But we don't even know what love could do to us

di Aine Walsh
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Alex ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Amanda ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - Alex ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - Amanda ***
Capitolo 5: *** Capitolo V - Alex ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI, prima parte - Amanda ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - Alex ***


Ad Emm's,
che mi sopporta e che non conosce bene gli ATL xD
Non vedo l'ora che arrivi il 12 <3

But we don’t even know
what love could do to us

 
 

Capitolo uno - Alex
 
In quella calda giornata di metà Giugno l’aeroporto straboccava di gente da tutte le parti, come se le vacanze estive fossero state anticipate per tutti. C’era chi saliva e chi scendeva dalle scale mobili, chi entrava e usciva dai gate, chi salutava amici e parenti con un «Torno presto» e chi esclamava trionfante «Sono tornato!», chi perdeva tempo passeggiando tra i negozi o sorseggiando qualcosa allo Starbucks e chi si affrettava per paura di non riuscire a prendere il volo, e così via.
Ma posso assicurare che tutti, proprio tutti, erano in compagnia.
Eccetto me, naturalmente.
Da più di un’ora e mezza ero seduto su una panchina nell’ala degli arrivi, non facendo altro che aspettare che quel dannato aereo atterrasse.
Avevo ormai perso ogni speranza, mezzo addormentato sul freddo sedile in metallo, quando finalmente dagli speaker venne annunciato che il pilota era finalmente riuscito ad arrivare.
Felice come una Pasqua, mi ridestai da quello stato di semi incoscienza e mi diressi verso il gate indicato, abbastanza elettrizzato.
L’attesa sembrava prolungarsi ancora e non finire mai, da quella porta scorrevole usciva gente di ogni sesso ed età, e io guardavo i volti di tutti in modo interrogativo, quasi a pregarli di dirmi dove si fosse cacciata.
Quando alla fine la vidi.
I riccioli color mogano erano allungati parecchio rispetto a come li ricordavo, arrivandole fin sotto il seno, coprendolo; ben fissati sulla testa, come da suo solito, portava un paio di Carrera rosso fiammanti che impedivano ai capelli di ricascarle sugli occhi castano dorato.
Indossava una canottiera a strisce bianche e blu e un paio di jeans che le arrivavano fino a metà coscia, e si muoveva lentamente mentre, con l’aria smarrita, muoveva il capo a destra e sinistra per cercare di trovarmi in mezzo a quella folla.
La chiamai due o tre volte, ma la gente era talmente tanta che il suono delle loro voci messe insieme ricopriva la mia. Feci per avvicinarmi e notai che aveva lo sguardo fisso nella mia direzione, così alzai subito la mano e lei annuì venendomi incontro.
Aprii le braccia, già pronto ad abbracciarla; peccato solo che il saluto fu lontanamente diverso da quello che mi aspettavo.
Un calcio allo stinco. «Stronzo!» esclamò.
E non aveva tutti i torti.
Amanda Blair Morris, ventidue anni. Nata da padre americano di Baltimora e madre italiana, da otto anni risiedeva a Roma, Città Eterna, ma era stata invitata dal sottoscritto a trascorrere l’estate negli USA.
Ed era la mia migliore amica.
«Che ho fatto?!» domandai toccandomi la parte indolenzita.
«Questo è il punto: niente! Quante mail ti ho mandato?».
«Tante…».
«E tu a quante hai risposto?».
Domanda a trabocchetto.
Mi rialzai cercando di trovare risposta, quand’ecco che mi diede un altro calcio nell’altro stinco.
«Cazzo, vuoi piantarla?!».
«Perché dovrei? E’ quello che ti meriti per aver abbandonato la tua migliore amica».
«Io non ti ho abbandonata!» protestai.
Dal modo in cui mi guardò capii subito di averla detta grossa.
«Senti, - cominciai - è vero, negli ultimi tempi sono stato un po’ assente...».
«Diciamo pure negli ultimi nove mesi» corresse.
«Nove mesi? Com’è possibile, non è vero!».
Altra occhiataccia. Sospirai.
«Ok, hai ragione e ti chiedo scusa, d’accordo? Però tu lo sai, questo è un lavoro sporco, bello, ma sporco, e non ho più il tempo di stare con la mia famiglia e vedere i vecchi amici... Figurati che saranno secoli dall’ultima volta che ho visto mia madre!».
«Punto primo, io non sono i “vecchi amici”; punto secondo, tua madre non abita così lontano come vuoi farmi credere».
Sorrisi divertito. «Non ti sfugge niente, eh?».
«Affatto» rispose lasciando intravedere un po’ i denti bianchi mentre sorrideva a sua volta.
Potei guardarla per un istante negli occhi prima che mi si lanciasse contro gettandomi le braccia al collo.
«Dio, quanto mi sei mancato, Alex!» sussurrò al mio orecchio.
«Anche tu, Amy, anche tu», l’abbracciai forte di rimando. «Adesso andiamo, su. Sembra tanto la scena di un film romantico e non ho voglia di apparire sulle copertine dei giornaletti per adolescenti con gli ormoni in subbuglio, specie se la ragazza accanto a me è quel mostro della mia migliore amica» sentenziai mentre afferravo il carello con i bagagli e iniziavo a spingerlo verso l’esterno.
«Ai suoi ordini, popstar. Ah, e per la cronaca, tu accanto a me puoi solo essere invidiato» ribatté con una palesemente finta aria di superiorità.
La guardai scettico attraverso gli occhiali. «E perché dovrei?».
«Mi pare ovvio! Perché sei vicino ad uno splendore del genere, no?».
Ridemmo entrambi a quella sua battuta.
«Uhm, pensare che ricordavo avessi un basso livello di autostima».
«Ricordi bene, tranquillo. Anche se la mia autostima non è ad un basso livello, è solamente sei piedi sotto terra... O forse anche più giù».
La guardai mentre camminava al mio fianco, chiedendomi perché si ostinasse ancora a credere di essere brutta. Alta, slanciata, forse le cosce erano leggermente più grosse, ma chi se ne importava, non era mai stata orrenda come si descriveva.
«Per favore, evitami i tuoi drammi esistenziali. Vuoi che te lo dica? Te lo dico, va bene: sei un cesso. Contenta?».
«Povero Alex, sono appena arrivata e già gli faccio dare di matto. - rise battendomi qualche pacca sulla spalla - Tranquillo Will, mi comporterò bene in questi due mesi e mezzo. Piuttosto, parliamo di te adesso; come va con la band e tutto il resto?».
Caricai la prima valigia nel cofano. «Non ne sai niente?».
«Lo stretto indispensabile. Aspettavo di sentire tutto dalla tua bocca».
«Beh, abbastanza bene. I Feel Like Dancin’ se la sta cavando per niente male al momento, e abbiamo già in progetto un tour di quattro o cinque mesi che dovrebbe iniziare a Gennaio. Ultimamente tutti non fanno altro che ripeterci che abbiamo ormai scalato quasi tutto l’Everest e stiamo per arrivare in cima».
Vidi uno scintillio nei suoi occhi e fui certo di avere la sua stessa espressione dipinta sul volto.
«Tutto questo è stupendo, parola di R.U.P.R.» disse. 
Un lontano ricordo mi investì dritto in faccia e istantaneamente mi sembrò di vedere proiettato in bianco e nero quel momento su di un grande telo.
«R.U.P.R., Raccattatrice Ufficiale di Peluches e Reggiseni. Te lo ricordi ancora!» esclamai sorpreso.
«E non sono la sola».
«Non potrei mai dimenticarlo. Di groupie ce ne sono tante, ma di R.U.P.R. ce n’è una sola. In pratica è un modo carino e originale per dire che sei disposta a seguirmi dappertutto ma che non vuoi farti sbattere...».
«Oh, Alex!» sbottò sdegnata.
«...O almeno, che non lo vuoi da me». Presi a ridere a gran voce, intanto che le sue guance si tingevano di rosso scarlatto.
«E con questo che vuoi dire?», la sua voce uscì imbarazzatissima e quasi mi pentii di aver fatto quella battuta. Quasi, però.
«Niente». Le aprii lo sportello, feci il giro della mia auto e andai ad occupare il posto guida.
Restammo in silenzio per qualche minuto; l’unico suono tra noi erano le parole di una canzone alla radio che non conoscevo e il rumore del motore.
Le lanciai un’occhiata di sbieco per cercare di capire dal suo viso se fosse offesa o cosa.
Aveva la testa poggiata contro il vetro del finestrino, assorta in chissà quali pensieri mentre, come faceva sempre quando rifletteva, si rigirava una ciocca di capelli tra le dita. Più che arrabbiata, mi sembrava solo avesse una gran voglia di dormire.
«E con Giò come va?».
«Giò?» domandò stranita.
«Ma sì, Giò… Sai, no? Il tuo ragazzo…».
Sentii che mi stava guardando. Sbuffò rumorosamente prima di dire: «Cercherò di evitare di dirti che probabilmente te ne sei fregato altamente di quella mail come probabilmente anche di tutte le altre che ti ho scritto, e questo spiegherebbe anche perché non mi è mai giunta nessuna parola di conforto da parte tua… Ma ho detto che non te lo dirò, e quindi vado dritto al sodo. Ci siamo lasciati. Quattordici mesi fa per l’esattezza».
Che ero nella merda, non ci voleva molto a capirlo. Mi rimproverai di essere una dannata testa di cazzo, Zack me lo diceva sempre e finalmente capii che non aveva tutti i torti.
Non sapendo cosa poter dire - sarebbe stato inutile azzardare qualcosa - me ne restai zitto, concentrandomi sulla strada che mi scorreva sotto le ruote.
Dopo un po’ Amanda continuò. «Ti ricordi Marta? La mia affezionata vicina di casa? Ecco, più che a me, era affezionata al mio ragazzo. E anche lui le voleva parecchio bene».
Mi sentii terribilmente dispiaciuto nell’ascoltare quelle parole, ma mi faceva più male sapere di non essere stato con lei in quel momento e neppure di essermi fatto sentire per consolarla.
Mi complimentai con me stesso per averla abbandonata con una grande quantità di improperi mentali.
«E’ un coglione. - sentenziai infine - Uno che tradisce una ragazza come te, o è coglione o è coglione, non c’è alternativa. Che mai avrà visto in quella lì? E’ una sciacquetta! Un cesso! Ed è pure piatta, oh sì. Tu sei di gran lunga meglio, non c’è dubbio! Cioè, poi vorrei ben dire…».
«Alex, - mi interruppe con calma e dolcemente - ormai è passato, anzi, trapassato. Non c'è più motivo di arrabbiarsi. Quel bastardo mi ha tradito con quella troia, però è meglio così, fidati. Ormai il peggio è stato superato».
«Sono contento di sentirti parlare in questo modo, ma... - sospirai - Mi dispiace di non esserti stato accanto».
«Non preoccuparti. Per stavolta è andata e ti perdono, ma ti consiglio vivamente di stare attento alla prossima», abbassò leggermente gli occhiali e schiacciò l’occhio destro.
«Quindi adesso sei single?».
«Assolutamente. Libera, allegra e spensierata come quando avevo quattordici anni».
Sorrisi, «La California sarà piena di bei fusti, ne sono sicuro. Anche se nessuno potrà mai essere più figo di me, è ovvio...».
«Aspetta, la California?» domandò con non poco stupore nella voce.
«Si dà il caso che io e ragazzi abbiamo deciso di affittare una casa vacanze dall'altra parte dello Stato, e dato che tu sei con me...».
Attimo di pausa. Ero pronto ad aspettarmi che la bomba scoppiasse e che la sua felicità uscisse fuori.
«Oh. Mio. Dio. Oh mio Dio! Questo è fantastico! Dove andiamo?».
«L.A., baby!» urlai energicamente in risposta.
«Los Angeles! Alexander William, io ti adoro!» esclamò scuotendomi freneticamente per un braccio.
Era una bella giornata soleggiata e fra un’ora circa saremmo arrivati al JFK di New York, dove avremmo preso un aereo che in serata ci avrebbe portati lontano da lì.
Andava tutto a meraviglia e avevo la stupenda sensazione che niente, proprio niente, sarebbe riuscito a rovinarmi quell’estate passata a prendere il sole con la mia migliore amica di sempre su una dorata spiaggia di Los Angeles. 


 


Cry me a river...

Bonsoir! Prima volta che pubblico qualcosa in questa sezione...
Prima di tutto, cosa abbiamo capito da questo primo capitolo?
1. Che è estate (magari *__*);
2. Che Alex e Amanda sono migliori amici;
3. Che passeranno le vacanze in California;
4. Che io sono una schiappa e mi ostino ancora a scrivere.

Allora, beh... Le NdA mi mettono sempre in crisi, lo ammetto T.T
Ah, ecco! Il raiting è giallo per via del linguaggio (se dovesse darvi fastidio ditemelo, ok? u.u) e per nient'altro.
E poi, si vedrà, si vedrà...
Sto iniziando a dare di matto (sarà colpa della nomination degli ATL ai Grammy *_*) e credo sia meglio che vada...
Tanti cari saluti e tante grazie a chi si filerà 'sta cosa,

A.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II - Amanda ***


Capitolo due - Amanda
 
Il viaggio fu abbastanza lungo e stancante, non tanto per Alex, ma quanto per me, povera vittima del jet lag che iniziava a sentirne gli effetti.
Non ricordo com’è che mi addormentai, so solo che quando riaprii gli occhi mi accorsi di essere poggiata contro la spalla del mio migliore amico, che sonnecchiava pure.
Da quella stessa posizione volsi lo sguardo in direzione del finestrino e mi rallegrai nel notare che stavamo cominciando a scendere; poco dopo la voce dell’hostess ci avvertì di prepararci per la discesa.
«Hey, siamo quasi arrivati» mormorai eccitata scrollandolo per una spalla dopo che tornai a sedermi.
Will aprì pesantemente un occhio, sbadigliando: «Questa è una cosa buona».
Attraverso l’oblo vedevo la città californiana allargarsi sempre più, fino a poter distinguere qualche grattacielo che si alzava possente dalla grande macchia grigiastra che tanto risaltava accanto al blu dell’oceano. Sorrisi di me stessa nell’aver pensato di paragonare quel panorama a un ingrandimento effettuato con Google Earth.
Più o meno due ore più tardi eravamo a bordo della Mini Cooper che la band aveva preso a noleggio per il periodo estivo, intenti a cercare di capire dove fosse la casa che ci avrebbe ospitati.
La situazione era abbastanza critica, almeno per noi due che ne eravamo coinvolti: da parecchio, infatti, giravamo in lungo e largo nei dintorni di Malibù, arrangiandoci di trovare la strada giusta da soli - considerato il fatto che il navigatore nel telefono del Gaskarth fosse totalmente fuori uso.
Alex continuava a guidare, ormai del tutto scazzato di girare intorno come un deficiente e infuriato del clamoroso fallimento del suo ipertecnologico cellulare, intanto che io guardavo in ogni direzione, desiderando con tutta me stessa di scorgere quel benedetto numero quindici inciso su qualche muro.
Invece, notai una stradina seminascosta che non mi sembrava proprio avessimo percorso. Indicai perciò quella viuzza coperta dagli alberi al mio compagno d’avventura, che la imboccò sperando in un miracolo. La strada era dritta, delimitata a destra da alti alberi che non permettevano di vedere la villa affianco e a sinistra da una palizzata in legno bianco, oltre la quale potevamo vedere l’oceano.
«Questa zona mi sa tanto di ricchi snob» commentò un po’ infastidito spostando lo sguardo.
«Ho la stessa identica sensazione... In fondo però che ce ne importa?».
«Assolutamente nulla, a meno che non interrompano i nostri festini» ridacchiò.
Risi insieme a lui, girandomi per guadare la strada di fronte appena un attimo prima che finissimo contro un enorme cancello in ferro bianco lucido.
«Alex frena!» gridai.
Con una mossa che avrebbe potuto fare invidia allo stesso Michael Schumacher, il ragazzo fermò l’auto in tempo, facendo urtare appena il cofano anteriore contro quel ferreo rettangolo.
Rimanemmo zitti per un minuto o due, semiparalizzati e con gli occhi sgranati.
«La prossima volta guarda la strada non il paesaggio, ok?!» lo rimproverai spaventata.
Nonostante il mio tono di voce ciò che dissi non sembrò nemmeno lontanamente interessargli, e quando mi voltai per vedere se si fosse ripreso dallo stato di paralisi lo trovai immobilizzato, sì, ma l’espressione di terrore era stata sostituita da un sorrisetto allegro, con lo sguardo perso davanti a sè.
«Quindi... Siamo arrivati» sentenziò infine.
«Arrivati?!».
Chi poteva dirlo che stavamo per avere un incidente contro l’entrata della nostra nuova casa?
Nel giro di una manciata di secondi avevamo già parcheggiato l’auto in garage e ci trovavamo davanti la porta, aspettando che Alex pescasse le chiavi dal borsello che portava a tracolla.
Dall’esterno la casa, o per meglio dire la villa, appariva molto grande e lussuosa: i muri erano bianchi e forati a intervalli regolari da grandi finestre chiuse che non vedevo già l’ora di aprire - da grande amante della luce che sono sempre stata. Il giardino tutt’intorno era verde brillante e ben curato e quando mi accorsi della grande altalena un sorriso mi comparve sulle labbra.
Una volta visto l’interno, non potei più smettere di continuare a chiedermi chi fosse quel ricco folle che affittava una casa del genere.
Appena entrati, ci ritrovammo dentro un grande salone rettangolare, il cui fondo non aveva un muro, ma una lunga vetrata che dava direttamente sull’oceano. Il salotto era grande e tutti gli arredamenti - divano, poltrone, tavolino, cuscini, e via dicendo - erano bianchi e color sabbia. La parete di destra era riempita da un grande televisore appeso e circondato sotto e ai due lati da custodie di Dvd, anche questi incassati. All’opposto, la parete di sinistra era occupata da una porta in legno chiaro, dietro la quale scoprii poi esserci la camera turchese che scelsi come mia stanza personale durante tutta la permanenza.
Dopo qualche minuto di silenziosa meraviglia, abbandonai le due valigie e lasciai cadere con un tonfo i due borsoni che portavo sulle spalle, iniziando a correre su e giù, dappertutto, esaltata.
La cucina, le camere da letto, persino i due bagni e lo sgabuzzino, tutto in quella casa era luminoso, confortevole e bello, ogni cosa sapeva di caldo, di estate, e in quei momenti credetti di non poter mai essere più euforica in vita mia.
Quando sentii la voce di Alex chiamarmi dal piano di sotto scesi in fretta le scale e lo trovai fuori, nel terrazzo che avevo solamente visto di sfuggita, senza farci troppo caso.
Anche la terrazza, ovviamente, era molto ampia e spaziosa, arredata con poltrone in vimini e sdraio in legno.
«Non ringrazierò mai abbastanza Matt e Rian per questo» disse quando fui dietro di lui.
Gli appoggiai una mano sulla spalla, guardando l’orizzonte davanti a me.
Sembrava una scena da film: il sole ormai quasi tramontato, una brezza leggera che ci scompigliava i capelli e il cielo che iniziava a scurirsi sopra di noi.
Una lieve gomitata al braccio mi riportò alla realtà; alzai lo sguardo in direzione di Alex che mi indicò con il capo una scala che non avevo notato e che collegava la villa alla spiaggia sottostante.
Uno sguardo complice e un mezzo sorriso furbo bastarono a farci correre veloci giù per la rampa, dritti verso la distesa blu dove ci tuffammo senza troppe esitazioni.
L’acqua era fredda ma piacevole, e poco mi importava di fare il bagno con i vestiti indosso; stavo lavando via tutta la stanchezza della giornata e le sofferenze degli ultimi tempi, quelle che mi avevano portato ad accettare immediatamente la proposta del mio migliore amico - oltre al fatto che mi facesse un grandissimo piacere rivederlo e che gli volessi tantissimo bene.
Non nuotavo, rimanevo a galla senza muovere un solo muscolo e mi lasciavo trasportare dal movimento lento delle onde, così, alla deriva, leggera e spensierata.
Mentre ammiravo il cielo, non seppi come, mi ritrovai improvvisamente sott’acqua tirata dalla caviglia sinistra, e poco ci mancò che bevessi tutto l’oceano. Riemersi come andai a fondo, senza preavviso, e solo dopo aver tirato un paio di profondi respiri, mi accorsi di trovarmi sulle spalle di Alex, che camminava verso la riva.
«Potevo morire, lo sai?» chiesi, senza alcuna traccia di rabbia o rimprovero nella voce.
«Lo so. Ed effettivamente, ora che ci penso, mi sto chiedendo perché ti abbia tirata su».
«Sei sempre stato molto gentile nei miei confronti, devo ammetterlo».
«Non ti sta più bene? Se vuoi posso provare ad essere quel tipo di migliore amico tutto abbracci soffocanti e parole idiote...».
Frecciatina colta.
«Sappi che se ti stai riferendo alla mia prima adolescenza, Alex, ripensa alle tue paranoie e al tuo essere quasi perennemente depresso, prima di prendere in giro me».
Quando finii di parlare eravamo già sul terrazzino, dove William mi fece scendere dalle sue spalle per poi sedersi su una sdraio. Presi posto accanto a lui mentre mi spostavo i capelli bagnati dal viso.
«Io e te non siamo una coppia normale» sorrise.
«Spiegati».
«Siamo fuori dal comune».
«Nel senso?».
«Nel senso che siamo troppo diversi».
«Gli opposti si attraggono» risposi in uno dei miei momenti di saggezza.
«Già».
Silenzio.
«E allora?» domandai.
«Cosa?».
«Perché siamo fuori dal comune?».
«Perché siamo diversi. Cioè, di solito gli amici non si comportano come noi due, non continuano ad insultarsi a vicenda...».
«Caro Alexander William, lasciami dire due cose: la prima è che penso proprio sia meglio così, immagina che tipo di amicizia sarebbe se ci comportassimo in modo... Più serio, ecco. Io e te! Seri! Ma ci pensi?» mi interruppi per ridere insieme. Avevamo più di vent’anni e continuavamo ancora a comportarci come se fossimo dei piccoli adolescenti stupidi e insensati; ricorrevamo alla serietà solo nei momenti di massima urgenza. «Seconda cosa, - continuai - più che coppia, io ritengo che noi siamo un duo, sì. “Coppia” suona in un certo modo... “Duo” sa più di complicità invece».
«E anche se sono irresistibilmente irresistibile, devo ammettere che la parola non si rifà al nostro caso».
«Vedo che hai capito, bravo!».
Si battè un indice sul mento, riflettendo. Alla fine esordì - realmente convinto di ciò che diceva: «Perciò siamo come Stanlio e Ollio...».
«Dio, Lex! Stanlio e Ollio no!» risi a gran voce tenendomi la pancia.
«Proponi tu, allora, sono curioso».
Mi morsi il labbro inferiore cercando di pensare a qualcuno che potesse somigliarci, ma non mi venne in mente nulla di appropriato.
«Ci penserò e ti farò sapere» conclusi alzandomi.
«Dove vai?».
«A fare una doccia» risposi ormai in salotto.
Mi presi tutto il tempo necessario - forse anche un po’ di più - e quando allungai una mano per prendere l’accappatoio, non trovandolo, mi ricordai di averlo lasciato dentro la valigia che non avevo ancora disfatto. Dovetti accontentarmi di prendere un telo bianco lì accanto al lavandino e di avvolgermelo intorno al corpo.
Altro problema: avevo abbandonato valigie e borsoni davanti alla porta d’ingresso.
Uscii dal bagno e mi insospettii subito del fatto di non udire alcun rumore; la televisione era spenta e, sbirciando dalla vetrata, Alex non era fuori. Cominciai a chiamarlo mentre mi avvicinavo alle scale, pensando che magari si trovasse sopra.
«Lex, tutto a posto? Lex? Dove sei? Al... Ah!».
Accadde tutto in un istante.
Per la seconda volta in quel giorno, mi ritrovai nuovamente sollevata da terra, fra le braccia di qualcuno che si divertiva come un matto a scuotermi a destra e sinistra. Quando finalmente quella muscolosa persona si decise a lasciarmi, mi sentii come in preda ad un brutto attacco di mal di mare.
Mi presi la testa fra le mani, voltandomi mentre sbottavo irritata: «Si può sapere che ti è pres... Zacky!». Il tono di voce iniziale cambiò radicalmente nel pronunciare l’ultima parola.
Il bassista palestrato dagli occhi chiari mi stava di fronte in tutta la sua statuaria figura, ridendosela come un matto. «Povero Gaskarth, non trattarmelo male» rise un’altra voce.
«Rian!» esclamai vedendo apparire anche il batterista.
«Che vuoi farci, a suo dire la causa di tutte le catastrofi sono io» borbottò Alex.
Rivolsi un sorriso al mio offeso migliore amico prima di andare incontro a quei due energumeni appena arrivati per abbracciarli.
«E’ bello rivederti, Amy», Merrick.
«Anche per me, ragazzi. Ma non dovevate arrivare la prossima settimana?».
«Abbiamo deciso di farti una sorpresa», Dawson.
Quei due erano la dolcezza fatta persona, giuro.
Dopo che sciogliemmo lo stretto abbraccio e mi guardai intorno, mi resi conto del fatto che fossimo quattro invece che cinque e perciò chiesi: «E Jack?».
«Eccomi» rispose facendo il suo ingresso.
Vestito con jeans scoloriti e strappati e una maglia blu, avanzava verso di me con calma insieme alla sua abbronzatura e al suo luminoso sorriso.
Non ho sentito campane a festa, non ho visto i fuochi d’artificio e non mi sono sentita svenire: semplicemente, ho avvertito un improvviso senso di confusione e felicità insieme, miste ad una strana leggerezza.
Sorrisi a mia volta, e notai subito che era un sorriso diverso da quello che avevo rivolto a Zack e Rian, diverso anche da quello che avevo serbato per Alex, ma non comprendevo esattamente in cosa si differenziasse.
Da quando Jack era diventato così... Così sexy, ecco?
E da quando io mi sentivo un’adolescente inesperta alla prima cotta?
Lo vidi allargare le braccia ed ero pronta e preparata già alla sola idea di farmi stringere da lui, fino a che non si fermò a un passo da me e mi squadrò dal basso verso l’alto, e spostare poi lo sguardo dal mio viso al mio petto.
«Vatti a vestire, svergognata!» esclamò divertito.
Gli altri presero istantaneamente a ululare dalle risate, mentre io, afferrando al volo un borsone, correvo con le guance in fiamme verso camera mia strillando con quanto fiato avevo in corpo: «Barakat, sei un fottuto pervertito!». 



Oooh, she's got a ticket to Ride... She's got a ticket to Ri-i-de...

Buondì! :D
Alors, la situazione mi sembra chiara... E qualora aveste domande, queste saranno chiarite nei prossimi capitoli, tranquille :)
Per il resto... Beh, mi auguro che questo capitolo vi sia piaciuto, tutto qui.
Grazie ancora a tutti :D

A.

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Capitolo 3
*** Capitolo III - Alex ***


Capitolo tre - Alex
 
I miei occhi si aprirono di scatto, come fossero indipendenti, per via del ticchettare contro la finestra. Do un’occhiata all’orologio e vedo che sono le otto passate, quasi le nove, ma la stanza non è illuminata a giorno: mi alzo per spostare le tende e guardare fuori, con una brutta sensazione.
«E che cazzo!» protestai.
Pioveva. A Los Angeles pioveva per la prima volta dopo settimane. Era estate, c’era un caldo così soffocante che a stento permetteva di respirare e fuori pioveva a dirotto. Pioveva durante il mio primo giorno di vacanza.
Meraviglioso, no?
Sbuffai rumorosamente e mi stropicciai gli occhi con i palmi delle mani, feci un salto al bagno e andai in cucina dove un intenso odore di caffè mi mandò in tilt il cervello.
Amanda era appoggiata contro il muro e sorseggiava una tazza di caffelatte - non lo vidi, ma ne ero certo perché ha da sempre odiato bere caffè liscio - con lo sguardo perso nella vetrata davanti.
Il cielo era coperto di nubi grigio piombo e l’oceano sotto si muoveva impetuoso, scosso dal vento che spirava forte.
«E’ affascinante, non è vero?».
«Oh, certo» ironizzai.
Mi stampò un bacio sulla guancia a mo’ di buongiorno. «Sai che amo i giorni così».
«Le catastrofi naturali ti sono sempre piaciute, effettivamente» osservai sedendomi dietro il tavolo.
Fece il giro e mi si posizionò di fronte, passandomi una confezione aperta di brioches intanto che si copriva la bocca con una mano, sbadigliando.
«Gli altri dormono tutti?» domandai per spezzare quell’assonnata assenza di parole.
«No, solo Jack. Io, Rian e Zack siamo svegli da almeno un’ora e mezza».
«E dove sono loro adesso?».
«Hanno deciso di sfidare la tempesta per andare alla ricerca del bagaglio smarrito del Dawson».
«Quindi sono all’aeroporto?».
Mandò giù l’ultimo sorso di caffelatte. «Sì, e hanno anche l’auto...».
«E noi siamo bloccati qui. Iniziamo bene» conclusi addentando con ferocia una brioche - cosa che non passò inosservata ad Amy, che mi guardò perplessa - per sfogare quel minuscolo groppo di rabbia che stava cominciando a formarmisi dentro.
Rumore di passi lenti e strascinati per le scale: non poteva essere nessun altro se non Bassam. Ci raggiunse, buttandosi a sedere accanto ad Amanda intanto che biascicava qualcosa di incomprensibile, ma ero abbastanza sicuro del fatto che stesse dicendo «Buongiorno».
«Jack Barakat, la voglia di vivere fatta uomo» commentai provocando le risate della mia migliore amica. Jack, invece, mi guardò di traverso ed emanò un grugnito.
Finimmo di fare colazione chiacchierando del più e del meno e, una volta che mi alzai, mi accorsi guardando fuori dalla finestra che aveva smesso di piovere e che il cielo sembrava schiarirsi.
Forse la giornata poteva essere salvata.
«E se andassimo ad Hollywood?» proposi.
«Hollywood?» ripeterono i miei migliori amici all’unisono.
Come c’era da aspettarsi, le loro voci erano equilibrate tra stupore ed entusiasmo, così confermai: «Hollywood, sì. La Walk of Fame, Sunset Boulevard... Quella insomma. In tutti questi anni non ho ancora avuto la possibilità di visitarla come si deve».
«E con la macchina come la mettiamo?».
«Beh, nel caso in cui Zack e Rian tornassero in tempo potremmo andare tutti insieme, altrimenti chiameremo un taxi». Ero abbastanza esaltato anch’io già alla sola idea e credo che lo dessi a vedere.
Con un sorrisone in volto, Amy si complimentò con me della mia intelligenza - a suo dire “intermittente" - e sparì dietro la porta della sua camera, lasciandosi dietro il suo tipico buon profumo.
Ora, finchè fossi io a guardarla andava tutto bene; ma Jack? Perché fissava Amanda? O meglio, perché fissava Amanda in quel modo?
Io la guardavo da amico, da fratello quasi, ricordandomi ogni volta quella bambina con cui avevo fatto i giochi più stupidi, con cui avevo litigato e fatto pace un milione di volte, quella ragazzina che obbligavo a confidarmi le sue cotte e che è stata in assoluto la mia prima fan. Io la vedevo così.
E Barakat? Conoscevo quel tipo di sguardo, e non era di certo fraterno.
«Tu mi preoccupi» disse facendomi sobbalzare un paio di metri in aria.
Il tempo che io avevo portato avanti tutta quell’accozzaglia di pensieri, lui mi aveva detto qualcosa e, non udendo una mia risposta, si era avvicinato materializzandosi dietro di me.
«Merda, sei un coglione! Non farlo mai più!» gli urlai contro; mi ero istintivamente portato una mano sul petto e potevo sentire il cuore palpitare velocemente.
«Non l’avrei fatto se tu mi avessi risposto. - si difese con tono eloquente mentre faceva spallucce - Ho chiamato Zack e mi ha detto che saranno qui al massimo fra mezz’ora. Ti consiglio caldamente di andare a fare una doccia».
 
In macchina la situazione era la seguente: Rian guidava, io ero seduto al suo fianco e dietro, nella “fossa dei leoni”, stavano Zack, Amy e Jack. Merrick stava aggiornando la Morris della sua ultima conquista amorosa mentre lei lo ascoltava tranquilla, dandogli qualche consiglio ogni tanto; Barakat giocava allegramente con il suo cellulare; Dawson cercava di non farci perdere ed io mi godevo il paesaggio.
Il cielo si era ormai del tutto schiarito e attraverso le nuvole riusciva a filtrare qualche raggio che ben giustificava il fatto che portassimo tutti gli occhiali da sole.
«Eccola!» esclamai zittendo tutti di colpo. Di fronte a noi, in lontananza, si ergeva la grande collina con l’ancora più grande “HOLLYWOOD” bianca in bella mostra.
«Che gran figata! - disse eccitata Amanda – E’ proprio come appare nei film!».
«Anche meglio» aggiunse Rian.
Nonostante fossi stato lì più di una volta, finalmente avevo l’occasione di poter visitare bene il luogo e ciò mi rendeva parecchio entusiasta.
Una volta per tutte ebbi la possibilità di poter scattare una foto su questo o quel pezzo di strada, mentre a turno tutti gridavano i nomi dei propri idoli: «John Lennon!», «Sandra Bullock!», «I Doors!», «Johnny Depp!», e così via.
La gente passeggiava con calma, come se non facesse per nulla caso all’asfalto sul quale si trovava a camminare, e magari per loro era davvero indifferente trovarsi sulla famosa Hollywood Boulevard; ma se lo era per loro, non lo era di certo per noi, che sembravamo una banda di ragazzini inselvaggiti, correndo come degli scalmanati a destra e sinistra. Bambini che non pensavano alle conseguenze, ecco cos’eravamo al momento.
Ero alla ricerca dell’ennesima stella accanto alla quale farmi scattare un’altra foto, con Blair al seguito, quando la ragazza mi poggiò una mano sulla spalla e mi sussurrò all’orecchio: «Gaskarth, non vorrei allarmarti, ma c’è un gruppetto di ragazze che ti pedina da almeno venti minuti».
«Fan?».
«Suppongo di sì. Prova a girarti e a guardarle».
Annuii e mi voltai. Inutile dire che da quella piccola folla si levarono degli urletti striduli, emozionati e sommessi.
«Coraggio superstar, è il tuo momento» sorrise.
«Se non sarò tornato prima di mezz’ora vieni a salvarmi, va bene?» risi.
Non appena mi voltai verso le ragazze, un’altra serie di esclamazioni si levò nella mia direzione. Mi avvicinai sorridente, alzando le braccia al cielo. «D’accordo belle, per la prossima manciata di minuti sarò tutto vostro».
Una foto, un autografo, una foto, un abbraccio, un autografo, ancora una foto, un’altra firma, stavolta un bacio, una strizzatina d’occhio, un breve commento, e poi di nuovo una foto, un autografo…
D’un tratto udii una voce familiare che cercava di farsi spazio tra la nube di fan - cresciuta a dismisura non si sa come. «Permesso… Permes… Scusa, scusa… Ti ho chiesto scusa, cavolo!» esclamò.
Presi freneticamente a tastare tra la folla, nella speranza di riuscire a capire dove si trovasse, quando alla fine la vidi e la tirai a me per un braccio.
«Din don, la mezz’ora è passata, io sono venuta e non ho idea di come trascinarti fuori di qui, sappilo» disse sarcastica.
«Tu? Senza idee? La ragazza dalle mille risorse è rimasta senza idee? Nah, non ci credo», dovetti interrompermi più di volta mentre parlavo a causa delle foto che mi venivano scattate.
«Ok, ho qualcosa in mente, va bene? Anche se non sono sicura che riuscirà al cento per cento… - sospirò profondamente prima di urlare - Oh Cielo, ma quello non è Jake Gyllenhaall?!».
Quella numerosa confusione di ragazze che fino a un istante prima era lì solo per me, adesso era sparita nel nulla, schizzando via dappertutto come delle biglie. L’effetto mi lasciò di stucco, dovetti ammetterlo. Sarei rimasto qualche momento in più a contemplare la fuga delle fan e la semplice genialità della frase urlata da Amanda, ma questa mi strattonò per la manica dicendo: «Abbiamo forse dieci secondi prima che si accorgano di essere state prese in giro; vuoi mandare tutto a puttane o ti decidi a correre come non hai mai fatto in vita tua?».
Inutile dire che la seconda parte della domanda mi sembrò la più ragionevole.
Non corremmo per molto tempo, una volta fermi mi accorsi di essermi spostato dall’Hollywood Boulevard al vicino Santa Monica Boulevard, esattamente di fronte ad un posto chiamato Sharkey’s Pizza Parlor; un posto abbastanza affollato, squallido ma carino nella sua semplicità, anche se le varie macchie di sugo schizzate qua e là su muri non mi fecero un gran bell’effetto.
I ragazzi erano già dentro, comodamente seduti accanto ad un tavolo un po’ appartato.
«Finalmente si mangia!» disse Zack sollevato.
«Credevamo fossi stato rapito», Robert.
«Che posso farci? - presi posto accanto alla Morris - Sono troppo bello».
Jack mi guardò compassionevole. «Amico, la convinzione è una bella cosa» mormorò dandomi una pacca sulla spalla.
Per evitare di procurare una crisi da astinenza di cibo al nostro famelico bassista, decidemmo di ordinare subito, scegliendo a caso tra le varie specialità del menù - tutte pizze, non l’avrei mai detto.
Eravamo ancora nel bel mezzo del nostro pranzo, tra risate e insulti vari, quando il Merrick scaraventò lontano da sé il suo cellulare sbuffando: «Voi donne!».
«Che è successo?» domandammo tutti in coro. Poco mancava che anche la cameriera si unisse al nostro quartetto, visto che non si era allontanata più di tanto dal nostro tavolo da quando avevo ordinato.
«Chi vi capisce è bravo!» continuò totalmente demoralizzato, mentre recuperava il telefonino per passarlo ad Amy.
La mora lesse il messaggio, con la fronte corrugata e il solito “tic del ciuffo”.
«Devo leggerlo a voce alta?».
Zack mugugnò una specie di sì e la ragazza cominciò.
«Fammi capire, in pratica lei non vuole più vederti perché non sa come potrebbe prenderla il suo ex?» chiesi per avere maggior conferma.
Esasperato, Zachary annuì.
«Non ha molto senso...» osservò Rian.
«No, non ha senso e basta» corresse Bassam.
Dopo qualche istante di silenzio ci voltammo tutti e quattro in direzione dell’unica ragazza del gruppo, l’unica che potesse fare da mediatrice tra il “nostro mondo” e il “loro”.
«Non ha senso, è vero, - disse - però magari avrà le sue buone ragioni per dirti una cosa simile, no? Certo, io avrei preferito parlarne di persona e cercare di capire cosa fare... E poi beh, se è il suo ex io ritengo che non dovrebbe più interessarsene... Comunque sia, Zacky caro, prova a chiederle di vedervi per parlare un po’, non penso che ti dirà di no: per quel che mi hai raccontato mi sembra di aver capito che sia una brava ragazza, questa...».
«Liz».
«...Questa Liz, sì. Mi hai detto che è in vacanza a Santa Monica: ancora meglio!» concluse.
«Secondo me, - iniziò Barakat incrociando le braccia al petto - il fatto è che voi ragazze non sapete mai cosa volete davvero. Facciamo un esempio: in un primo momento siete indecise fra A e B; scegliete A, ma presto la cambiate con B che cambierete presto con C. Dopo non molto vi accorgete che C non è proprio come pensavate e vi convincete dell’idea che A possa essere la strada giusta, seppur modificata: ecco perciò D. Naturalmente nemmeno D vi soddisfa e in tal modo modificate B che diventa E. Capite che E è improponibile, e allora, prima di scegliere G, passate a F. Infine, scoprite di non volere, e di non aver mai voluto, né A, né B, né C, né le altre soluzioni, e ricominciate da capo. Intricato, ma è così» terminò con aria da saccente.
«Io mi sento confuso» ammisi.
«Io no, e sono pronta a smentire tutto quello che hai detto» ribatté Amy con fare combattivo. La femminista convinta che c’era in lei stava per entrare in gioco.
Appoggiai la schiena contro il sedile della sedia, divertito già da quello “scambio di opinioni” non proprio equo prima ancora che iniziasse. Mi sarebbe piaciuto avere dei popcorn davanti, ma, in assenza, mi accontentai di un’altra fetta di pizza.
«Se io voglio A, prendo A senza pensare a B, C, D e tutto il resto. Però, siccome si dà il caso che io sia un essere umano e che come tale possa avere dei ripensamenti, qualora mi renda conto del fatto che A non sia la scelta migliore, prenderò B; e se B non sarà l’ideale, sposterò la mia attenzione verso C e via dicendo. Il punto è: a tutti capita di avere ripensamenti e di conseguenza tutti cambiano scelta, chi la cambia prima e riesce a salvarsi in calcio d’angolo e chi la cambia dopo e ne resta scottato, ma questa è un’altra cosa. Ora, essendo tipico degli esseri umani ragionare e pentirsi di qualcosa, tutti cambiano idea e quindi nessuno sa mai cosa voglia veramente, che si tratti di un uomo o di una donna. Ho finito».
A quel chilometrico discorso seguì un profondo e diversificato silenzio. Amanda era soddisfatta, Jack spiazzato ma colpito e ammirato nel suo profondo, Rian pensieroso, Zack cercava di ricordare come fossimo arrivati all’argomento e quale scopo ne conseguisse, ed io mi godevo la scena divertito, riconoscendo che la mia migliore amica - ancora una volta - fosse dalla parte giusta.
«Non ti facevo così femminista» sorrise beffardo lo sconfitto.
«Non ti facevo così maschilista».
«Tu leggi troppo».
«E tu leggi troppo poco».
«Dovresti studiare Giurisprudenza, sai?».
«Forse, ma preferisco Lingue Orientali».
Chissà per quanto altro tempo ancora sarebbe continuato quel secco battibecco se Merrick non fosse intervenuto per dare sfogo ai suoi dubbi.
«Scusate, ma tutto questo discorso dove vuole arrivare?».
«Semplice: Jack pagherà per tutti noi perché così non si pentirà di non essere stato gentile nei nostri confronti e perché ha appena imparato che io ho sempre ragione. E adesso, se non vi spiace, io vado in bagno», si alzò scompigliandomi i capelli mentre sorrideva. 
«Dovreste sentirvi, - commentò divertito Dawson - litigate come due fidanzati!».
Senza nemmeno degnare la frase di una risposta, Jack si alzò di scatto per andare a pagare ed Amy corse veloce in direzione del bagno, cercando accuratamente - ma senza riuscirci - di apparire impassibili.
Per la seconda volta in quel giorno ebbi la sensazione che qualcosa stesse bollendo in pentola.


Imagine all the people living life in peace...

Chiedo scusa D: Cioè, manco da un bel po' e torno con un capitolo brutto come questo... Mi dispiace tanto.
Il fatto è che sono parecchio/abbastanza/molto/sempre/super impegnata... Quindi non so nemmeno dirvi quando aggiornerò.
Spero di farlo presto, ma in caso sappiate che ho intenzione di scrivere tantissimo quest'estate, quindi aspettatevi di tutto! :D
Ringraziandovi e chidendo ancora scusa,

A.






 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV - Amanda ***


Capitolo quattro - Amanda
 
Erano trascorse due settimane da quando eravamo arrivati e tutto andava bene, anzi, a meraviglia. Non era cambiato nulla, sostanzialmente: io e Alex continuavamo ad alternare insulti ad abbracci, Zack continuava ad allenarsi per essere ancora più in forma di quanto non fosse già, Rian continuava a starsene tranquillo e indisturbato come sempre e Jack continuava ad essere il solito deficiente di sempre.
Per quanto riguardava il mio rapporto con il Barakat, non c’era niente affatto di entusiasmante: ci parlavamo normalmente, come avevamo sempre fatto. Riuscivo a fingere abbastanza bene che non mi piacesse, anche perché nemmeno io capivo bene cosa dover fare in quel momento.
Che Jack, sotto sotto, mi fosse sempre piaciuto era vero, ma ero stata troppo impegnata, fidanzata o preoccupata ad occuparmi di altro per rendermene conto una volta per tutte. Adesso che io ero single, che era estate e che vivevamo tutti sotto lo stesso grande tetto, le cose erano diverse. Però, se da un lato pensavo che forse avrei avuto qualche speranza se mi fossi messa a provarci, dall’altro mi ricordavo che: uno, dopo le vacanze sarebbero passati mesi prima di rivederlo; due, lui era pieno fino al collo di ragazze che gli sbavavano ai piedi e che sicuramente non gli fossero indifferenti; tre, che in fondo fosse sempre quel Jack Barakat che magari mi sarebbe scoppiato a ridere in faccia senza avere nessuna pietà nei miei confronti. E questo bastava a farmi rinunciare ancor prima di aver cominciato.
Le delusioni amorose portano anche a quella che mia madre definiva "stitichezza sentimentale", oltre che ad una forma di paranoia, certo.
 
Era una bella mattina non eccessivamente calda e tanto soleggiata e ognuno era massimamente concentrato a rispettare l’unica regola che ci eravamo imposti per quel periodo: rilassarsi non facendo niente.
Ma se gli altri riuscivano nell’impresa, per me non era così. Stesa in riva al mare, sotto il sole che mi arrossava la pelle con i suoi raggi, ero ancora una volta in balia dei pensieri che mi affollavano confusamente il cervello, quand’ecco che all’improvviso un’ombra mi calò sugli occhi.
«Alex?» chiesi.
«No, - rispose sdraiandosi al mio fianco - Jack».
Aprii di scatto gli occhi, provando però ad apparire indifferente, mentre domandavo: «Qual buon vento?».
Capelli scompigliati, occhiali ben calcati sopra gli zigomi e un costume azzurro da surfista che gli metteva in risalto la stessa abbronzatura che io stavo disperatamente cercando di ottenere da quasi quindici giorni.
«Vento, nessuno considerata questa calda giornata; piuttosto voglia di prendere un po’ di sole in compagnia della migliore amica del mio migliore amico» rispose sistemandosi a pancia in su.
«Per fortuna il telo è grande abbastanza». Che cazzata!
«Sai che in teoria tu saresti anche la mia migliore amica?» disse, non sembrando fare molto caso all’idiozia uscita pochi secondi prima dalla mia bocca.
«E chi lo ha stabilito?».
«La proprietà transitiva, una delle poche cose che ricordo dalla scuola» spiegò.
Uno pari. Per quanto riguarda le battute squallide, eravamo sullo stesso livello. Tuttavia, non potei  fare a meno di ridere divertita.
Dopo quello restammo zitti ad ascoltare il suono delle onde che si infrangevano contro la spiaggia, finché: «L’altro giorno hai detto che studi Lingue Orientali, giusto?».
«Nam. Sì».
«Sul serio studi Arabo?» sembrava sorpreso.
«Nam, e anche Giapponese e Mandarino».
«Perciò tu parli cinque lingue?».
«Sei e mezzo: conosco anche Spagnolo e le basi di Francese».
«Tambien yo» asserì. Non mi diede nemmeno il tempo di meravigliarmi che continuò: «No, non è vero. Conosco solo ‘tambien yo’, ‘te quiero’ e ‘burrito’».
Altra risatina; pensai di poter sembrare un’irritante oca comportandomi in quel modo, una di quelle ragazzette stupide che svolazzano intorno ai ragazzi, specie se famosi.
«In compenso so parlare un po’ l’Arabo» aggiunse.
«No, ma davvero, Bassam?» mi finsi stupita portandomi una mano davanti alla bocca. Era bello poter stare al gioco in quella maniera; io ed Alex lo facevamo sempre.
Si sollevò su un gomito. «Non si direbbe, vero? In realtà sono un secchione, io. Altrimenti come spiegheresti quel discorso da maschilista che ho costruito l’altro giorno?».
«Sarai pure una secchia, ma quel discorso non faceva una piega: ne faceva cento» ribattei.
«Che gentile».
«Gentile è il mio terzo nome» gli feci l’occhiolino in modo complice, senza fini maliziosi. Mi tirai su a sedere di fronte a lui e gli sfilai gli occhiali da sole dicendogli: «Il mio quarto nome invece è Intelligente. Non vorrai mica abbronzarti come un panda, vero?» aggiunsi.
«Direi proprio di no» rispose.
Lasciò che gli togliessi gli occhiali per poggiarli sul telo e, dopo che ebbi fatto e lui si fosse un po’ abituato alla luce solare battendo più volte gli occhi, restò silenzioso a fissarmi, puntando i suoi occhi nei miei.
E a quel punto accadde qualcosa di strano, qualcosa che mi accadeva raramente: arrossii, lievemente, ma arrossi. Sentivo le guance scaldarsi un poco e sapevo che non era per via dell’abbronzatura.
La cinica Amanda arrossiva per via di un ragazzo che la guardava. Che mi stava succedendo? Io avevo smesso di essere quel tipo di ragazza ormai da tempo, ero cambiata, non ero più ingenua e cieca in campo sentimentale.
Oppure no?
Del resto, se avessi davvero trasformato quella parte della mia personalità non avrei certamente reagito in quel modo non molti giorni prima, vedendolo.
Improvvisamente sentii l’urgente bisogno di dover parlare con Alex appena mi fosse stato possibile.
Intanto Bassam continuava a scrutarmi ed io mi stupii nel riuscire a sostenere il suo sguardo normalmente; forse ero cambiata veramente, almeno quel tanto che bastava.
«Cos’è? Non dirmi che mi sono abbronzata a chiazze!» domandai per spezzare quello strano momento.
«No, no… Diciamo che sei ancora nella “fase beige”».
E poi accadde l’imprevedibile, una frase che non mi aveva mai detto nessuno fino a quel momento e che non mi sarei mai aspettata di sentirmi dire, specie da Jack.
«Credo che mi piaccia guardarti, è un problema?».
Un’affermazione semplice e diretta, ma che bastò a lasciarmi spiazzata e a farmi riflettere abbastanza nei giorni a venire.
«Cioè, non sei Rian o Zack e non sei pure il mio Alex bello» continuò ridendosela.
Delusa? No. E nemmeno arrabbiata.
Ecco perché non capivo cosa volessi davvero.
Quello era il ragazzo che conoscevo, lo stupido dalle frecciatine stupide.
«Dovevo aspettarmelo!» esclamai mentre mi alzavo per andare verso il terrazzo con finto fare offeso.
«Sono un bastardo, lo so! E tu sei una brava attrice, meriti l’Oscar!», rideva ancora.
Mi voltai e feci in un inchino dalla sua parte, provando ad atteggiarmi come una diva.
«I wish you could see your face right now, ‘cause you’re grinning like a fool…». Il Gaskarth spuntò da dietro e mi passò un braccio sulle spalle. «Che cosa gli hai fatto? Se non smette di ridere entro dieci secondi potrebbe avere un infarto» sorrise compiaciuto.
«Io? Guarda, ha iniziato tutto lui…» feci spallucce.
Al mi sorrise, mi sfilò gli occhiali dalla testa, li indossò e si rivolse nuovamente al suo chitarrista. «Jackie, lo sai che sei estremamente affascinante quando ridi in quel modo?» disse seriamente convinto delle sue parole e ostentando una prepotente infatuazione.
A quel punto pensai che Jack avrebbe preso a ridere ancora più forte, tanto che gli sarebbe caduta la mascella a terra, e invece no: il ragazzo assunse velocemente la stessa espressione idiota e lo stesso tono sensuale e lascivo del nostro migliore amico per poi rispondergli: «Oh Allie, anche tu sei così bello e attraente con quei due occhi magnetici che ti ritrovi... E la tua voce, Cristo, la tua voce!».
Come avessero provato quella scena migliaia di volte, i due si vennero incontro lentamente e con delle movenze e dei visi che avrebbero benissimo potuto essere scambiati per due fidanzati omosessuali; infine, quando si raggiunsero, si abbracciarono teneramente e con un fare talmente romantico che sentii il diabete salirmi fino al cervello. Evidentemente non ero la sola a meritare  l’Oscar in quel pazzo gruppo.
In preda alle risate, mi asciugai un occhio con una mano mentre con l’altra mi tenevo forte la pancia intanto che dicevo: «Voi due dovreste sposarvi, sareste una coppia perfetta! Propongo di andare a Las Vegas stasera stessa!».
Se avessi saputo prima cosa mi avrebbero fatto quei due mostri me ne sarei stata zitta e immobile.
In un primo momento mi guardarono con aria di sufficienza passandomi accanto stretti, con il braccio dell’uno che cingeva il fianco dell’altro, ma un secondo dopo mi sollevarono dalla sabbia -Barakat mi teneva per le caviglie e Gaskarth per le spalle - e mi trascinavano verso l’acqua, fregandosene altamente dei miei insulti e delle mie minacce di morte, riuscendo perfettamente a tener testa al mio corpo che si dimenava impazzito.
«Tu parla un’altra volta di matrimonio e vedrai come ti finirà» affermò Alex.
«Quindi per adesso mi lasciate andare?» osai chiedere notando di essere già arrivati al bagnasciuga.
«Mmm... No! - decise Bassam - Coraggio, tutti insieme! Tre...».
Vidi in lontananza Rian osservarci trafelato e Zack fare capolino dietro di lui: probabilmente avevano sentito le mie urla. Rincuorata da una speranza di salvezza, gridai più forte che potessi:«Rian! Zack! Aiutatemi, ragazzi!».
«Due...».
«No no no no no no!».
«Uno...».
«Non lo farete, lo so!».
Sul serio lo dissi? Davvero pensavo che quei due mi avrebbero lasciata andare? Beh, fu un pensiero molto più che stupido: era ovvio che non l’avrebbero mai e poi mai fatto.
E così caddi in acqua, o meglio, fui lanciata, accompagnata da un sonoro splash. L’acqua era gelida e nell’urto con la sabbia mi feci male alla schiena: questo bastò a farmi riemergere incazzata nera. Senza nemmeno degnarli di uno sguardo e ignorando completamente le loro risate e i loro «Ti sei arrabbiata veramente? Ma dai, vieni qui!», presi le mie cose e filai dritta - e dolorante - verso camera mia. Alex aveva sicuramente capito che ero furibonda, lo sapeva perché non avevo detto nulla, come avevo sempre fatto.
Lasciai che la porta della stanza sbattesse violentemente, buttai a caso tutto sopra il letto e mi osservai allo specchio; il centro della colonna vertebrale era già arrossato e faceva un male cane.
Avevano intenzione di crescere o no?


Look at the stars, look at they shine for you...

Tempo record! Ok, non proprio record visto che non mi faccio sentire da un po'...
Ma considerate che ho iniziato a scrivere il capitolo ieri sera e che l'ho appena finito.
Sì, il risultato è scadente, lo so... Vedrò di fare meglio la prossima volta. Questo è tutto quello che il mio cervello stanco ha da poco finito di partorire.
In ogni caso, vi ringrazio per essere passate e vi chiedo scusa per questo scempio D:
A presto, spero!

A.



 

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Capitolo 5
*** Capitolo V - Alex ***


Capitolo cinque - Alex
 
Amanda non aveva pranzato. Se per questo, non aveva neppure cenato. Non era uscita più di camera sua da quando c’era entrata, un bel po’ di ore prima, ormai.
E io avevo sbagliato di grosso.
Aveva ignorato tutte le richieste mie e di Jack di poter entrare e anche tutte le nostre scuse, ed io non sapevo più che fare. Ci avevo rinunciato; mi avvicinavo alla sua porta e me ne stavo zitto, sotto lo sguardo sconsolato del Barakat che aspettava un segnale che però non arrivava.
Neanche io avevo molta voglia di cenare e, dopo aver finto di mangiare un sandwich, uscii in giro per la zona, evitando di passare per le strade troppo affollate: essere riconosciuto era l’ultima cosa che volevo in quel momento.
Mentre camminavo ripensavo ai vecchi litigi avuti con la Morris anni prima, quando eravamo più piccoli, e pochissime volte lei si era arrabbiata così tanto da smettere di parlarmi. Eppure non avevo intenzione di rovinarle la giornata così, stavo solo scherzando e pensavo che lei l’avesse capito.
Lo ammetto, mi sentivo un verme, e mi sentii ancora peggio dopo aver pensato che lei stesse esagerando a comportarsi in quel modo: non avevamo più quindici anni, cazzo!
E così continuai a passeggiare, confuso e malinconico, con la testa bassa coperta dal cappuccio della felpa che avevo indossato prima di uscire, perdendo il senso dell’orientamento e la cognizione del tempo. Poi mi vibrò il telefono in tasca.
Sbrigati e vieni subito. E’ disposta a parlare.
«Santo Barakat!» esclamai in mezzo alla strada, fregandomene altamente di poter essere preso per pazzo. Jack era riuscito ad entrare e parlare con lei, quindi potevo finalmente farlo anch’io. Sì, le avrei chiesto scussa e l’avrei ascoltata mentre mi avrebbe valangato di espressioni poco affettuose senza dire una sola parola… Magari davanti ad un bel gelato, però.
Corsi verso casa più veloce che potessi, anche se ad un certo punto dovetti abbandonare la strada secondaria e immettermi sulla via principale, pullulata di gente. Ma non importava e corsi velocemente, fingendo di non sentire i «Ehi, ma quello era…?!» provenienti dalla bocca di alcuni che mi avevano riconosciuto.
Quando arrivai, i ragazzi stavano dormicchiando sul divano, a parte Bassam che mi guardò assonnato.
«Dormi Bassam, dormi. Sei stato bravo» dissi inconsciamente. Cosa volessi dire, non lo so neanche io; forse era il mio modo di esprimere la gratitudine per quell’sms.
Presi i barattoli di gelato dal freezer e cercai di combinare qualcosa che sembrasse almeno un poco decente e gustoso all’apparenza. Se c’era una cosa a cui Amanda non sapeva dire mai di no, quello era proprio il gelato.
Quando terminai le mie piccole opere d’arte, presi le due coppe e andai dritto dritto a bussare alla porta della mia migliore amica, che però non rispose, o meglio, lo fece ma non con l’uso delle parole: la ragazza emise uno strano grugnito contrariato. Spinsi la porta col gomito per evitare di far cadere i gelati che avevo preparato con tanto amore e la trovai distesa sul grande letto dalle lenzuola turchesi, tutta intenta a leggere Sherlock Holmes. Non mi guardò nemmeno, ma non ci feci molto caso; entrai, appoggiai le coppe sul comodino accanto al letto e scostai le tende, in modo che la camera venisse illuminata anche dalle luci esterne oltre che da quella che emetteva la piccola abat-jour. Era anche una bella serata e forse, pensai, la vista sull’Oceano Pacifico rischiarato dalla luna poteva essere d’aiuto.
«Quindi… Hai accettato le scuse di Jack» dissi sistemandomi nel letto accanto a lei. Aveva la testa china sul libro e i capelli le ricadevano davanti, ma sapevo che non stava leggendo perché il suo sguardo era fisso sempre sullo stesso punto. «Ma non vuoi accettare le mie… Spiegami almeno perché».
La vidi sospirare mentre chiudeva il libro, per poi mettersi in ginocchio accanto a me e sfilarsi la maglietta dei Nirvana, ma da bravo viscido depravato che sono, la prima cosa che notai fu il suo reggiseno blu e cosa esso reggeva.
«Sei un coglione, guardami la schiena! Guarda cosa mi hai fatto!» sbottò adirata.
Forse avrei potuto fare a meno di osservare il suo petto in quel modo…
Mi spostai più indietro e osservai la sua schiena beige, dove un bel livido nerastro faceva capolino lungo le vertebre centrali: dire che avrei voluto sprofondare e patire le pene dell’Inferno era molto, molto riduttivo.
«Oh cazzo… Amy, io…» cercai di dire qualcosa.
«Amy, io? Amy, io un cazzo, Alexander, Amy, io niente!» urlò.
«Amanda, hai ragione, va bene? Mi dispiace, non sai quanto, me ne vergogno, mi faccio schifo, mi sento uno stronzo e pure coglione! Volevo solo scherzare, e non avevo intenzione di farti male… E… E… Gelato?» azzardai non sapendo cos’altro dire. Quando faceva così mi metteva in soggezione, oltre a farmi letteralmente cagare sotto.
Mi scrutò come solo lei sapeva fare, guardandomi con una tale forza e una tale insistenza che temetti potesse leggermi nella mente - anche se questa era una cosa che riusciva a fare sempre, normalmente -, e i miei pensieri, al momento, non erano proprio così puri visto che lei mi stava accanto con indosso solo la biancheria intima.
Impallidii.
Da quando provavo il forte desiderio di fare sesso con la mia migliore amica?
D’accordo, lei era cresciuta ed era diventata davvero bella, ma restava sempre la mia migliore amica storica, di una vita, e mai e poi mai le avrei fatto un torto simile.
Era colpa del gin che mi ero scolato prima, quando andavo a zonzo per la città con aria triste, solitaria e depressa? Sperai vivamente di sì.
Non distogliendo nemmeno per un attimo lo sguardo dal mio volto imbarazzato e confuso, la Morris si posizionò proprio di fronte a me, prese la sua coppa di gelato e disse fredda: «Smettila di guardarmi le tette, mi inquieti».
«Tu copritele» ribattei.
«Perché, non sei capace di controllare il tuo istinto animale?».
In trappola, risposi: «E se così fosse?».
«Ti verserei questo gelato addosso. E passami quella maglietta, su».
Gliela passai e se la infilò, anche se ciò non bastò a rimuovere quei pensieri dalla mia mente.
Promemoria per me: mai bere gin quando sono malinconico: causa strani effetti.
Iniziammo a mangiare quel che restava del gelato silenziosamente, fino a quando dissi: «Quindi, scuse accettate?».
«Mi hai fatto male».
«Lo so».
«E te la farò pagare».
«Lo prevedevo. Allora, mi perdoni?».
«Riesci sempre a far uscire il peggio di me».
«So anche questo, e ti farò incazzare ancora se entro cinque secondi non mi dici che hai smesso di avercela con me. Uno… Due…».
«Ho smesso di avercela con te, contento? Non è vero, ma te l’ho detto. Il fatto è… Devo parlarti di una cosa…» concluse vaga e leggermente imbarazzata.
«Uhm, ok. Di cosa devi parlarmi?» chiesi curioso. Altri pensieri pericolosi sguazzavano allegramente all’interno della mia corteccia celebrale. Basta, non avrei più bevuto gin in vita mia.
«Di Jack» rispose con un filo di voce.
«Jack? Che è successo? Ha detto o fatto qualcosa di strano?» domandai allarmato.
«No no, lui non ha fatto niente… Ho fatto tutto io... E’ solo che, Lex, credo che Jack mi piaccia».
Attimo di silenzio. I brutti pensieri scomparvero via all’istante.
Respira, Alex, respira. Alla tua migliore amica piace il tuo migliore amico, può succedere.
«Lo so, è una cosa folle…».
«No, perché? Vi conoscete ormai da tanto tempo… Può capitare».
Subito dopo aver saputo dell’interesse che Amanda provava nei confronti di Bassam, certi atteggiamenti da entrambe le parti - vedi occhi dolci e rossore delle guance da parte di lei, occhiate strane e battute equivoche da parte di lui - mi furono subito più chiari.
Bene, erano uno invaghito dell’altra a quanto pareva. Congratulazioni e figli maschi.
«Non credere che io sia un’idiota ingenua che si fa prendere una cotta da un momento all’altro. – continuò – Io e Jack ci sentiamo sentiti in quest’ultimo anno, non sempre ma spesso, e lui è stato gentile e divertente… Mi ha mostrato una parte di lui che non conoscevo e che pensavo che nemmeno esistesse, pensa! Poi boh, mi è bastato vederlo apparire dalla porta due settimane fa e non so… Non sono innamorata, ma… Ho paura di essere sulla buona strada. Mi sento stranissima, ti giuro, non so cosa voglio! Perché un attimo prima mi dico che non può essere possibile e mi elenco anche le varie motivazioni, e un attimo dopo, quando mi accorgo che mi sta guardando, anche così, senza nessun motivo, mi sento le farfalle allo stomaco e sono confusa», parlò tutto d’un fiato e mi sorprese notare che non si fermò per far prendere aria ai suoi poveri polmoni sottoposti a tale atroce supplizio.
«E tu pensi che io possa dirti che fare?».
«Lo spero, visto che lui è il tuo migliore amico».
Non lo nascondo, la notizia mi aveva alquanto agitato e mi dovetti togliere la felpa e restare con la sola maglietta perché non volevo squagliare.
«Perciò, se non ho capito male, tu vuoi sapere se sarebbe disposto a ricambiare un ipotetico amore o se invece vuole solo portarti a letto» riassunsi.
«Esattamente» annuì convinta.
«E vuoi che sia io a scoprire qualcosa».
«Se non ti stufa».
«In realtà sì, ma so che poi tirerai in ballo i musi lunghi e il livido che ti ho procurato stamattina per farmi sentire in colpa… Se non dovessi accettare ora, mi costringerai a farlo presto».
Sorrise raggiante, emise un gridolino e mi si buttò addosso. «Tutto sommato, non fai tanto schifo come migliore amico, William» sussurrò al mio orecchio.
Sorrisi a mia volta e la strinsi forte a me.
Dovevo essere bravo a riuscire in quella specie di missione e, soprattutto, avrei dovuto essere sincero: non volevo affatto che lei soffrisse ancora e non volevo neppure rovinare l’estate a tutti quanti con piagnistei, accuse e tutto ciò che sarebbe potuto scaturire. Anche il Barakat doveva essere sincero; lui non aveva una relazione seria da anni ormai e non sapevo più se fosse ancora capace di considerare altro al di fuori del sesso in una coppia.
Quando sciolsi l’abbraccio e feci per andare in camera mia, Blair mi fermò. «Resti qui stanotte?» chiese. Domanda semplice e diretta.
Sbuffai stanco e mi buttai al suo fianco. «A patto che non ti togli di nuovo la maglietta».
Rise impercettibilmente prima di commentare: «Eppure eri abituato a vedermi a petto nudo…».
«E’ vero, ma ti ricordo che, quando ero abituato a vederti a petto nudo, tu avevi quattro o cinque anni ed eri completamente piatta» mi difesi.
«Smettila di fare quel tono da saputello, hai torto».
«Adesso la saccente acida sei tu» osservai.
«E sta’ zitto!» rise mentre si accucciava con la testa sul mio petto.
Passò qualche minuto, ma poi non riuscii più a trattenermi e domandai: «Hai fatto vedere il livido anche a Jack? O meglio, per far vedere il livido a Jack ti sei denudata come hai fatto con me?».
«Punto primo, non ho fatto vedere il livido a Jack, gli ho detto solo che mi avete fatto un gran male. Punto secondo, io non mi sono denudata. Punto terzo… Sei geloso?» concluse con un pizzico di malizia nella voce e negli occhi.
No. No, assolutamente no. Certo che no, cosa diamine va a chiedere? Non potevo essere geloso, lei era la mia migliore amica, la mia Amy. La mia Amy. In senso affettivo, però. Come la sorella che non avevo mai avuto, ecco come! …Eppure pochi minuti prima volevo portarmela a letto… Un incesto! No, no no no no no. No categorico. Assoluto. Era una bella ragazza e probabilmente me la sarei già fatta… Ma si chiamava Amanda Blair Morris e quindi era escluso.
Tutto questo baccano mi confondeva, ma fui ben in grado di rispondere: «Di te? No. Di Bassam sì, invece».
La sentì ridere divertita contro il mio petto.
«Non hai altre osservazioni pungenti da fare sulla nostra presunta omosessualità?».
«Per carità! Sai com’è, per quanto mi odi ho un minimo di spirito d’autoconservazione che mi impedisce di ritrovarmi con l’osso del collo spezzato in due».
«Carina» ironizzai.
Continuammo a parlare per almeno un’altra mezz’ora, fin quando notai che i suoi sbadigli di facevano più frequenti e le chiesi se volesse dormire.
«In tutta onestà, sì… Però, posso chiederti l’ultimo favore di questa notte? - si interruppe per aspettare la mia risposta e, vedendomi annuire, proseguì - Mi canteresti una canzone?».
Non avevo intenzione di dirle no, ma il suo tono di voce, dolce e assonnato, mi attirarono ancora di più verso il proposito di accontentarla.  Non dovetti riflettere molto perché sapevo già quale cantarle e di conseguenza attaccai piano: «Time to lay claim to the evidence fingerprints sell me out…».
 

All together now! C:

Contro oltre ogni previsione... Tà tàn! Ho aggiornato oggi!
E' quasi passato un mese, lo so, ma pensavo che avrei aggiornato più tardi...
In pratica il capitolo doveva essere più lungo, ma non volevo farvi aspettare troppo e non volevo avere ripensamenti che mi avrebbero fatto cancellare tutto quello che avevo scritto per adesso.
Quindi, eccolo :D - odiatemi, vi autorizzo u.u
Credo che il prossimo capitolo arriverà dopo la fine della scuola, giàgià... Anche perchè per adesso non ho idea di cosa scrivere di preciso ._.
Spero che abbiate pazienza, in caso.

#Thanks #muchlove #summeriscoming

A.

P.S.: In caso di scazzo acuto, mi fareste un enorme piacere a passare di qui u.u

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Capitolo 6
*** Capitolo VI, prima parte - Amanda ***


Capitolo 6, prima parte - Amanda
 
Per quanto mi riguarda, il novantanove percento delle volte è il risveglio che decide come mi comporterò durante la giornata, non lo stato d’animo con cui mi sveglio.
Esempio: se il risveglio è brusco, me ne sto incazzata fino all’arrivo del nuovo giorno; se invece il risveglio è calmo e tranquillo, allora sarò la persona più buona e docile di questo mondo.
Ma ovviamente ci sono anche qui delle eccezioni.
«Tanti auguri!» aveva urlato Lex lanciandosi nel letto al mio fianco.
Aprii gli occhi di scatto, col cuore che mi batteva forte nel petto per lo spavento, e osservai la data sul display del cellulare poggiato sul comodino.
15 Luglio.
In Inghilterra si festeggiava il giorno di San Swithin. In ‘casa ATL’ si festeggiavano i miei ventitré anni.
Sorrisi mentre stiravo le braccia contro la spalliera, ringraziandolo con la voce sonnacchiosa. «Te ne sei ricordato».
«A dire il vero no, è stata mia madre a farlo».
«Stronzo» dissi sollevandomi e abbracciandolo.
«Come sempre» rise.
«Ti voglio bene» sussurrai piano. La mia testa era poggiata tra la sua spalla e il suo collo, in modo da poter respirare tutto l’odore caldo e familiare che quel corpo emanava. Mi ricordai che una volta, un po’ di anni prima, avevo respinto un ragazzino perché non aveva lo stesso profumo di Alex.
Gli volevo bene, gliene volevo da quando ne avevo memoria e lo avrei fatto fino a quando ne avrei avuto la facoltà, ma non sempre riuscivo a dimostrarglielo. Si dice che sia normale, per alcuni: più vuoi bene ad una persona e più difficilmente riesci a manifestare il tuo affetto nei suoi confronti. Che gran seccatura.
«Perché ridi? Mi fai il solletico» domandò dopo un po’ sentendo la mia pelle raggrinzarsi contro la sua.
«Perché pensavo…».
«Pensare ti fa ridere?» chiese perplesso.
«Non mi hai fatto finire. Ridevo perché pensavo che magari potremmo stare insieme e staremo anche bene… Però io conosco tutti i tuoi difetti, e quindi la cosa non è nemmeno lontanamente pensabile» conclusi.
Alex si passò una mano fra i capelli con fare lievemente pensieroso. «Sai che l’altro giorno pensavo la stessa cosa?».
Attimo di silenzio.
Imbarazzo.
Un «Odio la telepatia» detto all’unisono senza averne la benché minima intenzione di farlo ci fece scoppiare a ridere.
«Andiamo di là, forza. Il tuo Jack muore dalla voglia di farti gli auguri».
«Il mio Jack, certo» sbuffai mentre mi alzavo dal letto.
Quando spinsi la porta di camera mia e riuscii a vedere il soggiorno, rimasi a dir poco esterrefatta. Non me l’aspettavo e mai l’avrei fatto, ma ne fui davvero molto contenta.
C’erano un festone che attraversava la stanza da parte a parte, dei palloncini e una piccola torta fatta in casa tra le mani di Zack che, proprio come i suoi tre compagni, mi guardava sorridente.
Mi portai le mani agli occhi, commossa. «E’ più di quanto avrei osato pensare» ammisi.
«Tu ci sottovaluti troppo» rise Dawson venendomi incontro.
Sono abituata a sottovalutare le persone per evitare di aspettarmi troppo e restare delusa, avrei voluto rispondere; ma non lo feci e lo ringraziai soltanto.
Anche Jack mi abbracciò: mi prese per le spalle, mi augurò un buon compleanno - e lo sarebbe stato di certo -, mi scompigliò i capelli e si allontanò.
Il mio sguardo cadde sulla torta. Non aveva proprio quello che poteva essere definito un bell’aspetto, ma non sembrava così male.
«Te la darei, ma non sono sicuro del risultato» disse Zachary ridendo, seppur un po’ imbarazzato.
«E’ un modo carino per dire che non ci vuole sulla coscienza. - tradusse Lex - Va’ a vestirti: andiamo a fare colazione fuori».
 
Alex aveva sempre avuto la tendenza a non dirmi dove aveva intenzione di portarmi quando uscivamo; ma che avesse trasmesso questo piacere alternativo anche al resto della band, beh, questa mi suonava proprio nuova.
E così, dopo essere stati in uno degli Starbucks della città e aver mangiato una squisita focaccina ai mirtilli, brancolavo nel buio, non avendo la più pallida idea di dove fossimo diretti.
«Stiamo andando in spiaggia a fare surf?» domandai esasperata dopo una serie di buchi nell’acqua. Il surf era l’unica possibilità rimastami: non andavamo in centro, non ritornavamo a Hollywood e non ritornavamo neppure a Beverly Hills per spiare Leonardo di Caprio o qualcun altro in particolare come avevamo fatto pochi giorni prima io, Jack e Zack.
La risposta fu un bel «No» all’unisono.
Sbuffai e mi lasciai scivolare sul sedile, rassegnata all’idea che nessuno dei quattro mi avrebbe detto ciò che volevo sapere.
«Se te lo dicessimo, probabilmente non l’apprezzeresti così tanto» osservò sapientemente il Dawson alla guida.
«E noi non vogliamo rovinarti la sorpresa» ammiccò Zachary dalla parte opposta alla mia.
«Anche perché non ci teniamo molto a sapere cosa potrebbe fare il Gas qui davanti se dovessimo spifferarti qualcosa», Jack.
Alex rise malefico. «Non sapevo di avere così tanto potere su di voi, ragazzi… Dovrei iniziare a prendere seriamente in considerazione questa cosa…».
Se magari Robert non avesse fatto il giro completo della costa occidentale degli Stati Uniti - cosa che sospettavo gli fosse stata dettata dal cantante per depistarmi -, sarei riuscita a capire da sola dove stessimo andando, senza impiegare troppo tempo forse. Invece non riuscivo per niente a pensare quella che doveva essere la nostra tanto misteriosa e fantomatica meta, anche perché avevo completamente perso il senso dell’orientamento e sembrava proprio che Rian giocasse ad entrare e uscire dalla città per confondermi di più.
Ero ancora buttata contro il sedile in un posizione del tutto innaturale e sicuramente poco femminile - visto e considerato che non me ne stavo dritta come un palo come invece predicano le buone maniere -, quando scorsi un cartello stradale in lontananza e mi sollevai per leggerlo e avere qualche indizio.
Anaheim, 500 metres, c’era scritto.
Anaheim, Anaheim… Iniziai a ripetermi quel nome in testa perché mi ricordava qualcosa, anche se non riuscivo a capire cosa.
Anaheim, Anaheim, Anaheim…
«Oh cazzo! - esclamai di botto - Andiamo a Disneyland!».
Risero tutti, me compresa, mentre Alex commentava allegro: «Ce ne hai messo di tempo, Morris».
Me ne fregai altamente della battuta, troppo felice e contenta per essere in grado di collegare i miei neuroni tra loro e farli pensare a qualcos’altro che non fosse quel meraviglioso parco divertimenti, e dissi: «All Time Low: sanno come rendere felice una donna».
Quando scesi dalla macchina, una volta arrivati, niente e nessuno mi impedì di stritolarli uno per volta, soprattutto Alexander, che credevo essere l’artefice di tutto.
E invece mi sbagliavo.
«Guarda che non è stata una mia idea» disse.
Lo guardai interdetta. «Ah, no?».
«No. Io avevo in mente di fare altro, a dire il vero… E’ tutto merito di Jackie, è stato lui a proporre di venire qui» spiegò.
Questo era troppo, era troppo davvero.
Jack era figo, era simpatico e adesso sapeva pure che avevo un enorme debole per la Disney; una vocina dentro di me non faceva altro che incitarmi a sposarlo quella sera stessa, magari in qualche cappella tutta cuori di Las Vegas.
Non so se più stupita, confusa o contenta, mi voltai a guardarlo e lui mi fece spallucce con mezzo sorriso incastrato tra le labbra, come a dire «Sì, è colpa mia».
Fu un attimo: corsi, spiccai un salto, gli sbattei contro e finimmo stesi a terra, ridendo come quei due idioti che non eravamo altro.
«Dio, non hai idea di come mi senta, - gli dissi mentre afferravo la sua mano per rimettermi in piedi - mi sembra di essere tornata a quando avevo cinque anni!».
«Oh, ma sul serio? Non l’avrei mai detto» rispose sarcastico. Mi passò un braccio per le spalle e raggiungemmo gli altri, già in coda davanti al box.
C’era parecchia gente in fila in attesa di entrare nel parco delle meraviglie e più il tempo passava, più io mi sentivo insofferente e morivo dalla voglia di entrare; una cretina, a dirla tutta. Solo dopo essere riusciti ad entrare, trovandoci nella Main Street U.S.A., mi resi conto di non essere l’unica talmente emozionata da comportarsi come una lattante. E di ciò devo ringraziare enormemente quel bell’imbusto dagli occhi chiari del Merrick, che, in preda all’eccitazione, cominciò a gridare «Buzz Lightyear, Buzz Lightyear! Oddio, l’avete visto?!», trascinandosi via il povero Dawson che rideva come un matto.
Rimanemmo così io, Alex e Jack, immobili sotto una statua del grande Walt Disney che teneva per mano il suo famoso topolino, il tutto circondato da un’aiuola di fiori gialli profumatissimi.
«Allora, - Barakat si sfregò le mani - da dove cominciamo?».
Un’occhiata complice e, ancora una volta, le voci mia e del mio migliore amico si sovrapposero rispondendo «Fantasyland!».
Dopo Fantasyland - dove riuscimmo anche a scattare una foto con il Cappellaio Matto - fu la volta di Mickey’s Toontown e poi di Tomorrowland, dove ci ricongiungemmo con il batterista e il bassista, che aveva smesso di andare in escandescenze.
Mi sentivo proprio una bambina, affascinata e incantata da tutto quello che vedevo e sono sicura di poter affermare la stessa identica cosa anche per i due ragazzi che si trovavano insieme a me in quei momenti.
«E’ tutto assolutamente fantastico» mi lasciai sfuggire ad un tratto, mentre passavamo accanto alla casa di Topolino nella Mickey’s Toontown.
Ci sarebbe veramente tanto da raccontare, come ad esempio la breve esibizione improvvisata dei ragazzi istigati da un pirata-chitarrista nella New Orleans Square, o il giro nella Haunted Maison che proprio non mi andava di fare - forse perché avevo visto un gruppo di bambini in lacrime dopo essere usciti di lì? Non saprei… -, oppure Bassam che si lamentava del fatto di non essere ancora riuscito a trovare Jack Skeletron per fargli ammirare il tatuaggio che aveva sulla spalla.
Qualsiasi cosa facessimo, la facevamo sempre con un sorriso a trentadue denti in viso.
Ad un certo punto, nel pomeriggio, non capii nemmeno come, io e Jack ci ritrovammo soli. Proprio soli soletti. L’aspetto negativo di quella cosa risiedeva nel fatto che io avessi già smaltito gran parte di quella confusionaria gioia che mi aveva temporaneamente offuscato il cervello e che quindi fossi ben in grado, a quel punto, di riprendere possesso delle mie facoltà mentali.
«Quindi… Cosa facciamo?» domandai guardandomi intorno.
«Pirati dei Caraibi?» propose indicando il cartello davanti a noi. Affermai e dopodiché aggiunse in tono spiritoso «Guarda che là dentro non troverai né Orlando Bloom, né tantomeno Johnny Depp».
«Poco male; tanto ci sei tu e non potrebbe andare meglio di così».
In un primo momento credetti di averlo solamente pensato, come mi capitava spesso di fare, esprimendo risposte che non avrei mai e poi mai detto a voce. Solo quando vidi Jack sorridermi imbarazzato mi resi realmente conto di ciò che avevo detto. Pregai con tutta me stessa la Terra, affinché aprisse una voragine e mi inghiottisse facendomi sparire nella mia vergogna e nella mia stupidità, ma dal momento che questo non avvenne l’unica cosa che mi rimase da fare era continuare ad arrossire inarrestabilmente.
Una volta dentro la caverna sotterranea, prendemmo posto nell’ultima fila dell’imbarcazione, scavalcati da tutta una serie di bimbi accompagnati dai propri genitori.
In quel momento mi vennero in mente i miei, di genitori, e mi ricordai del nostro primo viaggio insieme: avevo da poco compiuto i cinque anni ed eravamo andati all’Eurodisney di Parigi, prima di tornare in Italia per salutare i nonni materni e tornare a casa, a Baltimora. Con il tempo avevo dimenticato la maggior parte delle cose successe in quel soggiorno parigino, ma adesso, lì nel parco di Anaheim, quei pochi ricordi che avevo riemersero a galla, facendomi sorridere tra me e me. Ero così persa nei miei pensieri da non accorgermi nemmeno della barchetta che aveva iniziato a muoversi.
«Sei felice?» mi chiese improvvisamente Jack, riportandomi alla realtà e rompendo il silenzio che si era creato tra noi dopo che io avevo detto quel che avevo detto. Forse aveva scambiato i sorrisi che mi suscitavano i ricordi d’infanzia con la contentezza di trovarmi lì… Di trovarmi lì con lui.
«Non immagini quanto. - risposi sincera - Non credo che ti ringrazierò mai abbastanza per aver avuto l’idea di venire qui, Barakat».
Sorrise, e attraverso la poca luce che emanava la lanterna di uno dei finti pirati della grotta potei notare che quel sorriso fosse molto diverso da quelli che gli avevo visto fare di solito; non era malizioso, non era neppure ironico, e non era totalmente divertito… Era più soddisfatto, appagato e felice come il mio, oserei dire.
«Sono contento del fatto che tu abbia deciso di passare l’estate insieme a noi, Amy. Anche se spesso mi comporto da stronzo e ti faccio incazzare, ci tengo a te».
Si avvicinò puntando i suoi occhi nei miei.
Poco per volta ma sempre di più; la scena sembrò svolgersi al rallentatore.
Anche attraverso la fioca luce potei cogliere il suo sguardo intenso mentre mi fissava.
Alzò un braccio e affondò piano la mano tra i miei capelli.
Chiusi gli occhi.
Un bacio? In quel momento? Non me lo sarei mai aspettato, non così all’improvviso, non così subito. Ma non lo avrei mai disdegnato, questo è ovvio.
Me stavo lì, con gli occhi chiusi, il cuore che batteva forte per uscirmi dal petto e un urlo che mi moriva in gola, soffocato dalla stessa contentezza e dalla voglia di non rovinare quel momento.
E poi niente.
Jack ritrasse il braccio e lo sentii allontanarsi da me per tornare al suo posto. Aprii gli occhi e lo guardai confusa.
«Avevi una finta ragnatela attaccata ai capelli. Sarà sicuramente caduta dal soffitto» spiegò facendo dondolare tra le dita quell’affare simile a del cotone sporco.
«Oh, certo» balbettai a bassa voce.
Non ebbi neppure il tempo di far ordine in tutto quel groviglio di pensieri che ululava dentro la mia testa che mi ritrovai sbalzata fuori dall’imbarcazione e immersa nella luce del pomeriggio, senza rendermene conto, facendo tutto meccanicamente.
«Ah, eravate qui. - disse Lex - Ci avrei scommesso».
Rian e Zack iniziarono a ridere, seppure piano, e si vedeva chiaramente che i loro sforzi per autocontrollarsi erano del tutto inutili. Smisero solo quando si accorsero dello sguardo truce negli occhi di Jack, sguardo che io non vidi, ma che immaginai come se fosse rivolto a me.
Gaskarth continuò. «Abbiamo più o meno tre quarti d’ora prima di dover andare via. Amy, vuoi andare a fare shopping?».
Distrattamente, feci cenno di sì con la testa.
«Va bene… Ragazzi, accompagnate voi Amanda? Io ho urgente bisogno di un bagno… Vieni con me, Jack?».
E così, senza porre nessuna obiezione e senza dire niente, mi allontanai con i due ragazzi, sperando nel potere curativo di quello che le mie coetanee definivano “shopping terapia”.

Long live the Reckless and the Brave...

Tempo record! Cioè, ho aggiornato in dieci giorni, vi rendete conto? u.u
Comunque sì, avete letto bene: "prima parte"... La seconda è già tutta nel mio cervellino, devo solo scriverla e vedere come esce :D
Oggi non ho molto dire, quindi vi mollo (siete fortunate, questo NdA è breve... Che poi non so neppure chi legge le cavolate che scrivo qui, bah ._.)
Vi ringrazio e spero che il capitolo vi sia piaciuto :3
With love,

A.

Ps: Se volete, mi trovate su Twitter proprio qui :)





 

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