loro hanno pagato il biglietto, e si vuole partire in orario. E allora capita di dover girarsi i pollici per intere mezzore, là a Monselice, tanto che la Nadia ha ricominciato a fumare, ma a scrocco, sennò fa male.
         << Almeno Fabrizio c’aspetta. >> Fabrizio! Coi baffoni, e la panciotta! Col sorriso paterno, anzi no, da zio, perché il padre ha da insegnare, lo zio vuol solo far ridere! Con quegli occhietti da topone, e il capello brizzolato, che se fosse stato magro ne veniva fuori un George Clooney nostrano, ma tanto a lui non gliene importa. Lui sì ch’era una buona anima, ad aspettare sempre sino all’ultimo, anche a dispetto delle vecchie di Monselice, che avranno pure pagato il biglietto, ma l’han pagato pure gli altri, quelli che arrivano da Padova, e in culo a tutti. C’era stato anche l’episodio della Francesca, un’altra che prendeva sempre la corriera assieme alla Nadia; se Fabrizio non avesse aspettato che arrivasse la loro Montagnana, che quel giorno era parecchio in ritardo, ella avrebbe dovuto attendere una buona oretta a Monselice prima di un’altra Rovigo, sarebbe arrivata tardi a casa, troppo tardi avrebbe visto quei piedacci della suocera spuntare da dietro il divano, dov’era caduta come un sacco di pere, e i soccorsi non l’avrebbero certo tenuta in vita per i capelli. Francesca poi, commovendosi, gli aveva portato su un vino dalla cantina del marito, a Fabrizio, che l’autista ci s’era leccato i baffi, visto che lei, come gli altri, lo sapeva bene il vizietto del personaggio, quell’unico che si concedeva. E tutti quand’era lui a portarli in giro si sedevano nei sedili davanti, vicino la sua poltrona, a farsi compagnia, mentre in genere stavano sparpagliati, con gli altri autisti, ciascuno colle proprie fisime, un po’ qua, un po’ là, ad ascoltare la canzone sputata fuori dal cellulare del solito marocchino, o le chiacchiere sibilanti delle adolescenti che sparlacciano delle amiche. << Tanto Fabrizio c’aspetta sempre, quella buona anima >>, e lì erano tutti amici, perché c’era quella buona anima di Fabrizio.
         Quel giorno la signora Nadia, la Francesca, e tutti i soliti, cioè quello grasso che non parla mai, Michele e Giulio, salirono come di consueto sulla Montagnana delle sedici e trenta, a Padova. L’estate era sprizzata fuori da tutte le parti, e la campagna ondeggiava lussuriosa ai baci del vento, e i fianchi dei Colli Euganei discendevano spandendo tronchi e chiome per la pianura. Là nel bus era come stare in forno, perché a quanto pare nel biglietto non è inclusa l’aria climatizzata, e in effetti qualcuno lanciava occhiatacce all’autista, come se anche lui non ne soffrisse. Ma presto, rispetto il solito, furono coperti dall’ombra del piccolo colle, sopra cui tondeggiava la Rocca di Monselice. La Nadia si stiracchiò, senza esagerare mi raccomando che ti spezzi la schiena, e la Francesca tentava di infilare in quella borsetta che pare un portafoglio l’ultimo romanzetto di segretarie e bei capi che s’era comprata. La corriera ondeggiò come un ubriaco balordo, e le porte si spalancarono, con un soffio elettronico. Discesi, e col sole in faccia, prima ancora che potessero indovinare quello che stava succedendo, videro una corriera muoversi, accennando i primi movimenti. Che caldo, che afa, e dov’è Rovigo? Non sarà mica quella? No, non può essere, oggi c’è Fabrizio. Così rimasero a guardare mentre la loro corriera se ne andava senza di loro.
         Il primo a capirci qualcosa fu Giulio, che si mise a correrle dietro, mentre Fabrizio fuggiva come un dannato diavolo. L’autista doveva avere qualcosa che gli faceva prurito sul collo: volle il caso che si voltasse verso il finestrino per grattarsi meglio, e vedesse gli occhi tutti esplosi per di fuori, le braccia protese verso di lui e le gambe galoppanti dello stremato Giulio. Fermarsi in curva e lontano dalla fermata era da galera, ma non c’era nessuno nei paraggi, né quelli erano i giorni dei controlli. Dalla stazione, quegli altri tirarono un sospiro di sollievo quando videro la freccia lampeggiare sul fianco della corriera.
         Salirono col muso lungo, e Fabrizio sorrideva. La Nadia si mise in terza fila, nel sedile vicino al finestrino, la Francesca aveva una bocchetta stitica, e non diceva nulla. Giulio montò per ultimo, lui sì era un galante. Aveva una faccia da funerale, e Fabrizio strabuzzò gli occhi.
         << Giulio! >> disse. << Cosa … ? >>
         << Non si aspettano nemmeno dieci minuti … ? >> mormorò Giulio, che ribolliva di santa indignazione, e per di dietro le altre annuivano. Fabrizio sbiancò.
         << Nemmeno … ? >>
       << No, dico, va beh, sarà che dovete far così … sarà politica aziendale! >> borbottava Giulio, andandosi a sedere. Fabrizio non pigiava ancora sull’acceleratore.
         << C’è stato uno sbaglio … ! >> cominciò.
         << Hanno fretta, Giulio >> diceva intanto la Francesca, << sono lavoratori, non hanno mica tempo da perdere, questi autisti … >>
         << Lavoro anch’io! >> fece Giulio.
         << Vi ripeto >> riprese l’autista, << che c’è stato uno sbaglio … Non è stata certo colpa mia se di là … >>
         << Siamo dei perdigiorno, noi >> aggiunse Giulio, scrollando il capo, che c’aveva pure le sue motivazioni. Fabrizio avvampò.
         << Allora! >> e pigiò di foga il pulsante con cui si chiudono le porte, << mica è colpa mia s’è arrivata con trenta minuti di ritardo la corriera per Montagnana che avrebbe dovuto arrivare prima della vostra … ! >> La Nadia schioccò la lingua, perché li conosci questi tipi qua come sono. La Francesca aveva sempre quella bocchetta là. << Cosa volete! >> continuò Fabrizio, << io so che la vostra arriva circa per le cinque e un quarto, e m’arriva un Montagnana alle cinque e dieci … Ho pensato: sarà in anticipo! Come facevo a sapere ch’era la corriera prima, con trenta minuti di ritardo, e non la vostra? Ho pensato che c’eravamo, non avevo più nulla d’aspettare, e si poteva partire! >>
         << Ah, beh … ! >> fece Giulio, << ah, beh … ! >>
         << Capite? Sarà in anticipo, ho pensato! >> Ripresero a muoversi.
         << Eh, se è così … >> mormorava la Francesca, scuotendo il capo di qua e di là. Fabrizio li guardava dallo specchietto colla bocca spalancata. Presto cadde un silenzio da cimitero. Fuori dal finestrino cominciavano ad indovinarsi i primi colori del tramonto. Dalle bocchette veniva fuori una gradevole frescura climatizzata.
         << Va bene, dai >> disse Giulio dopo un po’, << l’importante è che non succeda più. >>

        

           

           

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Capitolo 3
*** Giochi di ruolo ***


Giochi di ruolo

 

Era poca cosa, ma gli eroi non fanno forse di queste pazzie? Avventurarsi nella palude delle mani morte con solo una fionda, sfidare i fantasmi col fucile a pompa, cavare la testa agli zombie con le mani, e ciucciarsi pure quel sanguaccio nero come il carbone, tanto per lo sfizio di chi sta a guardare. Se poi si deve affrontare pure quel cane rabbioso del Signor Male, bisogna farlo, sia pure con un semplice arco di criptonite messo di tracolla sul petto, e una faretrina di poche ma implacabili frecce al plutonio costruite da Lucius, l'uomofolgore – ah, i quindici euri delle figurine! –, dovere, sacrosanto dovere. L'uomoragno aveva quella dote di sparare ragnatele e di potersi dondolare tra i palazzi come Tarzan, e si sa che grandi poteri chiamano grosse responsabilità. Così pure lui c'aveva le sue responsabilità, proprio come l'uomoragno, incompreso come lui tra l'altro, addirittura preso in giro dai familiari, costretto alla doppia vita; ed era pure come Tarzan, circondato da scimmie, scimmiette e scimmioni, perché i suoi cugini avevano quel bel muso da cita dei Polato, andiamone fieri!, e sua zia Carla si grattava le ascelle con fare primitivo; ma l'eroe sta nel far del bene senza pudore, di qua, di là, a destra, a sinistra, egli non salva solo Federica Lucchiari bionda biondina che c'è da mangiarsi le mani; salva pure la Barbara, poveraccia, e pure la maestra, con quei baffetti da Hitler, e pure la zia Carla, basta che non si gratti le ascelle. Poi è la Federica Lucchiari a venirgli dietro, perché è stato onesto, intrepido e eroico, non si fa mica fatica quando si è eroi.
         Questo giorno c'era una luce mica buona, segno di guai. Non girava nessuno per la strada, e gli alberi si muovevano proprio come nei film, quelli quando sta per succedere la malefatta. Bisognava controllare tutti gli angoli, perché è li che si nasconde il Signor Male, con quegl'occhiacci da cane nero. E le siepi, non ci stanno mica solo le api. Forse anche in quel momento quegli occhi lo fissavano, nascosti chissà dove, tutti rossi e diabolici, e allora bisognava trovare un nascondiglio – ecco, il muricciolo dei Canazza!, toh voglio vedere se qui mi vedono, salve signor Andrea, no, va tutto bene. Nell'aria si sentivano dei rumorini di quelli terribili che spaventerebbero un Enrico Maffizzoli, e pure i suoi amici sbruffoni. Ma quell'arietta malefica sul suo collo non faceva altro che tirargli fuori risatine, li sentisse pure il Signor Male, là dietro il suo nascondiglio come un guardone.
         Avanzava dietro il muricciolo tutto basso, per sorprenderlo, il cialtrone, perché lui sapeva bene come si faceva quella caccia, cogli insegnamenti che aveva ricevuto da Taù-Agaup, il ninja indiano, che gli spiriti dei suoi avi lo proteggano sempre per la misericordia. Allora prese in mano il suo arco alla criptonite, facendo a vuoto un tiro di prova, che i professionisti non si fanno mai trovare impreparati. Tirò fuori una freccia, reggendola con cautela, perché Lucius l'aveva avvertito che avrebbero potuto esplodere quegli arnesi, e bisognava stare attenti, rischiavano d'alterare il cosospaziotempo. Lui d'altro canto aveva un'agilità tutta giapponese, che nemmeno Goku. Prese in mano quella freccia come la maestra aveva preso la farfallina sul davanzale, gli sarebbe caduta soltanto se il Signor Male fosse venuto colle sue manacce avide per di dietro a fargli: << Toh! >>, per questo si voltò d'improvviso, a costo che gli cascasse, per scongiurare l'eventualità. Il praticello dei Canazza era quieto ed immobile, né sull'asfalto grigioperla si muoveva nulla, c'erano solo i richiami degli uccellini, che nemmeno lui poteva credere, come quel sospettoso di Lucius, che fossero spie del Signor Male. A proposito, dov'era egli quel giorno, che non si faceva vedere? Avrebbe dovuto esserci pure lui. Passava il tempo, intanto, e col tramonto in arrivo s'avvicinava pure il momento in cui la Grande Dea Madre l'avrebbe richiamato ai suoi doveri – non si può nemmeno permettersi un minuto di ritardo, lei! S'avvicinò dunque al giardinetto vicino la casa dei Canazza, preparandosi al riconoscimento vocale, perché il laboratorio di Lucius era un fornaio di progresso metallico metallurgico, una bolgia di cavi, fili, tecnologie futuristiche.
         Suonò il campanello – no, signora, voglio Marco, ecco, sì, grazie – e subito si sentì la voce metallica del riconoscimento.
         << Chi importuna le fatiche di Lucius, l'uomofolgore? >>
         Ecco, quella bisognava farla bene, altrimenti il portone di metallo si sarebbe chiuso, non lasciandolo più entrare per ventimila anni, assurdità da scienziati.
         << Bucci Luci Cucci Bucci Ciucci! >>
         Come al solito non si sentì altro che un rumore di scariche elettriche, perché i computer stavano elaborando tutta quella cosa, ma presto, dopo che ebbero elaborato, s'aprì il portone di metallo, e una figura, confusa nell'oscurità e tutta bluargentata, emerse come da un calderone puzzolente.
         << Avete chiamato il Grande Scienziato! >> pronunciò una voce maestosa, << ed eccolo qua per voi! Ciao Luca! >>
         << Lucius, il Signor Male è qui vicino. Lo sento. >> Lucius estrasse qualcosa dal mantello – era un odorasniffo, uno degli ultimi brevetti dello scienziato: una lucina blu si sarebbe illuminata sul pannello qualora in giro c'era qualcosa di malvagio, e, magia dell'ultimo aggiornamento, una lucina rossa avrebbe invece segnalato la presenza particolare del Signor Male, che aveva un suo odoraccio tutto suo, e lo potevi sentire già senza l'odorasniffo se era nei paraggi, sempre che ti avesse lasciato il tempo d'annusarlo, mica tutti c'hanno un arco alla criptonite per difendersi, e voglio dire.
         Comunque, manco a dirlo: la lucina che faceva luce non era mica quella blu. I due si guardarono, limitandosi a far sì colla testa, come Bruss Willis. Si misero d'accordo su alcune faccende preliminari – perché a una certa ora si deve pur andare a mangiare, pure i supereroi lo fanno, e fanno pure i compiti –, e infine si mossero, seguendo il punto viola che brillava sul vetro del radarduepuntozeroics, ch'era proprio una meraviglia. Stavano bassi, perché lo sapevano che il Signor Male avrebbe colpito senza un minimo di pietà, quasi a tradimento, quel minchione, con quegl'occhiacci neri come il peccato. Fecero parecchia strada, non c'era nessuno, l'aria cattiva aveva cacciato ogni forma di vita, e restavano soltanto loro – loro, perché qualcuno li dovrà pur fare i lavori sporchi! E loro, nell'ombra, accontentandosi di non ricevere nemmeno una piccola gratificazione, e di combattere per la Federica Lucchiari, ma anche per la Barbara e la maestra, si prendevano ben volentieri sulle spalle il peso dell'umanità – ma ecco, il radarduepuntozeroics prese a squillare, e a vibrare tutto, e se Lucius non l'avesse spento gli sarebbe esploso in mano. Si guardarono, annuendo come sanno fare loro.
         << Il momento è arrivato >> cominciò Lucius, << il nostro momento. >> Si guardò intorno, come se dovesse salutare per sempre quei luoghi a loro cari. Ma a lui non gli piacevano le scene sentimentali, e le avrebbe barattate volentieri per qualche bomba in più. Prese allora l'iniziativa, e avanzò oltre l'angolo, dove il radar aveva segnato che c'era il Signor Male. Che ansia, cristoddio, pareva d'essere alla finale di campionato!
         Ma là dietro non c'era niente e nessuno.
         << Gli apparecchi devono essere andati in tilt per l'aura di malvagità che c'è in questa zona. Ma lui dev'essere qui, senz'altro. Cerchiamolo. >> Lucius la sapeva lunga, di quegli aggeggi.
         << Magari è a fare una passeggiata con Toni >> propose a bassa voce lui. Lucius si mise pensieroso.
         << Può darsi... >>, ma giusto in quel momento, emerse una figura diabolica da dietro la siepe, che c'era sicuramente andato a fare le sue malefatte, il cane!
         Il Signor Male li guardò con quell'aria truce che avrebbe spaventato ogni Enrico Maffizzoli di questo pianeta, ma che a loro gli lasciava impassibili come mummie. Fece uno di quei versi che faceva lui, quasi un latrato, e Lucius, che da scienziato era fatto più per la teoria che per la pratica, fece un passo indietro, il fiataccio del nemico gli aveva tirato indietro tutti i capelli, e gli aveva impiastricciato tutta la faccia.
         << L'arco, usa l'arco! >> si mise a gridare, come sempre, non c'era più tempo per giocare. E allora egli incoccò la freccia, tese l'arco, socchiuse gli occhi, prese la mira e...
         Oddio, m'è scappata la corda!
         Si voltò, Marco aveva due occhi che pareva un paguro, che era successo? Sentiva dei versi striduli, come dei guaiti. Dalla parte dov'era andata la freccia c'era qualcosa per terra. Marco non riusciva a muoversi, come se la colla del suo vestitino di cartapesta gli immobilizzava anche le braccia. In tutto il quartiere c'erano movimenti, stavano per venire a metterli in prigione, dove nemmeno sua madre – sua madre, sua madre, sua madre! Bisognava scappare, non erano stati loro. Poi le frecce le aveva fatte quel paguro di Marco, che si vestiva pure da idiota per far quella cosa. E lui che c'entrava? Era stato sfortunato, mica che non può succedere...? Anche suo padre tirava le frecce, quand'era giovane, che gliel'aveva fatto praticamente lui quell'arco, e lui se n'era stato a guardare. Ma perché, perché, perché...? Era poi giusto che gli capitassero quelle cose? E tu levami quegli occhi di dosso, che c'entri pure tu! E se ne scapparono, ciascuno per la sua via, che ci verranno a scoprire senz'altro, e quell'arco bisognava buttarlo via subito, maledetto stupido arco!
         Nel giardinetto, il povero Signor Male muoveva ancora la zampetta, guaendo ogni tanto come un vecchio brontolone. Ad un certo punto mise il capo per terra, con quegli occhioni, e le orecchie che gli ricadevano come lingue sulla guancia, e fece per addormentarsi.
         << Tobia! Ma che t'è successo? Chi t'ha piantato quella freccia nello stomaco?! >>
         Per i lettori sensibili, meglio chiarire: sopravvisse.

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Capitolo 4
*** Silenzio ***


Silenzio

 

La strada che procede verso Feste, passando per Sant’Olena, è di quelle spesso trafficate, abbastanza larghe, che permettono che vi si viaggi abbastanza velocemente. Venendo dal centro di Altarino si deve passare per via degli Alpini, se si va verso la città festense, dove sulla sinistra della strada l’occasionale guidatore avrebbe la breve visione di una piccola e graziosa chiesina (il piccolo santuario dell’Assunta), sempre chiusa e silenziosa, che solo i riflessi più incantati della primavera e quelli più trasognati dell’inverno sanno addobbare di magnifico.
         Un giorno fu visto un uomo, che procedeva a piedi carico di borse, zaini e valigie, fermarsi davanti l’esile figura del santo edificio. Tentennava come davanti l’abisso di un’importante decisione, ma infine, avvicinandosi alla porta sempre chiusa a chiave, prese a bussarvi con una certa timidezza – una timidezza che non avrebbero colto i passeggeri delle sfreccianti automobili che correvano per la strada. Aveva l’aria di un bambino castigato quando, rinunciando all’idea che la porta si aprisse, si levò dalla schiena la chiocciola dei suoi zaini e delle sue borse, e si abbandonò su una panchina lì vicino, rivolta verso il piccolo edificio. Nell’eco dell’asfalto strisciato dalle gomme e di un latrare lontano sembrò che si assopisse, quasi che una farfalla si fosse posata sulla sua fronte, coprendo con un grazioso movimento delle ali i suoi occhi.
         Al negozio di alimentari di Piero entravano gli ultimi clienti. Il campanellino posto sulla sommità della porta aveva preso a suonare sempre meno, sempre più il tempo passava, e gli sbadigli della moglie del bottegaio avrebbero svegliato chi si fosse già addormentato. A quelle ore all’alimentari si respirava una certa atmosfera di desolazione, si percepiva un vuoto proibito, che era meglio non indagare. Vi era un senso particolare di attesa, ma un’attesa misera, che si sapeva incapace di produrre alcunché. Eppure il silenzio aveva un che di cosmico, e nel ronzio ininterrotto dei frigoriferi si percepiva il mistero di un significato superiore. Lo scampanellio educato della porta che veniva aperta destò Piero dalle sue meditazioni.
         << ‘Sera! >> salutò l’ometto che era appena entrato. La moglie di Piero lo accolse con un sorriso illucidato delle lacrime del sonno. << E allora? >> chiese l’ometto alla bambina che tentava di nascondersi dietro la sua mole. << Non saluti Piero e la Patrizia? >> Tutti si lasciarono sfuggire sospiri deliziati quando la piccola tolse da dietro la schiena una manina paffutella e l’agitò davanti al viso in un inconfondibile saluto bambinesco. << Sono qua per poco >> disse l’ometto, passandosi una mano sul capo, dove compariva, tra due catene di radi riccioli, una chiarissima pelata.
         Piero fece spallucce, come a dire che poteva restarsene lì quanto voleva. << Cosa ti do? >> chiese Patrizia, pulendo gli occhiali con un fazzoletto. << Siamo qua per un po’ di gelato, non è vero? >> chiese l’ometto, ottenendo come risposta che la piccola bambina si illuminasse tutta nello sguardo e si facesse più spavalda, muovendo qualche passo verso il bancone. << Come vai a scuola? >> chiese Piero, mentre Patrizia, con un sorriso di tra le labbra, ciabattava verso il frigorifero dei gelati. La bambina non disse nulla, si limitò ad una espressione vagamente terrorizzata, che scatenò una confusa accozzaglia di risate.
         << Eh beh, >> disse Piero << vedrai che crescendo incontrerai i seri, veri problemi della vita. >> Da fuori venne il rauco e lontano abbaiare di un cane. Patrizia tornò presto. Dopo che il conto fu pagato, e l’entrata fu nuovamente sigillata dalla scampanellio della porta, uscì dalla bottega, dicendo che si sarebbe fatta una doccia. Piero rimase il tempo necessario per chiudere le luci e sistemare alcuni prodotti che erano stati riposti disordinatamente sugli scaffali.
         La luce diafana della luna lo bloccò, dov’era, davanti le vetrine che davano sulla strada. Sotto l’ombra minacciosa del piccolo santuario dell’Assunta notò una sorta di strano fagotto, che giaceva su una panchina del piccolo piazzale. Lì rimase, immobile, a contemplare il suo vago, rarefatto riflesso sul vetro della bottega, senza osar muovere lo sguardo verso il piazzale della chiesa.
         Poi, qualcosa, un movimento. Dalla panchina scivolò qualcosa, a peso morto, sembrava un grande sacco.
         No, era un uomo.

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