The perfume of a memory.

di taemotional
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il profumo di un ricordo - 1 ***
Capitolo 2: *** Il profumo di un ricordo - 2 ***
Capitolo 3: *** Il profumo di un ricordo - 3 ***



Capitolo 1
*** Il profumo di un ricordo - 1 ***


Prefazione: Salve lettori! Questa volta ho deciso di pubblicare non una mia storia (io l'ho solo betata xD) ma quella di una mia amica, Koko. E' la sua prima fanfic ma secondo me merita davvero quindi vi chiedo di leggerla! Non so in quante parti la dividerò (forse 3) ma vi prego di leggerla fino alla fine e, se vorrete, di commentare ^^ Buona lettura!! 

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"Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia.
Senza crisi non c'è merito.

E' nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze."

(Albert Einstein)



Mi alzai svogliatamente e uscii rapido dal letto di quella ragazza che avevo conosciuto appena la sera precedente. Le tende ben tirate non lasciavano entrare nemmeno un po’ di luce. Ero immerso nel buio.
"Cosa fai scappi?" mi chiese la ragazza, il cui nome mi era sconosciuto.
Merda, speravo di potermi risparmiare gli imbarazzanti saluti della cosiddetta mattina dopo, invece probabilmente avevo fatto troppo rumore.
"Devo andare a scuola" le risposi senza enfasi, intanto che mi rivestivo.
"Ah è vero che frequenti ancora il liceo, mi sembravi molto più grande"
"Questo solo perché ieri sera la tua vista era ingannata dall' alcool. Ora vado ci si vede"
Presi la mia cartella e mi fiondai fuori dalla porta mentre lei mi stava ancora dicendo qualcosa, del tipo 'non ho nemmeno il tuo numero di cellulare'. Ma non mi importava, era stata solo un passa tempo.

Camminavo spedito verso la fermata dell'autobus più vicina con la musica nelle orecchie. Salii sull'autobus. Sarei voluto scappare ed invece come meccanicamente ero sceso alla fermata della mia scuola. Non salutai nemmeno i miei compagni, ero troppo assonnato e immerso nel suono della musica. Entrato in classe mi gettai sul banco e chiusi gli occhi.
"Sveglia!" Mi gridò nelle orecchie il mio compagno di banco dopo avermi tolto un auricolare. Il suono della campanella seguì la sua voce.
"Taguchi quante volte te lo devo dire di non urlarmi nelle orecchie, soprattutto di prima mattina?"
"Scusa, però oggi arriva il nuovo insegnante! Non vorrai farti subito riconoscere."
"Cosa vuoi che me ne importi della scuola e tanto meno dei professori?"
Taguchi fece spallucce e si volse a parlare con altre persone; io riappoggiai la testa sul banco e mi misi a dormire.
Taguchi era l’unico mio compagno di scuola con il quale non mi riusciva troppo difficile parlare. A volte era un po’ troppo esuberante per i miei gusti, ma non mi infastidiva così tanto. Non era il solito ragazzino superficiale del liceo. Era possibile averci delle conversazioni mediamente stimolanti.
 
"...sarebbe?" sentii solo questo e poi una botta in testa. Mi alzai di scatto, chi diavolo si era permesso di tirarmi un libro sulla nuca?
"Che diavol.." sbottai in preda alla rabbia ma mi fermai. Non avevo mai visto quel viso, doveva essere il nuovo insegnante.
"Ben alzato, io sono il nuovo professore d'inglese. E, per la terza volta, lei sarebbe..?"
"Kamenashi. Kamenashi Kazuya."
"Bene, ora rimettiti a sedere e stai a sentire la lezione."
Non appena ha saputo il mio nome ha iniziato a darmi del tu, ma come si permette? E soprattutto è il suo primo giorno ed ha già intenzione di spiegare?
Iniziai ad ascoltare la lezione, parlava molto bene l'inglese. Non come tutti i suoi predecessori che di inglese ne capivano meno di me. I capelli castano scuro gli contornavano il viso, e non essendo troppo lunghi erano parecchio mossi. Il suo tratto somatico che più attirò la mia attenzione erano quei suoi due occhi castani, sembravano quasi magnetici. Non sembrava molto più grande di me, nonostante facesse il professore.
‘Ha anche una bella voce. Ma che cosa sto pensando, una bella voce?! Doveva avermi colpito proprio forte con il libro per farmi pensare tali idiozie’.
Suonò la campanella e i miei compagni si precipitarono tutti fuori. Io invece mi alzai con molta più calma. Il professore era ancora in classe, stavo giusto per uscire quando mi chiamò: "Kamenashi."
"Mi dica" gli risposi arrestandomi sulla porta.
"Non sei così maleducato allora?" domandò sorridendo. Aveva un sorriso strano, non ne capivo bene l'origine.
"Mi ha chiamato per capire quale sia la mia vera indole?"
"No” Sentenziò inarcando un sopracciglio. “Il precedente insegnante mi ha informato sulla tua situazione scolastica. A quanto pare l'unica materia che ti interessa è proprio l'inglese."
"Diciamo di sì."
"Prendendo il suo posto, sono anche diventato coordinatore di questa classe, quindi vorrei sollecitarti a prendere più seriamente i tuoi studi."
"Non si preoccupi" tentai di andarmene quando mi posò una mano sulla spalla.
"E' normale che io mi preoccupi, invece" Ci guardammo fisso negli occhi per qualche secondo, dopo di che presi la sua mano e la tolsi dalla mia spalla, inchinai lievemente il capo e uscii dalla classe.
Che diavolo voleva dire, pareva una frase normalissima detta da un professore ma c'era qualcosa nel suo tono che non mi convinceva. Stai a vedere che mi sono beccato il professore gay! Ho sempre pensato che quelli che decidono di fare i professori devono avere qualcosa che non va.
 
Finita la giornata, stavo uscendo quando vidi il nuovo professore che stava per lasciare anch’egli la scuola. Lo raggiunsi, non mi aveva nemmeno detto il suo nome.
"Professore!"
Si girò verso di me e mi sorrise, ancora quello strano sorriso.
"Non mi ha detto come si chiama."
"Akanishi Jin."
"Senta Akanishi, mi piacerebbe se lei mi potesse aiutare nello studio dell'inglese, come ha già intuito è l'unica materia che mi interessa."
"Come mai ti interessa così tanto?"
"E perché lei ha deciso di insegnare proprio inglese?”
Stette zitto per qualche secondo. "Ho capito, ad ogni cosa il suo tempo" disse sospirando, "Certo, per me va bene darti qualche lezione in più. Dopo tutto non sono realmente il tuo insegnante."
“In che senso lei non è realmente il mio insegnate?” Domandai senza troppa curiosità.
“Sono il tirocinante del tuo professore. Rimarrò qui in cattedra al posto suo per solo pochi mesi.”
"Capisco. Comunque, grazie per le future lezioni extra.”
"Domani dopo le lezioni vieni a casa mia, chiedi il mio indirizzo al rappresentante di classe. Ora devo andare, a domani." Sembrava quasi che volesse fuggire da me.
Salì su una moto, e sfrecciò via. ‘Non è così male come professore’ pensai. ‘E' la prima volta che vado a casa di un professore, chi sa come sarà casa sua’. Feci tutta la strada del ritorno verso casa pensando a quello strano ed improvviso invito.
Arrivato davanti al portone di casa feci un respiro profondo ed aprii la porta. Mio padre era, come ogni giorno, steso sul divano con una bottiglia di vodka in mano. Ormai era consuetudine. Salii le scale e mi chiusi in camera mia. Accesi lo stereo e iniziai a ballare e cantare in inglese lasciando tutto il mondo all’esterno di quella stanza, di quelle note, dimenticai persino lo strano invito di Akanishi. Non mi ero nemmeno accorto che mio padre aveva spalancato la porta, e ora mi si parava davanti. “Piantala con tutto questo inutile casino.”
Andai a spegnere lo stereo senza proferire parola.
“Cos’è questa aria di sufficienza, eh?!” sentii il suo puzzo di alcool addosso e poi, improvvisamente, mi colpì sul viso, mi gettò sul letto e uscì dalla stanza. Rimasi qualche secondo immobile senza pensare, poi sentii solo un’ unica lacrima solcarmi il viso. Dal piano inferiore provenivano delle grida, mia madre doveva essere tornata dal turno in ospedale. Non sarei sceso a salutarla e non sarei nemmeno uscito quella sera. Non avevo voglia nemmeno di respirare, sentivo solo il bruciore sotto l’occhio destro. Dopo essermi ormai abituato al bruciore, mi addormentai.
 
La giornata scolastica era trascorsa più lentamente del solito e ora dovevo recarmi dal professore anche se non avevo molta voglia di incontrare gente. Avevo già fatto molta fatica a chiedere il suo indirizzo al rappresentante di classe. Uscii dalla scuola, pioveva. ‘Bene arriverò da lui fradicio, bel modo di presentarsi a casa della gente’.
Ero sotto il suo palazzo e come avevo previsto ero completamente bagnato. Vedevo il mio riflesso sul citofono argentato, non credo riuscirò a sopportare ancora degli sguardi di compassione provocati da quella macchia violacea sotto il mio occhio. Cercai di coprirla un po’ con i miei capelli ramati, che essendo bagnati aderivano perfettamente al mio viso. Fu inutile. Io stesso ero un’intera ferita aperta.
Suonai senza troppa vitalità.
“Sì, chi è?”
“Kamenashi.”
Non rispose e sentii solo la porta aprirsi. Ero davanti alla sua porta al quinto piano, parecchio in alto per me che vivevo in una modesta casa a due piani. Aprì la porta, “Prego entr…. Che diavolo hai fatto all’occhio?" gridò sgranando gli occhi, proprio quello che volevo evitare. “Non ti sarai picchiato con qualcuno a scuola?” Pensai che sarebbe stato meglio così.
Scossi solo la testa. “Non avevo l’ombrello. Ho i vestiti completamente inzuppati e non vorrei sporcare in giro.”
“Non ti preoccupare” mi fece entrare, “Spogliati, ti vado a prendere dei vestiti di ricambio.”
Fermo sulla porta, ero rimasto in mutante e la scena mi fece sorridere.
“Che fai? Ti piace così tanto sfoggiare il tuo fisico che te la stai ridendo?”
“Non proprio.” Presi i vestiti che mi stava porgendo e li indossai.
“Allora cosa ti è successo all’occhio?”
“Niente di grave.”
Mi fissò con aria interrogativa, “Capisco. Non parli molto eh?”
“Il necessario. Anche lei non è da meno, è bravo a fare domande ma non appena gliene vengono fatte cambia discorso.”
Scoppiò a ridere, poi si avvicinò al mio viso. “E’ parecchio scuro, ci hai messo del ghiaccio?” chiese tenendomi il viso tra le dita.
“No, mi sono addormentato.”
“Come ti sei addormentato!? Quindi è successo a casa tua.”
Un brivido mi percorse tutta la schiena, era già arrivato alla conclusione corretta? Mi ritrassi da lui e non risposi. Sembrava aver capito la situazione.
Si alzò, “Vado a prendere del ghiaccio.”
Aspettai in silenzio, osservando il suo piccolo appartamento. In un angolo della sala era appoggiata a terra una valigia non ancora disfatta del tutto.
“Ah quella?” chiese col ghiaccio in mano, probabilmente doveva aver notato che la stavo fissando. Non mi piaceva il suo essere così perspicace, non mi va che gli altri sappiano cosa penso, cosa mi incuriosisce e cosa mi fa male.
“E’ sua?” chiesi infine.
“Sì, sono appena arrivato in Giappone.”
“Come appena arrivato, dove ti trovavi prima?”
“In America, ma non c’era più niente che non mi facesse odiare la mia vecchia casa.”
Cosa? Io non vedevo l’ora di andarmene da qui e lui aveva deciso di trasferirsi proprio qui dall’America?
“Beh non hai di certo trovato un posto migliore qui.”
“Tu dici?” Mi rispose guardandomi con quel suo solito strano sorriso. Un brivido mi attraversò tutto il corpo. Che cosa mi prendeva? Forse era provocato dal ghiaccio che mi stava poggiando delicatamente sotto l’occhio. Faticavo a stare fermo, sentivo il bisogno di muovermi.
“Ti fa male?” mi chiese prendendomi alla sprovvista.
“Che?”
“La ferita.”
“Ah, no ci sono quasi abituato.”
“Non vuoi proprio dirmi che cosa è successo, vero?”
Sorrisi con un po’ di amarezza, “Meglio per te non saperlo, ti complicherebbe solo la vita.”
Da quando avevo iniziato a dargli del tu? E’ il mio professore!
Stava per rispondermi, quando lo bloccai: “Sei uno psicologo o il mio insegnante d’inglese? Mettiamoci al lavoro.” Quindi mi alzai e andai a prendere il libro d’inglese nella cartella. Ci sedemmo sul divano.
“Bene, visto che sei così interessato all’inglese faremo prima degli esercizi di pronuncia.”
“Va bene,” accordai sorridendo, quasi con aria di sfida, ed ecco che mi sorrideva di nuovo. Quel sorriso mi calmava come quando ascoltavo parole in inglese, e forse era proprio perché lui insegnava quella lingua. Iniziò a parlarmi in inglese e così la nostra lezione ebbe inizio.
Erano già le otto di sera, avevamo continuato a fare esercizi di inglese per più di tre ore, ma non sentivo affatto la fatica.
“Ormai è ora di cena, dovrei tornare a casa.”
“Perché non resti qui per cena?”
Sorrisi. “E’ meglio di no.” Dovevo controllare che quell’alcolizzato di mio padre non prendesse a pugni anche mia madre.
“Va bene.”
Come al solito sembrava avesse capito ogni mio singolo pensiero. Mi alzai e mi diressi verso la porta.
“Perché proprio l’inglese?” mi chiese.
“Se te lo dico però anche tu devi dirmi perché hai deciso di insegnare inglese.” Anche se bene o male un’idea del perché me l’ero già fatta.
“D’accordo.”
“L’inglese, perché…” iniziai grattandomi la testa, “Perché va bene per qualsiasi luogo, se so l’inglese posso andarmene dove voglio senza paura di non farmi capire. E’ come se unisse tutto il mondo. Poi mi piace anche come suonano bene le parole inglesi all’interno delle canzoni, lo trovo quasi... rassicurante.”
Non parlò per qualche secondo ma mi guardò solo con faccia perplessa. ‘Che cosa stai pensando?’
“Sono delle buone motivazioni” disse dopo qualche istante, “Quindi vuoi proprio andartene da qui?”
“Sì” risposi senza nemmeno pensarci. “Ma ora devi dirmi perché hai scelto tu l’inglese.”
“Non l’ho proprio scelto, era l’unico modo per potermi guadagnare dei soldi in fretta qui in Giappone. Venendo dall’America so bene l’inglese e quindi ho pensato di poterlo insegnare. Tutto qui.”
“Perché sei venuto qui in Giappone?”
“Perché te ne vuoi andare?”
“Che fai, continui ad evitare le domande?” chiesi sorridendo.
“Se ben ricordo anche tu l’hai fatto con me” e si mise, anche lui, a ridere.
“Bene ora potresti ridarmi i vestiti che mi hai preso in ostaggio?”
“Non so, i miei ti stanno così bene...” mi rispose con un tono che aveva un non so che di malizioso.
“Piantala” e lo colpii leggermente sul braccio. Scoppiò a ridere e mi andò a prendere i vestiti. Non erano ancora del tutto asciutti quindi li infilai nella borsa. Stavo per uscire quando qualcosa mi bloccò, un odore.
"Kamenashi che succede?" Akanishi doveva aver notato il mio disorientamento.
"Questo odore..." sibilai soltanto. Non sapevo dire con esattezza dove l'avessi già sentito, ma mi era famigliare. Proveniva dai vestiti che il professore mi aveva lavato. Presi la camicia tra le mani e ne respirai l'odore, quel profumo mi riportava alla mia infanzia.
Alzai il viso e vidi Akanishi sorridermi.
"Ti ricordi qualcosa?" mi chiese speranzoso. Stavo per rispondergli quando qualcosa mi bloccò, un ricordo forse. Guardai fisso nei suoi occhi per pochi attimi e potrei giurare di averci visto dentro tutto il mio passato, ma non riuscivo ad estrapolarne nulla. Quello che vedevo era tutto coperto dal tempo. Infilai di scatto la camicia nella borsa e con un cenno del capo lo salutai. Corsi via da quella situazione, da lui e da quello che lui mi provocava e mi faceva ricordare.
Fuori aveva smesso di piovere. Abitava vicino a casa mia quindi feci la strada tutta di corsa.
Arrivai a casa ed entrai con ancora il fiato corto. Subito delle grida giunsero alle mie orecchie. Credetti fosse il solito litigio serale. Ma mi sbagliavo. Vidi mia mamma schiacciata dal corpo di mio padre in un angolo della cucina, era minacciata dalla sua rabbia. Lui alzò il pugno, nel quale teneva stretta la sua amata bottiglia. Stava per colpire mia mamma con quella bottiglia vuota. Sentii ogni parte del mio corpo ribollire, l’odio mi pervadeva. Senza riflettere mi scagliai contro di lui, lo fermai con la forza e gettai via la bottiglia. Si udì il rumore del vetro che si infrangeva contro il suolo. Scaraventai mio padre lontano da mia madre, che inerme osservava l’evolversi della situazione. Si sentì un tonfo, quello batté la testa e svenne. Io guardai incredulo mia mamma che con le lacrime agli occhi si era avvicinata a lui per assisterlo. Dopo tutto quello che le aveva fatto, dopo tutti i segni della sua violenza che periodicamente marchiavano il mio corpo, lei si era ancora gettata al suo fianco. Si ferì persino le ginocchia con il vetro della bottiglia per stargli vicino.
“Kazuya hai esagerato!” mi urlò contro. Io rimasi a fissarla senza riuscire a mettere bene a fuoco la situazione che si era creata. Mi ridestai e uscii velocemente da quella casa.
Non sapevo minimante dove sarei potuto andare, mi sarebbe piaciuto tornare da Akanishi, ma proprio perché lo desideravo così ardentemente non lo feci. Mi diressi a casa di Koki.
Nel momento in cui mi aprirono la porta scoppiai a ridere: davanti a me c’era Yuichi.
“Non dirmi che voi due state ancora insieme?” farfugliai con le lacrime agli occhi per le risate.
“Sì” asserì secco tirandomi un lieve schiaffo sulla testa.
Yuichi era il proprietario della discoteca in cui avevo lavorato per qualche anno prima di iniziare la scuola superiore. Lì avevo conosciuto anche Koki che aveva svolto per qualche tempo la “professione” di barista al mio fianco. A volte si improvvisava anche ballerino. E’ proprio grazie a lui se ho scoperto la passione per il ballo e la musica. Ogni tanto ballavamo insieme, non riesco a ricordare momenti più felici di quelli in cui io e Koki danzavamo assieme.
“Yuichi, si può sapere chi è a quest’ora? Torna qui! non abbiamo ancora finito!” Queste parole di Koki, che provenivano dal piano di sopra, mi riportarono alla realtà. Yuichi immediatamente diventò rosso in viso e io trattenni a stento le risate. Diedi una pacca sulla spalla al mio ex datore di lavoro e entrai in casa urlando: “Rivestiti vecchio porco! Sono Kazuya!”
Qualche secondo dopo sentii un trambusto incredibile e mi ritrovai Koki davanti. Doveva essere furioso dal momento che l’avevo interrotto “sul più bello”.
“Kame, devi smetterla di farti picchiare come una femminuccia. Che hai fatto lì?” domandò indicando il mio occhio.
Io sorrisi “Nulla le solite cose.”
“Ancora problemi in famiglia?” chiese preoccupato Yuichi. Io scossi il capo su e giù per conferma. Ci eravamo seduti intorno al tavolo e loro mi guardavano, senza però intavolare nessun discorso. Leggevo il timore nei loro occhi. Si preoccupavano sempre troppo quei due, forse per questo ogni volta che succedeva qualcosa fuggivo da loro. Erano ormai diventati la mia famiglia. Mamma Yuichi e papà Koki! Al solo pensiero scoppiai in una risata fragorosa.
“Kame” mi apostrofò Koki, “cosa hai da ridere ora? Fai sempre un sacco di caos tu!”
Cercai di ricompormi. “Scusa, scusa. Il divano è sempre libero?” chiesi con un po’ di imbarazzo. Non volevo recare loro sempre tutto quel disturbo ma non sapevo dove andare. Avrei potuto seguirli in discoteca più tardi e passare la notte da qualche sconosciuta, come spesso facevo, ma non avevo voglia di uscire.
“Certo, ma ci devi pagare!” incalzò Koki scherzosamente.
“Ti pagherò in natura, pervertito!”
Alla mia risposta seguì una risata collettiva. Mi ero già accampato sul divano quando sentii quelli che mi salutavano dalla porta. “Allora noi andiamo! Sicuro di non voler venire con noi?” domandò Yuichi.
“Sicurissimo” dissi “Buona serata!”
“Buonanotte” così mi salutarono e si chiusero la porta alle spalle.
Ero ormai immerso nel buio più totale, un’immensità di pensieri invadeva la mia mente. Era come se avessi in testa un ronzio continuo. Sicuramente per qualche giorno non sarei potuto tornare a casa. Mio padre, se si può definire tale, mi avrebbe ammazzato. Odiavo il fatto di non essere capace a difendermi da lui, non riuscivo mai ad oppormi a lui senza fare casini. Non riuscivo mai a proteggere mia mamma come desideravo, mi sentivo così impotente. Inoltre non mi piaceva affatto cosa si stava creando con Akanishi, non riuscivo a decifrare i suoi pensieri, mentre lui pareva conoscere i miei ogni volta. Sembrava così maturo benché avesse solo pochi anni in più di me. Al diavolo quell’insegnante improvvisato, ora voglio solo dormire.

“Vieni, andiamo a giocare!” strillai di gioia e presi per mano il bambino che si trovava accanto a me. Corremmo lungo il viale che si affacciava sul nostro parco preferito, arrivammo nel parco giochi e iniziammo a saltellare, passando da un gioco all’altro senza mai smettere di ridere.
Si era ormai fatta sera ma noi non ci eravamo stufati di stare insieme, di giocare e di essere felici. Ad un certo punto vidi solo due figure adulte avvicinarcisi.
“Dobbiamo andare, saluta il tuo amico” Si stavano rivolgendo al bambino che si trovava accanto a me. Vidi gli occhi di quel bambino inumidirsi gradualmente. Si avvicinò a me e mi abbracciò.
“Addio Kazuya!” mi salutò tristemente. Io rimasi immobile e lo vidi allontanarsi. Dopo la brevità di qualche secondo iniziai a correre verso di lui ma non servì a nulla. Era già salito in macchina. Dal finestrino mi guardava tristemente. Le mie parole non potevano più raggiungerlo quindi mi misi a gridare…

Il mio urlo riecheggiò nella notte, doveva essere stato un sogno, un incubo. Le sensazioni provate durante il sogno vivevano ancora dentro di me e si agitavano rendendomi impossibile elaborare una qualche spiegazione plausibile. Perché avevo sognato una cosa del genere? Tutto il sogno era avvolto nell’odore che avevo sentito prima a casa di Akanishi. Mi gettai fuori dalle coperte, afferrai la mia borsa e ne tirai fuori i vestiti. Nuovamente li premetti contro il mio viso. Sì, non c’erano dubbi, questo era l’odore che pervadeva il mio incubo. Chi era quel bambino? E soprattutto quello era stato solo un incubo o un ricordo?
Le mie domande furono interrotte dalla chiave che girava con suono metallico nella serratura. Diedi un occhiata al cellulare, le 4.00. Koki e Yuichi stavano sicuramente rientrando. Mi riadagiai sul divano e finsi di dormire. Loro andarono al piano di sopra cercando di fare poco rumore. Tentativo completamente inutile, sentivo chiaramente Koki che sussurrava nell’orecchio di Yuichi frasi
tutt’altro che caste e pure. ‘Sempre il solito’ pensai.
Mi ero un po’ calmato, il fiato era ritornato normale e così anche il battito del mio cuore. Continuavo a fissare il soffitto e non facevo altro che ripercorrere con la mente il sogno di poco prima. Poi, un attimo prima di cadere nel sonno, rividi gli occhi di Akanishi e mi ricordai della sensazione di smarrimento che avevo provato nell’osservarli. Mi era sembrato di caderci dentro. Quasi la stessa sensazione che ebbi quando mi svegliai dall’incubo.
Chiusi gli occhi e con essi si chiusero anche gli occhi di Jin.

Mi svegliai di prima mattina, la casa era avvolta nel silenzio. Yuichi e Koki dovevano essere ancora a letto. Mi alzai e mi diressi
verso il frigo. La sera precedente, dopo tutto quello che si era verificato, mi ero dimenticato di cenare. Non ne avevo nemmeno
sentito il bisogno, altri pensieri avevano popolato la mia mente. Appeso al frigorifero vi era un volantino di una palestra.
Koki doveva recarcisi ancora, di tanto in tanto. Figuriamoci! narcisista com’è, non avrebbe mai potuto trascurare il suo fisico! Presi
tra le dita quel pezzo di carta. All’inizio gli diedi poca importanza, ma poi lessi qualcosa che catturò la mia attenzione: ‘Corsi di
boxe’.
Non so bene cosa si scatenò in me. Sentivo che quello era uno dei fili che mi mancavano per ricreare l’intero velo della mia esistenza.
La soluzione che stavo cercando. Uscii, tenendo il foglio stretto in mano, senza il minimo indugio.
Non sarei andato a scuola oggi.
Ero arrivato davanti alla palestra seguendo le indicazioni riportate sul volantino. Diedi un’occhiata all’orologio. Erano sono le 8.00
del mattino.
Che cretino! Sono uscito di casa senza preoccuparmi dell’ora e per giunta mi ero di nuovo scordato di mangiare.
Mi sedetti davanti all’entrata di quel edificio. Era un po’ spoglio come palazzo, tutto grigio. Sembrava che qualcuno si fosse
dimenticato di finirlo. Mi ricordava la mia vita. Sorrisi amaramente.
Verso le 9.00 vidi un ragazzo camminare verso di me, o meglio, verso la palestra.
Aveva un cappellino che gli copriva quasi interamente gli occhi, ma riuscii a vederne le iridi castane. I capelli, anch’essi, castani di
media lunghezza spuntavano da sotto il berretto. Faceva parecchio caldo quella mattina. Infatti lui indossava una maglietta a mezze
maniche che lasciava i muscoli delle braccia scoperti. Erano ben allenati. Dopotutto lavorava in una palestra.
Mi guardò stupito. Non credo si ritrovasse tutti i giorni dei randagi davanti al luogo in cui lavorava.
Tirò su la serranda, girò la chiave nell’apposita serratura, che si trovava accanto alla porta di vetro, e questa si aprì. Mi fece cenno di entrare.
All’interno la palestra non era affatto come l’esterno del palazzo, grigio e cupo, senza anima. L’interno infatti era davvero luminoso, come se non si fossero preoccupati dell’esterno solo per rendere più vitale quello che c’era dentro. Vi era un clima vivace e dinamico. Chissà se la mia vita sarebbe mai stata così.
I miei pensieri furono scossi via dal rumore che provocò quel ragazzo poggiando a terra il borsone che gli gravava sulla schiena.
Si girò verso di me: “Cosa ti serve?” iniziò appoggiandosi con i gomiti sul bancone posto accanto all’entrata.
“Vorrei informarmi sui corsi di boxe” affermai secco.
“Per quello?” domandò con un leggero movimento del capo ed indicò il mio occhio.
“Anche per questo” la mia risposta fu seguita da una mia profonda inspirazione.
“Bene! Che tipo di corso vorresti seguire?”
“Individuale!” risposi senza esitazioni, “E mi piacerebbe imparare in fretta.”
“Arrivi subito al punto, eh?”
“Già.”
“Ok. E in quali orari vorresti fissare le tue lezioni?”
“Anche tutto il giorno!”
“Cosa?” domandò sporgendosi verso di me con sorpresa, “Ma non lavori tu?”
“No, vado ancora a scuola.”
“E puoi saltarla così?” domandò dubbioso, tornando ad appoggiarsi sul bancone.
“Penso vada bene saltarla per una settimana.”
“Mah, se lo dici tu. Hai i soldi per pagare le lezioni?”
“Certo.” Avevo messo da parte qualche soldo per il mio viaggio futuro. Non sarebbe stato un grosso problema se ne avessi preso
qualcuno. Poi implorerò Yuichi di riassumermi per qualche serata in discoteca.
“Però ti pagherò solo alla fine della settimana” puntualizzai.
I soldi si trovavano a casa con quell’alcolizzato. Tornerò là solo quando sarò in grado di difendere me stesso e mia madre. Non ho
intenzione di farmi spaccare la faccia e tanto meno di combinare altri casini.
“Basta che mi paghi” chiarì lui “Visto che non sembri propenso ad andartene, ti concedo di rimanere qui per l’intera settimana. Ti
farò lezione quando avrò delle ore buche. La sera e la pausa pranzo saranno i momenti in cui lavoreremo di più. Qualche problema?”
“Mi farai lezione tu?” domandai esterrefatto. Con quel visino minuto non mi sembrava proprio il classico boxeur.
“Che ti credi? Che sia qui per lavare i pavimenti?” ribatté con aria scura.
“No, no” Affermai subito. Nonostante avesse un viso con i tratti delicati, questo tizio mi metteva un po’ in soggezione.
Evidentemente lo notò perché sorrise. “Comunque piacere. Sono Ueda Tatsuya.”
“Kamenashi Kazuya.”
Le nostre presentazioni furono interrotte da un leggero brusio, che proveniva dall’entrata. Iniziava ad arrivare della gente.
“Bene, Kame. Mettiti lì dietro il bancone e renditi utile. Ti verrò a chiamare quando avrò tempo.” Così dicendo se ne andò.
Ma stiamo scherzando? Questo è sfruttamento! Poi dovrei pure pagarlo questo opportunista? Non feci tempo ad urlargli dietro che
alcuni clienti iniziarono a sommergermi di domande. In che situazione mi ero cacciato?

Erano già parecchie ore che fingevo di sapere qualcosa di quella palestra, dispensando informazioni a caso ai frequentatori. Stavo per
scappare dalla finestra quando vidi Ueda che mi veniva incontro. ‘Finalmente!’
“Kame, andiamo,” mi chiamò strofinandosi i capelli sudati con un asciugamano.
Lo raggiunsi. Anche prima mi aveva chiamato “Kame”. Che tipo strano.
“Non hai altri vestiti?” mi chiese rapido.
Guardai i vestiti che avevo addosso. Portavo ancora quelli che mi aveva dato Akanishi. Subito mi venne in mente il suo volto e i suoi
occhi. Ebbi anche un flash dell’incubo di quella notte.
Ueda mi schioccò le dita davanti per richiamare la mia attenzione: “Allora?”
“Ah no. Ho solo questi e la divisa scolastica.”
Sbuffò: “Te li presto io.” Mi rassicurò volgendo gli occhi al cielo.
Si mise a cercare degli abiti adatti a me nella borsa e me li passò. Sembrava che ci avesse messo tutto il suo armadio in quella sacca!
Alla stregua di Mary Poppins. Presi gli indumenti che mi porgeva e mi diressi nello spogliatoio a cambiarmi.
Guardai gli abiti che avevo poggiato sulla panchina dello spogliatoio e scoppiai a ridere. Vado a risparmio in questi giorni! Non ho
indosso mai i miei vestiti!
Uscì dallo spogliatoio ancora sorridendo. Notai che non c’era nessuno in giro. Vidi Ueda, dietro il vetro della piccola palestra, che iniziava a scaldarsi.
All’inizio avevo pensato che avesse sacrificato la sua pausa pranzo per sdebitarsi, considerando che ero stato tutto il tempo a svolgere
il suo lavoro. Ma come lo vidi muoversi capii che era lì per se stesso. Per la sua passione.
Entrai e quello mi tirò in faccia il suo asciugamano. “Quanto ci hai messo? Dai muoviti vieni qui!”
Mi avvicinai e iniziò a darmi delle dritte su come posizionarmi. Poi cercò di colpirmi con un pugno. Lo schivai appena.
“I riflessi non sono male” affermò “Iniziamo.”
Cominciammo a scagliare colpi l’uno contro l’altro e a schivarli. Come facevo una mossa mi urlava i giusti movimenti che dovevo
eseguire. Continuammo così per tutta la pausa pranzo.
Alla fine della lezione ero accasciato a terra con il fiato corto.
“Vado a farmi una doccia, poi rimettiti al bancone. A dopo!” mi salutò Ueda.
Stetti un po’ immobile poi mi rialzai. Andai verso gli spogliatoi per lavarmi.
Ero come pietrificato sotto il getto di acqua calda, che bagnava tutto il mio corpo. Stavo ripensando a quante volte Ueda mi aveva
ripreso perché stavo sbagliando approccio. Ero davvero un disastro. Capivo perché non riuscivo mai a difendermi.
Uscii dalla doccia e vidi davanti a me i vestiti di Akanishi. Avevo voglia di rivedere il suo viso. Per questa settimana non ne avrò la
possibilità. Ci rincontreremo quando avrò tessuto almeno un pezzetto del velo della mia vita. Sarebbe stato più semplice per lui
starmi accanto.
Un attimo. Volevo che mi stesse accanto? E da quando? Se pensavo a lui, mi sembrava di pensare ad una persona che conoscevo da
una vita. ‘Che cosa strana’ pensai. Sorrisi. Mi rivestii e tornai nella hall della palestra.
Passò parecchio tempo prima che Ueda mi venisse a chiamare. Tuttavia, questa volta non mi sarei allenato con lui. Mi aveva indicato
come raggiungere una sala al piano inferiore, dove si trovava un ring e un sacco da boxe.
Entrai in quella stanza buia e accesi la luce. La lampadina illuminava ben poco, sembrava di stare sotto la luce della luna. Ueda mi
aveva mostrato anche come colpire e mi sollecitò a fare esercizio, fino a quando lui non sarebbe stato libero.
Mi avvicinai al sacco e lo guardai per un istante.
Subito mi prese una gran rabbia, nel ripensare al perché ero lì. Colpii quell’oggetto inanimato con tutta la mia forza.
Caddi a terra e mi misi a piangere. Non sapevo perché stessi piangendo. Le lacrime mi rigavano il viso e le mani mi tremarono.
‘Kazuya rimettiti in piedi’ ordinai a me stesso. Mi rialzai e, con ancora il pianto sul viso, mi misi a colpire ripetutamente il sacco da
boxe. Ad un certo punto, mi colse anche la frustrazione di non capire la provenienza di quel sogno particolare. Che cosa c’era in
quello? Cosa nascondeva la mia mente? Avevo forse dimenticato qualcosa di importante? Di troppo importante.
Mi fermai quando vidi quel sacco grigio sporco di rosso. Avevo le mani che sanguinavano. Non avevo messo i guantoni. Quanto
tempo era passato? Dalla finestra non penetrava nemmeno un filo di luce.
“Eri qui! Deficiente!” sbraitò una voce alle mie spalle. Mi girai e vidi Koki. “Potevi almeno dirci che non saresti tornato. Eravamo
davvero in ansia.”
“Scusa Koki, non mi ero accorto dell’ora” risposi triste. Non avevo nemmeno un po’ di vitalità. Come se se ne fosse andata insieme
alle mie lacrime.
Koki sospirò: “Non importa, andiamo a casa. C’è Yuichi che ci aspetta.”
“No, tu vai io resto qui. Devo ancora allenarmi con Ueda.”
“Per oggi hai finito. Guardati le mani” replicò un’altra voce. Era Ueda.
“Ma...” tentai di dire.
“Niente ma. Ci vediamo domani alle 9.00! E’ meglio rallentare ogni tanto.” Annuii.
Mi cambiai in fretta e mi fasciai la mano con una garza che mi era stata data in precedenza da Ueda. Dopo di che io e Koki tornammo a casa.
In macchina non parlammo per tutta la durata del tragitto. Quando arrivammo davanti a casa Koki arrestò l’auntomobile, ma non uscì
da questa. Si rivolse a me sospirando: “Cos’è successo questa volta?”
“Le solite cose. Il problema non è cosa succede intorno a me ma quello che mi capita dentro. Non riesco mai a portare a termine, in
modo decoroso, ciò che decido di fare. Mi sento sempre così inutile”
“Non sei inutile” replicò Koki con voce bassa.
“Riuscirò mai ad essere una persona normale?”
Koki ridendo rispose: “Normale? Che cosa è normale? E poi sai che noia starti vicino se tu fossi una persona ordinaria?”
Concludendo con questa frase uscì dall’auto. Avendo fatto il giro intorno alla vettura ora mi stava facendo segno con la mano
di uscire.
Nonostante quello che mi aveva detto Koki non mi sentivo per niente confortato.
Scesi dalla macchina e lo raggiunsi senza parlare.
Entrai in casa e mi sedetti subito sul divano. Non avevo nemmeno salutato il povero Yuichi. Loro sembravano aver capito la
situazione e non mi domandarono nulla.
Sentivo l’energia lasciare il mio corpo. Pensai che un po’ di energia me l’avrebbe potuta ridare solo Akanishi.
Mi sentivo così solo. Sapevo di non esserlo, avevo delle persone che mi volevano bene. Ne avevo due a pochi metri di distanza. Però
dentro di me sentivo solo questo. Non avevo mai condiviso pienamente i miei problemi con nessuno, ne sentivo l’intero peso. In
fondo su questa terra non c’era nessuno che mi conoscesse davvero. Questo mi faceva sentire realmente solo. La gente mi passava
accanto, mi parlava. Non potevo esserlo. Eppure, il momento in cui mi rendevo conto maggiormente della mia solitudine, era quando
mi trovavo in mezzo a mille persone e nemmeno una di queste sapeva chi ero realmente.
Appoggiai la testa sul cuscino e mi addormentai senza fatica.

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Capitolo 2
*** Il profumo di un ricordo - 2 ***


La settimana proseguì rapida.
Passavo tutte le mie giornate in palestra, ad allenarmi con Ueda. Di tanto in tanto, quest’ultimo tornava a casa con me e Koki e
cenavamo tutti insieme.
Avevo ormai finito le mie lezioni. Ero migliorato molto in poco tempo. Almeno, riuscivo a non farmi mettere a terra da Ueda ogni
cinque minuti!
Ora dovevo tornare a casa. Mi sarei finalmente riscattato. Dopo tutti gli anni di abusi subiti da me e mia mamma era giunta la fine.
Non conoscevo del tutto le mie intenzioni e anche se le avessi sapute, nulla sarebbe andato come desideravo. Volevo solo dare una
lezione a mio padre e rinchiuderlo in una qualche clinica per alcolizzati. Forse così io e mia madre avremmo potuto vivere in pace e lei non si sarebbe ammazzata di lavoro per mantenere l’intera famiglia.
Salutai Yuichi e Koki, dissi loro solo che stavo tornando a casa mia per prendere i soldi da dare a Ueda. Non li informai su quello che
avevo realmente programmato.
Giunsi davanti al portone di casa e mi fermai. Il vento scosse i miei capelli. Il vento sembrava quasi portare con se quel profumo
dolce e famigliare che sentivo ogni volta in cui pensavo ad Akanishi. Pensai che fosse un incoraggiamento.
Ero sul punto di aprire la porta quando una voce mi fermò: “Kazuya!” Kazuya? Nessuno mi chiamava così, tranne mia madre, ma
quella chiaramente non era una voce femminile.
Mi volsi e vidi Akanishi corrermi in contro. Per un attimo parve che volesse abbracciarmi, invece si fermo proprio davanti a me. Il
suo viso era segnato dalla stanchezza. Lo vedevo chiaramente.
“Non sai quanto ti ho cercato. Ero preoccupatissimo!” mormorò con poco fiato. Sembrava sollevato nel vedermi. Io non riuscivo a
interrompere il dialogo che stavano avendo i nostri occhi. I suoi, per me, erano dei buchi neri e inesorabilmente mi traevano a loro.
“Mi stavi cercando?” chiesi, senza interrompere il nostro contatto visivo.
“Sono venuto qui, a casa tua ogni giorno. Tu non c’eri mai” mi spiegò.
“Perché?” domandai stringendo gli occhi. Iniziavano a bruciarmi.
“Ti spiegherò tutto con calma. Entriamo in casa?”
Con quella domanda mi richiamò alla realtà. La realtà cruda e dura. Non quella che mi sembrava esistere quando stavo con lui.
“Aspettami qui. Io devo sistemare mio padre” Gli avevo appena detto che cosa avevo intenzione di fare. A lui? Lo stesso professore
che conoscevo da solo pochi giorni. Tremai e strinsi le mie mani in dei pugni.
“Non ora” mi fermò, poggiando le sue mani sulle mie spalle ed esercitando su quelle una leggera pressione. “Andiamo via!” Mi prese
la mano e mi strattonò lontano dalla porta di casa.
‘No. Non poteva andare così’ mi rimproverai. Tentai di fermalo, ma fu inutile.
“Devo risolvere questa cosa. Adesso!” mi opposi.
Eravamo davanti alla sua moto. Non diede peso alle mie parole e mi porse un casco. Aveva un’aria seria, che gli cambiava tutto il
viso. Non sembrava intenzionato a farmi andare via. Presi il caso con foga, quasi strappandoglielo via dalle mani. Salimmo sulla
moto e fuggimmo via. O almeno, a me sembrò una fuga. La sua schiena riparava il mio corpo dall’aria tagliente. Appoggiai il capo su
di essa. Mi aveva chiamato Kazuya. Mi era venuto a cercare ogni singolo giorno. Avevo voglia di urlare. Sentivo che mi ero perso
dei pezzi del nostro rapporto. Di nuovo la frustrazione che provai una settimana prima davanti a quel sacco da boxe. Non sapevo
niente, era tutto offuscato. Non riuscivo a vedere. Mi stavo muovendo a tentoni. Anche quello che avevo deciso di fare a mio padre,
per riportare la pace nel presente della mia famiglia, era un azzardo. Cosa diavolo mi era saltato in mente? Come potevo portare la
pace nel mio presente, quando non riuscivo a ricordare il mio passato e non avevo idea di cosa desiderassi per il mio futuro?
 La moto si fermò. Scendemmo tutti e due. Ero paralizzato. Non mossi un dito. Poi sentii sfilarmi il caso dalla testa dalle mani di
Akanishi.
Mi guardò e sorrise. A mia volta gli sorrisi.
“E’ la prima volta che mi sorridi davvero” affermò con un filo di felicità nella voce. Era vero. L’odore che avevo sentito, il suo odore,
lo avevo mal interpretato. Doveva fermarmi, non incoraggiarmi. Ora ero lì con Jin. Davanti al parco del mio incubo.
 
Ci eravamo seduti su una panchina piuttosto isolata. Il parco giochi era vuoto. Come la mia mente. In essa vi era solo quel profumo.
“Kazuya” mi chiamò “Credo sia giunto il momento di risvegliare i tuoi ricordi.” Che cosa voleva dire? Sentii mutare le mie emozioni.
Ne avevo percepito un cambiamento repentino dentro miei occhi. Prima vagavano spenti per tutto il parco, alla ricerca di qualcosa di
famigliare, di un pezzo del mio passato. Ora si erano accesi. L’avevano trovato quell’altro piccolo filo. Il mio sguardo si era posato su Jin.
“Eri tu il bambino del mio sogno..” sussurrai.
“Ti ricordi di quando venivamo qui a giocare?” Improvvisamente capii. Quello che avevo avuto non era stato un incubo. Era un
ricordo.
“Solo ora riesco a ricordare qualcosa. Il nostro addio. Perché non mi ricordo più nulla?” gli domandai. Sull’ultima frase riversai tutta
la mia frustrazione. Si era quasi trasformata in un urlo.
“Probabilmente eri in uno stato di oblio. La tua mente, aveva deciso di dimenticare certi momenti per proteggerti.”
“Ma come può proteggermi cancellando la mia memoria e rendendomi vuoto?”
“Erano vissuti troppo dolorosi per un bambino. Ora però puoi conoscerli” mi rassicurò, sorridendo.
“Perché te ne andasti?” gli chiesi, guardandolo dritto negli occhi. Come se sperassi di trovarci dentro la risposta.
“I miei genitori, per motivi di lavoro, decisero che era meglio per tutti trasferirsi in America. Non fu meglio proprio per tutti” mi
spiegò. Le sue parole celavano un punta di rancore e amarezza.
“Hai abitato là per tutta la tua vita. Cosa ti ha fatto tornare?”
“Non era vita quella” ribatté in fretta, poi iniziò a raccontarmi cosa gli successe: “Mio padre e mia madre si separarono. Io fui
affidato a mia madre e non vedetti più mio padre. Pochi mesi fa mia mamma decise di risposarsi con un ricco uomo. Ricco
materialmente, ma povero spiritualmente. Non c’era più nulla che mi teneva attaccato a quel luogo, a quella famiglia che non era più
la mia. Mi sentivo inadatto, deportato. Decisi così di condividere con mia mamma i miei turbamenti. Fu proprio lei a spingermi a
tornare in Giappone. Disse che non vedeva più nei miei occhi la gioia da tanto tempo. La persi quando salutai il Giappone. Quindi
riallacciò i contatti con il tuo vecchio professore d’inglese e decisero, di comune accordo, che sarei tornato qui per intraprendere la
carriera di insegnate. Non mi importava molto del futuro che avevano scelto per me. Tutto quello che volevo era tornare qui.”
Lo ascoltai in silenzio. Anche la sua vita non era stata affatto tranquilla. Aveva portato il peso del distacco con la sua patria per tutti
quegli anni. Forse avrebbe preferito l’oblio a quell’opprimente sensazione.
“All’inizio non sapevo se ti avrei rincontrato, tuttavia ci speravo. Vedere il tuo volto in quella classe fu un’enorme sorpresa! Non ti
ho mai dimenticato. Ecco perché ti sono venuto a cercare a casa quando hai iniziato a saltare la scuola. Tu, non sei solo un mio
studente per me. In più, eri scappato da casa mia quella sera. Ti eri per caso ricordato qualcosa?” concluse con quella domanda.
Ora mi spiegavo tutto. L’incubo, quel profumo, la famigliarità che mi trasmettevano gli occhi di Jin. Ora capivo perché mi veniva
così spontaneo chiamarlo per nome. Mi stava dicendo che io ero rimasto dentro di lui per tutti questi anni. Non ero una persona
qualunque. In cambio cosa gli avevo dato? La completa dimenticanza? Come al solito non mi ero dimostrato all’altezza della
situazione. Alla sua altezza. Dovevo farmi perdonare, soprattutto da lui.
D’un tratto non controllai il mio corpo. Lo abbracciai. Lo sentii irrigidirsi, ma non mollai la presa. Ora mi stava abbracciando anche
lui. Mi ritrassi un po’ per guardarlo in viso. Quegli occhi. Erano gli stessi del bambino con cui giocavo da piccolo. Ora riuscivo a
mettere a fuoco il mio sogno. Jin aveva soffiato via la polvere che lo ricopriva, mi aveva riportato indietro nel tempo. Chiusi gli
occhi. Con le palpebre abbassate riuscivo a vedere ancora più vividamente quello che era successo, quello che stava succedendo e
quello che volevo succedesse. Non mi spaventava più il buio. Lo baciai, senza riflettere. Subito lui ricambiò il mio bacio.
“Sì. Quella sera mi ero ricordato il tuo profumo” dissi soltanto.
Era stato il bacio più bello della mia vita, l’unico realmente voluto. Completamente immerso in quella dolce fragranza.
“Portami a casa” gli sussurrai quando il nostro bacio si interruppe.
“Vuoi già tornare a casa?” mi chiese stupito. La delusione nel suo tono di voce mi fece sorridere.
“Portami a casa tua” completai malizioso la richiesta.
Non rispose subito, quella richiesta doveva averlo sorpreso. “Sei sicuro?”
Che domanda idiota. “Certo che sono sicuro” affermai volgendo gli occhi al cielo. Poi mi alzai in piedi e gli porsi la mia mano. Lui
la afferrò ed andammo via da quel parco. Sentivo di essermi liberato di un peso. Avevo tessuto, o riesumato, una parte del velo del
mio passato. Ora volevo pensare solo al presente. A quello che stava accadendo in quel preciso istante, godermi ogni attimo.
Le parti sembravano essersi capovolte. Jin mi aveva risposto in modo impacciato. Per una volta ero io quello sicuro di me stesso.
Dopo tutto lui mi non mi aveva scordato, nonostante il tempo, come potevo non fidarmi di lui? Come potevo avere paura di
muovermi? Con lui non volevo avere nessun timore.

Arrivammo a casa e Jin sembrava aver riacquistato la sua sicurezza. Mi portò dritto in camera da letto. Era una bella stanza, molto
adulta. Non c’erano poster da ragazzino appesi al muro. Solo un quadro sopra al letto matrimoniale riempiva le pareti. Era un dipinto
astratto. L’utilizzo di quei colori gli conferivano il potere di ipnotizzare il mio sguardo. Ne ero attratto, come lo ero dagli occhi di Jin.
Ci sedemmo sul letto e lui iniziò a baciarmi. Sì, le esitazioni che lo avevano colto su quella panchina erano sparite. Forse aspettava
solo un riscontro da parte mia. ‘Anche tu avevi paura di muoverti?’ gli domandai, senza pronunciare quelle parole a voce alta. Ero
sicuro che però le avesse sentite, come se le nostre menti fossero connesse.
Iniziavo a provare caldo, forse stavo anche sudando. Ma non mi importava. Avevo già il fiato corto. Mai nessuno mi aveva causato
tali reazioni fisiche.
Quando le nostre labbra finirono di toccarsi mi allontanai un po’ dal corpo di Jin. Sentivo ogni parte del mio corpo andare a fuoco.
Mi tolsi la maglia.
Quando il mio campo visivo fu di nuovo libero mi accorsi che Jin aveva sgranato gli occhi.
“Ti spogli già? Sei proprio un pervertito!” affermò compiaciuto.
“Ma no! E’ che fa caldo” cercai di difendermi. Avevo agito senza pensare al contesto in cui ci trovavamo ed ora ero arrossito in viso.
La mia temperatura corporea aumentò maggiormente.
“Hai ragione. Fa parecchio caldo qui dentro. Mi aiuti a togliere la maglia?” mi domandò con malizia.
Esitai qualche secondo, poi cercai di dipingermi in volto un’espressione di assoluta naturalezza. Mi avvicinai a lui e gli tolsi la t-shirt.
I nostri corpi erano incredibilmente vicini, e così i nostri visi.
“Chi sarebbe il pervertito ora?” gli rinfacciai ridendo.
“Non ho mai negato di esserlo” e così concludendo mi afferrò saldamente per le spalle e, con una leggera pressione, mi distese sotto
di lui. I suoi capelli mi sfioravano delicatamente il viso. Si fermò tutto. Non so dire quanto tempo passò effettivamente ma a me
sembrò un’eternità. I nostri occhi non smettevano di cercarsi. Lui era lì, proprio davanti a me. Mi sembrava tutto così irreale. Non mi
ero mai reso conto di quanto lo desiderassi di quanto sentissi prima la sua mancanza nella mia vita. Ora che lui era al mio fianco mi
accorgevo di quanto fosse stata vuota la mia vita in precedenza. Non l’avrei più fatto andare via, non lo avrei mai più dimenticato.
Avevo paura che quel momento fosse solo frutto della mia immaginazione. Poiché nulla di fisico ci collegava allungai le mie braccia
fino a cingergli il collo. Lui abbassò il viso e mi baciò con impeto. Quasi non riuscivo a respirare.
Mi ero stufato di questi superficiali preliminari. Non che mi dispiacessero, però non riuscivo più a trattenermi. Dovevo avere di più.
Lo premetti contro il mio corpo come se gli stessi richiedendo di più. Lui, come di consueto, capì la mia richiesta e la soddisfò.

Dopo aver fatto l’amore con Jin mi sentivo diverso.
Jin giaceva dormiente al mio fianco. Era proprio bello. Quand’è che mi ero innamorato di lui? Non ero mai stato innamorato di
nessuno prima. Forse la mia mente sapeva che volevo lui. Dopo il distacco che avemmo durante la nostra infanzia, il mio subconscio
lo aveva sempre aspettato, senza permettermi di amare nessun’altro.
In pochi mesi la mia vita si era radicalmente trasformata. E’ quasi inconcepibile come fosse stata completamente statica per anni e
come fosse cambiata al suo arrivo. La sua presenza aveva fatto partire tutto. Come se avesse buttato giù la prima pedina della fila,
provocando così un inevitabile effetto domino. Sentivo che le pedine stavano ancora cadendo. Non era caduta l’ultima. Stavo
cambiando o volevo cambiare.
La mia situazione famigliare era ancora il mio più grande problema. Non potevo lasciare che mia mamma vivesse con quell’uomo.
Dopo aver perso il lavoro era caduto in una profonda depressione. Avevo, man mano, visto scomparire la mia figura di riferimento.
Da bambino volevo essere proprio come lui. Ora lui non c’era più. La sua anima era formata dalle gocce della sua amata vodka, ogni
suo singolo pensiero era condizionato da quel liquido infernale. Era arrivato a picchiare le persone che più amava al mondo. Io sono
sicuro che per lui io e mia madre fossimo il suo centro. Ora che amavo una persona potevo capirlo. Il bere gli aveva fatto dimenticare
l’effettiva importanza delle cose e quali avessero la priorità. Come potevo riavere mio padre? Dovevo assolutamente portarlo in
posto dove lo avrebbero aiutato a smettere di riversare i suoi problemi sull’alcool. Ci avevo provato più volte parecchi anni fa, ma
era stato inutile. Avevo la sensazione che anche lui volesse smettere, ma la dipendenza che doveva combattere era troppo forte. Non
poteva combattere questa guerra da solo. Aveva bisogno del mio aiuto. Nonostante tutto quello che mi aveva fatto passare non lo
odiavo, gli volevo bene. Non volevo che rimanesse ancora in quello stato. Saremmo potuti tornare ad essere una famiglia felice.
Dopo la tempesta splende sempre il sole. A volte però nel cielo si intravede anche un arcobaleno. Quell’insieme di colori rende il
ricordo della tempesta ancora più lontano. Tuttavia se non ci fosse stata quella non sarebbe potuto spuntare l’arcobaleno. A volte è
necessario rimanere sotto la pioggia per apprezzare fino in fondo il calore, anche se flebile, del sole.
Per me iniziava a spuntare il sole. Jin era lì con me. Ora volevo che il calore del sole si intensificasse, che sparisse ogni nube. Il cielo
sarebbe stato terso se fossi riuscito a sistemare le cose con la mia famiglia. Ma io volevo anche l’arcobaleno. Se avessi capito che
direzione doveva prendere la mia vita una striscia di colori mi avrebbe indicato la strada.
Provavo una profonda gratitudine nei confronti di Jin. Lui aveva fatto nascere in me il desiderio di cambiare. Prima vivevo solo
perché ero al mondo. Non avevo nessuno scopo. Odiavo me stesso, non trovano nulla che mi piacesse di me. Ma lui mi amava, era lì
per me, quindi del buono doveva esserci in me.
Mi girai nuovamente a guardarlo e mi stupì nel trovarlo con gli occhi aperti.
“A cosa stavi pensando?” Chi chiese con un filo di voce.
“Sarebbe troppo lungo da spiegare” gli spiegai sorridendo.
Lui non mi rispose. Inclinò un po’ il viso come per incoraggiarmi a raccontarglielo.
“Alla mia vita” gli risposi.
“Vorrei conoscerla” affermò sorridendomi. “Cosa volevi fare prima con tuo padre?” mi domandò spezzando improvvisamente il suo
sorriso.
“Non lo so. Tutto quello che volevo fare ora mi sembra così stupido” sospirai mettendomi una mano tra i capelli.
Lui non disse nulla. Era in attesa. Aspettava che io mi sbloccassi. Di nuovo lui mi aveva dato di più ed io ero ancora restio ad aprirmi
con lui, a pareggiare la nostra situazione. Preparai mentalmente un discorso. Avevo paura che come avessi aperto bocca il mio corpo
avrebbe rigettato fuori non solo le parole, ma anche le lacrime che troppo poco spesso riuscivo a far uscire.
Mi decisi a parlare: “Vedi, la mia situazione famigliare in questi anni è molto mutata. Mio padre ha perso il lavoro e si è lasciato
scivolare nella dipendenza dell’alcool.” Esitai, come se stessi cercando le parole, ma poi continuai: “Prima stavo cercando di
cambiare la situazione. Anche se non avevo ben deciso cosa fare. All’inizio volevo, volevo…” Mi fermai. Le mani mi caddero lungo
io corpo e strinsi i pugni, quasi fino a conficcarmi le unghie nei palmi di queste.
Jin mi tirò a se e mi sussurrò nell’orecchio: “Kazuya va tutto bene ora. Siamo solo io e te. Possiamo decidere insieme come risolvere
questa storia.” Le sue braccia mi cingevano. Mi sentivo così protetto, credevo a quello che mi stava dicendo. Ma qualcosa in me
scattò.
“No!” replicai, violentemente, interrompendo il nostro abbraccio, “Devo risolverla da solo. Lo devo a mia madre ed anche a mio
padre. Non sono mai riuscito a impormi ed ad ottenere ciò che volevo. Ora voglio che nella mia famiglia regni la felicità e devo
arrivare a questo da solo. Vorrei il tuo aiuto, davvero, ma non posso accettarlo. Tu sei l’unico che mi può tenere fuori da questa
situazione, almeno in parte. Non puoi essere dentro a tutto questo, od io rischio di annegarci.”
“Va bene” mi rassicurò “Cercherò di non agire con te, però devi darmi la possibilità di consigliarti. Devi raccontarmi tutto. Voglio
sapere tutto quello ti sta succedendo. Non riuscirei a sopportare di essere all’oscuro di certi lati della tua vita.”
“D’accordo. Chiedimi tutto quello che vuoi sapere” gli concessi.
“Dove sei stato per tutta la scorsa settimana?” mi chiese immediatamente.
“Ho passato la notte a casa di alcuni miei amici. Ogni giorno andavo in una palestra ad allenarmi. Mi allenavo nella boxe.”
“A boxe?” mi domandò stringendo gli occhi, “Da quando pratichi la boxe?”
“Da questa settimana. Ho iniziato perché mi sentivo debole, non riuscivo a difendermi. Volevo usarla per vendicarmi di mio padre.
Invece alla fine l’ho usata per scaricare ogni rancore e frustrazione. Mi ha fatto capire come sia importante focalizzare un obbiettivo
e andare spediti verso quello. Inoltre, se decidessi di portare mio padre in una clinica per alcolizzati, sono sicuro che dovrei agire con
la forza” conclusi con un profondo respiro.
Jin mi si avvicinò e prendendomi il viso tra le mani mi rassicurò: “Domani andremo a parlare con i tuoi!”
Stavo per ribattere ma mi bloccò vedendo la mia bocca che stava per emettere qualche suono: “Parlerai tu. Io però verrò con te per
sostenerti.”
“Non sei obbligato” affermai distogliendo lo sguardo.
“Lo so bene. Sono io che voglio farlo. E so anche che vorresti cavartela da solo e riuscire in questo contando solo sulle tue forze. Ma
non puoi, è un problema più grande di te. Hai bisogno di aiuto”.
“Okay” conclusi adagiando il mio capo sul cuscino. Chiusi gli occhi, ma ero certo che Jin mi stesse fissando. Pur non vedendolo
sentivo il pungere del suo sguardo magnetico sulla mia pelle. Mi interrogavo su come fosse riuscito a capire ciò che volevo. Lo
faceva sempre. Decifrava alla perfezione ogni mio singolo passo, ogni mia singola esitazione. Mi sarebbe piaciuto che la cosa fosse
stata reciproca. Invece io non riuscivo a cogliere il significato di certe sue parole e pause.
Non sentivo più pungere sulla mia pelle. Doveva aver chiuso gli occhi anche lui.
 
Dopo aver suonato ripetutamente il campanello entrai in casa mia, seguito da Jin, utilizzando le chiavi.
Non si sentivano respiri. La casa era vuota. Qualcosa di diverso colse la mia attenzione. Sul tavolo della cucina vi era poggiato un
biglietto.

-Siamo all’ospedale.
Tuo padre non è stato bene.-
 
Che cosa era successo? Accartocciai il foglio in una mano e lo gettai a terra. Corsi rapidamente fuori di casa.
Non importava cosa mi avesse fatto passare mio padre, ora era in ospedale. Stava male. Dovevo andare da lui. Probabilmente sarebbe
stato anche sobrio. Avrei potuto parlargli normalmente. Sarei potuto essere ascoltato e compreso finalmente dopo 5 anni.
Sentii sbattere il portone di casa. Jin si dirigeva verso di me con passo sostenuto. Doveva aver letto il biglietto. Si avvicinò alla moto
e velocemente mi porse il casco. Aveva capito quello che provavo in quell’istante? Probabile, pensai salendo sulla moto ed un sorriso
storto mi si dipinse sulle labbra.

Mi trovavo davanti alla stanza d’ospedale di mio padre. Ci trovavamo. Jin era con me. Non mi aveva lasciato solo un momento, era lì
a supportarmi. La cosa mi apportava uno strano senso di pace, di sicurezza. Avevo quasi la sensazione che le cose sarebbero andate per il verso giusto. Anche se non era da me essere ottimista. Il sole iniziava a scaldarmi.
Aprii la porta di scatto.
In camera c’era solo mio padre con la testa girata dalla parte opposta rispetto l’entrata. Stava osservando fuori dalla finestra, o così
poteva sembrare. Ero sicuro che stesse lottando, involontariamente, contro la sua dipendenza. Senza dubbio sarebbe voluto uscire e
comprare dell’alcool. Il riflesso del suo volto sul vetro freddo della finestra me lo rivelava.
Mi avvicinai al letto e prima di poggiare la mia mano sul bordo di questo, mi girai a guardare Jin. Era rimasto sull’uscio e non dava
segno di volersi muovere. Voleva che lo facessi da solo. O meglio sapeva ciò che volevo e mi stava aiutando a realizzarlo. Era
presente e nello stesso tempo assente. La sua figura sarebbe rimasta alle mie spalle per tutto il tempo e mi avrebbe inviato conforto,
tuttavia non si sarebbe intromesso e mi avrebbe lasciato parlare.
Gli diedi le spalle e mi rivolsi a mio padre: “Papà. Sono Kazuya. Cosa è successo?”
Mio padre girò lentamente il capo verso di me. Sembrava che ogni singolo movimento gli portasse via troppa energia. Il suo volto
era macchiato dall’astinenza. Le occhiaie gli cerchiavano pesantemente gli occhi. Avevo paura di sentirlo parlare. Credevo che la sua
voce si sarebbe spezzata non appena la sua bocca avesse fatto fuoriuscire la prima parola.
Invece riuscì a rispondermi, sebbene la sua voce fosse afona: “Ho avuto delle convulsioni”
Alle sue parole il mio corpo si paralizzò e gli occhi si ghiacciarono. Vedevo il suo volto ma non lo guardavo. Dopo qualche secondo
mi ripresi. “Le convulsioni? E cosa c’entrano con i tuoi problemi?”
“Il medico dice che può essere una conseguenza portata dall’alcolismo cronico.” Mi rispose sempre con voce roca. Sembrava non
provare nessuna emozione.
“Quindi? Cosa vogliono fare?”
“Dovrò subire un intervento di trapianto di fegato. Dopo di che mi dimetteranno e non potrò più toccare alcool” solo in quest’ultima
frase la sua voce tradì qualche emozione. Non gliene importava niente di morire, di essere sottoposto ad un intervento così
importante, di lasciare me e mia madre senza di lui. Si preoccupava solo di non poter più bere.
Strinsi le coperte del letto tra le mie mani e lasciandole di colpo scattai indietro e gli urlai addosso con tutto il risentimento che
provavo verso di lui: “Ti preoccupi di non potere più toccare alcool? E’ questo il tuo unico cruccio? Non ti preoccupi di essere in un
letto di ospedale per colpa della tua dipendenza. Non ti importa se lascerai me e la mamma da soli, perché non sei capace a
controllarti. Probabilmente usciti da qui ritornerai a bere e distruggerai nuovamente te stesso e il tuo fegato. Ma, ovviamente, tutto
ciò che conta è l’alcool. Pensi che sia la tua unica strada perché non hai mai tentato di trovarne un’altra. Non sempre la via più
semplice è quella giusta. Ora che sei sobrio cerca di capirlo e reagisci! Per me, per la mamma, ma soprattutto per te stesso” conclusi
la frase abbassando il tono di voce. Sentivo che le lacrime stavano per sgorgare dai miei occhi. Guardai mio padre, il quale a sua
volta mi fissava allibito, senza avere la forza di parlare. Mi girai e vidi Jin. Mi diressi verso di lui ma gli passai accanto e uscii dalla
porta. Stavo cercando un bagno dove rinchiudermi. Jin era venuto con me per aiutarmi e io mi ero lasciato prendere dai miei rancori
e l’unica cosa che avevo ottenuto erano solo delle grida con poco significato. Sentivo che mi chiamava ma non mi girai, continuai a
camminare. Mi vergognavo di me stesso. Ad un certo punto percepii la sua mano sul mio braccio. Mi aveva fermato.
Girandomi a testa bassa lo pregai: “Lasciami solo”
“No. Te l’ho detto, è l’unica cosa che non ho intenzione di fare” replicò serio.
“Tu mi hai dato fiducia e guarda come mi sono comportato. Scusami”
“E come ti saresti comportato?”
“Mi sono messo ad urlare senza controllarmi. Sembravo solo in preda ad una crisi isterica.”
“Kazuya dovresti piantarla di reprimere le tue emozioni. Se hai gridato così è perché tieni a tuo padre nonostante tutto. Sicuramente
anche tuo padre l’ha capito. Non ti devi scusare per questo” mi rassicurò e vedendo che continuavo a piangere aggiunse: “Dai ora
calmati. Andrà bene”
Lo abbracciai e poggiando la testa sulla sua spalle iniziai a piangere ed a singhiozzare. Non avevo mai pianto così. Era riuscito a
sbloccarmi. Non dovevo vergognarmi di ciò che avevo fatto. Probabilmente i decibel che avevo utilizzato erano superiori alla norma,
ma ero riuscito a dire ciò che provavo. Sarei andato a parlare poi con mio padre, non avevo intenzione di demordere. Dovevo
assicurarmi che prendesse la decisione giusta per se stesso.
Mi ritrassi dall’abbraccio per guardare Jin in viso. “Grazie” gli sussurrai solo. I singhiozzi erano terminati, ma le lacrime non
volevano fermarsi. Mi solcavano il viso. La mia espressione era tranquilla e pacata. Probabilmente il liquido che continuavano a far
fuoriuscire i miei occhi era solo il sintomo della liberazione che tutto il mio corpo percepiva.
Restammo abbracciati per molto tempo, anche se a me sembrarono pochi attimi. Sentivo l’ospedale muoversi intorno a noi.
 “Andiamo a casa” lo implorai interrompendo il nostro abbraccio.
Jin mi guardò perplesso, “Ma com..”
“Ho bisogno di calmarmi. Mi serve ancora un po’ di tempo, non ero preparato a tutto questo” lo interruppi.
“Sei sicuro?”
“Sì” asserii secco.
“Allora andiamo” mi chiamò a se, con un cenno della testa, sorridendo. Ero sicuro che quel suo sorriso celasse della preoccupazione.
Forse ero riuscito, finalmente, a capirlo un po’ meglio. Lo conoscevo, o forse mi ero ricordato com’era. Quei suoi sorrisi per me non
erano più delle grandi incognite, capivo cosa mi voleva nascondere.
Mi avvicinai a lui e gli sorrisi a mia volta.

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Capitolo 3
*** Il profumo di un ricordo - 3 ***


Erano solo le cinque del mattino.  La stanza da letto di Jin era colorata da una pallida luce, che le tende non riuscivano a filtrare . Lui
era accanto a me, stava ancora dormendo. Mi alzai cercando di non fare troppo rumore. Andai in cucina e dopo aver preso un
bicchiere d’acqua mi diressi fuori, sul balcone. Il sole spuntava timidamente da dietro alcuni grattaceli. Si levava lentamente, come
se stesse prendendo coraggio per innalzarsi in cielo, per riscaldare tutti con il suo calore e per abbagliarci con i suoi raggi. L’aria era
ancora pungente e accarezzava delicatamente il viso. A quell’ora del mattino era ancora possibile guardare il sole senza che gli occhi
lacrimassero. Il mio sguardo si perse  in quella palla infuocata. Allungai una mano come per sfiorarlo, era impossibile che io riuscissi
a toccarlo, non stavo tenendo conto delle distanze che ci dividevano.
‘Cosa potevo fare con mio padre?’ Non appena questo pensiero si fece strada nella mia mente il braccio che stavo tendendo
all’orizzonte cadde, e tornò nella sua posizione naturale.
Anche da sobrio il suo unico pensiero era l’alcool. Davvero non capiva che con la sua dipendenza stava demolendo tutto intorno a
lui? Era come una catena. Distruggendo il suo fegato stava distruggendo la sua salute, quindi se stesso e la sua distruzione portava a
quella della nostra famiglia, e con essa me nello specifico. Mi sentivo dentro un tornado. Mi trascinava ovunque, contro la mia
volontà e non riuscivo a liberarmi.
Ad un tratto sentii un rumore alle mie spalle e mi girai di scatto, facendo cadere a terra il bicchiere che mi ero dimenticato di avere in
mano. Guardai atterrito Jin che mi fissava senza comprendere ciò che era appena successo. Io ero rimasto immobile, benché avessi
chiaramente percepito alcune schegge di vetro che si scontravano con le mie gambe.
“Kazuya!” gridò Jin contro il mio viso intanto che mi scuoteva per le spalle. “Kazuya! Tutto bene?”
D’ un tratto mi rianimai.
Mi chinai rapidamente a terra per raccogliere i frammenti di vetro. “Scusami!” affermai con un po’ di vergogna.
Jin prese il mio volto tra le sue mani così da obbligarmi a guardarlo negli occhi. “Kazuya che succede?”
“Nulla. Stavo solo pensando e mi sono spaventato quando ti ho sentito arrivare”
“Andiamo dentro” mi ordinò senza guardarmi. Lasciai a terra i pezzi di vetro e rientrai.
Jin era appoggiato con una mano sul tavolo e mi dava le spalle. Chiusi la porta finestra e tentai di chiamarlo: “Ji..”
“Kazuya si può sapere che diavolo ti prende?” Mi urlò girandosi di scatto.
Sgranai gli occhi. Non capivo la situazione. Era arrabbiato con me. “Come?” chiesi solo.
“Non puoi andare avanti così. Continui a scappare da ogni situazione, non stai affrontando niente”
“Che cosa?” domandai con rabbia avvicinandomi a lui.
“Ma non lo capisci? Stai fuggendo dalla tua vita. Sei scomparso per una settimana dopo quello che è successo con i tuoi, oggi te ne
sei andato senza concludere nulla con tuo padre”
“Ma sei impazzito? Che cosa ti passa per la testa? Hai sempre detto che andava bene così, che dovevo fare un passo alla volta. Cosa
è cambiato ora?”
“E’ cambiato tutto. Guarda come ti stai riducendo. Forse non è la strada giusta, forse ho sbagliato io a non spronarti”
“Questa è la mia vita! Tu non c’entri” urlai e cercai di andarmene. Cosa gli avevo appena detto? Lui non c’entra con la mia vita? Lui
è parte della mia vita.
“Scappi di nuovo” fece una lunga pausa che mi portò a girarmi. Era sul punto di piangere. “Scappi di nuovo da me”
Mi avvicinai rapidamente a lui. “Che cosa dici? Non me ne vado. Sono qui.”
“Mi hai già dimenticato una volta cosa ti impedirà di rifarlo?”
“No Jin. Non dire idiozie. Io non ti dimentico, ne ora ne mai!” Lo abbracciai e lui poggiò la fronte contro la mia spalla. Sentii che mi
si stava bagnando il petto, probabilmente stava piangendo. Quanto ero stato egoista? Pensavo di conoscerlo, ma non lo conoscevo
affatto. Stava soffrendo, forse più di me. Era lontano da tutta la sua famiglia. Era praticamente solo qui, e mi ero ancora permesso di
dirgli di non intromettersi nella mia vita. Che deficiente che sono. Aveva solo paura per me e che lo lasciassi completamente solo.
Abbassai la testa per avvicinare la bocca alle sue orecchie e mormorai: “Perdonami” presi una pausa e gettai fuori un po’ d’aria dal
naso “Ti amo”.
Lui alzò di scatto la testa e mi guardò intensamente negli occhi, io gli stavo sorridendo. Mi baciò.
Nel momento in cui il bacio si concluse posammo le nostre fronti l’una contro l’altra.
“Anche io ti amo” sussurrò sorridendo.

Dopo le lezioni mi diressi in aula insegnati per parlare con Jin.
“Professor Akanishi” lo chiamai ed il suo viso improvvisamente sbucò da quella moltitudine di volti che popolavano la stanza,
“potrebbe venire un attimo fuori?” Lui annuì e si diresse verso di me.
“Dimmi” mi chiese con un po’ di sorpresa.
“Sto per andare da mio padre”
“Bene, faccio su l…” tentò di dirmi, ma lo fermai prima che finisse.
“So già cosa mi dirai e non voglio sentirlo..”
“Ma i..”
“Niente ma, lasciami finire”.
Lui sbuffò e mi fece un cenno di assenso con la mano, come se mi stesse caritatevolmente concedendo di proferire parola.
Così io continuai: “Ti prego permettimi di andare senza di te. So che vorresti venire anche tu per supportarmi, ma non mi aiuta la tua
presenza. Sento sempre di dovere fare di più perché ci sei tu e non voglio deluderti. Quindi, per questa volta, vorrei recarmi là da
solo. Tornato a casa ti racconterò tutto”
Storse le labbra. “Ti vengo a prendere davanti all’ospedale. Chiamami quando hai fatto” non sembrava molto soddisfatto ma ero
felice che avesse capito.
“Grazie Ji..” ma mi bloccai. Vidi uscire dall’aula insegnati la mia professoressa di matematica.
“Grazie professore. A domani” lo salutai tentando di sembrare il più naturale possibile.
Lui non sembrava aver compreso quello che stava accadendo, infatti mi stava fissando con la fronte corrucciata. Me ne andai
facendogli l’occhiolino, assicurandomi che quella vecchia arpia non stesse guardando.
 
Dopo aver inspirato profondamente ed espirato successivamente, entrai nella stanza di mio padre la numero 204.
“Papà” lo chiamai.
“Papà? Ma sei diventato cieco?” con mia grande sorpresa mi rispose un’anziana dalla voce roca “Sono una donna! Fuori dalla mia
stanza piccolo impertinente!”
“S-sì, mi scusi” uscii rapidamente e mi chiusi la porta alle spalle.
Una donna? Più che una donna sembrava un concentrato di rughe. Che megera.
Piuttosto dov’era finito mio padre? Che avessi sbagliato stanza? Impossibile, ero certo fosse la 204, il giorno in cui incontrai, dopo
tanti anni Jin, il 20-4. Non potevo avere sbagliato numero. Probabilmente l’avevano spostato in vista dell’intervento. Andai a cercare delle infermiere.
Dopo averne individuata una cominciai: “Scusi mi sa dire dove posso trovare il signor Kamenashi?”
“Solo un attimo” mi rispose e si mise subito a cercare il suo nome tra i le cartelle che teneva in mano. “Il signor Kamenashi è stato
dimesso qualche ora fa”
“Come?” le chiesi sporgendomi verso di lei, indicai le cartelle e continuai “controlli meglio, doveva essere operato a giorni. Non è
possibile che sia stato dimesso.”
“Mi dispiace. Non possiamo fornirle più informazioni” affermò indietreggiando, con tono sostenuto.
“Sono suo figlio. Ora mi è concesso avere più informazioni?”
“Stando a quanto c’è scritto il paziente si è rifiutato di subire l’intervento e ha deciso di tornare a casa. Se permette io andrei” Mi
passò accanto e quasi non la notai. Ero paralizzato. Si era rifiutato? Quel bastardo. Immaginavo anche il perché. Sentii la rabbia
ribollirmi in corpo. Mi misi a correre.
Arrivato davanti a casa suonai assiduamente il campanello ma non ebbi alcuna risposta.
Portai le mani sul viso e mi lasciai scivolare lungo il portone.
Un suono attirò la mia attenzione. Era la suoneria del mio telefonino. Lo sfilai dalla tasca e lessi il nome che appariva sul display.
‘Jin’. Non gli avevo fatto sapere nulla, doveva essersi preoccupato, era ormai ora di cena.
“Pronto” risposi iniziando così la chiamata.
“Kazuya allora? Per quanto ne hai ancora?”
“Ho finito. O meglio non ho mai iniziato. Sono davanti a casa mia, ti aspetto qui.”
“Davanti a casa tua? Ma ch..” allontanai il telefono dall’orecchio mentre stava ancora parlando e chiusi la chiamata. Gli avrei poi
 
raccontato tutto più tardi, non mi andava di parlare. Poggiai la testa sulle ginocchia in attesa del suo arrivo. Svuotai la mente. Non
volevo pensare a quello che era appena successo, se l’avessi fatto avrei segnato la mia condanna. Volevo aspettare Jin e a quel punto 
ci avrei pensato cercando di non essere governato dall’ira. Ero in standby.
Passarono alcuni minuti e sentii il rumore della marmitta di una moto, ma non alzai ugualmente gli occhi. Percepii il suo tocco sulla
mia testa. Mossi la mia mano per far si che incontrasse la sua, senza mai tirare su il capo. Afferrai la sua mano e solo allora concessi
ai miei occhi di rivedere la luce. Lo stavo guardando con un espressione apatica.
“Che cosa è successo?” mi domandò a bassa voce Jin. La scelta di quel tono di voce mi fece pensare che lui credesse di non dover
fare troppo rumore, altrimenti sarei caduto in pezzi. Come se fossi una foglia che rimane a mala pena aggrappata all’albero e bastasse
un impercettibile soffio per farla precipitare.
“Sì è fatto dimettere. Rifiuta l’intervento” risposi con voce statica, come se non stessi provando emozioni. Forse non riuscivo più a
provarne per quell’uomo, ne avevo provate troppe.
“Ma se non si sottopone all’intervento..”
“Morirà? Sì. Ma a lui importa di morire bagnato dalle gocce della sua vodka piuttosto che dalle lacrime dei suo cari”
Tacemmo per molti secondi poi mi alzai in piedi. Avanzai verso Jin. Quando mi trovai al suo fianco posi la mia mano sulla sua spalla
e senza guardarlo in viso lo sollecitai: “Andiamo. Sono stanco”
 
Quella mattina fui svegliato dal rumore assordante e fastidioso della sveglia. Jin non era più nel letto. Doveva trovarsi già in cucina
così lo raggiunsi.
“Buongiorno” lo salutai con ancora tutta la bocca impastata, reduce del sonno. La televisione accesa faceva da sotto fondo.
“Buongiorno!” il suo saluto fu accompagnato da un sorriso.
Mi sedetti a tavola e bevvi il succo d’arancia che Jin mi aveva già versato nel bicchiere. Non parlammo. La mia attenzione fu
richiamata da una notizia del telegiornale.
“Ieri notte un uomo, che si trovava in uno stato di ebbrezza, camminando su un muretto alto cinque metri ha perso l’equilibrio ed è
caduto rompendosi l’osso del collo. Tutti i tentativi di soccorso sono stati inutili. E’ morto sul colpo”
Alzai la testa di scatto e, spalancando gli occhi, guardai basito il televisore. Non era stata fatta nessuna allusione ad alcun nome, ma
ero quasi certo di sapere chi fosse quell’uomo.
Mi girai a guardare Jin che mi stava fissando a sua volta con occhi increduli. Interruppi il contatto visivo dando un’occhiata veloce
all’orologio. Le 7.27. Di lì a poco saremmo dovuti uscire per andare a scuola. Ci preparammo nel totale silenzio, eravamo rimasti
scioccati da ciò che poco prima avevamo sentito.
Usciti dal portone di casa mi arrestai.
“Kazuya?” mi chiamò Jin, sicuramente sapeva già cosa gli avrei detto.
“Vado a casa” risposi alzando lo sguardo che prima era fisso sul marciapiede grigio.
Jin non rispose. Fece sono un gesto di approvazione con la testa. I suo occhi, i suoi movimenti, persino il suo silenzio trapelavano
preoccupazione. Se avessi avuto uno specchio dove riflettermi probabilmente avrei visto la stessa ansia.
“Ti chiamo” 
Io alzai la mano per salutarlo.
Stavo per andarmene quando: “Prendi!” mi lanciò qualcosa. La afferrai al volo. Tenevo stretto nelle mani ciò che mi aveva lanciato.
Dischiusi le mani e vidi un mazzo di chiavi. Non dissi niente. Spostai l’attenzione da quei pezzi di metallo al viso di Jin. Lo guardai
con le sopracciglia aggrottate.
“Nel caso avessi bisogno di stare da solo. Tornerò a casa per le 16.00. A dopo” mi sorrise. Quel sorriso mi parve un incoraggiamento.
Gli sorrisi di rimando per ringraziarlo. Strinsi forte nelle mani le chiavi e me ne andai.
 
Ero entrato in casa mia utilizzando le mie chiavi. Non avevo suonato, mi era parso così naturale. Come se fosse un giorno come tanti.
Forse cercavo solo di scappare dall’idea che continuava ad angosciarmi. Fuggivo di nuovo. Jin aveva avuto proprio ragione, sono
ancora un immaturo che non riesce ad affrontare le cose a testa alta.
“Mamma! Sono a casa!” gridai dal fondo delle scale sperando di ricevere qualche risposta.
Nulla. Mia madre non mi rispose. Eppure ero certo fosse in casa, sul divano era poggiata la sua borsa. Salii lentamente le scale.
Qualunque cosa fosse successa non volevo saperla subito.
Bussai alla porta della camera dei miei. Poiché la porta era socchiusa applicai una leggera pressione su questa, e creai più spazio così
da riuscire ad entrare.
“Mamma?” la chiamai timidamente, vedendo che aveva il viso nascosto nel cuscino.
Un singhiozzo interruppe la mia attesa. Era palese quello che fosse successo. Strinsi forte i pugni e mi avvicinai a letto.
Mi sedetti accanto a lei volgendole le spalle. Si era creato un strano silenzio, anche io interiormente ero in silenzio. Forse stavo solo
attendendo una qualche catastrofe. La calma prima della tempesta.
Ero stanco di aspettare, di fuggire. Volevo maturare e cambiare ciò che odiavo di me stesso. Presi coraggio e cominciai: “Ho visto il
telegiornale questa mattina…” non riuscii a concludere che mia mamma si mise a piangere in modo più rumoroso. Mi girai verso di
lei e posai la mia mano sulla sua schiena. Non appena sfiorai la sua pelle il suo corpo tremò, come se si stesse ritraendo da me.
Staccai rapidamente la mano e la guardai con gli occhi sbarrati, poi spostai il mio sguardo sul viso di mia madre: si era messa seduta
sul letto e ora mi stava fissando con le guancie scavate dall’acqua che cadeva senza sosta dai suo occhi neri. I capelli ramati le
coprivano gran parte del viso ma riuscivo benissimo a vedere le sue emozioni.
“Mamma?” la chiamai.
“Tuo padre… Tuo padre è, è” si fermò. “Nonostante tutto io lo amavo. Ogni volta che ti picchiava, che picchiava me io cercavo di
pensare all’uomo che era un tempo. Speravo che sarebbe tornato ad esserlo prima o poi. Invece è morto da ubriaco” tirò su col naso e
dopo una breve pausa continuò “le ultime parole che mi ha rivolto sono state: ‘Stai zitta e lasciami bere’, poiché io l’avevo invitato a
scendere da quel muretto. E’ così tanto orribile che io stia male per la sua morte dopo quello che ha fatto a tutti noi?”
“No. No. Era tuo marito, nel bene e nel male”
Le lacrime che avevano cessato di cadere ripresero in maniera più abbondante. La abbracciai. Cercavo di stringerla forte per farle
 
capire che c’ero e l’avrei aiutata. Rimanemmo così per un po’. Quel fu il momento più intimo e vero che io e mia madre avemmo
dopo molto tempo.
 
Ero seduto sul divano e continuavo a cambiare canale senza seguire minimamente quello che appariva sullo schermo della TV.
L’audio era disattivato. Ancora quel silenzio. Stavo aspettando la mia crisi? Eppure dentro di me regnava la pace, non provavo
dolore. Chissà come poteva una cosa così enorme non muovere nulla in me. Il peso era immenso ma non mutavo.
Sentii accarezzarmi i capelli e mi girai sorridendo. Non lo avevo sentito entrare.
“Ciao Jin!” lo salutai sempre con il sorriso, anche se in ogni mio gesto ed espressione vi era la fatica. Come sempre, non riuscivo ad
essere felice fino in fondo.
“Tutto a posto?”  domandò lui sedendosi al mio fianco.
“Sì. Ho pranzato con mia madre, o almeno ho tentato di farla mangiare”
“Tuo padre?” me lo chiese come se avesse paura della mia risposta.
“E’ morto” risposi senza sbilanciarmi.
“Stai bene?”
“Sì,” feci una brevissima pausa e mi girai verso di lui e continuai: “stranamente sì”
Lui mi guardò aggrottando le sopracciglia ed avvicinando di più il suo viso al mio. Dopo essere tornato alla posizione iniziale mi
parlò nuovamente: “Sei sicuro?”
“Sì. Non sto male per la perdita di mio padre. L’avevo già perso anni fa, quando aveva iniziato a bere. Non era più lui da tanto tempo,
era solo schiavo dell’alcool. Quindi perché dovrei stare male ora, nel presente, per qualcosa che ho perso nel passato?
Semplicemente è come se ora la sua scomparsa si fosse concretizzata, ma io la percepivo già prima in modo più astratto. Ora è solo
definitiva.”
Jin restò in silenzio, probabilmente non si aspettava una simile risposta. Nessuno se la sarebbe mai aspettata. Anche se mi stava
guardando con un po’ di smarrimento, sapevo che aveva capito, o per lo meno ci cercava di farlo.
 
Il prete continuava con la sua lunga manfrina su ciò che è necessario fare in vita per assicurarsi la benevolenza di dio.
“Chi getta via la sua vita non è degno di essere felice nell’aldilà”.
Non appena sentii queste parole alzai la testa, che cercavo di nascondere, per non essere osservato da tutti coloro che si aspettavano
disperazione e cordoglio da parte mia, e scattando in piedi uscii rapido dalla chiesa. Mi dispiaceva per mia mamma, ma non avevo
intenzione di rimanere un secondo di più ad ascoltare quel celebrante sputa sentenze.
“Kazuya!” mi girai non appena sentii chiamare il mio nome, “Non ascoltare ciò che dicono” così Jin concluse la frase.
“Lo so. Però non ce la faccio a stare lì, non credendo in queste cose, e dovendomi sorbire le prediche di quello!” affermai
accompagnando la frase con un gesto della mano, come per indicare la persona a cui mi riferivo.
“Vuoi andare a casa?”
“Voglio andare a fare colazione!”
“Che?” mi chiese con aria interrogativa.
“Andiamo in un bar” lo invitai, “ho fame!” finii appoggiando una mano sul mio stomaco.
Jin dopo un primo momento di disorientamento alzò le spalle. Essendosi, poi, avvicinato a me, poggiò il suo braccio sull’estremità
superiore della mia schiena e mi invitò ad andare facendomi un segno con il capo.

Eravamo seduti nel bar, uno di fronte all’altro. Il locale era poco frequentato, c’eravamo solo io e Jin. L’unica cameriera si trovava
dietro al bancone, con aria annoiata e con la musica nelle orecchie sfogliava lentamente una rivista inutile di gossip.
Jin stava bevendo una spremuta d’arancia e ogni tanto addentava la sua brioche vuota. Io invece non mi ero trattenuto: avevo già
quasi finito di trangugiare la mia, l’ultimo pezzo ancora ricolmo di crema giaceva su un fazzoletto accanto alla tazza di cappuccino.
Bevvi velocemente la mia bevanda e mangiai soddisfatto il mio ultimo pezzo di brioche.
“Avevi fame, eh?” mi domandò Jin. Anche se più che una domanda pareva un’ affermazione.
Mi aveva guardato per tutto il tempo, con quei suoi occhi magnetici. Faticavo un po’ a mangiare come mio solito, sapendo di essere
continuamente osservato, ma cercai di non darci peso. Non mi dispiaceva il fatto che mi guardasse, anzi forse mi faceva stare bene.
Non risposi e gli sorrisi, senza mostrare i denti. Avevo paura di avere dei pezzi di brioche attaccati da qualche parte.
Mi alzai: “Vado un attimo in bagno”.
Mi stavo girando per andare quando mi arrestò: “Fermo, vieni qui!”
“Che c’è?” domandai inclinando un po’ la testa.
“Vieni qui” mi ripeté allungando un braccio verso il mio viso. Io mi sporsi verso di lui e lasciai che prendesse il mio viso tra le sue
dita. “Hai pezzi di brioche ovunque,” mi sgridò dolcemente pulendomi il viso “proprio come i bambini” sorrise ed alzò in modo scherzoso gli occhi al cielo.
Non appena finì mi distaccai e andai verso il bagno senza proferire parola.
‘Non sono un bambino. Va bene che ho qualche anno in meno di lui, ma non voglio che mi consideri tale.’
Ero davanti allo specchio, con le mani poggiate sul bordo del lavandino metallico, fissai il mio riflesso. Accennai una risata e
buttando fuori l’aria dal naso mi spostai un po’ avanti con il corpo. ‘Che idiota. Ma posso impuntarmi su certe cose? Mi stava solo
prendendo in giro!’ pensai. Mi tolsi i residui della mia colazione che, come avevo previsto, erano rimasti sui denti e tornai di là.
Mi sedetti: “Allora ch…” ma mi bloccai. Presi rapido il menù e mi nascosi dietro quello.
Jin mi stava guardando come se stesse cercando di capire le intenzioni degli attori in un film senza audio. I suoi occhi mi
domandavano cosa stesse succedendo. Vendendo che fissavo qualcosa dietro di lui si girò. Io gli afferrai subito la mano, che teneva
poggiata sul tavolo, per farlo rigirare, accompagnando la presa con un verso.
Dietro di lui c’erano Taguchi ed Ueda. Che ci facevano lì?  Insieme poi.
Avvicinai il mio volto a lui tenendo la testa a pochi centimetri dal tavolo.  Pretesi che lui facesse lo stesso, gli strattonai la mano ed
anche lui si abbassò. Sembravamo due soldati dietro ad una trincea, o forse solo degli idioti.
“C’è Taguchi!” sussurrai.
Dopo aver capito il motivo dei miei movimenti Jin mi guardò storto e cercò di rialzarsi, ma lo bloccai percuotendo ancora la sua
mano.
“Che c’è?” chiese scocciato a bassa voce.
Lo guardai in cagnesco storcendo un po’ la bocca. “Non è da solo. E’ con il mio ex insegnate di box” asserì.
Continuò a fissarmi senza capire quale fosse il problema.
Sbuffai ed alzai gli occhi al cielo. “Voglio vedere che combinano, ma se ci vedono non faranno mai nulla”
“Ti improvvisi detective ora?” mi incalzò lui ironicamente.
“Ssssh!” sibilai sorridendo.
Ad un certo punto spalancai gli occhi e mi immobilizzai. Ero sotto shock. Jin sventolò davanti al mio viso la sua mano, ma non ebbi
nessuna reazione.
“S-si.. si.. si sono baciati” balbettai solo.
Jin strabuzzò, anch’egli, gli occhi.
Non me lo sarei mai aspettato. Mi ripresi, mi rialzai e feci segno a Jin di andare. Lasciai i soldi sul tavolo e mi diressi da Taguchi ed
Ueda, i quali erano troppo impegnati a fare le loro cose per poter accorgersi dei movimenti all’interno del locale.
“Uepi! Ti ho portato i soldi!” li interruppi.
Ueda si girò con sguardo assassino: “Va via! E fatti gli affari tuoi”. Taguchi scoppiò a ridere ma si arrestò nel attimo in cui Ueda lo
fulminò con lo sguardo.
“Non sapevo steste insieme” affermai posando la  mia mano sulla spalla di Ueda, il quale la guardo con quasi ribrezzo. “Va beh,”
continuai e spostai la mano dal suo corpo con quasi timore, “ti lascio i soldi qui” poggiai i soldi sul tavolo, fortuna che li avevo portati
dietro con l’intenzione di passare in palestra dopo il funerale, “ci si vede!” li salutai e prendendo Jin per mano lo trascinai
fuori dal caffè.
Eravamo appena usciti e non facevo altro che guardare la porta del bar. Avevo paura che uscisse Ueda e iniziasse a prendermi a
cazzotti.
Jin aveva iniziato a camminare e si stava allontanando dal locale. “Muoviti tartaruga!” mi sollecitò sorridendo.
Iniziai a camminare verso di lui. “Non sono una tartaruga” borbottai a bassa voce prima di raggiungerlo.
“Dove andiamo?” gli chiesi non appena l’ebbi raggiunto.
“Vieni!” affermò prendendomi la mano “ti voglio portare in un posto” e si mise a correre, per raggiungere il luogo dove aveva
parcheggiato la moto. All’inizio rimasi un po’ indietro, lo vedevo correre contro il sole. Come se sapesse esattamente dove voleva
arrivare. Io, come mio solito, rimanevo indietro e il sole non mi scaldava mai completamente il viso. Mi muovevo perché si muoveva
lui, correvo dietro di lui non verso ciò che volevo. Ma non sarebbe stato così ancora per molto. Finalmente, avevo capito verso cosa
volevo andare.
Affrettai il passo e lo raggiunsi. Lui si girò verso di me, non volgendo più lo sguardo al sole, mi sorrise. Mi fermai di colpo e, di
conseguenza, obbligai anche lui ad arrestarsi.
Jin si avvicinò di più a me. Io gli presi il viso tra le mani e lo baciai. Mi sembrò la cosa più giusta e normale da fare. Volevo che
questa sensazione di sicurezza mi accompagnasse per tutta la vita.
Nonostante pochi giorni prima mio padre fosse passato a miglior vita io stavo bene, ero in pace. Forse è proprio qui il punto: aveva
smesso di vivere soffrendo. Si era liberato della sua dipendenza. Era sereno, o almeno mi piaceva pensare che fosse così. Non avevo
mai pensato che potesse esistere una qualche vita ultraterrena, probabilmente non lo pensavo nemmeno in quel momento. Tuttavia
speravo che ci fosse per mio padre.
Speranza, tutti ci nutriamo di speranze. Perché ci piace immaginare, o perché abbiamo paura del futuro. Qualunque fosse la risposta
non importava. Sarebbe stata buona e valida qualsiasi opzione. L’importane è riuscire a proseguire a testa alta, in qualsiasi modo.
Qualsiasi cosa ci rassicuri è corretta. Non per tutti, ma per qualcuno lo è.
Quando i nostri visi si allontanarono l’uno dall’altro gli sorrisi, e riprendendolo per mano mi misi a correre. La situazione si era
invertita: adesso lui mi stava raggiungendo accelerando.

Mi aveva portato sulla riva del fiume.
Il sole si specchiava nell’acqua, resa azzurra dal colore del cielo. Sembrava che il riflesso brillante nell’acqua emanasse calore, come
lo emanava quella palla di fuoco sopra la nostra testa. Sicuramente, però, se mi fossi gettato in acqua per toccarlo sarebbe svanito e il
mio corpo sarebbe stato circondato dal freddo del liquido nel quale ero immerso.
Nel immaginarmi tutto questo mi venne in mente il sogno che feci non appena conobbi Jin. La mia vita fino a quel momento era
paragonabile al sole riflesso nell’acqua. Ora vivevo, non mi immaginavo di vivere.
Eravamo rimasti immobili ad osservare i giochi di luce che il sole aveva il potere di creare con l’ausilio dell’acqua.
Ci sedemmo, come se avessimo sentito che era il momento di farlo. Mi era già capitato, ma questa sensazione si ripresentava: sentivo
le nostre menti legate. Non parlammo per un po’.
Il calore del sole si era un po’ indebolito quando iniziai a parlare: “Sai Jin,” come iniziai lui si girò verso di me con gli occhi umidi.
“Perché stai piangendo? E’ successo qualcosa?” chiesi preoccupato avvicinando il mio corpo al suo.
Lui si strofinò gli occhi e replicò: “Ma no! E’ solo che ho tentato di guardare il sole”.
Nell’aver preso atto di questo, tornai alla posizione precedente, allontanandomi dandogli una lieve spinta sulla spalla sinistra.
“Che cosa mi volevi dire?”
“No, niente” risposi io distogliendo lo sguardo.
“Kazuya!” mi apostrofò inclinando la testa.
“Ormai è passato. Prima o poi te lo dirò”
“No. Non prima o poi. Ora” affermò obbligandomi a parlare.
Mi vergognavo a dirlo. Non sapevo che cosa mi fosse preso un attimo prima, ma ora tutta il mio coraggio si era dileguato.
Respirai profondamente ed iniziai: “Dicevo che… Okay. Volevo dire che… una volta era tutto diverso. Prima ero completamente
solo. Probabilmente tu non lo sai, ma spesso passavo notti fuori casa con ragazze che conoscevo in discoteca la sera stessa. Adesso
sono arrivato a capire che probabilmente lo facevo solo perché mi sentivo…” feci una pausa per cercare il termine più adatto
“abbandonato”
Jin era rimasto immobile ad ascoltarmi. Ora però era il suo turno: “Ti capisco perfettamente. Quando io ero in America mi sentivo
sempre fuori posto, inadeguato. Ma da quando sono tornato qui, da quando ho tra le mani l’unico rapporto del quale mi sia mai
importato veramente, sto bene. Mi piace anche insegnare, cosa che credevo impossibile” finì con una flebile risata.
“Penso di aver capito cosa voglio nel mio futuro. Dopo tutto quello che è accaduto alla mia famiglia, mi piacerebbe poter aiutare i
ragazzi che vivono queste situazioni indirettamente, e chi vive la dipendenza direttamente. Io sono riuscito ad uscirne grazie a te, ma
non tutti hanno questa fortuna” sospirai, “certo è che dovrò mettermi a studiare seriamente per diventare la persona che finalmente
ho capito di essere, ma direi che ne varrà la pena” conclusi strizzando l’occhio.
Jin sorrise e sentii che quel sorriso era uno dei più intensi che mi avesse mai mostrato. “Sono davvero fiero e felice per te, Kazuya!”
Si avvicinò a me e mi baciò. Io inspirai quel profumo, Jin. Era tutto perfetto in quell’istante. Volevo che le lancette dell’orologio
cessassero di muoversi.
Mi ero ritrovato e con Jin ero sicuro che non mi sarei più perso.

After a few years it will become a memory
So I tried to add the forgotten memories to this moment now.
[…]
I had lost sight of something as the days
passed by
Just like that, I have to make the first move
To not let go of the hand I am holding.
                                  (Care – Jin Akanishi)

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