L'uccello di fuoco

di CupOfEternitea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. (Sandor) Fuoco ***
Capitolo 2: *** 2. (Sansa) Occhi che bruciano. ***



Capitolo 1
*** 1. (Sandor) Fuoco ***


SANDOR

“Stupido moccioso”, ringhiò a denti stretti non appena al sicuro nella sua stanza, o la sua cuccia, a giudicare dall’arredamento essenziale. Aveva accettato perfino di occuparsi dell’incendio al Fondo delle Pulci, pur di stargli alla larga il tempo necessario a far sbollire la rabbia e assopire il desiderio di prendere la sua bionda testa coronata e fracassarla contro il Trono di Spade. Unico lato positivo, aveva ritrovato Straniero, il suo stallone.
Non aveva mai conosciuto nessuno tanto desideroso di essere ammazzato come lo era il suo padrone, né tanto talentuoso nell’attirare su di sé l’odio e il disprezzo di chi lo circondava. Forse il nuovo re non ricordava che sorte era spettata ad Aerys Targaryen, il Re Folle, quando le sue insane stravaganze arrivarono a livelli tali da non poter più essere tollerate. Una folla affamata poteva essere ben più pericolosa di un’armata nemica, anche senza il bisogno di alimentare la rabbia popolare. Di certo c’era già abbastanza gente che non aspettava altro che avere la sua testa. Se ne sarebbe volentieri sbarazzato lui stesso se non fosse stato un buon cane, e i cani non mordono chi li nutre.
Gli aveva ordinato di scendere tra la folla in rivolta. Lui l’aveva fatto, così come prima di allora aveva eseguito ciecamente ogni ordine, fino ad abbassarsi a giustiziare sommariamente un semplice garzone di un macellaio.
Gli aveva ordinato di portargli un uomo colpevole solo di avergli gettato dello sterco sul viso. Lui aveva obbedito, nonostante sentisse la flebile voce della giovane Stark tentare di placare le ire del suo promesso. Nonostante fosse conscio che la sua discesa in campo sarebbe stata la scintilla che avrebbe dato fuoco all’assalto.
Che altro avrebbe potuto fare? Disobbedire al re? La sua testa sarebbe stata esposta su una picca sulle mura come quella dell’ultimo Primo Cavaliere. No, lui era decisamente più furbo di Eddard Stark per farsi ammazzare in quel modo. Messa in questi termini, c’era più gusto a morire lapidato da una folla inferocita piuttosto  che cedere senza opporre resistenza a quel brutto muso di Illyn Payne per ordine di un ragazzino viziato, codardo, perverso e stupido come Joffrey Baratheon.
Eppure, nonostante il lungo elenco delle sue mancanze e delle sue efferatezze, Re Joffrey – che gli Estranei se lo portino alla dannazione! – non sarebbe mai stato additato come un mostro. Nessuno avrebbe mai distolto lo sguardo digustato dal suo volto, sensazione che al Mastino era fin troppo familiare, sensazione che aveva l’effetto di una lama affondata e ritorta nelle sue viscere. Soprattutto, perfino Lei era capace di sorridergli nonostante l’odio che dissimulava, mentre continuava a non riuscire a sostenere la vista delle cicatrici che deformavano la metà sinistra del viso di Sandor.
L’avevano ammaestrata davvero bene. Un uccellino capace di cinguettare quella sua canzone, senza requie, senza tentennamenti o cedimenti. Davvero encomiabile!
Spesso si era chiesto se non fosse semplicemente stupida, come pensava la regina Cersei; ma la dignità che la ragazzina dimostrava di fronte alle più furiose umiliazioni era qualcosa di talmente estraneo al mondo che lui serviva, che ben presto si era arreso all’evidenza dei fatti: Sansa Stark era quanto di più nobile Approdo del Re avesse ospitato dai tempi dei Targaryen, per quanto lo ripugnasse associare la nobiltà a un qualcosa di ammirevole.
Lord e cavalieri… Ego, arroganza e ipocrisia: ecco cosa riempiva le loro armature.  Avesse potuto, li avrebbe calpestati tutti. Riusciva a immaginare i loro volti deformarsi sotto gli zoccoli scalpitanti di Straniero, i loro stemmi e i loro nomi affondare nel fango e nello sterco. E Lei davvero credeva ancora nelle sue belle leggende e nelle ballate cavalleresche? O forse aveva smesso quando gli stessi cavalieri che lei avrebbe tanto voluto ammirare l’avevano malmenata e schernita, dopo che l’altrettanto nobile re, il suo promesso, l’aveva denudata davanti a tutti loro? Gli stessi nobili cavalieri che l’avevano abbandonata tra i rivoltosi nella loro fuga verso le mura della città?
Era toccato ancora a lui.
Aveva tagliato di netto il braccio dell’uomo che aveva provato a tirarla giù dal cavallo. Non contento aveva infierito, finché non era stato certo di non vederlo più muoversi. Non era stato un lavoro pulito come al solito, una commissione ben svolta. Aveva colpito l’uomo con una rabbia cieca, massacrandolo, poi ne aveva sventrato un altro, finché era stato certo che nessun altro avrebbe provato a seguire l’esempio dei due, finché non aveva visto tutto tingersi di un rosso cupo e cancellare quello tenue della chioma di Lei, del terrore che aveva letto nei suoi occhi, sul suo viso insanguinato, mentre tentava di spiegare alla folla che non aveva pane con sé; la stessa folla che era decisa a linciarla per il solo crimine di essersi accompagnata al suo carceriere.  Sciocca! La gentilezza non l’avrebbe difesa, né l’avrebbe fatto il suo bel viso, i suoi occhi persi in chissà quale immaginazione o…
Sandor Clegane si lasciò andare a un ringhio rabbioso, rovesciando un tavolino. Il piano circolare rotolò verso la finestra, scheggiandosi, senza causare ulteriori danni all’arredamento spartano. Appoggiata la fronte alla fredda parete di pietra, chiuse gli occhi e strinse la morsa delle dita attorno ad alcune pietre sporgenti, sperando quasi di riuscire a scalfirle, di poter perforare quella durezza con la sola forza della sua frustrazione.
Quella stupida!
Era colpa sua, della sua incapacità di difendersi, di tirarsi fuori dai guai, se si sentiva in dovere di occuparsi di lei. Quasi si pentiva di averle suggerito di assecondare i desideri del re, per evitarle umiliazioni ben peggiori di quelle che già subiva. Forse avrebbe dovuto lasciare che lui la torturasse, che la uccidesse per il reato di tradimento, così che lui potesse nuovamente sentirsi libero da questa sorta di schiavitù a cui si sentiva incatenato. Aveva sempre avuto padroni, ma non era mai appartenuto a nessuno quanto sentiva, suo malgrado, di appartenere a lei.
Si voltò, appoggiandosi con la schiena alla parete, respirando affannosamente. La sua mano si sollevò fino a posarsi sul suo petto, stringendo la sua tunica tra le dita ancora sporche di sangue. Lì, dove le mani di Sansa lo avevano stretto per non cadere da cavallo, poteva ancora sentire la pelle bruciare, corrodergli il petto e straziarlo di una fiamma più instinguibile dell’altofuoco, più spaventosa dei sette inferi.
E lo temeva altrettanto, questo lo aveva capito.

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Capitolo 2
*** 2. (Sansa) Occhi che bruciano. ***


[NdA: So di aver impiegato diverso tempo per concluderla, ma ho preferito far arrivare la serie fino al punto narrato, in modo da non spoilerare troppo. (Lo so che in pratica lo avevo già fatto e che avevo messo l'avviso di spoiler, ma c'è sempre chi non legge ed era meglio evitare che saltasse all'occhio). Ora che la seconda stagione è finita a una tifosa della coppia Sandor/Sansa non resta che buttarsi a capofitto nelle fantasticherie, per cui spero di regalare un momento SanSansoso a tutti quelli che la pensano come me! XD Buona lettura]

Firebird




















































SANSA
 

Maestro Frenken e le sue servette – o sarebbe più corretto chiamarle serve della regina – l'avevano riportata nella sua stanza. Non ricordava neanche di aver camminato o di aver semplicemente deciso di muoversi spontaneamente dal cortile della Fortezza. Doveva averle seguite come in trance, forte della sua nuova abitudine di assecondare la volontà altrui senza possibilità di replica. Era una bambola, un oggetto da esposizione del re e della regina sua madre, da agghindare e muovere come il giocattolo che suo padre le aveva regalato ormai tanto tempo prima. Anni, sembravano, a giudicare dal peso che gli eventi hanno posto sulle sue spalle.
Il maestro aveva medicato la ferita sulla sua testa, assicurandosi della buona salute della loro ospite, quindi le avevano riempito la vasca d'acqua calda e le era finalmente stato consentito di restare un po' da sola, prima che le donne rientrassero per aiutarla a pulire i capelli dal sangue incrostato per evitare di far riaprire la ferita.
Si era sfiorata più volte il braccio, lì dove il Mastino l'aveva toccata sulla pelle scoperta con le mani insanguinate lasciando l'impronta irregolare delle sue dita che le circondava il polso come un macabro bracciale. Il sangue rappreso si era sciolto nell'acqua calda tingendola di ruggine, finché il suo braccio non era tornato bianco come prima. Anche allora aveva continuato a strofinare fino ad arrossare la pelle delicata, grattando con le unghie. Si sentiva sporca, spaventata. Si vergognava di sentirsi al sicuro solo ora, in mano ai suoi carnefici, nello stesso luogo in cui prima di quel giorno aveva respirato il sangue di suo padre e dei suoi uomini. Avrebbe voluto urlarlo alla folla, qualche ora prima. Non sono come loro. Sono anch'io una sua vittima, proprio come voi.
Aveva taciuto, invece, pallida e spaventata, farfugliando delle scuse, tentando di far capire loro che non aveva del pane con sé, mentre quella folla rabbiosa, sporca e mostruosa le lanciava contro rifiuti, uova; anche pietre, forse, a giudicare dal taglio che le avevano provocato al di sotto dei suoi capelli rossi e che pulsava e bruciava ogni volta che i suoi muscoli facciali si contraevano in una qualsiasi espressione, tirandole la pelle. Alla fine aveva semplicemente tramutato il suo viso in pietra, evitandosi altro dolore: un ulteriore esercizio per abituare il suo volto a rimanere impassibile di fronte alle menzogne che era costretta a recitare ai suoi carcerieri.
Rimase immobile, lo sguardo fisso sulla sua carne arrossata. Lì dove ormai non vi era più sangue permaneva la sensazione della violenza con cui, prima del Mastino, un uomo nella folla aveva stretto in una morsa il suo polso e aveva tentato di tirarla giù dal suo cavallo castano, l'ultimo protettore che le era rimasto prima che Sandor Clegane si aprisse la strada fino a lei a colpi di spada. Quando la lama aveva tranciato di netto il braccio al suo aggressore, a Sansa era parso che il mondo avesse assunto delle tinte rosse, tanto era il sangue che ne era sgorgato; eppure neanche stavolta aveva distolto lo sguardo, come già era accaduto al torneo del Primo Cavaliere, quando la Montagna che cavalca aveva ucciso Ser Hugh della Valle davanti agli occhi inorriditi di tutti gli spettatori. Aveva guardato la vita abbandonare il corpo dell'uomo, attratta e terrorizzata da quello spettacolo, finché la mano del suo salvatore non si era stretta sul suo braccio per scuoterla e aiutarla a rimontare in sella. Non era stato delicato, né gentile, ma aveva provato uno strano sollievo in quel momentaneo dolore, fosse anche solo per l'aver cancellato per un momento la sensazione delle dita rapaci del rivoltoso.
Sansa sollevò il braccio davanti agli occhi azzurri e inespressivi, chiedendosi quante altre mani le avrebbero causato altro dolore prima del suo ritorno a casa o della sua morte, nel peggiore dei casi. Stringendolo con molta più delicatezza di quanta non avessero dimostrato gli altri uomini, se lo portò al petto, cullandosi piano mentre sprofondava lentamente nell'acqua, fino a lasciar affiorare solo gli occhi e il naso. Era una sensazione pacifica, nostalgica, come ritornare per qualche istante nel ventre della lady sua madre, dove nulla poteva farle del male, quando ancora vi era qualcuno a proteggerla.
Il suo viso si intristì in modo talmente impercettibile da essere un mutamento quasi invisibile. Neanche la sua ferita ne ebbe il minimo sentore.
Aveva guardato negli occhi la morte: centinaia di occhi affamati, folli e spietati colmi d'odio e di rabbia. Dov'erano i cavalieri che avrebbero dovuto difenderla? Che razza di canzone stava vivendo? Ogni verso e ogni nota erano sbagliati, stonati, ogni strumento stridente e assordante come un clangore di spada, senza poesia, senza speranza. In quale canzone l'eroe avrebbe mai avuto il volto feroce di Sandor Clegane?
Corrugò le sopracciglia e i muscoli facciali di contrassero in una lieve smorfia di dolore.
Avrebbe dovuto ringraziarlo invece di lamentarsi come una bambina spaventata. Invece di pensare alla mano moncata di netto dell'uomo della folla, avrebbe fatto meglio a pensare al proprio, di corpo, ed essere grata alla ferocia di Clegane se questo era ancora animato e intoccato.
Ripensò a quel giorno, quando Joffrey l'aveva umiliata davanti a tutti facendola colpire e denudare da Ser Boros. Le era parso di sentire la voce roca del Mastino abbaiare qualcosa al suo re. Adesso basta. Sì, doveva aver detto così. Joffrey non l'aveva ascoltato, ma aveva dovuto desistere quando ad intervenire era stato suo zio. Tra tutti, era stato Clegane a darle la sua cappa per coprirsi e anche allora la sua trama ruvida le era sembrata soffice come quella del più ricco dei tessuti, l'unico scudo tra lei e la crudeltà del suo promesso sposo. Era la stessa sensazione che ora avvertiva sul braccio arrossato. Sempre lui le aveva dato consigli crudi, ma sinceri, tra tutti gli sguardi indifferenti o sprezzanti che le venivano rivolti.
Lui odia i cavalieri. Li odierei anch'io se pensassi che siano tutti come quelli di Joffrey.
Con gli occhi dei ricordi ripercorse la sua figura: le sue mani forti, mani da assassino, che però con lei erano state capaci anche di alcune delicatezze, di tocchi quasi gentili; le sue braccia, il sangue che ne sgorgava dopo la mischia. Avrebbe dovuto ricordarsi di chiedergli come stava la sua ferita e chiedergli scusa se la causa che gliel'aveva provocata era stata la sua salvezza. Una lady doveva essere cortese, come le ripeteva sempre Lady Catelyn, e neanche le maniere grezze dell'uomo dovevano impedirle di comportarsi come tale. Ricordò le sue spalle contro le quali aveva appoggiato il viso nella cavalcata verso la Fortezza, forti e salde, sicure: si era sentita più sicura aggrappata a quel guerriero tanto feroce, una volta tanto.
Era stato il ricordo del suo viso, però, a farle rammentare cosa temeva del Mastino. Non era la bruciatura a spaventarla, né la sua voce simile a un ringhio. I sette inferi risiedevano nei suoi occhi feroci, selvatici, perennemente in guerra con il mondo. Mai lo aveva visto sorridere, se non si contavano quei suoi ghigni di disprezzo e ogni volta che aveva provato ad essere gentile con lui non ne aveva ricavato che scherno. La risata, poi, che aveva lanciato mentre mulinava la spada e faceva a pezzi quegli uomini durante la rivolta andava ben oltre il semplice dovere. Sandor Clegane provava un piacere nell'uccidere che lei non avrebbe mai potuto comprendere o giustificare.
Dopo la momentanea parentesi di gratitudine e sollievo, la paura era tornata.
Raccolse nei palmi delle mani tutta l'acqua che essi riuscivano a contenere e si sciacquò il viso nel momento in cui le servette facevano nuovamente il loro ingresso nella stanza con altri secchi d'acqua calda, panni per strofinarla e del vino dei sogni per aiutarla a dormire.
È al servizio di Joffrey e dei Lannister. Non posso aspettarmi che sia diverso dalla mano che lo nutre.
La secchiata delicata che le bagnò i capelli insanguinati lavò via questi pensieri, lasciandole solo la sensazione che il giorno dopo tutto sarebbe stato come sempre e che l'essere uscita viva dalla folla non le avrebbe assicurato la sopravvivenza ad Approdo del Re.

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