La Terra Di Mezzo.

di EvgeniaPsyche Rox
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. I'll Just disappear some day and never come back ***
Capitolo 2: *** II. I am weak and I am tired of feeling like this ***



Capitolo 1
*** I. I'll Just disappear some day and never come back ***


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I.I'll Just disappear some day and never come back

 

Che strano, si disse, con gli occhi rivolti alla finestra e le labbra serrate, sembrava una giornata così bella.
E proprio in quel momento un lampo squarciò il grigio cielo, mentre alcuni passanti sul marciapiede si affrettarono ad accellerare il passo.
Vide un bambino scivolare su una pozzanghera e, in un attimo, le labbra che si schiudevano per far' fuoriuscire un pianto isterico seguito da lacrime amare; una donna, probabilmente sua madre, che si precipitava a soccorrerlo, reggendo faticosamente il sacchetto della spesa e l'ombrello verde.
Una grassa risata alla sua sinistra; si voltò appena, nonostante sapesse perfettamente chi ne fosse il proprietario.
Non ci trovò nulla di divertente.
Quel bambino si era fatto male.
Vide perfino il ginocchio sbucciato e la madre, che aveva appoggiato a terra tutto ciò che prima reggeva in mano, intenta ad asciugare quelle piccole goccioline di sangue che sgorgavano dalla ferita.
Non era divertente.
Non è divertente farsi male.
«Hai visto com'è caduto?», ridacchiò appena, incollando il naso al vetro, assumendo così una buffa smorfia.
«Non faceva ridere.Per niente.»
«Invece per me è stato divertente.», replicò con un allegro sorriso dipinto sul volto il fratello, voltandosi verso l'altro che aveva sospirato.«Non è colpa mia se a te non fa ridere nulla.», e, dopo aver detto ciò, si alzò velocemente, uscendo dalla stanza.
Un altro lampo, seguito poi da un tuono.
Sentì il rintocchio del maeostoso orologio in soggiorno che annunciò le diciotto in punto, mentre le ballerine nere delle cameriere continuavano a rimbombare lungo i corridoi, intente già a preparare la cena.
Appoggiò la testa contro le tendine color' pesca matura e voltò lo sguardo stanco verso l'ambiente circostante; una miriade di ricordi affollò la sua giovane mente e, per un attimo, temette di essere trascinato via da quelle memorie che lo accarezzavano e, al tempo stesso, gli bruciavano l'anima.
Praticamente ogni giorno le donne delle pulizie, a mezzogiorno in punto, spolveravano la sua grande stanza, rendendola brillante e splendente sotto ogni punto di vista; eppure lui la vedeva sempre vecchia.
Come una fotografia ingiallita dei suoi nonni, nella sua stanza sentiva sempre uno strano odore soffocante che sapeva tanto di vecchio e addirittura marcio; pensò che, probabilmente, la pesantezza dei ricordi che aveva avuto in quella camera da letto che costituiva il suo piccolo mondo, l'aveva trasformata in un baule perennemente impolverato, per quanto pulito e ripulito.
Però non sempre l'odore di vecchio era così sgradevole.
Quando si recava a casa del suo amato nonno, ai tempi in cui era ancora vivo, sentiva nella sua stanza un piacevole profumo che lo invitava a rimanere lì per sempre; con le gambe penzolanti sulla sedia a dondolo, quando aveva otto anni, ascoltava con grande interesse i racconti del vecchio.
'Le vedi queste, nipotino mio?', gli chiedeva, mentre lui annuiva, 'Io vado fiero di queste rughe!Sono il simbolo della mia vita.Sono la dimostrazione fisica che io ho vissuto la mia vita.E sai qual'è la cosa più bella?Che io amo le mie rughe, perchè ho amato la mia vita.'
E, qualche volta, prima di chiudersi in uno strano silenzio, gli raccomandava: 'Anche tu dovrai amare la tua vita.'
In quel momento desiderò profondamente tirare fuori il corpo in decomposizione di suo nonno dalla tomba, nella periferia della città, scuoterlo fino a risvegliarlo e chiedergli, gridando, dove poteva trovare la medicina che gli avrebbe permesso di amare la propria vita.
Perchè lui l'aveva cercata per anni, senza risultati.
Aveva atteso per giorni interminabili, per attimi che scivolavano via dalla sua grigia esistenza; si era sempre limitato ad attendere, dietro la piccola finestra della stanza della sua grande villa.
Ma non successe nulla.
Solamente un'attesa che gli aveva mozzato il respiro, costringendolo ogni mattina ad aprire faticosamente gli occhi, mentre la sera, con le coperte fino al naso e lo sguardo spaventato nel buio, sperava che la sua vita potesse essere solamente un lungo e orribile incubo.
La sera iniziò ad invadere la città, e, dentro di lui, proprio nello stesso momento in cui l'ennesimo lampo illuminò il cielo, naque improvvisamente la consapevolezza che quella lunga e interminabile attesa sarebbe stata sicuramente eterna.
Avrebbe passato il resto della sua vita dietro la finestra trasparente ad osservare il mondo che cercava faticosamente di tirare avanti, bene o male, giorno dopo giorno.
E avrebbe visto altri bambini cadere sotto la pioggia, altre madri, altri ombrelli colorati, altre persone e altre stagioni.
Non c'era niente di divertente nel cadere.
Ricordò quando, a cinque anni, aveva preso di nascosto la bicicletta di suo fratello, era salito poi su di essa, nonostante fosse senza rotelle; si era ritrovato così sul duro asfalto di cemento, i gomiti scarlatti e le lacrime agli occhi, mentre la ruota della bicicletta a lato continuava a girare.
Ricordò anche il volto allarmato della vicina, la signora Bakker, che si era precipitata verso di lui, prendendolo in braccio nella speranza di tranquillizzarlo.
'Una donna dall'animo d'oro', gli diceva una volta sua madre per descrivere la vicina, trasferita ormai da tempo.
Suo marito aveva spiegato che voleva andare in giro per il mondo a fare fortuna; voleva cambiare vita, aveva detto, con accanto la moglie che annuiva energeticamente, reggendo le valigie di stoffa rossa in mano.
Anche lui avrebbe voluto andare insieme a loro.
Aveva avuto l'impulso di nascondersi nel baule della loro macchina celeste, rannicchiandosi il più possibile, andando poi con la coppia sposata ad esplorare il mondo.
Forse sarebbe tornato, dopo.E avrebbe sicuramente parlato a sua madre dell'enorme quantità di posti che aveva esplorato e avrebbe certamente portato qualche souvenir a suo fratello.
Magari tutti avrebbero parlato di lui; non l'avrebbero più conosciuto come 'il figlio dell'impresario di quella grande fabbrica in fondo alla città', ma come 'il giovane che aveva esplorato il mondo insieme ai signori Bakker.'
Sì, sarebbe andata così.
E magari sarebbero arrivati anche dei giornalisti ad intervistarlo, per domandargli quali emozioni aveva provato in quella nuova ed entusiasmante esperienza: e lui avrebbe risposto che era stato tutto indescrivibilmente magnifico.
Sentì qualcuno bussare alla porta e i suoi occhi blu cobalto si voltarono di scatto all'indietro.«Chi è?»
Udì un brusio, il silenzio, e poi una sola voce pacata e severa a lui, purtroppo, familiare.«Devi dire a tua madre che oggi non ci sarò a cena.Dopo dovrò tornare alla fabbrica.»
Ancora silenzio.
«Va bene.»
«Stai studiando?»
Si morse un poco il labbro inferiore che prese immediatamente a sanguinare, affrettandosi poi a rispondere.«Sì, papà.Sto studiando.»
«Bene.Ciao.»
E prima che dalla sua piccola bocca potesse fuoriuscire un qualsiasi saluto, sentì solo il fastidioso rumore delle pesanti scarpe di suo padre allontanarsi, il che annunciò la fine della conversazione.
Sicuramente, se avesse esplorato il mondo con i Bakker, avrebbe portato con sé un piccolo note-book per scrivere un resoconto del viaggio: almeno, in un prossimo futuro, avrebbe potuto rileggerlo e non si sarebbe scordato nulla.
Si sarebbe portato i ricordi di quel viaggio indescrivibile per sempre.
Tornò ad osservare il marciapiede bagnato e si accorse che il bambino e la madre non c'erano più.
Forse erano già tornati a casa, pensò, e la madre gli aveva preparato una fumante tazza di cioccolata calda; o forse aveva preso un pò di ghiaccio per impedirgli di sentire altro dolore.O, chissà, si chiese ancora, forse gli stava leggendo un libro di favole.
Magari gli stava leggendo Cappuccetto Rosso: lui non aveva mai letto o visto quella fiaba, e se n'era accorto in una giornata piovosa d'inverno, alle elementari, quando in classe la maestra aveva chiesto di scrivere la morale finale.
Ed egli aveva spiegato che non conosceva nulla intitolato ''Cappuccetto Rosso''; aveva poi udito le risate dei suoi compagni di classe e lo sguardo stupito dell'insegnante.
Fuori continuava a piovere.

                                                                                                   ~

S'andava accorgendosi, via via che passava il tempo, che sua madre era praticamente l'unica persona che riusciva ad apprezzare in quella dimora che gli faceva da prigione; con un delizioso sorriso che gli ricordava sempre vagamente la primavera, congedò una delle tante cameriere di cui non ricordava il nome, rivolgendo poi lo sguardo agli altri due presenti.
«Allora, com'è andata oggi a scuola, ragazzi?», chiese iniziando a tagliare l'arrosto di vitello con aria concentrata, stando ben attenta a non appoggiare i gomiti sul tavolo; il giovane dai capelli castani, a quella domanda, fece scorrere lo sguardo da una parte all'altra del grande tavolo, quasi fosse alla ricerca di qualcosa, per poi affrettarsi a rispondere.«Tutto bene; mi hanno invitato ad una festa per domani.Posso andarci?»
«Solo se finisci di mangiare tutto, Sora.», rispose con tranquillità la donna dai capelli castani, indicando il piatto del figlio, il quale aveva storto le labbra in una smorfia disgustata.
«Sora...», lo chiamò con un tono rimprovero seguito da una risata divertita la madre, costringendo così il figlio ad iniziare a mangiare i tanto odiati spinaci.
«E tu, caro, com'è andata la tua giornata?», si rivolse così al fratello più grande, senza smettere di sorridere.
Talvolta si chiedeva se quel sorriso fosse falso; se non fosse uno di quei sorrisi fatti così, tanto per fare, un sorriso materno d'obbligo che non aveva nulla di sincero.Un sorriso che nascondeva un tornado di malinconia e tristezza, se lo chiedeva, se lo chiedeva spesso, ma non trovava mai risposta.
Questo perchè lui non sapeva leggere nel pensiero; qualche volta, però, avrebbe voluto avere quella particolare dote.
Avrebbe sicuramente passato le giornate a leggere la mente delle persone; a leggere i dolori che li affliggevano, ad immergersi nei loro ricordi, a vedere le parole non dette, le rivelazioni e piccoli segreti che appesantivano le loro schiene.
Invece altre volte pensava che era meglio non sapere cosa galleggiava nelle menti altrui; non voleva conoscere i pregiudizi della gente, non voleva essere a conoscenza di ciò che pensavano gli altri su di lui, soprattutto se erano pensieri negativi.
Piuttosto, continuò a pensare, avrebbe preferito che gli altri leggessero i suoi pensieri; nessuno si voltava mai quando lui gridava nel silenzio, quando strillava fino a non avere più voce, quando urlava fino a rompere i vetri immaginari della sua mente esausta.
«Come al solito.», si limitò a rispondere con lo sguardo basso, iniziando anch'egli a mangiare, nonostante avesse lo stomaco chiuso.
«Sei sicuro?», continuò a domandare con insistenza la donna, infilandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio sinistro mentre cercava di decifrare lo sguardo del figlio, il quale annuì, stringendo la forchetta nella mano.
«Come sta la zia?», Sora interruppe il breve silenzio che si era creato nonostante avesse la bocca piena, ricevendo un'occhiata carica di rimprovero da parte della madre che però dopo poco rispose.«Meglio, domani potrai andare a trovarla.»
«Posso venire anch'io?», si strinse le spalle, sperando in una risposta positiva da parte della madre che però si limitò a guardare Sora, facendogli cenno di abbandonare la stanza per un pò.
E lui detestava quando si ritrovava solo a tavola con la madre perchè sapeva già che voleva dirgli qualcosa che gli avrebbe lacerato l'anima oppure, nella maggior' parte dei casi, gli avrebbe annunciato qualche nuovo dovere.
Suo padre non aveva mai sopportato la zia; la considerava una donna pazza.
'E' una poco di buono.Di basso livello.', gli aveva spiegato con gli occhiali sul naso e gli occhi puntati sui svariati fogli da lavoro, scrivendo qualcosa di incomprensibile, mentre il figlio, allora solo un dodicenne, aveva osato chiedere: «Perchè?A me sembra simpatica...L'ultima volta che ci ha fatto visita mi ha portato anche un regalo.»
E l'uomo aveva battuto con violenza un pugno sulla scrivania marrone, facendo sobbalzare il ragazzino seduto di fronte a lui; per un attimo gli sembrò addirittura di aver visto spuntare un capello bianco.«Stai per caso insinuando che se una persona ti porta dei doni, tu devi darle la tua fiducia?!»
«N-No, io...»
«E allora non voglio più sentire questi discorsi.», concluse il padre alzandosi rumorosamente dopo aver ordinato i fogli in una cartellina trasparente, lasciando la stanza e, soprattutto, il biondo a testa bassa, perso nei propri pensieri.
Successivamente venne a conoscenza del fatto che zia Jennifer si era fatta un tatuaggio alla schiena; l'aveva anche visto di nascosto, mentre lei stava nuotando in piscina.
Era una piccola farfalla che trasmetteva eleganza e libertà; pensava che fosse bellissima e si era messo in testa che sicuramente, un giorno, si sarebbe fatto un tatuaggio anche lui.
Ma era per persone poco di buono.
Il fratello minore abbandonò la sala da pranzo il più velocemente possibile, mentre la madre concentrò tutta la propria attenzione sul secondo figlio che in quel momento aveva alzato un poco gli occhi blu cobalto, cercando in ogni modo di non mostrare la propria agitazione interiore.
«Roxas...», lo chiamò con un sospiro prima di proseguire.«Tuo padre pensa che sia meglio che tu...Sì, insomma, che tu smetta di andare a scuola.», e si interruppe, osservando la reazione del figlio, il quale aveva sgranato le iridi azzurre in un'espressione allibita.
In realtà legati a quel grigio edificio al centro della città, circondato da possenti mura del medesimo colore che gli ricordavano vagamente un campo di concentramento nazista, non aveva molto ricordi piacevoli; solo la monotona voce dell'insegnante che si perdeva nell'aula tappezzata da cartine geografiche, in mezzo ai volti annoiati dei giovani studenti.
Uno in particolare sembrava trovare la lezione più noiosa degli altri; con lo sguardo al soffitto, dondolandosi sulla sedia, sbuffava ripetutamente, sonnecchiando di tanto in tanto.
E Roxas l'aveva sempre guardato con ammirazione, nonostante venisse dalla parte povera, come diceva suo padre, della città; arrivava a scuola sempre in ritardo su una vecchia bicicletta arrugginita e si scordava ogni giorno qualche libro, ricevendo compiti e castighi dai professori che non ne potevano più della sua presenza.
Eppure non si dimenticava mai di portare con sé quel mezzo sorriso ironico che lo caratterizzava.

Madre ubriaca e il padre chissà dove, Hayner Ludwig sembrava però ignorare i problemi della vita, calpestandoli sotto le suole dell'unico paio di scarpe che aveva; con quei vispi occhi castani che celavano uno sguardo fiero e perennemente allegro, aveva sempre aiutato il giovane Roxas a difendersi dai bulli della scuola.
«Ma andiamo», si era improvvisamente intromesso, parandosi di fronte al biondo che giaceva sul terriccio bagnato, intento ad asciugarsi il sangue dal naso con la mano tremante, «Lo prendete in giro solo perchè studia?Fatevi una vita, sfigati.», e gli aveva sputato addosso dopo aver afferrato per un braccio l'altro, costringendolo a salire sulla propria bicicletta.«E ora...Si pedala!»
Era scoppiato così in un'allegra risata, ignorando gli insulti dei ragazzacci dietro, limitandosi ad iniziare a pedalare il più velocemente possibile e lasciando che la brezza autunnale gli scompigliasse i capelli.
La donna si alzò improvvisamente, costringendo Roxas a ritornare alla realtà, mentre lei aveva sospirato, accostandosi alla finestra.«Tesoro, tuo padre desidera che tu frequenti degli studi privati.Dalla prossima settimana arriveranno gli insegnanti migliori della regione qui, così non dovrai nemmeno faticare per andare a scuola.»
L'altro si irrigidì, sentendo un improvviso contatto di nausea che lo costrinse ad allontanare il piatto con aria stranamente spossata.
«Non ho più fame.Con permesso.», si limitò quasi a bisbigliare, alzandosi anch'egli prima di correre via dalla sala, spintonando involontariamente un cameriera che si scusò in fretta, salendo poi al piano superiore.
Rallentò non appena i piedi nudi sfiorarono il tappeto ricamato di fronte alla porta di camera sua; si affrettò a muovere la lucente maniglia, entrando velocemente e richiudendo poi la porta dietro di sé.
Fece così scivolare la propria schiena contro la parete e alzò la testa verso il soffitto, lasciandosi sfuggire diversi singhiozzi; chiuse di scatto gli occhi, cercando in ogni modo di non permettere loro di piangere in alcun modo.
'I veri uomini non piangono.', la rude voce di suo padre la ricordava bene, quando, a sette anni compiuti da poco, lo aveva guardato con aria severa, mentre lui aveva soffocato il volto piangente tra le proprie gambe.
E da quel giorno non vide mai più le lacrime solcare il proprio volto.Soffocò sempre tutto dentro, rinchiuse la sofferenza in un baule e lasciò che essa gridasse in eterno, senza potersi manifestare in liquido amaro dagli occhi.
Si alzò barcollando, spogliandosi di quelle vesti eleganti che tanto detestava; lasciò che la seta pregiata si adagiasse sul pavimento accuratamente lavato due volte al giorno e s'avviò verso la finestra, evitando il proprio riflesso allo specchio che mostrava un ragazzo troppo fragile non solo interiormente, appoggiando una mano sul vetro: aveva smesso di piovere e ora il mondo era addobbato da piccole goccioline.
Forse non erano gli altri che erano sordi, forse era lui che non gridava abbastanza, si disse con aria amareggiata, notando sul marciapiede un piccolo orfanello che chiedeva la carità insieme alla sorella minore.
Vide il proprio respiro infrangersi sul vetro e gli sembrò addirittura di sentire il battito del proprio cuore; successivamente si voltò, muovendosi nelle tenebre della stanza, afferrando il mappamondo sulla scrivania.
Lo fece girare un poco e permise alla propria mano di sfiorare la plastica liscia che mostrava oceani e mari, continenti e paesi, città e capitali.
Se non sarebbe più andato a scuola, avrebbe visto Hayner ancora meno.
Hayner.La sua unica ancora di salvezza.La chiave che lo conduceva in un mondo immaginario dove la sua vita diventava solo un lontano e triste ricordo.
Quando suo padre aveva scoperto che frequentava un ragazzo di livello sociale così basso, lo aveva messo in punizione per un mese intero.
«Non devi più avvicinarti a quel ragazzaccio!», gli aveva gridato contro con occhi infuriati, mentre lui aveva tentato inutilmente di difenderlo.
«Papà, tu non capisci!Hayner non è un ragazzaccio!Lui è...»
«Niente storie!Tu devi frequentare gente del tuo livello; lo capisci questo o no?!»
Strinse un pugno a quel doloroso ricordo, iniziando a patire il freddo dato che indossava solo i boxer; fece per afferrare il proprio pigiama sull'appendiabiti, quando udì delle voci fuori dalla propria stanza.
«Caro, è così stanco, ha solo sedici anni, io credo che tu gli stia dando un pò troppe responsabilità.», immaginò il volto implorante di sua madre che tentava di convincere il marito, il quale, però, rispose seccamente.«Non dire sciocchezze, Mary.Io a quattordici anni conoscevo già il mio destino; anzi, gli abbiamo lasciato troppo tempo.E' ora che impari a crescere.», li sentì allontanarsi lentamente e poi chiudersi in camera loro.
E lui rimase lì, immerso nel buio, dove l'unica fonte di luce proveniva dalla finestra.
Sentì le proprie gambe divenire improvvisamente deboli e si lasciò abbandonare sul pavimento, facendo compagnia ai propri vestiti: abbassò lo sguardo e si coprì le spalle nude con le braccia, quasi impaurito di essere visto.
'Sono sicuro che io e te saremo ottimi amici!', socchiuse gli occhi, sforzandosi di concentrare i propri pensieri sull'unica persona che sembrava aprirgli uno spiraglio di luce in mezzo a quel tunnel di oscurià che lo stava lentamente e inesorabilmente rissucchiando via.
Non seppe esattamente quanto tempo passò; forse solo alcuni minuti, o forse un paio d'ore.
Eppure nessuno venne a cercarlo.
Sentì solo il pungente freddo di Ottobre pizzicargli la pelle e un immenso vuoto che gli squarciò l'anima; quando rialzò gli occhi stanchi, notò il libro che prima stava leggendo ancora aperto sul gelido pavimento, illuminato dalla luce proveniente dal mondo esterno.
Tremò appena e rilesse più e più volte quella frase che sembrava apparire più delle altre:
''Fra i trentasei modi per evitare un disastro, fuggire è il modo migliore.''

                                                                                            ~

Deboli raggi gli baciarono flebilmente le guance arrossate, mentre il suo respiro impercettibile continuava a vagare nel mondo dei sogni fino a quando la sveglia non lo costrinse ad imbattersi nuovamente contro la realtà.
Si affrettò a spegnerla, sperando in cuor' suo di non aver svegliato nessuno in quella tiepida mattinata di una Domenica qualunque, per poi scostarsi le coperte di dosso, sedendosi sul morbido materasso; volse così lo sguardo alla finestra e si accorse che il sole aveva da poco annunciato la sua presenza nel cielo.
Si alzò faticosamente e rischiò di perdere l'equilibrio, ancora troppo assonnato, ma, nonostante ciò, raggiunse l'armadio e lo aprì lentamente a causa del tremore alle mani; era davvero pronto a tuffarsi in un nuovo mare?
Era davvero pronto ad esplorare nuove albe e nuovi tramonti?
Strinse le ante di legno e scosse velocemente la chioma bionda, cercando di allontanare qualsiasi incertezza dalla propria mente; in mezzo a smoking eleganti e abiti da ballo per cerimonie e matromoni, riuscì ad afferrare i suoi amati jeans chiari, unico paio di pantaloni normali che era riuscito a comprare di nascosto, anche se lievemente strappati.
Prese poi una maglia grigia che gli era stata regalata da Hayner per il suo quindicesimo compleanno; in mezzo alla monotona festa in suo onore, tra persone e ragazzi di alta società che non facevano altro che far' tintinnare i propri bicchieri di vetro colmi di vino rosso, non appena il festeggiato era riuscito ad avere un pò di privacy in camera propria, si era ritrovato il volto raggiante del giovane sotto la finestra, con in mano un piccolo regalo impacchettato.
«Sono riuscito a farti questo piccolo pensierino», gli aveva detto con un sorriso un pò impacciato, «Ho guadagnato qualcosina con un paio di lavoretti qua e là.Buon compleanno, amico.»
E per lui fu il regalo più bello del mondo.
Si spogliò in un attimo ed indossò i vestiti scelti, sentendo quel tessuto accarezzargli piacevolmente la pelle; non era come la seta pregiata, lui la detestava, la odiava.Gli pizzicava sempre, soprattutto quando era seduto.
Prese nuovamente posto sul morbido letto, dopo aver aperto la finestra, e si infilò un paio di scarpe da ginnastica un pò trasandate; le aveva rubate il suo migliore amico per lui.
Aveva accennato una fragorosa risata, indicando gli stivali lucenti dal colore della notte che indossava.«Vuoi tenerti questi per andare ad esplorare la foresta?»
E lui, con le gote arrossate a causa dell'imbarazzo e lo sguardo basso, si era scostato un poco, borbottando: «Sai che i miei desiderano solo che io indossi stivali di marca.»
Hayner aveva ridacchiato ancora, prendendolo per mano per poi trascinarlo in un negozio di scarpe di terza mano, indicandone un paio dietro la vetrina.«Le vedi quelle?Tra poco le porterai ai piedi senza spendere uno spicciolo.»
Lo sentì ridere per tutto tutto il tempo, soprattutto quando, stringendo sempre la sua morbida mano, era corso via tenendo dall'altra parte le scarpe, mentre il padrone gli gridava dietro che avrebbe chiamato la polizia.
Un'improvvisa morsa allo stomaco lo costrinse a stringersi la pancia, mentre chinò il pallido volto in avanti, tremante; e se era era tutto un enorme sbaglio?
Forse non era quella la scelta giusta.
Appoggiò una mano alla parete e tornò ad osservare il mondo esterno, dietro il vetro trasparente; era sempre stato dietro, lui.
Dietro le quinte ad osservare.
E ora desiderava entrare in scena; desiderava scostare le tende e buttarsi sul palco, ignaro di ciò che poteva attenderlo.
Si sarebbe tuffato.
Afferrò un cappello nero e se lo infilò in testa, nascondendovi i numerosi ciuffi biondi; si guardò poi nuovamente allo specchio, immergendosi nell'oceano dei propri occhi.
Suo padre aveva sempre detestato i suoi capelli: troppo disordinati e ribelli, diceva lui, guardandolo con aria severa.
E così aveva iniziato a riempirlo di gel e lacca, impedendo a quei poveri ciuffi qualsiasi movimento; se ne stavano lì, fermi sulla sua testa, immobili, e lui si guardava il proprio riflesso con ribrezzo.
S'accorse poi che ciò che stava vivendo lo terrorizzava più del rischio di affogare tra le tenebre di un oceano ignoto, sotto un cielo sconosciuto.
Prese lo zaino e scivolò furtivamente fuori dalla stanza, chiudendo velocemente la porta dietro di sé; dopo essersi curato che non ci fosse nessuno, si avviò verso la porta di fronte, muovendo un poco la maniglia argentata.
La stanza immersa ancora nel buio, alcuni vestiti sparsi sulla moquette, un piccolo letto a destra; suo fratello Sora era completamente perso tra le braccia di Morfeo, mugugnando qualcosa di incomprensibile di tanto in tanto che aveva a che fare con le salsicce, forse, e allungava la mano in cerca di chissà cosa.
Non era cattivo.
Un pò ingenuo, sì, ma non era cattivo, anzi.
Aveva semplicemente goduto della fortuna di nascere cinque minuti dopo il biondo, il che lo presentava come il fratello minore, ovvero colui che poteva permettersi tutto il lusso della vita di un sedicenne di prima classe.
Non era colpa sua, si sforzò di pensare, per quanto l'invidia continuava a mordergli ripetutamente l'animo, ogni volta che lo vedeva.
Spesso, quando non riusciva a prendere sonno, si recava di nascosto in camera sua e passava il tempo ad osservarlo, a chiedersi che cosa stesse sognando, a domandarsi come doveva essere bello partecipare ad una vera festa.
E pregava.Anche se, al contrario di sua madre, non gli interessava molto l'esistenza di Dio; però pregava comunque.
Pregava di poter' essere suo fratello, anche per un giorno soltanto, di poter' divertirsi come lui: poi fuggiva via e si infilava sotto le pesanti coperte, sperando che il proprio desiderio venisse ascoltato.
Eppure non fu così.
Richiuse la porta senza fare rumore, stringendo la cartella mentre scendeva velocemente le scale, stando attento a non farle scricchiolare in alcun modo; superò il grande ritratto incorniciato che occupava gran' parte della parete arancione, il quale raffigurava lui, con un sorriso stanco e falso, insieme alla sua famiglia, e, in fondo, insieme alla firma ordinata dell'artista, vi era scritto: La Famiglia Van Drosten.
Raggiunse la cucina, luogo destinato solamente alle domestiche, e afferrò un paio di mandarini dal cesto della frutta, infilandoli nella cartella, la quale conteneva già il suo piccolo mappamondo; prese poi qualche barretta di cioccolato e due bottiglie d'acqua.
Richiuse la zip del piccolo zainetto e se lo mise sulle spalle; successivamente uscì con passo svelto dalla cucina, superando il corridoio e arrivando di fronte al portone di casa, dove accanto le pareti erano addobbate da svariati ritratti e meriti di famiglia.
Chiuse gli occhi per un attimo e prese un profondo respiro, venendo investito nuovamente da quel familiare senso di nausea: stava per tuffarsi.
Allungò la mano sinistra e girò la serratura della porta che provocò un sordo rumore, e, con cautela, aprì la porta di legno; il nastro che lo collegava alla sua vita si stava per rompere, e questo, Roxas Van Drosten, lo sapeva bene.
Si ritrovò così nel mondo e a dargli il benvenuto fu la lieve brezza mattutina.
La prima cosa che colpì la sua attenzione fu l'albero che aveva sempre segnato le sue stagioni autunnali; con l'enorme quantità di foglie che lasciava cadere sul marciapiede asfaltato e le prime gocce di pioggia che bagnava la sua chioma bionda, ricordava bene come Hayner si divertiva a tuffarsi in quei colori, accennando le sue solite risate.
Voltò lo sguardo e si accorse di un'anziana signora seduta su una panchina verde: la signora Janseen aveva lo sguardo rivolto al cielo e nel frattempo tirava briciole di pane alle colombe ai suoi piedi che sembravano gradire lo spuntino mattutino.
Dopo che suo marito, una decina di anni fa, l'aveva abbandonata al suo destino, fuggendo con un'altra donna molto più giovane di lui, era caduta in depressione ed era praticamente impazzita del tutto; si era chiusa in un silenzio ostinato, anche se talvolta borbottava frasi smielate ed incomprensibili, passando la giornata seduta fuori, nei parchi o di fronte alle scuole.
Ad osservare.
Roxas pensava semplicemente che aveva perso la voglia di vivere; non era pazza, era stanca, ecco tutto.
Così aveva deciso di rimanere in un mondo tutto suo dove nessuno avrebbe mai avuto la chiave per entrarvi.
Una volta, qualche anno fa, le si era seduto accanto e lei gli aveva dato un pezzo di pane; inizialmente pensò che forse la donna lo aveva scambiato per una colomba, una grande colomba, ma poi si accorse che era un gesto di gentilezza.
E lui lo apprezzò molto.
Era una donna in cerca della speranza perduta.
La salutò con un cenno della mano che lei ignorò e poi iniziò a correre; dentro di sé sentì un miscuglio di diverse emozioni.
Sentì il bumbum del proprio cuore, sentì il respiro farsi affannoso, sentì le gocce di sudore che scivolavano lungo il suo volto, sentì il sole che gli sfiorava la schiena, sentì la paura, l'ansia, l'emozione.
E sentì anche l'ondeggiare del silenzio.
Superò edifici, fabbriche, case, parchi e scuole; superò alberi, persone e sguardi indiscreti; superò il vento, il sole e lo scruscìo delle foglie; corse, corse senza voltarsi.
Non voleva annegare nell'abisso della monotonia, no, assolutamente no.
Suo padre non l'avrebbe trascinato giù.Non ci sarebbe riuscito, non senza aver' almeno provato a lottare.
Calpestò diverse pozzanghere così come suo padre lo aveva sempre calpestato; chiuso in una scatola troppo piccola per lui, soffocato nel suo essere, utilizzato come fenomeno da baraccone.
E nessuno si era mai degnato di aprire quella scatola.
Raggiunse finalmente un quartiere trasandato e vecchio, con edifici decadenti e viali poco curati; 'le strade dei poveracci', lo chiamava senza pudore suo padre.
Rallentò la corsa e si guardò attorno; nessuna anima viva in giro, solamente un silenzio soffocante, interrotto dopo qualche secondo dal pianto di un bambino proveniente da qualche casa.
Ignorò l'improvvisa angoscia che gli trapassò il corpo e, dopo essersi fatto coraggio, si recò verso una piccola casetta grigia in fondo al viale dalla porta quasi a pezzi; rabbrividì e bussò tre volte.
Nessuna risposta.
Deglutì e riprovò un'altra volta, ma ci fu solo il silenzio a fargli compagnia.
Con aria amareggiata si voltò, quando una voce a lui familiare lo fece sussultare.
«Roxas!Ma allora sei tu!Temevo di essermi sognato i colpi alla porta, e invece...», si lasciò sfuggire una risata acuta, avvicinandosi a piedi scalzi al giovane e tirandogli così una pacca sulla spalla.
Ad Hayner non importava nulla se erano le cinque e mezzo del mattino; non solo perchè dormiva poco di notte, troppo intento a controllare che sua madre non combinasse stupidaggini, ma anche perchè avrebbe fatto qualsiasi cosa per il suo migliore amico.
Qualsiasi cosa, in qualsiasi giorno, in qualsiasi orario della giornata.
Roxas osservò l'unica persona davvero importante per lui; la guancia sinistra un pò sporca, un paio di vecchi pantaloni verde militare, una maglietta a maniche corte, nonostante l'aria fresca, non impedivano comunque ad Hayner di sorridere, come sempre.
Ricordò di essersi innamorato di quel sorriso, per un periodo.
In quella calda giornata di primavera, non aveva più prestato attenzione al canto dei passeri o al sole che gli scaldava la pelle; i suoi occhi blu erano intenti ad ammirare il giovane ragazzo che gli stringeva la mano, il quale stava parlando di una delle sue tante avventure vissute.
E così, con le guance in fiamme e lo sguardo puntato su di lui, dopo qualche mese, aveva deciso di vomitargli addosso tutto ciò che sentiva.
«Davvero, mi piaci.Sento qualcosa per te, davvero.Non ti sto prendendo in giro, giuro.Davvero.E' la verità.»
E, in un ultimo gesto di follia comandato dal suo cuore innamorato, si era lanciato verso le sue braccia come una ragazzina in lacrime, pronto ad avere quel contatto che avrebbe dimostrato anche fisicamente i propri sentimenti.
Però poi si era sentito improvvisamente spinto appena all'indietro e aveva alzato lo sguardo, allarmato; Hayner lo continuava ad osservare, un pò allibito, ma, subito dopo, aveva accennato un'allegra risata, scompigliandogli i capelli.
«Ti piaccio perchè sono l'unico che ha avuto la pazienza di conoscerti, Roxas.Io ti piaccio come amico.»
«No, non è vero!», aveva replicato a pugni stretti l'altro, serrando poi le labbra tremanti, cercando di tranquillizzare il proprio battito cardiaco.
«Non ho niente da offrirti adesso.Sono solo un ragazzaccio di strada, come mi chiama tuo padre.», e aveva accennato una risata amara prima di proseguire, «Non ho niente da darti, capisci?Non ancora, almeno.Poi però lavorerò e mi guadagnerò qualche spicciolo.Ti comprerò una casa ancora più bella e grande della tua, con un giardino e anche un cane.E a quel punto mi amerai, avrai un motivo per amarmi.E ci ameremo insieme, alla follia.Ci ubriacheremo d'amore, non di alcool, come fa mia madre.Ci ubriacheremo tutta la notte, fino al mattino successivo.E la gente, quando ci guarderà, dirà che spargiamo amore dai vestiti e dai fori della pelle, talmente tanto ci ameremo.»
Improvvisamente il sorriso del ragazzo si spense per fare posto ad un'espressione perplessa; non ci serviono spiegazioni o frasi inutili, non servirono fiumi di parole, bastarono gli sguardi e i loro respiri.
«In bocca al lupo.», disse dopo un'interminabile silenzio Hayner, accennando un sorrisetto sghembo, quando l'altro gli prese la mano.
«Perchè non vieni con me, Hayn'?Visiteremo insieme un sacco di posti fantastici!Andiamocene, qui è orribile, è soffocante.Qui è...»
«Lo è per te.», replicò seccamente il ragazzo trasandato, incrociando lo sguardo implorante di Roxas prima di scuotere la testa.
«Vecchio mio, non stai vivendo la vita che meriti e lo posso capire bene.Per questo appoggio la tua scelta, ma, purtroppo, non verrò insieme a te.Questa volta no.»
Il giovane dagli occhi blu cobalto scostò allora la mano da quella dell'amico, voltando lo sguardo altrove.«Perchè?Eri tu che mi parlavi sempre di nuovi orizzonti!»
«Me ne andrò anch'io, infatti, ma non ora.Quell'ubriacona di mia madre ha ancora bisogno di me e questo lo sai bene.», e, dopo un breve silenzio, ripetè.«In bocca al lupo.»
«E dove finirà?»
«Cosa?», chiese di rimando Hayner, non riuscendo a seguire gli strani ragionamenti del biondo.
«La nostra amicizia.»
«Non sapevi che la vera amicizia è in grado di battere anche la distanza?», chiese retoricamente con aria seria, per poi scoppiare a ridere dopo qualche secondo.«L'ho letto in un libro che ho rubato qualche giorno fa.Forte, vero?»
«Già.», si limitò a rispondere l'altro, scrollandosi le spalle prima di sospirare.«Beh, allora...»
«Aspetta.», lo fermò Hayner, costringendolo a voltarsi, per poi indicare con un cenno della testa la propria bicicletta appoggiata ad una parete.«Prendila, te la regalo.Non ti assicuro che possa durare a lungo, però, insomma, come inizio non sarebbe male.»
«Ma...E tu come andrai a scuola?», chiese con preoccupazione il biondo, osservando il vecchio veicolo.
«Per un pò camminerò, poi vedrò di guadagnare qualcosa per comprarne una nuova.», e sorrise.«Magari avrà anche dei motori a turbo, così arriverò a scuola in un nanosecondo.»
Roxas soffocò una risata divertita e afferrò la vecchia bicicletta, salendo un pò faticosamente su di essa.«Hayner...»
«Non preoccuparti», lo precedette l'amico, «Sarò muto come Helmer.», disse facendo riferimento al loro compagno di classe che non parlava mai.
«Allora addio», lo salutò con una punta di malinconia della voce il ricco ragazzo, mentre l'altro schioccò la lingua in segno di disaccordo.«Si dice arrivederci, amico.»
Roxas accennò un mezzo sorriso, assecondandolo, mentre l'amico proseguì.«Anche mio fratello era scappato, sai?Mi ha detto che è stata una forza, quando è tornato.»
«Ma tu non hai fratelli...»
«Infatti ti prendevo in giro.», disse di rimando il giovane, scoppiando a ridere e ottenendo così un'occhiataccia dall'altro.
«A presto, vecchio mio.»
«Alla prossima, Hayner.», e iniziò a pedalare il più velocemente possibile, mentre si sforzava di scacciare via l'angoscia provocata dalla paura di non rivedere mai più il suo migliore amico.


                                                                                     ~

Per i primi dodici chilometri la bicicletta aveva funzionato abbastanza bene, anche se non gli consentiva di andare veloce come voleva; però, poi, le ruote si bucarono e la catena sembrò essersi bloccata in qualche modo.
Tentò inutilmente di pedalare, ma cadde diverse volte, sbucciandosi le ginocchia e i gomiti, così, alla fine, decise di lasciare perdere e proseguì a piedi; in quei tre giorni di lungo cammino il cibo non fu sicuramente un problema, dato che aveva ancora due barrette di cioccolato come scorta.

Il vero dilemma è che sentiva la stanchezza fin' dentro le ossa; e gli scavava la pelle, mentre il suo corpo implorava un pò di riposo.
Di notte, in mezzo all'oscurità in cui le uniche amiche sembravano essere la luna e le stelle, non riusciva a dormire, troppo intento a trovare un luogo in cui nascondersi, osservando il mondo con gli occhi blu cobalto sgranati, sussultando ad ogni più piccolo rumore o suono.
Riusciva a sonnecchiare per un paio di ore durante la mattina presto o al pomeriggio, sotto qualche albero magari, sognando luoghi nuovi a sé sconosciuti e il volto del suo migliore amico che gli teneva compagnia.
E spesso provò anche la voglia di tornare indietro.
Di voltarsi e correre indietro, riaggrapparsi al passato per quanto esso sembrava doloroso, mentre si chiedeva che cosa stavano facendo i suoi.
Si chiese sua madre stava piangendo, se suo fratello pregava e se suo padre, almeno un pò, fosse dispiaciuto.
Avrebbe potuto andare a chiederlo, si disse, per poi accennare un sorriso amaro: no, certo che no.Era impossibile.
Scorse in lontananza un piccolo laghetto e gli venne in mente di quando, nelle gelide mattine d'Inverno, il Sabato, lui e Hayner amavano correre fino al fiume, fuori città, costruendo barchette di carta per poi lasciarle vagare in mezzo all'acqua e alla nebbia.
Inoltre, quando faceva particolarmente freddo, il suo migliore amico gli insegnava anche ad accendere il fuoco con semplici bastoncini di legno e, ridacchiando sommessamente, si mettevano di fronte ad esso per scaldarsi, facendo finta di essere degli esploratori perduti chissà dove.
Per essere una giornata qualunque di Ottobre, pensò, faceva fin troppo caldo.
Decisamente troppo.Gli sembrò perfino che il sole gli stesse cuocendo la schiena e iniziò addirittura a barcollare, aggrappandosi di tanto in tanto alla corteccia degli alberi.
Si chiese dove diavolo era finito ed ebbe improvvisamente l'istinto di gridare.
Quale immensa follia stava facendo?
Si era buttato in qualcosa più grande di lui.
Cercò di focalizzare la vista e di fronte a sé notò un prato di medie dimensioni in cui pascolavano delle pecore; alzò poi lo sguardo verso il cielo e si sentì improvvisamente sprofondare.
Fuggire?Dove, poi?
Udì il proprio battito cardiaco accellerare improvvisamente ed ebbe l'impulso di voltarsi e tornare indietro.
Ma non ci riuscì.
Rimase lì, aggrappato alla corteccia di quell'albero spoglio e per lui fu come se le proprie gambe fossero immerse nel cemento asciutto; non riuscì a muovere un passo, abbassò lo sguardo tremante e i suoi occhi sembrarono riflettere il puro terrore.
Era solo.
Questa volta lo era davvero.
Ma a che scopo tutto ciò?
Il cemento sciolse la sua morsa intorno alle gambe del giovane ed egli si lasciò andare quasi con eleganza sul terriccio, sentendo poi solo il sordo rumore del proprio corpo che si schiantava.
Forse era già annegato in quell'oceano sconosciuto.

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 *Note di Evgenia Rox'*
Ebbene sì: mi sono buttata in una nuova storia.
Avrei voluto prima terminare almeno una delle due fan fiction in corso -Months Of Life/ Tutor And Boyfriend-, ma non ho potuto resistere alla tentazione di pubblicare questa storia.
L'idea è nata un pò di tempo fa, durante le vacanze pasquali, se non sbaglio, mentre camminavo per le strade di campagna e il mio cervello ha iniziato a lavorare a questa fan fiction.
Certo, avevo pensato anche di scrivere tutto sotto forma di libro, ma, per iniziare a buttare una stesura, mi sono messa in testa di utilizzare i personaggi di Kingdom Hearts -Oh, insomma, sarebbe stato anche più divertente per me w.w-
La storia, che vede come protagonista il nostro caro Roxas, è ambientata in un mondo di...Boh, non c'è una data precisa, diciamo forse quindici-venti anni fa.
Insomma, comunque non ai giorni nostri.E proprio per questo talvolta potrei invertire l'ordine delle parole nelle frasi oppure utilizzare termini più 'abbreviati' [Come S'accorse, oppure s'avvio], proprio per dare un senso più...Più...Insomma, più 'vecchio' alla storia.
Hayner, il migliore amico di Roxas, è invece un povero ragazzo, che, nonostante non abbia nulla in mano, è in grado di donare al protagonista risate e sorrisi, oltre ad avere una grande voglia di vivere.
All'inizio del capitolo, forse, Sora potrebbe apparire un pò OOC; non sono esattamente sicura se sia da lui o meno ridere per la caduta di un bambino, ma la sua presenza era essenziale come inizio, e, inoltre, anche se fosse OOC, non me la sento proprio di mettere l'avvertimento, dato che è solo un personaggio di sfondo, di minore importanza, ecco.
Come avrete sicuramente notato, il capitolo è estremamente lungo -Non per nulla ci ho impiegato ore ed ore per scriverlo- e, proprio per questo, non pubblicherò una volta alla settimana -O comunque ogni dieci giorni-, come faccio di solito; il capitolo, a seconda del tempo e dei miei impegni, potrebbe essere pubblicato una volta ogni due-tre settimane, se non anche una volta al mese.
Quindi, se vedete che la storia non va' avanti, non pensiate che io sia morta o chissà cosa; semplicemente è molto impegnativo scrivere qualcosa di così lungo.
Oh, e poi vorrei anche aggiungere che per ora il raiting della storia è giallo, ma potrebbe anche diventare arancione, dipende dagli sviluppi della storia.
Che altro dire...Oh, sì; vi prego, se avete letto questa storia, recensite.Ci tengo moltissimo ad essa, davvero.
In questa storia ho praticamente vomitato in Roxas tutte le soffocanti sensazioni che sento in questo periodo di merda.
E ricordate che sono solo una pampina di quattord- anzi, tra poco quindici-, anni e che, di conseguenza, la mia scrittura ancora fresca potrebbe presentare qualche errorino.
Oppure potrebbe fare proprio schifo, ma quella è un'altra storia.*Tossicchia con aria ambigua*
Va bene...Dopo questo ammasso di cazzate idiozie che non interessavano a nessuno, posso finalmente sparire di scena.
Alla prossima!
E.P.R.
 

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Capitolo 2
*** II. I am weak and I am tired of feeling like this ***


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II. I am weak and I am tired of feeling like this

 


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Gli capitava spesso di rivivere quei ricordi; gli sembrava ancora di sentire le loro vellutate risate risuonare nelle proprie orecchie, di vedere quei campi estesi e il riflesso dei loro sorrisi.
Quelli erano ancora i bei tempi; quando suo padre lo faceva ridere, quando sua madre portava lui e suo fratello al luna-park a prendere lo zucchero filato o al circo per vedere i giocolieri.
E lui, solo un bambino immerso nel mondo infantile, era intento a guardarsi attorno con il mare dei suoi occhi, a costruirsi le sue speranze. Ad immaginare un mondo magnifico dietro le mura della sua grande villa.
Passava il tempo a lanciare sassolini in acqua e ad osservare i cerchi che si formavano, ingrandendosi per poi scomparire del tutto.
Pensava che fosse una magia. Una bellissima magia.
Sentì un improvviso brusio di voci e lo scricchiolio di una porta che poi veniva velocemente richiusa.
«Non devi dirlo a nessuno, mi raccomando!», udì una squillante voce maschile e, successivamente, un altro tono più basso.
«Sì, non preoccuparti...»
Era tutto confuso. Vide un ultima volta il sorriso del suo migliore amico che poi svanì nell'oscurita, rissucchiato nel nulla insieme ai sassolini e allo zucchero filato.
«E' un angelo custode; sicuramente il cielo l'ha mandato per me!», aprì lentamente le palpebre, infastidito da quella rumorosa conversazione.
«Non dire sciocchezze, Demyx: gli angeli volano, non cadono mica.»
«Sarà un angelo caduto!»
Le risate e i campi scomparirono del tutto e lui, con estrema fatica, cercò di tornare alla realtà. Le sue iridi blu vagarono nella piccola stanza: sulla parete vi era un minuscolo poster di una rock-band, mentre, accanto all'armadio blu, spiccava la presenza di una brillante chitarra.
Alla sua sinistra, invece, notò una finestra che rifletteva uno splendido paesaggio di campagna all'esterno che gli dava uno strano senso di tranquillità e pace interiore.
«Guarda: si è svegliato! L'angelo caduto si è svegliato!», roteò un poco lo sguardo, accorgendosi di non essere solo: un ragazzo, sicuramente più grande di lui, dai capelli castani chiari in una stramba acconciatura a spazzola, lo scrutava con i suoi vivaci occhi verde-acqua, il volto appena inclinato su un lato.

«Non urlare troppo, Demyx. Sembra molto stanco.», di nuovo la voce più bassa, quasi impercettibile. Un paio di occhi azzurri, placidi come l'oceano in un tranquillo pomeriggio d'estate, un'espressione preoccupata e, al tempo stesso, quasi indecifrabile; lunghi capelli biondi ricadenti sulle piccole spalle, le labbra sottili appena schiuse, quasi volessero aggiungere qualcos'altro.
«Oh, scusa...», brontolò il giovane, arricciando le labbra in una smorfia dispiaciuta e infantile; lanciò poi una fugace occhiata dietro sé e si illuminò, precipitandosi verso la chitarra e afferrandola saldamente. «Magari se gli suono qualcosa si sentirà più a proprio agio!»
La ragazza sospirò sommessamente, scuotendo un poco la testa, sistemandosi il vestitino bianco che le accarezzava appena le ginocchia prima di dedicarsi esclusivamente all'ospite che, nel frattempo, si strinse timidamente sotto le coperte. «Io mi chiamo Naminè. Naminè Sauer.», quel tono così basso e tranquillo gli ricordò vagamente la figura di sua madre.
Della sua bellissima madre; dei suoi lineamenti delicati e il sorriso appena accennato sul volto solcato da qualche ruga.
«Io sono Demyx Vlak!», si presentò con un allegro sorriso il castano, decidendo di lasciare lo strumento al proprio posto per poi avvicinarsi nuovamente al più piccolo, porgendogli gentilmente la mano. «E diventerò il chitarrista più famoso del mondo!»

Ma lui non rispose alla stretta di mano.
Si limitò ad osservare quei due strani personaggi di fronte a sé, senza battere ciglio e rimanendo con le labbra perfettamente serrate.
Un improvviso silenzio avvolse la piccola stanza, mentre gli ultimi raggi di sole della giornata penetrarono l'ambiente, divertendosi a donare colori agli oggetti e a tutto ciò che incontravano.
«Sei un angelo molto timido?», domandò con soave ingenuità Demyx, sbattendo più volte le palpebre

Quel volto vagamente infantile gli fece vennire in mente l'ombra di suo fratello; la semplicità incarnata nei suoi occhi così simili ai propri, le mani che non facevano altro che afferrare giochi, puzzle e palloni; lo sguardo pieno di una sincerità così disarmante che era sempre in grado di far sorridere le persone che lo circondavano. Le sue gambe vivaci che non erano in grado di stare ferme un attimo; l'avventatezza dei suoi gesti, le sue frasi immature di un qualsiasi sedicenne di città che rieccheggiavano nell'enorme casa. Le risate che riusciva ad ottenere, gli applausi, le attenzioni. Divertente, simpatico e solare, così lo definivano i suoi compagni.
Perché lui invece no? Cos'aveva di diverso, di sbagliato?
Oh, giusto. Era l'erede nella fabbrica di suo padre. Un onore agli occhi degli altri, un peso insostenibile per lui.
«Forse è meglio lasciarlo solo. Sarà molto confuso.», alzò appena le iridi blu cobalto e incrociò lo sguardo della giovane ragazza dai capelli del grano che si era silenziosamente alzata dalla sedia.
S'accorse solo in quel momento che portava al collo una splendida collana dorata a forma di cuore: non seppe esattamente il perché, ma riuscì in qualche modo ad attirare la sua attenzione.
«Comunque non vogliamo farti del male, non preoccuparti.», proseguì poi lei lentamente, mentre Demyx, al suo fianco, annuì meccanicamente.
«Ti porteremo presto qualcosa da mangiare.», concluse accennando un flebile sorriso che gli fece venire una strana malinconia all'anima, prima di recarsi verso la porta di legno, aprendola lentamente per poi uscire, seguita da Demyx.
Udì lo scricchiolio della porta che si chiudeva e rimase solo con i propri pensieri, in quella piccola stanza sconosciuta.
Solo. Era davvero solo.
Tentò faticosamente di alzarsi, ma barcollò e fu costretto ad aggrapparsi alla parete; si ritrovò con il respiro inspiegabilmente irregolare e decise quindi di tornare a sedersi sul morbido letto che aveva una leggera coperta verde.
Si sentì veramente stanco: si guardò attentamente attorno e riuscì a scorgere il proprio zainetto posato in un angolino nascosto e questo lo fece sentire meglio in qualche modo.
Era svenuto e aveva sicuramente dormito. Il vero problema era sapere quanto tempo era passato, ma, soprattutto, venire a conoscenza del luogo in cui si trovava; sospirò, scuotendo la testa e si portò una mano alla nuca, accorgendosi che era ancora nascosta dal cappello nero.
Notò che alla propria sinistra vi era la presenza di un piccolo comodino marrone su cui era posata accuratamente una foto in bianco e nero incorniciata; la afferrò lentamente, quasi impaurito di poter essere in qualche modo visto, e la scrutò a lungo, incuriosito.
Riuscì immediatamente a riconoscere il giovane che poco prima lo aveva scambiato per una specie di angelo; con i suoi occhi vispi e vivaci, i capelli leggermente più corti, le guance paffute e un allegro sorriso stampato sul volto, reggeva in mano un pallone, accanto ad un altro bambino più basso di lui dai lunghi capelli ricadenti sulle spalle e uno sguardo imbarazzato di fronte a colui che aveva scattato quella vecchia fotografia.
Non dovevano avere più di sette anni, disse tra sé e sé, appoggiando la cornice al proprio posto prima di sdraiarsi nuovamente, socchiudendo gli occhi.
Ebbe l'inspiegabile istinto di lasciar ricadere amare lacrime dai propri occhi, ma decise di soffocare il tutto, ancora una volta.
Respirò piano e socchiuse le palpebre, accorgendosi che la propria anima non faceva altro che invocare un pò di riposo, almeno un altro pò; proprio per questo si lasciò scivolare tra le braccia di Morfeo con estrema facilità, svuotando completamente la mente.
O almeno, quasi.
Un pensiero, un breve frammento della sua vita, continuò a rimbombargli nel cervello, quasi temesse in qualche modo di dimenticare:
lui era Roxas Van Drosten, futuro erede della fabbrica di suo padre, nella periferia della città.

                                                                                                  ~

«Scommetto il mio panino che non riuscirai a fare un salto così lungo. E' impossibile!»
«Non scoraggiarlo così, Pence! Io invece dico che se sarà prudente ci riuscirà benissimo.»
Lui sorrise in risposta, stringendo tra le piccole mani la lunga asta di metallo trovata in un cantiere nei d'intorni; fece qualche passo indietro e prese la rincorsa, conficcando l'oggetto nel terreno per poi spiccare un notevole balzo di almeno sette metri, riuscendo così a superare il fiume e a raggiungere l'altra sponda. Atterrò prontamente sulle gambe, barcollando solo un poco, voltandosi poi verso gli altri due; vide l'amico dai capelli castani lasciar cadere il panino incartato sul prato a bocca aperta, mentre, accanto a lui, Olette, una graziosa bambina dagli splendenti occhi verdi, aveva iniziato a battere gioiosamente le mani. «Bravo, Roxas, bravo!»
Lui aveva riso, facendo un breve inchino in cenno di ringraziamento.
Quando fu sveglio, però, niente di tutto ciò arieggiò nella sua mente, anzi: non ricordava assolutamente di aver fatto un sogno del genere, il che poi era solo l'ennesimo frammento della sua infanzia, incorniciata da cieli sereni, aquiloni e riflessi di spensieratezza.
Fece scorrere lentamente l'indice sul trasparente vetro, quando lo scricchiolio della porta lo fece voltare di scatto, notando la presenza di Naminè, la quale stava reggendo un piccolo vassoio di plastica su cui era un uovo strapazzato. «Buongiorno. Mi sono permessa di portarti la colazione, dato che ieri sera nè io nè Demyx siamo più riusciti a procurarti qualcosa da mangiare.»
Lui rimase in silenzio, limitandosi ad osservare la giovane di fronte a sé che sospirò, avvicinandosi a passi felpati. «So che devi essere molto scosso, però... Però io sono sicura che ti sentiresti meglio se provassi a dire qualcosa, davvero.»
Ancora silenzio.
Eppure Roxas avrebbe voluto chiedere tante, tantissime cose. Tanto per cominciare, dove si trovava. Sì, quella era sicuramente la domanda di maggiore importanza. Però non riusciva a dire nulla; era come se la sua voce fosse paralizzata tra le corde vocali, come se un enorme groppo in gola gli impedisse di parlare in qualche modo.
Si sedette sul letto e lei si avvicinò ancora, appoggiando il cibo sul comodino, accanto alla fotografia che aveva osservato il giorno precedente, permettendogli così di afferrare le posate ed iniziare finalmente a mangiare; la ragazza si allontanò poi di qualche timido passo, appoggiando la schiena sulla ruvida parete. «Spero che ti piaccia.», bisbigliò successivamente, mentre lui si era portato alle labbra il primo boccone, lasciando che l'uovo gli accarezzare il palato.
«E' stato difficile prepararlo di nascosto.», continuò dopo un paio di secondi, osservando il pavimento formato da numerose assi di legno.
In realtà a lui non era mai piaciuto particolarmente l'uovo strapazzato, eppure in quel momento aveva così tanta fame che avrebbe mangiato qualsiasi cosa, quindi, effettivamente, lo trovò davvero delizioso.
Avrebbe voluto dirglielo, ma rimase chiuso nel suo ostinato silenzio.
«Vedi, nessuno sa che sei qui. Tranne me e Demyx, ovviamente.», a quell'affermazione il giovane ospite alzò finalmente gli occhi blu cobalto, dedicando completamente l'attenzione alla ragazza che successivamente proseguì. «Demyx ti ha trovato svenuto a qualche metro dal recinto e così ha deciso di portarti qui, rivelando della tua presenza soltanto a me.»
Un breve silenzio per permettergli di analizzare attentamente le numerose informazioni che gli venivano dette; Roxas appoggiò il cucchiaio accanto al piatto ormai vuoto, voltando lentamente lo sguardo verso la finestra.
Lei sembrò prendere respiro prima di continuare, quasi fosse in qualche modo esitante. «Sei in una fattoria. Però nè io nè Demyx ne siamo al capo, per questo non abbiamo potuto parlare agli altri di te. Non siamo sicuri che il padrone ti permetta di restare, capisci?»
Lui abbassò per qualche secondo le iridi blu verso le proprie mani, osservandole attentamente, come se desiderasse trovare qualcosa in particolare; successivamente alzò appena le spalle, irrigidendosi prima di schiudere finalmente le sottili labbra. «Non ho mai detto di voler restare.»
Naminè sussultò al sentire per la prima volta la voce del ragazzo; si sistemò timidamente una ciocca di capelli dorati dietro l'orecchio sinistro, affrettandosi a riprendere la parola. «Certo, ma...», e poi, improvvisamente, ammutolì, senza sapere più cosa dire.
Un soffocante silenzio galleggiò nell'aria e Roxas, dopo aver lanciato una fugace occhiata alla finestra illuminata da un forte sole, tornò ad osservare la fotografia sul comodino; la sfiorò appena con l'indice, quasi volesse rapire il ricordo, rubare quel frammento dell'infanzia di Demyx, farlo proprio, catturarlo in qualche modo.
«Chi è il bambino vicino a Demyx?», si sentì indiscreto, molto indiscreto, a porre una domanda del genere, ma era sempre stato particolarmente curioso e, secondo suo padre, quello era uno dei suoi difetti peggiori.
Una volta da bambino, quando per il suo settimo compleanno gli era stato regalato un magnifico binocolo, lo aveva utilizzato per osservare le case nei vasti quartieri della città; era salito su un'abete e si era seduto comodamente su un ramo, di fronte alla piccola casetta della migliore amica di Sora.
Suo fratello andava sempre a casa di lei e quando tornava gli ripeteva fino alla nausea che si era divertito un sacco; così, a quel punto, lui metteva il broncio, offeso dal fatto che non veniva mai invitato.
Aveva stretto l'oggetto tra le morbide mani con sicurezza, sistemandoselo poi davanti agli occhi, sbattendo più volte le palpebre; dal balcone aperto della stanza della ragazza, era riuscito ad osservare quest'ultima gesticolare animatamente, continuando a muovere le labbra, mentre Sora, seduto sul letto dalle coperte di seta rosa, la ascoltava attentamente, annuendo di tanto in tanto.
Poi era successa una cosa strana. Aveva visto Kairi smettere improvvisamente di chiacchierare e voltarsi verso il fratello; si erano osservati a lungo e poi lei si era lentamente chinata, toccando le labbra del compagno con le proprie per qualche secondo.
Non aveva mai capito il senso di quel gesto. Sapeva solo che si era sentito tremendamente in imbarazzo e si era vergognato come un ladro ad aver assistito abusivamente a quella scena; era sceso così velocemente dall'albero ed era fuggito via alla velocità della luce, travolgendo chiunque aveva incontrato.
Non era mai riuscito a chiedere a Sora spiegazioni. E non capì mai il perché.
«E'... Era un suo amico. Un suo caro amico.», rispose lei con aria assorta dopo una breve indecisione passata a chiedersi se fosse il caso di rispondere o meno. Poi, come se avesse voluto ricambiare la domanda indiscreta, chiese: «Come ti chiami?»
Il biondo sussultò lievemente, mordendosi un poco il labbro inferiore; doveva rispondere. Non poteva di certo chiudersi nuovamente in un ostinato silenzio. Prese un profondo respiro e si fece coraggio. «Io sono Ro...», ma poi, improvvisamente, si fermò, rimanendo con le bocca semiaperta: nessuno gli aveva detto che era costretto a rivelare il vero nome, no?
Si ricompose, stringendosi i pantaloni con nervosismo. «Io sono Roku.», si affrettò così a borbottare; alzò appena gli occhi, notando che, molto probabilmente, lei stava aspettando anche un cognome. Deglutì rumorosamente e proseguì. «Roku Ludwig.»
Successivamente fu istintivo per lui tornare ad osservare il basso, sentendo un velo di malinconia avvolgergli dolorosamente l'anima; utilizzare il cognome del suo migliore amico fu spontaneo, e il ricordo del suo volto sorridente accanto alla sua vecchia casa lo strinse in un'orribile morsa di nostalgia.
«Roku Ludwig», ripetè Naminè, volendo memorizzare bene il nuovo nome. «Non l'avevo mai sentito.»
«Almeno riesco a distinguermi, no?», domandò retoricamente lui, rialzando la testa, lasciandosi illuminare dal bollente sole; spesso Hayner gli diceva così. Gli diceva che era fondamentale imparare a distinguersi dalla massa, dal grigiore della città, del mondo che li circondava: gli ripeteva spesso che dovevano essere diversi, loro. Dovevano essere speciali.
E lui, ridendo, gli rispondeva solo ed esclusivamente in un modo. Sempre lo stesso. «Hayner, ma tu sei speciale.»
Lei sorrise flebilmente e annuì, avvicinandosi nuovamente a lui per poter prendere il vassoio sul comodino, mentre Roxas riprese la parola. «Perché 'era'?»
La ragazza sbattè più volte le palpebre, assumendo un'espressione confusa; il biondo si affrettò così a riformulare meglio la domanda. «Perché hai detto che era un suo caro amico? Perché hai usato il passato?»
Naminè non rispose, limitandosi a sistemare il cucchiaio sul piatto vuoto per poi recarsi verso la porta, aprendola faticosamente, cercando comunque di reggere il vassoio con l'altra mano. «A dopo, Roku.», e richiuse la porta dietro di sé, lasciando il giovane in solitudine con la propria domanda sospesa nel vuoto.
Solitamente avveniva di rado che qualcuno, dopo le presentazioni, lo chiamava per nome; tutti utilizzavano quasi ed esclusivamente il cognome.
Ovviamente Hayner aveva fatto eccezione e, non appena era venuto a conoscenza del suo nome, aveva iniziato ad usarlo, anzi; ricordava benissimo che si era messo anche a ridere, quando si era presentato aggiungendo anche il cognome, rimproverandolo per il fatto che a lui non interessava nulla del cognome degli altri.
Una delle cose che forse più rimpiangeva nella vita, pensò, era che lo spago che collegava il presente all'aquilone della sua infanzia era stato definitivamente tagliato.
Probabilmente da un paio di forbici strette tra le possenti mani di suo padre.

                                                                                                   ~

«Scacco matto.», annunciò apaticamente, sforzandosi di nascondere un lieve divertimento alla vista dell'altro imbronciarsi, incrociando infantilmente le braccia.
«Di nuovo, che ingiustizia! Questo gioco è troppo complicato!», si lamentò sbuffando, alzandosi dal letto su cui era sdraiato un giovane dai capelli dorati, il quale inclinò il volto su un lato. «Non è complicato: devi solo prenderci la mano.»
Demyx sbuffò nuovamente, arricciando il naso per poi afferrare la scacchiera di legno, sistemando i vari pezzi all'interno di essa per poi chiuderla rumorosamente, tornando in pochi secondi a sorridere. «Comunque grazie per avermi fatto da maestro! Ho questo gioco da chissà quanti anni, ma non sono mai riuscito a capire come si giocasse.», e ridacchiò, sistemando il gioco sotto il proprio letto.
«Di nulla.», rispose il giovane, accennando un debole sorriso. «Sono io che devo ringraziare te. Almeno ho passato il tempo in compagnia. Mi ero stancato di contare le assi del pavimento.», a quell'affermazione il castano scoppiò in una squillante risata, tirando una leggere pacca sulla spalla dell'ospite.
«Spero di tornare presto, Roku.»
Roxas assunse improvvisamente un'espressione amareggiata e guardò l'altro con fare implorante. «Te... Te ne devi già andare?»
«Sì, mi dispiace...», borbottò abbassando il tono della voce Demyx, voltando lo sguardo altrove mentre apriva la porta; se c'era una cosa che il biondo aveva notato, era proprio il fatto che quel ragazzo che gli ricordava così tanto Sora si sentiva sempre in qualche modo spaesato di fronte ai sentimenti negativi e cercava immediatamente di scacciarli con le maniere più bizzarre.
Appunto per questo non aveva avuto il coraggio di chiedergli del bambino nella foto. Sentiva in qualche modo che era legato a qualcosa di brutto, di negativo, di inviolabile.
«Ma cercherò di tornare il prima possibile, te lo prometto!», e, dopo aver detto ciò con un sorriso a trentadue denti stampato sul volto, svanì dietro la porta, richiudendola velocemente dietro di sé.
Te lo prometto.
Roxas pensò a lungo a quelle parole e s'accorse improvvisamente che era la prima volta che le udiva.
Nessuno dei suoi familiari o delle persone che lo avevano circondato a lungo avevano la fissa di fare promesse; sembrava quasi che fossero tutti allergici a quelle strane parole. Come se esse potessero in qualche modo infliggere una maledizione, o come se potessero contenere del veleno mortale.
Nemmeno Hayner gli aveva mai fatto promesse. Lui invece sì, una volta.
Così la sua mente tornò a viaggiare; chiuse gli occhi e, quando li riaprì, vide di fronte a sé la finestra che mostrava un cortile bagnato dalla pioggia, la quale stava ormai picchiando la città da qualche ora. Due giovani erano seduti sul davanzale; chi annoiato e scocciato, chi invece affascinato dallo spettacolo dell'acqua.
«Hayner?», aveva improvvisamente interrotto il silenzio, ottenendo l'attenzione dell'altro che si era voltato.
«Sì?»
«Che cos'è per te l'amicizia?», a quell'improvvisa domanda il giovane dagli occhi marroni assunse un'espressione perplessa e sollevò un soppraciglio. «In che senso?»
Questa volta era stato Roxas a sbuffare. «Come 'In che senso?' Non c'è un senso! Ti ho solo domandato che cos'è per te l'amicizia. Cioè, una definizione, ecco.»
Era una di quelle giornate in cui i suoi familiari erano fuori chissà dove, mentre i camieri erano troppo occupati nelle preparazioni dell'ennesimo cenone con qualche nuovo ospite per accorgersi che lui intanto era riuscito a far introfulare nella villa il suo migliore amico; Hayner assunse una smorfia pensierosa e picchiettò con il dito sulla finestra. «L'amicizia siamo io e te, Roxas.», quest'ultimo a quella dolce risposta si era lasciato sfuggire istintivamente un candido sorriso, mentre l'altro aveva continuato: «Noi siamo l'amicizia. Perché noi siamo amici anche se tuo padre non vuole che tu mi frequenti, noi siamo amici anche se tu sei praticamente il ragazzo più ricco della città, se non della regione, e per di più l'erede alla fabbrica di tuo padre, mentre io sono solo un poveraccio da quattro soldi che non sa neanche il nome del proprio padre.», rise amaramente e aveva proseguito ancora. «Perché noi siamo amici anche se tu sei Roxas Van Drosten, mentre io... Io semplicemente Hayner Ludwig.»
A quel punto Roxas aveva allungato la mano, stringendo quella del compagno, senza smettere di sorridere. «No, io sono Roxas e basta. Sono Roxas, il migliore amico di Hayner.»
L'altro aveva annuito energeticamente, ricambiando la stretta. «Hai proprio ragione, sì.»
«Noi saremo amici per sempre, Hayner. Te lo prometto.», e, non appena aveva terminato la frase, aveva visto le iridi dell'altro farsi più scure.
«No, Roxas. Questo no.», aveva sussurrato improvvisamente, lasciando la mano del biondo che lo osservava confuso. «Cosa?»
«Non promettere. Non devi.», mentre aveva detto ciò, non lo aveva neanche guardato, ma si era limitato a posare lo sguardo verso la finestra.
«Ma... Perché? La promessa è solo una cert-»
Hayner aveva tirato un pugno sul davanzale, facendo sussultare il suo interlocutore. «Roxas, le promesse non esistono, ricordatelo bene. Mio padre aveva promesso a mia madre che sarebbe tornato, e invece...», si era morso il labbro inferiore con forza. «E invece l'ha abbandonata senza voltarsi indietro. Non promettere, Roxas.»
Quest'ultimo aveva assunto un'espressione malinconica e aveva voltato anch'egli lo sguardo altrove. «Ma la mia promessa è diversa.»
«Come fai ad esserne sicuro?»
Roxas aveva incastrato il volto tra le spalle prima di rispondere. «Perché io ti voglio bene e so che ti rimarrò amico per sempre.»
Quella semplice e soave affermazione aveva placato completamente la rabbia negli occhi di Hayner che aveva finalmente sorriso con dolcezza. «Visto che ne sei certo, non hai bisogno di promettere.»
E in quel momento entrambi avevano notato che il sole stava cercando di bucare i nuvoloni grigi.
Secondo Hayner quando qualcuno faceva una promessa, significava semplicemente che l'avrebbe infranta; il biondo strinse le coperte, sperando in cuor suo che Demyx non appartenesse a questa categoria di persone, perché avrebbe voluto volentieri vederlo tornare.
Erano passati circa quattro giorni e mezzo dal suo arrivo in quella fattoria e durante tutto quel tempo la sua giornata si era limitata al restare sdraiato su quel letto che aveva iniziato davvero ad odiare; aveva scoperto che si trovava nella camera di Demyx e durante la notte non aveva ancora capito dove quest'ultimo andava a dormire.
La colazione e la cena erano gli unici pasti quasi certi che Naminè riusciva a procurargli; non era niente male ciò che cucinava e lui iniziava a sentirsi davvero un peso per i due compagni, i quali, invece, si ostinavano a ripetergli che adoravano la sua presenza.
Al contrario, il pranzo spesso lo saltava, e di questo la ragazza si sentiva estremamente in colpa; non appena varcava la soglia della porta con in mano il vassoio della cena, iniziava a riempirlo di numerose scuse sul pasto precedente inesistente.
Il che, tra l'altro, era assurdo, dato che Roxas poteva benissimo fare a meno di un pasto; anzi, il suo stomaco stava addirittura meglio.
Insomma, sempre meglio delle abbuffate che era d'abitudine per lui fare a causa dell'enorme quantità di cibo che veniva preparato da tutti i camerieri della casa. Soprattutto quando c'era un'ospite importante.
Qualche volta Demyx veniva a trovarlo, ma non riusciva mai a restare più di una decina di minuti, dato che aveva un sacco da fare al piano di sotto; ogni volta che egli abbandonava la stanza, il biondo si sentiva terribilmente solo e talvolta non riusciva davvero a trattenere un pianto incontrollato.
In quei momenti si sentiva patetico, un bambino di cinque anni; però cercava di non farvi caso e si limitava a piangere, a buttare via tutta l'angoscia, la nostalgia e la solitudine che sentiva addosso. Qualche volta funzionava e si sentiva meglio, altre volte invece le lacrime non facevano altro che peggiorare ulteriormente la situazione.
Una volta aveva anche provato ad uscire dalla finestra, ma, aprendola, si era appunto accorto di trovarsi al secondo piano ed era immediatamente giunto alla tragica conclusione che, se avesse provato a saltare, si sarebbe solamente rotto un paio di costole.
La prima volta nella sua vita che aveva davvero appreso il significato della parola solitudine, era stata a cinque anni, in una tiepida giornata di autunno; con le foglie sul terriccio infangato e la lieve brezza a scuotergli i capelli, aveva guardato i suoi amici e suo fratello di fronte a sé, i quali avevano un'aria piuttosto arrabbiata.
«Sei un barone, Roxas!», aveva tuonato Pence con le braccia incrociate, storcendo le labbra in una smorfia disgustata. «Avevamo detto che non valeva nascondersi a casa tua, ma solo qui fuori!»
Il diretto interessato aveva abbassato istintivamente lo sguardo, disegnando cerchi invisibili con il proprio stivale. «Mi dispiace...»
«Ma è già la seconda volta che lo fai.», spiegò con tono rimprovero un ragazzo dai capelli argentati, Riku, figlio di una coppia di borghesi.
Prima che Roxas potesse giustificarsi in qualsiasi modo, Olette si intromise. «Andiamo, non siate troppo duri con lui! Diamogli un'altra possibilità...»
«No, basta.», aveva replicato Riku, scuotendo la testa con fare saccente. «Ormai non può più giocare.»
«Ma...», aveva tentato di iniziare il biondo, venendo immediatamente interrotto dall'amico dai capelli castani. «No, Roxas, non puoi più giocare.»
Lui era tornato ad osservare il basso, voltandosi per poi iniziare ad incamminarsi verso casa, trascinando con sé la propria cartella.
«Roxas, aspetta...», cercò di chiamarlo la ragazza, mentre Sora, accanto a lei, si era sentito anch'egli in colpa; eppure Riku appoggiò una mano sulla sua spalla. «Deve imparare che non può sempre barare solamente per vincere.»
Quando era tornato in camera propria, era scoppiato a piangere, rimanendo ad osservare i suoi amici che continuavano a giocare all'esterno, sentendo quella strana morsa che poi aveva imparato a chiamare solitudine, la quale lo aveva accompagnato per gran parte della sua esistenza.
Fortunatamente con Olette e Pence riuscì a fare pace già il giorno dopo, dato che la ragazza non era riuscita a stargli lontano a lungo.
Dopo quell'episodio, però, aveva detestato immensamente Riku e aveva iniziato a vederlo come una persona cattiva, dalla quale stare alla larga, forse perché, in parte, vedeva quasi il proprio riflesso; un bambino pieno di soldi, piuttosto chiuso e silenzioso, il quale dentro nascondeva chissà quali insidie che gli altri non riuscivano mai a notare.
I genitori dell'albino avevano sempre cercato di stringere i migliori rapporti con i propri solamente perché speravano di entrare nell'alta società, superando quella della borghesia che in confronto era di poco conto.
Dopo un paio di giorni capì che, quasi sicuramente, la finestra di Demyx si affacciava sul retro della fattoria; questo perché non aveva ancora visto passare nessuno. Oltre a quella piccola camera e all'ambiente riflesso nel vetro trasparente, aveva visto solamente una piccola parte del corridoio fuori dalla porta, visto che Naminè gli aveva indicato il bagno, il quale, fortunatamente, era piuttosto vicino.
Ogni volta che usciva doveva usare moltissima discrezione e controllare accuratamente che non ci fosse nessuno nei paraggi; fino a quel momento era andato tutto bene. Non avrebbe proprio saputo cosa fare se qualcuno diverso da Demyx o Naminè lo avresse visto girovagare nei corridoi. Insomma, avrebbero potuto prenderlo per un ladro, o magari anche peggio.
Il suo momento preferito durante la giornata era senza alcun dubbio la tarda sera; prima di andare a dormire, tirava fuori il mappamondo dal proprio zainetto e Demyx veniva sempre a fargli compagnia, suonandogli diversi brani con la chitarra per dargli la buona notte.
E lui ascoltava attentamente, facendo roteare il mappamondo di fronte a sé, osservando i paesi, le città, gli oceani e i continenti passare di fronte ai propri occhi stanchi.
In quegli attimi scordava tutto. Scordava la propria vita, scordava di essere fuggito e di essersi ritrovato in una fattoria sperduta nella campagna; scordava i momenti di solitudine e di sconforto; scordava i ricordi stessi e si limitava a galleggiare nella spensieratezza, aspettando che il sonno venisse ad impossessarsi della propria mente per permettergli di andare a trovare Hayner.
Improvvisamente scostò le coperte dal proprio esile corpo, balzando in piedi con tale decisione da stupire perfino se stesso; era stanco di rimanere chiuso come un topo in quella camera che gli stava facendo praticamente da prigione. Aveva voglia di esplorare un pò l'ambiente.
Aveva sempre detestato restare ingabbiato nello stesso luogo per troppo tempo, nonostante nella sua vita la maggior parte della giornata l'aveva sempre passata nella sua maledetta villa; essa era diventata per lui ancora più odiosa quando suo padre, nei suoi anni di scuola media, lo aveva punito per un votaccio, costringendolo a restare chiuso in camera per ben una settimana. -Anzi, in realtà avrebbero dovuto essere due settimane, ma, grazie al nobile animo di sua madre, riuscì a dimezzare il castigo- Per lui fu una specie di Inferno, ma, fortunatamente, i domestici qualche volta entravano in camera sua a stargli un pò vicino, probabilmente costretti da un atto di pietà e pena nei suoi confronti.
Afferrò il proprio zainetto e controllò nel piccolo specchio di avere ancora il cappello in testa; ovviamente sì. Aveva deciso di non mostrare i propri capelli dorati, nemmeno a Naminè e a Demyx, i quali spesso gli avevano chiesto il motivo per cui teneva nascosta la sua nuca.
Lui si era limitato a scrollare le spalle, rispondendo che preferiva così e, fortunatamente, loro non avevano insistito.
La verità era che cercava soltanto di mantenere la propria immagine il più nascosta possibile, nel caso qualcuno fosse venuto a cercarlo. In fondo era pur sempre scomparso il futuro erede della fabbrica più importante della regione, il che non era cosa da poco.
Le prime volte si era domandato se Demyx avesse chiuso la stanza a chiave, ma poi aveva constatato che non era così; e, inoltre, anche se davvero l'avrebbe fatto, era quasi certo di riuscire comunque ad uscire, dato che il suo migliore amico gli aveva insegnato come aprire qualsiasi porta con una semplice forcina.
Il trucco stava tutto nel mantenere la calma e cercare di far scattare la serratura il più velocemente possibile.
Forse l'unico problema sarebbe stato proprio trovare la forcina.
Aprì furtivamente la porta, facendo spuntare la testa fuori; si guardò ripetutamente attorno, notando con enorme sollievo che non c'era nessuno per i lunghi corridoi. Iniziò così a camminare lentamente a piedi nudi, senza smettere di far saettare le proprie iridi da una parte all'altra dell'ambiente circostante; intravide il bagno, il quale era diviso in quello per ragazze e per i ragazzi, un lavandino e un paio di docce.
Naminè gli aveva spiegato che quello era il piano dedicato a tutte le stanze; infatti in ognuna delle porte del corridoio vi era scritto il nome del proprietario della camera nelle maniere più incredibili e impensabili.
Sua madre una volta gli aveva detto che già dalla caligrafia di una persona si può leggere una parte del suo carattere e lui era rimasto sorpreso da quella nuova scoperta.
Demyx aveva scritto il proprio nome con una caligrafia piuttosto disordinata e un pennarello blu, mentre, in basso a sinistra, aveva aggiunto un 'futuro chitarrista più famoso del mondo', il che aveva fatto trapelare un sorriso sul volto del biondo.
Di fronte alla stanza del castano vi era la camera di un certo -O forse di una certa, non era ancora riuscito a capire se fosse un uomo o una donna dal nome, e, soprattutto, dal colore che aveva utilizzato- Marluxia: una caligrafia estremamente elegante e curata di un brillante rosa.
Superò successivamente la stanza di Naminè; lei aveva invece utilizzato il celeste e la caligrafia era davvero piacevole da leggere. Non aveva mai visto la sua camera e infatti fu tentato di aprire la porta, ma poi scosse la testa, accorgendosi che sarebbe stato un gesto sicuramente scorretto.
Giunse poi di fronte ad una porta più scura su cui vi era scritto in maniera estremamente disordinata il nome di 'Xaldin'; alla sua sinistra, invece, vi era un foglio su cui la caligrafia era praticamente illeggibile e Roxas spese ben cinque minuti per capire che il nome scritto era 'Xigbar'.
Il seguente nome in cui si imbattè fu 'Saix': un giallo quasi fastidioso agli occhi con una caligrafia piuttosto allungata e stretta.
Voltò ancora lo sguardo verso la porta successiva e incrociò un foglio scritto con il pennarello marrone in stampatello maiuscolo: Lexaeus.
Si ritrovò poi con un'altra scrittura verde illeggibile; dopo un'accurata analisi, riuscì finalmente a capire che ciò che vi era scritto era 'Vexen'.
Assurdo, si ritrovò a pensare, tutti i nomi di quel posto, eccetto quello di Naminè, aveva una x infilata da qualche parte.
Fece per porgersi a leggere la porta successiva, quando dei pesanti passi costrinsero il suo cuore a galoppare come un cavallo imbizzarrito; il suo volto si trasformò in una maschera di puro terrore e il suo corpo si irrigidì completamente sul posto.
Un pensiero dopo l'altro si ammassò nella sua testa, creando la confusione più totale; per un attimo ebbe seriamente paura di svenire in qualche modo, ma, fortunatamente, o forse sfortunatamente, riuscì a rimanere cosciente della situazione.
I passi continuarono ad avvicinarsi e sembrarono essere piuttosto veloci.
No, non poteva essere Naminè. Demyx, forse era lui, si disse. Ma non aveva importanza: non doveva trovarsi lì, così lontano dalla sua stanza.
Provò le stesse sensazioni di quando, due anni prima, aveva rotto involontariamente il prezioso vaso di suo padre proprio nel momento in cui egli era tornato dal lavoro; mai dimenticò le sue urla, la sua rabbia perfettamente incarnata nei suoi occhi.
In mezzo al frastuono nella sua mente, in mezzo all'ansia, alla paura e al terrore, una voce gridò, strillò, superando tutte le altre: Scappa! Corri! Fuggi!
E fu quella che lui ascoltò; si voltò, ma s'accorse solo dopo che era troppo tardi.
«Ehi, tu! Che cosa ci fai qui?»
Se quella dannatissima voce nel suo cervello avesse gridato qualche secondo prima, forse sarebbe riuscito a raggiungere la stanza senza essere visto, chissà.

Nonostante ciò, corse. Corse veloce come il vento, corse allo stesso ritmo del suo cuore.
«Aspetta! Si può sapere chi sei?»
Smise di correre solamente quando giunse di fronte alla stanza di Demyx, accorgendosi che non avrebbe avuto senso nascondersi; il suo inseguitore avrebbe potuto benissimo aprire la porta e lo avrebbero scoperto, senza ombra di dubbio.
Sarebbe stato tutto inutile.
Si voltò e strinse i pugni, alzando lentamente la testa. «Io sono Roku. Roku Ludwig.»
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HTML Online Editor Sample

*Note di Evgenia Rox'*
-Parte il flash-back dal capitolo precedente: forse per la pubblicazione del capitolo successivo vi impiegherò un paio di settimane, o forse tre, o ancora un mese, non so.-
E fu così che passarono ben 36 giorni dopo l'aggiornamento della storia.
*Tossicchia con aria ambigua* Che poi magari una persona sana di mente lo avrebbe scritto a pezzetti, pian piano... E invece NO. Io no. L'ho tutto scritto oggi, spendendo praticamente la giornata di fronte a questo benedetto computer e impedendomi così di andare la mare è_é
Che vogliamo farci, ahimè, l'ispirazione quando mi acchiappa, non mi lascia più se non la vomito via su un pezzo di carta. -Che filosofia. <3
Allora, vorrei anzittutto ringraziare tutti coloro che hanno commentato; ho assai apprezzato i vostri complimenti, sul serio. Mi auguro veramente che questo capitolo non vi abbia deluso e che di conseguenza sia stato di vostro gradimento -Dato che sono praticamente impazzita scrivendolo- e... Vi prego di lasciare una recensione, dato che, come ho già detto, tengo tantissimo a questa storia e, tra quelle che ho pubblicato, sì, credo proprio che sia quella a cui tengo di più.
Uhm... Poi vorrei ringraziare la musica gotica al pianoforte, il pane, mia madre -La quale mi ha lasciata in santa pace da sola per tipo quattro ore ;A; - & le ciliegie che mi hanno accompagnata nel corso della scrittura. *Fiss il vuoto* Ohm, che altro dire...
OhMioDioMaQuant'èBelloEssersiFinalmenteLiberatiDallaScuola?! *AAA*
Ahm, sì. Torniamo alla storia, va'.
Well... Nella prima parte del capitolo vediamo il nostro caro protagonista alle prese con Demyx & Naminè, gli unici a conoscenza della sua presenza all'interno della fattoria; nella seconda parte, appunto, il biondo scopre un pò di più di dove si trova, anche se a grandi linee. E, infine, nella terza parte, oltre a riassumere la propria giornata con le proprie sensazioni, decide finalmente di uscire dalla stanza, facendo però -La sfiga nelle mie storie non manca mai.- uno spiacevole incontro. Il tutto, ovviamente, come nel capitolo precedente, frammentato da svariati flash-back, sogni e cose del genere.
Il capitolo che significa appunto 'Sono debole e sono stanco di sentirmi così', è riferito proprio al fatto che Roxas, spossato della propria debolezza e del fatto che non fa altro che fuggire, alla fine decide di affrontare la propria paura e smette di correre, voltandosi e presentandosi con sicurezza. Anyway, il successivo capitolo -Che, diamine, mi auguro di pubblicare prima di 36 fottuti giorni, dato che siamo nella stagione estiva e ho più tempo libero ;A;- sarà sicuramente più... Uhm, 'Movimentato', ecco.
Questa sera spero di poter rispondere a tutte le e-mail e/o recensioni nelle altre storie, anche se non credo, dato che i miei poveri occhi stanno chiedendo pietà ;A; Comunque, prometto che domani mi impegnerò a rispondere! Ho anche creato un nuovo contatto Facebook -e chissenefrega- di cui presto posterò il link, nel caso qualcuno volesse aggiungermi .w.
Detto ciò, commentate, people.
Alla prossima (:
E. P. R.

 

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