Non nobis Domine

di Rosso Veneziano
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - ***


NON NOBIS DOMINE

Capitolo Primo

 


Francesco Guardi, Parlatorio delle monache di San Zaccaria, 1750, Museo del Settecento Veneziano di Ca' Rezzonico, Venezia

Quelle rive che oggi corrono da San Marco ai Giardini dove terminano andavano una volta dal Ponte della Paglia fino alla chiesa delle Vergini e prendevano nomi diversi. Il visitatore dell’epoca, dopo le meraviglie della Piazza si eclissava sulla severità delle Prigioni Nuove e scrutava il mare verso San Giorgio Maggiore. Poteva trovare case di uomini più o meno ricchi. Da qui iniziava la Riva degli Schiavoni intervallata da ponti e frazionata dai Rii fino alla Ca’ di Dio. All’inizio del percorso, tra il Ponte della Paglia e quello del Vin si apriva una schiera di casette ed edifici. Dal Rio del Vin, a destra s’innalzava un palazzotto bianco e subito dopo di lui, a lato di uno stabile dipinto di un vivace rosso si infilava zitta zitta una calle, detta del Vin.

Il sole, splendendo nel cielo a mezzogiorno a Sud, si specchiava in due finestre di una casa, in fondo alla calle, tanto che il visitatore o il passante restava abbagliato dal riflesso dei vetri. La calle era angusta, a destra l’intonaco un po’ scrostato rivelava la muratura dell’edificio, a sinistra un semplice bugnato listava il pianterreno. Un gran portale concludeva il palazzotto bianco dirimpetto a una botteghetta cinta da alcune grate alle finestre. La calletta aveva un piccolo slargo e poi si apriva su una simpatica corte, in fondo alla quale stava l’edificio le cui finestre abbagliavano i viaggiatori. Nascosto dalla prospettiva, stava a destra un passaggetto per entrare nel quale bisognava lasciarsi alle spalle la vera da pozzo in centro allo spiazzo.

La strettoia diventava ancora più angusta scontrandosi con uno stabile che si allargava e la opprimeva. Un palazzo alto e schiacciato si apriva tra quella casa così invadente e il resto della calle che iniziava da lì. La calle proseguiva tranquilla fino a quando una casetta che pareva campata in aria apriva sotto di sé un sottoportico. Percorsolo, si aveva davanti un tabernacolo, ci si inchinava e ci si segnava per devota reverenza e il più delle volte ci si volgeva a destra ad ammirare, sopra la porta che stava per esser varcata un bel bassorilievo gotico in cui maestose e ieratiche figure di santi preannunciavano l’arrivo ad un luogo sacratissimo. Un cordone di pietra adornava la porta e sorpassatala si ammirava il tesoro marmoreo di Venezia: la chiesa di San Zaccaria.

Una lapide, collocata a sinistra ricordava l’importanza del monastero di Benedettine che sorgeva lì e la potenza della sua Reverendissima Badessa. Arcate rinascimentali cingevano a sinistra il campo spingendosi al fianco della casa di Dio. La chiesa, imperiosa, dominava il campo. Il sole brillava sulla statua in cima, sotto la quale un tetto a botte, seguito da una bifora, inaugurava la facciata meravigliosa. Dal tetto al portale essa appariva augusta e moderna nel suo stile, sotto, invece, sembrava più antica: infatti Antonio Gambello, vecchio architetto, era morto nel fare quest’ultima parte mentre il più moderno Codussi aveva completato l’edificio costruendo la meravigliosa chiesa. Un angolo del sacro edificio lambiva un giardinetto che con le sue piante offriva ombra al campo. L’edificio era medievale, severo e magnifico nel suo genere. Un cancelletto di ferro impediva di raggiungerlo. Quel giorno nuvoloso, quel mercoledì 8 marzo 1752, giorno di Quaresima, con grande pompa, il Cavalier del Doge, Giambattista Pasqualigo, attendente del Principe di Venezia era venuto fin lì accompagnato da un consesso di guardie per parlare con la persona più importante del monastero.

Un’oblata stava innaffiando una pianta del giardinetto quando vide il Cavalier del Doge e aprì il cancello, chinando il capo in segno di saluto. Pasqualigo svoltò a destra: la piccola milizia, sull’attenti, si dispose ai lati del portone. L’oblata, riposto l’innaffiatoio, presa una porta a sinistra, la aprì con una chiave e la richiuse, scomparendo all’interno dell’edificio. Pochi secondi dopo usciva nuovamente aprendo il portone a Pasqualigo che attendeva in piedi. Lo guardò brevemente. Era vestito splendidamente, secondo i dettami della moda. Una parrucca incipriata terminante in un codino e vestiti neri, una zimarra che sembrava annunciar lutto. Le uniche cose bianche erano le calze. Pasqualigo aveva l’aria del nobiluomo: col suo viso rugoso sembrava sempre solenne ed importante. L’oblata, chinando il capo, permise a Pasqualigo di entrare. Si aprì il parlatorio. File di grate intervallate a colonnette erano sospese, inchiodate su scanalature intagliate nel marmo. Si ripetevano per tre volte: alla quarta, invece che una grata, stava un pertugio stretto ed angusto dove scorreva una ruota.

La portinaia stava leggendo qualcosa. Era seduta di uno sgabello ed aveva un libro su un banchetto e dava così le spalle a Pasqualigo. Sapeva tuttavia che era entrato, così prese un segnalibro d’oro a forma di mano, lo mise all’interno del suo compendio e lo richiuse. Poi si volse alla grata. "Il Signore sia lodato" intonò solennemente la portinaia. Il suo abito benedettino nero era l'emblema della clausura. Il velo le copriva i capelli. Il suo volto era emaciato, stanco e spossato. Prese uno sgabello e si sedette davanti ad un tavolo che stava sotto la grata e con un segno di mano invitò il Cavalier del Doge a fare altrettanto. Pasqualigo si accomodò su un sedile di velluto nero dall’alto schienale.

Solo allora rispose: "Sempre sia lodato.". Appoggiò una borsa di cuoio, nera, sul davanzale della grata, si alzò e, schiarendosi la voce chiese: "Desidererei parlare con la Reverendissima Madre.". La portinaia lasciò intravedere una smorfia ed abbozzò una frase: "Signore, Sua Reverenza è occupata.". "Per ordine della Repubblica" si oppose Pasqualigo.

All’udire quelle parole la portinaia tacque e prese un campanello che iniziò a scuotere. Dal ventricolo di corridoi che si palesava a partire dall’ultima grata in fondo, giunse un’altra oblata. Alzatasi in piedi, la portinaia ordinò: "Chiamate sorella Anna!".

Pasqualigo non comprese perché non riferirsi subito alla badessa, ma poi capì che anche le monache avevano un cerimoniale da rispettare. Si sedette sulla poltrona e lasciò che la portinaia si accomodasse sullo sgabello, dopo aver ripreso in mano il libro. Si portava la mano al cuore mentre Pasqualigo osservava l’oblata allontanarsi. La conversa uscì cinque minuti dopo dal corridoietto portando con sé Sorella Anna e cioè un’altra oblata. Pasqualigo si indispettì.

Tuttavia la salutò e la nuova arrivata parlò: "Sono l’ancella di Sua Reverenza. Dite a me quello che vi preme comunicarle, se vorrete parlare con lei.". "Si tratta di un annuncio riguardante la persona del Doge." terminò Pasqualigo. Sorella Anna che era una diciottenne di umili condizioni mostrava una faccia graziosa e bella sotto il velo ed una voce chiara e musicale. Fece solo una esclamazione di flebile sorpresa. Tuttavia si riebbe e rispose con determinazione: "Chi devo annunciare?". "Il cavalier del Doge – rispose seccato Pasqualigo – e ditele che si palesi subito che è un affare importante ed in veste ufficiale, se preferisce."

L’oblata abbassò lo sguardo e percorse il corridoio. Le pareti bianche sfociavano in una porta: apertala la giovane conversa si trovò in un gran viavai di sue pari: donne umili votate alla clausura per soddisfare le famiglie si dedicavano ad essere serve delle monache. Tutte erano indaffarate: due o tre portavano alla vestiaria cesti di veli ed abiti, altre tre piatti pieni di pane cotto nel forno, altre due invece, lenzuola piegate. Giunta al termine del corridoio aprì un’altra porticina e si trovò di fronte ad un grande scalone che due monache stavano scendendo per andare nel chiostro e sovrintendere le converse nella pulizia del selciato. Le due lanciarono un’occhiataccia a Sorella Anna perché a loro pareva non stesse facendo nulla.

Lei però le ignorò, svoltò sul pianerottolo e si trovò sul piano nobile. Svoltò ancora a destra, picchiò ad una porta ed entrò. Si inchinò un po’ circospetta. Su una grande scrivania la Badessa e la Priora leggevano insieme i registri della Provveditrice. La Celleraia, di fronte a loro, spiegava ogni singolo punto commentandolo e spiegando il perché di alcune spese.

La Badessa ripose il registro, si alzò e disse: "Sorella dite. Qualcuno vien forse a chiamarmi?". "Il cavalier del Doge, Vostra Reverenza, vi chiede di venire come volete: anche in veste ufficiale. Egli ha notizie riguardo Sua Serenità il Duca di Venezia." concluse Sorella Anna alzandosi. La Badessa guardò verso la Provveditrice che si preparò subito, alzandosi.

Sorella Anna diede uno sguardo alle monache e quando vide il velo un po’ sgualcito della Priora glielo sistemò. La Badessa si volse verso un armadio stretto ed alto, girò la chiave e ne trasse il suo pastorale: ne avvolse la benda intorno all’asta e lo prese in mano. Poi, aprendo un altro stipo, ammirò la sua mitra, semplice e spartana, ricamata, non tempestata di gemme come le altre che possedeva e che usava fuori dalla Quaresima.

La Provveditrice prese la tiara con il cuscino mentre, indicando una croce di legno per le processioni, la Badessa ordinò alla Priora di prenderla in mano. La croce aprì un corteo seguito dalla Celleraia con la mitra e dalla Badessa col pastorale. Fecero il cammino a ritroso e giunsero nel Parlatorio: qui la portinaia si inchinò davanti ad esse ed uscì dal corridoio.

La Priora ripose in un angolo la croce, la Badessa le affidò il pastorale e la Provveditrice resse in mano la mitra. La Badessa si avvicinò ad uno scranno. Sorella Anna che la seguiva a qualche passo di nascosto prese il seggiolone e lo trasportò davanti al Cavalier del Doge, togliendo lo sgabello.

Poi l’oblata uscì dal parlatorio chiudendo il portone che lo separava dalle altre sale. "Madre Reverendissima – cominciò il Cavaliere – in nome della Signoria vi porgo il saluto e l’augurio di vivere in Cristo e nella sua pace.". La Badessa rispose con parole di circostanza, attese l’inchino del Cavalier del Doge, poi chinò la testa e si sedette mentre l’uomo rimase in piedi.

"Poiché il Signore nella sua misericordia è tanto buono con noi, siamo chiamati, per riconoscenza a chiamarlo Padre Clemente ma egli promette anche la corona del Paradiso ai meritevoli: pertanto è giusto e sapiente. – iniziò a concionare con paroloni aulici il Cavalier del Doge – E nella sua saggezza egli ordina che per poter vivere in Lui in eterno noi attraversiamo un sonno del corpo che non è sonno per l’anima: la morte. E ieri notte Sua Serenità, Monsignor il Doge, il Serenissimo Principe, il Duca di Venezia, Pietro Grimani è tornato alla casa del Padre.".

Detto questo la Badessa cadde sull’inginocchiatoio e si segnò tre volte. Il Cavalier del Doge si inginocchiò sul pavimento, guardando verso il basso. La Priora prese il pastorale e lo infilò in un sostegno, occultato dietro una tenda che toccava terra. Poi si inginocchiò anch’essa. Lo stesso fece la Celleraia mettendo la mitra sulla scrivania della portinaia.

Si stava apprestando ad inginocchiarsi quando la Priora, interpretando una smorfia della Badessa, le fece un cenno. La Procuratrice capì e tirò le tende di tutte e tre le grate.  In quel buio rimasero per un buon quarto d’ora. Poi la Badessa si rialzò, nell’oscurità ed iniziò a cantare. Le altre due monache la seguirono.

De profundis clamavi ad te Domine,
Domine, exaudi vocem meam.
Fiant aures tuae intendentes
in vocem, deprecationis meae.


A te, O Signore, gridai dal profondo,
Signore, ascolta la mia voce.
Le tue orecchie diventino interessate
alla voce della mia preghiera.

Concluso il canto, la Celleraia riaprì le tende. L’Abbadessa si rialzò mostrando gli occhi lucidi e le lacrime lungo le gote.

Allora intonò un discorso: "O Signore, tanto misericordioso da perdonare i peccatori, concedimi clemenza per quello che io penso. Io sono monaca e tua sposa soltanto dovrei essere ma in me sopravvive ancora l’amore per la mia famiglia. Ieri hai chiamato a te mio fratello. Io ti supplico di sostenermi nel momento della prova. Così sia.". Poi, preso un fazzoletto, si asciugò le lacrime e chiese al Cavaliere spiegazioni sulla morte del fratello.

"Vostra Reverenza già sapeva di certi suoi problemi di salute. Per questo voi meditavate dopo la crisi che egli aveva avuto una settimana fa, di lasciare la clausura. Lunedì si era sentito un tale mal di testa da voler annullare i consigli: e questo non era possibile, essendo stabilita una riunione col Collegio per parlare delle decisioni prese dal Senato nella giornata di Domenica. Si era tanto affaticato che ieri, avendo in programma una riunione coi Giudici del Proprio l’aveva annullata ed era rimasto nei suoi appartamenti. All’inizio di oggi si era coricato all’ora terza ma alla sesta si era svegliato dolorante: urlando ha chiamato tutti i servi, poi, sciancato e stanco e morto poco dopo l’ora settima." spiegò il Cavaliere del Doge.

La suddivisione della giornata nel secolo XVIII a Venezia era completamente diversa da quella attuale. La giornata iniziava al tramonto ed era divisa in due cicli di dodici ore.

La Badessa parve aver compreso l’altro motivo per cui il Cavalier del Doge fosse lì. La consuetudine, antichissima, poneva il monastero di San Zaccaria sotto la tutela dell’istituto del Doge. Solitamente la Badessa era una sua parente: infatti, fino a quel giorno lo era la sorella di Pietro Grimani. La morte del fratello significava per la Grimani la perdita del suo potentissimo privilegio: perciò doveva dimettersi dalla carica.

Avrebbe potuto tentennare, riufiutare di firmare il contratto che Pasqualigo teneva nella cartelletta nera, ma in quel caso il Senato l’avrebbe ingloriosamente deposta. Piuttosto che la gogna Elena Grimani – così si chiamava – decise di sospendersi dalle sue funzioni. Se non altro le era permesso di indicare una succeditrice.

Con passi solenni, dopo uno sguardo d’intesa, entrambi si diressero verso la ruota. Fu la badessa a spingere l’apertura dell’ingranaggio verso il suo interlocutore. Lui pose dentro il foglio in cui sottoscrivere le dimissioni: Elena Grimani fece girare l’ingranaggio, prese il manoscritto e si recò sul tavolo di fronte alla grata. Prese una penna d’oca e un calamaio e lesse quello che c’era scritto.

In nomine Christi amen.
La sottoscritta Elena Grimani al secolo, oggi Madre Reverendissima Maria della Risurrezione, Badessa del Monastero di San Zaccaria dell’Ordine delle Benedettine dell’Osservanza Ordinaria, sorella del defunto Monsignor Doge Pietro Grimani ai sensi delle Consuetudini del proprio Convento decreta:
-       La sua dimissione dall’ufficio di Badessa
-       La nomina di… a…

Obbedendo alle sacre leggi della Clausura imposte dalla Santa Chiesa e ai Decreti della Serenissima Repubblica di Venezia.

Completò gli spazi vuoti scrivendo il nome della Priora e la sua nomina a Priora in Capite. Poi si firmò Madre Rev.ma Maria della Risurrezione O.S.B. Badessa del Monastero di San Zaccaria in Venezia.

I Provveditori sopra i Monasteri avevano redatto quel decreto ed erano contentissimi dell’ambasciata di Pasqualigo. Elena Grimani rigirò tramite la ruota il documento. Il Cavalier del Doge lo raccolse e ringraziò molto le claustrali. Ripeté le condoglianze. A quel punto la Grimani si inchinò. La imitarono anche la Provveditrice e la Priora in Capite.

Ora spettava a quest’ultima il governo del monastero: la Badessa avrebbe rinchiuso negli armadi il pastorale e la tiara, abbandonato il suo ufficio e i suoi appartamenti. Ogni potere sarebbe passato alla Priora in Capite, fino a quando i funerali del Doge non si fossero tenuti e non fosse stato eletto il nuovo Serenissimo Principe. Tutte coinvolte nei loro pensieri le monache lasciarono il Parlatorio.
Nel frattempo Pasqualigo era già uscito dal monastero scortato dalle guardie.

I parenti che conoscevano bene Elena Grimani si chiesero come mai Sua Reverenza non avesse inviato come sua rappresentante a Palazzo Ducale l'ancella prediletta, Suor Anna, ma l'altra, che dai discorsi della superiora appariva come più incapace, rozza e sciocca. Nessuno poteva immaginare che tra i due chiostri di San Zaccaria il dubbio aveva assalito la propria reverenda parente.

Oltre quel Parlatorio ordinato e quel ventricolo di corridoi si trovavano, infatti, le celle dove le monache, meditando dì e notte la parola del Signore ringraziavano Dio per la sua misericordia e lo pregavano di concedere loro il perdono dei peccati compiuti. Il monastero di San Zaccaria era tra i più grandi di Venezia per questo, secondo la Regola, esistevano delle monache superiore, chiamate Decane, preposte al comando di un gruppo formato da dieci monache. Le monache erano 145.

Erano escluse dal governo delle Decane le monache maggiori: la Procuratrice, la Priora e le partecipanti alla Consulta, l'organo supremo di deliberazione del Monastero. Naturalmente a comandare tutte era la Badessa. Le oblate erano solitamente una per monaca con l’esclusione della Badessa che poteva averne due. Così si avevano 146 oblate. Queste ultime, dette anche converse non avevano diritto di voto nei Capitoli, dovevano obbedire alla Regola, non cantavano nel Coro e non meditavano ma espiavano la loro pochezza nel servire le superiori.

Alcune oblate non erano sottoposte al servizio di una singola monaca ma erano di proprietà del Convento. Tra queste c’erano le cercatrici, dispensate dalla clausura, che si recavano in città per gli acquisti e le latrici, postine del Capitolo presso i Provveditori per i Monasteri, il Capitolo Marciano e Patriarcale.

Anche per le altre oblate la clausura era regolata da leggi meno severe: ogni monaca poteva ordinare alla propria ancella di svolgere faccende anche in città.

Le monache dovevano, secondo la Regola, mortificarsi, rifuggire le comodità, amare il digiuno, azzerare se stesse, distruggere la propria personalità e rimettersi in Cristo per essere annientate dalla sua presenza maestosa.

Le Benedettine credevano che Dio fosse il grande dispensatore di ogni bene e che esse fossero le responsabili del male della propria vita: odiavano i propri desideri, detestavano la propria opinione e la propria volontà. Non dovevano mai ridere, parlare di facezie e discutere molto in modo da mettere le altre in imbarazzo e soggezione o portarle in ammirazione.

Era proibito parlare di cose divertenti durante la propria ricreazione: se qualche monaca avesse voluto discutere di argomenti non spirituali avrebbe dovuto chiedere alla propria Decana. Se quest'ultima non avesse dato il proprio beneplacito, la sorella incriminata poteva essere condannata alle pene più dure. Alcune claustrali leccavano con la lingua a terra il pavimento del Refettorio restando in digiuno, altre erano condannate ad essere frustate dalle oblate, altre ancora espulse.

Le accusate dalla Consulta dovevano essere sottomesse alla volontà della Badessa: se avessero osato rivoltarsi punizioni tremende e rivoltanti sarebbero state scagliate su di loro. Si narrava di suor Agata, che, nel ‘500, lavorando con l’ago una tovaglia si era punta ed aveva bestemmiato. La Badessa le aveva fatto cavare la pelle della mano in cui si era punta. Altre monache in gioventù avevano rimproverato di propria iniziativa le Consorelle e per questo motivo camminavano zoppe: infatti, tutte si ricordavano di Maria Todara Mocenigo, sorella del doge Alvise II che aveva ordinato la rottura delle caviglie di cinque sue sottoposte. Alcune oblate, dopo averle legate ed imbavagliate, le incatenarono ai letti e con dei magli, dopo aver loro dato pezzi di cuoio da mettere in bocca avevano disarticolato le loro ossa.

Ma erano episodi grotteschi che alcune oblate avevano riferito in città e che avevano contribuito a creare un certo alone di mistero ed obbrobrio intorno a San Zaccaria. Tuttavia la Repubblica di Venezia faceva uso frequentissimo di pene similari quindi nessuno se ne era scandalizzato.

Elena Grimani non era così conservatrice ed aveva accettato anche punizioni più lievi. Una volta aveva fatto frustare una monaca ma aveva assistito al supplizio e dopo sei schiocchi di frusta aveva pianto spaventata ed aveva ordinato la fine della tortura. Non era stata colpita da una smania di abusare del proprio potere ed aveva lasciato in pace le monache. Al massimo si era spinta a farle mangiare per terra come cani o a leccare il pavimento.
Certo era che Elena Grimani era stata una severa riformatrice: aveva portato innovazioni, questo sì, ma dure e severe, tanto crudeli, secondo le monache abituate alla mollezza di San Zaccaria. La Grimani era stata educata a San Lorenzo, un monastero di Castello nato con il solo scopo di forgiare monache più ligie alla Regola Benedettina.

Nel claustro di San Zaccaria le monache erano dispensate dalla Regola grazie ad alcune consuetudini: intrattenevano amanti, avevano comodità ed agi e vestivano abiti aristocratici e ricchi. San Lorenzo, invece, a detta di alcune trasferite, era l’inferno. Ogni giorno c’erano donne frustate e picchiate per ordine della Badessa: in quello squallore Elena aveva conosciuto i principi della severità cattolica e li aveva fatti suoi.

Finito l’Educandato, nonostante il padre volesse iscriverla a San Zaccaria perché l’esperienza a San Lorenzo era stata traumatizzante, Elena aveva scelto la chiesa di Santa Maria di Gerusalemme, detta delle Vergini, anch’essa nota per la sua ieratica impostazione, severa ed anacoreta.

Elena era nata nel 1679, a quarant’anni nel 1719 era divenuta Badessa. Aveva vissuto per anni nel monastero: poi nel 1741, su insistenza del fratello, eletto Doge, si era trasferita a San Zaccaria. C’era voluto un anno prima che le monache la accettassero: nel frattempo la precedente Badessa, la vecchissima Benedetta, rimase in carica.

Poi finalmente votarono per lei e la scelsero come superiora. Elena in quell’anno vestì l’abito benedettino, si sforzò di non dare giudizi e di non magnificare troppo l’esperienza vissuta a Santa Maria di Gerusalemme: poi nominò una nuova Consulta, con un decreto vietò alcune comodità, sequestrò gli abiti profani, impose quelli benedettini, rese più severa la clausura e stabilì nuovi ordini per le oblate. Il tutto nello spazio di tre mesi.

Il monastero era piombato nell’austerità. Quante non avessero voluto accettare i nuovi ordini della Badessa richiesero il trasferimento: ma andò loro male perché le misero a San Lorenzo o alle Vergini.

Il principale impegno di Elena era stato organizzare per nove anni di seguito il pranzo pasquale con la Serenissima Signoria: per evitare contatti troppo diretti aveva fatto costruire una grata tra i tavoli delle claustrali e quelli della Signoria.
Dopo la grande riforma aveva scelto affidabili Decane per controllare le monache: tutte, seppur con difficoltà, si adattarono. Fece di San Zaccaria da luogo di svaghi qual era il covo della mestizia ma represse ogni desiderio di ribellione soffocando le sottoposte con preghiere ed orazioni.

I Capitoli erano in pratica inutili poiché quando qualche monaca avesse ardito parlar contro la Badessa questa l’avrebbe fatta inquisire dai Provveditori sopra i Monasteri. Era subdola nel suo modo di agire perché non aveva spinto con la forza le claustrali ma le aveva lusingate.

Ora esse si vergognavano di averla eletta ma pensavano alle probabili conseguenze: forse il Capitolo di San Marco avrebbe fatto scomunicare le facinorose, imporre una commenda sull’abbazia il che significava l’essere odiate da tutte le Monache del mondo e la perpetua messa alla gogna.

Le minacce non erano servite, i soli presagi erano bastati a convincere le poverette ad accettare le condizioni poste da Sua Reverenza per la salvezza dell’anima.
Tuttavia neppure l’obbedienza, la pazienza, la carità e la fede avevano potuto sollevare e rinfrancare la Badessa nel difficile momento seguito alla morte del fratello.

Suor Maria della Resurrezione era un po’ particolare: oltre ad eccellere nelle sue virtù e nella sua perseveranza soffriva di un male che la rendeva singolarmente famosa tra le claustrali. Tossiva alla vista della luce del sole e della forte illuminazione. Aveva cercato risposte anche nei vecchi libri di Aristotele: ma non era riuscita a trovare rimedio

Forse era questo uno dei motivi che le aveva spinta a vivere nel monastero, un luogo buio e tetro: una delle cause della sua sindrome, però, era la sua ipertensione ma ohimè, i medici dell’epoca non avrebbero mai potuto scoprirla e curarla.

La morte del fratello e tutte le sue peripezie la avevano stremata: per dodici anni era destinata a rimanere in uno stato di angoscia e trepidazione, di stanchezza: l’insonnia, la fiacchezza, l’astenia, la rigidità nei movimenti, la goffaggine, i crampi, l’emicrania, l’ansia, la perdita graduale dell’equilibrio, il continuo senso di smarrimento e di confusione, la distrazione, la pelle secca, il vedere tutto confuso e sfocato, l’ipotermia, l’intolleranza al freddo ed al caldo, il fastidio del veder la luce e l’aggravarsi del suo disturbo nel tossire davanti al sole, il continuo perpetrarsi del dolore di malattie antiche già guarite ed il sentirsi mutevole di salute a seconda del bello o del cattivo tempo l’avrebbero infine portata ad una grave forma di fibromialgia che infine l’avrebbe spinta in un tetro e marmoreo sepolcro nel camposanto delle Benedettine.

Quei tempi bui, che comunque le avrebbero consentito di morire alla veneranda età di ottantasei anni, erano ben lontani. Era ancora una arzilla signora di settantaquattro anni, un po’ in trepidazione e pressata dai problemi ma ancora energica e con tanto desiderio di lavorare e vivere.

Da bambina aveva avuto un certo ribrezzo delle immagini sacre e delle processioni che le monache organizzavano. Una volta si era aggregata per la preghiera notturna ad un corteo di Benedettine. Il gatto del monastero, arrampicatosi su una alta mensola, spinse giù una pesante immagine di marmo in cui era ritratto lo scuoiamento di San Bartolomeo. L’effigie piombò proprio sulla testa di Elena che alla vista della statua per terra ebbe un grande terrore. La scena era macabra e drammatica: sotto la pelle del santo si vedevano vene e tendini, un aguzzino torturava con ferocia il povero martire. L’idea che bisognasse subire quelle pene per essere in Paradiso l’aveva spaventata. Il dolore alla testa per il colpo ricevuto era durato per un po’ ma poi tutto si era risolto.

Probabilmente se non fosse stata così presa dalla Regola di San Benedetto avrebbe avuto anche paura della clausura e delle monache e sarebbe uscita dal convento senza rimpianti a causa di tutti i traumi vissuti.

Suor Elena era stata forte ed aveva saputo superare le difficoltà: ad Elena era stato affidato un ruolo in famiglia. Erano in cinque, i fratelli Grimani. Il più grande era Marcantonio: a lui era stato riservato un matrimonio con Paolina Querini, già morta, all’epoca. L’altro fratello, Pietro, era divenuto un politico. Lei era la terzogenita. Il quartogenito Almorò: un uomo simpatico e gentile, non sposato, anche lui entrato in politica. Ad Almorò Elena teneva moltissimo: era il suo fratello preferito ma purtroppo era un po’ timido per essere un eccellente politico quale Elena desiderava fosse.

Il quintogenito Andrea non aveva fatto carriera coi soldi dei Grimani, come Marcantonio, o in politica, come Pietro ed Almorò, ma nel Clero. Egli era divenuto monaco: Elena desiderava lo facessero benedettino ma il padre aveva scelto diversamente e lo aveva iscritto tra i Cistercensi della Madonna dell’Orto. Nonostante un certo rimorso Elena lo aveva accettato: così ella era badessa a San Zaccaria, il fratello abate nella chiesa di Cannaregio.

Elena aveva due soli nipoti, i figli di Marcantonio: Marcantonio II e Maddalena. Quest’ultima aveva anch’essa scelto la vocazione religiosa: era stata cresciuta tra le Benedettine, a San Lorenzo, come aveva desiderato sua zia, ma non era entrata nel novero delle Claustrali di Santa Scolastica. Aveva invece scelto le Carmelitane Scalze, ordine noto per la continua mortificazione delle monache. Elena si era opposta energicamente: era un ordine meno prestigioso, derivato da una famiglia di Frati e di non di monaci, tra l’altro le superiore non erano badesse ma semplici priore. Insomma era la cosa più inadatta per una nobile del suo rango. Maddalena però era stata irremovibile. La giovane divenne priora del monastero delle Terese a Dorsoduro dove aveva scelto il nome di Suor Elena, in omaggio alla zia.

La sua clausura Elena Grimani non l’aveva mai rimpianta: si ricordava ancora di quando, giovane, entrata alla chiesa delle Vergini il padre aveva stipendiato alcuni cantori per eseguire il Veni sponsa Christi di Palestrina.

Veni sponsa Christi accipe coronam
quam tibi Dominus preparavit in aeternum.


Vieni, sposa di Cristo, ricevi la corona
che il Signore ti ha preparato per l'eternità.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Capitolo Secondo
 
Elena Grimani salì lo scalone e raggiunse il proprio appartamento. Ritornava dal colloquio con Pasqualigo. Stava per ordinare a Sorella Anna e all’altra conversa, Suor Bona di trasferirle le cose in una cella per le sue dimissioni quando le soggiunse una cosa.
Suor Bona si trovava nella lavenderia e stava lavando gli abiti abbaziali. Suor Anna, invece, si trovava nella camera da letto e stava piegando alcune lenzuola.
Elena entrò nella camera: Anna si inchinò e notò la sua faccia turbata. Elena si sedette sul letto e le disse: “Il doge è morto!”. Anna le porse le sue condoglianze e le parlò un po’ per rasserenarla. Elena si fece forza e le ordinò di uscire dalla camera perché si sarebbe messa allo scrittoio. Per un buon quarto d’ora vergò missive e lettere, eliminò le bozze buttandole nel camino. La candela per sciogliere la cera era accesa. Appiccò il fuoco alle brutte copie.
Poi chiamò Suor Anna e con tono perentorio le ordinò: “Andate a Ca’ Grimani. Portate questa lettera a mio nipote Marcantonio II. Solo a lui. Non consegnatela a nessun altro. Dite che invia la badessa.”.
Suor Anna disse di sì, prese la busta e vide che il cielo era nuvoloso spiando fuori dalle finestre. Passò per la propria stanze, prese il tabarro e si legò il cappuccio con il nastro poi, salutata la portinaia incontrò la conversa giardiniera, la seguì scambiano qualche chiacchera ed uscì dal cancello. Uscì dal campo verso la parete in cui si trovava il bassorilievo gotico. Sorpassatalo diede un’occhiata ad un palazzo decorato con archi a sesto acuto. Pasò il Rio del Vin sul ponticello e si trovò nella calca della folla in Salizada San Provolo. Donne e mercanti spingevano e rallentavano il cammino: quindi svoltò a destra, poi a sinistra in una calle contorniata da palazzi con finestre e grate: arrivò in un vicolo strettissimo, girò l’angolo ed in Rugheta Sant’Apolonia e si trovò sul Rio del Palazzo: da lì si scorgeva Palazzo Ducale. Un gran trambusto di gente che correva verso la piazza la travolse. Si recavano tutti a Palazzo per sapere del doge. Erano tutti nobili o valletti. Dopo averli mandati al diavolo passò alla Calle Larga di San Marco. Tra calli e campi arrivò a San Zulian. Muovendosi di parrocchia in contrada si trovò in un crocicchio, alla sua destra vedeva la Calle Gregolina, deserta. Da quel vicolo oscuro giunse una voce: “Sorella venite qui.”. Anna non capì e cercò di tirar dritto ma una mano la afferrò per il tabarro e la trascinò dentro la Calle. Li vide due uomini, ma nella penombra non potè riconoscerli: “Che volete?” si limitò a dire. “Non consegnate quella lettera se volete aver salva la vita” la intimidarono i due.
L’altro, che non aveva mai parlato, puntualizzò: “Siete ancora in tempo per tornare a San Zaccaria”.
I due uscirono dalla calle rivelando due abiti da facchini ed un cappello in testa. La parlata sembrava valtellinese: effettivamente la maggior parte dei trasportatori veneziani proveniva proprio da quelle zone della Lombardia, dove si era spinto il dominio di Venezia.
Suor Anna rimase silenziosa e ferma finchè i due non si furono allontanati. Giunse a costeggiare il Rio di San Luca, dove raggiunto il portale di Palazzo Grimani afferò i maniglioni di ferro e li sbattè sul muro.
 
Edvige Casagrande, la governante dei Grimani stava passeggiando nella corte. Venne al portone appena ebbe udito bussare. Aprì l’uscio e vide una monaca con un tabarro e una busta tra le mani.
“Sono Suor Anna, l’oblata che serve la badessa Grimani. Per suo incarico devo far leggere questa lettera al nipote Marcantonio II.”.
La governante annuì. Era anziana coi capelli brizzolati, un po’ sovrappeso, rivestita di un abito nero accollato e stretto in gola da un nastrino bianco.
La donna condusse Anna all’interno del palazzo: era tutto uno splendore di marmi e stucchi cinquecenteschi. Salirono un bellissimo scalone e raggiunsero un anticamera che si affacciava sul Canal Grande. Era ariosa e bellissima. Due cameriere stavano disponendo su di un tavolo alcune buste e fogli di pergamena per vergare lettere da spedire in cui annunciare la morte del doge.
Suor Anna fu fatta entrare nello studiolo di Marcantonio II. Era decorato con mobili e statue e con i dipinti ad olio dei Dodici Cesari. Sul soffitto un bell’affresco indicava la Virtù di Casa Grimani.
Marcantonio stava seduto alla scrivania. Suor Anna chinò il capo e disse: “Buongiorno vossignoria. Questa è la lettera che Sua Reverenza vi manda.”.
L’uomo aveva una quartantina d’anni, portava la parrucca e gli abiti neri del lutto.
Il suo viso sembrava ingenuo ed infantile ma i suoi occhi castani nascondevano una furbizia recondita e misteriosa.
L’uomo lesse la lettera facendo alcune smorfie, scrisse un’altra missiva e la consegnò ad Anna dicendole: “Date questa lettera a Sua Reverenza.”.
Anna si alzò, prese la busta, salutò ed accompagnata da Edvige uscì dal palazzo. Tuttavia ella non sapeva che dalla calle che conduceva al palazzo si sarebbero palesati i due facchini di prima.
 
Marcantonio richiamò Edvige: la sorella aveva dimenticato il tabarro sulla sedia dove si era seduta.
Edvige corse a chiamare l’oblata: fuori dal portone vide i due facchini che urlavano contro la conversa: “Adesso ve ne pentirete di aver consegnato quella missiva!”.
L’altro mise mano ad un bastone. Suor Anna, appoggiata al muro, implorava: “Signori! Calmatevi!”.
Edvige però iniziò ad urlare: “Ah che fate maledetti? Via da qua prima che chiami i gendarmi!”. I due temettero il palesarsi dei servi e dei robusti gondolieri de casada e decisero di darsela a gambe.
“Avevate dimenticato il tabarro.” disse Edvige che la ricondusse all’interno del palazzo. Marcantonio si trovava nella corte e stava parlando con un maggiordomo. Ad un suo cenno il valletto si allontanò: raggiunta Edvige il nobiluomo chiese cosa vi fosse: “La stavano picchiando!” rispose la governante.
Impietosito Grimani ordinò di portare dal gondoliere Piero l’oblata e che questi la conducesse fino a San Zaccaria.
Il barcaiolo era un uomo molto alto, robusto ma decisamente stupido. Si lasciava scappare confidenze fatte dagli altri, chiaccherava per nulla ma era un vigliacco davanti ai Grimani per paura dei padroni.
Piero spiegò subito che la gondola di palazzo era in squero per essere ritinteggiata quindi chiese ad Anna di adattarsi ad una mascareta.
Per Anna  non c’erano differenze così accettò.
Il gondoliere la menò attraverso il Canal Grande ed iniziò a ciarlare di molte cose: su come la morte del doge fosse avvenuta in un periodo particolarmente infausto e sul suo lavoro.
Suor Anna abituata al silenzio della clausura era naturalmente a disagio di fronte a quel cicaleggio senza fine. Tra l’altro era appena uscita da un’aggressione e l’ultima cosa che voleva fare era proprio sorbire le ciance del gondoliere che continuava, inarrestabile: “Temo che in clausura tra voialtre monache non ne dica niente ma il signorino Marcantonio ha un nemico e a me dispiace perché questo è un cugino di sua mamma e si chiama Querini e mi pare faccia Anzolo di nome ed è uno che pensa come certi francesi contro la Chiesa e son robe da disperarsi e…”.
Non volendo udire la solfa anticlericale Anna lo zittì: “Io mi feci oblata di mio genio per la clausura ed il santissimo silenzio. Non turbate le mie orecchie per sconsacrare la mia persona, a Dio solo dedicata.”.
Il gondoliere sbuffò e poi stette zitto: la lasciò sulla Riva degli Schiavoni. Sorella Anna tornò a San Zaccaria ed entrò in monastero.
 
Le oblate erano tutte indaffarate: era mezzogiorno e le monache si trovavano nella Cappella di San Tarasio per recitare l’ora media.
Suor Anna andò a prender posto al tavolo delle converse per mangiare. Il pasto fu servito: consisteva in un risotto seguito da una crema di patate e formaggi vari.
Nessun dolce: solo una pera a fine pasto ed una tazza di spremuta d’arancia. Il pomeriggio trascorse tranquillo: la sera la Badessa diede l’annuncio della morte del Doge e tutte le monache fecero le condoglianze. Si coricarono presto.
 
La mattina si alzarono alle cinque. Le oblate furono svegliate dai canti delle monache che lodavano Dio. Anna si alzò e salì nella camera in cui la Badessa si era trasferita per domandare se avesse avuto bisogno di qualche cosa. Elena rispose di no.
Anna tornò alle sue solite occupazioni: ordinare il guardaroba della Badessa, sistemare le sue cose dopo il trasloco e poi si sedette nella sua cella. Le era concesso di pregare: la sua vita era poco contemplativa. Ad un certo punto sentì picchiare all’uscio. Entrò la Badessa.
 
“Reverenza!” la salutò Anna. “Vorrei farvi una proposta sorella.” disse l’altra, zittendola. “Dite.”
“Diventate monaca. Vi insegnerò io a leggere e a scrivere. Andrete alla chiesa delle Vergini, dove sono stata badessa.”.
“Non potrei sopportarlo.” si oppose Suor Anna.
“Ma la clausura…” tentò Elena.
“Ascoltate: no! Non ne ho desiderio!” ripeteva l’oblata. “Diventate monaca oppure io…” ma subito Elena Grimani si maledì per quelle parole. “Quindi io sarei obbligata a farmi monaca? Non è di mio genio! No! Basta! Se è l’unica cosa che mi sarà consentita fare qui, a San Zaccaria io torno al secolo.” annunciò schiettamente la ragazza.
 
“Vi supplico” incalzava ancora la Grimani mentre Anna scendeva le scale del monastero dopo aver parlato con la Priora in Capite ed aver ottenuto un certificato per il suo ritorno al secolo. Infuriata la vecchia padrona tentava di chiamarla a sé ma l’altra fuggiva meditando che, se la proposta era stata così perentoria sotto c’era qualcosa. La guardiana diede il tabarro ad Anna mentre la Grimani, tutta confusa, la rincorreva. Anna chiuse dietro di sé la porta della stanzetta a fianco del parlatorio. Si tolse l’abito, lo baciò e lo ripiegò. Indossò i vecchi abiti che due anni prima aveva portato, quand’era nel secolo. Le stavano un po’ corti ma il tabarro copriva tutto. Sistemato l’abito lo pose su una ruota che fece girare. La portinaia tolse l’uniforme e passò la chiave. Anna aprì la porta e si trovò nel giardinetto. Là fuori un’altra oblata attendeva che lei restituisse la chiave. Anna gliela ridiede, uscì dal cancello e diede un ultimo sguardo a San Zaccaria.
Poi senza rimpianti abbandonò furiosa il campo: che la Reverendissima Madre andasse al diavolo. Con quel pensiero aveva profanato secoli di ecclesiastica gloria.
Salì a campo San Provolo: davanti alla chiesa si fece un segno di croce. Alla vista del rio attraversò: dietro di lei c’erano solo due persone una cameriera indaffarata ed un’anziana che tossicchiava. Percorse un sottoportico stretto ed angusto poi arrivò ad una calle in cui si affacciavano edifici in muratura. Si volse alle Fondamenta di San Severo: di fronte stava un meraviglioso palazzo. Arrivo al Sotoportego e Calle de Zo così chiamati perché scendevano quasi sottoterra. Arrivò in un punto così buio che si mosse a tentoni, toccando il muro. Poi vide la luce. Si apriva una strada stretta e lunga. La attraversò tutta allegra, sapendo di essere vicina a casa e svoltò. Dal ponte vide Santa Maria Formosa, raggiunse il Campo e girò nel primo sottoportego a destra. Giunse davanti ad una grata e vi spiò dentro: era il giardino di una conosciente. Girò a destra e si trovò sul portico della casa di una vicina. Era giunta nel Campiello dei Orbi dove era cresciuta. I suoi pensieri tornavano alle persone che aveva conosciuto in quel luogo: in quel portico viveva Margherita Marangona, così chiamata per il lavoro del padre: lei aveva fatto la butirante, venditrice di burro, per anni in una bottega a Santa Croce e da una zia aveva ricevuto in eredità un’altra bottega in Ruga Giuffa: già, come dimenticarla sua zia Menica, ebrea convertita, consacratasi all’arte del commercio, così intraprendente e trafficona? Lo zio di Margherita, Sgualdo, era un sanser, un mediatore di contratti di compravendita ed aveva dovuto gestire il difficile acquisto da parte della Scuola Grande di San Marco della casa in Campiello dei Orbi, di proprietà della Scuola dei Ciechi. La trattativa era andata così per le lunghe che alla morte di Sgualdo i debiti contratti dalla Scuola dei Ciechi presso la famiglia di Margherita erano così elevati da aver superato il prezzo dell’edificio. Così per risarcire i famigliari i Ciechi avevano ceduto gratuitamente la casa alla famiglia dei Marangoni.
La prima casa a destra era proprietà delle sorelle Baldine ma l’avevano affittata ad un certo Paternian Capra, un uomo vecchio e un po’ strano. La seconda casa aveva tre porte: questo perché le sorelle Baldine negli anni precedenti avevano diviso in più appartamenti lo stabile, per affittarli: ma alla fine si erano accontentate di tenerne in affitto uno solo così Drusiana e Cordellina occupavano tutto l’edificio. La casa con il giardino era invece di proprietà di Antonio Zancaruol, un vecchio patrizio. Era ormai semiabbandonata. A sinistra c’era l’unica grande casa di Luisa Padovan, la mamma di Anna.
Daniele Bassi, il padre di Anna, era un pestrin, e cioè un commerciante di latte. Aveva una casetta in Calle del Volto a San Lio con la propria bottega ma da un cugino aveva avuto in eredità anche la casa in Campiello dei Orbi.
Daniele veniva da Verona dove era vissuto da bambino. Il suo commercio gli permetteva di mantenere la famiglia e di vivere tutto sommato dignitosamente. Anna aveva dodici anni quando Bassi contrasse il tifo e dopo due mesi di agonia morì lasciando la famiglia senza nessuno che lavorasse. Luisa affittò la casa ad un professore di Padova, Augusto Stevanato, che era precettore nel vicino palazzo Boldù: la donna divenne governante della famiglia Vitturi portandosi appresso la figlia mentre tentava di trovare qualcuno interessato ad acquistare o prendere in affitto la casa in Calle del Fruttariol e la bottega della Caora Bianca.
Anche Anna servì i Vitturi come fantesca.
Aveva quattordici anni quando, scacciato il professor Stevanato dallo stabile con maleducazione, Luisa riprese possesso della casa in Campiello dei Orbi ed affittò il negozio alla famiglia di un giudecchino, Lazzaro Spin.
Per due anni Anna venne mandata da Teresa Padovan, la zia materna, e da Bastian Bissuol: la prima era una baretera e confezionava cappelli di cotone e lana, il secondo lavorava ai Graneri Publici, vicino all’Arsenale, come vagliatore e misuratore dei pesi del grano.
Teresa viveva a Campo San Bartolomeo dove aveva la sua bottega. Con lei vivevano tre apprendiste: Nineta, Aurelia e Assunta. La prima teneva i conti, la seconda e la terza confezionavano le berrette.
Anna aveva appreso il mestiere dalla zia Teresa ma non la aveva appassionata, seppure fosse abbastanza brava. Nelle sua passeggiate intorno a San Marco era giunta a Santo Stefano dove abitavano i Padri Francescani. Aveva conosciuto uno dei frati, padre Antonio e con lui aveva stretto una grande amicizia. A quindici anni Anna espresse il desiderio di farsi monaca a Santa Croce. Teresa ne parlò con Luisa, che propose un periodo di prova come conversa presso le clarisse nell’isoletta di Santa Chiara. Ma c’era una grande differenza tra Santa Croce e Santa Chiara: nelle prima stavano le Clarisse Urbaniste, più libere, nella prima le Clarisse Damianite, più ligie alla Regola.
Il clima di povertà di Santa Chiara non piacque ad Anna, così la madre decise di mandarla a sedici anni come oblata a San Zaccaria.
Appena arrivata, ad Anna venne affidata la custodia di Suor Bernardina Lazzari, una vecchia quasi pazza. Al suo diciassettesimo compleanno fu premiata per la perseveranza e la pazienza venendo chiamata ad essere l’ancella della Badessa.
Così ella aveva vissuto con serenità: ogni tre mesi, secondo accordi prestabiliti, Luisa veniva alla grata per comunicarle le novità. Quei tre mesi sarebbero presto scaduti.

Anna picchiò all’uscio di casa, non certa di trovarvi sua madre. Invece aprì la porta e quando la vide le disse: “Cosa ci fai qui?”.
Anna non voleva deluderla ma neanche mentirle così le disse: “Ho lasciato la clausura.”.
Luisa fece entrare la figlia nel corridoio che saliva al piano superiore. La fece entrare in cucina e sedere su di una panca. Le offrì un liquore che aveva comprato: del rosolio. La ragazza si fece animo e le raccontò delle stane proposte della badessa.
Luisa crollò su di una sedia e le disse: “Ahimè in che guaio ci siamo messe. Lazzaro Spin ha traslocato per andare a Rialto. Non trovo nessun pestrin che voglia vendermi il latte da due mesi. I soldi stanno finendo. I Ruzzini mi hanno proposto di vender loro la bottega e gli appartamenti.”.
“Perché non lo fai mamma?” le domandò Anna.
“Non sai cosa è successo alle Baldine? Paternian Capra ha abbandonato la casa affittata. Non hanno più un reddito. E poi i Ruzzini hanno truffato Margherita, la sua casa a Santa Croce, quella dove aveva fatto la butirante valeva cento scudi. Loro volevano comprarla per la metà: la poveretta ha detto di sì poi hanno abbassato il prezzo a venti scudi. Ha protestato ma i cari Ruzzini le hanno dimezzato il prezzo: se non voleva regalargliela doveva venderla poveretta. Così poteva guadagnarci dieci volte di più e invece che cento scudi ne ha presi dieci.” spiegò Luisa.
“Quanto varrebbe la nostra casetta?” insistette Anna.
“Cinquanta scudi.” rispose la madre bevendo una tazza di rosolio.
“Con cinquanta scudi si può tirare avanti per cinque mesi.” si rallegrò Anna.
“Si ma io da sola. Tu invece? Eh, mi sa che dovrai trovarti un lavoro. Chiederò alla Teresa se può ancora farti far berrette…” stava concludendo Luisa.
“No! Dalla zia no, per favore! Non ho nulla contro di lei ma son stufa di far berrette!” puntualizzò Anna.
“Allora facciamo così! Domani la sorella della Margherita, la Carlotta, che è serva dei Savorgnan viene a trovarci. Le chiederò se può farti far la cameriera a casa dei conti. Hai vitto, alloggio e abito. Anche se lo stipendio è di due soli scudi.” concluse rattristata.
“A me sta bene. Darò a te il mio stipendio. Tu cerca di trovare anche qualche altro acquirente per la Caora Bianca.” concluse Anna.
“D’accordo. Tu però hai bisogno di vestiti. Già… Ecco forse ho trovato: la Margherita ha dei vestiti che le hanno regalato per una sua nipote che ora si è sposata ed è andata a vivere a Mestre. Varranno si e no otto ducati. Va a prenderli e regalale questi soldi che la poveretta ha avuto spese. E poi è successo un tafferuglio con la bottega che ha lei in Ruga Giuffa… Tutte brutte cose di cui è meglio non parlare.”
spiegò Luisa.
Anna si accontentò di questi pochi chiarimenti, andò a casa della vicina, le comprò i vestiti e chiese di poter parlare l’indomani con Carlotta. L’anziana diede il suo beneplacito ed invitò inoltre Luisa e la figlia a pranzo da lei.
Margherita preparò un’arrostino di maiale, patate cotte col burro e per finire crema fritta. Mangiarono tutte e tre di gusto.
 
L’indomani Anna si alzò presto nella sua vecchia camera. Un letto in ferro battuto a due piazze, lenzuola vecchie e lavate col sapone di Marsiglia, una cassapanca come armadio.
Si lavò col catino la faccia e poi scese in cucina. Sulla madia Luisa un disordinato strato di farina segnalava che la pasta messa a lievitare era appena stata tolta. Sul tavolo c’erano alcuni zaleti ricoperti da un po’ di zucchero. Anna mangiò ma non vide sua madre: udì un gran parlare dal cortile e guardò fuori dalla finestra: le sorelle Baldine mettevano nel paniere una ciotola portata da Luisa: stavano andando a far cuocere il pane.
Luisa rientrò in casa salutò la figlia, entrambe bevvero l’infuso anche se Anna lo sorbì con minor piacere rispetto agli anni passati.
Luisa andò a prendere pasta e pesce al mercato di Rialto mentre Anna, rimasta in casa, si mise a rassettare: gettò da una finestra le briciole che caddero nel giardinetto di casa poi lavò alcune pentole ed uscì in corte dove Margherita stava spazzando il portico. Chiaccherarono un po’ fino a quando Luisa non tornò con panieri e borse pieni di generi alimentari. Era stata in diverse lasagnerie per comprare la pasta, cibo per le occasioni importanti. Quel giorno infatti, si sarebbero apprestate a parlare del futuro di Anna: bisognava lusingare Carlotta.
Margherita usò il pesce comprato da Luisa per preparare le granseole mentre Anna e la madre si misero a preparare la pasta. Luisa aveva comprato solo lasagne: così toccò ad Anna tagliare quelle sfoglie e sagomarle per farne altri formati. Li richiuse in barattoli salvo alcuni che si portò dietro per preparare a casa di Margherita.
Al piano superiore dell’abitazione della vicina la stanza più ampia era il salottino dove avevano già provveduto a spostare il tavolo della cucina. In centro un recipiente di ceramica di scarsa qualità conteneva tutta la pasta: attorno ai piatti ed ai bicchieri stavano due anguistare di vetro: la prima d’acqua, la seconda di vino rosso. I tovaglioli erano disposti accanto ai coltelli mentre a ciascuna era posto un vaso di ceramica come coppa per bere.
Anna e Luisa si sedettero su di una panca mettendovi sopra due guanciali portati da casa: le sorelle Baldine tornarono tardi con il pane e si misero sedute su due sgabelli. A capotavola stavano Margherita e Carlotta.
L’arrivo di quest’ultima fu un episodio solenne. Tutte la salutarono e Margherita le spiegò dei problemi di Anna. Carlotta rispose laconicamente che avrebbe chiesto alla zia contessa d’Asolo, una vecchia arcigna rimasta senza la cameriera Zuliana.
Poi nessuna si diede più pensieri: mangiarono di gran gusto trangugiando moltissima pasta, poi passarono alle granseole e bevvero molto vino. Conclusero il pranzo abbastanza tardi e si diedero una mano a sparecchiare mentre Anna si mise a lavare i piatti per sei.
Concluso che ebbero di desinare tornarono alle proprie case per il riposo pomeridiano. Nessuna se ne rendeva conto ma erano tutte donne sull’orlo del baratro. Nonostante la propria tranquillità le Baldine non avevano più redditi: il loro inquilino le aveva abbandonate.
Margherita aveva già avuto dei grattacapi e i Ruzzini ne avevano approfittato. Lei, come più tardi si sarebbe scoperto, nonostante avesse posseduto ben tre case, era la più sfortunata.
Luisa invece era senza nessuno che le prendesse in affitto la bottega e meditava di vendere la Caora bianca anche se probabilmente non le sarebbe convenuto.
Carlotta, che quella sera rimase a dormire a casa delle sorelle, tra tutte era la più umile. Non aveva proprietà ed era una semplice dispensiera. Ma tra tutte si era accontentata e per questo non avrebbe dovuto patire.
 
L’indomani Carlotta tornò a Palazzo Savorgnan mentre un maggiordomo dei Ruzzini venne a casa di Luisa per trattare dell’acquisto della Caora Bianca.
Quella mattina Margherita e Luisa avevano stretto un patto: la prima si sarebbe impegnata a pagare metà del costo dellos tabile così i soldi dell’acquisto sarebbero stati ugualmente spartiti. Il maggiordomo accettò il compromesso e rimandò l’acquisto.
Quel giorno fu lentissimo per la povera Anna: l’indomani ci sarebbero stati i funerali del doge e lei sapeva bene che Suor Bona l’avrebbe sostituita come rappresentante della Badessa. Tuttavia non se ne curò molto. Finalmente l’11 marzo Carlotta venne a casa di Luisa per annunciare che l’indomani la ragazza poteva iniziare a prestare servizio come cameriera personale della zia Contessa d’Asolo.

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